Le metamorfosi della questione sociale (Una cronaca del salariato) 8857552063, 9788857552064

Ci sono voluti secoli di sacrifici, sofferenze ed esercizio continuo della coercizione per fissare il lavoratore al post

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Le metamorfosi della questione sociale (Una cronaca del salariato)
 8857552063, 9788857552064

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LE METAMORFOSI DELLA QUESTIONE SOCIALE Una cronaca del salariato

Robert Castel

A cura di Antonello Petrillo e Ciro Tarantino

Mimemis, 2019

Ciro Tarantino

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA Il ciclo dell'uomo senza qualità. Cronica anacronica epifanica

Un dito l'intonaco grigio di un muro. L'unghia dell'indice preme una volta, poi un'altra e un'altra ancora. Da tempo, quando il saggio indica la luna, noi ci scopriamo a guardare il dito; forse per una ricercata consuetudine con lo stolto, con il segnato a dito, con il messo all'indice. D'altra parte, gongoliamo, anche Michelangelo ha mostrato una certa attenzione per le dita sulla volta della Sistina, e un dito è il punto focale dell'incredulità di San Tommaso di Caravaggio, allegoria in qualche modo del mestiere di sociologo. Dal muro si staccano piccole scaglie. Ne emerge una macchia blu. Al movimento dell'indice si alterna ora quello del pollice, poi di nuovo solo l'indice in un gesto più incisivo, più accelerato, finché sono tre dita inquiete a sfregare la parete. Il blu si allarga informe. Fra clacson insistiti e rombi di motore, da una parete che, alta su un terrapieno, costeggia quattro corsie vicine all'aeroporto di Santiago, riaffiora un mural della Brigada Ramona Parra, desaparecido per oltre trent'anni, secondo l'uso di una

dittatura da asporto1; uno fra quei pochi sommersi a cui è capitato di ritornare, il cui emblema è Il primo obiettivo del popolo cileno, dipinto nell'autunno 1971 da Roberto Matta, insieme alla Brigada, su un lato della piscina municipale di La Granja, e ritrovato sotto molti strati di pittura, stucco e calce; uno per ogni anno di regime2. Per quanto operazione in miniatura e senza alcun rischio, anche questa edizione delle Metamorfosi nasce per il gusto e con l'intenzione di raschiare un palinsesto, di rimuovere una patina; la muove un sedimentato principio curiosità nei confronti della circolazione e del governo della polvere3. Riappare a oltre dieci anni dalla prima edizione italiana4 con una traduzione severamente rinnovata, che non ha toccato però il sistema delle equivalenze concettuali, che avevamo potuto concordare allora con Robert Castel, nel tempo di lunghe discussioni iniziate nella terra murata di Procida, riprese in una cittadella monastica napoletana e continuate sulla banchina della Senna che fu Citroën e operaia. Ancora una traduzione dunque, e per giunta necessariamente penultima, perché, anche nell'epoca dell'“interlingua mondiale” anticipata da Calvino5, riteniamo la traduzione parte inte1 Cfr. il documental di Patricio Guzmán, Salvador Allende, France, 2004.

2 Cfr. Consejo de Monumentos Nacionales de Chile (CMN), El primer gol del pueblo chileno, Chile, 2014, ed Eduardo Castillo Espinoza, Puño y Letra. Movimiento social y comunicación gráfica en Chile, Santiago de Chile, Ocho Libros Editores, 2006. 3 Cfr. Ciro Tarantino, Sorvegliare e pulire. Sul governo dell'elemento irriducibile, in Fabio Coccetti, L'eminenza Grigia. Autobiografia della polvere, Macerata, Quodlibet, 2014, pp. 361-369, e Antonello Petrillo (a cura di), Il silenzio della polvere. Capitale, verità e morte in una storia meridionale di amianto, Milano-Udino, Mimesis, 2015. 4 Avellino, Elio Sellino, 2007. 5 Italo Calvino, Per ora sommersi dall'antilingua, in “Il Giorno”, 3 febbraio 1965, p. 7; poi col titolo L'antilingua, in Id., Una pietra sopra. Discor-

grante e inesauribile del lavoro di ricerca, quanto il “grattare”, lo “spolverare un certo numero di cose”6. I punti di resistenza all'eliminazione dell'indicibile mettono in tensione la lingua materna – linguaggio primo dei processi di pensiero –, la deformano, la estendono, spostano i confini linguistici del pensare. Sia chiaro, contro Le metamorfosi non è stato lanciato nessun anatema, non è stato inflitto alcun ostracismo, nessuno ha puntato il dito; semplicemente, su ogni loro “sopravvivenza” 7 si posa presto una patina dei tempi, si passa rapida una mano invisibile di presente. E a ragione, perché Le metamorfosi sono intempestive e inadeguate al tempo dell'adesso, sono incompatibili con il regime discorsivo vigente. Ne infrangono contemporaneamente e strutturalmente i tre princìpi di organizzazione: elogio del semplice, retorica del nuovo, innominabile proprietario. Le metamorfosi non concedono indulgenza al semplificazionismo; lo sviluppo storico reale è un processo complesso, articolato, problematico. Il macramè sociale è nodo, groviglio, garbuglio, gliuommero, gomitolo nel lessico del commissario Ingravallo8. Vale per le costellazioni fattuali quanto il funzionario della sezione investigativa sosi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, pp. 122-126. 6 Michel Foucault, “Il faut défendre la société”. Cours au Collège de France. 1976, par Mauro Bertani et Alessandro Fontana, Paris, Gallimard/Seuil, 1997, p. 4; trad. it. “Bisogna difendere la società”, a cura di Mauro Bertani e Alessandro Fontana, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 12 (trad. mod.). 7 Sulla traduzione come sopravvivenza, cfr. Walter Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers (1923), in Gesammelte Schriften, Bd. IV/1, hrsg v. Rolf Tiedemann und Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1972, pp. 9-21; trad. it. Il compito del traduttore, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1995, pp. 39-52. 8 Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), Milano, Garzanti, 1994, pp. 4-5.

steneva a proposito delle inopinate catastrofi: sono un punto “verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”9. Per questo il nuovo non lo è mai completamente; è sempre un effetto di eredità, di cui si può ricostruire la storia. Le metamorfosi contengono, così, una teoria della relatività del nuovo basata su due princìpi di rarefazione. Il primo attiene al piano fattuale: tutti gli eventi sono necessariamente nuovi, in quanto unici, ma non tutti gli eventi sono innovativi; se fanno parte di una medesima problematizzazione anche fatti sconvolgenti possono avere una bassa carica innovativa. Il secondo principio agisce sul piano processuale: nuove sono le modificazioni organiche, ossia l'irrompere di una nuova forma storica e l'avvento di una formazione sociale diversa, e non le fluttuazioni di congiuntura. Ma lo statuto di rarità del nuovo non è in linea con il discorso del re che invece lo annuncia in ogni proclama. Si racconta che il re e le sue imprese siano senza precedenti e sempre indubitabilmente storiche. Per mero scrupolo, è stata comunque decretata la fine della storia, metro di misura del nuovo; “chi vende la novità ha tutto l'interesse a far sparire il modo di misurarla”, secondo Guy Debord10. Infine, Le metamorfosi pongono il tema proprietario al centro della questione sociale, infrangendo il tabù linguistico del totemismo proprietario e intaccando i miti individualistici del pariopportunismo11. La proprietà privata è ancora il determinante 9 Ibidem. 10 Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle (1988), in Œuvres, édition de Jean-Louis Rançon, Paris, Gallimard, 2006, p. 1602; trad. it. Commentari sulla società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004, p. 198. 11 Cfr. Ciro Tarantino, Ciro Pizzo, Il tema proprietario, in Robert Castel, Claudine Haroche, Proprietà privata, proprietà sociale, proprietà di sé.

maggiore della matrice sociale, ancora origine e fondamento dell'ineguaglianza tra gli uomini; la proprietà sociale – sistema di protezioni fondato sul lavoro – è il composto instabile che ha fornito all'individuo non-proprietario un supporto alternativo di iscrizione nella struttura sociale12. Con solerzia le nostre società si affannano a mostrare di nascondere che la cittadinanza è funzione della proprietà, delle proprietà. Dunque, quest'operazione è per tre volte inappropriata e per tre volte inutile al mondo della comunicatologia. Non serve al ritornello politico, né all'efimnio giornalistico. Fuori dal triedro del discorso pubblico, Le metamorfosi stridono col proprio tempo. Non coincidono, non combaciano con l'epoca, sono un'opera più volte anacronica: anacronismo dell'oggetto, in quanto sopravvivenza per traduzione; anacronismo dell'oggetto, in quanto sopravvivenza per traduzione; anacronismo della temporalizzazione, in quanto interrogazione del passato in funzione di una storia del presente13; anacronismo della secolarizzazione, in quanto scarto rispetto alle pretese del tempo, rivelate dagli adepti di Mediology: sostengono “che il pubblico vuole si parli più semplicemente, così chiari e precisi e banali da non dire niente” e che “per capire la storia non serve un discorso più grande […]”14.

Conversazioni sulla costruzione dell'individuo moderno, a cura di Ciro Tarantino e Ciro Pizzo, Macerata, Quodlibet, 2013, pp. 133-143. 12 Sul golpe cileno del 1973 come primo esperimento postbellico di messa in discussione della logica e della sostenibilità dei sistemi di Welfare, cfr. Juan Gabriel Valdés, Pinochet's Economists. The Chicago School in Chile, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1995. 13 Cfr. Nicole Loraux, Éloge de l'anachronisme en histoire, in “Le Genre humain”, n. 27, 1993, pp. 23-39. 14 Francesco Guccini, Dovevo fare del cinema, in Parnassius Guccinii, EMI, 2003.

Robert Castel è consapevole della sua collocazione controtempo. Dice in premessa che “di certo i grandi affreschi, come i grandi sistemi, non sono più di moda”, eppure ritiene, secondo il paradosso di Bloom, che “il giro più lungo è la via più breve per tornare a casa”15. L'affresco di Castel si compone di otto grandi scene, raggruppate in due sequenze da quattro storie. Il tema è unico: l'uomo senza qualità, l'individuo per difetto, l'individuo a cui manca la principale proprietà d'Occidente, la Proprietà. Ogni scena rappresenta un momento e una configurazione di questo uomo ohne Eigenschaften, la sua ultima incarnazione, e l'antropologia implicita che la sostiene e la alimenta. Sono tutti quadri sociali. Ogni scena racconta un assetto, una nuova composizione delle forze sociali, una nuova distribuzione delle figure del Proprio e dell'Improprio nelle zone del sociale; zone di integrazione, di vulnerabilità, di disaffiliazione. Ogni scena è il diagramma di una forma della vita in comune. Registra, per ogni epoca, le strutture elementari della coesione sociale, le forme elementari della solidarietà e il rapporto fra la divisione del lavoro sociale e l'organigramma della dignità sociale. Dal Basso Medioevo all'oggi, la narrazione procede secondo un rigoroso ordine cronologico e probatorio che avvicina Le metamorfosi a una cronaca roborata, a un cartulario. Cronica integrale del salariato, per la somma della successione temporale del suo accadere con la persistenza del suo stato di fragilità sociale e indegnità morale. Cronica epifanica del salariato: Le metamorfosi ne scorgono i segni preindustriali che l'annunciano, poi l'ad15 James Joyce, Ulysses (1922), London, Penguin Books, 1992, p. 492; trad. it. Ulisse, Milano, Mondadori, 1991, p. 366 (trad. mod.).

densarsi del suo nucleo proletario, la sua apparizione recente, la luce della stagione operaia, la sua proliferazione gerarchica, la sua egemonia breve. Questi i temi, questi i generi. Sul piano tecnico, ogni episodio della cronaca del salariato combina tre linee di luce che formano lo spettro del visibile. Castel ha costruito una macchina prismatica di rifrazione storica per la scomposizione ottica dei processi sociali in tre lunghezze d'onda. A una prima frequenza, appaiono le figure sociali che popolano un paesaggio storico: i tipi, gli antitipo, i contro-tipi, i tipi ideali, gli atipici, gli archetipi, i criptotipi, i prototipi. Su un'altra frequenza, sono percepibili punti, linee, superfici, si fa visibile tutto il sostrato di forze-tensioni che anima le forme sociali e che disegna, scena per scena, la curva storica dell'uomo senza qualità. Su di un ultimo piano-frequenza la storia si manifesta nell'istante di indecisione, quando per un attimo – individuale o collettivo – esita, tentenna, oscilla, vacilla, bascula in bilico su futuri multipli, prima di fermarsi nei cristalli di un nuovo equilibrio punteggiato che ne rapprende le possibilità. Rendere disponibile questo diastema a quante e quanti è rifiutato un avvenire migliore è il compito della sociologia à la Castel.

Antonello Petrillo

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA Omnes et singulatim. Di ciò che divide, di ciò che unisce

1. Le certezze della scienza Un tempo d'incertezza; una maglia sociale sgranata, resa illeggibile dalla infinità pluralità delle posizioni oggettive, dalla complessità molteplice dei punti di vista. Cos'hanno in comune un disoccupato di lungo periodo e un operaio a fine carriera le cui soglie di pensionabilità divengono ogni giorno più incerte; un giovane lavoratore “a progetto” sottoimpiegato rispetto al suo titolo di studio e un cinquantenne divorziato le cui possibilità di sopravvivenza sono rese ogni giorno più difficili dagli assegni da versare alla famiglia d'origine; una ragazza madre con un basso titolo di studio che si mantiene lavando i piatti in un ristorante e una maestra precaria quanto iperspecializzata; l'abitante di un quartiere di edilizia popolare abbandonato dal comune e un senza fissa dimora autoctono in competizione con i migranti appena sbarcati per le risorse scarse che un portico o una stazione ferroviaria possono offrire; il giovane padre di un figlio disabile che le

strutture di welfare non consentono più di tutelare adeguatamente e un anziano invalido la cui pensione non gli permette più di curarsi? Cosa pensano gli uni degli altri? Soprattutto, cosa li tiene – o li terrà ancora – insieme? Cosa ci tiene – o ci terrà ancora – insieme? L'interrogativo coincide con la “questione sociale” pura e semplice: nelle parole di Robert Castel, un'aporia fondamentale sulla quale una società sperimenta l'enigma della sua coesione e tenta di scongiurare il rischio di frattura. Essa è una sfida che interroga, rimette in questione, la capacità di una società (quella che in termini politici si definisce una nazione) di esistere come un insieme legato da relazioni di interdipendenza 1.

Nel vissuto dei singoli cittadini, le possibilità di reperire una risposta adeguata a tale interrogativo sembrano farsi ogni giorno più labili: la pluralità delle posizioni soggettive (rispetto al lavoro e al salario e al “non lavoro”, in primis) alimenta direttamente la molteplicità dei punti di vista, come bene aveva documentato sul campo Bourdieu, appena un paio d'anni prima che le Metamorfosi di Castel andassero in stampa 2. Non è un caso che, dismesso l'ampio alveo dello Stato sociale di diritto e disseccate le agenzie tradizionali di intermediazione (sindacati, partiti, ecc.), il fiume sempre più in piena del conflitto sociale si riversi ormai, quasi esclusivamente, entro spazi puramente fisici (quelli della prossimità di quartiere fra autoctoni e migranti, anzitutto) oppu1 Infra, […]. 2 Cfr. Pierre Bourdieu (dir), La misère du monde, Paris, Le Seuil, 1993. Nell'edizione italiana (La miseria del mondo, a cura di Antonello Petrillo e Ciro Tarantino, Milano-Udine, Mimesis, 2015) cfr. soprattutto pp. 39 sgg.

re, al contrario, secondo una dinamica parallela che è solo in apparenza paradossale, entro lo spazio totalmente smaterializzato della Rete, lo spazio dove ciascuno, disancorato dalla propria posizione sociale oggettiva (disoccupato giovane, cattolico e gay o anziana imprenditrice lesbica iscritta a un partito di destra), può costruire in perfetta solitudine – tra un like e un tweet – la propria nuova appassionata identità social. Ridimensionate ampiamente (e in gran parte eliminate) le possibilità di accesso alle forme di proprietà sociale che avevano costituito la base dei sistemi di welfare, lo spazio fisico diviene il luogo di competizione diretta per l'accesso all'unica risorsa residua disponibile, la proprietà privata, da difendere eventualmente anche armi in pugno3. I regimi di proprietà, tuttavia, come più approfonditamente Castel ha mostrato altrove4, non si esauriscono nelle differenti “qualità” e nei diversi “statuti” del possesso materiale di beni, bensì forgiano la qualità stessa della cittadinanza e, al proprio limite, il diritto o meno di accedervi. Differenti dispositivi di legittimazione hanno reso possibili, nel corso del divenire storico, differenti concezioni politiche della proprietà; così, se per lunghissimo tempo le condizioni di accesso alla cittadinanza avevano permesso di includere a pieno titolo soltanto l'“individuo proprietario” di Locke (l'unico a disporre anche della proprietà di sé, ossia di una piena autonomia), escludendone del tutto la “classe non proprietaria” (ossia quella di coloro che “non hanno altro che il 3 Come sembra recentemente suggerire, in molti paesi dell'Occidente, il dibattito sull'abbassamento dei limiti di legge all'esercizio del diritto di “legittima difesa”. 4 Robert Castel, Claudine Haroche, Propriété privée, propriété sociale, propriété de soi. Entretiens sur la construction de l'individu moderne, Paris, Fayard, 2001; trad. it. Proprietà privata, proprietà sociale, proprietà di sé, cit.

proprio lavoro per vivere”5), la partecipazione allargata alla proprietà sociale introdotta dai sistemi di welfare aveva potuto consentire una (certo relativa, ma di sicuro importante) generalizzazione della medesima proprietà di sé, che è anche e soprattutto “identità sociale”. Nessuna meraviglia, quindi, che, disintegrato il contenitore della cittadinanza sociale, all'individuo non più integrato – tanto più se questa sua condizione coincide con quella di “individuo non proprietario”, “inutile al mondo” – non resti che la cittadinanza virtuale, l'integrazione del mondo apparentemente livellatore dei social, dove ogni senza fissa dimora può sognare in chat galanti avventure con una bella ereditiera e “uno” sembra davvero “valere uno”. Privi delle tradizionali tutele, ai singoli pare non restare altro che contare sulle proprie forze, farsi “imprenditori di sé stessi” nella competizione generalizzata, ergo spostarsi in permanenza. La “migrazione” riguarda, ormai, tanto i “migranti” propriamente detti quanto gli “autoctoni”, o almeno una buona parte di loro: si “migra” da un lavoro all'altro, da un “progetto” a un “sussidio”, da una “partita iva” a un impiego “in nero”, dalla condizione di lavoratore subordinato a quella di self-entrepeneur nel settore delle vendite telefoniche, del trasporto privato, della ristorazione a domicilio, ma anche – sempre più di frequente – da ricercatori precari ad attori di reality, da “doppiolavoristi” delle professioni artigiane a concorrenti di talent-show, da consulenti aziendali a cottimo a giocatori professionali di “gratta e vinci”... Sono i luoghi entro i quali l'instabilità delle posizioni oggettive incontra la precarietà soggettiva e diviene, per i più, l'unica vera “identità sociale”, mentre il discorso pubblico continua a ripetere 5 Ivi, p. 33, passim.

con ottimismo il refrain di una sacrosanta e indispensabile “flessibilità”6. Per questa via, l'individualismo proprietario ha potuto compiutamente saldarsi alle esigenze di illimitata adattabilità della manodopera proprie del nuovo capitale globalizzato, finanziarizzato e informatizzato, mobilitando l'intera personalità del lavoratore – non più soltanto la sua “forza”7 – all'interno dei processi produttivi: il lavoro come “progetto di sé” rinvia ogni giorno al futuro la pienezza dei diritti di cittadinanza, mentre la “società della prestazione” la subordina incontestabilmente al pieno successo nel presente8. Già negli anni Ottanta del secolo scorso, quello che nei Cinquanta il filosofo tedesco Gottard Günther poteva ancora leggere come il conflitto tra una concezione “storicista” – tipicamente europea – dell'esistenza e il “pragmatismo” nordamericano 9, quasi dappertutto nel mondo occidentale sembrava ormai totalmente 6 Nel definire i tratti caratterizzanti della “nuova questione sociale”, Castel spoglia la parola “flessibilità” di ogni retorica corrente, per definirla seccamente come nulla più che l'immediata e illimitata disponibilità del lavoratore “ad adattarsi alle fluttuazioni della domanda” (infra, […]). 7 Celeberrima, in tal senso, l'intervista concessa dall'allora primo ministro britannico Margaret Thatcher nel 1981 al “Sunday Times” (pubblicata significativamente il 1° maggio), nella quale la gigantesca operazione di riscrittura della cittadinanza di welfare che il suo governo e molti altri in Occidente si accingevano a intraprendere veniva così chiosata: “L'economia è il mezzo, l'obiettivo è quello di cambiare il cuore e l'anima”. 8 Tra i molti testi ormai a disposizione sul tema, si vedano senz'altro Pierre Dardot, Christian Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, Paris, La Découverte, 2010; trad. it. La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Roma, DeriveApprodi, 2013, e Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Roma, Ediesse, 2017. 9 Gottard Günther, L'apocalisse americana, in Vincenzo Cuomo, Giuseppe Russo (a cura di), Apocalissi culturali, Milano-Udine, Mimesis, 2017, pp. 33-58.

risolto a favore del secondo: l'idea di emancipazione aveva cessato definitivamente di essere una speranza collettiva, mentre tornava a essere proclamata la supremazia incoercibile della libertà individuale, il mito della successful modernity, dell'individuo del tutto può come singolo (ma al quale nulla è socialmente dovuto) nella sua personale scalata al successo. Svincolate dai fini ultimi e collettivi inscritti in una qualche legge profonda dello sviluppo storico (il “regno di Dio in terra”, una “società senza classi”, ecc.), le azioni umani possono essere giudicate soltanto in base a una pragmatica del successo, ossia dal loro esito pratico sotto il profilo dei singoli: se e quanto si è capaci di avere successo, di darsi good time. È evidente che una tale libertà non legittima affatto qualunque opinione o comportamento, si è liberi, in fondo, soltanto di conformarsi alle leggi del successo: di qui, secondo Günther, la piena e paradossale coincidenza di libertà e conformismo, la profonda intolleranza nei confronti di qualunque stile di vita o credo (politico o religioso) che ponga fini diversi dal successo pratico postulato dall'“american way of life”. Presto due opere avrebbero apposto il loro sigillo sulla fine del millennio e inaugurato quello successivo: La fine della storia di Fukuyama e Lo scontro delle civiltà del suo maestro Huntington10; nella prima si sanciva una volta per sempre la fine dell'idea che la storia possa tendere verso fini sovraindividuali, con la seconda la causalità 10 Rispettivamente, Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 2003 (la tesi dell'autore apparve per la prima volta in un articolo del 1989: The End of History?, in “The National Interest”, n. 16, 1989, pp. 3-18, mentre la prima edizione americana – Free Press, New York – del celebre volume risale al 1992) e Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997 (il volume apparve a New York nel 1996 per Simon & Schuster, preceduto di qualche anno dall'articolo The Clash of Civilizations?, in “Foreign Affairs”, n. 3, 1993, pp. 22-49).

storica veniva ricondotta integralmente alla dimensione orizzontale delle appartenenze ascrittive, delle “culture” e delle “fedi”. “Fine della storia” e “naturalizzazione” dei conflitti sociali non sono, però, “pensiero debole”, superficiale capriccio anti-intellettualistico del tempo. Oltre alla matrice “pragmatica” segnalata da Günther, ve ne sono altre, alcune assai prossime al campo disciplinare entro il quale questo libro, pure, si inscrive: la sociologia o – pour mieux dire – una “certa” sociologia. Se è evidente in premessa che l'individualismo della proprietà e della prestazione non può ontologicamente formulare la questione del legame sociale, di ciò che “tiene unita” una società, né tantomeno trovare una risposta al proprio interno, come si pone la sociologia di fronte a tale interrogativo? Quella del legame, della solidarietà, è una questione che precede la disciplina, determinandone in qualche modo la nascita, il problema durkheimiano per eccellenza: il lien. Leggere il presente di questo legame (comprenderne i meccanismi di funzionamento) e avanzare ipotesi sul suo futuro (prevedere/prevenirne il disfacimento) costituisce precisamente lo spazio epistemologico entro il quale la sociologia ha potuto costituirsi e definire sé stessa, autonomizzandosi dalle altre scienze dell'uomo, dalla psicologia e, più di tutto, dalla storia. Nella sua versione originaria, positivista, la disciplina si pose in primo luogo il problema della sintesi delle “storie” singolari (una scienza “sintetica”, assai più che “analitica”, la si definì appunto) e, in contemporanea, il superamento di un'ermeneutica del fatto sociale basata sul dipanarsi sequenziale degli eventi, ossia sulla “grande” Storia. D'allora innanzi, e per lungo tempo, l'interpretazione del “sociale” propriamente detto avrebbe dovuto tenersi a debita distanza dalle motivazioni individuali (“psicologiche”) che

guidavano l'azione dei singoli attori e ancor più dalla “lezione della storia”, che aveva accompagnato per secoli la tradizione umanistica nella sua riflessione sulla dimensione collettiva dell'agire. Le urgenze e le sfide di una società in vertiginosa e turbolenta trasformazione – tra rivoluzione industriale e apparizione di nuovi attori collettivi, dissoluzione di antichi legami comunitari e comparsa di nuovi vincoli salariali – sembravano allora giustificare pienamente questo sganciamento del presente e del futuro dall'esperienza del passato: imparare dalle scienze della natura, interiorizzarne il metodo, reperire per omologia dentro la società la naturale regolarità degli eventi e, a partire da tali “regolarità”, definire un nuovo insieme di “regole”, un quadro normativo e prescrittivo entro il quale riversare disciplinatamente il presente della società e organizzarne ordinatamente il futuro, scongiurandone i rischi dell'anomia, della disgregazione molecolare. Eppure, è proprio da questo retroterra lontano e apparentemente abbandonato per sempre che sembra muovere, oggi, lo scacco di molte sociologie contemporanee mainstream, che si mostrino apertamente sedotte dalle sirene neopositiviste o ne occultino il canto dietro pragmatismi operazionisti e profluvi di “dati”: cosa fare quando presente e futuro si opacizzano e appaiono sempre più impenetrabili, quando le vantate capacità di sintesi della teoria sociologica si scontrano con la dura irriducibilità di posizioni sociali oggettivamente molteplici e plurali, con la molteplicità e la pluralità irriducibili delle percezioni soggettive della “crisi”? Che fare quando grafici raffinati, tabelle accurate e sofisticati algoritmi sembrano tutt'al più riuscire – e soltanto nei casi migliori, quando cioè non si svelano come misere tautologie del senso comune – nell'impresa limitata di descrivere fenomeni

singolari e circoscritti, il livello “micro” del sociale, ben lungi dallo spiegare il funzionamento della società – i.e. le sue possibilità di sopravvivenza – nel suo complesso? A ben vedere, la risposta è nella domanda o, meglio, nella sua formulazione. Sappiamo oggi, soprattutto grazie all'incommensurabile lezione foucaultiana e agli innumerevoli studi che a essa si sono ispirati11, che quella colossale operazione di riforma delle scienze dell'uomo e della riflessione sulla società che tenne a battesimo la sociologia non fu, in pieno XIX secolo, un semplice, innocente tentativo di risposta alla “questione sociale” del legame; al di sotto e al di sopra di essa, a motivarne forme e ragioni, vi era anche una precisa “domanda sociale”: quella dell'ordine, ossia del suo “mantenimento” entro scenari sociali profondamente mutati. Un ordine è pur sempre una “gerarchia”, per quanto razionale e auspicabile la si possa immaginare; così, quella del mantenimento dell'ordine non può che essere sempre questione eminentemente “politica”, oltre che “sociale”: ha immediatamente a che fare con le gerarchie fra gli attori e – che li si chiamino censo, classi o milieu – i loro raggruppamenti, con l'architettura degli spazi e le risorse sociali, con la loro distribuzione; in definitiva, ancora una volta, con i posizionamenti asimmetrici di ciascuno rispetto al regime di proprietà. Interpretare la “questione sociale” della coesione come aspirazione alla piena integrazione di tutti mediante una redistribuzione regolata delle risorse, come regolazione istituzionale del conflitto o come mera conservazione dei rapporti sociali esistenti, significa indubitabilmente disporsi a rispondere a “domande” diverse; significa, in ultima 11 In italiano ci si può riferire sul tema a Giovanna Procacci, Arpàd Szakolczai, La scoperta della società. Alle origini della sociologia, Roma, Carocci, 2003.

analisi, chiamare in causa la titolarità della domanda stessa. Nell'intera sua opera, Castel si è sforzato di mostrare che non esiste una titolarità della domanda sociale legittima di per sé, se è vero che gran parte della teoria sociologica – per un'infinità di ragioni – si è sforzata di rispondere soprattutto alle esigenze espresse dai gruppi dominanti, è vero altrettanto che una “domanda sociale”, che si annida parimenti – spesso solo più nascosta e indecifrabile – “nelle sofferenze di coloro che patiscono senza avere i mezzi per comprendere il perché ''gli vada tutto storto''”12. Dal punto di vista teorico-metodologico, sebbene le sociologie che hanno incorporato all'interno del proprio discorso euristico anche il principio di “causalità storica” non si siano sempre poste sul côté della coesione come “integrazione”, costituisce un fatto difficilmente contestabile che le sociologie più radicalmente indisponibili a un confronto con la storia abbiano formulato la loro risposta al problema della coesione soprattutto in termini di conservazione dell'“ordine”. La “naturalizzazione” delle condotte sociali, private dello sfondo storico entro il quale esse si producono, infatti, può facilmente rimuoverne le cause politico-economiche per rinviarne la genesi a matrici ascrittive, antropologico-fisiche o culturali, a deficit genetici individuali (ciò che Castel definisce handicappologia) o collettivi (l'atlante infinito delle “razze” e delle “etnie”). Basta aggirarsi, oggi, fra gli scaffali dedicati alla disciplina (pur sempre più radi...) di una qualunque libreria europea: la dimensione orizzontale e interamente appiattita sul presente, totalmente priva di causalità storica, e la tentazione sempre più ricorrente di aderire a una qualche forma di 12 Cfr. Robert Castel, La sociologie et la réponse à la “demande sociale”, in Bernard Lahire (éd.), À quoi sert la sociologie?, Paris, La Découverte, 2002, pp. 67-77, part. p. 72.

spiegazione “naturalistica” dei fenomeni sociali secondo i paradigmi or ora richiamati sembrano caratterizzare una quota sempre più consistente delle ricerche pubblicate, spesso senza alcuna esplicita (e neppure consapevole) adesione del ricercatore al modello positivista. Ha a che fare tutto ciò con l'attuale, tautologica afasia della sociologia rispetto alla “questione sociale”, al problema della coesione? Ci si può aspettare che la sociologia vada oltre il senso comune della spiegazione del conflitto che pervade ormai l'intera società e – abbandonato decisamente il terreno dei diritti di cittadinanza – si trasforma ogni giorno di più in scontro sordo e roco fra ascrittività contrapposte (“autoctoni” vs. “migranti”, “comunitari” vs. “extracomunitari”, “italiani” prima degli “stranieri”)? Lo stigma dell'appiattimento del ricercatore sul “pensiero nativo” è sempre stato utilizzato polemicamente nei confronti delle varie forme di “sociologia comprendente”; il paradosso è che esso appare oggi infettare sempre di più proprio i modelli più scientisti e “asettici” della disciplina: in alcuni casi, capire se sia una teoria sociologica a modellare la doxa o l'esatto contrario, appare veramente un'ardua impresa; almeno quanto attendersi che una sociologia rinunciataria rispetto alle possibilità ermeneutiche offerte dalla lettura del passato possa fornire risposte adeguate al presente e al futuro della “questione sociale”... Come ben noto, già negli ultimi decenni dell'Ottocento, autori come Dilthey e Weber avevano contestato a Stuart Mill, Spencer e Comte (pur con esiti profondamente differenti) l'idea dell'applicabilità pura e semplice al sociale dei metodi delle Naturwissenschaften. Per Dilthey si trattava soprattutto di cogliere la specificità dell'oggetto di quelle che chiamerà “scienze dello spirito”: il mondo sociale, in quanto espressione della natura umana,

sarebbe stato pienamente comprensibile soltanto a partire dalla consapevolezza delle connessioni fra esso e l'osservatore (non estraneo al proprio oggetto come nel caso delle scienze della natura), fra esso e i mondi sociali che l'hanno preceduto, in quanto espressione della stessa natura umana (di qui l'importanza delle singolarità della storia, in contrapposizione al determinismo meccanicistico del positivismo). Per Weber (che riprendeva piuttosto le posizioni di Rickert) la questione riguardava, invece e in primo luogo, il metodo: senza correre il rischio di imboccare la via di uno psicologismo esasperato al punto da rendere potenzialmente incomprensibili le dinamiche collettive, lo studio della società avrebbe potuto attingere gli stessi livelli di precisione e generalizzazione delle scienze della natura mediante opportune spiegazioni causali dei fenomeni, soltanto a patto di affiancare alla spiegazione la comprensione dei significati soggettivamente vissuti dagli attori e da essi attribuiti ai fenomeni secondo un modello epistemologico razionale, storico e comprendente allo stesso tempo. L'idea che la dimensione sociale dell'uomo non potesse essere realmente indagata senza comprenderla e interpretarne la stratificazione di segni e di tracce, ossia senza sporcarsi le mani con la materiale storicità entro la quale i “mondi della vita” si rendono concretamente visibili, conoscerà da allora in avanti influenze spesso radicalmente distanti – dalla fenomenologia di Husserl (Schütz) fino all'approccio genealogico di Nietzsche (Foucault) –, ma diverrà parte integrante della riflessione sulla società, le sue forme di razionalità, le idee che pone di volta in volta in campo e le istituzioni che essa produce e ha prodotto nel corso dei secoli.

1. Una genealogia dell'incerto È proprio sulla trama di quest'ultima tradizione teorico-metodologica che Robert Castel inizia a comporre il suo affresco più celebre, Le metamorfosi della questione sociale, che qui presentiamo: i t re perni assiali del Tempo – passato, presente e futuro – vi si giocano, con ogni evidenza, in una combinazione del tutto differente rispetto alla vulgata positivista. La frase d'attacco con cui l'autore apre la Premessa all'opera – “Mi è parso che in questi tempi d'incertezza, mentre il passato si dilegua e l'avvenire è indeterminato, bisognasse mobilitare la nostra memoria per cercare di comprendere il presente”13 – cela un intero programma. Il “giro lungo” che egli propone ha, ovviamente, ben poco a che fare con la storiografia tradizionale, almeno quanto a obiettivi: il suo compito esclusivo si svela sin da subito quello di “cogliere la specificità di quel che accade hic et nunc”, il détour storico serve a scagliare direttamente (e sociologicamente) il passato al cuore del presente e, possibilmente, ad avanzare ipotesi sul futuro. Si tratta, senz'ombra di dubbio, di una storia del presente, di una genealogia alla maniera di Foucault, nient'affatto inconsapevole della tradizione nietzscheana di critica della Storia come “maestra di vita”. È vero, come autorevolmente sostenuto più volte per esempio da Fabiani14, che, malgrado gli usi massicci e talora “selvaggi” della teoria foucaultiana da parte della sociologia, questa rimane 13 Infra […]. 14 Cfr. Jean-Louis Fabiani, La nature, l'action publique et la régulation sociale, in Nicole Mathieu, Marcel Jollivet (éds.), Du rural à l'environnement, Paris, L'Harmattan, 1989, pp. 195-208 e Id., La sociologie historique face à l'archéologie du savoir, in “Le Portique” (En ligne), n. 1314, juin 2007, leportique.revues.org/611.

sostanzialmente estranea al suo campo; è vero anche che – sebbene Foucault si proponesse programmaticamente di sottrarre il proprio pensiero alla “morale da stato civile” delle classificazioni (il celebre “non domandatemi chi sono” 15...) – le sue nette prese di posizione contro le idealtipizzazioni di Weber16 o il sostanzialismo sociologico di Durkheim17, i suoi precisi distinguo – per metodo e oggetto – rispetto a ricerche sociologiche pur da lui ampiamente apprezzate quali l'Asylums di Goffman18 e la sostanziale indifferenza rispetto alla produzione dei sociologi suoi contemporanei (Boudon, Touraine, Passeron, Bourdieu19, ecc.) tracciano i confini di una distanza irriducibile e assai poco equivocabile. Tuttavia, è altrettanto noto che Robert Castel, fra i sociologi, costituì per Foucault una significativa eccezione: non solo i due furono molto amici20 e condivisero numerose esperienze accademi15 Michel Foucault, L'archéologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969; trad. it. L'archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Milano, Rizzoli, 1971, p. 14. 16 Cfr. Michel Foucault, Table ronde du 20 mai 1978, in Id., Dits et écrits, Paris, Gallimard, 1994, vol. IV, pp. 21-34. 17 Cfr. Id., Philosophie et psychologie, in Id., Dits et écrits, cit., vol. I, pp. 438-448, part. p. 441. 18 Cfr. Foucault étudie la raison d'État, in Id., Dits et écrits, cit., vol. III, pp. 801-805. 19 In particolare sul rapporto tra la teoria di Foucault e la sociologia di Bourdieu, si veda Bourdieu/Foucault: un rendez-vous mancato?, a cura di Gianvito Brindisi e Orazio Irrera, in “Cartografie sociali”, n. 4, 2017. 20 Foucault ribadirà in più occasioni la propria amicizia e consonanza di percorsi con Castel: “Robert Castel est mi ami. Nous avons travaillé ensemble” dirà, per esempio, nel 1973, richiamando l'importanza de Le Psychanalysme appena pubblicato (Robert Castel, Le Psychanalysme. L'ordre psychanalytique et le pouvoir, Paris, Maspero, 1973; trad. it. Lo psicanalismo. Psicanalisi e potere, Torino, Einaudi, 1975) all'interno di una tavola rotonda in Brasile (Michel Foucault, La vérité et les formes juridiques, ora in Id., Dits et écrits, cit., vol. II, pp. 538-646, in part. pp. 639-640).

che e politiche – dalle aule di Vincennes ad alcuni seminari presso il Collège de France, dalle lotte del GIP 21 all'appoggio offerto a Basaglia in Italia –, ma Foucault ebbe più volte l'occasione di esprimere la propria sincera ammirazione per il lavoro di ricerca svolto da Castel. In particolare nello Psychanalysme22, nell'Ordre psychiatrique23 e nella Gestion des risques24 Foucault rinvenne parecchi punti di consonanza con il percorso da lui stesso svolto sulla storia della malattia mentale25, così come Castel, dal canto suo, proprio ne L'ordine psichiatrico, non mancò di sottolineare il suo profondo debito nei confronti dell'autore de La storia della follia26. Tali consonanze sono in genere riconosciute anche dagli autori più critici nei confronti della possibilità di un incontro tra pensiero foucaultiano e ricerca sociale27, ma si tratta qui di fare un passo avanti e provare a cogliere se ne siano ravvisabili specifiche tracce anche nel lavoro svolto da Castel con Le metamorfosi 21 Groupe d'Information sur les Prisons, movimento attivo in Francia tra il 1971 e il 1972, che si proponeva di rompere il silenzio e l'isolamento delle istituzioni carcerarie, mostrandone all'esterno la drammatica realtà. 22 Robert Castel, Le Psychanalysme, cit. 23 Id., L'ordre psychiatrique. L'âge d'or de l'aliénisme, Paris, Minuit, 1976; trad. it. L'ordine psichiatrico. L'epoca d'oro dell'alienismo, Milano, Feltrinelli, 1980. 24 Id., La gestion des risques. De l'anti-psychiatrie à l'après-psychanalyse, Paris, Minuit, 1981. 25 Si vedano, oltre al brano già citato: Michel Foucault, L'asile illimité, in Id., Dits et écrits, cit., vol. III, pp. 271-275 e Id., À propos de la généalogie de l'éthique: un aperçu du travail en cours, ivi, vol. IV, pp. 383-411, in part. p. 386. 26 Cfr. Id., Folie et déraison. Histoire de la folie à l'âge classique, Paris, Plon, 1961; trad. it. Storia della follia nell'età classica, Milano, Rizzoli, 1963. 27 Cfr. Jean-Louis Fabiani, La sociologie historique face à l'archéologie du savoir, cit., e Id., Du discours à la pratique, in Bourdieu/Foucault: un rendez-vous mancato?, cit., pp. 31-49.

della questione sociale (opera di un decennio successiva alla morte di Foucault). Sebbene sia abbastanza facile dimostrare, con Fabiani, se non l'assoluta infungibilità dell'archeologia foucaultiana agli scopi della ricerca storico-sociale, almeno la sua formidabile problematicità (la sociologia storica si occupa soprattutto di istituzioni, l'archeologia è, invece, essenzialmente rivolta allo studio delle forme di razionalità 28), il discorso sembra cambiare decisamente ove ci si sposti a considerare l'altro outil per l'esplorazione del passato messo a punto da Foucault, la genealogia. Da questo punto di vista, proprio il tema della nascita della “questione sociale” e delle sue forme di governo ha potuto produrre una lunga serie di ricerche nelle quali il richiamo a Foucault è abbastanza esplicito29. Una prima differenza segnata dalle Metamorfosi rispetto all'insieme di queste ricerche – pur imprescindibili per la comprensione della natura profonda e politica dei regimi di welfare – non risiede tanto nella diversa centralità attribuita alla “questione sociale” (più nettamente individuata come tale da Castel), quanto nella differente periodizzazione della sua nascita30. La “questione sociale” precede a grande distanza la nascita delle scienze sociali e fa la sua comparsa ben prima del 28 Fabiani stesso sembra ammettere la possibilità teorica di un incontro fra archeologia e sociologia storica in almeno tre punti: la svalutazione del soggetto pensante a vantaggio dell'oggettività dei dispositivi di conoscenza, la definizione dei discorsi come pratiche, l'attenzione tributata alla dimensione “evenemenziale” dei fenomeni sociali (cfr. La sociologie historique face à l'archéologie du savoir, cit., pp. 7-8). 29 Fra gli altri, si vedano Jacques Donzelot, L'invention du social. Essai sur le déclin des passions politiques, Paris, Fayard, 1984; François Ewald, L'État providence, Paris, Grasset, 1985 e Giovanna Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, Bologna, il Mulino, 1998. 30 Cfr. Bernard Lepetit, Le travail de l'histoire (note critique), in “Annales,. Histoire, Sciences Sociales”, n. 3, 1996, pp. 525-538.

XIX secolo, alla fine del Medioevo, allorquando iniziano a scricchiolare – per il mutare dei rapporti economici fra le città e le campagne circostanti – gli antichi istituti corporativi di “fissazione” del lavoro. Castel fotografa il momento nello Statutum Serventibus emanato nel XIV secolo da Edoardo III re d'Inghilterra e nelle ordinanze coeve degli altri sovrani europei (dal Portogallo alla Castiglia, alla Francia, alla Baviera); la causa nella necessità di riportare sotto controllo una manodopera che, svincolata dalle vecchie tutele, iniziava a solcare il territorio fisico alla ricerca di nuovi mezzi di sopravvivenza e increspava con le proprie traiettorie la superficie sociale, turbandone la stabilità. Le ordinanze tengono a battesimo una nuova figura sociale: accanto agli indigenti bisognosi (vecchi privi di mezzi di sostentamento, orfani abbandonati, ciechi e storpi alla base del sistema caritatevole medievale e ancor oggi della moderna handicappologia) fanno la loro apparizione i “vagabondi”, ossia gli indigenti validi, quei poveri che pur potendo lavorare risultano in difetto nel rapporto con l'imperativo del lavoro. Da allora in avanti, la “questione sociale” riapparirà ogni volta che un numero troppo elevato di individui non troverà posto all'interno delle strutture sociali, minacciandone la coesione; fin dall'inizio essa ha, dunque, poco a che fare con la miseria in sé, ma ruota piuttosto intorno alla questione del lavoro, del suo imperativo e dell'impossibilità di renderlo effettivo per tutti entro condizioni produttive storicamente date. È, dunque, a partire dai mutamenti delle condizioni produttive che può essere misurato, per ciascuna epoca, lo scarto prodotto nella distribuzione degli attributi fondamentali della questione sociale (impiego, salario, protezione, dignità come proprietà di sé) e ciò che ne consegue

nelle dinamiche relazioni fra i diversi gruppi sociali. La presa di posizione rispetto ai sociologi/handicappologi non potrebbe essere qui più netta: non solo non c'è alcuna solitudine individuale da scrutare, alcun deficit soggettivo (morale o fisico), alcuna personale depravazione da rischiarare, correggere o sanare e ci sono, invece, soltanto oggettivi e nudi fasci di relazioni sociali da ricostruire; non c'è neppure un'esclusione come “stato” immobile di deprivazione individuale, né l'iscrizione dentro una marginalità o una underclass intese come mere dislocazioni spaziali, rapporti statici fra centro e periferia, alto e basso sociali. A “fare” i poveri, a produrli dentro lo scenario della società, è una dinamica precisa, che corre lungo l'asse del tempo in parallelo perfetto con l'asse dello spazio. La “fabbrica dei miserabili”, dei “sovrannumerari”, degli “inutili al mondo”, si riattiva e riprende a sfornarli a ciclo continuo ogni qualvolta nuove condizioni del mercato del lavoro lo richiedano: da uno spazio di originaria integrazione, gli individui basculano allora entro una zona di turbolenza e progressiva instabilità, fino a piombare in quella che Castel definisce come désaffiliation, sganciamento multiplo dal lavoro, dal reddito, dalla protezione sociale, comunitaria o familiare, dalla dignità di sé. La “produzione dei poveri” segna ogni volta, nel corso della storia, una “costante” e una “discontinuità”: le “metamorfosi” costituiscono, nelle parole dello stesso autore, “una dialettica del medesimo e del differente”31. A partire dalla correlazione tra il posto occupato all'interno della divisione sociale del lavoro e l'accesso differenziato ai regimi reddituali, di protezione e di dignità, è possibile delineare un'articolata “omologia di posizioni” tra i 31 Infra, […].

“sovrannumerari” delle differenti epoche storiche e contemporaneamente tracciare un insieme di discontinuità, rotture, biforcazioni non solo rispetto alle epoche precedenti, ma anche a quelle che seguiranno: la “cronaca del salariato” è tutt'altro che lineare e ogni volta le antiche componenti strutturali della fragilità popolare (l'instabilità nei rapporti di lavoro, la precarietà dovuta alla scarsità degli impieghi, una cultura dell'aleatorio e della perenne provvisorietà) riscrivono in modo differente i confini della vulnerabilità. Nel corso del tempo, variano anche le modalità di ri-affiliazione dei “vulnerabili”, ossia le risposte alla turbolenza generata dalla vulnerabilità: le risposte alla “questione sociale” fornite nel XIV secolo o nell'età dei Lumi non sono certo le stesse del Wohlfahrt bismarckiano né quelle del welfare beveridgiano, di certo non le stesse di questo lunghissimo tempo di crisi dello Stato sociale di diritto continentale. La gamma infinita delle variazioni tonali si gioca, tuttavia, all'interno di una medesima “sinfonia”, ossia si inscrive nel quadro di quella che Castel definisce una medesima problematizzazione: […] un fascio unificato di questioni (di cui bisogna definire le caratteristiche comuni), che sono emerse in un dato momento (che bisogna fissare), che si sono più volte riformulate attraverso crisi e integrando nuovi dati (e bisogna periodizzare queste trasformazioni), e che sono ancor oggi viventi32.

Il modello è inequivocabilmente quello dell'histoire du present inaugurato da Foucault con le sue ricerche sulla follia, la 32 Infra, […].

prigione e la sessualità33: ben lontani da una storiografia engagé che cerchi nel passato lezioni politiche per il presente, si tratta piuttosto di condurre l'analisi “a partire da un interrogativo presente”34, ossia di ricostruirne – a ritroso – la genealogia. La lezione nietzschiana sull'Erfindung è qui particolarmente evidente: lungi dall'essere “maestra di vita”, la storia si mostra come una gigantesca macchina di produzione di “verità sociali”; le “verità” dipendono largamente dal modo in cui ci si interroga su di esse e la macchina procede, appunto, per problematizzazioni: Problematizzazione non vuol dire rappresentazione di un oggetto preesistente, neppure creazione a opera del discorso di un oggetto che non esiste. È l'insieme delle pratiche discorsive o non discorsive che fa entrare qualcosa nel gioco del vero e del falso e lo costituisce come oggetto per il pensiero35.

“Produzione di poveri” e “produzione di verità sociali” marciano, dunque, di pari passo. Rischiare la prima significa necessariamente illuminare la seconda, risalire la genealogia delle “pratiche discorsive e non discorsive” di ri-affiliazione sociale che investono il mondo del lavoro e del non lavoro. Occorre farlo, ov33 Castel – che vi si riferisce esplicitamente nell'intera opera – ha dedicato al tema vari saggi, fra cui “Problematization” as a Mode of Reading History, in Jan Goldstein (ed.), Foucault and the Writing of History, Oxford UK-Cambridge USA, Blackwell, 1994, pp. 237-252 e Michel Foucault e l'histoire du present, in Armand Hatchuel, Éric Pezet, Ken Starkey, Olivier Lenay (éds.), Gouvernement, organisation et gestion. L'héritage de Michel Foucault, Québec City, Les Presses de l'Université Laval, 2005, pp. 51-62. 34 Michel Foucault, Le souci de la vérité, entretien avec F. Ewald, in Id., Dits et écrits, vol. IV, pp. 668-678, in part. p. 674. 35 Ivi, p. 670.

viamente, a partire dalle problematizzazioni di oggi, dalla loro forma presente. La cittadinanza fondata sul lavoro così come l'avevamo conosciuta a partire dal secondo dopoguerra all'interno dello Stato sociale di diritto – non è il caso di richiamarne qui i “limiti” (promesse mancate, insostenibilità fiscale, burocratismo, ecc., sottolineati da una sterminata letteratura), né il suo carattere assolutamente parentetico, congiunturale – si era posta soprattutto il problema di rendere visibili i soggetti vulnerabili per trasformarli in soggetti sociali a tutto tondo, dotati – attraverso gli strumenti forniti dalla “proprietà sociale” – di una piena proprietà di sé. Al contrario – nella ristrutturazione post-welfariana dello Stato –, lo sforzo sembra essere piuttosto quello di occultare tali figure, senza porsi domande sui meccanismi che le hanno generate: è lo sforzo più o meno esplicito, secondo Castel, delle varie “politiche d'inserimento”, in questo nettamente contrapposte alle “politiche d'integrazione” del dopoguerra. Eppure si tratta, dice l'autore, di una nuova “problematica”, non di una nuova problematizzazione: basta seguire attentamente l'attuale dibattito mediatico sulle varie forme di reddito di cittadinanza, con tutto il suo profluvio di sottili distinguo fra aventi diritto e non, per ritrovare pari pari – nella casistica minuziosa che mette in guardia da tutte le possibili astuzie di una plebe inoperosa – i toni morali dell'antica contrapposizione fra poveri bisognosi e poveri validi che accompagna la miseria fin dal Medioevo. Così, per esempio, “nuove povertà” e disoccupazione possono ancor oggi essere fatte giocare alternativamente, con grande profitto, per dissolvere il legame tra le une e l'altra, nascondendo la “miseria laboriosa” del precariato di massa. Come la miseria medievale dei piccoli mestieri, la miseria laboriosa di oggi, quella che vede un

esercito crescente di lavoratori impegnarsi in una quotidiana corsa a ostacoli per la sopravvivenza, sembra destinata a scomparire allo sguardo, nella vulgata corrente che racconta delle “partite Iva” come young professionals in irresistibile ascesa e, contemporaneamente, degli esclusi (migranti, in primis) come nuove “classi pericolose”, da gestire in un'alternanza sapiente di iniziative caritatevoli e misure di ordine pubblico. Il paradosso è che, mai come in quest'epoca di concreta dismissione del “sociale e dei suoi apparati materiali di protezione, si sia potuto assistere a una tale proliferazione di discorsi sul “sociale” come “questione”, a una tale abbondanza di “novità” e “riforme” poste in campo dalla politica per riassorbirla definitivamente, per ricondurre in seno alla società gli individui che ne sono rimasti fuori. Ovvio che il paradosso sia tale soltanto in apparenza: molti anni fa Norberto Bobbio, scorgendo già l'inflazionamento della parola “riforma”, aveva sostenuto la necessità di restringerne l'uso a quei soli provvedimenti ispirati a “valori fondamentali non adeguatamente riconosciuti in determinate circostanze storiche”, ossia capaci di trasformare profondamente la società presente proiettandola nel futuro36. Al contrario, le riforme contemporanee in materia sociale, con il loro carattere di assoluta “novità” sbandierato dai media, forniscono spesso l'impressione di rivolgersi sin troppo ostentatamente a ciò che nel presente è facilmente riconoscibile e riconosciuto dall'opinione pubblica, dalla doxa corrente, nella speranza di catturarne il 36 Nell'intervista sulla democrazia realizzata da Renato Parascandolo per l'Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational, Bobbio indicava in tal senso – come esempio di riforma “autentica” – la legge 180 che nel 1978 aveva abolito i manicomi in Italia (www.conoscenza.rai.it/).

consenso o, almeno, di sopirne il dissenso 37. Il presentismo, le leggi e le promesse di leggi che ignorano il futuro sono divenute il pane quotidiano della politica al tempo di quello che Debord aveva precocemente definito lo “spettacolare integrato”; ma nel tempo in cui gli uomini politici cantano canzoni e indossano ogni sera una giubba diversa, anche il passato – la serie storica delle cause e degli effetti – richiede una potente rimozione, giacché “chi vende la novità ha tutto l'interesse a far sparire il modo di misurarla”38. Lo sforzo genealogico – simmetrico e altrettanto potente – di Castel è, appunto, quello di far riapparire tale “misura”: la storia del presente serve a misurare l'effettiva distanza della “contemporaneità” dalle proprie origini nascoste, ossia a cogliere la contemporaneità al momento del suo “sorgere” effettivo, “ricostruendo il sistema delle trasformazioni di cui la situazione attuale è erede; volgersi al passato con una domanda che è ancora oggi la nostra, e scrivere il racconto del suo avvento e delle sue principali peripezie”39. A misurarlo genealogicamente, “il nuovo non è poi così nuovo. È da lungo tempo in marcia, e i suoi germi sono stati già deposti nella ''costituzione feudale''”40. A partire dalla celebre Mémoire sur le paupérisme di Tocqueville, Castel mostra anzitutto come a ogni “progresso economico”, a ogni nuova forma di organizzazione produttiva, corrisponda invariabilmente la produzione di “nuove povertà” e una nuova riscrittura della “questione so37 Sul punto, un'utile rassegna può essere reperita in Vando Borghi, Ota de Leonardis e Giovanna Procacci (a cura di), La ragione politica. Volume secondo. I discorsi delle politiche, Napoli, Liguori, 2013. 38 Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, cit., p. 198. 39 Infra, […]. 40 Infra, […].

ciale”41. Il lungo détour delle Metamorfosi ci conduce, così, attraverso le trasformazioni del capitalismo mercantile in capitalismo industriale e poi finanziario, per mostrarci – pur senza negarne la portata e gli effetti specifici42 – che la “globalizzazione” economica dei nostri giorni agisce sul sociale secondo modalità e dinamiche proprie di ogni fase storica in cui un assetto produttivo “locale”, con i propri dispositivi di regolazione, sia stato spazzato via. Disoccupazione, precarizzazione, moltiplicazione delle posizioni contrattuali e salariali hanno accompagnato il capitalismo fin dal suo sorgere, a partire dalla dissoluzione delle economie medioevali (basate sulle produzioni artigiane, fortemente legate a una dimensione cittadina e regolamentate da una fitta maglia di norme corporative) nell'economia proto-industriale alimentata dalla crescita del capitalismo mercantile: non a caso, sul finire del Medioevo, si possono già contare almeno undici forme differenti di lavoro “salariato” o “semi-salariato” 43. Spazzati via – nel nome della “flessibilità” imposta dal nuovo capitalismo finanziario e globalizzato – molti dei dispositivi di regolamentazione del lavoro propri dello Stato sociale di diritto al tempo del capitalismo industriale di stampo fordista, appare inevitabile che “le nuove forme ''particolari'' di impiego assomigliano più ad antiche forme di assunzione, quando lo statuto del lavoratore svaniva davanti agli obblighi del lavoro”44. Gli echi del passato sono ancora ben udibili anche nelle risposte che le politiche sociali dei nostri giorni provano ad articolare rispetto alle sfide della “questione sociale”. Alcuni leitmotiv 41 Infra, […]. 42 Si veda in particolare l'ultimo capitolo, infra, […]. 43 Infra, […]. 44 Infra, […].

svelano origini relativamente recenti, come l'ossessione per la qualificazione “certa” della miseria, la contabilità esatta e a partita doppia di “miserabili” e “indigenti” (le c.d. “soglie di povertà”) o la decisiva importanza attribuita – nella lotta contro la disoccupazione – alla liberazione del lavoro dai suoi vincoli burocratico-normativi, che trovano nel secolo dei Lumi le prime, compiute formulazioni45; altri mostrano radici assai più profonde e risalenti. Così, il fantasma di una manodopera mobile e svincolata da qualsiasi legame alla base delle poor laws che appaiono nell'Europa del XVI secolo (“Ordiniamo che i poveri di ogni città, borgo e villaggio, siano nutriti e mantenuti da quelli della città, borgo o villaggio di cui essi sono nativi e abitanti, senza che possa vagare e chiedere l'elemosina altrove […]”46, recita l'ordinanza di Moulins del 1556) sembra animare ancora i tanti provvedimenti contemporanei di territorializzazione dell'intervento sociale (welfare locale, piani di zona, patti territoriali, di quartiere, ecc.), cui l'autore dedica pagine di acuta e profonda analisi nell'ultima parte del libro47. Lo stesso fantasma aveva potuto del resto, lungo il corso dei secoli, alimentare svariate forme di “messa al bando” e incarcerazioni di massa dei “vagabondi” e può ancora essere esorcizzato ai nostri giorni mediante un articolato dispositivo di regolazione e “clandestinizzazione” della forza-lavoro migrante. In definitiva, nelle Metamorfosi, la “questione sociale” e l'intera panoplia storica degli interventi del potere politico in materia sociale – sino alle “nuove” politiche sociali di oggi – si svelano come un puro riflesso della “questione del capitale”. Sia le mac45 Infra, […]. 46 Infra, […]. 47 Infra, […].

chine che il lavoro sono intrinsecamente mobili, possono “migrare”: ogni volta che si annuncia un qualche drastico taglio ai diritti del lavoro, la vulgata corrente non manca di sottolineare la mobilità del capitale, mettendoci in guardia dalle possibili fughe “all'estero” degli imprenditori e delle loro macchine; anche il lavoro, tuttavia, è intrinsecamente mobile e, a determinate condizioni della curva della domanda, può sottrarsi o migrare. La questione del capitale, in ultima analisi, ha a che fare con la peculiare natura della manodopera tra i fattori di produzione: a differenza delle macchine, il lavoro non è “naturalmente” in totale disponibilità del capitale. È per tale motivo che il controllo della forza-lavoro non può essere limitato al disciplinamento in fabbrica: esso inizia molto prima, nei dispositivi di governo e colonizzazione delle aree del “non lavoro”: “vagabondi” e “ribelli”, disoccupati “troppo choosy” e ogni potenziale forza-lavoro in movimento – come i migranti – ne costituiscono, per ciascuna epoca, l'invariante e privilegiato bersaglio. Se il mito liberale fallisce, se il “naturale” equilibrio delle curve della domanda e dell'offerta non si verifica all'interno del mercato del lavoro, non si può che intervenire per modificare l'una o l'altra delle curve. Il lungo racconto di Castel c'insegna che storicamente – se si eccettua la breve parentesi novecentesca del Welfare State, nella quale si è provato a regolamentare la “domanda”, temperando con il diritto del lavoro le pretese del profitto – la scelta è invariabilmente caduta sulla limitazione delle istanze connesse alla curva dell'offerta. Ai nostri giorni, sia le politiche di gestione della forza-lavoro migrante che quelle finalizzate all'“inserimento” dei disoccupati autoctoni, possono essere lette come drastici interventi sulla curva dell'offerta: in entrambi i casi vengono anzitutto occultate le cause sto-

rico-sociali e politico-economiche del disagio, la cui origine è invece individuata dal discorso pubblico in un deficit morale dei soggetti stessi. Nel caso dei migranti, si interviene attraverso una negazione morale e giuridica del diritto a emigrare, ossia mediante una serie di norme che si incaricano di rendere sostanzialmente impossibile l'accesso allo status di “immigrato regolare”, convogliando utilmente un'ampia sacca di forza-lavoro “illegale” verso i settori più arretrati dell'economia dei paesi di arrivo, ossia quei settori che possono rimanere competitivi solo abbassando radicalmente il costo della manodopera (industrie “informali”, servizi di ristorazione, turistici, alla persona, e gran parte del comparto agricolo); nel caso dei disoccupati interni (spesso anche a elevata qualificazione) o degli immigrati “regolari”, si tratterà piuttosto di istituire un discorso pedagogico-morale capace di tradurre il diritto al reddito e alla cittadinanza in un obbligo di fatto al lavoro sottoretribuito. Paradossalmente, il diritto all'esistenza, alla base della “questione sociale”, può nella pratica essere riconosciuto ai soggetti esclusi soltanto se essi si piegano a quella stessa logica economica che ne ha fatto ciò che sono, ossia degli esclusi. Incitati dal discorso pubblico e da quello che può essere interpretato in molti casi come un vero apparato di violenza istituzionale48 ad attribuire ciascuno al più debole la colpa della propria condizione, stimolati a trasformarsi (migranti 48 Cfr. Pierre Bourdieu (dir), La miseria del mondo, ed. it. cit. (in particolare il capitolo Comprendere, con la relativa trascrizione – “L'interrogatorio” – di alcuni tipici setting istituzionali di “intervista” per la concessione del reddito minimo d'inserimento, pp. 807 sgg.) e Vincent Dubois, La vie au guichet. Relation administrative et traitement de la misère (1999), Paris, Économica, 2010; trad. it. Il burocrate e il povero. Amministrare la miseria, a cura di Corrado Alunni, Milano-Udine, Mimesis, 2018.

“clandestini” e “irregolari” compresi) in “esperti” e “imprenditori” di sé stessi e a sostituire la competizione alla collaborazione, tali soggetti non riescono più a vedere la fabbrica sociale che tutti li produce nella forgia del “capitale umano”. L'incertezza soggettiva della nostra domanda iniziale si svela, dunque, come un semplice sottoprodotto della fabbrica contemporanea dei soggetti. La stessa incertezza può, quindi, secondo Castel, essere misurata: “Ma che cos'è una situazione aleatoria e a partire da quali criteri la si valuta?” 49. Essa è solo superficialmente legata alla “solitudine”, alle solitudini apparentemente non più ricomponibili entro un progetto comune: Che cosa condividono, in effetti, un disoccupato di lunga durata ripiegato sulla sfera familiare, con moglie, appartamento e televisione, e il giovane la cui “galera” è fatta di erranze sempre ricominciate e di esplosioni di rabbia abortite? Essi non hanno né lo stesso passato, né lo stesso avvenire, né lo stesso vissuto, né gli stessi valori50.

Il fatto che essi non possano “nutrire un progetto comune” e non sembrino “suscettibili di superare lo smarrimento in forme di organizzazione collettiva”51 non può essere, infatti, ingenuamente ricondotto al divide et impera di un generico potere. In Castel sembra qui riecheggiare, ancora una volta, pieno e sonoro, l'insegnamento di Foucault: tra l'istanza totalizzante (propria di ogni potere) e le sofisticate tecnologie attuali di individualizzazione non si gioca alcuna contraddizione. La loro coesistenza è 49 Infra, […]. 50 Infra, […]. 51 Ibidem.

una caratteristica originaria della moderna razionalità politica ed è in perfetta continuità con l'antica vocazione pastorale del potere che la riscrittura contemporanea della relazione tra individui e moltitudine può essere compresa. Governare insieme il gregge e il singolo agnello, governare omnes et singulatim può essere declinato in vari modi: la forma presente di questa endiadi di potere sembra configurare, da una parte, una serie di tecnologie di strutturazione del sé volte ad aumentare la competitività individuale dei singoli (autoresponsabilizzazione, cultura del “progetto” e della “prestazione”), dall'altra il richiamo alla coesione di questo stesso soggetto entro appartenenze ascrittive e metastoriche (l'“Occidente”, la “civiltà”, ecc.). Messa al bando la storia (ossia privati i singoli di finalità collettive), il conflitto storicamente dato e potenzialmente insito nella “questione sociale” può essere neutralizzato dirottandolo opportunamente sul binario “naturale” dello “scontro fra civiltà”. Se – come chiarisce Foucault – “individualizzazione” e “totalizzazione” sono “effetti inevitabili” della ragion di Stato, “opporvi l'individuo e i suoi interessi è altrettanto azzardato che opporvi la comunità e le sue esigenze”: la “liberazione” “non può che venire dall'attacco non dell'uno o dell'altro di questi effetti, bensì delle radici medesime della razionalità politica”52. Tra rivendicazioni “antistataliste” di maggior autonomia per gli individui rispetto ai vincoli della burocrazia e della fiscalità e pulsioni “sovraniste” che postulano una nuova centralità della comunità nazionale, Castel indica con decisione un'altra strada. Non è la strada di Sisifo, il minimalismo della rincorsa perpetua 52 Michel Foucault, “Omnes et singulatim”: vers une critique de la raison politique, in Id., Dits et écrits, cit., vol. IV, pp. 134-161, in part. p. 161, passim.

del “piccolo Stato sociale”53, con le sue politiche locali di sostegno al reddito e “inserimento”, né quella del sogno nostalgico di un nuovo “grande Stato sociale”, così frequentemente rimproverato all'autore da una letteratura disattenta quanto in malafede. Non si tratta di “riforme”, di uno sforzo “giuridico” per limare mestamente il bilancio e temperare di soppiatto le unghie della bestia, bensì di uno sforzo “politico”: riagganciare le soggettività disperse delle vite “senza valore” alla “questione sociale”, ritrovare l'unità delle differenti posizioni sociali oggettive nell'“unità di posizione in rapporto alle attuali ristrutturazioni economiche e sociali”54. In altre parole, si tratta di sottrarre la “questione sociale” al grande erbario della miseria, alle classificazioni orizzontali e statiche, naturalistiche e morali delle tipologie dei poveri, per tracciare genealogicamente e in verticale l'affresco diacronico e causale della “vulnerabilità di massa”; possibilmente per liberarsene. Arduo? Impraticabile? Arduo certamente, e non poco; come lo fu emanciparsi lentamente dalle catene della servitù della gleba nel XIV secolo, strappare nel XIX un orario di lavoro decente nelle manifatture della prima rivoluzione industriale, conquistare nell'Europa del XX devastata dalla guerra il riconoscimento della dignità del lavoro. Impraticabile no, come l'intera “cronaca del salariato” pazientemente ricomposta da Robert Castel ci suggerisce, senza alibi e senza scorciatoie: la storia è un fascio di linee continue e linee spezzate, la cartografia di un campo di lotte; e continua nel presente, continuerà nel futuro.

53 Infra, […]. 54 Infra, […].

NOTA DI EDIZIONE

Le citazioni sono state tradotte direttamente dal testo riportato nell'edizione francese. Le sigle sono state sciolte fra parentesi tonda alla prima occorrenza nel testo e ripetute in caso di eccessiva distanza dalla prima apparizione. Sempre fra parentesi tonda è stata inserita la traduzione italiana delle denominazioni di alcuni enti, organizzazioni, progetti, in caso di pronunciata dissimilarità dall'italiano. In pochi casi sono state introdotte delle note di redazione a esplicitare espressioni o datazioni idiomatiche. Sono state riviste alcune referenze bibliografiche e, laddove disponibili, sono state indicate le traduzioni italiane dei testi citati, selezionando le edizioni di riferimento e, in subordine, le ultime disponibili. In alcuni casi non è stato possibile risalire al numero di pagina dei documenti originali. In coda al volume sono stati aggiunti i Riferimenti bibliografici. Nei riferimenti bibliografici francesi, l'uso delle maiuscole e della punteggiatura è stato uniformato alle convenzioni del sistema di citazione italiano. Clelia Castellano ha tradotto il cap. III e le introduzioni alla Prima e Seconda parte; Ciro Pizzo i capp. I e II, ha revisionato le referenze bibliografiche e composto i Riferimenti bibliografici;

Anna Simone ha tradotto i capp. IV e V; Ciro Tarantino ha tradotto la Premessa, i capp. VI, VII, VIII e la Conclusione. Un particolare ringraziamento ad Alessandra M. Straniero e Lavinia D'Errico per la collaborazione editoriale.

ROBERT CASTEL

LE METAMORFOSI DELLA QUESTIONE SOCIALE Una cronaca del salariato

Dedico questo lavoro della memoria ai miei genitori e a quante e quanti, ieri come oggi, è stato rifiutato un avvenire migliore. La scrittura non è solo un'impresa solitaria, soprattutto quando si dispiega nel tempo. Il mio percorso ha incrociato molti altri itinerari, e ho contratto molteplici debiti. Non saprei richiamarli tutti. Tuttavia, per quanto i miei interlocutori più numerosi siano stati dei libri, devo molte alle testimonianze di coloro che affrontano giorno per giorno la miseria del mondo. Le mie attività nel Groupe d'analyse du social et de la sociabilité e al Centre d'étude des mouvementes sociaux, così come il mio seminario all'École des hautes études en sciences sociales sono stati occasione di scambi fecondi con colleghi e studenti. Ho tenuto conto dei rilievi e delle critiche delle persone che hanno avuto la cortesia di leggere questo lavoro prima che fosse concluso, in particolare Bernard Assicot, Colette Bec, Monique Benard, Christine Filippi, Jean-François Laé, Catherine Mevel, Numa Murard, Albert Ogien, Giovanna Procacci, Christian Topalov. Jacques Donzelot ha esercitato la sua vigilanza critica lungo tutto il lavoro e l'economia dell'opera deve molto alle nostre discussioni. Ringrazio inoltre Pierre Birnbaum e Denis Maraval che hanno accolto questo libro con celerità e simpatia. Grazie anche a Emma Goyon

per la sua instancabile pazienza nel dattiloscrivere le molteplici versioni del manoscritto.

Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente non potrebbe esserci niente di peggio. Hannah Arendt

Mi piacerebbe che gli specialisti delle scienze sociali vedessero parallelamente nella storia uno strumento di conoscenza e di ricerca. Il presente non è per più della metà preda di un passato che si ostina a sopravvivere, e il passato, con le sue regole, le sue differenze e le sue somiglianze, la chiave indispensabile di ogni conoscenza del presente? Fernand Braudel

Per quanto torniamo indietro nel tempo, non perdiamo mai di vista il presente. Émile Durkheim

PREMESSA

Mi è parso che in questi tempi d'incertezza, mentre il passato si dilegua e l'avvenire è indeterminato, bisognasse mobilitare la nostra memoria per cercare di comprendere il presente. Di certo i grandi affreschi, come i grandi sistemi, non sono più di moda, ma ci si può esimere da un giro lungo se si vuole cogliere la specificità di quel che accade hic et nunc? In particolare, la situazione attuale è contrassegnata da un sommovimento che ha recentemente interessato la condizione salariale, con disoccupazione di massa e precarizzazione delle situazioni di lavoro, inadeguatezza dei sistemi classici di protezione per far fronte a questi stati, moltiplicazione di individui che occupano nella società una posizione di surnumerari, “inoccupabili”, inoccupati o occupati in modo precario, intermittente. Ormai, per molti, l'avvenire ha inciso il sigillo dell'aleatorio. Ma che cos'è una situazione aleatoria e a partire da quali criteri la si valuta? Noi dimentichiamo che il salariato, che occupa oggi la maggioranza degli attivi e a cui si riconnette la maggior parte delle protezioni contro i rischi sociali, è stato a lungo una fra le situazioni più incerte, ma anche più indegne e miserabili. Si era salariati quando non si era niente e non si aveva niente da

scambiare, fuorché la forza delle proprie braccia. Qualcuno cadeva nel salariato quando il suo stato si degradava, come l'artigiano rovinato, il fittavolo che la terra non nutriva più, il corporato che non poteva divenire maestro... Essere o precipitare nel salariato significava diventare dipendente, essere condannato a vivere “giorno per giorno”, trovarsi in preda al bisogno. Eredità arcaica, che rende le prime forme del salariato manifestazioni quasi eufemistiche del modello della corvée feudale, ma non per questo così distanti. Ci si ricorda, per esempio, che il maggior partito di governo della Terza Repubblica, il Partito radicale, inserisce ancora nel suo programma, in occasione del congresso di Marsiglia del 1922, “l'abolizione del salariato, sopravvivenza della schiavitù”?1 Non è affare da poco cercare di comprendere come il salariato sia riuscito a superare tali handicap straordinari per divenire, negli anni Sessanta del Novecento, la matrice di base della moderna “società salariale”. Ma tentare di renderne conto non è solo un cruccio da storico. La caratterizzazione storico-sociale del posto occupato dal salariato è necessaria per valutare la minaccia di frattura che assilla le società contemporanee e porta in primo piano le tematiche della precarietà, della vulnerabilità, dell'esclusione, della segregazione, della relegazione, della disaffiliazione... Se è vero che tali questioni vengono riproposte da una ventina d'anni, è vero anche che si pongono in seguito e in rapporto a un contesto di protezioni precedenti, dopo la lenta imposizione di potenti sistemi di copertura dei rischi, garantiti dallo Stato sociale, a partire proprio dal consolidamento della condizione salariale. La nuova vulnerabilità, definita e vissuta su uno 1 Claude Nicolet, Le radicalisme, Paris, PUF, 1974, p. 54.

sfondo di protezioni, è quindi del tutto differente dall'incertezza del domani che fu, nei secoli, la condizione comune di quello che si chiamava allora il “popolo”. Di modo che non ha gran senso parlare oggi di “crisi”, se non si prende l'esatta misura di tale differenza. Che cosa distingue – vale a dire, che cosa comportano, a un tempo, di differente e di comune – le antiche situazioni di vulnerabilità di massa e la precarietà di oggi, percorsa da processi di distacco da nuclei ancora vigorosi di stabilità protetta? Questo è il tipo di intelligibilità che vorrei produrre. Se la storia occupa un posto così rilevante in questa opera, è allora di storia del presente che si tratta; dello sforzo di riaffermare il sorgere della contemporaneità ricostruendo il sistema delle trasformazioni di cui la situazione attuale è erede; del volgersi al passato con una domanda che è ancora oggi la nostra, e scrivere il racconto del suo avvento e delle sue principali peripezie. È questo ciò che tenterò, perché il presente non è solo il contemporaneo; è anche un effetto d'eredità, e la memoria di questa eredità ci è necessaria per comprendere e agire oggi. Ma di quali problemi di oggi si tratta si restituire la memoria? Progressivamente, l'analisi di un rapporto col lavoro è venuta a occupare un posto sempre più importante in questo libro. Eppure non era il punto di partenza della riflessione. All'inizio, c'era – e vi resta – l'intenzione di render conto dell'incertezza degli status, della fragilità del legame sociale, di itinerari la cui traiettoria è tremula. Le nozioni che cerco di elaborare – la deconversione sociale, l'individualismo negativo, la vulnerabilità di massa, l'handicappologia, l'invalidazione sociale, la disaffiliazione... – assumono senso nel quadro di una problematica dell'integrazione o dell'anomia (di fatto, si tratta di una riflessione sulle

condizioni della coesione sociale a partire dall'analisi di situazioni di dissociazione). L'obiettivo dunque era, e resta, quello di valutare questo nuovo dato contemporaneo: la presenza, apparentemente sempre più insistente, di individui collocati in una situazione come di fluttuazione nella struttura sociale, e che popolano i suoi interstizi senza trovarvi un posto assegnato. Ombre incerte, ai margini del lavoro e al confine delle forme di scambio socialmente consacrate – disoccupati di lunga durata, abitanti delle banlieues diseredate, percettori di reddito minimo d'inserimento, vittime di riconversioni industriali, giovani in cerca d'impiego e che passano di stage in stage, da lavoretti a occupazioni provvisorie... –, chi sono, da dove vengono, come vi sono giunti, cosa diventeranno? Tali interrogativi non sono fra quelli che classicamente si pone una sociologia del lavoro, e non è mia intenzione farveli rientrare. Tuttavia, sforzandomi di superare la mera descrizione empirica di queste situazioni, mi è parso che l'analisi di una relazione col lavoro (o con l'assenza di lavoro, o di relazioni aleatorie col lavoro) rappresentasse un fattore determinante per ricollocarle nella dinamica sociale che le costituisce. Dunque, non esamino qui il lavoro in quanto rapporto tecnico di produzione, ma come supporto privilegiato d'iscrizione nella struttura sociale. Esiste in effetti, lo si verificherà sulla lunga durata, una forte correlazione tra il posto occupato nella divisione sociale del lavoro e la partecipazione alle reti di sociabilità e ai sistemi di produzione che “coprono” un individuo di fronte ai rischi dell'esistenza. Di qui, la possibilità di costruire quelle che metaforicamente chiamerei delle “zone” di coesione sociale. Così, l'associazione lavoro stabile/inserimento relazionale solido caratterizza una zona

d'integrazione. Di contro, l'assenza di partecipazione a qualsiasi attività produttiva e l'isolamento relazionale congiungono i loro effetti negativi per produrre l'esclusione o piuttosto, come cercherò di dimostrare, la disaffiliazione. La vulnerabilità sociale è una zona intermedia, instabile, che coniuga la precarietà del lavoro con la fragilità dei supporti di prossimità. Ben inteso, tali associazioni non giocano in modo meccanico. Per esempio, per numerosi gruppi popolari, la precarietà delle condizioni di lavoro ha potuto spesso essere compensata dalla densità delle reti di protezione di prossimità procurate dal vicinato. Soprattutto, tali configurazioni non sono date una volta per tutte. Per esempio, col sopraggiungere di una crisi economica, della crescita della disoccupazione, della generalizzazione del sottoimpiego, la zona di vulnerabilità si dilata, deborda su quella d'integrazione e alimenta la disaffiliazione. La composizione degli equilibri tra queste “zone” può così servire – tale è almeno l'ipotesi che mi sforzo di fondare – da indicatore privilegiato per valutare la coesione di un insieme sociale in un dato momento. Evidentemente si tratta, all'inizio, di una griglia formale. Solo le analisi che permetterà di produrre ne confermeranno la validità. Necessitano, tuttavia, due rilievi preliminari, per evitare controsensi sulla portata di una tale costruzione. In primo luogo, tale griglia di lettura non coincide esattamente con la stratificazione sociale. Possono esistere dei gruppi fortemente integrati e debolmente garantiti. È il caso, per esempio, degli artigiani in una struttura di tipo corporativistico, che assicura generalmente, a dispetto di redditi mediocri, la stabilità dell'impiego e solide protezioni contro i principali rischi sociali. Meglio, esiste una indigenza integrata, come quella delle popola-

zioni assistite, per la quale l'assenza di risorse genera una presa in carico sotto forma di una “protezione ravvicinata” (cfr. cap. I). La dimensione economica non è dunque la discriminante essenziale, e la questione posta non è quella della povertà, ancorché i rischi di destabilizzazione gravino in maggiore misura su quanti sono privi di riserve economiche. Se, dunque, non sono i più ricchi a essere presi in considerazione in prima battuta, non lo sono necessariamente neanche i più “poveri” o più “diseredati” in quanto tali. Sono piuttosto le relazioni esistenti tra la precarietà economica e l'instabilità sociale che bisognerà delineare 2. In secondo luogo, il modello proposto non è statico. Si tratta non tanto di collocare degli individui in queste “zone”, quanto di chiarire i processi che li fanno transitare dall'una all'altra, per esempio che li fanno passare dall'integrazione alla vulnerabilità, o basculare tra la vulnerabilità e l'inesistenza sociale 3: come sono alimentati questi spazi sociali, come si mantengono e soprattutto come si disfano gli status? Pertanto, per definire l'esito di questo processo, al tema oggi abbondantemente orchestrato dell'esclusione, io preferirò quello della disaffiliazione. Non è una civetteria da vocabolario. L'esclusione è immobile. Designa uno stato o, 2 Se anche posizioni sociali elevate possono rivelarsi poco stabili e minacciate, il modello proposto può essere applicato ai differenti livelli della stratificazione sociale. Ho tentato di testarlo in una situazione-limite alla cima della piramide delle grandezze sociali in Le roman de la désaffiliation. À propos de Tristan et Iseut, in “Le Débat”, n. 61, 1990, pp. 155-167. Al contrario, qui, descriverò i meccanismi destabilizzatori che conducono al limite alla morte sociale, a partire, per esempio, dalla condizione dei perduti della terra, dei vagabondi delle società preindustriali, dei sottoproletari dell'inizio dell'industrializzazione, dei “beneficiari” del Reddito minimo d'inserimento (RMI). 3 Senza negare che ci sia circolazione di flussi in senso inverso, vale a dire della mobilità ascendente. Ma, per le ragioni appena esposte, mi occuperò soprattutto di popolazioni minacciate d'invalidazione sociale.

piuttosto, degli stati di privazione. Ma la constatazione di carenze non permette di riafferrare i processi che generano queste situazioni. Per usare con rigore una tale nozione, che collima col modello di una società duale, bisognerebbe che corrispondesse a situazioni caratterizzate da una localizzazione geografica precisa, dalla coerenza almeno relativa di una cultura o di una sottocultura, e, perlopiù, da una base etnica. I ghetti americani evocano associazioni di questo tipo, e si può parlare a loro proposito, ancorché la nozione sia discussa, di under-class. In Francia non siamo – o non siamo ancora – a questo punto. Anche il fenomeno beur4, nonostante un riferimento all'etnicità, non comprende una cultura specifica. A fortiori, non esiste una cultura comune ai differenti gruppi di “esclusi”. Parlare di disaffiliazione, invece, non significa ratificare una rottura, ma rintracciare un percorso. La nozione appartiene al medesimo campo semantico della dissociazione, della squalificazione o dell'invalidazione sociale. Disaffiliato, dissociato, invalidato, squalificato, in rapporto a che cosa? È precisamente questo il problema, ma si scorge già quale sarà il registro delle analisi richieste da questa scelta. Bisognerà reinscrivere i deficit nelle traiettorie, rinviare a dinamiche più ampie, essere attenti ai punti critici che generano gli stati-limite, ricercare il rapporto tra la situazione in cui si è e quella da cui si proviene, non considerare autonome le situazioni estreme, ma legare quel che succede a valle con ciò che accade a monte. Fin da ora si intuisce an4 La parola beur deriva dall'inversione delle sillabe della parola francese a-ra-beu (arabo) in beu-ra-a, poi divenute beur per contrazione. Questo termine designa i discendenti degli immigrati del Maghreb stabilitisi in Francia, anche se molti di essi non si riconoscono nella cultura araba, essendo, per esempio, di origine berbera [N.d.R.].

che che, in questa prospettiva, la zona di vulnerabilità occuperà una posizione strategica. Ridotta o controllata, essa permette la stabilità della struttura sociale, sia nel quadro di una società unificata (una formazione nella quale tutti i membri beneficerebbero di sicurezze fondamentali), sia sotto forma di una società duale consolidata (una società tipo Sparta, in cui non esisterebbero affatto posizioni intermedie tra quella dei cittadini a pieno titolo e quella degli iloti in stato di soggezione). Al contrario, aperta e in estensione, come apparentemente si presenta nel caso odierno, la zona di vulnerabilità alimenta le turbolenze che rendono fragili le situazioni acquisite e disfano gli status assicurati. E la constatazione vale nella lunga durata. La vulnerabilità è un'onda secolare che ha segnato la condizione popolare col marchio dell'incertezza e molto spesso dell'infelicità. Ho intitolato questo lavoro Le metamorfosi della questione sociale. “Metamorfosi”, dialettica del medesimo e del differente: dipanare le trasformazioni storiche di tale modello, sottolineare ciò che le sue principali cristallizzazioni comportano di nuovo e di permanente, seppure sotto forme che non le rendono immediatamente riconoscibili. Perché, ben inteso, i contenuti concreti che rivestono nozioni quali la stabilità, la precarietà o l'espulsione dal lavoro, l'inserimento relazionale, la fragilità dei supporti protettivi o l'isolamento sociale sono ora del tutto differenti da quelli che erano nelle società preindustriali o nel XIX secolo. Sono molto differenti oggi anche rispetto a quelli che erano solamente venti anni fa. Tuttavia, si tratterà, in primo luogo, di mostrare che le popolazioni che abitano queste “zone” occupano per ciò stesso una posizione omologa nella struttura sociale. Vi è un'o-

mologia di posizione, per esempio, tra quegli “inutili al mondo” 5 che rappresentavano i vagabondi prima della rivoluzione industriale e differenti categorie di “inoccupabili” di oggi. In secondo luogo, si tratterà di mostrare che i processi che producono queste situazioni sono ugualmente comparabili, cioè omologhi nella loro dinamica e differenti nelle loro manifestazioni. È ancora l'impossibilità di riservarsi un posto stabile nelle forme dominanti dell'organizzazione del lavoro e nei modi riconosciuti di appartenenza comunitaria (ma che sono frattanto, sia le une sia gli altri, completamente cambiati) che costituisce i “surnumerari” di un tempo, di ieri e di oggi. In terzo luogo, si tratterà di dimostrare che non per questo si assiste allo svolgimento di una storia lineare a cui la genitura di figure assicurerebbe continuità. C'è al contrario da stupirsi di fronte alle discontinuità, alle biforcazioni, alle innovazioni che dovranno risolversi; come per esempio davanti alla straordinaria avventura del salariato, passato dal più totale discredito allo statuto di principale dispensatore di redditi e protezioni. Tanto più che un tale “passaggio” non è l'irresistibile ascesa di una realtà promossa alla consacrazione della storia: al momento dell'instaurarsi della società liberale, l'imperativo di ridefinire il complesso delle relazioni di lavoro in un quadro contrattuale ha rappresentato una rottura profonda quanto il cambiamento di regime politico simultaneamente sopravvenuto. Ma, per quanto fondamentale sia stata, questa trasformazione non si è imposta in maniera egemonica e omogenea. Nel momento in cui il salariato libero diventa la forma giuridicamente consacrata 5 Per riprendere l'emblematica condanna di un vagabondo del XV secolo citata da Bronislaw Geremek:” Era degno di morire come inutile al mondo, cioè essere impiccato come ladrone” (Les marginaux parisiens aux XIVe et XVe siècles, Paris, Flammarion, 1976, p. 310).

delle relazioni di lavoro, la condizione salariale rimane ancora, e per lungo tempo, connotata da precarietà e sofferenza. Enigma della promozione di un moltiplicatore della ricchezza che installa la miseria nel suo centro di diffusione. E ancora oggi bisogna stupirsi dello strano rivolgimento a partire dal quale, dopo essersela cavata bene, il salariato rischia di nuovo di divenire una situazione pericolosa. Il termine metamorfosi non è, dunque, una metafora impiegata per suggerire che la perennità di una sostanza permane sotto il cambiamento dei suoi attributi. Al contrario, una metamorfosi fa tremare le certezze e ricompone tutto il paesaggio sociale. Eppure, per quanto fondamentali, gli sconvolgimenti non rappresentano innovazioni assolute se si iscrivono nel quadro di una medesima problematizzazione. Per problematizzazione intendo l'esistenza di un fascio unificato di questioni (di cui bisogna definire le caratteristiche comuni), che sono emerse in un dato momento (che bisogna fissare), che sono più volte riformulate attraverso crisi e integrando nuovi dati (e bisogna periodizzare queste trasformazioni), e che sono ancora oggi viventi. Proprio perché questa problematizzazione è viva, impone il ritorno sulla propria storia al fine di costituire la storia del presente6. Se è in effetti proscritto fare un uso del passato in contraddizione con le esigenze della metodologia storica, mi pare legittimo porre al materiale storico interrogativi che gli storici non gli hanno necessaria6 Il persistere di un problema non dipende dall'importanza che ha potuto rivestire in passato. Per esempio, sapere se il Sole gira attorno alla Terra, o viceversa, ha mobilitato ai tempi di Galileo questioni tecnologiche, filosofiche, politiche, scientifiche e pratiche fondamentali, ma sono svanite dopo che la “rivoluzione copernicana” è stata accettata pressoché unanimemente e il Vaticano stesso ha convenuto, solo di recente è vero, che Galileo aveva ragione.

mente posto, e riconcatenarlo a partire da altre categorie, in questo caso da categorie sociologiche. Questo non è riscrivere la storia, né revisionarla, ma è rileggerla, cioè fare, con dati per i quali si è completamente debitori verso gli storici, un altro racconto che abbia una propria coerenza, a partire da una griglia di lettura sociologica, e sia compossibile con quello degli storici. I materiali su cui poggia la mia argomentazione sono, soprattutto nella prima parte, principalmente di ordine storico, ma sono conservati e ridisposti in funzione di categorie analitiche che mi prendo la responsabilità di introdurre7. Metamorfosi della questione sociale. La “questione sociale” è un'aporia fondamentale sulla quale una società sperimenta l'enigma della sua coesione e tenta di scongiurare il rischio di frattura. Essa è una sfida che interroga, rimette in questione, la ca7 Ho esplicitato i presupposti metodologici di questo approccio in Problematization: a way of Reeading History, in Jan Goldstein (ed.), Foucault and the Writing of History, cit. Jean-Claude Passeron ha individuato la base epistemologica che giustifica una posizione di questo tipo in Le raisonnement sociologique. L'espace non-poppérien du raisonnement naturel, Paris, Nathan, 1991. In particolare, nonostante la divisione accademica del lavoro, la storia e la sociologia (e anche l'antropologia) sviluppano dei discorsi che si collocano sullo stesso registro epistemologico, intrattengono gli stessi rapporti con le procedure di amministrazione della prova e hanno la stessa base empirica, quella che Passeron chiama “il corso storico del mondo”. Quindi, prestiti incrociati e trasferimenti da disciplina a disciplina sono legittimi, a condizione di rispettare le regole proprie di ciascuna. Il rispetto di queste regole impedisce che il non-storico si conceda la minima modifica dei dati elaborati dalla scienza storica. Non che queste costruzioni siano definitive, ma la loro rielaborazione dipende dalle procedure proprie del mestiere di storico. Non entrerò quindi nel dibattito storiografico contemporaneo che reinterroga le condizioni di costruzione dei dati storici. Riprendo le testimonianze d'epoca e le elaborazioni degli storici quando sono condivise (o, quando non accade, mi sforzo di indicare le divergenze di interpretazione), per riutilizzarle in modo differente secondo la configurazione di un altro spazio assertorio, quello del “ragionamento sociologico”.

pacità di una società (quella che in termini politici si definisce una nazione) di esistere come un insieme legato da relazioni di interdipendenza. Tale questione è stata esplicitamente formulata, in questi termini, per la prima volta negli anni Trenta del XIX secolo. Si pose allora, a partire dalla presa di coscienza delle condizioni di esistenza delle popolazioni che erano, a un tempo, agenti e vittime della rivoluzione industriale. È la questione del pauperismo. Momento essenziale quanto quello in cui è apparso quasi totale il divorzio tra un ordine giuridico-politico, fondato sul riconoscimento dei diritti dei cittadini, e un ordine economico, che causa miseria e demoralizzazione di massa. Si diffonde, allora, la convinzione che vi è “una minaccia all'ordine politico e morale” 8 o, ancora più energicamente: “Bisogna trovare un rimedio efficace alla piaga del pauperismo o prepararsi a uno sconvolgimento del mondo”9. Comprendiamo da ciò che la società liberale rischia di esplodere a causa delle nuove tensioni sociali che sono l'effetto di una industrializzazione selvaggia. Questo iato tra l'organizzazione politica e il sistema economico permette, per la prima volta con chiarezza, di definire il posto del “sociale”, inserirsi in questa distanza, restaurare o stabilire dei legami che non obbediscano né a una logica strettamente economica, né a una giurisdizione strettamente politica. Il “sociale” 8 Vicomte Alban de Villeneuve-Bargemont, Économie politique chrétienne, ou Recherche sur la nature et les causes du paupérisme en France et en Europe, et sur les moyens de le soulager et de le prévenir, Paris, Paulin, 1834, 3 voll., t. I, p. 25. 9 Eugène Buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, de la nature de la misère, de son existence, de ses effets, de ses causes, et de l'insuffisance des remèdes qu'on lui a opposés jusqu'ici, avec les moyens propres à en affranchir les sociétés, Paris, Paulin, 1840, 2 voll., t. I, p. 98.

consiste in sistemi di regolazione non mercantili, istituiti per tentare di colmare questo vuoto. La questione sociale diviene così, in questo contesto, la questione del posto che possono occupare nella società industriale le frange più desocializzate dei lavoratori. La risposta a tale questione sarà l'insieme dei dispositivi strutturati per promuovere la loro integrazione. Tuttavia, prima di questa “invenzione del sociale”10 c'era già del sociale, come le molteplici forme istituzionalizzate di relazioni non mercantili rispetto alle differenti categorie di indigenti (le pratiche e le istituzioni di assistenza), ma anche come i modi sistematici di intervento rispetto a certe popolazioni: repressione del vagabondaggio, obbligo del lavoro, controllo della circolazione della manodopera. Esistevano dunque, allora, non solo quel che chiamerei il “socio-assistenziale”, ma anche degli interventi pubblici attraverso i quali lo Stato svolgeva il ruolo di garante del mantenimento dell'organizzazione del lavoro e di regolatore della mobilità dei lavoratori. Perché? Perché una “questione sociale” si poneva già nelle società preindustriali dell'Europa occidentale. Infatti, l'interdipendenza accuratamente incastrata degli status in una società di ordini è minacciata dalla pressione che esercitano tutti coloro che non vi trovano posto a partire dall'organizzazione tradizionale del lavoro. La questione del vagabondaggio, lo si vedrà, esprime e dissimula allo stesso tempo la rivendicazione fondamentale del libero accesso al lavoro, a partire dalla quale i rapporti di produzione vanno a ridefinirsi su una nuova base. Ma se la “questione sociale” si pone già prima della sua prima formulazione esplicita nel XIX secolo, non si pone ugualmente dopo che la problematica dominata dalle peripezie dell'inte10 Cfr. Jacques Donzelot, L'invention du social, cit.

grazione della classe operaia ha cessato di essere determinante? È vero che questa sequenza, che si colloca tra la prima metà del XIX secolo e gli anni Sessanta del XX, sta per dileguarsi. È vero anche che non ci sono più parole per rendere ragione dell'unità della molteplicità dei “problemi sociali” che vi si sono sostituiti – donde la moda della nozione di “esclusione”, la cui indifferenziazione viene a ricoprire una folla di situazioni sventurate senza rendere intelligibile la loro appartenenza a un genere comune: che cosa condividono, in effetti, un disoccupato di lunga durata ripiegato sulla sfera familiare, con moglie, appartamento e televisione11, e il giovane la cui “galera” 12 è fatta di erranze sempre ricominciate e di esplosioni di rabbia abortite? 13 essi non hanno né lo stesso passato, né lo stesso avvenire, né lo stesso vissuto, né gli stessi valori. Non possono nutrire un progetto comune e non sembrano suscettibili di superare lo smarrimento in forme di organizzazione collettiva. Ma quel che avvicina le situazioni di questo tipo è più l'unità di posizione in rapporto alle attuali ristrutturazioni economiche e sociali che una comunità di tratti dipendenti da una descrizione empirica. Più che esclusi sono lasciati indietro, come arenati sulla riva dopo che la corrente degli scambi produttivi si è ritirata. È come se riscoprissimo con angoscia una realtà che, abituati alla crescita economica, alla quasi piena occupazione, ai progressi dell'integrazione e alla generalizzazione delle protezioni sociali, credevamo scongiurata, cioè l'esistenza, di nuovo, di “inutili al 11 Cfr. Olivier Schwartz, Le monde privé dees ouvriers. Hommes et femmes du Nord, Paris, PUF, 1990. 12 Espressione gergale per indicare una situazione gravosa e/o precaria [N.d.R.]. 13 Cfr. François Dubet, La galère: jeunes en survie, Paris, Fayard, 1987.

mondo” di soggetti e gruppi divenuti surnumerari di fronte all'aggiornamento in corso delle competenze economiche e sociali. Un tale statuto è effettivamente del tutto differente rispetto a quello che occupavano anche i più svantaggiati nella versione precedente della questione sociale. Così, il manovale o l'operaio specializzato, l'OS delle ultime grandi lotte operaie, per quanto sfruttato, non per questo era meno indispensabile. Detto altrimenti, egli restava legato all'insieme degli scambi sociali. Faceva parte, benché ne occupasse l'ultimo rango, della società, intesa, secondo il modello durkheimiano, come un insieme di elementi interdipendenti. Il risultato era che la sua subordinazione poteva pensarsi nel quadro di una problematica dell'integrazione, cioè, nella sua versione “riformista”, in termini di riduzione delle ineguaglianze, di politica dei redditi, di promozione delle opportunità sociali e dei mezzi di partecipazione culturale, o, nella sua versione “rivoluzionaria”, in termini di rivolgimento completo della struttura sociale per assicurare a tutti una reale uguaglianza di condizione. Ma i surnumerari non sono sfruttati allo stesso modo, perché, per esserlo, bisogna possedere delle competenze convertibili in valori sociali. Essi sono elementi superfetatori. Non si vede bene neanche come potrebbero rappresentare una forza di pressione, un potenziale di lotta, se non sono innestati in alcun settore nevralgico della vita sociale. Essi inaugurano così, senza dubbio, una problematica teorica e pratica nuova. Se non sono più, nel senso proprio della parola, degli attori, perché non fanno nulla di socialmente utile, come possono esistere socialmente? Evidentemente nel senso in cui esistere socialmente vuol dire avere

effettivamente un posto nella società. Perché essi sono certo presenti; proprio questo è il problema, sono in sovrannumero. C'è in questo una profonda metamorfosi rispetto alla questione precedente che era quella di sapere come un attore sociale subordinato e dipendente potesse divenire un soggetto sociale a tutto tondo. Ora, la questione è piuttosto di rendere eufemistica questa presenza, renderla discreta al punto da farla svanire (questo è in pieno lo sforzo, lo si vedrà, delle politiche di inserimento, da pensare nello spazio di un riflusso delle politiche di integrazione). Nuova problematica, dunque, ma non altra problematizzazione. Non si può in effetti autonomizzare la situazione di queste popolazioni collocate ai margini, salvo interinare il taglio che si denuncia pretendendo di lottare contro l'eslcusione. Il percorso storico proposto mostrerà che quel che si cristallizza nella periferia della struttura sociale – sui vagabondi prima della rivoluzione industriale, sui “miserabili” dal XIX secolo, sugli “esclusi” oggi – si inscrive in una dinamica sociale globale. Vi è un dato fondamentale che si è imposto nel corso della ricerca, attraverso l'analisi che propongo della situazione dei vagabondi, e la sua lezione vale ancora oggi: la questione sociale si pone esplicitamente sui margini della vita sociale, ma essa “mette in questione” l'insieme della società. Si produce una sorta di effetto boomerang per il quale i problemi posti dalle popolazioni che si arenano ai bordi di una formazione sociale fanno ritorno verso il centro.

Pertanto,

che

si

sia

entrati

nella

società

“postindustriale”, ossia “postmoderna”, o come si vorrà chiamarla, non impedisce che il trattamento riservato a quanti sono out dipende sempre dalla condizione di quanti sono in. Sono sempre gli orientamenti assunti nei centri di decisione – in materia di

politica economica e sociale, di gestione delle imprese, di riconversioni industriali, di ricerca della competitività, ecc. – che si ripercuotono come un'onda di choc nelle differenti zone della vita sociale. Ma è vero anche il reciproco, cioè che i potenti e gli stabili non sono collocati in un Olimpo dal quale possono impavidamente contemplare la miseria del mondo. Integrati, vulnerabili e disaffiliati appartengono a uno stesso insieme, la cui unità è però problematica. Bisognerà interrogare quali sono le condizioni di costituzione e di mantenimento di questa unità problematica. Se la ridefinizione dell'efficienza economica e della competenza sociale si deve pagare con la messa fuori gioco del 10, 20, 30% o più della popolazione, si può ancora parlare di appartenenza a uno stesso insieme sociale? Qual è la soglia di tolleranza di una società democratica per quella che chiamerei, piuttosto che esclusione, invalidazione sociale? Tale è a mio parere la nuova questione sociale. Che cosa è possibile fare per rimettere nel gioco sociale queste popolazioni invalidate dalla congiuntura e per mettere fine a un'emorragia di disaffiliazione che rischia di lasciare esangue l'intero corpo sociale? La questione così posta è anche la questione dello Stato, del ruolo che lo Stato può essere chiamato a svolgere in questa congiuntura. Lo Stato sociale (perché evito di parlare di “Stato provvidenza”) si è costituito all'intersezione del mercato e del lavoro. È stato tanto più forte quanto più sono state forti le dinamiche che regolava: la crescita economica e la strutturazione della condizione salariale. Se l'economia riacquisisce autonomia e se la condizione salariale si sfalda, lo Stato sociale perde il suo potere integratore. Ma anche qui può trattarsi di una metamorfosi piuttosto che di una scomparsa. Se ci si prende la briga di ricostruire

le peripezie che ha attraversato, diviene chiaro che nessuna forma unica di Stato sociale è inscritta nel cielo delle idee. La congiuntura seguita alla Seconda guerra mondiale ha potuto fornire dell'articolazione dell'economico col sociale, elaborata allora, una versione molto soddisfacente perché era stata tentata di pensarsi come quasi definitiva. Tutti sanno che oggi non siamo più nell'era dei compromessi sociali permessi dalla crescita, ma ciò che cosa significa? Senza dubbio siamo posti di fronte a una biforcazione: accettare una società completamente sottomessa alle esigenze dell'economia o costruire una figura dello Stato sociale commisurata alle nuove sfide. Il consenso alla prima branca dell'alternativa non può essere escluso, ma rischierebbe di pagarsi con il crollo della società salariale, cioè di quella inedita composizione di lavoro e di protezioni che è costata tanta pena prima di imporsi. Émile Durkheim e i repubblicani della fine del XIX secolo hanno denominato “solidarietà” il legame problematico che assicura la complementarietà delle componenti di una società a dispetto della complessità crescente della sua organizzazione. È il fondamento del patto sociale. Durkheim lo riformulava in questi termini nel momento in cui lo sviluppo dell'industrializzazione minacciava le solidarietà più antiche che dovevano ancora molto alla riproduzione di un ordine fondato sulla tradizione e la consuetudine. All'alba del XX secolo, la solidarietà doveva divenire una presa in carico volontaria della società da parte di sé stessa, e lo Stato sociale farsene garante. All'alba del XXI secolo, quando le regolazioni messe in opera nel quadro della società industriale sono a loro volta profondamente scosse, è senza dubbio questo stesso contratto sociale che bisogna ridefinire in modo nuovo.

Patto di solidarietà, patto di lavoro, patto di cittadinanza: pensare le condizioni dell'inclusione di tutti perché tutti possano “avere commercio assieme”, come si diceva al tempo dei Lumi, cioè “fare società”.

NOTA SUL CORPORATIVISMO

La problematizzazione che sarà sviluppata nella prima parte riguarda, in linea di massima, una larga parte dell'Europa a Ovest dell'Elba: l'area geografica della “cristianità latina”, divenuta Europa “di tutti i risultati”, per riprendere alcune espressioni di Pierre Chaunu1, culla della doppia rivoluzione, industriale e politica, la cui eredità ha dominato la civilizzazione occidentale. Essa non contiene specificità nazionali irriducibili, ma, per almeno due ragioni, era impossibile prendere in considerazione questo insieme: per l'ampiezza dei materiali da vagliare e per l'incapacità di adeguarsi alle esigenze di un approccio seriamente comparativo su tale scala. È stata, perciò, privilegiata l'analisi della situazione francese. Non si tratta, però, di una ricerca puramente esagonale. Da una parte, perché sono state sottolineate corrispondenze con altre situazioni (paradossalmente, in apparenza, esse sono più visibili quando si risale indietro nel tempo, prima del consolidamento degli Stati-nazione: la metà del XIV secolo e l'inizio del XVI secolo, per esempio, rivelano delle stupefacenti analogie quanto alle strutture dell'assistenza e alle 1 Cfr. Pierre Chaunu, Histoire, science sociale. La durée, l'espace et l'homme à l'époque moderne, Paris, SEES, 1974; trad. it. La durata, lo spazio e l'uomo nell'epoca moderna. La storia come scienza sociale, Napoli, Liguori, 1983.

forme di organizzazione del lavoro in tutto lo spazio europeo), dall'altra, poiché mi sono costantemente riferito alle corrispondenti trasformazioni della società britannica e ne ho frequentemente tenuto conto (questa messa in parallelo non tende al rigore di una vera e propria analisi comparativa, mira solamente a suggerire un gioco tra le somiglianze e le differenze per aiutare a cogliere delle costanti)2. Infine, e soprattutto, un'analisi di questo tipo suppone, quanto alla propria stessa possibilità, che esistano effettivamente delle costanti nel tempo e nello spazio, a dispetto o grazie alle diversità culturali e storiche. “Costanti” non significa perennità delle medesime strutture, ma delle omologie nelle configurazioni delle situazioni e nei processi delle loro trasformazioni. Dunque si tratta, a questo punto, di una mera petizione di principio, che deve ora confrontarsi col compito di organizzare la diversità storica. Schematicamente, si potrebbe dire che la mia analisi è in larga parte “europea”, fino al Rinascimento compreso. In seguito, essa fa frequentemente riferimento alla situazione inglese, fino alla fine del XVIII secolo. Oltre era impossibile farsi carico del problema della diversità degli Stati sociali e della specificità della situazione attuale nei differenti paesi dell'Europa occidentale (d'altronde, ci sarebbe stato bisogno di includere nell'analisi la situazione degli Stati Uniti). Per riassumere in un solo messaggio la posizione soggiacente alla mia proposta, che potrebbe richiamarsi a Karl Polanyi3, direi che gli Stati sociali dei paesi oc2 Come mostra Eric J. Hobsbawm (L'ère des révolutions, Paris, Fayard, 1970; trad. it. Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Milano, Rizzoli, 1999), la messa in parallelo della situazione in Francia e in Inghilterra è particolarmente suggestiva, essendo stata l'una l'epicentro della rivoluzione politica e l'altra della rivoluzione industriale. 3 Cfr. Karl Polanyi, La Grande Transformation. Aux origines économi-

cidentali hanno risposto a una sfida comune, quella dell'industrializzazione e dei fattori di dissociazione sociale che essa comportava, ma l'hanno fatto evidentemente a dei ritmi differenti, mobilitando le proprie tradizioni nazionali e tenuto conto delle differenti forze sociali presenti in ciascun contesto. A ogni modo, il dibattito resta su questo piano piuttosto metafisico, mentre rientrerebbe nell'ambito di analisi comparatistiche precise dei differenti contesti nazionali, che restano largamente da promuovere4.

ques et politiques de notre temps, Paris, Gallimard, 1983; trad. it. La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 2000. 4 Questo dibattito è attualmente condotto soprattutto a partire dalle posizioni dette “neo-istituzionaliste” (State-central approach), che mettono l'accento sull'eterogeneità delle situazioni nazionali e sul ruolo specifico degli Stati e degli agenti dello Stato; cfr. Peter B. Evans, Dietrich Rueschemeyer, Theda Skocpol, Bringing the State back in, Cambridge, Cambridge University Press, 1985. Una presentazione delle differenti posizioni si trova in François-Xavier Merrien, État et politiques sociales: contribution à une théorie “néo-institutionnaliste”, in “Sociologie du travail”, n. 3, 1990, pp. 267-294. Per una comparazione dei fattori che presiedono alla nascita e allo sviluppo degli Stati sociali, cfr. Peter Flora, Arnold J. Heidenheimer (eds.), The Development of Welfare States in Europe and America, New Brunswick, Transaction Books, 1981; trad. it. Lo sviluppo del Welfare state in Europa e in America, Bologna, il Mulino, 1986.

PRIMA PARTE

DALLA TUTELA AL CONTRATTO

La “questione sociale” può essere caratterizzata come un'inquietudine rispetto alla capacità di mantenere la coesione di una società. La minaccia di rottura è generata da gruppi la cui esistenza mina la coesione dell'insieme. Ma quali sono questi gruppi? Qui il problema si complica per l'incertezza che ammanta il termine “sociale”, le cui differenti accezioni si espliciteranno progressivamente. Intanto bisogna ripartire da una distinzione di massima, a costo di sfumarla in seguito. Le popolazioni che dipendono dagli interventi sociali differiscono fondamentalmente secondo che siano o meno capaci di lavorare, e sono trattate in maniera del tutto differente in funzione di tale criterio. Un primo profilo di tali popolazioni rinvia a quella che si potrebbe chiamare una “handicappologia”, nel senso ampio del termine: vecchi indigenti, bambini senza genitori, storpi di ogni sorta, ciechi, paralitici, scrofolosi, idioti – l'insieme è eteroclito come un quadro di Jeronimus Bosch, ma tutti questi tipi hanno in comune di non provvedere da sé ai propri bisogni di base, perché non possono lavorare per farlo. Per questo sono tutti sdoganati dall'obbligo del lavoro. Può porsi – e si pone in ogni istante – il problema di sapere dove passi esattamente la linea di partizione

tra capacità e incapacità di lavorare. Questo vecchio, per quanto decrepito, non potrebbe comunque arrangiarsi per sopravvivere coi propri mezzi? Gli sventurati saranno sempre sospettati di voler vivere alle spalle dei garantiti. Nondimeno, esiste un nucleo di situazioni di dipendenza riconosciute, costituito attorno all'incapacità di entrare nell'ordine del lavoro a causa di deficienze fisiche o psichiche manifeste, dovute all'età (bambini e anziani), all'infermità, alla malattia, e che possono anche estendersi a talune situazioni familiari o sociali disastrose, come quella della “vedova con figli a carico”, per riprendere un'espressione incontrata di frequente nei regolamenti dell'assistenza. Handicappologia è dunque da intendersi in senso metaforico: la categoria è eterogenea almeno quanto lo sono le condizioni che conducono a queste situazioni; di contro, il criterio è di grande coerenza rispetto al rapporto col lavoro che lo qualifica. Queste popolazioni esonerate dall'obbligo di lavorare sono i potenziali clienti del socio-assistenziale. Una tale presa in carico può porre difficili problemi finanziari, istituzionali e tecnici, ma non pone problemi di principio. L'indigente può essere soccorso a condizione che riesca a far riconoscere l'incapacità al lavoro, anche se, di fatto, il trattamento si rivela spesso insufficiente, inadeguato, condiscendente e perfino umiliante. Ma se l'esistenza di questo tipo di popolazioni è sempre fonte di imbarazzo, essa non mette mai fondamentalmente in discussione l'organizzazione sociale. Se ne terrà conto principalmente (cfr. cap. I) per dissociare la sua sorte da quella di un altro profilo di indigenti, che pone la “questione sociale” in forma acuta. La distinzione tra una problematica dei soccorsi e una problematica del lavoro rappresenta uno dei punti su cui il mio “racconto” si discosta leggermente da

quello della maggior parte degli storici dell'assistenza, ma spero di mostrare che non è contraddittorio rispetto a essi. Completamente differente dalla condizione degli assistiti è in effetti la situazione di quanti, capaci di lavorare, non lavorano. Essi appaiono dapprima sotto la figura dell'indigente valido. Quest'ultimo, privo di risorse e, perciò stesso, anch'esso dipendente da un soccorso, non può tuttavia beneficiare in modo diretto dei dispositivi concernenti quanti sono esonerati dall'obbligo della propria autosufficienza. In difetto rispetto all'imperativo del lavoro, il più delle volte è anche respinto al di fuori della zona dell'assistenza, così da essere collocato, e a lungo, in una situazione contraddittoria. Se per di più è uno straniero, un “foresto” senza legami, non può beneficiare delle reti di protezione di prossimità che assicurano, bene o male, agli autoctoni una presa in carico minima dei loro bisogni elementari. La sua situazione sarà allora letteralmente invivibile: è la situazione del vagabondo, il disaffiliato per eccellenza. Era possibile analizzare, e questa è stata la mia prima intenzione, il nucleo essenziale delle questioni poste da un tale rapporto aporetico con il lavoro, nella società preindustriale 1, a partire dal trattamento riservato a questa frangia, la più stigmatiz1 Si definirà qui “società preindustriale” il periodo storico che, nell'Occidente cristiano, va dalla metà del XIV secolo fino alle profonde trasformazioni intervenute alla fine del XVIII. La sua relativa unità sarà principalmente compresa dal punto di vista delle forme d'organizzazione del lavoro che vi si dispiegano prima della rivoluzione industriale. Non che questa sequenza di più di quattro secoli non conosca delle trasformazioni economiche e sociali importanti, ma queste si scontrano con dei sistemi di obblighi che conservano una grande stabilità. È proprio la tensione tra gli obblighi di una “società incatastata” – società di ordini e status – e i fattori di cambiamento che servirà da filo conduttore alle analisi dei primi quattro capitoli.

zata. Perché è così che il problema viene posto, allora, nella forma più manifesta, e gli sforzi accaniti dispiegati per sradicare il vagabondaggio mostrano bene l'importanza decisiva di questa questione nel corso di più secoli. Tuttavia, la questione si complica se si restituisce la realtà sociologica che è ricoperta dall'etichetta di “vagabondo”. Quest'ultima, il più delle volte, condanna l'erranza di un lavoratore precario in cerca di una occupazione che si ritrae. Questo tipo di personaggio mostra uno strappo irreparabile nella forma dominante dell'organizzazione del lavoro. È l'incapacità di una tale organizzazione a fare posto alla mobilità che alimenta e drammatizza la questione del vagabondaggio, che non è altro che la forma parossistica del conflitto che attraversa larghi settori dell'organizzazione sociale. In effetti, è la questione del salariato che viene così posta, vale a dire la crescente necessità di ricorrere alla salarizzazione e, al contempo, l'impossibilità di regolare una condizione salariale a causa della persistenza delle tutele tradizionali che costringono il lavoro in reti rigide di obblighi sociali, e per nulla economici. Dalle tutele al contratto: è lungo il cammino che, alla fine del XVIII secolo, porta alla soglia della modernità liberale. Se si decide di percorrerlo, bisogna penetrare le forme complesse dell'organizzazione del lavoro della società preindustriale, lavoro regolare, lavoro forzato, sviluppo di nuclei, abbozzati e frammentari, ma sempre circoscritti e contenuti, di salariato “libero”. Appare allora come la condizione della maggioranza di quanti vivono del lavoro delle loro braccia non sia caratterizzata da una vulnerabi-

lità di massa, generata dal fatto che il lavoro non può essere regolato sul modello del mercato. Mi sono alla fine deciso a seguire questi lunghi tragitti. Era necessario per ricostruire il lento emergere di una nuova formulazione della questione sociale: la questione del libero accesso al lavoro, che si impone nel XVIII secolo e ha un impatto allora propriamente rivoluzionario. L'istituzione del libero accesso al lavoro è una rivoluzione giuridica senza dubbio importante quanto la rivoluzione industriale, della quale è d'altronde la contropartita. Essa riveste in effetti un'importanza fondamentale in rapporto a tutto quanto la precede. Cancella le forme secolari di organizzazione dei mestieri e fa del lavoro forzato una barbara sopravvivenza. La promozione del libero accesso al lavoro chiude così un lungo ciclo di trasformazioni conflittuali, mettendo fine ai blocchi che hanno ostacolato l'avvento di una condizione salariale. Ma questa rivoluzione è decisiva anche in rapporto a quel che segue, dal momento che rilancia la questione sociale su basi completamente nuove, all'inizio del XIX secolo. Sotto il regno delle tutele, il salariato soffocava mentre sotto il regime del contratto fiorisce, anche se la condizione operaia, paradossalmente, diviene fragile nello stesso momento in cui si libera. Si scopre allora che la libertà senza protezione può condurre alla peggiore delle schiavitù, quella del bisogno. Il percorso che sarà ricostruito in questa prima parte può così riassumersi. All'inizio vi erano le tutele e i vincoli che lo Stato assolutista e l'organizzazione tradizionale dei mestieri congiuravano di mantenere. Alla fine – alla fine del XVIII secolo – arrivano i contratti e la libertà d'impresa, che il principio della governamentalità liberale, forgiato dall'Illuminismo, impone di fat-

to attraverso la rivoluzione politica. La concatenazione di questi episodi servirà quindi da base per comprendere le peripezie della parte successiva. Il compito di una politica sociale, a partire dal XIX secolo, sarà infatti quello di puntellare la troppo fragile struttura del libero contratto di lavoro. La libertà che favoriva le imprese era troppo forte, troppo selvaggia, per coloro che non potevano che subirla. La libertà e l'individualismo trionfanti implicano un lato d'ombra, l'individualità negativa di quanti si ritrovano senza legami e senza supporti, privati di ogni protezione e di ogni riconoscimento. Lo Stato sociale si è costruito come una risposta a questa situazione. Ha creduto di poterne scongiurare i rischi tessendo attorno al rapporto di lavoro dei solidi sistemi di garanzie. Di conseguenza, seguire queste concatenazioni, o piuttosto queste rotture e queste ricomposizioni, ben rappresenta la strada, se non la più breve, almeno la più rigorosa, per approdare alla problematica contemporanea, nella misura in cui quest'ultima dipende dal fatto che le regolazioni tessute intorno al lavoro perdono il loro potere di integrazione. Dalla società preindustriale alla società postindustriale si opera così un totale rivolgimento. La vulnerabilità nasceva dall'eccesso di vincoli, mentre ora sembra scaturire dall'indebolimento delle protezioni. È l'insieme delle condizioni di questo rivolgimento che bisognerà spiegare, poiché queste circoscrivono i termini della questione sociale nel quadro di una medesima problematizzazione, che comincia a prendere forma alla metà del XVI secolo.

I. LA PROTEZIONE RAVVICINATA

Dei due versanti della questione sociale di cui si seguiranno le trasformazioni, il socio-assistenziale è quello con una storia meno specifica. Esso si organizza intorno a caratteristiche formali di cui si trovano, senza dubbio, equivalenti in tutte le società storiche. “Assistere” ricopre un insieme straordinariamente diversificato di pratiche, che si inscrivono tuttavia in una struttura comune, determinata dall'esistenza di talune categorie di popolazione deprivate e dalla necessità di prenderle in carico. Occorre dunque, in primo luogo, tentare di ricostruire le caratteristiche che costituiscono la logica dell'assistenza. Eppure, non ci si può attenere a un organigramma puramente formale: la costellazione dell'assistenza evidentemente ha assunto forme particolari in ciascuna formazione sociale. Quella che ha rivestito nell'Occidente cristiano deve attirare l'attenzione in modo particolare, per due ragioni. In primo luogo, perché fa ancora parte della nostra eredità: le poste in gioco contemporanee dell'assistenza sono ancora costituite attorno a delle linee di forza di cui si coglie il senso solo in rapporto alle situazioni storiche in cui si sono strutturate dopo il Medioevo. La seconda ragio-

ne riguarda il fatto che questa configurazione assistenziale ha interferito e continua a interferire (allo stesso tempo per prenderlo parzialmente in carico e per occultarlo) con l'altro grande pezzo della questione sociale, che emerge principalmente dalla problematica del lavoro, e il cui emergere è più tardivo (metà del XIV secolo). Per comprendere l'originalità di questo avvenimento (cfr. cap. II), è necessario studiarlo sullo sfondo di una configurazione assistenziale già costituita, a quella data, nelle sue grandi linee.

1. La sociabilità primaria Il socio-assistenziale può essere formalmente caratterizzato in opposizione ai modi di organizzazione collettiva che risparmiano tale tipo di risorsa, perché esistono delle società senza sociale. Sociale, in effetti, non deve essere qui inteso come l'insieme delle relazioni che caratterizzano l'umanità in quanto specie, la cui proprietà è di vivere in società. Certo, “l'uomo è un animale sociale”, ma anche l'ape. Perché non sia ostruita da una pura questione terminologica, converrà definire “societale” questa qualificazione generale dei rapporti umani, in quanto relativa a tutte le forme di esistenza collettiva. Il “sociale”, di contro, è una configurazione specifica di pratiche che non si ritrovano in tutte le collettività umane. Si chiarirà, dapprima, a quali condizioni emerga. Una società senza sociale sarebbe interamente retta dalle regolazioni della sociabilità primaria1. Intendo con queste i sistemi 1 Prendo in prestito questa espressione da Alain Caillé, Socialité primai-

di regole che connettono direttamente i membri di un gruppo, sulla base della loro appartenenza familiare, di vicinato, di lavoro, e che tessono reti d'interdipendenze senza la mediazione di istituzioni specifiche. Si tratta, in un primo tempo, di società stanziali, in seno alle quali l'individuo, inglobato fin dalla nascita in una stretta rete di vincoli, riproduce essenzialmente i dettami della tradizione e del costume. In tali formazioni non si ha più “sociale” che “economico”, “politico” o “scientifico”, nel senso in cui queste locuzioni sarebbero qualificative di domini identificabili di pratiche. Regole ancestrali si impongono agli individui in modo sintetico e direttamente normativo. Forme stabili di relazioni accompagnano l'adempimento dei principali ruoli sociali nella famiglia, nel vicinato, nel gruppo dei pari di età e di sesso, nel rango occupato nella divisione del lavoro, e permettono la trasmissione degli apprendimenti e la riproduzione dell'esistenza sociale. Tale modello – qui molto semplificato – di formazioni sociali che si riprodurrebbero identiche, imponendo una rigida programmazione alle prestazioni degli individui, si applica generalmente alle società dette senza storia. Difatti, per le società di cui si è occupata l'etnologia ai suoi inizi, il cambiamento è percepito come se venisse dal di fuori, attraverso la conquista o la colonizzaziore et société secondaire, in Id., Splendeurs et misères des sciences sociales, Gèneve, Droz, 1986, pp. 363-375. Caillé oppone la socialità o la sociabilità primaria alla socialità “secondaria”, che è una socialità costruita a partire dalla partecipazione a dei gruppi supponendo una specializzazione delle attività e delle mediazioni istituzionali. Ben inteso, si tratta di un'opposizione formale e astratta, ma che si può utilizzare in situazioni specifiche. Io la utilizzo qui come un modello per caratterizzare l'emergere, a partire da una mancanza nella presa in carico non specializzata, o “primaria”, di una presa in carico specializzata.

ne, e le fa implodere imponendo un modello di trasformazione che esse non possono integrare a partire dalle loro proprie dinamiche. Ma si possono ritrovare strutture di questo tipo in tutte le aree culturali, ivi compresa quella dell'Occidente cristiano. Esse corrispondono a quelle che l'antropologia storica ha chiamato le “società contadine”. Anzi, fino a un'epoca molto vicina, alcune comunità rurali vivevano in quasi-autarchia, non solamente economica ma anche relazionale, come enclaves in seno a degli insiemi travolti dal movimento della modernità2. Di più: nell'Occidente cristiano questa struttura chiusa è stata l'organizzazione dominante dell'epoca feudale, segnata dalla sacralizzazione del passato, dalla prevalenza del lignaggio e dei legami di sangue, dall'attaccamento a relazioni permanenti di dipendenza e interdipendenza radicate all'interno di comunità territoriali ristrette. Per il modo di sociabilità che orchestra, la società feudale coniuga anche due vettori principali d'interdipendenza che cospirano contro la propria stabilità: i rapporti orizzontali in seno alla comunità rurale e i rapporti verticali della soggezione signorile. La sua unità di base è in effetti la comunità di abitanti ancestralmente composta di famiglie di lignaggio, unite per far fronte alle esigenze militari ed economiche della signoria che la domina 3. Cia2 Cfr. William Isaac Thomas, Florian Znaniecki, The Polish Peasant in Europe and America. Monograph of an Immigrant Group, Boston, Richard G. Badger – The Gorham Press, 5 voll., 1918-1920; trad. it. Il contadino polacco in Europa e in America, introduzione di Luciano Gallino, Milano, Edizioni di Comunità, 1968, 2 voll. Per una concettualizzazione generale, cfr. Teodor Shanin, The natur and logic of the peasant economy I. A Generalisation, in “The Journal of Peasant Studies”, n. 1, 1973, pp. 63-80; Id., The nature and logic of the peasant economy II. Diversity and change; III. Policy and intervention, in “The Journal of Peasant Studies”, n. 1, 1974, pp. 186-206. 3 Cfr. Jean-Pierre Gutton, La sociabilité villageoise dans l'ancienne France. Solidarité et voisonages du XVIe au XVIIIe siècle, Paris, Hachette,

scun individuo si trova così preso in una rete complessa di scambi ineguali che lo sottomettono a degli obblighi e gli procurano delle protezioni in funzione di questo organigramma a doppia entrata: la dipendenza in rapporto al signore ecclesiastico o laico, l'iscrizione nel sistema delle solidarietà e dei vincoli del lignaggio e del vicinato. Come ha detto in maniera felice uno storico della vecchia scuola, la cui prolissità è spesso più approssimativa: “Nessuna epoca si è sforzata maggiormente di combinare tra gli individui dei rapporti immutabili; nessuna è stata in seguito più imbrigliata

dalla

sua

opera,

e

ha

sofferto

di

più

per

annientarla”4. Ma anche nelle società più regolate dalle interdipendenze tradizionali, possono prodursi degli strappi nei processi d'integrazione primaria. Per esempio, la situazione di orfano rompe il tessuto della presa in carico familiare, l'infermità o l'infortunio possono rendere l'individuo provvisoriamente o definitivamente incapace di mantenere il proprio posto nel sistema regolato di scambi che assicura l'equilibrio del gruppo d'appartenenza, o, ancora, l'indigenza completa può porlo in situazione di dipendenza senza interdipendenza. La disaffiliazione, come io la intendo, è, in un primo senso, una rottura di questo tipo in rapporto a tali reti d'integrazione primaria; un primo scollamento rispetto alle regolazioni date a partire dall'incastro nella famiglia, nel lignag1979. Robert Fossier parla di “encellulement” per descrivere, nel Medioevo, il processo di cristallizzazione dell'abitato rurale in comunità di abitanti a dominante autarchica (cfr. Id., Histoire sociale de l'Occident médiéval, Paris, Colin, 1970). 4 Georges d'Avenel, Paysans et ouvriers depuis Sept cents ans, Paris, Colin, 1907, p. 9. Chiaramente questa forma di organizzazione sociale può ritrovarsi in altre aree culturali e in altre epoche storiche, come nel caso del “medioevo giapponese”.

gio, nel sistema di interdipendenze fondate sull'appartenenza comunitaria. Vi è rischio di disaffiliazione quando l'insieme delle relazioni di prossimità che intrattiene un individuo sulla base della propria inscrizione territoriale, che è anche la propria inscrizione familiare e sociale, si trova in difetto nel riprodurre la sua esistenza e nell'assicurare la sua protezione. Tuttavia, le comunità molto strutturate possono, a determinate condizioni, sopperire a queste mancanze della sociabilità primaria mobilitando le potenzialità di questa stessa sociabilità. Esse riaffiliano gli individui destabilizzati sollecitando le risorse economiche e relazionali dell'ambiente familiare e/o locale, così l'orfano sarà preso in carico dalla famiglia allargata, l'invalido o l'indigente troveranno un minimo di solidarietà “naturali” nella comunità di villaggio. Ecco perché si è potuto parlare, almeno metaforicamente, di “famiglia-provvidenza”5. Al di là della famiglia, la comunità territoriale può, anche in assenza di istituzioni specializzate, assicurare certe regolazioni collettive, come è avvenuto nel Medioevo per l'utilizzo dei beni comuni, la ripartizione delle corvées e di certe servitù feudali6. Essa può anche vigilare affinché i membri più deprivati della comunità beneficino di una presa in carico minima, nella misura in cui il loro abbandono totale intaccherebbe la coesione del gruppo. Tali comunità tendono così a funzionare come dei sistemi autoregolati o omeostatici, che ricompongono il loro equilibrio mobilitando le proprie risorse. Si opera una riaffiliazione senza mutare il quadro di riferimento. L'integrazione minacciata si ricosti5 Cfr. Alain Lipietz, L'audace ou l'enlisement. Sur les politiques économiques de la gauche, Paris, La Découverte, 1984. 6 Cfr. Robert Fossier, Historie sociale de l'Occident médiéval, cit., in particolare il V capitolo.

tuisce su base territoriale e nel quadro delle interdipendenze date dalla stessa inscrizione. Nel momento in cui avviene uno strappo nel sistema delle protezioni ravvicinate, la sociabilità primaria è tesa più che lacerata e la riuscita delle operazioni di ricucitura dipende dalla sua elasticità, che non è infinita. Possono prodursi delle dismissioni, degli abbandoni, dei rifiuti. Le reti primarie di solidarietà possono essere squilibrate da tali sovraccarichi e rompersi. Queste prese in carico, a causa del sovrasfruttamento, possono anche essere pagate a caro prezzo, con piccole persecuzioni o con un pesante disprezzo. La vita dell'idiota del villaggio, per esempio, tollerato e in parte supportato dalla sua comunità, non è poi così paradisiaca7. Io qui non propongo dunque una visione idilliaca dei meriti di una società civile in versione primitiva, ma piuttosto una ricostruzione di ciò a cui sono condannate, nel migliore o nel peggiore dei casi, le società senza istanze di presa in carico specializzate, allorché devono affrontare un mutamento che turba le loro regolazioni tradizionali: o si opera la ripresa da parte delle reti comunitarie “date” (e questo presenta sempre un costo), o non c'è nulla, eccetto le differenti forme di abbandono e di morte sociale. Si potrebbero qui moltiplicare le testimonianze di etnologi sul carattere perturbatore della presenza, in queste società, di individui in situazione di isolamento sociale8. Questa struttura sociale 7 Marc Augé parla di “totalitarismo di lignaggio” per designare le situazioni di dipendenza quasi assoluta in rapporto al lignaggio, alla tradizione e al costume nelle società “senza storia” (Pouvoirs de vie, pouvoirs de mort. Introduction à une anthropologie de la répression, Paris, Flammarion, p. 81; trad. it. Poteri di vita, poteri di morte. Introduzione a un'antropologia della repressione, Milano, Raffaello Cortina, 2003). 8 Cfr., per esempio, la catastrofe che rappresenta in questo tipo di società, secondo Claude Lévi-Strauss, l'esistenza del celibe: per il fatto che non prende il proprio posto nella rete di scambi regolati dalle strutture della

conosce già il profilo di individui che si qualificheranno come surnumerari, ma non può disporre per loro alcun trattamento. Questo schema si applica, in una certa misura e con riserva di determinate precauzioni, alla società feudale quale è esistita in Occidente prima dell'anno Mille. Georges Duby ha potuto scrivere a tale proposito: “Tutti i documenti dell'epoca (politici, censuari, consuetudinari) descrivono una società contadina gerarchizzata certo, e fortemente, ma una società inquadrata, assicurata, garantita. Ne risulta un sentimento di sicurezza economica”9. Eppure, si tratta certo di comunità contadine miserabili, perpetuamente esposte alla guerra e periodicamente in preda a terribili carestie, ma, un po' come per le razzie o per gli sbarchi dei colonizzatori nelle società “esotiche”, si tratta di irruzioni incontrollabili venute d'altrove, cataclismi meteorologici o devastazioni della conquista e della guerra, che possono scuotere l'insieme della comunità e al limite annientarla. Tuttavia, Duby si spinge a parlare di società “assicurate” o di società “garantite”: attraverso la loro organizzazione interna, esse possono in larga misura parentela, esso si trova in sovrannumero ed è rifiutato dal gruppo (cfr. Id., La famille, in Claude Lévi-Strauss. Textes de et sur Claude LéviStrauss réunis par Raymond Billour et Catherine Clément, Paris, Gallimard, 1979, p. 105). Allo stesso modo, William Isaac Thomas e Florian Znaniecki sottolineano che “l'insieme del sistema delle attitudini familiari implica assolutamente la necessità del matrimonio per tutti i membri della giovane generazione […]. Qualcuno che, dopo un certo tempo, non è sposato provoca nell'ambiente familiare una reazione di sorpresa ostile. È come se questa persona avesse fermato il corso delle cose, ed è così messa fuori dai giochi e lasciata sola” (The Polish Peasant in Europe and America, cit., p. 104). Il “sistema delle attitudini familiari” traduce i vincoli della sociabilità primaria. 9 Georges Duby, Les pauvres des campagnes dans l'Occident médiéval jusqu'an XIIIe siècle, in “Revue d'histoire de l'Église en France”, n. 149, 1966, p. 25.

scongiurare i rischi endogeni, come il fatto che un individuo o un sotto-gruppo sia completamente lasciato per proprio conto e si collochi in una situazione di disaffiliazione permanente, tanto più che solidarietà/dipendenze verticali si aggiungono alle interdipendenze orizzontali, o vi suppliscono. Dice ancora Georges Duby: “Durante tutto l'alto Medioevo, nessun grande precludeva i suoi granai ai miseri, e questa generosità necessaria provocava certamente, allora, nella società rurale, redistribuzioni di beni di considerevole ampiezza”10. “Generosità necessaria”: la presa in carico dei deprivati non è un'opzione lasciata all'iniziativa personale, ma l'effetto obbligato del posto occupato in un sistema d'interdipendenze. Verso l'VIII secolo, quando comincia a imporsi la società fondata sui legami di vassallaggio, non è raro che uomini liberi (proprietari di allodio) insistano per rendersi volontariamente “gli uomini” di un padrone; l'indipendenza li minaccia nella loro esistenza, perché li priva di protezioni: Colui che si raccomanda all'altrui potere. Al magnifico Signore “tale”, io “tale”. Atteso che è a tutti noto che non ho di che nutrirmi e vestirmi, ho chiesto alla vostra pietà – e la vostra bontà me l'ha accordato – di potermi liberare o raccomandarmi alla vostra mambour. Quel che ho fatto alle seguenti condizioni. Voi dovete aiutami e sostenermi, per il nutrimento quanto per il vestimento, nella misura in cui potrò servirvi e ben meritare da voi. Per tutto il tempo che vivrò, vi dovrò il servizio e l'obbedien10 Id., Guerriers et paysans. VII-XIIe siècle. Premier essor de l'économie européenne, Paris, Gallimard, 1978, p. 261; trad. it. Le origini dell'economia europea. Guerrieri e contadini nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 2004.

za che ci si può attendere da un uomo libero, e non avrò il potere di sottrarmi alla vostra potenza, o mambour, ma dovrò al contrario restare tutti i giorni della mia vita sotto vostre potenza e protezione11.

Si tratta di una formula-tipo stabilita per servire da modello agli scribi incaricati di raccogliere queste domande, il che dimostra che dovevano essere relativamente frequenti. In assenza di un'amministrazione strutturata e di servizi specializzati, il consolidamento della relazione personale nel giuramento di alleanza vassallica rappresenta un primo tipo di copertura efficace contro i rischi sociali. Soggezione della persona tramite l'iscrizione in un territorio: non si pretende che questa relazione di dipendenza sia stata assolutamente egemonica (per esempio, sono sempre esistiti dei proprietari di allodio), ma che essa rappresenti, benché variabile nelle sue modalità di espressione, il rapporto sociale dominante che si è dispiegato con la “feudalità”12. Così, l'unione tra il fatto di essere posto sotto il patronato di un potente (è il senso di “mambour”, trascrizione del vecchio diritto germanico) e di essere iscritto nelle reti familiari o di lignaggio e di vicinato della comunità di abitanti assicurava una protezione di massima contro le alee dell'esistenza. Tali comuni11 Cit. in Robert Boutruche, Seigneurie et féodalité, le premier âge des liens d'homme à hommes, Paris, Aubier, 1968, p. 166; trad. it. Signoria e feudalesimo. Ordinamento curtense e clientele vassallatiche, Bologna, il Mulino, 1971. 12 Per una discussione della nozione di feudalità, il cui senso si è complicato dopo il classico La société féodale di Marc Bloch (Paris, Albin Michel, 2 voll., 1939-1940; trad. it. La società feudale, Torino, Einaudi, 1999), cfr., per esempio, Guy Bois, La crise du féodalisme. Économie rurale et démographie en Normandie orientale, du début du XIV e siècle au milieu du XVIe siècle, Paris, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, 1981.

tà sono a un tempo globalmente vulnerabili rispetto alle aggressioni esterne (crisi di sussistenza e devastazioni della guerra) e fortemente integrate attraverso strette reti d'interdipendenza. La precarietà dell'esistenza fa parte della condizione di tutti e non rompe l'appartenenza comunitaria. Tali società difficilmente accolgono la novità e la mobilità, ma sono efficaci contro la disaffiliazione. Una tale stabilità permette di comprendere come la povertà, in queste società, possa essere immensa e generale senza porre una “questione sociale”. Constatazione che fa anche Michel Mollat per l'alto Medioevo: “Malgrado il loro numero elevato, i rustici non esercitavano alcun peso apprezzabile sul corso quotidiano della vita sociale”13, non solo perché, si direbbe in un linguaggio senza dubbio anacronistico, essi erano “rassegnati” al loro destino, ma soprattutto perché – tranne che nel momento delle rivolte, ma queste hanno avuto, a quanto pare, una certa ampiezza solamente a partire dall'XI secolo, cioè da quando questa struttura comincia a essere intaccata dai primi effetti della crescita demografica14 – i più deprivati non rappresentavano un fattore di destabilizzazione interna a questa formazione sociale, che controlla i rischi di disaffiliazione di massa grazie alla rigidità della propria struttura. Certo, erranti e isolati esistono già. Rappresentano anche prima dell'anno Mille una costante del paesaggio sociale, ma 13 Michel Mollat du Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge. Étude sociale, Paris, Hachette, 1978, p. 354; trad. it. I poveri nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1982. 14 Cfr. George Duby, Le Moyen Âge. De Hugues Capet à Jeanne d'Arc. 987-1460, Paris, Hachette, 1987, in particolare il capitolo IV; trad. it. Il Medioevo. Da Ugo Capeto a Giovanna d'Arco, Roma-Bari, Laterza, 1993.

sono al di fuori della comunità e delle zone di vita “domestiche” (organizzate come delle domus, delle case). Un mondo in cui l'uomo è raro e luoghi di abitazione sparsi lasciano larghi spazi all'erranza. È l'universo della foresta e delle lande che è frequentato dall'eremita, dal cavaliere errante, dai carbonai, dai briganti e anche da forze magiche e malefiche; ma questi sono fuori dei limiti e, a parlare in modo appropriato, esclusi dal mondo organizzato15. La rappresentazione del vagabondo sarà sovradeterminata dalla reminiscenza di queste figure inquietanti. Tuttavia, il vagabondo, lo si vedrà, rappresenta un altro tipo di straniero. Egli è divenuto altro, disaffiliato in rapporto a un ordine sociale al quale è, in precedenza, appartenuto. In senso stretto, la figura del vagabondo non può apparire che in un mondo strutturato da cui si è sganciato. Al contrario lo straniero, il randagio, simbolizzano l'alterità totale in rapporto a un tipo di organizzazione comunitaria che autogestisce ancora le proprie turbolenze. La società feudale conosce anche molti tipi d'avventurieri dalle traiettorie aleatorie, come quei “giovani”, cadetti di famiglie senza terra e disponibili a ogni sorta d'impresa, di cui Georges Duby ha sottolineato l'importanza quali fattori di mobilità in seno alle strutture feudali. Anche religiosi e studenti possono trovarsi in posizione, provvisoria o definitiva, di erranza geografica e sociale, ma il vagabondo appartiene alla massa dei “poveri” che non possono vivere che del lavoro delle proprie braccia. Anche il suo destino sarà specifico: egli è sottomesso al doppio obbligo di dover lavorare e di non poterlo fare16. 15 Cfr. ivi, p. 18. 16 Per approfondire la differenza tra la disaffiliazione di alto rango in questo tipo di società e la figura posteriore e “popolare” del vagabondo, cfr. il capitolo II e il mio Le roman de la désaffiliation, à propos de Tri-

Questo modello di “società senza sociale” ha conosciuto molte varianti storiche. Ha attirato di più la nostra attenzione l'interdipendenza gerarchizzata della società feudale perché è dalla sua decomposizione, o piuttosto, come si cercherà di mostrare più precisamente, dalla sua “deconversione”, che è sorta la moderna problematizzazione del sociale. Ma il riferimento generale a società che economizzano il sociale permette, a contrario, di caratterizzare un primo tipo di interventi speciali costitutivi del socioassistenziale. Sia che i legami della società primaria si allentino, sia che la struttura della società si complichi al punto da rendere impossibile questo tipo di risposta globale e poco differenziata 17, la presa in carico dei deprivati diviene oggetto di pratiche specializzate. Così, l'ospedale, l'orfanotrofio, la distribuzione organizzata di elemosine sono istituzioni “sociali”. Esse procedono al trattamento particolare (speciale e specializzato) di problemi che in società meno differenziate sarebbero presi in carico, senza mediazione, da parte della comunità. Nelle configurazioni storiche concrete in cui si è dispiegato, il socio-assistenziale presenta un certo numero di caratteristiche formali. Innanzitutto, è una costruzione d'insieme di pratiche in funzione protettiva o integrativa (e, più tardi, preventiva). Intendo con ciò che il socio-assistenziale è il risultato di un intervento della società su sé stessa, a differenza delle istituzioni che esistostan et Iseut, cit. 17 La differenziazione sociale non deve essere confusa con la gerarchia sociale. Formazioni sociali assai gerarchizzate, come la società feudale, possono essere molto incastranti, e perciò molto protettive, ma senza dubbio non possono essere molto differenziate: la moltiplicazione degli statuti intermedi conduce, lo si vedrà, alla messa in crisi del tipo di controllo feudale e all'emergere di zone di turbolenza popolate da individui che si collocano tra gli statuti consacrati.

no per tradizione e per consuetudine. Si potrebbe parlare a tal proposito, almeno per analogia, di sociabilità secondaria, poiché si tratta di sistemi relazioni traslati rispetto ai gruppi di appartenenza familiari, di vicinato, di lavoro. A partire da questo sganciamento, vanno a comporsi montaggi sempre più complessi, che danno vita a strutture di presa in carico assistenziale sempre più sofisticate. In secondo luogo, queste pratiche presentano sempre almeno degli accenni di specializzazione, nuclei di una futura professionalizzazione. Ciò non significa che non importa chi, non importa come, non importa dove si prenda in carico questo tipo di problemi, ma che vi sono degli individui e dei gruppi almeno parzialmente deputati a fare ciò, e reperiti a tal fine. Per esempio, il curato, il fabbriciere, un ufficiale municipale... sono già, a modo loro, dei “funzionari” del sociale, nella misura in cui il loro mandato è, almeno in parte, di assicurare questo tipo di attività speciale. La delimitazione di una sfera d'intervento sociale suscita così l'emergere di un personale specifico per funzionalizzarlo. È l'abbozzo della professionalizzazione del settore sociale18.

18 Non è incongruo parlare così presto della professionalizzazione se, seguendo Max Weber, “si intende per professione il fatto che una persona assolva continuatamente delle prestazioni a fini di sussistenza o di profitto” (Id., Histoire économique. Esquisse d'une histoire universelle de l'économie et de la socialité, Paris, Gallimard, 1991, p. 17; trad. it. Storia economica. Linee di una storia universale dell'economia e della società, Roma, Donzelli, 2007). Weber sottolinea che, così definita, la prima professione è quella di stregone. Ma lo stregone, a voler parlare in maniera appropriata, non è uno specialista, esso è il professionista del religioso in generale. Al contrario, un religioso può essere un professionista a tempo parziale che svolge attività sociali specializzate. Il prete è al servizio di Dio e al servizio dei poveri ed è d'altra parte remunerato per queste due attività.

In terzo luogo, e correlativamente, si affaccia anche una tecnicizzazione minima. Anche in assenza di una specializzazione esclusiva, e a fortiori di una specifica formazione professionale, il mandatario è costretto a valutare le situazioni sulle quali deve o meno intervenire, selezionare coloro che meritano soccorso, costruire categorie, fossero anche grossolane, per guidare la propria azione. La sua pratica non deve essere confusa con quella di un membro ordinario (non mandatario) della comunità, anche se alcuni di questi esercitano un'attività dello stesso tipo, per esempio un individuo che fa l'elemosina a titolo “privato”. La pratica dell'intervento su mandato deve essere ritualizzata e fondarsi su un minimo di saperi, di expertise e di tecnicità proprie. Non vi sono pratiche sociali senza un nocciolo, sia pur minimo, di conoscenze sulle popolazioni interessate e sulle modalità di prenderle in carico o, al contrario, di escluderle dalla presa in carico. In quarto luogo, si pone subito la questione della localizzazione di queste pratiche, il che fa apparire ben presto una scissione tra pratiche “intra-istituzionali” e pratiche “extra-istituzionali”. La ragione dell'intervento è, lo si è detto, uno strappo nella sociabilità primaria. È allettante, e in generale più economico, in tutti i sensi del termine, porre riparo sul posto, per esempio portare soccorso a domicilio, ma la natura del problema da trattare può impedirlo, e si ha allora deterritorializzazione/riterritorializzazione, cioè trattamento in un sito istituzionale specializzato (per esempio, cure in ospedale). Questa tensione rappresenta una linea di forza importante nello sviluppo del socio-assistenziale e già la si ritrova in forme assai rozze di organizzazione dei soccorsi.

In quinto luogo – ma questa caratteristica essenziale è stata solo intravista e bisognerà ritornarvi a lungo –, non è sufficiente essere sprovvisti di tutto per rientrare nel campo dell'assistenza. In seno alle popolazioni senza risorse, alcune saranno respinte e altre saranno prese in carico. Si disegnano due criteri. Quello dell'appartenenza comunitaria: l'assistenza si applica di preferenza ai membri del gruppo e rigetta gli stranieri (bisognerà evidentemente elaborare che cosa significhi “essere membro del gruppo” ed “essere straniero”); e quello dell'inettitudine al lavoro: l'assistenza accoglie in via preferenziale quanti sono deprivati perché, come l'orfano isolato o il vecchio impotente, sono incapaci di provvedere ai propri bisogni col lavoro (ma, anche in questo caso, il criterio è da precisare attraverso l'analisi delle pratiche e delle regolamentazioni che lo definiscono). Questa distinzione, che sarà analizzata nei capitoli seguenti, circoscrive il campo del socio-assistenziale nella sua differenza con le altre forme d'intervento sociale verso le popolazioni capaci di lavorare. Le caratteristiche così esposte sono formali, nel senso che le si ritrova come condizioni generali di possibilità di un qualunque campo assistenziale. Il loro obiettivo è di supplire in maniera organizzata, specializzata, alle carenze della sociabilità primaria. Più precisamente, si dirà che il socio-assistenziale si costituisce come analogon della sociabilità primaria. Esso tenta di colmare una breccia che si è aperta nelle relazioni dominate dalla sociabilità primaria e di scongiurare i rischi di disaffiliazione che essa comporta. Intrattiene anche uno stretto rapporto con la territorializzazione. L'assistenza dipende dal domicilio del soccorso. Questa esigenza di domiciliazione non significa che occorre rice-

vere necessariamente a domicilio i soccorsi (possono essere dispensati in un'istituzione), ma che bisogna avere un posto definito nella comunità per essere assistiti. La domiciliazione non corrisponde solo a un imperativo tecnico per rendere operativa la distribuzione dei soccorsi, è dapprincipio la condizione di possibilità che decide sull'essere o meno soccorsi. Così, la maggior parte dei regolamenti dell'assistenza domandano all'indigente, anche se è “senza fissa dimora”, di certificare almeno alcuni anni di residenza nel villaggio o nel comune, senza di cui sarà lasciato per proprio conto. L'assistenza è all'inizio una protezione ravvicinata. Concerne in primo luogo, è il caso di dirlo, un prossimo minacciato di allontanamento sociale e incapace di provvedere da sé ai propri bisogni.

2. La leggenda evangelica Le questioni della specializzazione, della professionalizzazione, dell'istituzionalizzazione, della discriminazione delle popolazioni da prendere in carico, strutturano ancora oggi l 'organizzazione del campo socio-assistenziale. Come si sono trasformate per comporre il paesaggio attuale? Evidentemente non ci si propone di rifare una storia dell'assistenza: esistono su tale tematica numerose opere rimarchevoli. Sarà sufficiente disegnane la logica per dissociarla, più di quanto lo si faccia in generale, dalla questione del lavoro, a partire dalla constatazione che le strutture assistenziali hanno riguardato fin dall'inizio popolazioni incapaci di lavorare. Sono, tuttavia, costretto, a mettere in discussione la storiografia classica su due punti. Innanzitutto, l'impatto

proprio del cristianesimo sulla strutturazione dell'assistenza è spesso mal valutato in molte delle storie dell'assistenza. In secondo luogo, non è esatto datare dal Rinascimento o dalla Riforma l'inizio di una trasformazione dell'assistenza ispirata dalla preoccupazione di gestire razionalmente la povertà. Queste due distorsioni sono d'altronde interconnesse. L'inizio del XVI secolo rappresenterebbe una rottura significativa se rivelasse, a partire da un indebolimento dei valori cristiani fino ad allora egemonici, l'emergere di nuove esigenze sociali e politiche. Si osserverebbe a partire da questo momento un indurimento dell'atteggiamento nei confronti dei poveri, considerati come una popolazione ingombrante e potenzialmente pericolosa che bisognerebbe ormai classificare, amministrare e contenere attraverso delle regolamentazioni rigorose. Una postura sospettosa e ragionieristica – detta a volte “borghese” o “laica” – rimpiazzerebbe l'accoglienza generosa ispirata alla carità cristiana19. Ma tale costruzione è contestabile. Si rimarca giustamente la crescente complessità dei dispositivi d'assistenza, di cui le “politiche municipali” del XVI secolo rappresentano una tappa importante, ma non un inizio. L'interesse gestionale non sorge allora in modo brusco, ma sottintende già le pratiche assistenziali ispirate dal cristianesimo. Senza sottostimare l'originalità dell'elaborazione cristiana, ci si propone di mostrare che essa ha più rin19 Questo schema di pensiero ispira spesso anche i migliori lavori storici sull'assistenza. Jean-Pierre Gutton, all'inizio della sua summa su La société et les pauvres. L'exemple de la généralité de Lyon, 1524-1798 (Paris, Les Belles Lettres, 1971, p. 2), richiama “il passaggio dalla rappresentazione di un ''povero di Cristo'' dal carattere sacro più o meno marcato, a quella di un povero rifiutato, dappoco e vero e proprio pericolo sociale”. Appoggiandomi agli stessi dati, ivi compresi quelli riportati da Jean-Pierre Gutton, ne tenterò un'interpretazione differente.

forzato che contraddetto le categorie fondamentali che strutturano l'intero campo assistenziale. Queste, in particolare il doppio criterio di essere nell'incapacità di lavorare e di dover essere domiciliato, hanno una consistenza propria che lavora sotterraneamente la costruzione medievale stessa. Si ha, invece, una messa in discussione profonda della problematica assistenziale, a partire dalla difficoltà di tenere in conto un nuovo profilo di popolazioni deprivate che pongono il problema di un nuovo rapporto col lavoro (o con il non-lavoro), piuttosto che un rapporto con i soccorsi. Questa presa di coscienza emerge non all'inizio del XVI secolo, ma alla metà del XIV. Se dunque rottura deve esserci – benché, senza dubbio, nella storia non si abbiano mai delle rotture assolute – essa si situerà nel momento in cui, dallo sfondo relativamente stabile dell'assistenza, si distacca la questione sociale del lavoro, cioè, in concreto, la questione sociale propriamente detta. Tale tematica merita una trattazione a parte, che sarà affrontata nel prossimo capitolo, ma per evitare confusione fra le due problematiche, bisogna prima tornare sull'opinione diffusa secondo la quale il cristianesimo in generale e il cristianesimo medievale in particolare sarebbero portatori di una concezione sui generis dell'assistenza. La carità è sì la virtù cristiana per eccellenza, e la povertà è effettivamente valorizzata in riferimento al Cristo e ai modelli della vita apostolica – santi, eremiti, religiosi, che hanno saputo spogliarsi dei pesi terreni per avvicinarsi a Dio –, tuttavia, questo modo di “uccidere l'uomo vecchio”, per riprendere la formula di san Benedetto, è una povertà volontaria, una ascesi verso Dio la cui motivazione è spirituale. Come tale, questo tipo di indigen-

za non può essere di tutti. Costituisce una componente essenziale della vocazione religiosa: “La valorizzazione della povertà si concentrava tradizionalmente attorno alla vita religiosa e clericale”20. Ancora non è, anche su questo piano, unanimemente accettata. La grande polemica sugli ordini mendicanti, che attraversa il Medioevo cristiano al suo apogeo, se la prende spesso con “queste larve di uomini che si mantengono nell'ozio grazie al nostro lavoro”21. Anche in una prospettiva di ascesi spirituale, se la povertà può essere una condizione necessaria, non è per questo un valore assoluto. Come dice Pierre de Blois in uno dei suoi sermoni, “beati i poveri di spirito, ma non tutti”22. La valutazione sarà vieppiù restrittiva, evidentemente, per la povertà subita, la povertà materiale dei miserabili. Si conosce, senza dubbio, la terribile allegoria della Povertà nel Roman de la Rose di Guillaume de Lorris: La povertà non aveva su di sé che un vecchio sacco stretto, miseramente rappezzato; era a un tempo il suo mantello e la sua cotta, e non aveva che questo per coprirsi; così tremava spesso. Un po' allontanata dagli altri, se ne stava accovacciata e rincantucciata come un cane triste e vergognoso. Che sia maledetta l'ora in cui fu concepito il povero, perché non sarà mai ben nutrito, né ben vestito, né ben calzato! Non sarà neanche amato, né elevato23. 20 Michel Mollat du Jourdin, La notion de pauvreté au Moyen Âge, in Id., Études sur l'économie et la société de l'Occident médiéval. XII e-XVe siècles, London, Variorum, 1977, p. XIV. 21 Cit. in Id., Les pauvres au Moyen Âge, cit., p. 356. 22 Cit. in Id., La notion de pauvreté au Moyen Âge, cit., p. 322. 23 Cit. in Michel Mollat du Jourdin, Les formes populaires de la piété au Moyen Âge, in Id., Études sur l'économie et la société de l'Occident médiéval, cit., p. 17. Con la stessa vena, la molto aristocratica Christine de Pisan dice dei poveri: “Poiché essi non sono niente, è tutta sporcizia –

È vero che si tratta di testi “laici”, ma le valutazioni delle autorità religiose sono spesso appena meno peggiorative rispetto alla condizione dei poveri. Già sant'Agostino evocava con un certo disprezzo quei poveri che sono “talmente bisognosi dell'aiuto caritatevole [che non hanno] neanche vergogna di mendicare” e il papa Innocenzo III parla della “miserabile condizione dei mendicanti”24. Michel Mollat nota che, nell'iconografia cristiana, il povero è quasi sempre rappresentato alla porta del ricco o alle porte della città, in posa umile e supplichevole 25. Non è ammesso subito a entrare, prima gli è necessario essere ben cosciente della propria indegnità, e a ogni modo l'esercizio dell'elemosina dipende dalla buona volontà dei ricchi. Il meno che si possa dire è, dunque, che la carità cristiana non si mobilità automaticamente per soccorrere tutte le forme di povertà. La povertà scelta, in qualche modo sublimata sul piano spirituale, è valorizzata. È una componente della santità. Ma la condizione sociale del povero suscita una gamma di atteggiamenti che vanno dalla commiserazione al disprezzo. Poiché evoca la fame, il freddo, la malattia, l'abbandono – la privazione in tutti i suoi stati –, la povertà prosaica delle persone “di vile condizione” è il più delle volte connotata peggiorativamente.

Povertà è questa chiamata – che da nessuna persona è amata”. E conclude in modo eloquente: “Della gente tale, non è che merdume” (Le livre de la mutacion de Fortune, cit. in Philippe Sassier, Du bon usage des pauvres. Histoire d'un thème politique. XVIe-XXe siècle, Paris, Fayard, 1990, p. 90). 24 Cit. in Giovanni Ricci, Naissance du pauvre honteux: entre l'histoire des idées et l'histoire sociale, in “Annales ESC”, n. 1, 1983, p. 160. 25 Cfr. Michel Mollat du Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge, cit., p. 133.

Tale ambivalenza, ossia questa contraddizione che abita la rappresentazione cristiana, è superata sul piano delle pratiche tramite due modi specifici di gestione della povertà: l'assistenza si iscrive in un'economia della salvezza e l'attitudine cristiana fonda una classificazione discriminante delle forme di povertà. Economia della salvezza: disgraziato, compianto o anche disprezzato, il povero può però essere strumentalizzato in quanto mezzo privilegiato per il ricco per esercitare la suprema virtù cristiana, la carità, e permettergli così di operare la propria salvezza. “Dio avrebbe potuto rendere tutti gli uomini ricchi, ma ha voluto che vi fossero dei poveri perché i ricchi potessero così riscattare i propri peccati”26. Le implicazioni pratiche di questa concezione sono considerevoli poiché essa ha finanziato, in larga misura, il budget medievale dell'assistenza attraverso le elemosine e i lasciti alle istituzioni caritatevoli. In un'epoca in cui i mezzi per arricchirsi con il commercio e le speculazioni finanziarie suscitano ancora senso di colpa, e in cui, bisogna ricordarlo, gli uomini vivono nel terrore dell'inferno, la carità rappresenta la via per eccellenza di riscatto e il miglior investimento per l'aldilà. Il numero considerevole di testamenti che ridistribuiscono in direzione dei poveri una parte o la totalità dei beni degli scomparsi prova sia la forza di questa attitudine sia l'importanza delle sue ricadute economiche. Ma che la povertà sia riconosciuta quale strumento per operare la propria salvezza non significa affatto che essa sia amata per sé stessa, né che il povero sia amato in quanto persona. Le “opere di 26 Vie de saint Éloi, cit. in Bronislaw Geremek, La potence ou la pitié. L'Europe et les pauvres, du moyen âge à nos jours, Paris, Gallimard, 1987, p. 29: trad. it. La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1986.

misericordia” sviluppano un'economia politica della carità di cui l'elemosina, che “estingue il peccato”, costituisce il valore di scambio. Così si stabilisce un commercio tra il ricco e il povero a beneficio delle due parti: il primo opera la sua salvezza grazie alla sua pratica caritatevole, ma anche il secondo è salvato, se accetta la propria condizione. Last but not least, l'ordine inegualitario del mondo è anch'esso salvato in questa economia, che si rivela provvidenziale anche nel senso che, riconoscendo la povertà come necessaria, giustifica la sua esistenza e non deve prendere in carico che le sue manifestazioni più estreme. La ricchezza cristianamente vissuta presenta così un doppio vantaggio sulla povertà: è uno strumento per operare la propria salvezza nell'altro mondo, e rende più piacevole vivere qui giù. In un periodo più tardo, san Francesco di Sales ha senza dubbio dato la formulazione più chiara di questo sdoppiamento, tutto sommato comodo, indirizzandosi in questi termini ai ricchi: Così potete avere delle ricchezze senza essere avvelenati da esse, se le avete nelle vostre case o nelle vostre borse, e non nel vostro cuore. Essere ricchi in effetti, e poveri d'affetti, è la grande fortuna del cristiano, perché ha per questo tramite le comodità delle ricchezze per questo mondo, e il merito della povertà per l'altro27.

Ciò che si sa della strumentalizzazione delle opere di misericordia nel Medioevo permette di avanzare l'ipotesi che questa era già l'attitudine dominante dei ricchi, e senza dubbio a fortio27 Saint François de Sales, Introduction à la vie dévote, édition établié et présenté par Charles Florisoone, Paris, Éditions Roches, 2 voll., 1930, p. 9; trad. it. Introduzione alla vita devota, Torino, SEI, 2002.

ri dei deprivati, rispetto alla povertà: la povertà materiale in quanto tale è una disgrazia, anche se si può operare la propria salvezza attraverso di essa. È d'altronde un'opinione di buon senso e, che si sia ricco o povero, bisogna effettivamente essere un santo per non condividerla. Tale economia della salvezza fonda, allo stesso tempo, una percezione discriminatoria dei poveri che meritano di essere presi in carico. Sono innanzitutto esclusi quei disgraziati che si rivoltano contro quest'ordine voluto da Dio. Il legame tra povertà ed eresia è profondo, non solo perché numerose eresie hanno predicato, con il rifiuto del mondo, la sovversione della sua organizzazione sociale, e sono state perciò impietosamente represse, ma anche perché la non-accettazione della povertà è già un atto virtualmente eretico di contestazione della creazione e della sua economia della salvezza. Il povero rischia così il peccato per eccellenza, che consiste nell'opporsi alle vie della Provvidenza. Il “cattivo povero” è all'inizio una categoria teologica. Ma per essere più precisi, in seno stesso ai poveri che subiscono senza rivoltarsi la propria condizione, la concezione cristiana della povertà opera una divisione essenziale. La povertà spirituale del pauper Christi è esaltata perché realizza il rifiuto del mondo e manifesta il disprezzo di tutte le cose terrene, ivi compreso questo involucro materiale che è il corpo, ma questa eminente dignità può diffondersi, tramite un effetto di alone, a certe forme di povertà subita, a condizione che queste esibiscano i segni visibili di questo distacco. Sulla miseria corporale vanno così a cristallizzarsi essenzialmente i criteri che danno alla povertà materiale una dignità spirituale. Per un capovolgimento tipica-

mente cristiano, come le sofferenze e la morte atroce di Cristo testimoniano della sua divinità, o come il lungo martirologio dei santi è il miglior segno della loro elezione, così l'orrore delle folle sporche e lacere di ulcerosi, di mutilati, di ciechi e di paralitici, di zoppi e di monchi, di donne deformi, di vecchi famelici e di bambini storpi è santificato da questa esaltazione religiosa della sofferenza. I poveri fanno parte del corpo della Chiesa perché il loro corpo soffre; essi sono la metafora del corpo sofferente della Chiesa. Le figure emblematiche della povertà nelle Scritture – Giobbe sul suo mucchio di letame, Lazzaro il cui cadavere già puzza, i miserabili miracolati sui quali si è chinata la misericordia del Cristo, le magre e logore nudità, le ulcere e le deformità – esibiscono i segni più spettacolari della disgrazia della creatura abbandonata da Dio. Esse rendono manifesto che, prima di essere salvato dall'amore del Cristo, il mondo è cattivo e il corpo disprezzabile. Il corpo malato è una piaga il cui gemito si leva verso Dio. La povertà non è dunque solo un valore di scambio in un'economia della salvezza. Carica di malattia e di sofferenza, santificata da queste, la derelizione dei corpi la iscrive nel mistero del riscatto. La prova dell'eminente dignità della povertà è data dalle sue manifestazioni estreme, insostenibili, e in particolare dalle affezioni più spettacolari all'integrità corporale, così come la prova più irricusabile della divinità del Cristo è la sua morte ignominiosa sulla croce. L'amore dei poveri non è un dato immediato della coscienza, è un mistero al quale il cristiano non accede se non tramite questa integrale inversione dei valori, di cui Nie-

tzsche ha disvelato la logica, e che si nutre del disprezzo del mondo28. Così, se santificazione della povertà vi è, questa avviene a condizione di rilanciare sul malessere della situazione prosaica del povero. Nei più bei momenti dell'esaltazione cristiana della povertà, Michel Mollat sottolinea il carattere stereotipato dell'immagine del povero nella pastorale cristiana: “Magro, cieco, ulceroso, spesso zoppo, il povero è cencioso, irsuto; mendica di porta in porta, all'entrata delle chiese, sulla pubblica via” 29. Nello stesso ordine di idee, Charles de La Roncière ha analizzato il contenuto dei sermoni dei predicatori di Firenze, al momento del risveglio cristiano che ha segnato il XIII secolo e l'inizio del XIV. Ne ricava l'onnipresenza di un immaginario della povertà che si esprime attraverso la degradazione dell'involucro carnale 30. Il povero più degno di mobilitare la carità è quello il cui corpo esibisce l'impotenza e la sofferenza umane. Un'immensa drammaturgia cristiana si è sviluppata intorno all'orchestrazione dei segni fisici della povertà. Ma essa ritrova così, surdeterminandola, una caratterizzazione antropologica fondamentale necessaria perché l'indigenza entri senza problemi nel quadro dell'assistenza: essa deve essere esonerata dall'obbligo del lavoro. L'impotenza del corpo, la grande vecchiezza, l'infanzia abbandonata, la malattia, di preferenza incurabile, le infermità, di preferenza insostenibili 28 Cfr. Friedrich Wilhelm Nietzsche, Généalogie de la morale, Paris, Gallimard, 1971; trad. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico, in Id., Opere, vol. VI, tomo II, edizione italiana stabilita da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Milano, Adelphi, 1984. 29 Michel Mollat du Jourdin, Les pauvers au Moyen Âge, cit., p. 159. 30 Cfr. Charles-Marie de La Roncière, Pauvres et pauvreté à Florence au XIVe siècle, in Michel Mollat du Jourdin (sous la direction de), Études sur l'histoire de la pauvreté. Moyen Âge-XVIe siècle, Paris, Publications de la Sorbone, 2 voll., 1974, t. II, pp. 661-745.

allo sguardo, sono sempre stati i migliori passaporti per essere assistiti. Mettiamo tra parentesi un eventuale compiacimento per il morboso. In ogni caso, questi segni di decadenza danno immediatamente a vedere che l'incapacità di lavorare, a cui questi handicap condannano, non è volontaria. Il cristianesimo medievale ha così elaborato una versione affascinante, e unica, dell'esaltazione della povertà, fondata sulla coscienza esacerbata della miseria del mondo 31. Non è tuttavia il solo a mettere in opera il criterio della derelizione dei corpi per accedere ai soccorsi. Il riferimento a quello che si è proposto di definire handicappologia costituisce una linea di forza di ogni politica dell'assistenza. Ma comporta una contropartita, che la leggenda evangelica ugualmente chiarisce. Fare la scelta preferenziale dell'incapacità fisica occulta altre forme d'indigenza e le esclude dalla possibilità di essere prese in carico. All'apogeo del Medioevo cristiano, si sviluppa un altro tipo di miseria: è quella delle persone di piccolo stato, i “minuti”, il popolo minuto che sopravvive alle frontiere dell'indigenza. Calcolando il budget di alcuni di questi piccoli mestieri, quali il giardiniere o il muratore, Charles de La Roncière ha mostrato che in certi anni, nella prima metà del XIV secolo a Firenze, la maggior parte di essi, soprattutto se hanno famiglia a carico, cade al di sotto della soglia di sopravvivenza. Ma della miseria che costeggiano, i predicatori 31 Bisognerebbe poter concretizzare queste affermazioni tramite un largo ricorso all'iconografia medievale. Emblematica di questa visione del mondo è la sequenza dell'arrivo della processione dei flagellanti nel film di Ingmar Bergman, Il Settimo sigillo. All'inizio la spensieratezza della festa nella piazza del villaggio: gli artisti sono belli, giovani, allegri, esprimono la gioia di vivere, e la gente si diverte; spuntano poi gli uomini in nero con i loro lamenti, le loro catene e la loro paura, la peste e la morte. E il momento di allegria precipita nella sofferenza: questo mondo di quaggiù è maledetto.

fiorentini non parlano, forse neanche la vedono. Essa dipende da altre categorie d'analisi e di percezione. È una miseria fatta di mancanza, le cui manifestazioni più comuni sono discrete, salvo quando scoppia in rivolte tumultuose o quando obbliga i disgraziati a implorare soccorsi. Mancanza di alimenti, di alloggio, di vestiti, di lavoro, essa non dà a vedere che la grigia vita del popolo sofferente, al di qua delle messe in scena patetiche che mobilitano la carità. Così i pauperes Christi rigettano nelle tenebre esterne la miseria laboriosa.

3. Il mio prossimo è il mio vicino Pur importante, il criterio dell'incapacità fisica non è tuttavia il solo ad aprire le porte dell'assistenza, poiché si combina con quello dell'appartenenza comunitaria per delimitare il campo del socio-assistenziale. Anche di questo il cristianesimo medievale ha fortemente contribuito alla messa in opera, ma, ancora una volta, per interinare una concezione di “prossimo” come un prossimo che si può leggere tanto in termini di prossimità sociale o geografica, quanto a partire da quel che la concezione cristiana della fraternità tra gli uomini apporta di specifico. In effetti è molto presto che, nell'Occidente cristiano, la domiciliazione si impone come una condizione privilegiata della presa in carico degli indigenti, e si mantiene nel tempo, scavalcando così l'ipotetica frattura tra un'organizzazione medievale o “cristiana” dell'assistenza e le sue forme moderne o “laiche”. La matricula, la lista nominativa dei poveri che devono essere mantenuti dalla chiesa locale, data dal VI secolo. Essa associa soccor-

si e domiciliazione al punto che quelli che erano all'inizio dei semplici assistiti (i fabbricieri) vengono a far parte del personale permanente della Chiesa32. Nell'alto Medioevo, il sistema monastico assicura le pratiche caritatevoli essenziali. I conventi ricevono, a un tempo, individui deterritorializzati, che viaggiano lungo i grandi assi del pellegrinaggio, e i miserabili e i malati del luogo. L'accoglienza non è però indifferenziata. La regola di san Benedetto opera una distinzione tra i questuanti che non possono lavorare e i “parassiti” – i validi –, che bisogna allontanare al trascorrere di due giorni33. A Cluny, per esempio, i viaggiatori di passaggio sono ospitati, ma solamente per una notte, mentre i “veri poveri” sono assistiti con distribuzioni occasionali o periodiche di soccorsi, e alcuni indigenti sono presi in carico anche in modo permanente34. I “portinai” dei monasteri – spesso essi stessi assistiti poi divenuti servitori del convento – fanno la cernita tra i questuanti35. Questa localizzazione privilegiata delle pratiche di assistenza nei conventi e nelle istituzioni religiose corrisponde d'altra parte a una sorta di mandato sociale della Chiesa, che ne fa la principale amministratrice della carità. Tale divisione del lavoro è interinata molto presto dal potere politico. Così un capitolare di Carlo Magno fissa la parte della decima che deve essere consacrata a questo servizio sociale ante litteram36. Assieme al servizio di Dio, la Chiesa trova in questo servizio per i poveri l'altra giustificazione della propria preminenza sociale e dei 32 Cfr. Michel Mollat du Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge, cit., p. 55. 33 Cfr. Dom Willibrord Witters, Pauvres et pauvreté dans les coutumiers monastique du Moyen Âge, in Michel Mollat du Jourdin, Études sur l'histoire de la pauvreté, cit., t. I, p. 184. 34 Cfr. Georges Duby, Les pauvres des campagnes, cit., p. 26. 35 Cfr. Michel Mollat du Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge, cit., p. 56. 36 Cfr. Bronislaw Geremek, La potence ou la pitié, cit., p. 25.

propri privilegi. Niente dunque nell'esercizio di tale mandato che dipenda da iniziativa “privata”: la Chiesa è la principale istituzione di gestione dell'assistenza. L'organizzazione dell'assistenza in base alla domiciliazione si sistematizza con lo sviluppo delle città, trainando un trasferimento nel tessuto urbano di istituzioni e di quei professionisti dell'assistenza che già sono i religiosi. In tutta la cristianità europea, gli ordini mendicanti si impiantano sistematicamente ed esclusivamente nelle città37. Parallelamente, si moltiplicano gli hôtels-Dieu, beneficenze, ospedali. In Francia, e in particolare nella regione parigina, la maggior parte delle grandi istituzioni religiose di assistenza viene fondata tra il 1180 e il 1350 38. per quanto si sia potuto parlare per questa epoca di un rinnovamento cristiano, queste fondazioni corrispondono anche a una profonda trasformazione sociologica: lo sviluppo e la differenziazione dello spazio urbano, che le autorità religiose non sono le sole ad assumere. La rottura delle dipendenze e delle protezioni immediate delle società agrarie e l'approfondimento delle distanze sociali tra i gruppi pongono in modo inedito la questione della presa in carico dei più deprivati. Anche le autorità municipali giocano la loro parte in quello che diviene un problema di gestione dell'indigenza urbana. L'assistenza si organizza su base locale e impone una selezione più rigorosa degli assistiti. L'ospedale di Dinant è municipalizzato dalla fine del XIII secolo. Così, dal 1290, la città di Mons ha una “elemosina comune” che aiuta, ol37 Cfr. Jacques Le Goff, Apostolat mediant et fait urbain dans la France médiévale, in “Annales ESC”, n. 3, 1969, pp. 335-352. 38 Cfr. Marcel Candille, Pour un précis d'histoire des institutions charitables, quelques données du XIIe-XIVe siècles, in “Bulletin de la Société française d'histoire des hôpitaux”, n. 30, 1974, pp. 79-88.

tre gli assistiti occasionali, gli indigenti iscritti in una lista rivista annualmente e beneficianti anche di una sorta di abbonamento ai soccorsi39. Allo stesso modo, le città di Gand e di Firenze mantengono regolarmente ciascuna più di un migliaio di indigenti “domiciliati”40. I soccorsi possono anche essere distribuiti al di fuori delle strutture ospedaliere, a condizione che i beneficiari siano accuratamente censiti e localizzati. Dal XIV secolo si cominciano a imporre a questi indigenti dei marchi distintivi (medaglie, placchette di piombo, croci cucite sulla manica o sul petto) che danno una sorta di diritto a partecipare alle distribuzioni regolari di elemosine o di frequentare le istituzioni ospedaliere. Bronislaw Geremek parla a tal proposito di “povertà pensionata” e di vere “prebende”. Vivere di assistenza può divenire una quasi-professione. D'altronde, ad Augusta, nel 1475, i mendicanti figurano sui registri fiscali come un gruppo professionale41. Dunque, è ben prima del XVI secolo che l'assistenza si organizza su base territoriale, e che la sua gestione cessa di essere un monopolio clericale, se lo è mai stata. Accanto alla Chiesa, regolare o secolare, l'insieme delle autorità, laiche come religiose, svolgono la loro parte nella gestione del sociale: signori, notabili e ricchi borghesi, confraternite, cioè associazioni di mutuo soccor39 Cfr. Michel Mollat du Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge, cit., p. 71. 40 Cfr. Catharina Lis, Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Pre-Industrial Europe, Hassocks, The Harvester Press, 1979, p. 25; trad. it. Povertà e capitalismo nell'Europa preindustriale, Bologna, il Mulino, 1986. 41 Cfr. Bronislaw Geremek, La potence ou la pité, cit., pp. 53-63. Max Weber già notava che nelle città medievali alcuni mendicanti erano dotati di uno statuto o di uno stato (Stand). Cfr. Max Weber, L'éthique protestante et l'esprit du capitalisme, Paris, Plon, 1964, p. 219; trad. it., L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Milano, BUR, 1991.

so delle corporazioni dei mestieri, moltiplicano i soccorsi 42. L'esercizio della carità è divenuto, a partire dalla fine del XIII secolo, una sorta di servizio sociale locale al quale collaborano tutte le istanze che condividono una responsabilità nel “buon governo” della città. Una tale responsabilizzazione dei poteri locali si accentua nel corso dei secoli XIV e XV. Questa forma di assistenza, che corrisponde visibilmente a una preoccupazione di gestione razionale dell'indigenza, non ha dunque atteso il XVI secolo per manifestarsi e non ha atteso nemmeno la “laicizzazione” della società. Prima, come dopo il XVI secolo, la Chiesa gioca il suo ruolo nel concerto delle istanze che concorrono alla presa in carico assistenziale. Senza dubbio questo ruolo prevale maggiormente prima che dopo, ma non sempre per ragioni che attengono al ruolo specifico della Chiesa. Così, se i conventi hanno giocato un tale ruolo “caritatevole” nel Medioevo, è anche perché sono delle signorie, e l'abate esercita il ruolo di protettore dei propri dipendenti, come i vescovi sono spesso signori delle città e del loro contado. Questi signori ecclesiastici avevano, infatti, gli stessi doveri di protezione e di assistenza dei signori laici, e li esercitavano senza dubbio alla stessa maniera. Quel che generalmente si interpreta come l'avvento di una “nuova politica sociale”43, all'inizio del XVI secolo, non fa dunque 42 Sul ruolo delle confraternite Robert Fossier (Histoire sociale de l'Occident médieval, cit., cap. V) mostra che l'inizio dell'espansione di queste associazioni caritatevoli “rifugio di umili”, omologo allo sviluppo delle associazioni cavalleresche per i potenti, corrisponde al momento della dissoluzione delle protezioni dispensate dalla famiglia allargata. Si tratta di un fenomeno soprattutto urbano, ma se ne trovano forme meno elaborate nelle campagne. 43 Cfr. Bronislaw Geremek, Une nuovelle politique sociale, in Id., La potence ou la pitié, cit., cap. III.

che sistematizzare tale movimento. Questo rilancio è occasionato da una congiuntura economica e sociale sfavorevole: crisi di sussistenza, aumento del prezzo dei prodotti alimentari, sotto-impiego legato a una forte ripresa demografica dopo le ecatombi dovute alla peste, ristrutturazioni agrarie, crescita anarchica nelle città. I fattori di dissociazione sociale, percepibili da almeno due secoli, si palesano in modo brutale. La povertà diviene oggetto di un ampio dibattito pubblico alimentato dalle controversie del Rinascimento e della Riforma, di cui il successo dell'opera di Juan Luis Vives, De subventione pauperum, è la migliore testimonianza44. Tra il 1522 e la metà del secolo, una sessantina di città europee assumono un congruo insieme di disposizioni. Queste politiche municipali poggiano su alcuni semplici princìpi: esclusione degli stranieri, ferma proibizione della mendicità, numerazione e classificazione a diverse categorie di beneficiari. L'esclusione degli stranieri, degli erranti, degli ambulanti, associata all'interdizione della mendicità, permette di tentare una presa in carico sistematica dell'indigenza domiciliata: cure e soccorsi ai malati e agli invalidi, ma anche collocamento in apprendistato dei bambini poveri e distribuzione di soccorsi a famiglie senza lavoro o il cui reddito è insufficiente per assicurarne la sopravvivenza 45. La 44 Juan Luis Vives [Joannes Ludovicus], De subventione pauperum sive de humanis necessitatibus, s.e., Bruges, 1526; De l'assistance aux pauvres, Bruxelles, Valero et Fils, 1943; trad. it. De subventione pauperum, a cura di Armando Saitta, Firenze, La Nuova Italia, 1973. 45 Per un'esposizione di queste politiche municipali, oltre Bronislaw Geremek, La potence ou la pitié, cit., cfr. Catharina Lis, Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Preindustrial Europe, cit., cap. III; Thierry L. Vissol, À l'origine des législations sociales au XVIe siècle: Humanisme et frayeurs populaires, in “Les temps modernes”, n. 19, 1985, pp. 22082264; un'esposizione dettagliata del funzionamento della “Aumône générale” di Lione è svolta in Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres. L'exemple de la généralité de Lyon, cit.; per l'Inghilterra, cfr. John

preoccupazione di organizzare sistematicamente l'assistenza su base locale sfocia così in un'innovazione considerevole: assicurare dei soccorsi ad alcune categorie di indigenti, anche tra quanti sono capaci di lavorare. Così la città si sforza di prendere in carico la totalità dei suoi abitanti in stato di bisogno. Dovremo tornare su questo fragile tentativo di togliere l'interdetto che pesa sugli indigenti validi per essere assistiti. Queste misure, elaborate dapprima a livello locale, sono riprese dalle legislazioni nazionali: ordinanza di Carlo V del 7 ottobre 1531 per le Fiandre e i Paesi Bassi, ordinanza di Moulins del febbraio 1556 per la Francia, Poor laws inglesi della seconda metà del XVI secolo che portano alla grande legge elisabettiana del 1601. Il loro spirito generale è reso dall'articolo 73 dell'ordinanza di Moulins: Ordiniamo che i poveri di ogni città, borgo e villaggio, siano nutriti e mantenuti da quelli della città, borgo o villaggio di cui essi siano nativi e abitanti, senza che possano vagare e chiedere l'elemosina altrove rispetto al luogo in cui sono, i quali poveri saranno tenuti a prendere notizia e certificazione di quanto detto sopra in caso che, per la guarigione delle loro malattie, fossero costretti a raggiungere i borghi e le borgate dove ci sono degli hôtels-Dieu e ricoveri a ciò destinati46.

P. Pound, Poverty and Vagancry in Tudor England, London, Longman, 1971. 46 Cit. in Louis Parturier, L'assistance à Paris sous l'Ancien Régime et pendant la Révolution. Étude sur les diverses institutions dont la réunion a formé l'Administration générale de l'Assistance publique à Paris, Paris, Larose, 1897, p. 73.

Il “grande internamento” dei mendicanti, impiantato anch'esso su scala europea nel XVII secolo, non smentisce, nonostante le apparenze, il principio della presa in carico ravvicinata. Deve leggersi in continuità e non in rottura in rapporto alle politiche del XVI secolo, di cui rappresenta una fase di organizzazione ulteriore, più elaborata, per tener conto dello scacco delle prime politiche municipali47. Conseguenza dello sviluppo delle città, le relazioni dilatate della sociabilità urbana rendono sempre più difficile il tipo di assistenza di prossimità che minimizzava il ruolo dell'ospedalizzazione. Parallelamente, per il numero accresciuto e i costumi disordinati, i mendicanti rischiano di costituire “una sorta di popolo indipendente” che non conosce “né legge, né religione, né superiori, né polizia”, come “una nazione libertina e nullafacente che non abbia mai ricevuto regole” 48. Minaccia dunque, per metà già realizzata, di una rottura completa del legame comunitario. Tollerare la condizione di mendicità significherebbe accettare il costituirsi in seno alla comunità di un gruppo completamente disaffiliato, divenuto estraneo alla città. 47 Queste ultime sembrano su per giù aver funzionato correttamente qualche decina d'anni prima di cadere più o meno in desuetudine; cfr. Catharina Lis, Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Pre-Industrial Europe, cit. In Inghilterra, tuttavia, le iniziative del XVI secolo sono sfociate in un sistema di “carità legale” più elaborato che sul continente, e questo caratterizzerà in maniera particolare ancora l'Ottocento inglese. 48 Testo dell'editto dell'aprile 1657: “Editto del Re che porta stabilità nell'Ospedale Generale per la Reclusione dei poveri mendicanti della Città e dei Sobborghi di Parigi”, riprodotto in annesso a Michel Foucault, Folie et déraison. Histoire de la folie à l'âge classique, cit., pp. 46 sgg. L'interpretazione del “Grande internamento” qui proposta è del tutto differente da quella di Michel Foucault. Per una giustificazione più approfondita di questa differenza e le sue implicazioni rispetto all'apprezzamento dell'approccio genealogico di Michel Foucault, cfr. Robert Castel, Problematization: a way of Reading History, cit.

Di fronte a tale minaccia, l'internamento non è che un mezzo, senza dubbio radicale, ma che si presenta come una svolta necessaria, per restaurare l'appartenenza comunitaria. I pensionanti dell'Ospedale generale sono dislocati più che tagliati fuori rispetto alla comunità, sono cioè trasferiti in uno spazio ad hoc in cui continuano a essere presi in carico. Né per la sua struttura istituzionale, né per il tipo di popolazione che prende in carico, né per il suo modo di funzionamento, l'Ospedale generale rappresenta davvero un'innovazione. Dal punto di vista istituzionale, questo si inscrive nel prolungamento delle precedenti forme di intervento assistenziale. Per esempio, a Lione, l'Elemosineria generale, una delle più compiute realizzazioni delle politiche municipali del Rinascimento, interna in una torre, dalla fine del XVI secolo, dei “mendicanti incorreggibili”, e la città fonda nel 1614 l'ospedale Saint-Laurent, il cui regolamento combina il lavoro e le preghiere per la correzione dei mendicanti49. Stessa evoluzione in Inghilterra, dove il Bridewell di Londra, modello delle Workhouses, è fondato nel 1547. Ad Amsterdam il Rasphaus, nella stessa epoca, obbedisce agli stessi princìpi. Neppure il fatto che la fondazione degli Ospedali generali sia disposta dal potere reale segna una rottura significa49 Cfr. Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit. A Parigi, un tentativo dello stesso genere, nel 1612, l'ospedale delle Petites-Maisons, si deve a Caterina de' Medici. In effetti, la struttura dell'Ospedale generale o della Workhouse è largamente impiantata in Europa a partire dalla fine del XVI secolo e anche prima in Italia. Cfr. Catharina Lis, Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Pre-Industrial Europe, cit. Cfr. anche Bronislaw Geremek, Le renfermement des pauvres en Italie (XIVe-XVIIe siècles), in Mélanges en l'honneur de Fernand Braudel, Toulouse, Privat, 1973, 2 voll., t. I. Bisogna dunque convenire che Michel Foucault ha cristallizzato sulla fondazione dell'Ospedale generale di Parigi nel 1657 un trend quasi secolare e che investe tutta l'Europa.

tiva in rapporto alle politiche antecedenti. È alle città e ai “grandi borghi” che spetta di mettere in opera tali misure, versione differente ma omologa della relazione centrale-locale del XVI secolo, allorché il potere regale si appoggia sulle iniziative municipali per ordinarne la generalizzazione50. Quanto alle popolazioni interessate, l'internamento, in un primo tempo, non prende di mira che i mendicanti domiciliati. Esclude gli stranieri, i vagabondi, che devono lasciare la città e continuano a rientrare nel campo delle misure di polizia 51. Gli individui considerati più desocializzati, i più indesiderabili, i più pericolosi, sono così esclusi dall'internamento (e non tramite l'internamento). L'editto del 1662, che preconizza l'istituzione di un Ospedale generale in “tutte le città e i grossi borghi del regno”, precisa di nuovo che esso concerne i mendicanti “nativi dei luoghi o nati da genitori mendicanti”52. Una nuova dichiarazione reale, del 1687, reitera l'esigenza dell'internamento, ma condanna i vagabondi alle galere a vita fin dal primo arresto. I mendicanti domiciliati non sono condannati alle galere che al terzo arresto, cioè dopo che si sono mostrati due volte ribelli alla soluzio50 “Editto del 1662 che porta stabilità a un Ospedale generale in tutte le città e grossi borghi del Regno”, in Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises depuis l'an 420 jusqu'à la Révolution de 1789, 29 voll., Paris, Plon, s.d., vol. 18, p. 18. Per una interpretazione di questo processo di presa in carico progressiva da parte delle istanze centrali dei problemi di assistenza nella linea della teoria della collettivizzazione di Norbert Elias, cfr. Abram de Swaan, In Care of the State. Health Care, Education and Welfare in Europe and the USA in the Modern Era, Cambridge, Polity Press, 1988. 51 Cfr. Jacques Depauw, Pauvres, pauvres mendiants, mendiants valides ou vagabondes? Les Hésitations de la législation royale, in “Revue d'histoire moderne et contemporaine”, n. 3, 1974, pp. 401-418. 52 Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., t. XVIII, p. 19.

ne “caritatevole” dell'internamento, che non è offerta ai vagabondi. Nella sua intenzione profonda, l'internamento è prima di tutto uno strumento di gestione della mendicità, all'interno di un quadro urbano, per gli indigenti autoctoni. Nel linguaggio dell'epoca, il preambolo dell'editto del 1657 lo dice quasi esplicitamente; esso concerne i “poveri mendicanti” ancora collegati o ricollegabili alla comunità, che Luigi XIV distingue, “come membra viventi di Gesù Cristo”, dai “membri inutili allo Stato”, dai vagabondi che, avendo reciso ogni appartenenza comunitaria, si sono posti fuori dei limiti di un intervento caritatevole53. Quanto alle tecniche che si dispiegano in seno all'Ospedale generale, esse rappresentano una strategia di inclusione, e affatto di esclusione. La disciplina dell'Ospedale generale, il lavoro forzato intervallato da preghiere incessanti e l'apprendimento dell'ordine e della regolarità sono le ricette ben note di una pedagogia muscolare, di cui Erving Goffman sistematizzerà la logica54, che deve permettere al recluso, dopo il periodo di rieducazione, di riprendere il suo posto nella comunità di origine e di essere ormai “un membro utile allo Stato”. La parentesi dell'internamento a vocazione rieducatrice non è dunque per nulla in contraddizione col principio della domiciliazione dell'assistenza. Essa ne tenta una riformulazione originale, tenuto conto delle condizioni divenute sfavorevoli all'esercizio di un'assistenza più ravvicinata. Luigi XIV può così afferma53 “Editto del Re che porta stabilità nell'Ospedale Generale per la Reclusione dei poveri mendicanti della Città e dei Sobborghi di Parigi”, cit., p. 648. 54 Cfr. Erving Goffman, Asiles. Études sur la condition sociale des malades mentaux, Paris, Minuit, 1968; trad. it. Asylums. Le istituzioni totali. La condizione sociale dei malati di mente e di altri internati, Torino, Einaudi, 2010.

re che agisce “non per ordine di polizia” – che concernerebbe “i membri inutili allo Stato”, innanzitutto i vagabondi –, ma “al solo scopo di carità”, cioè per soccorrere coloro che ancora appartengono all'ordine comunitario55. L'internamento non è fine a sé stesso. Mette in opera una strategia di svolta che consiste, in un primo tempo, nell'operare una rottura in rapporto all'ambiente, al fine di dotarsi dei mezzi per rieducare, in un secondo tempo, il mendicante valido e, in un terzo tempo, reinserirlo. È così vero che, dopo lo scacco di questa utopia pedagogica, il principio della domiciliazione diretta prevale di nuovo. Esprimendo alla fine dell'Ancien Régime il consenso degli spiriti illuminati, le Mémoires présentés à l'Académie de Dijon sur les moyens de détruire la mendicité sono del tutto esplicite a tal riguardo: “Tra i diversi strumenti proposti per annullare la mendicità, non ve n'è punto che sembra riunire più consensi che quello che rinvia i mendicanti ai loro luoghi di nascita […]. Ogni parrocchia risponderà dei suoi poveri come un padre di famiglia dei suoi figli”56. Così, l'esigenza di territorializzazione per beneficiare dei soccorsi, lungi dall'attenuarsi, si accentua, mentre ci si avvicina alla fine dell'Ancien Régime. Altra illustrazione particolarmente significativa, in tal senso, è fornita dalla grande ordinanza reale del 1764, “ultima espressione solenne delle idee dell'antica mo55 “Editto del Re che porta stabilità nell'Ospedale Generale per la Reclusione dei poveri mendicanti della Città e dei Sobborghi di Parigi”, cit., p. 648. 56 Les moyens de détruire la mendicité en France, en rendant les mendians utiles à l'État sans les rendre malheureux tirés des mémoires qui ont concouru pour le prix accorde en l'année 1777, par l'Académie des sciences, arts et belles-lettres de Chaalons-sur-Marne, Châlons-sur-Marne, Seneuze, 1780, p. 5.

narchia”, secondo le parole di Camille Bloch 57. Questa ordinanza è particolarmente repressiva, poiché assimila i mendicanti validi ai vagabondi e condanna alle galere gli uomini, all'internamento le donne e i bambini, mentre i malati e gli invalidi saranno soccorsi a domicilio o in ospedale in funzione del loro stato. Tuttavia, l'anno seguente, il vice-cancelliere precisa agli intendenti in quale spirito bisogna applicare la direttiva: “L'intenzione del Re è che si arrestino i mendicanti che mendicheranno a più di mezza-lega dal loro domicilio”. Così, il mendicante domiciliato sfugge alla stigmatizzazione e alle sanzioni connesse alla condizione di vagabondo, e il vice-cancelliere precisa: “Un mendicante domiciliato è dunque quello che, dimorando da più di sei mesi in un luogo, non mendica che occasionalmente, ha qualche bene per sussistere o una professione, che promette di lavorare, e che può farsi riconoscere seduta stante da persone degne di fede”58. Tale definizione ambigua non convince affatto, ed è dovuta essere concretamente inapplicabile, ma sottolinea il peso del fattore di prossimità, prossimità geografica – qui misurata dalla distanza di mezza-lega –, ma anche prossimità sociale – il fatto di poter “farsi riconoscere da persone degne di fede”. Questa inscrizione locale decriminalizza la mendicità. È capace di relativizzare l'obbligazione fondamentale del lavoro, che diviene semplice “promessa di lavorare”, il che praticamente non vuol dire molto 57 Camille Bloch, L'assistance et l'État en France à la veille de la Révolution. Généralités de Paris, Rouen, Alençon, Orléans, Châlons, Soissons, Amiens, 1764-1790, réedition Genève, Slatkine Megariotis, 1974, p. 160. Il testo della dichiarazione del 1764 è in Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., t. XXII, p. 74. 58 Cit. in Christian Paultre, De la répression de la mendicité et du vagabondage en France sous l'Ancien Régime, Paris, Larose-Tenin, 1906, p. 400.

ed è concretamente inverificabile. Ma essa esprime l'esigenza che un individuo ancora legato al suo territorio sociale non sia completamente abbandonato. Il mendicante valido è semi-esonerato dall'essere valido (capace di lavoro) se compensa questa caratteristica, che è un ostacolo per essere assistito, col fatto di farsi riconoscere – “confessare” – come appartenente a una comunità territoriale. L'esercizio di una tutela comunitaria – “ogni parrocchia risponderà dei suoi poveri come un padre di famiglia dei suoi figli” – rappresenta bene, dunque, il secondo asse privilegiato della strutturazione del socio-assistenziale. È questa che prevale anche in Inghilterra attraverso le differenti Poor laws del XVI secolo, che istituiscono la parrocchia come la base necessaria dell'organizzazione dei soccorsi. Questo orientamento è ripreso e rinforzato dal famoso Speenhamland Act del 1795: non solo ogni parrocchia prende in carico i suoi poveri, ma essa deve anche assicurare loro una sorta di reddito minimo, garantendo un complemento di risorse indicizzato sul prezzo dei cereali se il salario è insufficiente. Come per le Poor laws anteriori, il finanziamento è assicurato da prelievi obbligatori imposti agli abitanti della parrocchia. Quale contropartita, i beneficiari dei soccorsi sono legati in maniera quasi intangibile al loro territorio d'origine. Sono perciò dipendenti dai notabili locali, a un tal punto che si è potuto parlare, a questo proposito, di servaggio parrocchiale (parish serfdom)59. Lo Speenhamland Act rappresenta – nel momento in cui la rivoluzione industriale è già ben avviata in Inghilterra; si tornerà su tale paradosso – la formula più compiuta delle politiche assistenziali organizzate dopo il Medioevo intorno alla necessità 59 Cfr. Karl Polanyi, La Grande Transformation, cit.

dell'appartenenza comunitaria. Al di fuori della domiciliazione, del doppio sistema di protezione che gestisce e dei vincoli che impone, non vi è, per i poveri, alcuna salvezza60.

60 Si discuterà nel IV capitolo la trasformazione che rappresenta il diritto al soccorso proposto dal Comitato per l'estinzione della mendicità dell'Assemblea Costituente e votato dalla Convenzione. Ma esso non contraddice questa esigenza di territorializzazione. È la nazione a diventare l'unità territoriale di riferimento e, facendo dell'obbligo di soccorrere gli indigenti un “debito consacrato”, è essa a dargli la dignità di un diritto. Certo, l'esercizio di questo diritto resta sottomesso alle esigenze di localizzazione del “domicilio del soccorso” e, come contropartita, vi è l'esclusione degli stranieri.

4. L'organigramma della presa in carico assistenziale Ci si è assunti il rischio di rivalutare sotto due aspetti, del resto connessi, alcuni costrutti della storia dell'assistenza. In primo luogo, il carattere fondativo del cristianesimo nella genesi del campo assistenziale in Occidente, dopo il Medioevo. La concezione e la pratica cristiane della carità si sono generalmente modellate nelle categorie costitutive dell'assistenza. Il cristianesimo ha ripreso e surdeterminato il criterio dell'inabilità al lavoro, facendo della miseria del corpo il segno più eminente per inscrivere il povero in un'economia della salvezza. Si è, anche, rassegnato a che il prossimo sul quale deve volgersi l'amore per l'umanità sofferente sia preferibilmente il vicino, colui che è inscritto in reti di partecipazione comunitaria. Ne risulta, in secondo luogo, una rettifica della periodizzazione generalmente ammessa per render conto delle trasformazioni dell'assistenza fino all'epoca moderna. Anche dal punto di vista istituzionale, il ruolo della Chiesa è da leggersi in continuità piuttosto che in rottura con le esigenze di una gestione dell'assistenza su base locale. Se le principali pratiche assistenziali si sono localizzate all'inizio nei conventi e nelle istituzioni religiose, e se la Chiesa è stata a lungo la principale amministratrice dell'assistenza, il passaggio alle autorità laiche si è determinato senza soluzione di continuità. D'altronde più che un passaggio si sono avute forme di collaborazione e di rinvio incessanti tra una pluralità di istanze, ecclesiastiche e laiche, centrali e municipali, professionali – come l'azione delle confraternite – o personali – come le liberalità dei grandi personaggi –, le cui differenze non dipendono in alcun modo dall'opposizione fra “pubblico” e “priva-

to”. Anche la politica di internamento del XVII secolo, che viene interpretata spesso come l'espressione di una volontà di controllo statale da parte della Sovranità assoluta e come traduzione di un'attitudine particolarmente repressiva (anti-caritatevole) nei confronti degli indigenti, ha avuto impulso da Luise de Marillac, una discepola di san Vincenzo de' Paoli, sostenuta dalla Société du Saint-Sacrement, e deve molto, per la sua messa in opera, all'iniziativa di gesuiti particolarmente intraprendenti, che hanno attraversato la Francia, dalla Bretagna alla Provenza e dalle Fiandre alla Linguadoca, per imporla61. Due rilievi, tuttavia, per evitare un doppio controsenso sulla portata di queste parole. Innanzitutto, il reciproco puntellamento tra un'economia “cristiana”, ispirata dalla carità, e un'economia “laica” dell'assistenza, guidata da esigenze gestionali, non esclude evidentemente resistenze e tensioni tra i due orientamenti. Non implica neanche che questi orientamenti siano stati seguiti alla lettera. In particolare, gli atteggiamenti popolari nei confronti degli indigenti sono stati certamente più flessibili delle prescrizioni previste nelle regolamentazioni. L'elemosina manuale è sopravvissuta alle sue innumerevoli condanne. L'ospitalità, per esempio il mangiare e dormire nel granaio, doveva essere largamente praticata – fortunatamente per gli indigenti – senza che il donatore si chiedesse ogni volta se il mendicante “meritava” di essere soccorso. Attitudini come queste possono essere raccomandate dal messaggio evangelico dell'amore per il prossimo, ma le si ritrova anche in altre aree culturali – per esempio l'ospitalità musulmana – e senza dubbio in tutte le culture, so61 Cfr. Olwen H. Hufton, The Poor in Eighteenth Century France, 17501789, Oxford, Clarendon Press, 1974, pp. 140-144.

prattutto agrarie, che hanno tradizioni di accoglienza – allo stesso tempo che di diffidenza – nei confronti degli stranieri e dei poveri. Esse possono così essere riferite sia a un senso religioso più generale di quello che incarna il cristianesimo, sia alla coscienza di una prossimità sociale; il piccolo contadino o il lavoratore urbano possono pensare bene che non è escluso che un giorno si ritrovino, essi stessi, totalmente deprivati e mettono allora in gioco una solidarietà di condizione62. Perciò, non si può attribuire alla sola carità cristiana tutto ciò che si fa di “caritatevole” in una civiltà dominata dal cristianesimo. La relazione tra la spiritualità cristiana e l'assistenza è allo stesso modo molto più complessa di quanto suggerisca la presa in considerazione, alla quale ci si è qui attenuti, delle sole pratiche che hanno prevalso socialmente. Forme più generose di compassione si sono manifestate a volte in seno al popolo dei credenti e presso alcuni dignitari della Chiesa. San Francesco d'Assisi sviluppa il culto della “Signora Povertà”63. Un teologo eminente, 62 Questo sentimento di solidarietà rende conto anche del fatto che il popolo minuto delle città se la prenda regolarmente con gli arcieri di guardia o “scacciapoveri” che tentano di fermare gli indigenti. Cfr. Arlette Farge, Le mendiant, un marginal?, in Marginaux et exclus de l'histoire, in “Cahier Jussieu”, n. 5, 1979,, pp. 312-329. 63 Il francescanesimo non è un'esaltazione dell'indigenza in quanto tale. La questione è complessa e qui rimarchiamo solamente che il “poverello” fa un'apologia della frugalità e dell'umiltà piuttosto che della povertà materiale propriamente detta, e che il suo ideale è di promuovere una società che rifiuti il sapere e la potenza così come la ricchezza per lasciarsi interamente dominare dai valori spirituali. In più, il minimo che si possa dire è che questo ideale non ha certo prevalso nella Chiesa. Sugli orientamenti sociali dei francescani, cfr. Jacques Le Goff, Le vocabulaire des catégories sociales chez saint François d'Assise et ses biographies du XIIIe siècle in Ordres et classes. Communications. Colloque d'histoire sociale de Saint-Cloud de 1867, réunies par Daniel Roche et

come il domenicano Domingo de Soto, si è opposto agli umanisti del Rinascimento levandosi contro ogni restrizione all'esercizio della carità64. E ci sono stati, senza alcun dubbio, innumerevoli cristiani che hanno soccorso il loro prossimo senza preoccuparsi di applicare le regole canoniche. Si potrebbero moltiplicare gli esempi di queste posizioni senza dubbio più “evangeliche” di quelle che sono prevalse ufficialmente, ma è di queste ultime che si deve qui discutere: quelle del “cristianesimo reale”, nel senso in cui si parla di “socialismo reale”, cioè quelle che si sono storicamente imposte nel condurre la politica dell'assistenza. Da questo punto di vista, la Chiesa ha piuttosto confortato che contraddetto le imprese “ragionevoli” di presa in carico degli indigenti che passavano da classificazioni discriminatorie65. Il suo impatto si iscrive così in una concezione présentées par Ernest Labrousse, Paris-La Haye, Mouton, 1973, pp. 93123. 64 Cfr. Jean Vilar, Le picarisme espagnol, in Marginaux et exclus de l'histoire, cit., pp. 29-77. De Soto se la prende in particolare con Vives, che condannava “la scostumatezza della mendicità”. Più in generale, bisognerebbe discutere il ruolo – controverso – avuto dagli ordini mendicanti nell'elaborazione delle pratiche caritatevoli. 65 È impossibile qui trattare le differenze tra cattolicesimo e protestantesimo nella messa in opera delle politiche d'assistenza. Solamente due rilievi schematici. La tesi che attribuisce alla Riforma il rilancio delle politiche municipali nel XVI secolo non è fondata su argomenti seri. Cfr. Natalie Zemon Davis, Assistance, humanisme et hérésie, in Michel Mollat du Jourdin (sous la direction de), Études sur l'histoire de la pauvreté, cit., t. II. In secondo luogo, la dottrina protestante della salvezza attraverso le opere ha contribuito a rendere la povertà ancora più sospetta e a irrigidire i criteri dell'accesso ai soccorsi. Cfr. Max Weber, L'Éthique protestante et l'esprit du capitalisme, cit. e Richard Henry Tawney, Religion and the Rise of Capitalism. An Historical Study, London, Murray, 1926, che sottolinea il ruolo giocato dai puritani per fare dell'indigenza una condizione indegna di cui l'immoralità del povero è intrinsecamente responsabile.

socio-antropologica dell'assistenza. In ogni società, senza dubbio, un sistema coerente di assistenza non può strutturarsi che a partire da una differenziazione tra “buoni” e “cattivi” poveri. Per tradurre in un linguaggio familiare una folla di considerazioni dotte o pseudo-dotte, fondate su argomenti teologici, morali, filosofici, economici, tecnocratici: se ci si mettesse a soccorrere ogni forma di miseria, dove si arriverebbe? Nell'Occidente cristiano, la strumentalizzazione della carità ha permesso – e non è poco – di costruire la forma culturalmente dominante di questa esigenza princeps di limitazione del campo dell'assistenza, riformulando in maniera specifica i suoi criteri d'accesso. Ma, a dispetto delle dichiarazioni di principio sull'amore generalizzato verso il prossimo, l'esaltazione cristiana di un tipo di povero che deve essere oppresso da ogni male per essere soccorso e la sua condanna dell'oziosità “madre di tutti i vizi” hanno riservato a questi criteri un senso molto restrittivo. In ogni società, e una società cristiana non fa eccezione, il povero deve manifestare molta umiltà ed esibire prove convincenti della propria condizione sfortunata per non essere sospettato di essere un “cattivo povero”. Seconda precisazione: l'accento posto qui sulla continuità della problematica dell'assistenza dal Medioevo non deve dare a intendere che si osserva per diversi secoli la ripetizione monotona delle medesime peripezie. I progressi dell'urbanizzazione, l'affermazione di un potere centrale, il raffinamento dei dispositivi istituzionali e delle tecniche di intervento hanno introdotto ben più che sfumature in questi sviluppi. Anzi, la sistematizzazione dell'organizzazione dei soccorsi su base municipale all'inizio del XVI secolo, il crescente interventismo del potere reale di fronte alla mendicità, questa “lebbra del regno” di cui si sospetta sempre

più che sia suscettibile di porre un grave problema sociale, segnano tappe essenziali e qualitativamente differenti della strutturazione del socio-assistenziale. Nondimeno, l'insieme di queste pratiche resta dominato da due vettori fondamentali: la relazione di prossimità tra coloro che assistono e coloro che sono assistiti, da una parte, l'incapacità di lavorare, dall'altra. Si delimita la zona dell'assistenza, o almeno il suo nucleo nell'intersezione di questi due assi: A. La relazione di prossimità che deve esistere tra il beneficiario dei soccorsi e l'istanza dispensatrice. Che si tratti di elemosine, d'accoglienza in istituto, di distribuzioni puntuali o regolari di soccorsi, di tolleranza nei confronti della mendicità, ecc., l'indigente ha tante più possibilità di essere soccorso se è conosciuto e riconosciuto, cioè se entra nelle reti di vicinato che esprimono una mantenuta appartenenza alla comunità. Si conferma così che l'esercizio dell'assistenza è, nella misura del possibile, un analogon della sociabilità primaria66. Trovarsi in situazione di indigenza è l'effetto di una prima rottura in rapporto alle solidarietà “naturali” o “spontanee” che dispensano la famiglia, il vicinato, i gruppi primari d'appartenenza. Ma, fondandosi sul riconoscimento dell'iscrizione in una comunità territoriale di cui la domiciliazione è a un tempo il segno, il supporto e la condizione (domicilio dei soccorsi), l'assistenza tenta di lenire queste man66 Questa “misura del possibile” dipende nei fatti da due variabili principali: le risorse disponibili in seno a una comunità e l'omogeneità di questa comunità. Lo sviluppo dell'urbanizzazione e l'estensione geografica dell'area della presa in carico (lo Stato invece della parrocchia o del comune, per esempio) rendono difficile l'esercizio di una solidarietà di prossimità. Ma si vedrà (cfr., al capitolo IV, gli sforzi dispiegati dalle assemblee rivoluzionarie) come lo Stato-nazione può tentare di riattivare l'imperativo della presa in carico comunitaria attraverso la mediazione del diritto al soccorso.

canze imitando il più possibile le relazioni di prossimità medesime. Essa combatte il rischio permanente di disaffiliazione cercando di riattivare quella sorta di contratto sociale implicito che unisce i membri di una comunità sulla base della loro appartenenza territoriale. Queste pratiche formano il nocciolo del complesso tutela di cui si vedrà che la giurisdizione eccede l'assistenza, poiché tenta di regolare anche le relazioni di lavoro, e che supera anche il quadro delle società preindustriali, poiché ispira le differenti forme di paternalismo filantropico che attraverseranno il XIX secolo. È anche una griglia che sarà proposta per afferrare il senso del ritorno al locale delle politiche contemporanee d'inserimento. B. Il criterio dell'inabilità al lavoro. La povertà, così come la completa indigenza, non forniscono affatto titoli sufficienti per beneficiare dell'assistenza. Sono presi in carico principalmente coloro che non possono provvedere da sé ai propri bisogni perché sono incapaci di lavorare. L'handicap in senso ampio (infermità, malattia, ma anche vecchiaia, infanzia abbandonata, vedovanza con pesanti carichi familiari, ecc.) può rinviare a una “causa” familiare o sociale, a una rottura accidentale delle reti primarie di presa in carico tanto quanto a una deficienza fisica o psichica, ma, al di là di queste occorrenze, criterio discriminante decisivo per essere assistiti è proprio il riconoscimento di una incapacità di lavorare. Il nucleo dell'assistenza si costituisce nell'intersezione di questi due assi. La sua ampiezza dipende dal senso, che non è immutabile, conferito a ciascuno dei criteri, dato che sia la definizione sociale della relazione di prossimità sia quella dell'abilità o dell'inabilità al lavoro si modificano. Ma, a un dato momento,

trovarsi al centro di una possibile presa in carico significa essere situati al punto in cui questi due vettori si incrociano, con il loro carico massimo; vuol dire associare una incapacità completa di lavorare con un inserimento comunitario massimale. Queste componenti strutturali del campo assistenziale sono più importanti della qualità delle risorse disponibili per alimentarlo. Anche in un contesto in cui non esistono affatto finanziamenti specifici, o in cui l'infrastruttura istituzionale è praticamente inesistente e i mezzi di intervento estremamente rudimentali, il fatto di essere indubitabilmente incapace di assicurarsi la propria sopravvivenza tramite il lavoro e, al contempo, di essere iscritto in una comunità territoriale conferisce una quasiassicurazione di essere soccorso. Al limite, l'invalido che ha il suo posto abituale sotto il portico della chiesa, facendo parte del paesaggio sociale della parrocchia, gode di una sorta di reddito minimo garantito. Si potrebbero leggere gli sviluppi dell'assistenza come una sofisticazione progressiva delle risorse messe a disposizione del suo progetto, vale a dire una specializzazione, una istituzionalizzazione, una tecnicizzazione, una professionalizzazione sempre più spinte alle quali sono associati mezzi finanziari sempre più cospicui. Ma queste trasformazioni modificano la modalità di attualizzazione di questi due criteri senza intaccarne l'efficacia operazionale. Ben inteso, si tratta qui della costruzione di una sorta di modello ideale dell'assistenza. Esso non è pienamente realizzato che quando i due vettori della prossimità sociale e dell'inabilità al lavoro sono saturi. Ma è ancor più significativo osservare da vicino le forme di intervento assistenziale che sembrano allontanarsene. Lungi dal rifiutare la forza del modello, queste apparenti de-

viazioni ne confermano la validità, quanto meno se ne fa un uso dinamico. Bisogna in effetti interpretare le pratiche assistenziali reali, non a partire da un'applicazione meccanica di questi criteri, ma come una ponderazione fra i due vettori. Così, la forte saturazione di uno dei due assi può compensare, almeno in una certa misura, un deficit sull'altro, e viceversa. La simulazione dell'invalidità deriva da una prima strategia per aderire il più possibile al modello ideale della presa in carico assistenziale. L'esibizione di malattie, piaghe o finte infermità è un tema ricorrente, attraverso i secoli, di tutta la letteratura riguardante la mendicità. Falsi ciechi, falsi storpi, falsi feriti che giunta sera abbandonano le loro stampelle e i loro accessori per gozzovigliare popolano il mondo della pitoccheria67. Accade anche che la preoccupazione di fare pietà sia spinta ai suoi limiti estremi, come nelle numerose storie che narrano delle mutilazioni che si infliggono i mendicanti di professione, o che essi fanno subire ai bambini. Ma questo accanimento nel mimare l'inabilità al lavoro, quando non è reale, testimonia dell'importanza decisiva di questa categorizzazione per accedere ai soccorsi. Fingendo una tara invalidante, il simulatore riesce a insinuarsi in quella zona dell'assistenza in cui non avrebbe posto se fosse sano di corpo e di animo. Omaggio che il vizio rende alla virtù, in questo caso al valore eminente dato al lavoro: voi dovete avere pietà di me, perché sono visibilmente incapace di svolgere un qualunque lavoro. I poveri vergognosi rappresentano il caso di una figura più sottile. Essi possono essere assistiti senza essere fisicamente incapaci di lavorare. I poveri vergognosi sono degli indigenti che 67 Cfr. Roger Chartier (éd.), Figures de la gueuserie, Paris, Montalba, 1982.

hanno ricevuto una buona educazione e hanno occupato un posto onorevole nella società, ma che sono decaduti e non possono più mantenere il loro rango. Essi si trovano “in miseria per delle sfortunate circostanze senza avere la risorsa dei lavori manuali perché i pregiudizi della nascita, dell'educazione, della professione, o meglio, l'influenza dei costumi, proibiscono loro questa risorsa”. E il commentatore anonimo del XVIII secolo aggiunge: “La spada, la toga, la penna hanno ciascuna i loro poveri vergognosi, il terzo stato non cessa di produrne, non tra quelle classi inferiori, dedite alle arti puramente meccaniche, ma fra quelle che hanno abbracciato le arti liberali, o altre professioni la cui esecuzione richiede più il lavoro dello spirito che quello delle mani”68. Ho citato questo testo relativamente tardo perché propone una definizione particolarmente esplicita di “povero vergognoso”, ma questa categoria appare in Italia nella seconda metà del XIII secolo69. Essa esprime in effetti il declassamento sociale. Il suo emergere è legato allo sviluppo di una società urbana che, con l'accrescere la differenziazione e la stratificazione sociali, induce anche una mobilità discendente, ma essa mantiene la sua consistenza sino alla fine dell'Ancien Régime. Così, si ritrova di frequente, nei registri degli ospedali o delle fondazioni religiose, la menzione di una linea di bilancio speciale con annotazioni del tipo: “Una famiglia onesta che vuole essere ignorata. Artista. Quattro pani”70. Molto di frequente anche i responsabili dell'assistenza sono invitati a dare priorità a questa categoria di poveri, 68 Cit. in Jean-Pierre Gutton, La Société et les pauvres, cit., p. 23. 69 Cfr. Giovanni Ricci, Naissance du pauvre honteux, cit. 70 Cit. in Jean-Pierre Gutton, La Société et les pauvres, cit.

di cui la parrocchia o la città si sentono particolarmente responsabili. Una simile mansuetudine nei confronti dei “poveri vergognosi” testimonia, in primo luogo, del disprezzo nel quale sono tenuti i lavori manuali: una persona di una certa condizione, anche se ridotta alla miseria, è dispensata dalla necessità di darsi a questi compiti degradanti. Essa conferma pure la valenza negativa generalmente legata alla povertà: il povero “vergognoso” è vergognoso di mostrare che è povero, perché ha conservato la sua dignità e la povertà è indegna in un uomo di qualità. Ma il trattamento speciale di questa forma di indigenza si spiega soprattutto grazie alla forza e alla qualità del legame comunitario che questi sfortunati hanno conservato. Conosciuti e riconosciuti per aver occupato un rango onorevole, essi conservano un capitale di rispettabilità del quale riscuotono ora i dividendi sotto forma di soccorsi. Questo forte coefficiente di partecipazione sociale riesce a compensare quel paradossale handicap al soccorso rappresentato dal fatto di poter lavorare. Questa apparente eccezione alla regola del lavoro non confuta, dunque, la sua importanza. Da una parte, perché il povero vergognoso non è dispensato dall'obbligo del lavoro in quanto tale, ma da un lavoro servile che sarebbe indegno della sua condizione – l'obbligo del lavoro manuale non grava che sul basso popolo –, dall'altra, perché la partecipazione all'assistenza è fatta dalla combinazione di un rapporto con il lavoro e di un rapporto con la comunità. Lungo questo secondo asse, il trattamento del povero vergognoso esemplifica e spinge al limite quel che costituisce il fondamento della protezione ravvicinata: l'intensità e la qualità dell'iscrizione in un sistema di inter-conoscenze. Laddove

il mendicante simulatore, membro del basso popolo senza alcun credito, deve fingere ed esibire la decadenza del corpo per forzare la carità, il povero vergognoso, anche se valido, può accontentarsi di far riconoscere discretamente il proprio capitale sociale. Ma il trattamento riservato al mendicante valido è senza dubbio ancora più interessante per l'insuperabile ambiguità che rivela. La categoria appare come tale, con un significato da subito peggiorativo, all'inizio del XIV secolo71. Il suo emergere è pressappoco contemporaneo a quello del “povero vergognoso”, e non è un caso. Se sono senza dubbio esistiti in precedenza degli “oziosi” che vivevano di elemosina (non sono loro quelli che sant'Agostino prendeva di mira, per esempio, con la sua condanna di “coloro che non hanno neppure vergogna di mendicare”?), con l'espansione demografica, la crescita delle città e la stratificazione sociale che si accentua, essi divengono massicciamente visibili. Formano una categoria identificata come tale e rappresentano un problema per le autorità di gestione. A partire da questo momento, la maggior parte delle regolamentazioni reitera l'interdizione di fare loro l'elemosina. Così, secondo l'ordinanza emessa in Francia nel 1351 da Giovanni II detto il Buono, “coloro che vorranno fare la carità non ne diano ad alcuna persona sana di corpo e di membra che possa svolgere lavori con i quali possano guadagnarsi da vivere, ma la diano a persone malformate, cieche, minorate e ad altre persone miserabili”72. In Inghilterra, nella stessa epoca, l'ordinanza di Riccardo 71 Cfr. Michel Mollat du Jourdin (sous la direction de), Études sur l'histoire de la pauvreté, cit., t. I, p. 14. 72 “Ordonnance concernant la police du Royaume”, in Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des an-

II del 1388 assimila ogni mendicante valido (“Every person that goeth to begging and isable to serve or labor”) ai vagabondi, che sono di competenza delle misure di polizia, e li distingue dagli invalidi (impotent beggars), che possono esercitare le loro attività sul posto, se gli abitanti li tollerano73. Questa stessa distinzione si ripete attraverso la lunga serie di condanne del vagabondaggio e della mendicità da parte dei Valois 74 e nelle prime Poor laws inglesi del XVI secolo75. Il cuore del problema sta nel fatto che questa distinzione non ha mai potuto essere applicata in modo del tutto rigoroso. Non solo perché la permanenza di attitudini “caritatevoli” avrebbe contribuito ad attenuarne il rigore. A dispetto della condanna morale e religiosa degli “oziosi”, sorge il sospetto che essi non siano tutti colpevoli di non lavorare, e che potrebbero anche essere assistiti senza mendicare, a condizione di appartenere alla parrocchia. È questo il senso dell'evoluzione delle Poor laws inglesi nel corso del XVI secolo: partendo dalla condanna del mendicante “able-bodied”, che sarà frustato e cacciato (prima legge del 1535), esse ambiscono a prendere in carico l'insieme dei loro indigenti, anche se validi76. Anche in Francia, le istruzioni per l'apciennes lois françaises, cit., t. XIII, pp. 262-264. 73 Cfr. Charles James Ribton-Turner, History of Vagrants and Vagrancy, and Beggars and Begging, Montclair, Patterson Smith, 1972, p. 60. 74 Cfr. Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., t. XIII, pp. 262-264. 75 Cfr. John P. Pound, Poverty and Vagrancy in Tudor England, cit. 76 Cfr., in appendice a ivi, degli estratti del repertorio dei poveri soccorsi dalla città di Norwich nel 1570. Questi mostrano che alcune famiglie di lavoratori beneficiavano effettivamente dei soccorsi, sia in stato di disoccupazione sia anche quando il salario del capofamiglia era insufficiente per assicurare la sopravvivenza. Allo stesso modo, l'Elemosina generale di Lione, dalla sua fondazione nel 1534, amministra delle distribuzioni settimanali di pane agli indigenti, che sono spesso dei rap-

plicazione dell'ordinanza del 1764, analizzate qui di seguito, prevedono un trattamento particolare per i mendicanti domiciliati: quelli che vengono fermati “a meno di una mezza-lega” dal loro domicilio non sono mendicanti di professione, ma membri della comunità degni di essere soccorsi. L'internamento stesso si vuole strumento di reinserimento dei mendicanti domiciliati. Come per i “poveri vergognosi”, il criterio della domiciliazione annulla, al limite, quello dell'inabilità al lavoro per essere assistiti. Ma tale posizione non può essere mantenuta fino in fondo. Se si decostruisce la nozione di mendicante valido, essa svela una contraddizione insolubile. Come Giano, è un essere dai due volti. Da un lato, guarda verso l'assistenza, poiché è deprivato di tutto, ma dall'altro richiama la repressione, poiché è capace di lavorare e dovrebbe vivere della fatica del suo corpo. Talora la condanna del mendicante valido è quella di un usurpatore: qualcuno che si pone come beneficiario potenziale dell'assistenza mentre si libera dell'obbligo del lavoro. Talaltra si riconosce, o si sospetta, che egli non sia responsabile della propria situazione, e la porta dell'assistenza gli si dischiude. Ma, a differenza dell'indulgenza di cui beneficia il “povero vergognoso”, questa non è mai senza reticenza. Membro del popolo basso, egli non dispone di capitale sociale. È sulle persone della sua specie, di “vile stato”, che pesa in modo impietoso la condanna biblica: “Tu guadagnerai il tuo pane col sudore della tua fronte”. Certo, ma che cosa ne è, allora, di co-

presentanti dei piccoli mestieri (cfr. Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit.). Ma i rimedi proposti con queste “politiche municipali” non sono mai stati commisurati all'ampiezza del problema. Per l'insieme dei tentativi di messa al lavoro forzato degli indigenti validi, cfr. il capitolo seguente.

lui che il pane non può guadagnarselo, perché non può lavorare, non per incapacità, ma perché non ha lavoro? Tutta la storia dell'assistenza si gioca su questa contraddizione. Essa pone e reitera l'esigenza dell'incapacità di lavorare per beneficiare dei soccorsi, e in egual misura la organizza e la tradisce spesso. Perciò tutti questi tentativi sono, nel migliore dei casi, claudicanti e il più delle volte falliscono. Non solo per mancanza di risorse materiali, di mezzi finanziari, umani o istituzionali adeguati. Essi inciampano sull'impossibilità di recuperare completamente i problemi che pone l'indigenza valida nelle categorie specifiche dell'assistenza. Finché si tratta di bambini abbandonati, di vecchi invalidi, di infermi, di malati indigenti, ecc., finché si rimane nel quadro dell'handicappologia 77, essi non pongono un problema di fondo. Intendo con questo che le difficoltà, che pure possono essere molto gravi, sono essenzialmente di ordine tecnico, finanziario e istituzionale. L'incapacità di essere autosufficienti per persone che possono lavorare pone, al contrario, il problema fondamentale che, storicamente, il mendicante valido è stato il primo a rappresentare. Essa pone all'assistenza 77 Ciò non significa, evidentemente, che questa “handicappologia” si riduca a una categorizzazione naturalistica, senza relazione con la situazione sociale e il rapporto con il lavoro: le “carità” di Lione sono per la maggior parte popolate di “vecchi”, e soprattutto di “vecchie”, vecchi operai, operaie o vedove di operai della seteria o dei piccoli mestieri urbani (cfr. Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit.). L'invalidità dovuta all'età li fa beneficiare dell'assistenza, a condizione però che essi siano nati a Lione, o che vi abitino da più di dieci anni. Questi “vecchi”, però, pongono in filigrana anche la questione del lavoro: è l'insufficienza delle risorse acquisite nel corso della loro vita attiva che li condanna all'indigenza nella sera della loro esistenza. Si capisce così che sarà l'avvento delle assicurazioni legate al lavoro a rappresentare la “soluzione” a questo problema, come sarà la soluzione al problema dell'indigenza valida in generale (cfr. il capitolo VI).

la domanda della sfinge: come fare di un individuo in cerca di aiuto un produttore della propria esistenza? Questo interrogativo non comporta risposta, poiché la “buona risposta” non è del registro assistenziale, ma del registro del lavoro. Così, a partire dall'ambiguità addotta dal mendicante valido, si arriva a uno sdoppiamento e una drammatizzazione della questione sociale. Questo personaggio rappresenta la transizione concreta per reintrodurre, nella categorizzazione generale del malessere, la forma specifica ed essenziale del malessere del popolo: la decadenza della miseria laboriosa, o, peggio ancora, dei miseri che non hanno lavoro.

II. LA SOCIETÀ ACCATASTATA

A partire dal XII e dal XIII secolo, il socio-assistenziale ha assunto nell'Occidente cristiano una configurazione già complessa, in cui si possono leggere i tratti principali di una politica di assistenza “moderna”: classificazione e selezione dei beneficiari dei soccorsi, sforzi per organizzarli in modo razionale su base territoriale, pluralismo delle istanze responsabili, ecclesiastiche e laiche, “private” e “pubbliche”, centrali e locali. L'emergere, a partire da questa epoca, di due categorie di popolazioni, quella dei poveri vergognosi e quella dei mendicanti validi, indica che queste società conoscono già fenomeni di declassamento sociale (mobilità discendente) e di sotto-impiego (lavoratori validi costretti alla mendicità). Tutto si svolge, però, come se queste stesse società si sforzassero di assimilare queste popolazioni alle categorie dell'assistenza: il doppio criterio della domiciliazione e dell'incapacità di lavorare continua a essere posto (anche se spesso viene aggirato) come condizione della presa in carico. Questa dottrina prevale sino alla fine dell'Ancien Régime. Tuttavia, con la comparsa di un nuovo profilo di indigente, caratterizzato da una impossibile rapporto col lavoro, alla metà del XIV se-

colo si produce una trasformazione alla quale la maggior parte degli storici dell'assistenza non ha, a mio avviso, accordato attenzione sufficiente, perché essa non rientra più esattamente nel quadro della problematica dei soccorsi. La questione soggiacente all'esistenza della mendicità valida assume allora, con il vagabondaggio, una dimensione nuova. Ben inteso, il mutamento non è totale. L'ambiguo personaggio del mendicante valido non sparirà. Il nucleo del dispositivo regolamentare e istituzionale assemblato per l'assistenza è già dispiegato e tenterà di adattarsi alla nuova sfida. È, dunque, in parte, a una rilettura degli stessi dati che bisognerà procedere, ma questa rilettura dovrà essere profondamente differente se è vero che, verso la metà del XIV secolo, è apparso un nuovo personaggio o, almeno, ha acquisito una visibilità tale che servirà ormai da supporto a una versione differente della questione sociale. Esistevano da tempo bisognosi, indigenti, inetti, deprivati, e anche indesiderabili di ogni sorta, ma bisogna ormai fare i conti con individui che occupano nella società la posizione di surnumerari: essi non hanno alcun posto assegnato nella struttura sociale e nel suo sistema di distribuzione delle posizioni riconosciute, neanche quello che fa degli indigenti soccorsi una clientela integrata. Sono gli antenati dei surnumerari di oggi. Evidentemente non per un'identità di condizione, ma per una omologia di posizione.

1. 1349 Che cosa arriva, dunque, alla metà del XIV secolo? Una brusca propensione alla mobilità in una formazione sociale che non è pronta ad accoglierla, e che farà di tutto per contrastarla. Questo sommovimento spinge al centro della scena un nuovo profilo di indigenti. Nel 1349, Edoardo III, re d'Inghilterra, promulga l'ordinanza conosciuta sotto il nome di Statuto dei Lavoratori (Statutum serventibus, Statute of Labourers). Ne traduco le principali disposizioni: Poiché una consistente parte della popolazione, soprattutto fra i lavoratori [workmen] e i servitori [servants], è stata recentemente vittima della peste, molti, vedendo il bisogno nel quale si trovano i padroni e la grande penuria di servitori, non vogliono più servire [to serve] a meno che non ricevano dei salari [wages] eccessivi, e alcuni preferiscono mendicare nell'ozio piuttosto che guadagnarsi da vivere lavorando. Noi, considerando i gravi inconvenienti che occasiona ormai una penuria di questo tipo, dopo deliberazione e in accordo con i nobili, i prelati e i dotti che ci assistono, con il loro consenso, ordiniamo: Che ogni suddito, uomo o donna, del nostro regno d'Inghilterra, quale che sia la sua condizione, libera o servile [bord], che sia valido, che abbia meno di sessant'anni, che non viva del commercio [not living in merchandise] o non eserciti un mestiere artigianale [craft], che non possieda beni di cui possa vivere, né terre alla cui coltura possa dedicarsi, e che non sia al servizio di nessuno [not serving any other], se gli venga richiesto di servire in una maniera che corrisponde al suo stato, sarà obbligato

a servire colui che l'avrà così richiesto; e riceverà solamente per il posto che sarà obbligato a occupare i compensi in natura, vitto o salario che erano in uso durante il ventesimo anno del nostro regno, o in uno dei cinque o sei anni medi precedenti. Che sia inteso che il signore sarà sempre preferito a ogni altro dai propri servi e mezzadri, di modo che costoro siano mantenuti al suo servizio – ma che tuttavia i signori non saranno tenuti a mantenerli a loro servizio più a lungo di quanto sia loro necessario; e se un uomo o una donna, essendo così richiesti di servire, non lo fanno, tale fatto venendo attestato da due uomini degni di fede dinanzi allo sceriffo, al balivo, al signore o al prevosto della città, questi saranno immediatamente condotti da loro, o da uno di loro, nella prigione più vicina, dove saranno tenuti sotto stretta sorveglianza fino a che sia certo che servano nelle forme sopra enunciate; Che se un lavoratore o un servitore lascia il suo servizio prima del tempo richiesto, sarà imprigionato; Che i vecchi salari, senza aumenti, saranno dati ai lavoratori; Che se il signore di una città o di un dominio contravviene in qualche modo a tale disposizione, pagherà come ammenda il triplo della somma [versata]; Che se un artigiano [artificer] o un operaio riceve un salario più elevato di quello che gli è dovuto, sarà imprigionato; Che gli alimenti saranno venduti a prezzi ragionevoli. Allo stesso modo, poiché molti mendicanti validi [ablebodied beggars], per tutto il tempo che possono vivere di mendicità, rifiutano di lavorare o si dedicano alla pigrizia e al vizio, e talvolta al furto e ad altri abomini, nessuno potrà, sotto pena di sanzioni, donare checchessia

sotto pretesto di pietà o di elemosina a coloro che possono lavorare, o incoraggiarli nelle loro inclinazioni [desires], in modo che siano costretti a lavorare per vivere1.

Questa lunga citazione era necessaria per mostrare l'articolazione sistematica dei principali elementi di una nuova problematica del lavoro, agli inizi della modernità, e cioè: a) il richiamo all'imperativo categorico del lavoro per tutti quelli che non hanno altra risorsa per vivere che la forza delle proprie braccia; b) l'obbligo che il lavoro sposi il più strettamente possibile le forme della divisione dei compiti fissati dalla tradizione e dal costume. Che colui che lavora già si mantenga nel suo impiego (salvo se stia bene al suo datore di lavoro congedarlo), e che colui che è in cerca di lavoro accetti la prima ingiunzione che gli sia fatta nei quadri territoriali che contraddistinguono il sistema di dipendenze di una società ancora dominata dalle strutture feudali. Questo diritto di prelazione del signore vale tanto per gli uomini liberi che per i servi2; c) il blocco della retribuzione del lavoro, che non può essere oggetto di negoziazioni o aggiustamenti, e nemmeno di fluttua1 Cit. in Charles James Ribton-Turner, History of Vagrants and Vagrancy, and Beggars and Begging, cit., pp. 43-44. 2 Alla metà del XIV secolo, il servaggio è molto diminuito nell'Europa a ovest dell'Elba, ma le situazioni sono ancora molto contrastate fra alcune regioni in cui esso è già del tutto abolito e altre in cui resterà in vita ancora a lungo. Il contenuto che ricopre la nozione stessa di servaggio è d'altronde lontano dall'essere univoco. Queste disparità, nel nostro caso, non sono significative perché per il nostro fine conta soltanto che le misure prese alla metà del XIV secolo non tengano conto di questa differenza e trattino alla pari tutte le categorie di lavoratori manuali, di siano essi rurali o urbani, servi o liberi.

zioni spontanee, ma si ritrova imperativamente fissata una volta per tutte; d) il divieto di eludere l'imperativo del lavoro ricorrendo a delle prese in carico di tipo assistenziale (divieto per i deprivati di mendicare e, correlativamente, per i possidenti di alimentare attraverso l'elemosina la presa in carico di soggetti adatti al lavoro). Queste disposizioni rappresentano un vero e proprio codice generale del lavoro per tutti coloro che sono sottomessi all'obbligo di guadagnarsi da vivere lavorando. Esso funziona su due registri, e traccia una linea di demarcazione tra due tipi di lavoratori. L'ordinanza si indirizza a titolo preventivo a tutti coloro che sono inscritti nel sistema istituito dei mestieri artigiani o che servono un padrone – domestici, persone di casa, personale dei domini ecclesiastici e laici –, o che, di condizione libera o servile, sono legati a una terra dalla quale traggono la loro sussistenza alle dipendenze di un proprietario: che restino fissati al loro luogo di lavoro e si accontentino della loro condizione e della retribuzione che vi è connessa. Correlativamente, l'ordinanza condanna il flusso in via di costituzione degli individui “liberati”, o che si liberano dalle regolazioni tradizionali, e al contempo coloro che sono senza impiego e coloro che si pongono in una posizione di mobilità in rapporto all'impiego. L'ordinanza risponde alla constatazione che un certo tipo di popolazioni, non incastrate nelle strutture della divisione del lavoro, rappresenta ormai un problema. Essa impone, allo stesso tempo, una soluzione: sradicare la mobilità, bloccarne il flusso alla sorgente, e reiscrivere di forza in strutture fisse tutti coloro che si sono sganciati. Essa vieta in particolare la scappatoia che consentirebbe nel far ricorso all'as-

sistenza per sopravvivere quando si è capaci di lavorare. Il codice del lavoro si formula in opposizione esplicita al codice dell'assistenza. È chiedere troppo a un testo? Esso non è isolato. Nella stessa Inghilterra, sarà più volte reiterato, con delle varianti, nella seconda metà del XIV secolo. Nel 1388, Riccardo II vi apporta tre precisazioni interessanti. Innanzitutto, gli impiegati (servants) che lasciano il loro posto devono essere muniti di un'attestazione certificata dalle autorità del loro distretto. Se sono sorpresi a errare (wandering) senza questo passaporto, saranno internati e vigilati fino a che sia certo che riprendano l'impiego che hanno lasciato. In secondo luogo, tutti i lavoratori di più di dodici anni, dediti alle mansioni agricole, non possono scegliere un altro impiego manuale, e ogni nuovo contratto di lavoro o di apprendistato che trasgredisca questa regola è dichiarato nullo e non avvenuto. Infine, ogni mendicante valido è assimilato ai vagabondi che errano senza attestato. In compenso, i mendicanti invalidi possono restare su piazza se gli abitanti del luogo li tollerano; in caso contrario, dovranno recarsi o nelle città che posseggono degli asili, o nel loro luogo di nascita, dove risiederanno fino alla loro morte3. In Francia una prima ordinanza del 1351 di Giovanni II il Buono riguarda coloro “che si mantengono oziosi per la città di Parigi […] e non vogliono esporre il proprio corpo a svolgere alcun compito […] di qualunque stato e condizione siano, che ab3 Cfr. Charles James Ribton-Turner, History of Vagrants and Vagrancy, cit., p. 60. La stessa ordinanza di Riccardo II esige che gli studenti in transito siano muniti di un attestato del rettore dell'ultima università che hanno frequentato, e che i viaggiatori che si dichiarino pellegrini possano attestare che si recano effettivamente a un pellegrinaggio.

biano o no un mestiere, che siano uomini o donne, che siano sani di corpo e di membra”, e ingiunge loro di “fare qualsiasi [vale a dire non importa quale] tipo di lavoro con cui possano guadagnarsi da vivere o lascino la città di Parigi […] entro tre giorni da questa grida”, in mancanza di ciò essi saranno imprigionati, messi alla gogna in caso di recidiva, e alla terza occasione bollati a fuoco sulla fronte e banditi4. Tre anni più tardi, una nuova ordinanza reale (novembre 1354) se la prende esplicitamente con la grande folla di operai che non volendo svolgere lavori se non sono pagati a loro volontà […] e non volendo operare che a loro piacere [e di coloro che] si spostano dai luoghi di residenza e lasciano donne e bambini e il proprio paese e domicilio. […] Si ordina che ogni sorta di persone, uomini e donne, che sono abituati a fare o esercitare opere o lavorazioni in terre e vigneti o opere di manifattura di panni e falegnameria, carpenteria, muratoria, mansioni di casa e simili, si rechino prima del levar del sole nelle piazze dei luoghi destinati a collocare gli operai, per andare a lavorare, secondo i prezzi che saranno fissati per le giornate dei lavoratori dei detti mestieri5.

Queste ingiunzioni, imperative, sottolineiamolo, sia per i lavoratori delle città sia per quelli delle campagne, saranno richiamate più volte fino all'ordinanza bollata uscita dagli stati generali del 1413, che constata che “molte arature restano senza coltivazione, e molti villaggi di pianura poco abitati”, e di conse4 Cfr. Athanase-Jean-Léger Jourdan, Deecrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit. pp. 557 sgg. 5 Cfr. ivi, p. 700.

guenza “il Re ordina che tutti i questuanti e le questuanti che siano in grado di guadagnarsi da vivere siano costretti a sospendere le loro questue e ad andare a guadagnarsi da vivere altrimenti”. Coloro ai quali l'assistenza è interdetta sono sempre “i questuanti e le questuanti che non sono invalidi ma hanno la forza di lavorare o guadagnarsi altrimenti da vivere, e anche le persone vagabonde e oziose, come grassatori e simili”6. Nella penisola iberica, Alfonso IV di Portogallo nel 1349, le Corti di Aragona nel 1349 e nel 1350 e quelle di Castiglia nel 1351, fissano dei massimali salariali e queste misure sono rafforzate nel corso del XIV secolo, accompagnate dal divieto di spostamenti alla ricerca di un impiego e dalla repressione del vagabondaggio7. Ludwig von Wittelsbach, duca di Baviera, decreta nel 1357, per la Baviera e il Tirolo, che i servitori e i lavoratori a giornata devono restare al servizio dei loro datori di lavoro senza aumento di salario. Se lasciano l'impiego, i loro beni saranno confiscati8. Inghilterra, Francia, Portogallo, Aragona, Castiglia, Baviera: nella maggior parte dei paesi in cui un potere centrale comincia ad affermarsi si adotta simultaneamente un insieme sorprendentemente convergente di misure per imporre un rigido codice del lavoro e reprimere l'indigenza oziosa e la mobilità della manodopera. Ma è anche la politica di numerose città nel complesso dell'Europa “civilizzata” dell'epoca: Orvieto nel 1350, Firenze nel 1355, Metz nel 1356, Amiens nel 1359... 9 Poteri centrali e poteri 6 Cfr. ivi, p. 701. 7 Cfr. Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit. 8 Cfr. Catharina Lis, Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Pre-Industrial Europe, cit. 9 Cfr. Michel Mollat de Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge, cit.

municipali cospirano nella volontà di rinchiudere il lavoro nei suoi quadri tradizionali, limitando il più possibile la mobilità professionale e geografica per gli impieghi manuali. Essi convergono anche nella presa di coscienza che esiste una differenza essenziale fra la questione dell'obbligo del lavoro e la questione dell'assistenza. È, dunque, proprio la congiunzione di un nuovo tipo di mobilità dei lavoratori e di una volontà politica di interdirla che caratterizza questa situazione. La mobilità in quanto tale non è assolutamente una novità nella società medievale, e prima di tutto la mobilità in senso di circolazione geografica: La vita delle strade nel Medioevo era singolarmente intensa nel XIV e nel XV secolo. I venditori ambulanti, i mugnai, trasportavano la loro mercanzia di villaggio in villaggio; i pellegrini che si recavano in numerosi luoghi di pellegrinaggio, soprattutto a San Giacomo, vivevano di elemosine; i frati mendicanti, i predicatori di ogni specie andavano di città in città, pronunciando dinanzi alle chiese discorsi appassionati; altri speculavano sui meriti dei santi del paradiso; i chierici si recavano di convento in convento, portando le notizie, gli studenti raggiungevano la loro università. Lungo le strade si incontravano, poi, giullari, cantastorie, mercanti di animali; soldati in congedo o che si univano a un'armata ingombravano i sentieri, costeggiando una moltitudine di mendicanti, mentre le bande di ladri popolavano i boschi vicino alle strade10. 10 Cfr. Christian Paultre, De la répression de la mendicité et du vagabondage en France sous l'Ancien Régime, cit., p. 1.

A fortiori, prima del XIV secolo, in un mondo in cui sussistevano vaste zone, lande e foreste, che nona avevano mai subito l'impronta della civilizzazione, si aggiravano delle presenze inquietanti. Evocando il fiorire della cristianità latina tra l'XI e il XII secolo, Georges Duby nota: “Tuttavia, sulle frange di questa società garantita, si indovina l'esistenza di piccoli gruppi di disadattati, di reietti come ne creano tutte le forme di società. Questi esseri sono rigettati al di fuori delle zone di radicamento, nelle zone forestiere ancora non colonizzate, sulle strade”11. Accadeva di frequente che questi erranti ponessero dei problemi. Quando non li si poteva ignorare, li si combatteva come dei nemici, soprattutto quando si raggruppavano, come quelle bande di strada che infestavano le campagne nel XII secolo 12. Ma si tratta di condotte di autodifesa, che mirano suppergiù all'eliminazione di questi indesiderabili. Questi ultimi restano al di fuori di ogni commercio sociale, e non si tenta di utilizzarli o di integrarli. Al contrario, esistono delle forme di mobilità accettate, come quelle dei pellegrinaggi o delle crociate, che sono nel loro principio inquadrate e ritualizzate, anche se danno luogo a eccessi e a disordini. Le peregrinazioni armate di truppe più o meno regolari sono più devastanti, ma fanno ugualmente parte del paesaggio sociale dell'epoca, come le carestie fanno parte del 11 Cfr. Georges Duby, Les pauvres des campagnes dans l'Occident médiéval jusqu'au XIIIe siècle, cit., p. 29. 12 Cfr. Charles-Erneste de Fréville de Lorme, Des grandes compagnies au XVIe siècle, in “Bibliothèque de l'École des Chartes”, Série I, t. II, p. 272. Fréville fa egli stesso la differenza fra la struttura gerarchica e militare delle Compagnie del XIV secolo e le bande di strada del XII secolo, costituite soprattutto da servi in rotta e che formavano dei raggruppamenti popolari all'origine di sollevazioni non strutturate e violente del tipo delle jacqueries.

suo paesaggio economico. Allo stesso modo, la mobilità dei mercanti, senza dubbio problematica all'origine, diviene una componente integrata alla struttura sociale medievale, di cui essa rappresenta il settore più dinamico13. Del tutto differente è la mobilità che appare, o almeno che comincia a fare esplicitamente problema, a partire dal XIV secolo. Essa non è opera di individui che sono rimasti al di fuori dei quadri della società organizzata, o che vi si siano integrati professionalmente, o che circolano alle sue frontiere. La nuova mobilità nasce da una scossa interna, nel seno della società costituita. Di qui una differenza essenziale anche nelle misure che suscita. Non si tratta di proteggersi da turbolenze esterne, ma di rinforzare le regolazioni interne all'ordine sociale obbligando ciascuno a mantenersi al proprio posto nella divisione del lavoro, perché la difficoltà, ormai, è quella dell'organizzazione del lavoro e della sottomissione di un nuovo profilo di individui alle sue forme tradizionali. Le popolazioni interessate rappresentano ciò che si è in diritto di chiamare, ante litteram ma nel senso stretto del termi13 Cfr. Jacques Le Goff, Marchands et banquiers au Moyen Âge, Paris, PUF, 1956; trad. it. Mercanti e banchieri nel Medioevo, Messina-Firenze, D'Anna, 1976. La tesi estrema di Henri Pirenne (cfr. Les anciennes démocraties des Pays-Bas, Paris, Flammarion, 1910), secondo la quale dei mercanti erano all'origine degli erranti, dei “piedi polverosi”, non è più difesa sotto questa forma (per la posizione opposta, che mette l'accento sui legami fra lo sviluppo del commercio e la proprietà terriera, cfr. per esempio Jacques Heers, Le clan familial au Moyen Âge. Étude sur les structures politiques et sociales des milieux urbains, Paris, PUF, 1974; trad. it. Il clan familiare nel Medioevo. Studi sulle strutture politiche e sociali degli ambienti urbani, Napoli, Liguori, 1976). Resta nondimeno il fatto che mercanti, negozianti e banchieri rappresentino lo strato più mobile, ma anche quello che, divenendo sempre più essenziale, si fa accettare sempre meglio nella società medievale. Il mercante, come il pellegrino, lo studente, il chierico vagante, ecc., sono mobili, ma non per questo sono dei disaffiliati.

ne, un proletariato: coloro che non dispongono per sopravvivere che della forza delle loro braccia. Una questione operaia inedita si pone così nel momento dello sgretolamento della società feudale. Non è incongruo parlare di proletari prima della sviluppo del capitalismo. San Tommaso d'Aquino già li evoca: “I mercenari che fittano il loro lavoro sono dei poveri perché attendono dal loro lavoro il loro pane quotidiano”14. Un contemporaneo di Tommaso d'Aquino, Jacques de Vitry, canonico di Orgnies, vicino Liegi, rintraccia allo stesso modo l'esistenza di una categoria di “poveri che guadagnano la propria sussistenza quotidiana dal lavoro delle proprie mani senza che resti loro nulla dopo che hanno mangiato”15. Così, questi “mercenari”, la cui sopravvivenza dipende esclusivamente dalla locazione della loro forza-lavoro, sono letteralmente dei proletari. Ma fintanto che restano integrati, territorializzati, essi sono “semplicemente” dei poveri. Sono al loro posto e fanno parte dell'ordine del mondo; non pongono ancora una “questione sociale”. Diversa è la situazione a metà del XIV secolo, perché è prodotta dalla deregolamentazione dell'organizzazione del lavoro. In questo senso, essa evoca le circostanze dell'inizio del XIX secolo, nel momento in cui si pone per la prima volta esplicitamente la questione sociale sotto forma della questione del pauperismo 16. Le evoca solamente, perché quello che si chiamerà pauperismo sarà prodotto dalla liberalizzazione selvaggia di un mercato del lavoro mentre qui, al contrario, è l'assenza di un tale mercato che pone il problema, problema che si può formulare in questi 14 San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae (I, 2, 105, a2), cit. in Michel Mollat du Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge cit., p. 282. 15 Cit., ivi, p. 133. 16 Per l'analisi del pauperismo, cfr. di seguito il cap. V.

termini: come bloccare una mobilità che non trova il suo posto nell'organizzazione tradizionale del lavoro? Questo è il senso delle misure prese a partire dalla metà del XIV secolo: tentare di sradicare la contraddizione fra le strutture fisse che organizzano il lavoro e la mobilità nascente. Se un proletariato integrato non pone problemi nella società preindustriale, non accade lo stesso per degli individui in cerca di impiego. Essi rappresentano una manodopera fluttuante che non ha davvero un posto nell'organizzazione del lavoro e non può essere accettata come tale 17. Occorre allora ingiungere loro non solamente di lavorare, ma, di più, di lavorare nel posto loro ancestralmente fissato nella produzione. Eppure, se hanno lasciato questo posto, spesso è perché non potevano fare altrimenti. Le misure adottate dalla metà del XIV secolo esprimono un dilemma; esse constatano una propensione 17 Marx, è noto, ha sottolineato il ruolo di queste popolazioni fluttuanti nello sviluppo del capitalismo, del quel esse avrebbero costituito “l'esercito di riserva” (cfr. Le Capital, livre I, VIII section, chap. XXVII in Id., Oeuvres, I, Paris, Gallimard, 1968, p. 1171 sgg.; trad. it. Il Capitale. Critica dell'economia politica, a cura di Delio Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 2006). Tuttavia, soprattutto se è vero – come tento qui di stabilirlo – che il fenomeno appare alla metà del XIV secolo, questa interpretazione solleva una difficoltà. Il capitalismo è allora assai embrionale, e si accontenta della fissazione della manodopera nei quadri territoriali tradizionali, soprattutto attraverso lo sviluppo di un artigianato rurale (cfr. di seguito il cap. III). Le misure prese nel XIV secolo hanno per effetto quello di bloccare, con la mobilità della manodopera, la possibilità della sua nuova organizzazione che darà origine al capitalismo industriale. La mia ipotesi è che questa mobilità selvaggia non è all'inizio un effetto delle trasformazioni delle strutture della produzione in direzione dello sviluppo del capitalismo, e che essa è apparsa prima di poter essere integrata in queste strutture “moderne”. La scossa sociale della metà del XIV secolo non è determinata dalla spinta di nuove forze economiche. Nondimeno, per un'interpretazione marxista ortodossa di tali questioni, cfr. Maurice Dobb, Études sur le développement du capitalisme, Paris, Maspéro, 1969, in particolare il capitolo VI; trad. it. Problemi di storia del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1991.

al movimento, ma si ostinano a imporre l'immobilità. Le popolazioni che esse investono sono letteralmente prese in una morsa: coinvolte in un processo di mobilità, le si costringe a ritornare allo statu quo ante.

2. La deconversione della società feudale In quale contesto si produce l'emergere di questa problematica? La spettacolare convergenza delle misure promulgate alla metà del XIV secolo rinvia in primo luogo a un evento tragico: la Peste nera, che, si stima, abbia falcidiato circa un terzo della popolazione europea prima della fine del secolo. Così, sullo sfondo di dies irae, accompagnate dalle processioni dei flagellanti e dalla ronda delle danze macabre, le “pestilenze” fanno precipitare il “mondo pieno” del Medioevo al suo apogeo in un mondo in cui l'uomo è divenuto raro18. In tale generale desolazione, i miserabili, più vulnerabili, hanno pagato il tributo più gravoso alla morte. Un cronista della fine del secolo annota: “La mortalità universale fece perire tanti coltivatori di vigne e terre, tanti operai di tutti i mestieri […] al punto che se ne ebbe grande penuria”. E

18 Per l'importanza da accordare al “mondo pieno”, che non solamente un tratto di densità demografica, ma la condizione di un intensificarsi degli scambi di ogni sorta che ha permesso il fiorire della “cristianità latina”, cfr. le opere di Pierre Chaunu, fra cui il capitolo Le tournant du monde plein, in Id., Les temps des réformes, Paris, Fayard, 1975, t. I. La popolazione di questa cristianità latina (l'Europa a ovest dell'Elba) raggiungeva verosimilmente gli ottanta milioni di abitanti nel 1348 ed è precipitata a circa sessanta milioni alla fine del secolo. Bisognerà attendere più di un secolo e mezzo perché questo vuoto demografico sia colmato.

aggiunge: “Tutti gli operai e le loro famiglie esigevano dei salari eccessivi”19. Che cosa c'è di più naturale per i poveracci sopravvissuti che “approfittare” di questa situazione in cui sono divenuti più ricercati perché meno numerosi? Essi facevano insomma valere la legge della domanda e dell'offerta di manodopera a loro profitto, e vi riuscirono in una certa misura. Durante i venti anni che seguirono i primi attacchi della Morte nera, i salari aumentarono in modo considerevole, spesso più del doppio. La situazione resterà d'altronde relativamente favorevole ai salariati fino all'inizio del XVI secolo, segnato da una netta ripresa demografica 20. Questa fiammata salariale, attestata da tutti i documenti dell'epoca, non significa però che le misure di blocco degli anni Cinquanta del XIV secolo siano state inefficaci. Senza di esse, lo slittamento sarebbe senza dubbio stato maggiore. Così, uno studio, molto preciso, mostra come in Inghilterra siano stati dispiegati sforzi sistematici affinché lo Statuto dei lavoratori venisse realmente applicato21. Ancora in Inghilterra, durante i primi anni successivi alla sua promulgazione, le ammende inflitte ai lavoratori per averlo infranto furono assai pesanti, rappresentando in alcune contee più di un terzo delle tasse pagate22. 19 Gilles de Muisit, cit. in Michel Mollat du Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge, cit., p. 24. 20 L'utilizzo dei termini “salario” e “salariati” non implica che esista allora un salariato, ma al contrario una folla di situazioni salariali eterogenee e ambigue. Per l'esplicitazione di questo punto di vista, cfr. cap. III. 21 Cfr. Bertha Haven Putman, The Enforcement of the Statute of Labourers during the First Decade after the Black Death. 1349-1359, New York, Columbia University Press, 1908. 22 Rodney Howard Hilton (Les Mouvements paysans et la révolte anglaise de 1381, Paris, Flammarion, 1979) nota coerentemente che, al momento dell'insurrezione dei lavoratori che fa vacillare il trono di Riccardo II nel 1381, i rivoltosi si scagliano soprattutto contro gli uomini di legge, molti

Più in generale, e contrariamente a certe descrizioni apocalittiche del dopo-Peste nera – accompagnata in Francia dalle razzie del peggior periodo della Guerra dei Cent'anni –, la falla aperta dal crollo demografico non ha comportato un impoverimento generale. Le analisi di Carlo Cipolla attestano un progresso pro capite nello spazio europeo tra il 1350 e il 1500 sia della produzione sia del consumo23. Per i poveri, anche se può essere esagerato parlare di una “epoca d'oro del salariato” 24, la situazione dei sopravvissuti alla peste è spesso risultata, almeno per un certo periodo, migliorata. Non bisogna dunque confondere le turbolenze sociali e le rivolte popolari dell'epoca con le sommosse dovute alla miseria, come ce n'erano state innumerevoli in precedenza, e come se ne produrranno almeno fino al XVII secolo. Nella seconda metà del XIV secolo, esse riverberano l'onda d'urto di uno sgretolamento sociale prima di essere l'effetto di un aggravio della miseria. È il caso allora degli intensi turbamenti che si scatenano intorno al 138025. è infatti l'Europa “sviluppata” che vacilla in Inghilterra, nella Fiandra marittima, a Firenze, nella contea di Barcellona, nelle città più sviluppate della Francia del Nord. Robert Fossier vede nell'insieme di questi avvenimenti “il segno dei quali furono massacrati – quegli stessi uomini di legge che, tra le altre cose, erano incaricati di applicare lo Statuto dei lavoratori. Le rivendicazioni dei rivoltosi sono altrettanto significative. Essi chiedono, come riporta un contemporaneo, “che nessun uomo lavori per un altro se non per sua scelta e che il contratto di lavoro sia scritto”. 23 Cfr. Carlo Maria Cipolla, Before the Industrial Revolution, European Society and Economy, 1000-1700, London, Methuen, 1976; ed. it. Storia economica dell'Europa pre-industriale, Bologna, il Mulino, 2016. 24 Cfr. Jean Favier, La Guerre de Cent Ans, Paris, Fayard, 1980. 25 Cfr. Michel Mollat du Jourdin, Philippe Wolff, Ongles bleus, Jacques et Ciompi. Les révolutions populaires en Europe aux XIV e et XVe siècles, Paris, Calmann-Lévy, 1970.

violento, come vuole il clima del tempo, di un vivo desiderio di promozione sociale”26. Un contemporaneo molto ostile a questi movimenti non dice cose diverse nel linguaggio dell'epoca: “Le persone misere cominciarono ad agitarsi dicendo che le si teneva in troppo grande servitù […] che volevano essere tutt'uno con i loro signori, e che se essi coltivavano le terre dei signori, volevano averne salario”27. Nel dramma che si è svolto nella seconda metà del XIV secolo, i soli protagonisti non furono, dunque, la morte e le sue tragiche ecatombi, né la guerra, costante della storia sociale dopo l'alto Medioevo, né la miseria, condizione comune del popolo minuto; ma è anche il modo di governamentalità della società che è stato scosso, in particolare sul piano dell'organizzazione del lavoro. L'ipotesi proposta è che i cambiamenti della seconda metà del XIV secolo siano i sintomi di una deconversione della società feudale. Prendo a prestito questo termine da Philip Rieff. Egli lo adopera per caratterizzare il passaggio da sistemi di regolazione rigidi (che egli chiama “le comunità positive”) a delle organizzazioni sociali nelle quali l'individuo non è più organicamente legato a norme, e deve contribuire alla costituzione di sistemi di regolazione28. Preferisco questo termine a quello di crisi, troppo vago, o a quello di decomposizione, troppo esagerato, dato che la specificità della situazione attiene proprio al fatto che l'armatura della società non ha ceduto. Sotto certi aspetti si è anche rinfor26 Robert Fossier, Histoire sociale de l'Occident médiéval, cit., p. 343. 27 Jean Froissart, Chroniques, livre I, t. X, Luce, Paris, 1874, p. 95. 28 Cfr. Philip Rieff, The Triumph of Therapeutic. The Uses of Faith after Freud, London, Chatto & Windus, 1966; trad. it. Gli usi della fede dopo Freud. Il trionfo della terapeutica in Freud, Jung, Reich e Lawrence, Milano, ILI, 1972.

zata. Tuttavia, al di là delle regolazioni giuridico-politiche rigide, appaiono fattori di cambiamento che le nuove misure adottate a partire dal 1350 si sforzano di bloccare. Si apre uno spazio di turbolenza, che non è più controllato attraverso le strutture tradizionali, senza che queste perdano la loro influenza. Si crea un gioco fra le reti di interdipendenza, che apre zone di incertezza ai margini degli statuti costituiti. Si disegna un profilo sociale, che non ha più il suo posto in seno alle condizioni sociali riconosciute e agli “ordini” costituiti. Tutta qui la differenza rispetto a ciò che si è prodotto a est dell'Elba in una congiuntura dello stesso tipo e che vi ha prodotto il “secondo servaggio”. Sia perché i poteri tradizionali erano più forti, sia perché le comunità rurali e urbane erano meno strutturate e meno differenziate, o piuttosto per queste due serie di ragioni contemporaneamente, la reazione nobiliare ha potuto bloccare le trasformazioni e affossare per diversi secoli la società nell'immobilismo. A ovest, il crollo della società feudale si caratterizza per un montaggio paradossale di continuità e di cambiamento, di cui ci si sforza qui di coglierne la logica. Questi avvenimenti della metà del XIV secolo segnano una tappa decisiva in una dinamica le cui prime manifestazioni sono già visibili prima della Peste nera. Durante i primi tre secoli del secondo millennio, una fioritura economica, sociale e culturale senza precedenti si è progressivamente affermata, almeno in quella che Pierre Chaunu chiama “l'Europa dei successi”: le Fiandre, il sud dell'Inghilterra, la Germania e l'Italia del nord, alcuni bastioni mediterranei e la Francia, soprattutto fra la Somme e la Loira 29. La società medievale è 29 Cfr. Pierre Chaunu, L'État, in Id., Histoire économique et sociale de la

così passata da una civiltà essenzialmente agraria, rurale e guerriera, a una bipolarità tra comunità rurali più diversificate e comunità urbane più prospere e più indipendenti. Senza dubbio la città resta quantitativamente marginale, ma è a partire da essa che si sviluppano l'artigianato, gli scambi commerciali, l'economia monetaria, le tecniche bancarie del capitalismo commerciale. Ma anche queste innovazioni si dispiegano attraverso delle gerarchie precise, che mantengono, nelle città come nel mondo rurale, la stessa subordinazione di ciascuno all'insieme 30. Così, ciò che si inventa di più nuovo e va a fungere da culla agli sviluppi della modernità sembra ancora inquadrato dalle regolazioni tradizionali di una società di ordini. Tuttavia, questo mondo pieno è un mondo fragile, per almeno due ragioni: il suo iperpopolamento mette in evidenza la scarsità delle risorse disponibili in rapporto alla popolazione e l'accentuazione della differenziazione sociale mina l'efficacia dei controlli tradizionali. Segni di rallentamento si manifestano dal XIII secolo su questi due piani. I dissodamenti dei terreni si arrestano in mancanza di nuovi spazi da conquistare, mentre la popolazione continua a crescere. Le grandi carestie di un tempo rifanno la loro apparizione e gli anni 1313-1315, per esempio, sono segnati in tutta Europa da una terribile fame31. Ma l'equiliFrance, PUF, Paris, 1977, t. I. Sul “decollo” della società feudale, cfr. l'esposizione sintetica di Georges Duby, Guerriers et paysans, cit. 30 Henri Pirenne, lo storico che ha con maggior forza insistito (forse anche troppo) sui fattori di innovazione apportati dallo sviluppo del fenomeno urbano, sottolinea nello stesso tempo il fatto che la città riproduce o ritraduce la struttura gerarchica e le interdipendenze della società agraria. Paragona anche la città medievale a un alveare. Cfr. Henri Pirenne, Les anciennes démocraties des Pays-Bas, cit., p. 178. 31 L'interpretazione in termini essenzialmente demografici di queste difficoltà che culminano nella “crisi” della metà del XIV secolo, e che è nei

brio della società medievale è ugualmente intaccato dai progressi della differenziazione sociale. Si sono già notate delle manifestazioni di mobilità discendente (il povero vergognoso) e di squilibrio fra l'offerta e la domanda d'occupazione (il mendicante valido). Analisi precise stabiliscono che esistono già verso il 1300, nelle contrade più ricche dell'Europa occidentale, in campagna come in città, gruppi che vivono in situazione di precarietà permanente, nel momento stesso in cui la crescita generale sembra progredire32. La metà del XIV secolo non inaugura quindi una situazione completamente nuova, ma lo choc demografico dovuto alla Peste nera, creando bruscamente un vuoto in questo mondo pieno, provoca uno smottamento dei rapporti sociali nel quale alcuni storici hanno visto “la grande frattura della storia europea”. Tra il 1300 e la Peste nera la proporzione dei manovali si gonfia pericolosafatti l'applicazione di uno schema neomalthusiano (non ci sono a sufficienza risorse per accompagnare la crescita demografica), è la più frequente. Cfr., per esempio, Michael Moissey Postan, The Medieval Economy and Society. An Economic History of Britain in the Middle Age, London, Weidenfeld and Nicolson, 1972; trad. it. Economia e società nell'Inghilterra medievale. Dal XII al XVI secolo, in Michael Moissey Postan, Christopher Hill, Eric John Hobsbawm, Storia economica dell'Inghilterra, vol. 1, Torino, Einaudi, 1978. Catharina Lis e Hugo Soly muovono una critica a questa preponderanza dei fattori demografici mostrando che il vero problema è quella della ineguale ripartizione delle risorse più che quello della loro rarità (Catharina Lis, Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Pre-Industrial Europe, cit.). 32 Per la Francia, cfr. Robert Fossier, La terre et les hommes en Picardie jusqu'à la fin du XIIIe siècle, Paris-Louvain, Nauwelaerts, 1968; per l'Inghilterra, cfr. Evgeny Alekseevic Kosminsky, Studies in the Agrarian History of England in the Thirteenth Century, Oxford, Blackwell, 1956; per l'Italia, Charles-Marie de La Roncière, Pauvres et pauvreté à Florence, cit.

mente, nondimeno il gruppo centrale dei villani resta ancora maggioritario33. Ma, a partire dalla metà del secolo, la terra si fraziona, e cambia anche frequentemente di mano, accentuando la bipolarizzazione del mondo rurale: a un'estremità, i “galli cedroni” cominciano un'ascesa sociale che li spingerà talvolta fino alla condizione borghese, e persino agli uffici; all'altro polo, i contadini spossessati si impoveriscono, fittano sé stessi ai più ricchi, semisalariati finché conservano un lembo di terra da coltivare, salariati completi, cioè veri e propri proletari agricoli, quando sono senza terra. Le monografie relative a zone particolari confermano questa interpretazione. Così, l'analisi delle trasformazioni economiche intervenute in un manor inglese nell'arco di diversi secoli mostra che le trasformazioni decisive, nel senso del depauperamento dei tenutari, hanno sicuramente avuto luogo nella seconda metà del XIV secolo 34. Valutazioni più generali stimano in un terzo circa la proporzione dei rurali che non può più vivere dello sfruttamento della terra, artigiani non compresi 35. Hilton riassume così il movimento di fondo: “Una società contadina retta dalle tradizioni fu scossa dal fenomeno della mobilità incontrollata dei contadini e di tutte le transazioni riguardanti la terra”36. 33 Cfr. Guy Bois, La crise du féodalisme, cit., p. 344. 34 Cfr. Frances Gardiner Davenport, The Economic Development of a Norfolk Manor, 1080-1565, Cambridge, Cambridge University Press, 1906. 35 Cfr. Michael Moissey Postan, Rodney Howard Hilton, Qu'entend-on par capitalisme?, in Maurice Dobb, Paul Marlor Sweezy et alii, Du féodalisme au capitalisme. Problèmes de la transition, Paris, Maspéro, 1977, p. 191; trad. it. La transizione dal feudalesimo al capitalismo, Roma, Savelli, 1973. Cfr. anche Catharina Lis, Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Pre-Industrial Europe, cit., pp. 41 sgg. 36 Rodney Howard Hilton, Les mouvements paysans au Moyen Âge, cit., p. 213.

“Mobilità incontrollabile”: masse di povera gente fanno l'esperienza negativa della libertà di sfuggire alle inscrizioni tradizionali. Una parte di questi disaffiliati migra verso la città. Ma questa ha perso il relativo potere di accoglienza che aveva nel suo periodo di maggior espansione, quando lo sviluppo dell'artigianato e del commercio creava, diremmo noi oggi, occupazione. Il XIV secolo è anche il momento in cui l'accesso alla maestranza diviene sempre più difficile e comincia a essere riservato ai figli dei maestri37, tanto più che gli immigrati rurali rappresentano una manodopera senza alcuna qualifica, poco adatta a entrare nel quadro dell'apprendistato degli artigiani urbani. Bronislaw Geremek parla della “a-funzionalità” di questa manodopera in rapporto alla domanda38; a-funzionalità che diviene disfunzionale allorché il numero di questi lavoratori fluttuanti supera una certa soglia. “Popolazione residuale” fatta di ex contadini in rotta con la loro cultura rurale, le competenze che vi sono legate, le risorse e le protezioni che essa procurava, ma anche estranei alla cultura della città e ai supporti economici e relazionali che essa può dispensare39. Così “il pauperismo deve le sue origini ai mutamenti delle strutture agrarie, ma è in città che esso si manifesta in tutta la sua ampiezza”40. 37 Cfr. Bronislaw Geremek, Le salariat dans l'artisanat parisien aux XIIIe et XIVe siècles, Paris-La Haye, Mouton, 1978; trad. it. Salariati e artigiani nella Parigi medievale, Firenze, Sansoni, 1975. 38 Cfr. Id., Criminalité, vagabondage, paupérisme. La marginalité à l'aube des Temps modernes, in “Revue d'histoire moderne et contemporaine”, n. 3, 1974, p. 374. 39 L'espressione di residual population è proposta da Richard Henry Tawney, The Agrarian Problem in the Sixteenth Century, London, Longsman, 1912. Tuttavia, trattandosi di datare l'emergere del processo in questione, mi sembra legittimo spostare la cronologia proposta da Tawney, come da Marx, di più di un secolo. 40 Michel Mollat du Jourdin, La notion de pauvreté au Moyen Âge: posi-

Aggiungiamo che questa deconversione si è iscritta in una trasformazione di lunga durata delle relazioni familiari e di sociabilità, che, se è più difficile da mettere in evidenza, ha verosimilmente comportato effetti decisivi. Se si segue Pierre Chaunu, il XIII e XIV secolo hanno segnato in numerose regioni europee una tappa importante nel passaggio dall'antica famiglia di lignaggio (“patriarcale”) alla famiglia coniugale41. La comunità contadina di abitanti si è così contratta attorno a cellule più ristrette e più fragili, rendendo più aleatorio l'esercizio delle solidarietà primarie. Questo effetto si è unito all'irrigidimento della stratificazione sociale, accentuando gli antagonismi di interesse fra sotto-gruppi in seno alla comunità di abitanti. Per di più, in ragione dell'emorragia demografica dovuta alla peste, numerose reti di solidarietà primaria sono state infrante. Così l'equilibrio “omeostatico” anteriore, che permetteva di controllare in seno alla comunità di abitanti la maggior parte dei fattori di disgregazione e di bloccare il processo di disaffiliazione, si è ritrovato in pericolo o abolito. Si può ora dare un contenuto più preciso alla nozione di “deconversione”. Una mobilità sregolata coesiste con la rigidità delle strutture di inquadramento. Di qui, permettendosi un anacronismo che si vedrà essere in parte giustificabile, una “disoccupazione paradossale”: allorché l'emorragia demografica dovuta alla peste apre delle ampie possibilità di impiego, si constata che “la mendicità si accresce nella seconda metà del XIV secolo” 42. Due tion des problèmes, cit., p. 16. 41 Cfr. Pierre Chaunu, Les temps des réformes, cit., cap. I. 42 Michel Mollat du Jourdin, La notion de pauvreté au Moyen Âge, cit., p. 16. Sulla nozione di “chômage paradoxal”, cfr. Philippe d'Iribarne, Le chômage paradoxal, Paris, PUF, 1990, e di seguito il cap. VIII. In un contesto evidentemente completamente differente, Iribarne vede anche

tipi di condizioni pesano simultaneamente sui più deprivati: il rafforzamento dei rapporti stabiliti di dominio e una propensione al movimento che deriva dall'incapacità di questi stessi rapporti di assicurare su piazza le condizioni della sopravvivenza. Jürgen Habermas parla così del “carattere ambivalente” di ciò che egli chiama



l'espressione

può

essere

discussa



il

“precapitalismo”43. Espressione discutibile, perché è lungi dall'essere evidente che è la trasformazione del processo di produzione che scatena il processo di deconversione. Come nota Habermas stesso, “la produzione agricola resta essenzialmente inscritta nei rapporti di dipendenza feudali, e la produzione industriale nei quadri dell'artigianato tradizionale”. Se contraddizione vi è, essa non si gioca fra rapporti di produzione conservatori (feudali) e un modo di produzione già capitalista, ma tra questi rapporti di produzione e popolazioni che non possono più inscrivervisi, senza tuttavia poter ancora entrare in un altro modo di organizzazione del lavoro, “capitalista” se si vuole. La “deconversione” si manifesta così attraverso l'apparire di condotte aleatorie prodotte dal gioco simultaneo di questi processi antagonisti: una messa in circolazione accelerata delle terre, dei beni e degli uomini, e un modo di strutturazione delle relazioni sociali che tenta di rinforzare la sua influenza tradizionale. Qualcosa che assomiglia alla libertà comincia a circolare, ma senza poter trovare un posto riconosciuto. I codici del lavoro che in questo tipo di disoccupazione l'effetto di uno squilibrio fra lo stato obiettivo dell'impiego e la persistenza di tratti culturali che non si piegano alla logica economica. 43 Cfr. Jürgen Habermas, L'espace public. Archéologie de la publicité comme dimension constitutive de la société bourgeoise, Paris, Payot, 1978, pp. 26 sgg.; trad. it. Storia e critica dell'opinione pubblica, RomaBari, Laterza, 2002.

si elaborano nella seconda metà del XIV secolo assumono significato in questa congiuntura. Essi esigono la fissazione dei lavoratori sul loro territorio e nella loro condizione, in campagna per mantenere o intensificare la produttività della terra, in città per mantenere la produttività del lavoro “industriale” nel quadro dei monopoli corporativi. Ma ne consegue che gli elementi “liberati” da tali strutture – sia perché ne sono espulsi, sia perché tentano di sfuggirvi – si ritrovano in una posizione di outcast. Senza dubbio la situazione non è completamente paralizzata. La necessità di cambiare, o la libertà di intraprendere che emergere allora ha aperto delle opportunità, il più delle volte per quelli che partono dalle posizioni più solide, come in campagna i tenutari più ricchi che possono accrescere le loro terre e fittare la forza-lavoro dei contadini spossessati, ma anche tra i poveri alcuni hanno potuto trarre vantaggio da questa situazione in cui l'uomo era divenuto più raro e una parte della terra disponibile a transazioni oppure a ripopolamenti di siti rurali 44. Si è avuta, così, una mobilità ascendente, vale a dire una mobilità sociale riuscita. Ma essa non ci riguarda direttamente, poiché la “questione sociale” si pone a partire dai disaffiliati, da coloro che si sono distaccati, e non da coloro che si sono integrati. Come bisogna diffidare delle spiegazioni esclusivamente economiche – questa situazione non è solamente l'effetto di un impoverimento generalizzato –, così si è pure in diritto di attenuare le interpretazioni funzionaliste dei processi in atto. Simiand ha 44 Jacques Heers, in L'Occident aux XIVe et XVe siècles. Aspects économiques et sociaux, Paris, PUF, 1970 , pp. 110 sgg.; trad. it. L'Occidente nel XIV e nel XV secolo. Aspetti economici e sociali, Milano, Mursia, 1978, sottolinea l'importanza degli spostamenti di popolazione per valorizzare le terre quasi abbandonate dopo la Peste nera e lo sviluppo di nuovi tipi di colture.

creduto di poter stabilire una “legge” secondo la quale l'aumento del numero dei mendicanti e dei vagabondi è legato a una fase di calo o di stagnazione dei salari, essa stessa in relazione con una penuria delle offerte d'impiego in rapporto alla domanda 45. Una simile correlazione non si è qui verificata: i salari aumentano, e anche la domanda globale di lavoro, e tuttavia il numero degli individui lasciati a sé stessi aumenta ugualmente. Di contro, all'inizio del XVI secolo, la questione del vagabondaggio e della mendicità torna alla ribalta in una congiuntura segnata questa volta da una forte spinta demografica e da un abbassamento dei salari reali46. Di queste constatazioni in apparenza contraddittorie, si possono offrire due spiegazioni che non sono necessariamente incompatibili. In una congiuntura caratterizzata dalla rarità della manodopera, l'obbligo del lavoro unito ai tentativi di bloccare i salari è utile al fine di raggiungere la piena occupazione al minimo costo, ma esso è ugualmente utile se la manodopera è pletorica, affinché la massa dei disoccupati pesi effettivamente sul mercato del lavoro e faccia abbassare i salari. Perché l'“esercito di riserva” eserciti una pressione sui salari, occorre in effetti non soltanto che vi siano dei lavoratori privi di impiego, ma anche che vogliano lavorare o siano obbligati a farlo. Così, al45 Cfr. François Simiand, Le salaire, l'évolution sociale et la monnaie. Essai de théorie expérimentale du salaire, introduction et étude globale, Paris, Alcan, 1932, 3 voll., t. I. 46 Sulla congiuntura demografica e la situazione dei salari nel XVI secolo, cfr. Bartolomé Bennassar, Vers la première ébauche de l'économie-monde, in Bartolomé Bennassar, Pierre Chaunu, Histoire économique et sociale du monde. L'ouverture du monde, XIV e-XVIe siècles, in Pierre Léon (sous la direction de), Histoire économique et sociale du monde, vol. 1, Paris, Colin, 1977; trad. it. Storia economica e sociale del mondo. 1. Le origini dell'età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1981. Sull'interpretazione di questa situazione nel quadro della teoria dell'“accumulazione originaria”, cfr. Maurice Dobb, Études sur le développement du capitalisme, cit.

l'inizio del XVI secolo, quando il numero dei disoccupati è considerevole, Vives preconizza il lavoro obbligatorio anche per gli indigenti invalidi47. Ma se questo tipo di spiegazione vale per due situazioni così in contrasto, è perché non è specifica di alcuna. Ci si lascia sfuggire un dato la cui importanza è determinante nelle società in cui non esiste “libero” mercato del lavoro. Si tratta del contrasto fra la richiesta di manodopera e l'esistenza di soggetti che non vi rispondono nelle forme prescritte dai modi dominanti di organizzazione del lavoro. Congiuntura che bisognerà comparare alla situazione attuale, nella quale si osserva ugualmente una “disoccupazione paradossale” dovuta allo sfasamento fra la domanda di impieghi e l'assenza di qualifica di coloro che vi aspirerebbero48. Ma oggi le coazioni sull'impiego sono imposte dalla modernizzazione dell'apparato produttivo. Invece, nel XIV secolo, la costrizione è quella della tradizione. Essa vuole fissare la manodopera in statuti immutabili dell'organizzazione del lavoro. La residual population non è dunque una semplice riserva di forza-lavoro, un “esercito di riserva”, ma è fatta, almeno per una parte, di individui deterritorializzati, mobili, che non hanno trovato posto nell'organizzazione tradizionale del lavoro, ai quali il codice 47 Juan Luis Vives [Joannes Ludovicus], De subventione pauperum sive de humanis necessitatibus, cit. La spiegazione risiede nel fatto che Vives è un “moderno”, “liberale”, ante litteram nella misura in cui appoggia l'espansione economica, fosse pure a detrimento dei suoi costi sociali. Al contrario, i responsabili politici della metà del XIV secolo, in generale, sono dei “conservatori”, che vogliono mantenere e accentuare il vantaggio che hanno sui propri dipendenti, conservando anzi i quadri tradizionali di questa dipendenza. Significativa a tale riguardo è la politica degli Stuart in Inghilterra, che si sforzano, peraltro senza grande successo, di frenare il movimento delle enclosures (cfr. Karl Polanyi, La Grande Transformation, cit.). 48 Cfr. Philippe d'Iribarne, Le chômage paradoxal, cit.

del lavoro, che diviene esplicito attraverso le ingiunzioni che si moltiplicano a partire dal XIV secolo, vuole interdire di impiegarsi altrimenti che nelle forme tradizionali prescritte. Questa contraddizione è in atto fino alla rivoluzione industriale. Essa rende conto, lo vedremo, dell'effetto costante di freno che hanno avuto tali prescrizioni sui cambiamenti che riguardano la produzione in direzione della promozione del capitalismo. Gli individui “disponibili” non sono pertanto immediatamente arruolabili. Qual è il posto di colui che, in rapporto a questa organizzazione del lavoro, è “libero” ma deprivato di tutto? In un primo tempo e a un luogo: da nessuna parte. È il destino di questi individui, collocati in equilibrio instabile in questa congiuntura in cui la libertà giunge loro come una maledizione, che si cercherà di descrivere. Essi sono in una situazione di double bind, presi fra l'ingiunzione di lavorare e l'impossibilità di lavorare nelle forme prescritte. La loro tragedia attraversa tutte queste società fino alla fine dell'Ancien Régime. Non che questa formazione sia rimasta bloccata, in particolare sul piano delle trasformazioni della produzione, che richiamano in maniera sempre più insistente un'organizzazione più dolce del lavoro, ma il codice del lavoro o ciò che ne fa le veci, se non ripete meccanicamente, reitera ostinatamente lo stesso tipo di interdetti, con lo stesso genere di effetti distruttivi su alcune categorie della popolazione. Molteplici forme di salariato, lo vedremo, stanno emergendo e si renderanno indispensabili, ma esse non arriveranno mai a cristallizzarsi, prima del XIX secolo, in una vera e propria condizione salariale.

Michel Mollat menziona l'apparizione, alla fine del Medioevo, di un ricco vocabolario dell'erranza applicato ai miserabili, obbligati a “fuggire”, a “sloggiare”, a “trascurare”, ad “abbandonare” il loro territorio, tenuto conto della “grande povertà” nella quale si trovano49. Questa fuga appare senza via d'uscita, perché non vi è ancora terra promessa al di là delle frontiere che impongono le forme secolari di occupazione della terra e di organizzazione dei mestieri. Alcuni contemporanei hanno percepito le dimensioni di questo dramma consustanziale alla nascita della modernità: “Così come si vede naturalmente che bestie e uccelli seguono il paese grasso e l'aratura e si allontanano dal paese deserto, parimenti fanno le genti lavoratrici e i contadini che vivono a malapena del loro corpo, poiché essi seguono i luoghi e i posti dove sono i guadagni, e fuggono i posti in cui il popolo si è gravato di servitù e tributi”50. Che cosa diventeranno questi disaffiliati?

3. Gli inutili al mondo Cominciamo col seguire le loro tracce attraverso il destino riservato alla frangia più marginale: i vagabondi. Sullo sfondo di una struttura sociale, in cui lo statuto di un individuo dipende dal suo incastro in una rete serrata di interdipendenze, il vagabondo rappresenta una macchia. Completamente visibile perché totalmente deterritorializzato, su di lui va ad abbattersi un arsenale sempre rinnovato di misure crudeli. Il fatto è che bisogne49 Cfr. Michel Mollat du Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge, cit., pp. 292293. 50 Cit. in ivi, p. 293. Il testo citato è del 1443.

rebbe sradicare il paradigma di asocialità che esso rappresenta cumulando l'handicap di essere al di fuori dell'ordine del lavoro, dal momento che è valido, e al di fuori dell'ordine della socialità, perché è straniero. Deprivato di qualunque risorsa, egli non può bastare a sé stesso. Ma, se è vero che la zona di assistenza accoglie innanzitutto gli incapaci al lavoro e i vicini secondo i due criteri precedentemente esaminati, egli ne è doppiamente escluso: “Inutile al mondo”51, il suo destino esemplifica il dramma del disaffiliato per eccellenza, colui che, non avendo alcuno “stato”, non gode di alcuna protezione. Che cos'è un vagabondo? I tentativi di definizione del vagabondaggio sono relativamente tardivi. Fino al XVI secolo, il termine si trova il più sovente associato a una serie di qualificativi che designano gli individui malfamati: caimani (vale a dire coloro che questuano senza giustificazione – è la versione peggiorativa del mendicante valido), marrani, gaglioffi (mendicanti che contraffanno infermità), oziosi, ribaldi, ruffiani, pezzenti, fannulloni, poltroni... A questa enumerazione si aggiungono di frequente i mestieri di cattiva reputazione – giullari, cantanti, esibitori di curiosità, cavadenti, venditori di impiastri... – così come le occupazioni riprovate – giocatori di dadi o prostitute, se non addirittura operai o garzoni di barbieri. Un primo, o uno dei primi tentativi di sistematizzazione è proposto in una ordinanza di Francesco I, del 1534, che stigmatizza “tutti i vagabondi, gli oziosi, le persone senza riconoscimento e gli altri che non hanno al51 Condanna di Colin Lenfant, aiuto manovale, vagabondo accusato di furto a Parigi: “Era degno di morire come inutile al mondo, cioè di essere impiccato come un ladrone” (registri criminali dello Châtelet, cit. in Bronislaw Geremek, Les marginaux parisiens aux XIVe et XVe siècles, cit.).

cun bene per sostentarsi e che né lavorano né faticano nei campi per guadagnarsi da vivere”52. I due criteri costitutivi della categoria di vagabondo sono divenuti espliciti: l'assenza di lavoro, cioè l'oziosità associata alla mancanza di risorse, e il fatto di essere “senza riconoscimento”, cioè senza un'appartenenza comunitaria. Essere avoué è un vecchio termine tratto dal diritto germanico che, nella società feudale, indicava lo stato di colui che è l'“uomo” di un feudatario a cui ha fatto atto di vassallaggio e che di rimando lo protegge 53. Al contrario, il vagabondo sfugge all'iscrizione in un lignaggio e ai legami di interdipendenza che costituiscono una comunità. Questo uomo senza lavoro né beni è anche un uomo senza padrone, né fuoco né luogo. “Abitante dappertutto”, per riprendere un'espressione frequente nei processi di vagabondaggio, egli è un essere di nessun luogo. Le definizioni più elaborate e più tardive continueranno a giocare con queste due variabili, come per esempio quella di un giurista lionese, del 1566, a commento di un editto di Carlo IX sulla professione di domestico: “Vagabondi sono persone oziose, fannulloni, gente senza riconoscimento, persone abbandonate, persone senza domicilio, senz'arte né parte e, come dice l'Ordinanza della polizia di Parigi, persone che non fanno che numero, sunt pondus inutilae terrae”54. “Essi sono il peso inutile della ter52 Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., t. XII, p. 271. 53 Cfr. Alexandre Vexliard, Introduction à la sociologie du vagabondage, Paris, Marcel Rivière, 1956, p. 83. 54 Cfr. in Bronislaw Geremek, Inutiles au monde. Truands et misérables dans l'Europe moderne. 1350-1600, Paris, Gallimard-Juilllard, 1980, p. 349; trad. it. Mendicanti e miserabili nell'Europa moderna (1350-1600), Roma-Bari, Laterza, 1989.

ra”: la formula è ammirevole. Con un'ordinanza del 24 agosto 1701, la definizione è fissata nei suoi termini giuridici, che non varieranno affatto e saranno praticamente ripresi tali e quali dal Codice penale napoleonico: “Dichiariamo vagabondi e malviventi coloro che non hanno né professione, né mestiere, né domicilio certo, né modo di sostentarsi e che non sono avoués e non possono certificare le loro buone vite e di costumi onesti attraverso persone degne di fede”55. Tuttavia, l'importante ordinanza reale del 1764, già citata nel capitolo precedente, vi apporta una precisazione interessante. Alla clausola “tutti coloro che non hanno professione né mestiere”, l'ordinanza aggiunge “da più di sei mesi” 56. Queste poche parole sollevano una montagna di problemi. Si tratta di un tentativo di dissociare un vagabondo “puro”, adepto inveterato di una vita oziosa, da quelle che noi oggi chiameremmo delle situazioni di disoccupazione involontaria o di ricerca di lavoro fra due occupazioni. Ma la questione dell'impossibilità di trovare un impiego, che assolverebbe il vagabondo dal crimine di essere un ozioso volontario, non è evidentemente risolta dall'aggiunta di questo semplice codicillo. Ma ci torneremo. Se il vagabondo è sicuramente questo “inutile al mondo”, che vive come parassita del lavoro altrui, escluso dappertutto e condannato all'erranza in una società in cui la qualità di persona dipende dall'appartenenza a uno statuto, si spiega perfettamente

55 Cit. in Alexandre Vexliard, Introduction à la sociologie du vagabondage, cit., p. 83. 56 Dichiarazione regia del 1764, in Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., p. 406.

sia la rappresentazione peggiorativa che gli è sempre associata, sia il carattere spietato del trattamento che gli è applicato. Sulla stigmatizzazione del vagabondo, terrore delle campagne e responsabile dell'insicurezza delle città, le testimonianze sono innumerevoli. Ci si accontenterà di citarne una sola, rappresentativa, in ragione anche della sua data tardiva, di una repulsione secolare che è sopravvissuta al progresso dei “Lumi”: I vagabondi sono per la campagna il flagello più terribile. Sono degli insetti voraci che la infestano e la rendono desolata e che divorano quotidianamente la sostanza dei coltivatori. Sono, per parlare senza mezzi termini, delle truppe nemiche sparse sulla superficie del territorio, che vi vivono a discrezione come in un paese conquistato e vi traggono dei veri e propri tributi a titolo di elemosine57.

L'autore di questa riprovazione, Le Trosne, non è tuttavia un personaggio sanguinario. Caritatevole e buon cristiano, egli rivendica, contro la maggior parte dei professionisti dell'assistenza, il diritto di fare l'elemosina ai mendicanti “che sono domiciliati, che hanno una dimora, una famiglia”58. Ma, nello stesso tempo, egli preconizza la pena delle galere a vita contro i vagabondi fin dal primo arresto. Per lui, come per la maggior parte di coloro che, contemporanei o predecessori, hanno riflettuto sul fenomeno, il vagabondaggio è un flagello sociale al pari delle care-

57 Juillaime-François Le Trosne, Mémoire sur les vagabonds eet les mendiants, Soissons, chez P.G. Simon, 1764, p. 4. 58 Ivi, p. 37: “Finché resteranno sotto i nostri occhi [dei mendicanti] la commiserazione porterà sempre ad assisterli, e questo sentimento di umanità non può essere oggetto di punizione”.

stie e delle epidemie, di fronte al quale la minima compiacenza – tollerabile per la mendicità – sarebbe criminale. Si comprende allora come la repressione del vagabondaggio sia stata essenzialmente una “legislazione sanguinaria”, secondo la qualifica con cui Marx ha stigmatizzato le leggi inglesi in materia59: se il vagabondo è posto al di fuori della legge degli scambi sociali, egli non può attendere grazia e deve essere combattuto come un malfattore. La misura più primitiva e più generale presa nei confronti del vagabondo è il bando. Essa deriva direttamente dalla sua qualità di straniero il cui luogo è dovunque, a condizione che sia altrove. Tuttavia, il bando rappresenta una sanzione a un tempo forte e totalmente inefficace. Condanna assai grave, poiché riduce il vagabondo a errare perpetuamente in una no men's land sociale; come un animale selvaggio respinto dappertutto, per ciò stesso, il bandito trasporta con lui, irrisolto, il problema che pone. Il bando rappresenta una scappatoia grazie alla quale una comunità si disfa di una questione insolubile per rivolgerla altrove. Esso corrisponde a un riflesso locale di autodifesa, incompatibile con la definizione di una politica generale di gestione del vagabondaggio. Tuttavia, è solo nel 1764 che l'ultima ordinanza reale della monarchia francese sulla questione riconosce esplicitamente l'inanità della misura: “Noi abbiamo riconosciuto che la pena del bando non permette di contenere delle persone la cui vita è una specie di bando volontario e perpetuo e che, scacciati da una provincia, passano con indifferenza in un'altra, dove, sen-

59 Karl Marx, Le Capital, cit., livre I, cap. XXVIII, pp. 1192 sgg.

za mutare di stato, essi seguitano a commettere gli stessi eccessi”60. Il bando, più che realizzarla, rappresenta l'illusoria scomparsa del vagabondo. L'esecuzione capitale, di contro, mette in atto la morte sociale che è già esecutiva nel bando. La condanna a morte di questo parassita rappresenta la vera soluzione finale della questione del vagabondaggio. Essa è stata effettivamente applicata ai vagabondi. In Francia, la dichiarazione di Enrico II del 18 aprile 1556 (notare la prossimità con l'ordinanza di Moulins che istituisce la nozione di domicilio dei soccorsi) prescrive di “condurli alla prigione dello Chastelet, tramite il detto luogotenente criminale e ufficiali dello Chastelet per essere condannati alla pena di morte se si ritrovano ad aver contravvenuto alla nostra presente ordinanza e grida su questo fatto”61. La sentenza, senza appello, è immediatamente esecutiva. La pena di morte è coerentemente il nocciolo duro della “legislazione sanguinaria” applicata al vagabondaggio nel XVI secolo in Inghilterra. Il Consiglio del re nomina dei funzionari specializzati incaricati di dare la caccia ai vagabondi e che dispongono del diritto di farli impiccare. Secondo Alexandre Vexliard, 12.000 vagabondi sarebbero stati impiccati sotto il regno di Enrico VIII, e 400 all'anno sotto quello di Elisabetta62.

60 “Déclaration du Roy concernant les vagabonds et gens sans aveu”, del 3 agosto 1764, cit. 61 Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., t. XIII, pp. 501-511. 62 Cfr. Alexandre Vexliard, Introduction à la sociologie du vagabondage, cit., p. 73. Cfr. anche Maurice Dobb, Études sur le développement du capitalisme, cit., che propone delle stime ancora più pesanti.

Così, non solo il vagabondaggio è in sé stesso un delitto, ma può costituire il delitto supremo63. Questa soluzione estrema non è tuttavia adeguata al problema. Qualunque possa essere stato il numero dei vagabondi condannati a morte e giustiziati, sarebbe derisorio nei confronti del numero di quanti hanno continuato a “infestare il reame”. Il lavoro forzato è una risposta non solo più moderata, ma anche più realistica, se è vero che può rendere utili questi inutili al mondo. Esso costituisce la grande costante di tutta la legislazione sul vagabondaggio. A partire dal 1367, a Parigi, i vagabondi arrestati effettuano lavori pubblici come pulire i fossati o riparare le fortificazioni, “incatenati due a due”, precisa un'ordinanza di Francesco I del 151664. Inaugurata da Jacques Coeur per servire alle sue imprese, la pena delle galere – a cinque anni, a dieci anni o a vita, secondo l'epoca e il numero di re63 Esso è anche, evidentemente, un fattore associato e una circostanza aggravante per altri delitti, in particolare il furto e l'omicidio. Per la sua vita instabile e la sua mancanza di risorse, il vagabondo è senza dubbio frequentemente spinto a trasgredire la legge. Ma lo stato di vagabondo lo colloca già in situazione di sospetto e quando è arrestato aggrava la sentenza facendo di lui un “grosso ladrone” (cfr. Bronislaw Geremek, Criminalité, vagabondage, paupérisme, cit.). L'esame dei registri dello Châtelet tra il 1389 e il 1392 mostra anzi che solo il 18% dei condannati per furto sono nati o domiciliati nella regione parigina. Gli atti di condanna riportano spesso menzioni del tipo “persona senza stato né a servizio di un signore”, “senza ricchezza, potenza né posizione”, “straniero al paese”, “residente dappertutto”. Le “persone vagabonde e oziose” figurano nelle liste dei nemici pubblici in mezzo a “ladroni, assassini, spie di strada, stupratori di donne, violatori di chiese, bateur in affitto [finte guide], giocatori di dadi truccati, saltimbanchi, imbroglioni, falsari e altri malfattori”. Cfr. Jacqueline Misraki, Criminalité et pauvreté en France à l'époque de la guerre de Cent Ans, in Michel Mollat du Jourdin (sous la direction de), Études sur l'histoire de la pauvreté, cit., t. II, pp. 543 e 546. 64 Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., t. XIII.

cidive – sarà fino alla fine dell'Ancien Régime una condanna particolarmente temuta dai vagabondi, tanto che la necessità di rinforzare gli equipaggi reali può scatenare puntualmente delle cacce ai vagabondi. Così la municipalità di Digione, cui fu richiesto nel 1529 di equipaggiare due galere reali, vi provvide aggiungendo ai prigionieri della città dei vagabondi “reclutati” per l'occasione65. La deportazione nelle colonie è un'altra forma di lavoro forzato, statuita da un'ordinanza dell'8 gennaio 1719. Ma la gendarmeria a cavallo, che otteneva un premio per ogni cattura, mise un tale zelo nell'applicazione della misura che quest'ultima suscitò un intenso malcontento popolare e fu revocata dal luglio 1722. Essa è tuttavia rimasta un riferimento frequente fino alla fine dell'Ancien Régime per numerosi “creatori di progetti” preoccupati di “purgare il regno dalla sua pitoccheria”, rendendo i vagabondi pienamente “utili allo Stato”. Il problema non è mai stato risolto con chiarezza, perché la deportazione si è anche scontrata contro la duplice ostilità dei partigiani del mercantilismo (Richelieu vi si era opposto), che temevano di vedere così “spopolarsi il reame”, e dei devoti, scandalizzati dal fatto che fosse la “feccia del popolo” a giocare il ruolo di propagatori della fede nelle colonie66. 65 Cit. in Bronislaw Geremek, Inutiles au monde, cit., p. 87. 66 In effetti, pare che siano soprattutto le donne, di preferenza giovani, rinchiuse negli Ospedali generali, a essere state sporadicamente richieste, per delle ragioni che si potrebbero dire demografiche, per aiutare il popolamento del Canada e della Louisiana. La deportazione e la morte tragica di Manon Lescaut nel romanzo dell'abate Prévost presentano una trascrizione letteraria di questa pratica (Abbé Antoine François Prévost, Histoire du chevalier des Grieux et de Manon Lescaut, Amsterdam, aux dépens de la Compagnie, 1733; trad. it. Manon Lescaut, Torino, Einaudi, 1998).

Il lavoro obbligatorio attraverso l'internamento è un'altra misura periodicamente preconizzata per risolvere il problema. Benché non sia stato in prima istanza proposto per loro, lo si è visto, l'Ospedale generale accoglierà anche vagabondi. Nel contesto del mercantilismo si sviluppa l'ambizione di mobilitare tutta la forza-lavoro del regno per assicurarne la potenza. I vagabondi sono evidentemente un bersaglio privilegiato di tale politica: “Le città ben amministrate hanno delle case in cui accolgono i bisognosi non malati al fine di creare dei vivai di artigiani e di contrastare i vagabondi e i fannulloni che non chiedono che di arraffare o rubare”67. Ma, per ragioni sulle quali si ritornerà, il lavoro nelle istituzioni chiuse è sempre stato un fiasco68. L'Ospedale generale non ha risocializzato la “nazione libertina e fannullona” degli indigenti validi. Esso ha procacciato migliori, seppure sempre miserabili, condizioni di sopravvivenza ai più miserabili tra i miserabili: vecchi e vecchie che non hanno più alcuna risorsa, uomini e donne folli, bambini abbandonati, devianti riprovati. Ben presto, di lavorare in questi spazi ove i più deprivati fra i deprivati si affollano, non se ne discuterà più. Eppure, quando la dichiarazione del 1764 reitera e rafforza la condanna del vagabondaggio, è lo stesso tipo di dispositivo che è riproposto. Rivelandosi inapplicabile su questa scala la pena delle galere, vengono aperti nel 1767 i depositi di mendicità. Si tratta di una struttura amministrativo-poliziesca autonoma, specialmente consacrata alla messa al lavoro forzato degli indigenti 67 Emeric Cruce [Emery de la Croix], Le Nouveau Cynée ou discours des occasions et moyens d'establir une paix generale & la liberté du commerce par tout le monde, Paris, Villery, 1623, cit. in Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit. 68 In italiano nel testo [N.d.R.].

validi. I vagabondi e i mendicanti arrestati non dipendono più né dalle autorità ospedaliere né dall'apparato della giustizia ordinaria. Essi sono direttamente condotti ai depositi dalle autorità incaricate del mantenimento dell'ordine. La remunerazione del lavoro è calcolata per essere, dice un memoriale del 1778, “al di sopra della prigione, al di sotto dell'esercito”69. Così, l'Ancien Régime al termine è ancora caratterizzato da un'intensa caccia ai vagabondi e ai mendicanti validi. La gendarmeria a cavallo è motivata da un premio di 3 libre per ogni cattura. Necker valuta in 50.000 il numero degli arresti nel 1767. Tra il 1768 e il 1772 111.836 persone sono “entrate nei depositi”, contro 1.132 condanne alle galere. Esse sono sistemate in edifici insalubri, senza igiene né cure mediche. La mortalità è spaventosa: 21.339 decessi durante gli stessi quattro anni, 1768-1772 70. Ben inteso, come nell'Ospedale generale, in questi mattatoi il lavoro è una finzione. Mercier, nel suo Tableau de Paris, tirerà così il bilancio di questo periodo: Si sono trattati i poveri, nel 1769 e nei tre anni seguenti, con un'atrocità, una barbarie che saranno una macchia incancellabile per un secolo che si chiama umano e illuminato. Si è potuto dire che se ne voleva distruggere l'intera razza, tanto si sono gettati nell'oblio i princìpi di ca69 Cit. in Jeffry Kaplow, Les noms des rois: les pauvres à Paris à la veille de la Révolution, Paris, Maspéro, 1974, p. 221; trad. it. I lavoratori poveri nella Parigi pre-rivoluzionaria. Coscienza politica e istituzioni, Bologna, il Mulino, 1976. 70 Cifre citate in Alexandre Vexliard, Introduction à la sociologie du vagabondage, cit., p. 82. Cifre per il distretto di Parigi: 18.523 arresti fra il 1764 e il 1773, cit. in Jeffry Kaplow, Les noms des rois: les pauvres à Paris à la veille de la Révolution, cit., p. 218.

rità. Essi morirono quasi tutti nei depositi, specie di prigioni dove l'indigenza è punita come un crimine71.

Turgot fa chiedere la maggior parte dei depositi nel 1775, ma la misura è revocata dopo la sua destituzione, ed essi avranno ancora un grande avvenire poiché Napoleone li riporterà in auge nel 1808. L'Inghilterra offre una batteria simile di misure, forse un grado supplementare di crudeltà. Ci si accontenterà di citare l'ordinanza reale del 1547, che rappresenta senza dubbio ciò che di più radicale sia stato proposto per costringere i vagabondi al lavoro. Partendo come sempre dalla constatazione che “le persone oziose e vagabonde sono membri inutili della comunità e piuttosto nemici della cosa pubblica”, Edoardo VI ordina di catturare ogni persona che, senza alcun mezzo di sussistenza, sia rimasta senza lavorare per più di tre giorni. Qualunque buon cittadino è invitato a condurre questi disgraziati dinanzi a due giudici che “devono immediatamente far marchiare il detto ozioso sulla fronte con l'ausilio di un ferro rovente con la lettera V, e aggiudicare la detta persona che vive così oziosamente al presentatore [vale a dire al denunciatore] perché la possieda e tenga il detto schiavo a disposizione propria, dei propri esecutori o servitori per l'arco dei successivi due anni”72. In pieno Rinascimento la legislazione sul 71 Cfr. Olwen H. Hufton, The Poor in Eighteenth Century France. 17501789, cit., pp. 232 sgg. 72 Cfr. in Arthur Valentine Judges, The Elizabethan Underworld. A collection of Tudor and early Stuart tracts and ballads telling of the lives of vagabonds, thieves, rogues and cozeners and giving some account of the operation of the criminal law, London, Routledge & Kegan, 1965. Per equità va aggiunto che, sia in ragione della sua crudeltà, sia in ragione della sua difficoltà di applicazione, questa misura è stata abrogata fin dal 1550.

vagabondaggio restaura così la schiavitù nel regno d'Inghilterra. Soggetto di cui si può disporre a piacimento, il vagabondo può essere frustato, incatenato, imprigionato, fittato dal suo proprietario, e, in caso di decesso di quest'ultimo, trasmesso come un bene ai suoi eredi. Se la vittima fugge una prima volta, la pena è convertita in schiavitù a vita, e in esecuzione capitale al secondo tentativo di evasione.

4. Vagabondi e proletari Ma chi sono realmente i vagabondi? Pericolosi predatori che si aggirano lungo il margine dell'ordine sociale, vivendo di rapine e minacciando i beni e la sicurezza delle persone? È così che sono presentati, ed è questo che giustifica un trattamento fuori dal comune: essi hanno rotto il patto sociale – lavoro, famiglia, moralità, religione – e sono dei nemici dell'ordine pubblico. Non è impossibile tuttavia, come si è tentato per il mendicante valido, decostruire una tale rappresentazione del vagabondo e restituire la realtà sociologica che essa ricopre. Il vagabondaggio allora, più che uno stato sui generis, appare come il limite di un processo di disaffiliazione alimentato a monte dalla precarietà del rapporto col lavoro e dalla fragilità delle reti di sociabilità che sono il destino comune di una parte importante del popolo minuto delle campagne come delle città. Qual è, per esempio, alla fine dell'Ancien Régime, il profilo sociologico degli internati nel deposito di mendicità di Soissons? I depositi, si è detto, sono destinati ad accogliere esclusivamente vagabondi ed assimilati (mendicanti validi). Quello di Soissons

conta, alla vigilia della Rivoluzione, 854 internati. Tra di essi, 208 individui che il suo direttore qualifica come “molto pericolosi”, “flagelli della società”, all'incirca 28 vagabondi “avvizziti” e 32 vagabondi “senza asilo”, una cinquantina di folli, fra uomini e donne, 20 detenuti per ordine del re, 32 militari “senza asilo o disertori”. Dunque, secondo la rappresentazione dell'epoca, solo una sessantina di “veri” vagabondi. Soprattutto due grandi gruppi costituiscono, invece, più dei due terzi dell'effettivo del deposito: 256 “operai manuali”, “eccetto un notaio”, e 294 “operai agricoli senza risorse”73. La grande maggioranza dei degenti del deposito è così composta, in pari misura, di rappresentanti di un sotto-proletariato urbano e rurale. Questi operai sono senza alcun dubbio al di fuori del lavoro. Sono per questo mendicanti e vagabondi “di professione”? Più verosimilmente, la maggior parte di essi rappresenta ciò che oggi chiameremmo dei disoccupati sottoqualificati alla ricerca, più o meno convinta, di un impiego. Ben inteso, per parlare di disoccupazione stricto sensu bisognerà attendere il concorrere delle condizioni costitutive del rapporto salariale moderno all'inizio del XX secolo (cfr. cap. VII), anche se, come si dimostrerà nel capitolo seguente, esistono anche prima di questo periodo situazioni di non-occupazione risultanti da un'organizzazione del sistema produttivo fondata sull'assegnazione al lavoro, e non sulla libertà del lavoro 74. Il vagabondaggio rappresenta la figura-limite di queste situazioni. Montlinot stes73 Charles-Antoine-Joseph Leclerc de Montlinot, État actuel du dépôt de Soissons, précédé d'un Essai sur la mendicité. V. Compte: année 1786, Soissons, Ponce Courtois, 1789, pp. 57-59. 74 Questa difficoltà, ma anche questa necessità, di un approccio antropologico al salariato, per caratterizzare con un massimo di precisione questo tipo di relazioni semi-salariali antecedenti allo stabilirsi del rapporto salariale moderno, ha richiesto gli approfondimenti del capitolo III.

so non dice cose diverse quando ammette: “Noi abbiamo fatto osservare nei conti precedenti che i Tagliatori, i Ciabattini, i Parrucchieri, i Tessitori che esercitano le professioni più vagabonde, e sono spesso esposti alla mancanza di lavoro”75. Parimenti, l'altra caratteristica del vagabondaggio, lo stabilirsi deliberatamente dell'erranza, la rottura determinata in rapporto al domicilio e alle regole comuni della sociabilità, sembra non essere il caso che di una minoranza di questi sfortunati. Senza dubbio, se l'ordinanza del 1764 è correttamente applicata, essi sono stati arrestati a più “di una mezza lega dal loro domicilio”. Ma l'inventario del deposito di Soissons distinguerebbe 32 vagabondi “senza asilo” se la maggioranza degli altri non ne avesse uno da qualche parte, da cui essi sono stati senza dubbio obbligati ad allontanarsi dalla miseria e dalla ricerca di un'occupazione? I vagabondi sono infatti, nelle società preindustriali, l'equivalente degli immigrati: stranieri, perché cercano mezzi per sopravvivere fuori del loro “paese”. Così, nel 1750, su 418 uomini rinchiusi a Bicêtre per vagabondaggio, 35 sono originari di Parigi, 58 della regione parigina. Gli altri vengono da tutte le province e sono spesso a Parigi solamente da pochi mesi 76. Essi sono perciò assimilati ai “senza riconoscimento”, a meno che delle persone onorevoli non sottoscrivano un formulario di “sottomissione” e si facciano garanti dei vagabondi rinchiusi. È il caso di questa attestazione firmata dai suoi concittadini di Auvergne per un vagabondo incarcerato a Meaux: “Da diversi anni, egli ha l'abitudine 75 Charles-Antoine-Joseph Leclerc de Montlinot, État actuel du dépôt de Soissons, précédé d'un Essai sur la mendicité. V. Compte: année 1786, cit., pp. 57-59. 76 Cfr. Jeffry Kaplow, Les noms des rois, cit., p. 222.

di uscire dalla provincia a ogni stagione e di recarsi in province straniere per guadagnarsi da vivere col suo lavoro e il suo ingegno e recare qualche soccorso a sua moglie Marie Auzany e ai suoi sei bambini. […] Il detto Jacques Verdier torna a casa propria tutte le primavere per coltivare il suo piccolo podere e occuparsi al meglio del lavoro della terra. Noi lo crediamo un uomo onesto; noi non abbiamo mai visto né saputo che abbia svolto il mestiere di mendicante”77. Questo disgraziato ha avuto la fortuna di poter far pervenire la notizia del suo arresto al suo villaggio, e anche la possibilità che due onorabili concittadini si siano presi la briga di scrivere a Meaux per farsi suoi garanti, ma quanti, fra i suoi compagni di sventura, si sono trovati nella stessa situazione senza aver potuto far ricorso a questi soccorsi, non fosse che perché sono spesso in una situazione di lavoro ancora più precaria di questo operaio stagionale che torna regolarmente al suo villaggio natale? Chi si preoccuperebbe di farsi garante di uno sfortunato errante sulle strade? Le apparenze comunitarie si frantumano e i supporti relazionali vengono sempre più a mancare col prolungarsi del percorso. È così disegnato un profilo di vagabondo, differente dalla sua rappresentazione originaria: un povero diavolo che non ha

77 Cit. in ivi, p. 228. Sui formulari di “sottomissione” che delle persone onorevoli debbono firmare, impegnandosi a trovare lavoro ai vagabondi arrestati, cfr. Christian Paultre, De la répression de la mendicité et du vagabondage en France, cit. Si potrebbe dunque dire che questa pratica contribuisca a costituire l'abbozzo di un mercato dell'impiego: firmando una lettera di sottomissione, si può diventare il datore di lavoro di un “vagabondo” facendolo lavorare per proprio conto. Ma non vi è a mia conoscenza modo di valutare l'impatto di questa pratica, che in ogni modo non lasciava all'“impiegato” in questo singolare “contratto” di lavoro alcun margine di manovra.

fatto apprendistato nel quadro dei “mestieri” 78, senza qualifica, lavoratore occasionale, ma spesso alla ricerca di un piccolo lavoretto aleatorio, che si desocializza progressivamente nel corso delle sue peregrinazioni, e catturato dal braccio secolare in un momento sfavorevole della sua traiettoria erratica. Questa ricostruzione della realtà sociologica del vagabondo sembra valere per l'insieme del periodo che va dal XIV secolo alla fine dell'Ancien Régime. Non che non vi siano state, come si vedrà nel capitolo seguente, delle trasformazioni, o piuttosto degli spostamenti considerevoli delle forme di organizzazione del lavoro ma, attraverso ciò che si può ricostruire o intuire della condizione dei vagabondi, si ritrova sempre e dovunque questa mobilità a un tempo geografica e professionale di rappresentanti alle strette di piccoli mestieri, che “percorrono il paese per cercare del lavoro”, secondo l'espressione di un muratore arrestato nel 1768 nel Beaujolais79. Nelle sue analisi, così puntuali, del mondo del popolino del dipartimento di Lione il cui destino ha preso una cattiva piega, Jean-Pierre Gutton presenta numerosi di questi percorsi altalenanti di manovali, battellieri, villanzoni, facchini, venditori ambulanti, stagionali agricoli, domestici alla ricerca di un posto, soldati smobilitati... I vagabondi arrestati hanno quasi sempre un mestiere80. Essi provengono spesso dalla terra che 78 La situazione è in effetti diversa per i lavoranti dei mestieri regolati dalle strutture corporative (cfr. cap. seguente). Benché la tradizione del “giro di Francia” dei lavoranti sia più tardiva, quelli dei mestieri riconosciuti potevano esercitare una mobilità geografica meglio protetta se erano presi in carico in ciascuna città dalle strutture di accoglienza della corporazione. 79 Cit. in Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres. L'exemple de la généralité de Lyon, cit., pp. 154 sgg. 80 Su 278 vagabondi arrestati a Lione fra il 1769 e il 1778, solo quattro

non li nutre più, come quel contadino del Velay arrestato nel 1724 vicino Villefranche, perché venuto in Beaujolais “a lavorare la terra, servire i muratori e impiegarsi dove si trova, atteso che non c'è per lui lavoro nel dominio in cui suo fratello è mugnaio”81. Questi rurali sradicati sono spessi attirati dalla città. Essi, in genere, vi tentano e mancano una o più integrazioni, prima di riprendere la strada. Nel giro di qualche anno, diventa difficile distinguere la componente rurale o urbana di una condizione la cui sfortuna è precisamente il fatto di non avere più appartenenza. “La conclusione che si trae da questo studio – dice Gutton in un'altra opera che presenta lo stesso tipo di dati – è che i vagabondi che non hanno alcun mestiere, che vivono di imbrogli, non costituiscono in realtà che una piccola minoranza. Il maggior numero di essi si recluta nel popolo minuto quando le circostanze sociali e individuali li gettano sulle strade” 82. Conclusione che rinvia a quella già tratta da Bronislaw Geremek per il Medioevo: “Il passaggio verso la marginalità si opera secondo un degradare di tonalità; non vi sono barriere prefissate fra la società e i suoi sono etichettati come “mendicanti di professione”. Si trovano in compenso 88 lavoratori della terra e 138 rappresentanti di differenti mestieri artigianali (principalmente del tessile, dell'abbigliamento e delle costruzioni), più 19 domestici, 14 venditori ambulanti, 5 ex soldati, 3 marinai, 3 maestri di scuola, un suonatore di viola, un eremita, un pellegrino, un ex forzato... (Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit., p. 162). Certamente, i vagabondi arrestati dovevano avere la tendenza a farsi passare per degli operai senza lavoro, piuttosto che per degli “oziosi”, ma la gendarmeria a cavallo non doveva certo essere disposta ad accettare un alibi qualsiasi. Dati omologhi per la regione parigina sono in Micheline Baulant, Groupes mobiles dans un société sédentaire: la société rurale autour de Meaux aux XVIIe et XVIII siècles, in Marginaux et exclus de l'histoire, in “Cahier Jussieu”, n. 5, 1979, pp. 78-120. 81 Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit., p. 170. 82 Id., L'État et la mendicité dans la première moitié du XVIIIe siècle, Saint-Etienne, Centre d'études foréziennes, 1973, p. 198.

margini, tra gli individui e i gruppi che osservano le norme prestabilite e coloro che le violano”83. Bisognerebbe poter analizzare più da vicino queste circostanze “sociali e individuali” evocate da Gutton, che fanno precipitare nel vagabondaggio. Questo è un dramma della miseria, ma anche della desocializzazione. Il vagabondo vive come se avesse disertato questo mondo. Che cosa fa distaccare dalle vecchie appartenenze e aggiunge alla disgrazia di essere povero quella di essere solo, senza supporto? La documentazione disponibile non consente di esplorare bene quest'altra dimensione, più personale, del destino dell'erranza, attraverso la quale la disaffiliazione si compie. Anche in questo caso, tuttavia, apparirebbero alcuni indizi significativi, allorché si rileggessero i lavori storici ponendo loro questo tipo di questione. Così, Gutton ha analizzato per Lione dei dossier di bambini abbandonati da parte di genitori che hanno “disertato la città”. Questi constata, evidentemente, la miseria di coppie “gravate di troppi bambini”, partite senza lasciare nulla, ma nota anche la forte proporzione di famiglie sgretolate, di donne abbandonate, di vedove e soprattutto di vedovi. “Nel 1779, su venti abbandoni di bambini lasciati a sé stessi, sei sono praticati da coppie complete ma miserabili, due sono attuati da vedove e otto da vedovi”84. “Non sapendo più che partito prendere, ho preso quello di abbandonare tutto”85. La disperazione di questa operaia, già lasciata da quattro anni dal suo congiunto, illustra assai bene questo 83 Bronislaw Geremek, Criminalité, vagabondage, paupérisme, cit., p. 346. 84 Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit., p. 128. Indizi dello stesso tipo per altre città francesi in Olwen H. Hufton, The Poor of Eighteenth-Century France, cit., pp. 122 sgg. 85 Cfr. Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit., p. 133.

momento di bilico, in cui la miseria comune si trasmuta in epilogo assoluto. “I più deprivati”, come si dice oggi utilizzando un amabile eufemismo, sono effettivamente privati di tutto. La storiografia non consegna che dati frammentari – interrogatori di vagabondi arrestati, informazioni registrate post mortem sui registri parrocchiali –, ma essi lasciano spesso intuire il dramma di tutta un'esistenza. “Il 20 luglio è morto a casa di Jean Thomas del borgo un uomo di circa 30 anni, originario di Saint Léonard, vicino Limoges, proveniente da Grenoble per lavorare al mestiere di muratore; è stato seppellito il 21 del mese, dopo aver ricevuto l'estrema unzione”86. Questa annotazione lapidaria, trascritta al tempo del raccolto, nell'anno 1694, dal curato della piccola parrocchia di SaintJulien-la-Vêtre, nel Beaujolais, potrebbe senza dubbio essere posta in esergo a centinaia di migliaia di biografie di vagabondi, se almeno le si potesse ricostruire, poiché per evidenti ragioni esse hanno lasciato poche tracce scritte. Ancora, questo disgraziato, la cui esistenza è terminata in un granaio, ha certo avuto la possibilità di prendere congedo dal mondo nella miseria e nella solitudine, ma munito dei sacramenti della Chiesa, cioè ricondotto a una comunità spirituale. Più spesso, poiché il vagabondaggio è costituito come delitto e spinge a commettere altri delitti, la testimonianza conservata è quella di una condanna. Ma, anche in questo caso, bisogna relativizzare l'immagine negativa che segna la frangia criminalizzata della popolazione vagabonda. Analizzando i registri delle condanne comminate a Parigi nei secoli XIV e XV, Bronislaw Geremek conferma questa interpretazione, che

86 Ivi, p. 163.

potrebbe valere anzi per tutto il periodo dal Medioevo alla fine del XVIII secolo: Le categorie che ritroviamo negli atti giudiziari si caratterizzano per il movimento, la brevità del legame di dipendenza da un padrone, l'instabilità delle occupazioni, dei luoghi di lavoro e i frequenti cambiamenti di datori di lavoro. Quest'ultimo gruppo comprende degli artigiani impoveriti e dei contadini; vi si vedono dei giovani […] la cui condizione permanente è quella di fittare le loro forze.

E aggiunge che “il carattere fluttuante della divisione fra il mondo del lavoro e il mondo del crimine” vieta di vedere in quest'ultimo un “ambiente” strutturato, nel senso in cui si parla di ambiente criminale87. La vera unità di analisi sarebbe quest'insieme fluttuante di cui la criminalità rappresenta la frangia estrema, alimentata dalla zona fluida del vagabondaggio, esso stesso alimentato attraverso una zona di vulnerabilità più ampia fatta di precarietà dei rapporti di lavoro e di fragilità dei legami sociali.

87 Cfr. Bronislaw Geremek, Les marginaux parisiens aux XIV e et XVe siècles, cit., p. 115. Dati dello stesso tipo sull'epoca in Jacqueline Misraki, Criminalité et pauvreté en France à l'époque de la guerre de Cent Ans, cit. Il contributo di Misraki conferma il carattere innovatore che bisogna riconoscere alla metà del XIV secolo rispetto a questa problematica della mobilità. Nella prima metà del secolo, gli accusati sono in genere domiciliati nella regione parigina, e predominano i crimini di sangue e gli atti violenti. Nella seconda metà, il numero dei delitti si accresce considerevolmente, con una preponderanza dei furti, e la stragrande maggioranza dei condannati sono degli stranieri senza agganci familiari o locali (con il 18% soltanto di autoctoni).

5. Repressione, dissuasione, prevenzione L'obiettivo perseguito non è quello di discolpare i vagabondi. Ve ne sono stati certamente di pericolosi, raggruppantisi talvolta in bande di rapinatori e che vivevano di estorsioni; ve ne sono stati anche, perché no, licenziosi, rapinatori, dediti ai giochi e ai piaceri proibiti, e “che si sceglievano” un'esistenza oziosa piuttosto che legarsi alla dura legge del lavoro – ancorché si possa dubitare della “libertà” di una tale scelta, spesso pagata a caro prezzo –, ma il punto che penso di aver messo è questo: la categoria generale del vagabondo, come essere totalmente asociale e pericoloso, è una costruzione. Questa elaborazione stabilita a partire dall'esistenza di una frangia estrema di asociabilità destabilizzatrice ricopre di un manto di infamia una folla di poveri diavoli “innocenti”. Ma qualificarli come innocenti è ingenuo. Si è davvero innocenti quando si è deprivati di tutto, senza risorse, senza lavoro e senza protezione? Il trattamento riservato ai vagabondi prova che non è così88. La costruzione di un paradigma negativo del vagabondo è un discorso di potere. Intendo con questo che essa è innanzitutto opera dei responsabili incaricati della gestione di queste popolazioni, e che essa è lo strumento di questa gestione 89. La politica 88 Non richiamo qui il caso degli zigani, gitani, “egiziani”, “bohémiens”, i quali hanno fatto problema sin dalla loro comparsa nell'Europa occidentale del XVI secolo. Talvolta chiamati “mendicanti” o “vagabondi di razza”, essi sono stati particolarmente temuti e repressi. Questo nomadismo, infatti, riguarda gruppi stranieri alla cultura autoctona e che non sono mai stati integrati, a differenza dei vagabondi che analizzo. Sul nomadismo (che l'autore chiama nientemeno che vagabondaggio), cfr. Mario Gongora, Vagabondage et société pastorale en Amérique latine (spécialement au Chili central), in “Annales ESC”, n. 1, 1966, pp. 159-177. 89 Dal punto di vista del popolo, la rappresentazione del vagabondo sem-

repressiva nei confronti del vagabondaggio rappresenta la soluzione a una situazione che non consente soluzione. Che fare di individui che sollevano problemi inestricabili perché non sono al loro posto, ma che non hanno da nessuna parte un posto nella struttura sociale? La condanna del vagabondo è il cammino più breve tra l'impossibilità di tollerare una situazione e l'impossibilità di trasformarla in profondità. Nelle società preindustriali, la questione sociale posta dall'indigenza valida e mobile non può essere trattata che come una questione di polizia. Questa opzione presenta per le istanze responsabili prima di tutto il merito di esistere, altrimenti detto di proporre una linea di condotta per far fronte alla situazione, perché non ve ne è un'altra. Quand'anche la repressione desse ogni volta prova della sua inefficacia, essa non sarebbe meno indispensabile. Ma che si tratti di una sorta di forzatura in rapporto alla complessità del problema da trattare, certi responsabili ne hanno avuto almeno il sospetto. “Il signor luogotenente Aubert ha detto che è assai difficile per delle persone che sono abituate a un mestiere di prenderne un altro, e se non possono trovarne, non possono tuttavia essere reputate di cattiva natura e condizione, e gli sembra che sia bene avvertirle che abbiano a trovare un'altra maniera di vivere”: un edile di bra ambivalente e più spesso positiva. Abbondano le testimonianze della complicità degli ambienti popolari, in particolare dei rappresentanti dei piccoli mestieri delle città, che prendono partito per il vagabondo o il mendicante arrestato (cfr. Arlette Farge, Le mendiant, un marginal?, cit.). Ma ci sono anche segnali di un'attitudine inversa, soprattutto in campagna. Louis Ferdinand Dreyfus nota che i quaderni del 1789 (ma da chi sono stati scritti?) sono unanimi nel denunciare la mendicità, “flagello distruttore, lebbra vergognosa del regno”, e “i briganti, gli insignificanti della società che sono i vagabondi” (in Id., Un philanthrope d'autrefois. La Rochefoucauld-Liancourt. 1747-1827, Paris, Plon, 1903, p. 144).

Rouen si oppone in questi termini alla risoluzione di “gettare fuori della città oziosi, vagabondi, furfanti sani e validi, stranieri”90. Ma come organizzare “un'altra maniera di vivere” nei quadri dominanti della divisione del lavoro, quando per di più l'artigiano di Rouen, all'epoca di questa presa di posizione, nel 1524, è in crisi? Ecco un altro indizio che mostra come i contemporanei abbiano talvolta intravisto il problema sociale generale che si dissimula dietro il vagabondaggio: il luogotenente della gendarmeria a cavallo del Rodano dichiara nel 1776 che “è costante che tutti i vagabondi si occupino o facciano finta di occuparsi durante i raccolti, ma che un simile lavoro non è che momentaneo e non può essere considerato come sufficiente per la qualifica di operaio” 91. Ma quale sarebbe per queste persone un lavoro “sufficiente per la qualifica di operaio”, e a quali condizioni potrebbero prenderla? Non dipende né dall'istanza repressiva né dal vagabondo stesso favorire queste condizioni. La polizia del vagabondaggio è, per difetto, il solo modo – seppure di portata marginale, tenuto conto dell'ampiezza del problema – per pensare un pochino sul corso delle cose. Una seconda ragione può giustificare l'opzione repressiva. L'esistenza di queste popolazioni instabili, disponibili per tutte le avventure, rappresenta una minaccia per l'ordine pubblico. Il legame fra vagabondaggio e criminalità è attestato da una moltitudine di fonti. Non solo i vagabondi commettono individualmente dei delitti, ma l'insicurezza che essi rappresentano può assumere una dimensione collettiva. Attraverso la formazione di gruppi 90 Cit. in Bronislaw Geremek, Truands et misérables, cit., p. 168. 91 Cit. in Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit., p. 157.

che infestano le campagne e sfociano a volte nel brigantaggio organizzato, attraverso anche la loro partecipazione alle “turbolenze” e ai moti popolari, i vagabondi, distaccati da tutto e non legati a nulla, rappresentano un pericolo, reale o immaginario, di destabilizzazione sociale, come enuncia con forza il rapporto di sintesi delle memorie presentate nel 1777 all'Accademia di Digione: “avidi di novità, audaci e tanto più intraprendenti poiché non hanno niente da perdere e sono familiarizzati con l'idea di punizione che meritano ogni giorno; interessati alle rivoluzioni dello Stato, che sole potrebbero cambiare la loro situazione, colgono con ardore tutte le occasioni che si presentano per fomentare disordini”92. Come un'anticipazione della celebre formula sul proletario che “non ha niente da perdere se non le proprie catene” questo giudizio riconosce che il problema posto è irrisolvibile nella struttura della società dell'Ancien Régime al di fuori delle “rivoluzioni dello Stato”. Esso riconosce anche il ruolo della disaffiliazione quale fattore di cambiamento: colui che non ha niente e non è legato a niente è spinto a far sì che le cose non restino come stanno. Colui che non ha nulla da perdere rischia di voler perdere tutto. La funzione di “classe pericolosa” che si riconduce generalmente al proletariato del XIX secolo è già assunta dai vagabondi, insieme alla fantasmizzazione di questo pericolo: le analisi puntuali delle sommosse e dei moti popolari sembrano mostrare che il ruolo giocato dai vagabondi e dal “popolaccio” è regolarmente sopravvalutato93. 92 Les moyens de détruire la mendicité en France, cit., p. 17. 93 Per un'analisi critica di alcune di queste situazioni, cfr. George Huppert, After the Black Death. A Social History of Early Modern Europe, Bloomington, Indiana University Press, 1986; trad. it. Storia sociale

Così, la criminalizzazione globale del vagabondaggio ha potuto imporsi senza che ci si dovesse chiedere se la maggioranza dei vagabondi fosse effettivamente composta di criminali in potenza. Il paradigma del vagabondo non deve coincidere con la realtà sociologica degli vagabondaggio. In effetti, la consapevolezza che la maggioranza degli individui etichettati come mendicanti o vagabondi era in realtà costituita da pover'uomini condotti a questo dalla miseria e dall'isolamento sociale, dalla mancanza di lavoro e dall'assenza di supporti relazionali, non poteva sfociare in alcuna politica concreta nel quadro delle società preindustriali. In compenso, stigmatizzando al massimo il vagabondo, ci si forniva dei mezzi regolamentari e polizieschi per far fronte ai disordini puntualmente occasionati dalla porzione ridotta di vagabondi realmente pericolosi. Si poteva, senza dubbio, anche in qualche modo incidere su quello che allora era il mercato del lavoro cercando di costringere gli inattivi a impiegarsi a qualunque costo per far abbassare i salari94, ma si trattava soprattutto di costruidell'Europa nella prima età moderna, Bologna, il Mulino, 1990. Nello stesso ordine di idee, Emmanuel Le Roy Ladurie ha stabilito il ruolo preponderante di un certo tipo di élites rurali e urbane nella ribellione di una parte del Delfinato nel 1579 (Le carnaval de Romans. De la Chandeleur au mercredi des Cendres, 1579-1580, Paris, Gallimard, 1979; trad. it. Il carnevale di Romans, Milano, Rizzoli, 1981). Come regola generale, sia che gli elementi più marginali si abbandonino a esplosioni di violenza senza seguito, sia che siano i primi sacrificati nell'ambito di movimenti più strutturati nei quali giocano il ruolo di massa di manovra e poi di capro espiatorio, i vagabondi non paiono avere profondamente segnato i movimenti sociali che hanno colpito le società preindustriali. 94 Salvo errori, non si hanno affatto strumenti per misurare questa efficacia economica, e faccio l'ipotesi che essa abbia dovuto essere debole, o che in ogni caso questa finalità non abbia esaurito il senso di tali politiche. Interpretazioni come quelle di Marx o di economisti quali Simiand attribuiscono senza dubbio al capitalismo preindustriale una razionalità

re un paradigma in funzione dissuasiva e preventiva in direzione di tutti gli altri individui alle strette e, oltre, in direzione delle popolazioni braccate dalla miseria e dall'instabilità. Questa finalità è talvolta esplicitata con un cinismo sconcertante. Così, la lettera indirizzata dal controllore generale agli intendenti per l'applicazione dell'ordinanza del 1764 contiene questi consigli: Per il resto, non posso raccomandarvi troppo di mettere la più grande prudenza in questa operazione [arrestare i vagabondi] per non sovraccaricare le prigioni né i depositi, e per dare il tempo alla maggior parte di questa gente di abbandonare la vita criminale che conduce. Dopo queste osservazioni, bisogna che le gendarmerie a cavallo arrestino pochi vagabondi e mendicanti alla volta; forse anche i loro interventi devono essere piuttosto diretti verso i mendicanti invalidi che su quelli validi, perché ai primi, non avendo la risorsa di poter lavorare, è più difficile impedire di mendicare e perché i mendicanti validi, che vedranno essere arrestati anche gli invalidi, saranno ben più spaventati e si determineranno molto più presto a intraprendere una professione95.

Attraverso un'inversione del tutto cosciente della possibile razionalità di tali misure (neutralizzare gli elementi più pericolosi, anche a costo di dar prova di tolleranza, a causa della mancanza di mezzi e di posto nei depositi, nei riguardi dei più inoffensivi), la repressione si indirizzerà prioritariamente verso i e un potere di veicolare a proprio vantaggio le trasformazioni della legislazione sociale che esso, e bisognerà ancora discuterne, non ha avuto che molto più tardi. Su questi punti, cfr. i due capp. seguenti. 95 Cit. in Christian Paultre, De la répression de la mendicité et du vagabondage en France sous l'Ancien Régime, cit., p. 397.

mendicanti invalidi che non possono rappresentare alcun pericolo. Questo vuol dire chiaramente che il bersaglio prefissato non è quello colpito, e che il carattere dissuasivo di queste politiche ha il sopravvento sulla loro efficacia diretta. Ma, di tutti gli autori dell'epoca, è forse l'abate di Montlinot che si è elevato alla più profonda comprensione sociopolitica di un simile trattamento del vagabondaggio. Montlinot è uno spirito illuminato. Egli ha sviluppato una critica propriamente liberale del lavoro forzato in istituzione, sulla quale ritornerò. All'inizio della Rivoluzione, egli sarà associato ai lavori del Comitato per l'estinzione della mendicità dell'Assemblea costituente. Tuttavia, nel 1786 scrive questo: Si sono visti molti individui che, arrestati in circostanze imbarazzanti [si tratta di arresti attuati in applicazione della stessa famosa ordinanza del 1764 che ha dato luogo a numerosi abusi], hanno convenuto che li si era salvati da diverse tentazioni. La mancanza di denaro annuncia un bisogno eccessivo: ogni uomo, in queste circostanze pressanti, è sul punto di divenire uno scroccone o uno scellerato. Il governo deve dunque allora prevenire il crimine, e assicurare la tranquillità dei cittadini con tutti i mezzi possibili. Colui che, senza asilo, senza risorse, non può più pagare la sua sussistenza, cessa di essere libero; egli è sotto l'imperio della forza, non può fare un passo senza commettere un delitto. Infine, in una frase perentoria, supponendo che un uomo privo di ogni soccorso da lungo tempo non sia che un uomo disgraziato, questo rende ingiusto arrestarlo; nonostante ciò, bisognerebbe commettere quest'ingiustizia politica, e non la-

sciare errare sulle strade colui il quale non avendo nulla può osare tutto96.

Questa “ingiustizia politica” dal punto di vista di uno Stato di diritto è l'opera di tutte le politiche dell'Ancien Régime nei confronti del vagabondaggio e della mendicità valida. Ma, dal punto di vista della realpolitik, non vuol dire al contrario dare prova di saggezza? Focalizzando gli interventi repressivi su una popolazione marginale e deviante, o presentata come tale, si riconosce almeno implicitamente l'impossibilità di sviluppare una politica globale e positiva nei confronti della miseria di massa, ma si può sperare che questi interventi specializzati abbiano un effetto dissuasivo più generale97. Così, le politiche nei riguardi dei vagabondi e dei mendicanti validi non possono essere valutate solo in rapporto al loro obiettivo esplicito, che è in effetti un'utopia: sradicare il vagabondaggio. Da questo punto di vista, esse sarebbero uno scacco totale, confermato dalla maniera ripetitiva con la quale sono reiterate e motivate ogni volta dalla constatazione della crescita del numero dei vagabondi. Ma la prospettiva cambia se si ipotizza che esse si indirizzino anche a quella massa 96 Charles-Antoine-Joseph Leclerc de Montlinot, État actuel du dépôt de Soissons, précédé d'un Essai sur la mendicité. V. Compte: année 1786, cit., p. 21. 97 Ciò non significa evidentemente che i vagabondi abbiano avuto l'esclusività della vigilanza repressiva delle autorità. La repressione dei moti e delle sollevazioni popolari è una costante della storia sociale dell'Ancien Régime, che dà ancora luogo a degli episodi sanguinolenti nel XVII secolo (per esempio, la repressione delle rivolte contadine di Bretagna e di Normandia per opera del cancelliere Séguier). Ma questi interventi sono discontinui, rispondono colpo su colpo alle insurrezioni popolari. Le politiche nei riguardi del vagabondaggio e della mendicità sono senza dubbio le sole politiche concertate e condotte sul lungo termine in una duplice ottica repressiva e preventiva.

di popolo che non è separata dalla sua frangia disaffiliata, se non da frontiere fragili: l'insieme di quanti si trovano nella zona di vulnerabilità. Non si comprenderebbe come queste politiche abbiano rivestito per più di quattro secoli una tale importanza, come abbiano mobilitato tali energie, a dispetto del loro costante insuccesso, se non si cogliesse che esse comportano questa posta. Si possono definire “sociali” tali politiche? Sì, almeno nel senso minimale che il loro obiettivo è di garantire l'ordine pubblico e dunque di preservare l'equilibrio sociale. No, se si intende con questo un insieme di pratiche che di dispiegheranno a partire dal XIX secolo per attenuare lo iato tra l'ordine economico e l'ordine politico. Quest'ultimo “sociale”, che presuppone la duplice rivoluzione economica e politica della fine del XVIII secolo, cioè la preponderanza del mercato e della rappresentanza democratica, non ha evidentemente ancora il suo posto in quest'epoca, anche se ciò non è sufficiente per ridurre queste misure a una polizia repressiva che non concernerebbe che le popolazioni in rotta con l'ordine sociale. Se il vagabondaggio è sicuramente la punta avanzata di un processo di disaffiliazione che minaccia settori molto più vasti della società, esso pone un problema che va ben al di là di tali margini. La questione del vagabondaggio è in realtà la maniera in cui si formula e si occulta a un tempo la questione sociale nella società preindustriale. Essa la occulta perché la sposta all'estremo confine della società, fino a farne quasi una questione di polizia, ma permette anche di riformularla, se si segue, a monte del vagabondaggio, la linea di frattura che questo rivela. Si coglie allora una sorta di effetto boomerang del vagabondaggio: il processo attraverso il quale una società espelle taluni dei suoi membri obbliga a interrogarsi su ciò che, nel suo centro, dà im-

pulso a questa dinamica. È questa relazione nascosta dal centro alla periferia che bisogna ora cercare di chiarire. La lezione potrà valere anche per il nostro tempo: il cuore della problematica dell'esclusione non è là dove si trovano gli esclusi.

III. INDEGNO SALARIATO

La costituzione del moderno rapporto salariale suppone il concorso di un certo numero di condizioni precise: la possibilità di circoscrivere l'insieme della popolazione attiva, una enumerazione rigorosa dei diversi tipi di impiego e la chiarificazione di categorie ambigue di impiego come il lavoro a domicilio o i lavori agricoli, una delimitazione precisa dei tempi di attività opposti ai periodi di inattività, il conteggio preciso del tempo di lavoro, ecc.1. Bisognerà, perciò, attendere il volgere di questo secolo – il XX – perché esso si imponga senza ambiguità. Si è allora in diritto di parlare di “salariato” per epoche anteriori, e specialmente per periodi lontani, quando praticamente nessuna delle condizioni della sua definizione rigorosa è presente? Sì, a condizione di

1 Cfr. Robert Salais, La formation du chômage comme cathégorie: le moment des années 1930, in “Révue économique”, n. 26, 1985, pp. 321-366, e il dossier su “Histoire e statistique” riunito in “Genèse”, n. 9, 1992, articoli di Alain Desrosières, Olivier Marchand e Claude Thélot, Bernard Lepetit, Éric Brian, Christian Topalov. Cfr. anche la sintesi di Christian Topalov, Naissance du chômeur, 1880-1910, Paris, Albin Michel, 1994, della quale non ho potuto tenere conto in ragione della sua data di pubblicazione, ma che si iscrive nello stesso quadro di analisi.

sapere che non si hanno in quel momento che degli embrioni, o delle tracce, del rapporto salariale moderno. Ma sarebbe dar prova di uno strano etnocentrismo raffigurare il significato economico, sociale e antropologico del salariato alla sola luce di ciò che esso è divenuto nella “società salariale” – o peggio ancora, negare la realtà di situazioni salariali che non rientrano in questa definizione2, perché queste “tracce” hanno avuto esistenza quanto il rapporto salariale “fordista”. Esse non ne hanno certamente avuto la coerenza, e non ne hanno esercitato la stessa egemonia sulle relazioni di lavoro (se mai il rapporto salariale fordista sia stato egemonico nella società industriale, cosa su cui bisognerà ritornare). Ma precisamente di questo si deve render conto: riattivare queste “tracce” di salariato nella società preindustriale, cioè la grande impotenza del salariato di allora. Ma ciò significa anche risalire alla sua radice antropologica e trovare un filo conduttore per seguirne le trasformazioni sino a oggi. Perché la questione posta – e, a dire il vero, la questione posta attraverso l'insieme di questa opera – è quella del salariato? La convinzione che fosse sicuramente questo il cuore della questione sociale si è lentamente, ma sempre più fortemente, impo2 Ricordo d'altra parte che gli stessi storici dediti al Medioevo, quali Georges Duby o Jacques Le Goff, parlano di salariati e di salariato. Bronislaw Geremek ne fa anche il titolo di una delle sue opere più ricche, Le salariat dans l'artisanat parisien aux XIII e et XIVe siècles, cit. L'espressione “fittarsi” si trova anche nei testi d'epoca, per esempio nella già citata ordinanza di Giovanni il Buono del 1351: “Le donne che si fitteranno per svolgere qualunque mansione nella città di Parigi non potranno prendere che dodici denari al giorno” (Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., p. 620). Già dunque una forma di contratto d'affitto, e anche una forma di blocco dei salari.

sta durante il percorso. Si era partiti dall'analisi di due tipi particolari di “popolazioni problematiche” – i miserabili che dipendono dall'assistenza sullo sfondo dell'invalidità e della partecipazione comunitaria (cap. I), la frangia disaffiliata degli ambienti popolari, caratterizzata dall'impossibilità di iscriversi nei rapporti dominanti di lavoro e dall'isolamento sociale (cap. II) – ma non ci si può attenere a questi due “gruppi bersaglio” sui quali si focalizzano pur tuttavia quelle che fanno allora le veci delle politiche sociali, perché la questione sociale non è solamente quella della povertà, e neanche quella della miseria. In una formazione sociale in cui circa la metà della popolazione deve accontentarsi di riserve minime per sopravvivere, la povertà non pone veramente problema. O meglio: essa è accettabile, e finanche richiesta. Essa è inscritta nei piani della Provvidenza e necessaria al funzionamento della macchina sociale. Una testimonianza fra le tante: Vi sono poveri in uno Stato pressappoco come ombre in un quadro: essi fungono da contrasto necessario di cui l'umanità si lamenta talvolta, ma che onora le vie della Provvidenza […] È dunque necessario che vi siano dei poveri; ma non bisogna affatto che vi siano dei miserabili: questi non sono che la vergogna dell'umanità, quelli al contrario entrano nell'ordine dell'economia politica. Loro mercé, l'abbondanza regna nelle città, tutte le comodità vi si trovano, le arti fioriscono, ecc.3.

3 Philippe Hecquet, La médecine, la chirurgie et la pharmacie des pauvres, Paris, Veuve Alix, 1740, I, pp. XII-XIII, cit. in Jeffry Kaplow, Les noms des rois, cit.

Ma un tale “Stato” non può costituire un tutto armonico che a condizione che ricchi e poveri formino una coppia stabile le cui posizioni siano complementari, vale a dire che la povertà sia integrata. Questa è sempre meno la struttura delle società preindustriali dell'Occidente cristiano. Esse sono popolate, in numero crescente, di vulnerabili. Questa vulnerabilità di massa impedisce di tracciare una linea di partizione netta fra “i poveri” e “i miserabili”: una parte importante dei poveri è incessantemente minacciata di divenire miserabile. Si può, secondo la forte espressione di Boisguilbert, “rovinare un povero” 4. Così la questione sociale che pongono esplicitamente gli indigenti da assistere o i vagabondi da reprimere è già formulata, almeno implicitamente, a monte. È nei processi di vulnerabilizzazione che “rovinano i poveri” che bisogna cercare l'origine delle perturbazioni che colpiscono l'equilibrio sociale. È anche ciò che pone in primo piano la questione del salariato. Non che la condizione salariale – o piuttosto, lo si mostrerà, un insieme di situazioni salariali eterogenee che non si cristallizzano mai in “condizione” – ricopra la totalità delle situazioni miserabili. Esistono in campagna dei piccoli tenutari che lottano per la propria sopravvivenza restando in principio dei produttori indipendenti, e le città conoscono una folla di piccoli negozianti, venditori ambulanti, portantini, scaricatori, spedizionieri, ecc., minuscoli imprenditori che lavorano per conto proprio e sono anch'essi, in principio, padroni di sé stessi. Ma il ricorso alla sala4 Pierre Le Pesant de Boisguilbert, Mémoires, Bruxelles, De Backer, 1712, cit. in Arthur-Michel de Boislisle, Correspondance des contrôleurs généraux des Finances avec les intendants des provinces, Paris, Imprimerie nationale, 1874-1897, t. II, p. 531: “Arricchire o rovinare un povero, vale a dire un manovale, sono le cose più facili: sono appese a un filo”.

rizzazione, parziale o totale, segnala quasi sempre una degradazione, anche in rapporto a situazioni già miserabili: il tenutario che deve fittare una parte del suo tempo al contadino più ricco o tessere per il mercante della città, l'artigiano decaduto che entra a servizio di un altro artigiano o di un mercante, l'apprendista che non può divenire maestro e resta salariato a vita... Partire dalle situazioni nelle quali il salariato occupa una posizione inferiore a tutte significa mostrare il cammino da percorrere perché egli superi questi incredibili handicap. Come si è passati da un salariato frammentario, miserabile e disprezzato a una “società salariale” nella quale è a partire dalla partecipazione a questa condizione che la maggioranza dei soggetti sociali trarrà le proprie garanzie e i propri diritti? Ripercorrere l'odissea del salariato rappresenta la strada maestra per comprendere, fino a oggi, le principali trasformazioni della questione sociale5.

1. L'idioma corporativo

5 È vero che fino al XIX secolo, in una società a predominanza rurale, la questione della terra, la questione agraria, resta in primo piano; è vero anche che il suo trattamento durante l'epoca rivoluzionaria, l'abolizione dei diritti feudali e la vendita dei beni nazionali, hanno avuto un'importanza decisiva per la ristrutturazione della società francese; è vero infine che fino alla III Repubblica, e forse oltre, l'attenzione prestata alla vita contadina, la preoccupazione di conservare la società rurale, di prevenire lo spopolamento delle campagne, ecc., hanno costituito la preoccupazione dominante dei regimi che si sono succeduti. Ma questi dati essenziali, che bisogna tenere a mente, sono perfettamente compatibili con la posizione sostenuta qui, cioè che questa attenzione rivolta alla questione agricola lasci irrisolta la questione “industriale”, che si fa sempre più insistente man mano che la società, appunto, diviene sempre più “industriale”, più “salariale”.

Al punto di partenza di questa odissea si colloca un paradosso giustificato dalle analisi del capitolo precedente: nella società preindustriale, il vagabondaggio rappresenta l'essenza negativa del salariato. La sua figura-limite permette di estrapolare le caratteristiche strutturali della condizione o, piuttosto, della noncondizione salariale di allora. Il vagabondo è un salariato “puro”, nel senso che non possiede, parlando in assoluto, che la forza delle sue braccia. È manodopera allo stato grezzo. Ma gli è impossibile entrare in un rapporto salariale per venderla. Sotto forma di vagabondaggio, il salariato, si potrebbe dire, “tocca il fondo”, è il grado zero della condizione salariale: uno stato impossibile ma che tuttavia è esistito in carne e ossa in centinaia di migliaia di esemplari, che condanna all'esclusione sociale. Ma questo caso limite evidenzia dei tratti che condividono all'epoca la maggior parte delle situazioni salariali. Anche quando non sono ridotti a una tale posizione di outcast6, i salariati occupano quasi sempre delle posizioni fragili e incerte: semi-salariato, salariato frazionato, salariato clandestino, salariato disprezzato... Al di sopra del vagabondo, ma al di sotto di tutti coloro che hanno uno statuto, i salariati popolano le zone inferiori e minacciate di dissoluzione dell'organizzazione sociale. Vediamo allora perché, nella società preindustriale, accade necessariamente così.

6 Prendo a prestito questo termine da Garreth Stedman Jones, Outcast London, Oxford, s.e., 1973, il quale stabilisce un'omologia fra la posizione degli intoccabili della società indiana e quella della frangia completamente disaffiliata del popolo della grande città moderna. I vagabondi occupano la stessa posizione nella società preindustriale. A proposito della Gran Bretagna, per un'interpretazione del vagabondaggio che conforta la mia, cfr. A. Lee Beier, Vagrants and Social Order in Elisabeth Century, in “Past and Present”, n. 64, 1974, pp. 3-29.

Marx, è noto, ha elaborato la sua teoria del salariato a partire dalla situazione del proletariato moderno, ma la caratterizzazione che ne dà si iscrive in una prospettiva antropologica più ampia. Per lui, “la forza-lavoro non può presentarsi sul mercato come mercanzia se non quando sia offerta o venduta dal proprio possessore. Questi deve conseguentemente poterne disporre, vale a dire essere libero proprietario della sua forza-lavoro, della propria persona”7. Il salario è il costo di questa transazione attraverso la quale un proprietario della propria forza-lavoro la vende a un acquirente. Si può accettare questa caratterizzazione del salariato, a condizione di aggiungere che un lavoratore può vendere una parte della propria forza-lavoro senza essere “libero proprietario” della propria persona. Così, un servo può essere già salariato parziale se, avendo adempiuto i propri obblighi servili, mette al servizio del signore una parte del suo tempo “libero” a fronte di una retribuzione8. È così già un salariato agricolo parziale. Ben inteso, il salario può essere pagato in denaro o attraverso differenti tipi di retribuzione in natura. Se il salario in denaro rappresenta la forma compiuta della retribuzione salariale, esso è legato allo sviluppo di un'economia monetaria, e, anche dopo l'avvento di quest'ultima, potrà rimanere associato a retribuzioni non monetarie.

7 Karl Marx, Le Capital, cit., livre I, II section, cap. IV, p. 715. 8 Cfr. Isaac Joshua, La face cachée du Moyen Âge. Les premiers pas du capital, Paris, La Brèche, 1988; si veda anche Il modello della corvée, infra.

Dal lato del lavoro “industriale”9, l'artigianato si è costituito nel prolungamento dell'economia domestica, come ricorda Georges Duby: Il ruolo originario dei borghi era di approvvigionare la corte signorile attraverso l'artigianato e il commercio. Quando questa si sviluppò, ciò fu sotto la forma di un'escrescenza dei laboratori del feudo, del forno, della conceria, delle camere in cui tessevano le donne. A poco a poco, questi laboratori produssero più di quanto consumasse la casata del padrone, e offrirono il supplemento a una clientela esterna... Tuttavia, è un po' più tardi, nel corso del XII secolo, che bisogna collocare, nella storia dell'artigianato urbano, il momento in cui i lavoratori si staccarono completamente dalla domesticità signorile10.

In città, le corporazioni dei mestieri si organizzano allora in comunità autonome che dispongono del monopolio della produzione11. L'artigianato non è il salariato, ma ne costituisce storicamente la principale matrice. L'unità di base della produzione al9 I termini “industriale” e “industria” designano innanzitutto le trasformazioni e la fabbricazione di oggetti attraverso un lavoro manuale. Essi si applicano allora a delle attività su piccola scala, principalmente sotto la forma dell'artigianato. Non è che a partire dalla rivoluzione industriale, nei secoli XVIII e XIX, che le qualificazioni di industriale e di industria si applicheranno in maniera preferenziale alle forme di concentrazione del lavoro, “la grande industria”, il lavoro industriale in fabbrica. 10 Georges Duby, Guerriers et paysans, cit., p. 265. 11 Esiste un artigianato a dominante industriale (fabbricazione di oggetti a opera di fabbri, calzolai, carpentieri, sellieri, tessitori...) e un artigianato a dominante commerciale (vendita di prodotti da parte di fornai, macellai, mercanti di vini, merciai...). Ma le due funzioni interferiscono di frequente: il maestro fabbricante commercializza spesso i suoi prodotti, e tiene bottega nel suo laboratorio.

l'inizio della fioritura di queste comunità di mestiere è in effetti costituita dal maestro artigiano, proprietario dei suoi strumenti di produzione, da uno o due “valletti” o lavoranti e da uno o due apprendisti. I lavoranti sono generalmente alloggiati e nutriti presso il maestro e gli consacrano la totalità della loro forza-lavoro. Essi sono i soli salariati poiché gli apprendisti non sono retribuiti per il loro apprendistato. Ma, almeno nel suo funzionamento ideale, questa organizzazione fa del salariato uno stato transitorio: gli apprendisti sono destinati a divenire lavoranti e questi ultimi, giunto il momento, divengono a loro volta maestri. Questa forma di salariato che incarnano i lavoranti sembra così costituire una condizione relativamente solida poiché si tratta di un'attività a tempo pieno iscritta nell'organizzazione stabile e permanente dei “mestieri”. Ma è, nello stesso tempo, una condizione transitoria. L'ideale della situazione salariale è la sua auto-abolizione, nel momento in cui il lavorante diventa maestro e condivide, solo da quel momento, tutte le prerogative del mestiere. Una comunità di mestieri persegue un doppio fine: assicurarsi il monopolio del lavoro nella città (abolizione della concorrenza esterna), ma anche impedire che si sviluppi una concorrenza interna tra i suoi membri. Il primo obiettivo è il più evidente. Esso consiste nell'escludere gli stranieri o i “forestieri” 12, nell'esigere lunghi apprendistati – da tre a undici anni, spesso sproporzionati rispetto alle difficoltà del mestiere –, nel moltiplicare le prove 12 Così, nel registro civile dello Châtelet del 23 luglio 1454: “Condannato Jehan Lhuissier, follatore di drappi, a un'ammenda da versare al Re, poiché ha confessato di aver messo a lavoro uno straniero e ha piantato gli operai di Parigi contro l'ordinanza” (Gustave Fagniez, Documents relatifs à l'histoire de l'industrie et du commerce en France, Paris, s.e., 1898-1900, t. II, p. 239).

e i controlli. Ma le regolamentazioni proibiscono altrettanto severamente lo spirito di concorrenza in seno al mestiere: limitazione del numero di apprendisti e di lavoranti – generalmente uno o due –, divieto di cumulare più mestieri anche se si tratta di lavorare una stessa materia quale il cuoio, la cui lavorazione è suddivisa fra i conciatori, i sellai di campagna, i sellai urbani, i fabbricanti di borse o di stivali; infine restrizione e regolamentazione dell'acquisto delle materie prime che devono essere equamente ripartite tra i maestri13. Per esempio, a Parigi, alla fine del XVI secolo, nei mestieri del cuoio, nessun maestro può acquistare cuoio grezzo dal proprio capo, né vendere la sua parte di materia prima a un altro maestro14. Sono così prese tutte le precauzioni necessarie affinché sia impossibile l'innovazione, proibita l'ambizione di sopraffare il proprio vicino. L'ideale è riprodurre identica una struttura tradizionale traendone ben pochi benefici. In tal modo, questa organizzazione del lavoro non permette lo sviluppo di un processo di accumulazione capitalistica. Per mantenere lo status quo bisogna bloccare a un tempo le possibilità di espansione di ogni unità produttiva e quelle dell'insieme della professione e delle professioni industriali in generale. Ancora nel 1728, i maestri intagliatori lionesi si esprimono così: “Per le arti meccaniche, non occorrono troppi operai. Essi non fanno che nutrirsi e affamarsi gli uni contro gli altri, e riempire la società civile di membri inutili e disprezzabili, il che è il peggior male che possa loro accadere”15. 13 Cfr. George Unwin, Industrial Organisation in the XVIth and Centuries, Oxford, Clarendon Press, 1904, e Max Weber, Histoire mique, cit., cap. II. 14 Cfr. George Unwin, Industrial Organisation in the XVIth and Centuries, cit., p. 149. 15 Cit. in Maurice Garden, Lyon et les Lyonnais au XVIII e siècle,

XVIIth éconoXVIIth Paris,

Questa struttura, che ha conosciuto la sua epoca d'oro nei secoli XII e XIII, corrispondeva allora alle condizioni di organizzazione del lavoro “industriale” nella città medievale. Ma il paradosso è che, benché essa mostri segni di indebolimento al momento dell'apertura di più ampi mercati, si mantiene e, sotto certi aspetti, si rinforza fino al XVIII secolo 16. Le prime comunità di mestiere erano sovente l'espressione delle franchigie e dei privilegi delle città (ciò perché detenevano anche una parte del potere politico municipale). Ma quando il potere reale si afferma, principalmente in Francia, si appoggia sulle comunità di mestieri e incoraggia la loro espansione, senza dubbio per ragioni finanziarie (le franchigie si comprano), ma soprattutto per controllare la produzione industriale. La Corona moltiplica così il numero dei mestieri giurati nel quadro “di un'alleanza tattica fra la regalità e i mestieri”17. L'editto di Enrico II del 1581, ripreso da Enrico IV nel 1597, si sforza di estendere a tutto il regno il sistema corporativo. Richelieu e Colbert accentuano ulteriormente questa politica. È uno medesimo spirito – lo spirito del mercantilismo – che ispira la creazione di manifatture reali e il rafforzamento dei mestieri tradizionali. Flammarion, 1975, p. 189. 16 Cfr. Émile Coornaert, Les corporations en France avant 1789, Paris, Gallimard, 1941. Sull'organizzazione e la storia del regime “corporativista”, cfr. ugualmente Étienne Martin Saint-Léon, Histoire des corporations de métiers depuis les origines jusqu'à leur suppression en 1791 suivie d'une étude sur l'évolution de l'idée corporative au XIX e siècle et sur les syndacats professionnels, Paris, Guillaumine, 1897, e François-Olivier Martin, L'organisation corporative de la France de l'Ancien Régime, Paris, Librairie du Recueil Sirey, 1938. 17 Henri Hauser, Ouvriers du temps passé. Xve-XVIe siècles, Paris, Alcan, 1927, p. 2.

Così Poitiers, che aveva 18 comunità “giurate” nel XIV secolo, ne conta 25 nel XVI e 42 nel XVIII18. A Parigi, il numero dei mestieri giurati era di 60 nel 1672 e di 129 nel 1691 19. Nuove industrie, come le cartiere, sono costrette a piegarsi al modello delle giurande. In Inghilterra, benché in maniera meno sistematica, gli Stuart tentano di appoggiare le corporazioni urbane contro lo sviluppo del capitalismo mercantile20. I mestieri “giurati”, i cui privilegi sono amministrati dalla professione e garantiti dal potere regio, presentano l'organizzazione più rigida. Alcuni storici come Henri Hauser hanno sottolineato il fatto che essi non rappresentavano che una minoranza, e che erano dunque lontani dal controllare l'insieme della produzione. L'industria rurale sfugge loro, il che avrà, come si vedrà, delle enormi conseguenze. Esiste anche un gran numero di città “libere”. Così, Lione ha sempre difeso con accanimento la “libertà del lavoro” contro i tentativi di controllo da parte della regalità. Ma cosa vuol dire? Che sono gli agenti municipali che svolgono la funzione di giurati, assicurano le “visite” e controllano la qualità dei prodotti. I vincoli possono essere così pignoli e altrettanto efficaci contro la libertà di intraprendere come se fossero esercitati dalle giurisdizioni sanzionate dalle patenti reali. Ancora alla metà del XVIII secolo, una querelle “medievale” scoppia a Lione fra i calzolai e i ciabattini (i primi lavorano il cuoio nuovo, mentre i ciabattini riparano le scarpe usate). I calzolai denunciano “la truppa errante e irregolare” dei ciabattini: 18 Cfr. Henri Hauser, Les débuts du capitalisme, Paris, Alcan, 1931. 19 Cfr. Georges Lefranc, Histoire du travail et des travailleurs, Paris, Flammarion, 1957, p. 176; trad. it. Storia del lavoro e dei lavoratori, Milano, Jaca Book, 1976. 20 Cfr. George Unwin, Industrial Organisation in the XVIth and XVIIth Centuries, cit.

Sarebbe assai ingiusto che degli avventurieri che non hanno affatto sopportato le prove e che non hanno affatto adempiuto alle obbligazioni alle quali i maestri sono stati soggetti venissero a condividere il loro stato; sarebbe come distruggere ogni disciplina e ogni regolamento, poiché la condizione dei ciabattini sarebbe uguale a quella dei calzolai, non vi sarebbe più bisogno di sottomettersi agli statuti per l'apprendistato, lo stato di lavorante e la maestranza21.

“Truppa errante e irregolare”, “avventurieri” da una parte, stato condizione, disciplina, statuto dall'altra: al di là anche degli interessi economici difesi da queste regolamentazioni, è del posto dei mestieri in una società di ordini che si tratta. La partecipazione a un mestiere o a una corporazione (questo termine appare solamente nel XVIII secolo) segna l'appartenenza a una comunità dispensatrice di prerogative e privilegi che assicurano al lavoro uno statuto sociale. Grazie a questa dignità collettiva di cui il mestiere, e non l'individuo, è proprietario, il lavoratore non è un salariato che vende la propria forza-lavoro, bensì il membro di un corpo sociale la cui posizione è riconosciuta in un insieme gerarchico. Così, le regolamentazioni dei mestieri non hanno solamente il ruolo tecnico di organizzare la produzione e di garantire la qualità dei prodotti; esse impediscono l'esistenza di un mercato sul quale le merci circolino liberamente: né concorrenza, né libertà di aumentare la produzione. Ma esse interdicono ugualmente l'esistenza di un mercato del lavoro: né libertà di impiego, né li21 Cit. in Maurice Garden, Lyon et les Lyonnais, cit.

bertà di circolazione dei lavoratori. Da questo punto di vista, non vi è differenza di natura tra i diversi tipi di regolamentazioni: “Che si sia in presenza di un mestiere giurato, sottomesso al potere reale, o di un mestiere regolamentato, sottomesso alla municipalità, o dei mestieri liberi, sottomessi ai regolamenti di polizia, si constata, conseguentemente, che non vi è da nessuna parte vera libertà. Esistono soltanto delle forme diverse di regolamentazione”22. Ciò che William Sewell chiama l'idioma corporativo23 soprassiede dunque tanto all'organizzazione tecnica della produzione che all'organizzazione sociale del lavoro. Esso fa del mestiere una proprietà collettiva dispensatrice al contempo di impiego e di statuto, riservata al numero per definizione limitato dei suoi membri, e le cui franchigie riposano sulla difesa di una sola forma di lavoro socialmente legittima. Un mestiere si costituisce tanto attraverso la funzione di esclusione che esso assicura nei confronti dei fuori-statuto quanto attraverso le prerogative positive che dispensa. Tuttavia, sottolineare l'importanza di questo idioma corporativo per l'organizzazione del lavoro, fino alla fine dell'Ancien Régime, non equivale a dire che la controlli completamente. In particolare, la storiografia più recente segna una tendenza a ritornare sulla concezione troppo rigida sviluppata dagli storici classici del corporativismo, come è stata appena presentata. Un'ope22 Éduard Dolléans, Gérard Dehove, Histoire du travail en France, Paris, Domat Monchrestien, 1953, vol. 1, p. 61. 23 Cfr. William Hamilton Sewell, Gens de métiers et révolutions. Le langage du travail de l'ancien régime à 1848, Paris, Aubier, 1983; trad. it. Lavoro e rivoluzione in Francia. Il linguaggio operaio dall'Ancien Régime al 1848, Bologna, il Mulino, 2001.

ra come quella di Michael Sonenscher, Work and Wages, stabilisce che nel XVIII secolo in ogni caso esiste una fluidità della manodopera da laboratorio a laboratorio, da città a città, più forte di quanto si credesse24. Porosità del sistema corporativistico più ampia di quanto la si fosse rappresentata in generale, il che in fondo non ha nulla di sorprendente: la rigidità manifesta di questa organizzazione prende a tal punto in contropiede certe tendenze profonde dello sviluppo commerciale e industriale che non la si può applicare alla lettera. Ma che una struttura si riveli nella pratica porosa non significa che i suoi effetti siano trascurabili. È principalmente in questo intervallo fra la rigidità di una struttura e i suoi incessanti debordamenti che si inseriscono con difficoltà differenti figure del salariato. Il paradosso di cui bisogna rendere conto è che, anche minato dall'interno e circondato da ogni parte dalla dinamica del capitalismo nascente, il sistema corporativo continua a impedire la promozione di un libero mercato della manodopera e di una solida condizione salariale.

2. La firma del mestiere Minato dall'interno, il sistema delle comunità di mestiere è in crisi almeno dal XIV secolo. A partire da questa data, le possibilità di pervenire alla maestranza si chiudono e saranno ben presto praticamente riservate ai soli figli dei maestri. Regola24 Cfr. Michael Sonescher, Work and Wages, Natural Laws, Politics and the Eighteenth-Century French Trades, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, e il commento di Alain Cottereau, Derrière les stéréotypes corporatifs: la grande flexibilité des métiers en France au XVIII e siècle, in “Le Mouvement Social”, n. 4, 1993, pp. 129-134.

mentazioni sempre più pignole e condizioni di accesso alla maestranza sempre più gravose, quale la generalizzazione del costoso “capolavoro” (che si esigeva raramente in precedenza), hanno l'effetto di bloccare la promozione interna e di ridurre il reclutamento esterno. Questa chiusura è all'origine della costituzione di due categorie di lavoratori. I lavoranti, privati della possibilità di accedere alla maestranza, formano una sorta di classe di salariati a vita che tenta di organizzarsi per la difesa dei propri interessi25. Scioperi di lunga durata sono attestati fin dal XVI secolo, come quello dei lavoranti stampatori lionesi e parigini dal 1539 al 1542. I lavoranti tentano soprattutto di controllare le assunzioni e, nelle città e nei mestieri nei quali sono meglio organizzati, essi arrivano a imporre il ruolo del cosiddetto “rotatore” – un lavorante incaricato dai suoi pari di accogliere gli operai alla ricerca di un lavoro e di collocarli presso dei maestri riconosciuti –, il quale esercita un quasi-monopolio sull'impiego. Altri lavoranti, privati della possibilità di divenire maestri, tentano di sistemarsi per proprio conto. Sono i chambrelans, vocabolo forgiato nel XV secolo, il che attesta che questa pratica era già assai diffusa26. Ma quelli che si potrebbero chiamare gli effetti perversi del sistema dei mestieri non hanno la capacità di trasformare in maniera significativa l'organizzazione del lavoro. I chambrelans sono dei clandestini impietosamente perseguitati. Ancora nel 25 Cfr. Bronislaw Geremek, Le salariat dans l'artisanat parisien aux XIIIe et XVe siècles, cit. D'altronde è improbabile che l'artigianato sia mai stata una struttura di tipo “democratico” quanto al suo reclutamento. Così l'apprendistato lungo, non è stato retribuito e tenderà sempre di più a diventare pagato. Si trovano così esclusi di fatto i giovani rurali che non possono risiedere in città per diversi anni senza salario. 26 Cfr. Henri Hauser, Ouvriers du temps passé, cit., p. XXIX.

XVIII secolo, i “sequestri” si moltiplicano e numerosi chambrelans sono anche rinchiusi in Bastiglia con lettres de cachet27. Le organizzazioni di lavoranti sono ugualmente represse. Tuttavia, pur opponendosi ai maestri, ne condividono gli ideali corporativistici. I lavoranti salariati lottano infatti per condividere i privilegi del mestiere, soprattutto per quel che comportano di restrittivo in rapporto all'apertura di un mercato del lavoro. Essi si organizzano per controllare questo mercato escludendo i “forestieri”, che cercano di venire a fittare le loro braccia in città, e coloro che non sono passati attraverso le regole tradizionali dell'apprendistato dei mestieri28. Le disfunzioni interne dell'idioma corporativo non anticipano dunque, in alcun modo, un'organizzazione alternativa del lavoro quale potrà essere promossa dal capitalismo industriale sulla base del contratto di fitto della forza-lavoro. L'organizzazione artigianale del lavoro è per di più sopraffatta dalle dinamiche che la circondano. Queste trasformazioni hanno assunto tre forme principali: l'egemonia esercitata dai mercanti sulla produzione, lo sviluppo di una proto-industria rurale, e la creazione di manifatture per iniziative del potere reale. Ma ecco che ancora questi sviluppi importanti hanno frenato, almeno quanto favorito, la costituzione di una condizione salariale moderna. A. Il ruolo dei mercanti è determinante fin dal Medioevo in taluni settori come il tessile e soprattutto la drapperia che rappresentano, in particolare nelle Fiandre e nell'Italia del Nord, la 27 Cfr. Arlette Farge, La vie fragile. Violence, pouvoirs et solidarités à Paris au XVIIIe siècle, Paris, Hachette, 1986, partie II, cap. II. 28 Sull'organizzazione clandestina dei lavoranti e sui primi scioperi o “cabale”, cfr. Henri Hauser, Ouvriers du temps passé, cit.

“grande industria” dell'epoca. La fabbricazione di un pezzo di drappo, per esempio, esige una quindicina o una ventina di operazioni – il lavaggio, la pettinatura, la cardatura, l'asciugatura, la tosatura, la filatura, la composizione in matasse, la tessitura, la battitura, la follatura, la tintura... – e dunque una divisione spinta del lavoro. Ma questa si produce sulla base dell'organizzazione artigianale: le principali operazioni sono effettuate da maestri che hanno il loro laboratorio, i loro attrezzi, i loro lavoranti e i loro apprendisti29. Essi sono pertanto alle dipendenze del mercante – il drapier marchand in Fiandra o il colthier inglese – che, generalmente, fornisce la materia prima, commercializza il prodotto finito e controlla l'insieme del processo. Lui solo può investire somme ingenti, lui solo ha accesso ai circuiti di vendita e può ammortizzare le fluttuazioni del mercato. Egli è così un vero e proprio capitalista, mentre il produttore diretto non è né capitalista né proletario. Certo, quest'ultimo resta proprietario dei suoi mezzi di produzione e stipendia i propri impiegati, ma perde ogni controllo sul proprio prodotto, perché non lo commercializza in proprio e perché la sua opera non è che una tappa in una catena che sfocia nel prodotto finito e commercializzabile. Egli non può dunque entrare per il suo proprio profitto nel processo di accumulazione delle ricchezze. Questa organizzazione “capitalistica”, fonte di grandi fortune commerciali fin dal Medioevo, si è dunque infiltrata bene o male 29 Jacques Heers, Le travail au Moyen Âge, Paris, PUF, 1965; trad. it. Il lavoro nel Medioevo, testo di Jacques Heers e confronti antologici da Marc Bloch, a cura di Luigi Cattanei, Messina-Firenze, D'Anna, 1973. Alcune di queste operazioni, come l'essiccatura, la filatura, la composizione in matasse sono generalmente poco qualificate e affidate di solito a donne la cui situazione è particolarmente precaria. La follatura e soprattutto la tessitura sono invece affidate a dei maestri artigiani.

nella struttura tradizionale dell'artigianato. Sollecitata in un primo momento dalle esigenze tecniche della divisione del lavoro tessile, va ben presto a minare l'indipendenza di numerosi mestieri. Così fra gli altri, verso il XVI secolo, i merciai parigini fanno lavorare diversi artigiani di prodotti di lusso. Questi conservano tuttavia il controllo della qualità dei prodotti. Nella stessa epoca, a Londra, i mestieri del cuoio sono dominati dalla potente Leathersellers Company of London. George Unwin ha descritto dettagliatamente, per la Francia come per l'Inghilterra, la lotta secolare che ha coinvolto: i grandi mercanti, che dirigono il commercio a livello nazionale e internazionale; i mercanti-datori di lavoro, che tentano di far entrare gli artigiani “indipendenti” in una logica di subappalto; quei piccoli artigiani, gli small masters, che tentano di mantenere le loro prerogative tradizionali appellandosi spesso al potere regale; infine i lavoranti e gli apprendisti, rinchiusi a vita nella categoria di puri salariati 30. La complessità di questo paesaggio rende conto dell'ambiguità delle situazioni e della cascata di compromessi che si elaborano, si fanno e si disfano lungo il filo degli anni e dei secoli. Se il capitalismo commerciale afferma la sua volontà di egemonia, non si impone senza divisioni e la difesa accanita dei privilegi pone continuamente dei freni alla libertà di intraprendere. La situazione della grande fabbrica di seta di Lione nel XVIII secolo, senza dubbio la più grande concentrazione industriale dell'epoca, poiché 30.000 persone si dedicano alla stessa attività, illustra bene la complessità di queste situazioni 31. La fabbrica è 30 George Unwin, Industrial organisation, cit. Max Weber analizza questa pratica sotto il nome di “sub-trattamento accomandatario”, cfr. Histoire économique, cit., cap. II. 31 Lione, che il comico Bernard qualificava già nel XVIII secolo come

dominata da un ristretto gruppo di mercanti-datori di lavoro, ricchi negozianti alcuni dei quali possono controllare interamente un centinaio di “maestri operai” ridotti alla condizione di artigiani che lavorano con materiali forniti dal cliente. Altri artigiani cercano di mantenere un'indipendenza fragile e minacciata 32. Numerosi autori hanno insistito sul progressivo degrado della condizione degli artigiani lionesi: molti sono dei quasi-proletari ridotti alla miseria, mentre la classe dei mercanti è opulenta e dominatrice. Gli stessi maestri artigiani che lavorano con materiali forniti dal cliente denunciano nel 1780 la “libertà micidiale” che hanno i mercanti di fissare le tariffe: “Non è a spese dello straniero, né del superfluo dell'opulenza che il mercante si arricchisce, è della sussistenza dei suoi più poveri concittadini che egli si ingrassa... Egli fa gemere nell'indigenza degli uomini degni di una sorte migliore, quando sono industriosi, parsimoniosi e attivi”33. Incontestabili accenti di “lotta di classe”, che devono essere chiariti da due rilievi. Prima di tutto, è a un ideale di indipendenza artigianale che l'operaio setaiolo lionese si richiama, almeno fino al XVIII secolo. La sua proletarizzazione è tanto più una decadenza quanto più continua a voler vivere come un maestro. In secondo luogo, l'egemonia del mercante non è ancora quella di un capitalista industriale. La decadenza dell'artigiana“grande mercato di mode il cui cuore sembra battere come una cassaforte” (cit. in Étienne Mayet, Mémoire sur les manifactures de Lyon, London-Paris, Moutard, 1786, p. 615). 32 Cfr. Justin Godart, L'ouvrier en soie: monographie du tisseur lyonnais, étude historique, économique et sociale, Lyon, Nicolas, 1899. Stima di Godart per il 1786: 500 mercanti, 7.000 maestri e 4.666 mogli di maestri, 9.700 salariati (4.300 lavoranti, 3.100 apprendisti, 2.300 domestici) costituiscono l'effettivo della “grande fabbrica” (pp. 189 sgg.). 33 Cit. in Maurice Garden, Lyon et les Lyonnais au XVIIIe siècle, cit., p. 341.

to non ha dato vita su larga scala a un gruppo che assicuri a un tempo gli statuti di datore di lavoro e di organizzatore della produzione, vale a dire a un gruppo di capitalisti industriali. Questa situazione non è soltanto della fabbrica lionese. La struttura artigianale ha ostacolato lo sviluppo di produttori che investissero nella produzione stessa per trasformare la loro impresa e darle un carattere capitalistico-industriale. Senza dubbio esiste fin dal XIV secolo, e in ogni caso dal XVI, uno “spirito capitalista” nel senso di Sombart, caratterizzato dal gusto del profitto, il senso del calcolo e della razionalità, la volontà di accumulare ricchezze34. Christopher Hill così annota: L'uomo d'affari del XVI secolo presenta un profilo [outlook] molto diverso da quello del signore feudale. Egli rimugina sul minimo penny in più o in meno per spingere gli altri a lavorare per lui. E poiché i lavoratori scelgono “volontariamente” di lavorare per lui, egli non sente alcuna responsabilità nei loro riguardi quando i tempi sono duri: se essi sono scontenti di ciò che è proposto loro, che vadano a vedere altrove35.

Così, il meccanismo dell'estrazione del plusvalore è già in atto nel capitalismo commerciale, ma differisce dalla forma che assumerà nel capitalismo industriale sotto due aspetti: il profitto non è il beneficio del produttore, ma quello del mercante che lo 34 Cfr. Werner Sombart, Le bourgeois. Contribution à l'histoire morale et intellectuelle de l'homme économique moderne, Paris, Payot, 1966; trad. it. Il borghese. Contributo alla storia dello spirito dell'uomo economico moderno, Milano, Longanesi, 1950. 35 Christopher Hill, Puritanism and Revolution. Studies in Interpretation of the English Revolution of the 17 th century, London, Panther Books, 1968, p. 217.

incarica e commercializza il prodotto; il lavoratore non ha affatto la risorsa “di andare a vedere altrove”, perché non c'è “libero” mercato del lavoro. Questa forma di capitalismo, che fu conquistatrice, riposa sui vincoli dell'organizzazione tradizionale del lavoro, che non sovverte completamente ma volge a proprio profitto. La mobilità e modernità del capitalismo mercantile poggiano sulla permanenza del modo di produzione dominato dall'artigianato. B. L'estensione dell'artigianato rurale rappresenta un'altra linea di sviluppo “industriale” che contorna senza distruggerla l'organizzazione tradizionale dei mestieri. Poiché il sistema corporativo è una struttura essenzialmente urbana, i rurali non sono assoggettati ai suoi vincoli, ma non sono legati neppure alle sue protezioni. Sono allora disponibili per lavorare, a tempo pieno o più spesso durante i tempi morti dei lavori agricoli, per i mercanti delle città che procurano la materia prima. Si tratta del putting-out system: il mercante fornisce la lana, la stoffa o il metallo – talvolta alcuni strumenti –, e recupera il prodotto finito, o semi-finito, che commercializza36. Questa forma di subappalto è, anch'essa, apparsa molto presto. Una buona parte della fortuna di Bruges o di Gand è dipesa 36 Bisogna distinguere il putting-out system (Verlagsystem in tedesco), produzione per dei mercanti che commercializzano gli oggetti fabbricati, dalla produzione domestica a uso essenzialmente familiare (Kaufsystem). A partire dai lavori di Franklin Mendels (Proto-Industrialization. The First Phase of the Industrialization Process, in “Journal of Economic History”, n. 32, 1972, pp. 241-261), i termini di “proto-industrializzazione” e di “proto-industria” tendono a imporsi per designare queste pratiche e per sottolineare la loro importanza decisiva nel processo di sviluppo del capitalismo in Europa. Cfr. Alain Dewerpe, L'industrie aux champs. Essai sur la proto-industrialisation en Italie du Nord, 18001890, Rome, École française de Rome, 1985.

dal fatto che, fin dal Medioevo, i contadini della pianura fiamminga lavoravano per i tappezzieri di queste città. Ma essa si sviluppa in proporzioni considerevoli innanzitutto in Inghilterra dove, dato che i mestieri urbani si difendono peggio, rappresenta dal XVI secolo circa la metà della produzione “industriale”. Sul continente è nel XVIII secolo che essa conosce la sua maggiore espansione. Contrariamente a una rappresentazione diffusa, la proto-industria non è dunque un residuo arcaico dello sviluppo industriale. Innanzitutto, perché ammette una certa divisione del lavoro: numerosi artigiani rurali possono lavorare alla confezione di uno stesso pezzo che il mercante fa circolare e di cui recupera il prodotto finito. Ma, soprattutto, perché si inscrive perfettamente nella logica dello sviluppo del capitalismo mercantile. L'artigianato rurale presenta in effetti molteplici vantaggi: salari più bassi della retribuzione degli artigiani urbani, poiché si tratta il più delle volte di un salario integrativo per gli affittuari di una tenuta; debolezza degli investimenti necessari, quasi ridotti alla fornitura delle materie prime e ai costi della commercializzazione dei prodotti; possibilità di ammortizzare senza rischi le fluttuazioni del mercato, poiché non vi è capitale fisso da capitalizzare. Questi prodotti hanno potuto così alimentare, in maniera conveniente per il mercante, un mercato sia nazionale sia internazionale37, ma la produzione ha potuto specializzarsi, gli scambi intensificarsi, i benefici accrescersi, senza che vi fosse trasforma37 Cfr. David Saul Landes, L'Europe technicienne. Révolution technique et essor industriel en Europe occidentale de 1750 à nos jours, Paris, Gallimard, 1975, pp. 84 sgg.; trad. it. Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell'Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 2000.

zione del rapporto di produzione, che continua a radicarsi nel quadro di un'economia domestica contenendo la necessità di concentrazioni industriali. Queste caratteristiche bloccano nello stesso tempo lo sviluppo di un capitalismo industriale e l'avvento della forma moderna del salariato che si costituirà a partire dagli operai della grande industria. Questi quasi-salariati parziali e miserabili che sono quasi sempre artigiani rurali non si inscrivono evidentemente in una logica di accumulazione capitalistica. In genere, essi producono per completare i profitti della loro piccola attività agricola. Di più: continuando a fondare la produzione sulla domiciliazione, questo sistema mantiene i rapporti tradizionali di dipendenza e i valori della società rurale. L'artigiano rurale è un contadino più che un operaio, la sua attività industriale resta inquadrata dalle regolazioni di un'economia domestica. Attraverso lo sviluppo dell'artigianato rurale, le più isolate campagne possono così partecipare allo sviluppo del mercato, dell'economia monetaria e della produzione industriale, in breve, alla promozione della modernità, ma senza essere per questo modernizzate in profondità. Non che questa intrusione sia priva di effetti sui rapporti sociali nelle campagne, ma queste trasformazioni sono ambigue dal punto di vista economico e sociale. Lo sviluppo dell'artigianato rurale permette un sovrappopolamento delle campagne rispetto alle risorse propriamente agricole, l'abbassamento dell'età dei matrimoni, una crescita demografica rurale consistente e una differenziazione accresciuta dei rapporti sociali nelle campagne 38. Ma esso contiene o restringe il ricorso all'esodo rurale, e salvaguarda la pre38 Cfr. Rudolf Braun, The Impact of Cottage Industry on an Agricultural Population, in David Saul Landes (ed.), The Rise of Capitalism, New York, Macmillan, 1966, pp. 53-64.

minenze delle tutele locali. Così, impedisce o ritarda la costituzione di un proletariato nel senso moderno del termine. Conseguenza fondamentale sulla quale bisognerà tornare, lo sviluppo della proto-industria, la sua lunga persistenza molto prima del XIX secolo rendono ampiamente conto di ciò che si potrebbe chiamare l'eccezionalità del proletariato moderno: eccezionale perché è a lungo rimasto assai minoritario, ma soprattutto perché pone un problema sociale inedito per il fatto che gli operai delle prime concentrazioni industriali saranno spesso completamente tagliati fuori dai loro legami territoriali. Al contrario, e benché si sviluppi in parallelo e contro i vincoli dell'artigianato urbano, l'artigianato rurale, mantenendo nelle campagne le tutele tradizionali, assicura una funzione di regolazione omologa a quella che esercitano le corporazioni dei mestieri sull'artigianato urbano. La relazione fra lo sviluppo della proto-industria e l'avvento del capitalismo industriale non è dunque univoca. Non è un caso se l'Inghilterra, dove si è prodotta per prima la rivoluzione industriale, era anche il paese in cui il putting-out system era impiantato da più tempo e non aveva più margini di sviluppo sufficienti per rispondere alle richieste del mercato. Si può porre l'ipotesi che la rivoluzione industriale si produca, almeno in parte, allorché l'Inghilterra non ha più un “Far West”. Intendo, con questo, quando l'industria rurale non può più conquistare nuovi territori, sia perché impiantata da molto tempo e sia perché il numero di piccole tenute contadine che potrebbero fornirle una manodopera è sempre più ristretto a causa della concentrazione della proprietà rurale e dello sviluppo delle enclosures39. Due conse39 Il ruolo delle enclosures è stato più volte rivalutato a partire dalle famose analisi di Marx ne Il Capitale. Si può riassumere un dibattito complesso dicendo che la fase più devastante delle enclosures ha avuto

guenze, diradate nel tempo, della precocità dello sviluppo dell'artigianato rurale in Inghilterra. Esso irriga piuttosto un mercato nazionale – e anche internazionale – fiorente, mentre le campagne francesi, avendo una produttività artigianale più debole, alimentano meno il mercato in termini di prodotti “industriali”. In seguito, quando il mercato dell'artigianato rurale è saturo in Inghilterra, è ancora aperto in Francia e sul continente europeo: restano delle riserve di manodopera nelle campagne, che permettono lo sviluppo della proto-industria nel XIX secolo e in egual misura frenano la crescita di un'industria “moderna” 40. Le due principali caratteristiche della rivoluzione industriale possono così interpretarsi come due risposte alle inefficienze della proto-industria: ricorso alla macchina, che moltiplica la produttività del lavoro senza dover moltiplicare il numero dei lavoratori; riunione dei lavoratori nella fabbrica, che permette una migliore divisione del lavoro, una migliore sorveglianza, un attaccamento completo dell'operaio al suo compito, e mette così fine a quegli elementi controproducenti dell'artigianato rurale, attaccato alla sua terra più che al suo mestiere, la sua distanza rispetto alle luogo soltanto nel XVIII secolo, ma che dal XVI secolo il paesaggio sociale delle campagne inglesi è stato profondamente trasformato, rendendo sempre più difficile la situazione dei piccoli tenutari. Sulla concentrazione della proprietà terriera in Inghilterra, cfr. George Unwin, Studies in Economic History. The Collected Papers of George Unwin, London, Macmillan & Co., 1927, e Richard Henry Tawney, The Agrarian Problem in the Sixteenth Century, cit. 40 Ciò che si sa delle forme di sviluppo dell'industria urbana in Gran Bretagna sembra confermare questa analisi. Nel XVI secolo, questa industria era in ritardo rispetto ai paesi europei avanzati, e alla fine del XVII secolo essa aveva appena recuperato tale ritardo (cfr. Donald Cuthbert Coleman, Industry in Tudor and Stuart England, London, Macmillan, 1975). È la situazione delle campagne che ha giocato un ruolo propulsivo nello sviluppo industriale inglese.

esigenze della cultura industriale41. Questa “rivoluzione” non è il prolungamento dell'organizzazione precedente, ma, piuttosto, si è imposta a partire dai limiti raggiunti dall'industria rurale. C. A dispetto delle apparenze, le prime concentrazioni industriali che sono le manifatture reali non rappresentano più di un'anticipazione delle forme moderne di produzione e del tipo di salariato che vi è legato. Inaugurate in Francia dai Valois, incrementate da Richelieu e soprattutto da Colbert, esse sfuggono certo completamente al sistema delle giurande, ma restano fondate sul privilegio e contraddicono la libertà del lavoro e la concorrenza. Attraverso lettere patenti, il re fonda egli stesso uno stabilimento che ha il monopolio della fabbricazione di alcuni prodotti (manifatture reali propriamente dette, come Saint-Gobain, Aubusson per le tappezzerie...), oppure accorda il privilegio della fabbricazione per un tempo limitato a un privato o a un gruppo di privati. Queste creazioni devono essere comprese nel quadro del mercantilismo, cioè secondo una logica commerciale e politica più che industriale. L'ideale sarebbe quello di arrivare all'autarchia nel quadro del Regno, al fine di evitare lo squilibrio della bilancia commerciale. Colbert stesso lo esprime con chiarezza: “Credo che si sarà facilmente d'accordo con questo principio, che non vi è che l'abbondanza del denaro in uno Stato che faccia la differenza rispetto alla sua grandezza e alla sua potenza” 42. Evitare le importazioni è un dovere imperioso dello Stato, e soprattutto l'acquisto dei prodotti di lusso, come le seterie o le tappez41 Cfr. David Saul Landes, L'Europe technicienne, cit. 42 Jean-Baptiste Colbert, Rapport au premier Conseil du commerce, 3 août 1664, in Id., Lettres, instructions et mémoires, Paris, Imprimerie impériale, 1863, t. II, première partie, p. 269, cit. in Pierre Léon, Économies et sociétés préindustrielles, Paris, Colin, 1970, t. II, p. 120.

zerie apprezzate dalla nobiltà e dalle classi dirigenti, o i prodotti di uso militare, quali le costruzioni navali o gli armamenti. Bisogna dunque fondare delle nuove industrie per soddisfare la domanda nazionale in questi ambiti, mentre l'artigianato tradizionale rafforzato (il potere reale tenta simultaneamente di estendere il dominio delle giurande) risponderà ai bisogni comuni. La manifattura è uno strumento al servizio della politica estera della regalità più che un'innovazione che obbedisca a una logica propriamente economica. Così, la manifattura “ha la sua direzione sempre sottomessa al controllo dello Stato, il suo stato maggiore, i suoi capi di laboratorio, i suoi supervisori, i suoi capi-squadra, i suoi commessi, i suoi specialisti, la sua manodopera”43. È una struttura gerarchica e chiusa. La disciplina vi regna impietosa, il lavoro è spesso inquadrato tramite delle preghiere44. Il personale comprende una piccola élite di artigiani molto qualificati, spesso di origine straniera, che sono stati ingaggiati per acquisire le loro competenze, e un personale sotto-qualificato, in genere ribelle a questo tipo di inquadramento, e il cui reclutamento evoca le forme di arruolamento forzato praticate dall'esercito. Si prendono dei forzati per i cantieri navali, si cerca di arruolare degli indigenti e di formare una manodopera femminile e infantile, reputata più docile e meno esigente45. Questi tentativi si scontrano con l'ostilità degli artigiani locali, ma anche, sembra, con quella della maggioranza della popolazione: la decisione di impiantare in diverse città ma43 Maurice Bouvier-Ajam, Histoire du travail en France, Paris, R. Pichon et R. Durand-Auzias, 1957, t. I, p. 475. 44 Cfr. Georges Lefranc, Histoire du travail et des travailleurs, cit. 45 Cfr. Maurice Bouvier-Ajam, Histoire du travail en France, cit.; Gaston Zeller, L'industrie en France avant Colbert, in Id., Aspects de la politique française sous l'Ancien Régime, Paris, PUF, 1964, pp. 319-335.

nifatture di merletti per produrre il “punto di Francia”, al fine di fare concorrenza al “punto d'Inghilterra” e al “punto di Venezia”, scatena ad Alençon dei veri moti. Quasi dappertutto è impossibile reclutare sul posto una manodopera sufficiente, proprio mentre si “importano” operai italiani per mettere in riga gli autoctoni46. Aggiungiamo che queste manifatture non assumono che raramente la forma di vere concentrazioni industriali. Il più delle volte, sono delle grandi “imprese disperse”, o delle “nebulose”, che riuniscono sotto una stessa direzione numerosi laboratori che effettuano un lavoro dello stesso tipo, o uno stabilimento centrale che fa lavorare una folla di artigiani dispersi nella città, i sobborghi o la campagna. Questa struttura è dunque lontana dall'anticipare l'officina moderna e lo sviluppo dell'industria capitalistica. Il suo periodo di maggior espansione è coinciso con l'apogeo del mercantilismo. Emanazione dell'assolutismo reale, finirà con lui, o perdurerà come una sopravvivenza senza impatto sullo sviluppo economico47. Quanto al loro reclutamento e alla loro regolamentazione interna, le manifatture funzionano come istituzioni di lavoro forzato piuttosto che come iniziatrici della libertà di lavoro. È d'altronde con la stessa logica e negli stessi momenti che il potere reale promuove queste ultime e cerca anche di estendere le giurande tradizionali.

46 Cfr. Émile Levasseur, Histoire des classes ouvrières et de l'industrie en France, Paris, A. Rousseau, 1900-1901. 47 Senza dubbio si può vedere nelle manifatture regali un'anticipazione di forme di economia diretta prefiguranti lo Stato imprenditore che si realizzerà attraverso la pianificazione e le nazionalizzazioni (cfr. cap. VII). Ma anche se tale filiazione esiste, essa non è diretta, e l'avvento del liberalismo segnerà una rottura.

In un celebre passaggio del Capitale, Marx scrive: Il passaggio dal modo di produzione feudale al modo di produzione capitalista si compie in due modi: il produttore diviene commerciante e capitalista; si oppone all'economia naturale agricola e al lavoro manuale organizzato in corporazioni dall'industria urbana medievale. Questa è la strada effettivamente rivoluzionaria. Oppure il commerciante si impossessa direttamente della produzione. Quest'ultimo processo, pur rappresentando storicamente una fase di transizione – il clothier inglese del XVI secolo, per esempio, controlla i tessitori, che sono però indipendenti, vendendo loro la lana e acquistando loro il drappo –, non porta in sé alla rivoluzione dell'antico modo di produzione, che al contrario mantiene e salvaguarda come sua stessa condizione48.

Si potrebbe discutere di quel che Marx intenda per “fase di transizione”, espressione ambigua, ma è vero che la via che rappresenta una rottura “rivoluzionaria” in rapporto al modo di produzione anteriore è certamente quella del capitalismo industriale, che si caratterizza per il fatto che il produttore stesso accumula i benefici della propria produzione, investe e produce lui stesso per il mercato. Ora, i principali fattori che alimentano lo sviluppo del capitalismo mercantile, la riduzione allo stato di artigianato urbano come l'espansione dell'artigianato rurale, non 48 Karl Marx, Le Capital, cit., livre III, IV section, cap. XIII, p. 1103. Nello stesso spirito, Max Weber sottolinea che “la fabbrica non è nata dall'artigianato e che non si è sviluppata a sue spese, ma, all'inizio, parallelamente” (Histoire économique, cit., p. 196). Lo stesso, “essa non è nata dal sistema del sotto-trattamento accomandatario; là ancora, essa si è sviluppata parallelamente” (ivi, p. 197, il corsivo è di Max Weber).

vanno, almeno in linea diretta, in questa direzione. Pur permettendo un'importante accumulazione di ricchezze, questo modello di produzione mantiene la dipendenza del produttore nei confronti del mercante e si serve di forme tradizionali dell'organizzazione del lavoro. La produzione della manifattura regale fondata sul monopolio non si inscrive certo di più in una logica di accumulazione capitalistica. Così, se si oppongono alle regolazioni dell'idioma corporativo, queste forme di produzione non promuovono, almeno non direttamente, un “libero” mercato del lavoro. Questo è il punto della questione. Non si tratta di pronunciarsi sull'enorme e spinoso problema delle condizioni dell'avvento del capitalismo in Occidente, ma una tale devianza era necessaria per rendere conto di una constatazione a prima vista misteriosa. A dispetto di straordinarie trasformazioni economiche e sociali intervenute dopo il Medioevo, le relazioni di lavoro restano dominate da un modello che contraddice le esigenze, pure già all'opera, di libertà: libertà di impresa, di circolazione, di produzione, di scambio... Come si spiega la persistenza di questo modello? Perché la promozione di un salariato, nel senso in cui lo intendiamo oggi, ha richiesto un tale tempo per imporsi?

3. Lavoro regolato, lavoro forzato Proponiamo questa risposta: prima della rivoluzione industriale, lavoro regolato e lavoro forzato rappresentano le due modalità principali dell'organizzazione del lavoro. Due modalità dell'esercizio della costrizione la cui persistenza spiega come il

lavoro “libero” abbia avuto tanta difficoltà a ritagliarsi uno spazio. Ma questa stessa persistenza si comprende soltanto se si coglie, al di là e spesso contro le esigenze tecniche della produttività del lavoro, a qual punto la preminenza della costrizione sia iscritta in profondità nel piano di governamentalità di queste società. Per “lavoro regolato”, intendo qui l'insieme delle regolamentazioni dei mestieri, a un tempo mestieri giurati e mestieri gestiti dalle regolamentazioni municipali49. Se la loro permanenza è così spesso controproducente rispetto alle esigenze di una organizzazione “razionale” della produzione, è perché esse rispondono innanzitutto a un imperativo di un altro registro, che si potrebbe formulare così: a quali condizioni il lavoro può divenire uno “stato”? Il che non va da sé, se si comprende l'immenso disprezzo nel quale è tenuto allora il lavoro manuale. “Gli artigiani, o gente di mestiere, sono coloro che esercitano le arti meccaniche, e, di fatto, chiamiamo comunemente meccanico ciò che è vile e abbietto. Gli artigiani, essendo propriamente meccanici, sono considerati persone vili”50. Loyseau interina qui la gerarchia degli ordini formalizzata nell'XI secolo, secondo la quale il servizio divino esercitato dagli oratores – i chierici – e il servizi delle armi esercitato dai bellato49 Alcuni autori (per esempio Henri Hauser, Les débuts du capitalisme, cit.) sottolineano la differenza tra i “mestieri giurati”, i cui privilegi sono garantiti dalla regalità, e i “mestieri regolati”, i cui regolamenti emanano dalle autorità municipali. Questa distinzione è illuminante per analizzare le differenze tra i modi di regolazione interni ai mestieri, ma non è pertinente quando si tratta di cogliere la funzione di queste regolazioni in quanto esse forniscono uno statuto ai mestieri in generale. 50 Charles Loyseau, Traité des ordres et simples dignités, Chasteaudun, Abel l'Angelier, 1610, poi in Id., Les Oeuvres de maistre Charles Loyseau, Paris, Clouzier, 1666, p. 43.

res – i signori – escludono il lavoro manuale sotto pena di perdita del titolo nobiliare51. Il “terzo ordine” è quello dei lavoratori (laborantes), all'epoca essenzialmente lavoratori della terra. Ma questa tricotomia corrisponde a un'economia demaniale in seno alla quale la città non occupa che un posto derisorio. Lo sviluppo parallelo delle città e della “borghesia” è fin da subito un fermento di squilibrio in seno a questa organizzazione 52. I “borghesi” sono per una buona parte i rappresentanti dei “mestieri”, artigiani, al contempo emancipati dalle tutele feudali ed economicamente indipendenti. Significativamente, Jacques Le Goff data dal XII secolo, e soprattutto dal XIII, un certo riconoscimento del lavoro manuale che si impone alle stesse persone di Chiesa: le categorie professionali divengono degli “statuti” riconosciuti a partire dai quali i manuali dei confessori operano una nuova classificazione dei peccati53. Riconoscimento che non si compie senza reticenze: “Lavoro ancora ambiguo in cui si riconosce la confusione propriamente medievale fra la pena, la fatica e l'esercizio di un compito econo51 Cfr. Georges Duby, Les trois ordres, ou l'imaginaire du féodalisme, Paris, Gallimard, 1978; trad. it. Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Roma-Bari, Laterza, 1980. Si riconosce lo schema tripartito del quale Georges Dumézil ha ritrovato la presenza in tutte le società indo-europee e del quale il Medioevo feudale nel suo apogeo ha offerto una delle espressioni più rigide. 52 Sull'emergere di una borghesia, cfr. per esempio Régine Pernoud, Histoire de la bourgeoisie en France, Paris, Le Seuil, 1960-1962, t. I. La parola borghese (burgenis) appare per la prima volta nel 1007 in una carta concessa dal Conte d'Anjou per la fondazione di una città. Parallelamente allo sviluppo delle città, la differenziazione crescente della società rurale va anche a scalfire la concezione unidimensionale e disprezzata dei laborantes. 53 Jacques Le Goff, Métier et profession d'après les manuels des confesseurs du Moyen Âge, in Id., Pour un autre Moyen Âge, Paris, Gallimard, 1977.

mico in senso moderno. Il lavoro è fatica”54. Ciò nonostante, il dibattito è avviato. Il terzo ordine è sul punto di divenire un terzo stato dotato di prerogative positive. Ma non il terzo stato nella sua totalità. Con la sua crescente complessificazione, la questione di avere o meno uno “stato”, cioè uno statuto rivestito di dignità sociale, va a porsi in seno stesso a questo terzo stato. O meglio: la partizione si opera n seno ai lavoratori manuali. Alcune attività manuali, quelle che costituiscono i “mestieri”, corrispondono a degli “stati”, e le altre assolutamente a niente. Quando all'alba della Rivoluzione l'abate Sieyès presenta il suo famoso pamphlet, non è per tutto il terzo ordine che esprime l'esigenza di “essere qualcosa”55. Pressappoco nello stesso momento, un altro autore meno conosciuto pubblica i Cahiers du quatrième ordre,

“quello

dei

poveri

giornalieri,

degli

infermi,

degli

indigenti”56, di tutti coloro che non hanno niente e non sono niente. Il terzo ordine si è sdoppiato. La promozione del terzo stato 54 Ivi, cit., p. 179. Notiamo che questo riconoscimento relativo del lavoro è, nello stesso tempo, un riconoscimento del salario. Le Goff rileva uno scivolamento nel XIII secolo delle esegesi del Vangelo secondo Matteo: “L'operaio è degno del suo nutrimento” (Matteo, X, 10), che diviene allora: “L'operaio è degno del suo salario”. Lo svolgimento di un lavoro lecito merita un salario, il che implica anche il riconoscimento di un'economia monetaria. Commenta Le Goff: “La condizione necessaria e sufficiente perché un mestiere divenga lecito, perché un salario sia percepito a giusto titolo, è lo svolgimento di un lavoro” (ibidem). 55 “Che cosa è il terzo stato? Tutto. Che cosa è stato fino a oggi nell'ordine politico? Niente. Che cosa chiede? Di essere qualcosa” (Emmanuel-Joseph Sieyès, Qu'est-ce que le tiers état?, s.l., s.e., 1789, riedizione Paris, Flammarion, 1988, p. 31; trad. it. Saggio sui privilegi: che cosa è il Terzo stato?, Roma, Editori Riuniti, 1972). 56 Louis-Pierre Dufourny de Villiers, Cahiers du quatrième ordre, celui des pauvres journaliers, des infirmes, des indigents ou Correspondance philanthropique entre les infortunés, les hommes sensibles et les États Généraux..., n. 1, 25 avril 1789, s.l., s.e.

non sarà quella dell'insieme del popolo. La sua frangia inferiore, esclusa dal riconoscimento sociale e politico, è costituita dal “popolino che non ha che le sue braccia per vivere”57. Implicazione essenziale, dunque, tanto più che non vi è consenso per decidere dove passi esattamente questa linea di partizione. Loyseau formula l'opzione più restrittiva, poiché essa esclude come “vili e abietti” tutti i mestieri manuali, riservando le “dignità” alle “arti”, poiché nelle arti “il concetto, il lavoro del pensiero prende il sopravvento su quello della materia”58. Al contrario, per la tradizione corporativistica nel suo insieme, evidentemente un lavoro, anche “meccanico”, può trovare un posto, subordinato ma legittimo, nel sistema delle dignità sociali, ma alla 57 “Intendo per popolo il popolino che non ha che le sue braccia per vivere. Discuto il fatto che questo ordine di cittadini non abbia mai il tempo né la capacità di istruirsi. Mi sembra essenziale che vi siano delle persone ignoranti... Non è il manovale che bisogna istruire, è il buon borghese” (Voltaire, lettera del 1 aprile 1766, cit. in Fernand Braudel, Ernest Labrousse, Histoire économique et sociale de la France, Paris, PUF, 19701980, t. II, p. 676). 58 Charles Loyseau, Traité des ordres et simples dignités, cit., p. 43. Loyseau è lontano dall'essere il solo ad avere questa posizione. Anzi, nel 1789, il prevosto dei mercanti di Lione si esprime così a proposito degli artigiani della seta: “I maestri operai sono tenuti a fabbricare a tanto all'una le materie che forniscono loro i maestri mercanti. La manodopera è affare degli operai, l'industria è affare dei mercanti. Sono loro che inventano le nostre belle stoffe e che, intrattenendo rapporti con tutto il mondo, ne fanno rifluire le ricchezze nella nostra città” (cit. in Justin Godart, L'ouvrier en soie, cit., p. 96). È vero che questi maestri operai sono degli artigiani decaduti che lavorano per i “maestri mercanti”. Non sono più allora che degli “operai”, vale a dire della semplice manodopera. Questa concezione del lavoro manuale segnerà, ben al di là del XVIII secolo, anche coloro che professeranno di fornirne una teoria sociologica. È così che Maurice Halbwachs e François Simiand continueranno a fare dei lavoratori manuali dei puri esecutivi legati alla materia, e per questo socialmente inferiori anche al più modesto degli impiegati (cfr. il cap. VII).

espressa condizione che esso obbedisca a rigide regolamentazioni, precisamente quelle che sono dettate dall'idioma corporativo. Quest'ultimo ha, dunque, una funzione essenziale di collocamento e di classificazione. Sottrae il lavoro manuale all'insignificanza, all'inesistenza sociale, che è il suo destino se rimane un'attività privata esercitata da uomini senza qualità. Il mestiere è un'attività sociale dotata di un'utilità collettiva. Grazie a esso, ma grazie a esso solamente, alcuni lavori manuali possono essere svincolati dalla loro intrinseca indegnità59. L'idioma corporativo regge così l'accesso a quella che si potrebbe chiamare la cittadinanza sociale, il fatto di occupare un posto riconosciuto nel sistema di interdipendenze gerarchiche che costituiscono l'ordine comunitario. Questa appartenenza organica dei mestieri all'organigramma delle dignità, che è anche quello dei poteri, è esplicitamente riconosciuta dal Parlamento di Parigi nel 1776, che si oppone all'editto di Turgot che sopprime le giurande. Il Parlamento giustifica la sua posizione attraverso il suo sacro mandato di dover “mantenere la situazione tradizionale degli ordini”. Ora le corporazioni dei mestieri fanno parte “di una catena i cui anelli vanno ad aggiungersi alla catena primaria, cioè all'autorità del trono che è pericoloso rompere” 60. Le regolamentazioni del lavoro sono ricondotte, attraverso una serie complessa di incastri, alla sommità della piramide sociale. Mettervi mano vuol dire sommuovere l'insieme dell'edificio. Il mestiere traccia dunque la linea di partizione tra gli inclusi e gli esclusi di un tale sistema sociale. Al di qua è il caos, l'in59 Cfr. William Hamilton Sewell, Gens de métiers et révolutions, cit. 60 Cit. in Maurice Bouvier-Ajam, Histoire du travail en France, cit., t. I, p. 655.

degnità totale di gente di “vil stato”. I privilegi del mestiere sono invece prerogative, minuscole senza dubbio, ma dello stesso tipo di privilegi dei grandi corpi riconosciuti. Così, anche e forse soprattutto perché sono minuscoli, sono essenziali in quanto costituiscono certi mestieri in stati, distinguendoli a un tempo dagli altri stati molto più dotati e dalla massa priva di statuto, il “popolaccio” o la “canaglia”. Si può dunque capire come il carattere costrittivo di queste regolamentazioni – i vincoli sono d'altronde condivisi da tutti i privilegiati, anche i più grandi, dato che l'obbligo e il divieto sono sempre il rovescio del privilegio – possa apparire secondario in rapporto al fantastico beneficio di potere che fa accedere così all'esistenza sociale61. Tanto più che l'alternativa non è fra vincolo e libertà. Essere liberato da queste regolamentazioni non significa essere libero, ma trovarsi posto di fronte a un sistema molto più impietoso di vincoli. Che cosa c'è, in effetti, al di fuori del sistema dei mestieri? Molto più lavoro forzato che lavoro libero. Per una organizzazione del lavoro globalmente dominata dal paradigma dell'obbligo, vi sono i privilegiati del vincolo, e sono le persone dei mestieri. La maggior parte degli altri lavoratori manuali dipende da sistemi di obbligazione più duri, che non sono accompagnati da alcun privilegio. L'assenza di regolamentazioni collettive del mestiere lascia, in effetti, l'individuo solo e sguarnito di fronte ai regolamenti generali di polizia, che bisogna inten61 È per questo che anche le rivolte dei “minuti”, dei lavoratori appartenenti alle “arti minori”, appaiono sovente essere state condotte almeno tanto per questa preoccupazione di conservare o conquistare un posto nell'ordine sociale quanto per interessi strettamente “economici”. Così la rivolta dei Ciompi a Firenze nel XIV secolo per partecipare al governo della città ed “essere degli uomini” (cfr. Michel Mollat du Jourdin, Philippe Wolff, Ongles bleus, Jacques et Ciompi, cit.).

dere nel senso dell'epoca: tutto ciò che è necessario alla conservazione e al mantenimento degli abitanti di una città o di una nazione, e alla promozione del bene pubblico62. Le occupazioni che sfuggono alle regolamentazioni dei mestieri sono di competenza così della polizia dei poveri: “La sola polizia dei poveri racchiude tutte le altre cure e tutti gli altri oggetti del bene pubblico”63. Essa comprende la disciplina dei costumi (lotta contro l'oziosità e il libertinaggio), la conservazione della salute (lotta contro le infezioni e le epidemie), l'assistenza (soprattutto l'organizzazione degli ospedali per gli invalidi) e la regolamentazione del lavoro per i validi: “È importante per la sicurezza e la tranquillità pubblica, per il commercio, per le Arti e per l'Agricoltura, che la cessazione di questo disordine, riducendo il numero dei vagabondi, fornisca allo Stato un nuovo conforto di lavoratori e di artigiani”64. Se il lavoro è affare di polizia, il ruolo di una buona polizia applicata ai poveri che non lavorano è forzarli a lavorare. Il trattamento del vagabondaggio, lo si è visto, rappresenta la forma-limite di questa esigenza che si manifesta allora come pura costrizione, l'imperativo categorico del lavoro senza la possibilità stessa di accedere al lavoro. Ma il paradigma vale per l'insieme dei lavoratori non iscritti nel sistema dei mestieri e si esprime sotto forma di ciò che si è in diritto di chiamare un codice coercitivo del lavoro.

62 Cfr. Nicolas de La Mare, Traité de police, où l'on trouvera l'histoire de son établissement, les fonctions et les prérogatives de ses magistrats, toutes les loix et tous les règlements qui la concernent, 4 voll., Paris, J. e P. Cot [puis] M. Brunet [puis] J.-F. Hérissant, 1705-1738. 63 Ivi, p. 4. 64 Ibidem.

È in Inghilterra che questo insieme di disposizioni ha assunto il suo carattere più sistematico, perché il sistema dei mestieri è stato impiantato meno profondamente e si è trovato più presto contornato dal capitalismo mercantile, anche perché le trasformazioni della società agraria sono state, come si è detto, più rapide e più radicali65, le forme tradizionali dell'organizzazione del lavoro sono state più profondamente erose, e la necessità di reiterarle si è fatta ancora più pressante che sul continente. Si è già sottolineata l'importanza dello Statuto dei lavoratori promulgato da Edoardo III nel 1349. Esso inaugura un insieme coerente di disposizioni di cui lo Statuto degli artigiani del 1563, le Poor laws elisabettiane, il Settlement Act del 1662 e lo Speenhamland Act del 1795 rappresentano i tasselli principali. Lo Statuto degli artigiani riafferma l'obbligo del lavoro per tutti i sudditi del regno di età compresa tra i dodici e i sessanta anni; fissa in minimo sette anni l'apprendistato dei mestieri artigianali, anche i più semplici; proibisce ai giovani delle campagne di andare a svolgere il loro apprendistato in città; i mestieri artigianali sono riservati ai figli di artigiani; e gli artigiani rurali non possono avere apprendisti, perché bisogna evitare che “più persone siano sotto la direzione di un solo uomo” 66. I contadini 65 Per una sintesi della trasformazione delle campagne inglesi che permette anche di cogliere il contrasto con la situazione della classe contadina francese, cfr. John Hrothgar Habakkuk, La disparition du paysan anglais, in “Annales ESC”, n. 4, 1965, pp. 649-663, e Barrington jr. Moore, Les origines sociales de la dictature et de la démocratie, Paris, Maspéro, 1969; trad. it. Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1969. 66 Cit. in George Unwin, Industrial Organization in the XVIth and XVIIIth Centuries, cit., p. 138. Da notare anche l'argomento per giustificare che l'apprendistato dei mestieri urbani sia riservato ai figli di artigiani: “È più facile per il figlio di artigiano rurale o il figlio di contadino divenire

senza terra e senza qualifiche non possono lasciare la loro parrocchia senza il certificato di un ufficiale di polizia, in mancanza del quale sono assimilati ai vagabondi. Il potere reale mira qui a rinforzare l'organizzazione dei mestieri artigianali urbani, messa in crisi dallo sviluppo del capitalismo mercantile e del putting-out system, e a fissare le popolazioni rurali alle loro occupazioni tradizionali. Esso è inquadrato dalle Poor laws che si succedono tra il 1531 e il 1601. Queste organizzano, lo si è visto, la caccia ai vagabondi, ma sullo sfondo del richiamo all'obbligo del lavoro per “ogni uomo o donna sano di corpo e capace di lavorare, che non ha terra, non è impiegato da nessuno, non pratica mestieri commerciali o artigianali riconosciuti” 67. Ogni parrocchia deve acquisire materie prime per mettere al lavoro questa manodopera senza qualifica “affinché questi malandrini [rogues] non abbiano la scusa di dire che non possono trovare un lavoro o un servizio da compiere”68. Lavoro proposto, lavoro imposto: la minaccia terribile della condanna per vagabondaggio pesa su questi oziosi. Con il Settlement Act del 1662, i responsabili locali possono anche espellere ogni nuovo arrivato che non disponga di rendite tali da poter garantire che non sarà per l'avvenire a carico della parrocchia. Gli indigenti sono così fissati alla loro parrocartigiano [rurale] che per il figlio di artigiano [urbano] divenire artigiano rurale o contadino, di modo che se gli artigiani rurali potessero piazzare i loro figli in città, i figli di artigiani urbani sarebbero spinti a divenire degli spiantati e dei vagabondi” (ibidem). È dunque la volontà di lottare contro i rischi di disaffiliazione, che passa attraverso una deterritorializzazione delle popolazioni rurali o urbane, a ispirare tutte queste misure. 67 Cit. in Arthur Valentine Judges, The Elizabethan Underworld, cit., p. XXXIV. 68 Cit. in Richard Henry Tawney, The Agrarian Problem in the XVI th Century, cit., p. 269.

chia d'origine, per principio in modo definitivo 69. Lo Speenhamland Act del 1795 posa l'ultima pietra di quest'edificio. Gli abitanti della parrocchia in stato di bisogno sono soccorsi sul posto ed è loro attribuito anche un complemento di salario in funzione di una soglia di reddito indicizzata sul prezzo dei cereali. Reddito minimo ante litteram, ma che ha per contropartita una stringente esigenza di domiciliazione e l'interdizione della mobilità geografica della manodopera70. Da Adam Smith a Karl Polanyi, i commentatori di questi codici del lavoro hanno generalmente denunciato la loro nefasta influenza sullo sviluppo di un'economia moderna. George Unwin, allo stesso modo, dichiara: “Attraverso il complesso della legislazione sociale promossa dai Tudor, si vede l'Inghilterra del passato erigere invano barriere contro l'Inghilterra del futuro” 71. Questi giudizi pongono tuttavia un problema, perché tali disposizioni non hanno impedito all'Inghilterra di prendere un vantaggio decisivo sulla strada della modernità. Ciò avviene senza dubbio perché, se tali norme contraddicono le esigenze di quello che sta per diventare il capitalismo industriale, non sono tuttavia controproducenti rispetto al periodo che lo precede. Il “vantaggio” dell'Inghilterra dipende, almeno in parte, dal fatto che essa ha sfruttato al massimo le possibilità dell'organizzazione del lavoro preindustriale, e precisamente l'accoppiamento dell'obbligo del lavoro e della domiciliazione. Il putting-out system in particolare vi ha assunto le sue di organizzazione più precoci e più sistema69 Cfr. Dorothy Marshall, The Old Poor Laws, 1662-1795, in Eleonora Mary Carus-Wilson (ed.), Essays in Economic History, London, Arnold, 1954, pp. 295-305. 70 Cfr. Karl Polanyi, La Grande Transformation, cit. 71 George Unwin, Studies in Economic History, cit., p. 315.

tiche. Ora, questo suppone l'esistenza di una forza-lavoro coatta e poco esigente, la cui permanenza permette di ammortizzare le fluttuazioni del mercato. Nei periodi di sotto-occupazione, questa è mediocremente mantenuta dalla legislazione sociale più sofisticata che esista all'epoca. I liberali dell'inizio del XIX secolo, che hanno fatto della “carità legale” versione inglese il bersaglio privilegiato dei loro attacchi72, non potevano o non volevano senza dubbio vedere che il sistema che denunciavano aveva gestito la transizione dal capitalismo mercantile al capitalismo industriale. Forse, è proprio perché è riuscita a far lavorare sul posto il massimo di indigenti, facendo intervenire contemporaneamente una legislazione particolarmente crudele contro il vagabondaggio e la concessione di aiuti minimi per gli indigenti domiciliati, che l'Inghilterra ha potuto mobilitare una parte importante della sua forza-lavoro sottoqualificata, anche prima della rivoluzione industriale. Quest'ultima interviene a partire dalla seconda metà del XVII secolo, quando le risorse di questo tipo di mobilitazione territorializzata della manodopera appaiono in via di estinzione 73. 72 Cfr. John Riddoch Poynter, Society and Pauperism. English Ideas on Poor Relief, 1797-1834, London, Routledge & Kegan, 1969. Si ritornerà nei capp. IV e V su questa incomprensione dei pensatori liberali nei riguardi dell'organizzazione anteriore del lavoro e delle forme di protezione sociale che vi sono associate. In effetti, essi inscrivono la loro riflessione nel quadro di tutt'altro modello di sviluppo economico, ma anche di organizzazione sociale, che si pensa opponendosi al tipo precedente. La concezione liberale della libertà fondata sul contratto si è costruita contro il sistema delle tutele tradizionali. La prospettiva militante che essi adottavano impediva ai liberali di comprendere l'utilità di questo sistema per preservare la coesione sociale. 73 Vi sono, ben inteso, altre “cause”, in particolare la rapidità della crescita demografica in Inghilterra a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. Durante questo periodo, la popolazione inglese è passata da 6,25 milioni a 8,89 milioni di abitanti, ossia una crescita del 42,2% (e da 8,89 a 17,92 milioni fra il 1801 e il 1851, ossia una crescita di più del 100%).

La macchina e la concentrazione industriale giocano allora il ruolo di un duplice demoltiplicatore di manodopera. Sul continente, e in particolare in Francia, la situazione è un po' differente. Da una parte perché la piccola proprietà agricola vi si è mantenuta di più: il piccolo proprietario è senza dubbio miserabile, ma dipende meno o meno presto per la propria sopravvivenza da un lavoro industriale di appoggio. Dall'altra, perché l'impianto dei mestieri urbani è più solido. Gli interventi sull'organizzazione del lavoro si specificano così in Francia secondo tre direttrici principali: la repressione del vagabondaggio e della mendicità valida, il rafforzamento e l'estensione delle giurande, e i tentativi di mobilitare la forza-lavoro che si trova al di fuori delle regolamentazioni tradizionali di tipo corporativo. È stato dato conto precedentemente delle due prime strategie. La terza è consistita in una gamma di interventi del potere reale che, benché limitati e assai poco efficaci, manifestano tuttavia la costante ambizione di fare della questione del lavoro un “affare di Stato”. Questo intervento dello Stato è precoce quanto in Inghilterra: si è visto che la politica di Giovanni il Buono si inscriveva nello sforzo, che si dispiega allora su scala europea, per rinforzare le strutture tradizionali dell'organizzazione del lavoro. A mano a mano che il potere reale si afferma, questa intenzione si conferma, ma esita fra una tentazione puramente repressiva, la quale si accontenterebbe di voler sradicare il vagabondaggio e la mendicità, e tentativi molto più ambiziosi di fare dello Stato l'iniziatore di una mobilitazione generale delle capacità lavorative Cfr. Guy Patterson Chapman, Culture and Survival, London, Jonathan Cape, 1940, pp. 34 sgg.

del Regno. Questa seconda faccia di una politica del lavoro appare per la prima volta senza dubbio con chiarezza in una dichiarazione di Francesco I del 16 gennaio 1545: Siamo stati molto e debitamente avvertiti che numerosi mendicanti validi, uomini e donne abitanti della detta città, e anche numerosi stranieri dei paesi di Piccardia e di Champagne, e di altrove, si presentano nella detta città, dicendo di essere caduti in tale povertà e necessità che sono costretti a importunare di uscio in uscio, per essere partecipanti dell'elemosina, scusandosi che non possono trovare chi li voglia impiegare né mettere all'opera. Abbiamo voluto, dichiarato e ordinato, vogliamo, dichiariamo e ordiniamo che detti mendicanti validi, tanto gli uomini che le donne, siano dai prevosti dei mercanti e dagli scabini della nostra detta città di Parigi impiegati nelle opere più necessarie della detta città e i loro salari siano pagati per primi in moneta sonante della detta città e affinché i detti poveri validi facciano buone e intere giornate, provvedendo alle dette opere pubbliche come provvederebbero alle opere private74.

Presa alla lettera, questa dichiarazione implicherebbe che lo Stato si faccia obbligo di procurare lavoro a tutti coloro cui manca, salvo che forza i recalcitranti a piegarsi a questo obbligo. Infatti, questa dichiarazione di intenti non sfocerà che in applicazioni derisorie, anche se, non per questo, sarà abbandonata. A mano a mano che il potere reale si impone come istanza centrale di regolamentazione, si moltiplicano le dichiarazioni sulla neces74 Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil des anciennes lois de la France, cit., pp. 900-901.

sità di sfruttare il “vivaio” di lavoratori lasciati a spasso e mobilitare così tutte le forze vive del Regno. Quest'immagine del vivaio ritorna con insistenza nei testi ispirati dal mercantilismo, e innanzitutto dal più focoso dei suoi ideologi, Barthélemy de Laffemas, che espone un piano completo di strutturazione del mondo del lavoro. Per i lavoratori fuori mestiere, Laffemas propone la creazione nei sobborghi di ogni città di due “case pubbliche”, una per gli uomini e una per le donne, che prendano anche i bambini abbandonati per farne degli apprendisti75. I recalcitranti “saranno costretti da catene e prigioni a lavorare al fine di impedire la mendicità e insegnare loro la disciplina, così come sarà previsto dal capo della polizia e dai dodici borghesi che daranno i regolamenti alle comunità”76. Richelieu dichiara allo stesso modo nel 1625: “Vogliamo che in tutte le città del nostro Regno sia stabilito ordine e regolamento per i poveri, talché non solamente tutti quelli della detta città, ma anche quelli dei luoghi circonvicini vi siano internati e nutriti, e i validi impiegati in opere pubbliche” 77. Così Colbert nel 1667: “Nella misura in cui l'abbondanza deriva sempre dal lavoro, e la miseria dall'oziosità, il vostro principale compito deve essere quello di trovare i mezzi per rinchiudere i poveri e di dare 75 Cfr. Henri Hauser, Le système social de Barthélemy de Laffemas, in Id., Les débuts du capitalisme, cit., cap. V. 76 Barthélemy de Laffemas, Advis et remontrances à M. M. des Députez du Roy au fait du commerce, avec les moyens de soulager le peuple des tailles, et autre bien nécessaire pour la police de ce royaume, Paris, Moreau, 1600, p. 7. 77 Armand Jean du Plessis cardinal duc de Richelieu, Lettres du cardinal duc de Richelieu, où l'on a joint des mémoires et instructions secrètes de ce ministre pour les ambassadeurs de France en diverses courses; avec quelques relations curieuses, servant d'éclaircissement auxdites lettres et mémoires, t. II, cit. in Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit., p. 318.

loro l'occupazione per guadagnarsi da vivere, sulla qual cosa voi non saprete troppo presto prendere delle buone risoluzioni” 78. Questa ispirazione si ritrova, come si è visto, nella creazione delle manifatture reali e in quella dell'Ospedale generale. L'ordinanza del 1662, “stabilendo che si istituiranno degli Ospedali generali in tutte le città i grandi borghi del Regno”, precisa che si “troveranno vivai di soldati, di marinai nei paesi marittimi, e di giovani sani, docili e di buoni costumi”79. I risultati saranno più che deludenti, forse perché, come dice un anonimo État sommaire des pauvres del 1662, si è avuto paura di “arrecare pregiudizio agli artigiani”?80 Si può in effetti supporre che le corporazioni dei mestieri non potessero che opporsi a questa concorrenza che attentava ai loro privilegi e che avrebbe messo sul mercato dei prodotti meno cari. A ogni modo la mediocrità e la cattiva volontà della manodopera, la debolezza dei mezzi e dell'inquadramento non potevano lasciar sperare che il lavoro assumesse un carattere veramente produttivo in questo contesto. I rettori della Carità di Lione, che furono fra i rari responsabili a farsi carico davvero di queste “manifatture di ospedali”, ne traggono nel 1732 questo bilancio disincantato: “Il profitto che si trae dal lavoro delle manifatture è un bene minore rapportato ai vantaggi di occupare utilmente alcuni poveri validi rinchiusi nel detto ospedale” 81. Il bel progetto di far fruttare la forza-lavoro degli indigenti validi

78 Jean Baptiste Colbert, Lettres, instructions et mémoires, t. II, cit. in Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit., p. 338. 79 Cit. in Alexandre Vexliard, Introduction à la sociologie du vagabondage, cit. 80 Cit. in Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit., p. 468. 81 Ibidem.

del Regno si è insomma mutato in impresa di ergoterapia per alcuni pensionanti inoffensivi degli ospedali82. La cosa più significativa è tuttavia che, a dispetto degli scacchi ripetuti, il progetto di mettere al lavoro forzato tutti i poveri mantiene le proprie ambizioni. Nel 1724, l'abate di Saint-Pierre, che passa per essere lo specialista illuminato di tali questioni, insiste di nuovo sulla perdita che subisce lo Stato privato di questa forza capace di un “prodigioso lavoro”, rappresentata dai poveri inoccupati83. Lo stesso anno, una nuova solenne dichiarazione, senza dubbio motivata dai risultati deludenti dell'internamento, non ne raccomanda più l'impiego sistematico. Essa reitera tuttavia l'ingiunzione a tutti gli indigenti, “tanto uomini che donne, validi e capaci di guadagnarsi da vivere con il lavoro, di prendere un impiego per sussistere con il proprio lavoro, sia mettendosi in condizione di servire o lavorando alla coltura delle terre, o ad altre opere e mestieri di cui possono essere capaci” 84. Coloro che non avranno trovato lavoro autonomamente saranno “distribuiti 82 La stessa illusione intacca la creazione pressoché concomitante delle manifatture regali, di cui Colbert diceva: “Oltre i vantaggi che produrrà l'ingresso di una grande quantità di denaro contante nel Regno, è certo che, attraverso le manifatture, un milione di popolani che languirebbe nella nullafacenza si guadagnerà da vivere; che un numero altrettanto considerevole si guadagnerà da vivere nella navigazione e per mare; che la moltiplicazione quasi all'infinito dei vascelli moltiplicherà allo stesso modo la grandezza e la potenza dello Stato” (Jean Baptiste Colbert, Lettres, instructions et mémoires, t. II, partie IV, cit. in Pierre Léon, Économies et sociétés industrielles, cit., t. II, p. 121). Infatti, le manifatture regali hanno pesato molto poco sul mercato dell'impiego, e ancora meno per la messa al lavoro dei “popolani che languirebbero nella nullafacenza”. 83 Abbé Charles Irénée Castel de Saint-Pierre, Sur les pauvres mendiants, Paris, s.e., 1724, p. 8. 84 Cit. in Jean-Pierre Gutton, L'État et la mendicité dans la première moitié du XVIIIe siècle, cit., annexe I, pp. 226-227.

in compagnie di venti uomini ciascuna, sotto la direzione di un sergente che li condurrà tutti i giorni al lavoro […] essi saranno impiegati nelle opere di Pont et Chaussée [Pubblica viabilità] o in lavori pubblici e in altre tipologie di opere, che saranno giudicate convenienti”85. Non si trova da nessuna parte traccia del lavoro di queste “brigate”. Eppure, l'impiego degli indigenti validi nel Pont et Chaussée e nei lavori pubblici conoscerà una vivace riscoperta alla fine dell'Ancien Régime, segnato dalla moltiplicazione dei “laboratori di carità”. Turgot ne sviluppa la formula dapprima nel Limousin, sembra con un certo successo. Poi, fra il 1775 e il 1789, questi sono estesi all'insieme dei paesi di elezione e anche il Comitato di mendicità dell'Assemblea costituente li riprenderà,prima di riconoscerne il fallimento, sotto il nome di “laboratori di soccorso”86. Questi sembrano avere trovato la loro utilità soprattutto nei paesi di piccola coltura, dove procurano una risorsa integrativa ai tenutari troppo poveri per sussistere con il loro podere87. Queste ultime innovazioni non sono all'altezza dei problemi posti dal sotto-impiego di massa. È tuttavia significativo che rappresentino, parallelamente alla creazione dei depositi di mendi85 Ibidem. 86 Cfr. Camille Bloch, L'assistance et l'État en France à la veille de la Révolution. Généralités de Paris, Rouen, Alençon, Orléans, Châlons, Soissons, Amiens, 1764-1790, cit. 87 Cfr. Olwen H. Hufton, The Poor in Eighteenth Century France. 17501789, cit., cap. VI. Per la politica di Turgot nel Limousin, cfr. Marcel Lecoq, L'assistance par le travail et les jardins ouvrier en France, Paris, V. Giard et E. Brière, 1906. Il relativo successo di Turgot dipende dal fatto che egli si è preso la pena di operare una classificazione delle popolazioni interessate e di tentare di farvi corrispondere dei tipi differenti di opere.

cità, l'altra iniziativa dell'Ancien Régime al tramonto per affrontare a livello statale la questione del lavoro. Laboratori di carità e depositi di mendicità rappresentano due varianti, una relativamente dolce e una dura, del comune paradigma dell'obbligo di lavorare. Fra queste due possibilità, la monarchia non ha mai veramente scelto. Ma doveva farlo? Esse sono complementari. I depositi di mendicità riguardano la frangia più desocializzata, o almeno percepita come tale, dell'indigenza valida: i mendicanti e i vagabondi. L'obbligo si fa qui repressione pura, e il riferimento mantenuto al lavoro da produrre, come nella workhouse inglese, funge da cattivo alibi a pratiche punitive di pura intimidazione. Il laboratorio di carità, come alcune opportunità di lavoro amministrate a livello locale dalle Poor laws inglesi, riguarda uno spettro più ampio di indigenti esclusi dall'impiego, e anche, di regola, l'insieme di coloro che non avrebbero potuto trovare un lavoro con i propri mezzi. Opportunità di lavoro sarebbero dunque, di norma, proposte dal potere pubblico. Ma, oltre al fatto che esse sono notoriamente insufficienti, l'offerta è, sin dall'origine, falsata. Occorre che questi lavori non possano entrare in concorrenza con le forme comuni del lavoro, di modo che, come dice l'intendente di Poitiers nel 1784, ci si è “presi cura di ridurre i prezzi e di non ammettere a questo lavoro che i più bisognosi” 88. Si tratta del principio di less eligibility, che regna incontrastato nelle politiche sociali (e non solo nelle società preindustriali): i sussidi e le allocazioni di risorse devono essere sempre inferiori alle più basse retribuzioni che un individuo potrebbe trarre da un'attività “normale”. Così, per entrare in questo sistema, bisogna sia esse88 Cit. in Pierre Léon, La réponse de l'industrie, in Fernand Braudel, Ernest Labrousse, Histoire économique et sociale de la France, cit., t. II, cap. II, p. 631.

re ridotti alla più estrema necessità, sia esservi costretti da una forza esterna o dalla paura. Queste formule di lavoro “offerto” non si oppongono, dunque, ai lavori forzati del tipo dei depositi di mendicità, né delle galere reali. Queste due opportunità funzionano in coppia. Occorre che una polizia del lavoro particolarmente repressiva faccia librare la sua minaccia perché gli sfortunati “scelgano” delle forme di lavoro forzato per le quali la costrizione si presenti in maniera più eufemistica, ma che non hanno nulla di attrattivo. Si conferma così la funzione di esemplarità giocata dal trattamento del vagabondaggio: esso rappresenta il paradigma della regolarizzazione di una organizzazione del lavoro dominata dal principio dell'obbligazione. Nelle società preindustriali, questo principio sovrasta con la sua minaccia il regime del lavoro per tutti gli indigenti.

4. I perduti della terra Lavoro regolato, diremmo, o lavoro forzato: fra i due, il lavoro “libero” fa fatica a trovarsi un posto. Lavoro libero significa che la forza-lavoro si scambia in quanto tale, si compra e si vende in funzione dei bisogni del mercato. Ma il paradosso di queste società, precedenti la rivoluzione industriale, è che, seppure abbiano conosciuto e sviluppato varie forme di situazioni salariali, non hanno permesso a una condizione salariale di costituirsi. Bronislaw Geremek lo notava già a proposito dei secoli XIII, XIV e XV: L'analisi delle forme del salariato e del mercato della manodopera autorizza a concludere che, nell'economia

urbana del Medioevo, la manodopera entra ugualmente nella circolazione delle merci, senza tuttavia perturbare già le strutture economiche e sociali fondamentali. Il processo resta marginale, perché questa economia non sente ancora che flebilmente il bisogno di una manodopera libera e non artigianale89.

Non che il salariato rappresentasse una componente secondaria di cui l'organizzazione della produzione potesse al limite fare a meno. Al contrario, questo “bisogno” si manifesta nel corso del tempo: a mano a mano che si avanza verso la fine dell'Ancien Régime, si constata un accrescimento considerevole del numero dei salariati e una diversificazione dei tipi di salariato, ma se diventa quantitativamente sempre più importante, il salariato resta strutturalmente periferico in rapporto alle forme legittime della divisione del lavoro. Al di sotto dei mestieri riconosciuti, il cui incastro mantiene l'ordine sociale, il salariato si colloca nelle zone di più debole legittimità. Ma esso non è solo inferiore, è frammentato al tal punto che questa atomizzazione raddoppia la sua debolezza. Tentiamo un inventario degli ambiti che esso comprende. A. Il suo nucleo più stabile è formato dai corporati di mestieri. Questi rappresentavano per l'epoca una sorta di “aristocrazia operaia” molto qualificata. I corporati, anche quando “condannati” allo stato di salariati a vita, sono i più garantiti nel conservare o ritrovare un impiego, perché sono i meglio formati e i più competenti. Ma questa élite operaia vive la sua condizione come una decadenza, o almeno come uno scacco in rapporto alla realiz89 Bronislaw Geremek, Le salariat dans l'artisanat parisien aux XIII e et XIVe siècles, cit., p. 147.

zazione che rappresenterebbe la situazione di maestro artigiano. I corporati a vita sono gli scarti di un sistema corporativo che si è bloccato, e non rappresentano un'alternativa “moderna” a questo sistema. Il loro ideale resta l'accesso alla maestranza, cioè l'abolizione del salariato permanente. In mancanza, le loro “cricche” si mobilitano per tentare di monopolizzare a loro profitto, in particolare a livello dell'assunzione, i privilegi corporativi. B. Prossima è la situazione dei maestri decaduti o rovinati, ridotti allora a lavorare per un terzo, e più spesso per un mercante. Questa involuzione verso il salariato è generale nei mestieri come la drapperia o la seteria, per i quali il capitalismo mercantile detta più facilmente e più presto la sua legge. Ma molti altri artigiani indipendenti corrono il medesimo rischio in ragione della frequenza delle crisi in questo tipo di società, perché le crisi di sussistenza delle società preindustriali si ripercuotono sulla produzione artigianale. Il “caro prezzi” del costo degli alimenti, scatenato da uno o più cattivi raccolti, comporta un abbassamento della domanda di prodotti “industriali”90. L'espansione del mercato nazionale e internazionale è un altro fattore che rende fragile la posizione dei produttori diretti: le loro riserve sono spesso troppo deboli per ammortizzare le fluttuazioni di questi mercati. In entrambi i casi, essi cadono sotto la dipendenza dei mercanti. Il processo di pauperizzazione e di messa sotto 90 Il meccanismo di queste crisi è ben descritto in Pierre Goubert, Cent Mille Provinciaux au XVIIe siècle, Beauvais et lee Beauvaisis de 1600 à 1730, Paris, Flammarion, 1968. Goubert mostra come l'assenza di numerario, mobilitato per l'acquisto dei cereali, comporta sotto-occupazione e disoccupazione nelle professioni industriali. Questo processo colpisce in pieno una città come Beauvais, specializzata nella fabbricazione dei prodotti artigianali di grande consumo a uso “popolare”. Ma se l'indebolimento della domanda solvibile si prolunga, essa tocca ugualmente la produzione di lusso.

tutela non sfocia tuttavia in una condizione salariale franca, perché è la merce che ha fabbricato e non la sua forza-lavoro che vende l'artigiano decaduto. C. Se la posizione di coloro che, maestri o corporati, appartengono al sistema dei mestieri non è mai completamente assicurata, quella degli operai che lavorano ai suoi margini è ancora più precaria. Così i chambrelans, corporati o maestri non riconosciuti dai regolamenti ufficiali, o i “forestieri” che tentano di stabilirsi per proprio conto. Essi sono condannati a una semi-clandestinità, e la loro situazione è tanto più aleatoria, quanto più l'organizzazione dei maestri è solida. Ancora nel 1789, alcuni maestri parrucchieri chiedono nei loro Cahiers di vietare il fitto di un locale “agli operai chambrelans che sottraggono ai maestri tutti i loro lavori e che, riducendoli a ritrovarsi senza attività, li mettono nell'impossibilità di vivere e di pagare le loro imposte” 91. Anche per loro, lavorare come artigiani con materiali forniti dal cliente per un mercante può rappresentare un espediente, ma si paga con la perdita della propria indipendenza. D. I domestici e i servitori rappresentano un gruppo sociale dallo statuto particolarmente ambiguo, assai poco studiato benché numeroso: nell'ordine del 10% della popolazione delle città 92. Gruppo eterogeneo, perché certi domestici sono fortemente integrati in alcune “case” e possono anche occupare onorevoli posizioni se si tratta di “grandi case”. Anche dei servitori subalterni possono godere di una stabilità rara in seno al popolo, perché la soddisfazione dei loro bisogni di base è assicurata. Così, Vauban, nel suo Projet de dîme royale, vuole tassarli, perché, dice, “è pro91 Cit. in Jeffry Kaplow, Les noms des rois, cit., p. 75. 92 Jean-Pierre Gutton, Domestiques et serviteurs dans la France de l'Ancien Régime, Paris, Aubier Montaigne, 1981.

priamente parlando una delle condizioni del basso popolo più felice. Essi non devono mai preoccuparsi del loro bene e del loro mangiare, non più dei loro abiti, del dormire e di svegliarsi, sono i padroni a esserne incaricati”93. Tuttavia, si osserva un'evoluzione dello stato di domestico nel senso di una salarizzazione e di una precarizzazione. Numerose testimonianze, a partire dal XVIII secolo, mostrano che la domesticità è divenuta una condizione particolarmente vile, e percepita come la frangia turbolenta, instabile, disonesta e fannullona del popolo basso 94. Negli ultimi anni dell'Ancien Régime, Mercier lamenta la fine dell'età d'oro della domesticità: “Li si disprezza: lo sentono, e sono divenuti i nostri più grandi nemici. Un tempo la loro vita era laboriosa, dura, ma li si teneva in considerazione, e il domestico moriva di vecchiaia accanto al suo padrone”95. Se l'antico legame di tutela è sfilacciato o rotto, la condizione di domestico si riavvicina a quel che diverrà quella dell'impiegato di casa. 93 Sébastien Le Preste de Vauban (Maréchal de France), Projet de dîme royale qui supprimerait la taille, les aydes, les douanes... les décimes du clergé... et tous autres impôts onéreux..., Paris, s.e., 1707, p. 66. Un contemporaneo di Vauban dice allo stesso modo: “Essi hanno la loro vita assicurata: le loro terre non sono soggette alla grandine, né i loro beni alla bancarotta” (Jean Cordier, La Famille Sainte (comprise en 3 tomes), où il se traitté des devoirs de toutes les personnes qui composent une famille, Paris, Béchet, 1666, cit. in Jean-Pierre Gutton, Domestiques et serviteurs dans la France de l'Ancien Régime, cit., p. 171). 94 Cfr. Nicolas de La Mare, Traité de police, cit. Un'ordinanza di polizia del 1720 rinnovata nel 1778 stabilisce che i domestici parigini che cambino padrone debbano essere muniti diun certificato rilasciato dal padrone precedente (cfr. Jeffry Kaplow, Les noms des rois, cit., p. 94). 95 Louis Sébastien Mercier, Tableau de Paris, Hamburg-Neuchatel, Virchaux-Fauche, 1781, 2 voll., poi Amsterdam, 12 voll., s.e., 1782-1788, t. I, p. 161. Alla stessa epoca, Des Essarts dichiara: “Si può dunque concludere che la classe dei servitori non è composta che dagli avanzi delle campagne (Nicolas-Toussaint Le Moyne des Essarts, Dictionnaire de la police, 7 voll., Paris, Moutard, 1786-1798, t. III, p. 485).

E. In città esiste anche un gruppo o, piuttosto, dei gruppi di impieghi difficili da circoscrivere, la cui situazione anticipa le categorie moderne di impiegati: commessi e garzoni di servizi amministrativi, legulei, “giovani di bottega”, ecc. Essi non lavorano con le proprie mani, se non a volte per le attività di scrittura, e disprezzano senza dubbio i lavoratori manuali. Tuttavia, sono poveri, più poveri di alcuni operai qualificati, e le loro occupazioni sono senza prestigio e mancano sovente di stabilità. Georges Lefebvre classifica questi lavoratori non manuali dentro “il popolo”, del quale sembrano condividere le reazioni 96. Non è che dal Direttorio, e soprattutto dall'Impero, che data una vera organizzazione amministrativa, con un sistema di gradi e di classi 97. Essa è ancora molto gerarchizzata, non accordando che uno statuto assai mediocre ai commessi e ai praticanti. Così, almeno fino alla metà del XIX secolo, la maggioranza dei “servitori dello Stato” non rappresenterà che categorie ristrette e mal retribuite di tutti piccoli salariati. La situazione degli impiegati del “settore privato”, del commercio e delle professioni “liberali” doveva essere ancora più incerta. F. Ma il basso popolo delle città è composto soprattutto dagli operai di certi mestieri che non sono passati attraverso l'apprendistato, come nelle costruzioni, e di quelle innumerevoli occupazioni – villanzoni, facchini, portatori d'acqua, trasportatori di 96 Georges Lefebvre, Études orléanaises, 2 voll., t. I, Contribution à l'étude des structures sociales à la fin du XVIII e siècle, Paris, Imprimerie nationale, 1962-1963. Cfr. anche, in particolare sulle ambiguità della nozione di “popolo” dell'epoca, François Furet, Pour une définition des classes inférieures à l'époque moderne, in “Annales ESC”, n. 18, 1963, pp. 459-474. 97 Cfr. Pierre Rosanvallon, L'État en France de 1789 à nos jours, Paris, Le Seuil, 1990, cap. V.

mercanzie, lavoratori tuttofare a giornata, ecc. – “uomini di pena e di mani” che si fittano, in generale a giornata, per delle faccende senza qualifica. Indice della forza dell'idioma corporativo, alcune di queste occupazioni mimano le regolamentazioni e le gerarchie dei mestieri rispettabili98. Ma, globalmente, essi rappresentano il grosso della “feccia del popolo”, il “popolaccio”, la “canaglia”. Coloro che non svolgono mestieri né commerci e che si guadagnano la loro vita col lavoro delle loro braccia, che chiamiamo dappertutto gente di braccia o mercenari, come facchini, manovali, cartulari e altra gente alla giornata, sono tutti i più vili del popolo minuto, perché non vi è peggior retribuzione che non aver retribuzione99.

Una buona parte di questa manodopera sotto-qualificata è femminile: ricamatrici, lavandaie, sarte, cappellaie... G. Questa sorta di sottoproletariato delle città ha il suo equivalente in campagna: masse miserabili di operai agricoli che non 98 Così i “gagne-denierss”, che sono, secondo il Dictionnaire du commerce di Savary (Jacques Savary des Bruslons, Louis-Philémone Savary, Dictionnaire universel de commerce, contenant tout ce qui concerne le commerce qui se fait dans les quatre parties du monde, 3 voll., Paris, Estienne, 1723-1730, s.v., t. 2, p. 1422) degli “uomini forti e robusti di cui ci si serve a Parigi (e altrove) per trasportare dei fardelli e delle mercanzie pagando loro una certa somma che viene concordata amichevolmente con loro”, sono divisi in quattro gruppi: i forti des Halles e della dogana, i trasportatori specializzati in un tipo particolare di mercanzie, come il legno, il gesso, il sale, i semi..., i facchini che scaricano determinati prodotti portati da battelli sulla Senna, infine la persona qualsiasi che lavora a richiesta. I primi tre gruppi erano organizzati in monopoli riconosciuti dalle autorità municipali dopo aver pagato un diritto di ingresso nella professione (cfr. Jeffry Kaplow, Les noms des rois, cit., pp. 61 sgg.). 99 Charles Loyseau, Traité des ordres, cit., p. 80.

hanno altra risorsa che impiegarsi negli appezzamenti estranei, sia come domestici agricoli a tempo pieno, sia – e senza dubbio ancora più miserabili – per lavori intermittenti, stagionali. Il lavoratore deve allora fittarsi a cottimo e subire le alee delle stagioni, dei raccolti, del benvolere del proprietario che lo impiega, dal momento che proprio questa locazione della sua persona è la condizione della propria sopravvivenza. Egli non potrà mai neppure “installarsi”, nel senso di tessere dei legami familiari, di intrattenere relazioni stabili con una comunità. Si verifica per lui ciò che era emerso per la situazione del vagabondo, nella quale egli d'altronde è sempre minacciato di cadere: la mobilità è l'attributo negativo della libertà per coloro che non hanno niente da perdere mancando di qualsiasi cosa. H. Il fattore del piccolo appezzamento, per parte sua, è fissato, ma l'esiguità del suo guadagno lo obbliga spesso a integrare le proprie risorse con un lavoro artigianale 100. Pierre Goubert ha analizzato con molta cura la complessa situazione dei “manovalifabbricanti di sargia” del Beauvaisis, “manovali d'estate, fabbricanti di sargia d'inverno, giardinieri sempre”101, spesso proprietari della propria casa, che coltivano i loro pochi acri di terra, con 100 Il tipo di ricorso al lavoro artigianale dipende dai rapporti, estremamente diversificati, che i contadini intrattengono con la terra e dalla grandezza degli appezzamenti. Si sa che la proporzione degli “allodieri”, vale a dire dei contadini pienamente proprietari della loro terra, è debole e che alla vigilia della Rivoluzione i quattro quinti delle terre francesi sono ancora sottomessi a dei diritti “feudali”. Ma le diverse tipologie di “tenute” assicurano, in funzione della loro estensione e delle cariche vi sono connesse, dei gradi molto diversi di indipendenza economica e sociale. Per una sintesi di queste situazioni complesse, cfr. Pierre Goubert, Les payans et la terre; seigneuries, tenures, exploitations, in Fernand Braudel, Ernest Labrousse, Histoire économique et sociale de la France, cit., t. II, cap. V. 101 Pierre Goubert, Cent Mille Provinciaux au XVIIe siècle, cit., p. 189.

una vacca e dei pollami. Ma questa situazione si ritrova, con alcune sfumature, in quasi tutte le campagne, alimentando l'immensa produzione dell'artigianato rurale. Si potrebbe definire questa situazione come quasi-salariale, poiché questi contadini vendono il proprio lavoro attraverso la mercanzia che hanno trasformato, ma quest'ultima non gli appartiene, avendo il mercante fornito loro la materia prima. La parte delle donne, aspatrici, filatrici, merlettaie, ecc., è altrettanto importante, come quella dei bambini, che assistono il proprio padre nel quadro di una divisione domestica del lavoro. Sotto l'estrema diversità delle forme che assume questo artigianato rurale, sembra che si possa trarre questa sorta di legge: il fatto di ricorrervi segnala sempre una situazione di dipendenza economica e l'impossibilità di assicurare la riproduzione della vita familiare sulla base dello sfruttamento agricolo. Gli artigiani rurali sono i più poveri fra i tenutari rurali102. E siccome gli operai agricolo sono ancora più poveri, ma anche maggiormente salariati, si può rischiare questa estrapolazione: almeno in campagna, il ricorso al salariato tradisce sempre una grande precarietà di condizione, e più si è salariati, più si è deprivati. I. “Contadini-operai”, per impiegare una terminologia moderna che si addice approssimativamente a questa proto-industria, ma esistono anche degli “operai-contadini”. Gli abbozzi di con102 È così che gli inventari post mortem in un villaggio fiammingo mostrano che il possesso o meno dei mestieri della tessitura è strettamente legato all'estensione e alla ricchezza dello sfruttamento agricolo: non appena quest'ultimo consente un certo agio all'economia familiare, non si trova più presenza di mestieri. Cfr. Franklin Mendels, Landwirtschaft um bäuerliches Gewerbe in Flandern in 18. Jahrhundert, in Pierre Léon (sous la direction de), Histoire économique et sociale du monde, cit., t. III, p. 22.

centrazioni industriali – le miniere, le fucine, le cartiere... – sono molto spesso impiantati in campagna. Generalmente sono anche di taglia modesta: una decina, talvolta qualche decina di operai per una fucina o per una miniera 103. Esse reclutano il loro personale subalterno nel loro ambiente rurale, e questo semi-proletariato conserva solidi legami con la terra. Questo continua infatti a coltivare il suo lotto di terra e a partecipare ai lavori dei campi al momento del raccolto o della vendemmia. Questa situazione mista presenta dei vantaggi per il datore di lavoro – i salari possono essere particolarmente bassi, poiché l'operaio dispone di redditi annessi –, ma presenta anche degli inconvenienti: poiché l'operaio-contadino è meno dipendente dalla fabbrica, può assentarsi, seguire i propri ritmi di lavoro. La docilità dell'operaio alle esigenze della produzione industriale e la sua fidelizzazione alla fabbrica non si imporranno che tardivamente nel XIX secolo (cfr. cap. V). L. Altra variante di una categoria bastarda tra campagnoli e cittadini, salariati e conduttori “indipendenti”, ed essa stessa molto diversificata, è la situazione dei lavoratori stagionali. Il lavoro stagionale rappresenta una necessità per la sopravvivenza nelle regioni di piccole tenute contadine. Donde gli innumerevoli “Alverniati”, “Savoiardi”, ecc., che vengono a vendere ogni anno il proprio servizio specializzato per qualche mese in città, prima di tornare a coltivare il proprio lotto di terreno e apportare alla propria famiglia un complemento di risorse. Un'altra varietà è quella dei lavoratori che si fittano in campagna per lavori stagionali, raccolti, vendemmie... Olwen H. Hufton ha ben analizzato 103 Pierre Léon, La réponse de l'industrie, in Fernand Braudel, Ernest Labrousse, Histoire économique et sociale de la France, cit., t. II, cap. II, p. 260 sgg.

l'uso molto diffuso che egli chiama “mangiare fuori della regione”104. Al limite, l'operazione è conveniente se l'immigrato può semplicemente bastare a sé stesso per alcuni mesi in qualunque altro luogo purché non intacchi le risorse familiari. Come l'artigiano rurale, può anche accettare salari molto bassi e fare concorrenza vantaggiosamente agli autoctoni che devono nutrire una famiglia o mantenere completamente una casa. Non si comprenderebbe altrimenti come, per esempio, degli Alverniati possano riuscire a impiegarsi fino in Andalusia, dove pure regna un sotto-impiego cronico. Tuttavia, queste pratiche sono aleatorie. Spesso, non vi è distanza tra il lavoratore stagionale e il vagabondo. M. Infine, un vero e proprio proletariato nascente esiste in certe concentrazioni industriali: manifatture, arsenali, filande, fabbriche, miniere, fucine... Uno sviluppo che anticipa l'officina del XIX secolo si avvia nel XVIII secolo. Così, Anzin impiega 4.000 operai nel 1789. Ad Hayange, con i Wendel, a Creusot, a Montceau-les-Mines, cominciano a edificarsi potenti imperi industriali. Ma questi stabilimenti restano ancora eccezionali (Anzin gestisce da sola la metà della produzione francese di carbon fossile). Soprattutto, il personale impiegato resta assai eterogeneo. Esso comprende spesso, come nelle manifatture reali, una élite operaia molto qualificata e relativamente ben pagata, spesso “importata” dall'estero, tedeschi e svedesi per la metallurgia, italiani per la seteria, inglesi per alcuni prodotti tessili, olandesi per le tele... Annovera anche artigiani rurali, secondo la formula dell'“impresa diffusa”, la cui perennità non è una sopravvivenza. Per esempio, nella metallurgia, nell'officina Dietrich di Nieder104 Cfr. Olwen H. Hufton, The Poor of the Eighteenth Century France, cit.

bronn, in Alsazia, stabilimento pure “moderno”, su un effettivo di 918 impiegati, 148 solamente lavorano in laboratorio 405. In seno alla fabbrica nascente, ciò che costituisce l'equivalente del proletariato, o del sottoproletariato nel senso moderno, rappresenta così la parte più rozza della manodopera, la più instabile, costituita di persone completamente deprivate e che non hanno altro mezzo per sopravvivere che ciò che in Inghilterra si chiamavano allora le “fabbriche di Satana” (satanic mills)106. Undici forme di salariato o di semi-salariato preindustriale? Non ho la pretesa di essere pervenuta a una tipologia esaustiva, e questa nebulosa è talmente confusa che si potrebbe di certo raffinare l'analisi. Per esempio, ci si potrebbe domandare se il reclutamento delle truppe da parte degli eserciti non corrisponda a una di queste forme di salarizzazione. L'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert lo suggerisce, poiché propone alla voce “salariato”: “Si dice principalmente del prezzo che si dà ai lavoratori giornalieri e ai mercenari per il loro lavoro”107. Ma il mio obiettivo era solamente di far vedere la straordinaria eterogeneità di tali situazioni. Questo approccio mostra anche come le importantissime trasformazioni economiche e sociali che si sono susseguite per più secoli e si sono pienamente palesate nel XVIII secolo non hanno avuto un effetto di omogeneizzazione sulla condizione salariale, anzi, sicuramente il contrario. Rintracciando, alla fine 405 Cfr. Pierre Léon, Économies et sociétés préindustrielles, cit., t. II, p. 260. 106 Cfr. Karl Polanyi, La Grande Transformation, cit., p. 59. 107 Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des techniques, Mis en ordre et publie par M. Diderot,... e quant à la partie mathématique par M. d'Alembert, 17 voll., Paris, chez Briasson, [chez] David l'aine, [chez] Le Breton, [chez] Durand, 1751-1772, t. XIV, p. 532.

dell'Ancien Régime, “un mutamento socio-professionale importante”, Ernest Labrousse aggiunge: Esso resta, in numerosi casi, eterogeneo ed equivoco. Non s'accompagna sempre – al di fuori di un salariato classificato, relativamente ridotto – a una salarizzazione a tempo pieno né, soprattutto, s'accompagna, come sarà il caso del capitalismo industriale, alla fabbricazione di un nuovo tipo di lavoratori.

E Labrousse insiste sul peso determinante di ciò che lui chiama “i salariati frazionari”108. A dispetto della rarità di dati statistici affidabili, si può azzardare qualche valutazione quantitativa che conforti una tale impressione di profonda eterogeneità. In campagna all'inizio – fatto raramente sottolineato – questi “salariati frazionari” sono verosimilmente maggioritari nella popolazione. “Si può pensare per lo meno che alla fine del XVIII secolo […] il gruppo composito dei salariati raggiunge la maggioranza, relativamente o assolutamente, nella popolazione delle campagne” 109. Questa valutazione non vale solamente per la Francia, ma per l'insieme delle regioni europee che sono state più anticamente valorizzate e sono le più popolate, insomma le più “sviluppate”. Così nei Paesi Bassi, nel XVIII secolo, una delle regioni più ricche d'Europa:

108 Ernest Labrousse, En survol de l'ouvrage, in Fernand Braudel, Ernest Labrousse, Histoire économique et sociale de la France, cit., t. II, pp. 711-712. 109 Pierre Léon, Morcellement et émergence du monde ouvrier, in Id., Économies et sociétés industrielles, cit., t. II, p. 495.

Con un'attività secondaria e temporanea, con salari da miseria, i Paesi Bassi appaiono come un'immensa fabbrica tessile, arcaica, ben poco industrializzata, ma esempio perfetto di una complementarietà, essenziale per la sopravvivenza, fra un'industria nella sua forma antica e un'agricoltura ad alta produttività, su terre troppo esigue, caricate di una popolazione troppo numerosa110.

Ma questa constatazione di preponderanza di un “salariato composito” in campagna implica che il salariato “puro” vi resti embrionale: “il lavoratore a tempo pieno, che vive unicamente della vendita della sua manodopera, non rappresenta che una minoranza in seno al salariato contadino” 111. Vale lo stesso per la città, sia quanto all'eterogeneità delle situazioni salariali, sia quanto al carattere minoritario del salariato “puro”. Questo non rappresenta una novità legata allo sviluppo dell'industrializzazione. Bronislaw Geremek nota che già “nell'artigianato della fine del Medioevo la categoria dei salariati assume un carattere permanente e ben caratterizzato”112. Questo salariato proveniente dall'artigianato va progressivamente a irrobustirsi, senza che si possa seguirne con rigore la progressione. Ma questa, il più delle volte, continua a inscriversi nel quadro della piccola impresa. A Parigi, alla vigilia della Rivoluzione, la proporzione degli operai in rapporto ai datori di lavoro è nell'ordine di 5 a 1 113. Solo 110 Maurice Garden, L'industrie avant l'industrialisation, in Pierre Léon (sous la direction de), Histoire économique et sociale du monde, cit., t. III, p. 27. 111 Pierre Léon (sous la direction de), Histoire économique et sociale du monde, cit., t. II, p. 495. 112 Bronislaw Geremek, Les marginaux parisiens aux XIVe et XVe siècles, cit., p. 279. 113 Il censimento operato da Brasch nel 1791 dà una proporzione di 16,6

in siti molto circoscritti si abbozzano concentrazioni industriali che fanno emergere masse di “puri” salariati. Così, a Sedan, la popolazione operaia (contando le famiglie) sarebbe passata da 800 nel 1683 a 14.000 nel 1789, ma questo è un caso limite. Sull'intero territorio, “la Francia contava forse 500.000 operai ''puri'' alla vigilia della Rivoluzione”, quando ve ne erano fra 150.000 e 200.000 all'inizio del XVIII secolo114. Dunque, accrescimento rapido del numero di salariati a tempo pieno, ma in proporzioni che restano assai minoritarie, preponderanza di situazioni composite che concernono circa la metà della popolazione, carattere miserabile della maggior parte di coloro che devono ricorrere alla salarizzazione completa o parziale: le incertezze del salariato, la sua subordinazione e la sua indegnità sociale, alla fine del XVIII secolo, non lasciano assolutamente prevedere il suo destino ulteriore. Esso è ancora profondamente inscritto in – o circoscritto da – un tipo di relazioni d'interdipendenza al quale la società feudale ha impresso il proprio sigillo, così che, almeno in questo ambito, si è in diritto di parlare di un “lungo Medioevo”, nel senso in cui lo intende Jacques Le Goff.

5. Il modello della corvée

impiegati per ciascun padrone, ma non prende in considerazione né le piccole imprese con uno o due impiegati, né i lavoratori a domicilio e gli impiegati a cottimo (cfr. Albert Soboul, Paysans, sans-culottes et jacobins, Paris, Clavreuil, 1966). 114 Pierre Léon (sous la direction de), Économies et sociétés industrielles, cit., t. II, p. 378.

A partire dalla rivoluzione industriale, il salariato è spontaneamente pensato sul modello della libertà e del contratto. Anche se si denuncia il carattere leonino di questo contratto e la finzione della libertà di un lavoratore spesso spinto dal bisogno a vendere la sua forza-lavoro, si conviene che il mercato del lavoro mette a confronto due persone indipendenti dal punto di vista giuridico, e che la relazione sociale che essi stringono attraverso questa transazione può essere rotta dall'una o l'altra delle parti. Questa concezione liberale del salariato rappresenta tuttavia una straordinaria rivoluzione in rapporto alle forme che l'hanno storicamente preceduta, e che si perpetueranno dopo la loro abolizione formale. Per comprendere il carattere tardivo dell'avvento di un salariato moderno, i lunghi tentennamenti che lo hanno accompagnato, e anche le difficoltà che incontra per imporsi, si vorrebbe suggerire che il salariato non è nato dalla libertà o dal contratto, ma dalla tutela. È senza dubbio nella perennità del modello della corvée, prototipo della forma obbligata di scambio attraverso la quale un lavoratore manuale assolve il suo compito, che bisogna cercare la ragione di fondo delle resistenze all'avvento del rapporto salariale moderno. L'imposizione del lavoro si è realizzata innanzitutto nel quadro di una dipendenza personalizzata a partire da una localizzazione assegnata. La corvée è ciò che deve (o piuttosto una parte di ciò che deve) un tenutario al suo signore: la messa a disposizione della sua persona, per un certo numero di giornate, al fine di lavorare l'appezzamento signorile115. In questo senso, la corvée si 115 Il regime della corvée, che presenta delle modalità molto diversificate, è senza dubbio il più chiaramente rappresentato in epoca carolingia nelle regioni tra la Loira e il Reno. Esso presuppone la separazione del dominio signorile fra la “riserva”, direttamente sfruttata dal signore attra-

oppone al salariato: non è retribuita, segna una dipendenza personale sul tipo del servaggio ed è succeduta alla schiavitù 116. Tuttavia, parallelamente al movimento di affrancamento della manodopera servile, con lo sviluppo dell'economia monetaria a partire dal XII secolo, la corvée è sempre più frequentemente recuperata: da prestazione obbligatoria in lavoro, essa diviene prestazione obbligatoria in denaro. La conversione della corvée è il recupero di una sottomissione: il tenutario diventa “libero” di organizzare il proprio lavoro, che deve assicurare la propria sopravvivenza e quella della propria famiglia, così come il pagamento della rendita (e sarà frequentemente questo il caso) che il prodotto della propria attività sia insufficiente ad assicurare l'insieme delle sue obbligazioni. Egli “libera” allora una parte del proprio tempo, che mette a disposizione, dietro retribuzione, del signore o di un altro tenutario più ricco. Tale sembra essere l'origine del salariato rurale. Concretamente, ciò significa che il tenutario andrà, tanti giorni a settimana o all'anno, a lavorare, dietro retribuzione, su un altro appezzamento, al servizio altrui. Il salariato è dunque “libero” di lavorare, ma a partire dal posto verso i servi ed eventualmente gli schiavi che vi risiedono, e le “tenute”, coltivate sia da servi, sia da tenutari “liberi” (tenute ingenuiles). I tenutari servili devono in genere almeno tre giornate di lavoro a settimana sulla riserva. Se sono raramente sottomessi alla corvée settimanale, i tenutari “liberi” devono però dei pesanti servigi manuali: corvées di carreggio, costruzione e riparazione di edifici per il signore, partecipazione ai grandi lavori agricoli, fienagione, mietitura... Questi servigi, che implicano una soggezione della persona nella forma di un'obbligazione diretta di lavoro manuale, rappresentano, anche per i tenutari “liberi”, la parte principale delle trattenute obbligatorie legate alla tenuta. Su questi aspetti, cfr. Isaac Johsua, La face cachée du Moyen Âge, cit. Cfr. anche Marc Bloch, La société féodale, Paris, Albin Michel, 2 voll., 19391940; trad. it. La società feudale, Torino, Einaudi, 1999. 116 La corvée è caratteristica del servaggio e prende il posto della schiavitù, forma completa della messa a disposizione della persona.

che occupa in un sistema territorializzato di dipendenza, e il lavoro che effettua è esattamente dello stesso tipo di quello della corvée. Queste due forme di lavoro, la corvée e il lavoro salariato117, possono d'altronde coesistere, non solo in una stessa epoca, ma perfino in uno stesso individuo. Così, in Inghilterra, dove il servaggio è ancora assai diffuso nei secoli XI e XII, alcuni tenutari devono al padrone la corvée del lunedì (li si chiama anche lundinarii). Ma Georges Duby nota a loro proposito: “in alcuni casi, i lundinarii si presentavano ogni lunedì per lavorare gratuitamente. Tornando un altro giorno, gli si dava una paga”118. 117 Deve essere ricordato che la retribuzione del lavoro non avviene necessariamente in denaro. Questo doveva anche essere eccezionalmente il caso di queste forme primitive di salariato. Ma la “ricompensa”, quale che sia la sua natura, ben rappresenta una forma di salario nella misura in cui retribuisce un lavoro effettuato per conto di un terzo e in una relazione di dipendenza rispetto a quest'ultimo. 118 Georges Duby, L'économie rurale et la vie des campagnes dans l'Occident médiéval. France, Angleterre, Empire (Ixe-XVe siècles). Essai de synthèse et perspectives de recherches, Paris, Aubier Montaigne, 1962, t. I, p. 424; trad. it. L'economia rurale nell'Europa medievale. Francia, Inghilterra, Impero, secoli IX-XV, Bari, Laterza, 1966. Lo stesso tipo di esazione fra assoggettamento della persona e abbozzo di un rapporto “salariale” può ritrovarsi in altre aree culturali e fino a epoche molto vicine alla nostra. Così le piantagioni di zucchero nel nordest brasiliano sono state sfruttate dopo l'abolizione della schiavitù dai moradores, lavoratori che risiedevano in permanenza nella piantagione, dividendo il proprio tempo lavorativo fra la coltivazione del lotto di terra che era loro concesso e il servizio presso il padrone della piantagione e potevano compiere certi giorni dei compiti dietro retribuzione. Quando questa fissazione dei lavoratori all'interno delle piantagioni ha avuto fine nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta – in gran parte perché essi potevano “scegliere” di andare a lavorare in città, dove si sviluppava un mercato del lavoro –, i moradores sono divenuti dei salariati agricoli per intero (cfr. Afrânio Garcia, Libres et assujettis, marché du travail et modes de domination au Nord este, Paris, Éditions de la Maison des Sciences de l'Homme, 1989, e i lavori del Museu nacional de Rio de Janeiro).

Cosi, questi cottiers inglesi sono nella stessa settimana, e per di più per lo stesso padrone, tanto dei servi che sbrigano la corvée, quanto dei salariati parziali retribuiti da un datore di lavoro. Lo stesso uomo, evidentemente, lavora allo stesso modo il lunedì, il martedì o un altro giorno. Detto altrimenti, nella sua forma materiale, la sua attività salariata non si distingue dalla sua attività servile. Essa è anche una messa a disposizione della propria persona, ma che non ha più allora lo statuto giuridico di una soggezione personale. Giuridicamente, la corvée e il salariato si oppongono, e storicamente il salariato ha progressivamente scalzato la corvée, ma esistenzialmente, se posso dire così, quanto al tipo di lavoro che esso effettua e alle condizioni nelle quali lo effettua, cosa distingue un salariato “libero” da un soggetto a corvée in una relazione di sottomissione personale a un padrone? Niente, se non che nel primo caso egli riceve una retribuzione, un salario. Questa situazione non è propria di quei salariati parziali che affittano una parte solamente della propria forza-lavoro. Essa è, senza dubbio, anche aggravata per la maggior parte degli operai agricoli a tempo pieno. Anzi, questi innumerevoli rurali senza terra sono posti spesso a vita sotto lo sfruttamento di un proprietario, a suo servizio esclusivo, totalmente dipendenti e totalmente, ancorché miserabilmente, mantenuti. Questi domestici o questi salariati (come stabilire concettualmente la differenza?) non dispongono di nient'altro che della forza delle loro braccia, sono dei proletari. Vivono esclusivamente della retribuzione della loro forza-lavoro, sono salariati, ma il salario si riduce quasi del tutto alle prestazioni prelevate in natura sull'appezzamento, al nutrimento alla tavola comune e all'alloggio in un stalla, più un minu-

scolo peculio. Quanto al lavoro, esso si svolge in una relazione di completa dipendenza nei riguardi del padrone, che si tratti di un signore o di un proprietario119. Gli operai giornalieri e stagionali sono senza dubbio più “liberi”, nel senso che non sono fissati in permanenza presso un padrone, ma la loro situazione è forse ancora meno invidiabile, perché a loro non è mai assicurato il domani, e lo scivolamento nel vagabondaggio li perseguita. Quanto a quei quasi-salariati che sono gli artigiani rurali, si è già detto fino a che punto essi fossero presi in reti strette di dipendenza fondate sulla territorializzazione. Le diverse forme di salariato rurale, o di ciò che ne fa le veci, restano così prigioniere dei sistemi tradizionali di vincolo. Si può dire che il salariato urbano ne sia completamente affrancato? Certo, l'artigianato – che ugualmente affonda le sue radici nel lavoro servile come forma di dipendenza della persona, mentre l'artigiano rurale lavorava nella riserva del signore 120 – sembra 119 Ci si potrebbe interrogare sulla differenza fra questa condizione di domestico agricolo e quella dei membri della famiglia che lavorano sulla terra del padrone. Questa può sembrare tenue, nella misura in cui la donna e i bambini possono essere in una relazione di dipendenza altrettanto o più forte nei riguardi del padrone. Tuttavia, la tutela familiare e la tutela nei riguardi dei domestici sono sostanzialmente differenti se si prende in considerazione il rapporto con la proprietà. I membri della famiglia sono inscritti nel quadro di un'economia puramente domestica, costituiscono il gruppo familiare in quanto unità di produzione e di trasmissione dei beni. I “domestici”, in compenso, sono in una relazione di tipo mercantile, anche se essa è molto debolmente monetarizzata e contrattualizzata. In rapporto all'unità economica familiare, i domestici sono – a dispetto dell'ideologia “paternalista” – degli estranei. Possono anche essere abbandonati quando non possono più servire, per esempio, quando sono troppo vecchi per lavorare, mentre fra i membri della famiglia esiste quella che si chiama oggi “l'obbligazione alimentare”, forma di scambio transgenerazionale che non è fondata su una relazione mercantile, ma sull'appartenenza familiare. 120 Il fatto che fino alla fine dell'Ancien Régime il re, alcuni signori e an-

aver rotto con le forme della soggezione feudale, acquistando in città le sue franchigie. Ma questi privilegi sono le prerogative del mestiere, e non della persona del lavoratore. L'artigiano non è per nulla libero nel suo lavoro, egli non è indipendente che nel quadro del rigido sistema delle soggezioni del mestiere, i cui regolamenti limitano da ogni parte le sue iniziative. La sua indipendenza è infatti l'usufrutto della sua partecipazione ai vincoli collettivi della gilda. Di più, mentre inaugura una forma fondamentale di salariato, quello dei corporati, l'artigianato urbano vi traspone un modello di relazione datore di lavoro-salariato che resta segnato dalla tutela feudale. Bronislaw Geremek nota che il termine “valletto”, che ha preceduto quello di “apprendista”, porta il segno di questa soggezione 121. Alcuni tratti di questa relazione salariale padrone-valletto, o padrone-apprendista, rinviano in una maniera eufemistica alla concezione del diritto feudale che faceva del valletto l'“uomo” di un padrone: non soltanto il padrone comanda, ma per di più è proibito all'apprendista lavorare al di fuori della botteguccia del datore, di lavorare a tempo parziale per un altro datore; l'apprendista è spesso alloggiato e nutrito nell'abitazione del padrone, ecc. Nell'età d'oro dell'artigianato urbano, l'apprendista non aveva nemmeno il diritto di sposarsi senza l'autorizzazione del padrone e doveva spesso attendere di essere padrone a sua volta per acquisire questa prerogativa di indipendenza122. Questo rapporto salariale è così preso in una che dei ricchi borghesi abbiano “propri” artigiani che lavorano esclusivamente per loro può essere interpretato come un retaggio di questa situazione “arcaica”. Ma si tratta all'epoca di artigiani particolarmente qualificati e privilegiati che eccitano la gelosia dei propri colleghi sottomessi ai vincoli dei mestieri. 121 Bronislaw Geremek, Le salariat dans l'artisanat parisien, cit., p. 36. 122 Cfr. Max Weber, Histoire économique, cit., p. 174.

relazione di stretta dipendenza nei riguardi del padrone e, come afferma Geremek, per l'apprendista “il salariato è una forma di locazione della propria persona più che la vendita della propria forza-lavoro”123. È un caso se l'“Editto arrecante la soppressione delle giurande e delle comunità di commercio, arti e mestieri”, e l'“Editto arrecante la soppressione della corvée”124 (che sussisteva ancora nel XVIII secolo in alcune province per la manutenzione e costruzione delle strade) siano promulgati simultaneamente nel febbraio 1776? Nell'esposizione dei motivi delle due misure, Turgot sviluppa la medesima argomentazione: la nuova libertà di intraprendere deve abbattere i vincoli tradizionali. Esistono certamente relazioni salariali più “libere”, ma sono anche meno assicurate. Si giunge così a questo paradosso: il tipo di salariato senza dubbio più invidiabile in questa società, quello che realizza l'apprendista, è anche quello che conserva la maggior parte dei tratti che si possono qualificare come arcaici. D'altronde, non è certo che le altre forme di salariato siano completamente affrancate da questa eredità. Ciò che rassomiglia di più a un mercato del lavoro per l'epoca, sono quei posti prefissati nelle città in cui gli operai senza lavoro devono presentarsi all'alba alla ricerca di un datore125. Si tratta di una manodopera sottoqualificata e instabile, che sfugge al sistema dei mestieri regolamentati. Ma Geremek nota ugualmente che, attraverso questa 123 Bronislaw Geremek, Le salariat dans l'artisanat parisien, cit., p. 145. 124 Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., t. XXII, pp. 358-370 e 370-386. 125 Così a Parigi la piazza di Grève, la quale è all'origine del termine gréviste [scioperante] sulla base di un controsenso: si trattava di concentrazioni di operai che non lavoravano, ma che erano alla ricerca di un lavoro.

istituzione, la manodopera è esposta di persona sulla piazza di impiego, come le altre merci, prodotti agricoli o prodotti artigianali sono esposti sul mercato126. L'assunzione è, quindi, una forma di appropriazione puntuale della persona piuttosto che un contratto giuridico di vendita della forza-lavoro. Il compratore di lavoro “preleva” il lavoratore nella maniera in cui, nel caso riportato da Duby, i lundinarii che si erano proposti un altro giorno alla corte signorile partivano a compiere la corvée, questa volta dietro retribuzione. Cercare di ricostruire quello che poteva essere il salariato in questo tipo di società, vuol dire dunque riferirsi a un insieme di situazioni che hanno in comune una certa indegnità. Il salariato non connota solamente la miseria materiale, situazioni di povertà o prossime alla povertà, ma anche stati di dipendenza che implicano una sorta di sotto-cittadinanza o infra-cittadinanza in funzione dei criteri che, per l'epoca, assicurano un posto riconosciuto nell'insieme sociale. Certo, è così anche perché in tutti questi tipi di salariato si tratta di persone “di vil stato” o di piccolo stato che non hanno da scambiare che una capacità di lavoro manuale, e spesso sotto forme sotto-qualificate. Ma, giustamente, il salariato non può affatto proporre modelli più prestigiosi di quello offerto da quella parte della popolazione che costituisce “il popolo”, obbligata a lavorare con le proprie mani per vivere o per sopravvivere. I servigi che hanno una dignità sociale – e che si moltiplicano e si diversificano a mano a mano che lo Stato si struttura e che le professioni “liberali”, uomini di legge, medici, ecc., si sviluppano – non sono di competenza del salariato. Così gli uffici, prima concessi da un feudatario nella logica del dono, 126 Cfr. Bronislaw Geremek, Le salariat dans l'artisanat parisien, cit.

sempre più spesso sono comprati in funzione della venalità degli incarichi. Essi non si identificano con una situazione salariale, né per modalità di esercizio, né per modo di retribuzione. L'ufficio corrisponde al possesso di un'attività di produzione di ricchezze e di onori a beneficio del titolare e della sua famiglia. Evoca una forma di commercio piuttosto che un servizio pubblico. È, senza dubbio, attraverso lo sviluppo di un apparato di Stato che si può rinvenire il nucleo di situazioni salariali dotate di prestigio e di potere: il gruppo dei funzionari pubblici, la cui frangia superiore diverrà “la nobiltà di Stato” 127. Ma, all'epoca, tale gruppo è ancora embrionale, e i suoi rappresentanti devono essere difficili da distinguere da dignitari tradizionali dipendenti da una logica del privilegio, e non da quella della salarizzazione dei servizi128. Indegno salariato: questo rinvia a un'estrema diversità di situazioni, ma che caratterizzano quasi esclusivamente attività sociali imposte dal bisogno e inquadrate attraverso relazioni di dipendenza. La definizione che ne offre l'Encyclopédie, a dispetto dell'orientamento “progressista” di quest'opera, reitera questo apprezzamento peggiorativo: “Salario: pagamento o garanzia che si accorda a qualcuno in considerazione della sua attività o come ricompensa per le sue fatiche o per i servigi che ha reso in qualche occasione. Si dice principalmente del prezzo che si dà agli 127 Cfr. Pierre Bourdieu, La noblesse d'État. Grandes écoles et esprit de corps, Paris, Minuit, 1989. 128 Così come, oltre ai commissari, gli intendenti e i consiglieri di Stato nominati dal re, il corpo dei Ponti e delle Strade è creato nel 1754, quello delle Miniere nel 1783. Reclutati tramite concorso, il loro statuto evoca quello della funzione pubblica. Ma (cfr. Pierre Rosanvallon, L'État en France de 1789 à nos jours, cit.) è soltanto dopo la Rivoluzione che la funzione pubblica si struttura e può cominciare a proporre dei modelli di salariato attraenti e... “nobili”.

operai a giornata e ai mercenari per il loro lavoro” 129. E ciò che si può anticipare della sua evoluzione alla fine dell'Ancien Régime non spinge certo all'ottimismo. Se è in fase di spettacolare espansione, i suoi settori in più rapida crescita, come l'artigianato rurale e il primo proletariato industriale, sono anche tra i più miserabili. Se si divincola difficilmente da antiche forme di dipendenza, è per trovarne di nuove. È in effetti sintomatico che l'apparizione di un embrione di proletariato industriale si accompagni a nuove forme autoritarie sia di sorveglianza sia di inquadramento, che vanno d'altra parte a rinforzarsi nel XIX secolo. Un'ordinanza del 1749 vieta ai lavoratori di lasciare il loro impiego senza un “foglio di congedo” firmato dal padrone, e a partire dal 1781 l'operaio deve essere munito di un “libretto o quaderno” che deve farsi vistare dalle autorità amministrative quando si sposta, e che deve presentare al momento dell'assunzione 130. Non è pura coincidenza. Questi salariati delle nascenti concentrazioni industriali sono fra i primi a essere affrancati dalle tutele tradizionali. Tuttavia, come fa notare nel 1788 un ispettore delle cartiere di Thiers: “Siccome la maggior parte di questi operai non è affatto domiciliata e non appartiene a un paese più che a un altro, si trasferisce al primo capriccio, e uno solo che ne viene a mancare interrompe il lavoro di tre”131. Bisogna, dunque, tentare 129 Articolo Salaire, in Encyclopédie, cit., t. XIV, p. 532. 130 Cfr. Steven Laurence Kaplan, Reflexions sur la police du monde du travail, 1700-1815, in “Revue historique”, n. 261, 1979, pp. 17-77. Questo tipo di misure non è proprio della Francia. A Gand e ad Anversa, alla fine del XVIII secolo, delle ordinanze municipali puniscono come vagabondi gli operai e i bambini poveri che circolano per le strade durante il giorno, perché gli uni e gli altri dovrebbero essere al lavoro. Cfr. Catharina Lis, Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Pre-Industrial Europe, cit., p. 164. 131 Cit. in Fernand Braudel, Ernest Labrousse, Histoire économique et so-

di fissarli attraverso nuove regolamentazioni. Ma queste ultime continuano antiche forme di coercizione già all'opera nelle manifatture reali, come negli Ospedali generali, nei laboratori di carità e nei depositi di mendicità. Il vecchio paradigma del lavoro forzato non è dunque ricusato neanche quando si costituisce l'embrione di un salariato “moderno”. Al contrario, esso accompagna e tenta di inquadrare i suoi primi sviluppi. Il che si può perfettamente comprendere: le condizioni di lavoro sono tali nelle prime concentrazioni industriali che bisogna esser posti nella più estrema soggezione al bisogno per accettare tali “offerte” di impiego, e gli sventurati così reclutati non aspirano che a lasciare al più presto questi luoghi di derelizione. Di nuovo non si è molto lontani dalla figura del vagabondo. È in effetti in seno alle popolazioni nomadi di disaffiliati che le prime concentrazioni industriali sembrano aver reclutato una parte importante dei loro operai (e anche fra le donne e i bambini, più facili da intimidire o che dispongono di ancor meno opportunità per sfuggire a tali condizioni di lavoro). È, dunque, “normale” che l'esercizio della costrizione sia stato particolarmente impietoso. Le grandi concentrazioni di lavoratori hanno sempre presupposto il lavoro forzato. I grandi lavori e le miniere dell'antichità, come il sistema della piantagione coloniale, si sono poggiati sulla schiavitù. Le ricchezze del Nuovo Mondo sono state estratte grazie al lavoro forzato degli indigeni, che molto spesso ne sono morti. Private degli schiavi, almeno nelle loro metropoli, e anche dell'equivalente delle riserve indiane da cui attingere la manodopera, le società dell'Occidente, per giunta cristiane, hanno dovuto ciale de la France, cit., t. II, p. 660.

risolvere un grave problema: trovare e mobilitare lavoratori per tipi di mansioni che nessuno accetterebbe se potesse fare un'altra cosa o niente del tutto. Indipendentemente anche dalle motivazioni morali che incitano sempre a punire dei poveracci tacciati di viziosità e pericolosità, si comprende la focalizzazione dell'interesse su alcune categorie di outcasts – vagabondi, forzati, galeotti – per compiere questo tipo di lavori che ogni uomo dabbene non può che rifiutare. Sfortunatamente per i datori di lavoro, queste popolazioni marginali, per giunta spesso particolarmente ribelli al lavoro, non sono abbastanza numerose per rispondere a una domanda che si accresce con l'industrializzazione. Di qui il ricorso a indigenti “liberi”, ma che bisogna nondimeno costringere. Come sottolinea Max Weber, le prime concentrazioni industriali “non sono mai apparse senza che intervenisse la costrizione della miseria”132. Ma anche la miseria non sempre basta a imporre questi compiti. Weber riferisce che nel XVIII secolo dei lavoratori erano incatenati con collari di ferro nelle miniere di Newcastle133. Situazione-limite, senza dubbio, ma che mostra come il gulag non sia un'invenzione del XX secolo. La sua ombra ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo industriale fin dai suoi inizi. La prova: è in questo contesto che Jeremy Bentham elabora il suo Schizzo di un'opera in favore dei poveri, meno conosciuto ma certamente più significativo del Panopticon, perché il pubblico interessato non è una popolazione delinquente, bensì l'insieme dei “poveri”, cioè “qualunque persona che non abbia alcuna pro132 Max Weber, Histoire économique, cit., p. 198. Cfr. anche E.M. Leonard, The Early History of English Poor Relief, Cambridge, Cambridge University Press, 1900. 133 Max Weber, Histoire économique, cit., p. 198.

prietà apparente o presumibile, o mezzi di sussistenza onesti o sufficienti”134. Questi individui saranno arrestati su denuncia di “privati di buona reputazione”135 e posti in case di lavoro “distribuite in modo equo su tutta la superficie del paese” 136. Il sistema sarà amministrato e finanziato come una compagnia privata che disponga del monopolio di questa attività, sul modello della Compagnia delle Indie. In questi stabilimenti, la tecnologia panottica e una divisione dei compiti che anticipa il taylorismo saranno mobilitate per assicurare il rendimento del lavoro cui saranno costretti tanto gli invalidi che i validi in funzione delle loro capacità. Utopia di un'organizzazione del lavoro che, con uno stesso gesto, sradicherebbe la miseria e la devianza sociale e massimizzerebbe la produzione: il rafforzamento della Total Institution vi appare come un'ombra portata dalla liberazione del lavoro. Tutto avviene come se, alla fine del XVIII secolo, si profilassero ancora due modelli arcaici di esercizio del potere sullo sfondo della relazione salariale. Essi concernono due tipi molto contrastati di popolazioni. L'uno (formato dai disaffiliati) è caratterizzato da una libertà senza legami ma senza supporti, che occorre fissare a forza. L'altro (gli eredi dei lavoratori a corvée) è inscritto in tutele tradizionali che bisogna mantenere. Certo, questi modelli sono lontani dal coprire l'insieme delle relazioni salariali, e ancor più dal rispondere alle esigenze di un'organizzazione razionale del lavoro; tuttavia, la promozione di una forma moderna e unificata di salariato non si farà senza drammi nella misura in cui la sua struttura contrattuale, espressione della filoso134 Jérémie [Jeremy] Bentham, Esquisse d'un ouvrage en faveur des pauvres, Paris, Imprimeries des Sourds-Muets, an X [1801 o 1802], p. 40. 135 Ivi, p. 246. 136 Ivi, p. 36.

fia individualista e del formalismo giuridico che si impongono con i Lumi, rinvia a una configurazione del tutto diversa dei rapporti sociali137. Bisogna così resistere alla tentazione di leggere in continuità la storia della promozione del salariato. Certo, nei secoli che precedono la caduta dell'Ancien Régime, esso si arricchisce, si diversifica, e si potrebbe dire che si “sviluppa”. Diventa sempre più indispensabile e si fa anche sempre più fatica a mantenerlo nelle forme tradizionali di organizzazione del lavoro. Anzi, deborda da ogni parte. Tuttavia, l'avvento della modernità liberale segna una rottura in rapporto a questi “sviluppi”. Essa dovrà imporre il libero accesso al lavoro contro le regolamentazioni precedenti: far sì che il lavoro “libero” non sia più pensato per difetto, come ciò che sfugge agli statuti riconosciuti o imposti, ma diventi lo statuto stesso del salariato, a partire dal quale tutta la questione sociale si ricompone.

137 Cfr. Ernst Cassirer, La philosophie des Lumières, Paris, Fayard, 1966, in particolare il cap. VI, Le droit, l'État et la société, trad. it. La filosofia dell'Illuminismo, Milano, Sansoni, 2004.

IV. LA MODERNITÀ LIBERALE

“Il commercio e l'industria sono richiesti dappertutto, e il loro impianto produce una strana fermentazione con i resti della ferocia della costituzione feudale”1. Questo giudizio è rappresentativo della esasperazione crescente degli spiriti illuminati dell'Europa del XVIII secolo nei riguardi delle resistenze opposte, dalle strutture ereditate dal passato, alla dinamica profonda che sconvolge l'economia e scuote i rapporti sociali. Esso offre anche l'interpretazione comunemente recepita dell'origine degli antagonismi che lacerano la società. Due mondi si opponevano prima di affrontarsi brutalmente, perché le forze che portano la modernità sono imbrigliate dal peso del passato. Lotta fra gli antichi e i moderni, gli adepti del progresso e i difensori di privilegi arcaici. Questa messa in scena è tuttavia semplificatrice. I processi che sottendono questa opposizione sono più complessi – e le lotte 1 James Stevart, Recherches des principes de l'économie politique, ou Essai sur la science de la police intérieure des nations libres dans lequel on traite spécialement de la population, de l'agriculture, du commerce, de l'industrie, du numéraire, des espèces monnoyées, de l'intérêt de l'argent, de la circulation des banques, du change, du crédit public, et des impôts, 5 voll., Paris, Didot, 1789-1790, t. I, p. 454, cit. in Pierre Rosanvallon, Le capitalisme utopique, Paris, Le Seuil, 1981, p. 49.

rivoluzionarie lo riveleranno – di quanto dia a vedere il faccia a faccia drammatizzato dell'antico e del nuovo. Innanzitutto, perché il nuovo non è poi così nuovo. È da lungo tempo in marcia, e i suoi germi sono stati già deposti nella “costituzione feudale”. In secondo luogo, perché non è omogeneo. La dinamica che dà impulso “al commercio” e “all'industria”, per attenersi ai due settori evocati qui da Stevart, non ha né la stessa ampiezza né lo stesso ritmo. Infine, perché essa non ha l'universalità che le attribuiscono i suoi portavoce. Il trionfo della modernità rappresenta interessi e valori propri di gruppi ben circoscritti, ed essi non si oppongono solo ai privilegi dei partigiani dell'Ancien Régime. L'Europa del XVIII secolo ha senza alcun dubbio i suoi “progressisti” e i suoi “conservatori”, ma comprende anche la massa di coloro che sono in bilico rispetto a tale opposizione. In particolare, nelle trasformazioni che si profilano, la posizione di coloro che formano la base della piramide sociale è particolarmente ambigua. Senza dubbio essi hanno poco da perdere, in ogni caso pochi privilegi. Ma che cosa hanno da guadagnare? È così evidente che non possono che guadagnarci se lo status quo è distrutto? In quali giochi saranno coinvolti, e in che cosa sarà trasformata la situazione di questi gruppi eterogenei che vivono essenzialmente del loro e dei quali si è appena disegnato il destino sfortunato nella “antica società”? Si mostrerà perché tutto ciò che la società del XVIII secolo comporta di “progressista” cospira a fare del libero accesso al lavoro la nuova formulazione della questione sociale. Ma si cercherà anche di comprendere perché questa soluzione è limitata, difficile da mettere in pratica, e portatrice di tensioni tali che diviene un fattore di divisione piuttosto che il fondamento di un consenso durevole. L'imperativo del

libero accesso al lavoro, che ottiene l'unanimità fra i partigiani e gli artigiani dei Lumi, rappresenta in effetti un precipitato instabile e fragile. Più esattamente, esso fornisce il principio del modo di organizzazione economico che si imporrà. Ma comporta anche, senza che coloro che lo formulano ne siano pienamente consapevoli, effetti socialmente devastanti. Così, nel momento in cui si voleva risposta globale e definitiva alla questione sociale, il libero accesso al lavoro non rappresenterà storicamente che una tappa verso la sua riformulazione nel XIX secolo, nella forma della questione dell'integrazione del proletariato.

1. La vulnerabilità di massa Due nuovi dati modificano, a partire dalla fine del XVII e dall'inizio del XVIII secolo, la maniera in cui si pone la questione del posto occupato dai gruppi più svantaggiati. Da una parte, la presa di coscienza di una vulnerabilità di massa che rende sempre più fittizia la propensione a rovesciare la questione sociale sul trattamento di questi due gruppi estremi, gli indigenti incapaci di lavorare che si assistono, e i vagabondi che si reprimono. D'altra parte, una trasformazione della concezione del lavoro, che non è più soltanto un dovere rispondente a esigenze religiose, morali o anche economiche, ma diviene la fonte di ogni ricchezza e, per essere socialmente utile, deve essere ripensato e riorganizzato a partire dai princìpi della nuova economia politica. Sul primo punto, la trasformazione non è evidente. Se ci si accontentasse di misurare le proporzioni della popolazione che si

trova al limite dell'indigenza, si porrebbero in evidenza straordinarie costanti nel tempo e nello spazio, cioè per almeno cinque secoli e su tutta la superficie dell'Europa a ovest dell'Elba. Certo, se è difficile definire oggi delle “soglie di povertà”, è un'impresa ancora più aleatoria per epoche lontane2. Ciò non toglie che in una data società, in un dato momento, esistano esigenze incontenibili – benché siano spesso compresse – in materia di nutrimento, di abbigliamento, di alloggio, senza le quali l'individuo è impossibilitato a sussistere coi propri mezzi. Si accetterà dunque, come un'approssimazione soddisfacente per le società preindustriali, la definizione, o la localizzazione, dell'indigente proposta da Charles de La Roncière a partire dalla sua analisi della situazione del popolino di Firenze del XIV secolo: “Colui che manca del necessario per sopravvivere, incapace com'è con le sue sole risorse di essere al contempo nutrito (al minimo vitale), vestito

2 Soglie di povertà che preferirei chiamare “soglie di indigenza” per rispettare l'opposizione fra una povertà perfettamente ammessa e anche richiesta, e un'indigenza “onta dell'umanità”, per riprendere l'espressione del dottor Hecquet citata all'inizio del capitolo precedente. Questa distinzione domina la riflessione sociale del XVIII secolo, ivi compresa quella di molti spiriti “avanzati”. “Vi saranno sempre dei ricchi, devono dunque esserci dei poveri. Negli Stati ben governati, questi ultimi lavorano e vivono; negli altri, essi si rivestono degli stracci della mendicità e intaccano insensibilmente lo Stato sotto il manto della nullafacenza. Avere dei poveri, e giammai dei mendicanti; ecco il fine cui deve tendere una buona amministrazione” (Jacques-Pierre Brissot de Warville, Théorie des lois criminelles, Berlin, s.e., 1781, p. 75; trad. it. Teoria delle leggi criminali, Neuchatel, Giulio Trento, 1785). Si tratta di quello stesso Brissot che diverrà una delle figure rilevanti dell'epoca rivoluzionaria e prima, prova che questa posizione non è per nulla “reazionaria”; fondatore della Société des amis des Noirs, che milita a partire dal 1786 per l'abolizione della tratta e l'attenuazione della schiavitù.

(nel più semplice dei modi) e alloggiato (provvisto di un posto per dormire in un alloggio individuale o collettivo)”3. Trattando l'esempio di Lione, al volgere del XVI e del XVII secolo, Richard Gascon ha calcolato, a partire dal costo del grano, dei prodotti di base e degli alloggi, che questa soglia era oltrepassata quando una famiglia di quattro persone doveva consacrare più dei quattro quinti delle sue risorse all'acquisto dei cereali panificabili4. Quale proporzione della popolazione si trova, in un dato momento, al di sotto di questa linea? In assenza di statistiche affidabili, una simile valutazione è evidentemente delle più approssimative. I dati disponibili sui beneficiari dei soccorsi permettono tuttavia di cogliere interessanti costanti nello spazio e nel tempo. A Orvieto, alla fine del XIII secolo, i mendicanti e gli indigenti assistiti – coloro che si troverebbero al di sotto della “soglia di miseria”, poiché non possono sopravvivere da soli – rappresentavano circa il 10% della popolazione della città 5. Le proporzioni sono simili nella Piccardia rurale della stessa epoca 6 e a Firenze nel XIV secolo 7. Henri Pirenne valuta ugualmente in un decimo la proporzione degli indigenti nella popolazione urbana di Yprés8. I soccorsi dispensati dalle municipalità di numerose città europee nel XVI secolo sembrano così concernere tra il 5 3 Charles-Marie de La Roncière, Pauvres et pauvreté à Florence au XIV e siècle, cit., p. 662. 4 Richard Gascon, Economie et pauvreté au XVIe-XVIIe siècles: Lyon, ville exemplaire et prophétique, in Michel Mollat du Jourdin (sous la direction de), Études sur l'histoire de la pauvreté, cit., t. II, pp. 274 sgg. 5 Cfr. Michel Mollat du Jourdin, Les pauvres au Moyen Âge, cit., p. 212. 6 Cfr. Robert Fossier, La terre et les hommes en Picardie jusqu'à la fin du XIIIe siècle, cit. 7 Charles-Marie de La Roncière, Pauvres et pauvreté à Florence au XIV e siècle, cit. 8 Cfr. Henri Pirenne, Histoire économique de l'Occident, Bruges, Desclée De Bruouwer, 1951, p. 487.

e il 10% degli abitanti. Così, a Lione, “tra il 1534 e il 1561, poco più del 5% della popolazione totale riceveva una distribuzione settimanale”9. Per il XVII secolo Pierre Goubert rileva che l'ufficio dei poveri di Beauvais soccorreva ogni anno in media da 700 a 800 persone, ossia il 6% degli abitanti della città 10. Il quattordici germinale anno II, il rapporto indirizzato dall'amministrazione degli ospedali al Consiglio Generale della Comune di Parigi recensisce 68.981 indigenti soccorsi, cioè un parigino su nove11. Si potrebbero moltiplicare i riferimenti, senza dubbio sempre più o meno approssimativi. Essi permettono nondimeno di affermare che ogni anno una media fra il 5 e il 10% della popolazione – forse più vicina al 5%, tenuto conto della tendenza frequente a sovrastimare le situazioni più drammatiche, ma inversamente bisognerebbe anche tener conto dei “poveri vergognosi” e di coloro che sfuggono a ogni forma di ricognizione – dipende, per sopravvivere, da un'assistenza dispensata sotto forme diverse, sia quella di una presa in carico totale in ospedali e “carità”, sia quella di soccorsi parziali, per esempio nella forma di una distribuzione puntuale o regolare di alimenti o di sussidi. In campagna, poiché non esiste alcuna istituzione specializzata, è ancora più difficile valutare il numero degli indigenti, ma si può supporre che essi siano presenti nelle stesse proporzioni, supportati dalle reti di vicinato, a meno che non siano costretti a “svignarse9 Natalie Zemon Davis, Assistance, humanisme et hérésie: le cas de Lyon, in Michel Mollat du Jourdin (sous la direction de), Études sur l'histoire de la pauvreté, cit., t. II, p. 800. 10Cfr. Pierre Goubert, Cent Mille Provinciaux au XVIIe siècle, cit., p. 342. 11 Cit. in Albert Soboul, Les Sans-Culottes parisiens en l'an 2. Mouvement populaire et gouvernement révolutionnaire (1793-1794), Paris, Le Seuil, 1968, p. 45; trad. it. Movimento popolare e rivoluzione borghese. I sanculotti parigini nell'anno 2, Bari, Laterza, 1959.

la” diventando vagabondi. Così, un'indigenza strutturale considerevole è un tratto incontestabile di questa società. Essa si mantiene in maniera pressapoco costante per diversi secoli, toccando l'insieme dei paesi che allora rappresentano l'Europa “ricca” o “sviluppata”. Ma l'indigenza congiunturale rappresenta una caratteristica parimenti significativa di queste società preindustriali. Per esempio, a Firenze, alla metà del XIV secolo, il numero dei mendicanti, certi anni, poteva quintuplicarsi12. Tutti gli storici dell'assistenza hanno descritto, dappertutto e sulla lunga durata, le città assalite negli anni di “carestia” da nugoli di mendicanti. Richard Gascon ha contato, per la regione lionese, ventinove anni critici fra il 1470 e il 155013. durante i peggiori fra essi, i contadini deprivati affluiscono in città alla ricerca di soccorso. Simultaneamente, poiché il caro-prezzi dei cereali comporta un abbassamento della produzione “industriale” e la disoccupazione, una parte del popolino della città precipita nell'indigenza. Se gli indigenti di Beauvais rappresentano in media il 6% della popolazione, nel dicembre 1693 i curati recensiscono 3.584 “poveri” incapaci di badare a sé stessi su circa 13.000 abitanti, ossia fra un quarto e un terzo della popolazione della città14. Accanto all'indigenza strutturale, una massa consistente di persone vive dunque in una condizione precaria, e basta una situazione congiunturale perché essa scivoli nella dipendenza. Ma “congiunturale” non significa eccezionale, dato che queste crisi di 12 Cfr. Charles-Marie de La Roncière, Pauvres et pauvreté à Florence au XIVe siècle, cit. 13 Cfr. Richard Gascon, Économie et pauvreté, cit. 14 Cfr. Pierre Goubert, Cent Mille Provinciaux au XVIIe siècle, cit., p. 343.

sussistenza sono una costante dell'economia di tali società, e che un adulto, che avesse avuto la fortuna di raggiungere una cinquantina d'anni, doveva averne attraversate parecchie. Qual è la proporzione della popolazione suscettibile di essere più destabilizzata? Essa è ancora più difficile da stabilire per l'indigenza “cronica”. Il raffronto delle annotazioni dei cronisti e di diversi studi monografici, il riscontro di diversi indizi (il conteggio dei fuochi “poveri” o “indigenti”, o quello dei nihil habentes, vale a dire delle famiglie troppo povere per pagare le imposte, o ancora lo studio dei contratti di matrimonio e degli inventari post-mortem, l'esame dei regimi alimentari e dei budget delle famiglie povere, ecc.) permettono di avanzare l'ipotesi che fra un terzo e la metà della popolazione globale, secondo i luoghi e le epoche, si trovi nella situazione di dover vivere quasi “alla giornata”, perpetuamente minacciata di ritrovarsi al di sotto della soglia di risorse che permette una minima autonomia15. Così come non è quella della povertà propriamente detta, la questione qui sollevata non è neanche quella del livello generale di ricchezza di queste società, che può accrescersi mentre una parte consistente della popolazione continua a subire la penuria. Incontestabile, dal XIV al XVIII secolo, le società europee si sono “sviluppate”, la produttività della terra e delle industrie si è accresciuta, il commercio si è arricchito e ha arricchito mercanti e 15 L'opera di Catharina Lis e Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Pre-Industrial Europe, cit., presenta senza dubbio la sintesi più completa dei dati che illustrano questa situazione sulla lunga durata e per l'insieme dell'Europa preindustriale. Cfr. anche Carlo Maria Cipolla, Before the Industrial Revolution. European Society and Economy, 1000-1700, cit., che stima ugualmente a più del 50% il tasso della popolazione europea che si può qualificare come “povera nel senso che non dispone di riserve”.

banchieri, una potente borghesia si è costituita, e una mobilità ascendente ha permesso a certi gruppi di migliorare la propria condizione16. Ma la miseria resta una componente strutturale essenziale di queste formazioni sociali. Una spiegazione neo-malthusiana, in termini di scarsità delle risorse in rapporto al volume delle popolazioni, è insufficiente. Se non furono opulente in rapporto ai criteri contemporanei, queste società non hanno tuttavia dovuto fronteggiare una scarsità generalizzata. È come se la pressione esercitata sui produttori diretti della ricchezza ne avesse seguito l'accrescimento, mantenendoli su una soglia di risorse appena sufficiente ad assicurare loro la sopravvivenza. Se i consumi alimentari e certi elementi dello stile di vita si sono potuti modificare, la situazione economica di un piccolo tenutario normanno del XVII secolo non è certo fondamentalmente differente rispetto a quella del suo omologo del XIV secolo, né lo è la condizione di un follatore fiammingo del Basso Medioevo rispetto a quella dei miserabili delle seterie lionesi nel XVIII secolo. Si è calcolato che, alla vigilia della Rivoluzione, l'88% del budget degli operai parigini più poveri fosse ancora destinato all'acquisto del pane17. L'esistenza di una miseria di massa deriva dunque sia da ragioni sociopolitiche sia da ragioni direttamente economiche; almeno quanto la scarsità dei beni disponibili, è un sistema impie16 Per un'analisi dei meccanismi di questa promozione sociale, cfr. per esempio Jean-Louis Bourgeon, Les Colbert avant Colbert. Destin d'une famille marchande, Paris, PUF, 1973. La riuscita del grande ministro di Luigi XIV è il risultato di una strategia bisecolare di una famiglia di lavoratori e di mercanti della Champagne che ha avuto accesso progressivamente al grande commercio, agli uffici e alle banche. 17 Cfr. Pierre Léon, Économies et sociétés préindustrielles, cit., t. II, p. 376.

toso di salasso che pesa sui produttori diretti a essere responsabile della perennità e dell'ampiezza delle situazioni di penuria. La permanenza di questo sistema di vincoli – la “ferocia della costituzione feudale” – può quindi giustificare il fatto di trattare come una sequenza diversificata ma unica un periodo di quasi cinque secoli. A dispetto di trasformazioni considerevoli, le continuità hanno la meglio sulle differenze quanto agli effetti sulle popolazioni più deprivate di questa organizzazione socio-politica. Il prelievo della rendita fondiaria, la pressione fiscale, i controlli esercitati sui salari possono trasformarsi senza rimettere in discussione il fatto che durante tutto questo periodo, in un'Europa occidentale che è “decollata”, che si è “disincagliata”, per riprendere espressioni di Pierre Chaunu18, un terzo almeno della popolazione europea è rimasto collocato intorno alla soglia dell'indigenza. Tuttavia, verso la fine del XVII secolo e in modo più netto nel corso del XVIII, si opera un cambiamento. Non è facile caratterizzarlo con precisione, se è vero che i parametri oggettivi della miseria sono rimasti pressapoco costanti. L'impresa è tanto più difficile perché voglio proibirmi la faciloneria di parlare di cambiamento della “rappresentazione” o dell'“immagine” della povertà o dei poveri. Tali espressioni non significano gran che e non spiegano nulla, a meno che non le si rapporti ai cambiamenti delle situazioni e delle pratiche. Bisognerà pertanto partire dai discorsi tenuti su queste popolazioni per cercare di cogliere la trasformazione sociale che essi traducono. 18 Cfr. Pierre Chaunu, Histoire, science sociale. La durée, l'espace et l'homme à l'époque moderne, cit.

Ciò che appare nuovo nel discorso sull'indigenza, a partire dalla fine del XVII secolo, è la sua insistenza sul carattere massivo del fenomeno. Non che la conoscenza del fatto che gli indigenti siano numerosi costituisca una novità. La letteratura sulla questione brulica da diversi secoli di descrizioni di “orde” di mendicanti e di vagabondi. Pressoché tutte le regolamentazioni sulla polizia dei poveri – e sono una folla – sono introdotte dalla constatazione dell'accrescimento, talvolta qualificato come “prodigioso”, di queste popolazioni inquietanti che minacciano di sommergere l'ordine costituito. Ma, per quanto siano numerose, per lungo tempo sono state concepite come atipiche. I termini “mendicanti” e “vagabondi” servono a sottolineare questa marginalità. Essi designano delle persone fuori del regime comune, vale a dire anche del regime comune della povertà. Secondo il modello che si è proposto, queste popolazioni occupano due regioni della vita sociale periferiche in rapporto alla zona principale di integrazione. Per quanto numerosi possano essere questi individui – sia gli indigenti, d'altronde reintegrati attraverso l'assistenza, sia i disaffiliati, che restano al di fuori dello spazio sociale –, la loro esistenza altera poco la rappresentazione di una società equilibrata, anche se questa stabilità riposa su una maggioranza di condizioni “mediocri”. L'elemento nuovo, a partire dalla fine del XVII secolo, sembra risiedere nella presa di coscienza di una vulnerabilità di massa, differente dalla coscienza secolare di una povertà di massa. Il carattere inaccettabile della miseria e i rischi di dissociazione sociale che essa comporta cessano allora di essere portati essenzialmente da quegli elementi, tutto sommato marginali, che sono gli assistiti e i disaffiliati. Diventano un rischio che colpisce la condizione laboriosa in quanto tale, vale a dire la

maggioranza del popolo delle città e delle campagne. La questione sociale diventa la questione posta dalla situazione di una parte del popolo in quanto tale, e non solamente dalle sue frange più stigmatizzate. In Francia, questa presa di coscienza sembra essere stata suscitata dalla situazione tragica del paese alla fine del regno di Luigi XIV. Diamo la parola agli intendenti, rappresentanti mandatari dell'apparato di Stato, e a priori poco sospetti di una esagerata mansuetudine nei riguardi del popolo. L'intendente di Normandia scrive nel 1693 al Controllore generale delle Finanze: La miseria e la povertà sono al di là di tutto quello che si può immaginare. […] Un'infinità di gente muore frequentemente di fame. […] Il popolo, che per la maggior parte muore davvero di fame, che non mangia che erbe [si deve temere che] tagli e rovini tutto il grano prima che sia maturo. [E l'intendente aggiunge:] Non crediate, per favore, che io esageri19.

L'intendente di Normandia si inquieta di questa situazione nella zona di Caux, regione agricola. Ma Trudaine, intendente della Generalità di Lione, scrive allo stesso modo, negli stessi anni, al Controllore generale in questi termini: Vi sono nella città di Lione e nei dintorni 20.000 operai che vivono alla giornata; se si smette per otto giorni di 19 Correspondance des contrôleurs généraux des Finances avec les intendants des provinces, 3 voll., Paris, Imprimerie Nationale, 1874-1883, t. I, lettera del 4 maggio 1693, cit. in Philippe Sassier, Du bon usage des pauvres, cit., p. 126.

farli lavorare, la città sarà inondata di poveri che, non riuscendo più a guadagnarsi da vivere, potranno abbandonarsi alle più estreme violenze20.

Trudaine percepisce bene la natura del rischio, quello di uno scivolamento da uno stato in un altro, il passaggio da una povertà che non porrebbe problemi se rimanesse stabilizzata, a una forma di spoliazione totale che può sfociare in un'esplosione di violenza. La maggioranza dei lavoratori è posta su questa linea di frattura. I responsabili dell'ordine pubblico non si preoccupano più, come hanno sempre fatto, soltanto della proliferazione del numero di coloro che non lavorano (i vagabondi e i mendicanti assistiti), ma anche della precarietà della situazione di coloro che lavorano. È forse Vauban, alto funzionario di Stato, ma anche osservatore attento delle disgrazie del popolo e uomo di coraggio (pagherà con la sua disgrazia questa analisi troppo lucida), che offre una prima formulazione chiara di ciò che intendo per vulnerabilità di massa: Da tutte le ricerche che ho condotto nel corso dei diversi anni da quando mi ci applico, ho rilevato molto chiaramente che, in questi ultimi tempi, quasi la decima parte del popolo è ridotta alla mendicità, ed effettivamente mendica, e che, delle nove altre parti, ve ne sono cinque che non sono in grado di fare l'elemosina a quella, perché esse stesse ridotte, pressappoco, in questa miserabile condizione21. 20 Cit. in Jean-Pierre Gutton, La société et les pauvres, cit., p. 94. 21 Sébastien Le Preste de Vauban (Maréchal de France), Projet de dîme royale, cit., p. 3.

Vauban è cosciente che non esiste soluzione di continuità fra la parte del popolo, dell'ordine di un decimo, che è scivolata nell'indigenza totale e la maggioranza vulnerabile di questo stesso popolo, che la precarietà costante delle condizioni di vita mette alla mercé del minimo incidente. Ma Vauban si spinge oltre nell'analisi, riconducendo all'organizzazione del lavoro questa precarietà della condizione popolare. Non sono solo i deboli salari ad affliggere il destino della miseria laboriosa, ma altrettanto l'instabilità dell'impiego, la ricerca di occupazioni provvisorie, l'intermittenza dei tempi di lavoro e di non impiego: In mezzo al popolo minuto, in particolare quello della campagna, vi è un gran numero di persone che, non facendo professione di alcun mestiere in particolare, non smette di svolgerne diversi molto ingrati... Tali sono coloro che si chiamano manovali, la maggior parte dei quali non avendo che le proprie braccia, o ben poche cose oltre a queste, lavora alla giornata, o per ogni impresa, per chiunque li voglia impiegare... [E Vauban riassume così il destino di questo proletario ante litteram:] Esso farà sempre fatica ad arrivare alla fine dell'anno. Dal che è chiaro che, per poco che esso sia sovraccaricato, necessariamente soccomberà22.

Con Vauban è detto tutto l'essenziale. Si può effettivamente, per riprendere la formula di Boisguilbert, “rovinare un povero”, perché la differenza fra la povertà e l'indigenza “è appesa a un filo”23. La vulnerabilità è divenuta una dimensione collettiva del22 Ivi, pp. 77-78. 23 Cfr. infra […].

la condizione popolare. La congiuntura del “tragico XVII secolo” ha senza dubbio reso possibile questo tipo di analisi, ma non spiega tutto. A riprova di ciò vi è il dato che questa coscienza di una vulnerabilità di massa persiste e si manifesta ugualmente quando la situazione economica e sociale migliora. Negli anni 1720-1730, la società francese sembra uscire dal dramma che è stato la fine del regno del “Gran Re”. Decollo demografico, economico e sociale a un tempo. È la fine delle carestie propriamente dette e l'inizio del controllo delle epidemie più terribili (la peste nel Mezzogiorno, durante gli anni Venti del Settecento, è l'ultimo grande attacco del flagello). È insomma la fine di ciò che era stata a partire del Medioevo il grande fattore di riequilibrio economico e demografico: la regolazione attraverso la morte24. Ma ecco il paradosso. Avvio economico, dunque: in certi settori – la finanza e il commercio soprattutto, le industrie in via di concentrazione – il progresso è straordinario e l'espansione giova, benché in modo diseguale, a quasi tutti i gruppi sociali. Ma i salariati sono i soli perdenti nell'affare. Secondo i calcoli effettuati da Ernest Labrousse, dal 1726 al 1789, il salario medio pro24 L'efficacia di questo regolatore secolare è stata attestata alla fine del XVII secolo. Durante l'inverno del 1693, la città di Beauvais conta 3.584 “poveri” che hanno bisogno dell'assistenza per sussistere. La maggioranza fra loro è di operai del tessile senza lavoro o che i l proprio lavoro non nutre più. Ma tredici mesi più tardi i fabbricanti si lamentano della scarsità di manodopera “a causa della mortalità dell'anno precedente”: 3.000 persone, su 13.000 abitanti della città di Beauvais, erano morte in un anno (Pierre Goubert, Cent Mille Provinciaux au XVIIe siècle, cit., p. 343). Marce Lachiver valuta a un picco di quasi un milione e mezzo la sovramortalità (carestie, malattie, epidemie associate) occasionata dalla crisi degli anni 1692-1694, i registri parrocchiali tenuti dai curati riportano spesso delle annotazioni quali “morte per debolezza e di fame”, “morte di fame e di miseria”, “morte di povertà” (Marcel Lachiver, Les années de misère. La famine au temps du Grand Roi, 1680-1720, Paris, Fayard, 1991, pp. 157 sgg.).

gredisce del 26%, ma il costo della vita aumenta del 62%, ossia una diminuzione del reddito dell'ordine di un quarto. Il fatto è che i poveri, non morendo più in massa, continuano a procreare, e diventano così a un tempo più numerosi e più poveri. Il che può anche esprimersi in termini più scientifici: “Un proletariato o un quasi-proletariato senza acquirenti ingombra rapidamente il mercato del lavoro. […] Non vi è dubbio che la rivoluzione demografica del XVIII secolo aggravi considerevolmente la condizione operaia, già cattiva, attraverso la moltiplicazione dell'operaio”25. Così, una pressione demografica che non più auto-regolata attraverso la morte pesa sull'insieme dei lavoratori. Simultaneamente, lo sviluppo degli scambi commerciali, se arricchisce massicciamente i finanzieri e i mercanti, rende i produttori diretti più dipendenti dalle alee di un mercato le cui fluttuazioni si intensificano. Ne risulta che la vulnerabilità di massa si accresce, proprio quando i casi di miseria più estremi sono senza dubbio meno numerosi. Paradosso che Hufton formula così: “La relativa liberazione dai tormenti delle carestie e delle epidemie ha prodotto più poveri di prima”26. Questa situazione non è propria della Francia, anche se la Francia ha pagato al prezzo più caro il trionfo della monarchia assoluta. Per l'Inghilterra, per molti aspetti più favorita e dove le carestie sono state scongiurate prima, lavori recenti hanno confermato i calcoli di Gregory King, che stabilivano che alla fine del XVII secolo tra un quarto e la metà della popolazione viveva

25 Ernest Labrousse, La crise de l'économie française de la fin de l'Ancien Régime au début de la Révolution, Paris, PUF, 1944, t. I, p. XXIX. 26 Olwen H. Hufton, The Poor in the Eighteenth Century France, 17501789, cit., p. 15.

in una situazione prossima all'indigenza 27. Per le Fiandre, Catharina Lis e Hugo Soly attestano parimenti che a quest'epoca “il termine povero diviene quasi sinonimo di lavoratore” 28. La situazione non è più limitata alla città, benché sia senza dubbio nei siti urbani che essa è più risentita. Ma la fiammata dell'artigianato rurale del XVIII secolo è una delle risposte al degrado della congiuntura. Più in generale, Hufton parla per le campagne di una “economia di espedienti” (economy of makeshifts) che deve moltiplicare le “attività annesse”29. Questi “espedienti” o queste “attività annesse” non sono tuttavia accessorie. Essi sono necessari per la sopravvivenza di una maggioranza di lavoratori e delle loro famiglie, mai assicurati sul domani. Che l'“immagine” dell'indigenza non sia più focalizzata solo sul mendicante o sul vagabondo non è dunque un semplice cambiamento di “rappresentazione”. Questo slittamento traduce la concatenazione paradossale di miglioramento/aggravamento della vita delle persone umili alla fine dell'Ancien Régime. Così, soprattutto quando dopo il periodo di espansione economica che è culminato negli anni Sessanta del Settecento, si afferma una recessione30, si moltiplicano le testimonianze di questa presa di co27 Pierre Léon, Économies et sociétés préindustrielles, cit., t. II, p. 90. 28 Catharina Lis, Hugo Soly, Poverty and Capitalism in Pre-Industrial Europe, cit., p. 69. 29 Olwen H. Hufton, The Poor of the Eighteenth Century France, cit., p. 16. L'espressione “attività annesse” è adoperata da Georges Lefebvre, Les paysans du Nord pendant la Révolution, Lille, Marquant, 1924 (n.e. Bari, Laterza, 1959), per designare il fatto di ricorrere all'artigianato rurale, ai lavori presso i contadini più ricchi, all'utilizzazione delle comuni, al bracconaggio, ecc. 30 Sull'ampiezza della recessione che ha segnato la fine dell'Ancien Régime, cfr. la sostanziosa analisi di Ernest Labrousse, La crise de l'économie française de la fin de l'Ancien Régime au début de la Révolution, cit.

scienza della precarietà generale della condizione popolare. Citiamone una sola: È certo che il guadagno di un operaio, per quanto sobrio sia, è troppo limitato perché gli basti tutt'al più a sussistere, e a far sussistere giornalmente la sua famiglia, e quando la debolezza dell'età non gli permette più di lavorare, egli si trova del tutto sprovvisto in mezzo alle infermità inseparabili dalla vecchiaia […]. Non è meno vero che un operaio che ha altre risorse che le sue braccia non può sfamare una famiglia numerosa, pagare i mesi di nutrice di diversi bambini in tenera età, e procurare i soccorsi necessari a sua moglie nei momenti critici in cui essa mette al mondo un nuovo frutto della loro unione, e che spesso, questa sventurata, maledicendo la propria fecondità, muore di bisogno durante un parto difficile, o in seguito a un aborto negligente31.

Ho scelto fra decine di testi questo estratto dal bollettino della Société philanthropique perché, nello stesso anno 1787 nel quale produce questo ritratto lacrimevole ma lucido della condizione operaia, decide di soccorrere 1.100 indigenti. Questi saranno scelti fra gli ottuagenari muniti di un certificato di battesimo, i ciechi dalla nascita, le donne incinte legalmente sposate, le ve31 Cit. in “Calendrier philanthropique”, n. XXXIV, 1787, cit. in Jeffry Kaplow, Les noms des rois, cit., p. 170. Questo calendario è il bollettino della Société philanthropique, fondata nel 1780 con la protezione di Luigi XIV. Di origine franco-massonica, essa raggruppa prima della Rivoluzione numerosissimi dignitari del regime e accoglie anche nel 1789 il conte di Provenza e il Duca di Chartres, i futuri Luigi XVIII e Luigi-Filippo. Essa diverrà d'altra parte durante la Restaurazione un focolaio di legittimismo (cfr. André Gueslin, L'invention de l'économie social. Le XIXe siècle français, Paris, Économica, 1987, pp. 123 sgg.).

dove madri di sei figli di cui il maggiore non deve aver superato i quindici anni32. Mai era apparso con tale evidenza lo scarto tra la maniera in cui si pone ormai la questione sociale e l'assistenza tradizionale, che non dispone di altri rimedi che quello di mobilitare nuovamente le categorie più scalcagnate dell'handicappologia. Si potrebbe dire lo stesso dei tentativi per reprimere il vagabondaggio: non sono i depositi di mendicità o le galere che possono incidere significativamente sulla condizione del popolo. Diviene chiaro, alla vigilia della Rivoluzione, che le frontiere tra le quattro zone – d'integrazione, di vulnerabilità, di assistenza e di disaffiliazione – sono da ricomporre su nuove basi.

2. La libertà del lavoro Parallelamente alla presa di coscienza di una vulnerabilità di massa si produce una trasformazione della concezione del lavoro stesso, che va a toccare profondamente la condizione laboriosa. Il lavoro è riconosciuto come la fonte della ricchezza sociale: “Da molto tempo si cerca la pietra filosofale; ecco, è trovata, si tratta del lavoro”33. La scoperta della necessità del lavoro non risale certo al XVIII secolo. Si radica nella maledizione biblica, e la condanna dell'oziosità è una costante di tutta la predicazione religiosa e morale, almeno per coloro che dipendono da quel tipo di lavoro, che letteralmente “fa sudare” – “guadagnerai il tuo pane col sudore della tua fronte” –, il lavoro manuale. E l'esenzione di cui 32 Jeffry Kaplow, Les noms des rois, cit., p. 171. 33 Roman de Coppans in Les moyens de détruire la mendicité en France, cit., p. 323.

godono gli ordini dominanti, lungi dal rifiutare l'obbligazione del lavoro, ne rinforza la necessità. L'esenzione del lavoro manuale è il privilegio per eccellenza, mentre, al contrario, la costrizione del lavoro è la sola maniera in cui possano affrancarsi dal loro debito sociale tutti coloro che non possiedono nient'altro che la forza delle proprie braccia. Ma che il lavoro sia la legge inaggirabile per il popolo non significa che esso sia l'origine della ricchezza. È piuttosto, fino alla modernità, la contropartita del fatto di trovarsi al di fuori dell'ordine della ricchezza. Questa è stata in effetti innanzitutto pensata sul modello del dono o del prelievo; terra data dal feudatario a un vassallo che gli rende omaggio (l'“infeudamento”), eventualmente trasmessa in un rapporto sociale di dipendenza, fino all'ultimo tenutario, che gliela coltiva, perché non ha nulla da offrire in contropartita al di fuori dello sforzo del proprio corpo. Allo stesso modo, le cariche e gli uffici, concessioni ottriate o acquistate dal potere regale, costituiscono dignità sociali piuttosto che contropartite di un lavoro34. Il commercio, altra grande fonte di ricchezza insieme alla terra e ai privilegi legati alle posizioni pubbliche, è pensato sul modello di uno scambio ineguale secondo il quale il profitto non è la ricompensa diretta di un lavoro produttivo. La ricchezza mercantile nasce da un'operazione di prelievo di cui si crede, fino al mercantilismo incluso, che si compia a detrimento di colui con il quale si commercia. Il grande commercio internazionale, quello delle spezie, delle sete, dello zucchero, del caffè, e anche le esportazioni lontane di prodotti manifatturieri, che è all'origine delle grandi fortune mercantili, mette in generale di fronte dei partner 34 Cfr. François Fourquet, Richesse et puissance. Une généalogie de la valeur, XVIe-XVIIIe siècles, Paris, La Découverte, 1989, cap. II.

ineguali e opera come una forma eufemizzata della conquista. Alla soglia della modernità, lo sfruttamento del Nuovo Mondo illustra nuovamente il fatto che l'acquisizione delle ricchezze riposa su un salasso sistematico delle risorse degli indigeni vinti, agli antipodi di un lavoro produttivo. In queste forme di estrazione della ricchezza che evocano le razzie degli antichi conquistatori nomadi, la parte del lavoro propriamente detto (per esempio, estrarre l'argento dalle miniere del Perù, condurlo fino ai porti, convogliarlo fino a Siviglia) sembra derisorio in rapporto ai favolosi benefici tratti. Esso è per giunta riservato alle persone della condizione più miserevole, come gli indigeni ridotti in semischiavitù. La quantità di lavoro che contiene non può dunque apparire come la fonte del valore di una merce. Il lavoro non intrattiene un rapporto visibile con la ricchezza, e ancora meno la ricchezza con il lavoro: di regola, i più ricchi lavorano meno, o non lavorano del tutto. Il lavoro è al contrario il più delle volte il destino dei poveri e dei piccoli lavoratori ridotti alla necessità di svolgere lavori manuali o coltivare la terra per sopravvivere. È al contempo una necessità economica e un'obbligazione morale per coloro che non hanno niente, l'antidoto all'oziosità, il correttivo ai vizi del popolo. Si inscrive dunque “naturalmente” in schemi disciplinari. Esiste una relazione organica, lo si è già sottolineato, fra lavoro e costrizione. Non che il valore economico del lavoro sia nullo, poiché esso rappresenta il mezzo necessario per sopperire ai bisogni di tutti coloro che non sono socialmente dotati, e si è anche notato che la Chiesa stessa, a partire dal XII secolo, gli riconosce una funzione economica. Ma questa utilità economica non è individuata come una dimensione autonoma del lavoro. La necessità

del lavoro è inscritta in un complesso che si potrebbe chiamare antropologico – indissociabilmente religioso, morale, sociale ed economico –, che definisce la condizione popolare nella sua opposizione alle categorie privilegiate. Questo modello è ancora vivo nel XVI secolo allorché, si dice spesso, il capitalismo moderno comincia a spiccare il volo. Così Juan Luis Vives, al quale si riconosce di frequente il merito di aver importato le esigenze del capitalismo nel vecchio mondo dell'assistenza “medievale” dominata dai valori religiosi, vuole effettivamente far lavorare tutti gli indigenti, ivi compresi gli invalidi, ma soprattutto affinché “occupati e dediti al lavoro, reprimano i pensieri e le occupazioni cattive che nascerebbero nell'inattività” 35. Il lavoro, come gli esercizi religiosi ai quali è sempre associato negli stabilimenti di lavoro forzato, vale almeno tanto per le sue capacità moralizzatrici quanto per la sua utilità economica. L'esempio-limite di questa funzione disciplinare del lavoro è fornito dal Rasphaus di Amsterdam, fondato alla fine del XVI secolo in estensione delle politiche municipali di cui si sottolinea generalmente il carattere “borghese” e razionale. Gli oziosi recalcitranti sono internati in una cantina inondata e devono pompare freneticamente l'acqua per evitare l'annegamento: valore redentore massimale del lavoro per un beneficio economico nullo36. 35 Juan Luis Vives [Joannes Ludovicus], De subventione pauperum sive de humanis necessitatibus, cit. 36 Questa attitudine sopravviverà al trionfo del capitalismo industriale. Nel XIX secolo, si chiamano in Irlanda “torri della fame” degli edifici che dovevano costruire, poi demolire, gli indigenti beneficiari di distribuzioni di patate: “Piuttosto che distribuire le patate gratuitamente, si pretese da essi un lavoro per avervi diritto. Non se ne trovava: allora si fecero costruire loro delle torri in aperta campagna. Queste inutili torri furono chiamate torri della carestia. E siccome le torri della carestia furono erette prima che la carestia cessasse, si incaricarono i disoccupati

Il mercantilismo segna una tappa nella presa di coscienza del valore del lavoro, ma questo resta ancora avvolto nel modello disciplinare. Attraverso la sua preoccupazione di ottimizzare tutte le risorse del Regno, il mercantilismo è portato a mobilitare anche tutta la sua forza-lavoro. Le potenzialità inimpiegate degli oziosi rappresentano da questo punto di vista uno scandalo al quale bisogna metter fine. Ma se il lavoro diventa così un valore essenziale, ivi compreso per la sua utilità economica, lo è in quanto strumento per realizzare l'esigenza politica di porre il Regno in una posizione di forza rispetto alla concorrenza internazionale che si gioca sul piano commerciale (la politica industriale è un mezzo al servizio della politica commerciale, essa stessa subordinata all'imperativo regio di accrescere la potenza del Regno). Il lavoro non ha sempre la propria giustificazione in sé. Si comprende, quindi, come il produttivismo mercantilista si coniughi perfettamente con la concezione religiosa del lavoro come riscatto, e con la concezione morale della necessità di lavorare per combattere le cattive inclinazioni della natura umana, e questo sempre sotto l'egida del lavoro forzato. Negli Ospedali generali, nelle manifatture reali o nelle manifatture appositamente previste per i poveri, il massimo rendimento del lavoro sarà ottenuto attraverso un rigoroso inquadramento e una disciplina di ferro, mentre gli esercizi religiosi scandiscono le operazioni tecniche. Per promuovere il lavoro, il mercantilismo riattiva i poteri disciplinari dello spazio chiuso, come rafforza parallelamente l'influenza delle regolamentazioni corporative.

di demolirle” (Jacques Duboin, L'économie distributive s'impose, Paris, Lecdis, 1950, p. 81).

Che si tratti di mercantilismo o di forme anteriori di regolazione del lavoro attraverso imperativi morali o religiosi, il valore economico del lavoro è, in tal modo, sempre subordinato ad altre esigenze. Ne risulta che il lavoro non saprebbe svilupparsi “liberamente”. Bisogna sempre inquadrarlo attraverso sistemi esterni di costrizioni. È solamente col liberalismo che la rappresentazione del lavoro sarà “liberata”, e si imporrà l'imperativo della libertà del lavoro. Hannah Arendt riassume così le principali tappe di questa promozione della concezione moderna del lavoro: L'ascesa improvvisa, spettacolare del lavoro, che passa dall'ultimo rango, dalla situazione più disprezzata, al posto d'onore e che diviene la meglio considerata delle attività umane, cominciò quando Locke scoprì nel lavoro la fonte di ogni proprietà; essa proseguì quando Adam Smith affermò che il lavoro è la fonte di ogni ricchezza; trovò il suo punto culminante nel “sistema del lavoro” di Marx, in cui il lavoro divenne la fonte di ogni produttività e l'espressione dell'umanità stessa dell'uomo37.

In seno a questa trilogia, Adam Smith occupa una posizione strategica: Cosi, il valore di un prodotto qualunque, per colui che lo possiede e non intende usufruirne o consumarlo egli stesso, ma che ha intenzione di scambiarlo con qualcos'altro, è uguale alla quantità di lavoro che questo pro37 Hannah Arendt, Condition de l'homme moderne, Paris, Calmann-Lévy, 1983, pp. 114-115; trad. it. Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2017.

dotto lo mette in condizioni di acquistare o di ordinare. Il lavoro di conseguenza è la misura reale del valore di scambio di tutte le merci […]. Non è affatto con dell'oro o dell'argento, ma con del lavoro, che le ricchezze del mondo sono state originariamente acquistate38.

Certo, questa posizione non è esente da una certa ambiguità. Adam Smith fa della quantità di lavoro il fondamento del valore di scambio di un prodotto, senza arrivare a dire, come farà Marx, che questa quantità di lavoro costituisce veramente ed esclusivamente il valore di ogni prodotto39. Ma il fatto è che – come Locke si interessa meno al lavoro in sé stesso che al fondamento della proprietà privata – Smith vuole fondare l'esistenza di un mercato che permetta la libera circolazione delle merci e l'accumulazione senza limite di ricchezze. Per costituire un tale mercato, bisogna che i prodotti del lavoro vi si scambino in funzione del loro costo. Lo scambio promuove allora il giusto equilibrio degli interessi tra le parti, cessa di essere uno scambio ineguale in cui uno deve prevalere sull'altro, ma a condizione che questo sia un libero mercato sul quale i prodotti si scambino in funzione del lavoro valore-lavoro, esso stesso prodotto da un lavoro libero. “L'utilità dell'industria attiene essenzialmente alla libertà, e senza questa libertà non solo questa stessa utilità svanirebbe, ma addirittura degenererebbe in monopoli e sarebbe rimpiazzata da disordini 38 Adam Smith, Recherches sur la nature et les causes de la richesse des nations, Paris, Flammarion, 1991; trad. it. La ricchezza delle nazioni, Torino, UTET, 2013. 39 Per una discussione su questo punto, cfr. Louis Dumont, Homo aequalis 1. Genèse et épanouissement de la logique économique, Paris, Gallimard, 1976; trad. it. Homo aequalis 1. Genesi e trionfo dell'ideologia economica, Milano, Adelphi, 1984.

donde la rovina dello Stato sarebbe un effetto necessario” 40. I monopoli rompono al contempo la libera circolazione dei prodotti e il libero dispiegamento delle condizioni della loro produzione. Essi si costituiscono in feudalità privilegiate che captano ricchezze e impongono scambi ineguali. È con uno stesso movimento che viene affermato il valore del lavoro come metro della ricchezza e che lo scambio economico è posto come il fondamento di un ordine sociale stabile che assicura l'equilibrio degli interessi tra le parti. Adam Smith vuole fondare l'economia politica a partire dalla libertà degli scambi sul mercato. Ma la realizzazione di questa libertà degli scambi suppone la libertà del lavoro, e dunque la liberalizzazione del lavoro operaio: La più sacra e la più inviolabile di tutte le proprietà è quella della propria industriosità [per il lavoratore], perché essa è nella forza e nell'abilità delle sue mani; e impedirgli di impiegare questa forza e quest'abilità nella 40 François Quesnay, Ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, Paris, s.e., 1767 [sic. In realtà Pierre-Paul-François-Joachim-Henri Le Mercier de La Rivière, Ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, Paris-London, Desiant-Nourse, 1767], cit. in Fernand Braudel, Ernest Labrousse, Histoire économique et sociale de la France, cit., p. 225. Non si può discutere qui delle relazioni tra il liberalismo economico di Adam Smith e la posizione dei Fisiocrati. Soltanto interessa per il presente discorso il fatto che, a dispetto del loro attaccamento alla terra come fondamento reale della ricchezza, questi ultimi sono dei partigiani accaniti della libertà degli scambi (“Libertà, libertà totale, immunità perfetta, ecco dunque la legge fondamentale”, dice l'abate Bandeau nel Journal de l'agriculture) e del valore eminente del lavoro come mediazione necessaria per valorizzare la terra: “Il lavoro agricolo rende i costi avanzati, paga il lavoro manuale avanzato nella coltivazione e in più produce la rendita della proprietà fondiaria” (François Quesnay, articolo Grains, in Encyclopédie, cit., t. VII, p. 813). Così, a dispetto di alcune divergenze dottrinali, i Fisiocrati e i primi liberali sono ugualmente determinati nella lotta che li oppone ai monopoli e ai privilegi.

maniera che egli giudica più conveniente, intanto che non arreca danno a nessuno, è una violazione manifesta di questa proprietà primitiva. È un'usurpazione lampante della libertà legittima, tanto dell'operaio che di coloro che sarebbero disposti a offrirgli un lavoro41.

La vera scoperta che promuove il XVIII secolo non è dunque quella della necessità del lavoro, ma quella della necessità della libertà del lavoro. Essa implica la distruzione delle due forme di organizzazione del lavoro fino ad allora dominanti, il lavoro regolato e il lavoro forzato. L'opera di Turgot è a questo riguardo esemplare. Egli è colui che, nel breve periodo in cui Luigi XIV parve rassegnarsi a lasciargli l'iniziativa, tentò di sopprimere a un tempo le giurande, i depositi di mendicità e anche le sopravvivenze della corvée. Ma prima ancora, nella voce Fondation dell'Encyclopédie, aveva svelato la filosofia delle sue imprese. Egli mette in evidenza, in questa occasione, l'essenza della filosofia politica del liberalismo, che ridefinisce completamente le funzioni dello Stato: “Ciò che lo Stato deve a ciascuno dei suoi membri, è la distruzione degli ostacoli che li intralcerebbero nella loro industria o che li turberebbero nel godimento dei prodotti che ne sono la ricompensa”42. Uno Stato minimo deve accontentarsi di sopprimere gli intralci al mercato e garantire che coloro che si dedicano liberamente alla loro industria non siano spogliati dei propri benefici. Come per Adam Smith, l'interesse è per Turgot il 41 Adam Smith, Recherches sur la nature et les causes de la richesse des nations, cit., p. 252, cit. in Pierre Rosanvallon, Le capitalisme utopique, cit., p. 104. 42 Anne Robert Jacques Turgot, “Edit portant suppression des jurandes et communautés de commerce, arts et métiers”, in Athanase-Jean-Léger Jourdan, Decrusy, François André Isambert, Recueil général des anciennes lois françaises, cit., t. XXIII, p. 372.

vero regolatore capace di dinamizzare la società. Il ruolo dello Stato è di garantire che questo gioco degli interessi possa liberamente esprimersi: “Gli uomini sono fortemente interessati al bene che voi volete loro procurare, lasciateli fare: ecco il grande, l'unico principio. Vi sembrano dedicarvisi con meno ardore di quanto voi desideriate? Aumentate il loro interesse”43. Per realizzare questi obiettivi, vi sono due ostacoli principali da abbattere. Le fondazioni e gli ospedali, istituzioni caritatevoli incaricate di assistere gli indigenti e, in alcuni casi, di obbligarli a lavorare, sono alla fine dell'Ancien Régime completamente prive di considerazione da parte di tutti gli adepti dei Lumi 44. Ma questi stabilimenti non sono solamente divenuti luoghi di spaventi in cui regna, in seno alla miseria, alla promiscuità e allo sporco, l'arbitrio di un potere senza controllo. Queste istituzioni chiuse rappresentano un crimine contro i nuovi princìpi dell'economia liberale, almeno quanto uno scandalo morale e politico. Non ci si accontenta di maltrattarvi i poveri, ma si sterilizza la ricchezza potenziale che essi rappresentano, perché si annulla la loro forza-lavoro. Montlinot è senza dubbio colui che ha dato la formulazione più lucida di questa nuova sensibilità. Non si accontenta di 43 Ivi, p. 54. 44 Cfr. per esempio Victor Riqueti marquis de Mirabeau, L'ami des hommes ou Traité de la population, 3 voll., s.e., Avignon, 1764, t. II, p. 349; trad. it. L'amico degli uomini ovvero trattato della popolazione, 3 voll., Siena, nella stessa stamperia d'Alessandro Mucci, 1783, e Dominique-Antoine Tellès-D'Acosta, Plan général d'hospices royaux ayant pour objet de former dans la ville et fauxbourgs de Paris des établissements pour six milles pauvres malades, Paris, rue des Francs-Bourgeois, 1789, p. 4: “I nomi di ospedale e di hôtel-Dieu sono divenuti avvilenti e non servono che ad allontanare attraverso un sentimento naturale tutti i soggetti che hanno maggior bisogno di un soccorso e di assistenza”.

esprimere, come tutti gli spiriti progrediti dell'epoca, la sua opposizione al lavoro forzato. La ragione che fornisce della propria ostilità all'internamento è singolarmente profonda: Ogni nuova fabbrica che non sia il frutto dell'industria e che non abbia come guida l'interesse personale non può riuscire: è l'emulazione, è il desiderio di una sorte migliore che trasporta, per quanto lentamente, tutte le arti, tutti i mestieri da un polo all'altro; ora io mi chiedo quale coraggio, quale industria ci si possa aspettare da una torma di uomini ai quali non si offre che il pane del dolore, e che nessun talento può rendere più ricchi o più onorati45.

Tutta l'ideologia “liberale” è contenuta in poche righe: la libertà del lavoro deve liberare anche l'iniziativa privata, il gusto del rischio e dello sforzo, il senso della competizione. Il desiderio di migliorare la propria condizione è un motore di cui l'industria non può fare a meno. Si è agli antipodi della concezione tradizionale nella quale la norma sociale è iscriversi in un ordine fisso ed esserne soddisfatti. La rottura con la società degli ordini, degli status, degli stati, retta dalle tutele, è totale. Ma alla cerniera fra i due mondi, è una nuova definizione del lavoro che si impone e permette l'avvento di un nuovo regime, opposto all'Ancien Régime.

45 Charles-Antoine-Joseph Leclerc de Montlinot, Discours qui a remporté le prix à la Société royale d'agriculture de Soissons, en l'année 1779... Quels sont les moyens de détruire la mendicité, de rendre les pauvres utiles et de les secourir dans la ville de Soissons, Lille, chez C.F.J. Lehoucq, 1779, p. 18.

In virtù di questi principi, Turgot decide dunque nel 1776 l'abolizione dei depositi di mendicità, che perpetuano la tradizione del lavoro forzato (senza molto successo, poiché sono riaperti subito dopo la sua caduta in disgrazia). Ma la seconda faccia della stessa politica, la soppressione del lavoro regolato, delle giurande, tentata lo stesso anno, è di ancora maggior ampiezza. Questa soppressione deve conciliare le esigenze del diritto naturale con quelle dell'efficacia economica. Come per Montlinot, le regolazioni tradizionali del lavoro sono percepite da Turgot come altrettanti freni alla espansione di ciò che è al principio della produzione, la dinamica di un soggetto libero di ricercare il proprio interesse: “Noi vogliamo abrogare le istituzioni arbitrarie che non permettono all'indigente di vivere del suo lavoro […] che soffocano l'emulazione e l'industria”46. Il fondamento di queste misure è l'affermazione solenne di un vero proprio diritto al lavoro: “Dio, donando all'uomo dei bisogni, rendendogli necessaria la risorsa del lavoro, ha fatto del diritto di lavorare la proprietà di ogni uomo, e questa proprietà è la più sacra e la più imprescrittibile di tutte” 47. Turgot è pienamente consapevole delle enormi conseguenze della parola d'ordine del diritto al lavoro, che alimenterà le lotte sociali più dure nel corso del XIX secolo? Senza dubbio no. Ma opera già un capovolgimento rivoluzionario fondando la necessità di lavorare nella natura e non nella società. La libertà del lavoro ha la legittimità 46 Ivi, p. 4. 47 Ivi, p. 375. Adam Smith dichiara ugualmente, nel quadro della sua critica dello Statuto degli artigiani del 1563: “La più sacra e la più inviolabile di tutte le proprietà è quella della propria industria”, che egli chiama anche “proprietà primitiva”, in Recherches sur la nature et les causes de la richesse des nations, cit., p. 252, cit. in Pierre Rosanvallon, Le capitalisme utopique, cit., p. 104.

in una legge naturale, mentre le forme storiche della sua organizzazione sono contingenti. Ne consegue che, poiché queste forme sono state fino al tempo presente poste sotto il registro della costrizione, sono arbitrarie e dispotiche. La storia ha sviato un'esigenza razionale, perché naturale, imponendo “l'interesse particolare contro l'interesse della società”. La società storicamente organizzata sulla base di privilegi è particolarista. Essa ha legittimato corpi intermedi ispirati dallo spirito di monopolio. È urgente abolire questa eredità del vecchio mondo per lasciar giocare le leggi naturali. Il libero accesso al lavoro, l'istituzione di un libero mercato del lavoro, segnano l'avvento di un mondo sociale razionale attraverso la distruzione dell'ordine sociale arbitrario dell'antica società48. Questa restituzione della libertà fondata in diritto naturale presenta nello stesso tempo il vantaggio di coincidere con gli interessi concreti dei gruppi la cui attività è socialmente utile (e non parassitaria, come lo sono i portatori di privilegi). Si tratta in primo luogo delle due categorie dei datori di lavoro e degli impiegati, le cui posizioni appaiono da questo punto di vista complementari, prima di rivelarsi antagoniste. Gli operai hanno assolutamente bisogno di lavorare, è per loro una questione di sopravvivenza: “Noi dobbiamo soprattutto protezione a questa classe di uomini che, non avendo di proprietà che il loro lavoro, hanno tanto più bisogno e diritto di impiegare nella loro ampiezza le sole risorse che essi abbiano per sussistere”49. Ma i datori di lavo48 Su questa concezione della storia come fonte di irrazionalità in opposizione all'ordine naturale e razionale della società, cfr. Giovanna Procacci, Gouverner la misère. La question sociale en France (1789-1848), Paris, Le Seuil, 1993, cap. I; ed. it. Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, cit. 49 Anne Robert Jacques Turgot, “Edit portant sur la suppression des ju-

ro hanno altrettanto bisogno di disporre liberamente di tutta la forza-lavoro disponibile per sviluppare le loro imprese: “Tutte le classi di cittadini sono private del diritto di scegliere gli operai che vorrebbero impiegare, dei vantaggi che offrirebbe loro la concorrenza per il prezzo più basso e la perfezione del lavoro”50. Si sospetta che questa complementarietà apparente degli interessi non significhi necessariamente la reciprocità totale dei vantaggi che impiegati e datori di lavoro trarrebbero dallo stabilire la libertà del lavoro. Nondimeno, lasciare gli interessi differenti completarsi o affrontarsi faccia a faccia, senza mediazione, costituisce la condizione principale della trasformazione fondamentale dell'organizzazione del lavoro che bisogna instaurare. Seguiranno le conseguenze, che non sono ancora tutte deducibili dal principio. Ma già il fatto che la ricchezza sia prodotta dal lavoro e massimizzata dalla libertà del lavoro è suscettibile di provocare un profondo mutamento di attitudine nei riguardi della massa, generalmente miserabile e disprezzata, che costituisce la forza-lavoro di una nazione. Il fatto è che la ricchezza di questa nazione dipende ormai dall'impiego razionale di questa forza-lavoro. Anche se povero, il lavoratore è ricco della sua capacità di lavorare, che gli è sufficiente far fruttare. Come aveva anticipato il mercantilismo, la vera politica di uno Stato dovrebbe consistere nello sviluppare al massimo la capacità di lavoro della sua popolazione. Ma alla constatazione della generale utilità sociale del lavoro è ora possibile aggiungere una precisazione essenziale che riguarda il trattamento dei lavoratori. Il mercantilismo aveva racrandes”, cit., p. 376. 50 Ibidem.

chiuso la sua scoperta in una strumentalizzazione dirigista e repressiva della massa al lavoro che lo rendeva controproducente. Alla vigilia della Rivoluzione, un autore, il cui nome avrebbe meritato di passare alla posterità, esprime in tutta la sua forza la nuova strategia da adottare nei confronti del popolo lavoratore: Se ogni godimento sociale è fondato sul lavoro, è indispensabile, per l'interesse della classe che ne gode, vegliare sulla conservazione della classe laboriosa. C'è un bisogno, senza dubbio, di prevenire il disordine e i malesseri della società. Ve ne è uno di vigilare sulla conservazione di questo immenso e prezioso vivaio di soggetti destinati a lavorare i nostri campi, a trasportare le nostre derrate, a popolare le nostre manifatture e i nostri laboratori51.

Si vede in questo testo frazionarsi l'attitudine nei riguardi delle popolazioni laboriose. La vecchia postura repressiva non è 51 Claude-Philibert Coquéau, Essai sur l'établissement des hôpitaux dans les grandes villes, par l'auteur du Mémoire sur la nécéssité de transférer & reconstruire l'Hôtel-Dieu, Paris, Imprimerie Ph.-D. Pierres, 1787, p. 142. Questa esigenza si impone tanto più perché il XVIII secolo ha vissuto sulla credenza molto diffusa di una diminuzione della popolazione. Cfr. per esempio Quesnay, articolo Population dell'Encyclopédie, o Montesquieu: “Secondo un calcolo tanto preciso quanto può esserlo in questo genere di cose, vi sono all'epoca dieci volte meno uomini di un tempo […]. Ciò che vi è di sorprendente è che esso [il pianeta] si spopola ogni giorno, e se ciò continua, in dieci secoli esso, esso non sarà più che un deserto” (Charles-Louis de Secondat Baron de la Brède et de Montesquieu, Lettres persianes, Paris, Garnier, 1950, lettera 112; trad. it. Lettere persiane, Milano, BUR, 2009). Lo stesso Montesquieu è l'autore della celebre frase: “Un uomo non è povero perché non ha niente, ma perché non lavora” (Id., De l'esprit des lois, Paris, Gallimard, 1995; trad. it. Lo spirito delle leggi, Milano, BUR, 2013). Si capisce che questa duplice presa di coscienza del valore del lavoro e della rarità dei lavoratori cospira a fare del lavoro la ricchezza per eccellenza.

ricusata. Sovrasta sempre il paesaggio per fronteggiare i pericoli ai quali l'eccesso della miseria può condurre coloro che non hanno più niente da perdere. Ma per la maggioranza dei poveri – la maggioranza della popolazione –, l'immagine del vivaio assume ormai pieno senso. Le categorie laboriose rappresentano una massa da mantenere con cura, da coltivare nel senso proprio del termine, cioè da lavorare per farla lavorare, al fine di far crescere e raccogliere ciò di cui il lavoro è portatore: la ricchezza sociale. La popolazione è davvero la fonte della ricchezza delle nazioni, ma a condizione, evidentemente, che lavori52. Ciò nell'“interesse della classe che ne gode”. Si è qui ben al di là degli sfoghi sentimentali della filantropia assistenziale come dell'attitudine secolare che consisteva nel fare della messa al lavoro degli indigenti oziosi una questione di polizia. Le pratiche assistenziali riguardavano categorie molto particolari di indigenti, essenzialmente coloro che non potevano lavorare. Il problema ora posto è quello della situazione della massa del popolo, e impone una nuova organizzazione d'insieme del lavoro. Le lezioni dell'economia, e non le inclinazioni del cuore, conducono a rivolgere sugli sventurati uno sguardo nuovo: l'interesse ben compreso della collettività nazionale, e in primo luogo dei possidenti, esige imperiosamente che si instauri una politica nuova nei riguardi delle masse svantaggiate. L'assistenza e anche il suo ro52 Questo è anche il momento nel quale si afferma una volontà di “conservazione dei bambini” e di presa in carico dei bambini abbandonati perseguendo il medesimo obiettivo di “popolare il regno” (cfr. Mireille Laget, Note sur les réanimations des nouveaux-nés, in “Annales de démographie historique”, 1983, pp. 65-72). Per un punto di vista d'insieme sulla politica nei riguardi dei bambini abbandonati, cfr. Bernard Assicot, L'abandon d'enfant, étude de sociologie, thèse pour le doctorat de sociologie, Université Paris VIII, 1993.

vescio, la repressione, sono superate come posizioni privilegiate da promuovere nei riguardi degli sventurati. Certamente, l'attitudine della “classe che ne gode” non è omogenea di fronte a tale questione. La filantropia è alla moda nei salotti e a Corte. Soprattutto, la politica ufficiale prolunga le regolamentazioni secolari che reprimono il vagabondaggio e la mendicità. Si è sottolineato che la grande ordinanza del 1764 e la maniera in cui essa è stata applicata non facevano che sistematizzare le più antiche ricette. Questa fu pertanto la politica dominante della regalità fino alla sua caduta. Ma Turgot, che esprime la nuova attitudine, non è tuttavia un personaggio marginale. Durante il suo breve passaggio al potere, in quanto Controllore generale delle Finanze, fa vacillare i due principali pilastri sui quali riposava l'organizzazione tradizionale del lavoro, le giurande e le istituzioni di lavoro forzato. Sconfessandolo, l'Ancien Régime si è forse lasciato sfuggire l'occasione di un'opzione “riformista”. È dunque chiaro che due piani di governamentalità si affrontano sulle questioni collegate dell'indigenza, del lavoro, della mendicità e del vagabondaggio. Essi non hanno, tuttavia, la stessa portata. La presa di coscienza associata a una vulnerabilità di massa e all'eminente valore del lavoro, in quanto produttore della ricchezza sociale, discredita le politiche tradizionali di distribuzione dei soccorsi e del lavoro forzato, e va ad accantonarle in un ruolo secondario. Per una ragione di fondo: perché esse non possono agire che sui margini della questione sociale, sulle zone dell'assistenza e della disaffiliazione, a costo di volersi dare un ruolo dissuasivo più ampio, ma la cui efficacia si rivela assai

dubbia. Se è vero, per contro, che il lavoro si trova al cuore di questi problemi, perché la miseria o la vulnerabilità di massa provengono per una parte importante dalla sua organizzazione profondamente difettosa, allora la questione sociale può formularsi come la questione della riorganizzazione del lavoro. La parola d'ordine del libero accesso al lavoro supera il carattere settoriale delle diverse misure che si applicano a categorie particolari della popolazione: mendicanti, vagabondi, anziani indigenti, bambini abbandonati, ecc. Riguardando l'insieme delle popolazioni laboriose, esso può avere un effetto diretto sulla vulnerabilità di massa, in particolare sulla condizione dei salariati. Il libero accesso al lavoro è un obiettivo di politica generale che deve trainare una riforma strutturale della società di Ancien Régime. Si capisce quanto abbia obbedito a questa parola d'ordine quel che di “progressista” questa politica comporta. Un giudizio di Tawney esprime esattamente un tale impeto condiviso da tutti questi uomini, e che fa di loro dei liberali per eccellenza: “Il grande nemico dell'epoca era il monopolio; il grido di guerra in nome del quale gli uomini dei Lumi combattevano era l'abolizione dei privilegi; il loro ideale era una società nella quale ogni uomo sarebbe stato libero di accedere alle opportunità economiche di cui poteva disporre, e di godere delle ricchezze che i suoi sforzi potevano creare”53. La liberalizzazione del lavoro rappresentava il tassello essenziale per la realizzazione di questo programma 54. 53 Richard Henry Tawney, The Acquisitive Society, London, Collins, 1961. 54 Questo non significa evidentemente né che il libero accesso al lavoro sia la sola riforma pensabile, né che la sua portata sia universale. Riguardante innanzitutto i salariati (ecco perché la sua importanza è stata qui particolarmente sottolineata), esso non avrà un grande impatto sulla miseria contadina. Ma la soppressione dei diritti feudali la notte del 4 agosto non è priva di relazione con l'abolizione delle regolamenta-

Ci si può certo interrogare, come fa la storiografia recente, sull'esattezza di questa rappresentazione in rapporto alla organizzazione effettiva del lavoro, che si è vista riuscire ad arginare in larga misura i vincoli tradizionali 55. Come lo era stato il vagabondaggio – e come lo sarà presto il pauperismo –, il bersaglio forgiato dai primi liberali di un lavoro interamente dominati dai privilegi e i monopoli è una costruzione sociale che distorce senza dubbio la diversità già grande dei rapporti concreti di lavoro. Ma se essa ha avuto un tale impatto rivoluzionario, è perché si inscrive nel quadro della trasformazione essenziale che sconvolge nel XVIII secolo la concezione del fondamento stesso dell'ordine sociale. Per il pensiero dei Lumi, la società cessa di essere riferita a un ordine trascendente, trova in sé il principio della propria organizzazione. Ora, il mercato e il contratto sono gli operatori di questo passaggio da un fondamento trascendente all'immanenza della società in sé stessa. Il ricorso al contratto – il contratto sociale di Rousseau, fondamento dell'ordine sociale prodotto dalla sola volontà dei cittadini – significa che sono i soggetti sociali che si auto-istituiscono in collettivo in luogo di essere sovrastati da una Volontà esteriore che li comanda dall'alto. Esso segna così, dice Marcel Gauchet, “l'emancipazione della società dallo schema zioni del lavoro con la legge Le Chapelier: l'una e l'altra misura sopprimono dei privilegi qualificati come arcaici e rendono l'una la terra, l'altra il lavoro disponibili per un libero sfruttamento. La riforma fiscale è un'altra opzione. Preconizzando una tassazione proporzionale ai redditi, la decima regale, invece di una fiscalità pesante soprattutto sui meno ricchi, Vauban voleva anche combattere la miseria di massa. Ma questo progetto e altri tentativi di riforma fiscale elaborati nel XVIII secolo si sono scontrati con la stessa opposizione della parte dei privilegiati di quelli concernenti il lavoro e la terra. 55 Cfr. Michael Sonenscher, Work and Wages, Natural Laws, Politics and the Eighteenth-Century French Trades, cit.

della subordinazione”56. Pressappoco simultaneamente, Adam Smith scopre la preponderanza del mercato, “principio autonomo di coesione del sociale indipendente dalla volontà degli individui e funzionante rigorosamente a loro insaputa in maniera da riunirli”57. Così imporre il nuovo abbinamento contratto di lavoro-libero accesso al mercato, contro l'antico abbinamento tutele corporative-monopoli commerciali traduce, sul piano particolare dell'organizzazione della produzione e del commercio, l'impostazione generale di affrancamento nei riguardi di un sistema di vincoli fondato sulla subordinazione dei soggetti in rapporto al Tutto – Dio, o il suo rappresentante qui già, il Re – e il loro incastro in una gerarchia di ordini, di status, di statuti che sono l'eredità, in seno alla modernità che trionferà, della vecchia società ancora “olistica”58. Come, al di là anche degli interessi propriamente economici, una simile lotta non avrebbe potuto riunire tutto il campo dei Lumi?

3. “Un debito inviolabile e sacro” Nel momento in cui l'Ancien Régime vacilla, un testo di una lucidità sorprendente sintetizza tutto il movimento di idee che si 56 Marcel Gauchet, De l'avènement de l'individu à la découverte de la société, in “Annales ESC”, n. 3, 1979, p. 463. 57 Ibidem. Secondo Gauchet il mercato, più che il contratto, compie la rottura rispetto a un fondamento trascendente dell'ordine sociale, perché fa economia di ogni riferimento a una coscienza o a una volontà. 58 Cfr. in Louis Dumont, Homo aequalis, cit., l'analisi del ruolo giocato dal mercato per la distruzione delle norme olistiche e la promozione di una società di individui.

è tentato di ricostruire. I Procès Verbaux et rapports du Comité pour l'extinction de la mendicité de l'Assemblée constituante 59 chiarificano le opzioni del vecchio sistema e tracciano per i Tempi moderni un programma di insieme di distribuzione dei soccorsi e di organizzazione del lavoro. Chiarificazione di un movimento secolare in primis: Considerando questa lunga serie di leggi [l'insieme dei regolamenti sul vagabondaggio e la mendicità] ci si accorge che esse erano principalmente dirette contro i mendicanti che la miseria obbliga a essere dei vagabondi. L'amministrazione, quasi sempre impotente nell'offrire del lavoro al popolo, non aveva altra risorsa che ammassare negli ospedali una miseria importuna o armare la legge di rigore per rinchiudere tutti coloro che infastidivano la società60.

Ciò che il vecchio sistema di governo non ha compreso, è che l'indigente poneva fondamentalmente un problema di diritto: “Si è sempre pensato di fare la carità ai poveri, ma mai a far valere i 59 Edizione a cura di Camille Bloch, Alexandre Tuetey, Paris, Imprimerie nationale, 1911. Messo in piedi dall'Assemblea Costituente e presieduto dal duca di La Rochefoucauld-Liancourt, il Comitato per l'estinzione della mendicità diverrà il Comité de secours public sotto l'Assemblea legislativa e la Convenzione: anche per il vocabolario si è passati dall'Ancien Régime ai Tempi moderni. Ma i lavori del Comitato dell'Assemblea Costituente sono, di molto, i più densi e più originali, e sono essi che ispirano direttamente l'opera legislativa della Convenzione. Prova che in questo campo almeno l'opposizione di un periodo “moderato” e di un periodo “radicale” della Rivoluzione non ha grande pertinenza: la Convenzione montagnarda ha per l'essenziale interinato la politica preconizzata dagli inizi della Rivoluzione. 60 Camille Bloch, Alexandre Tuetey, Procès Verbaux, cit., “Deuxieme Rapport”, p. 353.

diritti dell'uomo povero sulla società, e quelli della società su di lui”61. Così si sono al meglio gestiti i soccorsi per gli sventurati più meritevoli: parallelamente, si reprimevano come criminali tutti coloro che una cattiva amministrazione lasciava privi di risorse, e innanzitutto di lavoro. Duplice maniera, attraverso l'assistenza condiscendente o attraverso misure di polizia, di staccare la questione della miseria da una riflessione sulla cittadinanza: “Nessuno Stato ha preso in considerazione i poveri nella Costituzione”62. In luogo degli antichi errori, un principio semplice, ma di portata universale, permette di ricostruire su basi solide il doppio edificio della distribuzione dei soccorsi e della riorganizzazione del lavoro: Ogni uomo ha diritto alla propria sussistenza: questa verità fondamentale di ogni società, e che reclama imperiosamente un posto nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo, è parsa al Comitato essere la base di ogni legge, di ogni istituzione politica che si proponga di estinguere la mendicità. Così, avendo ogni uomo diritto alla propria assistenza, la società deve provvedere alla sussistenza di tutti quanti fra i suoi membri potranno mancarne, e questa caritatevole assistenza non deve essere guardata come un beneficio; essa è, senza dubbio, il bisogno di un cuore sensibile e umano, il desiderio di ogni uomo che pensa, ma è anche il dovere rigoroso e indispensabile di ogni uomo che non sia egli stesso nella povertà, dovere che non deve affatto essere svilito, né dal nome, né dal carattere dell'elemosina; infine, essa è per tutta la società un debito inviolabile e sacro63. 61 Ivi, “Premier rapport”, p. 5. 62 Ibidem. 63 Ivi, “Plan de travail”, p. 310.

Ma di che tipo di diritto si tratta? Qui si opera una distinzione di una portata decisiva per l'avvenire. L'uomo ha certamente diritto alla sussistenza. Il diritto alla vita è una prerogativa fondamentale dell'umanità che nessuna società può trasgredire, perché ne va della sua stessa unità: “Laddove esiste una classe di uomini senza sussistenze, là esiste una violazione dei diritti dell'umanità, là l'equilibrio sociale è rotto”64. Ma l'attuazione di questo diritto si sdoppia a seconda che questi “uomini senza sussistenze” siano capaci o meno di lavorare. Il Comitato riprende pari pari questa distinzione di cui si è lungamente sottolineato come strutturasse da diversi secoli tutta la riflessione sull'indigenza. Vi sono due tipi di sventurati, che hanno sempre usufruito e che devono continuare a usufruire di un trattamento del tutto differente. Gli inadatti al lavoro godono del diritto ai soccorsi. Sono “coloro ai quali l'età non permette ancora, o non permette più, di lavorare; infine coloro che sono condannati a un'inattività durevole dalla natura della loro infermità o a una inattività momentanea da malattie passeggere”65. Il Comitato ne stabilisce rigorosamente la lista esaustiva, dai bambini abbandonati agli anziani senza risorse. Così, il nuovo diritto all'assistenza si incardina nelle categorie della vecchia handicappologia. Il suo carattere restrittivo è accuratamente sottolineato66. Ma, trattandosi di un “debito in64 Ibidem. 65 Ibidem. 66 Questo carattere restrittivo limita non solo le categorie di beneficiari, ma anche la quantità dei soccorsi accordati: “È duro dirlo, ma è una verità politica, il povero non deve, attraverso i soccorsi che riceve dal governo, stare così bene come se non avesse bisogno di tali soccorsi...”. Ecco perché “le somme che un governo saggio deve investire nel sollievo

violabile e sacro”, questi soccorsi saranno ormai integralmente finanziati e amministrati dal potere pubblico. Il progetto di decreto sui soccorsi pubblici redatto per l'Assemblea costituente dichiara beni nazionali le entrate degli ospedali, delle case di carità e di tutte le vecchie istituzioni incaricate della distribuzione dei soccorsi. Al loro posto viene istituito un fondo nazionale, e l'Assemblea nazionale deve essa stessa ripartire i fondi tra i dipartimenti, che li distribuiranno attraverso l'intermediazione di agenzie pubbliche ai beneficiari iscritti nei registri di soccorso. Dunque, il sistema completo dell'assistenza deve essere integralmente finanziato e organizzato come un servizio pubblico: “L'amministrazione dei soccorsi sarà assimilata alle altre parti dell'amministrazione pubblica, nessuna delle quali avrà luogo con le rendite di beni immobili privati”67. La duplice condizione da rispettare ci è familiare: essere incapace di lavorare ed essere domiciliati, cioè comprovare un “domicilio di soccorso”. Il beneficiario “deve far constatare il suo bisogno reale di soccorso pubblico attraverso il giuramento di due cittadini eleggibili domiciliati nel cantone”68, mentre lo straniero, “il senza-asilo”, “contro il cui pericolo la società deve opporre una forte resistenza”, sarà condotto fuori del regno 69. Il principio di territorializzazione è conservato, così come il principio di invalidità, ma è ormai la nazione a costituire la comunità di base che garantisce il diritto al soccorso. L'assistenza è una prerogativa dei poveri debbono essere piuttosto al di sotto che al di sopra delle necessità” (ivi, “Proposition pour un ordre du travail”, annesso alla sessione del 26 febbraio 1790, p. 3). 67 Ivi, “Troisième Rapport”, p. 369. 68 Ivi, “Troisième Rapport”, p. 383. Per l'elaborazione della nozione di “domicilio di soccorso”, cfr. ivi, “Quatrième Rapport”, p. 438. 69 Ivi, “Sixième Rapport”, pp. 514-516.

della cittadinanza. Nonostante queste due condizioni, il Comitato propone al legislatore di interinare solennemente il carattere costituzionale del diritto al soccorso: L'assemblea nazionale dichiara che ammette al rango dei doveri più sacri della nazione l'assistenza dei poveri di tutte le età e in tutte le circostanze della vita, e che vi si provvederà, così come alle spese per l'estinzione della mendicità, tramite rendite pubbliche, nella ragione che sarà giudicato necessario”70.

Di contro, gli indigenti validi ricevono un trattamento del tutto differente: “Noi abbiamo ammesso come un principio incontestabile che i poveri validi debbano essere aiutati solamente attraverso gli strumenti del lavoro”71. Così, pur interinando questo taglio secolare tra validi e invalidi, al contempo il Comitato ride70 Ivi, “Troisième Rapport”, p. 380. Che il Comitato dia una chiarezza e una solennità nuove a questi princìpi non significa, evidentemente, che le crei ex nihilo. Qui come altrove, esso pone in un dispositivo coerente delle nozioni progressivamente elaborate nel corso del XVIII secolo. La nozione di diritto al soccorso può richiamarsi a Montesquieu: “L'elemosina che si fa a un uomo nudo per strada non sostituisce gli obblighi dello Stato che deve a tutti i suoi cittadini una sussistenza assicurata, un abbigliamento decoroso e uno stile di vita che non sia contrario alla salute” (Charles-Louis de Secondat, Baron de La Brède et de Montesquieu, De l'esprit des lois, cit., l. XXIII, cap. XXIX), e soprattutto dall'abate Baudeau: “Finché non avrete donato ai veri poveri tutti i soccorsi che essi hanno il diritto di esigere, voi sarete costretti a soffrire la mendicità” (Nicolas Baudeau, Idées d'un citoyen sur les besoins, les droits et les devoirs des vrais pauvres, Amsterdam-Paris, Hochereau le jeune, 1765, p. 98). Anche per Baudeau i “veri poveri” sono i vecchi, i bambini, gli invalidi, i malati e i “poveri vergognosi”, mentre i “falsi poveri” sono, come sempre, stigmatizzati nella forma del vagabondaggio e della mendicità. 71 Camille Bloch, Alexandre Tuetey, Procès Verbaux, cit., “Troisième Rapport”, p. 38.

finisce completamente la politica nei loro confronti. Invece di punire gli indigenti validi o di forzarli al lavoro, gli si gestirà la possibilità di lavorare. Il libero accesso al lavoro rimpiazza l'obbligazione disciplinare di lavorare. Concretamente, questo significa che bisogna e senza dubbio è sufficiente abbattere tutte le barriere issate dalla tradizione contro l'apertura del mercato del lavoro: “I diritti più sacri dell'uomo non sarebbero mantenuti se l'operaio incontrasse ostacoli allorché la libertà o le sue combinazioni lo determinassero a cercare un lavoro conveniente nei luoghi in cui volesse recarsi”72. Rompere il sistema delle comunità di mestiere e abolire tutte le regolamentazioni protezionistiche che impediscono la libera circolazione dei lavoratori, vuol dire in un sol colpo assicurare la liberalizzazione dell'economia e lo sviluppo della ricchezza nazionale. Il quarto rapporto prosegue immediatamente: L'interesse politico del regno ordina ancora imperiosamente questa libertà. È tramite essa soltanto che il lavoro si distribuisce naturalmente nei luoghi in cui il bisogno lo richiama, che l'industria riceve la sua maggior spinta, che tutte le imprese divengono facili, e che infine il livello della manodopera, condizione così desiderabile per la prosperità dello Stato, si stabilisce in tutte le parti dell'Impero73.

Così bisogna intendere la celebre formula: “La miseria dei popoli è un torto dei governi”74. Una volontà politica nuova può sradicare completamente l'indigenza sopprimendo le strutture 72 Ivi, “Quatrième Rapport”, p. 438. 73 Ivi, “Quatrième Rapport”, pp. 438-439. 74 Ivi, “Premiere Rapport”, p. 7.

arcaiche dell'organizzazione del lavoro, eredità compiuta di un regime di privilegi. Così come “l'antico governo” ha trascurato di far valere i diritti degli indigenti invalidi sulla nazione, esso ha ricondotto gli interessi particolari e i monopoli il cui effetto è di proibire a ciascuno di lavorare “liberamente”. Ma bisogna sottolinearlo: il libero accesso al lavoro non è, in quanto tale, un diritto al lavoro. Tocca a colui che richiede l'impiego di fare lo sforzo di trovare un lavoro. Se il lavoro è offerto al povero valido ogni volta che si presenta e nel luogo più prossimo e della natura più facile, la società lo dispensa con ciò dalla necessità di cercare egli stesso di procurarselo; essa ricade nell'inconveniente che voleva evitare sottraendosi ai soccorsi gratuiti: essa favorisce la pigrizia, l'incuria75.

Il quarto rapporto confuta lungamente la tesi secondo la quale un “governo saggio” sarebbe obbligato a “provvedere nei tempi ordinari a procurare del lavoro a tutti coloro che ne sono privi”. Al contrario, “attraverso grandi istituzioni, attraverso una legislazione previdente, attraverso visioni d'insieme ben integrate, esso deve limitarsi a incoraggiare, a moltiplicare gli strumenti di lavoro”76. È la trascrizione sul piano dell'organizzazione del lavoro della forma di governamentalità di cui Turgot aveva dato la formula. Ma lo Stato non può in alcun caso garantire direttamente l'impiego dei lavoratori: “Il suo intervento deve essere in-

75 Ivi, “Quatrième Rapport”, p. 427. 76 Ivi, “Quatrième Rapport”, p. 431.

diretto; esso deve essere il movente del lavoro ma deve evitare, per così dire, di apparire come tale”77. Formula sottile, forse troppo. Implica la rimozione delle regolazioni tradizionali del lavoro. Ma cosa accadrà se queste misure si riveleranno insufficienti per assicurare un lavoro a tutti? Il Comitato non pone esplicitamente la questione. Esso constata che l'assicurazione per l'operaio di trovare lavoro in ogni circostanza sarebbe contraria agli interessi dei datori di lavoro come alla forza dello Stato, perché renderebbe i lavoratori esigenti nei riguardi del lavoro che si propone loro. Il proprietario, il manifatturiere, si vedrebbero esposti alla mancanza di operai quando le loro imprese richiedessero un gran numero di braccia […]. Questa assistenza nuocerebbe dunque all'industria, all'impiego dei fondi, alla vera e propria prosperità nazionale; essa avrebbe, a questo riguardo, le conseguenze più funeste, le più radicalmente impolitiche; essa collocherebbe lo Stato così governato in uno stato inferiore a tutti gli Stati che non avessero questa pericolosa amministrazione78.

Per il resto, tutto accade come se la convinzione nelle immense possibilità del mercato, una volta eliminati i vincoli dell'organizzazione tradizionale del lavoro, sottendesse l'ottimismo di questi liberali. Montlinot, divenuto membro del Comitato di mendicità, aveva già dichiarato nel 1779: “Noi stabiliamo come un principio incontestabile che quasi mai è dato un povero valido, qualunque sia la durezza dei tempi, che non possa guadagna77 Ivi, “Quatrième Rapport”, p. 428. 78 Ivi, “Quatrième Rapport”, p. 453.

re qualcosa”79. La giustapposizione di “principio incontestabile” e di “quasi mai” sciocca un po'. È talmente evidente che chi vuole trovare lavoro è così sicuro di trovarne che non vale neppure la pena di giustificarlo? La storia produrrà presto la prova del contrario. Ma i primi liberali non hanno potuto o voluto immaginare la possibilità di uno squilibrio strutturale tra l'offerta e la domanda di lavoro, e hanno sottovalutato l'antagonismo di interessi fra datori di lavoro e impiegati, che ben presto rilancerà la questione sociale. Bisognerà ritornare su questa ambiguità fondamentale. Ma l'apertura del mercato del lavoro comporta già, di per sé, delle conseguenze immediate. La mendicità e il vagabondaggio possono ora divenire di diritto ciò che erano di fatto nell'epoca precedente: delitti comportanti giustificate sanzioni penali. L'oziosità è criminalizzabile a partire dal momento in cui è volontaria. Mentre i “vecchi governi” si disonoravano condannando innocenti privi di lavoro, il nuovo farà opera di giustizia sanzionando i parassiti che si sottraggono alla dura legge del lavoro, allorché è aperta loro la possibilità di lavorare. Il Comitato di mendicità può così riprendere le condanne più impietose della mendicità e del vagabondaggio, che divengono il delitto sociale per eccellenza: Questo stato di nullafacenza e di vagabondaggio, che conduce necessariamente al disordine e al crimine propagandoli, è dunque veramente un delitto sociale; deve dunque essere represso e l'uomo che lo esercita deve essere punito a giusto titolo quanto tutti coloro che turbano, attraverso altri delitti più o meno gravi, l'ordine pub79 Charles-Antoine-Joseph Leclerc de Montlinot, Quels sont les moyens de détruire la mendicité, cit., p. 84.

blico. Questa punizione non contraddice l'esercizio dei diritti dell'uomo più di quanto lo faccia la punizione di un manigoldo o di un assassino80.

La velata contraddizione che può comportare questa posizione – condannare coloro che avrebbero voluto e non hanno potuto lavorare – è evocata una sola volta: “è inutile ricordare qui che, perché questa verità sia interamente applicabile alla mendicità, bisogna che il mendicante valido abbia potuto procurarsi del lavoro. Senza questa condizione la repressione sarebbe a sua volta un'ingiustizia, e di conseguenza un crimine contro l'umanità” 81. Gli estimatori di una lettura sintomatica sarebbero qui soddisfatti. L'espressione “È inutile ricordare qui” suona come un diniego. Ma l'esigenza “che il mendicante valido abbia potuto procurasi del lavoro” è ritenuta essere realizzata grazie alla semplice apertura del mercato del lavoro. Di modo che si può ora parlare a giusto titolo di “cattivi poveri”, anche se rassomigliano come fratelli a coloro che i “cattivi governi” reprimevano: “Coloro che, conosciuti sotto il nome di mendicanti di professione o di vagabondi, si sottraggono a ogni lavoro, turbano l'ordine pubblico, sono un flagello della società e richiamano la sua giusta severità”82. Occorreva estrapolare le linee di forza di questo documento eccezionale per almeno tre ragioni: per l'articolazione che stabilisce fra diritto ai soccorsi e libero accesso al lavoro, propone una soluzione formalmente coerente alle aporie delle politiche prece80 Camille Bloch, Alexandre Tuetey, Procès Verbaux, cit., “Sixième Rapport”, p. 513. 81 Ivi, “Plan de travail”, p. 310. 82 Assemblea nazionale, seduta del 14 giugno 1791, in “Le Moniteur Universel”, t. VIII, p. 661.

denti; ispira l'opera legislativa delle assemblee rivoluzionarie che ne riprendono quasi alla lettera le proposizioni; disegna infine, tanto a partire dai suoi non detti che dalle proposte che promuove, le implicazioni fondamentali di politica sociale che lacereranno il XIX secolo. Nell'attesa, le assemblee rivoluzionarie reiterano le vedute del Comitato di mendicità. Il 14 giugno 1791, l'Assemblea legislativa vota alla quasi unanimità la legge “Le Chapelier”. Secondo i termini della sua esposizione delle motivazioni: Non vi sono più corporazioni nello Stato; non vi sono più che l'interesse privato di ciascun individuo e l'interesse generale. Non è permesso a nessuno di ispirare ai cittadini un interesse intermedio, di separarli dalla cosa pubblica in uno spirito di corporazione […]. Bisogna risalire al principio che è alle libere convenzioni fra individuo e individuo che spetta fissare la giornata di lavoro per ciascun operaio, spetta poi all'operaio mantenere la convenzione che ha fatto con colui che lo impiega83.

Il lavoro è ormai una merce venduta sul mercato, che obbedisce alla legge dell'offerta e della domanda. La relazione che unisce il lavoratore al suo datore di lavoro è divenuta una semplice “convenzione”, vale a dure un contratto fra due parti che si accordano sul salario, ma questa transazione non è più regolata da sistemi di vincoli o di garanzie esterne allo scambio stesso. Il mondo del lavoro cambia base. Si tratta di una rivoluzione nella Rivoluzione. 83 Cit. in Louis Parturier, L'assistance à Paris sous l'Ancien Régime, cit., p. 222.

Il 19 marzo 1793 la Convenzione nazionale proclama: “Ogni uomo ha diritto alla propria sussistenza tramite il lavoro, se è valido; tramite soccorsi gratuiti se non è nella condizione di lavorare”. Questo duplice principio è inscritto in forma solenne nell'articolo 21 della Costituzione votata il 24 giugno 1793: “I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini sfortunati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di sussistenza a coloro che non sono in condizione di lavorare”84. Così le leggi sociali delle assemblee rivoluzionarie applicano l'essenziale del programma del Comitato di mendicità, che esprime esso stesso l'essenziale delle aspirazioni dei Lumi in materia di accesso al lavoro e di assistenza. Bisogna aggiungere che, contrariamente a un'opinione diffusa, i rivoluzionari non si sarebbero disinteressati dell'applicazione di questi “princìpi”. In circostanze più che difficili, sollecitati da una moltitudine di compiti, essi assunsero delle misure concrete. Mettiamo un attimo da parte ciò che concerne il libero accesso al lavoro e le aporie in cui esso va a sfociare. Per il diritto al soccorso, una legge del 28 giugno 1793 definisce le condizioni che devono assolvere i beneficiari: anziani, infermi, ammalati, bambini abbandonati, famiglie con prole a carico. Due mesi prima del Termidoro, la legge del 22 floreale anno II (11 maggio 1794), su rapporto di Barère, apre il Libro di della beneficenza nazionale e organizza l'assistenza nelle campagne. Contrariamente alle valutazioni affrettate operate dopo la caduta della Convenzione, questo programma non ha niente di inflazionistico. Esso limita le iscrizioni sul Libro a tre 84 Cfr. Louis-Ferdinand Dreyfus, L'assistance sous la législative de la Convention (1791-1795), Paris, Bellais, 1905.

categorie di indigenti, con delle quote-limite per dipartimento per ogni categoria: i coltivatori anziani o infermi (nei fatti, i vecchi manovali divenuti incapaci di lavorare), gli artigiani anziani o infermi, le madri e le vedove indigenti “con prole a carico” 85. Ma il rapporto di Barère è anche una testimonianza particolarmente significativa dell'utopia politica che sottende a questa strategia repubblicana di governo della miseria. Dopo aver proclamato che “la mendicità è incompatibile con il governo popolare” e ricordato la sentenza di Saint-Just – “i disgraziati sono le forze della terra” –, Barère auspica che una cerimonia civica sia organizzata ogni anno al fine di “onorare la malora”86. In quella giornata, i beneficiari dei soccorsi riceveranno le loro prestazioni circondati dai concittadini: Le due estremità della vita saranno riunite con il sesso che ne è la fonte. Voi ci sarete, vecchi agricoltori, artigiani invalidi, e accanto a loro, ci sarete anche voi, madri e vedove sfortunate, cariche di bambini. Questo spettacolo è il più bello che la politica possa presentare alla natura e che la Terra fertilizzata possa offrire al Cielo consolatore87. 85 Bertrand Barère de Viauzac, Rapport sur les moyens d'extirper la mendicité et sur les secours que doit accorder la République aux citoyens indigents, in “Le Moniteur Universel”, n. 234, 24 floréalan II (13 maggio 1794), p. 54. 86 Quattro giorni prima, l'8 fiorile, Robespierre aveva così fissato gli obiettivi della festa della Malora: “Gli schiavi adorano la fortuna e il potere; onoriamo la malora, la malora che l'umanità non può bandire del tutto dalla terra, ma che essa consola e alla quale offre sollievo con rispetto” (Discours sur les rapports des idées morales et religieuses avec les principes républicaines et sur les fêtes nationales, 8 floréal, an II). 87 Bertrand Barère de Viauzac, Rapport sur les moyens d'extirper la mendicité et sur les secours que doit accorder la République, cit., p. 56.

Si tratta nientemeno che di un tentativo per rovesciare le stigmate della malora. I fasti della nuova religione repubblicana riabiliteranno l'indigenza sfortunata. Il miserabile, circondato dai notabili locali, i buoni cittadini e i bambini delle scuole, sarà reinscritto nella comunità degli uomini. Sotto la fraseologia magniloquente dell'epoca, questo cerimoniale mette in scena un'intuizione profonda. È la nazione una e indivisibile a garantire il diritto universale ai soccorsi. Ma l'indigenza è un dramma vissuto nella quotidianità e un rischio di rottura della sociabilità primaria. È dunque nella comunità locale che la riparazione deve essere operata e il legame sociale ricostituito. Il diritto al soccorso come prerogativa regia e garanzia costituzionale trova la sua contropartita in questa cerimonia al contempo intima e solenne nel capoluogo del distretto, quando la comunità locale esibisce la sua solidarietà celebrando i suoi concittadini bisognosi. La “festa della malora” simboleggia il potere della Repubblica di assicurare a tutti, al contempo, l'universalismo dei diritti dell'uomo e un supporto relazionale concreto, le garanzie della cittadinanza nello spazio pubblico e il riconoscimento di un posto nello spazio privato. Non è il contenuto che bisogna dare alla fraternità nella trilogia repubblicana? La nazione non si accontenta di soccorrere cittadini sfortunati. Essa li riaffilia mettendo in scena per loro lo spettacolo del ritorno all'ovile comunitario. Nel simbolismo della festa, la disgrazia cessa di essere un fattore di esclusione e si tramuta in merito che riceve la sua ricompensa. Il nostro moderno reddito minimo di inserimento fa senz'altro una pallida figura accostato a questi fasti civici della nascente Repubblica. Ma la nozione contemporanea di inserimento trova forse lì il fondamen-

to del suo contenuto autenticamente sociale e politico. Che cosa dovrebbe essere, in effetti, se non l'attualizzazione, come enuncia la legge del dicembre 1998 che istituisce l'RMI, di un “imperativo nazionale” di solidarietà – il diritto all'inserimento riconosciuto dalla comunità nazionale – attraverso la mobilitazione di risorse della comunità locale per ricostruire il legame sociale in un ritrovato rapporto di prossimità? L'assistenza, diciamo, funziona come un analogon della sociabilità primaria. Anche quando diviene un debito nazionale, deve operare una restaurazione dei supporti comunitari concreti.

4. La dissociazione del diritto Questa storia era senza dubbio troppo bella per essere completamente vera. Bisogna perciò domandarsi perché tale programma non si è imposto e sarà quasi dimenticato per un secolo, sino alla sua riattualizzazione da parte della Terza Repubblica, che ne fornirà d'altra parte una versione edulcorata. Le ragioni di fatto non mancano: una Francia rovinata, straziata dalla guerra estera e dalle divisioni intestine; un cambiamento della volontà politica dopo il Termidoro, che opera una vera restaurazione ante litteram nel campo dell'assistenza88. È 88 Uno dei primi atti della Convenzione del Termidoro sarà di soprassedere sulla vendita dei beni degli ospedali prima di restituire loro, il 6 vendemmiaio anno V (7 ottobre 1796), la loro personalità giuridica e il godimento dei loro beni. Il Direttorio ristabilisce praticamente le congregazioni nelle loro vecchie prerogative. La principale misura dell'Impero in questo ambito è il rilancio dei depositi di mendicità, vale a dire della versione repressiva del trattamento degli indigenti validi. Sul ritorno al confessionale, al privato e al paternalismo filantropico, che si riscontra con evidenza con la Restaurazione propriamente detta, cfr. il cap. se-

tuttavia un po' semplicistico denunciare l'irrealismo di questi princìpi, che non sarebbero stati ispirati che da motivi “ideologici”. Essi furono, al contrario, attentamente ponderati, lungamente discussi, le loro fonti di finanziamento ricercate con cure, e le loro condizioni di applicazione analizzate in dettaglio. I loro principali fautori non sono stati neppure dei pericolosi “estremisti” 89. L'ipotesi proposta non è che queste misure siano rimaste inapplicate in ragione del loro costo economico, della loro astrattezza filosofica o del loro radicalismo politico; il fatto è che erano inapplicabili in ragione della loro economia interna. Ma comprendere le ragioni di questa “inapplicabilità” vuol dire cogliere la specifica tipologia di articolazione del politico, dell'economico e del sociale che la fine del XVIII secolo ha tentato di promuovere, e cogliere anche il perché, appena instaurato, questo montaggio sia crollato. Per riassumere il problema: perché la soluzione della questione sociale proposta dagli artigiani dei Lumi e interinata guente. 89 Il principale ispiratore, non solamente dei lavori del Comitato di mendicità, ma della legislazione sociale delle assemblee rivoluzionarie, è il duca di La Rochefoucauld-Liancourt, grande signore liberale, fedele a Luigi XVI, che andrà in esilio dopo l'esecuzione del re e tornerà in Francia, dove sarà fino alla sua morte “il padrone comune di tutte le filantropie della terra”, per citare un rapporti di polizia durante la Restaurazione (cit. in Charles-Hippolite Pouthas, Guizot pendant la Restauration. Préparation de l'homme d'État [1814-1830], Paris, Plon, 1923). Su questo destino fuori del comune, cfr. Louis-Ferdinand Dreyfus, Un philanthrope d'autrefois, cit. Bertrand Barère de Viauzac stesso, il principale portavoce della legislazione sociale della Convenzione e autore di quell'altro grande testo che è il suo rapporto del 22 fiorile anno II, è un vec chio collaboratore di La Rochefoucauld-Liancourt nel Comitato di mendicità. Si constata in Barère de Viauzac una radicalizzazione del discorso rivoluzionario – “far girare la Rivoluzione a favore di coloro che la sostengono, a rovina di coloro che la combattono” –, ma le misure adottate riprendono nell'essenziale le proposte del Comitato di mendicità.

al momento della Rivoluzione – l'associazione del liberalismo per regolare la questione del lavoro e di un'assistenza statale per regolare la questione dei soccorsi – si è rivelata così presto obsoleta? Due elementi di riposta: perché faceva coesistere implicitamente due concezioni contraddittorie del ruolo dello Stato; perché, soprattutto, l'associazione del volontarismo politico e del laissez-faire economico liberava antagonismi sociali che i suoi promotori erano incapaci di controllare, e che erano anche senza dubbio incapaci di prevedere. Perché questa costruzione, in effetti, occultava la dinamica sociale che scatenava. La complementarietà dell'economico e del politico così stabilita “dimentica” gli effetti perversi dell'organizzazione che pone in essere. Ciò che va ad alimentare la storia del XIX secolo è il ritorno di questo sociale al contempo liberato e rimosso dalla sintesi liberale rivoluzionaria. Primo punto, la sovrapposizione di due concezioni antagoniste dello Stato. L'attuazione di una vera e propria politica di soccorsi pubblici implicava la costruzione di uno Stato forte. Il programma del Comitato di mendicità e delle assemblee rivoluzionarie, anche se accuratamente meditato, è ambizioso. Presuppone un sistema pubblico di finanziamento e di distribuzione che esclude la partecipazione dei settori privati e confessionali. È la logica di quello che si chiamerà molto più tardi lo Stato-provvidenza: prelievi obbligatori, dispiegamento di un'amministrazione del sociale, con le inevitabili contropartite burocratiche e tecnocratiche questo comporta. Questo carico avrebbe rischiato di essere tanto più pesante perché, fra la caduta dei Girondini e il Termidoro, la Convenzione montagnarda prevede misure sempre più audaci: oltre al sostegno molto generoso alle ragazze-madri e

ai bambini assistiti, un sistema di allocazioni familiari largamente aperto alle famiglie, poiché riguarda le famiglie cui sono imposti fino a dieci giorni di lavoro (legge del 28 giugno 1793); poi, rilancio di un sistema di lavori pubblici su scala dipartimentale (legge del 15 ottobre 1793). Una tale concezione dello Stato sembra incompatibile – e tutte le polemiche che attraversano il XIX secolo fino a oggi tendono a confermarlo – con i presupposti del liberalismo puro e il tipo di Stato “minimo” che implica 90. Al contrario, la concezione del potere pubblico che sottende al libero accesso al lavoro è lo Stato minimo di tipo liberale di cui Turgot ha dato la formula. Certamente, lo Stato al quale si richiama il liberalismo deve sapersi fare interventista, e in periodo 90 Questo costituisce il punto di disaccordo con l'imponente lavoro di Catherine Duprat, Les temps des philanthropes. La philanthropie parisienne des Lumières à la monarchie de Juillet, Paris, Éditions du Comité des Travaux Historiques et Scientiphiques, 1993, t. I, apparso dopo la redazione di questo capitolo. A proposito dei lavori del Comitato di mendicità – ma le assemblee rivoluzionarie riprendono, lo si è visto, con qualche sfumatura, queste proposizioni –, secondo lei [la Duprat] “è chiaro che questo manifesto del liberalismo sociale si situa agli antipodi dello Stato-provvidenza [État-providence] di cui una leggenda tenace vuole che il Comitato si sia fatto l'iniziatore” (ivi, p. 317). Ma l'autrice non tiene conto a sufficienza della distinzione essenziale e fondata su una tradizione multisecolare tra il trattamento delle popolazioni fuori della condizione di lavorare e quelle che devono lavorare. Il colpo di genio, ma anche la fragilità, della posizione del Comitato di mendicità e della Convenzione stessa sta nella reinterpretazione nuova che essi fanno di questa vecchia opposizione, che permette loro di far coesistere una posizione “statalista” e una posizione “liberale”. Correlativamente, questa rottura decisiva che opera il Comitato di mendicità proibisce di collocare questa “filantropia rivoluzionaria” – se si mantiene questo appellativo – nella continuità della filantropia anteriore della Società filantropica, la quale contava una maggioranza di nobili e di notabili legati all'Ancien Régime, e soprattutto di accostarla alla filantropia paternalistica che andrà a imporsi a partire dalla Restaurazione (cfr. il cap. seguente).

rivoluzionario esso non se ne priverà. L'azione del Comitato di salute pubblica, in particolare, è un caso-limite di dirigismo statale che alcuni hanno potuto interpretare come un'anticipazione del pan-statalismo dei regimi totalitari. Ma è, in principio, per opporre una contro-forza al fine di rompere le resistenze dell'organizzazione politica precedente91. Lo Stato, in nome della minimizzazione del ruolo dello Stato stesso, deve farsi tanto più forte quanto gli occorre per mettere fine agli abusi di uno Stato assolutista. La giustificazione di questo interventismo è quella di combattere il dispotismo, il che permetterà, simultaneamente, di liberare i processi economici e di sradicare l'ingiustizia sociale. Questo significa realizzare il connubio tra il pensiero di Adam Smith e quello di Jean-Jacques Rousseau. I rivoluzionari hanno creduto in qualcosa come una “mano invisibile” che avrebbe assicurato un equilibrio fra l'offerta e la domanda di lavoro, fra la produzione e il consumo, di modo che la liberalizzazione dell'economia avrebbe dovuto comportare de facto la fine del sotto-impiego e ridurre la miseria di massa. Hanno aderito simultaneamente, e senza che ciò apparisse loro contraddittorio, a una concezione rousseauiana, vale a dire virtuosa, della politica. La sottomissione alla volontà generale dissolve gli interessi particolari, di modo che l'individuo che si riconosce sovrano, abbandonando il suo suo punto di vista di individuo, si pone al di là degli antagonismi d'interesse92. Rousseau realizza la politica della virtù civi91 Anche per vincere i nemici all'esterno. 92 “Ciascuno, offrendosi a tutti, non si dona a nessuno; e poiché non esiste un associato sul quale non si acquisti il medesimo diritto che quello che gli si cede su di sé, si guadagna l'equivalente di tutto ciò che si perde, e una maggior forza di conservare ciò che si ha” (Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social, Paris, Flammarion, 2012, livre I, cap. VI; trad. it. Il contratto sociale, Milano, Feltrinelli, 2003). Per dirla altrimenti, il citta-

ca, e in questo senso Robespierre è suo fedele discepolo. Come più tardi per la giustificazione della dittatura del proletariato, il Terrore si autoprogramma come uno spasmo attraverso il quale lo Stato promuove energicamente la propria scomparsa. Così la concezione dello Stato necessario per liberare l'economia dagli ostacoli artificiali, e anche quella che è mobilitata per abbattere il dispotismo, è del tutto differente da quella che esigerebbero il dirigismo e i controlli richiesti per realizzare un programma completo di soccorsi pubblici. L'articolazione, a prima vista armoniosa, del diritto ai soccorsi e del libero accesso al lavoro dissimula così l'antagonismo fra due princìpi di governamentalità, quello dello Stato sociale e quello dello Stato liberale. Questa giustapposizione si sarebbe senza dubbio rivelata incompatibile nei fatti, se il tempo avesse permesso di dispiegare tutte le conseguenze pratiche dei programmi rivoluzionari; oppure, se questi due princìpi non sono fondamentalmente antagonisti, l'elaborazione di un compromesso (così come lo realizzerà il keynesianesimo, per esempio) esigerà un lungo “lavoro della storia”, che non è ancora intrapreso alla fine del XVIII secolo. Le politiche sociali moderne riposa in effetti sull'esistenza di “parti sociali” costituite nella loro identità sulla base di un salariato stabilizzato. Ma, in epoca rivoluzionaria, non esiste alcuno spazio di negoziazione possibile fra la volontà politica dello Stato e le esigenze dell'economia.

dino che appartiene a uno Stato di diritto non ha il diritto di chiedere niente di più di ciò di cui dispone in tale quadro. Egli è soddisfatto dalla Costituzione, la quale emana dalla propria volontà. Di qui questa implicazione, che costituisce il motore profondo del Terrore rivoluzionario: il cittadino deve assolutamente essere virtuoso, per volere o per forza.

Si potrebbe obiettare a una simile interpretazione che questi due piani di governamentalità non sono contraddittori perché non operano sullo stesso registro. Perché sarebbe impossibile associare una positivizzazione dell'obbligazione sul piano del diritto (il diritto ai soccorsi potendosi estendere nel diritto al lavoro, e in diritti sociali diversi) e il liberalismo del libero accesso al lavoro sul piano economico? Ma – ed è il secondo elemento per tentare di comprendere lo scacco del tentativo di articolazione dell'economico e del sociale tentato alla fine del XVIII secolo – la maniera in cui è pensata la nozione di libero accesso al lavoro è intrinsecamente ambigua. Invece di apportare una soluzione al problema dell'indigenza valida, apre il vaso di Pandora dei futuri conflitti sociali. Formalmente, tuttavia, la soluzione è elegante. È espressa col massimo della chiarezza nel rapporto preliminare di JeanBaptiste Bô, che introduce la legge del 24 vendemmiaio anno II (15 ottobre 1793) sull'estinzione della mendicità: “Imponendo loro la necessità del lavoro [agli indigenti validi che non lavorano] voi li riconducete alla necessità di essere dei cittadini utili e virtuosi. Voi stabilite fra loro e la società una reciprocità di doveri”93. Ma questa reciprocità è a senso unico, e rischia di funzionare come una trappola. L'indigente è reintrodotto nel patto politico se lavora: egli diviene “un cittadino utile e virtuoso”. Ma non vi è patto sociale per assicurarne la possibilità. Ne deriva che l'obbligazione grava sul solo indigente. Lui deve lavorare, nel senso forte del termine, e la criminalizzazione della mendicità e del vagabondaggio rifondata in diritto è lì per ricordarglielo. Ma 93 Jean-Baptiste Bô, Rapport et projet de décret sur l'extinction de la mendicité, présentés à la Convention nationale, au nom du Comité des secours publics, Paris, Imprimerie Nationale, 22 vendémiaire an II, p. 4.

il governo, da parte sua, non è tenuto, nel senso proprio del termine, a procurargli un lavoro. “Imporre la necessità del lavoro” vuol dire ancora riferirsi al lavoro forzato, nel momento stesso in cui si proclama la libertà del lavoro. I poteri pubblici ne sono pressoché liberati dal momento che hanno posto il principio del libero accesso al lavoro94. Detto altrimenti, lo Stato può accontentarsi essenzialmente di assumere misure politiche (la distruzione dei monopoli e delle corporazioni). Questo volontarismo politico libera uno spazio nel quale va a dispiegarsi il laissez-faire economico. Fra i due, non vi è spazio per sviluppare una politica sociale. Il cuore dell'ambiguità poggia sulla nozione stessa di diritto. La parola “diritto” non assume un senso identico a seconda che riguardi i soccorsi o il lavoro. Nel primo caso, si tratta di un credito dell'indigente verso la società. Lo Stato “deve”, e forse potrebbe, attuare un sistema di soccorsi pubblici, riscuotere delle imposte, reclutare del personale, creare delle istituzioni speciali, ecc. Accade altrimenti quando si tratta di “procurare la sussistenza attraverso il lavoro”: lo Stato rifiuta esplicitamente di assumersi la responsabilità di assicurare a ciascuno un lavoro. Si è già notata la casistica sottile, ma un po' imbarazzata, sviluppata dal Comitato di mendicità fra “una legislazione generale” per “moltiplicare gli strumenti del lavoro”, che bisogna “incoraggiare”, e le garanzie “speciali” di procurare a ciascuno un lavoro, che 94 Con questa eccezione: che la legge del 24 vendemmiaio anno II prevede l'organizzazione di lavori stagionali sulla base del domicilio di soccorso per fissare gli indigenti, retribuiti ai tre quarti del salario medio locale (cfr. ivi, p. 6). Ma, oltre al fatto che questa misura non fu applicata, essa obbedisce al principio di less eligibility dell'assistenza che richiama lo Speenhamland Act inglese (1797) piuttosto che la dinamizzazione del mercato del lavoro.

alimenterebbero la negligenza e la pigrizia degli operai assicurati di un impiego senza doverlo cercare, e che avrebbero “le conseguenze più radicalmente funeste, le più impolitiche” 95. Questo Stato animatore, come si direbbe oggi, non è lo Stato di diritto che impone una reciprocità di obbligazioni fra l'individuo e la collettività. Tuttavia, la legge del 19 marzo 1793 proclama in un sol colpo: “Ogni uomo ha il diritto al proprio sostentamento attraverso il lavoro se è valido; attraverso soccorsi gratuiti se non è in condizione di lavorare”. Ma l'appassionante discussione che ha preceduto questo voto mostra come almeno alcuni dei protagonisti fossero consapevoli di ciò che si giocava attraverso questa ambiguità – posta in gioco fondamentale, se è vero che si tratta di sapere se sia possibile conciliare i diritti civili e politici generali dei cittadini e i diritti sociali di cui potrebbero beneficiare i più sfortunati; o ancora, di conciliare la libertà e il diritto di proprietà, da una parte, che avvantaggerebbero più che altro i garantiti, l'uguaglianza e la fraternità dall'altra, che sono auspicate da coloro che vivono soprattutto di speranze96. Così si espone Romme: “Propongo un paragrafo addizionale così concepito: ogni uomo ha il diritto di esigere dalla società, per i propri bisogni, del lavoro e dei soccorsi”. Ma il resoconto della seduta negli Archivi parlamentari annota: “Interruzioni, mormorii”97. La stragrande maggioranza dell'Assemblea condivide l'opi-

95 Camille Bloch, Alexandre Tuetey, Procès Verbaux, cit., “Quatrième Rapport”, p. 428. 96 Cfr. Marcel Gauchet, La révolution et les droits de l'homme, Paris, Gallimard, 1989, seconda parte, cap. VI. 97 Archives parlamentaires, seduta del 22 aprile 1793, t. LXIII, p. III.

nione “ragionevole” di Boyer-Fonfrède, che è anche quella già difesa dal Comitato di mendicità: Sarebbe assai pericoloso decretare che la società deve i mezzi per esistere agli individui. Che cosa si vuole dire d'altronde quando si assicura che la società deve i suoi soccorsi a coloro che non hanno i mezzi per sussistere? Di quali poveri allora si vuole parlare? Dei poveri validi o invalidi? Ma la società non deve dei soccorsi che agli infermi, a coloro che sono stati resi disgraziati dalla natura e che non possono più vivere del proprio lavoro. Sotto questo aspetto la società, senza dubbio, deve la sussistenza agli individui; ma voi rendereste la società miserabile e povera, voi uccidereste l'industria e il lavoro, se assicuraste il sostentamento a coloro che non hanno niente, ma che possono lavorare98.

In effetti, l'istituzione di un diritto effettivo al lavoro non sarebbe affare da poco. Bisognerebbe che lo Stato intervenisse nell'organizzazione della produzione, facendosi esso stesso imprenditore per esempio (“nazionalizzazioni”), o almeno che si immischiasse nella politica di assunzione dei datori di lavoro. Ci vorrebbe allora uno Stato socialista o socialisticheggiante, e il diritto al lavoro effettivamente sarà una delle maggiori rivendicazioni dei futuri programmi socialisti. Ma un simile potere conferito allo Stato, tanto che essa ne ha colto chiaramente queste impli98 Cit. in Marcel Gauchet, La révolution et les droits de l'homme, cit., p. 232. Ritornerò su questo dibattito nel cap. VI, perché esso esprime per la prima volta con una chiarezza assoluta i termini dell'opposizione fra la proprietà e il lavoro che lo Stato sociale dell'inizio del XX secolo tenterà di superare instaurando una forma di proprietà sociale fondata sull'assicurazione e i servizi pubblici.

cazioni, appare esorbitante persino alla Convenzione montagnarda. Ecco perché la vaghezza mantenuta attorno allo statuto del libero accesso al lavoro nella sua differenza rispetto al diritto al lavoro non è una incongruenza. È costitutiva della posizione della maggioranza dei rivoluzionari. Ma questi hanno dato un'espressione formalmente irreprensibile a tale ambiguità. Grazie alla loro reinterpretazione della vecchia dicotomia invalidità/validità, hanno potuto giustapporre senza contraddizione apparente una posizione massimalista in materia di diritto al soccorso e una posizione minimalista in materia di diritto al lavoro. Il loro programma assistenziale è forse a tutt'oggi senza pari, mentre non hanno inaugurato regolazioni concernenti il lavoro. Si deve interpretare come un abile calcolo questa impasse sul diritto al lavoro? Certamente, per i datori di lavoro era vantaggioso fare “come se” il libero accesso al lavoro valesse come un diritto al lavoro. Voleva dire porre sotto il loro solo controllo lo sviluppo economico, mentre il diritto al lavoro sarebbe soprattutto un diritto per i lavoratori e subordinerebbe l'interesse economico alla realizzazione di obiettivi sociali. E, di fatto, la rivendicazione del libero accesso al lavoro sembra essere stata sostenuta solo dagli “spiriti illuminati”, e non dai lavoratori. Le poche testimonianze di cui disponiamo sull'opinione di costoro – assai meno numerose di quelle reperibili in libri, libelli, giornali e dibattiti parlamentari, che esprimono la posizione dei detentori di un capitale culturale e anche economico – sembrano indicare che gli operai non hanno “compreso” la libertà del lavoro nello stesso senso di coloro che se ne facevano i promotori.

Così, poco prima del voto della legge “Le Chapelier”, nell'aprile 1791, i corporati carpentieri parigini “fanno una petizione” al comune di Parigi per ottenere un salario minimo di 50 soldi al giorno, arguendo che il salario che è loro dispensato non permette di sopravvivere. Essi si indirizzano gentilmente alle nuove autorità, in nome, pensano, dei princìpi rivoluzionari: “L'Assemblea, dichiarando i diritti dell'uomo, ha certamente voluto che la Dichiarazione dei diritti servisse a qualcosa per la classe indigente che è stata così a lungo la vittima del dispotismo dei precedenti padroni”. Il sindaco di Parigi, Bailly, li ammonisce in questo modo: “Tutti i cittadini sono uguali in diritto, ma non lo sono in facoltà, in talenti, in mezzi... Una coalizione di operai per portare il proprio salario giornaliero a un prezzo uniforme, e forzare quelli dello stesso stato a sottomettersi a questa fissazione, sarebbe dunque evidentemente contraria ai loro veri interessi”99. Così, gli operai dovrebbero comprendere che il loro “vero interesse” non è di essere garantiti contro la miseria attraverso un salario assicurato, ma quello di sposare l'ideologia liberale che li mette in concorrenza, retribuisce le “facoltà” e i “talenti”, e penalizza i mediocri e i deboli. Ma perché sarebbero entrati di buon grado in questa logica concorrenziale di cui dovevano ben presentire che andava a esporli alla discrezione dei datori di lavoro? Un'altra testimonianza, dopo il voto della legge “Le Chapelier” questa volta: nell'agosto 1792, alcune delegazioni operaie chiedono al comune di Havre un aumento delle loro “tariffe”. Come Bailly, il sindaco rifiuta facendo loro la predica: “Gli operai devono essere penetrati dal rispetto della legge che vuole che colui 99 Cit. in Éduard Dolléans, Gérard Dehove, Histoire du travail en France, cit., pp. 129-131.

che dà da lavorare, come colui che lavora, sia libero di dare o di ricevere il prezzo che gli conviene... In principio, i salari delle persone che lavorano sono il risultato di un trattato libero fra il committente e colui che lavora”100. Anche qui gli operai erano venuti collettivamente a cercare l'appoggio dei poteri pubblici, e ciascuno è rinviato a sé stesso e al faccia a faccia col datore di lavoro. Il “libero contratto di lavoro” sembra proprio essere stato imposto ai lavoratori in un rapporto di dominio politico. Più in generale, la critica dell'organizzazione tradizionale dei mestieri non sembra essere stata, in quanto tale, una rivendicazione popolare. Sidney e Beatrice Webb caratterizzano così l'attitudine degli operai di fronte alla messa in discussione dei vincoli corporativistici: “Ciò che accadeva, allorché si facevano sentire dappertutto gli effetti della competizione capitalistica, era che l'operaio a giornata e spesso anche i piccoli artigiani facessero petizioni per raddrizzare la situazione, esigessero il divieto di nuove macchine, l'applicazione della vecchia legge che limitava strettamente il numero di apprendisti per ciascun artigiano” 101. Prima anche del “luddismo”, che assumerà in Inghilterra il carattere di una rivolta di massa contro le macchine 102, le reazioni degli operai alla liberalizzazione del lavoro sembrano aver maggiormente pesato in direzione del mantenimento del protezioni100 Cit. in Jean Legoy, Le peuple du Havre et son histoire, Le Havre, La Ville, 1979-1982, t. I, p. 221. 101 Sidney Webb, Beatrice Webb Potter, The History of Trade Unionism, London, Longmans Green and Co., 1920, p. 53. 102 Cfr. Edward Palmer Thompson, La formation de la classe ouvrière anglaise, Paris, Gallimard-Le Seuil, 1988, cap. XIV. Per una sintesi su questa questione in Francia, cfr. Michelle Perrot, Les ouvrières et les machines en France dans la première moitié au XIX e siècle, in “Recherches”, nn, 32-33, Le soldat du travail. Guerre, fascisme et taylorisme, 1978.

smo103. Così, alla fine dell'Ancien Régime, un duro conflitto oppone a Lione i mercanti di seta e gli operai, maestri artigiani compresi. Questi ultimi chiedono una tariffa omogenea per le merci e denunciano la libertà “assassina” dei prezzi, perché è “la libertà, in una parola, di schiacciare coloro che l'alimentano e la sostengono”104. Durante la Rivoluzione, salvo errore, le rivendicazioni dei sanculotti e delle folle rivoluzionarie non si sono rivolte contro l'organizzazione del lavoro. Essi hanno preteso il controllo dei prezzi e, al grado minimo, un salario decente, cioè una regolamentazione del costo delle derrate (le leggi sui massimali che furono effettivamente imposte dalla pressione popolare) e una migliore retribuzione del loro lavoro105. È possibile supporre che, come regola generale, si sentissero maggiormente protetti dalle forme tradizionali del lavoro regolato più che da una libertà selvaggia e che in mancanza di queste protezioni si appellassero ai poteri pubblici per ottenere nuove regolamentazioni, e non la libertà del lavoro. 103 Da notare tuttavia che Arlette Farge rileva manifestazioni di gioia popolare a Parigi in occasione della soppressione delle giurande da parte di Turgot nel 1776 (La vie fragile. Violence, pouvoirs et solidarités à Paris au XVIIIe siècle, Paris, Hachette, 1986). Ma il senso di queste reazioni popolari non è certo univoco. Si tratta di celebrare la libertà del lavoro in quanto tale, oppure una vittoria riportata sugli antichi privilegi e il partito della Corte? 104 Cit. in Maurice Garden, Lyon et les Lyonnais, cit., p. 341. 105 Cfr. Albert Soboul, Les Sans-Culottes parisiens en l'an 2, cit., e George Frederick Elliot Rudé, Les foules dans la Révolution françaises, Paris, Maspéro, 1982; trad. it. Dalla Bastiglia al Termidoro: le masse nella Rivoluzione francese, Roma, Editori Riuniti, 1966. Il Comitato di Salute pubblica cederà alla pressione popolare sui massimi delle derrate, con grave danno dei moderati, ma istituirà parallelamente un massimo dei salari. Quest'ultima misura rende in parte conto della mancanza di entusiasmo delle folle rivoluzionarie nel difendere la sinistra montagnarda nel momento del Termidoro, e la caduta di Robespierre.

5. Il capitalismo utopico Così, il libero accesso al lavoro giovava incontestabilmente alle classi borghesi che stavano per prendere il potere. La frase di Marat, uno dei rari oppositori alla legge “Le Chapelier”, appare retrospettivamente profetica: “Che cosa avremo guadagnato dal distruggere l'aristocrazia dei nobili se è rimpiazzata dall'aristocrazia dei ricchi?”106. Si può concludere pertanto che l'audace costruzione del Comitato di mendicità o la legislazione delle assemblee rivoluzionarie non erano che paraventi per assicurare l'egemonia economica degli industriali? Non vi è un grande merito nell'interpretare la storia col senno di poi, aggiustandola alla luce di ciò che è accaduto dopo. La mia interpretazione è piuttosto che l'ambiguità costante sottolineata attraverso l'analisi di queste posizioni fosse un'ambiguità reale, presente negli spiriti perché lo era anche nei fatti. Ecco perché, a una lettura cinica (la borghesia in ascesa ha manipolato tutto in funzione del suo interesse), ne preferisco un'altra che permetta di ricollocare questo 106 Cit. in Maurice Bouvier-Ajam, Histoire du travail en France, cit., p. 707. Notiamo tuttavia che l'argomentazione di Marat non è economica, ma politica. Egli denuncia certamente i datori di lavoro che “hanno sottratto alla classe innumerevole della manodopera e degli operai il diritto di riunirsi in assemblee per discutere in regola dei propri interessi, sotto il pretesto che queste assemblee avrebbero potuto resuscitare le corporazioni che erano state abolite”. Ma è perché “essi volevano isolare i cittadini e impedire loro di occuparsi in comune della cosa pubblica” (“L'ami du peuple”, 18 giugno 1791). Di fatto, la posta in gioco della legge “Le Chapelier” era politica almeno quanto era economica: proibire le società e i club la cui azione impediva la stabilizzazione del nuovo regime, e il seguito della storia confermerà la gravità di questo pericolo. Ma mi attengo qui agli effetti economici e sociali della legge “Le Chapelier”.

episodio rivoluzionario nella lunga durata e introduca una migliore comprensione delle peripezie future della questione sociale. L'ipotesi è che queste costruzioni abbiano un carattere utopico, nel senso in cui Pierre Rosanvallon parla di “capitalismo utopico”107. Questi riformatori avrebbero estrapolato, spinto al limite, le caratteristiche più dinamiche dello sviluppo economico e sociale che osservavano alla fine del XVIII secolo. Avrebbero proiettato il suo compimento completo senza vedere, vale a dire senza poter parallelamente anticipare le contropartite sociali di questa realizzazione, che non erano ancora pienamente leggibili a partire dalla situazione del XVIII secolo. In questo non fanno, d'altronde, che assecondare la tendenza profonda di tutta la critica “progressista” del secolo, così ben analizzata da Reinhart Koselleck, cioè “proclamare la vera realtà di ciò che è richiesto dalla razionalità”108. Ma se illusione vi è, non è sorretta dalla realtà economica e sociale dell'epoca? Che cosa è, in effetti, il capitalismo del XVIII secolo? Fernand Braudel ha mostrato che una forma di capitalismo costituiva già il settore dinamico delle società preindustriali. “Modernità, agilità, razionalità […]. Esso è la punta avanzata della vita economica moderna”109. E lo è “dai suoi lontani inizi”, allorché si impone nel Medioevo in alcune città italiane e fiamminghe. Ma 107 Cfr. Pierre Rosanvallon, Le capitalisme utopique, cit. Cfr. anche Denis Meuret, A Political Genealogy of Political Economy, in “Economy and Society”, n. 2, 1988, pp. 22-250. 108 Reinhart Koselleck, Le règne de la critique, Paris, Minuit, 1979; trad. it. Critica illuministica e crisi della società borghese, Bologna, il Mulino, 1994. 109 Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme. Xve-XVIIIe siècles, t. III, Les temps du monde, Paris, Colin, 1967, p. 11; trad. it. Civiltà materiale, economia e capitalismo. Secoli XV-XVIII, Torino, Einaudi, 1982.

non regna che su settori assai limitati di scambi, la finanza, il commercio internazionale, minuscole pellicole sulla superficie di ciò che Braudel chiama la vita economica, che resta circoscritta dalle regolazioni tradizionali e alimentata da circuiti di debole portata – e ancora più profondamente nella vita materiale delle routines e delle ripetizioni che condizionano il tempo lungo, quasi immobile, della storia. Ora, nel XVIII secolo, rispetto a questi “lontani inizi” questo settore capitalista di punta si è considerevolmente sviluppato, ma la sua posizione strutturale in rapporto alla “vita economica” e alla “vita materiale” non è stata sostanzialmente trasformata. Si è in diritto di parlare di progressi fulminanti della finanza e del grande commercio, di una progressione più lenta ma ancora sostanziale dell'industria, più lenta ancora dell'agricoltura. Tuttavia, questo settore dinamico che “traina la crescita” diremmo oggi, è ancora straordinariamente limitato. In una logica comparabile a quella di Braudel, Pierre Chaunu distingue tre cerchi concentrici di rapporti economici e sociali 110. Nel primo, di qualche chilometro di raggio, si effettua all'incirca il 90% degli scambi di tutto ciò che si produce e si consuma (ivi comprese le donne sul mercato matrimoniale). Il secondo cerchio, di qualche centinaio di chilometri quadrati, corrisponde a un “paese” nel senso antico del termine e include il mercato di una o due piccole città. Esso mobilita quasi il 10% degli scambi. Infine, il terzo cerchio, quello dei vasti traffici, del grande commercio, degli scambi dei prodotti manifatturieri, ha assunto una dimensione sempre più internazionale, soprattutto con il “disincastro” della vecchia cristianità occidentale nel XVII secolo. Esso permette immense for110 Cfr. Pierre Chaunu, Histoire, science sociale, cit.

tune commerciali e finanziarie, ma non rappresenta che il centesimo dell'insieme degli scambi. Se esercita un “impatto globale” sull'insieme della struttura, il suo posto resta periferico. Sempre nello stesso ordine di idee, Carlo Cipolla ha calcolato che nel corso dei secoli “preindustriali”, perché dieci persone mangiassero bisognava che sette o otto fra esse restassero attaccate alla terra111. Questa necessità, retaggio della debolezza delle tecnologie di trasformazione, rende conto non solo della schiacciante preminenza dell'agricoltura nell'economia, ma anche della massiccia territorializzazione delle popolazioni e del carattere geograficamente assai limitato e chiuso in sé stesso della maggior parte degli scambi economici e sociali. Il XVIII secolo, e soprattutto la sua seconda metà, rappresenta il momento nel quale questi equilibri ancestrali si mettono a vacillare112. Momento di “de-conversione” che evoca ciò che è potuto accadere per tutt'altre regioni e su un'altra scala a metà del XVI secolo. Una dinamica economica, commerciale e anche industriale sempre più insistente continua a scontrarsi con la massiccia immobilità dell'insieme della società. Per i contemporanei, non doveva essere evidente che alcuni segni anche importanti (l'accelerazione della crescita demografica, industriale e soprat111 Cfr. Carlo Maria Cipolla, Before the Industrial Revolution, cit. 112 Ricordiamo che la maggior parte degli storici sono oggi d'accordo nel datare l'avvento della rivoluzione industriale negli anni 1770 in Inghilterra. Il che non significa evidentemente né che il decollo si sia prodotto bruscamente, poiché è stato preparato da diversi secoli di lente trasformazioni, né che esso si sia imposto immediatamente in maniera egemonica sull'insieme dell'area geografica che esso scuote. La rivoluzione industriale va di pari passo, sul continente europeo, con un accresciuto sviluppo della proto-industria; cfr. il capitolo precedente. L'avvenire avanza mascherato. Di qui la difficoltà per i contemporanei di decifrarlo sotto le permanenze.

tutto commerciale, le prime macchine, le prime fabbriche ancora modeste...) sfociavano in un tipo nuovo di organizzazione economica e sociale, di fronte al peso ancora schiacciante, in tutti i campi, dei vincoli secolari. I promotori della modernità si sono proposti di estendere all'intero corpo sociale i benefici di trasformazioni che essi osservano in settori ancora limitati. Estrapolano una dinamica ancora in gestazione. In questo consiste precisamente il carattere “utopico” della loro costruzione. Essi non descrivono uno stato generale, ma proiettano su scala globale il compimento di un processo che, se non è più marginale, resta intralciato da tutte le eredità, che si tratti di strutture politiche, di regolazioni giuridiche, delle maniere di sfruttare la terra o di far lavorare gli uomini. Si può rimproverare loro di non aver anticipato gli effetti sociali di trasformazioni per giunta non ancora compiute, visto che la distruzione delle regolazioni ai loro occhi superate stava anche per rivoluzionare i rapporti sociali di base, in particolare il rapporto con la terra e il rapporto col lavoro? Le analisi di Karl Polanyi chiariscono due specificità essenziali innestate dalla rivoluzione industriale: il carattere eccezionale della forma del mercato capitalistico “autoregolato” in rapporto a tutte le organizzazioni anteriori di scambi e di economie; il fatto che, per imporsi, esso debba rimodellare l'insieme della società a sua immagine, sotto il regno della merce113. Tuttavia, Polanyi, e altri prima di lui, fra cui Marx, produrranno questo tipo di analisi a partire dalla situazione del XIX secolo, allorché le conseguenze sociali di queste trasformazioni, in particolare l'apparizione di nuove forme di pauperismo, si saranno imposte su larga scala. Ma ciò era possi113 Cfr. Karl Polanyi, La Grande Transformation, cit.

bile a partire dalla situazione economica della seconda metà del XVIII secolo? Un discorso “progressista” pressappoco di questo tenore poteva allora essere considerato senza troppa cattiva fede: il regno è ancora povero, e la maggior parte dei sudditi sono sfortunati perché la società è bloccata. Ponendo fine a questi blocchi, la produzione agricola e industriale si accrescerà, il commercio prospererà, la domanda solvibile aumenterà, rilanciando la produzione e assicurando il progresso indefinito della ricchezza nazionale. Il lavoratore stesso parteciperà dei frutti di questa ricchezza, la sua parte si accrescerà in funzione dello sviluppo della fortuna comune, e la quasi-piena-occupazione sarà assicurata grazie all'accrescimento della domanda solvibile. È una traduzione moderna, “keynesiana” se si vuole, di numerosi testi dell'epoca. Per esempio questo: I poveri validi non sono dunque altro che dei lavoratori a giornata senza proprietà. Avviate dei lavori, aprite dei laboratori, facilitate per la manodopera le agevolazioni nella vendita: coloro che, con il bisogno di lavoro, non riconoscessero apparentemente questo bisogno, se mendicano, saranno repressi; se non mendicano, troveranno senza dubbio altrove i mezzi per vivere114.

114 Camille Bloch, Alexandre Tuetey, Procès Verbaux, cit., “Troisième Rapport”, p. 381. Nello stesso spirito, Leroy d'Allarde, autore nel febbraio 1791 di un rapporto che formula le proposte riprese dalla legge “Le Chapelier” scrive: “L'anima del commercio è l'industria, l'anima dell'industria è la libertà. Si temerebbe la moltiplicazione degli operai? Il loro numero si compone sempre in ragione della popolazione, oppure, il che conduce allo stesso, in ragione dei bisogni del consumo” (cit. in Maurice Bouvier-Ajam, Histoire du travail en France, cit., t. II, p. 25).

Sottolineiamo tuttavia il “senza dubbio”: esso tradisce l'ambiguità soggiacente a questa politica e rivela che l'ottimismo di tante dichiarazioni celebranti un avvenire migliore non è pura ingenuità. Ma non è per questo puro cinismo. Niente si ancora giocato. La relativa condivisione dei benefici della crescita, il riequilibrio spontaneo della domanda realizzante il quasi-pieno-impiego non sono delle certezze, come non è ancora una certezza il futuro sfruttamento del proletariato. Perché questa si riveli in tutta la sua ampiezza, bisognerà non solo che la generalizzazione del mercato sia proclamata, ma che sia già realizzata su larga scala. Tuttavia l'ottimismo liberale, versione XVIII secolo, è fragile per una ragione di fondo, che ora noi possiamo comprendere. La costruzione d'insieme che mette in primo piano il libero accesso al lavoro comporta un anello debole. Essa fa portare il peso della nuova libertà al lavoratore manuale, vale a dire a un individuo senza risorse, senza dignità, e il cui statuto – bisogna di nuovo insistervi – resta prossimo a quello che si attribuisce all'epoca alla “canaglia”. L'abate Sièyes è stato, si sa, il principale ispiratore della Dichiarazione dei diritti dell'uomo. È anche lui tuttavia che ha scritto: Fra i disgraziati destinati ai lavori più penosi, produttori dell'altrui godimento e riceventi a malapena ciò di cui sostentare il proprio corpo sofferente e pieno di bisogni, in questa folla immensa di strumenti bipedi, senza libertà, senza moralità, che non posseggono che delle mani che guadagnano poco e un'anima consumata, sono questi

che voi chiamate uomini? Ve n'è uno solo che sia capace di entrare in società?115

L'opinione di Sieyès non ha nulla di eccezionale. L'Assemblea nazionale adotta, tre giorni dopo il voto della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, la distinzione fra cittadini attivi e cittadini passivi che esclude dalla partecipazione alla vita politica due milioni e settecentomila francesi di sesso maschile che non pagano un'imposta equivalente a tre giornate di lavoro, vale a dire la maggioranza dei salariati e più di un terzo degli uomini in età da voto116. Il giornalista Loustalot dichiara in questa occasione: “nessun cittadino deve essere privato della facoltà di votare dal diritto, e occorre che di fatto tutti i proletari, tutti i cittadini suscettibili di essere corrotti ne siano privati”117. Paradosso chiarificante dell'argomentazione: in nome del diritto che deve imporsi a tutti, i proletari devono essere di fatto esclusi dalla cittadinanza completa. Questa suppone in effetti 115 Emmanuel-Joseph Sieyès, Écrits politiques, Paris, Éditions des Archives Contemporaines, 1985, p. 81. Gli individui che mancano di ogni supporto e di ogni risorsa non sono capaci di “entrare in società”, di costituire propriamente parlando dei collettivi, essi formano soltanto una raccolta di “bipedi”; è senza dubbio una delle prime formulazioni esplicite della tematica dell'“individualismo negativo” la cui importanza sarà sottolineata nella conclusione. 116 Sulle implicazioni di questa discriminazione politica, cfr. Olivier Lecour-Grandmaison, Les citoyennetés en révolution (1789-1794), thèse pour le doctorat de Sciences politiques, Université Paris I, 1991, poi Paris, PUF, 1992, e Pierre Rosanvallon, Le sacre du citoyen. Histoire du suffrage en France, Paris, Gallimard, 1993; trad. it. La rivoluzione dell'uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Milano, Anabasi, 1994. 117 Élisée Loustalot in “Les révolutions de Paris”, n. 17, 1789, cit. in Jean Bart, Le prolétaire présent/absent, in Actes du colloque sur la Révolution française et les processus de socialisation de l'homme, Université de Rouen, Éditions Messidor, 1988, p. 402.

l'indipendenza e, come il domestico assoggettato al suo padrone, il proletario assoggettato al suo bisogno è un essere corruttibile, incapace di civismo. Non si può eludere una questione grave qualificando semplicemente come “di destra” o “borghesi” queste posizioni. Saint-Just, che non si può accusare di moderatismo, lascia ugualmente trasparire il suo disprezzo per il lavoro “industriale”: “Un mestiere si accorda male con il vero cittadino: la mano dell'uomo non è fatta che per la terra e per le armi” 118. Saint-Just ma anche, un palmo più sopra ancora nella radicalità rivoluzionaria, Gracco Babeuf, giustiziato, si sa, per aver fomentato la Congiura degli Eguali. La necessità che egli sente con passione di porre fine alla scandalosa disuguaglianza di condizioni non lo conduce tuttavia a rivalutare la condizione salariale, al contrario: “Facciamo in modo che gli uomini laboriosi godano, per mezzo di un lavoro assai moderato e senza ricevere salario, di un onesto e inalterabile agio, e la benda cadrà presto dagli occhi dei cittadini sviati dai pregiudizi e dalla routine”119. Babeuf condanna decisamente l'oziosità, fonte del parassitismo dei possidenti e dell'ingiustizia sociale. Ma, come contropartita di un lavoro moderato, egli preconizza una sorta di rendita sociale e non un salario, del cui carattere degradante è consapevole. Il peso schiacciante dell'indegnità della situazione salariale, di cui si sono esaminate le secolari radici, non può essere annichilito dalla semplice affermazione di principio del libero accesso 118 Cit. in Albert Ollivier, Saint-Just ou la force des choses, Paris, Gallimard, 1954, p. 18. 119 Cit. in Philippe Buonarroti, Conspiration pour l'égalité dite de Babuef: suivie du proces auquel elle donna lieu, et des pieces justificatives, Paris, Éditions Sociales, 1957; trad. it. Cospirazione per l'eguaglianza detta di Babeuf, Torino, Einaudi, 1971.

al lavoro. Il tallone d'Achille del liberalismo – perlomeno se ha voluto portare anche un progetto di giustizia sociale – è senza dubbio stata l'insigne debolezza sociale di questa condizione. “Tocca all'operaio mantenere la convenzione che ha stipulato con colui che lo impiega”, dichiara il preambolo della legge “Le Chapelier”. Ma quale può essere nei fatti la traduzione di questo ideale contrattuale se il salariato reale non dispone di altro che degli attributi negativi della libertà? La promozione del contratto di lavoro sfocia nella scoperta dell'impotenza del contratto nel fondare un ordine stabile. Di fronte alla maggioranza delle dichiarazioni liberali già evocate, la cui ambiguità pecca di ottimismo, bisognava senza dubbio essere straordinariamente lucidi per imbastire, sin dalla seconda metà del XVIII secolo, un discorso privo di equivoci. Un uomo almeno lo fu, Turgot, che anticipa già la “legge bronzea” dei salari e “l'esercito di riserva” industriale: Il semplice operaio che non possiede altro che le sue braccia e la sua industria non ha niente finché non riesce a vendere ad altri la propria fatica. Egli la vende a più o meno caro prezzo; ma questo prezzo più o meno alto non dipende da lui solo: risulta dall'accordo che è fatto con colui che paga il suo lavoro. Costui lo paga il meno caro che può: poiché ha la scelta tra un gran numero di operai, preferisce colui che lavora a più buon mercato. Gli operai sono dunque obbligati ad abbassare il prezzo a scapito gli uni degli altri. In ogni genere di lavoro, deve accadere, e in effetti accade, che il lavoro dell'operaio si limiti a ciò che gli è necessario per assicurare la propria sussistenza120. 120 Anne Robert Jacques Turgot, Formation et distribution des richesses,

La lucidità di Turgot è premonitrice? In effetti, Malthus non è molto lontano121, e in precedenza l'economia politica inglese aveva già abbozzato una riflessione sul bisogno suscettibile di sovvertire l'idea di natura e di svelare la perversità del contratto. Se si aboliscono le protezioni tradizionali, si rischia di far affiorare, non proprio la razionalità delle leggi naturali, ma la forza biologica degli istinti: gli svantaggiati saranno allora costretti dalla necessità naturale, vale a dire dalla fame 122. Sullo sfondo della reciprocità giuridica del contratto di lavoro si profila così l'alterità fondamentale delle posizioni sociali dei contraenti, e lo spazio pacificato delle relazioni mercantili si tramuta in un campo di battaglia per la vita se si reintroduce la dimensione temporale nel contratto di lavoro. Il datore di lavoro, lui, può attendere, può contrattare “liberamente”, perché non è sotto il regno del bisogno123. Il lavoratore è determinato biologicamente a vendere la in Oeuvres de Turgot et documents le concernant, avec biographie et notes par Gustave Schelle, 5 voll., Paris, Alcan, 1913-1923, t. II, p. 537, cit. in Henri Hauser, Les débuts du capitalisme, cit. 121 Thomas Robert Malthus, An Essay on the Principle of Population, as it affects the Future Improvement of Society. With Remarks on the Speculations of Mr. Godwin, M. Condorcet, and other writers, London, printed for J. Johnson, in St. Paul's church-yard, 1798; trad. it. Saggio sul principio di popolazione /1798) seguito da Esame sommario del principio di popolazione (1830), a cura di Guido Maggioni, Torino, Einaudi, 1977. 122 “Coloro che si guadagnano da vivere con un lavoro quotidiano non hanno alcun altro appiglio che i propri bisogni per rendersi utili, bisogni che è prudente alleviare, ma falso voler guarire. […] In una nazione libera che proibisce la schiavitù, la ricchezza più sicura è legata alla moltitudine dei poveri laboriosi” (Bernard de Mandeville, The Fable of the Bees, V edizione, London, 1728, pp. 213 e 228; trad. it. La favola delle api, ovvero, vizi privati, pubblici benefici, a cura di Tito Magri, RomaBari, Laterza, 2018. 123 Adam Smith stesso aveva percepito questo ruolo giocato dall'urgenza,

sua forza-lavoro perché si trova nell'urgenza, ha bisogno fin da subito del suo salario per sopravvivere. Cosa che Edmund Burke, per quanto “reazionario” fosse, o piuttosto sicuramente perché era e perché difendeva le tutele tradizionali contro la logica liberale, ha perfettamente colto: Il lavoro è una merce e, come tale, un articolo di commercio. Allorché una merce è immessa sul mercato, la necessità che il prezzo aumenti non dipende dal venditore, ma dal compratore. L'impossibilità di sopravvivere [the impossibility of subsistance] dell'uomo che apporta il suo lavoro al mercato è totalmente fuori questione secondo questo modo di vedere le cose. La sola domanda è: che cosa vale ciò per il compratore?124

In Francia, tuttavia, tutto accade come se la riflessione di coloro che si fanno i portavoce del progresso, nel momento in cui si abbozza la rivoluzione industriale, fosse sovradeterminata politicamente125. O, per dirlo altrimenti, la loro lettura della situaziovale a dire dalla temporalità, che reintroduce gli istinti di lotta, la vita e la morte nell'universo asettico delle leggi economiche: “A lungo andare, […] l'operaio è anche necessario al padrone quanto il padrone all'operaio, ma il bisogno che essi hanno l'uno dell'altro non è altrettanto urgente” (Recherches sur la nature et les causes de la richesse des nations, cit., t. I, cap. V). 124 Edmund Burke, Thoughts and Details on Scarcity originally presented to the Right Hon. William Pitt, in the month of Novembre 1795, in The Works of Edmund Burke, Boston, Little&Brown, 1839, 9 voll., t. V, p. 142 (trad. it. Pensieri sulla scarsità, a cura di Azio Sezzi, Roma, manifestolibri, 1997), cit. in Reinhard Bendix, Work and Autority in Industry, New York, Wiley, 1956, p. 75; trad. it. Lavoro e autorità nell'industria, a cura di Luciano Gallino, Milano, Etas Kompass, 1973. 125 Due ipotesi complementari per rendere conto di questa differenza: in Inghilterra, la rivoluzione industriale, più avanzata, permette di percepire prima alcune delle sue conseguenze sociali; dei quadri politici e so-

ne politica è chiara, mentre quella della situazione sociale resta confusa. Il volontarismo politico si impone ai loro occhi, perché è necessario per liberare le potenzialità dell'economia, ma gli effetti sociali di questa rottura sono incerti. I costi sociali della libertà di intraprendere non saranno esorbitanti? Questa situazione è già gravida di scontri fra coloro che non potranno essere soddisfatti di un regime che si accontenta di liberare le leggi del mercato senza toccare la loro condizione miserabile e coloro che pretendono di aver risolto la questione sociale dal momento che hanno rimosso gli ostacoli allo sviluppo economico. Eppure, bisogna riconoscere una coerenza a questa risposta alla questione sociale attraverso la liberalizzazione del mercato del lavoro. Essa prende in contropiede i sistemi precedenti di vincoli per promuovere il progresso. Sposa così, al contempo, le esigenze della rivoluzione politica e della razionalità economica. Opera la duplice modernizzazione dello Stato e dell'economia. Ma non resisterà alla dinamica della rivoluzione industriale, perché il nuovo ordine economico costituirà un fattore di deregolazioni sociali. Alla fine del XVIII secolo, tuttavia, questa è una metamorfosi ancora a venire.

ciali più morbidi vi fanno meno apertamente ostacolo alla promozione del nuovo regime degli scambi.

SECONDA PARTE

DAL CONTRATTO ALLO STATUS

Gli sconvolgimenti avvenuti alla fine del XVIII secolo hanno liberato l'accesso al lavoro, ma non hanno fatto niente, o molto poco, per la promozione della condizione salariale. L'operaio dovrà ormai, secondo la forte espressione di Turgot, “vendere ad altri la propria fatica”, assolutamente a casaccio. La contrattualizzazione del rapporto di lavoro non è in grado di rimediare all'indegnità del salariato che resta, se non l'ultimo, almeno uno degli ultimi stati. Appena al di sotto ci sono gli strati più vili del popolaccio che vivono di espedienti e di delitti, ma la linea di demarcazione è difficile da tracciare: ben presto si parlerà di “classi pericolose” per denominare una parte delle classi lavoratrici. L'avvento di un nuovo stato salariale, a partire dalla contrattualizzazione dei rapporti di lavoro, si presenta così come il grado zero di una condizione salariale, se si intende con questa il riconoscimento di uno statuto al quale sono riconnesse garanzie e diritti. Privato dei propri supporti tutelari, lo stato salariale non è solamente vulnerabile, diventa invivibile. Ciò che è stato proposto al momento della caduta dell'Ancien Régime come la risposta moderna alla questione sociale non potrà, dunque, istituirsi come tale. Il principio del libero accesso al

lavoro apre un'era di turbolenze e di conflitti. La questione sociale si riformula a partire da nuovi livelli d'instabilità che sono come l'ombra gettata dallo sviluppo economico. Lasciato a sé stesso, il processo di industrializzazione genera un mostro, il pauperismo. Come trovare un compromesso tra il mercato e il lavoro, che assicuri la pace sociale e riassorba la disaffiliazione di massa creata dall'industrializzazione? Tale questione diventerà quella dell'integrazione della classe operaia. Ma le risposte date non saranno univoche. I regimi che raccomandano l'iniziativa individuale e la libertà degli scambi faranno di tutto, in un primo tempo, per tenere il potere politico al di fuori di queste partite. Una politica sociale senza Stato è possibile, il liberalismo l'ha inventata. Essa mette in campo nuove tutele per rafforzare il contratto, ricostruire dell'extra-salariale intorno al salariato. Il patronato, filantropico o padronale, non impone soltanto dei modi di dipendenza personale, ma rappresenta un vero e proprio piano di governabilità politica che mira a ristrutturare il mondo del lavoro a partire da un sistema di obbligazioni morali (cfr. cap. V). È dopo il suo relativo scacco che si impongono nuove strategie ancorate allo Stato. Lo Stato sociale prende atto degli effetti perversi delle regolazioni puramente economiche e dell'insufficienza delle regolazioni morali. Si sforza di garantire una concezione della sicurezza (sociale) le cui protezioni dipendano più dal lavoro che dalla proprietà. Non è per questo l'espressione di un volontarismo politico. Al contrario, i dispositivi specifici dispiegati in nome della solidarietà sono invece dei mezzi per evitare la trasformazione direttamente politica delle strutture della società. Che ciascuno resti al suo posto, ma abbia un posto. Fare del sociale, al posto di fare l'economia del socialismo: lo Stato sociale,

nella sua filosofia come nei suoi modi di strumentalizzazione pratica, è un compromesso. Compromesso tra gli interessi del mercato e le rivendicazioni del lavoro: gli arbitrati che istituisce tra le differenti “parti sociali” dipendono dalla situazione che queste occupano le une in rapporto alle altre. Ciò ha comportato, prima della contemporaneità, almeno due versioni: una versione minimalista, sotto la III Repubblica1, corrispondente a una situazione salariale ancora assai vulnerabile e a un mercato ancora abbandonato essenzialmente alle sue autoregolamentazioni (cfr. cap. VI); una versione massimalista, dopo il compromesso keynesiano che integra la crescita economica, il quasi-pieno-impiego e lo sviluppo del diritto del lavoro nella strutturazione della società industriale. Il suo margine di manovra è allora tanto più ampio quanto più un “circolo virtuoso” sembra rendere compatibili gli interessi della produzione e quelli dei produttori. A dir poco, l'espansione, sul doppio piano della produttività e dei “riconoscimenti sociali”, permette di sperare che anche chi ottiene il minimo, nondimeno avrà in avvenire di più (cfr. cap. VII). Questa situazione non è più la nostra. Sul versante del lavoro, come sul versante delle protezioni, sembra ormai innescato un processo di degradazione, e gli effetti di questa deriva si sommano in un circolo questa volta vizioso. Senza dubbio non si era capito a che punto la nostra concezione della sicurezza dipendesse dal tipo di strutturazione della condizione salariale che si è imposta nella società industriale. Fino a che punto anche il lavoro è più che lavoro: quando si sfalda, i modi di socializzazione che 1 Si designa con “Terza Repubblica” la forma di governo che va dal crollo del Secondo Impero nel 1870 al 1940, quando si instaura il regime di Vichy, dopo l'invasione tedesca [N.d.R.].

vi erano associati e le forme d'integrazione che nutriva rischiano di fracassarsi. Che cosa diviene lo Stato sociale in questa nuova congiuntura? Non è più possibile contentarsi di colmare dei “buchi” residuali nelle protezioni, né continuare sullo slancio delle politiche integrative di regolazione delle ineguaglianze e di pari opportunità. Questo è il bilancio da trarre dalle trasformazioni in corso sul piano dell'organizzazione – o della disorganizzazione – del lavoro e della strutturazione – o della destrutturazione – della sociabilità. Esse invitano a riformulare oggi la questione sociale nei termini di un ritorno della vulnerabilità di massa che si credeva scongiurata (cfr. cap. VIII). Tuttavia, lo Stato sociale resta la nostra eredità, ed è anche senza dubbio il nostro orizzonte. La nostra eredità: noi viviamo ancora nel mezzo di potenti sistemi di protezione, ed è questo che dà alla situazione attuale la propria specificità. Questa vulnerabilità post-protezioni, e con protezioni, non è la vulnerabilità antecedente alle protezioni, della prima metà del XIX secolo. Ma lo Stato sociale è anche un orizzonte. La messa in prospettiva storica mostra che esso è la forma – ma la forma variabile – che prende il compromesso tra la dinamica economica, retta dalla ricerca del profitto, e la preoccupazione di protezione, retta dalle esigenze della solidarietà. Si può pensare una società senza un tale compromesso, per quanto differente da quello che ha prevalso fin qui? Si può accettare di ritornare all'insicurezza sociale permanente antecedente alle protezioni? Se non è possibile, bisognerà pur rinegoziare le relazioni tra il mercato e il lavoro elaborate nel grembo della società industriale quando era egemonica. Lo si chiarirà: quel che la storia sociale ha elaborato di inedito dopo il XIX secolo è la disconnessione almeno parziale della sicurezza e

della proprietà, e il sottile accoppiamento della sicurezza e del lavoro. Salvo pensare che ci si trovi al di là del lavoro e a consentire di tornare al di qua della sicurezza, è una nuova versione di questo montaggio che è ora da inventare.

V. UNA POLITICA SENZA STATO

L'Ancien Régime aveva dispiegato interventi pubblici energici nel campo sociale: politiche di lotta contro la mendicità e il vagabondaggio, sostegno della monarchia all'organizzazione tradizionale del lavoro, iniziative del potere reale per creare istituzioni di lavoro, ospedali generali, “ateliers di carità”, depositi di mendicità... In Inghilterra, gli interventi pubblici avevano permesso la costruzione di un vero e proprio sistema di soccorsi alimentato da una tassa obbligatoria. Sempre in Inghilterra, la scena politica durante il primo terzo del XIX secolo è animata da un grande dibattito pro o contro l'abolizione delle Poor laws, cioè della “carità legale” che assicura in principio un reddito minimo a tutti gli indigenti. E quando, supportata dalla critica degli economisti, Malthus in testa, la tendenza abolizionista sembra spuntarla, è di fatto un nuovo sistema pubblico di soccorsi che mette in campo la legislazione riformata nel 1834. Sistema molto duro, centrato sulla workhouse, cioè sul lavoro obbligatorio degli indigenti in condizioni sovente inumane, ma sistema centralizza-

to, nazionale, che si vuole omogeneo, e che è finanziato con fondi pubblici1. Niente del genere in Francia. Scarso dibattito pubblico, prima del 1848, sulle questioni dell'indigenza e del lavoro 2. Riferimenti costantemente critici alla “carità legale” inglese, accusata di volta in volta di avere un costo finanziario esorbitante e di alimentare tra i poveri una mentalità da assistiti. Questa situazione è paradossale. La prima metà del XIX secolo è in effetti segnata dalla presa di coscienza di una forma di miseria che sembra accompagnare lo sviluppo della ricchezza e il progresso della civilizzazione. La questione sociale si impone con rinnovati costi perché questi “nuovi poveri” sono ora piantati al cuore della società, formano la punta di diamante del suo apparato produttivo. Una società può restare indifferente dinanzi al rischio della propria frattura? La società della prima metà del XIX secolo non lo è stata. Essa mobiliterà strategie originali che ostentano le loro pretese “sociali”. Si può dunque “fare del sociale”, e andare assai lontano in questo senso, senza riferirsi allo Stato e anche, al contrario, per scongiurare il suo intervento. Parallelamente ai contratti che regolano le relazioni mercantili e i rapporti sociali tra eguali, nuove tutele e un patronato illuminato devono ricreare reti di interdipendenza tra superiori e inferiori, tra il popolo minuto e le sue guide preoccupate del bene comune. Una falla, e anche senza 1 Cfr. John Riddoch Poynter, Society and Pauperism. English Ideas on Poor Relief, 1797-1834, cit. 2 Salvo la discussione parlamentare che ha preceduto il voto della legge che limitava il tempo di lavoro dei bambini nel marzo 1841. Eccezione di cui si dirà il senso più avanti: ne andava della riproduzione della vita dei lavoratori, piuttosto che di un miglioramento delle loro condizioni di lavoro.

dubbio una contraddizione, al cuore di questi dispositivi per il resto sofisticati: l'efficacia morale presuppone l'adesione di coloro che si moralizzano e deve così perpetuare la situazione di minorità sociale degli assoggettati. Di modo che la storia di una politica senza Stato annovera anche le disavventure di una concezione morale del sociale che sarà recuperata dalla politica.

1. I Miserabili La storia sociale del XIX secolo si apre con un enigma, l'inquietante stranezza di una situazione inedita: Quando si percorrono le diverse contrade d'Europa, si è colpiti da uno spettacolo straordinario e in apparenza inspiegabile. I paesi che appaiono più miserabili sono quelli che, in realtà, contano meno indigenti, e presso i popoli di cui ammirate l'opulenza, una parte della popolazione è obbligata per vivere a far ricorso ai doni dell'altra3.

E Alexis de Tocqueville – che, come pressappoco tutti i pensatori sociali dell'epoca, ha anche lui prodotto la sua memoria sul pauperismo – continua la sua argomentazione con una comparazione tra il Portogallo e l'Inghilterra. Il Portogallo è quel che si potrebbe chiamare una società preindustriale, o d'Ancien Régime, il contrario di una società opulenta, ma in cui la povertà di 3 Alexis de Tocqueville, Mémoire sur le paupérisme, letta all'Académie di Cherbourg nel 1835, in “Mémoires de la Société royale académique de Cherbourg”, 1835; poi anche in “Revue internationale d'action communautaire”, n. 15/16, 1986, pp. 27-40; trad. it. in Id., Il pauperismo, a cura di Mario Tesini, Roma, Edizioni Lavoro, 1998.

massa è appena visibile, perché è una povertà integrata, presa in carico dalle reti primarie della sociabilità paesana o dalle antiquate forme d'assistenza di cui la Chiesa cattolica è il grande committente. L'Inghilterra sarebbe piuttosto l'America, il Giappone dell'epoca. La rivoluzione industriale è stata un fantastico moltiplicatore di ricchezze che le ha dato un vantaggio notevole in Europa, e a fortiori sui paesi a forte dominante agricola come il Portogallo. Eppure l'indigenza è onnipresente, insistente, di massa. Tocqueville non dà prova qui di alcuna originalità. Eugène Buret, per esempio, giunge alla stessa constatazione, e procede alla medesima messa in prospettiva storica: “Nella situazione attuale, è sfortunatamente fin troppo vero che la miseria ha seguito esattamente le differenti popolazioni in civilizzazione e ricchezza. Se si consulta la statistica, si vede che le nazioni occupano pressappoco lo stesso posto nella scala della miseria e in quella della ricchezza”. E aggiunge che la parola “pauperismo”, che esprime questa nuova povertà, è “importata dall'Inghilterra, che meritava sicuramente di dar nome al male che essa possiede da prima di tutte le altre nazioni”4. “Nuova povertà”, in effetti, e di cui si è dimenticato a che punto la scoperta è potuta apparire letteralmente sbalorditiva, perché segnava un contrasto assoluto in rapporto al “capitalismo utopico”, all'ottimismo liberale versione XVIII secolo. Questa indigenza che “sotto il nome nuovo e tristemente energico di pau4 Eugène Buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, cit., p. 120. Buret, da parte sua, oppone “la miseria [che] è un fenomeno di civilizzazione e suppone il risveglio e anche uno sviluppo avanzato della coscienza”, e “le popolazioni che sono rimaste nella loro primitiva indigenza, come i Corsi e i bassi Bretoni”.

perismo invade classi intere di popolazione”, come dice da parte sua Villeneuve-Bargemont, “tende ad accrescersi progressivamente in ragione stessa della produzione industriale. Essa non è più un accidente, ma la condizione forzata di una gran parte dei membri della società”. Ecco perché “il pauperismo è una minaccia all'ordine politico e sociale”5. In effetti, esso pone la nuova questione sociale. Due caratteristiche principali del pauperismo permettono di afferrare la novità di questa riformulazione. Da una parte, esso prende in contropiede il pensiero liberale elaborato lungo il XVIII secolo, per il quale “un uomo non è povero perché non ha niente, ma perché non lavora” (Montesquieu). Bisognava dunque “aprire gli ateliers”, “far buon uso dei mezzi di lavoro” (La Rochefoucauld-Liancourt). Ecco il risultato. Esiste un'indigenza che non è dovuta all'assenza di lavoro ma alla nuova organizzazione del lavoro, vale a dire al lavoro “liberato”, è cioè figlia dell'industrializzazione. Così Luigi-Napoleone Bonaparte, che ha proposto, anch'egli, il proprio programma di estinzione del pauperismo: L'industria, questa fonte di ricchezze, non ha oggi né regola, né organizzazione, né scopo. È una macchina che funziona senza regolatore; poco gli importa della forza motrice che impiega. Stritolando in egual modo nei suoi ingranaggi gli uomini come la materia, spopola le campagne, agglomera la popolazione in spazi senza aria, indebolisce lo spirito come il corpo, e getta poi sul lastrico, quando non sa più che farsene, gli uomini che hanno sa5 Vicomte Alban de Villeneuve-Bargemont, Économie politique chrétienne, cit.

crificato per arricchirla la propria forza, la propria gioventù, la propria esistenza. Vero e proprio Saturno del lavoro, l'industria divora i suoi figli e non vive che della loro morte6.

Il pauperismo sfida così la modernità a superare la sua malattia infantile. Ma è una malattia infantile, o il destino delle società industriali? D'altra parte, le innumerevoli condanne globali del fenomeno, gli autori che ne hanno tentato un'analisi precisa, come Eugène Buret, mostrano che è l'effetto diretto della nuova organizzazione del lavoro, fattore permanente d'insicurezza sociale. “Queste popolazioni di lavoratori, sempre più pressate, non hanno neanche la sicurezza di essere sempre impiegate; l'industria che le ha convocate non le fa venire se non quando ha bisogno di loro e, quanto prima può farne a meno, essa le abbandona senza la minima cura”7. È, letteralmente, la precarietà dell'impiego che è qui in questione. Buret sottolinea anche l'importanza della disoccupazione, quel che chiama “le disoccupazioni”, e che analizza a partire da situazioni precise, come quella dei tessitori a mano per i quali “le disoccupazioni sono più frequenti che in ogni altra industria e, alla prima perturbazione economica, il tessitore non ha più da lavorare”8. L'osservatore sociale allo stes6 Louis-Napoléon Bonaparte, L'extinction du paupérisme, in Œuvres complètes de Louis-Napoléon Bonaparte; avec un portrait de l'auteur et la vue de son cabinet de travail dans la citadelle de Ham; publiées par M. Charles-Éduard Temblaire, 3 voll., Paris, Librairie napoléonienne, 1848, t. II, p. 256; trad. it. Estinzione del pauperismo, in Opere complete di Napoleone 3. Raccolte e italianate per la prima volta, con appendice, da Luigi Paoliello, Napoli, Stabilimento tipografico G. Gioja, 1860-1862. 7 Eugène Buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, cit., t. I, p. 68. 8 Ivi, t. II, p. 25.

so modo mette avanti l'assenza di qualifica: “Il maggior numero di funzioni industriali non costituiscono dei mestieri, ma solamente dei servizi passeggeri che il primo venuto può compiere; e questo è tanto vero che il bambino di sei anni è retribuito per l'impiego del suo corpo dal suo ingresso nella manifattura” 9. Egli sottolinea ugualmente nello stesso tempo la grande precarietà – è impiegato proprio questo termine – che causa l'assenza di qualifica e il carattere di massa del ricorso a questo tipo di manodopera: “L'industria meccanica moltiplica i lavoratori inabili; sono i lavoratori inabili che ricerca di preferenza, di cui incoraggia soprattutto la produzione”10. Buret si dà così a un'analisi d'insieme della vulnerabilità degli operai dell'industria. Ciò che rende la situazione grave, è che non ha niente di accidentale. Non concerne sacche arcaiche o marginali dell'organizzazione del lavoro, ma deriva dalle esigenze moderne della produttività. La precarietà del lavoro, l'assenza di qualificazioni, le alternanze fra impiego e non-impiego, le disoccupazioni, caratterizzano la condizione generale della nascente classe operaia: “Non si contesterà se non altro che, nel regime attuale, il lavoro è senza alcuna sicurezza, senza garanzia come senza protezione”11. 9 Ibidem. 10 Ivi, t. II, p. 35. Buret traduce con “lavoratori inabili” l'espressione unskilled workers che prende in prestito da autori inglesi e che significa, nei fatti, i lavoratori non qualificati o sotto-qualificati. 11 Ivi, t. I, p. 70. Questa diagnosi è stata globalmente confermata da lavori storici più recenti. Così, Eric John Hobsbawm rimarca l'importanza “della disoccupazione strutturale e ciclica” all'inizio dell'industrializzazione e precisa che in certi momenti, come durante la crisi degli anni 1841-1842, più della metà degli operai delle manifatture inglesi potevano essere privati del lavoro (En Angleterre: révolution industrielle et vie matérielle des classes populaires, in “Annales ESC”, n. 6, 1962, p. 1049). In Francia, al momento della crisi del 1828, la fonderia di Chaillot, che

Un'altra caratteristica del pauperismo rende conto del suo carattere nuovo e letteralmente sconvolgente. Esso presenta una categoria storicamente inedita del malessere del popolo, fatta non solo di miseria materiale ma anche di profonda degradazione morale. Si sviluppa una sorta di nuova condizione antropologica creata dall'industrializzazione: una specie di nuova barbarie, che è l'invenzione di uno stato di desocializzazione proprio della vita moderna, specialmente urbana12, più che il ritorno al selvaggio antecedente la civilizzazione. Buret, pure molto critico riguardo al processo d'industrializzazione, parla di persone che “marciscono nella sporcizia”, che “sono ricadute, a forza d'abbruttirsi, nella vita selvaggia”. Ispirano così “più disgusto che pietà”. “Sono dei barbari” 13. Questi giudizi sono alimentati principalmente dalla descrizione delle forme di vita delle famiglie operaie ammassate nei faubourgs delle città industriali in cui la promiscuità dei sessi e delle età, l'assenza totale di igiene, costituiscono quel che si potrebbe definire una nuova eziologia della depravazione dei costumi. Bisogna saper valutare queste immagini del “magma”, del “ghetto”, spazi senza differenziazione, una sorta di estese chiazze di miseria in cui, come un letamaio, avanzano vizi, violenza e alcolismo degli uomini, malcostume e prostituzione delle donne, perversioni dei ragazzi. Esse traducono la sensazione d'essere in presenza di una situazione storica inedita: occupa normalmente da 300 a 400 operai, non ne conserva più di un centinaio. Allo stesso modo, alla Savoinnerie [manifattura di tappeti] la metà degli effettivi è disoccupata (cfr. Ernest Labrousse, Le mouvement ouvrier et les théories sociales de 1815 à 1848, Paris, CDU, 1948, p. 92). 12 Cfr. Giovanna Procacci, Gouverner la misère, cit., cap. VI. 13 Eugène Buret, De la misère des classes laborieuses, cit., passim.

La miseria e la sovversione dell'intelligenza, la povertà e l'avvilimento dell'animo, l'indebolimento e la decomposizione della volontà e dell'energia, il torpore della coscienza e della personalità, l'elemento morale, in poche parole, colpiscono fortemente, spesso anche mortalmente. Ecco il carattere essenziale, fondamentale e assolutamente nuovo del pauperismo14.

Il pauperismo rappresenta così una sorta d'immoralità fatta natura a partire dalla completa degradazione dei modi di vita degli operai e delle loro famiglie. L'alienista Morel costruirà d'altronde il suo concetto di degenerazione, destinato a un bell'avvenire, a partire dall'osservazione degli operai del tessile e dei membri delle loro famiglie internati nell'asilo di Saint-Yon, presso Rouen. La degenerazione esprime una degradazione della specie umana, ereditaria ma non originaria. Questa è prodotta da un ambiente sociale i cui effetti più deplorevoli Morel constata in primis sulle popolazioni operaie15. Una tale attitudine non segna una semplice reazione puntuale agli inizi dell'industrializzazione. Ancora nel 1892, nel Dictionnaire d'économie politique di Léon Say e Joseph Chailley, che era allora autorità, l'articolo Pauperismo, scritto da Émile Chevalier contiene questo giudizio:

14 Émile Laurent, Le Paupérisme et les associations de prévoyance, nouvelles études sur les sociétés de secours mutuels. Histoire, économie politique, adiministration, par Émile Laurent, 2 e édition, refondue, considérablement augmentée et accompagnée d'une étude sur les sociétés coopératives, consommation, production, banques de crédit populaire..., 2 voll., Paris, Guillaumin, 1865, t. I, p. 13. 15 Cfr. Robert Castel, L'ordre psychiatrique. Lâge d'or de l'aliénisme, cit., pp. 280 sgg.

Il pauperismo è uno stato nuovo tanto per le sue cause che per il suo carattere. La sua origine è dovuta all'organizzazione industriale della nostra epoca contemporanea: risiede nella maniera d'essere e di vivere degli operai delle manifatture […]. Esso presuppone un annichilimento del morale, un abbassamento e una corruzione delle facoltà mentali16.

Questi giudizi fondano quel che si è in diritto di chiamare un razzismo antioperaio largamente diffuso nella borghesia del XIX secolo. “Classi lavoratrici, classi pericolose”. Louis Chevalier cita da numerosi testi – da Lecouturier: “Parigi non è che un accampamento di nomadi”, da Jules Breyniat: “La borghesia doveva essere vittima di questi barbari”, da Thiers: “questa turba di nomadi”, ecc.17 – che collocano queste popolazioni “al di fuori della società, al di fuori della legge, degli outlaws” (la parola, questa volta, è di Buret)18. Louis Chevalier tuttavia mostra bene come questa tematica dominante “classi laboriose, classi pericolose” non sia solamente quella della criminalità, anche se la criminalità co16 Léon Say, Joseph Chailley (sous la direction de), Nouveau dictionnaire d'économie politique, Paris, Guillaumin, 1983, 2 voll., s.v. Paupérisme, t. 2, p. 450. Si potrebbero trovare delle espressioni molto più recenti di questa attitudine. Così l'Encyclopaedia Americana, Montreal, Americana Corporation of Canada, 1951, all'articolo Paupérisme, si esprime ancora in questi termini: “La storia del pauperismo è essenzialmente la storia degli errori commessi nell'assistenza ai poveri, di un umanitarismo troppo zelante e di una carità irragionevole. […] La causa essenziale del pauperismo, oltre le elemosine sconsiderate, sono i vizi che guastano l'individuo. […] La sensualità indebolisce i corpi, distrugge il rispetto di sé e porta alla dipendenza cronica”. 17 Louis Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du XIXe siècle, 2e édition, Paris, Hachette, 1984, p. 602; trad. it. Classi lavoratrici, classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Roma-Bari, Laterza, 1976. 18 Cfr. Eugène Buret, De la misère des classes laborieuses, cit.

stituisce il suo limite: “Il pericolo non è nel crimine, è nei rapporti tra i bassifondi e il mondo del lavoro”19. In rapporto ai ritratti secolari della “plebaglia”, la novità consiste nella presa di coscienza di una condizione lavorativa talmente degradata che colloca intere popolazioni ai margini della asocialità. Victor Hugo ha fornito ne I Miserabili un quadro di questa situazione che vale senza dubbio molte opere di storia sociale 20. Jean Valjean, Gavroche, i Thénadier, sono dei “miserabili”: continuum di condotte che vanno dall'eroismo all'abiezione, ma che hanno in comune, precisamente, la miseria, questa condizione nuova, “moderna”, delle persone del popolo, che non rientrano più nella povertà integrata né “nella primitiva indigenza dei Corsi o dei bassi Bretoni” che evocava Eugène Buret. Secondo il giusto rilievo di Louis Chevalier, la parola “miserabile” “si applica sempre più frequentemente, sempre più totalmente, a coloro che si trovano alla frontiera incerta e costantemente rimaneggiata 19 Louis Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses, cit., p. 255. I dati che interpreta Chevalier concernono Parigi, che non è una nuova metropoli industriale e in cui le forme artigianali o semi-artigianali di organizzazione del lavoro sono ancora dominanti. Ma egli mostra anche che questa rappresentazione nuova dei lavoratori portatori di una criminalità potenziale è suscitata dalla trasformazione senza precedenti della composizione della popolazione operaia parigina all'inizio del XIX secolo: immigrazione massiccia di rurali desocializzati, popolazioni fluttuanti che saturano i vecchi quartieri poveri e popolano le camere ammobiliate, ecc. Quel che caratterizza il “pauperismo” è certamente, anche a Parigi, e a fortiori nelle nuove concentrazioni industriali, l'associazione di nuove forme di organizzazione del lavoro e della degradazione delle condizioni di vita delle “classi inferiori” dovuta in larga misura all'arrivo di nuovi strati desocializzati (disaffiliati). 20 Ricordiamo che la prima edizione de I Miserabili data al 1862 (Victor Hugo, Les Miserables, Lausanne, Larpin, 1862, 10 voll.; trad. it. I Miserabili, Torino, Einaudi, 2014), gli episodi parigini si svolgono alla fine della restaurazione e sotto la monarchia di Luglio, vale a dire nei momenti in cui si cristallizza la questione sociale.

della miseria e del crimine. Egli [Hugo] non distingue più due condizioni differenti, ma il passaggio dall'una all'altra, quel deterioramento sociale che descriviamo: una situazione intermedia e mobile, e non uno stato”21. Ma non tutti i “borghesi” hanno per i miserabili gli occhi di Victor Hugo. Essi avranno piuttosto quelli di Javert. Il miscuglio di disprezzo e paura che struttura la loro attitudine è l'espressione di un antagonismo sociale fondamentale, che può prendere le fattezze di una lotta mortale. Così, tra tanti altri, questo testo pubblicato nel Journal des débats all'indomani della rivolta degli operai setaioli lionesi nel 1831: Ciascun abitante vive nella sua fabbrica come i piantatori delle colonie in mezzo ai loro schiavi; la sedizione di Lione è una specie di insurrezione di Santo Domingo... I Barbari che minacciano la società non sono affatto nel Caucaso, né nelle steppe della Tartaria. Sono nei fau21 Louis Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses, cit., p. 176. Così, per Hugo, il qualificativo di “miserabile” non comporta una condanna, al contrario si inscrive in un tentativo di riabilitazione a partire dalla scoperta dell'eziologia sociale della miseria. Si ritrova d'altra parte esattamente la stessa connotazione del termine “miseria” e lo stesso continuum tra l'innocenza ingannata e il crimine presso i pensatori socialisti come Proudhon o Louis Blanc: “La miseria consiglia incessantemente il sacrificio della dignità personale e quasi ogni giorno la comanda. La miseria crea una dipendenza di condizione a colui che è indipendente per carattere, di sorta che essa nasconde un tormento nuovo in una virtù e cambia in fiele ciò che si porta di generosità nel sangue. Se la miseria ingenera la sofferenza, essa ingenera anche il crimine. Se essa va a finire all'ospedale, essa conduce anche alla prigione. Essa produce degli schiavi; essa produce la maggior parte dei ladri, degli assassini, delle prostitute” (Louis Blanc, Organisation du travail, Paris, Boureau du Nouveau Monde, 1850, p. 4). Eugène Buret ha ugualmente questa bella formula: “La miseria è la povertà moralmente sentita” (De la misère des classes laborieuses, cit.).

bourgs delle nostre città manifatturiere... è necessario che la classe media consideri bene lo stato delle cose; è necessario che essa conosca la propria posizione22.

La lotta di classe non è stata inventata dai soli “collettivisti”. È stata formulata anche dai conservatori e dai moderati che prendono coscienza, agli inizi degli anni Trenta dell'Ottocento, dell'esistenza di un rischio imminente di dissociazione sociale, perché i lavoratori dell'industria formano “una nazione nella nazione che si comincia a designare con un nome nuovo: il proletariato industriale”23. Questa meraviglia dei contemporanei dinanzi al pauperismo e le reazioni che suscita devono, esse sì, suscitare oggi meraviglia. Innanzitutto, perché il fenomeno non ha il carattere di massa che queste descrizioni e queste paure gli prestano. Intorno al 1848, si può valutare la popolazione operaia francese in circa 4.400.000 persone. Ma la maggioranza di questi lavoratori è ancora inscritta in un ambiente rurale o semi-rurale che mantiene le regolazioni tradizionali. Bisogna ricordare che allora i tre quarti degli abitanti del Paese vivono in campagna. Anche per coloro che sono già urbanizzati, “la Francia è, nella prima metà del XIX secolo, un paese di piccole città in cui la vita urbana si distingue poco dalla vita rurale e si mantengono tramite essa” 24. 22 Saint-Marc Girardin, Les Barbares qui menacent la société, in “Le Journal des Débats”, 8 décembre 1831, p. 1, cit. in Eric John Hobsbawm, L'ère des révolutions, cit. 23 Daniel Stern, cit. in Louis Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses, cit., p. 599. 24 Charles-Hippolite Pouthas, La population française pendant la première moitié du XIXe siècle, Paris, PUF, 1956.

La mobilità geografica è molto ristretta: ancora nel 1856, solo l'11% dei francesi risiede in un dipartimento diverso da quello di nascita25. Permanenza dei modi di vita tradizionali, dunque, ma anche delle forme disperse di organizzazione del lavoro. Il processo di concentrazione industriale è stato molto lento, e la maggior parte dei grandi assembramenti di lavoratori datano da quella che si chiama talvolta la “seconda rivoluzione industriale”, alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo26. Fino ad allora, gli operai della grande industria restano minoritari in rapporto a quelli delle piccole imprese che raggruppano meno di dieci persone 27. Anche in queste regioni industriali, come i grandi centri tessili di Reims, Mulhouse o Roubaix, la tessitura è svolta per il 75% extra muros. Per le miniere, in un sito come Carmaux, gli sforzi accaniti della direzione durante tutto il XIX secolo non giungeranno a eliminare il carattere di operai rurali della maggioranza dei minatori28. Ricordiamo infine (cfr. cap. III) che la proto-industria, l'artigianato rurale, non sono delle sopravvivenze, dato che proseguono ancora la loro espansione all'inizio del XIX secolo. Così, nella prima metà del XIX secolo, il timido decollo della grande industria non ha ancora soppiantato le due forme anteriori di organizzazione del lavoro, l'artigianato rurale e l'organizzazione urbana del lavoro in piccoli ateliers. Stimiamo in 25 Gérard Noiriel, Les ouvriers dans la société française. XIX e-XXe siècles, Paris, Le Seuil, 1986, p. 18. 26 Per una sintesi sulle lentezze dell'industrializzazione, cfr. Christophe Charle, Histoire sociale de la France au XIXe siècle, Paris, Le Seuil, 1991, capitolo I. 27 Cfr. William Hamilton Sewell, Gens de métiers et révolutions, cit. 28 Cfr. Rolande Trempé, Les mineurs de Carmaux. 1848-1914, 2 voll., Paris, Éditions ouvrières, 1971.

1.200.000 il numero degli “operai industriali” a tempo pieno 29, di cui la metà circa lavora nelle grandi concentrazioni industriali che hanno alimentato le descrizioni del pauperismo30. Allora, il pauperismo è un fantasma alimentato dalla paura dei possidenti? Lavori storici recenti ritornano sui ritratti catastrofici del pauperismo prodotti nel XIX secolo: sarebbero l'effetto di una sorta di etnocentrismo di classe, esprimendo i loro autori, per la maggior parte notabili, attraverso queste descrizioni, la loro incomprensione dei costumi e dei comportamenti popolari, assimilati a delle mostruose perversioni. Doppia riabilitazione, del popolo non così cattivo come lo si è detto, e dei possidenti, sdoganati dall'essere stati impietosi sfruttando una situazione che allo stato non era più così terribile. Una tale rilettura della storia degli inizi dell'industrializzazione non è d'altra parte nuova. Appare a partire dalla metà del XIX secolo nei circoli che difendono la purezza dei principi del liberalismo economico, come il Journal des économistes: Che si fa da quindici anni, se non presentarci senza sosta dei quadri cupi sulla situazione degli operai, accusando di volta in volta il governo e le classi medie di opprimere e di sfruttare i lavoratori e di consegnarli così a una miseria senza fine? Non è con simili dichiarazioni che si arriva alle riforme sociali31. 29 Cfr. Gérard Noiriel, Les ouvriers dans la société française. XIX e-XXe siècles, cit., p. 18. 30 Jean-Pierre Rioux, La révolution industrielle, Paris, Le Seuil, 1971, p. 170, ne conta 670.000 nel 1848 negli stabilimenti che raggruppano più di 10 operai, dei quali la metà donne e bambini (254.000 e 130.000). 31 Théodore Fix, Observations sur l'état des classes ouvrières, Paris, Guillaumin, 1846, p. 69. Cfr. anche Charles Dunoyer, De la liberté du travail, ou simple exposé des conditions dans lesquelles les forces humaines

Ma anche se invitano a relativizzare certi ritratti del pauperismo, queste rivalutazioni non sono del tutto convincenti. “Esagerazioni” a parte, centinaia di migliaia di uomini, di donne e di bambini passarono di certo nelle prime concentrazioni industriali fino a quattordici o sedici ore al giorno, durante la loro breve vita, per salari da miseria, totalmente consegnati all'arbitrio padronale e ridotti alla condizione di macchine per produrre profitto, gettate vie appena cessano di servire. Analogamente, non si può che restare colpiti dalla similitudine delle descrizioni di tutti gli osservatori che si presero la pena di andare a vedere, dai “moderati”, come il dottor Villermé o Eugène Buret, ai “radicali”, quali Robert Owen o Friedrich Engels32. Questi citano anche nus'exercent avec les plus de puissance, 3 voll., Paris, Guillaumin, 1845 (trad. it. in Della libertà del lavoro / Charles Dunoyer. Delle attribuzioni razionali della pubblica autorità / Ambroise Clement. L'individuo e lo stato / Charles Brook Dupont-White, Torino, Stamperia dell'Unione tipografica editrice, 1859), che si rallegra “del progresso del benessere materiale, non solamente per le classi agiate, ma anche per il gran numero, il che è provato da dei documenti ufficiali e irrecusabili”. 32 Si compari, per esempio, la descrizione del quartiere Saint-Sauveur a Lille da parte di Louis Réné Villermé, Tableau de l'état physique et moral des ouvriers employés dans les manucfactures de coton, de laine et de soie (2 voll., Paris, Renouard, 1840, riedizione Tableau de l'état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, de laine et de soie. Textes choisis et présentés par Yves Tyl, Paris, UGE, 1971), quella dell'East London da parte di Eugène Buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, cit., e l'allucinante descrizione di Manchester da parte di Friedrich Engels, La situation des classes laborieuses en Angleterre, 1845, Poitiers-Paris, Texier-Costes, 1933; trad. it. La condizione della classe operaia in Inghilterra secondo un'inchiesta diretta e fonti autentiche, 1845, Roma, Editori Riuniti, 1972, alla cui nota dell'Editore si rinvia per le vicende editoriali. Ricordiamo anche che l'opera più “impegnata” di Charles Dickens, Hard Times. For These Times, London, Bradbury & Evans, 1854; trad. it. Tempi difficili, Milano, Garzanti, 2014, ha ugualmente come scenario Manchester. Dickens dipinge con un humour feroce, attraverso il personaggio di Mr. Bounderby, l'attitudine dei buoni borghesi nei riguardi degli operai

merose testimonianze di ufficiali di sanità, di religiosi, cioè di rapporti ufficiali d'inchiesta che non si ha motivo di sospettare a priori di fabulazione. Osservando gli inizi del processo in Inghilterra, Jean-Baptiste Say, che sicuramente non è sospetto di estremismo politica, scriveva già fin dal 1815: “Un operaio, secondo la famiglia che ha e malgrado gli sforzi sovente degni della più alta stima, non può guadagnare in Inghilterra che i tre quarti e qualche volta solo la metà delle sue spese”33. Il pauperismo, è incontestabile, è una costruzione sociale. Ma ogni realtà sociale è una costruzione sociale. È incontestabile anche che le descrizioni estreme del pauperismo non valgono che per una minoranza di lavoratori della prima metà del XIX secolo. Ma questa constatazione non smentisce l'importanza storica del fenomeno. Prima della rivoluzione industriale, anche i vagabondi non rappresentavano che una minoranza rispetto alla vulnerabilità di massa del popolo lavoratore. Prima, come dopo l'industriascontenti della loro sorte, la cui pretesa esorbitante sarebbe di “voler mangiare con dei cucchiai in oro”. Si deve sottolineare – benché questo non sia una prova assoluta di scientificità – che le scienze sociali han di fatto mosso i loro primi passi su questi “terreni”. Molto di questi ritratti del pauperismo corrispondono a delle ricerche con pretese obiettive e con finalità pratiche, rispondenti a vere e proprie “gare di appalto” perfettamente codificate. Così questa commessa dell'Académie des sciences morales et politiques, nel 1838, che valse a Buret il primo premio: “Ricercare dopo delle osservazioni positive quali sono gli elementi di cui si compone, a Parigi o in ogni altra grande città, questa parte della popolazione che forma una classe pericolosa per i suoi vizi, la sua ignoranza e la sua miseria; indicare i mezzi che l'amministrazione, gli uomini ricchi o agiati, gli operai intelligenti e laboriosi, potrebbero impiegare per migliorare questa classe pericolosa e depravata”. 33 Jean-Baptiste Say, De l'Angleterre et des Anglais, Paris, Bertrand, 1815, poi in Oeuvres de Jean Baptiste Say, 4 voll., Osnabrück, O. Zeller, 1966, t. IV, p. 213.

lizzazione, la questione sociale si pone a partire dalla situazione di popolazioni apparentemente marginali. Non per questo riguarda in minor misura l'intera società. In effetti, prender sul serio la questione del pauperismo permette di comprendere una delle poste in gioco fondamentali della storia sociale durante la prima metà del XIX secolo: la concorrenza tra due modelli d'industrializzazione. Il primo sembra “dolce”, nel senso che si inscrive in un movimento di trasformazioni secolari, che sembra prolungare senza soprassalti drammatici. Così, in città, si modella nella struttura della piccola impresa di tipo artigianale, e William H. Sewell ha ben evidenziato il vigore di questa organizzazione molto prima del XIX secolo. In campagna, la proto-industria sembra conciliare lo sviluppo economico con il mantenimento delle tutele tradizionali. Il suo ancoraggio familiare e rurale perpetua le protezioni ravvicinate della sociabilità primaria e sembra poter evitare la disaffiliazione. Alain Dewerpe parla a questo proposito di “proletarizzazione in famiglia”34: il passaggio al salariato completo si effettua spesso nel quadro di un'economia domestica in cui la divisione dei compiti avviene in seno alla cellula familiare. Questa organizzazione del lavoro previene così la dissociazione familiare e frena l'esodo rurale. L'industrializzazione sembra possibile nel contesto protetto della famiglia e del villaggio, senza mettere in discussione, almeno apparentemente, i loro sistemi tradizionali di regolazione. Questa situazione paradossale è stata sottolineata da Hans Medick, che evidenzia “il volto di Giano della proto-industrializzazione”35: da un lato, questi operai restano affiliati alla comuni34 Alain Dewerpe, L'industrie aux champs, cit., p. 479. 35 Cit. in Maurice Garden, L'industrie avant l'industrialisation, cit.

tà rurale, ma sono, nello stesso tempo, virtualmente deterritorializzati, nella misura in cui il loro salario è determinato senza riferimento ai prezzi locali, ma in funzione della concorrenza nazionale e internazionale che definisce il valore della loro produzione. Fino a Le Play (e anche fino allo stato di Vichy) numerosi riformatori sociali accarezzeranno il sogno di rimpatriare nelle campagne un massimo di lavoratori che ritroverebbero, dalla loro reinscrizione in un territorio, i valori della famiglia, della morale e della religione. È in rapporto a questo modello che le forme moderne di concentrazione industriale assumono il carattere di una tragica novità. Così Eugène Buret: L'industria moderna ha introdotto nella condizione delle classi lavoratrici un cambiamento che ha l'importanza di una terribile innovazione: ha rimpiazzato il lavoro in famiglia con il lavoro in fabbrica; ha bruscamente interrotto il silenzio e la pace della vita domestica per sostituirvi l'agitazione e il rumore della vita in comune. Nessuna transizione è stata predisposta, e le generazioni allevate per l'esistenza tranquilla in famiglia sono state gettate senza preparazione negli ateliers; uomini, donne e bambini si sono ammassati a migliaia in vaste manifatture in cui dovranno lavorare fianco a fianco e alla rinfusa per quattordici o quindici ore al giorno36.

Concezione sicuramente idealizzata del lavoro in famiglia e delle bellezze della ruralità37. Non di meno resta che questa op36 Eugène Buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, cit., t. II, p. 20. 37 Edward Palmer Thompson emette un giudizio più equilibrato: “Il cri-

posizione fra un'economia domestica e un “modello manchesteriano” di concentrazione industriale ha rappresentato agli occhi dei contemporanei una griglia essenziale di lettura per spiegare la novità e la specificità delle forme nuove che assumeva l'industrializzazione. Gli Annali universitari di statistica formulano, nel 1829, questa opposizione in termini che non valgono solo per l'Italia: L'Italia ha una vocazione per un tipo d'industria, per esempio, per la tessitura della seta. Ma questa specie d'industria non assomiglia a quella degli ateliers di Birmingham, di Manchester o di Parigi. Bisogna distinguere industria e industria. Quella che è più vicina alle funzioni agricole e che non esige una moltitudine dalla sorte permanentemente precaria e degli ammassi nelle officine e negli ateliers, sarà sempre la più innocente, la meno sgradevole per lo Stato e la meno pesante da sopportare da parte delle popolazioni38.

mine del sistema della fabbrica è stato di ereditare il peggio del sistema domestico in un contesto che non conserverà nessuna delle compensazioni domestiche” (La formation de la classe ouvrière anglaise, cit.). David Levine mostra per altro che non si tratta di un'opposizione assoluta e che lo sviluppo della proto-industria è stato un fattore decisivo della pauperizzazione delle campagne stesse, e ha profondamente toccato la struttura demografica e sociale della famiglia rurale (cfr. Family, Formation in the Age of Nascent Capitalism, New York-San Francisco-London, Academic Press, 1977). Ma questi effetti a termine della proto-industrializzazione non sono immediatamente evidenti ai contemporanei, che continuano a cantare le bellezze della ruralità. 38 “Annali universitari di statistica”, n. 19, 1829, cit. in Alain Dewerpe, L'industrie aux champs, cit., p. 470.

Nella prima metà del XIX secolo, la proto-industria ha cominciato la sua lenta decadenza39, per essere soppiantata dalla grande industria. Ma quel che ci appare a posteriori come un'evidenza è per i contemporanei un rischio. Li spaventa, infatti, l'eventualità che la nuova organizzazione del lavoro con le sue conseguenze sociali inedite sia l'avvenire del mondo: La diffusione generale delle manifatture in tutto il paese genera un nuovo carattere presso i suoi abitanti, e siccome questo carattere è formato secondo un principio completamente sfavorevole al benessere dell'industria e al benessere generale, produrrà i mali più lamentevoli e più duraturi, a meno che le leggi non intervengano e non impongano una direzione contraria a questa tendenza40.

Così si può comprendere come il pauperismo sia il punto di cristallizzazione della nuova questione sociale. Il pauperismo è, in un primo tempo, una immensa delusione che sancisce lo scacco dell'ottimismo liberale del tipo del XVIII secolo. Esso non solleva, a dispetto del suo carattere quantitativamente circoscritto, un problema settoriale, perché rappresenta il dato storico inedito di questo inizio XIX secolo, la vera e propria rottura in rapporto al passato. È una rottura nell'organizzazione del lavoro, ma è anche quel che sembra capace di generare, nella cattiva sorte, un 39 La proto-industria si rivelerà controproduttiva soprattutto quanto all'esigenza di ammortizzare le attrezzature costose della fabbrica e di mobilitare per fare ciò una manodopera fissata e legata a un lavoro preciso e continuo. Ma quest'ultima esigenza non è data agli inizi dell'industrializzazione, di modo che si è potuto a lungo bilanciare tra i vantaggi e gli inconvenienti dell'uno o dell'altro tipo di organizzazione della manodopera. 40

uomo nuovo. Anzi rappresenta il carattere più lampante della modernità. Pone infatti il problema del significato della modernità e della minaccia fondamentale di cui essa è portatrice: il rischio che – a meno di rinunciare all'industrializzazione – il progresso economico conduca a una dissociazione sociale completa. Così, se il bersagliamento che si opera su di esso richiama quello che si era prima condotto sul vagabondaggio – prendere la parte per il tutto, una popolazione particolare come il punto di cristallizzazione dell'insieme della questione sociale –, il problema sembra ora più grave. Il vagabondo era uno che girava rimanendo alla periferia dello spazio sociale, e il suo dramma consisteva nel fatto che era collocato fuori dell'ordine produttivo. Con il pauperismo emerge il pericolo di una disaffiliazione di massa inscritta nel cuore stesso del processo di produzione delle ricchezze. Il pauperismo è stato forse descritto come uno spettro, ma una tale descrizione conteneva una verità storica, sociale e antropologica profonda. Si può certamente discutere sul numero delle vittime dell'industrializzazione, o cercare di relativizzare il loro malessere a colpi di statistiche sull'evoluzione dei salari, cosa certo indispensabile, ma le dispute sulle cifre mal traducono le poste in gioco e i drammi di un'epoca. Così, a complemento dei sapienti discorsi dei quali mi sono sforzato di tener conto, farei appello anche, dopo Hugo e Dickens, a un poeta che fu anche un uomo politico importante. Alphonse de Lamartine disegna della disaffiliazione moderna un affresco che si può trovare troppo “lirico”, ma che ha il potere evocatore di una sequenza di Abel Gance. Come in un'epopea napoleonica all'inverso, il suo discorso del 14 dicembre 1844 alla Camera dei deputati sul diritto del lavoro mette in scena

gli eserciti di operai il cui lavoro, immenso come i capitali che impiegano, rischioso come la speculazione che lo guida, mobile come la moda che lo consuma, non ha la condizione di fissità delle economie domestiche. Le grandi officine della Loira, del Rodano, dell'Alsazia, dei Vosgi, del Nord, chiamano o irreggimentano un numero di 6 o 700.000 famiglie, strumenti delle grandi industrie della seta, dei cartoni, dei panni, dei ferri; popolo venuto dal popolo, nazione nella nazione, razza spaesata che ha per unico capitale le sue braccia, per terra un mestiere, per focolare un tetto preso a prestito, per patria una fabbrica, per vita un salario. Questa è una casta fluttuante le cui cornici sono rotte, che non sa fare che una sola cosa e che, quando il suo mestiere tutto speciale e i suoi viveri vengono a mancare, si espande, si travasa nella nazione sotto forma di coalizioni, di sommosse, di vagabondaggio, di vizi, di lebbra, di miseria. Sono questi che si definiscono propriamente “i proletari”, razza destinata a popolare il suolo, specie di schiavi dell'industria, che servono sotto il più rude dei maestri, la fame41.

Sotto queste “esagerazioni”, un paradosso merita ancora oggi di attirare l'attenzione: la volontà di costruire un apparato produttivo competitivo pone in situazione di quasi-esclusione gli stessi che si trovano al centro della dinamica della modernizzazione. L'attualità della questione del pauperismo non attiene solo a ciò che si può osservare, nel XIX secolo come oggi, e cioè 41 Alphonse de Lamartine, La France parlamentaire (1834-1851), in Œuvres oratoires et écrits politiques, par Alphonse de Lamartine, précédés d'une étude sur la vie et les Œuvres de Lamartine, par Louis Ulbach, 6 voll., Paris, A. Lacroix, Verboeckhoven et Cie, 1864-1865, t. IV, p. 109, cit. in Louis-Ferdinand Dreyfus, L'assistance sous la Seconde Republique, Paris, Cornély, 1907.

una “pauperizzazione” di certe categorie sociali; può profondamente, invita a interrogarsi sulle relazioni che esistono tra le ricomposizioni dell'ordine del lavoro e una desocializzazione di massa. Il pauperismo è un dramma che illustra questo effetto boomerang per il quale chi appare situarsi ai margini di una società scuote il suo equilibrio d'insieme.

2. Il ritorno delle tutele Che fare di fronte a questa derelizione della condizione salariale e dinanzi ad altre forme di indigenza e altri rischi di dissociazione sociale, come l'accrescimento dei tassi di natalità illegittima, del numero dei bambini abbandonati e degli infanticidi 42? Secondo Villeneuve-Bargemont, la Francia conta, nel 1834, 198.000 mendicanti e 1.600.000 indigenti censiti43, cifre che sottostimano la gravità della situazione perché non tutti gli indigenti sono repertoriati. Così a Lille, ci sarebbero, sempre secondo Villeneuve-Bargemont, 22.000 persone incapaci di sopperire ai propri bisogni su 70.000 abitanti. A Parigi, un rapporto del prefetto della Senna stima, nel 1836, il numero di indigenti in 1 ogni 12 abitanti. Buret contesta questa cifra e compie calcoli complicati a partire dalla mortalità degli ospedali per arrivare a un rapporto di 1 ogni 4,2 abitanti a Parigi e 1 ogni 9 nell'insieme del

42 Cfr. Paul Strauss, Assistance sociale. Pauvres et mendiants, Paris, Alcan, 1901. 43 Vicomte Alban de Villeneuve-Bargemont, Économie politique chrétienne, cit., pp. 255 sgg.

paese44. Tutte queste valutazioni sono contestabili. Ma Louis Chevalier, che le discute a sua volta, nonostante ciò conclude: Miseria mostruosa insomma, e permanente: questa si esaspera nei momenti più forti delle crisi e riduce alla fame, alla malattia e alla morte quasi la metà della popolazione di Parigi, cioè quasi la totalità della popolazione operaia, ma imperversa anche in periodi normali e non si abbassa mai molto al di sotto di un quarto della popolazione globale, cioè una gran parte degli operai effettivi45.

Di fronte a una tale situazione, le risposte fornite nella prima metà del XIX secolo appaiono a prima vista derisorie. Gli ambiziosi programmi delle Assemblee rivoluzionarie sono rimasti lettera morta. In loro vece, le vecchie strutture dell'assistenza confessionale si sono ricostituite e hanno recuperato pressappoco le posizioni che occupavano prima della Rivoluzione: nel 1848, 25.000 religiosi gestiscono 1.800 istituti caritatevoli (erano 27.000 nel 1789). Accanto a questa antica organizzazione caritatevole, quel che fa le veci di servizio pubblico prevede due aspetti. Il sistema degli ospedali e degli ospizi, dal regime amministrativo assai complesso, ma posto sotto il controllo delle municipalità, riguarda soprattutto gli indigenti invalidi 46. È male organizzato e arcaico: ancora nel 1869, su 1.557 ospedali e ospizi, 1224 datano dall'Ancien Régime. Il versante extraospedaliero è 44 Eugène Buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, cit. 45 Louis Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses, cit., p. 585. 46 Per un'esposizione completa del regime degli ospedali e ospizi, cfr. Jean Imbert, Le droit hospitalier de la Révolution et de l'Empire, Paris, Recueil Sirey, 1954.

rappresentato dagli uffici di beneficenza, creati nel 1796. Posti dapprima sotto l'autorità dei prefetti, questi sono nei fatti degli istituti comunali il cui finanziamento è precario (tasse del 10% sugli spettacoli e soprattutto donazioni dei privati). Un'inchiesta del 1871 mostra che non esistono che in 13.367 dei 35.389 comuni francesi, con immense disparità in funzione delle situazioni locali47. Ricordiamo anche l'esistenza di una decina di istituti speciali, tipo istituti per sordi, ciechi o muti, più gli orfanotrofi e gli asili per alienati (in principio uno per dipartimento secondo la legge del 1838). Ecco dunque in che si riassume la presa in carico pubblica delle situazioni d'indigenza. Questa assistenza resta, con un paio di eccezioni (gli alienati e i bambini abbandonati), facoltativa e sotto la responsabilità delle autorità locali (i comuni). Una tale organizzazione conserva propri difensori lungo tutto il XIX secolo. Nel Nouveau Dictionnaire d'économie politique di Léon Say e Joseph Chailley (1892), Émile Chevalier, dopo aver sottolineato la complementarietà del sistema ospedaliero e degli uffici di beneficenza e ammesse lacune del loro funzionamento, aggiunge però: “Questa organizzazione sarebbe completa se fosse generalizzata”48. 47 Resoconto di questa inchiesta dovuto ad Adolphe de Watteville in Paul Leroy-Beaulieu, L'état moderne et ses fonctions, Paris, Guillaumin, 1890, pp. 304-305. 48 Émile Chevalier, articolo Assistance, in Léon Say, Joseph Chailley (sous la direction de), Nouveau Dictionnaire d'économie politique, cit., t. I, p. 76. Si troverà nei quattro grossi volumi del barone di Gérando [Joseph-Marie baron de Gérando, De la bienfaisance publique, 4 voll., Paris, Renouard, 1839], l'esposizione dettagliata di tutte le istituzioni che possono dirsi di “beneficenza”. Bisogna tuttavia aggiungervi le prigioni e i depositi di mendicità, rilanciati dall'iniziativa di Napoleone. Questi, in una nota al suo ministro dell'Interno del 15 novembre 1807, ordina: “Occorre che all'inizio della bella stagione la Francia presenti lo spettacolo di un paese senza mendicanti” (cit. in Louis Rivière, Un siècle de

Estrema povertà del sistema pubblico o para-pubblico di soccorso dunque, che contrasta con l'ampiezza della “carità legale” quale esiste allora in Inghilterra. Questo sistema, però, è ben lungi dall'assicurare la totalità della presa in carico delle situazioni d'indigenza sociale. Occorre evidentemente aggiungervi la nebulosa dell'assistenza privata confessionale, dalle istituzioni religiose alle opere pie parrocchiali. Ma si elabora anche una concezione nuova e originale della mobilitazione delle élites sociali per dispiegare un potere tutelare verso gli sventurati e assumere una funzione di beneficenza che risparmi l'intervento dello Stato. Così, il quasi-interdetto opposto in Francia allo sviluppo della “carità legale” ha per contropartita strategie complesse fondate sulla ricerca di risposte non statali alla questione sociale. Il primo portavoce questi orientamenti, che domineranno fino alla fine del XIX secolo, è senza dubbio il convenzionale Delecloy. Egli ha ottenuto, immediatamente dopo il Termidoro, la sospensione della legge del 23 messidoro, anno II, sulla vendita dei beni ospedalieri. Sotto il Direttorio, la fa abolire definitivamente e propone in questa occasione un piano generale di organizzazione dei soccorsi. Testo breve, ma denso, che contiene già l'essenziale della tematica liberale in materia sociale 49. lutte contre le vagabondage, in “Revue politique et parlamentaire”, n. 59, 1899, p. 5). Di conseguenza, un decreto del 5 luglio 1808 su “l'estirpazione della mendicità” impone la creazione di un deposito di mendicità per dipartimento. Beninteso, questa politica riguardo il vagabondaggio, come tutte quelle che l'hanno preceduta, si risolverà con uno scacco. 49 Cfr. Jean-Baptiste-Joseph Delecloy, Convention Nationale. Rapport sur l'organisation générale des secours publics, par Delecloy. Séance du 12 vendémiaire l'an IV, Paris, Imprimerie Nationale, 1795.

Il piano comincia con una condanna del “profondo pantano in cui una filantropia esagerata ci blocca dopo l'Assemblea costituente”, ossia l'imposizione del diritto all'assistenza, espressione di una “mania di livellamento e di generalizzazione della distribuzione dei soccorsi”50. Esiste dunque il “debito sacro e inviolabile” della nazione nei riguardi dei cittadini in stato di bisogno. Oltre al fatto che questa aberrazione è costosa, finanziariamente parlando, contraddice i princìpi della governabilità liberale. “Il governo non deve niente a chi non gli serve. Il povero non ha diritto che alla commiserazione generale”51. Posizione di principio, in effetti, che sarà incessantemente richiamata dai pensatori liberali come un freno inaggirabile per contenere l'interventismo dello Stato in materia di soccorsi. Adolphe Thiers non dice cose diverse nel suo famoso rapporto del 1851 sull'assistenza e la previdenza: È importante che questa virtù [la beneficenza], quando da privata diviene collettiva, da virtù privata virtù pubblica, non perda il suo carattere di virtù, cioè resti volontaria, spontanea, libera alla fine di fare o di non fare, perché altrimenti cesserebbe di essere una virtù per divenire un obbligo, e un obbligo disastroso. Se in effetti una classe intera, in luogo di ricevere, potesse esigere, essa assumerebbe il ruolo del mendicante che chiede col fucile in mano. Si fornirebbe occasione alle più pericolose violenze52. 50 Ivi, p. 2. 51 Ivi, p. 4. 52 Adolphe Thiers, Rapport fait au nom de la Commission de l'assistance et de la prévoyance publiques, par M. Thiers, Séance du 26 janv. 1850, Paris, Imprimerie Nationale 1850, p. 11.

Tuttavia, questa posizione è molto più complessa di quanto non appaia a prima vista. Delecloy continua così: “Poniamo dunque ancora come principio che il governo non può solo caricarsi del mantenimento del povero, ma, mettendolo sotto la salvaguardia della commiserazione generale e della tutela delle persone agiate, deve dare l'esempio di una beneficenza limitata nei suoi mezzi”53. Così, anche in un quadro di rifiuto nell'elaborazione di politiche pubbliche, alcune pratiche di “beneficenza” non sono escluse ma al contrario raccomandate, ivi compreso da parte del governo. Quale può essere il loro statuto? François Ewald ha insistito sul fatto che il rifiuto accanito dei liberali di fare dei soccorsi un oggetto di diritto aveva per contropartita la cura di mettere in campo un altro tipo di regolazione dei problemi sociali 54. Il diritto è il garante dei rapporti di reciprocità tra individui responsabili e uguali nello scambio che il contratto sanziona. All'inverso, le pratiche di assistenza si svolgono nel quadro di uno scambio ineguale. L'indigente chiede e non può dare una contropartita equivalente a quel che riceve. La sua relazione con il benefattore è al di qua della sfera del diritto. Legiferare in queste materie sarebbe come prendere partito sull'organizzazione della società civile, o, nel linguaggio dell'epoca, “legiferare sui costumi”. Questo significherebbe tendere a fare dell'insieme dei rapporti sociali un sistema di obblighi sanzionabili, il che dà, ante litteram, una definizione molto esatta del totalitarismo. Portalis lo dice quasi esplicitamente al momento delle discussioni preparatorie all'elaborazione del Codice civile e del Codice penale: 53 Jean-Baptiste-Joseph Delecloy, Convention Nationale, cit., p. 3. 54 François Ewald, L'État providence, Paris, Grasset, 1985, livre I, Responsabilité.

Le leggi non possono niente senza i costumi. Ma tutto ciò che interessa i costumi non dovrebbe essere regolato dalle leggi. Un legislatore che volesse comprendere nel suo codice tutto ciò che appartiene alla morale sarebbe forzato a conferire un potere troppo arbitrario a coloro che eseguono i suoi regolamenti così che, credendo di proteggere la virtù, non farebbe che stabilire la tirannia55.

E Portalis propone questa formula forte: “Si governa male quando si governa troppo”56. Ma che la sfera del diritto debba essere così strettamente limitata non significa che il resto della vita sociale possa essere lasciata alla fantasia o all'arbitrio. Essa può dipendere da un tipo di obblighi, altrettanto stringenti ma di natura differente: gli obblighi morali. La morale non si limita al privato. Vi è una morale pubblica, vale a dire degli obblighi che regolano certe relazioni sociali senza sanzione giuridica. La scommessa del liberalismo consisterà nel tentativo di contenere una politica sociale completa in questo spazio che è etico, e non politico. La morale, Kant lo ha sottolineato con forza, è la sintesi della libertà e dell'obbligo. La sfera dei doveri morali è estesa, copre i rapporti privati, certe relazioni tra uguali, le relazioni familiari... Ma riguarda anche un settore specifico, le relazioni con gli inferiori, e specialmente con le “classi inferiori”, ossia l'insieme di quel che va a costituire il settore “sociale”. Questo dovere è un dovere di protezione, e si esercita attraverso l'intermediazione di quella virtù morale di utilità pubblica che è la beneficenza. “La beneficenza è una sorta 55 Jean-Étienne-Marie Portalis, Discours et rapports inédits sur le Code civil, Paris, Joubert, 1844, p. 83, cit. in François Ewald, L'État providence, cit., p. 60. 56 Ivi, p. 53.

di tutela”, dice Duchâtel57. I membri delle classi inferiori, come i bambini, sono dei minori che mancano della capacità di autogestirsi. Ecco perché “bisogna fondare tra la classe illuminata e quella a cui mancano i lumi, tra le persone per bene e coloro la cui moralità è imperfetta, i rapporti di una protezione che, sotto mille forme, assuma il carattere di un patronato benevolo e volontario”58. Una politica morale è necessaria, o, il che porta alle stesse conclusioni, una politica sociale è necessariamente di natura morale, nella misura in cui si indirizza a dei gruppi in situazione di minorità. Questa analogia del popolo col bambino è il leitmotiv di tutti coloro che prendono in esame la sorte delle classi inferiori: “L'operaio è un bambino robusto, ma ignaro, che ha tanto bisogno di direzione e di consigli quanto più la sua posizione è difficile”59. Il solo tipo di condotta positiva nei suoi riguardi è dunque l'esercizio di una tutela morale. Così Gérando: “La povertà è per la ricchezza quel che l'infanzia è per l'età adulta” 60. Quindi,

57 Charles-Marie Tanneguy Duchâtel, La charité dans ses rapports avec l'état moral et le bien-être des classes inférieures de la société, Paris, Mesnier, 1829, p. 29. 58 Joseph-Marie baron de Gérando, Le Visiteur du pauvre, mémoire qui a remporté le prix proposé par l'Académie de Lyon sur la question suivante: “Indiquer le moyen de reconnaître la véritable indigence, et de rendre l'aumône utile à ceux qui la donnent comme à ceux qui la reçoivent”, Paris, Colas, 1820, p. 9. 59 Pellegrino Rossi, Discours pronuncé par M. Rossi dans la discussion du projet de loi sur l'instruction secondaire... Séance du 24 avril 1844, Paris, Imprimerie Nationale, 1844, cit. in Ernest Labrousse, Le mouvement ouvrier et les théories sociales en France de 1815 à 1848, cit., p. 129. 60 Joseph-Marie de Gérando, De la bienfaisance publique, cit., t. IV, p. 611.

non si tratterà, a nostro modo di vedere, del problema di immaginare un sistema generale di organizzazione industriale, così come lo chiedono certi spiriti, cioè un piano di insediamento posto in essere dallo Stato. […] Noi abbiamo più fiducia nelle misure che avranno per oggetto di propagare i lumi, di incoraggiare il lavoro guidandolo, di stabilire tra i capitalisti, i consumatori e i produttori delle relazioni amicali, di supplire attraverso un benevolo patronato all'impotenza dei deboli61.

Tutela, patronato, “capacità” (Guizot) o “autorità sociale” (Le Play): nozioni fondamentali di un piano di governamentalità nei confronti delle classi inferiori. Una risposta al contempo politica e non statuale alla questione sociale è possibile, se è possibile rendere operativo, a partire da queste nozioni, un ordine di relazioni assai potenti per scongiurare il rischio di dissociazione che assilla la società all'inizio del XIX secolo. L'assillo della dissociazione sociale è di tutti gli spiriti dell'epoca postrivoluzionaria. Sentimento comunemente condiviso, che la Rivoluzione ha, in un certo senso, promosso fin troppo bene, e che con l'abolizione di tutti i corpi intermedi ha lasciato un vuoto pericoloso tra lo Stato e gli individui atomizzati 62. Terminare la Rivoluzione ritessendo i legami sociali strappati, ecco la grande questione dell'inizio del XIX secolo. Napoleone, che non ci si aspetterebbe di trovare in compagnia di Saint-Simon, di M.me de 61 Ivi, t. III, pp. 288-290. 62 Cfr. Pierre Rosanvallon, Le moment Guizot, Paris, Gallimard, 1986. Cfr. anche Id., Le sacre du citoyen, cit., partie II, cap. I, L'ordre capacitaire. Per un'analisi della maniera in cui i contemporanei han vissuto questa situazione, cfr. Henri Gouhier, La Jeunesse d'Auguste Comte et la formation du positivisme, 3 voll., Paris, Vrin, 1933-1941.

Staël, di Benjamin Constant, di Rémusat, di Royer-Collard, di Auguste Comte, ecc., già lo enuncia: “C'è un governo, dei poteri, ma tutto il resto della nazione che cosa è? Dei granelli di sabbia. Noi siamo sparpagliati, senza sistema, senza unione, senza contatto”. E nel suo linguaggio energico aggiunge: “Occorre gettare sul suolo di Francia qualche masso di granito” 63. Vi si impegnerà alla sua maniera: lo sforzo per costituire una nobiltà imperiale, per fondare una nuova notabilità di merito con la Legion d'onore64, quello, più riuscito, di costruire un apparato amministrativo solido, sono altrettanti tentativi di gettare un ponte tra “il governo” e quel che resta di vivo, o che bisogna risuscitare, nella società civile. Ma la ricomposizione napoleonica riposa essenzialmente sul centralismo amministrativo che sovrasta dall'alto i rapporti concreti tra gli individui, e per di più il crollo dell'Impero accrescerà ancora lo scompiglio. Royer-Collard riassume così il sentimento generale al momento della Restaurazione: “La Rivoluzione non ha lasciato in piedi che gli individui; la dittatura che l'ha terminata ha consumato, da questo punto di vista, la sua opera”65. Detto altrimenti, le antiche tutele sono state infrante, il che ha permesso il Terrore e il dispotismo politico, e si perpetua ora in uno stato generalizzato di instabilità sociale 66. Se si rifiuta 63 Cit. in Pierre Léon (sous la direction de), Histoire économique et sociale de la France, cit., t. III, p. 113. 64 Alla fine dell'Impero vi sono 32.000 legionari, ma tra essi solo 1.500 civili (ivi, p. 125). 65 Pierre-Paul Royer-Collard, in Prosper Brugière Barante, La vie politique de M. Royer-Collard, ses discours, ses écrits, 2 voll., Paris, Didier et C.ie, 1861, t. II, p. 131, cit. in Pierre Rosanvallon, Le moment Guizot, cit., p. 62. 66 In rapporto alla realtà sociologica dell'inizio del XIX secolo, queste analisi hanno sicuramente un carattere unilaterale. Anzi, esse non prendo-

l'opzione letteralmente reazionaria di ricostruire come tali le vecchie soggezioni, occorre ricostruire, in un universo in cui regni in via di principio il contratto, nuove regolazioni che siano compatibili con la libertà, pur mantenendo le relazioni di dipendenza senza le quali un ordine sociale è impossibile. Pierre Rosanvallon mostra in maniera convincente che la teoria delle “capacità” proposta da Guizot è la risposta d'ordine politico a una tale problematica. Essa fonda la legittimità del suffragio censuario, cioè di un regime rappresentativo che si mette a riparo del potere del numero, dei debordamenti degli uomini senza qualità. Ma questa soluzione vale al di là di un quadro strettamente politico poiché corrisponde alla volontà di ricostruire un ordine sociale. Guizot dice una cosa essenziale a più livelli: “La superiorità sentita e accettata è il legame primitivo e legittimo delle società umane ed è nello stesso tempo il fatto e il diritto; essa è il vero e solo contratto sociale”67. Contro la concezione rousseauiana del libero contratto intercorso tra individui sovrani, il vero contratto sociale è un contratto di tutela. C'erano le tutele tradizionali, come la relazione feudale o il lavoro regolato dall'antica organizzazione del lavoro. In nome della libertà conquistata contro l'arbitrio e l'assolutismo, non è il no in considerazione la struttura familiare, il cui funzionamento gerarchico non è stato abolito: la famiglia continua a esercitare un potere tutelare forte sui suoi membri. Allo stesso modo, le relazioni sociali, soprattutto in campagna, restano assai segnate dalle dipendenze tradizionali. Indipendentemente dalla restaurazione politica, la “vita di corte” con tutto quel che essa comporta di soggezioni, rinasce nelle campagne della prima metà del XIX secolo. Ma queste constatazioni non confutano il fatto che i problemi dell'epoca postrivoluzionaria siano stati maggiormente rappresentati attraverso lo schema della dissociazione sociale. 67 François Guizot, Des moyens de gouvernement et d'opposition dans l'état actuel de la France, Paris, Ladvocat, 1821, p. 164, cit. in Pierre Rosanvallon, Le moment Guizot, cit., p. 109.

caso di ricostituirle come tali. Ma è possibile avere delle nuove tutele a partire dal momento in cui esiste tra i soggetti sociali un dislivello tale che impedisca che essi stendano un contratto di scambio reciproco: tra il ricco e l'indigente, il competente e l'ignorante, il medico e l'alienato, il civilizzato e l'indigeno. Queste tutele possono essere provvisorie o definitive, in funzione del carattere transitorio o permanente della relazione di ineguaglianza. Ma non esprimono più l'irrazionalità di eredità arcaiche, di quando la società era governata dai princìpi del dispotismo e immersa nell'ignoranza. Traducono la legittimità del sapere, dell'autorità fondata sulla competenza, in breve, sono l'esercizio meglio giustificato della ragione in una congiuntura storica in cui tutto è razionale68. Si tratta, dice Guizot, sul piano politico, ma si può estrapolare la sua formula per farne un piano generale di governamentalità, “di estrarre dalla società tutto ciò che possiede di ragione, di giustizia, di verità, per applicarle al suo governo” 69.

68 Ho mostrato altrove che la relazione terapeutica nel quadro dell'alienismo riposava su una tutela di questo tipo (cfr. Robert Castel, L'ordre psychiatrique, cit., cap. I). Il trattamento morale suppone un rapporto di ineguaglianza tra il medico rappresentante della ragione e il malato privato dell'uso delle proprie facoltà. Ma questa tutela è una tutela sapiente, in principio fondata sul sapere psichiatrico e controllata dalla deontologia medica il cui obiettivo è la guarigione dell'alienato. Questa relazione si oppone alle tutele anteriori fondate a partire dalla violenza e dall'arbitrio. Nei migliori dei casi essa è anche provvisoria, poiché la guarigione ristabilirà l'uguaglianza tra le persone. Si può vedere lì la forma più elaborata e meglio sublimata dal sapere di questo nuovo rapporto di tutela che dominerà le relazioni tra superiori e inferiori lungo tutto il XIX secolo. 69 François Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif en Europe, 2 voll., Paris, Didier, 1851, t. I, p. 98 (trad. it. Storia delle origini del governo rappresentativo in Europa, Palermo, Tipografia M. Amenta, 1862), cit. in Pierre Rosanvallon, Le moment Guizot, cit., p. 93.

Così si trova ricusato quello che era senza dubbio il fondamento dell'ideale sociale dei rivoluzionari, certamente dei Montagnardi, così ben espresso da questa formula di Barère da porre come contrappunto a quella di Guizot: “Tutto quello che può stabilire una dipendenza da uomo a uomo deve essere proscritto in una Repubblica”70. Ormai vi sono dipendenze da uomo a uomo legittime. È urgente anche costituirne di nuove, e di inscriverle solidamente nel tessuto sociale71. Poco importa qui che la maniera scelta per “raccogliere, concentrare tutta la ragione che esiste sparsa nella società” 72 abbia finito nei fatti per consegnare il potere politico a una piccola oligarchia di proprietari. È possibile stabilire criteri di “capacità” che non siano schiacciati dal denaro? Guizot sembra essere stato scavalcato da una Camera più conservatrice di lui. Ma, al di là di 70 Bertrand Barère de Viauzac, Rapport sur les moyens d'extirper la mendicité, cit., p. 55. 71 Si può così comprendere questo paradosso carico di conseguenze: il dispiegamento della società liberale coincide con la riattivazione delle strutture dell'istituzione totale, il deposito di mendicità, la prigione, l'asilo per gli alienati o in Inghilterra le workhouses. Il ritorno all'internamento sotto delle forme modernizzate e giustificate dalle ideologie della riparazione o della guarigione e la “soluzione” che conviene ai gruppi più refrattari o più desocializzati, che si tratti di allergici al lavoro, di criminali (cfr. Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975; trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2014) o di folli (cfr. Robert Castel, L'ordre psychiatrique, cit., cap. I). Ma nuove strategie sono da inventare, e sono più difficili da mettere in opera per le categorie che bisogna moralizzare in vivo. Il problema è anche di tutt'altra ampiezza, poiché concerne l'insieme delle “classi inferiori” che non sono più prese nelle regolazioni tradizionali, cioè, soprattutto, una parte importante delle nuove popolazioni industriali. 72 Articolo Élections, in Éncyclopédie progressive, ou Collection de traités sur l'histoire, l'état actuel et les progrès des connaissances humaines, Paris, Bureau de l'Encyclopédie progressive 1826, p. 406, cit. in Pierre Rosanvallon, Le moment Guizot, cit., p. 93.

questa riduzione del merito sociale al denaro, è il modello generale di un “governo dei migliori”73, fondamento di un'autorità nuova, che deve attirare l'attenzione, perché va dispiegandosi in molteplici campi. L'apporto di Guizot non è stato qui richiamato soltanto perché egli è l'uomo che ha profondamente segnato la politica e la società francesi dalla Restaurazione al 1848. È stato anche uno dei personaggi più rappresentativi dell'approccio liberale alla questione sociale. Personaggio-chiave dell'opposizione liberale sotto la Restaurazione è, allo stesso tempo, militante attivo di quella corrente che si autodesigna come “filantropica” e il cui obiettivo è diffondere la beneficenza verso le “classi inferiori” della società. È anzi uno dei membri fondatori della Société de morale chretiénne, nel 1821, suo vice-presidente nel 1826 e suo presidente nel 1828. Questa Società è all'epoca il gruppo di pressione più importante che riunisce l'intellighenzia preoccupata dai problemi sociali. “Cristiana”, ma non per questo cattolica nel senso della politica della Chiesa fondata sulle Congregazioni e 73 Si sa quale è l'etimologia della parola “aristocrazia”, ma si può aggiungere che l'aristocrazia era, o era diventata, la rappresentante delle tutele tradizionali e che per i liberali il suo ruolo storico era per questo superato. La prima o una delle prime menzioni dell'espressione “governo dei migliori” nel contesto postrivoluzionario è dovuta a Jean-GabrielThéophile Boissy d'Anglas nel 1795: “Noi dobbiamo essere governati dai migliori: i migliori sono i più istruiti e i più interessati alla conservazione delle leggi; ora, con ben poche eccezioni, voi non troverete di siffatti uomini se non tra coloro che possiedono una proprietà, sono attaccati al paese che la contiene” (Discours préliminaire au projet de Constitution pour la République française, in “Le Moniteur Universel”, t. XXIV, 23 juin 1795, p. 92). Ma la necessità di disimpegnare un'élite competente dopo che sono stati aboliti i privilegi fondati sulla tradizione è nei fatti al cuore di tutti i dibattiti inaugurati da Sieyès nel 1789, con la distinzione tra “cittadini attivi” e “cittadini passivi”. Cfr. Olivier LecourGrandmaison, Les citoyennetés en révolution (1789-1794), cit.

che resta fedele alla carità tradizionale. La Società di morale cristiana riunisce numerosi protestanti, banchieri e industriali inquietati dai rischi di dissociazione sociale portati dal progresso dell'industrializzazione, discepoli di Sismondi che vogliono sviluppare una “economia sociale” per riequilibrare gli effetti più inumani dello sviluppo economico, cattolici illuminati come Villeneuve-Bargemont, che la sua vecchia funzione di prefetto del Nord ha reso sensibile alla miseria operaia, aristocratici liberali come il duca de La Rochefoucauld-Liancourt ritornato dall'America ove si è esiliato a seguito della condanna di Luigi XVI 74... Sono queste “persone per bene” che il barone de Gérando invita a moralizzare il popolo. Le loro attività filantropiche rappresentano il versante sociale di una governamentalità “capacitaria” che Guizot ha reso operativa sul piano politico. E, sul piano sociale più apertamente che sul piano politico, essa resterà quasi egemonica fino alla III Repubblica. In effetti, al di là delle attività della Società di morale cristiana, che segnano soprattutto la Restaurazione e gli inizi della Monarchia di Luglio, questa posizione si mantiene lungo tutto il XIX secolo, adattandosi alle circostanze e arricchendosi di molteplici sfumature. È difficile sussumere le correnti che la compongono sotto un concetto unico. “Filantropi” senza dubbio, ma la parola comincia a invecchiare prima degli anni Cinquanta dell'Ottocento: “cristiani sociali”, molti lo furono, ma l'espressione è ambigua perché ricopre sensibilità molto differenti, da Frédéric

74 La Società riunisce ugualmente il duca de Broglie, i baroni de Gérando e Dupin, Benjamin Constant, il duca d'Orléans, Lamartine, Tocqueville, Dufaure, ecc. Sulle sue attività, cfr. Louis-Ferdinand Dreyfus, Un philanthrope d'autrefois, cit.

Ozanam, che difende posizioni democratiche nel 1848 75, ad Armand de Melun, un legittimista e tuttavia, senza dubbio, il più importante di tutti quei riformatori sociali il cui instancabile attivismo prosegue fino agli inizi della III Repubblica76. Il fatto è che accanto a una versione “ultra” e propriamente reazionaria del legittimismo (ritornare in modo puro e semplice alle tutele dell'Ancien Régime), esiste una versione più morbida, che si prende cura di trasportare nel nuovo contesto creato dall'industrializzazione la relazione tradizionale di protezione che i notabili esercitavano nei riguardi dei loro dipendenti. Questa tendenza del legittimismo può così entrare in risonanza con l'attitudine

75 Frédéric Ozanam fonda nel 1833 la Société Saint-Vincent-de-Paul, il cui obiettivo esclusivamente caritatevole è quello di raggruppare giovani cattolici per addestrarli al bene attraverso la pratica delle opere buone, ma viene a concepire sempre più il ruolo del cristiano come quello di un “mediatore” tra il “pauperismo invadente, furioso e disperato” e “una aristocrazia finanziaria dal cuore indurito” (lettera del 12 luglio 1840). Agli inizi del 1848 diviene democratico e scrive alla vigilia di febbraio il suo celebre articolo Passons aux barbares (in “Correspondant”, 22 février 1848), in cui consiglia ai cristiani di allearsi con la classe operaia (cfr. Jean-Baptiste Duroselle, Les débuts du catholicisme social en France, 1822-1870, Paris, PUF, 1951, pp. 165-172; trad. it. Le origini del cattolicesimo sociale in Francia, 1822-1870, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1974). Ma questo orientamento “democratico-cristiano” sparirà dalla scena pubblica dopo l'incrostamento dell'insurrezione operaia del giugno 1848 e il colpo di Stato di Luigi-Napoleone Bonaparte. 76 Sugli orientamenti sociali del legittimismo, cfr. Didier Renard, Assistance en France au XIXe siècle: logique de l'intervention publique, in “Revue internationale d'action communautaire”, n. 16, 1986, pp. 9-25; sulla diversità delle posizioni legittimiste, cfr. Pierre Rosanvallon, Le sacre du citoyen, cit., 2a partie, cap. I. Sulla complessità delle posizioni che ricopre il “cattolicesimo sociale”, cfr. Jean-Marie Mayeur, Catholicisme intransigeant, catholicisme social, démocratie chrétienne, in “Annales ESC”, n. 2, 1972, pp. 483-499.

di quanti, tra i liberali, si preoccupano di scongiurare gli effetti più devastanti dello sviluppo economico77. Nella seconda metà del XIX secolo, Frédéric Le Play e i leplaysiani si inscrivono nello stesso schieramento. Questi non sono più dei liberali, ma sono ossessionati dalla “piaga del pauperismo”78. Le Play vuole egli stesso raggruppare tutte le “autorità sociali” per esercitare un nuovo “patronato” su queste masse desocializzate. “Il patronato volontario è efficace quanto l'Ancien Régime dei vincoli per combattere il pauperismo”79. Di qui il carattere paradossale della sua scuola, montaggio di nostalgie arcaiche e di aspirazioni moderniste che ha affascinato circoli di in77 Armand de Melun, in primis come Ozanam un adepto delle opere buone, “frequentando lo stesso giorno le mansarde e i saloni”, come dice lui stesso (lettera del luglio 1844), traccia così la propria evoluzione: “Il nuovo orientamento delle mie ricerche mi ha lasciato fedele al mio programma che mi fa passare dai poveri agli operai e dall'assistenza alle associazioni” (lettera del giugno 1850). Difatti, egli sarà l'animatore della commissione incaricata di riformare i soccorsi pubblici sotto la II Repubblica, poi l'infaticabile difensore delle società di mutuo soccorso, ma la condizione che l'adesione resti facoltativa e che le società siano accuratamente inquadrate da dei notabili, al primo posto dei quali Armand de Melun colloca i curati. Cfr. Jean-Baptiste Duroselle, Les débuts du catholicisme social en France (1822-1870), cit., pp. 439-474. 78 Le Play parla così del dramma che rappresenta ai suoi occhi l'industrializzazione selvaggia: “Allora cominciò a prodursi un ordine di cose senza precedenti. Si vedono raggrupparsi intorno ai nuovi mezzi di fabbricazione innumerevoli popolazioni separate dalle loro famiglie, sconosciuti dai loro nuovi padroni, sprovvisti di abitazioni decenti, di chiese, di scuole, privati in una parola dei mezzi del benessere e di moralizzazione che fino ad allora erano stati giudicati necessari all'esistenza di un popolo civilizzato. […] Questo regime pesava all'improvviso su degli individui bruscamente strappati a un antico patronato e a delle abitudini tradizionali di sobrietà. Si capisce che essi abbiano allora provocato dei disordini sociali di cui l'umanità non aveva fino ad allora alcuna idea” (Frédéric Le Play, La réforme sociale en France, 3 voll., Paris, Dentu, 1867, t. II, p. 413). 79 Ivi, p. 425.

gegneri e capi di impresa dinamici 80. Le Play, politecnico lui stesso, creatore di un metodo originale di osservazione dei fatti sociali (le monografie di famiglie operaie), sarà il consigliere ascoltato di Napoleone III e il maestro d'opera dell'Esposizione del 1867 che renderà popolare l'“economia sociale”. La sua influenza sopravvivrà largamente alla caduta del secondo Impero e alla sua morte. Tuttavia, la scuola leplayana non è omogenea, andando dallo stesso Le Play, sempre più tentato da una reazione cattolica, a tecnocrati ante litteram, come Émile Cheysson, inventore del ruolo dell'“ingegnere sociale”. Eppure, tutti questi uomini si incrociano, si frequentano, e le loro influenze si sommano. È così che la Société d'économie sociale di Le Play si apre largamente ai “cattolici sociali”, e che anche Armand de Melun farà parte del suo consiglio di amministrazione81. La caratterizzazione propriamente politica di questi riformatori non è più facile da definire. La maggior parte di essi, fin 80 Questo montaggio richiama quello che tenterà di realizzare il regime di Vichy, nel quale gli ultimi leplaysiani si sentirono d'altronde a proprio agio. Notiamo anche che l'ultimo di questi “inventori dimenticati” che abbia goduto di una certa notorietà, Paul Descamps, lo deve al fatto di essere stato chiamato in Portogallo da Salazar per aiutarlo a elaborare la sua politica sociale (cfr. Bernard Kalaora, Antoine Savoye, Les inventeurs oubliés. Le Play et ses continuateurs aux origines des sciences sociales, Seyssel, Éditions du Champ-Vallon, 1989). 81 Sugli orientamenti daplaysiani, cfr. Bernard Kalaora, Antoine Savoye, Les inventeurs oubliées, cit., Sulle relazioni complesse tra l'insieme di queste correnti che alla fine del secolo si incrociano al Musée social, cfr. Sanford Elwitt, The Third Republic Defended. Bourgeois Reform in France, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1986. La riserva da muovere a quest'opera molto ricca è che a mio parere ha sottostimato la specificità del solidarismo in quanto questa dottrina preconizza l'intervento dello Stato, quel che le altre correnti “borghesi” rifiutano (cfr. il cap. seguente).

quando ne avranno l'età, attraverseranno i differenti regimi, meno preoccupati della fedeltà all'etichetta di un partito che di difendere questa posizione “centrista”, tra gli eccessi della reazione e il cinismo del puro economicismo, da una parte, i “debordamenti” dei socialismi dall'altra. Essi sono “sociali” nel senso che il Dictionnaire di Littré dà a questa parola: “[Sociale] si dice, in opposizione a politico, delle condizioni che, lasciando fuori la forma dei governi, si rapportano allo sviluppo intellettuale, morale e materiale delle masse popolari”. Il “sociale” è un insieme di pratiche che mirano ad attenuare il deficit caratterizzante lo stato materiale, ma ancor di più morale, delle classi inferiori della società. Esso si intende “in opposizione a politico”, non alla politica da politicanti di cui la maggior parte di questi riformatori furono abili praticanti, ma in opposizione a una politica che faceva dello Stato l'ordinatore di queste pratiche sociali. La politica sociale che preconizzano non è quella della responsabilità di governo, ma quella dei cittadini illuminati, che devono farsi volontariamente carico dell'esercizio di questo patronato sulle classi popolari. In questo senso, si potrebbe dire che tali attitudini restano nell'orbita del liberalismo o, in ogni caso, che non contraddicono. Tra il liberalismo “utopico” del XVIII secolo e quello che ha imposto il suo marchio alla società industriale, si è prodotto uno spostamento considerevole. Il primo era conquistatore, iconoclasta e propriamente rivoluzionario nella sua concezione della società: bisognava distruggere gli ostacoli alla realizzazione della libertà. Senza necessariamente cambiare i valori, il liberalismo che prevale nel XIX secolo è divenuto conservatore, o piuttosto restauratore dell'ordine sociale. È la sua posizione che è cambiata. Si

tratta ora di affrontare non più dei sistemi di privilegi, ma dei fattori di disordine; non più un eccesso di regolazioni pesanti e arcaiche, ma dei rischi di dissociazione sociale. Questa dissoluzione dell'ideale critico nell'ossessione di preservare a ogni costo la pace sociale rende il liberalismo compatibile con le differenti varianti della filantropia sociale. Certo, esiste un liberalismo puro e duro che guarda con diffidenza ogni intervento, di qualunque natura sia, suscettibile di influire, per quanto poco, sulle leggi del mercato. Questo ha anche i suoi portavoce, quali Naville82, Bastiat83 o Dunoyer84. Se questi non sono ciechi alla miseria, alcuni proclamano alto e forte, nella tradizione di Malthus, che è un male necessario e che a ben considerare essa è utile85. Esistono anche posizioni puramente conservatrici. Sono quelle della Chiesa cattolica in generale, della maggioranza dei notabili rurali e di tutti i nostalgici dell'Ancien Régime. Per questi conservatori, se intervento in favore 82 François Marc Louis Naville, De la charité légale, de ses effets et de ses causes et spécialement des maisons de travail, et de la proscription de la mendicité, 2 voll., Paris, Dufart, 1836. 83 Frédéric Bastiat, Harmonies économiques, Paris, Guillaumin, 1850; trad. it. Armonie economiche, Torino, UTET, 1946. 84 Charles Dunoyer, De la liberté du travail, ou simple exposé des conditions dans lesquelles les forces humaines s'exercent avec les plus de puissance, cit. 85 Charles Dunoyer: “Voi trovate che essa è un male orrendo [la miseria]? Aggiungete che essa è un male necessario. […] È bene che nella società vi siano dei luoghi inferiori in cui sono esposti a cadere le famiglie che si comportano male. […] La miseria è questo temibile inferno. […] Non sarà forse dato che alla miseria e ai salutari orrori di cui cammina scortata di condurci all'intelligenza e alla pratica delle virtù veramente più necessarie al progresso della nostra specie e al suo sviluppo regolare. […] Essa offre un salutare spettacolo a tutta la parte rimata sana delle classi meno felici; essa è fatta per riempire di un salutare terrore; essa le esorta alle virtù difficili di cui esse han bisogno per arrivare a una condizione migliore” (ivi, p. 457).

dei “poveri” deve esserci, deve ridursi alle pratiche caritatevoli tradizionali sotto la ferula della Chiesa e delle Congregazioni. Ma tra questi due estremi prende forma una, o piuttosto delle posizioni intermedie, che formano una nebulosa assai confusa, ma che si è alla fine imposta. È da questo centro un po' molle che è uscita nel XIX secolo la prima versione moderna delle politiche sociali86. A dispetto della sua eterogeneità, quest'area si lascia caratterizzare per due tratti principali. Da una parte, un interdetto di Stato, che è già stato segnalato, ma di cui si vedranno moltiplicate le traduzioni pratiche – o piuttosto, dato che il rifiuto di un intervento pubblico sarà sempre più difficile da mantenere in forma assoluta, un accanimento nel minimizzarlo e nel circoscriverlo. E simultaneamente, benché in apparenza in maniera contraddittoria, un rifiuto del laissez-faire, cioè una presa di distanza dall'economia politica “pura”. Ecco perché il modo meno insoddisfacente di nominare quello che hanno in comune queste posizioni sarebbe quello di dire che rappresentano diverse varianti dell'economia sociale. Esse pongono la questione degli effetti sui produttori stessi del modo di produzione delle ricchezze che impone il capitalismo. Ma si vietano di intervenire direttamente 86 Evidentemente esistono anche delle posizioni socialiste e delle forme di rivendicazione e di organizzazione propriamente operaie che preconizzano delle trasformazioni sociali radicali, ma sono al di là dei limiti del disegno presente perché propongono una concezione del tutto differente della società e del sociale. L'attitudine dei repubblicani è più ambigua. Dapprima poggia sul movimento operaio ma dopo il giugno 1848 numerosi repubblicani si allineano al partito dell'Ordine, mentre altri occupano una posizione troppo minoritaria per avere una influenza significativa sull'elaborazione delle politiche. La posizione repubblicana non troverà il suo regime e non avrà impatto, decisivo questa volta, che sotto la III Repubblica; cfr. il cap. seguente.

sulla maniera di produrli. “Fare del sociale” significa lavorare sulla miseria del mondo capitalista, cioè sugli effetti perversi dello sviluppo economico. Significa tentare di apportare dei correttivi alle contro-finalità più inumane dell'organizzazione della società, ma senza toccarne la struttura87.

87 Charles Gide, che tenta di rinnovare l'economia sociale al volgere del XIX e del XX secolo, la ripartisce in quattro correnti: un orientamento cristiano-sociale, uno liberale, uno solidarista e uno socialista (Quatre écoles d'économie sociale, conférences données à l'“aula” de l'Université de Genève sous les auspices de la Société chrétienne suisse d'économie sociale. L'école Le Play, M. Claudio Jannet. L'école collectiviste, M.G. Stiegler. L'école nouvelle, M. Charles Gide. L'école de la liberté, M. Fréd. Passy, Genève, Stapelmohr, 1890). Ma mostrerò (cfr. il cap. seguente) che il solidarismo e i socialismi comportano un senso molto differente del sociale. Trattandosi qui di “politiche senza Stato”, sono solo le prime due forme, derivate dal liberalismo e dal cattolicesimo sociale, a formare la nebulosa tutelare che ho appena richiamato. Se è vano ricercare una coerenza teorica rigorosa in questi tentativi, è tuttavia senza dubbio Léonard Sismonde de Sismondi che all'inizio del secolo ne ha più chiaramente colti i principi (Nouveaux Principes d'économie politique ou de la richesse dans ses rapports avec la population, 2 voll., Paris, Delaunay, 1819; trad. it. Nuovi principi di economia politica, o sia Della ricchezza. Posta in raffronto colla popolazione, Milano, Istituto Editoriale Internazionale, 1975). Sismondi vuol correggere l'economia politica universalmente preoccupata dalla produzione delle ricchezze (la “crematistica”) attraverso una “economia sociale” che conserva la cura di promuovere il benessere del maggior numero. Marx vi vedeva con un certo disprezzo una “economia politica volgare” che – a differenza della costruzione di Ricardo – rifiutava di tirare tutte le conseguenze umanamente distruttive dalla logica interna del capitalismo. Su questo punto, cfr. Giovanna Procacci, Gouverner la misère, cit. Alla fine del secolo, René Worms dà questa definizione gustosa e assai esatta dell'economia sociale: “L'economia sociale è una economia politica intenerita” (L'économie sociale, in “Revue internationale de sociologie”, 1898).

3. Il patronato e i padroni È dunque in seno a questa nebulosa di riformatori sociali che si formula innanzitutto la questione sociale nella sua versione del XIX secolo, la questione dell'elevamento delle classi lavoratrici “incancrenite”88 dalla piaga del pauperismo. Salvo errore, l'espressione appare per la prima volta a seguito della sollevazione degli operai setaioli lionesi in un giornale legittimista, “la Quotidienne”, che se la prende così col governo il 28 novembre 1831: “Bisognerebbe infine comprendere che al di fuori delle condizioni parlamentari dell'esistenza di un potere, vi è una questione sociale che occorre soddisfare... Un governo ha sempre torto quando non ha altri fini che non ascoltare persone che chiedono del pane”89. Questa formulazione dà già la chiave del modo in cui questa questione sarà posta fino alla III Repubblica. La questione sociale esiste “al di fuori delle condizioni parlamentari dell'esercizio di un potere”, cioè al di fuori della sfera del politico. Essa tocca più da vicino la condizione del popolo e gli oppositori politici che sono i legittimisti interpellano il governo a suo nome affinché “si chini” sulla miseria popolare. Ma la questione non implica ancora una ricomposizione del campo politico. Si tratta di alle88 Questa immagine della cancrena è dell'abate Meysonnier: “Occorre moralizzare la classe operaia, essa è la parte incancrenita della società” (cit. in Louis Reybaud, Études sur le régime des manufactures. Condition des ouvriers en soie, Paris, Michel-Levy, 1959, p. 276). Questo ecclesiastico è il cappellano dei “conventi della seta”, quelle fabbriche create dal patronato lionese nelle quali le giovani ragazze povere sono inquadrate da religiosi e sottomesse a una disciplina monacale. 89 Cit. in Jean-Baptiste Duroselle, Les débuts du catholicisme social en France, cit. Si conferma qui la complessità del legittimismo, che il suo ruolo di oppositore politico dopo il 1830 e il suo rifiuto della modernità liberale conducono a sostenere certe rivendicazioni popolari e a collocarsi in un ruolo di protettore delle vittime dell'industrializzazione.

viare la miseria, non di ripensare a partire da essa “le condizioni dell'esistenza di un potere”. È per questo che in tutta questa sequenza, fino alla riformulazione della questione della solidarietà in termini politici, si tratta certamente di una “politica senza Stato”, che non coinvolge la struttura dello Stato. La formula circola in seguito negli ambienti del cattolicesimo sociale. Frédéric Ozanam scrive al suo amico Falconnet il 13 marzo 1833 per ringraziarlo di averlo iniziato al “grande problema sociale del miglioramento delle classi lavoratrici” 90. Nello stesso contesto, nelle conferenze della Société Saint-François Xavier, opera cattolica per l'educazione dei giovani operai, Théodore Nizard dichiara: “Ai nostri giorni, il grande problema sociale è incontestabilmente il miglioramento delle classi operaie” 91. Villeneuve-Bargemont interviene alla Camera al momento della discussione della legge del 1841 sulla riduzione del tempo di lavoro dei bambini ed è il solo a dare tutta la sua ampiezza al dibattito: “La restaurazione delle classi inferiori, delle classi operaie, è il grande problema della nostra epoca. È il momento di avviare seriamente la sua soluzione e di entrare infine nella vera e propria economia sociale, troppo spesso persa di vista in mezzo alle nostre sterili agitazioni politiche”92. Ed è senza dubbio Armand de Melun a dare di questa questione la formulazione più pertinente: “Qual è il dovere della società di fronte al pauperismo, alle sue cause e ai suoi effetti, e questo dovere, in che misura e con quali mezzi deve compiersi? Ecco tutta la questione sociale”93. 90 Ivi, p. 168. 91 Ivi, p. 9. 92 Ivi, p. 231. 93 Armand de Melun, De l'intervention de la société pour prévenir et soulager les misères, Paris, Plon, 1849, p. 9.

Certo, fra gli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento, la questione comincia anche a essere posta, e in tutt'altra maniera, dai socialisti e da operai che preconizzano una organizzazione alternativa del lavoro, l'associazione dei produttori e l'abolizione del salariato94. Bisognerà ben inteso ritornarci. Ma si tratta qui per il momento della posizione delle classi dominanti. Da questo punto di vista, quel che deve attirare l'attenzione è il fatto che a dispetto del duplice fermo rifiuto dello Stato e della minima capacità delle “classi inferiori” di influire sul proprio destino, esse siano pervenute a dispiegare un insieme sistematico di procedure. Queste strategie di moralizzazione giocano su tre livelli: l'assistenza agli indigenti attraverso tecniche che anticipano il lavoro sociale nel senso professionale del termine; lo sviluppo di istituti di risparmio e di previdenza volontaria che pongono le prime pietre di una società assicurativa; l'istituzione del patronato padronale, garante al contempo dell'organizzazione razionale del lavoro e della pace sociale. A. Il barone de Gérando propone nel Visiteur du pauvre, una nuova tecnologia dell'assistenza. La sua finalità principale non è di dispensare soccorsi agli indigenti. È in effetti sempre pericoloso distribuire beni materiali ai poveri, a meno di assicurarsi gli strumenti per controllare strettamente l'uso che essi ne faranno. L'esercizio di una carità cieca mantiene l'assistito nella sua condizione e moltiplica il numero dei poveri. Un piano di soccorsi comincia dunque con un esame meticoloso dei bisogni di chi ha bisogno, “base di tutto l'edificio che una carità illuminata è chia94 Così la prima edizione di Organisation du travail di Louis Blanc è del 1839 e il giornale “L'Atelier”, che appare tra il 1840 e il 1859, sviluppa un vero e proprio programma di autonomia operaia.

mata a costruire”95. Tra i bisogni, ve ne sono di permanenti, come quelli suscitati dall'invalidità, e altri provvisori, come quelli dovuti alla malattia, altri ancora pertinenti alle condizioni di lavoro, come “le disoccupazioni”, o alla cattiva costituzione morale e all'imprevidenza degli indigenti. A ogni “causa” dunque il suo rimedio. Ma soprattutto, bisogna subordinare la concessione dei soccorsi alla buona condotta del beneficiario. Il servizio concesso deve essere uno strumento di elevazione morale, e nello stesso tempo deve istituire un rapporto permanente tra i protagonisti dello scambio. La relazione di aiuto è come un flusso di umanità che circola tra due persone. Certo, questa relazione è ineguale, ma in questo risiede il suo interesse. Il benefattore è un modello di socializzazione. Attraverso la sua mediazione, il bene si estende sul beneficiario. Questi, a sua volta, risponde con la sua gratitudine, ed è così ristabilito il contatto tra la gente dabbene e i miserabili. Un legame positivo si ricostituisce là dove non vi era che indifferenza, ossia ostilità e antagonismo di classe. Il rapporto di tutela istituisce una comunità in e attraverso una dipendenza. Il benefattore e il suo obbligato formano una società, il legame morale è un legame sociale. Il miserabile è sollevato dalla sua indegnità e riammesso nell'universo dei valori comuni. Non vi sono, in fondo, cattivi poveri se non perché vi sono cattivi ricchi: “Ricchi, riconoscete la dignità di cui siete investiti! Ma riconoscete anche che non è un patronato vago e indefinito quello a cui voi siete chiamati... Voi siete chiamati a una tutela libera e di vostra scelta, ma reale e attiva” 96. La virtù del ricco funge da ci-

95 Joseph-Marie baron de Gérando, Le visiteur du pauvre, cit., p. 39. 96 Id., De la bienfaisance publique, cit., t. IV, p. 611.

mento sociale e riaffilia i nuovi barbari che sono gli indigenti dei tempi moderni, demoralizzati dalle loro condizioni esistenziali. Certo, rispetto all'indigenza di massa, questo tipo d'intervento non può avere che effetti limitati. Il “visitatore del povero” si limita a un rapporto personale (ma non puntuale: egli deve assicurare il prosieguo), non fa insomma che della clinica sociale, della crisis intervention su situazioni singolari. Tuttavia, questo uso riflesso della beneficenza non comporta nulla di ingenuo. Costituisce un nucleo di expertise da cui potrà nascere il lavoro sociale professionalizzato: valutazione dei bisogni, controllo dell'uso dei soccorsi, scambio personalizzato con il cliente. La corrente della scientific charity, così vivace nei paesi anglosassoni durante la seconda metà del XIX secolo, svilupperà su larga scala questo approccio dell'assistenza97. La tradizione del case work si inscrive ugualmente in questa linea98. E ci si può chiedere se la pregnanza del modello clinico nel lavoro sociale non dipenda in larga misura dalla doppia esigenza, di cui il barone de Gérando è stato il primo teorico, di procedere a un'investigazione “scientifica” dei bisogni del cliente e di stabilire con lui un rapporto personalizzato. Trattando del XIX secolo, in ogni caso, bisogna ben vedere che, nello spirito dei loro promotori, queste pratiche occupano il 97 Cfr. Gertrude Himmelfarb, Poverty and Compassion. The Moral Imagionation of the late Victorians, New York, A. Knopf, 1991. 98 Il social case work è nato negli anni 1920 negli Stati Uniti da una volontà di ricentrare l'intervento sociale presso gli ambienti sfavoriti sulla relazione tra l'interveniente e i beneficiari, da cui, come dice il presidente del congresso nazionale del lavoro sociale nel 1930, cioè durante la Grande Crisi, “l'inutilità di tutti i programmi ufficiali, e in particolare di quelli che dipendono dallo Stato” (cfr. Françoise Castel, Robert Castel, Anne Lovell, La société psychiatrique avancée. Le modèle américain, Paris, Grasset, 1979, pp. 59 sgg.).

posto del diritto al soccorso. È l'esercizio di questa diagnostica guidata dalla virtù della beneficenza che governa l'accesso ai soccorsi così come le forme che devono prendere. Così si sfuggirà alle pieghe della “carità legale” inglese, la cui immagine, o la caricatura, serve da spauracchio per respingere le tentazioni di un intervento dello Stato in materia di assistenza. Su questo tutti sono d'accordo, o quasi, e al primo posto i grandi liberali. Così Alexis de Tocqueville: Sono profondamente convinto che ogni sistema regolare, permanente, amministrativo, il cui fine sarà di provvedere ai bisogni dei poveri, farà nascere più miseria di quanta ne può guarire, depriverà la popolazione che vuole soccorrere e consolare, ridurrà con il tempo i ricchi a non essere che i fittavoli dei poveri, prosciugherà le fonti del risparmio, arresterà l'accumulazione dei capitali, comprimerà lo slancio del commercio, intorpidirà l'attività e l'industria umane, e finirà per causare una rivoluzione violenta nello Stato, quando il numero di coloro che ricevono l'elemosina sarà divenuto quasi tanto grande che il numero di coloro che la danno, e che l'indigente, non potendo più trarre dai ricchi impoveriti di che provvedere ai propri bisogni, troverà più facile spogliarli di un sol colpo dei loro beni che chiedere dei soccorsi99. 99 Alexis de Tocqueville, Mémoire sur le paupérisme, cit., p. 39. Ricordiamo ugualmente che, liberalismo oblige, Tocqueville è l'autore, al momento della discussione parlamentare sul diritto al lavoro nel 1849, di un attacco particolarmente violento contro il socialismo: “Bisogna che noi scarichiamo il paese di questo peso che il pensiero del socialismo fa pesare, per così dire, sul suo petto... [il socialismo] è un appello energico, continuo, smoderato alle passioni materiali dell'uomo […]. Se, indefinitiva, dovessi trovare una nuova formula generale per meglio esprimere quel che mi sembra il socialismo nel suo insieme, direi che questo è una nuova forma della servitù” (cit. in Ernest Labrousse, Le mouvement ou-

Adolphe Thiers e la “grande paura” dei possidenti non sono poi così lontani. Noi abbiamo oggi dei problemi a comprendere come un pensatore così profondo quale Tocqueville possa dedurre tali catastrofi dalla semplice esistenza di un diritto ai soccorsi per alcune categorie di deprivati. Ma quello che spaventa tutti questi spiriti è il rischio di mettere il dito in un ingranaggio che condurrebbe allo Stato-Leviatano, o peggio, al socialismo100. B. Tuttavia, queste tecniche di sollievo dei poveri, procedendo caso per caso, in una relazione person to person, non potevano far fronte all'ampiezza dei problemi posti dal pauperismo. Occorre che vi si aggiungano delle pratiche collettive, iscritte in delle istituzioni. L'insistenza sulla dimensione istituzionale degli interventi sociali è per questa corrente riformatrice quel che costituisce ai propri occhi la propria differenza essenziale rispetto alle forme tradizionali dell'assistenza. Il segretario della Société de morale chrétienne chiude così il suo rapporto sulle attività dell'anno 1824: Si può aggiungere, Signori, che la filantropia, cioè la maniera filosofica di amare e di servire l'umanità, è la vostra bandiera più che la carità, che è il dovere cristiano di amare e di soccorrere il proprio prossimo... La carità è soddisfatta quando ha sollevato dalla disgrazia; la filantropia non può esserlo che quando l'ha prevenuta... I miglioramenti, la sua opera [per il filantropo], lungi dal fi-

vrier et les théories sociales en France, cit., p. 214). 100 Cfr. nel cap. seguente la drammatizzazione di questo dibattito nel 1848 intorno alla questione del diritto al lavoro.

nire con lui, si trasformano presto o tardi in istituzioni101.

Difatti, la Société de morale chrétienne – in cui si incrociavano, ricordiamolo, dei personaggi tanto differenti quali La Rochefoucauld-Liancourt, Guizot, Constant, Dufuare, Tocqueville, Gérando, Dupin... – ha costituito un centro di riflessioni e iniziative da cui sono nate numerose istituzioni. Essa ha sostenuto le casse di risparmio e le società di mutuo soccorso. Essa aveva un comitato per il miglioramento morale dei prigionieri, un altro per il collocamento degli orfani, un comitato d'igiene pubblica, un comitato per l'assistenza agli alienati, ecc., e numerose regolamentazioni sortiranno dalle sue deliberazioni102. In seno a questo insieme, particolarmente degne d'interesse sono le istituzioni suscettibili di prevenire i mali causati dall'indigenza. Una cosa è tentare di riparare i danni quando sono fatti, miglior cosa è evitare che si producano. Da questo punto di vista, due istituzioni, le casse di risparmio e le società di mutuo soccorso, sono più adatte a realizzare il mandato di sollevamento morale delle classi inferiori in cui consiste la filantropia. “Di tutti i servigi che la carità può rendere alle classi inferiori, non ve n'è di più grande che sviluppare in esse il sentimento di previdenza”103. L'imprevidenza è in effetti la causa principale del malessere del popolo. L'operaio, come il bambino, è incapace di anticipare l'avvenire e così di guidare il proprio destino. Egli vive 101 Louis de Guisart, Rapport sur les travaux de la Société de morale chrétienne pendant l'année 1823-1824, Paris, Henry, 1824, pp. 22-23. 102 Cfr. Louis-Ferdinand Dreyfus, Un philanthrope d'autrefois, cit. 103 Charles-Marie Tanneguy Duchâtel, La Charité dans ses rapports avec l'état moral et le bien-être des classes inférieures de la société, cit., p. 306.

giorno per giorno, bevendo in una sera di paga il salario di una settimana, incurante di quel che può accadergli – la malattia, l'incidente, le disoccupazioni, i carichi familiari, la vecchiaia – che lo lascerà senza risorse. Partecipare a una cassa vuol dire iscrivere nel presente la cura dell'avvenire, imparare a disciplinare i propri istinti e a riconoscere al denaro un valore che va oltre la soddisfazione dei bisogni immediati. Vuol dire anche costituirsi delle riserve, assicurarsi contro le alee dell'esistenza. La prima cassa di risparmio è fondata a Parigi nel 1818. Essa è presieduta dal duca de La Rochefoucauld-Liancourt, che, al tempo del Comité pour l'extincion de la mendicité, aveva già preconizzato la creazione di una tale cassa in ogni dipartimento per contribuire “ai progressi della classe utile e lavoratrice” 104. Dopo il 1830, Villermé nota uno sviluppo importante di queste casse105. Tuttavia, tenuto conto della modicità dei salari operai, l'impatto propriamente economico di questo risparmio resta limitato. Questo tipo di economia vale soprattutto per il suo valore moralizzatore, in quanto pedagogia della previdenza106. Mentre il 104 Procés Verbaux, cit., “Quatrième Rapport”. 105 Cfr. Louis Réné Villermé, Tableau de l'état physique et moral des ouvriers employé dans les manufactures, cit. 106 È vero che certi operai, soprattutto se sono rimasti vicini alle loro origini rurali, possono rivelare delle qualità insospettabili. Louis Reybaud si meraviglia: “Lo spirito vi si perde. Da un lato dei deficit che sembrano inevitabili, dall'altro delle riserve centrate su questi deficit. Come conciliare questo? Il fatto è che evidentemente tutti i nostri calcoli peccano nel punto in cui non si è tenuto conto in modo sufficiente di una facoltà molto sviluppata presso gli operai di origine rurale: la facoltà di astenersi, la forza della privazione volontaria. Si sono ben valutate le loro spese a dir poco, essi trovano ancora mezzi per di restare al di qua. Anche i loro vizi, la ubriachezza, per esempio, non guastano sempre questi calcoli; essi la mantengono facendo patire i loro. È così, e con gocce d'acqua spesso mischiate a lacrime, che si ingrossa la corrente del risparmio popolare” (Louis Reybaud, Le fer et la houille suivis du Canon Krupp et

monte di pietà simboleggia l'irresponsabilità popolare e il suo malessere guidato dalla immediatezza del bisogno, la cassa di risparmio inizia il popolo ai meriti della razionalità calcolatrice e al valore del denaro come fonte di investimenti produttivi. Ma la portata moralizzatrice della società di mutuo soccorso è ancora più grande. Infatti, esse, con il patronato padronale, saranno l'essenza delle speranze di un miglioramento della sorte delle classi popolari, compatibile con la struttura liberale dell'economia. La situazione in Inghilterra funge qui da modello, dal momento che serve da scaccia-chiodi per il diritto al soccorso. Lo sviluppo delle friendly societes sembra indicare che esista un mezzo per combattere l'insicurezza fondamentale della condizione salariale garantendo intere professioni contro certi rischi – la malattia, l'incidente, se non addirittura la disoccupazione e la vecchiaia107 –. La previdenza può farsi collettiva restando volontaria. Essa può dare una dimensione veramente “sociale” alle pratiche filantropiche. Le società di mutuo soccorso presentano tuttavia due grandi ostacoli. Gli operai possono sviare questa possibilità per associarsi a dei fini rivendicativi o sovversivi, e fare delle società di soccorso delle società resistenza. Il rischio è tanto più grande quanto più l'associazionismo operaio immerge du Familistère de Guise. Dernière série des Études sur le régime des manufactures, Paris, Lévy, 1874, p. 111). 107 Le friendly societes contano già 925.000 membri nel 1815, cifra che sarà raggiunta in Francia solo dopo il 1870, data alla quale le società inglesi raggruppano, loro, 4 milioni di aderenti. Questo “sviluppo” inglese dipende dal fatto che queste società han potuto svilupparsi in modo più autonomo in rapporto alla sorveglianza dello Stato e all'inquadramento dei notabili e anche in numero più alto dei salariati inglesi. Tuttavia, in Gran Bretagna come in Francia, le società di previdenza reclutano soprattutto tra i lavoratori più stabili e i meglio pagati. Cfr. Bentley Brinkehoff Gilbert, The Evolution of National Insurance in Great Britain, London, Michael Joseph, 1966.

le sue radici nelle antichissime tradizioni dei mestieri, sopravvissute, in maniera più o meno clandestina, alla legge “Le Chapelier”108. Il pericolo esiste anche perché, divenendo obbligatori, i contributi assicurativi perdono il proprio valore moralizzatore. Non potrebbe darsi vera previdenza se non volontaria. Il versamento della quota obbligatoria sarà il cavallo di Troia grazie al quale il potere pubblico si immischierà nelle questioni di lavoro, dato che l'obbligazione non può che essere garantita dallo Stato. La mutualità deve dunque essere sorvegliata e inquadrata, e la partecipazione deve restare facoltativa. È sotto questa doppia condizione che essa spiccherà il volo; ed è anche la difficoltà di mantenere questa doppia esigenza che rende conto del percorso tormentato di queste società prima che esse sfocino, ma molto più tardi, nell'assicurazione obbligatoria (cfr. il cap. seguente). Libertà sotto sorveglianza, dunque. Si incoraggia la creazione di società di soccorso, ma le si inquadra accuratamente. Sotto la Restaurazione, esse non possono in principio riunirsi che con la presidenza del sindaco o del commissario di polizia. A seguito dell'agitazione operaia dell'inizio della monarchia di Luglio, una legge del 1834 riduce a venti il numero dei loro membri e aggra108 Sull'origine “corporativistica” delle società di soccorso, cfr. Émile Laurent, Le Paupérisme et les associations de prévoyance, cit., t. I, e William Hamilton Sewell, Gens de métiers et révolutions, cit. Verso il 1820, si può stimare in 132 il numero delle società mutuali, raggruppanti una dozzina di migliaia di associati (André Gueslin, L'invention de l'économie social, cit., p. 124). Il cambiamento delle società di soccorso in società di resistenza è attestato molto presto. È così che la Société du devoir mutuel a Lione prende una parte attiva nelle insurrezioni degli operai setaioli di Lione del 1831 e del 1834 (cfr. Michelle Perrot, Mutualité et mouvement ouvrier au XIXe siècle, in “Prévenir”, n. 4, 1981). Per una storia d'insieme della mutualità, cfr. Bernard Gribaud, De la mutualité à la Sécurité sociale, conflits et convergences, Paris, Éditions ouvrières, 1986.

va le pene (fino a due anni di prigione) in caso d'infrazione 109. Agli inizi del 1848, esse si moltiplicano, ma sono prese in un movimento profondo che spinge gli operai a vedere nell'associazione il principio di una completa riorganizzazione dell'ordine del lavoro. Agli occhi dei moderati, l'associazione di mutuo soccorso rischia di soffrire di questa contaminazione. Tuttavia, l'attrazione del modello della previdenza è così forte per i riformatori sociali che, dopo il ritorno all'ordine che segue l'insurrezione del giugno 1848, l'Assemblea vuole ridare uno statuto legale alle associazioni di soccorso, a condizione che rispettino i princìpi liberali. Armand de Melun se ne fa l'ardente difensore. La maggioranza dell'Assemblea legislativa respinge l'idea dell'obbligo, che era sostenuta dalla “Montagna” repubblicana. In virtù della legge votata il 15 luglio 1850, l'adesione alle mutue resta facoltativa, e le società sono ingabbiate da autorizzazioni preliminari e da controlli che faranno da ostacolo al loro sviluppo. Parallelamente, una legge del 18 giugno 1850 crea una “cassa di previdenza sociale o rendite vitalizie per la vecchiaia”. Ma anche qui l'adesione è puramente facoltativa, e queste casse funzionano di fatto come semplici casse di risparmio per rari contribuenti di buona volontà110. Così, le società di soccorso devono combattere il pauperismo attraverso la previdenza, ma a condizione che esse restino iscritte nel complesso tutelare. Il relatore della legge all'Assemblea, Benoît d'Azy, lo esprime con perfetta chiarezza:

109 Georges Dupeux, La société française 1789-1960, Paris, Colin, 1964, pp. 148 sgg. 110 Cfr. Louis-Ferdinand Dreyfus, L'assistance sous la Seconde Republique, cit.

Le società di mutuo soccorso sono delle vere e proprie famiglie che devono avere quasi tutti i tratti delle famiglie private. Se queste società cessano di essere dei raggruppamenti tra persone che si conoscono reciprocamente, queste non sono più delle società nel senso in cui noi le comprendiamo, sono delle associazioni generali; esse cessano d'essere fraterne, è un'altra cosa111.

Interpretazione confermata dall'episodio seguente. Quando Luigi-Napoleone Bonaparte arriva al potere, vuole rilanciare le società di soccorso e dare loro un carattere obbligatorio e generale. L'autore de L'extinction du paupérisme sembra allora tentato da una formula di protezione autoritaria dei lavoratori del tipo di quella che Bismarck realizzerà in Germania un quarto di secolo più tardi: la mutualità obbligatoria stimolata e garantita dallo Stato assicurava l'insieme dei lavoratori contro i principali rischi sociali e li stornava dall'azione rivendicativa. Luigi-Napoleone ne parla ad Armand de Melun, che, per evitare che sia introdotto in Francia “un vero e proprio socialismo di Stato” lo dissuade dal dare questo carattere obbligatorio alla mutualità. Le società non offriranno più soccorsi in caso di disoccupazione. Armand de Melun redige il decreto-legge organico del 28 marzo 1852, che incoraggia la creazione di società di soccorso “a cura del sindaco e del curato”. Le “società approvate” dal ministro dell'Interno sono per giunta accuratamente inquadrate da “membri onorari”, vale a dire i notabili. Così la Commission supérieure d'encouragement et de surveillance des societes de secours mutuels, il cui relatore è Armand de Melun, può felicitarsi nel suo bollettino del 1859: “Ciascuno deve applaudire al pensiero a un tempo cristiano e po111

litico che ha saputo trarre dalle associazioni operaie un elemento d'ordine, di dignità e di moralizzazione”. E “Nel 1869, 6.139 società contano 913.633 adepti, 764.473 membri partecipanti e 119.160 membri onorari”112. Così il Secondo Impero trasmetterà alla III Repubblica un movimento mutualistico già strutturato e assai largamente impiantato nella classe operaia. Ma grazie al militantismo di riformatori sociali come Armand de Melun, esso continua a iscriversi nel programma “filantropico” di moralizzazione delle classi popolari. C. È però dall'impresa che l'idea di patronato ha tratto tutta la sua forza, dal potere quasi indiviso del capo dell'impresa sugli operai. Le Play, che si è fatto il cantore del patronato industriale, lo eleva alla dignità di un vero e proprio principio di governamentalità politica: Il nome patronato volontario mi sembra applicarsi convenientemente a questa nuova organizzazione [del lavoro industriale]; il principio della gerarchia vi sarà mantenuto; solo che l'autorità militare dei signori che erano incaricati un tempo di difendere il suolo sarà rimpiazzata dall'ascendente morale dei padroni che dirigeranno gli ateliers di lavoro113.

Ma bisogna ancora che i capi d'impresa vogliano giocare bene al gioco di questo patronato morale, cioè prendere le distanze ri112 Cfr. Jean-Baptiste Duroselle, Les débuts du catholicisme social en France, cit., pp. 501-512. 113 Frédéric Le Play, La réforme sociale en France, cit., t. II, p. 413.

spetto alla concezione puramente liberale, contrattuale del rapporto di lavoro, che spettano a questo: L'operaio dà il suo lavoro, il maestro paga il salario convenuto, a questo si riducono le loro obbligazioni reciproche. Dal momento in cui [il maestro] non ha più bisogno delle sue braccia, lo congeda [all'operaio] e tocca all'operaio cavarsela”114. Al contrario, “questa sollecitudine verso l'operaio fa sì che il padrone si interessi a lui, al di fuori di quel che gli deve in senso stretto e si sforzi di essergli utile, costituisce il patronato”115. La differenza tra economia politica ed economia sociale assume qui un contenuto chiaro e concreto. È vero, in ogni giustizia contrattuale, che il datore di lavoro non deve all'impiegato che il salario, ma può comprendere che è equo e anche nel proprio interesse, dispensare dai servizi che non obbediscono a una stretta logica mercantile: Dietro la manodopera, questa astrazione economica, c'è un operaio, un uomo con la sua vita e i suoi bisogni. Se si ritiene che il lavoro sia una merce, si tratta in ogni caso di una merce sui generis, non somigliante ad alcun'altra e con delle leggi tutte speciali. Con essa, è in gioco l'intera personalità umana116.

114 Charles-Marie Tanneguy Duchâtel, La charité dans ses rapports avec l'état moral et le bien-être des classes inférieures de la société, cit., p. 133. 115 Paul Hubert Valleroux, articolo Patronage, in Léon Say, Joseph Chailley (sous la direction de), Nouveau dictionnaire d'économie politique, cit., t. II, p. 440. 116 Émile Cheysson, Le rôle social de l'ingénieur, in “La Réforme Sociale”, 1 octobre 1897, pp. 510-527.

Per esempio, l'operaio con famiglia a carico non ha gli stessi bisogni di un celibe, egli ha dei carichi supplementari per nutrire, alloggiare la sua famiglia, educare i suoi figli, ecc. Vi è dunque una mancanza di equità nella giustizia puramente contrattuale che dà all'uomo sposato e al celibe lo stesso salario, dal momento che il primo è socialmente più utile e meno pericoloso: egli riproduce la forza-lavoro ed è fissato al focolare mentre il celibe è spesso un fattore di instabilità sociale e di disordine per i costumi117. Allo stesso modo, l'operaio può essere temporaneamente privato dalla malattia o dall'accidente della capacità di sopravvivere senza che ne sia responsabile. Però, la fissazione del salario obbedisce alle leggi dell'economia politica, che non può prendere in considerazione questi impedimenti. È dunque attraverso l'intermediazione dei servizi che le preoccupazioni “sociali” prendono forma senza entrare in contraddizione con le esigenze economiche. Il ristabilimento della salute, il miglioramento dell'alloggio, dei soccorsi in situazione di ristrettezza, ossia dei mezzi d'educazione, degli svaghi sani, e anche dei sussidi di invalidità, dei supporti per le vedove o gli orfani di operai, ecc., possono essere dispensati in un'altra logica rispetto a quella del profitto pur senza contraddirla. Il padrone diventa così l'organizzatore della sicurezza dell'operaio, che ne è di per sé incapace. “Non è su di 117 Il vecchio paradigma del vagabondo, del girovago [rôdeur] completamente disaffiliato ossessiona sempre la società industriale: “Dappertutto, ci sono gli operai nomadi, le persone estranee alla località, i vagabondi, i celibi, tutti coloro che non sono fissati al focolare dalla famiglia, che hanno in genere i peggiori costumi e fanno molto raramente del risparmio […]. Coloro che non viaggiano affatto ma restano nello stesso luogo, presso dei loro parenti o degli amici d'infanzia, ne temono la censura e scappano prima del contatto con cattivi soggetti” (Honoré Antoine Frégier, Des classes dangereuses de la population dans les grandes villes et des moyens de les rendre meilleures, Paris, chez Baillière, 1840, p. 81).

lui [al padrone] che incombe di fare per l'operaio quel che questi non fa da sé, cioè essere previdente per lui, economo per lui, premuroso per lui?”118. Su queste basi, in certi grandi siti industriali dell'epoca, il tessile alsaziano, le miniere d'Anzin, Le Creusot, Montceau-LesMines, si sviluppa un'infrastruttura pressoché completa di servizi sociali. Così, sotto l'energica ferula della famiglia Schneider, Le Creusot propone un servizio medico con farmacista e infermiere, un ufficio di beneficenza che dispensi aiuti agli operai malati o feriti, ma anche alle vedove e agli orfani degli operai, una cassa di risparmio per la quale l'officina versa il 5% d'interesse sulle somme depositate, una società di previdenza alla quale gli operai devono versare una quota pari al 2% del loro salario. La compagnia sviluppa anche una politica abitativa: costruzione di alloggi standards, vendita di terreni a prezzi ridotti e prestiti per l'accesso degli operai alla proprietà. Iniziative simili si hanno a Montceau-Les-Mines con gli Chagot119. L'ideale è realizzare un'osmosi perfetta tra la fabbrica e la vita quotidiana degli operai e delle loro famiglie: “La fabbrica è in realtà la comune; tutte e due hanno obbedito fin qui alla stessa mano, e si sono trovate bene... Ecco il segreto del Creusot, e come ha fatto molto con poche spese, la città e la fabbrica sono due sorelle cresciute sotto la stessa tutela”120. Esse danno luogo, in effetti, a una istituzione totale nel senso letterale del termine, luogo unico nel quale l'uomo soddisfa la totalità dei propri bisogni, vive, lavora, alloggia, si nutre, procrea e muore. A proposito 118 Paul Hubert Valleroux, articolo Patronage, cit., p. 439. 119 Cfr. Jean-Baptiste Martin, La fin des mauvais pauvres, de l'assistance à l'assurance, Seyssel, Éditions du Champ-Vallon, 1983. 120 Louis Reybaud, Le fer et la houille, cit., p. 34.

d'Anzin questa volta, Reybaud si meraviglia di nuovo: “Letteralmente, la Compagnia prende l'operaio nella culla e lo conduce fino alla tomba, si vedrà con quali cure vigilanti e a quale prezzo”121. Questa prima realizzazione di una sicurezza sociale si paga così con la dipendenza assoluta dell'operaio. Queste realizzazioni contribuiscono nello stesso tempo a risolvere il più grave problema cui ha dovuto far fronte il capitalismo agli inizi dell'industrializzazione: fissare l'instabilità operaia, realizzare al contempo, secondo l'espressione di David Landes, “la disciplina del lavoro e la disciplina al lavoro” 122. Il “sublimismo” degli operai è in effetti il leitmotiv di tutta la letteratura sociale del XIX secolo123. Esso corrisponde a un nomadismo geografico (gli operai vanno di miniera in miniera, di cantiere in cantiere, abbandonando il loro datore di lavoro in maniera imprevedibile, attirati da più alti salari o respinti dalle condizioni di lavoro) e a una irregolarità nella frequentazione dei luoghi di lavoro (celebrazione del “santo lunedì” e altri costumi popolari, stigmatizzati come altrettanti marchi di imprevidenza).

121 Ivi, p. 190. 122 Cfr. David Saul Landes, The Rise of Capitalism, cit. 123 Cfr. Denis Poulot, Question sociale. Le Sublime ou le travailleur comme il est en 1870 et ce qu'il peut être, Paris, Librairie Internationale, 1870 e la presentazione di Alain Cotterau all'edizione del 1980 (Paris, Maspero). È caratteristico che il termine di “sublime” per qualificare questa irregolarità operaia, peggiorativo in bocca a Denis Poulot, si applica invece ai migliori operai, a quelli che lavorano più veloci e meglio e possono così non occuparsi che tre o quattro giorni a settimana, scegliere il proprio datore di lavoro, non rischiare disoccupazioni. Esso trasduce infatti la volontà di autonomia degli operai più qualificati e la loro profonda allergia alle forme di inquadramento del lavoro collettivo e all'ordine morale che si tenta di imporre loro.

Il patronato padronale è un potente fattore di fissazione di questa mobilità operaia, perché i lavoratori perdono tutti questi “vantaggi sociali” se lasciano la compagnia. Un tale dominio non può tuttavia imporsi alla perfezione che nello spazio chiuso delle grandi concentrazioni industriali. Nei piccoli ateliers o anche quando abita in città, l'operaio rischia di essere esposto a tutte le “cattive influenze” della bettola e delle solidarietà popolari, di darsi alle sue cattive inclinazioni124. Ma anche in queste condizioni meno favorevoli la tutela personale si esercita attraverso due istituzioni la cui importanza è stata enorme nel XIX secolo: il libretto di lavoro e il regolamento di atelier. Istituito dal Consolato sulla base di disposizioni datanti la fine dell'Ancien Régime (cfr. cap. III), riprodotto nel 1850 e nel 1854 e abolito solamente nel 1890, il libretto ha quale obiettivo il controllo della mobilità operaia. Necessario all'assunzione, serve da passaporto presso le autorità di polizia, esso riporta inoltre i debiti che l'operaio ha potuto contrarre presso il suo vecchio padrone. “Garanzia di un ordine molto speciale, ma molto energico, immaginato nell'interesse del padrone e solo del padrone” 125, il libretto operaio rompe la reciprocità dei due contraenti secondo il diritto civile. È una “legge industriale” che dà al padrone un po124 Georges Duveau oppone la mentalità e i comportamenti degli operai che vivono nelle città “che rappresentano l'industria tentacolare e il patrono onnipresente” alla vita nelle grandi città che danno la libertà e possono “nutrire i sogni dei lavoratori” (La vie ouvrière en France sous le second Empire, Paris, Gallimard, 1946, p. 227). Per le “persone dabbene”, invece, la bettola popolare è il luogo di tutte le turpitudini e di tutti i pericoli. Paul Leroy-Beaulieu, per esempio, non va per le lunghe: “Vi si diventa al contempo invidioso, cupido, rivoluzionario e scettico, comunista in fin dei conti” (La question ouvrière au XIXe siècle, Paris, Charpentier, 1872, p. 335). 125 Marc Sauzet, Le livret obligatoire des ouvriers, Paris, Pichon, 1890, p. 14.

tere discrezionale sull'assunzione. È anche una legge che ha delle funzioni di polizia: due ordinanze del 1 aprile 1831 e del 30 dicembre 1834 ingiungono a ogni operaio che viene a cercare lavoro a Parigi di far vistare entro otto giorni il proprio libretto al commissariato126. Ancora più in deroga al diritto comune è il regolamento d'atelier. Esso esprime chiaramente questa volontà di assorbimento del pubblico nel privato in cui consiste la tutela padronale. Proprietario dell'officina, il padrone emana un regolamento che ha forza di legge e la cui trasgressione dà luogo a sanzioni. Dallo spazio privato della fabbrica, pensato sul modello della famiglia di cui il padrone è il capo, sorge dunque un sistema di regolamentazioni obbligatorie con funzioni moralizzatrici, poiché, oltre a consegne corrispondenti a esigenze tecniche di sicurezza e di igiene, i regolamenti d'atelier prevedono disposizioni come quella sancita, alla vetreria Saint-Édouard nel 1875, dall'articolo 30: “Ogni operaio impiegato nella Vetreria la cui condotta non sarà quella dell'onesto uomo sobrio e lavoratore, che cerca in tutto e per tutto l'interesse dei maestri, sarà cacciato dallo stabilimento e denunciato alla giustizia se accade” 127. Alain Cottereau nota a questo proposito che a differenza della “polizia delle manifatture” dell'Ancien Régime, e contrariamente allo spirito del Codice civile, sono i padroni, persone private, che decidono i regolamenti di polizia del lavoro, e svolgono insomma funzioni di personaggi pubblici. 126 Cfr. Jean-Paul de Gaudemar, La mobilisation générale, Paris, Éditions du Champ urbain, 1979, p. 115. 127 Cit. in Alain Cottereau, Introduction, in Anne Biroleau, Catalogue des règlements d'atelier, 1798-1936, Paris, Bibliothèque nationale, 1984, pp. 1-22. Marx parlava già de “lo spirito ritorno dei Licurgo di fabbrica [che] porta a che essi profittino ancora di più della violazione che dell'osservazione delle loro leggi” (Le Capital, cit., p. 106).

Ecco un esempio particolarmente significativo del travalicamento dell'ordine contrattuale da parte dell'ordine tutelare, ma l'insieme di questi travalicamenti fa sistema. La combinazione di dipendenze instaurate dall'ordine padronale, rappresenta il modello che dovrà essere esteso all'insieme della società per assicurare la pace sociale. Al di là anche del contributo alla risoluzione degli antagonismi di classe, questo è elevato da Le Play a status di principio civilizzatore per eccellenza: “I padroni volontari del nuovo regime hanno più diritto che i vecchi signori feudali alla considerazione pubblica... essi sono allora eminentemente adatti a guidare le classi viziose o imprevidenti, a creare utili relazioni tra le nazioni civilizzate e a proteggere le razze selvagge o barbare”128.

4. Un'utopia a ritroso Queste strategie presentano però un carattere paradossale. I loro portavoce accettano, essenzialmente, il liberalismo economico, l'industrializzazione, la struttura contrattuale del diritto in generale e del rapporto salariale in particolare. Tuttavia, in questo universo della modernità, essi si sforzano di reiniettare un modello di relazione tutelare che ricorda quello che Marx ed Engels definiscono, con crudele ironia, “il mondo incantato dei rapporti feudali”129. Non vi è qui una sorta di utopia reazionaria, 128 Frédéric Le Play, La réforme sociale en France, cit., t. IV, p. 425. 129 Karl Marx, Friedrich Engels, L'idéologie allemande. Critique de la philosophie allemande la plus récente dans la personne de ses représentants Feuerbach, B. Bauer et Stirner, et du socialisme allemand dans celle de ses différentes prophètes, présentée et annotée par Gilbert Badia, Paris, Éditions sociales, 1968; trad. it. L'ideologia tedesca, Milano,

cioè un tentativo di ricodificare ciò che la storia propone di inedito in categorie che sono servite a pensare e a gestire antiche forme di organizzazione sociale? Queste tecniche padronali si sono impiantate soprattutto al cuore delle grandi concentrazioni industriali, nei settori di punta della produzione. Ma, nella letteratura che fa l'apologia di questo tipo di pratiche, si trovano dei testi curiosi, come questo: La parola padrone non si applica che ai capi che assicurano ai loro subordinati la pace e la sicurezza. Quando questo ruolo non è più coperto, il padrone cade sotto la categoria dei maestri e non è più che un datore di lavoro, secondo il termine barbaro che tende a sostituirsi a quello che prevale nelle zone in cui regna l'insicurezza130.

Il vero padrone è così colui che mantiene i suoi operai in una relazione di subordinazione. Invece, il “datore di lavoro” che opera nelle “regioni in cui regna l'insicurezza”, cioè nei nuovi bacini di impiego che sfuggono alle regolazioni tutelari, non è che un “barbaro”. Questa concezione dell'amministrazione del personale resta quella del visitatore dei poveri, che applicava il barone de Gérando a quell'altra categoria di minori che sono gli indigenti: giocare sui sentimenti, attendersi gratitudine in cambio di benefici, dissolvere la differenza dei ruoli e i conflitti di interesse in una dipendenza personalizzata. Un tale modello familista è compatibile con lo sviluppo della divisione del lavoro, la gerarchizzazione sempre più tecnica dei compiti e la presa di coscienza dell'antagonismo degli interessi? Così, Eugène Schneider non manBompiani, 2011. 130 Frédéric Le Play, La réforme sociale en France, cit., t. II, p. 458.

ca una occasione per ricordare ai suoi operai che Le Creusot è una grande famiglia. Ma quando costoro decidono nel 1870 di gestire in proprio la cassa degli aiuti dell'impresa, Schneider li ammonisce così: “State attenti, voi fate opposizione, educata, ma non di meno opposizione, e io non amo l'opposizione” 131. Gli operai rispondono con lo sciopero. I rappresentanti più coscienti e più tardivi del patronato padronale hanno percepito la difficoltà di rendere compatibile tutela morale, efficienza tecnica e pace sociale. Émile Cheysson, che fu direttore del Creusot dal 1871 al 1874, crea più tardi la nozione di “ingegneria sociale”, che deve associare la competenza tecnica e la premura di guidare gli operai verso il bene. Ma la sua posizione resta ambigua: Ai giorni nostri, in cui gli operai hanno il sentimento fiero e geloso della loro indipendenza, il padrone li assocerà presso le istituzioni che organizza per essi, anche se non gliene concede completamente la gestione, salvo aiutarli con consigli discreti e sovvenzioni o anticipi. Egli vi guadagnerà di prevenire gli urti del “paternalismo” sugli spiriti ombrosi e di rendere così il suo patronato più accettabile e più efficace132.

Questo è sufficiente per disarmare “il sentimento fiero e geloso” dell'indipendenza operaia?

131 Cit. in Édouard Dolléans, Histoire du mouvement ouvrier, 3 voll., Paris, Colin, 1948-1953, t. I, p. 344. 132 Émile Cheysson, Le patron, son rôle économique et social (conferenza pronunciata l'11 aprile 1906), in Id., Œuvres choisies, 2 voll., Paris, A. Rousseau, 1911, t. II, p. 117.

Le strategie del padronato hanno sottostimato due fattori che giocheranno un ruolo sempre più decisivo nella grande industria. Il primo è di ordine tecnico. Le esigenze dell'organizzazione del lavoro su larga scala imporranno dei rapporti oggettivi e definiti attraverso i compiti da svolgere, piuttosto che delle relazioni di dipendenza personale dominate da imperativi morali. Il “disincanto del mondo” caratteristico della modernità implica, anche nell'organizzazione del lavoro, la promozione di rapporti formali, “burocratici” nel senso di Max Weber, in luogo del clientelismo e delle soggezioni personali. È l'orientamento che si imporrà con il taylorismo. Il minimo che si possa dire è che l'ideologia del patronato non prepara ad accogliere questa trasformazione decisiva dell'organizzazione del lavoro. La seconda impasse è ancora più grave. Essa dipende dalla sottostima del “sentimento fiero e geloso” che gli operai hanno della propria indipendenza, o, per meglio dire, dall'impossibilità di tener conto in questo contesto delle rivendicazioni proprie degli operai e le loro forme specifiche di organizzazione. La tutela padronale può senza dubbio esercitare la sua funzione su delle popolazioni operaie composte di recenti migranti, sradicati in questo loro nuovo ambiente industriale, ma ancora impregnati dei valori rurali di origine133. Al contrario, man mano che una classe operaia si impiantava e si organizzava, che diveniva per133 La lentezza e il carattere relativamente continuo dell'immigrazione rurale in Francia (a differenza della Germania) ha avuto per effetto di frenare in modo considerevole la presa di coscienza di una condizione operaia specifica: molti strati di popolazioni operaie coesistono in un medesimo luogo, gli ultimi ancora impregnati di modi di vita rurali ancora come che i primi che se ne sono affrancati. Su questo punto, cfr. François Sellier, La confrontation sociale en France. 1936-1981, Paris, PUF, 1984.

meabile alle dottrine socialiste e comuniste che esaltavano la sua importanza e denunciavano il suo sfruttamento, essa non poteva che opporsi a queste forme di gestione padronale che chiedevano ai lavoratori perfino di essere felici nella loro miseria e riconoscenti verso coloro che ne traevano profitto. La prova sperimentale della incompatibilità di questi interessi sarà ben presto prodotta. È significativo che sia proprio nei bastioni del patronato che esplodano, a partire dalla fine del Secondo Impero, dei grandi scioperi operai134. Significato anche che essi intervengano in questa data cioè quando una seconda o terza generazione di operai dell'industria ha potuto costituirsi una cultura propria e cominciare a darsi delle proprie forme di organizzazione, mentre in precedenza vi erano solo dei villani ancora dominati da nostalgie tutelari. Ormai comincia a imporsi l'embrione di una classe operaia organizzata135. Non che il patronato padronale, alla fine del XIX secolo, sia già una sopravvivenza. Certo, Louis Reybaud dichiara nel 1863: “Resta poco spazio, lo si indovina, per il padronato diretto e una tutela ufficiosa. Questa poesia appartiene ormai all'infanzia delle fabbriche; essa si cancella nella misura in cui esse pretendono alla virilità”136. Ma il giornale del Comité des forges afferma an134 Cfr. Fernand L'Huillier, Les luttes ouvrières à la fine du second Empire, Paris, Colin, 1958. 135 Questi rilievi concernono l'evoluzione del proletariato delle grandi concentrazioni industriali su cui la tutela padronale si è principalmente esercitata. L'evoluzione dell'élite operaia scaturita dal proletariato urbano è anteriore e obbedisce a una logica meno dipendente dall'impresa padronale. Cfr., per esempio, Georges Duveau, La vie ouvrière en France sous le second Empire, cit., e il sorprendente ritratto della mentalità degli operai parigini in Denis Poulot, Question sociale, cit. 136 Louis Reybaud, Le coton. Son régime, ses problèmes, son influence en Europe. Nouvelle série des études sur le régime des manufactures, Paris, Lévy, 1863, p. 368.

cora nel 1902: “Il padrone non ha interamente saldato il suo debito quando ha pagato ai salariati il prezzo pattuito, e deve avere per essi, nella misura del possibile, la previdenza di un padre di famiglia”137. Difatti, larghi settori dell'organizzazione del lavoro faranno arrivare fino a oggi l'eredità del patronato e del paternalismo 138. Questi hanno rappresentato un primo tentativo di lotta collettiva contro l'instabilità della condizione operaia. Hanno anche proposto le prime forme sistematiche di protezione sociale. Ma queste innovazioni riattivano forme estremamente arcaiche di dominio. Il patronato tenta anzi la scommessa impossibile, come dice Louis Bergeron, “di colare la nuova società industriale nello stampo della vecchia società rurale”, o ancora di “far dimenticare l'urbanizzazione e la proletarizzazione in marcia” 139. In questo senso, si può parlare a tal proposito di “utopia reazionaria”, o di “utopia a ritroso”: si tratta di una utopia per la quale il riferi137 Cit. in Alberto Melucci, Action patronale, pouvoir, organisation, in “Le Mouvement Social”, n. 97, 1976, p. 157. 138 Per una versione quasi contemporanea del patronato, cfr., ad esempio, Alain Lemenorel, Le paternalisme version XXe siècle. L'exemple de la Société métallurgique de Normandie (1910-1988), in “Vie sociale, Cahiers de recherches sur le travail social”, 1991, vol. III. Le social aux prises avec l'histoire, pp. 67-92 (la Société métallurgique de Normandie è d'altronde una filiera delle industrie Schneider del Creusot). Si può tentare di distinguere il patronato, concepito come un modo di gestione della manodopera che fa appello alle regolazioni tradizionali, dal paternalismo, indurimento del patronato dopo gli scioperi operai della fine del XIX secolo (cfr. Gérard Noiriel, Du patronage au paternalisme: la restauration des formes de domination de la main-d'oeuvre ouvrière dans l'industrie métallurgique française, in “Le Mouvement social”, n. 144, 1988, pp. 17-35). Ma, nei fatti, le due attitudini concordano frequentemente. 139 Louis Bergeron, Les capitalistes en France (1780-1914), Paris, Juilliard-Gallimard, 1978, p. 152.

mento al passato serve da schema organizzatore dell'avvenire e si sforza, insomma, di versare un vino nuovo in vecchi otri. L'incapacità o il rifiuto di concepire l'esistenza sui generis del sociale appare anzi costituire la base comune della nebulosa di posizioni occupate dai riformatori sociali. Ci si contenta in genere di mettere in relazione il tipo di divieto di Stato che pesa sugli interventi sociali con la concezione liberale di uno Stato minimo. Ma queste attitudini, se viste più in profondità, non sono fondate sulla concezione di una società minima, anch'essa retta dal liberalismo? L'uomo liberale è un individuo razionale e responsabile che persegue il suo interesse sulla base delle relazioni contrattuali che allaccia con gli altri. “Individualismo metodologico” ante litteram. Ma non tutti gli uomini sono all'altezza di questo ideale. La scoperta del pauperismo ha dovuto rappresentare una sfida per questa concezione della società, costruita come un'associazione di individui razionali. Ma essa l'ha assunta, o aggirata, grazie allo schema della minorità di queste classi inferiori che permette di instaurare con esse un rapporto di tutela. Il liberalismo dispiega due modelli di organizzazione sociale, che non sono necessariamente contraddittori, ancorché la tensione tra essi sia forte: il registro dello scambio contrattuale tra individui liberi, uguali, responsabili, ragionevoli, e il registro dello scambio ineguale, del patronato da esercitare nei riguardi di coloro che non possono entrare nella logica della reciprocità contrattuale. Benjamin Constant afferma: “Coloro che l'indigenza mantiene in una eterna dipendenza e condanna a dei lavori giornalieri non sono più illuminati dei bambini sugli affari politici, né più interessati degli stranieri alla prosperità nazionale”140. Gli interventi “socia140 Benjamin Constant, De la liberté chez les modernes, Paris, 1819, in

li” si iscrivono allora in uno spazio di una differenza quasi antropologica, che non è più retta dalla responsabilità tra eguali, ma dall'esercizio di una tutela illuminata verso dei minori. Un surrogato di sociale, in un certo senso, per strutturare un legame tra superiori e inferiori, che non formano in verità una società. Non può che crearsi uno scarto tra questa Weltanschauung paternalista e una classe operaia che diviene progressivamente cosciente, per riprendere il linguaggio di Proudhon, delle proprie “capacità”141. Il patronato industriale non impedisce, lo si è visto, gli scioperi. Ma il rifiuto è più generale. Dagli anni Quaranta dell'Ottocento, il giornale “L'Atelier”, che sviluppa un'ideologia coerente dell'autonomia operaia, esprime regolarmente il suo disprezzo per “la filantropia”: “La filantropia è un vero e proprio incubo che grava con un peso enorme sul petto delle classi operaie. […] Chi ci libererà dunque dalla paternità filantropica?”142. Questa condanna senza appello del patronato si fa tanto più viva quanto più il movimento operaio si forgia un modo alternativo di organizzazione del lavoro che deve abolire lo sfruttamento salariale, cioè l'associazione operaia: “Noi siamo certi, attraverso l'associazione, di poterci appartenere e non avere più dei padroni”143. L'associazione segue un'altra concezione del sociale, la cui realizzazione passa attraverso la costituzione di collettivi che Id., Œuvres, Paris, Gallimard, 1957, p. 316; trad. it. La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Torino, Einaudi, 2005. 141 Pierre-Joseph Proudhon, De la capacité politique des classes ouvrières, Paris, Dentu, 1865; trad. it. La capacità politica delle classi operaie, a cura di Giulio Pierangeli, Città di Castello, Il Solco, 1920. 142 Resoconto critico dell'opera di Adrien-César Égron, Le livre de l'ouvrier, ses devoirs envers la société, la famille et lui-même, Paris, Mellier, 1844, nel numero de “L'Atelier”, febbraio 1844, cit. in Alain Faure, Jacques Rancière, La parole ouvrière 1830-1851, Paris, UGE, 1976, p. 232. 143 Ivi, p. 352.

istituiscono dei rapporti di interdipendenza tra individui uguali. Si sa che l'effervescenza del 1848, come più tardi il movimento della comune di Parigi, hanno dato luogo a una straordinaria proliferazione di associazioni di consumo e soprattutto di produzione144. Tipica è la reazione dei notabili di fronte a questi tentativi. Thiers il 26 luglio 1848 vi scorge “la più ridicola di tutte le utopie che si producono tra di noi”145. Villermé lamenta che “gli operai non comprendono che non vi sono che due classi possibili di uomini nell'industria, i capi e i salariati; e che, qualsiasi cosa facciano, che siano o meno associati, essi avranno sempre dei capi o, come si dice oggi, dei padroni” 146. La summa della tracotanza di classe è senza dubbio raggiunta da Leroy-Beaulieu: Non abbiamo né rimpianti né impazienza dell'inutilità di questi tentativi; il ruolo che gli operai vorrebbero raggiungere è occupato in modo più soddisfacente, al meglio degli interessi per tutti, dalla borghesia. Quanto alla popolazione operaia, vi sono dei mezzi più sicuri per elevare il suo destino147.

Non ci si stupirà che i rappresentanti delle classi dominanti condannino questa forma di organizzazione del lavoro, l'associazione operaia, che li spodesterebbe148. Ma più significativi sono 144 Cfr. André Gueslin, L'invention de l'économie sociale, cit., pp. 139 sgg. 145 Adolphe Thiers, discorso del 26 luglio 1848, cit. in Louis-Ferdinand Dreyfus, L'assistance sous la Seconde Republique, cit., p. 62. 146 Louis Réné Villermé, Des associations ouvrières, Paris, Pagnerre, 1849, p. 34. 147 Paul Leroy-Beaulieu, La question ouvrière au XIXe siècle, cit., p. 287. 148 Per una lettura differente, “simpatizzante” dello stesso tipo di dati, cfr. Maxime Leroy, La coutume ouvrière. Syndacats, bourses du travail, fédérations professionnelles, coopératives. Doctrines et institutions, 2 voll., Paris, M. Giard et E. Brière, 1913.

gli argomenti impiegati, e la concezione dell'attività sociale che li sottende. Non è soltanto “il collettivismo” come tale a essere stigmatizzato, nel senso di una volontà di appropriazione collettiva dei mezzi di produzione (l'associazione è esaltata dall'insieme delle correnti operaie, ivi compreso dai libertari anticollettivisti). La finalità di non ricevere incide sull'esistenza del collettivo esteso, cioè di tutti i tentativi di prendere in carico collettivamente, a partire dall'implicazione degli interessati, la miseria operaia e l'assoggettamento degli operai. I “mezzi più sicuri per elevare il destino” della popolazione operaia che preconizza Leroy-Beaulieu escludono ogni forma di organizzazione, e anche ogni iniziativa degli interessati. I rimedi sono tra le mani delle “persone dabbene”, e consistono nelle strategie che si dipanano dal proprio capo in direzione dei gruppi subordinati. La sola via di salvezza per il popolo è la propria adesione rispettosa al sistema di valori costruito per lui e senza di lui. Quello che funge da politica sociale consiste nell'estrapolare un'attitudine morale a livello di coinvolgimento collettivo. La finalità di queste strategie è sicuramente che “il nuovo ordine sociale sia completamente vissuto come un insieme di obblighi morali”149. Vi è qui un curioso paradosso. Tutta questa riflessione è provocata dalla scoperta del pauperismo a partire dagli anni Venti dell'Ottocento, attraverso le inchieste sui modi di vita popolari scossi o distrutti dall'industrializzazione. Queste conoscenze costituiscono il nucleo originario delle scienze sociali 150. Ma l'uso 149 Giovanna Procacci, Gouverner la misère, cit., p. 179. 150 Il percorso è analogo a quello che ritroverà la Scuola di Chicago negl anni 1920, fondando la sociologia americana a partire da una interrogazione sulla fragilità del legame sociale e sul rischio della sua rottura portata dall'esistenza di gruppi immigrati, “devianti”, che non si iscrivono nelle regolazioni comuni della società americana.

pratico che viene fatto di questo sapere lo rivolge sul piano della strumentalizzazione morale, dato che coesiste, nella maggior parte di questi autori, la presa di coscienza, da una parte, che la nuova miseria è un fenomeno di massa, un effetto dell'industrializzazione irriducibile a una somma di mancanze individuali, e, dall'altra, l'accanimento nel trattare questa miseria attraverso delle tecniche che, individuali o collettive, imposte o proposte, dipendono dalla morale istituzionalizzata. Ma questa ambiguità si chiarisce se si prende in considerazione la finalità politica di queste strategie. Non vi è affatto bisogno di interpretazioni sottili per decifrarla. Essa è chiaramente annunziata: Invece di dividere la società in nomi odiosi attraverso le categorie di proprietari e di proletari che si istigano a odiarsi, a spogliarsi vicendevolmente, sforziamoci al contrario di mostrare agli uomini meno fortunati quante fonti abbondanti e consacrate di simpatia e di benefìci scorrono in loro favore dal seno delle classi fortunate. A ciascuna delle sfortune che può capitare a una famiglia operaia, una carità generosa oppone una sistemazione che tende a prevenirle, o almeno ad alleviarle151.

Questa dichiarazione merita considerazione perché proviene da un uomo che fu senza dubbio, con Armand de Melun, il personaggio più rappresentativo di tale corrente di una “politica senza Stato”. Charles Dupin, eletto deputato di tendenza liberale nel 1827 poi pari di Francia, grande ufficiale della Legion d'onore, 151 Charles Dupin, Bien-être et concorde des classes du peuple français, Paris, Firmin-Ditot, 1840, p. 40.

membro dell'Institut, membro della Société de morale chrétienne presieduta da Guizot, poi della Société d'économie charitable fondata da Armand de Melun e della Société d'économie sociale fondata da Le Play, ecc., è in tutti i dibattiti e in tutte le lotte che concernono questo sociale un po' torbido 152. Ma se un tale sincretismo sfugge a un quadro concettuale preciso, la sua intenzione politica è evidente. Sono evidenti anche i limiti di questa posizione, o piuttosto lo diverranno presto. Sarà necessario che “gli uomini meno fortunati” siano singolarmente virtuosi, o singolarmente semplici, per contentarsi di questa “carità generosa”. Bisogna intendere così, come una risposta a questo discorso lenitivo, la rude voce di Proudhon, pressappoco contemporanea: 152 Egli è anzi il primo a chiedere nel 1848 la chiusura degli ateliers nazionali parigini, ma è una reazione banale per un filantropo. Due dei suoi interventi sono più significativi per illustrare lo sfaldamento delle posizioni liberali che si opera nel XIX secolo. È lui – segno della posizione eminente che occupa nell'ambiente filantropico – a pronunciare all'Institut l'elogio funebre del duca di La Rochefoucauld-Liancourt. Egli realizza il tour de force per render conto in quattro righe del ruolo giocato durante la Rivoluzione dal duca, “che non volle dirigere che un semplice comitato di mendicità” (Éloge du duc de La Rochefoucauld-Liancourt prononcé par le Bon Charles Dupin, aux obsèques qui onteulieu le vendredi 30 mars 1827, Paris, Didot, 1827, p. 12). Il duca era anche stato, tra altre attività, membro della Société des amis des Noirs, che dal 1789 combatteva per l'abolizione della tratta. Nel 1845, alla Camera dei Pari, Charles Dupin si oppone in questi termini a qualsiasi riforma del Codice nero che perpetuerà la schiavitù fino al 1848: “Rinserriamo i legami tra maestri e gli operai liberi o no. Continuiamo a rispettare, a favorire il buon ordine, l'economia e la saggezza della vita presso i lavoratori neri come lo facciamo in Francia presso i lavoratori bianchi. Asteniamoci dall'inasprirli o dallo sconvolgerli con dichiarazioni incendiarie” (in “Le Moniteur Universel”, del 5 aprile 1845). La filantropia conduce così la stessa battaglia, per il bene degli schiavi e per quello dei “lavoratori bianchi”. Ma, soprattutto, un tale discorso illustra il capovolgimento completo dell'ideologia liberale tra la fine del XVIII secolo e la metà del XIX: da portavoce delle aspirazioni alla libertà, essa è divenuta la cauzione della conservazione dell'ordine sociale.

Vanamente voi mi parlate di fraternità e di amore: resto convinto che voi non amiate affatto, e sento molto bene di non amarvi. La vostra amicizia non è che finta e se voi mi amate, è per interesse. Io domando tutto quello che spetta, nient'altro che quel che mi spetta. Devozione! Io nego la devozione, non è altro che misticismo. Parlatemi di diritto e di avere, i soli criteri ai miei occhi del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male nella società. A ciascuno, innanzitutto, secondo le sue opere153.

Si tratta certamente di due posizioni inconciliabili. Pertanto, le costruzioni di una politica senza Stato rischiano di condurre a una impasse. La loro riuscita, di essenza morale, riposa in ultima analisi sull'adesione del popolo ai valori che gli sono proposti/imposti. Ma, man mano che un mondo operaio si struttura, esso elabora i propri modi di organizzazione e i propri programmi, che non possono che entrare in conflitto con queste concezioni fondate sulla negazione dell'altro. Il discorso della pace sociale forgia così le condizioni della lotta di classe che vuole scongiurare. Con il suo rifiuto di fare dello Stato un interlocutore implicato nel gioco sociale, esso lascia faccia a faccia, senza mediazioni, dominanti e dominati. Perciò, il rapporto di forze potrà ben invertirsi, e coloro che non hanno nulla da perdere mettersi in testa di voler guadagnare tutto. Chi potrà impedirglielo? Lo 153 Pierre-Joseph Proudhon, Système des contradictions économiques ou philosophie de la misère, in Œuvres complètes de Pierre-Joseph Proudhon. Nouvelle édition, publiée, avec des notes et des documents inédits, sous la direction de Célestin Bouglé et Henri Moysset, 2 voll., Paris, édition Marcel Rivière, 1923-1935, t. II, p. 258; trad. it. Sistema delle Contraddizioni Economiche; filosofia della miseria, Catania, Anarchia, 1975.

Stato senza dubbio, ma uno Stato liberale è ridotto al ruolo di gendarme che interviene al di fuori per reprimere le turbolenze popolari – come nel giugno 1848 o al momento della Comune di Parigi – senza poter agire su chi le produce, né prevenirle. In nome della pace sociale, bisogna che lo Stato sia dotato di nuove funzioni per governare questo antagonismo distruttore.

VI. LA PROPRIETÀ SOCIALE

Si può interpretare l'avvento dello Stato sociale come l'introduzione di un soggetto terzo tra i cantori della moralizzazione del popolo e i sostenitori della lotta delle classi. Gli uni e gli altri si attestano su posizioni simmetriche: indulgenza delle persone dabbene verso i miserabili da un lato, lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori dall'altro. Posizioni simmetriche perché non c'è nulla in comune tra l'una e l'altra, nulla di negoziabile. Al contrario, si potrebbe dire che lo Stato sociale comincia la sua carriera quando i notabili cessano di dominare in modo assoluto e quando il popolo non riesce a risolvere la questione sociale per proprio conto. Si apre così uno spazio di mediazioni che dà un senso nuovo al “sociale”: non dissolvere più i conflitti d'interessi col management morale, né sovvertire la società con la violenza rivoluzionaria, ma negoziare compromessi tra posizioni differenti, superare il moralismo dei filantropi e risparmiare il socialismo dei “ridistribuzionisti”. La questione di fondo è, però, quella di sapere come l'azione del potere pubblico possa imporsi nell'ordinamento, dal momento che sono esclusi gli interventi diretti sulla proprietà e sull'econo-

mia. L'elaborazione di una prima soluzione è stata, in Francia, particolarmente laboriosa. Essa occupa la sequenza che va dalla Rivoluzione del 1848 al consolidamento della III Repubblica. Il fatto è che essa esige, a un tempo, la rielaborazione di quel che è un collettivo di produttori perché possa fare società, di quel che è il diritto per cui possa regolare altro oltre che dei contratti personali, e di quel che è la proprietà perché possa assicurare protezioni pubbliche senza contraddire gli interessi privati. Come si sono articolati questi tre elementi di uno stesso insieme, che forma la prima matrice dello Stato sociale inteso come l'imposizione di sistemi di garanzie legali grazie alle quali la sicurezza non dipende più esclusivamente dalla proprietà? Come è giunto lo Stato a occupare una posizione relativamente più elevata rispetto all'antagonismo tra dominanti e dominati? Bisogna soffermarsi su questi tentennamenti laboriosi, perché hanno costituito la base di quello che è stato chiamato lo “Stato-provvidenza”. Essi permettono anche di comprendere fino a che punto l'espressione “Stato-provvidenza” sia impropria per rappresentare le finalità dello Stato sociale. In effetti, non vi è nulla in queste strategie che evochi una manna generosa che sparge i suoi benefìci su alcuni soggetti soddisfatti. Questo Stato è piuttosto parsimonioso, calcolatore e spesso sospettoso rispetto all'uso che viene fatto delle sue prestazioni. È quello che cerca aggiustamenti minimi, piuttosto che il dispensatore disinteressato di una massa di oboli, e le sue innovazioni sono guidate dalla paura tanto quanto dalla generosità. La lentezza del suo sviluppo, segnato da avanzamenti timidi e pesanti pentimenti, prova proprio che il conflitto è il fulcro della sua dinamica. Ma se non è maestoso, lo Stato sociale è però profondamente innovatore.

L'avvento della proprietà sociale rappresenta una delle acquisizioni decisive della modernità di cui gli si è debitori, e che riformula in termini nuovi il conflitto secolare tra il patrimonio e il lavoro.

1. Un nuovo assetto Sia chiaro, innanzitutto, che l'emergere di un terzo (il che non significa la presenza di un arbitro imparziale) presuppone che si realizzino due serie di condizioni preliminari. In primis, che si allenti la morsa del patronato, altrimenti detto che divenga manifesta l'incapacità delle reti di regolazioni morali di comprimere tutta la vita e tutte le aspirazioni delle “classi inferiori”: lenta maturazione, lungo tutto il XIX secolo, di poli di resistenza alla concezione dell'ordine sociale definito dai notabili. Ma vi è stato bisogno anche, e in egual misura, che l'alternativa propriamente radicale del sovvertimento del rapporto di dominazione fosse superata o, almeno, sospesa: il cambiamento sociale non avverrà con la sostituzione di un'egemonia a un'altra. Lo Stato sociale presuppone e aggira, a un tempo, l'antagonismo delle classi. Si vorrebbe suggerire che l'ha sublimato, cioè, come ogni forma di sublimazione, che ha rappresentato un'invenzione. L'interpretazione degli eventi del 1848 proposta da Jacques Donzelot ne L'invention du social aiuta a cogliere il senso di questo avvenimento1. Il 1848 è certamente un terribile colpo di avvertimento per le strategie antecedenti di pacificazione sociale: il 1 Cfr. Jacques Donzelot, L'invention du social, cit., cap. I. Cfr. anche Giovanna Procacci, Gouverner la misère, cit. e Pierre Rosanvallon, Le sacre du citoyen, cit.

popolo (o almeno gli operai parigini) riprende possesso della scena pubblica e impone, in un primo tempo, le proprie esigenze al governo. Che gli operai abbiano potuto portare una tale minaccia rivela una contraddizione fondamentale nel piano di governamentalità della società, che esige una ridefinizione del ruolo dello Stato. Consumato il loro scacco e ricusato il diritto al lavoro, resta da trovare una formula di governo che preveda un certo spazio per il diritto del lavoro. Le peripezie sono note: in febbraio, sotto la pressione della strada, il governo provvisorio proclama a un tempo la Repubblica, il suffragio universale e il diritto al lavoro: “Il governo provvisorio della Repubblica si impegna a garantire l'esistenza dell'operaio attraverso il lavoro. Esso si impegna a garantire del lavoro a tutti i cittadini. Riconosce che gli operai devono associarsi tra loro per godere del prodotto del proprio lavoro” 2, ma sostituisce subito alla richiesta popolare di un Ministero del Lavoro o del Progresso, incaricato di mettere in pratica queste istanze, la Commission du Luxembourg, organismo di registro e deliberazione. Apre anche gli Ateliers nazionali, che somigliano più agli ateliers de charité dell'Ancien Régime che a un vero e proprio sistema pubblico di organizzazione del lavoro. La chiusura di questi ateliers, in giugno, scatena l'insurrezione operaia e la sua sanguinosa repressione. Le implicazioni di questa sconfitta del diritto al lavoro, correlativa alla presa di coscienza della fragilità dei controlli tutelari esercitati dai notabili, apre un campo di incertezze a partire dal quale si elaborerà una nuova concezione del sociale e della politi2 Decreto del 25 febbraio 1848, cit. in Maurice Agulhon, Les QuaranteHuitards, Paris, Gallimard, 1992, p. 130.

ca sociale. Momento inaugurale, che svolge anche funzione di “trauma iniziale”3, perché la presa di coscienza che si produce in questo momento è propriamente sconvolgente: è quella di un divorzio tra l'ideale repubblicano, ormai realizzato dal suffragio universale, e la democrazia sociale, la cui speranza è sostenuta dai lavoratori parigini. Pierre Rosanvallon cita a tal proposito una dichiarazione, a posteriori stupefacente, del “Bulletin de la République” del 19 marzo 1848, redatta senza dubbio da Lamartine: “Il voto appartiene a tutti i cittadini. A partire da questa legge [che decreta il suffragio universale], non ci sono più proletari in Francia”4. Ma lo stupore è retrospettivo solo per noi che conosciamo il seguito della storia. Per la maggior parte della tradizione repubblicana, forgiata nell'opposizione ai regimi che si sono succeduti dopo il Consolato, l'avvento della piena sovranità politica è la rivendicazione fondamentale. Mettere fine alla minorità politica del popolo deve determinarne l'affrancamento sociale. La Repubblica propriamente detta è il regime che può assicurare a tutti i cittadini, senza eccezioni, la pienezza dei loro diritti5. 3 Jacques Donzelot, L'invention du social, cit., p. 20. 4 Cit. in Pierre Rosanvallon, Le sacre du citoyen, cit. 5 Inutile interrogarsi per sapere se questa credenza fosse “sincera” o se i “borghesi” repubblicani si siano serviti invece delle aspirazioni popolari per realizzare i propri obiettivi politici, prima di dissociarsene. Vi è qui un'ambiguità, già riscontrata al momento della prima Rivoluzione (cfr. cap. IV), che non si riduce necessariamente a malafede. La forma repubblicana è pensata dai suoi adepti come un piano di governamentalità che vale per l'insieme della società, cioè capace di sussumere la dimensione politica e la dimensione sociale. La critica, marxista per esempio, del “formalismo” di questa rappresentazione e del fatto che essa serva da copertura per dissimulare degli interessi di classe interviene a cose fatte, e in larga misura, giustamente, come la lezione che i lavoratori devono trarre da questi avvenimenti, dopo che l'esperienza ha decantato l'ambiguità degli inizi (cfr. Karl Marx, La lutte des classes en France,

Gli avvenimenti del 1848 rappresentano una dimostrazione in vivo del carattere illusorio di una tale convinzione. Mentre appariva la professione di fede del “Bulletin de la République”, dovevano essere ancora leggibili sui muri di Parigi i manifesti della Déclaration du peuple souverain apposti il 24 febbraio: “Tutti i cittadini devono restare in armi e difendere le loro barricate fino a che non avranno ottenuto il godimento dei propri diritti come cittadini e come lavoratori”6. Certo, gli operai, lavorati dalla propaganda repubblicana, hanno progressivamente fatto propria la rivendicazione politica del suffragio universale 7, ma hanno soprattutto elaborato in autonomia la loro rivendicazione specifica e ai loro occhi essenziale: la fine della subordinazione della relazione di lavoro, attraverso l'associazione e il diritto al lavoro 8. E se indubbiamente, nella sua elaborazione esplicita, la rivendicazione del diritto al lavoro non è opera che di una élite operaia, o di certi teorici socialisti come Louis Blanc 9, essa rappresenta per l'insieme degli operai una sorta di necessità vitale, che sola può farli uscire dalla miseria e dalla dipendenza (e questo tanto più che la rivoluzione del 1848 interviene nel mezzo di una grave crisi economica con dei forti tassi di disoccupazione). Questa esigenza è chiaramente espressa nella nuova versione dei diritti dell'uomo pubblicata dal Manifeste des sociétés secrètes:

6 7 8 9

Paris, Éditions sociales, 1984; trad. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, a cura di Giorgio Giorgetti, Torino, Einaudi, 1948). Cit. in William Hamilton Sewell, Gens de métiers et révolutions, cit., p. 327. Cfr. Georges Weill, Histoire du parti républicain de 1814 à 1870, Paris, Alcan, 1900. È il tema che privilegia il giornale “L'Atelier”, pubblicato tra il 1840 e il 1850. Cfr. Armand Cuvillier, Un journal d'ouvriers. “L'Atelier”, 18401850, Paris, Alcan, 1914. Louis Blanc, Organisation du travail, cit.

Una doppia missione ci era imposta: l'instaurazione della forma repubblicana e la fondazione di un ordine sociale nuovo. Così, il 24 febbraio, abbiamo conquistato la Repubblica; la questione politica è risolta. Ciò che vogliamo ora è la risoluzione della questione sociale, è il pronto rimedio alle sofferenze dei lavoratori, è infine l'applicazione dei princìpi contenuti nella nostra Dichiarazione dei diritti dell'Uomo... Il primo diritto dell'uomo è il diritto di vivere10.

Non si può esprimere meglio la maniera in cui gli operai ridefiniscono, a partire dai propri bisogni, la questione sociale. Per i lavoratori, la sola forma sociale che può assumere il diritto di vivere è il diritto al lavoro11. È l'omologo del diritto di proprietà per i possidenti. Una tale rivendicazione è evidentemente esorbitante per l'Assemblea nazionale, anche se legittimamente eletta a suffragio universale, perché implica nientemeno che una trasformazione fondamentale del rapporto che lo Stato intrattiene con la società, per abolire il divario tra capitale e lavoro e per promuovere la socializzazione della proprietà industriale. Implicazioni perfettamente delineate da Karl Marx nelle Lotte di classe in Francia: “Dietro il diritto al lavoro, c'è il potere sul capitale, dietro il potere sul capitale l'appropriazione dei mezzi di produzione, la loro subordinazione alla classe operaia associata, cioè la

10 Cit. in Maurice Agulhon, Le Quarante-Huitards, cit., p. 128. 11 Félix Pyat, nel suo appello per il diritto al lavoro del 2 novembre 1848, lo dice con forza: “Il diritto al lavoro è il diritto di vivere lavorando” (ivi, p. 184).

soppressione del salariato, del capitale e dei loro reciproci rapporti”12. Ma questa non è un'analisi unicamente “marxista”. Con il loro accanimento nel respingere il diritto al lavoro, i rappresentanti della maggioranza dell'Assemblea nazionale – tra cui Thiers e Tocqueville, che ne furono i portavoce più eloquenti e i rappresentanti di interessi maggioritari di altre categorie sociali – non dicono cose diverse. Non dice cose diverse neanche Louis Blanc, l'uomo politico che ne fu il principale promotore e ne fece inserire il principio nel decreto del 25 febbraio: “Redigendo questo decreto, non ignoravo fino a che punto impegnasse il governo: sapevo a meraviglia che non era applicabile se non tramite una riforma sociale avente l'associazione per principio e per effetto l'abolizione del proletariato. Ma ai miei occhi era proprio questo il valore del decreto”13. Così, si potrebbe dire che la rivendicazione del diritto al lavoro segnava la propria sconfitta nella Francia della metà del XIX secolo, ma a condizione di aggiungere che questa sconfitta è quella dell'alternativa o delle alternative rivoluzionarie alla questione sociale, e anche che, in un certo modo, l'opzione rivoluzionaria non si riprenderà mai più da questa sconfitta. Non che la rivoluzione sia morta sulle barricate del giugno 1848 o nei dibattiti parlamentari che ne sono seguiti, dominati dal partito dell'Ordine14, ma si è prodotto uno spostamento decisivo e irreversibile, 12 Karl Marx, La lutte des classes en France, cit., p. 122. 13 Louis Blanc, Histoire de la révolution de 1848, Paris, Bureau du Nouveau monde, 1849, t. I, p. 129. 14 Un emendamento proposto da Félix Pyat per inserire il diritto al lavoro nel preambolo della Costituzione è respinto il 22 novembre 1848 con 638 voti contrari e 86 favorevoli: il cammino percorso a ritroso dopo la sua accettazione di principio in marzo da parte del governo provvisorio è im-

anche se la Comune di Parigi ha seguìto pressappoco lo stesso canovaccio, ugualmente perdente, una ventina di anni più tardi15. La soluzione radicale della questione sociale è entrata in qualche modo in clandestinità. Non avrebbe potuto realizzarsi che attraverso una sovversione totale dell'ordine repubblicano, che i partiti rivoluzionari tenteranno di promuovere con l'insurrezione. Ciò che appare ormai obsoleta, è la speranza di innestare direttamente una democrazia sociale, che assicuri il diritto al lavoro, sulla forma di democrazia politica promossa dal suffragio universale16. menso. Sul densissimo dibattito parlamentare dell'autunno 1848, in cui Adolphe Thiers e Tocqueville furono gli oppositori più accaniti, cfr. Joseph Garnier, Le droit au travail à l'Assemblée nationale. Recueil complet de tous les discours prononcés dans cette mémorable discussion, suivis de l'opinion de MM. Marrast, Proudhon, L. Blanc, Ed. Laboulaye et Cormenin, avec des observations inédites par MM. Léon Faucher, Wolowski, Fréd. Bastiat, de Parieu, et une introduction et des notes par M. Jos. Garnier, Paris, Guillaumin, 1848. 15 Si potrebbe dire che il dramma della Comune di Parigi risvegli il “trauma iniziale” del 1848 che richiama Jacques Donzelot. Come l'annientamento dell'insurrezione di giugno 1848, quello della Comune non rassicura completamente i possidenti e mette in evidenza la gravità della questione sociale. Alla vigilia del Natale 1871, la Société d'économie charitable, sempre presieduta da Armand de Melun, fa affiggere sui muri di Parigi un “Appello agli uomini di buona volontà”: “La questione sociale al momento presente non è più un argomento da discutere. Essa si pone davanti a noi come una minaccia, come un pericolo permanente […]. Lasceremo questi bambini (perché il popolo è un bambino sublime ed egoista), lasceremo questi operai, lusingati nella loro passione e nel loro orgoglio, consumare la rovina della patria e del mondo?” (cit. in Roger-Henri Guerrand, Les origines du logement social en France, Paris, Éditions ouvrières, 1966, p. 217). 16 Beninteso, l'insurrezione è stata una pratica dei repubblicani prima del 1848, come prova l'esistenza delle società segrete o una carriera come quella di Blanqui, insorto perpetuo. Ma era una sovversione per far trionfare l'ideale repubblicano soffocato dai regimi conservatori. Se si eccettuano certi episodi del periodo rivoluzionario, come la congiura degli Eguali di Babeuf, è dopo il 1848, come sottolinea Jacques Donzelot,

Ma anche per i vincitori, dopo il 1848, le cose non saranno più esattamente come prima. La Costituzione della Repubblica, votata il 4 novembre 1848 “in nome del popolo francese”, contiene all'articolo 8 la risposta “moderata” alla rivendicazione del diritto al lavoro, che bisogna contrapporre al decreto del 25 febbraio: La Repubblica deve proteggere il cittadino nella sua persona, la sua famiglia, la sua religione, la sua proprietà, il suo lavoro, e mettere alla portata di ciascuno l'istruzione indispensabile a tutti gli uomini; essa deve, attraverso un'assistenza fraterna, assicurare l'esistenza dei cittadini in stato di necessità, sia procurando loro del lavoro nei limiti delle proprie risorse, sia dando, in assenza della famiglia, degli aiuti a coloro che non sono in condizione di lavorare17.

Queste sono, riprese quasi alla lettera, le misure preconizzate dal Comité pour l'extinction de la mendicité e inserite nella Costituzione del 1793. La famosa e plurisecolare dicotomia capache la Repubblica comincia ad avere dei nemici a sinistra e che si sviluppa una duplice critica teorica e pratica del regime repubblicano assimilato allo sfruttamento borghese. Anche da parte di coloro che rimasero dei repubblicani convinti, si è avuta una dolorosa presa di coscienza dei limiti di un suffragio universale che, invece di assicurare il trionfo della democrazia, dava una legittimità popolare a una Camera conservatrice. “La Repubblica è al di sopra del suffragio universale”, riferisce Eugène Spuller riassumendo i dibattiti che ebbero luogo nel 1848 “in seno all'intero partito repubblicano” (Histoire parlamentaire de la Seconde République suivie d'une Petite histoire du Second Empire, Paris, Alcan, 1891, p. 19). Nello stesso contesto, il Comité social-democrate di Parigi scrive nel suo programma nel febbraio 1849: “La Repubblica è posta al di sopra del diritto delle maggioranze” (cit. in Pierre Rosanvallon, Le sacre du citoyen, cit., p. 301). 17 Cit. in Maurice Agulhon, Les Qarante-Huitards, cit., p. 229.

ci/incapaci di lavorare è di nuovo invocata per dividere il campo del sociale. Per coloro che dipendono dalla vecchia handicappologia, viene di nuovo affermato un diritto all'assistenza – “La Repubblica deve...” –, ancorché nella forma più restrittiva possibile: “in assenza della famiglia”. Per l'altra categoria, quella degli indigenti validi, che comprende in parte quella degli operai senza lavoro, sussiste la stessa indeterminatezza sulla quale avevano giocato il Comité de mendicité e la stessa Convention: “procurando loro del lavoro nei limiti delle proprie risorse”. Chi sarà l'arbitro di questi “limiti”, se non coloro che hanno appena ricusato con la forza la versione massimalista di questa “assistenza fraterna”, il diritto al lavoro? Come dire che, essendo precluso un cambiamento dell'organizzazione del lavoro, l'intervento del potere pubblico in questo dominio sembra condannato a restare lettera morta. La storia si ripeterà o, peggio, balbetterà? Non esattamente. Da una parte, riaffermando il diritto all'assistenza dopo un'eclisse di più di mezzo secolo, la II Repubblica riconosce le insufficienze di tutti gli orientamenti dominanti che, dopo il Direttorio, si sono associati per condannare la “carità legale”. Così, l'Assemblea costituente prepara una grande legge di coordinamento dell'assistenza, ma si scioglie prima di votarla (per contro, essa realizza la riforma dell'Assistence publique di Parigi). L'Assemblea legislativa che le succede, a partire dal maggio 1849, ancora più conservatrice, ancora più segnata dalle influenze religiose, nomina una Commission de l'Assistence, di cui Armand de Melun è il presidente e Thiers il relatori: pochi i rischi che sviluppi un audace sistema pubblico di assistenza 18. Allo stesso modo, le vellei18 Cfr. Louis-Ferdinand Dreyfus, L'assistance sous la législative de la

tà di dare uno statuto ufficiale alle mutue e di creare una cassa nazionale pensioni si scontrano con la doppia ostilità dei liberali e dei tradizionalisti, che si attengono al principio dell'adesione facoltativa caro all'economia sociale19 Il colpo di Stato del 2 dicembre 1851 mette fine a questi timidi tentativi. L'appoggio massiccio dei conservatori e dei “repubblicani del giorno dopo”20 a Luigi-Napoleone Bonaparte si spiega, senza dubbio, con il fatto che una dittatura è apparsa loro più appropriata della Repubblica per mantenere l'ordine e la pace sociale su basi solide. Non è escluso che col tempo, una volta svanita la grande paura dei possidenti che è seguita agli avvenimenti di giugno, la II Repubblica avrebbe attuato il programma sociale moderato iscritto nel preambolo della Costituzione del novembre 1848. Ma non si tratta di riscrivere la storia. Quel che appare certo è che il Secondo Impero ha interrotto il dibattito pubblico sul trattamento della questione sociale in un regime democratico21. Ricomincerà di nuovo quando la Repubblica restaurata iniConvention, 1791-1795, cit. L'Assemblea legislativa ha votato un certo numero di leggi parziali per i trovatelli, il patronato dei detenuti, lo statuto degli ospedali e degli ospizi, l'apprendistato, ecc., ma la discussione d'insieme sul programma d'assistenza non avrà mai luogo per via del colpo di Stato di Luigi-Napoleone Bonaparte. 19 Cfr. supra, cap. V. 20 L'espressione, in opposizione ai “repubblicani della vigilia” radicati nella tradizione repubblicana, designa coloro che hanno aderito alla Repubblica al momento della rivoluzione di febbraio, e le cui convinzioni repubblicane sono sovente incerte. 21 Il che non significa affatto che la situazione non si sia trasformata sotto il Secondo Impero. Cfr. in particolare lo sviluppo considerevole delle società di soccorso e la strutturazione e la radicalizzazione del movimento operaio con la creazione della Prima Internazionale. La legge del 1864 che autorizzava le “coalizioni” operaie, che legalizza gli scioperi, è di un'importanza decisiva per la presa di coscienza della realtà del collettivo operaio di fronte alle relazioni personalizzate del patronato pa-

zierà a consolidarsi, verso gli anni Ottanta dell'Ottocento. Essa ha ancora potenti nemici a destra, ma è minacciata anche dalla crescita e dalla radicalizzazione del movimento operaio. La situazione sociale pone ormai un problema esplicitamente politico, e lo Stato non può più continuare a eluderlo. Il cuore di questo dibattito ruota intorno alla maniera in cui lo Stato può essere coinvolto nella questione sociale. Se la II Repubblica è stata così timida in materia, di certo non è stato solamente per conservatorismo, né per aver compreso che la questione sociale pone una questione politica: il giugno 1848 ne ha fornito la dimostrazione, evidente e tragica. Ma resta aleatoria la maniera in cui si potrebbe rendere operativo un intervento dello Stato in tali questioni. Una terza via, tra le due opzioni disponibili, è da inventare, ma insufficiente per l'una e inaccettabile per l'altra: per l'alleanza del liberalismo col conservatorismo illuminato, che confonde intervento sociale e attivismo morale, o per l'opzione “sociale”, che, malgrado la doppia sconfitta del giugno 1848 e della Comune, prosegue la sua conquista della classe operaia, ma passa per una trasformazione completa del regime politico e non può per questo raccogliere un consenso maggioritario. dronale. Anche sul piano teorico, si apre una riflessione che contesta il ruolo che il liberalismo assegna allo Stato, in particolare con l'opera antesignana di Charles Brook Dupont-White, L'individu et l'État, Paris, Guillaumin, 1857; trad. it. L'individuo e lo Stato, in Della libertà del lavoro / Charles Dunoyer. Delle attribuzioni razionali della pubblica autorità / Ambrosie Clement. L'individuo e lo Stato / Charles Brook DupontWhite, cit. Dupont-White descrive la contraddizione nella quale è preso il lavoratore contemporaneo, “appendice di una macchina a causa dell'industria, sovrano grazie al suffragio universale... Il giudice di questi antagonismi è lo Stato” (ivi, p. 57). “È chiaro che il treno del progresso, come il progresso stesso, attribuisce allo Stato un ruolo d'intervento che non gli apparteneva in passato” (ivi, p. 62).

Il problema, infatti, è duplice. Si pone sul versante statale, dove non è semplice trovare una formula tra il quasi-interdetto dell'intervento pubblico, che resta il credo dei notabili, e il pericolo di una confisca dello Stato per promuovere l'affrancamento delle classi lavoratrici22, ma anche sul versante di quella che ho chiamato “la questione del collettivo” manca un punto d'appoggio per orchestrare una politica sociale. Da una parte, il legame collettivo tende a ridursi al legame morale, attraverso le strategie del patronato; dall'altro, c'è il rischio del “collettivismo”, della riduzione delle individualità e della collettivizzazione della proprietà privata, rappresentati dal socialismo rivoluzionario. La formula risolutiva della questione sociale di cui siamo debitori alla III Repubblica deriva dal fatto che essa è riuscita ad articolare questi due aspetti del problema, combinando una concezione nuova dell'intervento dello Stato con una elaborazione nuova della realtà del collettivo, o viceversa. Léon Bourgeois: “Distruggendo la nozione astratta e a priori dell'uomo isolato, la conoscenza delle leggi della solidarietà naturale distrugge nello stesso tempo la nozione ugualmente astratta e a priori di Stato, isolato dall'uomo e opposto a lui come un soggetto di diritti distinti o come una potenza superiore [alla quale] sarebbe subordinato”23. “La conoscenza delle leggi della solidarietà” consiste, fondamentalmente, nella presa di coscienza dell'interdipendenza delle 22 Così la concezione dello Stato di Louis Blanc: “Noi vogliamo un governo forte perché nel regime d'ineguaglianza nel quale ancora vegetiamo ci sono dei deboli che hanno bisogno di una forza sociale che li protegga. Noi vogliamo un governo che intervenga nell'industria perché, laddove non si presta che ai ricchi, occorre un banchiere sociale che presti ai poveri” (Id., Organisation du travail, cit., p. 20). 23 Léon Bourgeois, Solidarité, Paris, Colin, 1896, p. 87.

parti in rapporto al tutto, che è la legge naturale dei viventi e la legge sociale dell'umanità: “Gli uomini sono tra loro posti e fissati in legami di dipendenza reciproca, come lo sono tutti gli esseri e tutti i corpi, in tutti i punti dello spazio e del tempo” 24. Léon Bourgeois,

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progresso” che hanno fatto la III Repubblica, utilizza le acquisizioni della sociologia nascente, e in particolare quella di Durkheim, che rifiuta il postulato di base dell'antropologia liberale, quello che ho denominato, nel capitolo precedente, il suo “individualismo metodologico”, la sua propensione a vedere nei fenomeni sociali delle imprese che rinviano solo a delle iniziative individuali. Con Durkheim si impone quella che si potrebbe chiamare, all'inverso, “una concezione sociologica della società”, il che non è una tautologia, come dimostra a contrario l'esempio del liberalismo che sviluppa una teoria individualistica della società. L'elaborazione di una realtà sui generis del collettivo si è fatta strada con l'opera con Saint-Simon e di Auguste Comte, e si è sistematizzata con Durkheim: esistono grandi regolazioni oggettive, i processi globali prevalgono sulle iniziative individuali, i fenomeni sociali esistono “come delle cose”. Così, l'uomo sociale non ha esistenza che attraverso la sua iscrizione nei collettivi, che, per Durkheim, traggono, in ultima analisi, la propria consistenza dal posto che occupano nella divisione del lavoro sociale25. Importanza decisiva di Durkheim in rapporto alla riformulazione della questione sociale: egli comprende che la società industriale inaugura un modo di relazioni specificamente nuovo tra i 24 Ivi, p. 50. 25 Cfr. Émile Durkheim, De la division du travail social. Étude sur l'organisation des sociétés supérieures, Paris, Alcan, 1893; trad. it. La divisione del lavoro sociale, Milano, Il Saggiatore, 2016.

soggetti sociali, che non può più essere fondato sulle protezioni ravvicinate della sociabilità primaria, e che definisce solidarietà “meccanica”. Per queste ragioni, occorre riprendere di nuovo la questione del legame sociale nella società moderna, minacciata da una disaffiliazione di massa. La solidarietà “organica” inaugura il nuovo regime di esistenza che deve prevalere nella società industriale26. Dato che la divisione del lavoro implica una complementarità di compiti sempre più specifici, vi è un fondamento obiettivo all'idea che la società moderna formi un insieme di condizioni sociali ineguali e interdipendenti. La proposizione va contro il liberalismo: lo scambio contrattuale non è a fondamento del legame sociale, “non tutto è contrattuale nel contratto”. Il contratto si basa su dei prerequisiti che dipendono dalla posizione occupata nella divisione sociale del lavoro. Ma l'argomento vale anche contro il collettivismo. Il collettivo non si oppone all'individuo. Esistono dei collettivi, che occupano posizioni differenziali e complementari nella struttura sociale. È questa differenziazione che fa la ricchezza di una società, il suo carattere “organico”, in opposizione alle semplici giustapposizioni “meccaniche” di similitudini che fanno massa. Que26 È possibile che il vocabolario d'epoca abbia giocato un brutto scherzo a Durkheim e ci renda difficile oggi comprendere la profondità della sua intuizione. Egli chiama “organica” questa nuova concezione dell'interdipendenza sociale, parola a connotazione naturalistica malgrado, come sottolinea Gérard Noiriel, Durkheim proponga una critica radicale dei temi del radicamento, dell'iscrizione nelle sociabilità locali, territoriali, etniche o a base genealogica (Gérard Noiriel, Le creuset français. Histoire de l'immigration, XIXe-XXe siècles, Paris, Le Seuil, 1988, p. 33). La solidarietà “organica” è al contrario una sociabilità costruita o da costruire sulle rovine della sociabilità primaria. Allo stesso modo, l'interesse che Durkheim dimostra per le “corporazioni” non è l'espressione di una nostalgia passatista, ma la presa di coscienza dei rischi di disaffiliazione che comporta l'organizzazione industriale moderna.

sto gioco complesso di differenze e di interdipendenze è da preservare tanto più accuratamente quanto più i progressi della divisione del lavoro accrescono i rischi di disintegrazione sociale. La solidarietà, cimento di una società, si costruisce e si preserva, e questo quanto più una società diviene complessa. Si trova così fondata anche razionalmente una pratica, o una politica, che si pone come obiettivo quello di mantenere e di rinforzare quell'unità nella differenza che è il miracolo fragile che una società moderna può promuovere, ma anche mancare. Questa concezione di società affida allo Stato una funzione regolatrice rispetto agli interessi dei differenti collettivi: “Lo Stato è l'organo del pensiero sociale”27. Senza dubbio in Durkheim stesso l'analisi di questo ruolo è rimasta in qualche modo formale, poiché egli si applica soprattutto a delineare l'imparzialità dei rappresentanti dell'apparato di Stato, posti in condizione di arbitri degli interessi particolari28. È Léon Bourgeois che, dalla sua posizione di responsabile politico, gli dà una traduzione operativa. Una società è un insieme di servizi che i suoi membri si rendono reciprocamente. Ne risulta che ciascuno ha debiti nei confronti di tutti, tanto più che un individuo, venendo al mondo, trova un'accumulazione preliminare di ricchezze sociali dalle quali attinge. Le obbligazioni verso la collettività non fanno che tradurre questa posizione di debitore, che è lo stato di fatto di cia27 Émile Durkheim, Leçons de sociologie. Physique des mœurs et du droit, Paris, PUF, 1950, p. 95. 28 Cfr. Pierre Birnbaum, La conception durkheimienne de l'État: l'apolitisme des functionnaires, in “Revue française de sociologie”, n. 2, 1976, pp. 247-258. Più in generale, sul ruolo della politica nell'opera di Durkheim, cfr. Bernard Lacroix, Durkheim et la politique, Paris-Montréal, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques-Presses de l'Université de Montréal, 1981.

scuno nella società. Contributi obbligatori, redistribuzioni di beni e servizi, non rappresentano dunque attacchi alla libertà dell'individuo, ma costituiscono dei rimborsi che possono essergli chiesti di diritto; nient'altro che giustizia. Da chi possono esser chiesti e anche pretesi? Dallo Stato: “Lo Stato – diceva DupontWhite – è l'amministratore degli interessi collettivi” 29. Ma Dupont-White non sapeva come rendere operativo questo ruolo, perché, ancora vittima del liberalismo che criticava, rimaneva chiuso nell'opposizione individuo/Stato, e per lui il collettivo restava esterno al soggetto sociale. Per Léon Bourgeois invece, lo Stato, gestendo interessi collettivi, è nello stesso tempo il garante dei “quasi-contratti” che gli individui hanno stipulato per il semplice fatto che appartengono alla società 30. Esso non è che l'esecutore dei debiti contratti dai soggetti sociali stessi. Così, lo Stato può “dare a coloro che sono creditori e far pagare coloro che sono debitori”31, senza intromettersi negli interessi propri dell'individuo. Questo posizionamento dello Stato fonda concretamente una politica, che è una politica di giustizia sociale: “Non è la felicità che è, che può essere il fine della società. Non lo è neanche l'eguaglianza delle condizioni... è la giustizia che dobbiamo a tutti i nostri simili”32. In effetti, felicità è una nozione così vaga e così 29 Charles Brook Dupont-White, L'individu et l'État, cit., p. 345. 30 In opposizione all'uomo liberale il cui individualismo è fatto d'incoscienza o di egoismo, il cittadino riconosce il proprio debito verso tutti e allora il “quasi-contratto” stipulato da chiunque in quanto membro della società “non è altra cosa dal contratto retroattivamente consentito” (Léon Bourgeois, Solidarité, cit., p. 133). 31 Ivi, p. 94. 32 Léon Bourgeois, Deux Discours de M. Léon Bourgeois, Paris, Fédération nationale de la mutualité française, 1903, p. 23 (discorsi pronunciati a Saint-Etienne il 28 settembre 1902, per la creazione della Société de secours mutuels de France).

generale che una “politica della felicità” dovrebbe intervenire in tutti i settori pubblici e privati dell'esistenza e degenererebbe in totalitarismo. D'altro canto, l'eguaglianza delle condizioni annullerebbe la natura stessa del legame sociale in una società complessa fondata sulla differenziazione dell'interdipendenza, detto altrimenti sull'ineguaglianza nella complementarità. Invece, di “questa giustizia nello scambio dei servizi sociali, ne scorgo chiaramente le due condizioni: la società deve aprire a tutti i suoi membri i beni sociali che sono comunicabili a tutti; essa deve garantire contro i rischi che sono evitabili attraverso gli sforzi di tutti”33. Così, una società democratica potrà legittimamente essere una società inegualitaria, a condizione che i meno abbienti non siano dei dipendenti imbrigliati in un rapporto di tutela, ma, dice Léon Bourgeois, dei “simili”34, solidalmente associati in un'opera comune. Meglio: una società democratica non può realizzare l'uguaglianza delle condizioni, perché questo significherebbe livellare la differenziazione “organica”, regredire a un senso del collettivo fatto della semplice giustapposizione meccanica di elementi similari, ma lo Stato può e deve intervenire perché, malgrado queste ineguaglianze, sia fatta giustizia a ciascuno, in sua vece. Questi nuovi princìpi, che si affermano con la III Repubblica, permetteranno di superare la concezione della sovranità dell'individuo propria del liberalismo e quella della sovranità dello Sta33 Ivi, p. 22. 34 “La società è formata tra simili, cioè tra esseri che hanno, sotto le ineguaglianze reali che li distinguono, una identità primaria indistruttibile” (Léon Bourgeois, Solidarité, cit., p. 51).

to concepito come un'istanza esteriore capace di ricostruire la società su basi nuove. Ma prima di spiegare l'efficienza di questo Stato, come chiamarlo? Questione preliminare, che non è solo terminologica. Vi si individua comunemente il nocciolo dello “Stato provvidenza” moderno, ma questo appellativo mi sembra da proscrivere, per almeno tre ragioni. In primo luogo, perché l'espressione postula una relazione personale tra uno Stato benefattore e dei beneficiari, ricettacoli passivi dei suoi doni. Di qui l'antifona di tutti i critici dell'intervento dello Stato, che denunciano la voglia di un assoggettamento, la deresponsabilizzazione e infine l'inerzia dei beneficiari di questa provvidenza. Questa interpretazione del ruolo dello Stato sociale non dà conto della posizione di terzo che esso occupa tra gruppi i cui interessi si oppongono. Eppure è questa la specificità dei modi d'azione di questo Stato; esso amministra l'antagonismo e il conflitto almeno quanto pacifica o deresponsabilizza. In secondo luogo, “Stato provvidenza” è, sin dall'origine, una espressione polemica inventata dai detrattori dell'intervento pubblico per denunciarne il preteso assoggettamento. Questa denuncia emerge peraltro da due versanti della scena politica. Salvo errore, la prima, e in ogni caso una delle prime menzioni del ruolo provvidenziale dello Stato in termini peggiorativi, appare ne “L'Atelier”, ove, nel dicembre 1849, il principale collaboratore del giornale operaio, Corbon, si rammarica che “più di uno sfruttato attende che la Provvidenza, sotto forma di governo, venga a trarlo dal pantano senza alcuno sforzo da parte sua” 35. E nel suo ultimo numero del 31 luglio 1850, in una sorta di testamento po35 Cit. in Armand Cuvillier, Un journal d'ouvriers. “L'Atelier”, 1840-1850, cit., p. 222.

litico prima di scomparire, “L'Atelier” esorta gli operai “ad avere più fiducia nelle proprie forze, a contare soprattutto su sé stessi e meno su questa deludente Provvidenza che si chiama Stato” 36. La punta della critica è d'altronde rivolta non certo contro le realizzazioni dello Stato “borghese” – e a ragion veduta, perché non esistono ancora in questo campo –, ma contro gli orientamenti del socialismo che vorrebbero appoggiarsi sullo Stato per trasformare la condizione operaia, e molto verosimilmente, benché non sia nominato, contro Louis Blanc. La critica dello “Stato provvidenza” è messa in contrapposizione nel quadro della difesa dell'autonomia operaia. La medesima critica appare nella stessa epoca negli ambienti in cerca di una posizione riformista moderata che resti inscritta nel quadro delle iniziative volontarie: vanno bene le associazioni libere, bene le società di soccorso, ma a condizione che si sviluppino al di fuori di ogni controllo statale. Così Émile Laurent, la cui intera dottrina consiste in un timido tentativo di superamento del patronato tramite la previdenza volontaria 37, denuncia come un “tratto nazionale”, proprio della Francia, la tendenza ad “accrescere oltre misura le competenze dello Stato, eretto quindi in una sorta di Provvidenza”38. Sulla stessa linea, Émile Ollivier, in un'arringa pronunciata alla Camera il 27 aprile 1864 in favore delle associazioni operaie, fa risalire lo “Stato 36 Ivi, p. 42. 37 Timido è proprio la parola che gli conviene, perché, dopo aver dichiarato che “l'avversione per il patronato è una delle correnti più invincibili della nostra epoca”, Émile Laurent conclude così il suo vibrante elogio delle virtù moralizzatrici delle associazioni di mutuo soccorso: “questo non significa l'abolizione assoluta di quel che si chiama patronato, ma certo la sua radicale trasformazione” (Émile Laurent, Le Paupérisme et les associations de prévoyance, cit., p. 92). 38 Ivi, t. I, p. 64.

provvidenza” alla Rivoluzione francese che, abolendo tutti i corpi intermedi, non ha lasciato che individui atomizzati di fronte allo Stato onnipotente: “Da lì sono venuti gli eccessi della centralizzazione, l'estensione smisurata dei diritti sociali, le esagerazioni dei riformatori socialisti; da lì il processo a Babeuf, la concezione dello Stato provvidenza, il dispotismo rivoluzionario in tutte le sue forme. Li trova la sua origine il pregiudizio contro l'iniziativa individuale”39. “L'estensione smisurata dei diritti sociali”: si crede di sognare. Questi riferimenti allarmati all'onnipotenza dello Stato provvidenza nascono in effetti – e questa è la terza ragione per evitare tale termine – in un'epoca in cui esso semplicemente non esiste. Lo Stato provvidenza è una costruzione ideologica montata dagli avversari dell'intervento dello Stato che estendono a un preteso ruolo sociale dello Stato una doglianza fondata forse sul piano amministrativo e politico. Il discorso sul ruolo esorbitante giocato dallo Stato in questi campi fin dall'Ancien Régime è all'epoca una costante della riflessione politica, alla quale critiche così diverse come quelle di Tocqueville e di Marx hanno riservato degli accenti egualmente eloquenti40. Ora, anche se si accetta la 39 Émile Ollivier, in “Le Moniteur Universel”, 15 maggio 1864, p. 688, cit. in Alain Cottereau, Providence ou prevoyance? Les prises en charge du malheur et la santé des ouvriers au XIX e siècle britannique et français, in “Prévenir”, n. 19, 1989, p. 25. 40 La denuncia della precocità e degli effetti livellatori della centralizzazione statale in Francia è, lo si sa, uno dei temi fondamentali de L'Ancien Régime et la Révolution di Tocqueville. Ma Marx gli fa eco facendo risalire il potere dello Stato ai “dignitari feudali [che] si videro trasformati in funzionari nominati”. “Tutte le rivoluzioni politiche non hanno fatto che trasformare questa macchina senza romperla” (Karl Marx, Le 18 Brumaire de Louis-Napoléon Bonaparte, Paris, Éditions sociales. 1984, p. 106; trad. it. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori

validità di queste critiche sul ruolo amministrativo e politico dello Stato41 il suo ruolo sociale resta al tempo insignificante. Sotto il Secondo Impero, si può stimare allo 0,3% la parte del reddito nazionale destinata alle spese sociali 42. È piuttosto l'assenza o il carattere estremamente tardivo di un ruolo “provvidenziale” dello Stato che dovrebbe suscitare stupore. E soprattutto in Francia. Qui, ancora nel XX secolo inoltrato, la protezione sociale assunta dallo Stato resta incommensurabilmente inferiore non solo a quella della Gran Bretagna e della Germania, ma anche a quella dei paesi scandinavi, dell'Austria, dei Paesi Bassi e persino della Romania43. Per tutte queste ragioni, l'espressione “Stato provvidenza” veicola oscurità piuttosto che apportare lumi. Essa pregiudica sia i modi di intervento dello Stato nel campo sociale, che restano da analizzare, sia la natura dei suoi effetti che, così preconcetti, non mancheranno di essere perversi. Le si preferirà dunque siRiuniti, 2005). 41 Bisognerebbe tuttavia almeno sfumarlo. Così, le analisi storiche più recenti della “monarchia assoluta” ritornano sul ruolo egemonico a lungo attribuito al Gabinetto del re e agli intendenti sulla società del XVII secolo. Egualmente bisognerebbe riconsiderare l'onnipotenza attribuita allo Stato sotto il Secondo Impero. È vero che la tutela politica dello Stato si è fatta pesantemente sentire (cfr. il ruolo di sorveglianza esercitato dai prefetti, le candidature ufficiali, ecc.) e i fasti dell'apparato di Stato si son fatti più spettacolari, ma non vi è stato un accrescimento quantitativo del ruolo dello Stato: il rapporto delle spese dello Stato rispetto al “prodotto fisico” della nazione (valore delle produzioni agricole e industriali riunite) è rimasto praticamente immutato, nell'ordine del 13% tra il 1815 e il 1874 (cfr. Alain Plessis, De la fête impériale au mur des fédérés, Paris, Le Seuil, 1973, pp. 89 sgg.). 42 Cfr. Pierre Rosanvallon, L'État en France de 1789 à nos jours, cit., p. 165. 43 Cfr. Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, Paris, Colin, 1971, p. 34.

stematicamente l'espressione “Stato sociale”, neutra in partenza e di cui ci si sforzerà di individuare il contenuto attraverso l'insieme degli interventi che dispiega. In effetti, se non si temesse un controsenso o un processo alle intenzioni, l'espressione “Stato nazional-sociale” sarebbe la più adeguata44. Il modo di costruzione e il quadro di esercizio dello Stato sociale sono in effetti, radicalmente, lo Stato-nazione. Non ne deriva soltanto una certa disparità delle politiche sociali nazionali, in funzione delle differenze di tradizioni culturali e politiche tra i paesi 45, ma più profondamente si può interpretare la politica dello Stato sociale come una mobilitazione di una parte delle risorse di una nazione per assicurare la propria coesione interna, differente da e complementare alla propria politica estera, guidata dall'esigenza di difendere il proprio posto nel “concerto delle nazioni” 46. Bisognerà tornarci, ma si vede già che l'iscrizione dello Stato sociale nella realtà di uno Stato-nazione solleva difficili questioni. Quale può essere, per esempio, l'“Europa sociale” oggi se le politiche sociali sono sempre state storicamente l'emanazione di Stati-nazione47? E la gravità della situazione attuale in materia di protezione sociale non dipende in larga misura dal superamento degli Stati-nazione di fronte alla mondializzazione dell'economia e del 44 Étienne Balibar la impiega, cfr. Inégalité, fractionnement social, exclusion, in Joëlle Affichard, Jean-Baptiste de Foucauld, Justice sociale et inégalités, Paris, Éditions Ésprit, 1992, p. 154. 45 Per una versione massimalista delle disparità tra Stati-nazione, cfr. i lavori della scuola detta “neo-istituzionalista” e in particolare Peter B. Evans, Dietrich Rueschemeyer, Theda Skocpol, Bringing the State back in, cit. 46 Cfr. François Fourquet, Numa Murard, Valeur des services collectifs sociaux. Une contribution à la théorie du social, Bayonne, Ikerka, 1992. 47 Cfr. Abram de Swaan, Les chances d'un système social transnational, in “Revue française des affaires sociales”, n. 3, 1990, pp. 25-42.

mercato del lavoro? Ma checché ne sia di queste difficoltà attuali, è chiaro che la funzione di politica interna dello Stato-nazione non ha niente in comune con una funzione “provvidenziale”.

2. La questione dell'obbligo In che cosa è consistito dunque il sistema di protezione, nucleo di una prima forma di Stato sociale, sviluppatosi in Francia dalla fine del XIX secolo sino agli anni Trenta del Novecento? Henri Hatzfeld ha inquadrato perfettamente le problematiche nei dibattiti parlamentari attraverso cui lo Stato repubblicano ha promosso il diritto all'assistenza e una prima serie di misure di assicurazione sociale48. In primo luogo la forza, l'accanimento con cui persiste l'“obiezione liberale”. Diciotto anni tra il deposito del primo progetto (1880) e il voto della legge sugli incidenti sul lavoro (1898); vent'anni per elaborare la prima legge sulle pensioni degli operai e dei contadini, che partorirà un topolino, o quasi49. In questa data (1910), i nostri grandi rivali dell'epoca, i tedeschi, dispongono già da un quarto di secolo di un sistema di assicurazioni che copre la maggior parte dei lavoratori dai rischi di malattia, di infortunio e di vecchiaia. Gli inglesi hanno un'assicurazione contro la disoccupazione, che dovrà attendere... il 1958 per imporsi in Francia. Nessun motivo quindi per glorifica48 Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit., cap. II L'objectif libérale et le problème de l'obligation. 49 La legge sulle pensioni degli operai e dei contadini interessava potenzialmente 7 milioni di salariati. Nel 1912, l'avevano sottoscritta circa 2,5 milioni di persone e solo 1.728.000 nel 1922; cfr. Antoine Prost, Jalons pour une histoire des retraites et des retraités, in “Revue d'Histoire Moderne et Contemporaine”, n. 4, 1964, pp. 263-289.

re un “modello francese”. Invece, ricordare il lento sviluppo di questi dispositivi è altamente istruttivo per valutare gli ostacoli che ha dovuto affrontare lo Stato sociale: lungi dall'incarnare una sovranità politica, esso avanza aggirando forze ostili o negoziando con esse compromessi. Una prima serie di misure riconosce un diritto alla cura per i malati indigenti (legge sull'aiuto medico gratuito del 1893) e un diritto all'assistenza per gli anziani indigenti e gli invalidi (1905). Si può aggiungere una legge del 1913 a favore delle famiglie numerose e bisognose, benché la sua ispirazione sia in qualche modo differente50. Questa legislazione rappresenta un'applicazione minima del “debito” solidaristico, poiché si tratta di garantire condizioni di sopravvivenza altrettanto minime a degli indigenti che, di regola, non possono o non possono più lavorare, perché, ancora una volta, l'antica divisione capaci/incapaci di lavorare costituisce la principale linea di partizione tra coloro che rientrano nel campo dell'assistenza e gli altri. Ancora una volta quel debito, che il Comité de mendicité già proclamava “inviolabile e sacro” e che era stato ripreso nel preambolo della Costituzione del 1848, non si è imposto senza difficoltà. L'“obiezione liberale” si è di nuovo mossa, in particolare contro la legge del 190551, agitando come sempre lo spettro della “carità legale”: 50 La legge del 14 luglio 1913, che accorda un contributo mensile per i bambini con meno di tredici anni alle famiglie con più di tre bambini dotate di risorse insufficienti per allevarli, è la prima di una serie di misure d'ispirazione natalista che approderà alla legge sugli assegni familiari del 1932. 51 Curare i malati indigenti (legge del 1893) presenta un'utilità sociale perché così potranno nuovamente lavorare, il che non è il caso degli invalidi e degli anziani. Così la legge del 1893 ha raccolto un largo consenso, mentre quella del 1905 ha incontrato vive opposizioni.

In un paese veramente libero, il ruolo dello Stato dovrebbe limitarsi a pochissime cose prossime alle funzioni per le quali è stato creato, vale a dire assicurare la pace esterna e interna, il resto non è di suo dominio, e credo in particolare che tutti i problemi concernenti l'assistenza pubblica sarebbero risolti in modo molto più soddisfacente, e allo stesso tempo molto meno oneroso, se la loro soluzione fosse lasciata alle piccole collettività, cioè ai comuni e ai dipartimenti, e soprattutto all'iniziativa delle associazioni e dei privati52.

Notiamo, però, quel “pochissime cose prossime”. Il liberalismo può accettare alcune eccezioni all'interdetto di Stato in casi molto specifici e corrispondenti a situazioni di indigenza, senza altra alternativa che la presa in carico. Così Edmond Villey, liberale convinto che si opporrà con accanimento a ogni forma di assicurazione obbligatoria, dichiara: “L'intervento dello Stato è legittimo, per principio, tutte le volte che si tratta della protezione degli incapaci”53. Gli “incapaci”: questa categoria corrisponde a ciò che abbiamo definito come handicappologia. Poiché si tratta di popolazioni escluse di fatto da ogni partecipazione agli scambi produttivi, la loro presa in carico da parte dello Stato non rischia di avere incidenze sul piano economico54. 52 Discorso del conte di Languinais alla Chambre des députés, seduta del 15 giugno 1903, cit. in Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit., p. 72. 53 Edmond Villey, Du rôle de l'État dans l'ordre économique, Paris, Guillaumin, 1882, cit. in Jacques Le Goff, Du silence à la parole, cit., p. 50. 54 Si comprende in questa logica come, ben prima “dell'invenzione” della solidarietà e dell'avvento dello Stato repubblicano, sia stata votata una prima legge sull'assistenza obbligatoria. Si tratta della legge del 30 giugno 1838 sull'assistenza agli alienati, lungamente discussa ma votata a

Così bisogna sfumare il giudizio di Jean Jaurès al momento della discussione della legge sull'assistenza obbligatoria per gli anziani indigenti: “Qual è in effetti lo spirito della legge? È quello di sostituire all'arbitrarietà dell'elemosina la certezza di un diritto”55. Senza dubbio, ma a condizione di aggiungere tre correttivi: innanzitutto, prima della legge e per secoli, la presa in carico di coloro che, come gli anziani indigenti, rientrano nell'ambito dell'“incapacità” o dell'“handicappologia” è stata quasi sempre assicurata di fatto da forme di protezione ravvicinata che sono conseguenza della domiciliazione (cfr. il cap. I). Si tratta dunque, piuttosto, del passaggio da un quasi-diritto a un diritto effettivo, differenza non trascurabile, ma che non rappresenta un'innovalarga maggioranza da una Camera in cui conservatori e liberali erano egemoni. Priorità che si spiega per due ragioni: gli alienati indigenti sono i più diseredati tra i diseredati e chiaramente esonerati dall'obbligo del lavoro, ma, anche pericolosi, essi pongono dei problemi d'ordine pubblico e non possono essere lasciati a se stessi. La presa in carico medica obbligatoria assicura contemporaneamente a questi malati le cure che richiede la loro condizione e risolve con l'internamento la questione del ristabilimento dell'ordine pubblico: “Felice coincidenza, dice il relatore della legge alla Camera dei Pari, che nell'applicazione di misure rigorose, fa concorrere il vantaggio del malato con il bene generale” (cfr. Robert Castel, L'ordre psychiatrique, cit., pp. 204 sgg.). L'altra legge di protezione obbligatoria del 1841, che limitava il lavoro dei bambini, poneva un problema più grave perché rappresentava un'ingerenza diretta nell'organizzazione del lavoro e un rischio importante di sbandamento: “È la prima volta che noi percorriamo una strada che non è esente da pericoli; è il primo atto di regolamentazione dell'industria, e l'industria per svilupparsi ha bisogno di libertà”, sottolinea uno degli intervenuti alla Camera, il conte di Beaumont. Ma questa grave obiezione ha potuto essere aggirata perché il lavoro dei bambini metteva in pericolo la riproduzione della forza-lavoro e dunque gli interessi superiori dell'industria – e, soprattutto dagli operai, la sua applicazione fu praticamente lasciata alla discrezione dei padroni. 55 Jean Jaurès, Chambres des députés, seduta del 9 giugno 1903, cit. in Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit., p. 75.

zione sconvolgente, tanto più che, in secondo luogo, questo diritto è sottoposto a condizioni di accesso molto restrittive e la sua concessione dipende da controlli amministrativi: l'indigente deve fornire prova di essere “sprovvisto di risorse”, cioè esibire i segni della sua sventura. Egli è meno un avente diritto, nel senso forte del termine, che un beneficiario potenziale, sottoposto all'esame di un'istanza amministrativa56. Il passaggio dall'assistenza a uno status di diritto non riesce a cancellare integralmente lo stigma legato all'indigenza. Non riesce neanche a delocalizzare completamente o, se si preferisce, a universalizzare il diritto: la concessione del diritto all'assistenza dipende da una perizia eseguita a livello locale57. 56 Benché sia animato da un'ostilità sistematica nei confronti della “carità legale”, il giudizio dato da Tocqueville un mezzo secolo prima sull'inferiorità intrinseca del diritto al soccorso vale la pena di essere meditato: “I diritti onorari sono conferiti agli uomini in funzione di qualche vantaggio acquisito sui loro simili. Questo [il diritto all'assistenza] è accordato in ragione di un'inferiorità riconosciuta. I primi mettono questi vantaggi in rilievo e li constatano. I secondi mettono in luce questa inferiorità e la legalizzano” (Alexis de Tocqueville, Mémoire sur le paupérisme, letta all'Académie di Cherbourg nel 1835, in “Mémoires de la Société royale académique de Cherbourg”, cit., p. 35). 57 Alexandre Mirman, socialista indipendente e partigiano assoluto di un diritto allargato all'assistenza, era cosciente del problema. Egli fa cambiare dalla Camera dei Deputati la categoria di “indigente” con quella di “avente diritto” e la formula “hanno richiesto l'assistenza” con “hanno fatto valere un loro diritto”, ecc. Egli vuole anche che le commissioni di attribuzione motivino per iscritto le loro decisioni e che gli interessati possano appellarsi, ma queste proposte sono respinte dal Senato (cfr. Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit., pp. 74 sgg.). Ma un cambiamento di lessico sarebbe stato sufficiente per liberare il diritto all'assistenza da una doppia contaminazione secolare, cioè l'immagine del “cattivo povero” attribuita agli indigenti e il giudizio delle istanze di dispensatrici di aiuti, che rischia di essere un giudizio di valore sulla moralità dei richiedenti prima che un diritto-credito? Le discussioni attuali sulle condizioni di attribuzione dell'RMI (Revenu Minimum d'Insertion) dimostrano che questo irritante problema non è ancora ri-

Infine, occorre sottolineare il carattere straordinariamente restrittivo dei criteri che devono soddisfare i beneficiari di tale diritto. Henri Monod, direttore dell'Assistance publique, da cui ci si attenderebbe a tale titolo una militanza per l'estensione della giurisdizione della sua istituzione, dichiara nel 1889: “L'Assistenza pubblica è dovuta, in mancanza di altra assistenza, all'indigente che si trovi, temporaneamente o definitivamente, nell'impossibilità fisica di provvedere ai propri bisogni” 58. Non solo il principio tradizionale dell'handicappologia – “l'impossibilità fisica di provvedere ai propri bisogni” – è riaffermato con forza, ma i soccorsi pubblici non sono un diritto che “in mancanza di altra assistenza”, familiare o privata. Dal versante familiare, è la persistenza dell'“obbligo agli alimenti” (reiterato ancora nel 1953, quando l'assistenza è ribattezzata “aiuto sociale”), che apre a una casistica restrittiva dell'applicazione del diritto. La possibilità di ricorrere all'assistenza privata dimostra anche che, a dispetto di un anticlericalismo di principio, l'assistenza, sotto la III Repubblica, si concilia di fatto molto bene con l'esistenza di opere private. I congressi sull'assistenza gestiranno questa collaborazione del pubblico col privato, che ha quanto meno il vantaggio di risparmiare i denari pubblici59. Si è indietro rispetto ai princìpi solto. 58 Henri Monod, L'Assistance publique en France en 1889, discours prononé à l'ouverture du Congrès international de l'assistance publique à Paris, le 28 juillet 1889, par M. Henri Monod, Paris, Imprimerie nouvelle, 1889. Monod dirà ancora più esplicitamente una ventina d'anni più tardi tornando sul senso della sua opera: “Il mio sforzo è stato quello di limitare l'intervento dello Stato, di determinare le categorie degli svantaggiati a cui devono andare i soccorsi pubblici” (Henri Monod, Lettre de M. Henri Monod, ancien directeur de l'Assistance et de l'hygiène publiques au Ministère de l'Intérieur, in “La Réforme Sociale”, n. 1, 1906, p. 658). 59 Un'illustrazione della complementarità di questi punti di vista è in Mi-

elaborati dal Comité de mendicité e messi in opera dalla Convention, vale a dire il riconoscimento di quel “debito inviolabile e sacro” della nazione, che spettava al potere pubblico assumersi integralmente, escludendo le opere private affinché il dovere di soccorrere gli sventurati “non potesse essere avvilito né dal nome né dal carattere dell'elemosina”60. I grandi princìpi della solidarietà repubblicana non hanno dunque, qui, innovato molto. Essi hanno piuttosto fornito magnistère du commerce, de l'industrie, des postes et des télégraphes. Exposition universelle internationale de 1900. Direction générale de l'exploitation. Congrès international d'Assistance publique et de bienfaisance privée, tenu à Paris du 30 juillet au 5 août 1900. Procès Verbaux sommaires, Paris, Imprimerie nationale, 1900. Tende a istituirsi una divisione del lavoro tra l'Assistenza pubblica, quasi automatica per i soggetti in stato di miseria assoluta, e il settore privato, per gli interventi più puntuali e più agili. L'una e l'altro devono stare attenti al fatto che la condizione degli assistiti sia sempre meno invidiabile da quella di coloro che provvedono da sé ai propri bisogni. È il principio della less eligibility, ispirato dalle Poor laws inglesi. I soccorsi privati privilegiano i rimedi morali e psicologici rispetto agli aiuti materiali. Essi procedono all'esame approfondito e multidimensionale dei “casi” secondo la tradizione filantropica del Visiteur du pauvre (cfr. l'esposizione di Charles Stewart Loch, segretario della Charity Organization Society di Londra: De l'organisation de l'assistance, in Ministère du commerce, de l'industrie, des postes et des télégraphes, cit., t. I, pp. 51 sgg.). A dispetto di tensioni tra coloro che intervengono in concorrenza sul terreno, per i responsabili queste due forme si pensano come complementari. 60 Camille Bloch, Alexandre Tuetey, Plan de travail, in Id., Procès Verbaux et rapports du Comité pour l'extinction de la mendicité, cit. p. 310. Queste restrizioni non escludono né un omaggio sostenuto ai fondatori della I Repubblica, né una “lotta ideologica” intensa sul significato da dare nella storia dell'assistenza ai lavori delle assemblee rivoluzionarie. Essa oppone gli storici repubblicani come Camille Bloch e Louis-Ferdinand Dreyfus ai “clericali” come Lallemand o Christian Paultre. Così l'interpretazione che la III Repubblica ha dato dell'assistenza ha risposto almeno in quel misura a obiettivi politici come a necessità pratiche. Su questi punti, cfr. Colette Bec, Assistance et République. La recherche d'un nouveau contrat social sous la III e Republique, Paris, Édition de l'Atelier-Éditions ouvrières, 1994.

giore coerenza e migliore leggibilità a pratiche che erano più o meno riuscite a imporsi in modo piuttosto empirico. Ma c'è anche il fatto che il problema dell'assistenza, per quanto sia stato sovradeterminato simbolicamente, non rappresenta un elemento strategico. Le popolazioni interessate sono infatti relativamente ben definite. Soprattutto, esse corrispondono a differenti categorie di “senza lavoro”, quasi esclusi di fatto da una partecipazione attiva alla vita sociale. La loro presa in carico da parte di una politica dell'assistenza può farne degli indigenti integrati, cosa che non cambia di molto l'equilibrio d'insieme della società. Dunque, la questione sociale non si pone in forma acuta a questo livello. Essa si pone invece con incisività sul piano della vulnerabilità di massa rappresentata dall'insicurezza operaia. È il problema dello status della maggioranza dei salariati, espresso dapprima dal pauperismo e che si perpetua attraverso l'instabilità dell'impiego, l'arbitrio padronale, i bassi salari, l'insicurezza del lavoro, la miseria dei vecchi lavoratori. Il problema, qui, cambia di scala. Qual è la classe alla quale appartiene il maggior numero di persone che si rivolgono all'assistenza e alla beneficenza pubblica? Evidentemente il maggior numero di sofferenze nell'armata della miseria è dato dalla classe degli operai e dei lavoratori. Quali sono le cause principali per cui la classe degli operai e dei lavoratori si trova più delle altre in uno stato di miseria? La maggior parte di queste cause sono dovute alle condizioni economiche specifiche di questa classe61. 61 Charles Biancoli, intervento al Ive Congrès international de l'assistance

All'inizio del secolo, si è svolto un vivace dibattito su questo punto: assistenza o assicurazione? A partire dal momento in cui si riconosce che la miseria rinvia, per una buona parte, alla problematica del lavoro, l'assistenza può costituire la risposta adeguata a questa miseria lavoratrice? È come se la riflessione su questo problema, ivi compresa quella dei repubblicani e anche di certi socialisti, avesse esitato tra due opzioni: elargire l'assistenza per prendere in carico l'insieme dei miserabili privi di risorse o piuttosto imporre l'obbligo di assicurazione a tutti coloro le cui risorse sono tali per cui rischiano, in caso di infortunio, di malattia o durante la loro vecchiaia, di essere incapaci di provvedere ai propri bisogni. In un primo tempo, i repubblicani “opportunisti” giocano la carta dell'assistenza. Dando all'espressione “privo di risorse” un significato più esteso di quello di “incapacità fisica” di lavorare, tentano di includervi la frangia inferiore della classe operaia 62. Un sistema generalizzato di assistenza affascina anche alcuni socialisti “indipendenti”. Particolarmente significativo è a tal proposito il dibattito che oppone alla Camera dei deputati, nel 1905, Alexandre Mirman e Jean Jaurès. Mirman difende un progetto di solidarietà nazionale finanziato attraverso le imposte e publique et de la benfaisance privée – 4° Congresso internazionale d'assistenza pubblica e privata. Atti del Congresso, Milano, 23-27 maggio, 1906, Milano, dalla sede del Comitato esecutivo del Congresso, 1909, t. V, p. 134. 62 Colette Bec, Assistance et République, cit. Cfr. ugualmente in Jean-André Tournerie, Le Ministère du travail, origines et premiers développements, Paris, Éditions Cujas, 1971, sulla sostituzione progressiva dell'interesse per l'assicurazione all'interesse per l'assistenza in discussioni e progetti che hanno preceduto la creazione del Ministero del Lavoro nel 1906.

capace di assistere l'insieme della popolazione bisognosa, salariati e non-salariati – un reddito minimo ante litteram. Jaurès vede la trappola di una legislazione unicamente assistenziale, che limiterebbe i soccorsi alle categorie più deprivate e impedirebbe di sviluppare una legislazione sociale in favore dei salariati. Egli formula in questa occasione l'aspirazione che riprenderanno i fondatori della Sécurité sociale dopo la Seconda guerra mondiale: “Anche noi sogniamo questa unità della legislazione; siamo sicuri che un giorno sarà l'organizzazione generale e sistematica dell'assicurazione, estesa a tutti i rischi, che si sostituirà all'assistenza”63. Nell'attesa, non bisogna ingannarsi sulle priorità. Generalizzare l'assistenza significherebbe accrescere la dipendenza del popolo. Promuovere l'assicurazione, a cui l'operaio accede pagando i propri contributi, vuol dire far sì, come Jaurès diceva già difendendo nel 1895 la pensione dei minatori, “che non si abbia più qualcosa come un'organizzazione di carità, ma come il riconoscimento del diritto sanzionato da un sacrificio equo”64. Non tutti, però, hanno la lucidità di Jaurès. Non tutti condividono il suo obiettivo di promuovere l'emancipazione operaia. Ma anche mettendo tra parentesi questo interesse “di classe”, l'esitazione che si esprime al volgere del secolo è perfettamente comprensibile. Dall'assistenza, si sa cosa aspettarsi: le tecniche 63 Cit. in Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit., p. 78. La posizione di Mirman richiama quella sostenuta nello stesso periodo in Gran Bretagna da Beatrice e Sidney Webb, La lutte préventive contre la misère, cit. I Webb sono ostili sia all'assicurazione sia a ogni legislazione sociale speciale. Essi auspicano un trasferimento degli interventi pubblici centrali a differenti servizi municipali non specializzati che potranno prevenire il precipitare di situazioni di dipendenza senza fare dell'indigenza un bersaglio particolare. 64 Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit., p. 118.

assistenziali sono rodate da molti secoli, sarebbe sufficiente estendere la loro competenza (e anche finanziare la loro estensione, il che è meno automatico). L'assicurazione, invece, mobilita tutt'altra tecnologia d'intervento, suscettibile di applicazioni nuove e quasi infinite. Se l'imposizione dell'assicurazione obbligatoria incontrerà tante resistenze è perché il tipo di protezione che essa promuove è inedita, e perché tocca altre popolazioni rispetto a quelle degli assistiti tradizionali. La posta in gioco è nientemeno che l'emergere di una nuova funzione dello Stato, di una nuova forma di diritto e di una nuova concezione della proprietà. Questa che, pur pesando il senso delle parole, si è in diritto di qualificare come propriamente rivoluzionaria: l'assicurazione obbligatoria va a compiere nella condizione dei salariati una rivoluzione tranquilla. Anche in questo, tuttavia, non si comincia dal nulla, ma il carattere dei risultati precedenti è di natura tale da oscurare il dibattito più che chiarirlo. Sotto forma di società di soccorso, le associazioni fondate in vista di coprire dai rischi hanno già portato grandi speranze (cfr. cap. V). La corrente filantropica vi ha visto uno strumento privilegiato per moralizzare le “classi inferiori”. Una parte del padronato industriale ne ha fatto lo strumento privilegiato di una politica di fidelizzazione della manodopera operaia. Ma questi usi dell'assicurazione restavano, o pretendevano di restare, compatibili con le due strategie principali del patronato: la sorveglianza e/o l'inquadramento, tramite la polizia e i notabili, e la territorializzazione della manodopera, che queste prestazioni sociali ante litteram contribuivano a fissare.

Non senza ambiguità tuttavia. Ossessionati dalla paura di vedere queste società servire da supporto a un militantismo sindacale o politico, i notabili hanno senza dubbio sottostimato un pericolo più profondo: anche se pacifiche, esse sviluppano una forma d'organizzazione incompatibile con il modo di subordinazione del complesso tutelare65. Esse istituiscono, effetti, relazioni orizzontali tra i propri membri, all'opposto della struttura verticale del “governo dei migliori”. La mutualità propone un modo di esistenza del collettivo che non è cementato dalla dipendenza gerarchica. Per sua stessa struttura, essa è portatrice di un germe di organizzazione democratica. Il legame sociale si regge su un sistema di interrelazioni indipendenti da una soggezione morale e differenti anche dagli scambi economici governati dalle leggi del mercato. È già il principio di solidarietà che unisce i membri di una mutua. Può darsi dunque che, incoraggiando queste strut65 Alcuni di questi notabili sembrano averne avuto almeno il sospetto. Così il rapporto di un procuratore imperiale datato 1867, che, sotto la preoccupazione del mantenimento dell'ordine pubblico propria alla sua funzione, sembra presentire in questa forma di associazione il rischio di una messa in discussione di “ogni superiorità, di ogni governo”: “Non si sarà sorpresi che di una cosa, cioè che il governo abbia dato forma con le proprie mani a uno strumento di sovvertimento... Io so che le società di mutuo soccorso sono una creazione diletta ma i bambini preferiti sono quelli che rovinano le famiglie... È seducente pensare che si possa condurre il proletariato a soccorrersi da sé nel caso di malattia, di vecchiaia; è molto soddisfacente credere che si sfuggirà alle società segrete organizzate; sarebbe dolce sperare che si formerà un'associazione immensa devota al governo. Sfortunatamente, tutti questi risultati attesi sono lontani dalla mente di coloro che accettano i loro incoraggiamenti. Essi prendono l'arma che loro è data, ma intendono servirsene a loro modo... Nella classe operaia, la passione dominante e la sola veramente forte, è l'odio di ogni superiorità, di ogni governo... Non manca loro che l'organizzazione, e le pretese società di soccorso vengono a dargliela” (cit. in Bernard Gibaud, De la mutualité à la Sécurité sociale, conflits et convergences, cit., p. 38).

ture fondate sulla reciprocità, i fautori di un ordine tutelare abbiano nutrito una serpe nel loro seno. Una seconda ambiguità mina la rappresentazione che si fanno le “persone dabbene” del ruolo delle mutue. Pur ammettendo che queste siano le scuole di innalzamento del popolo che esse preconizzano66, quale pubblico vanno a captare? Solamente i buoni operai; coloro che sono già molto moralizzati, in ogni caso già così attratti dal bene, da desiderare di frequentare delle persone dabbene; coloro che possono anche pagare i contributi, cioè coloro i quali il salario pone al di sopra della necessità di vivere “giorno per giorno” e a cui permette di prevedere l'avvenire. Né i più miserabili, né i peggiori spiriti che rifiutano di credere che la loro salvezza passi dal riavvicinamento con i padroni, cioè precisamente tutti coloro che avrebbero maggiormente bisogno di essere moralizzati. Invece di essere uno strumento generalizzato di elevazione del popolo, lo sviluppo della previdenza volontaria rischio così di approfondire il fossato tra i “buoni operai” e i “cattivi poveri”. L'evoluzione del reclutamento delle società di mutuo soccorso sembra confermare questa diagnosi pessimista. Non inganni 66 Una testimonianza, tra le altre, quella di Émile Laurent, uno dei primi detrattori dello Stato provvidenza, che fa al contrario un brillante elogio della società di muto soccorso: “Con i suoi membri onorari, le riunioni fraterne del maestro e dell'operaio, nel seno stesso dell'officina o al di fuori, riunioni che sarebbero buone non fosse altro per il fatto di una deliberazione comune, ma in cui non ci si contenta di deliberare, in cui ci si ama perché ci si è conosciuti, perché si è letto nel cuore gli uni degli altri; in cui le diffidenze spariscono, in cui i malintesi si appianano, in cui i più elevati, sapendo che hanno la responsabilità delle anime, sentono il bisogno di dare ai più umili il più grande degli insegnamenti, quello dell'esempio; la società di muto soccorso con le sue scuole, le sue adozioni, i suoi mille aspetti tutelari” (Émile Laurent, Le Paupérisme et les associations de prévoyance, cit., t. I, p. 107).

l'aumento del numero degli aderenti (moderato d'altronde, e ben inferiore al pubblico delle friendly societies inglesi). Per quanto esse siano in origine delle società popolari nate nella tradizione dei mestieri e del corporativismo, le mutue “s'imborghesiscono” progressivamente, attirando i soli operai degni di frequentare i notabili. Lo sviluppo del sindacalismo dopo il 1884 approfondisce ancora il divario tra un movimento operaio organizzato, dominato dagli orientamenti rivoluzionari, e un mutualismo politicamente assai moderato e per il quale la collaborazione tra le classi è l'obiettivo dichiarato67. In ogni caso, le frange più miserabili e le frange politicamente avanzate del proletariato (queste due categorie non si sovrappongono necessariamente) sfuggono all'impresa della mutualità volontaria68. Si capisce dunque come il passaggio all'obbligo rappresenti un vero e proprio cambio di paradigma, sia in rapporto alla problematica dell'assistenza sia in rapporto a quella della previdenza volontaria. Come si è imposto? C'è stato bisogno innanzitutto che si allentasse il legame, annodato lungo tutto il XIX secolo, tra l'assicurazione e il patronato. Verso la fine del secolo, un certo numero di nuovi fatti rende 67 Cfr. Bernard Gibaud, De la mutualité à la Sécurité sociale, cit. Questa opposizione persisterà lungo tutto il XX secolo; cfr., per esempio, il ruolo perlomeno ambiguo giocato dalla mutualità sotto il regime di Vichy (ivi, pp. 100 sgg.). 68 I responsabili del movimento mutualista sono tra l'altro coscienti di questo scarto che si approfondisce tra la mutualità e la maggioranza degli operai. Léopold Mabilleu, che diventerà presidente della Fédération nationale de la mutualité française, dichiara nel 1900 che questa “non provvede all'assicurazione che dei membri meno interessanti della classi operaia, quelli che rappresentano già un'élite economica nel paese” (in Ministère du commerce, de l'industrie, des postes et des télégraphes, cit., p. 12).

più fragile questa costruzione. Si tratta, dapprima, della crescente opposizione operaia all'egemonia del padronato sulle casse che ha fondato per i propri fini e di cui vuol mantenere il controllo. È stato notato che, dalla fine del Secondo Impero, si era svolta una serie di scioperi sulla questione del controllo delle casse. L'opposizione operaia viene alimentata dall'arbitrio, cioè dalla disonestà di certi padroni nella gestione di queste casse. Nella vasta sintesi che consacra a questa questione, Joseph Lefort, seppure favorevole alle tesi padronali, fa riferimento a pratiche frequenti, quali l'utilizzo di fondi di assistenza per il finanziamento delle imprese e anche il licenziamento arbitrario di operai, licenziati senza indennizzo dopo una trentina d'anni di buoni e leali servigi, giusto prima dell'età dell'uscita dal mercato del lavoro, per evitare di dover versare loro una pensione69. Fatto ancora più grave, o più spettacolare: dei fallimenti di imprese provocano il fallimento di alcune casse, e gli operai sono defraudati dei loro versamenti. È il caso, alla fine degli anni Ottanta dell'Ottocento, della Compagnie minière de Terrenoire e del Comptoir d'escompte de Paris. La pubblicità data a questi casi induce a imporre il controllo da parte del potere pubblico. Una legge votata nel 1895 impone l'obbligo di depositare i contributi operai nella Caisse des dépôts et consignations o in casse accreditate dall'amministrazione70. Infine, il patronato stesso trasgredisce sovente il principio della volontarietà, che si ritiene assicuri il valore moralizzatore di questo tipo di risparmio. Trattenute obbligatorie sui salari as69 Joseph Lefort, Les caisses de retraites ouvrières, Paris, Fontemoing, 1906, 2 voll., t. I, p. 114. 70 Cfr. Émile Levasseur, Questions ouvrières et industrielles en France sous la Troisième République, Paris, Rousseau, 1907, pp. 500 sgg.

sicurano frequentemente, con la partecipazione padronale, il finanziamento delle casse. Meglio: prima della fine del secolo, due grandi tipi d'imprese, le miniere e le ferrovie, vivono praticamente in regime di assicurazione pensionistica obbligatoria 71. Questo stato di cose può spiegarsi grazie a specificità di queste imprese: si tratta di concessioni di Stato, il pericolo e la durezza del lavoro per i minatori, esigenze speciali di regolarità e di puntualità per i ferrovieri hanno portato a moltiplicare i “benefici sociali”, come le pensioni, per fissare la manodopera. Ma se di fatto vi è un quasi-obbligo, perché non potrebbe venire garantito dallo Stato, invece di dipendere dall'arbitrio padronale? È quel che rivendicano in particolare i minatori. Essi ottengono soddisfazione nel 1894. La legge votata il 29 giugno fa della pensione un diritto. Essa è finanziata in parti uguali dai contributi operai e da quelli padronali, e ha il carattere di una obbligazione legale, alla quale datori di lavoro e impiegati sono egualmente sottoposti. La struttura delle “assicurazioni sociali” è così in essere prima della fine del XIX secolo. Perché queste misure non potrebbero essere estese all'insieme dei salariati? È questo lo spirito del progetto di legge sulle pensioni operaie e contadine, di cui una prima versione è stata depositata alla Camera fin dal 1890. Occorreranno tuttavia ancora venti anni, segnati da dibattiti accaniti in Parlamento e fuori dal Parlamento, prima che si approvi, in forma edulcorata, nel 1910. È, innanzi71 Nel 1898, il 98% dei minatori e circa i due terzi degli impiegati delle ferrovie sono affiliati a casse patronali (cfr. Joseph Lefort, Les caisses de retraites ouvrières, cit., t. II, p. 89 e p. 177). La terza categoria dei beneficiari di pensioni è quella degli agenti dello Stato in virtù di una legge del 1853. Ma lo Stato interviene qui come datore di lavoro nel quadro di una politica del personale che compensa la modicità dei salari con la sicurezza dell'impiego e la pensione.

tutto, da un punto di vista quantitativo che esso rappresenta un mutamento di scala: si tratterebbe di passa da alcune centinaia di migliaia di beneficiari della pensione a 7 milioni di salariati 72. Ma questa estensione pone soprattutto un problema di principio. Joseph Lefort, la cui opera è premiata nel 1906 dall'Académie des sciences morales et politiques, esprime esattamente la posizione degli oppositori: Se la questione delle pensioni si pone in modo imperioso per gli operai dell'industria privata, essa deve essere risolta con la libertà, con l'iniziativa individuale, con l'associazione sotto le sue forme molteplici ma così feconde, con il raggruppamento di tutte le buone volontà. L'esperienza di quel che si pratica all'estero non ha potuto che confermarci nella convinzione che un regime basato sull'obbligo e sull'intervento dello Stato sarebbe in opposizione con la situazione economica della Francia, con le tradizioni della sua razza, non meno che con le tendenze che dovrebbero dominare in una società democratica73.

Capiamo bene che non è il principio della pensione a essere in questione. Questo si impone “in modo imperioso” in ragione della condizione miserabile dei vecchi lavoratori, la cui maggioranza è condannata a lavorare fino alla morte o a dipendere dal72 Sette milioni circa, e non i 12 milioni di salariati che si contano all'epoca, perché, come si vedrà, l'assicurazione non concernerà dapprima che la frangia inferiore del salariato. 73 Joseph Lefort, Les caisses de retraites ouvrières, cit., t. I, p. III. Uno degli argomenti contro il “sistema tedesco” qui menzionato è che esso non si accontenta di fornire prestazioni, ma realizza ospedali, case di riposo, consultori, ecc., in breve, un nucleo di istituzioni sanitarie e sociali il cui carattere pubblico è inaccettabile per gli avversari dell'intervento dello Stato.

l'aiuto familiare o dall'assistenza. Ma essa dipende dalla previdenza volontaria. L'argomentazione resta quella della filantropia del XIX secolo: “è dunque innanzitutto all'educazione morale che conviene dedicarsi”74. La modicità dei salari operai non dispensa dallo sforzo. Il risparmio volontario è sempre possibile “in ragione della meravigliosa elasticità dei bisogni, a un tempo indefinitamente estensibili e indefinitamente comprimibili”75. Sotto questa vulgata un po' piatta e ossessivamente ripetitiva si profila una distinzione essenziale, che divide la popolazione operaia in funzione di un criterio morale. Finiscono nell'assistenza coloro la cui “noncuranza”, la “leggerezza”, la “mancanza di sobrietà”, ecc., scoraggiano le imprese di elevazione. Accedono all'autonomia coloro che sono capaci di previdenza volontaria. Émile Cheysson formula questa distinzione con una certa brutalità, sottolineando il vantaggio morale e sociale di separare l'assistenza dalla previdenza e di distinguere nettamente gli uomini eretti dagli uomini caduti che non si guadagnerebbe niente a confondere in una stessa organizzazione. Una volta rassicurato su questi ultimi, il legislatore si sente maggiormente a proprio agio per istituire il trattamento che conviene alla clientela sobria, capace di risparmio e d'iniziativa privata, in luogo di abbassare le soluzioni legali al livello dell'imprevidenza o delle cadute che richiamano la tutela dei soccorsi. Egli concilia così il rispetto che deve all'associazione libera e allo sforzo personale76. 74 Ivi, t. I, p. 9. 75 Ibidem. 76 Émile Cheysson, Discussion, in Eugène d'Eichtal et alii, La Solidarité sociale et ses nouvelles formules (Académie des sciences morale et politiques), Paris, Picard, 1903, p. 137. Cheysson si pronuncia esplicitamente

Si può dunque concedere l'assistenza agli “uomini caduti”, agli “incapaci”, ma in nessun caso si può istituire un diritto all'assicurazione. Questo significherebbe, dice Cheysson, “abbassare il livello” delle soluzioni legali. Espressione un po' curiosa, ma che bisogna intendere così: il diritto deve continuare a regolare le relazioni tra uomini responsabili. A rigore, è possibile accordare quel diritto di second'ordine che è il diritto all'assistenza a delle popolazioni di incapaci accuratamente circoscritte. Ciò può essere tatticamente funzionale nella misura in cui, “rassicurato su questi ultimi”, il legislatore avrà più modo di opporsi al diritto all'assicurazione. Questa è stata esplicitamente l'intenzione di numerosi liberali che hanno aderito alla legge del 1905 sugli aiuti agli anziani indigenti: “Noi faremo una legge di assistenza che, ne ho l'assoluta convinzione, ci permetterà di evitare l'obbligo delle pensioni operaie”77. Il diritto all'assistenza è così pensato nella sua opposizione all'obbligo di assicurazione, come una barriera all'estensione di quest'ultimo. In pratica, questo significa che un diritto sociale, se si può veramente parlare di diritto a proposito del diritto all'assistenza, è legittimo solo se concerne coloro che sono già quasi nel fuori-sociale, in quella zona di assistenza esclusa dai circuiti di scambi tra individui autonomi. Il diritto non deve toccare la zona di vulnerabilità, quella della precacontro il solidarismo per la ragione precisa che la nozione di debito sociale crea un diritto. Discepolo di Le Play, egli si attiene al “dovere sociale” che non comporta un obbligo legale, ma un debito morale. Quanto allo Stato, esso può tutt'al più incoraggiare le iniziative aiutando coloro i quali si aiutano da sé secondo il principio della “libertà sussidiata”, come si diceva all'epoca in Belgio. 77 Intervento di Charles Sebline al Senato, seduta del 9 giugno 1905, cit. in Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit., p. 71.

rietà del lavoro, delle carenze della condizione salariale. Chi non vuole “cadere” nella miseria e nella dipendenza deve difendersi con i propri mezzi. Non vi è responsabilità collettiva di fronte alle sventure che attengono alla condizione generale del popolo o, per dirla altrimenti, l'intervento del potere pubblico non è legittimo che per prendere in carico quei casi-limite, atipici in rapporto alla condizione lavorativa, che dipendono dall'assistenza. Allora, a dispetto della sua moderazione, la posizione “solidaristica” appartiene a ben altro registro di pensiero. Consiste nel mobilitare il diritto per una certa redistribuzione dei beni sociali e una certa riduzione delle ineguaglianze. Impone la nozione di avente diritto, nel senso forte del termine. Jaurès lo vede bene: “Nella pensione, nell'assicurazione, l'avente diritto, ne sono milioni, nel momento in cui la legge segna il momento della sua pensione, l'avrà senza discutere con nessuno, con una certezza assoluta”78. Così Jaurès e la maggioranza dei deputati socialisti si alleano con i “repubblicani di progresso”, rendendo possibile l'approvazione della legge sulle pensioni operaie e contadine. Per Jaurès e i suoi amici, l'obbligo di assicurazione resta inscritto nelle strutture del capitalismo, ma almeno preserva la dignità del lavoratore. Essa dà una certa sicurezza alla classe operaia rispettandone pienamente l'autonomia, a differenza del patronato. Un tale risultato, così laboriosamente acquisito, può sembrare assai derisorio. Le pensioni di vecchiaia erano infatti appena superiori all'allocazione per anziani indigenti approvata nel 1905. In più, appena un quinto dei 7 milioni di beneficiari poten78 Jean Jaurès, Chambre des députés, seduta del 12 luglio 1905, cit., ibidem.

ziali furono effettivamente coperti dalla pensione, e lo stesso principio dell'obbligo fu ben presto aggirato 79. Aggiungendovi anche la legge del 1898 sugli infortuni sul lavoro e le differenti leggi che estendono un diritto ai soccorsi ad alcune categorie di indigenti incapaci di lavorare, è comunque tutta qui la parte essenziale della legislazione di protezione sociale dei quarant'anni di regime repubblicano che precedono la Prima guerra mondiale. Bilancio ben misero, sicuramente, sul versante dei risultati pratici. Numa Murard ha allora ragione nel dire: “Si può pensare che il XIX secolo, fino al 1914, non ha prodotto che discorsi” 80, ma a condizione di aggiungere che questi “discorsi” renderanno possibile una ristrutturazione dell'ordine giuridico e soprattutto delle relazioni tra il patrimonio e il lavoro, che rappresenta il grande mutamento del XX secolo in materia di politiche sociali.

79 La giurisprudenza della Corte di Cassazione stabilisce che, se l'operaio non ha sottoscritto, il padrone è dispensato dalla necessità di versargli i contributi previdenziali. “L'obbligo” diventava così quasi facoltativo. Si può aggiungere che 65 anni è per l'epoca un'età che solo una minoranza di operai raggiungeva: “pensione per i morti”, dirà la contro-propaganda della CGT (Confédération Générale du Travail), che si oppone anche violentemente al principio della contribuzione operaia assimilata a una riduzione del salario. Il fallimento della legge del 1910 sarà ufficialmente riconosciuto dai promotori della legge sulle assicurazioni sociali nel 1932. “Dopo tutti i ministri del Lavoro, dopo tutti i revisori dei conti, noi non possiamo che constatare il fallimento di questo sistema” (rapporto di Édouard Gringa, Documents parlamentaires, Chambre des députés, annexe n. 5505, seduta del 31 gennaio 1932, p. 36). 80 Numa Murard, La protection sociale, Paris, La Découverte, 1989.

3. La proprietà o il lavoro Opere recenti hanno mostrato il ruolo fondamentale svolto dalla tecnologia assicurativa per ricomporre la sfera del diritto 81. Dissociando l'obbligazione legale dalla responsabilità individuale, il diritto sociale può tener conto della socializzazione degli interessi, conseguenza della solidarietà che unisce le differenti parti del corpo sociale. C'è così un collegamento diretto tra la concezione della società come insieme di parti interdipendenti e un modo pratico d'intervento su questa società: la tecnologia assicurativa. L'assicurazione attualizza un modello di solidarietà, anche se i sottoscrittori non ne sono coscienti. Un lavoratore non sottoscrive un'assicurazione per essere solidale con altri contribuenti, ma lo è. Il suo interesse dipende da quello degli altri membri del collettivo formato dagli assicurati, e reciprocamente. Un rischio individuale è “coperto” grazie al fatto che è assicurato nel quadro della partecipazione a un gruppo. La portata fondamentalmente innovativa del ricorso all'assicurazione attiene al fatto che fornisce una matrice operativa applicabile a un numero quasi infinito di situazioni. In altri termini, il principio della copertura del rischio non dipende dalla natura del rischio coperto. Si può essere “coperti” contro l'incidente, l'incendio, la grandine o le inondazioni, ma anche – e soprattutto – la malattia, la disoccupazione, la vecchiaia, la morte possono essere assimilate a dei rischi. Questi sono dei rischi più o meno probabili, o che è più o meno probabile che si verifichino in tale o talaltro momento, e queste occorrenze sono calcolabili. La vita 81 In particolare Jacques Donzelot, L'invention du social cit., e François Ewald, L'État providence, cit.

sociale è così, almeno tendenzialmente, assimilabile a un certo numero di rischi (sociali). Essere coperti contro l'insieme dei rischi significherebbe essere in sicurezza totale. Che cosa può fare lo Stato davanti a un tale ventaglio di possibilità82? Non certo coprire tutti i rischi, ancorché possa essere grande la tentazione di chiederglielo. Ma rispetto al suo ruolo di “gestore degli interessi collettivi” – per riprendere la formula di Dupont-White –, ve ne sono di particolarmente importanti, o di particolarmente significativi, perché hanno implicazioni nell'interesse collettivo e, al limite, minacciano la coesione sociale. Per esempio, l'infortunio sul lavoro non è solo un avvenimento sfortunato che capita a un operaio, è anche un fatto sociale di cui i rappresentanti dell'interesse generale possono chiedersi se sia accettabile, a quale costo, in che forma: se sia gestibile il più razionalmente possibile in nome dell'interesse comune. Alcuni individui sono particolarmente esposti ai rischi, mentre il loro lavoro rappresenta un interesse per tutti. La solidarietà, l'interdipendenza tra le parti del tutto sociale, legittima che si approntino loro delle compensazioni. L'impatto personale dell'infortunio non è che la conseguenza di una pratica di utilità collettiva. Risarcire le vittime o la loro famiglia non è che giustizia, nel senso che assume la giustizia sociale a partire dalla necessità di man82 Ben inteso, l'assicurazione può essere una pratica “privata” ed è nelle iniziative private che essa ha le proprie origini. Così l'assicurazione marittima nel Medioevo: i rischi enormi della navigazione marittima all'epoca rendevano necessario che fossero condivisi dai differenti finanziatori delle spedizioni mercantili. La Compagnie royale d'assurance, prima compagnia francese di assicurazione sulla vita, viene fondata nel 1797, ma si tratta, a dispetto del suo nome, di una compagnia privata. Allo stesso modo, le differenti mutue sono delle associazioni che funzionano secondo il principio dell'assicurazione, ma senza la garanzia dello Stato.

tenere la solidarietà della società83. Allo stesso modo, deve essere assicurata la vecchiaia perché è giusto che un lavoratore, che ha usato le proprie forze per un'impresa d'interesse collettivo, sia garantito dal bisogno, ecc. Queste implicazioni sono emerse con tale forza che è inutile insistervi nuovamente. Di contro, vi è un altro risvolto della promozione dell'assicurazione, importante almeno quanto la mutazione dell'ordine giuridico, che è stato trascurato dopo le intuizioni fondamentali enunciate da Henri Hatzfeld più di vent'anni fa. Si tratta di un mutamento della proprietà stessa, la fondazione di un tipo di proprietà sociale che non ha precedenti storici, benché abbia una genesi storica. Deve infatti attirare l'attenzione un paradosso, che contrassegna l'insufficienza delle riflessioni sull'assicurazione centrate solo sulle sue implicazioni giuridiche. L'assicurazione è una tecnologia universalistica. Essa apre la strada a una “società assicurativa”, come dice François Ewald, nella quale, almeno tendenzialmente, potrebbe essere coperto l'insieme dei rischi sociali. Si tratta anche di una tecnologia “democratica”, nel senso che tutti gli assicurati occupano una posizione omologa e intercambiabile in un collettivo. Tuttavia – è il paradosso da prendere sul serio –, le prime applicazioni dell'assicurazione obbligatoria sono state limitate alle categorie della popolazione minacciate di decadenza sociale. Il rischio coperto sotto differenti forme – infortunio sul lavoro, malattia, vecchiaia indigente – è infatti il rischio di transizione da una situazione vulnerabile a una situazione mi83 È l'obiettivo della legge del 1898 sugli incidenti di lavoro, il cui ruolo paradigmatico è stato ampiamente sottolineato da François Ewald, L'État providence, cit., per cui non lo riprendo qui.

serabile: il rischio che l'infortunio o la malattia rompa l'equilibrio precario del budget operaio, che la vecchiaia colga un salariato consumato e senza risorse, ecc. Lo scambio di posizioni evocato precedentemente nelle discussioni riguardanti l'obbligo di soccorso agli indigenti e in quelle concernenti l'obbligo di pensioni per salariati dell'industria e dell'agricoltura l'ha mostrato: alcuni accettano l'obbligo di soccorrere gli indigenti per evitare l'obbligo della pensione per i salariati, gli altri devono rassegnarsi a una soluzione per le pensioni operaie e contadine appena più soddisfacente di un diritto al soccorso per gli indigenti84. Così, in un primo tempo, è come se l'assicurazione avesse interpretato il ruolo di analogon dell'assistenza. In pratica, questo significa che sono obbligati ad assicurarsi coloro che rischierebbero di dover essere assistiti. Al di sopra di una fascia di reddito, l'assicurazione resta facoltativa. Le categorie sociali le cui risorse, che si tratti di un salario elevato o di un patrimonio, sembrano mettere a riparo dal bisogno sfuggono all'assicurazione obbligatoria. Le prime leggi di assicurazione validano dunque una linea di divisione tra le posizioni inferiori nella struttura sociale, che devono essere collettivamente assicurate, e le posizioni superiori, per le quali la sicurezza dipende dalle proprie risorse, cioè dai propri beni, dalle proprietà private. Pertanto, ai suoi inizi, l'assicurazione obbligatoria è ben lontana dal promuovere una sicurezza generalizzata. Essa non produce una rottura completa rispetto alla situazione anteriore, né determina il passaggio a un nuovo regime di razionalità 85. Essa 84 Cfr. Francis Netter, Les retraites en France au cours de la période 1895-1945, in “Droit social”, nn. 9-10, 1965, pp. 514-526. 85 È la riserva che si può avere verso l'impressionante costruzione di François Ewald, L'État providence, cit. Comprendere le condizioni di appli-

propone un nuovo paradigma per gestire gli antagonismi sociali, la cui messa in opera dipenderà da condizioni storico-sociali complesse. Questa constatazione solleva due difficili problemi. Perché in un primo tempo l'assicurazione, tecnologia universalistica, resta applicabile solamente alla presa in carico di situazioni particolari anche caratterizzate dalla loro indegnità sociale? E poi, quali condizioni hanno permesso di passare da un universalismo formale a un universalismo che si è incarnato divenendo la matrice di una società assicurativa? (Con, sullo sfondo, una terza questione al centro della congiuntura contemporanea: quali condizioni hanno destabilizzato l'universalismo della copertura assicurativa, collocandoci di nuovo oggi di fronte al rischio generalizzato dell'insicurezza sociale?). Per affrontare tali questioni, la riflessione deve prendere in considerazione le nuove relazioni che si annodano, all'inizio del XX secolo, tra lavoro (salariato), sicurezza e proprietà. I primi beneficiari dell'assicurazione non hanno che il proprio lavoro per sopravvivere. Sono i proletari collocati al di fuori dell'ordine della proprietà. Essi incarnano l'opposizione tra la proprietà e il lavoro, che si è poi sempre tradotta nell'opposizione fra la sicurezza e l'insicurezza. Assicurare questi non-proprietari non cambierà solo la relazione tra lavoro e sicurezza, ma anche le relazioni tra proprietà e lavoro. Si seguirà la strada aperta da Henri Hatzfeld quando ha proposto di cogliere “la difficile mutazione dalla sicurezza-proprietà alla sicurezza-diritto” 86. Ma si vorrebbe anche dimostrare che questo passaggio segna la prima tappa di una cazione dell'assicurazione esige l'analisi delle trasformazioni del salariato. 86 Henri Hatzfeld, La difficile mutation de la sécurité-propriété à la sécurité-droit, in “Prévenir”, n. 5, 1982.

transizione che porterà alla “società salariale moderna”, una società nella quale l'identità sociale si fonda sul lavoro salariato piuttosto che sulla proprietà. Charles Gide dichiara nel 1902: “Per ciò che concerne la classe possidente, la proprietà costituisce una istituzione sociale che rende gli altri pressoché superflui”87. Ciò vuol dire, a contrario, porre tutto il campo del sociale nello spazio di una mancanza, la mancanza di proprietà. E, di fatti, fino a questa data (1902), la maggior parte delle conquiste “sociali” tenta di compensare, bene o male, e piuttosto male che bene, l'assenza d'autonomia, autonomia che dà solo la proprietà. Qui risiede il nodo della questione sociale: la maggioranza dei lavoratori è nel migliore dei casi vulnerabile e spesso miserabile finché resta priva delle protezioni legate alla proprietà. Ma posta in questi termini, cioè nel quadro di una opposizione assoluta lavoro/proprietà, la questione resta insolubile. La riformulazione della questione sociale consisterà non nell'abolire l'opposizione proprietario/non proprietario 88, ma nel ridefinirla, cioè nel giustapporre alla proprietà privata un altro tipo di proprietà, la proprietà sociale, di modo che si possa restare al di fuori della proprietà privata senza essere a corto di sicurezza. Si tratta certo di un cambio di registro. La sicurezza sociale procede come una sorta di trasferimento di proprietà attraverso la mediazione del lavoro e sotto l'egida dello Stato. Sicurezza e 87 Charles Gide, Économie sociale, Paris, Larore et Tenin, 1905, p. 6. 88 Salvo che per le opzioni “collettiviste”, le quali militano per l'abolizione della proprietà privata, ma esse non hanno prevalso, almeno in Europa occidentale. Si potrebbe dire che una rivoluzione del tipo di quella che ha trionfato in Russia nel 1917 ha imposto l'altra opzione, quella “collettivista”, della questione sociale.

lavoro diverranno sostanzialmente correlati perché, in una società che si riorganizza intorno al salariato, è lo stato dato al lavoro che produce l'omologo moderno delle protezioni tradizionalmente assicurate dalla proprietà. È l'esito di un lunghissimo percorso di cui bisogna prendersi la briga di tracciare le tappe, perché è certamente di questa storia che noi siamo oggi, nel senso forte del termine, gli eredi. Il problema di stabilire nuove relazioni tra lavoro e proprietà si è posto, e già in forme complesse, sin dall'epoca rivoluzionaria. Innanzitutto, sotto la forma dell'aporia politica che pone la massa di tutti coloro che sono fuori della proprietà e che rappresentano la maggior parte del mondo del lavoro. Come reintrodurre nel patto sociale questo “quarto ordine” formato da tutti coloro che non hanno nulla, e che, pertanto non sono niente 89? Al momento dei dibattiti che precedono il voto della Costituzione del 1793, il rappresentante Harmand si esprime così: Gli uomini che vorranno essere sinceri riconosceranno con me che dopo aver ottenuto l'uguaglianza politica di diritto, il desiderio più attuale e più attivo è quello dell'uguaglianza di fatto. Dico di più, dico che senza il desiderio o la speranza di questa uguaglianza di fatto, l'uguaglianza di diritto non sarebbe che un'illusione crude89 Cfr. Louis-Pierre Dufourny de Villiers, Cahiers du quatrième ordre, cit. Dalla fine del 1789, Lambert, ispettore degli apprendisti dell'Hôpital général, che diverrà membro del Comité de mendicité, interpella l'Assemblea Costituente, chiedendole di creare un comitato incaricato “di applicare in modo particolare per la protezione e la conservazione della classe non proprietaria i grandi princìpi di giustizia decretati dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e nella Costituzione”. Il Comité pour l'extinction de la mendicité è istituito in risposta a questa iniziativa (cfr. Louis-Ferdinand Dreyfus, Un philanthrope d'autrefois, cit., p. 147).

le che, in luogo dei giovamenti che ha promesso, non farà provare che il supplizio di Tantalo alla parte più utile e più numerosa dei cittadini90.

E Harmand pone la questione fondamentale: come “le istituzioni sociali possono procurare all'uomo questa uguaglianza di fatto che la natura gli ha rifiutato, senza danno alle proprietà terriere e industriali? Come riuscirci senza la legge agraria e senza la divisione delle fortune91?”. Marcel Gauchet vede qui, a giusto titolo, il nodo della questione sociale moderna e l'aporia fondamentale con cui va a scontrarsi il regime repubblicano, “il fallimento nella costituzione di un'organizzazione dei poteri che traduca in maniera adeguata la libertà e l'uguaglianza dei cittadini”, l'impossibilità di completare la Dichiarazione dei diritti dell'uomo con l'introduzione di diritti sociali. E a ragione: come promuovere all'epoca una tale “uguaglianza” “senza danno alle proprietà terriere e industriali […] senza la legge agraria e senza la divisione delle fortune 92?”. Impossibile senza un cambio di sistema di riferimento che sarà proprio l'assicurazione obbligatoria. Ma, in mancanza di una tale “soluzione”, che non è realizzabile e forse neanche davvero pensabile alla fine del XVIII secolo 93, i rivoluzionari ne hanno tenta90 Discorso del 15 aprile 1793, Archives parlamentaires, t. LXII, p. 271, cit. in Marcel Gauchet, La révolution et les droits de l'homme, cit. p. 214. 91 Ibidem. 92 Ivi, p. 201. 93 Benché la riflessione sulla previdenza abbia rappresentato una componente importante del pensiero rivoluzionario. Cfr. il “Quatrième Rapport” del Comité pour l'extinction de la mendicité redatto da La Rochefoucauld-Liancourt e soprattutto Jean-Antoine-Nicolas de Caritat marquis de Condorcet, Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humaine. Ouvrage posthume de Condorcet (Paris, chez Agasse rue

te altre tre, tra le quali non hanno veramente scelto e che non hanno potuto perseguire fino in fondo. Esse sono altrettante variazioni sull'opposizione tra proprietà e lavoro, che si sforzano di ridurre. Richiamo della prima risposta: l'abbinamento diritto all'assistenza/libero accesso al lavoro garantirebbe una sicurezza minima alle “classi non proprietarie”, sia per coloro che sono incapaci di lavorare (diritto all'assistenza), sia per i validi ormai certi di trovare del lavoro. Ma si è visto (cfr. cap. IV) che il diritto all'assistenza non è sopravvissuto al Termidoro e che l'apertura del mercato del lavoro, al posto di abolire la dipendenza e la miseria dei lavoratori, ha aperto la strada al pauperismo. La seconda via, imboccata parallelamente, è consistita nel tentare di generalizzare l'accesso alla proprietà. Essa è già presente nei lavori del Comité de mendicité. Questo, convinto che la povertà si estingue con la proprietà e si allevia col lavoro, esaminerà se non debba proporre all'Assemblea di cogliere l'occasione attuale per aumentare il numero dei proprietari ordinando che la parte dei beni demaniali ed ecclesiastici di cui la nazione progetta l'alienazione sia venduta in piccolissimi lotti, sufficienti tuttavia per far vivere una famiglia e messi così alla portata del maggior numero di acquirenti94. des Poitevins n. 18, l'an III de la Republique, une et indivisible, 1794; trad. it. Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Torino, Einaudi, 1969), il quale, nel Decimo periodo, “Dei progressi futuri dello spirito umano”, intende applicare “la matematica sociale” alla riduzione delle ineguaglianze. Ma questa previdenza resta volontaria e, a differenza di quel che concerne il diritto al soccorso, questi “punti di vista” non ricevettero alcun principio di esecuzione. 94 Camille Bloch, Alexandre Tuetey, Procès Verbaux, cit., “Plan de travail”, pp. 318-319.

La Rochefoucauld-Liancourt, d'altronde, era relatore anche del Comité d'alienation incaricato della vendita dei beni nazionali. Egli vi difenderà questa posizione, apparentemente senza successo poiché si sa che la vendita di questi beni è stata fatta essenzialmente a vantaggio di coloro che erano già proprietari. Lo stesso vale per la proposta similare di distribuire agli indigenti i beni demaniali che essi “fertilizzerebbero con il loro lavoro” 95. Questa era una proposta anche del rapporto Barère che apriva nel 1794 il Livre de la bienfaisance nationale96. Spinta all'estremo, questa opzione abolirebbe l'opposizione proprietario/non proprietario universalizzando l'accesso alla proprietà. Essa è profondamente inscritta nell'immaginario sociale del periodo rivoluzionario. “La privazione della proprietà per una gran classe di uomini sarà sempre, in qualunque costituzione sia, un principio permanente e necessario di povertà” 97. Ideale di una repubblica di piccoli proprietari devoti alla patria perché vi sono legati attraverso i loro beni, e di preferenza attraverso la 95 Ibidem. “L'Assemblea nazionale […] può attaccare con forza la povertà aumentando il numero dei proprietari; le circostanze attuale gliene danno la felice facoltà che essa non si lascerà sfuggire, perché non potrà riproporsi. Da quindici a venti milioni di arpenti, dipendenti da beni demaniali, languono senza utilità sotto l'aridità delle lande, sotto il fango delle paludi o sotto la tirannia degli usi. Queste terre restituite alla coltura da braccia indigenti, che sarebbero ripagate di una parte del loro lavoro attraverso la cessione di una parte del terreno che essi avrebbero reso fertile, li preserverebbero per sempre dalla miseria, diffonderebbero e assicurerebbero l'agiatezza nelle famiglie sfortunate, e le legherebbero così alla loro patria per il loro interesse e per il vostro beneficio” (Quatrième Rapport”, p. 388). 96 Bertrand Barère de Viauzac, Rapport sur les moyens d'extirper la mendicité, cit. 97 Camille Bloch, Alexandre Tuetey, Procès Verbaux, cit., “Plan de travail”, p. 315.

loro terra. “Bisogna dare della terra a tutti”, dice Saint-Just 98. Questo ideale è ancora quello delle élites politicamente più “avanzate” come Saint-Just, ma è anche un'aspirazione popolare. Albert Soboul sottolinea che una delle istanze sociali più radicali per l'epoca sia posta alla Convenzione il 2 settembre 1793 dalla sezione dei sanculotti del Jardin des Plantes. Essa richiede “che lo stesso individuo non possa possedere che un massimo, che nessuno possa detenere più terra di quanta ne occorra per una quantità determinata di aratri; che lo stesso cittadino non possa avere che un atelier, che una boutique”99. Così, aggiungono i firmatari, queste misure “farebbero sparire a poco a poco l'eccessiva ineguaglianza delle fortune e accrescere il numero dei proprietari”100. Un tale ideale sopravvivrà alla Rivoluzione, sia nel popolo sia tra i riformatori sociali. Il primo di questi ultimi, cronologicamente parlando, Sismonde de Sismondi, resta molto vago sui rimedi richiesti per combattere i misfatti dello sviluppo selvaggio dell'economia, salvo che su un punto: bisogna procedere a una riforma agraria, limitata ma necessaria per “fissare nei campi il maggior numero possibile di lavoratori”101. La riterritorializzazione sarà un riferimento ricorrente nella maggior parte delle soluzioni proposte per realizzare “l'estinzione del pauperismo”, ivi compreso Luigi-Napoleone Bonaparte che propone di ripartire i 98 Louis-Antoine-Léon Saint-Just, Fragments sur les institutions républicaines, ouvrage posthume de Saint-Just, précédé d'une notice par Ch. Nodier, Paris, C. Techener, 1831, cit. in Maurice Bouvier-Ajam, Histoire du travail en France, cit., t. II, p. 30. 99 Cit. in Albert Soboul, Paysans, sans-culottes et jacobins, cit., p. 133. 100 Ibidem. 101 Léonard Sismonde de Sismondi, De la richesse territoriale, in “Revue mensuelle d'économie politique”, n. 2, 1834, p. 15.

beni comunali tra gli indigenti senza lavoro 102. Queste aspirazioni a un “ritorno alla terra” si protrarranno nel tardo XIX secolo e oltre, non solamente con Le Play, per esempio, ma anche in seno al personale politico della III Repubblica103. Bisogna ricordare anche le nostalgie rurali del regime di Vichy? Ma, sotto forma di una redistribuzione diretta della proprietà, questa opzione non ha avuto affatto incidenze pratiche, né poteva averne tenuto conto dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione: essa presuppone in effetti la contrazione del salariato quando invece l'instaurazione della società industriale lo insedia e lo sviluppa. Tuttavia, non è completamente assente in epoca rivoluzionaria una terza opzione, che passa da una relativizzazione della proprietà privata a profitto della sua funzione sociale. Essa può rifarsi alla tradizione rousseauista: “La mia idea […] non è di distruggere assolutamente la proprietà particolare, perché questo è impossibile, ma di contenerla nei limiti più stretti possibili. Io voglio, in una parola, che la proprietà dello Stato sia quanto più grande, più forte possibile e quella del cittadino quanto più picco102 Cfr. Louis-Napoléon Bonaparte, L'extinction du paupérisme, in Œuvres complètes de Louis-Napoléon Bonaparte; avec un portrait de l'auteur et la vue de son cabinet de travail dans la citadelle de Ham; publiées par M. Charles-Édouard Temblaire, cit. 103 Cfr. Jules Méline – ardente difensore di una politica protezionistica in favore dei contadini –, Le retour à la terre et la surproduction industrielle, Paris, Hachette, 1905. Ancora nel 1923, il relatore del progetto di legge sulle assicurazioni sociali si esprimeva così alla Camera dei Deputati: “Noi conosciamo tutti i danni della diserzione delle campagne; la nostra salvezza è nel ritorno alla terra” (Documents parlamentaires, Chambre des députés, annexe n. 5505, seduta del 31 gennaio 1923, p. 53).

la, più debole possibile”104. L'abate de Mably, discepolo di Rousseau, contesta anche che l'ordine della società possa essere fondato sulla consacrazione della proprietà privata105. Si tratta di una posizione marginale? I costituenti hanno certamente inscritto il diritto di proprietà tra i diritti dell'uomo e la Convenzione stessa ha votato all'unanimità una legge che punisce con la morte “chiunque proporrà o tenterà di stabilire leggi agrarie o ogni altra legge o misura sovversiva delle proprietà terriere, commerciali o industriali”106. Ma queste disposizioni possono leggersi in due maniere: come una difesa incondizionata della proprietà privata o come il riconoscimento del suo carattere eminentemente sociale. Si è senza dubbio avuto torto a privilegiare troppo la prima interpretazione. “Occorre dirlo ancora? Nessun uomo è veramente cittadino se non è proprietario. Che cosa è la patria? Il suolo su cui si è nati. E come amarla se non vi si è connessi da alcun legame? Colui che non ha che da scuotere la polvere dai propri piedi per lasciare un paese può amarlo?” 107. Sullo 104 Jean-Jacques Rousseau, Projet de Constitution pour la Corse, in The Political writing of J.J. Rousseau, edition from the original manuscripts and authentic editions, with introductions and notes by C.E. Vaughan, Cambridge, Cambridge University Press, 1915, 2 voll., t. II, p. 337; trad. it. Progetto di costituzione per la Corsica, in Id., Scritti politici, a cura di Eugenio Garin, Bari, Laterza, 1971, 3 voll., t. 3. 105 Gabriel (abbé) de Mably, Doutes proposés aux philosophes économistes, sur l'ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, pour M. l'abbé de Mably, La Haye-Paris, Nyon, 1768; trad. it. Dubbi sull'ordine naturale delle società, in Scritti politici, a cura di Aldo Maffey, Torino, UTET, 1965, 2 voll., t. 2. 106 Legge del 18 marzo 1793, cit. in Maurice Bouvier-Ajam, Histoire du travail en France, cit., t. II, p. 30. 107 Adrien Duquesnoy, Journal d'Adrien Duquesnoy, député du tiers état de Barle-Duc, sur l'Assemblée constituante, 3 mai 1789-3 avril 1790, publié par Robert de Crévecoeur, Paris, Picard et fils, 1894, 2 voll., t. I, p. 498.

sfondo, l'immagine del vagabondo, del “piede polveroso” senza fede né legge perché è senza fuoco né luogo. La proprietà è ciò che fonda l'esistenza sociale perché essa incastra e territorializza. È il rimedio, e senza dubbio per l'epoca il solo rimedio, contro il male sociale supremo: la disaffiliazione. La proprietà, dunque, non si riduce per nulla al suo valore economico. Essa non è neanche assimilabile ai godimenti privati che dispensa. Essa rappresenta lo zoccolo duro su cui si edifica ogni appartenenza sociale. Così si può comprendere non come espressione demagogica o deriva nell'estremismo politico il decreto dell'8 ventoso dell'anno II, che sequestra i beni dei nemici della Rivoluzione per indennizzare i cittadini diseredati. SaintJust dichiara a tal proposito: “La Rivoluzione ci ha portati a riconoscere il principio secondo il quale colui che si è mostrato nemico del suo paese non vi può essere proprietario... Le proprietà dei patrioti sono sacre, ma i beni dei cospiratori sono là per gli sventurati”108. Traduzione possibile: è la proprietà a fare il cittadino, ma la cittadinanza non è il semplice godimento privato dei beni personali, essa fonda anche un insieme di doveri sociali. Come non si può essere veramente cittadino senza essere proprietario, così non si ha il diritto di essere proprietario senza essere nello stesso tempo cittadino, cioè, nel linguaggio di Saint-Just, “patriota”. Sì alla proprietà dunque, ma limitata nella sua estensione, controllata nei suoi usi e rapportata alla sua utilità sociale. Anche per Robespierre, “l'uguaglianza dei beni è una chimera”, ma “l'estrema dispersione delle fortune è la fonte di tanti mali e di tanti crimini”109. 108 Cit. in Maxime Leroy, Histoire des idées sociales en France, Paris, Gallimard, 1946-1954, 3 voll., t. II, p. 272. 109 Maximilien Robespierre, Projet de Déclaration des droits à la Conven-

Questa interpretazione “moderata” della posizione dell'ala più radicale della Montagna sembra giustificata dal fatto che il carattere sociale di certe proprietà è stato esplicitamente riconosciuto dalla maggioranza delle correnti politiche che hanno fatto la Rivoluzione. Così, la confisca da parte della nazione dei beni ecclesiastici e delle fondazioni caritatevoli è stata proposta da uno spirito misurato quale il duca de La Rochefoucauld-Liancourt e ha raccolto un largo consenso. Perché? Perché questi beni sono destinati al servizio dei poveri. È, dunque, un atto di giustizia che essi alimentino l'erario al fine di promuovere una migliore organizzazione di questo servizio sociale. Ma ciò riguarda solo questo tipo di beni, la cui utilità sociale è riconosciuta perché sarebbero, tutto sommato, la proprietà dei poveri? Già il 10 agosto 1789, al momento della discussione all'Assemblea nazionale sulla soppressione della decima ecclesiastica, Mirabeau pronuncia un discorso sbalorditivo: Io non conosco che tre maniere di essere nella società: mendicante, ladro o salariato. Il proprietario stesso non è che il primo dei salariati. Quel che noi chiamiamo volgarmente la sua proprietà non è che il prezzo che gli paga la società per le redistribuzioni che è incaricato di fare agli altri individui attraverso i suoi consumi e le sue spese: i proprietari sono gli agenti, gli economi del corpo sociale110. tion, 23 avril 1793. così si può comprendere come per Robespierre la proprietà dovrebbe essere “il diritto di ogni cittadino di godere e di disporre della porzione di beni che gli è garantita dalla legge”. 110 Cit. in Maxime Leroy, Histoire des idées sociales en France, cit., p. 185. Honoré Gabriel Roqueti comte de Mirabeau esplicita il suo pensiero il 2 aprile del 1791: “Noi possiamo guardare al diritto di proprietà nel modo in cui lo esercitiamo come una creazione sociale. Le leggi non pro-

Stupefacente in effetti osservare il termine “salariato” assunto come quasi-sinonimo di “proprietario”, tenuto conto dell'indegnità sociale attribuita all'epoca al salariato. Ma Mirabeau abbozza qui una concezione della proprietà come servizio pubblico: il proprietario è assimilabile a un economo che anima l'attività del corpo sociale con i suoi ordinativi e le sue spese, e così lo irriga con le sue ricchezze. Come un economo, potrebbe essere considerato responsabile di questa sorta di mandato sociale che esercita. Così, nel fermento del periodo rivoluzionario, sembra essersi modellata una ridefinizione della proprietà privata, a partire dalle funzioni sociali che svolge. A ben riflettere, questa posizione non è così originale come sembra. È, piuttosto, l'egemonia di una concezione puramente privata della proprietà a essere problematica. In effetti, nella “vecchia società”, la proprietà era comunemente una proprietà sociale: i privilegi corporativi erano la proprietà collettiva del mestiere, non quella dei lavoratori individuali; le terre comuni rappresentavano una forma di proprietà collettiva essenziale nell'economia preindustriale; la proprietà feudale stessa non era un patrimonio riducibile al suo valore di mercato, ma un insieme di prerogative sociali e giuridiche annesse alla terra. Certo, il liberalismo vuole abolire questi “arcaismi” e fare della proprietà – come del lavoro – una merce, ma come la contrattualizzazione dei rapporti di lavoro sarà un fattore di dissociazione sociale, così la privatizzazione completa della proprietà rischia di atomizzare il corpo sociale in un pulviscolo di individui proprietari. Una teggono, né mantengono soltanto la proprietà, esse in qualche modo la fanno nascere” (ivi, p. 270).

semplice associazione di proprietari sovrani può fare una società? Quando si impone la parola d'ordine di “terminare la rivoluzione”, mettendo fine ai disordini politici e all'instabilità sociale, sono numerosi coloro che dubitano che un ordine stabile possa riposare sul godimento incondizionato di un patrimonio privato. Contentiamoci della testimonianza di Auguste Comte: In ogni stato normale dell'umanità, ogni cittadino qualunque costituisce realmente un funzionario pubblico le cui attribuzioni più o meno definite determinano sia gli obblighi che le pretese. Questo principio universale deve estendersi fino alla proprietà, in cui il positivismo riconosce soprattutto un'indispensabile funzione sociale, destinata a formare e ad amministrare i capitali attraverso i quali ogni generazione prepara le opere della seguente111.

Così, la concezione della proprietà patrimonio inviolabile e sacro di un individuo sovranamente libero di disporne non va da sé. È certo inscritta nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e nel Codice napoleonico e domina gli scambi mercantili, ma è eccessivamente riduttivo ricondurre l'immenso fermento di idee, che ha accompagnato e seguito la Rivoluzione, alla promozione di questa proprietà “borghese”, unico fondamento dell'ordine sociale. Non sono solo i sostenitori della sua abolizione, i “collettivisti”, a contestare il suo carattere assoluto. L'attenzione verso le sue funzioni sociali la riavvicina al lavoro. Essa è allora ciò che anima l'attività della società (Mirabeau), ciò che assicura 111 Auguste Comte, Système de politique positive ou Traité de sociologie, intituant la religion de l'humanité, Paris, 10, rue Monsier-le-Prince, 1890-1895, 4 voll., t. I, p. 156.

con le sue “opere” la continuità tra una generazione e la seguente (Comte). Insomma, la proprietà privata è anche sociale, se si prendono in considerazione i suoi usi e non solo il suo modo di appropriazione. La sua separazione assoluta rispetto al lavoro sembra tanto più contestabile quanto più è questo, in ultima analisi, la fonte della ricchezza. Ma, nella sua accezione liberale, permane un divorzio tra gli usi e il modo di appropriazione della proprietà. Essa è giustificata per la sua utilità sociale (è così che i padroni giustificheranno costantemente la loro preminenza: è l'impresa che permette ai lavoratori di esistere), ma il suo possessore privato resta il giudice sovrano del suo utilizzo. Si può superare questa contraddizione che attraversa la concezione puramente liberale della proprietà e, almeno per certi usi, riconoscerla in sé e mettere al primo posto la sua utilità collettiva? Si definirebbe così una proprietà sociale che sfuggirebbe all'arbitrio degli usi privati e sarebbe al servizio dell'interesse generale.

4. La proprietà di transfert La tematica della proprietà sociale diviene, a partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento, oggetto di un dibattito fondamentale. I “repubblicani di progresso” vi si giocano la possibilità di fondare la Repubblica, occupando una posizione equidistante tra individualismo e socialismo. È questa l'idea direttrice di lavori importanti, come le opere di Alfred Fouillée 112, di Émile de Lave-

112 Alfred Fouillée, La propriété sociale et la démocratie, Paris, Hachette, 1884.

leye113 o di Léon Duguit114. Laveleye mobilita contro Thiers le risorse dell'etnologia nascente per stabilire che “la piena proprietà applicata alla terra è una istituzione molto recente”115 e per fondare la proprietà sull'utilità generale. Duguit arriva a dichiarare: “La concezione della proprietà diritto soggettivo sparisce per far posto alla concezione della società funzione sociale” 116. La proprietà sociale è al cuore dello sviluppo dei servizi pubblici. Questi rappresentano beni collettivi che dovrebbero permettere una riduzione delle ineguaglianze, mettendo a disposizione di tutti delle opportunità comuni, e prima di tutto l'istruzione 117. In tal modo, si potrà dare un contenuto concreto alle funzioni dello Stato repubblicano, quali Barni le caratterizza nel Manuel républicain, che fu un po' la bibbia, evidentemente laica, del regime: “Lo Stato è l'insieme dei poteri pubblici incaricati di regolare e di amministrare il paese tutto”118. L'aporia che sollevava il convenzionale Hammond – “Come le istituzioni sociali possono procurare all'uomo quell'uguaglianza di fatto che la natura gli ha rifiutato senza danno alle proprietà 113 Émile Louis Victor de Laveleye, De la propriété et de ses formes primitives, Paris, Alcan, 1891. 114 Léon Duguit, Le droit social, le droit individuel et la tranformation de l'État, conférences faites à l'École des hautes études sociales, Paris, Alcan, 1908; trad. it. Il diritto sociale, il diritto individuale e la trasformazione dello Stato, Firenze, Edizioni Leonardo – Casa editrice Sansoni, 1950. 115 Émile Louis Victor de Lavaleye, De la propriété et de ses formes primitives, cit., p. 542. 116 Léon Duguit, Le droit social, le droit individuel et la transformation de l'État, cit., p. 148. 117 Cfr. Claude Nicolet, L'idée republicaine en France, 1789-1924, cit., specialmente il cap. X. 118 Jules Barni, Manuel républicain, Paris, Germer Baillière, 1872, p. 420.

terriere e industriali”119 – è superata? In un certo senso sì, se non si confonde eguaglianza ed egualitarismo: le istituzioni sociali promuovono una partecipazione di tutti alla “cosa pubblica”. La società comincia, come dice Léon Bourgeois, “ad aprire a tutti i suoi membri i beni sociali che sono comunicabili a tutti” 120. Lo sviluppo della proprietà sociale e dei servizi pubblici rappresenta così la realizzazione del programma solidaristico, contro l'individualismo-egoismo del liberalismo classico. L'importanza della proprietà collettiva, che non si confonde con il collettivismo, è confermata dal fatto che gli orientamenti moderati del partito operaio, i “possibilisti” 121, ne fanno anch'essi la base delle trasformazioni sociali da introdurre per combattere l'egemonia della borghesia. Essi vedono nei servizi pubblici, ossatura dello Stato, la concretizzazione del lavoro umano indebitamente confiscato dalla classe capitalista. L'avvento del socialismo, nella sua versione possibilista, potrebbe poggiarsi sulla riappropriazione, sotto forma di servizio pubblico, dell'utilità sociale del lavoro umano. I governi cambiano con le diverse classi che compiono la conquista del potere, ma lo Stato resta e continua il suo sviluppo normale trasformando a poco a poco ogni cate119 “Archives parlamentaires”, t. LXII, p. 271. 120 Cfr. supra, Léon Bourgeois, Deux Discours de M. Léon Bourgeois, cit., p. 22. 121 Si chiamano “possibilisti” o “broussistes” i socialisti che vogliono sfruttare le possibilità di riforme parziali in seno al regime capitalistico. Essi si oppongono ai fautori di una trasformazione radicale e immediata della società, sia che si tratti della tendenza marxista guidata da Jules Guesde o del sindacalismo di azione diretta (cfr. Georges Weill, Histoire du mouvement social en France, 1852-1902, Paris, Alcan, 1904, pp. 224 sgg.).

goria del lavoro umano e appropriandosene col nome e sotto forma di servizio pubblico. Lo Stato è l'insieme dei servizi pubblici già costituiti122.

Però, questa forma di proprietà sociale, incarnata nei servizi pubblici, resta una proprietà collettiva anche nel senso che è impersonale. Non è appropriabile da parte di un individuo particolare. Pertanto, essa gli sarà di scarso aiuto al verificarsi di quegli accidenti della vita personale che fanno di lui un soggetto socialmente vulnerabile, se è sprovvisto di proprietà privata: la malattia, la disoccupazione, la vecchiaia... In queste circostanze – che possono divenire la sua condizione permanente, come tutta la vita dopo la cessazione d'attività –, il lavoratore non può accontentarsi di essere un utente collettivo dei servizi pubblici. Egli ha anche bisogni personali, che deve soddisfare con mezzi personali, come per esempio continuare a nutrirsi e ad avere casa dopo il suo periodo di attività, ma non ha un patrimonio privato. Può esistere un patrimonio personalmente attribuibile che non sia privato – dunque che sia sociale –, ma suscettibile di una fruizione privata? La vera e propria pietra filosofale, che dà una risposta all'aporia formulata da Hammond, è stata trovata: sono le 122 Paul-Louis-Marie Brousse, La propriété collective et les services publics, Paris, 1883, in opuscolo. Qui è citata la riedizione del 1910, Paris, Bureaux du “Prolétaire”, p. 27. Si può vedere qui l'abbozzo della dottrina delle nazionalizzazioni che si preciserà nel periodo tra le due guerre nel movimento del socialismo riformista. Henri de Man, che ne fu il primo teorico, la caratterizza così: “L'essenza della nazionalizzazione è meno il trasferimento della proprietà che il trasferimento dell'autorità; o, più esattamente, il problema dell'amministrazione viene prima di quello del possesso e dei cambiamenti nel sistema d'autorità richiesto dall'economia diretta”. Cit. in Peter Dodge (ed.), A Documentary Study of Hendrik de Man, Socialist critic of Marxism, Princeton, Princeton University Press, 1979, p. 303.

prestazioni dell'assicurazione obbligatoria, un patrimonio la cui origine e le cui regole di funzionamento sono sociali, ma che svolge funzione di patrimonio privato123 C'è dunque una breccia pericolosa nell'egemonia della proprietà privata e niente lo dimostra meglio dell'opposizione di Adolphe Thiers, guardiano vigile dell'ordine proprietario. Nel 1848 e nel 1850, anni caldi quant'altri mai, egli pubblica due testi la cui convergenza è evocativa. De la propriété124 è una difesa e un'illustrazione violenta della proprietà, che utilizza tutti gli argomenti filosofici e storici possibili per giustificare ciò che si è in diritto di chiamare la sua concezione “borghese”. Thiers reinterpreta liberamente tutta la storia e la filosofia per provare che la proprietà privata è il solo fondamento possibile di un ordine

123 Le prestazioni assicurative non sono tuttavia la sola forma di proprietà sociale appropriabile da parte degli individui. L'alloggio sociale rappresenta l'altra grande modalità della proprietà collettiva disponibile, a certe condizioni regolamentate, per un uso privato. Questo parallelismo tra le assicurazioni sociali e l'alloggio sociale come due grandi forme di messa a disposizione del “popolo” di una proprietà sociale per affrancarlo dalla sua vulnerabilità meriterebbe di essere approfondito, dalle prime “abitazioni a buon mercato”, la cui apparizione è pressappoco contemporanea delle prime forme di assicurazione sociale, ai grandi programmi di HLM (Habitation à Loyer Modéré), la cui espansione è più o meno parallela a quella della Sécurité sociale. Ma sviluppare questi punti esigerebbe l'apertura di nuovi cantieri. Tale riflessione invita tuttavia a non identificare le iniziative per combattere la vulnerabilità sociale con l'instaurazione di ciò che François Ewald chiama “la società assicurativa”. Per quanto essenziale sia, la tecnologia assicurativa è lontana dal coprire il campo della proprietà sociale, che mi sembra il concetto inglobante per sussumere l'insieme dello sviluppo del settore sociale a partire dall'instaurazione della III Repubblica. 124 Adolphe Thiers, De la propriété, Paris, Paulin, Lheureux et Cie, 1848; trad. it. La proprietà, Torino, Del Signore, 1960.

sociale. L'altro testo è il rapporto della Commission de l'assistance dell'Assemblea legislativa125. Questo rapporto non contiene solo una confutazione del diritto al lavoro e una difesa del carattere “virtuoso” che deve conservare la beneficenza, per non degenerare in carità legale (cfr. cap. V), ma formula anche una curiosa critica del progetto dell'Assemblea di costituire delle casse previdenziali. Tale critica è inattesa perché, come è stato sottolineato, la maggioranza degli specialisti del “miglioramento delle classi inferiori” è concorde nell'incoraggiare le diverse forme di risparmio mutualistico, a condizione che restino volontarie. Ma Thiers si mostra molto reticente verso una capitalizzazione, anche se volontaria, volta ad assicurare una pensione. Oppone le casse di risparmio alle casse di previdenza. Il deposito presso la cassa di risparmio è “sempre esigibile a richiesta, può servire all'operaio per la disoccupazione, per la malattia, per farsi imprenditore a sua volta, per sistemare la famiglia, per bastare alla sua vecchiaia” 126. Esso è “fecondo nei risultati materiali e morali”127 perché presenta tutti i caratteri della proprietà privata. Il risparmiatore è un minuscolo proprietario. Indubbiamente non diventerà mai uno che vive di rendita, ma il suo piccolo patrimonio lo pone già nella classe di coloro che meritano considerazione. È reintegrato nell'ordine proprietario tramite il risparmio privato. Di contro, la contribuzione a una cassa di previdenza non produce che risultati “limitati e poco morali”, e colui che si muo125 Id., Rapport général au nom de la Commission de l'assistance et de la prévoyance publique, par M. Thiers, Séance du 26 janv. 1850, Paris, Imprimerie Nationale, 1850. 126 Ivi, p. 114. 127 Ivi, p. 115.

ve in questa direzione “non è in definitiva che un egoista dalla visione molto ristretta”128. Il fatto è che il capitale così risparmiato è immobilizzato a beneficio del solo depositario, ma, soprattutto, “esso non deve più essere ritirato o preso in prestito per alcun altro bisogno, fino al giorno in cui comincerà la pensione” 129. Non rappresenta, dunque, un patrimonio privato nel senso pieno del termine, un bene di cui il possessore possa liberamente disporre e che possa trasmettere ai suoi eredi in un processo di accumulazione capitalistica. Perciò, anche se non si può proibire in modo assoluto, questo tipo di investimento è ben inferiore a quello nelle casse di risparmio. Il suo sviluppo data d'altronde “dal momento in cui le false dottrine, inventate per sedurre e ingannare la moltitudine, cominciarono ad alzarsi come il letto di un torrente che s'ingrossa prima di straripare” 130. Un tale modo di capitalizzazione è insomma contaminato da sospette affinità con il collettivismo. È pieno di debordamenti a venire. Un tale giudizio tradisce, senza dubbio, l'incapacità di Thiers e dei sostenitori del liberalismo puro a rappresentarsi il valore della proprietà in modo differente rispetto alla forma di patrimonio personale disponibile per il possessore e direttamente trasmissibile ai suoi discendenti. Ma, attraverso il timore che esprime, sospetta anche l'avvento di un altro tipo di proprietà, che non circolerebbe come il denaro e non si scambierebbe come una merce. Questa sarebbe più una prerogativa derivante dall'appartenenza a un collettivo, e il cui godimento dipende da un sistema di regole giuridiche, che un bene che si detiene in privato. 128 Ivi, p. 118. 129 Ibidem. 130 Ivi, p. 115.

La resistenza di Thiers nei confronti della capitalizzazione non ha nulla di aneddotico. Essa rappresenta il nocciolo duro di un'obiezione ricorrente rivolta all'obbligo di assicurazione. Thiers ne offre la versione estrema e anche estremista, senza dubbio perché, più lucido e più visceralmente legato a una concezione puramente privata della proprietà rispetto a molti altri liberali, egli percepisce meglio tutti i prerequisiti della tecnologia assicurativa, anche sotto forma di adesione volontaria; vale a dire che il ricorso all'assicurazione inscrive de facto il soggetto in un diagramma delle solidarietà in contraddizione con la definizione liberale della responsabilità e della proprietà. Questa implicazione diviene evidente quando si tratta di assicurazione obbligatoria. Pertanto, è questo stesso argomento che viene ripreso e ampiamente sviluppato un mezzo secolo più tardi, al momento del dibattito sulle pensioni degli operai e dei contadini. Denys Cochin, alla Camera dei deputati il 25 giugno 1901: Quando voi avrete dato all'operaio un curatore per obbligarlo a versare i suoi risparmi nelle vostre casse di previdenza, voi l'avrete privato di ben altri impieghi che egli avrebbe preferito. In campagna, egli acquista un campo, una casa, del bestiame; in città, degli utensili o una piccola azienda di commercio. Egli ha conosciuto l'accesso al padronato. Voi, voi lo mantenete nel salariato, esigendo un impiego esclusivo del suo piccolo capitale, imponendogli un solo tipo di collocamento. Vedete signori, il torto del vostro progetto è di dividere i cittadini in due classi, di separarli in due clan: quello dei padroni e quello dei salariati. In realtà, i due clan si compenetrano, le due classi si confondono. Voi cercate invano l'operaio parsimonioso sulle vostre liste di pensionati; egli è diventato

padrone, è diventato borghese, senza avvisarvi e senza aver bisogno di voi131.

A prima vista l'argomento sembra paradossale, se non addirittura in malafede: sono i sostenitori della legge sull'assicurazione obbligatoria, cioè grosso modo la sinistra parlamentare, a essere accusati di voler rinchiudere i salariati nella loro condizione subordinata. Tuttavia, è portatore di un'intuizione profonda. Come sottolinea Henri Hatzfeld, dispiegata, l'idea di assicurazione obbligatoria implica l'accettazione della specificità della società industriale e del carattere irreversibile della stratificazione sociale che essa comporta. Nella società industriale, la divisione dei compiti diventa sempre più spinta, ma anche la differenziazione sociale assume forme sempre più complesse, senza possibilità di tornare indietro. Non ci sono più soltanto proprietari e non-proprietari che potrebbero divenire proprietari grazie al merito. Il salariato ha assunto una posizione strutturale nella società: ci saranno sempre salariati, e sempre più salariati permanenti. Pertanto, può il paradigma del proprietario restare il solo ideale comune per tutti i membri della società e il solo garante della sicurezza? Questo significherebbe rassegnarsi al fatto che masse crescenti di persone – le stesse che sono indispensabili allo sviluppo della società industriale – si collochino definitivamente nella precarietà. Il problema non è piuttosto di stabilizzare il salariato e, se posso dire, di renderlo dignitoso? Che divenga uno status a pieno titolo, invece di continuare a essere pensato come uno stato provvisorio, che si potrebbe sopprimere o a cui si tenterebbe di sfuggire attraverso l'accesso alla proprietà. 131 Cit. in Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit., p. 88.

L'avvento dell'assicurazione sancisce dunque il riconoscimento del carattere irreversibile della stratificazione sociale nelle società moderne e il fatto che essa possa essere fondata sulla divisione del lavoro e non più solamente sulla proprietà. Al contrario, gli avversari dell'assicurazione obbligatoria difendono l'egemonia del modello del proprietario indipendente, della proprietà fondamento esclusivo della dignità sociale e della sicurezza. Tale ideale può essere incarnato dal grande proprietario terriero o dal redditiere, ma anche dall'artigiano, dal commerciante, dal piccolo contadino: comprare qualche arpento in campagna o qualche attrezzo per sistemarsi è anche un'aspirazione popolare132. Quindi, la modalità di risoluzione della questione sociale attraverso il solo accesso alla proprietà, contro l'assicurazione obbligatoria, non è propugnata solo dai possidenti e dai loro ideologi, che potrebbero essere accusati di difendere i loro privilegi di classe. Non si coglierebbe il senso dell'opposizione straordinariamente tenace all'assicurazione – soprattutto in Francia – se non si comprendesse che essa è quella di tutta la Francia proprieta132 L'argomento secondo cui l'obbligo di assicurazione impedisce al lavoratore di disporre liberamente dei propri risparmi per migliorare o cambiare la propria condizione è stato evidentemente applicato anche ai lavoratori rurali: “La previdenza dell'operaio agricolo deve farne un piccolo proprietario e non un piccolo redditiere. Per lui la pensione sarebbe un pericolo piuttosto che un bene se la sua prospettiva e i suoi versamenti lo hanno allontanato dalla terra, privato delle dignità e del godimento della proprietà” (Auguste Souchon, La crise de la main-d'œuvre agricole en France, Paris, Rousseau, 1914, p. 159, cit. in Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit., p. 284). Il “ritardo” dei contadini nell'entrare nel sistema della Sicurezza sociale dopo la fine della Seconda guerra mondiale dimostra a contrario i legami privilegiati esistenti tra questo sistema, l'industrializzazione e il salariato industriale. All'opposto, si potrebbe dire che i contadini sono rimasti molto a lungo prigionieri del modella della sicurezza-proprietà e del nocciolo più arcaico di questo modello: la proprietà della terra.

ria o aspirante tale: la Francia dei “piccoli” come quella dei “grandi”, la Francia bottegaia, quella delle tradizioni artigianali e della piccola proprietà rurale, la Francia anti-industriale. Bisognerà attendere che questa sia sconfitta, o quantomeno indebolita, perché si imponga la nuova concezione della sicurezza, la sicurezza sociale. Occorre attendere che lentamente, timidamente, tre passi avanti e due indietro, la società francese si ricalibri attorno al salariato. Viceversa, si capisce che l'accettazione del salariato a pieno titolo rappresenta una tappa decisiva della promozione della modernità: un modello di società nel quale le posizioni sociali sono definite essenzialmente dal posto occupato nella divisione del lavoro. È dunque un mutamento della proprietà che permetterà il realizzarsi della tecnologia assicurativa: la promozione di una proprietà di transfert nel senso stretto della parola133. Le somme risparmiate vengono prelevate automaticamente e obbligatoriamente; esse non possono essere ricollocate sul mercato dal loro beneficiario; il venirne in possesso è subordinato a certe circostanze o scadenze precise, come la malattia, l'età della pensione... Il versamento dei contributi è un obbligo inevitabile, ma genera un diritto inalienabile. La proprietà dell'assicurato 133 Cfr. Abram de Swaan, In Care of the State, cit., p. 153. È possibile che l'evoluzione del diritto commerciale e in particolare la costituzione delle società anonime (legge del 24 luglio 1867) abbiano potuto mettere sulla strada di questo tipo di proprietà collettiva. Alfred Fouillée pone d'altronde esplicitamente un legame tra l'associazione dei capitali e l'associazione delle quote assicurative: “Di fronte ai capitali associati, occorre che i lavoratori associno la loro previdenza e i loro risparmi, la cui forza è centuplicata dal regime delle assicurazioni” (Alfred Fouillée, La propriété sociale et la démocratie, cit., p. 146). La differenza considerevole è tuttavia che i membri di una società anonima possono in principio disporre a loro piacimento dei loro capitali, mentre questi sono immobilizzati per i soci di un'assicurazione.

non è un bene vendibile, è inserita in un sistema di vincoli giuridici e le prestazioni sono deliberate da agenzie pubbliche. Si tratta di una “proprietà tutelare”134, una proprietà per la sicurezza. Lo Stato, che se ne fa garante, svolge un ruolo protettivo. Non è tuttavia la “provvidenza”: non sparge benefici, ma assume il ruolo di guardiano di un nuovo ordine di distribuzione dei beni. Ecco il punto iniziale di quel che la teoria della regolazione definirà nella forma di socializzazione dei redditi, e che costituirà una parte sempre più importante dei redditi socialmente disponibili (cfr. il cap. VII). Il salario dunque non è più solamente la retribuzione del lavoro, calcolata nel modo più giusto per assicurare la riproduzione del lavoratore e della sua famiglia, ma comprende una parte – il “salario indiretto” – che costituisce una rendita da lavoro per situazioni fuori-lavoro. Tali situazioni sono dapprima definite negativamente: la malattia, l'infortunio, la vecchiaia improduttiva, pallide compensazioni del lavoro quando si dovrebbe lavorare. Ma esse potrebbero essere e saranno definite anche positivamente, come la possibilità di consumare, di istruirsi, di concedersi del tempo libero... Paradossalmente, questa proprietà legata al lavoro procurerà una base per liberarsi dall'egemonia del lavoro. Tuttavia, in un primo tempo la proprietà di transfert è soprattutto percepita come deficienza in rapporto alle prerogative piene e integrali del patrimonio “borghese”, in particolare rispetto alla possibilità di trasmetterlo alla propria discendenza. Ma, nello stesso tempo, essa svolge già perfettamente una funzione essenziale nella società industriale: preservare la classe operaia dalla destituzione sociale. Questa doppia caratteristica è perfet134 Abram de Swann, In Care of the State, cit.

tamente esaminata da un autore che trae, sul finire del secolo, le conseguenze sulla famiglia operaia di queste misure ancora in progetto: Mentre la trasmissione del patrimonio della famiglia borghese avviene tramite testamento o ab intestato, per la famiglia operaia non è più questione di trasmissione tramite testamento; quanto alla successione ab intestato, essa non è più regolata in modo uniforme, ma dipende dalle leggi e dai regolamenti adottati dalle diverse istituzioni che hanno per scopo la creazione di questo patrimonio per l'operaio. Come abbiamo appena detto, la questione della libertà di fare testamento qui non si pone, perché le diverse istituzioni di previdenza non si propongono di formare un patrimonio di cui l'operaio potrebbe disporre per testamento a sua guisa, ma di proteggere la sua famiglia, che, senza gli aiuti delle dette istituzioni, sarebbe una famiglia declassata, a carico dell'assistenza pubblica135.

Il capitalismo realizza una strana operazione alchemica. I poteri della proprietà sono conservati. Il diritto è connesso al versamento della contribuzione, che gli conferisce il suo carattere incondizionato, a differenza del diritto all'assistenza: poiché ha pagato, il contribuente è un avente diritto in senso assoluto e a dispetto di qualsiasi cosa gli possa capitare, anche se non ha “bisogno” della sua prestazione per sopravvivere perché è, per esempio, un ricco proprietario e, allo stesso tempo, un pensiona135 Pierre Aivarez, De l'influence de la politique, de l'économie et du social sur la famille, Paris, Minuit, 1899, cit. in Jacques Donzelot, La police des familles, Paris, 1977, p. 47.

to136. Perciò, questa proprietà di transfert non è incompatibile con la proprietà classica. Rispetta le prerogative della proprietà privata e le prolunga: solo il pagamento individuale dà accesso al diritto collettivo. Ma, al contempo, questa operazione inaugura un nuovo registro di sicurezza. Prima dell'assicurazione, essere in sicurezza voleva dire disporre di beni per far fronte ai rischi dell'esistenza. Con l'assicurazione questi rischi sono “coperti”. Come? Grazie a un sistema di garanzie giuridiche, cioè sancite in ultima istanza dallo Stato di diritto. Lo Stato sociale trova qui una funzione specifica. Esso è, si potrebbe dire, il garante della proprietà di transfert. Lo Stato si ritaglia così un ruolo nuovo e completamente originale, che gli permette di stare al di sopra dell'antagonismo assoluto tra la difesa disperata della proprietà “borghese” e i programmi socialisti che mirano ad appropriarsene. Può svolgere tale ruolo senza attentare alla proprietà privata, ma, attraverso la gestione della proprietà di transfert 137, gli sovrappone un sistema di prestazioni pubbliche che assicura la sicurezza sociale.

136 Ricordiamo il richiamo di Jean Jaurès supra: “Nella pensione, nell'assicurazione, l'avente diritto, fossero pure milioni in età pensionabile come stabilita dalla legge, l'avrà senza discutere con nessuno, con una certezza assoluta”. 137 Lo Stato non garantisce direttamente le prestazioni dell'assicurazione. Ciò avviene, si sa, attraverso l'intermediazione di “casse”, il cui statuto e i cui agenti hanno subìto del resto profonde trasformazioni: mutualistiche dapprima, rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori in seguito. Cfr., per esempio, Antoinette Catrice-Lorey, Dynamique interne de la Sécurité sociale. Du Système de pouvoir à la fonction personnel, Paris, CRESST, 1980. Ma, al di là delle modalità tecniche complicate, importa soprattutto sottolineare qui il fatto che lo Stato sia il garante del dispositivo e che l'eventuale modificazione del sistema sia di competenza del legislatore.

La strumentazione politica della tecnologia assicurativa permette di superare il moralismo della “politica senza Stato” dei notabili, risparmiando anche il “socialismo di Stato” dei collettivisti. Ma, questa volta, non si tratta più di progetti, di programmi: nuove istituzioni sono in campo, e nuovi flussi di denaro possono cominciare a circolare. Una tale elaborazione mette in campo la soluzione della questione sociale propria della società industriale. Essa era stata formulata, lo si ricorda, a partire dalla contraddizione presente all'inizio dell'industrializzazione e messa in scena attraverso le descrizioni del pauperismo: l'esistenza di popolazioni poste al contempo al cuore dell'apparato produttivo, poiché sono la punta di diamante dell'industrializzazione, e quasi escluse dalla società, disaffiliate in rapporto alle norme collettive e ai modi di vita dominanti. Come instaurare una relazione forte d'appartenenza sociale per queste popolazioni spinte ai margini dall'industrializzazione selvaggia? L'assicurazione procura lo strumento per rimpatriare questa frangia “accampata al centro della società occidentale senza esservi accasata”, secondo la formula di Auguste Comte138, vale a dire i salariati o almeno le frange inferiori del salariato. Delle due cose l'una. O si continua a mantenere il salariato nella frammentazione dei suoi stati e nella precarietà dei suoi status – e, nella misura in cui le situazioni salariali si moltiplicano, si stabilizzano, divengono sempre più irreversibili, ciò significa anche stabilizzare l'instabilità nel cuore della società industriale e significa consentire che il progresso si edifichi sulle sab138 Auguste Comte, Système de politique positive, cit., p. 411.

bie della vulnerabilità sociale – o si stabilizzano le situazioni salariali. L'assicurazione può essere l'operatore di questa trasformazione. Essa non procura soltanto una certa sicurezza materiale, ma inscrive anche il beneficiario in un ordine giuridico. Questa inscrizione è di tutt'altro registro rispetto a quello promosso dalle protezioni ravvicinate dell'assistenza e dalle tutele delle strategie del patronato. Per queste ultime, solo l'appartenenza a dei quadri territoriali o a relazioni di tipo clientelare può dare sicurezza: la partecipazione a solidarietà di prossimità, la fedeltà a un'impresa, a un padrone, offrono le migliori opportunità di superare i rischi dell'esistenza operaia. L'assicurazione, per contro, “delocalizza” le protezioni nello stesso momento in cui le depersonalizza.

Permette

di

rompere

l'associazione

secolare

protezione/dipendenza personalizzata. Al contrario, essa instaura una associazione inedita fra la sicurezza e la mobilità. Il nomadismo, che faceva del vagabondo la figura negativa della libertà, è vinto simultaneamente all'insicurezza. Se soddisfa le condizioni che fanno di lui un avente diritto, il lavoratore può essere assicurato tanto a Maubeuge quanto a Cholet. La deterritorializzazione non è più una disaffiliazione. Questa possibilità di coniugare mobilità e sicurezza apre la strada a una razionalizzazione del mercato del lavoro, che tenga conto sia delle esigenze della flessibilità, per lo sviluppo industriale, sia dell'interesse dell'operaio. Questi può teoricamente circolare nello spazio senza rompere con le protezioni, perché è affiliato a un ordine giuridico, cioè universalistico. Ciò che quest'ordine giuridico, associato al diritto del lavoro, promuove è pertanto la cornice per una mobilità regolata della forza-lavoro.

Teoricamente, si intende, perché le prime applicazioni di questo nuovo diagramma furono assai modeste; e lo resteranno a lungo. Ma, fin dal 1904, Léon Bourgeois dichiara: L'organizzazione dell'assicurazione solidale di tutti i cittadini contro l'insieme dei rischi della vita comune – malattie, incidenti, disoccupazioni involontarie, vecchiaia – appare all'inizio del XX secolo come la condizione necessaria dello sviluppo pacifico di tutta la società, come l'oggetto necessario del dovere sociale139.

Questo è già per intero quello che sarà il programma della Sicurezza sociale realizzato nel 1945 e anche oltre, poiché è già prevista la copertura della disoccupazione, per quanto essa non sarà realizzata in Francia, e assai timidamente, che a partire dal 1958, con la creazione delle Assedic (Associations pour l'emploi dans l'industrie et le commerce). Eppure, quando Léon Bourgeois scrive questo testo, nel contesto di un intervento per le pensioni al congresso della Mutua di Nantes, sono “coperti” solo gli infortuni sul lavoro, in seguito alla legge del 1898. La legge sulle pensioni operaie sarà, lo si è visto, un fallimento. Bisognerà attendere gli anni Trenta del Novecento perché si raggiunga un nuovo stadio, per quanto venga mantenuto il carattere restrittivo dell'applicazione dell'assicurazione alle categorie inferiori del salariato. Infatti, il primo progetto di legge, depositato nel 1921 – le dilazioni per arrivare alla legge del 1930 saranno lunghe e gli argomenti spesso ridondanti rispetto a quelli che avevano precedu-

139 Léon Bourgeois, La politique de la prévoyance sociale, Paris, Fasquelle, 1914, p. 321.

to la legge del 1910140 –, presenta così la filosofia dell'impresa: “Nell'atto d'assicurazione, quando gli interessati possono senza difficoltà fare lo sforzo indispensabile, perché lo Stato dovrebbe sostituirsi, anche parzialmente, alla loro azione? […] È in favore dei deboli, dei modesti, è a profitto dei piccoli salariati che il suo contributo è necessario”141. Perciò, sarà mantenuto, e periodicamente ridefinito fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale, per tener conto dell'inflazione, un limite di reddito al di sopra del quale è inutile assicurarsi142. Ancora una volta, si tratta più di un tentativo per scongiurare la miseria dei salariati più deprivati che di un riconoscimento pieno e integrale dello status del salariato: Il salariato troverà ormai in un contratto di lavoro più equilibrato, più equo, quel che gli è indispensabile per mantenere la sua condizione di vita anche quando si trova nell'impossibilità fisica di provvedere ai propri bisogni. Assicurato, bandirà delle proprie preoccupazioni i rischi sociali che possono brutalmente tuffarlo, lui e i suoi, 140 Tuttavia, all'inizio del secolo, ci sono due innovazioni. Un tentativo per coprire anche la disoccupazione, proposto dal senatore Chauveau nel 1925 e infine respinto, dopo un interessante dibattito al termine del quale la maggioranza conviene che: “la disoccupazione è un pericolo che non minaccia attualmente l'economia francese” (Documents parlamentaires, Sénat, annexe n. 182, seduta del 30 marzo 1926, p. 881). Seconda novità, il precedente imposto dall'Alsazia-Lorena riconquistata, che beneficiava del regime di protezione inaugurato da Bismarck. Sembrava impensabile togliere agli abitanti dell'Alsazia-Lorena dei vantaggi sociali perché ritornati francesi e difficile anche mantenere due sistemi di protezione sociale, uno in Alsazia-Lorena e uno nel resto della Francia. 141 Documents parlamentaires, Chambre des députés. 142 Nel 1930 questo tetto è fissato a 15.000 franchi di salario annuo su tutto il territorio e a 18.000 franchi nelle città con più di 200.000 abitanti. Esso arriva a 30.000 franchi nel 1938 (cfr. Francis Netter, Les retraites en France au cours de la période 1895-1945, cit.).

nella più profonda e immeritata disperazione. Vecchio pensionato, non sarà più un peso per i suoi figli; alla tavola di famiglia, grazie alla sua pensione, egli rappresenta un valore143.

L'assicurazione ci ha messo un bel po' di tempo prima di staccarsi veramente dalla vecchia base dell'assistenza. Non è che nel 1945, in un contesto profondamente mutato, che l'assicurazione obbligatoria si porrà l'obiettivo di diventare il principio di una copertura generalizzata dei rischi sociali. Non parliamo, tuttavia, con troppa facilità di “ritardo”. Di che ritardo potrebbe trattarsi? Per sua struttura, l'assicurazione appare già quasi provvidenziale poiché permette di mobilitare, per la risoluzione della questione sociale, una tecnologia che promuove la sicurezza senza attentare alla proprietà e senza intaccare i rapporti di produzione. Ma questa opportunità, che il capitalismo trova per stabilizzarsi senza dover sconvolgere le proprie strutture, sarebbe veramente miracolosa se la tecnologia assistenziale agisse solo attraverso il proprio potere. L'assicurazione non è però una pozione magica la cui virtù dissolve da sé gli antagonismi sociali. Essa è un meccanismo complesso di regolazione, i cui risultati dipendono dall'equilibrio, in costante trasformazione, tra interessi divergenti. Alcuni di questi giocano il ruolo di “motori”, altri quello di “freni” 144. Quattro partner principali sono parti in causa in questo gioco sottile: i salariati stessi, i loro 143 Premier rapport Gringa, in Documents parlamentaires, Chambre des députés, annexe, seduta del 31 gennaio 1923. 144 Espressioni di Henri Hatzfeld, Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit.

datori di lavoro, i difensori del patrimonio privato e i rappresentanti dell'apparato di Stato145. Ma nessuno di questi poli di interesse si può identificare con un gruppo che segua una strategia coerente. Semplificando molto, si potrebbe dire che la classe operaia è divisa tra un orientamento moderato, che sostiene le riforme, e una tendenza rivoluzionaria, che vi si oppone violentemente; che, in seno ai datori di lavoro, il grande padronato vi si rassegna più facilmente, mentre i piccoli imprenditori si irrigidiscono nella difesa della loro indipendenza; che è soprattutto l'insieme dei difensori del patrimonio privato e della libertà d'impresa – ma esso stesso molto eterogeneo, fatto di piccoli coltivatori diretti, piccoli commercianti, rappresentanti delle professioni indipendenti e “liberali” con al primo posto il corpo dei medici – che è più determinato nella sua opposizione; che lo Stato, infine, tenta di occupare una posizione di arbitro e cerca di imporre le opzioni che riducono al minimo le tensioni sociali146. Ma un tale panorama è troppo schematico. Bisognerebbe introdurre anche la dimensione sincronica in questa sorta di gioco dei quattro cantoni attraverso il quale i rapporti di forza tra questi partner si trasformano, con spinte riformiste seguite da rinculi (per esempio, al momento della Prima guerra mondiale, a 145 Cfr. Abram de Swaan, In Care of the State, cit. Abram de Swaan utilizza questo schema per render conto delle disparità nella cronologia e nelle modalità di realizzazione delle protezioni sociali nei paesi dell'Europa occidentale. Questa premessa mi sembra feconda per aiutare a prendere posizione nel dibattito che oppone i difensori della specificità di ogni configurazione nazionale e i sostenitori di una unità di struttura dello Stato sociale al di là delle frontiere. Si capisce come le particolarità proprie a ciascun paese siano inquadrate da relazioni “strutturali” tra i differenti tipi di attori che si trovano in ciascuna situazione nazionale, ma secondo una ponderazione differente. 146 Per una presentazione sintetica del ruolo dello Stato, cfr. infra, cap. VII.

cui fa seguito una relativa normalizzazione). Bisognerebbe, poi, mettere questa dinamica in relazione con le trasformazioni socioeconomiche che indeboliscono o rafforzano la posizione di ciascuno di questi gruppi (per esempio, una crisi economica, o, in maniera più costante, il lento indebolimento delle classi dei piccoli proprietari, dei piccoli produttori indipendenti, dei piccoli possidenti). Infine, bisognerebbe impegnarsi nel render conto del lento e conflittuale sviluppo di una posizione riformista. Per riformismo intendo la realizzazione dei rapporti sociali di cambiamento sanciti dallo Stato. Perciò i risultati della filantropia o del patronato, pur importanti, non sono delle vere e proprie riforme sociali finché non ricevono una sanzione legale. L'assicurazione obbligatoria, invece, rappresenta una riforma considerevole, dato che ratifica con legge una trasformazione nei rapporti tra le parti sociali, datori di lavoro e impiegati, proprietari e nonproprietari. Questa ipotesi permette di valutare il ruolo specifico rivestito dallo Stato in questo gioco complesso. Esso non rappresenta un'istanza indipendente rispetto alle altre forze sociali, ma è l'istanza che deve portare e ratificare un cambiamento perché diventi una riforma. Ne discende che, perché una riforma sociale sia possibile, c'è bisogno che i sostenitori di un cambiamento siano rappresentati nell'apparato di Stato e abbiano un potere di decisione. In Francia, la rappresentanza di un tale orientamento “riformista” nell'apparato di governo è stata tardiva, e la sua influenza è rimasta a lungo debole147. 147 I “socialisti indipendenti”, in rotta con gli orientamenti rivoluzionari del partito socialista perché questi intendono partecipare ai governi repubblicani “borghesi”, sono stati i primi portavoce espliciti di un tale riformismo ad accedere all'apparato di Stato. Alexandre Millerand: “La

Ma una tale elaborazione oltrepasserebbe i limiti della presente analisi. Ci si accontenterà dunque di continuare a dipanare il filo scelto fin dall'inizio, quello delle trasformazioni del salariato. È, in effetti, intorno allo statuto del salariato che ruota l'essenza della problematica della protezione sociale. Si è appena visto che è sulle sue crepe che questa si è collocata in prima istanza, per cominciare a ritrarlo dalla sua indegnità; è attraverso la sua promozione che si è sviluppata ed espansa nella società salariale; è la crisi del salariato, infine, che rende fragili, oggi, le protezioni sociali. Si capisce, dunque, come il salariato sia al conRepubblica è la formula politica del socialismo, come il socialismo è l'espressione economica e sociale della Repubblica” (esergo del Socialisme réformiste français, Paris, Bellais, 1903). Millerand è il primo socialista a occupare un ruolo ministeriale. Durante il suo passaggio al Ministero del Commercio, dal 1901 al 1903, elabora più progetti “sociali”, ma non riesce a far passare la legge sulle pensioni operaie e contadine. Viviani, anche lui socialista indipendente, è il primo titolare del Ministero del Lavoro, nel 1906, ma il suo margine di manovra è stretto e i suoi risultati assai modesti (cfr. Jean-André Tournerie, Le Ministère du travail, origines et premiers développements, cit.). Aristide Briand annuncia nel 1909 un ambizioso programma di riforme sociali che resterà lettera morta (cfr. Marie-Geneviève Dezes, Participation et démocratie sociale: l'expérience Briand de 1909, in “Le Mouvement social”, n. 87, 1974, pp. 109-136). Albert Thomas, Ministro degli armamenti durante la guerra, vuole perseguire dopo la vittoria una politica di collaborazione fra le classi già provata al momento dell'Union sacrée e promuovere una “democrazia industriale”, irricevibile per il padronato (cfr. Patrick Fridenson, Madeleine Rebérioux, Albert Thomas, pivot du réformisme français, in “Le Mouvement social”, n. 87, 1974, pp. 85-98). L'impianto di una politica riformista di un'ampiezza comparabile a quella che si è imposta in Germania e in Gran Bretagna si scontra contemporaneamente con la debolezza dello Stato stesso tra le due Guerre (cfr. Richard F. Kuisel, Le capitalisme et l'État en France, Paris, Gallimard, 1984, capp. III e IV), con la relativa debolezza della classe operaia e con la sua divisione precisamente sul punto: riforma o rivoluzione? Bisognerà attendere il Fronte popolare perché si imponga una maggioranza di governo disponibile alle riforme sociali. Sul momento di cerniera rappresentato dal 1936, cfr. infra, cap. VII.

tempo la base e il tallone d'Achille della protezione sociale. Il consolidamento dello statuto del salariato permette l'espansione delle protezioni, mentre la sua precarizzazione porta di nuovo all'insicurezza sociale.

VII. LA SOCIETÀ SALARIALE

Condizione proletaria, condizione operaia, condizione salariale; tre forme dominanti di cristallizzazione dei rapporti di lavoro nella società industriale, e anche tre modalità di relazione che il mondo del lavoro intrattiene con la società globale. Se, schematicamente parlando, esse si susseguono, il loro concatenarsi non è lineare. In relazione alla questione qui posta dello statuto del salariato, in quanto supporto d'identità sociale e di integrazione comunitaria, esse rappresentano piuttosto tre figure irriducibili. La condizione proletaria rappresenta una situazione di quasi-esclusione dal corpo sociale. Il proletario è un anello essenziale nel processo di industrializzazione nascente, ma è destinato a lavorare per riprodursi e, secondo le parole già citate di Auguste Comte, “è accampato nella società senza esservi accasato”. Senza dubbio, non verrebbe in mente a nessun “borghese” degli inizi dell'industrializzazione – né tantomeno, in senso inverso, ad alcun proletario – di paragonare la propria situazione a quella degli operai delle prime concentrazioni industriali in fatto di modus vivendi, di abitazione, di educazione, di tempo libero... Dun-

que, più che con una gerarchia, si ha a che fare con un mondo diviso dalla duplice opposizione fra capitale e lavoro, e fra sicurezza-proprietà e vulnerabilità di massa. Diviso ma anche minacciato. La “questione sociale” consiste precisamente nella presa di coscienza che questa frattura centrale, messa in scena attraverso le descrizioni del pauperismo, può portare alla dissociazione dell'insieme della società1. La relazione della condizione operaia con la società considerata come un tutto è più complessa. Si è costituito un nuovo rapporto salariale, attraverso il quale il salario cessa di essere la retribuzione puntuale di un compito. Esso assicura dei diritti, dà accesso a prestazioni extra-lavorative (malattie, infortuni, pensioni) e permette una partecipazione allargata alla vita sociale: consumo, alloggio, istruzione e anche, a partire dal 1936, tempo 1 “Centrale” deve intendersi in rapporto alla società industriale. Non si può dimenticare, infatti, che la Francia è all'inizio del XIX secolo, e lo sarà per molto tempo ancora, una società prevalentemente contadina. Una risposta indiretta, ma essenziale, alla questione sociale posta dall'industrializzazione potrebbe allora consistere nel frenarla. Richard F. Kuisel definisce “liberalismo equilibrato” questa strategia, fatta di sospetto verso gli operai dell'industria, verso la crescita delle città, verso un'istruzione troppo generale e troppo astratta che rischierebbe di “sradicare” il popolo, ecc., e, in senso inverso, di sostegno alle categorie che svolgono un ruolo stabilizzatore sull'equilibrio sociale, i lavoratori indipendenti, i piccoli imprenditori e, soprattutto, i piccoli contadini. “Una crescita graduale ed equilibrata in cui tutti i settori dell'economia dovrebbero progredire allo stesso passo senza che i grandi possano eclissare i piccoli, né le città svuotare le campagne della loro sostanza, tale rimane l'immagine ideale della prosperità nazionale” (Richard F. Kuisel, Le capitalisme et l'État en France, cit., p. 72). Small is beautiful. Questo contesto socio-economico è da porre in contrapposizione rispetto ai processi che tento di spiegare. Esso rende conto della lentezza con la quale l'industrializzazione ha imposto il suo marchio all'insieme della società francese. Infatti la Francia non si è convertita “all'industrialismo” che dopo la Seconda guerra mondiale, solo qualche decennio prima che crollasse.

libero. Immagine questa volta di una integrazione nella subordinazione; perché fino agli anni Trenta del Novecento, momento in cui questa configurazione si cristallizza in Francia, il salariato è essenzialmente il salariato operaio, che retribuisce mansioni esecutive, quelle che sono situate in basso nella piramide sociale, ma, allo stesso tempo, si disegna una stratificazione più complessa dell'opposizione dominanti/dominati, che comprende delle zone di intersezione attraverso le quali la classe operaia vive una partecipazione nella subordinazione: il consumo (ma di massa), l'istruzione (ma primaria), i divertimenti (ma popolari), l'alloggio (ma l'alloggio operaio), ecc. Ecco perché questa struttura d'integrazione è instabile. I lavoratori, nel loro insieme, possono sentirsi soddisfatti di essere relegati in ruoli esecutivi, tenuti fuori dal potere e dagli onori, mentre la società industriale sviluppa una concezione demiurgica del lavoro? Chi crea la ricchezza sociale e chi se ne appropria in modo indebito? Il momento in cui si struttura la classe operaia è anche quello in cui si afferma la coscienza di classe: tra “loro” e “noi”, i giochi non sono ancora fatti definitivamente. L'avvento della società salariale2 non sarà tuttavia il trionfo della condizione operaia. I lavoratori manuali sono stati sopraffatti dalla generalizzazione del salariato più che vinti in una lotta delle classi. Salariato “borghese”, impiegati, quadri, professioni intermedie, settore terziario: la salarizzazione della società contorna il salariato operaio e lo subordina nuovamente, questa volta senza speranza che esso possa mai imporre la propria lea2 Utilizzo qui il concetto di società salariale nel senso che gli danno Michel Aglietta e Anton Brender in Les métamorphoses de la société salariale (Paris, Calmann-Lévy, 1984), e mi propongo di spiegarne le implicazioni sociologiche in questo capitolo.

dership. Se tutti o quasi sono salariati (più dell'82% della popolazione attiva nel 1975), è a partire dalla posizione occupata nel salariato che si definisce l'identità sociale. Ciascuno si paragona a tutti, ma se ne distingue anche; la scala sociale prevede un numero crescente di pioli a cui i salariati agganciano la loro identità, sottolineando la differenza con il gradino inferiore e aspirando allo strato superiore. La condizione operaia occupa sempre la base della scala, o quasi – vi sono anche gli immigrati, mezzo-operai mezzo-barbari, e i dannati del quarto mondo –, ma basta che si persegua la crescita, che lo Stato continui a estendere i propri servizi e le proprie protezioni, e chiunque lo meriti potrà anche “elevarsi”: miglioramenti per tutti, progresso sociale e benessere. La società salariale sembra essere trascinata da un irresistibile movimento di promozione: accumulazione di beni e di ricchezze, creazioni di posizioni nuove e di opportunità inedite, accrescimento dei diritti e delle garanzie, moltiplicazione delle sicurezze e delle protezioni. Questo capitolo, più che a ripercorrerne la storia, mira a spiegare le condizioni che l'hanno resa possibile e hanno fatto della società salariale una struttura inedita, al contempo sofisticata e fragile. La presa di coscienza di questa fragilità è recente, data agli inizi degli anni Settanta. Essa è oggi un nostro problema, poiché viviamo sempre nella e della società salariale. Possiamo aggiungere, con Michel Aglietta e Anton Brender, che “la società salariale è il nostro avvenire”3? Sarà questa la questione da discutere nel capitolo seguente, ma anche se dovesse essere così si tratta di un avvenire assai incerto. Intanto, comprenderemo meglio di che cosa è fatta questa incertezza se recuperiamo la lo3 Ivi, p. 7.

gica della promozione del salariato nella sua forza e nella sua friabilità.

1. Il nuovo rapporto salariale “Ê l'industrializzazione che ha fatto nascere il salariato, ed è la grande impresa il luogo per eccellenza del rapporto salariale moderno”4. Questo giudizio è al contempo confermato e sfumato dalle analisi precedenti. Il salariato è certamente esistito anche, in stato frammentario, nella società preindustriale, senza riuscire a imporsi fino a strutturare una condizione unitaria (cfr. cap. III). Con la rivoluzione industriale comincia a svilupparsi un nuovo profilo di operaio delle manifatture e delle fabbriche che anticipa il rapporto salariale moderno senza ancora dispiegarlo in tutta la sua coerenza (cfr. cap. V)5. Si possono caratterizzare nel modo seguente i principali elementi di questo rapporto salariale degli inizi dell'industrializzazione, corrispondenti a quel che si è appena definito la condizione proletaria: una retribuzione prossima a un reddito minimo che assicuri giusto la riproduzione del lavoratore e della sua famiglia, e non permetta investimenti nel consumo; un'assenza di garanzie legali nella situazione di lavoro retta dal contratto di lo4 Robert Salais, La formation du chômage comme catégorie, cit., p. 342. 5 Beninteso, questo profilo non corrisponde all'insieme e neanche alla maggioranza dei lavoratori degli inizi dell'industrializzazione nella prima metà del XX secolo (peso a lungo determinante degli artigiani, della proto-industria, dei salariati parziali che traggono una parte delle loro risorse da un'altra attività o dall'economia domestica, ecc.), ma rappresenta il nocciolo di quel che diverrà il salariato dominante nella società industriale, incarnato dai lavoratori della grande industria.

cazione d'opera (articolo 1710 del Codice civile); il carattere “labile”6 della relazione del lavoratore con l'impresa: questi cambia frequentemente di posto, affittandosi al miglior offerente (soprattutto se dispone di una competenza professionale riconosciuta) e “si disoccupa” certi giorni della settimana o durante periodi più o meno lunghi se può sopravvivere senza piegarsi alla disciplina del lavoro industriale. Formalizzando queste caratteristiche, si dirà che un rapporto salariale comporta una modalità retributiva della forza-lavoro, il salario – che governa in larga misura il modo di consumare e di vivere degli operai e delle loro famiglie –, una forma di disciplina del lavoro che regola il ritmo della produzione, e il quadro legale che struttura la relazione di lavoro, cioè il contratto di lavoro e le disposizioni che lo attorniano. Si sarà riconosciuto che ho illustrato queste caratteristiche a partire dai criteri proposti dalla scuola della regolazione per definire il rapporto salariale “fordista”7. Presuppongo, dunque, che nel senso di una stessa formazione sociale – il capitalismo – il rapporto salariale possa assumere configurazioni differenti e la questione, almeno la questione qui posta, è quella di spiegare le trasformazioni che presiedono il passaggio da una forma a un'altra8; ossia, per assicurare il passaggio dal rapporto salariale che 6 L'espressione è impiegata per caratterizzare la mobilità dei lavoratori delle prime concentrazioni industriali da Sidney Pollard, The Genesis of Modern Management. A Study of the Industrial Revolution in Great Britain, London, Edward Arnold, 1965, p. 161. 7 Cfr. per esempio Robert Boyer, La théorie de la régulation: une analyse critique, Paris, La Découverte, 1987. 8 Quando si riduce il rapporto salariale al rapporto salariale moderno, “fordista”, si confondono le condizioni metodologiche necessarie per arrivare a una definizione rigorosa del rapporto salariale e le condizioni socio-antropologiche caratteristiche delle situazioni salariali reali, che sono diverse (cfr. in “Genèse”, n. 9, 1991 una varietà di punti di vista su questa questione). Io resto dell'opinione che si è in diritto di parlare di

prevaleva agli inizi dell'industrializzazione al rapporto salariale “fordista”, la riunione delle seguenti cinque condizioni. Prima condizione: una ferma separazione tra coloro che lavorano effettivamente e regolarmente e gli inattivi o i semi-attivi che bisogna escludere dal mercato del lavoro o integrare in forme regolate. La definizione moderna del salariato presuppone l'identificazione precisa di quel che gli statistici definiscono popolazione attiva: trovare e misurare coloro che sono occupati e coloro che non lo sono, le attività intermittenti e le attività a tempo pieno, gli impieghi remunerati e quelli non remunerati. Impresa di ampio respiro e difficile. Un proprietario terriero, un redditiere, sono degli “attivi”? E moglie e figli dell'artigiano o dell'agricoltore? Quale statuto attribuire a quegli innumerevoli lavoratori intermittenti, stagionali, che popolano le città come le campagne? Si può parlare di impiego, e correlativamente di non-impiego, di disoccupazione, se non si può definire quel che significa davvero essere impiegato? È solo al volgere del secolo – nel 1896 in Francia, nel 1901 in Inghilterra –, dopo molti tentennamenti, che la nozione di popolazione attiva viene definita senza ambiguità, permettendo l'elasituazioni salariali non soltanto agli inizi dell'industrializzazione, prima che si istituisca il rapporto “fordista”, ma anche nella società “pre-industriale” (cfr. cap. III), a condizione evidentemente di non confonderle con il rapporto salariale “fordista”. Comunque, la posizione purista è impossibile da mantenere in modo rigoroso anche per l'epoca moderna, perché il rapporto strettamente “fordista”, con catena di montaggio, il computo rigoroso del tempo, ecc., è sempre stato minoritario, anche all'apogeo della società industriale (cfr. Michel Verret, Le travail ouvrier, Paris, Colin, 1982, p. 34, il quale stima che, alla fine degli anni Settanta, il tasso degli operai che lavorano propriamente alla catena di montaggio sia dell'8%, e sia del 32% la quota di coloro che lavoravano con macchine automatizzate).

borazione di statistiche affidabili. “Gli attivi saranno coloro e solamente coloro che sono presenti su un mercato che procuri loro un guadagno monetario, mercato del lavoro o mercato di beni o servizi”9. Così, la situazione di salariato, distinta da quella di fornitore di merci o di servizi, diviene chiaramente identificabile, come anche quella di disoccupato involontario, distinta da tutti quelli che intrattengono un rapporto erratico con il lavoro. Ma una cosa è poter reperire e contabilizzare i lavoratori, miglior cosa ancora sarebbe poter regolare questo “mercato del lavoro” controllandone i flussi. Gli inglesi vi si sono dedicati con serietà dall'inizio del secolo. William Berevidge, nel 1910, aveva visto bene che il principale ostacolo alla razionalizzazione del mercato del lavoro era l'esistenza di quei lavoratori intermittenti che rifiutano di piegarsi a una disciplina rigorosa. Così bisogna domarli: Per colui che vuole lavorare una volta alla settimana e restare a letto il resto del tempo, l'ufficio di collocamento renderà questa speranza irrealizzabile. Per colui che vuole trovare un impiego precario di volta in volta, l'ufficio di collocamento renderà poco a poco impossibile questo genere di vita. Prenderà questa giornata di lavoro che voleva avere e la darà a qualcun altro che lavora già quattro giorni a settimana e permetterà così a quest'ultimo di guadagnarsi decentemente da vivere10. 9 Christian Topalov, Une révolution dans les représentations du travail. L'émergence de la catégorie statistique de “population active” en France, en Grande-Bretagne et aux États-Unis, ciclostile, 1993, p. 24, e Id., Naissance du chômeur, 1880-1910, cit. 10 William Beveridge, Royal Commission on Poor Law and Relief Distress, Appendix V8. House of Commons, 1910, cit. in Christian Topalov, Invention du chômage et politiques sociales au début du siècle, in “Les

L'ufficio di collocamento deve effettuare una partizione del lavoro, che consiste nel tracciare una linea di demarcazione tra veri impiegati a tempo pieno e quanti saranno completamente esclusi dal mondo del lavoro e dipenderanno dalle forme coercitive d'assistenza previste per gli indigenti validi. È lo stesso per i Webb, che chiedono “una istituzione in cui gli individui devono essere relegati penalmente e mantenuti sotto costrizione […] assolutamente essenziale a ogni programma efficace di trattamento della disoccupazione”11. Se è impossibile realizzare in modo rigoroso un tale “ideale”, le istituzioni messe in campo in Gran Bretagna nei primi decenni del XX secolo vi si sono approssimate. Gli uffici municipali di collocamento e i potenti sindacati di lavoratori che praticano le closed shop – monopolio dell'impiego per gli iscritti ai sindacati – sono riusciti, non certo a stroncare la disoccupazione, problema endemico in Gran Bretagna, ma a governare meglio il reclutamento per gli impieghi disponibili.

Temps modernes”, nn. 496-497, pp. 53-92. È l'opera di Beveridge, pubblicata all'epoca, Unemployment. A Problem of Industry (London, Longmans & Co., 1909), che comincia a far conoscere il futuro capomastro della Sicurezza sociale inglese. 11 Sidney Webb, Beatrice Webb Potter, The Prevention of Destitution, London, Longmans, 1916, p. 151. Su questo punto, c'è unanimità tra i riformatori sociali inglesi. Cfr. Percy Alden, The Unemployed. A National Question, London, King, 1905, e per una presentazione sintetica delle policies of decausalisation – espressione che si potrebbe tradurre con l'insieme delle misure prese per mettere fine al lavoro intermittente allo scopo di costituire un vero e proprio mercato del lavoro – cfr. Malcolm Mansfield, Labour Exchange and the Labour Reserve in Turn of the Century Social Reform, in “Journal of Social Policy”, n. 21, 1992, pp. 435-468.

Principalmente in ragione del ritardo accumulato nello sviluppo del salariato industriale rispetto alla Gran Bretagna 12, questo tipo di politica dell'impiego ante litteram non ha mai assunto in Francia un carattere così sistematico. L'assunzione è stata a lungo lasciata all'iniziativa dei lavoratori, per principio “liberi” di andare a collocarsi a loro piacimento, al saperci fare di “mercanti” o di “cottimisti”13, alla venalità degli uffici privati di collocamento, ai quali bisogna aggiungere i rari uffici municipali, e ai tentativi sindacali per governare, ossia per monopolizzare il reclutamento. Fernand Pelloutier si sforza di istituire le Borse del lavoro, che dovrebbero, tra l'altro, raccogliere tutte le domande di lavoro e organizzare l'assunzione sotto controllo sindacale 14. 12 Nel 1911 si conta il 47% di salariati nella popolazione attiva francese, con un rapporto di 3 datori di lavoro per 7 salariati, mentre la percentuale dei salariati in Gran Bretagna si avvicina al 90%. Cfr. Bernard Gibaud, De la mutualité à la Sécurité sociale, cit., p. 54. 13 Cfr. Bernard Mottez, Systèmes de salaires et politiques patronales. Essai sur l'évolution des pratiques et des idéologies patronales, Paris, Éditions du CNRS, 1966. Il cottimista, o il subappaltatore, è pagato dal padrone per l'esecuzione di un compito e remunera i lavoratori che assume in proprio. Questa pratica assai impopolare presso gli operai, viene abolita nel 1848, ma reintrodotta subito dopo e difesa anche dai liberali, come Leroy-Beaulieu, che vi scorgono un duplice vantaggio: assicurare una sorveglianza ravvicinata degli operai da parte dei cottimisti e permettere la promozione di una sorta di élite di piccoli imprenditori a partire dal salariato. Cfr. Paul Leroy-Beaulieu, Traité théorique et pratique d'économie politique, Paris, Guillaumin, 1896, 4 voll., t. II, pp. 494-495; trad. it. Trattato teorico-pratico di economia politica, Torino, UTET, 1917, 2 voll. 14 Cfr. Fernand Pelloutier, Histoire des borses du travail, origine, institutions, avenir, ouvrage posthume de Fernand Pelloutier, Préface par Georges Sorel. Notice biographique par Victor Dave, Paris, Schleicher frères, 1902 (trad. it. Storia delle Borse di Lavoro. Alle origini del sindacalismo, Milano, Jaca Book, 1976) e Jacques Juilliard, Fernand Pelloutier et les origines du syndacalisme d'action directe, Paris, Les Seuil, 1971.

Ma l'impresa fallirà, minata dalle divisioni sindacali. Sul piano politico, l'ala riformista, rappresentata dai “repubblicani progressisti” e dai socialisti indipendenti, si interessa alla questione. Léon Bourgeois, in particolar modo, comprende il legame esistente tra la regolazione del mercato del lavoro e la questione della disoccupazione, che diviene preoccupante all'inizio del secolo con una stima che varia tra 300.000 e 500.000 disoccupati 15. Ma i rimedi che preconizza per combatterla sono molto timidi: “L'organizzazione del collocamento figura, con ogni evidenza, al primo posto”16. Egli deplora l'insufficienza degli uffici municipali e sindacali, evoca la necessità di un'assicurazione contro la disoccupazione, ma ne lascia la responsabilità ai gruppi professionali. Così i poteri pubblici non avranno, e per lungo tempo, che un ruolo assai modesto nell'organizzazione del mercato del lavoro e nella lotta contro la disoccupazione. L'Office du travail, creato nel 1891, si dedica a raccogliere un'importante documentazione e a elaborare delle statistiche affidabili. Quest'opera prosegue col Ministère du Travail, creato nel 190617, ma non porta a nulla che possa ritenersi una vera e propria politica dell'impiego. Ciò che a lungo l'ha sostituita è l'insieme delle politiche patronali illustrate precedentemente (cfr. cap. V), miscuglio di se15 Léon Bourgeois, Discours à la Conférence internationale sur le chômage, Paris, 10 settembre 1910, in Id., La politique de la prévoyance sociale, cit., p. 279. 16 Léon Bourgeoios, Le ministère du Travail, discorso pronunciato al congresso delle società di mutuo soccorso in Normandia, a Caen, il 7 luglio del 1912, in La politique de la prévoyance sociale, cit., t. II, p. 206 sgg. Bourgeois auspica anche un controllo dell'apprendistato per migliorare la qualificazione e “l'azione dello Stato facente funzione di moderatore nell'esecuzione dei grandi lavori pubblici” (ivi, p. 207). 17 Cfr. Jean-André Tournerie, Le Ministère du travail, origines et premiers développements, cit.

duzione e di costrizione per fissare gli operai attraverso dei “benefici sociali” e annichilire la loro resistenza attraverso delle regolamentazioni rigide. Fu cosa anche, più in generale, per quella sorta di ricatto morale esercitato sui lavoratori dai filantropi, i riformatori sociali e i portavoce del liberalismo: conformatevi al modello del buon operaio regolare al lavoro e disciplinato nei suoi costumi, o farete parte di quei miserabili esclusi dalla società industriale18. Bisognerebbe nuovamente citare tutta quella letteratura ripetitiva sulla necessaria moralizzazione del popolo. Si può rintracciare un segno della vitalità di questo atteggiamento tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX nella straordinaria fiammata di repressione del vagabondaggio che fiorì allora: 50.000 arresti ogni anno per vagabondaggio negli anni Novanta dell'Ottocento, trascinando fino a 20.000 imputati all'anno davanti ai tribunali19, con la minaccia della relegazione in caso di recidiva. Congiunturalmente, queste misure possono spiegarsi con la grave crisi economica che imperversava allora e con la miseria delle campagne. Ma è anche una maniera di ricordare, nel momento in cui un nuovo ordine del lavoro si disegna con la Seconda rivoluzione industriale, quanto costa sfuggirvi. Il vagabondo torna a essere, per uno o due decenni, il contro-modello aborrito che ha rappresentato nella società preindustriale (cfr. cap. II): la figura dell'asocialità, che bisogna sradicare perché è una macchia in una società che rende più stringenti le regolazioni del lavoro20. 18 Cfr. Jacques Donzelot, Philippe Estèbe, L'état animateur, Paris, Éditions Ésprit, 1994, Introduction. 19 Cfr. Michelle Perrot, La fin des vagabonds, in “L'Histoire”, n. 3, 1978, pp. 23-33. 20 Per un saggio di questa letteratura che predica un'autentica crociata contro il vagabondaggio, cfr. il dottor Armand Pagnier, Un déchet so-

Ma ben presto un'altra modalità di regolazione si imporrà in maniera più efficace. Tutte queste dosi di repressione e di mansuetudine filantropica restano limitate nei loro effetti perché restano esterne all'organizzazione del lavoro propriamente detta. Finché si tratta di convertire l'operaio a una condotta più regolare, cercando di convincerlo che il suo vero interesse esige in primis disciplina, può rivoltarsi o sottrarsi con la fuga a questioni obblighi, il cui movente resta morale. La macchina impone un altro tipo di obblighi, oggettivi questa volta. Con essa non si discute. Si segue o non si segue il ritmo che l'organizzazione tecnica del lavoro impone. La relazione di lavoro potrà cessare di essere “volatile” se l'organizzazione tecnica è di per sé tanto potente da imporre il proprio ordine. Seconda condizione: la fissazione del lavoratore al suo posto di lavoro e la razionalizzazione del processo di lavoro nel quadro di una “gestione del tempo precisa, ben definita, regolamentata” 21. I tentativi per regolare la condotta operaia a partire dai vincoli tecnici del lavoro stesso, che si svilupperanno con il taylorismo, non risalgono al XX secolo. Il barone Charles Dupin sogna già nel 1847 di realizzare il lavoro perpetuo grazie all'infaticabile impulso del “motore meccanico”: Vi è dunque un vantaggio estremo a far operare infaticabilmente i meccanismi riducendo alla minima durata gli intervalli di riposo. La perfezione lucrativa sarebbe il lavorare sempre... Si sono dunque introdotti nello stesso cial. Le vagabond. Ses origines, sa psychologie, ses formes, la lutte contre le vagabondage, Paris, Vigot, 1910. 21 Robert Salais, La formation du chômage comme catégorie, cit., p. 325.

atelier i due sessi e le tre età sfruttati in competizione, frontalmente, se possiamo parlare in questi termini, trascinati senza distinzione dal motore meccanico verso il lavoro prolungato, verso il lavoro di giorno e di notte per avvicinare sempre più il moto perpetuo22.

Ma questa meravigliosa utopia riposa sullo “sfruttamento competitivo” delle differenti categorie del personale, cioè sulla mobilitazione del fattore umano. Con l'“organizzazione scientifica” del lavoro, di contro, il lavoratore è fissato non da un obbligo esterno ma dallo svolgimento delle operazioni tecniche di cui il cronometraggio ha definito in modo rigoroso la durata. Si trova così eliminata la “flânerie” operaia, e con essa il margine di iniziativa e di libertà che il lavoratore riusciva a preservare. Meglio, divenendo semplici e ripetitive le mansioni parcellizzate, risulta inutile una qualificazione 22 Charles Dupin, rapporto alla Chambre des pairs, 27 giugno 1847, cit. in Lion Murard, Patrick Zylberman, Le petit travailleur infatigable. Villes-usines, habitat et intimités au XIXe siècle, Fontenay-sous-Bois, Recherches, 1976, p. 7. Si potrebberoro trovare dei precedenti a un'organizzazione “quasi” perfetta della disciplina di fabbrica anche prima dell'introduzione di macchine sofisticate e, a maggior ragione, prima della catena di montaggio. Così, la fabbrica di ceramiche fondata in Inghilterra verso il 1770 da Josiah Wedgwood è passata ai posteri come un modello di rigida organizzazione del lavoro: non è meccanizzata, ma associa la divisione del lavoro manuale in seno all'impresa a una politica di moralizzazione degli operai, appoggiata dalla Chiesa metodista e da una Société pour la suppression du vice, animata dal padrone. Cfr. Neil McKendrick, Josiah Wedgwood and Factory Discipline, London, s.e., 1961, in David Saul Landes (ed.), The Rise of Capitalism, cit. Si possono anche rintracciare delle forme di divisione delle mansioni che anticipano il lavoro alla catena, pur senza basarsi sulla macchina, come la cosiddetta “tavolata”: un oggetto circola di mano in mano attorno a un tavolo e ciascun operaio vi aggiunge un pezzo, fino al suo assemblaggio completo. Cfr. Bernard Doray, Le taylorisme, une folie rationnelle?, Paris, Dunod, 1981, pp. 342 sgg.

sofisticata e polivalente. L'operaio è spossessato del potere di negoziazione che gli procurava il “mestiere”23. Ma gli effetti di questa “organizzazione scientifica del lavoro” possono leggersi in due maniere. Come una perdita dell'autonomia operaia e come l'allineamento delle competenze professionali su livello più basso delle mansioni riproduttive. Le analisi più frequenti del taylorismo, ponendo l'accento su questo aspetto di spossessamento, sono tuttavia semplificatrici. Da una parte esse tendono a idealizzare la libertà dell'operaio pre-taylorista capace di andare a vendere le proprie competenze al miglior offerente. Ciò è senza dubbio vero per gli eredi dei mestieri artigianali che possiedono delle competenze rare e molto richieste. Tuttavia, se è vero che il taylorismo si insedia soprattutto nella grande impresa, esso ha avuto a che fare, il più delle volte, con popolazioni operaie di origine rurale recente, sotto-qualificate e poco autonome. D'altra parte, è senza dubbio la razionalizzazione “scientifica” della produzione che ha più pesantemente contribuito alla omogeneizzazione della classe operaia. Essa ha intaccato la divisione dei “mestieri” con cui ci si identificava strettamente: ci si pensava fabbro o carpentiere prima di pensarsi “operaio” (le rivalità delle corporazioni, che sono sopravvissute a lungo all'Ancien Régime, mostrano fino alla caricatura questo raggrinzimento del23 Cfr. Benjamin Coriat, L'atelier et le chronomètre. Essai sur le taylorisme, le fordisme et la production de masse, Paris, Christian Bourgois, 1979; trad. it. La fabbrica e il cronometro. Saggio sulla produzione di massa, Milano, Feltrinelli, 1979. Di Frederick Winslow Taylor esistono diverse precoci traduzioni francesi, come la raccolta Études sur l'organisation du travail dans les usines, Angers, Burdin, 1907. Per un'attualizzazione delle questioni poste dal taylorismo oggi, cfr. l'opera collettiva diretta da Maurice de Montmollin e Olivier Pastré (sous la direction de), Le taylorisme, Paris, La Découverte, 1984.

la specificità del mestiere)24, tanto che in seno a una stessa specializzazione professionale esistevano anche delle importantissime disparità di salario e di status tra artigiano, manovale, apprendista... Così l'omogeneizzazione “scientifica” delle condizioni di lavoro ha potuto forgiare una coscienza operaia che sfocia in una coscienza di classe affilata dalla gravosità dell'organizzazione del lavoro. Le prime occupazioni di fabbriche del 1936 avranno luogo proprio nelle imprese più moderne e più meccanizzate. È sempre nelle “cittadelle operaie” che la CGT (Confédération Générale du Travail) e il Partito comunista recluteranno i militanti più risoluti25. In terzo luogo, la tendenza all'omogeneizzazione delle condizioni di lavoro non può spingersi fino all'estremo, o piuttosto, nella misura stessa in cui essa si manifesta, produce degli effetti inversi di differenziazione. La produzione di massa esige, infatti, di per sé delle distinzioni tra un personale di pura esecuzione (come l'operaio specializzato, l'OS) e un personale di controllo o di manutenzione (l'operaio tecnico). Questa evoluzione tecnica del lavoro esige anche il rafforzamento e la diversificazione di un personale di concetto e di inquadramento – quelli che diverranno i “quadri”. Omogeneizzazione e differenziazione: questo doppio processo è già all'opera all'inizio della Seconda rivoluzione industriale. Esso invita a non parlare della “taylorizzazione” come di un processo omogeneo lanciato alla conquista del mondo operaio. Il suo impiantarsi è lento e circoscritto a siti industriali molto partico24 Cfr. Agricol Perdiguier, Mémoires d'un compagnon, Paris, Maspero, 1977 (scritte tra il 1854 e il 1855). 25 Cfr. Gérard Noiriel, Les ouvriers dans la société française. XIX e-XXe siècles, cit.

lari: negli anni che precedono la Prima guerra mondiale, appena l'1% della popolazione industriale francese è toccata da questa innovazione americana26. Di più, il taylorismo non è che l'espressione più rigorosa – ancorché lo divenga meno nel momento in cui è importata in Francia27 – di una tendenza più generale a una organizzare riflessiva del lavoro industriale, quel che si chiamerà, negli anni Venti, “razionalizzazione”28. Infine, questi metodi oltrepasseranno i siti industriali che evoca il “taylorismo”, per impiantarsi negli uffici, nei grandi magazzini,

nel

settore

“terziario”.

Così,

piuttosto

che

di

“taylorismo”, sarebbe meglio parlare dell'impianto progressivo di una dimensione nuova del rapporto salariale, caratterizzata dalla razionalizzazione massima del processo di lavoro, il concatenamento sincronizzato delle mansioni, una separazione stretta tra tempi di lavoro e tempi di non-lavoro, il tutto permettendo lo sviluppo di una produzione di massa. In tal senso, è esatto dire che questa modalità di organizzazione del lavoro, richiesta dalla ricerca di una produttività massima a partire dal controllo rigoroso delle operazioni, è sicuramente stata una componente essenziale nella costituzione del rapporto salariale moderno. 26 Cfr. Michelle Perrot, La classe ouvrière au temps de Jaurès, in Madeleine Rebérioux, Jean-Pierre Rioux (sous la direction de), Jaurès et la classe ouvrière, Paris, Éditions ouvrières, 1981. Sul ruolo svolto dalla Grande Guerra, cfr. Patrick Fridenson (sous la direction de), 1914-1918. L'Autre Front, Paris, Éditions ouvrières, 1977. 27 Sulle modalità di introduzione del taylorismo nelle fabbriche Renault e i problemi che esso ha posto, cfr. Patrick, Fridenson, Histoire des usines Renault, Paris, Le Seuil, 1972. 28 Cfr. Aimée Moutet, Patrons de progrès ou patrons de combat? La politique de rationalisation de l'industrie française au lendemain de la première guerre mondiale, in Lion Murard, Patrick Zylberman (sous la direction de), Le soldat du travail. Guerre, fascisme et taylorisme, Paris, Recherches, 1978, pp. 449-489.

Terza condizione: l'accesso, con l'intermediazione del salario, a “nuove norme di consumi operai” 29, attraverso le quali l'operaio diviene egli stesso l'utente della produzione di massa. Taylor preconizzava già un aumento sostanziale del salario per incitare gli operai a piegarsi agli obblighi della nuova disciplina di fabbrica30. Ma è Henry Ford che sistematizza la relazione tra produzione di massa (la generalizzazione della catena di montaggio semiautomatica) e consumo di massa. Il five dollars day non rappresenta solamente un aumento considerevole del salario: è pensato come la possibilità per l'operaio moderno di accedere allo status di consumatore dei prodotti della società industriale 31. Innovazione considerevole se la si restituisce alla lunga durata della storia del salariato. Fino a questa volta, il lavoratore è essenzialmente concepito, almeno nell'ideologia padronale, come un produttore massimale e un consumatore minimale: deve produrre il più possibile, ma i margini del profitto che produce il suo lavoro sono tanto più importanti quanto più il suo salario è bas29 L'espressione è di Michel Aglietta, in Id., Régulation et crises du capitalisme. L'expérience des Etats-Unis, Paris, Calmann-Lévy, 1976, p. 160. 30 Egli considera anche la possibilità di “diminuire il prezzo dei costi in proporzioni tali che il nostro mercato interno ed esterno si allargherebbe considerevolmente. Sarebbe così possibile pagare salari più elevati e diminuire il numero delle ore di lavoro, migliorando le condizioni di lavoro e il confort della casa” (Frederick Winslow Taylor, La direction scientifique des entreprises, in Id., Études sur l'organisation du travail dans les usines, cit., p. 23). 31 Cfr. Michel Aglietta, Régulation et crises du capitalisme, cit., p. 23. Cfr. Henry Ford, My Life & Work, London, William Heinemann, 1922; trad. it. Autobiografia, Milano, Rizzoli, 1982. Sull'organizzazione concreta del lavoro in fabbrica e le reazioni dei lavoratori, cfr. la testimonianza di un vecchio operaio di Ford, Huw Beynon, Working for Ford, London-Harmondswort, Allen Lane-Penguin Books, 1973; trad. it. Lavorare per Ford. Operai dell'auto negli anni Sessanta, Torino, Musolini, 1975.

so. È significativo che le deroghe padronali alla “legge ferrea” dei salari non siano consistite in supplementi salariali, ma in prestazioni sociali non monetarie in caso di malattia, di infortunio, di vecchiaia, ecc. Queste prestazioni potevano scongiurare la decadenza totale delle famiglie operaie, ma non massimizzare i loro consumi. Significativo anche il fatto che l'eventualità per il lavoratore di trovarsi in una condizione più agiata non sia stata pensata da quegli stessi padroni e riformatori sociali come una possibilità di consumare di più, ma come un dovere di risparmiare o pagare i propri contributi per accrescere la propria sicurezza. Il solo consumo legittimo per il lavoratore è ridotto a quel che gli è necessario per riprodurre decentemente la propria forza-lavoro e mantenere la propria famiglia allo stesso livello di mediocrità. La possibilità di consumare di più è da proscrivere perché conduce al vizio, all'ubriachezza, all'assenteismo... Anche da parte dei lavoratori è con gli inizi di una produzione di massa che appare esplicitamente un'esigenza di benessere attraverso lo sviluppo dei consumi. Alphonse Merheim, allora segretario generale della CGT, dichiara nel 1913 – il che corregge un po' la rappresentazione dominante di un sindacalismo d'azione diretta unicamente mobilitato per preparare il “Grand Soir” 32: Non vi sono limiti al desiderio di benessere, il sindacalismo non lo contraddice, al contrario. La nostra azione, le nostre rivendicazioni di diminuzione dell'orario di lavoro, di aumento del salario, non hanno come obiettivo minimo l'aumentare nel presente i desideri, le facilità di

32 Nozione utilizzata dai gruppi marxisti e anarchici che definisce una rottura rivoluzionaria o la Rivoluzione [N.d.R.].

benessere della classe operaia, e di conseguenza le sue possibilità di consumo33?

Questa preoccupazione operaia per il consumo che appare all'inizio del secolo risponde a una trasformazione dei modi di vita popolari determinata dal regresso delle economie domestiche, e tocca soprattutto i lavoratori delle grandi concentrazioni industriali34. Se il mondo del lavoro, già nella società preindustriale e poi agli inizi dell'industrializzazione, è sopravvissuto a dei salari da miseria, è in larga misura perché una parte importante, sebbene difficile da quantificare, dei suoi consumi non dipendeva dal mercato, ma da legami conservati con l'ambiente rurale d'origine, dalla disponibilità di un pezzetto di terreno, dalla partecipazione stagionale ai lavori dei campi anche per mestieri “industriali” come quello di minatore35. Questa situazione si trasforma con l'espansione delle concentrazioni industriali. L'omogeneizzazione delle condizioni di lavo33 Alphonse Merrheim, La méthode Taylor, in “La Vie Ouvrière”, nn. 8283, 1913, p. 305, cit. in Jacques Juilliard, Fernand Pelloutier et les origines du syndacalisme d'action directe, cit., p. 61. In questo articolo, Merrheim affronta non il metodo Taylor ma la sua “falsificazione” da parte del padronato francese. Significativa anche questa dichiarazione dell'altro grande leader sindacalista dell'epoca, Victor Griffuelhes: “Da parte nostra, chiediamo che il padronato francese somigli al padronato americano e che, ingrandendosi così la nostra attività commerciale e industriale, ne risulti per noi una sicurezza, una certezza che, elevandoci materialmente, ci determini per la lotta, facilitata dal bisogno di manodopera” (L'infériorité des capitalistes français, in “Le mouvement social”, n. 226, 1910, cit. ivi, p. 55). 34 Cfr. Benjamin Coriat, L'atelier et le chronomètre, cit., cap. IV. 35 Cfr. Rolande Trempé, Les mineurs de Carmaux. 1848-1914, cit., che mostra la resistenza ostinata dei minatori per salvaguardare un'organizzazione degli orari di lavoro compatibile con lo svolgimento di attività agricole.

ro è accompagnata da una omogeneizzazione degli ambienti e dei modi di vita. Processo complesso, che si è protratto per più decenni. Ha riguardato l'habitat, i trasporti e, più in generale, il rapporto dell'uomo con il suo ambiente, almeno quanto il “paniere della massaia”. Ma una parte sempre più importante della popolazione operaia si trova obiettivamente in una situazione simile a quella che ha alimentato i ritratti del pauperismo nella prima metà del XIX secolo: operai sradicati dalla propria famiglia e dal proprio ambiente d'origine, concentrati in spazi omogenei e quasi ridotti alle risorse che procura loro il lavoro. Perché le stesse cause non producano gli stessi effetti, cioè una pauperizzazione di massa, occorre che la retribuzione del lavoro non resti un salario di sopravvivenza. Si chiama “fordismo” l'articolazione, che Henry Ford fu senza dubbio il primo a mettere coscientemente in pratica, fra produzione di massa e consumo di massa. Henry Ford dichiara: “La fissazione del salario della giornata di otto ore a 5 dollari fu una delle più belle economie che io abbia mai fatto, ma portandolo a 6 dollari, io ne feci una più bella ancora” 36. Egli coglie così una relazione nuova tra l'accrescimento del salario, l'accrescimento della produzione e l'accrescimento dei consumi. Non si tratta solo del fatto che un salario elevato accrescerebbe la motivazione al lavoro e il rendimento. Prende forma una politica dei salari legata ai progressi della produttività attraverso la quale l'operaio accede a un nuovo registro dell'esistenza sociale: quello del consumo, e non più esclusivamente della produzione. Egli abbandona così quella zona di vulnerabilità che lo condannava a vivere pres36 Henry Ford, Ma vie et mon œuvre, Vennes-Paris, Lafolye-Payot, 1925, p. 168; trad. it. Autobiografia, cit.

soché alla giornata, appagando colpo dopo colpo i bisogni più pressanti. Egli accede al desiderio – riprendo le parole di Marrheim – la cui condizione sociale di realizzazione è il distacco rispetto all'urgenza del bisogno, ossia quella forma di libertà che passa dal governo della temporalità e si appaga nel consumo di oggetti durevoli, non strettamente necessari. Il “desiderio di benessere”, che si concentra sulla macchina, l'alloggio, gli elettrodomestici, ecc., permette – piaccia o meno ai moralisti – l'accesso del mondo operaio a un nuovo registro d'esistenza. È senza dubbio rendere troppo onore a Ford attribuirgli il merito di questa quasi-mutazione antropologica del rapporto salariale. Si tratta di un processo generale che è lontano dal riposare esclusivamente sull'invenzione della “catena di montaggio quasi automatica” e sulla politica salariale di un industriale americano. Resta, non di meno, che a partire da Ford si afferma una concezione del rapporto salariale secondo cui “il modo di consumo è integrato nelle condizioni di produzione” 37. Questo è sufficiente perché larghi strati di lavoratori – ma non tutti i lavoratori – abbandonino quella zona di estrema miseria e d'insicurezza permanente che era stata la loro condizione per secoli. Quarta condizione: l'accesso alla proprietà sociale e ai servizi pubblici. Il lavoratore è anche un soggetto sociale suscettibile di partecipare allo stock dei beni comuni non mercantili disponibili nella società. Ricordo qui solamente l'analisi della “proprietà di transfert” tentata nel capitolo precedente, che si inscrive nella medesima configurazione salariale. Se il pauperismo era stato il veleno della società industriale ai suoi esordi, l'assicurazione ob37 Michel Aglietta, Régulation et crises du capitalisme, cit., p. 130.

bligatoria costituisce il suo migliore antidoto. Una rete minima di sicurezze legate al lavoro può essere dispiegata nelle situazioni fuori del lavoro per mettere l'operaio al riparo dalla miseria assoluta. Senza dubbio, in queste prime forme di assicurazioni sociali, le prestazioni sono troppo mediocri per avere una vera e propria funzione redistributiva e pesare in maniera significativa sulla “norma di consumo”. Esse rispondono, tuttavia, a quella stessa congiuntura storica del salariato in cui questo può essere classificato e repertoriato (non si possono legare dei diritti, anche modesti, che a uno status chiaramente identificabile, il che presuppone l'elaborazione della nozione di popolazione attiva e la messa in disparte di molte forme di lavoro intermittente), fissato e stabilizzato (un diritto come la pensione presuppone un lavoro continuo sulla lunga durata), autonomizzato come uno stato che deve bastare a se stesso (per assicurare le protezioni si cessa di far affidamento sulle risorse delle economie domestiche e della “protezione ravvicinata”). Con ogni evidenza, questo modelli si applica in maniera privilegiata agli operai della grande industria, anche se è stato applicato ben oltre questa popolazione. Esso riconosce la specificità di una condizione salariale operaia e, nello stesso tempo, la consolida, poiché tende ad assicurarle delle risorse per essere autosufficiente in caso di incidente, di malattia o in seguito alla cessazione d'attività (pensione) 38. 38 Il fatto che la prima legge francese sull'assicurazione-pensione obbligatoria sia stata la legge del 1910 sulle pensioni operaie e contadine sembra contraddire l'aggancio privilegiato della protezione sociale alla condizione degli operai dell'industria. Ma, come nota Henri Hatzfeld (Du paupérisme à la Sécurité sociale, cit.), questo trattamento alla pari dei contadini e degli operai corrispondeva a una esigenza politica in una Francia “radicale” che coccolava in modo particolare i propri contadini e voleva evitare prima di tutto la destabilizzazione delle campagne e l'esodo rurale. In questo caso, le buone intenzioni furono mal ricompensate.

Ricordiamo anche che la promozione della proprietà di transfert si inscrive nello sviluppo della proprietà sociale, e specialmente dei servizi pubblici. Questi ultimi arricchiscono la partecipazione delle differenti categorie sociali alla “cosa pubblica”, sebbene questa partecipazione permanga ineguale. La classe operaia, ci si ritornerà, avrà un miglior accesso a beni collettivi quali la sanità, l'igiene, l'alloggio, l'istruzione. Quinta condizione: l'inscrizione in un diritto del lavoro che riconosca il lavoratore in quanto membro di un collettivo dotato di uno status sociale al di là della dimensione puramente individuale del contratto di lavoro. Si assiste anche a una trasformazione profonda della dimensione contrattuale del rapporto salariale. L'articolo 1710 del Codice civile lo definiva come un “contratto attraverso il quale una delle parti si impegna a fare qualche cosa per l'altra mediante un prezzo”. Transazione tra due individui per principio entrambi “liberi”, ma la cui dissimmetria profonda è stata più volte sottolineata. Léon Duguit vi vede l'espressione del “diritto soggettivo”, cioè “un potere appartenente a una persona di imporre a un'altra la propria personalità” 39; questo sarà sostituito da un diritto sociale “che unisce tra loro attraverso la comunità dei bisogni e la divisione del lavoro i memLa legge del 1910 sulle pensioni si è rivelata infatti quasi inapplicabile nelle campagne, in ragione in particolare della difficoltà di identificarvi dei “puri” salariati e della forte resistenza dei datori di lavoro a piegarsi a una ingiunzione percepita come una intrusione inammissibile dello Stato nelle forme “paternali” delle relazioni di lavoro. Il salariato contadino rappresentava allora una condizione troppo differente da quella del salariato industriale per prestarsi al medesimo trattamento. 39 Léon Duguit, Le droit social, le droit individuel et la transformation de l'État, cit., p. 4.

bri dell'umanità e in particolare i membri di un medesimo gruppo sociale”40. La presa in considerazione di questa dimensione collettiva fa slittare la relazione contrattuale del rapporto di lavoro verso uno statuto del salariato. “Vi è, nell'idea di statuto, caratteristica del diritto pubblico, l'idea di definizione obiettiva di una situazione che sfugge al gioco delle volontà individuali” 41. Un riconoscimento giuridico del gruppo dei lavoratori come interlocutore collettivo appare già attraverso la legge che abolisce il reato di sciopero (1864) e quella che autorizza le coalizioni operaie (1884), ma tali conquiste non hanno incidenza diretta sulla struttura del contratto di lavoro stesso. Allo stesso modo, per lungo tempo, le negoziazioni che hanno luogo in seno alle imprese tra i datori di lavoro e il collettivo dei lavoratori – in genere in occasione di uno sciopero o di una minaccia di sciopero – non hanno alcun valore giuridico. È la legge del 25 marzo 1919, dopo il riavvicinamento dovuto all'“unione sacra” e alla partecipazione operaia allo sforzo bellico, che conferisce uno statuto giuridico alla nozione di contratto collettivo. Le clausole del contratto collettivo prevalgono su quelle del contratto individuale di lavoro. Léon Duguit ne trae immediatamente la filosofia: Il contratto collettivo è una categoria giuridica tutta nuova e del tutto estranea alle categorie tradizionali del diritto civile. È una convenzione-legge che regola le relazioni di due classi sociali. È una legge che stabilisce dei rapporti permanenti e durevoli tra due gruppi sociali, il 40 Ivi, p. 8. 41 Jacques Le Goff, Du silence à la parole, cit., p. 112. Cfr. anche François Sellier, La confrontation sociale en France, cit.

regime legale secondo cui dovranno essere conclusi i contratti individuali tra i membri di questi gruppi42.

In effetti, il contratto collettivo supera il faccia a faccia datore di lavoro-impiegato della definizione liberale del contratto di lavoro. Un operaio assunto a titolo individuale in un'impresa beneficia delle disposizioni previste dal contratto collettivo. L'applicazione di questa legge fu in un primo tempo assai deludente per via della ripugnanza, manifestata sia dalla classe operaia sia dal padronato, a entrate in un processo di negoziazione. Queste reticenze (il termine è un eufemismo) dei “partner sociali” a negoziare43 rendono conto del ruolo svolto dallo Stato per mettere in campo delle procedure di concertazione. Dopo gli sforzi di Mellerand per creare nel 1900 dei consigli operai 44, è sicuramente lo Stato che sembra aver avuto un ruolo di motore nella 42 Léon Duguit, Les transformations générales du droit privé depuis le Code Napoléon, Paris, Alcan, 1920, p. 135, cit. in Jacques Le Goff, Du silence à la parole, cit., p. 106. 43 Per un'analisi del contesto storico-sociale che rende conto della cattiva volontà, tanto padronale che sindacale, verso la concertazione, e sulle differenze rispetto alla Germania e alla Gran Bretagna, cfr. François Sellier, La confrontation sociale en France, cit., pp. 1-2. Sulle misure adottate durante la Prima guerra mondiale e sulla loro rimessa in questione una volta tornata la pace, cfr. Martin Fine, Guerre et réformisme en France, 1914-1918, in Lion Murard, Patrick Zylberman (sous la direction de), Le soldat du travail. Guerre, fascisme et taylorisme, cit., pp. 545-564. 44 Decreto del 17 settembre 1900. “C'è un interesse di primo ordine a istituire tra i padroni e la collettività degli operai delle relazioni continue che permettano di scambiare per tempo le spiegazioni necessarie e di regolare alcuni tipi di difficoltà... Tali pratiche non possono che aiutare a creare un clima favorevole per i nuovi costumi che si vorrebbero onorare. Instaurandole, il governo della Repubblica resta fedele al suo ruolo di pacificatore e di arbitro” (cit. in Jacques Le Goff, Du silence à la parole, cit., p. 102). Ma il decreto non fu mai applicato.

costituzione del diritto del lavoro, almeno finché una parte della classe operaia aderente alle riforme (come obiettivo privilegiato o come tappa di un processo rivoluzionario) entra in scena per imporre il proprio punto di vista. Il 1936 rappresenta, sotto questo aspetto, un primum storico: la congiunzione di una volontà politica (il governo del Fronte popolare con una maggioranza socialcomunista che, attraverso le sue divergenze, vuole imporre una politica sociale favorevole agli operai) e di un movimento sociale (quasi due milioni di operai occupano le fabbriche in giugno). Gli accordi Matignon rilanciano i contratti collettivi e impongono dei delegati d'impresa eletti dall'insieme del personale 45. Ma, al di là di questa “conquista sociale” e di poche altre, il periodo del Fronte popolare rappresenta una tappa particolarmente significativa, decisiva e fragile, dell'odissea del salariato.

2. La condizione operaia Benché vi sia sempre una certa arbitrarietà nel tentare di datare trasformazioni di cui solo i processi di lunga durata tengono conto, vorrei fissare per un istante l'obiettivo sul 1936. Vi si può in effetti scorgere sia un momento di cristallizzazione sia un punto di oscillazione del rapporto salariale moderno, che ho appena presentato. Si tratta di una tappa significativa della promozione del salariato operaio: le riforme del 1936 sanciscono princi45 Nel 1936 furono firmati 1.123 contratti collettivi e 3.064 nel 1937. Cfr. Alain Touraine, La civilisation industrielle de 1914 à nos jours, Paris, Nouvelle Librairie de France, 1961, t. IV, pp. 172-173, in Louis-Henri Parias (sous la direction de), Histoire générale du travail, Paris, Nouvelle Librairie de France, 1959-1961.

palmente un certo riconoscimento della condizione operaia. Ma potrebbe anche trattarsi di una vittoria di Pirro. Qual è allora lo status della classe operaia nella società? Da un lato, il 1936 segna una tappa decisiva del suo riconoscimento come forza sociale determinante, una estensione dei suoi diritti e una presa di coscienza del suo potere che può farle sognare di diventare un giorno l'avvenire del mondo; dall'altro, il 1936 sancisce il particolarismo operaio, la sua assegnazione a una posizione subordinata nella divisione del lavoro sociale e nella società globale. Dal lato della consacrazione operaia, è una bella estate che non fa temere ancora l'autunno. Vittoria elettorale della sinistra, gli operai anticipano le decisioni del governo Blum (o gli forzano la mano), occupano le fabbriche e ottengono immediatamente un'avanzata senza precedenti dei diritti sociali. I padroni sono nel panico e vedono arrivare il regno del potere operaio 46. “Tutto è possibile”, scrive il 23 maggio 1936 Marceau Pivert, leader dell'ala sinistra del Partito socialista in una tribuna libera del “Populaire”47. Certamente non tutto è possibile 48, ma qualcosa è so46 Cfr. in Simone Weil (La condition ouvrière, Paris, Gallimard, 1951; trad. it. La condizione operaia, Milano, SE, 2003) – lettera ad auguste Debœf, pp. 188-190 – delle testimonianze di queste reazioni padronali. Gli accordi Matignon sono stati vissuti dalla maggioranza del padronato come un diktat sul quale non si smetterà di ritornare. 47 Cit. in Henri Noguères, La vie quotidienne en France au moment du Front populaire, Paris, Hachette, 1977, p. 131. 48 È la risposta di Maurice Thorez in un discorso dell'11 giugno 1936 e che fornisce la chiave della frase spesso citata “Occorre saper terminare uno sciopero”: “Occorre saper terminare uno sciopero quando si è ottenuta soddisfazione. Occorre anche saper acconsentire ai compromessi se non tutte le rivendicazioni sono state ancora accettate, ma si è ottenuta la vittoria sulle più essenziali delle rivendicazioni. Tutto non è possibile” (ivi, p. 131). Sulle posizioni regressive del Partito comunista rispetto alla volontà della CGT e su alcune tendenze del Partito socialista di promozione di riforme strutturali, come la nazionalizzazione e la pianifica-

stanzialmente cambiato, come prova una misura che potrebbe sembrare secondaria ma che riveste invece un significato simbolico eccezionale se la si colloca nella storia dell'“indegno salariato”: il congedo retribuito. Qualche giorno per anno, l'operaio può cessare di consumare la propria vita per guadagnarsela. Non fare nulla che si sia obbligati a fare è la libertà di esistere per sé. Inscrivere questa possibilità nella legge significa riconoscere al lavoratore molto semplicemente il diritto di esistere – cioè come gli altri, i redditieri, i “borghesi”, gli aristocratici, i possidenti, tutti quelli che, almeno nell'immaginario operaio, godono della vita in sé e per se stessi, dalla notte dei tempi. La rivendicazione di una riduzione del tempo di lavoro è stata una delle più antiche e delle più appassionate rivendicazioni operaie. Sembra che le prime “cabale” illecite di operai si siano scatenate più per controllare il tempo di lavoro che per ottenere un aumento dei salari49. La rivoluzione del febbraio 1848 strappa la giornata di dieci ore, misure ben presto abrogata. Il sindacalismo dell'inizio del secolo fa del riposo settimanale (ottenuto nel 1906) e della giornata di otto ore una delle sue principali rivendicazioni; la sola forse, per i sindacalisti d'azione diretta, che non sia “riformista”. È la parola d'ordine più popolare del primo maggio di lotta, e ricopre i manifesta di propaganda della CGT 50. Ma più simbolicamente significativo della riduzione del tempo di lazione dell'economia, cfr. Richard F. Kuisel, Le capitalisme et l'État en France, cit., cap. IV. 49 Cfr. Henri Hauser, Ouvrier du temps jadis, cit. 50 L'insistenza sindacale nell'esigere una riduzione del tempo di lavoro si alimenta di una duplice ragione: aiutare il lavoratore a ritrovare la propria dignità, rompendo l'abbruttimento di un lavoro continuo, e lottare contro la disoccupazione, ripartendo il lavoro tra un maggior numero di operai.

voro (la settimana di quaranta ore viene ottenuta nel giugno 1936), più profondamente liberatore anche dell'accesso al consumo permesso dall'aumento dei salari51, il finanziamento di un tempo libero vale come un riconoscimento ufficiale dell'umanità del lavoratore e della dignità umana del lavoro. Il lavoratore è anche un uomo e non un perenne bisognoso, e il suo lavoro gli paga questo accesso alla qualità di uomo in quanto tale, di uomo in sé, cessando di essere la legge inesorabile di ogni giorno. Rivoluzione culturale al di là del suo carattere di “conquista sociale”, perché significava cambiare la vita e le ragioni di vita, fosse pure per qualche giorno all'anno. Sembra che i contemporanei abbiano vissuto il congedo retribuito in questo modo, almeno coloro che condivisero l'entusiasmo di quei momenti – perché non mancarono buoni spiriti per dire che era arrivato il tempo della vergogna, dal momento che si cominciava a finanziare il far niente e che i “mascalzoni in berretto” invadevano le spiagge riservate al bel mondo52. Questo significa attribuire un'importanza esagerata a una misura in fin dei conti modesta come la concessione di alcuni 51 Gli accordi Matignon hanno stabilito un aumento immediato dei salari tra il 7 e il 15%. Tra il 1926 e il 1939 il salario reale dell'operaio qualificato parigino (dedotti aumento dei prezzi al consumo e inflazione) è aumentato di circa il 60%. Cfr. François Sellier, Les salariés en France depuis cent ans, Paris, PUF, 1979, p. 67. 52 Cfr. Henri Noguères, La vie quotidienne in France au temps du Front populaire, cit., che parla lui stesso di “rivoluzione culturale” e descrive al contempo l'entusiasmo delle prime partenze per le vacanze e le reazioni della stampa benpensante dinanzi ai “treni del piacere” organizzati a cura di Léo Lagrange per portare i lavoratori e le loro famiglie al mare. Sottile disprezzo del redattore del “Figaro”: “Poi si farà gioiosamente un picnic sui ciottoli ai piedi della storica Promenade [si tratta della Promenade des Anglais a Nizza] e ci si immergerà nell'acqua... La moltiplicazione dei treni rossi sulla Costa Azzurra è sulla buona strada. E la moltiplicazione dei terni blu anche” (ivi, p. 156).

giorni all'anno di congedi retribuiti? Di fatto, questo episodio (la sola “conquista sociale” del 1936 che non sia stata rimessa in discussione) può esemplificare la posizione, che si potrebbe definire sospesa e perciò instabile, occupata dalla classe operaia nella società della fine degli anni Trenta. Da un lato, dopo una lunga quarantena, la sua condizione si avvicina al regime comune. I congedi retribuiti possono simboleggiare questo riavvicinamento di due condizioni e di due modus vivendi che tutto separava. In questo sottile intervallo temporale, la vita operaia coincide con una caratteristica essenziale dell'esistenza “borghese”, la libertà di scegliere che fare o di non fare nulla, perché la necessità quotidiana di sopravvivere allenta la sua stretta. Pochi giorni all'anno, la condizione operaia e la condizione borghese si intersecano. Ma allo stesso tempo persiste molto forte un particolarismo operaio vissuto nella subordinazione e che mantiene un antagonismo di classe. L'ostilità “borghese” ai congedi retribuiti – condivisa dai piccoli lavoratori indipendenti, dai commercianti, ecc., da tutta la Francia non salariata – manifesta bene la perennità di questa divisione. Questo atteggiamento riattiva, per dirla in toni appena eufemistici, il disprezzo secolare delle classi proletarie nei riguardi del lavoratore-che-non-lavora e sarebbe inoccupato solo perché soffre di una tara morale, non potendo esserci altro impiego possibile di una libertà rubata al lavoro che quella di assecondare i propri vizi: pigrizia, ubriachezza e lubricità. Non vi è altra modalità di esistenza possibile per il lavoratore che il lavoro: non si tratta di una tautologia, ma di un giudizio morale e sociale a un tempo, condiviso da tutti i benpensanti e che rinchiude l'operaio in un ruolo per sempre chino sulle mansioni materiali.

Anche dal lato degli operai l'atteggiamento nei riguardi dei congedi retribuiti tradisce la permanenza di un sentimento di dipendenza sociale. Divertimenti sì, ma divertimenti “popolari”. Una fierezza di essere come gli altri, ma una coscienza che, lungi dall'andar da sé, questa libertà ha del miracoloso e bisogna ormai meritarla imparando a farne buon uso, fosse anche imparando a divertirsi. “La classe operaia ha saputo conquistare il suo tempo libero, essa deve ora conquistare l'uso del suo tempo libero”53, dice Léon Lagrange. L'organizzazione degli svaghi popolari – una parte importante e originale dei risultati del Fronte popolare – traduce questa preoccupazione di sfuggire all'oziosità gratuita. Espressione al contempo di una forte coscienza della differenza di classe e di un certo moralismo pragmatico: il tempo libero si merita, e deve essere ben occupato. Bisogna distinguersi dai ricchi oziosi, che sono dei parassiti sociali. La cultura, lo sport, la salute, l'avvicinamento alla natura, delle relazioni sane (e non sessualizzate) tra i giovani, ecc., devono saturare il tempo che sfugge al lavoro. Niente tempi morti, la libertà non è né l'anarchia né il puro godimento. Bisogna fare meglio dei borghesi, e lavorare il proprio tempo libero. Più in profondità, questo breve tempo di fragile libertà rinvia al suo inverso, la permanenza del lavoro alienato che rappresenta la base a partire dalla quale si edifica lo statuto sociale della classe operaia. Per l'ottenimento delle conquiste sociali del 1936, 53 Cit. in Henri Noguères, La vie populaire en France au temps du Front populaire, cit., p. 188. Per un'esposizione d'insieme dell'opera di Léo Lagrange, “sottosegretario di Stato agli Sport e al Tempo libero”, cfr. JeanLouis Chappat, Les chemins de l'espoir: combats de Léo Lagrange, Lille, Éditions des Fédérations Léo Lagrange, 1983.

gli operai della grande industria hanno giocato il ruolo-motore 54. Ora, le condizioni di lavoro in queste fabbriche occupate nel giugno 1936 sono generalmente richieste dall'“organizzazione scientifica del lavoro” o dai suoi equivalenti: le cadenze, il cronometraggio, la sorveglianza costante, l'ossessione del rendimento, l'arbitrio dei padroni e il disprezzo dei piccoli capi. Non c'è che da leggere l'opera di Simone Weil: essa contiene già tutta la tematica del “lavoro in frantumi” che segnerà gli inizi della sociologia del lavoro55. Ma questa relazione di lavoro non è direttamente solamente dalle esigenze tecnologiche della produzione, la divisione dei compiti, la rapidità delle cadenze... è anche un rapporto sociale di subordinazione e di spossessamento che si installa attraverso la mediazione del rapporto tecnico di lavoro. Simone Weil insiste sulla “morsa della subordinazione” 56 che caratterizza la situazione dell'operaio al lavoro. Questi è destinato ai compiti esecutivi. Tutto quel che è concetto, riflessione, immaginazione, gli sfugge. Ora, poiché è una situazione sociale e non soltanto un rapporto tecnico di lavoro, questa condizione di dipendenza non si lascia nello spogliatoio uscendo dalla fabbrica, al contrario, come canterà Yves Montand in Luna Park, essa l'accompagna al 54 Le prime occupazioni di fabbriche si fanno nelle fabbriche metallurgiche e aeronautiche, cioè nei siti industriali più “moderni”. Sui cambiamenti intervenuti nel movimento operaio fin dagli inizi degli anni Trenta, che pongono in primo piano gli operai delle grandi industrie a scapito dei settori legati alle tradizioni artigianali o ai funzionari dello Stato, cfr. Gérard Noiriel, Les ouvriers dans la société française. XIX e-XXe siècles, cit., p. V. Sulle trasformazioni intervenute in seno alla CGT propriamente detta (riunificata nel 1935), cfr. Antoine Prost, La CGT à l'époque du Front populaire, 1934-1939, Paris, A. Colin, 1964. 55 Cfr. Georges Friedmann, Le travail en miettes. Specialisation et loisirs, Paris, Gallimard, 1956; trad. it. Il lavoro in frantumi. Specializzazione e tempo libero, Milano, Edizioni di Comunità, 1960. 56 Simone Weil, La condition ouvrière, cit., p. 142.

di fuori. Senza dubbio si può dire con Alain Touraine che “la coscienza operaia è sempre orientata da una doppia esigenze: creare delle opere e vederle riconoscere socialmente come tali” 57. Ma allora si tratta, il più delle volte, di una coscienza infelice, la coscienza di un deficit, nella fabbrica come fuori dalla fabbrica, tra l'importanza del ruolo di lavoratore-produttore all'origine della creazione della ricchezza sociale e il riconoscimento, o piuttosto il non-riconoscimento, che gli è accordato dalla collettività. È questa relazione tra una situazione di dipendenza nei luoghi di lavoro e una posizione socialmente svalorizzata che annoda il destino degli operai: “Nessuna intimità lega gli operai ai luoghi e agli oggetti tra i quali la loro vita si svolge, e la fabbrica fa di essi, nei propri paesi, degli stranieri, degli esiliati, degli sradicati” 58. Certo, questa contraddizione è particolarmente leggibile a partire dalla situazione degli operai della grande industria sottomessi alle forme moderne di razionalizzazione del lavoro, e che sono minoritari nella classe operaia59, ma essa non fa che spingere al limite una caratteristica generale della condizione dei lavoratori: la coscienza del ruolo socialmente subordinato attribuito al lavoro manuale. Questa concezione del lavoro operaio ridotto alle sole mansioni esecutive, indispensabili ma senza alcuna dignità sociale, è evidente e vale per tutte le forme di lavoro ma-

57 Alain Touraine, La conscience ouvrière, Paris, Le Seuil, 1966, p. 242; trad. it. La coscienza operaia, Milano, FrancoAngeli, 1969. 58 Simone Weil, La condition ouvrière, cit., p. 34. 59 Nel 1936, le 350 imprese più grandi occupano 900.000 operai (Henri Noguères, La vie quotidienne au temps du Front populaire, cit., p. 97). Gli stabilimenti con più di 500 salariati occupano circa un terzo dei 5,5 milioni di salariati dell'industria (cfr. François Sellier, Les salariès en France depuis cent ans, cit.).

nuale. È la tesi centrale della prima analisi con pretese scientifiche della condizione operaia: la situazione dell'operaio contrasta con quella dell'impiegato, del funzionario, come lui non commerciante, ma di cui si retribuisce, contemporaneamente al lavoro, l'anzianità di servizio, le qualità intellettuali o morali. […] Del lavoro operaio non si retribuiscono che delle operazioni meccaniche e quasi macchinali, perché l'operaio deve astenersi da ogni iniziativa e puntare solo a diventare uno strumento sicuro e ben adatto a un compito semplice o complesso, ma sempre monotono60.

L'operaio non pensa, è ben noto, e la sociologia nascente prova anche che non può pensare. È ancora, lo si vedrà, l'idea direttrice della monumentale sintesi che François Simiand consacra al salariato nel 193261. Il lavoro operaio continua a esser definito come lo strato inferiore del lavoro, tecnicamente il più rozzo e socialmente il meno degno. Gli operai non condividono necessariamente questa concezione del lavoro, che presentano tanto bene le dotte ricostruzioni della sociologia e dell'economia quanto le rappresentazioni delle classi dominanti. Il movimento operaio ha cominciato fin dalle sue origini (è già il leitmotiv di “Atelier”, redatto e pubblicato dagli operai stessa tra il 1840 e il 1850) ad affermare la dignità del 60 Maurice Halbwachs, La classe ouvrière et les niveaux de vie. Recherche sur la hiérarchie des besoins dans les sociétés industrielles contemporaines, Paris, Alcan, 1912, p. 121 e p. 118; trad. it. Come vive la classe operaia. La gerarchia dei bisogni nelle società industriali contemporanee, Roma, Carocci, 2014. 61 François Simiand, Le salaire, l'évolution sociale et la monnaie. Essai de théorie expérimentale du salaire, introduction et étude globale, cit.

lavoro manuale e la sua preminenza sociale in quanto vero e proprio creatore di ricchezze. Più tardi si assisterà anche a una mitizzazione di certe figure operaie come il minatore o il metalmeccanico, portatori di una concezione prometeica del mondo 62. Ma questa esaltazione del lavoro non sopprime il sentimento della dipendenza operaia. È anche questa coesistenza di un'affermazione di dignità e di una esperienza di spossessamento a essere al principio della coscienza di classe operaia. Questa si è forgiata nel conflitto, a partire dalla presa di coscienza collettiva del fatto di essere spogliata dei frutti del proprio lavoro. La postura rivendicativa stessa non va dunque disgiunta dalla coscienza della subordinazione. Sentirsi dipendente costituisce il motore della lotta per riappropriarsi della dignità sociale del lavoro “alienato” dall'organizzazione capitalistica della produzione. Si potrebbe dunque caratterizzare il posto che occupa la condizione operaia nella società degli anni Trenta come una relativa integrazione nella subordinazione. I fattori di appartenenza sono stati sottolineati: assicurazioni sociali, diritto del lavoro, incrementi salariali, accesso al consumo di massa, relativa partecipazione alla proprietà sociale e anche agli svaghi. Il tratto comune di queste conquiste è che esse hanno contribuito a stabilizzare la condizione operaia introducendo una distanza rispetto all'immediatezza del bisogno. In tal senso, la condizione operaia è ben differente dalla condizione proletaria degli inizi dell'industrializzazione, segnata da una vulnerabilità costante. E in tal senso si può anche parlare di integrazione: la classe operaia è stata rim62 Per un prototipo di questa letteratura, cfr. André Stil, Le mot mineur, camarade, Paris, la Bibliothèque française, 1949.

patriata dalla posizione di quasi-esclusione che occupava allora all'estremo margine della società. Tuttavia, questo rimpatrio si inscrive in un quadro che presenta ancora dei tratti dualistici. Intendiamoci bene: società ancora dualista, ma non duale. Una società duale è una società di esclusione nella quale certi gruppi non hanno niente e non sono niente, o quasi. Nel modello che qui richiamo coesistono delle fratture e delle interdipendenze, prevalgono dei rapporti di dominio che non corrispondono pur tuttavia a delle situazioni in cui i subordinati sono consegnati all'arbitrio. Ma questa coesistenza di indipendenza nella dipendenza conserva il sentimento di un'opposizione globale di interessi tra dominanti e subordinati. Una tale struttura sociale è vissuta attraverso la bipolarità tra “loro” e “noi”, così ben spiegata da Richard Hoggart 63. “Noi” non siamo degli zombie, abbiamo la nostra dignità, i nostri diritti, le nostre forme di solidarietà e di organizzazione. Che ci si rispetti: l'operaio non è un domestico, non è affatto completamente sotto l'influenza del bisogno, né alla mercé dell'arbitrio di un padrone. Fierezza operaia che preferirà sempre arrangiarsi per “sbarcare il lunario” piuttosto che elemosinare l'aiuto: “noi” ci si guadagna la nostra vita, ma “loro” sono comunque tutta un'altra cosa. “Loro” hanno la ricchezza, il potere, l'accesso alla cultura legittima e a una sfilza di beni di cui non vedremo mai l'ombra. “Loro” sono pretenziosi e snob, e bisogna diffidarne anche quan-

63 Richard Hoggart, La culture du pauvre. Étude sur le style de vie des classes populaires en Angleterre, Paris, Minuit, 1970; trad. it. Proletariato e industria culturale. Aspetti di vita operaia inglese con particolare riferimento al mondo della stampa e dello spettacolo, Roma, Officina, 1970.

do pretendono di volerci bene perché sono astuti e capaci di muovere dei fili di cui non avremo mai padronanza. La coscienza di questa scissione è aumentata dall'esperienza che vive la classe operaia nei principali settori dell'esistenza sociale: il consumo, l'alloggio, l'istruzione, il lavoro. Il consumo, lo si è detto, non si riduce più alla soddisfazione dei bisogni necessari alla sopravvivenza, e la classe operaia accede a un “consumo di massa”, ma la parte riservata all'alimentazione nei budget operai è ancora del 60% negli anni Trenta (era più del 70% nel 1856 e del 65% nel 1890)64. Maurice Halbwachs, come Veblen, ha mostrato le incidenze antropologiche del ripiegamento di una parte maggioritaria del budget sul consumo alimentare: è la partecipazione alla vita sociale che si trova amputata dalla mediocrità delle spese che non hanno per finalità la riproduzione biologica65. Le sue analisi risalgono al 1912, ma la situazione non è sostanzialmente cambiata venticinque anni più tardi: dalla fine del XIX secolo agli anni Trenta del XX secolo, la parte delle spese non alimentari nei budget operai non ha guadagnato che cinque punti. L'alloggio popolare non è più esattamente l'“inferno dell'abitazione” che evoca Michel Verret per il XIX secolo, ma l'insalubrità e il sovraffollamento sono ancora la sorte della maggioranza degli alloggi operai. Per Parigi, un'inchiesta del 1926 mostra che un abitante su quattro dispone di meno di un mezzo vano e che le orribili garnis66 alloggiano ancora 320.000 persone. La situazione non migliora affatto in seguito: si costruiscono appena 70.000 alloggi all'anno in Francia alla fine degli anni Trenta,

66 Stanze ammobiliate [N.d.R.].

contro i 250.000 della Germania67. L'urbanismo delle “città-giardino” resta relegato in alcune municipalità socialiste o radicali, e le esperienze del tipo “Città radiosa” à la Le Corbusier sono un'eccezione; riguardano ancora gli impiegati e le classi medie nascenti più che gli operai68. Per quanto concerne l'istruzione, la gratuità dell'insegnamento secondario non viene acquisita che nel 1931. Gli effettivi di questo insegnamento sono rimasti costanti tra il 1880 e il 1930, 110.000 alunni in media69. Vale a dire che i bambini delle classi popolari sono relegati nelle filiere “primarie”. Il tema del pericolo di un'istruzione troppo approfondita che “sradica” (déracine) il popolo è una costante della letteratura dell'epoca 70. Jean Zay, ministro del Fronte popolare, prolunga fino a quattordici anni la scuola dell'obbligo e tenta di imporre una classe di orientamento e un percorso comune per tutti gli alunni, ma la “democratizzazione” (relativa) dell'insegnamento dovrà attendere gli anni Cinquanta per imporsi. Rispetto all'impiego, si è sottolineata la situazione di dipendenza sociale degli operai nei luoghi di lavoro. Ma, per di più, negli anni Trenta il mercato del lavoro è ancora dominato da una mobilità fatta di incertezza, sotto la minaccia di un licenziamento dal quale la legislazione del lavoro non protegge. Le assunzioni a cottimo, a ora o alla giornata sono le più frequenti. Il più 67 Cfr. Jean-Paul Flamand, Loger le peuple. Essai sur l'histoire du logement social, Paris, La Découverte, 1898. 68 Louis Houdeville, Pour une civilisation de l'habitat, Paris, Éditions ouvrières, 1969. 69 Cfr. Antoine Prost, Histoire de l'enseignement en France. 1800-1967, Paris, Colin, 1968. 70 Cfr. Maurice Barrès, Les déracinés, Paris, Fasquelle, 1897, t. I di Id., Le roman de l'énergie nationale, Paris, Fasquelle, 1897-1902.

delle volte non esiste né contratto scritto né clausola preliminare sulla durata dell'assunzione. L'operaio “prende il posto” o il datore di lavoro lo “congeda”, l'una e l'altra cosa con una facilità che stupisce71. E vi è evidentemente la minaccia della disoccupazione, che la crisi dell'inizio degli anni Trenta ha appena riacceso. Gli immigrati la subiscono appieno: 600.000 su quasi 2 milioni di stranieri venuti a stare in Francia a seguito del prelievo demografico dovuto alla Grande Guerra vengono espulsi. Ma gli autoctoni non sono risparmiati. Nel 1936, si censisce quasi 1 milione di disoccupati72. Il momento del Fronte popolare è anche questo periodo di instabilità economica e sociale, a cui succederà ben presto il dramma della disfatta. Infine, vi si è a lungo insistito in precedenza, l'assicurazione obbligatoria è un dispositivo che si mostrerà decisivo per scongiurare la vulnerabilità operaia. Ma, negli anni Trenta, comincia appena a far sentire i suoi effetti. Le pensioni operaie sono derisorie e, tenuto conto della durata della capitalizzazione e della mortalità operaia, vi è allora meno di 1 milione di beneficiari 73. In questi anni Trenta, i vecchi operai che devono ricorrere all'as-

71 Cfr. Robert Salais, La formation du chômage comme une catégorie, cit. Per una testimonianza autobiografica sull'esistenza operaia all'epoca, cfr. René Michaud, J'avais vingt ans. Un jeune ouvrier au début du siècle, Paris, Éditions syndacalistes, 1967, che mostra la permanenza della mobilità professionale e del carattere “labile” della relazione con il datore di lavoro. 72 Cfr. Jean-Jacques Carré, Paul Dubois, Edmond Malinvaud, La croissance française. Un essai d'analyse économique causale de l'après-guerre, Paris, Le Seuil, 1972. I disoccupati rappresentano allora l'8,5% dei salariati e il 4,5% della popolazione attiva (François Sellier, Les salariés en France depuis cent ans, cit., p. 87). 73 Cfr. Antoine Prost, Jalons pour une histoire des retraites et des retraités, cit.

sistenza per sopravvivere sono quasi lo stesso numero di coloro che possono beneficiare di prestazioni sociali obbligatorie74. L'associazione di questi tratti mostra la persistenza di un forte particolarismo operaio. Livello di vita, livello di istruzione, modus vivendi, rapporto col lavoro, grado di partecipazione alla vita sociale, valori condivisi, disegnano una configurazione specifica che costituisce la condizione operaia in classe sociale. Essa non è più quella “casta fluttuante […] che stravasa nella nazione” evocata da Lamartine al momento della prima fase dell'industrializzazione (cfr. cap. V), ma “l'isolamento sociale e culturale degli operai resta assai grande perché si stabiliscono dei rapporti di classe tra le sue unità sociali che costituiscono ancora dei gruppi reali”75. Senza dubbio occorre diffidare dei ritratti, che assumono oggi una tonalità nostalgica, della vita operaia con le sue solidarietà e la sua morale, i suoi piaceri semplici e le sue forme intense di socialità. Resta non di meno che, tanto per il posto subordinato che occupa nella gerarchia sociale che per la sua coesione interna, il mondo operaio appare al contempo come facente parte della nazione e come organizzato attorno a interessi a aspirazioni propri. Questa situazione mostra quanto permanga instabile il modello d'integrazione che caratterizza gli anni Trenta e che resterà dominante fino agli anni Cinquanta. La classe operaia non è divenuta troppo cosciente dei propri diritti – o troppo avida, diranno gli avversari –, anche troppo combattiva, perché si perpetui la sua dipendenza? Questa congiuntura incerta potrebbe sfo74 Cfr. Anne-Marie Guillemard, Le déclin du social. Formation et crise des politiques de la vieillesse, Paris, Le Seuil, 1986. 75 Alain Touraine, La conscience ouvrière, cit., p. 215.

ciare in due tipi di trasformazioni: prosecuzione delle “conquiste sociali”, erodendo progressivamente la distanza tra “loro” e “noi”, o anche presa del potere da parte della classe operaia organizzata. Ossia, per semplificare, riforme o rivoluzione. Tale potrebbe essere la riformulazione della questione sociale alla fine degli anni Trenta. Si tratta meno di due formule antagoniste che di due opzioni che si sviluppano a partire da una stessa base di pratiche, da una medesima condizione. La classe operaia non è più nella situazione di “non avere nulla da perdere se non le proprie catene”. Donde il consolidamento, nel movimento operaio, “di un principio positivo di obiettivi da difendere e da raggiungere” 76. Questo realismo va nel senso del consolidamento di un riformismo che ha già fatto le sue prove, poiché delle conquiste importanti sono state ottenute. Ma questo non implica necessariamente la fine del messianismo operaio. Nell'immaginario militante, il 1936 prende posto, accanto al 1848 e alla Comune di Parigi, tra quei momenti fondativi durante i quali si è delineata la possibilità di un'organizzazione alternativa della società. La “generazione” che si è sollevata nel 1936 attraverserà l'Occupazione con la Resistenza e animerà delle lotte sociali durissime dopo la Liberazione, formando il nucleo, principalmente nella CGT, di un'attitudine combattiva di classe77. Tanto più che di fronte i nemici non mancano. L'altra branca dell'alternativa è rappresentata dalla minaccia fascista e da una Francia conservatrice che – come nel 1848 o nel 1871 – attende la sua rivincita. Non si tratta che di scorrere la stampa dell'epo76 Ivi, p. 353. 77 Cfr. Gérard Noiriel, Les ouvriers dans la société française. XIX e-XXe siècles, cit., cap. VI.

ca per rendersi conto di quanto sia stato un periodo di antagonismi politici e sociali acuti. Il 5 maggio 1936, Henri Béraud, in “Gringoire”, tenta così di mobilitare le paure del francese medio contro la minaccia dei Rossi: “Tu amavi il tuo giardinetto, mio prode, il tuo café, i tuoi amici, la tua piccola auto, la tua scheda elettorale, i tuoi giornali variopinti di satire e di fatti diversi. Ebbene, caro amico, tu dovrai dire addio a tutto questo” 78. E dall'altro lato, quando all'inizio del 1938 la disfatta del Fronte popolare è pressoché consumata sul piano politico, Paul Faure scrive ne “le Populaire”, organo ufficiale del Partito socialista: “Negare la lotta di classe significherebbe negare la luce del giorno”79.

3. La destituzione Tuttavia, la classe operaia non è stata vinta nel corso di uno scontro frontale, come lo furono, per esempio, gli operai parigini nel giugno 1848. Ci sarebbe certamente molto da dire sulle peripezie del periodo dell'Occupazione e sulla partecipazione di una parte della classe operaia alla Resistenza, sul contesto della Liberazione, degli scioperi quasi insurrezionali del 1947 e delle lotte contro l'“imperialismo americano”, e anche sull'accanimento della CGT e del Partito comunista nel mantenere, almeno a parole, un atteggiamento rivoluzionario: questi sono altrettanti episodi di uno scontro sociale cristallizzato negli anni Trenta e che resterà vivo fino agli anni Sessanta. Ma questa postura di opposizione radicale si erode progressivamente perché, al di là degli 78 Cit. in Paul Reynaud, Mémoires, 2 voll., Paris, Flammarion, 1960-1963, t. 2, 1963, p. 51; trad. it. Memorie, 2 voll., Bologna, Cappelli, 1962-1964. 79 Ivi, p. 151.

avatar politici, è minata da una trasformazione di natura sociologica: la classe operaia è stata destituita dalla posizione di punta che occupava nella promozione del salariato. Schematizzando la trasformazione che si è operata in una quarantina d'anni (dagli anni Trenta agli anni Settanta), si dirà che il “particolarismo operaio” non è stato abolito, ma che ha cessato di giocare il ruolo di “attrattore”80 che gli era stato proprio nel processo di costituzione della società industriale. Il salariato operaio è stato letteralmente svuotato delle potenzialità storiche che gli forniva il movimento operaio. La condizione operaia non è nata da un'altra forma di società, essa si è solamente inserita in una posizione subordinata nella società salariale. Quali sono i processi che sottendono una tale trasformazione? La quasi-sinonimia del salariato e del salariato operaio è palese fino all'inizio degli anni Trenta. François Simiand, nella sua opera del 1932 che si vuole una summa sul salario, lo conferma in modo puro e semplice: La denominazione di salario nell'uso corrente ci sembra applicarsi propriamente, in maniera a un tempo generale e topica, alla categoria degli operai, distinti dai domestici nell'agricoltura, dagli impiegati nel commercio, nell'industria e anche nell'agricoltura, dai capi-servizio, d'azienda, ingegneri, direttori di ogni genere81. 80 Prendo in prestito il termine “attrattore” da Luc Boltanski, Les cadres. La formation d'un groupe social (Paris, Minuit, 1982, p. 152), che qualifica così il ruolo dominante svolto da un gruppo sociale nella riorganizzazione di un campo professionale. Si potrebbe dire che il salariato operaio abbia all'inizio svolto tale ruolo nella strutturazione del salariato, prima di essere soppiantato da un salariato impiegatizio-classe media. 81 François Simiand, Le salaire, l'évolution sociale et la monnaie. Essai de théorie expérimentale du salaire, introduction et étude globale, cit., t. I,

Solo la classe operaia produce in effetti “una prestazione di puro lavoro” che costituisce “un quadro economico distinto” 82. Ma che cosa è una “prestazione di puro lavoro”? Un lavoro puramente manuale, senza dubbio, ma vi è anche il lavoro con le macchine, e Simiand è obbligato ad apportare una sfumatura: l'operaio svolge “un lavoro manuale o almeno la cui parte manuale è essenziale”83. Si tratta dunque di un lavoro puramente esecutivo, ma gli impiegati non sono anch'essi sovente dei puri esecutori? Simiand apporta un altro correttivo, che tradisce il suo imbarazzo: l'impiegato “svolge un lavoro non manuale o almeno il cui effetto materiale non è essenziale”84. E che dire dei capi-servizio, ingegneri, direttori, che non sono proprietari della loro impresa? Anch'essi forniscono, esclusivamente, una “prestazione in lavoro”. Perché rifiutare loro lo status di salariati dell'impresa? Ma per Simiand non se ne parla neanche. In effetti, Simiand occupa una posizione difensiva e già in corso di superamento che rinvia al modello di società proprio degli inizi dell'industrializzazione, caratterizzata dalla preminenza dei compiti di trasformazione diretta della materia. Ora, il processo di differenziazione del salariato è già fortemente sviluppato negli anni Trenta. Esso rende progressivamente relativo il peso del salariato operaio e, pertanto, quello della condizione operaia nell'organizzazione del lavoro. Il senso di queste trasforp. 151. È per questo che la remunerazione delle altre forme di lavoro deve avere altri nomi: “stipendi”, “trattamenti”, “emolumenti”, “indennizzi”, ecc., ma non “salario”. 82 Ivi, p. 173. 83 Ivi, p. 171. 84 Ibidem.

mazioni si svilupperà fino al 1975, data che può essere presa come riferimento per segnare l'apoteosi della società salariale85. Aumento massiccio della percentuale dei salariati nella popolazione attiva innanzitutto: essi ne rappresentano meno della metà (49%) nel 1931, quasi l'83% nel 1975. In cifre assolute, se si includono gli operai agricoli, il numero dei lavoratori manuali è decresciuto, da 9.700.000 a 8.600.000; al contrario, il totale degli operai non agricoli è leggermente aumentato, da 7.600.000 a 8.200.000. Ma la trasformazione essenziale nella composizione della popolazione attiva consiste nell'aumento dei salariati non operai. Essi erano 2,7 milioni nel 1931, e sono 7,9 milioni nel 1975. Il loro numero ha dunque quasi pareggiato quello degli operai (e l'ha largamente superato in seguito). Ma ugualmente considerevoli sono le trasformazioni interne a questo gruppo. Benché i dati statistici non permettano delle comparazioni di una precisione assoluta (infatti, se si contano allora quasi 125.000 “esperti e tecnici”, le categorie di “quadri medi e di quadri superiori” non esistono negli anni Trenta), si può affermare che la grande maggioranza dei salariati non operai era composta da piccoli impiegati del settore pubblico e privato il cui status, sebbene considerato superiore a quello degli operai, non di meno restava in genere mediocre. Nel 1975, tuttavia, i “semplici impiegati” rappresentano meno della metà dei salariati non operai, ri85 In genere, si fa risalire al 1973 la “crisi” a partire dalla quale la condizione salariale comincia a degradarsi. Tuttavia, oltre al fatto che i primi effetti impiegano un certo tempo per farsi sentire (anzi, la disoccupazione non aumenta significativamente che nel 1976), il 1975 rappresenta una data più comoda, perché numerose inchieste statistiche la considerano come un momento di cerniera. Si può altresì notare che è nel 1975 che la popolazione operaia raggiunge in Francia il suo apice; in seguito decrescerà regolarmente.

spetto a 2.700.000 “quadri medi” e a 1.380.000 “quadri superiori”: sono questi gruppi, che rappresentano un salariato di alta gamma, che hanno conosciuto l'aumento più considerevole 86. Così i cambiamenti repertoriati dalle statistiche riflettono una trasformazione essenziale della struttura salariale. Se nei numeri il salariato operaio si è pressappoco mantenuto stabile, la sua posizione nella struttura salariale si è fondamentalmente degradata. In primo luogo perché la classe operaia ha perso, si potrebbe dire, lo strato salariale che le era inferiore quanto a status sociale, a salario e a condizioni di vita. Gli operai agricoli rappresentavano ancora all'inizio degli anni Trenta un quarto dei lavoratori manuali (erano più della metà nel 1876). Nel 1975, essi sono praticamente scomparsi (375.000). La classe operaia rappresenta da allora la base della piramide salariale – nei fatti la base della piramide sociale87. Al contrario, al di sopra di essa 86 Le fonti principali qui utilizzate, così come, salvo menzione contrarie, nelle pagine seguenti, sono: Laurent Thévenot, Les catégories sociales en 1975. L'extension du salariat, in “Économie et statistique”, n. 91, 1977, pp. 3-31; Christian Baudelot, Anne Lebeaupin, Les salaires de 1950 à 1975, in “Économie et statistique”, n. 113, 1979, pp. 15-22; François Sellier, Les salariés en France depuis cent ans, cit., 1979; Michel Verret, Le travail ouvrier, cit.; François Sellier, Les salariés, croissance et diversité e Michel Verret, Classe ouvrière, conscience ouvrière, in Jean-Daniel Reynaud, Yves Grafmeyer (sous la direction de), Français, qui êtes-vous?, Paris, La Documentation française, 1981. In mancanza di fonti omogenee, la data di riferimento per gli anni Trenta può variare dal 1931 al 1936, ma gli effetti di questa disparità sono minimi per l'argomentazione generale. 87 La crescita del salariato industriale si alimenta a due fonti principali: la riduzione delle professioni indipendenti e l'esodo rurale. Su questo ultimo punto, cfr. François Sellier, Les salariés en France depuis cent ans, cit., pp. 10 sgg., che insiste su una forte resistenza dei contadini nei confronti dell'attrazione della città e dell'industria (nel 1946, la popolazione agricola attiva è numerosa praticamente quanto nel 1866). Ne deriva che sono dapprima gli operai agricoli piuttosto che gli imprenditori agri-

si sono sviluppati non solamente un salariato impiegatizio – che spesso può non essere altro, secondo l'espressione consacrata, che un “proletariato in colletto bianco”88 –, ma soprattutto un salariato “borghese”. Il salariato operaio rischia allora di essere al contempo annegato in una concezione sempre più estesa del salariato e schiacciato dalla proliferazione di situazioni salariali sempre superiori alla propria. In ogni caso, è spossessato del ruolo di “attrattore” che ha potuto giocare per la costituzione del salariato. L'analisi della promozione del salariato dagli anni Trenta agli anni Settanta conferma questa progressiva destituzione della classe operaia. Luc Boltanski ha mostrato la difficoltà con cui un “salariato borghese” aveva cominciato a imporsi secondo una logica della distinzione che approfondisce la propria differenza in rapporto alle caratteristiche del salariato operaio. In questa occasione si è svolto un nuovo episodio dell'opposizione tra il lavoro salariato e il patrimonio che aveva già segnato il XIX secolo, al momento delle discussioni sull'assicurazione obbligatoria: forza coli a lasciare le campagne, i giovani piuttosto che gli adulti, ma i figli dei salariati piuttosto che i figli degli imprenditori agricoli. Pertanto, per questi operai agricoli e per i loro figli, l'accesso alla classe operaia ha potuto rappresentare per un lungo periodo una relativa promozione sociale, ma quando tale reclutamento si esaurisce, la condizione operaia diviene l'ultima delle posizioni: quella in cui si resta quando non ci si può “elevare” o nella quale si precipita per mobilità discendente. 88 Il mondo degli impiegati è investito, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale, dalla razionalizzazione del lavoro: il lavoro d'ufficio si meccanicizza (la macchina da scrivere appare all'inizio del secolo), si specializza, si collettivizza e ancora si femminilizza, il che segnala sempre una perdita di status sociale. Come molti operai, l'impiegato dei grandi magazzini o degli uffici di fabbrica perde la polivalenza che era propria dell'impiegato classico del tipo “assistente di studio”, una sorta di subappaltatore del suo datore di lavoro.

della tradizione che rende difficile pensare delle posizioni rispettabili che non siano fondate sulla proprietà o sul capitale sociale legato agli “uffici” e alle professioni liberali. Si assiste così a curiosi sforzi per fondare la rispettabilità di nuove posizioni salariali su un “patrimonio di valori che sono nei fatti i valori delle classi medie, lo spirito d'iniziativa, il risparmio, l'eredità, una modesta agiatezza, la vita sobria, la considerazione” 89. La situazione è allora tanto più ingarbugliata dal fatto che molte di tali posizioni salariali di alta gamma sono all'inizio occupate da figli di famiglia detentori di un patrimonio. Essi traggono la loro rispettabilità dalla loro occupazione o dal loro patrimonio? Queste due dimensioni sono difficili da dissociarsi. Un'illustrazione della forza di questi ostacoli tradizionali nel pensare un salariato “borghese” in toto: nel 1937, la Corte di Cassazione rifiuta di riconoscere la qualità di infortunato sul lavoro a un medico; un professionista “non può intrattenere un rapporto di subordinazione” con un direttore di ospedale. Questo medico, feritosi lavorando, non è dunque un salariato dell'azienda pubblica che lo impiega90. È significativo che il primo gruppo professionale “rispettabile” a rivendicarsi come salariato sia quello degli ingegneri, e anche che questa iniziativa sia assunta nel 1936: il Sindacato degli ingegneri salariati viene costituito il 13 giugno 1936 91. affermazione di una posizione “media” tra i padroni e gli operai, senza 89 Gaston Lecordier, Les classes moyennes en marche, Paris, Bloud et Gay, 1950, p. 382, cit. in Luc Boltanski, Lescadres, cit., p. 101, che nota il carattere “tardivo” di questo testo del 1950, che presenta lo stesso tono della letteratura degli anni Trenta intenta a giustificare la realtà di una “classe media” (così André Desqueyrat, Classes moyennes françaises. Crise, programme, organisation, Paris, Éditions Spes, 1939). 90 Cit. in Luc Boltanski, Lescadres, cit., p. 107. 91 Ivi, p. 106.

dubbio anche interesse a beneficiare dei vantaggi sociali acquisiti dalla classe operaia, pur distinguendosene completamente. In ogni caso, questa posizione diventerà pienamente chiara dopo la guerra. La Confederazione generale dei quadri consacrerà allora una parte importante della sua attività a rivendicare sia un allargamento della gerarchia dei salariati sia un regime pensionistico specifico che eviti ogni rischio di confusione con le “masse” operaie. Se gli ingegneri sono stati senza dubbio la punta di lancia della promozione di un salariato “borghese”, sono però ben lontani dal rappresentare l'insieme dei quadri dell'industria. Dalla sua fondazione, alla fine del 1944, la Confédération générale des cadres recluta con larghezza. Essa definisce come quadro ogni agente di un'impresa pubblica o privata investito di una particella di responsabilità, il che include l'insieme dei capi reparto. I sindacati operai sono d'altra parte costretti a istituire strutture speciali per accogliere “ingegneri e quadri”, la CFTC dal 1944 (Fédération française des syndacats d'ingénieurs et cadres), la CGT nel 1948 (Union générale des ingénieurs et cadres)92. Parallelamente a questa trasformazione della struttura salariale delle imprese, lo sviluppo delle attività “terziarie” è all'origine della proliferazione di un salariato non operaio: moltiplicazione dei servizi nel commercio, nelle banche, nelle amministrazioni degli enti locali e dello Stato (la sola Éducation nationale conta quasi un milione di funzionari nel 1975), apertura di nuovi settori di attività, comunicazione, pubblicità... 93. La maggior par92 Ivi, pp. 239 sgg. 93 La distinzione tra attività primarie (agricole), secondarie (industriali) e terziarie (i servizi) è stata introdotta da Colin Clark (The Condition of Economic Progress, London, Macmillan & Co., 1940), e resa popolare in

te di queste attività sono delle attività salariate. La maggior parte supera in redditi e prestigio il salariato operaio. Nel 1951, Michel Collinet ritrae una “classe media salariale” già molto complessa, che comprende alcuni impiegati, i funzionari medi, i capi ufficio, i capi reparto, i tecnici, gli ingegneri...94. Non solo la condizione operaia è contornata e sovrastata da una gamma sempre più diversificata di attività salariali, ma la propria coerenza interna è messa a mal partito. Nel 1975, si conta circa il 40% di operai qualificati, il 40% di operai specializzati e il 20% di manodopera. La quota delle donne è crescita fino a costituire il 22,9% della popolazione operaia, soprattutto negli impieghi sotto-qualificati (il 46,6% della manodopera è donna). Quasi un operaio su cinque è un immigrato. Lo sviluppo del settore pubblico (un quarto dell'insieme dei salariati) rinforza un altro tipo di divisione: gli operai dello Stato, degli enti locali e delle imprese nazionalizzate beneficiano in generale di uno statuto più stabile di quelli del settore privato. Il tema della segmentazione del mercato del lavoro, sarebbe a dire della distinzione tra alcuni nuclei protetti e lavoratori precari, fa la sua apparizione all'inizio degli anni Settanta95. Senza dubbio l'unità della classe operaFrancia dall'opera di Jean Fourastié. Lo sviluppo economico e sociale si traduce nello sviluppo delle attività terziarie; ma oltre al terziario commerciale e al terziario amministrativo, si può individuare anche un “terziario industriale” che assume sempre più importanza. Si tratta di categorie d'impieghi del settore industriale che non sono direttamente produttive, come i dattilografi, i contabili... 94 Michel Collinet, L'ouvrier français. Essai sur la condition ouvrière (1900-1950), Paris, Éditions ouvrières, 1951, 2e partie, cap. IV. 95 In effetti, il tema emerge negli Stati Uniti nel corso degli anni Sessanta e trova il suo pubblico in Francia durante gli anni Settanta. Cfr. Michael J. Piore, On the Job Training in the Dual Labour Market, in Arnold R. Weber et alii (eds.), Public and Private Manpower Policies, Madison, Industrial Relations Research Association, 1969, pp. 101-132, e

ia non è mai stata realizzata: intorno al 1936, le disparità tra differenti categorie di lavoratori quanto a qualificazione, statuto pubblico o privato, nazionalità, collocazione in grandi industrie o in piccole imprese, ecc., dovevano essere assai grandi, ma allora un processo di unificazione sembrava all'opera attraverso la presa di coscienza di interessi comuni e l'opposizione al “nemico di classe”. Tuttavia, per ragioni che si richiameranno, prima degli anni Settanta, questa dinamica sembra interrompersi, lasciando la condizione operaia alle sue disparità “oggettive”96. Un altro cambiamento, meno spesso sottolineato, ha senza dubbio un'importanza ancora maggiore per render conto delle trasformazioni della condizione operaia inquadrata nella lunga durata. Un'inchiesta del 1978 – ma il movimento è cominciato ben prima – che verteva, in particolare, sul “tipo di lavoro principalmente svolto” dagli operai, constata che quanti tra di essi si dedicano a compiti di fabbricazione rappresentano appena più di un terzo della popolazione operaia97. Detto altrimenti, una maggioranza degli operai si dedica a compiti che si potrebbero chiamare infra-produttivi, del tipo manutenzione, consegna, imbalMichael J. Piore, Dualism in the Labour Market, in “Revue économique”, n. 1, 1978, pp. 26-48. 96 Faccio mia la tesi centrale di Edward P. Thompson, secondo cui una classe sociale non è soltanto un “dato” o una collezione di dati empirici. Essa si “fabbrica” attraverso una dinamica collettiva che si forgia nel conflitto (cfr. Edward P. Thompson, La formation de la classe ouvrière anglaise, cit.). 97 Anne-Françoise Molinié, Serge Volkoff, Les conditions de travail des ouvriers et des ouvrières, in “Économie et statistique”, n. 118, 1980, pp. 25-39. Questo cambiamento è fortemente legato al declino delle forme più tradizionali del lavoro operaio. Così, i minatori, che erano 500.000 nel 1930, non sono più di 100.000 nel 1975; gli operai del tessile sono passati da 1,5 milioni a 200.000 nello stesso periodo (cfr. François Sellier, Les salariés: croissance et diversité, cit., p. 48).

laggio, guardianìa, ecc., sia ad attività più vicine al concetto e alla riflessione che all'esecuzione, del tipo controllo delle macchine, regolazioni, collaudi, studi, organizzazione del lavoro. Vi è qui un cambiamento considerevole, se non in rapporto alla realtà di tutte le forme del lavoro operaio, almeno in rapporto alla rappresentazione dominante che ne era data nella società industriale. L'operaio vi appariva come l'homo faber per eccellenza, colui che trasforma direttamente la natura attraverso il suo lavoro. Il lavoro produttivo si incarna in un oggetto fabbricato. Per la tradizione dell'economia politica inglese come per il marxismo, il lavoro è essenzialmente la produzione di beni materiali, utili, di consumo98. Questa attività di fabbricazione si presta d'altra parte a due letture contrastanti. Per Halbwachs, per esempio, essa rende conto del carattere limitato della condizione operaia, che “non si trova in rapporto che con la natura e non con gli uomini, resta isolata di fronte alla materia, si scontra con le sole forze inanimate”. È per questo che la classe operaia assomiglia “a una massa meccanica e inerte”99. Marx, al contrario, fa di quest'attività di trasformazione della natura quella propria dell'uomo, la fonte di ogni valore, e fonda così il ruolo demiurgico che attribuisce al proletariato. Ma è probabile che l'uno e l'altro – come anche, lo si è già visto, Simiand – si riferiscano alla concezione del lavoro operaio che prevaleva all'inizio dell'industrializzazione, e che comincia a diventare obsoleta con i progressi della

98 Cfr. Pierre Lantz, Travail: concept ou notion multidimensionnelle, in “Futur antérieur”, n. 10, 1992, pp. 37-44. 99 Maurice Halbwachs, La classe ouvrière et les niveaux de vie. Recherche sur la hiérarchie des besoins dans les sociétés industrielles contemporaines, cit., p. 118 e p. XVII.

divisione del lavoro. Il lavoro operaio cessa di essere il paradigma della produzione delle “opere”100. Queste trasformazioni profonde tanto del lavoro operaio che del posto che esso occupa in seno al salariato non possono mancare di scuotere la concezione del ruolo che era attribuito alla classe operaia nella società industriale. Può mantenere quella centralità che gli riconoscono tanto coloro che esaltano il suo ruolo rivoluzionario quanto coloro che la percepiscono come una minaccia per l'ordine sociale? Il dibattito è iniziato alla fine degli anni Cinquanta, e Michel Crozier è uno dei primi a proclamare che “l'era del proletariato si conclude”: “una fase della nostra storia sociale deve essere definitivamente chiusa, la fase religiosa del proletariato”101. I giochi tuttavia non sono completamente fatti, perché le trasformazioni della condizione operaia possono dar luogo a due interpretazioni apparentemente opposte. Una “nuova classe operaia” si costituirebbe attraverso lo sviluppo delle forme più recenti che assume la divisione del lavoro. Ma i nuovi attori che assumono un ruolo sempre più decisivo nella produzione, operai delle in100 Hannah Arendt, ne La condition de l'homme moderne, cit., cap. III, critica la confusione tra lavoro e opera che avrebbe caratterizzato la riflessione sul lavoro in epoca moderna, non solamente in Marx ma anche in Locke e Smith. Ma si potrebbe aggiungere che Hannah Arendt può muovere questa critica alla metà del XX secolo, cioè dopo quasi due secoli di trasformazione della concezione del lavoro industriale quale era emersa agli inizi dell'industrializzazione. 101 Qu'est-ce que la classe ouvrière française, in “Arguments”, numéro spécial, 1959, p. 33. Il dibattito riprende con l'emergere del tema della “nuova classe operaia”, cfr. il numero speciale della “Revue française des sciences politiques”, n. 3, 1972, in particolare l'articolo di Jean-Daniel Reynaud, La nouvelle classe ouvrière, la technologie et l'histoire, pp. 529-542.

dustrie “di punta”, pensatori prima che esecutori, tecnici, disegnatori, quadri, ingegneri, ecc., continuano a essere spossessati del potere di decisione e della parte essenziale dei benefìci del loro lavoro dall'organizzazione capitalistica della produzione. Essi occupano così in rapporto all'antagonismo di classe una posizione analoga a quella dell'antico proletariato e sono ormai gli eredi privilegiati per riprendere l'impresa di trasformazione rivoluzionaria della società che la classe operaia tradizionale, sedotta dalle sirene della società dei consumi e inquadrata dagli appalti sindacali e politici riformisti, abbandona102. Al contrario, la tesi dell'“imborghesimento” della classe operaia poggia sull'innalzamento generale del livello di vita che attenua gli antagonismi sociali. Il “desiderio di integrarsi in una società in cui primeggia la ricerca del comfort e del benessere” 103 conduce la classe operaia a fondersi progressivamente nel mosaico delle classi medie. Nei fatti, queste due opposte posizioni sono complementari almeno perché la forza della loro argomentazione è più politica che sociologica. Serge Mallet sovrastima il peso di questi nuovi strati salariali industriali104. Soprattutto, sovrastima la capacità della classe operaia di giocare un ruolo di “attrattore” per queste 102 Cfr. Serge Mallet, La nouvelle classe ouvrière, Paris, Le Seuil, 1963; trad. it. La nuova classe operaia, Torino, Einaudi, 1966. 103 Georges Dupeux, La société française 1789-1960, cit. La letteratura sulla tematica connessa alla marcia verso l'abbondanza e all'apoteosi delle classi medie è pletorica. Si può prendere l'opera di Jean Fourastié, e in particolare Les Trente Glorieuses au la Révolution invisible de 1946 à 1975 (Paris, Fayard, 1979), per la sua migliore orchestrazione. 104 Uno studio degli anni Settanta stima al 5% la percentuale degli operai dell'industria corrispondente a tale profilo (cfr. Philippe d'Hugues, Georges Petit, Francoise Rerat, Les emplois industriels. Nature. Formation. Recrutement, in “Cahiers du Centre d'études de l'emploi”, n. 4, 1973).

nuove categorie che si affermano attraverso le trasformazioni della produzione (in particolare lo sviluppo dell'automazione, tema privilegiato della sociologia del lavoro degli anni Sessanta). Eppure, già nel 1936, la CGT aveva fatto l'amara esperienza della

“disaffezione

dei

tecnici

nei

riguardi

del

movimento

operaio”105. Tranne rare eccezioni, pressappoco intorno al 1968, l'analisi dei conflitti sociali, anche “nuovi”, mostra che il tropismo principale di tecnici, quadri e ingegneri li spinge a difendere i propri interessi specifici, che passano per il mantenimento della differenziazione sociale e il rispetto della gerarchia, piuttosto che allinearsi sulle posizioni della classe operaia, a meno che non diano prova di forti convinzioni politiche. Ma, appunto, la convinzione che sottende l'esaltazione del ruolo storico della “nuova classe operaia” negli anni Sessanta è di essenza politica. Si tratta di salvaguardare la fiamma della rivoluzione e di non disperare, niente più Billancourt, ma la CFDT e il PSU106. Tuttavia il discorso opposto che proclama la dissoluzione della condizione operaia nella nebulosa delle classi medie sembra sotteso dal desiderio, questo stesso più politico che scientifico, di esorcizzare definitivamente i conflitti sociali. Si tratta dell'ideologia di tutti coloro che proclamano la fine delle ideologie. Essi 105 Cfr. Simone Weil, nel rapporto che indirizza alla CGT dopo gli scioperi del 1936, Remarques sur les enseignements à tirer des conflits du Nord, in La condition ouvrière, cit., pp. 170-176. 106 Questa interpretazione non tradisce il pensiero di Serge Mallet, che presentava il proprio percorso iniziale non come “quello di un uomo di scienza che si pone obiettivamente dei problemi di conoscenza, ma come quello di un militante del movimento operaio, più precisamente del movimento sindacale” (La nouvelle classe ouvrière, cit., p. 15). Si può solamente aggiungere che la scommessa di Mallet sul tropismo rivoluzionario di questi nuovi agenti coinvolti nel processo di produzione è stata persa.

guardano con voluttà l'appetito di consumi della classe operaia e constatano con soddisfazione l'indebolimento degli investimenti politici e sindacali107, ma omettono di sottolineare che a dispetto dell'incontestabile miglioramento delle proprie condizioni d'esistenza, la classe operaia non si è per nulla fusa nelle classi medie. Le inchieste condotte negli anni Cinquanta e Sessanta confermano la persistenza di un particolarismo operaio e di una coscienza della subordinazione operaia prossima a quella analizzata in precedenza per la fine degli anni Trenta 108. Dipendenza rispetto a delle condizioni di lavoro le cui modalità sono cambiate relativamente poco quanto al rapporto di subordinazione, indissociabilmente tecnico e sociale, che esse implicano 109 e che si tra107 Così Dupeux parla già di “depoliticitizzazione”, di “declino del mito rivoluzionario” e di “declino anche della partecipazione politica” degli operai (La société française, cit., p. 252). 108 Andrée Andrieux, Jean Lignon, L'ouvrier d'aujourd'hui. Sur les changements dans la condition et la conscience ouvrière, Paris, Rivière, 1960; Jean-Marie Rainville, Condition ouvrière et intégration sociale, Paris, Éditions ouvrières, 1967; Gérard Adam, Frédéric Bon, Jacques Capdevielle, René Moureau, L'ouvrier français en 1970. Enquête nationale auprès de 1116 ouvriers d'industrie, Paris, Colin, 1971. La sintesi di John Harry Goldthorpe et alii, The Affluent Work Series (Cambridge, Cambridge University Press, 1968-1969, 3 voll.) non ha equivalenti in Francia. Ecco tuttavia, nella misura in cui il titolo l'operaio dell'abbondanza può prestarsi a controsensi, una delle più importanti conclusioni dell'opera: “L'integrazione nelle classi medie non è né un processo in corso attualmente, né un obiettivo desiderato dalla maggior parte dei nostri operai... Abbiamo visto che l'aumento dei salariati, il miglioramento delle condizioni di lavoro, l'applicazione di politiche d'impiego più opportune, più liberali, ecc., non modificano in maniera sostanziale la situazione di classe del lavoratore industriale nella società contemporanea” (edizione francese ridotta, L'ouvrier de l'abondance, Paris, Le Seuil, 1972, p. 210). 109 Uno dei cambiamenti più importanti è senza dubbio la parte degli immigrati e delle donne nei lavori più ingrati e più svalutati. Ma lo sviluppo delle nuove forme di organizzazione industriale non ha abolito i vincoli né la gravosità di numerose mansioni, in particolare alle catene di

duce sempre nel sentimento che provano gli operai di essere situati “socialmente in basso”110. Particolarismo, ancora, dei modus vivendi e delle forme di socialità: “Che si tratti delle abitudini di consumo, dello stile di vita, dell'utilizzo dello spazio urbano, i vari e numerosi indici manifestano una specificità dei comportamenti in ambiente operaio”111. Tutti consumano, ma non gli stessi prodotti; vi sono più diplomi, ma non hanno lo stesso valore; molti vanno in vacanza, ma non negli stessi luoghi, ecc. Inutile riprendere qui tutte quelle analisi che relativizzano il discorso dell'ecumenismo sociale. Questo esprime un pensiero di superficie, e decreta l'omogeneità dall'alto. Poggia, certamente, su innumerevoli tabelle statistiche e curve di crescita, ma trascura il senso che queste trasformazioni assumono per gli attori sociali. Un solo esempio di queste costruzioni sofisticate la cui astrazione non raggiunge mai la realtà sociale che pretendono di tradurre: Jean Fourastié, maestro in materia, ha sapientemente calcolato che “un OS, cominciando verso il 1970, avrà acquisito prima del suo sessantesimo anno d'età un potere d'acquisto superiore a quello ottenuto dalla sua entrata in servizio da un consigliere di

montaggio. Si possono comparare due testimonianze, apparse a quarant'anni di distanza l'una dall'altra, i cui autori condividono la caratteristica di aver lavorato in fabbrica senza essere operai, Simone Weil, La condition ouvrière, cit. e Robert Linhart, L'Établi, Paris, Minuit, 1978; trad. it. Alla catena un intellettuale in fabbrica, Milano, Feltrinelli, 1979. 110 Andrée Andrieux, Jean Lignon, L'ouvrier d'aujourd'hui, cit., p. 26. Si tratta dell'estratto di un'intervista a un operaio, tra molte altre dello stesso tenore nelle quali i lavoratori riportano la percezione che viene loro restituita del loro statuto sociale: l'operaio “è un babbeo”, “un povero coglione”, “il fanale rosso”, ecc. 111 Jean-Marie Rainville, Condition ouvrière et intégration sociale, cit., p. 15.

Stato che riceve oggi la sua pensione” 112. Sarebbe divertente ritrovare nel 1995 questo fortunato OS e chiedergli che cosa ne pensa di tale allineamento su una posizione di consigliere di Stato113. La trasformazione decisiva che è maturata lungo gli anni Cinquanta e Sessanta non è dunque né l'omogeneizzazione completa della società, né lo spostamento dell'alternativa rivoluzionaria su un nuovo operatore, la “nuova classe operaia”. È piuttosto la dissoluzione dell'alternativa rivoluzionaria e la ridistribuzione della conflittualità sociale secondo un modello differente a quello della società di classi: la società salariale. Dissoluzione dell'alternativa rivoluzionaria: la realtà storica della classe operaia non è riducibile a un insieme di modi di vita che si descrivono, di livelli salariali che si comparano o a un folklore populista che li rimpiange. Essa è stata anche un'avventura che è durata poco più di un secolo, con i suoi alti e bassi, contrassegnata da momenti forti – il 1848, la Comune, il 1936, forse il 1968 – che sembravano anticipare una organizzazione alternativa della società. Il venir meno della convinzione che la storia sociale potesse sfociare su un altrove, quel che Crozier chiama nel 1959 “la fase religiosa del proletariato”, non è databile in maniera rigorosa. Anche nei suoi momenti di gloria essa non è mai stata sostenuta che da una minoranza operaia 114 e può sempre ri112 Jean Fourastié, Les trente Glorieuses, cit., p. 247. 113 Per vedere fin dove può portare la fascinazione per gli indici di crescita, si può rileggere oggi, con divertimento o irritazione, il testo di Jean Fourastié, La civilisation de 1995, Paris, PUF, 1970. 114 Minoranza di scioperanti nel 1936 malgrado l'ampiezza del movimento: meno di 2 milioni su 7 milioni di salariati operai; fenomeno essenzialmente parigino come furono il Giugno 1848 e la Comune. Soprattut-

sorgere puntualmente, facendo rivivere come tanti flash di rapide esplosioni che evocano la “gioventù dello sciopero” 115 e risvegliano delle utopie assopite116. Tuttavia è divenuto sempre meno credibile che si istituzionalizzeranno un giorno i domani che cantano. L'oscillazione tra rivoluzione e riforma che ha sempre attraversato il movimento operaio si fissa sempre più sul secondo polo, e la divisione tra “loro” e “noi” cessa di alimentare un immaginario di cambiamento radicale. Disincanto del mondo sociale, ridotto a una unidimensionalità senza trascendenza: le trasformazioni sociali non si giocano più a “lascia o raddoppia” e cessano di essere arbitrate da un senso della storia. È forse, paradossalmente, il Maggio 1968 che cristallizza questa presa di coscienza: la classe operaia questa volta si è allineata al movimento invece di esserne l'epicentro, e si è accontentata di ricavarne dei progressi “riformisti”. È significativo in ogni caso che nell'immediato post Sessantotto i lavoratori immigrati siano stati chiamati a riprendere la fiamma di un messianismo rivoluzionario abbandonato da una classe operaia autoctona “integrata nel sistema”117. to: gli indifferenti e i “gialli [crumiri]” erano operai quanto i sindacalisti e i militanti, e nel giugno del 1848 le truppe più combattive della Guardia, che sconfissero il faubourg Saint-Antoine, erano composte da giovani operai. Eppure, allo stesso tempo, il Giugno 1848, la Comune di Parigi e il 1936, sono sopravvissuti nella memoria di tutta una classe. 115 Michelle Perrot, Jeunesse de la grève. France, 1871-1890, Paris, Le Seuil, 1984. 116 La questione di sapere quando muore un'utopia non ha senso, poiché l'utopia è fuori della storia (così, per gli indiani del Messico, Zapata non è morto). La questione – difficile – è sapere quando un'utopia cessa di avere presa sulla storia e di imporle, seppure parzialmente, il proprio segno. Così il richiamo alla Rivoluzione ha a lungo caricato di un'aura di assoluto anche le imprese prosaicamente riformiste. Da quando non è più così? 117 Cfr., per esempio, Jean-Paul de Gaudemar, Mobilité du travail et ac-

Al di là della dimensione politica di queste peripezie, è il significato antropologico dominante del salariato ad aver oscillato nel corso di questi decenni. La classe operaia traeva il suo potenziale rivoluzionario dal fatto che incarnava quell'“indegno salariato” che non aveva nulla da perdere se non le proprie catene e la cui emancipazione avrebbe cambiato il volto del mondo. Marx, su questo punto, non ha fatto che radicalizzare una struttura antropologica del salariato connotata, sembrava per sempre, da situazioni di dipendenza attraverso le quali un uomo mette a disposizione di un altro la propria capacità di lavorare. Questo è il significato letterale dell'espressione “lavoro alienato”: operare per altri e non per se stessi, lasciare a un terzo che lo consumerà o lo commercializzerà il prodotto del proprio lavoro. Che questa costrizione si attenui nel momento in cui assume con il liberalismo una forma esplicitamente contrattuale, o che perda il proprio carattere di dipendenza personalizzata, quando si lavora, per esempio, per una società anonima retta da contratti colletticumulation du capital (Paris, Maspero, 1976), che esprime il consenso dell'insieme delle correnti di “sinistra” all'inizio degli anni Settanta. Si tratta di uno spostamento analogo a quello che era stato compiuto dieci anni prima sulla “nuova classe operaia” e che si può interpretare come una nuova tappa del processo di destituzione della classe operaia “classica” dal suo ruolo rivoluzionario, anche agli occhi degli ideologi che si vogliono eredi del profetismo rivoluzionario del XIX secolo. Di fatto, i lavoratori immigrati furono gli agenti e le problematiche delle lotte sociali più dure dell'inizio degli anni Settanta. Dal lato della classe operaia “autoctona”, il conflitto di Lip è senza dubbio l'ultimo che abbia mobilitato il potenziale alternativo del movimento operaio (cfr. Pierre Lantz, Lip et l'utopie, in “Politique d'aujourd'hui”, nn. 11-12, 1980), ma può anche interpretarsi come una delle ultime lotte del periodo di crescita seguito alla Seconda guerra mondiale. Come dichiara solennemente l'assemblea generale del personale del 12 ottobre del 1973: “Noi non accetteremo né licenziamenti, né riqualificazioni, né smantellamenti” (ivi, p. 101). Oggi tali dichiarazioni sarebbero impensabili.

vi, non cambia la dissimmetria della relazione: il salariato va sempre verso una sorta di abbandono del frutto del proprio lavoro a un'altra persona, o a un'impresa, o a un'istituzione o “al capitale”. In tale logica, le attività di un soggetto sociale autonomo, anche se prendono la forma di servizi resi, non dovrebbero entrare in un rapporto salariale. Un produttore indipendente non dovrebbe essere salariato. Non si tratta di una semplice tautologia, ma della conseguenza del fatto che certe attività sono inalienabili, dunque non salariabili, anche se corrispondono a un lavoro effettuato per altri. Un calzolaio, un tessitore possono essere lavoratori indipendenti o salariati. Un medico non può essere un salariato, come la sentenza precedentemente citata della Corte di Cassazione mostra ancora nel 1937. questa concezione secolare del lavoro salariato si eclissa verso gli anni Cinquanta e Sessanta, inducendo l'eclissarsi del ruolo storico della classe operaia. La lenta promozione di un salariato borghese ne ha aperto la strada. Essa sfocia in un modello di società che non è più attraversata da un conflitto centrale tra salariati e non-salariati, sarebbe a dire tra proletari e borghesi, lavoro e capitale. La “nuova società” 118, per riprendere uno slogan dell'inizio degli anni Settanta che voleva essere la traduzione politica di questo cambiamento, è piuttosto organizzata intorno alla concorrenza tra differenti poli di attività salariali. Società che non è né omogenea né pacificata, ma i cui antagonismi assumono la forma di lotte per i posizionamenti e le classificazioni piuttosto 118 Si sa che è il nome dato da Jacques Chaban-Delmas al suo programma politico, corrispondente a un periodo di forte espansione economica e a una volontà, ben presto contrastata, di sblocco della società dopo il 1968.

che quella della lotta di classe. Società nella quale rigettare il salariato diviene il modello privilegiato d'identificazione.

4. La condizione salariale È a partire dalla metà degli anni Cinquanta che emerge un nuovo discorso sugli “uomini dei tempi che vengono”, una sorta di puri salariati che hanno acquisito le loro patenti di borghesia119. Tale profilo si sviluppa nel quadro della modernizzazione della società francese, che oppone gli agenti della crescita e del progresso ai rappresentanti delle classi medie tradizionali, piccoli padroni e commercianti malthusiani, notabili conservatori. Da un lato, una Francia timorosa, poujadiste120, arroccata sulla difesa del passato, dall'altro una Francia dinamica che vuole infine sposare il suo secolo e di cui i nuovi salariati costituiscono la punta di diamante121. 119 “Eliminare dalle classi medie i quadri salariati e una gran parte dei funzionari sarebbe come ridurle a una caricatura della borghesia” (Pierre Bleton, Les hommes des temps qui viennent, Paris, Éditions ouvrières, 1956, p. 230). 120 Il poujadismo, da Pierre Poujade, è stato un movimento politico e sindacale, nato nel 1953, che difendeva i commercianti e gli artigiani, criticando il parlamentarismo e denunciandone l'inefficacia. Oggi il termine è utilizzato in maniera negativa per caratterizzare movimenti populisti, corporativisti e demagogici [N.d.R.]. 121 Cfr. Jacques Donzelot, D'une modernisation à l'autre, in “Ésprit”, n. 8-9, 1986, pp. 30-45; Michel Winock, La République se meurt, Paris, Gallimard, 1985. Non ci si può esimere dal citare la gustosa descrizione che dà questo autore dei difensori di un'organizzazione precapitalistica della società: “Dall'altra parte sbocciano i cantori della vita di villaggio, i piccoli commercianti, i bistrot che avrebbero fatto la fortuna di Paul Ricard, la Francia del XIX secolo, radicale, protezionista, piena di villini, con la sua scia di notai, procuratori, uscieri, curati tradizionalisti,

In questo contesto, una nuova costellazione salariale si vede attribuire la funzione di attrattore a cui è devoluto il compito di “trainare” la dinamica sociale, come si dice che il tale settore industriale o commerciale “traina” la crescita economica di tutta una società. Si assiste allora a una quasi-mitologizzazione di un profilo d'uomo (e accessoriamente di donna122) efficiente e dinamico, liberato dagli arcaismi, a un tempo informale e performante, grande lavoratore e grande consumatore di beni di prestigio, di vacanze intelligenti e di viaggi all'estero. Si vuole affrancato dall'etica puritana e tesaurizzatrice, dal culto del patrimonio e dal rispetto delle gerarchie consacrate che caratterizzano la borghesia tradizionale. Giornali quali “l'Express” – “l'Express giornale dei quadri”123 – o “l'Expansion” testimoniano dell'audience di questa rappresentazione del mondo sociale e a loro volta la diffondono. Essa è sostenuta in modo particolare da differenti categorie di salariati: quadri medi e superiori, insegnanti, pubblicitari, esperti in comunicazione e, sul suo versante inferiore, rappresentanti di un certo numero di professioni intermedie, quali animatori culturali, personale paramedico, educatori, ecc. 124. Apgiocatori con berretti baschi, cani randagi, muri incastonati di cocci di bottiglia, membri attivi dell'Association Guillaume-Budé, distillatori in proprio, amministratori coloniali, vecchi tenutari di bordelli, a cui si aggiungono i fedeli del maresciallo Pètain”. Aggiungo che in questo “campo” non vi sono, o quasi, i salariati. 122 Nella misura in cui le donne restano assai minoritarie nell'alto salariato, per esempio il 3,8% degli ingegneri nel 1962 e il 4% nel 1975, il 12% dei quadri amministrativi superiori nel 1962 e il 17,3% nel 1975 (Luc Boltanski, Les cadres, cit.). 123 Ivi, p. 179. 124 Alcune professioni liberali possono appartenere allo stesso movimento, ma sono assai minoritarie rispetto a tale configurazione salariale. Si contano, nel 1975, 172.000 membri delle professioni liberali contro 1.270.000 quadri superiori e 2.764.000 quadri intermedi (cfr. Laurent Thévenot, Les catégories sociales en 1975, cit.).

plicandosi, esse formeranno quel che Henri Mendras chiama la “costellazione centrale” e di cui fa il centro di diffusione della “seconda rivoluzione francese”125. L'espressione “seconda rivoluzione francese” è senza dubbio esagerata, ma è vero che esiste un insieme (o piuttosto una interconnessione di sotto-insiemi) di prestatori di servizi che costituiscono il nucleo più mobile e più dinamico della società, il principale diffusore dei valori della modernità, del progresso, delle mode e del successo. Si tratta anche, rispetto all'insieme della società, del raggruppamento la cui crescita è stata più continua e più rapida dopo il “decollo” che ha seguito la fine della Seconda guerra mondiale. Questa promozione del salariato scuote l'opposizione secolare del lavoro e del patrimonio. Redditi confortevoli, posizioni di potere e di prestigio, leadership in materia di modi di vita e di mode culturali, sicurezza contro i rischi dell'esistenza non sono più necessariamente legati al possesso di un grosso patrimonio126. Al limite, le posizioni socialmente dominanti potrebbe an125 Henri Mendras, La seconde Révolution française, Paris, Gallimard, 1988; trad. it. La seconda rivoluzione francese, Milano, Il Saggiatore, 1993. 126 Un'inchiesta del 1977 riguardante l'“ammontare medio del patrimonio a seconda della categoria socio-professionale delle famiglie” (in Jean-Daniel Reynaud, Yves Grafmeyer [sous la direction de], Français, qui êtes vous?, Paris, La Documentation française, 1981, grafico 5, p. 136) mostra come le categorie di “quadri superiori” e di “quadri intermedi”, che raggruppano la maggior parte di questi nuovi strati salariali, dispongano di un patrimonio quattro volte meno elevato di quello di “industriali e commercianti” e delle “professioni liberali”, nettamente meno elevato di quello degli “agricoltori” e anche due volte meno elevato di quello di “artigiani e piccoli commercianti”. Un'altra inchiesta (ivi, grafico 3, p. 133) mostra che esistono disparità enormi nella distribuzione del patrimonio: il 10% delle famiglie più fortunate ne possiedono il 54% e il 10% delle meno fortunate lo 0,03%. Per contro, gli indici comparati della distribuzione dei redditi e del patrimonio mostrano che si possono avere

che essere assicurate da “puri” salariati, cioè da persone i cui redditi e la cui posizione nella struttura sociale dipendono esclusivamente dal loro impiego. Solamente al limite. La promozione di queste posizioni salariali è legata allo sviluppo di settori professionali che, in particolare nel terziario127, richiedono titoli e diplomi. Ora si sa che il capitale scolastico è frequentemente legato al patrimonio culturale familiare, esso stesso fortemente dipendente dal capitale economico. D'altra parte, il salariato può ormai essere all'origine della costituzione di un patrimonio, in particolare con l'intermediazione del credito e dell'accesso alla proprietà. Le relazioni del patrimonio e del lavoro divengono così molto più complesse di quanto fossero agli inizi dell'industrializzazione. Allora, schematizzando, il possesso di un patrimonio dispensava dal dedicarsi ad attività salariate, mentre l'acquisizione di un patrimonio, anche modesto, da parte dei lavoratori li spingeva a sfuggire al salariato mettendosi in proprio. Ora, il salariato e il patrimonio interferiscono nei due sensi: il patrimonio facilita l'accesso a posizioni salariali elevate attraverso l'intermediazione dei diplomi, mentre lo stabilirsi in posizioni salariali più solide può guidare l'accesso al patrimonio128. redditi assai elevati associati a un modesto patrimonio. 127 Tra il 1954 e il 1975 la percentuale dei lavoratori nel settore terziario passa dal 38 al 51, cfr. Margaret Maruani, Emmanuèle Reynaud, Sociologie de l'emploi, Paris, La Découverte, 1993, p. 49. 128 Nel 1977, abitazioni principali e residenze secondarie rappresentano il 37,8% dell'insieme del patrimonio dei francesi (cfr. Jean-Daniel Reybaud, Yves Grafmeyer, Français, qui êtes-vous?, cit., grafico 3, p. 133). Si sa che le linee di credito per accedere alla proprietà dipendono largamente dal profilo professionale dei richiedenti e dalla loro capacità a preventivare l'avvenire, scommettendo in anticipo sulla stabilità e la progressione dei redditi salariali, donde la possibilità per gli operai stessi di accedere al patrimonio: nel 1973, il 38% era propreitario della pro-

Così la “costellazione centrale” non rappresenta una configurazione di posizioni salariali “pure”. Essa non occupa neanche la posizione egemonica di una “borghesia senza capitale” che ha quasi soppiantato la “borghesia tradizionale” che le presta i propri turiferari più entusiasti129. Resta un nucleo di posizioni dominanti, che cumulano e intrecciano capitale economico, capitale sociale e capitale culturale, gestione di imprese pubbliche e private, e poteri esercitati nell'apparato di Stato. Di questa “nobiltà di Stato”, Pierre Bourdieu dice: Pochi gruppi dirigenti hanno mai riuniti tanti princìpi di legittimazione così differenti e che, benché in apparenza contraddittori, come l'aristocrazia della nascita e la meritocrazia del successo scolastico o della competenza scientifica, o come l'ideologia del “servizio pubblico” e il culto del profitto travestito da esaltazione della produttività, si combinano per ispirare ai nuovi dirigenti la certezza più assoluta della loro legittimità130.

Infatti, molte delle professioni della “costellazione centrale” sono più dipendenti di quanto riconoscano dal capitale economico: quadri il cui destino è legato a quello dell'impresa, ma anche produttori culturali, professionisti della comunicazione per i quapria abitazione (cfr. Michel Verret, Joseph Creusen, L'espace ouvrier, Paris, Colin, 1979, p. 114). 129 “Così, la borghesia tradizionale, legata al possesso delle cose, evolve in una neo-borghesia senza capitale, che ingrossa alla sua base l'estensione del settore terziario. In sintesi, la proprietà ereditata tende a cedere alla proprietà meritata (nella misura in cui il diploma sancisce il merito). Ma che cosa c'è di più personale di una siffatta proprietà?” (André Piettre, La propriété héritée ou méritée, in “Le Monde”, janvier 1978, cit. in Pierre Bourdieu, La noblesse d'État, cit., p. 479). 130 Ivi, p. 480.

li il riconoscimento di una legittimità passa dall'ottenimento di mezzi di finanziamento. Allo stesso modo, l'opposizione classica tra padroni vecchio stampo e dirigenti salariati delle imprese (owners e managers) merita di essere relativizzata. I PDG [Presidenti-Direttori Generali] delle grandi imprese, per esempio, di cui si fa volentieri la frangia superiore del salariato, scelta per la propria professionalità e la propria competenza tecnica, sono frequentemente anche degli azionisti importanti dell'impresa provenienti da ambienti appartenenti da lunga data al mondo degli affari131. Se l'onnipotenza di “duecento famiglie” è stata un mito della sinistra, è ancora vero che l'essenza del potere economico è detenuta da ambienti accuratamente scelti (cfr. la composizione dei “noccioli duri” delle grandi società). Ma, appunto, se non c'è osmosi tra i differenti blocchi che costituiscono la società salariale, non c'è neanche più alterità assoluta. Il salariato di alta gamma ha svolto il ruolo di attrattore, ivi compreso sui gruppi dominanti tradizionali, le cui frazioni più dinamiche sono riuscite nel loro aggiornamento acquisendo, senza rinunciare alle loro antiche prerogative, i nuovi attributi della riuscita e degli onori che passano per esempio dalla frequentazione delle grandi scuole e dal possesso dei migliori diplomi. Così facendo, una parte delle classi dominanti tradizionali si è anche collocata, e al livello più alto, sul mercato del salariato. Dunque, anche in seno ai gruppi dominanti, vi è meno omogeneizzazione che concorrenza, lotta per i posizionamenti. Que131 Ivi, p. 478. Cfr. anche Jean Marchal, Jacques Lecaillon, La répartition du revenu national, Paris, Éditions Génin, 1955-1958, 1a partie, t. I, che mostrano come benefit in natura, premi ed emolumenti diversi di cui beneficiano i quadri superiori di alto livello rappresentano un tipo di retribuzione non salariale che è di fatto una partecipazione ai profitti dell'impresa.

sto spazio sociale è attraversato dal conflitto e dall'interesse per la differenziazione. Un principio di distinzione oppone e riunisce i gruppi sociali. Oppone e riunisce, perché la distinzione funziona attraverso una dialettica sottile del medesimo e dell'altro, della prossimità e della distanza, della fascinazione e del rigetto. Essa presuppone una dimensione trasversale ai differenti raggruppamenti che riuniscono anche coloro che si oppongono e permette loro di compararsi e di classificarsi. “Classificatori classificati dalle loro classificazioni”, essi si riconoscono attraverso la loro distanza rispetto alle altre posizioni, che formano così un continuum132. Questa logica della differenziazione si distingue sia da un modello fondato sul consenso dia da un modello fondato sull'antagonismo dello scontro classe contro classe. Per caratterizzare questa costellazione, si potrebbe avvicinarla a quella che Georg Simmel diceva della “classe media” in una rappresentazione ancora tripartita della società: “Quel che essa ha veramente di originale è che fa degli scambi continui con le due altre classi e che queste fluttuazioni perpetue cancellano le frontiere e le sostituiscono con transazioni perfettamente continue”133. “Transizioni perfettamente continue”, bisognerebbe discuterne. Ma l'idea del continuum delle posizioni proprie a una società salariale è ben presente.

132 Cfr. le analisi di Pierre Bourdieu in La distinction. Critique du jugement social, Paris, Minuit, 1979; trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, il Mulino, 1983. 133 Georg Simmel, Sociologie et épistémologie, Paris, PUF, 1981, p. 200.

Ci si potrebbe così rappresentare la società salariale a partire dalla coesistenza di un certo numero di blocchi 134 al contempo separati e uniti dalla logica della distinzione che gioca in seno a ciascun insieme come tra i differenti insiemi. In questa configurazione, bisognerebbe trovare il proprio posto al blocco delle professioni indipendenti dal patrimonio non riconvertito, il blocco dei vinti della modernizzazione che rievocava in maniera pittoresca Michel Winock. È perché questi gruppi sono stati marginalizzati che la società salariale ha potuto dispiegarsi: morte del redditiere come dell'artigianato (900.000 artigiani, 780.000 commercianti e assimilati all'inizio degli anni Ottanta) 135, rivoluzione del mondo agricolo che ha portato alla fine dei contadini tradizionali136. O queste frazioni del patrimonio hanno saputo riconvertirsi, adattandosi alle nuove esigenze della società salariale (cfr. per esempio il relativo dinamismo delle piccole e medie imprese, o lo sviluppo di cooperative agricole), o hanno dovuto rassegnarsi a passare la mano. Anche in questa Francia profonda che da un secolo e mezzo frenava il salariato e i valori associati dell'istruzione e della cultura urbana hanno dunque ugualmente giocato il 134 Preferisco il termine “blocco” a quello di “classe”, non in nome di un'ideologia del consenso (non ci sono più classi, dunque non ci sono più conflitti, ecc.), ma perché una classe, nel senso pieno del termine, non esiste che nel momento in cui è inserita in una dinamica sociale che la rende portatrice di un progetto storico che le è proprio, come ha potuto esserlo la classe operaia. In tal senso, non c'è più una classe operaia. 135 Cfr. Données sociales 1993, Paris, INSEE, 1993, p. 459. Ma è significativo notare come il numero dei lavoratori indipendenti o assimilati ricominci a crescere come una delle conseguenze della crisi della società salariale (cfr. il cap. seguente). 136 Cfr. Henri Mendras, La fin des paysans, suivi d'une réflexion sur la fin des paysans vingt ans après, Le Paradou, Actes-Sud, 1992. All'inizio degli anni Ottanta, restano meno di un milione di agricoltori coltivatori diretti, cfr. Données sociales 1993, cit. Si tratta dunque, secondo la classificazione di Colin Clark, del crollo anche del settore “primario”.

ruolo d'attrattore. A riprova del fatto che, dopo aver guardato dall'alto il salariato e fatto di tutto per distinguersene, queste categorie “indipendenti” sono arrivate a considerarlo con un'invidia venata di risentimento: contadini, artigiani, piccoli commercianti si comparano ai salariati non soltanto per i redditi, ma anche per la durata del lavoro, l'accesso al tempo libero e alla protezione sociale. Questa invidia e questo risentimento di categorie minacciate nella loro indipendenza rispetto a fasce salariali che si suppone lavorino meno beneficiando per giunta di tutti i vantaggi sociali sono sicuramente un modo profondo di poujadismo, che va ben al di là del fenomeno Poujade propriamente detto. Così l'attrazione del salariato agisce anche al di sotto dei suoi limiti, sulle categorie che non vi hanno accesso, come agisce al di sopra sull'alta borghesia. Questa attrazione agisce anche sul blocco popolare formato dagli operai e dagli impiegati che occupano un posto subordinato nella configurazione salariale. Approssimativo, senza dubbio, porre nello stesso “blocco” operai e impiegati, tuttavia, si assiste negli anni Sessanta alla “trasformazione di una classe operaia estesa e rinnovata che incorpora sempre più impiegati” 137. Parallelamente, a causa della meccanicizzazione del lavoro d'ufficio, l'impiegato raramente è rimasto un collaboratore diretto del padrone. Il “colletto bianco” dei grandi magazzini o degli uffici d'impresa è sottoposto a vincoli simili a quelli degli operai. L'evoluzione dei salari rimarca la stessa tendenza all'omogeneizzazione138. La generalizzazione della mensualizzazione intervenuta 137 Michel Aglietta, Anton Brender, Les métamorphoses de la société salariale, cit., p. 69. 138 Calcolati sulla base dell'indice 100 nel 1950, i guadagni medi degli im-

nel 1970 sancisce questa evoluzione: lo status professionale degli operai mensilizzati è praticamente allineato a quello degli impiegati139. Tuttavia, si deve sottolineare un'ultima volta che gli incontestabili miglioramenti di cui hanno beneficiato i gruppi popolari, o che hanno conquistato, non hanno completamente cancellato il loro particolarismo. Come dice Alfred Sauvy, “ogni organismo sociale che deve deformarsi, cambiare di proporzioni, lo fa più facilmente per addizione che per sottrazione”140. In particolare, l'“addizione” di nuovi strati salariali al di sopra del salariato operai non ha “soppresso” tutte le caratteristiche che ne facevano il modello del salariato alienato. Bisognerebbe qui attualizzare all'inizio degli anni Settanta il bilancio abbozzato intorno al 1936 degli indici dell'integrazione differenziale delle classi popolari in materia di consumi, di alloggi, di modus vivendi, di partecipazione all'educazione e alla cultura, di diritti sociali. Ma bisognerebbe dedicarvi almeno un capitolo, per mostrare come, sotto tutti questi rapporti, le categorie popolari siano ancora ben lontane dall'aver piegati raggiungono l'indice 288,6 nel 1960, quelli degli operai 304,8 (cfr. Jean Bunel, La mensualisation, une réforme tranquille?, Paris, Éditions ouvrières, 1973, p. 36). 139 Il principio della mensilizzazione degli operai dà luogo a un accordo paritario siglato il 20 aprile 1970 dai sindacati padronali e dai sindacati dei salariati. Questa misura estende agli operai i vantaggi dei salariati pagati mensilmente in materia di congedi, di indennità in caso di malattia, di pensionamento, ecc. Più profondamente, il salario operaio cessa di essere la retribuzione diretta di un lavoro puntuale per divenire la contropartita di un'allocazione globale di tempo. Nel 1969 era mensilizzato il 10,6% degli operai. Lo sarà il 53% nel 1971 e l'82,5% nel 1977 (cfr. François Sellier, Les salariés en France depuis cent ans, cit., p. 110). 140 Alfred Sauvy, Développement économique et répartition professionnelle de la population, in “Revue d'économie politique”, n. 3, 1956, p. 372.

colmato il loro ritardo141. Tuttavia, interessa qui soprattutto il fatto che, a dispetto della subordinazione, tali gruppi sono inscritti nel continuum delle posizioni che costituiscono la società salariale e possono per questo, non certo interscambiarsi, ma compararsi differenziandosi. L'onnipresenza del tema dei consumi durante questi anni – la “società dei consumi”142 – esprime perfettamente quel che si potrebbe chiamare un principio di differenziazione generalizzata. Il consumo impone un sistema di relazioni tra le categorie sociali secondo il quale gli oggetti posseduti sono i marcatori delle posizioni sociali, gli “indicatori di una classificazione” 143. Si capisce, allora, come il suo valore sia sovradeterminato: i soggetti sociali non vi si giocano la loro apparenza, ma la loro identità. Essi manifestano attraverso quel che consumano il loro posto nell'insieme sociale. Analogon del sacro in una società ormai senza trascendenza, il consumo di oggetti significa, nell'accezione più forte, il valore intrinseco di un individuo in funzione del posto che questi occupa nella divisione del lavoro. Il consumo è la base di un “commercio” nel senso del XVIII secolo, cioè di uno scambio civilizzato attraverso il quale i soggetti comunicano. 141 Si troverà in Jean-Daniel Reynaud, Yves Grafmeyer, Français, qui êtes-vous?, cit., un insieme di tabelle che rimarcano performances differenziali delle categorie sociali in materia di redditi, di patrimonio, di diplomi, di accesso alla cultura e al tempo libero, di mobilità sociale, ecc. Le categorie operaie, leggermente precedute dagli impiegati, occupano regolarmente gli ultimi posti (salvo a prendere in considerazione alcune categorie di agricoltori e di inattivi, gli operai agricoli in via di estinzione e le popolazioni del “quarto mondo”, sulle quali si ritornerà). 142 Cfr. Jean Baudrillard, La société de consommation. Ses mythes, ses structures, Paris, Denoël, 1970; trad. it. La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Bologna, il Mulino, 1976. 143 Michel Aglietta, Anton Brender, Les métamorphoses de la société salariale, cit., p. 98.

Senza pretendere di proporre un panorama esaustivo della società salariale, bisogna almeno rimarcare il posto di un ultimo blocco, che si denominerà periferico o residuale. La relativa integrazione della maggioranza dei lavoratori che rispecchia, tra le altre cose, la mensualizzazione scava uno scarto con una forzalavoro per questo marginalizzata, che raggruppa occupazioni instabili,

stagionali,

intermittenti144.

Questi

“lavoratori

periferici”145 sono esposti alla congiuntura. Essi subiscono in via prioritaria i contraccolpi delle variazioni della domanda di manodopera. Costituiti in maggioranza da immigrati, da donne e da giovani senza qualifica, da lavoratori anziani, incapaci di sopravvivere alle “riconversioni” che si avviano, essi occupano le posizioni più ingrate e più precarie nell'impresa, hanno i redditi più bassi e sono i meno coperti dai diritti sociali. Essi sono accampati alle frontiere della società salariale più che non parteciparvi affatto. Così, nello stesso momento in cui la condizione operaia si consolida, persiste o si scava in seno ai lavoratori, principalmente manuali, una linea di partizione tra gruppi vulnerabili la cui condizione ricorda quella del vecchio proletariato e una maggioranza che sembra solidamente coinvolta in un processo di partecipazione allargata ai benefici del progresso sociale ed economico. Tuttavia, prima della fine degli anni Settanta, la specificità e l'importanza di questo fenomeno sono mal percepiti. Per i sostenitori del progresso, esso è immerso nella dinamica dominante 144 Cfr. Jean Bunel, La mensualisation, une réforme tranquille?, cit., pp. 192-193. 145 Parallelamente ai lavori sulla segmentazione del mercato del lavoro, il tema del “lavoratore periferico” emerge negli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta. Cfr. Dean Morse, The Peripheral Worker, New York, Columbia University Press, 1969; trad. it. Il lavoratore periferico, Venezia-Padova, Marsilio, 1974.

che trascina tutta la società verso l'opulenza. Coloro che vi si interessano, per ragioni essenzialmente politiche, vi vedono la prova della perpetuazione dello sfruttamento della classe operaia in quanto tale146. L'importanza di questa divisione in seno alla società salariale non apparirà che più tardi con la diffusione della tematica della precarietà. Si possono infine avvicinare – senza confonderle – queste situazioni “periferiche” a quelle delle popolazioni che non sono mai entrate nella dinamica della società industriale. Si tratta di quel che si chiama il “quarto mondo”, espressione dall'esotismo un po' sospetto, come se sussistessero nelle società sviluppate degli isolotti arcaici popolati da tutti coloro che non hanno potuto o voluto pagare il prezzo dell'integrazione sociale e sono rimasti fuori dal lavoro regolare, dall'alloggio decente, dalle unioni familiari consacrate e dalla frequentazione di istituzioni di socializzazione riconosciute. “Questi sono coloro che, non essendo potuti entrare nelle strutture moderne, restano al di fuori delle grandi correnti della vita della nazione”147. Essi errano o abitano ai margini delle 146 Cfr. le discussioni dell'epoca sulla “pauperizzazione relativa” o la pauperizzazione assoluta” della classe operaia. Più in generale, in ragione del quasi-pieno impiego, nel momento in cui essa emerge, la tematica della frammentazione della classe operaia viene ritradotta di persistenza delle ineguaglianze piuttosto che in termini di precarietà accresciuta. 147 Joseph Wresinsky [Józef Wrzesiński], Introduction. La science, parente pauvre de la charité, in Jean Labbens, La condition sous-prolétarienne. L'héritage du passé, Paris, Sciences et service, 1965, p. 9. Quest'opera ha come sottotitolo L'eredità del passato, significativo della percezione della povertà come una sorta di corpo estraneo nella società salariale. Cfr., anche, Jean Labbens, Sociologie de la pauvreté, Paris, Gallimard, 1978. I “poveri”, per questo autore, “si collocano all'ultimo gradino o, meglio ancora, a lato della scala, senza riuscire a mettere il piede sul primo gradino. Essi non si riconoscono nella classe operaia, e la classe operaia non si riconosce in loro” (ivi, p. 138). Pensare aprioristica-

città, si riproducono tra loro generazione dopo generazione, vivono di espedienti o di aiuti, e sembrano scoraggiare gli sforzi ben intenzionati di tutti coloro che vogliono moralizzarli e normalizzarli. Essi mettono un po' in imbarazzo nei periodi di crescita e di conversione ai valori della modernità, ma non c'è in fondo nulla di scandaloso nel fatto che esista, come in ogni società senza dubbio, una frangia limitata di marginali o di asociali che non partecipano al gioco comune. In ogni caso, queste sacche residuali di povertà non sembrano mettere in questione né le regole generali dello scambio sociale né la dinamica del progresso continuo della società. Parlare di quarto mondo è un modo di indicare che “quella gente là” non è della stessa pasta di cui sono fatti i salariati. A parte l'esistenza di queste popolazioni “periferiche” o “residuali” – e senza dubbio anche, alla sommità, quella di posizioni eminenti, artisti, vedettes dei media, grandi manager, eredi di grandi fortune, la cui condizione sembra incommensurabile con il regime comune, ma c'è bisogno di ben altro esotismo di quello del quarto mondo per alimentare la mitologia di “Paris Match” –, la società salariale può dispiegare una struttura relativamente omogenea nella sua differenziazione. Non solo perché l'essenziale delle attività sociali è ricentrato intorno al salariato (quasi l'83% di salariati nel 1975), ma soprattutto perché la maggior parte dei membri di questa società trova nel salariato un principio unico che a un tempo li riunisce e li separa, e fonda così la loro identità sociale. “In una società salariale, tutto circola, tutto si misura e mente la problematica del “quarto mondo” come assolutamente distinta da quella della classe operaia è una componente essenziale – e assai discutibile – dell'ideologia di ATD-Quart Monde.

si compara”148. Formula esagerata forse, poiché tale società comporta dei margini, delle posizioni d'eccellenza al di sopra del salariato e delle posizioni di indegnità al di sotto di esso. Formula globalmente giusta però, se non si confonde “compararsi” con equivalersi, e se si intende “misurarsi” come una messa in competizione attraverso cui i soggetti sociali giocano la propria identità nella differenza. Il salariato non è solo una modalità di retribuzione del lavoro, ma la condizione a partire dalla quale gli individui sono distribuiti nello spazio sociale. Come sottolineano Margaret Maruani ed Emmanuelle Reynaud: “Dietro ogni situazione d'impiego, vi è un giudizio sociale” 149. Occorre prendere l'espressione nel suo senso più forte: il salariato è giudicato-collocato attraverso la sua situazione d'impiego, e i salariati trovano il loro comune denominatore ed esistono socialmente a partire da questo posto.

5. Lo Stato di crescita Tuttavia la società salariale non si riduce a un nesso di posizioni salariali. Consegnata alla sola logica della concorrenza e della distinzione, essa rischierebbe di essere travolta da un movimento centrifugo. Essa è anche una modalità di gestione politica che ha associato la proprietà privata e la proprietà sociale, lo sviluppo economico e la conquista dei diritti sociali, il mercato e lo Stato. Io chiamo qui Stato di crescita l'articolazione dei due para148 Michel Aglietta, Anton Brender, Les métamorphoses de la société salariale, cit., p. 98. 149 Margaret Maruani, Emmanuelle Reynaud, Sociologie de l'emploi, cit., p. 113.

metri fondamentali che hanno accompagnato la società salariale nel suo percorso e tessuto con essa dei legami essenziali: la crescita economica e la crescita dello Stato sociale. Di modo che la battuta d'arresto di questa promozione potrà intendersi come un effetto della crisi economica senza dubbio, ma soprattutto, attraverso essa, come la messa in discussione del sofisticato montaggio di fattori economici e di regolazioni sociali che ha dato al salariato moderno la sua fragile consistenza. Crescita economica in primis. Quel che sembrava evidente fino all'inizio degli anni Settanta rivela ora l'inquietante singolarità di un periodo inedito nella storia dell'umanità, o almeno in quella dei paesi industrializzati. Si assiste in Francia, tra il 1953 e il 1975 circa, con dei tassi di crescita annuali tra il 5 e il 6%, praticamente al triplicarsi della produttività, dei consumi e dei redditi salariali150. Questo fantastico arricchimento ha dato dello spazio di manovra alla società salariale. C'era allora, per riprendere un'espressione celebre di Louis Bergeron, segretario generale della CGT-Force ouvrière, “del grano da macinare”, non solamente una relativa abbondanza di beni da ripartire. La crescita – finché dura – permette di emettere tratte sull'avvenire. Non si tratta unicamente di strappare oggi tale o talaltro vantaggio, ma di programmare un miglioramento a termine della propria condi150 Cfr., per esempio, Eliane Mossé, Comprendre la politique économique. 2. La crise... et après, 1989, in Id., Comprendre la politique économique, 2 voll., Paris, Le Seuil, 1988-1989; Yves Barou, Bernard Keizer, Les Grandes Économies. États-Unis, Japon, Allemagne fédérale, France, Royaume-Uni, Italie, Paris, Le Seuil, 1984. Per il CERC – Conseil de l'Emploi, des Revenus et de la Cohesion sociale – il potere d'acquisto dei salari in franchi a valori costanti si è moltiplicato del 2,7% tra il 1950 e il 1973 (“Documents du CERC”, n. 58, secondo trimestre 1981).

zione. Lo sviluppo economico integra così il progresso sociale come una finalità comune di differenti gruppi in concorrenza. Ne risulta che le disparità quali sono vissute hic et nunc possono essere allo stesso tempo percepite come differenze provvisorie. “Le rivendicazioni settoriali possono così essere legittimate” 151 e anche, si potrebbe dire, sublimate: esse segnano le tappe di un percorso che deve sfociare nella riduzione delle ineguaglianze. Se una categoria particolare non ottiene tutto quel che chiede – e pensa al contrario di non averne mai abbastanza –, da una parte essa beneficia già di qualche cosa, dall'altra può sempre pensare che nell'avvenire otterrà di più. Una tale proiezione delle aspirazioni sull'orizzonte del futuro calma il gioco oggi e dà credito per domani all'ideale social-democratico di una cancellazione progressiva delle ineguaglianze. Questa scommessa sull'avvenire non è solamente un atto di fede nelle virtù del progresso in generale. Attraverso le sue modalità di consumo, il suo investimento in beni durevoli, il suo uso del credito, il salariato anticipa giorno per giorno la perennità della crescita e lega concretamente il proprio destino a un progresso indefinito. Nella società salariale, l'anticipazione di un avvenire migliore è inscritta nella struttura del presente. È tanto più vero che, attraverso una proiezione sulle generazioni successive, il salariato può sperare di realizzare in differita le proprie aspirazioni: quel che io non ho potuto ancora ottenere, i miei figli l'otterranno. Così lo sviluppo della società salariale è stato tributario di una condizione di cui bisognerà chiedersi se le è intrinsecamente legato, o se rappresenta un dato congiunturale: la crescita econo151 Michel Aglietta, Anton Brender, Les métamorphoses de la société salariale, cit., p. 80.

mica. Ma esso è anche strettamente tributario a una seconda serie di condizioni: lo sviluppo dello Stato sociale. Se è vero che la concorrenza e la ricerca della distinzione sono al principio della condizione salariale, il suo equilibrio esige che sia preceduta da alcuni arbitrati e che si stabiliscano dei compromessi negoziati. Come una società di classe era minacciata da uno scontro globale senza un terzo mediatore, così una società salariale rischia di dilaniarsi in lotte fra categorie in assenza di una istanza centrale di regolazione. La società salariale è anche una società al cuore della quale si è installato lo Stato sociale. Questo intervento dello Stato si è dispiegato in tre direzioni principali già in precedenza disegnate ma che si espandono nel quadro di questa formazione sociale: garanzia di una protezione sociale generalizzata, mantenimento dei grandi equilibri e guida dell'economia, ricerca di un compromesso tra i differenti partner implicati nel processo della crescita. A) L'instaurazione della Sécurité sociale nel 1945 costituisce innanzitutto una tappa decisiva della protezione del salariato nell'estensione dello sviluppo della proprietà di transfert (cfr. il cap. precedente). Ma l'evoluzione del sistema durante il decennio successivo porta a compimento il passaggio da una società di classe a una società salariale. L'ordinanza del 4 ottobre 1945 sembra realizzare la finalità all'origine delle assicurazioni sociali: mettere fine, ma definitivamente stavolta, alla vulnerabilità delle classi popolari. La popolazione di riferimento – “i lavoratori” – è ancora la classe operaia, il salariato di riferimento è il salariato operaio, uscito male da una precarietà secolare. È su questa forza-lavoro minacciata da “rischi di ogni genere” che la pro-

tezione sociale viene a innestarsi al fine di sradicarli: “è istituita una organizzazione della Sécurité sociale destinata a garantire i lavoratori e le loro famiglie contro i rischi di ogni genere suscettibili di ridurre o di sopprimere le loro capacità di guadagno, a coprire i carichi di maternità e i carichi di famiglia che essi sopportano”152. Consolidare “le capacità di guadagno” dei lavoratori: tale programma si può parzialmente comprendere nella prosecuzione di una posizione di tipo Front populaire che mira alla realizzazione della giustizia sociale a partire dal miglioramento della condizione della classe operaia153. La condizione operaia è ancora il supporto principale e, allo stesso tempo, il segmento più maltrattato della società industriale, e il progresso dell'insieme della società deve partire dal suo affrancamento. Era possibile conciliare questa discriminazione positiva di cui beneficiavano i lavoratori con l'ambizione, simultaneamente affermata, di riparare l'insieme della popolazione dall'insicurezza? “Ogni francese residente sul territorio della Francia metropolitana beneficia […] di legislazioni sulla Sécurité sociale”154. Sì, se una volontà politica forte impone un regime generale (per tutti) i cui meccanismi di finanziamento e di ripartizione avvantaggiano alcuni (i salariati più minacciati). Nel contesto della Liberazione, è proprio questo che si volle155. Il regime generale doveva avere una funzione for152 Ordonnance n. 45-2258 del 4 ottobre 1945, in “Journal officiel”, del 6 ottobre 1945, p. 6.280. 153 Tuttavia, se l'opera del Fronte popolare è stata considerevole in materia di diritto del lavoro e di contratti collettivi, non ha assunto, forse per mancanza di tempo, alcuna misura concernente la protezione sociale propriamente detta. 154 Legge del 22 maggio 1946 “concernente la generalizzazione della Sécurité sociale”, art. 1. 155 Sul contesto della Liberazione – le direttive del Conseil national de la

temente redistributiva, i prelievi dalle categorie meglio provviste contribuivano a completare le risorse dei lavoratori o delle famiglie sfavorite156. Ma se si lascia fare ai retaggi sociali, ogni categoria sociale difende il proprio interesse. Questi retaggi sono quelli della trasformazione del salariato precedentemente analizzata. Nel momento in cui il regime generale della Sécurité sociale si dispiega, il salariato operaio è già parzialmente accerchiato e sovrastato da altre configurazioni salariali meglio provviste. Esso è nello stesso tempo circondato da categorie non salariate, le professioni indipendenti, che rigettano un allineamento alla condizione operaia. Non appena la congiuntura politica permetterà loro di far sentire la propria voce, esse imporranno un altro sistema157. Résistance a partire dal 1944, l'esigenza di affermare la solidarietà nazionale dopo le sofferenze e gli strazi della guerra, la preponderanza di una sinistra numericamente dominata dal “partito della classe operaia”, la discrezione forzata di una destra e di un padronato largamente screditati, ecc. – cfr. Henry C. Galant, Histoire politique de la Sécurité sociale française. 1945-1952, Paris, Colin, 1955. Sull'importanza del rapporto Beveridge (Social Insurance and Allied Service. Report by Sir William Beveridge. Presented to Parliament, London, Novembre 1942; trad. it. Il Piano Beveridge. Compendio ufficiale della relazione di sir William Beveridge al governo britannico, Londra, presso la Stamperia Reale, 1943) e sulla sua influenza in Francia, cfr. Adrienne Linossier, Crise des systèmes assurantiels aux États-Unis, en Grande-Bretagne et en France, thèse pour le doctorat en sociologie, Université Paris VIII, 1994. 156 L'intenzione era quella “di prelevare dai redditi degli individui favoriti le somme necessarie per completare le risorse dei lavoratori o delle famiglie svantaggiate” (Alexandre Parodi, Exposé des motifs accompagnant la demande d'avis n. 504 sur le projet d'organisation de la Sécurité sociale, in “Bulletin de liaison du Comité d'histoire de la Sécurité sociale”, n. 14, 1986, pp. 83-91). 157 Su questo sistema, che conterà alla fine 120 regimi di base e 12.000 regimi complementari, cfr. Numa Murard, La protection sociale, cit., pp. 90 sgg. Sulle peripezie che hanno portato al blocco del “regime generale”, cfr. Henry C. Galant, Histoire politique de la Sécurité sociale,

In effetti, con la moltiplicazione dei regimi speciali, piuttosto che di un ritocco marginale, è certamente di un altro sistema che si tratta. Questo esprime la diversità della società salariale in seno alla quale anche i non-salariati occupano il terreno dissodato dai salariati sforzandosi di massimizzare i vantaggi e di ridurre al minimo i costi della sicurezza 158. Logica della differenziazione e della distinzione piuttosto che della solidarietà e del consenso. L'organigramma della Sécurité sociale dà così un'ottima proiezione della struttura della società salariale, sarebbe a dire di una società gerarchizzata in cui ogni raggruppamento professionale, geloso delle proprie prerogative, si accanisce a farle riconoscere e a rimarcare la propria distanza rispetto a tutti gli altri. Anche se si rimpiange l'arretramento dell'ispirazione democratica che era all'origine del sistema, come di certe sue lacune159, bisogna convenire che esso sposa perfettamente la logica della trasformazione della società salariale. La subordinazione cit. Dietro le quinte della scena parlamentare, i rappresentanti dei diversi gruppi professionali e degli “indipendenti” si sono dedicati a un'intensa attività di lobbying. Oltre al ruolo dei medici per opporsi al versante sanitario del programma, è stato preponderante il ruolo della Confédération générale des cadres che rappresentava le categorie dei salariati ostili a qualsiasi forma di accostamento allo status degli operai. Cfr. Luc Boltanski, Les cadres, cit., pp. 147 sgg. 158 Cfr. Guy Perrin, Pour une théorie sociologique de la Sécurité sociale dans les sociétés industrielles, in “Revue française de sociologie”, n. 7, 1967, pp. 299-324. La preoccupazione per la differenziazione ha giocato anche in seno alla classe operaia: le categorie professionali tradizionalmente dotate di regimi specifici, come i minatori, i ferrovieri, i marinai, ecc., hanno fatto di tutto per preservare i loro “vantaggi acquisiti”. Sul peso dei regimi anteriori al tentativo di generalizzazione, cfr. Francis Netter, Les retraites en France avant le XXe siècle, cit. 159 In particolare, l'assenza della copertura dalla disoccupazione. In compenso, un'analisi completa delle protezioni dovrebbe mettere l'accento sull'importanza degli assegni familiari, espressione della prevalenza dell'ottica natalista francese.

gerarchica della classe operaia traduce la sua destituzione in quanto attrattore della condizione salariale. Le realizzazioni della Sécurité sociale possono così interpretarsi come l'apoteosi di un salariato in seno al quale il salariato non operaio ha occupato un posto sempre più preponderante. Esse operano un tipo di copertura propria di una società che fa giocare la differenziazione più che l'uguaglianza. Da una parte la secolare vulnerabilità delle classi popolari sembra strozzata: un filo di sicurezza per tutti. Ma la socializzazione dei redditi tocca allo stesso modo le altre categorie salariali e, una cosa tira l'altra, la quasi totalità della popolazione160. La “proprietà di transfert” la cui logica aveva cominciato a imporsi in basso nella scala sociale con le pensioni operaie e contadine e le assicurazioni sociali (cfr. cap. VI) si universalizza. Ormai il “salario indiretto” rappresenta circa un quarto dei redditi salariali, e non ha più quale unica finalità di preservare i più vulnerabili contro il rischio della destituzione sociale161. Tale evoluzione è dunque al contempo una promozione del salariato e una promozione della proprietà sociale di cui lo Stato è contemporaneamente l'iniziatore e il garante. Non soltanto perché il ruolo dell'amministrazione è stato preponderante per il 160 Nel 1975, risulta coperto il 75% della popolazione francese, il 99,2% nel 1984. Cfr. Christiane Dufour, La protection sociale, Paris, La Documentation française, 1984, p. 49. 161 Le somme destinate alla protezione sociale rappresentano il 10% del reddito nazionale nel 1938, il 15,9% nel 1960, il 24% nel 1970, il 27,3% nel 1980 (cfr. Jean-Pierre Dumont, La Sécurité sociale toujours en chantier. Histoire, bilan, perspectives, Paris, Éditions ouvrières, 1981, p. 42). In percentuale, rispetto al reddito disponibile delle famiglie, le prestazioni sociali sono passate dall'1,1% del 1913 al 5% del 1938, al 16,6% del 1950, al 28% del 1975, al 32,4% del 1980 (cfr. Robert Delorme, Christine André, L'état et l'économie. Un essai d'explication de l'évolution des dépenses publiques en France, 1870-1980, Paris, Le Seuil, 1983, p. 415).

dispiegamento del sistema (cfr., per esempio, il ruolo svolto in Francia da Pierre Laroque, o in Inghilterra da lord Beveridge che agiscono su mandato governativo), ma, più in profondità, perché una dimensione giuridica è inscritta nella struttura stessa del salario. Attraverso l'intermediazione del salario indiretto, “quel che conta è sempre meno ciò che ciascuno possiede e sempre più i diritti che sono acquisiti dal gruppo al quale si appartiene. L'avere ha meno importanza dello statuto collettivo definito da un insieme di regole”162. La generalizzazione dell'assicurazione assoggetta così la quasi totalità dei membri della società al regime della proprietà di transfert. Si tratta dell'ultimo episodio dell'incrociarsi tra il patrimonio e il lavoro. Una parte del salario (del valore della forzalavoro) sfugge ormai alle fluttuazioni dell'economia e rappresenta una sorta di proprietà per la sicurezza, estratta dal lavoro e disponibile per situazioni di non-lavoro: la malattia, l'incidente, la vecchiaia. Lo Stato sociale è collocato, perciò, al cuore del dispositivo salariale. Si è imposto come l'istanza terza che svolge il ruolo di mediatore tra gli interessi dei datori di lavoro e quelli degli impiegati: “Ai rapporti diretti tra datori di lavoro e salariati si sono progressivamente sostituiti dei rapporti triangolari tra datori di lavoro, salariati e istituzioni sociali”163. 162 Henri Hatzfeld, La difficile mutation de la sécurité-propriété à la sécurité-droit, cit., p. 57. 163 Jean-Jacques Dupeyroux, Droit de la Sécurité sociale, Paris, Dalloz, 1980, p. 102. Ricordiamo che lo Stato svolge questo ruolo senza entrare direttamente nella gestione del sistema, che si effettua, come si sa, attraverso metodi paritari; prova che il funzionamento dello Stato sociale non va necessariamente associato al dispiegamento di una pesante burocrazia statale. Anche lo Stato francese. Non è forse inutile ricordare che il sistema francese di Sécurité sociale obbedisce a delle regole incomparabilmente più elastiche, più differenziate e più decentralizzate

B) Questa concezione dello Stato che sottende la protezione sociale è complementare a un ruolo di attore economico assunto dal potere pubblico, che si diffonde ugualmente dopo la Seconda guerra mondiale. Ma mentre la Sécurité sociale porta a compimento un processo di generalizzazione della proprietà sociale intrapreso dalla fine del XIX secolo, l'intervento dello Stato in quanto regolatore dell'economia figura come un'innovazione164. rispetto per esempio al sistema inglese. Cfr. Douglas Elliot Ashford, British Dogmatism and French Pragmatism. Central-Local Policymaking in the Welfare State, London, George Allen and Unwin, 1982. 164 Non che lo Stato “liberale” si sia vietato di perseguire politiche in aperto contrasto con il gioco spontaneo dell'economia, come il deliberato protezionismo praticato da Guizot o Thiers, il sostegno sistematico prodigato all'agricoltura a scapito dell'industria o, ancora, al momento della Prima guerra mondiale, la mobilitazione della maggior parte della produzione al servizio della difesa nazionale (cfr. Pierre Rosanvallon, L'État en France de 1789 à nos jours, cit.). Ma – tranne il periodo della guerra, la cui maggior parte delle direttive fu comunque abrogata appena tornata la pace – lo Stato non deve immischiarsi nella gestione dell'industria e pertiene agli industriali definire gli obiettivi delle proprie imprese e gestirle al meglio dei propri interessi. Nel periodo tra le due guerre, apparivano le prime concezioni della pianificazione e della nazionalizzazione nell'ambito del socialismo riformista e anche negli ambienti tentati dall'instaurazione di uno Stato forte. La CGT sviluppa un sostanziale programma di nazionalizzazione, ma resterà lettera morta. La sola iniziativa di dirigismo economico che promuoverà il governo del Front populaire di Léon Blum, lui stesso ostile alla nazionalizzazione, sarà la creazione di un Office des blés [Ufficio dei grani] per assicurare un reddito minimo ai contadini, segno ulteriore della preponderanza accordata agli interessi dell'agricoltura rispetto a quelli dell'industria. Cfr. Richard F. Kuisel, Le capitalisme et l'État en France, cit. e Alain bergounioux, Le néo-socialisme. Marcel Déat: réformisme traditionnel ou esprit des années trente?, in “Revue historique”, n. 528, 1978, pp. 389412; Jacques Amoyal, Les origines socialistes et syndacalistes de la planification en France, in “Le mouvement social”, n. 87, 1974, pp. 137-169; sulla crescita quantitativa degli investimenti dello Stato, cfr. Robert Delorme, Christine André, L'État et l'economie, cit.

Nel quadro della ricostruzione prima, della modernizzazione poi, lo Stato prende in carico la promozione della società. Impone una politica volontaristica per definire i grandi equilibri e, a un tempo, per scegliere i domini privilegiati d'investimento, e per sostenere il consumo attraverso delle politiche di rilancio. Agli inizi degli anni Cinquanta, l'investimento dello Stato nelle industrie di base è superiore a quello del settore privato 165. Questa economia diretta dà un ruolo pilota alle imprese nazionalizzate e al settore pubblico. Essa si allarga a interventi sul credito, i prezzi, i salari... Lo Stato godeva di poteri di regolamentazione impressionanti, tra gli altri domini, l'investimento, il credito, i prezzi, i salari cadevano più o meno sotto il suo controllo. Poteva per esempio agire sui salari, fissando da una parte un minimo generale, dall'altra la scala dei trattamenti nella funzione pubblica. I nuovi servizi di statistica o di previsione si rivelarono estremamente utili, simboleggiando l'attitudine di uno Stato disposto ora a prevedere l'avvenire per meglio organizzarlo166.

Si mettono così in campo gli strumenti di una socializzazione delle condizioni della produzione. In applicazione dei princìpi keynesiani, l'economia non è più concepita come una sfera separata. Essa è malleabile, a colpi di interventi sui prezzi, i salari, gli investimenti, gli aiuti a certi settori, ecc. Lo Stato pilota l'economia. Gestisce una corrispondenza tra obiettivi economici, obiettivi politici e obiettivi sociali. Circolarità di una regolazione 165 Cfr. Richard F. Kuisel, Le Capitalisme et l'État en France, cit., p. 437. 166 Ivi, p. 417.

che pesa sull'economico per promuovere il sociale e che fa del sociale lo strumento per puntellare l'economia quando ha un cedimento167. Come dice Claus Offe, l'autorità dello Stato è “infusa” nell'economia tramite la gestione della domanda globale, mentre i vincoli del mercato sono “introdotti” nello Stato 168. Le pretese leggi dell'economia non sono più vissute come un destino. Attraverso le sue politiche di rilancio, il ruolo che gioca per garantire i salari, le scelte industriali che effettua, lo Stato interviene non solo come produttore di beni, ma anche, si potrebbe dire, come produttore di consumatori, ossia di salariati solvibili. Ma è principalmente lo sviluppo della proprietà sociale che deve attirare l'attenzione in relazione al presente discorso. Si tratta innanzitutto delle nazionalizzazioni di cui Henri de Man già notava che avrebbero proceduto a un trasferimento di autorità sulla proprietà (cfr. cap. VI); ma anche dello sviluppo dei servizi pubblici e delle strutture collettive di cui si è potuto dire a partire dal IV Piano del 1962 (il primo a chiamarsi “Piano di sviluppo economico e sociale”) che rappresentavano la maniera in cui si incarnava il sociale169 – che si tratti di istituzioni speciali in favore di categorie sfavorite della popolazione o di servizi pubblici a uso collettivo. Pierre Massé fa il punto dell'ascolto dato all'epoca alle critiche (condotte, tra gli altri, da Jacques Delors) del modello “americano” di sviluppo economico centrato sul consumo individuale. Portatrici “di un'idea meno parziale dell'uomo”, le strutture collettive mettono a disposizione di tutti una proprietà 167 Cfr. Jacques Donzelot, L'invention du social, cit., p. 170. 168 Cfr. Claus Offe, Contradictions of the Welfare State, London, Hutchinson, 1986, pp. 182-183, e anche Adrienne Linossier, Crise des systèmes assurantiels aux États-Unis, en Grande-Bretagne et en France, cit. 169 Cfr. François Fourquet, Numa Murard, Valeur des services collectifs sociaux, cit., p. 104.

indivisa170. Per citare un verso di Victor Hugo, “ognuno ha la sua parte, ma tutti l'hanno per intero”171. I servizi pubblici accrescono così la proprietà sociale. Rappresentano un tipo di beni che non sono appropriabili individualmente, né commercializzabili, ma servono per il bene comune. Al di là della logica del patrimonio e del regno della merce privata, questi appartengono al medesimo registro della proprietà di transfert, che la Sécurité sociale in quel mentre amplia. Parallelismo tra il consolidamento di una proprietà-protezione e lo sviluppo di una proprietà di uso pubblico. Si può esitare a denominare questa forma di governamentalità. Richard Kuisel, sensibile al restringimento di queste posizioni rispetto alle opzioni socialisticheggianti che si erano sviluppate all'epoca della Liberazione, parla di “neoliberalismo” 172. Ma allora si tratta di una forma di liberalismo in quasi-rottura con le politiche liberali precedenti. Jacques Fournier e Nicole Questiaux parlano di “capitalismo sociale”, sottolineando al contempo il carattere incontestabilmente capitalista di questa economia e gli sforzi per inquadrarla attraverso delle regolazioni sociali

170 Pierre Massé cit. in François Fourquet, Les comptes de la puissance. Histoire de la comptabilité nationale et du Plan, Paris, Éditions Recherches, 1980. 171 Cit. in François Fourquet, Numa Murard, Valeurs des services collectifs sociaux, cit., p. 56. L'immagine, nel poema di Hugo, è quella di un faro che brilla per tutti i navigatori, che serve a tutti, ma di cui nessuno si appropria. 172 Richard F. Kuisel, Le capitalisme et l'État en France, cit. Oltre le posizioni di Pierre Mendès France, André Philippe, per esempio, era sostenitore di un'opzione che dava ampio spazio ai sindacati nella definizione e nel controllo delle politiche economiche, ma l'economia concertata si è di fatto basata sulle grandi concentrazioni industriali, sui settori più dinamici del capitalismo e sulle grandi imprese nazionalizzate.

forti173. Si può anche evocare un keynesianismo à la française, pianificatore e centralizzatore, come suggerisce Pierre Rosanvallon174, ma, al di là delle specificità francesi, questa forma di Stato è assai ben caratterizzata da Claus Offe: “un insieme multifunzionale ed eterogeneo di istituzioni politiche e amministrative il cui fine è di gestire le strutture di socializzazione dell'economia capitalista”175. Al di là dei correttivi apportati a un funzionamento selvaggio dell'economia, l'accento è posto sui processi di socializzazione che trasformano i parametri in interazione nella promozione della crescita. Qui anche lo Stato è al cuore della dinamica dello sviluppo della società salariale. C) Il ruolo regolatore dello Stato si svolge su di un terzo registro, quello delle relazioni tra le parti sociali. Tale ambizione è contemporanea all'emergere delle prime velleità di intervento dello Stato sociale176, ma i suoi risultati sono stati a lungo assai limitati, e all'inizio degli anni Settanta ancora stenta molto a imporsi. Si trattava di gestire in modo contrattuale, dietro iniziativa o con l'arbitrato dello Stato, gli interessi divergenti dei datori di lavoro e dei salariati. Se la storia delle relazioni di lavoro è spesso la storia delle resistenze al riconoscimento della negozia173 Jacques Fournier, Nicole Questiaux, Le pouvoir du social, Paris, PUF, 1979. Si troverà in questa opera anche un certo numero di proposizioni per proseguire o per volgere nel senso di una politica socialista i risultati del dopoguerra. 174 Cfr. Pierre Rosanvallon, L'État en France, cit. 175 Claus Offe, Contradictions of the Welfare State, cit., p. 186. 176 Ricordiamo l'affermazione di Alexandre Millerand del 1900: “C'è un interesse di primo ordine a istituire tra i padroni e la collettività degli operai delle relazioni continue che permettano di scambiare per tempo le spiegazioni necessarie e di regolare alcuni tipi di difficoltà […]. Instaurandole, il governo della Repubblica resta fedele al suo ruolo di pacificatore e di arbitro”.

zione come modalità di gestione dei conflitti 177, ci si atterrà qui a due misure il cui impatto è stato considerevole per il consolidamento della condizione salariale. Lo SMIG, salario minimo interprofessionale garantito, è stato istituito nel 1950 e diviene nel 1970 lo SMIC, salario minimo interprofessionale di crescita, indicizzato contemporaneamente sull'aumento dei prezzi e sulla progressione della crescita. In rapporto alla storia del salariato, queste misure sono essenziali perché definiscono e danno uno statuto legale alle condizioni minimali di accesso alla condizione salariale. Un salariato non è solamente un lavoratore qualunque cui tocca una certa retribuzione per un lavoro. Con lo SMIG, il lavoratore “entra in condizione salariale”, si potrebbe dire, cioè si colloca in quel continuum di posizioni comparabili di cui si è visto che costituiva la struttura di base. Il lavoratore entra in una logica di integrazione differenziale che, nella versione SMIC, è anche indicizzata sulla progressione globale della produttività. Non è tanto un minimo vitale quanto una assicurazione di partecipazione allo sviluppo economico e sociale. Si ha qui il primo grado di appartenenza a uno 177 Cfr. specialmente Jacques Le Goff, Du silence à la parole, cit., François Sellier, La confrontation sociale en France, cit., Jean-Daniel Reynaud, Les syndacats, les patrons et l'État, tendances de la négociation collective en France, Paris, Éditions ouvrières, 1978, e Pierre Rosanvallon, La question syndicale, Paris, Colmann-Lévy, 1988. Due le ragioni principali di questa situazione: da un lato, l'attitudine generalizzata della maggioranza del padronato tendente a considerare gli affari dell'impresa come la propria riserva di caccia, il che provoca una diffidenza di principio nei confronti dei sindacati (questa attitudine si è evoluta molto lentamente in un secolo); d'altro canto, la difficoltà, e talora il rifiuto, dei sindacati operai a prestarsi al gioco della società salariale. Questo comporta in effetti una gestione differenziale dei conflitti e l'accettazione di rivendicazioni relative che dovrebbero sfociare in compromessi piuttosto che in cambiamenti globali.

status di salariato grazie al quale il salario non è più solamente una modalità di retribuzione economica. La mensualizzazione rappresenta un altro punto forte del consolidamento della condizione salariale per coloro che si trovano collocati in basso nella scala degli impieghi. Essa allinea, lo si è detto, lo status della maggior parte degli operai a quello degli impiegati, e il salario cessa di retribuire un'attività puntuale per divenire un'allocazione globale attribuita a un individuo. Ma, oltre a questo contributo all'integrazione operaia, la mensualizzazione, per la maniera in cui si è imposta, esemplifica il ruolo giocato dallo Stato nello sviluppo delle politiche contrattuali. Essa è proposta dal governo, e subito freddamente accolta sia dal padronato, che teme di pagarne il costo, sia dai sindacati operai, diffidenti nei confronti di una misura che era spesso servita alle strategie padronali per istituire delle divisioni in seno agli operai 178. Non di meno, gli accordi di mensualizzazione, negoziati pezzo a pezzo a partire dal maggio 1970, si impongono rapidamente. Indipendentemente da eventuali secondi fini elettorali – il candidato Pompidou aveva inserito la mensualizzazione nel suo programma per la presidenza –, vi è un incontestabile successo dello Stato nella sua volontà di promuovere un compromesso sociale tra gruppi antagonisti179.

178 Cfr. Jean Brunel, La mensualisation, une réforme tranquille?, cit. 179 L'età dell'oro di questa politica corrisponde al tentativo compiuto da Jacques Chaban-Delmas di promuovere la sua “nuova società”. Gli accordi interprofessionali del luglio 1970, sulla formazione permanente, rappresentano, con gli accordi sulla mensualizzazione, un'attuazione esemplare di questo approccio. Il risultato di un accordo contrattuale diviene “obbligo nazionale”: “La formazione professionale permanente costituisce un obbligo nazionale” (Code du travail, art. L900-1).

A tali disposizioni, che toccano la struttura professionale e il diritto del lavoro, occorre associare gli sforzi tentati per ripartire i frutti dell'espansione. La direttiva indirizzata dal Primo ministro per la preparazione del V Piano chiede nel gennaio 1965 “di chiarire quel che può essere […] nella realtà l'aumento di grandi masse di redditi, salari, profitti, prestazioni sociali e altri redditi individuali per favorire un largo accesso da parte di tutti ai frutti dell'espansione,

e

nello

stesso

tempo

di

ridurre

le

ineguaglianze”180. Si fa spazio in questo quadro il tentativo di sviluppare una “politica dei redditi”, lanciata dopo il grande sciopero dei minatori del 1963. Pierre Massé proponeva nel gennaio 1964 che in occasione della preparazione di ogni piano il Commissariato fosse incaricato, parallelamente alla pianificazione tradizionale in volume, di presentare una programmazione indicativa in valore. Quest'ultima metterebbe in evidenza linee di indirizzo per le grandi masse di redditi, specialmente i salari, le prestazioni sociali, i redditi agricoli e i profitti, come le condizioni dell'equilibrio fra il risparmio e l'investimento da una parte, le entrate e le spese pubbliche dall'altra parte […]. A partire dalle linee di indirizzo annuali, il governo potrebbe raccomandare un tasso di aumento per ogni categoria di redditi181. 180 Cit. in Bernard Friot, Protection sociale et salarisation de la main-d'œvre: essai sur le cas français, thèse de sciences économiques, Université Paris X, 1993. 181 Cit. in François Sellier, La confrontation sociale en France, cit., p. 217. Per una esposizione degli obiettivi della politica dei redditi, cfr. Guy Caire, Les politiques des revenus et leurs aspects institutionnels. État des travaux dans les pays industrialisés à économie de marché, Genève, BIT, 1968.

La politica dei redditi non vedrà mai la luce, almeno in questa forma. L'evoluzione dei salari dal 1950 al 1975 mostra che le disparità sono rimaste pressappoco costanti, piuttosto con una tendenza ad approfondirsi (scarto del 3,3% tra quadri superiori e operai nel 1950, del 3,7% nel 1975 182). Si può allora parlare di una ripartizione dei frutti della crescita? Sì, se non si intende con questo la riduzione delle ineguaglianze. Globalmente, l'evoluzione dei salari ha seguito quella della produttività e tutte le categorie ne hanno beneficiato, ma senza che il ventaglio delle gerarchie si sia per questo ristretto. Tuttavia, se questa progressione è stata resa possibile dai risultati della crescita, essa non ne è stato l'effetto meccanico. Lo sviluppo economico è stato preso all'interno di certe strutture giuridiche di regolazione. D'altronde, quando la dinamica economica comincia a perder fiato, la consistenza di tale sistema di regolazione attenua in un primo tempo gli effetti della crisi. L'accordo interprofessionale siglato il 14 ottobre 1974 garantisce l'indennizzo della disoccupazione totale al 90% del salario lordo il primo anno, mentre la disoccupazione parziale è indennizzata dall'impresa con l'apporto di fondi pubblici183. I dispositivi paritari di garanzia che coinvolgono la responsabilità dello Stato permettevano ancora di pensare che 182 Cfr. Christian Baudelot, Anne Lebeaupin, Les salaires de 1950 à 1975, cit. Una correzione dei bassi salari interviene nel 1968, in particolare con l'aumento dello SMIC (35% a Parigi e 38% in provincia), ma recupera solo in parte una degradazione anteriore, e si eroderà di nuovo in seguito. 183 Cfr. Jean-Daniel Reynaud, Les syndicats, les patrons et l'État, cit., pp. 14-16. A tal proposito, ricordiamo che l'indennizzo – tardivo in Francia – della disoccupazione si effettua tramite questo tipo di convenzioni paritarie (firma nel dicembre 1958, anche in questo caso sotto la pressione dei poteri pubblici, dell'accordo che crea l'Assedic e l'Unedic).

esistesse un quasi-diritto al lavoro, nel momento stesso in cui la situazione cominciava a degradarsi. È dunque certamente esistita una potente sinergia tra la crescita economica con il suo corollario, il quasi-pieno-impiego, e lo sviluppo dei diritti del lavoro e della protezione sociale. La società salariale sembrava seguire una traiettoria ascendente che, nello stesso movimento, assicurava l'arricchimento collettivo e promuoveva una migliore ripartizione delle opportunità e delle garanzie, a tal punto che, per non appesantire a dismisura questa esposizione e tenere saldo il filo conduttore dell'argomentazione, mi sono attenuto alle protezioni direttamente legate al lavoro. La stessa composizione sviluppo economico-regolazioni statali ha giocato nei domini dell'educazione, dell'igiene pubblica, della gestione del territorio, dell'urbanistica, delle politiche familiari... Globalmente, le performances della società salariale sembravano in grado di riassorbire il deficit di integrazione che aveva segnato gli inizi della società industriale attraverso la crescita dei consumi, l'accesso alla proprietà o all'alloggio decente, la partecipazione accresciuta alla cultura e agli svaghi, gli avanzamenti verso la realizzazione di una migliore eguaglianza delle chances, il consolidamento del diritto al lavoro, l'estensione delle protezioni sociali, il riassorbimento delle sacche di povertà, ecc. La questione sociale sembrava dissolversi nel credo del progresso indefinito. È proprio questa traiettoria a essersi spezzata. Chi potrebbe pretendere oggi di pensare che stiamo andando verso una società più accogliente, più aperta, che stiamo lavorando per ridurre le

ineguaglianze e per massimizzare le protezioni? L'idea stessa di progresso si è sfaldata.

VIII. LA NUOVA QUESTIONE SOCIALE

L'esito delle analisi precedenti porta a interpretare la questione sociale come si pone oggi, a partire dall'erosione della condizione salariale. La questione dell'esclusione, che occupa la scena da alcuni anni, ne è un effetto, essenziale senza alcun dubbio, ma che sposta ai margini della società quel che la colpisce innanzitutto al centro. Infatti, o non vi sono, come pretendeva Gambetta, che “problemi sociali” particolari, una pluralità di difficoltà da affrontare una per una1, o c'è una questione sociale, ed è la questione dello statuto del salariato, perché il salariato è arrivato a strutturare la nostra formazione sociale quasi nella sua inte1 In un discorso del 20 gennaio 1880, Léon Gambetta dichiara che ciò su cui occorre concentrarsi “è quel che chiamerei la soluzione dei problemi economici e industriali, e che mi rifiuterei di chiamare la questione sociale... Non si possono risolvere questi problemi che uno per uno, a forza di studi e di buona volontà, e soprattutto a forza di conoscenza e di fatica” (Discours et plaidoyers politiques de M. Gambetta / publié par M. Joseph Reinach, Paris, G. Charpentier, 1880-1885, 11 voll., t. IX, 7 e partie, 6 février 1879-28 octobre 1881, p. 122, cit. in Georges Weill, Histoire du mouvement social en France, 1852-1902, cit., p. 242). Maniera di “dividere le difficoltà in tante parti quante ne occorrono per meglio risolverle”, secondo il Discours de la méthode di Descartes, o di dividere la questione sociale in tante parti quante ne occorrono per meglio eluderla?

rezza. Il salariato si è a lungo accampato ai margini della società, vi si è in seguito installato rimanendovi subordinato, vi si è infine diffuso fino ad avvolgerla da parte a parte per imporre dappertutto il suo marchio. Ma è esattamente nel momento in cui gli attributi connessi al lavoro sembravano essersi imposti definitivamente per caratterizzare lo statuto che colloca e classifica un individuo nella società, a detrimento degli altri supporti dell'identità, come l'appartenenza familiare o l'inscrizione in una comunità concreta, che questa centralità del lavoro viene brutalmente rimessa in discussione. Siamo giunti dunque a una quarta tappa della storia antropologica del salariato, quando la sua odissea si volge in dramma? Una tale questione a oggi non contempla certo delle risposte univoche, ma è possibile precisarne i temi e definire le opzioni aperte, mantenendo il filo conduttore che ha ispirato tutta questa ricostruzione: concepire cioè una situazione come una biforcazione rispetto a una situazione precedente, ricercare la sua intelligibilità a partire dalla distanza che si è scavata tra quel che fu e quel che è. Senza mitizzare il punto di equilibrio a cui era giunta la società salariale una ventina di anni fa, si constata ora uno sdrucciolamento dei principali parametri che assicuravano questo fragile equilibrio. La novità non è solo la recessione, e neanche la fine del quasi-pieno-impiego, a meno che non vi si veda la manifestazione di una trasformazione del ruolo di “grande integratore” svolto dal lavoro2. Il lavoro, lo si è verificato lungo tutto questo percorso, è più che lavoro, e dunque il non-lavoro è più che disoccupazione, cosa non da poco. Perciò la caratteristi2 Cfr. Yves Barel, Le grand intégrateur, in “Connexions”, n. 56, 1990, pp. 85-100.

ca più sconcertante della situazione attuale è senza dubbio la riapparizione di un profilo di quei “lavoratori senza lavoro” 3, a cui faceva riferimento Hannah Arendt, i quali occupano letteralmente nella società un posto di surnumerari, di “inutili al mondo”. Fare questa constatazione non è tuttavia sufficiente per apprezzare l'esatto significato di questo avvenimento, né per sapere come affrontare una situazione che è inedita per l'ultimo mezzo secolo, benché ne evochi di più antiche precedentemente incontrate. Si tratta, per esempio, di un momento difficile, da superare aspettando la ripresa? Basterebbe allora aver pazienza, ricorrendo ad alcuni espedienti. Si tratta, invece, di un periodo incerto di transizione verso una inevitabile ristrutturazione dei rapporti di produzione? Bisognerebbe allora cambiare certe abitudini prima di ritrovare una configurazione stabile. Oppure è una mutazione completa del nostro rapporto col lavoro e di conseguenza del nostro rapporto col mondo? Si tratterebbe allora di inventare tutt'altra maniera di abitare questo mondo o di rassegnarsi all'apocalisse. Per evitare le tentazioni del profetismo come quelle del catastrofismo, si comincerà col tentare di esaminare l'esatta ampiezza dei cambiamenti sopravvenuti negli ultimi venti anni, e poi la portata delle misure adottate per farvi fronte. Pertanto, in relazione alle politiche di integrazione che prevalevano fino agli anni Settanta, le politiche dette di inserimento sono all'altezza delle fratture che si sono prodotte? Si tratta di modernizzare le politiche pubbliche o di dissimularne la disfatta?

3 Cfr. Hannah Arendt, Condition de l'homme moderne, cit., p. 38.

Questo lavoro si vuole essenzialmente analitico e non ha dunque l'ambizione di proporre una soluzione miracolosa. Tuttavia, la messa in prospettiva storica permette di disporre di alcuni pezzi per comporre un nuovo puzzle, perché questa lunga traversata fornisce alcuni insegnamenti: l'economico da solo non ha mai fondato un ordine sociale; in una società complessa, la solidarietà non è più un dato ma una costruzione; la proprietà sociale è compatibile con il patrimonio privato e, allo stesso tempo, è necessaria per inscriverlo in strategie collettive; il salario, per sfuggire alla sua secolare indegnità, non può ridursi alla semplice retribuzione di una mansione; la necessità di riservare a ciascuno un posto in una società democratica non può compiersi attraverso una mercificazione completa della società scavando qualsiasi “giacimento di lavoro”, ecc. Se l'avvenire è per definizione imprevedibile, la storia dimostra che non sia infinita la gamma di risorse di cui gli uomini dispongono per affrontare i loro problemi. Allora, se il nostro problema oggi è continuare a costituire una società di soggetti interdipendenti, si possono almeno nominare alcune condizioni da rispettare perché possa essere così.

1. Una rottura di traiettoria Forse è fondamentalmente una rappresentazione del progresso che è stata trascinata via dalla “crisi”: la convinzione cioè che domani sarà meglio di oggi e che si può confidare nell'avvenire per migliorare la propria condizione; o, in forma meno ingenua, che esistano dei meccanismi per controllare il divenire di

una società sviluppata, per gestire le sue turbolenze e per condurla verso forme di equilibrio sempre meglio strutturate. Si tratta senza dubbio di una eredità eufemistica dell'ideale rivoluzionario di un dominio completo da parte dell'uomo sul proprio destino, con l'obiettivo di far rientrare, anche di forza, il regno dei fini nella storia. Con il progresso, tuttavia, non si tratta più di instaurare di forza qui e ora un mondo migliore, ma di gestire delle transizioni che, progressivamente, è il caso di dirlo, permetteranno di avvicinarglisi. Questa rappresentazione della storia è indissociabile dalla valorizzazione del ruolo dello Stato. Occorre un attore principale per dirigere queste strategie, obbligare le parti ad accettare degli obiettivi ragionevoli e per vigilare sul rispetto dei compromessi. Lo Stato sociale è questo attore. Nella sua genesi, lo si è visto, si è dapprima composto pezzo per pezzo, ma, via via che si è rinforzato, ha ambìto a guidare il progresso. Ecco perché il concetto compiuto di Stato sociale, nel dispiegamento integrale delle sue ambizioni, è social-democratico. Ogni Stato moderno è in qualche modo obbligato a “fare del sociale” per alleviare certe disfunzioni stridenti, assicurare un minimo di coesione tra i gruppi sociali, ecc., ma è mediante l'ideale social-democratico che lo Stato sociale si pone come il principio di governo della società, la forza motrice che deve farsi carico del miglioramento progressivo della condizione di tutti4. Per farlo, dispone del bottino di guerra della 4 Uno Stato liberale può essere obbligato a “fare del sociale” di controvoglia e il meno possibile, uno Stato socialista ne farà di default, salvo poter promuovere immediatamente delle trasformazioni radicali. È per uno Stato social-democratico che le riforme sociali sono un bene in sé, poiché segnano le tappe della realizzazione del proprio ideale. Il riformismo assume qui la sua accezione piena: le riforme sono i mezzi di realizzazione del fine della politica.

crescita e si impegna a ripartirne i frutti negoziando la divisione dei benefìci con i differenti gruppi sociali. Si obietterà che questo Stato social-democratico “non esiste” affatto. In effetti, in questa forma, si tratta di un tipo ideale. La Francia non è mai stata una social-democrazia 5, mentre lo erano in maggior misura i paesi scandinavi o la Germania, per esempio. Ma anche gli Stati Uniti lo erano meno o non lo erano affatto. Questo significa che, indipendentemente dalla concretizzazione della specifica tipologia, esistono dei tratti di questa forma di Stato che si ritrovano, in configurazioni più o meno sistematiche, in costellazioni sociali differenti. Interessa ora chiedersi in che misura la Francia dell'inizio degli anni Settanta si avvicinava alla realizzazione di tale forma di organizzazione. Non certo per iscriverla in una tipologia, né per attribuirle il merito – o l'onta – di non essere stata abbastanza o di essere stata troppo vicina all'ideale social-democratico, ma per tentare di valutare l'ampiezza dello spostamento che si è operato in una ventina di anni e di misurare la biforcazione che si è prodotta rispetto alla traiettoria dell'epoca. Un incidente di percorso o un cambiamento completo del regime delle trasformazioni sociali? È allora necessario procedere a una valutazione critica della posizione occupata all'epo-

5 Il momento in cui vi si è avvicinata di più, almeno nelle intenzioni proclamate, è stato senza dubbio quello della “nuova società” di Jacques Chaban-Delmas, largamente ispirata da Jacques Delors. Esplicita l'intenzione di barattare l'abbandono dei conflitti dalle mire rivoluzionarie con una politica di compromessi negoziati con l'insieme delle parti sociali. “Il governo propone al padronato e alle organizzazioni sindacali di cooperare con lo Stato per i compiti di interesse comune” (discorso di politica generale del 16 settembre 1969, cit. in Jacques Le Goff, Du silence à la parole, cit., p. 227).

ca sulla traiettoria ascendente che sembrava condurre a un avvenire migliore6. A tal fine, bisognerebbe innanzitutto sbarazzarsi di una celebrazione ingombrante “dei Trenta Gloriosi”7. Non solo perché imbelletta un numero di episodi assai poco gloriosi, ma soprattutto perché, mitizzando la crescita, invita a trascurare almeno tre caratteristiche del movimento che coinvolgeva allora la società salariale: la sua incompiutezza, l'ambiguità di alcuni suoi effetti, il carattere contraddittorio di certi altri. A) Il suo carattere incompiuto. Anche se si sposa in pieno l'ideologia del progresso, bisogna convenire che la maggior parte dei risultati di questa epoca segnano delle tappe intermedie nello svolgimento di un processo ininterrotto. Si diano, per esempio, nel quadro del consolidamento del diritto del lavoro, le due leggi che, alla fine del periodo (1973 e 1975), regolamentano i licenziamenti. Fino ad allora, il padrone decideva il licenziamento, e toc6 Per un'esposizione di insieme dell'affanno del modello social-democratico negli anni Settanta, cfr. Ralf Dahrendorf, L'après-social-démocratie, in “Le Débat”, n. 7, 1980, pp. 18-36. 7 Ricordiamo la maniera in cui Jean Fourastié ha presentato la prima volta questa formula divenuta famosa: “Non si devono chiamare gloriosi i trent'anni […] che hanno fatto passare […] la Francia dalla povertà millenaria della vita vegetativa ai livelli e ai generi di vita contemporanei? Certamente a miglior titolo delle “tre gloriose” del 1830, che, come la maggior parte delle rivoluzioni, o sostituiscono un dispotismo a un altro, o, nel migliore dei casi, non sono che un episodio tra due mediocrità?” (Les Trente Glorieuses ou la Révolution invisible de 1946 à 1975, cit., p. 28). A parte il fatto che le “tre gloriose” del 1830 erano delle giornate e non degli anni, si può lasciare a Jean Fourestié la responsabilità del proprio giudizio sulle rivoluzioni. Ma ridurre lo stato della Francia del 1949 a “una vita vegetativa tradizionale”, “caratteristica di una povertà millenaria” non è serio. È una ragione in più per evitare l'espressione “Trenta Gloriosi”.

cava all'operaio che si riteneva danneggiato dimostrare davanti ai tribunali l'illegittimità della misura 8. La legge del 13 luglio 1973 esige che il padrone faccia valere una “causa reale e seria” – dunque per principio oggettiva e verificabile – per giustificare il licenziamento9. Per i licenziamenti per motivi economici, la legge del 3 gennaio 1975 istituisce l'autorizzazione amministrativa al licenziamento (sarà abolita, lo si sa, nel 1986). Così, come sottolinea François Sellier, “vi è una devoluzione del controllo del licenziamento all'amministrazione del lavoro”10: l'amministrazione pubblica, tramite gli ispettori del lavoro, si attribuisce il ruolo di arbitro e di istanza di impugnazione rispetto a una prerogativa padronale essenziale. Vi è dunque certamente una riduzione dell'arbitrio padronale in materia di licenziamento, ma non vi è per questo reciprocità tra i datori di lavoro e gli impiegati rispetto a questa disposizione fondamentale del diritto del lavoro. In caso di licenziamento per motivi personali (legge del 1973), è il datore di lavoro, solo giudice dell'“interesse dell'azienda”, che decide del licenziamento e ne formula le ragioni, e, in caso di contestazione, tocca ancora al licenziato dimostrare che è vittima di un'ingiustizia. Allo stesso modo, nei licenziamenti per motivi economici sottoposti all'autorizzazione preventiva (legge del 1975), è evidentemente il datore di lavoro ad avere l'iniziativa, sempre in nome dell'interesse 8 Si trattava di una delle eredità più consistenti del “dispotismo di fabbrica” del XIX secolo. Essa si fondava sulla definizione del “contratto di affitto” secondo il Codice napoleonico: “Il contratto di lavoro concluso senza determinazione di durata può cessare per iniziativa di una delle parti contraenti” (Code civil, art. 1780). 9 Cfr. François Sellier, La confrontation sociale en France. 1936-1987, cit., pp. 136-138. 10 Ivi, p. 145.

dell'azienda. Gli ispettori sono troppo spesso oberati di lavoro per verificare seriamente se la misura sia giustificata, e la giurisprudenza mostra che è molto difficile contestare una decisione padronale in materia di licenziamento economico11. Così, gli indubitabili progressi del diritto del lavoro in materia di licenziamento non significano che la democrazia sia realizzata nell'impresa o che l'impresa sia divenuta “cittadina”12. Questo esempio indirizza verso un'ambiguità più profonda degli sviluppi promossi durante il periodo della crescita. I licenziamenti erano allora poco numerosi e il contratto di lavoro a tempo indeterminato (CDI) giungeva di frequente fino alla fine, permettendo al salariato di fare carriera nell'impresa. Ma, rispetto alla sicurezza dell'impiego che di regola ne consegue, che cosa dipende da una pura congiuntura economica favorevole e che cosa dipende da protezioni solidamente fondate? Detto altrimenti, in quello che è stato chiamato, nel capitolo precedente, lo “Stato di crescita”, che cosa dipende da una situazione di fatto – il quasi-pieno-impiego – e che cosa da uno stato di diritto garantito dalla legge? Qual è lo statuto di questa connessione che è durata una trentina di anni e che è stata più accettata tacitamente come un fatto che esplicitata in maniera chiara? Per esempio, al momento della presentazione della legge precedentemente richiamata del 13 luglio 1973, il Ministro del Lavoro si esprime in questi termini: 11 Cfr. Jacques Le Goff, Du silence à la parole, cit. 12 Si potrebbe svolgere la stessa analisi per la maggior parte delle “conquiste sociali” del periodo. Così, le sezioni sindacali di impresa insediate in seguito agli accordi di Grenelle del 1968 svolgono un ruolo essenzialmente informativo e consultivo, ma non hanno potere decisionale sulla politica dell'impresa. Su questi punti, cfr. Jacques Le Goff, Du silence à la parole, cit., pp. 231 sgg.

Di che cosa si tratta? Di fare realizzare degli incontestabili progressi al nostro diritto del lavoro proteggendo i salariati contro i licenziamenti abusivi... Sembra oggi indispensabile che lo sviluppo economico non arrivi a colpire i lavoratori che contribuiscono a realizzarlo. Espansione economica e protezione sociale devono andare di pari passo13.

E sono effettivamente andate di pari passo. Non per questo però si è chiarita la natura del loro legame. Non si tratta di una relazione intrinseca del tipo “non vi è crescita economica senza protezioni” (proposizione la cui reciproca sarebbe: “non vi sono protezioni senza crescita economica”). La crescita ha facilitato le cose, ma non sostituisce la volontà politica. D'altronde, ci si dimentica spesso di ricordare che la svolta indubbiamente più decisiva in materia di diritti sociali è stata realizzata con la Sécurité sociale nel 1945 e 1946, in una Francia devastata, la cui produttività era precipitata al di sotto della soglia raggiunta nel 1929. dunque, le sicurezze possono essere ingannevoli se si basano esclusivamente sulla crescita. Negli anni Cinquanta e Sessanta il contratto di lavoro a tempo indeterminato era divenuto la norma e poteva passare per una quasi-garanzia di sicurezza dell'impiego14, ma questa situazione dipendeva dal fatto che in periodo 13 Cit. in ivi, p. 203. 14 Cfr. Bernard Fourcade, L'évolution des situations d'emploi particulières de 1945 à 1990, in “Travail et emploi”, n. 52, 1992, pp. 4-19. L'analisi di questo autore conferma che la costituzione di un paradigma dell'impiego del tipo CDI è correlativa all'ascesa della società salariale. Prima degli anni Cinquanta non vi era una norma generale dell'occupazione ma una pluralità di situazioni di impiego in seno alle quali il lavoro indipendente occupava un posto importante. E, a partire dalla metà de-

di quasi-pieno-impiego si assume molto e quasi non si licenzia. Appena la congiuntura cambia, la sicurezza svanisce e il carattere “indeterminato” del contratto si rivela essere il semplice effetto di un'occorrenza empirica, e non una garanzia legale. Insomma, un contratto a tempo indeterminato è un contratto che dura... fin tanto che non è interrotto – salvo che esista uno statuto speciale come quello dei funzionari o ci siano delle garanzie legali contro i licenziamenti, la cui portata però, lo si è visto, restava limitata15. Questo non ha impedito alla maggior parte dei salariati, durante gli anni di crescita, di vivere il rapporto con l'impiego con la certezza di controllare l'avvenire e di fare delle scelte che riguardavano questo avvenire, come l'investimento in beni durevoli, i mutui per la costruzione della casa, ecc. Dopo il cambiamento di congiuntura, l'indebitamento si presenta come l'eredità perversa degli anni di crescita, suscettibile di far cadere un gran numero di salariati nella precarietà. Ma si potrebbe dire che questi erano già prima, senza saperlo, virtualmente vulnerabili: il loro destino era concretamente legato alla continuazione di un progresso di cui non controllavano alcun parametro16. gli anni Sessanta, le “situazioni di impiego particolari” assumeranno sempre più importanza. Cfr. infra. 15 I contratti collettivi prevedono procedure speciali e indennità in caso di licenziamento, donde il fatto che il licenziamento rappresenta per il datore di lavoro anche un costo e degli inconvenienti (da cui anche il fatto che, dopo il periodo del pieno-impiego, i datori di lavoro privilegeranno forme di assunzione meno protette di quelle del CDI). Ma tali disposizioni sono distanti dall'equivalere a una sicurezza dell'impiego. 16 Nel 1973 il 38% degli operai accede alla proprietà, ma i due terzi fra loro sono indebitati per una somma che arriva circa alla metà del valore della loro casa. Allo stesso tempo, i tre quarti degli operai possiedono automobile, lavatrice e televisore, ma i tre quarti delle auto nuove, più della metà delle lavatrici e quasi la metà dei televisori sono comprati a credito (cfr. Michel Verret, Joseph Creusen, L'espace ouvrier, cit., pp. 113-114.

B) Oltre al carattere incompiuto e ancora fragile di ciò che si è convenuto di chiamare “le conquiste sociali”, lo sviluppo delle protezioni ha avuto anche alcuni effetti perversi. Senza riprendere la vecchia antifona dei liberali per i quali ogni intervento dello Stato ha effetti necessariamente deresponsabilizzanti e assoggettanti17, occorre constatare che la situazione sociale e politica alla fine degli anni della crescita è segnata da un profondo malessere, di cui “gli avvenimenti del maggio” sono stati nel 1968 l'espressione più spettacolare. Li si può interpretare, in pieno periodo di sviluppo e apoteosi dei consumi, come il rifiuto di una parte importante della società – soprattutto della gioventù – di scambiare le aspirazioni a una crescita personale con la sicurezza e il comfort. La parola d'ordine “cambiare la vita” esprime l'esigenza di ritrovare l'esercizio di una sovranità dell'individuo dissolta nelle ideologie del progresso, del rendimento e del culto delle curve di crescita, di cui, come diceva una iscrizione sui muri della Sorbona, “non ci si innamora”. Attraverso l'edonismo e la celebrazione dell'istante – “tutto e subito” –, si esprime anche il rifiuto di rientrare nella logica della soddisfazione differita e dell'esistenza programmata che implica la pianificazione statale della sicurezza: le protezioni hanno un costo, si pagano con la repressione dei desideri e col consenso al torpore di una vita in cui tutto è già deciso18. 17 Questa ideologia ha conosciuto una vivace ripresa all'inizio degli anni Ottanta. Per una sua espressione particolarmente virulenta, cfr. Philippe Bénéton, Le fléau du bien. Essai sur les politiques sociales occidentales. 1960-1980 Paris, Laffont, 1983. 18 Per lo sviluppo di tale analisi, cfr. Jacques Donzelot, L'invention du social, cit., cap. VI.1.

Queste reazioni ci possono apparire oggi come reazioni di privilegiati rimpinzati di beni di consumo e di sicurezze troppo facilmente elargite. Tuttavia, esse traducono anche una riserva di fondo rispetto alla forma di governamentalità dello Stato sociale. Quel che viene denunciato non è che lo Stato fa troppo, ma piuttosto che fa male quel che deve fare. In effetti, nel corso di questi anni, le critiche radicali ai fondamenti di un ordine sociale votato al progresso sono rimaste assai minoritarie, anche se si sono espresse in forme particolarmente vistose 19. Di contro, numerose e varie sono state le critiche alla maniera in cui lo Stato conduceva il necessario affrancamento dalle tutele tradizionali e dalle ingiustizie ereditate dal passato, come la messa in discussione tanto vivace negli anni Sessanta del modo di gestione tecnocratico della società, che si esprimeva attraverso la proliferazione di club – club Jean Moulin, Citoyen soixante... – e di associazioni di utenti, desiderosi di partecipare alle decisioni che riguardavano la loro vita quotidiana. Contro la denunciata depoliticizzazione della società, bisognava rifondare l'azione politica e sociale sul coinvolgimento dei cittadini. La passività è il prezzo che questi pagano per aver delegato allo Stato il ruolo di guida del cambiamento dall'alto, senza controllo della società civile 20. Il vigore dei 19 Oltre le vestigia di una estrema destra eterna disprezzatrice del progresso, è stato soprattutto il caso di gruppi di estrema sinistra e di forme esacerbate di spontaneismo il cui successo è rimasto marginale a dispetto di manifestazioni spettacolari. Nei loro orientamenti dominanti, né le critiche della società dei consumi, né la celebrazione dell'azione rivoluzionaria da parte delle differenti famiglie del marxismo contraddicono i fondamenti della filosofia della storia che sottende la promozione della società salariale. Le prime denunciano piuttosto lo sviamento delle capacità creatrici della società moderna nell'inganno della merce, le seconde la loro confisca da parte dei gruppi dominanti. 20 Cfr. Jacques Donzelot, L'invention du social, cit., cap. IV.2.

“movimenti sociali” degli anni Sessanta e dell'inizio degli anni Settanta attesta l'esigenza di una responsabilizzazione degli attori sociali anestetizzati dalle forme burocratiche e impersonali di gestione dello Stato sociale. Su di un piano più teorico, il periodo di promozione della società salariale è stato anche il momento in cui si è sviluppata una sociologia critica forte intorno a tre tematiche principali: la messa in evidenza della riproduzione delle ineguaglianze, soprattutto nel campo dell'educazione e della cultura; la denuncia della perpetuazione dell'ingiustizia sociale e dello sfruttamento della forza-lavoro; il rifiuto del trattamento, indegno di una società democratica, riservato ad alcune categorie della popolazione: prigionieri, malati mentali, indigenti... Si trattava, insomma, di prendere alla lettera l'ideale repubblicano quale si esprime, per esempio, nel preambolo della Costituzione del 1946: Ciascuno ha diritto di lavorare e di avere un impiego. […] La nazione garantisce a tutti, in particolare al bambino, alla madre e ai vecchi lavoratori, la protezione della salute, la sicurezza materiale, il riposo e il tempo libero. Chiunque, in ragione della propria età, del proprio stato di fisico o mentale, della situazione economica, si trovi nell'incapacità di lavorare, ha il diritto di ottenere dalla collettività dei mezzi convenienti d'esistenza. La nazione garantisce l'uguale accesso del bambino e dell'adulto all'istruzione, alla formazione professionale e alla cultura21. 21 Cit. in Jacques Fournier, Nicole Questiaux, Le pouvoir du social, cit., p. 97. Quest'opera presenta un catalogo assai completo dei progressi ancora da realizzare nel campo sociale in prospettiva socialista... poco prima dell'arrivo al potere dei socialisti.

Non è incongruo constatare che all'inizio degli anni Settanta si era ancora ben lontani dall'obiettivo e dal minimizzare i discorsi rassicuranti su crescita e progresso. Per essere appartenuto a questo clima, non provo oggi rimorsi, ma tali critiche non rimettevano in questione la corrente profonda che sembrava sospingere la società salariale e trascinare verso l'alto l'insieme della struttura sociale, contestavano solo la distribuzione dei benefìci e la funzione di alibi che svolgeva presso l'ideologia del progresso nel perpetuare le situazioni acquisite22. C) Ma esiste forse una contraddizione ancora più profonda nel funzionamento dello Stato sociale degli anni di crescita. La relativa presa di coscienza è più recente: occorreva che la situazione cominciasse a degradarsi perché l'insieme dei suoi prerequisiti si desse a vedere. Da una parte, gli interventi dello Stato sociale hanno dei potenti effetti omogeneizzanti. Gestione necessariamente categoriale dei beneficiari dei servizi, che livella le particolarità individuali. Così, l'“avente diritto” è membro di un collettivo astratto, legato a un'entità giuridico-amministrativa di cui è un elemento intercambiabile. Questo modo di funzionamen22 Il confronto tra sociologi ed economisti realizzato nel 1964 in Darras [Groupe d'Arras], Le partage des bénéfices expansion et inégalités en France. Travaux du Colloque organisé par le Cercle Noroit à Arras, les 12 et 13 juin 1965 (Paris, Minuit, 1966), esprime bene questa tensione tra due concezioni del progresso, che la versione critica non respinge ma di cui esige l'esplicitazione rigorosa delle condizioni teoriche e pratiche necessarie per la sua realizzazione democratica. Ho tentato un bilancio del movimento di critica delle istituzioni e delle forme di intervento medico-psicologico e sociale in De l'intégration sociale à l'éclatement du social: l'émergence, l'apogée et le départ à la retraite du contrôle sociale, in “Revue internationale d'action communautaire”, n. 20, 1988, pp. 67-78.

to dei servizi pubblici è ben noto e alimenta da lungo tempo le critiche al carattere “burocratico” o “tecnocratico” della gestione del sociale, ma lo è meno il suo paradossale correlato, cioè che questo funzionamento produce allo stesso tempo dei temibili effetti individualizzanti. I beneficiari dei servizi sono in un solo movimento omogeneizzati, inquadrati tramite categorie giuridico-amministrative, e staccati dall'appartenenza concreta a collettivi reali: Lo Stato provvidenza classico, mentre procede al compromesso di classe, produce dei formidabili effetti di individualismo. Quando si procura agli individui quel paracadute straordinario che è l'assicurazione di assistenza, li si autorizza, in tutte le situazioni dell'esistenza, ad affrancarsi da ogni comunità, da tutte le appartenenze possibili, a cominciare dalle solidarietà elementari di vicinato; se c'è la Sécurité sociale, non ho bisogno del mio vicino di pianerottolo che mi aiuti. Lo Stato provvidenza è un potente fattore di individualismo23.

Lo Stato sociale è dunque al centro di una società di individui, ma la relazione che mantiene con l'individualismo è duplice. Le protezioni sociali si sono inscritte, lo si è visto, nelle faglie della sociabilità primaria e nelle lacune della protezione ravvicinata. Esse rispondevano ai rischi che ci sono a essere un individuo in una società in cui lo sviluppo dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione rende fragili le solidarietà di prossimità. I poteri pubblici ricreano protezione e legami, ma su tutt'altro registro rispetto a quello dell'appartenenza a comunità concrete. 23 Marcel Gauchet, La société d'insécurité, in Jacques Donzelot, Face à l'exclusion. Le modèle français, Paris, Esprit, 1991, p. 170.

Stabilendo delle regolazioni generali e fondando dei diritti oggettivi, lo Stato sociale accresce ulteriormente la distanza rispetto ai gruppi di appartenenza che, al limite, non hanno più ragione d'essere per assicurare le protezioni. Per esempio, l'assicurazione obbligatoria è sicuramente la messa in opera di una certa solidarietà, e segna l'appartenenza a un collettivo, ma per la maniera in cui è resa operativa, questo modo di “fare società” non esige che investimenti personali assai limitati e una responsabilizzazione minima (pagare i propri contributi, che sono d'altronde prelevati automaticamente, eventualmente eleggere dei delegati alla gestione delle “casse” il cui funzionamento è per tutti opaco...). Vale lo stesso per tutte le protezioni sociali. L'intervento dello Stato permette agli individui di scongiurare i rischi di anomia che – Durkheim l'aveva ben visto – sono inscritti nello sviluppo delle società industriali, ma per fare questo, essi hanno come interlocutore principale, e al limite unico, lo Stato e i suoi apparati. La vulnerabilità scongiurata dell'individuo si trova così ricondotta su un altro piano. Lo Stato diviene il suo principale supporto e la sua principale protezione, ma tale relazione resta quella che unisce un individuo a un collettivo astratto. È possibile, domanda Jürgen Habermas, “produrre nuove forme di vita con mezzi giuridico-burocratici”24? La ricetta, se esiste, non è ancora stata inventata.

24 Cfr. Jürgen Habermas, La crise de l'État providence et l'épuisement des énergies utopiques, in Id., Écrits politiques, Paris, Éditions du Cerf, 1990, pp. 105-126; trad. it. La nuova oscurità. Crisi dello Stato sociale ed esaurimento delle utopie, a cura di Alfio Mastropaolo, Roma, Edizioni Lavoro, 1998.

I pericoli che comporta la dipendenza nei riguardi dello Stato si avvertiranno nel momento in cui il potere pubblico si troverà in difficoltà nell'assolvere i suoi compiti nella maniera relativamente indolore che gli era propria nel periodo di crescita. Come il Dio di Descartes che ricreava il mondo a ogni istante, lo Stato deve mantenere le proprie protezioni attraverso un'azione continua. Se si ritira, è il legame sociale stesso che rischia di disgregarsi. L'individuo si trova allora in contatto diretto con la logica della società salariale in balìa di se stessa che ha dissolto, con le solidarietà concrete, i grandi attori collettivi il cui antagonismo cementava l'unità della società. In tale contesto, il corporativismo rischia di prendere il posto dell'interesse generale: difesa e conferimento di lustro a uno strato salariale che si differenzia dagli strati inferiori e aspira alle prerogative degli strati superiori. Al limite, se l'obiettivo di ogni individuo è quello di mantenere e, se possibile, migliorare la traiettoria propria e quella della propria famiglia, la vita sociale rischia di essere vissuta come una struggle for life. Ora esiste, se non proprio una contraddizione, in ogni caso una forte tensione tra lo sviluppo dell'individualismo, che caratterizza la società salariale, e l'imposizione di forme di socializzazione dei redditi e dei vincoli amministrativi indispensabili al funzionamento dello Stato sociale. Questo antagonismo ha potuto essere smorzato fintanto che il costo della solidarietà obbligatoria non è stato troppo gravoso e finché i vincoli regolamentari sono stati compensati con dei benefìci sostanziali di cui all'individuo stesso toccavano i dividendi. Così le coperture sociali erano finanziate, come si sa, da una grande maggioranza di attivi, che contribuivano soprattutto per se stessi: essi assicuravano il pro-

prio avvenire nello stesso tempo di quello del collettivo dei salariati. Ma, sotto la doppia costrizione della disoccupazione e dello squilibrio demografico, il sistema delle protezioni sociali si trova preso in una morsa. Si produce uno scivolamento da una sistema di assicurazioni, in cui gli attivi pagavano soprattutto per gli attivi, a un sistema di solidarietà nazionale, per cui gli attivi dovrebbero pagare soprattutto per gli inattivi, sempre più numerosi25: In un mondo in cui, da una parte, il numero delle persone anziane e dei bambini scolarizzati si accresce, dall'altra, i legami tra la produzione, l'impiego e il reddito si dilatano, la frazione ridotta della popolazione attiva che lavora distrae una parte sempre più importante delle proprie risorse per finanziare la frazione soverchiante di coloro che non lavorano ancora, che non lavorano più o che non lavoreranno mai26.

Pertanto sarà impossibile evitare scelte dolorose. Certi dibattiti che una ventina di anni fa avevano un carattere soprattutto accademico assumono oggi un'acutezza singolare. Per esempio, la protezione sociale deve nutrire l'ambizione di affrancare tutti i cittadini dal bisogno o deve essere preferibilmente agganciata al lavoro? La prima opzione è quella di Beveridge, che le dà un si25 Cfr. Denis Olivennes, La société de transfert, in “Le Débat”, n. 69, 1992, pp. 104-114. 26 Ivi, p. 118. Sulla dimensione propriamente demografica della questione, cfr. Jean-Marie Poursin, Létat providence en proie au démon démographique, in “Le Débat”, n. 69, 1992, pp. 115-126. Dal lato lavoro, bisogna notare che le difficoltà di finanziamento non riguarderanno soltanto l'ampiezza della disoccupazione, ma anche la moltiplicazione degli impiegati precari e mal remunerati che non permetteranno che modesti contributi sociali richiedendo però forti prestazioni compensatrici.

gnificato molto esteso: “Assicurare a tutti i cittadini del Regno Unito un reddito sufficiente perché possano far fronte ai loro carichi”27. Tuttavia, lo stesso Rapporto sottolinea energicamente la necessità, perché un piano di sicurezza sociale riesca, di promuovere una situazione di quasi-pieno-impiego: “Questo rapporto considera come uno degli obiettivi della sicurezza sociale il mantenimento del pieno-impiego e la prevenzione della disoccupazione”28. L'altra opzione, il “sistema bismarckiano”, lega il nucleo sostanziale delle protezioni ai contributi salariali, e si dice che la Francia vi si avvicini. Tuttavia Pierre Laroque riprende pressappoco alla lettera la formulazione di Beveridge sulla “libertà dal bisogno”: la Sécurité sociale è “la garanzia data a ciascun uomo che in ogni circostanza potrà assicurare in condizioni soddisfacenti la propria sussistenza e quella delle persone a suo carico” 29. Beveridge e Laroque potevano comunque senza troppi inconvenienti, se non contraddirsi, almeno giustapporre due modelli dalle ispirazioni del tutto differenti. Non avevano da scegliere, poiché il quasi-pieno-impiego poteva contribuire a un “affrancamento” dal bisogno alimentato dal lavoro della maggioranza della popolazione. Ma la protezione di tutti attraverso la solidarietà e la protezione degli attivi tramite le assicurazioni entrano in contraddizione se la popolazione attiva diviene minoritaria.

27 William Henry Beveridge, Full Employment in a Free Society, London, George Allen and Unwin, 1944, p. 18; trad. it. Relazione sull'impiego integrale del lavoro in una società libera, Torino, Einaudi, 1948. 28 Ivi, p. 16. 29 Pierre Laroque, De l'assurance à la Sécurité sociale, in “Revue internationale du travail”, n. 6, 1948, p. 567. L'espressione freedom form want appare per la prima volta nel Social Security Act del 1935, fulcro del New Deal del presidente Roosevelt.

Allo stesso modo, si è notato che il sistema di sicurezza sociale non si era affatto preoccupato della copertura della disoccupazione. Pierre Laroque si giustifica in questo modo: “In Francia, la disoccupazione non è mai stata un rischio tanto serio quanto in Gran Bretagna”30. Oltre al fatto che una tale dichiarazione sembra oggi singolarmente datata, essa tradisce forse una difficoltà di fondo: la disoccupazione può essere “coperta” a partire dal lavoro? Senza dubbio, fino a un certo punto. Ma la disoccupazione non è un rischio come un altro (come l'infortunio sul lavoro, la malattia o la vecchiaia indigente): se si generalizza, prosciuga le possibilità di finanziamento degli altri rischi, e dunque anche la possibilità di “coprire” se stessa 31. Il caso della disoccupazione mostra il tallone di Achille dello Stato sociale degli anni di crescita. La configurazione che ha assunto allora riposava su un regime del lavoro è che è oggi profondamente compromesso. Ma lo Stato sociale è forse ancora più profondamente destabilizzato dall'indebolimento dello Stato-nazione, di cui è l'emanazione diretta. Duplice erosione delle prerogative sovrane: verso il basso, con l'aumento di peso dei poteri locali “decentralizzati”, verso l'alto, con l'Europa e più ancora con la mondializzazione dell'economia e il predominio del capitale finanziario internazionale. Come lo Stato sociale keynesiano riposa su, e per una parte costruisce, un compromesso tra le parti sociali all'interno delle 30 Pierre Laroque, La Sécurité sociale dans l'économie française, Paris, Fédération nationale des organisations de la Sécurité sociale, 1949, p. 9. 31 Due indici di questa “eccezionalità” della disoccupazione: uno, il suo sistema di indennizzo tramite l'Assedic, a partire dal 1958, non è integrato nella Sécurité sociale; due, una circolare del Ministero del lavoro di Pierre Bérégovoy, del novembre 1982, rimuove i disoccupati che esauriscono il diritto all'indennità dal sistema dell'assicurazione per spostarli in quello della “solidarietà”, un modo garbato di ribattezzare l'assistenza.

proprie frontiere, allo stesso modo presuppone all'esterno un compromesso, almeno implicito, con i differenti Stati che si pongono a un livello comparabile di sviluppo economico e sociale. Difatti, a dispetto delle inevitabili differenze nazionali, le politiche sociali, ivi comprese le politiche salariali, di paesi come la Germania, la Gran Bretagna e la Francia, per esempio, sono (o erano) compatibili tra loro, vale a dire compatibili con la concorrenza che questi paesi si fanno sia sul piano economico sia su quello commerciale. La politica sociale di uno Stato deriva infatti da una difficile mediazione tra esigenze di politica interna (semplificando: mantenere la coesione sociale) ed esigenze di politica estera (essere competitivo e “potente”)32. Ma le regole del gioco sono cambiate dall'inizio degli anni Settanta. Per esempio, invece di Stati europei che importano manodopera immigrata da far lavorare alle loro condizioni, essi si trovano in concorrenza su un mercato mondializzato del lavoro con zone geografiche in cui la manodopera è a buon mercato. È una ragione in più e assai forte per pensare che è escluso che, anche in caso di un ritorno della crescita, lo Stato possa domani riprendere la politica che gli era propria alla vigilia del “primo choc petrolifero”. Occorre dunque chiedersi, con Jürgen Habermas, se non si assista a “l'esaurimento di un modello”. Le differenti forme di socialismo avevano fatto della vittoria sull'eteronomia del lavoro la condizione della fondazione di una società di uomini liberi. Lo 32 Su questo punto, cfr. le analisi di François Fourquet, La citoyenneté, une subjectivité exogène, in La production de l'assentiment dans le politiques publiques. Actes des ateliers-conférences du G.R.A.S.S. orgaisés à l'I.R.E.S.C.O. en 1991-1992 / Ministère de l'équipement, des transports et du tourisme, Direction de la recherche et des affaires scientifiques et techniques, Centre de prospective et de veille scientifique et technique, Paris, Centre de prospective et de veille scientifique, 1993, pp. 161-169.

Stato sociale di tipo social-democratico aveva conservato una versione edulcorata di questa utopia: non era più necessario sovvertire la società con la rivoluzione per promuovere la dignità del lavoro, ma il posto di quest'ultimo rimaneva centrale come base del riconoscimento sociale e come zoccolo duro cui si ancoravano le protezioni contro l'insicurezza e la sventura. Anche se la gravosità e la dipendenza del lavoro salariato non erano completamente abolite, il lavoratore veniva ricompensato divenendo cittadino in un sistema di diritti sociali, un beneficiario di prestazioni distribuite dalle burocrazie di Stato, e anche un consumatore riconosciuto di merci prodotte dal mercato 33. Questo modo di addomesticamento del capitalismo aveva così ristrutturato le forme moderne della solidarietà e dello scambio intorno al lavoro, con la garanzia dello Stato. Che ne è di questa costruzione se il lavoro perde la propria centralità?

2. I surnumerari Quali che ne possano essere le “cause” 34, lo sconvolgimento che investe la società all'inizio degli anni Settanta si manifesta, 33 Jürgen Habermas, La crise de l'État providence et l'épuisement des énergies utopiques, cit. 34 Per un'interpretazione in termini economici ispirata dalla scuola della regolazione, cfr., per esempio, Jean-Hervé Lorenzi, Olivier Pastré, Joëlle Toledano, La crise du XXe siècle, Paris, Économica, 1980, oppure Robert Boyer, Jean-Pierre Durand, L'après-fordisme, Paris, Syros, 1993. In questa prospettiva, la “crisi” dipende dall'indebolimento del modello “fordista”, dalla concomitanza di una perdita di redditività della produttività, da un impoverimento degli standard di consumo e dallo sviluppo di un settore terziario improduttivo o poco produttivo. Tuttavia il livello di analisi qui scelto non impone di pronunciarsi su queste “cause”.

in primo luogo, attraverso la trasformazione della problematica del lavoro. Le cifre sono fin troppo note e oggi di attualità: quasi 3,5 milioni di disoccupati, poco più del 12% della popolazione attiva35. Ma la disoccupazione non è che la manifestazione più visibile di una trasformazione in profondità della congiuntura del lavoro. La precarizzazione ne costituisce un'altra caratteristica, meno spettacolare ma senza dubbio ancora più importante. Il contratto di lavoro a tempo indeterminato sta per perdere la propria egemonia. Tale forma, la più stabile, di impiego, che è giunta al suo apogeo nel 1975 e riguardava allora circa l'80% della popolazione attiva, è percepita oggi a meno del 65%. Le “forme particolari di impiego” che si sviluppano inglobano una folla di situazioni eterogenee – contratti di lavoro a tempo determinato (CDD), interinali, lavoro a tempo parziale – e differenti forme di “impieghi aiutati”, cioè sostenuti dai poteri pubblici nel quadro della lotta contro la disoccupazione36. In cifre assolute, i CDI 35 Per valutare la degradazione della situazione: nel 1970 c'erano 300.000 richiedenti impiego iscritti all'ANPE, di cui il 17% da più di un anno (tale disoccupazione, detta di esclusione, riguarda oggi più di un milione di persone). Il vero e proprio “decollo” della disoccupazione data dal 1976, anno in cui il numero dei disoccupati raggiunge il milione. Nonostante un leggero progresso del numero dei posti di lavoro (22 milioni nel 1990 contro i 21.612.000 nel 1982), il numero dei richiedenti impiego è quasi sempre aumentato in seguito. Durante la ripresa della fine degli anni Ottanta, caratterizzata da un tasso di crescita che raggiunge il 4% nel 1988 e nel 1989, vi è la creazione di 850.000 posti di lavoro, ma un calo della disoccupazione di solo 400.000 (cfr. Données sociales, cit., 1993). Per una puntualizzazione recente sulla questione della disoccupazione, cfr. Jacques Freyssinet, Le chômage, Paris, La Découverte, 1993. 36 Cfr. Bernard Fourcade, L'évolution des situations d'emploi particulières de 1945 à 1990, cit. Ricordiamo, con questo autore, che prima della generalizzazione dei CDI le “situazioni particolari di impiego” erano assai numerose (Fourcade ne conta più di 4 milioni nel 1950), ma si trattava in generale di forme prossime al lavoro indipendente, che si potreb-

sono ancora largamente maggioritari, ma se si contabilizzano i flussi di assunzioni, le proporzioni si invertono. Più dei due terzi delle assunzioni annuali avvengono secondo queste forme, dette anche “atipiche”37. I giovani sono più interessati, e le donne più degli uomini38. Ma il fenomeno tocca pure quello che si potrebbe chiamare il nocciolo duro della forza-lavoro, gli uomini dai trenta ai quarantanove anni: già nel 1988, più della metà di essi era assunto sotto uno statuto particolare39. E riguarda tanto le grandi concentrazioni industriali quanto le PMI: nelle imprese con più di 50 salariati, i tre quarti dei giovani di meno di venticinque anni sono assunti con contratti di questo tipo40. bero qualificare come “pre-salariali”, nel senso che sono state grossomodo assorbite dalla generalizzazione del salariato. Al contrario, le “nuove forme particolari di impiego” sono posteriori alla generalizzazione del salariato, ed esattamente contemporanee allo sviluppo della disoccupazione. Queste sono una manifestazione della degradazione della condizione salariale. Sull'evoluzione della struttura giuridica del contratto di lavoro, cfr. la messa a punto sintetica di Sabine Erbès-Seguin, Les images brouillées du contrat de travail, in Pierre-Michel Menger, JeanClaude Passeron (sous la direction de), L'art de la recherche. Essais en l'honneur de Raymonde Moulin, Paris, La Documentation française, 1993, pp. 91-115. 37 Cfr. Alain Lebaube, L'emploi en miettes, Paris, Hachette, 1988. Si troveranno numerosi dati aggiornati sul mercato del lavoro anche in Bernard Brunhes, Choisir l'emploi. Commissariat général du plan; rapport du Groupe “Emploi” présidé par Bernard Brunhes, Paris, La Documentation française, 1993. 38 In termini di stocks, come dicono gli economisti, nel 1990 solo il 58% dei giovani uomini e il 48% delle giovani donne, dai ventuno ai venticinque anni, lavora a tempo pieno con CDI, quando nel 1982 le percentuali erano rispettivamente del 70% e del 60%. Cfr. Jean-Luc Heller, Marie Thérèse Joint-Lambert, Les jeunes entre l'école et l'emploi, in Données sociales, Paris, INSEE, 1990. 39 Cfr. Michel Cézard, Jean-Luc Heller, Les formes traditionnelles de l'emploi salarié se dégradent, in “Économie et Statistiques”, n. 215, 1988, pp. 15-23. 40 Cfr. Joëlle Jacquier, La diversification des formes d'emploi en France,

Questo processo sembra irreversibile. Non solo la maggioranza delle nuove assunzioni avviene con queste forme, ma lo stock dei CDI si riduce (più di 1 milione di soppressione di impieghi di questo tipo tra il 1982 e il 1990). Sembra anche che il processo si acceleri. Il 2 marzo 1993, “la Tribune-Desfossés” pubblicava una proiezione sui dieci anni a venire, prevedendo una inversione completa del rapporto CDI-altre forme di impiego. Il numero di CDI potrebbe allora ridursi a 3 milioni. Si possono certamente avanzare riserve sulla precisione matematica di tali previsioni, ma non per questo esse rispecchiano meno uno sconvolgimento in profondità della condizione salariale 41. La diversità e la discontinuità delle forme di impiego stanno per soppiantare il paradigma del lavoro omogeneo e stabile. Perché dire che si tratta di un fenomeno tanto importante e, senza dubbio, anche più importante della crescita della disoccupazione? Non certo per banalizzare la gravità della disoccupazione. Ma mettere l'accento sulla precarizzazione del lavoro 42 perin Données sociales, Paris, INSEE, 1990. 41 Nella stessa logica, André Gorz, cita lo studio in un istituto di ricerca tedesco che prevede per gli anni a venire una percentuale del 25% di lavoratori permanenti, qualificati e protetti, del 25% di lavoratori “periferici”, in sub-appalto, sottoqualificati, mal pagati e mal protetti, e del 50% di disoccupati o di lavoratori marginali destinati a impieghi occasionali e a lavoretti (Les métamorphoses du travail. Quête du sens. Critique de la raison économique, Paris, Galilée, 1988, p. 90; trad. it. Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Torino, Bollati Boringhieri, 1992). 42 Tali trasformazioni del rapporto di lavoro non significano evidentemente che tutte le nuove situazioni siano consegnate all'arbitrio e al non-diritto. Al contrario, si assiste da una ventina d'anni a un intenso lavoro di elaborazione giuridica per inscriverle nel diritto del lavoro (è così che è stata forgiata la nozione apparentemente strana di “contratto a tempo indeterminato intermittente”). Ma è ovvio che queste nuove elaborazioni si costituiscano in riferimento al CDI e come altrettante deroghe ri-

mette di comprendere i processi che alimentano la vulnerabilità sociale e producono, alla fine del percorso, disoccupazione e disaffiliazione. È fin d'ora equivoco caratterizzare queste nuove forme di impiego come “particolari” o “atipiche”. Tale rappresentazione rinvia alla preponderanza, senza dubbio passata, del CDI. Di più: la rappresentazione della disoccupazione come fenomeno esso stesso atipico, insomma irrazionale e che si potrebbe sradicare con un po' di buona volontà e di immaginazione, lasciando per il resto tutto allo stesso modo, è di certo anch'essa l'espressione di un ottimismo passato. La disoccupazione non è una bolla che si è insinuata nelle relazioni di lavoro e che si potrebbe riassorbire. Comincia a diventare chiaro che precarizzazione dell'impiego e disoccupazione si sono ormai inscritte nella dinamica attuale della modernizzazione; sono le conseguenze necessarie dei nuovi modi di strutturazione del lavoro, l'ombra portata dalle ristrutturazioni industriali e dalla lotta per la competitività – che effettivamente mettono in ombra tanta parte del mondo. È la struttura stessa della relazione salariale che rischia di essere rimessa in questione. Il consolidamento della condizione salariale, lo si è sottolineato, è dipeso dal fatto che salariare una persona è sempre più consistito nel legarsi alla sua disponibilità e alle sue competenze sulla lunga durata – questo contro una concezione più rozza del salariato, che consisteva nell'affittare un individuo per svolgere una mansione specifica. “La durata del legame di lavoro implica in effetti che non si sappia in anticipo spetto a esso. Su questi punti, cfr. Sabine Erbès-Seguin, Les images brouillées du contrat de travail, cit.

quali compiti concreti precedentemente definiti il salariato sarà condotto a compiere”43. Le nuove forme “particolari” di impiego assomigliano più ad antiche forme di assunzione, quando lo statuto del lavoratore svaniva davanti agli obblighi del lavoro. La flessibilità è un modo di nominare questa necessità di adeguamento del lavoratore moderno alla propria mansione. Non diamone una versione caricaturale. La flessibilità non si riduce alla necessità di adattarsi meccanicamente a una mansione precisa, ma esige che l'operatore sia immediatamente disponibile ad adattarsi alle fluttuazioni della domanda. Gestione in flusso continuo, produzione a richiesta, risposta immediata ai rischi dei mercati sono divenuti gli imperativi categorici del funzionamento delle imprese competitive. Per assumerli, l'impresa può far ricorso al sub-appalto (flessibilità esterna) o formare il proprio personale alla supplenza e alla polivalenza, al fine di permettergli di far fronte a tutta la gamma delle situazioni nuove (flessibilità interna). Nel primo caso, il compito di assorbire le fluttuazioni del mercato è affidato a imprese satelliti. Esse possono farlo a prezzo di una grande precarietà delle condizioni di lavoro e di forti rischi di disoccupazione. Nel secondo caso, l'impresa si fa carico dell'adattamento del proprio personale ai cambiamenti tecnologici. Ma questo a prezzo dell'eliminazione di coloro che non sono capaci di innalzarsi all'altezza di queste nuove norme d'eccellenza44. 43 Françoise Dauty, Marie-Laure Morin, Entre le travail et l'emploi: la polyvalence des contrats à durée déterminée, in “Travail et emploi”, n. 52, 1992, pp. 20-36. Sulle differenti concezioni della relazione salariale, cfr. José Rose, Les rapports de travail et d'emploi: une alternative à la notion de relation salariale, Nancy, Groupe de Recherche sur l'Éducation et l'Emploi (GREE), Cahier n. 7, 1992. 44 A differenza del Giappone, della Germania e della Svizzera, ma meno

Queste constatazioni rimettono profondamente in questione la funzione integratrice dell'impresa. L'impresa degli anni di crescita ha costituito una matrice organizzativa di base della società salariale. È principalmente a partire da essa, come sottolineano Michel Aglietta e Anton Brender, che si opera la differenziazione del salariato: essa struttura dei raggruppamenti umani relativamente stabili e li colloca in un ordine gerarchico di posizioni interdipendenti45. Questa forma di coesione sociale è sempre problematica perché è attraversata da conflitti di interessi e, in ultima analisi, dall'antagonismo del capitale e del lavoro. Tuttavia, lo si è visto, la crescita permetteva in una certa misura di ponderare le aspirazioni del personale e gli obiettivi della direzione, assicurando la progressione dei redditi e dei vantaggi sociali, e facilitando la mobilità professionale e la promozione sociale dei salariati. La “crisi” riduce o sopprime questi margini di manovra e le “conquiste sociali” diventano ostacoli rispetto alla mobilitazione generale decretata in nome della massima competitività.

degli Stati Uniti o della Gran Bretagna, la Francia tende a privilegiare la flessibilità esterna, il che costituisce una spiegazione degli elevati tassi di disoccupazione e della maggiore precarietà del lavoro: i salariati sono mantenuti meno in azienda, e i compiti meno qualificati sono spesso esternalizzati a personale molto vulnerabile alla congiuntura. Cfr. Robert Boyer, L'économie française face à la guerre du Golfe. Mise ien perspective historique et éléments de comparaison internationale, in C.G.P. (Travaux du Groupe “Anti Crise”), Conséquences économiques et sociales de la crise du Golfe arabo-persique, Paris, La Documentation française, 1990, pp. 154-215. 45 Cfr. Michel Aglietta, Anton Brender, Les métamorphoses de la société salariale, cit. Cfr. anche Marc Maurice, François Sellier, Jean-Jacques Sylvestre, Production de la hiérarchie dans l'entreprise, in “Revue française de sociologie”, n. 20, 1979, pp. 331-365.

È paradossale che un discorso apologetico sull'impresa si sia imposto precisamente nel momento in cui essa perdeva buona parte delle sue funzioni integratrici46. L'impresa, indubbiamente fonte della ricchezza nazionale, scuola di successo, modello di efficienza e di competitività; ma bisogna aggiungere che l'impresa funziona anche, e apparentemente sempre di più, come macchina per rendere vulnerabili e anche come “macchina per escludere”47, e questo in maniera duplice. In seno all'impresa stessa, la corsa all'efficienza e alla competitività comporta la dequalificazione dei meno adatti. Il “management partecipativo” esige la mobilitazione di competenze non solamente tecniche ma anche sociali e culturali, che prendono in contropiede la cultura professionale tradizionale di una maggioranza dei salariati48. Quando, nel quadro della ricerca della “flessibilità interna”, l'impresa intende adattare le qualifiche dei lavoratori alle trasformazioni tecnologiche, la formazione permanente può funzionare come una selezione permanente 49. Il risultato è l'invalidazione dei “lavoratori senescenti”, troppo anziani o troppo formati per essere riciclati, ma troppo giovani per beneficiare della pensione, in Francia, il tasso di attività della tranche di età tra i cinquantacinque e i sessant'anni è sceso al 56%, uno dei più basi d'Europa (è del 76% in Svezia), e la maggioranza dei lavoratori non passa direttamente dalla piena atti46 Apologia confortata dalla conversione del socialismo di governo alle virtù del mercato dopo il 1982. Come tutti i convertiti, cade volentieri nel proselitismo. Cfr. Jean-Pierre Le Goff, Le mythe de l'entreprise. Critique de l'idéologie managériale, Paris, La Découverte, 1992. 47 Cfr. Xavier Gaullier, La machine à exclure, in “Le Débat”, n. 69, 1992, pp. 156-175. 48 Cfr. Nicole Aubert, Vincent de Gauléjac, Le coût de l'excellence, Paris, Le Seuil, 1991. 49 Cfr. Xavier Gaullier, La machine à exclure, cit.

vità alla pensione, secondo il modello classico del lavoro protetto50. Ma l'impresa manca la propria funzione integratrice anche nei confronti dei giovani. Alzando il livello delle qualifiche richieste in entrata, svaluta una forza-lavoro ben prima che questa abbia cominciato a essere utilizzata. Così, giovani che venti anni fa sarebbero stati integrati senza problemi nella produzione si trovano condannati a errare di stage in stage o da un lavoretto all'altro, perché l'esigenza di qualificazione non corrisponde sempre a imperativi tecnici. Numerose imprese hanno la tendenza a premunirsi contro futuri cambiamenti tecnologici assumendo giovani sovra-qualificati, anche in settori dagli statuti poco valorizzati. È così che i giovani titolari di un CAP (Certificat d'Aptitude Professionnelle) o di un BEP (Brevet d'Études Professionnelles) occupano sempre di più dei posti inferiori alla loro qualifica. Mentre nel 1973 i due terzi di essi occupavano il posto di lavoro per il quale erano stati formati, nel 1985 in questa condizione non ne erano più del 40%51. Ne risulta una demotivazione e un aumento della mobilità-precarietà, dato che questi giovani sono tentati di cercare altrove, se possibile, una migliore corrispondenza dell'impiego alla qualifica. Ne risulta soprattutto che i giovani realmente non qualificati rischiano di non avere alcuna alternativa alla disoccupazione, poiché i posti che potrebbero occupare sono presi da quelli più qualificati di loro. Più in profondità, questa logica rischia di invalidare le politiche che mettono l'accento sulla qualificazione come strada maestra per evitare la disoccupazione e per uscirne. È senza dubbio una visione ancora 50 Cfr. Anne-Marie Guillemard, Travailleurs vieillissants et marché du travail en Europe, in “Travail et emploi”, n. 57, 1993, pp. 60-79. 51 Cfr. Philippe d'Iribarne, Le chômage paradoxal, cit.

ottimista della “crisi” che ha portato a pensare che migliorando e moltiplicando le qualifiche ci si premunirebbe contro la “inimpiegabilità”. È vero che, statisticamente parlando, le “basse qualifiche” forniscono i più grandi contingenti di disoccupati, ma questa correlazione non implica una relazione diretta e necessaria tra qualifica e impiego. Le “basse qualifiche” rischiano di essere sempre in ritardo rispetto alla realtà, se nel frattempo il livello di formazione si è elevato52. È per questo che anche degli obiettivi come quello di portare a livello della laurea l'80% di una classe d'età sono delle pseudo-soluzioni al problema del lavoro. Non vi è certo l'80% degli impieghi, attualmente o in un avvenire prevedibile, che esiga tale livello di qualifica 53. Si rischia allora di determinare, piuttosto che una riduzione della disoccupazione, un innalzamento del livello di qualifica dei disoccupati. Intendiamoci bene: è legittimo e anche necessario, dal punto di vista della democrazia, affrontare il problema delle “basse qualifiche” (sarebbe a dire, in un linguaggio meno tecnocratico, mettere fine al sottosviluppo culturale di una parte della popolazione), ma è illusorio dedurne che i non-impiegati potrebbero trovare un impiego semplicemente al prezzo di un aggiornamento. La relazione formazione-lavoro si pone in un contesto completamente differente rispetto a quello dell'inizio del secolo. Allora, il tipo di formazione e di socializzazione promosso dalla scuola ha 52 La corsa alla qualifica può produrre effetti davvero perversi. Se si assumono in via preferenziale candidati sovraqualificati, i richiedenti-lavoro poco qualificati si trovano di fatto esclusi dal tipo di impiego che erano idonei a ricoprire, per via di quelli più qualificati ma meno adatti di loro a questi impieghi. 53 Uno studio proiettivo del Bureau d'information et de prévision économique prevede che nel 2000 almeno il 60% dei posti di lavoro esigerà un livello di qualifica inferiore alla laurea.

facilitato l'immigrazione verso la città dei giovani rurali e la formazione di una classe operaia istruita e competente: i giovani scolarizzati dalla Repubblica trovavano dei posti di lavoro a misura delle loro nuove qualifiche. Oggi, non tutti sono qualificati e competenti, e l'innalzamento del livello della formazione resta un obiettivo essenziale, ma questo imperativo democratico non deve dissimulare un problema nuovo e grave: la possibile inimpiegabilità dei qualificati54. Sarebbe ingiusto addossare all'impresa tutta la responsabilità di questa situazione. Il suo ruolo è certamente quello di controllare i cambiamenti tecnologici e piegarsi alle nuove esigenze del mercato. Tutta la storia dei rapporti di lavoro mostra d'altronde che non è possibile chiedere ai datori di lavoro anche di “fare del sociale” (quando lo hanno fatto, è stato, come nel caso della filantropia padronale del XIX secolo, nel senso preciso e limitato della difesa degli espliciti interessi dell'impresa). Ora, nelle trasformazioni in corso, un'adesione piena alle esigenze immediate della redditività può rivelarsi alla fine controproducente per l'impresa stessa (per esempio, un uso selvaggio della flessibilità rovina la coesione sociale dell'impresa o demotiva il personale). Si può dunque sperare in una gestione intelligente di questi imperativi da parte dell'impresa; è invece ingenuo credere che essa possa farsi carico dei rischi di frattura sociale che derivano dal suo funzionamento. Dopo tutto, le imprese più competitive sono sovente anche le più selettive, e dunque, sotto certi aspetti, 54 Si è infatti assistito recentemente allo sviluppo di una disoccupazione dei quadri, senza che si possa ancora determinare l'ampiezza di questa tendenza. Cfr. Olivier Marchand, La montée récente du chômage des cadres, in “Premières Informations”, n. 346, 6 juillet 1993. Nel 1992, la percentuale dei quadri disoccupati era del 3,4% contro il 5,1% delle professioni intermedie, il 12,9% degli operai e il 13,3% degli impiegati.

le più escludenti, e (si pensi all'industria dell'automobile) la pubblicazione di “piani sociali” accompagna di frequente quella di bilanci commerciali positivi. È una maniera per dire che una politica che si dà per obiettivo quello di controllare gli effetti della degradazione della condizione salariale e di contenere la disoccupazione non potrà poggiarsi esclusivamente sulla dinamica delle imprese e sulle virtù del mercato. Le numerose misure – tipo aiuto all'occupazione, abbattimento degli oneri sociali senza obblighi di assunzione da parte delle imprese, ecc. – hanno dato prova se non della loro inutilità, almeno di effetti estremamente limitati. Trattandosi in particolare di aiutare platee in difficoltà, sarebbe stato necessario “distribuire meno spesso delle sovvenzioni in favore di occupazioni che si sarebbero prodotte in ogni caso”55. Quelli che si chiamano “effetti inerziali” di certe misure sociali sono certamente interessanti per le imprese, e non si vede per quali ragioni esse non dovrebbero approfittarne, ma sono spesso effetti perversi sulla gestione della disoccupazione. In ogni modo, cercare la salvezza tramite l'impresa vuol dire sbagliare registro. L'impresa esprime la logica del mercato, dell'economia, che è “il campo istituzionale delle sole imprese” 56. Su questo piano, il margine di manovra è stretto perché (il disastro dei paesi del “socialismo reale” lo dimostra) una società non può ignorare il mercato più di quanto la fisica non possa ignorare la legge della gravitazione universale. Ma se è suicida essere “contro” il mercato, non ne deriva però che bisogna abbandonarsi a esso. La problematica della coesione sociale non è quella del mer55 Raphaël Tresmontant, Chômage: les chances d'en sortir, in “Éeconomie et statistiques”, n. 241, 1991, p. 50. 56 François Fourquet, Numa Murard, Valuer des services collectifs sociaux. Une contribution à la théorie du social, cit., p. 37.

cato, la solidarietà non si costruisce in termini di competitività e di redditività. Queste due logiche sono compatibili? Si ritornerà su tale questione. Qui, occorre rimarcare la loro differenza per uscire dal vicolo cieco rappresentato dal fatto di far portare all'impresa il peso della risoluzione della questione sociale attuale. Una volontà politica può forse – in ogni caso dovrebbe – inquadrare e circoscrivere il mercato affinché la società non venga stritolata dal suo funzionamento. Essa non può delegare all'impresa l'incarico di esercitare il proprio mandato, salvo pensare, non solo che “quel che è buono per General Motors è buono per gli Stati Uniti”, ma anche che questo basti per assicurare la coesione di tutta la società. Se il controllo della questione sociale non dipende esclusivamente dal campo dell'impresa e dell'economia, è perché la loro dinamica attuale produce effetti disastrosi dal punto di vista della coesione sociale. La situazione può in prima battuta interpretarsi a partire dalle analisi sul dualismo del mercato del mercato del lavoro57, ma invita a radicalizzarne le conclusioni. Vi sono certamente, in effetti, due “segmenti” di impieghi – un mercato “primario” formato da elementi qualificati, meglio pagati, meglio protetti e più stabili, e un mercato “secondario”, costituito da personale precario, meno qualificato, direttamente sottomesso alle fluttuazioni della domanda –, ma le relazioni tra questi due settori non sono fissate una volta per tutte. Schematicamente si potrebbe dire che, in periodo di crescita e di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, vi è una relazione di complementarie57 Cfr. Michael J. Piore, Dualism in the Labour-Market: The Case of France, in Jacques Mairesse (sous la direction de), Emploie et chômage, Paris, Foundation nationale des sciences politiques, 1982.

tà tra i due settori. È un vantaggio per l'impresa – ed evidentemente per i salariati – quello di fissare il capitale umano. Questa fidelizzazione minimizza i costi di formazione, assicura la continuità delle competenze e un clima sociale migliore in seno all'impresa, risparmia le scosse generatrici di cali della produttività. Il mercato secondario gioca allora un ruolo di complemento per far fronte agli imprevisti, ed eventualmente di camera stagna per far socializzare dipendenti, alcuni dei quali saranno integrati in maniera stabile. In una situazione di sotto-impiego e di sovra-effettivi, i due mercati sono invece in concorrenza diretta. La perennità degli statuti del personale dell'impresa ostacola la necessità di far fronte a una congiuntura mobile. All'inverso, i salariati del settore secondario sono più “interessanti”, poiché hanno meno diritti, non sono protetti da contratti collettivi e possono essere affittati volta per volta58. Si aggiunga che l'internazionalizzazione del mercato del lavoro accentua la degradazione del mercato nazionale. Le imprese subappaltano così (flessibilità esterna) in paesi in cui il costo della manodopera è molte volte meno elevato. In un primo tempo, questa forma di delocalizzazione ha principalmente riguardato gli impieghi sotto-qualificati e le industrie tradizionali (cfr. la rovina del tessile nei paesi “sviluppati”, che pure era stato il settore industriale che richiedeva più impiegati), ma un'impresa può anche subappaltare la costru58 Cfr. Gérard Duthil, Les politiques salariales en France, 1960-1990, Paris, L'Harmattan, 1993. Una prima presa di coscienza collettiva del passaggio dalla problematica del lavoro dominante fino agli anni Settanta, fondata sulla preoccupazione per la fissazione della manodopera nell'impresa, a una problematica della flessibilità e dell'adattamento al cambiamento, con il conseguente rischio di frammentazione degli statuti, appare in Francia al momento del secondo colloquio di Dourdan del dicembre 1980. Cfr. Colloque de Dourdan, L'emploi, enjeux économiques et sociaux, Paris, Maspero, 1982.

zione di apparecchiature sofisticate o di programmi informatici nel Sud-Est asiatico o altrove59. Questa evoluzione è aggravata dalla “terziarizzazione” delle attività, di cui Bernard Perret e Guy Roustang hanno sottolineato l'importanza60. Una tale trasformazione non muta solamente la struttura dei rapporti di lavoro, nel senso della prevalenza delle relazioni dirette tra il produttore e il cliente (prestazioni di servizi propriamente dette) e del carattere informazionale e relazionale crescente delle attività, essa ha una incidenza diretta anche sulla produttività del lavoro. In media, gli aumenti di produttività raggiunti dalle attività industriali sono il doppio di quelli del settore dei servizi61. Ne deriva un grave interrogativo 59 La questione dell'impatto delle delocalizzazioni sulla degradazione del mercato del lavoro nazionale negli anni a venire è controversa. Per un punto di vista sfumato (ma che, è vero, data all'inizio degli anni Ottanta), cfr. Pierre Eisler, Jacques Freyssinet, Bernard Soulage, Les exportations d'emplois, in Jacques Mairesse (sous la direction de), Emploie et chômage, cit. Una proiezione più recente su scala europea prevede che la percentuale della produzione mondiale localizzata nell'Europa dell'Ovest si abbasserà dal 27,3% nel 1988 al 24,6% nel 2000, il che è considerevole, ma ben al di sotto dello scenario catastrofico che si presenta talvolta. Cfr. Gérard Lafay, Industrie mondiale: trois schénarios pur l'an 2000, in “Économie et statistiques”, n. 256, 1992, pp. 59-67. 60 Cfr. Bernard Perret, Guy Roustang, L'économie contre la société. Affronter la crise de l'intégration sociale et culturelle, Paris, Le Seuil, 1993. L'importanza di questo processo era stata precedentemente sottolineata fin dalla nascita della società salariale (cfr. cap. VII), ma esso si è come imballato in seguito. Nel 1954, i servizi riguardavano il 38,5% dei salariati, mentre ne raggruppano oggi quasi il 70%. 61 Questi rilievi permettono di notare una ambiguità circa la “deindustrializzazione”. La deindustrializzazione è un fatto, così come le conseguenze sociali che determina sulla destrutturazione della classe operaia classica (cfr. le difficoltà e la perdita d'importanza relativa delle grandi industrie come la siderurgia), ma, come dimostra Philippe Delmas (Le maître des horloges. Modernité de l'action publique, Paris, Odile Jacob, 1991), le attività industriali restano le più grandi creatrici di ricchezze, e le sole suscettibili di “trainare” la crescita. Di più, il settore più pro-

quanto all'ampiezza e alle conseguenze per il lavoro di una ripresa della crescita. Secondo gli economisti classici, di cui Alfred Sauvy ha sintetizzato il pensiero, le trasformazioni delle tecniche di produzione sono sempre state seguite da uno “sversamento” della manodopera dai vecchi settori verso nuove sfere di attività62 (così la riduzione della manodopera legata all'agricoltura ha dato luogo allo sviluppo di un settore industriale più produttivo). Tale ragionamento diventa però fallace se i progressi tecnici producono dei deboli aumenti di produttività e sopprimono più posti di lavoro di quanti ne creino. E sembra proprio che questo sia il caso odierno63. Il problema attuale non è dunque solamente quello posto dalla costituzione di una “periferia precaria”, ma anche quello della “destabilizzazione degli stabili”64. Il processo di precarizzazione attraversa alcune delle zone anticamente stabilizzate del lavoro, con un ritorno di quella vulnerabilità di massa che, come si è vispero e meglio retribuito dei servizi è generalmente quello legato alle attività industriali. Anche Alain Minc (L'après-crise est commencée. Essai, Paris, Gallimard, 1982; trad. it. Il dopo crisi è cominciato, Venezia, Marsilio, 1984) insiste sul ruolo preponderante delle attività industriali come principali creatrici di ricchezza sociale e come migliori attività nel mantenere il posto di una nazione nella competizione internazionale. 62 Alfred Sauvy, La machine et le chômage. Le progrès technique et l'emploi, Paris, Dunod, 1990. 63 Così – rispetto alla prevalenza delle attività di servizio – i guadagni medi di produttività per un'ora di lavoro sono passati dal 4,6% annuo dal 1970 al 1974, al 2,7% dal 1984 al 1989 (cfr. Bernard Perret, Guy Roustang, L'Économie contre la société, cit., p. 117). Per un bilancio degli effetti delle “nuove tecnologie” sull'organizzazione del lavoro, cfr. Jean-Pierre Durand, Travail contre technologie, in Jean-Pierre Durand, François-Xavier Merrien (sous la direction de), Sortie de siècle. La France en mutation, Paris, Vigot, 1991. 64 Cfr. Danièle Linhart, Margaret Maruani, Précarisation et déstabilisation des emplois ouvriers, quelques hypothèses, in “Travail et emploi”, n. 11, 1982, pp. 27-36.

sto, era stata lentamente scongiurata. Non c'è niente di “marginale” in questa dinamica. Come il pauperismo del XIX secolo era inscritto al cuore della dinamica della prima industrializzazione, così la precarizzazione del lavoro è un processo centrale, guidato dalle nuove esigenze tecnico-economiche dell'evoluzione del capitalismo moderno. Ce n'è abbastanza per porre una “nuova questione sociale” che abbia la medesima ampiezza e la medesima centralità di quella che il pauperismo sollevava nella prima metà del XIX secolo, per lo stupore dei contemporanei. Osservata dalla prospettiva del lavoro, si possono distinguere tre punti di cristallizzazione di questa questione. In primo luogo, la destabilizzazione degli stabili. Una parte della classe operaia integrata e dei salariati della piccola classe media è minacciata di caduta. Mentre il consolidamento della società salariale aveva continuamente ampliato la base delle posizioni assicurato e gestito le vie della promozione sociale, è ora il movimento opposto che prevale. È senza dubbio sul divenire di questi strati intermedi – né il basso né l'alto della piramide sociale –, che non hanno attualmente molto da sperare dal blocco della mobilità ascendente, ma piuttosto da perdere, che si gioca l'equilibrio della nostra struttura sociale (il populismo, di destra o di sinistra, è la traduzione politica della loro messa in insicurezza). Conferma del fatto che non basta trattare la questione sociale a partire dai suoi margini e accontentarsi di denunciare l'“esclusione”. Seconda specificità della situazione attuale, l'installazione nella precarietà. Il lavoro aleatorio rappresenta una nebulosa dai contorni incerti, ma che tende ad autonomizzarsi. Meno di un quarto dei 2,5 milioni di disoccupati censiti all'ANPE nel 1986

aveva trovato un lavoro stabile due anni dopo (22%); il 9% si era rassegnato all'inattività definitiva e il 44% era ancora disoccupato, sia (per un quarto) che fosse rimasto tale (disoccupazione di lunga durata), sia che lo fosse ridiventato dopo aver occupato uno o più posti di lavoro. Se vi si aggiungono coloro che occupano al momento dell'inchiesta un impiego minacciato, è dunque circa la metà dei disoccupati, o degli ex-disoccupati, a essere collocata su traiettorie erratiche fatte di alternanza di lavoro e non-lavoro65. Queste percentuali sono confermate da altre inchieste. Così nel 1988, solo uno stagista su quattro e un lavoratore precario su tre hanno trovato un lavoro stabile entro un anno 66. In questo stesso anno, quasi il 50% dei richiedenti lavoro era in precedenza impiegato con contratti a tempo determinato67. La disoccupazione ricorrente costituisce, dunque, una dimensione importante del mercato del lavoro. Tutta una popolazione, soprattutto di giovani, sembra relativamente impiegabile per mansioni di breve durata, qualche mese o qualche settimana, e ancora più facilmente licenziabile. L'espressione “interinale permanente” non è allora un brutto gioco di parole. Esiste una mobilità fatta di alternanza fra attività e inattività, di arrangiamenti provvisori segnati dall'incertezza del domani. È una delle risposte sociali fornite all'esigenza della flessibilità, ed è costosa per gli interessati. Già nel 1975, Michel Pialoux aveva descritto il “realismo della disperazione” che forzava alcune categorie di giovani a “scegliere” le strategie giorno per giorno 68. Era allora un 65 Données sociales, Paris, INSEE, 1990, p. 72. 66 Mireille Elbaum, Petits boulots, stages, emplois précaires: quelle flexibilité pour quelle insertion, in “Droit social”, n. 4, 1988, p. 314. 67 Gérard Duthil, Les politiques salariales en France, cit., p. 132. 68 Michel Pialoux, Jeunesse sans avenir et travail intérimaire, in “Actes de la recherche en sciences sociales”, n. 10, 1975, pp. 19-47.

vissuto circoscritto essenzialmente a un pubblico di giovani particolarmente sfavoriti – figli di immigrati, abitanti delle banlieues –, tocca oggi invece larghe frazioni di giovani provenienti dalla classe operaia “classica”, titolari di diplomi tecnici, come il CAP, e morde anche certi settori della classe media 69. La precarietà come destino. Quando si parla del discredito del lavoro che riguarderebbe le nuove generazioni e nel quale alcuni vedono il buon segno di una uscita dall'alienazione della civiltà del lavoro, bisogna avere a mente questa realtà oggettiva del mercato del lavoro. Come affrontare allora queste situazioni e agganciare un progetto a queste traiettorie? Il “sogno dell'interinale” è il desiderio di divenire stabile, associato al dubbio lancinante sulla possibilità di realizzarlo70. Dunque, non è tanto il lavoro a essere rifiutato quanto un tipo di impiego discontinuo e letteralmente insignificante, che non può servire da base alla previsione di un avvenire controllabile. Questa maniera di abitare il mondo sociale impone delle strategie di sopravvivenza fondate sul presente. A partire da ciò si sviluppa una cultura che è, secondo la felice 69 Come lo sviluppo di quelli che si chiamano talvolta gli “statuti ibridi”, né salariati, né artigiani, lavoratori di fatto a chiamata, senza contratto e senza protezione sociale. Il numero di questi impieghi, che non sono assolutamente censiti in maniera sistematica, è difficile da stimare, ma il loro attuale sviluppo è un buon indice di degrado della situazione salariale (cfr. Danielle Gerritsen, Au-delà du “modèle typique”. Vers une socio-anthropologie de l'emploi, in Sabine Erbès-Seguin, L'emploi: dissonances et défis, Paris, L'Harmattan, 1994, e Jacques Le Goff, Du silence à la parole, cit., pp. 248-249). Cfr. anche il vasto continente del lavoro nero, per natura difficile da perlustrare, ma che rappresenta sicuramente un grosso giacimento di precarietà (cfr. Jean-François Laé, Travailler au noir, Paris, Métailié, 1989). Per tutte queste forme incerte di impiego, la protezione sociale o è inesistente o anch'essa molto precaria. 70 Cfr. Stéphane Beaud, Les rêve de l'intérimaire, in Pierre Bourdieu (dir), La misère du monde, cit., pp. 349-365.

espressione di Laurence Rouleau-Berger, una “cultura dell'aleatorio”71. Così fa ritorno sulla scena sociale un antichissimo obbligo imposto a quel che si chiamava una volta il popolo: “vivere giorno per giorno”. Non si è perciò in diritto di parlare di un neopauperismo? Un terzo ordine di fenomeni, il più inquietante, sembra emergere nella congiuntura attuale. La precarizzazione del lavoro e la crescita della disoccupazione sono senza dubbio la manifestazione di un deficit di posti occupabili nella struttura sociale, se si intendono per posti delle posizioni cui sono associate un'utilità sociale e un riconoscimento pubblico. Lavoratori “senescenti” (ma hanno spesso una cinquantina d'anni o meno) che non hanno più un posto nel processo produttivo, ma che non ne hanno neanche altrove; giovani in cerca di un primo impiego e che errano di stage in stage e da un lavoretto all'altro; disoccupati di lunga durata che ci si spossa senza successo a riqualificare o a rimotivare: è come se il nostro tipo di società riscoprisse con sorpresa la presenza nel suo seno di un profilo di popolazioni che si credevano sparite, degli “inutili al mondo”, che vi soggiornano senza veramente appartenerle. Essi occupano una posizione di surnumerari, in situazione di fluttuazione in una sorta di no man's land sociale, non integrati e senza dubbio inintegrabili, nel senso almeno in cui Durkheim parla di integrazione come appartenenza a una società che forma un tutto di elementi interdipendenti. Questa inutilità sociale li squalifica anche sul piano civile e politico. A differenza dei gruppi subordinati della società industriale, sfruttati ma indispensabili, essi non possono pesare sul 71 Laurence Roulleau-Berger, La ville intervalle. Jeunes entre centre et banlieue, Paris, Méridiens-Klincksieck, 1992.

corso delle cose. Ci si potrebbe meravigliare che un disastro come 3,5 milioni di disoccupati non abbia scatenato alcun movimento sociale di qualche ampiezza. Ha invece suscitato un numero incredibile di discorsi e un conseguente numero di “misure di accompagnamento”. “Ci si china” sulla sorte di questi inoccupabili che non sono attori sociali, ma, come si è detto, delle “non-forze sociali”, dei “normali inutili”72. Essi occupano nella struttura sociale attuale una posizione omologa a quella del quarto mondo all'apogeo della società industriale: non sono inseriti nei circuiti degli scambi produttivi, hanno perso il treno della modernizzazione e restano sul binario con pochissimi bagagli. Dunque, possono essere oggetto di attenzioni e suscitare inquietudine, perché fanno problema. Ma è il fatto stesso della loro esistenza a fare problema. Essi possono difficilmente essere presi in considerazione per quel che sono perché la loro qualificazione è negativa – inutilità, non-forze sociali –, e ne sono generalmente coscienti 73. Quando la base su cui si è edificata la propria identità sociale viene a mancare, è difficile parlare a proprio nome, anche per dire di no. La lotta presuppone l'esistenza di un collettivo e di un progetto per l'avvenire. Gli inutili al mondo possono scegliere tra la rassegnazione e la violenza sporadica, la “rabbia” (Dubet) che il più delle volte è autodistruttiva. 72 Cfr. Jacques Donzelot, Philippe Estèbe, L'État animateur, cit. 73 Come dimostra Dominique Schnapper (L'épreuve du chômage, Paris, Gallimard, 1981), in un primo tempo il vissuto del disoccupato può essere molti differente a seconda dell'appartenenza sociale e del capitale culturale mobilitabile. Una platea giovane e colta poteva prenderla un tempo come un prolungamento del periodo di disponibilità post-adolescenziale, mentre era vissuta come un dramma da un operaio che perdeva il lavoro. Ma queste analisi si collocavano in una congiuntura meno difficile del mercato del lavoro, e questo sentimento di “vacanza” è transitorio.

Si potrebbero forse sintetizzare queste trasformazioni recenti dicendo che per categorie sempre più numerose della popolazione attiva, e a fortiori per quelle che sono poste in situazione di inattività forzata, l'identità tramite il lavoro si è persa. Ma la nozione di identità tramite il lavoro non è facile da maneggiare nel quadro di un'argomentazione che si vorrebbe rigorosa 74. Si possono certo trovare più cerchi d'identità collettiva fondata in primis sul mestiere (il collettivo di lavoro)75, che possono prolungarsi in comunità di habitat (il quartiere popolare) 76, in comunanza del modus vivendi (il bistrot, le osterie lungo la Marna, la banlieue rossa, l'appartenenza sindacale e politica). Richard Hoggart ha lasciato una delle migliori descrizioni della coerenza di questa cultura popolare costruita intorno alle servitù del mestiere, ma che sviluppa un sistema di valori dal forte potere integratore 77. Nella società industriale, soprattutto per le classi popolari, il lavoro svolge la funzione di “grande integratore”, il che, come precisa Yves Barel, non implica un condizionamento attraverso il lavoro. “Vi è l'integrazione familiare. Vi è l'integrazione scolastica, l'in74 Cfr. un punto di vista sintetico in Claude Dubar, La socialisation. Construction des identités sociales et professionnelles, Paris, A. Colin, 1991; trad. it. La socializzazione. Come si costruisce l'identità sociale, Bologna, il Mulino, 2004. 75 Cfr. Renaud Sainsaulieu, L'identité au travail. Les effets culturels de l'organisation, Paris, Fondation nationales des sciences politiques, 1978. 76 Un insieme di testi raccolti da Susanna Magri e da Christian Topalov, Ville ouvrières, 1900-1950, Paris, L'Harmattan, 1990, descrive bene queste forme di sociabilità popolare attraverso le quali la prossimità geografica diventa la base costitutiva di solidarietà che svolgono il ruolo di “rete di sicurezza” contro i rischi dell'esistenza. 77 Cfr. Richard Hoggart, La culture du pauvre, cit., e Id., Newport Street. Autobiographie d'un intellectuel issu des classes populaires anglaises, Paris, Gallimard/Le Seuil, 1991.

tegrazione professionale, l'integrazione sociale, politica, culturale, ecc.”, ma il lavoro è un induttore che attraversa questi campi, è “un principio, un paradigma, qualcosa infine che si ritrova nelle diverse integrazioni interessate e che dunque rende possibile l'integrazione delle integrazioni senza far sparire le differenze o i conflitti”78. Ma, salvo accumulare monografie precise, è difficile andare oltre questo quadro concettuale generale. È ancora più difficile valutare la recente degradazione di queste funzioni integratrici svolte dal lavoro79. Ho proposto una ipotesi generale per render conto della complementarità tra quel che accade su un asse di integrazione attraverso il lavoro – impiego stabile, impiego precario, espulsione dall'impiego – e la densità dell'iscrizione relazionale nelle reti familiari e di sociabilità – inserimento relazionale forte, fragilità relazionale, isolamento sociale. Tali connessioni qualificano delle differenti zone di densità dei rapporti sociali: zona di integrazione, zona di vulnerabilità, zona di assistenza, zona di esclusione o piuttosto di disaffiliazione. Ma non si tratta di correlazioni meccaniche, poiché una forte valenza su un asse può compensare la debolezza sull'altro (cfr., per esempio, nel cap. I, i trattamenti del “povero vergognoso” e del vagabondo: sono l'uno e l'altro fuori-lavoro, ma il primo è completamente inscritto nella comunità mentre il secondo è tagliato fuori da ogni legame sociale). 78 Yves Barel, Le grand intégrateur, cit., p. 89 e p. 90. 79 A titolo illustrativo, cfr. in François Dubet, La galère: jeunes et survie, cit., pp. 92 sgg., la comparazione tra i comportamenti dei giovani di una piccola città in declino ancora impregnata di cultura operaia e la deriva della gioventù dei grandi assembramenti di banlieues senza tradizione di classe.

Nella contemporaneità, è ancora più difficile controllare queste relazioni, perché lo Stato sociale interviene come un personaggio onnipresente. Perciò è interessante, come fa il CERC (Conseil de l'Emploi, des Revenus et de la Cohesion sociale), notare una correlazione statistica tra, per esempio, il tasso delle rotture coniugali e la precarietà rispetto all'impiego 80; i processi che regolano queste relazioni non sono peraltro esplicitati. Esistono difatti due registri di vulnerabilità familiare. La famiglia in generale è divenuta sempre più vulnerabile81 perché è divenuta una struttura sempre più “democratica”. Lenta erosione dell'isolotto di potere tutelare che era rimasta la famiglia in seno all'ordine contrattuale che istituisce il Codice civile. Tutte le riforme del Codice della famiglia, fino alle più recenti sui diritti dell'infanzia, vanno nella direzione di stabilire un partenariato familiare fondato sulla relazione di uguaglianza tra i ruoli familiari82. Detto altrimenti, la famiglia tende a divenire una struttura relazionale la cui consistenza dipende essenzialmente dalla qualità delle relazioni tra i suoi membri. La promozione di un ordine familiare contrattuale negoziato rende fragile la struttura fami80 Così, la percentuale delle rotture coniugali è del 24% per gli individui con un impiego stabile, del 31,4% per le situazioni di lavoro precario, del 38,7% per i disoccupati da più di due anni (Précarité et risques d'exclusion en France, in “Documents du CERC”, n. 109, 1993, p. 30). 81 Sugli indici che attestano questo rialzo della fragilità familiare a partire dalla metà degli anni Sessanta – tasso di nuzialità, di fecondità, di divorzi, di convivenze, di “nascite illegittime”, ecc. –, cfr. Louis Roussel, La famille in certaine, Paris, Odile Jacob, 1989. 82 Una sintesi di questa evoluzione in Irène Théry, Le démariage. Justice et vie privée, Paris, Odile Jacob, 1993. L'autore dimostra anche che questa evoluzione, che concerne tutte le famiglie, poiché così prescrive il diritto in materia, le riguarda però in maniera differente, essendo in generale le famiglie più popolari le meno protette dalle prescrizioni universalistiche di questo diritto d'ispirazione molto liberale.

liare in quanto tale, rendendola dipendente da autoregolazioni, che essa deve controllare in proprio. Ma certe famiglie sono esposte a tutt'altro tipo di minacce. Sono quelle che il debole statuto sociale e la precarietà economica designano come beneficiarie di prestazioni sociali sotto forma di aiuti83. L'intervento dello Stato assume in questo caso anche una forma completamente differente. Poiché il Codice della famiglia dipende dal diritto civile e le sue prescrizioni hanno una vocazione universalistica, gli interventi mirati sono l'oggetto dello Stato sociale nel quadro di una politica di aiuto alle popolazioni sfavorite e di mantenimento della coesione sociale. Ma se numerose inchieste mostrano che gli strappi nel tessuto familiare – separazione, divorzio, vedovaggio... – comportano frequentemente una diminuzione delle risorse familiari, se ne può concludere che queste precipitino sistematicamente nella precarietà economica84. La relazione inversa tra una degradazione della situazione socio-economica – disoccupazione, indebitamento, fallimento... – e la dissociazione familiare è più spesso affermata che provata. Infine, e soprattutto, bisognerebbe mettere in relazione la speciale fragilità di questo tipo di famiglie sfavorite e la fragilizzazione generale della famiglia “moderna”, che corrispondono a logiche 83 Si tratta in particolare di “famiglie monoparentali”. Cfr. Nadine Lefaucheur, Les familles dites monoparentales, in “Autrement”, n. 134, 1993, pp. 27-37. 84 Piuttosto, come detto da Claude Martin in seguito a un'inchiesta empirica molto precisa, la dissociazione familiare “accelera il processo di precarizzazione di coloro che erano già vulnerabili prima della rottura” (Transitions familiales; évolution du réseau social et familial aprés la décision et modes de régulation sociale, thèse pour le doctorat en sociologie, Paris, Université Paris VIII, p. 464). Si troverà uno stato della ricerca su tale questione in Jean-Claude Kaufmann, Célibat, ménages d'une personne, isolement, solitude. Un état de savoirs, Bruxelles, Commission des Communautés européennes, octobre 1993.

completamente differenti. Si percepisce che deve esistere come una spirale tra differenti tipi di esposizione della famiglia ai rischi. A una vulnerabilità della struttura familiare quasi ridotta alla gestione del proprio capitale relazionale può aggiungersi una vulnerabilità speciale delle famiglie esposte a una perdita di status sociale e alla precarietà economica dovuta alla degradazione della condizione salariale. Ma resta da dimostrare come si articolano questi piani85. Vale lo stesso per la correlazione tra la degradazione dello status legato al lavoro e la fragilizzazione dei supporti relazionali che, al di là della famiglia, assicurano una “protezione ravvicinata” (relazioni di vicinato, partecipazione a gruppi, associazioni, partiti, sindacati...). L'ipotesi appare largamente verificata per le situazioni estreme che associano espulsione totale dall'ordine del lavoro e isolamento sociale: il senza-fissa-dimora, per esempio, come omologo moderno del vagabondo delle società preindustriali86. Per le situazioni intermedie, le relazioni tra i due assi sono più complesse. In che misura la degradazione della situazione di 85 Ho proposto un'ipotesi per approfondire l'effetto cumulativo tra la fragilizzazione del tessuto relazionale in generale e la fragilità particolare delle famiglie economicamente sfavorite in L'État providence et la famille: le partage précaire de la gestion des risques sociaux, in François de Singly, Franz Schultheis (sous la direction de), Affaires de famille, affaires d'État, Jarville-la-Malgrange, Éditions de l'Est, 1991, pp. 25-31. Cfr. anche François de Singly, Sociologie de la famille contemporaine, Paris, Nathan, 1993; trad. it. Sociologia della famiglia contemporanea, a cura di Vincenzo Cicchelli, Bari, Palomar, 1996. 86 Si può stimare – ma il censimento di questo tipo di popolazione è particolarmente difficile – all'1% circa della popolazione in età da lavoro la percentuale di coloro che sono completamente fuori dai giochi, tipo SDF. Circa il 5% della popolazione potenzialmente attiva associa una quasi-esclusione dal mercato del lavoro a una grande povertà materiale e relazionale. Questi rappresentano la punta estrema del processo di disaffiliazione. Cfr. Précarité et risques d'exclusion en France, cit.

lavoro si paga con una degradazione del capitale relazionale? Salvo errore, non esiste risposta veramente convincente a questa domanda al di là sia di analisi puntuali come le storie di vita 87, sia di proclami generali sul disastro che rappresentano le rotture del legame sociale e la perdita della solidarietà tradizionali. Per approfondire tali questioni, bisognerebbe stabilire delle distinzioni più elaborate tra differenti forme di sociabilità. Alcune accompagnano l'appartenenza a dei collettivi strutturati, come il collettivo di lavoro, l'adesione a un'associazione, a un sindacato... “Vivere del sociale” (un'esperienza che concerne diversi milioni di persone) non equivale peraltro all'isolamento completo, ma porta piuttosto a stringere altri tipi di relazioni (per esempio con i servizi sociali e altri compagni di sventura) rispondenti ad altri obiettivi (per esempio lo scambio di informazioni su come essere aiutati). Allo stesso modo, quella che ho chiamato “disaffiliazione” potrebbe essere approfondita per mostrare che non equivale necessariamente a un'assenza completa di legami, ma anche all'assenza di iscrizione del soggetto in strutture portatrici di senso. Ipotesi di nuove sociabilità fluttuanti che non si inscrivono più in obiettivi collettivi, erranze immobili di cui il “cazzeggio” dei giovani sfaccendati offre una illustrazione. Ciò che manca loro è di certo più l'esistenza di progetti attraverso i quali le interazioni prendano senso che la comunicazione con gli altri (questi giovani hanno spesso delle relazioni più estese rispetto a 87 E quand'anche siano ben fatte, non si lasciano leggere in maniera unilaterale. Così, la disoccupazione può portare alla rottura dei legami familiari, ma anche a una mobilitazione delle risorse familiari. Cfr. Olivier Schwartz, Le monde privé des ouvriers. Hommes et femmes du Nord, cit.

molti membri delle classi medie). Ritornerò su questo tema a proposito dell'inserimento, perché il senso delle nuove politiche di inserimento potrebbe essere precisamente quello di creare tali sociabilità o consolidarle quando esistono ma sono troppo inconsistenti per sostenere un progetto di integrazione. Resta dunque molto cammino da fare per stabilire il sistema di relazioni esistente tra la degradazione della situazione economica e sociale, da una parte, e la destabilizzazione dei modi di vita dei gruppi di fronte alle turbolenze attuali, dall'altra. Non potendo sviluppare l'insieme di queste posizioni, propongo un'immagine idealtipica di questo processo di degradazione interiorizzato in destino, una immagine di Épinal88 rovesciata. Essa presenta le componenti di base del dramma della condizione salariale di cui la vulnerabilità è ridivenuta il destino: una vita ormai “appesa a un filo” dopo il cedimento delle condizioni di una integrazione annunciata e anche celebrata prima che si realizzasse89. Negli anni Ottanta – troppo tardi rispetto alla traiettoria ascendente della società salariale – una coppia “accede alla proprietà” con un piccolissimo capitale familiare, degli aiuti, dei prestiti. Ma la donna, piccola impiegata senza statuto, è quasi subito licenziata per motivi economici. Il marito, senza qualifica né diploma, fa dei lavoretti che ha sempre più difficoltà a trovare. I debiti si accumulano, perché bisogna pagare anche le rate per l'automobile e la televisione, così come gli arretrati del telefono e dell'elettricità. Al momento dell'intervista, la donna aspetta che si istruisca il proprio dossier di RMI e il marito, in prova in una impresa, spera senza crederci troppo di essere assunto con lo 88 Immagine stereotipata [N.d.R.]. 89 Pierre Bourdieu, Suspendue à un fil, in Id., (dir), La misère du monde, cit., pp. 487-498.

SMIC. Le loro due famiglie li guardano sprofondare con un'aria di rimprovero perché, eredi delle certezze degli anni di crescita, fanno fatica a pensare che si possa non trovare lavoro se lo si cerca davvero. Certo, questi figli indegni hanno tradito la grande promessa della promozione sociale, e non può che essere colpa loro. Così, la success story dell'accesso del proletariato ai modi di vita piccolo-borghesi si trasforma in incubo. È come se venisse cancellato quasi un secolo di vittorie riportate sulla vulnerabilità popolare. “Non è possibile che si viva in un'epoca come questa, che vi siano ancora problemi come questo. Si dice che il progresso avanzi, ma non è vero. Io trovo piuttosto che arretri. Non è possibile, occorrono soluzioni, bisogna che questi agiscano” 90. “Questi” come agiranno? Evidentemente, è lo Stato sociale a essere chiamato in causa.

3. L'inserimento, o il mito di Sisifo Paradosso: in un periodo caratterizzato da una ripresa del liberalismo e dalla celebrazione dell'impresa, mai gli interventi dello Stato, in particolare nel mondo del lavoro, sono stati tanto numerosi, vari e insistenti. Ma ancor più che un accrescimento del ruolo dello Stato, è alla trasformazione delle modalità dei suoi interventi che bisogna essere sensibili. Racchiudiamo in una frase il senso del cambiamento, prima di tentare di declinarne le tonalità: segna il passaggio da politiche condotte in nome dell'integrazione a politiche condotte in nome dell'inserimento. Per politiche di integrazione intendo quelle che sono animate dalla ricer90 Ibidem.

ca di grandi equilibri, l'omogeneizzazione della società a partire dal centro. Esse procedono per direttive generali in un quadro nazionale, come i tentativi di promuovere l'accesso di tutti ai servizi pubblici e all'istruzione, una riduzione delle ineguaglianze sociali e una migliore ripartizione delle possibilità, lo sviluppo di protezioni e il consolidamento della condizione salariale91. Interpreterò le politiche di inserimento a partire dalle loro differenze, e anche, con una forzatura minima, dalla loro opposizione rispetto alle politiche di integrazione. Esse obbediscono a una logica di discriminazione positiva: si concentrano su popolazioni particolari e su zone singolari dello spazio sociale, e dispiegano a loro favore strategie specifiche. Ma se alcuni gruppi, o certi siti, sono così oggetto di un supplemento di attenzione e cura, è a partire dalla constatazione che hanno meno e sono meno, che sono in condizioni deficitarie. Infatti, soffrono di un deficit di integrazione, come gli abitanti dei quartieri diseredati, gli alunni che abbandonano la scuola, le famiglie mal socializzate, i giovani mal impiegati o inoccupabili, i disoccupati di lunga durata... Le politiche di inserimento possono essere interpretate come un insieme di tentativi di messa a livello per colmare la distanza rispetto a una integrazione incompiuta (un contesto di vita decente, una scolarità “normale”, un impiego stabile, ecc.). Ma ecco che sorge oggi il sospetto che i considerevoli sforzi profusi da una quindicina di anni in questa direzione potrebbero non aver sostanzialmente mutato il fatto che queste popolazioni, nel91 Aggiungiamo, siccome è anche una questione di spazio, la politica dei quartieri, della città, le politiche di pianificazione del territorio che la volontà omogeneizzatrice e centralizzatrice della DATAR (Délégation à l'Aménagement du Territoire et à l'Action Régionale) degli anni Sessanta esemplifica perfettamente.

la congiuntura attuale, sono forse, malgrado tutto, inintegrabili. È questa eventualità che bisogna guardare in faccia. Si possono distinguere le politiche di integrazione e le politiche di inserimento a partire dalla differenza tra misure di portata generale e l'individuazione di popolazioni particolari? Non senza aggiungere alcune precisazioni. In effetti, una tale distinzione non è recente, e precede l'avvento delle politiche di inserimento. Si tratta, nel campo della protezione sociale, del principio della classica relazione di complementarità tra l'assicurazione sociale e l'aiuto sociale. La Sicurezza sociale realizza una socializzazione generalizzata dei rischi “coprendo” i salariati, le loro famiglie e in definitiva tutti coloro che si iscrivono nell'ordine del lavoro; l'aiuto sociale (ribattezzato così nel 1953) eredita l'assai vecchia funzione dell'assistenza di dispensare delle risorse sussidiarie a tutti coloro cui l'assistenza non può essere assicurata sulla base del lavoro o della proprietà. Eredità pesante, che fa dipendere le prestazioni dell'aiuto sociale, anche quando sono di diritto, da un plafond di risorse o da un grado di invalidità. È per questo che, per la corrente modernista e progressista dei riformatori sociali, questo dualismo doveva alla fine cancellarsi, e un sistema unico di protezioni assicurare a tutti i cittadini un insieme omogeneo di garanzie legali – era già, lo si è notato, l'opinione di Jaurès nel 1905, e anche quella di Berevidge e di Laroque nell'istituzione della Sécurité sociale. Non è questo l'orientamento che è prevalso. Al contrario, ben prima della “crisi”, l'aiuto sociale si differenzia e si rafforza. La sua storia, dalla fine della Seconda guerra mondiale, è quella di una individuazione sempre più precisa dei propri beneficiari, ai quali corrispondono delle specializzazioni istituzionali, tecniche,

professionali e regolamentari sempre più spinte. Lo Stato è parte attiva in questo processo. Legifera, fonda degli istituti specializzati, garantisce l'omogeneità dei diplomi e delle professionalità, coordina l'impianto di istituzioni così come la collaborazione dei settori pubblico e privato92. Si cristallizzano così categorie sempre più numerose di beneficiari dell'aiuto sociale, dipendenti da un regime speciale: bambini in difficoltà, persone anziane “economicamente deboli”, persone con disabilità, famiglie dalle deboli risorse o dissociate93. All'inizio degli anni Settanta si assiste anche al raggruppamento di alcune di queste categorie in larghi conglomerati di popolazione che hanno in comune il non potersi adattare alle esigenze della società salariale. Lione Stoleru riscopre allora “la povertà dei paesi ricchi” e propone, più che di combatterla, di stabilizzarla assicurando un reddito minimo ai “più indigenti” (imposta negativa)94. Non si tratta più di tentare di ridurre le ineguaglianze, ma di lasciare il massimo di margine al 92 Sullo spirito di questa politica che associa l'individuazione puntuale delle “popolazioni a rischio”, il loro trattamento attraverso una tecnica professionale a dominante ciclica e il dispiegamento di grandi direttive amministrative centrali, cfr. Robert Castel, La gestion des risques. De l'anti-psychiatrie à l'après-psychanalyse, cit., cap. III. 93 Negli anni Sessanta due importanti rapporti pongono le basi di una politica specifica, l'una per la vecchiaia (Pierre Laroque, Rapport de la Commission d'étude des problèmes de la vieillesse, Paris, La Documentation française, 1962, da cui saranno riprese alcune raccomandazioni del VI piano), l'altra per la disabilità (François Bloch-Lainé, Étude du problème général de l'inadaptation des personnes handicapées, Paris, La Documentation française, 1967, all'origine della legge del 30 giugno 1975 in favore delle persone con disabilità). L'attenzione rivolta ai problemi specifici delle famiglie dissociate porta nel 1976 al voto sull'aiuto per il genitore solo (API), che, a differenza dei sussidi familiari, si fa carico della situazione delle “famiglie monoparentali”. 94 Cfr. Lionel Stoleru, Vaincre la pauvreté dans les pays riches, Paris, Flammarion, 1973.

mercato, controllando solamente le conseguenze più estreme del liberalismo. Pressappoco nello stesso momento, René Lenoir attira l'attenzione su “gli esclusi”, termine già connotato dell'indeterminazione che ha conservato in seguito: da 2 a 3 milioni di disabili fisici o mentali, più di 1 milione di anziani invalidi, da 3 a 4 milioni di “disadattati sociali”95. I rimedi che auspica sono comunque più generosi, poiché propone di migliorare la loro condizione quando è possibile e, soprattutto, di tentare di prevenire i rischi d'esclusione di queste popolazioni96. Così, all'inizio degli anni Settanta, al distinzione Sicurezza sociale-aiuto sociale, la cui complementarità si riteneva coprisse l'insieme delle protezioni, si rimescola97. La moltiplicazione dei pubblici-bersaglio e delle politiche specifiche fa dubitare della capacità dello Stato di condurre delle politiche di integrazione a vocazione universalista e omogeneizzatrice. Tuttavia, tutte le popolazioni che dipendono da regimi speciali si caratterizzano per una incapacità di seguire la dinamica della società salariale, sia che esse abbiano un handicap, sia che dispongano di risorse troppo deboli per adattarsi al ritmo del progresso. Il rigonfiarsi della categoria di “disadattati sociali” (3 o 4 milioni per René Lenoir!) 95 Cfr. René Lenoir, Les exclus. Un Français sur dix, Paris, Le Seuil, 1974. 96 Sul quadro d'insieme della riscoperta della povertà all'inizio degli anni Settanta, cfr. Bruno Jobert, Le Social en plan, Paris, Éditions ouvrières, 1981. 97 Elie Alfandari, Action sociale et aide sociale, Paris, Dalloz, 1989, in particolare il cap. La distinction de l'aide sociale et de la Sécurité sociale, pp. 118 sgg. Vi sono delle prestazioni sociali sempre più numerose alla frontiera fra questi due insiemi: il fondo nazionale di solidarietà e i contributi per gli adulti con disabilità, API. Cfr. anche Christophe Guitton, Nicole Kerschen, Les règles du hors-jeu. L'insertion au carrefour de la sécurité sociale, des politiques de l'emploi et di RMI, in “Annales de Vaucresson”, nn. 32-33, 1990, pp. 11-31.

è l'effetto di questa operazione, che – a differenza della maggior parte delle disabilità, delle turbe psichiche, ecc. – circoscrive una popolazione residuale per sottrazione in relazione ai nuovi vincoli, d'altronde non definiti, della società moderna. Il disadattamento sociale è una nozione centrale anche nel rapporto BlochLainé: “Sono inadatti alla società di cui fanno parte i bambini, gli adolescenti o gli adulti che hanno per ragioni diverse delle difficoltà più o meno grandi agire come gli altri” 98. La concezione sostanzialista della povertà di ATD-quart monde svolge la medesima funzione: identificare gli scarti della crescita a partire dalla loro incapacità sociale. Tale presa di coscienza di un principio di eterogeneità in una società trascinata dalla crescita segna senza alcun dubbio un arretramento delle politiche integratrici globali e moltiplica i trattamenti speciali delle “popolazioni problematiche”, ma non impedisce alla macchina sociale di avanzare e al progresso di dispiegarsi. È anche per questo che, a dispetto del dissidio sulle operazioni di finanziamento, questa evoluzione non rimette fondamentalmente in questione la distinzione che attraversa tutta la storia della protezione sociale, tra la copertura attraverso il lavoro per tutti coloro che possono – e dunque devono – lavorare, e l'accesso ai soccorsi per coloro che non lo possono fare o che sono esonerati da questa esigenza per ragioni legittime99. 98 François Bloch-Lainé, Étude du problème général de l'inadaptation des personnes handicapées, cit., p. 111. 99 Così, a dispetto delle apparenze, l'API conserva, reinterpretandolo nel contesto della società moderna, questo antichissimo criterio per accedere all'assistenza. La madre che alleva da sola il proprio bambino è provvisoriamente dispensata dall'obbligo del lavoro (perché, sottinteso, deve per tre anni consacrarsi a suo figlio), ma questo obbligo è fondamentalmente mantenuto poiché dopo questo periodo dovrà riprendere un impiego (e, sottinteso, potrà trovarne uno).

È nel momento in cui la comparsa di un nuovo profilo di “popolazione problematica” scuote questa costruzione che emerge la questione dell'inserimento. Si tratta di un'innovazione considerevole. Non si tratta più di aprire una nuova categoria nel registro della deficienza, dell'handicap, dell'anormalità. Questo nuovo pubblico non dipende direttamente né dall'ingiunzione del lavoro, né dalle differenti risposte previste dall'aiuto sociale. Le politiche di inserimento vanno a muoversi nella zona incerta in cui un impiego non è assicurato, anche a chi vorrebbe occuparlo, e in cui il carattere erratico di certe traiettorie di vita non attiene solo a fattori individuali di disadattamento. Per queste nuove popolazioni, le politiche di inserimento dovranno inventare nuove tecnologie d'intervento. Esse vanno a situarsi al di sotto delle ambizioni delle politiche integrative universalistiche, ma sono anche distinte dalle azioni particolaristiche a scopo riparativo, correttivo, assistenziale, dell'aiuto sociale classico. Esse appaiono in una congiuntura specifica, quando, alla fine degli anni Settanta, comincia ad aprirsi una zona di turbolenza nella società salariale. Sono all'altezza di questo sommovimento? Si può cominciare oggi a porre questo tipo di questione perché le politiche di inserimento sono in atto ormai da una quindicina d'anni. All'inizio, avevano un carattere puntuale e improvvisato, e si volevano provvisorie. Nessuno, di certo, ne avrebbe potuto prevedere allora la portata, ma il loro consolidamento progressivo segna l'installarsi nel provvisorio come regime d'esistenza. Anche prima della comparsa della nozione di inserimento nel senso che essa ha assunto dopo gli anni Ottanta 100, la nuova te100 Salvo errori, il termine “inserimento” compare prima in due testi uffi-

matica comincia a tratteggiarsi con la riapparizione di una vecchia preoccupazione che gli anni di crescita sembravano aver cancellato: la precarietà di certe situazioni di lavoro101. Così Agnès Pitrou descrive la fragilità di certe famiglie operaie che possono cadere nella miseria senza essere dei “casi sociali”, e nemmeno senza lavoro, ma che sono comunque alla mercé del minimo rischio102. Invitato nel 1980 dal Primo ministro Raymond Barre a fare delle proposte per riassorbire le “isole di povertà” che sussistono nella società francese, Gabriel Oheix ne presenta sessanta per lottare non solamente contro la povertà, ma anche contro la precarietà, e alcune di esse contengono misure a favore dell'impiego103. Nel medesimo contesto, quello della seconda metà del settennato di Valéry Giscard d'Estaing, quando la rottura ciali: nel 1972 è istituito un “assegno d'inserimento”, per facilitare la mobilità dei giovani lavoratori, e l'articolo 56 della legge del 1975 in favore delle persone con disabilità concerne “l'inserimento o il reinserimento professionale degli handicappati” (cfr. Pierre Maclouf, L'insertion, un nouveau concept opératoire des politiques sociales?, in Robert Castel, Jean-François Laé, Le RMI. Une dette sociale, Paris, L'Harmattan, 1992, pp. 121-143). Ma si tratta di usi puntuali che non ricorrono a tecnologie specifiche. Allo stesso modo, i numerosi riferimenti al “reinserimento” di coloro che escono di prigione dicono solamente che bisogna aiutare con mezzi appropriati gli ex-detenuti ad adattarsi a una vita normale. 101 Cfr. Michel Messu, Pauvreté et exclusion en France, in François-Xavier Merrien, Face à la pauvreté. L'Occident et les pauvres hier et aujourd'hui, actes du symposium international, Turin, 1993, organisé par la Fondation internationale des sciences humaines, Paris, Éditions de l'Atelier-Éditions ouvrières, 1994, pp. 139-169, e Michel Autès, Travail social et pauvreté, Paris, Syros, 1992. 102 Cfr. Agnès Pitrou (sous la direction de), La vie précaire des familles face à leurs difficultés, Paris, Caisse Nationale des Allocations Familiales, 1978. 103 Cfr. Gabriel Oheix, Contre le précarité et la pauvreté. Soixante propositions. Rapport au Premier ministre Raymond Barre, Paris, Ministère de la Santé et de la Sécurité sociale, février 1981.

della dinamica della crescita diviene sempre più sensibile, compaiono i primi “patti per l'impiego” al fine di facilitare l'assunzione dei giovani104, e si mettono in campo delle operazioni “habitat e vita sociale” per agire sul contesto di vita di alcuni quartieri sfavoriti105. Dietro queste iniziative si delinea una duplice presa di coscienza: che la povertà potrebbe non rappresentare solamente delle isole di arcaismo in una società votata al progresso, ma dipendere dal processo in corso rispetto al lavoro; che i problemi che pongono alcuni giovani non dovrebbero interpretarsi solo in termini di disadattamento personale e che bisogna anche considerare la situazione occupazionale e le condizioni di vita. La società salariale comincia a perdere la propria buona coscienza. È tuttavia all'inizio degli anni Ottanta che si può datare la nascita ufficiale delle politiche di inserimento. Tre rapporti ne tracciano i campi propri e la metodologia106. Sono interessate al104 Si tratta dei tre “piani Barre” che, a partire dal 1976, riguarderanno più di un milione di giovani, e comprende (già) stage di formazione e sgravi contributivi per le imprese. Questa iniziativa sollevò all'epoca un vero e proprio grido di indignazione in numerosi ambienti, cfr. François Piettre, Dominique Schiller, La mascarade des stages Barre. Les jeunes, les femmes et le Pacte national pour l'emploi, Paris, Maspero, 1979. 105 Lo scopo è “lo studio di misure giuridiche, finanziarie e amministrative suscettibili di aprire a preoccupazioni più sociali la concezione, la produzione e la gestione del contesto di vita urbano, e l'attivazione di alcune operazioni sperimentali” (in “Journal officiel”, 10 mars 1977). 106 Cfr. Bernard Schwartz, L'insertion professionnelle et sociale des jeunes. Rapport au Premier ministre, Paris, La Documentation française, 1981, per la formazione dei giovani dai 16 ai 18 anni senza qualifica; Hubert Dubedout, Ensemble refaire la ville. Rapport au Premier ministre, Paris, La Documentation française, 1982, per la riabilitazione sociale dei quartieri diseredati; Gilbert Bonnemaison, Face à la délinquance: prévention, répression, solidarité. Rapport au Premier ministre, Paris, La Documentation française, 1983, per combattere la delinquenza nei quartieri svantaggiati. Nello stesso contesto si inscrivono le zone

cune categorie della popolazione, soprattutto i giovani, che non rientrano nelle modalità abituali della rappresentazione e dell'azione dei servizi pubblici. Per esempio, quei giovani di Minguettes che, nell'estate 1981, bruciano le automobili nelle lunghe notti di rodeo riprese con gusto dai media, che cosa chiedono esattamente? Apparentemente nulla di preciso, ma contemporaneamente dicono molte cose. Né rappresentanti delle classi lavoratrici, benché talvolta lavorino, né emanazione delle classi pericolose, benché commettano all'occasione degli atti illeciti, né veramente “poveri” perché non sono né rassegnati né assistiti e se la sbrigano giorno per giorno, né espressione di una cultura specifica del ghetto perché condividono i valori culturali e consumistici propri della loro età, né completamente estranei all'ordine scolastico perché sono scolarizzati anche se male, ecc., questi non sono in realtà niente e un po' di tutto questo. Interrogano tutte le istanze della socializzazione, ma nessuna può rispondere loro. Pongono una questione trasversale di cui si può dire che è la questione della loro integrazione107, che si declina secondo molte sfacdi educazione prioritaria (ZEP) istituite nel 1981 dal ministro dell'Éducation nationale, Alain Savary, per rafforzare gli strumenti per la scolarizzazione dei ragazzi più svantaggiati. 107 Utilizzo qui, come in tutto il mio discorso, il termine “integrazione” nel suo significato generale, che include l'integrazione degli immigrati come caso particolare. Un giovane beur, o un giovane Nero, può incontrare difficoltà supplementari a “integrarsi” a causa del razzismo, dell'attitudine di certi datori di lavoro o affittuari, e anche di certe caratteristiche della propria socializzazione familiare. Ma se questi tratti possono funzionare come degli handicap supplementari – pressappoco come lo sono stati un secolo fa per i giovani bretoni o un mezzo secolo fa per i giovani italiani –, essi si iscrivono in una problematica comune ai giovani di origine popolare. Non vi è in Francia – in ogni caso non ancora – una underclass costituita su base etnica, benché si abbia un insieme di caratteristiche socialmente squalificanti – basso livello economico, assenza di capitale culturale e sociale, habitat stigmatizzato, stili di vita

cettature: in rapporto al lavoro, al contesto di vita, alla polizia e alla giustizia, ai servizi pubblici, all'educazione... Problema di posto, di avere un posto nella società, cioè, al contempo e correlativamente, un'assise e una utilità sociale. A tale sfida, le “commissioni interministeriali” rispondono ugualmente in maniera trasversale e globale attraverso una ricomposizione dei metodi e delle tecnologie dell'intervento sociale: localizzazione delle operazioni e concentrazione su obiettivi precisi, mobilitazione dei differenti attori interessati, professionali e non-professionali (partenariato), nuove relazioni tra il centrale e il locale – che sconvolgono le tradizioni dell'azione pubblica – e tra la tecnicalità dei professionisti e gli obiettivi globali, che mettono a mal partito le tradizioni del lavoro sociale. Queste pratiche sono state così ben analizzate che è inutile tornarci su 108, e non è indispensabile in questo quadro differenziare questi approcci complementari, che traducono una medesima volontà di rinnovamento delle politiche pubbliche109. riprovati, ecc. –, alle quali può aggiungersi l'origine etnica. Sulle differenze tra le banlieues francesi e i ghetti americani, cfr., per esempio, Loïc Wacquant, Banlieues françaises et ghettos noirs américaines: de l'amalgame à la comparaison, in Michel Wieviorka (sous la direction de), Racisme et modernité, Paris, La Découverte, 1993. Sui problemi specifici che pone l'integrazione degli immigrati in un contesto sociale, cfr. Dominique Schnapper, La France de l'intégration. Sociologie de la nation en 1990, Paris, Gallimard, 1991. 108 Per un punto di vista sintetico su queste politiche, cfr. Jacques Donzelot, Philippe Estèbe, L'État animateur, cit. Per un'analisi delle implicazioni di questi nuovi approcci rispetto alle forme classiche di intervento sociale, cfr. Jacques Ion, Le travail social à l'épreuve du territoire, Toulouse, Privat, 1990. 109 Tanto più che sono assai spesso associate sul territorio; in un sito classificato come “DSQ” [sviluppo sociale dei quartieri] si ritrovano frequentemente un “consiglio comunale per la prevenzione della delinquenza”, una “commissione locale” per l'inserimento dei giovani e istitu-

All'origine, si pensavano e si volevano sperimentali e provvisorie. Contemporanee agli esordi del primo governo socialista, esse si iscrivono allora negli obiettivi ambiziosi di una politica di rilancio dell'economia e del lavoro di ispirazione keynesiana. In attesa della ripresa, bisognava procedere con la massima urgenza per tamponare i rischi di esplosioni violente nelle zone di fragilità urbana (Sviluppo sociale dei quartieri e Comitati di prevenzione della delinquenza) e per migliorare le condizioni di scolarizzazione e di formazione di una gioventù, che la mancanza di qualifica, più che l'assenza di lavoro, rendeva “inimpiegabile” (Zone d'educazione prioritaria e operazioni “Nuove qualifiche”). Migliorare la socializzazione dei giovani e allargare la gamma delle loro qualifiche professionali rappresentano le condizioni necessarie di una rimessa a livello perché possano così trovarsi sullo stesso piano delle opportunità che saranno loro aperte. Condizioni necessarie, ma non sufficienti: misure politiche ed economiche generali sono determinanti per dare a queste iniziative il loro autentico significato. Bertrand Schwartz è a tal riguardo perfettamente esplicito: “Noi ci teniamo a rimarcare i limiti di questa azione perché non abbiamo l'ingenuità di credere che delle piccole équipe locali, anche se numerose […] siano tali da risolvere di per sé i problemi professionali, culturali e sociali dei giovani”110.

ti scolastici in regime di “zone di educazione prioritaria”. 110 Bertrand Schwartz, L'insertion professionnelle et sociale des jeunes. Rapport au Premier ministre, cit. Il Primo ministro, nella sua lettera d'incarico, aveva d'altra parte chiesto di presentare proposte perché “i giovani dai 16 ai 18 anni non siano mai condannati alla disoccupazione né a degli impieghi troppo precari”, il che implica un ottimismo analogo da parte del governo.

Che cosa accadrà quando queste speranze verranno meno e la “crisi”, lungi dal risolversi, s'inasprirà e si radicherà? Il passaggio da operazioni “Développement social des quartiers” (DSQ) alla “Politique de la Ville” illustra quello che sembra essere il destino comune delle politiche di inserimento. I primi DSQ, poco numerosi, hanno un carattere sperimentale marcato, sulla base contemporaneamente di un forte investimento politico e di una volontà d'innovazione tecnica. Essi mettono l'accento sulle potenzialità locali dei siti e sulla ricostruzione di identità sociali, attraverso lo sviluppo di attività autogestite111. Una tale effervescenza occupazionale non è per nulla da disprezzare, e vi si ritornerà, ma è come se le concretizzazioni più dinamiche avessero ceduto alla tentazione – o fossero state costrette – di fare del quartiere una sorta di fenomeno sociale totale capace di bastare a se stesso. Questo rischio di ripiegamento in un isolato solleva due temibili questioni: in che misura queste esperienze sono trasponibili e generalizzabili? Soprattutto: in che misura possono aver presa su parametri che sfuggono al quartiere, non essendo questo né un bacino di impiego e nemmeno un'unità completa d'organizzazione dello spazio urbano? Le creazioni della Délegation interministérielle à la Ville (DIV) nel 1988, poi quella del Ministère de la Ville nel 1991 si sforzano di superare queste limitazioni territoriali. Volontà di far uscire dalla condizione di énclave i quartieri detti difficili, i cui problemi, se dipendono in parte dalla chiusura in se stessi, non sono però da trattare solamente in vivo, ma da ripensare 111 Cfr. Marie-Christine Jaillet, L'insertion per l'économie, in Jean-Michel Belorgey (sous la direction de), Évaluation de la politique de la ville. Comité d'évaluation de la politique de la ville, Paris, Comité d'évaluation de la politique de la ville, 1993.

nello spazio della città. Sforzo, soprattutto, per mobilitare le differenti amministrazioni dello Stato: il ministre de la Ville ha per missione di far convergere tutti i mezzi del potere pubblico sulla risoluzione di quella che è divenuta nel linguaggio ufficiale la questione sociale par excellence, “la questione dell'esclusione”. I “contratti di città” impegnano la responsabilità dello Stato e dei pubblici poteri su questo obiettivo primario, richiamandoli alla collaborazione con le risorse e i poteri locali. Ma si ritrova qui la medesima contraddizione riscontrata in precedenza a proposito dell'impresa. Nel contesto di concorrenza e ricerca dell'efficienza che prevale anche tra agglomerazioni, i responsabili locali possono anche vogliono giocare a un tempo la carta della riuscita economica e dell'eccellenza, e quella della presa in carico degli “sfavoriti”? La politica sociale locale rivolta agli “esclusi” rischia così di essere un gioco al margine che consiste nel fare sul posto il minimo per evitare le disfunzioni troppo visibili, dal momento che non si possono scaricare sulla municipalità vicina. Rispetto al lavoro, tale questione è tanto più grave in quanto, salvo eccezioni, le “vere” imprese fin dall'inizio si sono guardate bene dal farsi coinvolgere in questo movimento. Le politiche locali hanno dato luogo a realizzazioni originali e interessanti, come le regie di quartiere che creano sul posto degli impieghi specifici per gli abitanti, ma restano molto limitate (esistono attualmente un centinaio di regie di quartiere). Un rapporto di Martine Aubry e di Michel Praderie, trasmesso al governo nel giugno 1991, faceva il punto sul complesso dei risultati riguardanti il lavoro 112. 112 Martine Aubry, Michel Praderie, Entreprises et quartiers. L'insertion, c'est aussi notre affaire. Rapport présenté à Michel Delebarre, ministre d'État, ministre de la ville et de l'aménagement du territoire, Paris, Mi-

Concludeva con la necessità di far partecipare l'impresa alla dinamica dell'inserimento, richiamandosi per farlo alla coscienza cittadina degli imprenditori. È un invito che non può dispiacere a nessuno, ma si può dubitare della sua efficacia dal momento che gli stessi imprenditori sono d'altra parte autorizzati, se non invitati, a realizzare incrementi di produttività con tutti i mezzi, ivi compresi quelli a detrimento del lavoro113. Sarebbe, però, completamente sbagliato criticare in maniera unilaterale queste politiche. Esse hanno sicuramente evitato molte esplosioni e molti drammi, anche se questa azione non è facilmente “valutabile”; hanno anche funzionato come laboratori in cui si è sperimentata una riorganizzazione dell'azione pubblica, e può essere che delineino anche un nuovo piano di governamentalità, una nuova economia delle relazioni del centrale e del locale, nuove forme di coinvolgimento dei cittadini a partire dalle quali la democrazia potrebbe trovare una fonte di rinnovamento114. Tuttavia il bilancio delle politiche territoriali invita anche a dar prova di una estrema prudenza quando si parla, come accade di frequente oggi, di uno “spostamento” della questione sociale sulla questione urbana. Certo, in una società urbanizzata per l'80%, la maggior parte dei problemi sociali ha una cornice urbana. È certo anche che in alcuni luoghi si venga a cristallizzare in nistère de la Ville et de l'Aménagement du territoire, 1991. 113 Cfr. Marie-Christine Jaillet, L'insertion par l'économie, cit. 114 Su questi punti, cfr. Jacques Donzelot, Philippe Estèbe, L'État animateur, cit. Per un apprezzamento più disilluso dell'impatto di queste stesse politiche, cfr. Christian Bachman, Nicole Le Guennec, Violence sur baines, 1945-1992. Ascension et chute des classes moyennes à travers cinquante ans de politique de la ville, Paris, Albin Michel, 1995.

maniera particolarmente drammatica tutti i problemi che sono effetto della degradazione della condizione salariale – elevato tasso di disoccupazione, insediamento nella precarietà, rottura delle solidarietà di classe e fallimento dei modi di trasmissione familiare, scolare e culturale, assenza di prospettive e di progetto per controllare l'avvenire, ecc.115 –; ma come una sociologia precipitosa cristallizza sull'“esclusione” e gli “esclusi” una problematica che attraversa l'insieme della società, così esiste una tentazione a fare della chiusura a énclave in un territorio la proiezione spaziale – o la metafora – dell'esclusione, e a credere di trattare l'una trattando l'altra. Sarebbe meglio parlare di gestione territoriale dei problemi, il che è molto differente. Michel Autès distin115 Comunque, bisognerebbe in molti casi sfumare tutte queste cupe diagnosi. Da una parte, perché si lavora, si vive, si scambia e si ama anche nelle città, come mostrano bene Jean-François Laé e Numa Murard in L'argent des pauvres. Vie quotidienne en cité de transit (Paris, Le Seuil, 1985); dall'altra parte, perché, per un atteggiamento che ricorda quello dei filantropi del XIX secolo, numerosi “osservatori sociali” sono inappropriati per cogliere la positività delle pratiche popolari. Si potrebbe dire che certe città e banlieues siano l'equivalente, “postmoderno” se si vuole, dei quartieri popolari, il che non si può evidentemente riconoscere se si proietta su di esse l'immagine populista idealizzata del “quartiere popolare” tipo Ménilmontant nella “Belle Époque”, con i suoi bistrot, le sue canzoni, le sue balere e le sue sartine, ma anche la sua miseria, la sua collera e la sua violenza, che erano meno poetiche. Su questo punto cfr. le proposte di Daniel Behar, Le désenclavement, entre le social et le local, la politique de la ville à l'épreuve du territoire, in Jean-Michel Belorgey (sous la direction de), Évaluation de la politique de la ville. Comité d'évaluation de la politique de la ville, cit., vol. II. Allo stesso modo, bisognerebbe ricordare che ciò che alcuni chiamano “la crisi urbana” non inizia certo oggi. Basta leggere Victor Hugo o la cronaca dei fatti diversi nella stampa della “Belle Époque” per rendersi conto che i parametri oggettivi di una tale “crisi” (il degrado dell'habitat popolare, il sovraffollamento, la presenza di “classi pericolose” nella città, ecc.) erano chiamati in causa, anche e più di oggi. Ciò che c'è di nuovo è senza dubbio la propensione a trattare preferenzialmente a partire dal territorio una “crisi” sociale molto più generale.

gue a giusto titolo politiche territoriali e politiche territorializzate116. In un certo senso, ogni politica, soprattutto dopo la decentralizzazione, è territorializzata, perché deve applicarsi localmente a un territorio. Una politica territoriale, per contro, mobilita essenzialmente le risorse locali per trattare in situ un problema. In questo risiede la sua originalità, ma anche la sua ambiguità. Essa cancella la relazione strumentale del locale da parte del centrale, ma rischia di degradarsi in opera di mantenimento locale dei conflitti. La questione che pone una politica locale non è solamente una questione di scala (il locale sarebbe “troppo piccolo” per condurvi una “grande” politica), è soprattutto la questione della natura dei parametri che un'azione centrata sul locale può controllare. Le sfugge la possibilità di operare delle redistribuzioni globali e di condurre delle negoziazioni collettive con dei partner rappresentativi117. Una politica territoriale è spinta verso una logica sistemica: essa circoscrive un insieme finito di parametri controllabili qui e ora, e il cambiamento deriva da un riequilibrio di queste variabili ben circoscritte. Il cambiamento è allora un riassestamento degli elementi interni al sistema piuttosto che la trasformazione dei dati che strutturano dal di fuori la situazione. 116 Cfr. Michel Autès, Travail social et pauvreté, cit., p. 287. 117 Anche a livello locale, il problema della partecipazione degli “utenti” a questi dispositivi dà luogo a valutazioni composite. Per esempio, un'inchiesta condotta su nove dossier presentati da alcune città per ottenere un contratto di DSQ mostra che in un solo caso un'associazione di utenti ha svolto un ruolo importante, e si trattava inoltre di un'associazione vicina alla municipalità. Cfr. Michel Rangeon, Médiation et société civile: l'exemple de la politique de la Ville, in Michel Joubert, Numa Murard, Albert Ogien (sous la direction de), La formation de l'assentiment dans les politiques publiques, dossier in “Techniques, territoires et sociétés”, nn. 24-25, 1993, pp. 181-188.

Certo, le politiche locali di inserimento, soprattutto nella versione “politica della città”, tentano di sfuggire a questa chiusura, ma, in ogni caso, in relazione alla questione dell'impiego che ci interessa qui in modo particolare, esse si scontrano con un blocco del tutto comprensibile. Se la gestione dell'impiego è affidata al livello locale, è perché non ha trovato la sua soluzione altrove, ossia a livello delle politiche globali. Essa rischia allora di divenire la gestione del non-impiego attraverso la messa in campo di attività che si inscrivono in questa assenza, cercando di farla dimenticare. Accanto a risultati circoscritti, come le regie di quartiere, sembra che questo sia il dato generale. Un rapporto del 1988 constatava che la maggior parte delle operazioni DSQ non prevedeva un programma economico, non aveva creato posti di lavoro, la disoccupazione non era regredita e anzi era talora aumentata. Il rapporto invitava a rivedere a ribasso l'ambizione di questa politica: “Essa non dovrebbe avere la pretesa di risolvere il problema della disoccupazione e della qualificazione delle persone, può solamente evitare che una parte della popolazione sia completamente esclusa”118. È ovvio che da queste politiche non potrebbe derivare il potere esorbitante di arginare la disoccupazione, ma, se si decripta tale tipo di messaggio – “evitare che una parte della popolazione sia completamente esclusa” –, bisogna 118 François Lévy, Bilan/Perspectives des contrats de plan de développement social des quartiers. Commissariat Général au Plan, Paris, La Documentation française, 1988. Cfr. anche Jean-Marie Delarue, Banlieues en difficultés: la relégation. Rapport au ministre d'État, ministre de la ville et de l'aménagement du territoire, Paris, Syros, 1991, soprattutto pp. 40 sgg., che richiama “l'aggraversi” della situazione dei giovani tra il 1981 e il 1991. Per un'analisi sociologica di questi luoghi, cfr. François Dubet, Didier Lapeyronnie, Les quartiers d'exil, Paris, Le Seuil, 1992.

intendere che sarebbe magnifico se si potessero gestire in loco le turbolenze sociali, creando un minimo di scambi e di attività in questi spazi minacciati di completa anomia. Nessuno, tranne i sostenitori della politica del tanto peggio, può contestare l'interesse di questi sforzi, ma occorre essere particolarmente ottimisti per vedere in queste pratiche di mantenimento le primizie di una “nuova cittadinanza”. Non si fonda la cittadinanza sull'inutilità sociale119. La valutazione che si può cominciare a fare del Reddito minimo di inserimento è dello stesso tipo. Il RMI generalizza la problematica dell'inserimento poiché concerne l'insieme della popolazione con più di venticinque anni di età i cui redditi si pongono al di sotto di una certa soglia. Esso rappresenta anche una innovazione considerevole in rapporto alle politiche sociali anteriori, per due tratti. In primo luogo, per la prima volta nella storia di lunga durata della protezione sociale, viene ricusata la separazione tra le popolazioni adatte al lavoro e quelle che non possono lavorare: “ogni persona che, in ragione della propria età, del proprio stato fisico o mentale, della situazione economica e del lavoro, si trova nell'incapacità di lavorare, ha il diritto di ottenere dalla collettività mezzi convenienti d'esistenza”120. Si trovano così posti sullo stesso piano e beneficiano dei medesimi diritti tutti 119 Per un bilancio piuttosto pessimista su ciò che è stato o piuttosto non è stato fatto in materia di cittadinanza locale, cfr. Claude Jacquier, La citoyenneté urbaine dans les quartiers européens, in Joël Roman (sous la direction de), Ville, exclusion, citoyenneté. Entretiens de la ville II, Paris, Éditions Ésprit, 1998, pp. 165-190. 120 Legge n. 88-1088 del 1 dicembre 1988 relativa al Reddito minimo d'inserimento, in “Journal officiel”, 3 décembre 1988. Questa formula è ripresa dal Preambolo della Costituzione del 1946, ma non aveva avuto, sino ad allora, alcuna applicazione.

coloro che dipendono dalla vecchia handicappologia e coloro che dovrebbero dipendere dal mercato del lavoro. In secondo luogo, il diritto a ottenere “mezzi convenienti d'esistenza” non è un semplice diritto all'assistenza. È un diritto all'inserimento: “L'inserimento sociale e professionale delle persone in difficoltà costituisce un imperativo nazionale” 121. Il contratto di inserimento è la contropartita dell'allocazione di risorse che lega il beneficiario alla realizzazione di un progetto, ma che impegna altrettanto interamente la comunità nazionale che dovrebbe aiutare a realizzarlo. Sforzo per cassare l'immagine secolare del “cattivo povero” che vive come parassita quando dovrebbe invece lavorare, ma anche per cancellare lo stigma dell'assistito, beneficiario passivo di un soccorso che è il corrispettivo della sua impotenza a farsi carico di se stesso. Questa trasformazione decisiva dell'aiuto sociale è il risultato della presa di coscienza dell'esistenza del nuovo profilo di gente deprivata dalla quale non si può più imputare la responsabilità della propria condizione infelice. Non la si può dunque né colpevolizzare per una situazione di non-lavoro che non ha scelto, né si può tentare di curarla o riabilitarla collocandola in una delle categorie classiche dell'aiuto sociale. Bisogna aiutarla a ritrovare un posto “normale” nella società 122. La nozione di inserimen121 Ibidem. 122 Infatti, il pubblico di beneficiari del RMI è eterogeneo. La nuova misura ha “recuperato” antiche figure della povertà del tipo “quarto mondo”, che non venivano prese in carico dai precedenti dispositivi dell'assistenza sociale. Nondimeno, è la presenza di coloro che si è cominciato a chiamare, a partire dal 1984, “nuovi poveri”, cioè un nuovo profilo di deprivati destabilizzati dalla crisi, che ha attivato la mobilitazione all'origine dell'instaurazione del reddito minimo d'inserimento. Cfr. Robert Castel, Jean-François Laé, La diagonale du pauvre, in Le RMI. Une dette sociale, cit., pp. 9-30.

to designa questo modo originale di intervento e si dà col contratto la propria metodologia: costruire un progetto che impegna la doppia responsabilità del beneficiario e della comunità, e deve sfociare nella reinscrizione del beneficiario nel regime comune. L'articolo 1 della legge del 1988 contiene tuttavia un'ambiguità di fondo: “l'inserimento sociale e professionale delle persone in difficoltà...”. Inserimento sociale e professionale, inserimento sociale o professionale? Questa formulazione ha dato luogo a vivaci dibattiti al momento dell'elaborazione della legge 123, ma, dopo alcuni anni di applicazione del RMI, l'ambiguità si è decantata. Queste due modalità di inserimento aprono su due registri completamente differenti di esistenza sociale. L'inserimento professionale corrisponde a quella che si è fin qui chiamata l'integrazione: ritrovare un posto pieno in società, reinscriversi nella condizione salariale con le sue servitù e le sue garanzie. Invece, un inserimento “puramente” sociale apre su di un registro originale di esistenza che pone un problema inedito. Quantitativamente in primis, tutte le valutazioni del RMI (sono numerose, perché nessuna misura sociale è mai stata accompagnata da una tale fioritura di studi, di inchieste e di controlli di ogni sorta) attestano una disparità completa tra questi due tipi di inserimento. Ponderando diverse serie di dati, si può dire che circa il 15% dei beneficiari del RMI ritrova un lavoro,

123 La circolare applicativa del 9 marzo 1989 sembra decidere nell'senso dell'inserimento professionale: “Per la maggior parte dei beneficiari del RMI, il percorso d'inserimento dovrà fissarsi come obiettivo, più o meno a lungo termine, l'inserimento professionale. Difatti, è così che sono meglio garantiti un'autonomia e un inserimento sociale durevoli” (ministère de la Solidarité, de la Sécurité et de la Protection sociale, circolare del 9 marzo 1989, in “Journal officiel”, 11 mars 1989, par. 2-3).

stabile o precario124. In più, un numero importante di beneficiari transita attraverso la foresta dei “lavori assistiti” e degli stage, e rappresenta un altro 15% circa125. Il restante 70% si divide tra disoccupazione, in genere non indennizzata, e inattività 126. Ne deriva che, per la grande maggioranza dei beneficiari, l'RMI non svolge il ruolo immaginato dai suoi promotori, cioè rappresentare uno stadio transitorio, un aiuto limitato nel tempo al fine di permettere a delle persone in difficoltà di alzare la testa prima di rimettersi in sella. Ma se l'RMI non funziona come un setaccio, diviene un cul-de-sac nel quale rischiano di ammassarsi tutti coloro la cui esistenza non è socialmente giustificata. È la constatazione che fanno, in termini più o meno espliciti, i rapporti di valutazione: “l'RMI è una boccata di ossigeno che migliora marginalmente le condizioni di vita dei suoi beneficiari senza po124 Cfr. Pierre Valereyberghe (sous la direction de), RMI. Le pari de l'insertion, rapport de la Commission nationale d'évaluation du RMI, Paris, La Documentation française, 1992, 2 voll. Due grandi inchieste nazionali sono state condotte dal CERC (Atouts et difficultés des allocataires du RMI, in “Documents du CERC”, n. 102, 1991) e dal CREDOC (Panel RMI-CREDOC, Synthèse des quatre vagues d'enquête, avril 1992, ciclostilato). Cfr., anche, Le RMI à l'épreuve des faits territoires, insertion et société / ouvrage collectif issu d'un programme de recherche de la MIRE et du Plain urbain sur la mise en oeuvre du revenu minimum d'insertion (Paris, Syros, 1991), che dà conto delle valutazioni commissionate dalla Mission recherche-expérimentation in una quindicina di dipartimenti; Serge Paugam, La société française et ses pauvres. L'expérience du RMI, Paris, PUF, 1993; Simone Wuhl, Les exclus face à l'emploi, Paris, Syros, 1992. 125 Cfr. Serge Paugam, Entre l'emploi et l'assistance. Réflexion sur l'insertion professionnelle des allocataires du RMI, in “Travail et emploi”, n. 55, 1993, pp. 71-81. 126 Conviene anche notare che, come dimostra l'inchiesta del CERC, la maggioranza dei beneficiari che trovano un lavoro, non lo ottiene attraverso dispositivi del RMI propriamente detti. Essi hanno sviluppato proprie strategie professionali, l'RMI dà loro verosimilmente un po' di spazio per respirare.

terle trasformare […]. Permette ai beneficiari di vivere meglio là dove si trovano”127. O ancora, a proposito del significato che assume più di frequente il contratto di inserimento: “la nozione di contropartita si sfuma a vantaggio di una nozione che potrebbe essere quella di accompagnamento del contraente nella situazione presente”128. In altri termini, in che cosa può consistere un inserimento sociale che non sfocia in un inserimento professionale, cioè nell'integrazione? In una condanna all'inserimento perpetuo, insomma. Che cosa è un inserito permanente? Qualcuno che non è abbandonato completamente, che si “accompagna” nella sua situazione presente tessendovi intorno una rete di attività, di iniziative, di progetti. Così si assiste allo svilupparsi in certi servizi sociali di una vera e propria effervescenza occupazionale. Questi sforzi non sono in alcun modo da sottostimare. È l'onore (ma forse anche il rimorso) di una democrazia quello di non rassegnarsi all'abbandono completo di un numero crescente dei propri membri il cui solo crimine è di essere “inoccupabili”. Ma questi tentativi hanno qualcosa di patetico. Ricordano la fatica di Sisifo che spinge il proprio masso, che sempre riguadagna il declivio al momento di raggiungere la vetta, perché è impossibile bloccarlo in un posto stabile. La riuscita del RMI consisterebbe nella sua autodissoluzione attraverso la trasformazione della sua clientela di soggetti da inserire in soggetti integrati. Ora, il numero dei suoi “beneficiari” diretti è raddoppiato dopo i primi anni di esercizio e 127 Le RMI à l'épreuve des faits, cit., p. 63. 128 Ibidem. Per una riflessione sintetica sui significati della nozione di contratto nel RMI, cfr. Robert Lafore, Les trois défis du RMI. À propos de la loi du 1er Décembre 1988, in “Actualité juridique Droit Administratif”, n. 10, 1989, pp. 563-585.

raggiunge oggi quasi gli ottocentomila. Per molti di loro l'inserimento non è più una tappa, ma è diventato uno stato. L'inserimento come stato rappresenta una ben curiosa modalità di esistenza sociale. Non ne invento la possibilità. Il rapporto della Commission national d'évaluation du RMI lo evoca in maniera più diplomatica: “Per una gran parte di beneficiari, queste azioni conducono verso uno stato 'transitorio-durevole': in situazione di inserimento, queste persone hanno uno statuto intermedio tra l'esclusione e l'inserimento definitivo”129. Stato transitorio-durevole, posizione di interinale permanente o di inserito a vita. Di questi “stati”, i beneficiari del RMI non hanno l'esclusiva. È anche la situazione di quei giovani che errano di stage in stage, talvolta con lavoretti, prima che perdano la speranza e abbandonino l'estenuante percorso del candidato all'inserimento. Essi vogliono, dicono, un “lavoro vero”. Un autore parla di “stato transitorio-durevole” anche a proposito della situazione di certi disoccupati di lunga durata 130. È questo lo statuto anche di molte delle operazioni che si organizzano nei quartieri. Gli animatori si spossano nell'inventare progetti, nel rendere possibili dei legami, nello strutturare occupazioni del tempo intorno alle attività che promuovono. Al limite, il loro lavoro consiste nel costruire spazi di sociabilità differenti da quelli nei quali vive la loro clientela, per renderle sopportabile una quotidianità piuttosto disperante. Prendendo a prestito il vocabolario di Peter 129 Pierre Valereyberghe (sous la direction de), RMI. Le pari de l'insertion. Rapport de la Commission nationale d'évaluation du RMI, cit., t. I, p. 332. 130 Cfr. Didier Demazière, La négociation de l'identité des Chômeurs de longue durée, in “Revue française de sociologie”, n. 3, 1992, pp. 335-363.

Berger e Thomas Luckmann, si potrebbe dire che l'inserimento tenta di realizzare una “socializzazione secondaria”, cioè di riagganciare l'individuo a un “sub-universo istituzionale o basato su delle istituzioni”131. Ma le pratiche “istituzionali” che supportano l'inserimento sono labili e intermittenti se le si compara gli altri “sub-universi” che strutturano una vita ordinaria, e in particolare a quello del lavoro. Fragilità accentuata dal fatto che agli individui che dipendono dalle politiche di inserimento spesso difetta la stessa “socializzazione primaria”, cioè l'interiorizzazione delle norme generali della società attraverso la famiglia e la scuola. Più che di socializzazione secondaria, si dovrebbe forse parlare di “asociale-sociabilità”. Intendo con questo delle configurazioni relazionali più o meno evanescenti che non si inscrivono o si inscrivono in maniera intermittente e problematica nelle “istituzioni” riconosciute, e che pongono i soggetti che le vivono in situazione di imponderabilità132. Le politiche di inserimento sembrerebbero così non essere riuscite a gestire, per una parte importante della loro clientela, quella transizione verso l'integrazione che era la loro vocazione primaria. “Che accada nel quadro del RMI, del credito formativo, e più in generale nell'insieme delle politiche di inserimento delle 131 Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La construction sociale de la réalité, Paris, Méridiens-Klincksieck, 1986, p. 189; trad. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, il Mulino, 1997. 132 Sulla nozione di “asociale-sociabilità”, cfr. il mio La gestion des risques, cit., cap. IV. L'avevo proposta a partire dall'analisi di situazioni di gruppi nei quali la cultura delle relazioni tra i membri si autonomizza e fa essa stessa “società”. Avevo indicato inoltre che questo registro di esistenza poteva caratterizzare anche alcune situazioni sociali nelle quali gli attori erano condannati a un gioco relazionale senza poter controllare la struttura della situazione. Le situazioni di questo tipo si sono poi moltiplicate.

popolazioni in via d'esclusione, le politiche di inserimento si arrestano alla porta delle imprese”133. Questa constatazione non le condanna, perché hanno per il momento contribuito a evitare il peggio, almeno se si pensa che il passaggio all'atto di violenza e alla rivolta siano il peggio da evitare. Di più, nella congiuntura economica e sociale assai tesa che le ha suscitate, quando persone perfettamente integrate cadono, è particolarmente difficile restituire al regime comune coloro che sono già separati o che sono resi fragili dal loro ambiente d'origine e dalle loro condizioni di vita. Ma allora bisogna aggiungere che esse hanno avuto anche un'altra funzione rispetto a quella che mostrano in maniera ostensiva. Permettendoci una espressione che ha le proprie patenti di nobiltà sociologica, si dirà che hanno anche contribuito a “raffreddare il pollo”134. Si è sviluppato in Francia, a partire dall'inizio degli anni Ottanta, un consenso assai generale nell'accettare l'“obbligo superiore” rappresentato dall'internazionalizzazione del mercato, dalla ricerca della competitività e dall'efficienza a ogni costo. A partire da questa scelta, alcune categorie della popolazione si sono ritrovate ingannate. È un caso se l'aumento di peso delle politiche d'inserimento è contemporanea all'ascen133 Simone Wuhl, Les exclus face à l'emploi, cit., p. 185. 134 Erving Goffman, Calmer le jobard: quelques aspects de l'adaptation à l'échec, in Robert Castel, Jacques Cosnier et Isaac Jacob (sous la direction de), Le parler frais d'Erving Goffman, Paris, Minuit, 1989, pp. 277301; trad. it. Come raffreddare il pollo. Alcuni aspetti dell'adattamento all'insuccesso, in “aut aut”, n. 307-308, 2002, pp. 113-132. Goffman spiega che, nel gioco sociale, occorre sempre lasciare una via di uscita onorevole a colui che ha perso. Il vinto, in questo modo, non perde completamente la faccia e può salvaguardare una “presentazione di sé” che non sia totalmente squalificata, malgrado né lui né i suoi siano totalmente ciechi. Invece, le reazioni di colui che viene chiuso nel suo scacco sono imprevedibili e possono essere incontrollabili, soprattutto – aggiungerei – se non sapeva di stare in gioco.

sione dell'impresa e al trionfo dell'ideologia imprenditoriale? Senza dubbio non meno del fatto che ci siano stati dei governi socialisti particolarmente dediti a insufflare un tale “supplemento di sociale” (nel senso in cui si parla di un “supplemento di spirito”) pressappoco nel momento in cui accettavano che i vincoli economici dettassero loro legge. Nel segno dell'eccellenza, non ci sono vincitori senza vinti. Ma per una società che non ha abbandonato i propri ideali democratici, sembra ancora giusto e avveduto che coloro che hanno perso non siano lasciati a un destino di paria. Il senso delle politiche di inserimento potrebbe essere questo: occuparsi dei validi invalidati dalla congiuntura. È questa la loro originalità sia rispetto alle politiche classiche dell'aiuto sociale, focalizzate a partire da un deficit della loro clientela, sia delle politiche di integrazione che si rivolgono a tutti senza discriminazione. Esse si muovono in quelle zone particolarmente vulnerabili della vita sociale in cui i “normali inutili” vengono sganciati o sono sul punto di esserlo. In un sistema sociale che assicura un concatenamento senza interruzione delle forme di socializzazione e delle età sociali (dalla scuola al lavoro, dal lavoro alla pensione, per esempio), non si parla di inserimento, è dato come un di più: sarebbe pleonastico rispetto alla nozione di integrazione135. Quando entra negli ingranaggi della società salariale, l'inserimento si dà come un problema e propone al contempo una tecnologia per risolverlo. Esso denomina così contemporaneamente la distanza rispetto all'inte135 Si parla, per contro, di disadattamento, di marginalità, di delinquenza, ecc.: è sempre esistito un alone assai ampio di comportamenti non conformi, soprattutto negli ambienti popolari, intorno all'integrazione “perfetta”. Ma queste sbavature e questi illegalismi non rimettevano in questione la norma di conformità fino a che sembrava assodato che il soggetto avrebbe potuto integrarsi se lo avesse voluto.

grazione e il dispositivo pratico che è destinato a colmarla. Ma anche la risposta si duplica. In seno al pubblico che dipende dall'inserimento, alcuni si reintegrano nel regime comune, altri, come perfusi in permanenza, si mantengono sotto un regime sociale intermedio che rappresenta uno statuto nuovo che dobbiamo allo sgretolamento della società salariale e alla maniera attuale di tentare di farvi fronte.

4. La crisi dell'avvenire136 I periodi inquieti sono una fortuna per i “creatori di progetti”, come si diceva nel XVIII secolo; non ho comunque intenzione di proporre il mio. Se l'avvenire è un'avventura di cui solo la storia scrive la sceneggiatura, è largamente imprevedibile. Il domani riserverà cose ignote, ma sarà anche lavorato a partire dall'eredità dell'oggi. Il lungo percorso fatto fin qui permette di riconoscere forti connessioni tra la situazione economica, il livello di protezione delle popolazioni e i modi di agire dello Stato sociale. Perciò, se è assurdo pretendere di prevedere il futuro, è possibile però tratteggiare delle eventualità che lo impegneranno in modi diversi a seconda delle opzioni che saranno scelte (o, al contrario, non saranno scelte) in materia di politica economica, di organizzazione del lavoro e di interventi dello Stato sociale. Per semplificare, mi atterrò a quattro eventualità.

136 Riprendo il titolo dell'articolo di Krzysztof Pomian, La crise de l'avenir, in “le Débat”, n. 7, 1990, pp. 5-17.

La prima è che continui ad accentuarsi la degradazione della condizione salariale osservabile dopo gli anni Settanta. Questa sarebbe la conseguenza diretta dell'accettazione senza mediazioni dell'egemonia del mercato. “Se il 20% dei francesi sono poco qualificati quanto i coreani o i filippini, non vi è alcuna ragione per pagarli di più. Bisogna sopprimere lo SMIC” 137. Questa asserzione fa torto ai coreani e ai filippini. Esiste certamente, o esisterà ben presto, una maggiore percentuale di manodopera straniera qualificata quanto i suoi omologhi francesi che occupano posti di operai qualificati, di tecnici e anche di informatici di alto livello, e costerà molto meno cara. Non vi è alcuna ragione economica per non preferirla ai salariati francesi138. In questa logica, il presidente del padronato francese dichiarava nel 1983: “il 1983 sarà l'anno della lotta contro i vincoli introdotti nella legislazione nel corso dei Trenta Gloriosi, l'anno della lotta per la flessibilità” 139. Convinzione secondo la quale non si possono servire due padroni,

137 Jean-Michel Plassard, cit. in Bernard Perret, Guy Roustang, L'économie contre la société, cit., p. 104. 138 È vero che un uso selvaggio delle deregolamentazioni, sotto forma per esempio di un ricorso incontrollato alla flessibilità esterna, può rivelarsi controproducente per le imprese, ma la loro ponderazione per salvaguardare una redditività massima è del tutto differente dalla preoccupazione di mantenere la coesione sociale. La questione sarà per esempio: fino a che punto posso esternalizzare il massimo di attività per essere più competitivo possibile, e non quella dei costi in termini di disoccupazione e di precarizzazione del lavoro del mio massimalismo produttivista. 139 Yvon Chotard, Rapport à l'assemblée générale du CNPF (Centre nationale des professions financieres), Paris, 13 janvier 1983, in MarieThérèse Join-Lambert et alii, Politiques sociales, Paris, Fondation nationale des sciences politiques, 1994. Sulla maniera brutale con la quale il padronato francese ha condotto la “modernizzazione” in nome della flessibilità negli anni Ottanta, cfr. Alain Lebaube, L'emploi en miettes, cit.

e per cui la “riabilitazione dell'impresa” è il nuovo imperativo categorico al quale tutta la società deve conformarsi. In questa prospettiva, la maggior parte delle protezioni sociali è eredità di un'epoca passata, quando i compromessi sociali erano compatibili con gli imperativi del mercato. Esse hanno oggi un effetto di isteresi che blocca la dinamica della ripresa. Questo effetto di inerzia svolge un ruolo effettivo. Quando Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno tentato di applicare una opzione ultraliberale, hanno dovuto comunque lasciar sussistere grandi fasce di protezioni sociali 140. Ma per i sostenitori di una tale politica, questi risultati imperfetti dipendono da due tipi di ragioni: le resistenze dei gruppi sociali che avevano acquisito dei “privilegi” e il rischio politico di procedere a delle deregolamentazioni troppo brutali e troppo rapide. Così si osserva sempre una differenza significativa tra le posizioni teoriche degli ideologi liberali e la loro traduzione politica. Per l'ultra-liberalismo ci sono tuttavia retaggi sociali ereditati da un passato ormai lontano che occorre progressivamente ridurre. Ma esiste una hybris del mercato che rende una società, completamente assoggettata alle sue leggi, ingovernabile. “Il mercato è lo stato di natura della società, ma il dovere delle élites è di farne uno Stato di cultura. In mancanza di norme giuridiche, nelle società sviluppate come nelle altre, questo si volge in una giungla, si assimila alla legge del più forte, e fabbrica segregazio140 Sugli Stati Uniti, cfr. Frédéric Lesemann, La politique sociale américaine. Les années Reagan, Paris-Montréal, Syros-Éditions Saint Martin, 1988. Sulla situazione in Gran Bretagna dopo la politica condotta da Margaret Thatcher, cfr. Laurence Ville, Grande-Bretagne: le chômage diminue, l'emploi aussi, in dossier de “L'Expansion”, n. 478, 2-15 juin 1994.

ne e violenza”141. Questa è la lezione che anche Karl Polanyi ha tratto dall'osservazione dello svolgimento della rivoluzione industriale. Il mercato “autoregolato”, forma pura del dispiegamento della logica economica lasciata a se stessa, è, strictu sensu, inapplicabile, perché non comporta nessuno degli elementi necessari per fondare un ordine sociale142, mentre potrebbe distruggere l'ordine sociale che gli preesiste. Se il dominio dell'economia, a partire dal XIX secolo, non ha completamente distrutto la società è perché è stato limitato da due ordini di regolazioni non mercantili. La società di mercato ha potuto attecchire innanzitutto perché si è installata in una formazione sociale in cui le tutele tradizionali e le forme “organiche” di solidarietà erano ancora forti: società a predominanza rurale, con dei legami familiari estesi e solidi, e delle reti efficaci di protezione ravvicinata. Questa situazione antecedente l'avvento del mercato ha ammortizzato le sue potenzialità destabilizzatrici, che hanno subìto in pieno solo le popolazioni già alla deriva (disaffiliate), quegli immigrati dell'interno, sradicati, pauperizzati, che hanno costituito la manodopera delle prime concentrazioni industriali 143. In secondo 141 Alain Minc, Le nouveau Moyen Âge, Paris, Gallimard, 1993, p. 220; trad. it. Il nuovo Medioevo, Milano, Sperling & Kupfer, 1994. Le analisi di Michel Albert (Capitalisme contre capitalisme, Paris, Le Seuil, 1991; trad. it. Capitalismo contro capitalismo, Bologna, il Mulino, 1993) vanno nella stessa direzione. Se, schematicamente, esistono due forme di capitalismo, non è che il mercato in quanto tale riconosca delle frontiere, ma, in contesti differenti, incontra contro-forze più o meno potenti. Nei paesi “anglosassoni”, queste gli lasciano le briglie molto allentate, mentre i paesi “renani” o “alpini” lo inquadrano con regolazioni sociali più forti. 142 Cfr. Karl Polanyi, La Grande Transformation, cit. 143 Più vicino a noi, si può interpretare la considerevole differenza nella gravità della crisi degli anni Trenta subita in Gran Bretagna e in Francia come il fatto che la Gran Bretagna era già una società quasi interamente salariale e urbanizzata, in cui dipendeva dal lavoro industriale la

luogo, la risposta a questo sfaldamento è stata la costituzione di nuove regolazioni sociali: protezioni sociali, proprietà sociale, diritti sociali. È l'“invenzione del sociale” che ha addomesticato il mercato e umanizzato il capitalismo144. Noi siamo oggi in una situazione del tutto differente. L'aspetto Gemeinschaft della società, ancora forte nel XIX secolo, è stato progressivamente eroso, e le risorse in materia di solidarietà informale si sono praticamente esaurite. Vi si sono sostituite le protezioni gestite dallo Stato sociale, ed essenzialmente oggi ne occupano il posto; donde il carattere divenuto vitale di queste protezioni. Sradicarle significherebbe non solo sopprimere delle “conquiste sociali” più o meno contestabili, ma cancellare la forma moderna della coesione sociale. Tale coesione dipende da queste regolazioni, per la buona parte che è stata in larga misura costruita tramite queste. Imporre in maniera incondizionata le leggi del mercato all'insieme della società equivarrebbe a una vera e propria contro-rivoluzione culturale le cui conseguenze sociali sono imprevedibili, perché sarebbe come distruggere la forma specifica di regolazione sociale che si è istituita da un secolo. Uno dei paradossi del progresso è che le società più “sviluppate” maggior parte delle risorse e delle protezioni, mentre gli “arcaismi” francesi hanno permesso di ammortizzare la crisi e di trovare soluzioni di ripiego in campagna, nell'artigianato e in forme di lavoro preindustriale (c'è stato “solo” circa un milione di disoccupati in Francia, negli anni Trenta). È rimasto nella memoria collettiva inglese un tale ricordo della Grande Depressione che la lotta per il pieno-impiego è stata unanimemente pensata come priorità assoluta delle politiche sociali dopo la Seconda guerra mondiale, quando il rischio della disoccupazione non era preso in considerazione in Francia, neanche dagli spiriti migliori. 144 Ricordiamo che le impasses a cui porta il mercato autoregolato hanno dato luogo a due grandi tipi di risposte: la costituzione degli stati sociali nei paesi che sono rimasti democratici, ma anche il fascismo in Germania. Cfr. Karl Polanyi, La Grande Transformation, cit., cap. XX.

sono anche le più fragili. Alcuni paesi – come l'Argentina neo-peronista – hanno subìto l'effetto di deregolamentazioni selvagge al prezzo di immense sofferenze, ma apparentemente senza crollare. Senza dubbio ci vorrebbe assai meno perché un paese come la Francia si lacerasse, perché non potrebbe ripiegare sulla linea di difesa di forme più antiche di protezione. Le interazioni tessute dallo Stato sociale sono divenute la componente maggiore del suo tipo di sociabilità, e il sociale forma ormai l'ossatura del societale. Basterebbe allora lasciar regnare senza ostacoli le “leggi naturali” del mercato per addivenire a una forma del peggio di cui è impossibile descrivere la figura, salvo sapere che non contemplerebbe le condizioni minime per formare una società di simili. Una seconda eventualità consisterebbe nel tentare di mantenere pressappoco identica la situazione attuale moltiplicando gli sforzi per stabilizzarla. Fin qui, le trasformazioni che si sono prodotte per venti anni non hanno cagionato un terremoto sociale. Esse hanno anche verosimilmente rafforzato tante posizioni quante ne hanno frantumate145. Perciò, mettendo tra parentesi i drammi personali, innumerevoli ma assai ben circoscritti in ambienti già stigmatizzati, non è impensabile che la società francese possa sopportare l'invalidazione sociale del 10%, del 20% o forse più della sua popolazione. 145 Durante gli anni Ottanta, i profitti del patrimonio immobiliare e del capitale finanziario e gli alti salari sono aumentati, e la progressività delle trattenute obbligatorie si è ridotta. La percentuale della popolazione interessata da questo sovra-arricchimento è difficile da stabilire in questa zona in cui i redditi sono poco trasparenti, ma deve aver favorito circa il 10% dei redditi più alti. Al contrario, la parte di reddito detenuto dal 10% delle famiglie più povere è diminuita del 15% tra il 1979 e il 1984. Cfr. il rapporto del CERC, Les Français et leurs revenus. Le tournant des années quatre-vingt, Paris, La Documentation française, 1989.

Tanto più che sarebbe possibile migliorare la gestione delle situazioni che fanno problema. Lo Stato è già molto presente nella loro presa in carico. Nel 1992, 1.940.000 persone sono passate per i numerosissimi dispositivi di aiuto all'impiego 146. Si sono precedentemente sottolineati i limiti, ma anche l'ingegnosità delle politiche di inserimento. Per controllare i rischi di scivolamento della situazione attuale, lo Stato non ha esaurito tutte le proprie capacità. Potrebbe migliorare le sue performances senza mutare fondamentalmente il registro dei suoi interventi. Per esempio, il RMI potrebbe essere un po' più generoso, e potrebbero essere compiuti sforzi supplementari per mobilitare meglio i differenti attori dell'inserimento. Lo stesso vale per le politiche urbane e dell'impiego, l'accompagnamento dei giovani o dei disoccupati, ecc. Bisogna anche ricordare che lo Stato sociale aiuta tra gli 11 e i 13 milioni di persone a non cadere nella povertà, relativa o assoluta147. Ma il ruolo dello Stato non si riduce a distribuire delle prestazioni sociali. Sono grandi le potenzialità del servizio pubblico per “lottare contro l'esclus”, ma esse restano ancora largamente sotto-impiegate. Lo Stato dispone sul territorio di personale e di servizi numerosi, vari e talvolta potenti: Direzioni delle costruzioni, dei trasporti e delle comunicazioni, dell'architettura e dell'urbanistica, personale di polizia, dell'Éducation nationale, dei servizi sociali... Una della ragioni maggiori delle difficoltà incontrate in certi quartieri dipende proprio dalla debole presenza dei servizi pubblici. Questi potrebbero impegnarsi più 146 Cfr. Michel Lallement, L'État et l'emploi, in Bernard Eme, Jean-Louis Laville, Cohésion sociale et emploi. Colloque organisé par le Laboratoire de sociologie du changement des institutions, CNRS, Paris, 17 juin 1993, Paris, Desclée De Brouwer, 1994. 147 Cfr. Précarité et risques d'exclusion en France, cit.

risolutamente in una politica di discriminazione positiva nei confronti dei territori problematici, eventualità d'altronde prevista dai testi148. Lo Stato potrebbe rafforzare il suo ruolo di garante della coesione sociale a un costo che non sarebbe esorbitante149. Infine, cosa che si propone di fare la politica urbana, sarebbe indispensabile coordinare strettamente tutte queste misure sul piano locale al fine di dare loro la coerenza che manca. Una tale opzione “moderata” non è irragionevole. Contempla tra l'altro due versioni. L'una, ottimista, che pensa che bisogna reggere alcuni anni, o alcuni decenni, in attesa della ripresa e/o del consolidamento del nuovo sistema di regolazione che non mancherà di innescare il passaggio alla società post-industriale. L'altra, più cinica, non trova scandaloso che una società possa prosperare accettando una certa percentuale di derelitti 150. Ma 148 “Il principio di uguaglianza di accesso e trattamento non impedisce di differenziare le modalità di azione del servizio pubblico al fine di lottare contro le ineguaglianze economiche e sociali. Le risposte ai bisogni possono essere differenziate nello spazio e nel tempo e devono esserlo in funzione della diversità di situazioni degli utenti” (Ministère de la Fonction publique et de la Modernisation de l'administration. Direction générale de l'administration et de la fonction publique, Charte des services publics, Paris, 18 mars 1992, p. 4). 149 Si può avanzare l'ipotesi che la tentazione frequente di “spostare” la questione sociale sulla questione urbana sia legata alla forte presenza dello Stato sul territorio attraverso i servizi pubblici, dal momento che lo Stato non dispone di personale proprio nell'ambito delle imprese (gli ispettori del lavoro sono relegati a un ruolo di controllo e di intervento a posteriori, e le “politiche del lavoro” legiferano dall'esterno). La questione del territorio può così essere più facilmente pensata come una questione di competenza statale rispetto alla questione del lavoro, benché sia illusorio credere che la questione del lavoro possa essere trattata a livello di territorio. 150 Se prevalesse questa seconda versione – ipotesi più probabile se si prolunga la situazione attuale –, si può temere una curvatura delle politiche sociali in senso sempre più assistenziale in nome di un ragionamento del tipo: siccome le politiche di inserimento sono complicate, co-

riposa su tre condizioni che fanno dubitare delle possibilità di mantenere a lungo il quasi-status quo. Innanzitutto, occorrerebbe che la situazione attuale migliorasse, si mantenesse o non si degradasse troppo: che la delocalizzazione internazionale del mercato del lavoro potesse essere controllata, che potesse operarsi un ragionevole “versamento” di manodopera da categorie d'impieghi obsoleti verso nuovi impieghi produttivi, che la precarizzazione delle condizioni di lavoro non continuasse ad accentuarsi al punto da rendere impossibile agganciare un minimo di protezioni alla maggior parte delle situazioni di lavoro, ecc. Senza dubbio, rispetto a queste eventualità, nessuno può oggi avere delle certezze assolute, in un senso o nell'altro. Ma in ogni caso esiste un forte rischio di degradazione incontrollabile che ci ricollocherebbe nel quadro della prima opzione, a quel ritorno alla “giungla” che evoca Alain Minc. La riuscita di una gestione minimale della crisi presuppone anche che le sue vittime continuino a rassegnarsi a subire la situazione che è loro abituale. Una tale proiezione non è più assurda. La storia del movimento operaio permette di comprendere a contrario quel che può stupire nell'attuale accettazione il più delle volte passiva di una condizione salariale sempre più degradata. La costituzione di una forza di contestazione e di trasformazione sociale presuppone che si riuniscano almeno tre condizioni: una organizzazione strutturata intorno a una condizione comune, la disponibilità di un progetto alternativo di società e il sentistose, e i loro risultati sono incerti, basta assicurare ai più deprivati un minimo di sopravvivenza. L'RMI diverrebbe un reddito minimo tout court, e la politica urbana assumerebbe un carattere decisamente securitario. È la “soluzione” liberale, preconizzata sin dal 1974 da Lionel Stoleru per lasciare le mani libere al mercato. Sarebbe anche il riconoscimento schietto della società duale e la sua istituzionalizzazione.

mento di essere indispensabile al funzionamento della macchina sociale. Se la storia sociale ha gravitato per più di un secolo intorno alla questione operaia, è perché il movimento operaio realizzava la sintesi di queste tre condizioni: aveva i suoi militanti e i suoi apparati, aveva un progetto di avvenire 151 ed era il principale produttore della ricchezza sociale nella società industriale. I surnumerari di oggi non ne presentano alcuna: sono atomizzati, non possono mantenere altra speranza che di essere un po' meno malmessi nella società attuale e sono socialmente inutili. È perciò improbabile, a dispetto degli sforzi di gruppi militanti minoritari come il Syndicat des chômeurs152, che tale insieme eterogeneo di situazioni seriali possa far nascere un movimento sociale autonomo. Ma la rivendicazione organizzata non è la sola forma di contestazione. L'anomia suscita violenza. Violenza il più delle volte senza progetto, devastatrice e autodistruttrice a un tempo, e tanto più difficile da controllare in quanto non vi è nulla da negoziare. Tali potenziali di violenza esistono già, ma quando passano all'atto si rivolgono il più delle volte contro i loro autori (cfr. il problema della droga nelle banlieues), o contro qualche segno esteriore di una ricchezza insolente per i deprivati (atti di delinquenza, saccheggio di supermercati, distruzione ostentativa di 151 Aveva perfino due progetti di organizzazione sociale, uno “rivoluzionario” e uno “riformista”, con ciascuno le proprie varianti, e questa dualità, con la concorrenza tra le organizzazioni che vi si collegavano, è stata senza dubbio una delle ragioni di fondo della sconfitta del movimento operaio. Nondimeno, queste correnti hanno potuto influire nella stessa direzione nei momenti delle grandi “conquiste operaie”. 152 Sul Sindacato dei disoccupati fondato nel 1982, cfr. il mensile “Partage”, che è anche una delle migliori fonti di informazione sui problemi del lavoro e della disoccupazione, sui dibattiti che producono e sulla ricerca di alternative alla situazione presente.

autovetture, ecc.). Nessuno può dire però, soprattutto se la situazione si aggrava o anche semplicemente “si mantiene”, che tali manifestazioni non si moltiplicheranno al punto da divenire incontrollabili, aprendo non su un “Grand Soir” ma su numerose notti blu lungo le quali la miseria del mondo darà a vedere il volto nascosto della sua disperazione. Una società democratica sarebbe allora completamente svalutata o completamente disonorata rispetto all'esigenza di far fronte a tali disordini che non prevedono, in effetti, alcuna altra risposta possibile se non la repressione o la chiusura in ghetti. Esiste una terza ragione, a mio parere la più seria, che rende ingiustificabile il mantenimento della situazione attuale. È impossibile tracciare un cordone sanitario tra coloro che riescono a cavarsela e coloro che precipitano, e questo per una ragione di fondo: non esistono degli “in” e degli “out”, ma un continuum di posizioni che coesistono in un medesimo insieme e si “contaminano” l'un l'altra. L'abate Messonnier, quando denunciava alla metà del secolo scorso “la cancrena del pauperismo”, non tradiva solamente il suo disprezzo per il popolo. Se la questione del pauperismo è divenuta la questione sociale del XIX secolo, che ha dovuto essere affrontata di petto, è perché era la questione della società nella sua interezza, che rischiava la “cancrena” e la destabilizzazione, per un effetto boomerang dalla periferia al centro. È lo stesso oggi con l'“esclusione”, ed è per questo che bisogna maneggiare questo termine con infinite precauzioni. Vi ritorno per un'ultima volta: l'esclusione non è un'assenza di rapporto sociale, ma un insieme di rapporti sociali particolari con la società assunta come un tutto. Non c'è nessun fuori della società, ma un

insieme di posizioni le cui relazioni con il suo centro sono più o meno dilatate: vecchi lavoratori divenuti disoccupati di lunga durata, giovani che non trovano impiego, popolazioni mal scolarizzate, mal alloggiate, mal curate, mal considerate, ecc. Non vi è alcuna linea di partizione chiara tra queste situazioni e quelle un po' meno disagiate dei vulnerabili, che, per esempio, lavorano ancora, ma potrebbero essere licenziati il prossimo mese, sono alloggiati in maniera più confortevole ma potrebbero essere sfrattati se non pagano le loro rate, fanno coscienziosamente degli studi ma sapendo che rischiano di non terminarli... Gli “esclusi” sono il più delle volte dei vulnerabili che erano “sul filo” e che sono caduti. Ma esiste anche una circolazione tra la zona di vulnerabilità e quella d'integrazione, una destabilizzazione degli stabili, lavoratori qualificati che diventano precari, quadri ben considerati che possono ritrovarsi disoccupati. È dal centro che parte l'onda di choc che attraversa la struttura sociale: per esempio, gli “esclusi” non rientrano nel disegno di una politica di flessibilità delle imprese – salvo che la loro situazione ne è concretamente la conseguenza. Si ritrovano disaffiliati, e questa qualifica conviene loro più di quella di esclusi: sono de-legati, ma restano dipendenti dal centro, che forse non è mai stato così onnipresente per l'insieme della società. È il motivo per cui dire che la questione posta dall'invalidazione di certi individui e di certi gruppi concerne tutti non significa solamente fare appello a una vaga solidarietà morale, ma constatare anche l'interdipendenza delle posizioni lavorate da una medesima dinamica, quella dello sfaldamento della società salariale. La presa di coscienza dell'esistenza di un tale continuum comincia a diffondersi153. Nel dicem153 Si può datare tra la fine del 1992 e inizio 1993 il repentino amplificar-

bre 1993, il magazine “la Rue” pubblicava un sondaggio CSA su “i francesi di fronte all'esclusione” 154. Senza dubbio bisogna accogliere con prudenza i sondaggi, soprattutto quando vertono su un tema così indeterminato. I risultati di quest'ultimo sono tuttavia sconcertanti. È come se ogni gruppo avesse interiorizzato i rischi oggettivi che corre: gli operai e gli impiegati sono più inquieti rispetto alle professioni intermedie e i quadri, e soprattutto il 69% di quelli tra 18 e 24 anni temono l'esclusione, contro solamente il 28% di quelli con più di 65 anni (che, per contro, la temono al 66% per il prossimo). Questa è senza dubbio, anche, “la crisi dell'avvenire”, una società in cui gli anziani sono più sicuri del futuro rispetto ai giovani. E, di fatto, le persone anziane beneficiano ancora delle protezioni erette dalla società salariale, mentre i giovani sanno già che la promessa del progresso non sarà mantenuta. Queste cifre svelano un importante paradosso. Coloro che sono già fuori del lavoro sono più sicuri di coloro che lavorano ancora, e soprattutto coloro che si preparano a entrare nella vita professionale esprimono il più profondo smarrimento. Le reazioni al CIP (lo “SMIC per i giovani”) nella primavera del 1994 confortano queste impressioni. Non c'è migliore omaggio alla società salariale che la rivolta di questi giovani che prendono bruscamente coscienza di rischiare di non poterci partecipare. Significativamente, questa reazione è stata principalmente quella di giovani relativamente privilegiati, o almeno destinati a seguire si di questa presa di coscienza, largamente rilanciata dai media e dal discorso politico. Effetto senza dubbio della soglia psicologica dei 3 milioni di disoccupati, raggiunta nell'ottobre del 1992, e anche delle discussioni sul bilancio del potere socialista che l'aveva fatta propria nel 1981 in larga misura in ragione della capacità che gli si accordava nel risolvere il problema della disoccupazione. 154 Exclusion, la grande peur, in “la Rue”, n. 2, 1993.

le strade di una promozione sociale a ricompensa del successo scolastico e dell'ambizione di integrarsi attraverso il lavoro. L'adesione ai valori della società salariale non è solamente una difesa di “privilegiature”, come una critica demagogica del “sempre più” vorrebbe far credere155. Essa è piuttosto il timore del “sempre meno”, e non è un caso che sia proprio la gioventù ad averla. “Per la prima volta dopo la guerra, una nuova generazione ha visto le proprie condizioni di inserimento professionale aggravarsi in termini di primo impiego ma anche di salario quando arriva alla fine di un percorso di inserimento”156. Traducendo a posteriori lo smarrimento della società della seconda metà del XVIII secolo (si era alla vigilia degli sconvolgimenti inauditi della Rivoluzione francese, ma evidentemente nessuno al momento lo sapeva), Paul Valéry dice: “il corpo sociale perde in tutta dolcezza il proprio domani” 157. Forse la nostra società sta anch'essa per perdere il proprio domani. Non solamente “i domani che cantano”158, già seppelliti da due o tre decenni, ma la rappresentazione di un avvenire in qualche modo controllabile. La gioventù non è evidentemente la sola coinvolta, anche se essa ne avverte in maniera più acuta la minaccia. Più in generale, perdere il senso dell'avvenire significa avvertire il decomporsi della base a partire dalla quale era possibile dispiegare strategie cumulative che avrebbero reso il domani migliore da vivere che l'oggi. 155 Cfr. François de Closets, Toujours plus!, Paris, Grasset, 1982. 156 Nicole Questiaux, conclusioni del rapporto del CERC, Les Français et leurs revenus, cit. 157 Paul Valéry, Montesquieu, in Tableau de la littérature française, t. II “XVIIe-XVIIIe siècles”, Paris, Gallimard, 1939, p. 227. 158 Dal testo della canzone Jeunesse di Paul Vaillant-Couturier e Arthur Honegger del 1937 [N.d.R.].

La terza opzione riconosce la perdita della centralità del lavoro e la degradazione del salariato, e tenta di trovarvi delle scappatoie, delle compensazioni o delle alternative. Senza dubbio non è tutto da deplorare nella congiuntura attuale. Le nuove traiettorie professionali sembrano tanto più atipiche quanto più le si oppone ai ritmi fermamente scanditi della società industriale: scolarità poi apprendistato, matrimonio e ingresso per quarant'anni in un'attività professionale continua seguita da una breve pensione. È un modello finito, ma bisogna dolersene? (ricordiamoci delle denunce del “métro-boulot-dodo” 159, che non sono poi così lontane). Non occorre anche leggere nelle difficoltà attuali i segni di un cambiamento societale profondo di cui “la crisi” non è la sola responsabile? Trasformazioni culturali più ampie hanno riguardato la socializzazione della gioventù e travolto il concatenamento tradizionale dei cicli di vita. Tutta l'organizzazione della temporalità sociale è stata sconvolta, e tutte le regolazioni che governano l'integrazione dell'individuo nei suoi differenti ruoli, tanto familiari quanto sociali, sono divenute più flessibili 160. Invece di vedere dappertutto dell'anomia, bisogna anche saper riconoscere dei mutamenti culturali che rendono la società più agile, le istituzioni meno statiche e l'organizzazione del lavoro meno rigida. La mobilità non è sempre sinonimo di precarietà. Si è così potuto mostrare che non tutte le traiettorie professionali caratterizzate da cambiamenti frequenti di lavoro si riducono a quella 159 Espressione utilizzata per descrivere ritmi di vita divisi tra il tragitto in metro, il luogo di lavoro (boulot) e il rientro a casa per andare a letto (dodo) [N.d.R.]. 160 Cfr. Marc Bressin, Cours de vie et flexibilité temporelle, thèse de doctorat de sociologie, Paris, Université Paris VIII, 1993.

precarietà subìta che è effetto della destrutturazione del mercato del lavoro. Può trattarsi anche di giovani che cercano la loro strada e sperimentano, come fanno nello stesso tempo sul piano affettivo, prima di stabilizzarsi arrivati alla trentina 161. Gli animi più prospettici hanno anche scoperto che “il lavoro è finito”, o poco ci manca, e che è ormai tempo di guardare altrove per non sbagliare quel che si inventa di nuovo oggi. Tuttavia, quali sono concretamente le risorse utilizzabili per far fronte a questa nuova congiuntura? Innanzitutto, si dirà, se si accetta di sganciarsi dal modello della società salariale e dalle sue “rigidità”, esiste un'ampia panoplia di impieghi possibili, come gli innumerevoli servizi di aiuto alla persona: presa in carico delle persone anziane e dei bambini, aiuti domestici, servizi di manutenzione di ogni sorta. Due rilievi tuttavia. In primo luogo, iniziare a trasformare sistematicamente queste attività in impieghi, significherebbe promuovere una “mercificazione” generalizzata della società, che andrebbe al di là di quel che Karl Polanyi denunciava attraverso la sua critica al “mercato autoregolato”. Aver fatto della terra e del lavoro delle merci ha avuto delle conseguenze profondamente destabilizzanti dal punto di vista sociale, ma il capitalismo del XIX secolo aveva comunque rispettato, o piuttosto non aveva completamente annesso, tutta una gamma di pratiche dipendenti da quel che ho chiamato la protezione ravvicinata. È del resto interessante constatare che il discorso ottimista sui “giacimenti di lavoro” è sovente sostenuto da un filone di pensiero estremamente critico riguardo lo Stato sociale, di cui denuncia gli interventi burocratici 161 Cfr. Chantal Nicole-Drancourt, Le labyrinthe de l'insertion, Paris, La Documentation française, 1991, ed Id., L'idée de précarité revisitée, in “Travail et emploi”, n. 52, 1992, pp. 55-70.

e le regolazioni generali che hanno frantumato le forme anteriori di solidarietà. In nome di un'apologia delle relazioni di prossimità, si vuole rimpiazzare il regno della regolazione con quello della merce, e fare di ogni rapporto umano (eccetto nel contesto familiare, forse) una relazione monetizzabile? Secondo rilievo: quando si evocano i “servizi di prossimità” e gli “aiuti alla persona”, ci si riferisce a una nebulosa confusa che mobilita saperi e attitudini completamente eterogenei. In riferimento ai servizi alle persone, se ne possono distinguere almeno due grandi tipologie. Alcuni dipendono da quel che Erving Goffman chiama “i servizi di riparazione” 162. Queste forme di “intervento sull'altro” sono prerogativa di specialisti dotati di una competenza tecnica, molto o relativamente sofisticata 163. Si tratta principalmente di professioni mediche, sociali, medico-sociali (si possono aggiungere anche gli avvocati, gli architetti e i consulenti di ogni genere). Per numerose ragioni, e in particolare per il loro costo, l'espansione di tali servizi non può che essere limitata: non si proporrà una psicanalisi a tutte le persone in situazione di isolamento sociale. Di contro, esiste un tutt'altro tipo di aiuto reciproco informale che è indotto dall'urbanizzazione, dal rinchiudersi delle relazioni familiari sulla famiglia coniugale, dagli obblighi dell'organizzazione del lavoro, ecc. Il quadro oberato di lavoro può non avere il tempo di portare a spasso il cane e può trovarsi nella condizione di non poter demandare questo servizio ai suoi vicini perché non ha alcuna relazione con loro. Può anche 162 Cfr. Erving Goffman, Asiles. Études sur la conditions sociale des maladies mentaux, cit., cap. IV. 163 Per una analisi di campo degli “interventi sull'altro”, cfr. Albert Ogien, Le raisonnement psychiatrique, Paris, Méridiens-Klincksieck, 1990.

non saper cucinare e può farsi portare una pizza... Vi sono in questi casi effettivamente dei “giacimenti di lavoro”, o piuttosto di sotto-impiego, che sono in effetti il finanziamento di servizi di ordine domestico. André Gorz ha ben mostrato che queste relazioni di lavoro non possono liberarsi da una dipendenza di tipo servile che le costituisce in “neo-domesticità”164, non solo perché sono sotto-qualificate e sotto-pagate, ma perché la materialità della mansione da svolgere prevale su un rapporto sociale di servizio oggettivato e istituzionalizzato. Si è ben al di sotto del rapporto salariale moderno, e anche della forma che aveva assunto agli inizi dell'industrializzazione, quando le parti in gioco appartenevano a gruppi strutturati dall'antagonismo dei loro interessi. Questi famosi “servizi di prossimità” rischiano perciò di oscillare tra una neo-filantropia paternalista e forme postmoderne di sfruttamento della manodopera, attraverso cui i privilegiati si concedono “servizi alla persona” finanziati, per esempio, attraverso detrazioni fiscali. Senza dubbio non tutti i servizi suscettibili di essere creati si riducono a queste forme di neo-domesticità. Jean-Louis Laville ha esposto la gamma assai ampia di questi servizi 165, ma la cura con la quale si sforza di dissociarli dai modi di quasi-assistenza o di quasi-buona volontà mostra che pochissime attività sono contemporaneamente innovative e proiettate verso il futuro. Possono effettivamente esistere servizi che si sforzano di mobilitare risorse monetarie e risorse non monetarie, di articolare la sfera 164 Cfr. André Gorz, Les métamorphoses du travail, cit., pp. 212 sgg. 165 Cfr. Jean-Louis Laville, Les services de proximité en Europe. Pour une économie solidaire, Paris, Syros, 1992; cfr., anche, in Bernard Eme, Jean-Louis Laville, Cohésion sociale et emploi, cit., i contributi di JeanLouis Laville, Services, emploi et socialisation, e di Bernard Eme, Insertion et économie solidaire.

pubblica e la sfera privata, gli investimenti individuali e le regolazioni generali, ma sono poco visibili socialmente, e non hanno superato lo stadio di sperimentazione. Questo interesse nel promuovere una “economia solidale”166, sarebbe a dire di legare la questione del lavoro a quella della coesione sociale, di creare legami tra persone e attività, non potrebbe essere più rispettabile, ma, nell'attuale situazione, si tratta più di dichiarazioni di intenti che dell'affermazione di una politica. Esiste anche, tra l'impiego normale e l'assistenza, tra l'inserimento social e la riqualificazione professionale, tra il settore di mercato e il settore protetto, un “terzo settore” chiamato talvolta “economia sociale” 167. Tali attività sono in via di espansione, in particolare attraverso il trattamento “sociale” della disoccupazione, in seno al quale è spesso difficile decidere se l'obiettivo perseguito è il ritorno all'impiego o il posizionamento in una situazione che è, appunto, “intermedia” tra lavoro e assistenza. Queste realizzazioni, che hanno riguardato più di 400.000 persone nel 1993 e tendono ad autonomizzarsi in una sfera indipendente dal mercato del lavoro classico, hanno una loro utilità in una congiuntura catastrofica 168. Tuttavia, solo con un eufemismo le si può chiamare “politiche del lavoro”. Non si contesterà, dunque, che esistono insospettati “giacimenti di lavoro”, ma se l'attuale crisi è proprio una crisi dell'integrazione attraverso il lavoro, il loro sfruttamento selvaggio non 166 Cfr. Jean-Baptiste de Foucault, Perspectives de l'économie solidaire, in Bernard Eme, Jean-Louis Laville, Cohésion sociale et emploi, cit., e Bernard Eme, Insertion et économie solidaire, cit. 167 Cfr. Francis Bailleau, Le travail social et la crise, Paris, Ronéo-IRESCO-GST, 1987. 168 Cfr. Mireille Elbaum, Pour une autre politique de traitement du chômage, in “Ésprit”, n. 204, 1994, pp. 27-43.

potrà risolverla. Potrebbe anche aggravarla 169. Se il lavoro si riduce a una “mercificazione” di servizi, che cosa diviene il continuum delle posizioni che costituiva la società salariale, e che è sempre così necessario per costituire una società solidale? Un conglomerato di baby-sitter, di camerieri da McDonald's o di imbustatori nei supermercati fa “società”? Questo sia detto senza disprezzo per le persone che si sono dedicate a queste occupazioni, ma, al contrario, per interrogarsi sulle condizioni che fanno dell'impiego un vettore della dignità della persona. Una società “di piena attività” non è per questo una società di piena dignità, e la maniera in cui gli Stati Uniti hanno parzialmente risolto il loro problema dell'impiego non è necessariamente un esempio da seguire. La metà degli 8 milioni di posti di lavoro creati negli Stati Uniti tra il 1980 e il 1986 è retribuita con un salario del 60% inferiore alla media dei salari industriali 170, e la moltiplicazione dei lavoratori senza statuto non ha apparentemente fatto niente per combattere quei gravi segni di dissociazione sociale che sono le violenze urbane, i tassi di criminalità e tossicomania e l'insediamento di una vera e propria underclass miserabile e deviante, completamente separata dall'insieme della società171. 169 Il viaggiatore, venti anni fa, non poteva che essere colpito da un contrasto. Nei paesi “avanzati”, e specialmente negli Stati Uniti, i servizi domestici erano molto rari e cari, ed erano stati rimpiazzati da un pezzo dagli elettrodomestici. All'inverso, nei paesi meno “sviluppati”, la domesticità era abbondante e quasi gratuita. Anche dal punto di vista storico, la servitù era numerosa fino al XIX secolo, quando rappresentava quasi il 10% della popolazione delle città, prima di divenire una quasiprerogativa dell'alta società. Ci si potrebbe chiedere se la proliferazione odierna di tale tipo di servizi non sia un indice di “terzo-mondializzazione” delle società “sviluppate”. 170 Cfr. Philippe Delmas, Le maître des horloges, cit., p. 68. 171 Sulla nozione di underclass, cfr. Erol R. Ricketts, Isabel V. Sawhill, Defining and measuring the underclass, in “Journal of Policy Analysis

Due precisazioni invitano a sfumare queste valutazioni, ma senza mutarne l'orientamento. Le trasformazioni tecnologiche in corso esigono anche degli impieghi qualificati e altamente qualificati. Si è potuto persino definire la società come “postindustriale” per la preponderanza d'industrie nuove, quali l'informazione, la sanità, l'educazione, che diffondono più beni simbolici che beni materiali e mobilitano delle alte competenze professionali 172, ma dal punto di vista che qui ci riguarda, tutta la questione consiste nel sapere se il “riversamento” degli impieghi perduti da altre parti può operarsi integralmente verso questi impieghi nuovi. La risposta è no, benché sia impossibile misurare oggi l'ampiezza del deficit. D'altra parte, è certo che profonde trasformazioni sono in corso nel rapporto che i soggetti sociali, e soprattutto i giovani, intrattengono con il lavoro. Può essere anche che siamo sul punto di uscire dalla “civiltà del lavoro” che, dal XVIII secolo, ha collocato l'economia al posto di comando e la produzione a fondamento dello sviluppo sociale. Questo significherebbe manifestare un attaccamento desueto al passato quanto sottostimare le innovazioni che si producono e le alternative che si cercano per superare la concezione classica del lavoro. Tanto più che quel che fonda la dignità sociale di un individuo non è necessariamente l'impiego salariato, e neanche il lavoro, ma la sua utilità sociale, sarebbe a dire la parte che ha nella produzione della società. Ricoand Management”, n. 7, 1988, pp. 316-325. 172 Cfr. su questo punto le analisi di Alain Touraine. Cfr. anche Robert Reich, L'Économie mondialisée (Paris, Dunod, 1993; trad. it. L'economia delle nazioni. Come prepararsi al capitalismo del Duemila, Milano, Il Sole-24 Ore libri, 1993), che descrive l'aumento di potere dei “manipolatori di simboli” a scapito dei produttori di beni materiali e degli erogatori di servizi classici.

nosciamo dunque che delle trasformazioni societali profonde si producono anche attraverso la “crisi”, ma aggiungendo, con Yves Barel, che i loro effetti potenzialmente positivi restano per il momento largamente “invisibili”173. Sono perfettamente visibili, per contro, le trappole in cui cadono gli spiriti che hanno fretta di superare l'alienazione del lavoro e le soggezioni del salariato. Un tale superamento rappresenterebbe una rivoluzione culturale di grande portata. È perciò paradossale che una responsabilità così pesante sia delegata ai gruppi più fragili e deprivati, quali i beneficiari del RMI, che dovrebbero provare che l'inserimento sociale vale l'integrazione professionale, o i giovani delle banlieues, cui si intima di inventare una “nuova cittadinanza” nel momento in cui si nega loro il più delle volte il minimo di riconoscimento nella vita di tutti i giorni, come quando subiscono un controllo di polizia o chiedono un alloggio o un impiego. Che il lavoro resti un riferimento non soltanto economicamente ma anche psicologicamente, culturalmente e simbolicamente dominante, lo provano le reazioni di coloro che non ne hanno. I due terzi dei beneficiari del RMI chiedono, come priorità, un impiego174, e i giovani abbandonano gli stage quando capiscono che non sfociano in un “vero lavoro”. Li si può comprendere. Se non fanno niente di riconosciuto, non sono niente. Perché altrimenti l'etichetta di “Rmista” sarebbe divenuta in pochi anni uno stigma, e il più delle volte è vissuta come tale dai suoi “bene173 Cfr. Yves Barel, Le grand intégrateur, cit. 174 Pierre Valereyberghe (sous la direction de), RMI. Le pari de l'insertion, rapport de la Commission nationale d'évaluation du RMI, cit. Allo stesso modo, nel 1988, 84 disoccupati su 100 cercavano un impiego “normale” a tempo indeterminato, 10 un impiego part-time permanente, 4 un impiego limitato nel tempo e 2 un impiego non salariato (Enquête emploi, Paris, INSEE, 1988).

ficiari”? Il fatto è tanto più ingiusto in quanto si è trattato per molti di un ultimo soccorso che hanno accettato in mancanza di lavoro. Ma la vita sociale non funziona con i buoni sentimenti. Essa non funziona neanche solamente col lavoro, ed è sempre bene avere più frecce al proprio arco: tempo libero, cultura, partecipazione ad altre attività valorizzanti... Ma, salvo che per le minoranze di privilegiati o per i piccoli gruppi che accettano di subire il discredito sociale, quel che permette di tendere l'arco e di far partire le frecce in diverse direzioni è una forza che viene dal lavoro. Quale può essere il destino sociale di un ragazzo o di una ragazza – questi casi cominciano a presentarsi – che dopo alcuni anni di “galera” diventano Rmisti a venticinque anni, che è l'età legale del primo contratto? Sapendo che la sua speranza di vita è ancora di più di cinquant'anni, si può fantasticare intorno al fascino di una vita affrancata dal lavoro. Sebbene quasi tutti rifiutino apertamente il modello della “società duale”, molti ne preparano il terreno celebrando non importa quale realizzazione, dallo sviluppo di un settore “di utilità sociale” all'apertura di “nuovi giacimenti di lavoro”, purché procurino una attività quale che sia ai surnumerari 175. Ma se ci si pone in una problematica dell'integrazione, la questione non è unicamente di procurare una occupazione a tutti, ma anche uno status. Da questo punto di vista, il dibattito che è iniziato a svolgersi intorno allo SMIC è esemplare. Lo status di “smicard” è certamente poco invidiabile, ma lo SMIC è il passaporto che apre 175 Una posizione-limite in tal senso, la proposta avanzata da Roger Sue all'università estiva organizzata dal Sindacato dei disoccupati nel 1993 di abbandonare completamente il settore di mercato alla concorrenza selvaggia che è la sua legge, per costituire un “settore di utilità sociale” conviviale e protetto (cfr. “Partage”, n. 83, 1993). Non so se le riserve indiane siano conviviali, ma sono, mi sembra, protette.

l'accesso alla società salariale, e permette di comprendere concretamente la differenza tra l'occupare semplicemente un posto e l'essere un salariato. A partire dallo SMIC si apre un ventaglio di posizione estremamente differenti quanto al salario, all'interesse del lavoro, al riconoscimento, al prestigio e al potere che procurano, ma che sono, come si è stabilito (cfr. cap. VII), comparabili. Esse si gerarchizzano, si distinguono ed entrano in concorrenza sotto il regime del salariato, che include, con la retribuzione monetaria, delle regolazioni collettive, delle procedure, delle convenzioni e delle protezioni che hanno uno statuto di diritto. Lo SMIC è il primo gradino a partire dal quale un lavoratore si distingue dall'occupante di un posto qualunque che non è iscritto nell'episteme salariale. Si può così prevedere che si svolgeranno delle accanite lotte simboliche176 intorno allo SMIC, perché questo rappresenta uno dei catenacci che bloccano lo smantellamento della società salariale. Potrebbe anche rappresentare per l'avvenire un riferimento per definire una piattaforma minima, in materia di retribuzione del lavoro come di garanzie statutarie, che dovrebbero rispettare le nuove attività di una società postsalariale perché l'uscita da questo modello non avvenga dal basso.

176 Sembra in effetti che il ruolo svolto dallo SMIC nell'aggravamento del costo generale dei salari sia assai limitato, e potrebbe d'altra parte essere ridotto attraverso misure tecniche, come l'autorizzazione amministrativa di licenziamento, la cui soppressione doveva permettere, secondo il padronato, di creare largamente posti di lavoro. Dal momento che non ne è avvenuto, si tratta di misurare il cui significato simbolico prevale sull'importanza economica, il che nulla toglie alla loro importanza, al contrario.

Quarta opzione, gestire una redistribuzione delle “risorse rare” che provengono dal lavoro socialmente utile. Questa eventualità non deve essere confusa con una restaurazione della società salariale. Ho sottolineato quanto di irreversibile si è prodotto sul doppio piano dell'organizzazione del lavoro e della struttura dello Stato sociale, la cui articolazione assicurava il suo fragile equilibrio. La società salariale è una costruzione storica seguita ad altre formazioni sociali, non è eterna, tuttavia può rimanere un riferimento vivente perché ha realizzato una composizione ineguagliata di lavoro e protezioni. Questo bilancio non è contestabile sulla scala storica delle società occidentali. La società salariale è la formazione sociale che era riuscita a scongiurare in grande misura la vulnerabilità di massa e ad assicurare una larga partecipazione ai valori sociali comuni. Detto altrimenti, la società salariale è la base sociologica sulla quale riposa una democrazia di tipo occidentale, con i suoi meriti e le sue lacune: non certo il consenso ma la regolazione dei conflitti, non certo l'uguaglianza delle condizioni, ma la compatibilità delle loro differenze, non certo la giustizia sociale, ma il controllo e la riduzione dell'arbitrio dei ricchi e dei potenti, non certo il governo di tutti ma la rappresentazione di tutti gli interessi e la loro messa in discussione sulla scena pubblica. In nome di questi “valori” – e ben inteso con e per gli uomini e le donne che li condividono –, ci si può interrogare sulla maniera migliore per non svendere questa eredità. L'opzione più rigorosa esigerebbe che tutti i membri della società mantenessero un legame stretto con il lavoro socialmente utile e le prerogative che vi sono connesse. La forza di questa posizione poggia sul fatto che il lavoro resta il principale fondamen-

to della cittadinanza in quanto questa comporta, fino a prova contraria, una dimensione economica e una dimensione sociale; il lavoro, e principalmente il lavoro salariato, che non è evidentemente il solo lavoro socialmente utile, ma che ne è divenuto la forma dominante. La promozione del salariato ha emancipato il lavoro e i lavoratori dall'invischiamento nelle soggezioni locali, i contadini dalle tutele della tradizione e del costume, la donna dalla chiusura nell'ordine domestico. Il lavoro salariato è una produzione esternalizzata per il mercato, cioè per chiunque può entrare nel quadro di uno scambio regolato. Dà una utilità sociale generale alle attività “private”. Il salario riconosce e remunera il lavoro “in generale”, cioè delle attività potenzialmente utili a tutti. È per questo, nella società contemporanea, per la maggior parte dei suoi membri, il fondamento della loro cittadinanza economica, ma è anche al principio della cittadinanza sociale: questo lavoro rappresenta la partecipazione di ciascuno a una produzione per la società e, pertanto, alla produzione della società. È così il medium concreto sulla base del quale si edificano diritti e doveri sociali, responsabilità e riconoscimento, insieme a soggezioni e obblighi177. Ma questa costruzione – d'altronde pagata cara, e tardivamente e imperfettamente promossa attraverso la lunga storia de “l'indegno salariato” – non può più continuare a funzionare allo stato. Come ha detto Alain Minc, che è stato uno dei primi a intuire il carattere strutturale della “crisi”: “l'economia di rarità in cui entriamo non richiede che un mero ripiego: la ripartizione. Ripartizione delle rare risorse, sarebbe a dire del lavoro produtti177 Cfr. André Gorz, Revenu minimum et citoyenneté, droit au travail et droit au revenu, in “Futuribles”, 1 février 1994, pp. 49-60.

vo, dei redditi primari e dei redditi socializzati” 178. Questa constatazione pessimista è difficile da eludere se si è scettici nei confronti delle capacità dei “giacimenti di lavoro” nell'aprire dei veri impieghi e scettici anche sull'ampiezza del “riversamento” dai settori sinistrati verso i settori produttivi per riciclare l'insieme della manodopera disponibile. Se restano dei surnumerari e si accresce di nuovo la vulnerabilità di massa, come sfuggire al rischio di lasciar marcire la situazione, a meno di ridistribuire in una certa maniera quelle “risorse rare” che sono divenute il lavoro produttivo e le protezioni minime, per sfuggire all'installazione nella precarietà e alla generalizzazione della cultura dell'incertezza? Bisogna intendere le proposte per una ripartizione del lavoro come la risposta più logica a questa situazione: fare che ciascuno trovi, mantenga o ritrovi un posto nel continuum delle posizioni socialmente riconosciute alle quali sono associate, sulla base di un lavoro effettivo, condizioni decenti di esistenza e dei diritti sociali. Una tale esigenza è concretamente realizzabile? Non posso pretendere di render conto in poche parole di un dibattito tanto complesso179. Due rilievi soltanto per precisarne la portata. 178 Alain Minc, L'après-crise est commencé, cit. Michel Albert dichiarava poco dopo nello stesso spirito: “Ciò che è limitato è il numero complessivo di ore di lavoro” (corsivato dall'autore, Le pari français. Le nouveau plein-emploi, Paris, Le Seuil, 1983) e proponeva un modello di ripartizione del lavoro, un “bonus per i volontari a lavoro ridotto”. 179 Per le differenti proposte finalizzate a realizzare questa partizione, cfr. Dominique Taddéi, Le temps de l'emploi, Paris, Hachette, 1988; le diverse opere di Guy Aznar, in particolare Travailler moins pour travailler tous. 20 propositions, Paris, Syros, 1993; François Valette, Partage du travail. Une approche nouvelle pour sortir de la crise, Paris, L'Harmattan, 1993; Jacques Rigaudiat, Réduire le temps de travail, Paris, Syros, 1993. Cfr. anche i vari contributi di André Gorz, che propone la versione concettualmente più approfondita della questione. La pro-

È vero che misure generali come la riduzione della durata settimanale del lavoro a trentacinque o a trentadue ore non sono delle soluzioni miracolose da applicare meccanicamente. Il lavoro concreto è infatti sempre meno un dato quantificabile e intercambiabile: la parte del lavoro “invisibile” e la quota di investimento personale in un compito non si misurano solamente in tempo di presenza, nel momento in cui diventano sempre più dominanti nelle forme moderne del salariato180. Ma le critiche alla redistribuzione del lavoro come una “torta” che si divide non esauriscono il problema. Ognuno sa da sempre che il “lavoro” di un professore al Collège de France e quello di un OS (Ouvrier Spécialisé) sono irriducibili, e nessuno ha mai blematica della partizione del lavoro spesso si incrocia, secondo me a torto, con gli appelli per l'allocazione universale o per un reddito di cittadinanza o un reddito di esistenza (cfr. un dossier critico in Pour ou contre le revenu minimum, l'allocation universelle, le revenu d'existence, in “Futuribles”, n. 184, 1994). A torto perché l'idea di una partizione dei redditi implica un tutt'altro modello di società. Essa conferma la rottura tra redditi da una parte e diritti legati al lavoro dall'altra, che la problematica della partizione del lavoro si sforza invece di salvaguardare. Sulla portata economica delle differenti formulazioni di partizione del lavoro, cfr. Gilberte Cette, Dominique Taddéi, Les effets économique d'une réduction du temps de travail (in Jean-Yves Bouin, Gilbert Cette, Dominique Taddéi, Le temps de travail, Paris, Syros, 1993), che mettono l'accento sull'importanza di una riorganizzazione profonda del lavoro per la riuscita di queste operazioni. Alcune simulazioni dell'OFCE (Observatoire Français des Conjonctures économiques) ipotizzano la creazione di impieghi nell'ordine di 2,5 milioni in caso di riduzione della durata settimanale di lavoro a 35 ore, a condizione che questa riduzione sia inquadrata attraverso altre misure (cfr. Jacques Rigaudiat, Réduire le temps de travail, cit., pp. 102 sgg.). 180 Per un punto di vista critico sulla ripartizione del lavoro, idea troppo “semplice”, cfr. Pierre Boissard, Partage du travail: les pièges d'une idée simple, in “Ésprit”, n. 204, 1994, pp. 44-51; Daniel Mothé, Le mythe du temps libéré, ivi, pp. 52-63; Alain Supiot, Le travail, liberté partagée, in “Droit social”, n. 9-10, 1993, pp. 715-724.

pensato di ridurre il tempo del primo per fornire l'occupazione a un disoccupato. Al contrario, gli attributi connessi agli impieghi socialmente riconosciuti, che vanno effettivamente da quello dello smicard a quello del professore del Collège de France, si inscrivono in un insieme di posizioni a un tempo irriducibili e interdipendenti, cioè solidali. Non possono dividersi (come una torta), ma potrebbero parzialmente riorganizzarsi in quanto formano una totalità complessa includente contemporaneamente un tempo di lavoro, un salario, delle prestazioni, delle garanzie giuridiche. Se ripartizione deve esserci, è di questi beni divenuti “rari” che si tratta. Operazione sicuramente difficile da condurre, ma che prova almeno che una tale ripartizione non è affatto quell'“idea semplice”, sarebbe a dire semplicistica, che ne fanno i suoi detrattori. A mio parere, la ripartizione del lavoro è meno un fine in sé che il mezzo, apparentemente il più diretto, per arrivare a una redistribuzione effettiva degli attributi della cittadinanza sociale. Se tale redistribuzione si operasse con altri mezzi, eventualmente associati alla partizione del lavoro, potrebbe essere raggiunto lo stesso obiettivo dal punto di vista della coesione sociale181. Porre la questione della partizione del lavoro o della redistribuzione delle risorse rare in questi termini mostra che essa non solleva solamente dei problemi tecnici difficili, ma anche una questione politica di fondo. Le timide proposte fatte in direzione di una riduzione del tempo di lavoro – dalla legge delle trentanove ore del 1982, uno scacco sul piano della creazione di posti di 181 Sulla questione della redistribuzione che dovrebbe valersi di forme differenti da quelle proprie nel quadro dello Stato provvidenza, cfr. le suggestioni di Pierre Rosanvallon, Une troisième crise de l'État providence, in “le Banquet”, n. 3, 1993, pp. 17-33.

lavoro, a certe misure “sperimentali” previste dal piano quinquennale per il lavoro del 1993 – mostrano chiaramente che questi bricolage non sono adeguati al problema. Ugualmente, le misure adottate per ripartire i sacrifici che esige la degradazione della situazione economica e sociale sono spesso derisorie, quando addirittura non penalizzano coloro che si trovano nella posizione più difficile. Così, la disoccupazione è sicuramente oggi il rischio sociale più grave, quello che ha gli effetti destabilizzanti e desocializzanti più distruttivi per coloro che la subiscono, eppure è paradossalmente proprio a proposito della disoccupazione che si è dato prova del massimo di “rigore” in una logica contabile per ridurre il tasso e le modalità della sua indennizzazione. Dopo il 1984, sono state assunte misure drastiche per rivedere le indennizzazioni al ribasso, e i disoccupati hanno così assistito all'anteprima della preoccupazione di risparmiare i denari pubblici nella gestione delle prestazioni sociali182. Più grave: a partire da una circolare del novembre 1982, l'indennizzazione della disoccupazione comincia a essere dissociata, secondo la sua durata e il percorso anteriore dei disoccupati, tra un regime di assicurazione finanziato su base contributiva e gestito in modo paritario, e un regime detto di solidarietà tramite il quale lo Stato prende in 182 Cfr. Jean-Pierre Viola, Surmonter la panne sociale, in “le Banquet”, n. 3, 1993, pp. 34-51. Si constata così che si è più rigorosi nei confronti dei disoccupati che dei beneficiari di assicurazione di malattia o dei pensionati, e soprattutto dei beneficiari diretti delle spese sanitarie come i medici, i farmacisti, i laboratori farmaceutici, ecc. È vero che, su un altro registro, le “politiche del lavoro” e il “trattamento sociale della disoccupazione” mangiano somme considerevoli (nel 1991, 256 miliardi di franchi, cioè il 3,5% del PIL), ma questa sequenza di misure ha per lo più l'obiettivo di tentare di colmare le brecce volta per volta. Il trattamento del lavoro e della disoccupazione negli ultimi venti anni mostra bene ciò che manca di più: non fondi destinati, ma la definizione di una politica coerente.

carico l'indennizzazione di certe categorie di persone private dell'impiego183. Questa innovazione, considerevole poiché fa sì che una parte dei disoccupati – disoccupati di lunga durata, lavoratori prima male integrati nel lavoro – passi da un regime di lavoro a un regime di “solidarietà” consistente, in effetti, in benefìci assistenziali di debole ammontare, è stata decisa senza il minimo dibattito pubblico e al fine di preservare l'equilibrio della compatibilità dell'UNEDIC (Union nationale interprofessionnelle pour l'emploi dans l'industrie et le commerce). Si trova così ratificata una fantastica degradazione della nozione di solidarietà, che sotto la III Repubblica significava l'appartenenza di ciascuno al tutto sociale, e che diviene ora un'allocazione minima di risorse concessa a coloro che non “contribuiscono” più con la loro attività al funzionamento della società. Una tale degradazione chiama in causa lo Stato nella sua funzione propriamente sovrana di salvaguardia dell'unità nazionale. Questa funzione comporta, lo si è detto, un versante di “politica estera” (difendere il proprio posto nel “concerto delle nazioni”) e un versante di “politica interna” (preservare la coesione sociale). Come la guerra ha un costo, spesso esorbitante, anche la coesione sociale ha un costo, e può essere elevato. Questo approccio non è formale. Non è un caso se la presa di coscienza della relazione organica che unisce la coesione sociale a una politica sociale determinata condotta dallo Stato si è avuta al momento dei disastri della Seconda guerra mondiale, e specialmente in Gran 183 Sulle implicazioni di questa circolare di Pierre Bérégovoy, allora ministro del Lavoro, e sulle sue conseguenze a lungo termine, cfr. Alain Lebaube, L'emploi en miettes, cit., pp. 57-62.

Bretagna. William Beveridge è a tal riguardo perfettamente esplicito: La proposta principale di questo rapporto è questa: il popolo britannico deve rendere lo Stato espressamente responsabile nel garantire in ogni istante un esborso sufficiente, nell'insieme, a occupare tutto il potenziale umano disponibile della Gran Bretagna184.

Perché, aggiunge, se il pieno-impiego [full employment] non è conquistato o conservato, nessuna libertà sarà salva, perché per molti non avrà alcun senso185.

Il mandato che deve assumere lo Stato per salvaguardare l'unità del popolo britannico è dello stesso tipo e imperativo quanto quello che assume per respingere l'aggressione straniera. La questione del pieno-impiego è allora la forma congiunturale che assume la questione della conservazione del legame sociale in un'Inghilterra ancora traumatizzata dal ricordo della Grande Depressione degli anni Trenta. Oggi e in Francia, poiché il ritorno al pieno-impiego è quasi certamente escluso, la questione omologa è quella della partizione del lavoro o, per lo meno, quel184 William Henry Beveridge, Full Employment in a Free Society, cit., p. 144. 185 Ibidem. Beveridge, a dispetto della sua ostilità al marxismo, arriva a immaginare forme di collettivizzazione dei mezzi di produzione se fosse assolutamente necessario per realizzare l'imperativo categorico del pieno-impiego. I tempi sono certo profondamente cambiati, ma questo utilizzo quasi disperato anche agli occhi di Beveridge mostra l'importanza che attribuiva alla questione del mantenimento della coesione sociale.

la delle garanzie costitutive di una cittadinanza sociale (di cui ho difficoltà a vedere come potrebbero essere totalmente sconnesse dal lavoro). Questione omologa se è vero che è attraverso questa mediazione che potrebbe conservarsi, o restaurarsi, la relazione di interdipendenza dell'insieme dei cittadini con il corpo sociale. La questione del costo è allora quella dei sacrifici da consentire per preservare la società nella sua unità. Esprimendo lo Stato per principio la volontà dei cittadini, dovrebbe toccare a questi decidere, attraverso il dibattito pubblico, fino a che punto sono determinati a pagare questo costo. Farò solamente tre rilievi per rimuovere delle pseudo-obiezioni che occultano la posta in gioco delle scelte da operare. La prima sarebbe quella di resuscitare lo spettro degli Ateliers nationaux o dello Stato imprenditore della società. Se ce ne fosse bisogno, la rovina dell'economia nei paesi del “socialismo reale” proverebbe che non si abolisce la disoccupazione per decreto e che la programmazione statale della produzione conduce al disastro. Una qualunque formula di partizione del lavoro non ha possibilità di riuscita se non è accettata e negoziata dai differenti partner, come nell'impresa al fine di riorganizzare completamente il lavoro, arrivare a una migliore organizzazione degli impianti, ecc. Allo stesso modo, una riforma in profondità della protezione sociale è impensabile senza concertazione per il suo concepimento e senza negoziazione per la sua messa in opera. Ma si può concepire per esempio una legge-quadro che imponga gli obblighi in materia di orario di lavoro, di minimi salariali e di minimi sociali, con l'onere per i differenti “partner” di aggiustarli e di adattarli attraverso la negoziazione186. 186 Una tale proposta potrebbe essere interpretata come una riformula-

In secondo luogo, l'indebolimento degli Stati-nazione in un quadro europeo e di fronte a una concorrenza mondiale generalizzata rende più difficile l'esercizio delle prerogative sovrane in materia di politica del lavoro e di politica sociale. Tuttavia, la constatazione di tale difficoltà accresciuta non muta i dati di base del problema. Le politiche degli Stati-nazione sono sempre strettamente dipese dalla congiuntura internazionale, ivi comprese le loro politiche sociali (cfr. supra la necessaria “compatibilità”, implicita o esplicita, tra i livelli di protezione sociale dei paesi in concorrenza). Che questa concorrenza divenga oggi più serrata, e il margine di manovra di ogni Stato-nazione più stretto, non contraddice l'imperativo di dover preservare la coesione nazionale, tutt'altro: è nelle situazioni di crisi che la coesione sociale di una nazione risulta particolarmente indispensabile. Tra il livello locale, con le sue innovazioni, ma anche spesso le sue dismissioni e i suoi egoismi, e il livello sovranazionale, con i suoi vincoli, lo Stato è ancora l'istanza attraverso la quale una comunità moderna si rappresenta e definisce le sue scelte fondamentali. E come gli Stati-nazione mutavano alleanze, anche al momento della loro egemonia, possono oggi essere portati, o costretti dalla congiuntura internazionale, a istituzionalizzare in maniera più stretta le loro convergenze nel campo sociale (cfr., per esempio, il problema della costituzione di una “Europa sociale” degna di questo nome di fronte alla concorrenza, che si svolge zione moderna del vecchio principio del diritto al lavoro, e il ricorso a tale principio potrebbe godere di cattiva stampa nella misura in cui è stato caricato nel movimento operaio di una potenzialità rivoluzionaria. Ma in realtà l'ha persa, se bisogna credere al preambolo della Costituzione del 1946, ripreso nella Costituzione del 1958: “Ciascuno ha il diritto di lavorare e di ottenere un impiego”. Chiedere che la Costituzione della Repubblica sia rispettata sarebbe sovversivo?

anche sul piano sociale, degli Stati Uniti, del Giappone o dei paesi del Sud-Est asiatico)187. Infine, la posta in gioco del dibattito è occultata anche quando si pretende che una politica sociale differente sia incompatibile con il perseguimento di una politica economica realista e responsabile. Si tratta di dare per acquisito che l'accettazione delle leggi del mercato non lasci alcun margine di manovra, il che torna a negare, d'altronde, la possibilità stessa dell'azione politica. Ma non è così. Il gioco non è bloccato a meno che non si confermi lo status quo su tutti i tavoli contemporaneamente, cioè si accetti il gioco economico rifiutando completamente la ripartizione dei sacrifici che derivano da questa scelta e che pure sono compatibili con queste esigenze economiche. Così, è vero che il finanziamento della protezione sociale ha senza dubbio raggiunto o ben presto raggiungerà il suo punto di rottura se le modalità di finanziamento resteranno così come sono – una minoranza di attivi paganti subito per una maggioranza di inattivi, e, tra gli attivi, alcune categorie di salariati ipertassati del doppio 188 –, ma forme di finanziamento della protezione sociale su una base più 187 È d'altra parte pressappoco in questi termini che Michel Albert interpreta il conflitto tra i due modelli di capitalismo che costruisce: il capitalismo “anglo-sassone” e il capitalismo “renano” (Michel Albert, Capitalisme contre capitalisme, cit.). 188 La parte dei prelievi fiscali e parafiscali in rapporto al reddito primario rappresentava, all'inizio degli anni Ottanta, il 49,2% per le famiglie operaie contro il 26,6% per le professioni indipendenti e per gli imprenditori agricoli (Le revenu des français, in “Documents du CERC”, n. 58, 1981), ma è l'insieme della fiscalità francese che, come si sa, avvantaggia il capitale immobiliare e finanziario a detrimento del lavoro. Per esempio, i diritti di successione in linea diretta per una stessa categoria di aventi diritto rappresentano in Francia al massimo il 20% del patrimonio, contro il 53% negli Stati Uniti, il 64% in Svezia e il 74% in Gran Bretagna (cfr. Michel Albert, Le pari français, cit., p. 109).

estesa e meno ingiusta – la contribuzione sociale generalizzata, per esempio – alimenterebbero una solidarietà allargata, che non si appoggerebbe in maniera sproporzionata su salariati e imprese. Anche queste ultime vi troverebbero il loro tornaconto, nella misura in cui il modo attuale di finanziamento le penalizza. Più in generale, l'assenza di una profonda riforma del sistema fiscale, di cui tutti da decenni riconoscono la necessità, tradisce più un'assenza di volontà politica che l'esistenza di vincoli economici inaggirabili. Secondo esempio: quando si fa della buona salute delle imprese una esigenza indiscutibile da cui dipende la prosperità nazionale, si omette di precisare che l'impresa serve effettivamente l'interesse generale attraverso la sua competitività, assicurando degli impieghi, ecc., ma anche l'interesse degli azionisti (remunerazione del capitale finanziario). Sulla scorta di questo “oblio”, l'esigenza di ottenere dei benefìci massimi per investire e restare competitivi è pensata unicamente coma le necessità di pervenire a una organizzazione ottimale del lavoro e a una compressione massima dei costi salariali. Però, se l'impresa è davvero questa articolazione vivente del capitale e del lavoro, per produrre più e produrre meglio, di cui si decantano oggi i meriti, “parrebbe per lo meno logico che si ponessero sullo stesso livello di uguaglianza la difesa delle remunerazioni del lavoro e quella del capitale” 189. Terzo esempio: il peso degli oneri salariali che frenerebbero la competitività è ugualmente sempre pensato a partire dai bassi salari, e in particolare dallo SMIC. Ma la disparità dei salari dall'alto mette altrettanto in questione la coerenza dell'episteme salariale. Se il salariato rappresenta il continuum di posizioni che 189 Robert Boyer, Jean-Pierre Durand, L'après-fordisme, cit., p. 120.

è stato precedentemente descritto, deve esistere una compatibilità tra tutte le posizioni, che la “incomparabilità” di certi salari, di dirigenti di impresa per esempio, rompe. La relazione tra queste disparità salariali à la française e la competitività non ha inoltre nessuna evidenza. In Germania, spesso presentata come modello di riuscita economica, i salari bassi sono nettamente più alti, e i salari alti lo sono comparabilmente meno190. Così l'insistenza sugli “obblighi superiori” del mercato internazionale serve spesso da alibi per rinnovare pratiche che obbediscono a una logica sociale e non economica: riproduzione delle situazioni acquisite e delle inerzie istituzionali piuttosto che rispetto dei “fondamentali”. È una guerra giusta, se la vita sociale è una guerra in cui il più forte deve massimizzare i propri vantaggi. Bisogna dar ragione a Machiavelli? “Gli uomini non rinunciano alle comodità della vita che costretti per necessità” 191. Vi è in questo effettivamente uno schema molto forte di lettura della storia dei rapporti sociali, ma si tratta allora di una storia fatta di clamore e di furore, e perpetuamente minacciata dalla rottura sociale tra i detentori di “comfort” e coloro che sono privati della possibilità stessa di acquisirne – quel che si chiama oggi “esclusione”. L'altro schema attraversa l'organizzazione dei rapporti sociali è quello di una solidarietà che mantiene la continuità attraverso le differenze e l'unità di una società tramite la comple190 Cfr. Michel Albert, Le pari français, cit., p. 97, che nota che il salario di una donna delle pulizia è circa due volte più alto in Germania rispetto alla Francia, mentre il reddito medio delle professioni meglio retribuite è sensibilmente meno elevato che in Francia. 191 Machiavel [Nicolò Machiavelli], Histoires fiorentines, in Œuvres complètes, texte présenté et annoté par Edmond Barincou, Paris, Gallimard, 1952, p. 1001; ed. it. Istorie fiorentine, in Opere, Torino, Einaudi, 3 voll., 1997-2005, t. 3, 2005.

mentarità delle posizioni occupate dai differenti gruppi. Il suo mantenimento impone oggi una certa partizione dei “comfort”. Ci si è sforzati di interpretare la promozione della società salariale come la fragile costruzione di una tale solidarietà, e la “crisi” attuale come la rimessa in questione del tipo di interdipendenza conflittuale che ne costituisce il cemento. Ma, lo si è sottolineato, non esiste a tutt'oggi un'alternativa credibile alla società salariale. Se una uscita dal marasma è possibile, essa non passa – alcuni senza dubbio se ne rammaricheranno – per la costruzione della bella utopia di un mondo meraviglioso in cui si schiudono liberamente tutti i sogni dei “creatori di progetti”. I principali elementi del puzzle sono già dati hic et nunc: protezioni ancora forti, una situazione economica che non è disastrosa per tutti, “risorse umane” di qualità”; ma, nello stesso tempo, un tessuto sociale che si sfilaccia, una forza-lavoro disponibile condannata all'inutilità, e il crescente disorientamento di tutti i naufraghi della società salariale. L'ago della bilancia può senza dubbio pendere da una parte o dall'altra, perché niente domina l'insieme dei parametri che determinano le trasformazioni in corso. Ma, per pesare sul corso delle cose, due variabili saranno sicuramente determinanti: lo sforzo intellettuale per analizzare la situazione nella sua complessità e la volontà politica di gestirla, imponendo quella clausola di salvaguardia della società che è il mantenimento della sua coesione sociale.

CONCLUSIONE

L'INDIVIDUALISMO NEGATO

Il nocciolo della questione sociale oggi consisterebbe dunque, di nuovo, nell'esistenza di “inutili al mondo”, di surnumerari, e intorno a essi di una nebulosa di situazioni contrassegnate dalla precarietà e dall'incertezza del domani, che attestano il riemergere di una vulnerabilità di massa. Paradossale, se lo si inquadra nella lunga durata dei rapporti dell'uomo col lavoro. Sono stati necessari secoli di sacrifici, di sofferenze e di esercizio di imposizioni – la forza della legislazione e dei regolamenti, la costrizione del bisogno e anche la fame – per fissare il lavoratore al suo posto, e poi mantenervelo grazie a un ventaglio di benefìci “sociali” che vanno a qualificare uno statuto costitutivo dell'identità sociale. È proprio nel momento in cui questa “civiltà del lavoro” sembrava imporsi definitivamente sotto l'egemonia del salariato che l'edificio si crepa, rimettendo all'ordine del giorno la vecchia ossessione popolare del dover vivere “alla giornata”. Non si tratta tuttavia dell'eterno ritorno della sventura, ma di una completa metamorfosi che pone oggi in maniera inedita il problema di dover affrontare una vulnerabilità post protezioni. Il racconto che ho tentato di costruire può leggersi come una storia

del passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft, nella quale le trasformazioni del salariato hanno giocato il ruolo determinante. Quale che possa essere la congiuntura di domani, non siamo più e non torneremo più alla Gemeinschaft, e questo carattere irreversibile del cambiamento si può comprendere, anche, a partire dal processo che ha installato il salariato al cuore della società. Senza dubbio il salariato ha conservato, del lontano modello della corvée (cfr. cap. III), una dimensione “eteronoma”, per dirla alla André Gorz, o “alienata”, per dirla con Marx, e, per la verità, come ha sempre pensato il buon senso popolare, ma le sue trasformazioni, fino alla costituzione della società salariale, erano consistite per una parte nel cancellare i tratti più arcaici di questa subordinazione, e per un'altra nel compensarla attraverso garanzie e diritti, e pure attraverso l'accesso al consumo al di là della soddisfazione dei bisogni vitali. Il salariato era così divenuto, almeno in molte delle sue forme, una condizione capace di rivaleggiare, e talvolta di primeggiare sulle due altre condizioni che l'avevano a lungo schiacciato: quella del proprietario e quella del lavoratore indipendente. A dispetto delle difficoltà attuali, questo movimento non è finito. Numerose professioni liberali, per esempio, divengono sempre più professioni salariali; medici, avvocati, artisti stipulano veri e propri contratti di lavoro con le istituzioni che li impiegano. Bisogna accogliere dunque con molte riserve le dichiarazioni sulla morte della società salariale, che siano fatte per gioirne o per lamentarsene. Errore di analisi sociologica in primis – la società attuale è ancora massicciamente una società salariale –, ma anche, spesso, espressione di una scelta di natura ideologica: l'impazienza di “superare il salariato” per forme più conviviali di

attività è frequentemente la manifestazione di un rifiuto della modernità che si radica in antichissime rêverie campestri, che evocano il “mondo incantato dei rapporti feudali”, il tempo della preponderanza della protezione ravvicinata, come pure delle tutele tradizionali. Ho fatto qui la scelta opposta, “ideologica” forse anch'essa, in base alla quale le difficoltà attuali non siano una occasione per regolare i conti con una storia che è stata anche quella dell'urbanizzazione e del dominio tecnico della natura, della promozione del mercato e della laicità, dei diritti universali e della democrazia – la storia, appunto, del passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft. Il vantaggio di questa scelta consiste nel chiarire le poste in gioco di un abbandono completo dell'eredità della società salariale. La Francia aveva impiegato secoli per sposare il suo secolo, e vi era giunta, precisamente, accettando di giocare il gioco della società salariale. Se queste regole del gioco devono essere oggi modificate, la coscienza dell'importanza di questa eredità merita che si prenda qualche precauzione: cercare di pensare le condizioni di una metamorfosi della società salariale, piuttosto che rassegnarsi alla sua liquidazione. Per fare questo, bisogna sforzarsi di pensare in che cosa possano consistere le protezioni in una società che diventa sempre più una società di individui. In effetti, la storia che ho tentato di ripercorrere può anche essere letta, parallelamente a quello della promozione del salariato, come il racconto della promozione dell'individualismo, delle difficoltà e dei rischi di esistere come individuo. Il fatto di esistere come individuo e la possibilità di disporre di protezioni intrattengono rapporti complessi, poiché le protezioni derivano dalla partecipazione a collettivi. Attualmente, lo sviluppo di quel che Marcel Gauchet definisce “un indivi-

dualismo di massa”, in cui vede “un processo antropologico di portata generale”1, rimette in questione il fragile equilibrio che aveva realizzato la società salariale, tra protezione dell'individuo e appartenenza a collettivi protettori. Che cosa vuol dire, e che cosa può significare oggi “essere protetti”? Lo stato di derelizione prodotto dall'assenza completa di protezioni è stato provato dapprima dalle popolazioni poste al di fuori dei quadri di una società di ordini e di status – una società a prevalenza “olistica” nel vocabolario di Louis Dumont. “No man without a Lord [Nessun uomo senza un Signore]”, dice un vecchio adagio inglese, ma anche, e fino alla tarda società di Ancien Régime, nessun artigiano che non tragga la propria esistenza sociale dal mestiere, nessun borghese che non si identifichi col proprio stato, e anche nessun nobile che non si definisca tramite il proprio lignaggio e il proprio rango. Per la società alla vigilia della Rivoluzione, Alexis de Tocqueville si rifiuta ancora di parlare di individualismo, ma tutt'al più di un “individualismo collettivo” nel quale vede l'identificazione dell'individuo “con piccole società che non vivono che per sé”: I nostri padri non avevano la parola individualismo che noi abbiamo forgiato a nostra immagine perché, ai loro tempi, non vi era in effetti individuo che non appartenesse a un gruppo e che potesse considerarsi assolutamente solo; ma ciascuno dei mille piccoli gruppi di cui la società francese si componeva non aveva idea che di se stesso. Era, se oso dirlo, una sorta di individualismo col-

1 Marcel Gauchet, La société d'insécurité, cit., p. 176.

lettivo, che preparava gli animi al vero e proprio individualismo che noi conosciamo2.

Questo tipo di coinvolgimento in collettivi assicurava contemporaneamente l'identità sociale degli individui e quella che ho chiamato la loro protezione ravvicinata. Tuttavia, in questa società esistono forme di individualizzazione che si possono qualificare come individualismo negativo, che si ottengono per sottrazione in rapporto all'incastro in collettivi. L'espressione, come d'altronde quella di “individualismo collettivo”, può scioccare nella misura in cui si intende generalmente per individualismo la valorizzazione del soggetto e la sua indipendenza in relazione alle appartenenze collettive. L'individualismo moderno, dice Louis Dumont, “pone l'individuo come un essere morale, indipendente e autonomo e anzi (essenzialmente) non sociale”3. Di fatti, quello che Alan Fox chiama individualismo di mercato (market individualism) ha cominciato a diffondere la figura di un individuo padrone delle proprie imprese, che persegue con accanimento il proprio interesse e diffida di tutte le forme collettive di inquadramento4. Sostenuto dal liberalismo, si 2 Alexis de Tocqueville, L'Ancien Régime et la Révolution, Paris, Gallimard, 1964, p. 176; trad. it. L'Antico Regime e la Rivoluzione, Milano, BUR, 2011. 3 Louis Dumont, Essais sur l'individualisme. Une perspective anthropologique sur l'idéologie moderne, Paris, Le Seuil, 1983, p. 69; trad. it. Saggi sull'individualismo. Una prospettiva antropologica sull'ideologia moderna, Milano, Adelphi, 1993. Cfr. anche Pierre Birnbaum, Jean Leca (sous la direction de), Sur l'individualisme. Théories et méthodes, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1986. 4 Cfr. Alan Fox, History and Heritage. The Social Origins of the British Industrial Relations System, London, Allen and Unwin, 1985, cap. 1. Fox data a partire dal XVI secolo l'inizio della diffusione di questo individualismo conquistatore (e nondimeno fragile; cfr., per esempio, il de-

impone alla fine del XVIII secolo, attraverso la duplice rivoluzione industriale e politica. La forza di questo individualismo conquistatore, così come la persistenza dell'“individualismo collettivo”, ha occultato l'esistenza di una forma di individualizzazione che associa l'indipendenza completa dell'individuo alla sua completa assenza di consistenza5. Il vagabondo ne rappresenta il paradigma. Il vagabondo è un essere assolutamente distaccato (disaffiliato). Non appartiene che a se stesso, senza essere l'“uomo” di chicchessia, né potersi iscrivere in alcun collettivo. È un puro individuo, e per questo completamente diseredato. È a tal punto individualizzato che è stino frequente di quei banchieri “lombardi” rovinati dopo aver tenuto testa ai signori e talvolta ai principi), ma si ritrova tale profilo di imprenditori arditi e avidi di guadagno già al momento della “riconversione” della società feudale nel XIV secolo. Cfr. per esempio il personaggio di Jean Boinebroke, mercante di tessuti a Douai alla fine del XIV secolo, che sfruttava gli artigiani facendoli lavorare con un tale cinismo che questi aspettarono la sua morte per fargli un processo postumo (Georges Espinas, Les origines du capitalisme, Lille, Librairie Emille Raoust, 2 voll., 1933-1936, t. I, 1933). 5 Bisognerebbe aggiungere un'altra forma di individualismo che si potrebbe qualificare come “aristocratico”, collocato verso la sommità della piramide sociale. “Nelle società di cui il regime feudale non è che un esempio, si può dire che l'individualizzazione è massima dal lato dove si esercita la sovranità e nelle regioni superiori del potere. Più si è detentori di potere e di privilegi, più si è marcati come individuo da rituali, da discorsi, da rappresentazioni” (Michel Foucault, Surveiller et punir, cit., p. 194). Tale forma di individualizzazione è stata progressivamente soppiantata da quella che sviluppano il commercio e l'industria. Nella società di Ancien Régime, occorre anche riconoscere un posto al personaggio dell'avventuriero, che compare come tema letterario nel romanzo picaresco spagnolo e si moltiplica nel XVIII secolo (cfr. il personaggio di Casanova). L'avventuriero è un individuo che gioca la sua libertà negli interstizi di una società di ordini in corso di riconversione: conosce perfettamente le regole tradizionali, se ne serve disprezzandole e stravolgendole completamente per far trionfare il proprio interesse o il proprio piacere di individuo.

sovraesposto: si distacca dal tessuto fitto dei rapporti di dipendenze e di interdipendenze che strutturano al tempo la società. “Sunt pondus inutilae terrae”, come dice nel XVI secolo un giurista lionese precedentemente citato: i vagabondi sono il peso inutile della terra. Il vagabondo ha effettivamente pagato molto cara questa mancanza di posto, che lo situa dall'altro lato dello specchio dei rapporti sociali. Ma l'interesse principale di disegnarne la figura attiene al fatto, lo si è visto, che questi rappresenta una posizione-limite rispetto a una gamma di situazioni a cui il cui posto è ugualmente mal assegnato in una società accatastata: “Quarto stato” che non ha, propriamente parlando, uno stato e che riunisce in particolare differenti tipi di relazioni salariali, o pre-salariali, prima della costituzione del rapporto salariale moderno. Esiste allora, nei quadri di una società di ordini, come un brulichio di posizioni individualizzate, nel senso che sono s-legate rispetto alle regolazioni tradizionali, e che nuove regolazioni non si sono ancora fermamente imposte. Individualismo “negativo” perché si declina in termini di mancanza: mancanza di considerazione, mancanza di sicurezza, mancanza di beni garantiti e di legami stabili. La metamorfosi che si opera alla fine del XVIII secolo si può interpretare a partire dall'incontro tra queste due forme di individualizzazione. L'individualismo “positivo” si impone cercando di ricomporre l'insieme della società su una base contrattuale. Tramite l'imposizione di questa matrice contrattuale, sarà chiesto, o si esigerà, che gli individui indigenti agiscano come individui autonomi. Che cosa è in effetti un contratto? “Il contratto è una convenzione con la quale una o più persone si obbligano ver-

so uno o più altri a dare, fare o non fare qualcosa” 6. Si tratta di un accordo di volontà tra esseri “indipendenti e autonomi”, come dice Louis Dumont, per principio liberi nei loro beni e nella loro persona. Queste prerogative positive dell'individualismo si applicheranno così a individui che della libertà conoscono soprattutto la mancanza di legami, e dell'autonomia l'assenza di supporti. Nella struttura del contratto non esiste, in effetti, alcun riferimento a un collettivo, salvo a quello che formano i contraenti tra loro. Non esiste neanche alcun riferimento a protezioni, salvo alle garanzie giuridiche che assicurano la libertà e la legalità dei contratti. Questa nuova regola del gioco contrattuale non promuoverà nuove protezioni, e avrà al contrario l'effetto di distruggere quel che restava delle appartenenze collettive, accentuando così il carattere anomico dell'individualità “negativa”. Il pauperismo – una rappresentazione-limite, come il vagabondo – esemplifica questa desocializzazione completa, che riduce una parte della popolazione industriale a una massa aggregata di individui senza qualità. Tuttavia, come si è potuto mostrare, questa onda di choc dell'ordine contrattuale non ha colpito in pieno che una parte limitata della popolazione. Questa è stata come ammortizzata dal peso della cultura rurale, grazie alla persistenza di forme preindustriali di organizzazione del lavoro e alla forza di modalità della protezione ravvicinata che vi erano associate 7. Ma si compren6 Code civil, art. 1101. 7 Ricordiamo che la ricomposizione contrattuale che ha sconvolto l'organizzazione del lavoro ha rispettato il nucleo tutelare dell'ordine familiare. Se una legislazione liberale del tipo legge Le Chapelier si fosse imposta alla famiglia come si è imposta al lavoro, l'ordine sociale certamente non avrebbe resistito. Solo molto lentamente il diritto di famiglia ha in-

de anche che, per le popolazioni la cui situazione dipendeva da un contratto di lavoro, tutto il movimento che sfocia nella società salariale sia consistito nel superare la friabilità dell'ordine contrattuale per acquisire uno status, cioè un valore aggiunto in rapporto alla struttura puramente contrattuale della relazione salariale. Queste aggiunte rispetto a un “puro” contratto di lavoro hanno operato come riduttori dei fattori di individualismo negativo. La relazione di lavoro sfugge progressivamente al rapporto personalizzato di subordinazione del contratto di affitto, e l'identità dei salariati dipende dall'uniformità dei diritti che sono loro riconosciuti. “Uno statuto (collettivo) si trova accolto in un contratto di lavoro (autonomo e individuale) tramite la sottomissione di questo contratto a un ordine pubblico (eteronomo e collettivo)”8. In altri termini, si tratta certamente di un processo di deindividualizzazione che inscrive il lavoratore in regimi generali, contratti collettivi, regolazioni pubbliche del diritto del lavoro e della protezione sociale. Né tutela né semplice contratto, ma dicluso dimensioni contrattuali, mentre al contrario il diritto del lavoro si caricava di garanzie statutarie. Ma all'inizio del XIX secolo le popolazioni che hanno fornito la materia alle descrizioni del pauperismo si caratterizzavano, a un tempo, per il loro rapporto erratico con il lavoro e la decomposizione della loro struttura familiare: celibi trapiantati in città e tagliati via dai costumi sani che si attribuiscono alle popolazioni rurali, unioni tra operai e operaie delle prime concentrazioni industriali sempre descritte come fragili e immorali, circondate da bambini di incerta provenienza. Né rapporti organizzati di lavoro, né legami familiari forti, né iscrizioni nelle comunità strutturate: i tratti principali dell'individualismo negativo si congiungono per produrre una disaffiliazione di massa. 8 Alain Supiot, Critique du droit du travail, Paris, PUF, 1994, p. 139; trad. it. Critica del diritto del lavoro, Roma, TeleConsul, 1997. Quest'opera spiega in modo assai preciso il ruolo svolto dal diritto del lavoro per passare dal contratto di lavoro allo status di salariato.

ritti e solidarietà a partire da insiemi strutturati intorno al compimento di mansioni comuni. Il mondo del lavoro, nella società salariale, non forma propriamente una società di individui, ma piuttosto un incastro gerarchico di collettività costituite sulla base della divisione del lavoro e riconosciute dal diritto. Tanto che, soprattutto negli ambienti popolari, anche la vita oltre il lavoro è strutturata dalla partecipazione a contesti comunitari, i quartieri, i compagni, il bistrot, il sindacato... Rispetto allo stato di desocializzazione che rappresentava il pauperismo, la classe operaia in particolare si era “fabbricata” forme di sociabilità che potevano essere intense e solide9. Così, se ciascuno senza dubbio può esistere come individuo in quanto persona “privata”, lo statuto professionale è pubblico e collettivo, e questo ancoraggio permette una stabilizzazione dei modi di vita. Una tale deindividualizzazione può anche permettere una de-territorializzazione delle protezioni. Nella misura in cui sono inscritte in sistemi di regolazioni giuridiche, le nuove protezioni non passano necessariamente attraverso l'interdipendenza, ma anche per soggezioni di relazioni personalizzate come il paternalismo del padrone o di rapporti interpersonali che mobilitano la protezione ravvicinata. Esse autorizzano così la mobilità. L'“avente diritto”, diciamo, può per principio essere assicurato tanto a Maubeuge che a Cholet 10. Riterritorializzazione tra9 Cfr., per esempio, le analisi di Edward Palmer Thompson, La formation de la classe ouvrière anglaise, cit., e Richard Hoggart, La culture du pauvre, cit., così come i numerosi studi sulla sociabilità operaia che pongono l'accento, in maniera forse talvolta un po' mitizzata, sulla forza delle sue solidarietà. Per una messa a punto sulla cultura popolare, cfr. Claude Grignon e Jean-Claude Passeron, Le savant et le populaire. Misérabilisme et populisme en sociologie et en littérature, Paris, GallimardLe Seuil, 1989. 10 A indicare due punti estremi del Paese, in questo caso Maubeuge verso

mite il diritto, insomma, o fabbricazione di territori astratti, completamente differenti dalle relazioni di prossimità, e attraverso i quali gli individui possono circolare sotto l'egida della legge. È la disaffiliazione vinta dal diritto. Questa articolazione complessa di collettivi, di protezioni e di regimi di individualizzazione si trova oggi rimessa in questione, e in maniera anch'essa molto complessa. Le trasformazioni che vanno nel senso di una maggiore flessibilità, del lavoro e del fuori-lavoro, hanno di certo un carattere irreversibile. La segmentazione degli impieghi, come l'irresistibile avanzata dei servizi, provoca una individualizzazione delle condotte di lavoro completamente differente dalle regolazioni collettive dell'organizzazione “fordista”. Non è più sufficiente saper lavorare, ma bisogna anche saper vendere e vendersi. Gli individui sono così spinti a definire da sé la propria identità professionale e a farla riconoscere in una interazione che mobilita tanto un capitale personale che una competenza tecnica generale11. Questo annullamento di inquadramenti collettivi e di riferimenti valevoli per tutti non è limitato alle situazioni di lavoro. Il ciclo di vita stesso diviene flessibile con il prolungamento di una “post-adolescenza” frequentemente consegnata alla cultura dell'aleatorio, avatar di una vita professionale più combattuta, e una vita post-professionale che si distende spesso da una uscita prematura dal lavoro fino ai confiNord e Cholet verso Ovest [N.d.R.]. 11 Cfr. le analisi di Bernard Perret, Guy Roustang, L'économie contre la société, cit., cap. II. Per un'interpretazione ottimistica di questo processo, cfr. Michel Crozier, L'entreprise à l'écoute. Apprendre le management post-industriel, Paris, Le Seuil, 1994; trad. it. L'impresa in ascolto. Il management nel mondo post-industriale, Milano, Il Sole-24 Ore libri, 1990.

ni sempre più arretrati della quarta età 12. Una sorta di deistituzionalizzazione, intesa come uno s-legamento rispetto ai quadri oggetti che strutturano l'esistenza dei soggetti, attraversa l'insieme della vita sociale. Questo processo generale può avere degli effetti controversi sui differenti gruppi che tocca. Versante lavoro, l'individualizzazione delle mansioni permette ad alcuni di sfuggire alle costrizioni collettive e di meglio esprimere la propria identità attraverso il proprio impiego. Per altri, essa significa segmentazione e frammentazione della mansioni, precarietà, isolamento e perdita delle protezioni13. La medesima disparità si ritrova nella vita sociale. Vuol dire enunciare un luogo comune della sociologia, ricordare che certi gruppi appartenenti alle classi medie hanno un rapporto di familiarità, ossia una relazione compiacente, con una cultura dell'individualismo che si traduce nell'interesse che si ha per se stessi e i propri affetti e nella propensione a subordinare loro tutte le altre preoccupazioni, come la “cultura del narcisismo”14 o la moda della “terapia per i normali”15 sostenuta dalla posterità della psicanalisi durante gli anni Settanta. Ma era facile allora mostrare che questa cura di sé mobilitava un tipo specifico di capitale culturale e incontrava forti “resistenze” negli am12 Cfr. Xavier Gaullier, La mutation des âges, in “le Débat”, n. 61, 1991, pp. 29-67. 13 Cfr. Alain Supiot, Critique du droit du travail, cit. 14 Cfr. Christopher Lasch, The Culture of Narcissism. American Life in an Age of Diminishing Expectations, New York, Norton, 1979; trad. it. La cultura del narcisismo. L'individuo in fuga dal sociale in un'età di disillusioni collettive, Milano, Bompiani, 1992. 15 Cfr. Robert Castel, Jean-François Le Cerf, Le phénomène psy et la société française, in “le Débat”, n. 1, pp. 32-45; n. 2, pp. 39-47; n. 3, pp. 2230, 1980; trad. it. in Robert Castel, Verso una società relazionale. Il fenomeno “psy” in Francia, Milano, Feltrinelli, 1982.

bienti popolari, perché erano mal armati per dedicarvisi e anche perché i loro investimenti principali si dirigevano altrove. Questa cultura dell'individuo non è morta, e una delle sue varianti ha assunto anche forme esacerbate con il culto della performance degli anni Ottanta16. Ma si assiste oggi allo sviluppo di un altro individualismo, di massa questa volta, e che appare come una metamorfosi dell'individualismo “negativo” sviluppatosi negli interstizi della società preindustriale. Metamorfosi e non riproduzione, perché è il prodotto dell'indebolimento o della perdita delle regolazioni collettive, e non della loro estrema rigidità; ma mantiene il tratto fondamentale di essere un individualismo per mancanza di quadri e non per eccesso di investimenti soggettivi. “Non ha granché a che vedere con un movimento di affermazione di sé – non è per forza il valore dell'individuo che è prioritariamente motore in un processo di individuazione, può forse esserlo altrettanto bene la disaggregazione dell'inquadramento collettivo”17. Si potrebbe così vedere nell'esempio idealtipico del giovane tossicomane di banlieue l'omologo della forma di disaffiliazione che incarnava il vagabondo della società preindustriale. È completamente individualizzato e sovraesposto per la mancanza di legami e di supporti in rapporto al lavoro, alla trasmissione familiare, alla possibilità di costruire un avvenire... Il suo corpo è il suo solo legame, che egli lavora, fa gioire, distrugge in una esplosione d'individualismo assoluto. Ma, come quella del vagabondo, questa immagine vale solo perché estremizza tratti che si ritrovano in una folla di situazioni di insicurezza e di precarietà, che si traducono in traiettorie 16 Cfr. Alain Ehrenberg, Le culte de la performance, Paris, Calmann-Lévy, 1991. 17 Marcel Gauchet, La société d'insécurité, cit., p. 175.

tremule fatte di ricerche inquiete per sbrogliarsela giorno per giorno. Per numerosi giovani, in particolare, bisogna tentare di scongiurare l'indeterminazione della loro posizione, cioè scegliere, decidere, trovare delle combinazioni e mantenere una cura di sé per non affondare. Queste esperienze sembrano agli antipodi del culto dell'io sviluppato dagli adepti della performance o dagli esploratori degli arcani della soggettività. Sono comunque avventure ad alto rischio di individui che sono divenuti tali innanzitutto per sottrazione. Questo nuovo individualismo non è una imitazione della cultura psicologica delle categorie colte, ancorché possa prendere a prestito qualcuno dei suoi tratti 18. Individualità in qualche modo sovraesposta e collocata tanto più in prima linea quanto più è fragile e minacciata di decomposizione, essa rischia perciò di portarsi come un fardello. Questa bipolarità dell'individualismo moderno propone uno schema di comprensione della sfida che ha di fronte oggi la società salariale. L'acquisizione fondamentale di tale formazione so18 È così che un riferimento molto particolare al “culturale” occupa sovente un posto importante in queste vite consegnate all'aleatorio; non la cultura di coloro che frequentano i musei e i concerti per melomani, ma un tentativo continuo di mettere su uno spettacolo o formare un gruppo musicale per esempio, attraversato dalla speranza mezzo fantasticata di essere un giorno riconosciuti, con sullo sfondo senza dubbio una vaga identificazione con la fatica bohémienne che hanno conosciuto alcuni dei più grandi artisti prima che un giorno, bruscamente, la gloria li immortalasse. Certo, ben pochi di questi giovani usciranno con gloria da questi “spazi intermedi”, ma vi è in questo un esempio di quelle avventure “soggettive” attorcigliate ai vuoti di una assenza (assenza di lavoro in primo luogo, perché venti anni fa la maggior parte dei giovani di origine popolare sarebbe andata direttamente in apprendistato o in fabbrica), che pure non sono esenti da coraggio e talvolta da grandezza. Sulla nozione di “spazi intermedi”, cfr. Laurence Roulleau-Berger, La ville intervalle. Jeunes entre centre et banlieue, cit.

ciale è consistita, per dirlo un'ultima volta, nel costruire un continuum di posizioni sociali non uguali ma comparabili, sarebbe a dire compatibili tra loro e interdipendenti. Maniera, e sola maniera che è stata trovata, almeno fino a oggi, di attualizzare l'idea teorizzata sotto la III Repubblica di una “società di simili”, cioè di una democrazia moderna, per renderla compatibile con le crescenti esigenze della divisione del lavoro e la crescente complessità della stratificazione sociale. La costruzione di un nuovo ordine di protezioni, che inscrivono gli individui in collettivi astratti recisi dagli antichi rapporti di tutela e di appartenenze comunitarie dirette, ha potuto assicurare senza troppi urti il passaggio dalla società industriale alla società salariale. Questa modalità di articolazione individuo-collettivo, che non bisogna mitizzare, ma che ha quanto meno mantenuto il “compromesso sociale” fino all'inizio degli anni Settanta, è messa a mal partito dallo sviluppo dell'individualismo e dalla formazione di nuovi modi d'individualizzazione. Ma questo processo presenta effetti controversi poiché rinforza l'individualismo “positivo”, nello stesso tempo in cui dà i natali a un individualismo di massa minato dall'insicurezza e dall'assenza di protezioni. In una tale congiuntura, le forme di amministrazione del sociale sono profondamente trasformate e fanno massicciamente ritorno il ricorso al contratto e il trattamento localizzato dei problemi. Questo non è un caso. La contrattualizzazione traduce, e nello stesso tempo stimola, una ricomposizione dello scambio sociale in modo sempre più individualista. Parallelamente, la localizzazione degli interventi ritrova una relazione di prossimità tra le parti direttamente interessate che le regolazioni universaliste del diritto avevano cancellato. Ma questa ricomposizione è, nel

senso proprio del termine, ambigua, perché si presta a una doppia lettura. Questo nuovo regime delle politiche sociali può in effetti parzialmente interpretarsi a partire dalla situazione antecedente le protezioni, quando gli individui, ivi compresi i più diseredati, dovevano affrontare con i loro mezzi i sussulti dovuti al parto della società industriale. “Fate un progetto, impegnatevi in una vostra ricerca di un lavoro, di un alloggio, in vostre attività per creare un'associazione o lanciare un gruppo rap, e vi si aiuterà”, si dice oggi. Questa ingiunzione attraversa tutte le politiche di inserimento e ha assunto con il contratto di inserimento del RMI la sua formulazione più esplicita: un sussidio e un accompagnamento contro un progetto. Ma non bisogna chiedersi, come per le prime forme di contratto di lavoro, all'inizio dell'industrializzazione, se l'imposizione di questa matrice contrattuale non equivalga a esigere dagli individui più destabilizzati che si comportino come soggetti autonomi? Perché “mettere su un progetto professionale”, o, meglio ancora, costruire un “itinerario di vita” non va da sé quando si è, per esempio, disoccupati o minacciati di essere sfrattati dal proprio alloggio. È una richiesta che avrebbe difficoltà a soddisfare anche molti soggetti ben integrati, perché hanno sempre seguito traiettorie ben fissate19. È vero che questo tipo di contratto è spesso fittizio perché il richiedente è difficilmente all'altezza di una tale domanda, ma è allora l'operatore sociale che diventa giudice della legittimità di ciò che funge da contratto, e accorda o meno la prestazione finanziaria in funzione di tale valutazione. Questi esercita così una vera e propria 19 Cfr. Jean-François Noël, L'insertion en attente d'une politique, in Jacques Donzelot, Face à l'exclusion, cit., pp. 191-201.

magistratura morale (perché si tratta in ultima analisi di valutare se il richiedente “meriti” il RMI), molto differente dall'attribuzione di una prestazione a collettivi di aventi diritto, certo anonimi, ma che almeno assicurano l'automaticità della distribuzione. I medesimi rischi comportati dall'individualizzazione delle procedure minacciano quell'altra trasformazione decisiva dei dispositivi d'intervento sociale rappresentata dalla loro riterritorializzazione. Questo movimento va ben oltre il decentramento poiché è dato mandato a istanze locali di gerarchizzare gli obiettivi, di definire progetti e di negoziarne la realizzazione con le parti interessate. Al limite, il locale diviene anche il globale. Ma la novità di queste politiche non esclude alcune omologie con la struttura tradizionale della protezione ravvicinata. Questa forma più antica della presa in carico, di cui si sono dispiegate molte modalità storiche, passava già per quella che si sarebbe potuta chiamare una negoziazione se la parola fosse allora esistita. Si trattava in effetti sempre, per chi sollecitava un soccorso, di far riconoscere la propria appartenenza comunitaria. Ma questa qualità di prossimo (cfr. cap. I) lo iscrive in un sistema di dipendenze tutelari di cui Karl Polanyi ha descritto la figura-limite con la denominazione di “servitù parrocchiale” (parish serfdom) delle Poor laws inglesi. Quali garanzie si hanno che i nuovi dispositivi “trasversali”, “partneriali”, “globali”, ecc., non facciano nascere nuove forme di neoparternalismo? Certo, l'“eletto locale” è raramente un despota locale, e il “capo-progetto” non è una dama di carità, ma il corso della storia insegna che, fino a oggi, sono sempre esistiti “buoni poveri” e “cattivi poveri”, e che questa distinzione si opera in base a criteri morali e psicologici. Senza la mediazione dei diritti collettivi, l'individualizzazione dei soccorsi

e il potere di decisione fondato su conoscenze interpersonali, dato alle istanze locali, rischiano sempre di riproporre la vecchia logica della filantropia: fai atto di fedeltà e sarai soccorso. Ma il diritto sociale stesso di particolarizza, si individualizza, almeno nella misura in cui una regola generale può individualizzarsi. Così il diritto del lavoro, per esempio, si frammenta ricontrattualizzandosi esso stesso. Al di sotto delle regolazioni generali che danno uno status e una identità forte ai collettivi di salariati, la moltiplicazione delle forme particolari di contratto di lavoro ratifica la balcanizzazione dei tipi di rapporto con l'impiego: contratti di lavoro a tempo determinato, ad interim, a tempo parziale, ecc. Anche le situazioni intermedie tra impiego e non-impiego costituiscono oggetto di nuove forme di contrattualizzazione: contratti di ritorno all'impiego, contratti di solidarietà, contratti di reinserimento in alternanza... Queste ultime misure sono particolarmente significative dell'ambiguità dei processi di individualizzazione del diritto e delle protezioni. Per esempio, il contratto di ritorno all'impiego concerne “le persone che incontrano difficoltà particolari di accesso all'impiego” (articolo L 3224-2 del Codice del lavoro). È dunque la specificità di alcune situazioni personali che apre l'accesso a questo tipo di contratto 20. L'apertura di un diritto è così subordinata alla constatazione di una deficienza, di “difficoltà particolari”, di natura personale o psicosociale. Ambiguità profonda perché l'esercizio di una discriminazione positiva nei riguardi di persone in difficoltà è assolutamente difendibile: possono aver bisogno di una riqualificazione prima di ricongiungersi al regime comune. Ma nello stesso tempo que20 Cfr. Alain Supiot, Critique du droit du travail, cit., p. 97.

ste procedure riattivano la logica dell'assistenza tradizionale che il diritto del lavoro aveva combattuto, cioè che per essere presi in carico occorre manifestare i segni della propria incapacità, una deficienza rispetto al regime comune del lavoro. Come nel caso del RMI e delle politiche locali, questo tipo di ricorso al contratto rischia di tradire l'impotenza dello Stato a gestire una società sempre più complessa ed eterogenea attraverso un rinvio a ordinamenti singolari di tutto quello che le regolazioni collettive non possono più controllare. Questa ambiguità attraversa la ricomposizione delle politiche sociali e delle politiche del lavoro che è in corso da una quindicina di anni. Al di là della “crisi”, essa si radica in un profondo processo di individualizzazione che riguarda anche i principali settori dell'esistenza sociale. Quindi si potrebbe fare il medesimo tipo di analisi a proposito delle trasformazioni della struttura familiare. La famiglia “moderna” si richiude intorno alla sua rete relazionale, i rapporti tra i suoi membri si sono, in questi ultimi anni, contrattualizzati su base personale. Ma, come nota Irène Théry, questa “liberazione” della famiglia nei confronti delle tutele tradizionali produce effetti differenti a seconda dei tipi di famiglia, e i membri delle famiglie economicamente più precarie e socialmente più deprivate possono fare l'esperienza negativa della libertà quando sopraggiunge, per esempio, una rottura coniugale, una separazione o una degradazione dello status sociale21. Il fatto, qui come altrove, di esistere come individuo non è un dato immediato di coscienza. Paradosso di cui bisogna sondare la profondità: si vive tanto più con agio la propria individualità quanto più si può contare su risorse oggettive e protezioni collettive. 21 Cfr. Irène Théry, Le démariage. Justice et vie privée, cit.

Qui è il nodo della questione che pone lo sfaldamento della società salariale, almeno del modello che presentava all'inizio degli anni Settanta. È il nodo della questione sociale oggi. Non si può aver denunciato l'egemonia dello Stato sulla società civile, il funzionamento burocratico e l'inefficienza dei suoi apparati, l'astrazione del diritto sociale e la sua impotenza nel suscitare solidarietà concrete, e contemporaneamente condannare trasformazioni che prendono in considerazione la particolarità delle situazioni e si richiamano alla mobilitazione dei soggetti. Questo avverrebbe d'altronde in pura perdita, perché il movimento di individualizzazione è senza dubbio irreversibile. Ma non si può più trascurare il costo di queste trasformazioni per alcune categorie di popolazione. Chi non può pagare altrimenti deve continuamente pagare di persona, ed è un esercizio spossante. Questo meccanismo si riconosce bene nelle procedure di contrattualizzazione del RMI: il richiedente non ha nient'altro da fornire che il racconto della propria vita con i suoi scacchi e le sue mancanze, e si scruta questo povero materiale per trovare una prospettiva di riabilitazione al fine di “individuare un progetto”, di definire un “contratto di inserimento” 22. I frammenti di una biografia spezzata costituiscono la sola moneta di scambio per accedere a un diritto. Non è certo che sia un trattamento dell'individuo che conviene a un cittadino a pieno titolo. Dunque la contraddizione che attraversa il processo attuale d'individualizzazione è profonda. Minaccia la società di una frammentazione che la renderebbe ingovernabile e di una bipolarizzazione tra coloro che possono associare individualismo e indi22 Cfr. Isabelle Astier, Revenu minimum et souci d'insertion: entre le travail, le domestique et l'intimité, thèse de doctorat en sociologie, Paris, ÉHÉSS, 1994.

pendenza, perché la loro posizione sociale è assicurata, e coloro che portano la propria individualità come una croce, perché significa mancanza di legami e assenza di protezioni. Questa sfida può essere raccolta? Nessuno può dirlo a colpo sicuro, ma ciascuno può convenire sulla strada che bisogna fare. Il potere pubblico è la sola istanza capace di costruire ponti tra i due poli dell'individualismo e imporre un minimo di coesione alla società. I vincoli spietati dell'economia esercitano una crescente pressione centrifuga. Le antiche forme di solidarietà sono troppo consumate per ricostituire basi di resistenza. Quel che l'incertezza dei tempi sembra esigere, non è meno Stato – salvo abbandonarsi completamente alle “leggi” del mercato. Certo non è neanche più Stato – salvo voler ricostruire di forza l'edificio dell'inizio degli anni Settanta, definitivamente minato dalla decomposizione degli antichi collettivi e dall'ascesa dell'individualismo di massa. La soluzione è in uno Stato stratega che ridispieghi i propri interventi per accompagnare il processo di individualizzazione, smorzare i suoi punti di tensione, evitare le sue rotture e rimpatriare coloro che sono caduti al di là della linea di fluttuazione. Uno Stato protettore nonostante tutto perché, in una società iper-diversificata e corrosa dall'individualismo negativo, non c'è coesione sociale senza protezione sociale. Ma questo Stato dovrebbe adeguare i suoi interventi seguendo, il più vicino possibile, le nervature del processo di individualizzazione. Porre questa esigenza non vuol dire attendere che una nuova forma di regolazione statale discenda bella e fatta dal cielo perché, lo si è sottolineato, pezzi di azione pubblica hanno tentato di trasformarsi in tal senso da una quindicina di anni. Ma è come

se lo Stato sociale oscillasse tra tentativi di ridispiegamento, per far fronte a quel che la situazione attuale comporta di inedito, e la tentazione di abbandonare ad altre istanze – all'impresa, alla mobilitazione locale, a una filantropia agghindata di nuovi orpelli, e anche a risorse che gli orfani della società salariale dovrebbero profondere da sé – l'onore di assolvere il proprio mandato di garante dell'appartenenza di tutti a una medesima società. Certo, quando la nave fa acqua, ciascuno è tenuto a sgottare, ma, tra le numerose incertezze di oggi, una cosa almeno è chiara: nessuno può sostituire lo Stato in quella che ne è del resto la funzione fondamentale, per dirigere la manovra ed evitare il naufragio.

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