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Italian Pages 374 Year 2023
Fabrizio D id n
La colto della coscienza 1w ricer a filo ofica ScH1eeoLETH
Il volume è frutto di una ricerca svolta presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia deirUniversità degli Studi di Firenze e beneficia per la pubblicazione di un contributo a carico dei fondi amministrati dallo stesso Dipartimento.
Prima edizione: 1998, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano.
Nuova edizione © 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma.
Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94- 00133- Roma
www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676
n. 14 - novembre 2023 ISBN - Edizione cartacea: 978-88-5529-444-7 ISBN -Ebook: 978-88-5529-457-7
Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: seduto sul telefono © robodread - stock.adobe.com
Per Isacco che nel frattempo è divenuto padre
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Al lettore (25 anni dopo)
Congedandomi dalla prima edizione di questo libro non nascondevo al lettore la buona dose di temerarietà occorsa per scriverlo. L'ardire dello slancio era stato temperato dalla consapevolezza dei limiti del risultato: non un sistema o una teoria della coscien7.a, ma un percorso del pensiero dentro il suo campo concettuale. Un itinerarium mentis in conscientiam, questo intendeva essere il libro. Un itinerario che mirasse a evitare due modi di procedere tra loro specularmente simmetrici: da una parte, l'approccio intemalista di chi considera la coscien7.a un fatto puramente psicologico-soggettivo; dall'altra, l'assunzione di un punto di vista radicalmente estemalista, come se si fosse trattato di un qualsiasi oggetto d'indagine scientifica. A esser posto in questione è qui lo stesso indagante. Nello spazio problematico della coscienza siamo noi stessi a essere implicati. Pensarlo assume, perciò, la forma di un interrogare che riflessivamente trapassa in autointerrogazione. Ne è risultata, così, una nozione di coscien7.a come confine attivo tra interno ed esterno, "soglia critica" tra l'interiorità del soggetto che dice "Io" e la paradossale esteriorità del Sé cui fa riferimento. Soglia emergente di una connessione dialogica, ma anche
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di una divisione polemica tra differenti personae e punti di vista che compongono, dall'origine, il theatrum conscientiae. Un teatro, dove gli attori sono al contempo i testimoni/spettatori e viceversa. Di qui, la centralità riconosciuta all'istanza della voce in quanto espressione di una sintesi tra l'interiorità dell'ascolto e il venir "come da fuori" del comando. Nella voce della coscien7.a, che - come il demone di Socrate - esige di essere ascoltata, è sempre l'Altro in Sé che parla. L'intelletto che gli presta ascolto fa esercizio di una philia verso di sé: verso Sé come un Altro. Con queste premesse, rivendicavo il carattere non "originale" del titolo (L'ascolto della coscienza). Considerato il tema, l'originalità non era la prima cosa da cercare. La mia voleva essere, piuttosto, una ricerca filosofica che prendesse sul serio parole ed espressioni familiari e di impiego quotidiano, proprio a partire dal topos dell'ascolto e da quanto comunemente s'intende connettendolo al termine "coscienza". Senza propormi di offrire un affresco dello stato dell'arte della discussione sull'argomento o una ricognizione critica del suo sviluppo storico, ho individuato di volta in volta testi e autori classici come riferimenti essenziali alla costruzione del mio percorso. Il pensiero di filosofi come Platone e Nietzsche, Plotino e Aristotele, Cartesio e Agostino, Benjamin e Kant, Novalis e Hegel, Husserl e Sartre, Heidegger e Wittgenstein, Derrida e Levinas è stato messo a confronto - nella tessitura di un virtuale dialogo - con quello di teorici contemporanei della coscien7,.a come Daniel Dennett e John Searle, Jerry Fodor e Marvin Minsky, Colin McGinn e Sidney Shoemaker, Ernst Tugendhat ed Eli7,.abeth Anscombe. Tutti questi autori si sono rivelati interlocutori necessari per saggiare filosoficamente lo spazio paradossale della coscien7.a; voci - aggiungerei - che appartengono tutte a una medesima topologia del pensare, a un 34 ? O non è proprio a questo punto che le nostre domande cominciano a inquietarci, quando cioè si capisce che il senso del limite non indica qui un oltre il linguaggio, un fuori di esso, ma bensì un fuori in esso? Tutto dipende da come si intende il rapporto tra il linguaggio e il suo limite: se interno o puramente esterno alla dimensione linguistica. Ricordiamo la celebre sentenza che chiude il§ 109 delle Ricerche .fiwso.fiche: «la filosofia è una battaglia contro l'incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio»3.5. Di questo incanto fa parte, però, anche il credere che il linguaggio, nella sua dimensione ordinaria, possa significare la quiete per il pensiero: che ogni inquietudine e ogni fraintendimento, insomma, vi vengano meno. La condizione del fraintendersi è piuttosto essenziale alla dimensione stessa dell'intendersi. E una volta sgombrato il terreno dai fraintendimenti, si tratta sempre di capire come sia possibile intendersi e, dunque, in cosa consista intendere l'intendersi stesso. Semmai il linguaggio è proprio lo spazio dell'infinita sfumatura al confine tra il fraintendersi e l'intendersi: lo spazio virtualmente infinito del chiarimento. Quello spazio segnato da un'irriducibile differenza e tensione tra la dimensione del senso e quella del significato. La vacan7.a del linguaggio implica allora, in qualche modo, la differen7.a 34. Ivi, p. 49. 35. Wittgenstein, RF, § 109, p. 66.
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fregeana tra significato e sensa16, ma senza assegnare al senso l'appartenenza a un qualche linguaggio ideale o comunque a un «terzo regno». Se invece fosse così, avrebbe ragione Wittgenstein: non faremmo altro che duplicare all'infinito un'ombra ideale del linguaggio comune nella vana pretesa di migliorare il suo «essere perfettamente in regola»37•
36. Con la differenza tra senso (Sinn) e signifìcato (Bedeutung: traducibile anche con "signifìcazione" o "denotazione"), tracciata nel famoso saggio del 1892, Frege distingue tra l'estensione di un'espressione linguistica (ossia l'insieme di tutti gli enti cui tale espressione si riferisce) e la sua intensione (ossia il suo autonomo contenuto concettuale). È appunto in relazione alla dimensione intensionale del senso che Frege postula, oltre il mondo interno dei contenuti di coscienza e quello esterno delle cose sensibilmente percepibili, l'esistenza di un «term regno» degli oggetti di pensiero (molto vicino, per questo aspetto, al mundus intelligibilis delle idee platoniche; e&. Frege, RL, pp. 60 ss.). 37. Wittgenstein, LBM, p. 40.
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II Il senso dell'ascolto
1. Della differenza tra senso e significato Come distinguere il senso dal significato se teniamo ferma la tesi che il significato e il segno stesso che lo esplicita vivono solo nell'uso linguistico? Con una battuta potrei rispondere: restituendo il senso a sé stesso ovvero dando al senso quanto gli spetta: sentire e intelligere in uno. Nel termine senso, dunque, risuonerebbe l'unità stessa di un afferrarsi intelligente: di un toccarsi della mente, di una sua interna sensibilità e - nello stesso tempo - di una intelligibilità del sensibile. Così asserendo - speculando sul senso del senso - sembra che continuiamo ad alimentare quell'illusorio atteggiamento dogmatico in cui ci si limita a fissare una parola aspettandosi di trarne l'essenza nascosta. Ma non è così. Pur sottolineando il carattere ancipite del termine "senso", continuo sempre a seguire l'invito di Wittgenstein e non immagino affatto «il significato come un nesso occulto istituito dalla mente tra una parola e una cosa» 1• Penso piuttosto che il senso non coincida con il significato, senza per questo avere l'autoconsistenza di
1. Wittgenstein, LBM, p. 100.
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un'interfaccia tra la mente e il linguaggio, cosa che costituirebbe dawero un inutile raddoppiamento. Così, infatti, il senso o quella che Wittgenstein chiama l'idea-immagine mentale vivrebbe di un'esisten7.a parassitaria: quella di un fantasma nascosto e inafferrabile che si cela nelle pieghe della mente o del linguaggio (a seconda dei punti vista da cui si considera il problema). Qui non c'è niente di nascosto da rivelare. Il senso di una parola o di una proposizione non ha niente di recondito. Quello che si spaccia spesso come il senso originariamente nascosto di una parola - quel senso che l'uso occulterebbe - non è altro che uno dei suoi significati possibili (ad esempio un significato arcaico). Cosa intendo allora con la non coinciden7.a tra senso e significato? Semplicemente che la dimensione del primo è in una qualche misura metalinguistica: sta al confine del gioco linguistico come il suo limite interno e proprio perciò inafferrabile linguisticamente ma, insieme, pur sempre differente dalla dimensione stessa del riferimento. Lo stesso Wittgenstein, del resto, nelle Notes on Logie del 1913 aveva distinto fregeanamente tra senso (Sinn) e significato (Bedeutung) di una proposizione, definendo il primo come la bipolarità dell'enunciato, il suo essere essenzialmente vero o falso, e dunque come ciò che comprendiamo quando comprendiamo l'enunciato, mentre il significato indicherebbe il fatto che gli corrisponde: Né il senso né il significato di una proposizione è una cosa. Queste parole sono simboli incompleti. 2
Se la vita del significato sta nell'uso, ciò implica per Wittgenstein tutta la tematica del seguire una regola. Ed è appunto in virtù di questa implica7Jone che si può criticare r argomento del linguaggio privato. Nell'uso linguistico il significato si espone sempre come qualcosa di condiviso, come qualcosa che ac-
2. Wittgenstein, TLP, p. 202.
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quista senso nell'interrelazione dinamica con altri significati. Non esiste, insomma, l'oggetto-significato se non in una maniera pragmatico-relazionale. Owero: il senso del significato di un termine è comprensibile soltanto alla luce del contesto in cui è proferito. Solo il contesto potrà spiegare a cosa ci si riferisce con una qualsiasi espressione del linguaggio ordinario, permettendo di capire il senso della frase (senza niente togliere alla decisività del momento del "puro" ascolto). Nel "contesto" - così potrebbe suonare una versione semplificata della tesi di Wittgenstein - ogni spiegazione si ferma. Tutte le nostre possibili inferenze e congetture trovano qui il loro punto di arresto. Forma di vita e gioco linguistico si stringono in questa relazione e a questo punto, per Wittgenstein, non pare vi sia altro da indagare. Eppure, ciò non implica affatto3 cadere in una qualche versione di comportamentismo linguistico o in una qualche forma di relativismo pragmatico (o di contestualismo)4. La via d'uscita da questa secca alternativa è indicata dalla necessità d'indagare la relazione stessa tra forme di vita e giochi linguistici, dalla necessità di interrogare ancora sia il modo in cui il segno si rapporta al mondo, dopo il
3. Come gli interpreti più accorti di Wittgenstein hanno inteso; cfr. ad esempio D. Pears, The False Prison. A Study ofthe Development ofWittgensteins Philosophy, Clarendon Press, Oxford, 1987-1988, voi. I, pp. 312-313 e passim, e J. Schulte, Wittgenstein, cit., pp. 202-203. 4. Mentre nel primo caso il senso si risolverebbe senza residui nell'effettivo impiego del linguaggio (nel comportamento linguistico tout court), nel secondo la sua intelligibilità richiederebbe la considerazione delle differenti contingenze (o forme di vita) in cui tale impiego s'incarna e/o dei contesti in cui in cui una proposizione occorre. Che la posizione di Wittgenstein nelle Ricerche non possa ridursi a tali soluzioni, lo testimonia innanzitutto il fatto che qui il proposito dell'autore è quello di guardare attraverso i fenomeni del linguaggio: piuttosto che all'effettività dei fenomeni la sua ricerca si rivolge alla "possibilità" di essi; cfr. Wittgenstein, RF, § 90, p. 60.
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Tractatus e la sua crisi5, sia il modo in cui il segno-significato si rapporta al senso. È appunto a questo proposito che possiamo cogliere l'irriducibilità del senso tanto al significato (al "sistema" segnico del linguaggio) quanto al mondo (alla realtà delle forme di vita). Il senso, in altri termini, è esterno al linguaggio nella stessa misura in cui è esterno al mondo. Ma non è nemmeno un tertium ideale o un'ombra oltre di essi (oltre il mondo e il linguaggio). Se sostenessimo ciò, identificheremmo la dimensione del senso con la dimensione stessa dell'intesopensato in quanto distinta dal detto e così avremmo riaperto la porta a un qualche linguaggio ideale (logico o fenomenologico) o a una versione blanda del solipsismo: a una versione che potremmo dire del solipsismo linguistico-culturale o solipsismo del contesto (nel senso appunto che ogni forma di vita in cui si radica un gioco linguistico sarebbe radicalmente intraducibile in un'altra). Semmai il senso può essere identificato con la possibilità immanente di congiunzione e disgiunzione interna alla relazione stessa. Quella possibilità che sola può spiegare l'atto della comprensione come un afferrare il senso tanto di una frase che di una situazione. Al di fuori di questa possibilità della congiunzione e della disgiunzione il senso si avvicina a nulla. Ma di esso si può dire quanto Wittgenstein afferma della sensazione: non è qualcosa eppure non è nulla. Questo vuol dire allora che il senso è una sorta di proiezione della sensazione che gli corrisponde: un suo 5. Con qualche approssimazione potremmo riassumere il senso di questa "crisi" nell'abbandono di una teoria della corrispondenza tra la struttura logica del linguaggio e quella del mondo, tale per cui comprendere il funzionamento del linguaggio significa, in qualche modo, "vedere" il mondo come effettivamente si dà (come totalità dei casi). Ma questo-come invita a pensare la penultima proposizione del Tractatus (la 6.54) - non significa ancora «vedere rettamente il mondo». Ciò implica il «sentimento del mondo come un tutto avvolto da confini»: quel senso del confine che apre allo spazio trascendente-trascendentaledell'etica (cfr. J. Schulte, Wittgenstein, cit., p. 86).
47 correlato ideale? Sostenendo ciò ci arresteremmo a un platonismo di comodo, oppure a una qualche stanca prosecuzione della teoria lockeana della derivazione dell'idea dalle sensazioni. La mia tesi a tale proposito è più forte: il senso costituisce la possibilità stessa della sensazione appunto in quanto la sua dimensione è coestensiva a quella stessa della coscien7.a. Si potrebbe addirittura radicaliv,are la critica di Wittgenstein alla possibilità di un linguaggio privato. Quest'ultimo è impossibile, in ultima istaw,a, in quanto è la stessa dimensione della coscienza a non essere pensabile privatamente, in solipsistico isolamento. Ed è quanto appunto emerge nella costitutività del rapporto che vige tra senso e coscien7.a. Solo in virtù di questa relazione costitutiva può sorgere il linguaggio come qualcosa di intrinsecamente regolativo. Nel senso vige, in altri termini, qualcosa di simile a una funzione meta-regolativa che rende possibile non solo quel seguire immanentemente una regola in cui consiste lo stesso uso linguistico, ma pure il passaggio da una regola alraltra. Il lato del senso - limite interno del linguistico stesso - rappresenta quindi il lato rivolto alla comprensione (all'intelligen7,a) del linguaggio e dunque del significato. Passività e attività, nella dimensione del senso immanente al linguaggio, coincidono. È «afferrare» di Frege, quella sfuggente dimensione rispetto alla quale egli conduce la sua lotta con il linguaggio. Con la differen7,a che Frege identifica il contenuto di questo afferrare con autonomia del pensiero, con il suo non appartenere «né al mio mondo interno come rappresentazione né al mondo esterno, al mondo delle cose percepibili sensibilmente»6 • A questo proposito Wittgenstein ha buon gioco nel criticare la possibilità di un platonismo dogmatico che affermi r esisten7,a di un esser vero dei pensieri indipendentemente dal loro venire pensati e dunque incorporati-espressi nel
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6. Frege, RL, p. 69.
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linguaggio. Wittgenstein, in altri termini, ha buon gioco nel criticare il logicismo fregeano del senso. Il presupposto di questa sua critica è la non oggettività del senso e dunque la sua non scorporabilità dal linguaggio come fosse oggetto di un'intenzione che il pensiero può afferrare nella sua nudità. Se il senso coincidesse del tutto con l'oggetto dell'intenzionalità dell'intendere (o voler-dire) sarebbe impossibile, nel contesto dell'equazione tra uso e signifìcato, differenziarlo dallo stesso signifìcato. La differen7.a nasce dal fatto che per intendere devo in qualche modo aver già inteso e viceversa; ossia, proprio in virtù di questo "viceversa", tanto l'intendere che l'aver inteso si danno immediatamente nell'atto dell'afferrare il senso1•
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A questo punto il rischio che il senso non sia distinguibile dal signifìcato, e quindi dal gioco in cui una parola o una proposizione occorre, è un rischio nient'affatto trascurabile. Lo svolgimento che Wittgenstein dà a questo problema conduce infatti a identificare atti come l'intendere e il comprendere (l'intenzione e la comprensione) con delle disposizioni di cui non si ha alcuna esperienza (da cui siamo in qualche modo agiti), in quanto non sono appunto «processi psichici» o «stati della coscienza»8 • Come ha ben spiegato Dummett, così inteso r afferrare il senso non significherebbe altro che l'esplicazione di un'abilità, quella del capire. Di conseguen7.a, «se questo punto di vista fosse difendibile», non si potrebbe far altro che concludere che «la nozione di capire un certo proferimento» si riduce «a quella di ascoltarlo, avendo al tempo stesso una comprensione disposizionale del senso delle parole componenti e delle costruzioni impiegate>>9. Lasciando da parte la questione dell'incrocio tra 7. Cfì-. M. Dummett, Alle origini della filosofia analitica, tr. it. di E. Picardi, il Mulino, Bologna 1990, p. 79. 8. Cfì-. per questo Wittgenstein, RF, § 154, p. 83; OFP, Il, § 178, pp. 370371; ZETT, § 45, p. 13. 9. Cfì-. M. Dummett, Alle origini della filosofia analitica, cit., p. 76.
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l'estensionalità e l'intensionalità dei significati che qui emerge come implicata nella nozione stessa del capire (e nella sua stessa esplicazione), mi chiedo se, pur rifiutando di ricorrere alla «mitologia del terzo regno» (come la chiama Dummett), una soluzione del genere possa dirsi soddisfacente. È veramente un gioco insano da cui bisogna guarire quello di interrogare il senso di "afferrare il senso"? E con una domanda del genere s'intende proprio "afferrare il senso" oltre ogni significato: il che certo si potrebbe anche esprimere come il problema di afferrare il senso dell"'afferrare il senso". Subito si penserebbe a una sorta di ritrascrizione del problema nella chiave di una riflessione che assuma a proprio oggetto il linguaggio. Una tale ritrascrizione incontrerebbe subito, però, l'obiezione wittgensteiniana che qui non c'è alcuna essen7,a nascosta dell'"afferrare il senso", ma vi sono soltanto i differenti impieghi di questa espressione nei differenti contesti. L'unità del significato allora, oltre che dal rapporto tra i vari sintagmi che formano la proposizione senz'altro alquanto ellittica, sarebbe fornita dalla somiglian7,a tra i diversi giochi linguistici in cui tale proposizione esplica un qualche ruolo. Ma così, potremmo rispondere, non facciamo altro che definire in qualche modo, in virtù di un'inferen7,a analogica, l'unità del significato: quell'unità che all'interno del nostro linguaggio ci è familiare. Tale unità, però, niente ci dice dell'identità del senso. Cerco di chiarire con un esempio. Poniamo il caso che la questione di capire in cosa consista !"'afferrare il senso" si declini nell'imperativo "Afferra il senso (di quanto intendo o dico, ecc.)!" - l'esempio qui non è vincolante e potremmo anche mutarlo nell'interrogativo "Hai afferrato il senso di ... (e tutto quel che segue)?'', oppure nell'affermazione "Ho afferrato il senso di ... (e tutto quel che segue)". In tutti questi casi il senso stesso dell'afferrare si diversifica a seconda che l'imperativo (o la domanda o l'affermazione) occorra in un contesto militare, in famiglia, in confessionale, tra amanti, tra amici e così
50 via. Il senso si diversifica ovviamente in relazione al contesto e in una certa misura anche in relazione alla natura pragmatica dell'enunciato (un ordine, un invito, ecc.), pur permanendo una comunità analogica del significato dei termini in gioco dovuta alla similarità o addirittura all'identità dell'espressione. Ma tutto questo niente ci dice ancora del problema relativo alla possibilità di "afferrare il senso" in ognuno dei singoli casi e ali'atto che implica. Il problema, insomma, non è risolto assegnando la dimensione del senso allo spazio proposizionale e quello del significato allo spazio della parola1°. Con questa distinzione non intendo rimandare ali'esistenza di due tipi di espressione linguistica: quella della senten7_.a e quella della singola parola 11 • La distinzione qui è più funzionale che sostanziale: la dimensione del senso può riguardare tanto la singola parola che la proposizione, a patto che le si intenda sullo sfondo del rapporto tra il detto e il dire: nel loro esser pronunciate/usate. Fuori di questa connessione - nell'astrazione da ogni senso: nella pura l,angue come un sistema di segni e dunque fuori dalla dimensione saussuriana della parok - la stessa proposizione potrebbe venire intesa dal punto di vista del significato (ad esempio quando si trattasse di una definizione). Di una qualche plausibilità, perciò, è la distinzione tracciata da Garver 12 tra il modo in cui Wittgenstein nelle Ricerche impiega il termine Gebrauch (uso), relativo all'uso di una parola all'interno di un linguaggio, e il termine Verwendung o An10. Questo, nonostante le osservazioni di G. Hallet,A Companion to Wittgensteins "Philosophical lnvestigations", Cornell University Press, IthacaLondon 1977, p. 206, e le conclusioni che ne trae N. Garver, Wittgenstein's Dualism, in B.F. McGuinness - A. Gargani (a cura di), Wittgenstein and Contemporary Philosophy, in «Teoria», V, n. 2, 1985, pp. 73-95: pp. 90 ss. 11. Come invece sostiene N. Garver, Wittgenstein's Dualism, cit., p. 91. 12. Ivi, pp. 91-92.
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werulung o Nutzen (impiego), proprio dell'uso all'interno di attività o giochi linguistici. Nel primo caso si tratterebbe dell'uso in un senso intra-linguistico, nel secondo sarebbe in questione il rapporto tra il linguaggio e qualcosa che linguaggio non è. Nel primo caso, quello del significato, il punto di vista che si assume è quello della regola in quanto è stata seguita, owero della regola nel suo aver avuto effetto. Nel secondo si pensa la regola in rapporto a colui che la segue. Ed è qui che si radica la differenza-tensione tra senso e significato. Ma questa differen7.a non è più quella tra linguaggio e mondo alla base del Tractatus, è piuttosto una differen7.a interna al linguaggio come differenza relativa al rapporto tra condizione e limite, e dunque tra azione e intenzione/comprensione, tra convenzione ed espressione, tra regola e applicazione. Ciò rimanda certamente alla persisten7.a di un dualismo con cui il Wittgenstein delle Ricerche continua a lottare, ma questo dualismo non è più quello di tipo metafisico-sostanziale tra linguaggio/ pensiero e mondo che fa da sfondo al Tractatus. Se di dualismo si deve parlare, dobbiamo definirlo piuttosto come un dualismo funzionale-trascendentale: un "fantasma" di dualismo13 del tutto interno al problema del rapporto tra coscien7.a e linguaggio. Il limite del linguaggio che esso implica, cioè, non riguarda più il versante tutto esterno del mondo, verso cui ogni parola tenderebbe quasi "aggettando" sul proprio limite.
Rispetto a questo residuo di metafisica non '1avorata" le Ricerche escono del tutto vittoriose. Da questo punto di vista il linguaggio non può che rivelarsi una «falsa prigione» 14 . Ma la differenza tra senso e significato rimanda, come abbiamo visto, a un altro limite, del tutto interno all'implicazione mondolinguaggio in una determinata forma di vita e nei giochi lingui13. Cfr. ivi, p. 94. 14. Cfr. in merito D. Pears, The False Prison, cit., voi. II, che a questo tema dedica tutta la sua ricerca.
52 stici che in essa si radicano. Nei confronti di questa internità, però, non è affatto sufficiente sostenere che le «categorie ontologiche sono state[ ... ] rimpiazzate dalle dimensioni dell'attività umana» 15• Appunto perché all'interno di esse si pone il problema del rapporto tra regole e applicazione non solo come un'impacificabile tensione tra individuale e sociale (tra l'individualità dell'atto e dell'intenzione e la socialità della regola), ma anche e soprattutto come il problema del rapporto tra la societas della mente e l'unità della coscienza 16• Ed è da questa irrisolta dualità che emerge lo stesso circolo tra l'intendere e la comprensione all'interno del quale s'inscrive la dimensione del senso. Una dimensione ai limiti del linguaggio, ripeto, non però come un oltre-di-esso, bensì come la condizione interna del suo stesso impiego. E, dunque, nient'affattoda intendersi come un'interfaccia o un'ombra tra il significato e la comprensione o tra il significato e l'intenzione. Così affermando, accolgo senz'altro la revisione wittgensteiniana della teoria degli atti intenzionali sostenuta nelle Osservazioni filoso.fiche; una revisione che si presenta a partire dalle Lezioni 1930-1932 per essere poi sviluppata in Libro blu e Libro marrone. Mentre nelle Osservazioni Wittgenstein riteneva ancora che l'atto intenzionale potesse rappresentare un «ombra anticipatrice» del suo risultato 17 (una sorta di intermezzo tra la proposizione e il fatto), nella Lezione B VIII respinge questa teoria come un'inutile duplicazione: «La supposizione di un legame intermedio [intermediate link] non ci aiuta, dal momento che avremmo bisogno di un altro legame tra l'ombra e la realtà, e
15. Comesostenuto in N. Garver, Wittgenstein's Dualism, cit.,p. 94. 16. Per questo accenno si veda il cap. III. 17. Cfr. per questo A.G. Gargani, Linguaggio, sistema e calcolo, in Wittgenstein, LEZ, pp. 159-181: p. 179.
53 così all'infinito» 18• Quel che vale per l'intenzione, se ricordiamo il viceversa tra l'intendere e l'aver già inteso cui si è accennato in precedenza, vale allora anche per !'"afferrare il senso". Nessuna duplicazione inutile o puramente umbratile. Il problema dell'ombra, del resto, è solo un indizio di quello della luce. Fuor di metafora: il problema vero nella sporgen7.a del senso sul significato sta nel tratto che congiunge in un unico gesto mentale l'intendere (dell'intenzione) e l'afferrare (della comprensione). È il tratto di questo stesso gesto volto al linguaggio e, nello stesso tempo, al mondo, ma esterno in qualche modo a entrambi (proprio per il suo carattere costitutivo). Un tratto ancipite: un quasi-nulla che esiste solo nel viceversa tra l'intendere e l'afferrare. Grazie ad esso possiamo consentire con Wittgenstein che il senso resta sempre un simbolo incompleto. In questo tratto, una volta che si è escluso di poterlo intendere come un'ombra intermedia tra la parola e il significato, il senso appare come un residuo opaco dell'insufficien7.a del linguaggio a spiegare sé stesso, così come dell'insufficien7.a del mondo, dei casi che vi occorrono, a spiegare il linguaggio. Un residuo opaco che dovremmo abituarci a pensare piuttosto come un punto luminoso. Il punctum di una relazione.
2. «Afferrare il senso": la coscienza tra disposizione e intenzione La questione dell"'afferrare il senso" non è di quelle che la filosofia possa affrontare con tranquillità 19 • Al riguardo la senten7.a di Wittgenstein relativa alla perdita dell'aura da parte della fìlosofìa (del tutto analoga a quella di Benjamin nei confronti
18. Wittgenstein, LEZ, p. 64. 19. Cfr. perciò Wittgenstein, FIL, p. 75.
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dell'opera d'arte) suona vera soltanto a metà. Sembra prendere strategicamente distan7.a dal filosofare della tradizione, così come Benjamin prendeva distan7.a dalle categorie tradizionali dell'estetica. Perdita dell'aura e progresso tecnico anche per Wittgenstein vanno di pari passo: «La filosofia ora si sta riducendo a una questione di abilità»2(). Qui Wittgenstein pare addirittura intravedere il tecnicismo della fì.losofia dopo la svolta linguistica: dopo il vero e proprio terremoto concettuale provocato dalle sue Ricerche. Un tecnicismo generato anche da quanto in questo testo si offriva al fraintendimento, e dunque dalla rimozione di quell'impulso ad avventarsi contro il limite del linguaggio dal quale lo stesso Wittgenstein vuole eroicamente difendersi, non riconoscendo che lo spazio dell'etica non può essere quello del silenzio. Non riconoscendo, insomma, che nell'etica è l'origine della filosofia, anzi: etica è la stessa fì.losofia in quanto pensiero in cerca di sophrosyne. Ma di questo più avanti 21• Basti osservare per adesso che la questione dell'afferrare il senso affiora nella stessa ordinarietà del linguaggio, "bucando" in qualche modo la stessa riduzione della filosofia a tecnica analitico-linguistica. Nessuna analisi delle occorrenze e dei loro significati ci dirà niente a tal proposito. La questione ritorna, insomma, nella vacan7.a del linguaggio. Il che ovviamente, e sia detto una volta per tutte, non significa affatto che non si possa dire nel linguaggio. Significa semplicemente che tanto il senso del linguaggio come il senso del mondo stanno faori di entrambi. E dunque dentro; nell'intimo della loro origine: in quel tratto che internamente congiunge e insieme può separare intenzione e afferramento. In quel tratto - come vedremo - dove il sapere implica l'ascolto, anzi è uno con quest'ultimo.
20. Wittgenstein, LEZ, p. 39. 21. Per come questo senso dell'etica implichi un'ontologia dell'alterità rimandiamo al cap. IV.
55 Di nuovo, insomma, con la questione di afferrare il senso del-
l'"afferrare il senso" ritorna il problema dell'afferrar-si dell'afferrare. La sporgenza del senso sul significato ci rimanda ancora all'immagine del volgere l'attenzione alla propria coscienza da cui eravamo partiti chiamando in causa il nome di Wittgenstein. C'è insomma un'affinità problematica tra la domanda relativa al senso (in quanto differente da ogni possibile significato) e quella relativa alla coscienza (in quanto differente dai singoli stati di essa) e quest'affinità, adesso, si tratta di svolgere. Come chiarisce il§ 413 delle Ricerche filosofiche, successivo a quello in cui è menzionato «abisso tra coscien7.a e processo cerebrale», il contesto è qui quello di una discussione con la psicologia di James, e in particolare con la sua analisi del rapporto tra coscien7.a e introspezione:
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Qui abbiamo un caso di introspezione, non dissimile da quello da cui William J ames ricavò l'idea che l"io' consista principalmente di 'peculiar motions in the head and between the head and throat'. E ciò che l'introspezione di James mostrava non era il significato della parola «io» (in quanto significa qualcosa di simile a ciò che significano le espressioni «persona», «essere umano», «egli stesso», «io stesso»), né un'analisi di unasifTatta entità, ma lo stato di attenzione di un filosofo che enunci a sé stesso la parola «io» e voglia analiz7.arne il significato. (E da questo ci sarebbe molto da imparare).22
In questo passo è più interessante quanto Wittgenstein omette di quel che effettivamente dice. L'omissione riguarda il contesto più generale della citazione tratta da James ossia la teoria che in ultima istan7..a «the 'self of selves', when carefully examined», risulta consistere principal,m,ente della «collection of [ ... ] peculiar motions in the head or between the head and
22. Wittgenstein, RF, § 413, p. 164.
56 throab>2.1. Wittgenstein glissa qui sulla teoria jamesiana della coscien7.a come non-entità24, pura collezione di stati della mente riducibili a processi nella testa, per attaccare il concetto d'introspezione "filosofica". Questa non rivelerebbe né il significato della parola "Io" né il carattere problematico del suo costituire una qualche entità. Rivelerebbe, piuttosto, l'artificialità dello stato mentale di un filosofo che volge l'attenzione a sé stesso. Il senso dell'osservazione sembra così scorrere in una duplice direzione. Da un lato, verso la pretesa che l'introspezione possa significare un guardar dentro quanto accade nella mia testa; quelli di James non sarebbero, insomma, altro che enunciati interni alla sua filosofia e non rivelerebbero niente di quel che i termini "Io" o "coscien7.a" significano nell'uso del linguaggio ordinario. Dall'altro (ed è questo il lato più interessante), verso la generale problematicità del parlare dell"'aver coscien7.a" come di un'esperien7_.a (è quanto Wittgenstein sviluppa nei §§ 416-427). C'è una critica al modo in cui James intende il significato di introspezione (come un tramite di comunicazione tra psichico e fisico), e c'è, insieme, una problematiZ7_.azione dell'atto introspettivo. Così Wittgenstein sfiora la questione del carattere di anteriorità della coscien7.a rispetto a ogni esperien7.a, ma subito se ne ritrae ripiegando verso osservabili evidenze: Ciò che noi forniamo sono, propriamente, osservazioni sulla storia naturale degli uomini; non però curiosità, ma costatazioni di cui mai nessuno ha dubitato e che sfuggono all'attenzione solo perché ci stanno continuamente sott'occhio.25
Espressioni come "mi accorgo di aver coscienza" niente, allora, aggiungono al fatto che si è coscienti o che, come uomini,
23. James, Principles, voi. I, p. 301. 24. Cfr. al riguardo G. Hallet,A Companionto Wittgenstein's "Philosophical, lnvestigations», cit., pp. 453-463. 25. Wittgenstein, RF, § 415, p. 165.
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abbiamo coscien7.a. I.:accorgersi, insomma, starebbe semplicemente a indicare che «la mia attenzione è orientata in questo modo così e così» e non dice affatto che «sono [ ... ] cosciente»2.&. Il significato di tale osservazione lo specificano i paragrafi successivi, dedicati all'attribuzione o meno della coscien7_.a agli altri. Che cosa significa - si chiede Wittgenstein - immaginare che «gli uomini intorno a me siano automi privi di coscien7.a, anche se il loro comportamento è lo stesso di sempre»27? È forse un'idea un po' sinistra - risponde - che si rivelerebbe del tutto insignificante qualora la si considerasse nelle nostre faccende quotidiane. La critica pare spostarsi da James a Cartesio (al suo dubbio metodico) per coinvolgere l'atteggiamento del filosofo nei confronti del "mondo della vita". Automi, anzi spettri sono quelli che Cartesio immagina gettando lo sguardo fuori dalla finestra: di essi, della loro esistenza in quanto res dotate di coscien7.a si può dubitare, ma non del pensiero che ne dubita. Wittgenstein sembra porre in ridicolo o almeno rendere niente più che un'idea sinistra proprio questa abbreviazione del cogito cartesiano. L'immagine che il pensiero ha di fronte a sé - in primo piano - non è quella della propria purezza e autonomia, bensì il suo essere incarnato in un linguaggio, e quest'ultimo non è mai riducibile a un contenuto privato. La critica generale ali'accesso introspettivo come accesso interno al solo pensiero - quell'accesso in cui il pensare si accerta di sé - si fa così critica della coscienza come pura immaginazione (tutta interna a sé stessa). Il sapere proprio della coscienza non è pensabile fuori o prima del linguaggio; l'auto-considerazione della coscienza necessita, insomma, di un punto di vista esterno. Qui però cominciano i problemi: «c'è un'immagine in primo
26. lvi, § 417, p. 165. 27. lvi, § 420, p. 166.
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piano, ma il senso si trova lontano, sullo sfondo; cioè, l'applicazione dell,immagine non è facile da cogliere chiaramente»28 • La critica wittgensteiniana alla coscienza come introspezione riguarda, si è detto, il suo preteso iconismo interno. L'internità delle immagini in cui si dovrebbe sprofondare guardando dentro di sé non spiega né la genesi della coscienza né quella del senso. Ciò implicherebbe la possibilità per l'immaginazione di riferirsi a sé, implicherebbe la possibilità d,intendere la coscienza di sé come auto-trasparen7.a: trasparenza a sé stessa nel medium diafano delle immagini che la coscien7.a spontaneamente produce. Ma ancor prima che sullo scoglio del linguaggio, questa possibilità fa naufragio su quello del senso: sul suo carattere paradossalmente esterno (non solo al mondo e al linguaggio, ma alla stessa dimensione immaginale). Ed è per questo che Wittgenstein non può che scartare la possibilità di identificare univocamente il senso con un,immagine: Viene evocata un'immagine che sembra determinare univocamente il senso. In confronto a quello che l'immagine ci suggerisce l'impiego effettivo sembra qualcosa di contaminato. Qui avviene di nuovo come nella teoria degli insiemi: Il modo di esprimersi sembra tagliato per un dio, il quale sa ciò che noi non possiamo sapere: vede tutte intere le successioni infinite, e vede nella coscienza degli uomini. Naturalmente queste forme di espressione sono, per noi, quasi un paramento che indossiamo, ma del quale non sappiamo che fare, perché ci manca il potere reale, che darebbe a questa veste significato e scopo. Nell'impiego effettivo delle espressioni facciamo, per così dire, lunghi giri, percorriamo strade secondarie. Vediamo bensì davanti a noi la strada larga e diritta, ma non possiamo certo servircene, perché è permanentemente chiusa. 29
28. lvi, § 422, p. 166. 29. lvi, § 426, p. 167.
59 La via «permanentemente chiusa» pare qui queJla dell'immagine come anteriore alla molteplicità dei significati linguistici o comunque come sinteticamente risolutiva delle loro differenze. La via impercorribile sembra allora proprio quella che identifica senso e immagine fino ad attribuire a una rappresentazione interna la virtù di costringere la plurivocità del significare nell'unità-univocità del senso. Così Wittgenstein risponde in maniera definitivamente negativa alla domanda che si era posto nel § 139: «Che cos'è, propriamente, quello che sta davanti alla nostra mente quando comprendiamo una parola?- Non è qualcosa come un'immagine? Non può essere un'immagine?» 30• Già nel contesto dei paragrafi successivi, del resto, una soluzione del genere si era rivelata impraticabile: la comprensione, vi si sosteneva, non è costretta dall'immagine, bensì dal rapporto tra una singola rappresentazione (o tra un semplice schema, ad esempio quello di un cubo) e un certo impiego della parola che di essa costituisce la proiezione. Anche nel caso in cui si determini una "collisione" tra immagine e applicazione, e l'immagine lasci prevedere un impiego diverso, determinante è pur sempre lo sfondo costituito dalla normalità dei casi, ossia da come in generale gli uomini applicano la parola evocata dall'immagine11 • I..:altro impiego è solo un'eccezione rispetto alla nonna: alla normalità dei giochi linguistici. Nessuna linea retta va, insomma, dall'immagine al significato. Né l'immagine può trascendere i significati come l'uni-totalità del senso rispetto al loro molteplice.
Nel primo caso, qualora si assumesse come del tutto interna l'immagine, la conseguen7..a del solipsismo sarebbe inevitabile: non vi sarebbero che linguaggi privati! Nel secondo caso, si dovrebbe assumere l'esisten7..a di un linguaggio super-idealiz7.ato
30. lvi, § 139, p. 75. 31. Cfr. ivi,§ 141, p. 77.
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che comprendesse tanto la norma quanto eccezione. Si avrebbe, insomma, una super-idealità del senso che degraderebbe la dimensione pragmatica del gioco linguistico a mera effettuazione di un altro gioco di tipo trascendentale: quello interno al rapporto tra le idee owero tra le immagini interne che contengono l'uni-totalità del senso. Il problema, a questo punto, sarebbe però di nuovo quello di pensare come determinante il passaggio dalla dimensione ideale del senso a quella fenomenica dei significati. Questo passaggio si dovrebbe tradurre nel rapporto tra colui che segue una regola e la regola stessa. Proprio a questo proposito Wittgenstein deve escludere che si dia un modello del passaggio, una sorta di binario ideale che ne assicuri la correttezza. Se qui c,è un passaggio, esso è del tutto contingente, della stessa contingenza che segna il giudizio riflettente kantiano: è come una riflessione immanente all'uso linguistico e al rapporto tra il linguaggio e il mondo. Determinante a questo proposito è la frizione empirica tra questi ultimi termini e dunque l'interscambio tra il linguaggio e il mondo (tra le due superfici). Nel caso di una modelli.72.azione ideale del passaggio (lo stesso vale in quello di una sua versione critico-trascendentale?) è proprio una tale frizione che, invece, va persa. Qui sta il motivo profondo 32 del rifiuto wittgensteiniano del platonismo. Sottraendo il seguire una regola alla sua contingen7_.a pragmatica, la fissazione del passaggio tra senso e significato in un modello super-idealizzato assicurerebbe il rapporto tra il linguaggio e il mondo nei binari rigidi di una guida virtualmente infinita. All'interno di questa guida, nel perfetto scorrimento che garantisce, l'interpretazione della regola sarebbe sempre corretta: permanentemente salva nella sua verità. Ma
32. Tale motivo è ben colto da Pears; di-. D. Pears, The False Prison, cit., voi. II, p. 486.
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proprio in ciò sta, per Wittgenstein, l'errore del platonismo: nell'intendere il rapporto tra colui che segue una regola e la regola stessa come un rapporto interpretativo. La soluzione platonica, così, nascerebbe dalla preoccupazione di sottrarre al capriccio l'atto interpretativo ancorandolo al super-fatto di una meta-norma "ideale" oltre il linguaggio e il mondo; vincolando, dunque, la libertà dell'interprete alla necessità dell'idea. Il fatto è che non di interpretazione si tratta nel seguire una regola, ma di una prassia.1: di una prassi che trova il suo modello analogico nell'«obbedire a un comando»34 • La distan7.a implicita nella relazione analogica qui va mantenuta. Nel tema dell'obbedire a un comando ritroveremo la figura dell'abisso che abbiamo incontrato a proposito del rapporto tra coscien7.a e stati cerebrali. Se intendessimo l'espressione alla lettera e non in maniera problematica o, ancor più chiaramente, se intendessimo l'obbedire come una esecuzione pura e semplice coincidente con il comando, si potrebbe pensare ancora alla legittimità di una soluzione "platonizzante" del problema: la vigen7,a effettuale della super-norma renderebbe perfetta e virtualmente infinita nel tempo l'esecuzione dell'ordine. Ma a questo punto, quanto al rapporto tra il mondo e il linguaggio, proprio la teoria platonica si rivelerebbe usekss. Al contrario di quanto sostiene Pears:l.5, l'inutilità del platonismo risulterebbe proprio allorché la mente di colui che segue la regola aderisse infallibilmente al modello ideale che salva la sua esecuzione dal rischio dell'errore. II platonismo, in altri termini, si renderebbe superfluo capovolgendosi in behaviorismo: in un comportamento linguistico sempre salvo dall'errore in quanto esente dal rischio implicito nella distan7.a tra
33. Cfr. Wittgenstein, RF, § 202, p. 109. 34. lvi, § 206, p. 109. 35. Cfr. D. Pears, The False Prison, cit., vol. II, p. 466.
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comando ed esecuzione. Ovvio che, fuori di questa stilizzazione di comodo che abbiamo desunto da Pears (e che in una certa misura si può ritrovare anche in Wittgenstein), il platonismo non può conoscere affatto un tale rovesciamento. Tanto più quando si intenda in tutta la sua drammatica contingenza il tema stesso del passaggio tra il senso e la parola come una variazione del passaggio tra l'idea e il fenomeno.
3. L'abisso tra ordine ed esecuzione Accogliendo la critica wittgensteiniana alla via immaginale al senso (e con ciò alla stessa coscien7.a), ci siamo imbattuti nel nodo della necessaria contingen7.a del rapporto tra il seguire una regola e la regola stessa. In questo "nodo" possiamo cogliere il vero e proprio punto di for7.a della critica che Wittgenstein muove al platonismo. A causa del suo carattere di "necessaria contingenza" un tale rapporto o nodo non conosce altra soluzione al di fuori di quella della prassi: è un nodo che si scioglie solo empiricamente. È nell'uso soltanto che si determina la sua effettività fino a trasformarsi in un habitus. Il senso non è pensabile, insomma, come qualcosa che stia al di qua del contesto regolativo offerto dal linguaggio e dunque al di qua dell'uso in cui "respira" tanto il segno che il significato della parola. Ma con tale contesto (con l'insieme delle regole immanenti a un linguaggio) il senso, come abbiamo già visto, non si può identificare. Ed è per questo che il problema del «seguire una regola» ci spinge a interrogare con Wittgenstein la distan7.a tra l'ordine e l'esecuzione come quella stessa distan7.a da cui il senso sorge e di cui solo la coscien7.a conosce la misura (consistendo in ciò il suo stesso sapere). Proprio intorno a questo problema ruotano le proposizioni più sfuggenti ed enigmatiche delle Ricerche: «'Tra l'ordine e
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la sua esecuzione c'è un abisso. Esso deve essere colmato dal comprendere"», possiamo leggere nel§ 431. L'espressione, come si vede, è posta tra virgolette. Ciò sta a indicare, come sappiamo, che più che del pensiero diretto dell'autore delle Ricerche filoso.fiche, qui si tratta del pensiero di un alter ego con cui dialoga. La seconda parte del medesimo paragrafo raffou.a ulteriormente il ruolo del comprendere all'interno di quel rapporto tra ordine ed esecuzione in cui Wittgenstein ha cercato di tradurre la questione del seguire una regola (e del suo carattere di habitus): « "Solo nel comprendere è detto che dobbiamo fare QUESTO. Lordine - ebbene, non è altro che suoni, segni d'inchiostro"»36 • Se ben afferro quanto Wittgenstein intende attraverso la voce del suo virtuale interlocutore: il carattere positivo dell'ordine nella sua pura consistenza fonica e grafica (di suoni e segni d'inchiostro) è come permanentemente revocato nella misura del comprendere. Misura quasi immensurabile, verrebbe voglia di dire (al pari di quell'abisso che Wittgenstein richiama); eppure è proprio quella misura che rende possibile la vita della regola: il respiro della sua vigen7_.a nell'uso linguistico. Laddove si poteva pensare che il problema del senso (e della sua sporgen7.a sul significato) venisse meno, ossia nell'interdipenden7_.a pragmatica tra regola ed esecuzione, esso riemerge con fou.a. Pur avendo escluso che il seguire una regola consista nell'interpretare, d'altro canto non si può affatto eliminare la dimensione del comprendere come quella dimensione metaregolativa sen7_.a di cui nessuna regola verrebbe istituita37• Il prerequisito della vigen7.a di qualsiasi regola, in altri termini,
36. Wittgenstein, RF, § 431, p. 168. 37. S'intende, così, che c'è una differenza tra il comprendere e l'inteipretare. Mentre il secondo atto presuppone il rapporto tra linguaggio e mondo insieme alla pluralità di linguaggi (di giochi linguistici) che vi si determinano, il primo l'istituisce. Al limite di ogni inteipretazione, insomma, vi sarebbe
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è che questa venga compresa. Ma qui il lato della comprensione è dilatato al punto che sen7.a di esso l'ordine non vive: è lettera morta.
Se Wittgenstein identificasse l'uso, e quindi la prassi in cui si adempie il comandamento della regola (lo si esegue), nel senso di un puro convenzionalismo, allora potrebbe anche sbaraz7.arsi velocemente dell'ingombrante problema dell'"afferrare il senso" implicato nel comprendere. Nel puro convenzionalismo della regola (e quindi nel puro convenzionalismo del significato)38 , la dimensione del comprendere si risolverebbe di nuovo in un'esecuzione pura e semplice; non vi sarebbe dunque alcuna distan7.a tra la regola e la sua esecuzione. E perciò potrebbe benissimo essere tenuta in vita un'idea di coscien7.a puramente, e "inutilmente", immaginale. Nel convenzionalismo dell'uso, la coscien7.a potrebbe far perfetto ritiro nel suo interno: potrebbe ripiegarsi sprofondando nell'icona di sé. Ma le cose non stanno così. L'uso in cui si determina attivamente il rapporto tra regola ed esecuzione (l'uso che segue la regola) non può consistere, insomma, né nell'automatismo dell'esecuzione né nella fondazione in una super-idealità normativa (che per comodità abbiamo chiamato "platonismo") delle regole immanenti a una "grammatica". Questa doppia impossibilità toglie il rapporto tra la regola e la sua esecuzione alla pura artificialità della convenzione. Nell'uso linguistico si forma l'habitus dei parlanti non come una seconda natura, ma come se fosse la loro autentica natura. Per questo, nella
sempre il gesto della comprensione come simmetricamente corrispettivo a quello dell'intenzione. 38. Dove il senso dell'uso linguistico, in cui per Wittgenstein consiste il significato stesso, si limiterebbe all'aderire alla tacita convenzione in cui il significato di una parola viene socialmente stipulato, mentre una tale stipulazione verrebbe al coincidere con il "così fan tutti" o con il "così normalmente s'intende".
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dimensione dell'uso nella quale ciascuno apprende le regole del linguaggio in cui parla e dà respiro ai significati delle parole, l'aspetto della convenzione sta in permanente e dinamico intreccio con quello dell'espressione19• Artificio e natura, in altri termini, sono qui in una relazione di mutuo scambio: anzi in un perfetto viceversa. Ed è proprio questa relazione di scambio che non toglie la distanza tra l'ordine e l'esecuzione della regola, non potendo sopprimere in alcuna maniera il salto tra il segno e la comprensione. Ali'esclusione del puro convenzionalismo del significato (della sua perfetta artificialità) corrisponde specularmente quella di un suo originario naturalismo: di un substrato naturale del significare (ad esempio quello del gesto) che faccia da sostegno al carattere di auto-rimando che caratterizza le regole di ogni gioco linguistico. Il gesto, al pari di ogni altro linguaggio, è tanto convenzionale quanto espressivo e, appunto per tale motivo, non può affatto colmare la distanza tra l'ordine e la sua esecuzione. Come osserva Wittgenstein, «tenta di fungere da modello, ma non ci riesce»40 • Nel presentarsi quasi "naturale" del gesto ritornano, insomma, le stesse aporie del rapporto tra la libera spontaneità e la necessità di sottoporsi a una regola. Altrimenti, anche il gesto come potrebbe mai venire compreso? L'apparenza che «la cosa fondamentale che l'ordine richiede» rimanga inespressa non è tolta dunque dall'intervento suppletivo della gestualità. Eppure, questa apparen711 per Wittgenstein è solo un inganno; quasi una sensazione artificiale indotta dal filosofare. A tal riguardo si potrebbe però replicare che se c'è qualcosa di essenzialmente inespresso nel linguaggio
39. Sul carattere espressivo del linguaggio insiste, forse troppo unilateralmente, P. Johnston, Wittgenstein. Rethinking the lnner, Routledge, LondonNew York 1993, pp. 100-132. 40. Wittgenstein, RF, § 434, p. 169.
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(nell'ordine che ci viene tacitamente rivolto quando partecipiamo a un gioco linguistico), questo non è «nulla di nascosto»41 • Semmai l'inespresso rappresenta la dimensione del linguaggio che solo la comprensione può afferrare. Inespresso potrebbe esser detto il senso nella sua differenza dal significato. Necessariamente inespresso e, nello stesso tempo, nient'affatto "altro" rispetto all'evidenza linguistica, di cui costituisce piuttosto la piega interna: quella piega, implicita nel segno stesso, che completa l'incompiuta consistenza simbolica del linguaggio42• Per questo il senso si può dire un simbolo incompiutd'3 tanto quanto lo è il segno, anzi la stessa unità di segno e signi6cato44 • Niente di più manifesto, di più usuale, dunque, dell'inespresso nel linguaggio. Anzi, ciò che nel linguaggio non trova espressione in quanto ne costituisce la condizione interna (il suo limite immanente) -quel senso che in ultima istanza può es-
§ 435, p. 169. 42. Nei termini del Troctatus, il senso è allora quanto il linguaggio può solo mostrare e mai dire: «Ciò che nei segni non viene espresso lo mostra il loro impiego. Ciò che i segni inghiottono, lo esprime il loro impiego» (Wittgenstein, TLP, prop. 3.262, p. 15; tr. mod.). 41. Ivi,
43. Ciò appunto in quanto la nozione di simbolo implica, goethianamente, la relazione tra simbolizzante e simboli:aato come una viva unità; quell'unità nella quale il "fenomeno" si trasforma in idea e viceversa. Il simbolo, in altri termini, non è semplicemente espressivo di una congiunzione, ma addirittura la produce. E la condizione di questo prodursi è che l'idea nel fenomeno rimanga «sempre infinitamente efficace e inaccessibile» (Goethe, MR, n. 1.113, p. 234) e, dunque, che l'inespresso anche se pronunciato «in tutte le lingue» rimanga tuttavia «inesprimibile». Sulla presenza di Goethe nel Wittgenstein delle Ricerche insiste giustamente Joachim Schulte, in J. Schulte, Wittgenstein. Eine Einfuhmng, Heclam, Stuttgart 1992, pp. 11 ss., e soprattutto in Id., ClwrundGesetz. Zur "moryJlwlogischen Met1wde"bei GoetheundWittgenstein, in «Grarer Philosophische Studien», voi. 21, n. 1, 1984, pp. 1-32. 44. Ciò in quanto tale unità è compiuta soltanto in una dimensione simbolicamente attiva: laddove il senso si mostra e, pur sempre "fuggendo", si lascia afferrare.
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sere solo afferrato - coincide paradossalmente con la stessa evidenza linguistica. Quest'ultima suppone, infatti, proprio quel rapporto tra comprensione e coscienza senza di cui non vi sarebbe nemmeno un linguaggio, sempre che per linguaggio si continui a intendere una pluralità di giochi e di regole ad essi immanenti nel perfetto viceversa tra artificialità e naturalità, tra convenzionalismo ed espressionismo. L'asserzione di Wittgenstein secondo cui «un «processo interno" abbisogna di criteri esterni»45 non può non conoscere, proprio per questi motivi, anche la sua inversione speculare. Di conseguenza, un processo esterno presuppone sempre anche un criterio interno. È senz'altro in base alle regole depositate nella grammatica immanente a un gioco linguistico che posso giudicare il rapporto tra un'asserzione del tipo «ho mal di testa" oppure «sono annoiato" e lo stato interno di colui che la pronuncia. Posso giudicare del rapporto tra l'esterno dell'evidenza linguistica e l'interno di un'esperienza altrui (ma con qualche distinguo in più lo stesso potrei dire nei confronti del rapporto tra un'asserzione in prima persona e il mio stato interno). Sul carattere di questo rapporto permane pur sempre, però, la penombra di una «costituzionale" incerte7.7--a46 • Da una tale incertezza e dunque dal carattere incerto dei criteri di un giudizio - un giudizio necessariamente riflettente, per usare una terminologia kantiana! - che funga da ponte, da passaggio dall'esterno all'interno, non è certo legittimo47 trarre la conseguen7.a di uno scetticismo circa l'interno. L'incerte7.7.a qui è costitutiva proprio perché l'interno non è perfettamente nascosto rispetto all'esterno, anzi è implicato in esso48 •
§ 580, p. 201. 46. Cfr. per questo Wittgenstein, OFP, II, § 657, p. 492. 45. Wittgenstein, RF,
47. Come viene giustamente osservato in P.M.S. Hacker, Wittgenstein: Mean-
ing and Mind, Blackwell, Oxford-Cambridge (Mass.) 1993, voi. I, p. 266. 48. cfr. ivi, pp. 140-141.
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La conseguen7.a più importante di questa implicazione - ossia del fatto che riguardo al rapporto tra interno ed esterno vi sono soltanto criteri "insicuri" - non sarebbe tanto l'indeterminate7.7_.a costitutiva del mentale quanto quella dei nostri giochi linguistici. Ma sostenere che i nostri giochi linguistici sono indeterminati e dunque esprimono dei patterns non perfettamente regolari in quanto «la tappezzeria della vita umana non è fatta a macchina» e, quindi, «delle irregolarità fanno parte della sua tessitura»49 , è una conclusione troppo frettolosa. A questa conclusione corrisponde la tesi secondo cui il carattere «rule-governed», governato da regole, dei concetti profondamente incorporarti nelle nostre vite è più «un affare di nomos» che di o diviene dimora di un Sé, è inevitabile che si pensi la differen7.a interna tra il Sé e il coq>o. Nell'inevitabilità di questa differen7_.a sta il limite di ogni reductio naturalistica della nozione di coscien7_.a_ Su questo limite il comando di sé emerge nella sua pur relativa autonomia: emerge come problema per sé stesso, questione della conoscen7.a di sé e dell'idea di Bene di cui l'unità del coq>o stesso è traccia. Il compito di Platone è, così, anche quello di pensarecostruire un modello di anima (e dunque di Sé) che si approssimi al carattere meta-funzionale del Bene. Il Bene eccede l'ordine dell'essere così come la parte dominante (l'arconte) dell'anima eccede la sua funzione relativa all'unità dell'organismo; qui, in altri termini, il problema platonico del comando di sé incrocia, con la sua virtù auto-interrogativa, il carattere autotelico della ragione umana (temati7.7.ata proprio dal Kant della Critica della facoltà di giudizio )97 • 95. Ivi, pp. 188-189. 96. E di ciò lo stesso Damasio si mostra ben consapevole; cfr. A.R. Damasio, L'errore di Cartesio, cit., p. 340. 97. Con "autotelico" si intende un ente che abbia il suo 6ne in sé stesso. E questo ente, per Kant, è appunto l'uomo: «Ora, noi abbiamo solo un unico
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La ricerca di un modello di politeia dell'anima, di un modello del governo di Sé esige uno sviluppo dialogico-dialettico in contrasto con quel dispotismo «orientale" che caratteri7.7.a il Sé niet7__scheano. Il suo ascolto («Sempre il Sé ascolta e cerca ... ») è un ascolto assoluto che non prevede risposta (non prevede «principio di responsabilità") o prevede solo il "dire di sì"; l'ascolto del Sé niet7__scheano è quello che dice sì alla lacerazione dionisiaca, è voce del puro molteplice del corpo fino allo smembramento (al diasparagmòs) della sua stessa physis. Ma il problema della coscien7.a sorge come tale solo dopo che dell'esperien7.a dionisiaca è rimasta niente più che un'eco nella memoria. Anche per questo l'opposizione niet7.scheana di una mente incarnata, di una ragione del corpo allo stacco platonico tra psychè e soma non può configurarsi come l'antitesi di un naturalismo dionisiaco a un dualismo metafisico: lo stacco tra anima e corpo, in Platone, è nel presupposto della loro unità come comunità partecipativa (koinonia), del loro esser disposti secondo un unico ordine, un'unica syntaxis. Scontati i suoi effetti positivi nello smontare il teatro cartesiano della coscien7.a, quello di Niet7.sche resta, in ultima istan7.a, un appello alla for7,a persuasiva del mito: al mito del corpo come pura eccentricità, assen7.a di archè, estasi della superficie. Questo non esclude che una traccia di sophrosyne sia
tipo di esseri nel mondo la cui causalità sia teleologica, cioè rivolta a scopi, e nello stesso tempo sia fatta in modo che la legge secondo cui hanno da determinarsi scopi è rappresentata da quegli stessi esseri come incondizionata e indipendente da condizioni naturali. L'essere di questo tipo è l'uomo, ma considerato come noumeno: l'unico essere naturale in cui però possiamo riconoscere sotto l'aspetto della sua propria costituzione una facoltà soprasensibile (la libertà) e addirittura la legge della causalità, insieme al suo oggetto che esso può proporsi come scopo sommo (il sommo bene nel mondo)» (Kant, CdG, § 84, pp. 267-268). Dell'uomo (o, comunque, di «ogni altro essere ragionevole nel mondo»), continua Kant, «non si può chiedere perché [quem infinem] egli esista»; il solo fatto di esistere, proprio per la capacità auto-interrogativa di un tale essere, in questo caso «ha in sé il fine supremo».
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presente nella «grande ragione» che abita il corpo, esclude solo che siamo esonerati dal compito di ricercarne la misura, di immaginarne il modello. Proprio nella necessità di questa ricerca, allora, il senso platonico del comando di sé non può limitarsi a un embrione di funzionalismo. Nella gerarchi72_.azione delle facoltà delranima è contenuto qualcosa di più di una mera funzionali7.7.azione; è contenuto il problema di una hierà archè: di un comando-principio che nel suo carattere di sommo vigore, nella for7_.a della sua vitalità98, possa trascendere ogni "funzione". L'insisten7.a su un contenuto descrittivo implicito nel modello di governo di Sé delineato da Platone ha avuto qui il signifìcato di ricordare quanto troppo spesso si dimentica cercando di pensare-interrogare la coscienza, ovvero la sua genesi a-intenzionale: il suo carattere di factum, di pura nascita, di physis. Dimenticarsi di questo significherebbe dimenticare quell'origine (quel puro multiplo) dalla quale la coscien7_.a emerge sen7.a potersene mai distaccare del tutto. Ed è anche per questo che essa si presenta con i caratteri di un'intima frattura, con l'impronta di un'interna differenza che la costituisce come un problema: come un problema destinato a tornare mostrando il limite tanto di ogni soluzione naturalistica quanto di una ri-petizione del mito del corpo.
5. L'invenzione-scoperta di Sé Nel passo della Repubblica citato nel paragrafo precedente la tematiz7_.azione platonica del Sé si è rivelata assai poco as-
98. Sul senso greco dello hieròs (del "sacro") in quanto distinto dall'hagios (dal «santo»), cfr. É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tr. it. di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976, voi. II, pp. 430 ss.
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similabile a quella immagine del platonismo secondo la quale l'unità dell'anima preesisterebbe alla molteplicità che informa come un'essen7_.a indifferente alle sue manifestazioni. Ciò che forse può valere in generale riguardo alla relazione animacorpo99 non può valere in relazione a quel molteplice attivo che costituisce l'anima stessa, ossia in relazione a quel principio con il quale Platone, già nell'Alcibiade maggiore 100, aveva identificato il Sé. Ovvio che il problema del Sé e della "cura di Sé" posto in questo dialogo giovanile (di cui accetto l'ipotesi dell'autenticità) sia destinato a complicarsi significativamente nel Platone più tardo, e in particolare nella Repubblica, proprio in virtù della diversificazione strutturale dell'anima qui tematizzata. Ciò non toglie che anche nell'Alcibiade siano contenuti importanti spunti circa il problema del rapporto tra il Sé e quella scien7.a che ha cura soltanto di sé stessa indicata nel Carmide con il nome di saphrosyne. Anche nell'Alcibiade I il problema dell'anima è letto in chiave "politica", senza ovviamente quello sviluppo di corrispondenze analogiche tra costituzione dell'anima e costituzione della polis ideale che caratteriz7.a la Repubblica. Al centro del dialogo - nelle domande che Alcibiade pone a Socrate - sta il tema del «prendersi cura di sé» (dell'epimeleisthai tou heaoutoù), condizione necessaria per essere un vero uomo politico. Ma non c'è «prendersi cura» - osserva Socrate - sen7.a conoscenza di sé e, dunque, la mossa decisiva sta nel definire il modo in cui «questo sé» (autò tautò) possa essere trovato 101 • Significa-
99. Sull'unità anima-corpo in Platone, nella sua differenza dalla conce-.lione plotiniana, di-. C.J. de Voge], Ripensando Platone e il platonismo, tr. it. di E. Peroli, intr. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1990, pp. 246-342. 100. C&. in merito M. Foucault, Tecnologie del Sé, tr. it. di S. Marchignoli, a cura di L.H. Martin, H. Gutman, P.H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 21 ss. 101. Platone, Alc. I, 129b.
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tivo è il verbo usato da Platone: euretheie (aoristo passivo da eurisko) che ha appunto il senso dell'inventare-scoprire ('Zeus Euresios è lupiter Inventar). Non si tratta, insomma, di conoscere il Sé come un'entità già costituita. La sua costituzione, si potrebbe dire, consiste proprio nella possibilità di scoprirlo: di toglierlo dalla sua latenza. La scoperta di sé coincide allora con la conoscenza della sua al,etheia (della sua verità). Mentre noi "tardo-moderni" distinguiamo abitualmente tra il senso dello "scoprire qualcosa che già è" e quello del "costruire qualcosa che non è prima della sua invenzione", nell'euriskein greco scoperta e invenzione vanno insieme: costituiscono un unico atto 102• Con l'aggiunta di una sfumatura di caso felice, di buona sorte inerente al compiersi dell'atto stesso. E dunque: se prendersi cura di sé significa essenzialmente conoscere sé stessi, non c'è auto-conoscenza alcuna senza l'invenzionescoperta di sé. «Questo sé», in altri termini, si attiva soltanto in quella invenzione-scoperta che è la conoscenza. A questo punto il cerchio dell'argomentazione socratica, dopo aver scartato l'identificazione tra il Sé e il corpo (l'uomo è diverso dal corpo in quanto se ne serve come uno strumento), può stringersi nella questione dell'anima. Quel «prendersi cura» (epimeleisthai) in cui consiste il conoscere sé stessi significa prendersi cura dell'anima come archè, come principio che esercita il comando sul corpo. Il problema parrebbe così semplificarsi nell'identificazione tra anima, «come principio dell'attività e non già come sostan7.a» 103, e Sé. Invece, la ricerca di «che cosa sia questo sé [autò tò autò]» 104 deve ripartire da
102. La stessa «generazione nella belle-o.a» (dr. Platone, Symp., 206b), la generazione erotica -del resto-è "euretica": né un mero possesso né un semplice "trovare", bensì un «generante formare» e un «generante trovare» nel medesimo tempo; cfr. per questo E. Cassirer, Eidos und Eidol,on, cit., p. 26. 103. Cfr. E. Cassirer, Eidos und Eidolon, cit., p. 21. 104. Platone,Alc. I, 130d.
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capo. La skepsis si chiarisce qui come una auto-skepsis interna al carattere di principio-comando (di archè) proprio dell'anima. E di nuovo Platone, per bocca di Socrate, pare sfiorare il paradosso dell'autocoscienza: «L'anima, dunque, ci ordina di conoscere colui che comanda di conoscere sé stessi» 1ffi. L'identificazione tra anima e il Sé risulta allora meno semplice di quanto poteva sembrare in prima battuta. La complicazione deriva dalla struttura ricorsiva del comando implicato in questa stessa identificazione, come se il senso della voce da cui proviene il comando (I'epitaxis) della conoscen7.a di sé consistesse, in ultima istan7.a, nell'ascoltarsi fino a sospendere in qualche modo il principio stesso del comando. Platone però non segue la via della metafora acustica e imbocca quella a lui più congeniale, ossia quella visiva. Forse il significato del precetto delfico, osserva Socrate, è meglio compreso se lo si applica al senso della vista. Se questa, ipotiZ7.a Socrate, ingiungesse al nostro occhio, «come fosse un uomo», di guardare sé stesso, questo non potrebbe altrimenti ottemperare al comando se non guardando nell'occhio di un altro. L'occhio non si conosce se non riflettendosi nell'altro da sé:
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SOCRATE - Non hai notato che il volto di chi guarda nell'oc-
chio appare riflesso, come in uno specchio, nella parte dell' occhio di chi si trova di fronte, che chiamiamo anche pupilla dato che è un'immagine di colui che osserva? ALCIBIADE - Ciò che dici è vero. SOCRATE - Pertanto, se un occhio ne contempla un altro e guarda dentro la sua parte migliore, con cui anche vede, può osservare sé stesso?
ALCIBIADE - Mi sembra di sì. 106
105. Ivi, 130c. 106. Ivi, 133a-b. A proposito cli questo passo Françoise Frontisi-Ducroux sottolinea come la relazione tra il prendere coscienza cli sé e lo sguardo
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La metafora sembra qui più potente della teoria, la quale si può riassumere nella conclusione che «anche l'anima, se vuole conoscere sé stessa, deve guardare nell'anima e soprattutto in quella parte in cui sorge la virtù dell'anima, la sapienza» 107 • Quella relazione con l'altro, con colui che sta di fronte ai miei occhi (il prosopon), necessaria per poter guardare sé stessi, è in tensione con la redttctio ad imaginem dell'anima di cui è veicolo la «pupilla». A una dialettica tra il Sé e l'Altro subentra qui una dialettica immaginale tutta interna al campo omogeneo della ri-Hessione. Nel centro dell'occhio, psychè può riflettersi come una fanciulla sfuggente (Icore significa anche pupilla). Ma l'eidolon non è la cosa: nell'immagine, come in uno specchio, si riflette la parte migliore dell'anima (il "divino" che è in noi). E la relazione all'alterità, persa nell'abbandono della metafora visiva, è riguadagnata nellacontemplazione «di tutto ciò
dell'altro sia tipica della cultura antica e di quella greca in particolare piuttosto che del cristianesimo, a cui si deve «l'emergere di quella fonna diconoscenza di sé, lacoscienza, che ancoraci appartiene» (F. Frontisi-Ducroux, Senza maschero né specchio. L'uomo greco e i suoi doppi, in M. Bettini [a cura di], La maschero, il doppio e il ritratto. Strotegie dell'identità, Later.la, Roma-Bari 1991, pp. 131-158: p. 132). Così, nell'interpretazione dell'autrice, il fattocheil tennineprosqJOn, "ciò che stadi fronte agli occhi (di altri)", valga tanto per la maschera che per il volto non esprimerebbe la differenza tra l'esterno e l'interno, testimoniando piuttosto a favore di una «cultura dell'esteriorità, una cultura dell'onore e della vergogna». A questo proposito si potrebbe, però, obiettare che decisivo, nella relazione "faccia a faccia" con l'altro, è appunto lo sguardo che "buca" la stessa maschera del volto. L'altro, nel cui occhio afferro il ri8esso della mia immagine, è - nello scambio del guardarsi - anche altro rispetto a sé e, perciò, l'immagine riff essa non è ancora auto-conoscenza. Su questo tema si vedano comunque gli importanti studi della stessa autrice in F. Frontisi-Ducroux, Dumasque au oisage. Aspects de l'identité grecque, Flammarion, Paris 1995, e Ead. - J.-P. Vemant, Dans l'cEil du miroir, Jacob, Paris 1997, come pure le penetranti osservazioni contenute in U. Curi, La cognizione dell'amore. Eros e filosofia, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 124-141 (sul tema dello "sguardo dell'amante"). 107. Platone,Alc. I, 133b.
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che è divino, dio e il pensiero» 108, come guardando uno specchio «più bello» nel quale anima possa finalmente conoscersi. L'auto-skepsis è comunque differita dallo schermo dell'Altro. Sia nel caso del "di fronte" dell'occhio altrui sia in quello della ri-Hessione immaginale, il confine dell'Altro si rivela interno a sé. L'Altro diventa così una questione del puro pensare che, come tale, verrà affrontata soltanto nel Sofista.
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Prima di questo confronto sarà bene gettare ancora un rapido sguardo verso lo sviluppo che il problema del Sé conosce nella Repubblica, dove Platone sembra accogliere e approfondire l'awertimento in forma di domanda, con la quale Socrate introduce le battute conclusive dell'Alcibiade: «Ma non abbiamo convenuto che il conoscere sé stessi è sophrosyne?»100 • Ora, nella Repubblica, si chiarisce che conoscenza di sé è sophrosyne per il motivo che «questo sé» non ha Altro soltanto di fronte o nella differenza immaginale che lo separa dall'idea del suo principio. L'Altro è nel Sé come una radicale pluralità da temperare: da salvare in unità senza che alcuna parte si arroghi la funzione di comando sul tutto. E appunto in questo esercizio del pensiero - salve7.7..a (soteria) della phronesis e cioè del «pensiero del moto e del Russo» (phoràs kai roù rwesis), come Platone etimologi72.a nel Cratilo 110 - consiste la virtù della sophrosyne, ossia nel mantenere l'unità attraverso il fluire di un'irriducibile molteplicità.
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L'unità del Sé temati72.ata nella Repubblica non si configura allora soltanto come emergente da una pluralità strutturale e dal conflitto che ne consegue; la stessa unificazione contenuta nel comando di sé appare più un risultato contingente in cui le for7.e si equilibrano, armoni7.7.ano e dialogano che un punto di par-
108. lvi, 133c. 109. Ibidem. llO. Cfr. Platone, Crat., 4lld-e.
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ten7.a dove la pluralità conflittuale non c'era ancora o un punto finale dove non ci sarebbe più. In quanto «divenir-uno da molti», il Sé ha il carattere di un processo che si costituisce polemicamente. Questo non vuol dire però che esso si possa risolvere nel processo stesso o che possa trovare la sua identità nel conflitto. Il senso del Sé è meta-conflittuale e meta-processuale; il senso, non la sostan7.a (se così ci fosse concesso di esprimerci), appunto in quanto implicato nell'idea cui il Sé tende come a un'idea al di là dell'essere e dell'essen7.a (epekeina tès ousias ). Al culmine della figura del comando di sé, perciò, c'è ancora una voce: una voce sen7.a suono, pura composizione-accordo tra le voci-facoltà dell'anima, eppure voce sempre inaudita: voce che fugge a sé, e fuga significa, appunto, rendersi simile a Dio111 • Questo accenno al tema della "fuga" indica come nel problema del «divenir-uno da molti» il senso etico sia intimamente connesso a quello cognitivo-funzionale: non c'è comando di sé sen7.a quella ricerca della misura che è ricerca di sophrosyne. Ma per Platone sophrosyne si mostra proprio in «una sorta di ordine» (di kosmos), nella capacità di dominare «piaceri» e «desideri»: in una enkrateia che conduce al paradosso di «superare sé stessi», di essere migliori di sé (kreitto autoù) 112• Il «divenire uno da molti» e il «superare sé stessi» potrebbero così incrociarsi in una paradossale estasi da sé al culmine di quel comando chiamato a temperare/convincere il conflitto tra le parti dell'anima. Un comando, che passa attraverso l'ascolto delle parti in gioco. Seppur vi sia, nello stesso Platone, una via "breve" alla risoluzione del conflitto che consiste nel tradurre il problema del governo di sé nel predominio della parte superiore dell'anima su quella inferiore. La complessità del governo di sé e dello stesso Sé verrebbe così ridotta a uno schema
111. Cfr. Platone, Theaet., 175b. 112. Cfr. Platone, Respub., 430d.
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duale. Con la conseguen7.a che proprio il mantenere ferma la presupposizione di un dualismo quasi metafisico fin dentro la struttura dell'anima condurrebbe a semplificare in un senso cognitivo-funzionale il problema della sua unità e a trascurare, come un'appendice inutile, il fatto che il "dovere" dell'unità non risponde soltanto a una necessità del genere. Questo dovere contiene un' ecceden7_.a che imprime una necessaria curvatura etica a ogni discorso sulla coscien7_.a. Il dovere implicito nell'ethos dell'uomo (nel modo in cui dimora nella physis, per riprendere il commento-traduzione di Heidegger al passo eracliteo) confina con l'esercizio di una disposizione. Ma proprio questo esercizio ha la virtù di trascendere i suoi presupposti ontologico-naturali. E ciò si mostra nella dialettica tra emergen7.a e trascenden7.a che si accende al culmine del problema del comando-governo di sé. Lo stesso problema, seppur con una nomenclatura diversa delle facoltà dell'anima, torna nell'etica aristotelica, dove l'eudaimonia- l'ascolto del buon demone - è raggiunta attraverso la capacità dell'intelletto (del nous) di dialogare con gli altri tipi di anima e soprattutto con quella concupiscibile (con il desiderio sen7.a ascolto?) fino a persuaderli. Proseguire il nostro discorso nella direzione accennata ora significherebbe debordare dai confini dell'interrogazione iniziale; pertanto, basti qui ribadire, tornando alla Repubblica platonica, che non c'è divenir-uno senza ascolto delle voci dell'anima. Forse "pensare" significa proprio questo. Il vero modello della Politeia platonica appare così, in ultima istanza, il dialogo dell'anima con sé stessa, allo stesso modo in cui Socrate, «lui che è del tutto estraneo al "governo della città"», si mostra, con il suo pubblico dialogare, l'unico ad agire politicamente nella sua Atene 113• Socrate è appunto colui che non 113. C&. per questo A. Biral, Platone e la corwscema di sé, Latera, RomaBari 1997, p. 63; ma a questo libro rimandiamo per tutto il tema del rapporto tra «governo di sé», «conoscenza di sé» e politica.
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trascura di prestare ascolto alla voce del proprio demone, ma il daimon di ogni uomo, come insegna Eraclito, altro non è che il suo proprio ethos. Ecco perché il problema della coscien:za deve necessariamente declinarsi in un senso etico. Se il pensiero come dia-wgos è un ascoltarsi-interrogarsi di ipotesi, un sorreggersi a vicenda delle loro voci in quel movimento che configura la dialettica, al culmine di essa - dove il pensiero è sinossi' 14 - sta la conversione al Bene come ali' anhypotheton: a ciò che si sottrae a ogni ipotesi. Così come al culmine del comando di Sé, sta la fuga da Sé: il pensare l'Altro come tale e dunque come «genere».
5.1. Excursus: per una genealogia del conflitto psichico Vedereneila genesi conHittualedel divenir-uno, quale si esprime neila nozione di comando di sé, uno dei presupposti decisivi di un discorso suila coscienza come auto-relazione (sapere di sé a partire da una irriducibile pluralità) non ci deve nascondere - come si è prima accennato - che in Platone il conflitto tra le tre parti dell'anima è scandito da una dialettica essenzialmente binaria. Si tratta deila dialettica tra la parte razionale detta wghistikòn, ossia la facoltà che è capace di wgos: di connessione discorsiva, e queila che si può unificare sotto il segno deil'assenza di wgos, un awgon che consta a sua voi-
114. Cfr. Platone, Respub., 531c; quasi un rimando alla syneidesis, anche se il termine come tale non compare mai in Platone; il termine lo troviamo con il significato di "coscienza" in Filodemo (Retorica, II, 140, 5) e in Diodoro (Biblioteca, N, 65, 7), mentre incerta è la sua attribuzione ad alcuni frammenti stoici (per il problema cfr. H.-R. Schwy.1.er, «Bewusst» und «unbewusst» bei Plotin, cit., pp. 354-355). Sul termine syneidesis come equivalente di conscientia nella Grecia antica si veda l'importante ricerca contenuta in T. Cancrini, Syneidesis. Il tema della «con-scientia» nella Grecia antica, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1970.
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ta di due facoltà: la concupiscibile (I'epithymetikòn: la parte maggiore dell'anima in ciascun uomo, quella che desidera insaziabilmente, sen7.a discernimento e in molte direzioni) e l'irascibile (thymoeidès): la parte cui dobbiamo l'impulso ad agire. Il conflitto, lastasis (la rivolta) endopsichica sembra così semplificarsi tra due essenziali aspirazioni all'egemonia: tra la smisurate7.7.a del desiderio (pura istan7_.a della molteplicità) e la misura del logos (istan7.a dell'unificare accordando). Delle due parti, l'una, per quanto riesca vincitrice, si dimostra incapace di prendersi cura dell'anima nella sua complete7.7.a e, invece di governare veramente, ossia di rendere migliore l'altra parte, a sé l'asservisce e tende a soffocarla, meritandosi per questo il nome di peggiore; mentre l'altra è senz'altro la migliore, perché non s'impone dispoticamente, non prevarica, non bada esclusivamente a sé, ma è atta a governare, se educata in modo appropriato, in modo regale, avendo di mira l'unità e la concordia di tutta l'anima. 115
Dalla stasis, dalla guerra civile dell'anima, si esce comunque solo con il buon governo di sophrosyne, owero mediante la capacità di accordare, di armoniZ7_.are, come fossero diverse altezze di suoni, le stesse facoltà. Solo temperando, non certo annichilendo o reprimendo brutalmente. La funzione egemonica della parte razionale sta nel convincere discorsivamente, nell'educare la moltitudine disordinata dei desideri, facendo sì che si possa «divenire uno da molti». Perché, nel conflitto psichico, questo paradigma dell'accordo dialogico tra istanze differenti prevalga sullo schema di un'opposizione duale (quella tra l'unità della ragione e il molteplice disordinato ed eccentrico delle passioni) è necessaria l'affermazione dell'autonomia dei sentimenti e della loro specificità rispetto al mondo (disordinato o ordinato che sia) delle pure
115. A. Biral, Platone e la conoscenza di sé, cit., p. 161.
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passioni. Un fenomeno, questo, tipicamente settecentesco e del tutto contestuale ali'emergenza epistemologica del problema estetico, ossia allo sviluppo della riflessione intorno al gusto e al sentimento del bello come un problema autonomo (non più affrontabile in un ambito puramente metafisico o meramente sensistico). Con l'emergen7.a della specificità dei sentimenti lo stesso conflitto psichico non sarà, così, più analiz7.abile nei termini di una lotta tra l'uno e i molti (o, se si vuole, per l'unità della ragione in opposizione alla moltitudine delle passioni), bensì come un conflitto inter plures e dunque interpares. Nell'analisi di pensatori scozzesi come Hutcheson, Smith o Hume o tedeschi come Mendelssohn, i sentimenti rappresentano una vera e propria metaboliz7..azione epocale di quella transitio, anali7.2..ata da Spinoza, dall'ambito puramente passivo (ostile alla conoscen7.a, indefinibile, "tirannico", ecc.) delle passioni a quello degli affetti: L'affetto - scrive Spinoza - che è passione cessa di essere passione non appena ne fonniamo un'idea chiara e distinta. 115
Questa transizione non ha - si badi - un'accezione di tipo puramente razionaliZ7.ante-negativo. Nella transizione spinoziana è negata la passività della passione (questa non è più qualcosa che la mente "patisce"), ma non è negata la natura stessa, la realtà della passione. Semmai è trasformata: la passione è incorporata nell'orizzonte conoscitivo della ragione (diviene qualcosa di intelligibile e di intelligente), in un processo che prevede - nel medesimo atto - il farsi corpo della ragione, il suo incorporarsi tramite i veicoli degli affetti 117• Cambia così con Spino7.a, e in maniera radicale, il senso stesso del
116. B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, tr. it., intr. e note di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 1988, parte V, prop. III, p. 295. 117. Cfr. in proposito R. Bodei, Geometria delle passioni. Pauro, speranw, felicità:filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991.
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"divenire-uno" platonico: non più un'unità della psiche pronta a distaccarsi - nella sua autonomia - dalla prigione del corpo, ma un'unità della stessa ragione con il corpo, un'unità strutturalmente plurale della mens si-ve natura. Rispetto a quest'idea spinoziana di transizione delle passioni in affetti e rispetto allo stesso modello "politico" di razionalità che ne risulta, emergen7..a moderna dei sentimenti, nella loro autonomia, comporta però qualcosa di ulteriore, un diversificarsi, un pluraliz7.arsi e infine un locali7.7..arsi dell'idea stessa di razionalità. I sentimenti che emergono - al di là di tutti i tentativi di ricondurli a partizioni sistematiche o a disporre la loro apparente caoticità secondo un tono fondamentale, un sentimento-base che li informi - hanno già alle spalle la transizione spinoziana tra passioni e affetti e quindi la dicotomia tra passività e attività. I sentimenti emergono come un terzo rispetto al conflitto classico tra la ragione e le passioni. Quest'antitesi nello spazio del sentimento è come superata, se non altro nel suo aspetto di configurazione essenzialmente duale. Non solo il sentimento è ora una passione divenuta perspicua alla mente come un suo affetto (una sua modificazione), ma è anche qualcosa di coltivato, di educato, di formato. Per questo nello spazio del sentire il conflitto tra razionalità e passioni è rivelato come un conflitto settario, insostenibile o addirittura insolubile dal punto di vista della vita psichica. Lo si capisce bene mettendo a confronto due passi: il primo di Pascal, l'altro di Rousseau. Scrive Pascal:
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Questa guerra interiore della ragione contro le passioni ha fatto sì che coloro che hanno voluto stare in pace si sono divisi in due sette. Cli uni hanno voluto rinunciare aile passioni, e divenire dèi, gli altri hanno voluto rinunciare alla ragione e divenire bestie brute. [ ... ] Ma non lo hanno potuto né gli uni né gli altri, e la ragione sta sempre n ad accusare la basseZ7.a e l'ingiustizia delle passioni e a turbare il riposo di coloro che
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vi si abbandonano. E le passioni sono sempre vive in coloro che vi vogliono rinunciare. 118
La guerra interiore di Pascal ricorda certamente la stasis platonica (la guerra civile tra le facoltà dell'anima, la rivolta che confonde le funzioni stabilite per ognuna di esse); tuttavia la differenza tra questo modello di conflitto e quello platonico è assai profonda. In Pascal, la ragione è interamente parte del conflitto senza poter aspirare a svolgere in esso una funzione egemone, senza poter produrre l'uno dai molti. La risoluzione del conflitto, nella prospettiva di Pascal, se c'è, non è più in una concertazione tra le parti, ma piuttosto in un salto al di là della linea che separa la ragione e le passioni: nella scommessa che si gioca tutta nell'abisso metafisico del cuore. I motivi di questa trasformazione del modello di conflitto tra ragione e passioni rispetto a quello "classico" sono molteplici ed eterogenei. Tra questi, però, si annovera sen7.a dubbio il fatto che l'architettura funzionale delle facoltà dell'anima era stata letteralmente smantellata da Cartesio nella sua ultima opera, Le passioni dell'anima. Una volta incrinata la razionalità metafisica del parallelismo tra la cosa che pensa e la cosa che si estende nella forma di un corpo - tra la res cogitans e la res extensa - non sono divenute anarchiche soltanto le passioni. An-archica - letteralmente: senza principio se lasciata a sé stessa, se separata dalle ragioni insondabili del cuore - è divenuta la ragione stessa, priva di archè, priva della capacità di governare in base a principi. A un secolo di distanza, con Rousseau, è come se il cuore pascaliano - recesso metafisico di una scommessa oltre l'insanabile guerra tra ragione e passioni - avesse abbandonato il ruolo di «Dio nascosto» di una scena tragica dell'interiorità
118. B. Pascal, Frammenti, tr. it., con testo a fronte, a cura di E. Balmas, pref. di J. Mesnard, BUR, Milano 1983, voi. I, n. 410-413, p. 407.
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per acquistare quello più rassicurante del protagonista di un idillio originario. Se leggiamo in questa chiave la Confessione del Vicario Savoiardo nell' Émile di Rousseau troviamo certamente ancora un'opposizione senza conciliazione tra I'ambito delle passioni (qui identificate come «voce del corpo») e quello della ragione. Ma ora siamo di fronte a una singolare inversione di ruoli: la fonte continua degli inganni è la ragione con il suo carattere di artificio e di convenzione. Quella che non inganna mai - vero terzo nel conflitto tra r artificio razionale e la corporeità passionale - è la coscien7..a in quanto voce dell'anima. Rispetto a tale opposizione, la mossa di Rousseau consiste nel sottrarre la coscienza ali'ambito tradizionale della razionalità senza per questo consegnarla alla dispersività centrifuga delle passioni. La funzione di assicurare l'unità soggettiva - di trarre l'uno dai molti - è mantenuta alla coscienza nella dimensione del sentimento. Gli atti della coscien7.a, sostiene Rousseau, non sono giudizi, ma sentimenti; la stessa verità, che per Rousseau è sempre una verità morale (mai una verità metafisica) 119, è quella rivelata dal sentimento: «tutto ciò che sento essere bene è bene, tutto ciò che sento essere male è male» 120• Con questa frase, che ha il sapore di una senten7.a epocale, non solo i sentimenti si rivelano come soggetti autonomi con diritto di cittadinanza nella societas della mente (mentre precedentemente il ruolo delle passioni era quello di obbedire o comunque di lasciarsi convincere) e dunque come soggetti capaci di formare la «volontà generale», ma diventano anche gli unici custodi della verità in quanto verità morale. Il conflitto tra razionalità e passioni sembra così essersi riscritto nei 119. Cfr. per questo J. Starobinslci, La trasparenza e l'ostacolo. Saggio su cli R. Albertini, il Mulino, Bologna 1982. 120. J.-J. Rousseau, Émile o dell'educazione, a cura di J.-L. Lecercle, tr. it. cli G. Carullo, Editori Riuniti, Roma 1975, LXVI, p. 169.
Jean-Jacques Rousseau, tr. it.
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termini di un conflitto tra natura e cultura. In questa chiave, le ragioni autonome dei sentimenti emergerebbero come l'espressione di qualcosa che appartiene puramente alla natura. Se il sentimento fosse, per dirla ancora con Rousseau, voce della coscien7--a, lo sarebbe in quanto espressione della natura versus l'artificio della costruzione sociale. Come sembra sostenere anche un grande moralista a lui contemporaneo, Nicolas de Chamfort: Nelle attuali condizioni della società mi sembra che l'uomo sia corrotto più dalla ragione che dalle passioni. Le passioni [... ] hanno conservato, nell'ordine sociale, quel poco dinatura che ancora vi si può trovare. 121
In una tesi del genere, che potremmo dire consistere nell'affermare l'espressività naturalistica del sentimento 122, vige una sorta di assioma nascosto: che la verità si possa identificare con l'immediato, con qualcosa che si sottrae agli ingannevoli labirinti della riflessione, alle convenzioni e ai necessari compromessi delle relazioni intersoggettive. L'errore di una visione del genere sta nel confondere due concetti: quello dell'immediatez7.a preriflessiva della passione e quello della spontaneità (e dunque dell'autonomia) dei sentimenti; l'errore sta, insomma, nell'identificare l'ingenuo e il sentimentale.
La distinzione concettuale tra la naturalità dell'ingenuo e la riflessività del sentimento sarà sviluppata da Friedrich Schiller nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale. Il succo della riflessione schilleriana si può riassumere così: la poesia di noi moderni (e dunque l'espressione dei sentimenti che essa implica) non è mai caratteri7.7.ata dalla naturale genialità (dall'in-
121. N. de Chamfort, Massime, pensieri, caratteri e aneddoti, tr. it., a cura di B. Nacci, Giunti, Firenze 1997, n. 7, p. 8. 122. In ciò seguiamo quanto sostenuto in Ch. Taylor, Radici dell'io. La costruzione dell'identità moderna, tr. it. di R. Rini, Feltrinelli, Milano 1993.
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genuità) che caratterizzava la poesia degli antichi; la nostra poesia sente «la perduta felicità della Natura», la riflette, e perciò può essere definita «sentimentale». I sentimenti implicano distanza, riflessione, intenzione. Nel sentimento, insomma, vi è sempre una buona dose di artificio: di costruzione culturale, di mediazione sociale. Sta qui lo scarto rispetto a una identificazione della sfera affettiva con la sfera delle passioni: le passioni sono ancora pensate come qualcosa di preesistente alla nascita della società e dello Stato 12.1 e, perciò, possono ancora essere intese ingenuamente 124• Nella tesi di una espressività naturalistica dei sentimenti, e quindi nella tesi di una loro verità, c'è insomma qualcosa di vero, ma nel senso di una me7.za verità. Il sentimento - si potrebbe dire parafrasando Karl Kraus - contiene sempre una mez7.a verità o una verità e me7.zo, sta sempre in un rapporto difettivo o eccessivo nei confronti della verità (mai in un rapporto di libera ma necessaria corrispondenza). Per affermare una corrisponden7.a di questo tipo bisognerebbe accettare l'equazione rousseauiana tra coscien7.a e sentimento (un'equazione all'origine di ogni emotivismo). La coscien7..a, invece,
123. Pensiamo a Hobbes, ad esempio, e al ruolo prepolitico che vi svolge la passione della paura come passione fondamentale a partire dalla quale si rende necessario il pactum subjectionis (cfr. per questo H. Cobb-Stevens, Descartes and Hobbes on the Passions, in A.-T. Tymieniecka [a cura di], 11ie Elemental Passioris of the Soul. Poetics ofthe Elements in the Human Condition: Part3, Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1990, pp. 145-162). 124. Sebbene vi sia una buona dose di fictio in una fenomenologia e in una sistematica delle passioni che si presenti come priva di presupposti. L'analisi hobbesiana, che, dagli Elementi di legge naturale e politica al Leviatano, pone come passione iniziale la paura, o quella cartesiana, che fa iniziare la sua serie delle passioni con la meraviglia, ci mostrano, infatti, come qualsiasi analisi delle passioni dipenda da un modello del rapporto tra le funzioni o dimensioni della psiche (o della mente) e dunque, in ultima istanza, da un modello di razionalità.
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è qualcosa di irriducibile al sentimento, così come questo non può essere ricondotto alla natura delle passioni. Se continuassimo a intendere i sentimenti come qualcosa che sorge naturalmente nella nostra vita psichica e che proprio perciò contiene la nostra autenticità (quanto ci è proprio oltre ogni maschera), li penseremmo ancora in senso puramente e letteralmente passionale: qualcosa che la mente patisce, da cui la mente è naturalmente affetta.
Ma i sentimenti - abbiamo già visto - emergono come un terzo rispetto a ogni nuda opposizione tra ragione e passioni, esprimendo non tanto una sintesi totale e risolutiva tra i due opposti in lotta, quanto piuttosto il loro reciproco aver effetto l'uno nell'altro: l'effettività della loro tensione a esser uno nella nostra mente. Se dunque, nell'effettività dei sentimenti, l'intenzionalità e riflessività della dimensione razionale e l'immediatezza e a-intenzionalità di quella emotivo-passionale tendono a divenir uno (ad accordarsi), allora si modificano questi stessi termini in rapporto o, se si vuole, si modifica il nostro modo d'intenderli. La vera irrazionalità - a questo punto - consisterebbe nel rimanere fermi all'opposizione. Attraverso il fìltro modulante dei sentimenti - la loro virtù di equalizzazione attiva - si pluralizza l'idea di ragione e di razionalità e si unificano (almeno tendenzialmente) le moltitudini eccentriche delle passioni. In breve: i sentimenti esprimono già uno stabilizzarsi in senso sia diacronico che diatopico della nostra vita endo- ed eso-psichica: un ordine necessariamente contingente e spesso solo locale di quella vita e di quella geografia della mente che non riguardano mai unicamente l'interno, ma anche l'esterno. Attraverso la nomenclatura dei sentimenti e il rapporto che instauriamo tra essi (la nostra politica interna della psiche) noi sottraiamo la sfera affettiva a quel tradizionale ruolo di passività (I'ambito ingenuo delle passioni) che sconfina spesso in patologia. Una passione, nel momento stesso in cui viene sentita e dunque ri-conosciuta,
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è già chiamata ad abbandonare la sua unilateralità per entrare in dialogo con altre passioni, per accordarsi con esse. In breve: nella loro emergenza tematica i sentimenti esprimono e rivelano qualcosa di diverso non solo dalle sensazioni, ma anche dalle passioni e dalle emozioni.
Eppure, non si può affatto affermare che la natura dei sentimenti sia qualcosa di genericamente diverso da quella delle passioni. La loro diversità è puramente specifica; se ancora di passioni si può parlare, si deve allora precisare che si tratta di passioni coltivate: di complessi emotivi che ognuno di noi in qualche modo unifica, alimenta, raffo17.a e educa. È ovvio che questo non sottintende una visione armonicisti ca dello sviluppo e del rapporto tra i sentimenti. Proprio perché ognuno di essi ha in qualche modo incorporato, con il tempo, una dimensione strategico-razionale, una dose di riflessione e di intenzionalità (di calcolo), insieme al suo carattere recettivamente spontaneo (il sentimento è appunto un qualcosa che viene «sentito" e dunque un quid di già esistente nella vita psichica); proprio per questi motivi un sentimento sarà anche più forte nei confronti di altri che hanno acquisito lo stesso diritto di cittadinan7.a. Se il conHitto è qualcosa di non opposto alla norma, alla normalità della vita psichica, costituendone il suo necessario presupposto, bisogna mettere in conto un ventaglio di possibilità che va dal disagio di una stabili7..7.azione in virtù di compromessi fino alla lacerazione tragica tra due sentimenti equipotenti che può risolversi in un esito autodistruttivo. Questi ultimi accenni ci riconducono al tema dell'irriducibilità della coscienza (in quanto appunto cU1n-scientia, sapere di una pluralità) alla dimensione sentimentale. Tale irriducibilità- come vedremo - dipende più dal carattere meta-cognitivo (e dunque anche meta-sentimentale) di questo stesso sapere che dall'estraneità del sentimento alla dimensione cognitiva. Anche i sentimenti in quanto passioni modulate o sensazioni
140 (emozioni) riflesse, infatti, si rivelano caratteri.72..ati da virtù cognitive. È un tema al centro di molte ricerche anche sperimentali non solo nel campo della psicologia cognitiva, ma anche in quello della neurologia 12.5. La riflessione sulle virtù cognitive proprie della dimensione affettivo-sentimentale era già stata al centro delle teorie estetiche contestuali alla tematiz7..azione tardo-settecentesca dei sentimenti. Il rimando d'obbligo è alla tel7.a Critica kantiana, dove la capacità di produrre dei giudizi sem.a aver in preceden7..a una salda regola da applicare (un qualche concetto nel quale sussumere un fenomeno o un evento), owero la capacità di produrre i giudizi riflettenti, viene fatta dipendere non da una facoltà conoscitiva o volitiva come l'intelletto o la ragione, ma da un sentimento di piacere o dispiacere. Così Kant può differen7Jare non solo il sentimento (nella fattispecie il sentimento estetico costitutivo del giudizio di gusto) dalla mera sensazione, ma anche dall'emozione e dalla passione. Quando si critica Kant per aver definito le passioni come «un cancro per la ragione pratica» non bisogna trascurare che la sua analisi delle passioni non è in alcun modo sovrapponibile a quella dei sentimenti. Dal punto di vista kantiano i sentimenti, pur
125. A questo proposito Damasio insiste appunto sulla dimensione cognitiva dei sentimenti come di qualsiasi altra immagine percettiva e intende il sentimento come «un processo di osservazione continua» (A.R. Damasio, L'errore di Cartesio, cit., p. 209) dei messaggi che giungono dal nostro corpo (dall'accelerazione del battito cardiaco alla contrazione dell'intestino) mentre i nostri pensieri sono diretti a dei contenuti specifici. Così il sentimento consisterebbe nella giustapposizione di un'immagine del corpo a un'immagine mentale di qualcos'altro, oppure del corpo stesso (pensiamo al sentimento di dolore e di autocommiserazione se ci immaginiamo malati, anche nel caso non lo fossimo ... ). Incidentalmente si potrebbe osservare che la ricerca di Damasio sta tutta nella tradizione ippocratica; in uno scritto ippocratico (il Perì ierès nousous, 16) troviamo infatti l'affermazione che l'enkephdos è il portatore della synesis mentre in tutto il corpo è attivo qualcosa della phronesis.
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nella loro natura necessariamente soggettiva, presuppongono qualcosa come un sensus communis aestheticus al confine tra disposizione naturale e acquisizione culturale, e dunque, in virtù di ciò, sono intrinsecamente comunicabili: hanno una dimensione d'universalità. Considerando l'autonomia estetico-sentimentale dei giudizi riflettenti e in particolare dei giudizi di gusto rispetto alla dimensione pratica dell'agire e a quella teoretica del puro conoscere, Kant opera una vera e propria svolta rispetto alla tradizionale considerazione del rapporto tra sentimento, percezione e orientamento cognitivo. Senza questa svolta non si intenderebbe affatto la centralità che i primi romantici accordano ai sentimenti come un effetto originario del rapporto tra sensibilità e intelletto o, se si vuole, tra la sfera razionale e quella emotiva. Si potrebbe così sostenere, con una qualche approssimazione, che con i primi romantici (ad esempio, con Novalis o con Friedrich Schlegel) si unificano due istanze che stanno all'origine dell'emergenza e della temati7.7mone moderne dei sentimenti. Due istanze che possiamo esemplificare con i nomi di Rousseau e di Kant e che potremmo identificare, da un lato, con una concezione dei sentimenti come articolazione interna della coscienza stessa in quanto voce della natura dell'anima e, dall'altro, con una concezione che assegna ai sentimenti - attraverso i giudizi di cui essi sono all'origine mediante la logica binaria fornita dal senso di piacere o dispiacere - una funzione cognitiva di orientamento nei territori di confine tra ordini diversi di concetti, facendo così anche da battistrada nell'esplorazione-definizione di spazi epistemici del tutto inediti. Dicendo che con i romantici si fondono queste due istanze, sgombriamo subito il campo da un pregiudizio abbastanza diffuso, owero quello di ritenere che con essi la centralità del sentimento si gioca contro il dominio o il predominio della razionalità. In realtà la loro critica si indiriz7.a sia verso l'astratte7..7.a e il carattere esangue di una ragione scissa dalla sen-
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sibilità sia verso l'unilateralità delle passioni 126 • La posta del pensiero romantico è dunque quella di costruire una "logica del sentimento" da svilupparsi tutta nella linea di una logica della libera inventività dell'immaginazione. Approfondendo e radicali72_.ando una tesi kantiana, i romantici sottolineano così il ruolo attivo che l'immaginazione ha non soltanto nella genesi e nella formazione della percezione, ma anche in quella degli stessi sentimenti: in quella dinamica interna che trasforma e modula le sensazioni e le emozioni nel riflesso stesso del sentire. Perciò la coscienza viene intesa da Novalis come «sostan7.a dei sensi»: come un tipo di sapere o di consapevole7..7.a che suppone la stessa pluralità di sensazioni e sentimenti127 e quindi, in qualche modo, come una disposizione che scioglie sempre il nodo problematico della loro unificazione (in un'idea di unità che è sempre indisgiungibile da quella della pluralità)128 • Dal punto di vista romantico i sentimenti appaiono già come natura "morali7.7--ata" 129 e dunque anche come una prestazione morale (pratico-intenzionale). In ciò essi non esprimono altro che l'unità tra la dimensione attiva e quella recettiva della vita della mente: la bi-unità tra l'a-intenzionalità della coscien7.a e l'intelligen7.a della passione. Poiché qui la natura deve essere intesa nella reciprocità di scambio tra esterno e interno 126. «Tutte le passioni - scrive Novalis - vanno a finire come un Trauer-
spiel [come un dramma luttuoso]. Tutto ciò che è unilaterale termina con la morte ... » (Novalis, SF, p. 764, n. 368). 127. E perciò «dove c'è un unico senso non c'è alcuna coscienza» (ivi, p. 762, n. 3.53). 128. Anche a questo proposito l'obiettivo della 6loso6a romantica si conferma consistere nel compito di unificare il punto di vista di Fichte (ossia quello dell'assoluta produttività dell'Io) e quello di Spinoza (ossia quello della mens sive natura); per questo aspetto della 6losofia romantica, cfr. F. Desideri, Il velo di Iside, cit. 129. Cfr. Novalis, SF, p. 710, n. 50. La «moralità» costituisce così, per i romantici, il futuro della stessa natura (cfr. ivi, pp. 715-716, nn. 76 e 78).
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(significando tanto la natura fuori di noi quanto la natura in noi), si può anche affermare che i romantici concepiscono i sentimenti in una maniera intimamente musicale: espressioni dell'accordo dinamico, ma pur sempre conflittuale, tra esterno e interno; simboli effettuali di un'armoniz7.azione non solo tra il mondo e il soggetto, ma anche nell'interna pluralità di istanze che lo costituisce: tra l'anarchia delle passioni e l'archia dell'intelletto. Quello che i romantici non potevano prevedere con il loro progetto filosofico, owero con la loro idea di un sentire attivo (dove la sensibilità si configura come ambito continuamente modificabile di espansione dell'idea di ragione e del suo stesso corpo), era la fuga dei sentimenti stessi dall'unità di un corporagione o meglio l'esplosione di quest'ultima figura nella forma di un irriducibile e proliferante pluralismo (già messo lucidamente a fuoco nella filosofia dell'ultimo Niet7..sche). Arrestarsi a questa constatazione sarebbe, però, fin troppo comodo. Anche un"'esplosione" può venire analiz7..ata, calcolando le direzioni in cui maggiormente si ripercuotono i suoi effetti. Per quanto riguarda il nostro presente, l'esplosione dell'idea romantica di un'unità dinamico-espansiva tra ragione e senso può essere caratteriZ7..ata almeno in due direzioni. Da un lato, verso una molteplicità di identità funzionali in cui si può stabili7.7.are localmente e in maniera puramente contingente il rapporto tra dimensione razionale e dimensione emotiva e, dall'altro, nel proliferare anarchico di emozioni e percezioni che sfuggono a ogni logica soggettiva del sentimento e lasciano quello che resta del soggetto contemporaneo in un vero e proprio vuoto del sentire. Non in un sentire del vuoto, ma in un punto zero del sentimento stesso. In una dimensione quasi anestetica della sensibilità affettiva indotta dall'eccesso di stimoli sensoriali nell'epoca tecno-digitale. Forse quella che Peter Handke chiama l' «ora del vero sentire», per noi tardomoderni, sta proprio nella consapevolez7.a di aver raggiunto
144 un grado zero della sensibilità. Forse è necessario educarci a sentire di nuovo i sentimenti, a intendere il senso della loro attuale alterità. E per questo non c'è inizio migliore della disposizione ali'ascolto.
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IV Il confine dell7alterità
1. Dianoia e mah'chaba: pensare dal,l'Altro e pensare l'Altro
A proposito del rapporto tra voce e coscien7.a è quasi d'obbligo il richiamo a Socrate. Ma la voce che Socrate dice talvolta di sentire. come «qualcosa di divino» o come «un non so che di demonico» 1• nega soltanto: ha il po,tere di dissuadere. d'interdire. ma non quello di suggerire. E una voce ancora intesa come «segno» di una potenza esterna al pensierc>2. Nella sua demonicità è pur sempre indecisa tra la manifestazione teofanica e il sapere di cui il pensare dispone: il sapere della coscienza. Insomma. la «voce» di cui parla Socrate non è la voce della coscienza. Né può esserlo, se non altro perché la voce, come si è già visto, sta ali'origine della coscien7.a di sé, ma non coincide affatto con essa. C'è uno spazio proprio della coscien7.a che solo il pensiero può misurare. Uno spazio multiplo che ha l'apparenza di un flusso. Ma nel momento stesso in cui il pensiero comincia a misurare questo spazio - a riflettersi - l'apparenza del Husso svanisce. La virtù
1. Cfr. Platone, A710l., 31d; Phaedr., 242c;
2. Cfr. Platone, Phaedr., 242c.
1'heag., 128d.
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che eccede, nella coscien7.a, la dimensione del comando di sé come auto-organizzazione si mostra anzitutto come virtù di auto-scansione del proprio procedere. Il pensiero passa "attraverso" quanto produce, si rappresenta o percepisce3 ; passa "attraverso" e torna indietro sui suoi passi, controlla, verifica, nega, afferma, connette. Così, come uno «sviluppo temporale» della singolarità e immediatezza del noein, owero del suo carattere di «atto apprensionale»4, si può configurare quanto Platone e i Greci chiamavano dianoia: il pensiero nel suo "movimento" intelligente, nel suo carattere intenzionalmente riflessivo (nella sua interna discorsività). Già nel termine stesso risuona un senso del molteplice diverso da quello che si annuncia sul limite della sensazione: un molteplice interno che sorge intima-mente, non più derivando dalla relazione tra il corpo e quanto lo circonda né dalla fisicità della voce e dal suo ascolto. La differen7.a tra la dianoia e il logos sta proprio in questo: nel carattere interno o esterno della discorsività. Nel logos, il pensare fluisce fuori dalla bocca nel discorso e come tale, come raccogliersi di un molteplice eterogeneo nell'omogenea fluidità della voce, il logos viene accolto. Ma quanto il logos raccogliendo offre, attende ancora di essere afferrato-intuito. Il noema, allora, sta alla possibilità dell'afferramento interno (dell'intuizione) che è compito del nous, come il senso sta al discorso. Molti però sono i noemata come molti sono i sensi in cui le cose sono dette. E anche se fossero soltanto due, basterebbero a rendere indeciso - senza
3. Tutti momenti da vedere in reciproco scambio. Il paradigma del pensare platonico resta sempre "ottico": "intende" in quanto "vede" e viceversa; e proprio questo è il senso del noein, ossia «la relazione mentale a uno stato di cose, nella quale questo viene immediatamente "afferrato" o "visto"»; per questo cfr. G. Jager, "NUS" in Platons Dialogen, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1967, p. 30. 4. Cfr. ivi, pp. 33-34.
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governo - il Sé cui appartengono. Come nel frammento di Saffo: ouk oid' otti theo: 9 e da questa impossibilità il soggetto emerge come una sorta di «residuo». Detto in altri termini: dal punto di vista dell'Io la coscienza non trapassa mai perfettamente in autocoscien7_.a00 • Questo passaggio, infatti, significherebbe il paradosso assoluto della sua immediata auto-negazione, l'eliminazione della sua costitutiva temporalità in virtù di un atto perfettamente razionale (di un atto noumenico). Significherebbe, cioè, il raggiungimento di una «condizione nella quale non vi sarebbe progressione temporale»: «una condizione sen7.a tempo -permanente, sempre eguale»61 , eppure caratteriz7.ata da continua variabilità e mutamento. Si tradurrebbe, infi-
57. Ivi, p. 79. 58. Ivi, p. 80. 59. Cfr. Novalis, SF, p. 125. 60. È quanto viene sostenuto anche in M. Frank, "Intellektuelle Anschauuni(• Drei Stellungnahmen zu einem Deutungsversuch von Selhstbewufltsein: Kant, Ficht, Holdedin/Noval,is, in E. Behler - J. Horisch (a cura di), Vie Aktualitiit der Friihromantik, Schoningh, Paderbom-Miinchen-WienZiirich 1987, pp. 96-126. 61. Novalis, SF, p. 878.
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ne, in uno stato «estatico»62, in quell'estasi della ragione nella quale l'Io, al culmine del suo auto-sprofondamento interiore, si rovescia nell'Uno-Tutto della Natura. In quanto estatico rovesciamento dell'interiorità egoica nell'esteriorità del Sé, l'autocoscien7.a-circoloperfetto (auto-riflessione)- appare così come un punto di vista paradossalmente esterno alla coscienza internamente soggettiva e, dunque, continua a rappresentare un «compito» e un «ideale»6.'l per l'Io. E proprio rispetto a questa paradossale esternità di una figura compiuta di autocoscienza l'immagine di Iside ve/,ata assume, per Novalis, quasi i contorni di una metafora assoluta che sospinge nuovamente il Non-Io fichtiano nell'ambigua autonomia di una "cosa" in sé: unità «eternamente ignota» e «assimilata» nel medesimo tempo 64, oscuro presupposto e principio generativo - archeus faber - di ogni cosa. Il fascino esercitato da tale immagine sul pensiero romantico testimonia a favore di una permanenza del momento egizio in filosofia. La differenza-tensione tra bello e sublime (tra percezione e sentimento) riaffiora, per i romantici, nell'ambito teoretico del rapporto implicativo tra coscien7.a di sé e conoscen7.a della natura. In tale ambito si attesta il persistere di un fondo opaco all'interno della forma simbolica, e dunque in quel commercium dynamicum tra Io e Universo nel quale si costituisce la coscien7.a romantica. Nell'Iside velata viene pensato l'in sé della natura. Nello stesso tempo, si ha come una commozione dell'in sé: il velo di Iside è smosso, non tolto, in un gioco inconcluso tra dynamis immaginativa e pensiero del limite. In tale limite consiste il tempo in-finito tra la velatura e lo svelamento, quello stesso tempo in cui si dilata
62. lvi, p. 897. 63. lvi, p. 878. 64. Cfr. ivi, p. 897.
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poeticamente la coscien7.a romantica. Né l'identificazione fiabesca del volto della dea con quello dell'amata (suggerita nella fiaba di Hyacinth e Rosenbliithchen inserita nei Disce-poli di Sais) né il riconoscersi nell'effigie divina (l'estatica autointuizione - «miracolo dei miracoli» - contenuta in uno dei Paralipomena a quest'opera)65 possono, però, decidere la complessità di questo tempo e, dunque, rischiarare perfettamente l'opacità del simbolo. Erotismo dell'intelletto (fìlo-sofia) e immaginazione poetica convergono nella loro potenza simbolica, nella loro tensione a rappresentare l'Irrappresentabile. Ma il simbolo presuppone, nel suo stesso rap-presentare, proprio l'assen7.a-distanza del simboliz7.ato66 e dunque mantiene la cosa nel suo in sé proprio mentre la include nel suo cerchio. Anche la «difficile» arte del «quieto intuire», l'arte (di chiara ispirazione plotiniana) della «contemplazione creativa dell'Universo» - quella contemplazione per la quale, nel proprio intimo, può sorgere la Natura «nella sua intera sequenza» - pur sprofondando per un istante nell'«intuizione di questa Urerscheinung» (di questo «fenomeno originario») implica l'alterità-distan7.a tra la natura e la sua immagine: il suo velo. La Natura, interrogata come lo stesso fondo da cui emerge l'Io, si ritrae mentre si rivela (in una impacificabile dialettica tra s-velamento e velatura). Il movimento del ritrarsi in sé della Natura è forse un effetto della stessa domanda fìlosofìca: un effetto della vis imaginativa, della fictio di cui è capace il pensare che interrogando costruisce la sostanza della questione stessa67• La relazione, tuttavia, può anche essere invertita e Io scambio reciproco tra costruzione e percezione può essere un modo per «ram memo-
65. Cfr. ivi, p. 423. 66. Cfr. ivi, p. 844. 67. Cfr. ivi, pp. 644-647, e la nostra Nota di letturo, ivi, pp. 511-514.
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rare la poten7.a del Sé»68: allegoria dell'auto-genesi delr«antica unità» e, insieme, simbolo effettuale di una (plotiniana) creatività dell'auto-teoria (Teoria di Sé!) della Natura stessa. Si confermerebbe così la senten7.a novalisiana secondo cui «l'ignoto, il misterioso, è il risultato e l'inizio di tutto»69 • Ciò che si tende tra questi due estremi - tra questo duplice riaffiorare dello in sé come un «sacro nulla» per noi - ha la figura dell'incompiute7.7.a. E perciò incompiuta deve apparire, per i romantici, la stessa natura: incompiuta in quanto velata. Solo nel suo rimanere velata, Iside continua a significare l'unità di episteme e kinesis: di scienza e movimento70, di sapere e vita; l'unità dello "slancio" del pensiero e dell'essere commosso dell'in sé.
3.1. Postilla schellinghiana Leggermente diversa è la prospettiva che si disegna nello Schelling del Sistema dell'ideal,ismo trascendentale dove la coimplicazione romantica di Io e natura viene intesa piuttosto come identità-indifferen7.a originaria dal punto di vista dell'Assoluto. L:Assoluto, come «principio generale dell'armonia prestabilita tra il conscio e l'inconscio», assume il carattere del Sé originario, dell'Ur.selbst che appare all'intelligenza come un «qualcosa di superiore», aggiungendo il «non intenzionale» a quanto «era stato cominciato con coscien7.a e intenzione»71 • Questo «invariabilmente identico», irraggiungibile per la coscien7.a, è la stessa poten7.a «oscura ed incognita» all'opera nel genio artistico, il quale diviene per l'estetica quel che l'Io è per la filosofia72 •
68. Novalis, SF, p. 647. 69. 70. 71. 72.
Ivi, p. 760. Cfr. Plutarco, De lsicle et Osiricle, 60 (Mor., 375 C-D). Schelling, Sistema, pp. 288 e 289, nota. Cfr. a proposito G. Moretti, Il genio, cit., pp. 136 ss.
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Nell'opera d'arte, così, si espone sensibilmente l'identità di attività conscia e inconscia, di intenzionalità dell'autocoscienza e a-intenzionalità della natura. Pur mantenendo l'equazione fìchtiana tra autocoscienza e intuizione intellettuale, Schelling ne awerte tuttavia l'insufficien7..a a cogliere la realtà di quel Sé dal quale essa stessa trae origine. L'intuizione intellettuale trova la perfezione della sua figura solo obiettivandosi nell'intuizione estetica e, perciò, l'opera d'arte diviene ~r la filosofia «l'unico vero ed eterno organo e documento»73 . È come se attraverso di essa si penetrasse, almeno simbolicamente, nel santuario della natura Ma nemmeno per Schelling si dà un perfetto s-velamento di Iside. Nell'intuizione estetica permane il carattere indiretto e riflessivo del simbolo kantiano74; tale simbolo però significa già, con la sua esisten7..a, un'attestazione ontologica dell'unità-identità di reale e ideale, di "agire" della coscien7.a e attività della natura. Un velo di problematicità continua però ad aderire alla conoscibilità di questa unità-identità esibita in re dall'opera d'arte. Se anche questo velo della natura si potesse sollevare, «se l'enigma si potesse svelare - osserva Schelling - noi vi conosceremmo l'odissea dello spirito, il quale per mirabile illusione, cercando se stesso, fugge se stesso»75 . A ben intendere queste parole: l'autocoscienza è questione dello spirito e del suo tendere all'unità con la natura; per questo si presenta come una fuga, una "fuga" che ha i caratteri di un'odissea e dunque di un paradossale ritorno in sé.
73. Schelling, Sistema, p. 301. 74. Cfr. Kant, CdG, § 59. 75. Schelling, Sistema, p. 301.
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4. Da/,l'autocoscienza intenzional,e alla comunità della coscienza Nel carattere essenzialmente incompiuto e "tensivo" della coscienza romantica il Sé permane "kantianamente" nella forma incognita di un noumeno che ha nel contempo la poten7.a generativa della Natura: come un qualcosa di ignoto che l'Io non cessa di interrogare. Se in questi termini possiamo riassumere la posizione romantica relativamente alla questione dell'autocoscien7.a, resta da osservare come una tale posizione sia dovuta anche a un rapporto di reciproca informazione tra fìlosofia e scien7.a della natura. Sen7.a scomodare le teorie del cosiddetto «principio antropico» 76, si può comunque affermare che la nozione di Sé nella prospettiva romantica è una nozione al confine tra auto-interrogazione fìlosofìca e speculazione cosmologica. Non vi sarebbe, insomma, alcuna teoria del Sé sen7.a una «teoria del tutto» (e viceversa). La posizione romantica trova così una significativa eco nella riflessione di un fisico come David Bohm. Per Bohm il Self è, nel suo «fondo», essenzialmente «sconosciuto» e, insieme, è qualco-
76. Secondo queste teorie, che conoscono una variante «debole» e una variante «forte», la «struttura su larga scala dell'universo è inaspettatamente connessa con le condizioni necessarie per l'esistenza di osservatori viventi al suo interno» (J.D. Barrow, Teorie del tutto. La ricerca della spiegazione ultima, tr. it. di T. Cannillo, Adelphi, Milano 1992, pp. 302-304). Nella versione «forte» del principio antropico questa connessione tra le leggi e la struttura dell'universo e l'esistenza di esseri intelligenti dotati di coscienza più che rappresentare un dato di fatto, che avrebbe potuto essere anche diversamente, ha un carattere teleologicamente necessario. Per una esposizione del principio antropico e delle sue varianti cfr. J.D. Barrow - F.J. 1ipler, The Anthropic Cosmological Principle, Clarendon Press-Oxford University Press, Oxford-New York 1986; per una brillante critica del «principio antropico forte» e una cauta accettazione di quello «debole» si veda invece D.C. Dennett, L'idea pericolosa di Darwin, cit., pp. 208-210.
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sa che «costantemente rivela sé stesso»77; il carattere peculiare e preminente dell'essere è dunque la «creatività» piuttosto che l'identità78 • Del tutto alternativa rispetto al «paradigma romantico»79 si presenta la posizione di Hegel (se non altro anche per il diverso rapporto tra filosofia e scienze della natura che sostiene). Alla necessaria e intrascendibile incompiutez7.a della filosofia, derivante per Novalis dalla sua connessione con tutte le scienze"", risponde la "perfezione" hegeliana del circolo di circoli. Così la tensione "romantica" tra la via dell' anteceden7.a immediata del sentire (che rinvia a un Sé originario rispetto all'Io) e quella della riflessione (che contiene un Io "vuoto" segnato dal limite della rappresentazione) si risolve, in Hegel, nella forma della mediazione. E ciò ha come conseguen7.a la riproposizione, a un livello di estrema compiutezza, dell'idea di coscien7.a di sé come auto-trasparen7.a riflessiva. Per Hegel, insomma, l'immediatezza con cui si presenta la coscien7.a (nel suo "astratto" inizio di coscien7.a sensibile) è un'immediatez7..a destinata a esser tolta nella figura dell'autocoscienza e segnatamente nel movimento che la configura nella forma di una «duplicata riflessione» 81 • L'Io hegeliano contiene così la capacità di mediare al suo interno anche l' opposizione ostinatamente "sostanziale" della seità, fino alla piena riconduzione del Sé all'Io. Un Io che non sarà più la vuota identità di un'auto-rappresentazione riflessiva dell'intelletto né la "prima" eviden7..a di un sentire pre-concettuale, ma un
77. D. Bohm, 1'ought as a System, Routledge, London-New York 1992, p.173.
78.
e&. ivi, p. 174.
79. A tale riguardo si veda F. Desideri, Il velo di Iside, cit., pp. 19-28. 80. Cfì-. Novalis, SF, p. 1080, n. 605. 81. Hegel, PhdG, p. 144.
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risultato conseguito-conosciuto attraverso la fatica del concetto, il suo "discorsivo" lavoro, come oltrepassamento dell'Altro nel rapporto dell'Io con Sé.
È la prospettiva che si disegna nella Fenomenologia dello spirito e in particolare nell'ultima parte, dedicata a Il sapere assoluto. L'Io diviene Sé nel compenetrarsi di riflessività ed Er-innerung (rammemorante discesa del pensiero nella profondità del soggetto: nel suo sostanziale passato) in un unico movimento logico-temporale. Al culmine di questo processo l'Io è il Sé, anzi è «l'uguaglian7.a del Sé con sé» come «perfetta e immediata unità» di sostan7.a e soggetto e dunque come spirito: Né soltanto il ritrarsi dell'autocoscienza nella sua pura interiorità [ ... ] né il mero sprofondamento di essa nella sostanza e il non essere della sua differenza, bensì questo nwvimento del Sé, che aliena se stesso e si sprofonda nella sua sostan7.a e come soggetto è tanto andato da essa in sé facendola oggetto e contenuto, quanto toglie questa differenza dell'oggettività e del contenuto.82
In questo movimento di Au.jhebung, di progressivi innal7.amenti del suo livello di determinate7..za riflessiva, r autocoscien7.a raggiunta toglie una doppia, quasi-naturale presupposizione; supera tanto la mera pro-posizionalità dell'Io (la sua vuota identità) quanto la muta sostanzialità del Sé (il movimento imperfetto del divenir-cosciente). A questo punto, il risultato (l'epilogo) del doppio movimento tra in-tendere e ri-flettersi toglie anche la differen7.a tra coscien7.a e autocoscieil7.a. Qui giunto, ora: solo dopo che ... , lo spirito volge fuori il «pensiero della sua più intima profondità ed esprime l'essen7.a come Io= lo»83 • Questo è.finalmente 82. Hegel, PhdG, p. 587. 83. Ivi, p. 586.
274 un lo consapevole di tutte le sue determinazioni. Un io metaproposizionale, certo, e dunque metadiscorsivo, ma appunto in quanto capace di esplicare come una sua interna latenza tutte le determinazioni implicate attraverso il processo dell'intra- e interdiscorsività. Un lo assoluto, si potrebbe dire tranquillamente, con tutte le implicazioni che un tale concetto richiede. Vale a dire: un lo che ha tolto la differenza tra Sé e l'Assoluto appunto per il motivo che "ab-soluto" è divenuto il suo stesso sapere, e proprio per questo è capace di «ricominciare da principio» con una ritrovata immediatezzaw. Con l'immediatezza assoluta dell'Io veramente in sé e per sé; dell'Io che in questo ritrovarsi è memore del suo estraniamento: del suo essersi sprofondato nell'Altro fino a farlo affiorare nella superficie dialogica del linguaggio come nello spazio in cui può darsi la dialettica del riconoscimento. Nel toglimento della differenza tra immediato e mediato - tra intuizione e concetto - la forma perfetta dell'autocoscienza starebbe, insomma, al culmine della sua linguisticità. Per questo l'Io identico a sé, nell'autocoscienza raggiunta, ha i caratteri dell'universalità; non è più un lo che parla soltanto in prima persona. La ragione può così essere la verità di coscienza e autocoscienza, della loro unità, solo perché il suo soggetto è un lo spirituale, owero un lo che non solo ha negato la sua singolarità, ma anche e soprattutto la sua "animalità" e (con essa) la propria natura&5. Come il «venir fuori» o il «prodursi» dello spirito è la «morte della vitalità soltanto individuale ed immediata»86, così la voce dell'autocoscien7..a hegeliana è la voce già da sempre dileguata dello spirito: una voce compiuta, riflessa in sé, morte e memoria insieme della voce vitale
84. Cfr. ivi, p. 591. 85. Cfr. Hegel, Enzyklopadie, § 437. 86. Cfr. ivi, § 222.
275 e immediata all'origine della stessa coscienza. Trasformando ogni coscienza-di in autocoscienza, la necessità di un rinvio a sé, nella guisa di un riferimento paradossalmente esterno allo sguardo dell'Io, è pertanto tolta con il superamento della tensione tra interno ed esterno attraverso la forma "assoluta" del sapere. Nella coinciden7..a con il sapere assoluto, I'autocoscien7..a hegeliana pare lasciarsi alle spalle il suo stesso inizio e la scissione tra Io e Sé da cui nasce. Ab-solvendosi da tale inizio, dalla tensione tracoscien7_..a "estetica" e coscien7_..a "logica", tracoscien7_..a come sentire e coscien7_..a come sapere, l'autocoscien7_..a hegeliana pare congedarsi da una concezione della coscien7..a come soglia dell'alterità, come differen7..a tra coscien7..a di sé ai confini del linguaggio e coscien7..a di sé attraverso il linguaggio. Il carattere meta-linguistico dell'Io-Sé hegeliano è tale, infatti, nel suo derivare da un processo di riflessione-costruzione attraverso le modalità linguistiche - o meglio: linguistico-storiche - della coscien7_..a; e perciò l'Io-Sé deve ridurre a un puro momento la figura della coscien7..a differente dai suoi contenuti. Solo con I'autocoscien7..a, in altri termini, si fa ingresso nel «familiare regno della verità [in das einhei1nische Reich der Wahrheit]»81 • Solo l'autocoscien7_..a è la vera dimora dove l'opposizione tra l'Io e l'in sé viene tolta. L'autocoscien7..a svela dunque la cosa in sé: la svela radicalmente nell'unità-identità tra il Sé e l'Io (tra i due punti di vista). Questo s-velamento è il risultato di un movimento teleologico, culmine di un processo che coincide con la storia della genesi del proprio concetto. Finché non è riconosciuto come tale attraverso la sua alienazione, il Sé hegeliano è, almeno parzialmente, inconscio, o comunque permane nella sua differen7..a dall'Io: quella differen7..a destinata a essere tolta. Il Sé
87. Hegel, PhdG, p. 138.
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"diviene" lo attraverso la reciproca identificazione tra l'Io e il Noi88 e per questo esprime il movimento stesso dell'autoriconoscersi - il suo "eroico" processo- fino all'apice del suo ab-solversi nell'identità con l'Io. Alla riflessività intemporale (intuitiva) dell'Io fichtiano, Hegel oppone una riflessività progressiva che si arricchisce di determinazioni fino a comprendersi nella "propria" totalità come identità piena (doppiamente riflessa) dell'Io. Anche in quest'ultimo caso, però, il Sé è ricondotto ali'autotrasparenza dell'Io, cambiando solo i modi di darsi e di presentarsi di questa auto-trasparenza. La differenza dell'Io dal Sé è tolta soltanto nel concetto che media tra la muta sostanzialità e «l'astratta libertà» dell'Io puramente autoriflessivcPI. È tolta nella figura quieta in cui l'autocoscien7.a finalmente si contempla e a piena voce - con la voce senza suono dell'essen7.a - può affermare «lo = Io», owero «Io non è soltanto il Sé, bensì l'eguaglianza del Sé con sé», l'identità di «sostanza» e «soggetto»00• Anche in Hegel l'autocoscienza ha dunque il carattere di un ritorno in sé. Viaggio che ha come telos il punto di parten7.a91. E dunque anche in Hegel - e in maniera eminente - la coscien7.a di sé viene intesa nel senso dell'intenzionalità, anzi come telos di un agire intenzionale: riflessione alla seconda poten7.a che presuppone certamente un «contesto di intera-
88. Cfr. ivi, p. 145. 89. Cfr. Hegel, Enzyklopiidie, § 424; in merito si veda K. Cramer, Bewusst-
sein und Selbstbewusstsein. Vorschliige zur Rekonstruktion der systematischen Bedeutung einer Behauptung Hegels im § 424 der Berliner Encydopà"tlie derphilosophischen Wissenschaften, in D. Henrich (a cura di), Hegels phdosophische Psychologie, Bouvier und Co., Bonn 1979, pp. 215-225. 90. Hegel, PhdG, p. 587. 91. Questo, certo, non toglie niente al carattere di arrischio inerente a un tale "viaggio"; in merito cfr. R. Bodei, ScomposiZioni. Forme dell'individuo moderno, Einaudi, Torino 1987, pp. 181-211.
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zione sociale»92 (l'Autocoscienza nella Fenomenowgia sorge, appunto, con la lotta per il riconoscimento tra Servo e Padrone). Eppure, l'autocoscienza hegeliana non si lascia ridurre a questo contesto. Esso spiega la genesi sociale del Sé dissolvendo la sua "sostanzialità" in una rete di rapporti, ma non esaurisce il movimento dell'autocoscienza. Finché non estingue la sua dimensione rappresentativa e, con essa, la sua differen7.a dall'Assoluto, l'autocoscien7.a resta incompiuta - è ancora coscienza infelice che non ha raggiunto il suo in sé: non si è incurvata fino a coincidere con sé stessa nella figura del sapere. Solo in questo incurvarsi, che è un auto-sprofondamento, la differenza tra coscien7.a e autocoscienza può dirsi tolta e dire «autocoscien7.a» coincide col dire «coscien7.a». Anche in Hegel, nel saper-si dello spirito assoluto emerge il cum della coscien7.a. Ma emerge in maniera differente dal modo in cui si è svolto il nostro percorso interrogativo. Il cum hegeliano è la perfezione del rapporto tra il Sé e l'Altro nel vicendevole annullarsi della loro reciproca alienazione fino al risultato dialettico di una superiore identità. E come tale giunge al culmine dell'intenzione comunicativa della ragione e non sul limite di quello che Kant aveva chiamato il suo «abisso». In breve, è la ragione stessa come perfetta compenetrazione tra universale e particolare. Sia che lo intendiamo come espressione della Total,ità (che implica l'Identità e la Negatività )93 sia che lo intendiamo come il cum interiori7.7.atorammemorato (er-innert) nel sapere assoluto del Saggio94,
92. Cfr. D. Henrich, Selbstbewufltsein, cit., p. 281. 93. Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettaro di Hegel. Lezioni sulla «Fenomenologia dello Spirito» tenute dal. 1933 al 1939 all'École Protique des Hautes Études raccolte e pubblicate da Raymond Queneau, ed. it. a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, pp. 654-655. 94. Cfr. ivi, pp. 402-418; ivi, p. 402: «Il "Sapere assoluto"», scrive Kojève, «non è la Saggezza ma il Saggio».
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esso è un cum che ha onnai alle spalle (in quanto non ha più un "fuori") il nodo tra contingen7..a e responsabilità: è perfettamente libero nella sua necessità e, dunque, perfettamente irresponsabile95• II cum evocato fìn qui implica, invece, la coscien7..a nella sua "natura" a-intenzionale e la indica come quella dimensione stessa di cui ognuno fa esperienza anzitutto nella fonna estetico-ricettiva dell'ascolto. Nel cum risuona la voce che dice la differenza tra l'Io e il Sé: quella voce che originariamente può esser soltanto ascoltata. Di questo cum l'Io intenzionale non può che assumere la paradossale intemità: un'intemità che chiama "fuori", facendo segno all'alterità del Sé. «A ogni Sé- scrive Novalis - ha accesso soltanto un Sé»96, e dunque non un lo. Nel Sé il circolo auto-identificante dell'Io si spez7.a. II Sé indica una tel7.a persona e quindi trascende la stessa sfera dialogica. Non scaturisce nemmeno dal semplice dialogo con il Tu rappresentandone, piuttosto, la condizione. Rimane così sempre un terzo tanto per l'Io che per il Tu97• Entrambi si riferiscono a sé e al Sé98 come quella possibilità interna e insieme trascendente il loro dialogare che costituisce la com-
95. Cfr. in proposito quanto sostenuto (pur in un quadro problematico diverso dal nostro) in E. Tugendhat, Autocoscienza e autodeterminazione, cit., pp. 362-63 e passim. 96. Novalis, SF, p. 530. 97. Quel term che ha la funzione del "testimone" o dello "spettatore" in virtù del quale si costituisce lo stesso soggetto cosciente. Per un modello di coscienza basato su uno «schema "a tera persona"», cfr. G. Trautteur, Distinzione e riflessione, in «Atque», n. 16, 1997-1998, pp. 127-142: p. 135, il qualepensa tale modello all'interno di una prospettiva di ricercasull'Intelligenza Artifìciale e dunque lo propone come un «sistema implementabile». 98. Lo stesso Trautteur parla di una «distinzione del "sé" in due parti e [di] una riflessione di queste parti l'una nell'altra tale da costituire un'unità» (ivi, p. 134).
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unità99 della coscienza e non la mera intersoggettività. Così, per l'Io, la coscien7.a di sé (del Sé) è più una fuga che un ritorno: una fuga fuori dall'Io verso l'inquieto confine-dimora della sua physis, una Fuga in sé. Inevitabile, per capire l'ultimo passaggio, il riferimento a Mead100• Secondo Mead il Sé è un «oggetto sociale» che si forma attraverso la «condotta sociale» dell'individuo e ancor più precisamente nella capacità di «assumere gli atteggiamenti sociali degli altri e di rispondervi» 101 • La coscien7.a configurerebbe, allora, il risultato di questa capacità sorgendo «solo nel rapporto di adattamento reciproco tra la stimolazione e la risposta sociali e le attività cui questi processi alla fine pervengono» 102• In questi ultimi termini Mead definisce, a dire il vero, la coscien7.a del significato, mal'affermazione può essere estesa alla coscien7.a tout court. All'origine della coscienza vi sarebbe la risposta a uno stimolo esterno; una risposta non solo esterna, però, bensì internamente riflessiva rispetto all'atteggiamento che si assume di fronte all'oggetto percepito (alla causa dello stimolo). In breve: «La percezione del proprio atteggiamento denota la coordinazione tra il processo di stimolazione e quello di risposta quando questa è correttamente mediata» 103• La condotta sociale presuppone la reciprocità di questi proces-
99. Sul tema della comunità, in una prospettiva diversa dalla mia soprattutto per quanto riguarda il nodo Heidegger-Kant, cfr. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. 100. Due approcci diversi, main qualche modo complementari aMead, sono contenuti in J. Habermas, Il pensiero post-metefisi,co, tr. it. di M. Calloni, Later~ Roma-Bari 1991, pp. 184-236, e in E. Tugendhat, Autocoscienza e autodeterminazione, cit., pp. 251-300. 101. G.H. Mead, La voce della coscienza, tr. it. di C. Bombarda, Jaca Book, Milano 1996, p. 125.
102. lvi, p. 69. 103.
Ibidem.
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si; implica quel contesto di azione reciproca che trova la sua articolazione basilare nel gesto e in particolare in quel gesto eminentemente signiftcativo 104 che è il «gesto vocale». La voce che si ascolta è la voce cui si può rispondere e proprio in virtù di questo reciproco rimbalzo, nel suo effetto di ritorno verso chi l'articola, la voce dischiude all'uomo la possibilità dell'autoriconoscimento116. Il gesto vocale diviene così il simbolo nel quale si effettua la coscien7..a: il gesto della sua effettività 106. Lo diviene come gesto interiori7.7..ato, come interiori72.azione del "dramma" della conversazione esterna o dei gesti significativi (dei «simboli») che per l'individuo costituiscono la fondamentale grammatica dell'interagire con gli altri 107 • Sen7..a trascurare l'importan7.a di questa attenzione meadiana al gesto della voce posto all'origine della coscien7..a, v'è però da osservare come la voce sia troppo presto risolta in cifra dell'intersoggettività e, dunque, in puro agente o simbolo dell'interattività (tra esterno e interno: tra individuo e società) nella quale si costituisce il Sé e la coscien7..a di sé. Il passo verso un'identificazione della coscienza con la dimensione sociale della psiche ne convertirebbe il problema trascendentale (e direttamente metafisico) in una questione di psicologia sociale. Pur nella sua somma problematicità, la sospensione o epochè fenomenologica di Husserl ci ha indicato l'ipotesi di una coscienza ultima anteriore ali'emergen7..a dell'Io. Husserl, in-
104. In quel gesto, appunto, che per Mead si può dire «simbolo», ossia «uno stimolo a cui è data una risposta in anticipo» (G.H. Mead, Mente, sé e società dal punto di vista di uno psicologo comportamentista, tr. it. di R. Tettucci, intr. di Ch.W. Morris, Giunti-Barbèra, Firenze 1966, p. 194).
105. Cfr. C. Bombarda, Saggio introduttivo, in G.H. Mead, La voce della coscienza, cit., pp. 9-45: p. 24. 106. Cfr. ivi, p. 25. 107. Per il carattere interattivo del simbolo, cfr. G.H. Mead, Mente, sé e società, cit., p. 187.
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somma, ci ha insegnato a evitare la scorciatoia psicologica nel trattare la questione della coscien7.a, una scorciatoia di cui la versione socio-interazionista proposta da Mead rappresenterebbe una semplificazione ulteriore. La voce della coscien7_.a va perciò intesa come una voce nella mente che risuona paradossalmente corne da "fuori": l' out of Mind è dunque sia interno che esterno; è l'in sé della coscien7.a, quel tratto che per essa, nel suo interrogarsi-trascendersi, sta sempre «al di là dell'essere». Proprio in quanto la com-unità interna alla coscien7..a - il cum in essa implicito - non si identifica con l'essere della societas, essa confina problematicamente con il carattere an-ipotetico del Bene platonico. L'idea di un'idea al di là di ogni essere (e dunque di ogni essen7_.a), un"'idea" di cui possiamo dire «che è ma non che cosa è» 108 , appare così il correlato necessario di una mente divisa in sé stessa 109 e in virtù di ciò, nella distan7..a da sé, capace di co-scien7..a. La parola giapponese per coscien7..a (Ishiki) - è stato ricordato110 - significa proprio "essere divisi in sé stessi", ma di questa "divisione" v'è una traccia eloquente nello stesso termine con-scientia. Se "coscien7.a" esprime un raccogliere, d'altronde si può raccogliere solo ciò che è di per sé disperso e, dunque, diviso. Così la possibilità di comprendere quel che noi stessi siamo è strettamente connessa a questo nostro essere divisi in sé, al fatto che la mente stessa è «costituzionalmente scissa al proprio interno» 111 • Di tale scissione la voce della coscien7.a, come voce divisa tra lo e Sé, è il segno più potente. La questione che pone è dunque quella di una ontologia 108. C&. per questo K. Leidlmair, The Schiwphrenic Computer, in G. Trautteur (a cura di), Consciousness: Distinction and Rejlection, Bibliopolis, Napoli 1995, pp. 81-105: p. 87. 109. e&. ivi, p. 92. llO. C&. ivi, p. 96. lll. C&. ivi, p. 91.
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come eterofenomenologia 112: pensiero-ascolto del "fenomeno" della voce come segno dell'alterità ali'origine della coscienza. Effetto dell'altro che ci percuote con la violenza del suono: sensazione originaria sen7.a la quale, abbiamo visto, non c'è coscienza alcuna. La prospettiva "alla Mead" va integrata, in breve, con la questione dell'Esteriorità posta da Levinas, dove l'asimmetria dell'etre-pour-l'autre trascende tanto la dialogicità della relazione lo-Tu quanto il puro Mitsein heideggeriano1 13 • Ed è per questo che eterofenomenologia, muovendo dall'alterità nella e della voce, si apre necessariamente al problema meta-ontologico del Bene.
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5. Uscire dal circolo: resonabilis echo ovvero l'éternel dehors tra Eco e Narciso Ricapitoliamo gli ultimi passaggi. Il modello di autocoscienza che si è cercato di pensare non è un modello puramente egocentrico. In quanto costituita nella distanza tra Io e Sé (e dalla ricerca della misura stessa di questa distanza; ancora una volta dalla ricerca disophrosyne), l'autocoscienza ci si è presentata come la figura che tiene insieme coscienza di sé e coscien7.a
112. Owiamente uso questo termine in un senso diverso da come lo intende Dennett (cfr. D.C. Dennett, Coscienza, cit., pp. 86-99 e 112-116). Dennett intende il termine di «eterofenomenologia» come l'assunzione di un punto di vista neutrale o della ter.t.a persona, tipico della scienza fìsica oggettiva, per una descrizione fenomenologica della coscienza. La stessa parola nella mia ricerca ha piuttosto il senso di indicare come in un'interrogazione fìlosoGca della coscienza ci si debba tenere sempre sull'intrascendibile soglia dell'alterità, dove costante e necessario è il vicendevole passaggio tra interno ed esterno, tra prima e ter.t.a persona. 113. È quanto viene acutamente osseivato in Z. Bauman, Le sfide dell'etica, tr. it. di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1996, p. 55.
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del Sé: il suo centro è così apparso come il cum della connessione, non l'ego. Mi si potrebbe obiettare, a questo punto, che così intendendo ho surrettiziamente identificato il "Sé" come sostantivo e "sé" come pronome riflessivo. La controbiezione è che tra i due vi è un'intima affinità, in forza della funzione riflessiva che entrambi i termini svolgono grammaticalmente. Entrambi, dunque, sono e sono "realmente". Se non altro, in quanto esprimono relazioni effettive. A sé (al Sé) ci si riferisce come a qualcosa che è, se non altro perché tale dimensione implica sempre, come una sua componente essenziale seppur non esaustiva, la tematica meadiana dell'interazionismo simbolico e quella hegeliana di una dialettica del riconoscimento. Ma appunto per il motivo che il Sé cui ognuno o, se si vuole, l'autocoscien7..a di ognuno fa riferimento non si esaurisce (dal punto di vista di quest'ultima) nella sua "costruzione" sociale, il "realismo" del suo "essere" può esser ritenuto un realismo "interno". Ciò salverebbe la virtualità del Sé 114, senza sopprimere la sua distan7..a dall'Io e, quindi, la sua stessa trascenden7..a: il suo carattere di una paradossale esteriorità cui la mente non può che riferirsi 115 •
114. Di virtualità del Sé parla, tra gli altri, Francisco J. Varela in F.J. Varela, Un know-how per l'etica, tr. it. di R. Mordini, Latera, Roma-Bari 1992. 115. Proprio in questa sua trascendente (e, insieme, "trascendentale") esteriorità il Sé potrebbe essere inteso anche nel senso del non-attaccamento di cui parla la tradizione buddhista e dunque, nel fondo, come qualcosa di «vuoto»: come quella «vacuità» (sunyata) cui ogni lo si riferisce; forse la differenza tra Oriente e Occidente sta proprio qui: nella necessità del riferimento individuante e non tanto nella credenza occidentale in una ingenua sostanzialità del Sé. La via di un confronto delle contemporanee scienze cognitive oltre la divisione tra Oriente e Occidente è tentata in F.J. Varela - E. Thompson - E. Rosch, La via di mezw della conoscenza. Le scienu cognitive alla prova dell'esperienza, tr. it. di G. Bocchi, Feltrinelli, Milano 1992; per un succinto ma puntuale confronto tra «la ragione occidentale e
284 Solo intendendo la relazione a sé come un riferimento paradossalmente esterno nel quale l'intenzionalità trova il proprio limite, autocoscienza può essere spiegata in modo diverso da una forma di relazione soggetto-oggetto del tutto interna all'Io. Al Sé, proprio in quanto inaccessibile e irrappresentabile dal punto di vista dell'Io come prima persona, ci si riferisce, dunque, come a un paradossale "fuori". Il paradosso qui sta nel "fatto" che il "fuori" -l'Esteriorità del Sé come un Altro - è nello stesso tempo interno alla mente. La coscien7.a stessa si configurerebbe, così, come la possibilità - il cum "critico" -del passaggio tra interno ed esterno. Tale passaggio si dà, come si è visto, nel "segno" della voce in sé divisa della coscienza. Nei confronti di questa "voce" e del Sé paradossale che esprime, mostrano il loro limite tanto la via puramente interna (endoriHessiva e introspettiva) all'autocoscien7.a quanto quella linguistico-proposizionale. Ognuna di esse, se pensata fino in fondo, sembra condurre all'altra e perdersi in un circolo che non ha niente di virtuoso.
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Da questo circolo non si esce, perciò, finché si continua a pensare il movimento di pensiero proprio dell,autocoscien7.a come un ritorno in sé che si chiude in una perfetta circolarità. La metafora del ritorno va pensata insieme a quella della fuga. Nella problematica unità che si determina congiungendo queste due metafore, il movimento dell,Io verso la coscien7.a di sé appare come eccentrico: un andar "fuori" interpretabile come un asintotico movimento verso qualcosa che non è più l'Io prigioniero del proprio punto di vista, bensì la paradossale esternità del (suo) Sé. L,aggettivo possessivo è stato posto tra parentesi a ragion veduta. In questo caso, quel che si presenta come "proprio" (owero: il Sé) lo è solo paradossalmente: è "proprio", gli insegnamenti del Buddha», cfr. invece G. Pasqualotto, Illuminismo e illuminazione. La ragione occidentale e gli insegnamenti del Buddha, Donzelli, Roma 1997.
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cioè, solo nel suo continuo sottrarsi a ogni assoggettamento. Il Sé, la sua autonoma riRessività, è per l'Io l'Inappropriabile. Andando verso questo lnappropriabile, l'Io prende congedo dall'assolutezza della propria autorità. Si abbandona e fa esodo verso l'Altro in sé: verso Sé come un Altro. Cerca, nella distanza da sé, la pazien7.a della misura e dell'ascolto: della misura dell'ascolto. C'è allora una passività dell'Io che è al culmine del suo agire intellettuale: è la passività dell'esercizio dell'ascolto, dell' attendere quell'alterità della voce che risuona nell'intimo di ogni intimità. Se, dunque, la distan7.a tra l'Io e il Sé è il presupposto insuperabile del movimento di fuga in cui si vuol figurare l'autocoscien7.a 116, d'altra parte tale distan7.a significa insieme un'estrema prossimità. La fuga della coscien7.a è un volgersi in sé fino ali' estasi dall'Io, fino al suo paziente affrettarsi verso l'alterità che gli è più intima. In ciò, questa fuga in sé della coscien7_.a è senz'altro affine alla fuga platonica dell'anima come «fuga nel pensiero» 111 e, ancor più nettamente, alla phyghè plotiniana. Che cos'altro intendeva l'autore delle Enneadi con il suo «bisogna fuggire lassù» se non, appunto, la possibilità per l'anima dell'uomo di trasformarsi in «un essere intelligente, in un'lntelligen7.a, in un dio» 118 e, dunque, la possibilità di conoscersi nell'esperienza paradossale dell'Unità: nel farne esperien7_.a in sé 119? Proprio quest'esperien7_.a è declinata da Plotino come 116. Sulla necessità di distinguere tra lo e Sé nell'(auto)coscienza e sulla "tradizionale" e ricorrente confusione tra i due termini, cfr. A.J. Deikman, 'I' = Awareness, in «Joumal of Consciousness Studies», voi. 3, n. 4, 1996,
PP· 350-356. 117. Per questo tema in Platone rimando nuovamente a K. Eming, Die Flucht ins Denken, cit. 118. Cfr. Plotino, Enn., III, 4, 2. 119. Cfr. W. Beierwaltes, Selbsterkenntnis und Erfahrong cler Einheit, cit., pp. 9-11 e 173-175.
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un «volgersi a sé», un eis eautòn epistrephei 191l che presuppone la differenza tra anima e nous ed esige l'aphele panta, il «togli ogni cosa» 121 , owero la distanza da tutte le determinazioni dell'Io psichico. Quella stessa distan7.a che abbiamo cercato di tradurre neIIa differen7.a tra lo e Sé essenziale alla forma dell'autocoscienza. Oltre la metafora platonica e neoplatonica della «fuga», che è ben più di una semplice metafora (forse è una metafora necessaria per il nostro discorso), com'è ulteriormente pensabile questa differen7.a-distanza? La sua proprietà più evidente pare data dal fatto che con l'autocoscienza si rende necessario qualcosa che assomiglia a uno sdoppiamento, quel dédoublem.ent di cui parla Valéry in alcune pagine dei Cahiers 122• In tale sdoppiamento si produce uno spazio, quello che separa l'Io da Sé. Niente varrebbe qui obiettare che si tratta di uno spazio puramente metaforico, in quanto del tutto interno. Già la necessità di metafori72.are dice che abbiamo comunque a che fare con una spazializzazione 123• E la spaziali7.7.azione cos'altro significa, se non il prodursi di un'esteriorità rispetto a qualcosa che prima era soltanto interno e, quindi, non era nemmeno identificabile con sé, anzi non era nemmeno pensabile come l'ipseità del Sé? Era, forse, un puro e muto medesimo, un lo inconsapevole di essere tale e non, dunque, un lo conscio nel riferimento a Sé. Pensare che con l'autocoscienza uno spazio pur sui generis come quello tra l'Io e il Sé venga tolto e che il movimento di fuga si curvi nel circolo identificante dell'Io sarebbe però un errore. In questo modo la via di
120. Plotino, Enn., V, 3, 15. 121. lvi, V, 3, 17. 122. C&. Valéiy, Cahiers, vol. II, p. 224. 123. Metapherein, da cui metap1wrà, significa appunto trasportare da un luogo a un altro.
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accesso alrautocoscienza risulterebbe di nuovo quella specularmente ri-flessiva. Ma se il culmine dell'autocoscienza fosse il monologo dell'Io che si sa tale, owero che sa che lo = lo, questo a sua volta dovrebbe riferirsi a qualcosa fuori: a sé (al Sé) e così via. Lo sdoppiamento interno tra lo e Sé si tradurrebbe, così, in una moltiplicazione speculare dell'Io. L'Io non incontrerebbe il suo Altro: l'Altro in sé come condizione di ogni rapporto con gli altri. Come scrive Valéry: Essere solo significa essere con sé, essere sempre Due. Sen7.a questo, sen7.aquesta divisione o differenza "interna", non avremmo mai commercio con l'altro; giacché questo commercio consiste nella sostituzione di una voce o di un'udienza (ascolto) estranea alla voce o all'udienza dell'Altro che è in noi, e costituisce il secondo membro di ogni pensiero. 124
A questo punto si potrebbe chiamare nuovamente in causa il modello di autocoscienza pensato da Hegel nella Fenomenowgia, dove la critica dell'astratta e vuota identità della coscien7.a va di pari passo con l'affermazione della necessità dell'alienarsi. Quello che non convince è il passo successivo, ossia il finale e finalistico togli mento della differen7.a tra l'Io e il Sé. L'auter coscien7.a, da questo punto di vista, rappresenta il culmine di un percorso intenzionale 12s. Un percorso dall'andamento stra-
124. Valéry, Cahiers, voi. II, pp. 240-241; ma si cita dalla tr. it., voi. N, pp. 388-389; su questo passo richiama l'attenzione M. Gauchet, L'inconscio cerehrak, tr. it. di V. Gianolio, Il melangolo, Genova 1994, p. 141. 125. Un problema ulteriore sarebbe offerto dal dover rispondere al quesito: cos'è che per Hegel media tra l'Io e il Sé? È il processo stesso dell'alienazione e del riconoscimento a produrre la mediazione? E dunque l'intenzionalità vera è quella interna al processo stesso? Oppure la mediazione sta solo nella fìgura del compimento, nell'identificazione tra autocoscienza e sapere assoluto? In quest'ultimo caso, l'intenzionalità sarebbe tale solo per uno sguardo retrospettivo che interiorizza il processo - le varie fìgure della coscienza - ricordandole fìno a liberarle dalla loro servitù processuale, trasformandole in «storia concettualmente compresa». Il quesito non può che
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no: procede guardando indietro, va verso il suo compimento mentre rammemora. Il problema sta proprio nel vedere se l'autocoscienza può esser pensata come termine di un processo intenzionale. Se con "termine" si intende "propriamente" un punto critico di arresto, la risposta è affermativa. Ossia, se si intende che con l'autocoscien7.a l'intenzionalità raggiunge il suo limite, quel limite sempre implicato quando ci si deve riferire a qualcosa che in qualche modo sta fuori, mostrandosi esterno a ciò che lo indica. In questo senso, dal punto di vista dell'Io, la coscien7.a appare un indicatore del Sé, un far segno verso di esso, ovvero - volendo far ritorno alla "necessaria" metafora della "fuga" - l'Io fugge in Sé, come verso un quid inattingibile per il suo sguardo. Se ciò che l'Io cerca è la propria immagine, l'immagine di colui che ha coscien7.a (del suo Sé, insomma) e non solo del contenuto di questa coscienza che lo riguarda, allora proprio la "sua" immagine non può scorgere. Il Sé si mostra all'Io soltanto in un'immagine negativa. Lo stesso vale per il rapporto tra coscien7.a e autocoscienza. Se la coscien7.a è sempre caratteri7.7.ata da un movimento intenzionale, da un tendere verso, allora questo movimento si arresta dinanzi a Sé. Il narcisismo dell'Io trova qui il suo limite. Non può abbracciarsi. La specularità è inganno per la coscien7.a che intende incontrare il suo sguardo fino a esser uno con esso. Iste ego sum! - esclama Narciso. «Ho capito, e la mia immagine non mi inganna più» 126 • In molti modi può interpretarsi quest'ultima frase 127• Anche nel senso che l'immagine riff essa
rimanere tale, entrambe le prospettive sono in qualche modo legittimate assumendo la prospettiva della sola Fenomenologia. 126. «lste ego sum: sensi, nec me mea fallit imago» (Ovidio, Metam, III, 463). 127. Su scissione, specularità e dualità nella figura di Narciso, si veda almeno M. Bettini, Narciso e le immagini gemelle, in Id. (a cura di), La maschera,
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non è quanto si cercava. È l'inganno per la coscien7.a. Perdurare in questo sguardo arreca solo un cieco dolore. Il dolore di una pura auto-affezione: di un sentirsi senza la gioia del riconoscimento: «Brucio d'amore per me stesso, suscito e subisco la fìamma» 128 • In questa auto-affezione amorosa che muove la ricerca della coscienza, che guida la sua intenzionalità, si esige distanza: la possibilità di un'interna se-cessione. Una secessione che non significa tanto abbandonare il proprio corpo, come disperatamente invoca Narciso («Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Desiderio inaudito per uno che ama, vorrei che la cosa amata fosse più distante!») 129, ma piuttosto il suggello della sua identità con l'Io. Compito impossibile, finché ci si mantiene in un movimento di pensiero puramente ri-Hessivo. Qui l'Io cerca invano il suo Altro. L'immagine è muta, non risponde: «Che devo fare? Farmi chiedere, oppure chiedere io? Ma poi, chiedere che? Quel che bramo l'ho in me: ricchez7.a che equivale a povertà» 130• La ricche72.adi possibili correlati oggettuali della coscienza (di stati e rappresentazioni interne) - si potrebbe anche tradurre - conduce solo a escluderli da quell'atto o funzione che dovrebbe esprimerne l'unità. Il riempimento dell'intenzionalità della coscien7.a rimanda a un vuoto, il suo movimento suppone una pausa.
il dom>io e il ritratto, cit., pp. 47-60, e E. Pellizer, Narciso e le figure della
tfuauià, ivi, pp. 13-30.
128. «Uror amor mei, ffammas moveoque feroque!» (Ovidio, Metam, III, 464). 129. «O utinam a nostro sccedere corpore possem! / Votum in amante novum: vellem, quod amamus abesset!» (ivi, III, 467-468). 130. «Quid faciam? Roger, anne rogem? Quid deinde rogabo? / Quod cupio mecum est: inopem me copia fecit» (ivi, III, 465-466).
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Interrogarsi su questa "pausa" non è altro dall'interrogarsi sull'autocoscienza. Kant parla della rappresentazione «lo penso» come di una rappresentazione necessaria che accompagna ogni atto del pensiero. Ma è una soluzione che lascia insoddisfatti, almeno fìnché non si precisa cosa si possa intendere con ciò. Difficilmente tale rappresenta7ione può identificarsi con un contenuto speciale della coscienza stessa, implicato in ogni altro contenuto, o con un atto che precede ogni atto particolare del pensiero. Ci perderemmo di nuovo nelle aporie fichtiane della specularità riflessiva. Se di rappresentazione si tratta, lo è in senso negativo. Anzitutto essa significa una presa di distanza da ogni oggetto della coscien7.a e, con ciò, sia da ogni atteggiamento proposizionale sia da ogni sapere come. La coscien7.a di sé non trova espressione né in proposizioni del tipo: "lo mi sento ... " ("Io ho fame", "Provo dolore", ecc.) né in proposizioni che esprimono un secondo livello di sapere rispetto alle prime, in proposizioni del tipo: "lo so che provo dolore". Anche da un sapere di questo genere (da un sapere di secondo livello) la coscienza di sé prende distan7.a. «Quale che sia la domanda - osserva Valéry-, la risposta è identica []e ne suis pas ce"la ]», per aggiungere subito dopo: «così il linguaggio traduce come può» 131 • L'inadeguateZ7..a della traduzione significa qui la negatività della rappresentazione. La coscien7.a di sé non è rappresentabile allora che negativamente, è un rimando a qualcosa d'altro. Un rimando al Sé (alla sua paradossale esteriorità). Qualcosa del genere intende Kant quando afferma che «la coscienza di sé è quindi ben lungi dall'essere una conoscen7.a di sé» 132• Contro questa affermazione kantiana non può valere la classica obiezione di Hurne riguardo all'identità personale e ali'esisten7.a di un Sé;
131. Valéry, Cahiers, voi. 11, pp. 224-225. 132. Kant, B 159; tr. it., p. 195.
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tale obiezione, infatti, suppone l'identità tra coscienza e conoscenza e quindi si rivolge all'Io come sostanza 1:i.1 • Per la conoscenza interna l'Io non può che essere un «fascio di percezioni». Ma appunto in virtù della distinzione kantiana tra coscienza e conoscenza di sé, la consapevolezza possibile relativamente alla prima è solo quella di un'Intelligenza che esiste come una «potenza unificatrice», un Verbinihlngsvennogen: una facoltà di connessione in cui consiste la possibilità stessa del pensare. Come intendere allora questa stessa possibilità, come poter identificare la sua "attiva" unità? Questa è la vera cmx philosophorom. La risposta kantiana è nota. Se il pensarla conduce alla rappresentazione «Io penso» come correlato necessario di ogni altra rappresentazione del pensiero, d'altra parte questa rappresentazione «non può essere accompagnata da nessun'altra» 134 • Considerare come Kant giunga a questa conclusione può essere istruttivo. Ciò che produce la rappresentazione «lo penso» è la stessa coscien7..a di Sé (il SellJstbewuJJtsein), ovvero quella che si può anche chiamare «appercezione originaria» o «atto della spontaneità» 135• Seguendo alla lettera il suo discorso, dobbiamo concludere che per Kant stesso c'è una differenza tra l'unità dell'«lo penso», come unità analitica di una rappresentazione, e il Sé della coscien7..a; ali'origine vi è appunto il SellJstbewujJtsein (la sua spontaneità) a cui la rappresentazione stessa dell'Io che pensa non può che rimandare. Ma come vi rimanda? Si deve parlare di un rimando tautologico (analiticamente interno nel senso che suppone un'equivalen7.a semantica), oppure già qui si produce una pur paradossale esteriori72.azione?
133. Cfr. Hume, Trattato, I, N, VI, voi. I, pp. 263-275. 134. Kant, B 132; tr. it., pp. 156-157. 135. Ibidem.
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Anche a questo proposito ci è d'aiuto un'affermazione di Valéry, secondo la quale «la conscience est l'extérieur de toute chose - l'éternel dehors» 136. Proprio a questa intrinseca Esteriorità - al suo essere un «Eterno fuori» - Valéry può far riferimento per osservare come il «movimento d' esponenziazione»137 del pensiero non possa elevarsi oltre la seconda poten7.a. Considerare un passaggio alla ter7.a poten7.a - esprimibile in una proposizione del tipo "Io penso che io penso che io penso ... " -porta soltanto a un puro nominalismo. Decisivo, qui, è il sapere di secondo livello, quello di terzo livello non è che un suo replicante puramente linguistico. Il riferimento esterno a oggetti del pensiero (a rappresentazioni o ad affermazioni circa stati interni dell'Io) sta già e solo nel passaggio alla seconda poten7.a. Già qui c'è il rimando a sé. Ecco perché si è detto che la coscien7.a di sé non è tanto un oggetto speciale del suo movimento intenzionale quanto un limite per esso, un punto d'arresto 138: quel limite che ne costituisce la stessa possibilità. Non vi è, insomma, una super-intenzionalità da cui nasce la coscien7.a. Come si può pensare, allora, l'origine dell'autocoscien7.a nel pensiero stesso (non la sua genesi fisico-empirica o psicofisica)? Cosa significa il rimando dell'Io a sé, quando il Sé pare costituire l'autentico soggetto di quell'atto di spontaneità di cui parla Kant? Cominciamo con osservare che, se di "atto" si tratta, è un atto particolare. Per avere il carattere della spontaneità non deve avere antecedenti, non deve presupporre un'intenzionalitàche lo promuova, altrimenti si riprodurrebbe la solita questione di un'altra e più originaria intenzionalità e così via. D'altronde l'Io - come si è visto - si pone veramente
136. Valéry, Cahiers, voi. II, p. 211. 137. lvi, p. 218. 138. È quanto sostiene lo stesso Valéry; cfr. ivi, p. 225.
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soltanto a partire dal riferimento a Sé. Perciò, al fine di salvare il carattere assolutamente spontaneo dell'atto, si deve ammettere che non si tratta di un atto vero e proprio. Nel senso che non è un atto che si pone, bensì un atto in cui ci si dispone; è un disporsi e non un porsi. La coscienza, nel rimando ali'originarietà dell'autocoscien7..a, più che significare l'originarietà dell'Io (l'assolutez7..a della sua auto-posizione) significa il riconoscimento di una disposizione che esplica il funzionamento del pensiero. Sono i termini che usa Valé:ry, quando osserva che la coscien7..a configura piuttosto un «fonctionnement» 139: un funzionamento - «quello stesso del sistema nervoso centrale» - nel quale si dispongono le funzioni stesse del pensare e con esse le possibili modalità della coscien7_..a, Nessuna idealistica sovranità dell'Io è, allora, pensabile in questo riconoscimento e tantomeno una sua metafisica sostanzialità. Siamo così arrivati allo stesso punto di parten7..a della critica di Nietzsche alla monarchia assoluta dell'Io come condizione e origine del pensiero. Nessuna «certez7..a immediata», secondo tale critica, è inferibile dal processo del pensare. Perfino dire che «Es denkt» 140 è dire troppo, in quanto l'Es «contiene già una spiegazione del processo e non appartiene al processo stesso» 141 • In futuro ci si dovrà liberare anche di questo «residuo terrestre» (l'Es) come di un residuo atomico di materia cui si è voluta attaccare la pura «forza» del pensare, il suo essere nient'altro che un processo. Questo processo di liberazione dovrà ovviamente andare di pari passo con la liberazione dal-
139. lvi, p. 223. 140. Quello che appunto aveva ipotizzato Kant e ripreso Lichtenberg in un celebre aforisma: «Si dovrebbe dire pensa [es denlct] come si dice lampeggia. A dire cogito è già troppo, non appena lo si traduce con io penso. Postulare l'io è un bisogno pratico» (Lichtenberg, OP, p. 143). 141. È quantoaffermaNiewche inAl dilàdelbeneedelmale, in Niewche, OFN, voi. VI/2, § 17.
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la grammatica, dal suo articolarsi in base a tennini quali "Io" e "Sé", come da una costrittiva illusione. La critica niet7.scheana ha solo una parvenza di radicalità; non si capisce, tra l'altro, se la liberazione dalla grammatica significhi pure una liberazione dal linguaggio. In ogni caso, Niet7_.sche coglie solo parzialmente nel segno e in un certo senso non fa altro che riprendere ed enfatizzare l'argomento humiano. Il problema non sta, infatti, nell'ammettere che l'Io e il Sé (e lo stesso impersonale «Esso» dell' «Es denkt») siano delle finzioni o - se si vuole - dei costrutti linguistici; il problema più serio sta nell'intendere la loro necessità e il loro "perché". Ma il pensiero nietzscheano è troppo reattivo, troppo legato agli idola che intende distruggere, per affrontare questo problema. E per di più la liberazione dal potere del linguaggio e della grammatica che auspica condurrebbe a esiti del tutto opposti a una "dionisiaca"liberazione della pura processualità del pensare, owero di quella pluralità di forze che possono esprimere il Grund-Text dell'homo natura (ancora una metafora linguistica!). In ultima istanza spingerebbe verso una matemati72.azione del linguaggio e quindi verso una perfetta riduzione a calcolo del pensiero; come leibnizianamente sognava Novalis e come forse sognano oggi quei teorici dell'Intelligen7.a Artificiale forte, i quali sostengono un modello computazionale della coscien7.a 142• Bisogna perciò tornare ancora una volta a Valéry e vedere con lui cosa significhi che la coscien7_.a è essenzialmente un «funzionamento». Il passo ulteriore è dunque quello di capire che, così intesa, la coscien7_.a ha più il senso di una «risposta» che 142. Per una critica radicale a questo modello e, più in generale, per l'irriducibilità della coscienza a una descrizione computazionale cfr. R. Penrose, Ombre della mente. Alla ricerca della coscienza, tr. it. di E. Diana, Rizzali, Milano 1996, che insiste sul carattere non-computazionale della comprensione facendo leva sul teorema di Godei.
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quello di una affermazione originaria. La spontaneità dell'atto consiste, insomma, nella spontaneità di una risposta. Con il che si introduce un concetto che ha il sapore del paradosso: quello di una risposta "originaria" (di qui il nodo irresolubile tra coscienza e responsabilità). Paradosso sta per qualcosa che smentisce ogni eviden7.a. E qui l'eviden7,a che viene smentita è appunto quella della coscien7,a di sé (dell'autocoscien7,a) come un sapere immediato (e dunque originario) dal punto di vista dell'Io. La coscien7,a di sé non è affatto immediata per l'Io, ma solo - se così si potesse dire - per sé stessa. Come risposta "attiva" a una "eccitazione" x 141 o, se si vuole, a un complesso di informazioni dei circuiti cerebrali, essa istituisce uno "stato" del tutto nuovo. Da questa istituzione ha origine la stessa inten7ionalità dell'Io. Per questo l'Io nasce "responsabile", capace di risposta, prima di ogni responsabilità determinata. Nasce, potremmo dire, ascoltando. Se volessimo continuare a interpretare come un atto l'ascolto che precede ogni attiva intenzionalità dovremmo farlo, allora, intendendolo nel senso di una «passività più passiva di ogni passività semplicemente antitetica all'attività» e, dunque, come una «attività passiva» 144 oppure, altrettanto paradossalmente, come un «atto riflesso».
In questi ultimi termini si esprime Valéry 1"-5, il quale al «culmine della consciousness», e non solo alla sua origine, vede proprio un «atto riflesso» e non l'intenzionalità dell'Io. Preoc143. Cfr. Valéry, Cahiers, voi. II, p. 207. 144. Così Levinas intende la coscienza prima del carattere "temati:a.ante" dell'intenzione, del potere d'iniziativa che la definisce, ovvero, con espressione husserliana, come una «sintesi passiva»: come un'«opera passiva del tempo» non azionata da nessuno (cfr. E. Levinas, En clécouorant l'existence, cit., pp. 22-23). 145. Cfr. Valéry, Cahiers, voi. II, p. 224 e7J, sia pure nella fonna di una ter7_.a persona quasi impersonale
148. È quanto felicemente osserva Levinas: «L'ipseità che esprime il pronome riffessivo "sé" non si riduce a una obiettivazione dell'Io per lui stesso. Il ritorno su me di questa riff essione implica di già la riffessione iniziale del Sé» (E. Levinas, En découvrontl'existence,cit, p. 233). Nel Sé-nel suo "accusativo" - c'è dunque una passività infinita che nessuna iniziativa, nessun ritorno, nessuna intenzionalità può convertire nel suo contrario. Questo perché il Sé contiene già il suo contrario: è l'alterità nell'identità. E, dunque, al Sé si può soltanto corrispondere. 149. All'unità dell'Io corrisponde dunque, in ultima istanza, l'unità dello stesso Sé e il «divenir uno da molti» platonico riguarda appunto questa corrispondenza. Perciò concordo con la tesi di lan Hacking, secondo la quale «la personalità multipla non dice nulla direttamente sulla mente: non fornisce cioè, alcuna prova a sostegno di una qualsiasi tesi 6loso6ca sostanziale sulla mente (o sul sé)» (I. Hacking, La riscoperta dell'anima. Personalità multipla e scienze della memoria, tr. it. di R. Rini, Feltrinelli, Milano 1996, p. 303). Anche Stephen E. Braude, in una ricerca analoga a quella di Hacking sullo MPD o «disturbo da personalità multipla», ritiene che vi sia un'unità dell'Io (un nucleo centrale comune a tutti i Sé) «più profonda» di ogni molteplicità (cfr. S.E. Braude, First Person Plural. Multi11le Personality and the Philosa,1hy ofMind, Routledge, London-New York 1991, in part. pp. 164-190).
150. Valéry, Cahiers, voi. II, p. 243.
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e non di un micro-ego, spettatore e insieme regista nel teatro della coscien7.a. La prospettiva di Valéry sembra allora condividere la critica di Dennett al modello del teatro cartesiano dove, per spiegare la coscienza, si postula la presenza di un autonomo «Osservatore interno» o di un «Autore centrale» dentro il cervello/mente 151 : «Parlare a sé stessi, che cosa suppone questa strana attività? Attività che è il colmo dell'arresto! / Io tocco qui la radice/ Questa commedia ---» 152• A ben vedere, però, in quest'osservazione di Valéry è determinante la consapevolezza che si tratta di una «commedia». Il che toglie al Sé qualsiasi carattere di metafisica sostanzialità. La messinscena del parlarsi «tocca la radice» o è addirittura, in quanto theatrum, la radice stessa? Si tratta, in ogni caso, di una finzione utile e in qualche modo "necessaria", che cerca di spiegare il carattere singolare di un'attività che ha il suo culmine nell'arresto. Lo stesso Dennett parla del Sé come di una «illusione benigna»: un «Centro di gravità narrativa» che ha lo stesso statuto ontologico (lo stesso livello di realtà) di un centro di gravità in senso fisico. Sia nel caso di Dennett sia in quello di Valéry l'anima- avrebbe detto Plotino- o la mente (il nous) non fa altro che metaforizzare. Tutto quello che ho fatto realmente - conclude Dennett -, è stato di sostituire una famiglia di immagini e metafore con un'altra: ho rimpiazzato il teatro, il Testimone, l'Autore centrale, il Figmento con il Software, le macchine virtuali, le versioni Molteplici, un Pandemonio di Homunculi. 1s.1
151. Cfr. O.C. Oennett, Coscienza, cit., pp. 480-508; ma vedi anche Id., Il Sé ei Sé. Qua"letipodireaùà? lnfonnadicomspondenza(rispostaaP.F. Pieri), in «Atque», n. 9, 1994, pp. 194-195. 152. «Se parler à soi-meme, que suppose cette activité étrange? Activité qui est le comble de l'arret! / Je touche ici à la racine. / Cette comédie --» (Valéiy, Cahiers, voi. II, p. 243). 153. O.C. Oennett, Coscienza, cit., p. 508.
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Ma il senso della metafora- come pare awertire lo stesso Dennett quando osserva che la«storia definitoria di noi stessi», la nostra auto-rappresentazione, non è il Sé ma la sua «traccia» 154 - è quello di indicare fuori di sé, di riferirsi a qualcosa d'altro (e dall'interno della sua prospettiva - della prospettiva metaforica - questo riferimento non può che essere "reale", almeno nel senso che è esterno ad essa). Un'intima ed esteriore alterità è, allora, la radice che sfiora la "commedia" della coscienza nella differenza tra Io e Sé che la istituisce. Oltre questa "messa in scena" senza soggetto, la radice resta, però, irrappresentabile: si ritira nel mutismo del Sé. Intendere l'emergere del Sé nella modalità di un riferimento paradossalmente esterno all'Io implica pertanto la consapevolezza del procedimento metaforico. Nessun eliminativismo in ciò e non solo perché la finzione è utile, ma anche perché nel suo effettuarsi tocca la radice stessa di una "contingente" necessità. Ed è qui che ogni approccio funzionalistico e pragmatistico sfiora il suo limite trascendentale. Con il rimando a sé - che si configura linguisticamente nella virtù auto-riflessiva del linguaggio - si rinvia mnesticamente all'origine non-intenzionale della coscienza. Tale rinvio, che è essenzialmente un rinvio al limite del linguaggio, caratteriz7.a ogni presa di coscien7.a - il suo carattere intermittente, se si vuole - come un gioco sottilissimo tra tensione e arresto, tra domanda e risposta, tra emissione e ricezione, tra il parlare e l'ascoltare. L'eco, in breve, suppone una voce; è il rimbalzo di una voce is.5 • Lo scacco di ogni via puramente riff essi va alla
154. lvi, p. 476. 155. Sulla genesi del Sé, nel bambino, dall'ascolto del puro evento del gesto vocale si veda il saggio di Carlo Sini, Col dovuto rimbako, in C. Sini, Il silenzio e la parola, Marietti, Genova 1989, pp. 25-61, in part. pp. 40-42; Sini riprende e approfondisce l'idea di Mead, circa la natura sociale del Sé come un processo di interiorizzazione dei «gesti signi6cativi», già affrontata nel paragrafo precedente.
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coscienza di sé sta qui. L'immagine di sé che restituisce è soltanto negativa. Il dolore di Narciso nasce dal fatto che è Eco quella che cerca; «resonabilis Echo» 156: la ninfa condannata a ripetere la voce altrui - colei che per la sua natura non può cominciare a parlare, non può proferire parole in prima persona. Al culmine della direzione intenzionale della coscienza c'è, perciò, proprio quella dimensione dell'ascolto che è anche una dimensione del distacco: della distanza tra Io e Sé. Ascolto del riflesso di una voce: della sua eco. Per questo la coscienza di sé ha il senso di un riferimento paradossalmente esterno e non di una interna rappresentazione. Quel riferimento in virtù del quale la stessa coscien7.a non è altro che «I'éternel dehors»: lo spazio "dolorosamente" metaforico che separa Eco da Narciso. Il Sé che si attesta in questo spazio (e come questo stesso spa7fo) si mostra il correlato necessario di un modello di coscien7_.a costituito dal discontinuo scambio tra interno ed esterno. Uno scambio strutturale, «a doppia entrata», nel quale - proprio in virtù della sua discontinuità 157 - il ritorno in sé rappresenta solo l'altra faccia del rinvio (di un movimento di fuga dal centro dell'Io). La «fuga in sé» è espressione paradossale che unisce ritorno e rinvio. Se si vuole, non è altro che un modo per esprimere la dinamica di coimplicazione tra alterità e identità nel rapporto tra Sé e coscien7.a. Intendere l' autocoscien7_.a in questi termini significa già oltrepassare la parali7.7.ante alternativa tra un modello egologico-riffessivo di coscien7.a e un modello che veda nel Sé solo una costruzione linguistico-sociale.
r
156. Cfr. Ovidio, Metam., III, 358. 157. «Uno fra i caratteri più sorprendenti della coscienza è la sua discontinuità ... » (D.C. Dennett, Coscienza, cit., p. 395).
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VII
Il principio della coscienza
1. Pensare la coscienza. Per una critica del modello in-
tenzionale Come pensare in termini positivi il modello di coscienza che, almeno implicitamente, si è venuto delineando nel nostro percorso? Questo è il problema conclusivo e sarà affrontato cercando di chiarire il tipo di cognizione implicato in un modello di coscienza che oltrepassi l'opposizione tra la dimensione interna di una pura riflessività (o di un puro sentire soggettivo) e la dimensione esterna di un sapere linguistico-sociale, tra internalismo ed esternalismo (tanto per intenderci). La prima mossa consiste nel distinguere tra il conoscersi proprio della coscienza e la cognizione dei processi che la determinano costituendone, almeno ipoteticamente, la causa. In altri termini, la dimensione auto-cognitiva della coscienza non implica, a sua volta, l'autotrasparenza della sua stessa genesi. Osserva Marvin Minsky: Nella mente di ogni persona normale sembrano esservi certi processi che chiamiamo coscienza. Di solito riteniamo che
essi ci consentano di sapere che cosa accade nella nostra mente. Ma questa reputazione di autoconsapevolezza non è mol-
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to ben meritata, perché i nostri pensieri coscienti ci rivelano pochissimo di ciò che li genera. 1
II paragone che, nel testo, segue questa riflessione è istruttivo. Secondo Minsky, la nostra ignoran2:a circa il rapporto tra il pensiero cosciente e un'azione molto semplice come muovere dei passi in una direzione o nell'altra assomiglia all'ignoranza dell'autista circa il funzionamento del motore della vettura che sta guidando. Ma in quest'ultimo caso - si potrebbe osservare - le due funzioni, quella del comune autista e quella dell'esperto di automobili, sono perfettamente autonome. Almeno ipoteticamente, il nostro esperto potrebbe benissimo non saper guidare, mentre, d'altra parte, al guidatore automobilistico la conoscenza di come funziona il motore non aggiunge niente di sostanziale alla sua abilità nella guida (può renderlo semmai più attento a non sottoporre il motore a inutili sforzi e cose del genere). Molti, del resto, pur avendo avuto una qualche cognizione del funzionamento del motore, solitamente se ne dimenticano continuando tranquillamente a guidare. Una riflessione del genere potrebbe estendersi, con le varianti del caso, al rapporto tra auto-consapevolezza e conoscenza dei modi di funzionare della nostra mente. Anche qui siamo di fronte a due funzioni cognitive tendenzialmente autonome. Non necessariamente la coscien7.a coincide con la capacità di rendersi perspicui gli eventi neuronali che la determinano. Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che, proprio per poter funzionare come tale, la coscien7..a non può significare né una cognizione della natura dei processi "fisici" che determinano i nostri pensieri né una introspezione in quanto accade nella mente2. Rispetto a quanto accade, la coscien7.a - come sostie-
1. M. Minsky, La società della mente, cit., p. 100.
2. A questo proposito si potrebbe considerare la distinzione tracciata da Ned Block tra la dimensione «fenomenica» o fenomenologica della coscienza e
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ne lo stesso Minsky- giunge sempre dopo. Se fossimo capaci di eliminare questo sfasamento tra attività della coscienza e i processi che presuppone, probabilmente non saremmo più coscienti nel senso che comunemente intendiamo. Nonostante l'ignoran7.a circa gli eventi da cui la consapevolez7.a deriva, noi continuiamo però a ritenerci esseri consapevoli. Forse, per il semplice motivo che al "funzionamento" della coscien7.a è sufficiente questo "ritenersi", owero perché tra le caratteristiche dell'esser coscienti vi sarebbe proprio quella di esser capaci di crederlo nonostante l'ignoranza che si è detto. La credenza o il tener-per-vero il fatto di esser coscienti, in altri termini, non sarebbe altra cosa dall'esserlo effettivamente (ciò vale, ad esempio, nel caso del sogno, che così rappresenta una delle possibili modalità della coscienza e non la sua negazione; altra questione è, ovviamente, il livello di realtà implicato in questa creden7.a: non ogni contenuto della coscienza è assimilabile al sogno o al puro "fantasticare" ... ). L'apparen7_.a ha qui il tenore di una performativa effettualità: in essa consiste la stessa realtà della coscienza. È quanto coglie perfettamente Searle criticando la possibilità di sottoporre il "fatto" della coscienza a un qualsiasi tipo di «riduzione eliminativa» nella misura in cui quest'ultima implica sempre «una distinzione tra apparen7_.a e realtà». Laddove è in questione la coscien7.a, osserva Searle, «la realtà è l'apparen7.a»: «If it consciously seems tome that I am conscious, then I am conscious»3• quella più propriamente cognitiva (o d'accesso); cfr. in proposito N. Block, On a Conjùsion Abouta Function ofConsciousness, in «Behavioral and Brain Sciences», voi. 18, n. 2, 1995, pp. 227-247. 3. J.R. Searle, TheMysteryofConsciousness, The NewYorkReviewof Books, New York 1997, p. 213 (ma si veda anche ivi, pp. 122 ss.); un analogo argomento era stato fatto valere da Kant a proposito del "fatto" della libertà: «Prendo questa strada di ritener sufficiente al nostro scopo la libertà che gli esseri ragionevoli pongono a fondamento delle loro azioni semplicemente nell'idea, perché ciò non mi obbliga a dimostrare la libertà anche teoretica-
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È essenzialmente per questo motivo che all'inizio del mio percorso ho ipotiz7_.ato esisten7_.a di un nucleo di pensabilità del "fatto,, della coscienza relativamente autonomo (la sua noumenalità) e, quindi, relativamente indipendente dal complesso di ricerche e di ipotesi circa il formarsi dei nostri pensieri e la genesi chimico-fisica della consapevolez7.a di essi. Di questo nucleo fa parte certamente la caratteristica dell'auto-riferimento. Coscien7.a significa anzitutto la possibilità di un auto-riferimento e solo in virtù di tale possibilità essa si può tradurretrasformare in autocoscien7.a, coscien7_.a di sé (del "Sé,,) che implica il riconoscersi di un Io. Ma, come si è visto4, la possibilità di auto-riferimento suppone a sua volta la distan7.a e, insieme, la relazione tra Io e Sé come una paradossale relazione tra (punto di vista) interno e (punto di vista) esterno. Questa distan7.a-relazione tra lo e Sé fa apparire come simmetricamente unilaterali sia l'approccio di Searle che quello di Dennett al problema della coscien7.a5•
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Nel primo caso (quello di Searle) r ontologia della coscien7_.a è intesa come puramente soggettiva o della «prima persona»6 • Dennett, invece, adotta (come abbiamo già avuto modo di notare)7 un punto di vista della «terza persona» (quella che chiama una «eterofenomenologia») al fine di «elaborare una teoria degli eventi mentali usando i dati che il metodo scien-
mente. Infatti, anche se la dimostrazione teoretica della libertà non viene fornita, per un essere che non può agire diversamente che in virtù dell'idea della propria libertà vigono le stesse leggi che obbligherebbero un essere realmente libero. Qui - conclude Kant - possiamo quindi liberarci dal fardello della teoria» (Kant, FMC, pp. 87-88, nota). 4. In particolare, nei
§§ 4 e 5 del cap. VI.
5. In merito si veda lo scambio epistolare tra i due contenuto in J.R. Searle, The Mystery of Consciousness, cit., pp. 115-131. 6.
e&. ivi, p. 213.
7. Cfì-. la nota 112 del cap. VI.
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tifico permette»8 • Searle ha il merito di insistere sulla irriducibilità ontologica della coscien7,a in quanto "fatto" alquanto singolare al di là del quale nessuno può sognarsi di saltare (così come qualcuno può soltanto "sognare" di saltare oltre la propria ombra; la metafora, si sarà capito, regge solo fino a un certo punto, in quanto nemmeno in sogno possiamo sognare di non essere in qualche modocoscienti ... ). Dennett, d'altra parte, ha mostrato con le sue ricerche l'impossibilità di arrestarsi al punto di vista della prima persona (a una soggettività puramente fenomenologica) per rendere conto di ciò che accade nella (e come) coscien7.a ed è approdato a una sorta di ontologia evolutiva, in cui ilfactmn conscientiae non è che un anello in un processo di selezione naturale dove gli adattamenti e le stabiliz7,azioni hanno la virtù di accumularsi e, dunque, di interagire9. Sia Searle che Dennett, però, sembrano arrestarsi al bordo esteriore della questione del rapporto tra coscien7.a e ontologia. Nel primo caso, limitando la consisten7.a ontologica della coscien7.a al suo carattere di proprietà biologica del cervello (seppur irriducibile alle sue caratteristiche: ciò differenzierebbe per Searle il fenomeno biologico della coscien7.a da altri fenomeni come la crescita, la digestione o la fotosintesi10); nel secondo, dissolvendo il problema ontologico della coscien7.a in una ontologia della natura (o meglio, come spesso la chiama Dennett, di «Madre Natura»). Quelle di Searlee di Dennett rappresentano comunque, nelle divergenti ontologie che implicano, due posizioni esemplari nel dibattito 6-
8. O.e. Oennett, Coscienza, cit., p. 85. 9. efr. O.e. Oennett, L'idea pericolosa di Darwin, cit. All'idea darwiniana Oennett è stato straordinariamente fedele sin dal suo primo importante lavoro del 1969: Content and Consciousness, cfr. ad esempio Id., Con-tenuto e coscienza, tr. it. di G. Pacini Mugnai, il Mulino, Bologna 1992,
p.63. 10. Cr. J.H. Searle, TheMystery ofConsciousness,cit., pp. 6ss. e 213.
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losofìco contemporaneo sulla coscienza e come tali meritano di venire discusse. Procediamo con ordine, discutendo prima Searle e poi Dennett. Con Searle abbiamo un'ontologia soggettiva che mantiene la sua irriducibile specificità, ma resta in qualche modo chiusa in sé, comunicando solo estrinsecamente con l'alterità dell'ontologia non-soggettiva. È il prezzo che Searle è costretto a pagare per respingere l'imputazione di aver introdotto una qualche forma di dualismo. Se, all'interno di una generale ontologia di tutto ciò che è nel mondo, tutte le proprietà relative ali'osservatore «dipendono dalla coscienza per la loro esisten7.a», questa a sua volta non sarebbe di per sé «relativa ali'osservatore», ma sarebbe una «caratteristica reale e intrinseca di certi sistemi biologici»11 tale che il suo «mistero» sarà «gradualmente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscien7.a» 12• Searle, in breve, insiste sul fatto che «una parte del mondo consiste di fenomeni ontologicamente soggettivi» 13, come se questa parte avesse nei confronti del mondo, come insieme di tutto ciò che è o accade 14 , la stessa relazione che uno spicchio (o un insieme di spicchi) d'arancia ha con l'arancia intera. Ma così sostenendo pare dimenticare che se la coscien7.a «è una parte reale del mondo reale», Io è come una parte che ha la virtù di implicare sé e il resto (ciò che costituisce il suo "altro") almeno nella stessa misura in cui (viceversa!) è parimenti implicata in quel "tutto" da cui emerge. Searle, insomma, sembra trascurare che, nel suo carattere di «proprietà emergente» 15, 11.
J.R. Searle, The Mystery of Consciousness, cit., p. 211.
12. lvi, p. 201. 13. lvi, p. 114. 14. «Il Mondo è tutto ciò che è il caso [Die Welt ist alles, was der Fall ist]», diceva Wittgenstein, TLP, prop. 1, p. 5; tr. mod. 15. Per «proprietà emergenti» o «proprietà di sistema causalmente emergenti» Searle intende quelle proprietà di un sistema che non possono ve-
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la coscien7.a sta in una relazione assolutamente "singolare" nei confronti del tutto di cui è parte, ovvero sta in una relazione di originaria coimplicazione. In questa stessa relazione la coscienza può certo riconoscere l'antecedenza del tutto (diciamo pure: della natura) rispetto alla sua esistenza, ma nello stesso tempo deve riconoscere che effettualmente originaria (per la sua stessa esisten7.a) è la relazione stessa. L'emergen7.a della coscien7.a, in altri termini, significa l'emergen7.a di quella stessa relazione nei confronti del tutto (pur evolutivamente considerato) da cui emerge. Per cui, almeno in un senso trascendentale, non è nemmeno vero che il fatto della coscienza (il suo carattere "biologicamente" reale) sia assolutamente indipendente dall'osservatore (in quanto, appunto, l'osservatore è implicito nella sua stessa definizione). Dire che la (realtà della) coscien7.a è indipendente dall'osservatore sarebbe un po' come dire che la realtà dell'arancia è indipendente dall'avere spicchi. Così il paradosso che, a quanto pare, siamo costretti a pensare riguardo alla realtà della coscienza (alla singolarità
nire ricavate dall'analisi degli elementi costitutivi del sistema e dalle loro relazioni con l'ambiente circostante, ma devono «essere spiegate in base alle interazioni causali che intercorrono tra gli elementi stessi». In questo senso anche la coscienza è una «proprietà emergente» del cervello: «è una proprietà emergente di determinati sistemi di neuroni nello stesso senso in cui la solidità e la liquidità sono proprietà emergenti di sistemi di molecole» (J.R. Searle, La riscoperta della mente, cit., pp. 126-127). Sensibilmente diversa dalla posizione di Searle è la «teoria della coscienza emergente» del matematico Alwyn Scott. Mentre per Searle la nozione di «proprietà emergente» applicata alla coscienza esprime un «naturalismo biologico» che esclude qualsiasi forma di dualismo, per Scott si deve parlare piuttosto di un «dualismo gerarchico» o «emergente»: «Se si considera che tra le fibre nervose e la mente vi sono almeno altrettanti livelli gerarchici che tra la fisica atomica e le fibre nervose (probabilmente sono di più), non dovrebbe stupire che la "materia del cervello", e quindi quella della mente, sia diversa dalla "materia nervosa". Se riconoscere questo fatto significa essere dualista, allora anch'io sono dualista» (A. Scott, Scale verno la mente. Nuove idee sulla coscienza, tr. it. di S. Ravaioli, Bol1ati Boringhieri, Torino 1998, p. 220).
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della sua stessa esisten7.a) è quello della sua necessaria contingen7.a; l'alterità non è insomma implicata nella coscien7.a solo "immaginalmente" o immaginativamente, bensì come qualcosa di realmente costitutivo per la sua stessa forma - e ciò sia quanto all'in sé della natura sia quanto al Sé cui il soggetto stesso della coscien7.a si riferisce. Nei confronti di quest'ultimo problema, e in particolare della nozione di "necessaria contingen7.a" come nozione capace di esprimere il paradosso stesso della coscien7.a (il suo costituirsi al confine tra interno ed esterno: nella soglia critica che li congiunge), I'eterofenomenologia di Dennett, e quindi l'eteroontologia che non può non implicare, rappresenta certamente un passo signillcativo 16• Se non altro perché obbliga a pensare la realtà della coscien7,a nei termini di un modello che ne esprima le caratteristiche intrinseche (oltre la constatazione che si tratta di un fatto dotato di consisten7.a biologica). Prima di discutere da vicino il modello proposto da Dennett per pensare-spiegare il fenomeno (e i fenomeni) della coscien7.a, ovvero il «modello intenzionale», è utile osservare come proprio il naturalismo di Dennett contenga in sé una tensione, non sempre esplicitamente tematiz7,ata, tra il modello della coscien7.a e la sua "natura". Una tensione, si potrebbe dire, che Dennett cerca di allentare sia sottolineando la differente dislocazione, ovvero la differente distan7.a, dei punti d' osser-
16. Caso e necessità costituiscono, per Dennett, un contrassegno della «regolarità biologica»: «Spesso la gente chiede: "È soltanto un cumulo di contingenze che le circostanze siano quelle che sono, o possiamo scorgervi qualche necessità profonda?" La risposta è quasi sempre entrambe le cose. Si noti però che il genere di necessità che si accorda tanto bene con la contingenza di una generazione cieca, casuale, è la necessità di ragione. È una varietà ineluttabilmente teleologica della necessità» (D.C. Dennett, L'i> (O.C. Oennett, Dennet, Daniel C., in S. Guttenplan [a cura di], A Companion to the Phùosaphy of Mirul, Blackwell, Oxford 1994, pp. 236-244: p. 242). 35. O.C. Oennett, Real Pattems, cit., p. 48. 36. O.C. Oennett, Dennet, Daniel C., cit., p. 242. 37. Cfr. O.C. Oennett, Real Pattems, cit., p. 34; O.C. Oennett, Brainstorms, cit., pp. 184 ss.; Id., L'atteggiamento intenzionale, tr. it. di E. Bassato, il Mulino, Bologna 1993, pp. 168-180. In questi passi Oennett critica ovviamente Fodor, il quale sostiene che «avere un atteggiamento tradizionale signifìca essere in qualche relazione computazionale con una rappresen-
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giamenti proposizionali» come «"misure" indirette di una realtà diffusa nelle disposizioni behaviorali del ceivello (e del corpo )»38 e, dunque, vale per la coscien7_.a come intenzionalità di un agente unitario. Ma qualcosa del genere dovrebbe valere, in maniera simmetrica, anche per la dimensione subunitaria (o, se si vuole, intenzionale pre-soggettiva) della stessa coscien7.a quale viene esplicata-descritta ipoteticamente attraverso il modello delle Molteplici Versioni. Pur avendo Dennett riconosciuto che così non ha fatto altro che sostituire un corpo di metafore con un altro, pare indubbio che in quest'ultimo caso il livello di indeterminazione del modello nei confronti della realtà si riduce (le nuove metafore sono ritenute senz'altro migliori di quelle che vanno a sostituire). In altre parole, il modello delle Molteplici Versioni non costituirebbe altro che una variazione del modello intenzionale, mostrando di possedere tra i tre modelli o atteggiamenti (stances) adottabili nella descrizione della realtà - quello fisico, quello del progetto e (appunto) quello intenzionale - la maggiore poten7.a esplicativa. Per chi non avesse dimestichez7.a con essi, li enuncio brevemente: l'atteggiamento.fisico è quel modo di descrizione della realtà che sviluppa le sue previsioni basandosi sull'effettivo stato fisico dell'oggetto e sulla conoscenza delle leggi in esso implicate; l'atteggiamento del progetto (o progettuale) considera l'oggetto in relazione alla conoscen7_.a del progetto che lo ha prodotto e, dunque, in relazione allo scopo per cui le sue parti «funzionano» (l'oggetto in tal caso è assunto come un prodotto: opera di una techne); l'atteggiamento intenzionale, infine, agisce nelle sue descrizioni, ipotesi e previsioni nella tazione interna» e, inoltre, che le formule di tali «relazioni computazionali» sono espresse in un «codice interno» innato nella mente umana. 38. D.C. Dennett, Real Patterns, cit., p. 45; qui Dennett si dice d'accordo con Davidson nel riprendere una tesi di Churchland.
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presupposizione di una razionalità interna al suo stesso oggetto: quest'ultimo perciò, non è più semplicemente tale, bensì un "sistema" cui si attribuisce una "intrinseca" intenzionalità (e "intrinseco" qui può anche avere il semplice valore di un "come se") 39• Tra questi tre atteggiamenti o modelli c'è una sorta di gerarchia, in cui il livello superiore è garantito dal grado di svincolabilità dagli altri modelli. Per esempio: posso benissimo conoscere come funziona un videoregistratore (e prevedere una risposta funzionale alle mie azioni su di esso) sen7.a conoscerne la struttura fisica, così come posso considerare un computer su cui gira un programma di scacchi come un sistema che risponde intenzionalmente alle mie mosse senza avere alcuna cognizione sia dell'architettura fisica dell'hardware sia del software che lo induce a scegliere le sue contromosse. Già da qui si capisce perché il modello intenzionale sia quello più potente: il motivo è che, rispetto alla rigidità descrittiva di quello fisico e ai vincoli funzionali di quello progettuale, il modello intenzionale si presenta con la maggiore flessibilità attributiva e con il più ampio margine di libera e costruttiva interpretatività. Volendo essere ancora più espliciti: la maggiore potenza "semantica" del modello intenzionale consiste nel suo carattere "riflessivo"; l'atteggiamento intenzionale di Dennett, insomma, è proprio configurabile nei termini del giudizio riflettente kantiano e più precisamente nei termini di un giudizio teleologico che rappresenta la natura come una tecnica (e dunque assumendo i concetti delle cose come fossero scopi del progetto della natura stessa).
39. Cfr. D.C. Dennett, Brainstonns, cit., pp. 37-46 (si tratta del famoso saggio del 1971, lntentional Systems); questa tipologia è ripresa e sviluppata in Id., L'atteggiamento intenzionale, cit., pp. 27-65, ma per una breve caratterizzazione si veda anche Id., L'idea pericolosa di Darwin, cit., pp. 289-290.
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Dennett stesso, pur non citando mai Kant a questo preciso riguardo (almeno per quanto ho potuto vedere), parla del "suo" atteggiamento intenzionale come dell'assunzione di una strategia interpretativa ossia di un' «ermeneutica» dell'«ingegneria inversa»40 • Assumere l'atteggiamento intenzionale significa, allora, cercare di capire «che cosa avevarw in mente i progettisti», ossia trattare «l'artefatto in esame come il risultato di un processo di sviluppo ponderato del progetto, una serie di scelte tra diverse alternative, in cui le decisioni raggiunte sono quelle giudicate migliori dai progettisti»41 • L'interdipenden7.a tra la «legge dell'effetto» e il «principio della selezione naturale» conduce Dennett a un'ontologia degli artefatti che intende lo spazio comune a ogni ente come uno «spazio dei progetti»42• Un'ontologia, dunque, che suppone la possibilità di svincolare il modello intenzionale dalla necessità del riferimento a un ambito ben circoscritto di enti intelligenti, relativamente ai quali sia lecito parlare di una «intenzionalità originaria». Solo così possono venire trattati come «artefatti» sia i procarioti all'origine dell'albero della vita41 sia ... noi stessi44. Come un «artefatto» appartenente allo «spazio dei proget-
40. C&. D.C. Dennett, L'idea pericolosa di Darwin, cit., pp. 267-277. 41. lvi, p. 290. 42. C&. ivi, pp. 94 ss., 156-183 e passim. In merito a ciò Bo Dahlbom ha notato come l'istanza progettuale-ingegneristica prevalga, in Dennett, su11a conce-none funzionalistica in base alla quale è "naturale" considerare gli organismi biologici e così ha potuto concludere che, per la 61oso6a di Dennett, «the essence of Dasein is Design» (B. Dahlbom Mind is Artificial, in Id. [a cura di], Dennett and his Critics. Demystifying Mind, Blackwe11, OxfordCambridge [Mass.] 1993, pp. 161-183: p. 180). 43. C&. D.C. Dennett, L'idea pericolosa di Darwin, cit., pp. 106-130. 44. «L'idea che noi siamo manufatti progettati dalla selezione naturale è sia irresistibile sia familiare; qualcuno giungerebbe a dire che è del tutto al di là di una seria controversia» (D.C. Dennett, L'atteggiamento intenzionale, cit., p. 402).
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ti» viene quindi considerata anche la coscienza stessa (di qui l'inclusione del modello delle Molteplici Versioni all'interno della strategia dell'«ingegneria inversa» propria dell'atteggiamento intenzionale) e, ancora più radicalmente, la stessa intelligenza. Citando il Dewey di The Influence of Darwin on Philosophy (del 1910), Dennett sostiene infatti che: L'idea di trattare la mente come un effetto e non come «causa prima» è però troppo rivoluzionaria per alcuni - una «terribile esagerazione» che la loro mente non è in grado di accogliere in maniera tranquilla.-45
Prima di vedere come non stia qui il problema (cioè nel ritenere che la mente sia effetto di un processo e quindi una sorta di naturale artefatto), concludiamo il nostro paragone tra atteggiamento intenzionale di Dennett e la strategia adottata da Kant, nella Critica della facoltà di giudizio, per pr~odurre il passaggio dal giudizio di gusto a quello teleologico. E lo stesso Dennett a invitarci a continuare in questa direzione. Commentando un saggio di Alexander Rosenberg su Intention and Action anwng the Macronwkcules46 scrive infatti:
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Sembra ovvio che questa è una mera intenzionalità come se, una finzione del teorico, sen7.a dubbio utile, ma da non prendere sul serio e alla lettera. Le macromolecole non evitano o desiderano o discriminano qualcosa nel senso letterale del termine. Noi, gli interpreti o teorici, diamo un senso a questi processi fornendoli di interpretazioni mentalistiche, ma (si vuol dire) l'intenzionalità che attribuiamo in questi casi non è né un'intenzionalità reale intrinseca né un'intenzionalità reale derivata, ma soltanto una mera intenzionalità come se:41
45. D.C. Dennett, L'idea perico'losa di Danvin, cit., p. 81. 46. Apparso in N. Rescher (a cura di), Current lssues in Teleo'logy, University Press of America, Lanham 1986, pp. 6.5--76. 47. D.C. Dennett, L'atteggiamento intenzionale, cit., p. 422.
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Il carne se forse non cessa di essere tale, ma diviene qualcosa di serio e da prendersi quasi 48 alla lettera, quando l'attribuzione d'intenzionalità dalle macromolecole si sposta a Madre Natura: «E mentre l'enzima correttore non ha alcuna idea di correggere gli errori in quanto errori, Madre Natura ce l'ha!»49 •
È questo un punto decisivo del discorso di Dennett e costituisce il motivo della polemica sia con l'intenzionalismo di Searle (con la sua tesi sull'inscindibilità tra «l'idea del genuino intelletto», quella «della genuina "semanticità"» e l'idea stessa della coscien7.aÌ5° sia con il realismo di Fodor (circa l'idea di «un significato intrinseco, originario» per le nostre stesse rappresentazioni mentali)5 1• Tale motivo si alimenta, appunto, dell'assunzione che noi non abbiamo affatto «un'intenzionalità originaria (o intrinseca) assolutamente non derivata»52• Anche la nostra intenzionalità presuppone il «processo del progetto» cieco e privo di rappresentazioni della natura: Se dunque deve esserci un'intenzionalità originaria - originaria proprio nel senso di non derivare da nessun'altra fonte ulteriore - l'intenzionalità della selezione naturale si merita questo onore. 53
Citando un inedito di Ruth Millikan, Dennett sostiene, in breve, che se c'è qualcosa come un «intendere originario» que-
48. Quasi = Quamsi (come se)! Per una discussione di questo concetto nella Critica della facoltà di giudizio, cfr. F. Desideri, Il disinteresse nel giudizio di gusto. Fondazione e presupposizione nella Critica del Giudizio, in «Archivio di storia della cultura», V, pp. 177-185; ora in Id., Il passaggio estetico. Saggi kantiani, Il Melangolo, Genova 2003, pp. 69-93. 49. D.C. Dennett, L'atteggiamento intenzionale, cit., p. 423. 50. Cfr. D.C. Dennett, L'atteggiamento intenzionale, cit., p. 447. 51. Cfr. ivi, p. 413. 52. lvi, p. 386. 53. lvi, p. 426.
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sto deve essere un «intendere inespresso»54 • Ma se si ammette questo - e Dennett lo deve ammettere sia per sostenere evoluzione dell'intenzionalità della mente da processi o fattori non intenzionali sia per evitare un regressus ad infinitmn nella teoria del significato - allora non regge più la tesi che «la distinzione tra intelligenza reale e intelligen7.a artificiale cessa di esistere»s.s. Questa tesi non regge più per il semplice motivo che l'«intendere inespresso» della via naturale o diacronica all'intenzionalità non può essere altrimenti assunto che come originario ed è solo nelroriginarietà di questa connessione tra intenzionalità in senso improprio e intenzionalità in senso proprio, tra inespressione ed espressione, che si può pensare r emergere della coscienza. Il che, ovviamente, non può valere per l'lntelligen7.a Artificiale dove ogni intendere è espresso (è trasformabile in modelli computazionali) o comunque esprimibile, mentre esprimibilità dell'inespresso proprio dell'intendere "originario" non può che configurarsi come l'ipotesi esplicativa di ciò che presuppone, delle sue condizioni: un'ipotesi che non aggiunge niente all'autonoma realtà di quanto comunque emerge come antecedens necessario rispetto a un tale complesso di presupposizioni o di processi56 •
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54. Ibidem. 55. Ciò vale sia in senso diacronico (con la strada darwiniana dell'«accumulo progressivo») sia in senso sincronico (con la strada dell'Intelligenza Artificiale vera e propria, che Dennett accetta nella sua versione hard); cfr. per questo D.C. Dennett, L'idea pericolosa di Danvin, cit., pp. 234 e 258-260. 56. A questo proposito è molto significativo quanto osservano Cordeschi, Tamburrini e Trautteur dall'interno del campo di ricerche relative all'IA: «AI, which talces the relay of Cybernetics, achieves great successes both in clarifying the no-subject mental life, and in generating a cascade of engineering applications. Yet after decades of research in AI and Cognitive Science, Newell was forced to declare that consciousness (i.e. the subjective aspects of experience) remains off-limits to cognitive theory, while the AI successes in handling symbolic information are quite sufficient at explaining most phenomena related to awareness, such as attention, selection, fo-
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Non solo. L'intendere «inespresso» riguarda certo l'«orologiaio cieco»57 ali'opera nel progetto della natura. Ma costituisce anche una condizione interna alla "forma" (ali'auto-costituzione) della coscienza e non solo quanto ai processi sub-personali che la detenni nano. Ecco il vero problema. Solo assumendo questa condizione - il presupposto di un intendere che non giunge al linguaggio in quanto è paradossalmente meta-intenzionale o, comunque, ali'origine di ogni intenzionalità-possiamo pensare il campo della coscienza come un campo che include quello dell'intenzionalità (piuttosto che identificarsi tout court con esso). Qualcosa del genere intende Kant quando, nella Critica della facoltà di giudizio, cerca di definire quel tipo di coscien7.a non-intenzionale (o, se si vuole, "estetica") che si dà in
cusing, and reporting» (R. Cordeschi - G. Tamburrini - G. Trautteur, The NotionofLoop inthe Studyof Consciousness, in C. Taddei-Ferretti-C. Musio [a cura di], Neuronal Bases and Psychological Asp~ of Consciousness, World Scienti6c Publishing, Singapore-River Edge-London 1999, pp. 524540: pp. 537-538); per le affermazioni di Newell, cfr. A. Newell, Précis of Uni6ed Theories of Cognition, in «Behavioral and Brain Sciences», voi. 15, n. 3, 1992, pp. 425-492. 57. Il riferimento all'opera di Dawkins nei lavori di Dennett è costante e strategicamente decisivo: «Noi siamo, in realtà, manufatti progettati nel corso degli eoni come macchine di sopravvivenza per geni che non possono agire rapidamente e istruttivamente nei propri interessi. I nostri interessi così come li concepiamo e gli interessi dei nostri geni possono benissimo divergere - anche se, se non fosse per gli interessi dei nostri geni, noi non esisteremmo: la loro preservazione è la nostra originaria raison d'etre, anche se possiamo imparare a ignorare tale obiettivo e concepire il nostro summumbonum, grazie all'intelligenza che i nostri geni hanno installato in noi. La nostraintenzionalità è pertanto derivata dall'intenzionalità dei nostri geni "egoisti"! I Significanti non Significati sono loro, non noi!» (D.C. Dennett, L'atteggiamento intenzionale, cit., p. 400). Per Dawkins cfr. almeno R. Dawkins, L'orologiaio cieco. Creazione o evoluzione?, tr. it. di L. Sosio, Ri:aoli, Milano 1988, e Id., Il gene egoista. La 7Jarle immortale di ogni essere vivente, tr. it. di G. Corte e A. Serra, Mondadori, Milano 1995.
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quell'accordo tra immaginazione e intelletto nel quale si produce il giudizio di gusto. Protagonista è qui l'immaginazione nella sua capacità di cogliere la forma (I'eidos) di un qualcosa al di fuori di noi che ci ha percettivamente colpito, mentre l'intelletto (nel «libero gioco» tra le due facoltà) contribuisce esplicando la sua funzione genericamente cognitiva, riconoscendo-attribuendo le proprietà estetiche dell'oggetto senza tradurle in concetti determinati. Sorvolando sulla possibilità stessa di superare una rigida partizione funzionale tra le due facoltà conoscitive («immaginazione e intelletto è tutt'uno», diceva a ragione Leopardi) 58, qui si mostra che originariamente l'intelletto non si caratteri7..7.a solo in un senso produttivamente intenzionale. Rinunciando alla determinazione concettuale del suo oggetto (l'"oggetto" che viene detto "bello"), l'intelletto espone in primo piano il fondo necessariamente inespresso del suo stesso intendere. Così, si potrebbe dire, l'intelletto esplica la sua poten7.a semantica all'inverso: non nel far segno fuor di sé, bensì nel puro accogliere quanto è immaginativamente co-agitato e, dunque, nel far-segno in sé. L'obiezione a questo ragionamento potrebbe essere che in fondo l'intenzionalità dell'intelletto si mostra comunque nel-
58. C&. Leopardi, Zib., 2133-2134, p. 1182. Ma merita leggere l'intero passo leopardiano: «L'immaginazione [ ... ] è la sorgente della ragione, come del sentimento, delle passioni, della poesia; ed essa facoltà che noi supponiamo essere un principio, una qualità distinta e determinata dell'animo umano, o non esiste, o non è che una cosa stessa, una stessa disposizione con cento altre che noi ne distinguiamo assolutamente, e con quella stessa che si chiama riflessione o facoltà di riflettere, con quella che si chiama intelletto ec. Immaginaz. e intelletto è tutt'uno. L'intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista nello stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec.». Su questi temi in Leopardi si veda A. Calzolari - M.R. Torlasco, Genio, assuefazione e disposizioni nello Zibaldone, in «Studi di estetica», n. 16, 1997, pp. 281-332.
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la dimensione proposizionale del giudizio di gusto, ma il fatto è che tale giudizio è più un riconoscimento di quanto si dà, e si dà consapevolmente, che non un'attiva determinazione dell'oggetto-immagine ali'origine dell'esperienza estetica. Ciò non vuol dire, ovviamente, che il giudizio di gusto sia posteriore o comunque inessenziale ali'esperienza del bello (e alla coscienza estetica che se ne ha); vuol dire, semmai, che coincide con essa59 • E proprio in questa coincidenza l'intelletto esibisce il suo «power of initiative»6(). Nella coscienza estetica, in altri termini, l'intelletto, come un armonico tutt'uno con l'immaginazione, mostra il senso stesso della sua originaria attività: un saper ricevere discernendo, una capacità d'ascolto (e, dunque, di leggere!; il lego di intellego è infatti tanto uno "scegliere" quanto un '1eggere"). Il carattere derivato e insieme originario di quella intenzionalità che assumiamo come propria dell'ente dotato di ragione consiste allora, intrinsecamente, proprio in ciò: nel fatto che originariamente l'attività dell'intelletto è un per-cepire (relativo al "senso" in ogni sua estensione) e, unicamente in virtù di ciò, un percepirsi, quasi un "toccarsi". Solo così, del resto, possiamo pensare un modello di coscien7,a dove siano compresi i tre atteggiamenti o stances di Dennett: quello fisico, quello progettuale e quello intenzionale. In quanto atteggiamenti o modelli intenzionalmente scelti, questi non possono esaurire né la realtà né il "modello" della coscien7,a che, a sua
59. Si veda per questo il § 9 della Critica della facoltà di giudizio, dedicato alla questione «se nel giudizio di gusto il sentimento del piacere preceda il giudicare l'oggetto oppure questo quello»; la «soluzione di tale questione - precisa subito Kant - è la chiave della critica del gusto». 60. È un 'espressione del Coleridge critico dell'associazionismo e studioso di Kant (cfr. S.T. Coleridge, The Friend, in Id., The Collected Works, voi. IV/1, a cura di B.E. Hooke, Routledge & Kegan Paul-Princeton University Press, London-Princeton 1969, p. 455).
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volta, presuppone necessariamente la facoltà dell'intelletto, il suo «potere d'iniziativa». L'intelletto, per poterli accogliere, deve includere sia la direzionalità dell'intendere (dell'intenzionale) sia il suo inverso: quell'intendere inespresso che si può solo accogliere (che com-prende soltanto) nello stesso modo in cui, ascoltando, si afferra il senso di qualcosa. Il modello che si va delineando fa spazio alla dimensione dell'ascolto intrinseca alla forma della coscienza (e all'intelligen7_.a che essa presuppone) e in tale spazio accoglie, per così dire, il senso del senso. Tale modello accetta il principio quineano dell'indeterminate7-.7_.a implicita in ogni traduzione, appunto in quanto la stessa coscien7_.a è un tradurre (una soglia attiva di traduzione) tra esterno e interno61 • Si tratta, dunque, di un modello (o meglio, di un embrione di modello) altamente indeterminato che mantiene il riferimento all'idea di un Sé, a una "Seità" costituita tramite una doppia riflessione (interna ed esterna). L'alternativa tra l'ontologia puramente soggettiva di Searle e quella instatu alteritatis di Dennettviene perciò abbandonata per far posto a un'ontologia dell'originaria relazione tra identità e alterità implicata nell'esistenza stessa dell'intelletto: a una relazione di scambio dove la piega dell'essere è nella coscienza nella stessa misura in cui essa emerge come il raddoppiarsi di questa stessa piega (in for7_.a di quella che Levinas chiamerebbe la possibilità della trascenden7_.a: il tendere, il conatus che spinge «al di là dell'essere»). Tale relazione può infine configurarsi anche come una sorta di schematismo originario che ha davidsonianamente annullato la differen7_.a trascendentale
61. Un accenno in questa direzione lo troviamo già in Peirce, che definisce la coscienza come «quella congerie di predicati non-relativi, ampiamente variabili in qualità e intensità, che sono sintomatici dell'intera".lione del mondo interno e del mondo esterno» (Peirce, Semiotica, p. 308).
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dal suo contenuto. Uno schematismo anteriore a ogni "schema" possibile e a ogni possibile distinzione tra i suoi "elementi": figura infigurabile (idea) della coimplicazione tra essere (mondo) e coscien7.a. Ed è proprio in questo schematismo attivamente originario che si produce lo stesso «simbolo del sé» come «probabilmente il più complesso fra tutti i simboli del cervello»62 • Attorno a questo ipersimholo del Sé, al suo carattere "reale" di Centro di Gravità indeducibile da ogni intenzione determinata: da ogni movimento del pensiero, si intesse la stessa rete di simboli in cui consiste l'attività del pensare6-1 . Ciò spiega perché la reciproca tensione tra pensiero ed essere (l'indeterminatez7.a del senso di entrambi i campi) resti tale; un tale schematismo significa, infatti, il confine attivamente coimplicativo tra intenzionalità e non-intenzionalità, tra origine e derivazione, tra interno ed esterno e, infine, tra physis e techne (tra natura e artificio).
2. Intelletto attivo e sapravvenienza Con l'ultimo passaggio abbiamo abbandonato il punto di vista dell'ingegneria inversa assunto da Dennett nel considerare la coscienza (e quindi l'intenzionalità) come qualcosa di derivato: come effetto di un processo64 • Ma è un abbandono necessario, allorché da una strategia conoscitiva o ipotetico(ri)costruttiva si voglia passare alla questione del pensarsi della
62. D.R. Hofstadter, Goclel, &cher, Bach: un'Eterna Ghirlanda Brillante, tr. it. di B. Veit et al., a cura di G. Trautteur, Adelphi, Milano 1984, p. 418. 63. Cfr. per questo ivi, pp. 386-390. 64. Semmai in quanto schematismo originario la coscienza è effetto di sé o meglio memoria mimetica dell'autonoma potenza del Sé: della ineliminabile dimensione auto-generativa che tale no-~one implica.
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coscienza nell'autonomia della sua, pur contingente, noumenicità6.5. Soltanto assumendo che la coscienza è effetto di sé stessa, possiamo pensare il rapporto tra la coscienza e i qualia (gli stati qualitativi) che ne contraddistinguono l'esperienza interna. Con la precisazione che la soggettività della coscien7.a non si riduce a una serie di qualia (come vuole Searle): in quanto li contiene, la coscienza trascende iqualia; ne accoglie il senso senza poterli esaurire nel linguaggio che li esprime. La coscien7.a, semmai, può soltanto signi-6care i qualia, facendo segno verso la loro inattingibilità, ovvero verso il necessario fondo senza-espressione del loro senso 66 • Non è dunque giusto negare, come fa Dennett, l'esistenza dei qualia. È piuttosto più sobrio affermare che i qualia sono inespressi quanto al senso: trascendono i loro possibili significati (le loro possibili interpretazioni e attribuzioni intenzionali-proposizionali) nella stessa misura in cui la coscienza è, in ultima istanza, inespressa riguardo ai singoli atti intenzionali. Cercando di chiarire ulteriormente quanto fin qui sostenuto soprattutto riguardo alla posizione di Dennett: il modello intenzionale o dell'«ingegneria inversa», se applicato alla co65. Noumenicità, ripetiamolo ancora, significa che il problema deila coscienza non è affatto eliminato dalla spiegazione dei processi che presuppone e da cui emerge. Qui occorre richiamare la cruciale distinzione kantiana tra pensiero e conoscenza. Se per conoscenza intendiamo l'intuizione-verifìca di un concetto in una sua esibizione empirica, allora nel caso deila coscienza questa esibizione si mostra proprio come auto-contraddittoria. Usando la terminologia kantiana potremmo così dire che la coscienza, ancor prima deila libertà, è un'idea inesponibile deila ragione. Ma proprio perciò essa è anche qualcosa di eminentemente pensabile; pur mantenendo, in tale pensabilità, il carattere di un noumeno inattingibile a partire dai suoi fenomeni. 66. Per l'idea di «senza-espressione» (Ausdruckslose) che traggo dal Benjamin del saggio su Il compito del traduttore, rimando a F. Desideri, La porta della giustizia. Saggi su Walter Benjamin, Pendragon, Bologna 1995, in part. pp. 35-62e 83-lOO(per la fìlosofìa benjaminianadel linguaggio in generale).
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scien7,.a, non è un modello che implica sé stesso e quindi non soddisfa uno dei requisiti essenziali stabiliti da Minsky nel suo famoso testo su Matter, Mind and Model.sol. La sua autoimplicazione riguarda infatti, sul piano della forma, i molteplici processi che presuppone o da cui emerge (necessariamente sub-coscienti, a detta dello stesso Dennett) e, sul piano del contenuto, i resoconti o traduzioni estensionali del suo indice intensionale68 • Ma non riguarda quel Sé di cui l'Io è indice e dunque nemmeno la relazione reciprocamente indicativa tra Io e Sé. Questo è il suo limite, dato che la coscienza, in cui siamo implicati e in cui consistiamo, si dà solo come unità tra la seità di una forma (biologica) emergente e l'intensionalità (con la "s") del punto di vista dell'Io: come unità "paradossale", dunque, di ascolto e intenzione, unità di una voce in sé divisa. In quest'unità è proprio la coscienza - e non i geni da cui deriva - a configurarsi come l'unico significante che conosciamo: come un significante da intendersi alla lettera, ossia come attiva potenza del signi-ficare, del far-segno. Nel riconoscimento di ciò - in quel riconoscimento in cui si dà l'unità stessa della con-scientia come una sintesi originaria - consiste appunto il sapere che le è proprio: il suo carattere attivamente simbolico (o, per usare i termini di Putnam, «computazionalmente plastico» )69 e, quindi, sia la sua capacità di assumere at-
67. Cfr. M. Minsky, Matter, Mind and Moclek, in W.A. Kalenich (a cura di), Information Processing 1965. Proceedings of IFIP Congress 65, Organized by the lntemational Fecleration for Information Processing, New York City, May 24-29, 1965, Spartan Books-Macmillan, Washington-London 196!5, pp. 45-49. 68. Cfr. per questo D.C. Dennett, Contenuto e coscienza, cit., pp. 102-132. 69. Cfr. in merito H. Putnam, La sfida del realismo, tr. it. di N. Guicciardini, Gar.t.anti, Milano 1991, p. 26, e M.C. Nussbaum - H. Putnam, Changing Aristotle's Mind, in M.C. Nussbaum - A. Rorty Oksenberg (a cura di), Essays on Aristotle's De anima, Clarendon Press, Oxford 1992, pp. 27-56: p. 48; la tesi di Putnam è strettamente correlata a quella del carattere pri-
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teggiamenti (stances) e di produrre modelli sia la sua distanza da essi (la sua stessa trascendenza). Dal nostro punto di vista umano, troppo umano (l'unico, in fondo, che abbiamo), nel sottilissimo con6ne70 che congiunge la naturale disposizione all'effettivo esercizio dell'habitus o dell'assuefazione 71 , le differenze tra quella singolare unità di ascolto e intenzione in cui consiste il "genio" della nostra coscienza72 e un qualsiasi altro «sistema intenzionale» non sono differenze di grado73 • Perciò il nostro intelletto non può che pensarsi come iniziante: come un intelletto originariamente attivo (al di là o nonostante possa essere inteso, nella sua genesi "necessariamente" esterna, come effetto di un processo). Del tutto fuori luogo sono dunque le ironie di Rorty riguardo al rapporto tra «olismo», «intrinsecalità» e «trascendenza» (unite all'invito a Dennett a riconoscere che le sue sono soltanto metafore: «semplicemente un modo di parlare che, se largamente
mitivo dell'intenzionalità e dunque dell'irriducibilità del «livello intenzionale» a quello «computazionale», così come quest'ultimo - a sua volta - è irriducibile a quello «fisico». 70. Cfr. in proposito il § 4 del cap. Il. 71. Anche in questo caso v'è il prender dimestiche-aa - l'acquisire familiarità - tramite una pratica. 72. Così intesa la coscienza è, tanto romanticamente quanto leopardianamente, il genio comune a ognuno: il daimon dell'uomo. Per il genio romantico come proprio della comune coscienza, cfi-. F. Desideri, Il velo di Iside, cit., pp. 76-78; per il genio in Leopardi, cfr. A. Calzolari - M.R. Torlasco, Genio, assuefazione e dis]wsizioni nello Zibaldone, cit. 73. Dennett stesso, del resto, nella sua definizione di sistema intenzionale prescinde dalla nozione di coscienza. Cfr. D.C. Dennett, Brainstonns, cit., p. 56; eppure in Id., Contenuto e coscienza, cit., p. 156, aveva affermato (Contenuto e coscienza, ricordiamolo, è del 1969, mentre il saggio su I sistemi intenzionali è del 1971) che«"consapevole" è Intenzionale». Qui lademisti6cazione della mente fallisce (in merito cfr. J. Haugeland, Pattern and Being, in B. Dahlbom [a cura di], Dennett and his Critics, cit., pp. 53-69: p. 67).
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accettato, cambierà le nostre intuizioni»)74 • Nei confronti del problema si mostra senz'altro più cauto Dennett quando, rifiutando alla sua posizione sia un riduzionismo avido75 sia un «prospettivismo radicale» alla Rorty76, riconosce - pur nella prospettiva evolutiva della trasmissione della cultura come trasmissione di «memi» teorizzata da Dawkins71 - la nostra trascendenza senza fondamenti e, con essa, «la nostra capacità di "ribellarci alla tirannia dei replicanti egoisti"»78 •
74. Cfr. R. Rorty, Holism, lntrinsicality, and the Ambition ofTranscendence, in B. Oahlbom (a cura di), Dennett and his Critics. Demystifying Mind, Blackwell, Oxford-Cambridge (Mass.) 1993, pp. 184-202: p. 198. 75. Cfr. O.e. Oennett, L'idea pericolosa di Danvin, cit., pp. 101-104, 499-
502 e passim. 76. Cfr. O.C. Oennett, L'atteggiamento intenzionale, cit., p. 62, e Id., Back fromthe DrawingBoard, in B. Dahlbom (a cura di),Dennettand his Critics, cit., pp. 203-235, in part. pp. 204-205 e 232-233. 77. Cfr. O.C. Oennett, L'idea pericolosa di Darwin, cit., pp. 420-467 e passim. «Il nostro Sé - afferma Dennett in questo contesto - è stato creato dall'interazione tra i memi che sfruttano e dirottano il meccanismo che Madre Natura ci ha dato» (ivi, p. 465); l'affermazione ha lo stesso tenore della domanda che si pone il fisico Richard Feynmann (citata dallo stesso Oennett): «Cosa c'è allora nella nostra mente? Cosa sono questi atomi provvisti di coscienza?[ ... ] Accorgersi che la cosiddetta individualità è soltanto un disegno o una danza, ecco cosa significa la scoperta del tempo occorrente perché gli atomi del cervello siano sostituiti da altri. Gli atomi vengono nel mio cervello, ballano la propria danza, ed escono - ci sono sempre nuovi atomi, ma danzano sempre la stessa danza, conservano la memoria del ballo del giorno precedente» (R.P. Feynmann, «Che t'importa di ciò che dice la gente?», tr. it. di S. Coyaud, Zanichelli, Bologna 1989, p. 232). Possiamo ammettere senza problemi che sono gli atomi a serbare memoria della danza in cui a ogni istante si disegna l'individualità di ognuno, ma resta comunque il fatto che i beneficiari di questa danza siamo pur sempre noi. .. Così, analogamente, a quel Sé creato dall'interazione tra le coalizioni di «memi» che popolano la mia mente sono pur sempre "lo" che faccio riferimento e la voce del Sé che ascolto resta sempre la "mia" voce. 78. O.C. Dennett, L'idea.pericolosa di Danvin, cit., p. 600.
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Niente di nuovo rispetto a quanto osservava Kant nella Critica
della facoltà di giudizio circa il carattere auto-telico (avente, cioè, radicalmente in sé il proprio scopo) di quell'organismo vivente che è l'uomo. Solo a questa condizione, infatti, si apre la questione del Bene come «al di là dell'essere», come l' anypotheton (la fine di ogni ipotiz7.are) in cui ogni intenzionalità trova un termine79 • Ancora qualcosa, infine, sul problema, accennato in preceden7.a, del carattere originariamente attivo dell'intelletto e sul fatto che una tale attività è, in primis, un accogliere. Senza un ultimo passo in questa direzione il nostro discorso, mancando di volgere un pur breve sguardo al suo stesso motore, rischierebbe di girare a vuoto, anzi di non girare affatto. «Una teoria intenzionale - osserva Dennett - non ha contenuto, come teoria psicologica, perché presuppone e non spiega la razionalità o l'intelligen7.a»80 • Dal modo in cui pensiamo questa presupposizione, si capirà, dipende in buona misura il modo in cui pensiamo la coscienza e il suo rapporto con il resto (l'Essere, il Mondo, l'Altro e così via). Al termine di ogni riduzione esplicativa della propria intenzionalità, la coscienza deve pensarsi pur sempre come iniziale e in questa inizialità riflettere sul carattere puramente "iniziante" di quel principio che i Greci dicevano nous e che i latini hanno tradotto con intellectus. Il tema della soprawenien7.a, sul quale negli ultimi anni si è molto discusso a partire dal saggio di Davidson (del 1970)
79. È forse quello che Dennett chiama «esistenzialismo» citando Sartre e Nietzsche (cfr., ad esempio, D.C. Dennett, L'idea pericolnsadi Darwin, cit., pp. 231 ss.), ma qui lo sviluppo del suo discorso è a uno stadio assai germinale; mentre poco convincente è il suo tentativo di «un nuovo progetto per la morale» (cfr. ivi, pp. 631-667). 80. D.C. Dennett, Brainstorms, cit., p. 55.
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sui Mental Events81 , trova qui la sua origine. Per «sopravvenien7.a» relativamente al problema della coscienza si intende in generale che gli eventi mentali, seppur non siano qualcosa di "fisicamente" diverso dagli eventi neurofisiologici che accadono nel cervello (dipendendo in qualche modo da essi), sopravvengono rispetto alle loro caratteristiche fisiche come una proprietà emergente. La coscienza può, però, trascendere ogni spiegazione che la riduca a processi sub-coscienti (che traduca la sua intenzionalità originaria in qualcosa di derivato da fattori non-intenzionali) soltanto se il suo stesso principio sopravviene rispetto a questi stessi fattori e processi. David Chalmers, in The Conscious Mind, distingue tra due sensi possibili della sopravvenien7.a: uno «logico» (o «concettuale») e uno «naturale» (o «nomico» o «empirico» )8~ due sensi che, a loro volta, si incrociano con la distinzione tra una sopravvenien7.a di tipo globale e una di tipo locale. Ma la distinzione decisiva, per Chalmers, è la prima {tra logico e naturale). Si ha sopravvenienza logica di proprietà-E su proprietà-A quando i fatti-A implicano i fatti-E (l'implicazione qui è necessaria, tanto che se un Dio creasse un mondo con certi fatti-A, i sopravvenienti fatti-E occorrerebbero come una «automatica conseguenza»)8-1 . Nel caso della sopravvenienza naturale la correlazione tra proprietà-E e proprietà-A in un qualsiasi mondo possibile implica invece una qualche "legge", tale da stabilire che laddove si verificassero dei fatti-A occorrerebbero sempre i relativi fatti-E (l'implicazione qui è empiricamente contingente - sen7.a necessità logica - e solo r esisten7.a di una determinata legge stabilirebbe la "metafisica" connessione tra
81. Cfr. D. Davidson, Azioni ed eventi, tr. it. di E. Picardi,il Mulino, Bologna 1992,pp.285-310. 82. Cfr. D.J. Chalrners, The Conscious Mind. In Search of a Fundamental Theory, Oxford University Press, New York-Oxford 1996, pp. 34 ss. 83. Cfr. ivi, pp. 36-38.
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i due tipi di eventi; così l'ipotetico Dio che creasse un mondo con certi fatti-A dovrebbe anche creare la relativa legge perché occorressero i sopravvenienti fatti-B). Solo nel caso di sopravvenien7..a logica è però possibile, per Chalmers, una «spiegazione riduttiva» che riconduca le proprietà di livello superiore alle proprietà di livello inferiore su cui le prime sopravvengono84 • «Quasi ogni cosa», così, può intendersi come «logicamente sopravveniente sul fisico»s.5. Un'eccezione a questo quadro è appunto costituita dalla coscien7..a, dove eccezionalmente una sopravvenienza di tipo naturale non ne implica una di tipo logico. Le proprietà della coscienza non sono insomma riducibili ai fenomeni neurofisiologici (alle loro caratteristiche funzionali e alle loro leggi di connessione) che presuppongono: Una volta che abbiamo spiegato tutta la struttura fisica in prossimità del cervello, e che abbiamo spiegato come sono eseguite tutte le funzioni cerebrali, c'è un ulteriore tipo di explanandum: la coscienza stessa. 86
Di qui il carattere «locale» - non «globale» - della sua problematica sopravvenien7.a87 • Di qui la sua irriducibilità (con la quale per Chalmers viene a coincidere l'hard probl,em della stessa coscien7..a) e l'accettazione di un «dualismo delle proprietà» che fa salvo in qualche modo il funzionalismo 88•
84. Cfr. ivi, pp. 46-51. &5. Ivi, pp. 71-72.
86. Ivi, p. 107. 87. cfr. ivi, p. 93. 88. Cfr. ivi, pp. 123-129; contro questa tenden~ conciliativa del libro di Chalmers e contro il suo ammettere come plausibile il pampsichismo universale si scaglia J.R. Searle, The Mystery ofConsciousness, cit., pp. 135-176 (con una replica di Chalmers e una contro-replica dell'autore).
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Se il problema posto da Chalmers è serio, meno convincente è lo sviluppo ontologico del «dualismo delle proprietà» implicato nel carattere singolare (naturale e non-logico) della sopravvenienza della coscienza sul mondo fisico. Una volta assunto che il «fisico» e il «fenomenico» (o fenomenologico nel senso dei contenuti della coscienza) sono entrambi primari e irriducibili l'uno ali'altro, Chalmers cerca il link tra i due ambiti in una teoria ontologica del mondo come «pura informazione». Secondo tale teoria, definita anche come «a double-aspect ontology», «I'esperien7_.a è informazione dall'interno; la fisica è informazione dall'esterno»89 • Difficilmente un'impostazione del genere può resistere al fuoco incrociato delle obiezioni che da opposti versanti vengono da Searle e Dennett90. Escludendo la dimensione "logica" dal carattere sopraweniente della coscienza (un'esclusione che va di pari passo con una definizione troppo ampia di soprawenien7_.a }ogica), Chalmers non si sottrae facilmente al sospetto di sostenere, in ultima istan7_.a, una qualche forma di epifenomenalismo della coscien7_.a, nei confronti del quale l'ontologia dell'informazione (che, a ben vedere, è una teoria del continuum informazionale dell'universo di vaga ispirazione leibniziana) dovrebbe agire come correttivo. Ma il sostegno ontologico che il «dualismo delle proprietà» chalmersiano trova nell'idea di universo come flusso d'informazione appare alquanto debole. A ciò si aggiunge la quasi ingenua assunzione del "fatto" della coscien7_.a come qualcosa di soltanto empirico-naturale, ossia come la dimensione stessa della "nostra" esperien7.a. Chalmers, così, non considera la semplice questione che la coscien7_.a, rispetto al mondo considerato "fisicamente", rappresenta una radicale soprawenien-
89. D.J. Chalmers, The Conscious Miml, cit., p. 305. 90. Cfr. in proposito D.C. Dennett, Facing Backwanls on the Problem of Consciousness, in «Joumal of Consciousness Studies», vol. 3, n. 1, 1996, PP· 4-6.
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7.a: quella della logica nel suo senso più ampio e, dunque, del logos stesso. La questione della coscien7.a, in altri termini, è una questione trascendentale e, quindi, non può fare a meno di includere il problema del principio della propria possibilità. Se non altro perché, come abbiamo visto all'inizio del nostro percorso, tra le virtù della coscien7_.a c'è quella eminente dell'interrogarsi. Non c'è, insomma, ontologia possibile, se non c'è una teoria dell'intelletto; e questo, com'è noto, è il problema posto da Kant, ma è anche il problema posto da Aristotele, in particolare nei capitoli 4 e 5 del De anima (ed è quanto mai singolare che né Kant né Aristotele siano mai citati nel libro di Chalmers). La vera soprawenien7.a, come videro benissimo i primi commentatori del trattato aristotelico (e in particolare Temistio), è quella dell'intelletto: del nous. Tutta la questione, prima affrontata, relativa alla cooriginarietà del rapporto tra ascolto e intenzione nella costituzione della forma della coscien7.a trova dunque la sua prima formulazione nelle concise pagine aristoteliche intorno al rapporto tra intelletto in poten7_.a e intelletto agente o, come lo definiranno i commentatori, poietikòs. Per addentrarci analiticamente nel problema posto da tali pagine e nella vicenda della loro interpretazione (dal commento di Alessandro di Afrodisia almeno fino alla decisiva polemica dell'Aquinate con Averroè nel De unitate intell,ectus) sarebbe necessario scrivere un altro libro. Ma trascurarlo del tutto significherebbe sottrarre qualcosa di essenziale al nostro percorso, se non altro perché la stessa nozione brentaniana di intenzionalità, prima ancora che nella Scolastica medievale, è proprio qui che si radica 91 • Mi atterrò dunque a
91. Si veda in proposito il primo capitolo di Die Psychologie des Aristoteles, dedicato proprio a una discussione delle interpretazioni del nous poietikòs,
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una brevissima presentazione delle tesi aristoteliche e ad alcune conclusioni. 11 problema di Aristotele è definire quella parte dell'anima «con cui essa conosce e pensa [ghignoskei ... kai phronei]»92 • Questa parte, ovviamente, è il nous, che non viene inteso come coestensivo a tutta l'anima ma come proprio soltanto della sua dimensione (o parte) noetica9.1• Nel nous, però, la parte ha la virtù di implicare il tutto (sia il tutto dell'anima sia, attraverso di essa, il tutto in generale, ossia tutto ciò che è), in quanto è esso a dare all'anima la sua forma propria e, dunque, a definire la sua essenza. ~ su questo punto che il dialogo con i platonici si fa serrato. E vero che l'anima è il «luogo delle forme» o delle idee, il tapos eidòn, ma Io è solo in quanto capace di pensare, ossia come psychè noetikè. La novità della tesi aristotelica, rispetto allo sfondo problematico del platonismo sul quale si sviluppa, sta nel rinvenire, fin nel principio stesso, la costante diadica del rapporto form~materia, poten7.a-atto che caratteriz7.a tutta la sua fìlosofia. E come se quella «piega dell'essere» che l'ontologia del Sofista platonico induce a pensare94 si riflettesse, per Aristotele, nel principio stesso della sua pensabilità. Solo in virtù di questa piega, potremmo dire, il principio può pensarsi: è un inizio che ha in sé la possibilità del ritorno.
In virtù di questa possibilità, l'unità dell'intelletto (del nous) è già, originariamente, una relazione; più che i caratteri della pura auto-riflessività possiede quelli dell'auto-relazione. Se
in F. Brent:ano, Die Psychologie
des Aristoteles, Kirchheim, Mainz 1867,
PP· 5-36. 92. Aristotele, De an., 4, 429a 10. 93. Cfr. ivi, 429a 28. 94. Cfr. per questo i §§ 2 e 3 del cap. IV.
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infatti intendessimo l'intelletto come eminentemente autoriflessivo, si potrebbe anche pensare che la differenza sia contenuta all'interno del nous come principio solo per essere tolta, così che il principio stesso del pensare possa affermarsi nella sua assolutezza e nella sua necessità. Ma, se così fosse, sarebbe difficile pensare la stessa separate7.7_.a della parte noetica rispetto al tutto dell'anima (e così si chiuderebbe il discorso aristotelico nell' ori7.zonte del naturalismo, privandolo del suo carattere "metafisico"); oppure questa separate7.7.a dovrebbe essere detta ancora assoluta e si dovrebbe interpretare il carattere "divino" e "immortale" del nous 95 come qualcosa di affatto estrinseco all'anima di quel vivente che è l'uom96. La stessa possibilità di separarsi del nous - il suo carattere choristòs!TT e quindi la sua distan7.a dal corpo e dall'aisthetikòn (dalla facoltà sensitiva), insieme al suo appartenere all'anima come una parte appartiene al tutto - è pensabile piuttosto nel suo configurarsi come una relazione originaria (tra intelletto in poten7_.a e intelletto attivo), dove la differen7.a rimane implicata nella stessa unità dell'intelletto. Proprio in quanto forma (eidos), l'intelletto si pre-
95. Il suo venire «da fuori» come un nous thyrathen, secondo l'espressione contenuta nel De generatione animalium (cfr. Aristotele, De gener. anim., 736b 27-29). 96. È questa l'interpretazione di Alessandrodi Afrodisia,che sembra identificare il nous thyrathen con il primo motore immobile differenziandolo essenzialmente non solo dall'intelletto in potenza ma anche dallo stesso abito dell'intelletto umano, e dunque intende quest'ultimo come del tutto corruttibile (non solo, cioè, quanto al suo essere in potenza). Cfr. Alessandro di Afrodisia, De anima, 88-91, e il relativo commento di P. Accattino e P. Donini, in Alessandro di Afrodisia, L'anima, cit., pp. 285 e 294-295: «Il risultato un po' paradossale della costruzione esegetica di Alessandro è che l'immortalità di cui può fruire l'uomo è momentanea e si realizza non dopo la morte, ma quando l'uomo è in vita» (ivi, p. 295). 97. Cfr. Aristotele, De an., 4, 429b 5.
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senta anzitutto come potenzialmente ricettivo delle forme stesse98 • Per chiarire il suo pensiero Aristotele ricorre ali'argomento dell'analogia: rispetto a ciò che pensa, ossia all'intellegibile, il pensare è «come il percepire» (ospertò aisthanesthai) 99 e dunque ha le caratteristiche della passività, del paschein. Come intelletto in poten7.a, thjnatòs, r intellectus è patiens: conosce in quanto accoglie, pensa in quanto ascolta. Ma anche nella sua recettività, l'intelletto si mantiene impassibile (apathès) e in ciò è differente dalla percezione. D'altra parte, sen7,a questa proprietà che dice la contraddizione (un patire impassibile) nel principio stesso, il pensiero non conoscerebbe la distan7,a dagli enti che pensa - dalle forme che riceve - e vi rimarrebbe irrimediabilmente mescolato. Sta proprio qui, allora, la differen7,a tra la facoltà sensitiva e quella intellettiva: mentre nel primo caso l'azione di «un sensibile troppo intenso» 100 indebolisce la capacità percettiva, nel caso dell'intelletto pensare «qualcosa di molto intellegibile» acuisce la sua intelligen7_,a fino al punto di poter pensare sé stesso (kai au.tòs dè au.tòn tote dynatai noein) 101 • Ciò in virtù della capacità dell'intelletto di astrarre dal sensibile e di acquisire, nel,suo esercizio, una "progressiva" distan7,a da quanto conosce. E come se vi fosse un rapporto incrementale traresercizio dell'intelletto e la sua plasticità, al punto che nella progressione di tale rapporto l'intelletto giunge a potersi comprendere come principio nella dinamica "causale" (poietico-produttiva) della sua stessa effettività. Anche in questa dinamica di auto-comprensione, osserva Aristotele, l'intelletto può dirsi in poten7.a, ma si tratta di una po-
98. Cfr. ivi, 429a 16. 99. lvi, 429a 13-14. 100. lvi, 429b 1. 101. Cfr. ivi, 429h 10.
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tenza "seconda", differente da quel poter accogliere tutte le altre fonne che lo caratteri7. za. Nel primo caso l'intelletto è in poten7.a (è plastico) rispetto a sé, si dispone a riceversi: a ricevere la sua stessa fonna. E proprio in questo auto-ricevimento o auto-ascolto l'intelletto presuppone l'aver accolto ciascuno dei suoi oggetti e con ciò l'esercizio stesso della conoscenza; presuppone, insomma, la propria attività. Così Aristotele non può che rimandare alla questione "meta6sica" 102 della scienza teoretica, dell'episteme theoretikè, dove il pensante e il pensato (il nous e il noumenon) sono lo stesso, mostrandosi insieme ben consapevole che non è questa la strada per passare dal discorso sull'intelletto in potenza a quello sul suo carattere propriamente attivo. Dedurre il carattere di co-scienza del nous dall'essere il nous stesso, nella fonna più eminente del suo esercizio, autocoscienza o auto-theoria significherebbe imboccare una scorciatoia che renderebbe del tutto superflua l'analogia tra noesis e aisthesis, tra pensiero e percezione, e metterebbe in ombra il tenore ontologico (e non solo logico) della differen7..a implicata nell'unità dell'intelletto. Ma come penserà l'intelletto, «se il pensare è una specie di subire» •03 ? A questo proposito la celeberrima metafora che paragona la "potenzialità" dell'intelletto a una tavoletta di cera sulla quale si può scrivere tutto perde molta della sua for7..a, soprattutto se dovesse servire a rinfor7..are la leggenda dell'empirismo aristotelico (che talvolta corre in parallelo a quella dell'empirismo kantiano). La funzione che qui potrebbe assumere l'immaginazione e, in ultima istanza, la «causalità della percezione» 104 rispetto al passaggio dall'intelletto in poten7..a
102. Accennata più avanti; cfr. ivi, 430a 3-7. 103. Ivi, 429b 2B-27. 104. Per una critica della no-.lione della «causalità della perce-.lione» come fonte del realismo, e&. H. Putnam, Sense, Nonsense, and the Senses: An
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all'intelletto in atto non sarebbe certo risolutiva del nostro problema. La questione, infatti, non sta nella derivazione o meno delle idee dalle immagini, bensì nella forma autonomamente produttiva (causale) del pensare e, quindi, nel rapporto apriori tra le forme intellegibili (le idee) e l'intelletto. A scrivere sulla tavoletta, insomma, non può esser altro che l'intelletto stesso; la sua originaria attività è quella di una scrittura, di una auto-grafia che genera tanto la propria sintassi che la propria semantica. E solo come unità di questa differenza (tra sintassi e semantica) l'intelletto in atto, kat'energheian, può esser detto «identico ai suoi oggetti» o più semplicemente è tà pragmata: è l'effetto della sua poiesis 105• È vero che successivamente Aristotele afferma che «l'anima non pensa mai sen7.a un'immagine»u16, ma qui il problema è quello della conoscen7.a sensibile o empirica, di una conoscenza (tanto per intendersi) in senso kantiano, mentre nei capitoli 4 e 5 del De anima il problema è quello della ricezione-produzione dell'intelligibile, ossia del rapporto tra l'intelletto in atto e l'intelletto in poten7..a. In breve: è il problema stesso del principio della coscienza che non si identifica affatto con effettivo sviluppo dell'attività conoscitiva, nel cui caso vale che «se non si percepisse nulla, non si apprenderebbe né si comprenderebbe nulla, e quando si pensa, necessariamente al tempo stesso si pensa un'immagine» 107 • Riflettendo in generale sulla natura e,
r
lnquiry into the Powers ofthe Human Mind, in «The Journal of Philosophy», voi. 91, n. 9, 1994, pp. 445--517. 105. Cfr. Aristotele,De an., 1, 431b 17-18. 106. Ivi,43la 16-17. 107. Ivi, 8, 431b 7-10. In questo bisogno d'immagini sta quella che Kant chiama «la contingenza» della costituzione del nostro intelletto (cfr. Kant, CdG, § 77). A motivo di questa contingenza Kant de6nisce il nostro come un intellectus ectypus. Ma tale de6nizione suppone appunto l'idea di un intellectus archetypus e in qualche modo la implica. Quanto al suo carattere
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in particolare, sulla differenza per essa ontologicamente costitutiva tra la materia che è potenzialmente tutte le cose e la «causa e il principio poietico» che le produce nella loro specificità, Aristotele passa alla questione dell'intelletto attivo. Lo stesso rapporto, osserva, vige tra la techne e la materia su cui opera. E perciò, conclude, queste stesse differenze (tautas tàs diaphoràs) devono trovarsi anche nell'anima108 ; anche nell'anima si deve, insomma, pensare un intelletto che «diviene tutte le cose» (panta ghinestai) e uno che «tutte le cose produce» (panta poiein) 109 • L'unità dell'intelletto significa, dunque, l'unità di ghenesis e poiesis: del puro divenire e del puro produrre. Parrebbe quasi che Aristotele, per spiegare il passaggio dall'intelletto in potenza all'intelletto poietikòs, assuma quello che Dennett chiama l'atteggiamento del progetto e dunque che il modello della techne sia quello più capace di esplicare l'attività produttiva dell'intelletto. Ciò sembrerebbe valere ancor più per commenti ali'opera aristotelica come quello di Temistio (abbondantemente citato da Tommaso nel suo De unitate intellectus), dove la metafora della techne trova un significativo sviluppo: Quindi la relazione, che l'arte ha con la materia, ce l'ha pure l'intelletto agente con l'intelletto in potenza, e così quello tutto diviene, questo tutto produce. Perciò possiamo intendere ogni volta che lo vogliamo. Infatti, non è l'arte di una materia esterna, ma l'intelletto agente pervade tutta la poten7.a dell'in-
di principio, l'intelletto non può che essere archetypus e ciò si attesta nella stessa distinzione kantiana tra conoscere e pensare. Potremmo dire che i capitoli 4 e 5 del libro III del De anima riguardano e interrogano proprio la dimensione archetipa dell'intelletto. Ma archetipo qui non signi6ca ovviamente semplice: la stessa originarietà del rapporto tra intelletto in potenza e intelletto in atto esprime la causalità dell'intelletto, e dunque la sua pura inizialità, come un iniziare dalla differenza, un'implicazione del "suo" altro. 108. Cfr. ivi, 5, 430a 10-14. 109. Cfr. ivi, 430a 15-16.
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telletto; come il falegname e il fabbro, se non fossero esterni al legno e al bronzo, sarebbero in grado di penetrare legno e bronzo interamente. Così, infatti, l'intelletto in atto, sopravvenendo all'intelletto in poten7.a, diviene uno con esso. 110
Il paragone tra intelletto e arte (techne) trova però, anche in questo Commento, un punto d'arresto nel fatto che la materia su cui l'inte11etto agisce non è ad esso esterna, ed è il motivo per cui la soprawenien7.a de1l'intelletto attivo (o in atto: dell'intelletto come energheia) è que1la propria di una differen7.a produttiva della stessa unità. Per capire il passo aristotelico bisogna perciò richiamare la distinzione tra techne e physis tracciata ne1la Fisica. «L'ente che è per natura», spiega qui Aristotele, è que1lo che ha in sé «il principio del movimento e della quiete» 111 e in ciò si differenzia da quanto non contiene in sé stesso il principio della «propria poiesis» 112 ( ossia dal prodotto dell'arte). La poiesis riguarda, così, tanto il generarsi del]'ente naturale quanto la produzione dell'artefatto. Questo non vuol dire, però, che il produrre dell'intelletto attivo sia configurabile semplicemente come una genesi owero come un puro divenire. Questa proprietà è piuttosto que1la dell'inte1letto in poten7..a. L'intelletto attivo, invece, conosce la distan7..a rispetto alla materia su cui si esercita. Solo che si tratta di una distan7.a del tutto interna, come se- secondo le parole di Temistio-il falegname e il fabbro non «fossero esterni al legno e al bronzo». L'unica. soluzione che resta per poter pensare il rapporto tra intelletto attivo e inte1letto in poten7.a è, allora, offerta dal ricondurre tale rapporto a que1la nozione di poiesis che sta al di qua del
UO. Temistio, In ùbr. Arist., 182, 26-28 - 183, 1-5. lll. Aristotele,Phys., 2, 192b 13-14. ll2. lvi, 192b 28-29.
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confine stesso tra physis e techne: nel punto d'indifferen7..a tra genesi e intenzionalità.
In aiuto di questa soluzione viene la successiva e influentissima metafora impiegata da Aristotele per descrivere l'azione dell'intelletto: quella della luce. L'intelletto sarebbe una «sorta di hexis» (di disposizione e di habitus, dunque) al pari della luce, la quale fa sì che i colori in poten7..a divengano colori in atto 113• Qui non viene detto, però, che vengono illuminate le cose o gli enti, ma i colori. Bisognerebbe approfondire a questo punto il paragone tra le idee, o forme, e i colori. In entrambi i casi il loro esserci prima dell'azione della luce o dell'intelletto è un essere che confina col non-essere (l'essere della poten7..a, appunto). Altrimenti quello della luce non sarebbe un poiein. La luce fa essere il colore delle cose come l'intelletto fa essere, in senso pieno owero in atto, l'essere delle forme (così da potersi dire di esso che è productor noematmn) 114 • L'atto dell'intelletto è il presupposto stesso del suo essere in potenza: l'effetto qui, in altri termini, è causa di sé e, dunque, della sua stessa genesi. Per questo l'intelletto è «atto [energheia] per essenza» 115• E solo in virtù di questo assunto possiamo pensare, osserva ancora Temistio, sia la differenza tra il nostro essere e il nostro io (una differenza che deriva dalla differenza tra atto e poten7.a propria di ogni ente) sia il fatto che il nostro essere (la nostra identità) viene dall'intelletto agente. Noi, dunque, siamo o intelletto in potenza o intelletto in atto. Se dunque in tutti i composti di ciò che è in potenza e di ciò che è in atto, altro è l'essere questo e altro è l'essere per quest'altro, allora altro sarà l'io e altro l'essere per me [allò an eie kai tò egò kai tò errwi einai] e mentre l'io, quindi, è l'in-
113. Cfr. Aristotele, Dean., 5,430a 16-18. 114. Temistio/Moerbeke, p. 226, r. 31. 115. Aristotele, De an., 5, 430a, 18.
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telletto composto dalla poten7.a e dall'atto, l'essere per me è invece costituito da ciò che è in atto. Perciò e quel che penso e quel che scrivo, lo scrive l'intelletto composto dalla poten7.a e dall'atto, ma lo scrive non in quanto in potenza bensì in quanto in atto. L'operare qui, infatti, deriva da sé stesso. 116
Le parole di Temistio chiariscono significativamente come nell'intelletto attivo sia contenuta la possibilità stessa della coscienza in quanto "sapere" che implica la differen7.a tra l'essere e l'Io. Qui il nous non appare semplicemente come «un principio d'intelligibilità», bensì come «un principio di coscien7.a attiva» 117 • L'origine stessa della coscien7.a (il suo principio) sta dunque nell'intelletto in quanto superoeniens (secondo la traduzione di Guglielmo di Moerbeke) owero, come suona l'originale di Temistio, prosghenomenos. Quest'ultimo termine indica appunto la prosghenesis: una «nuova nascita» che sopraggiunge nella nascita di qualcos'altro, ossia come una syn-ghenesis: come una cogenerazione in cui risuona il senso dell'affinitas e dunque della comunità dell'origine. Una comunità che dice anche il rapporto originario della coscien7.a col mondo; lo dice, appunto, nel duplice carattere, attivo e passivo, della nozione stessa dieidos: forma e idea- e, in ultimaistan7..a, nella sintetica unità dell'intelletto come eidos eidon, «forma delle forme» 118•
116. Temistio, In Ubr. Arist., 185, 1-10. Assai interessante è anche la traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke, che così suona: «Nos igitur sumus aut qui potentia intellectus aut qui actu. Siquidem igitur in compositis omnibus ex eo quod potentia et ex eo quod actu, aliud est esse hoc et aliud esse huic, aliud utique erit ego et mihi esse, et ego quidem est compositus intellectus ex potentia et actu, mihi autem esse ex eo quod actu est. Quare et quae meditor, et quae scribo, scribit quidem intellectus compositus ex potentia et actus, scribit autem non qua potentia, se qua actu. Operari enim indesibi derivatur ... » (Temistio/Moerbeke, p. 228, rr. 68-75). 117. Ch.H. Kahn, Aristotleon Thinking, in M.C. Nussbaum -A. Rorty Oksenberg(a cura di), Essayson Aristotle's De anima, cit., pp. 359-380: p. 356. 118. Cfr. Aristotele, De an., 8, 432a 3.
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Il carattere sopraweniente dell'intelletto è dunque connaturale all'essere in cui sopraggiunge (alla sua "natura") e, nello stesso tempo, di questa natura ne segna il limite, il punto d'arresto. Giunta a questo punto, osserva Temistio, «la natura si arresta, quasi non avesse nulla di più nobile cui fare da soggetto. Noi, pertanto, siamo intelletto attivo» 119• Ci sono molti modi di leggere questo "arresto", come ci sono molti modi di leggere l'insisten7_.a aristotelica sul carattere "eterno" e "divino" dell'intelletto in quanto pura energheia («atto per essenza») e dunque come qualcosa che «viene da fuori» e che non ha niente di simile nel mondo animale. Il modo più sobrio e funzionale al discorso fin qui svolto è che nel «da fuori» dell'intelletto attivo si deve intendere tanto la sua con-naturalità all'anima quanto la sua trascendenza rispetto a questa stessa genesi 120 • E poiché questo carattere trascendente o sopraweniente non è pensabile al di fuori della sua relazione col corpo di cui l'anima è forma 121 , è qui che si stringe il nodo tra contingen7_a e 119. Temistio, In libr. Arist., 186, 1-2; ma consideriamo anche la traduzione di Guglielmo di Moerbeke: «et usque ad hunc progressa natura cessavittanquam nihil alterum habens honoratius, cui utique ipsum faceretsubiectum. Nos igitur sumusintellectus activus»(Temistio/Moerbeke, p. 229, rr. 89-91). 120. Utili a questo proposito sono le affermazioni di Teofrasto riportate nel Commento di Temistio e riprese e sviluppate da Tommaso d'Aquino nel De unitate intellectus. Il «da fuori» del nous non si sovrappone all'anima osper epithetos, ma come qualcosa di con-naturale (di symphyes), compreso nella sua «prima genesi» (cfr. Temistio, In li'br. Arist., 198, 14-23). Nell'intendere assolutamente la separatezza del nous, il suo «da fuori» rispetto all'anima, consiste l'ipotesi alla «base di tutta la ricerca attuale nell'ambito dell'Intelligenza Artifìciale»; cfr. in proposito D.H. Hofstadter, Goclel, Escher, Bach, cit., pp. 388-389, il quale non si accorge che parlando della «separabilità dell'Intelligenza» sta parlando di un problema aristotelico. 121. A questo proposito Tommaso d'Aquino richiama la distinzione di Avicenna tra un intelletto attivo, «che ha bisogno del corpo e delle facoltà corporee per tutte le sue attività», e un intellectus speculativus, «che ha bisogno del corpo e delle sue facoltà, ma non sempre e non in tutto», in quanto «basta a sé stesso» (Tommaso d'Aquino, De un. lntell., § 2, p. 262).
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nous in cui consiste il nostro stesso ethos o la nostra paradossale natura. Perciò Aristotele osserva come l'intelletto pathetikòs, passivo o in potenza, sia corruttibile e come, nello stesso tempo, il tews più intimo al nostro essere {la nostra paradossale entekcheia) consista nel conformarci per quanto ci sia possibile alla vita "divina" del nous. Di nuovo, il nous come principio attivo della coscien7.a ha, anzi è, il senso del risveglio; lo è appunto in-tendendo «al di fuori» il proprio centro di gravità. Con le parole di Levinas: La presenza a sé come presenza vivente a sé, nella sua stessa innocen7.a, rigetta al di fuori il proprio centro di gravità: sempre la presen7.a di sé a sé si risveglia dalla propria identità di stato e si presenta ad un io «trascendente nell'immanen7.a». 122
Senso del risveglio, «trascendenza nell'immanen7,a» in virtù del carattere superveniens dell'intelletto, la coscien7,a prima ancora che «estasi dell'intenzionalità.» 123 è meta-intenzionale o, se si vuole, è in-tendere prima di ogni intenzione (ascolto: accogliere che produce la forma dell'accolto), veglia anteriore a ogni vigilan7.a. In quanto principio, in cui il culmine dell'attenzione produttiva è il formarsi stesso dell'idea, il nous aristotelico significa proprio l'«anima dell'anima», ossia «il risveglio sempre ricominciante nella veglia stessa; il Medesimo infinitamente riferito, nella sua identità più intima, all'Altro» 124 • A questo punto il «noi siamo intelletto attivo» di Temistio può anche tradursi nel noi siamo «sistemi intenzionali» di Dennett. Basta precisare che nel nostro caso il senso dell'artefatto include la presupposizione dell'artifex come interna ali'artefatto 122. E. Levinas, Di Dio che viene al/,'idea, tr. it. di G. Zennaro, a cura di S. Petrosino,JacaBook, Milano 1986, p. 40;in questocontesto l'autore cita,in nota, sia il Demone di Socrate sia l'entrata «attraverso la 7Jorla» dell'intelletto agente in Aristotele.
123. Cfr. ivi, pp. 40-41. 124. Ivi, p. 41.
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stesso, ossia lo stesso carattere attivo dell'intelletto. Una tale traduzione, allora, diviene possibile solo intendendo nell'intentio la traduzione del termine ma'na impiegato da Avicenna per riferirsi all'eidos greco 12s e dunque come qualcosa che trascende un actus voluntatis. E in questo modo la connessione brentaniana tra intenzionalità e in-esistenza126 può esser svincolata da una teoria rappresentazionalista della coscienza. Perciò, parafrasando Levinas, si dovrebbe parlare di una intentio «che viene all'idea»: nella "crisi" di ogni rappresentazione, prima di ogni intenzionalità puramente soggettiva e tematizzante. Un'intentio, come "eccesso" dell'essere, nella quale il soggetto è implicato nel puro ascoltare che segna la sua stessa nascita. Limplicatio contenuta nella nozione scolastica e ockhamiana di inexistentia non è, insomma, solo quella di un contenuto mentale di un oggetto rappresentazionale distinto da un oggetto reale, ma quella dell'essere stesso dell'oggetto sub ratione intelligendi - per praesentiam intimam. Ancor più radicalmente: l'implicatio- l'in-existentia e dunque l'esisten7.a all'interno - è quella dell'essere come "piega", ossia quella della relazione originaria tra mondo e coscien7.a. Una relazione che si dà nella connaturale soprawenien7.a dell'intelletto: in quella sua virtù di riferirsi a sé come un «toccarsi» (un thighein, un afferrarsi, un com-prendersi) e non semplicemente come un rappresentarsi. Proprio nel connaturale soprawenire di un principio intimamente plastico - di un intellectus eminentemente factivus che produce originalmente
125. A questo riguardo cfr. K. Hedwig, Intention: Outlines for the History of a Phenomenological Concept, in «Philosophy and Phenomenological Research», XXXIX, n. 3, 1979, pp. 326-340: p. 327, nota; R. Sorabji, Intentionality and Physiological Processes: Aristotl,e's Theory of Sense-Perception, in M.C. Nussbaum -A. Rorty Oksenberg (a cura di), Essays on Aristotle's De anima, cit., pp. 195-226: p. 225; e R. Lanfredini, Intenzionalità, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 16. 126. Cfr. al riguardo R. Lanfredini, Intenzionalità, cit., p. 20.
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la sua stessa relazione al mondo - si risolve, anzi si dissolve il problema della sopravvenienza come problema deil'identità tra stati mentali e stati fisici del cervello127• E inizia l'interrogazione sul senso stesso di tale sopravvenienza: sul rapporto che in virtù di essa si instaura, per la coscienza stessa, tra la dimensione naturale della potentia e quella intenzionale dell'esercizio (dell'habitus).
127. Per una dis-soluzione tecnica di questo problema rimandiamo a quanto sostenuto da H. Putnam, Sense, Nonsense, and the Senses, cit., in part. pp. 182-183. Qui Putnam, d'accordo in ciò con Quine, osserva come la teoria davidsoniana dell'identità tra eventi mentali ed eventi fisici sia una teoria «viziosamente circolare» nata per sfuggire al dilemma tra un «materialismo eliminativo» e una qualche forma di dualismo. «L'uscita dal dilemma che intendo proporre - scrive Putnam - richiede un apprezzamento di come le esperienze sensorie non siano affettazioni passive di un oggetto chiamato "mente" ma (per la maggior parte) esperienze di aspetti del mondo da parte di un essere vivente. Il discorso della mente non è un discorso intorno a una parte immateriale di noi, ma piuttosto un modo di descrivere l'esercizio di certe abilità che possediamo, abilità che soprawengono sulle attività del nostro cervello e su tutte le nostre varie transazioni con l'ambiente, ma che non debbono esser riduttivamente spiegate usando il vocabolario della 6sica e della biologia, o addirittura il vocabolario della computer science». Anche per Putnam, si potrebbe dire, la soprawenienY.a della mente sulle attività cerebrali (del tutto connessa al suo carattere «computazionalmente plastico») ha il carattere di quella che Levinas chiama una «trascendenY.a nell'immanenza». Di qui l'importanza della ripresa putnamiana della teoria aristotelica dell'intelletto attivo e della sua prosecuzione in Tommaso d'Aquino (cfr. M.C. Nussbaum - H. Putnam, ChangingAristotle's Mind, cit., in part. pp. 46-55). A questo riguardo Putnam dice di condividere la tesi aristotelica secondo cui «non è appropriato ricercare se l'anima e il corpo sono uno», in quanto - appunto - l'anima «non è un qualcosa che dimora nel corpo, ma una struttura funzionale nella e della materia» (ivi, p. 56). In proposito c'è solo da osservare che proprio la teoria aristotelica dell'intelletto attivo (e del suo paradossale venire «da fuori») dice in questo caso la singolare metafunzionalità del suo "principio" rispetto al corpo in cui s'incarna. Il senso della distanza non significa però dualismo.
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3. Sinderesi come potentia habitualis (invece di un epilogo) A chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui, risulterà ora chiaro perché l'interrogazione iniziale, dopo le prime battute, si sia concentrata sulla questione del senso, sulla sua relativa autonomia e sulla sua tensione rispetto alla dimensione del significato. L'irriducibilità del senso, e rispetto al significato (all'auto-consistenza di ogni linguaggio) e rispetto al mondo, è apparsa strettamente connessa con l'irriducibilità della coscienza rispetto a ogni spiegazione naturalistica. Come spero di aver mostrato, ciò ha a che fare tanto con il carattere "noumenale" della coscien7.a (il nucleo della sua autonoma intelligibilità) quanto con la dimensione dell'ascolto come atteggiamento che il pensiero assume nei suoi confronti. L'ascolto si è mostrato come la condizione per cui il pensare può trasformare in un esercizio attivo - in un habitus - quel complesso di disposizioni che sono connaturali, come un essere in poten7.a, a ogni intelligen7.a. Per definire la coscien7_.a ci torna così utile la nozione scolastica di potentia habitualis. Dobbiamo tale espressione, che unifica le nozioni aristoteliche di intelletto in poten7.a e di intelletto in atto (di intellectus possibilis e di intellectus agens ), a Filippo il Cancelliere, il primo a trattare in maniera filosoficamente significativa la questione della sinderesi comparsa in una Glossa di san Gerolamo a Ez 1,6-8 128 • Gerolamo nel suo commento si sofferma sulla strana figura delle quattro creature che appaiono al profeta al centro di una nube di fuoco portata da un vento di tempesta spirante da settentrione: una figura dalle sembianze umane ma con quattro facce e quattro ali somigliante ai Kiì:ribu assiri (il cui nome corrisponde a quello dei Cherubini dell'arca; cfr. Es 25,18). La figura è interpretata da Gerolamo richiamandosi a certi
128. Cfr. O. Lottin, Psychologie et 11Wrale aux XII• et XIII• siècles, Abbaye du Mont César-Duculot, Louvain-Gembloux 1948, voi. I, p. 138.
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filosofi che alle tre facoltà platoniche dell'anima (la razionale, l'irascibile e la concupiscibile) ne aggiungono una quarta quae super haec et extra haec tria est; questa quarta facoltà (la quarta faccia della creatura) è - continua Gerolamo - «quella che i Greci chiamano synteresin ovvero la scintilla conscientiae che non si estinse nemmeno nel petto di Caino dopo che fu cacciato dal Paradiso». La breve Glossa, che - come già vide il Poliziano nel capitolo VII della Centuria seconda - contiene una parola corrotta (synteresis) derivata dall'errata lettura del termine grecosyneidesis, fu ripresa da Rabano Mauro nel suo Commentarium in Ezechielern (I, 842) e conobbe una fortuna immensa presso i trattatisti medievali. Il primo a offrire una prima trattazione organica della questione della sinderesi fu, come si è detto, Filippo il Cancelliere, che la definì appunto potentia habitualis, ossia una «poten7.a pronta ali'atto»: facilis ad actmn 129 • Seguendo il Commento di Gerolamo a lTs 5, Filippo identifica la sinderesi con lo spirito (la distinzione paolina, ricordiamo, è tra spiritus, anima e corpus). La sinderesi, così, viene distinta dalla ragione superiore e inferiore per identificarsi con l'intelligen7.a. Si chiama intelligenza in ragione del suo aspetto cognitivo, ma la sua attività è piuttosto d'ordine «affettivo»; riguarda il senso dell'intelligere stesso appunto in quanto esprime una tenden7.a, una propensione, verso il Bene in generale. Ma non per questo essa si identifica con la volontà pura e semplice.
Mentre la volontà è solo potenza (di fare o non fare, di fare questo o fare quello), la sinderesi è potenza abituale e dunque coniuga insieme il senso della potenzialità e quello della disposizione. L'atto cui essa conduce- quell'atto che si distingue dall'atto vero e proprio per la sua f acilitas - è un atto anteriore a ogni intenzione progettante (a ogni proairesis). Ciò
129. Cfr. ivi, p. 139.
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induce Filippo il Cancelliere a distinguere tra sinderesi e coscienza. La prima non coincide con la seconda, per il motivo che detta soltanto il Bene, il Bene in generale; la coscien7.a, invece, risulta dall'applicazione della sinderesi ai dati della ragione o al libero arbitrio. Perciò è la coscien7_.a che pecca, mentre la sinderesi - nel suo carattere di scintilla conscientiae - è indefettibile. Nei trattati successivi a quello di Filippo il Cancelliere il sottilissimo equilibrio tra dimensione cognitiva e dimensione etica implicito nella nozione di potentia habitualis viene perso a favore di un progressivo spostamento della nozione di sinderesi nella dimensione pratico-morale della coscienza. Se Bonaventura vede nella sinderesi ciò che stimola l'uomo (e dunque la intende del tutto dalla parte dell'affezione), Alberto Magno l'identifica con l'intellectus practicus e Tommaso d'Aquino giunge a sbarav_.arsi (nella Summa) della teoria della potentia cum habitu intendendo la sinderesi come l'habitus innato delle verità d'ordine morale e assegnando la conscientia al campo puramente intenzionale dell'atto 130• Eppure l'unità tra dimensione cognitiva e affettiva (così come quella tra poten7.a e habitus) significata nel carattere indefettibile della sinderesi ci suggerisce ancora una verità che potrebbe fungere da epilogo al nostro discorso. La sinderesi, come unità tra dimensione cognitiva e affettiva, dice, forse, il differire all'interno della cosciew_.a tra il suo principio (l'intelletto: il nous, quello che Aristotele chiama I' «occhio dell'anima») e il suo stesso esercizio (e con esso, quella necessità d'incarnare in sé stessi il suo sapere che Niet7.sche richiama in conclusione all'aforisma 11 della Gaia scienza).
130. Cfi-. per questo O. Lottin, Psychologie et morale, cit., e T.C. Potts, Con,science, in N. Kretzmann-A. Kenny- J. Pinborg(acura di),The Cambridge History of Later Medieval Phùosophy. From the Rediscovery ofAristotle to the Disintegration ofScholasticism. 110-1600, Cambridge University Press, Cambridge et al. 1982, pp. 687-704.
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Come "propensione" indefettibile la sinderesi presenta, insomma, la coscien:za nel segno dell'alterità e, insieme, fa segno all'alterità nella stessa coscien7..a. In virtù dell'indefettibilità del suo principio, in virtù della sua intermittente scintilla, la coscienza ci appare - nella differen:za tra il nostro "Io" e il nostro "essere" - come la sempre risorgente istanza della voce nel Sé: come quella soglia che, al pari della nostra ombra, non possiamo mai saltare. Ogni pensiero o rivolgimento, ogni volgersi intenzionale, incontra tale istanza e vi sfiora un "noumeno" o un'idea che sempre trascende ogni atto del pensiero. Naufragio e buona navigazione dell'intelletto qui vanno in uno: sono il medesimo. Ed è appunto perciò che la coscien7.a, nella sua fenomenologia, diviene lo spazio dell'incerto: di un'incerte7.7..a (di un residuo di indeterminate7.7.a in ogni sua "attiva" traduzione) che riguarda tanto l'interno che l'esterno131 • Spazio dell'incerto e dunque dell'indivisione del sì dal no 132, la coscien7.a - nella sua costitutiva indeterminate7.7..a quanto al senso - è, del pari, anche lo spazio del certamen: del contrasto tra l'interno e l'esterno così come del conflitto che oppone l'affermare al negare. E in ciò è anzitutto la ricerca sommamente aporetica del criterio, della possibilità di una krisis tra il sì e il no. A ben vedere è soltanto in virtù di questo principio indefettibile che posso dire, con Seneca, ego anim.al. Ma lo posso dire,
131. «Ad una incertezza concernente l'interno corrisponde dunque un'incerte-aariguardante l'esterno», così Wittgenstein nei suoi Ultimi scritti sulla Filosofia della psicologia (cfr. Wittgenstein, US, p. 222). 132. È questo il tema della poesia di Celan, Sprich auch du, contenuta in Von Schwelle zu Schwelle: «Parla - Ma non dividere/ il sì dal no./ Da' anche senso al tuo pensiero:/ dagli ombra» (P. Celan, Parla anche tu, in Id., Poesie, tr. it., con testo a fronte, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, p. 231). A una interrogazione di questi versi celaniani sono dedicati i saggi contenuti in V. Vitiello, Non dividere il sì dal no. Tro filosofia e letteratura, Later.t.a, Roma-Bari 1996.
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appunto, in quanto ego cogitans. E la forma più evidente del cogitare qui è proprio la sua costitutiva incertez7.a: il continuo oscillare del dubbio. Così, il controcanto del Discorso cartesiano è il monologo amletico. La certev..a del cogitare è quella del dubitare. E quindi con Leopardi possiamo tranquillamente affermare che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch'ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ecc.) [ ... ],ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere. 133
Nel dubbio come «il più che si possa sapere» si attesta la fragilità del legame che, nella coscienza, unisce la poten7.a e l'habitus. La facilitas ad actum della conscientia significa, allora, anche la sua fragilitas: il tenue, naturale confine in cui si gioca la sua autonomia. È per questa fragilità che la coscien7.a dipende dall'ascolto e che, in ultima istan7..a, si identifica con questo disporsi del pensare. Non necessariamente questa virtù dell'"animale libero" conosce un esito scettico. Ancora una volta bisogna intendersi sui termini. Skepsis è indagine e può quindi convertirsi nello hoc unmn scio, me nihil scire socratico che, ancora per Leopardi, «è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la meta, la perfezione della sapien7.a» 134• Già in questa "fragile" perfezione - che è appunto la perfezione della domanda e dell'ascolto - l'interrogazione trascendentale del principio della coscien7.a subisce la sua torsione etica e conosce l'esteriorità
133. Leopardi, Zib., 1655, p. 970. 134. Ivi, 449, p. 332. Perun'intelligente lettura del Leopardi filosofo (in particolare per la nozione di "limite" della ragione), e&. A. Mazzarella, I do'lci inganni. Leopardi, gli errori e le illusioni, Liguori, Napoli 1996, pp. 37-63.
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della trascenden7.a. Perciò l'essenzialità della voce come voce dell'altro: dell'altro nel Sé e dell'altro "fuori". Netta è qui la divergenza dallo Heidegger di &sere e tempo, quando sostiene che «colui che chiama» e il «chiamato» (der Ruferund der Angerufene )1:i.5 sono lo stesso owero il Dasein, il puro Esserci. Chi chiama è sempre un altro; la coscien7.a (il Gewissen: traduzione luterana della syneidesis introdotta da Paolo nel lessico neotestamentario)136 non si configura puramente come «richiamo del Si-stesso nel suo Sé [Anruf des Man-se"lbst in seinem Se"lbst]» 131 che identifìca il proprio dell'uomo nell'«essere per la morte»: nel canto della finiteZ7.a 138 • Essa ci appare bensì come la perenne prossimità-distan7.a tra Io e Sé e tra il Sé e il corpo. È in questa prossimità-distan7_.achepermane l'irriducibilità del senso. Nella domanda circa il "senso" come «al di là dell'essere» che l'intelletto si pone - nella virtù di trascendere l' ori7.zonte di ogni naturalismo nella questione del Bene e, dunque, nella possibilità della sua intelligen7.a - la domanda stessa assume la forma del "corrispondere". Qui, il nous si chiarisce fìnalmente come «orecchio dell'anima» e l'espressione «ascolto della coscien7.a» assume tutto il suo peso etico, facendosi questione del fine stesso dell'interrogare. E se il teÙJs di ogni energheia, di ogni attività, è quello «conforme alla dispo-
135. Heidegger, SuZ, p. 277. 136. Per l'uso che Paolo fa nelle Lettere del termine syneidesis, da intendersi soprattutto come "consapevolezza teorica e pratica", vedere la voce synoida, syneidesis curata da C. Maurer per il Grande Lessico del Nuovo Testamento, fondato da G. Kittel e continuato da G. Friedrich, ed. it. a cura di F. Montagnin, G. Scarpat, O. Soffritti, voi. XIII, Paideia, Brescia 1981, pp. 311-326. 137. lvi, p. 274. 138. Per una lettura antitetica a quella heideggeriana circa il rapporto tra la morte e il tempo si veda E. Levinas, Entre nous, cit., e in particolare il luminosocapitolettoLaquestion radicale. Kant contre Heidegger, pp. 63-68.
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sizione da cui essa procede» I39, allora il fine di quell'energheia in cui la coscienza trova il suo principio è il paziente ascolto di sé: la capacità di tenersi a distan7..a come un Altro e, dunque, il contrario di ogni egolatria. Occorre ricordare quanto osserva Aristotele a proposito della differen7.a tra azioni e disposizioni: mentre delle prime siamo padroni «dal principio alla fine» (ap'archès tou telous ), delle disposizioni (hexeis) siamo padroni solo del principio (dell'archè) 140• Ma appunto rispetto a questo principio - possiamo concludere - noi siamo perfettamente responsabili. Come risposta alla voce dell'Altro nel Sé - ricerca di una misura (di una sophrosyne) che temperi ascolto e discernimento - la coscien7.a significa intrinsecamente responsabilità: libertà riguardo aU'lnizio 141 ; essa dice, infine, la pura inizialità dell'intelletto come poten7.a di una risposta originaria. E qui, dove non concludo ma provvisoriamente interrompo il discorso, sarebbe necessario intraprendere un'altra indagine. Anche per disponni a un nuovo compito ho cercato, se non altro, di mettere un po' d'ordine nei miei pensieri.
139. Aristotele, Eth. Nic., III, 7, 1115b, 20-21. 140. Cfr. ivi, III, 5, 1114a 30-33. 141. Sul tema dell'inizio, il rimando d'obbligo è a M. Cacciari, Dell'Inizio, cit.
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