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Collana diretta da Christian Uva (Università Roma Tre) Comitato scientifico: Pierpaolo Antonello (University of Cambridge) Simone Arcagni (Università di Palermo) Gius Gargiulo (Université de Paris Ouest-Nanterre La Défense) Marco Maria Gazzano (Università Roma Tre) Laurent Jullier (Université de Paris III-Sorbonne Nouvelle) Ben Lawton (Purdue University) Giancarlo Lombardi (College of Staten Staten Island -City University of New York) Paolo Russo (Oxford Brookes University) Luca Venzi (Università di Siena).
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cinemaespanso − 06 −
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Il restauro dei film e le tecnologie digitali
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LACUNE BINARIE
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Rossella Catanese
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© 2013 by Bulzoni Editore S.r.l. 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]
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TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941
Prefazione di Paolo Bertetto
15
Introduzione
19
Capitolo 1. Una teoria del restauro cinematografico
21 21 23
1.1 L’archivio: conservare e preservare 1.1.1 Il concetto di archivio 1.1.2 Archivi di film
37 37 42
1.2 Le due strade: il restauro d’arte e la filologia letteraria 1.2.1 Il restauro artistico 1.2.2 La filologia letteraria
44 45 49 51 54 58
1.3 Restauro cinematografico 1.3.1 I grandi restauri 1.3.2 Scuola bolognese 1.3.3 Film Studies e approccio ermeneutico 1.3.4 Originale? 1.3.5 Accesso e diritto d’autore
61 63 64 68
Capitolo 2. Il nuovo medium: la tecnologia digitale e il suo impatto 2.1 Un’epistemologia binaria 2.1.1 Teorie del radicale cambiamento 2.1.3 Teorie della continuità
75
Capitolo 3. Restauro digitale: metodi, standard ed esperienze sperimentali
78 78 79 81
3.1 Empirismo digitale: questioni di pratica 3.1.1 Post-produzione digitale. Il Digital Intermediate 3.1.2 Editing 3.1.3 Compositing e grafica
82
3.2 Restauro digitale 7
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INDICE
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3.3 Esempi di restauri digitali 3.3.1 Il Gattopardo 3.3.2 La Roue 3.3.3 Star Wars Capitolo 4. Case Study: Ballet mécanique tra tecniche desuete e avanguardia tecnologica
123 123 126
4.1 Il film 4.1.1 Considerazioni sull’estetica di Ballet mécanique 4.1.2 La paternità del film
131
4.2 Le copie
133 133 136
4.3 Il lavoro di restauro su Ballet mécanique 4.3.1 La ricostruzione 4.3.2 Gli interventi digitali
139
Appendice
143
Bibliografia
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106 106 112 115
3.2.1 Vita numerica: durata dei supporti 3.2.2 Ibridazione 3.2.3 Standard 3.2.4 Scanner 3.2.5 Processi di intervento 3.2.6 Programmi di elaborazione 3.2.7 Colore 3.2.8 Restauro del suono 3.2.9 Ethics 3.2.10 Metadata e documentazione 3.2.11 Digital access
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83 85 87 88 91 93 98 100 101 102 103
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Intendo ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile questa ricerca, che è stata condotta nell’ambito del dottorato in Tecnologie digitali e metodologie per la ricerca sullo spettacolo della Sapienza Università di Roma. In primis Paolo Bertetto, a cui devo l’interesse per il cinema delle avanguardie e per le questioni di restauro del film; Desirée Sabatini, per l’intenso training tecnico nel settore del restauro digitale; Andrea Minuz per i preziosi spunti teorici e per l’incoraggiamento; Valentina Valentini per gli stimoli e per la considerazione; Paolo Cherchi Usai per la grande disponibilità e la pregnanza dei suoi insegnamenti; Daniela Currò e Ulrich Ruedel per l’aiuto durante lo stage presso Haghefilm Foundation; Guy Edmonds, Jata Haan, Elif Rongen Kaynakci e Giovanna Fossati per il contributo professionale dell’istituzione EYE Film Institute di Amsterdam; Mario Musumeci per la collaborazione con la Cineteca Nazionale; Christan Uva per aver incentivato e promosso questa pubblicazione. Una sincera gratitudine mi lega a Valentina Valente, Valerio Coladonato, Laura Busetta, Francesca Veneziano, Edoardo Becattini, Irene Scaturro, Annamaria Corea, Gabriele Sofia, Davide Persico e Valerio De Simone per la collaborazione, l’onestà e gli orizzonti condivisi nel periodo del dottorato. Ho inoltre raccolto suggerimenti e idee da Anna Briggs, Denise Biazzo, Mariagrazia Costantino, Chiara Nucera e Marika Di Canio, a cui sono riconoscente. Un ringraziamento particolare va a Piero Fragola, per il sostegno costante. E ai miei genitori, che mi hanno sempre aiutato.
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La costituzione del cinema come evento culturale ed artistico è una delle grandi innovazioni del secolo della modernità avanzata. Ed è un fenomeno che si realizza non solo grazie all’invenzione e al perfezionamento del cinema e delle sue possibilità di produzione di immaginario, ma anche attraverso una serie di operazioni istituzionali che consentono il costituirsi di un patrimonio, di un corpus testuale assolutamente nuovo. In questa prospettiva è fondamentale il lavoro degli archivi dei film, che realizzano la trasformazione di una serie di racconti per immagini, distribuiti sul mercato dell’entertainment con finalità economiche esplicite (e ovviamente legittime), in un insieme simbolico di grande rilevanza, in cui si depositano figure rilevanti dell’immaginario diffuso. In questo percorso gli archivi dei film, le cineteche creano e costituiscono una realtà culturale nuova, conservata in nuove istituzioni che garantiscono la permanenza dei prodotti spettacolari e li fanno diventare patrimonio culturale delle società avanzate. L’attività degli archivi – coordinati nella FIAF (Fédération Internationale des Archives des Films) – opera in una direzione che si allarga progressivamente dalle funzioni di reperimento, di conservazione e di preservazione a quelle di programmazione innanzitutto e poi all’orizzonte del restauro. Gli archivi infatti scoprono insieme che la conservazione adeguata dei materiali filmici richiede innanzitutto il trasferimento dei materiali nitrato in copie safety e avviano quindi una grande e sistematica operazione di trasferimento delle pellicole nitrato. Questa fase rende sempre più necessario l’avvio di operazioni sistematiche di restauro per garantire la riproduzione di copie film il più possibile vicine agli originali. E 11
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Il restauro digitale
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Prefazione
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l’orizzonte del restauro si afferma come la frontiera più qualificata e più prestigiosa dell’attività delle cineteche, il terreno di operazioni di ricostruzione di film, famosi e non, che possono assicurare la riapparizione, in forme anche inattese, di grandi capolavori della storia del cinema. Alcuni restauri diventano operazioni mitiche che si prolungano nei decenni e si presentano come una sorta di work in progress che sembra non finire mai. I restauri di Napoléon, di Metropolis, di Intolerance si sviluppano dalla fine degli anni sessanta e proseguono ancora oggi, con reperimenti di nuovi materiali considerati perduti, spesso conservati in pessime condizioni, ma capaci di contribuire ad arricchire il tessuto dei film. In questa prospettiva il restauro assume quindi due caratteri. Da un lato riguarda l’insieme delle operazioni tecniche per ricuperare una qualità adeguata all’immagine, garantendo i contrasti di luce e la composizione cromatica, sottoponendo le pellicole ad un lavoro di eliminazione delle macchie, dei graffi, dei guasti che si sono accumulati nel tempo: è un’attività di preservazione che deve garantire la funzionalità delle pellicole. Dall’altro c’è il lavoro di ricostruzione dei film, spesso conservati in versioni ridotte, tagliate , lacunose. E’ un’attività che punta a ricuperare , cioè, la versione originale e completa dei film , che spesso presenta una ricchezza testuale e una complessità di strategie di messa in scena di grande rilievo. È un lavoro insieme pratico e interpretativo, perché si tratta non solo di trovare i segmenti mancanti dalle copie ridotte, ma anche di interpretare i film, di inserire i materiali nello spazio esatto, di garantire una resa dell’immagine omogenea al livello di sviluppo della scrittura filmica dell’epoca e delle tecniche relative. I restauri di Napoléon e di Metropolis, in particolare, permettono di ricostruire una ricerca e una sperimentazione linguistica di una ricchezza straordinaria: qualcosa che le copie brevi in circolazione prima dei restauri non facevano certo immaginare. Nel caso specifico dunque il restauro ri-costituisce le forme del visibile filmico, mostrando come il cinema muto nelle sua fase più avanzata avesse elaborato configurazioni visive di grande inventività, che in seguito il cinema sonoro ha a lungo dimenticato. A questa stagione “eroica” dell’attività di restauro è poi subentrata una seconda stagione in cui l’impegno del restauro e della ricostruzione non si è più realizzato soltanto nel lavoro delle cineteche e per un pubblico selezionato, ma è diventata una prassi necessaria per predisporre dvd adeguati al mercato dell’entertainment. Dunque il restauro- inteso come restituzione di una copia il più possibile
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P aol o Berte tt o
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vicina all’originale - è diventato un passaggio obbligatorio per la produzione di dvd adeguati e ha conosciuto una diffusione amplia e una finalizzazione nuova. In quest’ottica il restauro ha forse perso quella dimensione di work in progress, che aveva acquisito nelle grandi esperienze citate, per divenire qualcosa di più concreto e magari di meno complesso, ma non per questo di meno importante. E questa nuova fase del restauro si è progressivamente avvalsa in modo sistematico del digitale come orizzonte dell’immagine e come insieme di strumentazioni efficaci per la realizzazione di programmi adeguati. Il libro di Rossella Catanese affronta un discorso analitico sui modi e i caratteri del restauro digitale e lo fa con una competenza che va dall’esperienza concreta in laboratorio alle questioni teoriche relative al restauro. Innanzitutto la teoria del restauro cinematografico è inquadrata nell’orizzonte della teoria del restauro d’arte di Brandi e della filologia letteraria. Il cinema infatti partecipa di entrambi gli orizzonti di riferimento in quanto l’attività di restauro si articola su piani molteplici. Innanzitutto nel cinema spesso la questione dell’originale è aperta e problematica. Insieme il cinema rientra all’interno delle opere riproducibili e quindi in un contesto più vicino alla filologia letteraria che all’arte - che ovviamente implica in genere l’unicità dell’opera. Infine il restauro cinematografico lavora a colmare lacune di vario tipo, ma in ogni modo riconducibili sia alle lacune affrontate dalla filologia che a quelle pertinenti al restauro dell’arte. Nei film le lacune possono infatti riguardare la configurazione e la qualità dell’immagine da un lato e la successione delle immagini dall’altro, e quindi investire problematiche e pratiche assolutamente diverse. Proprio per questa complessità di elementi diventa importante riconoscere al restauro un importante momento interpretativo, che ne correla l’attività all’ermeneutica del testo. Il centro del libro è costituito dalla ricerca sull’orizzonte del restauro digitale ed implica quindi una riflessione sulla struttura del digitale e sui suoi caratteri, in funzione dell’ applicabilità all’attività di restauro del film. Catanese analizza il digitale in relazione alle molteplici letture del medium, con una riflessione sulle due linee interpretative diffuse, tra radicalità innovativa ed evoluzione-transizione intermediale. L’applicazione delle tecnologie digitali al restauro è quindi affrontata con un’attenzione specifica alle modalità operative. In particolare le pratiche dell’effacing e del compositing
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Il restauro digitale
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sono studiate in relazione ai progetti di integrazione delle lacune del testo filmico. E nell’attraversamento di modalità operative sostenute dalle grandi potenzialità delle nuove tecnologie, il libro di Rossella Catanese apre al sogno di ogni appassionato di cinema: ricuperare nella sua integrità tutto il patrimonio cinematografico.
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P aol o Berte tt o
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1 M. Canosa, Per una teoria del restauro cinematografico, in G.P. Brunetta, Storia del cinema mondiale, vol. V, Torino, Einaudi, 2001, p. 1080. 2 C. Brandi, Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 1977, p. 6. 3 Gli interventi di restauro sono stati svolti sotto la supervisione della Dott.ssa Desirée Sabatini. Per la descrizione dei progetti di restauro e digitaliz-
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Le questioni di filologia e restauro dei film risultano essere attualmente uno degli aspetti più rilevanti del dibattito teorico contemporaneo nell’ambito dei Film Studies. Fin dagli anni Ottanta del Novecento il cinema viene definito un bene culturale da tutelare e diffondere in quanto patrimonio dell’umanità e parte importante della memoria collettiva. In seguito a questa presa di coscienza il problema della conservazione del materiale cinematografico assume primaria importanza. Le discipline guida del restauro cinematografico sono il restauro d’arte, secondo la concezione moderna di Cesare Brandi, e la filologia letteraria, in quanto scienza dell’autenticità e metodo di restituzione dei testi1. Secondo la teoria del restauro di Brandi: «il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro»2. Lo studio dell’analisi del film nelle sue declinazioni più varie, legate a testi problematici e controversi come quelli dell’avanguardia, ha costituito il paradigma concettuale alla base di una ricerca esperita attraverso l’effettivo esercizio sul campo. La mia prima esperienza nell’ambito dei restauri digitali di materiali video operati al Centro Teatro Ateneo3, per il progetto “Il Volto dell’Invi-
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Introduzione
Il restauro è un’attività radicata nella modernità […] Non è un caso che il restauro si affermi pienamente negli ultimi vent’anni, quando sembrano venire meno le letture ideologiche, pragmatiche e tendenziose del cinema e prende piede un rapporto più diretto con il testo e il linguaggio4.
Il bisogno di conservazione, di tutela e di ripristino nasce da zazione dei materiali del Centro Teatro Ateneo, compreso il progetto “Il Volto dell’Invisibile”, cfr. D. Sabatini, Ipotesi di ricerca nel campo del “teatro filmato”, in «Biblioteca teatrale, rivista trimestrale di studi e ricerche sullo spettacolo», Roma, Bulzoni, n. 81-82, gennaio-giugno 2007, pp. 209-238; Id, Teatro e video. Teoria e tecnica della memoria teatrale, Roma, Bulzoni, 2011; R. Catanese, The Recreated Space. Digital Restoration and Video Medium, in C. D’Alonzo, K. Slock, P. Dubois (a cura di), Cinéma, critique des images, Pasian di PratoUdine, Campanotto Editore, 2012. 4 P. Bertetto, L’eidetico, l’ermeneutica e il restauro del film (ed. or. Lo eidético, la hermeneutica y la restauración del filme, in «Archivos de la Filmoteca» n. 10, 1991), in S. Venturini, Il restauro cinematografico: principi, teorie, metodi, Campanotto, Pasian di Prato – Udine, 2006, pp. 104-106. Cfr. anche P. Bertetto, Il restauro come interpretazione in V. Giacci, Via col tempo: l’immagine del restauro, Roma, Centro Sperimentale di Cinematografia – Gremese Editore, 1994.
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sibile”, mi ha consentito di applicare le mie competenze all’elaborazione di diverse configurazioni formali, relative anche alle condizioni di degrado dei materiali, registrati su supporti poco stabili. In seguito l’occasione di poter seguire il restauro del film Ballet mécanique (1924), presso il laboratorio Haghefilm di Amsterdam, nell’ambito di un programma di stage presso l’Haghefilm Foundation, ha costituito un interessante case study nonché l’oggetto del capitolo conclusivo di questa ricerca. Se il restauro di un film consiste nel ripristino e nella ri-formalizzazione del testo secondo la sua struttura, contro l’inesorabilità del tempo o le leggi del mercato, problematizzando il testo e le sue lacune, l’approccio ermeneutico è un metodo estremamente valido che ha formato una consapevolezza di un quadro storico e di una metodologia analitica applicata al testo filmico. Il restauro è infatti un lavoro radicato nella pratica, che però sottende sempre ad una ricerca filologica per la comprensione dell’opera nella sua forma originaria. La stessa idea di ripristino su un nuovo supporto risponde ad un’etica relativa all’obsolescenza dei formati, alla leggibilità e alla reversibilità di ogni operazione, per i criteri di trasparenza imposti al restauratore.
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possiamo definire il Restauro Digitale aggiungendo “trasferendo quell’immagine ad un formato digitale per manipolarla e modificarla prima di registrarla nuovamente su un medium di visualizzazione”6.
5
P. Read, M-P Meyer, Restoration of Motion Picture Film, Oxford, Buttherworth & Heinemann, 2000, p. 335. 6 Mia traduzione da P. Read, Digital Image Restoration – Black Art or White Magic?, in D. Nissen, L. Richter Larsen, J. Stub Johnsen, Preserve then
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una storia di distruzioni dei materiali, un percorso diacronico che fa capo a problemi di decadimento chimico e fisico dei supporti e a soppressioni volontarie, nonché ad ulteriori implicazioni legate alla storia del gusto e delle ideologie. Oggi stiamo vivendo una fase di transizione tra epoche storiche e fenomeni mediatici; anche la stessa metodologia del restauro attraverso lo strumento digitale è fortemente compromessa con la condizione transizionale che caratterizza i media contemporanei. L’introduzione dell’informazione numerica nei sistemi di immagini consente operazioni sull’immagine con un’ampia flessibilità di azione, nonostante sia legata a sistemi di codificazione e decodificazione numerica. Nel cinema tradizionale, ogni singola informazione dell’oggetto da rappresentare è raccolta in modo analogico: vale a dire che un altro oggetto fisico modifica il suo stato in modo proporzionale con l’oggetto da rappresentare e l’immagine è ottenuta per mezzo di un’emulsione fotosensibile. Nel cinema digitale, invece, l’informazione è raccolta da una cifra (in inglese: digit): dato un certo spazio, si può stabilire che al numero “0” corrisponda il bianco, ed al numero “1” il nero. In questo modo, scomponendo un’immagine in punti, è possibile trasformarla in una sequenza numerica: maggiore è la quantità di informazioni numeriche raccolte, maggiore sarà l’accuratezza dell’immagine ottenuta. Le informazioni sono gestite dal dispositivo incaricato di trasformare le sequenze numeriche in unità visibili, chiamate pixel (contrazione dell’espressione picture element). Una definizione del restauro digitale è certamente sintetizzata con efficacia dalle parole di Paul Read: mentre il restauro della pellicola cinematografica è il processo di compensazione del degrado mediante restituzione di una immagine vicina al suo contenuto originale5,
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Lacune binarie
Show, Copenhagen, Danish Film Institute, 2002, p. 159. 7 Cfr. N. Carroll, Unwrapping Archives: DVD Restoration Demonstrations and the Marketing of Authenticity, in «The Velvet Light Trap», n. 56, Austin, University of Texas Press, 2005, pp. 18-31.
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Ovviamente, i restauri digitali destinati al mercato del dvd7 perseguono obiettivi spesso legati al gusto contemporaneo per la perfezione e la “pulizia” dell’immagine, talvolta anche scavalcando l’imperativo etico del rispetto dell’originale e del recupero editoriale del film. Ciononostante un uso consapevole delle tecnologie computazionali ai fini di un’attenta ed eticamente controllata applicazione al recupero dei film può efficacemente costituire un valido supporto all’acquisizione, alla preservazione e all’accesso del pubblico al patrimonio cinematografico, in virtù del ripristino della sua funzionalità nonché delle sue strutture e delle sue caratteristiche esteticoformali; dunque, del piacere dello spettacolo.
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La considerazione del film nel suo valore concreto ha permesso l’identificazione di un metodo: da una dimensione teorica si passa ad una considerazione della consistenza materica del film, col fine di tutelarne le caratteristiche e il valore culturale. Dagli anni Sessanta il film assume dunque una rinnovata centralità nelle riflessioni sul cinema in rapporto alle considerazioni storico-critiche, al contesto produttivo, alle scelte tecnico-formali determinate da supporti e modalità esecutive della macchina cinematografica. Entrano in campo storici del cinema che elaborano una nuova storia fatta di “reperti” e frammenti, mentre dagli anni Ottanta, in seguito alla conferenza generale dell’UNESCO2, il cinema viene definito un bene culturale da tutelare e diffondere in quanto patrimonio dell’umanità. A livello di questioni legali si parla di corpus mysticum e corpus mechanicum del film, intendendo col primo il valore di un’opera e il suo diritto d’autore, con il secondo la proprietà e le caratteristiche di una 1
Mia traduzione da G. Deleuze, Lettre à Serge Daney: optimisme, pessimisme et voyage, in Id, Pourparlers (1972-1990), Paris, Éditions de Minuit, 1990, p. 105. 2 Conferenza generale dell’UNESCO a Belgrado il 27 ottobre 1980. Testo della conferenza disponibile su http://portal.unesco.org/en/ev.php-URLID=13139&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html(ultima visualizzazione: 10/06/2013).
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L’immagine cinematografica […] conserva contro il tempo, perché il tempo cinematografico non è ciò che scorre, ma ciò che dura e coesiste1
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Capitolo 1 Una teoria del restauro cinematografico
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Per collection policy si intende l’insieme dei criteri di raccolta che sottendono alle scelte di un archivio relativamente alla selezione, conservazione, preservazione e restauro dei film, sia esso una cineteca istituzionale o la collezione di una fondazione privata. 4 «Considerando comunque che, rispetto alla natura del loro incorporamento materiale e dei vari metodi di fissazione, gli audiovisivi sono estremamente vulnerabili e dovrebbero essere mantenuti in specifiche condizioni tecniche; Notando inoltre che molti elementi del patrimonio cinematografico sono spariti a causa del deterioramento, cause accidentali o smaltimento ingiustificato, cosa che costituisce un irreversibile impoverimento di tale patrimonio; Riconoscendo i risultati prodotti dagli sforzi di istituzioni specializzate per salvare i film dai pericoli a cui sono esposti». Mia traduzione dal testo della conferenza generale dell’UNESCO a Belgrado il 27 ottobre 1980, cit.
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determinata copia in pellicola come oggetto fisico. Il restauro come ripristino, valorizzazione e ricostituzione del medium, è stato considerato una disciplina a lungo distinta dalla preservazione e dalle pratiche conservative messe in atto dagli archivi. La stessa nozione di archivio è stata fortemente dibattuta negli scopi, definiti dalle singole collection policy istituzionali3, divise tra valorizzazione e promozione del film-bene culturale. La Conferenza Generale UNESCO, considerando come il cinema sia espressione di un’identità culturale ed artistica e sia parte integrante del patrimonio culturale di una nazione o testimonianza e documento di valore storico, ratifica una serie di definizioni e di norme procedurali per la necessità di garantire al film circolazione e accesso nei vari livelli della società. Questa garanzia può essere certificata solo dalla considerazione dell’importanza del lavoro delle istituzioni coinvolte nei processi di salvaguardia delle pellicole, in particolare rispetto alla peculiarità e instabilità chimico-fisica dei materiali4. Un ruolo assolutamente rilevante spetta alla FIAF, Fédération Internationale des Archives du Film. La Federazione, fondata nel giugno del 1938 e pietra miliare nel riconoscimento del valore delle attività delle cineteche, ha segnato un importante percorso di internazionalizzazione del patrimonio cinematografico, proprio in un momento storico in cui guerre mondiali e complesse situazioni politiche nei Paesi europei potevano compromettere le relazioni internazionali e la circolazione del sapere. Dunque gli Stati fautori della federazione sono approdati ad un momento cardine delle relazioni internazionali nella comunicazione nell’ambito dei beni culturali. La federazione riunisce le principali istituzioni mondiali nel campo del patrimonio cinematografico e i suoi affiliati sono ufficialmente
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1.1 L’archivio: conservare e preservare 1.1.1 Il concetto di archivio La definizione di archivio per il Codice dei beni culturali e del paesaggio rimanda ad «una struttura permanente che raccoglie, in5 Testo presente sul sito istituzionale della FIAF http://www.fiafnet.org/uk/whatis.cfm (ultima visualizzazione: 10/06/2013). 6 È stata curata una rivista di diffusione globale, Journal of Film Preservation, con interventi redatti dall’intelligencija archivistica e accademica internazionale. Gli articoli di questa rivista si sono occupati dei problemi di archivistica e conservazione dei film, raccontando le storie sia di vari archivi di film, sia di processi di realizzazione di diversi restauri cinematografici, dai più monumentali a quelli meno noti, descrivendone ricerca, metodologie ed obiettivi conseguiti. http://www.fiafnet.org/uk/publications/jfp.html (ultima visualizzazione: 10/06/2013).
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dediti al salvataggio, alla conservazione e alla proiezione di film, valutati sia come opere d’arte e cultura che come documenti storici. Quando fu fondata nel 1938, la FIAF aveva quattro membri (il British Film Institute di Londra, il Museum Of Modern Art di New York City, la Cinémathèque Française parigina e il Reichsfilmarchiv di Berlino); oggi comprende più di 150 istituzioni in oltre 77 paesi, riflesso della misura in cui la conservazione del patrimonio cinematografico è senza dubbio di interesse mondiale. Gli obiettivi della federazione si concentrano sul rispetto di un codice etico per la conservazione di film e standard tecnico-pratici per tutte le aree di lavoro degli archivi di film, sul promuovere la creazione di archivi audiovisivi nei paesi che ne sono privi, sul miglioramento del contesto giuridico entro il quale gli archivi cinematografici svolgono il loro lavoro, sul promuovere la cultura cinematografica e facilitare la ricerca storica sia a livello nazionale che internazionale, “per garantire la disponibilità internazionale di film e documenti”5. Inoltre la Commissione Tecnica FIAF ha prodotto e promosso diverse pubblicazioni sui temi della preservazione e del restauro dei film6. Eppure una sorta di vuoto legislativo ha accompagnato il restauro cinematografico; pertanto è accaduto che tecniche e procedimenti non standardizzati e non verificati attentamente abbiano determinato nel corso degli anni l’ulteriore deperimento di pellicole già in condizioni critiche; in secondo luogo lo stesso concetto di film come opera d’arte ha dovuto attendere diversi anni prima di essere recepito sia dagli addetti ai lavori che dall’utenza.
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Lacune binarie
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Codice dei beni culturali e del paesaggio – Decreto Legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004, art. 101 comma 2, lettera c. 8 (= archèion). 9 E. Casanova, Archivistica, Siena, Arti Grafiche Lazzeri, 1928, p. 11. La gestione della memoria tramite archivi è ampiamente documentata almeno dal III millennio a.C., grazie a scoperte archeologiche d’interi archivi di tavolette d’argilla: sono molto noti quello di Ebla in Mesopotamia o quelli degli Ittiti in Anatolia. 10 M. Foucault, L’archéologie du savoir, Paris, Gallimard [1969], trad. it., L’archeologia del sapere, Milano BUR, 2009, p. 174. 11 Per riferimenti bibliografici sull’archivistica cfr. E. Casanova, Archivistica, cit.; P. Carucci, Le fonti archivistiche: ordinamento e conservazione, Roma, N.I.S., 1989; V. Giordano, Archivistica e beni culturali, Roma – Caltanissetta, Salvatore Sciascia Editore, 1978; S. Muller, J.A. Feith, R. Fruin, Ordinamento e inventario degli archivi (ed. it. a cura di G. Bonelli e G. Vittani), Milano, Cisalpino – Goliardica, 1974; A. Romiti, Archivistica generale, primi elementi, Lucca, Civita Editoriale, 2008; I. Zanni Rosiello, Archivi e memoria storica, Bologna, Il Mulino, 1987. 12 ἀρχη (= arché).
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ventaria e conserva documenti originali di interesse storico e ne assicura la consultazione per finalità di studio e di ricerca»7. Secondo un’etimologia accettata, il termine archivio deriva dal greco ἀρχεῖον8,che significa “palazzo dell’arconte”, luogo in cui, presumibilmente, si conservavano anche gli atti emanati dal magistrato9. Nel dibattito teorico contemporaneo si è molto riflettuto sul concetto di archivio, luogo deputato alla conservazione e alla trasmissione del sapere, luogo della continuità e di aspirazione alla memoria, un sincronico «sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati»10. Il nesso che distingue un archivio da una raccolta qualsiasi o da una collezione è il cosiddetto “vincolo archivistico”; caratteristiche di tale vincolo sono “naturalità” e “originalità”; la prima significa che gli elementi dell’archivio siano stati riuniti in maniera involontaria, rispecchiando la normale attività di produzione del soggetto; la seconda significa che il vincolo naturale sia presente “all’origine” dell’archivio, ergo che sia stato creato seguendo criteri adeguati e coerenti fin dalle sue origini11. Jacques Derrida, descrivendo l’archivio nella sua configurazione politica, psicanalitica, etica e giuridica, ha sottolineato i suoi caratteri di eredità della memoria, analizzando come nell’etimologia della parola ‘archivio’12coesistano sia l’idea di inizio («cominciamento») sia quella di comando: il luogo in cui le cose prendono inizio e dove vengono depositate le fonti, ma anche il luogo in cui dalle
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1.1.2 Archivi di film Nel 1898 il polacco Boleslaw Matuszewski scrive Une nouvelle source de l’histoire, in cui si esprime l’idea di un «museo o un deposito cinematografico», da considerare come documento e fonte storica per quanto riguarda processi industriali, medicina, esercito, teatro, orchestre, danza, inchieste di polizia e tanto altro, annettendo il cinema nel sistema di biblioteche e archivi presenti in Francia17. Matuszewski fa riferimento all’idea di conservazione come esigenza del manufatto cinematografico, in una pionieristica consapevolezza della necessità di conservare i negativi, tutelando il diritto d’autore e proponendo anche una sala di consultazione dei film, escludendo però quelli coperti dal segreto militare. Di fatto la sua idea di cineteca non verrà concre13 J. Derrida, Mal d’archive: une impression freudienne, Paris, Galilée [1995], trad. it Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Napoli, Filema, 1996, pp. 14-15. 14 G. Debord, La société du spectacle, Paris, Buchet Chastel [1967], trad. it. La società dello spettacolo, Bari, De Donato, 1968. 15 J. Rancière, La Mésentente, Paris, Galilée, [1995], trad. it. Il disaccordo, Roma, Meltemi, 2007, p. 32. 16 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 170. 17 Cfr. G. Grazzini, La memoria negli occhi. Boleslaw Matuszewski: un pioniere del cinema, Roma, Carocci, 1999.
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fonti scaturisce e prende dimora la legge, tracciando il presente attraverso la trasmissione della tradizione13. Nella “società dello spettacolo” al centro della riflessione di Guy Debord, in cui l’immagine diviene la forma finale della reificazione14, l’archivio può essere, oltre al deposito delle immagini conservate e tramandate, anche ciò che la filosofia politica di Jacques Rancière definisce «le partage du sensible»15, l’organizzazione del sensibile, ossia un’istanza regolatrice dell’accesso all’esperienza dell’immagine, nell’istituzione ratificata del rapporto di fruizione e ricezione, fondamento della costruzione del consenso nella società delle immagini. La tradizione storiografica si è spesso espressa in termini di verticalità narrativa, mentre l’archivio si presenta come una disomogeneità paratattica e pluralista, come afferma Michel Foucault. L’archivio è dato secondo Foucault dall’assenza di un suo soggetto, privilegiando la dimensione di un “a priori storico”16 co-estensivo al presente, da costruire, connettere, tessere attraverso una pratica genealogica rivolta al futuro.
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18 Le affermazioni di Dickson risalgono al 1895. Per riferimenti cfr. W.K.L. Dickson, A. Dickson, History of the Kinetograph, Kinetoscope and Kinetophonograph, New York, 1895 in S. Herbert (a cura di), A History of Early Film, vol. 1, London – New York, Routledge, 2000; L. Grieveson, P. Krämer, The Silent Cinema Reader, London-New York, Routledge, 2004; G. Hendricks, The kinetoscope: America’s first commercially successful motion picture exhibitor, New York, Theodore Gaus’ Sons, 1966; L. Mannoni, D. Pesenti Campagnoni, D. Robinson, Light and Movement: Incunabula of the Motion Picture, 1420-1896 / Luce e movimento: Incunaboli dell’immagine animata, 1420-1896, London, BFI Publishing – Le Giornate Del Cinema Muto – Cinémathèque Française – Musée du Cinéma – Museo Nazionale del Cinema, 1996; A. Millard, Edison and the Business of Innovation, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1990. 19 P. Grainge (a cura di), Memory and Popular Film, Manchester University Press, Manchester-New York, 2003, p. 9. Cinema e cultura visuale elaborano una concezione di memoria come «forma di energia sociale costantemente attivata, discussa e rielaborata sullo sfondo immanente di narrazioni, di teorie, di discorsi pubblici, di dispositivi commemorativi e di oggetti culturali» (corsivo nel testo). A. Minuz, La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico, Roma, Bulzoni, 2010. 20 I. Stathi, The Film Archive, the Archive as Film, in S. Venturini (a cura di), Revisiting the archive / Revisiter l’archive, «Cinéma & Cie», Roma, Carocci Editore, 2011, pp. 55-63.
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tizzata se non nel 1925, anno di fondazione della Cinémathèque de la Ville de Paris, archivio cinematografico adibito ad una fruizione scolastica e con scopi pedagogici. Ancora prima di Matuszewski era stato William K. L. Dickson18, collaboratore di Thomas Alva Edison, a prefigurare il concetto di cineteca, considerandone la portata culturale e il ruolo istituzionale. Dickson aveva infatti intravisto il potenziale degli archivi di film, descrivendoli come i depositari delle vivide immagini della di una realtà nazionale da glorificare. Questa descrizione anticipa la prospettiva didattica della cineteca come istituzione che conserva e rende accessibile i materiali, sia l’universo simbolico di una cultura identitaria, che elegge il cinema a luogo delle identità nazionali nella cultura delle immagini19. Vi sono numerose prospettive che hanno considerato lo stesso medium cinematografico come un archivio20. Secondo Mary Anne Doane il cinema emerge dal bisogno archivistico del diciannovesimo secolo; ecco che il cinematografo nasce direttamente dalla pulsione memoriale ottocentesca, il desiderio tardoromantico di ricordare. Desiderio legato alla promessa tecnologica di rappresentabilità e aderenza al referente, confutata dalle prospettive formaliste della
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I suoi echi retorici sono quelli che hanno accompagnato la ricezione del cinema delle origini, col suo iperbolico riferimento a figure di vita, morte, immortalità ed infinito. Il cinema sarebbe capace di registrare permanentemente un momento fugace, la durata di un effimero sorriso o di uno sguardo. Potrebbe preservare i vividi movimenti dei propri cari dopo la loro morte e costituirsi come un grande archivio di tempo22.
Secondo la Doane con l’avvento del cinema per la prima volta una forma rappresentativa estetica, un tempo legata all’idea del controllo umano, può risultare accidentale, indeterminata. Lo sottolinea anche la straordinaria immaterialità degli artefatti, che esistono solo al momento della proiezione per uno spettatore; l’esplorazione di «un’epistemologia della contingenza»23 ad opera della studiosa delinea un’originale relazione tra la teoria della temporalità tra diciannovesimo e ventesimo secolo e i contemporanei processi
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Per la teoria dell’immagine-simulacro, secondo cui il cinema si configura come una «copia differenziale di una copia differenziale senza originale» cfr. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro, Milano, Bompiani, 2007. L’immagine filmica è costruita sull’illusione, sulla falsificazione, sull’inganno della presenza nella proiezione schermica; si produce un effetto di realtà fenomenica in absentia e in un «falso movimento», in cui ogni fotogramma presenta una natura statica nella sua configurazione non schermica. È il paradosso di Zenone a conferire dinamismo alla successione di fotogrammi, che acquistano movimento nel processo percettivo fisiologico e mentale: viene innescata l’impressione del movimento attraverso la somma di istanti mobili. Bertetto cita Rudolph Arnheim, che in Film als Kunst afferma che la bidimensionalità della proiezione cinematografica configura l’esperienza spettatoriale come l’accettazione di una convenzionalità artificiosa; cita anche Edgar Morin che in Le cinéma ou l’homme immaginaire evidenzia gli aspetti magici e apotropaici del cinema, dispositivo meraviglioso legato alla tradizione alchemica. L’occultamento del processo di produzione attesta ulteriormente l’artificialità della messa in scena. 22 Mia traduzione da M.A. Doane, The Emergence of Cinematic Time. Modernity, Contingency, the Archive, Cambridge-Londra, Harvard University Press, 2002, p. 3. 23 Ivi, p. 19.
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teoria del film, che determinano l’esperienza cinematografica come un’immagine-simulacro21, ma che all’epoca a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo configurava il cinema nella dimensione di monstrum tecnologico, apparato del ‘meraviglioso’ eppure capace di riprodurre l’esistente con una straordinaria verosimiglianza.
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24 «Una psicanalisi delle arti plastiche potrebbe considerare la pratica dell’imbalsamazione come un fatto fondamentale alla loro genesi. All’origine della pittura e della scultura, troverebbe il “complesso” della mummia. La religione egizia diretta interamente contro la morte faceva dipendere la sopravvivenza dalla perennità materiale del corpo. Essa soddisfa con ciò un bisogno fondamentale della psicologia umana: la difesa contro il tempo. La morte non è che la vittoria del tempo. Fissare artificialmente le apparenze carnali dell’essere vuol dire strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita». A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, Paris, Les Éditions du Cerf [1962], trad. it. Che cos’è il cinema?, Milano, Garzanti, 1991, p. 3.
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dell’immagine digitale, che produce un senso del tempo differente, nella tensione tra desiderio di istantaneità e aspirazione archivistica. La Doane fa riferimento ad una nota e discussa tradizione teorica che combatte contro le accuse di meccanicità riproduttiva del dispositivo cinematografico. Secondo molti studiosi di estetica, tra cui Benedetto Croce, questo carattere meccanico fu il primo serio ostacolo per poter definire “arte” il cinema, in quanto il dispositivo di matrice fotografica si limiterebbe a copiare il reale e dunque mancherebbe di ogni funzione autenticamente creativa, propria della produzione artistica. Questo presunto limite è stato infatti ribaltato e letto come specifico positivo da André Bazin e Siegfried Kracauer. Entrambi partono da un esame della riproduzione fotografica, come qualità della registrazione, traccia effettiva della luce su una pellicola fotosensibile, per seguire poi percorsi assolutamente distanti. Per Bazin, uno dei fondatori dei Cahiers du Cinéma e padre riconosciuto della Nouvelle Vague, i caratteri forti della fotografia sono gli stessi che costituivano un impaccio ai teorici di impostazione crociana, ovvero l’oggettività riproduttiva e l’assenza dell’intervento dell’uomo come autore e interprete del reale. Tutte le arti, secondo Bazin, sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo nella fotografia ne godiamo l’assenza. Si parla a questo proposito di «complesso della mummia»24: assimilando provocatoriamente la poiesis artistica alla pratica della tassidermia, Bazin sostiene che alla base delle arti figurative vi sarebbe sempre e comunque l’idea di difendersi contro il tempo, che corrompe gli oggetti e i corpi, e in parallelo il sogno di vincere la morte. Senza dimenticare che il concetto di mimesis, nella forma del desiderio di rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio, è parte integrante del panorama artistico e letterario sistematizzato da Ari-
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25 Il principio mimetico è stato tradizionalmente considerato alla base dell’eidogenesi nei sistemi rappresentativi e configurativi della cultura occidentale. Nonostante alcuni teorici che hanno affermato teorie formaliste antifigurative, come Wilhelm Worringer, abbiano confutato tale prospettiva, si premette che l’impulso di empatiatrovi la propria gratificazione nella bellezza del mondo organico; il godimento della prospettiva empatica è il presupposto stesso dell’atto di empatia ovvero l’attività percettiva generale, in cui il fruitore si autoattiva di fronte all’oggetto sensorio in cui riconoscersi. Cfr. W. Worringer, Abstraktion und Einfühlung, München, Piper & Co [1907], trad. it. Astrazione e empatia, Torino, Einaudi, 1975 e T. Lipps, Ästhetik. Psychologie des Schönen und der Kunst, Hamburg-Leipzig, 1906.Victor Stoichita scrive una sorta di breve storia dell’arte in negativo citando la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, in cui lo storico affermava che le origini della pittura nacquero dall’uso di contornare l’ombra umana con una linea («omnes umbra hominis lineis circumducta»), avvalorando la tesi secondo cui la prima funzione possibile della rappresentazione sia di supporto mnemonico: «essa rende presente l’assente». V. Stoichita, A Short History of the Shadow, London, Reaktion Books [1997], trad. it. Breve storia dell’ombra, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 17. 26 S. Kracauer, Theorie des films: die Erettung der äusseren Wirklichkeit, Frankfurt am Main, Suhrkamp [1962], trad. it. Film: ritorno alla realtà fisica, Milano, Il Saggiatore, 1964.
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stotele e canone di tutta la cultura occidentale25. Nella prospettiva baziniana il cinema è legato ontologicamente alla realtà e dunque non si limita a riprodurre la realtà, ma nel riprodurla si fa realtà e, insieme, si fa ciò che si potrebbe definire una “realtà rituale”, dotata dunque di un forte spessore simbolico. L’idea di fondo di Bazin, il suo punto d’arrivo, è dunque quello di un cinema che, prima ancora di rappresentare la realtà, se ne fa partecipe, vi si intreccia al punto tale da confondervisi. Kracauer invece prende le mosse da ciò che ritiene essere un principio estetico fondativo: le opere realizzate entro i limiti di un particolare mezzo di espressione sono esteticamente tanto più soddisfacenti quanto più si fondano sulle qualità specifiche di quel mezzo26. Stando a tale assioma anche in ambito estetico si sottolinea la natura realistico-mimetica del medium fotografico. Il contributo dello studioso tedesco si fonda sulla convinzione che il cinema sia essenzialmente uno sviluppo della fotografia ed abbia perciò una evidente inclinazione verso la realtà fisica. Il cinema dunque riproduce l’esistente e il ruolo del cineasta − al pari di un entomologo − è quello di chi si limita ad osservare i fenomeni nel loro apparire. Anche Philip Rosen si è occupato dell’argomento mettendo in relazione teoria del film, testualità filmica e storia del cinema, ar-
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27 P. Rosen, Change Mummified: Cinema, Historicity, Theory, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2001. 28 S. Pesce, Memoria e cinema, in E. Agazzi e V. Fortunati (a cura di), Memoria e saperi. Percorsi transdisciplinari, Roma, Meltemi, 2007, p. 436. Per un discorso sulla memoria cfr. anche I. Perniola, Per un’antropologia del ricordo, «Bianco & Nero» n. 550/551, 2004/2005; E. Toutlet, C. Belaygue, Cinémemoire, Catalogo del festival, Paris, 1991; I. Zanni Rosiello, Archivi e memoria storica, Bologna, Il Mulino, 1987. 29 «Dunque la pellicola cinematografica si svolge portando, uno dopo l’altro, i diversi fotogrammi a continuarsi gli uni negli altri, ed è così che ogni attore di questa scena riconquista la sua mobilità: egli infila tutti i suoi atteggiamenti successivi sull’invisibile movimento della pellicola. Questo è l’artificio del cinematografo. Ed è anche quello della nostra coscienza. Invece di spingerci fino all’intimo divenire delle cose, noi ci collochiamo al di fuori di esse,
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gomentando come la centralità del dato storico sia altrettanto importante dello specifico cinematografico nella storia della cultura. Rosen riconfigura la storicità moderna del film come combinazione di caratteristiche delle strutture epistemologiche e imperativo sociale della manipolazione del tempo, evidenziando la stretta interconnessione che ricorre tra il desiderio di immortalare, “mummificare” il tempo creando storia e la storicità stessa del dispositivo, dei suoi segni cinematici e dei suoi significati indexicali27. Il cinema entra così a pieno titolo al centro del discorso critico sulla storia come concrezione di memoria, che esorcizza il tempo attraverso un simulacro mimetico del passato. Se i regimi della memoria presentano forti analogie con i sistemi tecnologici di una data epoca, è un dato di fatto che nella struttura mediatica contemporanea le tecniche del visivo e del sonoro forniscono gli schemi trascendentali attraverso cui prende forma la memoria28. Già Henri Bergson nel primo capitolo di Materia e Memoria (1896) aveva posto in relazione il procedimento della coscienza e della memoria con la percezione del funzionamento del cinema, che immagazzina, registra, rielabora e proietta immagini e suoni in un impatto emozionale immediato. Bergson argomenta come il mondo sia un insieme di immagini viventi, privo di centri di riferimento, un’unica “immagine-movimento”. Il cinema è incluso nella concezione moderna del movimento come totalità aperta del tempo, per il suo statuto di proiezione da un supporto scorrevole. Con L’evoluzione creatrice (1907) Bergson applica al cinema la metafora della memoria umana29.
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per ricomporre artificialmente il loro divenire». Mia traduzione da H. Bergson, L’évolution créatrice, Paris, Alcan, 1907, p. 179. 30 W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Paris, Zeitschrift für Sozialforschung [1962], trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1971. 31 P. Cherchi Usai, Crepa nitrato, tutto va bene, in F. Casetti (a cura di), La Cineteca Italiana. Una storia milanese, Milano, Il Castoro, 2005, p. 13.
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Il problema del rapporto con l’arte meccanica riproducibile e la ricezione nel pubblico di massa del ventesimo secolo è stato analizzato nell’opera seminale di Walter Benjamin30, che distingue tra esperienza traumatica associata alla riproducibilità meccanica e l’esperienza auratica associata alle tradizionali forme d’arte, determinando lo shock come un modo di concettualizzare la contingenza nell’epoca moderna. Se il cinema si fa “archivio del tempo”, in un crogiolo di forme rappresentative, linguaggi mediatici e scelte estetiche, è indubbio il ruolo dell’archivio di film, depositario di un patrimonio di sogni e immaginario collettivo, che si concretizzano in un supporto peculiare, incline al decadimento fisico e ai danni. È d’obbligo ricordare che gli archivi costituiscono il cinema come universo culturale, panorama artistico, paradigma dell’immaginario; grazie alle cineteche e ai musei del cinema si producono mondi e universi simbolici, scaturiti da una forma artistica effimera, che esiste solo nel momento della sua proiezione, ma che è consustanziale alla registrazione. Arte della modernità per eccellenza, il cinema, fin dalle origini, si è sempre preoccupato più della diffusione che della propria conservazione. Nei primi anni, ad esempio, ha considerato i film come prodotti da lanciare sul mercato, per incrementare la vendita degli apparecchi da proiezione. Non ci si limita a conservare le pellicole nell’accezione di un deposito di supporti, ma si custodisce questo “archivio del tempo” attraverso i paradigmi d’immaginario, le infinite invenzioni visive e narrative che in questo secolo hanno avvolto tutto il mondo come in un’argentea, fitta ragnatela. La cineteca ha il ruolo di mediatore tra la società a cui il cinema appartiene e il patrimonio materiale delle pellicole, qualificandosi come istituzione intermediaria fra mondi immaginari e mondi sociali. Il ruolo delle cineteche in questo «rinascimento della memoria»31 è stato quello di propugnare una dignità culturale all’arte cinematografica del passato, nonostante spesso siano state tacciate di tendenza reattiva più che proattiva, comportandosi talvolta come
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D. Païni, Le Temps exposé. Le cinéma de la salle au musée, Paris, Cahièrs du Cinéma, 2002 33 Può essere considerata un esempio di tale riflessione l’opera La ville Louvre di Nicolas Philibert (Francia, 1990), che documenta l’ingresso di una troupe cinematografica all’interno di una struttura museale storica e internazionalmente istituzionalizzata come il Musée du Louvre. Il film è citato da P. Dalla Sega, Musei e cinema, musei del cinema oggi, in F. Casetti (a cura di), La Cineteca Italiana. Una storia milanese, cit., p. 23. 34 D. Païni, Le cinéma, un art moderne, «Cahiers du cinéma», Paris, 1997, p. 169. 35 La storia della Cinémathèque Française parigina è fortemente legata al mito romantico del suo direttore e fondatore Henri Langlois, che insieme a Georges Franju avvia la cineteca nel 1936, come associazione privata senza fini di lucro. La cineteca riceve un ingente finanziamento da Paul-Auguste Harlé, direttore di La Cinématographie Française. La somma viene impiegata per acquistare film muti presso i rivenditori di pellicola al metro. Secondo Langlois, mentore di una concezione del cinema come arte palpitante, che esiste soltanto
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grandi magazzini che mantengono i film restaurati sui loro scaffali piuttosto che esporli alla luce di un proiettore. Il concetto stesso di cineteca come museo del cinema32 apre un ulteriore dibattito sul rapporto con le altre forme artistiche, confutando le consuetudini che descrivono i musei come entità inorganiche o “depositi” o “vetrine”. Un esempio di riflessione sul tema della convivenza tra cinema e altre arti nello spazio espositivo museale33 convive con la costituzione dei musei di cinema, che si configurano come sedi della cultura, in cui i film come “fatti culturali” sono oggetto dello sguardo alla stregua di opere formulate in altri codici e linguaggi artistici. Sguardo che viene guidato, promosso, valorizzato dalle iniziative che associano alla priorità della conservazione il concetto di “programmazione” come una forma di scrittura, una «programmazione-attrazione»34 che vivifica il film anche solo nella scelta di accostamento, quasi come avviene nelle gallerie d’arte quando due opere, se associate, guadagnano in forza espressiva, “contaminando” questa eredità con i bisogni tutti moderni del pubblico contemporaneo. Ai concetti di conservazione e preservazione si affianca dunque la crescente necessità di esibizione: mostrare i film per vivificarne la memoria, anche perché i cineasti contemporanei vi attingano per riflettere. Il direttore della Cinémathèque Française Henri Langlois investì con fervore su questo principio, nonostante questo comportasse il rischio di rovinare i film durante le proiezioni per l’usura35. Mostrare, ad ogni costo, per osannare il corpus mysticum del film, anche a discapito del suo corpus mechanicum.
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I tre assiomi che interessano la filosofia cinetecaria moderna sono, secondo Paolo Cherchi Usai, acquisizione, preservazione (intesa come conservazione, duplicazione, ricostruzione e restauro) e accesso. La politica di acquisizione degli archivi e dei musei del cinema è più che mai soggetta a due opposte tendenze: da una parte la sindrome del “raccogliere tutto” e dall’altro lato quella sottoposta all’ideologia del patrimonio nazionale. Inoltre quasi tutte le maggiori cineteche italiane nonostante le numerose celle frigorifere finalizzate al mantenimento di condizioni climatiche ottimali, spesso sfruttano gli spazi in maniera sommaria o non possono garantire a tutte le pellicole i trattamenti di cui necessiterebbero per mantenersi in uno stato ideale. «A che serve, allora, sottrarre un film al suo destino per poi condannarlo di nuovo a un’altra lenta agonia?»37. Si è parlato di politiche di conservazione, di celle frigorifere e di fragilità e caducità strutturale degli oggetti-film, ma è indispensanell’istante della proiezione, i film vanno mostrati il più possibile e ad ogni costo, anche a rischio della loro distruzione, innescata dalla stessa attività di proiezione. La sua impostazione entra in conflitto con gli approcci conservatori di Ernst Lindgren e del polacco Jerzy Toeplitz, che presiede la FIAF dal 1948 e porterà nel 1959 all’autoesclusione della Cinémathèque Française dalla federazione fino al 1990. Il nome di Langlois è legato alle contestazioni studentesche e giovanili del maggio del 1968: André Malrois, ministro della cultura all’epoca del governo De Gaulle, tenta di cacciarlo e sostituirlo per esercitare una migliore tutela del patrimonio cinematografico storico, mentre tra gli studenti che affrontano le cariche della polizia nelle manifestazioni in piazza c’è anche François Truffaut. 36 A. Aprà, Cineteche e ricerca universitaria, in F. Casetti (a cura di), La Cineteca Italiana. Una storia milanese, cit., pp. 37-38. 37 P. Cherchi Usai, Crepa nitrato, tutto va bene, cit., p. 15.
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Generalizzando, si può dire che il lavoro delle cineteche ha fatto incrociare le due tendenze prevalenti nel passato, quella Langlois e quella Lindgren. La Cinémathèque Française di Henri Langlois era propugnatrice del “conservare per mostrare”, col rischio di rovinare e perdere il prezioso materiale; il National Film Archive londinese di Ernest Lindgren, invece, investiva tutto nella conservazione, scientificamente scrupolosa, a futura memoria. La prima tendenza ha generato la cinefilia “nouvelle vague”, che ha riscritto, a caldo, la storia del cinema introducendo miriadi di “nuovi” autori grazie alla loro rinnovata visibilità; la seconda ha prodotto la filologia angloamericana, meno attenta ai “valori” e più concentrata, a freddo, sulla fondazione scientifica del sapere cinematografico36.
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38 Per le definizioni di immagine-movimento e immagine-tempo cfr. G. Deleuze, L’image-mouvement, Paris Les Éditions de Minuit [1983], trad. it. L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984 e Id, L’image-temps, Paris, Les Éditions de Minuit [1985], trad. it. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989. 39 S. Venturini, Il restauro cinematografico: principi, teorie, metodi, cit., p. 14.
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bile comprendere le motivazioni di queste scelte e questi problemi in funzione delle caratteristiche intrinseche delle pellicole. Esse possiedono una serie di connotati rimasti invariati ed altri elementi che nel corso del tempo si è cercato di “migliorare” ai fini di una migliore conservazione. Le pellicole, fin dalle origini del cinema, in cui i supporti erano infiammabili, composti da nitrato di cellulosa, poi pellicole safety (non infiammabili) in acetato di cellulosa, fino alle basi in poliestere, introdotte negli anni Ottanta e adottate anche ai giorni nostri dal mercato produttivo-distributivo, possiedono una parte fotosensibile detta emulsione. Tale emulsione può presentare una vasta gamma di componenti, tra cui sali come il nitrato d’argento o copulanti cromogeni nelle emulsioni delle pellicole a colori; ma è interessante sapere che la funzione di emulsionante è data dalla gelatina animale, un prodotto organico. Questa dimensione ‘organica’ del film, particolarmente soggetta a degenerazione, ne garantisce ulteriormente il fascino sincretico; il cinema è dunque l’arte dell’immagine-movimento e dell’immagine-tempo38, un’arte che freme di vivide emozioni e che possiede nei suoi stessi materiali un quid animato, vivente. Negli anni Ottanta si rafforza l’intervento istituzionale sulle politiche degli archivi di film: in alcuni paesi europei vengono erogati fondi straordinari per trasferire tutta la pellicola infiammabile su supporto di sicurezza e viene istituito il “deposito legale”, imponendo la consegna all’archivio cinematografico centrale di almeno una copia positiva dei film nazionali distribuiti. Questo ha permesso un controllo istituzionale e una tutela dei “diritti del film”, finalizzata alla preservazione del patrimonio filmico. Negli anni Trenta, gli anni della fondazione dei primi cineclub e i primi archivi dei film (anche gli anni di costituzione della FIAF), il passaggio dal cinema muto al sonoro ha determinato «la sensazione estetica e culturale di perdita di un mondo immaginario»39. Teorici dei Film Studies come David Bordwell e Barry Salt hanno evidenziato come siano i progressi tecnologici a modificare
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40 Per un’interpretazione della questione dell’influenza tecnico-tecnologica sull’estetica del film cfr. D. Bordwell, On the History of Film Style, CambridgeLondon, Harvard University Press, 1997; D. Bordwell, K. Thompson, J. Staiger, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, New York, Columbia University Press, 1985; B. Salt, Film Style and Technology. History and Analysis, London, Starword, 1983; C. Montanaro, Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, Genova, Le Mani, 2005. 41 «Naturalmente la tecnologia cinematografica dell’epoca della produzione infuenza lo stile di un film. È spesso riconosciuto che l’introduzione di stock di pellicole pancromatiche a grana fine negli anni Venti è stata ben accolta dai registi, portando ad un look differente rispetto ai precedenti materiali ortocromatici». Mia traduzione da T. Christensen, The Historical Film as a Title or as a Collection of Physical Elements, in «Journal of Film Preservation» n. 66, 2003. 42 Vi sono ovviamente delle eccezioni: molti registi che non riuscirono a concretizzare una nuova sintesi del linguaggio audiovisivo, altri che pur con eccellenti risultati formali rimpiangevano l’alto livello di formalizzazione estetica e la complessa sofisticazione tecnica dell’elaborazione dei grandi film dell’ultima stagione del muto. È interessante ricordare anche come il sonoro sembrava sostenere la vocazione del cinema a una mera riproduzione del reale: di qui l’opposizione di registi come Chaplin oppure anche Ėjzenštejn, Pudovkin e Alexandrov, firmatari del “manifesto dell’asincronismo”. Perfino Alfred Hitchcock, maestro del brivido famoso più per i suoi film sonori che per la sua esperienza nel muto, si esprime sul primo cinema sonoro, dalle scarse qualità di elaborazione formale, come se fosse semplicemente «fotografia di gente che parla». Cfr. F. Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock, Paris, Laffront, [1966], trad. it. Il cinema secondo Hitchcock, Parma-Lucca, Pratiche, 1978. Naturalmente il cambiamento oltre ad essere epistemologico-linguistico deriva da innovazioni tecnologiche e dalle successive implicazioni produttive; basti pensare al cambiamento delle macchine da presa cablate, molto più pesanti e poco maneggevoli, o anche alla struttura immobiliare degli studi, che prima erano in vetro per sfruttare la luce del sole, e poi devono essere di muratura coibentata per isolare i rumori esterni.
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anche linguaggio, complessità estetica e fruizione40. La scelta di una pellicola dotata di una particolare grana o di una peculiare risposta allo spettro cromatico indubbiamente influenza anche i valori iconici del film41. Nella fase di passaggio dal muto al sonoro, la transizione tra due formule estetiche estremamente diverse è stata avvertita in maniera distinta, sia dal contesto produttivo − in cui i registi cercavano di elaborare un rinnovato modello di messa in scena, capace di realizzare una nuova formalizzazione dell’universo filmico, divenuto universo audiovisivo − sia dal contesto di ricezione, che ha risposto senza nostalgia e con inequivocabile entusiasmo al nuovo linguaggio cinematografico42.
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Senza le immagini di drammi, avventure, commedie ed eventi umani e naturali impresse su pellicola non ci sarebbe cinema; non vi sarebbe materia per una storia del cinema; la filmologia non avrebbe oggetto. Esisterebbero tutt’al più immagini fisse (fotografia) o incomplete (video). L’immagine elettronica lo conferma: una civiltà in preda all’incubo della memoria visiva non ha più bisogno del cinema. Il cinema è l’arte della distruzione delle immagini in movimento44.
Possiamo pertanto considerare un paradigma di deterioramento e dispersione correlato a fattori chimico-fisici in primis (naturale decadimento dei composti chimici dei supporti, cattive condizioni di conservazione, danni dovuti agli apparati di proiezione − graffi, tagli, lacerazioni −)45 e poi catastrofi ed eventi come incendi, guerre, inon-
Secondo Roman Jakobson la cosiddetta «Stilwidrigkeit des Sprechfilms» (= avversità allo stile dei film sonori) pecca di una fondamentale generalizzazione prematura come tendenza dominante: includendo la mancanza di suono tra le peculiarità strutturali del cinema i critici non hanno accettato che il successivo sviluppo del cinema non rientrava nelle loro formule, ripetendo un abituale pro facta. Nel film sonoro le possibilità di fusione e integrazione tra la realtà ottica e quella acustica sono aperte ad innumerevoli possibilità compositive. Cfr R. Jakobson, Konec Kino? [1933], in Stroenie Fil’ma, Moskva, Raduga [1984], pp. 25-32, trad. it. La fine del cinema?, a cura di F. Tuscano, Milano, BookTime, 2009. 43 Esistono tuttora alcuni archivi che per statuto non conservano i nitrati originali in quanto materiale infiammabile e pericoloso, per i costi che comporta il mantenimento dei rulli nelle celle frigorifere, il rispetto delle procedure di sicurezza in materia di antincendi e tutte le diverse difficoltà gestionali legate alla conservazione di tali supporti. 44 P. Cherchi Usai, L’ultimo spettatore. Sulla distruzione del cinema, Milano, Il Castoro, 1999, p. 7. 45 M. Pagni Fontebuoni, Le pellicole cinematografiche, in B. Cattaneo (a cura di), Il restauro della fotografia. Materiali fotografici e cinematografici, analogici e digitali, Firenze, Nardini Editore, 2012.
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È dunque negli anni Trenta che vengono raggiunti i primi approdi in un percorso di scoperta dell’oggetto filmico detentore di un’istanza estetica e culturale. Negli anni Cinquanta, con il passaggio dei supporti in nitrato di cellulosa all’acetato, cosiddetto safety perché non infiammabile, si è operata una vera e propria sostituzione, che ha comportato non poche perdite e distruzioni43. Cherchi Usai afferma provocatoriamente che il cinema è «l’arte di distruzione dell’immagine in movimento»:
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D. Païni, Un Moderne Art des Ruines, «Cinémathèque» n. 9, 1996. P. Cherchi Usai, L’ultimo spettatore. Sulla distruzione del cinema, cit., p. 14. 48 Ivi, p. 23. 49 Uno dei maceri più famosi è quello descritto dal film di Luigi Comencini La valigia dei sogni (1953), in cui si racconta la vera storia della Benigno Marcora, un’azienda di Olgiate Olona in cui i film oltre ad essere distrutti venivano riciclati per il ricavo delle materie prime, dando luogo ad un business internazionale. «Questo è il macero delle pellicole, qui muoiono i film. Veramente è più esatto dire “li uccidono”». L’azienda cancellava i film dal loro supporto, ricavando così due materie prime molto costose: la celluloide e il bisolfuro di argento. Il nitrato di cellulosa veniva separato dal bisolfuro di argento con cui veniva impressa la pellicola in bianco e nero. La celluloide veniva utilizzata nell’industria delle calzature e delle vernici. 47
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dazioni o ulteriori fattori storico-sociali46. La storia del cinema è pertanto una forma di giustificazione della sparizione delle immagini movimento, col fine di «spiegare il significato del fenomeno nella memoria culturale di un’epoca»47. Inventare ricordi o presagi artificiali è secondo Cherchi Usai una pratica radicata nella lotta alla dissoluzione della memoria, sebbene venga definita «un fragile disegno»48, in cui lo spettatore spesso non tiene conto di come il cinema non sia un’arte della riproduzione, bensì un’arte della ripetizione, fondata sull’esistenza di matrici e duplicati, di variabili indipendenti. Raymond Borde individua in particolare tre fasi di distruzione di film considerati non più sfruttabili economicamente perché resi obsoleti dalle mutate condizioni tecnologiche e di mercato: la fine della Grande Guerra, l’avvento del sonoro, la scomparsa del nitrato. Si tratta di salti epistemologici differenti: alla fine della Prima guerra mondiale si modificano le strutture linguistiche della narrazione cinematografica e al tempo stesso mutano i rapporti di forza nel mercato internazionale, i Paesi produttori e il consolidamento delle pratiche fruitive, tra cui la durata media di un film; con l’introduzione del sonoro cambia la “tecnologia” della realizzazione dei film e i grandi maceri49 del muto dei primi anni trenta sono i primi a portare allo sviluppo di una coscienza della conservazione che sta alla base della fondazione delle prime cineteche; la terza fase consiste nella sostituzione del nitrato con l’acetato, e dunque della pellicola infiammabile con quella safety, che non implica mutamenti linguistico-produttivi, ma soltanto la sicurezza del ciclo di lavorazione e di diffusione del film. Le distruzioni di film che ne conseguono sono state giustificate con la pericolosità del loro stoccaggio. La terza fase della distruzione del cinema è proprio la preserva-
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La storia delle distruzioni delle copie dei film è consustanziale all’evoluzione del cinema stesso. Diverse pietre miliari punteggiano questa storia, ed è utile ricordare brevemente che è la perdita di gran parte della produzione cinematografica a portare l’urgenza del soccorso, aumentando nel contempo un immaginario della catastrofe e un senso di malinconia che si trova in molti discorsi e in diverse pratiche cinematografiche […]51.
Secondo André Habib la dialettica conservazione-distruzione è al centro di tutte le iniziative intraprese dagli anni Trenta per salvare i film, che culminerà poi nelle disposizioni giuridiche dell’UNESCO sull’importanza della conservazione delle immagini in movimento come patrimonio dell’umanità, poiché il cinema resta ontologicamente un’arte a forte rischio di autodistruzione. Simone Venturini ha curato un volume che propone una lettura della storia delle pratiche e dei codici relativi alla conservazione ed alla preservazione52, in un sintetico quanto completo compendio, all’interno del quale Alberto Farassino rintraccia nella sua definizione di “cinema corrotto” il problema della copia in analogia tra cinema e letteratura53. La copia consente la diffusione di entrambi ma, nel caso 50
Cfr. R. Borde, Les Cinémathèques, Lausanne, Ramsays, 1983; A. Slide, Nitrate Won’t Wait: A History of Film Preservation in the United States, Jefferson, McFarland, 1992. 51 Mia traduzione da A. Habib, Memoire, histoire, ruines. Les archives du film ou la nouvelle melancolie du cinéma, in «AAM TAC», n. 6, Pisa-Roma, Serra Editore, 2009, p. 55. 52 S. Venturini, Il restauro cinematografico, cit. 53 A. Farassino, Un cinema corrotto, in S. Venturini, Il restauro cinematografico, cit., p. 64.
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zione, pratica che in questa fase coincideva con la duplicazione dei nitrati, infiammabili e dunque messi al bando per ragioni di sicurezza, mediante stampatrici su supporto safety50. La pratica della preservazione, legata alla sostituzione dei materiali infiammabili con supporti di sicurezza, ha determinato paradossalmente una perdita ulteriore degli originali, quantomeno delle copie di generazione precedente, ed in secondo luogo ha determinato spesso notevoli errori di duplicazione, che hanno danneggiato notevolmente i valori estetici dei film, con montaggi arbitrari, differenti velocità di proiezione, errori di messa in quadro e mascherino di duplicazione su fotogramma intero.
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1.2 Le due strade: il restauro d’arte e la filologia letteraria 1.2.1 Il restauro artistico Le discipline guida del restauro cinematografico sono il restauro d’arte54, secondo la concezione moderna di Cesare Brandi55, e 54 Non è questa la sede di un excursus storico del restauro artistico e architettonico, ma le vicende del restauro sono molto antiche. Risalgono infatti alle prime civiltà orientali e mediterranee che per ragioni d’uso o legate alla memoria magico-simbolica attuavano pratiche di recupero e manutenzione edilizie, restaurando allo stesso tempo un senso religioso ed istituzionale. Nella culturologia ottocentesca di area tedesca, invece, si tende ad incrementare le testimonianze artistiche del passato e a creare di una memoria collettiva che diviene immaginario. Per approfondimenti: C. Brandi, Il restauro. Teoria e pratica 1939-1986, Editori Riuniti, Roma, 1994; C. Brandi, Teoria del restauro, cit.; S. Keck, Further Materials for a History of Conservation, in N.S. Price, M. Kirby Talley Jr., A. Melucco Vaccaro, Historical and Philosophical Issues in the Conservation of Cultural Heritage, Los Angeles, The Getty Conservation Institute, 1996; O. Rossi Pinelli, Cultura del frammento e orientamenti nel restauro del XIX secolo, «Bollettino d’arte», 1996; G. Urbani, Intorno al restauro, Milano, Skira, 2000. 55 Cesare Brandi è stato il massimo teorico ed esperto della prassi del restauro, nonché uno dei primi che in questo secolo abbia colto la centralità e il
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del film, essa è spesso la causa di alterazioni e corruzioni del testo; ciò è motivato dal fatto che il testo filmico, a differenza del testo letterario che può assumere diverse forme mantenendo il suo significato, è legato sia alla forma che alla materia dell’espressione. Farassino cataloga le varianti differenziandole in: omissioni, perdita di porzioni di testo come ad esempio i titoli di coda, in interpolazioni, aggiunta di porzioni di testo non “originale” e in alterazioni, cioè tutte quelle corruzioni che riguardano la qualità del testo. Queste corruzioni sono a loro volta suddivise in base a quando e perché sono state inserite nel testo; possiamo avere, quindi, errori diretti, che avvengono all’atto della prima copia dal negativo originale alla copia testimone ed errori indiretti, che si verificano su copie esatte di testi già corrotti. Bisogna sempre tenere presente la particolarità dell’oggettofilm: esso è allo stesso tempo testo (le immagini) e materia (la pellicola). Questa assoluta peculiarità della sua natura costituente impone la combinazione di conoscenze tecniche con un patrimonio di nozioni filologiche e storiografiche che permettano una corretta conservazione, un complesso restauro e un’ampia diffusione ai posteri di entrambe le sue nature.
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La tradizione francese del diciannovesimo secolo, inaugurata dalle riflessioni dell’architetto Eugène Viollet-le-Duc, prevedeva un ripristino dell’opera, fosse essa un edificio o un dipinto, finalizzato alla ri-formalizzazione del piacere della fruizione, in cui il restauratore tendeva a sostituirsi all’autore indovinandone il gusto e le scelte estetiche, ripristinando una continuazione ideale tra l’opera e il restauratore laddove le lacune richiedano un intervento. Tale concezione era indubbiamente legata al fermento del pensiero del Romanticismo che imperversava a quell’epoca nel continente europeo. Alla base vi era l’idea tutta romantica di reviviscenza, di regalare un suggestivo soffio di vita, quasi mesmerico, nell’inanimato. Il restauro italiano, invece, attraverso la pratica del rigatino (o righettino) ha previsto una innovativa modalità di reintegrazione pittorica: l’intervento di reintegrazione teso a ricreare un collegamento cromatico, o cromatico e formale, laddove sono presenti lacune o abrasioni della pellicola pittorica. Il collegamento tra la lacuna e la zona circostante viene eseguito tramite un tratteggio verticale, in sintonia con i valori cromatici locali, in modo tale che da lontano l’intervento risulti impercettibile, ma sia visibile da vicino. La metodica, proposta da Cesare Brandi e messa a punto dall’Istituto Centrale del Restauro di Roma, differisce rispetto alla reintegrazione imitativa (anche definita “restauro mimetico”) in quanto permette di distinguere le parti restaurate da quelle originali. Per quanto ancora ampiamente praticato sia in Italia sia nuovo significato delle attività di recupero e conservazione delle opere d’arte. 56 M. Canosa, Per una teoria del restauro cinematografico, in Storia del cinema mondiale, Gian Piero Brunetta, cit., p. 1080. 57 C. Brandi, Il restauro. Teoria e pratica 1939-1986, cit., p. 35.
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S’intende generalmente per restauro qualsiasi attività svolta per prolungare la conservazione dei mezzi fisici ai quali è affidata la consistenza e la trasmissione dell’immagine artistica, e si può anche estenderne il concetto fino a comprenderne la reintegrazione, quanto più possibile approssimativa, di una mutila immagine artistica. Questi due poli, di cui l’uno confina il restauro alla mera conservazione, e l’altro può addurlo addirittura ad usurpare i privilegi della creazione artistica, caratterizzano le attitudini discordanti che si sono tenute e ancora si tengono verso il restauro57.
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la filologia letteraria, scienza dell’autenticità dei testi56.
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Ivi, p. 36. Ivi, p. 7. 60 Ivi, p. 8. 59
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all’estero, il metodo del restauro mimetico si scontra evidentemente con uno dei postulati fondamentali del restauro delle opere d’arte, ossia la riconoscibilità dell’intervento. L’idea di riconoscibilità fa capo ad un principio di legittimità e di coerenza con un ripristino che sia a tutti gli effetti reversibile, che non comprometta l’originale e che soprattutto non si sostituisca ad esso, delimitando così anche le possibili implicazioni con i falsi d’autore e la pratica del falso pittorico in generale, fonte di suggestive fascinazioni ma anche di fuorvianti interpretazioni storiche, di problemi di paternità e formalizzazione estetica. Basilare è la considerazione di un dialogo storico, in cui si individua un particolare momento della storia della cultura, in relazione alla ricezione stessa dell’opera d’arte, che è stata invece per anni percepita come un mero documento, su cui riprendere a piacimento il processo interrotto e mutilato della creazione artistica58. Il primo assioma della teoria di Brandi afferma che si restaura solo la materia dell’opera d’arte59. Per materia, soggetta a cambiamenti o deterioramenti, s’intende sia la costituzione fisica dell’opera, sia il tempo e il luogo dell’intervento di restauro; l’intervento di restauro sulla materia, che gode anche di una sua duplice storicità (quella che coincide con l’atto della creazione, e quella che si riferisce al tempo e al luogo in cui essa si trova in quel momento), deve tener presente un’ulteriore distinzione: in quanto epifania dell’immagine, la materia è sia aspetto che struttura. Il secondo principio di restauro definito da Brandi è il concetto di unità dell’opera d’arte: essa va concepita come un intero e non come un totale composto di parti60. Se l’opera risulta fisicamente frantumata, la ricerca della sua unità potenziale andrà effettuata su ogni singolo frammento al fine di svilupparne la potenziale organicità, e dovrà seguire i suggerimenti inscritti in quegli stessi frammenti; l’integrazione è una delle pratiche utilizzate in questa fase allo scopo di riempire le lacune (interruzione del tessuto figurativo) presenti nell’opera: l’integazione dovrà essere invisibile all’occhio dell’osservatore ma anche immediatamente riconoscibile e, soprattutto, reversibile, cioè deve permettere la possibilità di interventi futuri. Come afferma Brandi, dal punto di vista storico la conservazione della patina del tempo «non solo è ammissibile ma tassativa-
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Ivi, p. 36. Per il concetto di ‘patina’ cfr. anche T. Brachert, Patina: Von Nutzen und Nachteil der Restaurierung, Munchen, Callwey [1985], trad. it. La patina nel restauro delle opere d’arte, Firenze, Nardini Editore, 1990. 63 Cfr. G. Manieri Elia, Metodo e tecniche del restauro architettonico, Roma, Carocci, 2010. 64 Tra le numerose norme di conservazione previste dai regolamenti di molte cineteche in tutto il mondo sono stati resi pubblici molti particolari ac62
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mente richiesta»61. Su monumenti o affreschi la patina consiste in uno strato sottile, morbido e piuttosto omogeneo, aderente alla superficie e di evidente natura biologica, di colore variabile, per lo più verde. Qualsiasi intervento di pulitura di un’opera d’arte tende a rimuovere questa patina in quanto sede del degrado e della decomposizione chimico-fisica dei materiali, ma la sua − almeno parziale − conservazione ratifica l’idea del rispetto di una distanza storica, di un effettivo dialogo tra epoche differenti, di una sottile membrana di separazione tra un passato ed un presente capace di comprendere e rispettare quel passato62. Sarebbe corretto poter inoltre distinguere tra una patina biologica, come un manto di licheni su un affresco, che non aiuta la sua conservazione, né la lettura o l’interpretazione, e una patina d’uso, legata appunto all’usura derivante da un forte rapporto di fisicità dell’utente con l’opera. Come fonte importante di riflessioni sui principi di restauro chiamati in causa dal discorso sul restauro cinematografico, si fa spesso riferimento anche all’apparato teorico correlato all’esperienza del restauro architettonico, in cui principio basilare, oltre alla conservazione della materialità dei manufatti e del loro aspetto, è il mantenimento di una coerente funzionalità dell’opera, garanzia del rispristino dello scopo effettivo per il quale è stata creata63. Il restauro cinematografico, oltre a puntare al recupero dei valori iconici e visivi contenuti nel film nella sua fragile natura fotochimica, mira alla ricostruzione di un oggetto dotato di una sua intrinseca funzionalità meccanica: ogni film infatti consiste morfologicamente in più bobine di centinaia di metri in pellicola fotosensibile. Supporto ed emulsione, differenti a seconda dell’epoca di stampa della pellicola (dunque non necessariamente quella di realizzazione del film), ma anche in funzione delle scelte di registi e distributori, con peculiari caratteristiche di grana o colore, presentano elementi di ulteriore complessità e caducità, determinati proprio dalla notevole lunghezza64 e dall’usura provocata dallo scorrimento.
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corgimenti per il corretto posizionamento della pellicola, anche relativamente alla fase di riavvolgimento o di deposizione nelle scatole. I rulli non vanno riavvolti troppo stretti sui tavoli d’ispezione, poiché si potrebbe determinare una compromissione di origine meccanico-fisica con esiti anche chimici, nell’eventualità di deformare il supporto o di deteriorarne la composizione; è inoltre buona norma adottare una cautela particolare nel maneggiare le pellicole e nel riporle nella loro scatola, in modo che le spire non slittino e non si spostino provocando deformazioni, torsioni o irregolarità problematiche da cui tutti i film andrebbero preservati. Perfino le scatole sono oggetto di controverse questioni di classificazione: mentre in passato si sono utilizzate scatole in metallo per le sue proprietà isolanti ed ignifughe, molto importanti all’epoca dei supporti in nitrato infiammabile, oggi alcune cineteche preferiscono adottare scatole in plastica, dotate di fori deputati all’areazione, per prevenire la decomposizione chimica dell’emulsione fotosensibile. Altre cineteche continuano a preferire il metallo per la sicurezza e la solidità del materiale rapportato alla fragilità del dispositivo fotochimico. Tali accorgimenti però sembrano quasi perdere di significato di fronte all’incuria che spesso si è dimostrata in cabina di proiezione, a causa della quale gli interventi di proiezionisti poco qualificati hanno causato danni incalcolabili a migliaia di metri di pellicole. Senza contare inoltre l’abituale trattamento delle copie durante la circolazione, ossia la spedizione ad altri archivi o festival: «nessuno avrebbe il fegato di mandare un quadro di Picasso in una scatola di cartone imbottita di giornali, ma questo è proprio quello che si fa con le pellicole, di nuovo appellandosi al mito insensato della riproducibilità ad libitum dell’esemplare di cineteca». P. Cherchi Usai, Crepa nitrato, tutto va bene, cit., p. 18. 65 Si deve a Walter Benjamin una teorizzazione del ‘valore cultuale’ dell’opera d’arte, un tempo fruita in un ambito rituale extra-quotidiano. Cfr. W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, cit.
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Sul piano pragmatico, per recuperare tale funzionalità il lavoro del restauratore dovrà consentire il ripristino di tutti gli elementi finalizzati alla proiezione: riparare le perforazioni, i bordi, le giunte e tutti gli ostacoli allo scorrimento fluente della pellicola, garantendo la possibilità di far scorrere la pellicola in un proiettore di luce ad una velocità determinata (dai 16 ai 24 fotogrammi al secondo) per un determinato tempo, senza che la temperatura della lampada o i rocchetti di proiezione distruggano l’elemento. Le perforazioni devono essere agganciate ad un rocchetto a sedici denti collegato alla croce di malta (o la griffa in alcuni proiettori a passo ridotto) del proiettore, determinandone un moto intermittente davanti al fascio di luce necessario alla proiezione. Sul piano teorico, invece, si intende ripristinare proprio la stessa nozione di “uso”, spesso disconnessa dal valore “cultuale”65 convenzionalmente attribuito all’opera d’arte: al fine di garantire il godi-
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1.2.2 La filologia letteraria La filologia, dal greco φιλòλογος66, composto da φίλος (fìlos) “amante, amico” e λόγος (lògos) “parola, discorso” (=“interesse per lo studio delle parole”), consiste in un insieme di discipline che studia i testi al fine della loro ricostruzione attraverso l’analisi comparativa di diverse fonti, perseguendo lo scopo di giungere ad un’interpretazione corretta67. Come disciplina è stata spesso associata agli studi letterari ed eruditi in generale o alle scienze che studiano la struttura e l’origine della morfologia di una lingua o di una civiltà. Filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia da orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. [...] Per una tale arte non è tanto facile sbrigare qualsiasi cosa perché essa ci insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini, lasciando porte aperte, con dita e con occhi delicati68.
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(= filòlogos). Per approfondimenti bibliografici sul tema della filologia letteraria cfr.: Accademia Nazionale dei Lincei, I nuovi orizzonti della filologia: ecdotica, critica testuale, editoria scientifica e mezzi informatici elettronici, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1999; A. Boeckh, La filologia come scienza storica: enciclopedia e metodologia delle scienze filologiche, Napoli, Guida, 1991; V. Branca, J. Starobinski, La filologia e la critica letteraria, Milano, Rizzoli, 1977; L. Cesarini Martinelli, La filologia, Roma, Editori Riuniti, 2006; G. Contini, Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970; G. Contini, Breviario di ecdotica, Torino, Einaudi, 1992; H. Fränkel, Testo critico e critica del testo, Firenze, Le Monnier, 1963; G. Funaioli, Lineamenti di una storia della filologia attraverso i secoli, Bologna, Zanichelli, 2007; P. Maas, Textkritik, Leipzig, Teubner [1927], trad. it. Critica del testo, Firenze, Le Monnier, 1964 G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Le Lettere, 1934; A. Stussi (a cura di), Fondamenti di critica testuale, Bologna, Il Mulino, 1998. 68 F. Nietzsche, Morgenröte – Gedanken über die moralischen Vorurteile, [1881], trad. it. Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Milano, Adelphi, 1964, p. 12. 67
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mento dell’opera è necessario recuperarne la funzionalità, ossia la sua stessa intrinseca modalità di fruizione, che non è un valore aggiunto, ma il suo proprio linguaggio, la sua sola modalità espressiva.
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Con l’evoluzione di tecniche di ricostruzione dei classici sulla base di versioni ritenute integrali, il restauratore rivendica un’identità autoriale che trasforma l’opera e il suo veicolo materiale nell’edizione critica di un ideale inesistente, sulla scorta 43
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L’eterogenea natura di tali studi e il loro vasto campo d’applicazione ha determinato una profonda complessità metodologica, spesso adeguata direttamente alla profonda conoscenza di una civiltà o ai tratti peculiari di un testo. Il procedimento filologico consiste nel tentare di risalire con criteri meccanico-probabilistici e linguistico-formali alla forma originaria di un testo, inevitabilmente corrotta dalla serie di copie che lo hanno tramandato dall’antichità a oggi. È dunque necessario stabilire i significati originari del testo, intentio operis, e l’intenzione dell’autore, intentio auctoris. In particolare quel ramo della filologia detto ecdotica consiste in quella tipologia di critica del testo la cui finalità è proprio quella di riavvicinare un testo alla sua forma originaria, così denominata dal filologo francese Dom Henri Quentin. Lo studio dell’ecdotica e della filologia dei testi ha messo in luce una tradizione plurima, divisa tra varianti sostanziali e varianti fono-morfologiche, divergenze testuali che modificano la formulazione del concetto di originale e di unicum e che problematizzano le soluzioni interpretative dei testi. Furono basilari le teorizzazioni di Karl Lachmann, ideatore di un metodo meccanico-probabilistico per l’individuazione della “lezione” originale del testo, metodo detto stemmatico, basato su recensio (sistema d’individuazione delle fonti) ed emendatio codicum descriptorum (eliminazione delle copie). I più aggiornati studi d’interpretazione filologica dei testi giungono dunque fino alle problematiche contemporanee che analizzano l’intentio lectoris, i problemi della ricezione e della percezione collettiva dei testi come oggetto di mercato, concentrandosi pertanto sul problema della fruizione e del consenso in un’originale crocevia tra filologia moderna, studi sociologici e psicologia dei media. L’uso della metodologia filologica nel campo del restauro cinematografico, che ha tanto ispirato gli studiosi di cinema per quanto riguarda modelli operativi e riferimenti di organizzazione delle ricerche, ha però dato luogo ad un equivoco, purtroppo frequente: l’idealizzazione dell’originale, che diviene codex optimus in un settore artistico caratterizzato strutturalmente dalla riproducibilità tecnologica:
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Pertanto lo strumento filologico, molto utile alla comprensione e all’interpretazione delle varianti e delle molteplicità oggettuali, va usato con approccio critico, in considerazione della specificità linguistica del cinema, della sua costituzione fotochimica. 1.3 Restauro cinematografico La pratica del restauro si trova in una condizione ibrida in cui la stessa ambiguità dei termini conservazione, preservazione e restauro diventa il sinonimo di una prassi che ancora deve trovare la sua strada. Uno dei punti fondamentali della questione si trova nell’effettiva mancanza di una disciplina definita che determini un codice etico o modalità esecutive; a differenza del restauro d’arte, formalizzato nella Carta del restauro del 1972, il restauro cinematografico non è stato mai effettivamente coordinato da alcuna regola o carta del restauro70.
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P. Cherchi Usai, Crepa nitrato, tutto va bene, cit. p. 14. L’ipotesi di una carta del restauro cinematografico è stata avanzata nel Febbraio 2001 e nasce dal dibattito e dal fermento interno tra le cineteche aderenti al Sistema cinetecario italiano, che comprende: la Scuola Nazionale di Cinema-Cineteca Nazionale di Roma, la Cineteca del Comune di Bologna, il Museo Nazionale del cinema di Torino, la Fondazione Cineteca italiana di Milano, la Cineteca del Friuli, la Cineteca Sarda a Cagliari, l’AAMOD (Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico) di Roma. Tale dibattito nasce dall’esigenza di arrivare a stabilire dei criteri generali da seguire e rispettare coerentemente nella realizzazione di un restauro filmico in quanto, come purtroppo i numerosi interventi e le eterogenee produzioni in materia hanno testimoniato, le metodologie e le tecniche fin ora utilizzate non sono mai state definite in modo comune e formalizzato, ma sono suscettibili delle innumerevoli varianti date dalla legislazione in materia e dei diritti sul film. La Cineteca di Bologna sostiene da sempre la necessità di una carta del restauro cinematografico sin dal 1997; la loro proposta si ispira completamente alla Carta del restauro del 1972. Nell’art. V vengono definite tutte le operazioni da proibire nei confronti delle opere preservate, completamenti in stile o analogici di immagini in movimento, rimozioni che cancellino il passaggio dell’opera attraverso il tempo, alterazione delle caratteristiche fotografiche dell’immagine e di dinamica del suono dei materiali d’epoca. Fondamentale importanza viene attribuita alla documentazione: qualsiasi intervento effettuato sui materiali deve essere illustrato e giustificato attraverso una dettagliata scheda tecnica di report. Cfr. L. Comencini, M. Pavesi (a cura di), Restauro, conservazione e distruzione dei film, Milano, Il Castoro, 2001. 70
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di una frettolosa quanto fuorviante equazione fra immagine in movimento e parola scritta69.
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a) ricostituzione dell’opera audiovisiva nelle condizioni e con le caratteristiche (sia testuali che materiali) il più vicino possibile all’originale; b) conservazione dell’opera nelle migliori condizioni possibili; c) divulgazione dell’opera a fini di studio; d) sfruttamento commerciale dell’opera da parte degli aventi diritto. 1.3.1 I grandi restauri I problemi delle lacune, delle varie tipologie d’intervento, delle diverse varianti, delle pratiche di routine di conservazione e preservazione negli archivi, in seguito organizzate e sistematizzate in un filone metodologico piuttosto strutturato, sono stati segnati dai lavori “pionieristici”, come li definisce Venturini71, dei grandi restauratori: Eileen Bowser, Harold Brown, Kevin Brownlow, Enno Patalas, Luciano Berriatúa. Patalas, direttore fin dal 1973 del Filmmuseum di Monaco in Germania, curò i restauri di film di Paul Wegener, Friedrich Wilhelm Murnau, del film Bronenosec Potëmkin di Sergeij Mikhajlovič Ejzenštejn la prima ricostruzione del grande kolossal Metropolis di Fritz Lang (1927)72, elaborando una peculiare operazione di ripristino e di ri-montaggio del film in funzione di una documentazione extra-filmica dettagliata, di fonti prevalentemente cartacee. Patalas ha infatti utilizzato ai fini del restauro una sceneggiatura tecnica, quindi precedente al tournage, sebbene l’elemento decisivo sia stato la partitura musicale composta da Gottfried Huppertz per accompagnamento al piano che doveva seguire le copie di proiezione tedesche all’epoca delle prime proiezioni del film. Un simile documento, apparentemente secondario, è stato invece di fondamentale importanza per desumere tutto, dalla dettagliata descrizione delle sequenze alla numerazione e l’ordine delle singole inquadrature, 71 72
S. Venturini, Il restauro cinematografico, cit. p. 16. P. Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Torino, Lindau, 1990.
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La FIAF ha però elaborato nel 1998 un Codice etico delle attività di conservazione e preservazione dei documenti filmati, accettato e firmato da tutti gli archivi aderenti che costituisce il quadro di riferimento indispensabile per contestualizzare le linee guida da seguire per le attività di preservazione e restauro dei documenti filmati. Il restauro è finalizzato ai seguenti obiettivi:
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E. Bowser, A Corner in Wheat, «Cahiérs de la Cinémathèque» n. 17,
1975. 74
K. Brownlow, La troisième restauration de Napoléon, in «1895», n. 31, 2000; Id. Napoléon. Abel Gance’s Classic Film, New York, Knopf, 1983.
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dalla durata delle scene alle effettive scelte di montaggio operate dal regista a tournage ultimato, plausibilmente l’organizzazione formale e la sistemazione complessiva di tutto il film in sede di proiezione. Nel 1975 la Bowser restaura A Corner in Wheat di David Wark Griffith (1909), per il Museum of Modern Art di New York, nella cui collezione sono presenti numerosi negativi originali Biograph del regista statunitense. Il lavoro della Bowser costituisce un ottimo esempio di ricostruzione e documentazione dell’impianto generale di restauro, descrivendo dettagliatamente la sua operazione in un esauriente articolo uscito sui «Cahiérs de la Cinémathèque» lo stesso anno, in cui si evidenziava con straordinaria profondità analitica l’influenza del montaggio griffithiano sulla concezione del montaggio ideologico, successivamente teorizzata da Ejzenštejn73. Dal 1973 al 1980 Brownlow lavora al controverso restauro del film Napoléon di Able Gance (1927), presentato a Washington, Londra e New York nelle sue due fasi sostanziali. Un restauro molto complicato anche per la lunghezza del materiale di partenza (circa cinque ore e mezza di proiezione), largamente mutilato in sede di distribuzione, e per una serie di sofisticate procedure di organizzazione delle sequenze, come l’affascinante trittico finale, proiezione simultanea su schermi multipli, che nella sua suggestione poneva però problemi nell’esecuzione proiettiva, nel numero di testimoni ed elementi pellicolari effettivamente previsti dal film, nella difficile resa dei raffinati processi di colorazione applicata, come l’imbibizione e il viraggio riproposti da João Socrates de Oliveira del National Film and Television Archive del BFI74. Berriatúa lavora tra la Filmoteca Española di Madrid e Barcellona, ma per molti anni si è dedicato alla ricostruzione dei film di Friedrich Wilhelm Murnau, evidenziando modalità esecutive e produttive determinate da accurate e dettagliatissime ricerche: i suoi celebri contributi sul Faust di Murnau, infatti, hanno testimoniato importanti elementi relativi alla messa in scena, come la procedura delle molteplici macchine da presa usate nel tournage del film, che hanno prodotto cinque negativi differenti, riconoscibili da percettibili variazioni nell’angolazione di ripresa, destinati a generare copie
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L. Berriatúa, I cinque “Faust” di Murnau, «Cinegrafie» n. 7, 1994; Id, Los proverbios chinos de F.W. Murnau, Madrid, Filmoteca Española, 1990; Id, All the Colours of the World / Tutti i colori del mondo, Reggio Emilia, Diabasis, 1998; Id, M.A. Perez Campos, Études pour une reconstitution de Nosferatu de F.W. Murnau, «Cahiers de la Cinémathèque», n. 32, primavera 1981. 76 Il film è famoso per una serie di primati. In primis la lunghezza: nessun film aveva osato raggiungere i 3.500 metri di lunghezza e superare le tre ore di spettacolo. Il costo fu di un milione di lire; venne girato a Torino negli stabilimenti sulla Dora Riparia e poi gli esterni in Tunisia, in Sicilia e sulle Alpi, nelle Valli di Lanzo, dove si diceva che fosse passato Annibale. Per le didascalie letterarie Pastrone volle ingaggiare come sceneggiatore Gabriele D’Annunzio, che accettò l’incarico e che conferì alla storia una notevole liricità. Il film ebbe un grande successo di critica e di pubblico, sia in Italia (dove fu percepito come una celebrazione della romanità all’epoca della guerra in Libia) che all’estero: restò in cartellone per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a New York. Tra i meriti del film c’è la scoperta delle notevoli potenzialità espressive della macchina da presa: il movimento della cinepresa montata su un carrello ante litteram ma anche l’uso di una scala di piani. Segundo de Chomón, celebre regista e qui straordinario operatore, utilizzò per il film lampade elettriche per ottenere effetti di chiaroscuro (nella scena del sacrificio) e ad architettare la sequenza dell’eruzione dell’Etna, di grande efficacia realistica. Cfr. E. Dagrada, A. Gaudreault, T. Gunning, Lo spazio mobile del montaggio e del carrello in Cabiria, in P. Bertetto, G. Rondolino (a cura di), Cabiria e il suo tempo, Torino-Milano, Museo Nazionale del Cinema, Il Castoro, 1998.
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differenti, in cui erano finalizzate al mercato straniero quelle più approssimative dal punto di vista dell’organizzazione formale75. In Italia alcuni dei momenti importanti del restauro cinematografico sono stati scanditi dai grandi film della storia del cinema italiano, in particolare Cabiria di Giovanni Pastrone (1914) e Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963). Per quanto riguarda il restauro de Il Gattopardo ho ritenuto opportuno dedicarne un paragrafo nella sezione sui case study di restauro digitale nell’ambito del terzo capitolo. Cabiria è stato il più importante film muto d’Italia e in assoluto il primo kolossal, in anticipo di un anno su Nascita di una nazione (1915) di D. W. Griffith76. Il film rivede la luce grazie al restauro completo e definitivo delle due edizioni (quella muta del 1914 e quella sonorizzata del 1931) realizzato dal Museo Nazionale del Cinema, basato su documenti originali, diari di lavorazione e fonti extrafilmiche rinvenute presso gli eredi del regista. Questa duplice operazione è stata possibile grazie alle nuove tecnologie digitali e fotochimiche messe a punto da João Socrates de Oliveira della Prestech Film di Londra e
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Dopo questi illustri momenti della storia del restauro di film, le eminenti operazioni di ricerca avviate dagli studiosi, dai conservatori e dai curatori di cineteche e collezioni hanno configurato una nuova modalità di ripristino di film relegati in un passato talvolta misconosciuto e altre volte idolatrato, scrivendo una storiografia fatta di analisi delle fonti e dati empirici, confrontandosi con gli errori e le varianti, elaborando formule fruitive capaci di far dialogare passato e presente nella suggestione visiva di spettatori educati e curiosi. Molti considerano la storia del cinema come un costante progresso, che rende le innovazioni di ieri obsolete rispetto alle attuali. È un modo curioso di considerare qualsiasi forma di arte. Il filosofo Wittgenstein scrisse di aver riso quando sentì qualcuno osservare quanto mirabili dovessero apparire i fulmini agli uomini primitivi, come se oggi fossero meno straordinari77.
Le parole che il regista Martin Scorsese dedica a Cabiria («il film di Giovanni Pastrone è tanto straordinario oggi quanto 93 anni fa, quando fu visto per la prima volta»78) delineano suggestivamente la coscienza dello spettatore contemporaneo, che ha già superato la prospettiva evoluzionista dei linguaggi artistici, secondo cui i progressivi cambiamenti diacronici in una cultura determinano paralleli stadi evolutivi differenti. L’abitudine alle modalità espressive contemporanee e l’esaltazione del progresso (tecnico, linguistico e 77 S. Alovisio, A. Barbera, Cabiria & Cabiria, Torino-Milano, Museo Nazionale del Cinema, Il Castoro, 2006. 78 Ibidem.
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grazie al recupero di un fondo di documenti inediti, tra cui fogli di sceneggiatura e di lavorazione, appunti di Pastrone, registri in cui erano annotati perfino i movimenti di tutti gli animali utilizzati durante la lavorazione e annotazioni relative al lancio pubblicitario del film, la cui prima ebbe luogo il 18 aprile 1914 al Teatro Vittorio Emanuele II di Torino, in contemporanea col Teatro Lirico di Milano. Lo studio e l’analisi dei documenti di produzione e dei materiali pubblicitari, parallelo al lavoro sulle copie in pellicola, è stato uno degli elementi peculiari di questo restauro, per il quale sono stati ritrovati i testi delle didascalie, si è risalito allo stile della cornice e al font dei cartelli, individuando lacune ed errori di montaggio e restituendo al film i suoi colori originali.
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1.3.2 Scuola bolognese La cosiddetta Scuola Bolognese, fautrice di una teoria del restauro radicata nella prassi laboratoriale e nell’effettiva esperienza cinetecaria, ma con la consapevolezza teorica del sapere universitario, è principalmente rappresentata da Michele Canosa, Gianluca Farinelli e Nicola Mazzanti e si tratta di un tentativo di fondazione scientifica (più che semplicemente teorico-metodologica) del restauro cinematografico. Anche qui i contributi teorici del restauro d’arte e della filologia del testo letterario restano alla base di questa metodologia. 79
«Nella seconda metà del secolo scorso e particolarmente negli ultimi quindici anni, le principali società hanno intrapreso un’operazione su vasta scala di sfruttamento commerciale dei loro diritti d’archivio, attività che la stampa, usando una metafora ricca d’implicazioni storiche ha descritto appropriatamente come “scavare negli archivi in cerca di denaro”. […] Questa operazione dello “scavare” nel passato, del trasformare il passato in una risorsa, è diventato uno dei maggiori successi di entrate per le grandi multinazionali che dominano l’economia globale dei media». Mia traduzione da V. Hediger, The Original Is Always Lost. Film History, Copyright Industries and the Problem of Reconstruction, in M. Haghener, M. De Valck (a cura di), Cinephilia. Movies, Love and Memory, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2005, p. 135.
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formale) lasciano il posto alla competenza di comprendere e interpretare anche film lontani nel tempo. La stessa costituzione di un pubblico adulto e selettivo, in grado di apprezzare formule visive, scelte rappresentative e canoni di racconto assolutamente lontani dal proprio Zeitgeist, è senza dubbio la prima conquista della preservazione e del restauro cinematografico, che come si è detto consta in un dialogo tra epoche differenti. È un dato di fatto che attualmente vi sia di fronte a questo dialogo una coscienza rinnovata e diversa. Si è dato quindi anche un rilievo commerciale alle scelte operate dagli enti di cultura, considerando in tal senso le possibilità dei film del passato di determinare anche una eventuale risorsa economica79. Innegabile è che questi restauri storici abbiano stilato, oltre ad un modello comportamentale nel panorama dei principi etici ed operativi delle ricostruzioni dei film, una nuova riscrittura del rapporto spettatoriale con i classici, con gli “introvabili”, con modelli rappresentativi e valori iconici appartenenti ad un passato più o meno lontano, considerata quella che è l’abitudine dello sguardo spettatoriale nel panorama mediatico contemporaneo.
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Per i documenti FIAF cfr. H. Schou, Préservation des films et du son, FIAF, Bruxelles, 1990; H. Volkmann, Film Preservation. A Report of the International Federation of Film Archives, London, National Film Archive-British Film Institute [1965], trad. it. La pellicola cinematografica: proprietà, conservazione, ripristino, in P. Cherchi Usai, Film da salvare: guida al restauro e alla conservazione, in «Comunicazioni di Massa» n. 3, 1985. 81 M. Canosa, Immagini e materia. Questioni di restauro cinematografico, in S. Venturini, Il restauro cinematografico, cit., p. 79. 82 Ivi, p. 73.
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L’attualizzazione di un incontro fra tre differenti sedi e contesti operativi (università − luogo di ricerca teorica, laboratorio di restauro − luogo di applicazione empirica e di confronto effettivo con i film, e cineteca − luogo di conservazione, preservazione e accesso). Tra i grandi meriti della scuola bolognese vi sono la divulgazione scientifica di problematiche esperite particolarmente in ambito cinetecario e laboratoriale, una definizione metodologica ed una ricca e coerente nomenclatura di tipologie di formati e di danni, con una forte ed evidente attenzione al problema materico, messo in luce in particolare dopo il Convegno di Brighton del 1978, cesura storica degli studi sul cinema muto, in cui una eminente comunità universitaria internazionale evidenziava l’importanza storica dello studio del muto e le straordinarie esperienze interne al cinema delle origini. Sulla base delle definizioni dei documenti FIAF80, che distinguono tra preservazione passiva, deposito, e preservazione attiva, controllo e ordinamento dei materiali, restauro tecnico, eliminazione di difetti e danni di tipo fisico-chimico, in cui il ripristino del film è funzionale alla duplicazione, e restauro redazionale, inteso come restauro tout court, finalizzato a riportare il film nella sua forma originaria (recupero delle parti mancanti e revisione del montaggio), Canosa contesta l’insufficienza di tali nozioni, obiettando che gli interventi “tecnici” non sono solo condizione del restauro, ma ne sono già una fase. Il restauro dei film deve provvedere alla restituzione dell’integrità del testo, ma anche della sua funzionalità (proiettabilità), comunque subordinata all’istanza estetica e a quella storica. Lo stesso dispositivo cinematografico prevede una doppia dislocazione del film (pellicola, schermo), nella scissione materia/immagine81. Il film si manifesta sullo schermo come “attualizzazione” della pellicola82, in un coefficiente performativo particolarmente alto nel cinema
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1.3.3 Film Studies e approccio ermeneutico Si è detto che il film come testo è strutturalmente diverso dall’opera pittorica e dal testo scritto, poiché contiene una molteplicità di modalità narrative e visive che possono rimandare alla costruzione dell’immagine della tradizione iconografica, o alla produzione di senso mediante narrazione, come nel testo letterario. Di conseguenza qualsiasi intervento sul film dovrà tenere conto del suo peculiare statuto, delle sue costituzioni formali, ma anche delle formule di linguaggio da esso intraprese e dai sensi che è in grado di innescare, sollecitare, evocare. È pertanto indispensabile studiare i film per comprenderne il sistema segnico, la dimensione culturale, i valori iconici suggeriti, le scelte ideologiche o poetiche che ne determinano il senso o i molteplici sensi prodotti. Gli strumenti più efficaci della comprensione del film come 83
J. Gonzáles Requena, Nell’asse del reale: carnevale, fotografia, cinematografo, in «Cinema & Cinema» n. 63, Roma, Carocci, 1992, pp. 15-16. 84 N. Mazzanti, Note a pié di pagina. Per un glossario del restauro cinematografico, cit., p. 1085.
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delle origini, in cui è esasperata l’instabilità: il restauro di tali spettacoli è pertanto più vicino all’archeologia che alla storia83. Nicola Mazzanti insiste invece sulla coeva assenza di una metodologia teorica del restauro cinematografico, un vuoto di autospeculazione e di riflessione della disciplina, pur trattandosi di una pratica frequentata da decenni in cineteche e laboratori di tutto il mondo84. Poiché esistono diverse metodologie di duplicazione di pellicole, che hanno una struttura, un supporto e processi chimici completamente diversi, completamente diverse dovranno essere le metodologie d’intervento adottate dal restauratore, che deve essere in primo luogo uno studioso e un conoscitore di tali materiali. La coerente metodologia analitica, la segmentazione e l’approfondimento di questioni come originale, reversibilità, versioni, varianti, lacune ecc., hanno determinato un approccio che, per quanto successivamente criticato, ha generato una rinnovata attenzione della comunità scientifica verso problematiche fino ad allora meno definite e note nei circuiti dell’archivio o del laboratorio, col merito di aver conferito un’attestata validità storica e scientifica a questo settore disciplinare meno esplorato.
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P. Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film, Laterza, RomaBari, 2006. 86 H. Münsterberg, The Film: A Psychological Study. The Silent Photoplay in 1916, New York, Dovers publication, [2004], trad. it. Film: il cinema muto nel 1916, Pratiche, Parma, 1980. 87 T. Elsaesser, M. Hagener, Filmtheorie. Zur Einführung, Hamburg, Junius Verlag [2007], trad. it. Teorie del Film, Torino, Einaudi, 2009. 88 J. Aumont, A quoi pensent les films, Paris, Seguier [1996], trad. it. A cosa pensano i film, Pisa, ETS, 2007.
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medium estetico sono senza dubbio i percorsi disegnati dagli studi sul cinema. Nell’ambito dei Film Studies, infatti, sono state elaborate teorie di lettura ed interpretazione molto eterogenee, in una epistemologia vera e propria del testo e del linguaggio filmico. L’analisi del film si determina come una disciplina che inscrive gli studi sul cinema nell’ampio panorama della cultura contemporanea, focalizzandosi sulle configurazioni formali e sulle modalità di produzione semantica85. Unanimemente considerata la prima teoria del film, l’opera pionieristica di Hugo Münsterberg86 del 1916 apre la strada alle riflessioni sul linguaggio cinematografico. Thomas Elsaesser propone una distinzione fra teorie formalistiche e teorie realistiche; le prime evidenziano il carattere compositivo e costruttivo dell’immagine, quasi immaginando il quadro cinematografico come all’interno di una cornice, in funzione dei valori iconici e visivi, non necessariamente figurativi − Arnheim, Ejzenstejn. Le teorie realistiche invece hanno concettualizzato la semitrasparenza del mezzo filmico, possibilità di una lettura di realtà non mediatica − Bazin, Kracauer87. Spesso e volentieri grandi interpretazioni di film sono state realizzate mediante un sapere esterno applicato al cinema, secondo modalità discutibili; dunque applicando concetti marxisti, narratologici, di psicanalisi freudiana o lacaniana, ecc. Compito dell’interprete è rispettare le possibilità del testo in relazione a prospettive teoriche varie e capaci di realizzare un dialogo attivo con il testo. Jacques Aumont in A cosa pensano i film individua una struttura dialettica dell’attività analitica: in una prima fase si riconoscono i codici e le componenti del film, mentre in una seconda fase si attiva un’interpretazione dei piani semantici coinvolti. Il film va letto nell’orizzonte della tecnica e dei linguaggi, senza la sovrapposizione di griglie metodologiche forti. L’oggetto dell’analisi del film non è tanto l’opera quanto i problemi di immagine suscitati dal film88.
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Per il concetto di vibrazione corticale cfr. G. Deleuze, L’image-temps, cit. P. Bertetto, L’eidetico, l’ermeneutica e il restauro del film, cit., p. 102. 91 Ibidem. 92 P. Ricoeur, De l’interprétation: essai sur Freud, Paris, Éditions du Seuil [1965], trad. it. Dell’interpretazione: saggio su Freud, Milano, Il Saggiatore, 1967. 93 M. Heidegger, Sein und Zeit, Halle, Niemeyer [1927], trad. it. Essere e tempo, Torino, UTET, 1969. 94 H. Gadamer, Wahrheit und Methode: Grundzuge einer philosophischen Hermeneutik, Tubingen, Mohr-Siebeck [1960], trad. it. a cura di Gianni Vattimo, Verità e metodo, Milano, Fabbri Editori, 1972. Gadamer si rifà alla tradizione romantica e classica, da Schleiermacher a Humboldt ed Hegel, allo storicismo di Dilthey, al neokantismo della scuola di Marburgo, ma anche al pensiero fenomenologico di Husserl e a quello ontologico di Heidegger. Gadamer elabora un’analitica esistenziale e testuale, sottolineando la centralità del rapporto soggetto-testo. 90
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Il metodo ermeneutico di Paolo Bertetto valorizza le componenti esegetiche sulla base di una considerazione generale delle teorie dell’interpretazione, sostenendo la produzione di pensiero innescata dal film e le ‘vibrazioni corticali’89 indotte dal cinema come macchina di sensazioni. Il cinema si fonda allo stesso tempo come forma e come interpretazione, producendo una bipolarità costitutiva, psico-fascinativa e psico-intellettuale90. Il film attua pertanto una molteplicità di letture possibili; è per questa ragione che eidetico ed ermeneutico sono i tratti salienti del film, presupposto storico e strutturale di legittimazione artistica del testo filmico91. Bertetto cita la definizione di interpretazione formulata da Ricoeur il quale la apostrofa come «ogni intelligenza del senso indirizzata a significazioni ambigue»92, mettendo in luce una dialettica tra senso immediato e senso nascosto. Esiste una lunga tradizione filosofica legata al problema dell’interpretazione, affrontato da Schleiermacher e sviluppato da Dilthey, diventando poi uno dei temi principali della riflessione esistenzialistica, che è giunta, con Martin Heidegger, a riconoscere la struttura ermeneutica di tutta l’esistenza umana (ermeneutica ontologica)93. Ma il filosofo che più di ogni altro ha insistito sulla centralità dell’ermeneutica è Hans-Georg Gadamer, allievo di Heidegger; per Gadamer l’atto ermeneutico è un atto storico che rivela due orizzonti culturali a confronto, configurando una fusione di orizzonti94. Un testo filmico consente una notevole proliferazione di letture, determinando una rinnovata rilevanza della questione dell’intentio lectoris. A tal proposito è importante ricordare lo svi-
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1.3.4 Originale? O for Original è il gioco di parole sollecitato dal titolo di un saggio di Antonio Costa96. Il saggio riflette sul problema dell’originale e dell’autentico nel campo del cinema, problema che investe i 95
Per approfondimenti sugli studi culturali: R.L. Salper, Cultural studies: crossing boundaries, Amsterdam, Rodopi, 1991; M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi, 2004; C. Lutter, M. Reisenleitner, Cultural studies: eine Einführung, Wien, Loecker Erhard Verlag [1999], trad. it. Cultural studies: un’introduzione, Milano, Mondadori, 2004. Per approfondimenti sui Gender studies: D. Carson, L. Dittmar, J.R. Welsch, Multiple Voices in Feminism Film Criticism, University of Minnesota Press, Minneapolis/London, 1994; M.A, Doane, Femmes Fatales: feminism, film theory psychoanalysis, New York, Routledge [1991], trad. it. Donne fatali: cinema, femminismo, psicanalisi, Parma, Pratiche, 1995; L. Mulvey, Visual and other pleasures, Bloomington, Indiana University Press, 1989; V. Pravadelli, Feminist Film Theory e Gender Studies, in P. Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 59-102. 96 A. Costa, O for Original?, in G. Farinelli, N. Mazzanti, Il cinema ritrovato. Teoria e metodologia del restauro cinematografico, Bologna, Grafis, 1994.
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luppo di ricerche eterogenee sulla ricezione (cosiddette target-oriented) e sulla relatività dei processi interpretativi legati alla sessualità o all’etnia o in generale ai diversi fenomeni culturali presenti in seno ad un gruppo sociale. L’idea di una infinita molteplicità di letture relativamente ad un testo, sulla base di prospettive culturaliste, identitarie o di Gender95, è un sistema che si fa garante di ricchezza, che legge il conflitto in una prospettiva di rilevanza e significati, escludendo l’ “a priori” di una verità univoca. Tornando ai rapporti tra ermeneutica del film come esegesi del film stesso in vista di un suo restauro, di un ripristino, di una riattivazione che ne presenti la struttura contro le eteronomie del tempo, suo inesorabile distruttore, è indispensabile considerare la vita storica del film, radicata in un tempo di peculiare modalità e tecnologia produttiva, di precisi gusti collettivi, la reperibilità delle sue fonti, la corretta o plausibile chiave di lettura di tali fonti. Secondo Bertetto il discorso storico e interpretativo relativo a questioni di restauro deve saldarsi con l’archeologia del cinema, intesa come una nuova scienza che punta alla ricerca, alla riorganizzazione e la ricostruzione dell’integrità del testo filmico originario, difendendolo dall’inesorabilità del tempo o dalle leggi eterodosse del mercato.
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Per la definizione di testo spettacolo cfr. F. Ruffini, Semiotica del testo: l’esempio teatro, Roma, Bulzoni, 1978, in cui si evidenzia l’apparato performativo dello spettacolo e il problema del rapporto in praesentia. 98 M. Canosa, Per una teoria del restauro cinematografico, cit., p. 1098. 99 G. Beni, C. Sedda, La copia infedele. Per una filologia dell’opera filmica, in «Cinema & Cinema», Gennaio/Aprile 1992, p. 51.
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connotati del film dal punto di vista dell’alterazione, della modificazione e della “falsificazione” degli originali, riecheggiando il celebre F for Fake di Orson Welles, 1975. Data la condizione di “riproducibilità tecnica” che caratterizza il cinema e la fotografia come arti della società industriale, il testo filmico dovrebbe costituirsi come un testo ripetibile, mentre secondo Costa esso è più simile ad un testo orale, non ripetibile, che ad un testo scritto, in funzione dell’aspetto di comunicazione in praesentia, che avviene con la duplice presenza del soggetto enunciatore e del destinatario. Questo perché Costa considera il testo spettacolo97 più del film in sé, in cui il concorso di elementi contestuali pragmatici è determinante ai fini dell’esperienza del film, parimenti al segno linguistico. La ricerca dell’originale nel cinema è una questione complessa; se l’archetipo in filologia è il testo ricostruito attraverso i testimoni di quella tradizione che sono arrivati allo studioso, nel cinema siamo di fronte ad antenati plurimi: avremo la copia depositata al copyright, la copia proposta per il visto di censura, la copia standard, la copia della prima proiezione pubblica senza aggiungere i negativi e le matrici intermedie98. Alcune ipotesi sul concetto di originale cinematografico portano ad identificarlo con il film come fu visto la prima volta dal pubblico, il film così come fu concepito da chi lo ha creato o il film che funziona bene per il pubblico moderno99. L’impressione originale del film come evento percepito da un pubblico non può essere ripristinata: il restauro, come diceva Brandi, si concentra sugli elementi materici e formali e non può recuperare in alcun modo l’esperienza di ricezione, la visione spettatoriale, ormai storicizzata. Però il restauratore João Socrates Oliveira ha basato i suoi restauri su ritrovamenti scientifici; secondo lui il restauro di un film muto degli anni Venti deve essere improntato all’impressione visiva di una proiezione a carbone, come si usava in quell’epoca. Secondo De Oliveira sarebbe possibile creare una corrispondenza tra tinte, colori e saturazione cromatica nelle nuove copie che possa simulare, in una proiezione contemporanea con mo-
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A. Busche, Just another form of ideology, cit. p. 15. Per la questione delle varianti cinematografiche cfr. A. Antonini, Il film e i suoi multipli, Forum, Udine, 2003; P.-E. Jaques, Le film et ses multiples, «1895», n. 37, 2002; H. Klippel, N. Mazzanti, The Questionable Identity of Films, in V. Re, V. Innocenti (a cura di), Limina/Le soglie del film, Udine, Forum, 2004; D. Pozzi, Quelle version restaurer? Deux cas concrets: Nana et Prix de beauté, «Cinema & Cie» n.4, 2004. 102 Ivi, p. 55. 103 FIAF Cataloguing Commission, Fiaf Cataloguing Rules, Bruxelles, 1997. 101
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derne lampade allo xeno, l’aspetto delle antiche proiezioni a carbone100. L’approccio di De Oliveira è molto originale, poiché prende in considerazione non solo le proprietà fisiche della pellicola, bensì anche l’aspetto visivo in proiezione, tentando di restaurare non solo l’artefatto fotochimico, oggetto-pellicola, ma anche la sua effimera manifestazione schermica. In questo dibattito è fondamentale considerare il problema delle varianti. Si è detto come fino agli anni Venti fosse prassi tra i grandi registi del cinema muto licenziare più versioni di uno stesso film, originando più camera-negative; in questo caso entriamo quindi nel campo delle varianti101. Le varianti rappresentano in filologia delle divergenze testuali non erronee; applicando tale definizione al film, ci troveremo di fronte a versioni significative della tradizione e della storia della ricezione di un film102. Tra le ragioni di queste differenze tra copie diverse di uno stesso film vi sono i limiti e le restrizioni imposte dalla tecnica: all’epoca del cinema muto, ad esempio, la sostanziale irreperibilità di pellicola adatta alla duplicazione impediva la produzione di duplicati dei negativi originali di qualità sufficiente per rispondere alle esigenze del mercato e, di conseguenza, nel momento in cui il film doveva uscire dai confini nazionali, le modifiche venivano effettuate solo nelle copie positive; inoltre i momenti di transizione tecnologica, come il noto passaggio dal muto al sonoro, impongono un radicale cambiamento di tutta l’industria cinematografica che porta alla coesistenza di film in versione muta e sonora. Il concetto di versione e variante viene affrontato già nell’ambito della catalogazione dei materiali-film; le regole di catalogazione della FIAF103 identificano il film con il suo titolo originale, indipendentemente dall’esistenza di un altro titolo sulla copia da catalogare. Secondo il manuale di catalogazione FIAF, le varianti includono modifiche limitate alla sequenza dei titoli, al sonoro (incluso dop-
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Ibidem. C. Brandi, Teoria del restauro, cit., p. 1090. 106 Un esempio molto noto di freeze frame è l’inquadratura finale del film I quattrocento colpi di François Truffaut (Francia, 1959). 105
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piaggio, musica, dialogo), o al contenuto in seguito a tagli di censura, mentre le versioni sono definite come edizioni di un’opera che presentano significativi cambiamenti nel contenuto, nel cast, nell’eliminazione o aggiunta di parti rispetto ad altre versioni104. Un altro campo d’azione del restauro d’arte mutuato nel restauro cinematografico è la lacuna; secondo la definizione di lacuna, nel cinema si tratta di una interruzione del tessuto figurativo e narrativo: a differenza dell’opera d’arte tradizionale, però, la figuratività del film è rintracciabile sia sul singolo fotogramma che sul piano della sua unità seriale, mentre un quadro ha un assetto fisico individuale e simultaneo105. Rintracciare le lacune è una delle fasi fondamentali del restauro poiché permette di comprendere quale sia stata l’unità complessiva e originaria dell’opera; a differenza della posizione in cui si colloca sulla pellicola, riscontreremo una lacuna puntuale quando coinvolge il singolo fotogramma; una lacuna locale quando l’interruzione comprende un breve segmento di film; estesa quando interessa l’intero rullo. La lacuna potrà essere anche più o meno profonda, assumere diverse forme (pulviscolare, filiforme come graffi e rigature, maculare) e coinvolgere varie zone della pellicola, dal centro alle zone marginali; a parte la lacuna causata dal deperimento fisico del supporto, l’usura e la negligenza minano costantemente l’integrità dell’opera. Per quanto riguarda le lacune narrative il restauratore, confrontandosi con una pellicola particolarmente compromessa, ha diverse possibilità di intervento: può inserire dei cosiddetti freeze frames, cioè un’inquadratura in cui un’immagine fissa è stampata nei fotogrammi molte volte, in modo da conferire un’interessante illusione di fotografia immobile106. La pratica dell’inserimento di freeze frames è però ormai considerata desueta a causa l’arbitrarietà altamente invasiva dell’interruzione del tessuto narrativo e visivo del film con un’aggiunta non prevista nell’originale. È un’operazione molto diversa dal cartello, che invece consiste più in un’edizione critica, secondo il metodo fi-
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1.3.5 Accesso e diritto d’autore Un problema che riguarda le politiche di accesso e di circolazione delle opere, restaurate e non, è la questione legata al copyright, che tutela e regola le proprietà intellettuali, ma anche il corpus legislativo sulle copie e sulle proiezioni. La questione riguarda oltre che le responsabilità autoriali l’intero panorama commerciale di circolazione dei film, i compensi acquisiti dagli aventi diritto in sede di distribuzione, anche dopo il loro deposito in un archivio. Anche gli archivi nazionali no profit devono infatti fare i conti con una complessa legislazione commerciale, spesso vincolata a normative di paesi diversi da quello ospitante. Oggetto delle dispute non solo la tutela dei film, mandato fondamentale delle cineteche, ma anche la garanzia dei diritti di case di produzione e distributori detentori dei diritti, che vincolano con particolari restrizioni o risarcimenti economici la libertà di distribuzione dei materiali archivistici109. La maggior parte dei film può essere acquisita, conservata e preservata nelle cineteche ma non può essere proiettata senza il
107 E. Bowser, Alcuni principi di restauro del film, in Venturini, Il restauro cinematografico, cit., p. 56. 108 Vedi paragrafo 1.2.1, nota 61. 109 G. Fossati, From Grain to Pixel. The Archival Life of Film in Transition, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2009, p. 89.
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lologico, sebbene sia forse meno godibile dal punto di vista della fruizione spettatoriale. Eileen Bowser propone soluzioni di compromesso per le lacune, sottolineando la sostanziale importanza del dover dichiarare ciò che manca, l’integrazione o l’impossibilità di attingere a fonti e di produrre un concreto intervento, sempre nella cruciale esigenza del mantenimento della spettacolarità107.Non va dimenticato il fatto che ogni singola lacuna, errore o difetto rintracciato nella pellicola da restaurare appartiene comunque ad una storia “fisica” del film, è la testimonianza del suo passaggio nel tempo. Si è visto come il concetto di patina del tempo, da rispettare, mantenere e preservare, sia un concetto chiave nel restauro d’arte108. Anche per quanto riguarda il restauro dei film sarebbe eticamente più corretto considerare l’aspetto della distanza temporale, della concezione cosciente di un passato storico che la storia fisica del film testimonia.
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permesso dei detentori dei diritti, vanificando anche la stessa missione delle cineteche, ossia il conservare e preservare i film per consegnarli alla visione del pubblico. Se il film, oltre che una serie di lunghe bobine di pellicola fotografica, è prima di tutto un’esperienza legata alla visione spettatoriale, è necessario mantenere e vivificare la fruizione collettiva attraverso una programmazione coerente che promuova i film, in maniera analoga alla forma di esibizione pubblica esperita dai musei d’arte, in cui il lavoro curatoriale sulle collezioni promuove il valore delle opere d’arte nella loro contestualizzazione storica o tematica. L’istanza di curatela come interpretazione estetica e conservazione del film è e deve essere finalizzata all’accesso pubblico, nell’accezione di circolazione e visione, nell’ampio senso di promozione culturale. Purtroppo le priorità del lavoro di restauro, i potenziali conflitti coi detentori dei diritti, le incombenze tecnico-amministrative, il carico lavorativo in più posto ad uno staff spesso ipersollecitato, gli investimenti economici, ecc. sono tutti problemi effettivi con cui la pratica quotidiana di un archivio deve necessariamente scontrarsi. Pertanto è facile che le questioni relative all’accesso vengano spesso messe da parte, nonostante siano il cuore delle cineteche. La legge n. 633 del 22 aprile 1941 è la normativa attraverso cui in Italia si protegge il copyright, nell’ambito della letteratura, delle arti e delle opere musicali, televisive, radiofoniche, computazionali. Viene costantemente aggiornata per le complesse implicazioni dei soggetti commerciali coinvolti e in particolare gli articoli da 44 a 50 disciplinano l’esercizio dei diritti d’autore e della loro utilizzazione economica nella fattispecie delle opere cinematografiche. Essendo il film un’opera complessa, collettiva (non è prodotta da un unico autore, bensì da una serie di competenze diversificate) e composta da una serie di elementi distinguibili (soggetto, sceneggiatura, regia, musica, ecc.). È il produttore a poter rivendicare il ruolo di titolare del diritto d’autore nei limiti dello sfruttamento cinematografico. Si considera produttore dell’opera cinematografica chi è indicato come tale sulla pellicola. Se l’opera è registrata presso il registro SIAE ovviamente prevale l’attribuzione stabilita in sede di atto del deposito. Può essere incoraggiante scoprire che talvolta le compagnie distributrici non rinnovano il copyright dopo la scadenza (nel caso di film prodotti prima del 1978). Questo comporta che molti film siano rientrati nel dominio pubblico. Prima della legge sul copyright del
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110 Per la definizione di intermediale cfr. J.D. Bolter, R.A. Grusin, Remediation. Understanding New Media, Cambridge-Massachussetts, MIT Press [1999], trad. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini e Associati, 2002, e P. Montani, Immaginazione intermediale, Roma-Bari, Laterza, 2010.
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1976 quando di un film non veniva registrato il diritto d’autore esso risultava di pubblico dominio, ma dal 1978 in poi tutto è stato regolamentato con dettami molto più fiscali. Tutto il processo di preservazione e salvaguardia del patrimonio non è economicamente autosufficiente, ma si basa su finanziamenti pubblici o sostegni di cosiddetto “charitable funding”, ossia fondi che non sono propriamente beneficenza, ma figurano come tale per le imprese finanziatrici che ottengono così cospicui sgravi fiscali da parte dei governi in molti paesi occidentali. Esistono ovviamente altre tipologie di archivi economicamente autosufficienti, solitamente privati e sottoposti a grandi industrie di produzione o canali broadcast televisivi o radiofonici, per esempio. Ovviamente la condizione contemporanea di prolifico contesto intermediale110, ipertrofico nelle varie e differenti modalità fruitive del cinema, garantisce e determina una condizione assolutamente nuova di circolazione del materiale audiovisivo, modificando l’accesso, l’approccio e il rapporto del pubblico contemporaneo del film, come vedremo nei prossimi capitoli.
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Il film non è più un mezzo moderno; è completamente storico1
L’attuale condizione dei media audiovisivi, in una fase di transizione graduale in cui l’elemento analogico e fotochimico è gradualmente rimpiazzato dal dispositivo digitale, determina un’influenza radicale sulla pratica di produzione e distribuzione di film, nonché sulle numerose riflessioni teoriche sul medium, ma anche sulle modalità di archiviazione, conservazione e recupero dei film. Vi sono state svariate transizioni tecnologiche nella storia del cinema, dalle varietà di tecnologie dell’epoca del cosiddetto “pre-cinema” alle innumerevoli tecnologie dell’audiovisione di immagini in movimento, dal cinema muto al sonoro, dagli standard degli anni Trenta e Cinquanta, dall’introduzione della televisione e la conseguente competizione col nuovo medium (o integrazione tra i due). Tutti questi momenti si sono determinati come catalizzatori di un processo continuo di cui sono stati espliciti testimoni, ossia la trasformazione dei media audiovisivi2 e la loro natura transizionale3.
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Mia traduzione da D. Rodowick, The Virtual Life of Film, CambridgeLondon, Harvard University Press [2003], trad. it. Il cinema nell’era del virtuale, Milano, Edizioni Olivares, 2008, p. 93. 2 G. Fossati, From Grain to Pixel. The Archival Life of Film in Transition, cit., p. 13. 3 Ivi, p. 261, nota n. 1. Fossati fa riferimento alla definizione di transizione mediatica proposta dalle conferenze organizzate fin dal 1999 dal Massa-
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Capitolo 2 Il nuovo medium: la tecnologia digitale e il suo impatto
chussetts Institute of Technology sull’argomento delle transizioni tecnologiche nei media audiovisivi; in particolare cfr. D. Thorburn, H. Jenkins (a cura di), Rethinking Media Change: The Aesthetics of Transition, Cambridge-MA, MIT Press, 2003; D. Rodowick, The Virtual Life of Film, cit.; L. Gitelman, G.B. Pingree (a cura di), New Media, Cambridge-MA, MIT Press, 2003; S. Zielinski, Audiovisions: Cinema and Television as Entr’actes in History, Amsterdam, Amsterdam University Press, 1999. 4 O. Grau, Virtual Art. From Illusion To Immersion, Cambridge-London, MIT Press, 2003, p. 7. 5 G. Fossati, From Grain to Pixel. The Archival Life of Film in Transition, cit., p. 14. 6 T. Gunning, Re-Newing Old Technologies: Astonishment, Second Nature and the Uncanny in Technology, from the Previous Turn-of-the-Century, in D. Thorburn, H. Jenkins (a cura di), Rethinking Media Change: The Aesthetics of Transition, cit., p. 56. 7 «Di conseguenza, archivi e musei di film sono alle prese con domande sul loro ruolo. Come risposta essi potrebbero o chiudere le porte ai nuovi media o accettarli sfidando alcune loro opinioni ed ipotesi sul mezzo cinematografico.
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Il panorama artistico contemporaneo è profondamente trasformato dalla rivoluzione tecnologica in atto, che ha prodotto un uso sistematico della trasformazione del concetto di illusione, fondante la genesi dell’opera d’arte, nell’idea di “immersione totalizzante” dello spettatore in un evento artistico, in un happening, in un’installazione, in un film, che diventano esperienze di un’esplorazione sensorio-motoria nuova4. Le attuali tecnologie della produzione cinematografica vivono un’ibridazione progressiva in cui analogico e digitale coesistono in vari segmenti della catena produttiva5. Secondo Tom Gunning le transizioni tecnologiche del passato possono essere utili per investigare la corrente fase di passaggio, interpretando i cambiamenti nell’ottica di cicliche evoluzioni mediali6. Anche la pratica dell’archivistica di conseguenza sta cambiando rapidamente, pertanto si trasformano le modalità contemporanee di preservazione del patrimonio filmico. Nuove forme di archivi digitali si stanno sviluppando anche attraverso la rete internet, intervenendo grazie alla creazione di media partecipativi usergenerated e forme d’accesso collettivo più aperte e di quanto gli archivi tradizionalmente non siano mai stati in grado di offrire. Secondo Giovanna Fossati cineteche e musei del cinema si interrogano ulteriormente sul proprio ruolo, sul senso e sulle difficoltà introdotte dal nuovo medium7.
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2.1 Un’epistemologia binaria Fossati riassume l’attuale dibattito teorico riducendo sinteticamente gli orizzonti interpretativi in due macro-prospettive: la prima considera la tecnologia digitale come un radicale cambiamento nella natura del medium (Rodowick, Cherchi Usai, Virilio, Baudrillard e altri)11 e la seconda annovera il digitale nello stesso panorama mediatico del film, come sua evoluzione (Manovich, Gunning, Thorburn e Jenkins, Bolter e Grusin, Elsaesser e altri)12. Qualunque sia la scelta, determinerà il loro futuro». Mia traduzione da G. Fossati, From Grain to Pixel. The Archival Life of Film in Transition, cit., p. 15. 8 F. Ciotti, G. Roncaglia, Il mondo digitale. Introduzione ai nuovi media, Roma-Bari, Laterza, 2003, citato in C. Uva, Cinema digitale. Teorie e pratiche, Firenze, Le Lettere, 2012. 9 D. Thorburn, H. Jenkins (a cura di), Rethinking Media Change: The Aesthetics of Transition, cit. p. 11. 10 E. Menduni, I media digitali: tecnologie, linguaggi, usi sociali, RomaBari, Laterza, 2007, p. 12. 11 Per la teoria del radicale cambiamento del medium cfr. D. Rodowick, The Virtual Life of Film, cit.; P. Cherchi Usai, The Demise of Digital, «Film Quarterly» n. 3, 2006; P. Virilio, La Machine de vision, Paris, Galilée [1988], trad. it. La macchina che vede, Milano, SugarCo, 1989, e Id., La bombe informatique, Paris, Galilée [1998], trad. it. La bomba informatica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000; J. Baudrillard, Le crime perfait, Paris, Galilée [1995], trad. it. Il delitto perfetto, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996. 12 Per la teoria della continuità “evolutiva” che assimila il medium digitale alla serie di innovazioni tecnologiche nel percorso dei medium audiovisivi cfr. T. Gunning, Re-Newing Old Technologies: Astonishment, Second Nature and the Un-
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Per analogico s’intende un meccanismo in cui i dati sono rappresentati da quantità fisiche continuamente variabili, mentre il digitale è ciò che usa un calcolo numerico basato su unità discrete. Dunque le caratteristiche principali di riferimento risultano essere ‘continuo’ per l’analogico e ‘discreto’ per il digitale8. Nonostante la differenza sia sostanziale, si tende a considerare l’ibridazione tecnologica come effettiva marca dello stato attuale dei media, in cui coesistono forme e linguaggi vecchi e nuovi, nonostante la novità imponga la sua presenza in modalità sempre più consistenti9. Il trasferimento di un contenuto da un medium all’altro e la cooperazione dei media alla creazione di contenuti «multimediali» (immagini, suoni, testi), chiamato spesso «convergenza multimediale», è un processo che implica un rapporto dialogico in ambiti considerati distinti, come i media, le telecomunicazioni e l’informatica10.
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2.1.1 Teorie del radicale cambiamento Secondo Jean Baudrillard le nuove tecnologie hanno determinato un impatto inedito nell’esperienza artistica. L’immersione totalizzante del soggetto nello schermo e nel computer determina una forma di scomparsa della realtà, effetto di uno stimolo, di un modello. Baudrillard evidenzia come nella dimensione virtuale venga meno la scissione tra immaginario e concreto: tutto viene assorbito in egual misura, tutto viene realizzato, iper-realizzato. Tutto vi si trova in qualche modo programmato o promosso dentro una superformula, quella delle tecnologie digitali e di sintesi. Lo schermo è un luogo di immersione ed interattività. Baudrillard sollecita anche l’eredità immaginifica della fantascienza, che ci ha abituato a concepire spazi ‘altri’, con coordinate differenti, multi-spazi, o a sognare l’idea di manipolare il tempo reale. Questa dimensione ‘altra’ è stata interpretata dal filosofo francese secondo il mito platonico della caverna; nel mondo virtuale non ci sono né apparenze né essere, non esistono ombre giacché si canny in Technology, from the Previous Turn-of-the-Century, cit.; D. Thorburn, H. Jenkins (a cura di), Rethinking Media Change: The Aesthetics of Transition, cit.; J.D. Bolter, R.A. Grusin, Remediation. Understanding New Media, cit.; L. Manovich, The Language of New Media, Cambridge MA, MIT Press [2001], trad. it. Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Edizioni Olivares, 2002; T. Elsaesser, K. Hoffman (a cura di), Cinema Futures: Cain Abel or Cable. The Screen Arts in the Digital Age, Amsterdam, Amsterdam University Press, 1998. 13 Per il concetto di realismo nel digitale cfr. S. Prince, True Lies. Perceptual Realism, Digital Images, and Film Theory, «Film Quarterly», University of California Press, Vol. 49, n. 3, 1996, pp. 27-37.
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Naturalmente si tratta di prospettive complesse e articolate, che configurano paradigmi ermeneutici estremamente diversificati. Il panorama contemporaneo è sempre un oggetto di analisi particolarmente difficile: nonostante si tratti di un osservatorio privilegiato, dal punto di vista dell’analista immerso nel proprio tempo, lo studio di un fenomeno proprio di un’epoca in corso subisce le aporie di un’assenza di sistematizzazione teorica. La complessità degli oggetti culturali del nuovo millennio mette in discussione con grande efficacia teorica i concetti di programmabilità, partecipazione, realismo13, interazione e funzione spettatoriale, proponendo forme diversificate di fruizione dei nuovi molteplici elementi culturali.
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14 Cfr. W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, cit. 15 «Costanza di forma autonomamente dalla scala in un rapporto ipoteticamente dipendente». Mia traduzione da D. Rodowick, The Virtual Life of Film, cit., p. 49.
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opera nel dominio della trasparenza totale. Nella metafora della perdita di opacità Baudrillard esprime lo spessore dell’essere e la sua profondità, compreso un illusorio annullamento della minaccia della morte. Una critica radicale alla società dell’informazione mediatica, contestando come i media si frappongano fra la realtà e il soggetto annullando la molteplicità delle interpretazioni14. Un’altra posizione teorica che considera l’avvento del sistema digitale come un evento radicalmente nuovo è quella di David Rodowick, che sistematizza una serie di canoni relativi all’audiovisione digitale, prodotta da procedure automatiche, non più soggette alle qualità fisico chimiche di lenti o di grana e fotosensibilità della pellicola, strumenti analogici, ma ad un calcolo numerico. Viene meno la condizione di isomorfismo15, omologia tra la forma visibile e riconoscibile dell’immagine registrata sul medium e la forma proiettata e visionata, senza implicare l’uso di transcodifiche. Rodowick afferma il paradosso di un maggiore “realismo” percepito attraverso il medium digitale, sebbene esso sia forgiato in una natura interamente matematica: si modifica considerevolmente il concetto di indexicalità, che già dagli albori della fotografia ha indotto interrogativi sulla caratterizzazione cosiddetta “realista” dell’immagine fotografica. Secondo Rodowick con l’era digitale per la prima volta nella storia delle teoriche del cinema il processo fotografico è contestato alla base della rappresentazione audiovisiva. La prospettiva di una radicale estraneità del sistema digitale, organizzato sul calcolo binario computazionale, rispetto alla specificità materica ed oggettuale del film, determina per Rodowick un nodo epistemologico particolarmente rilevante, che si configura come una forte separazione nella storia dei media, considerando però la separazione come una transizione, un passaggio di testimone tra linguaggi ed epoche differenti. Per Rodowick già il cinema, attraverso la natura ibrida della propria espressione, ha configurato una nuova tipologia di arte dello spazio e del tempo, come dimostrano le speculazioni sul cinema ad opera di grandi teorici come Erwin Panofsky, Sergej Ejzenštejn, André Bazin e Gilles Deleuze.
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D. Rodowick, The Virtual Life of Film, cit., p. 93. Ivi, pp. 14-15. La nozione di arte autografica, opposta a quella di arte allografica, è ripresa da Nelson Goodman (cfr. N. Goodman, Languages of Art, Indianapolis, Bobbs-Merrill, 1968), che affronta una discussione sulla paternità autoriale dell’opera nell’esecuzione manuale. Per Goodman è autografico il dipinto o la poesia visiva, non la stampa, né la musica, né il cinema, arti della riproducibilità. Il cinema in particolare è il prodotto di un’autorialità collettiva e complessa. 18 Ivi, p. 15. 19 Virilio parla di arte terminale poiché ha bisogno, per realizzarsi, soltanto del faccia a faccia tra un corpo torturato e una cinepresa automatica. Le arti visive, che secondo Schopenhauer consistevano nella sospensione del dolore di vivere, diventano, nel ventesimo secolo, una corsa verso il dolore e la morte, mentre gli individui hanno preso l’abitudine di lasciare in eredità il loro cadavere al voyeurismo scientifico. Cfr. P. Virilio, La bombe informatique, cit., p. 49. 17
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Per quanto riguarda il digitale la questione dell’ibridazione si rivela ancora più complessa, poiché si tratta di un paesaggio “senza immagine”16 sia per ragioni storiche che ontologiche. Queste forme secondo Rodowick si definiscono senza immagine, nel senso che ciò che appare sugli schermi elettronici e digitali non è pienamente conforme ai criteri attraverso i quali in passato siamo giunti a riconoscere qualcosa come immagine creata, estetica. Secondo Rodowick è pertanto difficile comprendere in cosa consista il medium dei processi computazionali e cosa, di fatto, lo renda “nuovo”. La definizione di “nuovi media” comprende un’ampia varietà di artefatti dei processi computazionali: supporti, linguaggi, design, intrattenimento e programmazione, sintesi di suono e immagine, manipolazione, editing, elaborazione testuale, interfaccia grafica, interazione uomo-macchina nelle più eterogenee forme comunicative. Inoltre nel caso delle immagini generate al computer si problematizza la questione dell’autorialità: le immagini di sintesi contrastano il livello autografico17 dell’animazione tradizionale e dell’effettistica, in un infinito coefficiente di manipolazione automatizzata18. Anche il filosofo francese Paul Virilio ha riflettuto sull’impatto delle nuove tecnologie applicate all’arte e ai media audiovisivi. Pur distinguendo tra arte attuale e arte virtuale, egli parla del complesso di formule artistiche a cavallo tra i due millenni come di un’arte terminale19, come se nell’attuale stato del medium il risultato sia un’espressione artistica innervata di morte; la lacerazione dell’ordine insita nell’opposizione radicale dell’arte è anche la controfigura
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20 «I media industriali godono di una singolare depravazione delle leggi democratiche. In effetti, se la televisione e per osmosi la stampa non dispongono a priori della libertà di riferire informazioni false, la nostra legge concede loro contro lo strapotere di mentire per omissione, censurando e vietando ciò che non interessa o che possa pregiudicare i loro interessi». Mia traduzione da P. Virilio, L’art du moteur, Paris, Galilée [1993], p. 13, trad. it. Lo schermo e l’oblio, Milano, Anabasi, 1994. 21 La dromologia, o scienza della velocità, dal greco δ ó ς (=dròmos), è il principio che lo stesso Virilio ha inventato per spiegare, secondo una complessa impostazione teorica, le relazioni tra politica e territorio. 22 «Dopo la prima bomba, l’atomica in grado di disintegrare la materia con l’energia della radioattività, emerge alla fine del millennio lo spettro della seconda bomba, la bomba informatica capace di disintegrare la pace delle nazioni con l’interazione di informazioni». Mia traduzione da P. Virilio, La bombe informatique, cit., p. 12. 23 L’opzione di Virilio è condivisa da Oliver Grau, che cita Aby Warburg e la sua deduzione dell’abbattimento delle differenze culturali attraverso l’introduzione dei nuovi media. «Telegrammi e telefoni distruggono il cosmo. Riflessi mitici e simbolici creano spazio per la meditazione o il pensiero nella sfida per le connessioni spirituali tra l’uomo e il suo ambiente, ma ciò viene assassinato dalle connessioni elettriche di una frazione di secondo. Mia traduzione da A.
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del dominio dell’informazione20. Virilio afferma che alla fine del ventesimo secolo l’arte non racconta più il passato, né raffigura il futuro, ma diventa lo strumento privilegiato del presente e della simultaneità. Virilio come Baudrillard associa un coefficiente di potenzialità mortifera all’automazione dell’arte, un ulteriore tassello nel mosaico di critica estrema e radicale rivolta al sistema dei global media. Muovendo dai principi della ‘dromologia’21, il filosofo porta avanti una rappresentazione dell’attuale panorama mediatico come realtà globalizzata ed esemplificazione del massimo potere della potenza imperialista occidentale, se è vero che, secondo la scienza di Virilio, il potere si concentra nelle mani di chi dispone delle tecniche di spostamento e comunicazione più efficienti e veloci. Nella sua teorizzazione del panorama mediatico Virilio definisce l’arma di controllo del potere politico come una bomba informatica22. Il catastrofismo teorico, di orwelliana memoria, nel prendere in esame l’ossessione voyeurista delle live cam e della ‘telesorveglianza’ come attuazione del controllo politico, interpreta il potere dei nuovi media audiovisivi come forma di distruzione della soggettività individuale, paragonando dunque tale forza alle vere armi di distruzione di massa23.
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Warburg, Images from the Region of the Pueblo Indians of North America, Ithaca, Cornell Univ. Press, 1995 (ed. or. 1923) p. 59, citato in O. Grau, Virtual Art. From illusion to Immersion, cit., p. 227. 24 P. Lévy, Qu’est-ce que le virtuel?, La Découverte, Paris 1995. Lévy fa riferimento a Duns Scoto, che usò il termine virtuale per superare il baratro tra realtà formalmente unificata e l’esperienza della differenza. Inoltre la nozione di Scoto di potentia absoluta riesce a stabilire la possibilità di una percezione – o intellezione – della proiezione di un oggetto che non le preesiste se non nella riduzione dell’ente a suo concetto. 25 Per Lévy il soggetto non s’identifica con il corpo, ma con il suo «spazio antropologico», cioè con la sua capacità di comunicare e di interagire con altri, qualunque sia il mezzo utilizzato. Lévy è considerato uno dei teorici del postumano. Se già la concezione foucaultiana di umanità come rappresentazione di costruzioni linguistico-epistemologiche aveva determinato l’umano come costrutto storico, Gilles Deleuze e Felix Guattari, con la loro concezione del corpo senza organi, hanno inteso illustrare il potenziale liberatorio di una soggettività immateriale. Nel 1949 da Claude Shannon e Warren Weaver pubblicano The Mathematical Theory of Communication, nel quale l’informazione è definita come entità matematica indipendente dal substrato materiale che la trasporta. Si tratta del primo studio sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale di tipo funzionalistico, orientata alla costruzione riduzionistica di modelli computazionali della mente umana. Secondo il transumanesimo (da ‘transumano’, transhuman – abbreviazione di «transitional human», lemma coniato nel 1966 dal futurologo Fereidoun M. Esfandiary), la specie umana sarebbe il primo gradino di un’evoluzione postdarwiniana guidata dall’umanità stessa e non più dalla selezione naturale. Il termine ‘postumano’, invece, è sorto nell’ambito del dibattito filosofico sulla postmodernità, la cui formalizzazione si deve nel 1977 a Ihab Hassan, per indicare il superamento di una concezione di umanità che ritiene il dato biologico una costante. Cfr. J. Halberstam, I. Livingston (a cura di), Posthuman Bodies, Bloomington, Indiana University Press, 1995; D.J. Haraway, A Cyborg Manifesto. Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, in Id, Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature, Lon-
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Il postulato distopico di Virilio si pone in radicale opposizione all’approccio costruttivista di Pierre Lévy24, che studia le implicazioni socio-culturali dell’informatizzazione, del mondo degli ipertesti e degli effetti della globalizzazione in quella che definisce ‘intelligenza collettiva’; secondo Lévy l’intelligenza è distribuita dovunque c’è umanità, e tale intelligenza viene valorizzata al massimo mediante la sinergia delle nuove tecnologie, che abilitano annullamenti delle distanze, cooperazione e democratizzazione dello scibile, incoraggiando anche una visione dell’umano slegata dalla materialità del corpo e della carne25.
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2.1.3 Teorie della continuità
don, Routledge [1991]; trad. it. Un manifesto per cyborg. Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo ventesimo secolo, in Id, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995; I.H. Hassan, Prometheus as Performer. Towards a Posthumanist Culture?, in M. Benamou, C. Caramella (a cura di), Performance in Postmodern Culture, Madison, Coda Press, 1977; T. Macrì, Il corpo postorganico, Milano, Costa & Nolan, 1996. 26 Ernest Gombrich analizza «la parte dell’osservatore» nel codificare le informazioni mancanti delle immagini visive nelle arti. E. Gombrich, Art and Illusion. A Study in the Psychology of Pictorial Representation, Princeton, Princeton University Press [1960], trad. it. Arte e illusione: studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Torino, Einaudi, 1962. 27 Ivi, p. 250.
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Lev Manovich ha invece analizzato il linguaggio dei nuovi media collocandolo entro la storia delle moderne culture visive e mediali per affinità e differenze, forme culturali e linguaggi precedenti. Si concentra sui parallelismi tra la storia del cinema e la storia dei nuovi media, sull’identità del cinema digitale, sulle relazioni tra il linguaggio dei multimedia e le forme culturali pre-cinematografiche del XIX secolo, sulle funzioni dello schermo, della videocamera mobile e del montaggio, sui legami storici tra nuovi media e cinema d’avanguardia, esaminando anche i principi su cui si basano i software e gli hardware, l’effettivo funzionamento ed i processi attivati dagli strumenti tecnologici digitali. Proseguendo la linea teorica di Lévy, secondo il quale il processo di virtualizzazione non inizia oggi, ma ha sempre accompagnato lo sviluppo storico della cultura umana, dai primi graffiti all’invenzione della scrittura, fino ad arrivare alla stampa e all’avvento delle moderne tecnologie, Manovich interpreta le nuove tecnologie mediatiche come una ‘tautologia dell’interattività’, sempre considerando come il concetto di interazione sia proprio di tutta l’arte moderna. Le ellissi narrative, l’omissione e varie formule di ‘scorciatoie’ descrittive costringono l’utente a cercare di ricostruire le informazioni mancanti26. Nel ventesimo secolo il montaggio cinematografico si è determinato come la nuova tecnica narrativa che obbligava il pubblico a colmare mentalmente il vuoto tra delle immagini scollegate tra loro. Lo studioso afferma che nonostante la complessità delle innovazioni stilistiche, il cinema fotochimico trova la sua base nell’idea baziniana di cinema come transfert di realtà, affermando che il cinema è dunque l’arte dell’indice: il tentativo di trasformare le tracce in arte27.
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Ibidem. Per l’idea di cinema grafico cfr. D. Willoughby, Le cinéma graphique: Une histoire des dessins animés: des jouets d’optique au cinéma numérique, Paris, Textuel, 2009; L. Mannoni, Trois siècles de cinéma. De la lanterne magique au cinématographe, Paris, Cinémathèque Française, 1995; G. Alonge, A. Amaducci, Passo uno, l’immagine animata dal cinema al digitale, Torino, Lindau, 2003. 29 Jacques Ellul ha argomentato, durante i suoi studi sulle tecnologie computazionali negli anni Sessanta e Settanta, che la tecnologia è sempre una forma di ‘mediazione’, e ciò che emergeva come attuale ‘sistema tecnologico’ è una forma di mediazione particolarmente potente: la tecnologia non è un semplice strumento o medium, ma una mediazione nel senso di giuntura passiva o intervento attivo fra due elementi. Il complesso sistema tecnologico forma un’egemonia di frammentazione, semplificazione, organizzazione in cui tutto è ridotto ad oggetto manipolabile. Cfr. J. Ellul, Le Système technicien, Paris, Calmann-Lévy [1977], p. 86, trad. it. Il sistema tecnico: la gabbia delle società contemporanee, Milano, Jaca Book, 2009. 30 Problema esplorato anche da C. Marvin, When Old Technologies Were New: Thinking about Electric Communication in the Late Nineteenth Century, Ox-
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L’identità indexicale del cinema si trasforma nel momento in cui è possibile generare delle scene realistiche con un sistema di animazione tridimensionale; oppure modificare fotogrammi o intere sequenze con un software di grafica; o ancora, tagliare, distorcere, allargare e montare immagini digitalizzate cosi da ottenere una assoluta credibilità fotografica, senza aver di fatto filmato nulla. Dunque la teoria di Manovich è che attraverso il digitale si modifica la realizzazione cinematografica delle immagini in movimento, vertendo in direzione di una costruzione manuale delle immagini, in una forma che evoca un ritorno alle pratiche paleo-cinematografiche del XIX secolo, quando le immagini proiettate erano esperienze di un cinema grafico, dipinte e animate a mano; una sorta di sottogenere di pittura28. Naturalmente tale definizione sottolinea il coefficiente di manipolazione e alterazione che gli strumenti digitali operano sul film; problema che naturalmente si applica anche ai processi di restauro, in cui l’intervento di composizione grafica (detta compositing) è previsto come metodologia standard nell’integrazione delle lacune. In tal modo ovviamente il cinema digitale più che determinarsi come strumento e medium, nei termini effettivi di una ‘mediazione’29. Un altro studioso che legge il nuovo sistema mediatico in una prospettiva ‘evoluzionista’ è Tom Gunning, il quale si concentra sulla percezione di ‘novità’ delle nuove tecnologie30, frequente og-
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ford, Oxford University Press, 1988; J.H. Lienhard, How Invention Begins: Echoes of Old Voices in the Rise of New Machines, Oxford, Oxford University Press, 2006. 31 T. Gunning, Re-Newing Old Technologies: Astonishment, Second Nature and the Uncanny in Technology, from the Previous Turn-of-the-Century, cit., p. 45. 32 Mia traduzione da M. McLuhan, Understanding Media: the Extensions of Man, New York, New American Library [1964], p. 23, trad. it. Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967.
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getto di stupore e sorpresa, tracciando un parallelo con le transizioni mediatiche e le innovazioni tecnologiche di epoche precedenti, in cui le innovazioni si attuano come prodotto dei discorsi che le circondano. Gunning ravvisa analogie con le tecnologie dell’epoca del pre-cinema e dei padiglioni delle grandi Esposizioni Universali a cavallo tra Otto e Novecento, disegnando un quadro complessivo del sostrato storico e dell’apparato teorico sotteso nell’idea stessa di innovazione tecnologica: Gunning, riprendendo Heidegger e Šklovskij, considera come l’atteggiamento di stupore e meraviglia dell’uomo contemporaneo davanti alla tecnologia possa reiterarsi e rinnovarsi ciclicamente31: ciò che era strabiliante in un’epoca diviene accettato e scontato nelle epoche successive. La continuità tra il cinema e l’immagine digitale è pertanto ratificata in una sostanziale analogia discorsiva, in cui non si evidenziano tanto le specifiche del medium, quanto le pratiche sociali che lo caratterizzano e che lo rendono ‘nuovo’. Nell’analisi che lo studioso americano propone relativamente al linguaggio digitale, l’oggetto di discussione è la ricezione: l’atteggiamento di meraviglia di fronte ai nuovi media è sostanzialmente un atto sociale, che può essere ciclicamente reiterato in ogni epoca di innovazioni tecnologiche in quanto manifestazione temporanea. Jay David Bolter e Richard Grusin prendono in carico la tesi di Marshall McLuhan, secondo cui «Il ‘contenuto’ di ogni medium è sempre un altro medium. Il contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è il contenuto della stampa e la stampa è il contenuto del telegrafo»32. I due autori rivedono, attualizzano e applicano questa intuizione alla luce dello scenario mediale contemporaneo, caratterizzato dalle tecnologie digitali di rete. Con l’accusa di determinismo tecnologico si sottolinea come una teoria mediologica legga l’invenzione e l’applicazione delle tecnologie di comunicazione, dotate di una loro ‘forma’ intrinseca, come determinanti il cambiamento sociale. Tale impostazione di linearità unidirezionale attira critiche severe; ci si interroga sull’e-
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33 B. Latour, Nous n’avons jamais ete modernes: essai d’anthropologie symetrique, La Découverte, Paris, 1991. 34 J.D. Bolter, R.A. Grusin, Remediation. Understanding New Media, cit., p. 96. 35 Ivi, pp. 44-45). 36 Ivi, p. 55, nota 3. 37 Ibidem. Bolter e Grusin si rifanno qui alla teoria teleologica di Levinson, secondo cui i media si sviluppano antropologicamente, in una curiosa assimilazione con l’umano. Per Levinson la riedizione è un agente di questa evoluzione teleologica, poiché noi inventiamo media che migliorano i limiti del medium precedente. Cfr. P. Levinson, The Soft Edge: a natural history and fu-
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ventualità di un’essenza pura del medium. Nel concetto d’ibridazione, ripreso da Bruno Latour33, si spiegano alcuni riferimenti: un medium non è affatto l’ultimo gadget tecnologico, ma un network ibrido, formato da attori sociali, oggetti tecnologici, dinamiche dell’ambiente globale. Questo network presenta al proprio interno relazioni circolari tra gli elementi costitutivi: per Bolter e Grusin, benché sia vero che le qualità formali di un medium riflettono i significati sociali e culturali ad esso associate, è ugualmente vero che questi aspetti sociali ed economici riflettono, a loro volta, quelle qualità tecniche e formali34. Il concetto di ibridazione viene, non a caso, discusso nell’ambito di un confronto con il pensiero postmoderno (Jacques Derrida, Fredric Jameson, oltre allo stesso Latour) nel quale di rigore rientra il lascito di McLuhan e vi rientra non solo per il messaggio, ma per il mezzo. Bolter e Grusin si assumono l’incarico di riuscire, con McLuhan, a non appiattire il concetto di rimediazione, rappresentazione di un medium all’interno di un altro35, su quello hegeliano di sublimazione (Aufhebung)36, riuscendo ad osservare lo scenario mediale nell’attuale effettivo contesto storico in tutta la sua ricchezza, senza negare e superare il passato. Nell’affrontare il problema della comunicazione nell’innovazione tecnologica Bolter e Grusin opportunamente considerano non solo lo scenario attuale, ma tutta l’avventura moderna sin dal Rinascimento, individuando non una ma due modernità mediali: una dominante e magnificente e l’altra, invece, molto spesso nascosta ma pur sempre viva. Seguendo queste due linee, gli autori ricercano e tracciano una genealogia dei media digitali, riprendendo il latino redemere (= “curare”), per affermare che ogni nuovo medium trova una sua legittimazione perché riempie un vuoto o corregge un errore compiuto dal suo predecessore37, perché realizza una promessa non mantenuta dal medium che lo ha preceduto.
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ture of the information revolution, London, Routledge, 1997. 38 Mia traduzione da J.D. Bolter, R.A. Grusin, Remediation. Understanding New Media, cit., p. 6. 39 M. De Rosa, Cinema e postmedia. I territori del filmico nel contemporaneo, Milano, Postmedia Books, 2013 e Id, Oltre i media, oltre il visibile. Per una fondazione teorica e metodologica dei postcinema studies, «Bianco e Nero» n. 573, 2012. S. Arcagni, Screen City, Roma, Bulzoni, 2012. Per riferimenti al concetto di postmedium cfr. R. Krauss, A Voyage on the North Sea: Art in the Age of the PostMedium Condition, London, Thames & Hudson, [2000], trad. it. L’arte nell'era postmediale, Milano, Postmedia Books, 2005. 40 Per cinema e smartphone cfr. M. Ambrosini, G. Maina, E. Marcheschi, I film in tasca. Videofonino, cinema e televisione, Pisa, Felici editore, 2009, e P. Snickars, P. Vonderau, Moving Data. The iPhone and the Future of Media, New York,
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La mediazione-rimediazione dei media è caratteristica costante di tutta quell’avventura di cui si è detto, ma essa raggiunge un livello peculiare con i media digitali. Questi legano in un network indissolubile tutto il campo mediale disponibile e tutte le dinamiche sociali ed economiche riscontrabili. I media digitali comportano il cortocircuito tra la logica dell’immediatezza e dall’altro quella dell’ipermediazione: con immediatezza gli autori definiscono quelle convinzioni e quelle pratiche mediali accomunate dalla convinzione che «il medium stesso dovrebbe scomparire e lasciare la presenza della cosa rappresentata»38. La logica dell’ipermediazione, invece, riconosce l’esistenza e l’autonomia di atti di rappresentazione multipli e li rende visibili, spingendoci a guardare la cornice e l’atto di mediazione. Le diverse prospettive teoriche confrontate sono state esposte per elaborare un percorso concettuale in cui le macro-tendenze interpretative conducano non ad una direzione univoca, ma ad una lettura della complessità sotto il segno del pluralismo. È solo dalla varietà di punti di vista che si può allargare l’orizzonte concettuale del restauro alla querelle del dibattito sul significato degli strumenti digitali nella nostra cultura, al di là delle posizioni di anacronistica diffidenza o di esaltazione tecnomane. In ogni caso non si può negare il forte coefficiente innovatore dei prodotti audiovisivi dell’epoca contemporanea. L’immersività del cosiddetto cinema postmediale, relativo a quelle forme filmiche che non vengono consumate nella sala cinematografica, ma nella quotidianità, in un processo di espansione39, trasforma l’ambiente in uno spazio di visione; dalle videoinstallazioni nei musei alle applicazioni di geo-localizzazione degli smartphone40, lo specifico cine-
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Columbia University Press 2012; per un più ampio paradigma su media, geo-localizzazione ed intrattenimento cfr. E. Menduni, Entertainment. Spettacoli, centri commerciali, talk show, parchi a tema, social network, Bologna, Il Mulino, 2013, e P. Sigismondi, The Digital Glocalization of Entertainment. New Paradigms in the 21st Century Global Mediascape, New York-Londra, Springer, 2011. 41 Ad esempio è il caso del progetto di Augmented Reality Cinema della ditta Halocline il cui trailer si trova al seguente link di You Tube, consultato il 10/06/2013: http://www.youtube.com/watch?v=R6c1STmvNJc. Il sito della ditta http://www.augmentedrealitycinema.com nell'ultima consultazione in data 10/06/2013 conduce al sito http://haloclineworld.com/, ditta attualmente non attiva (il progetto probabilmente non è stato portato a termine). Un esempio nostrano meno complesso è Archivio Memorie Migranti: tramite geolocalizzazione è possibile l'accesso ad un elenco di film girati in tutta Italia dal 1990 in poi, reportage e cortometraggi, prodotti e diretti da registi migranti (http://archiviomemoriemigranti.net/gisviewer/ – ultima visualizzazione 10/06/2013). 42 Cfr. B. Warf e S. Arias (a cura di), The Spatial Turn. Interdisciplinary Perspectives, Londra, Routledge, 2009. 43 Il caso esemplare di Life in a day (2010), film documentario interamente girato dagli utenti, il cui progetto è stato proposto da YouTube il 6 luglio 2010 ed è stato prodotto da Ridley Scott e montato da Joe Walker per la regia di Kevin Macdonald. È stato classificato come il primo Social Movie della storia. Per questioni relative agli user-generated contents cfr. R. Tushnet, User-Generated Discontent: Transformation in Practice, «Columbia Journal of Law & the Arts» n. 31, Summer 2008; P. Snickars, P. Vonderau, The YouTube Reader, Stockholm, National Library of Sweden-Wallflower Press, 2009.
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matografico ha modificato i suoi connotati creando mondi simbolici nuovi. Alcune app di dispositivi mobili con videocamere integrate, tramite GPS (Global Positioning System), consentono di combinare i servizi previsti dai sistemi di telerilevamento con altre funzioni di visualizzazione41. In generale i discorsi sulla geo-localizzazione trovano uno spunto teorico nella cosiddetta «spatial turn», o «svolta geografica», ribaltamento prospettico e rinnovato interesse verso la dimensione spaziale42. Altri mondi simbolici nuovi possono essere inscritti tra le nuove forme di produzione audiovisiva user-generated43, i cui contenuti provengono non più da un autore o da una società di produzione, bensì da una collettività di utenti amatoriali, all’insegna di una nuova forma di pluralismo che modifica i rapporti di produzione e ricezione.
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L’obiettivo finale della storia del cinema è una descrizione della sua propria scomparsa o la sua trasformazione in un’altra entità1
Le diverse posizioni teoriche relative ai rapporti tra il cinema e il digitale naturalmente hanno influenzato le diverse prospettive sulle questioni di conservazione, preservazione e restauro dei film e la coscienza delle sostanziali differenze materiche e concettuali circa la portata del dispositivo, il coefficiente di manipolazione, le difficoltà gestionali, il pericolo dell’obsolescenza o i problemi della decodifica attraverso standard. Si è già detto come Paul Read e Mark-Paul Meyer affermino che il restauro cinematografico consiste nelle procedure tecniche, editoriali e intellettuali tese a compensare la perdita o il degrado degli artefatti filmici, portandolo ad una condizione il più possibile vicina a quella originaria, mantenendone il più possibile il formato originale2. Il restauro digitale è definito aggiungendo a tale affermazione il concetto del trasferimento dell’immagine su di un supporto digitale per manipolarla e modificarla prima di registrarla nuovamente su un medium schermico3. 1
Mia traduzione da P. Cherchi Usai, The Death of Cinema, BFI, London, 2001, p. 89. 2 P. Read, M-P Meyer, Restoration of Motion Picture Film, cit., p. 66. 3 P. Read, Digital Image Restoration – Black Art or White Magic?, cit. p. 159.
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Capitolo 3 Restauro digitale: metodi, standard ed esperienze sperimentali
Dalla mia posizione di archivista, considero la questione dei formati da una prospettiva diversa da quella di Read e Meyer. Mentre a loro avviso un restauro dovrebbe "mantenere il più possibile il formato originale del film", io sostengo che mantenere il look originale del film è più importante che rimaner fedele al formato originale. Per esempio, se una copia digitale di un film può riprodurre (simulare) le caratteristiche originali di un sistema obsoleto 35 millimetri colore meglio di una copia di pellicola contemporanea 35mm a colori, io opterei per la copia digitale. Infatti, se gli strumenti digitali possono aiutare i restauratori a simulare meglio l’aspetto originale del film, a mio avviso dovrebbero essere considerati adatti come quelli fotochimici, non solo per il restauro, ma anche per mostrare l’immagine restaurata su uno schermo. [...] Negli ultimi dieci anni la tecnologia digitale ha dimostrato di essere un nuovo strumento efficace per il restauro di film. In caso di danno ad un film che coinvolge la perdita di una parte dell’immagine, per esempio graffi nell’emulsione, mentre il restauro fotochimico non è efficace, le tecniche digitali possono essere utilizzate per sostituire la parte mancante. In questi casi, la tecnologia digitale consente ai restauratori di fare cose che prima erano impossibili4.
Torna la questione posta dalla filologia dei media: anche nelle prospettive più orientate ad una coerenza della ricezione, al mantenimento delle qualità visive originarie più che alla base fisica che le trasmette, anche qualora si prediliga il contenuto al supporto, le ricerche contemporanee tendono comunque a considerare una problematizzazione del testo condizionato dal veicolo, dal supporto, che si configura come una sua messa in forma. E nel tentativo di arrivare ad un compromesso tra i valori filologici del film e la sua possibile rinascita attraverso differenti medium, diverse elaborazioni teoriche possono entrare in gioco e determinare differenti prospettive interpretative. Un’impostazione teorica della continuità prevede l’uso del dispositivo digitale come un passe-partout per ottenere risultati ecce4
Mia traduzione da G. Fossati, From Grain to Pixel, cit., pp. 71-72.
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Giovanna Fossati contesta tale asserzione sottolineando come prioritario nell’ambito del restauro cinematografico il problema della duplicazione che provvede al mantenimento dell’aspetto, piuttosto che a quello del formato:
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Siamo preoccupati del futuro del cinema come entità culturale [...] Dicendo ‘film’ ci riferiamo ad uno specifico fenomeno storico, radicato nel ventesimo secolo, con tutte le sue caratteristiche distintive. Tuttavia noi consideriamo anche che molti dei problemi relativi al patrimonio analogico − in particolare le sfide della conservazione e presentazione al pubblico − riguardano anche il mondo digitale o sono diretti a farlo nel prossimo futuro5.
Come si è detto ripetutamente, anche il linguaggio filmico è foriero di una specificità del dispositivo, tutt’uno con la materia organica degli elementi chimici chiamati in causa dal medium fotosensibile e con il sintomo culturale della forma espressiva più popolare del ventesimo secolo. Sebbene la rapida crescita tecnologica determini un sostanziale miglioramento della risoluzione dei supporti digitali in termini di qualità visiva e ricchezza di dettaglio, ormai molto vicini alle qualità formali della pellicola, è innegabile che nel confronto tra le due diverse modalità si possa parlare di esperienza fruitiva analoga, ma non omologa. La percezione di una sequenza fotochimica proiettata a 24 fotogrammi al secondo, in presenza di fotogrammi non illuminati alternati a fotogrammi illuminati dal potente fascio di luce di un proiettore, non può che differire dalla percezione di una sequenza di un audiovisivo proiettato a partire da una fonte elettronica digitale, per quanto ricca di dettagli e dotata di una notevole elaborazione formale6. Cherchi Usai sottolinea come il problema non consiste nel determinare quale delle due opzioni sia migliore, bensì solo riconoscerne la diversità, facendo i conti con
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Mia traduzione da P. Cherchi Usai, D. Francis, A. Horwarth, M. Loebenstein, Film Curatorship: Archives, Museums, and the Digital Marketplace, cit., p. 5. 6 Ivi, p. 108.
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zionali attraverso gli strumenti più aggiornati, con un’ampia potenzialità di intervento ed una notevole ricerca formale; una teoria del radicale cambiamento prevede invece una netta distinzione di campo fra dispositivo digitale e medium fotochimico, come nel caso di Paolo Cherchi Usai che sottolinea la sua scelta di continuare a parlare di film anziché «moving image» per sottolinearne la specificità materica e culturale:
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Quando parli con dei musicisti e loro affermano “Beh, non mi piace registrare digitalmente perché non c’è lo stesso calore, permane un taglio un po’ troppo duro”, è esattamente lo stesso argomento che usano i direttori della fotografia. Loro hanno ragione: l’aspetto è diverso e ha diverse qualità (ma) ciò non lo rende peggiore; lo rende fondamentalmente diverso8.
3.1 Empirismo digitale: questioni di pratica 3.1.1 Post-produzione digitale. Il Digital Intermediate Si è già detto che le pratiche di restauro sono strettamente connesse a quelle di produzione e postproduzione cinematografica: innanzitutto sia l’industria del film che le cineteche utilizzano fondamentalmente i servizi degli stessi providers e laboratori di sviluppo e stampa, nonché degli stessi dispositivi per la proiezione e per il suono. L’introduzione del cosiddetto processo di Digital Intermediate9 ha notevolmente modificato le modalità costitutive e il lavoro di editing sia visivo che sonoro. Considerando la riproduzione del suono al cinema, l’introduzione della colonna sonora Dolby Digital nel 1992 prevede di inserire uno spazio tra le perforazioni della pellicola contenente le informazioni sul suono digitale: un decoder annesso al proiettore legge l’informazione mentre il film viene proiettato e un processore digitale converte il segnale in un suono, amplificato dalle casse in sala10. Il DTS è invece un sistema che usa un compact disc separato 7
Mia traduzione da Ibidem. Mia traduzione da R. Mogid, George Lucas: Past, Present, and Future, intervista in «American Cinematographer», n. 78, Hollywood, Feb. 1997, p. 50. 9 Per Digital Intermediate s’intende il processo di digitalizzazione del girato di un film, di una pellicola da restaurare, o di materiali nati già in digitale, prima della postproduzione. Si può definire Digital Intermediate anche il risultato finale di un processo in cui da un master digitale si creano copie di distribuzione che possono essere finalizzate in pellicola o in digitale. 10 G. Fossati, From Grain to Pixel, cit., p. 36. 8
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l’identità storica del film: «ciò che permane è la ricognizione dell’identità storica di un certo modo di creare ed esibire le immagini in movimento, ma anche questa può esser facilmente etichettata come feticismo»7. Queste parole in realtà non sono troppo lontane da quelle pronunciate da un entusiasta promotore del digitale, il regista americano George Lucas:
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3.1.2 Editing La pratica che si è modificata più radicalmente è quella del montaggio: oggi l’editing è realizzato con il computer, avvalendosi di programmi sofisticati e popolari come Apple Final Cut, Adobe Premier, Sony Vegas o Avid Media Composer. Se l’editing analogico tradizionale del film consentiva un accesso lineare, cioè vincolato ad un percorso ordinato dall’inizio alla fine del film, l’accesso digitale è non-lineare, processo in cui ogni fotogramma può essere raggiunto, manipolato o cancellato nelle stesse modalità e con la stessa velocità degli altri fotogrammi.
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Ivi, p. 37. Ivi, p. 45.
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che gestisce il suono digitale in sincrono con quello della pellicola; la pellicola contiene comunque una colonna sonora analogica qualora il sistema con il compact disc dovesse avere problemi di lettura. Secondo la Fossati tale sistema ricorda gli esperimenti di sonorizzazione del cinema sviluppati negli anni Venti, come Vitaphone o Movietone, nei quali una registrazione sonora doveva essere amplificata in sincronizzazione con la copia ancora muta del film11. Anche il processo della correzione colore o Color Grading è stato modificato dall’introduzione del Digital Intermediate; la correzione colore nel sistema analogico si effettua a partire dal negativo ispezionato su di una macchina detta Color Analyzer, un tavolo da ispezione munito di una videocamera, nonché la tipologia di stock e il processo chimico dello sviluppo. Il processo di grading digitale funziona in maniera completamente diversa: i software di controllo dell’immagine consentono un intervento e un’alterazione sia dei colori primari (rosso, verde e blu) che di quelli complementari (giallo, ciano e magenta) in modo del tutto indipendente l’uno dall’altro, modificando anche il colore di alcune aree o di singoli elementi all’interno dell’inquadratura12. Offrendo un potenziale d’intervento così ampio ed efficace, la correzione colore digitale si presenta come un metodo rivoluzionario, ma l’effettiva pratica laboratoriale può in alcuni casi rivelare una notevole rapidità di intervento con l’opzione del restauro del colore nel processo fotochimico mediante filtri che operano per sottrazione cromatica nelle stampatrici.
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Un codec è un programma che si occupa di codificare e decodificare digitalmente un segnale audio o video affinché possa essere salvato su un supporto o letto. Oltre alla digitalizzazione del segnale, i codec effettuano anche una compressione (e/o decompressione in lettura) dei dati ad esso relativi, in modo da poter ridurre lo spazio di memorizzazione occupato a vantaggio o della trasmissibilità del flusso codificato. Cfr. K. Sayood, Introduction to Data Compression, San Francisco-Amsterdam, Morgan Kaufmann-Elsevier, 2006.
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Il non-linear editing (NLE) è dunque un sistema di montaggio che consiste nell’acquisire sequenze di immagini e suoni attraverso processi di digitalizzazione e nell’elaborarli su computer, anziché operare con forbici e giunte direttamente sulle fonti originali. L’acquisizione dei flussi audiovisivi avviene attraverso specifici codec13 che possono essere di tipo lossless (che non comportano perdita di qualità generando una copia perfetta dell’originale) oppure di tipo lossy (che utilizzano algoritmi di compressione per generare file di ridotte dimensioni, di maggiore praticità in sede di lavoro). I software di NLE non lavorano direttamente sulle fonti originali memorizzate su pellicola, ma solo sui file creati durante la loro digitalizzazione e acquisizione: ne consegue che le elaborazioni e le modifiche possono essere eseguite senza limiti e senza degrado di qualità. Questi software hanno un’interfaccia grafica che ne evidenzia la timeline, rappresentazione secondo una linea temporale diacronica dell’esatta sequenza delle immagini, dei suoni, degli effetti speciali, dei titoli, che comporranno il prodotto finale. Quando si lavora con negativi in pellicola, si prevede che partendo dal negativo originale esso venga digitalizzato a bassa risoluzione e importato in un programma NLE, il quale produce un Editing che fornisce istruzioni al negativo originale su come montare il vero negativo originale usando come referenza gli edge codes, numeri seriali e codici a barre lungo un lato della pellicola. L’EDL consiste in una lista ordinata di dati relativi alle bobine interessate e ai timecode che rappresentano il punto corrispondente ad ogni fotogramma per organizzare il montaggio finale; è prodotta dal software di montaggio per conformare automaticamente la creazione di un ordinamento e una manipolazione delle fonti originali alle decisioni di montaggio effettuate. Anche nelle pratiche contemporanee di restauro si utilizzano i sistemi di editing digitale: il montaggio, nel processo di restauro, consiste nella ricostruzione, e viene realizzato nel confronto delle diverse fonti esistenti, usando il procedimento dell’EDL per la rea-
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3.1.3 Compositing e grafica La pratica dell’applicazione delle tecnologie digitali comprende svariate aree condivise dalla produzione/postproduzione cinematografica e dalle nuove aree di restauro; il compositing digitale, processo attraverso cui si combinano scene di girato con immagini parzialmente o interamente generate con software di grafica 3D. Si tratta di una pratica che ha avuto un enorme impatto nel cinema d’animazione, ma ha radicalmente trasformato anche il cosiddetto live action film, in cui effetti speciali ad elevato coefficiente di simulazione consentono di manipolare radicalmente l’immagine, di riscriverla e ridisegnarla. Eredi delle esperienze sensoriali ‘immersive’ delle manifestazioni ottiche spettacolari, dalle lanterne magiche ai caleidoscopi, dal diorama al ‘cinema delle attrazioni’, gli effetti speciali digitali hanno simulato ed emulato le esistenti tecniche filmiche, con un conseguente cortocircuito nelle pratiche archivistiche15. La capacità di simulazione della rappresentazione fotografica del reale tipica dei nuovi media digitali offre spunto a produttive teorizzazioni sulla pratica archivistica nell’era della transizione al digitale: viene rivoluzionato tutto dall’applicazione al campo del restauro di tecniche come il compositing, creazione composita di immagini attraverso i software di computer grafica in una formula ibrida della contemporaneità digitale, erede di una tradizione di effetti ottici come il Chroma Key, e l’effacing, tecnica di cancellazione di elementi indesiderati dal fotogramma, immagini accidentali o danni del negativo in sede di post-produzione16. Le questioni del cinema digitale vengono descritte nei contesti anglofoni servendosi solitamente di due locuzioni: Cinematografia 14 G. Fossati, From Grain to Pixel. The Archival Life of Film in Transition, cit., p. 40. 15 Ivi, p. 44. 16 In sede di postproduzione l’effacing si rivela un metodo molto usato attualmente per la rapidità e versatilità dell’intervento; è infatti più rapido intervenire digitalmente che non rigirare del tutto scene che presentano questo tipo di errori o difetti. Inoltre la tendenza all’abbassamento degli standard qualitativi delle produzioni, specie in ambito televisivo piuttosto che cinematografico, è una delle cause dell’impiego massiccio dei software di effetti speciali per l’effacing in queste tipologie di interventi. Ivi, p. 42.
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lizzazione del nuovo negativo montato e per la documentazione delle scelte operate dal restauratore14.
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3.2 Restauro digitale Per quanto concerne i problemi di restauro digitale ci interessiamo peculiarmente al contesto distributivo, alle pratiche e agli standard relativi ai sistemi digitali, che determinano questioni di circolazione degli elementi, accesso ai materiali e statuto stesso di leggibilità. Nel restauro cinematografico contemporaneo le pratiche di compositing ed effacing svolgono un ruolo sempre maggiore per ricostruire immagini danneggiate per enti fisico-meccanici o per degenerazione chimica dei materiali e dei supporti. Purtroppo sulle parti fortemente danneggiate o sulle possibilità di intervento relative ad aree delimitate del fotogramma gli strumenti fotochimici hanno un limitato potenziale d’intervento, mentre grazie a software dedicati è possibile ottenere digitalmente combinazioni di elementi dell’immagine da fotogrammi non danneggiati, con risultati spesso stupefacenti. Il problema principale di questo tipo di efficacia, promossa in funzione di una riconfigurazione del piacere spettacolare contemporaneo, ormai proteso verso l’alta e altissima qualità anche nei contesti domestici, sta nella marcata contraffazione e nell’invasività dell’intervento, la cui inautenticità si pone in netta contraddizione con i princìpi e l’etica sottesa al restauro, se si annoverano tra i suoi princìpi fondamentali i propositi di fedeltà all’originale, trasparenza degli interventi operati e soprattutto la conservazione della patina del tempo. In realtà la trasparenza e la reversibilità degli interventi operati sono tecnicamente tra i requisiti standard dei software di restauro più diffusi, poiché è previsto che per ogni intervento effettuato tali software producano automaticamente un report, una sorta di relazione contenuta nei file di registro; ogni intervento può essere salvato o cancellato risalendo ai primi materiali o alle registrazioni precedentemente effettuate senza implicare alcun cambiamento. Sia le committenze, produzioni/distribuzioni o case editrici di home video (di conseguenza legate ad uno sfruttamento commerciale del film), sia le 17 Ivi, pp. 49-61. L’uso massivo di videocamere digitali ad alta definizione ha radicalmente modificato l’autonomia e la diffusione di pratiche e formule di cinema amatoriale, ma è stato anche applicato ad alcune produzioni importanti.
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Digitale o Digital Cinematography, per indicare la produzione cinematografica che si serve di videocamere digitali, e Cinema Digitale o Digital Cinema, in riferimento alla distribuzione di film attraverso strumenti digitali17.
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3.2.1 Vita numerica: durata dei supporti Fra i problemi fondamentali dei film digitalizzati è basilare determinare un approccio a lungo termine, per quanto possibile. Howard Besser già nel 2000 identificava cinque problemi per il mantenimento e la longevità degli oggetti digitali: problemi di visione, interferenze, interrelazioni, custodia e traduzione18. Per problemi di visione si intende la difficoltà di fronte a formati obsoleti: i formati digitali, a differenza di quelli analogici inclusi nelle nomenclature tradizionali, si sono determinati come una moltitudine di formati differenti e incompatibili. Il fattore di obsolescenza di tali formati implica che la maggior parte degli audiovisivi acquisiti con tecnologie precedenti sarà perduta, a meno che non venga migrata in formati più recenti. Quando si parla di interferenze, invece, si considerano formati di compressione o formati criptati, attualmente usati nell’industria del film per la protezione dei file da accessi non autorizzati. Per quanto riguarda problemi di interrelazione, bisogna considerare la complessa natura delle opere cinematografiche e le numerose componenti che intercorrono al prodotto finale: i registi combinano le inquadrature in sequenze, aggiungono la colonna sonora, i titoli, gli effetti speciali. Con i sistemi analogici si generano elementi interrelati: negativo scena, copie lavoro, negativo sonoro, duplicato negativo, copia di risposta e copie di proiezione. Con i sistemi digitali le relazioni tra queste componenti non sono così semplici da discernere e per identificare le diverse sezioni che concor18
H. Besser, Digital longevity, in M. Sitts, Handbook for Digital Projects: A Management Tool for Preservation and Access, Andover, MA, Northeast Document Conservation Center, 2000, citato in G. Fossati, From Grain to Pixel, op. cit., p. 61.
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aspettative del pubblico contemporaneo, sempre più esigente verso un’elevata qualità dell’immagine, propendono verso un uso invasivo delle tecnologie, in particolare per i processi di compositing e di effacing, senza considerare la portata semantica del livello di manipolazione. Naturalmente ci si trova di fronte ad un’ambiguità strutturale: la necessità di mantenere il piacere della spettacolarità e al contempo il rispetto di una fonte che è stata prodotta in un circuito altro, lontano dalle abitudini contemporanee.
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La domanda sorge adesso − chissà per quanto tempo la pellicola cinematografica durerà? Per quanto tempo le registrazioni di grandi eventi potranno essere conservate? [...] Il film è ancora così giovane che non c’è stata occasione per verificare se una pellicola manterrà le sue proprietà anche per mezzo secolo. Ma sappiamo che alcuni dei primi film sono stati conservati per trent’anni o più19.
La standardizzazione dei vari formati delle pellicole ha permesso nel passato una rapida circolazione di materiali tra sale cinematografiche, cineclub e cineteche in tutto il mondo. Nel caso dei formati digitali, poiché viene meno il supporto isomorfico, il problema della compatibilità della codifica e decodifica dei dati si determina come assolutamente prioritario, tanto da determinarne la possibilità di lettura e di circolazione. Purtroppo un altro problema è legato alla durata possibile di un supporto digitale, che non è assolutamente paragonabile ai formati analogici, anche tenendo conto della necessità di continuo aggiornamento implicata da software e hardware in costante potenziamento, in cui il termine potenziamento rimanda all’abbandono di soluzioni precedenti, la mancata reperibilità sul mercato o la mancata compatibilità di lettura20. 19
Mia traduzione da F.W. Perkins, Preservation of Historical Films, in AA. VV., Transactions of the Society of Motion Picture Engineers n. 27, October, 1926, citato in G. Fossati, From Grain to Pixel. The Archival Life of Film in Transition, cit., p. 62. Cfr. http://cinefan.tripod.com/pres_histfilm_SMPE.htm, ultima consultazione 10/06/2013. 20 «Le immagini analogiche su pellicola sono molto stabili. Ci si potrebbe non credere considerando l’infiammabilità del nitrato, il degrado della base in
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rono alla versione finale del film gli archivisti devono creare sistemi che adoperino metadati (dati sui dati). Vi sono molti tipi di metadati che possono supportare la preservazione di oggetti digitali, come le EDL descritte precedentemente, i descrittori (simili ai canoni archivistici adoperati nei sistemi bibliotecari), o specifiche tecniche. I dubbi circa l’effettiva durata della pellicola, il suo futuro nei circuiti distributivi, la durata ipotetica dei supporti digitali sono al centro delle riflessioni contemporanee sui problemi di preservazione e ripristino della materia del film coadiuvata dalle nuove tecnologie. Eppure molte domande sui problemi del supporto-film hanno anche una lunga storia:
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3.2.2 Ibridazione Per evitare problemi di compatibilità e uniformare gli standard commerciali in collaborazione tra i maggiori enti produttivi e distributivi americani si è scelto di usare un formato di compressione comune, che garantisse una sorta di koinè del cinema digitale, definito JPEG 200022, che insieme a dei file contenenti istruzioni metodologiche viene inviato alle sale cinematografiche in un insieme definito DCP, da Digital Cinema Package, attraverso supporti di conservazione (sistemi di storage)23 o attraverso reti o sistemi satellitari. Molti archivi internazionali stanno già affrontando questioni di storage e di metadatazione, imparando a conoscere i nuovi standard e ad uniformare i diversi livelli in vista di un aggiornamento e nitrato e acetato o il decadimento del colore nella pellicola, ma in confronto alla maggior parte dei media digitali è così, e le basse temperature potrebbero in futuro conservare immagini dei film già in fase di decadimento per molti anni ancora. Le registrazioni digitali sono, al momento, considerate molto “instabili”, principalmente a causa della natura transitoria e la mancanza di standard di attrezzature e formati, ma probabilmente tutti gli attuali supporti di memorizzazione dati soffrono di limiti meccanici, chimici e fisici». Mia traduzione da P. Read, Digital Image Restoration – Black Art or White Magic?, cit. p. 61. 21 Pratica attuamente in voga presso le grandi produzioni hollywoodiane. G. Fossati, From Grain To Pixel, cit., p. 67. 22 I file JPEG 2000, così chiamati perché creati dalla Joint Photographic Expert Group nel 2000, vengono associati a dei file XML (eXtensible Markup Language, formato che contiene dati e istruzioni codificabili direttamente dai computer) e altri file MXF (Material eXchange Format, formato contenente meta-file, codifiche ed istruzioni) per realizzare i DCP. Un singolo DCP può essere contenuto in più medium di conservazione, data l’elevata capacità richiesta dalle dimensioni di tali file. http://www.jpeg. org/jpeg2000/ – ultima consultazione 10/06/2013. 23 Per storage si intendono sistemi digitali di registrazione e conservazione di dati e informazioni, contenuti in dispositivi e componenti che formano sistemi complessi elettronici gestiti da uno o più server.
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Una pratica considerata indispensabile nei circuiti legati alla gestione di informazioni audiovisive su supporti digitali è la migrazione dei dati. Per migrazione si intende un trasferimento ciclico dei dati, solitamente praticato ogni due, al massimo cinque anni, su di un nuovo supporto, per contrastare il problema degli standard mutevoli e dell’obsolescenza di supporti, hardware e software; inoltre andrebbero dislocati separatamente per evitare la perdita totale in caso di calamità21.
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Science and Technology Council of the Academy of Motion Picture Arts and Sciences (a cura di), The digital dilemma: strategic issues in archiving and accessing digital motion picture materials, Los Angeles, Academy of Motion Picture Arts and Sciences, 2007, pp. 40-44 e 67-68. 25 I processi di digitalizzazione messi in atto da molti archivi televisivi risultano inevitabilmente più efficaci e semplici rispetto alle stesse strategie operate relativamente ai film. Gli archivi broadcast stanno attualmente facendo i conti con questioni di storage digitale, migrazione e tutte le possibili strategie di preservazione, innanzitutto perché i formati video presentano risoluzioni e qualità dell’immagine decisamente inferiori alle immagini della pellicola, dunque è possibile digitalizzare a basso costo i contenuti audiovisivi senza determinanti perdite di qualità. Inoltre i nastri magnetici video sono supporti molto più fragili ed instabili rispetto al film e non garantiscono lunga durata, in nessuna condizione di conservazione, sia per questioni fisiche (sono soggetti a deterioramento, cosiddetto sticky-shed syndrome, dovuto all’assorbimento di umidità del nastro, in cui l’ossido di ferro magnetizzabile unito al supporto di plastica del nastro può esandersi aumentando la frizione fra nastro e testine di lettura, rendendolo inutilizzabile) sia per problemi legati all’obsolescenza dei formati e dei lettori, incompatibili tra loro perché realizzati su sistemi di trascrizione -codifica e decodifica- differente. Dunque il trasferimento sui supporti digitali più che una scelta è una necessità, motivata dalle sue risorse e dai suoi effettivi vantaggi rispetto al sistema analogico e magnetico. Per interessanti case study: A. Bordina, S. Venturini, Preservare la videoarte: il fondo art/tapes/22 dell’ASAC-La Biennale di Venezia, in C.G. Saba, Arte in Videotape, Milano, Silvana Editoriale, 2007; D. Sabatini, Ipotesi di ricerca nel campo del “teatro filmato”, cit. e Id, Teatro e video. Teoria e tecnica della memoria teatrale, cit.; R. Catanese, The Recreated Space. Digital Restoration and Video Medium, cit.
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di uno svecchiamento delle procedure di conservazione e preservazione. Questo con notevoli problemi relativi agli spazi deputati, alla gestione differente dei nuovi strumenti che richiedono personale altamente qualificato in tecnologie informatiche (e sempre meno storici del cinema o archivisti), ai costi dell’energia. In termini economici è stato affermato che i costi dei sistemi di archiviazione digitale per il cinema costano circa undici volte rispetto agli stessi processi registrati su pellicola24. Le tecnologie digitali, molto usate per la preservazione a lungo termine dei contenuti video25, sono ancora costose per molte cineteche. Ciò non esclude naturalmente un futuro abbassamento dei prezzi ed un’eventuale conseguente pratica di digitalizzazione generale di tutti i materiali, ma poiché gli standard sono ancora economicamente poco accessibili a molti archivi, che ancora non sono tutti orientati verso un’ampia diffusione degli strumenti digitali, è necessario operare delle scelte in tal senso.
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3.2.3 Standard Tutti processi di restauro digitale cominciano con la trasformazione dei film in una serie di sequenze di numeri binari (zero e uno). Tale processo è definito digitalizzazione ed avviene mediante macchine chiamate scanner che acquisiscono le immagini di ogni fotogramma ad alta risoluzione. Il concetto di risoluzione è il criterio fondamentale che determina maggior impatto sulla digitalizzazione del film. Oggi lo standard minimo dei 2K, equivalente a 2000 pixel per linea orizzontale, pur essendo effettivamente molto inferiore a quello di un film fotochimico, è stato accettato come standard di risoluzione per la proiezione al cinema. La proiezione, infatti, richiede una qualità visiva molto superiore rispetto ai dispositivi schermici quali televisioni o monitor, in primis per una motivazione molto semplice: la proiezione avviene attraverso proiettori distanti diversi metri dallo schermo e calibrati per ottenere un ingrandimento dell’immagine su di una superficie dotata di un’ampiezza di alcuni metri senza sfocature né perdite di dettaglio. Che la fonte sia un fascio di luce che ingrandisce l’immagine di un fotogramma di una pellicola di 35 mm o una lampadina capace di proiettare l’immagine corrispondente al segnale digitale memorizzato, è sempre previsto un ingrandimento. Secondo la European Broadcasters Union, invece, la risoluzione minima di un moderno film in 35mm a colori può essere comparabile solo allo standard definito 4K, ossia 12 750 000 pixel per frame26. 26
European Broadcasters Union, Preservation and Reuse of Motion Pic-
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Come nel caso dell’editing, anche nel campo della correzione colore si assiste ad una sostanziale similarità rispetto alle operazioni di post-produzione cinematografica. L’intervento sul colore nei film vecchi e nelle nuove produzioni è in effetti un processo analogo, poiché si utilizzano simili strumenti e simili competenze, ovvero software dedicato e personale con una peculiare sensibilità cromatica. La differenza principale risiede nell’obiettivo di avvicinarsi al colore originale della copia di referenza, invece che nella manipolazione per creare un immaginario visivo peculiare (realistico o ipertrofico); obiettivo in molti casi complesso per mancanza di referenze, perché ignorato nelle duplicazioni che in passato si effettuavano su pellicole bianco e nero o perché sbiadito sulle copie.
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3.2.4 Scanner La digitalizzazione dei film viene effettuata mediante appositi scanner. Per scanner s’intende una periferica che digitalizza immagini bidimensionali analogiche, acquisite in modalità ottica, e che le interpreta come un insieme di pixel, restituendone una copia fotografica sotto forma di immagine digitale, suscettibile di modifica e ritocco attraverso gli appositi software28. Nel caso degli scansionatori per pellicola, film scanner, il procedimento è analogo; si tratta del primo hardware usato nel processo di acquisizione, in cui l’informazione di ogni frame di pellicola cinematografica viene traslata in cifre. Il crescente sviluppo del settore può portare rapidamente ad ampliamenti e miglioramenti dei sistemi operativi e delle prestazioni delle macchine in questione. I film scanner sono stati originariamente pensati per la produzione contemporanea, in particolare per digitalizzare alcune sequenze in modo da intervenire digitalmente con effetti speciali. Alcuni scanner usati per il restauro di film sono stati realizzati con il sistema cosiddetto wet gate, ossia “a bagno”, proprio come alcune stampatrici molto utilizzate per la duplicazione fotochimica, in cui la soluzione date viene immersa la pellicola durante la duplicazione permette l’eliminazione di graffi, polvere e altri danni superficiali. Lo scanner Oxberry usato dal laboratorio Haghefilm di Amsterdam nel restauro del film Ballet mécanique, case study affrontato nel ture Film Material for Television: Guidance for Broadcasters, 2001, citato in G. Fossati, From Grain To Pixel, p. 77. 27 «Trasformare i numeri in log (aritmico) con l’uso di una LUT (look up table) conferisce una migliore distribuzione del dettaglio tra aree chiare e scure, offrendo così una buona resa su tutta la gamma di luminosità senza dover ricorrere a più cifre». Mia traduzione da B. Pank (a cura di), The Digital Fact Book, Newbury, Quantel, 2008, p. 12 (ed. or. 2002). Testo disponibile al link: www.quantel.com/repository/files/library_DigitalFactBook_20th.pdf – data di ultima consultazione: 10/06/2013. 28 Gli scansionatori funzionano mediante sensori ottici, che possono essere CCD (charged-coupled device), costituito da una matrice lineare o quadrata di fotodiodi, o PMT (photomultiplier tube), costituito da tre fotomoltiplicatori sensibili alle luci rossa, verde e blu (RGB).
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La gestione digitale delle immagini in movimento prevede combinazioni di colore che possono essere quantificate mediante una scala lineare o logaritmica. La scala logaritmica viene molto usata nel convertire immagini da un formato analogico ad uno digitale27.
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La compagnia CIR è stata fondata dal Dott. Leo Catozzo, il leggendario montatore dei film di Federico Fellini nonché inventore della giuntatrice a nastro. 30 In riferimento all'uso di questo scanner per il restauro di Marizza di F.W. Murnau: «Sapevamo che non avremo ottenuto i più levati standard qualitativi, ma abbiamo ritenuto che questa scelta ci avrebbe permesso il controlll totale sul nostro prezioso film, del quale non potevamo perdere un singolo fotogramma». I. Nuñez, F.W. Murnau’s Roman Holidays: Restoring the Marizza Fragment, in «Journal of Film Preservation» n. 84, 2011, p. 46.
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prossimo capitolo, funziona con questo sistema, che ne consente l’uso anche per film molto vecchi, delicati o danneggiati, mentre altri tipi di scanner sebbene assolutamente all’avanguardia, rapidi, dettagliatissimi nella trascrizione e codificazione digitale, non possedendo questo sistema rischiano di danneggiare gli artefatti filmici. Un esempio di scanner interessante prodotto in Italia è la macchina utilizzata dalla Cineteca Nazionale, D-Archiver, un prototipo di scanner a 2K disegnato da Antonio D’Agostino e specificamente progettato per materiali d’archivio e formati obsoleti, realizzato e installato in un solo esemplare appositamente per la cineteca nell’ambito di un progetto di ricerca/sviluppo, realizzato in collaborazione con la Cineteca dalla ditta CIR29. Tra le peculiarità di questo scanner consideriamo la presenza di un rocchetto non dentato per lo scorrimento della pellicola senza agganciare le perforazioni, determinando minore trazione su zone particolarmente fragili, minimizzando i rischi di rottura e danneggiamento. Il film può essere riavvolto in ogni direzione; lo scanner è anche adattabile a diversi formati desueti, dai piccoli formati amatoriali a tipologie estremamente eterogenee di pellicole professionali. Si possono selezione i formati di cattura (SD, 2k, 8 o 16bit) e il risultato può essere visto immediatamente a 25 fotogrammi al secondo, potendo esportare il materiale in formati digitali di file AVI, TIF o DPX30. Nella prima fase del processo di digitalizzazione attraverso gli scanner, è certamente indispensabile rimuovere il maggior numero possibile di graffi o puntini di polvere. Prima della scansione, infatti, è sempre prevista una pulizia preventiva delle pellicole. Infatti, una volta digitalizzato un graffio verrà trattato come qualsiasi altra parte dell’informazione contenuta nell’immagine originale. La velocità degli scanner è uno degli elementi che determinano tempi e costi dell’intero processo di restauro. Talvolta con film estremamente danneggiati è indispensabile acquisire il film con
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31 Come si è detto per la tipologia di scanner, anche il telecinema a CCD (charge-couple device) proietta luce bianca attraverso la pellicola esposta e sviluppata. Non ci sono differenze pratiche tra una pellicola negativa e una invertibile o un positivo stampato, ma la scansione si esegue direttamente dal negativo per ottenere la migliore qualità. La luce bianca viene filtrata dalla pellicola e produce un’immagine, esattamente come succede in un proiettore, ma anziché su uno schermo l’immagine viene proiettata su un sensore CCD, che la converte in impulsi elettrici che la parte circuitale del telecinema modula poi in un segnale televisivo. Esattamente come avviene per le telecamere, nei modelli più sofisticati i CCD sono tre, uno per ogni colore primario. I telecinema di qualità più elevata usano un CCD conformato a striscia di larghezza pari alla pellicola. L’avanzamento avviene per moto continuo e la pellicola è scansionata progressivamente. Cfr J. Holben, From Film to Tape, «American Cinematographer», 1999. 32 L. Manovich, The language of new media, cit. p. 20.
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tempi molto più lunghi, in modo da non sottoporre l’artefatto a sforzi eccessivi e garantendo comunque una corretta acquisizione fotogramma per fotogramma. Esistono scanner a passo uno (pull-down) e scanner ad elaborazione continua (continuous-scan), che rispettivamente selezionano ogni singolo fotogramma individualmente o che permettono lo scorrimento continuo della pellicola di fronte al dispositivo di cattura dell’immagine, evidentemente un’evoluzione dei precedenti meccanismi di telecinema. L’uso del telecinema è possibile anche per la digitalizzazione di film d’archivio. Storicamente il telecinema è il procedimento attraverso il quale le immagini impressionate su una pellicola cinematografica vengono trasformate in segnale elettronico video; dal punto di vista funzionale, un telecinema è composto da un proiettore cinematografico e da una telecamera o altro mezzo di acquisizione televisiva, sincronizzati fra di loro, secondo sistemi CCD31. Essendo quello televisivo un sistema fondato su semiquadri interlacciati, si trattava di un ambito differente da quello dei pixel. Di fatto però oggi tutto il sistema è stato portato su standard legati alla trasmissione digitale dei dati e ai diversi tipi di elaborazione su impianto a numeri binari. Per decenni, come afferma Manovich, la tecnologia dei media si è sviluppata parallelamente ma separata dalla tecnologia computazione. Nel 1989 il confine tra i due veniva valicato dal telecinema URSA della Cintel, che invece di trasferire la luce in segnali video funzionava trasformandola luce in un codice binario32. I suoi sensori rendevano possibile la correzione dei valori
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3.2.5 Processi di intervento In questa fase di digitalizzazione dei dati analogici è possibile come abbiamo visto intervenire sul bilanciamento dei colori; è inoltre possibile lavorare sul contrasto, sulla luminosità (de-flikering) e sulla saturazione grazie a diversi software incorporati nei teleci-
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D. Kaufman, A New Telecine Debuts from Philips, in «American Cinematographer» 77, 1996, p. 14. 34 Nei paesi che usano gli standard televisivi PAL, la produzione cinematografica destinata alla televisione è girata a 25 fotogrammi al secondo. La produzione per i cinema girata a 24 fps, invece, di regola subisce un’accelerazione del 4% circa, per essere portata a 25 fps.
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cromatici di un’immagine senza alterarne la luminosità e senza rendere le immagini più scure33. La parte più complessa di un telecinema è la sincronizzazione tra il movimento meccanico della pellicola e la generazione elettronica del segnale video34. È essenziale la coincidenza della proiezione di ogni fotogramma della pellicola con la scansione di un quadro televisivo, operazione semplice se la frequenza di scansione è la stessa per entrambi i supporti, ma qualora fosse diversa diverrebbe necessario ricorrere a tecniche di compensazione. Un problema che si incontra spesso nel riversare immagini da pellicola a video riguarda l’adeguamento del rapporto d’aspetto (aspect ratio). Mentre la televisione tradizionale ha un rapporto di 1:3 o 1:6, nel cinema esiste una eterogenea quantità di formati introdotti durante nel corso degli anni, variabili da 1:3 a 1:5 fino al panoramico 1:85, al Panavision 2:35 e al Cinemascope 2:55. Talvolta si sceglie di scansionare solo una parte dell’intero fotogramma, tagliando un’eccedenza, in altri casi è prevista l’aggiunta di un mascherino, che riempie la parte eccedente il formato televisivo con bande nere poste sopra e sotto l’immagine, mentre nel caso di formati anamorfici come Panavision o Cinemascope l’impiego di un rapporto di anamorfosi inferiore a 2:1 determina una conseguente distorsione dell’immagine in senso longitudinale. Queste tecniche vengono di solito combinate per un risultato ottimale. Naturalmente la crescente attenzione verso problematiche di ethics prevede che sia in ambito cinetecario che presso emittenti broadcast si presti una maggiore cura ai dettagli di tali operazioni, evitando i tagli arbitrari e puntando alla completezza delle immagini.
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Come per la pellicola, anche per i dati digitali si apre il problema della stabilità fisico-chimica dei supporti sui quali sono registrati. Sappiamo che nel caso della pellicola la FIAF ha redatto nel corso degli anni una serie di indicazioni ottimali per la conservazione dei film su supporto in nitrato; essi devono essere conservati in depositi a temperatura e umidità controllata (temperatura 2°C+/-2°C; umidità tra il 40% e il 60%) e con un sistema di moderata ventilazione in modo tale da eliminare gli inevitabili gas emessi dalla pellicola. Per quanto riguarda il supporto digitale ottico (CDrom, DVD), negli ultimi anni sono stati fatti alcuni esperimenti di invecchiamento accelerato per stabilire con approssimazione quale potrebbe essere la durata di tali supporti. A rendersi conto per primo di tali problemi di conservazione è stata l’industria cinematografica hollywoodiana: se per la pellicola cinematografica si può presumere una longevità pari a 100 anni (i film dei Lumière si trovano ancora oggi in buono stato), nel caso dei supporti hardware possono bastare anche pochi anni perché questi non possano essere più letti dalle apparecchiature predisposte.
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nema. Tra questi interventi annoveriamo, già in questa fase, la possibilità di ridurre graffi, polvere, stabilizzare l’immagine. Gli scanner acquisiscono i fotogrammi dei film traslandoli in sequenze di file, utilizzando periferiche di archiviazione a lunga durata, su dischi dal notevole spazio denominato SAN (storage area network)35. I formati di file adoperati seguono gli acronimi standard DPX, TIFF o Cineon. Tali sistemi, usati sia nel restauro digitale che nella post-produzione, nei circuiti di Digital Intermediate, possono prevedere il ritorno in pellicola o una proiezione mediante proiettori digitali. Il sistema a passo uno Cineon Kodak fu il primo adibito alla gestione del lavoro su Digital Intermediate, comprendendo tutti gli accessori hardware e software essenziali alla lavorazione (scanner, lettori di nastri, postazione workstation e dispositivo di registrazione), mostrava caratteristiche simili al software Domino promosso invece da Quantel, con piccole differenze nei rapporti di acquisizione e seconda registrazione. Sempre a passo uno lavorano i sistemi Lasergraphics, ARRI scanner o Arriscan, Cintel DiTTo. Nella seconda fase l’intervento digitale può risolvere quei problemi, come profondi graffi sull’emulsione, che non è possibile eliminare con la tradizionale prassi del restauro fotochimico. Il digitale si pone come un ottimo “collaboratore” dell’analogico sia nei confronti dei danni meccanici (graffi, polvere, macchie) sia in relazione alla perdita di informazioni causata da danni di natura chimica (decomposizione dell’emulsione). Si è detto che le possibilità di intervento digitale sono molto am-
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3.2.6 Programmi di elaborazione Sia le cineteche che i laboratori privati ormai conoscono standard, software e modalità di intervento per il settore dei restauri digitali; addirittura molti archivi cinematografici hanno previsto training specifici per il proprio personale o hanno assunto professiona93
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pie: rimozione di segni e polvere, rimozione di linee verticali che possono essere state causate da particelle presenti sulla pellicola o nel proiettore, ripristino della stabilità dell’immagine, de-flikering cioè la correzione delle variazioni di luminosità, intervento sul colore, correzione inter-frames ovvero il recupero di uno o più fotogrammi in cui l’informazione è completamente mancante attraverso l’introduzione di dati generati dalle immagini adiacenti, problemi di interlinea. L’instabilità dell’immagine, che può risultare fastidiosa in sede di fruizione spettatoriale, è da ritenersi comunque un elemento consustanziale alla storicità del film d’archivio: per molti anni i film venivano girati con macchine da presa a tre piedi, manuali, con le quali l’operatore doveva girare la manovella di scorrimento mantenendo ritmo e stabilità costanti. È giusto che in sede di restauro tale instabilità debba essere oggetto di un attento studio da parte del restauratore, pertanto sarà opportuno stabilire con certezza se l’errore è nel film “originale” o causato da errori di stampa successivi. La registrazione dei dati su pellicola è un processo molto usato nei restauri digitali. Infatti non tutte le sale e non tutti i festival in cui vengono proiettati i film restaurati dispongono di costosi proiettori digitali che consentano un’alta risoluzione. In molti casi è previsto un ritorno su pellicola, a garanzia di circolazione della copia con gli strumenti di proiezione più diffusi. Nel processo di restauro è importante anche avere la possibilità di scegliere la tipologia di stock più adatta per ottenere un risultato il più possibile vicino all’aspetto originale, sia nel caso di un restauro completamente analogico che nel caso di un restauro digitale che preveda il ritorno in pellicola. Naturalmente è disponibile sul commercio una vasta gamma di strumenti per la registrazione su pellicola. Un primo esempio di recorder laser fu prodotto nella metà degli anni ’90 dalla Kodak con il nome di Lightning recorder, ma oggi sono disponibili sistemi ancor più veloci e leggeri come ad esempio l’ARRI laser, utilizzato dai laboratori di Cinecittà, che permette di imprimere un fotogramma 2K a meno di 3 secondi e uno a 4K in meno di 5 secondi.
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Il restauro di Biancaneve e i Sette Nani, realizzato nel 1997 dagli studios Kodak in California, è stato il primo restauro digitale della storia. Il restauro di questo film, la cui prima mondiale avvenne il 21 dicembre 1937 a Los Angeles, conferma il piano di rilancio di molti capolavori cinematografici del passato da parte di molte major. Biancaneve, con i suoi più di 250.000 disegni e il sottofondo musicale eseguito da un’orchestra di 80 elementi, ha recuperato la delicatezza dell’originale, correggendo imperfezioni sia sui fotogrammi che sulla colonna sonora, su cui si è intervenuto digitalmente scremando timbri non omologati e frequenze di disturbo. Secondo alcuni aneddoti già in fase di produzione del film avvenne un singolare ritocco, effettuato sulla copia test per attenuare i colori troppo forti; gli addetti alla colorazione (tutte donne) applicarono dei veri trucchi cosmetici direttamente sulla pellicola, che fu ristampata con i risultati voluti. Il trucco funzionò da filtro cromatico, attenuando gli eccessi del colore.
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lità nel settore grafico-informatico per accettare a tutti gli effetti la sfida contemporanea del digitale in vista di un incremento qualitativo e di una forte volontà partecipativa, in linea con le più moderne tendenze di gusto e di mediascape. Alcuni progetti sono stati anche finanziati dalle istituzioni europee, in previsione di un miglioramento della ricerca nel settore audiovisivo e di una internazionalizzazione dei nuovi circuiti della cultura, per esempio, ha partecipato dal 2000 al 2003 al progetto Diamant, finalizzato allo sviluppo di un software specifico per il restauro digitale dei film. Una moltitudine di software per la manipolazione delle immagini in movimento, sia per montaggio che per compositing che correzione colore. Uno dei software inizialmente adoperati per le operazioni di manipolazione digitale, usato per il restauro del film d’animazione Biancaneve e i Sette Nani (Snow White and the Seven Dwarfs, USA, 1937)36, fu il già citato Cineon di Kodak, allora sistema professionale più diffuso per il lavoro Digital Intermediate. Tre software in particolare, però, sono stati usati principalmente per il restauro cinematografico digitale ad alte risoluzioni e sono relativamente diffusi in ambito broadcast: si tratta di Correct DRS (Digital Restoration System) prodotto dalla casa MTI, Revival prodotto da Da Vinci e il già menzionato Diamant di Hs-Art. Avendo lavorato personalmente con il sistema Revival conosco le diverse opzioni d’intervento e il funzionamento generale del suo workflow di restauro. Si tratta di un software che offre una vasta gamma di strumenti sia automatici che interattivi. Revival può lavora su diverse piattaforme, ma supporta due tipologie di sistema di file: il Raw file system usa dischi ad alta velocità
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Il termine rendering nell’ambito della computer grafica identifica il processo di “resa”, ovvero di generazione di un’immagine a partire da una descrizione matematica di una scena che contiene geometrie e studio dell’illuminazione. Si tratta della fase in cui il computer effettua i calcoli necessari per visualizzare l’immagine elaborando le traiettorie della luce e i loro effetti su materiali e texture, attraverso particolari funzioni e algoritmi.
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collegati esternamente per l’immagazzinamento. L’Open file system, invece, usufruisce dell’accesso di workstation multiple ai file DPX per lavorare. Significa che si può accedere anche da fonti esterne alla piattaforma della postazione, inviando dati ad altri computer che contemporaneamente gestiscono altri software per funzioni diverse (correzione colore o montaggio, ad esempio). Il sistema può essere composto da uno dei due o da entrambi (sia Raw che Open). Si usa una workstation su cui basare il lavoro sulle immagini. Il materiale viene importato nel sistema per essere lavorato e quando tutto il lavoro è completo le immagini posso essere esportate come dati o come video. La funzione automatica può essere usata per lavorare su un’alta percentuale di problemi relativi al video e il modo interattivo, ossia manuale, può essere usato per dare un effetto più definito all’immagine qualora essa presenti danni che richiedono intervento fotogramma per fotogramma. La versatilità del software consente anche di modulare i parametri d’invasività dell’intervento: se ridurre drasticamente la grana, per esempio, o se lasciare alcuni danni superficiali in considerazione del rispetto della patina e della contestualizzazione tecnologico-formale dell’epoca di produzione del film. La scelta di effettuare salvataggi e rendering37 con una cadenza stretta tra un intervento e l’altro determina una reversibilità maggiore delle singole operazioni, garantendo un alto coefficiente di cautela nel processo di lavorazione. Inoltre è fondamentale che i criteri di intervento facciano capo al gusto e alla supervisione di un restauratore esperto, che non intensifichi eccessivamente l’automaticità dei processi o che non appiattisca l’immagine in funzione di una pulizia estremizzata, poco verosimile e incoerente con lo spirito del restauro e con le declinazioni iconografiche del film, nonché probabile fonte di artefatti digitali. Mentre la polvere può essere eliminata con mezzi chimici e meccanici, i graffi generati dall’usura possono solo essere attenuati in duplicazione nei casi di stampatrici wet gate, ma non possono essere del tutto eliminati e non sempre l’immersione nel bagno delle stampatrici riesce effettivamente a nascondere i danni più profondi.
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G. Fossati, From Grain To Pixel, cit., p. 84..
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Gli strumenti dei software di restauro, invece, intervengono con ottimi risultati su questo tipo di problemi, che vengono definiti “spaziali”, nel senso che limitano la propria presenza a ben definite aree di interesse nello spazio del fotogramma. Questo tipo di intervento può avvenire secondo metodo interattivo-manuale o secondo metodo automatico. Il processo automatico riduce nei fotogrammi selezionati la presenza di tali imperfezioni, cosiddette “spuntinature”, sulla base di complessi calcoli che determinano una selezione approssimativa di questi elementi, un’analisi del movimento (per far sì che vengano cancellati dall’immagine solo gli elementi estranei ad essa) e infine una standardizzazione dei livelli di intervento sulla base di coordinate numeriche che controllino i valori delle operazioni, per evitare un effetto di eccessiva piattezza delle immagini. Prima di qualsiasi processo automatico è essenziale dare al software i comandi per operare una selezione scene, attraverso cui vengono segnalate le diverse inquadrature e di conseguenza i cambi di luce; un processo analogo alle “cue”, il cambio scena che si rileva nei processi analogici per impostare i valori di luce delle stampatrici. In ogni caso la necessità di supervisione umana e di controllo della portata d’intervento sono un elemento cardine. Solo l’occhio umano, infatti, può determinare una gestione consapevole delle immagini ed evitare che il software cancelli, analogamente a come accade per i difetti, elementi che appaiono su di un solo fotogramma, come il luccichio di un gioiello, i riflessi sulla superficie del mare o elementi in rapido movimento, come gocce di pioggia o fiocchi di neve38. Il processo automatico prevede che tutti gli elementi estranei, presenti un solo fotogramma o con comportamenti anomali in fatto di movimento, siano considerati come danni ed eliminati. Il processo manuale, invece, si costruisce sull’esperienza dell’operatore e della sua mediazione estetica. Tale modalità rallenta notevolmente i tempi di elaborazione dei restauri digitali, considerato il numero medio di fotogrammi presente in un film, ma è spesso indispensabile qualora si presentino situazioni di grave degrado dell’immagine. La procedura si avvicina ad alcune delle modalità descritte precedentemente in merito alle operazioni di effacing e compositing previste dai software di computer grafica; è previsto uno strumento che funziona come un pennello digitale (spesso ma-
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Ivi, p. 86. La scansione interlacciata, o interlacciamento, è un sistema di scansione di immagini video che prevede la divisione delle linee di scansione in due parti, dette campi o semiquadri, suddivisi in linee pari e dispari. Un televisore in standard PAL, per esempio, visualizza 50 semiquadri al secondo (25 pari e 25 dispari). Un quadro completo, quindi, viene tracciato 25 volte al secondo. La modalità cosiddetta interlacciata consiste in tutte le linee orizzontali che vengono 40
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novrato attraverso tavolette grafiche), dal diametro variabile, attraverso cui è possibile coprire il danno usando dei pixel clonati da aree adiacenti o desunte da fotogrammi vicini. Un’altra modalità d’intervento manuale o interattivo consiste nell’interpolazione dei fotogrammi, ossia la capacità di “creare” dei frame aggiuntivi, “deducendoli” grazie ad un particolare algoritmo. L’aggiunta di frame comporta una minore “differenza” tra un fotogramma e l’altro poiché, appunto, ne è stato aggiunto uno che è intermedio, a livello di contenuto, ai due originali. Giovanna Fossati afferma che per l’interpolazione e per gli strumenti di correzione grafica si adoperino i fotogrammi adiacenti, il precedente o il successivo39, selezionandone le parti interessate; nella mia esperienza di operatrice a dei progetti di restauri video, invece, ho preferito adottare come riferimento un frame che non sia il precedente o il successivo, bensì due fotogrammi prima o due fotogrammi dopo, per limitare fastidiosi effetti di fissità di porzioni dell’immagine in un clima di eccessiva alterazione formale. Tra i problemi cosiddetti “temporali”, ossia diffusi su intere sequenze, motivati da danni strutturali o errori di duplicazione, annoveriamo l’instabilità dell’immagine, motivata talvolta dal restringimento fisico o dalla deformazione delle pellicole (cosa che avviene in particolare con alcuni nitrati) e il cosiddetto flicker, ossia lo sfarfallio dovuto a variazioni di luminosità e densità dell’immagine. I processi automatici calcolano meccanicamente i valori da stabilizzare sulla base di parametri numerici inseriti dall’operatore, mentre quelli manuali determinano punti di referenza all’interno del frame per coordinare la sistemazione delle anomalie nel quadro. I software di restauro sono equipaggiati su scala temporale anche con specifici strumenti di gestione della grana, per evitare l’appiattimento o l’eccessiva irregolarità dell’immagine, in funzione della sua componente più fotografica, e per il miglioramento dei disturbi tipici del video, come l’irregolarità del segnale o i disturbi nella trascrizione dei semiquadri interlacciati40.
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suddivise in linee pari e linee dispari e che compongono due campi. Questi due campi uniti danno l’intero fotogramma. Ogni secondo di filmato contiene 50 semiquadri che si susseguono a velocità doppia (1/50 di secondo) rispetto a quanto accadeva nel video progressivo (1/25 di secondo). L'occhio umano viene ingannato percependo le due immagini consecutive come se fossero una sola. 41 R. Misek, Chromatic Cinema. A History of Screen Color, Malden-Oxford, Wiley-Blackwell, 2010, pp. 2-4. 42 F. Pierotti, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema, Genova, Le Mani, 2012. 43 Per uno studio sul colore applicato: AA.VV., ‘Disorderly Order’. Colours in silent films, Amsterdam, Stitching Nederlands Filmmuseum, 1996; J. Aumont, La couleur en cinéma, Musée du Cinéma, Milano, Mazzotta, 1995; M. Dall’Asta, G. Pescatore e L. Quaresima (a cura di), Il colore nel cinema muto, Bologna, Mano Edizioni, 1996; A. Dalle Vacche, B. Price (a cura di), Color. The Film Reader, New York, Routledge, 2006; R. Misek, Chromatic Cinema. A History of Screen Color, cit.; F. Pierotti, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema, cit.; P. Read, ‘Unnatural Colours’: An Introduction to Colouring Techniques in Silent Era Movies, «Film History: An International Journal», Volume 21, N. 1, 2009; J. Yumibe, Moving Color. Early Film, Mass Culture, Modernism, New Brunswick, Rutgers University Press, 2012.
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Uno dei lavori più complessi che accomunano le tecniche di restauro ai processi di post-produzione riguarda la questione del colore. La correzione colore è una fase molto particolare del confezionamento del film, poiché si basa in buona percentuale sul gusto del color grader, orientato dalle scelte del direttore della fotografia e dal regista, che possono ricercare una dimensione peculiare, una verosimiglianza o una alterità stilistica determinata41. Nel caso dei restauri cinematografici il colore è uno dei problemi centrali42. Sia perché spesso si tratta del principale fattore eziologico per cui viene operato un restauro, come nel caso degli scolorimenti delle pellicole cromogeniche, soprattutto in acetato, spesso pervase dai toni invadenti del magenta e del rosso, sia perché la duplicazione fotochimica delle colorazioni applicate, sulle stampe positive proprie del cinema muto, non ha sempre riscosso successi brillanti43. La storia delle pellicole a colori annovera tipologie estremamente variegate e differenti, fin dalle esperienze delle pellicole in EastmanColor, GasparColor e Technicolor, che funzionavano grazie al procedimento brevettato che prevedeva la sovrapposizione di due e negli anni successivi tre strati di pellicole differenti sensibili a diverse gamme cromatiche.
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3.2.7 Colore
La versione digitale del metodo Desmet, sperimentata dal Digital Film Laboratory di Copenaghen, conduce a risultati analoghi a quelli del sistema fotochimico, pur utilizzando completamente altre modalità operative; si lavora su un’immagine in bianco e nero e solo alla fine si aggiunge il colore per riprodurre le imbibizioni, mentre per ripristinare digitalmente il viraggio si procede a conferire un valore cromatico ai toni neri. L’espressione Digital Desmet è stata coniata da Thomas Christensen del Danish Film Institute. Per quanto riguarda stencil o pochoir, le tecniche di colorazione applicata direttamente sui fotogrammi mediante stampini pretagliati che sagomavano i difficili contorni delle figure presenti sulle pellicole 35mm, il digitale consente di limitare le sbavature, saturarne l’intensità e intervenire sul degrado dei colori con notevole efficacia empirica. Naturalmente anche nel discorso sul colore bisogna considerare la sostanziale differenza tra media analogici e strumenti digitali. Si è detto come nel campo dell’analogico il colore poteva essere applicato sulla pellicola (come nel primo cinema, in cui la magia era giocata anche sull’illusione del colore proiettato, erede di una tradizione grafica di disegni animati e colori ben più antica del cinema) per imbibizione, viraggio, mordenzatura o pochoir, oppure poteva essere indotto da strisce sovrapposte, sensibili a diversi settori dello spettro visivo, oppure ancora generato da pellicole cromogeniche, in cui i copulanti cromogeni si attivano sull’emulsione della pellicola sulla base delle diverse sensibilità ai colori dello spettro visivo. Col digitale, invece, i valori cromatici sono dati da strumenti codificati di controllo dei canali RGB, in cui le diverse dominanti sono interdipendenti − aumentando il rosso si rimuovono verde e blu. La funzionalità delle correzioni colore sono state sempre migliorate e implementate tra gli strumenti di acquisizione e poi attraverso software sempre più sofisticati. L’uscita del software di corre44
Mia traduzione da G. Fossati, From Grain to Pixel, cit., p. 89.
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Per i film imbibiti e/o virati è possibile ricreare digitalmente il processo fotochimico noto come metodo Desmet. In tal caso l’imbibizione originale è simulata attraverso “flashando” (cioè esponendo l’intero fotogramma uniformemente ad una luce colorata nella stampatrice) il colore originale sul nuovo negativo duplicato; il viraggio è ottenuto duplicando i neri in un’immagine aggiungendo il colore dell’originale virato44.
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3.2.8 Restauro del suono Oltre all’intervento sull’immagine, le tecnologie digitali permettono di affrontare anche il restauro del suono; come per l’immagine filmica anche il suono viene trasformato in un impulso binario attraverso un calcolo matematico. A differenza del restauro fotochimico, in cui il suono può essere recuperato solo sull’intera sequenza dei fotogrammi, con le tecnologie digitali è possibile isolare specifici suoni, rumori o frequenze su cui si è deciso di intervenire; nel caso della colonna sonora, che comprende la musica, il suono, i rumori, le parole, si presenteranno al restauratore le stesse problematiche etiche che si incontrano di fronte all’immagine. Spesso la colonna si presenta sporca come accade per l’immagine; una volta ripulita, gli interventi sulla colonna sonora saranno effettuati grazie ad applicativi specifici come il Cedar installato sul software Pro Tools. Il Cedar viene utilizzato per l’eliminazione del crepitio e, attraverso altri due programmi di cui è costituito, il Decli45 46
R. Misek, Chromatic Cinema. A History of Screen Color, cit., p. 161. Ivi, p. 90.
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zione colore della Da Vinci nel 1993 ha reso possibili modifiche per i colori “secondari” oltre che per quelli “primari”45. Gli strumenti digitali sono usati per simulare con effetti più verosimili delle tecniche fotochimiche i colori delle pellicole a due colori del primo periodo del Technicolor o tipi ancora diversi di strategie di recupero del colore, elaborate per esempio sugli sbiadimenti delle pellicole cromogeniche nei laboratori di Cineric a New York, Cinetech e Sony Picture Entertainment in California46. Ciononostante i problemi del restauro del colore nel campo del digitale trovano, insieme alla notevole versatilità di opzioni di intervento, anche una serie di problemi relativi all’effettiva ricognizione del colore: infatti, nonostante l’ampia gamma di nuance e toni prevista dai sistemi contemporanei, è possibile che in fase di acquisizione tramite scanner vi siano problemi di interpretazione del colore della pellicola, soprattutto nel caso di colori applicati, letti come anomali rispetto alla gamma e ai valori dei colori naturali riprodotti dai film. I test densitometrici operati su pellicole imbibite o virate riportano sensibili peculiarità rispetto ai test di pellicole normalmente sviluppate; questo si riflette anche sulla lettura operata dagli scansionatori.
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3.2.9 Ethics È naturale che il gusto del pubblico contemporaneo faccia fatica a confrontarsi con danni evidenti che compromettono il godimento di un film e che la percezione di un testo “ripulito” sia indubbiamente più serena e scorrevole rispetto ad un’ostica esibizione della patina storica. Questo ovviamente non significa dimenticare l’impasse derivante dall’interruzione del piacere spettatoriale della fruizione scorrevole o dall’illeggibilità del testo filmico. Pertanto a mio avviso anche l’esibizione del danno evidente copiato è un errore: l’invadenza della lacuna si determina come un degrado profondo della struttura dell’immagine, assolutamente non previsto nell’originale e non fruibile se non da un feticista del supporto. Cosa accade se sfarfallio e instabilità dell’immagine possono essere definiti difetti dell’originale, e dunque andrebbero preservati, ma sono talmente invasivi che il film perde la sua leggibilità? In tal caso concetti etici ed estetici si contraddicono. Il concetto di restauro eticamente ispirato rivendica la preservazione di tali difetti, mentre le considerazioni estetiche implorano la loro rimozione47.
47 Mia traduzione da J. Wallmüller, Criteria for the Use of Digital Technology in Moving Image Restoration, «The Moving Image», Volume 7, N. 1, Spring 2007, p. 85.
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cker e il Dehiss, è possibile intervenire su disturbi come gli scricchiolii (de-click) e sui rumori come i sibili o fruscii (de-hiss). In quest’ultimo caso l’eliminazione completa del fruscio può causare una perdita delle frequenze più alte della colonna; per quanto riguarda i click (causati da rotture, graffi e riparazioni sulla colonna negativa ottica) essi possono essere eliminati grazie al sistema Sonic Solution No-Noise: come nel caso della riparazione di un graffio sull’emulsione, l’area del click verrà riempita “copiando” il segnale precedente e successivo senza causare un’alterazione della lunghezza della colonna. Anche qui bisogna fare i conti con problemi di filologia ed estetica del film: se “migliorare” la resa (visiva o sonora) di un film è effettuare un operazione errata, il restauro deve riportare l’opera al suo stato originario e non sovrapporvi una nuova estetica moderna.
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3.2.10 Metadati e documentazione I dati prodotti durante i processi digitali (materiali scansionati, risultati e metadati del restauro digitale), devono essere preservati per garantire la ripercorribilità dei processi di restauro, nel percorso ideale di un processo di trasparenza. Innanzitutto una «predocumentazione»48 del trattamento deve presentare il piano di restauro, progetto che sarà a tutti gli effetti parte integrante del restauro, che deve includere anche le istituzioni e le personalità contestualmente coinvolte nel restauro. Fossati conferma che spesso la documentazione dei restauri di film risulta insufficiente; sono davvero pochi i restauri documentati in dettaglio, i cui rapporti sono stati pubblicati e resi disponibili per il pubblico e per la ricerca, prevalentemente nei casi di film particolarmente importanti. Creare una documentazione completa costituisce un investimento in termini di tempo (e di conseguenza, visto che è inscritto in una società capitalista, denaro), non è richiesto dalle committenze private e non è un elemento su cui esistono criteri di organizzazione obbligatoria. I restauri digitali vantano invece uno status differente, poiché i processi di documentazione degli interventi operati mediante software possono essere prodotti automaticamente e collegati meccanicamente al catalogo. Tutto ciò sarebbe perfetto se i software non 48
Ibidem.
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I problemi etici che nascono dall’enorme potenziale d’intervento degli strumenti digitali si confrontano anche con le questioni della reversibilità e ripetibilità dei processi: i dati prodotti durante le scansioni o i diversi livelli di intervento devono sempre essere ripercorribili in funzione di una seconda chance di ermeneutica del restauro, in cui si decida di operare diversamente. Attualmente l’enorme potenza dei sistemi digitali, anche in termini di memoria scrivibile, spazio su hard disk esterni e storage, è direttamente proporzionale all’instabilità di tali sistemi e alla limitata sicurezza che offrono in termini di gestione di una siffatta mole di dati. Uno dei problemi più spesso riscontrati sui restauri digitali a cui ho lavorato e assistito, sia nei piccoli laboratori che nei grandi sistemi industriali, è proprio l’arresto del sistema in seguito ad errori di calcolo, che può causare la perdita dei dati fino all’ultimo backup effettuato, con conseguente perdita di risorse.
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Il gruppo di utenti DIAMANT, per esempio, ha sviluppato il concetto di un report di restauro e file di progetto per la documentazione automatica. Il rapporto di restauro deve contenere informazioni relative a quali strumenti del sistema sono stati applicati a quali parti del lavoro (sequenze o singoli fotogrammi) accompagnate da dichiarazioni del restauratore/operatore [...]. Il file di progetto non deve essere necessariamente “leggibile da umani”, ma deve consentire l’esatta ricreazione e la ripetizione del progetto di restauro; in altre parole, deve esser possibile caricare il file nel sistema per future proposte di restauro51.
Al momento infatti nessun software o hardware di restauro ha ancora prodotto un sistema che possa mettere d’accordo l’informatico e il restauratore per la reciproca comprensione d’intenti. I report informatici sono un esempio di metadati, ovvero dati sui dati; la parola si riferisce a tutte le informazioni create relativamente ad un oggetto. Ovviamente il caso del film è particolarmente complesso, per l’ampio spettro di informazioni contenute, filmografiche, visive, cromatiche, di movimento ecc. L’auspicio è che sia attuabile una rimodulazione dei metadati in una sorta di scheda di restauro. 3.2.11 Digital Access Come si è già detto uno dei problemi più sentiti nell’ambito degli studi sul restauro cinematografico è certamente la questione
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File in cui si tengono registrate le attività compiute per esempio da un’applicazione, da un server, o da un interprete di comandi. L’etimologia del termine rimanda alla vocazione di registrazione memoriale delle procedure di un dato software, in quanto la parola log in inglese è il “diario di bordo”. 50 G. Fossati, From Grain to Pixel. The Archival Life of Film in Transition, cit., p. 92. 51 Mia traduzione da J. Wallmüller, Criteria for the Use of Digital Technology in Moving Image Restoration, cit., p. 88.
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creassero tale documentazione sotto forma di log file49, molto difficilmente interpretabili. Un’esperienza d’avanguardia è però l’opzione prevista dal software Diamant, in collaborazione tra sviluppatori di software e restauratori col fine di creare un rapporto di restauro che acquisisca una maggiore leggibilità50 in funzione non solo di algoritmi computazionali e cifre di calcolo, ma anche di un significato comprensibile per l’umano che si appresta alla sua lettura.
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Regole complesse e spesso contraddittorie governano l’accesso alle collezioni. Nella maggior parte dei casi gli archivi vorrebbero esibire le proprie collezioni, esporle alla visione di utenti esperti che potrebbero aiutare ad identificarle, determinarne lo sviluppo attraverso i canali più redditizi, scoprire i propri tesori nascosti, individuarne le lacune e in generale, portarle all’attenzione di un più vasto pubblico (attraverso la pubblicazione, per esempio). Eppure delle limitazioni vengono poste all’archivio in termini sia di preservazione che di diritto d’autore. Permettere l’accesso è dunque un problema di sottile compromesso fra queste due esigenze apparentemente opposte55.
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N. Goldman, Access to Documentation Collections, in AA. VV. (Documentation Commission), Papers from the Technical Symposium on Documentation, FIAF, 1992, p. 58. 53 «La logica del patrimonio culturale, tuttavia, ha sempre lavorato a reificare e rafforzare i legami con un particolare livello di autorità e di potere, la nazione, e quindi legittimare determinati ruoli e artefatti nel processo di archiviazione. Capirne di più sul discorso relativo al patrimonio, e la sua relazione con l'archiviazione delle immagini in movimento, incoraggia il cambiamento pragmatico e suggerisce percorsi concreti verso la possibilità di un rinnovamento teorico». Mia traduzione da C. Frick, Saving Cinema. The Politics of Preservation, Chicago, Oxford University Press, 2011. 54 S. Lenk, Manual for Access to the Collections, in «Journal of Film Preservation» n. 55, 1997, pp. 6-7. 55 Mia traduzione da G. Claes, Introduction, in Manual for Access to the Collections, in «Journal of Film Preservation» n. 55, 1997, pp. 6-7.
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dell’accesso. Per accesso infatti si intende «il collegamento tra la collezione e l’utente»52, che può essere attivo, se abbinato a politiche di promozione e programmazione di proiezioni in collaborazione con altre istituzioni53, o passivo, qualora l’iter di approccio consista nell’attendere che individui o gruppi di utenti pongano richieste di permesso di visione dei materiali secondo modalità approvate dall’archivio (proiezione, tavoli d’ispezione o altro). Naturalmente si verificano molto spesso combinazioni delle due modalità, come nel caso dei festival, in cui le licenze per la circolazione delle pellicole si integrano ad attività di promozione culturale presso il pubblico che prevede anche pubblicità e attitudini fortemente target-oriented verso una collettività locale, nazionale o anche internazionale54.
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Nonostante il rapido progresso dell’industria tecnologica, al momento attuale il restauro digitale determina ancora tempi e costi estremamente dilatati, dovuti alla sofisticazione e alla complessità di procedure d’intervento, ai tempi e alle modalità di elaborazione, che si traducono in un ingente investimento economico. Identificare correttamente le più moderne possibilità di circolazione e distribuzione di un film è una pratica che deve fare i conti con le esigenze commerciali e distributive, con la legislazione nazionale in materia e con le scelte di politica culturale di archivi, cineteche e musei del cinema. Altre questioni legate alla circolazione e all’accesso nel mondo contemporaneo devono fare i conti con le risorse disponibili in rete attraverso servizi di streaming. Gli enti che forniscono servizi di questo tipo naturalmente accettano il compromesso di una più bassa qualità per un più ampio accesso. Gli archivi che portano su supporti elettronici il contenuto delle loro collezioni in pellicola per usi didattici seguono i criteri internazionali del copyright, come l’Istituto Luce, detentore dei diritti di tutte le sue pellicole. Ma prima di digitalizzare un film (operazione costosa per molte cineteche) è necessario per il curatore valutare lo status del film da un punto di vista legale, per prevenire querele o cause compromettenti. Se in passato l’accesso alle collezioni avveniva attraverso le sale cinematografiche e poi le cineteche e i cineclub, in seguito l’avvento su larga scala dell’home video ha concesso una vasta autonomia e una capillare diffusione a supporti a bassa risoluzione, prima tramite segnale elettronico registrato su nastri magnetici (video), successivamente su dischi DVD e poi sempre più attraverso canali di streaming su internet. Come si è già accennato è fondamentale ribadire la centralità di questioni relative alla risoluzione: una bassa risoluzione, sebbene non possa equiparare la qualità estetica della pellicola, è utile ai fini di un ampio accesso tramite formati diversi legati alla fruizione home video, come il DVD o lo streaming. Per gestire la digitalizzazione di intere collezioni e le piattaforme di streaming, però, è necessario dedicare lavoro, tempo e investimenti al progetto: efficienti infrastrutture, un monitoraggio gestionale costante, specifiche risorse finanziarie investite negli acquisti di domini e spazi adeguatamente calibrati per la circolazione di informazioni ad elevato valore di bit-rate, ossia velocità di trasmissioni di una determinata quantità di dati digitali.
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In questa sede ho scelto invece di non approfondire questioni interpretative per limitarmi invece alla descrizione delle scelte operate in sede di restauro digitale, delle effettive modalità esecutive, degli aspetti più tecnici e dettagliati del lavoro laboratoriale nel rispetto dell’iter effettivo di realizzazione finale e delle diverse decisioni relative ai formati, agli standard, ai diversi supporti di registrazione e veicolazione delle immagini in movimento. 3.3.1 Il Gattopardo Il film Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti, vero e proprio kolossal storico italiano56, è stato oggetto di diversi interventi di restauro, finalizzati a riportare agli antichi fasti un affresco corale costruito dalla ricchezza dei dettagli e dall’eccezionale suggestione sinestetica, affresco che costò innumerevoli sforzi alla produzione e alla troupe. La meticolosità ossessiva del regista si riscontra in innumerevoli dettagli: scenografie, suppellettili e costumi maniacalmente selezionati, candele vere sul lampadario, sostituite ogni ora, vasellame d’oro e d’argento prestate dalla nobiltà palermitana, centinaia di giubbe dei garibaldini stinte una ad una da Piero Tosi utilizzando foglie di the, il tutto per ricreare un racconto epico, che segue l’impeto del Risorgimento italiano e il ritmo lento della vita del mezzogiorno, quello sontuoso degli aristocratici siciliani, attraverso le sfumature dell’iconografia ottocentesca, da Delacroix ad Hayez. Il film è stato premiato a Cannes per essere un affresco del glorioso fulgore risorgimentale, con i suoi ideali mancati e la rivoluzione tra56
L’investimento richiesto da questo kolossal si rivelò presto superiore a quanto previsto dalla Titanus allorché, nel 1958, subito dopo l'uscita del romanzo, ne aveva acquistato i diritti cinematografici. Dopo un mancato accordo di co-produzione con la Francia, la scrittura di Burt Lancaster nel ruolo di protagonista, nonostante le iniziali perplessità di Luchino Visconti (che avrebbe preferito Laurence Olivier o l'attore sovietico Nikolaj Čerkasov), permise un accordo distributivo per gli Stati Uniti d'America con la 20th Century Fox.
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3.3 Esempi di restauri digitali Per capire le scelte operate in sede di restauro è necessario studiare i film, le loro vicende produttive ed editoriali, comprenderne i valori estetico-formali e le implicazioni d’immaginario, le ingerenze storiche e la dimensione ideologica della sua ricezione. Attraverso questi elementi è possibile ricostruire, ripristinare e riprodurre un film.
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Sul film e sulla lettura viscontiana del romanzo di Tomasi di Lampedusa nell’ottica di una contraddizione con le dichiarazioni marxiste del regista, cfr. E. Bruno, “La rivoluzione tradita” di Luchino Visconti, «Filmcritica», Roma XIV, 132, aprile 1963, pp. 183-186. 58 Per studi monografici e saggi sul film cfr. P. Bertetto. “Il Gattopardo”. Il simulacro e la figurazione: strategie di messa in scena, in V. Pravadelli (a cura di), Il cinema di Luchino Visconti, Roma, Edizioni Bianco e Nero, 2000; P. Bertetto, Economie del fascinante: il caso de “Il Gattopardo”, in V. Zagarrio, Dietro lo schermo: ragionamento sui modi di produzione cinematografici in Italia, Venezia, Marsilio, 1988; L. Micciché, “Il Gattopardo”, Napoli-Roma, ElectaCentro Sperimentale di Cinematografia, 1996; F. Petrucci (a cura di), Visconti e “Il Gattopardo”: la scena del Principe, Milano, De Agostini-Rizzoli, 2001. 59 Cfr. E. Soci, “Il Gattopardo” di Luchino Visconti: un capolavoro restaurato, Ipotesi Cinema, Bassano del Grappa, 1992; G. Rotunno, Il restauro, in L. Micciché, “Il Gattopardo”, cit., pp. 282-284. 60 Fin dalle origini del cinematografo l'uso di formati panoramici risponde all'esigenza di espandere lo spazio rappresentato dal fotogramma per avere la possibilità di ingrandimenti maggiori. Dal Latham, Eidoloscope, 1895, film 51mm, che funzionava a trazione verticale con 4 perforazioni nello spazio del fotogramma, al Veriscope, 1897 film 63mm, a trazione verticale con 5 perforazioni nello spazio del fotogramma; dal Lumière Wide Film, 1900, film 75mm, a trazione verticale e 8 perforazioni, all'Alberini, panoramica, 1912, film 70 mm, trazione verticale e 5 perforazioni. Solo negli anni Cinquanta del Novecento tali esperienze vennero commercializzate: Cinemascope, 1953, film 35mm, trazione verticale e lente anamorfica per il raddoppiamento, schiacchiamento orizzontale, 4 perforazioni; Panavision Todd, 1971, film 35mm, trazione verticale e lente anamorfica per il raddoppiamento, schiacchiamento orizzontale, 4 perforazioni; Vistavision, 1954-1961, film 35mm, trazione orizzontale, non anamorfico, 8 perforazioni; Technirama-Technicolor, 1956-1967, film 35mm, trazione orizzontale e lente anamorfica x 1 e 1/2, schiacchiamento orizzontale, 8 perforazioni; SuperTechnirama, usava tutto il fotogramma compreso lo spazio ottico destinato alla colonna. Le lenti anamorfiche determinano effetto di illusione ottica per cui una immagine viene proiettata in modo deformato (anamorfosi: dal greco
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dita57, nella vacuità del falso plebiscito e nella miserabile incongruità dello Stato nei confronti di una Sicilia maestosa e raffinata ma condannata all’ingiustizia58. Il famoso restauro del 199159 è stato curato da Giuseppe Rotunno, direttore della fotografia del film, premiato con un Nastro d’Argento. Il film era stato girato in Technirama, un procedimento complesso in cui il fotogramma aveva, in fase di proiezione, uno scorrimento orizzontale per permettere un maggiore allargamento dell’inquadratura. L’immagine anamorfica risultante, che ha il doppio delle dimensioni di un fotogramma 35mm, risulta così eccezionalmente nitida e ricca di dettagli60.
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Lacune binarie
Il complesso lavoro di restauro cominciò con la ricerca del negativo originale che, dopo molti tentativi, fu trovato presso il laboratorio di sviluppo e stampa della Technicolor di Londra. Grazie ai buoni auspici della Technicolor romana, ottenemmo la garanzia di poter ripristinare la catena di lavorazione − vale a dire tutti i macchinari indispensabili − del sistema Technicolor-Technirama, ormai in disuso da più di venti anni e che solo Londra ci poteva garantire in termini qualitativi e a costi accessibili. [...] Comunque, una volta rintracciato il negativo originale, decidemmo di fare un primo controllo del suo stato fisico nel modo più rapido ed economico per mezzo di una stampa "a contatto", che, come a questo punto si è capito, non poteva essere proiettato con i normali mezzi. Senza, dunque, il ripristino dei complessi macchinari, delle ottiche speciali ed anche delle lenti anamorfiche che il sistema Technirama usava, il recupero integrale de Il Gattopardo non sarebbe stato possibile61.
La peculiare lavorazione sanciva l’inaccessibilità del negativo al di fuori degli stabilimenti Technicolor di Londra. La copia per la prima verifica fu eseguita mediante stampa a contatto con macchine
ἀναµόρϕωσις, composto di anà- e mórfosis= forma ricostruita). Questa tecnica al
cinema è utilizzato per riprendere un formato di schermo con rapporto base/altezza differente da quello della pellicola. Speciali lenti comprimono l'immagine lateralmente (compressione anamorfica) al momento della ripresa e la espandono nuovamente durante la proiezione. Cfr. A. del Amo García, Film Preservation, Cineteca Nacional de México – Filmoteca Española-FIAF, Cidade do México, 2006; L. Mazzei, F. Vitella, Geometrie dello sguardo. Contributi allo studio dei formati nel cinema italiano, Roma, Carocci, 2007; F. Vitella, The Italian Widescreen Era. The Adoption of Widescreen Techneology as a Periodizing Element in the History of Italian Cinema, in «Quarterly Rewiew of Film and Video», volume 29, New York, Routledge, 2012, pp. 24-33. 61 G. Rotunno, Il restauro, cit., p. 282.
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Un aspetto interessante consiste nel fatto che a causa del processo di scorrimento orizzontale anche i graffi e i segni di usura scorrono lungo il fotogramma in orizzontale anziché in verticale. Nel 1991 tale tecnica usata nel 1963 era già obsoleta e si è reso necessario convertire l’intero film al consueto scorrimento verticale. Inoltre la pellicola, che presentava un decadimento dei colori e del contrasto, è stata completamente rigenerata con un procedimento laborioso effettuato nei laboratori Technicolor di Londra e Roma.
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Rotunno racconta l’aneddoto divertente del check della pellicola con la testa reclinato a novanta gradi, per poter verificare correttamente la lavorazione e riconoscere la conformità con il suo ricordo personale. Ivi, p. 283. 63 Ibidem.
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normali, che non utilizzavano il procedimento Technirama: questo ha determinato una stampa che presentava la verticalizzazione di immagini pensate per essere viste in orizzontale62. Ottenendo un interpositivo utilizzabile con normali macchinari si è poi potuto operare le diverse scelte di restauro, basate sulla luce e sul colore, che erano stati manomessi e che si presentavano deteriorati e compromessi nelle varie copie di circolazione pervenute. Inoltre si è recuperata la lunghezza originale: dopo il restauro la lunghezza complessiva del film ha raggiunto i 5155 m., recuperando varianti e segmenti tagliati dalle diverse edizioni straniere. Il recupero puntava alla conservazione; si è trasferito il film su tre diversi master di separazione in argento ed è stato duplicato su tre pellicole in bianco e nero con il criterio della tricromia: ogni pellicola raccoglie infatti quella porzione di immagine appartenente, ognuna, ad uno dei tre colori fondamentali. Ogni volta che sarà opportuno, le tre pellicole si ricomporranno per ottenere una nuova matrice e permettere una nuova stampa, con tecniche e materiali aggiornati, nel pieno rispetto dei valori cromatici della copia campione approvata a suo tempo da Luchino Visconti63. Analogo trattamento ha subito la colonna audio. Smarrita l’originale la pista sonora si è provveduto a ricostruirla recuperando segmenti audio da varie copie ancora in circolazione. È evidente che la lunga durata del film ha comportato problemi tecnici di difficile risoluzione, resi ancor più complessi da un girato che predilige i totali piuttosto che i piani medi. Il colore vivido e intenso del Technicolor è stato però in seguito contestato da Tosi, che non riconosceva nelle immagini sature le tinte dei costumi e delle stoffe da lui selezionate e confezionate per la realizzazione del film. Nel 2010 invece viene eseguito un restauro digitale proiettato in prima mondiale al 63esimo Festival di Cannes. Si è voluta tentare la sfida del restauro digitale per ovviare alle questioni problematiche dell’eccessiva saturazione dei colori e per compiere nuove ricerche attraverso i sofisticati mezzi contemporanei in direzione di un ripristino del film vent’anni dopo il restauro precedente.
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“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.” Benché Tancredi (Alain Delon) stia parlando del futuro dell’aristocrazia italiana, la sua descrizione si applica bene anche al restauro dei film. Nel corso degli anni la tecnologia cinematografica è radicalmente cambiata, e una delle principali sfide del restauro è tentare di ricreare l’impossibile esperienza della visione del film così come fu originariamente presentato. Oggi potenti strumenti digitali ci consentono una libertà quasi illimitata nella manipolazione delle immagini e nella corre-
64 Anche il restauro digitale de Il Gattopardo è stato estremamente costoso; così come si era investito per permettere la nascita di questo kolossal, altrettanto necessario è stato intraprendere unacampagna di sponsorizzazione per poter coprire gli alti costi di digitalizzazione ed elaborazione del film attraverso software di restauro. Finanziare un restauro può essere per alcune aziende una forma di pubblicità e promozione del marchio che al contempo aiuta ad ottenere sgravi fiscali per finanziamenti alla cultura e alle opere artistiche. Il marchio Gucci nella fattispecie sceglie di restaurare Il Gattopardo, un film che nel mondo è il simbolo della raffinatezza e dell’eleganza italiane; similmente operano anche altre griffe, sovvenzionando vari restauri di film sulla base degli effetti positivi di una pubblicità progressista per l’immagine dell’azienda e per gli esoneri fiscali che ne conseguono.
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Il restauro è stato promosso dalla Cineteca di Bologna, dal laboratorio L’immagine Ritrovata, in collaborazione con Fondation Jérôme Seydoux-Pathé, Twentieth Century Fox, Digital Picture Restoration, Colorworks e il Centro Sperimentale di CinematografiaCineteca Nazionale, e sponsorizzato da Gucci64 e The Film Foundation, la celebre fondazione istituita dal regista americano Martin Scorsese e finalizzata al recupero del patrimonio cinematografico internazionale. Il negativo originale del 1963 è attualmente sbiadito e mostra molti dei problemi comuni ai film realizzati nella sua epoca. Per questo secondo restauro i negativi scena in formato Technirama sono stati scansionati alla risoluzione di 8K, la più alta attualmente disponibile. Oltre al negativo scena è stato scansionato anche un interpositivo 35mm, in modo da poter recuperare alcune integrazioni, ossia altre sezioni necessarie a sostituire materiale assente nei negativi originali.
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Shawn Belston, responsabile della preservazione dei film presso la Twentieth Century Fox, racconta che sono stati prodotti oltre 21 TB di dati durante le acquisizioni digitali del film. Dopo la scansione tutti i file sono stati convertiti a 4K e le pratiche di restauro digitale sono state eseguite a questa risoluzione. A causa dei difetti superficiali dell’emulsione è stato indispensabile un intervento di restauro che si è effettuato tramite i processi manuali previsti dai software di restauro; questi hanno comportato circa 12000 ore di lavoro per riuscire a cancellare i quarantasette anni di decadimento fisico dell’opera66. Anche la colonna sonora originale, monoaurale67, è stata sottoposta ad un accurato restauro digitale, acquisendo il negativo colonna sonora ed un materiale su nastro magnetico, poi elaborando i dati attraverso software di composizione sonora per poter eliminare schiocchi, scatti e rumori mantenendo al contempo le caratteristiche dell’originale, come il colore delle voci e il paesaggio sonoro. Il restauro de Il Gattopardo è stato presentato a diversi festival ed eventi sia in versione digitale, con un DCP alla risoluzione di 4K, sia nel tradizionale supporto in pellicola 35mm, registrata tramite stampatrice laser dal master digitale. Per entrambe le versioni sono stati creati di dati, allo scopo di preservare il film per le generazioni future garantendo la reversibilità degli interventi e di far circolare pubblicamente le informazioni sulle operazioni effettuate in sede di restauro. Come si è già detto il film nell’ultima versione è stato proiettato in prima mondiale al 63esimo Festival di Cannes. Proprio sulla Croisette era stato presentato nel 1963, vincendo la Palma d’Oro. Anche la scelta di rievocare il luogo e il contesto della prima proie-
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S. Belston in Il Gattopardo. Sul restauro, in AA.VV., Il Cinema Ritrovato. 24 edizione: Bologna 26 giugno-3 luglio 2010 / 39. Mostra Internazionale del Cinema Libero, Bologna, Cineteca di Bologna, 2010, p. 109. 66 Ibidem. 67 Colonna sonora in cui la tecnica di riproduzione/registrazione del suono prevede un unico flusso sonoro destinato ad essere riprodotto da un unico diffusore acustico. La monofonia è stata la prima tecnica di riproduzione/registrazione del suono implementata, la più semplice, ma anche quella che offre le prestazioni minori.
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zione del colore. È così possibile cancellare quasi completamente le devastazioni del tempo65.
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3.3.2 La Roue Il film di Abel Gance del 1922, edito in Italia col titolo La Rosa nelle Rotaie, storico alfiere della stilizzazione in Francia, che ha trasformato e influenzato esteticamente l’opera di registi e artisti di tutto il mondo, è stato un importante momento nella concezione del film come «musica della luce»68 in una miscellanea di tecniche, idee stilistiche e tematiche, di generi cinematografici e di visioni, in una complessa varietà che risponde al modello archetipico rappresentato proprio dalla ruota: un totale composto da numerosi elementi inscindibili che ne legano la forma pura. La Roue è stato descritto da Jean Cocteau come una vera e propria cesura nella storia del cinema per le sue innovazioni formali e la sapiente elaborazione stilistica, al pari della rilevanza che l’opera di Picasso ha determinato nel campo della storia dell’arte69. L’immagine meccanomorfa che appare intermittente sullo schermo mentre la luce lampeggia ad intervalli regolari è una delle suggestioni più forti descritte da Fernand Léger in merito al film, che influenzerà profondamente il ballo meccanico che il pittore firma nel 1924. Una delle prime questioni con cui si confrontano il restauratore, il curatore o il filologo, è la lunghezza delle copie, che annoverano una versione iniziale divisa in sei capitoli, proiettata al Gaumont Palace di Parigi nel dicembre 1922, lunga 10730 m, pari a circa nove ore di proiezione, ed una versione successiva, creata nel 68
Per la definizione cfr. A. Gance, La Cinématographie c’est la musique de la lumière, in «Comoedia» 16 Marzo 1923. 69 Jean Cocteau citato in S. Daria, Abel Gance: Hier et demain, Paris, La Palatine, 1959, p. 82.
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zione gioca nell’ottica di un ripristino dell’esperienza spettatoriale e della valorizzazione della dimensione storica ed iconica del film. Il restauro de Il Gattopardo presenta secondo me un calibrato equilibrio tra splendore spettacolare e ricostruzione filologica dei materiali. La scelta di correggere i valori cromatici in funzione della reviviscenza di una purezza originaria non ha infatti determinato appiattimento o impoverimento rispetto alle precedenti edizioni restaurate. La volontà di recuperare la conformità della ricerca formale di Visconti e del suo impianto fortemente iconografico si configura come un’esperienza ancora improntata all’evidenza della pura bellezza delle immagini.
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P. Cuff, Interpretation and Restoration: Abel Gance’s La Roue (1922), in «Film History», vol. 23, 2011, p. 224. 71 R. Canudo, La Roue, roman d’après le film d’Abel Gance, 3 vol., Paris, Ferenczi, 1923; J. Arroy, La Roue, scénario original arrangé par Jean Arroy, Paris, Éditions Jules Tallandier, 1930. Ne sono stati pubblicati estratti in C. Ford, On tourne lundi, Paris, Vigneau, 1947, pp. 149-154 e R. Jeanne, C. Ford, Abel Gance, Paris, Seghers,1963, pp. 113-117. 72 P. Cuff, Interpretation and Restoration: Abel Gance’s La Roue (1922), cit., p. 225.
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febbraio 1923, di 9200 m circa, che viene tagliata in seguito fino a giungere a 4200 m di pellicola in un’edizione del 1924, divisa in un prologo e in due parti70. Gance prevedeva di usare l’edizione più corta per il mercato estero. La versione di 9200 m fu molto più vista nelle città francesi rispetto all’edizione della prémiere. Il problema della lunghezza era importante fin dal momento della nascita del film. Il contratto tra Gance e Pathé, datato 1919, prevedeva un film intitolato Le Rail, che doveva essere tra i 1500 e i 2000m al più in sei rulli da 300m. Gance avrebbe invece creato un film la cui lunghezza superava circa sei volte la massima lunghezza stabilita dal contratto originario. Sebbene per molto tempo fosse stato posseduto da collezionisti privati, attualmente lo script71 è conservato presso la Bibliothèque du Film (BiFi) della Cinémathèqe Française. Tale documento, parzialmente tipografato e parzialmente scritto a mano, reca la data finale del 20 novembre 1920 e annovera 1800 inquadrature. Offre un’interessante approfondimento sulla concezione iniziale di Gance, ma di fatto non rappresenta un documento della prima versione; molte scene visibili nelle copie superstiti non risultano affatto sulla sceneggiatura e vi sono numerose differenze relative alle sequenze comuni72. Tali discrepanze rispondono all’ambiguità della genesi del film. L’ordinamento delle inquadrature nei materiali pubblicati differisce dall’ordine presente sulle copie esistenti e non è possibile determinare con certezza se tale ordine si riferisca al rough-cut del 1921 o il montaggio finale completato nella fine del 1922. Dunque nessuna versione della sceneggiatura corrisponde esattamente ai materiali in circolazione. Per la morte della sua compagna nel 1921 il regista partì per New York prima di completare l’editing, lasciando La Roue in una prima versione pre-montata; il suo ritorno in Francia gli permise di
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Nei suoi ultimi anni Marie Epstein ha copiato una stampa positiva originale imbibita (dalla lunghezza di 5835 m) in stock di pellicola bianco e nero; integrando questo con altro materiale, ella assemblò una copia che misurava approssimativamente 6170 m (300 minuti a 18 fotogrammi al secondo). Sebbene questa versione del 1980 resti la più lunga versione del film assemblata, mancano alcune scene visibili in altre copie più corte e vi sono alcuni difetti di classificazione temporale74.
Nel 2001 Claudine Kaufmann ha realizzato una copia dell’edizione di Marie Epstein aggiungendo le imbibizioni presenti su alcuni degli originali, ma con l’aggiunta del colore applicato ottenne tinte talmente sature da oscurare l’immagine. La copia su cui si basavano queste versioni, attualmente conservata alla Cinémathèque Suisse di Losanna e troppo fragile per essere visionata, non venne copiata su stock di pellicola cromogenica, dunque nessuna versione ha replicato il set completo di tinte, viraggi e pochoir usati nel film75. Di questo film non è stato realizzato un restauro digitale ad alte risoluzioni, finalizzato al ritorno in pellicola o alle proiezioni digitali in 2 o 4K, ma solo una pubblicazione commerciale destinata al mercato dell’home video. In USA viene edito un DVD nel 2008, prodotto dalla Flicker Alley del film restaurato dall’azienda francese Lobster Films e dal restauratore David Shepard della Film Preservation Associated, attraverso un’acquisizione digitale delle pellicole 73
«La produzione era perseguitata non solo dalla morte lenta e dolorosa di Danis, ma anche dalla fatale malattia dell'interprete principale, SéverinMars, che morì poco dopo che il film fu completato – due perdite profondamente personali fecero da sfondo al film più apertamente fatalista di Gance. Il suo dolore personale è inestricabile dal soggetto del film – La Roue è stato definito “La Passione d’Abel Gance”». Mia traduzione da P. Cuff, Interpretation and Restoration: Abel Gance’s La Roue (1922), cit., p. 225. 74 Mia traduzione da Ivi, p. 227. 75 Ibidem.
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terminare il film, la cui prémiere si tiene, come già detto, nel dicembre 192273. Con La Roue, le diverse versioni presentano differenze talmente sostanziali da alterare il contenuto del film. Il restauro si è dovuto confrontare pertanto con il reperimento di materiali eterogenei in circolazione, suscettibili di creare molta confusione in termini di originalità.
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3.3.3 Star Wars Star Wars di George Lucas (1977) e i due episodi successivi della saga (ovvero Guerre stellari − L’Impero colpisce ancora, uscito il 21 maggio 1980, e Guerre stellari − Il ritorno dello Jedi, uscito il 25 maggio 1983) costituiscono un caso di studio a sé per alcune peculiarità strutturali e storiche. Il film compone la prima parte della trilogia originale (episodi IV, V e VI), alla quale è seguita la Nuova trilogia (episodi I, II e III), prequel della precedente. Tutto l’impianto della saga risponde ad una dimensione che in misura originale sposa l’immaginario fantascientifico del viaggio interstellare e degli spazi galattici con l’epica delle stirpi imperiali, degli eserciti e degli usurpatori, influenzato da diversi elementi della cultura giapponese, così distante dagli stilemi angloamericani, che ricorre anche in altri dettagli, come la configurazione del personaggio e dell’abbigliamento di Dart Fener76. I film della prima parte della trilogia sono stati fatti oggetto di un importante e costoso restauro avvenuto nel 1997. La trilogia tornava sugli schermi alle soglie del terzo millennio per conferire un nuovo fulgore a pellicole divenute cult movie per l’enorme successo di pubblico decretato da incassi e diffusione del film nel circuito home video.
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T.J. Bailey, Devising a Dream: A Book of Star Wars Facts and Production Timeline, Shelbyville, Wasteland Press, 2005.
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tramite telecinema. Nell’edizione Flicker Alley si perde molto dell’impatto originale del film, che spesso sacrifica i font dei cartelli e le sovrimpressioni dell’originale. Nonostante si tratti di una semplice operazione di digitalizzazione a bassa fedeltà ho ritenuto opportuno annoverarlo tra i momenti importanti nella storia dei restauri operati attraverso le tecnologie digitali. In primis per l’importanza storica del film e conseguentemente per le modalità di ricostruzione dell’opera mediante ricerche e precise opzioni filologiche. Considerare le tecnologie digitali a bassa risoluzione consente una modalità di accesso collettivo molto ampia, nonostante la perdita di informazioni e di qualità comprometta l’assetto generale del film. Una più ampia circolazione dell’opera presso il grande pubblico può essere un valido compromesso all’alta qualità, se la missione è promuoverne lo studio e la conoscenza.
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77 M.S. Fiengo, Il restauro di Star Wars, in M. Benvegnù (a cura di), Guida completa a Star Wars: da Guerre Stellari a La Minaccia Fantasma, Roma, Elle U, 1999, p. 58.
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L’operazione, costata in tutto dieci milioni di dollari, era volta a riportare questi film nuovamente nelle sale cinematografiche, dove un film già distribuito in videocassetta difficilmente può sperare nel grande pubblico. L’impresa, commercialmente legittima, ha portato però alla modifica di uno dei venticinque film posti sotto la tutela della Library of Congress di Washington77. L’intera vicenda ha acquisito un valore esemplare sulle questioni di restauro e riedizione, nell’impasse tassonomica ed etica delle implicazioni sottese a queste due modalità operative. In tutte le metodologie più disparate di restauri cinematografici si prevede la creazione di una nuova matrice, da cui stampare nuove copie nel caso di master in pellicola o di cui prevedere la circolazione per le proiezioni, nel caso dei DCP, poiché il restauro non si limita all’intervento di riparazione della copia-sorgente, ma prevede una migrazione del testo filmico ad altro supporto, che possibilmente conservi tipologie analoghe od omologhe rispetto a quello di provenienza. Inoltre la duplicazione è intrinsecamente contenuta sia nel concetto di restauro di film che nel concetto stesso di cinematografo. Ciò non toglie che una operazione di riedizione presenti caratteristiche affatto diverse da tutte quelle considerate nell’ambito del restauro: in primo luogo la fedeltà alle fonti originali, di cui un restauro prevede la conservazione, la preservazione e la tutela. Si è visto come da un punto di vista tecnico-pratico l’intervento di restauro cinematografico si articoli su due fasi fondamentali: la prima correlata alla ricerca delle fonti e delle varianti, secondo un piano di consolidazione dei materiali esistenti, mentre la seconda consiste nella creazione della matrice priva dei difetti del tempo. Gli interventi materialmente operati in funzione della conservazione e del ripristino hanno coinciso con l’impulso vivificante che lo stesso regista aveva intenzione di conferire all’opera per arginare i danni del tempo ma soprattutto per riattualizzarne la presenza estetica. Il camera negative del film è stato ritrovato in Kansas in condizioni piuttosto deteriorate. In seguito è stato riparato, pulito e duplicato con correzioni ad alcuni difetti legati ad effetti ottici, come ad esempio le dissolvenze o alcuni effetti speciali considerati inadeguati
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Ivi, p. 61. M. Pagni Fontebuoni, Le pellicole cinematografiche, cit., p. 209. 80 Ibidem.
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ai canoni contemporanei(truka, mascherino, trasparente ecc.). Tali effetti sono stati ripresi e “migliorati” dalla Industrial Light and Magic attraverso le tecnologie digitali78. Dopo aver effettuato i nuovi interventi, si è provveduto a stampare il nuovo negativo comprensivo dei segmenti riscritti. Alcune sequenze infatti sono state interamente sostituite dalle immagini costruite al computer o assemblate mediante le tecnologie digitali, combinate insieme con notevole sofisticazione formale per creare effetti speciali visionari ma ascritti ad un plausibile effetto di realtà, affini al canone ipertrofico delle formule visive contemporanee. La colonna sonora è stata rimasterizzata e il sistema sonoro è stato acquisito in formato digitale partendo da una base ottica analogica: la versione del 1977 possedeva una colonna sonora ottica, ma esistevano alcune copie in formati panoramici 70 mm abbinate ad una traccia sonora magnetica (combinato magnetico o com.mag)79,la cui qualità si avvicinava a quella dell’attuale colonna sonora digitalizzata. Nel caso di Star Wars il negativo è stato riparato, pulito, duplicato e conservato ed è proprio in tale pratica di preservazione che consiste l’edizione restaurata80. Però non è questa versione quella che viene restituita al pubblico: nelle sale compare, giocando sull’equivoco del restauro, una versione alternativa, di fatto riedita. Sempre più spesso i film ripristinati con l’intento di essere reimmessi nel circuito di distribuzione vengono designati come “edizioni speciali”, mentre di fatto si tratta di un film con delle sequenze alterate e modificate in funzione di una nuova operazione di circolazione e non in vista di un ripristino o di un assemblaggio che riporti una pellicola alla sua proiezione originale, missione del restauro. Questo tipo di edizione ha considerato come “danni del tempo” o “difetti dell’immagine” tutti quegli elementi di plausibile disturbo causati dal passare del tempo, non necessariamente connessi con l’invecchiamento e l’usura. Oggi le tecnologie digitali, avendo acquisito la possibilità di creare attraverso i computer suono ed immagini di sintesi per riproporli con un look maggiormente vicino alle aspettative sempre più sofisticate della contemporaneità, possono essere usate come strumento di modernizzazione e di at-
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Una delle cose che mi disturbavano prima nella regia era il livello di compromesso a cui dovevi far fronte per ottenere ciò che volevo. Immagino che sia stata questa per me la ragione di tanta foga nel tornare indietro e finalmente sistemare i film originali di Star Wars […]. Mi dava fastidio fino ad oggi, ma ora posso andare fino in fondo e migliorare tutto ad un livello che non potevo raggiungere prima. Ora è tutto solo una parte della post-produzione81.
La ricostruzione in questo caso ha ovviato agli effetti visivi più datati e ritenuti insoddisfacenti dallo stesso regista. Si tratta di una scelta molto discussa, in cui i sostenitori e i detrattori dell’operazione discutono sulla delicata questione dell’autenticità. Mentre infatti c’è chi considera uno scempio la sostituzione di una serie di elementi storici in funzione dei gusti di un pubblico “viziato” dall’abitudine alla plausibilità degli effetti speciali contemporanei, c’è invece chi ritiene l’esperienza di riedizione e di modifica dei “trasparenti” o di sostituzioni in truka un esercizio legittimo e non differente dalla pratica accettata di sistemare e pulire digitalmente le dissolvenze con difetti di realizzazione o effetti sonori dovuti alle tecniche di registrazione d’epoca, oltre ai disturbi dati da sporcizia, giunte o graffi82. Con la riedizione diviene esplicita la separazione da qualsivoglia concezione o pratica di restauro e nonostante non si possa biasimare le scelte del regista, che ha in tal modo la possibilità di ripensare ed intervenire su problemi che al suo tempo non è stato in grado di risolvere, è importante considerare la riedizione come formula che accontenta in questo caso l’intentio auctoris. Nell’attività di manomissione e alterazione del film originale si configura innan-
81 Mia traduzione da R. Mogid, George Lucas: Past, Present, and Future, cit. p. 49. 82 M.S. Fiengo, Il restauro di Star Wars, cit. p. 63.
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tualizzazione, considerando cause dell’invecchiamento del film vecchie tecniche di registrazione, all’epoca imperfette. George Lucas stesso ha dichiarato che nella sequenza del veicolo landspeeder fluttuante nell’aria si era dovuto limitare ad un risultato che ai tempi della produzione aveva giudicato come insoddisfacente; così per le scene dello spazioporto, dove avrebbe voluto arricchire l’immagine di folle di personaggi.
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Per 3D stereoscopico si intende un sistema che gioca sull'illusione ottica della profondità extra-schermica a tutto tondo, sulla sinestesia di una percezione più coinvolgente, se non totalizzante, per lo spettatore; ha i suoi precedenti negli esperimenti del XIX sec. sull’anaglifo -in cui l'effetto di rilievo si basa su un filtro rosso/ciano- da Wheatstone, Duboscq, Bonelli e Friese-Greene (Cfr. D. Pesenti Campagnoni, Quando il cinema non c'era. Storie di mirabili visioni, illusioni ottiche e fotografie animate, Torino, UTET, 2007; G.P. Brunetta, Il viaggio dell’icononauta, Venezia, Marsilio, 1997 e T. Gunning, An Aesthetic of Astonishment. Early Film and the (In)Credulous Spectator, in «Art & Text» n. 34, 1989, pp. 31-45), fino ai primi film stereoscopici di Elder, Kelley e Hammond-inventore del Teleview- negli anni Venti e quelli a colori di Oboler, Mc Laren Sol Lesser -inventore delle Stereo Techniques- negli anni Cinquanta (Cfr. R.M. Hayes 3-D Movies. A History and Filmography of Stereoscopic Cinema, Jefferson, McFarland & Company, 1998 e R.M. Hayes, Trick cinematography: the Oscar special-effects movies, Jefferson, McFarland & Company, 1986).
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zitutto una nuova opera, che vanterà i suoi diritti di tutela come un nuovo “originale”. In tale direzione si determina anche la nuova, ennesima riedizione del film in versione 3D stereoscopico83, uscita nelle sale nel febbraio 2012; ad uso e consumo di una tipologia spettatoriale analoga a quella del pubblico che ha apprezzato gli interventi digitali effettuati sul film nel 1997. Una tipologia di pubblico che si aspetta oggi dall’opera una dimensione di spettacolarità assoluta, capace di stravolgere il processo percettivo abituale, integrandolo con un effetto ologrammatico estremamente suggestivo e debitore di quell’immaginario fantascientifico che Star Wars ha contribuito a diffondere su larga scala.
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Il cinema, inventato come un modo per fotografare oggetti in movimento o come una rappresentazione del movimento, ha scoperto attraverso sé molto più di un cambio di location: una nuova simbologia di pensieri, un movimento della rappresentazione1. Parlare dello spettacolo vuol dire immaginare il mondo in tutte le sue manifestazioni quotidiane 2.
Il presente capitolo è il resoconto di una ricerca sperimentale effettuata durante un tirocinio presso il laboratorio di restauro, postproduzione cinematografica, sviluppo e stampa Haghefilm di Amsterdam, che ospitava una Foundation no profit finalizzata alla formazione di archivisti e studiosi nei settori sperimentali entro cui operava Haghefilm3.
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Mia traduzione da M. Merleau-Ponty, Résumés de course. Collège de France 1952-1960, Paris, Les Éditions Gallimard, 1968, pp. 18-19. 2 Mia traduzione da F. Léger, A propos du cinéma, in «Cahiers d’Art», Paris, 1931. 3 Il tirocinio presso l’Haghefilm Foundation è un’ambita occasione di ricerca sperimentale sul campo, documentata da diverse esperienze di studio. Per esempio cfr. G.M. Paletz, The Finesse of the Film Lab: A Report from a Week at Haghefilm, in «The Moving Image», Volume 6, Number 1, Spring 2006, pp. 1-32.
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Case Study: Ballet mécanique tra tecniche desuete e avanguardia tecnologica
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Capitolo 4
4 Ho discusso di questo restauro già in un saggio e in tre convegni: il saggio è R. Catanese, Il restauro digitale dei film. Un case study: Ballet Mécanique di Fernand Léger, «Bianco e Nero» n. 573, Roma, Carocci, 2012; gli interventi ai convegni invece sono “The Case of Ballet Mécanique. A Repainted Ballet and Its Copyright Secrets”, presentato nell’ambito dell’XI ciclo della Spring School MAGIS, presso l’Università degli Studi di Udine e Gorizia; “Un ballo meccanico tra cinema e pittura”, presentato al convegno Confini, IV convegno interdisciplinare dei Dottorati della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, e “Repainting the mechanical ballet. Restoration of colour in Fernand Léger’s Ballet Mécanique”, presentato alla conferenza «Chroma. Giornata di Studi sull’Immagine a Colori tra Cinema e Media» presso l’Università degli Studi di Firenze.
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Si tratta del case study di restauro relativo al ripristino incompiuto di Ballet mécanique di Fernand Léger e Dudley Murphy (1924), intrapreso tra l’autunno del 2010 e l’inverno del 2011, conclusosi nei primi giorni di febbraio4. La prestigiosa cineteca nazionale olandese, EYE Film Institute, decide di intraprendere un restauro che possa preservare la loro copia del film del pittore cubista e capolavoro dell’avanguardia degli anni Venti, con Kiki de Montparnasse, Dudley Murphy e Katherine Murphy. Probabilmente il più conosciuto esempio del cinema delle avanguardie storiche, è un film conservato in moltissimi archivi nel mondo. Molti contributi diversi sono stati coinvolti in questo lavoro importante e non ci è ancora possibile affermare con certezza l’effettiva paternità del film, che ha modificato la percezione spettatoriale del montaggio verso una nuova dimensione ritmico-dinamica. Forme astratte, volti privi di intenzione drammatica, utensili da cucina e altri oggetti vivono una nuova automatica vita meccanica, in una sorta di “ode alla macchina”. La copia olandese in nitrato di Ballet mécanique è assolutamente un pezzo unico: presenta colore applicato con alcune sezioni imbibite e molte altre parti dipinte a mano. Inoltre è famosa per contenere le inquadrature di ben undici quadri firmati da Fernand Léger. Haghefilm ha acquisito su commissione della cineteca una scansione digitale in risoluzione di 2K, col fine di produrre sua un elemento di preservazione dell’intero film su supporto in bianco e nero, sia un Digital Intermediate per le sezioni colorate (richiedendo così il montaggio in positivo per le stampe di proiezione). Ma è stato previsto un altro progetto sperimentale, ovvero produrre
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4.1 Il film 4.1.1 Considerazioni sull’estetica di Ballet mécanique Il film di Fernand Léger e Dudley Murphy è secondo Standish Lawder «il classico esempio dello sviluppo di un’estetica della pit123
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un’altra unica copia positiva in bianco e nero con sezioni dipinte a mano o imbibite, il più possibile vicine al nitrato originale. Ho avuto modo di visionare tutti gli interventi effettuati digitalmente per quanto riguarda il file di Ballet mécanique a risoluzione 2K; la mia mansione successiva consisteva nell’intervenire manualmente sulla copia da colorare prevedendo modalità e tipologie di colore applicato, effettuando dei test di colorazione su diversi tipi di stock e prove sensitometriche sui risultati conseguiti. La fase preliminare è stata costituita da approfondite ricerche sul film, sia analisi storiografiche, sulla paternità autoriale, che studi di tipo teorico, sull’eredità concettuale ed estetica e sui suoi valori formali. Secondo il metodo ermeneutico il primo strumento per un restauro di un film è proprio una esauriente ricerca delle fonti, che consenta la ricostruzione e riattivazione delle vicende editoriali del film e della sua fortuna, con la considerazione di implicazioni teorico-estetiche del film tali da focalizzarsi sulle modalità di produzione semantica che aprono un dialogo differenziato tra testo filmico e contesto di ricezione. Pertanto è stata indispensabile l’acquisizione di conoscenze teoriche sul film. Oltre alle ricerche sull’estetica del film e sulle varianti, si è poi proceduto al confronto con una copia di generazione successiva, proveniente dalla Cinémathèque Française. Nella selezione degli elementi differenziali tra le due stampe, grazie alla collaborazione di Daniela Currò dell’Haghefilm Foundation ho realizzato due schede catalografiche con la numerazione e nomenclatura dei fotogrammi, utile come documentazione attestata di un intenso lavoro filologico. Per poter risalire al colore da ricreare manualmente è stato necessario visionare la delicata copia nitrato molte volte sui tavoli d’ispezione, effettuando continuamente confronti con i fotogrammi colorati a mano o imbibiti secondo i test chimici e le prove di colore effettuate (sotto la supervisione di Ulrich Ruedel di Haghefilm Foundation) con numerosi test. L’operazione purtroppo non è stata terminata per molteplici ragioni, tra cui problemi di comunicazione fra le istituzioni coinvolte e di diritti d’autore.
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5 S. Lawder, Cubist Cinema, New York, New York University Press, 1975, p. 65. 6 F. Léger, Fonctions de la peinture, Paris, Gonthier, 1965 (ed. or. 1924), p. 35. 7 T. Elsaesser, Dada/Cinema? in R.E. Kuenzli., Dada and surrealist film, New York, Locker & Owens, 1987, p. 14. 8 Per i rapporti fra cinema sperimentale francese e futurismo cfr. D. Noguez, Il futurismo e il cinema sperimentale in Francia: influenze o convergenze?, in P. Bertetto, G. Celant, VeloCittà. Cinema & Futurismo, Milano, Bompiani, 1986. .
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tura trasposta in pellicola da un artista moderno»5. Completato e presentato nel Settembre 1924, il film Ballet mécanique era un’esplorazione di immagini di vita dell’era meccanica fatta di primi piani, ripetizioni, oscillazioni e strane vedute di oggetti. Il leitmotiv del mondo meccanizzato postbellico era la velocità; Léger era consapevole che la velocità costituisse l’aspetto caratterizzante della vita moderna: «La velocità è la legge del mondo moderno. L’occhio deve “esser capace di scegliere”in una frazione di secondo o rischia la vita, che si tratti di guidare una macchina, in strada, o dietro un microscopio»6. Léger era affascinato dal potere dinamico della vita moderna, la cui velocità è strettamente correlata all’epoca. I pittori d’avanguardia erano ossessionati dall’idea di catturare la sensazione del movimento nei loro quadri. Il cinema era considerato uno strumento di superamento ed emulazione delle arti visive tradizionali attraverso il movimento del dispositivo cinematografico, probabilmente eredità della tradizione degli studi visuali “cinetici” condivisi dalla pittura di Giacomo Balla e Umberto Boccioni nonché dal Fotodinamismo di Anton Giulio Bragaglia7. Sulla falsariga dell’esperienza futurista8, Léger costruisce un immaginario vibrante e articolato come un gioco meccanico. Sebbene il tema della macchina sia un topos centrale per Léger, egli lo descrive come “grezza materia prima”, usata per la creazione di una forma nuova di “bellezza”. Il prologo e l’epilogo del film mostrano uno Charlot cubista, una figura stilizzata devota al personaggio di Chaplin e alla sua attitudine marionettistica, vuotata in fisicità e reificata, ridotta ad oggetto. Léger inserisce dunque un progetto di film precedente mai realizzato nel suo Ballet mécanique: il poeta Guillaume Apollinaire gli aveva fatto vedere i film di Chaplin, suscitando l’interesse del pittore. Léger apprezzava il controllo che Chaplin manteneva sul
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9 J. Freeman, Bridging Pursim and Surrealism: the Origins and Production of Fernand Léger’s Ballet Mécanique, in R.E. Kuenzli, Dada and surrealist film, New York, Locker & Owens, 1987, p. 36. 10 Cfr. W. Kandinskij, Uber das Geistige in der Kunst, imbesondere in der Malerei, München, R. Piper [1912], trad. it., Lo spirituale nell’arte, Bari, De Donato, 1968; P. Mondrian, Neue Gestaltung. Neoplastizismus, nieuwe Beelding, München, Langen, [1923], trad. it., Il neoplasticismo, Milano, Abscondita, 2008. 11 Cfr. B. Balázs, Der Film. Werden und Wesen einer neuen Kunst, Wien, Globus [1949], trad. it. Il film: evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Torino, Einaudi, 1952. 12 P. Bertetto, Il cinema d’avanguardia 1910-1930, Venezia, Marsilio, 1983, p. 103.
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pubblico, perciò illustrò un’edizione del libro di Ivan Goll Die Chaplinade (1920), e successivamente lavorò su di uno scenario per un film animato, rimasto inedito, Charlot Cubiste, in cui Charlot era costruito come una marionetta in rilievo9. Il rapido ritmo delle sequenze è realizzato mediante un serrato assemblaggio di inquadrature rappresentanti oggetti, con pochi o anche solo un fotogramma giustapposto all’altro senza alcuna logica diegetica. L’oggetto quotidiano diviene oggetto di culto, capace di creare poesia visiva in un nuovo linguaggio e un nuovo immaginario: la poesia non è più dunque connessa all’umano, bensì considera persone ed oggetti come fatti della stessa sostanza, come un pendolo automobili, scivoli, altalene, decorazioni natalizie, fruste da cucina o una graziosa fanciulla sopra un’altalena, sottolineando le dominanti verticali od orizzontali. Le forme geometriche inserite nel film non stabiliscono un ambiente d’impianto astratto: la presenza dell’oggetto è propriamente concreta, anzi, innesca riflessioni sulla dimensione oggettuale e materica dell’immaginario di Léger, che non si preoccupa della referenzialità dell’immagine, ma stila un’estetica della “grezza materia prima”. Tale impostazione rimanda ad una concezione positivista e pragmatica, estremamente diversa dal background teorico di astrattisti come Piet Mondrian o Wassilij Kandinskij10, propugnatori delle verità metafisiche neoplatoniche nascoste dietro le apparenze. Ballet mécanique privilegia il primo piano e il suo forte potere metamorfico: l’immagine del dettaglio, assumendo grandi dimensioni, conferisce importanza all’oggetto o alla porzione dell’umano che divengono personificate11. Il film contiene un gran numero di primi piani di macchinari o parti meccaniche, in un ritmo plastico12 che incoraggia analogie visive tra oggetti meccanici e corpi umani viventi.
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4.1.2 La paternità del film Ed è così che Dudley realizzò Ballet mécanique, che ebbe un certo successo, col nome di Léger 14.
Ballet mécanique è una delle più contestate opere d’arte del ventesimo secolo. La sua genesi ha coinvolto diverse personalità: Fernand Léger, Dudley Murphy, Man Ray, Ezra Pound, Georges Antheil. Ognuno di loro lavorò al film donandogli un contributo artistico: Fernand Léger è accreditato come regista, ma è anche l’unico film d’avanguardia nell’opera di Murphy. Si è trattato di un lavoro collettivo e collaborativo, ma la questione della paternità autoriale è ancora aperta al dibattito. Alcuni storici dell’arte e studiosi di cinema esprimono diverse interpretazioni: Standish Lawder considera Léger come creatore e Murphy suo assistente; Judi Freeman sottolinea il contributo fondamentale di Murphy coinvolgendo Man Ray nella paternità; William Moritz sminuisce il contributo di Léger, ascrivendone la creazione principalmente a Murphy e Man Ray15. Nelle prime stampe del film, i titoli di testa attestavano Dudley Murphy coautore del film; la stessa cosa sugli appunti di Léger sul film, elaborati in fase di completamento del film, “Un film de Fernand Léger et Dudley Murphy”16. 13 J. Mitry, Le cinéma expérimental: histoire et perspectives, Paris, Seghers, [1969], trad. it. Storia del cinema sperimentale, Milano, Mazzotta, 1971, p. 105. 14 Mia traduzione da Man Ray, Self Portrait, Boston-Toronto, Little Brown, 1963, p. 218. 15 Cfr. S. Lawder, Cubist Cinema, op. cit; J. Freeman, Bridging Pursim and Surrealism: the Origins and Production of Fernand Léger’s Ballet Mécanique, cit.; W. Moritz, Americans in Paris: Man Ray and Dudley Murphy, in J.C. Horak, Lovers of Cinema: The First American Film Avant-Garde 1919-1945, Madison, University of Wisconsin Press, 1995, pp. 118-136. 16 Cfr. L’Esprit Nouveau 28, non datato (probabilmente novembre-dicembre 1924). Citato in S. Delson, Dudley Murphy, Hollywood Wild Card, Minneapolis-London, Minnesota University Press, 2006, p. 199.
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Mentre Jean Mitry condanna il film come un «assurdo girotondo» in un «balletto il cui meccanismo era forzatamente costruito»13, la sua raison d’etre consiste precisamente nel dinamismo delle forme spaziali.
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Mia traduzione da W. Moritz, Americans in Paris: Man Ray and Dudley Murphy, cit., p. 127. 18 «Un giorno, mentre facevo visita ad Ezra Pound e parlavo del mio lavoro, mi disse che un suo amico, Fernand Léger, voleva fare un film. Anche George Antheil, il giovane pupillo di Stravinskij, voleva fare un film». Mia traduzione da S. Delson, Dudley Murphy, Hollywood Wild Card, cit.,p. 43.
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Ezra Pound si considerava il primo all’interno del progetto. Man Ray, nel 1972, intervistato da William Moritz, affermò che lui e Murphy fecero del lavoro insieme nel footage di Ballet mécanique, ma uscì dal progetto al momento del coinvolgimento di Léger. Man Ray disse anche che girò con Murphy tutto il footage in cui appariva la sua partner Kiki de Montparnasse (Alice Prin): «Non daresti in prestito la tua signora, vero?»17. Nelle sue memorie Murphy disse sulla genesi del film: «Un giorno, mentre facevo visita ad Ezra Pound e parlavo del mio lavoro, mi disse che un suo amico, Fernand Léger, voleva fare un film. Anche George Antheil, il giovane pupillo di Stravinskij, voleva fare un film»18. Poiché comprendeva l’importanza e il potenziale del cinema nelle arti, il pittore cubista Fernand Léger, che firmò il film, scrisse interessanti saggi sul medium. Prima della sua collaborazione con altri registi la sua prima esperienza nel mondo del cinema era la sua affiliazione come membro del Club des amis du septième art di Ricciotto Canudo, ma il suo interesse per il cinema è stato connesso alla sua collaborazione nell’opera di Blaise Cendrars La Fin du monde filmée par l’Ange Notre Dame. Il pittore considerò seriamente l’opzione di interrompere la carriera nella pittura per dedicarsi interamente al cinema, nei primi anni Venti. Il suo primo contatto diretto con la regia fu proprio Cendrars, che lavorò e interpretò un ruolo nel film di Abel Gance La Roue (1922); il pittore cubista, affascinato dal montaggio accelerato e dal ritmo visivo, scrisse un articolo sul film (Essai critique sur la valeur plastique du film d’Abel Gance, La Roue), comprendendo l’importanza del montage nel processo della creazione artistica. In seguito Léger lavorò anche per le scenografie del film L’Inhumaine di Marcel L’Herbier insieme a Robert Mallet-Stevens e Alberto Cavalcanti, nello stesso anno in cui uscirono Ballet mécanique ed Entr’acte di René Clair e Francis Picabia. All’epoca Léger era già quarantaduenne ed era un pittore famoso, attivo in teatro ed interessato alla pittura murale.
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Murphy, invece, era già un regista. Cominciò la sua carriera cinematografica alla Metro-Goldwyn-Mayer negli anni Dieci, lavorando con Cedric Gibbons. Quando cominciò Ballet mécanique aveva appena terminato il suo sesto cortometraggio ispirato alla musica, The Syren. L’idea della musica visiva fu di cruciale importanza per Ballet mécanique e ispirò i precedenti film di Murphy, come Soul of the Cypress (1921), una variazione sul tema del mito di Orfeo, ed i suoi film successivi, come St. Louis Blues(1929), con la cantante
19 Mia traduzione di J. Freeman, Bridging Pursim and Surrealism: the Origins and Production of Fernand Léger’s Ballet Mécanique, cit., p. 28. Le implicazioni di un “ballo dei colori” condividono tutte le tensioni che erano state concettualizzate dall’avanguardia, in primis dai fratelli Ginanni Corradini, Arnaldo Ginna e Bruno Corra, autori di esperimenti descritti nel saggio Musica cromatica del 1912 che documentano l’esperienza della “musica dei colori” ottenuta tramite un organo a ventotto tasti collegato ad altrettante lampadine elettriche colorate. Nel 1910 simili intuizioni erano esperite da Leopold Survage, che ne Il ritmo colorato esprime il proprio interesse alla dinamizzazione del colore puro secondo una dominante musicale. Cfr P. Bertetto, Il cinema d’avanguardia 1910-1930, cit., pp. 229-231. Di fatto i primi esperimenti di musica “colorata” risalgono alla prima metà del XVIII secolo, a opera di Louis-Bertrand Castel, autore di un clavicembalo oculare capace di “dipingere i suoni” con colori a essi corrispondenti, secondo uno spettro applicato alla scala di do maggiore, in modo che suonando lo strumento per ogni tasto pigiato sia visibile un pezzetto di stoffa tinto di un determinato colore, associato al suono emesso. Un fine filantropico è oggetto dell’esperimento: fare in modo che un sordo possa godere della bellezza della musica tramite i colori e un cieco possa gustare i colori tramite i suoni. Il 16 Gennaio 1877 Bainbridge Bishop brevetta un organo a colori, con una corrispondenza visiva con luci proiettate tramite l’illuminazione di vetri colorati azionati dai martelletti dell’organo. Il compositore russo Aleksandr Skrjabin, influenzato dalle ricerche di Bishop, nel 1909 scrive una partitura con il poema sinfonico Prometeo, in cui le note corrispondono a luci colorate. Egli immagina di costruire una tastiera per luce che associa ai tasti delle note tradizionali una sintesi visionaria di suono e luce.
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La natura peculiare di Ballet mécanique, sia nel contesto della carriera di Léger che nell’ambito della nozione di film Dada e Surrealista, è la testimonianza della sua significazione nell’ambito dell’opera di Léger e parimenti ascrivibile ai contributi dei collaboratori di Léger. Il film ebbe talmente importanza per l’artista che negli ultimi anni della sua carriera pianificò di rifarlo, in collaborazione con Henri Langlois, in una versione che si sarebbe dovuta chiamare Ballet des couleurs19.
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Mia traduzione da Man Ray, Self Portrait, cit., p. 216. Mia traduzione da W. Moritz, Americans in Paris: Man Ray and Dudley Murphy, cit., p. 126. 22 S. Delson, Dudley Murphy, Hollywood Wild Card, cit., p. 206. 23 Cfr. Man Ray, Self Portrait, cit., p 262. 21
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blues Bessie Smith, e Black and Tan Fantasy (1929), con il compositore jazz Duke Ellington e la sua orchestra. La sua perizia tecnica e pratica fu applicata sia dietro la macchina da presa che nella sala di editing, anche perché era l’unico regista professionista coinvolto nel progetto e la complessa produzione del film richiedeva tutte le sue competenze. Man Ray, che girò nel 1923 Le retour à la raison, proiettato alla mostra dadaista Le coeur à barbe, aveva già esperito sperimentazioni sulla pellicola con questo film d’avanguardia, in cui si vedevano puntine bianche roteare su sfondo nero e un effetto penetrante di ombre circolari su un torso nudo femminile. «Un giorno comparve un uomo alto con la sua bella moglie bionda e si presentò come un cameraman di Hollywood»20, scrisse Man Ray nella sua autobiografia del 1963, Self Potrait. Le inquadrature caleidoscopiche di Murphy e del pappagallo, Kiki con make up bianco da mimo e le immagini in giardino di Katharine Hawley Murphy, moglie di Dudley, furono presumibilmente girate da Murphy e Man Ray. In seguito Léger entrò nel progetto come sostenitore finanziario e naturalmente aggiunse elementi del suo background estetico. Secondo Moritz, Murphy e Man Ray ebbero un’amicizia molto particolare e girarono del footage erotico con le rispettive compagne, alternati da brevi sprazzi di inquadrature di pistoni meccanici21. Inoltre nel suo memoriale Murphy narra di una certa sequenza: «Un’altra scena mostrava un enorme pistone, brillante e lucido, tuffarsi su e giù in un movimento molto fallico. Questa scena era seguita dal pancione di Katharine, allora incinta»»22. Man Ray aveva già esperienze nella rappresentazione dell’eros attraverso il medium fotografico pubblicando immagini erotiche di se stesso e Kiki, scattate con una macchina fotografica autoprodotta, e girando brevi filmati erotici, per i quali inventò il neologismo ‘obscenema’23. In Self Potrait Man Ray si autodescrive con l’epiteto «regista di film maledetti», raccontando di un film erotico realizzato nel 1921 con Duchamp e la modella Elsa von Freytag-Loringhoven, una poetessa dadaista americana, che Man Ray rovinò durante il
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Una discreta quantità di lavori a Parigi novembre e dicembre. Sto preparando un concerto − funzioni generali esecutive ecc.… Sto anche lavorando ad un film vorticista − interessante esperimento − ma probabilmente Murphy non ha abbastanza cervello per finire il lavoro in mia assenza o senza pressioni26.
Ballet mécanique è un film muto ma successivamente è stata scritta una partitura musicale per il film dal compositore George Antheil, autore di una Jazz Symphony e di una pièce giovanile per piano chiamata Aeroplane Sonata. L’intenzione di Antheil era di sincronizzare sedici pianole meccaniche per l’esecuzione dal vivo. Forse anche la musica jazz può essere interpretata come retroterra estetico da cui Ballet mécanique prende vita: per Parigi il tumulte noir era il suono della modernità internazionale. La prima performance pubblica presso il Théàtre des Champs Elysées coinvolgeva un notevole numero di strumenti a percussione ma un solo piano meccanico. Nella sua autobiografia Antheil afferma di aver annunciato alla stampa il proprio lavoro su un brano musicale intitolato Ballet mécanique, che avrebbe potuto esser corredato da un film, enfatizzando come l’idea di partenza fosse meramente un progetto musicale, che in seguito coinvolse le personalità di Ezra Pound, Dudley Murphy e infine Fernand Léger; in seguito, quasi come una
24
Ivi, p. 263. W. Moritz, Americans in Paris: Man Ray and Dudley Murphy, cit., p. 135. 26 Mia traduzione da S. Delson, Dudley Murphy, Hollywood Wild Card, cit., p. 204. Pound si lamentava della capacità di Murphy di completare autonomamente il film, anche per la malattia della madre; ella morì nel novembre di quell’anno, mentre Murphy era in sala di montaggio con Pound. 25
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processo di sviluppo. Due fotogrammi del film furono inviati in una lettera a Tzara24. Dunque probabilmente il footage erotico è stato davvero girato, sebbene attualmente non vi siano copie disponibili corredate di tali inquadrature. Moritz fa menzione di una proiezione americana di Ballet mécanique in una data imprecisata negli anni Quaranta: Man Ray e il cineasta sperimentale James Whitney ricordano di aver visto la copia di Murphy che includeva queste parti erotiche25. Una lettera di Ezra Pound al padre, citata dalla Delson, conferma il coinvolgimento del poeta nel progetto. Scritta nel 1924 da Rapallo, in Italia, reca scritto:
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4.2 Le copie Il film, come si è già detto capolavoro conclamato delle avanguardie storiche, è presente in numerose cineteche e in archivi di tutto il mondo (New York, Parigi, Messico, Montreal, Bucarest, Havana, Londra, Monaco, Vienna, Berlino, Los Angeles, Berkeley, Belgrado, Stoccolma, Torino, Cambridge, Washington, Camberra, Roma, Ottawa, Copenaghen); naturalmente non si tratta di copie provenienti dalla stessa matrice, pertanto vi sono diverse versioni di Ballet mécanique. Secondo Giovanni Lista anche questo film, come altre precedenti esperienze dell’avanguardia europea, va considerato un work in progress, la cui redazione è continuata per anni, senza un originale, secondo un’attitudine alla creazione di un’opera aleatoria28. Questa tesi è confermata anche dal diverso ordine di editing delle sequenze nel confronto tra le versioni e nei resoconti dell’epoca; significa che non c’era una struttura rigorosamente configurata, ma che le diverse immagini creavano suggestioni autonome. Può essere comunque utile avere informazioni relative ad altre copie per risalire alle vicende editoriali del film comparando le fonti esistenti. Siamo a conoscenza di:
27
G. Antheil, Bad Boy of Music, New York, Da Capo Press, 1981, pp.
134-135. 28 G. Lista, Léger scénographe et cinéaste, in Fernand Léger et le spectacle (catalogue, Biot, Musée National F. Léger), Paris, Éditions de la Réunion des Musées nationaux, 1995, p. 62.
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risposta, Eric Satie pubblicò il suo coinvolgimento in Relâche, colonna sonora del film di Clair e Picabia Entr’acte27. Attualmente non esistono copie del film con colonna sonora integrata, bensì solo versioni video e digitali a bassa risoluzione. La più famosa è stata realizzata da Paul D. Lehrman nel 2000, sincronizzando la colonna sonora con la lunghezza effettiva del film ed utilizzando sedici piani elettrici per avvicinarsi all’idea originale di Antheil. Sui titoli di Ballet mécanique non compare il contributo di Murphy. Nonostante il prestigio delle collaborazioni internazionali, né Man Ray né Pound vengono nominati.
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La copia nitrato colorata posseduta dalla cineteca olandese viene dalla proprietà della Filmliga, associazione culturale nata nel 1927 ad Amsterdam che si concentrava sulla collezione e diffusione di film d’avanguardia; ebbe grande fortuna tra il 1928 e il 1930, per poi sciogliersi nel193330. In seguito la collezione dell’associazione è stata acquisita dal Nederlands Filmmuseum, oggi EYE Filminstitut, che ancora mantiene la collezione di questi film e tra questi Ballet mécanique. Il MOMA possiede una copia del film donata da Léger nel 1939. Si tratta di una copia positiva in 16mm con sezioni colorate a mano. L’altra copia del MOMA è in 35mm e viene da un prototipo della Cinémathèque Française. Nel 1975 la vedova di Frederick Kiesler trovò una copia del film in nitrato in una scatola nascosta in un armadio e la donò agli Anthology Film Archives di New York. Adams Sitney e Freeman comunicarono a Moritz che quella copia non era colorata ed era piena di giunte e tagli; quella che si può definire una copia-lavoro. 29
G. Manduca, La lavandaia sulle scale. Una nota filologica al Ballet mécanique, in P. Bertetto, S. Toffetti, Cinema d’avanguardia in Europa, Milano, Il Castoro, 1996, p. 316. 30 Cfr. M. Hommel, La Filmliga Olandese e il film sonoro, in «Cinegrafie», n. 5, novembre 1992, citato in G. Manduca La lavandaia sulle scale. Una nota filologica al Ballet mécanique, cit., p. 317.
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− tre copie possedute dal Museum Of Modern Art: una in 16mm acquisita nel 1935, un’altra in 16mm acquisita nel 1939, colorata e la terza proveniente dalla Cinémathèque Française, 35mm e bianco e nero; − una copia positiva in nitrato conservata all’EYE Filminstitut, lunga 309m, contenente inquadrature dei dipinti di Léger e sezioni colorate, sia imbibite che colore dipinto a mano; − una copia 16mm nel British Film Institute, bianco e nero ma contenente i quadri di Léger; − due copie positive in nitrato conservate presso la Cinémathèque Française, in bianco e nero; una di 291m e l’altra di 297m; − una copia americana perduta, conservata da Murphy, che circolava nelle sale d’essai; − una copia in nitrato copy trovata da Lillian Kiesler, 35mm e bianco e nero, oggi restaurata e conservata presso l’Anthology Film Archives29.
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4.3 Il lavoro di restauro su Ballet mécanique 4.3.1 La ricostruzione Per l’EYE Filminstitut Haghefilm ha acquisito una scansione digitale con risoluzione 2K per produrre un master digitale, la matrice denominata Digital Intermediate, sia per le parti colorate che per quelle in bianco e nero, richiedendo un editing positivo tra segmenti delle copie bianco e nero e segmenti delle copie colorate per realizzare copie di proiezione dai colori brillanti e senza stonature sui bianchi e neri, fortemente contrastati. 31
J. Mekas, P. Adams Sitney, A Tribute to Anthology Film Archives. Avantgarde Film Preservation Program, New York, Anthology Film Archives, 1977, citato in G. Manduca La lavandaia sulle scale. Una nota filologica al Ballet mécanique, cit., p. 316. 32 G. Manduca La lavandaia sulle scale. Una nota filologica al Ballet mécanique, cit., p. 318. 33 Protocollata in cineteca col numero PU 020814.
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Si tratta inoltre della copia più lunga in circolazione (18.476 fotogrammi, contro i 14.561 contati da Lawder sulla copia del MOMA e 16.271 della copia olandese)31. La copia ritrovata in questione potrebbe essere forse quella data a Frederick Kiesler da Léger per la prima proiezione del film a Vienna, proprio alla serata d’apertura dell’Internationale Ausstellung Neuer Theater Technik, nel 1924; essendo rimasta nascosta per molti anni tale copia non dovrebbe aver subito successive manomissioni. Manduca considera come tale copia non possa aver dato luogo ad una sua tradizione, facendo sì che ogni analisi di Ballet mécanique sia stata condotta a partire da versioni successive, per quanto autorizzate32. L’archivista Bruce Posner, degli Anthology Film Archives e Deutsches Filmmuseum di Francoforte, ha realizzato delle copie safety della copia Kiesler, più lunga delle altre presenti in circolazione. Una lettera di William Moritz indirizzata ad Eric de Kuyper del Filmmuseum di Amsterdam33, afferma che il British Film Institute conserva una copia del film in 16mm safety contenente i quadri di Léger ma senza colore applicato. Egli ritiene si tratti di una copia stampata da un prototipo olandese, poiché vi compare un titolo finale in lingua olandese, «Einde». Anche il conteggio del footage corrisponde con la copia di Amsterdam. L’assenza di colori potrebbe essere motivata da una duplicazione arbitraria della stampa in nitrato dai colori applicati.
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Se è difficile individuare l’“estetica” di questa versione è possibile però collocarla anagraficamente proprio grazie all’inserimento dei quadri [...] È chiaro come questo dato costituisca il 134
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Per il progetto sperimentale della colorazione applicata su pellicola bianco e nero, invece, Haghefilm ha scansionato sia la copia positiva olandese di 309m in nitrato e colorata, sia il nitrato positivo in bianco e nero della Cinémathèque Française lungo 291m, in modo da ottenere i migliori risultati nel confronto di montaggio e sequenze. Haghefilm ha anche provveduto alla scansione di 800 fotogrammi da un altro elemento positivo francese di 297m in bianco e nero. Gli elementi esaminati si trovavano in buone condizioni, ma la stampa olandese risultava più nitida e meglio contrastata, mentre la copia francese di 291m è più densa e più scura rispetto a quella olandese, presumibilmente per il fatto che proviene da elementi di generazione successiva. Sulla copia colorata sono visibili numerose giunte incollate, diversamente dalla copia proveniente dalla Cinémathèque Française, che presenta invece numerose giunte copiate in stampa e pochissime incollate direttamente. Anche l’ordine di montaggio è diverso. Osservando le copie possedute dalla Cinémathèque Française possiamo anche comprendere se una sezione, anche se la copia è in bianco e nero, presenta parti provenienti da una fonte colorata, con fotogrammi evidentemente più densi e scuri. Ho potuto controllare l’intera copia olandese fotogramma per fotogramma e ho scritto insieme a Daniela Curò di Haghefilm Foundation 54 pagine di schede catalografiche con accurate descrizioni relative al conteggio di frame, al contenuto delle inquadrature, alla regolarità di saturazione, alle tipologie di colore applicato, alle giunte e ai danni contenuti nella copia. Ho trovato che ogni sezione imbibita è stata incollata con giunte e molte delle sezioni dipinte a mano non sono state giuntate bensì direttamente pitturate, con molte sovrapposizioni di colore alla frameline. Attraverso le mie ricerche e l’analisi effettiva sono giunta a problematizzare ulteriormente la datazione della copia; le immagini dei quadri di Léger infatti potrebbero essere presumibilmente successive al 1924. Basandomi sulle interpretazioni di Manduca, che rileva il quarto e il decimo quadro visibili nel film come rispettivamente Composition, nature morte e Nature morte, au coquillage, entrambi datati 1929, avrei dato per assodata la trattazione di termini post quem che possano aiutare a definire una datazione della versione olandese:
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Pur non avendo recuperato tutte le fonti originali, non essendo dunque risalita al riconoscimento iconografico di tutti e undici i quadri ripresi nel film, ritengo che sia plausibile che alcuni dei dipinti identificati possano essere ascrivibili ad epoche successive, come afferma Manduca, ma che non si possa definire con sicurezza, poiché anche nei casi di quadri noti ravvisati nel film in realtà si presentano ad un occhio attento elementi differenziali che determinano un’alterità. Sarebbe a dire che in alcuni dei casi che ho rilevato a prima vista il fotogramma sembra riproporre un quadro noto, presente nei libri di storia dell’arte o nei database dei musei più prestigiosi, ma ad un’analisi meticolosa risultano visibili alcune differenze che creano dei dubbi circa le corrispondenze iconografiche. E di conseguenza dubbi relativi alla datazione. Non sono riuscita a trovare la fonte del terzo quadro che compare nel film, ma l’immagine sembra quasi identica a quella di Nature morte à la statuette (1929), se non fosse per l’elemento della statuetta che pare sostituire esattamente il profilo delle due lampade sottili nel quadro visto nel film. Che fosse un dipinto preparatorio, meno popolare del quadro successivo? Un’edizione differenziata da un elemento appena percettibile nella figurazione? Oppure lo stesso quadro, filmato in precedenza da Léger, è stato modificato dall’autore con l’aggiunta di una sagoma che appare coprire esattamente lo stesso spazio e la stessa forma? L’opera Coquille et feuille (1927) somiglia molto al quinto quadro di Léger che appare nella copia olandese, ma presenta una sia pur minima differenza nella piccola foglia visibile sul lato inferiore a sinistra. Tali differenze non possono essere ascrivibili ad altre ragioni, come difetti di ripresa o macchie presenti sulla pellicola; innanzitutto le sezioni sono giuntate, dunque più facilmente provenienti da un footage di prima generazione. Feuilles (1927) somiglia sensibilmente all’ottavo quadro di Léger che appare nella copia olandese, ma probabilmente anche qui 34
G. Manchuca, La lavandaia sulle scale, p. 318.
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termine post quem da affiancare a quello ante quem individuato sopra. Si può cioè, dopo averne identificato la provenienza (Filmliga), fornire un’importante indicazione anche per la datazione dell’opera restringendo il periodo “utile” agli anni ’29’30-’31, o al massimo fino al ’3334.
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4.3.2 Gli interventi digitali Dopo l’acquisizione del film in risoluzione 2K tramite scanner Oxberry e gli interventi di pulizia effettuati direttamente tramite software di compositing Fusion si è provveduta una correzione colore digitale. Il Filminstitut ha richiesto espressamente al grader il mantenimento di un look contrastato col fine di ricreare l’effetto di shock di questo famoso e affascinante momento dell’avanguardia. Il progetto sperimentale proposto dal Filminstitut prevedeva l’impegno di dipingere i fotogrammi colorati così come appaiono nella copia in nitrato. Sotto la supervisione di Ulrich Ruedel nel la35 36
Ivi, p. 317. Ibidem.
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può trattarsi di un altro quadro, di un’opera preparatoria e forse precedente, per una sottile differenza in un piccolo cerchio nella sezione inferiore del quadro. Composition (1925) è davvero molto simile all’undicesimo ed ultimo quadro di Léger sulla copia olandese, ma è possibile anche qui trovare piccole differenze che risultano appena percettibili. Non è da escludere che Léger avesse giuntato le riprese di opere preparatorie e forse precedenti rispetto ai più noti e rinomati quadri che ho reperito attraverso libri d’arte, cataloghi e portali di musei e d’informazione sull’arte. Di fatto però è plausibile che queste inquadrature siano state girate comunque dopo il 1924 e giuntate in seguito su una copia che presenta molte giunte effettive ma anche alcune giunte stampate, testimonianza di elementi precedenti. Inoltre non se ne fa alcuna menzione nelle note preparatorie del film scritte da Léger. Ancora non siamo a conoscenza delle ragioni di tale scelta: non è chiaro per quale motivo infatti siano state inserite le inquadrature di questi dipinti, immagini statiche, decisamente estranee al contesto del film, impossibili da associare anche attraverso una chiave di lettura iconica. Addirittura per sette volte interrompono un’inquadratura che riprende dopo il loro inserimento35. Probabilmente l’intenzione di Léger consisteva nel confermare la sua paternità autoriale dell’opera, in un contesto di molteplici attribuzioni e rivendicazioni di più artisti. Non è da escludere anche l’idea espressa da Manduca36 di porre i due linguaggi a confronto, cinema e pittura, nella giustapposizione immotivata di formule espressive eterogenee.
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boratorio chimico di Haghefilm ho sperimentato diverse opzioni di imbibizione. Durante il periodo delle colorazioni applicate la composizione delle tinte usate per le imbibizioni era molto simile a quella per le tinte dedicate alla colorazione manuale: vernici e tinte acide sciolte nell’acqua, venivano assorbite facilmente dalla gelatina del lato dell’emulsione, in modo da evitare il decadimento e l’instabilità. Dunque ho utilizzato diverse tinte in svariate concentrazioni, creando delle mescolanze per tentare di avvicinarmi ai colori della copia, modificando i livelli di pH e i tempi di immersione. Ho anche effettuato test sensitometrici sulle pellicole tinte, con risultati di calcoli anomali e misurazioni peculiari per l’irregolarità del colore presentato. Applicare colori dipinti a mano è un’opportunità talmente rara, per l’esclusività e il numero esiguo dei centri di ricerca del settore del restauro fotochimico su scala mondiale, che sono consapevole della straordinaria occasione che ho avuto. Ho scelto la tipologia di pennelli più adatti al caso: i pennelli sottilissimi usati per colorare personaggi e paesaggi sui positivi 35mm con una grande perizia manuale non erano adatti per dipingere a fotogramma pieno le ampie sezioni colorate di Ballet mécanique, poiché lasciavano visibili striature che rendevano i fotogrammi irregolari nella saturazione e complicavano la stesura. Alcune sezioni dipinte presentavano una stesura talmente regolare da non lasciarmi intendere immediatamente se fossero dipinte o imbibite, pertanto dovevo mantenere un effetto simile. Con un pennello più largo ho potuto stendere meglio il colore sulla pellicola, con un risultato regolare. In questa occasione ho testato i pennelli da trucco, più larghi e soffici di quelli da pittura, con ottimi risultati. Dopo un’accurata selezione e dopo molti errori, motivati dal confidare in una memoria visiva dei colori (fallace), ho intrapreso 62 test tra imbibizioni e colore dipinto, considerando i toni, le concentrazioni, il tempo di immersione, le misture, le applicazioni, nonostante di fatto avessi trovato che i colori sulla copia erano pochi (azzurro-ciano dipinto a mano, giallo scuro aranciato dipinto a mano, giallo denso dipinto a mano, rosso vermiglio dipinto a mano, verde giallastro dipinto a mano, imbibizione color ciano, imbibizione verde oliva chiaro, imbibizione giallo grigiastro chiaro). La stampa positiva in bianco e nero realizzata con il Digital Intermediate della scansione dell’elemento colorato presentava però una densità grigia scura e opaca, che sovrapposta ai colori applicati appariva decisamente molto diversa dall’originale.
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Pertanto Ulrich Ruedel ha suggerito di lavorare digitalmente per eliminare i colori e le pennellate, in modo da sottolineare l’immagine bianca e nera e da ottenere un’immagine vivida e nitida, su cui i colori applicati sarebbero visibili e fedeli aglio originali. La sua ipotesi in sede di digital grading verteva sull’utilizzo dello strumento di Tono/Saturazione per i canali RGB usandolo come un filtro “reverse” per mostrare la sottrazione di colore. Ad esempio, in un frame rosso se si guarda attraverso il canale rosso è possibile avere la visione di un filtro cromatico in rosso, mentre negli altri canali, blue verde, tutto risulterà più scuro. In questo processo, teoricamente corretto, non ci siamo accorti del fatto che le colorazioni applicate, per quanto siano colori anomali rispetto la normale risposta del supporto fotografico allo spettro, comunque non sono colori puri. Inoltre non avevamo considerato la sovrapposizione dei colori, in cui i toni si mescolavano intorno alle linee di bordatura del fotogramma. Alcune informazioni sono mescolate nei segni delle pennellate e possiamo trovarle, per esempio, ricercando sezioni Magenta visibili nel fotogramma rosso vermiglio, visibili anche dal canale di blu. Combinando i valori di luminosità e contrasto insieme con i canali RGB avremmo potuto provare a lavorare sulla brillantezza e sulla densità, sistemando anche colore e contrasto, ma sarebbe stato un processo troppo lungo. Abbiamo pensato di confrontare le sezioni colorate, triangoli e cerchi, sulla copia olandese con quelli visti sull’elemento b/n francese, in modo da usare tali sezioni nella nuova stampa b/n da colorare e imbibire. Queste sezioni erano già state scansionate e abbiamo analizzato le due copie in confronto sincrono, su di una macchina denominata Synchronizer, producendo un nuovo rapporto di descrizione. Per le sezioni imbibite si può utilizzare la copia olandese, poiché i colori sono molto pallidi e regolari, mentre per le sezioni dipinte a mano, dense e irregolari, le sezioni francesi sono migliori, poiché l’immagine contenuta nei fotogrammi è quasi la stessa; in tal modo si riduce l’intervento digitale in compositing e il tempo trascorso sui singoli fotogrammi. Tali interventi, sia per desaturare le sezioni colorate che per nuove scansioni richiedevano del lavoro extra da parte del dipartimento digitale. Haghefilm ha chiesto al proprio committente una liberatoria per mostrare il film restaurato in contesti di ricerca. La cineteca olandese però non può assegnare a terzi il diritto di mostrare la copia, per il semplice fatto che essa non possiede quel di-
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Sono convinta che questa esperienza unica sia stata un modello significativo per comprendere come bilanciare le tecnologie digitali con gli affascinanti colori applicati, esempio ritrovato di come arte cinematografica ed arte pittorica in realtà siano state così vicine.
Appendice Ho deciso di allegare in calce al lavoro di tesi una serie di materiali relativi al case study trattato nell’ultimo capitolo, rispettando il criterio di documentazione come principale ausilio alla reversibilità nonché principio di trasparenza degli interventi effettuati. Pertanto ho ritenuto opportuno corredare il testo di QR code relativi ai materiali fotografici, in particolare per poter testimoniare il confronto tra le fotografie delle inquadrature relative ai quadri di Fernand Léger, che ho effettuato direttamente sulla copia olandese del film, e le immagini acquisite dai portali di arte contemporanea rappresentanti i quadri di Fernand Léger cui tali inquadrature dovrebbero riferirsi. Ho inserito anche un paio di fotografie che dimostrassero il confronto dei test chimici di imbibizione effettuati col fine di simulare il colore applicato rilevato sull’originale, nonché immagini tratte dalle scansioni originali e dal file del film restaurato, grazie alla collaborazione di Jata Haan, Elif Rongen Kaynakci e Giovanna Fossati dell’EYE Filminstitut.
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Film il cui statuto autoriale e la cui proprietà intellettuale non è chiara. Cfr. A. Melville, S. Simmon, Film Preservation 1993: A Study of the Current State of American Film Preservation: Report of the Librarian Of Congress, Washington DC, National Film Preservation Board of the Library of Congress, 1993. 38 A. Peukert, Intellectual Property as an End in Itself?, in «33 European Intellectual Property Review» 2011, pp. 67-71 (http://ssrn.com/abstract=1550001-ultima visualizzazione 10/06/2013).
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ritto se non in alcuni casi, per i cosiddetti “orphan films”37. Ovviamente nel caso di un film importante e storicizzato questo non è possibile. Questo evento negativo induce a ripensare i termini della missione del restauro cinematografico, sperando che questo possa modificare le condizioni future di legittimità di intervento sui film, nel rispetto delle normative vigenti38.
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