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Italian Pages 224/225 [225] Year 2009
strumenti per la didattica e la ricerca
– 78 –
Lamberto Ippolito
La villa del Novecento
Firenze University Press 2009
La villa del Novecento / Lamberto Ippolito. – Firenze : Firenze University Press, 2009. (Strumenti per la didattica e la ricerca ; 78) http://digital.casalini.it/ 9788884539687 ISBN 978-88-8453-967-0 (print) ISBN 978-88-8453-968-7 (online)
Foto di copertina: Lina Bo Bardi, Casa de vidro, San Paolo, 1951; veduta dal versante a valle. Arquivo Instituto Lina Bo e P.M. Bardi, São Paulo, SP / F. Albuquerque, 1950.
Progetto grafico di Alberto Pizarro Fernández
© 2009 Firenze University Press Università degli Studi di Firenze Firenze University Press Borgo Albizi, 28, 50122 Firenze, Italy http://www.fupress.com/ Printed in Italy
Presentazione Indice
Premessa
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Capitolo 1 Il programma architettonico
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Capitolo 2 Il contesto ambientale
83
Capitolo 3 Dettagli influenti, caratteri emergenti
113
Capitolo 4 La costruzione
149
Capitolo 5 L’architetto e il committente
185
Capitolo 6 La divulgazione
195
Bibliografia
205
Elenco delle opere
209
Indice dei nomi
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Crediti fotografici e referenze iconografiche
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Ringraziamenti
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Lamberto Ippolito, La villa del Novecento, ISBN 978-88-8453-967-0 (print), ISBN 978-88-8453-968-7 (online), © 2009 Firenze University Press
Premessa
«Villa» è voce latina, radicata nell’idioma di molti paesi non senza alcune sfumature di significato. Il termine é storicamente indicativo del connubio tra una residenza elitaria e una struttura rurale, evocativo di un ideale di vita agiata e di riposo nel quadro di un ambiente da sfruttare nelle sue risorse naturali. L’evoluzione in senso moderno di questa categoria edilizia, spesso libera da precisi riferimenti tipologici, secondo James Ackerman è da ricondurre all’Inghilterra della seconda metà del Settecento, allorché si diffonde il gradimento della borghesia benestante per la residenza di campagna affrancata da ogni finalità produttiva1. Trascorrerà ancora un secolo prima che si possa accreditare l’accezione di «villa» anche alla residenza unifamiliare di pregio in ambito urbano, spesso in rapporto con una natura soltanto residuale. Nel corso del Novecento la ricerca architettonica ha dedicato un’attenzione non marginale al progetto della villa, alle sue valenze formali, spaziali e strutturali, cogliendo occasione per sviluppare programmi e formulare principi. Il riferimento alla tradizione classica ricorre talvolta per sancire il primato dell’oggetto architettonico sul dato ambientale, come elemento imposto e autonomo rispetto al quadro naturale. Su queste basi la critica ha voluto riconoscere a Le Corbusier, a partire dalle opere del periodo purista, il merito di aver ridato dignità al termine «villa» con un chiaro riferimento al valore ideale dell’architettura. Esso affiora, peraltro, anche in rapporto alle più vincolanti esigenze dell’abitazione di massa, nella proposta delle immeubles-villas, tentativo estremo di ibridazione della residenza unifamiliare con i modelli dell’edilizia intensiva2. È da segnalare, al contrario, la resistenza del mondo anglosassone a servirsi estesamente del termine «villa», adottando la più generica locuzione «house» per indicare indifferentemente una dimora protetta da un ampio parco, una residenza temporanea immersa in una natura incontaminata, una casa con giardino nei limiti di un lotto suburbano. Il rifiuto di Frank Lloyd Wright nel riconoscere il valore storico del termine é stato interpretato da alcuni come una presa di distanza dal formalismo di maniera tipico delle abitazioJ.S. Ackerman, La villa. Forma e ideologia, Giulio Einaudi Editore, Torino 1992. Su questo tema progettuale si é soffermata anche la ricerca di architetti italiani nel corso degli anni Trenta. All’«edificio a ville sovrapposte» hanno dedicato attenzione, tra gli altri, Mario Ridolfi, Luigi Figini, Tommaso Buzzi, pervenendo tuttavia a risultati soltanto dimostrativi. 1
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Lamberto Ippolito, La villa del Novecento, ISBN 978-88-8453-967-0 (print), ISBN 978-88-8453-968-7 (online), © 2009 Firenze University Press
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ni unifamiliari dei suburbi americani, da altri come intenzionale negazione del carattere simbolico e assoluto dell’oggetto architettonico nel suo contesto ambientale; in alternativa è il sito, con le sue valenze naturali, che si esprime anche attraverso il valore aggiunto di un oggetto ad esso organicamente correlato. Un unico termine può apparire inadeguato per identificare una categoria edilizia dai caratteri mutevoli e talvolta sorprendenti, riduttivo dell’ampio e vario campo di osservazione offerto dalla casa unifamiliare allorché si propone nelle sue espressioni più libere e anticonvenzionali. L’indagine, dunque, non esclude tipi e modelli storicamente assestati quanto dimostratisi capaci di assorbire il portato di idee innovative, come anche creazioni del tutto originali e divenute significative anche per altri campi della ricerca architettonica. Termini specifici e indicativi di un originario carattere, quali cottage, bungalow, ranch house, casa de hacienda, chalet, ecc., sono venuti a contraddistinguere modi diversi d’espressione di un ambito domestico pur sempre d’eccezione. Non mancano forme moderne di trasposizione dell’idea tradizionale della villa, determinate da nuovi stili di vita, da modelli culturali e condizioni operative in continua evoluzione. La casa di soggiorno temporaneo (casa di vacanza, per week-end, per villeggiatura), ad esempio, costituisce la prova più evidente della mutazione della villa come bene sostanzialmente voluttuario, divenuto diffuso e «democratico» nel corso del Novecento anche a seguito della scoperta del «tempo libero», in risposta a esigenze di evasione dal lavoro e dalle convezioni sociali. La residenza secondaria ha assecondato il desiderio di cambiamento delle abitudini di vita e, allo stesso tempo, ha prodotto stimoli sollecitando aspirazioni e comportamenti attraverso conformazioni spaziali nuove o rivisitate, accorgimenti specifici per il comfort, dispositivi tecnici più affidabili. Sono condizioni che hanno contribuito nel tempo a rimuovere il ricordo della vecchia villa aristocratica, sulla spinta delle proposte omologanti del mercato edilizio, e anche più di rado delle sollecitazioni della ricerca architettonica. Accezioni quali mare, lago, montagna, ecc. definiscono spesso il carattere dominante dell’ambiente della villa, contribuiscono talvolta a direzionare le scelte di progetto e le aspettative del fruitore. Il rapporto con la natura del luogo assume forme diverse, dall’integrazione al rispettoso distacco, dalla ripresa di motivi vernacolari e autoctoni all’innesto dei più asettici codici espressivi della produzione industriale. La villa del Novecento sfugge dunque al tentativo di una possibile classificazione, per la varietà degli intenti progettuali, talvolta riconducibili a specifici programmi architettonici, per le diverse aspirazioni e modelli di vita dei destinatari, per le condizioni poste dalle contingenze del momento e del contesto. Il tema della villa si offre come campo di osservazione ricco di stimoli e di sorprese, da valutare e comprendere, al di là di ogni intento di sistematizzazione, nella variabilità e complessità delle sue espressioni.
Presentazione Capitolo 1
Il programma architettonico
Il progetto di una villa può sembrare un risultato marginale se rapportato a temi più complessi e di più ampio impatto sociale; affrancato da condizioni particolarmente vincolanti, costituisce talvolta uno spazio di decompressione nell’ambito di una carriera professionale, vivificante per la libertà espressiva consentita e per il rapporto generalmente collaborativo che il progettista è in grado di realizzare con il committente. Assumere la villa come termine esclusivo di indagine di un percorso individuale di ricerca può anche comportare rischiose limitazioni dello spettro di osservazione. Ciò non toglie che questo preciso ambito d’azione costituisca di per sé un campo ideale di sperimentazione, di verifica di idee e di contenuti per interventi a scala più ampia e con altra finalità. Il valore assegnato da un progettista alla definizione di questa particolare forma dell’abitare assume interesse alla luce di riflessioni personali, di presupposti teorici e indicazioni programmatiche; elementi utili, questi, se non necessari per riconoscere il significato di un’opera nel quadro di una produzione più generale e diversificata. Il contributo del Novecento al tema della villa, pur nella varietà di espressioni che impediscono di riconoscere in essa una categoria edilizia univoca, segue il dibattito sui modi e sulle forme dell’innovazione, si manifesta in tratti di comune convergenza, come anche in posizioni distanti e fortemente caratterizzate per autonomia di pensiero. La casistica, quanto mai ampia, consiglia, in sede di analisi, la ricerca di riferimenti sicuri e autorevoli, graduati nel tempo e diffusi senza limiti di area geografica. I termini di un programma architettonico per la residenza signorile immersa nel verde della campagna o di un parco suburbano risultano esplicitati da Frank Lloyd Wright nel commento a due progetti sul tema «A Home in a Prairie Town», presentati sulle pagine della rivista «The Ladies’s Home Journal» (1900). Pur rifiutando per questi edifici la denominazione storica di villa, Wright ne riconosce il carattere antiurbano, con radici nel mondo rurale, nei grandi spazi aperti modellati dai fenomeni naturali. I motivi ispiratori delle scelte formali e compositive derivano da qualità paesaggistiche e ambientali coinvolgenti per la forte tensione orizzontale dei riferimenti fisici e per l’ampia dilatazione spaziale. La prateria appare dunque il contesto ideale dell’ispirazione e il motivo conduttore di un discorso centrato sul fascino di configurazioni formali libere, sulle sollecitazioni delle emergenze naturali, dei colori, delle luci del luogo. La ricerca architettonica di Wright in merito alle Prairie Houses, fino a tutto il primo decennio del Novecento, si materializza in numerose realizzazioni prima che lo stesso Lamberto Ippolito, La villa del Novecento, ISBN 978-88-8453-967-0 (print), ISBN 978-88-8453-968-7 (online), © 2009 Firenze University Press
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autore ne riassuma con una riflessione sistematica le motivazioni e gli indirizzi di progetto. Nel citare solo alcune delle opere più emblematiche, dalla Winslow House (1893), River Forest, Illinois, alla Martin House (1904), Buffalo, New York, alla Coonley House (1908), Riverside, Illinois, si attua l’intento programmatico di dar spazio a un modello di vita spontaneo e anticonvenzionale attraverso soluzioni distributive aperte e flessibili, limitando il peso degli elementi di separazione tra gli ambienti, e tra questi e l’esterno. La dimensione umana determina in modo vincolante l’altezza degli spazi, con estensione prevalente nella direzione orizzontale. Il dato antropometrico, dunque, ispira questo principio dell’allargamento delle masse volumetriche in sintonia con la tensione orizzontale del riferimento ambientale. Le falde dei tetti, poco inclinate e fortemente aggettanti, depurate da abbaini e comignoli, assecondano la tendenza allo stiramento dell’intero organismo parallelamente al suolo. In termini di dettaglio si chiariscono anche i principi della modellazione dei fronti esterni. L’insieme è soggetto ad un controllo severo che, se da un lato esclude la decorazione fine a sé stessa, dall’altro si affida alle qualità materiche e cromatiche degli elementi di rivestimento. Le murature trovano fondamento sul terreno per mezzo di una bassa piattaforma e si sviluppano in altezza fino ai davanzali delle finestre delle camere; queste aperture separate da pilastrini si succedono fittamente nella fascia di coronamento del fronte, segnando con una profonda ombra la cesura tra lo sviluppo murario e la copertura a tetto. Con una certa insistenza Wright tende a stirare gli elementi di fabbrica al di là del margine dei volumi edilizi, con il risultato di liberare lo sviluppo di ogni singolo blocco verso l’esterno. La logica distributiva di «pianta centrifuga» ha origine nell’assetto degli ambienti interni, non più considerati come cellule autonome aggregate ma come settori concatenati di uno sviluppo continuo, emergente all’esterno attraverso spazi di mediazione. Viene ad essere rotto il tradizionale senso del limite fisico affidato alla struttura muraria, come diaframma protettivo e impenetrabile; i setti murari sono dunque gli elementi residuali di un organismo non più scatolare, direzionano i percorsi e le viste, costituiscono le direttrici di espansione degli spazi interni verso l’esterno. Tra le diverse opere realizzate, la Robie House (1907-09), a Chicago, Illinois, può riassumere con immediatezza le linee guida della ricerca di Wright fino al 1910, in un periodo di produzione archiviato, non senza enfasi, come «prima età d’oro»1. La dimensione più contenuta rispetto a quella di residenze signorili situate in ampi spazi verdi, quali la Martin House e la Coonley House, consente di apprezzare i principi già descritti anche per contrasto con i limiti delle condizioni ambientali. In un lotto suburbano relativamente esiguo e contornato da strade carrabili, il riferimento alla prateria decade se limitato alla semplice valenza paesaggistica; assume altresì il significato di termine guida per una ricerca prettamente architettonica, dove gli elementi di fabbrica, nella forma e nella materia, rispondono allo stesso tempo a esigenze strutturali e distributive, come anche di natura percettiva e di comfort. Secondo le parole di Wright, viene a decadere la funzione della «parete come tale» e si ipotizza quella di «schermo, di mezzo per aprire lo spazio», senza che, grazie al progresso tecnico dei materiali, ne risenta la solidità della struttura. Lo sviluppo esteso di elementi di fabbrica, quali i setti murari del livello di base, le cornici in pietra calcarea bianca dal netto contrasto cromatico con il laterizio, le coperture a tetto, se da un lato determina la frammentazione dell’idea tradizionale di facciata come diaframma fisico e simbolico, dall’altro rilega in un registro unitario i diversi settori, ga-
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La definizione è riportata in G.C. Manson, Frank Lloyd Wright: la prima età d’oro, ed. it., Officina, Roma 1969.
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Fig. 1Fig.1 Fig. 2
Fig. 3
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Fig. 4
Fig. 4
Fig. 1 – Frank Lloyd Wright, Coonley House, Riverside, Illinois, 1908. Pianta del piano terra. Fig. 2, 3, 4 – Frank Lloyd Wright, Robie House, Chicago, Illinois, 1907-09. Piante dei diversi livelli; il fronte su Woodlawn avenue; sezione longitudinale.
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rage e volumi accessori compresi, assoggettati ad un controllo geometrico bilanciato nel peso dei volumi. Le diverse masse, tra loro concatenate, rispettano il principio di orizzontalità e di aderenza al suolo, «married to the ground» secondo una felice espressione di Wright, trovando nel corposo ed emergente blocco del camino il principale riferimento verticale. Un settore, questo, che al di là della scontata connotazione funzionale, costituisce il perno della composizione, il nucleo portante da cui, secondo una chiara metafora organica, l’organismo si ramifica nell’intorno. In linea con il carattere di continuità tra interno ed esterno, per i tre diversi livelli praticabili il camino è cuore dell’organizzazione funzionale, centro simbolico delle relazioni domestiche. Nel corso del primo decennio del secolo le idee del maestro di Chicago stimolano l’interesse di isolati esponenti della cultura architettonica europea, senza tuttavia esercitare una significativa influenza sulla produzione corrente. Sono idee che avranno fortuna presso una più giovane generazione di architetti, non prima della presentazione delle opere nella mostra berlinese del 1910 e, soprattutto, a seguito della divulgazione dei relativi disegni nelle diverse edizioni del portfolio edito da Wasmuth. Per il momento il tema della villa è per lo più ancorato a una domanda che privilegia i rassicuranti riferimenti della tradizione, indicati a esprimere l’ideale elitario di residenza signorile nelle più varie declinazioni stilistiche. Ciò che in questo momento contraddistingue nel modo più evidente la differenza, e forse anche la distanza dall’opera di Wright, è la persistenza del modello ottocentesco di villa urbana ad impianto compatto, oggetto di rielaborazione sul piano formale più che su quello distributivo e spaziale. Gli impianti delle residenze wrightiane, cruciformi, ad elementi lineari sfalsati, a corte aperta, ad espansione libera, si confrontano con il dominante modello europeo a blocco chiuso, segno di una tradizione storica che perpetua nella visione stereometrica del volume unitario l’ideale classico di oggetto non corrotto dall’ambiente naturale. Nell’area culturale tedesca la lezione di Karl Friedrich Schinkel, del purismo geometrico di pianta e volume, è ancora viva come riferimento basilare anche per i giovani architetti che, dopo la prima guerra mondiale, rinnoveranno l’architettura europea. Peter Beherens, nel progetto della propria residenza permanente (1900-01) presso la Colonia degli artisti di Darmstadt, conferma l’interesse per il valore simbolico della forma, per l’effetto volumetrico d’insieme. La scarsa esperienza professionale del giovane architetto non limita la capacità di amministrare la raffinata struttura formale di carattere eclettico di un edificio che, tuttavia, nell’assetto tipologico non propone sostanziali novità. Non si tratta comunque di un oggetto isolato né tanto meno avulso da un programma, dal momento che l’edificio rientra in un’iniziativa ufficiale diretta a dimostrare e promuovere l’arte come valore guida della produzione industriale, nella prospettiva di una ricaduta d’immagine per la realtà economica locale. L’esperimento della Künstler-Kolonie sulla Mathildenhöhe elegge dunque a campo di espressione di capacità creative la residenza individuale, in questo caso dedicata alla figura dell’artista; offre la possibilità di verificare in vitro l’influenza dell’arte sulla qualità della vita domestica. L’edificio di Beherens, come anche le altre sei residenze unifamiliari realizzate su progetto del regista dell’intera operazione, Joseph Maria Olbrich, non si
Figg. 5, 6 – Peter Beherens, Casa Beherens, Matildenhöhe, Darmstadt, 1900-01. Piante dei due livelli principali; prospetto. Fig. 7, 8 – Otto Wagner, villa Wagner, Vienna, 1905-13. Il fronte sulla Hüttelbergerstrasse: piante del piano terra e del piano primo.
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Fig. 5 5 Fig.
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Fig. Fig. 77
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sottraggono al proprio ruolo di edifici manifesto, risolti coerentemente con le indicazioni programmatiche fino al più piccolo dettaglio dell’arredo, destinati ad essere visitati e divulgati più che ad essere vissuti. Le abitazioni disegnate da Olbrich, su una base d’ispirazione riferibile alla tradizione tedesca, esibiscono apparati decorativi di genere Secessione. Fanno eccezione la casa Habich e la casa Glückert, la cui configurazione cubica del nucleo primario, nello sviluppo verticale, viene a scomporsi in parti distinte e formalmente autonome. Le superfici ad intonaco bianco, parti di copertura a terrazza, piccoli volumi in aggetto rispetto al dado di base, sembrano riflettere caratteri di architettura mediterranea. Anche il già citato progetto di Beherens, per la propria residenza, assume come riferimento volumetrico una forma prismatica, cui corrisponde esattamente in copertura il solido piramidale del tetto; una struttura formale rigida che acquista movimento per l’avanzamento di alcuni settori dell’involucro rispetto al piano di riferimento della facciata. Stirati in altezza al di là della cornice trabeata di coronamento, questi elementi episodici non subiscono il controllo della simmetria ma assecondano l’ordine imposto dalla disposizione degli spazi interni. A delineare i limiti dei piani di prospetto agiscono con ricercata eleganza costole rilevate in klinker verde. Questa impostazione di organismo chiuso, di solido geometricamente controllato nelle sue variazioni formali rispetto al nucleo d’origine, sarà motivo ricorrente della successiva villa disegnata da Beherens, la Casa Hobenhauer (1905) a Saarbrucken. Il modello compatto definisce il principio di autonomia dell’edificio rispetto al quadro ambientale anche per la villa che Otto Wagner realizza per la propria famiglia (1905-1913) a Vienna, a circa due decenni di distanza dalla costruzione della prima villa d’ispirazione neoclassica. La riduzione all’essenziale, nel calcolato rapporto tra settori funzionali e tra fasce di elevato, costituisce la condizione per operare a scala di dettaglio sull’involucro esterno. La scuola viennese, in questo momento, è attenta a valorizzare le qualità formali della superficie adottando rivestimenti di parete chiaramente denunciati come strato di finitura non espressivo del carattere materico della sottostruttura. Persiste l’insegnamento di Gottfried Semper nell’invito a «dimenticare i mezzi che devono essere impiegati per dare vita all’arte»2, liberando la forma dalla caratterizzazione dei materiali. Lo strato applicato, apertamente dichiarato nel disegno pospettico del progetto definitivo della villa Wagner, allude chiaramente all’opera tessile; i pannelli decorativi che definiscono i campi geometrici delle facciate, le bordature e gli elementi lineari di cucitura, rivelano la propria natura di rivestimento, formalmente risolto quanto privo di integrazione con la componente materiale della costruzione. Ciò è indicativo della distanza che separa in questo momento la ricerca architettonica austriaca da quella wrightiana, interessata quest’ultima a proporre il rivestimento come carattere congenito e non accessorio, rivelatore del mezzo costruttivo e generatore dell’effetto di massa. Il tema del rivestimento trova un interprete d’eccezione in Joseph Hoffmann, come Wagner interessato a coniugare la tensione del manto di superficie con la preziosità dell’ornamento. Le superfici marmoree del Palazzo Stoclet (1905-11) a Bruxelles, bordate negli spigoli da cornici di metallo brunito, rappresentano il risultato più alto di questa ricerca, indubbiamente favorita da una domanda d’eccezione e da una notevole libertà di azione da parte del progettista. La dimensione e l’investimento effettuato nell’opera permettono di assimilare gli esiti alle connotazioni di una dimora aristocratica, esiti che solo
2 G. Semper, Lo stile nelle arti tecniche e tettoniche o estetica pratica. Manuale per tecnici, artisti e amatori, ed. it., Laterza, Roma Bari 1992, pp. 120-21.
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Fig. 13 Figg. 9, 10 – Joseph Hoffmann, palazzo Stoclet, Bruxelles, 1905-11. Pianta del piano terra; veduta di un particolare del rivestimento in lastre di marmo e delle orlature in metallo brunito. Fig. 11 – Joseph Hoffmann, villa Henneberg, Vienna, 1900-01. Pianta del piano rialzato e prospetto. Fig. 12 – Joseph Hoffmann, villa Ast, Vienna, 1909-11. Pianta del piano terra. Fig. 13 – Joseph Hoffmann, villa Spitzer, Vienna, 1901-02. Piante dei tre livelli principali.
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per alcuni aspetti sono esplicativi dell’interpretazione offerta da Hoffmann per la villa, urbana ed extraurbana. Il tema della villa era stato allo studio dell’architetto viennese dall’avvio del secolo, e più volte riconsiderato negli anni successivi nel quadro ambientale della Hohe Warte, una località collinare del distretto di Döbling ai margini della città, particolarmente gradita agli esponenti della vita culturale e artistica. Già nel primo intervento, le case abbinate per Carl Moll e Koloman Moser (1900-01), Hoffmann sembra rifiutare il richiamo dell’ornamentazione come aspetto qualificante, per tentare più razionalmente un approccio semplificativo della forma, offrendo riposta alle esigenze di vivibilità prima che d’immagine. Affiora anche l’interesse per il recupero della tradizione nel portare a nudo la componente costruttiva, evidenziata in superficie dalla natura lignea della struttura e dalle campiture di muratura in intonaco bianco. L’impianto tipologico a halle, riscontrabile nella tradizione dell’edilizia rurale, trova applicazione nelle ville viennesi Henneberg (1900-01) e Spitzer (1901-02), per poi divenire carattere consueto in successive realizzazioni. L’ambiente si presta a divenire il nucleo primario dell’organizzazione interna su cui, grazie allo spazio a doppia altezza, si affacciano anche le stanze del primo piano. Pur permanendo l’idea di un impianto complessivo compatto, l’assetto volumetrico che ne scaturisce tende a differenziarsi nello sviluppo verticale concludendosi in settori distinti. Nelle successive ville sulla Hohe Warte la caratterizzazione volumetrica si arricchisce talvolta per la presenza di corpi addossati al nucleo principale, come ad esempio nella casa Hochstetter (1906-07), dove il bow-window a pianta semicircolare, segnato da nervature verticali in mattoni, costituisce la naturale espansione verso l’esterno della halle e del soggiorno. Con il progetto della villa Ast (1909-11), a Vienna, Hoffmann inaugura una nuova fase di ricerca, centrata su un’originale interpretazione del classicismo. L’interesse per la simmetria, per il rapporto ordinato tra vuoti e pieni, si coniuga in facciata con quello per l’ornamentazione. Il rivestimento a scanalature verticali che ricopre i setti murari tra le aperture rimanda all’idea semperiana di tenda, di panneggio sospeso a tutta altezza, dal cornicione alla base della facciata. È evidente l’allusione al principio ordinatore della lesena ma, allo stesso tempo, le proporzioni falsate e la mancanza di relazioni sintattiche ne trasfigurano l’effetto su un piano puramente decorativo. Il carattere «atettonico» dell’impaginato viene riproposto nelle successive opere con un’attenzione particolare alla partizione di facciata per fasce verticali, come anche nel reinterpretare l’idea wagneriana di rivestimento continuo interpuntato da elementi di fissaggio. Talvolta viene riproposto il motivo del timpano come elemento di coronamento, non necessariamente risolto classicamente nell’ambito di un ordine gerarchico delle parti. In ogni caso il programma architettonico di Hoffmann dimostra l’importanza che la cura del dettaglio assume per il risultato, nell’applicazione di materiali pregiati, come nel Palazzo Stoclet, nell’uso dell’intonaco, spesso trattato a rilievo, o anche nel ricorso a materiali naturali. In quest’ultimo caso, esemplificato dalla villa Primavesi (1913-14) a Winkelsdorf, il legno a vista e la pietra sbozzata sono proposti con esplicito riferimento al carattere rustico della dimora di campagna. In sintonia con l’interesse della scuola viennese per gli effetti di superficie è anche la ricerca di Charles Rennie Mackintosh, fortemente motivato nell’innovare i caratteri formali
Figg. 14, 15 – Charles Rennie Mackintosh, Hill House, Helensburg, Glasgow, 1902-06. Pianta del piano terra e prospetto a valle; veduta del fronte laterale d’ingresso. Fig. 16 – Charles F. A. Voysey, The Orchard, Chorley Wood, Herts, 1899-1901. Piante del piano terra e del piano primo, prospetto del fronte d’ingresso.
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a scala di dettaglio, pur senza tradire nella configurazione architettonica d’insieme il riferimento alla tradizione scozzese. La Hill House (1902-06), a Helensburg presso Glasgow, su un impianto tradizionale e senza novità dal punto di vista tipologico, si eleva con murature massive interrotte da limitate aperture, con frontoni fortemente inclinati e camini imponenti. Prescindendo dall’elevata qualità del disegno e della fattura del dettaglio, con punte di originalità per gli interni e per gli elementi di arredo, Hill House non sembra dunque affrancarsi dal tradizionale modello di organismo chiuso e compatto, nonostante in superficie affiorino elementi avvolgenti e interessanti episodi plastici. È in atto comunque una ricerca di semplificazione stilistica, nel caso specifico rispetto a motivi Baronial ancora apprezzati, ricerca che in Inghilterra vede interprete, nei due decenni a cavallo del secolo, Charles F. Annesley Voysey, nell’opera di svecchiamento dell’architettura del cottage, campo diffuso di espressione di un sentito romanticismo neogotico. Il programma di Voysey per l’architettura domestica presenta contenuti anticipatori delle tematiche del movimento moderno, soprattutto per quanto riguarda la ricerca di purezza formale e di logica funzionale. Motivi della tradizione rurale trovano nuova evidenza in forme essenziali, in volumi stereometrici conclusi da tetti stilizzati, nelle aperture impaginate a nastro continuo. Come è leggibile nel risultato più sentito e completo dell’opera di Voysey, The Orchard (1899-1901), la propria residenza a Chorley Wood, Herts, l’assetto distributivo segue principi di razionalizzazione dello spazio, con l’eliminazione di percorsi e locali accessori a favore di ben definite unità ambientali, strutturate a partire del settore baricentrico della hall. La ricerca sull’architettura domestica unifamiliare di Voysey, come del resto per Mackay Hugh Baillie Scott, e con destinazione più elitaria anche per Edwin Lutyens, si riassume in prodotti raffinati e non comuni; sono risultati che, pur segnati da una forte impronta individuale, non hanno mancato di riflettersi sulla produzione centroeuropea, anche a seguito della sistematica opera di divulgazione svolta da Hermann Muthesius3. Unità e compattezza volumetrica dell’edificio sono motivi centrali delle idee giovanili di Ludwig Mies van der Rohe, orientate ad assumere dal passato riferimenti fondamentali per il progetto. La villa Riehl (1906-7), costruita a Potsdam-Neubabelsberg, costituisce il termine di partenza di un programma architettonico per la residenza unifamiliare, articolato nel tempo in fasi di diverso carattere e indirizzo. L’influenza di Schinkel è evidente nella configurazione assoggettata a principi di geometria elementare, così come è chiara l’ispirazione classica nella definizione modulare dei campi murari per mezzo di un finto telaio strutturale che, nel settore terminale del portico prospettante a valle, allude all’architettura del tempio. Questo versante evidenzia un aspetto che diventerà significativo nella successiva produzione di Mies, allorché emergerà il carattere di integrazione tra parti indipendenti, in un rapporto basato sulla continuità di sviluppo degli elementi in gioco. Nel caso in esame, il muro di contenimento del terrazzamento, delimitando il giardino superiore da quello inferiore fortemente scosceso, lambisce e supporta la pilastrata esterna del portico, qualificandosi come esteso podio. Questo elemento bidimensionale diviene dunque parte significativa dell’edificio e, allo stesso tempo, ne estende l’influenza sull’ambiente esterno. Il tema della residenza individuale, della villa in particolare, permette di seguire l’evoluzione della ricerca miesiana, soprattutto in rapporto al rinnovamento delle ten3 Nel primo decennio del secolo l’architettura domestica inglese acquista interesse in Europa anche a seguito della revisione operata da Morris, Shaw, Lethaby, Baillie Scott, in termini di praticità, semplificazione formale, vivibilità. La diffusione viene favorita soprattutto in Germania dall’opera di Hermann Muthesius, Das englische Haus, Wasmuth, Berlino 1904-5. Di ampia diffusione è stata anche l’opera di Mackay Hugh Baillie Scott, Houses and Gardens, London 1906.
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denze architettoniche e figurative in atto negli anni Venti. L’idea iniziale della sintesi compositiva affidata alla forza espressiva di un volume unitario, lascia il campo a una interpretazione più libera e aperta dell’organismo edilizio, articolato in settori apparentemente disgiunti e diffusi in uno spazio d’influenza indifferenziato. Le poetiche De Stijl sono stimolanti per sollecitare questa nuova avversione allo schema scatolare del blocco edilizio fino alla frammentazione dell’insieme in parti tra loro slegate e direzionate nello spazio esterno entro un ampio raggio. Il progetto per la Casa di campagna in cemento armato (1923), e quello per la Casa di campagna in mattoni (1924), hanno entrambi intento dimostrativo di questa nuova visione del tema della residenza isolata, non assoggettata a particolari vincoli funzionali e ambientali. Decaduto ormai ogni riferimento al classicismo, la ricerca dell’equilibrio della composizione avviene associando volumi ed elementi bidimensionali, direzionati secondo le due coordinate ortogonali del piano. Il tetto a falde fortemente inclinate della villa Riehl, residuo di una vena romantica oramai ininfluente, lascia il posto alle coperture piane dei distinti blocchi edilizi, tra di loro sfalsati e variati in altezza. Se i disegni prospettici delle due case di campagna rendono evidente il carattere di aderenza al suolo dell’insieme, è soprattutto il disegno di pianta della Casa di campagna in mattoni che chiarisce come l’articolazione dei volumi e degli spazi interni scaturisca dal rapporto reciproco tra setti murari occasionalmente incidenti e proiettati verso l’esterno. Le aperture, filtrate da grandi pannelli vetrati, non intaccano la continuità di sviluppo delle murature ma costituiscono gli elementi distanziatori che ne impediscono il contatto reciproco. La Casa di campagna in mattoni è oltretutto antesignana del nuovo interesse di Mies per un materiale espressivo del principio costruttivo, depurato da ogni carattere ornamentale, in definitiva determinante per il controllo dell’unità d’immagine di una composizione frammentata. I diversi setti murari, sia che definiscano volumi, sia che costituiscano recinzioni o strutture reggispinta del terreno, che si elevino come camini, nella uniformità materica e cromatica del laterizio, suggerita dalla lezione di Hendrik Petrus Berlage, diventano gli elementi generatori della continuità strutturale e spaziale dell’opera. L’uso del mattone, in controtendenza rispetto alle terse e astratte superfici di intonaco bianco preferite dalle correnti di avanguardia del momento, trova la prima applicazione nella villa Wolf (1925-27) a Guben, allora città tedesca, con l’esclusione di ogni dettaglio decorativo che non coinvolga la tessitura muraria. Come già anticipato nei precedenti progetti manifesto, la configurazione volumetrica dell’organismo viene generata da quinte murarie a sviluppo continuo. Il carattere bidimensionale di queste consente di realizzare forme di estensione e di raccordo tra settori funzionalmente diversi, come nel caso del lungo muro di sostegno che, costituendo il limite del patio verso valle, ritrova consistenza volumetrica ad una estremità dell’edificio integrandosi con la parete esterna di un blocco avanzato. La notevole pendenza del terreno favorisce lo sfalsamento in altezza dei volumi e la loro conseguente qualificazione come nuclei indipendenti, non ripetitivi, coordinati in un gioco d’incastri non soggetto a regole precostituite. Questo carattere è anche il corrispettivo di un assetto planimetrico ramificato che trova la sua più libera espressione nello sviluppo continuo dei quattro ambienti a giorno, tra loro concatenati lungo un percorso diagonale e apparentemente non vincolati da precise destinazioni d’uso. Lo sviluppo di un preciso programma per la residenza è evidente nei passi compiuti da Mies negli anni Venti, con un approccio progettuale decisamente sperimentale ma pur sempre nella ricerca di principi e certezze. Essenzialità, senso della misura, precisione tecnica, ricorrono nella casa Esters e nella casa Lange a Krefeld (1927-30), vicine per localizzazione, in un’area suburbana immersa nel verde, e per tempi di costruzione. La strada
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esterna che lambisce le abitazioni impone ad entrambe un vincolo nell’articolazione dei volumi e nella chiusura verso l’esterno; di diverso assetto è invece il fronte opposto verso il giardino, ove l’organismo propone il carattere più libero dell’estensione degli elementi di fabbrica, a includere nel quadro interno parti dello spazio esterno e visuali sul paesaggio. Ancora una volta il laterizio, materiale dominante dell’involucro esterno e degli elementi di corredo, lega in un registro unitario volumi elementari di varia dimensione, associati per semplice affiancamento. La continuità di sviluppo dell’insieme viene confermata nella organizzazione fluida degli spazi interni anche attraverso l’uniforme trattamento delle superfici verticali ad intonaco bianco. È dunque in atto un processo di rarefazione delle componenti del progetto, con un’attenzione quasi ossessiva all’individuazione dei principi regolatori della forma e dello spazio. L’incarico per il Padiglione tedesco all’Esposizione Internazionale di Barcellona (1929) e quello contemporaneo ricevuto dai Tugendhat per la villa di famiglia a Brno, sono l’occasione per approfondire questa ricerca di perfezione e astrazione dalla realtà contingente4. Per Mies, animato chiaramente da propositi dimostrativi, il tema dell’abitare non ammette la consueta corrispondenza tra organizzazione spaziale e funzioni. L’idea di spazio architettonico si esprime nella continuità percettiva degli ambienti, nel rendere diretto il passaggio da una cellula spaziale all’altra, nel fissare elementi immateriali di transizione tra interno ed esterno. Ciò implica la necessità di ricorrere a un sistema strutturale autonomo e distinto dagli elementi che direzionano lo sviluppo interno, di controllare il dettaglio costruttivo e il carattere materico e cromatico delle parti, di valutare meticolosamente l’incidenza delle fonti luminose. Se il Padiglione di Barcellona esprime senza riserve l’idea del continuum spaziale, vista la finalità prettamente dimostrativa dell’intervento, la villa Tugendhat concettualmente ne costituisce una trasposizione su un piano meno teorico dovendo rispondere a imprescindibili esigenze di vivibilità. L’accentuato dislivello su cui si imposta l’edificio ne determina la ripartizione verticale su tre livelli, tra loro differenziati nel carattere spaziale e funzionale. Il piano più basso, configurato come podio della volumetria d’insieme, accoglie gli ambienti di servizio; seguono in ordine di altezza il piano destinato alla zona giorno ed il piano delle camere. Quest’ultimo, corrispondente con il livello della strada che a monte lambisce l’edificio, viene suddiviso in due blocchi, rispettivamente destinati alla zona notte padronale e al settore comprendente l’abitazione del custode e il garage; i due blocchi ritrovano unità sul piano d’imposta, costituito da un’ampia terrazza, e nel comune solaio di copertura, ma allo stesso tempo, attraverso il varco che li divide, lasciano libera la visuale dalla strada sul più basso piano della città. Pur evidenziando la continuità distributiva verticale per mezzo di elementi di risalita formalizzati con chiaro valore segnico, i tre livelli dell’edificio risultano risolti autonoma4 Il tema compositivo è sviluppato anche nella realizzazione della «Villa modello» alla Bauausstelung di Berlino del 1931.
Fig. 17 – Mies Van der Rohe, Casa di campagna in cemento armato, progetto, 1923. Prospettiva. Figg. 18, 19 – Mies Van der Rohe, Casa di campagna in mattoni, progetto, 1924. Schema di impianto; prospettiva d’insieme. Figg. 20, 21 – Mies Van der Rohe, villa Wolf, Guben, 1925-27. Pianta del piano terra; veduta dalla corteterrazza. Fig. 22 – Mies Van der Rohe, villa Esters, Krefeld, 1927-30. Pianta del piano terra. Fig. 23 – Mies Van der Rohe, villa Lange, Krefeld, 1927-30. Pianta del piano terra.
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Figg. 24, 25 – Mies Van der Rohe, padiglione tedesco all’Esposizione Internazionale di Barcellona, 1929. Pianta; veduta dal margine della vasca. Figg. 26, 27 – Mies Van der Rohe, villa Tugendhat, Brno, 1929. Il fronte a valle; piante del piano intermedio (zona giorno) e del piano più alto (zona notte) al livello della strada.
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mente. Il piano intermedio destinato alla zona giorno, affrancato dal rispetto di esigenze funzionali limitative, è senza dubbio il più emblematico e rappresentativo della ricerca in atto sul piano della continuità spaziale. L’articolazione in tre settori, zona pranzo, soggiorno con il giardino d’inverno e biblioteca, è affidata a essenziali quanto calibrati divisori verticali, utili a direzionare e circoscrivere distinte unità spaziali senza determinare tra esse una separazione netta. A questo effetto contribuisce anche l’esile struttura portante in profilati di acciaio rivestiti in lamiera cromata, la cui regolare interpunzione dello spazio aggiunge all’insieme senso d’ordine. Questo carattere di fluida consequenzialità distributiva viene accresciuto dalle fughe prospettiche che si aprono nelle diverse direzioni, e oltretutto verso il paesaggio urbano, la cui vista viene filtrata da un esteso diaframma vetrato. Lo spazio ideale di Mies tende ad assumere come limite gli orizzontamenti, non gli elementi di chiusura verticale o i divisori interni. Viene dunque esclusa sul piano compositivo ogni forma di complicazione spaziale che assecondi esigenze funzionali e strutturali, o che tenda a scomporre l’insieme in parti autonome e gerarchizzate. Di segno decisamente opposto è la ricerca architettonica di Adolf Loos, impegnato sin dai primi anni del secolo a tradurre in opera il proprio programma teorico basato su una visione più domestica e meno astratta dell’abitare, orientata a riconoscere una precisa identità tra esigenze dell’individuo e spazio vitale, al di là di ogni tentazione di sublimazione artistica del risultato. Nel realizzare a Praga la villa Müller (1928-30), non lontano da Brno e in contemporanea con la villa Tugendhat, Loos opera una sintesi dei principi guida dello spazio domestico, anteponendo il carattere di utilità a qualunque istanza estetica. Lo spazio vitale è calibrato dimensionalmente e funzionalmente nella previsione delle reali necessità e comportamenti del nucleo familiare, sviluppandosi in orizzontale e verticale in modo vario ma sempre corrispondente all’azione prevista. I presupposti teorici del Raumplan guidano la composizione delle cellule spaziali in complesse concatenazioni e al di là di una logica riduzione al piano. In sezione verticale l’edificio mostra la dinamica di uno sviluppo non stratificato ma articolato in un sapiente gioco di incastri. La distribuzione degli ambienti segue il filo di un percorso che si dipana dall’esterno all’interno attraversando ambienti variati per ampiezza e altezza, colore e luminosità. Nella risalita ai piani superiori si creano inattese visuali sugli ambienti di relazione del piano terra. In opposizione alle tematiche più sentite dagli architetti viennesi, Loos impone a quest’opera, come del resto aveva fatto a precedenti residenze unifamiliari, il segno distintivo di una modernità affrancata da ogni attributo formale e stilistico. Esterno ed interno rappresentano due mondi divisi, rispettivamente relazionabili alla dimensione pubblica e privata dell’edificio. L’intonaco bianco, che senza variazioni caratterizza l’involucro, accentua il senso di purezza ed essenzialità del volume. All’interno i materiali di rivestimento sono scelti con lo stesso rigore metodologico evitando falsificazioni e fini d’ornamento, con un assortimento tale da non disattendere le ambizioni di un cliente di stato sociale elevato. La selezione per tipo e lavorazione tende a qualificare distintamente gli ambienti in rapporto alla loro destinazione d’uso. La ricerca di Loos ammette sul piano teorico spunti fortemente polemici, nell’intento di smentire l’identità di architettura come espressione artistica. I principi ispiratori sperimentati in più occasioni nel progetto della residenza di prestigio, nonostante il rigore dell’enunciazione, non tarderanno a esercitare la propria influenza sulla nuova generazione degli architetti del movimento moderno. Nella conferenza tenuta a Buenos Aires nell’autunno del 1929, Le Corbusier chiarisce alcune modalità del suo operare in architettura, assumendo come termini di riferimento e confronto quattro suoi progetti, databili a partire dal 1923. Sono tutti progetti di ville, ritenute significati-
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Figg. 28, 29, 30 – Adolf Loos, villa Müller, Praga, 1928-30. Piante dei quattro livelli; sezione longitudinale; veduta dalla strada.
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ve per descrivere il proprio percorso di ricerca sul tema della residenza privata, quanto anche per commentare il personale approccio concettuale e psicologico nel territorio più generale della progettazione. In una nota pagina del primo volume dell’Oevre Complète (1910-29) gli schizzi di questi quattro «generi» della composizione hanno il commento di brevi note manoscritte, a comporre una sintesi stringente del modo di concepire e leggere l’architettura5. In particolare il quarto modello, riferito in didascalia alla villa Savoye (1928-30) a Poissy, viene a riassumere i metodi compositivi dei precedenti modelli, come risultato di una elaborazione complessa che rispetta le esigenze funzionali dell’interno senza impedire all’esterno l’espressione di una «volontà architettonica». In effetti, in quest’opera da più parti giudicata conclusiva della fase purista della ricerca corbusiana, si riconoscono in modo assiomatico i principi di un programma teso a scardinare alcuni fondamenti della tradizione storica del costruire. Sono principi non valutabili soltanto sul piano del progresso tecnico; valgono come rivelazioni di carattere universale, come nuove basi su cui fondare la nuova architettura. La villa Stein-de Monzie (1926-27) a Garches e la villa Savoye a Poissy, rispettivamente secondo e quarto dei modelli proposti dall’autore, risultano definite nei limiti volumetrici di solidi geometricamente puri; l’organizzazione interna, sia spaziale che funzionale, rispetta il margine di contenimento imposto dall’involucro esterno, sul quale con un controllo geometrico implacabile si evidenziano i tagli delle aperture. L’idea di una «composizione cubica», di un «prisma puro», di soluzione «molto difficile» secondo il commento di Le Corbusier, tuttavia non produce l’irrigidimento dell’assetto di pianta in una configurazione statica e compatta. Nel teorico volume di riferimento si inscrivono spazi interni ed esterni, limitati da tramezzi non condizionati nella forma e nell’orientamento dalla griglia strutturale. Il volume stereometrico e la griglia strutturale, così come emerge dalla lettura di Colin Rowe, disciplinano la frammentazione «periferica»6. La sottrazione di volumi al blocco primario avviene dunque senza smentire l’unità concettuale d’insieme e senza intaccare la perfezione di forma. L’equilibrio compositivo si realizza nella ricerca di un rapporto calcolato tra i vuoti che affiorano in superficie e gli elementi di margine che ne rilegano e ne ricompongono il registro. Il principio della pianta libera, come anche il suo conseguente della facciata libera, trova nel tema della villa lecorbusiana degli anni Venti un’applicazione sistematica e di chiaro intento dimostrativo. L’indipendenza dell’ossatura portante dalle murature, sia di divisione degli ambienti che di tamponamento esterno, produce varietà e fluidità spaziale. La cellula strutturale non corrisponde e non condiziona la cellula spaziale, la sua serialità non produce nuclei ambientali chiusi o autonomi, resta indifferente alla definizione dell’assetto distributivo. Il pilastro a sezione circolare, unico elemento a vista del telaio strutturale in ferro-cemento, assume il carattere di elemento distanziatore degli orizzontamenti. Soprattutto là dove le travi risultano occultate nello spessore di questi ultimi, viene liberata efficacemente la continuità di sviluppo dell’intradosso dei solai di copertura, con l’effetto di non materializzare elementi di guida e di condizionamento percettivo della compartimentazione spaziale. In linea con la tesi di Ackerman, secondo cui nell’opera di Le Corbusier la villa assume programmaticamente connotazioni ideologiche, non è fuor di luogo insistere sull’interesse manifestato dallo stesso Le Corbusier per l’affermazione del valore ideale di questo ogOeuvre Complète 1910-1929, a cura di W. Boesiger, I vol., Girsberger, Zurigo 1930. Interessanti considerazioni a questo proposito sono in C. Rowe, Neo-“Classicismo” e architettura moderna I, ed. it., in C. Rowe, La matematica della villa ideale e altri scritti, (a cura di P. Berdini), Zanichelli Editore, Bologna 1990, pp. 110-128. La definizione «composizione periferica» viene riportata da Rowe come citazione da Theo Van Doesburg. 5 6
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Figg. 31, 32 – Le Corbusier, villa Stein-de Monzie, Garches, 1926-27. Il fronte d’ingresso; piante dei quattro livelli. Figg. 33, 34 – Le Corbusier, villa Savoye, Poissy, 1928-30. Piante del piano terra, del piano primo e del piano di copertura adibito a solarium; veduta da nord-ovest.
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getto architettonico. Al di là delle connotazioni funzionali e costruttive, il tema della villa, a Garches come a Poissy, sollecita riflessioni sul rapporto tra passato e presente, diviene occasione per dimostrare la persistenza di principi assoluti e senza tempo, per sperimentare nel solco della tradizione le nuove interpretazioni del moderno. Assumono interesse, a questo proposito, letture orientate a confrontare, e non solo sul piano ideologico, alcune ville di Le Corbusier e di Palladio, unite dal comune carattere di unità nella composizione delle parti, come anche di autonomia rispetto al contesto ambientale e di controllo della misura. Soprattutto nella villa di Garches, in linea con alcuni riferimenti della trattatistica rinascimentale, Le Corbusier mette in opera i presupposti di una teoria delle proporzioni, più tardi sistematizzata nel Modulor (1945). Precisi rapporti e rispondenze dimensionali controllano il disegno dei fronti esterni e l’impianto strutturale, quasi a voler accreditare la perfezione del risultato attraverso l’esattezza di queste relazioni. È chiaro comunque che l’interesse per la definizione degli elementi di controllo della composizione non esclude allo stesso tempo la libertà di sviluppo delle parti accessorie; come già visto, il rispetto della regola imposto all’impianto della struttura portante non limita, anzi stimola per contrasto, la fluidità e varietà di configurazione degli spazi interni. Sul piano visivo il rapporto dell’edificio con il luogo è di aperto contrasto; la villa corbusiana degli anni Venti, dunque, non prevede elementi di mediazione con l’intorno mantenendo intatta la propria distinzione di oggetto autonomo, frutto di artificio. Come indicazione programmatica, nella definizione dell’involucro esterno prevale l’astratto e immateriale carattere dell’intonaco bianco e degli esili telai metallici degli infissi. La scelta degli elementi di fabbrica chiarisce l’intenzione di sostituire metodi produttivi e materiali industriali a quelli della tradizione costruttiva locale. Le sperimentazioni del movimento moderno europeo nel corso degli anni Venti non sembrano influenzare l’opera di Wright; la sua ricerca continua a svilupparsi in completa autonomia, a distanza dalle problematiche indotte dai nuovi e impellenti bisogni sociali, così come avviene nel vecchio continente nel quadro di complessi mutamenti politici ed economici. Il primo contatto di Wright con l’Europa era avvenuto alla fine del primo decennio, in un periodo di riflessione creativa ed esistenziale, necessario per operare una cesura drastica ma vivificante con il proprio passato. Al rientro in America l’esperienza progettuale delle Prairie Houses, indiscutibile per qualità e quantità di risultati, può considerarsi archiviata. La domanda espressa da una società sempre più estesa su basi di medio reddito fa ora riferimento a un mercato edilizio orientato verso la produzione industriale, in linea con l’esigenza di economicità del prodotto. Il nuovo programma di Wright per la residenza non può non registrare questi stimoli, pur restando legata alle ambizioni di una committenza elitaria. Le ville californiane realizzate agli inizi degli anni Venti hanno come denominatore comune la ricerca di nuovi sistemi costruttivi, basati soprattutto sulla prefabbricazione degli elementi e sull’uso di materiali più economici e alternativi a quelli della tradizione locale. L’obbiettivo tecnico ed economico non limita l’interesse per uno sviluppo organico del progetto, dove anche l’ornamentazione può dirsi risolta senza far ricorso a raffinati e costosi procedimenti artigianali. La continuità di svolgimento delle superfici, precedentemente accentuata dall’estensione orizzontale delle parti, in questa nuova concezione viene a coinvolgere i diversi settori, dagli elementi portanti ai divisori, dalle murature ad alcuni diaframmi orizzontali. L’elemento cellulare in cemento alla base del procedimento costruttivo, tuttavia, non manifesta la stessa flessibilità del mattone nell’adattamento alle diverse situazioni spaziali e morfologiche dell’opera; l’effetto massivo d’insieme, la prevalenza assoluta del pieno sul vuoto, la plastica dell’ornamento, sono caratteri che rimandano all’architettura precolombiana, qui assunta come motivo portante dell’ispirazione quasi al limite della finzione scenica.
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Le quattro textile block houses californiane, la Millard House (1923), nota come La Miniatura, a Pasadena; la Storer House (1923) e la Freeman House (1924) a Hollywood; l’ultima e più monumentale Ennis House (1924) a Los Feliz, sono campo di sperimentazione delle potenzialità del cemento armato in alternativa all’opera muraria in mattoni. Il trattamento a vista di questo materiale, sia per le superfici esterne che per quelle interne, è diretto a evidenziare le valenze formali dell’opera più che a nobilitare il ruolo della componente costruttiva. Si tratta di un’esperienza che non avrà seguito nel corso del decennio successivo, se non per mano di alcuni collaboratori, utile a segnare la distanza di un percorso di ricerca originale rispetto alle proposte correnti dell’industria edilizia nel campo della residenza unifamiliare; proposte generalmente orientate a cogliere su vasta scala i vantaggi dei metodi di prefabbricazione senza particolare interesse per la sperimentazione di nuovi linguaggi espressivi. Le prestigiose ville di Wright presuppongono spazi aperti, di forte caratterizzazione naturale, libere dai vincoli degli insediamenti densi. Nel quadro di una visione essenzialmente antiurbana la residenza rappresenta un’entità isolata esterna agli agglomerati dove si concentrano le funzioni direzionali e commerciali. I problemi che affliggono la città, i modi del suo sviluppo, per Wright trovano risposte su un piano prettamente ideale, forse utopistico, secondo un approccio progettuale di carattere paesaggistico più che pianificatorio. L’innovazione nel campo delle comunicazioni in effetti fornisce validi motivi per questo isolamento della funzione residenziale; l’uso generalizzato dell’auto, del telefono, della radio, accreditano lo sviluppo di una civiltà diffusa, denominata Usonia, in un continuum territoriale a crescita spontanea, non legata a schemi prefissati7. Rifiutando la città in quanto ritenuta luogo di alienazione, si giunge a motivare la dissociazione degli individui come condizione per integrare l’opera dell’uomo con l’ambiente naturale. In un certo senso, come sostenuto da Leonardo Benevolo, Wright ipotizza il contesto migliore e più adeguato alla sua architettura, programmaticamente affrancata da vincoli e libera di svilupparsi in sintonia con la natura. La casa usoniana, al di là del suo valore ideale, offre indicazioni programmatiche in merito alla residenza individuale in rapporto alle contingenze economiche del momento. Si ipotizza che la sua costruzione abbia costo contenuto avvalendosi delle innovazioni della produzione industriale, di componenti di largo consumo e di metodi speditivi, oltretutto con la possibilità da parte dell’utente d’intervenire nel processo di crescita. Le novità espresse nel campo del comfort domestico e sul piano distributivo, soprattutto nella fusione dei locali della zona giorno in un ambiente unico, saranno evidenti nelle numerose abitazioni suburbane che Wright realizzerà fino agli anni Cinquanta, diventando distintive di un carattere della residenza americana riconosciuto come «democratico». L’organismo edilizio tipo, sul piano compositivo, subisce inevitabilmente il controllo 7 Il termine Usonia viene espresso per la prima volta da Wright nel 1928 come acronimo di United States of North America. I principi della casa usoniana hanno avuto la prima enunciazione nel 1932 e la definitiva sistematizzazione nel 1936.
Figg. 35, 36 – Frank Lloyd Wright, Millard House (La Miniatura), Pasadena, California, 1923. Piante; veduta parziale. Fig. 37 – Frank Lloyd Wright, Ennis House, Los Feliz, California, 1924. La muratura in textile blocks. Figg. 38, 39 – Frank Lloyd Wright, Jacobs House, Madison, Wisconsin, 1936. Pianta; veduta del fronte sulla corte.
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della semplificazione formale e della misura, viene depurato da settori di fabbrica qualificanti come il basamento, l’attico, il portico, il nucleo emergente del camino. Permane il carattere di aderenza al suolo, anche in virtù dello sviluppo su di un solo livello, in continuità diretta con il piano di campagna, così come viene ribadita la diffusa tendenza allo stiramento orizzontale, particolarmente evidente nel forte aggetto di alcuni elementi di copertura della Jacobs House (1936), a Madison nel Wisconsin, come anche per gli estesi sporti di gronda della Zimmerman House (1950) a Manchester nel New Hampshire, ancora a citazione del carattere Prairie Style. Per una strana concomitanza temporale, Wright giunge a sistematizzare i principi della casa usoniana nel momento in cui realizza la residenza più esuberante ed emblematica della sua immensa produzione. L’ideale di un’architettura capace di identificarsi con il suo ambiente naturale, di sorgere dal suolo come organismo vivente, si materializza a Bear Run (Pennsylvania) nella Kaufmann House (1936), ai più nota con l’appellativo di Fallingwater. Il motivo dominante nella trattazione teorica è da tempo l’idea di «architettura organica», di forme e spazi in accordo con i principi della natura. Già da tempo la ricerca di equilibrio tra natura e artificio aveva avuto modo di manifestarsi nella costruzione di una residenza isolata, la casa di campagna per la propria famiglia (1911), nel contesto ambientale d’eccezione di Spring Green, nel Wisconsin. Il nome Taliesin ricorda l’origine scozzese dell’architetto e in futuro sarà riproposto per una nuova dimora in altro e lontano luogo. Nonostante la loro distanza temporale, Taliesin e Fallingwater manifestano caratteri comuni, particolarmente evidenti per quanto riguarda l’interesse per il principio di radicamento al suolo, per l’interpretazione della topografia del sito, per l’uso di materiali affioranti. Gli elementi di fabbrica non sono considerati come strumenti di modificazione dell’ambiente naturale ma ne costituiscono l’estensione fisiologica. La pietra delle rocce, sbozzata ruvidamente, riveste le murature interne ed esterne, segnala la funzione portante dell’elevato secondo la metafora organica del fusto rugoso dell’albero. Se in Taliesin sono le cornici di copertura in cemento armato che si protendono verso l’esterno in forte aggetto, con riferimento d’obbligo ai rami, in Fallingwater più arditamente sono lanciati nello spazio volumi pieni e terrazze a vincere il principio di gravità. Il tema dell’aggetto si presenta per Wright in forma quasi ossessiva acquistando valore determinante nell’enunciazione del principio organico. Soprattutto nella villa di Bear Run raggiunge il limite di una sfida, oltretutto per il lavoro dei suoi collaboratori, e si propone come superamento di schemi correnti e di certezze di carattere tecnico. Il cemento armato è dunque il materiale che permette di interpretare in architettura il principio naturale della libera crescita di un organismo, è lo strumento invisibile della modellazione; insieme al vetro rappresenta per Wright un parametro irrinunciabile d’innovazione, senza per questo disattendere l’apprezzamento per le qualità dei materiali naturali e per metodi tradizionali di lavorazione. Nel caso specifico la disponibilità economica di un committente facoltoso è indubbiamente stimolante per una creazione personale e alquanto libera da condizionamenti, per un’opera che aspira ad essere manifesto ideologico. Fallingwater è pensata per interpretare una particolare condizione esistenziale, sia pure per il solo week-end, in alternativa alle costrizioni della città e ai suoi rituali sociali. L’ideazione, dunque, fa leva su un modello di vita isolata e contemplativa, una sorta di compensazione dalle tensioni quotidiane del lavoro, raggiungibile con l’immersione totale nello spirito autenticamente naturale del luogo. Verso questo ambiente incontaminato si proietta la vista dagli ambienti, seguendo un itinerario percettivo con origine nel margine a monte della villa, dove è situato l’ingresso, ombroso e protetto, per addentrarsi su più livelli nella direzione della cascata, in una successione di spazi variati nelle dimensioni e nel carattere. Il rispetto quasi sacrale di Wright
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Figg. 40, 41, 42 – Frank Lloyd Wright, Kaufmann House, (Fallingwater), Bear Run, Pennsylvania, 1936. Pianta del livello d’ingresso (zona giorno) e del piano soprastante (zona notte); sezione trasversale; veduta generale. Fig. 43 – Frank Lloyd Wright, Taliesin East, Spring Green, Wisconsin, 1911. Pianta del piano terra.
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Fig. 46 Figg. 44, 45 – Rudolf Schindler, Schindler-Chace House, West Hollywood, California, 1921-22. Pianta; veduta del patio inglobato tra due ali della casa. Fig. 46 – Rudolf Schindler, Buck House, Los Angeles, California, 1934. Pianta del piano terra.
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per la natura dei materiali coinvolge le superfici interne, in continuità di sviluppo con l’involucro esterno, senza tentazioni per preziosismi di facciata o qualità formali accessorie. Il carattere sperimentale dell’esperienza wrightiana, in linea con l’autonomia di pensiero che ne ispira l’azione, non consente facilmente di ridurre i risultati a modelli o costanti tipologiche. I valori individuati hanno credito soprattutto nell’ambito di una committenza individuale agiata e cosciente del ruolo di liberalizzazione che può avere l’architettura allorché diviene interprete di esigenze di rinnovamento più che di valori convenzionali. È un punto di vista che talvolta comporta scelte radicali, in merito agli strumenti disciplinari del progettista come anche per le abitudini domestiche dei destinatari dell’opera. Nel quadro della visione organica dello spazio domestico, è su un piano di aperta opposizione ai modelli abitativi diffusi nei primi anni Venti che si inserisce l’intervento di Rudolf Schindler nel dar vita a un organismo programmaticamente anomalo. Con mezzi limitati il giovane ex-collaboratore di Wright progetta a West Hollywood, presso Los Angeles, una residenza per due coppie di coniugi, la propria e quella di un amico imprenditore, entrambe senza figli e animate dalla volontà di stravolgere le convenzioni d’uso dello spazio domestico. La Schindler-Chace House (1921-22) è pensata per un esperimento di vita associata, con una precisa perimetrazione degli ambiti comuni e individuali. La villa è ad un solo livello, distesa sul piano di campagna in tre bracci incidenti nel nucleo della cucina, ambiente in comune e luogo privilegiato di interazione tra le due coppie. Per il resto lo sviluppo di pianta è fondato sull’abolizione di corrispondenze tra spazi e funzioni, giungendo alla definizione open space di quattro distinti ambienti corrispondenti con l’ambito di azione strettamente individuale dei fruitori. Il rifiuto della compartimentazione tipica della casa vittoriana costituisce dunque una dichiarazione di principio e si basa, in questo caso, su una concezione disinibita delle relazioni famigliari. È funzionale a questo risultato l’abolizione dei tradizionali elementi di mediazione e di separazione tra spazi, puntando sulla prevalenza di alcuni diaframmi continui; non sono pertanto riconoscibili, come tali, porte, finestre, setti murari, dal momento che la loro funzione viene esclusa o integrata negli elementi essenziali di chiusura della scatola spaziale. La disposizione ramificata della pianta è funzionale a individuare esternamente ambiti separati di giardino, ognuno dei quali disposto in continuità diretta con ogni cellula; l’apertura dello spazio interno verso questa corte naturale avviene con la totale apertura di un diaframma in legno e vetro ma allo stesso tempo risulta interdetta per la cellula adiacente da una muratura continua, sempre in linea con il principio di rispetto dell’individualità d’azione di ciascun abitante. La radicalità di concezione punta dunque a non interrompere la continuità tra vita all’interno e all’esterno, carattere peraltro favorito dal clima, tanto da portare Schindler a formalizzare nei limiti di un’altana in copertura un proprio rifugio per dormire all’aperto. Forse a causa della particolare visione del carattere domestico che anima l’opera, fino a tempi recenti la critica ne ha trattato distrattamente gli esiti e non ne ha favorito la divulgazione. È comunque il caso di notare che i principi architettonici espressi sul piano distributivo, nonché tecnico, hanno anticipato di alcuni anni idee di più accreditati architetti europei, peraltro senza aver esercitato su di essi un’influenza significativa. Si può fare riferimento, in particolare, alle proposte di Mies van der Rohe, a partire dai noti progetti di Casa di campagna in cemento e in mattoni, due pietre miliari per il superamento del modello occidentale di villa a impianto compatto. Per la ricerca del carattere di permeabilità tra interno ed esterno, di fluidità spaziale, di organizzazione aperta delle parti sul piano, la Schindler-Chace House costituisce nel percorso creativo di Schindler il punto di partenza e il sicuro riferimento per successive realizzazioni; tra queste può meritare una citazione la Buck House (1934), a Los Angeles.
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Alla metà degli anni Trenta la ricerca di Mies sul rapporto tra spazio interno ed esterno approda a una concezione meno aperta e più legata nella composizione delle parti. Subentrano come motivi d’interesse le qualità organizzative di uno spazio esterno primario, configurato come corte o giardino racchiuso, su cui proiettare i vari ambienti protetti a monte da un ideale diaframma. La svolta operata da Mies tende dunque a escludere dall’ambito privato la percezione dello spazio esterno inteso come spazio pubblico, evidentemente non conciliabile con l’atmosfera pacata dell’interno; allo stesso tempo questa interpretazione è sintomatica del fatto che l’ambiente che accoglie l’edificio non è più il luogo della natura senza confini, ma il lotto urbano di un pur rarefatto centro abitato. Come osservabile nella piccola villa Lemcke (1933), a Berlino, il margine esterno della muratura in mattoni asseconda parzialmente il confine del lotto. Con più evidenza i volumi e le due corti esterne della villa Hubbe (1935) a Magdeburgo, rimasta purtroppo allo stadio di progetto, risultano inglobati in un ampio lotto di forma rettangolare; il recinto viene interrotto da un varco in corrispondenza dell’ingresso, presumibilmente verso la strada, e da un varco più esteso sul fronte opposto nella direzione del giardino esterno. I margini più ristretti dell’abitazione non corrispondono con la recinzione, se non parzialmente, e nel prospettare sulle aree a patio vengono a perdere ogni valore di fisicità per effetto degli ampi diaframmi vetrati. L’enunciato teorico afferma dunque la necessità di una estesa protezione dal versante pubblico come condizione per la totale apertura e trasparenza degli spazi abitabili su corte e giardino. Il dato naturale viene interiorizzato, non escluso, e comunque assoggettato al principio di riduzione all’essenziale dominante negli spazi interni. L’ordine interno, avvalendosi di pochi e misurati segnali, ancora una volta attribuisce ai piani orizzontali la funzione direzionale primaria per lo sviluppo degli spazi. La ricerca teorica di Mies, nei pochi anni che ne precedono il trasferimento in America, si spingerà a verificare le possibilità di coesistenza di più cellule abitative all’interno di uno stesso lotto, chiuso verso l’esterno e iscrivibile nella rete viaria di una qualunque città. I disegni prospettici delle ville miesiane della prima metà degli anni Trenta, per lo più non realizzate8, esprimono, e non solo per necessità di sintesi, l’interesse per l’effetto di astrazione geometrica delle superfici più che per la caratterizzazione materica. Manca del tutto l’intenzione interpretativa dei materiali in chiave naturalistica. Come visto in realizzazioni precedenti, l’uso esteso del mattone a vista risulta soprattutto funzionale a garantire la continuità di sviluppo delle parti e la loro appartenenza all’insieme; all’interno lo stacco cromatico e il raffinato trattamento superficiale di pregiati materiali naturali, distintamente selezionati per alcuni elementi divisori, convergono a determinare il carattere metafisico dello spazio. Il senso tattile della materia, dopo gli anni di rifiuto purista, riaffiora nei primi anni Trenta nell’opera di Le Corbusier. Questa totale inversione di marcia è legata a motivazioni concettuali, non banalmente di gusto, ma anche suggerita da nuove condizioni operative ed economiche. Ricorrono nelle dichiarazioni del momento considerazioni contraddittorie sui risultati della produzione industriale, giudicati scadenti e omologanti nell’attuazione di processi incontrollati. In relazione al tema della villa, l’idea di edificio-macchina sembra subire un’involuzione a fronte delle possibilità creative suggerite da metodi costruttivi 8 Tra i progetti non realizzati, di cui ci rimangono interessanti schizzi prospettici, ci sono quelli per la casa Gericke (1932 ), frutto della partecipazione a una «idea competition» in Berlino-Wannsee, per una Casa di montagna (1934) probabilmente presso Bolzano, per una Casa di vetro sulla collina (1934). Le ripercussioni della depressione americana si riflettono sull’economia europea determinando una forte diminuzione del potere d’acquisto anche per la classe benestante, dalla quale dipende potenzialmente la realizzazione di un tipo edilizio prestigioso come la villa.
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Fig. 47 – Le Corbusier, villa Errazuriz, progetto, 1930. Pianta del piano terra e prospetto. Fig. 48 – Le Corbusier, villa de Mandrot, Le Pradet, Tolone, 1929-32. Pianta al livello della terrazza. Fig. 49 – Le Corbusier, villa a Les Mathes, Bordeaux, 1935. Pianta dei due piani e prospetto. Fig. 50 – Le Corbusier, villa Félix, (Casa per week-end), presso Parigi, 1935. Pianta e prospetto.
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tradizionali e finanche di tecnica primitiva. In rottura con il dogmatismo del periodo purista, Le Corbusier individua dunque i nuovi parametri dell’espressione architettonica nelle qualità del sistema costruttivo, appropriato al luogo e alle capacità degli operatori, nel valore intrinseco dei materiali, naturali e artificiali. Il fascino che subisce per l’architettura del Mediterraneo, per la spontaneità delle sue manifestazioni, indirizza il nuovo interesse per un linguaggio espressivo meno distaccato e più decisamente popolare. Nel progetto della villa Errazuriz (1930), prevista e non realizzata in una località cilena di forte valenza naturalistica, come anche nella villa de Mandrot (1929-32), realizzata a Le Pradet su un’altura dominante la piana di Tolone, emerge l’attenzione per il rapporto con il paesaggio, in entrambi i casi particolarmente suggestivo e coinvolgente. Nella villa cilena la copertura a tetto conferma con il suo andamento irregolare il carattere movimentato dei crinali montuosi, disattendendo il principio dominante della copertura piana. Nella villa presso Tolone la disposizione di volumi elementari si adegua al rilievo del sito, trovando unità ai margini di un’ampia terrazza pensata come osservatorio panoramico. La realizzazione dei due edifici è delegata a maestranze locali, a proprio agio nella pratica di sistemi costruttivi tradizionali e comunque controllabili secondo metodiche artigianali. È frutto della visione pragmatica del progettista l’adeguare il tema alla disponibilità delle risorse, materiali e umane, senza per questo sminuirne il valore sul piano compositivo. I materiali prevalenti, pietra grezza per le strutture verticali e le pavimentazioni, legno per gli impalcati e per le strutture di copertura, appartengono a insiemi funzionali e costruttivi distinti; per il sistema pesante della costruzione, per quello più aereo di copertura, per gli elementi accessori, si individuano fasi distinte e coordinate di intervento. Un indirizzo che troverà applicazione successivamente anche nella villa Le Sextant a Les Mathes (1935) vicino a Bordeaux, dove i sistemi costruttivi tradizionali del corpo di fabbrica sono integrati nelle componenti più leggere (serramenti, arredi fissi, pannellature di divisione) da manufatti di produzione industriale, modulati su precisi standard dimensionali. Il passaggio dalla muratura in pietra sbozzata alla struttura in cemento armato a vista conferma la determinazione con cui Le Corbusier tende a individuare l’uso del materiale e del relativo sistema costruttivo come mezzo qualificante per l’espressione architettonica. Nella villa Félix (1935), più nota come Casa per weekend, situata in un sobborgo di Parigi, i materiali messi in opera manifestano le proprie qualità intrinseche, anche nei reciproci accostamenti. La copertura, a volte ribassate ed estradossate in cemento armato, e i setti murari in pietrame a vista, denunciano la propria natura e funzione, proponendosi come costanti nella formazione modulare degli spazi e dei volumi. La composizione scaturisce dall’aggregazione per affiancamento laterale di tre moduli strutturali, di diversa lunghezza e uguale luce, così che il relativo profilo di sezione si traduce direttamente nel disegno di prospetto; l’organismo, dunque, espone apertamente la sua struttura, libera da attribuzioni formali accessorie. L’estensione del dato naturale all’intero organismo edilizio si esprime dunque nella manifestazione del materiale lapideo come anche del cemento a vista (beton brut) dell’intradosso delle volte, trova conferma nel rustico manto di zolle erbose della copertura. La ricerca di motivi di contrapposizione e di coesistenza tra forme naturali e artificiali ricorre in questi anni come motivo ispiratore del progetto di una residenza particolare quale la villa. Si tratta di una ricerca che punta al recupero di caratteri di cultura materiale, di elementi della tradizione costruttiva locale, senza necessariamente disattendere lo spirito di modernità. Alla base dell’ideazione della villa Mairea (1937) a Noormarkku in Finlandia, Alvar Aalto pone una riflessione sull’origine e sviluppo di una forma rurale originaria del luogo, che dalla dimensione primitiva di rifugio si evolve nel tempo generando un edificio complesso e articolato nella concatenazione delle parti. Programmaticamente
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Figg. 51, 52 – Alvar Aalto, villa Mairea, Noormarkku, 1937. Pianta dei due livelli; il versante sulla corte. Fig. 53 – Eliel Saarinen, residenza del direttore, Cranbrook Academy of Art, Bloomfield Hills, Michigan, 1928-29. Planimetria generale.
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la villa Mairea interpreta questo carattere di spontanea e progressiva crescita di un organismo, rifiutando il presupposto di una concezione unitaria, sul piano formale come anche su quello materico e costruttivo. È dunque più opportuno identificare l’insieme come una combinazione di settori e di elementi aggregati per addizioni successive, ben caratterizzati distintamente. Come nelle fattorie della Carelia è lo spazio baricentrico della corte che controlla e ripartisce le parti in gioco, proponendosi come ambito di relazione, di riferimento visivo e funzionale. Se tipologicamente il modello della villa rimanda al diffuso impianto a L, dal punto di vista compositivo lo sviluppo appare incontrollato, per l’autonomia di cui godono i vari settori, per le variazioni di rapporto tra gli elementi, per la presenza di oggetti sorprendenti. La villa, come asserisce Juhani Pallasmaa, è un «collage di immagini»9; evoca aspetti della tradizione rurale finlandese ma allo stesso tempo mostra il suo debito verso la cultura d’avanguardia europea, riflette l’interesse dell’autore per i caratteri dell’architettura mediterranea così come per quella giapponese. Esterno e interno godono dello stesso trattamento, a conferma del principio, enunciato da Aalto, di reciproca trasformazione dello spazio; convivono elementi di produzione industriale e di fattura artigianale, caratteri rustici e raffinati, motivi popolari e riferimenti dotti. L’insieme è dunque espressione di un approccio progettuale aperto e consequenziale, non irrigidito nella dimostrazione teorica di un’idea; è allo stesso tempo campo di sperimentazione di linguaggi espressivi, di rapporti spaziali, di modalità tecniche. L’attenzione di Aalto per i riflessi dell’architettura nella psicologia degli utenti, in questo caso intimamente legati all’architetto, si riflette nel carattere degli ambienti, interpreti di uno stile di vita non convenzionale ma allo stesso tempo libero da forzature ideologiche. Nel determinare spazi e percorsi, può dirsi superato il ruolo primario della funzione, a fronte delle potenzialità d’indirizzo e delle sollecitazioni dell’ambiente; da parte della natura in primo luogo, nell’evitare il condizionamento di gerarchie e schematizzazioni, nel permeare gli spazi riflettendosi nei materiali, nella luce, nelle forme libere e sinuose. Si tratta dunque di un intervento che, pur maturato in un ambito insolito per Aalto, rispecchia a raggio ampio la visione dell’architettura come espressione di valori umani e di forze naturali. Nei primi anni Trenta il rapporto tra la cultura architettonica europea e quella americana tende a intensificarsi. Come avvenuto in Europa alla fine del primo decennio sull’onda dell’influenza wrightiana, è ora l’America a ricevere nuovi e salutari stimoli dalle idee e dalle opere di architetti d’oltreoceano. Ciò avviene in un clima culturale spento e condizionato dalle leggi di mercato. I principi espressi dall’architetto di Taliesin nel breve e felice periodo delle Prairie Houses, se non travisati in chiave stilistica, cedono ora il passo alle regole di un accademismo commerciale che si esprime secondo rassicuranti e desueti modelli formali d’importazione. I personaggi di spicco dell’avanguardia europea invitati a diffondere il proprio insegnamento nei luoghi di cultura del nuovo continente, peraltro, lasciano alle spalle una realtà economica precaria e, in molti casi, limitativa per la libertà di pensiero. Ad alcuni immigrati eccellenti viene accreditato il ruolo d’interpreti e comunicatori di una nuova cultura architettonica, prima che il sistema sociale ed economico ne riconosca quello di progettisti. Un antesignano di questa condizione professionale è Eliel Saarinen: ha già lasciato la Finlandia dal 1923 quando, tra il ’28 e ’29, realizza una residenza di prestigio nel qua-
9 J. Pallasmaa, Architettura della foresta, in V. Bonometto, M.L. Ruggiero (a cura), Finestre sul paesaggio, Gangemi, Roma 2006, p. 32.
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dro del più ampio piano edilizio della Cranbrook Academy of Art, a Bloomfield Hills nel Michigan, ove è chiamato come primo referente di un programma didattico ispirato ai metodi del Bauhaus. In linea con questi presupposti, l’opera vuole essere l’espressione materiale di una visione integrata del progetto. Le competenze di alcuni famigliari, a vario titolo impegnati nell’Accademia, contribuiscono a raggiungere un risultato che programmaticamente si realizza secondo un’ottica Arts and Crafts, dalle componenti edilizie al dettaglio degli elementi di arredo. Il procedimento asseconda dunque l’idea di una opera di «arte totale», in cui anche motivi ispiratori diversi e qualità espressive di varia derivazione raggiungono equilibrio e sintesi. Questa attenzione per il controllo diretto della realizzazione, secondo un procedimento sostanzialmente artigianale, aveva già guidato Saarinen nel progetto della villa di famiglia (1902) a Hvitträsk, presso Helsinki, nel quadro di un aggregato edilizio comprendente le residenze di Armas Lindgren e Herman Gesellius, suoi stretti collaboratori. Era vivo in quel momento l’intento evocativo di una cultura nazionale espressa in chiave romantica, nel caso specifico ispirato nelle forme e nella scelta dei materiali, principalmente legno e granito, all’opera di Henry Hobson Richardson. Molti anni dopo, nella residenza di Cranbrook, l’apparente spontaneità del riferimento alla cultura popolare finnica viene a coniugarsi con la più controllata impronta del classicismo nordeuropeo. Ciò porta a formulare un impianto tipologicamente a C, strutturato su direzioni cartesiane, con lunghi traguardi interni e intersezioni chiare di percorso. L’esterno assume espressione misurata, ma non austera, attenta all’ambientazione senza essere dominata dal carattere naturalistico del luogo. Indicazioni in questo senso sono leggibili nella tessitura delle cortine murarie in mattoni, di ispirazione berlaghiana, nel disegno del giardino secondo geometrie art-deco. Non si tratta ancora del tentativo di finalizzare il livello qualitativo notoriamente elevato dei metodi artigianali a quello di una produzione industrializzata e di più ampia diffusione. Come sperimentato in ambito Bauhaus, è necessario un nuovo approccio progettuale, più attento ai requisiti economici e tecnologici del prodotto, più severo nella ricerca di corrispondenza tra aspetti formali e funzionali. Il progetto è dunque questione di metodo, non certo di stile; la finalizzazione dell’intervento non è esclusiva di ambiti privilegiati ma si estende a una realtà sociale più complessa e articolata. La villa, come residenza di prestigio isolata, assume in quest’ottica interesse marginale se vista in rapporto alle nuove problematiche dell’abitare, alla scala di singolo edificio così come a quella di insediamento a scala territoriale. Nel corso degli anni Trenta la fortuna in area americana del movimento moderno europeo non rappresenta, dunque, la prova della comprensione e dell’interesse dei nuovi principi. Anche la divulgazione, pur sostenuta da voci autorevoli10, tende ad accreditare gli esiti come espressione di una tendenza prevalentemente riconoscibile in chiave formale e stilistica. Non mancano i risultati della diffusione dell’International Style, allorché Walter Gropius, si trasferisce definitivamente in America (1937); nel 1938 realizza in collaborazione con Marcel Breuer la residenza di famiglia a Lincoln, Massachusetts, una costruzione isolata in posizione dominante un sito di spiccato carattere naturalistico. Nel quadro della cultura architettonica del momento l’opera si propone come sicuro termine di riferimento, anche se l’interesse prevalente degli osservatori sembra privilegiare le qualità tecniche e formali distintive più che il valore dimostrativo di principi innovatori espressi in anni di
Si segnala in particolare il contributo di Henry Russel Hitchcock e Philip Johnson in occasione dell’ esposizione al MoMA di New York nel 1932, dal titolo «International Style», accezione di seguito divenuta distintiva di una tendenza progettuale.
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ricerca e riflessione. Gropius è cosciente di agire in un ambito diverso da quello europeo; si fa interprete di una nuova condizione operativa nel dichiarare interesse per la tradizione architettonica del New England, nel considerare le caratteristiche climatiche del luogo11. Il programma riconosce inoltre che una realtà diversa da quella europea implica un coinvolgimento progettuale nuovo, sul piano tecnico come anche su quello psicologico. Vale il principio della ricerca della forma semplice, al tempo stesso solida e decorosa, già applicato nella realizzazione della propria villa (1925-26) a Dessau, una delle quattro unità abitative per i docenti inserite nel quadro del nuovo insediamento della Bauhaus, come anche successivamente nella definizione della villa Lewin (1928), a Zehlendorf. La residenza di Lincoln rientra a pieno titolo nei risultati resi possibili dai metodi della produzione industriale ma allo stesso tempo dimostra che il controllo dei fattori in gioco richiede il sostegno di un approccio progettuale di tipo artigianale. Ipotesi di partenza è che l’originalità dell’idea e l’accuratezza di svolgimento di ogni dettaglio non si traduca nella realizzazione di un prodotto unico ed esclusivo, ma sia finalizzato alla sua diffusione attraverso procedimenti seriali tecnologicamente avanzati. In effetti Gropius interpreta in questo momento il dinamismo e il livello tecnico avanzato della realtà produttiva americana, livello che, nello specifico settore, può raggiungere valore sul piano qualitativo attraverso l’intelligenza creativa di un progettista capace di utilizzare i mezzi disponibili e di interpretare le reali esigenze degli utenti. Nell’opera in esame viene applicata la tecnica del balloon-frame, una struttura intelaiata fitta e rivestita da diaframmi leggeri. Nel caso specifico la finitura a intonaco bianco assume valore distintivo, come del resto lo era stato per gli edifici di Dessau; ha qui motivo di rapportarsi al carattere cromatico prevalente dell’architettura coloniale del luogo, oltre che essere utile per evidenziare la stereometria volumetrica dell’intera composizione. Da questa, verso l’esterno, sfuggono con un certo dinamismo alcuni elementi, per proteggere aree di sosta e direzionare percorsi. Si tratta comunque di elementi accessori, come una soletta di copertura o una scala a chiocciola in metallo, non stravolgenti la geometria elementare che governa l’idea complessiva. Diversamente, nella villa di Dessau la distribuzione libera e articolata dei volumi nello spazio trovava spunto nella ricercata mancanza di corrispondenza tra l’impianto del primo e del secondo livello, con una sovrapposizione apparentemente scoordinata di un settore di elevato, con pianta a L, su quello basamentale a pianta rettangolare. I volumi sporgenti del piano superiore vengono a coprire spazi esterni posti in continuità di sviluppo con gli ambienti del piano terra, destinato alla zona giorno; l’arretramento parziale rispetto al filo esterno del rettangolo di base lascia libera una ampia superficie per uso di terrazza. Nella villa di Lincoln Gropius accentua la fluidità distributiva degli ambienti, non eliminando gli elementi di compartimentazione ma organizzando in modo consequenziale 11 Il contributo di Marcel Breuer è oggetto di considerazione in J. Driller, Breuer Houses, Phaidon, London 2000, p. 112-114. L’autore, inoltre, analizza quest’opera in rapporto ai canoni dell’architettura domestica del New England, in definitiva non ravvisando da parte dei due progettisti un interesse esplicito in tal senso, quanto invece una semplice «attitude to a platonic enjoyment that had no direct effect on the exterior appearance».
Figg. 54, 55 – Walter Gropius, Gropius House, Lincoln, Massachusetts, 1938. Piante dei due livelli; il fronte d’ingresso. Figg. 56, 57 – Walter Gropius, villa del direttore del Bauhaus, Dessau, 1925-26. Piante dei due livelli; veduta dal margine stradale.
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spazi destinati a specifiche funzioni. Un ampio nucleo spaziale centrale costituisce l’elemento cerniera per direzionare i percorsi e collegare su ognuno dei due livelli, e tra essi, i settori interni. La composizione sfrutta a pieno la volumetria disponibile limitando soprattutto la presenza di spazi di connessione che non siano in rapporto funzionale con il resto. L’organismo edilizio diviene oggetto di un intervento progettuale integrale, alla scala di insieme come a quella di dettaglio; anche le dotazioni impiantistiche, quali ad esempio gli apparecchi di illuminazione, si prestano a un esercizio creativo finalizzato alla produzione di serie. Viene comunque dato spazio a prodotti già collaudati, come i mobili disegnati da Marcel Breuer in ambito Bauhaus. Il senso di responsabilità sociale che in precedenza aveva orientato Gropius verso un interesse preminente per l’abitazione collettiva non si rivela limitativo per la ricerca di certezze di carattere funzionale e tipologico anche nel progetto della residenza signorile. Questo era già avvenuto per la villa Donaldson (1936) nel Sussex, in collaborazione con Edwin Maxwell-Fry durante la breve parentesi inglese, e si ripropone nell’ambito del sodalizio professionale americano con Breuer, tra il 1938 e il 1941. Un contributo si palesa anche nel progetto della prima residenza americana dello stesso Breuer (1938-39), ancora a Lincoln, nei pressi della propria abitazione. Resta evidente l’interesse di Gropius per un’architettura al passo con il progresso tecnico, in grado di avvalersi delle potenzialità della produzione industriale senza farne la condizione per riconoscere nel risultato caratteri stilistici distintivi. I limiti dell’operare sono avvertiti nella ripetizione meccanica dell’idea come anche nell’eccesso di soggettivismo. Il pragmatismo dell’ambiente americano stimola Gropius all’azione, a cercare nella realtà concreta della produzione la conferma di idee maturate in patria in anni di applicazione teorica. I risultati dell’attività professionale conseguente, svolta per lo più in forma coordinata con altri professionisti, mostreranno, anche nel campo della progettazione residenziale, le capacità di adattamento del maestro di Dessau a queste nuove condizioni ambientali, sociali ed economiche. La chiarezza e l’essenzialità della vena razionalista lascia ora il campo a un’estetica meno incline all’astrazione, alla cui definizione sovrintende l’attenzione verso la sperimentazione tecnica e verso le esigenze di vivibilità, senza escludere quella per i metodi costruttivi tradizionali e la natura del luogo. Agli inizi degli anni Venti il dinamismo e la prosperità dell’ambiente americano avevano stimolato l’interesse professionale di giovani architetti europei. Anticipando quanti più tardi vi troveranno asilo per ben più pressanti motivi, Rudolf Schindler e Richard Neutra si trasferiscono in California motivati a cogliere le opportunità offerte da una società e da un sistema produttivo in rapida evoluzione. I due architetti austriaci, anche se a diverso titolo impegnati inizialmente in un tirocinio presso lo studio di Wright, avviano in breve tempo carriere professionali autonome. Condividono l’interesse per lo studio del rapporto tra l’ambiente domestico e il benessere psico-fisico dell’uomo, subendo il fascino delle teorie progressiste del dott. Philip Lovell, terapista e divulgatore di uno stile di vita salutista. Non mancano dunque motivazioni di carattere dimostrativo nella realizzazione delle due residenze che lo stesso Lovell commissiona separatamente a Schindler, per la propria villa (1927) di Newport Beach, e a Neutra, per la residenza-studio di Los Angeles, ai più nota come Lovell Health House (1927-29). Quest’ultima soprattutto, oltre che rivelare le straordinarie capacità tecniche del suo progettista, segna l’avvio di un programma architettonico centrato sulle qualità ambientali dello spazio domestico, ora libero dai tradizionali diaframmi protettivi e aperto ai benefici della luce solare e dell’aria, al contatto con il verde. L’insolita destinazione funzionale dell’edificio, non solo residenza-studio ma anche luogo di riequilibrio psico-fisico per gli ospiti, favorisce uno sviluppo fluido e aperto degli spazi verso l’esterno, offrendo le condizioni ambientali più opportune per il riposo e le attività motorie.
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Figg. 58, 59 – Richard Neutra, Lovell Health House, Los Angeles, California, 1927-29. Piante del piano terra, piano primo e secondo; veduta prospettica. Figg. 60, 61 – Richard Neutra, Kaufmann House, (The Desert House), Badlands of the Cordillera, San Yacinto, 1946. Pianta del piano terra; veduta prospettica. Figg. 62, 63 – Richard Neutra, Tremaine House, Santa Barbara, California, 1947. Pianta del piano terra; veduta prospettica.
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Come avrà occasione di scrivere dopo molti anni12, Neutra considera possibile il raggiungimento di questi requisiti a condizione che l’interesse dell’utente per le attribuzioni formali passi in secondo piano rispetto a quello più concreto per il funzionamento dell’edificio, in tutte le sue parti. Il rifiuto della forma come carattere distintivo e individualistico, del resto, trova motivo d’essere nel frequente riferimento a modelli stilistici inattuali, al momento reinterpretati liberamente e messi in opera con metodi esecutivi sbrigativi e con materiali fragili. Le condizioni per un necessario cambiamento d’indirizzo sono dunque da individuare nell’innovazione delle tecniche costruttive, nel controllo minuzioso del procedimento attuativo, dal progetto alle fasi esecutive. Il raggiungimento di una qualità ineccepibile, di tipo tecnico prima che formale, costituisce un tema dominante nel lavoro di Neutra, dedicato in gran parte alla residenza isolata per una clientela agiata e disponibile al nuovo. La Lovell Health House presenta contenuti sperimentali non indifferenti, sia per l’inconsueta destinazione d’uso che favorisce un’organizzazione aperta degli spazi, sia per le modalità di realizzazione basate sulla prefabbricazione e sul coordinamento modulare degli elementi. La problematica conformazione orografica del sito impone strutture in cemento armato per le fondazioni e per il primo settore dell’elevato; lo sviluppo verticale procede con una complessa e innovativa struttura in profilati d’acciaio, flessibile nel creare a monte punti di attacco con il suolo, così come nel consentire la libera estensione verso valle di volumi e di piani esterni praticabili. Al di là del rilevante carattere strutturale, tale da accreditare l’opera come «floating house», suscita interesse il ruolo vitale che gli spazi interesterni assumono nel rapportare attività solitamente relegate in ambiti distinti e tra loro divisi. Le camere da letto si estendono in ambienti porticati per dormire all’aperto; ove consentito dalla forte pendenza del terreno aree a verde e zone a patio sono la naturale estensione funzionale e visiva dell’interno. I diaframmi di chiusura seguono le regole modulari della struttura nella forma di ampi pannelli, in vetro e in cemento dipinto di bianco, determinando nel reciproco rapporto, e con il paesaggio, un netto contrasto di luce e ombra. L’edificio manifesta la sua identità spiccatamente artificiale, di oggetto autonomo rispetto al carattere del luogo, impervio e naturale, anche se nei punti di contatto diretto mostra il suo forte radicamento. Neutra sfugge coscientemente alle sollecitazioni dell’ambiente evitando di incamerare segni materici e suggestioni paesaggistiche. Questa volontà di segnare la distanza tra il dato naturale e quello artificiale, almeno a livello di immagine, per il momento si fonda sulla convinzione di una loro impossibile assimilazione in un’unica entità, pur sussistendo validi motivi d’interazione. Il prodotto d’officina, come lo sono quasi tutte le componenti che costituiscono l’edificio di Neutra, non può tradire la propria natura asettica e seriale, né parlare un linguaggio che non le è proprio mimetizzandosi o assumendo attribuzioni dalla natura del luogo. È un punto di vista chiaro quanto radicale, che, nei progetti di residenze realizzati fino ai primi anni Quaranta, alimenta un interesse specifico per i materiali industriali, per la tecnica impiantistica, per la ricerca strutturale. Pannelli in alluminio, ampi schermi vetrati, scheletri in acciaio, sofisticati impianti di climatizzazione adattati a funzionare anche per l’esterno, sono elementi qualificanti di prestigiose dimore californiane, quali la Beard House (1935), ad Altalena, e la Rand House (1936), a San Ferdinando, meglio nota con l’appellativo di The all steel Residence. Che l’aspetto tecnologico sia determinante per la concezione e l’attuazione di un’opera è evidente allorché questa deve rapportarsi ad un contesto limitativo e inospitale come quel-
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R. Neutra, Progettare per sopravvivere, ed. it., Comunità, Milano 1956 (ed. orig. 1954).
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lo desertico delle Badlands of the Cordillera, nei pressi di San Yacinto, dove i Kaufmann, già committenti di Wright per la più nota Casa della cascata, chiedono a Neutra di realizzare l’esclusiva Desert House (1946). È un tema stimolante che consente al progettista di confrontarsi con un paesaggio di grande suggestione per gli effetti atmosferici e per l’essenzialità di una natura primordiale, ma è anche l’occasione per dimostrare il dominio dei mezzi che possono rendere vivibile un ambiente estremo. La dotazione impiantistica garantisce il controllo climatico tradizionalmente affidato all’inerzia termica di spesse murature, una struttura metallica a telaio si oppone alla spinta del vento e mette al sicuro dalle possibili sollecitazioni sismiche. L’organismo, ad un solo livello, asseconda le asperità del terreno roccioso, distendendosi liberamente su di esso e frammentandosi ai margini. Il paesaggio esercita sullo spazio domestico uno stimolo visivo diretto e coinvolgente, filtrato e riflesso dagli schermi vetrati a tutta altezza. Dei colori e della materia che ne esprimono la natura entrano nell’edificio solo alcuni frammenti, non ancora segni di una visione organica e di una nuova sensibilità per le qualità espressive dei materiali in opera. Ciò che sta per caratterizzare un’ulteriore fase della estesa produzione di Neutra non metterà in secondo piano principi già enunciati, soprattutto riferibili alle potenzialità del mezzo tecnico. Anticipazioni di questa linea di ricerca sono nella Nesbitt House (1942), a Brentwood sempre in California, dove l’economicità della realizzazione consiglia l’uso di materiali più poveri, soprattutto laterizio e legno, per comporre un ambiente domestico intimo e conciliante. A scala diversa si pone la Tremaine House (1947), a Santa Barbara, opera miliare per accreditare la nuova interpretazione del dato naturale ma anche per confermare la cura sistematica dei requisiti funzionali. Il clima mite della California suggerisce una disposizione aperta che si sviluppa in nuclei indipendenti incuneati nella rigogliosa vegetazione. Ai fortunati abitanti ancora una volta sono offerti spazi fluidi, in continuità di sviluppo con l’esterno e visivamente proiettati verso un esteso paesaggio naturale. Carattere unificante di una composizione articolata è la struttura portante in cemento armato, il cui telaio strutturale viene lasciato a vista, distinto dai setti di chiusura esterna e dal sottile diaframma di copertura. La novità di questo uso espressivo della struttura si unisce a quella per il senso tattile della materia, evidente nelle murature di pietra locale, nella pavimentazione rustica che senza soluzione di continuità caratterizza l’interno e l’esterno. L’interpretazione moderna della prassi costruttiva del luogo e l’interesse per l’associazione di materiali nuovi con materiali tradizionali costituiscono motivi ricorrenti nel percorso creativo di Marcel Breuer a partire dall’avvio dell’attività in terra americana nel 1938. Le riflessioni, condivise con Gropius, sull’architettura coloniale e sulla modernità delle sue espressioni formali improntate alla semplicità e alla ragione, danno fondamento a un programma progettuale per l’abitazione suburbana che, tra gli anni Quaranta e Sessanta, cercherà di ridefinire i canoni dell’architettura vernacolare americana. Se ai tempi della mostra dedicata all’International Style (1932), presso il MoMA di New York, gli elementi di osservazione per definire la modernità erano stati dedotti unicamente dal repertorio europeo, già nel ’38 uno dei due curatori, Henry-Russel Hitchcock, era in grado di motivare con riferimento alle idee di Breuer la vitalità e l’attualità di una tradizione architettonica autoctona13. Breuer riconosce il carattere impersonale delle bianche ed essenziali costruzioni in legno come valore autentico e non legato a mode passeggere, identifica nei metodi costruttivi tradizionali basati sulla serialità e sull’economia di mezzi una premessa indispensabile per un rinnovamento. Spetta dunque all’architetto creare forme
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H.R. Hitchcock, Marcel Breuer and the American Tradition, Harvard University, Cambridge, Mass. 1938.
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libere anche con elementi normalizzati, così come utilizzare in modo nuovo i materiali della tradizione, come legno e pietra, o proporre configurazioni statiche più efficaci a partire da sistemi storicamente stabilizzati e verificati per affidabilità. Questa ricerca finalizzata a trasformare lo spirito della tradizione in quello della contemporaneità è già evidente nel nucleo primitivo della residenza che Breuer realizza per sé nel 1938 a Lincoln, con la collaborazione non distintamente riconoscibile di Gropius. Il carattere evolutivo della premessa viene confermato già a distanza di un anno con un consistente accrescimento che, in ogni caso, non viene a sconvolgere l’idea portante di una chiara suddivisione funzionale e spaziale tra due corpi edilizi distintamente destinati alla zona giorno, con un ambiente a doppia altezza, e alla zona notte e agli ambienti per i servizi accessori, su due livelli sovrapposti. Pur nella libera interpretazione dei caratteri della residenza coloniale l’organismo edilizio si struttura secondo il sistema ligneo consueto del balloon-frame e viene rivestito esternamente con pannellature di legno dipinte di bianco. Breuer ammetterà in seguito che nell’opera sono riconoscibili evidenti motivi di contrasto, come del resto ritiene essere contrastanti i modi in cui si esprime la modernità. Ogni principio regolatore può essere smentito. Il disegno di pianta sembra controllato dalla simmetria ma allo stesso tempo ha in sé gli elementi per contraddirne gli effetti; così ad esempio per il settore della zona giorno, il cui impianto simmetrico riferito ad un asse longitudinale centrato sul camino non trova corrispondenza nel carattere materico dei diaframmi di chiusura, definiti distintamente in vetro, in pietra a vista e in legno. Lo stesso colore bianco che uniforma l’esterno evidenzia l’artificio dell’intervento in contrasto con la spiccata qualità naturale del luogo. L’interesse di Breuer per il modello abitativo isolato riserva novità sostanziali, sempre sostenute dall’interesse per la sperimentazione tecnica, a partire dal progetto del Chamberlain cottage (1941), nel Wayland, Massachusetts. In questa piccola costruzione acquista evidenza la ricerca di leggerezza strutturale e di semplificazione volumetrica dell’oggetto, caratteri entrambi confermati successivamente anche nella nuova abitazione di famiglia (1947-48) a New Canaan, nel Connecticut14. Può dirsi già rinnovato il tradizionale sistema della gabbia strutturale, grazie al successo dell’idea di portanza affidata ai piani verticali, vere e proprie travi-parete in legno stratificato. Il blocco edilizio, così concepito nei limiti di un involucro geometricamente elementare, risulta affrancato dalla necessità di un contatto diretto con il suolo, con il risultato di protendersi in aggetto ai suoi margini con il solo vincolo di appoggio su un più ristretto nucleo di base in muratura di pietra sbozzata. Nel primo di questi due edifici, di grande interesse se visto come alternativa al convenzionale modello anglosassone di cottage, un piccolo portico esterno, anch’esso in legno, trova contatto con il volume abitabile sviluppandosi in direzione ortogonale ad esso. L’insieme è dunque definito da una semplice e chiara idea compositiva, da rapporti reciproci tra eleSi tratta della prima delle due residenze della famiglia Breuer a New Canaan, nota anche come Breuer-Robek House, ampliata nel 1986; la seconda, la Breuer-Bratti House, sempre a New Canaan, viene realizzata nel 1951 e ampliata nel 1979 e nel 1982.
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Fig. 64 – Marcel Breuer, Breuer House, Lincoln, Massachusetts, 1938. Pianta del piano terra e del piano primo. Figg. 65, 66 – Marcel Breuer, Walter Gropius, Chamberlain cottage, Wayland, Massachusetts, 1941. Veduta generale; piante del piano seminterrato e del piano rialzato. Figg. 67, 68 – Marcel Breuer, Breuer-Bratti House, New Canaan, Connecticut, 1947-48. Pianta del piano parzialmente interrato e del piano primo; veduta del fronte a valle. Fig. 69 – Marcel Breuer, Geller House, Lawrence, New York, 1945. Planimetria generale.
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menti essenziali, calcolati nelle dimensioni e nel peso visivo per trasmettere un senso di sospensione e di stacco rispetto al quadro naturale offerto da un folto terreno boschivo; la tendenziale astrazione volumetrica risulta comunque mitigata dal carattere materico delle superfici. Anche nell’abitazione di New Canaan, ma con maggiore evidenza nella versione precedente all’ampliamento, il lungo corpo scatolare che raccoglie le principali funzioni e riassume il carattere espressivo dell’insieme risulta sollevato dal piano di campagna declive, con un accentuato effetto di proiezione nel vuoto. All’estremità di un lato lungo, in corrispondenza con il soggiorno, s’innesta sempre in forte aggetto il piano della terrazza, concepita come avancorpo autonomo e punto privilegiato di osservazione del paesaggio. L’interesse per la forma pura, per la caratterizzazione tridimensionale dell’involucro, non viene smentito anche nei casi in cui l’edificio trova completa aderenza al suolo, organizzandosi in pianta in modo più libero e articolato. Un primo esempio di composizione che risponde, secondo la definizione di Breuer, a un «binuclear principle» può essere individuato nella Geller House (1945), costruita a Lawrence, Long Island, New York, al momento del trasferimento dello studio nella stessa New York. L’estesa distribuzione sul piano può favorire lo sviluppo autonomo di due distinti settori dell’abitazione, per la notte e per il giorno, innestati in un ambiente comune che gestisce le funzioni di ingresso. Nel caso specifico la presenza di un ulteriore nucleo per gli ospiti accresce lo sviluppo d’insieme, riassumibile in una composizione per libera associazione di volumi elementari intorno ad un ampio spazio a corte. La continuità di svolgimento è affidata ad alcuni elementi di fabbrica, tra i quali le lunghe falde di un tetto a farfalla, come anche ai materiali, principalmente legno e pietra, ricorrenti nel rivestimento delle superfici esterne. Sono materiali che convivono con altri di produzione industriale, senza che la loro scelta solleciti riferimenti anacronistici all’architettura del passato o ai caratteri emergenti della natura del luogo. Come visto, fino alla metà degli anni Trenta la ricerca di Mies Van der Rohe aveva trovato nuove e stimolanti espressioni nell’interpretazione dello spazio domestico. Il percorso compiuto, esemplificabile con realizzazioni, progetti e studi, gli assegna oltreoceano un credito rilevante. I forti contrasti e la dispersione che contraddistingue lo sviluppo territoriale di Chicago, dove dal 1938 trasferisce l’esercizio professionale e dottrinario, possono aver sollecitato l’interesse di Mies per modelli compositivi più compatti, regolati da principi di geometria elementare e di equilibrio di masse per simmetria. Ciò si giustifica come necessità se il campo di osservazione si sposta dalla dimensione di una residenza isolata, in un contesto ambientale generalmente libero da vincoli, alla dimensione di un imponente blocco pluripiano in un ambito urbano complesso e frammentato. La nuova direzione operativa, peraltro, sembra sottintendere la necessità di un approccio progettuale più rigoroso, forse anche per contrapposizione al formalismo che al momento contraddistingue molti prodotti International Style. La fortuna professionale di Mies trae sostegno da incarichi, pubblici e privati, per strutture di grande impegno finanziario e di rilevante valore promozionale. Salvo casi sporadici, la residenza isolata, oggetto centrale della produzione europea, con poche e significative eccezioni può dirsi relegata a tema di sperimentazione didattica nei corsi tenuti dal 1939 al 1959 presso l’Illinois Institute of Technology. Nella rinnovata interpretazione miesiana di un’abitazione extraurbana, quale la Farnsworth House (1946-51), a Plano, Illinois, non mancano di riflettersi idee espresse in campi di intervento diversi per natura e dimensione. Già nelle premesse l’opera, nel sintetizzare a scala ridotta caratteri della più ampia ricerca in atto, assume valore dimostrativo delle potenzialità espressive di un volume puro, formalmente risolto nei limiti di un involucro essenziale, non contaminato dalla natura del luogo. Mies sottopone l’oggetto a un rigoroso processo di selezione concentrando l’attenzione su quanto ritiene strettamen-
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te necessario per affermare l’idea di partenza. Gli elementi formali in gioco sono dunque limitati a pochi e precisi segni, non più frammenti di un organismo articolato ma parti integrate in un insieme unitario. Il parallelepipedo di acciaio e vetro, che si libra sul piano di campagna con la mediazione a livello intermedio di una piattaforma e di due brevi rampe di scala, riassume a livello di immagine il rinnovato interesse per il valore ideale della villa, per principi d’ordine e astrazione prima ancora che per platonici requisiti di vivibilità. Il sistema trabeato avvolge con una sola campata trasversale un’unica cellula spaziale, manifestando apertamente la propria natura strutturale nel disegno dell’involucro esterno. Il diaframma esterno, in effetti, rappresenta la sintesi interpretativa del tema progettuale, su di esso si proietta la ragione statica come ordine modulare della composizione; alle sue ininterrotte campiture vetrate è affidato il senso del limite, fittizio o reale, dello spazio interno verso l’esterno. L’assenza di elementi di sostegno intermedi toglie ogni appiglio visivo e funzionale per la suddivisione dello spazio in cellule separate. Il suo carattere unificante non viene peraltro contraddetto dal nucleo longitudinale che delimita la cucina e i bagni, assimilabile ad un elemento di arredo per il suo rivestimento in legno, di altezza tale da non interrompere la continuità di sviluppo della superficie di intradosso del soprastante piano di copertura. I tre piani orizzontali, la piattaforma intermedia, il piano di calpestio e quello di copertura, appaiono svincolati e non sembrano gravare sugli elementi verticali di appoggio, producendo un effetto di sospensione che accentua la fuga prospettica degli stessi orizzontamenti verso l’esterno; il limite dello spazio interno tende a divenire impercettibile. Il bianco come colore dominante, per gli elementi strutturali in acciaio, per i piani di calpestio in travertino, denuncia l’artificio di un oggetto che non tenta di integrarsi nel quadro ambientale e non ricerca alcuna corrispondenza fisica e formale con elementi della natura. L’intervento dell’uomo, per Mies, è tenuto a mantenere il dovuto distacco e a rispettarne l’integrità. Sulla Farnsworth House si è concentrata l’attenzione di quanti hanno individuato nel corso degli anni Cinquanta l’affermazione di un «nuovo classicismo», di un ritorno all’ideale palladiano di villa come episodio autonomo rispetto al quadro ambientale, come organismo cristallizzato in forme di elementare purezza. L’interpretazione dello spazio domestico, in cui prevalgono il valore spirituale su quello materiale e la ricerca della perfezione sul principio di necessità, trova modo di esprimersi nei limiti di una cellula spaziale unica, di un contenitore asettico e neutrale che delimita fisicamente un ambito privato e ne filtra idealmente l’immagine. Lo spazio unitario e il carattere di trasparenza tra interno ed esterno che caratterizzano l’opera di Mies costituiscono anche i principi ispiratori della residenza che Philip Johnson realizza per sé a New Canaan, la Glass House (1949), in un’ampia area verde originariamente valorizzata da un provvidenziale isolamento. Le affinità, a prima vista evidenti, tra le due costruzioni hanno trovato le giustificazioni della critica nell’influenza determinante della poetica miesiana sulla produzione giovanile dell’architetto americano, come anche, secondo Kenneth Frampton, nell’interesse comune ai due progettisti per un’interpretazione schinkeliana dell’edificio come «loggia-belvedere»15. Allo stesso tempo sono stati individuati, e suggeriti in parte dallo stesso Johnson, elementi di analisi che svelano differenze sostanziali tra le due opere, per il diverso principio fondativo che le sostiene, come anche per le diverse modalità dello svolgimento compositivo. Tre decenni prima, Paul Scheerbart aveva intravisto nel settore a veranda di una villa, qualora racchiuso da vetrate trasparenti, la tendenza a dar vita a un episodio auto-
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K. Frampton, The Glass House Revisited, in Philip Johnson: Processes, New York 1978, p. 42.
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nomo, in tutta evidenza rispetto al corpo edilizio principale16. La Glass House denuncia apertamente il carattere evolutivo di un elemento accessorio che ha raggiunto la compiutezza di edificio dominante, rappresentativo di una configurazione generale che si articola in oggetti e spazi differenziati, distribuiti in un ampio quadro ambientale di competenza esclusiva. Non costituisce un elemento isolato ma parte di un insieme di nuclei, indipendenti ma tra loro coordinati secondo relazioni visive e funzionali precisamente calcolate. Se il rapporto di questo padiglione vetrato con l’intorno naturale appare di per sé scontato, visto l’alto grado di permeabilità e di apertura che realizza verso l’esterno, il gioco di relazioni diviene più sottile e concettuale con altri oggetti, non necessariamente abitabili; in primo luogo con il blocco edilizio dedicato agli ospiti, la cui struttura massiva in laterizio esalta per contrasto la trasparenza del volume vetrato ove risiede il padrone di casa. Se Mies, per la Farnsworth House, lascia che l’immagine di una natura intatta faccia da fondale alla scena prospettica dello spazio interno, Johnson nel quadro ambientale che circonda la Glass House seleziona e dispone precisi riferimenti visivi, caposaldi di una rete di percorsi percettivi e di movimento. Lo assiste la memoria storica nella ricerca di forme di illusione prospettica, come anche nella concezione di un insieme aperto a sviluppi successivi, come hanno dimostrato gli interventi realizzati nel tempo per la pinacoteca (1965), per la galleria di scultura (1970) e per lo studio (1980), sempre come pezzi distinti ma tra loro relazionati. Il tema della trasparenza certamente non è nuovo; l’interesse per le possibilità funzionali ed espressive del vetro era evidente nella ricerca d’avanguardia dei primi due decenni del secolo. Mies e Johnson dispongono ora di mezzi tecnici evoluti, tali da sfruttare al massimo la continuità di sviluppo della superficie vetrata, ponendo il fragile materiale in diretta relazione con la struttura portante dell’edificio, senza l’intermediazione dei consistenti telai metallici. Nella Farnsworth House il piano vetrato viene arretrato rispetto ai sostegni verticali, peraltro esterni anche rispetto alla testata degli orizzontamenti, con il risultato di annullare percettivamente la funzione dello stesso diaframma vetrato come elemento di chiusura dello spazio. Diversamente, nella Glass House, vetro e struttura risultano integrati in un unico sistema, così da far corrispondere i margini delle ampie specchiature trasparenti con gli elementi portanti dell’edificio. I quattro montanti d’angolo, in particolare, risultano rafforzati nella loro funzione strutturale e nel peso visivo, assumendo un ruolo gerarchicamente primario nella caratterizzazione volumetrica di un oggetto completamente risolto al suo contorno. Ne è una conferma anche il solido attacco a terra offerto da una bassa piattaforma in mattoni, dimensionalmente corrispondente all’area di proiezione del volume vetrato sul piano orizzontale. Questo dettaglio, come anche il volume cilindrico che circoscrive il camino e il bagno, ha la forza espressiva di una preesistenza, manifesta il carattere di forte radicamento al suolo dell’edificio, qui tanto evidente quanto programmaticamente negato nell’intervento di Mies.
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P. Scheerbart, Architettura di vetro, ed. it., Adelphi, Milano 1982. L’edizione originale è del 1914.
Figg. 70, 71 – Mies Van der Rohe, Farnsworth House, Plano, Illinois, 1946-51. Il fronte d’ingresso; pianta. Fig. 72 – Confronto tra i dettagli costruttivi del nodo angolare della Farnsworth House (A) e della Glass House (B). Figg. 73, 74 – Philip Johnson, Glass House, New Canaan, Connecticut, 1948. Pianta; veduta della residenza dell’architetto.
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«L’Architettura è un cristallo», noto aforisma di Gio Ponti, è un’immagine lirica ma efficace della varietà di riflessi che un’opera può emanare, indicativa delle sfaccettature che possono rivelarsi ad un approccio dinamico sia visivo che funzionale. Per l’architettura della villa la ricerca di Ponti ha il suo avvio nella riconsiderazione dei caratteri dell’edilizia spontanea di area mediterranea, assunta come modello liberatorio dal formalismo dell’esibizione borghese. L’interesse per le qualità spaziali della «casa pompeiana» precede in ordine di tempo quello per i modelli assestati nella tradizione locale, in virtù della loro collaudata rispondenza alle essenziali necessità umane. La villa Marchesano (1937-38), a Bordighera, con il suo sviluppo lineare lungo la costa marina e la netta ed elementare volumetria, interpreta questo ideale di semplicità e spontaneità, di economia di mezzi materiali ed espressivi. La composizione dell’edificio è riconducibile a una scatola muraria massiva, prevalentemente chiusa al suo contorno, se non per la presenza di un profondo portico aperto verso il mare in corrispondenza di uno dei lati corti del rettangolo di base, lato che si adatta al sito in conseguenza di una sapiente deviazione di orientamento dal tracciato ortogonale. È dunque la villa che in questo momento Ponti ritiene riassuntiva delle sue idee sulle ville marine, «semplici, murarie, luminose, dove occorre ombrose di portici»17. La ricerca di Ponti, nei primi anni Cinquanta, si evolve individuando come nuovo carattere centrale dell’architettura il principio della leggerezza, talvolta coniugato con quello della trasparenza. È alla base la convinzione che la tecnica ormai consenta di passare «dal pesante al leggero, dall’opaco al trasparente». Grazie al cemento armato le murature possono affrancarsi dalla loro conformazione massiva, avendo perso la funzione portante possono assottigliarsi e offrirsi in opera come elementi autonomi, sospesi. Le finestre non interrompono la continuità della superficie come bucature ma, poste a filo esterno, confermano un’unica giacitura del piano; gli spigoli, tradizionalmente settori di rafforzamento della tettonica dell’edificio, possono ora proporsi come punti di discontinuità esaltando, grazie anche all’assottigliamento del margine delle murature, il carattere dominante di assenza di gravità. La villa Planchart (1953-56), a Caracas, come anche la villa Blanca Arreaza (1956), sempre a Caracas, sono indicative di questa ricerca compositiva basata sull’effetto di leggerezza, dimostrativa del carattere di sospensione di un oggetto che si posa sulla terra più che sorgere da essa. Nel presentare la villa Planchart «come una farfalla (bianca), e senza peso, né volume, né massa»18, Ponti avverte il fascino delle esili strutture di Oscar Niemeyer ma anche, per contrasto, la distanza della propria opera dalle masse radicate al suolo che Luis Barragán sta componendo per le ville del giardino vulcanico del Pedregal a Città del Messico. Le condizioni ambientali della villa, caratterizzate da una natura esuberante che si esprime nella folta vegetazione e nell’azione violenta dei fenomeni atmosferici, vengono interpretate nella configurazione di un modello introverso, di spazi aggregati intorno ad un patio centrale e tra essi relazionati per continuità di percorso e di visuale. Ogni spazio tende a riversarsi su più lati e ad aprire prospettive inattese sugli spazi adiacenti, inquadra attra17 G. Ponti, Una casa al mare, «Domus», n. 138, 1939; cit. in F. Irace, Giò Ponti. La casa all’italiana, Electa, Milano 1988, p. 140. 18 G. Ponti, Il modello della villa Planchart in costruzione a Caracas, «Domus», n.303, 1955, p. 133.
Figg. 75, 76 – Gio Ponti, villa Marchesano, Bordighera, 1937-38. Pianta del piano terra; il fronte verso il mare. Figg. 77, 78, 79 – Gio Ponti, villa Planchart, Caracas, 1953-56. Pianta del piano terra e del piano primo; sezione trasversale; veduta prospettica.
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verso diaframmi trasparenti scorci del giardino. Questo dinamismo di situazioni ambientali, di suggerimenti percettivi, trova corrispondenza nel disegno dell’involucro esterno, composto da piani variamente orientati e soprattutto tra loro slegati e liberi di librarsi nell’aria. Le asole che sostituiscono le linee di contatto reciproco tra le murature, e di queste con il terreno e le falde del tetto, accolgono fonti luminose artificiali per realizzare un effetto di retroilluminazione, tale da accentuare nella vista notturna la frammentazione dell’unità del blocco edilizio. Questa configurazione, complessivamente generata dall’interno, si traduce nell’assetto esterno di volume compatto ma allo stesso tempo dinamico, sfaccettato in piani orientati in funzione delle vedute, del vento, del sole. La poetica della leggerezza strutturale è motivo ricorrente nell’opera di Oscar Niemeyer, nel corso di una lunga carriera professionale scandita da un interesse sempre vivo per il tema della villa, spesso interpretato come ambito di vita esclusivo e distaccato dalle tensioni della realtà sociale brasiliana. Della propria terra Niemeyer non cessa di esaltare la forza della natura, rigogliosa e selvaggia, da cui sembra trarre l’energia per liberare le forme e gli spazi da convenzioni e formule precostituite. La produzione degli anni Quaranta, tuttavia, registra ancora motivi della tendenza moderna europea, riferibili soprattutto alla lezione corbusiana del periodo purista. Sono principi architettonici e situazioni spaziali che il futuro architetto di Brasilia cerca di adattare, non senza un apporto originale, a condizioni ambientali ricche di contrasti e di stimoli, per il momento viste come un aspetto del progetto da controllare più che come motivo efficace di coinvolgimento. Affiorano talvolta nei dettagli caratteri d’ispirazione vernacolare, citazioni che rimandano alla tradizione coloniale o al mondo rurale dell’interno del paese. In questa prima fase il principio dei pilotis è proposto con insistenza, rivelandosi utile nell’adattare l’edificio alle variazioni altimetriche del sito, oltre che nel dare evidenza volumetrica al settore di coronamento generalmente destinato alla parte più riservata della residenza. Nei livelli sottostanti, Niemeyer trova modo di articolare spazi più liberi ed aperti verso l’esterno, talvolta a doppia altezza, come nella prima casa di famiglia (1942) a Lagoa, Rio de Janeiro, dove fissa nella rampa di collegamento il fulcro funzionale e percettivo della continuità di sviluppo degli ambienti. Se il modello della villa Savoye esercita ancora la sua influenza, appare nuova la tendenza al dinamismo, alla tensione superficiale di volumi che si protendono in aggetto con spigoli taglienti. La copertura è per Niemeyer un elemento altamente qualificante, l’oggetto a cui affidare la sintesi formale e compositiva dell’opera, a volte con una chiara evidenza simbolica. Dalle più semplici falde inclinate delle prime opere, allusive all’eredità coloniale per il manto di copertura in laterizio, al tetto a farfalla della casa Kubitschek (1943), a Pampulha, Minas Gerais, alla copertura metallica dalla forma a telo sospeso per la casa Cavanelas (1954), a Pedro do Rio, presso Rio de Janeiro. «L’affascinante mondo delle curve e delle forme insolite offerte dal cemento armato»19 che Niemeyer afferma di aver scoperto con il progetto del Casinò di Pampulha (1942), trova una conferma convincente nella copertura della villa di
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Cfr. O. Niemeyer, My Architecture, Editora Revan, Rio de Janeiro 2000, p. 17.
Fig. 80 – Oscar Niemeyer, casa Niemeyer, Lagoa, Rio de Janeiro, 1942. Piante dei tre piani. Figg. 81, 82, 83 – Oscar Niemeyer, villa Niemeyer, Canoas, Rio de Janeiro, 1953. Piante del piano parzialmente interrato (a destra) e pianta al livello della terrazza; particolare del soggiorno; veduta complessiva del settore emergente.
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famiglia (1953), la seconda in ordine di tempo, a Canoas, Rio de Janeiro, in una situazione ambientale che esprime i caratteri più esuberanti della natura tropicale. La conformazione altimetrica del sito, assimilabile ad un’altura coperta da una folta vegetazione e proiettata sull’oceano, suggerisce l’integrazione con il suolo del livello più basso, destinato alla zona notte, nell’intento di dissimularne verso l’esterno la presenza e allo stesso tempo di assegnare alle camere un carattere introverso e riservato. Per contrasto ciò dà slancio al più libero sviluppo del piano superiore, destinato agli ambienti a giorno, a partire dal livello di una ampia terrazza che, ai suoi margini, finisce per essere assorbita dalla vegetazione. L’elemento che riassume e rappresenta l’insieme è una copertura piana dal profilo perimetrale curvilineo, sviluppata in assonanza di forma con l’analogo profilo dell’antistante piscina. È il segno dichiarato di un atto creativo libero, non controllato da geometrie esatte o da principi di logica strutturale. L’assenza di peso di questa copertura è resa dissimulando gli appoggi, radi e puntuali, e adottando per la chiusura laterale diaframmi vetrati, anch’essi curvilinei. Lo spazio interno a sviluppo continuo, se si eccettua il settore di servizio, sfonda senza filtri visivi nella natura dell’intorno, un pezzo di foresta più che un giardino, adattato da Roberto Burle Marx al carattere di una creazione spontanea. Elemento riassuntivo del dominante principio di organicità è un masso roccioso, affiorante dal piano della terrazza, che compenetra agli estremi la vasca d’acqua e lo spazio interno del soggiorno. Apprezzamenti per l’opera non privi di qualche riserva, compreso il riconoscimento da parte di Gropius e Mies di creazione originale ma non ripetibile, hanno stimolato da parte di Niemeyer dichiarazioni tendenti a contrapporre la propria libertà creativa ai principi della selezione e dell’astrazione geometrica divulgati dal movimento moderno europeo. In relazione al tema della villa, ciò si ravvisa nei diversi esiti della successiva, vasta produzione dell’architetto brasiliano, con risultati che talvolta privilegiano gli aspetti di forma e, altre volte, danno spazio alla sperimentazione di raffinati effetti strutturali o alla rinnovata interpretazione dei caratteri della tradizione rurale. Nel periodo trascorso in Francia, Spagna e Marocco (1924-25) il giovane Luis Barragán subisce il fascino dell’edilizia spontanea del Mediterraneo, un interesse che al ritorno in patria, nella nativa Guadalajara, si propone di coniugare con quello per i motivi della tradizione locale. Il carattere del patio come spazio esterno interiorizzato, come spazio protetto aperto verso il giardino, ricorre già nelle prime opere a conferma di questo proposito di rinnovamento nel senso della tradizione, oltretutto in opposizione ai modelli d’importazione a blocco chiuso, tipo chalet, che il gusto borghese corrente sembra privilegiare nei quartieri suburbani come manifestazione di modernità. La casa González Luna (1929-30) a Guadalajara è tra le opere che esprime con convinzione questo programma di recupero di valori domestici basati sulla ritualità, sul rapporto ravvicinato tra gli abitanti e tra questi e gli ambienti della casa. È evidente il senso di introversione che anima gli spazi, favorito da piccole aperture verso l’esterno che, nel caso del soggiorno, inquadrano solo porzioni di cielo. All’estremità opposta rispetto a questo ambiente, cui si sovrappone la biblioteca, è situato un piccolo patio come spazio di mediazione con il giardino, come
Figg. 84, 85 – Luis Barragán, casa González Luna, Guadalajara, 1929-30. Piante dei due livelli; veduta del settore d’ingresso. Fig. 86 – Luis Barragán, casa Barragán, Città del Messico, 1947-48. Pianta del piano terra, sezione longitudinale e prospetto. Figg. 87, 88 – Luis Barragán, villa-scuderia Folke Egerstrom, Los Clubes, Atizapán de Zaragoza, 1966-68. Pianta del piano terra; veduta del settore prospiciente la vasca.
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ambiente di raccoglimento e di attesa. La più completa apertura verso l’esterno si realizza sulla terrazza di copertura, un luogo interpretato come spazio attivo della casa, articolato in settori dalla non uniforme disposizione dei livelli e dai diversi effetti di luce e ombra. Nel progetto della propria casa-studio (1947-48) a Città del Messico, Barragán approda a una originale trasposizione dei motivi vernacolari in un universo minimalista di forme pure e di spazi interiori. Il senso di calma, di riflessione, attribuito all’ambito domestico, impone la chiusura dell’edificio sul fronte stradale e, allo stesso tempo, uno sviluppo diffuso dei diversi ambienti verso il giardino, inglobando nell’articolazione dei vani piccoli spazi aperti che visivamente ne suggeriscono l’espansione. L’ambito domestico è interpretato come un mondo in divenire, diventando in questo caso oggetto di ripetute trasformazioni che non tradiscono l’idea di una realtà introversa, labirintica nella concatenazione di ambienti contenuti tra alte murature; questi diaframmi protettivi si aprono per proiettare verso l’interno limitati squarci di cielo e di giardino. L’interpretazione del giardino come spazio interno della casa, come luogo di silenzio e di riposo, fa seguito alle riflessioni di Barragán sull’opera teorica di Ferdinand Bac, indirizzata a cogliere gli stimoli percettivi e le valenze psicologiche del giardino mediterraneo20. Il giardino è il luogo ove si realizza il rapporto intimo dell’uomo con la natura, da scoprire necessariamente istante per istante, nelle diverse manifestazioni del giorno e delle stagioni. Come progettista di giardini, pubblici e privati, Barragán dimostra di saper cogliere e valorizzare il carattere di spontaneità della natura, con attenzione a quanto emerge di primigenio e di incontaminato, secondo una visione ideologicamente contrapposta all’artificialità del contesto urbano. I progetti per la pianificazione dell’area dei Giardini del Pedregal (1945-52), per gli insediamenti di Arboledas (1958-61), Los Clubes (1963-64), Lomas Verdes (1964-67), nonostante gli esiti non sempre convincenti, sono dunque leggibili in quest’ottica di controllo della crescita urbana secondo principi di vivibilità e di rapporto con la natura ormai disattesi nella realtà metropolitana di Città del Messico. La villa Prieto (1948-50) e la villa Trouyet (1948-49) sono due delle quattro residenze realizzate al Pedregal, prima del forzato abbandono del controllo artistico e organizzativo dell’intero intervento. Secondo il piano di Barragán, la conformazione del paesaggio, animato da vegetazione spontanea e da pareti rocciose di natura vulcanica, deve conservare intatta la propria forza espressiva, quel carattere «mitologico» efficacemente fissato nella trasposizione pittorica di José Clemente Orozco. Così come per l’intervento a scala territoriale, si predispongono elementi di collegamento pedonale e carrabile, muri di contenimento, giardini, piazze, rispettando l’orografia accidentata del luogo; per le abitazioni si tende a includere negli spazi interni e di transizione la vegetazione e le rocce laviche affioranti, in netto contrasto con le forme geometriche elementari e la tensione dei piani murari. Sono murature che tuttavia rifiutano il carattere di artificialità indotto dalle tecniche costruttive moderne, pensate per propria natura capaci di registrare il trascorrere del tempo nella manifestazione della «patina» di superficie. La tendenza alla chiusura volumetrica dei settori di fabbrica, chiaramente espressa nelle case realizzate a Guadajara, è ora superata da una composizione per piani, per elementi
20 L’idea di giardino come successione di episodi matura in Ferdinand Bac attraverso le osservazioni sulla villa Adriana a Tivoli. Le valenze psicologiche indotte dagli spazi del giardino sono espresse da Bac in numerose pubblicazioni, tra le quali si segnala: Villas et Jardins Méditerranéennes, «L’Illustration», Parigi, 1922; L’art des jardins, «Révue des Deux Mondes», Parigi, 1925. Barragán subisce il fascino dell’opera teorica di Bac, e ha modo di incontralo nel 1931, quando lo stesso Bac ha tradotto le sue idee nella realizzazione del «Jardin des Colombières», a Mentone, sulla Costa Azzurra.
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distinti che direzionano la vista e, ove necessario, limitano lo spazio. Il piano diventa dunque elemento generatore delle diverse condizioni spaziali, consente di controllare la luce, di porre cesure o dare risalto agli oggetti che animano il paesaggio domestico. Le opere più recenti, tra le quali la villa-scuderia Folke Egerstrom (1966-68), a Los Clubes, e la villa Valdez (1981-83), a Monterrey, Nuevo León, in collaborazione con Raul Ferrera, sono indicative del senso di serenità che deriva dal carattere protettivo delle quinte murarie, degli stimoli emozionali indotti dalle loro spiccate qualità materiche e cromatiche. Nella composizione d’insieme acquistano interesse elementi accessori, murature di recinzione, setti di divisione degli spazi esterni; piani verticali calibrati nella dimensione e nel colore trovano rispondenza nella distesa dei piani orizzontali ove la natura si esprime nella sintesi della grana superficiale o si trasfigura come immagine riflessa da uno specchio d’acqua. La fase conclusiva dell’attività di Le Corbusier nel campo dell’architettura domestica trae motivo di ispirazione dall’incontro con l’India. Nel dare giustificazione del ruolo istituzionale di Chandigarh, nuova capitale del Punjab indiano, attraverso il progetto degli edifici più rappresentativi, Le Corbusier individua nelle forze primarie della natura i caratteri più autentici della persistenza di una cultura architettonica locale. È subito evidente come l’azione spesso violenta del sole, dei venti e delle piogge, sia determinante per le scelte di organizzazione spaziale e di consistenza materiale anche per un edificio residenziale, qui ora necessariamente rafforzato nell’assetto strutturale e formale. Ma sono anche, questi, elementi naturali vivificanti, elementi che l’organismo edilizio può filtrare e adattare alle più opportune condizioni ambientali del contesto domestico, a condizione di modularne gli effetti attraverso scelte attente di orientamento, di esposizione, di apertura o chiusura verso l’esterno. Il ruolo condizionante e allo stesso tempo ispiratore della natura aveva prodotto negli anni Trenta un’inversione di marcia nell’approccio di Le Corbusier al tema della residenza individuale. I caratteri di aderenza al suolo, di continuità del piano di campagna sulla copertura, di rustica definizione delle superfici, erano gli indici della distanza che la Casa per week-end (1935) aveva segnato rispetto alle asettiche geometrie delle abitazioni del periodo purista. A distanza di tempo, e in condizioni ambientali notevolmente diverse, aspetti compositivi di questa casa, riscontrabili successivamente anche nel progetto della casa Peyrissac (1942) in Algeria, ritornano attuali nella villa Sarabhai (1951-55) ad Ahmenabad. La struttura a setti paralleli e coperture voltate individua una serie di spazi incanalati, direzionati opportunamente per godere nell’interno di una salutare ventilazione. Il tetto giardino contribuisce all’equilibrio climatico degli ambienti come anche le murature in laterizio e cemento che, oltre a denotare una funzione protettiva, assegnano all’immagine esterna dell’edificio un carattere distinto e autonomo rispetto all’interno. Questa ricercata disorganicità tra i due ambiti trova conferma nei colori e nei materiali, nel segno brutalista del cemento a vista dell’involucro che si trasforma all’interno nella vivacità cromatica degli intonaci, del laterizio delle volte, dei pannelli divisori in compensato. È una residenza pensata per una precisa committenza, una vedova interessata a ricercare nel proprio ambito domestico senso di protezione dall’esterno e energia vivificante all’interno, distintamente dalle esigenze dei due figli cui è destinato un blocco separato della casa. Il piano terra dell’edificio padronale, strutturato su due livelli, segue gli indirizzi del rituale domestico adattando gli spazi alle funzioni ma lasciando anche aperto tra essi un profondo asse spaziale di collegamento, trasversale alle diverse campate. La classicità mediterranea di Le Corbusier si confronta con la qualità del clima e della cultura indiana nella più emblematica villa Shodan (1951-54), sempre ad Ahmedabad, nei limiti di una struttura volumetrica pura, un blocco di forma cubica che nel suo svilup-
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Fig. 89 – Le Corbusier, villa Sarabhai, Ahmedabad, 1951-55. Pianta del piano terra e sezione longitudinale del blocco edilizio principale. Figg. 90, 91, 92 – Le Corbusier, villa Shodan, Ahmedabad, 1951-54. Il fronte filtrato dal brise-soleil; piante dei diversi livelli praticabili; sezione. Fig. 93 – Le Corbusier, villa Baizeau, Cartagine, 1928. Piante dei tre piani sovrapposti e sezione.
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po strutturale e spaziale accorpa una complessa concatenazione di situazioni ambientali. L’edificio costituisce a pieno titolo la sintesi del programma corbusiano per la residenza unifamiliare, dal punto di vista compositivo, nel controllo stereometrico dei piani e volumi, a quello psicologico e percettivo nello svelare un paesaggio domestico conciliante e ricco di stimoli. L’aspetto esterno presenta variazioni notevoli di disegno, pur nella conferma di un registro basato su linee ortogonali, per assecondare condizioni al margine che consigliano in parte chiusura e protezione e in altra parte, soprattutto a sud-ovest sul giardino, permeabilità alla luce e all’aria. Come anticipato nel progetto della villa Baizeau (1928) a Cartagine, Algeria, lo sviluppo libero dei diversi piani trova l’elemento di chiusura nella copertura piana, qui resa aerea dalla manifestazione libera degli alti pilastri rettangolari di sostegno che attraversano liberamente gli spazi sottostanti. Villa Shodan nasce da un rapporto stretto con il suolo per trasformarsi nella sua crescita in una struttura viva e scultorea, ove sia il pieno che il vuoto costituiscono ambiti d’azione e di riposo. L’associazione di spazi interni ed esterni configurano una terrazza articolata su tre livelli, luoghi raffrescati dal movimento dell’aria e protetti dall’irraggiamento. Lo sviluppo tridimensionale dello spazio ha modo di esplicarsi anche nei livelli più bassi, a partire dal piano terra, destinato alle funzioni di accoglienza e di rappresentanza, nei limiti di ambienti a doppia altezza parzialmente ribassati da un soppalco, più congeniale ad accogliere i momenti di studio e di riunione familiare. Gli effetti di questa moltiplicazione dei punti di vista, di questa compenetrazione di ambienti si rapportano a soluzioni adottate in passato, come nella villa La RocheJeanneret (1923) e nella villa Savoye (1929), dalle quali sembra scaturire il suggerimento di un percorso ascensionale con funzione percettiva oltre che di collegamento. Il paesaggio esterno, nella sintesi del giardino e di un’ampia vasca d’acqua, entra nella visuale degli interni attraverso le incorniciature del brise-soleil, modellato in forma di grigliato in cemento armato a maglie irregolari. Come nei prospetti dei più aulici palazzi di Chandigarh, l’effetto protettivo di questo frangisole ravvivato da campiture cromatiche, si traduce in un gioco serrato di luci ed ombre, in un essenziale attributo d’immagine capace di equilibrare la tendenza alla frantumazione di un volume primario geometricamente puro. La pianta libera, divenuta da tempo principio assiomatico per l’International Style, subisce una sostanziale revisione nell’opera di Louis Kahn, dimostrativa della necessità psicologica, prima ancora che funzionale, di frammentare la centralità dello spazio unitario in un sistema di cellule coordinate. L’interesse di Kahn per l’ambito della vita domestica, con la stessa convinzione posta nel risolvere strutture edilizie di ben più grande dimensione, si esplica nel riconoscimento della natura specifica di ogni spazio e del loro reciproco rapporto di interscambio. Ciò porta anche a rivalutare spazi di servizio, normalmente considerati accessori, come ambienti di coinvolgimento psicologico e di non esclusiva funzione utilitaristica. Questa composizione per elementi discreti è regolata da un ordine gerarchico delle parti, senza escludere allo stesso tempo flessibilità di adattamento alle diverse circostanze. La Esherick House (1959), a Chestnut Hill, Pennsylvania, è decisamente esplicativa del programma kahniano di definizione dello spazio domestico come «società di stanze tenuta insieme da elementi di connessione che hanno caratteristiche proprie», definizione che del resto può considerarsi mutuata dalla più ampia visione della città come «mondo di spazi»21. Non importa se ciò avviene ponendo come dato di partenza un ambito
L.I. Kahn, Lo spazio, la strada e il patto con gli uomini, ed. it., in M. Bonaiuti, Architettura é. Louis I. Kahn, gli scritti, Electa, Milano 2002, p. 146.
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Fig. 98 Figg. 94, 95 – Louis Kahn, Eshrick House, Chestnut Hill, Pennsylvania, 1959. Piante del piano terra e del piano primo; veduta prospettica. Figg. 96, 97 – Louis Kahn, Fisher House, Hatboro, Pennsylvania, 1960. Piante dei due livelli; veduta dal versante a valle. Fig. 98 – Louis Kahn, Korman House, Fort Washington, Pennsylvania, 1971-73. Pianta del piano terra.
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d’azione circoscritto, riferibile in questo caso alla compattezza di un volume elementare su base rettangolare. L’ordine compositivo ne struttura lo spazio corrispondente in quattro settori idealmente separati da linee trasversali di taglio, materializzate per brevi tratti da diaframmi murari o pannelli scorrevoli di divisione. La corrispondenza planimetrica tra i due livelli è leggibile nella conferma del settore dei servizi nella fascia laterale esterna, come anche nel più stretto settore di connessione con l’esterno, intermedio tra il vano a doppia altezza del soggiorno e gli ambienti sovrapposti della sala da pranzo e della camera da letto. L’arretramento rispetto al filo di facciata di entrambi i fronti di questa fascia funzionale, per effetto della profonda zona d’ombra, determina per la vista esterna la scomposizione del volume in due distinti settori affiancati. Dalle riflessioni sull’architettura romana antica Kahn fa scaturire una nuova attenzione per il significato della parete, con attribuzioni decisive per l’aspetto formale e l’assetto strutturale dell’edificio. In controtendenza rispetto alla propria precedente interpretazione «tecnico-organica» degli elementi strutturali, l’architetto riscopre la forza espressiva della parete, sia che si configuri come struttura portante ininterrotta, sia che si riduca a limitati settori, corrispondenti al limite con i semplici pilastri; quest’ultimi, dunque, non sarebbero altro che la parte rimanente di una parete ritagliata da ampi varchi. Ma oltre che dividere spazi e dare portanza all’edificio, la parete regola le diverse condizioni di luce e ombra che danno forma visibile allo spazio interno. Gli stretti tagli verticali nei diaframmi esterni della casa Esherick determinano condizioni di luce diffusa per alcuni ambienti; condizioni di luce più attenuata sono ricercate nel settore di servizio così come la massima apertura alla luce per il soggiorno, sostituendo la muratura del fronte minore con uno schermo vetrato. Luce e spazio sono dunque fattori interconnessi nella determinazione delle qualità ambientali; la stessa finestra, come mostra la soluzione adottata per il soggiorno della Fisher House (1960) a Hatboro, Pennsylvania, oltre che risolvere l’illuminazione naturale dell’ambiente genera uno spazio specifico, un «vano privato» all’interno di una più grande stanza. L’interesse di Kahn nel comprendere la natura di ogni situazione ambientale e suoi riflessi sulla qualità di vita, affiora quando individua ambiti ristretti e riservati, come ad esempio lo spazio di pertinenza di un camino, ma anche allorché dispone settori più ampi direttamente proiettati verso l’esterno. Questo è evidente nell’ultima villa realizzata, la Korman House (1971-73), a Fort Washington, Pennsylvania, la cui immagine esterna riflette l’articolazione degli episodi interni, diversamente caratterizzati per forma, dimensione e materiale, ma sempre associati in uno svolgimento continuo. La scomposizione dell’insieme in parti, talvolta non prive di un’autonoma caratterizzazione, non comporta la perdita dell’idea di una forma originaria; l’organismo, pur adattandosi alle diverse «circostanze» e manifestando caratteri distintivi, ritrova il proprio equilibrio nell’espressione della sua totalità. Si tratta di una certezza che Kahn giustifica con uno sguardo al passato, ispirata dal valore eterno delle strutture monumentali in cui afferma di riconoscere «qualità spirituali»22. Il rapporto con la storia, affievolito nella ricerca d’avanguardia del movimento moderno, più per strategia che per radicale convinzione, riacquista senso e apre nuovi spazi di riflessione. Se l’indagine di Kahn tende a isolare valori archetipici e principi universali, l’analisi che Robert Venturi avvia nei primi anni Sessanta sull’architettura del passato segue il proposito di una riflessione tesa a individuare «contraddizioni» più che motivi di certezza, ambiguità e tensioni più che scelte
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Si veda a questo proposito L.I. Kahn, Monumentalità, ed. it., in M. Bonaiuti, Architettura é, cit., p. 56.
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Fig. 103 Figg. 99, 100, 101 – Robert Venturi, Vanna Venturi House, Chestnut Hill, Pennsylvania, 1959-64. Sezione longitudinale; piante del piano terra e piano primo; veduta del fronte d’ingresso. Fig. 102 – Robert Venturi, Brant House, Greenwich, Connecticut, 1970-74. Pianta del piano terra. Fig. 103 – Robert Venturi, Brant House, Tuckers Town, Bermuda, 1975-77. Pianta del piano terra. Fig. 104 – Robert Venturi, Casa nella New Castle County, Delaware, 1978-81. Pianta del piano terra e prospetto.
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di selezione e di ossequio alla norma23. Il rapporto con la storia è dunque strumentale ed esclude l’uso del repertorio come riferimento progettuale se non per dedurre nuovi significati e rimuovere convenzioni accreditate, non ultime quelle scaturite dalle semplificazioni del movimento moderno, ora ritenuto inadeguato a cogliere la «complessità» del reale. La variegata produzione di Venturi sul tema della casa unifamiliare, anche in collaborazione con John Rauch e Denise Scott Brown, muove da un’opera che ben rappresenta la sintesi delle prime riflessioni teoriche e costituisce una dichiarazione di programma: la casa Vanna Venturi (1959-64), a Chestnut Hill, Pennsylvania. Con uno sguardo al passato Venturi si propone di scardinare il principio moderno della corrispondenza e della continuità tra interno ed esterno, assumendo come dato di partenza un impianto rettangolare, definito nei suoi contorni, da cui far scaturire una volumetria elementare regolata da una simmetria speculare. Ma l’individuazione della regola ne comporta allo stesso tempo la contraddizione, la rottura dello schema rigido di partenza con episodi ed invenzioni che ne trasfigurano l’immagine. Il prospetto principale, segno questo di un riferimento all’architettura del passato per il valore rappresentativo della facciata, è modellato in forma di frontone impostato su una bassa fascia basamentale interrotta nel centro da un andito rientrante che segnala all’esterno il punto d’ingresso. Il timpano, riflettendo il principio della scomposizione manierista, risulta spezzato da un profondo taglio verticale che, nello sviluppo in altezza, rivela all’esterno la presenza del nucleo del camino, perno centrale della strutturazione dell’interno. Anche sul fronte posteriore la chiarezza volumetrica del tipo a capanna viene intaccata da interventi di sottrazione, tra i quali finestre liberamente ritagliate nella muratura e disposte senza alcun riguardo per la simmetria. Nella logica compositiva di Venturi convivono dunque principi regolatori ed elementi anomali atti a scardinarne i presupposti. All’andito che sulla facciata segnala il varco di ingresso in effetti non consegue in asse il relativo percorso di entrata; il punto di accesso è posto lateralmente e prepara l’osservatore, al di là della soglia, a una vista defilata dello spazio centrale della casa, aggirando l’ostacolo del gruppo scala-camino. La chiusura superiore del portale dello stesso andito è segnata da un architrave a filo della facciata, intersecato all’estremità da una cornice rilevata in forma d’arco, a sua volta tagliata in chiave dalla rientranza che separa i due settori di frontone. Nuove connotazioni distributive, tettoniche, formali, scaturiscono quindi per Venturi non già dalla sintesi riduttiva dei termini quanto dalla loro varietà e ambiguità di significato. Le citazioni del variegato archivio d’immagini che Venturi ha interiorizzato nell’indagine storica sono sapientemente dissimulate e mai trasposte in senso filologico. Dalla spazialità barocca scaturisce l’interesse per l’illusione prospettica, come nella casa Brant (1970-74), a Greenwich, Connecticut, ove la suddivisione interna si avvale di diaframmi che altro non sono che quinte teatrali. Assi percettivi direzionati sui dettagli della scena vengono tracciati trovando corrispondenze di tracciato tra percorsi ed elementi emergenti; di queste modalità offre un quadro di osservazione la seconda casa Brant (1975-77), a Tuckers Town, Bermuda, risolta come aggregazione libera di diversi padiglioni, variati nella forma e dimensione ma ricomposti in un discorso unitario dall’intonaco bianco e dalle coperture gradonate, in ossequio ai caratteri delle tradizione costruttiva locale. Un episodio significativo è costituito dalla scala che collega la zona giorno con il piano delle camere, all’interno del corpo edilizio principale; è una scala ampia che riscatta la scontata funzione di collegamen-
23 Per comprendere il rapporto che Venturi realizza con la storia dell’architettura si veda: R. Venturi, Complessità e contraddizioni nell’architettura, ed. it., Dedalo, Bari 1980.
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to per offrire all’osservatore, nell’atto di scendere, un punto di vista obbligato sul paesaggio marino nel quadro di un varco esattamente centrato sul comune asse direzionale. La sperimentazione in altri casi prevede impianti liberi ma anche impianti unitari, in alcuni casi a pianta centrale nelle forme del quadrato, della croce, e della loro combinazione, come per un confronto con i modelli aulici dell’architettura rinascimentale. Il tema compositivo si sviluppa assumendo il senso del limite di un involucro esterno determinato dal disegno di pianta e, allo stesso tempo, sviluppando con libertà, anche tra i livelli corrispondenti, la strutturazione degli spazi interni. Sono per altro edifici di piccole dimensioni, generalmente case per week-end, in montagna e nei pressi della costa oceanica, in cui le invenzioni episodiche, formali e distributive, non escludono di riconoscersi nei caratteri della tradizione coloniale. Tra le altre, la casa Trubeck (1970-72), sull’Isola di Nantucket, Massachusetts, e la casa Tucker (1974-75), nel Westchester County, sono risolte come volumi elementari, strutturate su più livelli sovrapposti utilizzando per l’ambiente più riservato il livello inglobato dalle falde del tetto. La tecnica costruttiva in legno, compreso il tavolato del rivestimento esterno di facciata, e nel primo caso la presenza del portico antistante l’ingresso, ravvivano il ricordo delle abitazioni dei pionieri e rimandano alla stagione dello Shingle Style. La decorazione, come strato continuo applicato e come dettaglio isolato, torna ad essere un carattere qualificante dell’idea di progetto, nelle forme e nelle dimensioni che Venturi ritiene di sottrarre alla tentazione di una riproposizione filologica; l’ordine classico scandisce alcuni piani senza regole di proporzione e di rapporto, dichiaratamente caricaturale nell’evidenza della sua natura di sagoma lignea bidimensionale. La Casa nella New Castle County (1978-81) ne costituisce un esempio, per le colonne del portico e del diaframma interno che separa il pranzo dal soggiorno, dal profilo semplificato e dalla forma tozza. In definitiva, niente che induca a riconoscere una riacquisita attualità degli stili storici, ma solo l’intenzione di una raffigurazione deformata e ironica. Il fatto che, negli studi grafici per una Casa per week-end del 1977, vengano messi a confronto tredici diverse versioni stilistiche dell’ordine del portico, è una conferma del rapporto disinibito che Venturi ha ingaggiato con la storia. L’osservazione rigorosa dell’architettura della città, a partire dalla metà degli anni Sessanta, è per Aldo Rossi il fondamento metodologico della ricerca progettuale, in linea con l’interesse per la definizione di obbiettivi disciplinari e di riferimenti oggettivamente validi, al di fuori di ogni categoria temporale24. L’idea di architettura come espressione artistica, già fortemente osteggiata da Loos, mostra i suoi limiti nel quadro di questo programma teso a selezionare i caratteri strutturanti ed essenziali della realtà urbana, tra cui in primo luogo la componente tipologica, assunta come parametro di riconoscibilità dei fenomeni analizzati e delle proposte di progetto. Alla ricerca della costanza del «tipo» resta legata l’impostazione alquanto rigida che Rossi sperimenta nel progetto della villa Bay (1973), a Borgoticino presso Novara, un esempio di «architettura disegnata», ispirata da una visione teorica che al momento non sembra prevedere la possibilità di una trasposizione reale. L’impianto si articola, secondo una composizione a pettine, in quattro bracci rettilinei di uguale lunghezza e distribuzione interna innestati ortogonalmente sul corpo, anch’esso a sviluppo lineare, dedicato agli ambienti di relazione. La rigidità della simmetria di pianta e l’indifferenza tipologica rispetto alla destinazione funzionale trovano conferma anche nel
Le basi della trattazione teorica sono in A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966; per l’aggiornamento dei principi espressi si veda, A. Rossi, Autobiografia scientifica, Pratiche, Parma 1990.
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Figg. 105, 106 – Aldo Rossi, villa Alessi, Suna di Verbania, Novara, 1989. Il fronte sul lago; pianta del piano terra. Fig. 107 – Richard Meier, Smith House, Darien, Connecticut, 1965-67. Pianta del piano primo e sezione trasversale. Fig. 108 – Richard Meier, Douglas House, Harbor Springs, 1971-73. Sezione trasversale passante lungo la passerella di accesso dal versante a monte.
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rifiuto di un attacco a terra diretto, qui risolto mediando con una fitta serie di sottili pilastri di diversa altezza il dislivello esistente tra il piano abitabile e il suolo declive. Il tema della villa non occupa una posizione centrale nell’opera di Rossi, pur trovando spazio, con isolate proposte, nell’ambito di un programma rigoroso e sempre più attento ai caratteri della tradizione. L’evoluzione in questo senso può essere colta nel confronto tra il progetto della villa di Borgoticino e la villa Alessi (1989), a Suna di Verbania, sul lago Maggiore, ove viene a manifestarsi con determinazione il nuovo interesse per l’interpretazione delle qualità ambientali del luogo. Rossi dimostra, anche sul piano teorico, che la storia vive come memoria individuale e si riflette nelle azioni con lo stimolo dei ricordi, delle sensazioni e delle immagini prodotte dall’esperienza. Questa scoperta del valore soggettivo dell’idea di progetto in un certo senso viene ad archiviare la precedente ricerca di riferimenti universali e «senza tempo», lasciando spazio, nel caso specifico della villa sul lago Maggiore, a motivi di ispirazione della tradizione architettonica locale così come di quella classica. La costruzione dei paramenti murari in scaglie di granito a vista riprende la tradizione popolare del riutilizzo dei residui di cava, evocando in chiave simbolica un elemento di cultura materiale e allo stesso tempo risolvendo l’immagine dell’oggetto in assonanza con il costruito. Al fronte chiuso sul lato della strada corrisponde quello opposto, strutturato nel settore centrale in quattro livelli sovrapposti di logge aperte alla vista del lago. Questo corpo centrale, limitato da murature d’ambito emergenti e coperto distintamente con una volta rivestita in rame, ripropone in facciata l’impostazione classica della sovrapposizione di ordini, pur nella libera trasposizione dei sostegni verticali e delle balaustre in terracotta. I più bassi volumi laterali individuano funzioni accessorie e, nella disposizione complessiva in linea con il margine del lago, confermano il carattere preminente del settore centrale. Scelte valide per il particolare carattere lacustre del luogo convivono dunque con l’ideale di perfezione palladiana, senza escludere che nel risultato si riflettano forme di romanticismo nel far rivivere immagini archiviate nella memoria. L’apertura alla storia, come ambito di riflessione teorica e di lettura analogica, nel corso degli anni Sessanta dà slancio a indirizzi di ricerca vari e talvolta contraddittori, ma pur sempre consapevoli dei limiti dell’ideologia modernista e degli esiti omologanti dello Stile Internazionale. Ciò non toglie che lo sguardo al passato si focalizzi per alcuni sull’eredità più autentica del movimento moderno, proprio nel momento della scomparsa della generazione dei suoi interpreti più rappresentativi. La fase di esordio e di affermazione professionale di Richard Meier, tra il 1959 e il 1974, è particolarmente legata al tema della villa, un ambito d’azione ideale per verificare l’attualità dei principi che negli anni Venti hanno rinnovato l’architettura, con riferimento primario, e non celato, alla produzione purista di Le Corbusier. Non si tratta di tentare una trasposizione filologica o di assumere regole di indirizzo, quanto invece di cogliere in questo recente passato potenzialità ancora valide e stimolanti per il contesto sociale ed economico americano. Opere come la Smith House (1965-67), a Darien, Connecticut, o la Douglas House (197173), a Harbor Springs, Michigan, ripropongono il carattere antinaturalistico e autoreferenziale della villa Savoye, esprimono l’ideale classico dell’autonomia dell’oggetto rispetto al contesto. Il bianco assoluto assegna alle superfici senso di astrazione e uniforma le differenze di materiale, senza alcuna concessione per l’ornamento. I volumi si articolano in composizioni complesse, affrancate dal controllo della simmetria ma sempre alla ricerca di un equilibrio ponderato basato su rispondenze proporzionali e geometrie di tracciato. Le forme si sviluppano liberamente, senza giustificazioni funzionali o simboliche, sulla base di riferimenti ortogonali come anche di improvvisi tagli diagonali e di profili curvilinei. L’interesse di Meier per la composizione, dunque, non si esprime nella ricerca di significati
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o di valori concettuali; segue lo sviluppo di una modellazione sofisticata, attenta alla disposizione delle parti in rapporto alla topografia del sito, agli effetti spaziali, alle visuali verso le emergenze del paesaggio, al controllo della luce naturale negli ambienti. Il carattere strutturante degli elementi di percorso viene costantemente confermato; scale, rampe, passerelle aeree, ballatoi, svolgono spesso la funzione di coordinamento degli spazi, sono elementi di delimitazione e di passaggio tra settori funzionali di diversa natura, con particolare attenzione nel risolvere la divisione, e in alcuni casi la contrapposizione, tra la zona delle attività comuni e quella più riservata della notte e dei servizi. Questi ambiti sono sempre risolti come luoghi differenziati, già all’esterno espressivi di una diversa natura, più libera e trasparente per la prima, più razionale e chiusa per la seconda; una dicotomia palese anche nei materiali di finitura, come avviene nella Casa a Palm Beach (1977-79), Florida, dove le superfici in vetro e i pannelli bianchi di metallo smaltato caratterizzano il nucleo degli ambienti a giorno, sottolineando il carattere di autonomia rispetto al settore privato, risolto quest’ultimo con un più tradizionale rivestimento in intonaco bianco. Il tema si ripropone nella Villa in Westchester County (1984-86), New York, con la novità della caratterizzazione dell’involucro del settore delle camere con lastre di pietra, in contrasto con i consueti pannelli bianchi del settore comune. Nell’ampia produzione di Meier sul tema della villa ricorre l’idea di una spazialità esuberante e senza limiti percettivi verso il paesaggio esterno; ciò acquista particolare evidenza ove le caratteristiche altimetriche permettono di strutturare il settore a giorno come ambiente a grande altezza, compenetrato a più livelli da ballatoi e piani liberi. Il percorso di risalita, come lo era stato per Le Corbusier, svela gradualmente la dinamica spaziale degli ambienti ed il rapporto di questi con l’esterno. Il principio della pianta libera si riflette nella possibilità di articolare lo spazio in orizzontale e verticale, con unico riferimento strutturale evidente in sottili e isolati pilastri metallici. Il balloon-frame e i rivestimenti in legno, di costante applicazione nelle prime realizzazioni, accettano, nelle realizzazioni degli anni Ottanta, il supporto di espedienti strutturali più flessibili e raffinati, in linea con soluzioni messe in atto in opere di diversa destinazione e di più grande dimensione, verso le quali ormai Meier viene a focalizzare il proprio impegno progettuale. Tra gli obbiettivi dei Five architects, nel corso degli anni Settanta, si segnala l’interesse condiviso per i presupposti teorici del movimento moderno e per il loro valore propositivo in rapporto al presente. In questo ambito di confronto Peter Eisenman elabora un programma indirizzato ad esplorare i meccanismi sintattici dell’architettura, le modalità della creazione della forma al di là delle influenze ascrivibili alle necessità funzionali, costruttive e di ambientazione. La riflessione approfondita sull’opera di Giuseppe Terragni, in particolare per la casa Frigerio e la Casa del Fascio a Como, costituisce il viatico per una ricerca attenta agli aspetti linguistici più che alle qualità sensoriali dell’oggetto, nell’intento dichiarato di comprendere la «struttura concettuale o profonda» dell’architettura. Fino agli inizi degli anni Ottanta il programma teorico di Eisenman può essere esemplificato dalle cardboard houses, residenze unifamiliari extraurbane, così definite in rapporto a una genesi compositiva per strati successivi, secondo un procedimento di scomposizione, ricostruzione, spostamento di piani. La rottura dell’unità formale e spaziale di un oggetto fissato in partenza, per lo più corrispondente con una struttura intelaiata di forma elementare, consente di determinare configurazioni articolate, di complessa interrelazione tra parti, libere dal dover rappresentare specifiche funzioni. Fondamentale si rivela il ruolo della geometria, soprattutto sulla base di riferimenti cartesiani, per mantenere il senso dell’astrazione e sfuggire alla tentazione di dare forma distintiva ai singoli elementi, così privati dei tradizionali attributi d’immagine. Nella casa
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Barenholtz (1968), più nota con il codice di catalogo di House I, realizzata a Princeton, New Jersey, pilastri e finestre non sono identificabili in quanto tali. Dalla scomposizione del volume unitario iniziale scaturiscono frammenti che non esprimono il valore della propria funzione primitiva; successive operazioni di sovrapposizione o traslazione portano all’isolamento di elementi non più giustificabili come pilastri, producono varchi che non sono semplici finestre. Il processo formativo dell’organismo edilizio, dunque, avviene per stadi successivi, sempre a partire da una struttura primaria ancora leggibile come traccia nel risultato finale. Questo avviene per la House II (1969-70), realizzata ad Hardwick nel Vermont, per effetto del movimento di traslazione diagonale degli elementi di tamponamento, e nella House III (1971), a Lakeville nel Connecticut, ove si sperimenta la compenetrazione tra il volume originario e un volume ruotato. L’ordine iniziale viene sconvolto, stimolando relazioni e tensioni tra diaframmi e pilastri, apparentemente liberi dal dover rispondere a necessità funzionali e strutturali. Ciò produce anche la formazione di spazi indefiniti, di non immediata interpretazione per i fruitori, e di spazi residuali utili per gli elementi di servizio. Si tratta, dunque, di una sperimentazione complessa, basata su elaborazioni teoriche alquanto sofisticate, forse anche provocatorie per gli stessi destinatari, necessariamente costretti a reagire per appropriarsi di uno spazio domestico stravolto ma ricco di sollecitazioni. Nell’avanzamento della ricerca si segnala la House VI (1972-76), a West Cornwall nel Connecticut, ultima delle cardboard houses realizzate, ove l’interesse per la facciata stratificata, come progressione di piani filtranti dall’esterno verso l’interno, viene superato da quello per la frammentazione in settori, a partire da un centro corrispondente con l’intersezione di due diaframmi murari ortogonali. Come elemento di novità interviene la componente del colore per uniformare o disaggregare elementi, per segnalare oggetti di interesse strategico distintamente da griglie spaziali e piani di riferimento. È questa forse già l’anticipazione di un approccio progettuale più disponibile a valutare le conseguenze dell’apertura dell’organismo edilizio verso l’esterno, secondo tematiche che Eisenman affronterà con la necessaria convinzione solo alla fine degli anni Settanta, quando decadrà definitivamente l’idea di una struttura unitaria come riferimento iniziale del processo compositivo, per accogliere quella di oggetto architettonico come luogo di interferenza del dato razionale con quello naturale. Il punto avanzato di questo itinerario può essere individuato nel progetto della Guardiola House (1988), a Puerto De Santa Maria, Cadice, nella configurazione di un organismo dinamico che nella de-costruzione delle parti recepisce le irregolarità della topografia del sito. L’edificio appare coinvolto in un movimento franoso che ne inclina, solleva, piega le parti, dando forma a superfici di copertura e piani praticabili variamente orientati, rivelando gli spazi interni attraverso fenditure irregolari. L’idea di una conformazione instabile, forse l’interpretazione della natura geologica del luogo, in questo caso resta tuttavia ancorata ad una rappresentazione di carattere prevalentemente dimostrativo. Nel secondo dopoguerra il messaggio dei maestri del movimento moderno, americani ed europei, è ampiamente diffuso anche in un contesto geografico distante e fortemente caratterizzato per tradizione e cultura come quello giapponese. Nel quadro dei rapporti
Figg. 109, 110 – Peter Eisenman, House II, Hardwick, Vermont, 1969-70. Piante del piano terra e del piano primo; veduta prospettica. Fig. 111 – Peter Eisenman, Barenholtz House, (House I), Princeton, New Jersey, 1968. Piante dei due piani. Fig. 112 – Peter Eisenman, House III, Lakeville, Connecticut, 1971. Piante dei due piani. Fig. 113 – Peter Eisenman, House VI, West Cornwall, Connecticut, 1972-76. Pianta del piano terra e del piano primo.
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tra Oriente ed Occidente questa influenza potrebbe essere interpretata come un fenomeno di ritorno se vista in rapporto alle sollecitazioni e ai motivi di riflessione offerti, nei primi decenni del secolo, agli architetti stranieri venuti a contatto con l’architettura domestica del Giappone. Nei brevi periodi di attività in questa particolare realtà, Wright aveva colto l’importanza del carattere di essenzialità spaziale e costruttiva degli ambienti, del misticismo immanente della natura. Tra gli architetti di fede razionalista Gropius aveva stigmatizzato il carattere di modernità della casa tradizionale giapponese, nel rilevare soluzioni antiche a problemi attuali, nel constatare l’applicazione storicamente assestata dei principi regolatori della modularità, della flessibilità strutturale e distributiva. Antonin Raymond, giunto in Giappone nel 1919 per coadiuvare Wright nel cantiere dell’Imperial Hotel di Tokio, aveva qui di seguito operato stabilmente realizzando entro il 1935 alcune residenze unifamiliari, tra le quali la propria villa (1923) a Tokio, primo tentativo di sostituzione delle tecniche costruttive tradizionali in legno con il più moderno cemento armato, pur nello spirito dell’integrazione formale di elementi linguistici d’importazione con quelli locali. Negli scritti che Bruno Taut ha dedicato all’architettura domestica tradizionale giapponese, a seguito dell’esilio orientale tra il 1933 e il 1936, si legge l’ammirazione per l’eleganza e allo stesso tempo la modestia che caratterizza la villa imperiale di Katsura a Kyoto, il perfetto equilibrio ambientale tra gli interni e l’esterno, complessivamente il risultato di un programma architettonico secolare qui giunto a pieno compimento. L’ampliamento della villa Hyuga (1935-37), ad Atami, sulla costa del Pacifico ad ovest di Tokio, era stata per Taut l’occasione per dimostrare la possibilità di una sintesi tra Occidente ed Oriente, nel tentativo di accordare due diversi e lontani stili, architettonici e di vita25. Tadao Ando fa parte della generazione nata con la ricostruzione di questa nazione fortemente segnata dalle distruzioni belliche, impegnata nel corso degli ultimi decenni a risolvere il difficile rapporto tra tradizione e modernità. L’opera è orientata a raggiungere una posizione di equilibrio tra la razionalità del modernismo e la spiritualità della cultura locale. Ando assume con le dovute distanze riferimenti orientativi nell’architettura del beton brut di Le Corbusier, nel minimalismo di Mies van der Rohe, in cui tuttavia riconosce il limite di una logica «fredda», ma soprattutto nel lavoro di Louis Kahn, nel modo con cui l’architetto americano si rapporta alla storia senza assumere vincoli per la libertà di espressione. La casa unifamiliare è per Ando un terreno ideale di azione progettuale, d’interpretazione della ritualità domestica nel segno della tradizione senza assumere necessariamente da questa riferimenti figurativi e costruttivi. In un territorio caratterizzato storicamente da una forte frammentazione della proprietà fondiaria, dalla scarsa disponibilità di spazio, il tema della villa, in particolare, si adegua a modelli residenziali più contenuti e introversi, in grado comunque di non escludere il rapporto con la natura, evocandone la presenza più che facendola oggetto di un’esperienza diretta. La dimensione degli ambienti è strettamente legata ai comportamenti, in linea con i principi della limitazione delle esi25 Per una trattazione approfondita si veda M. Speidel, Il magnifico esilio giapponese, «Casabella», n.743, aprile 2006, pp. 44-51.
Fig. 114 – Tadao Ando, villa Matsumoto, Ashiya, Hyogo, 1976-77. Piante dei due livelli e sezione longitudinale. Figg. 115, 116 – Tadao Ando, villa Koshino, Ashiya, Hyogo, 1979-81. Piante del piano terra e del primo piano, sezione longitudinale del blocco intermedio; veduta prospettica dal versante a valle.
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genze, dell’eliminazione del superfluo. In quest’ottica Ando perviene alla definizione del comfort domestico come forma di benessere psicologico più che fisico, secondo una visione ideologicamente ostile al consumismo e tendente a valorizzare le facoltà mentali e sensoriali del fruitore. L’aspetto disadorno, la quasi totale mancanza di arredo, la percezione del vuoto, inducono senso di tranquillità e concentrazione, non di privazione e rinuncia. Lo spazio interno è dunque uno spazio introverso a cui avvicinarsi con circospezione, tendenzialmente chiuso verso l’esterno da diaframmi protettivi; in esso si inserisce anche il giardino come ambiente strutturato della casa, dove la natura risulta rappresentata da frammenti isolati, atti a stimolare il pensiero di un universo più ampio. In questo progetto di riduzione all’essenziale, di eliminazione degli ostacoli percettivi, nelle opere di Ando la geometria elementare gioca un ruolo fondamentale, senza comunque divenire di per sé forma architettonica. Gli stessi materiali non rappresentano fattori di caratterizzazione distintiva delle parti; la scelta ricade generalmente su un materiale dominante, in grado di omogeneizzare le superfici ed esaltare la compiutezza dello spazio racchiuso. Sono caratteri leggibili nella casa Matsumoto (1976-77), ad Ashiya, Hyogo, in un impianto a matrice rettilinea che in elevato genera una griglia spaziale di moduli affiancati, parzialmente coperti da volte a botte. Il tema del telaio in cemento armato a vista e delle volte, che per alcuni aspetti rimanda alla lezione di Louis Kahn, si rapporta a quello del muro come diaframma esterno cui affidare il rapporto con l’intorno, guidare i percorsi di avvicinamento e di accesso ad uno spazio interno alquanto introverso. Lo stacco dei due muri rettilinei dal telaio sui lati lunghi dell’edificio produce all’interno spazi interstiziali funzionalmente utili e, in copertura, asole per l’ingresso di luce radente sull’intradosso delle pareti. La conformazione del sito partecipa attivamente alla modellazione della casa Koshino (1979-81), sempre ad Ashiya, Hyogo, un organismo edilizio che risolve il suo contatto con il suolo declive compenetrandolo parzialmente. I tre distinti settori, definiti in pianta secondo la geometria del rettangolo e del cerchio, hanno in questo caso autonomia funzionale, accogliendo separatamente la zona giorno, la zona delle camere e lo studio, pur collegati da un corridoio ipogeo. Come variazione del ricorrente carattere di chiusura verso l’esterno si segnala la possibilità offerta alle camere, disposte in schiera lineare in uno dei due blocchi rettangolari, di aprirsi verso un giardino esterno con l’intermediazione di un loggiato diaframmato da setti murari. La localizzazione extraurbana, all’interno di un parco, favorisce indubbiamente questo carattere di permeabilità verso l’ambiente esterno programmaticamente indirizzato al godimento percettivo più che funzionale. Ciò trova conferma nella purezza degli spazi interni, soprattutto del grande soggiorno a doppia altezza e dello studio, ove le soluzioni di continuità dei diaframmi di chiusura risultano attentamente localizzate e dimensionate per trasmettere all’interno immagini parziali del paesaggio naturale. Le murature esprimono la propria natura costruttiva e materiale mantenendo a vista i segni impressi sul calcestruzzo dalle casseforme. Elementi primari come l’aria e la luce attraversano la scatola spaziale con effetti di luce ed ombra sulle pareti, segnali evocativi della totalità della natura e del trascorrere del tempo.
Fig. 117 – Álvaro Siza, casa Beires, Póvoa de Varzim, 1973-76. Pianta del piano terra e del piano primo. Fig. 118 – Álvaro Siza, casa Carlos Siza, Santo Tirso, 1976-78. Pianta del piano terra e sezione longitudinale passante lungo la corte. Figg. 119, 120 – Álvaro Siza, casa Vieira de Castro, Vila Nova de Famalicão, 1984-94. Veduta prospettica; piante dei due piani e sezione longitudinale.
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La percezione tattile e visiva delle superfici contribuisce a qualificare l’ambiente domestico come luogo di sensazioni, di emozioni. L’idea che in esso l’utente possa riflettere il proprio mondo interiore, trovare corrispondenza per le proprie abitudini e soddisfazione ai desideri, guida la ricerca di Álvaro Siza nella definizione degli obbiettivi programmatici del progetto. Il suo interesse rifiuta di focalizzarsi su modelli astratti e principi normativi, per cogliere con un approccio ravvicinato gli aspetti significativi della realtà, riconoscendone la vitalità anche nei motivi di conflitto, nei vincoli. Ciò avviene nel valutare forme di innovazione compatibili con la tradizione costruttiva portoghese, nell’individuare possibili margini di azione in contesti ambientali in molti casi già compromessi, nel dialogare con committenti spesso condizionati da modelli estranei e omologati. Per Siza la convinzione che «nessun luogo è deserto»26 costituisce un essenziale presupposto per il progetto della residenza unifamiliare, anche quando l’intervento si realizza nei limiti di un lotto di piccole dimensioni o di un ambiente periferico privo di qualità. L’idea di villa sopravvive nel tentativo di coinvolgere nella composizione volumi e spazi liberi, nell’operare la compenetrazione tra ambienti chiusi e aree esterne a giardino riscattate dalla loro natura residuale. Nelle opere realizzate fino ai primi anni Ottanta, comunque, prevale un sentito bisogno di introversione, come per dare protezione ad un ambito privato minacciato dalle stranezze e insidie dell’ambiente suburbano. Il carattere di frammentarietà del contesto, dalle irregolarità di tracciato stradale alle imprevedibili caratteristiche formali e tipologiche degli edifici attigui, suggerisce questa scissione tra mondi diversi che, diversamente, tornano a dialogare quando le condizioni ambientali risultano più concilianti e coinvolgenti. Per la casa Magalhães (1967-70), a Porto, Siza esclude il rapporto diretto con la strada e, in alternativa, accentua il legame degli ambienti con il giardino interiorizzandone lo spazio come fulcro centrale e luogo di convergenza dell’intero assetto di pianta. Il tema della compenetrazione tra l’interno e il giardino si ripresenta in altra forma nella casa Beires (1973-76) a Póvoa de Varzim, a seguito dello squarcio operato su di un volume edilizio elementare come via di fuga verso l’esterno. Un ampio diaframma vetrato, su due livelli, ricuce in questo settore la lacerazione del blocco e diviene elemento regolatore del rapporto tra interno ed esterno, con chiara allusione alla funzione filtrante delle gallerie vetrate nei fronti edilizi settecenteschi del Portogallo del Nord e della Galizia. La frammentazione dei piani e la rottura degli allineamenti determinano spazi interstiziali, geometrie di impianto a sviluppo complesso che di volta in volta assumono come riferimento assi obliqui, assecondano interferenze di tracciato e direzioni di fuga prospettica. Un interesse costante è dedicato agli spazi di transizione, agli ambienti di margine regolatori del rapporto tra interno ed esterno, sia dal punto di vista funzionale che visivo. Nella casa António Carlos Siza (1976-78), a Santo Tirso, uno stretto cortile si trasforma da spazio di risulta a nucleo generatore e luogo di relazione diretta tra gli ambienti, organizzati al suo contorno secondo un assetto di pianta ad U. È uno spazio che oltretutto controlla il comfort della casa filtrando la luce esterna, un luogo protetto, completamente interiorizzato, fulcro di relazioni tra le parti. L’attenzione che Siza dedica agli ambienti di transizione trova conferma anche in rapporto a condizioni operative più libere, per organismi residenziali isolati, non condizionati da ristrettezze di superficie o da vincoli ambientali, come più frequentemente rilevabile nella più recente produzione. Dagli interni della casa Vieira de Castro (1984-94), a Vila Nova de Famalicão, il
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Á. Siza Vieira, Scritti di architettura, ed. it. a cura di A. Angelillo, Skira, Milano 1997, p. 203.
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passaggio verso un ambiente naturalistico di forte suggestione paesaggistica avviene con gradualità, attraverso elementi filtranti di margine; il senso di attesa, di pausa in alternativa alle sensazioni prodotte da una transizione improvvisa, smentisce oltretutto quel carattere di continuità diretta tra interno ed esterno fortemente radicato tra i principi del movimento moderno. L’interpretazione delle condizioni ambientali, dei fattori distintivi del sito, come anche l’assimilazione dei caratteri della cultura locale, nella scelta di materiali di uso tradizionale e nell’attuazione di processi costruttivi di tipo artigianale, si pone in opposizione critica nei confronti delle tendenze normative e omologanti della modernità. Ma il contesto può anche assumere connotazioni mutevoli e contraddittorie, può rappresentare per l’idea di progetto una realtà effimera, in rapida e libera trasformazione, non necessariamente il riferimento sicuro di caratteri accreditati. Il modello della città diffusa, frammentata e in costante evoluzione, come è dato rilevare nella forma a sviluppo orizzontale di Los Angeles, offre a Frank Gehry i riferimenti concettuali per un’architettura estroversa e libera da schemi, programmaticamente disinteressata alla composizione come ricerca di forme compiute o come reinterpretazione di modelli stabilmente riconosciuti. A partire dal progetto della propria abitazione californiana di Santa Monica, realizzata nel 1978 come ampliamento di una tipica abitazione unifamiliare suburbana, Gehry sviluppa la poetica della frammentazione e dell’incompiutezza dell’oggetto, risultato di una libera associazione di parti, a prima vista tra loro scoordinate nei rapporti spaziali e costruttivi. Il superamento di finalità estetiche in effetti affranca l’intervento dalla necessità di aderire a convenzioni, di manifestare coerenza nella scelta dei materiali. Nel determinare gli opportuni spazi di espansione, lacerti di superfici avvolgono per strati successivi il nucleo edilizio preesistente, manifestando la propria natura accessoria e funzionale di elementi di facile reperibilità e di speditiva applicazione. Lamiere grecate, griglie metalliche, strutture lignee del tipo balloon-frame, lastre trasparenti di policarbonato, materializzano i pezzi di un collage e accentuano il carattere di instabilità del risultato, in linea con l’intento di fissare nell’apparenza del nonfinito il principio della transitorietà e mutevolezza della realtà. Una casa, per Gehry, è un insieme di parti, di elementi distinti ma pur sempre corrispondenti ai diversi punti di un preciso programma progettuale. Non si tratta dunque di un metodo compositivo finalizzato al raggiungimento di un carattere unitario, di una sintesi identificabile come modello formale compiuto, quanto al contrario di una modellazione di oggetti formalmente autonomi, ai quali attribuire specifiche funzioni. Nell’intervento per la dépendance degli ospiti della casa Winton (1982-87), a Wayzata, Minnesota, è evidente come l’articolazione degli ambienti, ognuno dei quali corrispondente ad un distinto volume, non risponda a regole di coordinamento se non per la convergenza nel nucleo centrale dello spazio comune. Le camere e l’ambiente dedicato al camino costituiscono gli elementi centrifughi di un impianto a girandola, singolarmente caratterizzati nei caratteri cromatici e materici delle superfici. La mancanza di aperture sui fronti rivolti verso la residenza principale, realizzata nel 1952 su progetto di Philip Johnson, accentua le qualità scultoree di questi oggetti, manifestamente affrancati dal riconoscersi come parti di uno stesso organismo. Il disinteresse di Gehry per il contesto si manifesta nell’accentuazione dell’individualità dell’opera come espressione di una personale ricerca progettuale. Questo avviene in ambito urbano, negando ogni coinvolgimento da parte del costruito, e a maggior ragione ove il quadro ambientale diviene più dissociato e libero da vincoli. La superficie a disposizione viene frazionata e interessata nella sua totalità da interventi diffusi, difficilmente riconducibili ad una logica di sviluppo unitario. È una scena composita e multiforme in cui a volte campeggiano oggetti enigmatici e inquietanti, dettagli fuori scala, elementi sin-
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Fig. 121 – Frank Gehry, Winton Guest House, Wayzata, Minnesota, 1982-87. Sezione e pianta del piano terra. Fig. 122 – Frank Gehry, Schnabel House, Brentwood, California, 1986-89. Pianta complessiva del piano terra, sezione. Fig. 123 – Frank Gehry, Chiat House, Telluride, Colorado, progetto, 1998. Sezione.
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tomatici della volontà di sperimentare le potenzialità dei materiali e dei sistemi costruttivi. Indicativi di questo interesse sono talvolta settori di fabbrica funzionalmente accessori quanto caricati oltre modo di significato; può essere un esempio la torre di avvistamento della casa Norton (1982-84) a Venice, California, un oggetto avanzato sulla strada rispetto all’edificio residenziale, al tempo stesso segnale di riconoscimento dell’insieme e punto privilegiato per l’osservazione del mare. Per la casa Schnabel (1986-89) a Brentwood, California, il perno della composizione è una alta e instabile torre ai cui margini si aggregano i volumi corrispondenti agli ambienti della zona giorno, uniformati nel trattamento superficiale in lamiera di rame rivestita in piombo. Le non comuni aspettative del cliente in questo caso si realizzano in un complesso metaforicamente assimilabile ad un villaggio, articolato in settori strutturalmente indipendenti, posti in relazione reciproca attraverso percorsi e spazi esterni di comune convergenza. Il quadro complessivo ammette elementi multiformi, dedicati a specifiche funzioni, che in qualche caso assumono il carattere di episodi imprevisti, di vere e proprie «folies». Il nucleo della camera-studio padronale diviene un’isola affiorante da uno specchio d’acqua, coronato da una artificiosa e instabile tettoia. L’interesse per la modellazione scultorea che in questo caso si esprime per frammenti isolati, nell’avanzamento della ricerca di Gehry tenderà a coinvolgere l’intero organismo. L’occasione per manifestare questa nuova tendenza è offerta dal progetto della casa Chiat (1998), a Telluride, tra le montagne del Colorado, ove l’idea architettonica sviluppa la metafora organica dell’edificio-roccia, di una casa radicata nel suolo e da questo emergente nella forma di naturale concrezione di massi. Può sembrare contraddittorio ricercare nel tema della villa, in quanto ambito di vita elitario e generalmente isolato, quei caratteri di tensione e contrasto che animano le strutture territoriali ad alta densità, ove congestione e disarmonia assumono valore condiviso e distintivo della contemporaneità. Riflessioni teoriche sulle manifestazioni della vita associata, sulle espressioni della cultura di massa in ambito metropolitano, offrono a Rem Koolhaas, primario referente dello studio OMA, spunti per una ricerca progettuale sulla casa individuale come luogo alternativo al rassicurante mondo del privato, opponendo la tradizionale dimensione domestica ad un ambito di vita che accoglie forme d’ibridazione, sfasature, motivi di contrasto e di sorpresa. Il disinteresse per l’affermazione di un personale linguaggio espressivo rende Koolhaas libero di attingere riferimenti nelle manifestazioni spontanee della realtà, nelle proposte della produzione industriale, nella diffusione di modelli commerciali. Colpisce l’osservatore l’indifferenza con cui nello stesso registro architettonico si assemblano materiali diversi, naturali e artificiali, l’apparente noncuranza nei rapporti di massa e di superficie tra settori di fabbrica, l’assenza di contestualizzazione. La critica ha riconosciuto nella villa Dall’Ava (1985-91) a Saint-Cloud, presso Parigi, gli estremi di un’architettura manifesto che, secondo programma, rifiuta ogni compromesso con un ambiente stabilizzato di edilizia altoborghese e si sviluppa in totale libertà di assetto volumetrico e di coinvolgimento nel costruito degli spazi aperti. Due oggetti, distinti per destinazione funzionale e per qualità formali e materiche, fluttuano come elementi astratti in uno spazio complessivo indeterminato; sono nuclei autonomi riferibili all’ambito più privato di genitori e figli, terminali di un organismo a sviluppo continuo, fruibile come successione progressiva di situazioni spaziali. Il lungo corpo a sviluppo lineare che collega queste due «floating boxes» offre in copertura il pregio di una piscina che strutturalmente costituisce l’elemento di chiusura orizzontale del sottostante settore degli ambienti a giorno. L’organismo edilizio non è determinato dalla sovrapposizione di livelli planimetricamente corrispondenti ma dalla libera associazione di entità autonome per forma e assetto tettonico. Questo carattere d’indipendenza tra strati si ripresenta an-
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Figg. 124, 125 – Rem Koolhaas / OMA, villa Dall’Ava, Saint Cloud, Parigi, 1985-91. Pianta del piano primo e secondo, sezione; veduta dal giardino. Fig. 126 – Rem Koolhaas, villa Geerlings, Holten, 1992-93. Pianta del piano terra e del piano primo, sezione longitudinale. Figg. 127, 128 – Rem Koolhaas / OMA, villa Lemoine, (maison á Floriac), Bordeaux, 1994-98. Veduta del fronte prospiciente la corte di ingresso; piante dei tre livelli e sezione trasversale.
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cora nella villa Geerlings (1992-93) a Holten, in Olanda, accentuato dal deciso slittamento orizzontale del piano superiore, ove trovano spazio gli ambienti padronali, rispetto al piano terra pensato per ospitare saltuariamente le famiglie dei figli. Al carattere chiuso e massivo di quest’ultimo settore parzialmente incuneato nel terreno corrisponde al piano superiore un volume aereo, alleggerito al contorno da un diaframma vetrato continuo. Lo spazio interno sostanzialmente indifferenziato include il nucleo della camera dei genitori e dei relativi servizi, un ambito strettamente riservato, difeso da murature impenetrabili e aperto su una piccola corte inglobata nella stessa isola. Il programma teorico di Koolhaas non pone la funzione come condizione determinativa della forma; è chiara la volontà di superare un principio categorico del movimento moderno dimostrando che una funzione può adattarsi ad una forma precostituita come anche essere associata a forme diverse. Si vuol dimostrare che esigenze particolari possono trovare soddisfazione in spazi indifferenziati o limitativi, possono assumere stimoli da un assetto distributivo articolato e non necessariamente logico. Una dimostrazione in tal senso si rileva nella villa Lemoine (1994-98), a Floriac presso Bordeaux, dove le differenze altimetriche del sito non precludono la ricerca compositiva per associazione di unità indipendenti, connesse a quote diverse da spazi di relazione e di percorso. Sono ambiti di vita che ammettono notevoli gradi di libertà, emozionalmente stimolanti, in questo caso dichiaratamente contrari ad accogliere come atto di rinuncia le limitazioni poste dalle difficoltà motorie di un destinatario legato alla sedia a rotelle. Pur restio a formulare classificazioni, Koolhaas perviene nell’avanzamento della ricerca alla distinzione tra «clean spaces» e «residual spaces», come ambiti separati di azione e di identificazione del carattere del luogo27. La conformazione dell’oggetto rispecchia questa dialettica tra «vuoto», identificato come spazio fondamentalmente attivo, e «solido» quale parte a fruizione limitata, condizionata dalle necessità strutturali, impiantistiche, di arredo fisso. Ciò avviene nel quadro di una nuova concezione dell’edificio, non più delineato per settori formalmente e funzionalmente autonomi, ma modellato plasticamente come solido poliedrico dalle numerose sfaccettature. Il progetto della villa Y2K (1999), a Rotterdam, abbandona il tema compositivo delle «floating boxes» per quello del blocco unico da manipolare stirandone le facce, tagliando e scavando la massa per adeguare alle funzioni gli spazi inclusi. Ma come indica il termine esteso della sigla del progetto, Year Two Kilo, questa direzione di ricerca e il suo sviluppo applicativo, anche in rapporto ad un più ampio campo di intervento, identificano la volontà di chiudere idealmente una fase storica prefigurando all’avvio del nuovo secolo gli estremi di una nuova sfida per l’impegno disciplinare.
Si veda a questo proposito OMA, Y2K. Private Residence, Rotterdam. The Netherlands Design: 1999, «GA Houses», n. 63, 2000, p. 17. Il tema è sviluppato ampiamente in R. Gargiani, Rem Koolhaas/OMA, Laterza, Roma-Bari 2006.
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Capitolo 2
Il contesto ambientale
L’identità regionale Il tentativo di leggere nell’architettura della villa il carattere di un luogo apre il campo a interpretazioni variamente dirette a riconoscere forme e modalità di interazione, motivi di corrispondenza ma anche di contrasto e distinzione. Sviluppandosi tra gli estremi della simbiosi mimetica e della ricerca ideologica di autonomia, il progetto può divenire interprete di valenze culturali, di memorie, di identità, come anche di qualità morfologiche, fisiche e naturali. Le mutevoli espressioni dell’edificio in rapporto al proprio ambiente trovano conferma tanto più per una categoria edilizia, come quella della villa, generalmente caratterizzata dalla disponibilità esclusiva di spazi esterni spesso liberi da vincoli immediati. L’analisi condotta anche su una limitata casistica di interventi può risultare utile a comprendere il legame, fisico e ideale, che l’oggetto instaura con il contesto, assunto quest’ultimo come ambito più generale di relazioni funzionali, figurative, umane. La ricerca dell’identità di un luogo è approdata spesso al riconoscimento di connotazioni regionalistiche, di espressioni vernacolari e frammentarie, talvolta viste in opposizione alle tendenze omologanti della modernità. Pur considerando il contributo di influenze reciproche e di scambi culturali tra ambiti geografici diversi, è possibile individuare, per necessità di analisi, luoghi segnati da tradizioni e modelli di vita affini, caratterizzati da emergenze territoriali e fattori ambientali accomunanti. Una forte identità è storicamente riconosciuta all’area mediterranea, oggetto spesso di interesse disciplinare, di coinvolgimento emotivo, di stimoli culturali e suggestioni. Un architetto svizzero di nascita come Le Corbusier ha motivato con parole ed opere inequivocabili il forte legame acquisito con il Mediterraneo, «re di forme e di luce», fissando a sud della barriera delle Alpi un osservatorio privilegiato per idee nuove. Caratteri della tradizione mediterranea affiorano nelle ville di Hoffmann, Loos, Aalto, di quanti hanno dedicato ripetute frequentazioni alla sua natura accogliente e ricca di espressioni. Le differenze culturali e ambientali che danno vita alle singole tradizioni locali non impediscono di trovare nel progetto dello spazio domestico motivi di affinità e caratteri comuni storicamente condivisi. Le interpretazioni di Gio Ponti sul tema della «casa all’italiana» offrono spunti illuminanti sul rapporto dialettico tra edificio e natura, sul carattere di apertura fiduciosa dello spazio abitato verso l’esterno. La casa mediterranea, dunque, non è strutturata come rifugio rispetto ad un ambiente inclemente, tende ad aprirsi sponLamberto Ippolito, La villa del Novecento, ISBN 978-88-8453-967-0 (print), ISBN 978-88-8453-968-7 (online), © 2009 Firenze University Press
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Figg. 129, 130 – Luigi Cosenza, Rudolph Rudofsky, villa Oro, Napoli, 1935. Piante dei tre livelli; veduta della villa nel suo ambiente naturale. Fig. 131 – Josep Lluis Sert, casa Sert, Ibiza, 1961-71. Pianta del piano terra. Fig. 132 – Hassan Fathy, residenza Taher al-Oman Bey, Fayyum, 1937. Pianta del piano terra e prospetto-sezione.
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taneamente ad esso sopprimendo quanto possibile gli elementi di separazione, sfrutta «invenzioni», quali portici, terrazze, logge, pergolati, giardini pensili, non giustificabili soltanto come attributi formali. Negli ambienti pervasi da senso di intimità, come anche negli spazi della casa aperti verso il paesaggio, Ponti ravvisa la presenza di forze ricreative per lo spirito, non solo la risposta a condizioni di necessità. La semplicità e l’evidenza volumetrica della villa mediterranea non limitano la possibilità di sviluppo di un organismo esteso ed integrato con l’intorno, spesso in sintonia con la movimentata conformazione del suolo. La natura del luogo assume dunque un ruolo determinante, entra in diretta comunicazione con il costruito senza assorbirne mimeticamente la presenza. Affiora con frequenza un forte senso della tradizione, interpretata nei caratteri più spontanei e radicati, tali da stimolare modelli di vita informali ed estroversi. Il luogo stesso è testimone di una cultura materiale ricca di storia, spesso oggetto di studio e di riflessione per un progettista interessato a ricercare nel proprio intervento caratteri di continuità e stabili riferimenti. L’interesse per la casa procidana si riflette, ad esempio, nelle ville di Luigi Cosenza e Rudolf Rudofsky, a Posillipo, Napoli, dove è rispettato il costume locale di identificare le parti aperte della casa, terrazze, logge, anfratti, come spazi vitali, luoghi prevalenti di soggiorno e di movimento. La villa Oro (1935), come anche la villa Savarese (1938), realizzano dunque una sostanziale integrazione tra interno ed esterno; la disposizione aperta e diffusa delle parti trova adesione nella natura impervia del luogo senza rinunciare, come del resto evidente nell’edilizia minore delle vicine isole, ad assumere risalto per contrasto cromatico. Il bianco delle superfici intonacate si staglia con immediatezza sui colori della roccia, della vegetazione e del mare, proponendo oltretutto il segno di un più moderno senso di astrazione. Le citazioni possibili in una sintetica trattazione non rendono ragione delle mutevoli caratterizzazioni della villa mediterranea, al variare delle condizioni ambientali, degli stimoli visivi offerti dai diversi paesaggi, e soprattutto, ai fini di questa analisi, delle espressioni di diverse culture locali. Nonostante l’esigua produzione, l’opera di Dimitris Pikionis mostra una profonda sensibilità per il carattere popolare, etnico, dell’architettura minore dell’Egeo, ne coniuga la tradizionale essenzialità con la moderna semplicità razionalista. Nell’idea di una casa greca senza tempo, come ha modo di ravvisare attraverso un approccio quasi archeologico al tema, affiorano frammenti e immagini del passato, materiali grezzi e pratiche artigianali convivono con mezzi più moderni e funzionali. Gli estremi di un vocabolario vernacolare filtrato dalla lezione del moderno sono ravvisabili nell’esteso intervento del catalano Josep Lluis Sert sulla Punta Martinet, a Ibiza, un villaggio di case per vacanza (1961-71), tra le quali la villa per la propria famiglia. L’adattamento al luogo, prima ancora di rispondere alle condizioni dell’ambiente, trova espressione nell’uso di materiali locali, nella ricorrente conformazione parcellizzata dei volumi, nell’assetto tradizionale degli elementi di fabbrica, in particolare murature in pietra e coperture a terrazza. Nelle ville egiziane di Hassan Fathy, dalla residenza Taher al-Oman Bey (1937), nel Fayyum, alla più piccola villa Zaki (1951), al Cairo, il tipo a corte chiusa si conferma con chiaro intento di continuità con la tradizione araba. Alla base della strutturazione si riconosce costantemente l’associazione funzionale e spaziale di ambienti definiti quanto liberi fra essi da elementi di rigida separazione; questo carattere si riflette all’esterno in volumi distinti, diversamente caratterizzati per altezza e tipo di copertura, con notevole evidenza talvolta per il settore più rappresentativo coronato da una cupola. Gli spazi a corte, ove non manca il richiamo al valore simbolico e vitale dell’acqua, sono considerati luoghi di relazione e di attività domestiche, restituiscono agli ambienti interni il senso di apertura negato dal solido e protettivo diaframma perimetrale che avvolge l’insieme.
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L’influenza degli aspetti naturalistici e ambientali, riconoscibile nella tradizione costruttiva mediterranea, assume particolare evidenza nelle espressioni più tipiche dell’architettura del nord d’Europa. L’identità della regione scandinava, secondo la lettura di Christian Norberg-Schulz, si rivela nella moltitudine dei luoghi, si offre alla vista in uno «spazio discontinuo, mutevole e qualitativamente vario», alla cui particolare caratterizzazione contribuiscono in maniera determinante la rigidità del clima e la variabilità della luce1. Un paesaggio privo di contrasti come quello danese si riflette in architettura nella semplicità volumetrica e nella levigatezza delle superfici, diversamente dal più cangiante paesaggio svedese o da quello norvegese, accidentato e sorprendente, ricco di stimoli e di sfide per ogni forma d’inserimento. L’uniformità dell’ambiente naturale finlandese trova nei laghi e nella foresta motivi d’ispirazione e di radicamento di un sentimento nazionale, dalla fine dell’Ottocento tanto forte da permeare a fondo lo spirito creativo dei migliori architetti. La diversa storia dei quattro paesi è dunque alla base di espressioni culturali distinte, per alcuni elementi anche di segno opposto, tuttavia assimilabili sulla base di un comune sentimento di rispetto della natura e della tradizione locale. Nei limiti di un prevalente volume elementare di forma allungata, la villa Snellman (1917) a Djursholm, presso Stoccolma, manifesta l’attenzione di Gunnar Asplund per il contesto, nel richiamare con raffinata semplicità motivi d’espressione locale e citazioni stilistiche di un repertorio familiare. Seguendo itinerari distinti e personali, gli interpreti del rinnovamento moderno, da Alvar Aalto a Sverre Fehn, hanno messo in luce le condizioni del possibile equilibrio di questo sentito interesse regionalistico con quello per le più aperte e oggettive espressioni d’influenza internazionale. Il sentimento per la natura, tanto radicato ad ogni livello del costume nordico, si manifesta non senza filtri nell’opera di Arne Korsmo, autorevole riferimento in area scandinava della tendenza modernizzante norvegese; la villa Damman (1930) e la villa Stenersen (1937-39), entrambe a Oslo, propongono con forme e mezzi nuovi una strada decisamente alternativa alla riproposizione di caratteri vernacolari, senza per questo risultare prive d’interesse nel sollecitare un rapporto percettivo e funzionale con l’ambiente circostante. Nella realizzazione della propria casastudio (1952-55) a Planetvein, presso Oslo, il proposito di rottura con il passato è evidente dal punto di vista formale e costruttivo; ciò non impedisce l’innesco di una relazione, seppure solo concettuale, con la configurazione spaziale dell’atavica casa rurale norvegese2. Una conferma del valore evocativo dell’eredità storica legata al mondo rurale viene offerta da Alvar Aalto nella villa Mairea (1937), a Noormarkku, Finlandia, con riferimento esplicito a modelli d’insediamento tipici della Carelia, organici e diffusi complessi a corte originati per gemmazione da embrionali nuclei adattati a rifugio. La forma naturale convive con quella artificiale, le forme sinuose rimandano ai contorni dei laghi e si combinano con più razionali forme lineari, così come i materiali naturali, e in particolare il legno trattato a vista, convivono con i più asettici materiali di produzione industriale. Il travaso della tradizione finnica nello spirito della modernità si realizza nella rinuncia ad una concezione unitaria, lasciando autonomia funzionale ed espressiva ai diversi episodi plastici e materici afferenti sulla corte comune, identificando al contrario nei fronti prospettanti verso la foresta un ca-
C. Norberg Schulz, Architettura scandinava, Electa, Milano 1990. Più in dettaglio la casa Korsmo risulta organizzata su tre diverse unità spaziali; quella privata, corrispondente alla tradizionale stue, quella della socialità, corrispondente al loft, quella aperta sull’esterno, corrispondente al tun. Le motivazioni di queste relazioni sono presentate convincentemente in G. Postiglione, Arne Korsmo eget hjem. Una casa tradizionale, in N. Flora, P. Giardiello, G. Postiglione (a cura di), Arne Korsmo – Knut Knutsen. Due maestri del Nord, Officina edizioni, Roma 1999, pp. 46-53. 1 2
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Fig. 133 – Gunnar Asplund, villa Snellman, Djursholm, Stoccolma, 1917. Pianta del piano terra e del piano primo. Fig. 134 – Sven Gottfried Markelius, villa Markelius, Kevinge, Svezia,1944-45. Planimetria generale. Fig. 135 – Ralph Erskine, villa-studio Erskine, isola di Drottningholm, Svezia, 1963. Planimetria generale. Fig. 136 – Sverre Fehn, villa Busk, Bamble, Norvegia, 1987-90. Pianta del livello principale e prospetto sezione dell’edificio lungo.
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rattere più chiuso e protettivo. Con chiaro riferimento all’impianto delle fattorie tradizionali svedesi, il tema tipologico della corte viene assunto anche da Sven Gottfried Markelius per la propria villa di campagna (1944-45) a Kevinge; carattere dominante è quello della continuità visiva e funzionale degli ambienti verso lo spazio centrale, lasciato nel suo assetto naturale a sviluppo libero. Il costruito si esprime in forme semplici e spontanee, messe in atto secondo modalità costruttive consuete, dai mattoni a vista al legno naturale, alle coperture con tetti a spioventi, per un risultato complessivo di forte radicamento paesistico. Dal secondo dopoguerra il senso del luogo, riconoscibile soprattutto nelle espressioni della natura, stimola un più forte approccio organico, anche per contrasto con la diffusione di un rinnovato interesse per le sperimentazioni del movimento moderno. Nel multiforme e accidentato paesaggio norvegese gli interventi di Frederick Konow Lund per numerose abitazioni unifamiliari, come anche di Knut Knutsen, in particolare per la propria casa di vacanza a Portør (1949), confermano la tradizione della costruzione in legno, dell’uso di materiali del luogo sempre resi riconoscibili nell’opera finita con spiccata caratterizzazione naturale. Nella casa di Pørtor, autentica anticipazione di una visione ecologista, la spontaneità delle forme di aggregazione lascia liberi i diversi settori della casa di adattarsi all’andamento del suolo, sfruttando le rocce emergenti come nucleo d’origine e base strutturale. Si attua un intento di completa sottomissione al carattere del paesaggio, per un’idea di vita domestica legata ai ritmi, alle voci e alle luci, agli elementi della natura; questo dunque attraverso la mediazione di un edificio quasi inaccessibile dal versante pubblico, difficilmente distinguibile tra le rocce e gli alberi. L’intento dell’integrazione dell’opera nel contesto tende dunque a materializzarsi in oggetti modellati in rapporto alle emergenze e alle qualità del sito ma si esprime anche nella ricerca di elementi di continuità storica e di espressioni di cultura materiale. Più libero dal riconoscere la tradizione «organica» del contesto è l’approccio progettuale di Ralph Erskine, inglese di nascita ma svedese di adozione, aperto a soluzioni informali e stimoli di diversa origine, senza alcuna tentazione per la riproposizione di modelli stabilizzati o di motivi vernacolari. Come dimostrato nella costruzione della propria casa studio (1963) nell’isola di Drottningholm, in Svezia, il senso del luogo non è nelle qualità mimetiche di materiali naturali; pervade altresì lo spazio domestico come condizione di benessere psicofisico, di stimolo percettivo, di rapporto calcolato con i fattori climatici. Sfugge anche ad un approccio progettuale strettamente ambientalista e regionalistico la visione di Jørn Utzon e di Sverre Fehn, entrambi interessati a sviluppare il tema dell’inserimento dell’opera nel paesaggio secondo un linguaggio espressivo autonomo, affatto incline a forme di trasfigurazione dell’intervento in chiave naturalistica. L’interpretazione del luogo presuppone l’assoluta libertà dell’architettura nell’assorbirne gli stimoli e nel trasporre le valenze ambientali nello spazio domestico. Per Utzon ciò è particolarmente evidente anche lontano dalla nativa Danimarca, per le due ville di famiglia realizzate a Maiorca, negli anni Settanta e nei primi anni Novanta, dove le condizioni di esposizione, di equilibrio climatico, di topografia, acquistano senso in rapporto ai forti segnali espressi dal luogo. Nel tormentato paesaggio norvegese di Bamble, Sverre Fehn offre con la villa Busk (1987-90) l’esempio di un confronto drammatico tra forza della natura e architettura. L’assoluta semplicità dei volumi conferma l’artificio dell’intervento, senza tentazioni mimetiche o riferimenti ad espressioni formali regionalistiche. Il senso di apertura e di continuità visiva che anima gli spazi interni si estende al fronte di accoglienza, disteso e permeabile, ma trova per contrasto una netta cesura nel rapporto antitetico che il fronte opposto realizza con la natura circostante. Lo spirito della tradizione affiora nelle tecniche costruttive, legate soprattutto all’uso della pietra e del legno, senza esclu-
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dere che in materiali più moderni, tra i quali il cemento trattato rusticamente a vista, sia possibile riconoscere qualità d’immagine in sintonia con la natura del suolo. La ricerca di area scandinava, pur con alcune differenze, assume il parametro del luogo come riferimento per la sperimentazione degli aspetti più autentici della natura, colta nelle sue manifestazioni più vere e incontaminate. L’idea di paesaggio costruito, di un «giardino paesaggistico», soltanto allusivo alla spontaneità della natura, appartiene storicamente ad altra tradizione, legata soprattutto al mondo anglosassone. La casa unifamiliare inglese è per Vita Sackville-West la manifestazione del tipico «genio inglese dell’architettura privata», generalmente opera di anonimi costruttori e risultato di una crescita naturale; il primato qualitativo dell’architettura rurale su quella urbana, secondo la scrittrice, conferma il fatto che fondamentalmente «gli inglesi sono gente di campagna»3. In realtà già dalla seconda metà dell’Ottocento il modello abitativo del cottage, da abitazione contadina, ha assunto la configurazione di una residenza aggiornata nelle componenti funzionali e nelle dotazioni impiantistiche, per rispondere alle esigenze di comfort di una classe sociale benestante, attenta a distinguere tra un ambito di vita privata, preferibilmente nella tranquillità della campagna, e un ambito di rapporti sociali legati al lavoro, necessariamente in città. Con l’avvio del nuovo secolo tende invece ad esaurirsi la lunga tradizione delle English Country Houses, residenze di prestigio ormai non più sostenibili funzionalmente ed economicamente, a suo tempo campo privilegiato di espressione di stili nazionali e d’importazione, di caratteri formali aulici e vernacolari. Resta vivo comunque il richiamo a questa tradizione, ancora oggi ispiratrice di soluzioni di arredo, di dettagli architettonici, di forme di organizzazione dell’ambiente naturale, di caratteri spesso giustificati sul piano del gusto più che su quello di una rigorosa conoscenza storica. All’avvio del Novecento il riferimento più immediato per l’ambientazione della casa di campagna inglese è dunque identificabile nel giardino, nell’insieme di spazi esterni in cui l’edificio stesso si articola riflettendo le valenze topografiche e figurative del luogo. Senso di protezione ma anche di estensione verso l’immediato intorno sono caratteri che convivono in configurazioni d’impianto apparentemente prive di controllo geometrico, da cui scaturiscono volumi di varia forma ed altezza. L’integrazione del giardino con gli spazi chiusi della casa si realizza grazie alla fluidità distributiva di questi ultimi, sempre coordinati tra loro e percettivamente liberi da elementi di rigida delimitazione. Elementi di immediata connessione, funzionale e visiva, tra i quali l’immancabile portico e la baywindow, diventano dunque sintomatici di questa reciproca corrispondenza tra interno ed esterno, opportunamente filtrata e direzionata. Come la casa anche il giardino, nella sua apparente informalità, accetta il portato di tradizioni estranee, diventando luogo di sperimentazione e di invenzioni, di innesti di elementi d’arredo e di essenze che evocano mondi esotici. Questa apertura verso orizzonti lontani, espressione di una coscienza nazionale saldamente ancorata alle conquiste coloniali, convive con l’attenzione per caratteri di derivazione locale, nell’uso di materiali e tecniche costruttive secondo le regole dell’arte, nella riproposizione di caratteri formali della tradizione vernacolare. Motivi in tal senso sono ampiamente riscontrabili nell’opera di Edwin Landseer Lutyens, a partire dai cottages degli ultimi anni dell’Ottocento secondo riferimenti Arts and Crafts, con un uso attento dei materiali locali e uno spiccato interesse per l’integrazione tra costruzione e ambiente. Il lungo sodalizio professionale con Gertrude Jekyll, a cui è affidato il tema dell’inserimento paesaggistico, trova espres-
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V. Sackville-West, English Country Houses, William Collins, London 1941, ed.it., Passigli, Firenze, non datato, p. 7.
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sione in pittoresche ed animate composizioni, coinvolgenti per la varietà e i contrasti degli elementi in gioco, per la sorprendente ricchezza delle situazioni ambientali. Deanery Gardens (1899-1901), a Sonning, nel Berkshire, può costituire un esempio indicativo di questa tendenza ancora convinta dell’attualità di caratteri espressivi vernacolari, ma allo stesso tempo interessata a sperimentare nuove forme di rapporto tra interno ed esterno, forse anche in sintonia con quanto avviene oltreoceano ad opera di Wright. Nel ravvivare la tradizione dell’English Country House, lo sviluppo successivo della ricerca di Lutyens approda a più severi motivi Neo-Georgiani e Neo-Classici, rispettivamente riscontrabili in Middlefield (1908), a Great Helford, Cambridge, e in Heathcoate (1906), Ilkley, Yorkshire, dove l’articolazione volumetrica delle precedenti realizzazioni ha ormai lasciato il campo a composizioni più monumentali e simmetriche, quasi per stigmatizzare, in questo secondo caso, il modello attualizzato di una «pseudo-Italian villa». Questa tarda riproposizione, anche in chiave stilistica, dell’ideale architettonico palladiano trova conferma, per contrasto, nell’informalità del giardino paesaggistico, riconoscendo nella lezione di Inigo Jones gli estremi di una nobile tradizione di valore universale. Casa e giardino costituiscono dunque un binomio inscindibile dei modelli residenziali English Style, oggetto di divulgazione oltre i confini nazionali, e in particolare oltreoceano ove da tempo risultano diffusamente assimilati nella produzione del New England. Nel corso dei primi decenni del Novecento l’interesse degli inglesi per la tradizione ha indubbiamente posto un freno alla ricerca di modelli e forme espressive innovative, in linea con l’atteggiamento di estraneità assunto nei confronti dei movimenti europei d’avanguardia. È una posizione di isolamento che rende tanto più oneroso e circoscritto il tentativo di apertura al modernismo internazionale. L’opera divulgativa di Francis Reginald Stevens Yorke, fino al 1937, in effetti farà leva su realizzazioni tratte dal più ampio contesto europeo e, per accreditare il passaggio in Inghilterra delle nuove teorie architettoniche, sulla produzione di architetti qui trasferiti per motivi politici. La breve parentesi inglese di Walter Gropius, Marcel Breuer, Mies Van der Rohe, Berthold Lubetkin, tra i tanti, dà ossigeno alle idee di architetti locali innovatori, molti dei quali associati nel gruppo MARS (1933-57) sulla base di un forte impegno teorico sul fronte dell’edilizia sociale e della pianificazione urbana. Elementi di sostanziale novità per il contesto inglese possono essere riconosciuti in abitazioni per luoghi di vacanza, spesso destinate a famigliari e parenti degli stessi progettisti, a rari committenti animati dall’interesse per la cultura architettonica continentale. È in questi frangenti che Gropius realizza con Maxwell Fry la villa Donaldson (1936) nel Sussex; frutto della collaborazione di Marcel Breuer con Yorke è la Sea Lane House (1936-37), ad Angmering-on-Sea, sempre nel Sussex, chiaramente legata al principio corbusiano dei pilotis, con copertura piana e terrazze praticabili ai due livelli abitabili. Ciò che è utile notare in questa sede tuttavia è il fatto che nel corso del secolo l’ideale residenziale unifamiliare, in particolare per la committenza benestante, resta ancorato ai modelli della tradizione, tanto sentita da privilegiare generalmente il riutilizzo del patrimonio edilizio storico alla sperimentazione di nuove tecniche e forme di organizzazione dello spazio domestico. L’interesse per la villa moderna è dunque relativo, se non addirittura rifiutato dai più convinti sostenitori della tradizione, con motivazioni ricorrenti in merito ai limiti dell’omologazione dell’architettura internazionale e alla necessità di confermare l’identità culturale del luogo. Ancora di recente l’eredità del passato assume fondamento nella visione classicheggiante di Quinlan Terry, basata sul recupero filologico di modelli stilistici e modalità costruttive; la Villa «Veneto» e la Villa «Jonica» (1991), entrambe nel londinese Regent Park, sono esempi emblematici quanto inattuali della possibilità di realizzare oggi alcune Country Houses reinterpretando filologicamente le linee del piano di John Nash.
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Nei primi due decenni del Novecento l’architettura domestica inglese trova riscontro in ambito mitteleuropeo, segnalandosi in particolare nell’opera divulgativa e nella ricerca progettuale di Hermann Muthesius4. Tra i fattori determinanti e le costanti individuate nell’analisi di un esteso repertorio di realizzazioni, si segnalano i caratteri di stretta integrazione tra casa e giardino, di adattamento dell’opera al sito e alla natura circostante. L’interesse per questi motivi qualificanti si concilia con quello per la riscoperta dei caratteri tipologici e costruttivi dell’architettura spontanea, nella dichiarata avversione per le forme ufficiali e accademiche dell’architettura. Su un piano ideologico questa ricerca di radici nella tradizione rurale corrisponde per Muthesius con l’affermazione di una netta antinomia tra campagna e città, tra l’abitare a contatto con la natura, considerata fattore di tranquillità e di equilibrato sviluppo della personalità, e l’abitare in luoghi densi e più congeniali ad attività lavorative e di relazione. In realtà l’ambito territoriale più interessato da questo ideale programma di decentramento della funzione abitativa non verrà a corrispondere in Germania, come invece avvenuto storicamente in Inghilterra, con il contesto rurale, quanto invece con il suburbio metropolitano. In questo quadro ambientale la borghesia, affermatasi con la recente industrializzazione del paese, è in grado di soddisfare i propri obblighi di rappresentanza avvalendosi allo stesso tempo delle risorse di una natura marginale e non del tutto autentica. Il caso di Hellerau, prima città-giardino tedesca in attuazione nei pressi di Dresda dal 1909, è significativo della contrapposizione in atto tra coloro che ancora credono nella possibilità di attingere ai modelli della tradizione architettonica tedesca, attingendo ad un repertorio di tipo pittoresco-decorativo, e quanti hanno messo già in luce possibilità di rinnovamento, nell’apertura al portato della tradizione costruttiva inglese, secondo le indicazioni di Muthesius, ma anche attraverso la più radicale semplificazione delle qualità espressive del risultato, come proposto da Heinrich Tessenow nella ricerca di corrispondenza tra scelte formali e principi di pura necessità. A Hellerau come in altre realtà urbane in espansione, la villa borghese trova posto in un quartiere specifico venendo a costituire per reiterazione una sorta di colonia, un aggregato esteso di particelle autonome. L’isolamento della villa all’interno di un limitato spazio privato destinato a giardino trova corrispondenza con un assetto tradizionalmente «introverso» del spazio domestico, decisamente circoscritto da una struttura muraria continua, povero di sollecitazioni per il coinvolgimento dell’esterno quanto spazialmente ricco all’interno di situazioni spaziali impreviste. Il modello della Casa di Goethe, nel parco di Weimar, nella conformazione di volume elementare sormontato da un archetipico tetto a capanna, costituisce un sicuro riferimento della linea di ricerca di Tessenow, improntata alla selezione, alla riduzione all’essenziale, all’esattezza del risultato. Come riscontrabile in diverse realizzazioni, la villa per Adolf Otto (1912-13) nella città-giardino di Falkenberg, Berlino-Grünau, riassume il proprio assetto nella purezza formale di elementi stereometrici, il dado di base e il tetto prismatico. La stessa meticolosa e intransigente attenzione è dedicata al disegno del giardino, nei cui confronti lo spazio domestico non propone episodi adatti a realizzare continuità di sviluppo. La pergola che inquadra la porta d’ingresso e la limitata sporgenza di piccoli volumi non smentiscono il carattere complessivo di autonomia rispetto al quadro ambientale. In rapporto al carattere del luogo anche Adolf Loos mostra un interesse limitato per ricavarne motivo di coinvolgimento. La programmatica distinzione tra interno ed esterno
4 L’opera editoriale di Hermann Muthesius, Das englische Haus, consta in 3 volumi pubblicati da Wasmuth a Berlino tra il 1904 e il 1905. L’opera è stata riedita parzialmente solo più recentemente (1979).
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tuttavia non pregiudica la possibilità di offrire continuità di sviluppo ad alcuni ambienti su terrazze e piani di copertura, nel pieno controllo dell’unità volumetrica del risultato. La scelta di un carattere prevalente per il rivestimento, l’intonaco bianco, asseconda il principio di astrazione geometrica e di sostanziale indifferenza nei confronti dell’ambiente, sia esso urbanizzato o più a contatto con la natura. Pur nella specificità dei singoli contributi, la cultura architettonica mitteleuropea conferma nei primi decenni del secolo una debole volontà di superamento del tradizionale senso di chiusura e riservatezza dello spazio domestico nei confronti delle sollecitazioni espresse dal versante esterno. Non mancano nell’architettura della villa episodi di mediazione tra interno ed esterno, quali la veranda, il giardino d’inverno, l’erker e il bovindo, elementi comunque strutturati come parti integranti dell’edificio, come luoghi protetti per l’osservazione dell’esterno più che come occasioni per realizzare con esso un contatto diretto. Con le dovute eccezioni, conseguenti soprattutto all’apertura verso tradizioni non autoctone, inglese e mediterranea in particolare, sono il senso di introversione e di isolamento dal contesto che contraddistinguono il carattere identitario della residenza unifamiliare centroeuropea. Per contrasto ciò pone in risalto il contributo innovativo degli architetti del movimento moderno nell’opera di rottura dei limiti fisici dell’organismo edilizio e nella ricerca di forme di continuità distributiva e percettiva tra gli spazi dell’abitazione e il suo ambiente. Risultati in tal senso tuttavia non consentono associazioni di comune orientamento, a fronte della permanenza nel tempo di motivi legati a specifiche tradizioni locali, dell’influenza di culture esterne, degli interessi individuali dei progettisti. La diffusione oltreoceano dei modelli edilizi inglesi ha radici profonde; le idee importate nel corso degli ultimi tre secoli da contesti sociali e culturali molto diversi non hanno impedito possibilità di adattamento alle particolari condizioni locali. Nelle diverse accezioni del termine «colonial» si riconoscono caratteri specifici dell’architettura domestica del Vecchio Continente, senza escludere allo stesso tempo l’assimilazione di elementi formali e tipologici autoctoni. Per quanto rielaborati, sono riconoscibili caratteri espressivi di chiara derivazione europea, quali il Dutch Colonial, nello Stato di New York, il French Colonial, nelle aree rurali della Lousiana, lo Spanish Colonial nel Southwest e nella Florida. È facile rilevare come l’interesse degli americani per la tradizione coloniale sia rimasto vivo nel corso del Novecento, non senza limitazioni per la diffusione di idee innovative. Buona parte della produzione edilizia residenziale, pubblicizzata e commercializzata sulla base di cataloghi, ha continuato ad adottare i riferimenti consueti della caratterizzazione stilistica, allusivi a modelli d’importazione, spesso oggetto di libere e fantasiose rielaborazioni. La prima convincente reazione alla diffusione dei modelli coloniali, soprattutto nella versione più elitaria riferita alla casa Georgiana, è ascrivibile nei primi anni Ottanta dell’Ottocento all’opera di Henry Hobson Richardson, da più parti accreditato come vero e proprio creatore di un «american idiom». Per gli incarichi pubblici la formazione europea, e in particolare l’interesse per la rielaborazione di temi stilistici riferiti al Romanico del sud della Francia, costituiscono i presupposti per un’architettura dai forti effetti di massa, la cui chiarezza formale non mancherà di influenzare gli esponenti della Scuola di Chicago. È comunque nel progetto domestico che Richardson ha espresso nuovi principi di un carattere totalmente originale e autoctono, al di là di qualunque associazione stilistica, evidente nella preferenza accordata alle condizioni di vivibilità degli ambienti e alla ricerca di integrazione spaziale e formale con la natura del luogo. La Stoughton House (1882-83), a Cambridge, Massachusetts, in particolare, costituirà l’antecedente di una ampia produzione di residenze suburbane ed extraurbane; la configurazione volumetrica è affidata a forme elementari, liberamente disposte e relazionate al piano di campa-
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Figg. 137, 138 – Edwin L. Lutyens, Deanery Gardens, Sonning, Berkshire, 1899-1901. Planimetria generale; particolare del fronte di ingresso dal giardino. Fig. 139 – Heinrich Tessenow, villa Adolf Otto, Berlino-Grünau, 1912-13. Piante, prospetto e sezione. Fig. 140 – Henry H. Richardson, Stoughton House, Cambridge, Massachusetts, 1882-83. Pianta del piano terra. Fig. 141 – Herbert Greene, Casa della prateria, Norman, Oklahoma, 1962. Disegno prospettico. Fig. 142 – Bruce Goff, Bavinger House, Norman, Oklahoma, 1949. Piante dei due livelli, sezione.
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gna, avvolgenti spazi interni fluidi, liberi da elementi rigidi di suddivisione e aperti verso l’esterno con ampie luci. Sono principi che l’architettura americana, all’avvio del nuovo secolo, vedrà pienamente realizzati nell’opera di Wright, ma che per il momento non hanno una logica trasposizione nell’immagine del risultato. Il carattere formale apparente trova espressione nei termini di quello che Vincent Scully più tardi definirà con l’accezione di Schingle Style, cogliendo come aspetto rilevante, ma non esauriente, l’originale trattamento superficiale dell’involucro esterno, una pelle naturale in scandole di legno avvolgente l’intero organismo. La rustica natura del rivestimento, risolta in altre opere anche in accordo con diaframmi di pietra sbozzata, inaugura dunque una tendenza inversa al diffuso criterio di evidenziazione dell’oggetto per contrasto con l’ambiente naturale. Dal punto di vista tipologico, già da tempo la casa unifamiliare English Style sembra aver trovato nella regione del New England un punto fermo nel modello four-on-four room, sviluppato su due livelli distintamente destinati ai settori giorno e notte, con impianto di forma rettangolare, hall e scala centrali, impaginato simmetrico dei fronti, camino centrale o sulla mezzeria dei lati corti, portico e garage generalmente aggregati al di fuori dello stereometrico blocco principale. Sono caratteri ricorrenti, questi, rispettati con un certo rigore, in linea con principi di essenzialità, di chiarezza formale e costruttiva, non estranei alla ricerca che Walter Gropius ha seguitato a condurre in loco dalla fine degli anni Trenta sugli aspetti dell’organizzazione funzionale, della qualità tecnica, dell’economia di produzione. Nuovi requisiti di vivibilità e comfort, adeguati alle esigenze di una crescente fascia sociale di medio reddito, emergono a partire dal 1910 nel modello unifamiliare del bungalow, generalmente su di un solo livello coperto da tetto ad ampie falde. Si riconoscono all’interno, soprattutto per gli ambienti a giorno, requisiti funzionali e qualità spaziali del tutto nuovi, indicativi di una visione informale della vita in ambito domestico. Nei limiti di un oggetto di spedita produzione e di diffuso accesso economico, questo modello si presterà nel corso del secolo a infinite variazioni di assetto e di forma, accreditandosi come primo e distintivo riferimento dell’American Dream House. Più indicativa del benessere raggiunto dalla società americana a partire dagli anni Cinquanta è invece la ranch house, a tutti gli effetti soluzione abitativa che per impegno costruttivo e disponibilità di spazi, interni ed esterni, viene a ravvivare in modo nuovo la tradizione storica della villa. Il successo di questo modello è dimostrato dalla diffusione avuta soprattutto nella West Coast, per condizioni ambientali e per stili di vita più adatta a coglierne le potenzialità funzionali ed espressive. Riferimenti stilistici spesso abusati, tra i quali risulta prevalente lo Spanish Colonial, si alternano ai luoghi comuni dell’International Style, senza comunque smentire il carattere più autentico che l’organismo edilizio è in grado di esprimere, nell’aprirsi al suo intorno verso un ambiente naturale, solo apparentemente spontaneo5. L’ambito d’inserimento più tipico dei modelli abitativi americani è dunque identificabile nelle estese aree suburbane, non sempre limitrofe agli insediamenti del terziario ma comunque facilmente raggiungibili con mezzi di trasporto privati. È questo un fenomeno che si configura già nella seconda metà dell’Ottocento con interventi sul territorio espressamente organizzati a città-giardino, in attuazione di un disegno che concilia le esigenze di servizio con le qualità paesaggistiche dell’ambiente. Le aspettative di benessere di una società in rapida evoluzione si riflettono in modelli di vita informali, trovano spazio ne5 Una rielaborazione convincente dello Spanish Style californiano, che a tutti gli effetti può essere considerata come avvio della semplificazione formale più tardi diffusa in America dal movimento moderno europeo, può essere vista nella Scripps House (1916), a La Jolla, California, ove Irving Gill svolge il tema compositivo, nei limiti di volumetrie semplici ed articolate, di superfici verticali piane dipinte di bianco.
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gli ampi e fluidi ambienti di abitazioni rigorosamente unifamiliari, nel verde dei giardini privati. La villa suburbana, nata come rifugio temporaneo alternativo alla vita di città, con l’avvio del nuovo secolo si trasforma in abitazione principale, trovando motivo di riscatto dal proprio isolamento nella crescente affidabilità dei mezzi di comunicazione. Si tratta dunque di uno sviluppo sociale e culturale di ampio raggio, ben compreso anche dallo stesso Wright allorché negli anni Trenta verrà a porsi con determinazione l’obbiettivo di assecondare le aspettative di una domanda abitativa non più soltanto elitaria, senza per questo riflettersi nell’omologazione del prodotto di massa o nella rinuncia al privilegio del rapporto con l’ambiente naturale. Se il quadro ambientale della prateria fornisce a Wright i presupposti ideali per una ricca e coinvolgente stagione creativa dedicata alla residenza unifamiliare di prestigio, il parco suburbano ne consente la verifica, pur con qualche restrizione ma senza per questo compromettere i principi basilari di una ricerca centrata sulla continuità spaziale, percettiva, fisica tra interno ed esterno. Ciò avviene nei limiti di lotti di dimensione relativamente esigui, come è evidente per la Robie House (1909) in Oak Park, a Chicago, il cui riferimento paesaggistico si esaurisce negli ampi viali alberati di contorno, ma ha modo di esprimersi più diffusamente in opere a sviluppo libero su aree meno parcellizzate, come ad esempio nel caso della Coonley House (1908), a Riverside, una località suburbana di Chicago pianificata mezzo secolo prima da Frederick Law Olmsted. Il senso del luogo non sembra affidato all’interpretazione di specifiche qualità paesaggistiche, quanto invece all’idea di integrazione armonica tra architettura e natura attentamente studiata e organizzata sul campo. Sarà a Taliesin, per la propria residenza-studio più volte ricostruita a partire dal 1911, e con grande evidenza a Bear Run, nella Casa della Cascata (1936), che Wright avrà modo di manifestare senza filtri e limitazioni la propria spiccata sensibilità verso un ambiente naturale autentico. Condizione essenziale del raggiungimento del carattere di organicità è in questi casi anche l’attenzione riservata alla lavorazione dei materiali del luogo, esaltati a vista nelle proprie specificità fisiche e sensoriali. La tendenza organica, evidente anche nell’opera di architetti della West Coast, tra cui è opportuno segnalare William Wilson Wurster, si accredita dunque come forma espressiva tipica dell’identità americana, spesso anche polemicamente contrapposta al carattere di astrazione d’importazione europea, di cui Richard Neutra diviene primario interprete, o alla deriva storicista dei vari revivals, più tardi ancora affioranti nelle espressioni del movimento post-modern. Ciò trova spazio nello «spirito di frontiera» di una coscienza nazionale che dalle proprie origini ha istituito un quotidiano confronto con le forze della natura, nei grandi spazi aperti e spesso inospitali. Qui trova modo di esprimersi, secondo Bruno Zevi, come «residuo romantico-ottocentesco», in un’architettura che talvolta assume anche un «aspetto esageratamente selvaggio», raggiungendo in qualche caso inflessioni espressionistiche6. Indicativa in questo senso è la metafora organica messa in atto da Herbert Greene nella Casa della prateria (1962), a Norman, Oklahoma, ove l’interpretazione della natura si spinge a configurare motivi di ispirazione zoomorfa. Si tratta comunque di una tendenza circoscritta alla scuola architettonica dell’Oklahoma, con Bruce Goff principale ispiratore. Nello stesso contesto naturale di Norman, Goff realizza la Bavinger House (1949), ad impianto spiraliforme, dotata di un ambiente open space racchiuso da un’unica muratura in pietra sbozzata; la convergenza al centro della spirale è segnata da un’alta antenna metallica, a vincolo dei cavi di sospensione della copertura.
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B. Zevi, Storia dell’architettura moderna dalle origini al 1950, Einaudi, Torino 1961, p. 497.
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Nel confrontarsi con le condizioni del luogo, oltre che per le qualità figurative l’identità americana ha avuto modo di emergere nell’affermazione di capacità tecniche e nell’apertura all’innovazione. Prodotti di officina, elementi seriali, dotazioni impiantistiche avanzate, hanno reso confortevole la vita in ambienti talvolta inospitali, in molti casi sostituendo ogni traccia di cultura materiale e di radicamento al contesto. Richard Neutra, tra i più convincenti interpreti di questa tendenza, conferma in una vasta produzione di residenze extraurbane il principio di autonomia dell’oggetto rispetto all’ambiente, rifiutando concessioni di carattere naturalistico e forme di adattamento in senso paesaggistico. Ciò non impedisce tuttavia che il risultato sia diretto a favorire il godimento delle manifestazioni ambientali, delle qualità fisiche e sensoriali del sito. Si instaura un rapporto non necessariamente conflittuale tra artificio e natura, ma di chiara e immediata evidenza per l’oggetto dell’intervento. È questo un carattere che emerge anche dall’interpretazione di un altro architetto di formazione europea, Mies Van der Rohe, nel configurare in assoluta autonomia e calcolato equilibrio la Farnsworth House (1946-51) a Plano, Illinois, in un quadro naturale lasciato completamente intatto, visivamente coinvolgente dall’interno della casa in virtù della totale trasparenza dei diaframmi verticali di chiusura. Nel tempo le influenze reciproche e le contaminazioni tra tendenza organica e internazionale non sono necessariamente riconoscibili come espressioni esclusive di un’identità americana. La grande diffusione di modelli commerciali di varia e dubbia caratterizzazione stilistica, come anche l’affievolirsi delle tradizioni regionali, dalla seconda metà del secolo portano a forme di omologazione, da un lato nella ricerca di qualità naturalistiche, per lo più nella scelta e trattamento a vista dei materiali, dall’altro lato indulgendo a un tecnicismo di stampo minimalista. Elementi di interesse locale sono ancora leggibili in alcuni interventi di Louis Kahn, con particolare evidenza nella Esherick House (1959-61), a Chestnut Hill, Pennsylvania, come anche in diversi prodotti della scuola sud-californiana7. L’interesse per la tradizione autoctona dello Schingle Style trova in Robert Venturi motivo di rivalutazione, pur nel gioco di allusioni e di sapiente confronto con la storia coloniale del paese. È evidente in diverse opere, tra le quali è sufficiente segnalare le tre residenze realizzate per la famiglia Brant, l’affiorare di uno spirito vernacolare diretto a risultati sorprendenti ma tra loro non confrontabili in virtù dei diversi stimoli affioranti dai relativi contesti ambientali8. L’idea di residenza unifamiliare, di medio livello e di prestigio, come già teorizzato a vasta scala da Wright, è dunque saldamente legata alle valenze di una condizione di vita antiurbana, si giustifica nella dimensione dilatata dei suburbi, raggiungendo la più completa realizzazione in territori isolati e distanti. Più di recente le contraddizioni della città sono affiorate come motivo di confronto e di discutibile alternativa, giungendo ad offrire motivi d’interesse per poetiche sensibili alla frammentazione e all’atopia di una realtà urbana in crescita continua. La lettura che Frank Gehry ha fatto di Los Angeles, senza che questo abbia 7 L’impianto rettangolare della casa Esherick rimanda ad un modello tipologico di origine coloniale, molto diffuso nel New England, organizzato generalmente su due livelli, con scala centrale lineare disposta trasversalmente a dividere in due settori la pianta. L’analogia dei due camini estroflessi, ognuno al centro dei lati corti della pianta è evidente. A questo proposito è stata segnalato come riferimento più remoto la cosiddetta «Blockhouse» a Hoshton, in Georgia, costruita all’inizio del XVIII secolo. Si veda: J.G. Digerud, Il Metodo di Louis Kahn, in C. Norberg-Schulz, Louis Kahn. Idea e immagine, Officina, Roma 1980, p. 154. 8 Le tre residenze, che differiscono anche per la dimensione dell’intervento, trovano distintamente giustificazione nell’ambito suburbano di Greenwich (1970-74), Connecticut, nell’ambiente montuoso di Vail (1975-77), Colorado, in quello marino delle Bermuda (1975-77). Nelle prime due abitazioni, entrambe destinate a luogo di vacanza, è opportuno notare il recupero della funzione del tetto in legno a falde; esso diviene a gradoni nella terza, secondo la tradizione locale delle Bermuda.
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comportato vincoli per la libertà progettuale, può essere esemplificata dalla definizione episodica e apparentemente disordinata della villa Schnabel (1986-89), a Brentwood, California, tipico lavoro di assemblaggio di forme singolari, di parti molto diverse e pensate per funzioni distinte, di caratteri materici contrastanti, il tutto in analogia con i caratteri di disgregazione e di endemica provvisorietà proposti oggi dalla dimensione della città diffusa. Come il Nord America anche l’America Latina si affaccia al Novecento scontando il retaggio di un passato coloniale, già da tempo acquisito come fattore comune di identità. Pur condividendo lingua e religione, la storia recente dei diversi paesi presenta specificità nelle forme di sviluppo sociale ed economico, nelle espressioni culturali, nel modo di rapportarsi al passato guardando al nuovo. Differenze etniche, geografiche, climatiche, in alcuni casi molto forti anche all’interno di uno stesso paese, sono state alla base di uno sviluppo disomogeneo, decisive nel determinare gradi diversi di preservazione di caratteri originari e di assimilazione di stimoli esterni. La produzione industriale ha tardato ad affermarsi nel corso della prima metà del secolo, con conseguenze rilevanti sul settore edilizio, dove sono emerse possibilità notevoli di avanzamento tecnico per le opere dei centri più rappresentativi, e più diffusamente, soprattutto nel campo della residenza, con ulteriori conferme delle abilità artigianali, dei metodi costruttivi della tradizione vernacolare, di modelli tipologici assestati. Pur con qualche differenza tra i diversi paesi, l’influenza delle teorie del movimento moderno ha cominciato a manifestarsi negli anni Quaranta, con alcune limitate anticipazioni nel decennio precedente, anche in virtù della mobilità verso l’Europa e gli Stati Uniti di giovani architetti e della sporadica presenza in loco di maestri accreditati. La linfa tratta dall’esterno non ha pregiudicato la possibilità di un confronto con l’eredità del passato, soprattutto nei contesti minori e nelle aree rurali, se non altro per il minor grado di diffusione delle nuove idee e per le limitazioni delle condizioni ambientali. È tuttavia necessario aspettare gli anni Sessanta per avviare una riscoperta consapevole di temi legati alla tradizione, con un dibattito proseguito per un ventennio che, dopo gli effetti omologanti determinati dalle pressioni di modelli consumistici, oggi viene nuovamente ravvivato nelle diverse accezioni del «regionalismo critico»9. Come in passato, per l’identità dell’architettura latino-americana da più parti sorgono interrogativi sul valore rappresentativo dei modelli coloniali. Di fatto, i caratteri ispanici, diversamente da altri di provenienza nord-europea, hanno già mostrato notevoli possibilità di adattamento al contesto ambientale, assorbendo completamente le espressioni della cultura indigena. Nei primi decenni del secolo è evidente il divario esistente in campo residenziale tra modelli popolari, storicamente legati a mezzi di facile accesso e a pratiche di autocostruzione, e modelli più elitari, trasposti nei caratteri tipologici e stilistici dei paesi del Vecchio Continente. In Messico, tra le nazioni più coinvolte dagli influssi esterni, lo chalet sollecita l’interesse della borghesia urbana in quanto elemento di distinzione e di apertura alle mode del tempo. È questa un’anomalia che la ricerca giovanile di Luis Barragàn individua e osteggia nel rivolgere attenzione ad aspetti della tradizione coloniale, a tutti gli effetti già stabilizzati nella cultura locale, oltretutto colti alla radice in occasione di un lungo soggiorno in alcuni paesi del Mediterraneo. Nella casa introversa di derivazione arabo-ispanica torna ad identificare motivi distintivi dell’abitazione, 9 Per una definizione complessiva di «regionalismo critico», come concezione orientata verso caratteri comuni e non come uno stile, si rimanda ai termini esposti in: K. Fampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, IIIa ed., Bologna 1993, pp. 386-7. Il dibattito di fine secolo è espresso in A. Toca (a cura), Nueva arquitectura en América Latina: presente y futuro, G. Gili, S.A. de C.V., México 1990.
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sia isolata che integrata nella città, ancora attuali nell’area di Guadalajara. Sul tema della protezione dell’edificio dall’esterno e sulla sua apertura verso uno spazio claustrale, Barragán sperimenta in questa fase le qualità organizzative di ambienti riservati, dove la luce filtrata e il silenzio sono visti come condizione di benessere fisico-psichico. Nessun coinvolgimento dunque nell’ambiente esterno, sul versante pubblico, a costo di identificare lo stesso giardino come un luogo interno della casa, chiuso da un recinto impenetrabile e accessibile visivamente dall’ambiente domestico per parti, secondo la logica, mutuata dall’insegnamento di Ferdinad Bac, di un progressivo svelarsi di luoghi raccolti. Con i successivi sviluppi dell’opera, Barragán assegna una connotazione riconoscibile all’architettura messicana; l’attenzione agli spazi, alle luci, ai colori, al senso tattile dei materiali del luogo è ben al di là della meccanica rielaborazione di motivi vernacolari. È un approccio emozionale che ha influenzato ulteriori ricerche, trovando un degno continuatore in Ricardo Legorreta, sensibile interprete della domesticità tradizionale messicana e del rapporto d’integrazione tra opera e ambiente. Nell’ambito del più complesso universo suburbano di Città del Messico, a partire dal 1945 il luogo per la sperimentazione si identifica per Barragán con un ambiente di forte caratterizzazione naturale quanto di difficile accesso. Nei Giardini del Pedregal si attua, non senza motivi di contraddizione, il proposito di sviluppare un’architettura, ora decisamente in sintonia con la tendenza moderna, a contatto con una natura vergine, aspra nella conformazione altimetrica e fisica delle rocce laviche affioranti. L’idea di un parco naturale per accogliere ville private, ma anche per dar forma a un connettivo di spazi e giardini pubblici, ricorre come provvedimento d’eccezione nella pianificazione dei luoghi suburbani, e talvolta anche centrali, delle più grandi conurbazioni dell’America latina. Ad esempio a Città del Messico, dove Barragán interviene secondo queste modalità anche in altri luoghi e tempi, curando aspetti organizzativi e di disegno del paesaggio; a Rio de Janeiro nel Parco Guinle (fine anni Quaranta) dove Lucio Costa inserisce tra un verde lussureggiante alcune abitazioni, tra le quali la propria; più recentemente a Bogotà ne Il Parco, con opere segnate dall’influenza di Rogelio Salmona. La componente edilizia viene a confrontarsi generalmente con una natura soverchiante, di forte espressività, tanto più apparsa ricca di stimoli a un progettista di provenienza lontana, come Gio Ponti, nell’affrontare la sistemazione dei giardini della villa Planchart (1953-56) e della villa Arreaza (1956), a Caracas. Se «[…] creare giardini appartiene alla immaginazione poetica; non all’architettura […]», l’intervento umano non può che lasciare spazio agli stimoli di un ambiente dove «il disordine meraviglioso della natura» non impedisce che «sorga una architettura rigorosa e semplice come un cristallo»10. Sono considerazioni che trovano corrispondenza anche nelle numerose creazioni di Oscar Niemeyer, sul tema della villa e della sua definizione ambientale. Il principio della libertà della forma e della leggerezza pone in secondo piano l’interesse per motivi di tradizione locale, affioranti solo sporadicamente e limitatamente ad alcuni dettagli nell’uso dei materiali. Di grande successo si rivela la collaborazione con Roberto Burle Marx, creatore per molte ville di Niemeyer di ambientazioni suggestive per il realismo degli effetti che scaturiscono dalla vegetazione e dal suolo, per il carattere esuberante e ricco di contrasti che la natura tropicale assume nel coinvolgere l’architettura. Può valere per il tutto la villa di famiglia (1953) che Niemeyer costruisce a Canoas, nei pressi di Rio, per un livello assorbita in una frattura del terreno e per il resto emergente con un segno inequivocabile di libertà dato
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G. Ponti, Amate l’Architettura, Vitali e Ghianda, Genova 1957, p. 158.
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dall’elemento bidimensionale di copertura, leggero nel librarsi in uno spazio ritagliato ad arte nella folta vegetazione. La presenza di Le Corbusier nell’ambiente brasiliano allo scadere del terzo decennio ha influenzato una intera generazione di architetti, coscienti della necessità di coinvolgere l’architettura in un progetto etico e sociale di vasta portata, cui non mancherà più tardi il coinvolgimento di intenti di ordine politico e rappresentativo. L’apertura al moderno non impedisce di sviluppare ricerche sull’arte popolare – indicativo è il caso di Lina Bo Bardi –, come anche sul diffuso modello residenziale a patio, motivo centrale delle ville di Rino Levi, altro immigrato di origine italiana. Come evidente nell’impianto della propria residenza (1949) e nella villa Delgado Perez (1958), entrambe a San Paolo, Brasile, Levi sperimenta una nuova impostazione della casa a patio mediterranea, organizzata intorno ad uno spazio racchiuso dalla spiccata connotazione di giardino tropicale11. Una tendenza, dunque, di segno contrario a quella riscontrabile nelle opere di Niemeyer e Costa, dove l’edificio tende a rapportarsi sul margine esterno al paesaggio circostante, con ampie aperture filtranti che rinnovano soluzioni di facciata, con porticati e verande, tipiche della fazenda brasileira. Se la storia novecentesca dell’architettura brasiliana risulta segnata dall’evento «Brasilia» (1956-63), una nuova linea di demarcazione temporale può essere vista, dopo un ventennio, nell’avvento del «miracolo economico». Gli effetti travolgenti dell’inurbazione, accanto alle problematiche relative alla crescita urbana e all’organizzazione della funzione residenziale, sollecitano per contrasto anche riflessioni sulle difficoltà di gestione dell’enorme territorio naturale, rurale e forestale, dove le condizioni di vivibilità sono legate a mezzi primordiali e pratiche stabilizzate nel tempo. Un riferimento per la nascita di una coscienza etnica, con risvolti antropologici ed ecologici, può essere visto nell’opera di Severiano Porto, nel segno di una ricerca basata sull’adattamento dell’intervento alle condizioni del luogo più che sulla riscoperta di caratteri tradizionali. Le particolari condizioni ambientali dell’Amazzonia, dunque, indirizzano verso soluzioni specifiche per il controllo degli aspetti climatici, soprattutto per la ventilazione degli ambienti, stimolano la verifica della convenienza economica nella gestione di forze locali e nello sfruttamento delle risorse materiali. L’abitazione che Porto costruisce per sé stesso (1971) nella foresta presso Manaus costituisce un manifesto di questo «regionalismo eco-efficiente», utile oggi per riconoscere più a fondo pregi e contraddizioni della realtà brasiliana12. Il quadro dei cosiddetti «contesti minori» è quanto mai diversificato, dall’ambiente forestale amazzonico a quello montuoso della fascia continentale occidentale. Il tema residenziale unifamiliare in rapporto al contesto ricorre, ad esempio, nell’opera di Augusto Benavides, nel corso degli anni Cinquanta interprete di uno stile Andino modernizzato, una rielaborazione alquanto pittoresca di motivi vernacolari peruviani. Sviluppi di grande interesse possono essere ricercati, al contrario, nella dinamica realtà uruguaiana e in quella boliviana, più complessa e contraddittoria. Per il tema specifico della villa, la veri11 Tra le opere di Rino Levi, «razionalista dei tropici», si segnalano la villa Olivo Gomes (1949-51) a São José dos Campos, ove sperimenta un rapporto tra architettura e arti plastiche avvalendosi anche della collaborazione per l’ambientazione di Burle Marx. Il tema compositivo della casa a patio sviluppato nella propria villa di San Paolo (1949) mostra qualche debito alla sperimentazione di Mies Van der Rohe sulla casa a tre patii. Il giardino tropicale inglobato in uno spazio a corte in continuità con il soggiorno compare anche nella villa Milton Greper (1952-53), a San Paolo. Per approfondimenti si rimanda a R. Anelli, Mediterraneo ai tropici. Patii e giardini. Trasformazioni del patio mediterraneo nell’architettura moderna brasiliana, «Casabella», n. 708, febbraio 2003, pp. 86-95. 12 Tra le altre abitazioni amazzoniche si segnala la casa Schuster (1978), a Manaus. Nella costruzione prevale decisamente l’uso del legno per la struttura, per i diaframmi di divisione interna ed esterna, per i grigliati che garantiscono la ventilazione. La casa Porto, in particolare, presenta profondi aggetti di falda per l’ombreggiamento degli ambienti, tratti di porticato, punti in cui la vegetazione penetra all’interno.
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Fig. 144 Fig. 144
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Fig. 146 Fig. 143 – Rino Levi, villa Delgado Perez, San Paolo, 1949. Pianta del piano terra. Fig. 144 – Severiano Porto, casa Porto, Manaus, 1971. Pianta del piano terra e pianta del piano primo. Fig. 145 – Eladio Dieste, casa Dieste, Montevideo, 1968. Planimetria generale, sezione longitudinale attraverso il patio, sezione trasversale. Fig. 146 – Rogelio Salmona, casa Alba, Bogotà, 1969. Pianta del piano terra.
Il contesto ambientale 101 fica di una acquisita identità e di uno spirito di ricerca ispirato da fattori locali hanno animato i diversi tentativi di rinnovamento del diffuso modello a patio, spesso sfruttando le possibilità espressive del ladrillo, il mattone di laterizio. In questa direzione è di grande interesse l’esperienza di Eladio Dieste, soprattutto nella direzione di uno strutturalismo artigianale di notevole qualità formale e materica. La realizzazione della propria casa (1968), secondo il modello a patio tipico di Montevideo, mette in luce le notevoli qualità spaziali degli interni, il carattere arioso di ambienti chiusi in copertura da sottili volte in mattoni. L’uso del laterizio nell’architettura residenziale, indotto in passato dall’influenza coloniale inglese e olandese, in effetti risulta estesamente assimilato nella pratica costruttiva di molte aree dell’americana latina. Oltre che per sperimentazioni di carattere strutturale, anche nel segno della tradizione catalana, si qualifica come materiale privilegiato della tendenza organica e topologica della seconda metà del secolo. Tra i tanti, il colombiano Rogelio Salmona ha dimostrato di saperne sfruttare a pieno le qualità tettoniche, anche in combinazione con materiali locali, cogliendo nel mezzo specifico una condizione operativa adeguata alla realtà produttiva locale13. Nella casa Alba (1969), a Bogotà, la sintesi delle possibilità organizzative e spaziali del patio trova appoggio nell’uso esteso e omogeneizzante del laterizio, per le superfici orizzontali, le murature, le coperture. L’uso del laterizio a vista, corrispondente a quello più antico dell’adobe nei luoghi a clima secco, è stato interpretato anche come riflesso di una tendenza brutalista che, in un ambito di produzione di tipo sostanzialmente artigianale, non avrebbe potuto avvalersi dei materiali più tipici della modernità, cemento e acciaio. Nel contesto argentino, poco propositivo nel metabolizzare gli influssi esterni, il carattere di permeabilità della casa unifamiliare alle variabili del luogo ha trovato il più autorevole e sensibile interprete in Eduardo Sacriste. La casa Torres Valle (1956-58) a Tafi del Valle, nella regione di Tucamán, risulta sorretta da una logica funzionale e costruttiva attenta a valori ambientali, storici, fisici, atmosferici; integrandosi con una piattaforma muraria preesistente di origine precolombiana, l’opera presenta un uso esteso della pietra a vista, del legno negli interni, caratteri questi probabilmente mutuati dal manifesto corbusiano di villa Errázuriz (progetto del 1930). Accorgimenti basati sull’uso appropriato dei materiali, tra i quali uno strato di terra per la coibentazione termica della copertura, sul processo costruttivo adeguato alle capacità delle maestranze locali, sull’orientamento ai venti e sull’esposizione solare, sono conferma dunque di una architettura rispettosa delle qualità, ma anche delle limitazioni poste dal contesto. Quaranta anni circa separano la fondazione di New Delhi (1911), la nuova capitale dell’India voluta dal Governo inglese, dalla fondazione di Chandigarh (1951), la nuova capitale dello Stato indiano del Punjab. Sono eventi che a vario titolo hanno segnato la storia architettonica del Novecento di una nazione già da tempo forzatamente aperta a influssi esterni, nel primo caso nel dare spazio alle ambizioni di una politica imperialista rappresentata a livello d’immagine dalle linee di un classicismo «orientalizzato», nel secondo caso nell’affidare il segno distintivo del proprio progetto di modernizzazione alle tendenze architettoniche emergenti nel più vasto panorama internazionale. L’opera indiana di Le Corbusier ha certamente contribuito a segnalare agli occhi del mondo la realizzazione di questo sogno di indipendenza e democrazia, con una forza propositiva travolgente e al momento necessaria come incentivo per l’innovazione. Sullo sviluppo di questa vicenda In questa breve sintesi, meritano una segnalazione: Mario Payssé, per la casa di famiglia (1954-55) a Montevideo, nel dimostrare flessibilità per le soluzioni di facciata, adattamento alle condizioni naturali del luogo e attenzione per gli spazi di transizione verso l’esterno; Fernando Martinez Sanabria per la Casa de ladrillo (1957-61) a Bogotà.
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Fig. 147 – Charles Correa, villa Ramkrishna, Ahmedabad, 1962-64. Planimetria generale e sezione longitudinale. Fig. 148 – Charles Correa, villa Parekh, Ahmedabad, 1967-68. Planimetria generale e sezione longitudinale. Fig. 149 – Balkrishna Doshi, casa Doshi, Ahmedabad, 1959-61. Pianta del piano terra. Fig. 150 – Charles Correa, villa Correa, Koramangala, Bangalore, 1985-88. Planimetria generale.
Il contesto ambientale 103 nazionale, ma anche sull’apertura verso la cultura occidentale, è avvenuta la formazione della generazione di architetti indiani attivi nella seconda metà del secolo, desiderosi di confrontarsi con le problematiche espresse dal movimento moderno europeo, di sperimentare nuovi modelli e processi costruttivi. Per i giovani è sicuramente mancato, almeno fino alla metà degli anni Sessanta, il valore determinante di una coscienza storica, così a lungo segnata da interferenze esterne e relegata in secondo piano rispetto agli stimoli della modernità. Charles Correa e Balkrishna Doshi sono i principali interpreti del processo graduale di riscoperta della tradizione indiana, e con essa dei motivi di ordine materiale e spirituale che ne hanno consentito anche in tempi difficili la sopravvivenza. Ciò ad iniziare dalla comprensione dei principi atavici dell’abitare, legati alle particolari condizioni ambientali e soprattutto climatiche dei luoghi. È rilevante, in questi termini, il portato della lezione di Le Corbusier, sul fronte della pianificazione della funzione residenziale a scala urbana come anche su quello più strettamente architettonico della casa individuale destinata a una ristretta e privilegiata élite sociale. L’attenzione dell’architetto europeo per gli aspetti della vivibilità, in opere manifesto quali la villa Shodhan (1951-54) e la villa Sarabhai (1951-55), entrambe ad Ahmedabad, trovano il necessario complemento in spazi aperti protetti e, ove necessario, permeabili agli agenti atmosferici, in mezzi e tecniche costruttive che non vengono a compromessi con quanto è dato riconoscere nella cultura materiale del luogo. Sia Doshi che Correa vivono la prima fase della propria esperienza professionale nell’intento di adeguare le acquisizioni del movimento moderno alle condizioni climatiche, sperimentando espedienti distributivi e accorgimenti tecnici, sia per l’abitazione a basso costo che per interventi residenziali di maggior tenore. Il controllo dell’irraggiamento solare e l’apporto salutare della ventilazione costituiscono per Correa aspetti imprescindibili del comfort domestico, pur nella convinzione del portato determinante di questi fenomeni per le qualità spaziali e d’immagine del risultato. La villa Ramkrishna (1962-64) e la villa Parekh (1967-68), entrambe ad Ahmedabad, sono impostate secondo i principi della Tube House, per sezioni parallele di lunga estensione e limitata profondità adatte ad incanalare le correnti d’aria salutari; nelle parti più centrali la luce penetra dall’alto opportunamente filtrata. Nella casa Parekh, in particolare, Correa sperimenta un sistema ambientale differenziato basato sulla suddivisione in tre fasce parallele, di cui quella con prevalente utilizzazione estiva e diurna occupa la posizione intermedia. Dalla sezione si rileva il progressivo ridursi dello spazio centrale di quest’ultima, fino al lucernario di copertura, con il risultato di un incanalamento verticale del moto convettivo dell’aria. Al contempo la fascia invernale, e notturna, viene risolta con un allargamento dello spazio centrale nel procedere verso l’alto, dove in copertura dà luogo a spazi per dormire all’aperto. La tradizionale pergola di protezione dai raggi solari viene reinterpretata, fino a diventare una costante nei progetti successivi, come esteso velario orizzontale, elemento conclusivo dello sviluppo verticale in grado anche di ricomporre in copertura l’unità volumetrica dell’edificio. La tendenza a controllare l’insieme secondo riferimenti di geometria elementare, come anche l’inserimento di elementi in cemento armato in settori strategici della muratura portante in mattoni, sollecitano un richiamo all’opera di Louis Kahn. Con la costruzione della propria residenza (1959-61) ad Ahmedabad, Doshi produce un saggio interessante per il recupero del tema tradizionale della centralità nell’organizzazione planimetrica; gli ambienti, chiusi o aperti come verande, disposti lungo i quattro lati dell’edificio afferiscono a un vuoto centrale, uno spazio di connessione e di regolazione della luce e dell’equilibrio termo-igrometrico. La soluzione del brise-soleil di facciata, come anche il carattere brutalista delle superfici parzialmente in cemento a vista, non nascondono il debito verso Le Corbusier. È necessario attendere il decennio successivo perché possa maturare una
104 La villa del Novecento riflessione approfondita su aspetti qualificanti della tradizione, sul valore attuale dell’architettura vernacolare. L’intensa attività svolta in questa direzione da Doshi e Correa emerge come opera di sensibilizzazione ai problemi pressanti dell’edilizia dei poveri, nel quadro di progetti di scala territoriale ad iniziativa pubblica, dove più stretta risulta essere l’adesione a principi e metodi di facile applicazione e di ampia diffusione. Il percorso individuale tende a differenziarsi, là dove Doshi viene ad approfondire temi di carattere regionalistico legati a costumi e abitudini di vita, alle espressioni della cultura materiale del luogo, mentre Correa direziona la sua ricerca verso l’interpretazione in chiave psicologica e simbolica della tradizione. La casa che Correa costruisce per la propria famiglia (1985-88) a Koramangala, Bangalore, segue la tradizione del sud dell’India della casa a corte; ha ambienti destinati alla vita domestica e al proprio atelier, convergenti funzionalmente e visivamente sul piccolo patio ove campeggia la sacra pianta (tulsi); la luce penetra dall’alto e raggiunge in modo indiretto gli spazi di contorno, differentemente aperti sul versante esterno ma comunque protetti da una stretta fascia di verde limitata dal muro continuo di recinzione. Secondo la tradizione l’ambiente comune trova in un settore di questa fascia uno spazio complementare nella veranda coperta, lo studio in un piccolo giardino dal disegno geometrico (kund), un luogo di meditazione che esprime in forma compiuta il senso di armonia e totalità dell’insieme, dove la presenza di elementi naturali prescinde dal rapporto diretto con il loro carattere fisico. La ricerca di una dimensione esistenziale e simbolica ha radici profonde anche nella tradizione giapponese dello spazio domestico, storicamente luogo difeso ed introverso, autosufficiente in virtù della riduzione all’essenziale dei bisogni attraverso una severa disciplina dei comportamenti. L’elementare è dunque forma primaria di spiritualità; in esso il tempo si contrae facendo emergere valori primitivi ed eterni. La semplicità e la costanza di applicazione di schemi distributivi e di procedimenti costruttivi rendono l’idea della forza pervasiva di questa tradizione nel dare forma al luogo della vita privata, ma allo stesso tempo sono espressione della condizione di immobilità e isolamento culturale della nazione in una fase storica che ha già archiviato i principi dell’Era Edo (1603-1868). All’avvio del nuovo secolo il passo obbligato verso la modernizzazione è necessariamente orientato verso l’Occidente, con la promozione di scambi che per la cultura architettonica si rivelano promettenti pur nella esiguità delle occasioni di intervento. All’attenzione di Wright e Gropius, entrambi motivati a comprendere e assimilare principi basilari dell’architettura giapponese, si associa l’interesse pragmatico di architetti intenzionati a fissare in loco il centro della propria attività professionale. Scaturiscono risultati frammentari ma significativi per accreditare il valore della tradizione, come nel caso dell’ampliamento della villa Hyuga (1933-35) ad Atami, realizzato da Bruno Taut, al di sotto di una struttura orizzontale coperta da un giardino pensile proteso verso l’oceano. Un ambiente «occidentale» e uno «giapponese» formano una sequenza spaziale coordinata, con una perfetta integrazione di dettagli moderni e tradizionali, a dimostrazione del valore formativo offerto a Taut dall’attenta lettura del testo architettonico della villa imperiale di Katsura. La villa Karuizawa a Nagano, realizzata negli stessi anni da Antonin Raymond, dal punto di vista formale segna una decisa evoluzione nella linea della modernità europea, recuperando comunque temi qualificanti dell’architettura locale nell’uso del legno14. La tradizione artigianale del legno ha ancora una conferma nella villa che Kunio In «Architectural Forum», novembre 1935, la villa di Raymond è fatta oggetto di critica per una vicina assonanza con la corbusiana villa Errázuriz, ma non risulta presa in considerazione per le relazioni con l’architettura giapponese. La pubblicazione presenta l’attività che Raymond svolge in Giappone dal 1920 al 1937, periodo in cui il suo studio è frequentato da giovani architetti giapponesi interessati agli sviluppi delle tendenze europee.
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Il contesto ambientale 105 Mayekawa realizza per la propria famiglia (1942), a Tokyo, nelle forme essenziali della semplificazione moderna15. L’affermazione delle tendenze internazionali ha atteso il boom economico degli anni Sessanta, all’indomani della radicale opera di ricostruzione bellica, per manifestarsi con tutta la sua influenza dirompente e con la sua forza estraniante. Ciò avviene in un quadro ambientale che va progressivamente saturandosi a fronte di una crescente densità abitativa e di un uso del suolo assoggettato alle necessità della produzione industriale. La città diviene dunque il luogo più indicato a rappresentare la dimensione sociale del Giappone moderno, un luogo eterogeneo nelle sue espressioni, diffusamente emanante senso di provvisorietà e di incertezza formale. È il territorio d’elezione per le proiezioni, in molti casi visionarie, degli architetti metabolisti, ove risulta improbabile riconoscere nella funzione residenziale condizioni per la sopravvivenza di costumi tradizionali. La minuta frammentazione fondiaria delle grandi conurbazioni dà spazio a interventi di dimensioni esigue, a case unifamiliari raramente riconoscibili nella configurazione della villa urbana, a piccoli mondi introversi e programmaticamente chiusi sul versante pubblico. La denuncia dell’anarchia e della congestione del versante pubblico rappresenta una tematica centrale per l’architettura degli anni Settanta ed ha modo di esprimersi in opere caratterizzate dall’accentuazione del senso di distacco e di protezione dello spazio individuale. Per Toyo Ito, progettista della U-House (1976), a Nakano, l’idea di uno spazio chiuso e impenetrabile si realizza in un interno buio e claustrofobico, illuminato da brevi tagli sulla parete a sviluppo continuo che separa l’interno da un’angusta e inattiva corte centrale. La monoliticità del volume esterno è in linea con questa tendenza a escludere interferenze tra i due versanti anche per Kazuo Shinohara, attento nella House in Hehara (1976), Tokyo, ad offrire l’immagine forte e primitiva di un blocco segnato in superficie da imponenti elementi strutturali. Per altri versi, è possibile rilevare come l’accentuazione del senso del limite, secondo la tradizione della casa sukiya, costituisca un principio atavico della dimensione domestica giapponese, nel determinare un microcosmo dedicato alla quiete e al silenzio, a cui accedere gradualmente con un percorso labirintico. Per Tadao Ando luogo vitale è lo spazio concluso, lo spazio vuoto e disadorno, evocativo più che rappresentativo, strutturato per filtrare le manifestazioni più alte e rarefatte della natura, il vento, la luce solare, la pioggia. La vegetazione è tendenzialmente esclusa, anche allorché Ando si rapporta ad ambiti d’intervento più gradevoli e stimolanti per la percezione del paesaggio circostante. La villa Matsumoto (1976-77) e la villa Koshino (1979-81), entrambe ad Ashiya, nonostante l’amenità dei luoghi, confermano uno spiccato carattere introverso, carattere che per contrasto viene ad accentuare il valore esclusivo di frammenti di natura attentamente inquadrati da limitate aperture e tagli nelle pareti. È dunque una trasposizione simbolica di elementi evocativi, estratti dall’universo di appartenenza per diventare sostanzialmente architettura. Un nuovo interesse per il confronto tra architettura e città ha ravvivato la ricerca degli anni più recenti, nella riscoperta dei caratteri di provvisorietà e indeterminatezza come espressioni della condizione umana nell’atavica contrapposizione tra ordine e caos. L’architettura manifesta la propria natura fragile e ambigua nel calarsi in una realtà piena di contrasti, accettando in alcuni casi di rispecchiarne i caratteri, in altri di denunciarne le Kunio Mayekawa ha avuto un ruolo centrale nell’apertura della cultura giapponese alla modernità. Trascorre gli ultimi anni Venti a Parigi, dove lavora nello studio di Le Corbusier e al suo rientro in patria (1930) collabora con Antonin Raymond. Le opere pubbliche realizzate nel dopoguerra risentono della lezione corbusiana, oltretutto per l’uso predominante del cemento armato a vista.
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Fig. 151 Fig. 151
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Fig. 151 – Toyo Ito, U-House, Nakano, 1976. Pianta del piano terra. Fig. 152 – Takefumi Aida, villa Kazama, Kawaguchi, 1987. Pianta del piano terra. Fig. 153 – Yasumitsu Matsunaga, Inscription House, Tsukuba, 1987. Pianta del piano terra e prospetto a monte.
Il contesto ambientale 107 sfasature. Gli spazi per osservare la sopravvivenza della tradizione sono diventati esigui, certamente non più legati allo storico carattere dei materiali, delle tecniche costruttive, dei luoghi abituali della casa. A fronte di risultati esplicativi di un universo formale molto vario, con evidenti corrispondenze nei settori delle arti grafiche e del design, il progetto della casa individuale continua in alcuni casi a reinterpretare valori del passato. La logica strutturale del tatami, ad esempio, determina l’assetto di alcuni spazi della villa Kazama (1987), a Kawaguchi, dove Takefumi Aida estende alla più grande scala dell’architettura il dettaglio di arredo dello shoij, il pannello scorrevole tradizionalmente destinato alla suddivisione degli spazi. L’edificio si riassume concettualmente in un sistema di strati murari paralleli, slittati tra di loro e frammentati per lasciare spazio a varchi tra gli ambienti e, occasionalmente, verso l’esterno. Alla rottura, in apparenza caotica, dell’unità volumetrica corrisponde all’interno una chiara ripartizione in fasce funzionali, orientate oltretutto per inquadrare ad una estremità un brano di paesaggio naturale. Una forte caratterizzazione naturale ha invece il luogo in cui Yasumitsu Matsunaga realizza la Inscription House (1987), sulle pendici del monte Tsukuba. La copertura a più facce avvolge l’insieme proseguendo direttamente l’andamento declive del terreno sul versante a monte ed estendendosi ad una estremità dell’impianto in una struttura acuminata, protesa verso la valle. La composizione risente a prima vista di un approccio gestuale ma trova nell’ariosità del luogo una piena conferma del suo carattere leggero ed espanso, confermando il motivo guida dell’ispirazione che Matsunaga sostiene di riconoscere nelle ali spiegate di un grande uccello. La natura del luogo L’architettura della villa non è necessariamente in grado di assimilare e riflettere il portato di caratteri identitari, delle memorie, delle espressioni della cultura di un luogo; più diffusamente e con maggiore immediatezza può trovare modo di rapportarsi alle preesistenze, alle qualità fisiche e morfologiche dell’ambiente. L’osservazione attenta dei dati sensibili di un luogo si concretizza secondo l’ottica interpretativa di alcuni operatori in elementi di riflessione e in scelte di progetto. In altri casi è un’idea originaria, già formata nella coscienza del proponente, che attende di essere verificata nel quadro d’intervento. Questo tentativo di inquadramento del tema, pur nella estrema riduzione dell’enunciato, ha spesso stimolato interpretazioni di segno opposto, basate sulla contrapposizione di un’idea di architettura organicamente generata dal contesto ambientale e quella di un’architettura autoreferente, risultato autonomo e libero da compromessi. A interventi che comportano l’adattamento ai caratteri delle preesistenze, fino all’estremo della mimesi, per contrasto è immediato rapportarne altri tendenti all’astrazione, indifferenti alle specifiche sollecitazione dell’intorno. Il rapporto tra natura e artificio è dunque tema centrale nell’analisi delle qualità distintive di una categoria edilizia quale la villa, generalmente sostenuta da condizioni di privilegio nel disporre di spazi esterni di uso esclusivo o nell’aprirsi agli stimoli del paesaggio. La tesi dell’indifferenza dell’oggetto architettonico rispetto al quadro ambientale in realtà non esprime compiutamente le sottili sfumature di questo rapporto, talvolta insite in qualità atmosferiche o in valenze percettive che solo l’esperienza diretta può consentire di cogliere. Esemplare è il caso della villa Savoye (1928-30), frequentemente citata per l’autonomia che manifesta rispetto al luogo, per il modo in cui dissimula il proprio contatto con il terreno. Sono caratteri che in ogni caso non smentiscono il proposito di ricercare un rapporto tra dato naturale e artificiale, tra il carattere autenticamente agreste dell’am-
108 La villa del Novecento biente e l’astrazione di una «scatola nell’aria […] dominante sul verde». Si rivela dunque sostanziale il riferimento di Le Corbusier alla campagna di Poissy: «Gli abitanti che si insedieranno […] la contempleranno, nella sua intatta armonia, dall’alto del loro giardino pensile o dai quattro lati della finestra in lunghezza»16. Ciò non impedisce all’architetto di dichiarare che questa villa potrebbe essere trasportata, senza tradirne le qualità, a Biarritz o nelle pampas argentine, o anche essere proposta reiteratamente come cellula base di un insediamento diffuso nella campagna. Il paesaggio, qualunque esso sia, non viene smentito nel suo apporto al successo della composizione, venendo ad assumere per Le Corbusier il ruolo di «forma libera», in rapporto dialettico con la forma rigida e pura dell’edificio; una visione dualistica della realtà che ammette il costante confronto tra sentimento e ragione, tra natura e artificio. Il tema compositivo di un volume dominante in sospensione sul livello del terreno, carattere che rende la villa Savoye antesignana anche per opere di altri architetti, trova fondamento nel proposito di lasciare libero sviluppo al piano di campagna, conciliando peraltro il soddisfacimento di esigenze funzionali non solo accessorie. È un tema, questo, che in diversi tempi e luoghi ha fornito spunti interessanti per il progetto della villa, soprattutto in rapporto al sito, alla sua topografia e natura. L’innalzamento dei livelli abitabili dal suolo ha avuto spazio nelle ricerche di tendenza organica, sfruttando come nel caso esemplare della Casa della cascata (1936) di Wright il principio dell’aggetto, ma ha soprattutto fornito valide motivazioni per ricerche centrate sull’autonomia dell’oggetto architettonico, sulla distinzione tra i caratteri fisici e morfologici della superficie di supporto e la dichiarata artificialità dell’opera. Sono ricerche spesso fondate su raffinate soluzioni tecniche, tese ad assegnare all’oggetto il parametro distintivo della leggerezza, dell’immaterialità, come evidente ad esempio nella strutturazione della villa Farnsworth (1946-51) di Mies Van der Rohe, sintetizzabile in tre distinti elementi orizzontali fluttuanti al di sopra di un piano di campagna incontaminato. L’evidenza di un volume fortemente materico, ma tenuto in sospensione per dare libero corso all’andamento declive del terreno tenuto a prato, è riscontrabile nella prima villa realizzata da Marcel Breuer per la propria famiglia (1945) a New Canaan, un oggetto attentamente depurato dalla manifestazione in superficie degli accorgimenti tecnici utilizzati. Da una casistica ampia possono essere estratte altre opere che sviluppano questo tema del distacco e distinzione tra oggetto e preesistenza, fino a trasporre il principio di equilibrio delle masse in sospensione in quello dell’instabilità e della libera fluttuazione, come evidente in alcune recenti ville di Rem Koolhaas/OMA. Il contatto diretto con il suolo offre all’edificio notevoli possibilità di adattamento alle condizioni altimetriche, alle emergenze naturali, sfruttando in molti casi caratteri distintivi e talvolta trasformando i vincoli in vere e proprie occasioni di invenzione. È una tematica che offre spazio alla ricerca di assoluta distinzione tra edificio e ambiente, tanto più se ritenuti non assimilabili formalmente e fisicamente. La forza espressiva del risultato è in molti casi nel contrasto dichiarato di un oggetto monolitico con l’elemento naturale, nell’accentuazione del carattere artificiale della strutturazione, nell’opposizione del suo senso di astrazione alla fisicità del suolo con cui viene a contatto. Una condizione di relativa quiete si rileva nel rapporto che Le Corbusier innesca tra la villa Stein-de Monzie (192627), a Garches, ed il quadro ambientale di una natura disciplinata, adagiando sul suolo un bianco e stereometrico volume. Soprattutto il fronte rivolto all’ingresso propone un netto 16 Le Corbusier, Précisions sur un état présent de l’architecture e de l’urbanisme, Crés et Cie, Paris 1930, pp. 136-138. Traduzione italiana riportata in T. Benton, Villa Savoye e la professione dell’architetto, in H.A. Brooks (a cura di), Le Corbusier. 1887-1965, Electa, Milano 1993, p. 102.
Il contesto ambientale 109 e lineare svolgimento della linea di attacco a terra del blocco unitario, senza elementi di mediazione, come invece avviene sul fronte rivolto al giardino per mezzo di una terrazza avanzata; la geometrica ripartizione della facciata in fasce alternate di vuoto e pieno, l’uniforme trattamento a intonaco bianco, sono una conferma dell’intento di rifiutare compromessi sul piano morfologico con il carattere naturale del luogo. Una notevole evidenza nel quadro ambientale assume la villa Malaparte (1938-40) a Capo Masullo, Capri, definita già secondo l’originario progetto di Adalberto Libera come volume incastonato su un alto sperone roccioso. L’opera interpreta una condizione limite per gli aspetti dell’ambientazione e del rapporto con il suolo, confermata anche a seguito di sostanziali modifiche apportate in corso d’opera. In alternativa alla struttura gradonata che, a monte, segna il passaggio dal piano di campagna al piano di copertura, i fronti esposti verso il mare restituiscono l’idea di un corpo monolitico, di una presenza effettiva in un quadro ambientale soverchiante. Ad esemplificare questo tema della distinzione tra opera e contesto naturale merita una segnalazione anche la residenza unifamiliare realizzata da Mario Botta (1972-73) a Riva San Vitale, Canton Ticino, su un versante montano fortemente scosceso. La scelta inusuale di uno sviluppo a torre esalta la dimensione verticale dell’edificio, con conseguenze nell’organizzazione interna degli ambienti, sovrapposti su cinque diversi livelli. Il volume si staglia nel paesaggio, con un’immagine rafforzata dall’elementarità di blocco privo di sporgenze, animato dai tagli di isolate aperture verso valle. L’autonomia dell’oggetto nei confronti del luogo, alle stregua di una antica torre difensiva, trova conferma nell’insolita soluzione di accesso, con un ponte metallico di connessione tra il versante a monte e il piano più alto dell’edificio. Più agevolmente della composizione a blocco unico, un insieme di parti articolate risulta in grado di recepire suggerimenti e di mediare le asperità del luogo. Suggerimenti talvolta soltanto evocativi di una realtà non necessariamente corrispondente con quella effettiva, ma allo stesso tempo validi per tracciare con sicurezza le linee portanti dell’ideazione. Un riferimento antesignano in tal senso può essere trovato nella dimensione orizzontale senza limiti della prateria, alla cui natura risulta legata l’impostazione articolata e aderente al suolo delle Prairie Houses di Wright. Ciò vale anche in rapporto alle condizioni più aspre e imprevedibili dei versanti montuosi, producendo risultati che restituiscono un’idea di frammentazione e diffusione spontanea delle parti. L’intervento di Lluis Sert per un complesso di ville a Ibiza (1961-71), ad esempio, è indicativo di questa modalità organizzativa strutturata sul rispetto della topografia del luogo, nello sfruttare la disposizione dei livelli abitabili in assonanza con i terrazzamenti, nel gestire la rete dei percorsi di risalita, nel fissare punti di vista del paesaggio marino sempre vari. L’obbiettivo del radicamento spinge talvolta il risultato ad annullare la propria evidenza, restituendo mimeticamente l’immagine dei materiali naturali, delle forme del suolo. Ciò anche grazie a una manipolazione attenta e poco invasiva, in linea con una logica associativa d’intervento tra caratteri ambientali e architettonici che in alcuni casi mostra di sconfinare nella simulazione. La citazione di un risultato significativo può essere dedicata a una villa di Luigi Vietti, denominata La Cerva (1963), a Porto Cervo, Sardegna, che adotta come motivo dominante della costruzione, ad un solo livello aderente al terreno, il tipico carattere dei muri in blocchi di granito delle recinzioni delle particelle fondiarie del luogo. Esemplare è la villa Greenberg (1991), Los Angeles, strutturata da Ricardo Legorreta in rapporto alla pendenza naturale del sito. L’edificio assume un aspetto massivo per effetto dei paramenti murari, interrotti da rade aperture, avvolgenti spazi circoscritti in forma di corte. Il rivestimento esterno ad intonaco ripropone, nel dominante color ocra, il tema della continuità con la terra. Una notevole sensibilità nel riconoscere il valore fondativo degli
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Figg. 154, 155 – Adalberto Libera, villa Malaparte, Capri, 1938-40. Piante dei primi due livelli, pianta della copertura, prospetto laterale; veduta della villa dal sentiero a monte. Figg. 156, 157 – Mario Botta, casa a Riva San Vitale, Canton Ticino, 1972-73. Pianta del livello più alto in corrispondenza della passerella di accesso, sezione; veduta dal versante a valle.
Il contesto ambientale 111 elementi affioranti dal suolo viene manifestata da Eduardo Souto de Moura nel dar vita a un’opera sulla costa portoghese di Moledo (1991-98), presso Oporto. La villa s’incunea nel profilo di un versante collinare sfruttando a proprio favore, sul lato a monte, la condizione di contatto con un costone roccioso; il diaframma vetrato continuo che, a breve distanza, separa l’interno da questa emergenza del suolo ne lascia apparire intatta la rustica e ponderosa natura, contribuendo al senso di quiete e di introversione del settore più privato della casa, in alternativa al carattere più aperto del versante prospettante la valle. La ricerca finalizzata al dissolvimento della forma nel paesaggio apre il campo anche all’accentuazione del rapporto tra il costruito e il suolo, per un contatto viscerale e quasi primitivo con la terra. Ciò nella definizione di spazi incuneati in anfratti, di ambienti di natura ipogea, protetti e invisibili dall’esterno. È una tendenza che ha offerto risultati non frequenti e che ha trovato campo soprattutto negli ultimi decenni del secolo, in linea con l’interesse per tematiche di tipo energetico e di impatto ambientale, nell’obbiettivo di non intaccare l’immagine stabilizzata del paesaggio. Le diverse interpretazioni della natura del luogo hanno modo di manifestarsi nell’adattamento dell’intervento alla morfologia del terreno e alla natura geologica del suolo, nella disposizione della vegetazione in copertura, nella definizione dei punti di cesura per gli accessi e le aperture. Un esempio può essere individuato nella Alexander House (1974), a Montecito, California, realizzata da Roland Coate Jr. nell’obbiettivo di una integrazione monolitica con un rilievo collinare. L’affaccio degli ambienti verso l’esterno avviene prevalentemente su piccole corti ritagliate nel terreno, senza che ne risenta la continuità di sviluppo del piano di campagna, allo stesso tempo prato naturale e copertura. Il riferimento alla natura del luogo costituisce talvolta occasione di attribuzioni specifiche per l’architettura della villa, tanto da rendere possibile la formulazione di categorie distintive, sistematicamente inquadrate. Campagna, città, mare, montagna, sono accezioni ricorrenti per qualificare il carattere prevalente dell’opera, senza tuttavia che questo comporti necessariamente vincoli per il progetto e per l’interpretazione del risultato. Acquistano interesse, in particolare, realizzazioni scaturite in rapporto a luoghi estremi, allorché questi riflettono nel risultato il proprio carattere assoluto e totalizzante. I quadri ambientali della prateria, della foresta, del deserto, tra gli altri, trasmettono un sapore evocativo, propongono chiavi di lettura e suggerimenti che esulano da una sistematica e logica applicazione. Sovrintendono scelte di fondo, legate all’immaginario del committente come anche all’interesse del progettista per un lavoro di ricerca che talvolta assume il valore di una sfida. La prateria, con il suo orizzonte continuo, è stato motivo d’ispirazione per l’architettura wrigthiana del primo decennio del secolo, confermandosi anche più tardi luogo ideale per espressioni di tendenza organica. Il senso protettivo e avvolgente della foresta, come evidente per alcune opere già citate, ha trovato rispondenza nell’architettura di alcuni paesi scandinavi, la Finlandia in particolare; il carattere esuberante e inospitale della foresta amazzonica non ha impedito la possibilità di sperimentare forme colloquiali di coesistenza tra esigenze materiali e spirituali, con una nuova attenzione al portato della cultura locale. Il fascino di un ambiente primordiale e incontaminato come quello del deserto ha offerto in più casi l’occasione per confrontarsi con le forze primarie della natura, realizzando condizioni di vivibilità grazie a soluzioni tecniche non comuni per il controllo dell’equilibrio climatico. Come evidente nell’interpretazione rarefatta e ingegnosa di Richard Neutra per la Desert House (1946), a San Yacinto, o in quella massiva e iconica di Antony Predock per la Fuller House (1984-86), nel deserto roccioso di Phoenix, Arizona, l’architettura della villa è a volte in grado di trasformare le limitazioni ambientali in qualità distintive, di esprimere una propria individualità a contatto con fenomeni naturali di ordine superiore.
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Fig.–162 Fig. 158 Luigi Vietti, villa Vietti, (La Cerva), Porto Cervo, Sardegna, 1963. Pianta del piano terra. Fig. 159 – Ricardo Legorreta, villa Greenberg, Los Angeles, California, 1991. Planimetria generale. Fig. 160 – Eduardo Souto de Moura, villa a Moledo, Oporto, 1991-98. Pianta, prospetto a valle, sezione trasversale. Fig. 161 – Roland Coate Jr, Alexander House, Montecito, California, 1974. Pianta al livello della corte interna, sezione. Fig. 162 – Antony Predock, Fuller House, Phoenix, Arizona, 1984-86. Pianta del piano terra e sezione longitudinale.
Capitolo 3
Dettagli influenti, caratteri emergenti
L’interpretazione dei caratteri e degli elementi distintivi di un edificio, la villa nel nostro caso, rischia di risultare riduttiva per un’osservazione che trascuri il quadro d’insieme e le condizioni che, a vario titolo, hanno ispirato l’idea di progetto e determinato la realizzazione. Ciò non toglie che nei particolari del risultato complessivo sia possibile cogliere valori espressivi, funzionali e tecnici, spesso emblematici e a volte determinanti per la comprensione più generale del tema. Questa lettura a scala di dettaglio contribuisce ad individuare parametri di riferimento e idee guida, come anche a rivelare principi fondativi non sempre riconoscibili con immediatezza nel testo generale. La ricchezza di stimoli in tal senso, come anche l’esteso repertorio delle opere a cui relazionarsi, comporta ovviamente una selezione. L’attenzione dedicata solo ad alcune di esse non implica pertanto un giudizio di valore esclusivo né limita la possibilità di tentare confronti, di rilevare differenze o analogie di forma e di significato con altre opere più sommariamente citate. In prima approssimazione l’osservazione è dunque diretta a dettagli e caratteri emergenti di realizzazioni che hanno risolto in forme innovative e non convenzionali lo specifico tema progettuale. Il camino Oltre che essere strumento di equilibrio termico, il camino si propone nello spazio domestico come elemento simbolico, materializzando in molti casi il fulcro centrale degli ambienti di relazione. Nel definire gli elementi basilari dell’edilizia primitiva, Gottfried Semper aveva individuato il focolare come «il germe, l’embrione, di tutte le istituzioni sociali»1, il principio stesso dell’atto insediativo, cui segue nel tempo la costruzione delle parti di fabbrica destinate a proteggerne l’esistenza. Il focolare, come mezzo di sussistenza e di aggregazione di un nucleo famigliare, ravviva la memoria della fase pionieristica di colonizzazione del territorio, prima ancora di materializzarsi come riferimento fisso e settore specifico di fabbrica. La permanenza di questa immagine ancestrale resta forte nella cultura nord-americana, in linea con la propensione alla
1 G. Semper, Vergleichende Baulehre, 1850, ms.58, ff. 15-30, in W. Herrmann, Gottfried Semper. In Search of Architecture, Cambridge, Mass. 1984 (ed. it. Electa, Milano 1990).
Lamberto Ippolito, La villa del Novecento, ISBN 978-88-8453-967-0 (print), ISBN 978-88-8453-968-7 (online), © 2009 Firenze University Press
114 La villa del Novecento mobilità, alla conquista del nuovo, al dominio dei grandi spazi aperti. È un riferimento che ricorre nelle considerazioni teoriche di Wright, utile per confermare l’importanza dell’estensione all’esterno dello spazio domestico, in un rapporto di continuità e di diretta corrispondenza. Nell’architettura della villa il focolare all’aperto, «out of the door fireplace», acquista dunque un significato che va oltre l’attribuzione funzionale, per costituire un segno inequivocabile del carattere d’integrazione tra interno ed esterno. Questo è evidente, ad esempio, nella Schindler-Chace House (1921-22) di Rudolf Schindler, oggetto di una ricerca innovativa quanto anticonvenzionale sul rapporto tra stile di vita e spazio domestico. La dimensione individuale e quella sociale, per Schindler, sono da relazionare ad ambiti distinti, sempre diretti ad associare la doppia valenza di interno ed esterno. Le quattro cellule abitative della casa sono associate a due a due nell’organica espansione di una corte comune, luogo dotato di camino esterno in rapporto funzionale e visivo diretto con gli ambienti chiusi. Al focolare Alvar Aalto affida il senso della vitalità dell’ambito domestico operando la citazione di un carattere originario tipico degli insediamenti rurali finlandesi. Il fuoco di campo, il tradizionale kokko, occupa la posizione baricentrica di una piccola corte lastricata su cui convergono gli ambienti della casa per vacanze (1953) realizzata per la propria famiglia sull’isola di Muuratsalo. Rappresenta oltretutto il fulcro dell’assetto compositivo generale di un organismo chiuso sul margine esterno ma diretto ad inglobare uno spazio a cielo aperto come ambito centrale delle relazioni distributive e dei rapporti sociali. Nella più distesa conformazione a corte della villa Mairea (1937) il riferimento centrale della composizione diventa uno specchio d’acqua; il camino esterno trova collocazione al di sotto del portico che collega un braccio dell’edificio al padiglione della sauna. Ancor una volta la presenza di un camino all’aperto, in questo caso risolto come oggetto rustico in pietra sbozzata, conferma l’intento di estendere nella natura lo spazio vitale della casa. Nella villa Malaparte (1938-43) a Capri, Adalberto Libera sfrutta il richiamo del camino per stimolare una relazione percettiva tra interno ed esterno, rendendo possibile la vista del mare attraverso il diaframma vetrato che chiude il focolare. Al di là della fiamma, legata in questo caso all’idea di un ambito di vita protetto dall’azione degli elementi naturali, traspare l’immagine evocativa del carattere del luogo. Il ruolo di segnale percettivo, di elemento di attrazione dell’attenzione visiva, si configura come carattere ricorrente del camino, tanto da assumere in alcuni casi il valore di vero e proprio espediente direzionale. Nel caso della Robie House (1907-09), ad esempio, Wright centra la lunga prospettiva del soggiorno sul corpo del camino determinando la separazione di questo ambiente comune dalla contigua sala da pranzo. Il camino costituisce dunque il punto di convergenza delle linee di fuga nella direzione longitudinale della scatola spaziale, senza peraltro smentirne il carattere di continuità; ciò si realizza grazie alla permeabilità visiva e funzionale dei varchi laterali e del calcolato distacco dello stesso camino dal soffitto.
Fig. 163 – Alvar Aalto, casa Aalto, (Casa sperimentale), isola di Muuratsalo, Jyväskyla, 1953. Pianta del piano terra. Fig. 164 – Gio Ponti, villa Bouilhet, Garches, 1926. Pianta del piano terra. Fig. 165 – Ralph Erskine, casa-studio Erskine, isola di Drollningholm, Svezia, 1963. Sezioni longitudinale e trasversale. Fig. 166 – Louis Kahn, Esherick House, Chestnut Hill, Pennsylvania, 1959-61. Sezione longitudinale. Fig. 167 – Robert Venturi, Vanna Venturi House, Chestnut Hill, Pennsylvania, 1959-64. Sezione trasversale passante per il blocco del camino. Fig. 168 – Gunnar Asplund, casa Asplund, Stennäs, Svezia, 1937. Pianta del piano terra.
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116 La villa del Novecento Un’interessante sequenza spaziale si rileva nella villa Bouilhet (1926), a Garches, dove Gio Ponti individua un asse portante della composizione nel percorso rettilineo che dalla veranda esterna procede attraversando la sala da pranzo e il grande atrio a doppia altezza, per concludersi nella sala del focolare. Si tratta nel complesso di un impianto strutturato su una matrice geometrica ortogonale in cui il camino segna il punto focale di una successione di ambienti differenziati per carattere e destinazione d’uso ma pur sempre tra loro comunicanti. Anche per la disposizione di pianta della già citata villa Mairea lo schema ortogonale, con alcune eccezioni, costituisce un riferimento primario, senza peraltro divenire carattere vincolante. Per Aalto il principio razionale dell’angolo retto convive con la più libera espressione del tracciato curvilineo, di assi ottici e di percorso obliqui, suggeriti da elementi di arredo e aperture verso l’esterno. Sia al piano terra ove trovano posto gli ambienti comuni, che al primo piano dedicato alle camere, la posizione del camino risulta defilata; nel primo rapporto che si ha con l’interno, appena varcata la soglia dell’ingresso principale, questo si presenta quale punto estremo di un lungo asse ottico. Il suo richiamo visivo stimola dunque una percezione accidentale dell’ambiente, più dinamica e spontanea rispetto a quella prodotta da un più consueto riferimento centrale. L’ambito di influenza del camino diviene una zona d’angolo, illuminata nel caso del soggiorno da un’apertura che incide e modella asimmetricamente il volume della cappa. Il valore simbolico ed espressivo del camino talvolta porta il progettista a darne risalto come oggetto isolato, come elemento emergente e distintamente caratterizzato nei materiali costitutivi. Il suo orientamento, rispetto ai principali riferimenti geometrici dello spazio che lo accoglie, svolge anche la funzione di direzionare i movimenti o dare autonomia ai settori di uno stesso ambiente. Sono caratteri evidenti nella zona giorno della Fisher House (1960-61), di Louis Kahn, a Hatboro, Pennsylvania, all’interno di un blocco a pianta rettangolare incidente in angolo con il blocco dedicato alle camere. Il camino fluttua in uno spazio unitario controllato da riferimenti cartesiani e suddivide gli ambiti funzionali senza limitarne la fluida concatenazione. La pietra sbozzata a vista segnala all’interno il valore distintivo del camino e, allo stesso tempo, evidenzia il carattere naturalistico condiviso con il settore basamentale dell’edificio. Nell’ambito dello specifico tema residenziale non è insolito constatare che il camino viene spesso elevato a perno della composizione, a elemento centrale di coordinamento, fino ad assumere talvolta l’enfatica qualità di fattore originario della formazione dell’insieme. Il valore fondativo del camino è espresso da Philip Johnson a New Canaan, Connecticut, nell’ideazione della Glass House (1949), nucleo primario di un insieme di padiglioni diffusi nel verde, destinato inizialmente a propria residenza. Nell’osservare un villaggio di legno distrutto da un incendio Johnson dichiara di aver individuato nel camino e nelle fondamenta gli unici elementi rimasti in piedi come testimonianza storica degli edifici. L’idea di progetto della Glass House in effetti sfrutta la forza espressiva di questi oggetti, visti come preesistenze e mezzi di ancoraggio al suolo della scatola in acciaio e vetro. Il camino assume la forma di un volume cilindrico in laterizio, comprendente anche il bagno, e costituisce il primo riferimento fisso all’interno di uno spazio sostanzialmente indifferenziato. L’estensione verticale del cilindro, al di sopra del piano di copertura, e l’apprezzamento visivo diretto attraverso l’involucro vetrato ne fanno un caposaldo anche per l’orientamento esterno. Un analogo ruolo di riferimento centrale si riscontra per il camino metallico che Ralph Erskine pone in modo isolato al centro del soggiorno a doppia altezza della propria casa (1963) di Drollningholm, Svezia, in rapporto immediato con diversi ambiti d’azione. All’interno di questo spazio polifunzionale, la diffusione del calore viene estesa a 360° grazie ad un ingegnoso meccanismo ruotante che consente di variare la direzione del campo d’influenza.
Dettagli influenti, caratteri emergenti 117 La canna fumaria, estensione verticale del camino, in alcuni casi suggerisce soluzioni compositive interessanti per l’assetto volumetrico dell’edificio, soprattutto allorché all’intrinseca necessità funzionale si aggiunge il valore espressivo di fulcro di aggregazione di altri elementi. Per la Robie House Wright definisce questo elemento come rilevante episodio plastico, ne ingrandisce le dimensioni, associando nello stesso impianto a L un piccolo locale di servizio, anche al fine di esaltare per contrasto l’orizzontalità dell’insieme. I diversi settori sottoposti allo stiramento trovano nel nucleo verticale del camino un solido elemento di appiglio; nello sviluppo del tema compositivo questo carattere trova conferma all’interno, dove per ognuno dei tre piani la localizzazione strategica del camino si rivela essenziale per l’organizzazione degli spazi. Il corpo emergente del camino rimanda istintivamente al focolare, ad un elemento simbolo della vita familiare, tanto da suscitare l’interesse di alcuni progettisti per una definizione iconica esaltata. Un esempio emblematico è offerto dalla casa Vanna Venturi (1961) a Chestnut Hill, Pennsylvania, dove il nucleo del camino si rivela sul prospetto della facciata d’ingresso in tutta la sua estensione verticale come attributo centrale dell’idea di casa, manifestando apertamente il proprio valore determinante per la coesione dell’insieme in un’immagine unitaria. In linea con una concezione policentrica dello spazio domestico, Louis Kahn individua il camino come ambito discreto della casa, dotato di una sua spiccata autonomia sul piano distributivo quanto, soprattutto all’esterno, sul piano formale. Lo spazio dedicato al camino acquista dunque un carattere distintivo, come stanza all’interno di altre stanze; un principio che nella ricerca di Kahn si realizza nella casa Weiss (1947-50) a Norristown, Pennsylvania, attraverso l’abbassamento del relativo piano d’imposta rispetto a quello degli ambienti circostanti. Una soluzione finalizzata alla definizione di un luogo riservato e accogliente che, in altri casi, trova conferma nell’abbassamento del soffitto. Per la casa Esherick (1960-61), dotata di due camini centrati sui lati corti di un impianto rettangolare, Kahn adotta un modello riconducibile alla tradizione coloniale del New England. Lo spazio del camino che al primo piano integra quello della camera da letto padronale denota un suo preciso carattere, costituisce un luogo di raccoglimento e d’intimità, diversamente dal piano terra ove il camino della sala partecipa attivamente alla qualificazione dello spazio comune. Oltre al focolare, dall’interno si rende visibile la canna fumaria esterna attraverso un’alta asola nella muratura, con il chiaro obbiettivo di rendere percepibile la configurazione unitaria delle due parti costitutive. Anche i camini della casa Korman (1971-73), Fort Washington, Pennsylvania, generano all’interno unità spaziali concettualmente indipendenti e si riflettono nell’immagine esterna in volumi specifici, differenziati oltretutto per la natura del materiale. Diversamente dal predominante uso del legno e del vetro del corpo principale della casa, per questi nuclei compositivamente aggregati Kahn sceglie il laterizio a vista, sia per le superfici esterne che per l’interno, con chiara allusione alla tecnica muraria tradizionalmente riservata agli elementi fondativi della casa. La tendenza alla rottura della concezione unitaria dell’opera guida Frank Gehry nella realizzazione della dépendance della casa Winton (1982-87), Wayzata, Minnesota, a configurare uno specifico volume edilizio inglobante lo spazio del camino, un episodio plastico che, tra gli altri, resta autonomo e distintamente caratterizzato nel rivestimento esterno. È dunque un oggetto risolto a tutto tondo che, diversamente dagli altri blocchi dell’edificio, mantiene intatto il proprio valore semantico in rapporto a un quadro ambientale naturale e alquanto rarefatto. Racchiude un’unità spaziale strettamente legata alla sua funzione, un’appendice del più ampio spazio centrale del soggiorno che coordina l’aggregazione delle parti.
118 La villa del Novecento Tra le relazioni che la presenza di un camino instaura con altri elementi della casa appare interessante l’aggregazione con il corpo della scala, utile a comporre un nucleo strategico, talvolta risolutivo per l’organizzazione dei percorsi e la disposizione degli ambienti. Nell’interpretare il carattere naturale del luogo e un assetto planimetrico tipico della tradizione contadina del luogo, Gunnar Asplund scompone l’organismo edilizio della propria dimora di vacanze (1937), a Stennäs in Svezia, in due corpi distinti ma legati in successione lineare. Il più lungo corpo di fabbrica delle camere costituisce a monte il nucleo di ancoraggio dell’edificio a un risalto roccioso, lasciando il più piccolo settore, posto all’altra estremità e destinato al soggiorno-studio, libero di trovare un diverso orientamento per effetto di una deviazione del proprio asse. Il punto di connessione viene segnato all’interno da un episodio plastico inatteso che, nell’assecondare il naturale dislivello del terreno, vede l’ampia rampa della scala a contatto diretto con il camino. La presenza di quest’ultimo si manifesta in tutta la sua carica espressiva di oggetto organico, dalle linee avvolgenti modellate dalle forze della natura, apparentemente instabile sull’insolita base articolata a gradoni. È una linea di ricerca seguita anche da Alvar Aalto allorché risolve in unità di sviluppo e di materiale (pietra a vista) l’associazione tra la scala e il camino all’esterno della villa Mairea, in prossimità dell’avvio del portico. L’oggetto è privo di riferimenti diretti ad altri elementi della composizione tanto da assumere un valore di preesistenza, di episodio esplicativo del principio di genesi spontanea ispiratore dell’insieme. Più frequentemente il carattere emblematico di questo connubio tra scala e camino sfrutta la comune estensione verticale, proponendosi come nucleo strutturale e occasione di isolite configurazioni. Nella già citata casa di Chestnut Hill, per la propria madre, Robert Venturi propone una scala interna a sviluppo avvolgente intorno ai lati chiusi del camino. Questo nucleo struttura il percorso di risalita, offrendone alla vista dal soggiorno soltanto il segnale dell’avvio. Nel rapporto con l’esterno si qualifica come ostacolo a un prevedibile ingresso centrato sulla rientranza del fronte principale. L’intento di contraddire la regola imposta dalla simmetria centrale sfrutta dunque questo oggetto per deviare la direzione del percorso di accesso e aprire, appena varcata la soglia, una percezione volutamente accidentale dello spazio interno. Il percorso ascensionale L’architettura della villa trova spesso negli elementi di distribuzione la condizione per attivare un itinerario esplorativo degli spazi interni e di questi in rapporto con l’esterno. La scala offre al progetto un significativo elemento di mediazione dell’organizzazione orizzontale e verticale di un edificio. Al di là della scontata funzione distributiva essa può consentire di sperimentare dinamicamente le qualità di un ambiente nelle sue diverse forme e articolazioni. La poetica del movimento, radicata tra le istanze innovatrici delle avanguardie storiche del Novecento, ricorre frequentemente a ispirare la ricerca di soluzioni spaziali
Fig. 169 – Le Corbusier, villa Savoye, Poissy, 1928-30. Sezione nord-sud. Fig. 170 – Le Corbusier, villa Shodan, Ahmedabad, 1951-54. Sezione passante lungo la rampa. Fig. 171 – Oscar Niemeyer, casa Niemeyer, Lagoa, Rio de Janeiro, 1942. Sezione longitudinale. Fig. 172 – Le Corbusier, villa La Roche-Jeanneret (settore La Roche), Parigi, 1923. Piante del piano terra, piano primo e secondo. Fig. 173 – Heinrich Tessenow, casa Tessenow, Siemitz, Mecklemburg, 1943-44. Sezione. Fig. 174 – Adolf Loos, villa Moissi, lido di Venezia, progetto, 1923. Piante del piano terra e piano primo, prospetti.
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120 La villa del Novecento aperte, di relazioni di contiguità e continuità tra parti. Questi motivi sono leggibili nella configurazione della villa Savoye (1928-30) a Poissy, schematizzabile nella sovrapposizione di tre livelli collegati da una rampa doppia a sviluppo lineare. Il messaggio corbusiano risulta sorprendente già per il fatto di vedere adattata ad un ambito residenziale elitario una soluzione tipologica di carattere industriale. Come da più parti rilevato, acquista i connotati di un metaforico mezzo di transizione dalla penombra del piano terra, dedicato all’atrio di ingresso e agli ambienti di servizio, alla luce piena del solarium di copertura. Lo sviluppo continuo della rampa, oltretutto asse centrale della distribuzione planimetrica, apre all’osservatore la percezione tridimensionale dei principali ambiti spaziali attraversati, svela progressivamente i punti di mediazione tra interno ed esterno. L’interesse di Le Corbusier per il percorso ascensionale a pendenza dolce e privo di gradini ricorre in realizzazioni a destinazione sociale, acquistando il valore di prolungamento dello spazio pubblico all’interno dell’edificio. Per l’architettura della villa, in particolare per la villa Shodan a Ahmedbad, la presenza di una rampa tra i primi due livelli conferma il carattere di continuità ricercato tra gli spazi di relazione; allo stesso tempo la progressione lenta della risalita e lo sviluppo del percorso in un volume a sé stante predispongono al passaggio in un settore della casa più congeniale ad attività di studio e raccoglimento. Questa dinamica ascensionale non manca di riflettersi nelle creazioni di progettisti di fede corbusiana, lasciando traccia nella ricerca giovanile di Oscar Niemeyer e, in particolare, nella modalità di collegamento dei quattro livelli di esercizio della propria residenza di Lagoa, presso Rio de Janeiro (1942). La conformazione altimetrica del suolo consiglia in questo caso una disposizione scalata degli ambienti; a partire dal piano del giardino una doppia rampa ne assicura progressivamente il collegamento, descrivendo internamente un percorso organicamente strutturato, stimolante per i punti di vista offerti nella percezione degli interni e del paesaggio inquadrato dalle ampie aperture. Come la rampa anche la scala rivela spesso la propria natura di efficace dispositivo spaziale e di veicolo di immediato coinvolgimento del fruitore all’interno del quadro ambientale. Con l’esclusione di soluzioni dirette a relegare il percorso di collegamento verticale in un vano chiuso e autonomo, non è infrequente vedere la scala nel ruolo di protagonista della scena, di riferimento per la strutturazione dell’insieme. È ancora Le Corbusier che nella maison parigina La Roche-Jeanneret (1923) mostra la partecipazione attiva di questo elemento distributivo nel coordinare un assetto complessivo assoggettato a una logica di scomposizione delle parti. Gli effetti di questa frammentazione sono evidenti, in particolare, nell’organizzazione del nucleo centrale del settore La Roche, un atrio a tripla altezza racchiuso tra piani verticali apparentemente svincolati. Tratti significativi del percorso che rilega l’intero organismo si manifestano come elementi isolati e aerei. Sia la scala che il ponte di collegamento tra lo studio-galleria e l’abitazione partecipano attivamente alla definizione di uno spazio coinvolgente e di per sé rivelatore degli interessi artistici del proprietario. La scala, in particolare, viene inquadrata da un portale a doppia altezza ed emerge nell’invaso centrale con un ballatoio aggettante, punto in cui si interrompe la dinamica del percorso ascensionale per offrire un momento di riflessione, una pausa dedicata al godimento delle opere d’arte poste alle pareti. Fedele al principio che la semplicità in architettura rappresenta una grande ricchezza, Heinrich Tessenow risolve il progetto della propria casa di campagna (1943-44), con annesso atelier, a Siemitz, Mecklemburg, nei limiti volumetrici del modello elementare ricorrente nell’edilizia rurale del luogo, un parallelepipedo con tetto a doppia falda. L’interno riscatta il rigore della composizione d’insieme assegnando allo spazio centrale, in cui si sviluppa il percorso verticale di collegamento, la funzione di coordinamento dei rapporti funzionali e
Dettagli influenti, caratteri emergenti 121 percettivi tra gli ambienti su di esso convergenti. Il meccanismo distributivo, in particolare, è conseguente alla scelta di sfalsare i livelli degli orizzontamenti dei due diversi settori afferenti al vano centrale della scala, con il risultato di creare una successione continua di spazi di movimento e di sosta. Il pianerottolo intermedio, normalmente considerato inattivo, diviene dunque un piano di esercizio effettivo e, soprattutto alla quota del primo livello, mostra tutta la sua flessibilità nel dare origine a un piano esteso a destinazione comune. La dinamica dei percorsi costituisce nelle ville di Adolf Loos un fattore determinante nella gestione di una organizzazione spaziale complessa e, certamente, non determinata da una semplice sovrapposizione di piani. I diversi tratti di scala che, in modo discontinuo e ramificato innervano i settori vitali dell’abitazione, aderiscono dunque all’idea complessiva di una concatenazione tridimensionale degli spazi, sono in grado di istituire rapporti consequenziali tra ambienti, come anche di guidare l’accesso ad ambiti riservati. La concezione del Raumplan loosiano, dunque, rifiuta programmaticamente questo elemento distributivo come settore autonomo dell’edificio, ne disperde i segmenti in un più ampio raggio d’azione, pur sempre nei limiti di una logica complessiva basata sul senso della misura e dell’efficienza. Questo aspetto organizzativo, spazialmente fluido ma sostanzialmente introverso, è leggibile nelle ville loosiane degli anni Venti, quali ad esempio la villa Moller (1928), a Vienna, e la villa Müller (1928-30), a Praga. Il disinteresse per la continuità tra interno ed esterno esclude che la scala si manifesti come congegno distributivo o elemento strutturale nell’immagine stereometrica dei fronti; la presenza di una rampa di scala è costretta a segnalarsi solo per un breve tratto utile a regolare il rapporto dell’ingresso con il piano di campagna. Ambienti in sequenza, grazie a piccoli tratti di scale risolutivi di dislivelli parziali interni, caratterizzano anche il progetto di Loos per la villa Moissi al Lido di Venezia (1923). L’idea di base appare ravvivata da uno spirito mediterraneo nel presentare, oltre alle vie interne di risalita, un elemento d’eccezione costituito da un percorso esterno continuo, dal piano d’imposta alla terrazza che precede gli ambienti a giorno del primo piano. Lo sviluppo avvolgente di questo episodio plastico diviene carattere risolutivo per la definizione del margine del volume sottratto al teorico blocco d’origine, assumendo peso determinante per la configurazione d’insieme. In effetti l’architettura della villa può interpretare le condizioni ambientali assecondando l’articolazione del suolo, rapportandosi alle emergenze naturali. È interessante rilevare a questo proposito come le potenzialità del progetto di spazio loosiano possano esprimersi anche in organismi aperti e organicamente relazionati al contesto. Il riferimento allo spirito di estroversione, particolarmente connaturato al carattere mediterraneo, ha ispirato soluzioni compositive ricche di eventi e di sorprese, dove l’idea di percorso diviene condizione strutturante, non più attributo degli ambiti residuali della casa. La natura frammentata del suolo suggerisce a Luigi Cosenza (con la collaborazione di Bernard Rudofsky) una disposizione articolata per gli spazi della villa Oro (1935) a Posillipo, Napoli, integrando luoghi esterni e luoghi chiusi in uno svolgimento continuo. È un organismo a impianto lineare, proiettato verso il mare e in equilibrio sul limite di un alto costone tufaceo, caratterizzato da una dinamica di relazioni funzionali e spaziali nello sviluppo verticale di tre piani sovrapposti. Brevi tratti di scala compensano in più luoghi i dislivelli assicurando una percorribilità fluida e ramificata nelle diverse direzioni; sono episodi diffusi, suggeriti dalle condizioni topografiche e ambientali, comunque non emergenti come elementi qualificanti l’immagine esterna. La citazione della villa Oro sollecita per contrasto l’attenzione per le attribuzioni d’immagine affidate alla scala come oggetto plastico, in evidenza verso l’esterno fino a costituire a volte un segnale identificativo e a volte autoreferenziale. Per restare nell’ambito di osservazione del carattere mediterraneo della villa, si può leggere questo interesse per l’indivi-
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Dettagli influenti, caratteri emergenti 123 duazione di un elemento emergente nella scala a chiocciola che struttura il fronte principale della coeva villa Caudano (1935), a Torino, così come scaturita dalla matita di Gino Levi Montalcini. Il tema è svolto indubbiamente in funzione della caratterizzazione morfologica dell’esterno della villa ma, allo stesso tempo, appare connaturato alla particolare composizione basata sulla sovrapposizione di corpi stirati orizzontalmente, sfalsati e plasticamente relazionati. Con la mediazione di un primo tratto di scala rettilinea che, con l’ampiezza dei suoi gradini, segnala il passaggio dal piano di campagna al punto d’ingresso, si determina nello sviluppo verticale di un’ulteriore scala la condizione per rapportare funzionalmente i diversi livelli abitabili e le corrispondenti estensioni esterne. L’elegante chiocciola, alla cui purezza formale contribuisce la mancanza dei pianerottoli intermedi, resta intatta nel suo sviluppo verticale, attraversando in un foro circolare il piano terrazzato del primo livello e risolvendosi all’estremità superiore in rapporto alla pensilina della terrazza di copertura. Il principio di corrispondenza tra forma e funzione risponde perfettamente all’intento di dare al nucleo scala un carattere distintivo, di risolverne la presenza come immagine esplicativa dell’organizzazione dei livelli; risultati in tal senso sono diffusi in architetture di impronta razionalista diventando anche espedienti qualificanti i fronti esterni di opere International Style. Il ruolo unificante e direzionale svolto dalla scala trova una chiara dimostrazione da parte di Carl Weidemeyer, nella villa Hahn (1928), a Ronco sopra Ascona, Canton Ticino. L’edificio a tre piani risulta compresso tra un ripido versante montuoso e la riva del lago Maggiore assumendo forzatamente in pianta uno sviluppo lineare. La giacitura complanare dell’esteso fronte sud sul lago viene segnato da una scala rettilinea aggettante, suddivisa in due lunghi tratti intervallati dalla terrazza del primo piano2. Questo collegamento verticale è dunque totalmente esterno e, come fatto d’eccezione esclude la presenza di un corrispondente percorso di risalita interno. Con segno sicuro taglia diagonalmente l’intero prospetto e ne diventa principale elemento caratterizzante. Ricorrono frequentemente soluzioni dirette a enfatizzare il rapporto tra il livello del giardino e il livello nobile della casa, spesso rialzato per consentire a monte un accesso in piano o per riservare agli ambienti del livello sottostante funzioni di servizio. La scala che collega il giardino con il primo piano della villa Tugendhat (1929) di Mies Van der Rohe si rapporta al carattere stereometrico del podio basamentale, larga fuori misura per riscattare la propria natura funzionale di semplice elemento di mediazione. Un più organico ma sempre forte carattere espressivo si ravvisa nell’aerea e avvolgente scala della villa Schminke (1931-33), a Löbau, Germania, su disegno di Hans Scharoun. L’edificio si sviluppa su due livelli principali secondo un assetto di piano a matrice ortogonale, chiudendosi in testata
La villa Hahn ha subito già nel 1931, sempre su progetto di Weidemeyer, una ristrutturazione che ha interessato soprattutto il settore basamentale. Nel 1928 lo stesso architetto realizza la villa Tutsch in una posizione attigua alla villa Hahn; per esse è ipotizzabile la redazione di un unico progetto. Il tema della scala esterna a sviluppo lineare viene riproposto anche nella villa Schulthess (1931), oggi villa Cristoforo, sempre ad Ascona, Canton Ticino.
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Figg. 175, 176 – Gino Levi Montalcini, villa Caudano, Torino, 1935. Piante del piano rialzato e del piano primo; particolare della scala a chiocciola. Fig. 177 – Hans Scharoun, villa Schminke, Löbau, 1931-33. Piante del piano primo e secondo. Fig. 178 – Carl Weidemeyer, villa Hahn, Ronco sopra Ascona, Canton Ticino, 1928. piante del piano terra e del piano primo. Fig. 179 – Tadao Ando, villa Koshino, Ashiya, Hyogo, 1979-81. La scala inserita tra i due volumi edilizi del settore residenziale.
124 La villa del Novecento con un fronte vetrato che, per contrasto, rende ancora più libero e aereo lo sviluppo della scala esterna e di un doppio ordine di terrazze aggettanti. Il percorso ascensionale scaturisce da un piano terra ribassato e, seguendo la linea di pendenza del terreno, prosegue obliquamente lungo il fronte per poi raccordarsi con la terrazza del piano più alto. L’intero sviluppo verticale del settore terminale dell’edificio viene ad essere interessato dal carattere protagonista di questo episodio, elevato a primo segnale di riconoscibilità dell’insieme. Quanto visto rientra pur sempre nell’ambito di ricerche che riconoscono il valore non accessorio della scala, come condizione per l’articolazione degli spazi o come elemento di arricchimento della morfologia dell’edificio, senza fraintendimenti di natura semantica o di ragione funzionale. Il campo di osservazione, in relazione ai suddetti caratteri, risulta vario sul piano tipologico come anche su quello espressivo, riservando elementi di sorpresa e manifestando in alcuni casi forzature. La scalinata esterna della già citata villa Malaparte a Capri è un esempio di come la scala possa trasformarsi assumendo la diversa connotazione di una copertura obliqua o di una conformazione naturale della roccia. L’episodio, peraltro non scaturito dal progetto originario di Adalberto Libera, è interpretabile altresì come percorso iniziatico, come veicolo di una progressiva astrazione dalla realtà fisica, dalla terra verso il cielo. Una chiara trasposizione di significato è rilevabile anche nella scalinata esterna della villa Koshino (1979-81) di Tadao Ando, ad Ashiya, Giappone; interposta tra i due volumi parallelepipedi, questa scala si segnala per assonanza materica come elemento integrante della casa, pur essendo dal punto di vista topologico parte del terreno declive. Il percorso di risalita, dalla corte al piano di campagna a monte, conferma la cesura esistente tra i due blocchi paralleli, separati in virtù della diversa destinazione funzionale; allo stesso tempo ne costituisce l’elemento di continuità, in quanto copertura del corridoio sotterraneo di collegamento trasversale. Il diaframma esterno Nel definire il limite esterno di un organismo residenziale isolato, il diaframma murario mostra valenze funzionali e potenzialità espressive quanto mai ampie, sollecitando varie interpretazioni di forma e di significato. Delimitare può significare dividere il dentro dal fuori, separare ambiti vitali diversi per natura e destinazione, affermare in vario modo esigenze psicologiche di chiusura e introversione. Nel corso del Novecento l’architettura della villa è stata in grado di esprimere questi caratteri secondo uno spettro ampio di manifestazioni, fino anche a contraddirne i presupposti trasponendo l’idea del limite stesso in quella di fattore di trasparenza e di continuità. Pur materializzando il senso ancestrale di protezione, di difesa del privato, il recinto murario assume dunque connotazioni flessibili, divenendo talvolta elemento d’interfaccia con l’esterno, parte organica e rappresentativa dell’insieme. Condizioni ambientali limitative per la quiete domestica hanno guidato Luis Barragán nell’assegnare un carattere claustrale alla propria residenza (1947-48) di Città del Messico. Un alto recinto delimita e protegge dall’esterno casa e giardino, nell’intento di creare un ambiente di vita improntato al silenzio e alla riflessione. Il tema del recinto coinvolge la forma dell’edificio sulla strada e si manifesta nella consistenza di un diaframma murario impenetrabile. Le aperture non consentono la vista dell’esterno se non verso il cielo o su piccole porzioni del giardino attraverso il filtro di piccole corti esterne. La necessità di protezione dell’ambito domestico dal disordine urbano ricorre anche nelle scelte compositive di Tadao Ando; il muro di recinzione diviene parte integrante dell’edificio, direziona i percorsi di avvicinamento, determina ambiti di varia connotazione funzionale, racchiude spazi esterni isolando all’interno frammenti di natura.
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Fig. 180 – Mies Van der Rohe, villa Hubbe, Magdeburgo, progetto, 1935. Pianta. Fig. 181 – Luigi Figini, Gino Pollini, Villa-studio per un artista, Milano, 1933. Pianta. Fig. 182 – Alvar Aalto, casa Aalto, (Casa sperimentale), isola di Muuratsalo, Jyväskyla, 1953. Sezione lungo la corte. Fig. 183 – Philiph Johnson, Johnson House, Cambridge, Massachusetts, 1942. Pianta. Fig. 184 – Louis Kahn, Goldenberg House, Rydal, Pennsylvania, progetto, 1959. Pianta.
126 La villa del Novecento Il recinto murario si presta a divenire un carattere determinante dell’idea di progetto anche in condizioni ambientali meno vincolanti, trasponendo la propria funzione accessoria di margine protettivo in quella di elemento organico all’assetto dell’edificio, finanche a segnalarsi come fattore fondativo della composizione d’insieme. La ricerca condotta da Mies Van der Rohe sulla casa a corte, tra il 1931 e il 1940, assume le valenze di questo elemento di fabbrica come condizione indispensabile per definire l’ambito d’azione di un nucleo famigliare, garantendo continuità di movimento e di percezione tra l’interno e lo spazio privato esterno. Nel progetto della villa Hubbe (1935), nel Magdeburgo, il recinto corrisponde parzialmente con il perimetro del nucleo residenziale e allo stesso tempo ne costituisce l’estensione naturale utile ad inglobare al suo interno spazi aperti in diretta associazione. Ciò non pregiudica la possibilità di determinare soluzioni di continuità sui lati lunghi di questo impianto rettangolare, per l’ingresso dal lato strada e, dal lato opposto, per l’apertura verso il più libero ambiente naturale circostante. Altri progetti miesiani, sempre centrati sul tema della corte, dimostrano come lo stesso recinto sia in grado di realizzare una chiusura completa degli ambienti verso lo spazio pubblico. Riflessi di questa ricerca caratterizzano l’intervento sperimentale della Villa-studio per un artista (1933) realizzata da Luigi Figini e Gino Pollini in occasione della V Triennale di Milano. Tratti di murature di recinzione riportano alla elementarità di impianto del rettangolo un organismo strutturato in nuclei periferici connessi con un settore centrale di spina, dedicato allo stesso tempo ad ambito di relazione della zona giorno e a spazio espositivo delle opere dell’artista. La struttura perimetrale delimita piccole aree esterne a patio, luoghi di diretta espansione dell’interno e di filtro visivo. Un chiaro riferimento agli studi di Mies è evidente nella prima residenza (1942) che Philip Johnson realizza per sé, a Cambridge, Massachusetts, adottando come elemento determinante dell’assetto complessivo un recinto di pannelli prefabbricati, utile a definire il limite esterno del giardino-corte e, allo stesso tempo, il margine della casa su tre lati. Secondo un principio di riduzione all’essenziale degli elementi in gioco, lo spazio abitabile gode della totale trasparenza del lato prospettante verso il giardino e assume come ulteriore struttura di contenimento una copertura piana, sospesa su pilastri tubolari metallici. L’obbiettivo di inglobare la corte esterna nello spazio abitabile viene messo in atto da Alvar Aalto per la propria casa di vacanze (1953), a Muuratsalo sul lago di Payanne, pervenendo alla definizione di un organismo compatto, unificato dallo sviluppo continuo di un tetto a falda unica e da un’alta muratura di recinzione, in continuità, per forma e materiale, con le murature esterne dell’edificio. Al controllo generale della composizione, basata su un modello planimetrico a L aggregato eccentricamente a una corte quadrata, sfuggono due piccoli volumi accessori senza peraltro intaccare la chiarezza ed essenzialità dell’impostazione unitaria di base. Grazie al contenimento di alte murature di recinzione, la corte diviene spazio centrale di relazione, visiva e funzionale, condivide lo stesso carattere degli ambienti chiusi; la muratura esterna segna il limite oltre il quale la natura del luogo continua a esprimersi in forma spontanea. Questo tema compositivo, legato alla disposizione di elementi di contenimento e di regolamentazione degli spazi, mostra notevoli potenzialità nel progetto di Louis Kahn per la casa Goldenberg (1959), a partire da un’idea di impianto centrale con corte baricentrica. Gli ambienti abitabili ne occupano la corona esterna trovando come limite interno un doppio recinto murario includente la fascia dei servizi. A questa regola sfugge il soggiorno in virtù dell’accesso diretto alla corte, attraverso un diaframma interrotto nel suo centro dal camino. L’impianto, dunque, segue una logica compositiva basata su recinti concentrici, in grado di definire autonomamente le fasce funzionali degli spazi serviti e serventi, senza peraltro precluderne il rapporto di contiguità.
Dettagli influenti, caratteri emergenti 127 Il carattere massivo e avvolgente del diaframma murario esterno tende a perdere valore nelle proposte innovative di autorevoli interpreti del Movimento Moderno, coinvolgendo allo stesso tempo il valore rappresentativo storicamente affidato alla facciata. L’interesse per una disposizione libera dei piani limita la possibilità di assegnare loro funzione portante, annullando la necessità di trovare nello stesso elemento di fabbrica corrispondenza tra le esigenze distributive e strutturali. L’architettura della villa ha registrato nel corso del secolo passato infinite variazioni di indirizzo sul tema del limite esterno, sul modo di gestire il passaggio da un ambito di vita riservato ad un’altro più libero e aperto, sul modo di affermare senso di smaterializzazione e trasparenza in opposizione a solidità e opacità. La negazione della facciata, attraverso lo smembramento dei piani murari esterni, diviene, a seguito della stagione wrightiana delle Prairie Houses, motivo di frequente interesse per le ricerche del modernismo europeo, spesso in funzione del principio di continuità spaziale tra interno ed esterno. La poetica neoplastica del piano libero, diretta secondo Theo Van Doesburg alla costruzione di una «architettura anticubica», come è noto, troverà una convincente interpretazione nel progetto della Casa di campagna in mattoni (1923) di Mies Van der Rohe, nei limiti di un impianto aperto, generatore di spazi fluidi, reso possibile da isolati diaframmi murari dinamicamente proiettati verso l’esterno. L’interesse per la decomposizione dell’organismo, evidente nello schematico disegno di pianta, sembra opporsi alla scelta, leggibile nella rappresentazione prospettica, di omogeneizzare il carattere materico delle murature con l’uso esclusivo del laterizio a vista. Il carattere fluttuante e privo di peso ricercato da Gerrit Rietveld per i piani della casa Schröder (1924), a Utrecht, grazie anche alla contrapposizione di diverse campiture di colore, non trova corrispondenza nell’idea di Mies di identificare gli elementi murari come struttura attiva, in rapporto diretto con il suolo. Il superamento di questa visione integrata delle funzioni del diaframma murario non tarderà a mostrarsi allo scadere del decennio con l’affidamento della funzione portante a un distinto e impercettibile sistema strutturale di pilastri isolati. Le Corbusier aveva affrontato il tema della rottura dell’unità della scatola muraria nel progetto della villa La Roche, assegnando una configurazione instabile alle pareti di delimitazione interna dell’atrio. Gli effetti di questa scomposizione si manifestano nelle connessioni angolari, nel carattere astratto e atettonico dei piani verticali, accentuato oltretutto da variazioni cromatiche di superficie. Più distintamente le ville corbusiane degli anni Venti introducono l’elemento del telaio strutturale come condizione per liberare lo sviluppo murario, interno e di margine, pervenendo a una chiara e sistematica separazione tra parti portanti e parti portate. I principi della pianta libera e della facciata libera, esemplificati nel modello «Dom-ino», affermano l’indipendenza delle murature rispetto al telaio strutturale, rendono evidente come il rispetto della regola può convivere con la libertà dell’invenzione. La muratura esterna diviene dunque una membrana leggera, a secondo dei casi, suddivisa in tratti distinti o ritagliata da aperture di grande luce nel suo sviluppo di superficie continua. Nella villa Savoye (1928-30), come anche nella villa Stein-de Monzie (1926-27), ciò è consentito dall’arretramento del telaio strutturale rispetto al filo di facciata, realizzando l’obbiettivo di esaltare il carattere stereometrico dell’intero volume edilizio. In controtendenza rispetto alle ricerche di matrice organica e di carattere neoplastico, viene dunque enfatizzata l’unità dell’oggetto architettonico e garantita piena dignità d’immagine alla facciata. È una linea di ricerca che, nei due decenni successivi, ha offerto riferimenti significativi per l’opera di architetti di fede razionalista, per quanti hanno sentito il fascino della leggerezza e dell’astrazione, delle potenzialità espressive consentite dall’innovazione dell’apparato tecnico dell’edificio. Un risultato in tal senso, cronologica-
128 La villa del Novecento mente avanzato e comunque filtrato attraverso una visione e un’esperienza personale, è individuabile nella villa Planchart (1953-56) realizzata su progetto di Gio Ponti a Caracas. L’idea di pareti come membrane leggere, come fogli sottili svincolati dalla struttura senza che questa si manifesti nell’immagine esterna dell’edificio, è resa con efficacia e immediatezza attraverso l’assottigliamento estremo degli spigoli e la cesura in corrispondenza delle linee di contatto angolare. La smaterializzazione delle cortine esterne si afferma peraltro nell’uniforme e luminoso trattamento superficiale ad intonaco bianco. Possibilità alternative di risoluzione della facciata sono rapportabili peraltro alla condizione di coincidenza tra telaio e diaframma di chiusura. È una logica compositiva che autorizza la struttura a manifestarsi apertamente come componente morfologica determinante e, talvolta, anche come tracciato regolatore dell’ordine geometrico. Sono modalità verificabili in una estesa casistica di soluzioni, coinvolgenti direttamente aspetti di carattere tecnico-funzionale come anche di tipo espressivo. Merita una citazione la villa per il bey Arakel Nubar (1930-31), realizzata a Garches, su progetto di Auguste Perret, nei limiti di un volume elementare in forma di parallelepipedo, dotato al primo piano di un’ampia terrazza comunicante con il giardino per mezzo di due ampie scalinate. Le superfici esterne danno leggero risalto alla trama di pilastri e travi, quali principali fattori espressivi dell’ordine strutturale e della natura costruttiva dell’edificio. È evidente il dualismo che separa la struttura dal tamponamento, secondo una chiara logica di evidenziazione delle rispettive funzioni attraverso la diversa caratterizzazione delle superfici. La soluzione della muratura, inizialmente prevista a fasce alternate di mattoni e pietra, in linea con la tradizione dell’edilizia residenziale dei dintorni di Parigi, era diretta a esprimere qualità materiche e formali inequivocabilmente distinte da quelle della struttura. Considerazioni in tal senso sono trasferibili a un’opera più recente, la Casa di pietra (1982-88), a Tavole in Liguria, realizzata su progetto dello studio Herzog & de Meuron. Sulle pareti esterne di un volume cubico si evidenzia la gabbia strutturale in cemento armato delle testate dei solai e delle testate di due setti ortogonali che definiscono la ripartizione interna degli ambienti. Il telaio, che tra l’altro viene a prolungarsi su di un lato dell’edificio a formare un pergolato esterno, si manifesta come ragione strutturale dell’edificio e determina la geometria elementare dei campi murari. Posta sul comune filo di facciata, la muratura è in realtà una parete ventilata non portante, in pietra locale a vista. Per la presenza di isolate aperture e in virtù del ricoprimento dei pilastri angolari, la muratura stessa si caratterizza come superficie omogenea di avvolgimento dell’interno blocco edilizio. Il telaio avanzato rispetto agli elementi di tamponamento, pareti e finestrature, evoca una teorica e rarefatta superficie filtrante, apparentemente autonoma rispetto al volume edilizio inglobato. Senza essere necessariamente reale espressione della struttura, il telaio assume per l’immagine complessiva del fronte edilizio il valore di primo riferimento, di appiglio per elementi accessori, producendo in definitiva un effetto di stratificazione spaziale della facciata. Si può riconoscere alla ricerca corbusiana, e non solo del periodo purista, il merito di aver sperimentato l’indipendenza del telaio rispetto alla facciata, di aver verificato le possibilità di articolazione di volumi stereometrici e oggetti plastici in totale libertà rispetto alla griglia strutturale dell’edificio. La villa Baizeau (1928-29) a Santa Monica, Cartagine, ad esempio, rende evidente il carattere filtrante della struttura perimetrale, a tratti esterna rispetto alle murature di chiusura degli ambienti; il loro arretramento dal filo di facciata, ove necessario, si giustifica per la protezione degli ambienti dall’esposizione dei raggi solari, consentendone allo stesso tempo una naturale espansione verso l’esterno in ampi spazi coperti. Gli elementi puntuali di superficie e la stessa copertura, non tradiscono l’idea originaria dell’edificio come blocco unitario, teoricamente legato
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Fig. Fig.186 186
Fig. 185 Fig. 185 Fig. 187 Fig. 187
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Figg. 185, 186 – Gerrit Rietveld, casa Schröder, Utrecht, 1924. Piante del piano terra e del piano; disegno prospettico. Fig. 187 – Auguste Perret, villa Arakel Nubar Bey, Garches, 1930-31. Pianta del piano terra e prospetto sul giardino. Figg. 188, 189 – Giuseppe Terragni, Villa per il floricoltore, Rebbio, Como, 1935-37. Pianta del piano primo; veduta generale. Fig. 190 – Giuseppe Terragni, Villa Bianca, Seveso, 1836-37. Pianta del piano primo. Fig. 191 – Peter Eisenman, House II, Hardwick, Vermont, 1969-70. Sezione e prospetto. Fig. 192 – Herzog & de Meuron, Casa di pietra, Tavole, Liguria, 1982-88. pianta del piano terra e prospetto.
130 La villa del Novecento alla geometria di un volume elementare. L’importanza di una forma primaria originaria, dunque, non viene smentita nel processo di sottrazione volumetrica e resta evidente nell’affioramento in superficie degli elementi regolatori della statica. Nella ricerca dedicata da Giuseppe Terragni alla casa unifamiliare, tema centrale è quello della relazione sintattica tra contenuto e contenitore esterno, tra parti racchiuse e struttura emergente. Negli otto progetti di ville, tre dei quali realizzati, si evidenzia l’interesse per una soluzione tridimensionale dell’involucro esterno, fino all’annullamento di porzioni significative di superficie in funzione della trasparenza e profondità del diaframma di chiusura. Nel progetto di Villa sul lago (1936), purtroppo non realizzato, l’elemento dominante della composizione è un volume parallelepipedo, sospeso sul suolo, ampiamente scarnificato nelle sue superfici e ridotto alla frammentaria incorniciatura del telaio strutturale esterno. La struttura interna a pilotis e i volumi degli ambienti, opachi o trasparenti, arretrati o sfalsati, fluttuano all’interno di questo ideale contenitore. Nel caso della Villa per il floricoltore (1935-37), a Rebbio, Como, la struttura emergente dall’involucro dà luogo ad episodi plastici indipendenti, chiaramente svincolati dal contatto con la superficie di tamponamento. Questo slittamento di piani verso l’esterno definisce rispetto al piano di facciata diaframmi virtuali avanzati che, in questo caso, si formalizzano in balconi, rampe, solette di protezione. Nella Villa Bianca (1936-37), a Seveso, è anche la copertura ad essere interessata da questa scomposizione volumetrica consentendo al telaio strutturale di emergere per offrire appiglio allo slancio delle pensiline di coronamento. Riflessioni sull’opera di Terragni, e in particolare sul carattere d’indipendenza reciproca tra tamponamento e struttura, sono alla base della ricerca di Peter Eisenman fino alla fine degli anni Settanta. Nei progetti di edifici residenziali unifamiliari, le cosiddette cardboard houses, dato di partenza ricorrente è un volume unitario, sottoposto nel corso della modellazione ad un processo di disaggregazione delle parti, di slittamenti di piani, di intersezioni e sovrapposizioni. La gabbia in cemento armato tende ad assumere il valore di riferimento astratto rispetto al quale le diverse parti si organizzano determinando episodi plastici e situazioni spaziali inusuali. In facciata il telaio tende a perdere l’evidenza strutturale e, soprattutto là dove diviene segno ridondante, affiora prevalentemente come carattere linguistico dell’idea progettuale. La House II (1969-70), ad Hardwick nel Vermont, tra le altre, mostra chiaramente questa dissociazione tra griglia strutturale e piani di contenimento, per effetto di uno spostamento diagonale in pianta di questi ultimi; il telaio strutturale diviene dunque il primo strato di un organismo che si articola progressivamente, dall’esterno verso l’interno, in spazi formalmente indeterminati o di natura interstiziale. L’unità volumetrica dell’edificio, nei casi analizzati, risulta messa in crisi da un processo di disgregazione che, tuttavia, sia pure in modo allusivo tende a riconoscere la condizione di una forma originaria. Da questa impostazione di metodo è concettualmente distante la tendenza diretta a riconoscere nel risultato finale la forza espressiva del corpo edilizio come solido unitario e compatto, stabile ed opaco, fisicamente definito. Per Adolf Loos l’integrità della conformazione volumetrica non viene compromessa dalle articolazioni spaziali dell’interno, trova conferma in un omogeneo rivestimento di superficie che esclude ogni ambizione espressiva della muratura e del telaio in cemento armato. Nelle ville degli anni Venti, tra le quali la villa Müller (1928-30) a Praga, l’intonaco bianco definisce una superficie continua e avvolgente, priva di cesure nella convergenza dei piani. L’uniforme trattamento epidermico esclude peraltro il ricorso a motivi ornamentali applicati o a caratteri organicamente espressivi dei materiali e delle tessiture murarie. Le aperture, per forma e dimensione, trovano corrispondenza diretta con l’esigenza di introiettare la necessaria quantità di luce e di avere dalle diverse stanze punti di vista opportunamente direzionati verso l’esterno.
Dettagli influenti, caratteri emergenti 131 L’interpretazione loosiana dello strato superficiale come fattore di forma del volume edilizio, viene ampliata nel corso del secolo da ricerche più aperte a valorizzare le potenzialità espressive del diaframma di chiusura, facendo leva sul suo carattere simbolico, sulle qualità materiche e costruttive. Motivo centrale nell’opera di Louis Kahn è la scoperta della funzione strutturante che la parete svolge per l’intero organismo edilizio; dalla parete esterna, in particolare, dipende non solo la solidità e la sicurezza della casa, quanto anche il carattere stesso degli spazi interni, rivelato soprattutto dalla luce naturale filtrata dalle aperture. Il tema compositivo della villa, è per Kahn un campo di sperimentazione che per alcune risultanze anticipa progetti di ben più ampio respiro. Come è evidente nella Esherick House (1959-61) e nella Fisher House (1960), senza smentire l’interesse per la chiarezza e l’elementarità della composizione volumetrica, è l’accurata valutazione del rapporto tra vuoti e pieni che pone la condizione per trasporre la funzione di tamponamento in quella di elementi di filtro dell’esterno. I diaframmi di margine, peraltro, si articolano in settori di diversa natura e consistenza materica, diventano per l’interno campi di attrazione di attività e motivo di comfort. L’interesse per le forme geometriche semplici, per i materiali naturali, è presente anche nelle proposte che Mario Botta elabora per la casa unifamiliare, un campo progettuale ampiamente praticato in rapporto alle sollecitazioni del contesto culturale e ambientale ticinese. È evidente l’interesse per gli effetti plastici che scaturiscono da volumi semplici e compatti, ben fondati sul suolo, chiusi al contorno da murature dall’aspetto massivo, interrotte nello sviluppo continuo da poche e selezionate aperture, da tagli decisi utili anche ad inquadrare, nella vista dall’interno, sezioni significative di paesaggio. Nel carattere solido e rassicurante della muratura esterna Botta individua in effetti una scelta d’opposizione alla tendenza diffusa nell’architettura contemporanea di identificare l’oggetto con il suo rivestimento, con uno strato applicato indifferente alla natura fisica e tettonica dell’edificio. Tra le altre, la casa unifamiliare a Manno (1987-90) e la Casa circolare (1980-82) a Stabio mettono in luce in superficie un uso raffinato del laterizio, un materiale scelto per la flessibilità ad adattarsi alle esigenze costruttive e d’immagine, ma anche espressivo del senso di gravità e di protezione che storicamente la parete esterna ha sempre comunicato. La disposizione in facciata di elementi cellulari, lasciati a vista, segue talvolta precise indicazioni di disegno, affidando anche ai giunti la possibilità di offrire caratterizzazioni cromatiche e chiaroscurali. Si tratta indubbiamente di un motivo di ulteriore affermazione del valore simbolico della parete, di un settore di fabbrica in cui i materiali naturali e la loro tessitura consentono talvolta di riconoscere abilità tecniche e metodi della tradizione costruttiva locale. Ciò sollecita un richiamo al contributo determinante assunto dalla componente artigiana nell’opera di Mario Ridolfi, attento a interpretare in facciata le caratteristiche espressive e fisiche dei materiali, a integrarne nel rapporto reciproco gli effetti grafici, cromatici, tattili. La Casa Lina (1964-67) alle Marmore, Terni, come anche la villa Luccioni (1951) a Terni sono indicative di questa applicazione a scala di dettaglio, maturata attraverso uno studio grafico spinto fino alla definizione al vero dei particolari. Le murature esterne riflettono questo approccio ravvicinato all’oggetto, al di là di astrazioni e convenzioni, secondo un processo ideativo che coinvolge qualità formali e decorative del disegno, valori espressivi e funzionali dei materiali. Nell’assumere la categoria residenziale della villa come osservatorio privilegiato, non è infrequente ravvisare motivi d’interesse focalizzati sulla parete esterna, con attribuzioni linguistiche che talvolta si segnalano come cifra stilistica distintiva del progettista. Tra le citazioni d’obbligo si può richiamare l’opera di Luis Barragán, sicuramente in controtendenza allorché rileva l’inconsistenza fisica dei diaframmi di chiusura ottenuti con strutture
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Fig. 197 Figg. 193, Fig. 194 –197 Mario Botta, casa unifamiliare, Manno, canton Ticino, 1987-90. Piante del piano terra e del piano primo; veduta. Figg. 195, 196 – Mario Botta, Casa circolare, Stabio, canton Ticino, 1980-82. Piante dei tre livelli praticabili e della copertura; veduta. Fig. 197 – Mario Ridolfi, Casa Lina, Marmore, Terni, 1964-67. pianta del piano rialzato e sezione diametrale. Fig. 198 – Jørn Utzon, villa Utzon, (Can Lis), Maiorca, 1970 circa). Planimetria generale.
Dettagli influenti, caratteri emergenti 133 in cemento armato, acciaio e vetro. Le sue murature, al contrario, hanno spessore e peso, limitano gli spazi determinandone il carattere, proteggono l’intimità, «creano silenzio», manifestano oltretutto il trascorrere del tempo attraverso la patina fissata dalla superficie porosa. Questa acuta sensibilità per la materia, nella villa-scuderia Folke Egerstrom (1968) a San Cristobal, Mexico City, si unisce a un più moderno senso di astrazione generato dalla tensione dei piani murari esterni; le variazioni cromatiche di superficie contribuiscono alla scomposizione dei piani e, allo stesso tempo, accentuano il valore emozionale dell’ambiente. L’uso esteso del cemento armato a vista, in pannellature geometricamente controllate da una griglia modulare, per Tadao Ando è la condizione per annullare il senso di fisicità della muratura, per rapportane il valore materiale a quello di limite ideale. La parete esterna tende a dividere nettamente due ambiti di vita, delimita spazi fondamentalmente definiti lasciando che elementi selezionati del paesaggio appaiano all’interno attraverso aperture delineate come elementi di cesura. Dal punto di vista tipologico, ad esempio nella già citata casa Koshino, non c’é differenza tra le murature dell’edificio, così come si manifestano all’esterno, e i setti murari liberi che definiscono le relazioni con l’intorno; sono elementi che delimitano spazi, individuano percorsi, direzionano opportunamente la vista. La comune natura di diaframmi artificiali e monocromi assume valore strutturante per la sistemazione dell’intero lotto. Il ruolo storicamente accreditato al diaframma murario come fattore di regolazione del rapporto tra interno ed esterno assolve esigenze funzionali, formali, psicologiche. Ove necessario dunque, la parete isola, protegge, esprime caratteri. Ad estensione delle attribuzioni già accennate possono essere indicati motivi d’interesse legati all’azione filtrante dello schermo di facciata, quale fattore di equilibrio osmotico, di partecipazione attiva e di stimolo visivo. L’interesse dei progettisti per questo tema è stato indotto spesso dall’evidenza di condizioni ambientali e climatiche particolarmente influenti sul comfort domestico, ma ha anche trovato riferimenti immediati in pratiche costruttive ed elementi tipologici affermati nella tradizione locale. L’idea corbusiana del brise-soleil, di un «mur lumière» traforato o decostruito in elementi distaccati e variamente orientati, viene a costituire una vera e propria risorsa progettuale, come dimostra la soluzione adottata in tal senso nella villa Shodhan (1951) ad Ahmedabad; l’interpretazione della facciata come filtro regolatore del comfort ambientale dello spazio domestico, si traduce anche in un motivo determinante per la caratterizzazione formale. La necessità di schermare un ambiente dai raggi solari, garantendo allo stesso tempo l’effetto benefico della ventilazione, suggerisce a Balkrishna Doshi, nella realizzazione della propria villa (1959-61) ad Ahmedabad, una soluzione di forte valenza plastica per i diaframmi di chiusura. Volumi in calcestruzzo a vista aggettano dalle facciate in mattoni, con la doppia funzione di contenimento per la terrazza di copertura e di elemento di ombreggiamento per gli ambienti sottostanti; un episodio che raccoglie stimoli dalla lezione indiana di Le Corbusier ma che reinterpreta con materiali e tecniche nuove un elemento di fabbrica tipico delle case di legno del Gujarat. In rapporto ad un ambiente caldo e arido Jørn Utzon opta per una fodera muraria in pietra a protezione dei margini più esposti di Can Lis (1970 circa), la propria residenza per vacanze realizzata su un’alta scogliera di Maiorca. In tre dei quattro padiglioni in cui si ripartisce l’insieme, ad inquadrare tratti del paesaggio marino vengono aperte nei diaframmi esterni bucature caratterizzate da profondi piani di imbotte, diversamente orientati per guidare la vista e filtrare la luce solare. Nel tenere i serramenti a filo esterno, l’effettivo limite dello spazio racchiuso avvolge queste cellule di margine, ricavate nel fittizio e profondo spessore murario; sono piccoli spazi di una vera e propria «muratura abitata», camere di luce, luoghi di transizione in proiezione diretta verso l’esterno.
134 La villa del Novecento L’involucro trasparente La tradizionale ricerca di equilibrio tra vuoti e pieni, tra aperture e diaframmi opachi, si confronta con il nuovo interesse del Movimento Moderno per il senso di permeabilità dell’organismo edilizio. Il vetro assume un ruolo protagonista nel rinnovamento della concezione della casa e dell’abitare, la sua trasparenza stimola l’idea di continuità tra interno ed esterno, tra spazio domestico e natura. Premesse significative della ricerca sulle potenzialità espressive di questo materiale sono riconducibili alle utopiche proiezioni della Glasarchitektur di Bruno Taut, sull’onda delle emozioni suscitate nel primo decennio del secolo dalla produzione letteraria di Paul Scheerbart3; emergono anche nella ricerca teorica di Mies sull’architettura del grattacielo, si concretizzano nella nuova interpretazione di Gropius per l’architettura degli edifici industriali. Questa tendenza alla smaterializzazione dell’involucro edilizio è del resto incentivata nel corso degli anni Venti dai progressi tecnici della produzione vetraria; la possibilità di ampliare le dimensioni delle lastre, senza disattendere i necessari requisiti di sicurezza, consente ormai di ottenere superfici trasparenti omogenee e continue, rese più astratte e immateriali dall’alleggerimento degli elementi di connessione. Se nel campo dell’edilizia sociale la trasparenza del diaframma esterno si presta ad una interpretazione di valore simbolico ed etico in grado di incentivare il coinvolgimento del cittadino, resta più difficile motivarne la necessità nel contesto residenziale, dove agiscono fattori funzionali e psicologici più orientati a circoscrivere e proteggere l’ambito del privato. Si può notare, tuttavia, come l’architettura della villa, nel corso del secolo scorso, abbia sfruttato a suo vantaggio il carattere della trasparenza trasformandolo talvolta da scontata componente funzionale a categoria progettuale distintiva. È tuttavia un carattere che può rivelarsi ambiguo, esaltato o smentito al variare della qualità e intensità della luce, della natura stessa del mezzo, della posizione del punto di vista. Il termine «trasparenza» si presta a interpretazioni che vanno al di là di un significato letterale legato alla qualità fisica della materia; come proposto da Colin Rowe e Robert Slutzky4 con riferimento alla villa Stein-de Monzie (1926-27), a Garches, di Le Corbusier, la trasparenza ha anche valore «fenomenico» di percezione simultanea di diverse situazioni spaziali, non è determinata da diaframmi vetrati quanto invece dalla stratificazione verticale dei piani. Si tratta di un’interpretazione valida per il fronte prospettante il giardino, dove si apre l’ampio varco delle terrazze, non certamente per il fronte opposto, verso l’ingresso, dove appare chiaro l’interesse di Le Corbusier nel definire una superficie primaria di forma perfetta. I lunghi nastri vetrati delle aperture, seguendo regole di tracciato e di proporzione, ripartiscono questa facciata in fasce distinte, senza tradirne il valore rappresentativo e l’unità concettuale. La visione macchinista dell’edificio si esprime nell’immagine delle finestre in lunghezza, nei telai metallici, nelle ante scorrevoli, nei dettagli che rimandano al carattere funzionalista dell’edilizia industriale. Lo stesso Le Corbusier ne giustifica l’impostazione di forma in rapporto ad esigenze primarie di vivibilità, per i vantaggi di una più uniforme e profonda diffusione della luce nello spazio interno. Per altro, nelle ville corbusiane del periodo sono rari gli episodi di una totale sostituzione della parete con un diaframma vetrato. Questo avviene per la villa Savoye al piano terra, a delimitazione parziale dell’atrio di ingresso, 3 Paul Scheerbart è autore di composizioni letterarie, pubblicate con frequenza sulla stampa periodica, in cui emergono i temi della trasparenza e delle qualità cromatiche del vetro. All’amico Taut dedica il saggio L’architettura di vetro, pubblicato nel 1914. 4 Si veda C. Rowe (con R. Slutzky), Trasparenza: letterale e fenomenica, in C. Rowe, La matematica della villa ideale e altri scritti, a cura di P. Berdini, Zanichelli Editore, Bologna 1990, pp.147-168.
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Fig. 202
Fig. 199 – Le Corbusier, villa Stein-de Monzie, Garches, 1926-27. Il fronte sul giardino. Fig. 200 – Mies Van der Rohe, Farnsworth House, Plano, Illinois, 1946-51. Prospetto-sezione. Fig. 201, 202 – Lina Bo Bardi, Casa de vidro, San Paolo, 1951. Piante e sezione trasversale; veduta dal versante a valle.
136 La villa del Novecento con un diaframma curvilineo notevolmente arretrato rispetto al filo esterno dell’edificio; si propone al piano nobile, per mezzo di due grandi ante scorrevoli a tutta altezza, come condizione di continuità distributiva e percettiva tra il soggiorno e la grande terrazza interna. L’obbiettivo di aprire lo spazio privato verso l’esterno si realizza pienamente per gli ambienti di soggiorno della villa Tugendhat (1929-30), a Brno, in linea con l’interesse di Mies Van der Rohe per la continuità di uno spazio sostanzialmente indifferenziato, idealmente limitato dai soli piani orizzontali. L’apertura dei diaframmi verticali verso valle si estende per tutta la lunghezza dell’edificio e diventa effettiva grazie alla scomparsa di alcuni serramenti per mezzo di un sofisticato meccanismo di scorrimento verticale. Nuove riflessioni sulle qualità tecniche dell’oggetto consentono dunque di realizzare una forma di trasparenza totale, in grado di trasformare uno spazio interno in esterno, un soggiorno in una grande terrazza aerata. Se per Tessenow l’uso eccessivo del vetro «squarcia lo spazio», per Mies si può pensare al contrario che contribuisca a definirlo nelle sue qualità astratte ed essenziali, coinvolgendo sullo stesso piano ambiti di vita fino ad allora ritenuti separati. Dimostrare che la trasparenza sia un valore e non un limitazione del senso di privacy è stato, nello scorso secolo, un obbiettivo ricorrente della ricerca architettonica, con esiti talvolta forzati ma spesso apprezzati dalla critica. Il tema della «casa di vetro» ha costituito un banco di prova per la tendenza a smaterializzare l’organismo edilizio, a raffinarne le qualità tecniche, a stimolare il rapporto diretto con l’esterno. Non senza sacrificare fondamentali esigenze di vivibilità, Mies Van der Rohe raggiunge questo obbiettivo nella realizzazione della casa Farnsworth (1947), Plano, Illinois; rinuncia ad esprimere il senso del limite e della chiusura al contorno di una cellula spaziale unica, espone liberamente gli elementi costitutivi essenziali. Su questa strada ma con diverse motivazioni espressive, Philip Johnson sviluppa il suo modello di Glass House (1949), a New Canaan, confidando per la necessaria privacy sulla disponibilità di un’ampia area recintata. La natura circostante, come componente dell’idea di progetto, è chiamata a instaurare un dialogo con l’interno, entra necessariamente nel quadro visivo e nei pensieri degli abitanti. L’eccezionalità della situazione ambientale e delle condizioni in cui si realizza l’artificio determinano sulle vetrate effetti di trasparenza, di riflessione, di illusione percettiva, per poi proporre suggestioni irreali nell’oscurità della notte quando la scatola di vetro irraggia la propria luce verso l’esterno. In entrambi i casi il progetto prevede soluzioni di dettaglio necessarie a regolare il rapporto delle cortine vetrate con gli elementi strutturali, senza tuttavia affrontare problematiche di tipo energetico5. Quanto visto scaturisce da un approccio progettuale rigoroso e cosciente del valore sperimentale dell’intervento, sicuramente più orientato a riconoscere la personalità e l’ingegno del progettista che l’effettivo valore dell’oggetto in termini di vivibilità. Più realisticamente Lina Bo Bardi, per la propria Casa de vidro (1951), a San Paolo, Brasile, esclude il settore notte dal dover confrontarsi con il requisito della trasparenza, relegandone gli ambienti nella parte più arretrata della casa, in rapporto diretto con il suolo. Ciò permette di dare slancio e autonomia di sviluppo alla zona giorno, all’interno di un volume completamente vetrato, libero di protendersi su sottili pilastri metallici verso il verde circostante. Questa distinzione, tra un ambito più protetto e un ambito che può manifestarsi 5 Più in dettaglio Johnson utilizza come elementi filtranti pannelli di tela scorrevoli lungo guide applicate al soffitto. Al contrario Mies ha previsto nella Farnsworth tende fissate ad un sottile profilo metallico perimetrale. Condizione per la continuità delle cortine vetrate é, in entrambi i casi, quella di non elevare tramezzi che possano interferire con le cortine stesse. Ogni elemento divisorio è dunque necessariamente interno e non viene a limitare la continuità della fascia funzionale perimetrale.
Dettagli influenti, caratteri emergenti 137 Fig. 203 – Richard Neutra, Van der Leeuw Research House, Silver Lake, California, 1932. Pianta del piano terra. Figg. 204, 205 – Kengo Kuma, Water-Glass House, Atami, 1936. Piante dei tre piani; il piano più alto emerge da una piattaforma d’acqua ed entra in rapporto con il paesaggio oceanico grazie alla trasparenza del diaframma di chiusura.
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138 La villa del Novecento all’esterno attraverso il diaframma vetrato, caratterizza anche la casa di Niemeyer (1953), a Canoas, Rio de Janeiro. Il profilo mistilineo del margine a vetri costituisce il segno impercettibile della continuità della vita domestica nello spazio circostante. Il carattere omogeneo della pavimentazione consente inoltre di non interpretare il filtro di facciata come elemento di separazione, trovando una conferma emblematica nell’episodio del contatto diretto di questo con un masso roccioso affiorante. Nel tentativo di esemplificare il tema con alcune citazioni, acquistano interesse interventi esplorativi delle possibilità di variare la trasparenza di un diaframma vetrato, di utilizzarne le caratteristiche materiche, di colore e di trattamento superficiale, per rispondere a requisiti d’immagine, di funzionalità, di comfort. L’approccio sperimentale messo in atto da Richard Neutra per la realizzazione della Van der Leeuw Research House (1932), a Silver Lake, Los Angeles, risponde al quesito della protezione dalla vista esterna degli ambienti, chiusi in buona parte da grandi vetrate. La funzione intermittente del mezzo trasparente si rivela nelle ore serali, allorché la superficie vetrata diventa riflettente grazie alla luce proiettata su di essa da lampade celate al di sotto di una cornice esterna. La ricerca nel campo specifico della produzione vetraria rende nel tempo meno evidenti i problemi già segnalati, soprattutto in linea con il successo crescente di queste applicazioni nel terziario. Il processo di trasferimento tecnologico nell’edilizia residenziale, per quanto limitato, non ha escluso la conferma di modelli e tecniche della tradizione; spesso a fronte di particolari requisiti della domanda hanno avuto un ruolo decisivo per il risultato lavorazioni di tipo artigianale, opportunamente validate dal progettista nel controllo e nella definizione del dettaglio. Le ampie vetrate con telaio ligneo della casa Korman (1971-73), a Fort Washington, Pennsylvania, segnalano l’interesse di Louis Kahn per la luce quale mezzo rivelatore dello spazio e della fisicità della materia, senza limitazioni per il carattere di trasparenza ed ariosità degli ambienti racchiusi. In assonanza con la cultura Shaker, l’essenzialità del disegno è confermata dall’uso prevalente del legno a vista, particolarmente efficace anche nel dare consistenza all’assetto formale e strutturale dei diaframmi vetrati di facciata. Il riferimento alla componente artigianale del lavoro e alla tradizione delle galerias galiziane si ritrova nella moderna interpretazione di Álvaro Siza nel configurare una parete vetrata a doppia altezza per la chiusura dello squarcio di facciata che caratterizza la casa Beires (1973-76), a Povoa de Varzim, Portogallo. Il riferimento è sollecitato non solo dalla volontà di recupero di un elemento d’immagine quanto anche dall’intento di controllare la permeabilità degli ambienti all’aria e alla luce. Secondo i modelli della tradizione locale il diaframma è dotato di un sistema di ante scorrevoli, necessarie per la protezione dall’irraggiamento solare e dalla prospezione dall’esterno. Nel clima più freddo di Holten, in Olanda, l’idea di una glass box sembra appropriata a Rem Koolhaas per configurare il volume prevalente della villa Geerlings (1992-93). Lo spiccato carattere naturale del sito peraltro non preclude la possibilità di dare trasparenza alle cortine esterne; la soluzione adottata tende a superare il carattere etereo ed astratto del diaframma miesiano e, nell’intento di esprimere in facciata le diverse qualità ambientali dell’interno, si traduce nella diversa caratterizzazione dei pannelli per dimensione, opalescenza, riflessione della luce. Tra i risultati più recenti della ricerca diretta ad indagare le possibilità espressive del vetro si colloca anche l’opera di Kengo Kuma che, nella villa Water/Glass (1995) ad Atami, Giappone, ne sperimenta la trasparenza al limite estremo dell’invisibilità. La villa va a integrare, come residenza per gli ospiti, la preesistente villa Hyuga (1936), di Bruno Taut, in un sito di grande suggestione ambientale. Da uno sperone roccioso dominante l’oceano emerge completamente il piano più alto, settore della zona giorno, strutturato nella forma di tre scatole di vetro in apparente levitazione su una
Dettagli influenti, caratteri emergenti 139 piattaforma d’acqua. La ricerca dell’effetto di sospensione e di totale trasparenza sfrutta in pieno le qualità del vetro per limitare, e quasi annullare, il peso visivo degli elementi strutturali e degli elementi di arredo. L’associazione con l’acqua, considerata in questo caso vero e proprio elemento costruttivo, accentua la consistenza immateriale dell’insieme determinando un’immagine fluttuante e del tutto irreale. La copertura Un parametro di osservazione, particolarmente efficace per seguire le variazioni di orientamento del progetto della villa, è rappresentato dalla copertura, già dal primo decennio del secolo oggetto di una mutazione tipologica, di nuove attribuzioni di forma e significato. Nel costituire il settore di coronamento della tradizionale tripartizione verticale dell’edificio, il tetto a falde ha sempre espresso un carattere simbolico e psicologicamente rassicurante. Se per un verso continua a prestarsi a svariate elaborazioni formali di gusto eclettico, d’altro canto mostra la propensione ad evolversi funzionalmente e strutturalmente, prima ancora di trasfigurarsi in sintonia con le nuove interpretazioni dell’organismo edilizio. L’obbiettivo della semplicità ed essenzialità perseguito da Charles Francis Annesley Voysey nell’ambito dell’English Domestic Revival, sembra dare nuovo slancio alla copertura a tetto; la volontà di affermare questo elemento di fabbrica come attributo prevalente della composizione d’insieme si realizza nel disegno geometricamente elementare delle falde, negli alti spioventi. Nel caso della dimora The Homestead (1905-11), a Frinton-on-Sea, la tendenza a verticalizzare le linee di pendenza della copertura viene bilanciata dall’orizzontalità dei riferimenti geometrici della sottostruttura. Un indiscutibile valore segnico viene attribuito al tetto a capanna da Mackay Hugh Baillie Scott, in linea con l’interesse per una semplificazione formale da attuare con sistemi costruttivi tradizionali e materiali locali lavorati con cura. Una citazione in questo senso merita la landhaus Waldbühl (1907-11), a Uzwil, in Svizzera, sul cui prospetto principale tre distinti volumi, coronati da falde molto inclinate, assumono evidenza rispetto al blocco principale diventando riferimenti primari per l’impaginato simmetrico dell’insieme. L’interesse per i modelli abitativi inglesi, favorito in Germania dal contributo critico di Hermann Muthesius, tende a tradursi nel corso del primo decennio del secolo in una nuova attenzione per la semplificazione dei mezzi espressivi e per la comprensione di nuove esigenze di vivibilità. Sottraendosi al diffuso romanticismo di maniera, e senza trascurare il portato della tradizione costruttiva, Heinrich Tessenow risolve il settore di copertura come parte attiva della casa, funzionalmente e formalmente integrata nell’insieme. I piani inclinati del tetto della casa sullo Sternberger See (1902), progettata per i suoi familiari, così come quelli della villa Böhler (1916-17), presso St. Moritz, entrano in modo decisivo nella definizione dei prospetti; l’avvolgimento protettivo libera settori limitati di facciata e lascia intuire la presenza di un profondo nucleo spaziale interno. Il coinvolgimento sul piano compositivo della copertura a falde è evidente anche in alcune ville viennesi di Hoffmann, in particolare nella villa Henneberg (1900-01) e nella villa Spitzer (1901-02), dove a una modellazione volumetrica alquanto movimentata corrispondono in copertura episodi plastici perfettamente correlati; il tradizionale tetto sovrimposto alla struttura muraria viene dunque riconosciuto come parte integrata e determinante dell’unità concettuale dell’edificio. Nel seguire la strada della trasformazione dell’architettura coloniale americana, lo studio Greene & Greene fissa i presupposti di uno stile nazionale, il California Bungalow Style,
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Fig. 206 Fig. 206 Fig. 207
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Fig. 209 Fig. 206 – Charles F.A. Voysey, The Homestead, Frinton-on-Sea, 1905-11. Pianta del piano terra e prospetto. Fig. 207 – Mackay H. Baillie Scott, Landhaus Waldbühl, Uzwil, Svizzera, 1907-11. Pianta del piano terra e prospetto. Fig. 208 – Heinrich Tessenow, villa Böhler, St. Moritz, Svizzera, 1916-17. Piante dei due livelli e sezione trasversale. Fig. 209 – Greene & Greene, Gamble House, Pasadena, California, 1907-08. Pianta del piano rialzato e prospetto.
Dettagli influenti, caratteri emergenti 141 oggetto dai primi anni del secolo di particolare fortuna nel rappresentare l’idea di una domesticità aperta alla natura. Il legno a vista è il materiale preminente, definisce il carattere del rivestimento ed emerge in superficie anche per denunciare la propria funzione strutturale. Nella casa Gamble (1908), a Pasadena, opera più nota della produzione dei due fratelli architetti, l’esposizione dell’orditura lignea della copertura denuncia il carattere artigianale del metodo costruttivo. A questa caratterizzazione si aggiunge quella del forte aggetto e del basso spiovente delle falde, determinante per l’accentuazione orizzontale della distribuzione delle masse. Questa linea di ricerca tendente a legare l’organismo edilizio al suolo, ad estendere lo spazio domestico nella natura circostante, è già chiara nei risultati della fortunata stagione wrightiana delle Prairie Houses. Lo stiramento orizzontale dei corpi di fabbrica coinvolge il disegno del tetto, fino a trasporre il tradizionale carattere di struttura avvolgente in quello di un oggetto leggero e dinamico, assimilabile soprattutto per la vista dal basso ad un piano fluttuante. Come documentato per la casa Robie (1908-10) in Oak Park, l’effetto si realizza grazie ad una struttura mista di travi di acciaio e travicelli in legno, celata dal controsoffitto, in grado di liberare lo sviluppo del tetto dal condizionamento di appoggi perimetrali e consentire profondi aggetti di falda. L’espediente dell’assottigliamento al minimo della sezione del canale di gronda, lungo il margine esterno, esprime in pieno l’idea di tensione e di riduzione della copertura inclinata a piano orizzontale. La predilezione, in ambito residenziale, per il tetto a falde non impedisce a Wright di sperimentare le qualità delle coperture piane in opere con diversa destinazione funzionale. Motivi strutturali giustificano la rottura della scatola muraria; il processo di liberazione dello spazio si realizza rendendo indipendenti le pareti e la copertura, affrancandole dalla necessità di un reciproco contatto6. Tutto ciò anticipa temi centrali della ricerca d’avanguardia europea del secondo decennio, offre motivi di riflessione a quanti si avvicinano direttamente all’opera del maestro americano. Tra questi Robert Van’t Hoff, che per la villa Henny (1916-18), a Huis ter Heide, Utrecht, adotta uno schema di copertura piana di chiara derivazione wrightiana, fortemente aggettante alle estremità e compositivamente slegata dal volume sottostante. È da considerare, comunque, che già dalla seconda metà dell’Ottocento la copertura piana non rappresentava una novità nella produzione edilizia americana; è di applicazione costante negli edifici alti a telaio, negli edifici di prevalente carattere funzionale, ovunque prevalgano ragioni di sicurezza e di economia. Nel passaggio al nuovo secolo sono anche gli architetti europei ad accogliere questa mutazione, pur nella coscienza iniziale di una limitazione delle qualità espressive del risultato. Negli anni Venti ogni riserva sembra ormai superata in linea con la nuova consapevolezza delle possibilità offerte dall’innovazione tecnica. Piani orizzontali e verticali acquistano il valore di elementi liberi nella scomposizione De Stijl. Come dimostrato da Gerrit Rietveld nella casa Schröder (1924), a Utrecht, e soprattutto da Mies van der Rohe nel Padiglione tedesco all’Esposizione Internazionale di Barcellona (1929), la copertura ha la stessa proprietà della parete di definire uno spazio, di manifestare la sua geometria bidimensionale priva di peso. Nel rifiutare l’idea di architettura come forma di espressione artistica, Adolf Loos individua motivazioni pratiche e di vivibilità a base della scelta di una copertura piana in alternativa alla tradizionale copertura a tetto. Dalle osservazioni sull’architettura di alcuni paesi del mediterraneo derivano utili indicazioni per il progetto della villa, soprattutto là dove la
I principi wrightiani dell’architettura organica sono riportati in B. Zevi, Il linguaggio moderno dell’architettura. Guida al codice anticlassico, Einaudi, Torino 1973, pp.43-44.
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Dettagli influenti, caratteri emergenti 143 superficie terrazzata diviene una forma di estensione della pur complessa organizzazione distributiva interna. Ciò vale dunque per Loos in una casa a Vienna come a Praga, in ambienti urbani e montani, in piena assonanza con i principi di semplificazione formale e di razionalizzazione volumetrica dell’edificio. Ragioni ritenute valide da alcuni progettisti a favore del tetto inclinato sono contraddette da altri favorevoli alla copertura piana, con motivazioni fondate, da parte di questi ultimi, sulla disponibilità di mezzi tecnici nuovi, di metodi operativi e di materiali che, per quanto in fase evolutiva, promettono risultati rassicuranti. L’architettura della villa, nel corso degli anni Trenta, registra questo nuovo interesse pervenendo a soluzioni formali e funzionali originali, talvolta coinvolgenti l’assetto spaziale dell’intero edificio. La copertura come giardino, come superficie naturale recuperata dall’occupazione del suolo, viene indicata da Le Corbusier tra i principi basilari della nuova architettura. Il semplice e terso volume della villa Le Lac (1925), che realizza per i genitori a Corseaux-Vevey, sulla riva del lago di Lemano, è chiuso da una struttura orizzontale, il cui trattamento a prato, oltre che offrire motivo di integrazione nella natura, viene interpretato come espediente per la protezione della struttura7. Nell’opinione più diffusa il tetto a falde inclinate, come settore di fabbrica conclusivo e autonomo, difficilmente concorre all’unità formale dell’edificio; il carattere di astrazione e perfezione geometrica ricercato da Le Corbusier nei volumi compatti delle ville del periodo purista si realizza evidenziando lo stacco netto delle murature rispetto al cielo, lungo il margine orizzontale di copertura. Nel piano nobile della villa Savoye i diaframmi murari determinano il completo avvolgimento di spazi chiusi ed aperti, trasformano in una visione sintetica una complessa organizzazione volumetrica e spaziale. L’ampia terrazza inglobata è in effetti una corte che coordina percorsi e visuali, tra gli ambienti del piano e tra questo e il soprastante solarium. È dunque, questo, il tema della copertura come elemento generatore di spazi e di relazioni, come luogo vivibile della casa, non necessariamente confinato. Un tema peraltro stimolante, alla cui varietà e qualità di esiti concorrono potenzialmente fattori ambientali, culturali, psicologici. Come dimostra il giovane Luis Barragán nella villa urbana González Luna (1929-30) a Guadalajara, la copertura riproduce all’esterno l’organizzazione interna, strutturata in spazi serviti da un corridoio centrale. Sulla terrazza di copertura al corridoio corrisponde un percorso coperto da un pergolato, utile a svincolare i diversi settori; questi ultimi, distinti tra loro grazie anche a sensibili differenze di quota, si propongono come ambienti della casa a cielo aperto, luoghi aperti verso il giardino o racchiusi come spazi di riflessione. I vantaggi di questa soluzione si riferiscono in particolare al contributo del mantello verde nel contenimento dei fenomeni di dilatazione della struttura, stimati dannosi in quanto causa della formazione di crepe. Al tema dei vantaggi della copertura piana Le Corbusier ha dedicato lo scritto: Conversazioni con un costruttore di tetti di Chaux-de-Fonds nel 1914, pubblicato nel «Neue Zürcher Zeitung», 1934.
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Fig. 210 – Le Corbusier, Villa Le Lac, Corseaux-Vevey, Svizzera, 1925. Pianta e sezione longitudinale. Fig. 211 – Luis Barragán, casa González Luna, Guadalajara, 1929-30. Particolare della terrazza di copertura. Figg. 212, 213 – Luigi Figini, Gino Pollini, villa Figini, Milano, 1933-35. Piante del primo e secondo piano; il modello. Fig. 214 – André Lurçat, villa Hefferlin, Ville D’Avray, Parigi, 1931-32. Piante del piano primo e del piano secondo. Fig. 215 – Robert Mallet-Stevens, villa Noailles, Hyères, Costa Azzurra, 1924-33. Pianta del complesso al livello della terrazza-giardino. Fig. 216 – Robert Mallet-Stevens, villa Cavrois, Croix, Roubaix, 1931-32. Pianta del piano rialzato.
144 La villa del Novecento Nel solco della sperimentazione corbusiana Luigi Figini e Gino Pollini offrono un saggio delle qualità spaziali delle terrazze-patio nella villa Figini (1933-35), a Milano, nel quadro ambientale di una città-giardino nota come Villaggio dei giornalisti. La sintesi formale dell’edificio è data all’esterno da un volume elementare sollevato da terra su pilastri isolati; al suo interno risultano inglobati due livelli abitabili connessi con ambienti a cielo libero, dedicati al riposo, allo svago, all’attività fisica. Soluzioni spaziali diversificate, anche a doppia altezza, danno vita ad un rapporto di reciprocità tra interno ed esterno, valido funzionalmente su ogni piano come anche visivamente tra livelli sovrapposti. La copertura a terrazza diviene dunque parte attiva della casa, un insieme di luoghi capaci di stimolare comportamenti liberi e salutari. Nel corso degli anni Trenta l’architettura della villa sfrutta in pieno le potenzialità del piano di copertura come livello praticabile, come punto di arrivo e transito di percorsi di risalta, come luogo di osservazione del paesaggio. Assume peraltro il valore di necessario strumento della composizione «cubista», risulta determinante per l’immagine stereometrica dell’edificio. Caratteri, questi, riconoscibili diffusamente nella produzione del moderno e trasferiti con immediatezza nei termini linguistici dello Stile Internazionale. Come artefici di questo successo, tra i tanti, sono da citare André Lurçat, di cui è opportuno proporre la villa Hefferlin (1931-32), a Ville d’Avray, presso Parigi, e Robert Mallet-Stevens, nel cui ricco repertorio di realizzazioni acquistano rilievo la villa Noailles (1924-33), a Hyères, sulla Costa Azzurra, e la villa Cavrois (1931-32), a Croix, Roubaix. L’affidabilità dei solai in laterocemento e dei materiali d’impermeabilizzazione contribuisce decisamente all’affermazione della copertura piana in alternativa al tetto tradizionale a struttura lignea. Il calcestruzzo, per quanto ritenuto da Wright materiale di «scarsa qualità», opportunamente armato si rivela decisivo per realizzare strutture orizzontali in forte aggetto. Potenzialità espressive, al limite della resistenza dei materiali, sono evidenti nella Casa della Cascata (1934-36), a Bear Run, Pennsylvania, le cui terrazze a sbalzo si estendono nell’ambiente naturale realizzando la metafora organica dell’edificio come organismo «vivente». L’eccezionalità di questo risultato peraltro non mette in secondo piano l’evoluzione del programma architettonico wrightiano, in questi anni attento anche a soddisfare esigenze di funzionalità, di semplificazione tecnica, di economia. Come evidente nelle soluzioni adottate per la casa usoniana, ad esempio per la casa Jacobs (1936), a Madison, nel Wisconsin, una copertura può anche essere ottenuta con un’ impalcatura lignea orizzontale, leggera e di speditiva realizzazione. Il tetto a falde inclinate, indissolubilmente legato all’immagine delle Prairie Houses, farà ancora la sua apparizione nella casa Zimmerman (1950), a Manchester, New Hampshire, opera tra le più ricche e strutturate della produzione usoniana. Non sono privi di enfasi espressiva risultati tesi a evidenziare nel quadro compositivo il carattere dominante della copertura, evidenziato talvolta dal superamento della ragione funzionale e dall’esaltazione di un valore segnico come fattore di identificazione dell’insieme. L’impalcato strutturale della copertura orizzontale della Tremaine House (1947), a Montecito, California, rappresenta per Richard Neutra il dato sensibile più evidente e l’elemento regolatore di un organismo a livello unico, sviluppato sull’impianto libero di nuclei diffusi in un contesto ambientale di spiccato carattere naturale. Travi ricalate in cemento armato a vista, sostenute da pilastri isolati, si protendono con forte aggetto rispetto ai diaframmi verticali di chiusura, generando spazi porticati da vivere come diretta estensione dell’interno. La condizione di una struttura di copertura autonoma rispetto agli elementi di perimetrazione e suddivisione interna fissa con decisione il carattere d’immagine del complesso e, come di frequente interesse nella ricerca di Neutra, determina la condi-
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Fig.Fig. 217217 Fig. 218
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Figg. 217, 218 – Giuseppe Pagano, Gino Levi Montalcini, villa Colli, Rivara Canavese, Torino, 1928-30. Piante del piano rialzato e del piano primo; veduta del fronte a valle sul giardino. Fig. 219 – Knut Knutsen, casa Knutsen, Portør, Norvegia, 1949. Pianta. Fig. 220 – Robert Venturi, Vanna Venturi House, Chestnut Hill, Pennsylvania, 1959-64. Prospetto del fronte d’ingresso. Fig. 221 – Robert Venturi, casa unifamiliare, East Hampton, New York, 1984-91. Pianta del piano primo e prospetto.
146 La villa del Novecento zione per realizzare flessibilità distributiva e regolare il comfort ambientale. Di grande efficacia comunicativa si rivela anche la copertura piana a profilo curvilineo che chiude lo sviluppo verticale della già citata villa di famiglia (1953) di Oscar Niemeyer, a Canoas. Più che la naturale conclusione di un’opera immersa nella natura fino a ritagliare i propri spazi negli anfratti del suolo, si tratta di un elemento autonomo, sospeso nell’aria come una nuvola, di un segno di libertà creativa che si trasforma in una cifra distintiva della poetica dell’autore. Come Niemeyer ha modo di confermare in successive realizzazioni, talvolta anche rispettose dello spirito della tradizione, è lecito riconoscere nella copertura un significativo attributo d’immagine e di sintesi compositiva8. È fuor di luogo richiamare le argomentazioni che nei primi decenni del secolo hanno animato il confronto tra sostenitori di tipologie diverse di copertura, soprattutto alla luce dell’evoluzione formale, tecnica e strutturale che ne è seguita. Le possibilità di rispondere a vecchie e nuove esigenze, di assolvere funzioni sempre più mirate, di essere espressione di una cultura o di una visione individuale, autorizzano da tempo a non tentare classificazioni, nella certezza della legittimità di ogni idea e della possibilità di realizzarla. L’esaltazione della componente tecnologica, il recupero di linguaggi vernacolari, la riduzione minimalista, tanto per citare alcune tendenze in atto, propongono varietà di soluzione di ciò che può essere identificato come copertura, tanto più in rapporto ad una categoria edilizia, come quella della villa, riconosciuta campo alquanto libero di sperimentazione. È possibile quindi ritrovare anche nella conformazione tradizionale del tetto a falde lo stimolo per risolvere all’interno dell’abitazione configurazioni spaziali più aperte e flessibili, per disegnare il coronamento di uno sviluppo volumetrico articolato. Non sono mancate in ogni caso eccezioni per accreditare valide riproposizioni del carattere atavico e simbolico del tetto, talvolta in sintonia con i principi della semplificazione formale e della riduzione all’elementarità dei volumi. La fede razionalista di Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini non ha impedito di identificare nella copertura a tetto della villa Colli (1928-30), nel Canavese, Torino, un elemento di continuità storica e di adattamento al contesto. Il processo di selezione formale, evidente anche nello sviluppo simmetrico dell’impianto e della volumetria, porta ad assegnare a questo tetto a padiglione il valore primario di un segnale distintivo, accentuato visivamente dalla profonda fascia d’ombra che ne segna il distacco dal volume di base. L’arretramento dei fronti del primo piano, su tre lati, genera dunque uno spazio interesterno, a sviluppo di pianta prevalentemente lineare, utile come percorso di collegamento tra gli ambienti, come terrazza protetta e aperta sul paesaggio. Un ulteriore riferimento per questo tema è offerto dalla casa di vacanza (1953) di Alvar Aalto a Muuratsälo, dove la copertura a falda unica s’inerpica, all’estremità di un braccio dell’impianto a L, per coprire lo spazio a doppia altezza del soggiorno e del soprastante studio. Per la vista dalla corte il tetto si manifesta con la sua linea di margine, spezzata negli angoli e in accordo con il contorno superiore delle murature di chiusura del patio. Per Knut Knutsen il tema della casa posta in diretto rapporto con la forza degli elementi naturali trova nella conformazione avvolgente e protettiva del tetto un elemento di accentuata espressività. La propria casa a Pørtor (1949), presso Oslo, è la manifestazione di un organismo deformato dall’azione del vento, orientato diversamente nei diversi settori per accogliere al meglio il beneficio dell’irraggiamento solare; un unico tetto ne uniforma le
8 Il disegno della copertura di Canoas viene rielaborato nella villa Simão (1954) a Belo Horizonte, e nella villa Mondadori (1968-72) a Cap Ferrat.
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Fig. 222 – Herzog & de Meuron, Casa per un collezionista d’arte, Therwil, Svizzera, 198586. Pianta del primo piano e sezione trasversale. Figg. 223, 224, 225 – UN-Studio, Moebius House, Het Gooi, Amsterdam, 1993-98. Veduta complessiva; pianta del piano terra e sezione longitudinale; particolare dell’interno.
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148 La villa del Novecento parti articolandosi in uno sviluppo continuo ma vario, esprime secondo una metafora naturalistica uno spiccato senso di adattamento al luogo. Le falde del tetto come piani di facciata avvolgenti uno spazio abitato ricorrono nelle invenzioni dello studio di Robert Venturi. La casa Vanna Venturi (1959-64) a Chestnut Hill, tra le più segnate dal successo della critica, attribuisce valore determinante alla presenza di un tetto a doppia falda, la cui amplificazione dimensionale si traduce per i prospetti principali nell’immagine di un frontone spezzato posato su un modesto basamento. L’identificazione della casa con il tetto, del resto, è tema ricorrente nella produzione residenziale unifamiliare di Venturi, come evidente anche nella villa a East Hampton (1984-91), Long Island, New York, il cui impianto a croce greca, con una esigua mediazione, genera un elevato che si riassume in una esuberante copertura piramidale. Il valore semantico del tetto affiora con successo nell’interpretazione manierista e ironica del post-modernismo, ma si presta anche alla definizione del carattere archetipico della casa minimalista. Un tetto classico a doppia falda, ricoperto da tegole in cemento scuro, dichiara senza fraintendimenti il carattere di domesticità del settore più elevato della Casa per un collezionista d’arte (1985-86), realizzata da Herzog & de Meuron a Therwil, Svizzera; questo nucleo, destinato alla residenza, risulta sovrapposto al più articolato settore basamentale, parzialmente interrato sul versante a monte, dedicato alla galleria delle opere d’arte. Il processo di riduzione tende a rapportare forme e materiali a pochi e chiari riferimenti; il risultato denota l’intento di far convivere, pur mantenendo una distinzione, l’idea tradizionale di casa, come volume chiuso e protetto da un tetto, con quella di casaatelier aperta alle più disinibite e variabili sollecitazioni del presente. Il valore simbolico della casa come rifugio e luogo separato dal mondo esterno perde interesse per la ricerca che esclude programmaticamente modelli consolidati nella tradizione o rifiuta di associare significati a forme e materiali. La distinzione funzionale, strutturale e d’immagine tra parti costitutive, in particolare tra diaframmi verticali e copertura, risulta superata allorché l’idea portante del progetto tende a sviluppare una realtà tridimensionale aperta e continua, capace di nuove possibilità di relazione. Assumendo dalla topologia, dalla geometria non lineare, riferimenti di carattere spaziale e temporale, UNStudio ha stigmatizzato nella Moebius House (1993-98), a Het Gooi, presso Amsterdam, questa nuova visione di spazio e struttura continui, superando almeno concettualmente la distinzione spesso antitetica tra interno ed esterno, tra parti portate e portanti, tra supporto e copertura di coronamento. La superficie unica dell’anello di Moebius esprime dunque il senso di questa problematica interpretazione della casa come entità determinata dal movimento e non dalle forme, dalle relazioni tra funzioni più che dalle loro specificità.
Capitolo 4
La costruzione
Dichiarando il proprio rifiuto nel «riconoscere problemi di forma, ma soltanto di costruzione», a partire dagli anni Venti Mies Van der Rohe ha stigmatizzato con rigore ed efficacia il nuovo interesse per i principi di oggettività e di esattezza garantiti dalla ragione tecnica. Nell’obbiettivo di depurare il risultato da attribuzioni formali gratuite quanto accessorie, l’attenzione si sposta sulle modalità di strutturazione dell’oggetto, sul «come» un materiale o un sistema costruttivo acquistano significato in rapporto a principi di necessità, di essenzialità ed economia. Animata dalla tensione verso il nuovo, la ricerca architettonica propone nel corso del Novecento orientamenti diversi sul valore da assegnare al mezzo tecnico, da fattore indispensabile ma dissimulato nell’apparenza del risultato, a fattore determinante e formalmente qualificante. Il campo di osservazione offerto dalla categoria edilizia della villa permette di cogliere un interesse non secondario per gli aspetti tecnici e costruttivi, talvolta nel tentativo di rivalutare presupposti e regole della tradizione, in altri casi come occasione di sperimentazione di procedimenti decisamente innovativi. Quello che potrebbe sembrare un ambito d’indagine forzatamente obbligato si presta, in effetti, ad essere analizzato nelle diverse valenze teoriche e applicative, senza escludere che i risultati rendano possibili relazioni e ripercussioni di più ampia portata e diffusione. Legno Il sistema costruttivo del balloon-frame, riconoscibile estesamente nella produzione edilizia americana a partire dai primi decenni dell’Ottocento, ha costituito una condizione essenziale per la diffusione della casa unifamiliare suburbana. Metodiche standardizzate nell’approntamento degli elementi di fabbrica, con un uso quasi esclusivo del legno, si riflettono dunque sull’economia del risultato, sulla possibilità di contrarre i tempi di lavoro senza peraltro coinvolgere competenze particolarmente qualificate. L’affinamento di questo sistema costruttivo, anche nelle diverse varianti locali, dal draced-frame al western-frame, ha offerto opportunità non irrilevanti anche nella gestione di opere considerate di maggior prestigio in rapporto alle più piccole e diffuse abitazioni isolate (detached houses), mostrando oltretutto di poter integrare i metodi tradizionali, più onerosi e raffinati, anche nell’applicazione al risultato di qualità formali e stilistiche distintive. Il principio basilare della costruzione a gabbia lignea, soprattutto nella versione più flessibile del platform-frame, costituisce Lamberto Ippolito, La villa del Novecento, ISBN 978-88-8453-967-0 (print), ISBN 978-88-8453-968-7 (online), © 2009 Firenze University Press
150 La villa del Novecento a partire dal primo decennio del Novecento un interessante presupposto per la sperimentazione di concezioni spaziali più continue ed aperte verso l’esterno1. Il superamento delle limitazioni poste alla libera organizzazione degli spazi da parte della natura strutturale del sistema viene a costituire un motivo caratterizzante della ricerca di isolati architetti americani, interessati a sfruttare le opportunità offerte dalla produzione seriale di componenti edilizi, salvaguardando allo stesso tempo la propria autonomia di espressione. Frank Lloyd Wright manifesta attenzione ai sistemi costruttivi e ai materiali di produzione industriale non prima della seconda metà degli anni Dieci; dai primi anni del secolo ha già mostrato interesse per l’applicazione del principio di modularità, come condizione di controllo formale e costruttivo del risultato. L’organismo edilizio è dunque un sistema ordinato, basato sulla definizione di un assetto planimetrico modulato su una griglia geometrica, non necessariamente uniforme; un metodo che diversi studiosi hanno ricondotto ai principi froebeliani sperimentati da Wright nei giochi dell’infanzia e all’influenza dell’architettura domestica giapponese. Nella stagione creativa delle Prairie Houses, la griglia di base tuttavia non costituisce ancora un riferimento per il controllo tridimensionale dell’oggetto; ammette variazioni ed eccezioni nei rapporti proporzionali tra parti senza sottostare alle esigenze di semplificazione e omologazione che, al momento, la produzione industriale realizza attraverso una meccanica aggregazione di elementi seriali. Con l’uso sporadico della struttura a telaio ligneo Wright tende a sfruttare a pieno il principio del controllo modulare dell’impianto. Come è evidente nella costruzione del Walter Gerts cottage (1902), a Whitehall, Michigan, i montanti, disposti in facciata ad interasse costante, definiscono il limite esterno della gabbia strutturale senza tuttavia compromettere sui fronti la possibilità di aprire lunghe finestre a nastro. L’ossatura verticale dunque si manifesta nelle soluzioni di continuità del diaframma esterno, anch’esso in legno, obbligando ogni serramento a rientrare in ogni singolo campo modulare; in testata i montanti offrono supporto alle travi della copertura. Il carattere avvolgente del balloon-frame, sempre in legno, non impedisce anche nel Summer cottage per Charles Ross (1902), a Lake Delavan, Wisconsin, di trovare un giusto compromesso tra l’ordine seriale dei montanti verticali e lo sviluppo orizzontale dei volumi e delle aperture tipico della logica compositiva Prairie Style. Se da un lato il tamponamento esterno ad assi e listelli conferma una spiccata tendenza all’orizzontalità, senza alcuna relazione con il carattere modulare della pianta, dall’altro lato, come già visto, il telaio affiora liberamente in prospetto in corrispondenza delle aperture e definisce i limiti dei settori vetrati che compongono le aperture a nastro continuo. L’interesse mostrato da Wright per la natura di ogni singolo materiale costruttivo viene reso evidente nel risultato finale, fino a costituire motivo essenziale di qualificazione formale. Come dimostra la realizzazione della Coonley House (1908), a Riverside, Illinois, il legno mostra versatilità di adattamento alle direttive del progetto, si presta ad assolvere La gabbia strutturale del balloon-frame presenta generalmente sostegni verticali distanziati di circa 40 cm (16 pollici); questi attraversano con continuità di sviluppo i solai dei due livelli, per un’altezza standard totale di 6,7 m. Le connessioni con le travi orizzontali avvengono con chiodature e senza intagli. Le travi sono tavole disposte di coltello, tra loro controventate e collegate al margine da un cordolo, sempre in legno. Le sezioni ricorrenti dei montanti sono: 3,5x17 cm, 4,5x15 cm, 4,5x17 cm. Per le travi: 4,5x17 cm, 4,5x20 cm, 5,5x15 cm, 5,5x20 cm, 5,5x23 cm. Gli elementi con sezione maggiorata vengono disposti lungo i margini delle aperture e in corrispondenza delle giunzioni tra pareti. L’evoluzione del platform-frame ha reso più flessibile l’assetto distributivo dei due livelli sovrapposti grazie alla loro separazione in due distinti sistemi strutturali. Ulteriori accorgimenti, quali ad esempio la disposizione diagonale del tavolato di rivestimento e degli impalcati di piano con funzione di controventamento, sono riscontrabili in altri sistemi, quali il western-frame e il draced-frame. Per approfondimenti si rimanda alla specifica letteratura tecnica; tra i diversi testi degni di considerazione: C. Benedetti, V. Bacigalupi, Legno Architettura. Il futuro della tradizione, Kappa, Roma 1991.
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Fig. 226 – Sistema costruttivo balloon-frame. Fig. 227 – Sistema platform-frame. Fig. 228 – Frank Lloyd Wright, Walter Gerts cottage, Whitehall, Michigan, 1902. Pianta e prospetto-sezione longitudinale. Fig. 229 – Sistema costruttivo blockhaus. Fig. 230 – Walter Gropius, villa Sommerfeld, Berlino, 1920. Pianta del piano rialzato e prospetto laterale. Fig. 231 – Konrad Wachsmann, casa Einstein, Caputh, Potsdam, 1929. Pianta del piano terra e sezione longitudinale.
152 La villa del Novecento necessità statiche e costruttive, diviene partecipe del carattere anticonvenzionale di una residenza di prestigio integrata nella natura. Gli elementi dell’ossatura in legno partecipano alla definizione della geometria decorativa, in sintonia con elementi lignei più leggeri e soltanto applicati alle superfici a stucco. Della stessa volontà di rottura con la produzione accademica del tempo diventano interpreti i fratelli Charles e Henry Greene nel configurare la Gamble House (1907-08), a Pasadena, California, con un uso attento ed esclusivo del legno, esaltato da tecniche di lavorazione raffinate, rapportabili a metodi artigianali di ispirazione Arts and Crafts. La villa, destinata al soggiorno saltuario di facoltosi clienti, declina attraverso le multiformi espressioni del materiale motivi vernacolari e influenze di culture lontane; presenta altresì a vista accorgimenti di montaggio degli elementi strutturali, con l’intento dimostrativo di tradurre la qualità tecnica in valore estetico. I nodi del telaio ligneo godono della stessa attenzione progettuale e realizzativa dei rivestimenti e dei dettagli di arredo, sempre in legno a vista; costituiscono le parti integrate di un sistema costruttivo unico, sviluppato fino alla scala del più piccolo particolare. Affiora un evidente compiacimento nel rendere evidente il sistema di assemblaggio delle parti, nel manifestare la ragione strutturale degli elementi anche attraverso il sovradimensionamento delle sezioni, nel segnalare i dettagli ricorrendo a essenze lignee e gradi di finitura differenziati. Sempre al di là di quanto il mercato edilizio propone nei primi decenni del secolo secondo improbabili trasposizioni stilistiche, si segnala ad opera di Rudolph Schindler la realizzazione della Schindler-Chace House (1921-22) a West Hollywood, California, nei limiti di un intervento controllato sulla base di esigue disponibilità materiali, portato avanti ai limiti dell’autocostruzione. La struttura lignea, qui rafforzata da setti portanti di pannelli in cemento armato gettati a piè d’opera e messi in posizione con una semplice operazione di ribaltamento, risulta completamente in vista, leggera nella sua composizione intelaiata di montanti e travi orizzontali, disposti in ossequio al teorico reticolo geometrico che suddivide in campi modulari le superfici, orizzontali e verticali2. La presenza di unità ambientali autonome, ognuna di esse priva di elementi interni di separazione, indubbiamente facilita il proposito di fissare una precisa corrispondenza tra assetto spaziale e strutturale, tanto da poter definire perimetrazioni e campiture grazie agli stessi elementi di telaio. Risultano già evidenti alcuni temi compositivi legati alla particolare strutturazione intelaiata che, in interventi successivi, di cui la Howe House (1925) a Los Angeles ne sarà un esempio, porteranno alla definizione di una distintivo sistema, lo Schindler-frame; il fine dichiarato è quello di superare la condizione scatolare del balloon-frame, in modo da poter aprire ampie luci nei diaframmi esterni, variare in altezza le dimensioni degli ambienti, estendere in aggetto le strutture orizzontali. Sono temi di una ricerca che, nel corso degli anni Quaranta, troveranno spazio anche nelle formulazioni wrightiane per le Usonian Houses. Agli inizi del Novecento il legno, materiale tradizionalmente presente nella prassi costruttiva della residenza europea, anche se con prevalente diffusione nei paesi nordici, non sembra ancora sfruttato secondo le potenzialità della produzione industriale. In un saggio di prevalente valore manualistico3, Konrad Wachsmann ha individuato i limiti applicativi e le differenze sostanziali delle pratiche costruttive nord-europee rispetto ai più In dettaglio il modulo quadrato di base ha una dimensione di 4 piedi, mentre i montanti verticali sono disposti ad interasse di ½ modulo; il modulo verticale è di 12 pollici. K. Wachsmann, Holzhausbau. Technik und Gestaltung, Ernst Wasmuth Verlag AG., Berlin 1930. Per l’edizione italiana si veda: K. Wachsmann, Holzhausbau. Costruzioni in legno. Tecnica e Forma, a cura di A.M. Zorgno, Angelo Guerini e Associati, Milano 1992.
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La costruzione 153 economici e speditivi metodi americani, mettendo in evidenza le complicazioni insite in una organizzazione gerarchizzata degli elementi di fabbrica, le difficoltà di montaggio di ossature lignee con incastri a tenone e mortasa, il conseguente maggiore dispendio di energie materiali, i tempi più lunghi di esecuzione, la necessità d’impiego di manodopera qualificata. Il riferimento per l’innovazione è dunque visto nella dinamica e pragmatica realtà produttiva americana, nella standardizzazione dei semilavorati, nella velocità delle operazioni di trasporto e montaggio. Lungo questa direzione di ricerca, individuata in Germania non prima della seconda metà degli anni Venti, Walter Gropius si propone quale primario interprete di un rinnovamento da attuare attraverso un modello di standardizzazione aperta al portato dell’espressione individuale. Il tentativo di riqualificare il lavoro artigianale nel segno della modernità era stato all’attenzione del Bauhaus già da alcuni anni, con la sperimentazione di processi seriali non limitativi per la qualità costruttiva e formale del risultato. È una fase in cui il legno gode della considerazione di materiale altamente plasmabile, in grado di risolvere problemi strutturali e d’immagine, da riscoprire nelle sue valenze, consuete e inedite, attraverso metodi di lavorazione e utilizzazioni innovativi. La villa Sommerfeld (1920), a Berlino, acquista in questo quadro un valore decisamente dimostrativo dell’attualità della costruzione in legno, risolta in ogni suo dettaglio attraverso il lavoro coordinato di Gropius, di progettisti a vario titolo legati al Bauhaus, di tecnici e maestranze dell’industria di costruzioni in legno di proprietà dello stesso Adolf Sommerfeld. Il tipo costruttivo messo in atto, blockhaus, vede dunque il coinvolgimento di competenze diverse, si attua operando verifiche in officina su idee scaturite negli ateliers di Weimar. Il risultato è dunque una costruzione realizzata a secco, a partire da una base fondale in muratura, strutturata con elementi parete costituiti da tronchi sovrapposti, disposti orizzontalmente in corsi successivi e collegati nei punti di raccordo con incastri a metà legno. Nel commentare il sistema blockhaus Wachsmann individua il pregio della solidità della costruzione, superiore ad altri sistemi più leggeri e speditivi, ma ne mette tuttavia in evidenza i limiti di ordine economico, per la grande quantità di legno utilizzata e per la prassi artigianale di un montaggio affidato necessariamente a manodopera qualificata. È un sistema, dunque, giudicato inadatto ad essere sviluppato a scala industriale, oltretutto poco flessibile per la modellazione libera di spazi e volumi. In alternativa l’interesse di Wachsmann è diretto alla messa a punto di sistemi a pareti in tavolato (panel method), sviluppabili totalmente in officina con operazioni meccanizzate. L’impiego di vari tipi di pannelli, per pareti, solai, serramenti, richiede un’attenta predisposizione dei giunti di connessione, in definitiva decisivi per la coesione dell’insieme, data la mancanza di una struttura intelaiata di supporto. Allo scadere degli anni Venti, tuttavia, il sistema non sembra aver superato la soglia dell’applicazione sperimentale, realizzando limitata diffusione, soprattutto al di fuori del campo residenziale. In effetti, in questo momento particolarmente proficuo per l’industria tedesca del legno, è ancora il sistema ad ossatura, così come si è evoluto a partire dal primitivo balloon-frame americano, che sembra a Wachsmann ottimizzare i fattori della produzione, gli intenti creativi del progettista, le aspettative dei fruitori. L’occasione per mettere a punto un programma coordinato di studio e verifica di un sistema a telaio ligneo da montare a secco viene offerta a Wachsmann nel 1929, a seguito della decisione della città di Berlino di offrire in dono ad Albert Einstein una landhaus, una casa di campagna da costruirsi a Caputh, nei pressi di Potsdam. Per l’alto grado di visibilità, dunque, l’evento sollecita un intervento dimostrativo delle potenzialità del sistema costrut-
154 La villa del Novecento tivo, da progettare e mettere a punto in officina nella prospettiva di una ampia diffusione4. A partire da un basamento in cemento armato, utile anche per mediare il dislivello del terreno, la realizzazione viene organizzata in due distinti corpi accostati, rispettivamente di uno e due piani; prevede un’ossatura lignea (con montanti ad interasse prevalente di 80 cm), chiusa da pannelli parete appositamente concepiti (12 cm di spessore). La standardizzazione non impedisce comunque lo sviluppo più libero ed autonomo del settore edilizio destinato alla zona giorno e aggregato al nucleo emergente dell’edificio. La copertura della sala, il cui estradosso si offre come ampia terrazza, affida la portanza a due lunghe e poderose travi longitudinali, sempre in legno, necessarie per liberare lo spazio interno dai vincoli del telaio e per realizzare in facciata un ampio varco di connessione con l’esterno. Si tratta dunque di un risultato che realizza un compromesso tra le esigenze di una produzione orientata alla conquista di un mercato popolare, e l’interesse per una verifica dei margini d’azione legati ad un sistema costruttivo prefabbricato. L’ambito privilegiato per lo sviluppo di una ricerca diretta alla standardizzazione degli elementi di fabbrica viene evidentemente a coincidere con quello dell’edilizia di massa, in linea con spesso pressanti carenze del fabbisogno abitativo, non già con l’ambito più elitario dell’abitazione di prestigio. Gli studi di Wachsmann su sistemi prefabbricati, nella successiva fase di attività americana, tenderanno tuttavia a concentrarsi su soluzioni tecniche di dettaglio, sui sistemi di connessione piuttosto che sulle qualità morfologiche e spaziali dell’organismo edilizio5. In America, nel corso degli anni Trenta, il tema progettuale della casa unifamiliare a basso costo trova condizioni sociali ed economiche favorevoli per lo sviluppo di ricerche e applicazioni. La visione antiurbana che anima la ricerca wrightiana ha il suo corrispettivo in una realtà territoriale diffusa, ove la soluzione individuale del modello abitativo viene sempre suffragata dalle potenzialità di nuovi e sempre più efficienti mezzi di comunicazione. La casa usoniana sviluppa programmaticamente questa logica di affermazione del privato, senza tuttavia proporsi come manifestazione di una condizione sociale elitaria. La casa «democratica», accezione più volte indicata dallo stesso Wright, richiede dunque una nuova formulazione, spaziale e tecnica, per affermarsi come bene materiale diffuso senza per questo rinunciare a proporre una propria individualità. Sistematicità e flessibilità sono requisiti di un prodotto da sviluppare su larga scala, adeguando metodiche tradizionali a nuove procedure costruttive, anche con l’uso di materiali consueti, come il legno, nell’obbiettivo di coniugare esigenze di economia a qualità formali e spaziali distintive. La Jacobs House (1936), a Madison, Wisconsin, è particolarmente indicativa della strada intrapresa da Wright in questa nuova direzione; ammette dunque accorgimenti che, pur non configurandosi ancora come un vero e proprio sistema tecnico costruttivo, per-
4 L’intervento coinvolge, oltre il prestigio professionale di Wachsmann, quello della ditta esecutrice, la «Christoph & Unmack A.G». di Niesky, in Slesia, tra le più aggiornate e dinamiche della Germania nel settore della produzione di elementi prefabbricati in legno per l’edilizia residenziale. Nei laboratori della stessa ditta Wachsmann aveva già messo a punto sistemi costruttivi prefabbricati con pareti in tavolato. 5 A partire dal 1941 Wachsmann, in collaborazione con Walter Gropius, mette a punto per la General Panel Company il packaged house system, un sistema prefabbricato a telaio e pannelli. Il telaio, in particolare, risulta costituito da aste dello stesso tipo, senza distinzione per la posizione e per la funzione strutturale; anche il pannello tipo assolve indifferentemente più funzioni, di parete o solaio. Particolare attenzione viene posta allo studio dei giunti metallici, soprattutto secondo la più complessa versione tridimensionale. Questa linea di ricerca sviluppa una visione alquanto astratta dell’organismo edilizio, tanto raffinata quanto rivelatasi di difficile e sporadica applicazione nella realtà produttiva americana. Negli anni Quaranta, strutture composte da aste e giunti sono allo studio di Buckminster Fuller; sulla base del geodesic dome frame system, brevettato nel 1954, Fuller realizza in collaborazione con la moglie, Anne Hewlett, la propria abitazione (1960) a Carbondale, Illinois, utilizzando per la struttura della cupola geodetica aste modulari in legno.
La costruzione 155 mettono di assimilarne gli esiti a quelli di un prodotto decisamente sperimentale. Per questo edificio, di un solo piano con pianta a forma di L, la funzione strutturale del legno risulta corroborata dalla presenza di tratti di muratura in mattoni a vista, concentrati soprattutto nel nucleo posto all’intersezione dei due bracci, per racchiudere i servizi e definire l’immancabile camino. Permane peraltro la tradizionale struttura a telaio ligneo nella definizione dei diaframmi prospicienti la corte, con montanti verticali impostati nei nodi della teorica griglia di base (di 2x4 piedi), sufficienti per sostenere in collaborazione con le murature il carico del solaio di copertura. La continuità visiva e funzionale tra interno ed esterno è dunque ancora una volta affidata ad aperture modulate sulla dimensione dei campi liberi tra supporti verticali; la protezione della casa, soprattutto sui margini perimetrali più esterni, viene risolta con diaframmi lignei tipologicamente definiti board and batten walls. Si tratta di un dispositivo sandwich di elementi pretrattati, strutturato in sezione con un nucleo in compensato (in altri casi sarà in tavolato), avvolto sui due fronti da tavole di legno di pino, disposte in ricorsi orizzontali e fissate con listelli di legno di sequoia lungo i margini inferiore e superiore. La griglia dimensionale che regola la pianta trova corrispondenza nell’ordine geometrico dei diaframmi verticali, dove il modulo costante dell’interasse di tavola e listello (1 piede e 1 pollice) viene a regolare l’altezza di ogni elemento associato, dai ricorsi dei mattoni delle murature, alle porte interne, agli elementi di arredo. Le mensole che in molti tratti sporgono dal fronte interno della parete lignea occupano lo spazio del listello lasciando libero svolgimento alle tavole. Quello che può sembrare un espediente costruttivo fin troppo leggero e fragile, trova al momento giustificazione nel costo contenuto della costruzione, adeguato ad una categoria di clienti «lower middle» (la definizione è dello stesso Wright), probabilmente disposta a transigere su eventuali approssimazioni di ordine tecnico pur di poter godere in piena libertà di uno spazio domestico aperto e fluido, tutt’altro che convenzionale6. La ricerca di una completa corrispondenza tra composizione spaziale e assetto tecnico-strutturale è dunque tema centrale del progetto wrightiano, declinato di volta in volta sulla base di precisi riferimenti geometrici e dimensionali. Il lato della griglia modulare esagonale (2 piedi e 2 pollici), su cui ad esempio si basa l’impianto della Hanna House (1936), a Palo Alto, California, viene rapportato alla dimensione del modulo verticale delle board and batten walls (1 piede e 1 pollice), in base al quale si definiscono le altezze dei diversi elementi a partire dal piano di calpestio. La malleabilità del primario materiale della costruzione, il legno, è ampiamente sfruttata per assolvere in modo coordinato necessità strutturali e condizioni spaziali. La sezione verticale dei diaframmi, sia interni che esterni, mette in risalto la presenza di tre diversi piani orizzontali, alquanto autonomi nello sviluppo di pianta ma sempre legati al reticolo esagonale di base. Ad una altezza di 6 moduli (6 piedi e 6 pollici) dal piano del pavimento si sviluppa il deck plan, una struttura orizzontale a sviluppo planimetrico libero, in alcuni punti anche in forte aggetto rispetto alle pareti, sia verso l’esterno che verso l’interno. È dunque un accorgimento che permette di articolare Per un approfondito esame dei diversi aspetti legati alla casa usoniana si rimanda a J. Sargeant, Frank Lloyd Wright’s Usonian Houses, Whitney Library of Design, New York 1976. La produzione anteguerra, in totale 26 case realizzate e 31 rimaste allo stadio di progetto, anche per la prevalenza di strutture in legno, ha richiesto nel tempo sostanziali interventi di manutenzione e di consolidamento. Particolarmente critici sono stati i problemi di impermeabilizzazione, all’origine risolti con materiali non ancora sufficientemente evoluti, di distacco di elementi di copertura, di isolamento termico. L’equilibrio energetico dell’edificio era risolto in fase di progetto senza alcuna valutazione dell’inerzia termica degli elementi di fabbrica ma ipotizzando un alto rendimento termico dell’impianto di riscaldamento, risolto costantemente con serpentine inglobate nella soletta basamentale in cemento armato.
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Fig. 232 – Frank Lloyd Wright, particolari in sezione verticale dell’usonian system e del board and batten wall. Fig. 233 – Frank Lloyd Wright, Jacobs House, Madison, Wisconsin, 1936. Il rapporto tra setti murari in mattoni e diaframmi lignei. Fig. 234 – Rudolf Schindler, particolare in sezione verticale dello Schindler-frame. Figg. 235, 236 – Frank Lloyd Wright, Hanna House, Palo Alto, California, 1936. Planimetria generale; particolare in sezione verticale del deck plan system.
La costruzione 157 lo spazio interno in settori di diversa altezza, con sviluppo massimo fino all’intradosso del piano di copertura, determinando varie e sorprendenti caratterizzazioni formali degli interni. Tra il deck e il solaio di copertura, peraltro, può trovare libero sviluppo l’asola del claristorio, utile per la ventilazione e l’illuminazione diffusa degli ambienti. L’articolazione di questo meccanismo, dalle diverse accezioni e funzioni, viene a tradursi in un sistema coordinato di elementi e di dimensioni, come del resto mostrano i disegni esplicativi dei dettagli standard messi a punto da Wright nel 1940, sempre con riferimento alla carpenteria lignea delle Usonian houses. La suddivisione verticale dello spazio interno in due distinte fasce limitate dai tre piani orizzontali, solaio di calpestio, deck e solaio di copertura, negli stessi anni è oggetto di studio anche da parte di Rudolph Schindler, a suo tempo allievo e collaboratore di Wright. Obbiettivo, di più ampio raggio, è quello di pervenire alla definizione di un sistema standardizzato da finalizzare alla produzione di case in legno prefabbricate. Con riferimento ai principi ampiamente sperimentati del platformframe, la nuova proposta sfrutta la tecnica della struttura a telaio solo per il primo settore verticale, compreso tra il solaio di base e il cordolo perimetrale che segna l’architrave delle aperture, offre vincolo alle travi orizzontali di collegamento e alla soletta in aggetto sul filo esterno. Il secondo settore verticale, meno alto e chiuso superiormente dal solaio di copertura, sfrutta come base lo stesso cordolo. Anche in questo caso sono realizzabili aperture a nastro non vincolate dai montanti del telaio strutturale sottostante. I principi dello Schindler frame, così come vengono definiti formalmente nel 1945, troveranno occasioni per il trasferimento in un ambito progettuale più elitario e meno condizionato da esigenze di economia. Realizzazioni quali la Kallis House (1946), a Studio City, la Armon House (194649), a Los Angeles, la Tischler House (1949-50), a Westwood, denotano l’interesse sperimentale di Schindler per un sistema strutturale non condizionante per la libertà spaziale; lo scardinamento del box, generato dal balloon-frame, risulta facilmente leggibile nella libera fluttuazione del piano di copertura rispetto ai diaframmi verticali di chiusura. L’ambiente americano sollecita in Marcel Breuer l’interesse per tentativi di sintesi tra alcuni aspetti dell’architettura vernacolare del New England, storicamente basata sulla tecnologia del legno, e le istanze del movimento moderno europeo. Breuer è convinto di poter associare materiali nuovi a materiali tradizionali, come anche di poter usare questi ultimi in modo nuovo, al di là delle consuete convenzioni e dei requisiti prestazionali già riconosciuti. L’idea ricorrente dello sbalzo di volumi e piani trova verifica nella sperimentazione di strutture lignee identificabili come travi-parete, di altezza corrispondente al piano stesso della costruzione. Per il Chamberlain cottage (1941), a Wayland, Massachusetts, in collaborazione con Gropius, Breuer sostituisce al principio della gabbia portante quello della parete piena, costituita da un sistema ligneo a tre strati (triple-layered braced wall); ogni strato è composto da listelli, collegati con incastri a scanalature e linguette, disposti con diverso orientamento rispetto a quelli dello strato adiacente, al fine di favorire la resistenza complessiva della parete7. Il taglio delle aperture non condiziona la resistenza strutturale di questa composizione scatolare di piani, libera di protendersi in aggetto rispetto al più piccolo nucleo basamentale in muratura di pietra. Contenuti sperimentali in tal senso sono individuabili anche per l’abitazione di famiglia (1947-48) che Breuer realizIn particolare lo strato esterno è formato da listelli disposti verticalmente, quello interno da listelli orizzontali e quello intermedio da listelli disposti diagonalmente. Il principio del layered wood era già stato sperimentato da Breuer nella produzione di elementi di arredo. L’idea di pareti strutturali in legno ha trovato la definizione di reinforced concrete in wood da parte dello stesso Breuer. Si veda a questo proposito, J. Driller, Breuer houses, Phaidon, London 2000, p. 142.
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158 La villa del Novecento za a New Canaan, Connecticut. In questo caso, il carattere di sospensione di un volume elementare, di forma molto allungata, al di sopra del piano di campagna fa affidamento sulla capacità portante di un fitto telaio ligneo di montanti e travi orizzontali, sostanzialmente riconducibile al sistema balloon-frame. I montanti vengono interrotti solo in corrispondenza delle aperture e rafforzati da elementi diagonali di controvento solo nei settori terminali fortemente aggettanti. Ancora una volta Breuer individua nello strato di rivestimento un fattore di stabilizzazione della struttura, così come denunciato chiaramente attraverso la disposizione in obliquo dei listelli nelle parti a sbalzo. Durante il periodo bellico, e negli anni immediatamente seguenti, l’uso del legno costituisce una risorsa essenziale per gli interventi d’urgenza diretti a fronteggiare il fabbisogno abitativo. Risultati non trascurabili, sono rilevabili soprattutto nel nord-est americano, in Canada, in alcuni paesi nord-europei, tra cui la Svezia, paesi storicamente dotati di una notevole disponibilità di questo materiale e da tempo impegnati nella promozione di specifici processi di lavorazione a scala industriale. Prescindendo in questa analisi dagli interventi legati al tema dell’edilizia residenziale di massa, più stringente sul piano sociale ed economico, a partire dal dopoguerra è possibile rilevare per questo materiale un interesse persistente, anche se non estesamente diffuso. La tendenza organica, in particolare, ne apprezza le potenzialità di integrazione con altri materiali e con caratteri dell’ambiente naturale. Esempi emblematici sono individuabili nell’opera del norvegese Knut Knutsen, e in particolare nella propria casa di vacanza (1949) a Portør, dove il prevalente uso del legno è indicativo dell’attenzione dedicata al rispetto del quadro naturale. Se Wright manifesta nelle «organic houses», le case usoniane di questo periodo, un nuovo interesse per la pietra sbozzata e per il cemento armato, altri architetti americani continuano a vedere nel legno un materiale sicuro, malleabile e notevolmente espressivo. Nella West Coast americana William Wurster si segnala come referente di una tendenza interessata a promuovere in senso elitario il modello del bungalow, così come Herbert Greene dimostra di risolvere le anomale conformazioni volumetriche delle sue opere, tra cui la Casa della prateria (1962), a Norman, Oklahoma, reinterpretando la tecnica di rivestimento in listelli di legno, tipica delle costruzioni dei coloni. Più recentemente questo tema del libero sviluppo di forme organiche, vegetali e zoomorfe, risulta riproposto da Imre Makovecz. La casa Dõczy (1986), a Göd, Ungheria, si propone come organismo a struttura lignea di complessa giacitura spaziale, soprattutto per le superfici esterne ottenute con un’accurata e dinamica disposizione dei listelli, tale da alludere al manto piumato di un volatile. Elementi portanti in legno, veri e propri alberi dallo sviluppo ramificato, invadono lo spazio interno della villa Gubsci (1983-86), a Budapest; l’allusione al paesaggio della foresta sfrutta in questo caso la modulazione della luce naturale in caduta dall’alto da insolite aperture. Il riferimento alla tradizione locale sollecita in alcuni casi il recupero di tecniche costruttive antiche, di metodi di lavorazione artigianale, tanto più oggetto di attenzione quanto più l’opera può configurarsi come risultato unico, frutto di un processo ideativo e realizzativo controllato nei dettagli. L’applicazione di standards industriali non è rilevabile nelle residenze disegnate da Louis Kahn, tra le quali la Fisher house (1960), Hatboro, Pennsylvania, ove è evidente il prevalente e qualificante contributo di tecniche tradizionali di lavorazione del legno, con soluzioni distintive per ogni singolo elemento costitutivo. Si dimostra, dunque, che questo materiale, nelle varianti di essenza e di trattamento, è in grado di esprimere il tema caratterizzante di un edificio, di uno spazio, di una superficie. Se su un piano più strettamente tecnico le applicazioni più recenti del legno si possono ricondurre a processi di lavorazione industriale, soprattutto con l’introduzione sul mercato dei prodotti derivati e del tipo lamellare, non è contradditto-
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Fig. 237 – Marcel Breuer, Breuer-Bratti House, New Canaan, Connecticut, 1947-48. Particolare della struttura lignea della facciata e dell’impalcato orizzontale. Fig. 238 – Imre Makovecz, villa Gubsci, Budapest, 1983-86. Sezione. Fig. 239 – Steven Holl, Berkowitz-Odgis House, Martha’s Vineyard, Massachusetts, 1988. Pianta e sezione longitudinale.
160 La villa del Novecento rio rilevare anche la persistenza di metodi operativi storicamente assestati. Un esempio in tal senso è rappresentato dalla Berkowitz-Odgis house (1988), a Martha’s Vineyard, Massachuset, per la cui costruzione Steven Holl si avvale del più tipico balloon-frame in legno, in risposta anche a norme locali incentivanti l’uso di questo materiale per i rivestimenti esterni. Per questa residenza destinata a soggiorni temporanei, l’esposizione al vento e all’umidità del mare viene assunta come fattore di trasformazione della patina superficiale del legno, lasciandone assumere gradualmente una tonalità di grigio in sintonia con il colore dell’arenile. L’attualità di questo materiale si giustifica anche in rapporto alla struttura produttiva di particolari realtà territoriali. Come dimostra l’opera di Severiano Porto, anche in occasione della costruzione della propria residenza (1971), a Manaus, il legno risulta essere il materiale più adatto per valorizzare le abilità tecniche degli operatori locali, per soddisfare esigenze di equilibrio climatico degli ambienti e resistere nel tempo alle difficili condizioni ambientali della foresta amazzonica. Acciaio L’analisi delle qualità tecniche ed espressive di un’opera può soffrire di una certa approssimazione se si assume come termine di riferimento il ruolo svolto da un unico materiale, pur se prevalente e determinante per il risultato finale. Ad una indagine in grado di avvalersi di più approfonditi elementi di valutazione non deve sfuggire la più varia e complessa natura delle parti e dei fattori produttivi in gioco. Talvolta nel risultato finale non sono di per sé evidenti essenziali accorgimenti tecnici, dispositivi funzionali assolutamente necessari quanto accessori sul piano dell’immagine. Nell’opera di Wright la ricerca di una corrispondenza tra struttura e forma orienta costantemente la scelta e la modalità di applicazione dei materiali; non per questo, là dove intervengono ragioni di ordine superiore, il principio della sincerità costruttiva si dimostra non vincolante per un corretto sviluppo dell’ideazione. Nella Robie House (1907-09), Chicago, ad esempio, il tema dell’orizzontalità e dello stiramento delle strutture di copertura, con falde in forte aggetto, si realizza adottando una insolita organizzazione strutturale, tenuta attentamente nascosta per non invalidare il senso di leggerezza del risultato. Per i piani di falda del piano nobile, in particolare, viene predisposto un fitto impalcato di profilati di acciaio, supportato lateralmente da due travi, anch’esse in acciaio, e rispetto a queste aggettanti; le stesse travi sono disposte nel senso longitudinale del corpo di fabbrica e trovano appoggio su due coppie di pilastri arretrati rispetto ai diaframmi esterni. Se questa strutturazione può essere vista ancora una volta come applicazione del platform-frame, del tutto nuova ne risulta l’adattamento in rapporto alle condizioni morfologiche dell’oggetto e nell’uso di un materiale alternativo al consueto legno. Nonostante l’ampia sperimentazione, agli inizi del Novecento l’uso dell’acciaio nelle costruzioni residenziali non trova applicazione corrente, soprattutto per ragioni di ordine economico e pratico. In Europa, in particolare, la ricerca architettonica dei primi due decenni del secolo, in alternativa alla riproposizione di materiali tradizionali, sembra concentrarsi sulle potenzialità tecniche del cemento armato. Interventi dimostrativi su strutture metalliche, come quelli messi in atto per l’edilizia residenziale pubblica da parte di Walter Gropius e Mies Van der Rohe nel Weissenhof di Stoccarda del 1927, non costituiscono ancora la prova di un’acquisita familiarità con questo materiale. Mies ne fa ricorso negli anni seguenti in interventi clamorosi quanto isolati, oggetti emblematici in cui è ancora arduo identificare possibilità realistiche per l’aggiornamento dei consueti modelli
La costruzione 161 abitativi8. Nell’affermare il principio che ogni materiale deve essere usato per uno specifico scopo, strutturale e formale, l’architetto tedesco individua il contributo determinante delle qualità dell’acciaio e del vetro per realizzare la rottura della scatola spaziale tradizionalmente legata alla tettonica della costruzione muraria. Nella villa Tugendhat (1929-30), a Brno, la struttura portante in acciaio si manifesta nel piano nobile con assoluta distinzione per i soli pilastri, la cui esigua sezione cruciforme risulta confermata dalla apparente leggerezza del rivestimento in lamierino cromato. È dunque evidente l’attenzione per la smaterializzazione della struttura, resa ancora più evidente dalla più completa astrazione delle superfici orizzontali, prive di alcun rilievo dovuto alle travi d’impalcato e ai diaframmi esterni. Viene peraltro nascosto ogni elemento di connessione tra parti, evitando che emergano i principi del loro assemblaggio, anche soltanto a fini decorativi. Il ricorso all’acciaio consente di limitare al massimo il peso visivo degli elementi resistenti, compresi i telai delle grandi lastre di cristallo che delimitano lo spazio interno del piano nobile su un fronte complessivo di circa 24 metri. Alla scala di dettaglio vengono risolti nel progetto particolari determinanti per la chiarezza d’immagine e per le prestazioni d’uso; indicativa in questo senso è l’attenzione dedicata alla movimentazione dei serramenti di facciata, con lastre continue di vetro di 4.60 m di lunghezza e 3.50 m di altezza, due delle quali scorrevoli verticalmente in un’asola del basamento. Un espediente tecnico, questo, riproposto anche nella villa Hermann Lange (1927-30), a Krefeld, in sintonia con il più conciliante e tradizionale uso del laterizio per i diaframmi murari. Come in altre ville del periodo, tra cui la villa Esters (1927-30), sempre a Krefeld, Mies attua un compromesso tra le potenzialità più avanzate della produzione industriale e quelle già riconosciute delle regole dell’arte. La disposizione a filari orizzontali dei mattoni segue precise indicazioni di progetto, con un controllo minuzioso delle dimensioni di ogni elemento cellulare prima della posa, dello spessore dei giunti verticali e orizzontali, delle connessioni d’angolo, delle bordature. Nel carattere omogeneizzante del laterizio viene peraltro dissimulata la componente tecnica dell’acciaio, la sua funzione strutturale essenziale per l’apertura di ampi varchi nelle murature, per l’impalcato di copertura, per gli elementi di controvento. Una convincente conferma delle possibilità tecniche e spaziali realizzabili con strutture in acciaio in ambito residenziale si manifesta in questo momento nella pratica costruttiva americana, in linea di massima come evoluzione del sistema ligneo post and beam-frame, da tempo ampiamente praticato. Il tentativo di sostituire il legno con l’acciaio, materiale di produzione industriale, standardizzabile nei caratteri dimensionali e tipologici, dotato di flessibilità d’uso e di resistenza a sollecitazioni esterne di varia natura, trova credito più precisamente nel contesto sud-californiano, al punto da determinare un orientamento progettuale peculiare, di un certo interesse ancora oggi per le modalità seguite nel conciliare tradizione regionale e spirito di modernità9. Con la realizzazione della Lovell Heath House (1927-29), a Los Angeles, Richard Neutra dà l’avvio ad una tendenza localmente attiva fino agli inizi degli anni Sessanta, interessata a sperimentare le possibilità di adattamento di sistemi a struttura metallica a diverse esigenze, di spazio, di luogo, di economia. Impegnato in questo cantiere oltretutto come impresario, Neutra reinterpreta con mezzi tecnici nuovi il consueto modello balloon-frame, in questo caso con uno scheletro in acciaio In particolare il riferimento va al Padiglione tedesco all’Esposizione Internazionale di Barcellona (1929), alla casa modello al Bauaustellung di Berlino (1931). 9 Per una trattazione approfondita dei presupposti e dei risultati di questa produzione in campo residenziale, si veda: N. Jackson, Metal-frame houses of the Modern Movement in Los Angeles, « Architectural History», Part. 1, Developing a regional tradition, Vol. 32, 1989, pp. 152-172; Part. 2, The Style that Nearly, Vol. 33, 1990, pp. 167-187. 8
162 La villa del Novecento di montanti verticali e travi reticolari elettrosaldate, a partire da un possente basamento in cemento armato. Elementi perimetrali a sbalzo sono assicurati, ai diversi piani, con tiranti metallici ancorati alle estremità delle travi di impalcato. Il risultato, che non vuole essere l’occasione per un trasferimento nell’ambito di una produzione industrializzata, si presenta come oggetto unico, pensato per assolvere funzioni non legate soltanto all’abitare, disegnato per svolgere a livello d’immagine un ruolo di attrazione, ma anche per rispondere alle problematiche condizioni altimetriche del sito, alle frequenti emergenze determinate nell’area da eventi sismici e incendi. Manca nel progetto il supporto, e quindi anche il condizionamento, di uno schema modulare d’impianto; a parte il settore basamentale che incamera l’invaso della piscina, ogni elemento risulta prefinito in officina, dagli elementi strutturali in acciaio, montati in loco in sole 40 ore di lavoro, ai pannelli di tamponamento in cemento compresso ad aria, ai serramenti già predisposti per ogni diversa specchiatura della struttura di cortina. La resistenza e lo scetticismo che la domanda e il mondo imprenditoriale americano riservano nei primi anni Trenta alla sostituzione del legno con l’acciaio, in effetti, trovano conferma nei più alti costi di realizzazione. Lo stesso Neutra, nel realizzare la propria abitazione, la Van der Leeuw Research House (1932), a Los Angeles (così denominata per segnalare il nome di un ricco industriale di origine olandese disposto a finanziare parte dell’opera in vista di un ritorno d’immagine), ritorna al prevalente utilizzo del legno, obbligato non solo da ragioni di economia. Resta comunque valido l’intento di far scaturire la forma dalle esigenze di vivibilità e dall’applicazione appropriata del mezzo tecnico, decisamente in opposizione alla tendenza, al momento dominante, dell’elaborazione in chiave stilistica. Ove Neutra torna ad avere libertà di scelta da parte del cliente, come nel caso della realizzazione della Beard House (1935), ad Altadena, sempre in California, l’interesse per la sperimentazione sull’uso dei metalli emerge come aspetto caratterizzante dell’intervento. L’applicazione integrale di questa «metallic syntax» è evidente nelle soluzioni strutturali, ma anche nei diaframmi esterni, rivestiti in alluminio anodizzato, nella scala in acciaio che conduce alla terrazza di copertura10. Il tamponamento esterno, in particolare, è costituito da pareti a struttura interamente metallica, con nucleo centrale in lamiera grecata, collaborante nell’azione di sostegno delle travi reticolari di copertura e oltretutto utile per la climatizzazione degli ambienti nel veicolare lungo i numerosi canali l’aria calda, o fredda, proveniente dall’intercapedine sottostante il solaio di calpestio11. Gli sviluppi della ricerca avviata da Neutra sono leggibili nelle opere di più giovani architetti californiani, soprattutto a partire dalla fase della ripresa economica conseguente alla fine della guerra. Il difficile approvvigionamento dei materiali da costruzione, ma soprattutto dei metalli, aveva orientato la produzione edilizia verso la riproposizione di metodi convenzionali, non particolarmente stimolanti per l’innovazione e la sperimentazione La definizione è riportata in K. Frampton, D. Larkin, The Twentieth Century American House, Thames and Hudson, London 1995, p. 62, come citazione da T. Hines, Richard Neutra and the Search for Modern Architecture, Oxford University Press, New York 1982, p. 120. Questo interesse decisamente radicale per l’uso dei metalli nella realizzazione della residenza di prestigio si rivela anche nell’accezione The All Steel Residence, riservata alla Rand House (1936), a San Ferdinando. È da segnalare inoltre la soluzione adottata per i bagni del Brown Residence (1936), in questo caso lontano dalla California, a Fishers Island, New York, su progetto in collaborazione con Buckminster Fuller; ogni bagno è composto da due scocche metalliche, modellate ergonomicamente, inglobanti gli elementi igienici, le condutture, l’impianto elettrico, le porte a scorrimento elettrico. Successivamente Fuller presenterà un prodotto così strutturato con il nome di Dymaxion Bathroom (1940), in linea con la sperimentazione sull’abitazione d’emergenza in metallo, avviata con il modello della Dymaxion House del 1929. 11 I particolari di questa strutturazione sono riportati in E.R. Ford, The Details of Modern Architecture, vol. 2: 1928 to 1988, The MIT Press, Cambridge – London 2003, pp. 92-95. 10
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Fig. 240 – Mies Van der Rohe, villa Tugendhat, Brno, 1929. Dettagli costruttivi del diaframma di facciata, sezione verticale. Fig. 241 – Richard Neutra, Beard House, Altadena, California, 1935. Pianta del piano terra. Figg. 242, 243, 244 – Charles e Ray Eames, Eames House, Pacific Palisades, California, 1945-49. Pianta del piano terra e del piano primo, prospetto a valle; sezione trasversale e particolare del nodo pilastro-trave, in pianta e sezione; veduta del corpo residenziale.
164 La villa del Novecento tecnica. Le possibili espressioni in questa fase di stasi, su un piano teorico più che applicativo, trovano conferma nella divulgazione proposta dalle più autorevoli riviste di architettura. Matura oltretutto un certo interesse per le possibilità di trasferimento in ambito edilizio di tecnologie e materiali messi a punto per fini bellici, con proiezioni decisamente interessanti anche sul piano della fattibilità. Per la ricchezza di stimoli offerti al tema della casa unifamiliare, si rivela determinante il ruolo svolto nei primi anni Quaranta da «Arts & Architecture», rivista diretta da John Entenza, attiva fino ai primi anni Sessanta nel convogliare nuove idee e in alcuni casi capace anche di promuoverne l’attuazione. Nel varare il Case Study House Program (1945) si tenta di dare impulso a una giovane tendenza architettonica sud-californiana decisamente interessata a raccogliere la sfida del superamento dei consueti modelli abitativi. L’obbiettivo di una diffusione su larga scala di nuovi metodi produttivi espressamente dedicati all’abitazione identifica nella prefabbricazione una strada obbligata, indispensabile per pervenire a risultati seriali ma allo stesso tempo distintivi, sull’esempio di quanto al momento è in grado di proporre l’industria automobilistica. Ciò che differenzia i più giovani architetti californiani da Richard Neutra è in effetti la volontà di confrontarsi con una nuova e più diffusa domanda, sperimentando metodi e materiali innovativi adatti a giustificare il risultato in un’ottica di mercato, senza limitazioni sul piano qualitativo e prestazionale. Nel risultato finale, dunque, così come idealizzato nel dettato programmatico del Case Study, si tenta di riconoscere il primato dei fattori di produzione e del soddisfacimento dei bisogni del fruitore piuttosto che quello dell’espressione individuale dell’architetto. In questa fase sperimentale, desiderosa di offrire al pubblico dimostrazioni convincenti, la struttura metallica integrale si accredita come fattore decisivo per conciliare necessità procedurali e ambizioni compositive. Tra gli esempi più convincenti di questa prima fase di sperimentazione si colloca la Eames House (1945-50), la casa-studio (1945-49) realizzata a Pacific Palisades, tra Los Angeles e Santa Monica, da Charles e Ray Eames, vero e proprio saggio dimostrativo del modo di generare, attraverso l’assemblaggio di un sistema di componenti modulari, un organismo centrato sull’idea di un’unica entità spaziale a pianta libera. Principi di unità spaziale e di compattezza volumetrica, come anche di astrazione formale e riduzione all’essenziale degli elementi distintivi, trovano rispondenza nell’interesse per la sperimentazione di tecniche costruttive seriali e di sistemi strutturali leggeri. Si tratta dunque di una steel frame construction articolata per il blocco primario, destinato a residenza, in un sistema di portali metallici (alti 18 piedi e larghi 20), chiuso esternamente da pannelli rettangolari di varie dimensioni e diversi materiali12. Il sistema organizzativo si basa su un principio di fixed architectural pattern, rigido ma non pregiudicante per la fruizione e la flessibilità delle parti; la mancanza di elementi di vincolo da parte della struttura portante, e tanto meno da parte dei diaframmi, consente di articolare un grande ambiente a doppia altezza in ambiti più circoscritti e destinati a specifiche funzioni. Il telaio strutturale impone la regola della suddivisione primaria delle su-
I montanti verticali sono costituiti da profilati ad H di 4 pollici, posti tra loro ad interasse di 7 piedi e 4 pollici; le travi di copertura sono reticolari. L’insieme della struttura, come del resto anche gli elementi di chiusura, è totalmente prefabbricato; il montaggio ha richiesto 90 ore di lavoro. Lo sviluppo longitudinale del blocco residenziale si completa, al di là della pausa di una piccola corte, con il più piccolo blocco destinato a studio; la strutturazione segue le stesse regole. Rispetto ad un primo progetto (# 8 della serie), riconosciuto nel 1945 come migliore Case Study House, quello effettivamente realizzato presenta sostanziali differenze. L’attesa di cinque anni dal momento del primo progetto alla realizzazione è indicativa delle difficoltà ancora presenti nell’immediato dopoguerra per attuare un programma interamente basato su componenti prefabbricate interamente di produzione industriale. Tra questi, profilati ed elementi composti in acciaio, vetro di diversa trasparenza, amianto e cemento per pannelli ignifughi (tipo Celotex). 12
La costruzione 165 perfici di tamponamento ma lascia libertà ad ogni settore di suddividersi ulteriormente in pannelli differenziati per colore e dimensioni, secondo un metodo di associazione formale che non sembra escludere il proprio debito alle composizioni di Mondrian. Come interprete convinto e rigoroso dei presupposti del Case Study House Program, Raphael Soriano sostiene la soluzione della prefabbricazione integrale del prodotto edilizio, applicando al progetto della residenza individuale conoscenze maturate in realizzazioni di altro genere già prima della guerra. La struttura metallica rappresenta per Soriano un dato irrinunciabile proprio per la possibilità di predisporne le parti fuori opera e di limitare al minimo l’impegno di uomini e mezzi in cantiere. Nella costruzione della Katz House (1947), a Van Nuys, questa procedura viene estesa alla realizzazione dei diaframmi verticali, adottando il sistema Lattisteel messo a punto in questi anni da Fritz Ruppel. I pannelli di questa lattice steel construction collaborano con i supporti puntuali a sezione scatolare e con le travi reticolari alla definizione di una struttura primaria, essenziale e del tutto organica all’immagine stessa dell’edificio. Le limitazioni per la continuità spaziale, determinate in questo caso dalle pareti portanti, sembrano risolte nella Curtis House (1949), a Bel Air, e nella Schulmann House (1949-50), a Hollywood, con un assetto strutturale sintetizzabile dalla esclusiva collaborazione di montanti scatolari e travi a I. L’approccio sperimentale riservato allo specifico tema della residenza trova un elemento di novità nella predisposizione di moduli prefabbricati, pensati come elementi di suddivisione degli ambienti e, allo stesso tempo, come attrezzature di servizio (armadi, scaffalature, ecc.). Grazie all’acciaio, l’obbiettivo di non ammettere interferenze della struttura alla libera organizzazione degli spazi interni si realizza compiutamente nella villa a Pacific Palisades, insignita del riconoscimento di Case Study House nel 1950. Soriano cerca di dimostrare, in questo caso, che la scelta di una struttura metallica, per essere concorrenziale in termini di costi rispetto a quella in legno, più che dalla scelta del materiale dipende dalla strategia complessiva dell’intervento; su questa linea si rivelano irrinunciabili i principi della modularità, della prefabbricazione estesa a tutte le componenti, della programmazione dettagliata delle fasi di attuazione13. I risultati già visti, come anche altri ascrivibili alla ricerca architettonica sud-californiana di questi anni, sono manifestazione del comune intento di sviluppare per lo specifico tema della single detached house proposte decisamente alternative. Il gusto e gli interessi dell’americano medio, del resto, risultano da tempo assestati su quelle della produzione corrente, oltretutto per la grande diffusione di modelli ripetitivi che l’industria edilizia propone con la vendita da catalogo. I risultati di questa stagione creativa californiana, in definitiva, non acquistano rilievo per quantità di opere realizzate, quanto per l’azione promozionale e le sollecitazioni diffuse in un più ampio contesto. Il supporto di un progetto editoriale illuminato e l’interesse di non molti clienti hanno determinato condizioni favorevoli all’attività di sperimentazione di progettisti consapevoli dell’importanza che riveste un supporto tecnico-produttivo aggiornato nel tradurre le idee in fatti concreti. L’interesse per l’applicazione di tecniche e materiali industriali in architettura caratterizza l’opera di Craig Ellwood, unitamente alle capacità non comuni di trasformarne gli effetti in risultati formalmente essenziali e raffinati. L’effetto di leggerezza complessiva ottenuto con la rarefazione degli elementi rigidi della costruzione, e in particolare della struttura portante grazie al telaio in acciaio, costituisce anche per Ellwood un dato irri13 L’impianto è controllato da una griglia modulare di 10x20 piedi; i montanti tubolari a sezione circolare (3,5 pollici di diametro) sostengono un impalcato di travi a I (6 pollici) e sono disposti lungo il perimetro esterno dell’abitazione in modo da non interferire con la distribuzione interna. L’intera struttura viene montata in soli tre giorni.
166 La villa del Novecento
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Fig. 250
Fig. 245 – «Arts & Architecture», copertina della rivista, gennaio 1945, con l’annuncio del Case Study House Program. Fig. 246 – Raphael Soriano, Katz House, Van Nuys, California, 1947. Pianta del piano terra. Figg. 247, 248 – Raphael Soriano, Case Study House 1950, Pacific Palisades, California, 1950. Pianta; particolari del nodo pilastro-trave (sezione verticale e piñata) e del collegamento con la struttura di fondazione (sezione). Fig. 249 – Craig Ellwood, Hale House, Beverly Hills, California, 1952. Pianta del piano abitabile e sezione trasversale. Fig. 250 – Craig Ellwood, Fields House, (CSH # 18), Beverly Hills, California, 1956-58. Pianta e particolari dell’attacco dei montanti con le pannellature di tamponamento.
La costruzione 167 nunciabile. La formazione di ingegnere gli consente di valutare opportunamente il comportamento della struttura metallica della Hale House (1952), a Beverly Hills, in funzione dei possibili effetti sismici e delle sollecitazioni del vento; la realizzazione in questo caso fa affidamento sullo studio delle connessioni tra pilastro e trave, senza alcun sovradimensionamento degli elementi stessi. L’attenzione dedicata al disegno della struttura emerge anche nella Fiedls House (1956-58), nota anche come Case Study House # 18, sempre a Beverly Hills, questa volta lasciando a vista il telaio anche all’interno ed evidenziandone la presenza con un deciso contrasto cromatico14. Il sistema prefabbricato di montanti e di travi merita in questo caso l’accezione innovativa di all-tube pref-fab frame, proprio per l’utilizzo esclusivo di profili a sezione scatolare (2 x 2 pollici per i montanti e 2 x 5,5 pollici per le travi), considerati più economici, in termini di tempi e di costi, nella lavorazione in officina e nella messa in opera. Il background tecnologico dell’opera emerge anche nella realizzazione degli elementi di tamponamento e divisione interna, sempre ricorrendo a prodotti di fattura industriale, di attrezzature di servizio integrate alla costruzione (come ad esempio l’innovativo impianto di aspirazione dell’aria per la pulizia degli ambienti). Ai caratteri tecnici e formali già evidenziati, alcune opere di Pierre Koenig sono in grado di aggiungere il pregio di una spiccata attenzione alla definizione del dettaglio, particolarmente evidente nel trattamento delle superfici. Ciò avviene nella Bailey House (1958-60), Case Study House # 21, realizzata a West Hollywood, mettendo in atto un principio di riduzione delle componenti a pochi e ricorrenti segni distintivi, a partire dagli elementi che compongono il telaio strutturale in acciaio15. Questa impostazione minimalista, che la critica ha cercato di giustificare con un occhio all’opera di Mies, si avvale di un sicuro e implacabile controllo geometrico, di uno spiccato senso di astrazione fisica. Koenig sacrifica alla purezza del volume, in questo caso un parallelepipedo a cui si accosta un porticato con funzione di garage, ogni possibile forma di stiramento della struttura, eliminando i consueti elementi di copertura in aggetto rispetto al filo di facciata. Il tema della intangibilità della cortina di tamponamento, costituita da pannelli in acciaio e gesso e da lastre di vetro, trova soluzione, come del resto già sperimentato da Mies, nell’accorpare i servizi in un unico nucleo posto nel cuore dell’impianto, con il risultato di una chiara suddivisione del settore giorno da quello per la notte. Le potenzialità dell’acciaio nel supportare questa visione minimalista dell’intervento trova ancora una conferma nella Stahl House (1959-60), Case Study House # 22, a West Hollywood, diventata attraverso la diffusione editoriale del periodo una icona rappresentativa dello specifico programma architettonico. Con riferimento ad un impianto a L modulato su campi quadrati di 6 metri di lato, acciaio e vetro definiscono la struttura e l’involucro, manifestando il proprio ruolo qualificante soprattutto per il braccio dedicato all’area living, aperto totalmente alla vista verso valle e proteso in aggetto grazie anche al supporto di travi in cemento armato. Viene ad aggettare rispetto ai margini anche la copertura piana, con totale evidenza delle nervature della lamiera grecata sulla superficie d’intradosso. Questo intento di conciliare l’espressione individuale del progettista, e di riflesso del cliente, con la messa a punto di prototipi, da sviluppare su più ampia scala in un’ottica
La partecipazione al Case Study House Program da parte di Ellwood è testimoniata anche dal riconoscimento ottenuto per la residenza # 16, realizzata a Bel Air (1952-53) e per la # 17, a Beverly Hills (1954-55), la prima ad avere la struttura in acciaio a vista. 15 L’assetto strutturale si riassume complessivamente nella successione lineare di tre telai a doppia campata. I portali, posti ad interasse di 10 piedi (3 m circa), sono costituiti da travi scatolari, con sezione di 8 pollici (circa 20 cm) e lunghezza 44 piedi (circa 13.4 m), su montanti di 4 pollici (10 cm). Le connessioni sono ottenute con saldature. 14
168 La villa del Novecento
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Fig. 254 Fig. 254
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La costruzione 169 di prefabbricazione aperta, non sopravvive agli anni Sessanta. Le aspettative dell’americano benestante restano diffusamente orientate verso un prodotto più convenzionale e rassicurante, confermano un’inclinazione prevalente per le opzioni di stile piuttosto che per la coerenza tecnica e formale. L’acciaio e il vetro, oltretutto, si affermano progressivamente come materiali rappresentativi dell’edilizia del terziario, rimandano ad un ambito di vita che già da tempo è considerato alternativo a quello domestico del suburbio o del paesaggio naturale. Il rovescio della medaglia di questa ricerca, tesa a sfruttare le potenzialità della standardizzazione e della prefabbricazione in vista di un’ampia diffusione dei risultati, può essere visto nella conferma di un interesse sempre vivo per la creazione di opere uniche, di prodotti dedicati a interlocutori privilegiati, coinvolti dal richiamo della modernità quanto anche, talvolta, dalla necessità di distinzione sociale. Come già visto, Richard Neutra ha da tempo dimostrato che il soddisfacimento dei suoi clienti può avvenire offrendo prodotti tecnicamente perfetti e commisurati a precise esigenze, non soluzioni formali concilianti e inattuali. Ogni materiale, di uso tradizionale o innovativo, sottoposto ad un processo di lavorazione appropriato, può rispondere alle aspettative d’eccellenza di un risultato risolto in tutte le sue componenti. È un approccio progettuale, dunque, non finalizzato alla messa a punto di prodotti standardizzati, da inserire nel mercato edilizio, quanto invece a dare risposta a specifici e ben definiti quesiti. Può già essere un esempio lo studio effettuato alcuni anni prima sulla composizione dei pannelli di tamponamento della già citata Van der Leeuw Research House, con un assortimento di materiali (acciaio, alluminio, stucco, legno stratificato) differenziato nella stratificazione e consistenza a secondo delle valutazioni fatte in merito all’equilibrio energetico di ogni fronte della casa16. Questa attenzione al dettaglio tecnico acquista il valore di una sfida con fattori ambientali difficili, quali possono essere quelli di un’area desertica, arrivando a costituire un essenziale motivo di qualificazione e di sostenibilità del risultato. Per la Kaufmann House (1946-47), a Palm Springs, più nota come The Desert House, Neutra progetta un sistema di climatizzazione a pavimento, con serpentine percorse indifferentemente da acqua calda o fredda, utile a compensare anche al di fuori dell’abitazione il disagio delle forti escursioni termiche dell’ambiente. La struttura si avvale della collaborazione tra legno ed acciaio, con isolati setti di controvento a contrasto delle temute sollecitazioni del vento e delle azioni sismiche17. La composizione per piani indipendenti e l’accuratezza del dettaglio tecnico hanno fatto avanzare in alcuni studiosi un’associazione tra la Kaufmann House e il Padiglione di Barcellona (1929) di Mies Van der Rohe. È da notare inoltre che il progetto della Casa del deSi veda a questo proposito E.R. Ford, The Details, cit., pp. 88-89. Di notevole interesse è il trattamento dei volumi nei settori d’angolo, dove Neutra riesce ad eliminare il montante verticale mandando la copertura in aggetto in entrambi i lati. Le aperture sono collocate nei settori d’angolo e sono schermate da serramenti vetrati scorrevoli e a tutta altezza. Per contrastare gli effetti del surriscaldamento viene predisposto un rivestimento esterno in lamina di alluminio, considerata utile alla riflessione dei raggi solari, opportunamente isolato sulla superficie d’intradosso con lana minerale.
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Figg. 251, 252 – Pierre Koenig, Bailey House, (CSH # 21), West Hollywood, California, 1958-60. Veduta del fronte di ingresso; pianta. Fig. 253 – Pierre Koenig, Stahl House, (CSH # 22), West Hollywood, California, 1959-60. Pianta. Fig. 254 – Mies Van der Rohe, Farnsworth House, Plano, Illinois, 1946-51. Sezione trasversale e particolari dell’attacco trave-pilastro, in pianta e sezione. Fig. 255 – Mies Van der Rohe, Fifty by Fifty House, progetto, 1950. Pianta.
170 La villa del Novecento serto ha avuto avvio in sintonia di tempi con i primi studi di Mies per la Farnsworth House (1946-51), a Plano, Illinois, entrambe opere ineccepibili sul piano tecnico-formale quanto distanti dal voler ricercare per analogia un coinvolgimento del dato naturale. Motivo centrale d’interesse per Mies è il modo in cui la funzione strutturale viene a manifestarsi, nel caso specifico attraverso il risalto di isolati e calibrati elementi, tutti leggibili direttamente nell’assetto dei fronti. Il corpo edilizio principale si avvale di 8 pilastri in acciaio, con sezione ad H, per sostenere le travature orizzontali perimetrali poste al livello del piano di esercizio e a livello di copertura18. L’analisi di dettaglio tende a riscattare la natura industriale degli elementi utilizzati trasformandone l’immagine in oggetti unici e raffinati; giunzioni bullonate predisposte provvisoriamente tra pilastro e trave vengono sostituite da connessioni saldate, anch’esse attentamente rifinite per stimolare la percezione di un semplice contatto superficiale tra le parti e, di conseguenza, l’idea di sospensione dell’insieme. L’isolamento di ogni pilastro verticale, anche rispetto al più arretrato diaframma vetrato, e l’interasse degli stessi montanti lungo i fronti più estesi, sono l’indice di un modello strutturale del tutto alternativo al balloon-frame. Il risultato, nel complesso, si esprime per forza di riduzione, sacrificando basilari requisiti di vivibilità al rigore dell’esattezza e dell’essenzialità. Non sono mancati gli sviluppi a scala più ampia di questa tendenza progettuale, così come lo è stato a seguito della progettazione della Fifty by Fifty House (1950), basata sull’idea di una piastra reticolare in acciaio (50 x50 piedi), a nervature incrociate, sostenuta da quattro pilastri, ognuno dei quali posto nel punto mediano di ogni lato19. La possibilità di sviluppare ricerche finalizzate alla produzione industriale si è rivelata ad alcuni esponenti di rilievo del movimento moderno soprattutto a seguito del trasferimento della propria attività negli Stati Uniti. In Europa, già nel corso degli anni trenta, il tema dell’abitazione come «machine à habiter» sembra aver perso la forza dell’iniziale enunciazione, tanto da registrare le perplessità dello stesso Le Corbusier nei confronti dei risultati, qualitativamente poveri, di una produzione di serie fin troppo omologata. Difficoltà strutturali, limitative per la sperimentazione in campo edilizio, non impediscono di far emergere voci a favore di una radicale innovazione di prodotto e di processo. In Francia, dove il cemento armato si è da tempo accreditato come materiale base della costruzione, Jean Prouvé è in grado di avanzare già dall’anteguerra proposte per la realizzazione di case prefabbricate a basso costo utilizzando materiali alternativi. Sono proposte destinate a non trovare effettivo riscontro, se non in casi sporadici, a partire dagli anni Cinquanta, allorché si dimostra che materiali come acciaio e alluminio possono diventare accessibili e adattabili alle esigenze del costruire. Nell’esporre la convinzione che la casa individuale, principale o secondaria, debba essere leggera e dinamica, realizzabile industrialmente in grande serie, Prouvé sviluppa nell’officina-studio di Maxéville un preciso programma teorico-sperimentale, finalizzato alla messa a punto di prodotti e L’impianto è modulato su una griglia quadrata di 2 piedi (circa 60 cm), tanto per il piano del settore abitabile quanto per il più basso piano della terrazza. Quest’ultimo è sostenuto da 4 montanti della stessa forma e dimensione degli 8 montanti del corpo edilizio principale. Il volume edilizio è a campata unica e ha dimensioni di 23x9 metri; i pilastri sono posti ad interasse di 6,7 metri. Gli orizzontamenti, in sintesi due per il volume abitabile e uno per la terrazza, aggettano nelle parti terminali rispetto ai pilastri estremi. Un carattere che può trovare riferimento con il balloon-frame è rilevabile nel fitto impalcato di travi in acciaio degli orizzontamenti. Al di sotto del pavimento in travertino della terrazza viene proposto un sistema di convogliamento dell’acqua piovana per mezzo scocche metalliche ad imbuto, riempite di pietrisco per il drenaggio. 19 Relazioni sono individuabili tra la villa Farnsworth e la Crown Hall (1956), presso l’Illinois Institute of Technology, a Chicago; il tipo Fifty by Fifty ha lasciato traccia nella realizzazione della Neue Nationalgalerie (1968) di Berlino. La Fifty by Fifty prevede l’accorpamento a isola dei servizi in nuclei interni, staccati dal diaframma perimetrale in vetro e acciaio che chiude senza soluzione di continuità i quattro lati dell’edificio. 18
La costruzione 171 metodi innovativi per l’edilizia20. In quest’ambito, strutture metalliche, pannelli in cemento compresso ad aria, in legno stratificato, alluminio e leghe leggere, sono oggetto di prove di laboratorio da parte di operatori coinvolti nell’impresa a vario titolo e con diverse competenze. Nella costruzione della propria abitazione (1954), a Nancy, Prouvé mette in opera pezzi standardizzati del ricco campionario di Maxèville, confermando anche nell’assemblaggio e nell’organizzazione funzionale un interesse prettamente sperimentale. L’aspetto eterogeneo del risultato denota un’attenzione prevalente per le qualità distintive degli elementi di fabbrica, per la definizione dei dettagli tecnici, piuttosto che per la coerenza tra parti e idea formale complessiva. Una conferma di questo approccio progettuale centrato sulla costruzione più che sull’immagine è anche nella casa per vacanze Seynave (1961-62), presso Saint-Tropez, e nella villa Gauthier (1962), a Saint-Dié des Vosges. In entrambi i casi lo sviluppo del piano unico trova appoggio su una base in cemento armato; la funzione strutturale dell’elevato viene svolta essenzialmente da uno scheletro in acciaio e dai diaframmi dei nuclei di servizio. La prefabbricazione, pressoché totale, fa riferimento a moduli dimensionali standard e, per le pannellature di tamponamento verticale e di copertura, si avvale di materiali leggeri come il legno stratificato, l’alluminio, il vetro. La lezione americana di Mies e alcune indicazioni emerse dal Case Study sollecitano in Arne Korsmo l’interesse per la riduzione delle variabili dell’oggetto-casa a pochi e assiomatici elementi, significativi dal punto di vista tecnico ed espressivo. In un contesto culturale attento alla tradizione, come quello norvegese, la proposta di un edificio dichiaratamente moderno, disinteressato a replicare le forme della natura e a sfruttare i materiali del luogo, in effetti risulta estraniante se non si considerano le sottili relazioni di continuità storica ricercate per l’assetto spaziale interno. Dei due volumi che compongono la villa-studio (1955) che Korsmo costruisce per la propria famiglia a Planetvein, presso Oslo, quello principale è destinato agli ambienti di relazione e di riposo, distinti su due diversi piani sovrapposti ma rigidamente contenuti entro un volume cubico, privo di sporgenze e quasi interamente vetrato in superficie. L’idea di una socialità domestica coinvolgente anche per gli ospiti si realizza in uno spazio privo di ostacoli, libero oltretutto dall’interpunzione di elementi strutturali. Nel disegno modulare delle vetrate di facciata viene pressoché annullato il peso visivo dei pilastri in acciaio a sezione scatolare, così come in corrispondenza degli orizzontamenti perdono ogni evidenza le travi a doppio T per la presenza di un controsoffitto. Lo schema regolatore della composizione, come già visto nella Eames House, coinvolge in un unico registro le diverse componenti, dalla struttura ai diaframmi di chiusura, all’arredo fisso. Quello che l’architetto ci presenta come sistema Hjemmets mekano (casa meccano) fa dunque riferimento ad un metodo progettuale basato sul controllo modulare delle parti, sulla predisposizione di elementi normalizzati e sul coordinamento delle fasi di attuazione21. L’idea che un metodo di totale prefabbricazione, per quanto leggera, sia la strada più speditiva ed economica per mettere a punto un prodotto efficiente, formalmente e tecnicamente risolto, tenderà nel tempo a perdere la sua carica innovatrice. Non è un caso che 20 L’esperienza legata allo studio officina di Maxéville va dal 1947 al 1954. Prouvè abbandona questo progetto a causa di dissensi interni. della …………. 21 È da segnalare il fatto che la casa Korsmo fa parte di un insieme di tre unità quasi simili aggregate a schiera. Solo quella dell’architetto è risolta, per il settore principale a pianta quadrata, con una struttura a luce unica, eliminando cioè il pilastro centrale in funzione dell’obbiettivo della completa flessibilità d’uso dell’ambiente di relazione. In ogni facciata sono messi in opera tre montanti (8 x 8 cm) ad interasse costante. Il progetto dell’edificio ha visto la collaborazione di Christian Norberg-Schulz. Il sistema Hjemmets mekano era stato elaborato nel 1952 nell’ambito di un Seminario tenuto da Korsmo presso il Collegio di Arti Applicate di Oslo.
172 La villa del Novecento
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Fig. 256 – Jean Prouvé, villa Prouvé, Nancy, 1954. Pianta, prospetto e sezione trasversale. Figg. 257, 258 – Jean Prouvé, villa Seynave, Saint-Tropez, 1961-62. Pianta; sezione trasversale e dettagli costruttivi delle cortine esterne. Fig. 259 – Arne Korsmo, casa-studio Korsmo, Planetvein, Oslo, 1955. Pianta del piano terra e sezione longitudinale. Figg. 260, 261 – Glenn Murcutt, Magney House, Moruya, Australia, 1982-84. Pianta; dettagli della struttura metallica della facciata verso il mare (pianta e sezione verticale).
La costruzione 173 le proposte più interessanti non abbiano superato la soglia dell’intervento sperimentale, spesso attuato da parte del progettista in un ambito d’azione strettamente privato. È anche probabile che il tema della villa negli ultimi decenni del secolo non abbia offerto risultati particolarmente indicativi dell’avanzamento della ricerca architettonica in ambito tecnologico, certamente non più di quanto avvenuto in settori operativi pressati dalle problematiche del sociale o dalle regole del mercato. La separazione tra struttura portante e involucro edilizio, pur determinante per la libertà di organizzazione distributiva e per gli effetti di leggerezza e trasparenza, non può essere assunta come prevalente e scontato principio di riferimento per il progetto della residenza di prestigio. Tra le varie interpretazioni del ruolo della tecnica nel dare forma e vivibilità all’oggetto, non sono da sottovalutare gli sforzi tesi ad innovare la tradizione, a trasporre nella contemporaneità regole dell’arte già assestate. La tendenza a riscoprire quanto di congruo ed efficace sia stato già espresso dalla prassi costruttiva di un luogo, aggiornandone i presupposti con il ricorso a nuovi materiali e procedure, ha acquisito progressivamente dignità di ricerca nelle diverse declinazioni suggerite dal contesto culturale e ambientale. Pur nei limiti di una sintesi forzata, non è fuori luogo rilevare la distanza concettuale che separa l’idea arcaica di un’architettura muraria, spazialmente controllata dagli stessi diaframmi strutturali, così come ha riacquistato interesse secondo la lezione di Louis Kahn, dall’architettura «pelle ed ossa», composta da sistemi distinti e gerarchizzati, libera da ostacoli nello sviluppo di pianta e aperta verso l’esterno fino alla completa trasparenza degli elementi di limite. La dimensione che la componente tecnologica assume nella direzione di questa seconda linea di ricerca corre il rischio, talvolta, di sfiorare l’esaltazione fine a sé stessa, alquanto immotivata per un tema progettuale come quello dell’ambiente domestico. Il mezzo tecnico è comunque in grado di assecondare le esigenze di vivibilità e di comfort come quelle d’immagine, a secondo dei casi manifestando la propria funzione strutturante, sia tecnica che formale. Gli accorgimenti adottati da Frank Gehry nel risolvere la multiforme natura dei cinque diversi volumi che compongono la Winton Guest House (1983-87), a Wayzata, Minnesota, restano celati da un involucro superficiale di carattere scultoreo; la struttura, in acciaio e legno, ha perso l’ordine geometrico tipico del telaio e si articola nelle tre dimensioni in una ossatura nascosta, funzionale al sostegno di complessi diaframmi. Il caso specifico offre ancora una conferma delle potenzialità ancora inespresse del platform-frame, nel risolvere eterogenee situazioni spaziali e sostenere sorprendenti variazioni di forma e materia. Grazie al mezzo tecnico, l’interesse per la componente ambientale trova nuova espressione nelle residenze australiane di Glenn Murcutt, attento osservatore delle condizioni di vita della società rurale e aborigena a contatto con una natura primordiale. I caratteri di un compromissorio «regionalismo high tech» sono ricorrenti in un’ampia produzione di abitazioni unifamiliari isolate, concepite per resistere alle intemperanze climatiche e trasformarne allo stesso tempo gli effetti in risorse vitali. Come mostra la Magney House (1982-84), a Bingie Point presso Moruya, il supporto tecnico segna una decisa innovazione rispetto ai canoni della tradizione costruttiva locale; l’uso esteso del metallo per la struttura portante come anche per buona parte dell’involucro, anche se motivato dall’esigenza di procedere a un montaggio facile e speditivo, assume in definitiva un significativo valore funzionale ed espressivo. Lo spazio unitario e a sviluppo prevalente unidirezionale di questa casa per soggiorni temporanei è racchiuso da un involucro a più strati, variamente assortito in relazione alle condizione di esposizione e alla possibilità di aprire vedute dall’interno sull’alta costa oceanica. Lo strato più esterno alterna il vetro alla lamiera ondulata in lega di zinco e alluminio, efficace sul piano funzionale per assecondare la
174 La villa del Novecento curvatura a doppio arco della copertura, presentata negli aggetti di falda nella reale consistenza del suo spessore millimetrico. Nessuna riserva si manifesta nella libera esposizione all’esterno della struttura portante in tubolari e profilati d’acciaio, al contrario parzialmente nascosti per la vista dall’interno nelle intercapedini isolanti dei diaframmi verticali e di copertura. Un ambito d’osservazione dedicato a evidenziare il ruolo espressivo della componente tecnologica non può escludere una citazione dell’opera di Norman Foster, pur a fronte di una produzione sul tema della villa decisamente esigua se confrontata con il più vasto repertorio di opere realizzate in altri campi. Come esempio interessante per i riferimenti al quadro d’intervento può essere segnalata la casa Cho en Dai (1994), a Kawana, Tokyo, dove Foster applica il principio della indipendenza di una struttura primaria, costituita da portali in acciaio, rispetto alle cellule spaziali dei diversi ambienti della casa. Il carattere iconico dei telai, a montanti e travi aggettanti alle estremità, trova conferma sul piano funzionale come sostegno di un velario di copertura concepito per filtrare e diffondere verso il basso la luce naturale. Un modello tipologico, dunque, che rimanda al tema della loggia aperta, in questo caso particolare influenzato dal principio di modularità tradizionalmente connaturato all’architettura domestica giapponese. Cemento In alternativa alla costruzione muraria, nel corso dei primi due decenni del Novecento risulta già diffusamente affermata la pratica del cemento armato. È una tecnica che, uscita ormai dalla fase pionieristica del secolo precedente, gode di riconoscimenti ufficiali e del favore del mercato edilizio per affidabilità e adattabilità alle diverse esigenze di progetto22. Anche se le applicazioni prevalenti riguardano i campi dell’ingegneria civile e industriale, è già possibile prevedere sviluppi applicativi del cemento armato anche per l’edilizia residenziale, oltretutto per i buoni requisiti di resistenza al fuoco e alle sollecitazioni sismiche. Si tratta in effetti di una tecnica costruttiva compatibile, per modalità e competenza esecutiva, con le tradizionali tecniche murarie, tanto da risultare applicabile senza particolari riserve nella realizzazione di elementi isolati di fabbrica, soprattutto dei solai. Una concezione più organica e unitaria della struttura portante in cemento armato di una abitazione, e in particolare di una residenza unifamiliare, dovrà attendere il secondo decennio del secolo per manifestarsi diffusamente. I casi già oggetto di segnalazione sono ascrivibili all’interesse sperimentale e dimostrativo di isolati progettisti. Tra questi, François Hennebique, prima ancora di aver depositato il suo primo brevetto (1892), aveva applicato la tecnica del cemento armato nella costruzione della villa Madoux (1879), a Lombarzeide, presso Wenstende, spinto soprattutto dall’idea di realizzare una struttura resistente al fuoco23. Prodotto emblematico di questa padronanza acquisita nel campo, sia sul piano ideatiUn riconoscimento ufficiale del cemento armato come tecnica costruttiva della modernità può essere visto nell’allestimento dell’Esposizione internazionale di Parigi (1900); la maggior parte dei padiglioni e delle strutture presentate al pubblico sono realizzate con l’intento dimostrativo delle potenzialità insite nella collaborazione tra cemento e ferro. Tra i numerosi brevetti in concorrenza all’inizio del secolo hanno già acquistato credito nella pratica edilizia quelli relativi ai sistemi Hennebique e Monier; sono tuttavia ancora approssimativi i metodi di calcolo per il dimensionamento delle strutture e non risultano predisposte normative rigorose. 23 Questa ricerca finalizzata alla messa a punto di strutture resistenti al fuoco ha sviluppo in America con l’attività pionieristica di Thaddeus Hyatt, a seguito della verifica dei limiti dell’acciaio in occasione dell’incendio di Chicago nel 1871. La disposizione dei tondini di ferro, per la realizzazione di solai, nel brevetto di Hyatt (1878) segue il principio della maglia omogeneamente diffusa nel getto, a grandi linee vicino a quello applicato in Francia, già dalla metà del secolo, da Joseph Monier per la realizzazione di vasi da giardino. 22
La costruzione 175 vo che su quello imprenditoriale, è la villa che Hennebique realizza per la propria famiglia (1901-03) a Bourg-la-Reine, non lontano da Parigi, alla quale l’insolita elevazione (40 m) di una torre-minareto, utilizzata come deposito d’acqua, ha valso la denominazione di «Tour Hennebique». La varietà degli elementi architettonici messi in gioco si sposa con l’arditezza strutturale, con parti in aggetto fino a 4 metri, manifestando apertamente le potenzialità del cemento armato, oltretutto anche nella realizzazione degli elementi di dettaglio di un apparato formale di ispirazione gotico-orientaleggiante. Al di là degli attributi di immagine, nella villa è possibile scorgere anticipazioni di temi compositivi di rilievo per le ricerche del Movimento Moderno, quali la distribuzione degli ambienti in continuità verticale grazie a differenze di livello tra i solai, la terrazza-giardino, l’apertura in facciata di ampie finestre, accorgimenti per la climatizzazione e il comfort degli ambienti. Trova conferma negli sviluppi della ricerca sul cemento armato la previsione di Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc in merito ad un possibile rinnovamento delle forme in architettura soltanto a condizione di una radicale riscoperta del mezzo tecnico e, in particolare, del sistema strutturale. In questa direzione Auguste Perret, mutuando il principio di Hennebique della continuità strutturale trave-pilastro, pone l’attenzione sul ruolo preminente e autonomo dell’ossatura in cemento armato dell’edificio, lasciata a vista e ben distinta dalle murature di tamponamento. Il carattere di opera di getto ricercato per la struttura portante non impedisce l’uso di materiali tradizionali o di elementi prefabbricati per il rivestimento delle parti portate; sottili differenze cromatiche e di grana delle superfici in cemento sono prodotte lavorando alla bocciarda lo strato esterno fino a far emergere il carattere ricercato. L’applicazione di queste tecniche al tema progettuale della villa tarda tuttavia a manifestarsi, evidentemente non favorita dall’aspetto economico. Le realizzazioni degli anni Venti, tra le quali si segnala la villa Cassandre (1924-25), a Versailles, adottano prevalentemente murature portanti senza scheletro e superfici esterne uniformemente intonacate. Il ruolo emergente e qualificante della struttura, come già ampiamente sperimentato da Perret in opere di maggior rilievo, si afferma nelle ville dei primi anni Trenta destinate a clienti facoltosi: la villa per il bey Arakel Nubar (1930-31), a Garches, e la villa per il bey Elias Award (1930-38), a Il Cairo. L’interesse per il telaio strutturale in cemento armato accomuna la ricerca di Perret a quella del giovane Le Corbusier, giungendo tuttavia già nel corso degli anni Dieci a svilupparsi in direzioni diverse24. Come dimostra il modello strutturale della maison «Dom-ino» (1914), il sistema pilastro-solaio si presenta come meccanismo risolutivo nell’assegnare libertà distributiva allo sviluppo di pianta e nel determinare il rapporto desiderato tra i vuoti e i pieni delle superfici di chiusura verticale. L’arretramento dei pilastri dal filo di facciata, evidente nelle ville del periodo purista degli anni Venti, viene in effetti ad annullare ogni intento di valorizzazione della struttura in chiave espressiva, come al contrario dimostra con successo la lezione di Perret. L’attenzione al mezzo tecnico guida in questi anni Le Corbusier nel mettere a punto sistemi costruttivi e a richiederne il brevetto. L’interesse per la copertura piana, ad esempio, sollecita lo studio di soluzioni innovative sia sul piano tecnico che funzionale25; l’affidabilità del cemento armato, ad esempio, gli consente di forzare i più consueti schemi di riferimento strutturale nel risolvere con un architrave di 10,75 m di luce l’apertura sul fronte lago della villa Le Lac (1924-25), a Corseaux-Vevey, in Svizzera, destinata ai propri genitori. È opportuno notare, tuttavia, Per gli approfondimenti si rimanda a G. Fanelli, R. Gargiani, Perret e Le Corbusier: confronti, Laterza, Roma-Bari 1990. Si veda a questo proposito lo scritto di Le Corbusier, Conversazioni con un costruttore di tetti di Chaux-de-Fonds nel 1914, pubblicato nel «Neue Zürcher Zeitung», 1934.
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176 La villa del Novecento che l’applicazione pratica degli assunti teorici non ha escluso opportuni adattamenti della componente strutturale, come è evidente nella villa Savoye, dove la planarità della superficie d’intradosso dei solai, teorizzata nel disegno della «Dom-ino», viene ad essere interrotta da travi ricalate. L’aggetto della facciata rispetto ai pilotis perimetrali, inoltre, si realizza soltanto in direzione longitudinale rispetto alle suddette travi. La regola della standardizzazione dimensionale della struttura portante guida il progetto ma richiede in fase operativa necessarie correzioni in sintonia con le esigenze tecniche dei subsistemi di facciata. Le opere di Wright dei primi due decenni del Novecento denotano un uso del cemento armato alquanto sporadico; ciò non toglie che ne abbia apprezzato i requisiti di resistenza e monoliticità, nel prevedere la possibilità di assemblare in un continuo strutturale elementi di fabbrica, pareti, solai, coperture, correntemente considerati differenziati per materiale e tecnica di realizzazione26. Pur riconoscendo omogeneità al composto cementizio Wright ne ha spesso negato l’attitudine a esprimere valori di superficie, denunciando per esso la mancanza di un «carattere» esteticamente valido27. È questa un’opinione che mostra di poter ammettere qualche deroga soprattutto allorché s’impone la volontà di rapportarsi ai metodi della produzione industriale, sperimentando la possibilità di normalizzare gli elementi di fabbrica. Il blocco di cemento, opportunamente solidarizzato con tondini di acciaio, costituisce nel corso dei primi anni Venti oggetto di sperimentazione tecnica e formale, nella piena coscienza di risultati che non avrebbero nascosto la propria natura e origine nel lavoro della macchina. Nella Millard House (1923), nota anche come La Miniatura, a Pasadena, Wright studia le possibilità di adattamento del blocco cementizio prefabbricato alle diverse condizioni spaziali e volumetriche di murature e pilastri, controlla le superfici sulla base di un reticolo geometrico modulare alla stregua di un’opera di tessitura. Il textile block è dunque l’elemento in grado di produrre ed evidenziare la concezione unitaria del risultato, senza differenze tra interno ed esterno della costruzione, in continuità di sviluppo verticale e orizzontale. Alla base del sistema viene posto, dunque, un blocco cementizio con faccia esterna di forma quadrata (16 pollici di lato) e sezione a C; nello spazio tra due strati contrapposti di questi blocchi viene eseguita una gettata solidarizzante in calcestruzzo, armata in direzione orizzontale e verticale con tondini di ferro, generando in definitiva una parete strutturale di 8 pollici di spessore, la metà dunque del modulo strutturale. Come è evidente anche dall’analisi delle altre tre ville californiane degli stessi anni, l’interesse di Wright non trascura la possibilità di realizzare varietà di condizioni spaziali né attribuzioni ornamentali per le superfici. Sono caratteri, tra gli altri, che portano necessariamente a sviluppare il sistema in modo flessibile, diversificando il modello del blocco standard in numerosi altri elementi, differenziati per forma e dimensione fino ad essere veri e propri pezzi speciali. L’abbandono della tecnica del textile block da parte di Wright conferma i limiti imposti dal sistema ma evidenzia anche la resistenza dell’architetto nell’assegnare al cemento dignità espressiva, a sottomettere l’estetica del materiale ai vantaggi dell’economia e della ragione tecnica. Il credito che il cemento acquista per Wright è da ricondurre fondamentalmente al ruolo di componente del meccanismo strutturale dell’opera, essenziale quanto risolutivo nel tradurre in realtà la propria visione «organica» dell’architettura. La speriLa prima realizzazione in cemento armato di Wright è l’Unity Temple (1905-08), Oak Park, Illinois. Il tema della monoliticità è presentato come condizione di resistenza al fuoco nel progetto della Fireproof House pubblicato sul «Ladies Home Journal» (1907). 27 Tra gli scritti di Wright dedicati a questo tema si segnala, In The Cause of Architecture, VII: The Meaning of Materials – Concrete, in «Architectural Record», LXIV, n. 2, agosto 1928. 26
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Fig. 262 – Il sistema costruttivo textile-block. Fig. 263 – Frank Lloyd Wright, Millard House (La Miniatura), Pasadena, California, 1923. Prospetto-sezione. Figg. 264, 265 – Rudolf Schindler, Lovell Beach House, Newport Beach, California, 1925-26. Planimetria generale del piano terra e piante dl primo e secondo piano; sezione trasversale.
178 La villa del Novecento mentazione sui blocchi prefabbricati in cemento armato verrà portata avanti dal figlio di Wright, Frank Lloyd Jr, nel corso di un’attività professionale autonoma, sensibile anche alle esigenze abitative dei meno abbienti. È doveroso riconoscere, comunque, che già a partire dal primo decennio del secolo l’idea del blocco prefabbricato da assemblare in configurazioni diverse era stata all’attenzione di Walter Burley Griffin, più precisamente nella fase di attività compresa tra l’abbandono della collaborazione con lo studio di Wright (1905) e il trasferimento in Australia (1914). Tra le numerose case unifamiliari realizzate da Griffin, è indicativa la Melson House (1912), a Mason City, Iowa, dove viene applicato l’innovativo knit-lock system, basato sul mutuo collegamento di blocchi prefabbricati in cemento per mezzo di armature disposte prevalentemente in direzione verticale. Il procedimento della tilt-slab construction, messa a punto da Irving Gill mediante getto a piè d’opera di pannelli di cemento armato e successiva elevazione verticale con un’operazione di ribaltamento, viene ripreso da Rudolf Schindler nella costruzione di alcuni diaframmi portanti della propria casa-studio (1921-22), a West Hollywood28. È una scelta motivata da ragioni di economia, in grado di ridurre il coinvolgimento della manodopera a semplici e ripetitive operazioni supportate da macchine di cantiere decisamente elementari. L’interesse sperimentale di Schindler si era manifestato in precedenza nel tentativo di valorizzare la tecnica del calcestruzzo spruzzato ad aria su supporti mobili (gunite-concrete), in linea con le idee emerse dalla collaborazione con Wright in occasione del progetto della cosiddetta Monolith House. La prima importante affermazione professionale di Shindler è comunque da vedere nella realizzazione della Lovell Beach house (1925-26), a Newport Beach, California, un edificio con struttura portante in cemento armato, solai e copertura in legno. Le qualità spaziali e i caratteri d’immagine sono riconducibili al ruolo determinante di questa struttura, secondo un’impostazione basata sulla successione seriale di cinque telai indipendenti a doppia campata. Alle travi è appoggiata l’orditura in legno degli orizzontamenti; alle stesse travi viene ancorato mediante tiranti metallici il ballatoio del secondo piano, utile come percorso di servizio per le camere da letto e per le rispettive terrazze in proiezione sul mare. Se da un lato risulta insolito l’uso del telaio in cemento armato, dall’altro la completa apertura del piano terra e l’evidenziazione dei pilastri rimandano agli edifici a palafitta diffusi su quella costa oceanica. Questa attenzione nel risolvere con un mezzo tecnico duraturo ed affidabile il rapporto con il suolo si manifesta negli stessi anni, sia pure in condizioni diverse, in un’opera californiana ancora una volta riconducibile alle insolite aspettative del dottor Philip Lovell; nella già citata casa-studio di Los Angeles Richard Neutra adotta un articolato sistema strutturale in cemento armato per risolvere il problematico dislivello del terreno ed ancorare alla base dell’edificio la vasca della piscina. Per la realizzazione della base fondale di edifici unifamiliari, soprattutto se ad un solo piano, risulta ormai diffusa la prassi della gettata di calcestruzzo nei limiti di un cordolo armato perimetrale; su questo si fa gravare la struttura portante in legno (balloon-frame) o in acciaio. La possibilità di sfruttare a fini energetici le qualità inerziali del basamento in calcestruzzo viene compresa a fondo non prima della fine degli anni Trenta. Con riferimento 28 È opportuno segnalare che questa tecnica di semi-prefabbricazione non ha trovato applicazione da parte di Irving Gill in edifici residenziali. Pareti realizzate con questo sistema sono predisposte per la chiusura esterna de La Jolla Voman’s Club a San Diego (1912-14); Gill ottiene l’alleggerimento della struttura inserendo elementi forati in laterizio nel nucleo centrale, riuscendo comunque ad ottenere pareti portanti di lunga estensione e con ampie aperture ad arco. L’uso del cemento con tecniche correnti permette a Gill di avviare a partire dal 1906 una radicale revisione dei riferimenti Arts and Crafts della prima fase di attività, approdando ad una semplificazione spinta dei mezzi espressivi, in contrasto con la dominante produzione eclettica del momento. Un esempio significativo è la Luther Dodge House (1914-16) a West Hollywood.
La costruzione 179 alle innovative esperienze di Arthur Henry Barker nel 1907, Wright realizza per la prima volta nella Jacobs House (1936), a Madison, Wisconsin, un sistema radiante esteso all’intera pianta dell’abitazione, disponendo nel getto fondale una serpentina di condotti in rame per il passaggio di acqua calda29. Più estesamente, la ricerca di tecniche d’integrazione tra servizi e strutture viene sollecitata dalla necessità di compensare la dispersione termica in abitazioni realizzate in modo alquanto speditivo, con materiali di scarsa coibenza termica e con diaframmi di chiusura di sezione sorprendentemente esigua. Non mancano proposte inusuali, come ad esempio quella di Richard Neutra per raffrescare la superficie di calpestio, anche esterna, mediante serpentine di rame percorse da acqua fredda; altre soluzioni, spesso coperte da brevetto, tendono ad incanalare aria calda nei condotti disposti nella base fondale, in alcuni casi con estensione fino al controsoffitto attraverso cavedi a parete. Un sistema studiato espressamente per l’abitazione, ad esempio, è quello messo a punto da George Fred Keck, a fronte della carenza di rame manifestatasi in concomitanza con la seconda guerra mondiale: il radiant-tile panel heating system (1944) prevede in questo caso un condotto continuo, esteso a tutta la superficie dell’ambiente, realizzato con elementi prefabbricati in laterizio vetrificato per l’incanalamento dell’aria calda al di sotto del pavimento, con punti di uscita e ritorno dell’aria sulle pareti opposte di ogni stanza30. La tecnica del cemento armato ha già raggiunto livelli rassicuranti di certezza nelle applicazioni strutturali; può contare sul perfezionamento della qualità dei materiali (cementi speciali), sui vantaggi della prefabbricazione. Dove le teorie di calcolo e i limiti imposti dalle normative segnano ancora limiti oggettivi, sembra essere l’intuito statico dei più esperti a dare risposte decisive nel configurare opere di non comune impegno. Le esigenze della residenza unifamiliare sono ormai tranquillamente soddisfatte dalle competenze professionali dei progettisti e dalle capacità d’intervento della piccola e media impresa. Sembra evidente comunque il divario creatosi tra il ruolo creativo dell’architetto e quello più specialistico dell’ingegnere calcolatore, soprattutto a fronte di problemi realizzativi nuovi o imprevisti. È un argomento, questo, che anche nel quadro dello specifico tema della villa ha talvolta visto in contrapposizione logiche diverse di concezione e d’intervento, come ad esempio avvenuto nella costruzione della emblematica Casa della cascata (1934-37) di Wright. Attraverso il cemento armato, e muovendo da considerazioni strutturali, Wright è convinto di poter mettere in atto un processo di liberazione dello spazio, di rendere liberi dal mutuo contatto quei diaframmi verticali e orizzontali che storicamente ne hanno bloccato lo sviluppo nei limiti di una rigida scatola edilizia. L’idea di elementi orizzontali in forte aggetto (le terrazze raggiungono uno sbalzo di 5,40 m), rappresentano una sfida per le possibilità di controllo strutturale sulla base degli schemi correnti, oltretutto in rapporto alla particolare natura del suolo. L’analisi delle fasi di attuazione del programma costruttivo permette di rilevare i non pochi motivi di incertezza denunciati dai calcolatori ma anche la forte determinazione dell’architetto nel confermare i motivi guida dell’ideazione31. 29 Arthur Henry Barker aveva messo in opera questo sistema sia in chiese che in abitazioni, disponendo però i condotti nelle murature. La divulgazione di questo metodo da parte di Barker è avvenuta con i saggi : The Theory and Practice of Heating and Ventilation (1912); Heating and Air Conditioning (1932). L’idea di Wright di utilizzare il piano orizzontale deriva probabilmente anche da osservazioni fatte sui metodi di riscaldamento a pavimento nella casa tradizionale giapponese. 30 L’interesse di George Fred Keck per il tema energetico della casa unifamiliare è ampiamente sviluppato in numerose realizzazioni, soprattutto basate sullo sfruttamento dell’energia solare. Tra le tante si segnala la Duncan House, a Flossmor, Illinois 1941. 31 Per una cronaca delle fasi di realizzazione, dei problemi emersi, delle soluzioni adottate, vedi D. Hoffmann, Frank Lloyd Wright’s Falligwater. The House and Its History, Dover Publications, Inc., New York 1978. Sul piano strutturale si segnala la soluzione adottata per risolvere l’aggetto dei piani orizzontali sul versante della cascata:
180 La villa del Novecento Il tema dell’aggetto e dell’indipendenza dei piani di copertura rispetto ai diaframmi verticali, grazie alle possibilità offerte dal cemento armato, è rilevabile nella raffinata forma espressiva ideata da Luigi Moretti per la villa La Saracena (1953-57), a Santa Marinella, Roma. Ciò è evidente soprattutto nel settore edilizio della zona giorno, uno spazio fluido, incanalato tra diaframmi verticali ad andamento sinuoso, volutamente affrancati da funzioni di supporto statico della copertura. La struttura di quest’ultima trova fondamento in pilastri attentamente occultati e si sviluppa con travi a mensola di notevole aggetto, raggiungendo, in particolare per la sala, uno sbalzo di 8 metri in forma di struttura ramificata. Il superamento delle più diffuse convinzioni in merito alle possibilità di applicazione del cemento armato si rileva nella concezione macchinistica della villa Il Girasole (1929-35), a Marcellise, presso Verona, un organismo centrato intorno ad un fulcro cilindrico, contenente le scale, e predisposto per ruotare di 360° al fine di avvalersi delle migliori condizioni di esposizione ai raggi solari. Dalla collaborazione tra Angelo Invernizzi, ingegnere e proprietario della villa, ed Ettore Fagioli nasce un edificio che non nasconde motivi d’ispirazione al mondo dei mezzi di trasporto. Il telaio strutturale in cemento armato dell’intero edificio viene a gravare su un appoggio in acciaio, assimilabile concettualmente ad un carrello ferroviario mobile su rotaie; le terrazze di copertura delle due ali dell’edificio sono una chiara citazione dei ponti di una nave; la lega di alluminio con cui è realizzato il rivestimento esterno sembra estratta dai materiali tipici dell’industria aeronautica. La scelta del cemento armato nel realizzare stabilità e allo stesso tempo possibilità di movimento, per altri versi, sollecita il riferimento ai tentativi fatti con successo già da molti anni nella costruzione di manufatti insoliti, quali ad esempio gli scafi per natanti. Soluzioni costruttive innovative, adattate o sperimentate per lo specifico tema progettuale della residenza unifamiliare di prestigio, durante la seconda metà del secolo hanno proposto il cemento armato come materiale flessibile e strutturalmente risolutivo. L’attitudine ad essere messo in opera in gusci di sezione sottile, grazie anche a nuovi prodotti ad alta resistenza, ha stimolato alcune ricerche di genere strutturalista, aggiungendo al credito già acquisito quello di mezzo determinante per superare la canonica distinzione tra parti di elevazione e di copertura. L’idea di Frederick Kiesler per la Endless House (1950), rimasta tuttavia allo stato di progetto, può aver costituito un riferimento per Vittorio Giorgini nella costruzione della villa Saldarini (1962) a Baratti, presso Livorno, nell’obbiettivo di affidare la continuità e la monoliticità strutturale dell’insieme ad un guscio resistente realizzato in cemento sparato a pressione su armatura in rete metallica. Uno svolgimento avvolgente caratterizza anche i diaframmi e gli elementi di arredo fisso della più recente Moebius House (1998), a Het Gooi, presso Utrecht, su progetto di UN-Studio, in linea con l’intento di determinare una spazialità interna fluida e apparentemente senza limiti. Nell’ambito progettuale della residenza privata, tendenzialmente meno problematico dal punto di vista tecnologico rispetto ad altri settori d’intervento, è dunque verificabile il trasferimento di soluzioni innovative, pur con l’adattamento sporadico di procedure e accorgimenti strutturali complessi. Un assiduo sperimentatore in questa direzione è da vedere in John Lautner, sicuramente tra i più rappresentativi progettisti americani interessi tratta di solette in cemento armato nervate con travi estradossate di 60 cm di altezza, disposte ad interasse di circa 1.20 m. L’estradosso delle travi costituisce appoggio per pannelli di gesso (scelti per la loro leggerezza) su cui risulta posata la pavimentazione in lastre di pietra. Non è accertabile la funzione strutturale collaborante dei parapetti, pure in cemento armato, avanzata da alcuni. Fenomeni di dissesto sono intervenuti già nel corso della costruzione dell’edificio tanto da ricorrere anche a rinforzi della struttura con barre metalliche ed alla parziale estensione di alcuni setti di base. In ogni caso Wright ha fatto vigorosamente opposizione alla maggior parte dei provvedimenti proposti dai tecnici, anche se di propria fiducia, trovando conforto nel proprio intuito statico.
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Figg. 266, 267 – Luigi Moretti, villa La Saracena, Santa Marinella, Roma, 1953-57. Planimetria generale del piano terra e particolare dell’impalcato strutturale di copertura del settore adibito a zona giorno; la struttura estradossata in cemento armato della sala soggiorno. Figg. 268, 269, 270 – Angelo Invernizzi, Ettore Fagioli, villa Il Girasole, Marcellise, Verona, 1929-35. Pianta al livello della piattaforma girevole; veduta dal versante a valle; schema del congegno strutturale.
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La costruzione 183 sati a utilizzare il cemento in modo inedito, a fini strutturali e formali. Di notevole rilievo è la copertura arcuata della Reiner House (1954-74), a Silver Lake, California, nota anche come Silvertop House, antesignana dell’utilizzo per una residenza privata di una struttura precompressa con armatura post tesa (pre-stressed and post tensioned), giustificata dalla necessità di coprire l’intera area living (280 mq) senza appoggi intermedi32. A fronte della matura conoscenza delle caratteristiche strutturali del cemento in associazione con il ferro, risulta già affermato dal dopoguerra l’interesse per il trattamento «a vista» delle superfici, con chiara evidenza dell’impronta impressa dalla cassaforma. Più che essere in linea con le raffinate superfici di cemento bocciardato di Perret, la poetica del béton brut ha teso a valorizzare le qualità sensoriali del materiale assimilando gli effetti di grana e colore a quelli di una sostanza naturale. Il carattere del cemento, già ritenuto poco nobile, si è liberato dalle ultime riserve, fino al punto da valere come cifra stilistica della ricerca architettonica di alcuni progettisti, talvolta anche a scapito delle reali possibilità di resistenza superficiale agli agenti atmosferici. La strada indicata da Le Corbusier negli anni Trenta, allorché aveva sovvertito la logica del purismo con quella della manifestazione delle qualità espressive del materiale e del processo costruttivo messo in atto, trova conferma in opere di forte impatto sociale e valore rappresentativo, ma anche negli edifici di un mondo privato ed elitario, in qualche caso disposto a rinunciare ad una estetica di facciata costruita su rifiniture epidermiche. La villa Shodhan (1951-54), ad Ahmedabad, può esemplificare questa scelta di totale corrispondenza tra esigenze di linguaggio architettonico e uso del mezzo tecnico. Nuovi valori di superficie, rispetto a quelli imposti dal primo Movimento Moderno e poi recepiti dallo Stile Internazionale, danno dignità al cemento così come appare all’atto del disarmo, mostrando le porosità, le variazioni cromatiche dovute ad un’opportuna scelta dei componenti, i segni del dispositivo usato per il getto. Sono effetti che riproducono la natura del legno grezzo delle tavole come anche il più astratto disegno dei pannelli metallici della casseratura. Il tema progettuale della villa si avvale di queste possibilità entro un ampio spettro di variazioni espressive, nella ricerca di qualità sensoriali che rimandano a manifestazioni della natura, come anche ad un ordine geometrico di matrice concettuale. L’opera di Tadao Ando può essere presa come indicativa di questa seconda tendenza, nella ricerca di un difficile equilibrio tra valori atavici della tradizione domestica giapponese e modi espressivi e tecniche costruttive della contemporaneità33. Caratteri strutturali d’eccezione, sempre con l’applicazione del cemento armato, sono rilevabili anche nella villa Malin, denominata Chemosphere (1960), sulle pendici collinari dominanti Los Angeles. Un unico pilastro centrale fa da supporto ad una scatola circolare dal contorno interamente vetrato, una sorta di disco volante sospeso. Un carattere più scultoreo contraddistingue la Arango House (1973), in sintonia con la movimentata topografia di Acapulco. Anche in questo caso il disegno prevede forme a matrice circolare, in particolare per caratterizzare le parti più alte e panoramiche della villa. 33 Come rilevabile nella villa Koshino (1981-84), presso Osaka, i diaframmi verticali in cemento armato mostrano in superficie le tracce di connessione dei pannelli metallici delle casseforme e i fori degli elementi di collegamento trasversale, in numero di sei per ogni pannello. La scelta del materiale segna indubbiamente una rottura con la tradizione della costruzione lignea; il tema della griglia modulare e dell’astrazione geometrica è al contrario un elemento di continuità con il passato. Per la messa in opera di questa modalità costruttiva Ando ha riconosciuto più volte il ruolo determinante di maestranze qualificate. Ogni pannello ha dimensione di 80x180 cm, con lato più lungo disposto orizzontalmente. 32
Figg. 271, 272, 273 – Vittorio Giorgini, villa Saldarini, Baratti, Livorno, 1962. Pianta del piano terra; particolare di un elemento di appoggio in fase di costruzione; veduta generale. Fig. 274 – John Lautner, Reiner House, (Silvertop), Silver Lake, California, 1954-74. Pianta e prospetto a valle.
Capitolo 5
L’architetto e il committente
La metafora di Filarete in merito alla necessità di un padre, il committente, e di una madre, l’architetto, per il concepimento di un’opera architettonica, risulta appropriata se riferita al tema della villa, in quanto generalmente frutto di collaborazione e coinvolgimento tra destinatario e regista dell’opera. Come dimostrato da molti e significativi casi, l’approccio prevalentemente sperimentale tende a favorire questo trasferimento reciproco di stimoli, tanto più se la figura di un committente consapevole delle proprie necessità viene a confrontarsi con quella di un progettista disposto alla ricerca del nuovo. Non è escluso, tuttavia, che il rapporto di fiducia tipico delle premesse venga ad incrinarsi nel corso dell’iter realizzativo, talvolta a fronte di un prevalente interesse dell’architetto per la propria autonomia creativa più che per le reali aspettative del cliente. Ogni opera dunque ha una propria storia, per le diverse condizioni al contorno, di ordine ambientale, culturale, psicologico, materiale o anche soltanto economico. Evitando di tentare una sintesi delle infinite forme di relazione ravvisabili tra le parti, possono risultare indicativi e degni di attenzione alcuni casi emblematici, scelti tra quanti hanno prodotto riflessi immediati nei caratteri peculiari della realizzazione, senza per questo voler intravedere in essi termini di riferimento assoluto, oltretutto anche della stessa carriera professionale dell’architetto. L’ideale ottocentesco dell’edificio come espressione di una personalità o di uno stile di vita, ha continuato nel corso dei primi decenni del Novecento a manifestarsi attraverso l’adattamento alle aspirazioni del futuro inquilino di repertori formali e di moduli compositivi già sperimentati. Ciò trova una conferma sulla scena americana degli anni Dieci, animata da committenti prevalentemente interessati ad attribuire valore rappresentativo al proprio universo domestico; sono essi rappresentanti dell’upper-class, detentori di ricchezze acquisite da almeno due-tre generazioni, poco disponibili a riconoscere il portato di idee innovative. Nelle aree più coinvolte dagli effetti dell’industrializzazione comincia intanto ad affermarsi una nuova categoria sociale, particolarmente dinamica ed aperta, costituita da self-made men, dirigenti tecnici di compagnie di piccola e media dimensione, uomini d’affari, appassionati di arte e di musica, disposti a mettere in gioco considerevoli fortune in nuove imprese, non ultima la costruzione di una dimora d’eccezione. Alcuni committenti di Frank Lloyd Wright provengono da questo entourage1. Non sono necessa-
Per approfondimenti si rimanda a L.K. Eaton, Frank Lloyd Wright and Howard Van Doren Shaw: Two Chicago Architects and Their Clients, MIT Press, Cambridge 1969. Si veda anche J. Connors, The Robie House of Frank Lloyd Wright, The University of Chicago Press, Chicago-Londra 1984.
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Lamberto Ippolito, La villa del Novecento, ISBN 978-88-8453-967-0 (print), ISBN 978-88-8453-968-7 (online), © 2009 Firenze University Press
186 La villa del Novecento riamente clienti occasionali; in alcuni casi l’incarico del progetto della residenza di famiglia fa seguito alla preferenza accordata allo stesso architetto per la realizzazione di edifici di altra destinazione d’uso e di ben più ampia consistenza. Le indicazioni di Frederick C. Robie, ingegnere trentenne e assistant manager nella ditta paterna costruttrice di biciclette e di pezzi meccanici per auto, nel definire il carattere della nuova dimora in un parco suburbano di Chicago (1907), sono espresse a Wright ed esemplificate attraverso schizzi in occasione di numerosi incontri. Nulla toglie alla consapevole determinazione del committente se lo stesso Wright, nell’autobiografia, abbia minimizzato il valore di questo apporto, pur nella convinzione che l’interpretazione delle esigenze del cliente è un preciso compito dell’architetto; il lavoro del progettista, spiega Wright per analogia, è paragonabile a quello del pittore allorché cerca di fissare in un ritratto il carattere del proprio cliente. Nonostante il committente sia spesso presente alle scelte, tanto da influire talvolta con il proprio contributo d’idee, la critica architettonica ha mostrato per questa figura un interesse relativo, assegnando assoluto risalto alla ricerca individuale dell’architetto, spesso considerata libera da condizionamenti. Le scelte di progetto, oltretutto, vengono raramente giustificate sul piano economico, quasi a conferma del fatto che il tema della villa costituisca per il progettista un ambito privilegiato di azione, indifferente a regole di mercato e limiti di spesa. Questa lettura, indubbiamente parziale, non è proponibile per la comprensione dell’atteggiamento professionale di Richard Neutra nei confronti delle esigenze dei committenti delle numerose ville realizzate in alcuni decenni di attività, a fronte di risorse economiche, di condizioni logistiche e ambientali anche molto diverse per entità e carattere della domanda. Alcuni contributi critici sull’opera di Neutra attestano un’attenzione costante per le implicazioni psicologiche e fisiologiche dell’architettura nei confronti dei fruitori, fino a sollecitarne la partecipazione attiva alle scelte di progetto2. Il cliente è dunque coinvolto nella redazione del piano funzionale della casa, sollecitato a comunicare i propri interessi e le abitudini di vita fino a dettagliarne i caratteri per iscritto con relazioni e risposte a questionari, a manifestare apertamente, ad opera realizzata, impressioni ed eventuali osservazioni. È una clientela di varia estrazione sociale quella che, rivolgendosi a Neutra, vede nella figura del progettista l’opportunità di ricevere attenzione e allo stesso tempo soddisfazione di bisogni più o meno consapevolmente espressi. Committenti particolari, quali esponenti del mondo del cinema o dell’aristocrazia imprenditoriale, ma anche altri desiderosi di trovare risposte a più comuni aspettative, hanno dunque individuato in Neutra un interlocutore sensibile ed entusiasta. Il caso del dottor Philip Lovell, antesignano promotore di pratiche naturiste, è significativo per il lucido apporto d’idee alla definizione del programma architettonico della propria casa-studio (1927-29) a Los Angeles, materializzatosi in una realizzazione calibrata su principi del tutto originali, risultata determinante anche per la fortuna professionale dello stesso architetto. Alla fine degli anni Venti tende dunque ad emergere la nuova figura di un committente consapevole della propria capacità di produrre ricchezza e di farne uso vantaggioso, desideroso di sentirsi partecipe dell’era della macchina e di condividere gli interessi della cultura artistica d’avanguardia. La realizzazione di ville, spesso assunte come punti nodali della ricerca personale dei protagonisti dell’architettura del Movimento Moderno, costituisce in molti casi la conferma del diffuso senso di modernità che anima alcuni committenti, del loro desiderio di ampliare la percezione del proprio orizzonte domestico, delSi veda a questo proposito la monografia T. Hines, Richard Neutra. 1892-1970, Electa, Milano 2004. La necessità del coinvolgimento del committente è esplicitata dallo stesso Neutra in Progettare per sopravvivere, trad. it., Milano 1956.
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L’architetto e il committente 187 la volontà di affrancarsi dalle convenzioni più diffuse. Il radicale superamento dei modelli del passato, oltretutto, tende ad accreditare il successo economico del padrone di casa, ad esaltare capacità imprenditoriali orientate all’innovazione dei metodi di produzione. Il desiderio di apertura alla cultura architettonica di avanguardia anima i propositi di Grete e Fritz Tugendhat, nell’assecondare la ricerca di Mies Van der Rohe sul tema della residenza privata individuale. Al momento di attribuire l’incarico per il progetto della propria abitazione di Brno (1928), i Tugendath, ricchi imprenditori tessili, hanno già avuto modo di apprezzare la linea creativa dell’architetto come indicata a realizzare il loro ideale di «casa moderna e spaziosa, con forme semplici e pulite»3. Sono dunque clienti preparati a recepire il portato di una ricerca centrata sull’essenza dell’architettura, al di là di scontate verifiche di corrispondenza tra forma e funzione. La chiarezza e la sicurezza con cui si esprimono domanda e offerta si traducono in questo caso in un risultato sostanzialmente condiviso e privo di sorprese, senza limitazioni per l’autonomia concettuale dell’ideazione. Per l’immaginario collettivo la villa rappresenta diffusamente l’oggetto del desiderio, una prerogativa della classe benestante talvolta percepita aldilà di ogni valore etico. Il tema progettuale apre indubbiamente per l’architetto notevoli spazi d’azione, certamente non confrontabili con altri campi dell’edilizia residenziale, più condizionati da fattori ambientali ed economici. Nel rilevare l’assenza di particolari problemi per il progetto di una villa lussuosa, Alvar Aalto ha comunque riconosciuto che all’architetto occorre razionalizzazione di metodo e moralità, caratteri essenziali da mutuare dal più vincolante ambito d’intervento dell’edilizia sociale. Il campo di osservazione può essere ricondotto alla vicenda della costruzione della villa Mairea a Noormarkku (1937) in Finlandia, pensata per i coniugi Harry e Maire Gullichsen, interlocutori attenti di Aalto, ma anche preziosi collaboratori e amici. L’insolita libertà dalle convenzioni tipiche di una classe agiata, il successo imprenditoriale, l’impegno assunto sul piano sociale e culturale, definiscono in questo caso la figura di una committenza propositiva, aperta alla modernità e allo stesso tempo sensibile ai valori della tradizione locale. Il risultato rispecchia la collaborazione costante dei Gullichsen con i coniugi Aalto, secondo un processo progettuale e costruttivo aperto a variazioni e ripensamenti, diretto a cogliere le valenze psicologiche e umane dell’architettura. Tra le virtù del «Buon Committente, al quale va tutto il merito se l’architettura si realizza», Gio Ponti annovera «la simpatia umana, la discrezione […], la comprensione e la fiducia», riconosciute in particolare nell’atteggiamento dei coniugi Planchart, in occasione della costruzione della loro villa (1953-56) a Caracas4. L’indubbia disponibilità di mezzi, ma anche la sicurezza della richiesta, costituiscono in questo caso le condizioni di partenza di un rapporto professionale che nel tempo acquista i connotati dell’amicizia. Disponibile all’ascolto e a fornire spiegazioni sulla propria architettura, Ponti assume verso questi clienti un impegno fattivo, pur costretto a seguire a distanza lo sviluppo del cantiere; gli studi di variante al progetto iniziale, le indicazioni di dettaglio per gli artigiani e gli artisti coinvolti nell’opera, si uniscono alle precisazioni rivolte ai diretti interlocutori nel corso di una fitta corrispondenza epistolare. Da entrambe le parti gli apprezzamenti finali per l’opera appaiono entusiastici, denotano la piena soddisfazione del committente, ripagato oltretutto dall’aver esteso a grande distanza la ricerca dell’architetto più indicato a interpretare i propri ideali. Vedi: L. Kudelková, O. Máče, Villa Tugendhat a Brno, in AA. VV., Mies Van der Rohe. Architettura e design a Stoccarda, Barcellona, Brno, Skira, Ginevra-Milano 2005, pp. 180-211. Vedi, G. Ponti, Il modello della villa Planchart in costruzione a Caracas, «Domus», n. 303, 1955, p. 133; G. Ponti, Una villa «fiorentina»casa per Anala e Armando Planchart a Caracas, «Domus», n. 375, 1961, p. 135.
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188 La villa del Novecento Di altro tenore è stato il rapporto professionale di Robert Mallet-Stevens con MarieLaure e Charles de Noailles, una coppia di ricchi aristocratici parigini, decisi a costruire la propria villa (1924-33) in Costa Azzurra, a Hyères, luogo dove trascorrere i mesi invernali nell’esercizio del proprio mecenatismo nei confronti di artisti emergenti. Nelle intenzioni dei fortunati committenti non si ravvisa la volontà di ostentare lo stato sociale di appartenenza né la propria agiatezza attraverso la caratterizzazione formale dell’edificio. All’architetto viene chiesto di esprimersi nei termini di semplicità ed economia, per un risultato finale improntato alla praticità e comodità. Nell’identificare questi requisiti come segno di modernità, i Noailles non nascondono la volontà di impedire all’architetto di cogliere occasione per una personale ricerca formale. I contatti avuti con Mies van der Rohe e con Le Corbusier, quest’ultimo apparso a Charles Noailles particolarmente interessato a imporre in modo drastico le proprie idee, non avevano dato garanzie in questo senso. Agli occhi di un committente deciso a partecipare attivamente alla definizione del progetto e alle fasi di costruzione, Mallet-Stevens sembra essere il necessario riferimento per il coordinamento delle scelte compositive e formali, malleabile quanto basta per non creare vincoli al proprio coinvolgimento. Questo rapporto tra le parti, di fiducia ma con distacco allo stesso tempo, dalla soddisfazione per la fase costruttiva iniziale tenderà a logorarsi nell’attuazione di trasformazioni e ampliamenti (fino al 1933), con il risultato di evidente perdita dell’unità originaria della villa. Tra un’idea iniziale condivisa e il risultato finale, spesso si dipana una vicenda costellata di incertezze e ripensamenti, di motivi di disaccordo tra le parti. Nel disattendere i propositi di avvio, l’opera finisce per costituire un testo di difficile decifrazione e attribuzione. L’entusiasmo del committente nella partecipazione attiva al programma architettonico talvolta viene a limitare la chiarezza dell’idea guida del progetto, sancisce una sorta di appropriazione del tema a scapito dell’autonomia decisionale dell’architetto. Non mancano tuttavia casi ripagati da successo, tra i quali è da annoverare la villa Malaparte (1938-40), a Capri, decisamente difforme negli esiti finali dalle linee di progetto dettate in prima stesura da Adalberto Libera. L’adattamento alla impervia conformazione del suolo può aver suggerito sin dall’avvio della costruzione una sostanziale revisione, peraltro leggibile anche nella diversa organizzazione distributiva degli ambienti; accorgimenti e significative invenzioni sono dichiarati dallo stesso Curzio Malaparte come frutto di idee personali, di decisioni maturate in corso d’opera nel discutere i problemi con le maestranze e nel valutare i suggerimenti di amici in visita al cantiere. L’affermazione dell’autonomia intellettuale del progettista rispetto al tema di progetto e alle aspettative del destinatario può essere esemplificata analizzando numerose vicende costruttive ove, talvolta, le tracce delle reali intenzioni del committente si perdendo nella estraneità del risultato finale. Il destino di una villa è indubbiamente legato alla vita dei suoi abitanti, sia che abbiano partecipato alla sua nascita o che ne abbiano ottenuto successivamente la disponibilità. In un quadro evolutivo di intervento merita qualche considerazione l’atteggiamento che il progettista assume nel tempo su una sua opera nei confronti delle rinnovate esigenze del cliente. Difficilmente possiamo pensare che edifici come la Villa Savoye a Poissy (1929) di Le Corbusier abbiano potuto accogliere modifiche senza pregiudicare l’esattezza della configurazione originaria. Pur dichiarando a Madame Savoye di essere «l’amico dei miei clienti», Le Corbusier è severo e distaccato nell’accogliere richieste di adeguamento, finanche per sanare imprevisti inconvenienti tecnici; l’interesse esclusivo per l’ideazione risulta prevalere sulla gestione pratica dell’opera, quest’ultima
L’architetto e il committente 189 delegata ai fidati collaboratori di studio5. Il valore di manifesto teorico della villa, sia nella considerazione dell’autore che nelle valutazioni della critica, hanno messo in secondo piano le reali esigenze di vivibilità dei proprietari. Come noto, il destino di progressivo abbandono e il conseguente deterioramento fisico hanno trovato soluzione in un recente restauro a seguito del trasferimento della villa al patrimonio architettonico nazionale. Il rapporto privilegiato tra progettista e cliente in alcuni casi tende a deteriorarsi ponendo in contrapposizione il rigore dell’ideazione alla realtà delle esigenze. La consapevolezza del proprio ruolo e il valore del messaggio che l’architetto rivolge al suo committente, e non solo ad esso, autorizzano talvolta un atteggiamento autoritario e distaccato. Un caso limite è senza dubbio individuabile nel rapporto tra Mies Van der Rohe e Edith Farnsworth, nella vicenda della costruzione della villa (1946-51) a Plano, nell’Illinois, iniziata in comunione di intenti e conclusa in aperta polemica. Il raggiungimento dello scopo non ammette deroghe, anche per soddisfare esigenze basilari di comfort che, in questo caso, per il progettista non sembrano giustificare la perdita del carattere cristallino e metafisico dell’edificio. I casi presi in esame sono soltanto indicativi della molteplicità di situazioni che intercorrono tra la domanda del committente e la risposta dell’architetto, dalla piena soddisfazione di entrambi per il risultato, in alcuni casi a conclusione di un iter di confronto e di comune maturazione d’idee, alla verifica imprevista di una netta incompatibilità di vedute. Pur con il rischio di generalizzazioni, il tema progettuale della villa, dunque, offre spunti interessanti per osservare la figura del committente, le variazioni nel tempo del suo atteggiamento nel manifestare nuove esigenze ed interessi in rapporto al proprio universo domestico. In linea con le possibilità espresse dal progresso tecnico, la domanda di efficienza e di comfort, già dagli anni Trenta, aveva trovato alimento nello spirito di modernità di committenti particolarmente aperti alle novità dei mezzi di conduzione domestica, attenti alla praticità d’uso e all’economia del risultato. Tende dunque ad affievolirsi l’interesse per la villa come oggetto di ostentazione formale, di legittimazione della posizione sociale affidata ai modelli aristocratici del passato. Appare tuttavia limitata la disponibilità ad assecondare le proposte innovative di architetti emergenti, a dar credito a contributi sperimentali potenzialmente ricchi di qualità distintive ma non privi di incognite. Se in Europa il processo di svecchiamento può gradualmente avanzare sulla spinta della semplificazione razionalista, tanto da far intravedere risultati interessanti anche in opere di limitato impegno economico, negli Stati Uniti la scelta di un prodotto fuori dagli schemi tradizionali continua ad essere prerogativa di una committenza agiata, desiderosa di trasferire nell’universo domestico il successo economico della propria attività lavorativa. Non è secondario il fatto che le ville più emblematiche della ricerca architettonica precedente alla seconda guerra siano indirizzate ad assolvere funzioni marginali nella vita dei fortunati proprietari, come abitazioni temporanee, seconde case del tutto alternative ai riferimenti del quotidiano, in grado di offrire prestazioni insolite e motivi di forte coinvolgimento. Si cerca soddisfazione nella possibilità di realizzare un rapporto privilegiato con il quadro ambientale, generalmente rappresentato da una natura primordiale e selvaggia, nello sperimentare senso di libertà dagli schemi e dalle convenzioni sociali. L’interlocutore ottimale di questo committente è un architetto, possibilmente affermato, capace di stimolare l’immaginazione, libero in alcuni casi di anteporre la pro-
Queste considerazioni sono espresse alla luce dei contenuti del saggio: T. Benton, Villa Savoye e la professione dell’architetto, in H.A. Brooks (a cura di), Le Corbusier. 1887-1965, Electa, Milano 1993, pp. 102-125.
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190 La villa del Novecento pria autonomia intellettuale alle aspettative del destinatario. Una citazione d’obbligo a questo proposito può essere individuata nel ruolo di promozione svolto da Edgar J. Kaufmann, ricco proprietario di esercizi commerciali a Pittsburgh, nella realizzazione di due tra le più acclamate ville d’autore del Novecento, la Casa della Cascata di Wright (1936) e la Casa del deserto (1946) di Neutra. Sono entrambe dimore destinate a limitati periodi di vacanza, la prima nel corso della stagione calda e la seconda per sfuggire al rigore dell’inverno. Soprattutto nel primo caso la vicenda costruttiva mette in luce sin dall’inizio l’atteggiamento entusiasta e partecipe del committente, spesso conciliante anche verso gli sviluppi imprevisti, non ultimo quello dei costi non preventivati. Attraverso i contatti verbali ed epistolari con Wright, Kaufmann dimostra di comprendere l’importanza del proprio ruolo promozionale e decisionale, nell’assecondare con una presenza attiva il lavoro creativo dell’architetto. È tuttavia una esperienza che ritiene di non ripetere allorché viene ad optare per l’intervento di Richard Neutra nella costruzione della seconda dimora; in questo caso, oltretutto di difficile soluzione sul piano ambientale, prevalgono le ragioni dell’affidabilità e della competenza tecnica ricercate nella figura di un progettista meticoloso e al tempo stesso propositivo. Diversamente dai committenti ampiamente realizzati dal punto di vista economico, i titolari di redditi medi mostrano disinteresse per i caratteri dell’architettura moderna se applicati alla propria dimora. L’esorbitante produzione americana di case unifamiliari, destinate soprattutto ad essere utilizzate come abitazioni principali in ambito suburbano, mette in risalto anche nella fase del boom edilizio degli anni Sessanta una domanda decisamente conservatrice sul piano dell’espressione formale. La figura dell’architetto in effetti appare assorbita da un’organizzazione produttiva su scala industriale capace di offrire modelli residenziali preordinati, già risolti secondo le diverse necessità e gli orientamenti di gusto estetico degli acquirenti. Nello specifico ambito d’intervento si segnalano eccezioni di limitata diffusione, legate soprattutto alle intuizioni e all’interesse di progettisti disposti a cimentarsi con il tema della casa unifamiliare a basso costo, trasponendo su ampia scala requisiti qualitativi di prodotti più elitari. In questa direzione la casa usoniana di Wright aveva già segnato l’avvio di un preciso programma orientato ad accreditare la vocazione antiurbana dell’abitare, portato avanti anche nell’immediato dopoguerra sulla base di precisi parametri compositivi, tecnici ed economici, a fronte di una domanda non necessariamente espressa in forma individualizzata. Alla figura del committente tipo è destinato anche il progetto promosso fino ai primi anni Sessanta dai progettisti legati alla redazione della rivista californiana «Arts and Architecture», nell’intento di stimolare l’attenzione sulle nuove qualità della house-post war, ipotizzata come campo di espressione di un linguaggio moderno, terreno di sperimentazione di metodi operativi e di accorgimenti tecnici innovativi utili a contenere in limiti accettabili il costo del prodotto edilizio. I risultati, peraltro concepiti come prototipi, non hanno trovato tuttavia il credito desiderato nella realtà della produzione industriale, tanto meno una sicura conferma nella domanda della committenza, rimasta ancorata, soprattutto sul piano del gusto, a più rassicuranti modelli di maniera. L’effetto su larga scala di nuove e stimolanti idee è da vedere soprattutto in rapporto agli aspetti funzionali del quadro domestico, alla flessibilità degli ambienti, alla praticità d’uso dei mezzi a disposizione. Gli elettrodomestici sostituiscono in buona parte il lavoro della servitù, con il vantaggio non trascurabile di eliminare dall’assetto della casa i relativi spazi di accoglienza; un ambiente come quello della cucina, già considerato di servizio, acquista dignità nel trovare continuità funzionale e spaziale con le zone dedicate al pranzo e soggiorno. Altri settori della casa conquistano l’attenzione del pubblico medio, dai
L’architetto e il committente 191 locali per gli hobby all’immancabile garage. La piscina al margine della casa viene a costituire lo status symbol più evidente ed invidiato di questo microcosmo. L’architettura della villa mostra dunque attitudine nel rispondere alla variegata domanda dei suoi fruitori, finanche nel determinare composizioni a crescita libera, nell’accogliere forme d’ibridazione funzionale, nel produrre gemmazioni ove le condizioni ambientali lo permettono. Oggetto degno di interesse in questo senso si rivela, ove presente, il settore dedicato agli ospiti, a volte configurato come un padiglione autonomo, raccordato alla dimora padronale con un percorso esterno. All’intento di realizzare continuità organica con il nucleo preesistente, come proposto da Wright per un nuovo edificio (1938-39) posto a monte della Casa della Cascata, si contrappone la soluzione della netta distinzione tra le parti, come nel caso della Guest House (1982-87) della villa Winton, a Wayzata, Minnesota, scaturita dalla matita di Frank Gehry nella conformazione di un oggetto scultoreo isolato nel verde del parco. In risposta alle nuove esigenze dei fruitori, soprattutto in presenza di notevoli investimenti, sembra maturare negli ultimi decenni del Novecento un rinnovato interesse per l’autonomia creativa dell’architetto, meglio se già accreditato e in grado di fare dell’opera un risultato meritevole di segnalazione. Professionisti di fama, impegnati in imprese progettuali di ampio respiro, non hanno escluso il tema della villa dalla propria attività, pur riconoscendo in qualche caso lo scarso valore remunerativo concesso alla loro applicazione. La villa, se vista come opera d’autore unica ed esclusiva, diviene essa stessa oggetto da esibire o collezionare, conferma il desiderio del committente di sentirsi partecipe della cultura del momento. L’organismo edilizio destinato ad assolvere questo compito diviene sovente espressione dei gusti artistici dei proprietari, fino ad assumere al suo interno la valenza di uno spazio espositivo. È una forzatura, pur legittima, che non aveva trovato attenzione da parte di Alvar Aalto nel progetto della villa Mairea; l’accordo con i coniugi Gullichsen era stato raggiunto con la decisione di sistemare la ricca quadreria di famiglia in un locale di deposito, lasciando alle pareti un numero limitato di tele, da sostituire a rotazione oltretutto per stimolare la variazione periodica dei riferimenti visivi. Di altro tenore si segnala invece la strategia messa in atto da Richard Meier nel collocare in modo appropriato le opere d’arte della sua ricca e sofisticata clientela americana dell’East Coast; come un museo, la villa diviene una vera e propria architettura di percorso, funzionale al godimento degli oggetti esposti nelle condizioni migliori di luce e di spazio. Può apparire incomprensibile, e sicuramente rischioso, l’atteggiamento del committente disposto ad assecondare passivamente la ricerca sperimentale di un architetto, fidando in un risultato qualitativamente indiscutibile dal punto di vista concettuale quanto privo di una adeguata verifica prestazionale. Considerazioni di questo tipo sono riferibili alla ricerca di Peter Eisenman, tra gli anni Sessanta e gli inizi degli anni Ottanta, nella progettazione delle cosiddette cardboard houses, vere e proprie esercitazioni di smontaggio e ricomposizione di elementi formali disgiunti dal dover trovare una diretta corrispondenza con le ragioni funzionali e strutturali dell’edificio. Su queste premesse si vuol stimolare intenzionalmente il fruitore alla progressiva scoperta dell’ambito domestico, adattando di continuo ogni esigenza alle multiformi qualità del contenitore. A dimostrazione dell’ampio ventaglio di situazioni che configurano questo rapporto tra le parti attive di un progetto dedicato all’abitare, merita una segnalazione il contributo, di segno decisamente opposto, offerto da Rem Koolhaas/OMA nel definire l’assetto della villa Lemoine a Floriac (1994-98), presso Bordeaux, per un cliente disabile. Il principio della «sezione libera», su cui si strutturano gli spazi in verticale, non trascura il problema delle difficoltà motorie del padrone di casa; dalla piattaforma mobile, che nel cuore del settore più attivo della casa risolve l’esigenza di continuità distributiva e spaziale, ai percorsi, alla movimentazione dei serramenti, tutto
192 La villa del Novecento risponde ad un programma diretto a dare risposta alle limitazioni del caso. L’architettura è chiamata in questo caso a non tradurre in segni distintivi gli accorgimenti utili a favorire la totale appropriazione dell’ambito domestico da parte del suo fruitore. Campo interessante di osservazione si rivela il tema progettuale della villa allorché la figura del committente coincide con quella dell’architetto. Il risultato può assumere valenze multiformi, sollecita letture attraverso chiavi interpretative diverse, riconducibili in sintesi al prevalere dell’interesse per la creazione artistica o per il senso di domesticità. La critica architettonica ha sovente considerato questo ambito d’indagine utile ad approfondire la conoscenza del retroterra culturale del progettista, del suo stile di vita, degli interessi legati al quotidiano, tutti aspetti di notevole importanza per chiarirne a fondo la personalità. Il tema della «casa d’artista» consente dunque di verificare la rispondenza dell’immagine pubblica di un architetto a quella spesso meno nota del privato, di seguire nel tempo gli sviluppi della sua ricerca alla luce di vicende personali, di relazioni affettive e d’interesse, di ambizioni ed esigenze non apertamente dichiarate. Nel ridurre in sintesi significati e forme espressive di questo campo d’azione non si può non concordare con quanto ha messo in luce Adriano Cornoldi, in uno studio dedicato al tema più generale della casa dell’architetto, in merito alla contrapposizione che caratterizza la «casa dell’arte», oggetto di natura concettuale e astratta, e la «casa della vita», più centrata sulle ragioni culturali e umane dell’abitare6. In entrambi i settori di osservazione i casi degni di attenzione sono numerosi, per il tema progettuale della villa del Novecento offrono la possibilità di riflessioni di ampio spettro, esemplificano in modo diretto contenuti di ricerca, principi compositivi, orientamenti culturali. Casi eccellenti hanno già fatto parte di questa trattazione nei capitoli precedenti, nell’ambito di riflessioni sui presupposti della ricerca individuale di molti architetti, sul valore del contesto ambientale, sui risultati della sperimentazione tecnica. Al di là di queste implicazioni, il tema assume interesse anche per gli aspetti rivelatori della personalità del progettista allorché viene a confronto con il proprio universo domestico, sia che questo affiori con discrezione, sia che venga manifestato con la forza di un messaggio diretto. Il ricorso ad alcuni esempi ha soltanto lo scopo di segnalare la varietà di situazioni e di comportamenti verificabili. Si può facilmente concordare con Philip Johnson allorché dichiara che «lavorare per sé stessi è un’altra cosa. Si è forzati a scoprire le proprie esigenze. Non è facile, ma permette di restare liberi»7. È una condizione di totale autonomia di pensiero che può valere come lavoro di scavo nella propria individualità e far affiorare ricordi, dare spazio a sentimenti, realizzare desideri. Nella propria residenza di New Canaan (1949), Johnson in effetti sembra aver fissato le coordinate di un mondo interiore, decisamente individuale ed esclusivo, libero di dare asilo a memorie, interessi di studio, relazioni. Nella quiete di un ampio parco le parti di questo racconto si materializzano nel tempo in padiglioni autonomi, ma pur sempre tra loro coordinati, tutti segnali di una condizione esistenziale apparentemente affrancata dal reale. La Casa di cristallo, ambito domestico primario, manifesta a pieno titolo la volontà di astrazione e allo stesso tempo di affermazione di uno stile di vita basato sull’impegno intellettuale. Poco importa se l’architetto abbia assecondato la tendenza di questo padiglione, destinato in partenza ad un ambito strettamente privato, a divenire oggetto autoreferenziale, perfetto quanto inanimato, tanto distante dal senso di domesti6 A. Cornoldi, Le case degli architetti. Dizionario privato dal Rinascimento a oggi, Marsilio Editore, Venezia 2001. La trattazione comprende, oltre al saggio introduttivo, una ricca schedatura di opere sempre viste alla luce della vicenda professionale ed umana dell’architetto. 7 Citato in R. Hughes, La casa di cristallo, Electa, Milano 1970, p. 103.
L’architetto e il committente 193 cità da spingere il proprietario stesso a cercare protezione nei momenti di riposo nel più massivo e chiuso padiglione degli ospiti. Un orientamento decisamente diverso ha ispirato, al contrario, la visione domestica di Alvar Aalto, tra le cui residenze, sempre espressive di carattere e senso della misura, la piccola villa estiva di Muuratsalo (1953) denota il piacere di condividere in famiglia il trasporto per la natura finlandese, qui rappresentata dalla foresta avvolgente e dalla tranquillità di un lago. L’impianto trova in una corte, quasi completamente chiusa al suo contorno, lo spazio primario di coordinamento e di proiezione visiva degli ambienti, un soggiorno a cielo aperto dove potersi riunire intorno al fuoco, eletto a elemento simbolico della casa e a fulcro della composizione. La casa è dunque un ambito d’azione circoscritto, un punto di approdo sicuro in cui non è difficile riconoscere la stretta rispondenza con la dimensione umana. La natura rustica del laterizio e del legno, senza essere citazione di motivi vernacolari, è espressa dal carattere artigianale della realizzazione. Aalto si concede peraltro un’occasione di sperimentazione nell’accostare su alcuni fronti un insolito campionario di textures di elementi ceramici. Questo accorgimento progettuale, tra gli altri, viene a costituire per l’architetto un segno evidente di appropriazione, la conferma della possibilità di vedere nel risultato aspetti significativi del proprio mondo interiore.
Capitolo 6
La divulgazione
Pur defilato nel dibattito sui grandi temi dell’architettura, l’interesse progettuale per la villa ha stimolato l’impegno disciplinare degli esponenti del Movimento Moderno, con risultati che la storiografia ha talvolta eletto a veri e propri monumenti dell’architettura. Idee e realizzazioni, nel corso del Novecento, non hanno cessato di incuriosire ed attrarre fasce di un vasto uditorio, non necessariamente colto, desideroso di verificare anche indirettamente le potenzialità funzionali ed espressive di soluzioni innovative per l’ambito domestico. Un ruolo determinante per la circolazione delle idee può essere riconosciuto ad alcuni mezzi di informazione, quali pubblicazioni monografiche, cataloghi, riviste e periodici di larga diffusione. L’attenzione prevalente dedicata alle qualità formali delle opere in alcuni casi non ha impedito di suscitare interesse o promuovere iniziative stimolanti per la ricerca sul tema specifico. Non è da sottovalutare, inoltre, il contributo di altri settori della ricerca artistica, quali la fotografia e il cinema, a loro modo in grado di offrire virtualmente risposte ai desideri, non sempre realizzabili, del vasto pubblico. Il principio di un legame stretto tra natura e abitazione, così come dimostrato da Wright già prima del nuovo secolo, si era imposto all’attenzione degli americani attraverso l’opera divulgativa di editorialisti attenti a registrare i pregi della vita domestica nel quadro ambientale di una natura solo apparentemente spontanea. Sollecitavano l’interesse del pubblico più vasto pubblicazioni contenenti repertori di immagini, proposte di modelli e di opere realizzate, in un nuovo compromesso tra i canoni architettonici della villa della tradizione colta inglese e le forme più spontanee e rassicuranti dell’edilizia rurale1. Il fenomeno del mercato edilizio americano risulta comprensibile alla luce dei progressi della produzione industriale e dell’allargamento della fascia sociale a medio reddito, entrambe condizioni essenziali per incentivare la domanda di abitazioni di proprietà. Periodici a larga diffusione, tra cui il «Ladies’ Home Journal», a partire dal 1910 contribuiscono alla fortuna crescente del bungalow, un modello di residenza individuale già affermato dal 1880 come casa temporanea per vacanze; risolto sul piano dell’immagine nelle più diverse chiavi stilistiche e dotato immancabilmente di uno
1 La tradizione inglese della villa trova un riferimento basilare per la divulgazione in terra americana nell’opera editoriale di Andrew Jackson Downing, pubblicata nel 1837.
Lamberto Ippolito, La villa del Novecento, ISBN 978-88-8453-967-0 (print), ISBN 978-88-8453-968-7 (online), © 2009 Firenze University Press
196 La villa del Novecento spazio esterno privato a giardino, il bungalow viene proposto diffusamente nelle aree di espansione delle grandi città2. All’interesse per l’architettura della casa si lega in modo stretto quello per il disegno delle aree verdi attigue, campo di espressione di esperti del paesaggio, di botanici, di semplici cultori appassionati. Non è secondario per il tema progettuale della villa vedere il riflesso di queste competenze nelle aspettative dei proprietari di residenze con giardino, stimolati da un’ampia offerta di prodotti finalizzati allo scopo, come anche da una specifica pubblicistica; periodici a larga diffusione, tra i quali «House and Garden», «Better Homes and Gardens», danno consigli e rispondono ai quesiti del caso, propongono progetti da realizzare, soluzioni adeguate ai diversi ambienti climatici e ai diversi gusti estetici dei lettori. L’offerta di abitazioni individuali si avvale di iniziative promozionali, viene presentata ai potenziali acquirenti dai comuni mezzi d’informazione, pubblicizzata attraverso immagini di repertorio. Con riferimento alle illustrazioni presentate nei cataloghi delle ditte produttrici, il cliente può far cadere la propria scelta su un modello di abitazione ed effettuare l’ordine per corrispondenza. A consegna avvenuta, il montaggio è per lo più delegato a maestranze locali, se necessario con la supervisione di un professionista, soprattutto per la parte impiantistica. È dunque un sistema collaudato, diffuso in America soprattutto nelle regioni industrialmente più evolute, basato su principi tecnico-costruttivi elementari e seriali, affatto vincolante per la libertà decisionale del committente. Nella ricerca della soluzione più conforme alle proprie necessità, l’acquirente può fare riferimento a disegni illustrativi e a prospetti riassuntivi dei dati di progetto, può richiedere inoltre parziali modifiche ai modelli proposti. Tra le diverse offerte di mercato, presentate tramite catalogo, suscita interesse quella della ditta Sears & Roebuck, con sede principale a Chicago, capace di vendere tra il 1908 e il 1940 circa 70.000 abitazioni, in 447 diverse soluzioni, dalle più costose ville «Honor Bilt» ai più accessibili cottages estivi della serie «Simplex Sectional». Molte energie vengono spese per rispondere alla domanda di case economiche, pur sempre unifamiliari e di proprietà, con programmi specifici che vedono a confronto progettisti, costruttori, Enti e Istituti no-profit impegnati a promuovere livelli qualitativi adeguati. Pur prescindendo dai temi legati a questo ambito d’intervento, è comunque opportuno segnalare il contributo svolto da diversi periodici d’informazione nell’attivare iniziative e concorsi d’idee, con la conseguente diffusione dei risultati attraverso articoli e rassegne a stampa. Il campo progettuale della «Small House», peraltro, suscita l’interesse di progettisti titolati, noti anche per i risultati conseguiti in rapporto alla domanda di abitazioni più grandi e costose. Le conseguenze della Depressione economica renderanno ancora più accentuato questo divario tra l’abitazione di prestigio e quella economica; per quest’ultima l’interesse degli operatori di settore si applica al campo della prefabbricazione, riuscendo a trovare spazio per la diffusione delle idee nel quadro di manifestazioni ed esposizioni3. Il dinamismo che anima la società americana dei primi anni del secolo non ha un corrispettivo nella realtà economica europea. I segnali di crescita della produzione industriale, evidenti in Inghilterra e Germania, non sembrano offrire le condizioni per l’innovazione Un periodico più diretto allo scopo è il «Bungalow Magazine». Sul tema progettuale del bungalow vengono pubblicati libri e repertori, con esempi utili per i futuri proprietari, per titolari di imprese edili, per progettisti. Tra questi: W.A. Radford, Artistic Bungalows, 1908; H.L. Wilson, Bungalow Book, 1910. 3 Tra le diverse iniziative si può citare The Century of Progress World’s Fair a Chicago (1933), dedicata alla casa moderna; in questa occasione Gorge Fred Keck presenta la House of Tomorrow, facendo leva sull’uso innovativo dei materiali. Per la Architectural Building Material Exhibit, a Los Angeles, Richard Neutra mette a punto negli stessi anni la Plywood Model Demonstration House, una casa modello con struttura leggera in metallo e pannelli di compensato, completamente smontabile (viene ricostruita successivamente a Westwood). 2
La divulgazione 197 tecnica del settore edilizio, alquanto assestato sulla riproposizione di metodi costruttivi tradizionali e di modelli abitativi familiari. Nel pieno della stagione del «Domestic Revival» l’interesse della borghesia inglese si concentra sulla soluzione del cottage, divenuto nelle mani di progettisti e operatori artistici occasione di sperimentazione di infinite varianti compositive e formali. Non più legato al ricordo di un passato rurale, ma già da tempo affermatosi come ideale abitazione suburbana, il cottage interpreta a pieno il desiderio diffuso del vivere a contatto con una natura amica, parcellizzata nei limiti di un giardino avvolgente. La rivista «The Studio» pubblicizza ampiamente i termini di questa ricerca centrata sul recupero della tradizione vernacolare ma allo stesso tempo non trascura di aprire prospettive sulle più recenti evoluzioni del progetto domestico, offrendo ai lettori illustrazioni e commenti sulle realizzazioni di Charles Annesley Voysey4. Ad un pubblico raffinato ed esigente si rivolge «Country Life», una rivista fondata nel 1897 da Robert Hudson, committente di Edwin Lutyens per la propria dimora Deanery Gardens (1899-1901), nel Berkshire. I riflessi della produzione inglese su quella continentale, soprattutto in Germania, trovano un veicolo di divulgazione attendibile nella sistematica selezione di esempi proposta da Hermann Muthesius in Das Englische Haus, pubblicata in due volumi per l’editore Wasmuth di Berlino (1904-5). La trattazione mette in evidenza aspetti storici, tipologici, stilistici, della casa unifamiliare inglese, riuscendone ad evidenziare le costanti e gli elementi di innovazione. Diversamente, nel libro di Mackay Hugh Baillie Scott, Houses and Gardens, pubblicato a Londra nel 1906, la scelta delle illustrazioni e dei casi di studio ricade esclusivamente sui progetti dell’autore. Questi repertori anticipano di pochi anni la pubblicazione in Europa delle opere di Wright in occasione della mostra organizzata per l’architetto americano a Berlino, nel 1910. L’evento, di grande rilevanza per l’influenza che avrà sulla più giovane generazione di architetti europei, deve la sua risonanza nel tempo alle successive edizioni del raro e costoso portfolio edito da Ernst Wasmuth, composto da 100 litografie racchiuse in due volumi5. La rassegna delle opere selezionate riguarda i progetti dal 1893 al 1909, con ampio spazio per le residenze Prairie style, nella maggior parte dei casi segnalate in didascalia con l’inequivocabile termine di «villa». Nessun altro architetto, come Wright, può vantare prima della guerra una produzione tanto nuova e consistente sul tema specifico, né una conferma dal punto di vista della diffusione editoriale del proprio lavoro come quella ricevuta in Germania. È sintomatico il fatto che la messa a punto di questo corpus sia coincisa, probabilmente non a caso, con la chiusura di una fase creativa, peraltro non ancora indicativa degli sviluppi successivi. Le nuove istanze del Movimento Moderno, in particolare per il tema progettuale della villa, trovano un’altra rara occasione di sistematizzazione individuale nella pubblicazione voluta da Le Corbusier per raccogliere i risultati della propria ricerca tra il 1910 e il 1929. Disegni di progetto, immagini e brevi brani di commento, mettono a fuoco nell’Oeuvre complète, edita presso Girsberger a Zurigo nel 1930, i principi basilari della nuova architettura, con chiara evidenza della loro applicazione «purista» al disegno della villa6. Di questa ricerca La rivista viene fondata nel 1893 da Charles Holme, ricco industriale della seta sostenitore della tendenza Arts and Crafts. L’opera viene pubblicata con il titolo: Ausgeführte Bauten und Entwürfe von Franf Lloyd Wright; una lunga presentazione precede la rassegna grafica delle opere descritte attraverso piante, prospetti e vedute prospettiche. I disegni sono dello stesso Wright e della collaboratrice di studio Marion Mahony Griffin. È opportuno notare che questa pubblicazione rappresenta anche per gli Stati Uniti la prima occasione di presentazione al pubblico dell’opera complessiva del maestro. 6 Le ville di Le Corbusier hanno continuato ad essere sistematicamente presentate nei successivi volumi dell’Oeuvre Complète, fino al 1965. I primi 6 volumi sono stati pubblicati dall’editore Girsberger, Zurigo, e il settimo da Editions d’Architecture, sempre a Zurigo. 4
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198 La villa del Novecento non appare traccia nel profilo dedicato da Nikolaus Pevsner, nel 1936, alla «preistoria» del Movimento Moderno; il termine cronologico più avanzato della trattazione (1914) permette di riconoscere il ruolo di primo piano di Voysey e di Wright, «pionieri» indiscutibili di un rinnovamento non privo, per l’autore, di elementi di continuità con l’immediato passato7. Più che nell’ambito degli studi storiografici e dei contributi biografici sui protagonisti dell’architettura moderna, l’offerta editoriale destinata a soddisfare l’interesse per la villa, d’autore e non, segue i canali più veloci ed accessibili delle pubblicazioni periodiche, delle rassegne e dei manuali, alla ricerca dell’attenzione di un pubblico ampio e diversamente qualificato. Restringendo il campo alla situazione italiana, non è difficile rilevare un proliferare di pubblicazioni presentate come raccolte di progetti di «ville e villini», spesso dichiarate d’interesse «non solo per tutti gli architetti, ingegneri, costruttori, capomastri, ecc., ma anche per ogni privato che voglia avere una guida nella costruzione»8. Ai progettisti più sensibili al dibattito architettonico si rivolgono le riviste di settore, in qualche caso istituendo un osservatorio attento sulle valenze, nuove e tradizionali, del quadro domestico. La rivista «Domus», diretta da Gio Ponti, è dedicata all’ «architettura e arredamento dell’abitazione moderna in città e campagna»; l’editoriale di apertura (gennaio 1928) stigmatizza le qualità della «casa all’italiana», qualità che al momento Ponti dichiara di non riconoscere nella «sciocca esibizione del villino», né tanto meno nelle «sole esigenze materiali del vivere»9. Il tema della villa è al centro di iniziative tese a dimostrare il ruolo dell’architettura moderna nello svecchiamento della società italiana; nella IV Triennale di Monza (1930) vengono presentati trentasei progetti di ville e realizzati tre prototipi, a dimostrazione dell’avviata innovazione dei metodi di produzione artigianale a favore di nuove sperimentazioni tecnologiche10. L’idea moderna della casa unifamiliare, vista soprattutto come casa di vacanza in rapporto a qualità paesaggistiche distintive, è ancora oggetto di divulgazione in occasione della V Triennale (1933), questa volta presso la nuova sede milanese. L’esposizione temporanea di un consistente numero di realizzazioni, disseminate nel Parco Sempione, consente al pubblico di valutare direttamente gli orientamenti in atto sulle nuove forme dell’abitare. Il privilegio di una localizzazione di notevole valore ambientale assegna a questi modelli a scala reale carattere d’eccezione; l’intento di ricercare per essi una funzione manifesto appare peraltro evidente nella formula adottata per finalizzare le proposte ad una teorica e inusuale fascia di utenti (l’artista, l’uomo di studio, il colono, ecc.)11. N. Pevsner, Pioneers of Modern Movement from William Morris to Walter Gropius, London 1936. 8 La precisazione è tratta da Il Villino, Progetti dell’arch. Augusto Cavazzoni, Casa Editrice Bestetti e Tumminelli, Milano, senza data, pres. anni Dieci ; della stessa casa editrice Ville e Villini. Raccolte dagli Arch. Sironi – Berni, senza data, pres. anni Dieci. E ancora: Il Villino Moderno. Nuova raccolta di circa 100 progetti di Ville e Villini, 3 voll., Roberto Martinenghi Editore, Milano, anni Venti. 9 La trattazione del primo numero si sofferma, in più di un articolo, sull’assunto della «creazione» italiana della villa. La proposta di un viaggio virtuale nel passato della villa palladiana viene accompagnata dalla presentazione di una villa progettata da Brenno del Giudice, chiaramente ispirata nelle sue linee alla stessa tradizione rinascimentale. 10 L’esposizione riguarda progetti sul «tema della villa moderna per l’abitazione di una famiglia, escludendo gli estremi della villetta economica e della villa sontuosa». I prototipi sono: la Casa Elettrica, di Luigi Figini e Gino Pollini, con il contributo di Guido Frette e Adalberto Libera per la zona notte, di Piero Bottoni per gli ambienti di servizio; la Casa per vacanze «Domus Nova» di Gio Ponti e Emilio Lancia; la Casa del Dopolavorista di Luisa Lovarini. La concezione della Casa Elettrica viene rapportata da Figini e Pollini a quella di una «villa», di una casa civile di campagna, in grado di interagire con il paesaggio e incamerare i riflessi salutari della luce e dell’aria attraverso l’ampia vetrata-serra del soggiorno. La realizzazione è patrocinata dalla Società Edison. 11 Tra le realizzazioni si segnalano: la Villa–studio per un artista di Figini e Pollini, strutturata nello spirito d’introversione di una «Domus» classica, con ambienti aperti su corti interne e ambito centrale di vita, privata e di relazione, nella galleria espositiva; la Casa di campagna per un uomo di studio, di Luigi Moretti, Mario Paniconi, Giulio Pediconi, Mosé Tufaroli Luciano, Igino Zanda; la Casa per le vacanze di un artista sul lago, di un gruppo di progettisti coordinato da Giuseppe Terragni; la Casa coloniale, di Luigi Piccinato. 7
La divulgazione 199 Un interesse deciso per la ricerca sviluppata in campo internazionale sulla villa moderna è evidente nella pubblicazione di Bruno Moretti, Ville, per i tipi di Hoepli, Milano, 1934, poi aggiornata con un’ulteriore rassegna a distanza di alcuni anni12. Strutturata come raccolta di immagini e di sintetici disegni di pianta, l’opera tuttavia risente della totale mancanza di descrizioni e di commenti critici, con unico beneficio per il lettore di stringate didascalie, indicative dei caratteri distintivi delle 130 opere selezionate. Un repertorio di realizzazioni europee, indirizzato a mettere in evidenza le nuove qualità, tecniche e formali, dell’edilizia residenziale privata, viene messo a punto da Francis Reginald Stevens Yorke, con l’evidente intento di contrapporre un indirizzo alternativo alla solida tendenza revival dell’architettura domestica inglese. The Modern House viene edito a Londra nel 1934 nel momento in cui alcuni acclamati esponenti del Movimento Moderno trovano asilo in Inghilterra. La pubblicazione privilegia episodi manifesto, raggruppati per nazione, scelti con l’intento di promuovere nel cristallizzato panorama architettonico inglese qualità dell’abitare ascrivibili a concezioni spaziali aperte e a mezzi tecnici avanzati. Se in questo momento Yorke incontra difficoltà nell’allestire la rassegna della sezione inglese, già nel 1937, allorché pubblica The Modern House in England, può fare affidamento su risultati più tangibili, se non altro in grado di avvallare il processo di svecchiamento avviato nel paese da architetti locali e immigrati13. I primi anni Trenta sono già anni di consuntivo per l’opera di modernizzazione dell’architettura. Il libro di Henry-Russel Hitchcock e Philip Johnson, The International Style: Architecture since 1922, scritto per accompagnare la prima mostra di architettura (1932) del Museo di Arte Moderna di New York, secondo il parere di Tim Benton «segna la proclamazione della nascita di una scuola di architettura nel preciso momento in cui i suoi principali rappresentanti si accingevano a disperdersi per il mondo»14. Nel tentativo di rendere accessibile l’architettura europea al pubblico americano, i curatori ricorrono all’accezione di «stile» per identificare principi dell’architettura contemporanea condivisi e già da tempo applicati in più paesi. L’architettura come volume piuttosto che come massa, la regolarità piuttosto che la simmetria assiale, il rifiuto dell’uso arbitrario della decorazione, vengono indicati come presupposti comuni di una tendenza già riconoscibile nei primi anni Venti nell’opera e negli scritti di Le Corbusier, Oud, Gropius, Mies Van der Rohe. La selezione pone in evidenza, per Le Corbusier, la villa Stein-de Monzie a Garches (1928), la Villa Savoye a Poissy (1930) e la villa de Mandrot a Le Pradet (1931); per Mies, la villa Lange a Krefeld (1928) e la villa Tugendhat a Brno (1930). Il repertorio include anche una realizzazione americana di Richard Neutra, la villa-studio Lovell (1929) a Los Angeles, ma sorprendentemente ignora la Lovell Beach house (1926), a Newport Beach, di Rudolph Schindler, architetto di origine europea come lo stesso Neutra. Saranno sufficienti pochi anni per accreditare una consistente produzione International Style in terra americana, non necessariamente riferibile al contributo d’idee di esponenti del Movimento Moderno europeo. Con esclusione delle opere più note e già divulgate,
Vedi B. Moretti, Seconda serie di ville moderne, Hoepli, Milano 1942. F.R.S. Yorke, The Modern House in England, The Architectural Press, Londra 1937. Il repertorio delle opere, tra cui molte ville, è suddiviso in tre sezioni dedicate ognuna ad un diverso sistema costruttivo: Brick Construction; Frame Construction; Reinforced Concrete Construction. Ogni scheda riporta indicazioni sulla natura delle diverse parti di fabbrica, sull’esposizione dell’edificio, sul costo. Tra i progettisti figurano Gropius, Maxwell Fry, Breuer, Chermayeff, Lubetkin, ma anche architetti inglesi come Lasdun e Coates, oltre allo stesso Yorke. Il volume era stato anticipato da un numero doppio di «Architectural Review» (dicembre 1936) dedicato al tema della casa moderna. Le edizioni successive del volume di Yorke verranno edite nel 1940 e nel 1948 con gli opportuni aggiornamenti. 14 Vedi il saggio introduttivo di Tim Benton in H-R. Hitchcock, P. Johnson, Lo Stile Internazionale, Zanichelli, Bologna 1982 p. 7. 12 13
200 La villa del Novecento James e Katherine Ford propongono nel 1940 una selezione rappresentativa nel volume The Modern House in America15; l’idea di dar spazio a risultati recenti e non ancora pubblicati convive con quella di tentare un coinvolgimento diretto dei progettisti, invitati a indicare al lettore i caratteri della propria opera, eventualmente derivati dalla cultura europea o, al contrario, autenticamente americani. La presentazione si riassume in una rassegna analitica, con schede corredate di immagini, disegni di piante, indicazioni testuali sul contesto ambientale, sul metodo di costruzione, sul costo dell’opera; la trattazione soffre tuttavia della mancanza di un approccio critico al tema specifico dell’architettura domestica americana. È evidente come questa sia condizionata da logiche di produzione e di mercato tarate sulle esigenze più diffuse della popolazione di medio reddito. Prevale l’idea di una casa dotata di aggiornati mezzi tecnici ma pur sempre ancorata nella configurazione a modelli consueti. Una maggiore propensione a recepire caratteri della modernità si ravvisa nella produzione per i redditi più alti, con proposte che cercano di coniugare elementi d’innovazione, quali finestre a nastro, diaframmi scorrevoli, piani in aggetto, ecc., con sempre apprezzati riferimenti alla tradizione. Del nuovo interesse che si palesa per queste formulazioni sono testimonianza le edizioni portfolio del «Sunset Magazine», curate da Cliff May dal 1946, esplicative della straordinaria fortuna del modello Western Ranch House. Nel corso degli anni che precedono la guerra la divulgazione americana su temi legati alla villa moderna si avvale del contributo determinante di numerose riviste, nel suscitare l’interesse dei lettori attraverso rassegne di proposte di progetto e di opere realizzate. Il campo di osservazione si estende dalla Small House, ricorrente in riviste a diffusione popolare come «Better Homes» e «Ladie’s Home Journal», alla casa upper-income, oggetto di attenzione dei periodici di settore più capaci a registrare i temi del confronto disciplinare. Inizia dunque ad affermarsi una linea editoriale dedicata alla presentazione di opere di architetti affermati ed emergenti, in grado di offrire al lettore informato riferimenti documentari e materiali di studio16. Di notevole interesse per il tema progettuale della casa unifamiliare è il Case Study House Program messo a punto da «Arts and Architecture»; nel rivolgersi ad architetti e produttori la rivista californiana presenta modelli residenziali dal costo contenuto, innovativi sul piano del disegno e delle tecniche esecutive. I risultati di questa iniziativa vengono pubblicati a partire dal 1945 e, in alcuni casi, inizieranno a tradursi in effettive realizzazioni, a partire dal 1948, sullo slancio della ripresa economica postbellica17. La rivista, diretta da John Entenza, si propone al momento come osservatorio e riferimento della scuola architettonica sud-californiana. Pur nei limiti di risultati ascrivibili ad un ristretto gruppo di progettisti selezionati, le scelte editoriali accreditano il lavoro di architetti interessati a sperimentare materiali e sistemi costruttivi industriali. Alla straordinaria produzione californiana è d’obbligo associare il contributo divulgativo di Julius Shulman, reso attraverso un’opera capillare di documentazione fotografica; sono immagini diffusamente pubblicate che rivelano una competenza tecnica non comune, una capacità interpretativa dell’oggetto nei suoi caratteri compositivi e ambientali. Al valore artistico di J. e K. Ford. The Modern Architecture in America, Architectural Book Publishing Company, New York 1940. Tra le riviste più attive su questo piano si segnalano «Architectural Forum», «Architectural Record», «Progressive Architecture». 17 Nell’ambito dello specifico programma la rivista documenta 260 progetti non realizzati e 36 realizzati. Lo stesso programma verrà chiuso definitivamente nel 1962. La rivista aveva avviato la pubblicazione nel 1938, rinnovando la linea editoriale della rivista «California Arts and Architecture», fino a quella data orientata a dare spazio a temi di stile secondo i dominanti modelli ispanici e coloniali. Nel cast editoriale della nuova rivista figurano Charles Eames ed Eero Saarinen. 15 16
La divulgazione 201 questa documentazione si aggiunge oggi il pregio di costituire una viva testimonianza, indispensabile per comprendere i caratteri originari di numerose realizzazioni18. Sul tema dell’abitare in stretta vicinanza con la natura Wright pubblica nel 1954 il libro The Natural House, strutturato come raccolta di saggi distinti, alcuni dei quali già pubblicati a partire dal 1936 dalla stampa periodica o inclusi nella propria autobiografia (1943). Ampio spazio viene riservato alla Usonian House, con la generosa presentazione di realizzazioni esemplificate da immagini fotografiche e disegni di pianta; il commento dell’architetto, sviluppato in forma discorsiva, offre chiarimenti sui caratteri salienti delle opere, sull’ambientazione, sugli aspetti tecnici, sugli accorgimenti utili all’equilibrio energetico, sugli elementi di arredo. Un capitolo distinto viene dedicato al modello Usonian Automatic, realizzabile secondo il programma wrightiano in regime di completa autocostruzione19. In più occasioni la rivista «House and Home» dedica spazio alle abitazioni economiche di Wright, con un taglio orientato anche agli aspetti di ordine pratico, d’interesse per progettisti e costruttori. Il tema della «casa organica» compare frequentemente nella stampa periodica americana del dopoguerra, alimenta il diffuso interesse di pubblico per uno stile di vita domestica libero ed aperto verso l’esterno. Ciò non comporta necessariamente la possibilità di intravedere in questa propensione i riflessi della visione organica wrightiana, nelle sue implicazioni filosofiche e sociali, nonchè tecniche e formali. Spostando l’attenzione sul campo del confronto disciplinare, il valore della natura, e il rapporto di questa con l’uomo, vengono proposti da più parti come termini di riferimento per l’architettura moderna, al di là degli enunciati e dei principi di meccanica applicazione. Rapportandosi a numerose realizzazioni residenziali wrightiane, Bruno Zevi analizza nella Storia dell’architettura moderna (1955) le diverse accezioni del termine «organico», nell’intento di sfrondarne il significato da ricorrenti equivoci di carattere «naturalistico» e «biologico»20. Nel commentare le caratteristiche basilari dell’architettura organica, nei termini già proposti nel 1908 dall’architetto di Chicago, rileva in sintesi il valore determinante della concezione spaziale, in alternativa alla manieristica modellazione dell’oggetto come insieme di superfici e volumi. La trattazione dedica spazio anche alla produzione residenziale della scuola californiana cercando di individuare caratteri del linguaggio wrightiano, accettati o abbandonati, e di contro caratteri derivati dal razionalismo europeo. A partire dal dopoguerra la divulgazione del tema progettuale della villa è rilevabile con frequenza in studi di carattere critico, spesso focalizzati sull’opera e sulla personalità del progettista. Nel rimandare la selezione delle pubblicazioni di maggior interesse ad un elenco bibliografico, è opportuno segnalare contributi rivelatisi efficaci per l’individuazione di nuove chiavi interpretative, studi sul tema progettuale della villa secondo prospettive storiche non convenzionali. Nel saggio The Mathematics of the Ideal Villa, apparso per la prima volta nel 1947 in «The Architectural Review», Colin Rowe adotta l’approccio concettuale e percettivo nel tentativo di individuare alcune relazioni d’identità tra modernità e tradizione, più in dettaglio nel porre a confronto due ville di Le Corbusier, la villa Savoye e la villa Stein, con due ville di Palladio, rispettivamente La Rotonda e la villa Foscari, La Malcontenta. L’autore mette in evidenza la comune natura ideale, ravvisabile nella logica 18 Il poderoso repertorio fotografico (circa 260.000 scatti tra il 1930 e il 1997) illustra anche opere realizzate in altri Stati americani, in Messico, Israele; l’archivio più consistente di questa produzione è oggi presso il The Getty Research Institute di Los Angeles. 19 Viene presentata in questo capitolo l’esempio più riuscito di Usonian Automatic, la Eldman House (1953), a Phoenix, Arizona. 20 B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, dalle origini al 1950, Giulio Einaudi Editore, IV edizione, Torino 1961. Il tema ha avuto una precedente trattazione in B. Zevi, Verso un’architettura organica, Einaudi, Torino 1945.
202 La villa del Novecento matematica nascosta che governa forma e dimensioni; con riferimento a principi atemporali, indaga le analogie e le relazioni esistenti tra i rispettivi sistemi compositivi e strutturali. Una attenta riflessione sul tema della villa secondo una prospettiva storica, è riscontrabile negli studi di James Ackerman, confluiti nel 1990 nel saggio The Villa. Form and Ideology of Country Houses21. La trattazione sulla villa del Novecento risulta centrata sulle opere di Wright e Le Corbusier, viste dall’autore come ulteriori conferme della stabilità nel tempo del valore ideologico della villa. Indipendentemente dagli aspetti funzionali e dalle forme espressive il riconoscimento di questa categoria edilizia resta ancorato al soddisfacimento di un bisogno psicologico più che utilitaristico, nella ricerca di un rapporto idealizzato con la natura. La mitizzazione della vita di campagna avrebbe dunque guidato la popolazione urbana ad esprimere una domanda abitativa improntata al senso di libertà ed apertura verso l’esterno, dalla città-giardino al contesto più remoto ed inospitale. È una domanda che ha trovato risposta nelle forme più o meno programmate dell’urbanizzazione diffusa, nelle offerte del mercato edilizio, nelle interpretazioni dei progettisti. Il campo di indagine è dunque ampio e composito, così come sempre più ricca e qualificata è divenuta l’offerta editoriale destinata ai cultori della materia e ai professionisti. Analisi e ricerche documentarie, negli ultimi decenni, hanno contribuito a suscitare attenzione sull’opera singola, talvolta assunta come rappresentativa di una tendenza o di una precisa fase creativa. I riflessi di questo lavoro divulgativo acquistano valore anche in vista di interventi di salvaguardia e di recupero. In alcuni casi, sulla base delle norme di tutela locali, il riconoscimento del valore storico artistico ha aperto il campo alla riscoperta del testo architettonico originario. Ne è prova il fatto che alcune ville, divenute sedi di istituzioni o di raccolte di materiali sull’attività del suo progettista, sono diventate oggi veicolo di divulgazione disciplinare, rientrando a pieno titolo negli itinerari di viaggio di studiosi e appassionati di architettura. Nel corso del Novecento il cinema ha concesso un insolito punto di vista sull’architettura della villa, da semplice espediente scenografico al ruolo, talvolta, di vero elemento protagonista. È un campo di indagine che offre indicazioni sugli orientamenti del pubblico nel dare forma ideale al proprio ambito domestico, nel mettersi a confronto con modelli di vita virtuali e improbabili. È interessante, peraltro, cogliere le attribuzioni assegnate all’edificio in funzione del genere filmico e della narrazione, soprattutto allorché la scelta ricade su opere di architetti affermati. Notevole fortuna è stata riservata nel tempo alla Ennis House (1923-24), una delle quattro ville di Wright costruite con il metodo dei textile blocks. La richiesta di questa villa come set scenico, oltre che nella vicinanza agli studi di posa di Hollywood, può aver trovato giustificazione nel carattere enigmatico e ricco di mistero suggerito dal gioco di volumi e dal disegno delle superfici. Già a partire dagli anni Trenta gli spazi interni ed esterni hanno ospitato le riprese di film di genere horror, di azione e di fantascienza, con una frequenza tale da divenire risorsa economica per gli stessi proprietari22. La satira sociale ha visto talvolta nella villa un segno di ostentazione, di esteriorità, di caduta di gusto, soprattutto laddove il messaggio filmico ha cercato di mettere a nudo i
21 Per la traduzione italiana vedi J.S. Ackerman, La villa. Forma e ideologia, Einaudi Editore, Torino 1992. Tra i saggi sul tema di precedente pubblicazione, J.S. Ackerman, The Villa as Paradigm, «Perspecta», 1986, pp. 10-31. 22 Tra i diversi film si può segnalare The Black Cat (1934) e The House on Haunted Hill (1958), entrambi di genere horror. The Day of The Locust (1975) ha utilizzato la villa come manifesto dei contrasti che animano la società benestante americana degli anni Trenta; alcune sequenze di Blade Runner (1982) sono state girate negli interni ricercando nell’immagine della villa il carattere ideale per una proiezione verso il futuro.
La divulgazione 203 limiti del conformismo borghese. Il mondo hollywoodiano dello spettacolo ha trovato una esilarante rappresentazione in The Party (1968), il noto film di Blake Edwards ambientato in una villa dotata di attributi tecnologici ingovernabili, sintomatici di una modernità esibita e paradossale. Il desiderio di apparire moderni diviene oggetto di sottile ironia in Mon Oncle (1958), di Jacque Tati, attraverso un’ambientazione centrata sulle valenze stilistiche di una artificiosa architettura d’avanguardia. La villa svolge un ruolo protagonista nel racconto, stimola il comportamento insensato dei suoi proprietari, fino a mettere in evidenza il vuoto di identità di uno stile di vita condizionato dalle mode. La villa si presta talvolta ad essere rappresentata come luogo di segregazione sociale, di incomunicabilità, come cellula autonoma di una realtà territoriale diffusa. I limiti della dimensione suburbana si rivelano nella crisi esistenziale del protagonista del film The Swimmer (1968), tratto da un breve racconto di John Cheever. Il corso d’acqua che virtualmente si sviluppa da una piscina all’altra consente al tormentato «nuotatore» di percorrere in sequenza le parti di questa città disgregata, ville isolate che sequenza dopo sequenza rivelano il limite della carenza dei rapporti umani. Un segno di speranza s’intravede, al contrario, nella fervida immaginazione dello sfortunato interprete di Do Des’ka-Den (1970), per la regia di Akira Kurosawa, ambientato nella bidon-ville di una ipotetica città giapponese segnata da eventi catastrofici. A riscatto delle privazioni, non ultima quella di abitare nella carcassa di un’auto, il barbone costruisce nella mente l’immagine della propria villa, discutendone i dettagli con il piccolo figlio: la villa sorgerà su una collina, circondata da una alta recinzione e dotata di un grande cancello; lo stile rococò, su cui inizialmente si sofferma questa proiezione dell’immaginario, recede in definitiva a favore di uno stile definito «moderno europeo». Le brevi sequenze che consentono di dare forma a questo sogno non nascondono il debito verso le altrettanto visionarie configurazioni di tendenza metabolista. L’intervento del piccolo interlocutore si limita ad assegnare all’opera il suggello finale: una grande vasca d’acqua per catturare il riflesso del cielo.
Bibliografia
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Elenco delle opere ELENCO DELLE OPERE. L’elenco riporta, nell’ordine, il nome del committente, seguito o sostituito dall’appellativo dell’opera (ove presente), la datazione, la localizzazione, il nome del progettista. Aalto, Casa sperimentale, 1953, isola di Muuratsalo, Jyväskylä, Finlandia; A. Aalto. Alessi, 1989, Suna di Verbania, Novara, Italia; A. Rossi. Alexander, 1974, Montecito, California, USA; R. Coate Jr. Arakel Nubar Bey, 1930-31, Garches, Francia; A. Perret. Arango, 1973, Acapulco, Messico; J. Lautner. Armon, 1946-49, Los Angeles, California, USA; R. Schindler. Arreaza, 1956, Caracas, Venezuela; G. Ponti. Asplund, 1937, Stennäs, Stoccolma, Svezia; G. Asplund. Ast, 1909-11, Vienna, Austria; J. Hoffmann. Award, 1930-38, Il Cairo, Egitto; A. Perret. Bailey, Case Study House # 21, 1958-60, West Hollywood, California, USA; P. Koenig. Baizeau, 1928-29, Cartagine, Algeria; Le Corbusier. Barenholtz, House I, 1968, Princeton, New Jersey, USA; P. Eisenman. Barragán, 1947-48, Città del Messico, Messico; L. Barragán. Bavinger, 1949, Norman, Oklahoma, USA; B. Goff. Bay, 1973, Borgo Ticino, Novara, Italia; A. Rossi. Beard, 1935, Altadena, California, USA; R. Neutra. Beherens, 1900-01, Colonia degli artisti, Darmstadt, Germania; P. Beherens. Beires, 1973-76, Povoa de Varzim, Portogallo; A. Siza. Berkowitz-Odgis, 1988, Martha’s Vineyard, Massachuset, USA; S. Holl. Bo Bardi, Casa de vidro, 1951, San Paolo, Brasile; L. Bo Bardi. Böhler, 1916-17, St. Moritz, Svizzera; H. Tessenow. Bouilhet, 1926, Garches, Francia; G. Ponti. Brant, 1970-74, Greenwich, Connecticut, USA; R. Venturi. Brant, 1975-77, Tuckers Town, Bermuda; R. Venturi. Brant, 1976-77, Vail, Colorado, USA; R. Venturi. Breuer, 1938, Lincoln, Massachusetts, USA; M. Breuer, W. Gropius. Breuer-Bratti, 1951, New Canaan, Connecticut, USA; M. Breuer. Breuer-Robek, 1947-48, New Canaan, Connecticut, USA; M. Breuer. Brown, 1936, Fishers Island, New York, USA; R. Neutra. Buck, 1934, Los Angeles, California, USA; R. Schindler. Busk, 1987-90, Bamble, Norvegia; S. Fehn.
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210 La villa del Novecento Casa Alba, 1969, Bogotà, Colombia; R. Salmona. Casa circolare, 1980-82, Stabio, Canton Ticino, Svizzera; M. Botta. Casa coloniale, 1933, V Triennale, Milano, Italia; L. Piccinato. Casa de ladrillo, 1957-61, Bogotà, Colombia; F. M. Sanabria. Casa del dopolavorista, 1930, IV Triennale, Monza, Italia; L. Lovarini. Casa della prateria, 1962, Norman, Oklahoma, USA; H. Greene. Casa di campagna in cemento armato, 1923, progetto; L. Mies Van der Rohe. Casa di campagna in mattoni, 1924, progetto; L. Mies Van der Rohe. Casa di campagna per un uomo di studio, 1933, V Triennale, Milano, Italia; L. Moretti, M. Paniconi, G. Pediconi, M. Tufaroli Luciano, I. Zanda. Casa di montagna, 1934, progetto, Bolzano, Italia; L. Mies Van der Rohe. Casa di pietra, 1982-88, Tavole, Liguria, Italia; Herzog & de Meuron. Casa di vetro sulla collina, 1934, progetto, Germania; L. Mies Van der Rohe. Casa Elettrica, 1930, IV Triennale, Monza, Italia; L. Figini, G. Pollini e coll. Casa per le vacanze di un artista sul lago, 1933, V Triennale, Milano, Italia; G. Terragni e coll. Casa per un collezionista d’arte, 1985-86, Therwil, Svizzera; Herzog & de Meuron. Casa per vacanze “Domus Nova”, 1930, IV Triennale, Monza, Italia; G. Ponti, E. Lancia. Casa unifamiliare, 1972-73, Riva San Vitale, Canton Ticino, Svizzera; M. Botta. Casa unifamiliare, 1977-79, Palm Beach, Florida, USA; R. Meier. Casa unifamiliare, 1978-81, New Castle County, Delaware, USA; R. Venturi. Casa unifamiliare, 1984-86, Westchester County, New York, USA; R. Meier. Casa unifamiliare, 1984-91, East Hampton, Long Island, New York, USA; R. Venturi. Casa unifamiliare, 1987-90, Manno, Canton Ticino, Svizzera; M. Botta. Case Study House # 16, 1952-53, Bel Air, California, USA; C. Ellwood. Case Study House # 17, 1954-55, Beverly Hills, California, USA; C. Ellwood. Case Study House 1950, 1950, Pacific Palisades, Los Angeles – Santa Monica, California, USA; R. Soriano. Cassandre, 1924-25, Versailles, Francia; A. Perret. Caudano, 1935, Torino, Italia; G. Levi Montalcini. Cavanelas, 1954, Pedro do Rio, Rio de Janeiro, Brasile; O. Niemeyer. Cavrois, 1931-32, Croix, Roubaix, Francia; R. Mallet-Stevens. Chamberlain, 1941, Wayland, Massachusetts, USA; W. Gropius, M. Breuer. Chiat, 1998, progetto, Telluride, Colorado, USA; F. Gehry. Cho en Dai, 1994, Kawana, Giappone; N. Foster. Colli, 1928-30, Rivara Canavese, Torino, Italia; G. Pagano, G. Levi Montalcini. Coonley, 1908, Riverside, Illinois, USA; F.L. Wright. Correa, 1985-88, Koramangala, Bangalore, India; C. Correa. Costa, anni Quaranta, Rio de Janeiro, Brasile; L. Costa. Curtis, 1949, Bel Air, California, USA; R. Soriano. Dall’Ava, 1985-91, Saint-Cloud, Parigi, Francia; OMA / R. Koolhaas. Damman, 1930, Oslo, Norvegia; A. Korsmo. de Mandrot, 1929-32, Le Pradet, Tolone, Francia; Le Corbusier. Delgado Perez, 1958, San Paolo, Brasile; R. Levi. Dieste, 1968, Montevideo, Uruguay; E. Dieste. Dõczy, 1986, Göd, Ungheria; I. Makovecz. Dodge, 1914-16, West Hollywood, California, USA; I. Gill.
Elenco delle opere 211 Donaldson, 1936, Sussex, Inghilterra; W. Gropius, M. Fry. Doshi, 1959-61, Ahmedabad, India; B. Doshi. Douglas, 1971-73, Harbor Springs, Michigan, USA; R. Meier. Duncan, 1941, Flossmor, Illinois, USA; G. F. Keck. Eames, 1945-50, Pacific Paisades, Los Angeles – Santa Monica, California, USA; C. Eames, R. Eames. Einstein, 1929, Caputh, Potsdam, Germania; K. Wachsmann. Eldman, 1953, Phoenix, Arizona, USA; F.L. Wright. Endless house, 1950, progetto; F. Kiesler. Ennis, 1924, Los Feliz, California, USA; F.L. Wright. Errázuriz, 1930, progetto, Cile; Le Corbusier. Erskine, 1963, isola di Drottningholm, Svezia; R. Erskine. Esherick, 1959-61, Chestnut Hill, Pennsylvania, USA; L. Kahn. Esters, 1927-30, Krefeld, Germania; L. Mies Van der Rohe. Farnsworth, 1946-51, Plano, Illinois, USA; L. Mies Van der Rohe. Félix, Casa per weekend, 1935, Parigi, Francia; Le Corbusier. Fields, Case Study House # 18, 1956-58, Beverly Hills, California, USA; C. Ellwood. Fifty by Fifty house, 1950, progetto; L. Mies Van der Rohe. Figini, 1933-35, Milano, Italia; L. Figini, G. Pollini. Fisher, 1960-61, Hatboro, Pennsylvania, USA; L. Kahn. Folke-Egerstrom, 1966-68, Los Clubes, Atizapán de Zaragoza, Messico; L. Barragán. Freeman, 1924, Hollywood, California, USA; F.L. Wright. Freudenberg, 1907, Berlino-Nikolassee, Germania; H. Muthesius. Fuller, 1960, Carbondale, Illinois, USA; B. Fuller, A. Hewlett. Fuller, 1984-86, Phoenix, Arizona, USA; A. Predock. Gamble, 1907-08, Pasadena, California, USA; C. Greene, H. Greene. Gauthier, 1962, Saint-Dié des Vosges, Francia; J. Prouvé. Geerlings, 1992-93, Holten, Olanda; R. Koolhaas. Geller, 1945, Lawrence, Long Island, New York, USA; M. Breuer. Gericke, 1932, progetto, Berlino-Wannsee, Germania; L. Mies Van der Rohe. Gerts, 1902, Whitehall, Michigan, USA; F.L. Wright. Glückert, 1900-01, Colonia degli artisti, Darmstadt, Germania; J.M. Olbrich. Goldenberg, 1959, progetto, Rydal, Pennsylvania, USA; L. Kahn. Gomes, 1949-51, São José dos Campos, Brasile; R. Levi. González Luna, 1929-30, Guadalajara, Messico; L. Barragán. Greenberg, 1991, Los Angeles, California, USA; R. Legorreta. Greper, 1952-53, San Paolo, Brasile; R. Levi. Gropius, 1938, Lincoln, Massachusetts, USA; W. Gropius, M. Breuer. Gropius, Villa del direttore – Bauhaus, 1925-26, Dessau, Germania; W. Gropius. Guardiola, 1988, progetto, Puerto De Santa Maria, Cadice, Spagna; P. Eisenman. Gubsci, 1983-86, Budapest, Ungheria; I. Makovecz. Gullichsen, Villa Mairea, 1937, Noormarkku, Finlandia; A. Aalto. Habich, 1900-01, Colonia degli artisti, Darmstadt, Germania; J.M.Olbrich. Hahn, 1928, Ronco sopra Ascona, Canton Ticino, Svizzera; C. Weidemeyer. Hale, 1952, Beverly Hills, California, USA; C. Ellwood. Hanna, 1936, Palo Alto, California, USA; F.L. Wright.
212 La villa del Novecento Heathcoate, 1906, Ilkley, Yorkshire, Inghilterra; E.L. Lutyens. Hefferlin, 1931-32, Ville d’Avray, Parigi, Francia; A. Lurçat. Henneberg, 1900-01, Vienna, Austria; J. Hoffmann. Hennebique, 1901-03, Bourg-la-Reine, Francia; F. Hennebique. Henny, 1916-18, Huis ter Heide, Utrecht, Olanda; R. Van’t Hoff. Hill House, 1902-06, Helensburg, Glasgow, Scozia; C. R. Mackintosh. Hobenhauer, 1905, Saarbrucken, Germania; P. Beherens. Hochstetter, 1906-07, Vienna, Austria; J. Hoffmann. House II, 1969-70, Hardwick, Vermont, USA; P. Eisenman. House III, 1971, Lakeville, Connecticut, USA; P. Eisenman. House in Heara, 1976, Tokyo, Giappone; K. Shinohara. House VI, 1972-76, West Cornwall, Connecticut, USA; P. Eisenman. Howe, 1925, Los Angeles, California, USA; R. Schindler. Hubbe, 1935, progetto, Magdeburgo, Germania; L. Mies Van der Rohe. Hudson, Deanery Gardens, 1899-01, Sonning, Berkshire, Inghilterra; E.L. Lutyens. Hyuga, 1935-37, ampliamento, Atami, Giappone; B. Taut. Inscription House, 1987, pendici monte Tsukuba, Giappone; Y. Matsunaga. Invernizzi, Il Girasole, 1929-35, Marcellise, Verona, Italia; A. Invernizzi, E. Fagioli. Jacobs, 1936, Madison, Wisconsin, USA; F.L. Wright. Johnson, 1942, Cambridge, Massachusetts, USA; P. Johnson. Johnson, Glass house, 1949, New Canaan, Connecticut, USA; P. Johnson. Kallis, 1946, Studio City, California, USA; R. Schindler. Karuizawa, 1933-35, Nagano, Giappone; A. Raymond. Katz, 1947, Van Nuys, California, USA; R. Soriano. Kaufmann, 1936, Falligwater (Casa della Cascata), Bear Run, Pennsylvania, USA; F.L. Wright. Kaufmann, 1946, Desert house, Badlands of the Cordillera, San Yacinto, USA; R. Neutra. Kazama, 1987, Kawaguchi, Giappone; T. Aida. Knutsen, 1949, Portør, Norvegia; K. Knutsen. Korman, 1971-73, Fort Washington, Pennsylvania, USA; L. Kahn. Korsmo, 1952-55, Planetvein, Oslo, Norvegia; A. Korsmo. Koshino, 1979-81, Ashiya, Hyogo, Giappone; T. Ando. Kubitschek, 1943, Pampulha, Minas Gerais, Brasile; O. Niemeyer. La Roche-Jeanneret, 1923, Parigi, Francia; Le Corbusier. La Saracena, 1954, Santa Marinella, Roma, Italia; L. Moretti. Lange, 1927-30, Krefeld, Germania; L. Mies Van der Rohe. Le Sextant, 1935, Les Mathes, Bordeaux, Francia; Le Corbusier. Lemcke, 1933, Berlino, Germania; L. Mies Van der Rohe. Lemoine, 1994-98, Floriac, Bordeaux, Francia; OMA / R. Koolhaas. Levi, 1949, San Paolo, Brasile; R. Levi. Lewin, 1928, Zehlendorf, Germania; W. Gropius. Lovell Beach house, 1927, Newport Beach, California, USA; R. Schindler. Lovell Health house, 1927-29, Los Angeles, USA; R. Neutra. Luccioni, 1951, Terni, Italia; M. Ridolfi. Madoux, 1879, Lombarzeide, Wenstende, Belgio; F. Hennebique. Magalhães, 1967-70, Porto, Portogallo; A. Siza. Magney, 1982-84, Bingie Point, Moruya, Australia; G. Murcutt.
Elenco delle opere 213 Malaparte, 1938-40, Capo Masullo, Capri, Italia; A. Libera (progetto iniziale). Malin, Chemosphere, 1960, Hollywood, California, USA; J. Lautner. Marchesano, 1937-38, Bordighera, Italia; G. Ponti. Markelius, 1945, Kevinge, Svezia; S. Markelius. Martin, 1904, Buffalo, New York, USA; F.L. Wright. Matsumoto, 1976-77, Ashiya, Hyogo, Giappone; T. Ando. Mayekawa, 1942, Tokyo, Giappone; K. Mayekawa. Melson, 1912, Mason City, Iowa, USA; W.B. Griffin. Middlefield, 1908, Great Helford, Cambridge, Inghilterra; E.L. Lutyens. Millard, La Miniatura, 1923, Pasadena, California, USA; F.L. Wright. Milton Greper, 1952-53, San Paolo, Brasile; R. Levi. Moebius house, 1993-98, Het Gooi, Utrecht, Olanda; UN Studio. Moissi, 1923, progetto, Lido di Venezia, Italia; A. Loos. Moller, 1928, Vienna, Austria; A. Loos. Moll-Moser, 1900-01, Vienna, Austria; J. Hoffmann. Mondadori, 1968-72, Cap Ferrat, Francia; O. Niemeyer. Müller, 1928-30, Praga, Rep. Ceca; A. Loos. Nesbitt, 1942, Brentwood, California, USA; R. Neutra. Niemeyer, 1942, Lagoa, Rio de Janeiro, Brasile; O. Niemeyer. Niemeyer, 1953, Canoas, Rio de Janeiro, Brasile; O. Niemeyer. Noailles, 1924-33, Hyères, Costa Azzurra, Francia; R. Mallet-Stevens. Norton, 1982-84, Venice, California, USA; F. Gehry. Oro, 1935, Napoli, Italia; L. Cosenza, R. Rudofsky. Otto, 1912-13, Falkenberg, Berlino-Grünau, Germania; H. Tessenow. Parekh, 1967-68, Ahmedabad, India; C. Correa. Payssé, 1954-55, Montevideo, Uruguay; M. Payssé. Perez, 1958, San Paolo, Brasile; R. Levi. Planchart, 1953-56, Caracas, Venezuela; G. Ponti. Porto, 1971, Manaus, Brasile; S. Porto. Prieto, 1948-50, Città del Messico, Messico; L. Barragán. Primavesi, 1913-14, Winkelsdorf, Austria; J. Hoffmann. Prouvé, 1954, Nancy, Francia; J. Prouvé. Ramkrishna, 1962-64, Ahmedabad, India; C. Correa. Rand, The all steel Residence, 1936, San Fernando, California, USA; R. Neutra. Raymond, 1923, Tokio, Giappone; A. Raymond. Reiner, Silvertop House, 1954-74, Silver Lake, California, USA; J. Lautner. Reis, 1991-98, Moledo, Oporto, Portogallo; E. Souto de Moura. Ridolfi, Casa Lina, 1964-67, Terni, Italia; M. Ridolfi. Riehl, 1906-07, Potsdam, Neubabelsberg, Germania; L. Mies Van der Rohe. Robie, 1907-09, Chicago, Illinois, USA; F.L. Wright. Ross, 1902, Lake Delavan, Wisconsin, USA; F.L. Wright. Saarinen, 1902, Hvitträsk, Helsinki, Finlandia; E. Saarinen. Saarinen, 1928-29, Residenza del direttore, Cranbrook Academy of Art, Bloomfield Hills, Michigan, USA; E. Saarinen. Saldarini, 1962, Baratti, Livorno, Italia; V. Giorgini. Sarabhai, 1951-55, Ahmenabad, India; Le Corbusier.
214 La villa del Novecento Savarese, 1938, Napoli, Italia; L. Cosenza, R. Rudofsky. Savoye, 1928-30, Poissy, Francia; Le Corbusier. Schindler-Chace, 1921-22, West Hollywood, Los Angeles, California, USA; R. Schindler. Schminke, 1931-33, Löbau, Germania; H. Scharoun. Schnabel, 1986-89, Brentwood, California, USA; F. Gehry. Schröder, 1924, Utrecht, Olanda; G. Rietveld. Schulmann, 1949-50, Hollywood, California, USA; R. Soriano. Schulthess, 1931, Ascona, Canton Ticino, Svizzera; C. Weidemeyer. Schuster, 1978, Manaus, Brasile; S. Porto. Scripps, 1916, La Jolla, California, USA; I. Gill. Sea Lane House, 1936-37, Angmering-on-Sea, Sussex, Inghilterra; M. Breuer, F.R.S. Yorke. Sert, 1961-71, Punta Martinet, Ibiza, Spagna; J.L. Sert. Seynave, 1961-62, Saint-Tropez, Francia; J. Prouvé. Shodan, 1951-54, Ahmedabad, India; Le Corbusier. Simão, 1954, Belo Horizonte, Brasile; O. Niemeyer. Siza, 1976-78, Santo Tirso, Portogallo; A. Siza. Smith, 1965-67, Darien, Connecticut, USA; R. Meier. Snellman, 1917, Djursholm, Stoccolma, Svezia; G. Asplund. Sommerfeld, 1920, Berlino, Germania; W. Gropius. Spitzer, 1901-02, Vienna, Austria; J. Hoffmann. Stahl, Case Study House # 22, 1959-60, West Hollywood, California, USA; P. Koenig. Stein-de Monzie, 1926-27, Garches, Francia; Le Corbusier. Stenersen, 1937-39, Oslo, Norvegia; A. Korsmo. Stoclet, 1905-11, Bruxelles, Belgio; J. Hoffmann. Storer, 1923, Hollywood, California, USA; F.L. Wright. Stoughton, 1882-83, Cambridge, Massachusetts, USA; H.H. Richardson. Taher al-Oman Bey, 1937, Fayyum, Egitto; H. Fathy. Tessenow, 1902, Sternberger See, Germania; H. Tessenow. Tessenow, 1943-44, Siemitz, Megdeburgo, Germania; H. Tessenow. The Homestead, 1905-11, Frinton-on-Sea, Inghilterra; C.F.A. Voysey. Tischler, 1949-50, Westwood, California, USA; R. Schindler. Torres Valle, 1956-58, Tafi del Valle, Tucamán, Argentina; E. Sacriste. Tremaine, 1947, Santa Barbara, California, USA; R. Neutra. Trouyet, 1948-49, Città del Messico, Messico; L. Barragán. Trubeck, 1970-72, Isola di Nantucket, Massachusetts, USA; R. Venturi. Tucker, 1974-75, Westchester County, New York, USA; R. Venturi. Tugendhat, 1929, Brno, Rep. Ceca; L. Mies Van der Rohe. Tutsch, 1928, Ascona, Canton Ticino, Svizzera; C. Weidemeyer. U-House, 1976, Nakano, Giappone; T. Ito. Utzon, anni Novanta, Maiorca, Spagna; J. Utzon, Utzon, Can Lis, 1970 circa, Maiorca, Spagna; J. Utzon. Valdez, 1981-83, Monterrey, Nuevo León, Messico; L. Barragán, R. Ferrera. Van der Leeuw Research House, 1932, Silver Lake, Los Angeles, California, USA; R. Neutra. Venturi, 1959-64, Chestnut Hill, Pennsylvania, USA; R. Venturi. Vieira de Castro, 1984-94, Vila Nova de Famalicão, Portogallo; A. Siza. Vietti, La Cerva, 1963, Porto Cervo, Sardegna, Italia; L. Vietti.
Elenco delle opere 215 Villa “Jonica”, 1991, Londra, Inghilterra; Q. Terry. Villa “Veneto”, 1991, Londra, Inghilterra; Q. Terry. Villa Bianca, 1936-37, Seveso, Italia; G. Terragni. Villa Le Lac, 1925, Corseaux-Vevey, Svizzera; Le Corbusier. Villa per il floricoltore, 1935-37, Rebbio, Como, Italia; G. Terragni. Villa sul lago, 1936, progetto, Como, Italia; G. Terragni. Villa-studio per un artista, 1933, V Triennale, Milano, Italia; L. Figini, G. Pollini. Voysey, The Orchard, 1899-1901, Chorley Wood, Herts, Inghilterra; C.F.A. Voysey. Wagner, 1905-1913, Vienna, Austria; O. Wagner. Waldbühl, 1907-11, Uzwil, Svizzera; M.H. Baillie Scott. Water/Glass, 1995, Atami, Giappone; K. Kuma. Weiss, 1947-50, Norristown, Pennsylvania, USA; L. Kahn. Winslow, 1893, River Forest, Illinois, USA; F.L. Wright. Winton, Guest House, 1982-87, Wayzata, Minnesota, USA; F. Gehry. Wolf, 1925-27, Guben, Polonia; L. Mies Van der Rohe. Wright, Taliesin East, 1911, Spring Green, Wisconsin, USA; F.L. Wright. Y2K, 1999, progetto, Rotterdam, Olanda; OMA / R. Koolhaas. Zaki, 1951, Il Cairo, Egitto; H. Fathy. Zimmerman, 1950, Manchester, New Hampshire, USA; F.L. Wright.
Indice dei nomi
Aalto Alvar 36-38, 83, 86, 114, 116, 118, 125126, 146, 187, 191, 193 Ackerman James 7, 25, 202 Aida Takefumi 106-107 Ando Tadao 73-74, 105, 123-124, 133, 183, 183n Asplund Gunnar 86-87, 114, 118 Bac Ferdinand 58, 58n, 98 Baillie Scott Mackay Hugh 18, 18n, 139-140, 197 Barker Arthur Henry 179, 179n Barragán Luis 52, 56, 58, 58n, 97-98, 124, 131, 142 Beherens Peter 12, 14 Benavides Augusto 99 Benevolo Leonardo 29 Benton Tim 199 Berlage Hendrik Petrus 19 Blake Edwards William 203 Bo Bardi Lina 99, 135-136 Botta Mario 109-110, 131-132 Bottoni Piero 198n Breuer Marcel 39, 41n, 42, 45, 47-48, 90, 108, 157, 157n, 158-159, 199n Burle Marx Roberto 56, 98, 99n Buzzi Tommaso 7n Cheever John 203 Chermayeff Serge 199n Coate Roland Jr 111-112 Coates Wells 199n
Cornoldi Adriano 192 Correa Charles 102-104 Cosenza Luigi 84-85, 121 Costa Lucio 98-99 de Noailles Marie-Laure e Charles 188 del Giudice Brenno 198n Dieste Eladio 100-101 Doshi Balkrishna 102-104, 133 Downing Andrew Jackson 195n Eames Charles e Ray 163-164, 200n Einstein Albert 153 Eisenman Peter 69, 71, 129-130, 191 Ellwood Craig 165-166, 167n Entenza John 164, 200 Erskine Ralph 87-88, 114, 116 Fagioli Ettore 180-181 Farnsworth Edith 189 Fathy Hassan 84-85 Fehn Sverre 86-88 Ferrera Raul 7n Figini Luigi 7n, 125-126, 143-144, 198n Filarete (Averulino Antonio) 185 Ford James e Katherine 200 Foster Norman 174 Frampton Kenneth 49, 62n Frette Guido 198n Fuller Buckminster 154n, 162n Gehry Frank 77-79, 96, 117, 173, 191
Lamberto Ippolito, La villa del Novecento, ISBN 978-88-8453-967-0 (print), ISBN 978-88-8453-968-7 (online), © 2009 Firenze University Press
218 La villa del Novecento Gesellius Herman 39 Gill Irving 94n, 178, 178n Giorgini Vittorio 180, 183 Goff Bruce 93, 95 Greene & Greene 139-140, 152 Greene Herbert 93, 95, 158 Griffin Walter Burley 178 Gropius Walter 39, 41-42, 45, 47, 47n, 56, 73, 90, 94, 104, 134, 151, 153, 154n, 157, 160, 199, 199n Gullichsen Harry e Maire 187 Hennebique François 174, 174n, 175 Herzog & de Meuron 128-129, 147-148 Hewlett Ann 154n Hitchcock Henry-Russel 39n, 45, 199 Hoffmann Joseph 14-16, 83, 139 Holl Steven 159-160 Holme Charles 197n Hudson Robert 197 Hyatt Thaddeus 174n Invernizzi Angelo 180-181 Ito Toyo 105-106 Jekyll Gertrude 89 Johnson Philip 39n, 49, 51, 77, 116, 125-126, 136, 136n, 192, 199 Jones Inigo 90 Kahn Louis 61-63, 73-74, 96, 103, 114, 116-117, 125-126, 131, 138, 158, 173 Kaufmann Edgar J. 45, 190 Keck George Fred 178, 179n, 196n Kiesler Frederick 180 Knutsen Knut 88, 145-146, 153 Koenig Pierre 167, 169 Koolhaas Rem 79-81, 108, 138, 191 Korsmo Arne 86, 86n, 171, 171n, 172 Kuma Kengo 137-138 Kurosawa Akira 203 Lancia Emilio 198n Lasdun Denys 199n Lautner John 180, 183 Le Corbusier (Jeanneret Charles Edouard) 7, 23, 25-27, 34-36, 59-60, 68-69, 73, 83, 99, 101, 103-104, 105n, 108, 118, 120, 127, 133135, 143, 143n, 170, 175, 183, 188, 197, 197n, 199, 201-202
Legorreta Ricardo 109, 112 Lethaby William Richard 18n Levi Montalcini Gino 123, 145-146 Levi Rino 99, 99n, 100 Libera Adalberto 109-110, 114, 124, 188, 198n Lindgren Armas 39 Loos Adolf 23-24, 66, 83, 91, 118, 121, 130, 141, Lovarini Luisa 198n Lovell Philip 42, 178, 186 Lubetkin Berthold, 90, 199n Lund Frederick Konow 88 Lurçat André 143-144 Lutyens Edwin Landseer 18, 89-90, 93, 197 Mackintosh Charles Rennie 16 Mahony Griffin Marion 197n Makovecz Imre 158-159 Malaparte Curzio 188 Mallet-Stevens Robert 143-144, 188 Markelius Sven Gottfried 87-88 Martinez Sanabria Fernando 101n Matsunaga Yasumitsu 106-107 Maxwell-Fry Edwin 42, 90, 199n May Cliff 200 Mayekawa Kunio 105, 105n Meier Richard 67-69, 191 Mies Van der Rohe Ludwig 18-19, 21-22, 23, 33-34, 48, 49, 51, 56, 73, 90, 96, 99n, 108, 123, 125-127, 134-136, 136n, 141, 149, 160161, 163, 167, 169-171, 187-189, 199 Moll Carl 16 Mondrian Piet 165 Monier Joseph 174n Moretti Bruno 199 Moretti Luigi 180-181, 198n Morris William 18n Moser Koloman 16 Murcutt Glenn 172-173 Muthesius Hermann 18, 18n, 91, 91n, 139, 197 Nash John 90 Neutra Richard 42-45, 95-96, 111, 137-138, 144, 161-164, 169, 169n, 179, 186, 190, 196n, 199 Niemeyer Oscar 52, 54, 56, 98-99, 118, 120, 138, 146 Norberg-Schulz Christian 86, 171n Olbrich Joseph Maria 12, 14 Olmsted Frederick Law 95 Orozco José Clemente 58
Indice dei nomi 219 Otto Adolf 91 Oud Jacobus Jhoannes Pieter 199 Pagano Giuseppe 145-146 Palladio Andrea 27, 201 Pallasmaa Juhani 38 Paniconi Mario 198n Payssé Mario 101n Pediconi Giulio 198n Perret Auguste 128-129, 175, 183 Pevsner Nikolaus 198 Piccinato Luigi 198n Pikionis Dimitris 85 Planchart Anala e Armando 187 Pollini Gino 125-126, 143-144, 198n Ponti Gio 52, 83, 85, 98, 114, 116, 128, 187, 198, 198n Porto Severiano 99-100, 160 Predock Antony 111-112 Prouvé Jean 170-171, 171n, 172 Rauch John 65 Raymond Antonin 73, 104, 104n, 105n Richardson Henry Hobson 39, 92-93 Ridolfi Mario 7n, 131-132 Rietveld Gerrit 127, 129, 141 Robie Frederick C. 186 Rossi Aldo 66-68 Rowe Colin 25, 134, 201 Rudofsky Rudolf 84-85, 121 Ruppel Fritz 165 Saarinen Eero 200n Saarinen Eliel 37-39 Sackville-West Vita 89 Sacriste Eduardo 101 Salmona Rogelio 98, 100-101 Savoye Madame 188 Scharoun Hans 123 Scheerbart Paul 49, 51n, 134, 134n Schindler Rudolf 32-33, 42, 114, 152, 156-157, 177-178, 199 Schinkel Karl Friedrich 12, 18 Scott Brown Denise 65 Scully Vincent 94 Semper Gottfried 14, 113
Sert Josep Lluis 84-85, 109 Shaw Richard Norman 17n Shinohara Kazuo 105 Shulman Julius 200 Siza Álvaro 74, 76, 138 Slutzky Robert 134 Sommerfeld Adolf 153 Soriano Raphael 165-166 Souto de Moura Eduardo 111-112 Tati Jacque 203 Taut Bruno 73, 104, 134, 134n, 138 Terragni Giuseppe 69, 129, 130, 198n Terry Quinlan 90 Tessenow Heinrich 91, 93, 118, 120, 136, 139-140 Tufaroli Luciano Mosé 198n Tugendhat Grete e Fritz 21, 187 UN-Studio 147-148, 180 Utzon Jørn 88, 132-133 Van Doesburg Theo 25n, 127 Van’t Hoff Robert 141 Venturi Robert 63-65, 65n, 66, 96, 114, 118, 145, 148 Vietti Luigi 109, 112 Viollet-le-Duc Eugène Emmanuel 175 Voysey Charles F. Annesley 16, 18, 139-140, 197-198 Wachsmann Konrad 151-154, 154n Wagner Otto 12, 14 Wasmuth Ernst 12, 91n, 197 Weidemeyer Carl 123, 123n Wright Frank Lloyd Jr 178 Wright Frank Lloyd 7, 9-10, 11n, 12, 27, 29, 29n, 30-31, 33, 42, 45, 73, 90, 94-96, 104, 108109, 114, 117, 141, 144, 150-151, 154-157, 160, 176, 176n, 177-179, 179n, 180n, 185186, 190-191, 195, 197, 197n, 198, 201-202 Wurster William Wilson 95, 158 Yorke Francis Reginald Stevens 90, 199, 199n Zanda Igino 198n Zevi Bruno 95, 201
220 La villa del Novecento Crediti fotografici e referenze iconografiche Lamberto Ippolito, figg. 7, 25 Claudia Conforti, fig. 10 Rudy Seth, fig. 15 Bruno Morassutti, 1950, figg. 36, 37 Irene Sagripanti, figg. 39, 233 Courtesy of Western Pennsylvania Conservancy, fig. 42 Craig Scott, fig.45 Amy Sloper, fig. 55 Julian Weyer, figg. 82, 83 John Pilling, figg. 85, 211 Roberto Dulio, figg. 105, 155, 267 Courtesy of the Office for Metropolitan Architecture (OMA), figg. 125, 127 Gavin Stamp, fig. 138 Marco D’Anna, fig. 157 Pino Musi, fig. 194 Alo Zanetta, fig, 196 Arquivo Instituto Lina Bo e P.M. Bardi, São Paulo, SP / F. Albuquerque, 1950, fig. 202 Mitsumasa Fujitsuka, fig. 205 Gentile concessione di Renata Anna Chiono, fig. 218 Christian Richters, figg. 223, 225 Courtesy of David Travers, fig. 245 Archivio Vittorio Giorgini, figg. 272, 273 Le immagini seguenti sono disegni digitali dell’Autore: figg. 3, 17, 19, 21, 26, 30, 31, 34, 52, 57, 59, 61, 63, 65, 67, 70, 74, 79, 88, 90, 95, 97, 101, 110, 116, 119, 179, 189, 199, 244, 251. Tutti i disegni al tratto sono elaborazioni grafiche dell’Autore.
Ringraziamenti Nel corso dello studio ho avuto modo di discutere con colleghi e amici molti dei temi trattati in questo libro, con notevole stimolo per ogni mio approfondimento. Desidero ringraziare Mauro Cozzi per la disponibilità e per l’attenzione che ha riservato al mio progetto editoriale, Claudia Conforti per aver risolto alcuni miei dubbi; e inoltre Roberto Dulio e Ettore Guglielmi. Ciò non toglie, ovviamente, che la responsabilità di quanto espresso nell’intera trattazione ricada unicamente sull’autore. Al risultato finale hanno contribuito studiosi, studi professionali, Enti e Fondazioni, disposti a concedere gratuitamente il permesso di pubblicazione di immagini fotografiche. Nell’approntare il repertorio iconografico ho il dovere di segnalare, in particolare, l’aiuto datomi da Roberto Dulio, Irene Sagripanti, Andrew Hopkins, Marco Del Francia, ai quali va tutta la mia riconoscenza. Sempre a questo fine ho usufruito delle utili informazioni di Enrico Ciabatti. Un valido supporto per la gestione informatica del materiale iconografico mi é stato offerto da Alessandro Ippolito, Francesco Lensi, Alberto Pizarro. Per la disponibilità ad assecondare il progetto editoriale nella cura redazionale ringrazio Mario Caricchio. Infine, ma non per ultima, ringrazio Guenda, alla quale dedico con affetto questo libro.
strumenti per la didattica e la ricerca
1. Brunetto Chiarelli, Renzo Bigazzi, Luca Sineo (a cura di), Alia: Antropologia di una comunità dell’entroterra siciliano 2. Vincenzo Cavaliere, Dario Rosini, Da amministratore a manager. Il dirigente pubblico nella gestione del personale: esperienze a confronto 3. Carlo Biagini, Information technology ed automazione del progetto 4. Cosimo Chiarelli, Walter Pasini (a cura di), Paolo Mantegazza. Medico, antropologo, viaggiatore 5. Luca Solari, Topics in Fluvial and Lagoon Morphodynamics 6. Salvatore Cesario, Chiara Fredianelli, Alessandro Remorini, Un pacchetto evidence based di tecniche cognitivo-comportamentali sui generis 7. Marco Masseti, Uomini e (non solo) topi. Gli animali domestici e la fauna antropocora 8. Simone Margherini (a cura di), BIL Bibliografia Informatizzata Leopardiana 1815-1999: manuale d’uso ver. 1.0 9. Paolo Puma, Disegno dell’architettura. Appunti per la didattica 10. Antonio Calvani (a cura di), Innovazione tecnologica e cambiamento dell’università. Verso l’università virtuale 11. Leonardo Casini, Enrico Marone, Silvio Menghini, La riforma della Politica Agricola Comunitaria e la filiera olivicolo-olearia italiana 12. Salvatore Cesario, L’ultima a dover morire è la speranza. Tentativi di narrativa autobiografica e di “autobiografia assistita” 13. Alessandro Bertirotti, L’uomo, il suono e la musica 14. Maria Antonietta Rovida, Palazzi senesi tra ‘600 e ‘700. Modelli abitativi e architettura tra tradizione e innovazione 15. Simone Guercini, Roberto Piovan, Schemi di negoziato e tecniche di comunicazione per il tessile e abbigliamento 16. Antonio Calvani, Technological innovation and change in the university. Moving towards the Virtual University 17. Paolo Emilio Pecorella, Tell Barri/Kahat: la campagna del 2000. Relazione preliminare 18. Marta Chevanne, Appunti di Patologia Generale. Corso di laurea in Tecniche di Radiologia Medica per Immagini e Radioterapia 19. Paolo Ventura, Città e stazione ferroviaria 20. Nicola Spinosi, Critica sociale e individuazione
21. Roberto Ventura (a cura di), Dalla misurazione dei servizi alla customer satisfaction 22. Dimitra Babalis (a cura di), Ecological Design for an Effective Urban Regeneration 23. Massimo Papini, Debora Tringali (a cura di), Il pupazzo di garza. L’esperienza della malattia potenzialmente mortale nei bambini e negli adolescenti 24. Manlio Marchetta, La progettazione della città portuale. Sperimentazioni didattiche per una nuova Livorno 25. Fabrizio F.V. Arrigoni, Note su progetto e metropoli 26. Leonardo Casini, Enrico Marone, Silvio Menghini, OCM seminativi: tendenze evolutive e assetto territoriale 27. Pecorella Paolo Emilio, Raffaella Pierobon Benoit, Tell Barri/Kahat: la campagna del 2001. Relazione preliminare 28. Nicola Spinosi, Wir Kinder. La questione del potere delle relazione adulti/bambini 29. Stefano Cordero di Montezemolo, I profili finanziari delle società vinicole 30. Luca Bagnoli, Maurizio Catalano, Il bilancio sociale degli enti non profit: esperienze toscane 31. Elena Rotelli, Il capitolo della cattedrale di Firenze dalle origini al XV secolo 32. Leonardo Trisciuzzi, Barbara Sandrucci, Tamara Zappaterra, Il recupero del sé attraverso l’autobiografia 33. Nicola Spinosi, Invito alla psicologia sociale 34. Raffaele Moschillo, Laboratorio di disegno. Esercitazioni guidate al disegno di arredo 35. Niccolò Bellanca, Le emergenze umanitarie complesse. Un’introduzione 36. Giovanni Allegretti, Porto Alegre una biografia territoriale. Ricercando la qualità urbana a partire dal patrimonio sociale 37. Riccardo Passeri, Leonardo Quagliotti, Christian Simoni, Procedure concorsuali e governo dell’impresa artigiana in Toscana 38. Nicola Spinosi, Un soffitto viola. Psicoterapia, formazione, autobiografia 39. Tommaso Urso, Una biblioteca in divenire. La biblioteca della Facoltà di Lettere dalla penna all’elaboratore. Seconda edizione rivista e accresciuta 40. Paolo Emilio Pecorella, Raffaella Pierobon Benoit, Tell Barri/Kahat: la campagna del 2002. Relazione preliminare
222 La villa del Novecento 41. Antonio Pellicanò, Da Galileo Galilei a Cosimo Noferi : verso una nuova scienza. Un inedito trattato galileiano di architettura nella Firenze del 1650 42. Aldo Burresi (a cura di), Il market i n g d e l l a m o d a . Te m i e m e rg e n t i n e l tessile-abbigliamento 43. Curzio Cipriani, Appunti di museologia naturalistica 44. Fabrizio F.V. Arrigoni, Incipit. Esercizi di composizione architettonica 45. Roberta Gentile, Stefano Mancuso, Silvia Martelli, Simona Rizzitelli, Il Giardino di Villa Corsini a Mezzomonte. Descrizione dello stato di fatto e proposta di restauro conservativo 46. Arnaldo Nesti, Alba Scarpellini (a cura di), Mondo democristiano, mondo cattolico nel secondo Novecento italiano 47. Stefano Alessandri, Sintesi e discussioni su temi di chimica generale 48. Gianni Galeota (a cura di), Traslocare, riaggregare, rifondare. Il caso della Biblioteca di Scienze Sociali dell’Università di Firenze 49. Gianni Cavallina, Nuove città antichi segni. Tre esperienze didattiche 50. Bruno Zanoni, Tecnologia alimentare 1. La classe delle operazioni unitarie di disidratazione per la conservazione dei prodotti alimentari 51. Gianfranco Martiello, La tutela penale del capitale sociale nelle società per azioni 52. Salvatore Cingari (a cura di), Cultura democratica e istituzioni rappresentative. Due esempi a confronto: Italia e Romania 53. Laura Leonardi (a cura di), Il distretto delle donne 54. Cristina Delogu (a cura di), Tecnologia per il web learning. Realtà e scenari 55. Luca Bagnoli (a cura di), La lettura dei bilanci delle Organizzazioni di Volontariato toscane nel biennio 2004-2005 56. Lorenzo Grifone Baglioni (a cura di), Una generazione che cambia. Civismo, solidarietà e nuove incertezze dei giovani della provincia di Firenze 57. Monica Bolognesi, Laura Donati, Gabriella Granatiero, Acque e territorio. Progetti e regole per la qualità dell’abitare 58. Carlo Natali, Daniela Poli (a cura di), Città e territori da vivere oggi e domani. Il contributo scientifico delle tesi di laurea 59. Riccardo Passeri, Valutazioni imprenditoriali per la successione nell’impresa familiare 60. Brunetto Chiarelli, Alberto Simonetta, Storia dei musei naturalistici fiorentini
61. Gianfranco Bettin Lattes, Marco Bontempi (a cura di), Generazione Erasmus? L’identità europea tra vissuto e istituzioni 62. Paolo Emilio Pecorella, Raffaella Pierobon Benoit, Tell Barri / Kahat. La campagna del 2003 63. Fabrizio F.V. Arrigoni, Il cervello delle passioni. Dieci tesi di Adolfo Natalini 64. Saverio Pisaniello, Esistenza minima. Stanze, spazî della mente, reliquiario 65. Maria Antonietta Rovida (a cura di), Fonti per la storia dell’architettura, della città, del territorio 66. Ornella De Zordo, Saggi di anglistica e americanistica. Temi e prospettive di ricerca 67. Chiara Favilli, Maria Paola Monaco, Materiali per lo studio del diritto antidiscriminatorio 68. Paolo Emilio Pecorella, Raffaella Pierobon Benoit, Tell Barri / Kahat. La campagna del 2004 69. Emanuela Caldognetto Magno, Federica Cavicchio, Aspetti emotivi e relazionali nell’e-learning 70. Marco Masseti, Uomini e (non solo) topi (2a edizione) 71. Giovanni Nerli, Marco Pierini, Costruzione di macchine 72. Lorenzo Viviani, L’Europa dei partiti. Per una sociologia dei partiti politici nel processo di integrazione europea 73 Teresa Crespellani, Terremoto e ricerca. Un percorso scientifico condiviso per la caratterizzazione del comportamento sismico di alcuni depositi italiani 74 Fabrizio F.V. Arrigoni, Cava. Architettura in “ars marmoris” 75. Ernesto Tavoletti, Higher Education and Local Economic Development 76. Carmelo Calabrò, Liberalismo, democrazia, socialismo. L’itinerario di Carlo Rosselli (1917-1930) 77. Luca Bagnoli, Luca; Massimo Cini (a cura di), La cooperazione sociale nell’area metropolitana fiorentina. Una lettura dei bilanci d’esercizio delle cooperative sociali di Firenze, Pistoia e Prato nel quadriennio 2004-2007 78. Lamberto Ippolito, La villa del Novecento 79. Cosimo Di Bari, A passo di critica. Il modello di Media Education nell’opera di Umberto Eco 80. Leonardo Chiesi, Identità sociale e territorio. Il Montalbano 81. Piero Degl’Innocenti, Cinquant’anni, cento chiese. L’edilizia di culto nelle diocesi di Firenze, Prato e Fiesole (1946-2000) 82. Giancarlo Paba, Camilla Perrone, Partecipazione in Toscana: interpretazioni e racconti