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Fabio Zanolin, Maurizio Trombetta
LA TOPOLOGIA PER L’ANALISI
LA TOPOLOGIA PER L’ANALISI
© FORUM 2022 Editrice Universitaria Udinese FARE srl con unico socio Società soggetta a direzione e coordinamento dell’Università degli Studi di Udine Via Palladio, 8 – 33100 Udine Tel. 0432 26001 www.forumeditrice.it ISBN 978-88-3283-364-5 (pdf)
Fabio Zanolin, Maurizio Trombetta
LA TOPOLOGIA PER L’ANALISI
Zanolin, Fabio La topologia per l’analisi / Fabio Zanolin, Maurizio Trombetta. - Udine : Forum, 2022. ISBN 978-88-3283-364-5 (pdf) 1.Topologia 2. Analisi matematica I. Trombetta, Maurizio 515.13 (WebDewey 2022) – ANALISI E TOPOLOGIA Scheda catalografica a cura del Sistema bibliotecario dell’Università degli studi di Udine
Indice Introduzione
ix
1 Spazi topologici 1.1 Aperti e chiusi . . . . . . . 1.2 Intorni . . . . . . . . . . . . 1.3 Proprietà legate agli intorni 1.4 Sottospazi . . . . . . . . . . 1.5 Assiomi di numerabilità e di
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . separazione
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1 1 7 11 19 24
2 Funzioni 2.1 Funzioni continue . . . . . . 2.2 Successioni . . . . . . . . . 2.3 Limiti di una funzione . . . 2.4 Prolungabilità delle funzioni
. . . . . . . . . . . . . . . . . . continue .
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42 42 54 70 77
3 Spazi metrici 3.1 Definizioni ed Esempi . . . . . . . . . . 3.2 Proprietà topologiche degli spazi metrici 3.3 Completezza e continuità uniforme . . . 3.4 Lo spazio ℝ𝑛 . . . . . . . . . . . . . . . 3.5 Metrizzabilità . . . . . . . . . . . . . . .
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92 92 102 108 125 132
4 Spazi normati 4.1 Norme e prodotti scalari . . . . . . . . . 4.2 Applicazioni lineari e norme equivalenti 4.3 Lo spazio duale . . . . . . . . . . . . . . 4.4 Completezza negli spazi normati . . . . 4.5 Il Teorema della Mappa aperta . . . . . 4.6 Principio di uniforme limitatezza . . . .
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148 148 164 176 183 193 204
5 Convessità e spazi di Hilbert 5.1 Insiemi convessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
207 207
v
Indice 5.2
vi Spazi 5.2.1 5.2.2 5.2.3 5.2.4
di Hilbert . . . . . . . . . . . . . . . Basi numerabili . . . . . . . . . . . Cenni sulle serie di Fourier . . . . Altri esempi di sistemi ortonormali Cenno al caso non separabile . . .
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232 243 247 255 263
6 Prodotti e quozienti 6.1 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.2 Topologie deboli e spazi prodotto . . . . . . . . . . . . . . . . 6.3 Spazi unione disgiunta e quoziente . . . . . . . . . . . . . . .
270 270 270 299
7 Compattezza 7.1 Insiemi compatti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2 Ulteriori risultati sulla compattezza . . . . . . . . . . . . . . . 7.3 Convergenze e topologie deboli negli spazi di Banach . . . . .
323 323 348 369
8 Paracompattezza 8.1 Spazi paracompatti . . . . . . . . . 8.2 Partizioni dell’unità . . . . . . . . 8.3 Semicontinuità . . . . . . . . . . . 8.4 Funzioni convesse e spazi riflessivi
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382 382 399 419 426
compattezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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441 441 465 471 490
10 Compattificazioni 10.1 Generalità e primi esempi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.2 Compattificazione di Stone-Čech . . . . . . . . . . . . . . . .
496 496 505
11 Real-compattezza e Čech-completezza 11.1 Spazi real-compatti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11.2 Spazi Čech-completi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
543 543 560
12 Topologie in spazi di funzioni continue 12.1 La topologia della convergenza puntuale . . . . . . . . 12.2 La topologia della convergenza uniforme . . . . . . . . 12.3 La topologia della convergenza uniforme sui compatti 12.4 Il teorema di Ascoli-Arzelà . . . . . . . . . . . . . . . .
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600 600 639 655 668
13 Connessione 13.1 Spazi connessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13.2 Connessione per archi e per cammini . . . . . . . . . . . . . .
685 685 703
9 Estensioni del concetto di 9.1 Spazi pseudo-compatti . 9.2 𝑘-spazi . . . . . . . . . . 9.3 Compattezza locale . . . 9.4 Spazi metacompatti . .
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Indice
vii
14 Il Teorema della curva di Jordan e questioni collegate 14.1 Insiemi semplicemente connessi . . . . . . . . . . . . . . . . . 14.2 I Teoremi di Jordan e di Schoenflies . . . . . . . . . . . . . .
728 728 749
15 Teoremi di punto fisso 15.1 Connessione e punti fissi in dimensione superiore . . . . . . . 15.2 Punti fissi in spazi normati . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
766 766 792
Bibliografia
834
Glossario
839
Indice analitico
846
Introduzione Alle nostre mogli, con gratitudine per la loro grande pazienza. gli Autori
La Topologia è un ramo della Matematica i cui primi passi si possono far risalire già nel ’700 con Eulero (problema dei ponti di Königsberg) e altri studiosi. Tuttavia il nome e i primi studi sistematici sono della seconda metà dell’800, con matematici come Poincaré che, fra l’altro, ha utilizzato il termine “analysis situs”, già introdotto da Leibniz (cfr. [32]). Storicamente, molti risultati di topologia anche se non con il formalismo richiesto al giorno d’oggi, riguardano le aree della topologia algebrica / combinatorica e la topologia differenziale nate dallo studio delle superfici e della loro classificazione (cfr. [14]). La topologia più astratta che si collega anche con i fondamenti della matematica, la logica e la teoria degli insiemi è nata più tardi, agli inizi del ’900 con gli studi di Fréchet che introdusse il concetto di spazio metrico nel 1906, Hausdorff che coniò il termine spazio topologico nel 1914 e introdusse il concetto di spazio separato che prende il suo nome. Successivamente se ne sono interessati moltissimi matematici quali Alexandrov, Tychonoff, Urysohn, Kuratowski e tanti altri. Incontreremo nei vari capitoli del libro idee e teoremi legati al nome di questi e altri matematici illustri che contribuirono, in varia misura, allo sviluppo di questa disciplina. La prima parte di questo testo riguarda principalmente la Topologia Generale che si può considerare come quell’area più astratta della topologia dove si tenta di mettere in luce e analizzare in profondità alcune strutture comuni a diverse arre della Matematica, fra cui alcuni concetti tipici dell’Analisi Matematica quali la continuità, il concetto di limite per successioni e funzioni. In quest’ambito rivestono particolare importanza gli spazi metrici e quelli normati che rappresentano una naturale generalizzazione degli spazi euclidei. In particolare, esporremo alcuni dei risultati principali nella teoria degli spazi di Hilbert che sono fondamentali in tante aree dell’Analisi e della Fisica Matemaix
x tica, ad esempio nello studio delle serie trigonometriche. Analizzeremo anche strutture più generali legate alla convessità, quali gli spazi vettoriali topologici. Successivamente, dopo aver introdotto le proprietà di prodotti e quozienti, daremo ampio spazio al concetto di compattezza e alle sue varianti e generalizzazioni, quali pseudo-compattezza, paracompattezza e compattezza locale. In particolare, il concetto di paracompattezza permetterà di introdurre i teoremi di partizione dell’unità e le loro importanti applicazioni ai problemi di approssimabilità. D’altra parte, gli spazi localmente compatti permetteranno di introdurre il concetto di compattificazione, prima nel caso più elementare ed intuitivo in cui si aggiunge un punto all’infinito, e successivamente studiando il caso più generale della compattificazione di Stone–Čech. Parallelamente alla compattezza, si studieranno anche la nozione di completezza negli spazi topologici e quella di categoria secondo Baire ad essa collegata. Un ambito importante per l’Analisi Matematica in cui si applicano questi concetti è quello degli spazi di funzioni con le loro topologie associate alla convergenza puntuale o a quelle uniforme e uniforme sui compatti. In particolare, vedremo due fondamentali teoremi sugli spazi di funzioni che sono il Teorema di approssimazione di Weierstrass–Stone e quello di compattezza di Ascoli–Arzelà. La terza parte di questo testo è dedicata alla connessione e ai teoremi di punto fisso negli spazi euclidei e in quelli di Banach. Oltre ai risultati classici relativi agli spazi connessi, verranno anche discussi risultati che utilizzano in modo essenziale la topologia del piano o quella della sfera, come i Teoremi della curva di Jordan e di Schoenflies. Il titolo di questo libro riprende quello di un classico testo “Topology for Analysis” del matematico Albert Wilansky su cui si sono formate generazioni di matematici puri e applicati, pubblicato all’inizio degli anni ’70 e che ha avuto numerose ristampe. Pur non volendo metterci in competizione con un testo così rinomato, notiamo tuttavia che comunque si tratta di un libro “avanzato” che presuppone una buona conoscenza della topologia di base. Il nostro intento è stato quello di presentare argomenti anche non banali e, in diversi casi tratti anche da articoli di ricerche recenti, tentando di non dare nulla, o ben poco per scontato e producendo numerosi esempi e controesempi, di diversi livelli di difficoltà. Inoltre, la nostra scelta degli argomenti e l’organizzazione degli stessi sono diverse da quelle del libro citato. Infatti la scelta del titolo e degli argomenti è pensata come supporto teorico ai corsi di Analisi Matematica dalla laurea triennale al dottorato e speriamo possa anche essere utile a studenti e insegnanti che desiderassero approfondire alcuni concetti o risultati non visti o solo sfiorati nei vari corsi curricolari. Un tipico esempio in tal senso è dato da concetti quali la pseudo-compattezza o la paracompattezza. Altri argomenti del tutto classici, dato che si trovano già nei corsi del biennio, riguardano aspetti della topologia piana quali il Teorema della curva di Jordan che “tutti conoscono” ma per i quali è raro trovare nei corsi delle dimostrazioni ragionevoli (nel senso di non essere troppo astratte e formali o, all’opposto, poco rigorose). Da questo punto di vista, gli Autori ritengono di aver messo un grosso impe-
xi gno nel cercare da diverse fonti, e spesso adattato in modo autonomo, approcci e dimostrazioni di vari argomenti, tentando di renderli chiari e accessibili anche agli studenti che possiedono solo cognizioni di base dell’Analisi reale. Infatti, i prerequisiti si riducono sostanzialmente alle conoscenze di base sul campo dei reali e le relative funzioni che uno studente acquisisce alla fine dei corsi del primo anno di Università. Essendo vastissime le applicazioni della Topologia ai diversi rami della Matematica, nella stesura di questo libro è stato necessario omettere alcuni argomenti per altro importanti nello studio della Geometria o dell’Algebra, come le Topologie di Zariski e di Grothendieck. Un altro importante argomento che sarebbe stato interessante sviluppare è quello dei gruppi topologici che comunque è già studiato da vari Autori, anche della nostra Università. Come già detto, la nostra scelta ha privilegiato gli argomenti più direttamente collegabili con l’Analisi Matematica e l’Analisi Funzionale. Per motivi di spazio, siamo costretti a rimandare a un secondo volume alcuni argomenti che, pur di fondamentale importanza, non abbiamo potuto affrontare fin qui. In particolare, ci riferiamo a teorie matematiche quali: Ordinali e spazi ordinati, Strutture di convergenza, Teoria delle distribuzioni, Omotopie e Teoria dei retratti, Dimensione e i suoi vari aspetti, Sistemi dinamici continui e discreti, Teoria del caos. In realtà agli Ordinali (finiti e transfiniti) accenneremo più volte già in questo primo volume nel corso di dimostrazioni (induzione transfinita) e per esempi e controesempi (Tychonoff–plank, Cavatappi di Tychonoff ), rimandando al seguito per i relativi chiarimenti. In relazione agli ordinali, è naturale occuparsi delle topologie collegate con le relazioni d’ordine totale o parziale, la più ovvia delle quali è quella euclidea in ℝ. Le Strutture di Convergenza, studiate fin dalla nascita della Topologia Generale nei lavori di Fréchet e Urysohn, hanno rappresentato un approccio alternativo a quello degli Spazi Topologici. Anche se, alla fine, storicamente ha prevalso lo studio di questi ultimi, per cui le Strutture di Convergenza ne risultano un interessante capitolo, tuttavia esse continuano ad essere studiate in maniera autonoma per il loro contenuto intuitivamente più evidente per quanto riguarda le applicazioni all’Analisi in cui diversi concetti trovano un’efficace formulazione “sequenziale” (si pensi ai concetti di continuità, limite, compattezza, chiusura…). Sarà inoltre interessante vedere i collegamenti fra le Strutture di Convergenza e gli Spazi sequenziali e di Fréchet visti in questo volume. Nel Capitolo sulla Teoria delle Distribuzioni (un argomento fondamentale dell’Analisi moderna) vedremo come l’approccio sequenziale sia particolarmente efficace. Ai concetti di Omotopia e Retrazione si accennerà già nel primo volume, nel Capitolo sui punti fissi. Senza entrare dettagliatamente nell’ambito della Topologia Algebrica, vedremo come dallo sviluppo di questi concetti si ottengono informazioni importanti per quanto riguarda la Teoria dei punti fissi e le conseguenti applicazioni ai problemi di Analisi non lineare. Ulteriori applicazioni delle tecniche introdotte in quel capitolo saranno utili per dimostrare alcuni risultati importanti relativi al concetto di Dimensione.
xii Concluderemo il secondo volume con un’introduzione alla Teoria dei Sistemi Dinamici, un’area di ricerca attualmente in grande sviluppo, che unisce la Topologia alla Teoria delle equazioni differenziali (nel caso dei Sistemi dinamici continui) o a quella delle equazioni alle differenze (nel caso dei Sistemi dinamici discreti). Giungeremo in fine a presentare brevemente la Teoria del Caos, un’area dei sistemi dinamici di notevole impatto in diversi rami delle scienze applicate. Gli argomenti contenuti in questo testo, anche se pensati principalmente per i Corsi della laurea magistrale in Matematica, possono essere utilizzati dai docenti e dagli studenti dei Corsi dell’area scientifica dell’Università interessati ad approfondire argomenti di Topologia. I contenuti dei primi tre capitoli (escluso il Paragrafo 3.5), assieme alle prime parti dei Capitoli 4 (sugli spazi normati), 6 (sugli spazi prodotto), 7 (sulla compattezza) e 13 (sulla connessione) sono pensati per essere accessibili agli studenti dei Corsi di base. Gli altri argomenti contenuti nei Capitoli dal 4 al 7, come pure i teoremi di punto fisso del Capitolo 15, sono tipici dei Corsi di Analisi Matematica della laurea magistrale in Matematica o Fisica. La seconda parte del Capitolo 12 e il Capitolo 14 possono essere un utile supporto ai Corsi sulle equazioni differenziali. In particolare, nel Capitolo 14 abbiamo proposto delle dimostrazioni complete di importanti teoremi di Topologia del piano e della sfera che di solito vengono considerati come “noti”, ma di cui è difficile trovare delle dimostrazioni accessibili. In fine, i Capitoli dall’8 all’11 e la prima parte del Capitolo 12 (sulla Topologia della convergenza puntuale) sono di tipo più specialistico e potrebbero quindi essere utilizzati in Corsi monografici della laurea magistrale in Matematica. In conclusione, l’intento di questo libro è stato quello di coprire un ampio spettro di nozioni di tipo topologico interessanti per i cultori della materia, ma anche utili in discipline di carattere più applicativo. Gli autori ringraziano tutti i colleghi che hanno contribuito con osservazioni e critiche alla stesura del presente volume. In particolare esprimono la loro gratitudine all’amico Adriano Pascoletti per il costante supporto nella redazione di questo libro.
1
Spazi topologici 1.1
Aperti e chiusi
Nella prima parte di questo Capitolo introduciamo il concetto di Spazio Topologico e consideriamo diversi modi per assegnare una topologia su un insieme. Facciamo anche vedere che tali diversi approcci sono tutti fra loro equivalenti. Il concetto di topologia si è sviluppato nel corso dei secoli. All’inizio del ′ 900 i matematici hanno avvertito l’esigenza di scegliere una famiglia di assiomi che permettessero di introdurre in modo generale le definizioni e le proprietà tipiche di concetti quali continuità, limite, connessione, compattezza, … già ampiamente utilizzati in Analisi Matematica e in Geometria. Le definizioni che oggi sembrano “naturali”, in quanto universalmente note e di cui è manifesta l’utilità, sono il risultato di un periodo di dibattiti in cui diversi punti di vista sono stati fra loro in competizione. Per fare un esempio, si pensi al concetto di continuità. Per alcuni può essere più naturale introdurlo in termini di intorni, ma per altri potrebbe essere altrettanto naturale descriverlo in termini di successioni convergenti. Anche molti concetti importanti dell’Analisi moderna, come la Teoria delle Distribuzioni di Schwartz o la Γ-convergenza di De Giorgi, all’inizio sono stati introdotti utilizzando il concetto di successione anziché quello di topologia. Dopo questa premessa, incominciamo introducendo il concetto di topologia su un insieme in uno dei modi più tradizionali. Ciò non significa che non ce ne siano altri altrettanto validi.
Definizione 1.1. Sia 𝑋 un insieme e sia 𝜏 ⊆ 𝒫 (𝑋)(∶= 2𝑋 ). Diremo che 𝜏 è una topologia su 𝑋 se sono soddisfatti i seguenti assiomi (assiomi degli aperti): 𝐴1 ∅, 𝑋 ∈ 𝜏. 𝐴2 𝐴𝑖 ∈ 𝜏, ∀𝑖 ∈ 𝐽 ⇒ ⋃𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 ∈ 𝜏, (con 𝐽 insieme arbitrario di indici). 𝐴3 (𝐴𝑖 ∈ 𝜏, ∀𝑖 ∈ 𝐽 ) ∧ (𝐽 finito) ⇒ ⋂𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 ∈ 𝜏. La coppia (𝑋, 𝜏) viene detta spazio topologico. Ogni elemento di 𝜏 si chiama insieme aperto (rispetto alla topologia 𝜏). Quando su 𝑋 sia assegnata una topologia e non ci sia possibilità di equivoco, diremo semplicemente che 𝑋 è uno spazio topologico. ◁ 1
1.1. Aperti e chiusi
2
Gli assiomi di una topologia possono essere quindi riassunti nel seguente modo: l’insieme vuoto e tutto lo spazio sono insiemi aperti; riunioni arbitrarie e intersezioni finite di aperti sono ancora insiemi aperti. Spesso l’assioma 𝐴3 viene descritto con: 𝐴, 𝐵 ∈ 𝜏 ⇒ 𝐴 ∩ 𝐵 ∈ 𝜏. Infatti è chiaro (per induzione) che, una volta che la proprietà vale per due, vale anche per un numero finito di insiemi. Il modo in cui abbiamo formulato le proprietà 𝐴2 e 𝐴3 permetterebbe di ottenere 𝐴1 come conseguenza di queste. Infatti, l’unione di una famiglia vuota di insiemi è l’insieme vuoto, mentre l’intersezione di una famiglia vuota di insiemi è lo spazio ambiente 𝑋. 1 Esempio 1.2. Dalla definizione, risultano evidenti due topologie “estreme”. La topologia nulla o banale, in cui gli aperti sono solo ∅ e 𝑋. La topologia discreta, in cui sono aperti tutti i sottoinsiemi di 𝑋. ◁ Definizione 1.3. Date su un medesimo insieme 𝑋 due topologie 𝜏1 e 𝜏2 , diremo che 𝜏1 è più fine di 𝜏2 se 𝜏1 ⊇ 𝜏2 , cioè se ogni aperto in 𝜏2 è aperto anche in 𝜏1 . In tal caso scriveremo anche 𝜏2 ⪯ 𝜏1 o 𝜏1 ⪰ 𝜏2 . ◁
È banale constatare che la relazione di finezza è una relazione d’ordine parziale nell’insieme delle topologie su un medesimo insieme 𝑋. È ovvio anche che la topologia nulla è la meno fine e che quella discreta è la più fine di tutte. In ogni insieme che abbia almeno due elementi, è possibile definire due topologie non confrontabili.
Esempio 1.4. Sia 𝑋 un insieme contenente almeno due elementi che chiamiamo 0 e 1. Definiamo in 𝑋 le due seguenti topologie, elencando i rispettivi aperti: 𝜏 ″ ∶= {∅, {1}, 𝑋}. 𝜏 ′ ∶= {∅, {0}, 𝑋}; Le topologie sono ovviamente inconfrontabili: {0} è un 𝜏 ′ -aperto che non sta in 𝜏 ″ , mentre {1} è un 𝜏 ″ -aperto che non sta in 𝜏 ′ . ◁ Quando sia 𝑋 = {0, 1}, una topologia come quelle definite nell’esempio precedente è detta di Sierpinski. Nonostante sia poco più complessa della topologia banale, una topologia di Sierpinski è utile per esempi e controesempi, come vedremo in seguito. Per costruire degli esempi di topologie più “interessanti”, è utile premettere i concetti di base e sottobase di aperti. Assegnata una famiglia 𝒜 ∶= {𝐴𝑖 }𝑖∈𝐽 di sottoinsiemi di un insieme 𝑋, esiste chiaramente almeno una topologia in cui gli elementi di 𝒜 sono aperti: basta prendere la topologia discreta. Ci si chiede se fra tali topologie ce n’è una minima rispetto alla relazione di finezza, cioè la meno fine fra quelle per cui tutti gli elementi di 𝒜 sono aperti.
Da 𝑥 ∈ ⋃𝑖∈∅ 𝐴𝑖 , seguirebbe che esiste 𝑘 ∈ ∅ con 𝑥 ∈ 𝐴𝑘 . Deve dunque essere ⋃𝑖∈∅ 𝐴𝑖 = ∅. Inoltre, 𝑋 ⧵ ⋂𝑖∈∅ 𝐴𝑖 = ⋃𝑖∈∅ (𝑋 ⧵ 𝐴𝑖 ) = ∅. Si ha quindi ⋂𝑖∈∅ 𝐴𝑖 = 𝑋. 1
1.1. Aperti e chiusi
3
Lemma 1.5. Siano dati un insieme 𝑋 e una famiglia non vuota 𝒜 ∶= {𝐴𝑖 }𝑖∈𝐽 ⊆ 𝒫 (𝑋). Esiste una topologia 𝜏(𝒜 ) ⊇ 𝒜 tale che (∀𝜏)(𝒜 ⊆ 𝜏 ⇒ 𝜏(𝒜 ) ⊆ 𝜏).
Dimostrazione. La topologia cercata si ottiene mediante la seguente procedura. Consideriamo l’insieme 𝒜 ∗ costituito da tutte le intersezioni finite di elementi di 𝒜 (che contiene chiaramente 𝒜 ). La famiglia 𝒜 ∗ soddisfa all’assioma 𝐴3. A partire da 𝒜 ∗ definiamo l’insieme 𝜏(𝒜 ) costituito da tutti gli insiemi che sono unioni arbitrarie di elementi di 𝒜 ∗ , oltre a ∅ e a 𝑋. Per definizione, 𝜏(𝒜 ) soddisfa ad 𝐴1 ed 𝐴2. Inoltre, soddisfa anche ad 𝐴3. Infatti: dati 𝐴, 𝐵 ∈ 𝜏(𝒜 ), con 𝐴 = ⋃ℎ∈𝐻 𝐴ℎ e 𝐵 = ⋃𝑘∈𝐾 𝐵𝑘 , dove 𝐴ℎ , 𝐵𝑘 ∈ 𝒜 ∗ , si ha 𝐴∩𝐵 =
⋃
ℎ∈𝐻
𝐴ℎ ∩
⋃
𝑘∈𝐾
𝐵𝑘 =
⋃
ℎ∈𝐻, 𝑘∈𝐾
(𝐴ℎ ∩ 𝐵𝑘 ).
Poiché i termini 𝐴ℎ ∩ 𝐵𝑘 stanno in 𝒜 ∗ , risulta che 𝐴 ∩ 𝐵 ∈ 𝜏(𝒜 ). Abbiamo così verificato che 𝜏(𝒜 ) è una topologia su 𝑋 contenente 𝒜 . Inoltre, ogni topologia 𝜏 che contenga 𝒜 dovrà contenere anche 𝒜 ∗ (per rispettare l’assioma 𝐴3) e quindi 𝜏(𝒜 ) (per rispettare l’assioma 𝐴2).
Definizione 1.6. La topologia 𝜏(𝒜 ) è detta generata dalla famiglia 𝒜 . Questa, a sua volta, è detta sistema di generatori o sottobase della topologia 𝜏(𝒜 ). ◁
Nel caso in cui la famiglia 𝒜 sia chiusa rispetto all’intersezione finita, 𝜏(𝒜 ) si ottiene semplicemente considerando tutte le riunioni arbitrarie di elementi di 𝒜 , oltre a ∅ e a 𝑋. Questo è un caso particolare di base di una topologia. Più in generale, si accetta la seguente definizione. Definizione 1.7. Sia data una famiglia non vuota 𝒜 = {𝐴𝑖 }𝑖∈𝐽 di sottoinsiemi di un insieme 𝑋 soddisfacente ai seguenti assiomi (Assiomi delle basi di una topologia): 𝐵1 𝐵2
⋃𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 = 𝑋, (∀𝑖, 𝑗 ∈ 𝐽 )(∀𝑥0 ∈ 𝐴𝑖 ∩ 𝐴𝑗 )(∃𝑘 ∈ 𝐽 )(𝑥0 ∈ 𝐴𝑘 ⊆ 𝐴𝑖 ∩ 𝐴𝑗 ),
allora 𝒜 è detta base per una topologia in 𝑋.
◁
Assegnata che sia una famiglia 𝒜 , base per una topologia in 𝑋, si vede subito che la minima topologia su 𝑋 per cui gli elementi di 𝒜 sono aperti, cioè la 𝜏(𝒜 ), è costituita da tutti e soli gli insiemi che si ottengono come unione di elementi di 𝒜 . Al solito, l’insieme vuoto si pensa ottenuto come unione su una famiglia vuota di elementi. Volendo, si può evitare di considerare la prima delle due condizioni nella precedente definizione, aggiungendo d’autorità l’insieme 𝑋 in 𝒜 .
1.1. Aperti e chiusi
4
Esercizio 1.8. Siano 𝒜 ′ e 𝒜 ″ due basi per topologie su un medesimo insieme 𝑋. Si verifichi che se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni 𝐴′ ∈ 𝒜 ′ , con 𝑥 ∈ 𝐴′ , esiste un 𝐴″ ∈ 𝒜 ″ con 𝑥 ∈ 𝐴″ ⊆ 𝐴′ , allora la topologia 𝜏(𝒜 ″ ) è più fine di 𝜏(𝒜 ′ ). Si dia poi una condizione affinché le due basi generino la stessa topologia. (cfr. Esempio 1.11). ◁ Vediamo qualche esempio.
Esempio 1.9. Sia 𝑋 ∶= ℝ e consideriamo aperti tutti gli intervalli aperti (limitati e non). Si constata subito che sono soddisfatte le condizioni 𝐵1 e 𝐵2 della definizione 1.7. La topologia generata da questa base è proprio quella ordinaria 𝜏𝑒 di ℝ (topologia euclidea). Se avessimo considerato solo gli intervalli aperti e limitati, avremmo ancora avuto una base che generava 𝜏𝑒 , in quanto gli intervalli illimitati si ottengono come unioni di questi. Per avere una base numerabile che genera 𝜏𝑒 , possiamo limitarci alla famiglia degli intervalli aperti e limitati ]𝑎, 𝑏[, con 𝑎, 𝑏 ∈ ℚ. Prendendo invece come famiglia di partenza gli intervalli aperti e illimitati, avremmo solo una sottobase che genera 𝜏𝑒 . ◁
Esempio 1.10. Sia 𝑋 ∶= ℝ e consideriamo la famiglia 𝒜 costituita da tutti gli intervalli del tipo [𝑎, 𝑏[, con 𝑎, 𝑏 ∈ ℝ, 𝑎 < 𝑏. Si constata ancora che 𝒜 è una base per una topologia. La topologia 𝜏(𝒜 ), che indicheremo con 𝜏 + , detta topologia destra di Sorgenfrey (introdotta da R.H. Sorgenfrey nel 1947), è strettamente più fine della topologia 𝜏𝑒 . Infatti, mentre ogni intervallo aperto si può ottenere come unione (numerabile) di elementi di 𝒜 , l’insieme [0, 1[ (∈ 𝒜 ) non si ottiene da unione di intervalli aperti (Esercizio). In modo analogo, potremmo partire dagli intervalli del tipo ]𝑎, 𝑏] e con questi generare un’altra topologia 𝜏 − “simmetrica” rispetto alla precedente e detta topologia sinistra di Sorgenfrey. Anche questa è strettamente più fine di 𝜏𝑒 , ma non è confrontabile con 𝜏 + (Esercizio). A questo punto, uno potrebbe chiedersi cosa succede se si parte dalla famiglia degli intervalli del tipo [𝑎, 𝑏], sempre con 𝑎 < 𝑏. Si vede subito che ogni singoletto di ℝ può essere ottenuto come intersezione di due elementi di questa famiglia. Pertanto, la topologia generata è quella discreta. ◁ Esempio 1.11 (La topologia dell’ordine in ℝ2 ). Sia 𝑋 ∶= ℝ2 e definiamo in esso la seguente relazione d’ordine parziale. Dati 𝑃1 = (𝑥1 , 𝑦1 ), 𝑃2 = (𝑥2 , 𝑦2 ) ∈ ℝ2 , diremo che 𝑃1 è fortemente minore di 𝑃2 e scriveremo 𝑃1 ≪ 𝑃2 o 𝑃2 ≫ 𝑃1 se è (𝑥1 < 𝑥2 ) ∧ (𝑦1 < 𝑦2 ). Si vede subito che si tratta effettivamente di una relazione d’ordine parziale (i punti (1, 0) e (0, 1) sono inconfrontabili). Dati 𝑃1 , 𝑃2 ∈ ℝ2 , con 𝑃1 ≪ 𝑃2 , chiameremo intervallo aperto e limitato di estremi 𝑃1 e 𝑃2 l’insieme (cfr. Definizione 3.90) ]𝑃1 , 𝑃2 [ ∶= {𝑃 = (𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ 𝑃1 ≪ 𝑃 ≪ 𝑃2 } = = {𝑃 = (𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ (𝑥1 < 𝑥 < 𝑥2 ) ∧ (𝑦1 < 𝑦 < 𝑦2 )} .
1.1. Aperti e chiusi
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Definiamo ora topologia dedotta dall’ordine o brevemente topologia dell’ordine su ℝ2 quella generata dalla famiglia 𝒜 formata dagli intervalli aperti e limitati. Si constata facilmente che 𝒜 è una base per la topologia 𝜏(𝒜 ). Ricordiamo che, dati un punto 𝑃0 ∈ ℝ𝑛 e un numero reale positivo 𝑟, si chiama palla aperta [chiusa] di centro 𝑃0 e raggio 𝑟 l’insieme 𝐵(𝑃0 , 𝑟) ∶= {𝑃 ∈ ℝ𝑛 ∶ 𝑑(𝑃 , 𝑃0 ) < 𝑟}
[rispettivamente, 𝐵[𝑃0 , 𝑟] ∶= {𝑃 ∈ ℝ𝑛 ∶ 𝑑(𝑃 , 𝑃0 ) ≤ 𝑟}],
dove 𝑑 indica la distanza euclidea. L’insieme 𝒜𝑒 delle palle aperte 𝐵(𝑃0 , 𝑟), con 𝑃0 ∈ ℝ2 e 𝑟 ∈ ℝ+ costituisce una base per la topologia euclidea del piano. Si vede senza difficoltà anche che la topologia 𝜏(𝒜 ) coincide con la topologia euclidea 𝜏𝑒 . Infatti, ogni intervallo aperto è unione di palle aperte e viceversa, ogni palla aperta è unione di intervalli aperti (Esercizio). Abbiamo così un bell’esempio di basi diverse per la stessa topologia. Ci si può chiedere quale topologia si ottiene definendo in ℝ2 l’ordinamento “≤”. Dati 𝑃1 = (𝑥1 , 𝑦1 ) e 𝑃2 = (𝑥2 , 𝑦2 ), si pone cioè 𝑃1 ≤ 𝑃2 ⇔ (𝑥1 ≤ 𝑥2 ) ∧ (𝑦1 ≤ 𝑦2 );
𝑃1 < 𝑃2 ⇔ (𝑃1 ≤ 𝑃2 ) ∧ (𝑃1 ≠ 𝑃2 ).
Si ha, in particolare, 𝑃1 = (−1, 0) < 𝑃2 = (1, 0) e 𝑄1 = (0, −1) < 𝑄2 = (0, 1). Si ottiene, con ovvio significato dei simboli, ]𝑃1 , 𝑃2 [ ∩ ]𝑄1 , 𝑄2 [ = {(0, 0)}. Generalizzando il procedimento, si conclude che, in questo caso, la topologia dell’ordine è quella discreta. ◁ Le precedenti considerazioni permettono di verificare con una certa facilità che la famiglia delle possibili topologie su un insieme 𝑋 è un reticolo completo rispetto alla relazione d’ordine per finezza. Ricordiamo che un insieme (parzialmente) ordinato (ℛ, ⪯) è detto reticolo se, dati comunque due suoi elementi 𝑎 e 𝑏, esistono il loro massimo precedente comune 𝑎⊥𝑏 e il loro minimo seguente comune 𝑎⊤𝑏. Un reticolo si dice completo se per ogni sottoinsieme 𝐴 di ℛ esistono il massimo precedente comune ⊥(𝐴) e il minimo seguente comune ⊤(𝐴), rispetto a tutti gli elementi di 𝐴. Infatti, sia 𝒯 l’insieme di tutte le topologie su un insieme fissato 𝑋 dotato della relazione d’ordine 𝜏1 ⪯ 𝜏2 se e solo se 𝜏2 è più fine di 𝜏1 . È evidente che la topologia nulla e quella discreta sono rispettivamente il minimo e il massimo di 𝒯 . Sia ora 𝑆 ⊆ 𝒯 una famiglia (non vuota) di topologie su 𝑋. Per trovare ⊥(𝑆) è sufficiente fare l’intersezione di tutte le topologie 𝜏 ∈ 𝑆. In altri termini, un sottoinsieme 𝐴 di 𝑋 è aperto in ⊥(𝑆) se e solo se lo è in ogni topologia di 𝑆. Per trovare ⊤(𝑆), si osserva che una topologia 𝜎 che sia più fine di tutte quelle di 𝑆 deve contenere fra i suoi aperti tutti gli insiemi che sono aperti in qualcuna delle topologie di 𝑆. In generale, l’insieme ⋃𝜏∈𝑆 𝜏 non è una topologia (Esercizio), ma è solo un sistema di generatori. La topologia da esso generata è necessariamente la minima seguente comune degli elementi di 𝑆. Per esercizio
1.1. Aperti e chiusi
6
si determinino 𝜏 + ⊥𝜏 − e 𝜏 + ⊤𝜏 − , dove 𝜏 + e 𝜏 − sono le topologie destra e sinistra di Sorgenfrey definite nell’Esempio 1.10. Dopo aver introdotto il concetto di insieme aperto, passiamo a considerare gli insiemi chiusi.
Definizione 1.12. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Diremo che un sottoinsieme 𝐶 ⊆ 𝑋 è chiuso se il suo complementare è aperto. ◁ Come sarà subito evidente, le proprietà dei chiusi sono “duali” rispetto a quelle degli aperti. Infatti, da una semplice applicazione delle leggi di De Morgan si ottiene subito che Proposizione 1.13. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝒞 la famiglia dei suoi chiusi. Sussistono le seguenti proprietà (assiomi dei chiusi): 𝐶1 ∅, 𝑋 ∈ 𝒞 . 𝐶2 𝐶𝑖 ∈ 𝒞 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 ⇒ ⋂𝑖∈𝐽 𝐶𝑖 ∈ 𝒞 . 𝐶3 (𝐶𝑖 ∈ 𝒞 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 ) ∧ (𝐽 finito) ⇒ ⋃𝑖∈𝐽 𝐶𝑖 ∈ 𝒞 .
Si tenga presente che, date due topologie 𝜏1 e 𝜏2 su un insieme 𝑋 e dette 𝒞1 e 𝒞2 le famiglie dei corrispondenti chiusi, si ha 𝜏1 ⊇ 𝜏2 ⇔ 𝒞1 ⊇ 𝒞2 . Quindi la relazione di finezza fra topologie si può esprimere nello stesso modo anche mediante le famiglie dei chiusi. Grazie alla simmetria fra i gruppi di assiomi degli aperti e quelli dei chiusi, si potrebbe introdurre il concetto di spazio topologico assegnando ad un insieme 𝑋 una famiglia 𝒞 ⊆ 𝒫 (𝑋) che soddisfi agli assiomi 𝐶1, 𝐶2, 𝐶3. Se procediamo in questo modo, definiremo come chiusi gli elementi di 𝒞 e diremo aperti i loro complementari. È chiaro che la famiglia 𝒜 ∶= {𝐴 ⊆ 𝑋 ∶ 𝑋 ⧵ 𝐴 ∈ 𝒞 }
soddisfa agli assiomi 𝐴1, 𝐴2, 𝐴3 e quindi la coppia (𝑋, 𝒜 ) è uno spazio topologico secondo la Definizione 1.1. In questo spazio topologico, i chiusi sono esattamente quelli della famiglia 𝒞 . In alcuni casi, introdurre una topologia partendo dalla scelta dei chiusi può essere la via più comoda. Vediamo alcuni semplici esempi.
Esempio 1.14. Sia 𝑋 un insieme infinito e consideriamo chiusi, oltre a 𝑋, tutti i suoi sottoinsiemi finiti. È immediato constatare che sono soddisfatti gli assiomi dei chiusi e che quindi abbiamo definito una topologia. I corrispondenti aperti sono detti insiemi cofiniti. ◁ L’esempio appena visto si presta a naturali estensioni.
Esempio 1.15. Sia 𝑋 un insieme infinito non numerabile e consideriamo chiusi, oltre a 𝑋, tutti i suoi sottoinsiemi al più numerabili. È ancora facile constatare che sono soddisfatti gli assiomi dei chiusi e che quindi abbiamo definito una topologia. I corrispondenti aperti sono detti insiemi conumerabili. ◁
1.2. Intorni
7
È facile costruire esempi di spazi topologici in cui l’intersezione infinita (anche numerabile) di aperti può non esser un aperto e, similmente, l’unione infinita (anche numerabile) di chiusi può non esser un chiuso. È altrettanto facile trovare esempi di spazi topologici in cui vi sono degli insiemi né aperti né chiusi. Basta pensare alla topologia euclidea 𝜏𝑒 su ℝ. Di converso, si possono dare degli esempi in cui figurano dei sottoinsiemi non vuoti e propri di 𝑋 che sono contemporaneamente aperti e chiusi. Basta pensare ad uno spazio con almeno due elementi dotato della topologia discreta. Per trovare un esempio meno banale, si pensi alla retta reale con la topologia 𝜏 + (cfr. Esempio 1.10). In tale topologia l’intervallo [𝑎, +∞[ è chiaramente aperto. Ma anche il suo complementare ] − ∞, 𝑎[ è aperto, come a suo tempo osservato. Quindi [𝑎, +∞[ è chiuso. Gli insiemi contemporaneamente aperti e chiusi vengono detti clopen, una contrazione degli aggettivi “closed” e “open” della lingua inglese. Il lettore verifichi che in ℝ con la topologia euclidea 𝜏𝑒 gli unici clopen sono il vuoto e tutto lo spazio. La verifica di questa proprietà può essere più o meno difficile, a seconda delle conoscenze che il lettore ha riguardo alle proprietà della retta reale. Ritorneremo su questo punto più avanti (cfr. Proposizione 1.40.6).
1.2
Intorni
Il lettore ha sicuramente già familiarità, almeno nel caso della topologia euclidea, con la nozione di intorno di un punto che riveste un ruolo chiave per introdurre i concetti di continuità e di limite. In questo paragrafo definiamo gli intorni a partire da una topologia, mettiamo in evidenza le proprietà principali (assiomi degli intorni) e, viceversa, vediamo come partendo dal concetto di intorno si possa ricavare quello di aperto e quindi definire una topologia.
Definizione 1.16. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e fissiamo un punto 𝑥0 ∈ 𝑋. Diremo che un sottoinsieme 𝑈 ⊆ 𝑋 è intorno di 𝑥0 se esiste un aperto 𝐴 ∈ 𝜏 tale che 𝑥0 ∈ 𝐴 ⊆ 𝑈 . L’insieme di tutti gli intorni di 𝑥0 sarà indicato con 𝒰(𝑥0 ).
◁
Ovviamente per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste almeno un suo intorno: 𝑋 stesso. Quindi è sempre 𝒰(𝑥0 ) ≠ ∅. Inoltre, ogni aperto non vuoto è intorno di ogni suo punto. La famiglia degli intorni di un punto soddisfa alle seguenti proprietà, le cui facili verifiche sono lasciate per esercizio al lettore: Teorema 1.17. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝒰(𝑥) l’insieme degli intorni di 𝑥. Sussistono le seguenti proprietà ( assiomi degli intorni): U1 Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, è 𝒰(𝑥) ≠ ∅ e 𝑥 ∈ 𝑈 , ∀𝑈 ∈ 𝒰(𝑥). U2 Se è 𝑈 ∈ 𝒰(𝑥) e 𝑉 ⊇ 𝑈 , allora 𝑉 ∈ 𝒰(𝑥). U3 Se è 𝑈1 , 𝑈2 ∈ 𝒰(𝑥), allora 𝑈1 ∩ 𝑈2 ∈ 𝒰(𝑥).
1.2. Intorni U4
8
Per ogni 𝑈 ∈ 𝒰(𝑥), esiste 𝑉 tale che 𝑥 ∈ 𝑉 ⊆ 𝑈 e 𝑉 ∈ 𝒰(𝑦), ∀𝑦 ∈ 𝑉 .
Ricordiamo la seguente definizione
Definizione 1.18. Sia ℱ ⊆ 𝒫 (𝑋); diremo che ℱ è un filtro se sono soddisfatte le seguenti proprietà: F1 ℱ ≠ ∅ e 𝑈 ≠ ∅, ∀𝑈 ∈ ℱ . F2 Se è 𝑈 ∈ ℱ e 𝑉 ⊇ 𝑈 , allora 𝑉 ∈ ℱ . F3 Se è 𝑈1 , 𝑈2 ∈ ℱ , allora 𝑈1 ∩ 𝑈2 ∈ ℱ . Dati due filtri ℱ1 e ℱ2 su un insieme 𝑋, diremo che ℱ1 è più fine di ℱ2 e scriveremo ℱ1 ⪰ ℱ2 se è ℱ1 ⊇ ℱ2 . ◁
Si constata facilmente che, si ha ℱ1 ⪰ ℱ2 se e solo se, per ogni 𝐹2 ∈ ℱ2 esiste un 𝐹1 ∈ ℱ1 , con 𝐹2 ⊇ 𝐹1 . Appare evidente che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, la famiglia 𝒰(𝑥) è un filtro, detto filtro degli intorni di 𝑥. Per un filtro qualunque, oltre a mancare in generale la 𝑈 4, non è detto che gli elementi del filtro contengano tutti un dato elemento. Un tipico esempio è dato dal filtro di Fréchet in ℕ costituito dai sottoinsiemi cofiniti di ℕ. Dalla definizione di intorno, risulta immediato che, come già osservato, in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), un insieme 𝐴 è aperto se e solo se è intorno di ogni suo punto. (Per 𝐴 = ∅, non ci sono “suoi punti” da controllare.) Questa proprietà degli aperti può essere utilizzata come definizione di insieme aperto nel caso in cui volgiamo introdurre una topologia a partire dal concetto di intorno. Più precisamente: Teorema 1.19. Siano 𝑋 un insieme non vuoto e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝒰(𝑥) una famiglia di sottoinsiemi di 𝑋 soddisfacente agli assiomi 𝑈 1, … , 𝑈 4. Esiste una e una sola topologia 𝜏 su 𝑋 in cui gli intorni di ciascun punto 𝑥 ∈ 𝑋 sono tutti e soli gli elementi di 𝒰(𝑥).
Dimostrazione. L’unico modo per definire una topologia in cui gli intorni di un punto 𝑥 ∈ 𝑋 sono gli elementi di 𝒰(𝑥) è quello di dichiarare aperti gli elementi della famiglia 𝜏 così definita 𝜏 ∶= {𝐴 ∈ 𝒫 (𝑋) ∶ 𝐴 ∈ 𝒰(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝐴} .
Si ha subito ∅ ∈ 𝜏. Fissato un 𝑥 ∈ 𝑋, per la 𝑈 1 esiste 𝑈 tale che 𝑥 ∈ 𝑈 ∈ 𝒰(𝑥); per la 𝑈 2, si ha 𝑋 ∈ 𝒰(𝑥) e quindi 𝑋 ∈ 𝜏, data l’arbitrarietà di 𝑥. Siano dati 𝐴, 𝐵 ∈ 𝜏. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐴 ∩ 𝐵, si ha 𝐴, 𝐵 ∈ 𝒰(𝑥) e quindi anche 𝐴 ∩ 𝐵 ∈ 𝒰(𝑥) per la 𝑈 3. È dunque anche 𝐴 ∩ 𝐵 ∈ 𝜏. Sia data una famiglia {𝐴𝑖 }𝑖∈𝐽 di elementi di 𝜏 e diciamo 𝐴∗ la loro unione. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐴∗ , esiste un indice 𝑖(𝑥) ∈ 𝐽 tale che 𝑥 ∈ 𝐴𝑖(𝑥) . Per ipotesi, è 𝐴𝑖(𝑥) ∈ 𝒰(𝑥), dunque è anche 𝐴∗ ∈ 𝒰(𝑥), per la 𝑈 2. Per l’arbitrarietà di 𝑥, è anche 𝐴∗ ∈ 𝜏.
1.2. Intorni
9
Si conclude che 𝜏 è effettivamente una topologia. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, indichiamo con 𝒰 ′ (𝑥) la famiglia dei 𝜏-intorni di 𝑥. Dobbiamo provare che, sempre per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, è 𝒰 ′ (𝑥) = 𝒰(𝑥). Fissiamo dunque un 𝑥 ∈ 𝑋 e un sottoinsieme 𝑈 di 𝑋 che lo contenga. Se è 𝑈 ∈ 𝒰 ′ (𝑥), esiste 𝐴 ∈ 𝜏 tale che 𝑥 ∈ 𝐴 ⊆ 𝑈 . Per definizione di 𝜏, è 𝐴 ∈ 𝒰(𝑥), da cui anche 𝑈 ∈ 𝒰(𝑥) per la 𝑈 2. Viceversa, sia 𝑈 ∈ 𝒰(𝑥). Per la 𝑈 4, esiste un 𝐴 contenente 𝑥 tale che 𝐴 ∈ 𝒰(𝑦), per ogni 𝑦 ∈ 𝐴. Dunque è 𝐴 ∈ 𝜏, da cui 𝑈 ∈ 𝒰 ′ (𝑥). Definizione 1.20. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Un punto 𝑥 ∈ 𝑋 è detto isolato se il singoletto {𝑥} è un suo intorno. ◁ Dunque una topologia su un insieme non vuoto 𝑋 è quella discreta se e solo se tutti i punti sono isolati.
Definizione 1.21. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝒰(𝑥) il filtro degli intorni di 𝑥. Una sottofamiglia ℬ(𝑥) di 𝒰(𝑥) si dice base di intorni di 𝑥 se, per ogni 𝑉 ∈ 𝒰(𝑥), esiste 𝑈 ∈ ℬ(𝑥) tale che 𝑈 ⊆ 𝑉 . ◁
Dalla definizione è evidente che se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, è assegnata una base di suoi intorni, la totalità degli intorni di 𝑥 si ottiene prendendo tutti gli insiemi che contengono qualche elemento della base. Per esempio, data una topologia 𝜏 su 𝑋, una base di intorni di 𝑥 si ottiene prendendo tutti gli aperti contenenti 𝑥. Se 𝑧 ∈ 𝑋 è un punto isolato, allora una base di intorni per 𝑧 è costituita dal solo insieme {𝑧}. Volendo definire una topologia mediante gli intorni dei singoli punti, in accordo col Teorema 1.19, possiamo associare ad ogni 𝑥 ∈ 𝑋, una famiglia ℬ(𝑥) soddisfacente alle seguenti condizioni (assiomi delle basi di intorni): 𝑈 ′1 𝑈 ′2 𝑈 ′3
Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, è ℬ(𝑥) ≠ ∅ e 𝑥 ∈ 𝑈 , ∀𝑈 ∈ ℬ(𝑥). Se 𝑈1 , 𝑈2 ∈ ℬ(𝑥), allora esiste 𝑈 ∈ ℬ(𝑥) tale che 𝑈 ⊆ 𝑈1 ∩ 𝑈2 . Per ogni 𝑈 ∈ ℬ(𝑥), esiste 𝑉 ⊆ 𝑈 , con 𝑥 ∈ 𝑉 e tale che, per ogni 𝑦 ∈ 𝑉 , esiste un 𝑊 ∈ ℬ(𝑦) tale che 𝑊 ⊆ 𝑉 .
Il lettore può facilmente verificare che, assegnata per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 una famiglia ℬ(𝑥) soddisfacente agli assiomi 𝑈 ′ 1, 𝑈 ′ 2, 𝑈 ′ 3, la famiglia 𝒰(𝑥) ∶= {𝑉 ∶ ∃𝑈 ∈ ℬ(𝑥) con 𝑉 ⊇ 𝑈 }
soddisfa agli assiomi degli intorni 𝑈 1, … , 𝑈 4 e quindi risulta determinata una topologia in cui gli insiemi 𝒰(𝑥) sono i filtri degli intorni dei vari punti. Definizione 1.22. Siano dati un insieme 𝑋 e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, una base di intorni ℬ(𝑥) [un filtro di intorni 𝒰(𝑥)]. Poniamo allora ℬ(𝑋) =
⋃
𝑥∈𝑋
ℬ(𝑥);
𝒰(𝑋) =
⋃
𝑥∈𝑋
𝒰(𝑥).
Indicheremo poi con 𝜏(ℬ(𝑋)), 𝜏(𝒰(𝑋)) la topologia in cui gli intorni di un punto 𝑥 sono gli elementi di 𝒰(𝑥). ◁
1.2. Intorni
10
Esercizio 1.23. Siano dati un insieme 𝑋 e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, due basi di intorni ℬ ′ (𝑥) e ℬ ″ (𝑥). Si verifichi che se, per ogni 𝑈 ′ ∈ ℬ ′ (𝑥), esiste un 𝑈 ″ ∈ ℬ ″ (𝑥) con 𝑈 ″ ⊆ 𝑈 ′ allora la topologia 𝜏(ℬ ″ (𝑋)) è più fine di 𝜏(ℬ ′ (𝑋)). Si verifichi poi che le due basi generano la stessa topologia se e solo se si ha anche che, per ogni 𝑈 ″ ∈ ℬ ″ (𝑥), esiste un 𝑈 ′ ∈ ℬ ′ (𝑥) con 𝑈 ′ ⊆ 𝑈 ″ . ◁
Esempio 1.24. Sia 𝑋 ∶= ℝ e consideriamo, al variare di 𝑥 ∈ ℝ, la famiglia ℬ(𝑥) costituita dagli intervalli aperti ]𝑥 − 𝛿, 𝑥 + 𝛿[, con 𝛿(∈ ℝ) > 0. È immediato constatare che sono soddisfatti gli assiomi delle basi di intorni e che la topologia generata è quella ordinaria 𝜏𝑒 (cfr. Esempio 1.9). Si perviene alla medesima topologia anche considerando come intorni di base gli intervalli del tipo ]𝑥 − 1/𝑛, 𝑥 + 1/𝑛[, con 𝑛 ∈ ℕ+ . In questo caso, per ogni 𝑥, abbiamo una base numerabile di intorni. Lo stesso procedimento si può applicare per 𝑋 = ℝ𝑛 , considerando, al variare di x ∈ ℝ𝑛 la famiglia ℬ(x) data dalle palle aperte di centro x e raggio 𝛿 > 0 (o anche solo di raggio 1/𝑛), ottenendo la topologia euclidea. ◁ Esempio 1.25. Sia 𝑋 ∶= 𝐴 ∪ 𝐵, con 𝐴 e 𝐵 disgiunti, 𝐴 infinito; definiamo in 𝑋 una topologia assegnando ad ogni 𝑥 ∈ 𝑋 una base di intorni. I punti di 𝐴 sono isolati. Per ogni 𝑏 ∈ 𝐵, prendiamo come intorni gli insiemi del tipo 𝑈𝑏 ∶= {𝑏} ∪ 𝑀, con 𝑀 ⊆ 𝐴 insieme cofinito. Si verifica facilmente che quelle ora definite sono effettivamente basi di intorni. ◁
Esempio 1.26. Sia 𝑋 ∶= ]0, 1[2 ∪ {𝑝, 𝑞} ⊂ ℝ2 , con 𝑝 = (0, 0) e 𝑞 = (1, 0). Definiamo in 𝑋 una topologia assegnando ad ogni 𝑥 ∈ 𝑋 una base di intorni. Per 𝑥 ∈ ]0, 1[2 ∪ {𝑝}, gli intorni sono quelli della topologia euclidea intersecati con 𝑋. Una base di intorni di 𝑞 è costituita dagli insiemi del tipo 𝑈𝑓 = {𝑞} ∪ {(𝑥, 𝑦) ∶ (𝑥 ∈ ]0, 1[) ∧ (0 < 𝑦 < 𝑓 (𝑥))}, dove 𝑓 ∶ ]0, 1[ → ]0, 1[ è una funzione arbitraria. Verificare, per esercizio, la validità degli assiomi. ◁ Esempio 1.27. Sia 𝑋 ∶= ℝ2 . Per ogni x0 = (𝑥0 , 𝑦0 ) ∈ ℝ2 e ogni 𝑟 > 0, definiamo croce di centro x0 e raggio 𝑟 l’insieme 𝐶(x0 , 𝑟) ∶= {(𝑥, 𝑦0 ) ∈ ℝ2 ∶ |𝑥 − 𝑥0 | < 𝑟} ∪ {(𝑥0 , 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ |𝑦 − 𝑦0 | < 𝑟} .
Come già osservato, per assegnare la famiglia degli intorni di un punto, basta definire gli aperti che contengono il punto. Dato il punto x0 , diciamo che un insieme 𝐴 contenente x0 è un suo intorno aperto se, per ogni y ∈ 𝐴, esiste 𝑟 = 𝑟(y) > 0 tale che la croce 𝐶(y, 𝑟) è contenuta in 𝐴. È agevole verificare la validità degli assiomi 𝑈 ′ 1, 𝑈 ′ 2, 𝑈 ′ 3.
x0
1.3. Proprietà legate agli intorni In figura è rappresentato un intorno aperto di base di un punto x0 .
11 ◁
Esempio 1.28. Siano 𝐼 ⊆ ℝ un intervallo e 𝑋 ⊆ ℝ𝐼 ∶= {𝑓 ∶ 𝐼 → ℝ}. Dati 𝑓 ∈ 𝑋, 𝜀 > 0 e un sottoinsieme finito 𝐽 di 𝐼, definiamo 𝑈𝑓 (𝜀, 𝐽 ) ∶= {𝑔 ∈ 𝑋 ∶ |𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝐽 } .
Ancora una volta, è facile constatare la validità degli assiomi 𝑈 ′ 1, 𝑈 ′ 2, 𝑈 ′ 3. ◁
1.3 Proprietà legate agli intorni Nei paragrafi precedenti abbiamo visto tre modi diversi di introdurre una topologia: mediante aperti, mediante chiusi e mediante intorni. Vogliamo discutere ora come si possono classificare i punti di uno spazio topologico in relazione ad un sottoinsieme dato, utilizzando il concetto di intorno. Cominciamo con alcune semplici osservazioni, in parte già viste precedentemente. Ricordiamo che un insieme è aperto se e solo se è intorno di ogni suo punto. D’altra parte, passando al complementare, abbiamo che un insieme 𝐶 è chiuso se e solo se, per ogni 𝑥 ∉ 𝐶, esiste un intorno 𝑈 di 𝑥 con 𝑈 ∩ 𝐶 = ∅. Queste proprietà suggeriscono di introdurre la seguente partizione dei punti dello spazio rispetto ad un dato insieme. Definizione 1.29. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝑊 un sottoinsieme di 𝑋. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 sussiste una e una sola delle seguenti eventualità: 1. Esiste un intorno 𝑈 di 𝑥 contenuto in 𝑊 . In questo caso, diremo che 𝑥 è un punto interno a 𝑊 . 2. Esiste un intorno 𝑈 di 𝑥 contenuto in 𝑋 ⧵ 𝑊 ; cioè 𝑈 ∩ 𝑊 = ∅. In questo caso, diremo che 𝑥 è un punto esterno a 𝑊 . 3. Per ogni intorno 𝑈 di 𝑋, si ha 𝑈 ∩ 𝑊 ≠ ∅ e 𝑈 ⧵ 𝑊 ≠ ∅; cioè, in ogni intorno di 𝑥 ci sono sia punti di 𝑊 , sia punti del suo complementare. In questo caso, diremo che 𝑥 è un punto di frontiera per 𝑊 . L’insieme dei punti interni a 𝑊 si chiama l’interno di 𝑊 e si indica con int 𝑊 . L’insieme dei punti di frontiera per 𝑊 si chiama la frontiera di 𝑊 e si indica con uno dei simboli fr 𝑊 , 𝜕𝑊 . ◁ Chiaramente i punti esterni a 𝑊 sono quelli interni al complementare.
Definizione 1.30. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝑊 un sottoinsieme di 𝑋. Diremo che un punto 𝑥 ∈ 𝑋 è aderente a 𝑊 se in ogni intorno di 𝑥 cadono punti di 𝑊 . L’insieme dei punti aderenti a un insieme 𝑊 si chiama la chiusura di 𝑊 e si indica con cl 𝑊 . ◁
Lemma 1.31. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, si ha int 𝐸 ⊆ 𝐸 ⊆ cl 𝐸. Inoltre, si ha int 𝑋 = 𝑋 e cl ∅ = ∅.
1.3. Proprietà legate agli intorni
12
2. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, si ha cl 𝐸 = 𝑋 ⧵ int(𝑋 ⧵ 𝐸). 3. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, si ha int 𝐸 = 𝑋 ⧵ cl(𝑋 ⧵ 𝐸). 4. Per ogni 𝐸, 𝐹 ⊆ 𝑋, da 𝐸 ⊆ 𝐹 segue int 𝐸 ⊆ int 𝐹 e cl 𝐸 ⊆ cl 𝐹 .
Dimostrazione. La prima parte della (1) segue immediatamente dal fatto che ogni intorno di un punto contiene il punto stesso. La seconda è ovvia. 2. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝑥 ∉ cl 𝐸 se e solo se esiste un intorno 𝑈 di 𝑥 in cui non ci sono punti di 𝐸, ossia 𝑈 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝐸 e, per definizione di interno, se e solo se 𝑥 ∈ int(𝑋 ⧵ 𝐸). 3. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝑥 ∉ int 𝐸 se e solo se non c’è alcun intorno 𝑈 di 𝑥 contenuto in 𝐸, ossia 𝑈 ∩ (𝑋 ⧵ 𝐸) ≠ ∅, per ogni intorno 𝑈 di 𝑥 e quindi, per definizione di chiusura, se e solo se 𝑥 ∈ cl(𝑋 ⧵ 𝐸). La verifica della (4) è immediata. Teorema 1.32. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, int 𝐸 è aperto. 2. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, int 𝐸 è l’unione degli aperti contenuti in 𝐸 ed è quindi il massimo aperto contenuto in 𝐸. 3. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, si ha int(int 𝐸) = int 𝐸. 4. Per ogni 𝐸, 𝐹 ⊆ 𝑋, si ha int(𝐸 ∩ 𝐹 ) = int 𝐸 ∩ int 𝐹 . 5. Un sottoinsieme 𝐴 di 𝑋 è aperto se e solo se è 𝐴 = int 𝐴. 6. Un sottoinsieme 𝐴 di 𝑋 è aperto se e solo se è 𝐴 ∩ fr 𝐴 = ∅.
Dimostrazione. 1. Sia 𝑥 ∈ int 𝐸. Poiché ogni intorno di 𝑥 contiene un aperto contenente il punto stesso, esiste un aperto 𝐴𝑥 tale che 𝑥 ∈ 𝐴𝑥 ⊆ 𝐸. Inoltre, se 𝑦 ∈ 𝐴𝑥 , allora 𝐴𝑥 è intorno di 𝑦 e quindi anche 𝐸 è intorno di 𝑦; dunque 𝑦 è interno a 𝐸. Si conclude che 𝐴𝑥 è contenuto in int 𝐸 e pertanto int 𝐸 è intorno di 𝑥. Dall’arbitrarietà di 𝑥 si ha la tesi. 2. Sia ℰ ∶= ⋃𝐴∈𝜏,𝐴⊆𝐸 𝐴. Abbiamo appena verificato che int 𝐸 è aperto e, per il lemma precedente, int 𝐸 ⊆ 𝐸. Dunque è int 𝐸 ⊆ ℰ . Viceversa, se 𝐴 ⊆ 𝐸 è un aperto, si ottiene 𝐴 ⊆ int 𝐸. Infatti, basta ripetere per 𝐴 quanto detto al punto (1) per 𝐴𝑥 . Si ha pertanto anche l’inclusione opposta. 3. Per comodità, poniamo 𝐸 ′ ∶= int 𝐸. Sappiamo che 𝐸 ′ è un aperto (punto 1) ed è quindi il più grande aperto contenuto in se stesso; per il punto precedente, deve quindi coincidere con il suo interno. 4. Da 𝐸 ∩ 𝐹 ⊆ 𝐸, 𝐹 , segue int(𝐸 ∩ 𝐹 ) ⊆ int 𝐸 ∩ int 𝐹 . Viceversa, l’insieme int 𝐸 ∩ int 𝐹 è un aperto contenuto sia in 𝐸 sia in 𝐹 e quindi in 𝐸 ∩ 𝐹 ; esso è pertanto contenuto in int(𝐸 ∩ 𝐹 ) (che è il massimo aperto contenuto in 𝐸 ∩ 𝐹 ). Le ultime due affermazioni sono di verifica immediata. Esempio 1.33. Siano 𝐼 ⊆ ℝ un qualunque intervallo non degenere, 𝛼 ∶= inf 𝐼 ∈ ℝ ∪ {−∞} e 𝛽 ∶= sup 𝐼 ∈ ℝ ∪ {+∞}. Dotando ℝ della topologia ordinaria, si ha subito int 𝐼 = ]𝛼, 𝛽[. ◁
1.3. Proprietà legate agli intorni
13
Esempio 1.34. In ℝ con la topologia ordinaria, si consideri il sottoinsieme 𝐸 ∶= 𝐼 ∩ ℚ, con 𝐼 intervallo non degenere, di estremi 𝛼 e 𝛽 come nell’esempio precedente. Si ha subito int 𝐸 = ∅. Il medesimo insieme 𝐸 è anche sottoinsieme di ℚ. Ignoriamo ora i punti di ℝ ⧵ℚ e pensiamo ℚ come spazio topologico a sé stante, sempre con la topologia euclidea. In questo caso, si ha int 𝐸 = 𝐸 ⧵ {𝛼, 𝛽}. ◁ Dalla Proposizione 1.31.4 segue che, comunque si prendano due sottoinsiemi 𝐸, 𝐹 di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), si ha int 𝐸 ∪ int 𝐹 ⊆ int(𝐸 ∪ 𝐹 ). Si tenga presente che, in generale, non sussiste l’inclusione opposta.
Esempio 1.35. In ℝ con la topologia ordinaria, siano 𝐸 ∶= [0, 1] e 𝐹 ∶= [1, 2]. Si ha int(𝐸 ∪ 𝐹 ) = int[0, 2] = ]0, 2[ ≠ int 𝐸 ∪ int 𝐹 = ]0, 1[ ∪ ]1, 2[.
◁
Teorema 1.36. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, cl 𝐸 è un insieme chiuso. 2. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, cl 𝐸 è l’intersezione dei chiusi contenenti 𝐸 ed è quindi il minimo chiuso contenente 𝐸. 3. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, si ha cl(cl 𝐸) = cl 𝐸. 4. Per ogni 𝐸, 𝐹 ⊆ 𝑋, si ha cl(𝐸 ∪ 𝐹 ) = cl 𝐸 ∪ cl 𝐹 . 5. Un sottoinsieme 𝐶 di 𝑋 è chiuso se e solo se è 𝐶 = cl 𝐶. 6. Un sottoinsieme 𝐶 di 𝑋 è chiuso se e solo se 𝐶 ⊇ fr 𝐶.
Dimostrazione. 1. Per la Proposizione 1.32.1, l’insieme int(𝑋 ⧵ 𝐸) è aperto. La tesi segue ora dalla Proposizione 1.31.2. 2. Sia ℰ ∶= ⋂𝐶 chiuso,𝐶⊇𝐸 𝐶. Abbiamo appena verificato che cl 𝐸 è chiuso e, per il lemma 1.31, cl 𝐸 ⊇ 𝐸. Dunque è cl 𝐸 ⊇ ℰ . Veniamo al viceversa. Da 𝐸 ⊆ ℰ , segue (Lemma 1.31) (𝐸 ⊆) cl 𝐸 ⊆ cl ℰ . Poiché ℰ è chiuso, 𝑋 ⧵ ℰ è aperto e quindi nessuno dei suoi punti è aderente a ℰ . Pertanto cl ℰ ⊆ ℰ e quindi anche cl 𝐸 ⊆ ℰ . 3. Per comodità, poniamo 𝐸 ′ ∶= cl 𝐸. Sappiamo che 𝐸 ′ è un chiuso (punto 1) ed è quindi il più piccolo chiuso contenente se stesso: per il punto precedente, deve quindi coincidere con la sua chiusura. 4. Da 𝐸 ∪ 𝐹 ⊇ 𝐸, 𝐹 , segue cl(𝐸 ∪ 𝐹 ) ⊇ cl 𝐸 ∪ cl 𝐹 . Viceversa, l’insieme cl 𝐸 ∪ cl 𝐹 è un chiuso contenente sia 𝐸 sia 𝐹 e quindi 𝐸 ∪ 𝐹 ; esso pertanto contiene cl(𝐸 ∪ 𝐹 ) (che è il minimo chiuso contenente 𝐸 ∪ 𝐹 ). Le ultime due affermazioni sono di verifica immediata. Esempio 1.37. Siano 𝐼 ⊆ ℝ un qualunque intervallo non degenere, 𝛼 ∶= inf 𝐼 e 𝛽 ∶= sup 𝐼. Dotiamo ℝ della topologia ordinaria. Se è 𝛼, 𝛽 ∈ ℝ, si ha subito cl 𝐼 = [𝛼, 𝛽]. Se è 𝛼 = −∞ e 𝛽 ∈ ℝ, si ha cl 𝐼 = ]𝛼, 𝛽]. Se è 𝛼 ∈ ℝ e 𝛽 = +∞, si ha cl 𝐼 = [𝛼, 𝛽[. Sappiamo già che è cl ℝ = ℝ. ◁
1.3. Proprietà legate agli intorni
14
Esempio 1.38. In ℝ con la topologia ordinaria, si consideri il sottoinsieme ℚ. Si ha subito cl ℚ = ℝ. Naturalmente, se ignoriamo i punti di ℝ ⧵ ℚ e pensiamo ℚ come spazio topologico a sé stante, sempre con la topologia euclidea, si ha cl ℚ = ℚ. ◁ Dalla Proposizione 1.31.4 segue che, comunque si prendano due sottoinsiemi 𝐸, 𝐹 di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), si ha cl 𝐸 ∩ cl 𝐹 ⊇ cl(𝐸 ∩ 𝐹 ). Si tenga presente che, in generale, non sussiste l’inclusione opposta.
Esempio 1.39. In ℝ con la topologia ordinaria, siano 𝐸 ∶= [0, 1[ e 𝐹 ∶= ]1, 2]. si ha cl(𝐸 ∩ 𝐹 ) = cl ∅ = ∅ ≠ cl 𝐸 ∩ cl 𝐹 = [0, 1] ∩ [1, 2] = {1}. ◁ Teorema 1.40. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un sottoinsieme di 𝑋. Allora: 1. fr 𝐸 = fr(𝑋 ⧵ 𝐸). 2. int 𝐸 = 𝐸 ⧵ fr 𝐸 e cl 𝐸 = 𝐸 ∪ fr 𝐸. 3. fr 𝐸 = cl 𝐸 ⧵ int 𝐸. 4. fr 𝐸 = cl 𝐸 ∩ cl(𝑋 ⧵ 𝐸). 5. fr 𝐸 è un insieme chiuso. 6. fr 𝐸 = ∅ se e solo se 𝐸 è sia aperto che chiuso (clopen). Dimostrazione. Le prime cinque affermazioni sono di verifica immediata. Un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋 è clopen se e solo se fr 𝐸 ⊆ 𝐸 (𝐸 è chiuso) e fr 𝐸 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝐸 (𝐸 è aperto), ossia se e solo se è fr 𝐸 = ∅.
Esempio 1.41. Siano 𝐼 ⊆ ℝ un qualunque intervallo non degenere, 𝛼 ∶= inf 𝐼 e 𝛽 ∶= sup 𝐼. Dotiamo ℝ della topologia ordinaria. Se è 𝛼, 𝛽 ∈ ℝ, si ha subito fr 𝐼 = {𝛼, 𝛽}. Se è 𝛼 = −∞ e 𝛽 ∈ ℝ, si ha fr 𝐼 = {𝛽}. Se è 𝛼 ∈ ℝ e 𝛽 = +∞, si ha fr 𝐼 = {𝛼}. In fine, si ha fr ℝ = fr ∅ = ∅. ◁ Esempio 1.42. In ℝ con la topologia ordinaria, si consideri il sottoinsieme ℚ. Si ha subito fr ℚ = ℝ. Naturalmente, se ignoriamo i punti di ℝ ⧵ ℚ e pensiamo ℚ come spazio topologico a sé stante, sempre con la topologia euclidea, si ha fr ℚ = ∅. ◁ Esempio 1.43. Siano dati due sottoinsiemi 𝐸, 𝐹 di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), Si ha fr(𝐸 ∪ 𝐹 ) ⊆ fr 𝐸 ∪ fr 𝐹 .
Sia 𝑥 ∉ fr 𝐸 ∪ fr 𝐹 . Se è 𝑥 ∈ int 𝐸 [𝑥 ∈ int 𝐹 ], si ha 𝑥 ∈ int(𝐸 ∪ 𝐹 ); altrimenti si ha 𝑥 ∈ int(𝑋 ⧵ 𝐸) ∩ int(𝑋 ⧵ 𝐹 ) = int((𝑋 ⧵ 𝐸) ∩ (𝑋 ⧵ 𝐹 )) = int(𝑋 ⧵ (𝐸 ∪ 𝐹 )). In ogni caso è 𝑥 ∉ fr(𝐸 ∪ 𝐹 ). In generale, non sussiste l’inclusione opposta. Inoltre, in generale, fra gli insiemi fr(𝐸 ∩ 𝐹 ) e fr 𝐸 ∩ fr 𝐹 non c’è alcuna inclusione. Constatiamolo con semplici esempi.
1.3. Proprietà legate agli intorni
15
In ℝ con la topologia ordinaria, siano 𝐸 ∶= [0, 1[, 𝐹 ∶= [1, 2], 𝐸 ′ ∶= [0, 2], 𝐹 ∶= [1, 3]. Si ha ′
fr(𝐸 ∩ 𝐹 ) = fr ∅ = ∅ ⊂ fr 𝐸 ∩ fr 𝐹 = {1}; fr 𝐸 ′ ∩ fr 𝐹 ′ = ∅ ⊂ fr(𝐸 ′ ∩ 𝐹 ′ ) = {1, 2};
fr(𝐸 ∪ 𝐹 ) = {0, 2} ⊂ fr 𝐸 ∪ fr 𝐹 = {0, 1, 2}.
◁
Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e consideriamo l’applicazione di 𝒫 (𝑋) → 𝒫 (𝑋) definita da 𝐸 ↦ cl 𝐸. Fra le diverse proprietà di cui gode questa applicazione (cfr. Teoremi 1.31 e 1.36), le seguenti prendono il nome di assiomi di Kuratowski. La loro importanza consiste nel fatto che caratterizzano, nel senso che verrà chiarito dal prossimo teorema, l’operatore di chiusura. Gli assiomi di Kuratowski sono i seguenti: K1 K2 K3 K4
cl ∅ = ∅. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, 𝐸 ⊆ cl 𝐸. Per ogni 𝐸, 𝐹 ⊆ 𝑋, cl(𝐸 ∪ 𝐹 ) = cl 𝐸 ∪ cl 𝐹 . Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, cl(cl 𝐸) = cl 𝐸.
Teorema 1.44. Siano dati un insieme 𝑋 e un’applicazione 𝜑 ∶ 𝒫 (𝑋) → 𝒫 (𝑋) soddisfacente agli assiomi di Kuratowski, ossia tale che K1 𝜑(∅) = ∅. K2 Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, 𝐸 ⊆ 𝜑(𝐸). K3 Per ogni 𝐸, 𝐹 ⊆ 𝑋, 𝜑(𝐸 ∪ 𝐹 ) = 𝜑(𝐸) ∪ 𝜑(𝐹 ). K4 Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, 𝜑(𝜑(𝐸)) = 𝜑(𝐸). Allora esiste una e una sola topologia su 𝑋 in cui l’operatore di chiusura coincide con 𝜑. Dimostrazione. Osserviamo intanto che, dati 𝐸.𝐹 ⊆ 𝑋, con 𝐹 ⊇ 𝐸, si ha 𝐹 = 𝐸 ∪ (𝐹 ⧵ 𝐸), da cui, per 𝐾3, 𝜑(𝐹 ) = 𝜑(𝐸) ∪ 𝜑(𝐹 ⧵ 𝐸) ⊇ 𝜑(𝐸). Per la Proposizione 1.36.1, se in 𝑋 è definita una topologia 𝜏 in cui l’operatore di chiusura coincide con 𝜑, allora i chiusi di 𝜏 devono essere tutti e soli i sottoinsiemi 𝐶 di 𝑋 per cui è 𝐶 = 𝜑(𝐶). Poniamo dunque 𝒞 = {𝐶 ⊆ 𝑋 ∶ 𝐶 = 𝜑(𝐶)}
(1.1)
e proviamo che 𝒞 soddisfa agli assiomi 𝐶1, 𝐶2, 𝐶3 dei chiusi. Si ha ∅ ∈ 𝒞 per 𝐾1 e 𝑋 ∈ 𝒞 per 𝐾2. Inoltre, 𝐶2 è assicurato da 𝐾3. Sia assegnata una famiglia {𝐶𝑖 }𝑖∈𝐽 di elementi di 𝒞 e poniamo 𝐶 ∗ ∶= ⋂𝑖∈𝐽 𝐶𝑖 . Vogliamo provare che è anche 𝐶 ∗ ∈ 𝒞 . Per 𝐾2, è 𝐶 ∗ ⊆ 𝜑(𝐶 ∗ ). Inoltre, per quanto detto all’inizio, da 𝐶 ∗ ⊆ 𝐶𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 , si ottiene 𝜑(𝐶 ∗ ) ⊆
⋂ 𝑖∈𝐽
𝜑(𝐶𝑖 ) =
⋂ 𝑖∈𝐽
𝐶𝑖 = 𝐶 ∗ .
Quindi 𝒞 è la famiglia dei chiusi di una topologia su 𝑋. Resta da provare che in tale topologia l’operatore di chiusura coincide con 𝜑. Per la Proposizione 1.36.2, basta provare che, per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, 𝜑(𝐸) è il minimo chiuso contenente 𝐸. Infatti, 𝜑(𝐸) ⊇ 𝐸 per 𝐾2 ed è 𝜑(𝐸) ∈ 𝒞 per 𝐾4; inoltre, da 𝐸 ⊆ 𝐶, con 𝐶 ∈ 𝒞 , si ottiene 𝜑(𝐸) ⊆ 𝜑(𝐶) = 𝐶.
1.3. Proprietà legate agli intorni
16
Come appare dalla dimostrazione appena conclusa, si può definire una topologia assegnando la famiglia dei chiusi mediante la (1.1), a partire da un qualunque operatore di chiusura “generalizzato” che soddisfi agli assiomi 𝐾1, 𝐾2, 𝐾3. Per tale topologia, avremo poi un operatore di chiusura “cl” che, ovviamente, soddisfa anche a 𝐾4 e che coincide con 𝜑 in 𝒞 . In generale, i due operatori non coincidono su tutto 𝒫 (𝑋), anche se si ha sempre 𝜑(𝐸) ⊆ cl 𝐸. Infatti, per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋 e ogni 𝐶 ∈ 𝒞 contenente 𝐸, si ha 𝜑(𝐸) ⊆ 𝜑(𝐶) = 𝐶, da cui appunto 𝜑(𝐸) ⊆ cl 𝐸. Vediamo con un esempio che non sempre sussiste l’uguaglianza.
Esempio 1.45. Sia 𝑋 ∶= ℕ e definiamo in esso il seguente operatore 𝜑. Sia 𝜑(∅) ∶= ∅ e, per ogni sottoinsieme non vuoto 𝐸 di ℕ, sia 𝜑(𝐸) l’unione di 𝐸 con i successori di tutti gli elementi di 𝐸. Si constata facilmente che sono soddisfatti gli assiomi 𝐾1, 𝐾2, 𝐾3. Un insieme 𝐶 è chiuso se e solo se, ogni volta che contiene un punto 𝑚, contiene anche il suo successore 𝑚 + 1. Quindi, oltre al vuoto, i chiusi sono tutti e soli gli insiemi del tipo 𝐶𝑘 ∶= {𝑛 ∈ ℕ ∶ 𝑛 ≥ 𝑘}. Partendo da 𝐸 = {0}, si ha 𝜑(𝐸) = {0, 1} e 𝜑(𝜑(𝐸)) = {0, 1, 2} ≠ 𝜑(𝐸). Osserviamo invece che, per la topologia dedotta da 𝜑, si ha cl 𝐸 = ℕ. Quindi iterando l’operatore 𝜑 un numero (finito) arbitrario di volte, non si ottiene mai la chiusura di 𝐸. Ritorneremo su questo tipo di problemi nel Paragrafo 2.2 e nel Capitolo sulle strutture di convergenza. ◁ Esempio 1.46. Sia 𝑋 ∶= ℝ𝑛 con la topologia ordinaria. La chiusura di un insieme 𝐸(≠ ∅) è, secondo la Definizione 1.30, l’insieme dei punti aderenti a 𝐸. In questo caso, 𝑝 ∈ ℝ𝑛 è aderente a 𝐸 se e solo se, per ogni 𝜀 > 0, si ha 𝐸 ∩𝐵(𝑝, 𝜀) ≠ ∅, dove 𝐵(𝑝, 𝜀) è, come sempre, la palla aperta di centro 𝑝 e raggio 𝜀. ◁
Esempio 1.47. Sia ora 𝑋 ∶= ℝ𝑛 ∪ {∞}. Ovviamente, il simbolo ∞ sta ad indicare un elemento che non appartiene a ℝ𝑛 . Per ogni sottoinsieme 𝐸 di 𝑋, definiamo 𝜑(𝐸) come segue: 𝜑({∞}) = {∞}; se 𝐸 è contenuto in ℝ𝑛 ed è limitato, 𝜑(𝐸) è la sua chiusura ordinaria; se 𝐸 è contenuto in ℝ𝑛 ed è illimitato, o se ∞ ∈ 𝐸, 𝜑(𝐸) è dato da {∞} unito alla chiusura ordinaria di 𝐸 ⧵ {∞}. Si constata facilmente che sono soddisfatti tutti gli assiomi di Kuratowski. Si genera così una topologia su 𝑋 in cui la chiusura di un insieme 𝐸 coincide con 𝜑(𝐸). In questa topologia, i chiusi sono gli insiemi chiusi e limitati di ℝ𝑛 assieme agli insiemi del tipo 𝐶 ∪ {∞} dove 𝐶, se non vuoto, è un chiuso e illimitato di ℝ𝑛 . Il nome che si dà a tale topologia e quello di compattificazione di ℝ𝑛 con un punto all’infinito (cfr. pag. 496 e seg.). ◁ Teorema 1.48. Gli assiomi di Kuratowski sono indipendenti.
Dimostrazione. 1. Siano 𝑋 ≠ ∅ e 𝜑 ∶ 𝒫 (𝑋) → 𝒫 (𝑋) definita da 𝜑(𝐸) = 𝑋, ∀𝐸 ∈ 𝒫 (𝑋). L’unico assioma non soddisfatto è 𝐾1.
1.3. Proprietà legate agli intorni
17
2. Siano 𝑋 = (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) e 𝜑 ∶ 𝒫 (ℝ2 ) → 𝒫 (ℝ2 ) l’applicazione che ad ogni sottoinsieme 𝐸 di ℝ2 associa l’insieme 𝐸𝑥 ⊆ ℝ2 dato dalla proiezione di 𝐸 sull’asse 𝑥. L’unico assioma non soddisfatto è 𝐾2. 3. Siano 𝑋 = (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) e 𝜑 ∶ 𝒫 (ℝ𝑛 ) → 𝒫 (ℝ𝑛 ) l’applicazione così definita: 𝜑(∅) = ∅; per ogni sottoinsieme non vuoto 𝐸 di ℝ𝑛 , 𝜑(𝐸) è il minimo sottospazio vettoriale di ℝ𝑛 contenente 𝐸. L’unico assioma non soddisfatto è 𝐾3. 4. Sappiamo già che per l’applicazione 𝜑 dell’Esempio 1.45 l’unico assioma non soddisfatto è 𝐾4. Quanto è stato visto per l’operatore di chiusura, potrebbe essere riformulato (con gli opportuni arrangiamenti) per l’operatore che ad ogni sottoinsieme di 𝑋 associa il suo interno. Lasciamo al lettore la cura di enunciare le proprietà dell’operatore di interno analoghe a quelle dell’operatore di chiusura di Kuratowski. Ovviamente, dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋, si ha cl(int 𝐸) ⊆ cl 𝐸 e int(cl 𝐸) ⊇ int 𝐸. In generale non sussistono le inclusioni opposte. Esempio 1.49. In (ℝ, 𝜏𝑒 ) si consideri il sottoinsieme 𝐸 ∶= [0, 1] ∪ ([1, 2] ∩ ℚ). Si ha immediatamente int 𝐸 = ]0, 1[;
cl 𝐸 = [0, 2];
cl(int 𝐸) = [0, 1];
int(cl 𝐸) = ]0, 2[.
◁
Ricordiamo anche la seguente definizione
Definizione 1.50. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Un aperto 𝐴 di 𝑋 è detto regolarmente aperto se è 𝐴 = int(cl 𝐴). Un chiuso 𝐶 di 𝑋 è detto regolarmente chiuso se è 𝐶 = cl(int 𝐶).
◁
Ovviamente ogni intervallo aperto [chiuso] di (ℝ, 𝜏𝑒 ) è regolarmente aperto [risp. regolarmente chiuso]. Mostriamo con un esempio che già in ℝ esistono insiemi aperti [chiusi] che non soddisfano alla definizione 1.50.
Esempio 1.51. In (ℝ, 𝜏𝑒 ) sia 𝐴 un intervallo aperto privato di un numero finito di punti. 𝐴 è palesemente aperto, ma l’interno della sua chiusura coincide con tutto l’intervallo. Analogamente, sia 𝐶 un intervallo chiuso a cui si aggiunge un insieme finito di punti non appartenenti all’intervallo. 𝐶 è palesemente chiuso, ma la chiusura del suo interno coincide con l’intervallo. ◁
Esercizio 1.52. Il lettore verifichi che, in ℝ𝑛 con la topologia euclidea, si ha cl 𝐵(𝑃0 , 𝑟) = 𝐵[𝑃0 , 𝑟] e int 𝐵[𝑃0 , 𝑟] = 𝐵(𝑃0 , 𝑟), per cui le palle aperte [chiuse] sono regolarmente aperte [chiuse]. ◁ Chiudiamo il paragrafo con un’ulteriore classificazione relativa ai punti aderenti a un sottoinsieme.
1.3. Proprietà legate agli intorni
18
Dato un insieme 𝐸 ≠ ∅, visto che i punti di 𝐸 sono ad esso aderenti, sarà più interessante esaminare i punti di cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Tali punti hanno la proprietà che in ogni loro intorno vi sono elementi di 𝐸 diversi dal punto stesso. Il lettore ha già incontrato questa proprietà nei corsi di base di Analisi Matematica quando si introduce il concetto di limite. Definizione 1.53. In uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), siano dati un sottoinsieme 𝐸 e un punto 𝑝. Diremo che 𝑝 è un punto di accumulazione per 𝐸 se, per ogni intorno 𝑈 di 𝑝, si ha 𝑈 ∩ 𝐸 ⧵ {𝑝} ≠ ∅. Diremo che 𝑝 è un punto di 𝜔-accumulazione per 𝐸 se, per ogni intorno 𝑈 di 𝑝, l’insieme 𝑈 ∩ 𝐸 è infinito. L’insieme dei punti di accumulazione per un insieme 𝐸 è detto il derivato di 𝐸 e si indica con 𝒟 𝐸. L’insieme dei punti di 𝜔-accumulazione per un insieme 𝐸 è detto l’𝜔derivato di 𝐸 e si indica con 𝒟𝜔 𝐸. ◁
Ovviamente, ogni punto di 𝜔-accumulazione per un sottoinsieme 𝐸 è anche di accumulazione per 𝐸. Ossia 𝒟𝜔 𝐸 ⊆ 𝒟 𝐸. In generale, non sussiste l’implicazione opposta nemmeno se 𝐸 è infinito. Vediamo un controesempio. Siano 𝑋 un insieme infinito, 0, 1 due prefissati punti di 𝑋 e definiamo in 𝑋 la seguente topologia. Tutti i punti diversi da 1 sono isolati; una base di intorni di 1 è data dall’insieme {0, 1}. Posto 𝐸 = 𝑋 ⧵ {1}, si ha 𝒟 𝐸 = {1} e 𝒟𝜔 𝐸 = ∅. Dati in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) un sottoinsieme 𝐸 e un punto 𝑝 di accumulazione per 𝐸 [di 𝜔-accumulazione per 𝐸], nulla si può dire a priori sull’appartenenza di 𝑝 ad 𝐸. Siano, per esempio, (𝑋, 𝜏) ∶= (ℝ, 𝜏𝑒 ) ed 𝐸 ∶= [0, 1[. Si ha 0, 1 ∈ 𝒟 𝐸 = 𝒟𝜔 𝐸, ma è 0 ∈ 𝐸 e 1 ∉ 𝐸. Definizione 1.54. In uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) si considerino un punto 𝑝 e un suo intorno 𝑈 . L’insieme 𝑈𝑝′ ∶= 𝑈 ⧵ {𝑝} viene detto intorno privato del punto. ◁
Dunque, dati in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) un sottoinsieme 𝐸 e un punto 𝑝, quest’ultimo è di accumulazione per 𝐸 se, per ogni intorno 𝑈 di 𝑝, si ha 𝑈𝑝′ ∩ 𝐸 ≠ ∅. Teorema 1.55. In uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) siano dati un insieme 𝐸 e un punto 𝑝. Allora: 1. 𝑝 ∈ 𝒟 𝐸 se e solo se è 𝑝 ∈ cl(𝐸 ⧵ {𝑝}); 2. cl 𝐸 = 𝐸 ∪ 𝒟 𝐸: 3. 𝐸 ∪ 𝒟𝜔 𝐸 ⊆ cl 𝐸: 4. cl 𝒟𝜔 𝐸 = 𝒟𝜔 𝐸: 5. 𝒟𝜔 (𝒟𝜔 𝐸) ⊆ 𝒟𝜔 𝐸.
Dimostrazione. La 1 è evidente. Proviamo la 2. Sia 𝑝 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. In ogni intorno di 𝑝 deve cadere almeno un punto di 𝐸 diverso da 𝑝, dato che è 𝑝 ∉ 𝐸. È dunque 𝑝 ∈ 𝒟 𝐸. Il viceversa è ovvio.
1.4. Sottospazi
19
Per la 3, basta osservare che è 𝐸 ∪ 𝒟𝜔 𝐸 ⊆ 𝐸 ∪ 𝒟 𝐸 = cl 𝐸. Proviamo la 4. Sia 𝑝 ∈ cl 𝒟𝜔 𝐸. In ogni intorno aperto 𝑈 di 𝑝 c’è almeno un punto 𝑞 ∈ 𝒟𝜔 𝐸; 𝑈 è anche intorno di 𝑞 e, quindi, in esso cadono infiniti punti di 𝐸. Il viceversa è ovvio. Veniamo, in fine, alla 5. Si ha 𝒟𝜔 (𝒟𝜔 𝐸) ⊆ cl 𝒟𝜔 𝐸 = 𝒟𝜔 𝐸.
In generale non sussistono le inclusioni opposte della (3) e della (5). Inoltre non è detto che 𝒟 𝐸 sia un insieme chiuso. Se 𝑋 è finito ed 𝐸 è un sottoinsieme non chiuso di 𝑋, si ha 𝒟𝜔 𝐸 = ∅ e cl 𝐸 ≠ 𝐸. In (ℝ, 𝜏𝑒 ), sia 𝐸 = {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }. Si ha 𝒟𝜔 𝐸 = {0} e 𝒟𝜔 (𝒟𝜔 𝐸) = ∅. Sia 𝑋 un insieme con almeno due punti 𝑝, 𝑞 dotato della topologia nulla. Posto 𝐸 = {𝑞}, si ha 𝒟 𝐸 = 𝑋 ⧵ {𝑞} ≠ cl 𝐸 = cl 𝒟 𝐸 = 𝑋.
1.4
Sottospazi
Data su un insieme non vuoto 𝑋 una topologia 𝜏, questa genera, in modo naturale, una topologia 𝜏𝐸 su ogni sottoinsieme 𝐸 di 𝑋.
Definizione 1.56. Dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋, si chiama topologia indotta o subordinata da 𝜏 su 𝐸 la topologia 𝜏𝐸 in cui sono aperti tutti e soli i sottoinsiemi del tipo 𝐴 ∩ 𝐸 con 𝐴 ∈ 𝜏. Quando non ci sia possibilità di equivoci, la topologia 𝜏𝐸 sarà indicata ancora con 𝜏. Lo spazio topologico (𝐸, 𝜏𝐸 ) è detto sottospazio (topologico) di (𝑋, 𝜏). ◁ La topologia indotta su un sottoinsieme 𝐸 può anche essere definita a partire dai chiusi, dagli intorni dei singoli punti o, limitatamente ai sottoinsiemi di 𝐸, dall’operatore di chiusura. Precisamente
Teorema 1.57. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e (𝐸, 𝜏𝐸 ) un suo sottospazio. Allora 1. I chiusi relativi a 𝜏𝐸 sono le intersezioni con 𝐸 dei chiusi di 𝑋. 2. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, i 𝜏𝐸 -intorni di 𝑥 sono le intersezioni con 𝐸 dei 𝜏-intorni di 𝑥. 3. Per ogni 𝐹 ⊆ 𝐸, si ha cl𝐸 𝐹 = 𝐸 ∩ cl𝑋 𝐹 . 4. Per ogni 𝐹 ⊆ 𝑋, si ha cl𝐸 (𝐹 ∩ 𝐸) ⊆ 𝐸 ∩ cl𝑋 𝐹 . 5. Per ogni 𝐹 ⊆ 𝑋, si ha fr𝐸 (𝐹 ∩ 𝐸) ⊆ 𝐸 ∩ fr𝑋 𝐹 . 6. Se ℬ è una base per la topologia 𝜏 in 𝑋, una base della topologia indotta su 𝐸 è data dalle intersezioni con 𝐸 degli elementi di ℬ. 7. Se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, ℬ(𝑥) è una base di intorni di 𝑥 per la topologia 𝜏 in 𝑋, si ottiene che, per ogni 𝑦 ∈ 𝐸, una base di suoi intorni nella topologia indotta su 𝐸 è data dalle intersezioni con 𝐸 degli elementi di ℬ(𝑦).
1.4. Sottospazi
20
Dimostrazione. 1. Per ogni 𝐴 ⊆ 𝑋, si ha
𝐸 ⧵ (𝐴 ∩ 𝐸) = 𝐸 ∩ 𝒞 (𝐴 ∩ 𝐸) = 𝐸 ∩ (𝒞 𝐴 ∪ 𝒞 𝐸) = 𝐸 ∩ 𝒞 𝐴 = 𝐸 ∩ (𝑋 ⧵ 𝐴).
Posto 𝐶 ∶= 𝐸 ⧵ (𝐴 ∩ 𝐸), si ha che 𝐶 è un 𝜏𝐸 -chiuso se e solo se 𝐴 è un 𝜏-aperto e quindi se e solo se 𝑋 ⧵ 𝐴 è un 𝜏-chiuso. 2. Un sottoinsieme 𝑈 di 𝐸 è un 𝜏𝐸 -intorno di un punto 𝑥 ∈ 𝐸 se e solo se esiste un 𝐴 ∈ 𝜏 tale che 𝑥 ∈ (𝐴 ∩ 𝐸) ⊆ 𝑈 . Osservando che è 𝑈 = 𝐸 ∩ 𝑈 ′ , con 𝑈 ′ = 𝑈 ∪ (𝑋 ⧵ 𝐸), si conclude che 𝑈 è un 𝜏𝐸 -intorno di 𝑥 se e solo se 𝑈 ′ è un 𝜏-intorno di 𝑥. 3. Sia 𝐹 un sottoinsieme di 𝐸. Indichiamo con cl𝑋 𝐹 , cl𝐸 𝐹 le chiusure di 𝐹 negli spazi topologici (𝑋, 𝜏) e, rispettivamente, (𝐸, 𝜏𝐸 ). Sia 𝑥 ∈ cl𝐸 𝐹 . Si ha, intanto, 𝑥 ∈ 𝐸; inoltre, per ogni 𝜏-intorno 𝑉 di 𝑥, si ha 𝑉 ∩𝐹 = (𝑉 ∩𝐸)∩𝐹 ≠ ∅, dato che 𝑉 ∩ 𝐸 è un 𝜏𝐸 -intorno di 𝑥. Viceversa, sia 𝑥 ∈ 𝐸 ∩ cl𝑋 𝐹 . Dato un 𝜏𝐸 -intorno 𝑈 di 𝑥, si ha 𝑈 = 𝑉 ∩ 𝐸, con 𝑉 𝜏-intorno del punto. Per definizione, 𝑉 ∩ 𝐹 ≠ ∅. D’altra parte, 𝑈 ∩ 𝐹 = (𝑉 ∩ 𝐸) ∩ 𝐹 = 𝑉 ∩ 𝐹 ≠ ∅. 4. Dal punto precedente, si ottiene che, per ogni 𝐹 ⊆ 𝑋, si ha cl𝐸 (𝐹 ∩ 𝐸) = 𝐸 ∩ cl𝑋 (𝐹 ∩ 𝐸) ⊆ 𝐸 ∩ cl𝑋 𝐹 .
5. Per ogni 𝐵 ⊆ 𝐸, indichiamo con fr𝑋 𝐵, fr𝐸 𝐵 le frontiere di 𝐵 negli spazi topologici (𝑋, 𝜏) e, rispettivamente, (𝐸, 𝜏𝐸 ). Siano 𝐹 un sottoinsieme di 𝑋 e 𝐹 ′ ∶= 𝐹 ∩ 𝐸. Se 𝑥 ∈ fr𝐸 𝐹 ′ (⊆ 𝐸) e 𝑈 è un suo 𝜏-intorno, si ha 𝑈 ∩ 𝐹 ⊇ 𝑈 ∩ 𝐹 ′ = (𝑈 ∩ 𝐸) ∩ 𝐹 ′ ≠ ∅ e anche 𝑈 ∩ (𝑋 ⧵ 𝐹 ) ⊇ 𝑈 ∩ (𝐸 ⧵ 𝐹 ) = (𝑈 ∩ 𝐸) ⧵ 𝐹 ′ ≠ ∅, poiché 𝑈 ∩ 𝐸 è un 𝜏𝐸 -intorno di 𝑥. Si conclude che 𝑥 ∈ 𝐸 ∩ fr𝑋 𝐹 . 6. Segue direttamente dalle definizioni di base e di topologia indotta. 7. Segue immediatamente dalla definizione di base di intorni e dalla (2). Si tenga presente che, in generale, non sussistono le inclusioni opposte della (4) e della (5) anzi, per quanto riguarda quest’ultima, il risultato può essere falso anche nel caso in cui sia 𝐹 ⊆ 𝐸.
Esempio 1.58. Nello spazio topologico (𝑋, 𝜏) ∶= (ℝ, 𝜏𝑒 ), si ponga 𝐸 ∶= [−2, 1] e 𝐹 ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ |𝑥| > 1}. Si ha subito cl𝐸 (𝐹 ∩ 𝐸) = cl𝐸 [−2, −1[ = [−2, −1], ma 𝐸 ∩ cl𝑋 𝐹 = 𝐸 ∩ {𝑥 ∈ ℝ ∶ |𝑥| ≥ 1} = [−2, −1] ∪ {1}. Sia, inoltre, 𝐺 = [−2, 0]. È evidente che è fr𝐸 𝐺 = {0}, ma 𝐸 ∩ fr𝑋 𝐺 = {−2, 0}. ◁ Casi particolari molto interessanti sono quelli in cui il sottoinsieme 𝐸 è un aperto o un chiuso di 𝑋.
Teorema 1.59. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un sottoinsieme aperto di 𝑋. 1. Sono aperti in 𝜏𝐸 tutti e soli gli aperti di 𝑋 che sono contenuti in 𝐸. 2. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, i 𝜏𝐸 -intorni di 𝑥 sono i 𝜏-intorni di 𝑥 contenuti in 𝐸. 3. Per ogni 𝐹 ⊆ 𝑋, si ha cl𝐸 (𝐹 ∩ 𝐸) = 𝐸 ∩ cl𝑋 𝐹 . 4. Per ogni 𝐹 ⊆ 𝑋, si ha fr𝐸 (𝐹 ∩ 𝐸) = 𝐸 ∩ fr𝑋 𝐹 .
1.4. Sottospazi
21
Dimostrazione. 1. Sapendo che i 𝜏𝐸 -aperti sono tutti e soli i sottoinsiemi del tipo 𝐴∩𝐸, con 𝐴 ∈ 𝜏, dall’ipotesi che sia anche 𝐸 ∈ 𝜏, si ha che tutti i 𝜏𝐸 -aperti sono anche 𝜏-aperti (ovviamente contenuti in 𝐸). Il viceversa è ovvio. 2. Segue dalla Proposizione 1.57.2 e dalla 1. 3. Siano 𝑥 ∈ 𝐸 ∩ cl𝑋 𝐹 e 𝑈 un 𝜏𝐸 -intorno aperto di 𝑥. Per la 1, 𝑈 è un 𝜏-aperto contenuto in 𝐸 e contenente 𝑥. Per la definizione di chiusura, si ha 𝑈 ∩ 𝐹 ≠ ∅, ma 𝑈 ∩ 𝐹 = (𝑈 ∩ 𝐸) ∩ (𝐹 ∩ 𝐸) e quindi 𝑥 ∈ cl𝐸 (𝐹 ∩ 𝐸). Il viceversa segue dalla Proposizione 1.57.4. 4. Siano 𝑥 ∈ 𝐸 ∩ fr𝑋 𝐹 e 𝑈 un 𝜏𝐸 -intorno aperto di 𝑥. Per la 1, 𝑈 è un 𝜏-aperto contenuto in 𝐸 e contenente 𝑥. Per la definizione di frontiera, si ha 𝑈 ∩ 𝐹 ≠ ∅ e 𝑈 ∩ (𝑋 ⧵ 𝐹 ) ≠ ∅. D’altra parte, 𝑈 ∩ 𝐹 = (𝑈 ∩ 𝐸) ∩ (𝐹 ∩ 𝐸), come pure 𝑈 ∩ (𝑋 ⧵ 𝐹 ) = (𝑈 ∩ 𝐸) ∩ (𝐸 ⧵ 𝐹 ). Quindi 𝑥 ∈ fr𝐸 (𝐹 ∩ 𝐸). Il viceversa segue dalla Proposizione 1.57.5. Teorema 1.60. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un sottoinsieme chiuso di 𝑋. Sono chiusi in 𝜏𝐸 tutti e soli i chiusi in 𝑋 che sono contenuti in 𝐸.
Dimostrazione. Sapendo che i 𝜏𝐸 -chiusi sono tutti e soli i sottoinsiemi del tipo 𝐶 ∩ 𝐸, con 𝑋 ⧵ 𝐶 ∈ 𝜏, dall’ipotesi che 𝐸 sia chiuso, si ha che tutti i 𝜏𝐸 -chiusi sono chiusi anche per 𝜏 e ovviamente contenuti in 𝐸. Il viceversa è ovvio. Esempio 1.61. In (ℝ, 𝜏𝑒 ) consideriamo i sottoinsiemi ℕ, ℤ, ℚ. La topologia indotta da 𝜏𝑒 su ℕ e su ℤ è quella discreta e, pertanto, tutti i punti sono isolati e i rispettivi singoletti sono aperti nella topologia del sottospazio (ma non in ℝ). La topologia indotta da 𝜏𝑒 su ℚ coincide con la sua topologia dell’ordine. Ricordiamo che un intervallo di ℚ è un insieme 𝐼 con la proprietà che, se contiene due punti, contiene anche tutti quelli fra essi compresi; esso è dunque l’intersezione con ℚ di un intervallo reale. Dato un intervallo 𝐼 di ℚ, siano 𝛼 ∶= inf 𝐼 e 𝛽 ∶= sup 𝐼, con 𝛼, 𝛽 ∈ ℝ ∪ {−∞, +∞}. Avremo che 𝐼 è 𝜏ℚ -aperto se e solo se 𝐼 = ℚ ∩ ]𝛼, 𝛽[, mentre 𝐼 è 𝜏ℚ -chiuso se e solo se 𝐼 = ℚ ∩ [𝛼, 𝛽], dando un ovvio significato a questa espressione nel caso in cui 𝛼 o 𝛽 non siano finiti. Quindi, se 𝛼, 𝛽 ∉ ℚ, si otterrà 𝐼 = ]𝛼, 𝛽[ ∩ ℚ = [𝛼, 𝛽] ∩ ℚ. In tal caso, l’intervallo 𝐼 è contemporaneamente aperto e chiuso (clopen) in 𝜏ℚ . ◁ Esempio 1.62. In (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) sia 𝐸 il primo quadrante con i semiassi compresi. Sappiamo che, per ogni 𝑝 ∈ ℝ2 , una base di suoi intorni è data dalle palle 𝐵(𝑝, 1/𝑛), con 𝑛 ∈ ℕ+ .
1.4. Sottospazi
22
Ne viene che, se 𝑝 ∈ 𝐸, una base di suoi 𝜏𝐸 -intorni è data dalle intersezioni con 𝐸 delle palle 𝐵(𝑝, 1/𝑛). Se 𝑝 è interno a 𝐸, pur di prendere 𝑛 abbastanza grande, si ha 𝐵(𝑝, 1/𝑛) ⊂ 𝐸. Se invece è 𝑝 ∈ fr 𝐸, le intersezioni di 𝐵(𝑝, 1/𝑛) con 𝐸 danno dei mezzi dischi o, nel caso dell’origine, dei quarti di disco. ◁ Definizione 1.63. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Un suo sottoinsieme 𝐸 è detto denso in sé se è contenuto nel suo derivato, ossia se ogni punto di 𝐸 è di accumulazione per 𝐸. Un insieme chiuso e denso in sé è detto perfetto. ◁ Ovviamente, il vuoto è un insieme perfetto, ma poco interessante. In (ℝ, 𝜏𝑒 ), si consideri l’insieme 𝐸 ∶= ℚ ∩ ]0, 1[. Si ha 𝒟 𝐸 = [0, 1] = cl 𝐸. Quindi 𝐸 è denso in sé. Per contro, per il sottoinsieme 𝐹 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ∪{0}, si ha 𝒟 𝐹 = {0}. Quindi 𝐹 non è denso in sé. Inoltre, poiché 𝒟 {0} = ∅, nessun suo sottoinsieme (non vuoto) è denso in sé.
Esempio 1.64 (di Cantor). L’insieme di Cantor (ternario) ℭ è definito dalla seguente procedura. Si parte dall’intervallo unitario 𝐼0 ∶= [0, 1]. Si divide 𝐼0 in tre intervalli di uguale lunghezza e si elimina l’interno di quello centrale, ottenendo un sottoinsieme 𝐼1 ∶= 𝐼0 ⧵ ]1/3, 2/3[. Su ciascuno dei due intervalli che compongono 𝐼1 si ripete il medesimo procedimento, togliendo l’interno dei due intervalli centrali ]1/9, 2/9[ e ]7/9, 8/9[. Si ottiene un insieme 𝐼2 che consiste dell’unione di quattro intervalli chiusi disgiunti, ciascuno di lunghezza 1/9. E così via, iterando questo procedimento su ciascuno degli intervalli chiusi rimasti. Al passo 𝑛-imo, l’insieme 𝐼𝑛 è la riunione di 2𝑛 intervalli chiusi a due a due disgiunti, ciascuno di lunghezza 1/3𝑛 . L’insieme ℭ è definito da ℭ ∶=
⋂
𝑛∈ℕ
𝐼𝑛 .
Si constata che è ℭ ≠ ∅. Infatti, scegliendo a ogni passo uno degli intervalli di 𝐼𝑛 , che sia contenuto in quello scelto al passo precedente, si ottiene una successione decrescente di intervalli chiusi e limitati [𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ] con l’ampiezza che tende a zero, (𝑎𝑛 )𝑛 debolmente crescente e (𝑏𝑛 )𝑛 debolmente decrescente. Posto 𝑐 ∶= lim 𝑎𝑛 = lim 𝑏𝑛 , si ha ovviamente 𝑐 ∈ ℭ. Da quanto ora visto, si ricava anche che ogni elemento 𝑐 ∈ ℭ si può rappre−𝑛 sentare in uno e un solo modo mediante una serie ∑+∞ 𝑛=1 𝑐𝑛 3 , con 𝑐𝑛 ∈ {0, 2}. Ciò prova, fra l’altro, che ℭ ha la cardinalità del continuo.
Per costruzione, gli insiemi 𝐼𝑛 sono chiusi: è dunque tale anche ℭ. Mostriamo, in fine, che ℭ è denso in sé. Fissiamo un 𝑐 ∈ ℭ e un 𝜀 > 0. Esiste un intervallo 𝐽𝑛 , con 𝑐 ∈ 𝐽𝑛 ⊂ 𝐼𝑛 , di lunghezza 1/3𝑛 < 𝜀, da cui 𝐽𝑛 ⊂ ]𝑐 −𝜀, 𝑐 +𝜀[.
1.4. Sottospazi
23
In 𝐽𝑛 ci sono infiniti punti di ℭ e quindi 𝑐 è addirittura di 𝜔-accumulazione per ℭ. Si conclude che ℭ è perfetto. ◁ Teorema 1.65. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸, 𝐹 due sottoinsiemi di 𝑋. 1. Da 𝐸 ⊆ 𝐹 segue 𝒟 𝐸 ⊆ 𝒟 𝐹 . 2. Se 𝐸 è denso in sé ed è 𝐸 ⊆ 𝐹 ⊆ 𝒟 𝐸, allora anche 𝐹 è denso in sé. 3. Se 𝐸 è denso in sé, allora cl 𝐸 è perfetto. 4. L’unione arbitraria di sottoinsiemi densi in sé è ancora un insieme denso in sé.
Dimostrazione. 1. Sia 𝑥 ∈ 𝒟 𝐸. In ogni intorno 𝑈 di 𝑥 ci sono punti di 𝐸 ⧵ {𝑥} e quindi di 𝐹 ⧵ {𝑥}. 2. Si ha 𝐸 ⊆ 𝐹 ⊆ 𝒟 𝐸 ⊆ 𝒟 𝐹 . 3. Dalla Proposizione 1.55.2 e dato che, per ipotesi, è 𝐸 ⊆ 𝒟 𝐸, si ha cl 𝐸 = 𝐸 ∪ 𝒟 𝐸 = 𝒟 𝐸 ⊆ 𝒟 (cl 𝐸). Dunque cl 𝐸 è denso in sé; inoltre cl 𝐸 è un insieme chiuso (Proposizione 1.36.1). 4. Sia data una famiglia arbitraria {𝐸𝑖 }𝑖∈𝐽 di sottoinsiemi di 𝑋 densi in sé e diciamo 𝐹 la loro unione. Dalla 1 si ha, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , 𝐸𝑖 ⊆ 𝒟 𝐸𝑖 ⊆ 𝒟 𝐹 , da cui 𝐹 ⊆ 𝒟 𝐹 .
Definizione 1.66. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋 è detto disperso (inglese scattered) se nessun suo sottoinsieme non vuoto è denso in sé. ◁ Da quanto osservato subito dopo la Definizione 1.63, si ha che un esempio, in (ℝ, 𝜏𝑒 ), di insieme disperso è dato da 𝐹 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ∪{0}.
Teorema 1.67. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico, 𝐸 un sottoinsieme di 𝑋 e 𝐹 l’unione dei sottoinsiemi di 𝐸 che sono densi in sé. 1. 𝐹 è denso in sé, mentre 𝐺 ∶= 𝐸 ⧵ 𝐹 è un insieme disperso. 2. Ogni sottoinsieme di 𝑋 è l’unione di un insieme denso in sé e un insieme disperso fra loro disgiunti. 3. (Proprietà di Cantor-Bendixson). Per 𝐸 = 𝑋, l’insieme 𝐹 è perfetto e quindi 𝑋 è l’unione di un insieme perfetto e un insieme disperso fra loro disgiunti.
Dimostrazione. 1. Che 𝐹 sia denso in sé segue dalla Proposizione 1.65.4. Per la definizione di 𝐹 , nessun sottoinsieme non vuoto di 𝐺 può essere denso in sé. 2. Segue immediatamente dalla 1. 3. Applichiamo la 1 e la 2 al caso 𝐸 = 𝑋. Risulta quindi 𝑋 = 𝐹 ∪ 𝐺, con 𝐺 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐹 , 𝐹 denso in sé massimale e 𝐺 disperso. Se, per assurdo, esistesse un elemento 𝑧 ∈ cl 𝐹 ⧵ 𝐹 , 𝑧 sarebbe di accumulazione per 𝐹 e quindi 𝐹 ∪ {𝑧} sarebbe ancora denso in sé, contro la massimalità di 𝐹 .
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
24
Torneremo su questo punto più avanti (cfr. Teorema 1.101). L’insieme di Cantor è veramente ricco di sorprese. Abbiamo visto che è perfetto, ossia chiuso e denso in sé. Ciononostante, ℭ non contiene nessun intervallo e quindi è int(cl ℭ) = ∅.
Definizione 1.68. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un suo sottoinsieme. Si dice che 𝐸 è ovunque non denso se è int(cl 𝐸) = ∅. ◁
La scelta dei nomi non è sempre la più felice. Infatti, a questo punto, dobbiamo dire che l’insieme di Cantor ℭ è denso in sé, ma ovunque non denso. Sembra una contraddizione, ma non c’è rimedio. Osserviamo che le nozioni di insieme disperso e di insieme ovunque non denso sono indipendenti. L’insieme di Cantor è ovunque non denso, ma non è disperso. Per contro, un insieme con almeno due elementi, dotato della topologia discreta è disperso, ma ogni suo sottoinsieme coincide con l’interno della sua chiusura. Definizione 1.69. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un suo sottoinsieme. Si dice che 𝐸 è denso in 𝑋 se è cl 𝐸 = 𝑋. Se esiste un sottoinsieme numerabile denso in 𝑋, si dice che (𝑋, 𝜏) è separabile. Se ogni sottospazio di 𝑋 è separabile, si dice che (𝑋, 𝜏) è ereditariamente separabile. ◁ Sappiamo che ℚ è un sottoinsieme numerabile denso in (ℝ, 𝜏𝑒 ). Dunque (ℝ, 𝜏𝑒 ) è separabile. Naturalmente, un qualunque insieme non numerabile 𝑋, con la topologia discreta non è separabile. Osserviamo che ℚ è denso sia in sé, sia in ℝ. Ovviamente un qualunque intervallo limitato e non degenere di ℝ è denso in sé, ma non in (ℝ, 𝜏𝑒 ). Siano 𝑋 ∶= {0, 1} dotato della topologia di Sierpinski 𝜏 ∶= {∅, {0}, 𝑋} ed 𝐸 ∶= {1}. Si ha cl 𝐸 = 𝑋 e 𝒟 𝐸 = ∅. 𝐸 è denso in 𝑋, ma non in sé.
1.5 Assiomi di numerabilità e di separazione Abbiamo a suo tempo osservato (cfr. Esempi 1.9 e 1.24) come la topologia euclidea su ℝ ammetta una base numerabile e come, per ogni 𝑥 ∈ ℝ, esista una base numerabile per l’insieme dei suoi intorni. Ciò non è vero per un qualunque spazio topologico. Ovviamente, la topologia discreta su un insieme non numerabile 𝑋 non può ammettere una base numerabile, mentre, per ogni elemento 𝑥 ∈ 𝑋, esiste una base numerabile (addirittura finita) per il filtro dei suoi intorni, data dal singoletto {𝑥}. Nello spazio topologico dell’Esempio 1.26 il filtro degli intorni del punto 𝑞 non ammette una base numerabile, mentre ciò è vero per tutti gli altri punti. Nello spazio topologico dell’Esempio 1.27 il filtro degli intorni di un qualunque punto 𝑥 non ammette una base numerabile. Le precedenti osservazioni giustificano la definizione che segue.
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
25
Definizione 1.70 (Assiomi di numerabilità 𝐴1 , 𝐴2 ). Diremo che uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è primo numerabile o che soddisfa al primo assioma di numerabilità 𝐴1 se ogni 𝑥 ∈ 𝑋 ammette una base numerabile di intorni (aperti). Diremo che uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è secondo numerabile o che soddisfa al secondo assioma di numerabilità 𝐴2 se esiste una base numerabile per la topologia 𝜏. ◁
Teorema 1.71. Ogni spazio topologico che soddisfa al secondo assioma di numerabilità soddisfa necessariamente anche al primo. Sussiste l’implicazione opposta se 𝑋 è numerabile, ma non in generale. Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico secondo numerabile. Dati una base numerabile ℬ di 𝜏, una base ℬ(𝑥) di intorni di un dato punto 𝑥 è data dagli elementi di ℬ che contengono 𝑥 e questa è ovviamente numerabile. Se 𝑋 è numerabile e 𝐴1 , una base numerabile per 𝜏 si ottiene dall’unione delle famiglie numerabili di intorni aperti di base dei singoli punti. Per constatare che non sussiste in generale l’implicazione opposta, basta considerare un insieme non numerabile 𝑋 con la topologia discreta.
Può accadere che uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) non sia primo numerabile anche se 𝑋 è numerabile. Esempio 1.72. Sia 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ {𝑝}, con 𝑝 ∉ ℕ2 . Definiamo in 𝑋 la seguente topologia: i punti di ℕ2 sono isolati; una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi 𝐴𝑓 , con 𝐴𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ 𝑛 > 𝑓 (𝑚)}, essendo 𝑓 un’arbitraria funzione di ℕ in ℕ. Si constata facilmente che sono soddisfatti gli assiomi degli intorni. Proviamo che non esiste una base numerabile per gli intorni di 𝑝. Supponiamo, per assurdo, che una tale base di intorni esista; sia questa ℬ(𝑝) = (𝑈𝑚 )𝑚 . Consideriamo la seguente funzione 𝑔 ∶ ℕ → ℕ. Per ogni 𝑚 ∈ ℕ è 𝑔(𝑚) ∶= 1 + min {𝑛 ∈ ℕ ∶ (𝑚, 𝑛) ∈ 𝑈𝑚 }. Per costruzione, il corrispondente intorno 𝐴𝑔 di 𝑝 non contiene nessuno degli 𝑈𝑚 . ◁ Teorema 1.73. Ogni spazio topologico che sia secondo numerabile è separabile.
Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico secondo numerabile e ℬ = (𝐴𝑛 )𝑛 una base numerabile di 𝜏. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ fissiamo un elemento 𝑥𝑛 ∈ 𝐴𝑛 e poniamo 𝐸 = {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. 𝐸 è numerabile; proviamo che è cl 𝐸 = 𝑋. Supponiamo, per assurdo, che esista 𝑧 ∈ 𝑋 ⧵ cl 𝐸. Esiste allora un intorno aperto 𝑈 di 𝑧 tale che 𝑈 ∩ 𝐸 = ∅. 𝑈 deve contenere un elemento 𝐴𝑛̄ ∈ ℬ. Per costruzione, è 𝑥𝑛̄ ∈ 𝐸 ∩ 𝐴𝑛̄, da cui 𝑈 ∩ 𝐸 ≠ ∅. Non sussiste l’implicazione opposta di quest’ultimo risultato. Lo spazio topologico (𝑋, 𝜏) dell’Esempio 1.72 non è nemmeno primo numerabile, pur essendo addirittura 𝑋 numerabile.
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
26
Nel Capitolo 3 sugli spazi metrici affronteremo un’esposizione sistematica delle proprietà della topologia ordinaria o euclidea 𝜏𝑒 di ℝ𝑛 . Qui ci basta ricordare che questa può essere definita in almeno due modi. Un primo modo è quello di assumere come base di intorni di un punto 𝑝 le palle aperte di centro 𝑝 e raggio 𝑟. Limitandosi ai raggi del tipo 1/𝑛, con 𝑛 ∈ ℕ+ si ottengono basi numerabili di intorni. Dunque (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) è primo numerabile. Ma 𝜏𝑒 può anche essere introdotta a partire dagli intervalli (topologia dell’ordine), come visto in ℝ2 nell’Esempio 1.11. Prendendo intervalli i cui estremi hanno le coordinate razionali si ottiene una base numerabile per 𝜏𝑒 . Dunque (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) è anche secondo numerabile. Sappiamo che nella topologia ordinaria di ℝ𝑛 è vero che punti distinti ammettono intorni disgiunti. La cosa non è più vera per la topologia di Sierpinski. È dunque opportuno enunciare alcune proprietà (assiomi di separazione o di Alexandrov e Hopf ) di cui può eventualmente godere una topologia 𝜏 su un dato insieme 𝑋 e di studiare alcune delle relazioni che intercorrono fra esse. Per ora ne illustreremo cinque, i cosiddetti assiomi 𝑇0 , … , 𝑇4 (di separazione mediante aperti) (cfr. anche l’Osservazione 1.94 e le Definizioni 1.109, 2.109). Per esprimere il fatto che una topologia 𝜏 soddisfa all’assioma 𝑇𝑖 si dice brevemente che (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇𝑖 . Definizione 1.74 (Assiomi di separazione 𝑇0 , 𝑇1 , 𝑇2 , 𝑇3 , 𝑇4 ). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Si dice che (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇0 , o di Kolmogorov, se, comunque si fissino due punti di 𝑋 esiste un intorno di uno dei due che non contiene l’altro. 2. Si dice che (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇1 , o di Fréchet-𝑇1 se, dati due punti di 𝑋, ciascuno di essi ha un intorno che non contiene l’altro. 3. Si dice che (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇2 o di Hausdorff se punti distinti ammettono intorni disgiunti. 4. Si dice che (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇3 , o di Vietoris, se, comunque si fissino in 𝑋 un punto 𝑝 e un sottoinsieme chiuso 𝐶, con 𝑝 ∉ 𝐶, esistono un aperto 𝐴 contenente 𝑝 e un aperto 𝐵 contenente 𝐶 con 𝐴 ∩ 𝐵 = ∅. 5. Si dice che (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇4 , o di Urysohn-𝑇4 , se, comunque si fissino due sottoinsiemi chiusi disgiunti 𝐶, 𝐷 ⊆ 𝑋, esistono un aperto 𝐴 contenente 𝐶 e un aperto 𝐵 contenente 𝐷 con 𝐴 ∩ 𝐵 = ∅. ◁ Tranne che nel caso degli spazi 𝑇2 detti di Hausdorff, negli altri casi si fa riferimento direttamente all’assioma 𝑇𝑖 senza associarvi un altro nome corrispondente. Il seguente risultato è immediato. Lemma 1.75. Ogni spazio di Hausdorff è uno spazio 𝑇1 e ogni spazio 𝑇1 è uno spazio 𝑇0 .
Esempio 1.76. 1. Se 𝑋 ha più di un elemento, la topologia nulla su 𝑋 non è 𝑇0 . Essa è però 𝑇3 e 𝑇4 , dato che l’unico chiuso non vuoto è 𝑋. 2. La topologia di Sierpinski è 𝑇0 , ma non 𝑇1 . 3. La topologia euclidea di ℝ è 𝑇2 . ◁
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
27
Esempio 1.77. Sia 𝑋 ∶= ℕ2 ∪{𝑝, 𝑞}, con 𝑝, 𝑞 ∉ ℕ2 . Definiamo in 𝑋 la seguente topologia: i punti di ℕ2 sono isolati; una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi 𝐴𝑓 , con 𝐴𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ 𝑛 > 𝑓 (𝑚)}, essendo 𝑓 un’arbitraria funzione di ℕ in ℕ. Una base di intorni di 𝑞 è data dagli insiemi 𝐵𝑘 , 𝑘 ∈ ℕ, con 𝐵𝑘 ∶= {𝑞} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ 𝑚 > 𝑘}. Si vede subito che si ottiene una topologia e che questa è 𝑇1 , ma non 𝑇2 . ◁ Altri spazi 𝑇1 non 𝑇2 sono quelli degli Esempio 1.14 e 1.15.
Teorema 1.78. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è 𝑇0 se e solo se, dati due punti distinti 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, si ha cl{𝑥} ≠ cl{𝑦}.
Dimostrazione. Siano 𝑥, 𝑦 due punti di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). Se (𝑋, 𝜏) è 𝑇0 , esiste 𝐴 ∈ 𝜏 che contiene uno solo dei due punti; sia, per esempio, 𝑥 ∈ 𝐴 e 𝑦 ∉ 𝐴. Si ottiene 𝑦 ∈ cl{𝑦}, ma 𝑥 ∉ cl{𝑦}. Supponiamo, viceversa, che (𝑋, 𝜏) non sia 𝑇0 . esistono allora due punti 𝑥, 𝑦 tali che ogni intorno dell’uno contiene l’altro. Ne viene che ogni punto aderente a {𝑥} è aderente a {𝑦} e viceversa.
Teorema 1.79. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇1 . 2. Gli insiemi formati da un solo punto sono chiusi. 3. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋 e per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝑥 è di accumulazione per 𝐸 (se e) solo se è di 𝜔-accumulazione. 4. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’intersezione di tutti gli intorni (aperti) che lo contengono coincide col singoletto {𝑥}. 5. Per ogni 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, si ha cl{𝑥} ∩ cl{𝑦} = ∅. Dimostrazione. (1) ⇔ (2). Sia 𝑋 uno spazio 𝑇1 e fissiamo un 𝑦 ∈ 𝑋. Per ogni 𝑥 ≠ 𝑦, esiste un intorno aperto 𝐴𝑥 di 𝑥 che non contiene 𝑦. L’unione di questi 𝐴𝑥 è aperta e dà l’insieme 𝑋 ⧵ {𝑦}. Viceversa, se i punti sono chiusi, per ogni 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, con 𝑥 ≠ 𝑦, l’insieme 𝑋 ⧵ {𝑥} risulta essere un intorno aperto di 𝑦 che non contiene 𝑥. (1) ⇔ (3). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇1 . Fissiamo un sottoinsieme 𝐸 e un punto 𝑥 di accumulazione per 𝐸. Supponiamo che esista un intorno 𝑉 di 𝑥 in cui cade un numero finito di punti di 𝐸 ⧵ {𝑥}; diciamoli 𝑦1 , … .𝑦𝑛 . Per ogni 𝑖 ≤ 𝑛, esiste un intorno 𝑈𝑖 di 𝑥 che non contiene 𝑦𝑖 . Allora l’insieme 𝑉 ∩ 𝑈1 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑛 è un intorno di 𝑥 in cui non ci sono punti di 𝐸 ⧵ {𝑥}. Viceversa, se 𝑋 non è 𝑇1 , esistono due punti distinti 𝑥, 𝑦 di 𝑋 tali che ogni intorno di 𝑥 contiene 𝑦. Posto 𝐴 = {𝑦}, si ha che 𝑥 è di accumulazione per 𝐴, ma non di 𝜔-accumulazione. (1) ⇔ (4). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑋. Indichiamo poi con 𝐴∗ (𝑥) l’intersezione di tutti gli aperti che contengono 𝑥. Se (𝑋, 𝜏) è 𝑇1 , per ogni 𝑦 ∈ 𝑋 ⧵ {𝑥} esiste un intorno aperto di 𝑥 che non contiene 𝑦. Ne viene che 𝑦 non può appartenere ad 𝐴∗ (𝑥). Viceversa, se è 𝐴∗ (𝑥) = {𝑥}, per ogni 𝑦 ∈ 𝑋 ⧵ {𝑥} deve esistere un intorno aperto di 𝑥 che non contiene 𝑦.
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
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(1) ⇔ (5). Se lo spazio è 𝑇1 , i singoletti sono chiusi e quindi si ha cl{𝑥} ∩ cl{𝑦} = {𝑥} ∩ {𝑦} = ∅. Se lo spazio non è 𝑇1 esistono 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋 tali che ogni intorno di 𝑥 contiene 𝑦 e quindi si ha cl{𝑥} ∩ cl{𝑦} ≠ ∅.
Dunque, se 𝑋 è un insieme finito, l’unica topologia 𝑇1 è quella discreta. Inoltre, negli spazi 𝑇1 e, in particolare in quelli di Hausdorff, non si distingue fra punti di accumulazione e punti di 𝜔-accumulazione. Consideriamo lo spazio 𝑇1 e non 𝑇2 dell’esempio 1.14. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’unico suo intorno chiuso è 𝑋 stesso che è, ovviamente, diverso da {𝑥}.
Teorema 1.80. 1. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è 𝑇2 se e solo se ogni suo punto coincide con l’intersezione dei suoi intorni chiusi. 2. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è 𝑇3 se e solo se ogni suo chiuso 𝐶 coincide con l’intersezione dei suoi intorni chiusi, cioè dei chiusi contenenti un aperto contenente 𝐶.
Dimostrazione. 1. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇2 e fissiamo un 𝑝 ∈ 𝑋. Per ogni 𝑞 ≠ 𝑝, esistono due aperti disgiunti 𝑈𝑝 e 𝑈𝑞 , con 𝑝 ∈ 𝑈𝑝 e 𝑞 ∈ 𝑈𝑞 . L’insieme 𝐶𝑞 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈𝑞 è un intorno chiuso di 𝑝 non contenente 𝑞. Si ha subito ⋂𝑞≠𝑝 𝐶𝑞 ⊆ {𝑝}. Poiché ogni intorno chiuso di 𝑝 contiene 𝑝, si ha la tesi. Proviamo il viceversa. Fissiamo due punti distinti 𝑝 e 𝑞. Per ipotesi, {𝑝} coincide con l’intersezione di tutti i suoi intorni chiusi. Esiste quindi un intorno chiuso 𝐶 di 𝑝 che non contiene 𝑞. In quanto intorno, 𝐶 deve contenere un aperto 𝑈 contenente 𝑝. Gli aperti 𝑈 e 𝑉 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶 sono disgiunti e contengono, rispettivamente, 𝑝 e 𝑞. 2. Si prova in modo analogo; ne lasciamo la cura al lettore. Teorema 1.81. 1. Uno spazio topologico 𝑇0 e 𝑇3 è anche 𝑇2 . 2. Uno spazio topologico 𝑇1 e 𝑇4 è anche 𝑇3 e 𝑇2 .
Dimostrazione. 1. Siano dati due punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋. Dall’assioma 𝑇0 segue che esiste un intorno aperto di uno dei due punti che esclude l’altro. Sia, per esempio, 𝑈 ∈ 𝜏 con 𝑝 ∈ 𝑈 e 𝑞 ∉ 𝑈 . Posto 𝐶 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈 , abbiamo che 𝐶 è un chiuso non contenente 𝑝. Per 𝑇3 esistono due aperti disgiunti 𝐴 e 𝐵 con 𝑝 ∈ 𝐴 e 𝑞 ∈ 𝐶 ⊆ 𝐵. 2. Siccome negli spazi 𝑇1 i singoletti sono insiemi chiusi, si ha subito 𝑇3 e poi 𝑇2 per il punto precedente. Da ciò segue immediatamente che gli spazi topologici degli esempi 1.14, 1.15 e 1.77 non sono né 𝑇3 né 𝑇4 . Segnaliamo che nella Proposizione 1.81,2 l’ipotesi 𝑇1 non può essere sostituita dalla più debole condizione 𝑇0 ; esistono infatti spazi topologici che sono 𝑇0 e 𝑇4 , ma che non sono né 𝑇1 né 𝑇3 .
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
29
Esempio 1.82. (Topologia del punto escluso.) Su un insieme 𝑋 con più di un punto si fissa un elemento 𝑝. La topologia del punto escluso consiste nel dichiarare aperti, oltre a 𝑋 stesso, tutti gli insiemi 𝐴 che non contengono 𝑝. Quindi i chiusi non vuoti sono i sottoinsiemi che contengono 𝑝. Se 𝑋 consta esattamente di due punti, si ottiene la topologia di Sierpinski. Questa topologia è sempre 𝑇0 . Si tenga presente che, per i punti diversi da 𝑝, i singoletti sono aperti e non chiusi. Lo spazio non è né 𝑇1 né 𝑇2 . Non è neanche 𝑇3 . Infatti, fissati un chiuso (non vuoto) 𝐶 e un punto 𝑞 ∉ 𝐶, abbiamo che 𝑝 ∈ 𝐶 e quindi l’unico aperto contenente 𝐶 è 𝑋. Poiché tutti i chiusi (non vuoti) devono contenere 𝑝, non esistono coppie di chiusi non banali fra loro disgiunti e quindi l’assioma 𝑇4 è chiaramente soddisfatto. Osserviamo che anche tutti i sottospazi di 𝑋 sono ancora 𝑇4 . Infatti, se 𝑌 ⊆ 𝑋 contiene il punto 𝑝, siamo nella situazione appena vista; se 𝑌 non contiene 𝑝, il sottospazio ha la topologia discreta. ◁ Un esempio di spazio 𝑇0 e 𝑇4 , ma non 𝑇1 né 𝑇3 , e in cui la proprietà 𝑇4 è verificata in modo non banale è il seguente.
Esempio 1.83 (La Topologia di Hjalmar Ekdal). Nell’insieme 𝑋 dei numeri naturali positivi introduciamo la topologia 𝜏 in cui un sottoinsieme (non vuoto) 𝐴 è aperto se e solo se, ogni volta che contiene un numero dispari 𝑛, contiene anche il pari 𝑛 + 1. Ne viene che un sottoinsieme 𝐶 (non vuoto) è chiuso se e solo se, ogni volta che contiene un numero pari 𝑚, contiene anche il dispari 𝑚 − 1. Ne consegue che gli insiemi del tipo 𝐸𝑘 ∶= {2𝑘 − 1, 2𝑘} sono clopen. Su ciascuno di essi, la topologia indotta è quella di Sierpinski, con {2𝑘} aperto. È immediato verificare che lo spazio è 𝑇0 , ma non è 𝑇1 . Non è nemmeno 𝑇3 (cfr. Proposizione 1.81.1). Verifichiamo che lo spazio è 𝑇4 . Fissiamo due chiusi non vuoti e disgiunti 𝐶, 𝐷. Per ogni 𝑘 ≥ 1, gli insiemi 𝐶𝑘 ∶= 𝐶 ∩ 𝐸𝑘 e 𝐷𝑘 ∶= 𝐷 ∩ 𝐸𝑘 sono due chiusi disgiunti. Gli insiemi 𝐶𝑘 e 𝐷𝑘 , se non sono vuoti, devono coincidere o con 𝐸𝑘 o con {2𝑘 − 1}; ne viene che o 𝐶𝑘 o 𝐷𝑘 è vuoto. Consideriamo i due insiemi aperti 𝑈 ∶=
⋃
𝐶𝑘 ≠∅
𝐸𝑘 ;
𝑉 ∶=
⋃
𝐷𝑘 ≠∅
𝐸𝑘 .
Si constata facilmente che 𝑈 e 𝑉 sono due aperti disgiunti contenenti, rispettivamente, 𝐶 e 𝐷. Con la stessa argomentazione, si vede che anche tutti i sottospazi sono ancora 𝑇4 . ◁
Esistono spazi topologici non banali 𝑇3 e 𝑇4 che non sono nemmeno 𝑇0 e quindi né 𝑇1 né 𝑇2 .
Esempio 1.84. In 𝑋 = ℝ definiamo la seguente topologia 𝜏. I punti di ℚ sono isolati. Se 𝛼 ∉ ℚ un sottoinsieme 𝑈 di ℝ è un suo intorno se contiene, oltre ad 𝛼, tutto ℝ ⧵ ℚ. Si vede facilmente che sono soddisfatti gli assiomi degli intorni e che una base ℬ della topologia 𝜏 si ottiene aggiungendo ai singoletti razionali l’insieme ℝ ⧵ ℚ. Osserviamo che tutti gli elementi di ℬ sono clopen.
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
30
Lo spazio (𝑋, 𝜏) non è 𝑇0 : dati due punti irrazionali, ogni intorno dell’uno contiene necessariamente l’altro; quindi (𝑋, 𝜏) non è né 𝑇1 né 𝑇2 . Proviamo che, invece, è 𝑇3 . Siano dati un chiuso 𝐶 e un punto 𝑥 ∉ 𝐶. Se è 𝑥 ∉ ℚ, è 𝐶 ⊆ ℚ; 𝐶 è clopen; gli aperti cercati sono ℝ ⧵ ℚ e 𝐶. Sia 𝑥 ∈ ℚ; gli aperti cercati sono {𝑥} e ℝ ⧵ {𝑥}. Lo spazio è anche 𝑇4 , dato che, come subito si constata, i chiusi di 𝑋 sono tutti clopen. È immediato constatare che ogni sottospazio di (𝑋, 𝜏) è ancora 𝑇4 . ◁
Osservazione 1.85. Si tenga ben presente che, come già osservato, se in uno spazio topologico non vi sono chiusi disgiunti, esso è banalmente 𝑇4 . Un modo per definire una topologia con questa proprietà è il seguente. Si parte da un qualunque spazio topologico (𝑋, 𝜏) e si aggiunge a 𝑋 un punto 𝑧 ∉ 𝑋, ottenendo un nuovo insieme 𝑋 ∗ . In esso si definisce la topologia 𝜏 ∗ in cui sono aperti, oltre a 𝑋 ∗ tutti e soli gli aperti di 𝜏. Ogni chiuso non vuoto di 𝑋 ∗ , essendo il complementare di un aperto, deve contenere 𝑧; quindi in (𝑋 ∗ , 𝜏 ∗ ) non esistono coppie di chiusi non vuoti e fra loro disgiunti. La topologia 𝜏 ∗ sopra definita prende il nome di topologia dell’estensione aperta. ◁ Osservazione 1.86. In modo duale alla topologia appena vista, si può definire la topologia dell’estensione chiusa nel seguente modo. Si parte da un qualunque spazio topologico (𝑋, 𝜏) e si aggiunge a 𝑋 un punto 𝑧 ∉ 𝑋, ottenendo un nuovo insieme 𝑋∗ . In esso si definisce la topologia 𝜏∗ in cui sono aperti, oltre a ∅ tutti e soli gli insiemi del tipo 𝐴 ∪ {𝑧}, con 𝐴 ∈ 𝜏. Ogni chiuso diverso da 𝑋∗ , essendo il complementare di un aperto, non può contenere 𝑧. Dato che in (𝑋∗ , 𝜏∗ ) ogni aperto non vuoto contiene 𝑧, lo spazio non è 𝑇1 e, non esistendo coppie di aperti non vuoti fra loro disgiunti, esso non può essere né 𝑇2 , né 𝑇3 , né 𝑇4 . Se è 𝑋 ∶= {0, 1} con una topologia di Sierpinski, 𝑋∗ non è nemmeno 𝑇0 . ◁ Vediamo un altro spazio topologico che non soddisfa ad alcuno degli assiomi 𝑇𝑖 , con 0 ≤ 𝑖 ≤ 4 e, a partire da questo, costruiamo uno spazio che soddisfa solo a 𝑇4 . Esempio 1.87. Nell’insieme 𝑋 ∶= {0, 1} × ℝ definiamo la seguente topologia 𝜏. Un sottoinsieme 𝐵 ⊆ 𝑋 è aperto in 𝜏 se e solo se è del tipo 𝐵 ∶= {0, 1} × 𝐴,
con 𝐴 sottoinsieme conumerabile di ℝ.
La topologia non soddisfa ad alcuno degli assiomi 𝑇0 , … , 𝑇4 . Per controllare che non è 𝑇0 , basta prendere due punti (0, 𝑥) e (1, 𝑥). Dato poi che non ci sono aperti disgiunti non vuoti, lo spazio non può soddisfare ad alcuno degli assiomi superiori. Sottolineiamo che invece esistono chiusi disgiunti. ◁
Esempio 1.88. Partiamo dallo spazio (𝑋, 𝜏) dell’esempio precedente e poniamo 𝑋 ∗ ∶= 𝑋 ∪ {𝑧}, con 𝑧 ∉ 𝑋, e 𝜏 ∗ la topologia di 𝑋 ∗ in cui sono aperti, oltre a 𝑋 ∗ tutti e soli gli aperti di 𝜏. Dall’Osservazione 1.85, sappiamo che il nuovo spazio topologico è 𝑇4 . Per constatare che lo spazio non è 𝑇0 basta prendere
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
31
ancora due punti (0, 𝑥) e (1, 𝑥). Per verificare che non sono soddisfatti gli altri assiomi, basta osservare che ogni aperto di 𝜏 ∗ contenente 𝑧 deve coincidere con tutto lo spazio. ◁ Definizione 1.89. Uno spazio topologico che sia 𝑇1 e 𝑇3 è detto regolare. Uno spazio topologico che sia 𝑇1 e 𝑇4 è detto normale.
◁
In alcuni testi (cfr. [76]) la definizione di regolarità prevede di considerare spazi 𝑇0 e 𝑇3 . Le due definizioni sono equivalenti (Proposizione 1.81.1). Esistono spazi 𝑇2 , che non sono né 𝑇3 né 𝑇4 . Esempio 1.90 (La topologia dell’inclinazione irrazionale). Nell’insieme 𝑋 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ ℚ2 ∶ 𝑦 ≥ 0}
si definisca la seguente topologia 𝜏 assegnando gli intorni dei singoli punti. Sia 𝑡 = {(𝑥, 0) ∶ 𝑥 ∈ ℚ}. Gli intorni dei punti della retta 𝑡 sono quelli della topologia ordinaria di ℚ. Fissiamo una volta per tutte un 𝛼 ∈ ℝ+ ⧵ ℚ. Sia 𝑝 = (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑋 ⧵ 𝑡. Diciamo 𝑟𝑝 , 𝑠𝑝 le rette per 𝑝 di coefficienti angolari 𝛼 e, rispettivamente, −𝛼. Queste incontrano l’asse reale delle ascisse nei punti, di ascissa irrazionale, 𝑝𝑟 e 𝑝𝑠 . Una base ℬ(𝑝) di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi del tipo {𝑝} ∪ 𝐼𝑝𝑟 ∪ 𝐼𝑝𝑠 , dove 𝐼𝑝𝑟 e 𝐼𝑝𝑠 sono due intervalli razionali di centro rispettivamente 𝑝𝑟 e 𝑝𝑠 . Per provare che (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇2 , prendiamo due punti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋 e mostriamo che essi ammettono intorni disgiunti. Se 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑡 non ci sono problemi. Se è 𝑝 ∈ 𝑡 e 𝑞 ∉ 𝑡, basta osservare che l’inclinazione irrazionale 𝛼 fa sì che le corrispondenti rette 𝑟𝑞 , 𝑠𝑞 non passino per 𝑝. Quindi sarà sufficiente prendere intervalli razionali di centri 𝑝, 𝑞𝑟 , 𝑞𝑠 a due a due disgiunti. Se è 𝑝, 𝑞 ∉ 𝑡, dall’irrazionalità di 𝛼 segue che le rette 𝑟𝑝 e 𝑠𝑝 non passano per 𝑞 e che le rette 𝑟𝑞 e 𝑠𝑞 non passano per 𝑝; poi basta prendere intervalli razionali di centri 𝑝𝑟 , 𝑝𝑠 , 𝑞𝑟 , 𝑞𝑠 a due a due disgiunti. Proviamo ora che (𝑋, 𝜏) non è 𝑇3 . Fissiamo due punti 𝑝1 = (𝑥, 𝑦1 ), 𝑝2 = (𝑥, 𝑦2 ) ∈ ℚ2 , con 𝑦1 > 𝑦2 > 0. Le rette 𝑟𝑝1 , 𝑠𝑝1 , 𝑟𝑝2 , 𝑠𝑝2 individuano un rombo 𝐶 ⊂ 𝑋 che è chiuso rispetto alla topologia 𝜏. Le rette parallele 𝑟𝑝1 , 𝑟𝑝2 individuano su 𝑡 un intervallo 𝐽 . Se fissiamo un punto di ascissa razionale 𝑞 ∈ 𝐽 , si vede subito che ogni aperto contenente 𝐶 deve contenere anche 𝑞. Verifichiamo, in fine, che lo spazio non è nemmeno 𝑇4 . Partiamo dal rombo 𝐶 sopra definito e prendiamo un altro rombo 𝐷 simile a 𝐶, ma disgiunto da esso, che intersechi la striscia individuata dalle rette 𝑟𝑝1 e 𝑟𝑝2 . Si constata immediatamente che ogni coppia di aperti contenente rispettivamente 𝐶 e 𝐷 deve avere intersezione non vuota. ◁ Una caratterizzazione degli spazi regolari è data dal seguente teorema: Teorema 1.91 (Caratterizzazione di Tychonoff della regolarità). Uno spazio topologico [Uno spazio topologico 𝑇1 ] (𝑋, 𝜏) è 𝑇3 [è regolare] se e solo se, per ogni 𝑝 ∈ 𝑋 e per ogni 𝐴 ∈ 𝜏, con 𝑝 ∈ 𝐴, esiste un aperto 𝑈 tale che 𝑝 ∈ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝐴, ossia se e solo se ogni punto ammette una base di intorni chiusi.
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
32
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇3 e si abbia 𝑝 ∈ 𝐴 ∈ 𝜏. Poiché 𝑋 ⧵ 𝐴 è un chiuso che non contiene 𝑝, esisteranno due aperti disgiunti 𝑈 e 𝑉 con 𝑝 ∈ 𝑈 e 𝑋 ⧵ 𝐴 ⊆ 𝑉 . Quest’ultima relazione si può esprimere anche con 𝑋 ⧵ 𝑉 ⊆ 𝐴. Dal fatto che 𝑈 e 𝑉 sono disgiunti, segue anche che 𝑈 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝑉 , che è un chiuso. Si conclude che è 𝑝 ∈ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝑉 ⊆ 𝐴. Viceversa, supponiamo che in (𝑋, 𝜏) sia soddisfatta la condizione di Tychonoff e siano dati 𝑝 ∈ 𝑋 e 𝐶 chiuso, con 𝑝 ∉ 𝐶. Poiché l’aperto 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶 contiene 𝑝, esiste 𝑈 ∈ 𝜏 tale che 𝑝 ∈ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝐴. Pertanto, gli aperti disgiunti 𝑈 e 𝑉 ∶= 𝑋 ⧵ cl 𝑈 ⊇ 𝐶 realizzano la condizione 𝑇3 . Il nome di questo teorema è dovuto al fatto che gli spazi regolari sono usati molto più frequentemente di quelli soltanto 𝑇3 . Corollario 1.92. Gli spazi (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ), (ℝ, 𝜏 + ) e (ℝ, 𝜏 − ) sono regolari.
Dimostrazione. (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) è 𝑇2 . Siano dati 𝑝 ∈ ℝ𝑛 e 𝐴 ∈ 𝜏𝑒 , con 𝑝 ∈ 𝐴. Esiste un 𝑟 > 0 tale che 𝐵(𝑝, 𝑟) ⊆ 𝐴. Si ottiene 𝑝 ∈ 𝐵(𝑝, 𝑟/2) ⊂ cl 𝐵(𝑝, 𝑟/2) = 𝐵[𝑝, 𝑟/2] ⊂ 𝐵(𝑝, 𝑟) ⊆ 𝐴. Analogamente per gli altri spazi. Dal Teorema 1.91 si ottiene una versione rafforzata della regolarità.
Teorema 1.93. Uno spazio topologico [Uno spazio topologico 𝑇1 ] (𝑋, 𝜏) è 𝑇3 [è regolare] (se e) solo se, comunque si fissino in 𝑋 un punto 𝑝 e un sottoinsieme chiuso 𝐶, con 𝑝 ∉ 𝐶, esistono un aperto 𝐴 contenente 𝑝 e un aperto 𝐵 contenente 𝐶 con cl 𝐴 ∩ cl 𝐵 = ∅.
Dimostrazione. Supponiamo che (𝑋, 𝜏) sia 𝑇3 . Siano dati un punto 𝑝 ∈ 𝑋 e un insieme chiuso 𝐶 ⊆ 𝑋, con 𝑝 ∉ 𝐶. Per ipotesi, esistono due aperti disgiunti 𝑈 , 𝐵 con 𝑝 ∈ 𝑈 e 𝐵 ⊇ 𝐶. Per il Teorema 1.91 esiste un aperto 𝐴 con 𝑝 ∈ 𝐴 ⊆ cl 𝐴 ⊆ 𝑈 . Per ogni punto 𝑥 ∈ cl 𝐴, esiste un suo intorno aperto 𝑉𝑥 ⊆ 𝑈 ; è quindi 𝑉𝑥 ∩ 𝐵 = ∅, da cui 𝑥 ∉ cl 𝐵. Si conclude che è cl 𝐴 ∩ cl 𝐵 = ∅. Il viceversa è ovvio. Osservazione 1.94. Ci si può chiedere se la proprietà 𝑇2 implica una versione rafforzata analoga a quella vista nel teorema precedente. Ovvero, se accade che in uno spazio di Hausdorff punti distinti ammettono sempre intorni con chiusure disgiunte. La risposta è negativa, come provato dalla topologia dell’inclinazione irrazionale (cfr. Esempio 1.90). Per constatarlo, basta osservare che, dati un punto 𝑃 (𝑥, 𝑦) con 𝑦 > 0 e un suo intorno aperto 𝐴, l’insieme cl 𝐴 contiene due “strisce illimitate” di inclinazioni 𝛼 e −𝛼. La proprietà di separazione (in certo qual modo intermedia fra 𝑇2 e 𝑇3 ) secondo cui punti distinti ammettono intorni con chiusure disgiunte viene anche indicata come assioma 𝑇 1 e lo spazio è detto completamente Hausdorff. 2
2
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione Ovviamente ogni spazio 𝑇
2
1 2
33
è di Hausdorff. Ogni spazio regolare è completa-
mente Hausdorff, mentre ciò non è garantito se lo spazio è solo 𝑇3 e non 𝑇1 (cfr: Esempio 1.84). ◁ Esistono spazi 𝑇2 e 𝑇3 , che non sono 𝑇4 .
Esempio 1.95. In 𝑋 = ℝ definiamo la seguente topologia 𝜏. I punti di ℚ sono isolati. Una base di intorni di un punto irrazionale 𝛼 è data dagli insiemi del tipo 𝐴𝐼 ∶= {𝛼} ∪ (𝐼 ∩ ℚ), con 𝐼 intervallo aperto di centro 𝛼. Si vede subito che sono soddisfatti gli assiomi degli intorni. Si ha cl 𝐴𝐼 = cl 𝐼. La topologia 𝜏 è più fine di quella euclidea ed è quindi 𝑇2 . Inoltre 𝜏 è 𝑇3 . Per constatarlo, utilizziamo il Teorema 1.91; fissiamo dunque un punto 𝑥 ∈ 𝑋, un aperto 𝐴 che lo contiene. Se è 𝑥 ∈ ℚ, basta prendere 𝑈 = {𝑥}; si ha 𝑥 ∈ 𝑈 = cl 𝑈 ⊆ 𝐴. Sia ora 𝑥 ∉ ℚ. 𝐴 deve contenere un aperto del tipo 𝐴′ ∶= {𝑥} ∪ (𝐼 ∩ ℚ), con 𝐼 intervallo aperto. Sia 𝐽 un intervallo aperto non degenere di centro 𝑥 tale che cl 𝐽 ⊆ 𝐼 e poniamo 𝑈 ∶= {𝑥} ∪ (𝐽 ∩ ℚ). Si ha 𝑥 ∈ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝐴′ ⊆ 𝐴. Supponiamo in fine, per assurdo, che 𝜏 sia 𝑇4 . Sia 𝑆 ∶= ℝ ⧵ ℚ. 𝑆 è chiuso, unitamente a tutti i suoi sottoinsiemi. Per ogni partizione di 𝑆 in due sottoinsiemi (chiusi) 𝐶 e 𝐶 ′ , esistono due aperti disgiunti 𝐴 e 𝐴′ che, rispettivamente, li contengono. L’insieme 𝐴 è l’unione di 𝐶 con un sottoinsieme di ℚ che indicheremo con 𝜑(𝐶). Resta così definita un’applicazione 𝜑 ∶ 𝒫 (𝑆) → 𝒫 (𝑄). Proviamo che 𝜑 è iniettiva. Dati due sottoinsiemi distinti 𝐻 e 𝐾 di 𝑆, indichiamo con 𝐻 ′ , 𝐾 ′ i loro complementari in 𝑆. Esiste un punto 𝑥 che appartiene ad uno e uno solo dei due; sia, per esempio, 𝑥 ∈ 𝐻 ⧵ 𝐾, da cui 𝑥 ∈ 𝐾 ′ . Esistono allora due intorni razionali 𝐽1 e 𝐽2 di 𝑥, con 𝐽1 ⊆ 𝜑(𝐻) e 𝐽2 ⊆ 𝜑(𝐾 ′ ). L’insieme, non vuoto, di numeri razionali 𝐽 ∶= 𝐽1 ∩ 𝐽2 è contenuto in 𝜑(𝐻) ∩ 𝜑(𝐾 ′ ). Dovendo risultare 𝜑(𝐾) ∩ 𝜑(𝐾 ′ ) = ∅, si ottiene 𝐽 ∩ 𝜑(𝐾) = ∅. Si conclude che è 𝜑(𝐻) ≠ 𝜑(𝐾) e che quindi 𝜑 è iniettiva. Ora però si ha |𝒫 (𝑆)| = 2𝔠 > 𝔠 = 2ℵ0 = |𝒫 (ℚ)|. ◁ Esempio 1.96 (Il piano di Niemytzki). Sia 𝑋 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ 𝑦 ≥ 0} e definiamo in esso la seguente topologia 𝜏 assegnando gli intorni dei singoli punti. Per i punti 𝑝 ∶= (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑋 con 𝑦 > 0, gli intorni sono quelli della topologia ordinaria di ℝ2 intersecati con 𝑋; quindi una base di intorni è data dalle palle aperte di centro 𝑝 e raggio 1/𝑛, con 𝑛 > 1/𝑦. Una base di intorni di 𝑞 ∶= (𝑥, 0) è data dagli insiemi del tipo {𝑞} ∪ 𝐵((𝑥, 1/𝑛), 1/𝑛); dunque una base di intorni di 𝑞 si ottiene aggiungendo a {𝑞} le palle aperte tangenti in 𝑞 all’asse delle 𝑥, che indicheremo con 𝑡. Si verifica facilmente che sono soddisfatti gli assiomi degli intorni. La topologia 𝜏 è più fine di quella euclidea ed è quindi 𝑇2 . Inoltre 𝜏 è 𝑇3 . Per constatarlo, utilizziamo ancora il Teorema 1.91. Siano dunque dati 𝑝 ∈ 𝑋 e 𝐴 ∈ 𝜏, con 𝑝 ∈ 𝐴. Se è 𝑝 ∉ 𝑡, si procede come nel caso della topologia euclidea. Supponiamo pertanto 𝑝 = (𝑥, 0) ∈ 𝑡. 𝐴 contiene un insieme 𝐴′ ∶= {𝑝} ∪ 𝐵((𝑥, 𝑟), 𝑟) ∈ 𝜏. Sia 𝑈 ∶= {𝑝} ∪ 𝐵((𝑥, 𝑟/2), 𝑟/2). Si ha subito 𝑝 ∈ 𝑈 ⊂ cl 𝑈 = 𝐵[(𝑥, 𝑟/2), 𝑟/2] ⊂ 𝐴′ ⊆ 𝐴.
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
34
Osserviamo che (𝑋, 𝜏) è separabile. Infatti, un sottoinsieme numerabile e denso in 𝑋 è dato da 𝐸 ∶= {(𝑝, 𝑞) ∈ ℚ2 ∶ 𝑞 > 0}. Proviamo, in fine, che (𝑋, 𝜏) non è 𝑇4 , procedendo per assurdo. Osserviamo, intanto, che ogni sottoinsieme 𝐶 di 𝑡 è chiuso e che il suo derivato è vuoto. Dato ora 𝐶 ⊆ 𝑡, per ipotesi, esistono 𝑈𝐶 , 𝑉𝐶 ∈ 𝜏 disgiunti e tali che 𝐶 ⊆ 𝑈𝐶 e 𝑡 ⧵ 𝐶 ⊆ 𝑉𝐶 . Consideriamo l’applicazione 𝜑 ∶ 𝒫 (𝑡) → 𝒫 (ℚ2 ) definita da 𝜑(𝐶) ∶= 𝑈𝐶 ∩ 𝐸 e proviamo che essa è iniettiva. Siano dati due sottoinsiemi distinti 𝐶, 𝐷 di 𝑡. Esiste un 𝑥 ∈ 𝑡 che appartiene a uno solo di essi; sia, per esempio, 𝑥 ∈ 𝐶 ⧵ 𝐷 ⊆ 𝑈𝐶 ∩ 𝑉𝐷 . Poiché 𝑈𝐶 ∩ 𝑉𝐷 ∩ 𝐸 ≠ ∅, prendendo un punto 𝑞 ∈ 𝑈𝐶 ∩ 𝑉𝐷 ∩ 𝐸, si ha 𝑞 ∈ 𝐸 ∩ (𝑈𝐶 ⧵ 𝑈𝐷 ) = 𝜑(𝐶) ⧵ 𝜑(𝐷).
Ora però si ha |𝒫 (𝑡)| = 2𝔠 > 𝔠 = 2ℵ0 = |𝒫 (ℚ2 )|.
◁
Teorema 1.97. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico 𝑇1 e 𝐴2 . Allora l’insieme 𝑋 ha al più la potenza del continuo.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇1 e secondo numerabile; indichiamo con ℬ una base numerabile di 𝜏. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, una base di suoi intorni aperti è data dalla famiglia numerabile ℬ(𝑥) ∶= {𝐵 ∈ ℬ ∶ 𝑥 ∈ 𝐵}. Dal Teorema 1.79 sappiamo che l’intersezione di tutti gli elementi di ℬ(𝑥) coincide con {𝑥}. Ne viene che l’applicazione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝒫 (ℬ) che a 𝑥 associa la famiglia ℬ(𝑥) è iniettiva. Dunque la cardinalità di 𝑋 non può superare quella dell’insieme delle parti di ℬ che è al più 2ℵ0 = 𝔠.
Definizione 1.98. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un suo sottoinsieme. Diremo che un punto 𝑥 ∈ 𝑋 è di condensazione per 𝐸 se ogni intorno di 𝑥 contiene un’infinità più che numerabile di punti di 𝐸. L’insieme dei punti di condensazione di 𝐸 verrà indicato con 𝒟 𝑐 (𝐸). ◁ Si vede facilmente che un punto 𝑥 è di condensazione per 𝐸 se e solo se è di accumulazione per 𝐸 e per ogni sottoinsieme di 𝐸 ottenuto togliendo da esso un insieme al più numerabile di elementi. Lemma 1.99. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un suo sottoinsieme. Allora: 1. Si ha 𝒟 𝑐 (𝐸) ⊆ 𝒟𝜔 𝐸 ⊆ 𝒟 𝐸. 2. L’insieme 𝒟 𝑐 (𝐸) è chiuso. La (1) è ovvia e la (2) si prova come la Proposizione 1.55.4.
Teorema 1.100. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico 𝐴2 . Allora 1. L’insieme 𝑌 ∶= 𝑋 ⧵ 𝒟 𝑐 (𝑋) è al più numerabile. 2. Si ha 𝒟 𝑐 (𝒟 𝑐 (𝑋)) = 𝒟 𝑐 (𝑋).
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
35
Dimostrazione. 1, Sia (𝐴𝑛 )𝑛 una base numerabile di aperti per la topologia 𝜏. Indichiamo con 𝐽 ⊆ ℕ l’insieme dei numeri naturali 𝑛 tali che 𝐴𝑛 è al più numerabile. Definiamo quindi l’insieme 𝑍 ∶=
⋃
𝑛∈𝐽
𝐴𝑛 .
che è, ovviamente, numerabile. Sia 𝑦 ∈ 𝑌 . Per definizione, esiste un suo intorno aperto 𝑈𝑦 che contiene al più un’infinità numerabile di elementi. D’altra parte, 𝑈𝑦 deve contenere un aperto 𝐴𝑘 della base, con 𝐴𝑘 contenente 𝑦. Risultando 𝐴𝑘 numerabile, ne consegue che è 𝐴𝑘 ⊆ 𝑍 e quindi 𝑦 ∈ 𝑍. 2. L’inclusione 𝒟 𝑐 (𝒟 𝑐 (𝑋)) ⊆ 𝒟 𝑐 (𝑋) si prova come la Proposizione 1.55.5. Veniamo all’inclusione opposta. Siano 𝑥 ∈ 𝒟 𝑐 (𝑋) e 𝑈 un suo intorno aperto. Per definizione, 𝑈 non è numerabile. D’altra parte, 𝑈 ∩ 𝑌 è al più numerabile. Quindi 𝑈 ∩ 𝒟 𝑐 (𝑋) è non numerabile. Per l’arbitrarietà di 𝑈 , si ha 𝑥 ∈ 𝒟 𝑐 (𝒟 𝑐 (𝑋)); dall’arbitrarietà di 𝑥 segue poi la tesi. Teorema 1.101 (di Cantor-Bendixson). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico 𝐴2 . Allora 𝑋 è l’unione di un insieme perfetto e di uno al più numerabile.
Dimostrazione. Siano 𝐹 l’unione di tutti i sottoinsiemi di 𝑋 densi in sé e 𝐺 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐹 . Dal Teorema 1.67 sappiamo che 𝐹 è perfetto e che 𝐺 è disperso. Resta da provare che 𝐺 è al più numerabile. A tale scopo, consideriamo l’insieme 𝒟 𝑐 (𝑋) dei punti di condensazione di 𝑋 e il suo complementare 𝑌 definito nel teorema precedente. Per la Proposizione 1.100.2, tutti i punti di 𝒟 𝑐 (𝑋) sono di condensazione per tale insieme. Siccome i punti di condensazione sono anche di accumulazione, l’insieme 𝒟 𝑐 (𝑋) è denso in sé. Per la massimalità di 𝐹 , si ha 𝒟 𝑐 (𝑋) ⊆ 𝐹 e quindi 𝐺 ⊆ 𝑌 che è al più numerabile. Teorema 1.102. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) che sia 𝑇3 [regolare] e secondo numerabile è 𝑇4 [normale]. Dimostrazione. Fissiamo una base numerabile ℬ di 𝜏 e siano 𝐶 e 𝐷 due sottoinsiemi chiusi disgiunti di 𝑋. L’insieme 𝑋 ⧵ 𝐷 è un aperto contenente 𝐶. Essendo lo spazio 𝑇3 , per ogni 𝑥 ∈ 𝐶, esiste un 𝑈𝑥 ∈ ℬ tale che 𝑥 ∈ 𝑈𝑥 ⊆ cl 𝑈𝑥 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝐷, da cui 𝐷 ∩ cl 𝑈𝑥 = ∅. Si ottiene così un insieme numerabile di aperti 𝑈𝑛 ∈ ℬ tali che 𝐶⊆
+∞
⋃ 𝑛=1
𝑈𝑛 ,
𝐷 ∩ cl 𝑈𝑛 = ∅, ∀𝑛 ∈ ℕ.
𝑉𝑛 ,
𝐶 ∩ cl 𝑉𝑛 = ∅, ∀𝑛 ∈ ℕ.
Simmetricamente, esiste un insieme numerabile di aperti 𝑉𝑛 ∈ ℬ tali che 𝐷⊆
+∞
⋃ 𝑛=1
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione Siano ora
𝐺𝑛 ∶= 𝑈𝑛 ⧵
⋃
𝑘≤𝑛
cl 𝑉𝑘 ,
𝐻𝑛 ∶= 𝑉𝑛 ⧵
⋃
𝑘≤𝑛
36 cl 𝑈𝑘 .
Gli insiemi 𝐺𝑛 e 𝐻𝑛 sono chiaramente aperti. Posto 𝐴 ∶= ⋃𝑛∈ℕ 𝐺𝑛 e 𝐵 ∶= ⋃𝑛∈ℕ 𝐻𝑛 , si ha che 𝐴 è un aperto contenente 𝐶 e che 𝐵 è un aperto contenente 𝐷. Proviamo che è 𝐴 ∩ 𝐵 = ∅. Procediamo per assurdo. Se è 𝐴 ∩ 𝐵 ≠ ∅, esistono 𝑚, 𝑛 ∈ ℕ tali che 𝐺𝑚 ∩ 𝐻𝑛 ≠ ∅. Sia, per esempio 𝑛 ≤ 𝑚. Deve dunque esistere un 𝑥 ∈ 𝑋 tale che 𝑥 ∈ (𝑈 𝑚 ⧵
⋃
𝑠≤𝑚
𝑉 𝑠 ) ∩ (𝑉 𝑛 ⧵
⋃ 𝑡≤𝑛
𝑈𝑡 ),
da cui 𝑥 ∈ 𝑈𝑚 ∩ 𝑉𝑛 ; ma ciò è assurdo, dato che è 𝑛 ≤ 𝑚.
Corollario 1.103. Lo spazio topologico (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) è normale. Sono parimenti normali gli spazi topologici (ℝ, 𝜏 + ) e (ℝ, 𝜏 − ), dove 𝜏 + e 𝜏 − sono le topologie di Sorgenfrey (cfr. Corollario 1.92). Stabiliamo per gli spazi normali due risultati analoghi a quelli dei Teoremi 1.93 e 1.91 relativi agli spazi regolari. Teorema 1.104. Uno spazio topologico [Uno spazio topologico 𝑇1 ] (𝑋, 𝜏) è 𝑇4 [è normale] (se e) solo se, comunque si fissino in 𝑋 due sottoinsiemi chiusi disgiunti 𝐶, 𝐷, esistono un aperto 𝐴 contenente 𝐶 e un aperto 𝐵 contenente 𝐷, con cl 𝐴 ∩ cl 𝐵 = ∅.
Dimostrazione. Supponiamo che (𝑋, 𝜏) sia 𝑇4 . Siano 𝐶 e 𝐷 due chiusi disgiunti e 𝑈 e 𝑉 due aperti disgiunti con 𝐶 ⊆ 𝑈 e 𝐷 ⊆ 𝑉 . Il chiuso 𝐷′ ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈 è disgiunto dal chiuso 𝐶. Esistono quindi due aperti disgiunti 𝑈 ′ e 𝑉 ′ con 𝐶 ⊆ 𝑈 ′ e 𝐷 ⊆ 𝑉 ⊆ 𝐷′ ⊆ 𝑉 ′ . Per raggiungere la tesi, basta prendere gli aperti 𝐴 ∶= 𝑈 ′ e 𝐵 ∶= 𝑉 . Infatti, si ha cl 𝐴 ⊆ 𝑋 ⧵𝑉 ′ e cl 𝐵 ⊆ 𝐷′ ⊆ 𝑉 ′ . Il viceversa è ovvio. Teorema 1.105. Uno spazio topologico [Uno spazio topologico 𝑇1 ] (𝑋, 𝜏) è 𝑇4 [è normale] se e solo se, per ogni chiuso 𝐶 e per ogni 𝐴 ∈ 𝜏, con 𝐶 ⊆ 𝐴, esiste un aperto 𝑈 tale che 𝐶 ⊆ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝐴.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇4 e siano 𝐶 ⊆ 𝐴 ∈ 𝜏, con 𝐶 chiuso. Poiché 𝑋 ⧵ 𝐴 è un chiuso disgiunto da 𝐶, esisteranno due aperti disgiunti 𝑈 e 𝑉 , con 𝐶 ⊆ 𝑈 e 𝑋 ⧵ 𝐴 ⊆ 𝑉 . Quest’ultima relazione si può esprimere anche con 𝑋 ⧵ 𝑉 ⊆ 𝐴. Dal fatto che 𝑈 e 𝑉 sono disgiunti, segue anche che 𝑈 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝑉 , che è un chiuso. Si conclude che è 𝐶 ⊆ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝑉 ⊆ 𝐴. Veniamo all’implicazione opposta e supponiamo che 𝐶 e 𝐷 siano due chiusi disgiunti in (𝑋, 𝜏). Poiché l’aperto 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐷 contiene 𝐶, esiste, per ipotesi, 𝑈 ∈ 𝜏 tale che 𝐶 ⊆ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝐴. Pertanto, gli aperti disgiunti 𝑈 e 𝑉 ∶= 𝑋 ⧵ cl 𝑈 ⊇ 𝐷 realizzano la condizione 𝑇4 .
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
37
Segnaliamo che, come accade per agli spazi regolari, anche quelli normali sono utilizzati più frequentemente di quelli solo 𝑇4 .
Teorema 1.106. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un sottoinsieme di 𝑋 dotato della topologia indotta 𝜏𝐸 . 1. Se lo spazio (𝑋, 𝜏) gode di una delle proprietà 𝐴1 , 𝐴2 , 𝑇𝑖 , con 0 ≤ 𝑖 ≤ 3, gode della stessa proprietà anche (𝐸, 𝜏𝐸 ). 2. Se lo spazio (𝑋, 𝜏) è 𝑇4 ed 𝐸 è chiuso, allora anche (𝐸, 𝜏𝐸 ) gode della stessa proprietà.
Dimostrazione. 1. Per gli assiomi 𝐴1 , 𝐴2 , 𝑇0 , 𝑇1 , 𝑇2 , la cosa è immediata. Occupiamoci dell’assioma 𝑇3 . Siano dunque dati un punto 𝑝 e un sottoinsieme 𝐶 chiuso in 𝐸, con 𝑝 ∈ 𝐸, 𝐶 ⊆ 𝐸 e 𝑝 ∉ 𝐶. Si ha 𝐶 = 𝐸 ∩ cl𝑋 𝐶 e 𝑝 ∉ cl𝑋 𝐶. Per ipotesi, esistono 𝐴, 𝐵 ∈ 𝜏 fra loro disgiunti, con 𝑝 ∈ 𝐴 e cl𝑋 𝐶 ⊆ 𝐵. Posto 𝐴′ ∶= 𝐴 ∩ 𝐸 e 𝐵 ′ ∶= 𝐵 ∩ 𝐸, si ha 𝐴′ , 𝐵 ′ ∈ 𝜏𝐸 , 𝐴′ ∩ 𝐵 ′ = ∅. 𝑝 ∈ 𝐴′ e 𝐶 ⊆ 𝐵 ′ . 2. Supponiamo, in fine, che (𝑋, 𝜏) sia 𝑇4 e che 𝐸 sia un sottoinsieme chiuso di 𝑋. Dati due chiusi disgiunti 𝐶, 𝐷 di 𝐸, essi sono chiusi anche in 𝑋, dato che 𝐸 è chiuso (cfr: Teorema 1.60). Esistono pertanto due 𝜏-aperti 𝐴 e 𝐵 fra loro disgiunti e contenenti, rispettivamente, 𝐶 e 𝐷. Gli aperti cercati sono 𝐴 ∩ 𝐸 e 𝐵 ∩ 𝐸. Se il sottoinsieme 𝐸 non è chiuso, può accadere che la proprietà 𝑇4 non sia ereditata dal sottospazio. L’esempio che produrremo mostra anche che esistono spazi che sono solo 𝑇0 e 𝑇4 .
Esempio 1.107. Siano (𝑋, 𝜏) il piano di Niemytzki (cfr. Esempio 1.96), 𝑋 ∗ ∶= 𝑋 ∪ {𝑧}, con 𝑧 ∉ 𝑋. In 𝑋 ∗ definiamo la topologia 𝜏 ∗ dell’estensione aperta (cfr. Osservazione 1.85). Dunque l’unico intorno di 𝑧 è lo spazio 𝑋 ∗ e, pertanto, tutti i chiusi non vuoti di 𝑋 ∗ contengono 𝑧. Non esistendo quindi chiusi disgiunti non banali, lo spazio (𝑋 ∗ , 𝜏 ∗ ) è 𝑇4 . Sappiamo però che il sottospazio (𝑋, 𝜏) non lo è. È poi immediato che (𝑋 ∗ , 𝜏 ∗ ), oltre che 𝑇4 , è anche 𝑇0 . Il singoletto {𝑧} è chiuso e, per ogni 𝑥 ≠ 𝑧, si ha che ogni intorno di 𝑧 contiene 𝑥: si conclude che lo spazio non è né 𝑇1 né 𝑇3 . ◁ Si tenga presente che la condizione che 𝐸 sia chiuso è sufficiente ma non necessaria affinché la proprietà 𝑇4 sia ereditata dal sottospazio. Per constatarlo, basta partire da (ℝ, 𝜏𝑒 ) e prendere come sottoinsieme ℚ. Chiudiamo la lista degli assiomi di separazione (mediante aperti) segnalandone ancora uno: l’assioma 𝑇5 . Premettiamo una definizione.
Definizione 1.108. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝐴, 𝐵 due sottoinsiemi arbitrari di 𝑋. Diremo che 𝐴 e 𝐵 sono separati se nessuno dei due ha punti aderenti all’altro, ossia se cl 𝐴 ∩ 𝐵 = cl 𝐵 ∩ 𝐴 = ∅. ◁
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
38
Definizione 1.109. Si dice che uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇5 se, per ogni coppia di insiemi separati 𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋, esistono due aperti disgiunti 𝑈 , 𝑉 con 𝐴 ⊆ 𝑈 e 𝐵 ⊆ 𝑉 . Uno spazio 𝑇1 e 𝑇5 è detto completamente normale. ◁
Ovviamente, ogni spazio 𝑇5 è anche 𝑇4 , dato che due chiusi disgiunti sono sempre separati. D’altra parte, 𝑇5 è indipendente da 𝑇0 e 𝑇3 . Daremo fra poco i relativi esempi. Vedremo subito anche che esistono spazi 𝑇4 che non sono 𝑇5 . Come nei casi degli spazi 𝑇3 e 𝑇4 , anche l’assioma 𝑇5 viene solitamente considerato unitamente a 𝑇1 . Teorema 1.110. In uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) le seguenti condizioni sono fra loro equivalenti: 1. 𝑋 è 𝑇4 assieme ad ogni suo sottospazio. 2. Ogni sottospazio aperto di 𝑋 è 𝑇4 . 3. 𝑋 è 𝑇5 .
Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Ovvio. 2 ⇒ 3. Siano 𝐴, 𝐵(⊆ 𝑋) fra loro separati e definiamo il sottospazio aperto 𝑌 ∶= 𝑋 ⧵ (cl 𝐴 ∩ cl 𝐵). Essendo fra loro separati, 𝐴 e 𝐵 sono sottoinsiemi di 𝑌 . Inoltre, gli insiemi cl𝑌 𝐴 e cl𝑌 𝐵 sono due chiusi in 𝑌 fra loro disgiunti. Per ipotesi, 𝑌 è 𝑇4 e quindi esistono due aperti disgiunti 𝑈 , 𝑉 ⊆ 𝑌 con 𝐴 ⊆ cl𝑌 𝐴 ⊆ 𝑈 e 𝐵 ⊆ cl𝑌 𝐵 ⊆ 𝑉 . Dal fatto che 𝑈 e 𝑉 sono aperti in 𝑌 che, a sua volta, è aperto in 𝑋, segue che 𝑈 e 𝑉 sono aperti anche in 𝑋, da cui la tesi. 3 ⇒ 1. Sia 𝐸 un sottoinsieme arbitrario di 𝑋 e siano 𝐶, 𝐷 due sottoinsiemi disgiunti di 𝐸 chiusi in 𝜏𝐸 . Per la Proposizione 1.57.3, si ha cl 𝐶∩𝐸 = cl𝐸 𝐶 = 𝐶; quindi, cl 𝐶 ∩ 𝐷 = ∅. Simmetricamente si ottiene cl 𝐷 ∩ 𝐶 = ∅ e quindi 𝐶 e 𝐷 sono separati in 𝑋. Per l’assioma 𝑇5 , esistono due aperti disgiunti 𝑈 , 𝑉 ⊆ 𝑋 con 𝐶 ⊆ 𝑈 e 𝐷 ⊆ 𝑉 . È ora immediato constatare che gli insiemi 𝑈 ′ ∶= 𝑈 ∩ 𝐸 e 𝑉 ′ ∶= 𝑉 ∩ 𝐸 sono due aperti disgiunti in 𝐸 contenenti rispettivamente 𝐶 e 𝐷. In virtù del teorema appena visto, possiamo concludere che gli spazi che verificano gli assiomi 𝑇1 e 𝑇5 sono tutti e soli gli spazi normali che hanno la proprietà di avere tutti i sottospazi ancora normali. Per tale motivo, gli spazi che sono 𝑇1 e 𝑇5 sono detti ereditariamente normali. Utilizzano ancora il Teorema 1.110, si ha subito il seguente corollario. Corollario 1.111. 1. Lo spazio (ℝ, 𝜏𝑒 ) e gli spazi degli Esempi 1.76.1, 1.82, 1.83, 1.84 sono 𝑇5 . 2. Gli spazi degli Esempi 1.88 e 1.107 non sono 𝑇5 . 3. Lo spazio (ℝ, 𝜏𝑒 ) soddisfa a tutti gli assiomi da 𝑇0 a 𝑇5 . Non sarà inutile fornire un breve riassunto delle relazioni che sussistono fra i vari assiomi di separazione e qualche ulteriore esempio.
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
39
Teorema 1.112. Fra gli assiomi di separazione mediante aperti sussistono le seguenti implicazioni: 1. 𝑇2 ⇒ 𝑇1 ⇒ 𝑇0 . (Lemma 1.75.) 2. 𝑇0 ∧ 𝑇3 ⇒ 𝑇2 . (Proposizione 1.81.1.) 3. 𝑇1 ∧ 𝑇4 ⇒ 𝑇3 ∧ 𝑇2 . (Proposizione 1.81.2.) 4. 𝑇5 ⇒ 𝑇4 . (Ovvio.) 5. 𝑇3 ∧ 𝐴2 ⇒ 𝑇4 . (Teorema 1.102.)
Proviamo ora con esempi che esistono spazio che sono solo 𝑇0 , spazi che sono solo 𝑇3 e spazi che sono solo 𝑇4 e 𝑇5 .
Esempio 1.113 (Topologia del punto speciale). Su un insieme 𝑋 con più di un elemento si fissa un punto 𝑝. La topologia del punto speciale consiste nel dichiarare aperti, oltre a ∅, tutti gli insiemi 𝐴 che contengono 𝑝. Quindi i chiusi diversi da 𝑋 sono i sottoinsiemi che non contengono 𝑝. Se 𝑋 consta esattamente di due punti, si ottiene la topologia di Sierpinski. Questa topologia è sempre 𝑇0 . Si tenga presente che, per i punti diversi da 𝑝, i singoletti sono chiusi e non aperti, mentre {𝑝} non è chiuso. Lo spazio non è né 𝑇1 né 𝑇2 . In questa topologia due aperti non vuoti hanno sempre intersezione non vuota. Quindi lo spazio non è 𝑇3 . Se 𝑋 contiene almeno tre elementi, lo spazio non è neanche 𝑇4 . Basta prendere come chiusi due singoletti costituiti da elementi diversi da 𝑝. Si osservi che la topologia del punto speciale è un particolare tipo di topologia dell’estensione chiusa (cfr. Osservazione 1.86). Infatti si ottiene aggiungendo 𝑝 a 𝑋 ⧵ {𝑝} dotato della topologia discreta. ◁ Esempio 1.114. L’esempio si ottiene “duplicando” il piano di Niemytzki (cfr. Esempio 1.96) con lo stesso procedimento utilizzato nell’Esempio 1.87. Sia (𝑋, 𝜏) il piano di Niemytzki e definiamo nell’insieme 𝑌 ∶= {0, 1} × 𝑋 la seguente topologia 𝜎. Un sottoinsieme 𝐵 ⊆ 𝑌 è aperto in 𝜎 se e solo se è del tipo 𝐵 ∶= {0, 1} × 𝐴, con 𝐴 ∈ 𝜏. Partendo da due punti del tipo (0, 𝑥) e (1, 𝑥), si ha subito che il nuovo spazio non è 𝑇0 . Siccome (𝑋, 𝜏) non è 𝑇4 , esistono due 𝜏-chiusi disgiunti 𝐶, 𝐷 non separati da 𝜏-aperti. I 𝜎-chiusi disgiunti {0, 1} × 𝐶 e {0, 1} × 𝐷 in 𝑌 non possono essere separati da 𝜎-aperti disgiunti. Verifichiamo che (𝑌 , 𝜎) è 𝑇3 . Siano: 𝑃 ∶= (𝑘, 𝑥), con 𝑘 ∈ {0, 1} e 𝑥 ∈ 𝑋, un punto di 𝑌 ; 𝒞 ∶= {0, 1} × 𝐶, con 𝐶 chiuso in 𝑋, un chiuso di 𝑌 . Dall’ipotesi 𝑃 ∉ 𝒞 , si ottiene 𝑥 ∉ 𝐶. Poiché (𝑋, 𝜏) è 𝑇3 , esistono due 𝜏-aperti disgiunti 𝑈 , 𝑉 , con 𝑥 ∈ 𝑈 e 𝐶 ⊆ 𝑉 . I 𝜎-aperti disgiunti {0, 1} × 𝑈 e {0, 1} × 𝑉 separano 𝑃 e 𝒞. ◁ Esempio 1.115 (Topologia dell’intervallo annidato). Sia 𝑋 ∶= ]0, 1[ e definiamo come aperti oltre al vuoto e a 𝑋, tutti e soli i sottoinsiemi del tipo 𝐴𝑛 ∶= ]0, 1 − 1/𝑛[, con 𝑛 numero naturale maggiore di 1. Tutti gli aperti non vuoti contengono l’intervallo ]0, 1/2[. Dati due punti di quest’ultimo intervallo, si vede che fallisce già 𝑇0 . Considerando il chiuso [1/2, 1[ e un arbitrario punto 𝑝 ∈ ]0, 1/2[, si vede che anche 𝑇3 viene a mancare. Si constata che, dato un
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
40
qualunque sottoinsieme (non vuoto) 𝐸 di 𝑋, e posto 𝛼 ∶= inf 𝐸, si ha che la chiusura di 𝐸 deve contenere l’intervallo ]𝛼, 1[. Ciò prova che non ci sono chiusi non vuoti disgiunti e che quindi lo spazio è 𝑇4 . Fissiamo ora due sottoinsiemi disgiunti e non vuoti 𝐴, 𝐵 ⊂ 𝑋, un punto 𝑎 ∈ 𝐴, un punto 𝑏 ∈ 𝐵 e supponiamo 𝑎 < 𝑏. Siccome risulta 𝑏 ∈ cl 𝐴, i due insiemi non sono separati. Da ciò si ricava la validità dell’assioma 𝑇5 . ◁
Dato uno spazio topologico, ci sono a priori 26 = 64 possibilità circa la validità di assiomi di separazione mediante aperti 𝑇0 , ⋯ , 𝑇5 . Tenendo però conto delle prime quattro proposizioni del Teorema 1.112, si vede che i casi possibili sono i 14 elencati nella seguente tabella. Nell’ultima colonna sono riportati gli esempi e i teoremi che mostrano come ciascuno di questi sia effettivamente possibile. Esempi di spazi solo 𝑇3 e 𝑇4 e di spazi in cui fallisce solo 𝑇5 si ottengono a partire dal cosiddetto Tychonoff-plank e verranno prodotti successivamente nel Capitolo sugli ordinali. Uno spazio in cui cade solo l’assioma 𝑇5 sarà presentato anche nell’Esempio 7.60. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14
𝑇0 – ∗ – – ∗ ∗ – – ∗ ∗ – ∗ ∗ ∗
𝑇1 – – – – ∗ – – – ∗ – – ∗ ∗ ∗
𝑇2 – – – – – – – – ∗ – – ∗ ∗ ∗
𝑇3 – – ∗ – – – ∗ – – – ∗ ∗ ∗ ∗
𝑇4 – – – ∗ – ∗ ∗ ∗ – ∗ ∗ – ∗ ∗
𝑇5 – – – – – – – ∗ – ∗ ∗ – – ∗
Esempi (E) e teoremi (T) E. 1.87 E. 1.113 E. 1.114 E. 1.88, T. 1.110 E. 1.14, 1.15, 1.77, T. 1.112 E. 1.107 E. Tychonoff-plank duplicato E. 1.115 E. 1.90 E. 1.82, 1.83, T. 1.111 E. 1.76.1, 1.84, T. 1.111 E. 1.95, 1.96 E. 7.60, Tychonoff-plank (ℝ, 𝜏𝑒 ), T. 1.111
Osservazione 1.116. Su un dato insieme 𝑋 siano assegnate due topologie 𝜏 e 𝜎, con 𝜎 più fine di 𝜏. È evidente che, se 𝜏 è una topologia 𝑇0 , 𝑇1 , 𝑇2 , allora è tale anche 𝜎. Abbiamo già osservato che, se 𝑋 ha più di un elemento, la topologia nulla non è 𝑇0 , ma è 𝑇3 e 𝑇4 . Ciò comporta che raffinando una topologia 𝑇3 o 𝑇4 non si ottiene necessariamente uno spazio con questa proprietà. È naturale chiedersi se raffinando la topologia di uno spazio regolare [normale] si ottiene necessariamente uno spazio regolare [normale]. La risposta è ancora negativa. Abbiamo già gli esempi relativi alla normalità. Le topologie degli Esempi 1.95 e 1.96 sono più fini delle corrispondenti topologie euclidee, ma non sono più normali. ◁
1.5. Assiomi di numerabilità e di separazione
41
Diamo un esempio di spazio topologico regolare che ammette un “raffinamento” non più regolare, ma che è completamente Hausdorff.
Esempio 1.117 (Topologia del semicerchio). Sia 𝑋 = {(𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ 𝑦 ≥ 0} e definiamo in esso la seguente topologia 𝜏 assegnando gli intorni dei singoli punti. Per i punti 𝑝 ∶= (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑋 con 𝑦 > 0, gli intorni sono quelli della topologia ordinaria di ℝ2 intersecati con 𝑋. Per quanto riguarda i punti sull’asse delle 𝑥, che indicheremo con 𝑡, si assume che una base di intorni di 𝑞 ∶= (𝑥, 0) ∈ 𝑡 è data dagli insiemi del tipo 𝐵(𝑞, 𝑟) ∩ (𝑋 ⧵ 𝑡) ∪ {𝑞}. Dunque una base di intorni di 𝑞 si ottiene aggiungendo al singoletto {𝑞} un semidisco di centro il punto, aperto e privo del diametro. Osserviamo che, se 𝑊 è un intorno di 𝑞, allora cl 𝑊 ∩ 𝑡 deve contenere un intervallo del tipo {(𝑥, 0) ∶ 𝑞 − 𝜀 < 𝑥 < 𝑞 + 𝜀}. Questa topologia è chiaramente più fine di quella euclidea ed è quindi di Hausdorff; è addirittura 𝑇 1 (Esercizio). Proviamo che non è 𝑇3 . Fissiamo 2
2
un punto 𝑞 ∈ 𝑡 e sia 𝑈 un suo intorno di base. L’insieme 𝐶 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈 è un chiuso che contiene 𝑡 ⧵ {𝑞}. Supponiamo, per assurdo, che esistano due aperti disgiunti 𝐴, 𝐵 contenenti rispettivamente 𝑞 e 𝐶. La chiusura di 𝐴 è disgiunta da 𝐶. D’altra parte, la chiusura di 𝐴 contiene la chiusura di un opportuno intorno di 𝑞 e contiene pertanto punti di 𝑡 vicini a 𝑞 e quindi contiene punti di 𝐶. ◁ Osserviamo, in fine, che anche indebolendo la topologia di uno spazio regolare [normale] non è detto che lo spazio ottenuto abbia ancora la stessa proprietà. Un semplice esempio, che si ottiene indebolendo la topologia euclidea del piano è il seguente:
Esempio 1.118. In ℝ2 definiamo la seguente topologia 𝜏. Per i punti diversi dall’origine, gli intorni sono quelli usuali. Una base di intorni dell’origine è data dagli insiemi del tipo 𝐵𝑟,𝑘 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥2 + 𝑦2 < 𝑟2 } ∪ {(𝑥, 𝑦) ∶ (|𝑥| > 𝑘) ∧ (|𝑦| < 1)} .
È ovvio che tale topologia è strettamente meno fine di quella euclidea. È comunque una topologia di Hausdorff. Non è però regolare e quindi nemmeno normale (cfr.Proposizione 1.112.3). Per constatarlo basta prendere come punto l’origine e come insieme chiuso la retta di equazione 𝑦 = 1. Non esistono coppie di aperti che li separano. ◁
2
Funzioni 2.1 Funzioni continue Nel capitolo precedente abbiamo esaminato in dettaglio gli enti “oggetto” del nostro studio, vale a dire gli spazi topologici. Di tali spazi abbiamo anche evidenziato alcune proprietà intrinseche come, per esempio, gli assiomi di separazione. Il passo successivo consiste ora nell’introdurre gli strumenti che mettono in relazioni i vari oggetti. Ciò viene fatto considerando applicazioni (funzioni) di uno spazio in un altro. Come nel caso delle strutture algebriche, in cui sono significative quelle applicazioni che sono compatibili con le proprietà strutturali (omomorfismi tra gruppi, anelli, campi; applicazioni lineari tra spazi vettoriali, …), così nel nostro caso i “morfismi” fra spazi topologici sono le funzioni continue. Il lettore ha certamente già acquisito familiarità con il concetto di funzione continua nel caso di applicazioni da ℝ a ℝ e, probabilmente, anche nel caso di funzioni da ℝ𝑚 a ℝ𝑛 . La definizione 𝜀, 𝛿 che si può utilizzare nei casi citati non è estendibile alle applicazioni fra spazi topologici. Proprio allo scopo di poter generalizzare questo concetto, è stata introdotta la definizione di funzione continua mediante gli intorni. Definizione 2.1. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ . Si dice che 𝑓 è continua in un punto 𝑥0 ∈ 𝑋 se, per ogni intorno 𝑉 di 𝑓 (𝑥0 ), esiste un intorno 𝑈 di 𝑥0 tale che 𝑓 (𝑈 ) sia contenuto in 𝑉 . In simboli (∀𝑉 ∈ 𝒰(𝑓 (𝑥0 )))(∃𝑈 ∈ 𝒰(𝑥0 ))(𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 ). Si dice che 𝑓 è continua in 𝑋 se è continua in ogni suo punto.
◁
In molti esempi tipici delle applicazioni all’Analisi Matematica, non è detto che la funzione 𝑓 sia definita in tutto lo spazio 𝑋 di partenza. In generale, dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), avremo una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ . Dato 𝑥0 ∈ 𝐸, la funzione 𝑓 è continua nel punto se lo è come funzione di (𝐸, 𝜏𝐸 ) in (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ). Ciò equivale a dire che, per ogni intorno 𝑉 di 𝑓 (𝑥0 ), esiste un intorno 𝑈 di 𝑥0 in 𝑋 tale che 𝑓 (𝑈 ∩ 𝐸) sia contenuto in 𝑉 . Acquisito tale 42
2.1. Funzioni continue
43
fatto, nel seguito, per comodità di esposizione, penseremo sempre le funzioni definite in tutto lo spazio di partenza. Il lettore tenga comunque presente questa osservazione che è fondamentale per comprendere meglio alcuni esempi che vedremo più avanti. Da un punto di vista pratico, è utile il seguente risultato. Lemma 2.2. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ e un punto 𝑥0 ∈ 𝑋. Siano poi ℬ(𝑥0 ) e ℬ(𝑓 (𝑥0 )) due basi degli intorni di 𝑥0 e, rispettivamente, di 𝑓 (𝑥0 ). Allora 𝑓 è continua in 𝑥0 se e solo se, per ogni intorno 𝑉 ∈ ℬ(𝑓 (𝑥0 )), esiste un intorno 𝑈 ∈ ℬ(𝑥0 ) tale che 𝑓 (𝑈 ) sia contenuto in 𝑉 . Dimostrazione. Sia 𝑓 continua in 𝑥0 e fissiamo un 𝑉 ∈ ℬ(𝑓 (𝑥0 )); questo è un particolare intorno di 𝑓 (𝑥0 ). Esiste quindi 𝑈 ′ ∈ 𝒰(𝑥0 ), con 𝑓 (𝑈 ′ ) ⊆ 𝑉 ; 𝑈 ′ deve contenere un 𝑈 ∈ ℬ(𝑥0 ); è dunque anche 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Per provare il viceversa, fissiamo un 𝑉 ∈ 𝒰(𝑓 (𝑥0 )); questo deve contenere un 𝑉 ′ ∈ ℬ(𝑓 (𝑥0 )). Per ipotesi, esiste 𝑈 ∈ ℬ(𝑥0 ) ⊆ 𝒰(𝑥0 ) tale che 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 ′ ⊆ 𝑉 .
Fissiamo due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e facciamo alcune osservazioni le cui verifiche immediate sono lasciate per esercizio al lettore. Una funzione costante è sempre continua. Se 𝑥0 è un punto isolato di 𝑋, ogni funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ è continua in 𝑥0 . Se 𝑓 (𝑥0 ) è un punto isolato di 𝑋 ′ , una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ è continua in 𝑥0 se e solo se esiste un intorno del punto in cui 𝑓 è costante. Più in generale, se un punto 𝑥0 ∈ 𝑋 ha un minimo intorno 𝑈0 , allora 𝑓 è continua in 𝑥0 se e solo se si ha 𝑓 (𝑈0 ) ⊆ 𝑉 , ∀𝑉 ∈ 𝒰(𝑓 (𝑥0 )). Se 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ è continua, questa rimane tale se si raffina la topologia di 𝑋 o si indebolisce quella di 𝑋 ′ . Se è 𝑋 = 𝑋 ′ , l’identità 𝑖𝑋 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋, 𝜏 ′ ) è continua se e solo se 𝜏 è più fine di 𝜏 ′ , nel senso che è 𝜏 ⊇ 𝜏 ′ , ovvero 𝜏 ′ ⪯ 𝜏. Lemma 2.3. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ). Si ha che le funzioni 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ sono tutte continue (se e) solo se o 𝜏 è la topologia discreta o 𝜏 ′ è quella nulla.
Dimostrazione. Basta ovviamente provare il “solo se”. Per farlo, supponiamo che 𝜏 non sia la topologia discreta e che 𝜏 ′ non sia quella nulla e costruiamo una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ non continua. Siccome 𝜏 ′ non è la topologia nulla, esiste un sottoinsieme proprio e non vuoto 𝐴′ di 𝑋 ′ aperto in 𝜏 ′ . Fissiamo un 𝑎′ ∈ 𝐴′ e un 𝑏′ ∈ 𝑋 ′ ⧵ 𝐴′ . Siccome 𝜏 non è la topologia discreta, esiste un 𝑎 ∈ 𝑋 tale che ogni suo intorno ha più di un elemento. Sia ora 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ la funzione definita da 𝑓 (𝑎) ∶= 𝑎′ e 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑏′ , ∀𝑥 ≠ 𝑎. Si vede subito che 𝑓 non può essere continua in 𝑎. Teorema 2.4. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ . Le tre seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti:
2.1. Funzioni continue
44
1. 𝑓 è continua. 2. Per ogni sottoinsieme aperto 𝐴′ di 𝑋 ′ , la controimmagine 𝑓 −1 (𝐴′ ) è un aperto di 𝑋. 3. Per ogni sottoinsieme chiuso 𝐶 ′ di 𝑋 ′ , la controimmagine 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) è un chiuso di 𝑋.
Dimostrazione. (1) ⇔ (2). Sia 𝑓 continua; fissiamo un aperto 𝐴′ di 𝑋 ′ e sia 𝐴 ∶= 𝑓 −1 (𝐴′ ). Per ogni 𝑥 ∈ 𝐴, l’insieme 𝐴′ è un intorno aperto di 𝑓 (𝑥); per la continuità di 𝑓 , esiste un intorno aperto 𝐴𝑥 di 𝑥 tale che 𝑓 (𝐴𝑥 ) ⊆ 𝐴′ , da cui 𝐴𝑥 ⊆ 𝐴. Essendo 𝐴 = ⋃𝑥∈𝐴 𝐴𝑥 , si ha che 𝐴 è aperto. Il viceversa è ovvio, dato che si ha 𝑓 (𝑓 −1 (𝐴′ )) ⊆ 𝐴′ . (2) ⇔ (3). Supponiamo vera la (2) e fissiamo un chiuso 𝐶 ′ in 𝑋 ′ . L’insieme ′ 𝐴 ∶= 𝑋 ′ ⧵ 𝐶 ′ è un aperto di 𝑋 ′ . Per ipotesi, 𝐴 ∶= 𝑓 −1 (𝐴′ ) è un aperto di 𝑋. Ne viene che 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) = 𝑓 −1 (𝑋 ′ ⧵ 𝐴′ ) = 𝑋 ⧵ 𝑓 −1 (𝐴′ ) = 𝑋 ⧵ 𝐴 è un chiuso di 𝑋. Il viceversa si prova in modo perfettamente analogo.
È facile verificare che nel teorema precedente la condizione (2) può essere attenuata richiedendo che, data una base (o anche solo una sottobase) ℬ ′ di 𝜏 ′ , per ogni 𝐴′ ∈ ℬ ′ , 𝑓 −1 (𝐴′ ) sia un aperto di 𝜏. Esempio 2.5. Siano (𝑋, 𝜏) = (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) ∶= (ℝ, 𝜏𝑒 ) e sia 𝑓 (𝑥) ∶=
𝑥 . |𝑥|
Posto 𝐶 ′ ∶=
[−2, 2], si ha 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) = ℝ ⧵ {0} che non è chiuso in ℝ. Il fatto è che la funzione in oggetto non è definita su tutto ℝ, ma solo in ℝ ⧵ {0}; per poter applicare il precedente teorema, bisogna dunque assumere (𝑋, 𝜏) ∶= (ℝ ⧵ {0}, 𝜏𝑒 ). Così facendo, le cose vanno a posto, dato che ora è 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) = 𝑋 che è ovviamente chiuso. ◁ Corollario 2.6 (Sulla controimmagine degli insiemi chiusi). Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ , con 𝐸 chiuso. Allora, per ogni chiuso 𝐶 ′ ⊆ 𝑋 ′ , la controimmagine 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) è un chiuso di 𝑋. Dimostrazione. Per il Teorema 2.4, l’insieme 𝐶 ∶= 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) ⊆ 𝐸 è un chiuso nella topologia 𝜏𝐸 . Siccome 𝐸 è chiuso, 𝐶 è chiuso anche in 𝜏 (cfr. Teorema 1.60).
Esempio 2.7. Siano (𝑋, 𝜏) = (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) ∶= (ℝ, 𝜏𝑒 ) e 𝑓 (𝑥) = √𝑥. Abbiamo 𝑓 ∶ 𝐸(⊂ ℝ) → ℝ, con 𝐸 ∶= [0, +∞[ e 𝑓 continua. Se prendiamo 𝐴′ ∶= ] − 1, 1[, si ha 𝑓 −1 (𝐴′ ) = [0, 1[, che non è aperto in ℝ. Questo fatto non è in contraddizione col Teorema 2.4 perché la funzione non è definita su tutto ℝ. L’insieme 𝑓 −1 (𝐴′ ) è aperto nella topologia indotta sul dominio 𝐸 della funzione. ◁ In analogia con il Corollario 2.6, si dimostra facilmente il seguente
2.1. Funzioni continue
45
Corollario 2.8 (Sulla controimmagine degli insiemi aperti). Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ , con 𝐸 aperto. Allora, per ogni aperto 𝐴′ ⊆ 𝑋 ′ , la controimmagine 𝑓 −1 (𝐴′ ) è un aperto di 𝑋. Teorema 2.9 (Continuità della composta). Siano dati tre spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), (𝑋 ″ , 𝜏 ″ ) e due funzioni 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ , 𝑔 ∶ 𝑋 ′ → 𝑋 ″ . Se 𝑓 è continua in un punto 𝑥0 ∈ 𝑋 e 𝑔 è continua in 𝑥′0 ∶= 𝑓 (𝑥0 ) ∈ 𝑋 ′ , allora la funzione composta 𝑔 ∘ 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ″ è ancora continua in 𝑥0 . Ne viene che se 𝑓 , 𝑔 sono continue nei rispettivi domini, è tale anche la loro composta. Dimostrazione. Fissiamo un intorno 𝑈 ″ di 𝑥″0 ∶= 𝑔(𝑥′0 ) = 𝑔(𝑓 (𝑥0 )). Per la continuità di 𝑔 in 𝑥′0 , esiste un intorno 𝑈 ′ di questo punto con 𝑔(𝑈 ′ ) ⊆ 𝑈 ″ . Per la continuità di 𝑓 in 𝑥0 , esiste un intorno 𝑈 di quest’ultimo punto con 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑈 ′ . Si conclude che è (𝑔 ∘ 𝑓 )(𝑈 ) = 𝑔(𝑓 (𝑈 )) ⊆ 𝑈 ″ . Definizione 2.10. Date due funzioni 𝑓 , 𝑔 ∶ (𝑋, 𝜏) → (ℝ, 𝜏𝑒 ), definiamo due nuove applicazioni da 𝑋 in ℝ ponendo, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, (𝑓 ∧ 𝑔)(𝑥) ∶= min{𝑓 (𝑥), 𝑔(𝑥)},
(𝑓 ∨ 𝑔)(𝑥) ∶= max{𝑓 (𝑥), 𝑔(𝑥)}.
◁
Si vede immediatamente che è
(𝑓 ∧ 𝑔)(𝑥) = 12 [𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥) − |𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|], (𝑓 ∨ 𝑔)(𝑥) = 12 [𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥) + |𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|].
(2.1)
Teorema 2.11. Siano 𝑓 , 𝑔 ∶ (𝑋, 𝜏) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) due funzioni continue in un punto 𝑧 ∈ 𝑋. Allora sono continue in 𝑧 anche le funzioni 𝑓 ± 𝑔, 𝑓 𝑔, 𝑘𝑓 , ∀𝑘 ∈ ℝ, |𝑓 |, 𝑓 ∨ 𝑔, 𝑓 ∧ 𝑔. Se è 𝑓 (𝑧) ≠ 0, sono continue in 𝑧 anche 1/𝑓 e 𝑔/𝑓 .
Dimostrazione. 1. Somma. Fissiamo un 𝜀 > 0. Esistono due intorni 𝑈1 , 𝑈2 di 𝑧 tali che |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧)| < 𝜀/2, ∀𝑥 ∈ 𝑈1 e |𝑔(𝑥) − 𝑔(𝑧)| < 𝜀/2, ∀𝑥 ∈ 𝑈2 . Per ogni 𝑥 ∈ 𝑈1 ∩ 𝑈2 , si ha |(𝑓 + 𝑔)(𝑥) − (𝑓 + 𝑔)(𝑧)| < 𝜀. 2. Prodotto. Fissiamo un 𝜀 > 0. Per la continuità di 𝑓 in 𝑧, esistono un intorno 𝑈0 di 𝑧 e un 𝑀 > 0 per cui è |𝑓 (𝑥)| < 𝑀, ∀𝑥 ∈ 𝑈0 . Per 𝑥 ∈ 𝑈0 si ha |𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑧)𝑔(𝑧)| ≤ |𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑥)𝑔(𝑧)| + |𝑓 (𝑥)𝑔(𝑧) − 𝑓 (𝑧)𝑔(𝑧)| ≤ ≤ 𝑀|𝑔(𝑥) − 𝑔(𝑧)| + (|𝑔(𝑧)| + 1) ⋅ |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧)|.
Esistono due intorni 𝑈1 , 𝑈2 di 𝑧 tali che |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧)| < 𝜀/(2(|𝑔(𝑧)| + 1)), ∀𝑥 ∈ 𝑈1 e |𝑔(𝑥) − 𝑔(𝑧)| < 𝜀/(2𝑀), ∀𝑥 ∈ 𝑈2 . Per ogni 𝑥 ∈ 𝑈0 ∩ 𝑈1 ∩ 𝑈2 , si ha |(𝑓 𝑔)(𝑥) − (𝑓 𝑔)(𝑧)| < 𝜀. Da ciò segue immediatamente la continuità di 𝑘𝑓 , dato che le costanti sono funzioni continue. In particolare si ha la continuità di −𝑓 . Dalla continuità di 𝑓 + 𝑔 e di −𝑔, si ha poi quella di 𝑓 − 𝑔.
2.1. Funzioni continue
46
3. Valore assoluto. Segue immediatamente dal fatto che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋. si ha ||𝑓 (𝑥)| − |𝑓 (𝑧)|| ≤ |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧)|. Tenuto conto delle (2.1) si ottiene poi immediatamente quella di 𝑓 ∧ 𝑔 e di 𝑓 ∨ 𝑔. 4. Reciproca. Fissiamo un 𝜀 > 0. Per la continuità di 𝑓 in 𝑧, esistono un intorno 𝑈0 di 𝑧 per cui è |𝑓 (𝑥)| ≥ |𝑓 (𝑧)|/2, ∀𝑥 ∈ 𝑈0 . Per ogni 𝑥 ∈ 𝑈0 , si ha |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧)| |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧)| 1 1 − = ≤ . | 𝑓 (𝑥) 𝑓 (𝑧) | |𝑓 (𝑥)| ⋅ |𝑓 (𝑧)| |𝑓 (𝑧)|2 /2
Esiste un intorno 𝑈1 di 𝑧 per cui è |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧)| < 𝜀|𝑓 (𝑧)|2 /2. Si conclude che per ogni 𝑥 ∈ 𝑈0 ∩ 𝑈1 , si ha |(1/𝑓 )(𝑥) − (1/𝑓 )(𝑧)| < 𝜀. Dalla continuità della reciproca e del prodotto si ha in fine quella del quoziente. Naturalmente, dalla continuità di |𝑓 | non segue quella di 𝑓 . Basta considerare la funzione 𝑓 ∶ ℝ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 1 se 𝑥 ∈ 𝑄 e 𝑓 (𝑥) ∶= −1 se 𝑥 ∉ 𝑄. Inoltre, dalla continuità di 𝑓 + 𝑔 [di 𝑓 𝑔] non segue quella di 𝑓 e 𝑔 (Esercizio!).
Teorema 2.12 (Criterio di Weierstrass). Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), una serie di funzioni continue ∑+∞ 𝑛=0 𝑓𝑛 , con 𝑓𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ, ∀𝑛 ∈ ℕ, e una serie convergente ∑+∞ 𝑀 di numeri reali positivi. Se è |𝑓𝑛 (𝑥)| ≤ 𝑀𝑛 , ∀𝑥 ∈ 𝑛 𝑛=0 𝑋, ∀𝑛 ∈ ℕ, allora la la serie ∑+∞ 𝑓 converge uniformemente a una funzione 𝑛=0 𝑛 continua 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ.
Dimostrazione. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, applicando il Criterio del confronto alle serie +∞ +∞ numeriche ∑+∞ 𝑛=0 𝑀𝑛 e ∑𝑛=0 |𝑓𝑛 (𝑥)|; si ottiene che la serie ∑𝑛=0 𝑓𝑛 converge puntualmente a una funzione 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ. Per provare che la convergenza è uniforme, fissiamo un 𝜀 > 0. Esiste un naturale 𝜈 tale che ∑+∞ 𝑛=𝜈+1 𝑀𝑛 < 𝜀, da cui, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si ha 𝜈
+∞
+∞
+∞
𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑥) = 𝑓 (𝑥) ≤ |𝑓 (𝑥)| ≤ 𝑀𝑛 < 𝜀. ∑ 𝑛 | | ∑ 𝑛 | ∑ 𝑛 ∑ | 𝑛=0 𝑛=𝜈+1 𝑛=𝜈+1 𝑛=𝜈+1
Rimane da verificare la continuità di 𝑔. Fissati 𝑧 ∈ 𝑋 e un 𝜀 > 0, sia ora 𝜈 un naturale per cui è ∑+∞ 𝑛=𝜈+1 𝑀𝑛 < 𝜀/3. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si ha 𝜈
𝜈
|𝑔(𝑥) − 𝑔(𝑧)| ≤ 𝜈
𝜈
≤ 𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑥) + 𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧) + 𝑓 (𝑧) − 𝑔(𝑧) ≤ ∑ 𝑛 | |∑ 𝑛 ∑ 𝑛 | |∑ 𝑛 | | 𝑛=0 𝑛=0 𝑛=0 𝑛=0 ≤ 2𝜀/3 +
𝜈
∑ 𝑛=0
|𝑓𝑛 (𝑥) − 𝑓𝑛 (𝑧)|.
2.1. Funzioni continue
47
Siccome le 𝑓𝑛 sono continue, per ogni 𝑛 ≤ 𝜈, esiste un intorno 𝑈𝑛 di 𝑧 tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈𝑛 , è |𝑓𝑛 (𝑥) − 𝑓𝑛 (𝑧)| < 𝜀/(3𝜈). Posto 𝑈 ∶= ⋂𝜈𝑛=0 𝑈𝑛 , Per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 , si ha ∑𝜈𝑛=0 |𝑓𝑛 (𝑥) − 𝑓𝑛 (𝑧)| < 𝜀/3. Si conclude che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 , è |𝑔(𝑥) − 𝑔(𝑧)| < 𝜀. Teorema 2.13 (Continuità della restrizione). Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ continua in 𝑥0 ∈ 𝑋. Allora, per ogni sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋, con 𝑥0 ∈ 𝐸, la restrizione 𝑓 |𝐸 è ancora una funzione continua in 𝑥0 . In particolare, se 𝑓 è continua in 𝑋, allora ogni sua restrizione (a un sottoinsieme non vuoto) è continua. Dimostrazione. Sia 𝑉 un intorno di 𝑓 (𝑥0 ). Per la continuità di 𝑓 in 𝑥0 , esiste un intorno aperto 𝑈1 di 𝑥0 tale che 𝑓 (𝑈1 ) ⊆ 𝑉 . Posto 𝑈 ∶= 𝑈1 ∩ 𝐸, si ha che 𝑈 è un 𝜏𝐸 -intorno di 𝑥0 per cui si ha 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Naturalmente, non sussiste l’implicazione opposta. Siano, per esempio, 𝑥 (𝑋, 𝜏) = (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) ∶= (ℝ, 𝜏𝑒 ) e 𝑓 ∶ ℝ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= |𝑥| , se è 𝑥 ≠ 0 e 𝑓 (0) ∶= 0. Questa non è una funzione continua, pur essendo tale la sua restrizione a ℝ ⧵ {0}.
Osservazione 2.14. Dati 𝑋, 𝑋 ′ , 𝑓 , 𝐸 come nel Teorema 2.13, ci si può chiedere se è possibile dare delle condizioni sufficienti affinché la continuità della restrizione in un punto assicuri quella di 𝑓 (nello stesso punto). Una risposta affermativa si ha quando 𝑥0 è interno ad 𝐸. (Esercizio!) In particolare, se 𝐸 è un aperto non vuoto, allora la continuità di 𝑓 |𝐸 implica la continuità di 𝑓 in tutti i punti di 𝐸. Per comprendere bene questa affermazione, si provi a dare un esempio, partendo da un insieme 𝐸 non aperto, per cui 𝑓 |𝐸 è continua in ogni suo punto, mentre 𝑓 non è continua in 𝐸. ◁ Teorema 2.15. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋′. 1. Sia 𝑋 = ⋃𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 , con gli 𝐴𝑖 aperti. Allora 𝑓 è continua se e solo se lo sono le restrizioni di 𝑓 a ciascun 𝐴𝑖 . 2. Sia 𝑋 = ⋃𝑖∈𝐽 𝐶𝑖 , con 𝐽 finito e i 𝐶𝑖 chiusi. Allora 𝑓 è continua se e solo se lo sono le restrizioni di 𝑓 a ciascun 𝐶𝑖 .
Dimostrazione. In virtù del Teorema 2.13 sulla continuità della restrizione, in entrambi i casi basta provare il “se”. 1. Fissiamo un punto 𝑥0 ∈ 𝑋. Esso deve appartenere ad almeno uno degli aperti; sia questo 𝐴𝑖 .̄ Fissiamo ora un intorno 𝑉 di 𝑓 (𝑥0 ). Per ipotesi esiste un 𝜏𝐴𝑖 ̄-intorno aperto 𝑈 (⊆ 𝐴𝑖 )̄ di 𝑥0 tale che 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Siccome 𝐴𝑖 ̄ è aperto, 𝑈 è aperto anche in 𝜏. 2. Fissiamo ancora un punto 𝑥0 ∈ 𝑋. Esso deve appartenere a qualcuno dei chiusi. Esiste dunque un insieme (finito) 𝐽 ′ (⊆ 𝐽 ) tale che 𝑥0 ∈ ⋂𝑗∈𝐽 ′ 𝐶𝑗 e 𝑥0 ∉ 𝐾 ∶= ⋃𝑘∈𝐽 ⧵𝐽 ′ 𝐶𝑘 . Essendo i 𝐶𝑖 chiusi ed essendo finito l’insieme 𝐽 ⧵ 𝐽 ′ ,
2.1. Funzioni continue
48
anche 𝐾 è chiuso. Esiste quindi un intorno aperto 𝑊 di 𝑥0 tale che 𝑊 ∩𝐾 = ∅. Fissiamo ora un intorno 𝑉 di 𝑓 (𝑥0 ). Per ogni 𝑗 ∈ 𝐽 ′ , esiste per ipotesi un 𝜏𝐶𝑗 intorno aperto 𝑈𝑗 ⊆ 𝑊 tale che 𝑓 (𝑈𝑗 ) ⊆ 𝑉 . Sempre per ogni 𝑗 ∈ 𝐽 ′ esiste un 𝜏-aperto 𝑈𝑗′ ⊆ 𝑊 tale che 𝑈𝑗 = 𝑈𝑗′ ∩ 𝐶𝑗 . Sia ora 𝑈 ∶= ⋂𝑗∈𝐽 ′ 𝑈𝑗′ . 𝑈 è un 𝜏intorno aperto di 𝑥0 per cui si ha 𝑈 ∩𝐶𝑗 ⊆ 𝑈𝑗 ⊆ 𝑊 , ∀𝑗 ∈ 𝐽 ′ e 𝑈 = ⋃𝑗∈𝐽 ′ (𝑈 ∩𝐶𝑗 ), da cui 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 .
Siano sempre dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ . Supponiamo inoltre che sia 𝑋 = ⋃𝑖∈𝐽 𝐸𝑖 e che le restrizioni di 𝑓 agli 𝐸𝑖 siano continue. Al di fuori delle ipotesi del teorema precedente non è garantita la continuità di 𝑓 . Basta prendere la funzione reale di variabile reale 𝑓 che vale 0 in 𝐴 ∶= ] − ∞, 0[ e 1 in 𝐵 ∶= [0, +∞[. 𝑓 non è continua, mentre lo sono le restrizioni ad 𝐴 e a 𝐵. Facciamo un altro esempio.
Esempio 2.16. In ℝ2 consideriamo i due insiemi: 𝐴 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥 ≤ 0} e 𝐵 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥 ≥ 0} ⧵{(0, 0)}. Sia poi 𝑓 ∶ (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) la funzione che vale 0 in 𝐴 e vale 𝑥2𝑥𝑦 in 𝐵. Sappiamo che 𝑓 non è continua pur essendolo le +𝑦2 sue restrizioni ad 𝐴 e a 𝐵. ◁ Esempio 2.17. Per constatare che la Proposizione 2.15.2 non si può estendere al caso di una riunione arbitraria di chiusi, basta prendere una qualunque funzione 𝑓 non continua su un insieme infinito di uno spazio 𝑇1 . Le restrizioni di 𝑓 ai singoli punti (che sono insiemi chiusi) sono banalmente continue. Per avere un esempio più riconoscibile nell’ambito dei Corsi di base, consideriamo la funzione 𝑓 ∶ (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) data da 𝑓 (𝑥, 𝑦) ∶=
𝑥2 𝑦 , ∀(𝑥, 𝑦) ≠ (0, 0), 𝑥4 + 𝑦2
𝑓 (0, 0) ∶= 0.
Come è ben noto, questa funzione non è continua nell’origine, mentre lo sono tutte le sue restrizioni alle rette passanti per tale punto, che sono dei chiusi per la topologia euclidea. Se poi definiamo 𝑋 come la riunione delle rette per l’origine di coefficiente angolare 1/𝑛, abbiamo anche un controesempio ottenuto a partire da una famiglia numerabile di chiusi. Si osservi che se, per contro, 𝑋 è la riunione di un numero finito di rette per l’origine, allora 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ è continua. ◁ Sappiamo (cfr. Teorema 2.4) che, data una funzione continua 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), le controimmagini degli aperti [dei chiusi] sono ancora insiemi aperti [chiusi]. È pertanto naturale chiedersi se, viceversa, le immagini di aperti [chiusi] sono ancora insiemi aperti [chiusi]. La risposta è banalmente negativa già nel caso delle funzioni reali di variabile reale. In vero, se 𝑓 è una funzione costante, l’immagine di un qualunque aperto non è aperta; se è 𝑓 (𝑥) ∶= arctan 𝑥, l’immagine del chiuso ℝ non è un insieme chiuso; se è 𝑓 (𝑥) ∶= 1/(𝑥2 + 1), l’immagine di ℝ che è chiuso e anche aperto, essendo data da ]0, 1], non è né chiusa né aperta. Risulta pertanto opportuna la seguente definizione.
2.1. Funzioni continue
49
Definizione 2.18. Sia 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) una funzione fra due spazi topologici. Diremo che: 1. 𝑓 è aperta se, per ogni aperto 𝐴 di 𝑋, 𝑓 (𝐴) è un aperto di 𝑋 ′ . 2. 𝑓 è chiusa se, per ogni chiuso 𝐶 di 𝑋, 𝑓 (𝐶) è un chiuso di 𝑋 ′ . ◁ Il seguente risultato è di verifica immediata:
Teorema 2.19. 1. Una funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) biiettiva fra due spazi topologici è aperta se e solo se è chiusa. 2. Una funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) biiettiva fra due spazi topologici è aperta [chiusa] se e solo se la sua inversa è continua. Nella categoria degli spazi topologici, gli “isomorfismi” sono quelle applicazioni biiettive che sono continue assieme alle loro inverse. Definizione 2.20. Un’applicazione biiettiva fra due spazi topologici che sia continua assieme alla sua inversa è detta omeomorfismo. ◁ Da quanto precede si ha subito che un’applicazione biiettiva e continua è un omeomorfismo se e solo se è aperta, se e solo se è chiusa. Il concetto di omeomorfismo è di fondamentale importanza in tutte le applicazioni della Topologia sia all’Analisi che alla Geometria. Due oggetti dello spazio euclideo fra loro omeomorfi possono essere visti l’uno come una deformazione continua dell’altro. Ad esempio in ℝ due qualunque intervalli chiusi e limitati (non degeneri) sono fra loro omeomorfi. Due qualunque intervalli aperti sono fra loro omeomorfi. In ℝ2 un cerchio e un rettangolo chiusi sono fra loro omeomorfi. Non sono fra loro omeomorfi un quadrato e una corona circolare. Le lettere 𝑏, 𝑑, 𝑝 sono fra loro omeomorfe, mentre 𝐵, 𝐷, 𝑃 , prese a due a due, non lo sono. In ℝ3 , un parallelepipedo chiuso e una palla chiusa sono omeomorfi, mentre una palla non è omeomorfa a un toro. La verifica di alcune di queste asserzioni è un facile esercizio; in altri casi l’affermazione, anche se intuitivamente evidente, richiede strumenti raffinati per una dimostrazione rigorosa. Qualcuno ricorderà dei personaggi dei cartoni animati che modificano la propria forma con continuità e “senza strappi”, trasformandosi in figure omeomorfe. Esempi come questi hanno fatto nascere la battuta secondo cui il topologo è quel matematico che non distingue una ciambella da una tazzina da caffé. Un caso interessante è dato dalle funzioni reali di variabile reale. Abbiamo appena visto degli esempi elementari di funzioni che sono continue senza essere aperte e/o chiuse. Teorema 2.21. Sia 𝑓 ∶ (ℝ, 𝜏𝑒 ) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) una funzione continua e biiettiva. Allora 𝑓 è un omeomorfismo.
Dimostrazione. Basta provare che l’inversa 𝑓 −1 è continua. Ora sappiamo dai Corsi di base di Analisi che una funzione 𝑓 ∶ (ℝ, 𝜏𝑒 ) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) continua e iniettiva è strettamente monotona e che se una funzione è strettamente monotona e definita su un intervallo, allora l’inversa 𝑓 −1 è continua.
2.1. Funzioni continue
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Chiaramente questo risultato continua a valere (con la medesima dimostrazione) per funzioni definite su un intervallo 𝐼 di ℝ, purché si assuma come codominio l’intervallo 𝑓 (𝐼). Teorema 2.22. Sia 𝑓 ∶ (ℝ, 𝜏𝑒 ) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) una funzione continua e iniettiva. Allora: 1. 𝑓 è aperta; 2. 𝑓 è chiusa se e solo se è suriettiva.
Dimostrazione. Per quanto richiamato nella dimostrazione del teorema precedente, 𝑓 è strettamente monotona e la sua funzione inversa è continua. Si vede inoltre che 𝑓 (ℝ) è un intervallo aperto, limitato o no (Esercizio!). 𝐸 ′ ∶= 𝑓 (ℝ) è aperto e quindi gli aperti in 𝜏𝐸 ′ sono aperti in 𝜏𝑒 (cfr. Teorema 1.59). Siccome 𝑓 è biiettiva fra ℝ ed 𝐸 ′ , la 1 segue dalla Proposizione 2.19.2. Passiamo alla 2. Il “se” segue dalla 1 e dalla Proposizione 2.19.1. Proviamo il “solo se” procedendo per assurdo. Se è 𝑓 (ℝ) ≠ ℝ, allora o sup 𝑓 (ℝ) o inf 𝑓 (ℝ) è finito: sia, per esempio, sup 𝑓 (ℝ) = 𝜆 ∈ ℝ. Si ha 𝜆 ∈ cl 𝑓 (ℝ) ⧵ 𝑓 (ℝ) e quindi l’immagine del chiuso ℝ non è chiusa. Analogamente nell’altro caso. Osservazione 2.23. Si è visto che una funzione da ℝ a ℝ continua e iniettiva è aperta. Mostriamo con un esempio che una funzione 𝑓 ∶ ℝ → ℝ continua e suriettiva non è invece necessariamente chiusa. Basta considerare la funzione 𝑓 (𝑥) ∶=
arctan 𝑥, {𝑥 sin(1/𝑥),
per 𝑥 ≥ 0, per 𝑥 < 0.
L’immagine del chiuso [0, +∞[ non è chiusa. Osserviamo che tale funzione non è nemmeno aperta: si ha, infatti, che 𝑓 (] − 1/𝜋, 0[) è un intervallo chiuso. ◁
La funzione 𝑓 ∶ ℝ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= sign 𝑥, con 𝑓 (0) ∶= 0 fornisce un semplice esempio di funzione chiusa non continua. Più complicato è mostrare che esistono funzioni 𝑓 ∶ ℝ → ℝ aperte e non continue, come si vede dall’esempio che segue (adattato da [21]). Esempio 2.24. Sia 𝐸 ∶= ]0, 1[ e definiamo una funzione 𝑓 ∶ 𝐸 → 𝐸 nel modo seguente. Pensiamo gli elementi di 𝐸 scritti in base 10, ma senza periodo 9. Dunque, se è 𝑥 ∈ 𝐸, è 𝑥 = 0, 𝑎1 𝑎2 … 𝑎𝑛 … , con 𝑎𝑛 non definitivamente uguale a 9. Se ci sono infiniti 𝑛 con 𝑎𝑛 = 9 o se esiste 𝑘 con 𝑎𝑘 = 9 e 𝑎𝑛 = 0, per ogni 𝑛 > 𝑘, si pone 𝑓 (𝑥) ∶= 1/2. In caso contrario, ossia se c’è un numero finito (≥ 0) di cifre 9 e la successione di cifre non finisce con 9000 … , si eliminano tutte le cifre decimali fino all’ultimo 9 compreso, ottenendo un elemento 𝑥′ = 0, 𝑏1 𝑏2 … 𝑏𝑛 … , con le cifre non tutte nulle e 𝑏𝑛 ≠ 9, per ogni 𝑛. Se è definitivamente 𝑏𝑛 = 8, si pone ancora 𝑓 (𝑥) ∶= 1/2. In caso contrario, è 𝑓 (𝑥) ∶= 0, 𝑏1 𝑏2 … 𝑏𝑛 … , pensando però ora i 𝑏𝑛 come cifre in base 9. Proviamo intanto che 𝑓 è suriettiva. Si ha chiaramente 1/2 ∈ 𝑓 (𝐸). Fissiamo ora un 𝑦 ∈ 𝐸 ⧵ {1/2}. Rappresentando 𝑦 in base 9, si ha 𝑦 = 0, 𝑐1 𝑐2 … 𝑐𝑛 … ,
2.1. Funzioni continue
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con 𝑐𝑛 non definitivamente uguale a 8. Si ha 𝑦 = 𝑓 (𝑥), dove 𝑥 ∈ 𝐸 è l’elemento che si ottiene pensando le cifre 𝑐𝑛 in base 10. Come passo successivo, mostriamo che, per ogni aperto non vuoto 𝐴 ⊆ 𝐸, si ha 𝑓 (𝐴) = 𝐸. 𝐴 contiene intervalli aperti di ampiezza arbitrariamente piccola. Dunque in 𝐴 esistono due elementi del tipo 𝑥1 ∶= 0, 𝑎1 … 𝑎𝑘−1 9 e 𝑥2 ∶= 0, 𝑎1 … 𝑎𝑘−1 91; un elemento 𝑥 ∈ 𝐼 ∶= ]𝑥1 , 𝑥2 [, scritto in base 10, ha una rappresentazione del tipo 0, 𝑎1 … 𝑎𝑘−1 9𝑎𝑘+1 … 𝑎𝑘+𝑛 … , con le cifre da 𝑎𝑘+1 in poi non tutte nulle e non periodiche di periodo 9. Posto 𝑥′ = 𝜑(𝑥) ∶= 0, 𝑎𝑘+1 𝑎𝑘+2 … 𝑎𝑘+𝑛 … , si ottiene un’applicazione biiettiva e crescente 𝜑 ∶ 𝐼 → 𝐸. Dato che si ha 𝑓 (𝑥) = 𝑓 (𝑥′ ), si ottiene 𝑓 (𝐼) = 𝐸, da cui anche 𝑓 (𝐴) = 𝐸. Da ciò segue immediatamente che 𝑓 è aperta, essendo tale 𝐸. Si constata poi facilmente anche che 𝑓 non è né continua né chiusa. In fine, sia 𝑔 ∶ ℝ → ℝ la funzione definita da 𝑔(𝑥) ∶=
𝑥, {⌊𝑥⌋ + 𝑓 (𝑥 − ⌊𝑥⌋),
se 𝑥 ∈ ℤ, se 𝑥 ∉ ℤ,
essendo ⌊𝑥⌋ la parte intera di 𝑥. È facile constatare che 𝑔 è una funzione suriettiva, aperta, non chiusa e non continua. ◁
A questo punto, rimane da capire se può esistere una funzione 𝑓 ∶ ℝ → ℝ che sia aperta e chiusa, ma non continua. Ciò non è possibile: è stato infatti dimostrato in [6, Corollary 2] che Ogni funzione aperta e chiusa da ℝ in ℝ è un omeomorfismo. Una dimostrazione di questo risultato verrà data più avanti (cfr. Teorema 7.68 e Corollario 7.70) Riassumiamo in una tabella gli esempi relativi al fatto che una funzione 𝑓 ∶ ℝ → ℝ soddisfi alla proprietà di essere aperta, chiusa o continua. Aperta ∗ – ∗ ∗ ∗ – – –
Chiusa ∗ ∗ – ∗ – ∗ – –
Continua ∗ ∗ ∗ – – – ∗ –
Esempio 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥 𝑓 (𝑥) ∶= 1 𝑓 (𝑥) ∶= arctan 𝑥 Non è possibile; Teorema 7.68 Esempio 2.24 𝑓 (𝑥) ∶= sign 𝑥, con 𝑓 (0) ∶= 0 𝑓 (𝑥) ∶= 1/(𝑥2 + 1) 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥 − sign 𝑥, con 𝑓 (0) ∶= 0
Il seguente esempio, tratto ancora da [21], mostra come esistano coppie di spazi topologici non omeomorfi ciascuno dei quali è l’immagine dell’altro mediante una funzione continua e biiettiva.
2.1. Funzioni continue
52
Esempio 2.25. Consideriamo i due seguenti sottoinsiemi di ℝ dotati della topologia euclidea: 𝑋 ∶=
+∞
⋃ 𝑛=0
]3𝑛, 3𝑛 + 1[ ∪ {3𝑛 + 2 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} ;
𝑌 ∶= 𝑋 ⧵ {2} ∪ {1}.
Definiamo ora le due funzioni 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 e 𝑔 ∶ 𝑌 → 𝑋 ponendo: 𝑓 (𝑥) ∶=
𝑥, {1,
se 𝑥 ≠ 2, se 𝑥 = 2;
⎧𝑦/2, ⎪ 𝑔(𝑦) ∶= ⎨(𝑦 − 2)/2, ⎪𝑦 − 3, ⎩
se 𝑦 ≤ 1, se 3 < 𝑦 < 4, se 𝑦 > 4.
Si vede subito che le due funzioni sono biiettive e continue, mentre non lo sono le loro inverse. Dato però che un omeomorfismo e la sua funzione inversa mutano punti isolati in punti isolati e, nel caso di sottospazi di (ℝ, 𝜏𝑒 ), intervalli aperti in intervalli aperti (Esercizio), i due spazi non sono omeomorfi. ◁ Esempio 2.26. In 𝑋 ∶= ℝ2 definiamo, oltre alla topologia euclidea 𝜏𝑒 , anche la topologia 𝜏 dell’Esempio 1.27 e cerchiamo di stabilire quali sono le funzioni continue di (𝑋, 𝜏) in (𝑋, 𝜏𝑒 ). Osserviamo intanto che, essendo 𝜏 più fine di 𝜏𝑒 , le funzioni di ℝ2 in ℝ2 continue in senso ordinario sono tali anche nel nuovo contesto. Notiamo inoltre che le due topologie inducono sulle rette parallele agli assi la topologia euclidea. Per contro, sulle rette “oblique” 𝜏 induce la topologia discreta. Vogliamo provare che una funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋, 𝜏𝑒 ) è continua se e solo se, per ogni 𝑝 ∈ 𝑋 sono continue le restrizioni di 𝑓 alle rette per 𝑝 parallele agli assi. Il “solo se” discende immediatamente dal Teorema 2.13 sulla continuità della restrizione. Proviamo il “se”. Fissiamo un aperto non vuoto 𝐴′ in (𝑋, 𝜏𝑒 ) e poniamo 𝐴 ∶= 𝑓 −1 (𝐴′ ). Per ogni 𝑥 ∈ 𝐴, 𝐴′ è un intorno aperto di 𝑓 (𝑥); siccome 𝑓 è continua sulle rette per 𝑥 parallele agli assi, e su queste rette la topologia è quella ordinaria, esiste una croce 𝐶 di centro 𝑥 con 𝑓 (𝐶) ⊆ 𝐴′ , da cui 𝐶 ⊂ 𝐴. Ciò prova che 𝐴 è aperto in 𝜏. Sia, per esempio 𝑓 ∶ (ℝ2 , 𝜏) → (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) la funzione definita da 𝑓 (𝑥, 𝑦) ∶= (
𝑥2
𝑥𝑦 , 0 , ∀(𝑥, 𝑦) ≠ (0, 0), + 𝑦2 )
𝑓 (0, 0) ∶= (0, 0).
Questa funzione non è continua in senso ordinario, dato che la prima componente non lo è in (0, 0). D’altra parte le restrizioni di 𝑓 alle rette parallele agli assi sono continue. Dunque 𝑓 ∶ (ℝ2 , 𝜏) → (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) è continua. Proviamo a verificare direttamente la continuità della prima componente 𝑓1 in (0, 0). Dobbiamo cioè provare che, dato un 𝜀 > 0, che possiamo pensare minore di 1, esiste un 𝜏-intorno di (0, 0) per ogni punto del quale è | 𝑥2𝑥𝑦 < 𝜀. Sulle rette +𝑦2 | di equazione 𝑦 = 𝑚𝑥, con 𝑥 ≠ 0, 𝑓1 assume il valore 𝑚/(1 + 𝑚2 ) che tende a 0 sia per 𝑚 → 0, sia per 𝑚 → ∞. Si ha dunque che esiste un 𝜏-intorno di base 𝑈 dell’origine tale che, per ogni (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑈 , si ha |𝑓 (𝑥, 𝑦)| < 𝜀.
2.1. Funzioni continue
53
Per contro, la funzione 𝑔 = (𝑔1 , 𝑔2 ) ∶ (ℝ2 , 𝜏) → (ℝ2 , 𝜏𝑒 ), con 𝑔1 (𝑥, 𝑦) che vale 0 sugli assi e 1 altrove e 𝑔2 (𝑥, 𝑦) ∶= 0, non è continua, dato che non lo sono le restrizioni di 𝑔1 alle rette parallele agli assi, ma diverse da questi. Nel prossimo paragrafo affronteremo il problema di stabilire quali sono le funzioni continue da (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) a (ℝ2 , 𝜏) (cfr. Esempio 2.48). ◁
Chiudiamo questo paragrafo con un’ulteriore caratterizzazione della continuità. Teorema 2.27. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ . Le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. 𝑓 è continua. 2. Per ogni sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋 si ha 𝑓 (cl 𝐸) ⊆ cl 𝑓 (𝐸). 3. Per ogni sottoinsieme 𝐸 ′ ⊆ 𝑋 ′ si ha cl 𝑓 −1 (𝐸 ′ ) ⊆ 𝑓 −1 (cl 𝐸 ′ ). 4. Per ogni sottoinsieme 𝐸 ′ ⊆ 𝑋 ′ si ha 𝑓 −1 (int 𝐸 ′ ) ⊆ int 𝑓 −1 (𝐸 ′ ).
Dimostrazione. (1) ⇔ (2). Sia 𝑓 continua. Se 𝑥′ ∈ 𝑓 (cl 𝐸), esiste 𝑥 ∈ cl 𝐸 tale che 𝑓 (𝑥) = 𝑥′ . Per ogni 𝑉 ∈ 𝒰(𝑥′ ), esiste 𝑈 ∈ 𝒰(𝑥), con 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Da 𝑥 ∈ cl 𝐸 segue 𝑈 ∩ 𝐸 ≠ ∅, da cui 𝑉 ∩ 𝑓 (𝐸) ≠ ∅ e, in fine, 𝑥′ ∈ cl 𝑓 (𝐸). Proviamo il viceversa. Sia 𝐶 ′ un chiuso di 𝑋 ′ e proviamo che 𝐶 ∶= 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) è un chiuso di 𝑋. Per ipotesi, si ha 𝑓 (cl 𝐶) ⊆ cl 𝑓 (𝐶) ⊆ cl 𝐶 ′ = 𝐶 ′ . Quindi si ha cl 𝐶 ⊆ 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) = 𝐶. (1) ⇔ (3). Sia 𝑓 continua. Per ogni 𝐸 ′ ⊆ 𝑋 ′ , 𝑓 −1 (cl 𝐸 ′ ) è un chiuso contenente 𝑓 −1 (𝐸 ′ ) e quindi 𝑓 −1 (cl 𝐸 ′ ) ⊇ cl 𝑓 −1 (𝐸 ′ ). Per provare il viceversa, fissiamo un chiuso 𝐶 ′ di 𝑋 ′ e poniamo 𝐶 ∶= −1 𝑓 (𝐶 ′ ). Si ha cl 𝐶 ⊆ 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) = 𝐶 e quindi 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) è un chiuso di 𝑋. (1) ⇔ (4). Sia 𝑓 continua. Per ogni 𝐸 ′ ⊆ 𝑋 ′ , 𝑓 −1 (int 𝐸 ′ ) è un aperto contenuto in 𝑓 −1 (𝐸 ′ ) e quindi 𝑓 −1 (int 𝐸 ′ ) ⊆ int 𝑓 −1 (𝐸 ′ ). Per provare il viceversa, fissiamo un aperto 𝐴′ di 𝑋 ′ e poniamo 𝐴 ∶= −1 ′ 𝑓 (𝐴 ). Si ha int 𝐴 ⊇ 𝑓 −1 (𝐴′ ) = 𝐴 e quindi 𝑓 −1 (𝐴′ ) è un aperto di 𝑋. Come conseguenza della condizione 2 del precedente teorema, si ha immediatamente il seguente
Corollario 2.28. L’immagine continua di uno spazio separabile è separabile. Osservazione 2.29. Sia 𝑓 ∶ (ℝ, 𝜏𝑒 ) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) una funzione continua. Può accadere che sia 𝑓 (cl 𝐸) ≠ cl 𝑓 (𝐸). Basta prendere 𝑓 (𝑥) ∶= arctan 𝑥 ed 𝐸 ∶= ℝ. Si ha 𝑓 (cl 𝐸) = 𝑓 (ℝ) = ] − 𝜋/2, 𝜋/2[, cl 𝑓 (𝐸) = [−𝜋/2, 𝜋/2]. Può accadere che sia cl 𝑓 −1 (𝐸 ′ ) ≠ 𝑓 −1 (cl 𝐸 ′ ). Basta prendere 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥3 − 2 𝑥 ed 𝐸 ′ ∶= ]0, 4]. Si ha 𝑓 −1 (𝐸 ′ ) = ]1, 2], cl 𝑓 −1 (𝐸 ′ ) = [1, 2], 𝑓 −1 (cl 𝐸 ′ ) = 𝑓 −1 ([0, 4]) = [1, 2] ∪ {0}. Può accadere che sia 𝑓 −1 (int 𝐸 ′ ) ≠ int 𝑓 −1 (𝐸 ′ ). Basta prendere 𝑓 (𝑥) ∶= 1 ed 𝐸 ′ ∶= {1}. Si ha 𝑓 −1 (int 𝐸 ′ ) = ∅, int 𝑓 −1 (𝐸 ′ ) = ℝ. Può accadere che sia int 𝑓 (𝐸) ⊂ 𝑓 (int 𝐸). Basta prendere 𝑓 (𝑥) ∶= 1 ed 𝐸 ∶= ℝ. Si ha 𝑓 (int 𝐸) = {1}, int 𝑓 (𝐸) = ∅.
2.2. Successioni
54
Può accadere che sia int 𝑓 (𝐸) ⊃ 𝑓 (int 𝐸). Ancora con 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥3 − 𝑥2 , sia 𝐸 ∶= [−1, 0] ∪ [1, 2]. Si ha int 𝐸 = ] − 1, 0[ ∪ ]1, 2[, 𝑓 (int 𝐸) = ] − 2, 4[ ⧵{0}, int 𝑓 (𝐸) = ] − 2, 4[. ◁ In analogia al Teorema 2.27, sussiste il seguente risultato:
Teorema 2.30. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋′. 1. 𝑓 è aperta se e solo se per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋 si ha 𝑓 (int 𝐸) ⊆ int 𝑓 (𝐸). 2. 𝑓 è chiusa se e solo se per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋 si ha cl 𝑓 (𝐸) ⊆ 𝑓 (cl 𝐸).
Dimostrazione. 1. Supponiamo 𝑓 aperta e fissiamo un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋. Siccome int 𝐸 è aperto, è tale anche 𝑓 (int 𝐸)(⊆ 𝑓 (𝐸)), da cui 𝑓 (int 𝐸) ⊆ int 𝑓 (𝐸) (cfr. Proposizione 1.32.2). Veniamo al viceversa e fissiamo un aperto 𝐴 di 𝑋. Da 𝐴 = int 𝐴 si ottiene 𝑓 (𝐴) = 𝑓 (int 𝐴) ⊆ int 𝑓 (𝐴); quindi 𝑓 (𝐴) = int 𝑓 (𝐴). 2. Supponiamo 𝑓 chiusa e fissiamo un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋. Siccome cl 𝐸 è chiuso, è tale anche 𝑓 (cl 𝐸)(⊇ 𝑓 (𝐸)), da cui 𝑓 (cl 𝐸) ⊇ cl 𝑓 (𝐸) (cfr. Proposizione 1.36.2). Veniamo al viceversa e fissiamo un chiuso 𝐶 di 𝑋. Da 𝐶 = cl 𝐶 si ottiene 𝑓 (𝐶) = 𝑓 (cl 𝐶) ⊇ cl 𝑓 (𝐶); quindi 𝑓 (𝐶) = cl 𝑓 (𝐶).
2.2 Successioni
Definizione 2.31. Ogni applicazione 𝑆 di ℕ o ℕ+ in un insieme non vuoto 𝑋 è detta successione in 𝑋 o di elementi di 𝑋. Posto 𝑎𝑛 ∶= 𝑆(𝑛), la successione 𝑎0 , 𝑎1 , … , 𝑎𝑛 , … si indica con (𝑎𝑛 )𝑛 . La successione di valore costante 𝑎 sarà indicata con le notazioni (𝑎)𝑛 , 𝑎.̂ Se è 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 , si dice che 𝑎𝑛 è il termine generale della successione. ◁ Salvo esplicito avviso del contrario, penseremo che in ℕ sia definita la topologia discreta che è quella indotta dalla topologia ordinaria di ℝ. A questo punto, se in 𝑋 è definita una topologia 𝜏, si ottiene che le successioni sono funzioni continue. Naturalmente le cose cambiano se introduciamo in ℕ un’altra topologia.
Esempio 2.32. Introduciamo in ℕ+ la topologia 𝜎 di Hjalmar Ekdal dell’Esempio 1.83 e vediamo quali sono, rispetto a tale topologia, le successioni continue in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). Sappiamo che i numeri pari di ℕ+ sono isolati e che una base di intorni di un numero dispari 𝑚 è data dall’insieme {𝑚, 𝑚 + 1}. Per quanto osservato a pag. 43, abbiamo che con questa topologia di ℕ+ una successione 𝑆 è continua se, per ogni numero dispari 𝑚, si ha 𝑆(𝑚) = 𝑆(𝑚 + 1). Se la topologia 𝜏 è 𝑇1 , sussiste anche l’implicazione opposta. L’identità 𝑖 ∶ (ℕ+ , 𝜎) → (ℕ+ , 𝜏𝑒 ) non è continua. ◁
2.2. Successioni
55
Definizione 2.33. Siano 𝑆 una successione in 𝑋 e 𝜑 ∶ ℕ → ℕ una funzione strettamente crescente. La successione 𝑆 ′ ∶= 𝑆 ∘𝜑 è detta una sottosuccessione di 𝑆. Se esiste 𝑘 ∈ ℕ tale che 𝜑(𝑛) = 𝑛 + 𝑘, la sottosuccessione 𝑆 ∘ 𝜑 è detta anche coda. ◁ Si vede subito che la sottosuccessione 𝑆 ′ è la restrizione di 𝑆 al sottoinsieme infinito 𝐾 ∶= 𝜑(ℕ) ⊆ ℕ. Posto 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 e 𝑛𝑘 ∶= 𝜑(𝑘), la successione 𝑆 ′ potrà essere indicata con (𝑎𝑛𝑘 )𝑘 . Ci sarà anche utile la nozione di incastro di due successioni. Detto alla buona, incastro di due successioni 𝑆1 e 𝑆2 in un’insieme 𝑋 è ogni successione in 𝑋 ottenuta alternando, secondo una data legge, elementi si 𝑆1 e di 𝑆2 , senza omissioni, ripetizioni e permutazioni di indici. Per esempio, se è 𝑆1 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 e 𝑆2 ∶= (𝑏𝑛 )𝑛 , un loro incastro è la successione 𝑎0 , 𝑏0 , 𝑎1 , 𝑎2 , 𝑏1 , 𝑎3 , 𝑎4 , 𝑎5 , 𝑏2 , …
Vediamo di darne una definizione rigorosa.
Definizione 2.34. Siano 𝐾 ∶= {1, 2}×ℕ e 𝑓 ∶ 𝐾 → ℕ un’applicazione biiettiva con le restrizioni agli insiemi {1} × ℕ e {2} × ℕ strettamente crescenti. Date due successioni 𝑆1 e 𝑆2 in un insieme 𝑋, consideriamo la funzione 𝑔 ∶ 𝐾 → 𝑋 definita da 𝑔(1, 𝑛) ∶= 𝑆1 (𝑛) e 𝑔(2, 𝑛) ∶= 𝑆2 (𝑛). La successione 𝑆 ∶= 𝑔 ∘ 𝑓 −1 è detta un incastro di 𝑆1 e 𝑆2 . ◁ Naturalmente, cambiando 𝑓 cambia l’incastro. Per esempio, quello scritto più su proviene dall’applicazione 𝑓 definita da 𝑓 (1, 0) ∶= 0, 𝑓 (2, 0) ∶= 1, 𝑓 (1, 1) ∶= 2, 𝑓 (1, 2) ∶= 3,
𝑓 (2, 1) ∶= 4, 𝑓 (1, 3) ∶= 5, 𝑓 (1, 4) ∶= 6, 𝑓 (1, 5) ∶= 7, 𝑓 (2, 2) ∶= 8, …
E ancora, se la funzione 𝑓 è definita da 𝑓 (1, 𝑛) ∶= 2𝑛 e 𝑓 (2, 𝑛) ∶= 2𝑛 + 1, si ottiene la successione 𝑎0 , 𝑏0 , 𝑎1 , 𝑏1 , 𝑎2 , 𝑏2 , 𝑎3 , 𝑏3 , … La definizione di incastro si estende in modo naturale al caso di un numero finito o a un’infinità numerabile di successioni. Lasciamo al lettore la cura delle opportune formalizzazioni. La familiare nozione di limite di una successione reale si estende in modo del tutto naturale al caso di successioni in un qualunque spazio topologico. Definizione 2.35. Sia 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 una successione di punti in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). Si dice che un elemento 𝑙 ∈ 𝑋 è un limite di 𝑆 per 𝑛 → ∞ se, per ogni intorno 𝑉 di 𝑙, la successione finisce in 𝑉 , ossia se, per ogni 𝑉 , esiste un 𝑛 ∈ ℕ tale che, per ogni 𝑛 > 𝑛, si ha 𝑎𝑛 ∈ 𝑉 . In simboli (∀𝑉 ∈ 𝒰(𝑙))(∃𝑛 ∈ ℕ)(∀𝑛 ∈ ℕ)(𝑛 > 𝑛 ⇒ 𝑎𝑛 ∈ 𝑉 ).
In tal caso si scrive 𝑙 ∈ lim𝑛→+∞ 𝑎𝑛 o 𝑙 = lim𝑛→+∞ 𝑎𝑛 se 𝑙 è l’unico limite della successione. Useremo anche la notazione 𝑎𝑛 −−−−−→ 𝑙, o soltanto 𝑎𝑛 → 𝑙. Una 𝑛→+∞
successione è detta convergente se ammette limite. Se 𝑙 è un limite di 𝑆, si dice che 𝑆 tende o converge a 𝑙 per 𝑛 → +∞. ◁
2.2. Successioni
56
Esempio 2.36. Definiamo in ℝ la topologia destra di Sorgenfrey (cfr. Esempio 1.10). La successione di termine generale 1/𝑛 tende ancora a 0, mentre quella di termine generale −1/𝑛 non ha limite. ◁
Teorema 2.37. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. (Assioma 𝑆 (da Sierpinski)). Ogni successione costante 𝑥̂ converge a 𝑥. 2. (Assioma 𝐹 (da Fréchet)). Se la successione 𝑆 converge a un elemento 𝑙 ∈ 𝑋, tende a 𝑙 anche ogni sua sottosuccessione 𝑆 ′ . 3. Se la successione 𝑆 ha una coda convergente a un elemento 𝑙 ∈ 𝑋, allora anche 𝑆 converge a 𝑙. 4. Se 𝑙 è un punto isolato di 𝑋, ad esso convergono tutte e sole le successioni che hanno una coda di valore costante 𝑙. 5. Due successioni 𝑆1 e 𝑆2 convergono a un elemento 𝑙 ∈ 𝑋 se e solo se tende a 𝑙 un qualunque loro incastro. Dimostrazione. La 1, la 3 e la 4 sono ovvie. Proviamo la 2. Sia 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 e fissiamo un intorno 𝑉 di 𝑙. Esiste un indice 𝑛 tale che, per ogni 𝑛 > 𝑛, è 𝑎𝑛 ∈ 𝑉 . Ora la sottosuccessione 𝑆 ′ è del tipo 𝑆 ∘ 𝜑, con 𝜑 funzione strettamente crescente. Poniamo 𝜑(𝑘) =∶ 𝑛𝑘 Esiste un 𝑘 tale che 𝜑(𝑘) > 𝑛 e quindi, per ogni 𝑘 > 𝑘 è 𝑎𝑛𝑘 ∈ 𝑉 . Veniamo, in fine, alla 5. Proviamo intanto il “solo se” e supponiamo 𝑆1 , 𝑆2 convergenti a 𝑙 ∈ 𝑋. Siano 𝐾, 𝑓 , 𝑔, 𝑆 come nella Definizione 2.34. Fissato un intorno 𝑉 di 𝑙, esistono due naturali 𝑛1 e 𝑛2 tali che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, da 𝑛 > 𝑛1 segue 𝑆1 (𝑛) = 𝑔(1, 𝑛) ∈ 𝑉 e da 𝑛 > 𝑛2 segue 𝑆2 (𝑛) = 𝑔(2, 𝑛) ∈ 𝑉 . Sia poi 𝑛 ̂ ∶= max{𝑓 (1, 𝑛1 ), 𝑓 (2, 𝑛2 )}. Per ogni 𝑛 > 𝑛,̂ si ha 𝑆(𝑛) = 𝑔 ∘ 𝑓 −1 (𝑛) ∈ 𝑉 . Il viceversa segue subito dalla 2. Sappiamo già dal caso delle successioni in ℝ che non sussiste l’implicazione opposta della 2, cioè che può accadere che una sottosuccessione 𝑆 ′ di 𝑆 converga a un elemento 𝑙 ∈ 𝑋 senza che ciò accada per 𝑆.
Esempio 2.38. Sia data la serie di numeri reali ∑+∞ 𝑛=0 𝑎𝑛 e sia (𝑠𝑛 )𝑛 la successione delle sue somme parziali. Se, per 𝑛 → +∞, 𝑎𝑛 → 0 e (𝑠2𝑛 )𝑛 → 𝑙, allora la serie converge a 𝑙. Si ha, intanto, 𝑠2𝑛+1 = 𝑠2𝑛 + 𝑎2𝑛+1 → 𝑙. Essendo la successione delle ridotte incastro di due successioni convergenti a 𝑙, deve tendere anch’essa a 𝑙. ◁
La Proposizione 2.37.5 si estende immediatamente al caso di un numero finito di successioni (Esercizio!). Ciò non accade, invece, per un’infinità numerabile di successioni: si veda l’Osservazione 2.45.
Teorema 2.39 (Assioma 𝑈 (da Urysohn)). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Se la successione 𝑆 non converge a un elemento 𝑙 ∈ 𝑋, esiste una sua sottosuccessione 𝑆 ′ priva di sottosuccessioni convergenti a 𝑙.
2.2. Successioni
57
Dimostrazione. Siccome 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 non converge a 𝑙, esiste un intorno 𝑉 di 𝑙 in cui 𝑆 non finisce. Esiste quindi una sottosuccessione 𝑆 ′ ∶= (𝑎𝑛𝑘 )𝑘 tale che 𝑎𝑛𝑘 ∉ 𝑉 , ∀𝑘. Nessuna sottosuccessione di 𝑆 ′ può convergere a 𝑙. Definizione 2.40. Per esprimere il fatto che una successione 𝑆 in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) non converge a un punto 𝑧 ∈ 𝑋 diremo che 𝑆 diverge da 𝑧 e ̸ useremo anche la notazione 𝑆 →𝑧. Se 𝑆 è priva di sottosuccessioni convergenti a 𝑧, diremo che 𝑆 è totalmente divergente da 𝑧 e useremo la notazione 𝑆 ⇻ 𝑧.◁ Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico, 𝑙 un elemento di 𝑋 e 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋. Nell’insieme ℕ ∶= ℕ∪{∞} (con ∞ ∉ ℕ) definiamo la seguente topologia 𝜏: i punti di ℕ sono isolati; una base di intorni di ∞ è data dagli insiemi del tipo {∞} ∪ 𝐴, con 𝐴 ⊆ ℕ cofinito. Consideriamo poi la funzione 𝑆 ∗ ∶ ℕ → 𝑋 definita da 𝑆 ∗ (𝑛) ∶= 𝑆(𝑛), ∀𝑛 ∈ ℕ, e 𝑆 ∗ (∞) ∶= 𝑙. Si ha 𝑆 → 𝑙 se e solo se 𝑆 ∗ è continua anche in ∞. Si tenga ben presente che, in generale, non è garantita l’unicità del limite. Come caso estremo si ha che, se 𝑋 ha più di un elemento e in esso è definita la topologia nulla, ogni successione in 𝑋 converge a un qualunque elemento di 𝑋. Facciamo ancora un esempio. Nell’insieme 𝑋 ∶= {0, 1} si introduca la topologia di Sierpinski. Dunque 0 è isolato e l’unico intorno di 1 è 𝑋. La successione 1̂ converge solo a 1, mentre la successione 0̂ converge sia a 0 che a 1.
Definizione 2.41. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Per ogni successione 𝑆, l’insieme dei suoi punti limite sarà indicato con 𝐿(𝑆). 2. Se nessuna successione di 𝑋 può avere più di un limite, si dice che in 𝑋 è soddisfatta la proprietà 𝐻, da Hausdorff. ◁ Teorema 2.42. Per ogni successione 𝑆 in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), l’insieme 𝐿(𝑆) dei suoi limiti è un insieme chiuso.
Dimostrazione. Il caso 𝐿(𝑆) = ∅ è ovvio. Supponiamo dunque 𝐿(𝑆) ≠ ∅ e fissiamo un elemento 𝑤 ∈ cl 𝐿(𝑆). Per ogni intorno aperto 𝑉 di 𝑤, esiste 𝑙 ∈ 𝑉 ∩ 𝐿(𝑆); siccome V è intorno anche di 𝑙, 𝑆 finisce in 𝑉 e quindi si ha 𝑤 ∈ 𝐿(𝑆). Teorema 2.43. 1. 𝑇2 ⇒ 𝐻. Ossia: una successione in uno spazio di Hausdorff non può convergere a due limiti distinti. 2. 𝐻 ⇒ 𝑇1 . Ossia: se in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) una successione non può convergere a due limiti distinti, allora lo spazio è 𝑇1 .
Dimostrazione. La 1 segue immediatamente dal fatto che punti distinti di 𝑋 ammettono intorni disgiunti. La 2 si ottiene osservando che ogni elemento di 𝑋 è l’unico limite di una successione costante e che quindi i singoletti sono chiusi per il teorema precedente; poi si applica il Teorema 1.79.
2.2. Successioni
58
Osserviamo che esistono spazi non 𝑇2 in cui è garantita l’unicità del limite e spazi 𝑇1 in cui ci sono successioni che ammettono più di un limite.
Esempio 2.44. In 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ {𝑝, 𝑞}, con 𝑝, 𝑞 ∉ ℕ2 , definiamo la topologia 𝜏 dell’Esempio 1.77: i punti di ℕ2 sono isolati; una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi 𝐴𝑓 , con 𝐴𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ 𝑛 > 𝑓 (𝑚)}, essendo 𝑓 un’arbitraria funzione di ℕ in ℕ. Una base di intorni di 𝑞 è data dagli insiemi 𝐵𝑘 , 𝑘 ∈ ℕ, con 𝐵𝑘 ∶= {𝑞} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ 𝑚 > 𝑘}. Sappiamo che 𝜏 non è 𝑇2 ; proviamo che, ciononostante, nessuna successione può convergere a due limiti distinti. Dato che i punti di ℕ2 sono isolati e che esistono intorni di 𝑝 che non contengono 𝑞 e intorni di 𝑞 che non contengono 𝑝, l’unica cosa da controllare è che non esistono successioni di ℕ2 convergenti a 𝑝 e a 𝑞. Una successione 𝑆 ∶= ((𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ))𝑛 di ℕ2 converge a 𝑞 se e solo se la successione (𝑎𝑛 )𝑛 diverge (in senso ordinario). Verifichiamo che la successione 𝑆 converge a 𝑝 (se e) solo se la successione (𝑏𝑛 )𝑛 diverge, mentre la successione (𝑎𝑛 )𝑛 è limitata. Supponiamo, intanto che la successione (𝑎𝑛 )𝑛 sia illimitata. Esiste quindi una sottosuccessione (𝑎𝑛𝑘 )𝑘 strettamente monotona e, pertanto, divergente. Sia 𝑓 ∶ ℕ → ℕ una funzione tale che 𝑓 (𝑎𝑛𝑘 ) > 𝑏𝑛𝑘 , per ogni 𝑘; questa genera un intorno 𝐴𝑓 di 𝑝 in cui 𝑆 non finisce; dunque 𝑆 non converge a 𝑝. In conclusione, affinché 𝑆 converga a 𝑝, gli elementi (𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ) devono stare in un numero finito di “righe” e, fissato un 𝑘 ∈ ℕ, deve essere definitivamente 𝑏𝑛 > 𝑘. Per quanto sopra visto, una siffatta successione non può convergere a 𝑞. ◁ Osservazione 2.45. Nella topologia dell’esempio precedente, le successioni “riga” di termine generale (𝑚, 𝑛) convergono a 𝑝, per ogni prefissato 𝑚; quindi ciò accade per ogni incastro finito di queste. Ordiniamo ora ℕ2 in una successione 𝑆, col metodo diagonale di Cantor che mantiene l’ordine delle singole righe. 𝑆 non converge a 𝑝. Ciò prova che l’incastro di infinite successioni convergenti a un elemento 𝑙 può non convergere ad esso. ◁ Esempio 2.46. Sia ancora 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ {𝑝, 𝑞}, con 𝑝, 𝑞 ∉ ℕ2 e modifichiamo la topologia dell’esempio precedente cambiando solo gli intorni di 𝑝. 1. Prima variante. Una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi 𝐵ℎ , ℎ ∈ ℕ, con 𝐵ℎ ∶= {𝑝} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ 𝑛 > ℎ}. Si ottiene una topologia meno fine di quella dell’Esempio 2.44, ma ancora 𝑇1 . Ora la successione “diagonale” in cui è 𝑎𝑛 = 𝑏𝑛 ∶= 𝑛 converge sia a 𝑝 che a 𝑞. 2. Seconda variante. Una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi 𝐵𝑘,𝑓 , con 𝑘 ∈ ℕ e 𝑓 ∶ ℕ → ℕ funzione arbitraria e con 𝐵𝑘,𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ (𝑚 > 𝑘) ∧ (𝑛 > 𝑓 (𝑚))} .
Si ottiene una topologia più fine di quella dell’esempio 2.44. Si vede subito che ora nessuna successione di ℕ2 converge a 𝑝. Infatti, se 𝑆 converge a 𝑝 nella nuova topologia, deve convergervi anche in quella dell’Esempio 2.44 e quindi i suoi termini devono stare tutti in un numero finito di “righe”; ora però esistono intorni di 𝑝 che le escludono tutte. In quest’ultimo caso c’è di nuovo unicità del limite, anche se lo spazio non è 𝑇2 . ◁
2.2. Successioni
59
Lemma 2.47. Siano (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) due spazi topologici, 𝑧 un punto di 𝑋 e 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ una funzione continua in 𝑧. Allora per ogni successione 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋 convergente a 𝑧, la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 converge a 𝑓 (𝑧). Dimostrazione. Per la continuità di 𝑓 in 𝑧, dato un intorno 𝑉 di 𝑓 (𝑧), esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 tale che 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Dato che 𝑆 converge a 𝑧, esiste un 𝑛 ∈ ℕ tale che, per ogni 𝑛 > 𝑛, si ha 𝑥𝑛 ∈ 𝑈 e quindi 𝑓 (𝑥𝑛 ) ∈ 𝑉 .
Non sussiste l’implicazione opposta. Nell’Esempio 2.46.2 non ci sono successioni convergenti a 𝑝 (salvo quelle con una coda di valore costante 𝑝). Quindi, qualunque sia lo spazio (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), la condizione del lemma è soddisfatta, rispetto a 𝑝, indipendentemente dalla continuità in 𝑝 di una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ . Per esempio, possiamo prendere come 𝑋 ′ lo spazio 𝑋 con la topologia discreta, e come 𝑓 l’identità. Ritorneremo sull’argomento tra poco (cfr. pagg. 64 e seg.).
Esempio 2.48. In 𝑋 ∶= ℝ2 definiamo, oltre alla topologia euclidea 𝜏𝑒 , anche la topologia 𝜏 dell’Esempio 1.27, come già fatto nell’Esempio 2.26, e cerchiamo di stabilire quali sono le funzioni continue di (𝑋, 𝜏𝑒 ) in (𝑋, 𝜏). Osserviamo intanto che, essendo 𝜏 più fine di 𝜏𝑒 , le funzioni di ℝ2 in ℝ2 che stiamo cercando devono essere continue anche in senso ordinario. Ricordiamo inoltre che le due topologie inducono sulle rette parallele agli assi la topologia euclidea. Data 𝑓 ∶ (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) → (ℝ2 , 𝜏), con 𝑓 (0) = 0, sia (w𝑛 )𝑛 , 𝑛 ∈ ℕ+ una successione ̸ in senso ordinario (e 𝜏𝑒 -convergente a 0, con 𝑓 (w𝑛 ) =∶ (𝑥′𝑛 , 𝑦𝑛′ ). Se 𝑓 (w𝑛 )→0 quindi nemmeno in 𝜏), la funzione non è continua in 0 (lemma precedente). Sia dunque 𝑓 (w𝑛 ) → 0 in senso ordinario. Supponiamo che, per ogni 𝑛, sia 𝑥′𝑛 ≠ 0 ≠ 𝑦′𝑛 . Non è restrittivo supporre 0 < 𝑥′𝑛 < 1 e 0 < 𝑦′𝑛 < 1. Dalla successione (𝑥′𝑛 )𝑛 si può estrarre una sottosuccessione (𝑥′𝑛𝑘 )𝑘 strettamente decrescente. Dalla corrispondente successione (𝑦′𝑛𝑘 )𝑘 si può ancora estrarre una sottosuccessione strettamente decrescente. Per semplicità di notazione, supponiamo che siano strettamente decrescenti già le successioni (𝑥′𝑛 )𝑛 e (𝑦′𝑛 )𝑛 . Sia ora 𝑔 ∶ [−1, 1] → ℝ una qualunque funzione continua e pari, con 𝑔(0) = 0, 0 ≤ 𝑔(𝑥) < 𝑥, per 𝑥 > 0, e, per ogni 𝑛, 𝑔(𝑥′𝑛 ) < 𝑦′𝑛 . Analogamente, sia ℎ ∶ [−1, 1] → ℝ una qualunque funzione continua e pari, con ℎ(0) = 0, 0 ≤ ℎ(𝑦) < 𝑦, per 𝑦 > 0 e, per ogni 𝑛, ℎ(𝑦′𝑛 ) < 𝑥′𝑛 . Consideriamo l’insieme 𝐴 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ (|𝑥| < 1) ∧ (|𝑦| < 𝑔(𝑥))} ∪
∪ {(𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ (|𝑦| < 1) ∧ (|𝑥| < ℎ(𝑦))} .
𝐴 è un 𝜏-intorno di 0 ma, per ogni 𝑛, 𝑓 (w𝑛 ) ∉ 𝐴, per costruzione. Ne viene che 𝑓 non è continua in 0. Da ciò segue (Esercizio!) che una funzione 𝑓 ∶ (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) → (ℝ2 , 𝜏), con 𝑓 (0) = 0, è continua in 0 (se e) solo se esiste un intorno di 0 in cui, per ogni x, 𝑓 (x) ha nulla almeno una delle due coordinate e tende a 0 in senso ordinario. È ora facile trovare (per traslazione) le condizioni per la continuità in un qualunque punto z ∈ ℝ2 e per un qualunque valore di 𝑓 (z).
2.2. Successioni
60
La condizione è, in vero, molto restrittiva. Comunque, va osservato che sono continue le proiezioni sugli assi e, più in generale, le proiezioni su rette parallele agli assi (ma non quelle su rette “oblique”). Il seguente esempio mostra che esistono funzioni 𝑓 ∶ (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) → (ℝ2 , 𝜏) continue in 0 per cui 𝑓 (ℝ2 ) coincide con gli assi cartesiani: 𝑓 (𝑥, 𝑦) ∶=
((𝑥 − 𝑦)𝑥, 0), {(0, (𝑥 − 𝑦)𝑦),
se 𝑥 ≥ 𝑦, se 𝑥 ≤ 𝑦.
◁
Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), un sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋 e un elemento 𝑝 ∈ 𝑋. Si vede subito che, se 𝑝 è limite di una successione in 𝐸, allora è 𝑝 ∈ cl 𝐸. Non sussiste l’implicazione opposta. Infatti, se (𝑋, 𝜏) è lo spazio dell’Esempio 2.46.2, si ha 𝑝 ∈ cl ℕ2 , mentre sappiamo che non esistono successioni in ℕ2 convergenti a 𝑝.
Definizione 2.49. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un sottoinsieme di 𝑋. Indicheremo con seqcl 𝐸 l’insieme degli elementi di 𝑋 che sono limiti di successioni in 𝐸. L’insieme seqcl 𝐸 è detto la chiusura sequenziale di 𝐸. Un insieme 𝐸 è detto sequenzialmente chiuso se è 𝐸 = seqcl 𝐸. ◁ Un sottoinsieme 𝐸 di uno spazio (𝑋, 𝜏) è dunque sequenzialmente chiuso se contiene i limiti di tutte le sue successioni, ossia se non esistono successioni in 𝐸 convergenti a elementi di 𝑋 ⧵ 𝐸. Si verifica immediatamente che: Teorema 2.50. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Per ogni sottoinsieme 𝐸 di 𝑋, si ha 𝐸 ⊆ seqcl 𝐸 ⊆ cl 𝐸. 2. Ogni sottoinsieme chiuso 𝐸 di 𝑋 è sequenzialmente chiuso.
Esempio 2.51. Sia ancora (𝑋, 𝜏) lo spazio dell’Esempio 2.46.2. Posto 𝐸 = ℕ2 , si ha seqcl 𝐸 = 𝐸 ∪ {𝑞} e cl 𝐸 = 𝑋. È dunque 𝐸 ⊂ seqcl 𝐸 ⊂ cl 𝐸. Risultando seqcl(seqcl 𝐸) = seqcl 𝐸, si ha che questo insieme è sequenzialmente chiuso, ma non chiuso. ◁
L’esempio precedente mostra che può essere 𝐸 ≠ seqcl 𝐸 ≠ cl 𝐸 e che possono esistere sottoinsiemi sequenzialmente chiusi ma non chiusi. Prima di procedere ulteriormente, facciamo un’utile osservazione sulla chiusura sequenziale di un insieme. Osservazione 2.52. Sia 𝐸 un sottoinsieme di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e supponiamo che sia 𝑧 ∈ seqcl 𝐸. Quindi 𝑧 è limite di una successione in 𝐸. Se 𝐸 è finito, allora esiste un 𝑥 ∈ 𝐸 tale che la successione costante 𝑥̂ converge a 𝑧. Se 𝐸 è infinito, allora 𝑧 o è limite di una successione costante di 𝐸, oppure è limite di una successione di 𝐸 fatta da elementi a due a due distinti. Nel caso in cui sia 𝐸 ∶= {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} ,
2.2. Successioni
61
o (1) esiste una sottosuccessione di (𝑥𝑛 )𝑛 convergente a 𝑧, oppure (2) esiste un numero finito di indici 𝑘 per i quali l’elemento 𝑥𝑘 genera una successione costante convergente a 𝑧. Per verificare ciò, supponiamo che la seconda alternativa non sussista. Consideriamo gli indici 𝑘 tali che il corrispondente 𝑥𝑘 ∈ 𝐸 genera una successione costante 𝑥 ̂𝑘 convergente a 𝑧. Se questi indici sono in quantità infinita, allora ogni intorno di 𝑧 deve contenere tutti i punti 𝑥𝑘 e con questi si può formare una sottosuccessione (𝑥𝑘𝑛 )𝑛 che converge a 𝑧. Ciò vale, in particolare, se esiste una sottosuccessione costante convergente a 𝑧. Possiamo dunque supporre d’ora in avanti che, per nessun 𝑛 la successione di termine costante 𝑥𝑛 converga a 𝑧. Siccome per nessun 𝑘 ∈ ℕ la successione costante 𝑥 ̂𝑘 converge a 𝑧, l’insieme 𝐸 deve essere infinito e 𝑧 è limite di una successione di 𝐸 fatta da elementi a due a due distinti. Passando a una sottosuccessione possiamo prendere gli indici in modo crescente, ottenendo così una sottosuccessione di (𝑥𝑛 )𝑛 convergente a 𝑧. L’alternativa (1) è equivalente al fatto che 𝑧 stia nella chiusura sequenziale di tutte le code della successione. ◁
Definizione 2.53. Uno spazio (𝑋, 𝜏) è detto sequenziale se in esso sono chiusi tutti (e soli) gli insiemi sequenzialmente chiusi. ◁ Lo spazio (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) è chiaramente sequenziale. Lo spazio dell’Esempio 2.51 non è sequenziale, dato che l’insieme ℕ2 ∪ {𝑞} è sequenzialmente chiuso ma non chiuso. Si è visto che in uno spazio topologico si ha seqcl 𝐸 ⊆ cl 𝐸, per ogni sottoinsieme 𝐸. Interessa il caso in cui si ha sempre seqcl 𝐸 = cl 𝐸.
Definizione 2.54. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto di Fréchet se, per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, si ha seqcl 𝐸 = cl 𝐸. ◁ Dunque, uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto di Fréchet se la chiusura di un insieme 𝐸 si ottiene aggiungendo i limiti delle successioni di 𝐸, ossia se da 𝑧 ∈ cl 𝐸 segue che esiste una successione di 𝐸 convergente a 𝑧. Lo spazio (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) è ovviamente di Fréchet. Il seguente risultato è di verifica immediata: Teorema 2.55. Ogni spazio topologico di Fréchet è sequenziale. Proviamo con un esempio che non sussiste l’implicazione opposta.
Esempio 2.56. Sia 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ 𝐵 ∪ {𝑝}, con 𝐵 ∶= {𝑏𝑚 ∶ 𝑚 ∈ ℕ}, i 𝑏𝑚 ∉ ℕ2 e fra loro distinti e 𝑝 ∉ ℕ2 ∪ 𝐵. In 𝑋 definiamo la seguente topologia 𝜏. I punti di ℕ2 sono isolati. Una base di intorni di 𝑏𝑚 è data dagli insiemi del tipo 𝐵𝑚,𝑘 ∶= {𝑏𝑚 } ∪ {(𝑚, 𝑛) ∶ 𝑛 > 𝑘}. Una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi del tipo 𝐵𝑘,𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {𝑏𝑚 ∈ 𝐵 ∶ 𝑚 > 𝑘} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ (𝑚 > 𝑘) ∧ (𝑛 > 𝑓 (𝑚))} dove, al solito, 𝑓 è un’arbitraria funzione di ℕ in ℕ. Lo spazio è 𝑇2 , quindi i punti sono chiusi e, per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, si ha 𝒟 𝐸 = 𝒟𝜔 𝐸 (cfr. Teorema 1.79).
2.2. Successioni
62
Sia 𝐸 un insieme non chiuso e proviamo che esso non è sequenzialmente chiuso. Per ipotesi, esiste 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸, da cui 𝑧 ∈ 𝒟𝜔 𝐸. Non può essere 𝑧 ∈ ℕ2 . Sia intanto 𝑧 = 𝑏𝑚 ∈ 𝐵. In ogni suo intorno di base 𝐵𝑚,𝑘 devono cadere infiniti punti di 𝐸; da essi si può estrarre una successione di 𝐸 convergente a 𝑧. Dunque 𝐸 non è sequenzialmente chiuso. Sia, in fine, 𝑧 = 𝑝. Se in 𝐸 ci sono infiniti elementi di 𝐵, esiste una successione di 𝐸 tendente a 𝑧. Sia dunque 𝐸 ∩ 𝐵 finito, da cui 𝐸 ∩ ℕ2 infinito. Ci devono essere infinite righe di ℕ2 ciascuna con infiniti elementi di 𝐸, altrimenti esisterebbe un intorno di 𝑧 privo di elementi di 𝐸 ∩ ℕ2 . Si ottiene ancora che esiste un 𝑚 tale che 𝐸 contiene infiniti elementi del tipo (𝑚, 𝑛), ma non 𝑏𝑚 . Si ha di nuovo che 𝐸 non è sequenzialmente chiuso. Dunque (𝑋, 𝜏) è sequenziale. Lo spazio non è però di Fréchet: infatti si ha 𝑝 ∈ cl ℕ2 , ma 𝑝 ∉ seqcl(ℕ2 ), dato che nessuna successione di ℕ2 converge a 𝑝 (cfr. Esempio 2.46.2). ◁ Osserviamo che nell’ultimo esempio si ha seqcl2 ℕ2 ∶= seqcl(seqcl(ℕ2 )) = cl ℕ2 . A questo punto, non è difficile costruire esempi di spazi (𝑋, 𝜏) in cui si ha seqcl3 (𝐸) = cl 𝐸 per ogni sottoinsieme 𝐸 di 𝑋, ma con seqcl2 (𝐸) ≠ cl 𝐸 per qualche 𝐸. Basta partire da un insieme 𝑋 dato dall’unione disgiunta di ℕ3 , ℕ2 , ℕ e {𝑝}; lasciamo al lettore la cura dei dettagli. Torneremo su questo argomento nel Capitolo sulle strutture di convergenza. Una condizione sufficiente affinché uno spazio topologico sia di Fréchet è che ogni suo punto possieda una base numerabile di intorni. Sussiste infatti il seguente risultato. Teorema 2.57. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico primo numerabile. Allora: 1. (𝑋, 𝜏) è di Fréchet. 2. Se in (𝑋, 𝜏) c’è unicità del limite, allora lo spazio è 𝑇2 .
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) primo numerabile (cfr. Definizione 1.70). 1. Sia 𝑧 ∈ cl 𝐸, con 𝐸 sottoinsieme arbitrario di 𝑋. Per ipotesi, 𝑧 possiede una base numerabile di intorni (𝑈𝑛 )𝑛 . Senza perdita di generalità, possiamo supporre 𝑈0 ⊇ 𝑈1 ⊇ ⋯ ⊇ 𝑈𝑛 ⊇ ⋯ Sia ora, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, 𝑥𝑛 ∈ 𝑈𝑛 ∩ 𝐸. Si vede subito che la successione (𝑥𝑛 )𝑛 converge a 𝑧 e, pertanto, 𝑧 ∈ seqcl 𝐸. 2. Supponiamo che (𝑋, 𝜏) non sia di Hausdorff. Esistono quindi due punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋 privi di intorni disgiunti. Siano (𝑈𝑛 )𝑛 e (𝑉𝑛 )𝑛 due basi di intorni rispettivamente di 𝑝 e 𝑞 che possiamo ancora pensare decrescenti per inclusione. Per ipotesi, si ha 𝑈𝑛 ∩ 𝑉𝑛 ≠ ∅, ∀𝑛 ∈ ℕ. Sia ora, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, 𝑥𝑛 ∈ 𝑈𝑛 ∩ 𝑉𝑛 . Si vede subito che la successione (𝑥𝑛 )𝑛 converge a 𝑝 e anche a 𝑞 e quindi non vi è unicità di limite per le successioni. Esistono, per contro, spazi di Fréchet non primo numerabili e spazi di Fréchet con unicità del limite che non sono di Hausdorff. Esempio 2.58. Sia 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ {𝑝, 𝑞}, con 𝑝, 𝑞 ∉ ℕ2 e 𝑝 ≠ 𝑞; in esso definiamo la topologia 𝜏 dell’Esempio 2.44. Dunque i punti di ℕ2 sono isolati; una base di
2.2. Successioni
63
intorni di 𝑝 è data dagli insiemi 𝐴𝑓 , con 𝐴𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ 𝑛 > 𝑓 (𝑚)}, essendo 𝑓 ∶ ℕ → ℕ una funzione arbitraria; una base di intorni di 𝑞 è data dagli insiemi 𝐵𝑘 , 𝑘 ∈ ℕ, con 𝐵𝑘 ∶= {𝑞} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ 𝑚 > 𝑘}. Sappiamo che (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇1 , ma non 𝑇2 , e che in esso c’è unicità del limite. Non è primo numerabile, dato che 𝑝 non ha una base di intorni numerabile. Proviamo che è di Fréchet. Fissiamo un sottoinsieme non vuoto 𝐸 ⊆ 𝑋. Per nessun elemento 𝑧 ∈ ℕ2 può essere 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Supponiamo, intanto, che sia 𝑝 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Essendo lo spazio 𝑇1 , in ogni intorno di 𝑝 devono cadere infiniti elementi di 𝐸 ∩ ℕ2 . Ne viene che esiste un elemento 𝑚 ∈ ℕ per cui risulta (𝑚, 𝑛) ∈ 𝐸 per infiniti 𝑛: infatti se così non fosse, potremmo ottenere, per un’opportuna scelta di 𝑓 , un intorno 𝑈 di 𝑝 privo di punti di 𝐸. Con gli elementi di {(𝑚, 𝑛) ∶ 𝑛 ∈ ℕ} ∩ 𝐸 si può ottenere una successione in 𝐸 convergente a 𝑝. Sia, in fine, 𝑞 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Ogni intorno di 𝑞 deve contenere elementi (𝑚, 𝑛) ∈ 𝐸 per infiniti valori di 𝑚 e con essi è possibile costruire una successione convergente a 𝑞. ◁ Un altro esempio più classico è quello esposto in [18, Ex.1.4.17]. Qui, per motivi di semplicità espositiva, ne riportiamo una variante.
Esempio 2.59. Sia 𝑋 ∶= (ℝ ⧵ ℕ) ∪ {𝑤, 𝑦}, con 𝑤, 𝑦 ∉ ℝ e 𝑤 ≠ 𝑦. In esso definiamo la seguente topologia 𝜏. Per i punti di 𝑋 che stanno in ℝ gli intorni sono quelli della topologia euclidea. Una base di intorni di 𝑤 è data dagli insiemi del tipo 𝑈 ∶= ⋃𝑛∈ℕ 𝐼𝑛∗ ∪ {𝑤}, dove 𝐼𝑛∗ è un intervallo aperto di centro 𝑛 privato del punto. Una base di intorni di 𝑦 è data dagli insiemi del tipo {𝑦} ∪ (]𝑛, +∞[ ⧵ℕ). Si vede subito che (𝑋, 𝜏) è uno spazio 𝑇1 , ma non 𝑇2 , dato che 𝑦 e 𝑤 non hanno intorni disgiunti. Esso non è primo numerabile. Infatti, per assegnare un intorno di 𝑤 bisogna associare ad ogni 𝑛 un numero reale positivo (raggio di 𝐼𝑛∗ ) che possiamo pensare del tipo 1/𝑘, con 𝑘 ∈ ℕ+ . Ciò equivale a definire una funzione 𝑓 ∶ ℕ → ℕ+ . Sappiamo che l’insieme di queste funzioni non è numerabile. È anche facile controllare che c’è unicità di limite. Intanto ciò è vero in 𝑋 ⧵ {𝑦}, dato che questo sottospazio è 𝑇2 ; è poi evidente che non ci sono successioni convergenti contemporaneamente a 𝑦 e a un numero reale. Sia 𝑆 ∶= (𝑥𝑚 )𝑚 una successione di numeri reali convergente a 𝑦, da cui 𝑥𝑚 → +∞ in senso ordinario. Senza perdita di generalità, possiamo supporre che essa sia strettamente crescente. Per ogni 𝑛, esiste un intervallo aperto di centro 𝑛 non contenente alcun punto della successione. Sia 𝐼𝑛∗ tale intervallo privato del suo centro. L’unione degli 𝐼𝑛∗ genera un intorno di 𝑤 che non contiene alcun punto della successione. Dunque 𝑆 non converge a 𝑤. Resta da provare che (𝑋, 𝜏) è di Fréchet. Fissiamo un sottoinsieme non vuoto 𝐸 ⊆ 𝑋 e un elemento 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Se 𝑧 ∈ ℝ ⧵ ℕ, esiste certamente una successione di 𝐸 convergente a 𝑧, dato che in questo caso la topologia è quella euclidea.
2.2. Successioni
64
Sia 𝑧 = 𝑤. In tal caso, osserviamo che in 𝐸 è contenuta una successione (𝑒𝑛 )𝑛 che converge a un numero naturale 𝑘 rispetto alla topologia euclidea di ℝ e quindi a 𝑤 in 𝜏. Infatti, se così non fosse, nessun numero naturale sarebbe aderente a 𝐸 nella topologia euclidea e, pertanto, per ogni 𝑗 ∈ ℕ, dovrebbe esistere un intervallo privato del centro 𝐼𝑗∗ ∶= ]𝑗 − 𝛿𝑗 , 𝑗 + 𝛿𝑗 [ ⧵{𝑗} tale che 𝐼𝑗∗ ∩ 𝐸 = ∅. Ma allora nel 𝜏-intorno di 𝑤 ottenuto dall’unione degli 𝐼𝑗∗ non ci sarebbero punti di 𝐸. Supponiamo, in fine, 𝑦 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Ogni intorno di 𝑦 deve contenere un insieme del tipo ]𝑛, +∞[ ⧵ℕ e in esso devono cadere punti di 𝐸; dunque, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝐸 con 𝑥𝑛 > 𝑛. La successione (𝑥𝑛 )𝑛 converge a 𝑦. ◁ Come nel caso della chiusura, in cui accanto al concetto usuale si è considerato anche quello di tipo sequenziale, così anche per la nozione di funzione continua c’è un concetto sequenziale corrispondente. In particolare, prendendo spunto dal risultato del Lemma 2.47, si perviene alla seguente definizione.
Definizione 2.60. Siano (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) due spazi topologici. Una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ si dice sequenzialmente continua in un punto 𝑧 ∈ 𝑋 se, per ogni successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋 convergente a 𝑧, la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 converge a 𝑓 (𝑧). Si dice poi che 𝑓 è sequenzialmente continua se lo è in ogni punto del suo dominio. ◁ Il risultato del Lemma 2.47 esprime quindi il fatto che: Ogni funzione continua [continua in 𝑧] è sequenzialmente continua [sequenzialmente continua in 𝑧]. Subito dopo il lemma, si è mostrato con un esempio che esistono funzioni sequenzialmente continue ma non continue. In analogia con alcuni dei risultati dei Teoremi 2.4 e 2.27 sussiste il seguente teorema. Teorema 2.61. Siano (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) due spazi topologici e 𝑓 una funzione di 𝑋 in 𝑋 ′ . Le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. 𝑓 è sequenzialmente continua. 2. Per ogni sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋 si ha 𝑓 (seqcl 𝐸) ⊆ seqcl 𝑓 (𝐸). 3. Per ogni sottoinsieme 𝐸 ′ ⊆ 𝑋 ′ si ha seqcl 𝑓 −1 (𝐸 ′ ) ⊆ 𝑓 −1 (seqcl 𝐸 ′ ).
Dimostrazione. (1) ⇔ (2). Supponiamo 𝑓 sequenzialmente continua. Siano dati un sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋 e un elemento 𝑧′ ∈ 𝑓 (seqcl 𝐸). Esistono un elemento 𝑧 ∈ seqcl 𝐸, con 𝑓 (𝑧) = 𝑧′ , e una successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐸 con 𝑥𝑛 → 𝑧. Per la 1, la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 converge a 𝑧′ , da cui segue 𝑧′ ∈ seqcl 𝑓 (𝐸). Viceversa, supponiamo 𝑓 non sequenzialmente continua in un punto 𝑧 ∈ 𝑋. ̸ (𝑧). Per il Teorema Esiste una successione 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋, con 𝑆 → 𝑧 e 𝑓 (𝑆)→𝑓 2.39, esiste una sottosuccessione 𝑆 ′ ∶= (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 di 𝑆 con 𝑓 (𝑆 ′ ) totalmente divergente da 𝑓 (𝑧) (cfr. Definizione 2.40). Senza perdita di generalità, possiamo quindi dall’inizio supporre che già la successione 𝑓 (𝑆) sia totalmente divergente da 𝑓 (𝑧). Osserviamo che 𝑧 appartiene alle chiusure sequenziali di tutte le code 𝑆𝑛 di 𝑆. Poniamo, per ogni 𝑛, 𝐸𝑛 ∶= {𝑥𝑘 ∶ 𝑘 ≥ 𝑛}; 𝐸𝑛 è dunque l’insieme
2.2. Successioni
65
degli elementi della coda 𝑆𝑛 . Per ipotesi, si ha 𝑓 (seqcl 𝐸𝑛 ) ⊆ seqcl 𝑓 (𝐸𝑛 ). Ne consegue che 𝑓 (𝑧) è nella chiusura sequenziale di tutte le code di 𝑓 (𝑆). Per l’Osservazione 2.52, deve esistere una sottosuccessione di 𝑓 (𝑆) convergente a 𝑓 (𝑧), contro il fatto che 𝑓 (𝑆) è totalmente divergente da 𝑓 (𝑧). (1) ⇔ (3). Supponiamo 𝑓 sequenzialmente continua. Siano dati un sottoinsieme 𝐸 ′ ⊆ 𝑋 ′ e un elemento 𝑧 ∈ seqcl 𝑓 −1 (𝐸 ′ ). Esiste una successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐸 ∶= 𝑓 −1 (𝐸 ′ ) con 𝑥𝑛 → 𝑧. Per la 1, la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 converge a 𝑓 (𝑧), da cui segue 𝑓 (𝑧) ∈ seqcl 𝑓 (𝐸) ⊆ seqcl 𝐸 ′ . Si conclude che è 𝑧 ∈ 𝑓 −1 (seqcl 𝐸 ′ ). Viceversa, supponiamo 𝑓 non sequenzialmente continua in un punto 𝑧 ∈ ̸ (𝑧). Per 𝑋. Esiste una successione 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋, con 𝑆 → 𝑧 e 𝑓 (𝑆)→𝑓 il Teorema 2.39, possiamo addirittura supporre 𝑓 (𝑆) totalmente divergente da 𝑓 (𝑧). Poniamo ora, per ogni 𝑛, 𝐸𝑛′ ∶= {𝑓 (𝑥𝑘 ) ∶ 𝑘 ≥ 𝑛}. Si ha intanto 𝑧 ∈ seqcl 𝑓 −1 (𝐸𝑛′ ), ∀𝑛. D’altra parte, dato che nessuna sottosuccessione di 𝑓 (𝑆) converge a 𝑓 (𝑧), per l’Osservazione 2.52, si ha 𝑓 (𝑧) ∉ seqcl 𝐸𝑛′ , per qualche 𝑛, da cui 𝑧 ∉ 𝑓 −1 (seqcl 𝐸𝑛′ ), per gli stessi 𝑛. Assurdo. Sappiamo già dal caso delle funzioni continue che nella 2 e nella 3 dell’ultimo teorema le inclusioni non possono essere sostituite da uguaglianze. Teorema 2.62. Siano (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) due spazi topologici. 1. Se 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ è sequenzialmente continua, allora, per ogni sottoinsieme 𝐶 ′ sequenzialmente chiuso in 𝑋 ′ , 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) è sequenzialmente chiuso in 𝑋. 2. Se (𝑋, 𝜏) è sequenziale e quindi, in particolare, se è di Fréchet o primo numerabile (cfr. Teorema 2.57), una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ è continua se (e solo se) è sequenzialmente continua.
Dimostrazione. 1. Siano 𝐶 ′ ⊆ 𝑋 ′ un sottoinsieme sequenzialmente chiuso e 𝐶 ∶= 𝑓 −1 (𝐶 ′ ). Per il teorema precedente, si ha seqcl 𝐶 = seqcl 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) ⊆ 𝑓 −1 (seqcl 𝐶 ′ ) = 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) = 𝐶. Dunque 𝐶 è sequenzialmente chiuso. 2. Basta, ovviamente, provare il “se”. Fissiamo un sottoinsieme chiuso 𝐶 ′ ⊆ 𝑋 ′ . 𝐶 ′ è anche sequenzialmente chiuso e quindi, per il punto 1, 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) è sequenzialmente chiuso in 𝑋 e, pertanto, chiuso, essendo (𝑋, 𝜏) sequenziale. Non sussiste l’implicazione opposta della 1 del precedente teorema.
Esempio 2.63. Sia 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ {𝑝}, con 𝑝 ∉ ℕ2 . In 𝑋 definiamo ancora la topologia 𝜏 in cui i punti di ℕ2 sono isolati e una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi del tipo 𝐵𝑘,𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ (𝑚 > 𝑘) ∧ (𝑛 > 𝑓 (𝑚))}, con 𝑘 ∈ 𝑁 e 𝑓 ∶ ℕ → ℕ funzione arbitraria. Le uniche successioni convergenti in 𝑋 sono quelle definitivamente costanti: dunque ogni sottoinsieme di 𝑋 è sequenzialmente chiuso. Sia ora 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 la funzione definita da 𝑓 (𝑝) ∶= (0, 0) e 𝑓 (𝑥) = 𝑥, per ogni 𝑥 ≠ 𝑝. La funzione 𝑓 non è continua in 𝑝. Per contro, la controimmagine di un qualunque insieme sequenzialmente chiuso è sequenzialmente chiusa. ◁
2.2. Successioni
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Sia ancora (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Vogliamo riassumere le proprietà dell’operatore di “chiusura sequenziale” e confrontarle con quelle dell’operatore di “chiusura topologica” viste nei Teoremi 1.31 e 1.36. I risultati del seguente lemma sono di verifica immediata: Lemma 2.64. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Si ha seqcl ∅ = ∅. 2. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, si ha 𝐸 ⊆ seqcl 𝐸. In particolare, si ha seqcl 𝑋 = 𝑋. 3. Per ogni 𝐸, 𝐹 ⊆ 𝑋, da 𝐸 ⊆ 𝐹 segue seqcl 𝐸 ⊆ seqcl 𝐹 .
Teorema 2.65. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Per ogni 𝐸, 𝐹 ⊆ 𝑋 si ha seqcl(𝐸 ∪ 𝐹 ) = seqcl 𝐸 ∪ seqcl 𝐹 .
Dimostrazione. Dalla 3 del Lemma 2.64 si ottiene intanto seqcl 𝐸 ∪ seqcl 𝐹 ⊆ seqcl(𝐸 ∪ 𝐹 ). Proviamo l’inclusione opposta. Sia dunque 𝑧 ∈ seqcl(𝐸 ∪ 𝐹 ). Esiste una successione 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐸 ∪ 𝐹 convergente a 𝑧. Siano 𝐻 ∶= {𝑛 ∈ ℕ ∶ 𝑥𝑛 ∈ 𝐸 } e 𝐾 ∶= {𝑛 ∈ ℕ ∶ 𝑥𝑛 ∈ 𝐹 }. Essendo 𝐻 ∪ 𝐾 = ℕ, almeno uno dei due insiemi è infinito. Non è restrittivo pensare che questo sia 𝐻; si ottiene allora una sottosuccessione 𝑆 ′ di 𝑆 fatta da elementi di 𝐸 che deve ancora convergere a 𝑧. Si conclude che è 𝑧 ∈ seqcl 𝐸 ⊆ seqcl 𝐸 ∪ seqcl 𝐹 .
Ancora dalla 3 del Lemma 2.64 si ha seqcl(𝐸 ∩ 𝐹 ) ⊆ seqcl 𝐸 ∩ seqcl 𝐹 . È immediato verificare che può non sussistere l’uguaglianza. In (ℝ, 𝜏𝑒 ) siano 𝐸 ∶= ]−∞, 0[ e 𝐹 ∶= ]0, +∞[: si ha 0 ∈ seqcl 𝐸∩seqcl 𝐹 , mentre è seqcl(𝐸∩𝐹 ) = seqcl ∅ = ∅. L’operatore “seqcl” verifica dunque i primi tre assiomi di Kuratowski (cfr. pag. 15). Dall’Esempio 2.56 sappiamo che tale operatore non è idempotente e che, quindi, non è sempre verificato il quarto assioma di Kuratowski. Le cose stanno altrimenti negli spazi di Fréchet. Teorema 2.66. In uno spazio topologico di Fréchet, l’operatore di chiusura sequenziale è idempotente. Dimostrazione. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋 si ha seqcl(seqcl 𝐸) = cl(cl 𝐸) = cl 𝐸 = seqcl 𝐸.
La topologia dell’Esempio 2.63 mostra che non sussiste l’implicazione opposta. Infatti in questo spazio (𝑋, 𝜏) ogni sottoinsieme 𝐸 è sequenzialmente chiuso e quindi si ha seqcl(seqcl 𝐸) = seqcl 𝐸, ma sappiamo che lo spazio non è di Fréchet. Osserviamo che l’operatore di chiusura sequenziale, dato che in questo caso soddisfa a tutti gli assiomi di Kuratowski, genera una topologia 𝜎 su 𝑋 (cfr. Teorema 1.44) che però è quella discreta ed è quindi strettamente più fine di 𝜏.
2.2. Successioni
67
Osservazione 2.67. Come si è appena visto, senza ipotesi aggiuntive, l’operatore di chiusura sequenziale soddisfa ai primi tre assiomi di Kuratowski e non necessariamente al quarto. In base a quanto osservato dopo il Teorema 1.44, ciò è sufficiente per definire una famiglia di insiemi chiusi rispetto a tale operatore di chiusura parziale. Ricordando la (1.1) di pag. 15, abbiamo che tali insiemi “chiusi” sono tutti e soli gli insiemi 𝐶 per cui si ha 𝐶 = seqcl 𝐶. Questi sono esattamente gli insiemi sequenzialmente chiusi introdotti nella Definizione 2.49. Possiamo quindi concludere, in base al Teorema 1.44 e alla successiva osservazione, che la famiglia degli insiemi sequenzialmente chiusi di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) verifica gli assiomi 𝐶1 , 𝐶2 , 𝐶3 della Proposizione 1.13 e pertanto si ottiene una topologia meno fine di 𝜏 i cui aperti (complementari dei sequenzialmente chiusi) sono detti sequenzialmente aperti. Questi ultimi possono essere caratterizzati dalla proprietà sotto enunciata. ◁ Proposizione 2.68. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝐴 ⊆ 𝑋 un sottoinsieme non vuoto. Allora 𝐴 è sequenzialmente aperto se e solo se, per ogni 𝑧 ∈ 𝐴, ogni successione convergente a 𝑧 finisce in 𝐴.
La facile verifica è lasciata per esercizio al lettore. È ugualmente facile constatare i seguenti risultati (cfr. Proposizione 2.50.2 e Definizione 2.53). Teorema 2.69. 1. In uno spazio topologico ogni sottoinsieme aperto è sequenzialmente aperto. 2. Uno spazio topologico è sequenziale se e solo se in esso sono aperti tutti (e soli) i sottoinsiemi sequenzialmente aperti. 3. Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋 sequenzialmente aperto. Sono sequenzialmente aperti in (𝐸, 𝜏𝐸 ) tutti e soli i sottoinsiemi di 𝐸 sequenzialmente aperti in 𝑋. Per constatare che non sussiste l’implicazione opposta della 1, basta partire da un sottoinsieme sequenzialmente chiuso ma non chiuso (cfr. Esempio 2.51) e passare al complementare. Sia (𝑋, 𝜏) lo spazio topologico sequenziale dell’Esempio 2.56 e consideriamo il sottospazio 𝐸 ∶= ℕ2 ∪ {𝑝}. Il sottoinsieme ℕ2 è sequenzialmente chiuso, ma non chiuso in 𝐸. Ne viene che un sottospazio di uno spazio sequenziale non è necessariamente sequenziale. Al riguardo sussiste il seguente risultato.
Teorema 2.70. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un suo sottospazio. 1. Se 𝑋 è di Fréchet, allora è tale anche 𝐸. 2. Se 𝑋 è sequenziale ed 𝐸 è aperto oppure chiuso, allora anche 𝐸 è sequenziale.
Dimostrazione. 1. Siano dati 𝐹 ⊆ 𝐸 e 𝑧 ∈ cl𝐸 𝐹 ⊆ cl𝑋 𝐹 . Poiché 𝑋 è di Fréchet, esiste una successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐹 convergente a 𝑧 in 𝑋, ma anche in 𝐸, visto che 𝑧 e gli 𝑥𝑛 appartengono a 𝐸.
2.2. Successioni
68
2. Supponiamo 𝐸 aperto e sia 𝐴 ⊆ 𝐸 un sottoinsieme sequenzialmente aperto in 𝐸. Si vede che 𝐴 è sequenzialmente aperto anche in 𝑋. Infatti, se (𝑥𝑛 )𝑛 è una successione di punti di 𝑋 convergente a un punto 𝑧 ∈ 𝐴 ⊆ 𝐸, poiché 𝐸 è (sequenzialmente) aperto, la successione finisce in 𝐸; essa deve finire in 𝐴 dato che 𝐴 è sequenzialmente aperto in 𝐸. Essendo 𝑋 sequenziale, 𝐴 è aperto in 𝑋 e quindi in 𝐸. Supponiamo, in fine, 𝐸 chiuso e sia 𝐶 ⊆ 𝐸 un sottoinsieme sequenzialmente chiuso in 𝐸. Se, per assurdo, 𝐶 non fosse sequenzialmente chiuso in 𝑋, esisterebbe una successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐶 convergente in 𝑋 ad un punto 𝑧 ∉ 𝐶, da cui 𝑧 ∈ cl𝑋 𝐸 = 𝐸. Avremmo così trovato un punto 𝑧 ∈ 𝐸 ⧵ 𝐶 limite di una successione di punti di 𝐶, contro il fatto che 𝐶 è sequenzialmente chiuso in 𝐸. Osservazione 2.71. Leggendo con cura la dimostrazione del punto 2 del teorema precedente, ci si può rendere conto che vale un risultato leggermente più generale e cioè: Se 𝑋 è sequenziale ed 𝐸 è sequenzialmente aperto oppure sequenzialmente chiuso, allora anche 𝐸 è sequenziale. Ovviamente può accadere che un sottospazio (𝐸, 𝜏𝐸 ) di uno spazio sequenziale sia ancora sequenziale senza che 𝐸 sia aperto o chiuso. Basta prendere uno spazio (𝑋, 𝜏) di Fréchet e un sottoinsieme 𝐸 ⊂ 𝑋 che non sia né aperto né ◁ chiuso.
Riprendiamo ancora l’Esempio 2.56 e cambiamo la topologia 𝜏 modificando solo gli intorni di 𝑝 in modo da ottenere una topologia 𝜏 ′ (meno fine di 𝜏) che risulti 𝐴1 . Essendo comunque 𝑝 ∈ cl ℕ2 , esiste una successione 𝑆 di ℕ2 convergente a 𝑝 in 𝜏 ′ , dato che ora lo spazio è di Fréchet (cfr. Teorema 2.57). Questo fatto può essere generalizzato dal seguente risultato molto utile in Analisi Matematica: Teorema 2.72 (Lemma diagonale). In uno spazio topologico primo numerabile (𝑋, 𝜏) siano dati: una successione (𝑦𝑚 )𝑚 convergente a un punto 𝑝 e, per ogni 𝑚 ∈ ℕ, una successione (𝑥𝑚,𝑛 )𝑛 convergente a 𝑦𝑚 . Esiste allora una funzione 𝑓 ∶ ℕ → ℕ tale che, per ogni funzione 𝑔 ∶ ℕ → ℕ con 𝑔(𝑚) ≥ 𝑓 (𝑚), ∀𝑚 ∈ ℕ, la successione diagonale (𝑥𝑚,𝑔(𝑚) )𝑚 converge a 𝑝. Dimostrazione. Per ogni ℎ ∈ ℕ, sia 𝐵ℎ ∶= {𝑦𝑚 ∶ 𝑚 ≥ ℎ}; per ogni ℎ ∈ ℕ e per ogni 𝜑 ∶ ℕ → ℕ, sia 𝐴ℎ,𝜑 ∶= {𝑥𝑚,𝑛 ∶ (𝑚 ≥ ℎ) ∧ (𝑛 ≥ 𝜑(𝑚))}. Fissiamo una base numerabile ℬ(𝑝) ∶= {𝑈𝑘 ∶ 𝑘 ∈ ℕ} di intorni di 𝑝. Per ogni 𝑘, 𝑈𝑘 deve contenere un insieme del tipo {𝑝} ∪ 𝐵ℎ𝑘 ∪ 𝐴ℎ𝑘 ,𝜑𝑘 ; infatti deve contenere una coda della successione (𝑦𝑚 )𝑚 e, per 𝑚 grande, una coda della successione (𝑥𝑚,𝑛 )𝑛 . Non è restrittivo supporre che la successione (𝑈𝑘 )𝑘 sia decrescente per inclusione. Dunque, da 𝑘1 < 𝑘2 segue ℎ𝑘1 ≤ ℎ𝑘2 e 𝜑𝑘1 (𝑚) ≤ 𝜑𝑘2 (𝑚), ∀𝑚 ∈ ℕ.
2.2. Successioni
69
Definiamo ora la funzione 𝑓 ∶ ℕ → ℕ ponendo 𝑓 (𝑚) ∶=
𝜑0 (𝑚) se 0 ≤ 𝑚 < ℎ1 , { 𝜑𝑘 (𝑚) se ℎ𝑘 ≤ 𝑚 < ℎ𝑘+1 , 𝑘 > 0.
Per ogni 𝑚 ∈ ℕ, con 𝑚 ≥ ℎ𝑘 , si ha 𝑥𝑚,𝑓 (𝑚) ∈ 𝐴ℎ𝑘 ,𝜑𝑘 ⊆ 𝑈𝑘 ; dunque la successione (𝑥𝑚,𝑓 (𝑚) )𝑚 finisce in ogni 𝑈𝑘 e pertanto converge a 𝑝. Ma ciò accade anche per ogni successione diagonale (𝑥𝑚,𝑔(𝑚) )𝑚 per cui sia 𝑔(𝑚) ≥ 𝑓 (𝑚), ∀𝑚 ∈ ℕ. Chiudiamo il paragrafo con un breve cenno al problema della permutabilità delle successioni. Definizione 2.73. Siano 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 una successione in un insieme 𝑋 e 𝜑 ∶ ℕ → ℕ una funzione biiettiva, con 𝑖𝑛 ∶= 𝜑(𝑛). La successione 𝑆1 ∶= 𝑆 ∘ 𝜑 = (𝑥𝑖𝑛 )𝑛 è detta una permutazione di 𝑆. ◁
Chiaramente, se 𝑆1 è una permutazione di 𝑆, anche 𝑆 è una permutazione di 𝑆1 (ottenuta mediante la funzione 𝜑−1 ). Teorema 2.74 (Permuabilità delle successioni convergenti). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico, 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋 e 𝑆1 ∶= 𝑆 ∘ 𝜑 = (𝑥𝑖𝑛 )𝑛 , con 𝜑 ∶ ℕ → ℕ funzione biiettiva, una permutazione di 𝑆. Allora: 1. 𝑆 e 𝑆1 hanno sempre una sottosuccessione comune. 2. Ogni sottosuccessione di 𝑆1 è una permutazione di una sottosuccessione di 𝑆. 3. Si ha 𝐿(𝑆) = 𝐿(𝑆1 ). Dimostrazione. Sia 𝑆1 ∶= 𝑆 ∘ 𝜑, con 𝜑 ∶ ℕ → ℕ biiettiva. 1. Se si prende una sottosuccessione 𝑆1′ di 𝑆1 con gli indici 𝜑(𝑛) crescenti, questa è anche una sottosuccessione di 𝑆. 2. Sia 𝑆1′ una sottosuccessione di 𝑆1 . È dunque 𝑆1′ ∶= 𝑆1 ∘ 𝑘, con 𝑘 ∶ ℕ → ℕ funzione strettamente crescente. Poniamo 𝐾 = 𝑘(ℕ) e 𝐻 ∶= 𝜑 ∘ 𝑘(ℕ). 𝐻 è l’immagine ℎ(ℕ) di un’applicazione ℎ ∶ ℕ → ℕ strettamente crescente. Consideriamo, in fine la sottosuccessione 𝑆 ′ ∶= 𝑆 ∘ ℎ di 𝑆. Si ottiene che 𝑆1′ è la permutazione di 𝑆 ′ mediante la biiezione da 𝐾 a 𝐻 data dalla restrizione a 𝐾 di 𝜑. 3. Sia 𝑧 ∈ 𝐿(𝑆) e diciamo 𝑆1′ una sottosuccessione di 𝑆1 . Per il punto 2, 𝑆1′ è una permutazione di una sottosuccessione 𝑆 ′ di 𝑆. Per il punto 1, 𝑆 ′ e 𝑆1′ hanno una sottosuccessione 𝑆 ″ in comune. Siccome 𝑆 ″ , in quanto sottosuccessione di 𝑆, deve convergere a 𝑧, si ottiene che 𝑆1′ non è totalmente divergente da 𝑧. Dall’arbitrarietà di 𝑆1′ si ottiene, per l’assioma 𝑈 , che deve essere 𝑧 ∈ 𝐿(𝑆1 ). È dunque 𝐿(𝑆) ⊆ 𝐿(𝑆1 ). Essendo anche 𝑆 una permutazione di 𝑆1 , da quanto appena visto, si ha poi 𝐿(𝑆1 ) ⊆ 𝐿(𝑆). Sia ∑+∞ 𝑛=0 𝑎𝑛 una serie di numeri reali e indichiamo con (𝑠𝑛 )𝑛 la successione delle sue ridotte. Quando si studia la permutabilità di una serie, si considerano permutazioni della successione (𝑎𝑛 )𝑛 , che non generano permutazioni della
2.3. Limiti di una funzione
70
successione (𝑠𝑛 )𝑛 che sono, in questo caso, l’oggetto del teorema precedente. Ne viene che il fatto che una serie semplicemente convergente non è permutabile non è in contrasto con il precedente risultato.
2.3
Limiti di una funzione
Volendo ora estendere la nozione di limite al caso di funzioni fra spazi topologici, conviene metterci in una situazione diversa rispetto a quella assunta a proposito delle funzioni continue; si veda quanto detto a pag. 42 prima del Lemma 2.2.
Definizione 2.75. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ e un punto 𝑥0 ∈ 𝒟 𝐸. Si dice che un elemento 𝑙 ∈ 𝑋 ′ è un limite di 𝑓 per 𝑥 che tende a 𝑥0 se, per ogni intorno 𝑉 di 𝑙, esiste un intorno 𝑈 di 𝑥0 , tale che 𝑓 (𝑈 ∩ 𝐸 ⧵ {𝑥0 }) è contenuto in 𝑉 . In simboli (∀𝑉 ∈ 𝒰(𝑙))(∃𝑈 ∈ 𝒰(𝑥0 ))(𝑓 (𝑈 ∩ 𝐸 ⧵ {𝑥0 }) ⊆ 𝑉 ),
ossia, ricordando la Definizione 1.54 di intorno privato del punto, (∀𝑉 ∈ 𝒰(𝑙))(∃𝑈 ∈ 𝒰(𝑥0 ))(𝑓 (𝑈𝑥′0 ∩ 𝐸) ⊆ 𝑉 ),
In tal caso, si dice che 𝑓 tende a 𝑙 e si scrive anche 𝑙 ∈ lim 𝑓 (𝑥); 𝑥→𝑥0
𝑓 (𝑥) → 𝑙 (per 𝑥 → 𝑥0 ) .
Si scrive 𝑙 = lim𝑥→𝑥0 𝑓 (𝑥) se il limite è unico.
◁
Sussiste il seguente risultato, analogo a quello del Lemma 2.2, la cui verifica è lasciata per esercizio al lettore.
Lemma 2.76. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ , un punto 𝑥0 ∈ 𝑋 di accumulazione per 𝐸 e un elemento 𝑙 ∈ 𝑋 ′ . Siano poi ℬ(𝑥0 ) e ℬ(𝑙) due basi degli intorni di 𝑥0 e, rispettivamente, di 𝑙. Allora si ha 𝑙 ∈ lim𝑥→𝑥0 𝑓 (𝑥) se e solo se, per ogni intorno 𝑉 ∈ ℬ(𝑙), esiste un intorno 𝑈 ∈ ℬ(𝑥0 ) tale che 𝑓 (𝑈𝑥′0 ∩ 𝐸) sia contenuto in 𝑉 . I limiti di successioni sono casi particolari di quelli che stiamo studiando, una volta che si pensi ℕ come sottoinsieme di ℕ ∶= ℕ ∪ {∞}, con ∞ ∉ ℕ, e si doti ℕ della topologia 𝜏 in cui i punti di ℕ sono isolati, mentre una base di intorni di ∞ è data dagli insiemi del tipo {∞} ∪ 𝐴, con 𝐴 sottoinsieme cofinito di ℕ (cfr. pagina 57). Naturalmente, una funzione può avere più limiti per 𝑥 che tende a un dato punto 𝑧 di accumulazione per il suo dominio.
Definizione 2.77. Dati una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ (𝑋, 𝜏)) → (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e un punto 𝑧 di accumulazione per 𝐸, indicheremo con 𝐿(𝑓 , 𝑧) l’insieme dei limiti di 𝑓 per 𝑥 → 𝑧. ◁
2.3. Limiti di una funzione
71
I seguenti risultati sono una generalizzazione di quelli analoghi visti per le successioni.
Teorema 2.78. Dati una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ (𝑋, 𝜏)) → (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e un punto 𝑧 di accumulazione per 𝐸, l’insieme 𝐿(𝑓 , 𝑧) è chiuso in 𝜏 ′ .
Dimostrazione. Se è 𝐿(𝑓 , 𝑧) = ∅, la tesi è ovvia; supponiamo dunque 𝐿(𝑓 , 𝑧) ≠ ∅. Sia 𝑙 ∈ cl 𝐿(𝑓 , 𝑧) e fissiamo un suo intorno aperto 𝑉 . Si ha 𝑉 ∩𝐿(𝑓 , 𝑧) ≠ ∅; diciamo 𝑤 un elemento di 𝑉 ∩ 𝐿(𝑓 , 𝑧). Essendo 𝑉 intorno anche di 𝑤, esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 tale che 𝑓 (𝑈𝑧′ ∩ 𝐸) ⊆ 𝑉 . Dall’arbitrarietà di 𝑉 si ottiene che è 𝑙 ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑧).
Teorema 2.79. Siano (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) due spazi topologici. 1. Se la topologia 𝜏 ′ è 𝑇2 , nessuna funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ può avere più di un limite per 𝑥 → 𝑧, con 𝑧 ∈ 𝒟 𝐸. 2. Se è 𝒟 𝑋 ≠ ∅, e se nessuna funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ può avere più di un limite per 𝑥 → 𝑧, qualunque sia 𝑧 ∈ 𝒟 𝑋, allora la topologia 𝜏 ′ è 𝑇1 .
Dimostrazione. La 1 discende direttamente dal fatto che in uno spazio di Hausdorff punti distinti ammettono intorni disgiunti. Verifichiamo la 2 mostrando che, se 𝜏 ′ non è 𝑇1 esistono funzioni che hanno più di un limite per 𝑥 che tende ad un arbitrario punto 𝑧 ∈ 𝒟 𝑋. In 𝑋 ′ devono esistere due punti 𝑙′ , 𝑙″ tali che ogni intorno di 𝑙″ contiene 𝑙′ . La funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ di valore costante 𝑙′ tende sia a 𝑙′ che a 𝑙″ per 𝑥 che tende a un qualunque punto 𝑧 ∈ 𝒟 𝑋. Non sussistono le implicazioni opposte di quelle di quest’ultimo teorema. Si vedano gli esempi 2.44 e 2.46 relativi alle successioni che, come sottolineato, sono casi particolari di funzioni. Naturalmente, anche la topologia di 𝑋 ha qualche influenza su questo problema. Come caso limite, si osservi che, se 𝜏 è la topologia discreta, per ogni sottoinsieme 𝐸 di 𝑋 si ha 𝒟 𝐸 = ∅ e il problema della ricerca di limiti non si pone più. Sappiamo già dal caso elementare delle funzioni reali di variabile reale che l’eventuale valore della funzione 𝑓 in un punto 𝑧 non ha alcuna influenza per quanto riguarda i limiti di 𝑓 per 𝑥 → 𝑧. Abbiamo già sottolineato che una qualunque funzione fra due spazi topologici è continua in ogni punto isolato del suo dominio. Dalle definizioni di limite e di continuità si ha poi subito che: Lemma 2.80. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ e un punto 𝑧 ∈ 𝐸 che sia di accumulazione per 𝐸. Allora 𝑓 è continua in 𝑧 se e solo se 𝑓 (𝑧) ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑧).
Anche il noto Teorema sul limite della restrizione ha validità generale. Il seguente risultato è infatti di verifica immediata.
2.3. Limiti di una funzione
72
Teorema 2.81 (Limiti della restrizione). Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ , un punto 𝑧 di accumulazione per 𝐸 e un elemento 𝑙 ∈ 𝑋 ′ tale che 𝑙 ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑧). Allora, per ogni sottoinsieme 𝐴 ⊆ 𝐸 per cui sia 𝑧 ∈ 𝒟 𝐴, si ha ancora 𝑙 ∈ 𝐿(𝑓 |𝐴 , 𝑧). Naturalmente, non sussiste l’implicazione opposta di questo teorema. Si ha però il seguente risultato:
Teorema 2.82. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ , un sottoinsieme aperto 𝐴 ⊆ 𝑋, un punto 𝑧 ∈ 𝒟 (𝐴 ∩ 𝐸) e un elemento 𝑙 ∈ 𝑋 ′ . Allora, se 𝑙 è limite, per 𝑥 → 𝑧, della restrizione di 𝑓 ad 𝐴 ∩ 𝐸, si ha anche 𝑙 ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑧).
Dimostrazione. Per ogni 𝑉 ∈ 𝒰(𝑙) esiste almeno un aperto 𝑈 ∈ 𝒰(𝑧) tale che 𝑓 ((𝑈 ∩ 𝐴) ∩ 𝐸 ⧵ {𝑧}) ⊆ 𝑉 . Essendo 𝐴 aperto, anche 𝑈 ∩ 𝐴 è un intorno di 𝑧, da cui la tesi. Dunque, per verificare che 𝑙 è un limite di 𝑓 per 𝑥 → 𝑧, possiamo limitarci a lavorare in un intorno aperto di 𝑧 e, se fa comodo, possiamo escludere 𝑧 dal dominio. Anche la generalizzazione al caso dei limiti del risultato del Lemma 2.47 è immediata. Lemma 2.83. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ , un punto 𝑧 di accumulazione per 𝐸 e un elemento 𝑙 ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑧)(⊆ 𝑋 ′ ). Allora, per ogni successione 𝑆 = (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐸 ⧵ {𝑧} convergente a 𝑧, la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 converge a 𝑙. Veniamo al Teorema sui limiti della funzione composta.
Teorema 2.84 (Limiti della funzione composta). Siano dati: tre spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), (𝑋 ″ , 𝜏 ″ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ , una funzione 𝑔 ∶ 𝐸 ′ (⊆ 𝑋 ′ ) → 𝑋 ″ , con 𝐻 ′ ∶= 𝐸 ′ ∩ 𝑓 (𝐸) ≠ ∅ e, in fine, un elemento 𝑧 ∈ 𝑋 di accumulazione per 𝐻 ∶= 𝑓 −1 (𝐻 ′ )(⊆ 𝐸) dominio della funzione composta 𝑔 ∘ 𝑓 . Si supponga poi che esistano un elemento 𝑧′ ∈ 𝑋 ′ di accumulazione per 𝐸 ′ , con 𝑧′ ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑧) e un elemento 𝑧″ ∈ 𝑋 ″ con 𝑧″ ∈ 𝐿(𝑔, 𝑧′ ). Allora si ha 𝑧″ ∈ 𝐿(𝑔 ∘ 𝑓 , 𝑧) se è verificata una delle tre seguenti ipotesi: 1. 𝑧″ = 𝑔(𝑧′ ), da cui 𝑔 continua in 𝑧′ ; 2. esiste un intorno 𝑈 ∗ di 𝑧 tale che, per ogni 𝑥 ∈ (𝑈 ∗ ∩ 𝐻) ⧵ {𝑧}, si ha 𝑓 (𝑥) ≠ 𝑧′ ; 3. 𝑧′ ∉ 𝐸 ′ . Dimostrazione. La tesi è
(∀𝑉 ∈ 𝒰(𝑧″ ))(∃𝑈 ∈ 𝒰(𝑧))(𝑔 ∘ 𝑓 (𝑈𝑧′ ∩ 𝐻) ⊆ 𝑉 ).
2.3. Limiti di una funzione
73
Dalle ipotesi si ha che
(𝑎) (∀𝑉 ∈ 𝒰(𝑧″ ))(∃𝑊 ∈ 𝒰(𝑧′ ))(𝑔(𝑊𝑧′′ ∩ 𝐸 ′ ) ⊆ 𝑉 ), (𝑏) (∀𝑊 ∈ 𝒰(𝑧′ ))(∃𝑈 ∈ 𝒰(𝑧))(𝑓 (𝑈𝑧′ ∩ 𝐸) ⊆ 𝑊 ).
Quindi, dato 𝑉 ∈ 𝒰(𝑧″ ), abbiamo un intorno 𝑈 ∈ 𝒰(𝑧) che sembra faccia al caso. (1). Se è 𝑧″ = 𝑔(𝑧′ ), per cui 𝑔 è continua in 𝑧′ , nella (𝑎) possiamo scrivere 𝑔(𝑊 ∩ 𝐸 ′ ) ⊆ 𝑉 , da cui 𝑔 ∘ 𝑓 (𝑈𝑧′ ∩ 𝐻) ⊆ 𝑉 . (2). Basta partire dall’intorno di 𝑧 dato da 𝑈 ∩ 𝑈 ∗ . (3). Se 𝑧′ ∉ 𝐸 ′ , la funzione composta non è definita nei punti 𝑥 ∈ 𝐸 per cui è 𝑓 (𝑥) = 𝑧′ ; le cose vanno ancora a posto, dato che, per ipotesi, 𝑧 è di accumulazione per il dominio di 𝑔 ∘ 𝑓 . Si vede già nel caso delle funzioni reali di variabile reale che, se non si richiede che 𝑧 sia di accumulazione per il dominio della funzione composta 𝑔 ∘ 𝑓 e la validità di una delle tre ultime ipotesi, le cose non vanno bene. 𝑓1 (𝑥) ∶=
𝑥 sin(1/𝑥), {0,
𝑓2 (𝑥) ∶= −𝑥2
se 𝑥 ≠ 0, se 𝑥 = 0;
𝑔1 (𝑥) ∶=
1, se 𝑥 ≠ 0, {0, se 𝑥 = 0.
𝑔2 (𝑥) = √𝑥.
La funzione 𝑔1 ∘ 𝑓1 , pur essendo definita in ℝ, non ha limite per 𝑥 → 0. Invece 0 non è punto di accumulazione per il dominio della funzione 𝑔2 ∘ 𝑓2 . Infine consideriamo la funzione composta 𝑔1 ∘ ℎ, dove ℎ è la funzione identicamente nulla. Si ha lim𝑥→2 ℎ(𝑥) = 0, lim𝑡→0 𝑔1 (𝑡) = 1 ≠ lim𝑥→2 𝑔(ℎ(𝑥)) = 0. Siccome il valore 𝑔(𝑧′ ) è ininfluente per quanto riguarda il limite di 𝑔 e quindi anche di 𝑔 ∘ 𝑓 , possiamo sempre togliere 𝑧′ dal dominio di 𝑔, riconducendoci così al terzo caso che, pertanto, appare il più interessante dei tre. Sussiste il seguente risultato che ricorda quello del Teorema 2.15. Teorema 2.85. Siano dati: due spazi topologici (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ , un punto 𝑧 ∈ 𝑋 di accumulazione per 𝐸 e un elemento 𝑙 ∈ 𝑋′. Se è 𝐸 = ⋃𝑛𝑖=0 𝐸𝑖 e 𝑧 è di accumulazione per ciascun 𝐸𝑖 , allora 𝑙 ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑧) se e solo se è un limite per 𝑥 → 𝑧 delle restrizioni di 𝑓 a ciascun 𝐸𝑖 .
Dimostrazione. In virtù del Teorema 2.81 sul limite della restrizione, basta provare il “se”. Fissiamo un intorno 𝑉 di 𝑙. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 ∶= {0, 1, … , 𝑛}, esiste per ipotesi un 𝜏𝐸𝑖 -intorno aperto 𝑈𝑖 tale che 𝑓 (𝑈𝑗 ⧵ {𝑧}) ⊆ 𝑉 . Sempre per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 esiste un 𝜏-aperto 𝑈𝑖′ tale che 𝑈𝑖 = 𝑈𝑖′ ∩𝐸𝑖 . Sia ora 𝑈 ′ ∶= ⋂𝑖∈𝐽 𝑈𝑖′ . 𝑈 ′ è un 𝜏-intorno aperto di 𝑧 per cui si ha 𝑈 ′ ∩ 𝐸 = 𝑈 ′ ∩ (⋃𝑛𝑖=0 𝐸𝑖 ) = ⋃𝑛𝑖=0 (𝑈 ′ ∩ 𝐸𝑖 ) ⊆ ⋃𝑛𝑖=0 𝑈𝑖 , da cui 𝑓 (𝑈 ′ ∩ 𝐸 ⧵ {𝑧}) ⊆ 𝑉 .
2.3. Limiti di una funzione
74
Anche questo risultato non si può estendere al caso in cui 𝐸 sia espresso come unione di infiniti sottoinsiemi 𝐸𝑖 .
Esempio 2.86. Sia 𝑓 ∶ (ℝ2 ⧵ {0}, 𝜏𝑒 ) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) definita da 𝑓 (𝑥, 𝑦) = 𝑥4𝑥+𝑦𝑦 2 . Questa funzione si annulla sugli assi. La sua restrizione a una retta per l’origine di equazione 𝑦 = 𝑚𝑥 tende a 0 per x → 0. Ma sappiamo che 0 non è limite di 𝑓 per x → 0, dato che è 𝑓 (𝑥, 𝑥2 ) = 1/2. ◁ 2
Occupiamoci ora brevemente della nozione di massimo e minimo limite per funzioni a valori reali. Siano dati: uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) e un punto 𝑧 ∈ cl 𝐸 che, per comodità, possiamo pensare non appartenente a 𝐸. Supponiamo, inoltre, che 𝑧 ammetta una base numerabile di intorni (𝑈𝑛 )𝑛 . Come abbiamo fatto altre volte, pensiamo la successione degli 𝑈𝑛 decrescente per inclusione. Ne viene che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, è 𝑓 (𝑈𝑛 ∩ 𝐸) ⊇ 𝑓 (𝑈𝑛+1 ∩ 𝐸). Definizione 2.87. Sotto tutte queste ipotesi, poniamo, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, 𝑙𝑛− ∶= inf 𝑓 (𝑈𝑛 ∩ 𝐸); 𝑙𝑛+ ∶= sup 𝑓 (𝑈𝑛 ∩ 𝐸); 𝑙 ∶= sup {𝑙𝑛− ∶ 𝑛 ∈ ℕ} ; 𝑙+ ∶= inf {𝑙𝑛+ ∶ 𝑛 ∈ ℕ} . −
Gli elementi 𝑙− e 𝑙+ prendono, rispettivamente, i nomi di minimo limite e massimo limite di 𝑓 per 𝑥 → 𝑧. Si usano le notazioni 𝑙− =∶ lim inf 𝑓 (𝑥); 𝑥→𝑧
𝑙+ =∶ lim sup 𝑓 (𝑥). 𝑥→𝑧
◁
Naturalmente, siccome per ogni 𝑛 è 𝑙𝑛− ≤ 𝑙𝑛+ e dato che le successioni (𝑙𝑛− )𝑛 e (𝑙𝑛+ )𝑛 sono monotone, rispettivamente crescenti e decrescenti (in senso debole), si ha che le classi {𝑙𝑛− ∶ 𝑛 ∈ ℕ} e {𝑙𝑛+ ∶ 𝑛 ∈ ℕ} sono separate, almeno debolmente. Da ciò e dal Teorema sul limite delle funzioni monotone si ottiene immediatamente il seguente risultato: Lemma 2.88. Siano dati: uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), un sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋, un elemento 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸 dotato di una base numerabile di intorni e una funzione 𝑓 ∶ 𝐸 → (ℝ, 𝜏𝑒 ). 1. Esistono sempre lim inf𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) e lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) ed essi sono unici. 2. Si ha 𝑙− = lim𝑛→+∞ 𝑙𝑛− e 𝑙+ = lim𝑛→+∞ 𝑙𝑛+ 3. Si ha −∞ ≤ lim inf𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) ≤ lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) ≤ +∞.
Teorema 2.89. Siano dati: uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), un sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋, un elemento 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸 dotato di una base numerabile di intorni (𝑈𝑛 )𝑛 e una funzione 𝑓 ∶ 𝐸 → (ℝ, 𝜏𝑒 ). 1. Si ha lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) = 𝑙+ ∈ ℝ se e solo se sono verificate le seguenti proprietà a) Per ogni 𝜀 > 0, esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 ∩𝐸, si ha 𝑓 (𝑥) < 𝑙+ + 𝜀.
2.3. Limiti di una funzione
75
b) Per ogni 𝜀 > 0 e per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste un elemento 𝑥𝑛 ∈ 𝑈𝑛 ∩ 𝐸 tale che 𝑓 (𝑥𝑛 ) > 𝑙+ − 𝜀. 2. Si ha lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) = +∞ se e solo se 𝑓 è superiormente illimitata in ogni intorno di 𝑧. 3. Si ha lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) = −∞ se e solo se 𝑓 tende a −∞ per 𝑥 → 𝑧.
Dimostrazione. 1. Sia 𝑙+ = lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) ∈ ℝ. Essendo 𝑙+ = lim𝑛→+∞ 𝑙𝑛+ , si ha che, per ogni 𝜀 > 0, esiste un 𝑛 ∈ ℕ tale che 𝑙𝑛+ < 𝑙+ + 𝜀, da cui 𝑓 (𝑥) ≤ 𝑙𝑛+ < 𝑙+ + 𝜀, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈𝑛 ∩ 𝐸. Inoltre, per le proprietà dell’estremo superiore, si ha che, dato 𝜀 > 0, per ogni 𝑛 ∈ ℕ esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝑈𝑛 ∩ 𝐸 tale che 𝑓 (𝑥𝑛 ) > 𝑙𝑛+ − 𝜀 ≥ 𝑙+ − 𝜀. Venendo al viceversa, supponiamo che il numero reale 𝑙+ soddisfi alle condizioni (𝑎) e (𝑏). Dalla (𝑎) segue che, per ogni 𝜀 > 0, esiste un 𝑛 ∈ ℕ tale che 𝑙𝑛+ ≤ 𝑙+ + 𝜀 e, passando al limite per 𝑛 → +∞, lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) ≤ 𝑙+ . Dalla (𝑏) si ottiene, per ogni 𝜀 > 0 e per ogni 𝑛 ∈ 𝑁, 𝑙𝑛+ ≥ 𝑙+ −𝜀, da cui lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) ≥ 𝑙+ . Le altre due affermazioni sono di verifica immediata. In maniera simmetrica si danno le condizioni che caratterizzano il minimo limite. Lasciamo al lettore la cura delle relative formalizzazioni. Anche il seguente corollario è di facile verifica. Corollario 2.90. Nelle stesse ipotesi dei teoremi precedenti, si ha lim inf 𝑓 (𝑥) = 𝜆 = lim sup 𝑓 (𝑥) 𝑥→𝑧
se e solo se è 𝜆 = lim𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥).
𝑥→𝑧
Esempio 2.91. Funzioni reali di variabile reale. Si ha lim sup sin 𝑥 = 1, 𝑥→+∞
1 lim sup = +∞, 𝑥→+∞ sin2 𝑥 𝑥 lim sup = +∞, 𝑥→+∞ sin 𝑥
lim inf sin 𝑥 = −1; 𝑥→+∞
1 = 1; sin2 𝑥 𝑥 lim inf = −∞. 𝑥→+∞ sin 𝑥 𝑥→+∞
lim inf
Stabiliamo alcune ulteriori proprietà del massimo e del minimo limite.
◁
Teorema 2.92. Siano dati: uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), due funzioni 𝑓 , 𝑔 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) e un punto 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Inoltre, 𝑧 ammetta una base di intorni numerabile. Sussistono allora le seguenti proprietà: 1. Se è 𝑓 (𝑥) ≤ 𝑔(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝐸, allora si ha lim inf 𝑓 (𝑥) ≤ lim inf 𝑔(𝑥); 𝑥→𝑧
𝑥→𝑧
lim sup 𝑓 (𝑥) ≤ lim sup 𝑔(𝑥). 𝑥→𝑧
Assumiamo finiti i massimi e i minimi limiti di 𝑓 e 𝑔.
𝑥→𝑧
2.3. Limiti di una funzione 2. Si ha
76
lim inf 𝑓 (𝑥) + lim inf 𝑔(𝑥) ≤ lim inf(𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)); 𝑥→𝑧
𝑥→𝑧
𝑥→𝑧
lim sup(𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)) ≤ lim sup 𝑓 (𝑥) + lim sup 𝑔(𝑥). 𝑥→𝑧
𝑥→𝑧
3. Se 𝑓 e 𝑔 sono funzioni positive, si ha
𝑥→𝑧
lim inf 𝑓 (𝑥) ⋅ lim inf 𝑔(𝑥) ≤ lim inf(𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥)); 𝑥→𝑧
𝑥→𝑧
𝑥→𝑧
lim sup(𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥)) ≤ lim sup 𝑓 (𝑥) ⋅ lim sup 𝑔(𝑥). 𝑥→𝑧
𝑥→𝑧
𝑥→𝑧
4. Se la funzione 𝑔 ha limite, allora nelle ultime due proposizioni vale il segno di uguaglianza.
Dimostrazione. Sia (𝑈𝑛 )𝑛 una base numerabile di intorni di 𝑧 in 𝜏𝐸 che, al solito, pensiamo decrescente per inclusione. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ e per ogni funzione ℎ ∶ 𝐸 → ℝ, siamo poi 𝑙𝑛− (ℎ) ∶= inf ℎ(𝑈𝑛 ) e 𝑙𝑛+ (ℎ) ∶= sup ℎ(𝑈𝑛 ). 1. Dall’ipotesi, si ottiene, sempre per ogni 𝑛 ∈ ℕ, 𝑙𝑛− (𝑓 ) ≤ 𝑙𝑛− (𝑔) e 𝑙𝑛+ (𝑓 ) ≤ + 𝑙𝑛 (𝑔), da cui si ha la tesi. 2. Discende dal fatto che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, si ha 𝑙𝑛− (𝑓 ) + 𝑙𝑛− (𝑔) ≤ 𝑙𝑛− (𝑓 + 𝑔) e + 𝑙𝑛 (𝑓 + 𝑔) ≤ 𝑙𝑛+ (𝑓 ) + 𝑙𝑛+ (𝑔). 3. Discende dal fatto che, trattandosi di numeri positivi, si ha, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, 𝑙𝑛− (𝑓 ) ⋅ 𝑙𝑛− (𝑔) ≤ 𝑙𝑛− (𝑓 𝑔) e 𝑙𝑛+ (𝑓 𝑔) ≤ 𝑙𝑛+ (𝑓 ) ⋅ 𝑙𝑛+ (𝑔). 4. Poniamo 𝑙+ ∶= lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥), 𝑙 ∶= lim𝑥→𝑧 𝑔(𝑥) e fissiamo un 𝜀 > 0. Esiste un 𝑛 ∈ ℕ tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈𝑛 si ha 𝑓 (𝑥) < 𝑙+ + 𝜀/2, 𝑔(𝑥) < 𝑙 + 𝜀/2 e 𝑔(𝑥) > 𝑙 − 𝜀/2. Si ha intanto (𝑓 + 𝑔)(𝑥) < 𝑙+ + 𝑙 + 𝜀, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈𝑛 . Inoltre, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝑈𝑛 tale che 𝑓 (𝑥𝑛 ) > 𝑙+ − 𝜀/2. Per gli stessi 𝑥𝑛 , per 𝑛 sufficientemente grande, si ha anche (𝑓 + 𝑔)(𝑥) > 𝑙+ + 𝑙 − 𝜀. Si conclude che è 𝑙+ + 𝑙 = lim sup𝑥→𝑧 (𝑓 + 𝑔)(𝑥). In modo analogo si procede per il minimo limite. Veniamo al prodotto. Dalla 3 sappiamo che esiste un 𝑛 ∈ ℕ tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈𝑛 è (𝑓 𝑔)(𝑥) < 𝑙+ ⋅ 𝑙 + 𝜀. Inoltre esiste un 𝑚 ∈ ℕ tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈𝑚 è 𝑔(𝑥) > 𝑙 − 𝜀/(𝑙 + 𝑙+ + 1). Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste poi un 𝑥𝑛 ∈ 𝑈𝑛 tale che 𝑓 (𝑥𝑛 ) > 𝑙+ − 𝜀/(𝑙 + 𝑙+ + 1). Per gli stessi 𝑥𝑛 , per 𝑛 sufficientemente grande, si ha anche 𝑓 (𝑥𝑛 )𝑔(𝑥𝑛 ) > (𝑙+ −
𝜀 𝜀 𝑙− > 𝑙+ 𝑙 − 𝜀. 𝑙 + 𝑙+ + 1 ) ( 𝑙 + 𝑙+ + 1 )
Si conclude che è 𝑙+ 𝑙 = lim sup𝑥→𝑧 (𝑓 𝑔)(𝑥). Analogamente per il lim inf. Lasciamo al lettore la cura di adattare i risultati delle ultime tre proposizioni del precedente teorema al caso in cui almeno una delle due funzioni abbia massimo o minimo limite infinito.
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
77
Teorema 2.93. Siano dati: uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) e un punto 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Inoltre, 𝑧 ammetta una base di intorni numerabile. Sia 𝒮 l’insieme delle successioni 𝑆 in 𝐸 convergenti a 𝑧 per le quali esiste (finito o infinito) il limite della successione 𝑓 (𝑆). Sia, in fine, ℒ (𝑓 ) l’insieme dei limiti delle successioni 𝑓 (𝑆), al variare di 𝑆 ∈ 𝒮 . Allora, pensando ℒ (𝑓 ) come sottoinsieme della retta ampliata ℝ, si ha: lim inf 𝑓 (𝑥) = min ℒ (𝑓 ); 𝑥→𝑧
lim sup 𝑓 (𝑥) = max ℒ (𝑓 ). 𝑥→𝑧
Dimostrazione. Siano 𝑙+ ∶= lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) e 𝜆 ∶= sup ℒ (𝑓 ). Indichiamo poi con (𝑈𝑛 )𝑛 una base numerabile di intorni di 𝑧; penseremo, al solito, la successione degli 𝑈𝑛 decrescente per inclusione. Sia 𝑙+ = +∞. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝑈𝑛 ∩ 𝐸 con 𝑓 (𝑥𝑛 ) > 𝑛. Si ottiene 𝑙+ = lim𝑛→+∞ 𝑥𝑛 , da cui 𝑙+ = max ℒ (𝑓 ) ∈ ℝ. Sia 𝑙+ = −∞. Per ogni successione 𝑆 ∈ 𝒮 , si ha lim 𝑓 (𝑆) = −∞, da cui ℒ (𝑓 ) = {−∞} e ancora 𝑙+ = max ℒ (𝑓 ) ∈ ℝ. Sia 𝑙+ ∈ ℝ. Dalla proprietà (𝑎) della Proposizione 2.89.1 si ottiene subito + 𝑙 ≥ 𝜆: dunque 𝑙+ è una limitazione superiore per ℒ (𝑓 ). Inoltre, dalla (𝑏) della medesima proposizione si ottiene che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝑈𝑛 ∩ 𝐸 con 𝑓 (𝑥𝑛 ) > 𝑙+ − 1/𝑛. Si ottiene che la successione (𝑥𝑛 )𝑛 ∈ 𝒮 , dato che 𝑓 (𝑥𝑛 ) → 𝑙+ . Si conclude che è 𝑙+ = 𝜆 = max ℒ (𝑓 ). Analogamente per il minimo limite.
2.4 Prolungabilità delle funzioni continue
Siano (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) due spazi topologici, 𝐸 un sottoinsieme non vuoto di 𝑋 e 𝑓 ∶ 𝐸 → 𝑋 ′ una funzione continua. Si pone in modo naturale il problema di dare delle condizioni affinché 𝑓 sia prolungabile in una funzione continua definita in tutto 𝑋. Cominciamo con un risultato di unicità. Teorema 2.94. Siano: (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) due spazi topologici, con (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) di Hausdorff, (𝐸, 𝜏𝐸 ) un sottospazio denso in (𝑋, 𝜏) e 𝑓 ∶ 𝐸 → 𝑋 ′ una funzione continua. Allora esiste al più un prolungamento continuo di 𝑓 a tutto 𝑋.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che esistano due funzioni continue e fra loro diverse 𝑓1 , 𝑓2 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ con 𝑓1 |𝐸 = 𝑓2 |𝐸 (= 𝑓 ). Essendo le due funzioni fra loro diverse pur coincidendo in 𝐸, esiste un 𝑥0 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐸 con 𝑓1 (𝑥0 ) ≠ 𝑓2 (𝑥0 ). Siccome 𝜏 ′ è di Hausdorff, esistono due aperti 𝑉1 , 𝑉2 ⊆ 𝑋 ′ fra loro disgiunti e intorni, rispettivamente, di 𝑓1 (𝑥0 ) e di 𝑓2 (𝑥0 ). Per la continuità di 𝑓1 e 𝑓2 , esistono due intorni 𝑈1 , 𝑈2 di 𝑥0 tali che 𝑓1 (𝑈1 ) ⊆ 𝑉1 e 𝑓2 (𝑈2 ) ⊆ 𝑉2 . Posto 𝑈 ∶= 𝑈1 ∩ 𝑈2 , si ha 𝑓1 (𝑈 ) ⊆ 𝑉1 e 𝑓2 (𝑈 ) ⊆ 𝑉2 . Per la densità di 𝐸 in 𝑋, si ha 𝑈 ∩ 𝐸 ≠ ∅. Dato che le due funzioni coincidono su 𝐸, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 ∩ 𝐸, si ottiene 𝑓1 (𝑥) = 𝑓2 (𝑥) ∈ 𝑉1 ∩ 𝑉2 = ∅. Dall’assurdo segue la tesi.
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
78
Questo teorema non garantisce l’esistenza di un prolungamento continuo. Per constatarlo, basta prendere (𝑋, 𝜏) = (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) ∶= (ℝ, 𝜏𝑒 ), 𝐸 = ℚ e la funzione 𝑓 ∶ ℚ → ℝ che vale 0 per 𝑥 < 𝜋 e 1 per 𝑥 > 𝜋. Osserviamo anche che, senza le ipotesi che 𝐸 sia denso in 𝑋 e che la topologia 𝜏 ′ sia 𝑇2 l’unicità del prolungamento non è garantita. Nel primo caso, basta partire da una funzione continua 𝑓 ∶ [0, 1](⊆ (ℝ, 𝜏𝑒 )) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) e osservare che questa ammette infiniti prolungamenti continui a tutto ℝ. Esempio 2.95. Siano 𝑋 ∶= ℕ ∪ {𝑝}, con 𝑝 ∉ ℕ e 𝑋 ′ ∶= 𝑋 ∪ {𝑞}, con 𝑞 ∉ 𝑋 e definiamo le rispettive topologie 𝜏 e 𝜏 ′ . In entrambi gli spazi i punti di ℕ sono isolati. Una base di intorni di 𝑝 in 𝑋 e 𝑋 ′ è data dagli insiemi del tipo 𝐴𝑛 ∶= {𝑝} ∪ {𝑚 ∈ ℕ ∶ 𝑚 > 𝑛}. Una base di intorni di 𝑞 in 𝑋 ′ è data dagli insiemi del tipo 𝐵𝑛 ∶= {𝑞} ∪ {𝑚 ∈ ℕ ∶ 𝑚 > 𝑛}. Lo spazio (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) è 𝑇1 ma non 𝑇2 ; ℕ è denso in entrambi gli spazi. La funzione identica, come applicazione di ℕ ⊆ 𝑋 in 𝑋 ′ è continua ed ammette due prolungamenti a tutto 𝑋 ottenuti da 𝑓 (𝑝) ∶= 𝑝 e, rispettivamente, 𝑓 (𝑝) ∶= 𝑞. ◁ Dal Lemma 2.80 si ha subito il seguente risultato
Corollario 2.96. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ e un punto 𝑧 ∈ cl 𝐸⧵𝐸. Supponiamo poi che l’insieme 𝐿(𝑓 , 𝑧) dei limiti di 𝑓 per 𝑥 → 𝑧 sia diverso da vuoto. Allora, posto 𝑓 (𝑧) = 𝑙, per un qualunque 𝑙 ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑧), si ottiene una funzione continua definita in 𝐸 ∪ {𝑧}.
Questo procedimento prende il nome di prolungamento per continuità di una funzione in un punto. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → ′ 𝑋 , con 𝐸 non chiuso. Supponiamo che, per ogni 𝑧 ∈ 𝐸 ′ ⧵𝐸, con 𝐸 ⊂ 𝐸 ′ ⊆ cl 𝐸, esista un limite di 𝑓 per 𝑥 → 𝑧. Prolunghiamo 𝑓 ad 𝐸 ′ ponendo, per ogni 𝑧 ∈ 𝐸 ′ ⧵ 𝐸, 𝑓 (𝑧) ∶= 𝑙, con 𝑙 ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑧). Si pone in modo naturale il problema di sapere se la funzione così ottenuta è continua in 𝐸 ′ o almeno in 𝐸. Senza ulteriori ipotesi, la risposta è negativa.
Esempio 2.97. Sia 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ 𝐵 ∪ {𝑝}, con 𝐵 ∶= {𝑏𝑚 ∶ 𝑚 ∈ ℕ}, i 𝑏𝑚 ∉ ℕ2 e fra loro distinti e 𝑝 ∉ ℕ2 ∪ 𝐵. In 𝑋 definiamo la topologia 𝜏 dell’Esempio 2.56. I punti di ℕ2 sono isolati. Una base di intorni di 𝑏𝑚 è data dagli insiemi 𝐵𝑚,𝑘 ∶= {𝑏𝑚 } ∪ {(𝑚, 𝑛) ∶ 𝑛 > 𝑘}. Una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi 𝐵𝑘,𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {𝑏𝑚 ∈ 𝐵 ∶ 𝑚 > 𝑘} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ (𝑚 > 𝑘) ∧ (𝑛 > 𝑓 (𝑚))}, con 𝑓 ∶ ℕ → ℕ. Diciamo poi 𝑋 ′ ∶= {0, 1} dotato della topologia 𝜏 ′ di Sierpinski, con 0 punto isolato. Consideriamo, in fine, la funzione 𝑓 ∶ ℕ2 ∪ {𝑝} → 𝑋 ′ di valore costante 0. Questa è, ovviamente continua. Per ogni 𝑚 ∈ ℕ si ha 𝐿(𝑓 , 𝑏𝑚 ) = 𝑋 ′ . Sia ora 𝑓 ∗ ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ la funzione che vale 0 in ℕ2 ∪ {𝑝} e 1 in 𝐵. Si vede subito che 𝑓 ∗ non è continua in 𝑝. ◁ Al riguardo sussiste il seguente risultato.
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
79
Teorema 2.98 (di prolungabilità). Siano dati: due spazi topologici (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ .𝜏 ′ ), di cui il secondo regolare (cfr. Definizione 1.89), un sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋 e una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐸 → 𝑋 ′ . Sia 𝐸 ∗ l’insieme dei punti 𝑧 ∈ 𝑋 per cui esiste il lim𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥). Si ha 𝐸 ⊆ 𝐸 ∗ ⊆ 𝑋. Definendo con 𝐹 il prolungamento di 𝑓 dato da 𝐹 (𝑧) ∶= lim𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥), per ogni 𝑧 ∈ 𝐸 ∗ ⧵ 𝐸, si ottiene una funzione che risulta continua su tutto 𝐸 ∗ . Tale prolungamento è unico.
Dimostrazione. Non è restrittivo supporre che sia 𝐸 ∗ = 𝑋 e non vi siano punti isolati. L’unicità del prolungamento segue dal Teorema 2.94, dato che 𝑋 ′ è 𝑇2 (cfr. Teorema 1.81). Fissiamo un elemento 𝑧 ∈ 𝑋 e verifichiamo la continuità di 𝐹 in tale punto. Sia 𝑊 un intorno di 𝐹 (𝑧) e sia 𝑉 un aperto di 𝑋 ′ tale che 𝐹 (𝑧) ∈ 𝑉 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝑊 (cfr. Teorema 1.91). Per la definizione di 𝐹 , esiste un intorno aperto 𝑈 di 𝑧 tale che 𝑓 (𝑈 ∩ 𝐸) ⊆ 𝑉 . Ci proponiamo di dimostrare che 𝐹 (𝑈 ) ⊆ 𝑊 . Per i punti di 𝐸 la cosa è ovvia. Fissiamo un 𝑦 ∈ 𝑈 ⧵ 𝐸 e verifichiamo che 𝐹 (𝑦) ∈ 𝑊 . A tale scopo, si ricordi che 𝐹 (𝑦) = lim𝑥→𝑦 𝑓 (𝑥). Quindi, per la definizione di limite, per ogni intorno 𝑉 ′ di 𝐹 (𝑦), esiste un aperto 𝑈𝑦 con 𝑦 ∈ 𝑈𝑦 ⊆ 𝑈 tale che 𝑓 (𝐸 ∩ 𝑈𝑦 ) ⊆ 𝑉 ′ . D’altra parte, 𝑓 (𝐸 ∩ 𝑈𝑦 ) ⊆ 𝑓 (𝑈 ∩ 𝐸) ⊆ 𝑉 . Poiché 𝑦 è di accumulazione per 𝐸, si ha 𝐸 ∩ 𝑈𝑦 ≠ ∅ e quindi si conclude che 𝑉 ′ ∩ 𝑉 ≠ ∅. Per l’arbitrarietà di 𝑉 ′ , si ottiene che 𝐹 (𝑦) ∈ cl 𝑉 ⊆ 𝑊 . Nell’Esempio 2.97 lo spazio di arrivo non è nemmeno 𝑇2 . Si pone in modo naturale il problema di sapere se nell’ultimo teorema l’ipotesi che (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) sia regolare può essere indebolita chiedendo solo che sia di Hausdorff. La risposta è negativa come mostrato dall’esempio che segue.
Esempio 2.99. Si considerino lo spazio topologico (ℚ, 𝜏𝑒 ) e quello (𝑋, 𝜏) dell’inclinazione irrazionale (cfr. Esempio 1.90). Ricordiamo brevemente, per comodità, com’è definita la topologia 𝜏. È 𝑋 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ ℚ2 ∶ 𝑦 ≥ 0}. Gli intorni dei punti (𝑥, 0) sono quelli euclidei. Fissiamo una volta per tutte un 𝛼 ∈ ℝ+ ⧵ ℚ. Per ogni 𝑝 = (𝑥, 𝑦) ∈ ℚ2 , con 𝑦 > 0, diciamo 𝑟𝑝 , 𝑠𝑝 le rette per 𝑝 di coefficienti angolari 𝛼 e, rispettivamente, −𝛼. Queste incontrano l’asse reale delle ascisse nei punti, di ascissa irrazionale, 𝑝𝑟 e 𝑝𝑠 . Una base ℬ(𝑝) di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi del tipo {𝑝} ∪ 𝐼𝑝𝑟 ∪ 𝐼𝑝𝑠 , dove 𝐼𝑝𝑟 e 𝐼𝑝𝑠 sono due intervalli razionali di centro rispettivamente 𝑝𝑟 e 𝑝𝑠 . Sappiamo che lo spazio (𝑋, 𝜏) è 𝑇2 , ma non 𝑇3 . Sia ora 𝑓 ∶ ℚ → 𝑋 la funzione definita da 𝑓 (𝑥) ∶= (𝑥, 0). Essa è chiaramente continua. Sia 𝑊 l’insieme dei 𝑤 ∈ ℝ ⧵ ℚ tali che la retta di ℝ2 per (𝑤, 0) e coefficiente angolare 𝛼 passa per un (unico) punto 𝑝(𝑤) ∈ 𝑋. Si constata facilmente che, per ogni singolo 𝑤 ∈ 𝑊 , si ha lim𝑥→𝑤 𝑓 (𝑥) = 𝑝(𝑤). Poniamo ora 𝐸 ∗ ∶= ℚ∪𝑊 e consideriamo il prolungamento 𝑓 ∗ ∶ 𝐸 ∗ → 𝑋 di 𝑓 definito da 𝑓 ∗ (𝑤) ∶= 𝑝(𝑤), per ogni 𝑤 ∈ 𝑊 . Si vede facilmente che questo prolungamento non è continuo già in ℚ, anzi non è continuo in alcun punto di 𝐸 ∗ . Fissiamo uno 𝑧 ∈ 𝐸 ∗ e un intorno di base 𝑉 di 𝑓 ∗ (𝑧) in 𝑋. Osserviamo che 𝑉 contiene un sottoinsieme di punti del tipo (𝑥, 0) ∈ ℚ2 con 𝑧 − 𝛿 < 𝑥 < 𝑧 + 𝛿, e il punto
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
80
𝑝 ∶= 𝑓 ∗ (𝑧) se è 𝑧 ∉ ℚ. Essendo 𝑊 denso in ℝ, in ogni intervallo reale di centro 𝑧 cadono punti 𝑤 ∈ 𝑊 , con 𝑤 ≠ 𝑧, per i quali si ha 𝑓 ∗ (𝑤) ∉ 𝑉 . ◁ Un’applicazione del Teorema 2.98 all’Analisi si ha ogni qualvolta si considera una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐴 → ℝ definita su un sottoinsieme aperto (non vuoto) di ℝ𝑛 . Dato un qualunque insieme 𝐵 con 𝐴 ⊂ 𝐵 ⊆ cl 𝐴, esiste un unico prolungamento continuo di 𝑓 su 𝐵 se e solo se, per ogni 𝑧 ∈ 𝐵 ⧵ 𝐴 esiste (finito) il limite lim 𝑓 (𝑥). 𝑥→𝑧 𝑥∈𝐴
Si tenga presente che, nel Teorema 2.98 è essenziale l’ipotesi che, per ogni 𝑧 ∈ 𝐸 ∗ ⧵ 𝐸 esista il lim𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥). Per rendersene conto basta considerare già funzioni reali di variabile reale come le seguenti : 𝑓 (𝑥) ∶= sign 𝑥, 𝑔(𝑥) ∶= 1/𝑥, ℎ(𝑥) ∶= sin(1/𝑥). Queste sono definite in un sottoinsieme denso in ℝ, ma non sono prolungabili in 0, dato che nessuna di esse ha limite (finito) per 𝑥 → 0. Negli esempi precedenti ci siamo occupati del problema di estendere una funzione continua da un certo dominio alla sua chiusura. Se vogliamo, tuttavia, estendere la funzione su tutto lo spazio, sarà utile discutere anche il problema della prolungabilità di funzioni continue definite su un sottospazio chiuso. Il risultato forse più importante in questa direzione, anche dal punto di vista delle sue applicazioni all’Analisi, è il Teorema di Tietze (o di Tietze-Urysohn), che afferma che ogni funzione continua definita su un sottoinsieme chiuso di uno spazio normale e a valori in ℝ ammette un prolungamento continuo (cfr. Teorema 2.101). Per pervenire a tale teorema, premettiamo un risultato (il Lemma di Urysohn) che, come vedremo riveste un ruolo fondamentale anche in connessione con gli assiomi di separazione. Teorema 2.100 (Lemma di Urysohn). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico 𝑇4 [normale], 𝐴, 𝐵 ⊂ 𝑋 due sottoinsiemi chiusi, non vuoti e disgiunti. Per ogni coppia di numeri reali 𝑎, 𝑏, con 𝑎 < 𝑏, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [𝑎, 𝑏] tale che 𝑓 (𝑥) = 𝑎, ∀ 𝑥 ∈ 𝐴, 𝑓 (𝑥) = 𝑏, ∀ 𝑥 ∈ 𝐵. Dimostrazione. Non sarà restrittivo supporre che sia [𝑎, 𝑏] = [0, 1] =∶ 𝐼. Ad ogni razionale 𝑟 ∈ 𝐼 assoceremo un aperto 𝑈𝑟 ⊂ 𝑋 in modo che siano soddisfatte le seguenti condizioni: 1. cl 𝑈𝑟 ⊆ 𝑈𝑠 , per 𝑟 < 𝑠; 2. 𝐴 ⊆ 𝑈0 e 𝐵 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝑈1 . Per definire questi aperti, ordiniamo i razionali di 𝐼 in una successione (𝑞𝑛 )𝑛 in modo che sia 𝑞0 = 0 e 𝑞1 = 1. Pertanto i 𝑞𝑛 , con 𝑛 ≥ 2, esauriscono i razionali di int 𝐼. Definiamo poi in modo induttivo la famiglia {𝑈𝑟 }𝑟∈ℚ∩𝐼 , nel seguente modo. Dall’ipotesi che lo spazio sia normale e dal Teorema 1.105 segue che esiste un aperto 𝑈 tale che 𝐴 ⊆ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝐵.
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue 𝑈0 ∶= 𝑈 ,
Definiamo quindi
81
𝑈1 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐵.
Essendo la proprietà 2 verificata, fissiamo l’attenzione sulla 1 che possiamo reinterpretare come: cl 𝑈𝑞𝑖 ⊆ 𝑈𝑞𝑗 , per 𝑞𝑖 < 𝑞𝑗 . (2.2)
(Si osservi che non è detto che sia 𝑞𝑖 < 𝑞𝑗 quando è 𝑖 < 𝑗. Tuttavia, ciò è vero per 𝑖 = 0 o 𝑗 = 1.) Definiremo gli 𝑈𝑞𝑖 e verificheremo la (2.2) per induzione, introducendo la proprietà, dipendente dall’indice 𝑛 ≥ 1: cl 𝑈𝑞𝑖 ⊆ 𝑈𝑞𝑗 , per 𝑞𝑖 < 𝑞𝑗 , e 𝑖, 𝑗 ≤ 𝑛.
(𝑃𝑛 )
Il caso 𝑛 = 1 è stato appena risolto. Supponiamo ora di aver trovato gli insiemi 𝑈𝑞0 , 𝑈𝑞1 , … , 𝑈𝑞𝑘 soddisfacenti alla (𝑃𝑛 ) per 𝑛 = 𝑘, e descriviamo come si definisce 𝑈𝑞𝑘+1 . Sia 𝑞𝑙 ∶= max {𝑞𝑖 ∶ (0 ≤ 𝑖 ≤ 𝑘) ∧ (𝑞𝑖 < 𝑞𝑘+1 )} ;
𝑞𝑚 ∶= min {𝑞𝑖 ∶ (0 ≤ 𝑖 ≤ 𝑘) ∧ (𝑞𝑖 > 𝑞𝑘+1 )} .
Per definizione, risulta 𝑞𝑙 < 𝑞𝑚 e, pertanto, si ha cl 𝑈𝑞𝑙 ⊆ 𝑈𝑞𝑚 . Ancora per il Teorema 1.105, esiste un aperto 𝑉 tale che cl 𝑈𝑞𝑙 ⊆ 𝑉 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝑈𝑞𝑚 .
Ponendo, in fine, 𝑈𝑞𝑘+1 ∶= 𝑉 , abbiamo che gli aperti 𝑈𝑞0 , 𝑈𝑞1 , … , 𝑈𝑞𝑘 , 𝑈𝑞𝑘+1 soddisfano alla (𝑃𝑛 ) per 𝑛 = 𝑘 + 1. Definiamo ora la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝐼 ponendo 𝑓 (𝑥) ∶=
inf {𝑟 ∈ 𝐼 ∩ ℚ ∶ 𝑥 ∈ 𝑈𝑟 } , se 𝑥 ∈ 𝑈1 , se 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑈1 {1,
Dalle relazioni 𝐴 ⊆ 𝑈0 e 𝐵 = 𝑋 ⧵ 𝑈1 si ha subito che è 𝑓 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝐴 e 𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐵. Resta da provare che 𝑓 è continua. Dato 𝑥0 ∈ 𝑋 e posto 𝑦0 ∶= 𝑓 (𝑥0 ) ∈ 𝐼, verifichiamo che, per ogni 𝜀 > 0, l’insieme 𝑓 −1 (]𝑦0 − 𝜀, 𝑦0 + 𝜀[ ∩𝐼) è un intorno di 𝑥0 . Per dimostrare ciò sarà sufficiente verificare che le controimmagini degli intervalli [0, 𝛽[ e ]𝛼, 1], con 0 ≤ 𝛼 < 1 e 0 < 𝛽 ≤ 1 sono aperti e poi considerare il caso 𝛼 < 𝑦0 < 𝛽, nell’ipotesi che sia 0 < 𝑦0 < 1. Consideriamo per prima la relazione 𝑓 (𝑥) < 𝛽. Per le proprietà dell’estremo inferiore, essa è soddisfatta se e solo se esiste un 𝑞 ∈ ℚ∩𝐼 tale che (𝑞 < 𝛽)∧(𝑥 ∈ 𝑈𝑞 ). Si ha, pertanto 𝑓 −1 ([0, 𝛽[) = ⋃𝑟 𝛼. Sempre per il fatto che 𝑓 (𝑥) è definito come un estremo inferiore, la diseguaglianza è soddisfatta se e solo se esiste un 𝑞 ∈ ℚ ∩ 𝐼 tale che (𝑞 > 𝛼) ∧ (𝑥 ∉ 𝑈𝑞 ). Ricordando la proprietà 1, esiste un 𝑞 ′ ∈ ℚ ∩ 𝐼 tale che (𝑞 > 𝑞 ′ > 𝛼) ∧ (𝑥 ∉ cl 𝑈𝑞′ ), da cui 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ cl 𝑈𝑞′ che è un insieme aperto. Si ha, pertanto 𝑓 −1 (]𝛼, 1]) = ⋃𝑟>𝛼 (𝑋 ⧵ cl 𝑈𝑟 ), che è chiaramente un aperto.
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
82
Teorema 2.101 (di estensione di Tietze). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico 𝑇4 [normale], 𝑀 ⊂ 𝑋 un sottoinsieme chiuso e 𝑓 ∶ 𝑀 → (ℝ, 𝜏𝑒 ) una funzione continua. Esiste allora un prolungamento continuo di 𝑓 a tutto 𝑋. Dimostrazione. Per prima cosa, assumiamo che l’insieme immagine 𝑓 (𝑀) sia limitato. Non sarà restrittivo supporre che sia 𝑓 (𝑀) ⊆ [−1, 1]. Cominciamo con l’osservare che per ogni funzione continua ℎ ∶ 𝑀 → ℝ per cui sia |ℎ(𝑥)| ≤ 𝑐, ∀𝑥 ∈ 𝑀, con 𝑐 > 0, esiste una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ tale che 1 2 |𝑔(𝑥)| ≤ 𝑐, ∀𝑥 ∈ 𝑋; |𝑔(𝑥) − ℎ(𝑥)| ≤ 𝑐, ∀𝑥 ∈ 𝑀. 3 3
Infatti, gli insiemi 𝐴 ∶= ℎ−1 [−𝑐, −𝑐/3] e 𝐵 ∶= ℎ−1 [𝑐/3, 𝑐] sono disgiunti e chiusi in 𝑀 e quindi chiusi anche in 𝑋, essendo 𝑀 chiuso. Per il Lemma di Urysohn, esiste una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝐼 ∶= [−𝑐/3, 𝑐/3] tale che 𝑔(𝐴) ⊆ {−𝑐/3} e 𝑔(𝐵) ⊆ {𝑐/3}. (Si tenga presente che gli insiemi 𝐴 e 𝐵 potrebbero essere anche vuoti. Se uno solo dei due insiemi è vuoto, si prende come 𝑔 una funzione a valore costante −𝑐/3 o 𝑐/3; se sono tutti due vuoti si prende la funzione nulla.) È immediato verificare che 𝑔 soddisfa alle proprietà richieste. Applicando questa osservazione alla funzione 𝑓 per 𝑐 = 1, si ottiene una funzione continua 𝑔1 ∶ 𝑋 → [−1/3, 1/3] tale che |𝑓 (𝑥) − 𝑔1 (𝑥)| ≤ 2/3, ∀𝑥 ∈ 𝑀. Applichiamo lo stesso procedimento alla funzione 𝑓 − 𝑔1 |𝑀 e per 𝑐 = 2/3, si ottiene una funzione continua 𝑔2 ∶ 𝑋 → [−2/9, 2/9], tale che 4 |𝑓 (𝑥) − 𝑔1 (𝑥) − 𝑔2 (𝑥)| ≤ 9 , ∀𝑥 ∈ 𝑀.
Ripetendo questo procedimento in modo induttivo, si trova una successione di funzioni continue (𝑔𝑛 )𝑛 , da 𝑋 in ℝ tali che 2𝑛−1 |𝑔𝑛 (𝑥)| ≤ 3𝑛 ∀𝑥 ∈ 𝑋,
𝑛
2𝑛 𝑓 (𝑥) − 𝑔𝑖 (𝑥) ≤ 𝑛 , ∀𝑥 ∈ 𝑀. ∑ | | 3 𝑖=1
Definiamo, in fine, la funzione 𝐹 ∶ 𝑋 → ℝ ponendo 𝐹 (𝑥) ∶=
∞
∑ 𝑖=1
𝑔𝑖 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋.
Dato che la serie di termine generale 2𝑛−1 /3𝑛 è convergente, per il Criterio di Weierstrass 2.12, si ha che la serie ∑∞ 𝑖=1 𝑔𝑖 (𝑥) è uniformemente convergente in 𝑋 𝑛−1 𝑛 e che, quindi, 𝐹 è continua. Si ha poi 𝐹 (𝑋) ⊆ [−1, 1], essendo ∑∞ /3 = 1. 𝑖=1 2 Risulta, inoltre, 𝐹 (𝑥) = 𝑓 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑀. Abbiamo così ottenuto un’estensione continua di 𝑓 su tutto 𝑋. Fin qui il teorema è dimostrato assumendo che l’insieme immagine sia limitato. In generale, il prolungamento 𝐹 di 𝑓 avrà valori in un intervallo chiuso e
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
83
limitato (minimale) contenente 𝑓 (𝑀). Supponiamo ora che 𝑓 (𝑀) sia illimitato. Consideriamo la funzione 𝜑 ∶ 𝑀 →] − 𝜋/2, 𝜋/2[ definita da 𝜑(𝑥) ∶= arctan 𝑓 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑀.
Per quanto precede, questa ammette un prolungamento continuo Φ ∶ 𝑋 → [−𝜋/2, 𝜋/2]. L’insieme 𝐿 ∶= Φ−1 ({−𝜋/2, 𝜋/2}) è un chiuso di 𝑋 (eventualmente vuoto) disgiunto da 𝑀. Per il Lemma di Urysohn, esiste una funzione continua 𝑘 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑘(𝐿) ⊆ {0} e 𝑘(𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝑀. È immediato ora verificare che la funzione 𝐹 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝐹 (𝑥) ∶= tan(𝑘(𝑥)Φ(𝑥)), ∀𝑥 ∈ 𝑋
è ben definita, continua e, inoltre, per 𝑥 ∈ 𝑀, si ha 𝐹 (𝑥) = tan(1 ⋅ 𝜑(𝑥)) = tan arctan 𝑓 (𝑥) = 𝑓 (𝑥). Abbiamo così ottenuto, anche in questo caso, il prolungamento continuo richiesto. Osserviamo che, come già per altri risultati (cfr. i Teoremi 1.91, 1.104, 1.105), anche gli ultimi due teoremi diventano interessanti nel caso degli spazi anche 𝑇1 . Sottolineiamo anche che, nel corso della dimostrazione del Teorema di Tietze, abbiamo verificato che, se una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑀(⊆ (𝑋, 𝜏)) → (ℝ, 𝜏𝑒 ), 𝑀 chiuso, assume i suoi valori in un intervallo limitato 𝐼, allora esiste un prolungamento continuo 𝐹 di 𝑓 a 𝑋 per cui è 𝐹 (𝑋) ⊆ cl 𝐼. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸, 𝐹 due sottoinsiemi non vuoti, chiusi e disgiunti di 𝑋. Interessa sapere se esistono funzioni continue 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) che valgono 0 in 𝐸 e 1 in 𝐹 . Questo problema è un caso più generale di quello finora affrontato in questo paragrafo, dato che non stiamo assumendo l’ipotesi che lo spazio sia 𝑇4 . Osserviamo anche che questo problema è strettamente collegato a quello del prolungamento. Infatti, partiamo dalla funzione 𝑓0 ∶ 𝑀(⊆ 𝑋) → ℝ, con 𝑀 ∶= 𝐸 ∪ 𝐹 che vale 0 in 𝐸 e 1 in 𝐹 . La funzione 𝑓0 è continua rispetto alla topologia 𝜏𝑀 . Il nostro problema equivale a chiedere se 𝑓0 è prolungabile ad una funzione continua 𝑓 definita su tutto 𝑋. Supponiamo che una tale funzione 𝑓 esista e poniamo 𝐻 ∶= 𝑓 −1 ({0}) e 𝐾 ∶= 𝑓 −1 ({1}). Gli insiemi disgiunti 𝐻 e 𝐾 devono contenere, rispettivamente 𝐸 e 𝐹 e devono essere chiusi per la continuità di 𝑓 , dato che in (ℝ, 𝜏𝑒 ) i punti sono chiusi. Ne viene che nel nostro problema è essenziale supporre che gli insiemi di partenza siano chiusi in 𝜏. Interessa, in particolare, il caso in cui uno o entrambi gli insiemi 𝐸, 𝐹 sono dei singoletti. Sia dunque 𝐸 ∶= {𝑝}. Per quanto appena osservato, se 𝑓 è una funzione di quelle cercate, deve essere 𝑓 (𝑥) = 0 per ogni 𝑥 ∈ cl{𝑝} e allora possiamo sostituire {𝑝} con cl{𝑝}. In conclusione, ha senso pensare a singoletti solo se lo spazio è 𝑇1 . Definizione 2.102. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Si dice che: 1. (𝑋, 𝜏) separa i punti se, per ogni 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋, con 𝑝 ≠ 𝑞, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (ℝ, 𝜏𝑒 ), tale che 𝑓 (𝑝) = 0 e 𝑓 (𝑞) = 1.
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
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2. (𝑋, 𝜏) separa i punti dai chiusi se, per ogni 𝑝 ∈ 𝑋 e ogni chiuso (non vuoto) 𝐶 ⊆ 𝑋, con 𝑝 ∉ 𝐶, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (ℝ, 𝜏𝑒 ), tale che 𝑓 (𝑝) = 0 e 𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐶. 3. (𝑋, 𝜏) separa i chiusi se, per ogni coppia di chiusi (non vuoti) disgiunti 𝐶, 𝐷 ⊆ 𝑋, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (ℝ, 𝜏𝑒 ), tale che 𝑓 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝐶 e 𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐷. ◁
Osserviamo ancora che, se (𝑋, 𝜏) separa gli insiemi 𝐸 e 𝐹 , ossia se esiste una funzione reale continua che vale 0 in 𝐸 e 1 in 𝐹 , le controimmagini degli aperti ] − ∞, 1/2[ e ]1/2, +∞[ sono due aperti disgiunti contenenti rispettivamente 𝐸 e 𝐹 . Analogamente per i chiusi ] − ∞, 1/3] e [2/3, +∞[. Da ciò segue immediatamente che: Lemma 2.103. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Si ha che: 1. Se (𝑋, 𝜏) separa i punti, allora è almeno 𝑇 1 e quindi 𝑇2 . 2
2
2. Se (𝑋, 𝜏) separa i punti dai chiusi, allora è almeno 𝑇3 . 3. Se (𝑋, 𝜏) separa i chiusi, allora è almeno 𝑇4 .
Dalla Proposizione 2.103.3 si ottiene che il Teorema 2.100 può essere così riformulato: Teorema 2.104 (Lemma di Urysohn). Uno spazio topologico [Uno spazio topologico 𝑇1 ] separa i chiusi se e solo se è 𝑇4 [normale]. Esistono, per contro, spazi 𝑇2 che non separano i punti.
Esempio 2.105. Sia ancora (𝑋, 𝜏) lo spazio topologico 𝑇2 dell’inclinazione irrazionale (cfr. Esempi 1.90 e 2.99). Fissiamo in 𝑋 due punti 𝑝, 𝑞, entrambi con ordinata maggiore di 0 e supponiamo, per assurdo, che esista una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → (ℝ, 𝜏𝑒 ) con 𝑓 (𝑝) = 0 e 𝑓 (𝑞) = 1. Ne viene che i due insiemi 𝑓 −1 (] − 1/4, 1/4[) e 𝑓 −1 (]3/4, 5/4[) devono essere due aperti disgiunti di 𝑋 contenenti rispettivamente {𝑝}∪𝐼𝑝𝑟 ∪𝐼𝑝𝑠 e {𝑞}∪𝐼𝑞𝑟 ∪𝐼𝑞𝑠 , con il solito significato dei simboli. Analogamente, gli insiemi 𝑓 −1 ([−1/3, 1/3]) e 𝑓 −1 ([2/3, 4/3]) devono essere due chiusi disgiunti di 𝑋 contenenti rispettivamente cl 𝐼𝑝𝑟 e cl 𝐼𝑞𝑠 , ma questi due ultimi insiemi non hanno intersezione vuota. ◁ Esistono anzi spazi completamente Hausdorff e che non separano i punti. Esempio 2.106 (Quadrato di Arens). Consideriamo il seguente insieme 𝑋 ∶= (]0, 1[2 ∩ℚ2 ⧵ {(1/2, 𝑦) ∶ 𝑦 ∈ ℚ})∪
∪ {(0, 0), (1, 0)} ∪ {(1/2, 𝑟√2) ∶ (𝑟 ∈ ℚ) ∧ (0 < 𝑟√2 < 1)} .
In 𝑋 definiamo la seguente topologia 𝜏. Per i punti razionali interni a [0, 1]2 , gli intorni sono quelli della topologia euclidea. Una base di intorni di (0, 0) è data dagli insiemi del tipo 𝐴𝑛 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝑋 ∶ (𝑥 < 1/4) ∧ (𝑦 < 1/𝑛)}. Analogamente, una base di intorni di (1, 0) è data dagli insiemi del tipo 𝐵𝑛 ∶=
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{(𝑥, 𝑦) ∈ 𝑋 ∶ (𝑥 > 3/4) ∧ (𝑦 < 1/𝑛)}. In fine, una base di intorni di un punto (1/2, 𝑟√2) è data dagli insiemi del tipo 𝐶𝑛 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝑋 ∶ (1/4 < 𝑥 < 3/4) ∧ (|𝑦 − 𝑟√2| < 1/𝑛)} .
Lasciamo per esercizio al lettore la cura di verificare che lo spazio (𝑋, 𝜏) è completamente Hausdorff. Supponiamo, per assurdo, che sia anche 𝑇3 . Sia 𝐴𝑛 un intorno aperto di base dell’origine. Per il Teorema 1.91, 𝐴𝑛 deve contenere la chiusura 𝐶 di un aperto contenente (0, 0); ma in 𝐶 cadono punti di ascissa 1/4 che non appartengono ad 𝐴𝑛 . Proviamo, in fine, che (𝑋, 𝜏) non separa i punti. Supponiamo, ancora per assurdo, che esista una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → (ℝ, 𝜏𝑒 ) con 𝑓 (0, 0) = 0 e 𝑓 (1, 0) = 1. Gli insiemi 𝐻 ∶= 𝑓 −1 (] − 1/4, 1/4[) e 𝐾 ∶= 𝑓 −1 (]3/4, 5/4[) sono due aperti disgiunti contenenti, rispettivamente, (0, 0) e (1, 0). Esiste un 𝑛 ∈ ℕ+ tale che 𝐴𝑛 ⊆ 𝐻 e 𝐵𝑛 ⊆ 𝐾. Fissiamo uno 𝑧 ∶= (1/2, 𝑟√2) con 0 < 𝑟√2 < 1/𝑛. Deve essere (𝑓 (𝑧) > 1/4) ∨ (𝑓 (𝑧) < 3/4). Sia, per esempio 𝑓 (𝑧) > 1/4. (L’altro caso si tratta in modo analogo.) Esiste un intervallo chiuso 𝐼 ∶= [𝑐, 𝑑] di centro 𝑓 (𝑧) con 𝑐 > 1/4. In 𝑓 −1 (𝐼) ci sono punti del tipo (1/4, 𝑦), con 𝑦 < 1/𝑛, contro il fatto che dovrebbe essere 𝑓 −1 (𝐼) ∩ cl 𝐻 = ∅. Infatti, da 𝑢 ∈ 𝑓 −1 (𝐼) ∩ cl 𝐻 si otterrebbe (𝑓 (𝑢) > 1/4) ∧ (𝑓 (𝑢) ≤ 1/4). ◁ Esistono spazi topologici regolari che non separano i punti dai chiusi.
Esempio 2.107. Sia (𝑋, 𝜏) lo spazio topologico regolare dell’Esempio 1.95. È dunque 𝑋 = ℝ; i punti razionali sono isolati, mentre una base di intorni di un punto irrazionale 𝛼 è data dagli insiemi del tipo {𝛼}∪(𝐼 ∩ℚ), con 𝐼 intervallo non degenere di centro 𝛼. Fissiamo un 𝛼 ∈ ℝ ⧵ ℚ e poniamo 𝐶 ∶= ℝ ⧵ (ℚ ∪ {𝛼}). 𝐶 è chiaramente chiuso. Supponiamo, per assurdo, che esista una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ con 𝑓 (𝛼) = 0 e 𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐶. L’insieme 𝐴 ∶= 𝑓 −1 (] − 1/2, 1/2[) deve essere un aperto contenente 𝛼. 𝐴 deve quindi contenere un insieme del tipo 𝐼 ∩ ℚ, con 𝐼 intervallo di centro 𝛼. L’insieme 𝐵 ∶= 𝑓 −1 (]1/2, 3/2[) deve essere un aperto disgiunto da 𝐴 contenente tutti i punti irrazionali diversi da 𝛼 e, in particolare, quelli che stanno in 𝐼. Sia 𝛽 ∈ (𝐵 ∩ 𝐼) ⧵ ℚ. Dovrebbe esistere un intorno aperto 𝑈 di 𝛽 con 𝑓 (𝑈 ) ⊆ ]1/2, 3/2[, contro il fatto che è 𝑈 ∩ 𝐴 ∩ ℚ ≠ ∅. ◁ Esistono addirittura spazi regolari che non separano nemmeno i punti. Un esempio verrà prodotto più avanti nel Capitolo sugli ordinali (Il cavatappi di Tychonoff ). Possiamo invece mostrare con un esempio che esistono spazi non regolari che separano i punti.
Esempio 2.108. Sia 𝑋 l’insieme sostegno dell’Esempio 2.56, cioè 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ 𝐵 ∪ {𝑝}, con 𝐵 ∶= {𝑏𝑚 ∶ 𝑚 ∈ ℕ}, i 𝑏𝑚 ∉ ℕ2 e fra loro distinti e 𝑝 ∉ ℕ2 ∪ 𝐵. In 𝑋 definiamo la seguente topologia 𝜏. I punti di ℕ2 sono isolati. Una base di intorni di 𝑏𝑚 è data dagli insiemi del tipo 𝐵𝑚,𝑘 ∶= {𝑏𝑚 } ∪ {(𝑚, 𝑛) ∶ 𝑛 > 𝑘}. Una base di
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intorni di 𝑝 è data dagli insiemi del tipo 𝑈𝑘 ∶= {𝑝} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ 𝑚, 𝑛 ≥ 𝑘}. Lo spazio (𝑋, 𝜏) è chiaramente di Hausdorff, ma non è regolare. Infatti, fissiamo 𝑘 ∈ ℕ e il chiuso 𝐶 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈𝑘 . Dimostriamo che il chiuso 𝐶 e il punto 𝑝 non possono essere separati da aperti. Infatti, un qualunque aperto 𝐴 contenente 𝑝 deve contenere un insieme del tipo 𝑈𝑙 , con 𝑙 > 𝑘. D’altra parte, ogni aperto 𝐵 contenente 𝐶 deve contenere dei punti del tipo 𝑏𝑠 , con 𝑠 > 𝑙 e quindi anche degli elementi del tipo (𝑠, 𝑟), con 𝑟 > 𝑙 che stanno in 𝐴. Dimostreremo ora che, dati due punti distinti qualunque 𝑦, 𝑧 ∈ 𝑋, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] che li separa. Infatti, fissati i due punti, almeno uno dei due non è 𝑝; sia, per esempio, 𝑦. Per come è stata definita la topologia, esiste un intorno 𝐸 di 𝑦 che è contemporaneamente aperto e chiuso e non contiene 𝑧. La funzione caratteristica di 𝐸, definita da 𝑓 (𝑥) = 1 in 𝐸 e 𝑓 (𝑥) = 0 in 𝑋 ⧵ 𝐸 è continua e separa i due punti. ◁ Definizione 2.109. Uno spazio topologico che separa i punti è detto di Urysohn Uno spazio che separa i punti dai chiusi è detto 𝑇 1 . Uno spazio che sia 𝑇0 e 𝑇
1 3 2
3
2
è detto di Tychonoff o completamente regolare.◁
Si ha immediatamente il seguente risultato Corollario 2.110. Ogni spazio normale è completamente regolare. Concludiamo il capitolo con alcune osservazioni sul Lemma di Urysohn e il Teorema di Tietze. Come si è visto, il Lemma di Urysohn garantisce l’esistenza di funzioni continue che assumono il valore 0 su un chiuso 𝐴 e il valore 1 su un chiuso 𝐵 disgiunto dal precedente, in uno spazio normale. Potrebbe essere comunque di un certo interesse stabilire se, o sotto quali condizioni, si ha 𝐴 = 𝑓 −1 ({0}) e 𝐵 = 𝑓 −1 ({1}). Per rispondere a questa domanda premettiamo la seguente definizione. Definizione 2.111. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un sottoinsieme di 𝑋. Si dice che 𝐸 è un insieme 𝐺𝛿 se è l’intersezione di una famiglia numerabile di aperti. Dualmente, si dice che 𝐸 è un insieme 𝐹𝜎 se è l’unione di una famiglia numerabile di chiusi. ◁ Dalla definizione, segue immediatamente che il complementare di un insieme 𝐺𝛿 è un 𝐹𝜎 e viceversa. Inoltre, unioni numerabili di 𝐹𝑠 sono ancora 𝐹𝜎 e intersezioni numerabili di 𝐺𝛿 sono ancora 𝐺𝛿 . Naturalmente, nulla si può dire a priori sul fatto che un 𝐹𝜎 o un 𝐺𝛿 sia aperto o chiuso. Per esempio il sottoinsieme ℚ di (ℝ, 𝜏𝑒 ) è un 𝐹𝜎 e quindi il sottoinsieme degli irrazionali è un 𝐺𝛿 . Il fatto che l’insieme ℚ non sia un 𝐺𝛿 è una proprietà più difficile da dimostrare. Lo verificheremo nel prossimo Capitolo (cfr. Corollario 3.64).
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
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Come conseguenza del Lemma di Urysohn possiamo ora stabilire il seguente risultato: Corollario 2.112. Un sottoinsieme non vuoto 𝐴 di uno spazio normale (𝑋, 𝜏) è un chiuso 𝐺𝛿 se e solo se esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓 −1 ({0}) = 𝐴.
Dimostrazione. Proviamo il “se”. Supponiamo che esista una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓 −1 ({0}) = 𝐴. 𝐴 è banalmente chiuso, inoltre, poiché il singoletto {0} è l’intersezione dalla famiglia numerabile degli intervalli −1 aperti 𝐼𝑛 ∶= ]−1/𝑛, 1/𝑛[, abbiamo anche 𝐴 = ⋂∞ 𝑛=1 𝑓 (𝐼𝑛 ); dunque 𝐴 si esprime come intersezione numerabile di aperti. Osserviamo che, in questa prima parte della dimostrazione, non si è usato il fatto che lo spazio sia normale. Per provare il “solo se”, supponiamo che 𝐴 sia un chiuso 𝐺𝛿 dello spazio normale 𝑋. Quindi, il complementare di 𝐴 si può esprimere come una riunione numerabile di chiusi 𝐶𝑛 . Applicando, per ogni 𝑛 ≥ 1, il Lemma di Urysohn alla coppia di chiusi 𝐴, 𝐶𝑛 , si ottiene una successione di funzioni continue 𝑓𝑛 ∶ 𝑋 → [0, 1] tali che 𝑓𝑛 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝐴 e 𝑓𝑛 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐶𝑛 . Definiamo ora la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] ponendo 𝑓 (𝑥) ∶=
𝑓𝑛 (𝑥) . ∑ 2𝑛 𝑛=1 ∞
Siccome, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni 𝑛 ≥ 1 è 0 ≤ 𝑓𝑛 (𝑥) ≤ 1, si ha che, per ogni 𝑥 la serie converge a un valore di [0, 1]. Inoltre, per il Criterio di Weierstrass 2.12, la convergenza è uniforme. Si ottiene così che la funzione 𝑓 è ben definita ed è continua. Ora, per ogni 𝑥 ∈ 𝐴 e per ogni 𝑛 ≥ 1, si ha 𝑓𝑛 (𝑥) = 0, da cui 𝑓 (𝑥) = 0. Per contro, dato un 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐴, esiste un 𝑛 per cui è 𝑥 ∈ 𝐶𝑛 , da cui 𝑓𝑛 (𝑥) = 1 e 𝑓 (𝑥) > 0. Il corollario appena visto suggerisce di considerare in particolare gli spazi topologici normali in cui tutti i chiusi sono 𝐺𝛿 o, in altri termini, gli spazi per cui ogni chiuso è l’insieme degli zeri di un’opportuna funzione continua a valori in [0, 1]. Definizione 2.113. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), un sottoinsieme 𝐶 ⊆ 𝑋 è detto uno zero-insieme se esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝐶 = 𝑓 −1 ({0}). Uno spazio topologico è detto perfettamente normale se è normale e tutti i suoi chiusi (non vuoti) sono degli zero-insiemi. ◁ Dal Corollario 2.112 si ha immediatamente che Uno spazio topologico normale è perfettamente normale se e solo se tutti i suoi chiusi sono 𝐺𝛿 . Nell’ambito degli spazi normali, abbiamo visto due casi speciali: quello degli spazi completamente normali (𝑇1 e 𝑇5 , cfr. Definizione 1.109) e quello appena considerato degli spazi perfettamente normali. Faremo vedere che quest’ultima
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
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proprietà è strettamente più fine della precedente. Premettiamo il seguente risultato. Teorema 2.114 (di Vedenissoff). In uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) che sia 𝑇1 le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. (𝑋, 𝜏) è perfettamente normale. 2. Tutti i chiusi (non vuoti) di 𝑋 sono zero-insiemi. 3. Per ogni coppia di chiusi disgiunti e non vuoti 𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓 −1 ({0}) = 𝐴 e 𝑓 −1 ({1}) = 𝐵. Dimostrazione. 1 ⇔ 2. Ovvio. 2 ⇒ 3. Dati 𝐴, 𝐵 chiusi, esistono due funzioni continue 𝑔𝐴 , 𝑔𝐵 ∶ 𝑋 → [0, 1] tali che 𝐴 = 𝑔𝐴−1 ({0}) e 𝐵 = 𝑔𝐵−1 ({0}). Se 𝐴 e 𝐵 sono disgiunti, allora 𝑔𝐴 e 𝑔𝐵 non sono mai contemporaneamente nulle. Risulta allora ben definita la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] espressa da 𝑓 (𝑥) ∶=
𝑔𝐴 (𝑥) 𝑔𝐴 (𝑥) + 𝑔𝐵 (𝑥)
che soddisfa alle condizioni richieste. 3 ⇒ 2. Si vede facilmente che uno spazio 𝑇1 che soddisfa alla (3) è normale. Sia ora 𝐶 ⊆ 𝑋 un chiuso non vuoto e arbitrario. Se 𝐶 è tutto 𝑋, esso è l’insieme degli zeri della funzione nulla. Se 𝐶 ⊂ 𝑋, prendiamo un punto 𝑝 ∉ 𝐶 che, come singoletto, è un chiuso disgiunto da 𝐶. Per la (3), esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] che vale 0 esattamente su 𝐶 e vale 1 solo su 𝑝. Ne viene che 𝐶 è uno zero-insieme. Teorema 2.115. 1. Ogni sottospazio non vuoto di uno spazio perfettamente normale è ancora perfettamente normale 2. Ogni spazio topologico perfettamente normale è completamente normale. Dimostrazione. 1. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio perfettamente normale e consideriamo un suo arbitrario sottospazio non vuoto (𝐸, 𝜏𝐸 ). Intanto 𝐸 è banalmente 𝑇1 . Sia 𝐹 ⊆ 𝐸 un arbitrario chiuso (non vuoto) in 𝜏𝐸 . Per definizione, esiste un chiuso 𝐶 di 𝑋 per cui è 𝐹 = 𝐶 ∩ 𝐸. Per ipotesi 𝐶 è uno zero-insieme e quindi esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] per cui è 𝐶 = 𝑓 −1 ({0}). Basterà ora considerare la restrizione di 𝑓 a 𝐸 per rendersi conto che 𝐹 è uno zero-insieme relativamente a 𝐸. La tesi segue immediatamente dal Teorema di Vedenissoff. 2. Se (𝑋, 𝜏) è uno spazio perfettamente normale, esso è banalmente normale e, per il punto 1, sono tali tutti i suoi sottospazi. Per il Teorema 1.110, lo spazio è quindi 𝑇5 (oltre che 𝑇1 ). Sappiamo che (ℝ, 𝜏𝑒 ) è completamente normale (cfr. Corollario 1.111). Verifichiamo che è anche perfettamente normale. Corollario 2.116. Lo spazio topologico (ℝ, 𝜏𝑒 ) è perfettamente normale.
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Dimostrazione. Dato un arbitrario sottoinsieme non vuoto 𝐶 di ℝ, consideriamo l’insieme aperto 𝐴𝜀 definito dall’unione degli intervalli aperti ]𝑥 − 𝜀, 𝑥 + 𝜀[, al variare di 𝑥 in 𝐶. L’intersezione della famiglia numerabile degli insiemi 𝐴1/𝑛 , con 𝑛 ∈ ℕ+ dà la chiusura di 𝐶. Quindi, se 𝐶 è chiuso, esso è anche un 𝐺𝛿 .
La stessa dimostrazione, con ovvi adattamenti, mostra che anche ℝ𝑛 con la topologia euclidea è uno spazio perfettamente normale. Mostriamo con un esempio che, per contro, esistono spazi completamente ma non perfettamente normali. Esempio 2.117 (Lo Spazio di Fort). Sia 𝑋 un insieme infinito e 𝑝 un suo punto fissato. Definiamo una topologia 𝜏 su 𝑋 assumendo come chiusi tutti gli insiemi che o contengono 𝑝 o sono finiti. Tale topologia è la minima fra quelle più fini rispetto alla topologia del punto escluso (cfr. Esempio 1.82) e quella dell’Esempio 1.14. Lo spazio è 𝑇1 , dato che i punti sono chiusi. Verifichiamo che esso è anche 𝑇5 . Siano 𝐴 e 𝐵 due sottoinsiemi separati di 𝑋. Se nessuno dei due contiene 𝑝, sono entrambi aperti e disgiunti. Supponiamo ora che 𝑝 appartenga a uno dei due: sia esso 𝐴. Poiché 𝑝 ∉ 𝐵, 𝐵 è aperto. Faremo vedere che 𝐵 è anche chiuso, da cui seguirà che 𝑋 ⧵ 𝐵 e 𝐵 costituiscono una coppia di aperti che separano 𝐴 e 𝐵. Se, per assurdo, 𝐵 non fosse chiuso, dovrebbe essere infinito. Ogni aperto contenente 𝑝 deve essere cofinito e quindi contenere punti di 𝐵. Ne viene che è 𝑝 ∈ cl 𝐵, ma poiché 𝑝 ∈ 𝐴, concludiamo che 𝐴 ∩ cl 𝐵 ≠ ∅, contro l’ipotesi. Proviamo ora che 𝑋 è perfettamente normale se e solo se è numerabile. Supponiamo 𝑋 non numerabile e sia 𝐶 ∶= {𝑝}. Per definizione, 𝐶 è un chiuso. Tuttavia 𝐶 non è un 𝐺𝛿 . Infatti ogni aperto contenente 𝑝 è cofinito. Quindi un’intersezione numerabile di aperti contenenti 𝐶 ha il complementare numerabile e, pertanto, non può coincidere con 𝐶. Supposto 𝑋 numerabile, siano 𝐶 ⊆ 𝑋 un chiuso non vuoto e 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶. Se 𝑝 ∈ 𝐴 o se 𝐴 è finito, 𝐶 è anche aperto ed è quindi banalmente un 𝐺𝛿 . In caso contrario, 𝐴 è infinito e 𝑝 ∉ 𝐴. Sia 𝐴 ∶= {𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 , … }. Posto 𝐴𝑛 ∶= 𝑋 ⧵ {𝑥𝑛 }, si ha che gli 𝐴𝑛 sono aperti e la loro intersezione dà 𝐶. ◁ Consideriamo ancora lo spazio di Fort dell’esempio precedente e supponiamo 𝑋 non numerabile. Sappiamo che il chiuso 𝐶 ∶= {𝑝} non è un 𝐺𝛿 . Per il Corollario 2.112 non può esistere una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] per cui si abbia 𝑓 −1 ({0}) = 𝐶. Sussiste il seguente risultato, analogo a quanto visto nel Corollario 2.116 per la topologia euclidea: Teorema 2.118. Lo spazio ℝ con la topologia destra di Sorgenfrey 𝜏 + [con la topologia sinistra 𝜏 − ] è perfettamente normale.
Dimostrazione. Occupiamoci della topologia 𝜏 + ; per 𝜏 − si procede in modo analogo. Sappiamo che 𝜏 + è strettamente più fine della topologia euclidea 𝜏𝑒 ed è quindi di Hausdorff.
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
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Per prima cosa, verifichiamo che è normale. Siano dati due chiusi disgiunti e non vuoti 𝐶, 𝐷. Per ogni 𝑐 ∈ 𝐶, esiste un intervallo [𝑐, 𝛼𝑐 [ disgiunto da 𝐷 e, similmente, per ogni 𝑑 ∈ 𝐷, esiste un intervallo [𝑑, 𝛽𝑑 [ disgiunto da 𝐶. Se, per assurdo, esistessero due intervalli del tipo [𝑐, 𝛼𝑐 [ e [𝑑, 𝛽𝑑 [, con 𝑐 ≠ 𝑑, fra loro non disgiunti, si otterrebbe o 𝑐 ∈ [𝑑, 𝛽𝑑 [, o 𝑑 ∈ [𝑐, 𝛼𝑐 [ contro la scelta di tali intervalli. Otteniamo in questo modo due aperti disgiunti 𝐴′ ∶= ⋃𝑐∈𝐶 [𝑐, 𝛼𝑐 [ e 𝐴″ ∶= ⋃𝑑∈𝐷 [𝑑, 𝛽𝑑 [ che separano i due chiusi. Per verificare che lo spazio (ℝ, 𝜏 + ) è perfettamente normale, basta provare che ogni aperto è un 𝐹𝜎 . Sia 𝐴 un 𝜏 + -aperto non vuoto e sia 𝑈 l’interno di 𝐴 nella topologia euclidea. Sappiamo che ogni aperto nella topologia euclidea è unione al più numerabile di intervalli aperti e limitati. A loro volta, tali intervalli si possono esprimere come unione numerabile di chiusi nella topologia euclidea che sono anche chiusi in 𝜏 + . Pertanto, l’insieme 𝑈 è un 𝐹𝜎 in 𝜏 + . Concludiamo la dimostrazione provando che l’insieme 𝐴 ⧵ 𝑈 è numerabile. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐴⧵𝑈 , esiste un intervallo (clopen)[𝑥, 𝛼𝑥 [ ⊆ 𝐴 e non c’è alcun intervallo del tipo ]𝑥 − 𝜀, 𝑥 + 𝜀[ che sia contenuto in 𝐴. Da ciò segue che, per 𝑥, 𝑦 ∈ 𝐴 ⧵ 𝑈 , con 𝑥 ≠ 𝑦, deve essere [𝑥, 𝛼𝑥 [ ∩[𝑦, 𝛼𝑦 [ = ∅. Come conseguenza, gli insiemi 𝑄𝑥 ∶= ℚ ∩ [𝑥, 𝛼𝑥 [, al variare di 𝑥 ∈ 𝐴 ⧵ 𝑈 sono non vuoti e a due a due disgiunti. A questo punto, la tesi è immediata. In questo capitolo e in quello precedente abbiamo visto come certe proprietà si conservino nel passaggio da uno spazio ambiente a un suo sottospazio. Possiamo ora riassumere il tutto in un risultato conclusivo.
Teorema 2.119. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un sottoinsieme non vuoto di 𝑋 dotato della topologia indotta 𝜏𝐸 . 1. Se lo spazio (𝑋, 𝜏) gode di una delle proprietà 𝑇𝑖 , con 0 ≤ 𝑖 ≤ 3 12 , allora anche (𝐸, 𝜏𝐸 ) gode della stessa proprietà. 2. Se lo spazio (𝑋, 𝜏) è completamente normale o perfettamente normale, è tale anche (𝐸, 𝜏𝐸 ). 3. Le proprietà 𝑇4 e la normalità non si preservano per i sottospazi. Queste proprietà sono però ereditate dai sottospazi chiusi. 4. Se lo spazio (𝑋, 𝜏) gode di una delle proprietà 𝐴1 , 𝐴2 , allora anche (𝐸, 𝜏𝐸 ) gode della stessa proprietà. 5. La separabilità non è ereditaria per i sottospazi (cfr. Propos. 3.116.2).
Dimostrazione. 1. L’ereditarietà delle proprietà 𝑇0 , 𝑇1 , 𝑇2 e 𝑇3 è già stata dimostrata nel Teorema 1.106. La proprietà 𝑇2 1 (cfr. Osservazione 1.94) è chia2
ramente ereditaria. È anche ovvio che sia ereditaria la proprietà di separare i punti (cfr. Definizioni 2.102 e 2.109). L’ereditarietà della proprietà 𝑇3 1 si
dimostra con ragionamento analogo a quello fatto per la proprietà 𝑇3 nel Teorema 1.106. Infatti: siano 𝑝 ∈ 𝐸 e 𝐶 ⊆ 𝐸 un chiuso di 𝜏𝐸 , con 𝑝 ∉ 𝐶; per definizione di topologia indotta, esiste un chiuso 𝐶 ′ ⊆ 𝑋 con 𝐶 = 𝐶 ′ ∩ 𝐸; poiché 𝑝 ∉ 𝐶 ′ , esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tale che 𝑓 (𝑝) = 0 e 2
2.4. Prolungabilità delle funzioni continue
91
𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐶 ′ ; per avere la tesi basta considerare la restrizione di 𝑓 ad 𝐸. Ne viene che anche la proprietà di essere completamente regolare è ereditaria. 2. La completa normalità segue immediatamente del Teorema 1.110; per la perfetta normalità si veda la Proposizione 2.115.1. 3. Per i sottoinsiemi chiusi, basta ricordare il Teorema 1.106. Per la sola proprietà 𝑇4 , si veda l’Esempio 1.107. Per la normalità, si veda l’esempio 10.15. 4. Anche per questa proprietà facciamo riferimento al Teorema 1.106. 5. Un esempio è dato da un insieme non numerabile 𝑋 con la topologia del punto speciale (cfr Esempio 1.113). Infatti, detto 𝑝 tale punto, è ovvio che il sottoinsieme 𝐷 ∶= {𝑝} di 𝑋 è denso in 𝑋. D’altra parte, sul sottospazio 𝐸 ∶= 𝑋 ⧵ {𝑝} viene indotta la topologia discreta che non è separabile dato che 𝐸 non è numerabile.
3
Spazi metrici 3.1
Definizioni ed Esempi
Una classe particolare ma molto importante di spazi topologici è data da quella degli spazi metrici oggetto del presente capitolo e del successivo. Probabilmente il lettore ha già una notevole familiarità con questi argomenti e molti dei risultati esposti gli saranno ben noti. Si è comunque deciso di presentare anche argomenti “banali” per ragioni di completezza. Definizione 3.1. Dati x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) ∈ ℝ𝑛 , si definisce distanza euclidea tra x e y il numero reale 𝑑(x, y) ∶= √(𝑥1 − 𝑦1 )2 + (𝑥2 − 𝑦2 )2 + ⋯ + (𝑥𝑛 − 𝑦𝑛 )2 .
Per 𝑛 = 1, si ritrova 𝑑(𝑥, 𝑦) = |𝑥 − 𝑦|.
◁
Teorema 3.2 (Proprietà della distanza). La distanza euclidea è un’applicazione di ℝ𝑛 × ℝ𝑛 in ℝ che gode delle seguenti proprietà: D1. (∀x ∈ ℝ𝑛 )(∀y ∈ ℝ𝑛 )(𝑑(x, y) ≥ 0), non negatività D2. (∀x ∈ ℝ𝑛 )(∀y ∈ ℝ𝑛 )(𝑑(x, y) = 0 ⇔ x = y), non degeneratezza D3. (∀x ∈ ℝ𝑛 )(∀y ∈ ℝ𝑛 )(𝑑(x, y) = 𝑑(y, x)), simmetria D4. (∀x ∈ ℝ𝑛 )(∀y ∈ ℝ𝑛 )(∀z ∈ ℝ𝑛 )(𝑑(x, y) ≤ 𝑑(x, z) + 𝑑(z, y)), disuguaglianza triangolare. Dimostrazione. Le prime tre proprietà sono di verifica immediata. Proviamo la quarta procedendo per tappe. 1. Disuguaglianza di Cauchy-Schwarz. Dati gli elementi x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ) e y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) in ℝ𝑛 , si ha √ 𝑛 √ 𝑛 √ √ 2√ √ 𝑥𝑖 𝑦𝑖 ≤ 𝑥𝑖 𝑦2 . ∑ ∑ 𝑖 |∑ | 𝑖=1 𝑖=1 𝑖=1 ⎷ ⎷ 𝑛
92
3.1. Definizioni ed Esempi
93
Infatti, tenuto presente che è ( ∑𝑛𝑖=1 𝑐𝑖 ) = ∑𝑛𝑖,𝑗=1 𝑐𝑖 𝑐𝑗 , si ha 0≤
=2
𝑛
∑
𝑛
∑
(𝑥𝑖 𝑦𝑗 − 𝑥𝑗 𝑦𝑖 )2 =
𝑖,𝑗=1
𝑥2𝑖 𝑦2𝑗
−2
𝑛
∑
𝑛
∑
𝑖,𝑗=1
2
𝑥2𝑖 𝑦2𝑗 − 2
(𝑥𝑖 𝑦𝑗 )(𝑥𝑗 𝑦𝑖 ) =
𝑛
∑
𝑖,𝑗=1
𝑥𝑖 𝑦𝑗 𝑥𝑗 𝑦𝑖 +
𝑛
∑
𝑖,𝑗=1
𝑥2𝑗 𝑦2𝑖 =
2 𝑛 ⎛ 𝑛 ⎞ 2 2 2 𝑥𝑖 𝑦𝑗 − 2 ⎜ 𝑥𝑦 ⎟. ∑ 𝑖 𝑗⎟ ⎜𝑖,𝑗=1 (∑ ) (∑ ) 𝑖=1 𝑖=1 𝑛
⎝ ⎠ 2. Disuguaglianza di Minkowski. Dati gli elementi x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ) e y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) di ℝ𝑛 , si ha 𝑖,𝑗=1
𝑖,𝑗=1
√ 𝑛 √ 𝑛 √ 𝑛 √ √ √ √ (𝑥 + 𝑦 )2 ≤ √ 𝑥2 + √ 𝑦2 . 𝑖 ∑ 𝑖 ∑ 𝑖 ∑ 𝑖 ⎷ 𝑖=1 ⎷ 𝑖=1 ⎷ 𝑖=1
Infatti, si ha
2 √ 𝑛 √ 𝑛 √ 𝑛 𝑛 𝑛 ⎛√ ⎞ √ 𝑛 √ √ √ 2 2 √ √ ⎜ 𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 ⎟ = 𝑥2𝑖 + 2√ 𝑥2𝑖 √ 𝑦2𝑖 + 𝑦2 ≥ ∑ ⎟ ∑ ∑ ∑ ∑ 𝑖 ⎜ ∑ 𝑖=1 𝑖=1 ⎷ 𝑖=1 ⎠ ⎷ 𝑖=1 ⎷ 𝑖=1 ⎝⎷ 𝑖=1
≥
𝑛
𝑥2 ∑ 𝑖 𝑖=1
𝑛
𝑛
+2 𝑥𝑦 + 𝑦2 ∑ 𝑖 𝑗 ∑ 𝑖 𝑖,𝑗=1 𝑖=1
=
𝑛
∑ 𝑖=1
(𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 )2 .
3. Disuguaglianza triangolare. Dati gli elementi x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) e z ∶= (𝑧1 , 𝑧2 , … , 𝑧𝑛 ) di ℝ𝑛 , si ha √ √ 𝑑(x, y) = √
𝑛
∑
(𝑥𝑖 − 𝑦𝑖
)2
√ √ =√
𝑛
[(𝑥 − 𝑧𝑖 ) + (𝑧𝑖 − 𝑦𝑖 )]2 ≤ ∑ 𝑖
⎷ 𝑖=1 ⎷ 𝑖=1 √ 𝑛 √ 𝑛 √ √ ≤ √ (𝑥𝑖 − 𝑧𝑖 )2 + √ (𝑧𝑖 − 𝑦𝑖 )2 = 𝑑(x, z) + 𝑑(z, y). ∑ ∑ ⎷ 𝑖=1 ⎷ 𝑖=1
La distanza euclidea, ossia quella in “linea d’aria”, non risponde sempre alle nostre esigenze: si pensi, per esempio, al movimento di una torre sulla scacchiera. Si pone dunque il problema di generalizzare il concetto di distanza.
Definizione 3.3. Si dice che su un insieme non vuoto 𝑋 è definita una distanza o metrica 𝑑 se è assegnata un’applicazione 𝑑 ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ che soddisfi alle proprietà 𝐷1, 𝐷2, 𝐷3, 𝐷4 del Teorema 3.2. In tal caso si dice che la coppia (𝑋, 𝑑) è uno spazio metrico. ◁ Osserviamo, intanto, che se un’applicazione 𝑑 ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ soddisfa alle proprietà 𝐷2, 𝐷3 e 𝐷4 della precedente definizione, allora soddisfa necessariamente anche alla 𝐷1. Infatti, quali che siano 𝑥 e 𝑦 in 𝑋, si ha: 0 = 𝑑(𝑥, 𝑥) ≤ 𝑑(𝑥, 𝑦) + 𝑑(𝑦, 𝑥) = 𝑑(𝑥, 𝑦) + 𝑑(𝑥, 𝑦) = 2𝑑(𝑥, 𝑦).
3.1. Definizioni ed Esempi
94
Mostriamo che, invece, ciascuna delle proprietà 𝐷2, 𝐷3 e 𝐷4 è indipendente dalle altre tre. Esempio 3.4. In ℝ2 . Dati i punti x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 ) e y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 ), si ponga 𝑑(x, y) ∶= |𝑥1 − 𝑦1 |. È immediato constatare che le proprietà 𝐷1, 𝐷3 e 𝐷4 sono soddisfatte, mentre non lo è la 𝐷2, pur risultando 𝑑(x, x) = 0, ∀x ∈ 𝑋. ◁ Esempio 3.5. Su un circuito automobilistico la pista può essere percorsa solo in un verso. Diciamo distanza fra due punti 𝐴 e 𝐵 la lunghezza del tratto di circuito che va da 𝐴 a 𝐵 nel verso consentito. Chiaramente non risulta soddisfatta la proprietà 𝐷3, mentre lo sono tutte le altre. ◁
Esempio 3.6. In ℝ2 . Dati i punti x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 ) e y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 ), si ponga 𝑑(x, y) ∶= (𝑥1 − 𝑦1 )2 + (𝑥2 − 𝑦2 )2 . È immediato constatare che le proprietà 𝐷1, 𝐷2 e 𝐷3 sono soddisfatte. Non lo è, invece, la 𝐷4. Infatti, dati i punti x ∶= (0, 0), y ∶= (1, 2) e z ∶= (1, 1), si ha 𝑑(x, y) = 12 + 22 = 5 > 𝑑(x, z) + 𝑑(z, y) = 12 + 12 + 02 + 12 = 3.
◁
Definizione 3.7. Un’applicazione 𝑑 ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ è detta una pseudometrica o pseudodistanza se soddisfa alle proprietà 𝐷1, 𝐷3, 𝐷4 e alla più debole forma della 𝐷2: 𝑑(𝑥, 𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Può invece aversi 𝑑(𝑥, 𝑦) = 0 anche con 𝑥 ≠ 𝑦 (cfr. Esempio 3.4). ◁ Come per la distanza euclidea di ℝ𝑛 , si dà più in generale la
Definizione 3.8. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico, 𝑥0 un prefissato elemento di 𝑋 e 𝑟 un numero reale maggiore di 0. L’insieme 𝐵(𝑥0 , 𝑟) ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑑(𝑥, 𝑥0 ) < 𝑟} è detto palla aperta di centro 𝑥0 e raggio 𝑟. L’insieme 𝐵[𝑥0 , 𝑟] ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑑(𝑥, 𝑥0 ) ≤ 𝑟} è detto palla chiusa di centro 𝑥0 e raggio 𝑟. L’insieme 𝑆(𝑥0 , 𝑟) ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑑(𝑥, 𝑥0 ) = 𝑟} è detto sfera di centro 𝑥0 e raggio 𝑟. ◁ Definizione 3.9. Un sottoinsieme 𝐸 di uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) è detto limitato se esiste una palla 𝐵[𝑥0 , 𝑟] che lo contiene. ◁
Osservazione 3.10. Nella definizione precedente, la scelta del punto 𝑥0 è irrilevante. Supponiamo, infatti che sia 𝐸 ⊆ 𝐵[𝑥0 , 𝑟] e fissiamo un altro punto 𝑥1 ∈ 𝑋. Si ha 𝐸 ⊆ 𝐵[𝑥1 , 𝑟′ ], con 𝑟′ ≥ 𝑟 + 𝑑(𝑥0 , 𝑥1 ). ◁ Vediamo ora di dare alcuni esempi di distanze procurando, quando è possibile, di descrivere come … sono fatte le relative palle. Le verifiche delle proprietà della distanza sono lasciate, di regola, come esercizio al lettore.
Esempio 3.11 (La distanza discreta). Sia 𝑋 un arbitrario insieme non vuoto e si ponga 𝑑(𝑥, 𝑦) ∶= 0 per 𝑥 = 𝑦 e 𝑑(𝑥, 𝑦) ∶= 1 per 𝑥 ≠ 𝑦. Una palla 𝐵(𝑥, 𝑟) è formata da tutto 𝑋 se è 𝑟 > 1, mentre si riduce al solo {𝑥} in caso contrario.
3.1. Definizioni ed Esempi
95
Si noti che ponendo 𝑑(𝑥, 𝑦) ∶= 1, ∀𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋 non si ottiene nemmeno una pseudometrica. Anche in questo caso, l’unica delle proprietà della distanza che non sussiste è la 𝐷2, ma in modo opposto a quello dell’Esempio 3.4. ◁ Questo esempio ci dice, fra l’altro, che si può definire una distanza su un qualunque insieme non vuoto.
Esempio 3.12 (La distanza 𝑑1 in ℝ𝑛 ). Dati in ℝ𝑛 i punti x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ) e y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ), si ponga 𝑑1 (x, y) ∶= |𝑥1 − 𝑦1 | + |𝑥2 − 𝑦2 | + ⋯ + |𝑥𝑛 − 𝑦𝑛 |.
Per 𝑛 = 2, la palla 𝐵1 (x, 𝑟) è un quadrato di centro x con le diagonali parallele agli assi e di semi lunghezza uguale a 𝑟. È la distanza che utilizza una ‘torre’ sulla scacchiera. Questa distanza è anche nota come metrica del taxi, in inglese taxicab distance. ◁
Esempio 3.13 (Le distanze 𝑑𝑝 in ℝ𝑛 ). Si fissi un numero reale 𝑝 ≥ 1 e, dati x e y come sopra, si ponga: 𝑑𝑝 (𝑥, 𝑦) ∶= √|𝑥1 − 𝑦1 |𝑝 + |𝑥2 − 𝑦2 |𝑝 + ⋯ + |𝑥𝑛 − 𝑦𝑛 |𝑝 . 𝑝
(3.1)
Per 𝑝 = 1, si ha la distanza dell’esempio precedente; per 𝑝 = 2, si ha quella euclidea. Si tratta effettivamente di una distanza anche per gli altri valori di 𝑝, ma verificare la validità della proprietà 𝐷4 non è immediato; lo proveremo più avanti (cfr. Teorema 4.14). Vedremo anche che per 0 < 𝑝 < 1 con la precedente definizione non si ottiene una distanza. Pe 𝑛 = 1, si ha in ogni caso 𝑑𝑝 (𝑥, 𝑦) = |𝑥−𝑦|; dunque la cosa si fa interessante per 𝑛 > 1. In figura sono riportate le palle unitarie di centro l’origine per 𝑝 = 3/2, 2 e 4.
3.1. Definizioni ed Esempi
96
Osserviamo che, se è 1 ≤ 𝑝 ≤ 𝑞, si ha 𝐵𝑝 (x0 , 𝑟) ⊆ 𝐵𝑞 (x0 , 𝑟) o, equivalentemente, che è 𝑑𝑝 (x, y) ≥ 𝑑𝑞 (x, y). Proviamolo intanto nel caso 𝑛 = 2. (Per il caso generale, cfr. Teorema 3.104.) Basta verificare che, se è 0 ≤ 𝑎 ≤ 𝑏, si ha √𝑎𝑝 + 𝑏𝑝 = 𝑏√1 + 𝑐 𝑝 ≥ 𝑏√1 + 𝑐 𝑞 = √𝑎𝑞 + 𝑏𝑞 , 𝑝
𝑝
𝑞
𝑞
con 𝑐 ∶= 𝑎/𝑏 ≤ 1. Se è 𝑎 = 𝑏 (cioè 𝑐 = 1), la cosa è ovvia. Sia dunque 𝑎 < 𝑏 (ossia 𝑐 < 1). È sufficiente provare che, se è 0 < 𝑐 < 1, è decrescente la funzione 𝑓 ∶ [1, +∞[ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= (1 + 𝑐 𝑥 )1/𝑥 . Ora si ha: 𝑓 (𝑥) = exp (
log(1 + 𝑐 𝑥 ) 𝑔(𝑥) ) =∶ 𝑒 . 𝑥
La tesi segue subito dal fatto che, essendo log 𝑐 < 0, è 𝑔 ′ (𝑥) =
log 𝑐 𝑥 𝑥 𝑐 1+𝑐 𝑥 − log(1 + 𝑐 ) 𝑥
𝑥2
< 0.
Per ogni 𝑛 ≥ 1, si ha poi lim 𝑑𝑝 (x, y) = max{|𝑥𝑖 − 𝑦𝑖 |, 𝑖 = 1, 2, … , 𝑛}. 𝑝→+∞
Infatti, dati 𝑛 numeri reali non negativi e non tutti nulli 𝑎1 ≥ 𝑎2 ≥ ⋯ ≥ 𝑎𝑛 , si ha 𝑝 𝑝 𝑝 𝑝 𝑝 𝑝 𝑝 √𝑎1 + 𝑎2 + ⋯ + 𝑎𝑛 = 𝑎1 √1 + 𝑐2 ⋯ + 𝑐𝑛 −−−−→ 𝑎1 , dato che, per ogni 𝑖 > 1, si ha 𝑐𝑖 ∶= 𝑎𝑖 /𝑎1 ≤ 1.
𝑝→∞
Esempio 3.14 (La distanza 𝑑∞ in ℝ𝑛 ). Dati x e y come sopra, si ponga
◁
𝑑∞ (𝑥, 𝑦) ∶= max{|𝑥1 − 𝑦1 |, |𝑥2 − 𝑦2 |, … , |𝑥𝑛 − 𝑦𝑛 |}.
Anche in questo caso, l’unica verifica che merita qualche attenzione è quella della 𝐷4. Si ha 𝐵∞ (x, 𝑟) = {y ∶ |𝑦𝑖 − 𝑥𝑖 | < 𝑟, 𝑖 = 1, 2, … , 𝑛}. Le palle sono dunque particolari intervalli di ℝ𝑛 . Per 𝑛 = 2, la palla 𝐵∞ (x, 𝑟) è un quadrato di centro x con i lati paralleli agli assi e di lunghezza 2𝑟. ◁
L’ultima osservazione fatta a proposito dell’Esempio 3.13 ci dice che, per ogni 𝑝 ≥ 1, è 𝑑𝑝 (x, y) ≥ 𝑑∞ (x, y) e che, al tendere di 𝑝 a infinito, la distanza 𝑑𝑝 (x, y) tende a 𝑑∞ (x, y); ciò spiega il nome dato a quest’ultima distanza (cfr. la figura seguente).
3.1. Definizioni ed Esempi
97
Osservazione 3.15. Ponendo 𝑑(x, y) = min{|𝑥𝑖 − 𝑦𝑖 |, 𝑖 = 1, 2, … , 𝑛}, non si ottiene nemmeno una pseudometrica, dato che non risultano soddisfatte né la 𝐷2 né la 𝐷4. Si ponga, per esempio, in ℝ2 : x ∶= (0, 0), y ∶= (1, 1) e z ∶= (0, 1). Si ha: 0 = 𝑑(x, z) + 𝑑(z, y) < 𝑑(x, y) = 1. ◁
Esempio 3.16 (In ℝ). Si ponga 𝑑(𝑥, 𝑦) = | arctan 𝑥 − arctan 𝑦|. La verifica delle 4 proprietà è facile. Le palle di centro 𝑥 sono intervalli aperti, ma non centrati in 𝑥 (salvo che per 𝑥 = 0) nel senso della distanza euclidea. Naturalmente, la funzione arcotangente può essere sostituita da una qualunque funzione iniettiva. Osserviamo che se, come in questo caso, la funzione è limitata, si ha sup {𝑑(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥, 𝑦 ∈ ℝ} < +∞. ◁ L’esempio precedente è un caso particolare della seguente situazione. Siano dati uno spazio metrico (𝑌 , 𝑑𝑌 ), un arbitrario insieme 𝑋 equipotente a un sottoinsieme 𝐸 di 𝑌 e una funzione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝐸 biiettiva. Si può definire una distanza anche in 𝑋 ponendo 𝑑𝑋 (𝑎, 𝑏) ∶= 𝑑𝑌 (𝜑(𝑎), 𝜑(𝑏)), ∀𝑎, 𝑏 ∈ 𝑋.
Esempio 3.17 (La distanza pettine in ℝ2 ). Dati i punti x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 ) di ℝ2 , si ponga: 𝑑(x, y) ∶=
|𝑥2 − 𝑦2 |, {|𝑥1 − 𝑦1 | + |𝑥2 | + |𝑦2 |
se è 𝑥1 = 𝑦1 , se è 𝑥1 ≠ 𝑦1 .
Al solito, per provare che si tratta di una distanza, basta occuparsi della 𝐷4. La faccenda è un po’ noiosa, ma non difficile. 1 Come è fatta la palla 𝐵(x0 , 𝑟)? Cominciamo con un punto del tipo x0 ∶= 0 (𝑥1 , 0). Dato un punto y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 ), si ha 𝑑(x0 , y) = |𝑥01 − 𝑦1 | + |0 − 𝑦2 | = 𝑑1 (x0 , y).
Sia ora x0 = (𝑥01 , 𝑥02 ), con 𝑥02 ≠ 0 (per esempio 𝑥02 > 0). Se è 𝑟 ≤ 𝑥02 , la palla 𝐵(x0 , 𝑟) è un segmento centrato in x0 e parallelo all’asse delle ordinate. In caso contrario si ha 𝐵(x0 , 𝑟) = {(𝑥01 , 𝑥2 ) ∶ 0 ≤ 𝑥2 ≤ 𝑥02 + 𝑟} ∪ 𝐵1 ((𝑥01 , 0), 𝑟 − 𝑥02 ).
Dati tre punti x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 ) e z ∶= (𝑧1 , 𝑧2 ), si distinguono i seguenti casi: 𝑥1 = 𝑦1 = 𝑧1 , 𝑥1 = 𝑦1 ≠ 𝑧1 , 𝑥1 ≠ 𝑦1 = 𝑧1 , 𝑥1 = 𝑧1 ≠ 𝑦1 , 𝑥1 , 𝑦1 , 𝑧1 tutti distinti. 1
3.1. Definizioni ed Esempi
98
Si ha cioè un’asta con una base formata da un quadrato con le diagonali parallele agli assi. Non bisogna credere che questa distanza sia tanto cervellotica. È la distanza che si usa quando ci si trova su un marciapiede di una stazione e si deve cambiare binario servendosi del sottopassaggio. È anche la distanza che utilizza un piccolo insettino incapace di volare per spostarsi lungo i denti di un pettine.◁ Una situazione simile è quella del seguente esempio.
Esempio 3.18 (La distanza del piano puntato in ℝ2 ). Fissiamo un punto x0 , per esempio l’origine. Dati x e y in ℝ2 , si ponga: 𝑑(x, y) ∶=
𝑑2 (x, y), {𝑑2 (x, x0 ) + 𝑑2 (x0 , y),
se x e y sono allineati con x0 , in caso contrario,
dove si è ovviamente indicato con 𝑑2 (⋅, ⋅) la distanza euclidea. 2 Le palle 𝐵(x0 , 𝑟) sono quelle euclidee. Le palle 𝐵(x, 𝑟), con x ≠ x0 , sono segmenti se 𝑟 è piccolo, mentre sono dei “palloncini col filo teso” se 𝑟 è grande. Nemmeno questa distanza è molto cervellotica. Immaginiamo una piazza 𝑂 dalla quale si irradiano diverse strade non altrimenti collegate fra loro. Per andare da un punto 𝑃 ad uno 𝑄 che si trovi su un’altra delle strade, bisogna passare per 𝑂. ◁ In figura è riportata una palla, di raggio abbastanza grande, per ciascuna delle ultime due distanze.
Ricordiamo che si indica con 𝐶(𝐼, ℝ), 𝐶 0 (𝐼, ℝ) l’insieme delle funzioni continue definite sull’intervallo 𝐼 e a valori in ℝ.
Esempio 3.19 (La metrica lagrangiana). Sia 𝑋 ∶= 𝐶 0 (𝐼, ℝ), con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏]. Date 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝑋, si ponga 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) ∶= sup {|𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)| ∶ 𝑥 ∈ 𝐼} .
Per verificare la proprietà 𝐷4, dati tre punti x, y e z, si distinguono i casi che nessuno, uno o due dei punti y e z giacciano sulla retta per x0 e x. 2
3.1. Definizioni ed Esempi
99
Com’è fatta la palla 𝐵(𝑓 , 𝑟)? Date le funzioni 𝑓 e 𝑔, si ha 𝑔 ∈ 𝐵(𝑓 , 𝑟) se e solo se è 𝑓 (𝑥) − 𝑟 ≤ 𝑔(𝑥) ≤ 𝑓 (𝑥) + 𝑟, per ogni 𝑥 ∈ 𝐼.
È la distanza della convergenza uniforme. Osserviamo ancora che si può introdurre la stessa distanza anche nell’insieme più grande delle funzioni a valori reali, definite in un insieme 𝐴 e ivi limitate (cfr. Esempio 4.11). ◁ Esempio 3.20 (La metrica integrale). Sia ancora 𝑋 ∶= 𝐶 0 (𝐼, ℝ), con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏]. Date 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝑋, si ponga 𝑑1 (𝑓 , 𝑔) ∶=
∫ 𝑎
𝑏
|𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|𝑑𝑥.
Le proprietà 𝐷1, 𝐷3 e 𝐷4 della distanza sono di verifica immediata. Proviamo 𝑏 𝐷2. Sia dunque 𝑑1 (𝑓 , 𝑔) = ∫𝑎 |𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|𝑑𝑥 = 0. Dobbiamo provare che è 𝑓 (𝑥) = 𝑔(𝑥) per ogni 𝑥 ∈ 𝐼. Supponiamo, per assurdo, che esista un punto 𝑥0 ∈ 𝐼 con 𝑓 (𝑥0 ) ≠ 𝑔(𝑥0 ). Per la continuità delle funzioni 𝑓 e 𝑔, devono esistere un 𝑘 > 0 e un intervallo 𝐽 ∶= [𝑐, 𝑑] contenente 𝑥0 tali da aversi |𝑓 (𝑥)−𝑔(𝑥)| > 𝑘 (> 0) per ogni 𝑥 ∈ 𝐽 . Ora si ha: ∫ 𝑎
𝑏
|𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|𝑑𝑥 ≥
∫ 𝑐
𝑑
|𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|𝑑𝑥 ≥ 𝑘(𝑑 − 𝑐) > 0.
Non è agevole descrivere come sono fatte le palle 𝐵(𝑓 , 𝑟). Siano, per esempio, 𝐼 ∶= [0, 1], 𝑓 la funzione nulla e 𝑟 = 1. Appartengono a 𝐵(𝑓 , 1) sia la funzione di valore costante 1/2, sia la funzione 𝑔(𝑥) ∶=
100 − 10000𝑥, {0,
1 per 0 ≤ 𝑥 ≤ 100 , 1 per 100 ≤ 𝑥 ≤ 1.
Si badi che in questo caso, a differenza di quello precedente, la stessa definizione applicata all’insieme più grande delle funzioni a valori reali, definite in un intervallo 𝐼 e ivi integrabili (senza l’ipotesi della continuità), non definisce una distanza, ma solo una pseudometrica. Infatti, posto ancora 𝐼 ∶= [0, 1] e detta ancora 𝑓 la funzione identicamente nulla, sia 𝑔 la funzione che vale sempre 0,
3.1. Definizioni ed Esempi
100
tranne in 𝑥 = 1, dove assume il valore 3. Si ha immediatamente 𝑑(𝑓 , 𝑔) = 0, pur essendo 𝑓 ≠ 𝑔. Parimenti si ottiene una pseudometrica in 𝐶 0 (𝐼, ℝ), con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏], ponendo 𝑑(𝑓 , 𝑔) ∶= |
∫ 𝑎
𝑏
(𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥))𝑑𝑥|.
◁
Come già fatto in ℝ𝑛 , si può definire anche in 𝐶 0 (𝐼, ℝ) una distanza 𝑑𝑝 (con 𝑝 ≥ 1), ponendo: 𝑑𝑝 (𝑓 , 𝑔) ∶= [
∫ 𝑎
𝑏
1/𝑝
|𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|𝑝 𝑑𝑥]
(cfr. Teorema 4.19). Oltre che per 𝑝 = 1, un caso particolare importante si ha per 𝑝 = 2. Anche questa volta, volendo semplificare le cose, potremmo pensare di fare a meno delle radici, ponendo, per esempio 𝑑(𝑓 , 𝑔) ∶= 𝑑22 (𝑓 , 𝑔). Ma così facendo, non si otterrebbe una distanza. Siano, per esempio: 𝐼 ∶= [0, 2]; 𝑓 (𝑥) ∶= 0, g(x) := 2, per ogni 𝑥 ∈ 𝐼; ℎ(𝑥) ∶= 𝑥. Si vede subito che risulterebbe 𝑑(𝑓 , 𝑔) = 8 ≥ 𝑑(𝑓 , ℎ) + 𝑑(ℎ, 𝑔) =
8 8 + . 3 3
Esempio 3.21. Sia 𝐸 un insieme finito e 𝑋 ∶= 𝒫 (𝐸) l’insieme delle sue parti. Definiamo una distanza in 𝑋. Detti 𝐴 e 𝐵 due sottoinsiemi di 𝐸, poniamo 𝑑(𝐴, 𝐵) ∶= card(𝐴Δ𝐵),
ossia il numero degli elementi che stanno in uno e uno solo dei due insiemi. Mostriamo che si tratta effettivamente di una distanza. Le proprietà 𝐷1 e 𝐷3 sono ovvie. Anche la 𝐷2 è immediata, dato che è 𝐴Δ𝐵 = ∅ se e solo se è 𝐴 = 𝐵. Per provare la 𝐷4, basta mostrare che è 𝐴Δ𝐵 ⊂ (𝐴Δ𝐶) ∪ (𝐶Δ𝐵). Sia dunque 𝑥 ∈ 𝐴Δ𝐵 e supponiamo 𝑥 ∈ 𝐴 ⧵ 𝐵. Se è 𝑥 ∈ 𝐶, è anche 𝑥 ∈ 𝐶 ⧵ 𝐵, se è 𝑥 ∉ 𝐶, è 𝑥 ∈ 𝐴 ⧵ 𝐶; in ogni caso è 𝑥 ∈ (𝐴Δ𝐶) ∪ (𝐶Δ𝐵). Analogamente nel caso che sia 𝑥 ∈ 𝐵 ⧵ 𝐴. ◁ Vediamo, in fine, alcuni esempi di metriche definite a partire da distanze già esistenti su 𝑋. Esempio 3.22 (Somma di due distanze). Siano 𝑑 ′ e 𝑑 ″ due distanze su un insieme 𝑋. Definiamo in 𝑋 una nuova distanza 𝛿 ponendo: 𝛿(𝑥, 𝑦) ∶= 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) + 𝑑 ″ (𝑥, 𝑦).
La verifica delle proprietà 𝐷1 …𝐷4 è immediata.
◁
Osservazione 3.23. Ponendo invece 𝛿 ′ (𝑥, 𝑦) ∶= 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) ⋅ 𝑑 ″ (𝑥, 𝑦), non si ottiene, in generale, una distanza. Se, per esempio, in 𝑋 ∶= ℝ2 si pone 𝑑 ′ = 𝑑 ″ ∶= 𝑑2 , la 𝛿 ′ è l’applicazione dell’Esempio 3.6. ◁
3.1. Definizioni ed Esempi
101
Esempio 3.24 (Dilatazione di una distanza). Siano 𝑑 una distanza su un insieme 𝑋 e 𝑘 un numero reale positivo. Definiamo in 𝑋 una nuova distanza 𝑑 ′ ponendo: 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) ∶= 𝑘𝑑(𝑥, 𝑦). La verifica delle proprietà 𝐷1 …𝐷4 è immediata.
◁
Esempio 3.25 (Composizione superiore di due distanze). Siano 𝑑 ′ e 𝑑 ″ due distanze su un insieme 𝑋. Definiamo in 𝑋 una nuova distanza 𝑑 + = 𝑑 ′ ∨ 𝑑 ″ ponendo, per ogni 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, 𝑑 + (𝑥, 𝑦) ∶= max{𝑑 ′ (𝑥, 𝑦), 𝑑 ″ (𝑥, 𝑦)}.
La verifica delle proprietà formali è facile. Osserviamo che, con ovvio significato dei simboli, è 𝐵 + (𝑥, 𝑟) = 𝐵 ′ (𝑥, 𝑟) ∩ 𝐵 ″ (𝑥, 𝑟). ◁ Osservazione 3.26. Si vede che, per contro, ponendo 𝑑 − = 𝑑 ′ ∧ 𝑑 ″ , con 𝑑 − (𝑥, 𝑦) ∶= min{𝑑 ′ (𝑥, 𝑦), 𝑑 ″ (𝑥, 𝑦)}
non si ottiene in generale una distanza. Dati x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 ) ∈ ℝ2 , si 1 ponga: 𝑑 ′ (x, y) ∶= 10|𝑥1 −𝑦1 |+ 10 |𝑥2 −𝑦2 | e sia 𝑑 ″ la distanza euclidea. È facile ′ controllare che 𝑑 è effettivamente una distanza. Siano x ∶= (0, 0), y ∶= (3, 4), z ∶= (3, 0). Si vede subito che è 𝑑 − (x, y) = 𝑑 ″ (x, y) = 5, 𝑑 − (x, z) = 𝑑 ″ (x, z) = 3, 4 4 𝑑 − (z, y) = 𝑑 ′ (z, y) = 10 ; ora si ha 5 > 3 + 10 . ″ Se però 𝑑 è la distanza discreta, quale che sia la distanza 𝑑 ′ , la funzione − 𝑑 (𝑥, 𝑦) ∶= min{𝑑 ′ (𝑥, 𝑦), 𝑑 ″ (𝑥, 𝑦)} definisce effettivamente una metrica espressa da 𝑑 − (𝑥, 𝑦) = 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) se è 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) < 1 e 𝑑 − (𝑥, 𝑦) = 1 in caso contrario. Ovviamente, in questo caso si ha sup {𝑑 − (𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋} = 1. ◁ Esempio 3.27 (Normalizzazione di una distanza). Sia 𝑑 una distanza su un insieme 𝑋. Interessa definire una nuova distanza 𝑑 ′ equivalente alla 𝑑, in un senso che verrà precisato nel prossimo paragrafo (cfr. Definizione 3.37 e Teorema 3.38), e che sia normalizzata, ossia in modo che risulti sup {𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋 } = 1.
Se esistono 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋 con 𝑑(𝑥, 𝑦) > 1, un primo modo è quello di porre 𝑑 ′ ∶= 𝑑 ∧ 𝛿, essendo 𝛿 la distanza discreta (cfr. Osservazione 3.26). Se è sup {𝑑(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋} = 𝐾 ∈ ℝ+ , con 𝐾 ≠ 1, una sua normalizzazione è data dalla distanza 𝑑 ′ definita da 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) ∶= 𝑑(𝑥,𝑦) . 𝐾 Sia ora sup {𝑑(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋} = +∞. Una normalizzazione di 𝑑 si ottiene ponendo 𝑑(𝑥, 𝑦) 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) ∶= . 1 + 𝑑(𝑥, 𝑦)
3.2. Proprietà topologiche degli spazi metrici
102
Per provare la validità della 𝐷4, cominciamo con l’osservare che la funzione 𝑥 1 𝑓 ∶ [0, +∞[ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) = 1+𝑥 = 1 − 1+𝑥 è crescente. Ora, essendo 0 ≤ 𝑑(𝑥, 𝑦) ≤ 𝑑(𝑥, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑦), si ha: 𝑑(𝑥, 𝑦) 𝑑(𝑥, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑦) ≤ = 1 + 𝑑(𝑥, 𝑦) 1 + 𝑑(𝑥, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑦) 𝑑(𝑧, 𝑦) 𝑑(𝑥, 𝑧) = + ≤ 1 + 𝑑(𝑥, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑦) 1 + 𝑑(𝑥, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑦) 𝑑(𝑧, 𝑦) 𝑑(𝑥, 𝑧) ≤ + = 𝑑 ′ (𝑥, 𝑧) + 𝑑 ′ (𝑧, 𝑦). 1 + 𝑑(𝑥, 𝑧) 1 + 𝑑(𝑧, 𝑦) 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) =
3.2
◁
Proprietà topologiche degli spazi metrici
Definizione 3.28. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico. Diremo che un sottoinsieme 𝐴 ⊆ 𝑋 è aperto se, o è vuoto o, per ogni 𝑧 ∈ 𝐴, esiste una palla aperta 𝐵(𝑧, 𝑟) di centro 𝑧 contenuta in 𝐴. ◁ Lemma 3.29. In uno spazio metrico, ogni palla aperta è un insieme aperto.
Dimostrazione. In uno spazio metrico (𝑋, 𝑑), fissiamo una palla aperta 𝐵(𝑧, 𝑟) e un suo punto 𝑦. Vogliamo provare che esiste una palla aperta di centro 𝑦 contenuta in 𝐵(𝑧, 𝑟). Ci si può ovviamente limitare al caso che sia 𝑦 ≠ 𝑧, da cui 0 < 𝑑(𝑦, 𝑧) < 𝑟. Posto 𝑠 ∶= 𝑟 − 𝑑(𝑦, 𝑧), da cui 0 < 𝑠 < 𝑟, proviamo che è 𝐵(𝑦, 𝑠) ⊆ 𝐵(𝑧, 𝑟). Per ogni 𝑥 ∈ 𝐵(𝑦, 𝑠), si ha 𝑑(𝑥, 𝑧) ≤ 𝑑(𝑥, 𝑦) + 𝑑(𝑦, 𝑧) < 𝑠 + 𝑑(𝑦, 𝑧) = 𝑟.
Teorema 3.30. Ogni spazio metrico è uno spazio topologico.
Dimostrazione. Sia dato uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) e diciamo 𝒜 la famiglia dei sottoinsiemi aperti secondo la definizione precedente. Proviamo che 𝒜 soddisfa alle proprietà della Definizione 1.1. La 𝐴1 è ovvia. Per provare la 𝐴2, supponiamo che sia assegnata una famiglia 𝐴 { 𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } di 𝑑-aperti e diciamo 𝐴 la loro unione. Dato 𝑧 ∈ 𝐴, esiste un indice 𝑘 ∈ 𝐽 tale che 𝑧 ∈ 𝐴𝑘 . Essendo 𝐴𝑘 ∈ 𝒜 , esiste una palla aperta 𝐵(𝑧, 𝑟) contenuta in 𝐴𝑘 e, quindi, in 𝐴. Dall’arbitrarietà di 𝑧, si ottiene 𝐴 ∈ 𝒜 . Veniamo alla 𝐴3. Siano dati 𝐴1 , 𝐴2 , … , 𝐴𝑛 ∈ 𝒜 e diciamo A la loro intersezione. Se è A = ∅, siamo a posto. In caso contrario, fissiamo un elemento 𝑧 ∈ A. Siccome 𝑧 appartiene a ciascuno degli 𝐴𝑖 , esiste, sempre per ogni 𝑖, una palla 𝐵(𝑧, 𝑟𝑖 ) ⊆ 𝐴𝑖 . Posto 𝑟 ∶= min {𝑟𝑖 ∶ 𝑖 = 1, 2, … , 𝑛}, si ottiene 𝐵(𝑧, 𝑟) ⊆ A. Dall’arbitrarietà di 𝑧, si ottiene A ∈ 𝒜 . Naturalmente, dalla distanza discreta si ottiene la topologia discreta. Dato uno spazio metrico, la coppia (𝑋, 𝑑) indicherà, di regola, sia lo spazio metrico sia il corrispondente spazio topologico; solo quando sarà necessario per
3.2. Proprietà topologiche degli spazi metrici
103
evitare ambiguità, indicheremo con 𝜏𝑑 la topologia indotta su 𝑋 dalla distanza 𝑑. Corollario 3.31. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico. 1. Le palle aperte sono una base (di aperti) per la topologia 𝜏𝑑 . 2. Un sottoinsieme 𝑈 ⊆ 𝑋 è un intorno di un punto 𝑧 ∈ 𝑋 se e solo se contiene una palla aperta di centro 𝑧. 3. (𝑋, 𝑑) è uno spazio topologico primo numerabile. 4. (𝑋, 𝑑) è uno spazio topologico di Fréchet e, quindi, sequenziale.
Dimostrazione. Le prime due affermazioni discendono immediatamente dalla definizione 3.28 e dal Lemma 3.29. Per la 3, basta prendere, per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, le palle di centro 𝑧 e raggio 1/𝑛, con 𝑛 ∈ ℕ+ . La 4 discende dalla Proposizione 2.57.1 e dal Teorema 2.55. Dalla Proposizione 3.31.4 si ottiene che: In uno spazio metrico la chiusura di un insieme coincide con la sua chiusura sequenziale. Inoltre (cfr. Proposizione 2.62.2) Una funzione 𝑓 di uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) in uno spazio topologico qualunque è continua se (e solo se) è sequenzialmente continua. Lemma 3.32. In uno spazio metrico le palle chiuse sono insiemi chiusi.
Dimostrazione. In uno spazio metrico (𝑋, 𝑑), siano dati una palla chiusa 𝐵[𝑧, 𝑟] e un punto 𝑦 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐵[𝑧, 𝑟]. Proviamo che, posto 𝑠 ∶= 𝑑(𝑧, 𝑦) − 𝑟, si ha 𝐵[𝑧, 𝑟] ∩ 𝐵(𝑦, 𝑠) = ∅. Se, per assurdo, esistesse un 𝑥 ∈ 𝐵[𝑧, 𝑟] ∩ 𝐵(𝑦, 𝑠), si avrebbe 𝑑(𝑦, 𝑧) ≤ 𝑑(𝑦, 𝑥) + 𝑑(𝑥, 𝑧) < 𝑠 + 𝑟 = 𝑑(𝑧, 𝑦).
Osservazione 3.33. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico. Per ogni palla aperta 𝐵(𝑧, 𝑟) si ha, per definizione di chiusura e per il lemma precedente, cl 𝐵(𝑧, 𝑟) ⊆ 𝐵[𝑧, 𝑟]. Dualmente, per definizione di interno e per il Lemma 3.29, si ha 𝐵(𝑧, 𝑟) ⊆ int 𝐵[𝑧, 𝑟]. Proviamo con un esempio, che non sempre sussistono le inclusioni opposte. In un insieme 𝑋 con almeno due elementi introduciamo la distanza (e quindi la topologia) discreta. Dato un punto 𝑧 ∈ 𝑋, si ha {𝑧} = 𝐵(𝑧, 1) = cl 𝐵(𝑧, 1) ≠ 𝐵[𝑧, 1] = 𝑋;
𝑋 = 𝐵[𝑧, 1] = int 𝐵[𝑧, 1] ≠ 𝐵(𝑧, 1) = {𝑧}.
Mostriamo inoltre, con due esempi, che in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) una palla aperta non è sempre un insieme regolarmente aperto e che, dualmente, una palla chiusa non è sempre un insieme regolarmente chiuso. Sia 𝑋(⊂ ℝ) ∶= [0, 1] dotato della distanza euclidea 𝑑2 . Si ha: 𝐵(0, 1) = [0, 1[ ≠ cl 𝐵(0, 1) = [0, 1] = 𝑋 = int 𝑋 = int(cl 𝐵(0, 1)).
Si tenga presente che in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), l’insieme 𝑋 è aperto.
3.2. Proprietà topologiche degli spazi metrici
104
Sia ora 𝑋(⊂ ℝ) ∶= [−1, 0] ∪ [1, 2] dotato della distanza euclidea 𝑑2 . Si ha: 𝐵[1, 1] = {0} ∪ [1, 2] ≠ [1, 2] = cl[1, 2[ = cl 𝐵(1, 1) = cl(int 𝐵[1, 1]).
Si tenga presente che in questo spazio metrico il punto 0 è interno a 𝑋 ma non a 𝐵[1, 1]. Vedremo nel prossimo capitolo che, nel caso particolare degli spazi normati, le cose stanno in modo diverso. (Si vedano le Proposizioni 3 e 4 del Teorema 4.9). ◁ Lemma 3.34. Per ogni punto 𝑧 in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) le palle chiuse di centro 𝑧 costituiscono una base di intorni del punto stesso.
Dimostrazione. Basta osservare che una palla aperta 𝐵(𝑧, 𝑟) di centro 𝑧 contiene la palla chiusa 𝐵[𝑧, 𝑟/2]. Teorema 3.35. 1. Ogni spazio metrico è uno spazio topologico completamente Hausdorff. 2. Ogni spazio metrico è uno spazio topologico regolare. Dimostrazione. 1. Siano dati due punti distinti 𝑦, 𝑧 di uno spazio metrico (𝑋.𝑑) e poniamo 𝑙 ∶= 𝑑(𝑦, 𝑧). Le palle 𝐵(𝑦, 𝑙/3) e 𝐵(𝑧, 𝑙/3) sono due intorni aperti, rispettivamente di 𝑦 e 𝑧, con chiusure disgiunte. Sia ha addirittura 𝐵[𝑦, 𝑙/3] ∩ 𝐵[𝑧, 𝑙/3] = ∅. Infatti se, per assurdo, esistesse un elemento 𝑥 ∈ 𝐵[𝑦, 𝑙/3] ∩ 𝐵[𝑧, 𝑙/3], si avrebbe 𝑑(𝑦, 𝑧) ≤ 𝑑(𝑦, 𝑥) + 𝑑(𝑥, 𝑧) ≤
2 𝑑(𝑦, 𝑧). 3
2. Uno spazio metrico, essendo 𝑇2 , è anche 𝑇1 ; inoltre è anche 𝑇3 , dato che ogni punto ha una base di intorni chiusi (cfr. Teorema 1.91). In particolare, ogni spazio metrico (𝑋, 𝑑) è di Hausdorff. Quindi, fra l’altro: ogni singoletto di 𝑋 è un insieme chiuso; un punto è di accumulazione per un insieme 𝐸 ⊆ 𝑋 (se e) solo se è di 𝜔-accumulazione; per le funzioni (successioni) a valori in 𝑋 c’è unicità del limite. Dai Teoremi 3.31 e 3.35 segue immediatamente che non tutte le topologie sono deducibili da distanze. Ci occuperemo di questo problema nel paragrafo 3.5. Dalla Proposizione 3.31.1 e dai Lemmi 2.2 e 2.76 si ottengono le ben note definizioni 𝜀, 𝛿 di continuità e limite espresse dal seguente risultato. Teorema 3.36. Siano dati due spazi metrici (𝑋, 𝑑),(𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊆ 𝑋) → 𝑋 ′ . 1. La funzione 𝑓 è continua in un punto 𝑥0 ∈ 𝐸 se e solo se (∀𝜀 > 0)(∃𝛿 > 0)(∀𝑥 ∈ 𝐸)(𝑑(𝑥, 𝑥0 ) < 𝛿 ⇒ 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥), 𝑓 (𝑥0 )) < 𝜀).
3.2. Proprietà topologiche degli spazi metrici
105
2. Dati 𝑥0 ∈ 𝒟 𝐸 e 𝑙 ∈ 𝑋 ′ , si ha lim𝑥→𝑥0 𝑓 (𝑥) = 𝑙 se e solo se
(∀𝜀 > 0)(∃𝛿 > 0)(∀𝑥 ∈ 𝐸)(0 < 𝑑(𝑥, 𝑥0 ) < 𝛿 ⇒ 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥), 𝑙) < 𝜀).
Possiamo ora chiarire la questione lasciata in sospeso nell’Esempio 3.27.
Definizione 3.37. Siano date due distanze 𝑑 e 𝑑 ′ su uno stesso insieme 𝑋. 1. Si dice che 𝑑 è più fine di 𝑑 ′ se la topologia 𝜏𝑑 è più fine della topologia 𝜏𝑑 ′ , ossia se è continua l’applicazione identica 𝑖 ∶ (𝑋, 𝑑) → (𝑋, 𝑑 ′ ) (cfr. pag. 43). 2. Si dice che le due distanze sono equivalenti se sono tali le topologie 𝜏𝑑 e 𝜏𝑑 ′ , ossia se l’applicazione identica 𝑖 ∶ (𝑋, 𝑑) → (𝑋, 𝑑 ′ ) è un omeomorfismo. ◁ È evidente che una distanza è sempre equivalente ad ogni sua dilatazione (cfr. Esempio 3.24). Si ha poi il seguente risultato che generalizza quanto visto nell’Esempio 3.27:
Teorema 3.38. Siano dati uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) e una funzione 𝑓 ∶ 𝐼 → 𝐼, con 𝐼 ∶= [0, +∞[, concava e con 𝑓 (𝑥) = 0 ⇔ 𝑥 = 0. Allora 𝑑 ′ ∶= 𝑓 ∘ 𝑑 è ancora una distanza su 𝑋 ed è equivalente a 𝑑. Dimostrazione. Dai Corsi di Analisi sappiamo che una funzione 𝑓 ∶ 𝐼 → 𝐼 che soddisfa alle nostre ipotesi è continua, crescente e subadditiva, ossia che da 0 ≤ 𝑎 ≤ 𝑏 segue 𝑓 (𝑎 + 𝑏) ≤ 𝑓 (𝑎) + 𝑓 (𝑏). Proviamo che 𝑑 ′ è ancora una distanza su 𝑋. Le proprietà 𝐷1, 𝐷2 e 𝐷3 sono immediate. Quali che siano 𝑥, 𝑦, 𝑧 ∈ 𝑋 si ha poi 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) = 𝑓 (𝑑(𝑥, 𝑦)) ≤ 𝑓 (𝑑(𝑥, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑦)) ≤
≤ 𝑓 (𝑑(𝑥, 𝑧)) + 𝑓 (𝑑(𝑧, 𝑦)) = 𝑑 ′ (𝑥, 𝑧) + 𝑑 ′ (𝑧, 𝑦).
Per provare che 𝑑 e 𝑑 ′ sono fra loro equivalenti, facciamo vedere che l’applicazione identica 𝑖 ∶ (𝑋, 𝑑) → (𝑋, 𝑑 ′ ) è un omeomorfismo. Consideriamo la palla aperta 𝐵𝑑 ′ (𝑧, 𝑟) = {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑑(𝑥, 𝑧)) < 𝑟}. Se risulta sup 𝑓 (𝐼) < 𝑟, si ha 𝑋 ⊆ 𝐵𝑑 ′ (𝑧, 𝑟). Se è sup 𝑓 (𝐼) ≥ 𝑟, si ha 𝐵𝑑 (𝑧, 𝑠) ⊆ 𝐵𝑑 ′ (𝑧, 𝑟), con 𝑠 ∶= 𝑓 −1 (𝑟). Veniamo al viceversa. Data la palla aperta 𝐵𝑑 (𝑧, 𝑟), per ogni suo punto 𝑥 si ha 𝑑(𝑥, 𝑧) < 𝑟; ciò accade se e solo se è 𝑑 ′ (𝑥, 𝑧) < 𝑠 ∶= 𝑓 (𝑟). È dunque 𝐵𝑑 ′ (𝑧, 𝑠) ⊆ 𝐵𝑑 (𝑧, 𝑟). Prendendo, per esempio, 𝑓 (𝑠) ∶= min{𝑠, 1}, oppure 𝑓 (𝑠) ∶= 𝑠/(1 + 𝑠), si riottengono delle distanze normalizzate equivalenti a quella data già viste in esempi precedenti.
Definizione 3.39. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico ed 𝐸 un sottoinsieme non vuoto di 𝑋. La restrizione di 𝑑 all’insieme 𝐸 ×𝐸 definisce una distanza 𝑑𝐸 su 𝐸 che viene detta indotta su 𝐸 dalla distanza in 𝑋. Quando non ci sono equivoci, indicheremo 𝑑𝐸 ancora con 𝑑. Lo spazio metrico (𝐸, 𝑑) è detto sottospazio metrico di (𝑋, 𝑑). ◁
3.2. Proprietà topologiche degli spazi metrici
106
Per la definizione appena vista, la distanza fra due punti di 𝐸 coincide con la distanza fra gli stessi due punti pensati come elementi di 𝑋. In questa situazione, abbiamo apparentemente due concetti di sottospazio: quello topologico e quello metrico. Più precisamente: (𝑋, 𝑑), in quanto spazio metrico, è anche spazio topologico con la topologia 𝜏 ∶= 𝜏𝑑 indotta dalla distanza 𝑑 (cfr. Teorema 3.30), pertanto 𝐸, come sottoinsieme di 𝑋 eredita la topologia 𝜏𝐸 come sottospazio topologico di 𝑋 (cfr. Definizione 1.56). D’altra parte, (𝐸, 𝑑𝐸 ), in quanto spazio metrico, possiede una topologia dedotta dalla distanza, che sarebbe naturale indicare con 𝜏𝑑𝐸 . È agevole verificare il seguente risultato: Teorema 3.40. Dati (𝑋, 𝑑) ed 𝐸 come nella definizione 3.39 e indicate con 𝜏𝐸 e 𝜏𝑑𝐸 le topologie indotte su 𝐸 da 𝜏 e da 𝑑𝐸 , si ha 𝜏𝐸 = 𝜏𝑑𝐸 . Una volta che sia stata assegnata una distanza fra i punti di uno spazio 𝑋, possiamo introdurre anche la nozione di distanza fra un punto e un sottoinsieme di 𝑋 e quella fra due suoi sottoinsiemi. Definizione 3.41. In uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) si considerino un punto 𝑧 e un sottoinsieme non vuoto 𝐸. Chiameremo distanza di 𝑧 da 𝐸 il numero reale 𝑑(𝑥, 𝐸) ∶= inf {𝑑(𝑥, 𝑧) ∶ 𝑥 ∈ 𝐸} .
◁
È evidente che, se 𝐸 si riduce a un singoletto {𝑤}, allora si ha 𝑑(𝑧, {𝑤}) = 𝑑(𝑧, 𝑤). Si tenga presente che, anche se si usa il termine “distanza” quella appena definita non rientra formalmente nella Definizione 3.3. Dalla definizione seguono alcune proprietà di verifica immediata. Teorema 3.42. Siano dati uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) e un sottoinsieme non vuoto 𝐸 ⊆ 𝑋. Allora: 1. Per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, si ha 𝑑(𝑧, 𝐸) ≥ 0, con 𝑑(𝑧, 𝐸) = 0 ⇔ 𝑧 ∈ cl 𝐸. 2. Per ogni 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, si ha 𝑑(𝑥, 𝐸) ≤ 𝑑(𝑥, 𝑦) + 𝑑(𝑦, 𝐸). 3. Per ogni 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, si ha |𝑑(𝑥, 𝐸) − 𝑑(𝑦, 𝐸)| ≤ 𝑑(𝑥, 𝑦). 4. L’applicazione 𝑥 ↦ 𝑑(𝑥, 𝐸) è continua (cfr. Teorema 3.71). A questo punto viene spontanea le seguente definizione.
Definizione 3.43. Dati uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) e due sottoinsiemi non vuoti 𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋, si pone 𝑑(𝐴, 𝐵) ∶= inf {𝑑(𝑎, 𝑏) ∶ (𝑎 ∈ 𝐴) ∧ (𝑏 ∈ 𝐵)} .
◁
Si ha così un’applicazione 𝑑 ∶ (𝒫 (𝑋) ⧵ {∅})2 → ℝ che non è però nemmeno una pseudometrica (cfr. Definizione 3.7). Il lettore verifichi che valgono solo la 𝐷1 e la 𝐷3. Osserviamo che può aversi 𝑑(𝐴, 𝐵) = 0 anche se cl 𝐴∩cl 𝐵 = ∅. Per esempio, in ℝ2 con la distanza euclidea basta considerare gli insiemi 𝐴 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑦 ≤ 0} e 𝐵 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑦 ≥ 𝑒𝑥 }.
3.2. Proprietà topologiche degli spazi metrici
107
Così non abbiamo quindi una vera distanza. Un possibile modo per introdurre una metrica su un sottoinsieme significativo di 𝒫 (𝑋) si basa su un procedimento che conduce alla cosiddetta distanza di Hausdorff. Ce ne occuperemo più avanti (cfr. Definizione 7.90). Le proprietà della distanza fra un punto e un insieme espresse dal Teorema 3.42 permettono di mostrare che ogni spazio metrico è perfettamente normale. Teorema 3.44 (Perfetta normalità degli spazi metrici). Ogni spazio metrico è uno spazio topologico perfettamente normale. Dimostrazione. Sia 𝐶 un sottoinsieme chiuso e non vuoto di uno spazio metrico (𝑋, 𝑑). Consideriamo la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] definita da 𝑓 (𝑥) ∶=
𝑑(𝑥, 𝐶) 1 + 𝑑(𝑥, 𝐶)
Essa è chiaramente continua e si annulla in tutti e soli i punti di 𝐶 che, pertanto, è uno zero-insieme. Essendo chiaramente 𝑇1 , per il Teorema 2.114, si ha che (𝑋, 𝜏𝑑 ) è perfettamente normale. Dai Teoremi 2.110, 2.115, 2.112 e 3.44 segue immediatamente il seguente risultato. Corollario 3.45. 1. Ogni spazio metrico è completamente regolare e completamente normale. 2. In uno spazio metrico tutti i chiusi sono 𝐺𝛿 . Per esercizio, il lettore dimostri la 2 per via diretta. Avendo visto che ogni spazio metrico è perfettamente normale, abbiamo che, dati due insiemi non vuoti, chiusi e disgiunti 𝐴, 𝐵 in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑), esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓 −1 ({0}) = 𝐴 e 𝑓 −1 ({1}) = 𝐵. Nel caso degli spazi metrici, una tale funzione può essere definita in modo diretto ed elementare. Sussiste infatti il seguente risultato: Lemma 3.46. Siano dati uno spazio metrico (𝑋, 𝑑), due chiusi, non vuoti e disgiunti 𝐴, 𝐵 e due numeri reali 𝑎, 𝑏, con 𝑎 < 𝑏. La funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝑑) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) definita da 𝑏 𝑑(𝑥, 𝐴) + 𝑎 𝑑(𝑥, 𝐵) 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑑(𝑥, 𝐴) + 𝑑(𝑥, 𝐵) è continua, assume i suoi valori in [𝑎, 𝑏] e si ha 𝑓 −1 ({𝑎}) = 𝐴, 𝑓 −1 ({𝑏}) = 𝐵.
Dimostrazione. La continuità di 𝑓 segue subito dalla Proposizione 3.42.4 e dal Teorema 2.9 sulla continuità della funzione composta. È poi immediato che si ha 𝑎 ≤ 𝑓 (𝑥) ≤ 𝑏. Altrettanto facilmente si vede che si ha 𝑓 (𝑥) = 𝑎 [𝑓 (𝑥) = 𝑏] se e solo se è 𝑎 𝑑(𝑥, 𝐴) = 𝑏 𝑑(𝑥, 𝐴) [𝑎 𝑑(𝑥, 𝐵) = 𝑏 𝑑(𝑥, 𝐵)] e quindi se e solo se è 𝑥 ∈ cl 𝐴 = 𝐴 [𝑥 ∈ cl 𝐵 = 𝐵].
3.3. Completezza e continuità uniforme
3.3
108
Completezza e continuità uniforme
Cominciamo col sottolineare un utile risultato.
Lemma 3.47. Una successione (𝑥𝑛 )𝑛 in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) converge a una elemento 𝑧 ∈ 𝑋 se e solo se si ha lim𝑛→+∞ 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑧) = 0.
Dimostrazione. Una successione converge a 𝑧 se e solo se finisce in ogni intorno di 𝑧 e quindi, in particolare, se e solo se finisce in ogni palla aperta di centro 𝑧. Ciò equivale a dire che, per ogni 𝜀 > 0, si ha definitivamente 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑧) < 𝜀. Vogliamo ora arrivare al concetto di completezza di uno spazio metrico.
Definizione 3.48. Una funzione a valori in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) (in particolare, una successione in (𝑋, 𝑑)) è detta limitata se è tale l’insieme immagine (cfr. Definizione 3.9). ◁
Definizione 3.49. Una successione 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) è detta di Cauchy se soddisfa alla seguente condizione, detta appunto condizione di Cauchy: (∀𝜀 > 0)(∃𝑛 ∈ ℕ)(∀𝑛 ∈ ℕ)(∀𝑚 ∈ ℕ)
((𝑛 > 𝑛) ∧ (𝑚 > 𝑛) ⇒ 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑚 ) < 𝜀).
Teorema 3.50. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico. 1. Ogni successione convergente in 𝑋 è di Cauchy. 2. Ogni successione di Cauchy in 𝑋 è limitata.
◁
Dimostrazione. 1. Sia data una successione (𝑥𝑛 )𝑛 in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) convergente a un elemento 𝑧 ∈ 𝑋. Dunque (∀𝜀 > 0)(∃𝑛 ∈ ℕ)(∀𝑛 ∈ ℕ)(𝑛 > 𝑛 ⇒ 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑧) < 𝜀/2).
Ora, dati due indici 𝑛, 𝑚 > 𝑛, si ha
𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑚 ) ≤ 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑥𝑚 ) < 2
𝜀 = 𝜀. 2
2. Data una successione di Cauchy (𝑥𝑛 )𝑛 e scelto un numero reale 𝜀 > 0, fissiamo un indice 𝑚 maggiore del corrispondente 𝑛. Per ogni 𝑛 > 𝑛, si ha 𝑥𝑛 ∈ 𝐵(𝑥𝑚 , 𝜀). Gli unici punti che possono eventualmente non appartenere alla palla 𝐵(𝑥𝑚 , 𝜀) sono 𝑥0 , 𝑥1 , … , 𝑥𝑛 . Posto 𝑟 ∶= max{𝜀, 𝑑(𝑥0 , 𝑥𝑚 ), 𝑑(𝑥1 , 𝑥𝑚 ), … , 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑚 )},
si ottiene 𝑥𝑛 ∈ 𝐵(𝑥𝑚 , 𝑟), ∀𝑛 ∈ ℕ.
3.3. Completezza e continuità uniforme
109
Osservazione 3.51. Le due affermazioni del teorema precedente non sono invertibili. In (ℝ.𝑑2 ) la successione di termine generale (−1)𝑛 è limitata, ma non è di Cauchy. 𝑛 In (ℚ, 𝑑2 ) la successione di termine generale (1 + 1𝑛 ) è di Cauchy, ma non è convergente in ℚ. Sappiamo, infatti, che questa successione converge al numero 𝑒 ∈ ℝ ⧵ ℚ. ◁ Interessa il caso in cui tutte le successioni di Cauchy sono convergenti.
Definizione 3.52. Uno spazio metrico in cui ogni successione di Cauchy è convergente è detto completo. ◁ Dall’osservazione precedente si ha che lo spazio (ℚ, 𝑑2 ) non è completo. Vogliamo provare che, invece, è completo lo spazio (ℝ, 𝑑2 ).
Lemma 3.53. Se in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) una successione di Cauchy 𝑆 ha una sottosuccessione convergente a un elemento 𝑧 ∈ 𝑋, allora anche 𝑆 converge a 𝑧. Dimostrazione. Supponiamo che la successione di Cauchy (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋 ammetta una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 convergente a un elemento 𝑧 ∈ 𝑋. Dunque, fissato un 𝜀 > 0, esiste un indice 𝑛 tale che da 𝑛𝑘 > 𝑛 segue 𝑑(𝑥𝑛𝑘 , 𝑧) < 𝜀/2. Per la condizione di Cauchy, esiste un 𝑛 ̃ tale che da 𝑛, 𝑚 > 𝑛 ̃ si ha 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑚 ) < 𝜀/2. Poniamo 𝑛∗ ∶= max{𝑛,̃ 𝑛} e fissiamo un indice 𝑛𝑘 > 𝑛∗ . Per ogni 𝑛 > 𝑛∗ si ha 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑧) ≤ 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑛 ) + 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑧) ≤ 2 𝑘
𝑘
𝜀 = 𝜀. 2
Teorema 3.54 (Completezza di ℝ). (ℝ, 𝑑2 ) è uno spazio metrico completo.
Dimostrazione. Sia 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 una successione di Cauchy in (ℝ, 𝑑2 ). Per il lemma precedente, basta provare che essa ammette una sottosuccessione convergente. Se 𝑆 ha una sottosuccessione costante, la tesi è ovvia; in caso contrario, non è restrittivo supporre che 𝑆 sia fatta da elementi distinti. Essendo 𝑆 limitata (cfr. Proposizione 3.50.2), esiste un intervallo 𝐼0 ∶= [𝑎0 , 𝑏0 ] contenente l’insieme immagine 𝑆(ℕ). Poniamo 𝑙 ∶= 𝑏0 − 𝑎0 e 𝑐0 ∶= (𝑎0 + 𝑏0 )/2. In almeno uno dei due intervalli [𝑎0 , 𝑐0 ] e [𝑐0 , 𝑏0 ] cadono infiniti punti della successione: sia questo 𝐼1 ∶= [𝑎1 , 𝑏1 ]. Si ha 𝑏1 − 𝑎1 = 𝑙/2. Operiamo su 𝐼1 come su 𝐼0 . Prendiamo il punto medio 𝑐1 ; in almeno uno degli intervalli (di ampiezza 𝑙/22 ) [𝑎1 , 𝑐1 ] e [𝑐1 , 𝑏1 ] cadono infiniti punti della successione: sia questo 𝐼2 ∶= [𝑎2 , 𝑏2 ]. Supponiamo di aver definito gli intervalli chiusi 𝐼𝑘 ∶= [𝑎𝑘 , 𝑏𝑘 ] per ogni 𝑘 < 𝑛. Si definisce allora 𝑐𝑛−1 il punto medio dell’intervallo [𝑎𝑛−1 , 𝑏𝑛−1 ]. in almeno uno degli intervalli [𝑎𝑛−1 , 𝑐𝑛−1 ] e [𝑐𝑛−1 , 𝑏𝑛−1 ] cadono infiniti punti della successione: sia questo 𝐼𝑛 ∶= [𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ]: la sua ampiezza è 𝑙/2𝑛 .
3.3. Completezza e continuità uniforme
110
Restano così definite le due successioni (𝑎𝑛 )𝑛 e (𝑏𝑛 )𝑛 . Per ogni 𝑛, si ha, ovviamente, 𝑎𝑛 ≤ 𝑎𝑛+1 e 𝑏𝑛 ≥ 𝑏𝑛+1 ; inoltre, quali che siano gli indici 𝑚, 𝑛, si ha 𝑎𝑛 < 𝑏𝑚 : infatti, si ha 𝑎𝑛 ≤ 𝑎𝑛+𝑚 < 𝑏𝑛+𝑚 ≤ 𝑏𝑚 . Dunque le classi numeriche 𝐴 ∶= {𝑎𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} e 𝐵 ∶= {𝑏𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} sono separate. Esse sono addirittura contigue, dato che 𝑏𝑛 − 𝑎𝑛 → 0. Per la continuità di ℝ, esiste un unico elemento 𝑧 separatore delle due classi. Sia 𝑖0 ∶= 0 e, per ogni 𝑛 > 0, sia 𝑖𝑛 il minimo indice maggiore di 𝑖𝑛−1 per cui è 𝑥𝑖𝑛 ∈ 𝐼𝑛 . Si constata che la sottosuccessione (𝑥𝑖𝑛 )𝑛 di 𝑆 converge a 𝑧. Nella precedente dimostrazione abbiamo chiaramente sfruttato la continuità di ℝ nel senso di Dedekind. Alcuni autori chiamano questa proprietà completezza secondo Dedekind. I concetti di Cauchy-completezza e di Dedekindcompletezza sono fra loro collegati, ma non equivalenti. Ritorneremo su questo argomento nel capitolo sugli insiemi ordinati. Teorema 3.55. 1. Sia 𝐸 un arbitrario insieme non vuoto. Lo spazio metrico ℱ𝑏 (𝐸) = ℱ𝑏 (𝐸, ℝ) delle funzioni limitate di 𝐸 in (ℝ, 𝑑2 ) con la distanza lagrangiana è completo. 2. Se (𝐸, 𝜏) è uno spazio topologico, lo spazio metrico 𝐶𝑏 (𝐸) = 𝐶 ∗ (𝐸) delle funzioni continue e limitate di (𝐸, 𝜏) in (ℝ, 𝑑2 ) con la distanza lagrangiana è completo.
Dimostrazione. 1. Sia (𝑓𝑛 )𝑛 una successione di Cauchy in ℱ𝑏 (𝐸). Ne viene che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, la successione numerica (𝑓𝑛 (𝑥))𝑛 è di Cauchy e quindi convergente, dato che ℝ è completo. Poniamo, per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, 𝜑(𝑥) ∶= lim𝑛→∞ 𝑓𝑛 (𝑥). Proviamo che la funzione 𝜑 ∶ 𝐸 → ℝ così ottenuta appartiene a ℱ𝑏 (𝐸) e che si ha lim𝑛→∞ 𝑑∞ (𝑓𝑛 , 𝜑) = 0. Fissato un 𝜀 > 0, esiste un 𝑛 ∈ ℕ tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, da 𝑛, 𝑚 > 𝑛 segue |𝑓𝑛 (𝑥) − 𝑓𝑚 (𝑥)| < 𝜀/3 e quindi, passando al limite per 𝑚 → ∞, si ottiene, sempre per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, |𝑓𝑛 (𝑥) − 𝜑(𝑥)| ≤ 𝜀/3, < 𝜀. Fissato un 𝑘 > 𝑛, si ha, per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, |𝑓𝑘 (𝑥) − 𝜑(𝑥)| < 𝜀, da cui 𝑓𝑘 (𝑥) − 𝜀 ≤ 𝜑(𝑥) ≤ 𝑓𝑘 (𝑥) + 𝜀. Dunque anche 𝜑 è limitata e, inoltre, si ha lim𝑛→∞ 𝑑∞ (𝑓𝑛 , 𝜑) = 0. 2. Basta provare che la funzione 𝜑 ottenuta al punto precedente è continua. Fissiamo uno 𝑧 ∈ 𝐸 e ancora 𝑘 > 𝑛. Per la continuità di 𝑓𝑘 in 𝑧, esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐸 ∩ 𝑈 , si ha |𝑓𝑘 (𝑥) − 𝑓𝑘 (𝑧)| < 𝜀/3. Per gli stessi 𝑥 si ha poi |𝜑(𝑥) − 𝜑(𝑧)| ≤
≤ |𝜑(𝑥) − 𝑓𝑘 (𝑥)| + |𝑓𝑘 (𝑥) − 𝑓𝑘 (𝑧)| + |𝑓𝑘 (𝑧) − 𝜑(𝑧)| < 3
𝜀 = 𝜀. 3
Dunque 𝜑 è anche continua. Sappiamo già che 𝑑∞ (𝑓𝑛 , 𝜑) → 0 al tendere di 𝑛 a ∞. Con ovvie modifiche puramente formali nella dimostrazione, il teorema appena visto può essere generalizzato, a patto di estendere la definizione di di-
3.3. Completezza e continuità uniforme
111
stanza lagrangiana al caso di funzioni a valori in uno spazio metrico arbitrario (cfr. Esempi 3.19 e 4.11). Siano 𝐸 un insieme non vuoto e (𝑌 , 𝑑) uno spazio metrico. Date due funzioni 𝑓 , 𝑔 ∶ 𝐸 → 𝑌 , si pone 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) ∶= sup {𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑔(𝑥)) ∶ 𝑥 ∈ 𝐸} .
Chiaramente, tale estremo superiore potrebbe anche essere infinito. Tuttavia, se consideriamo il sottoinsieme di 𝑌 𝐸 costituito dalle funzioni limitate, si ottiene effettivamente una distanza. Il Teorema 3.55 è generalizzato dal seguente risultato la cui verifica è lasciata per esercizio al lettore. Teorema 3.56. 1. Sia 𝐸 un insieme non vuoto. Lo spazio ℱ𝑏 (𝐸, 𝑌 ) delle funzioni limitate di 𝐸 in uno spazio metrico completo (𝑌 , 𝑑) con la distanza lagrangiana è completo. 2. Se (𝐸, 𝜏) è uno spazio topologico, lo spazio metrico 𝐶𝑏 (𝐸, 𝑌 ) = 𝐶 ∗ (𝐸, 𝑌 ) delle funzioni continue e limitate di 𝐸 in uno spazio metrico completo (𝑌 , 𝑑) con la distanza lagrangiana è completo.
Si è già detto che, essendo gli spazi metrici sequenziali, un’applicazione fra spazi metrici è continua se e solo se è sequenzialmente continua (cfr. Teoremi 3.31 e 2.62). Vogliamo stabilire un analogo risultato riguardante i limiti di funzioni. Teorema 3.57. Siano dati due spazi metrici (𝑋, 𝑑), (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊂ 𝑋) → 𝑋 ′ e un punto 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. La funzione 𝑓 ammette limite per 𝑥 → 𝑧 se (e solo se), per ogni successione (𝑥𝑛 )𝑛 di punti di 𝐸 convergente a 𝑧, la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 ammette limite.
Dimostrazione. Basta, ovviamente, provare il “se” (cfr. Lemma 2.83). Supponiamo dunque che, per ogni successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐸 convergente a 𝑧, esista il lim𝑛→∞ 𝑓 (𝑥𝑛 ). Osserviamo, intanto, che tutte le successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 , con 𝑥𝑛 → 𝑧, devono avere lo stesso limite. Infatti, date due successioni (𝑥𝑛 )𝑛 e (𝑦𝑛 )𝑛 in 𝐸 convergenti a 𝑧, deve convergere a 𝑧 anche un loro incastro (𝑢𝑛 )𝑛 ; esiste dunque anche il lim𝑛→+∞ 𝑓 (𝑢𝑛 ) =∶ 𝑙. Per il limite delle sottosuccessioni, devono tendere a 𝑙 anche le successioni (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 e (𝑓 (𝑦𝑛 ))𝑛 . Diciamo dunque 𝑙 il limite di tutte le successioni del tipo (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 , con 𝑥𝑛 → 𝑧, e proviamo che è anche 𝑙 = lim𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥). Se così non fosse, esisterebbe un 𝜀 > 0 tale che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ esisterebbe un 𝑥𝑛 ∈ 𝐸 ∩ 𝐵(𝑧, 1/𝑛) con ̸ contro quanto provato in 𝑓 (𝑥𝑛 ) ∉ 𝐵(𝑙, 𝜀). Si otterrebbe 𝑥𝑛 → 𝑧 e 𝑓 (𝑥𝑛 )→𝑙, precedenza.
Teorema 3.58 (di Cauchy). Siano dati: uno spazio metrico (𝑋, 𝑑), uno spazio metrico completo (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊂ 𝑋) → 𝑋 ′ e un punto 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. La funzione 𝑓 ammette limite per 𝑥 → 𝑧 se e solo se, per ogni 𝜀 > 0, esiste un intorno 𝑈𝜀 di 𝑧 tale che, per ogni 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝐸 ∩ 𝑈𝜀 , si ha 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥1 ), 𝑓 (𝑥2 )) < 𝜀.
3.3. Completezza e continuità uniforme
112
Dimostrazione. Supponiamo che esista 𝑙 ∶= lim𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥)(∈ 𝑋 ′ ). Per ogni 𝜀 > 0 esiste un intorno 𝑈𝜀 ∈ 𝒰(𝑧) tale che 𝑓 (𝑈𝜀 ∩ 𝐸) ⊆ 𝐵(𝑙, 𝜀/2). Per ogni coppia di punti 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝑈𝜀 ∩𝐸, si ha 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥1 ), 𝑓 (𝑥2 )) ≤ 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥1 ), 𝑙)+𝑑 ′ (𝑙, 𝑓 (𝑥2 )) < 2 2𝜀 = 𝜀. Veniamo al viceversa. Dall’ipotesi, si ha che (∀𝑛 ∈ ℕ+ )(∃𝑚(𝑛) ∈ ℕ+ )(∀𝑥1 ∈ 𝐸)(∀𝑥2 ∈ 𝐸)
(((𝑥1 ∈ 𝐵(𝑧, 1/𝑚)) ∧ (𝑥2 ∈ 𝐵(𝑧, 1/𝑚)) ⇒ 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥1 ), 𝑓 (𝑥2 )) < 1/𝑛).
Non è restrittivo supporre che da 𝑛′ < 𝑛″ segue 𝑚(𝑛′ ) < 𝑚(𝑛″ ). Dunque la successione delle palle (𝐵(𝑧, 1/𝑚(𝑛)))𝑛 è decrescente per inclusione e si ha 1/𝑚(𝑛) → 0 per 𝑛 → ∞. Ne viene che se (𝑥𝑘 )𝑘 è una successione di 𝐸 convergente a 𝑧, la successione (𝑓 (𝑥𝑘 ))𝑘 è di Cauchy e quindi convergente per la completezza di (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ). La tesi segue ora dal teorema precedente. Definizione 3.59. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico ed 𝐸 un suo sottoinsieme. Si chiama diametro di 𝐸 l’elemento diam 𝐸 ∶= sup {𝑑(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥, 𝑦 ∈ 𝐸} ∈ ℝ ∪ {∞}.3
◁
Definizione 3.60. Sia (𝐶𝑛 )𝑛 una successione di sottoinsiemi chiusi e non vuoti di uno spazio metrico 𝑋. Diremo che questa è una successione evanescente di Cantor se è decrescente per inclusione e il diametro di 𝐶𝑛 tende a zero; ossia se (∀𝑛 ∈ ℕ)(𝐶𝑛 ⊇ 𝐶𝑛+1 ), diam 𝐶𝑛 −−−−−→ 0. ◁ Sussiste il seguente risultato:
𝑛→+∞
Teorema 3.61 (Lemma di Cantor per successioni evanescenti). Uno spazio metrico 𝑋 è completo se e solo se, per ogni successione (di chiusi non vuoti) evanescente di Cantor (𝐶𝑛 )𝑛 , esiste uno (ed un solo) elemento 𝑥̃ ∈ 𝑋 tale che ̃ ⋂𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 = {𝑥}.
Dimostrazione. Supponiamo, intanto, 𝑋 completo e sia (𝐶𝑛 )𝑛 una successione evanescente di Cantor. Poniamo 𝑑𝑛 ∶= diam 𝐶𝑛 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝑥𝑛 ∈ 𝐶𝑛 = 𝐶1 ∩ ⋯ ∩ 𝐶𝑛 . La successione 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 è di Cauchy. Infatti, fissato un 𝑛,̄ per ogni 𝑚, 𝑘 maggiori di 𝑛,̄ si ha 𝑥𝑚 , 𝑥𝑘 ∈ 𝐶𝑛̄, da cui 𝑑(𝑥𝑚 , 𝑥𝑘 ) ≤ 𝑑𝑛̄ → 0, al tendere di 𝑛 ̄ a infinito. Essendo 𝑋 completo, la successione 𝑆 converge a un elemento 𝑥̂ ∈ 𝑋. Fissiamo un 𝑛. Per ogni 𝑘 ≥ 𝑛, si ha 𝑥𝑘 ∈ 𝐶𝑛 , da cui anche 𝑥̂ ∈ 𝐶𝑛 . È dunque 𝑥̂ ∈ ⋂𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 . Quest’ultimo insieme non può contenere più di un elemento. Infatti, da 𝑥, 𝑦 ∈ ⋂𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 , si otterrebbe 𝑑𝑛 ≥ 𝑑(𝑥, 𝑦), ∀𝑛, contro il fatto che è 𝑑𝑛 → 0. 3 Data una palla (aperta o chiusa) 𝐵 di raggio 𝑟 in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑), si ha subito 𝑟 ≤ 𝑑 ∶= diam 𝐵 ≤ 2𝑟. Si tenga presente che può ben essere 𝑑 < 2𝑟. Basta prendere, in un insieme con più di un elemento con la distanza discreta, una palla di raggio 𝑟 < 1; in questo caso si ha 𝑟 = 𝑑 < 2𝑟. O anche: in [0, 1]2 ⊂ (ℝ2 , 𝑑2 ), la palla 𝐵[0, 1]; in questo caso si ha 1 = 𝑟 < 𝑑 = √2 < 2.
3.3. Completezza e continuità uniforme
113
Proviamo ora il viceversa. Sia dunque 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 una successione di Cauchy. Sappiamo che, se 𝑆 ha una sottosuccessione convergente, allora è anch’essa convergente. Se 𝑆 ha una sottosuccessione costante, siamo a posto; in caso contrario, non è restrittivo supporre che i suoi elementi siano tutti distinti. Per ogni 𝑛, poniamo ora 𝐶𝑛 ∶= cl {𝑥𝑘 ∶ 𝑘 ≥ 𝑛}. La successione (𝐶𝑛 )𝑛 è fatta da insiemi chiusi non vuoti ed è decrescente per inclusione. Siccome 𝑆 è di Cauchy, dato 𝜀 > 0, esiste un 𝑛𝜀 tale che, per ogni 𝑚, 𝑘 ≥ 𝑛𝜀 , si ha 𝑑(𝑥𝑚, , 𝑥𝑘 ) < 𝜀. Ciò comporta che è 𝑑𝑛𝜀 ∶= diam 𝐶𝑛𝜀 ≤ 𝜀 (Esercizio!). Dunque (𝐶𝑛 )𝑛 è una successione evanescente di Cantor. Sia {𝑥}̃ ∶= ⋂𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 . Si ottiene 𝑥𝑛 → 𝑥,̃ dato che 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥)̃ → 0. Teorema 3.62 (di Baire). Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico non vuoto e completo. Se {𝐴𝑛 }𝑛∈ℕ è una famiglia numerabile di sottoinsiemi aperti e densi in 𝑋, allora anche ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 è un sottoinsieme denso in 𝑋. Dimostrazione. Sia 𝐴∞ ∶= ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 . Dobbiamo provare che è cl 𝐴∞ = 𝑋, ossia che, per ogni 𝑦 ∈ 𝑋 è 𝑦 ∈ cl 𝐴∞ . Fissiamo dunque un arbitrario 𝑦 ∈ 𝑋 e un arbitrario 𝑟 > 0 e proviamo che ∃𝑤 ∈ 𝐴∞ ∩ 𝐵(𝑦, 𝑟). Essendo 𝐴1 denso in 𝑋, esiste un 𝑥1 ∈ 𝐴1 ∩ 𝐵(𝑦, 𝑟). Quest’ultimo insieme è aperto; esiste quindi un 𝑟1 < 1 tale che 𝐵[𝑥1 , 𝑟1 ] ⊂ 𝐴1 ∩ 𝐵(𝑦, 𝑟). Essendo 𝐴2 denso in 𝑋, esiste un 𝑥2 ∈ 𝐴2 ∩ 𝐵(𝑥1 , 𝑟1 ). Quest’ultimo insieme è aperto; esiste quindi un 𝑟2 < 12 tale che 𝐵[𝑥2 , 𝑟2 ] ⊂ 𝐴2 ∩ 𝐵(𝑥1 , 𝑟1 ). Supponiamo di aver definito 𝑥𝑘 e 𝑟𝑘 per ogni 𝑘 < 𝑛. Essendo 𝐴𝑛 denso in 𝑋, esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝐴𝑛 ∩ 𝐵(𝑥𝑛−1 , 𝑟𝑛−1 ). Quest’ultimo insieme è aperto; esiste quindi un 𝑟𝑛 < 1𝑛 tale che 𝐵[𝑥𝑛 , 𝑟𝑛 ] ⊂ 𝐴𝑛 ∩ 𝐵(𝑥𝑛−1 , 𝑟𝑛−1 ). La successione di termine generale 𝐵𝑛 ∶= 𝐵[𝑥𝑛 , 𝑟𝑛 ] è una successione evanescente di Cantor. Infatti, è decrescente per inclusione e, per ogni 𝑛, si ha diam 𝐵𝑛 ≤ 2𝑟𝑛 < 2𝑛 → 0. Essendo 𝑋 completo, esiste (Teorema 3.61) uno ed un solo 𝑤 ∈ ⋂𝑛∈ℕ 𝐵𝑛 . Per costruzione, si ha, per ogni 𝑛, 𝐵𝑛 ⊂ 𝐴𝑛 e quindi 𝑤 ∈ 𝐵𝑛 ⊂ 𝐴𝑛 ∩ 𝐵(𝑦, 𝑟). Ciò prova che è 𝑤 ∈ 𝐴∞ ∩ 𝐵(𝑦, 𝑟). Corollario 3.63. Se (𝑋, 𝑑) è uno spazio metrico completo (non vuoto) e privo di punti isolati, allora 𝑋 è un insieme più che numerabile. In particolare, ℝ non è numerabile. Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, 𝑋 numerabile. Sia dunque 𝑋 ∶= {𝑥0 , 𝑥1 , … , 𝑥𝑛 , … }. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ sia 𝐴𝑛 ∶= 𝑋 ⧵ {𝑥𝑛 }. Gli 𝐴𝑛 sono insiemi aperti e densi in 𝑋. Ora però si ha 𝐴 ∶= ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 = ∅, contro il fatto che, per il Teorema di Baire, 𝐴 dovrebbe essere denso in 𝑋.
Possiamo ora provare un’affermazione lasciata in sospeso dopo la Definizione 2.111. Corollario 3.64. Il sottoinsieme ℚ di (ℝ, 𝑑2 ) non è un 𝐺𝛿 .
3.3. Completezza e continuità uniforme
114
Dimostrazione. Sappiamo che ℝ ⧵ ℚ è un 𝐺𝛿 (ℚ è un 𝐹𝜎 ). È dunque ℝ ⧵ ℚ = ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 , con gli 𝐴𝑛 aperti. Se anche ℚ fosse un 𝐺𝛿 , si avrebbe anche ℚ = ⋂𝑛∈ℕ 𝐴′𝑛 , con gli 𝐴′𝑛 aperti. Gli 𝐴𝑛 e gli 𝐴′𝑛 sono sottoinsiemi densi di ℝ, essendo tali ℚ e ℝ ⧵ ℚ. Per il Teorema di Baire dovrebbe essere densa in ℝ anche l’intersezione di tutti questi insiemi, mentre si vede subito che questa intersezione è vuota. Riesaminiamo la definizione di continuità di una funzione fra spazi metrici. Una funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝑑) → (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) è continua in 𝑋 se e solo se lo è in ogni punto 𝑧 ∈ 𝑋. Dalla Proposizione 3.36.1 sappiamo che ciò accade se e solo se (∀𝑧 ∈ 𝑋)(∀𝜀 > 0)(∃𝛿(𝑧, 𝜀) > 0)(∀𝑥 ∈ 𝑋)(𝑑(𝑥, 𝑧) < 𝛿 ⇒ 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥), 𝑓 (𝑧)) < 𝜀).
Interessa il caso in cui 𝛿 dipende solo da 𝜀 e non dal punto 𝑧 che, in tal caso, perde il suo carattere di centralità.
Definizione 3.65. Siano dati due spazi metrici (𝑋, 𝑑) e (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ). Una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ è detta uniformemente continua se (∀𝜀 > 0)(∃𝛿(𝜀) > 0)(∀𝑥1 ∈ 𝑋)(∀𝑥2 ∈ 𝑋) (𝑑(𝑥1 , 𝑥2 ) < 𝛿 ⇒ 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥1 ), 𝑓 (𝑥2 )) < 𝜀).
◁
Ovviamente, ogni funzione uniformemente continua è continua in ogni punto del suo dominio. La funzione identica di uno spazio metrico in sé è uniformemente continua: basta prendere 𝛿 = 𝜀.
Esempio 3.66. Sia 𝑓 ∶ (ℝ, 𝑑2 ) → (ℝ, 𝑑2 ) definita da 𝑓 (𝑥) ∶= sin 𝑥. Quali che siano 𝑥1 , 𝑥2 ∈ ℝ, con 𝑥1 ≠ 𝑥2 , si ha | sin 𝑥1 − sin 𝑥2 | = 2 |sin
𝑥1 − 𝑥 2 𝑥 + 𝑥2 ⋅ cos 1 < |𝑥1 − 𝑥2 |. | | 2 2 |
Dunque la funzione seno è uniformemente continua: basta prendere 𝛿 = 𝜀.
◁
Non tute le funzioni continue sono uniformemente continue.
Esempio 3.67. Proviamo che la funzione continua 𝑓 ∶ (ℝ, 𝑑2 ) → (ℝ, 𝑑2 ) definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥2 non è uniformemente continua. Fissiamo 𝜀 > 0. Per ogni 𝛿 > 0, dati 𝑥1 ∈ ℝ e 𝑥2 ∶= 𝑥1 + 𝛿/2, si ha 𝛿 𝛿 2 2 −−−→ +∞. |𝑥1 − 𝑥2 | = |𝑥1 − 𝑥2 | ⋅ |𝑥1 + 𝑥2 | = 2 |2𝑥1 + 2 | −𝑥−−→+∞ 1
◁
Stabiliamo ora una condizione sufficiente per l’uniforme continuità.
Definizione 3.68. Siano dati due spazi metrici (𝑋, 𝑑) e (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ). Una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ è detta lipschitziana di costante 𝑘 se esiste un numero reale positivo 𝑘 tale che (Condizione di Lipschitz) (∀𝑥1 ∈ 𝑋)(∀𝑥2 ∈ 𝑋)(𝑑 ′ (𝑓 (𝑥1 ), 𝑓 (𝑥2 )) ≤ 𝑘𝑑(𝑥1 , 𝑥2 )).
◁
3.3. Completezza e continuità uniforme
115
Naturalmente, se 𝑘 è una costante di Lipschitz, è tale ogni numero maggiore di 𝑘. Interessa invece prendere 𝑘 in modo che sia il più piccolo possibile. Diciamo 𝑘 l’estremo inferiore delle costanti di Lipschitz della funzione 𝑓 . Si constata facilmente (Esercizio!) che, se è 𝑘 = 0, allora 𝑓 è costante, mentre in caso contrario 𝑘 è la minima costante di Lipschitz. La funzione identica di uno spazio metrico in sé è lipschitziana di costante 1, così come la funzione seno di (ℝ, 𝑑2 ) in sé. Teorema 3.69. Ogni funzione lipschitziana è uniformemente continua.
Dimostrazione. Sia 𝑓 ∶ (𝑋, 𝑑) → (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) una funzione lipschitziana di costante 𝑘(> 0). Fissato un 𝜀 > 0, prendiamo 𝛿 ∶= 𝜀/𝑘. Dati 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝑋 con 𝑑(𝑥1 , 𝑥2 ) < 𝛿, si ottiene 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥1 ), 𝑓 (𝑥2 )) ≤ 𝑘𝑑(𝑥1 , 𝑥2 ) < 𝑘𝛿 = 𝜀. Esistono, per contro, funzioni uniformemente continue non lipschitziane.
Esempio 3.70. Consideriamo la funzione 𝑓 ∶ [0, +∞[ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= √𝑥. La funzione non è lipschitziana dato che (√𝑥−√0)/(𝑥−0) tende a infinito per 𝑥 → 0+ . Proviamo che è uniformemente continua. Fissiamo un 𝜀 > 0. Sia intanto 0 ≤ 𝑥1 < 𝑥2 ≤ (𝜀/2)2 . Si ottiene √𝑥2 − √𝑥1 ≤ √(𝜀/2)2 − 0 = 𝜀/2.
Sia ora (𝜀/2)2 ≤ 𝑥1 < 𝑥2 , con 𝑥2 − 𝑥1 < 𝜀2 /2. Si ottiene √𝑥2 − √𝑥1 =
𝑥2 − 𝑥 1
√𝑥2 + √𝑥1
≤
𝑥2 − 𝑥 1 𝜀 < . 𝜀 2
In conclusione, dato 𝜀 > 0, si ponga 𝛿 = 𝜀2 /4. Prendiamo due punti 𝑥1 < 𝑥2 con 𝑥2 − 𝑥1 < 𝛿 e proviamo che si ha 𝑓 (𝑥2 ) − 𝑓 (𝑥1 ) < 𝜀. I casi 𝑥2 ≤ 𝛿 e 𝑥1 ≥ 𝛿 sono già stati studiati. Sia dunque 𝑥1 < 𝛿 < 𝑥2 . Si ottiene 𝑓 (𝑥2 ) − 𝑓 (𝑥1 ) = (𝑓 (𝑥2 ) − 𝑓 (𝛿)) + (𝑓 (𝛿) − 𝑓 (𝑥1 )) ≤ 2
dato che risulta 𝛿 − 𝑥1 < (𝜀/2)2 e 𝑥2 − 𝛿 < 𝜀2 /2.
𝜀 = 𝜀, 2
◁
Teorema 3.71. In uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) fissiamo un sottoinsieme non vuoto 𝐸 e consideriamo la funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝑑) → (ℝ, 𝑑2 ) definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑑(𝑥, 𝐸). La funzione 𝑓 è lipschitziana (di costante 1) e quindi uniformemente continua. Ciò vale in particolare per la funzione 𝑥 ↦ 𝑑(𝑥, 𝑧), con 𝑧 elemento fissato di 𝑋. Dimostrazione. La cosa è immediata, dato che, per ogni coppia di punti 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝑋, dalla Proposizione 3.42.3 si ha |𝑓 (𝑥1 ) − 𝑓 (𝑥2 )| = |𝑑(𝑥1 , 𝐸) − 𝑑(𝑥2 , 𝐸)| ≤ 𝑑(𝑥1 , 𝑥2 ).
3.3. Completezza e continuità uniforme
116
Lemma 3.72. Una funzione uniformemente continua fra due spazi metrici muta successioni di Cauchy in successioni di Cauchy (cfr. Osservazione 3.85).
Dimostrazione. Siano dati due spazi metrici (𝑋, 𝑑), (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ uniformemente continua. Per ogni 𝜀 > 0, esiste quindi un 𝛿 > 0 tale che, dati 𝑢, 𝑣 ∈ 𝑋 con 𝑑(𝑢, 𝑣) < 𝛿, segue 𝑑 ′ (𝑓 (𝑢), 𝑓 (𝑣)) < 𝜀. Sia ora data una successione (𝑥𝑛 )𝑛 di Cauchy in 𝑋. Esiste un indice 𝑘 tale che da 𝑛, 𝑚 > 𝑘 si ha 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑚 ) < 𝛿. Ne viene che per gli stessi indici si ha 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥𝑛 ), 𝑓 (𝑥𝑚 )) < 𝜀 e che, pertanto, anche la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 è di Cauchy. Teorema 3.73 (di prolungabilità delle funzioni uniformemente continue). Siano dati due spazi metrici (𝑋, 𝑑), (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ), di cui il secondo completo, e una funzione 𝑓 ∶ 𝐸(⊂ 𝑋) → 𝑋 ′ uniformemente continua. Allora esiste uno ed un solo prolungamento uniformemente continuo di 𝑓 a tutto l’insieme cl 𝐸. Inoltre, se 𝑓 è lipschitziana di costante 𝑘 è tale anche il suo prolungamento. Dimostrazione. L’unicità segue dal Teorema 2.94. Per provare l’esistenza, basta mostrare che, per ogni 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵𝐸, esiste il lim𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥); si può poi applicare il Teorema 2.98, dato che ogni spazio metrico è regolare (cfr. Corollario 3.45). Fissiamo dunque un punto 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸 e sia (𝑥𝑛 )𝑛 un’arbitraria successione in 𝐸 convergente a 𝑧. Questa è di Cauchy e, per il lemma precedente, è tale anche la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 che quindi converge in 𝑌 a un elemento 𝑦(𝑧). Per il Teorema 3.57, si ha 𝑦(𝑧) = lim𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥). Abbiamo così trovato l’unico prolungamento possibile 𝑓 .̃ Proviamo che questa funzione è uniformemente continua. Fissato 𝜀 > 0, per l’uniforme continuità di 𝑓 su 𝐸, esiste 𝛿 > 0 tale che, dati 𝑥′ , 𝑥″ ∈ 𝐸 con 𝑑(𝑥′ , 𝑥″ ) < 𝛿, si ha 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥′ ), 𝑓 (𝑥″ )) < 𝜀/2. Siano ora 𝑧′ , 𝑧″ ∈ cl 𝐸, con 𝑑(𝑧′ , 𝑧″ ) < 𝛿. Prendiamo anche due successioni (𝑥′𝑛 )𝑛 e (𝑥″𝑛 )𝑛 in 𝐸 convergenti rispettivamente a 𝑧′ e a 𝑧″ . Poiché si ha definitivamente 𝑑(𝑥′𝑛 , 𝑥″𝑛 ) < 𝛿, è anche definitivamente 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥′𝑛 ), 𝑓 (𝑥″𝑛 )) < 𝜀/2. Passando al limite, si ottiene 𝑑 ′ (𝑧′ , 𝑧″ ) ≤ 𝜀/2 < 𝜀, da cui l’uniforme continuità di 𝑓 .̃ Supponiamo, in fine, che 𝑓 sia lipschitziana di costante 𝑘 su 𝐸. Dati 𝑧′ , 𝑧″ ∈ cl 𝐸, prendiamo due successioni (𝑥′𝑛 )𝑛 e (𝑥″𝑛 )𝑛 in 𝐸 convergenti a tali punti. Poiché si ha 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥′𝑛 ), 𝑓 (𝑥″𝑛 )) ≤ 𝑘𝑑(𝑥′𝑛 , 𝑥″𝑛 ), passando al limite per 𝑛 → ∞, si ̃ ′ ), 𝑓 (𝑧 ̃ ″ )) ≤ 𝑘𝑑(𝑧′ , 𝑧″ ). ottiene 𝑑 ′ (𝑓 (𝑧 Lemma 3.74. Sia 𝑓 ∶ (ℝ, 𝑑2 ) → (ℝ, 𝑑2 ) una funzione uniformemente continua. Esistono allora due numeri reali non negativi 𝑎, 𝑏 tali che, per ogni 𝑥 ∈ ℝ, si ha |𝑓 (𝑥)| ≤ 𝑎 + 𝑏|𝑥|. Dimostrazione. Per ipotesi, fissato 𝜀 > 0, esiste 𝛿 > 0 tale che, per ogni 𝑥1 , 𝑥2 ∈ ℝ con |𝑥1 − 𝑥2 | ≤ 𝛿, si ha |𝑓 (𝑥1 ) − 𝑓 (𝑥2 )| < 𝜀. Per ogni 𝑥 ∈ ℝ, esiste un
3.3. Completezza e continuità uniforme
117
𝑛 = 𝑛(𝑥) ∈ ℕ tale che 𝑛𝛿 ≤ |𝑥| < (𝑛 + 1)𝛿, da cui 𝑛 ≤ |𝑥|/𝛿. Per 𝑥 ≥ 0 si ottiene |𝑓 (𝑥)| ≤
≤ |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑛𝛿)| + |𝑓 (𝑛𝛿) − 𝑓 ((𝑛 − 1)𝛿)| + ⋯ + |𝑓 (𝛿) − 𝑓 (0)| + |𝑓 (0)| ≤ ≤ |𝑓 (0)| + (𝑛 + 1)𝜀 ≤ |𝑓 (0)| + 𝜀
|𝑥| 𝜀 + 1 = |𝑓 (0)| + 𝜀 + |𝑥|. ( 𝛿 ) 𝛿
Si perviene poi alla stessa diseguaglianza anche per 𝑥 < 0. Basta dunque porre 𝑏 ∶= 𝜀/𝛿 e 𝑎 ∶= |𝑓 (0)| + 𝜀. Mostriamo con un esempio che non sussiste l’implicazione opposta.
Esempio 3.75. Sia 𝑓 ∶ ℝ → ℝ la funzione pari il cui grafico, per 𝑥 ≥ 0, si ottiene congiungendo, nell’ordine, i punti (0, 0); (2 − 1/4, 0); (2, 2); (2 + 1/4, 0); (22 − 1/42 , 0); (22 , 22 ); (22 + 1/42 , 0); … (2𝑛 − 1/4𝑛 , 0); (2𝑛 , 2𝑛 ); (2𝑛 + 1/4𝑛 , 0); …
Si vede facilmente che si ha |𝑓 (𝑥)| ≤ 0 + |𝑥|, ma che 𝑓 non è uniformemente continua. ◁ Il seguente risultato è di verifica immediata (Esercizio!). Lemma 3.76. La composta di due funzioni uniformemente continue è uniformemente continua. In particolare, la composta di due funzioni lipschitziane di costanti rispettive 𝑘1 e 𝑘2 è lipschitziana di costante 𝑘1 𝑘2 . Teorema 3.77. Siano 𝑓 , 𝑔 ∶ (𝑋, 𝑑) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) due funzioni uniformemente continue. Allora sono uniformemente continue anche le funzioni 𝑓 ±𝑔, 𝑘𝑓 , ∀𝑘 ∈ ℝ, |𝑓 |, 𝑓 ∨ 𝑔, 𝑓 ∧ 𝑔.
Dimostrazione. 1. Somma. Fissiamo un 𝜀 > 0. Esistono 𝛿1 , 𝛿2 > 0 tali che da 𝑑(𝑥, 𝑦) < 𝛿1 segue |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑦)| < 𝜀/2 e da 𝑑(𝑥, 𝑦) < 𝛿2 segue |𝑔(𝑥) − 𝑔(𝑦)| < 𝜀/2. Basta ora prendere 𝛿 ∶= min{𝛿1 , 𝛿2 }; da 𝑑(𝑥, 𝑦) < 𝛿 si ottiene immediatamente |(𝑓 + 𝑔)(𝑥) − (𝑓 + 𝑔)(𝑦)| < 𝜀. 2. 𝑘𝑓 . Il caso 𝑘 = 0 è banale. Sia dunque 𝑘 ≠ 0. Dato 𝜀 > 0, esite 𝛿 > 0 tale che da 𝑑(𝑥, 𝑦) < 𝛿 segue |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑦)| < 𝜀/|𝑘|, da cui |𝑘𝑓 (𝑥) − 𝑘𝑓 (𝑦)| < 𝜀. Per 𝑘 = −1 si ha l’uniforme continuità di −𝑓 e, dal punto 1, quella di 𝑓 − 𝑔. 3. Valore assoluto. Segue immediatamente dal fatto che, per ogni 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋. si ha ||𝑓 (𝑥)| − |𝑓 (𝑦)|| ≤ |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑦)|. Tenuto conto della (2.1) si ottiene poi immediatamente l’uniforme continuità di 𝑓 ∧ 𝑔 e di 𝑓 ∨ 𝑔. Si tenga presente che il prodotto di due funzioni uniformemente continue non è sempre uniformemente continuo. Basta prendere la funzione identica 𝑖 ∶ (ℝ, 𝑑2 ) → (ℝ, 𝑑2 ). Questa è uniformemente continua, mentre non lo è 𝑖2 , come si è visto nell’Esempio 3.67.
3.3. Completezza e continuità uniforme
118
Nemmeno la reciproca di una funzione uniformemente continua è necessariamente uniformemente continua. Per verificarlo, basta prendere la funzione identica 𝑖 ∶ (]0, +∞[, 𝑑2 ) → (]0, +∞[, 𝑑2 ). Questa è uniformemente continua, mentre non lo è 1/𝑖. Infatti, per ogni 𝛿 > 0, da 0 < 𝑥 < 𝑦 ∶= 𝑥 + 𝛿/2, si ha 𝑦 − 𝑥 < 𝛿, ma 1 1 𝑦−𝑥 𝛿 − = = −−−−→ +∞. 𝑥 𝑦 𝑥𝑦 𝑥(2𝑥 + 𝛿) 𝑥→0+
Sia 𝐼 l’intervallo [0, +∞[. Sappiamo dai Corsi di Analisi che, se una funzione 𝑓 ∶ 𝐼 → ℝ è integrabile in senso generalizzato secondo Riemann su 𝐼 ed esiste il limite di 𝑓 per 𝑥 → +∞, allora questo limite è 0. L’Esempio 3.75 mostra che una funzione può essere integrabile su 𝐼 senza che questo limite esista. Risulta quindi interessante il seguente risultato. Lemma 3.78 (di Barbălat). Sia 𝑓 ∶ 𝐼 = [0, +∞[ → ℝ una funzione uniformemente continua e integrabile in senso generalizzato su 𝐼 secondo Riemann. Allora si ha lim𝑥→+∞ 𝑓 (𝑥) = 0.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che 𝑓 non tenda a 0 per 𝑥 → +∞. Esistono perciò un 𝜂 > 0 e una successione di punti (𝑥𝑛 )𝑛 divergente e tale che, per ogni 𝑛, risulta |𝑓 (𝑥𝑛 )| > 2𝜂. Non è restrittivo supporre che sia 𝑓 (𝑥𝑛 ) > 2𝜂, ∀𝑛 ∈ ℕ. (In modo analogo si tratta il caso in cui esiste una successione (𝑥𝑛 )𝑛 divergente e tale che 𝑓 (𝑥𝑛 ) < −2𝜂, ∀𝑛 ∈ ℕ.) Non può essere definitivamente 𝑓 (𝑥) > 𝜂; quindi, per 𝑛 sufficientemente grande, esistono 𝑧𝑛 , con 𝑥𝑛 < 𝑧𝑛 , 𝑓 (𝑧𝑛 ) = 𝜂 e 𝑓 (𝑥) ≥ 𝜂 in [𝑥𝑛 , 𝑧𝑛 ]. Essendo 𝑓 integrabile su 𝐼, per ogni 𝜀 > 0, esiste un 𝑘 ∈ ℝ tale che, da 𝑣 𝑘 < 𝑢 < 𝑣 segue | ∫𝑢 𝑓 (𝑡) 𝑑𝑡| < 𝜀. Ne viene che, per 𝑛 abbastanza grande, si ha 𝑧 𝑧 ∫𝑥 𝑛 𝑓 (𝑡) 𝑑𝑡 < 𝜀. Essendo ∫𝑥 𝑛 𝑓 (𝑡) 𝑑𝑡 ≥ 𝜂(𝑧𝑛 − 𝑥𝑛 ), si ottiene che 𝑧𝑛 − 𝑥𝑛 tende a 𝑛 𝑛 0 al divergere di 𝑛. Non esiste pertanto nessun 𝛿 che realizza la condizione di uniforme continuità partendo da 𝜀 = 𝜂, dato che è 𝑓 (𝑥𝑛 ) − 𝑓 (𝑧𝑛 ) > 𝜂. Il lemma precedente, contenuto in un lavoro di Barbălat del 1959, si è rivelato un utile strumento per lo studio del comportamento asintotico delle soluzioni di equazioni differenziali ordinarie. Per una recente panoramica relativa a questo e ad altri risultati ad esso collegati, si veda [43]. Un altro problema che si pone in modo naturale è quello del completamento di uno spazio metrico non completo. Cominciamo con un risultato preliminare sugli spazi completi. Lemma 3.79. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico ed 𝐸 un sottoinsieme non vuoto di 𝑋. 1. Se il sottospazio (𝐸, 𝑑) è completo, allora 𝐸 è chiuso. 2. Se (𝑋, 𝑑) è completo ed 𝐸 è chiuso, allora (𝐸, 𝑑) è completo.
Dimostrazione. 1. Se 𝑧 ∈ cl 𝐸, allora è limite di una successione di Cauchy in 𝐸 e deve quindi appartenere a 𝐸, dato che (𝐸, 𝑑) è completo.
3.3. Completezza e continuità uniforme
119
2. Sia 𝑆 una successione di Cauchy in 𝐸; essa è dunque una successione di Cauchy anche in 𝑋 e deve quindi convergere a un elemento 𝑧, dato che (𝑋, 𝑑) è completo. Si ha poi 𝑧 ∈ 𝐸, dato che questo insieme è chiuso.
Definizione 3.80. Siano (𝑋, 𝑑), (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) due spazi metrici. Un’applicazione biiettiva 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ è detta un isometria se, per ogni 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝑋, si ha 𝑑 ′ (𝑓 (𝑥1 ), 𝑓 (𝑥2 )) = 𝑑(𝑥1 , 𝑥2 ). ◁ È immediato constatare che un’isometria è lipschitziana di costante 1 ed è quindi uniformemente continua. La costruzione descritta nell’Esempio 3.16 e nell’osservazione ad esso successiva [cioè, dato un insieme 𝑋 e una biiezione 𝜑 fra 𝑋 e un sottoinsieme 𝐸 di uno spazio metrico (𝑌 , 𝑑𝑌 ) per cui 𝑋 viene munito della distanza 𝑑𝑋 (𝑎, 𝑏) ∶= 𝑑𝑌 (𝜑(𝑎), 𝜑(𝑏))] porta a definire delle isometrie. Infatti, per costruzione, 𝜑 è un’isometria fra (𝑋, 𝑑𝑋 ) e (𝐸, 𝑑𝑌 ). Dal Teorema 3.73 si ottengono facilmente dei corollari di prolungabilità per le isometrie. Ne presentiamo uno che sarà utile per i nostri fini.
Teorema 3.81 (Prolungabilità delle isometrie). Siano (𝑋, 𝑑), (𝑌 , 𝛿) due spazi metrici completi, 𝐴, 𝐵 due sottoinsiemi densi, rispettivamente, in 𝑋 e in 𝑌 . Ogni isometria da 𝐴 su 𝐵 è prolungabile (in un unico modo) ad un’isometria da 𝑋 su 𝑌 . Dimostrazione. Sia 𝑓 un’isometria di 𝐴 su 𝐵. Essendo 𝑓 lipschitziana, per il Teorema 3.73 è prolungabile (in modo unico) in una funzione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑌 ancora lipschitziana. Proviamo che 𝜑 è un’isometria e che è suriettiva. Dati 𝑧1 , 𝑧2 ∈ 𝑋, esistono due successioni (𝑥1,𝑛 )𝑛 e (𝑥2,𝑛 )𝑛 di 𝐴 convergenti rispettivamente a 𝑧1 e 𝑧2 . Le successioni di termine generale 𝑦1,𝑛 ∶= 𝜑(𝑥1,𝑛 ) = 𝑓 (𝑥1,𝑛 ) e 𝑦2,𝑛 ∶= 𝜑(𝑥2,𝑛 ) = 𝑓 (𝑥2,𝑛 ) in 𝐵 convergono, rispettivamente a 𝑤1 ∶= 𝜑(𝑧1 ) e a 𝑤2 ∶= 𝜑(𝑧2 ). Si ha 𝑑(𝑧1 , 𝑧2 ) = lim 𝑑(𝑥1,𝑛 , 𝑥2,𝑛 ) = lim 𝛿(𝑦1,𝑛 , 𝑦2,𝑛 ) = 𝛿(𝑤1 , 𝑤2 ). 𝑛→∞
𝑛→∞
Essendo 𝐵 denso in 𝑌 , è tale anche 𝜑(𝑋). Dato 𝑤 ∈ 𝑌 , esso è limite di una successione (𝑦𝑛 )𝑛 di 𝜑(𝑋). Essendo 𝜑 biiettiva tra 𝐴 e 𝜑(𝐴), la successione (𝑥𝑛 )𝑛 di 𝑋 con 𝑥𝑛 ∶= 𝜑−1 (𝑦𝑛 ) è ancora di Cauchy e converge a un elemento 𝑧 ∈ 𝑋. Si conclude che è 𝜑(𝑧) = lim𝑛→∞ 𝜑(𝑥𝑛 ) = 𝑤, da cui 𝜑(𝑋) = 𝑌 .
Definizione 3.82. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico non completo. Diremo suo completamento uno spazio metrico (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) che risulti completo e tale che 𝑋 sia isometrico a un sottoinsieme denso di 𝑋 ′ . ◁ Teorema 3.83 (Proprietà universale del completamento). Siano (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) un completamento di uno spazio (𝑋, 𝑑) e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝜑(𝑋) ⊆ 𝑋 ′ un’isometria tale che cl 𝜑(𝑋) = 𝑋 ′ . Sussiste allora la seguente proprietà universale:
3.3. Completezza e continuità uniforme
120
Per ogni spazio metrico completo (𝑌 , 𝛿) e ogni applicazione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 uniformemente continua, esiste un’unica applicazione uniformemente continua 𝑔 ∶ 𝑋 ′ → 𝑌 tale che 𝑓 = 𝑔 ∘ 𝜑. Dimostrazione. Sia 𝑓 un’applicazione uniformemente continua di (𝑋, 𝑑) in uno spazio metrico completo (𝑌 , 𝛿). L’applicazione uniformemente continua 𝑓 ∘ 𝜑−1 ∶ 𝜑(𝑋) → 𝑌 è prolungabile, per il Teorema 3.73, in modo unico, ad una funzione 𝑔 ∶ 𝑋 ′ → 𝑌 ancora uniformemente continua. Per costruzione, si ha 𝑓 = 𝑔 ∘ 𝜑.
Teorema 3.84 (Completamento di uno spazio metrico). Ogni spazio metrico ammette un completamento che è unico a meno di isometrie. Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico non completo e diciamo 𝒞 l’insieme delle sue successioni di Cauchy. In 𝒞 definiamo la seguente relazione binaria: dati due elementi di 𝒞 , 𝐴 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 e 𝐵 ∶= (𝑏𝑛 )𝑛 , si pone 𝐴 ∼ 𝐵 ⇔ 𝑑(𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ) −−−−→ 0. 𝑛→∞
Si constata immediatamente che la relazione 𝜌 appena definita è un’equivalenza. Si pone, in fine, 𝑋 ′ ∶= 𝒞 /𝜌. Dato 𝐴 ∈ 𝒞 , indicheremo con 𝐴̂ la sua classe di equivalenza. Il passo successivo è quello di definire una distanza in 𝑋 ′ . Dati 𝐴 e 𝐵 come sopra, consideriamo la successione di numeri reali (𝑑(𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ))𝑛 e proviamo che è di Cauchy. Si ha infatti 𝑑(𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ) ≤ 𝑑(𝑎𝑛 , 𝑎𝑚 ) + 𝑑(𝑎𝑚 , 𝑏𝑚 ) + 𝑑(𝑏𝑚 , 𝑏𝑛 ),
da cui
𝑑(𝑎𝑚 , 𝑏𝑚 ) ≤ 𝑑(𝑎𝑚 , 𝑎𝑛 ) + 𝑑(𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ) + 𝑑(𝑏𝑛 , 𝑏𝑚 ),
|𝑑(𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ) − 𝑑(𝑎𝑚 , 𝑏𝑚 )| ≤ 𝑑(𝑎𝑛 , 𝑎𝑚 ) + 𝑑(𝑏𝑛 , 𝑏𝑚 ).
Siccome le successioni 𝐴 e 𝐵 sono di Cauchy, dato un 𝜀 > 0, esiste un 𝑘 ∈ ℕ tale che, per 𝑛, 𝑚 > 𝑘, si ha 𝑑(𝑎𝑛 , 𝑎𝑚 ) < 𝜀/2 e 𝑑(𝑏𝑛 , 𝑏𝑚 ) < 𝜀/2, da cui |𝑑(𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ) − 𝑑(𝑎𝑚 , 𝑏𝑚 )| < 𝜀. Essendo ℝ completo, esiste il lim𝑛→∞ 𝑑(𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ) ∈ ℝ. Poniamo quindi 𝑑 ∗ (𝐴, 𝐵) ∶= lim𝑛→∞ 𝑑(𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ). Date altre due successioni 𝐴′ ∶= (𝑎′𝑛 )𝑛 e 𝐵 ′ ∶= (𝑏′𝑛 )𝑛 , con 𝐴 ∼ 𝐴′ e 𝐵 ∼ 𝐵 ′ , si ha 𝑑 ∗ (𝐴, 𝐵) = 𝑑 ∗ (𝐴′ , 𝐵 ′ ). (Esercizio!) Ha dunque senso la definizione 𝑑 ′ (𝐴,̂ 𝐵)̂ ∶= 𝑑 ∗ (𝐴, 𝐵),
dove, come sopra indicato, 𝐴̂ indica la classe di equivalenza di 𝐴. Quella ora definita è effettivamente una distanza in 𝑋 ′ . Anche questa facile verifica è lasciata per esercizio. Proviamo che (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) è completo. Assegnare una successione di Cauchy in ′ 𝑋 significa assegnare una successione del tipo (𝐴𝑛̂ )𝑛 . Quindi, per ogni 𝑛 ∈ ℕ è
3.3. Completezza e continuità uniforme
121
data una successione di Cauchy 𝐴𝑛 ∶= (𝑎𝑛,𝑚 )𝑚 in 𝑋, tale che 𝑑 ∗ (𝐴𝑛 , 𝐴𝑚 ) tende a 0 al tendere di 𝑛, 𝑚 a ∞. Esiste pertanto un 𝑘1 ∈ ℕ tale che, per ogni 𝑛, 𝑚 ≥ 𝑘1 , si ha 𝑑 ∗ (𝐴𝑛 , 𝐴𝑚 ) < 1/2. Analogamente, esiste un indice 𝑘2 > 𝑘1 tale che, per ogni 𝑛, 𝑚 ≥ 𝑘2 , si ha 𝑑 ∗ (𝐴𝑛 , 𝐴𝑚 ) < 1/4. In generale, esiste un indice 𝑘𝑛 > 𝑘𝑛−1 tele che, per ogni 𝑛, 𝑚 ≥ 𝑘𝑛 , si ha 𝑑 ∗ (𝐴𝑛 , 𝐴𝑚 ) < 1/2𝑛 . Dato che le successioni 𝐴𝑛 sono di Cauchy, esiste un indice ℎ1 tale che, per tutti gli 𝑛, 𝑚, con 𝑘1 ≤ 𝑛, 𝑚 ≤ 𝑘2 , e per tutti i 𝑝, 𝑞 > ℎ1 , si ha 𝑑(𝑎𝑛,𝑝 , 𝑎𝑚,𝑞 ) < 1/2. Analogamente, esiste un indice ℎ𝑗 tale che, per tutti gli 𝑛, 𝑚, con 𝑘𝑗 ≤ 𝑛, 𝑚 ≤ 𝑘𝑗+1 , e per tutti i 𝑝, 𝑞 > ℎ𝑗 , si ha 𝑑(𝑎𝑛,𝑝 , 𝑎𝑚,𝑞 ) < 1/2𝑗 . Non è restrittivo supporre crescente la successione degli ℎ𝑗 . Prendiamo ora una successione “diagonale” 𝐵 ∶= (𝑏𝑛 )𝑛 così definita: per 𝑖 ≤ 𝑘1 , si pone 𝑏𝑖 ∶= 𝑎𝑖,𝑞 , con 𝑞 arbitrario; per 𝑘1 < 𝑖 ≤ 𝑘2 , si pone 𝑏𝑖 ∶= 𝑎𝑖,𝑞 , con 𝑞 > ℎ1 ; in generale, per 𝑘𝑗 < 𝑖 ≤ 𝑘𝑗+1 , si pone 𝑏𝑖 ∶= 𝑎𝑖,𝑞 , con 𝑞 > ℎ𝑗 . La successione così definita è di Cauchy. Infatti, dati due indici, 𝑚 < 𝑛, con 𝑘𝑖 < 𝑚 ≤ 𝑘𝑖+1 e 𝑘𝑗 < 𝑛 ≤ 𝑘𝑗+1 (da cui 𝑖 ≤ 𝑗), si ha 𝑏𝑚 = 𝑎𝑚,𝑟 e 𝑏𝑛 = 𝑎𝑛,𝑠 , con 𝑟 > ℎ𝑖 e 𝑠 > ℎ𝑗 (≥ ℎ𝑖 ). Si ottiene 𝑑(𝑏𝑚 , 𝑏𝑛 ) = 𝑑(𝑎𝑚,𝑟 , 𝑎𝑛,𝑠 ) ≤
≤ 𝑑(𝑎𝑚,𝑟 , 𝑎𝑚,𝑠 ) + 𝑑(𝑎𝑚,𝑠 , 𝑎𝑘𝑖+1 ,𝑠 ) + 𝑑(𝑎𝑘𝑖+1 ,𝑠 , 𝑎𝑘𝑖+2 ,𝑠 ) + ⋯ + 𝑑(𝑎𝑘𝑗 ,𝑠 , 𝑎𝑛,𝑠 ) ≤ ≤
1 1 1 1 1 1 1 1 3 + + + ⋯ + 𝑗 < 𝑖 + 𝑖 (1 + + ⋯ + 𝑗−𝑖 ) < 𝑖 . 2 2𝑖 2𝑖 2𝑖+1 2 2 2 2 2
Per costruzione, si ha che 𝐵̂ è il limite della successione (𝐴𝑛̂ )𝑛 rispetto alla distanza 𝑑 ′ di 𝑋 ′ . Per ogni 𝑎 ∈ 𝑋, sia ora 𝐴𝑎 ∶= (𝑎)𝑛 (∈ 𝒞 ) la successione di valore costante 𝑎. L’immersione 𝑗 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ definita da 𝑗(𝑎) ∶= 𝐴𝑎̂ è, per costruzione, un’isometria. Proviamo che l’insieme 𝑋 ∗ ∶= {𝐴𝑎̂ ∶ 𝑎 ∈ 𝑋 } è denso in 𝑋 ′ . Dato 𝐶 ̂ ∈ 𝑋 ′ , con 𝐶 ∶= (𝑐𝑛 )𝑛 , per ogni 𝑟 > 0, esiste un 𝑘 ∈ ℕ tale che da 𝑛, 𝑚 > 𝑘 segue 𝑑(𝑐𝑛 , 𝑐𝑚 ) < 𝑟/2. Fissato un indice 𝑚 > 𝑘 e posto 𝑎 ∶= 𝑐𝑚 , si ha 𝑑 ∗ (𝐶, 𝐴𝑎 ) ∶= lim 𝑑(𝑐𝑛 , 𝑎) ≤ 𝑛→+∞
𝑟 < 𝑟, 2
da cui 𝐴𝑎̂ ∈ 𝐵(𝐶,̂ 𝑟). Resta da provare che due completamenti (𝑌 ′ , 𝑑 ′ ), (𝑌 ″ , 𝑑 ″ ) di (𝑋, 𝑑) sono isometrici. Possiamo pensare 𝑋 come sottoinsieme di 𝑌 ′ e 𝑌 ″ . Dato 𝑦′ ∈ 𝑌 ′ , esiste una successione 𝑆 di 𝑋 convergente a 𝑦′ . La stessa successione deve convergere in 𝑌 ″ a un elemento 𝑦″ . Posto 𝜑(𝑦′ ) ∶= 𝑦″ , si ottiene un’applicazione biiettiva 𝜑 ∶ 𝑌 ′ → 𝑌 ″ . Essa è anche isometrica. Per constatarlo, fissiamo due elementi 𝑦′1 , 𝑦′2 ∈ 𝑌 ′ . Questi sono, rispettivamente, limiti di due successioni (𝑥1,𝑛 )𝑛 e (𝑥2,𝑛 )𝑛 di 𝑋. Si prova subito (Esercizio!) che è 𝑑 ′ (𝑦′1 , 𝑦′2 ) = lim𝑛→∞ 𝑑(𝑥1,𝑛 , 𝑥2,𝑛 ). Detti 𝑦″1 e 𝑦″2 i limiti delle stesse successioni in 𝑌 ″ (ossia 𝑦″1 = 𝜑(𝑦′1 ) e 𝑦″2 = 𝜑(𝑦′2 )), si ha anche 𝑑 ″ (𝑦″1 , 𝑦″2 ) = lim𝑛→∞ 𝑑(𝑥1,𝑛 , 𝑥2,𝑛 ). In alternativa a quanto appena visto, l’isometria fra (𝑌 ′ , 𝑑 ′ ) e (𝑌 ″ , 𝑑 ″ ) può essere ottenuta applicando il Teorema 3.81 (Esercizio!).
3.3. Completezza e continuità uniforme
122
Quella appena esposta è la dimostrazione “classica” del Teorema sul completamento. Ne riportiamo ora un’altra (limitatamente all’esistenza del completamento) più elegante (cfr. [13]). Altra dimostrazione del Teorema 3.84. Consideriamo l’insieme 𝐶𝑏 (𝑋) costituito dalle funzioni continue e limitate da (𝑋, 𝑑) in (ℝ, 𝑑2 ) dotato della distanza lagrangiana. Sappiamo che lo spazio (𝐶𝑏 (𝑋), 𝑑∞ ) è completo (cfr. Proposizione 3.55.2). Fissiamo, una volta per tutte, un elemento 𝑤 ∈ 𝑋 e, ad ogni 𝑥 ∈ 𝑋 associamo la funzione 𝑓𝑥 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑓𝑥 (𝑡) ∶= 𝑑(𝑡, 𝑥) − 𝑑(𝑡, 𝑤),
∀𝑡 ∈ 𝑋.
È immediato verificare che 𝑓𝑥 è continua. Essa è inoltre limitata, in quanto |𝑓𝑥 (𝑡)| = |𝑑(𝑡, 𝑥) − 𝑑(𝑡, 𝑤)| ≤ 𝑑(𝑥, 𝑤). Abbiamo così ottenuto un’applicazione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝜑(𝑋) ⊂ 𝐶𝑏 (𝑋) data da 𝜑(𝑥) ∶= 𝑓𝑥 (⋅). Vogliamo provare che 𝜑 è un’isometria. Per ogni 𝑥, 𝑦, 𝑡 ∈ 𝑋, si ha |𝑓𝑥 (𝑡) − 𝑓𝑦 (𝑡)| = |𝑑(𝑡, 𝑥) − 𝑑(𝑡, 𝑦)| ≤ 𝑑(𝑥, 𝑦).
D’altra parte, prendendo 𝑡 = 𝑥, si ha |𝑓𝑥 (𝑡) − 𝑓𝑦 (𝑡)| = 𝑑(𝑥, 𝑦). Quindi, 𝑑∞ (𝜑(𝑥), 𝜑(𝑦)) = sup {|𝑓𝑥 (𝑡) − 𝑓𝑦 (𝑡)| ∶ 𝑡 ∈ 𝑋 } = = max {|𝑓𝑥 (𝑡) − 𝑓𝑦 (𝑡)| ∶ 𝑡 ∈ 𝑋 } = 𝑑(𝑥, 𝑦).
Chiamando 𝑋 ′ la chiusura di 𝜑(𝑋) in 𝐶𝑏 (𝑋) con la distanza lagrangiana, si ottiene un completamento di 𝑋 (cfr. Lemma 3.79)
Sappiamo che ℝ è il completamento di ℚ. Si tenga però ben presente che questo risultato non può essere ottenuto applicando il teorema precedente: infatti, per dimostrare quest’ultimo abbiamo sfruttato la completezza di ℝ che avevamo ottenuto per altra via. Torneremo su questo argomento più avanti nel capitolo sugli insiemi ordinati. Osservazione 3.85. Sottolineiamo il fatto che concetti quali limitatezza dello spazio, completezza, uniforme continuità, dipendono esplicitamente dalle distanze definite negli spazi coinvolti e, a differenza di altri concetti (continuità, limite, perfetta normalità dello spazio) non sono caratterizzati dalle topologie. Si consideri, per esempio, ℝ con la sua distanza usuale 𝑑2 (𝑥, 𝑦) ∶= |𝑥 − 𝑦| e con la distanza 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) ∶= | arctan 𝑥 − arctan 𝑦| (cfr. Esempio 3.16). Le due distanze inducono la medesima topologia in ℝ: quella euclidea. Ciononostante, la successione (𝑛)𝑛 è di Cauchy in (ℝ, 𝑑 ′ ), ma non in (ℝ, 𝑑2 ). Ne viene che (ℝ, 𝑑 ′ ) non è completo, mentre lo è (ℝ, 𝑑2 ). Inoltre, ℝ è limitato rispetto a 𝑑 ′ , ma non rispetto a 𝑑2 . In fine, l’identità 𝑖 ∶ ℝ → ℝ è uniformemente continua da (ℝ, 𝑑2 ) a (ℝ, 𝑑 ′ ), ma non in senso inverso. Per esercizio, il lettore costruisca un completamento di (ℝ, 𝑑 ′ ). ◁
3.3. Completezza e continuità uniforme
123
Presentiamo ora alcuni esempi di distanze su ℝ ottenute, con costruzioni geometriche, per trasferimento isometrico (cfr. pag. 97). Per tali distanze studieremo anche il problema del completamento.
Esempio 3.86. Nel piano cartesiano consideriamo la circonferenza Γ di centro il punto (0, 1) e raggio 1. Ad ogni 𝑥 in ℝ associamo il punto 𝜑(𝑥) ∶= (𝑥′ , 𝑦′ ) ∈ Γ ottenuto intersecando Γ con il segmento che unisce (𝑥, 0) con (0, 1). L’applicazione 𝜑 stabilisce una corrispondenza biunivoca fra ℝ e la semicirconferenza inferiore Γ − di Γ privata degli estremi. Definiamo in ℝ la distanza 𝑑 espressa da 𝑑(𝑎, 𝑏) ∶= 𝑑2 (𝜑(𝑎), 𝜑(𝑏)). (3.2) Per costruzione, (ℝ, 𝑑) è isometrico a (Γ − , 𝑑2 ). Si verifica facilmente che la topologia generata in ℝ da questa distanza 𝑑 coincide con quella euclidea. Lo spazio metrico (ℝ, 𝑑) non è completo: infatti la successione (𝑛)𝑛 è di Cauchy, ma non converge. Un completamento di (ℝ, 𝑑) si ottiene aggiungendo a ℝ due oggetti che possiamo chiamare −∞ e +∞ in modo che ℝ ∪ {−∞, +∞} sia isometrico a Γ − ∪ {(−1, 1), (1, 1)}. In questo modo la successione (𝑛)𝑛 converge a +∞ e quella (−𝑛)𝑛 converge a −∞. Ogni successione di Cauchy in (ℝ, 𝑑) che sia contenuta in un intervallo [−𝑀, 𝑀] è di Cauchy anche rispetto alla distanza euclidea di ℝ e quindi converge al medesimo punto in entrambe le distanze. ◁
'(x) x Esempio 3.87. Nel piano cartesiano consideriamo la circonferenza Γ di centro il punto (0, 1/2) e raggio 1/2. Ad ogni 𝑥 in ℝ associamo il punto 𝜑(𝑥) ∶= (𝑥′ , 𝑦′ ) ∈ Γ ottenuto intersecando Γ ⧵ {(0, 1)} con il segmento che unisce (𝑥, 0) con (0, 1). L’applicazione 𝜑 stabilisce una corrispondenza biunivoca fra ℝ e l’arco di circonferenza Γ ′ ∶= Γ ⧵ {(0, 1)}. L’applicazione 𝜑−1 si chiama anche proiezione stereografica con polo nord il punto (0, 1). Definiamo in ℝ la distanza 𝑑 espressa ancora dalla (3.2). Per costruzione, (ℝ, 𝑑) è isometrico a (Γ ′ , 𝑑2 ). Come nel caso precedente, si verifica facilmente che la topologia generata in ℝ da questa distanza 𝑑 coincide con quella euclidea (si veda anche il Teorema 14.23) e che lo spazio metrico (ℝ, 𝑑) non è completo. Un suo completamento si ottiene aggiungendo a ℝ un oggetto che possiamo chiamare ∞ in modo che ℝ ∪ {∞} sia isometrico a Γ. In questo modo le successioni (𝑛)𝑛 e (−𝑛)𝑛 convergono a ∞. Ogni successione di Cauchy in (ℝ, 𝑑) che sia contenuta in un intervallo [−𝑀, 𝑀] è di Cauchy anche rispetto alla distanza euclidea di ℝ e quindi converge al medesimo punto in entrambe le distanze. ◁
3.3. Completezza e continuità uniforme
124
'(x) x Esempio 3.88. Nel piano cartesiano consideriamo l’insieme Γ ∶= Γ1 ∪ Γ2 ∪ Γ3 , dove: Γ1 è la semicirconferenza superiore di centro (0, 0) e raggio 1; Γ2 è il quarto di circonferenza di centro (−1, 1) e raggio 1 che unisce i punti (−1, 0) e (0, 1); Γ3 è il quarto di circonferenza di centro (1, 1) e raggio 1 che unisce i punti (0, 1) e (1, 0). Ad ogni 𝑥 ≠ 0 in ℝ associamo il punto 𝜑(𝑥) ∶= (𝑥′ , 𝑦′ ) ∈ Γ ottenuto intersecando Γ ⧵ {(0, 1)} con il segmento che unisce (𝑥, 0) con (0, 1); poniamo, inoltre, 𝜑(0) ∶= (0, 1). L’applicazione 𝜑 stabilisce una corrispondenza biunivoca fra ℝ e tutto Γ. Definiamo in ℝ la distanza 𝑑 espressa al solito dalla (3.2)
'(x) '(y) x
y
Lo spazio (ℝ, 𝑑) è completo; infatti, per costruzione, esso è isometrico a (Γ, 𝑑2 ), che è completo in quanto sottoinsieme chiuso di uno spazio metrico completo (cfr. Proposizione 3.79.2). A differenza dei casi precedenti, si verifica che la topologia generata in ℝ da questa distanza 𝑑 è strettamente meno fine di quella euclidea. Infatti, ogni intervallo aperto ]𝛼, 𝛽[, con 𝛼, 𝛽 ∈ ℝ non contenente 0, è un aperto per la topologia 𝜏𝑑 indotta dalla metrica 𝑑; tuttavia, gli intorni di base di 0 sono del tipo ] − ∞, −𝜂[ ∪ ] − 𝛿, 𝛿[ ∪ ]𝜂, +∞[. Quindi gli intorni dei punti diversi da 0 coincidono nelle due topologie; i 𝜏𝑑 -intorni di 0 sono anche intorni nella topologia euclidea, mentre non sussiste il viceversa. Osserviamo anche che, rispetto alla 𝜏𝑑 , le successioni (𝑛)𝑛 e (−𝑛)𝑛 convergono a 0. Ogni successione di Cauchy in (ℝ, 𝑑) che sia contenuta in un intervallo [−𝑀, 𝑀] è di Cauchy anche rispetto alla distanza euclidea di ℝ e quindi converge al medesimo punto in entrambe le distanze. Si osservi che si ha 𝐵 (0, √2) = ℝ ⧵ {−1, 1}, mentre è int 𝐵 [0, √2] = int ℝ = ℝ. Abbiamo così un altro esempio di palla aperta che non è un insieme regolarmente aperto (cfr. Osservazione 3.33). ◁
3.4. Lo spazio ℝ𝑛
3.4 Lo spazio ℝ𝑛
125
In questo paragrafo ci occuperemo brevemente di un caso particolare e ben noto di spazio metrico: (ℝ𝑛 , 𝑑2 ). Cominciamo con un’osservazione. Si può dimostrare che, se è 𝑛 > 1, l’insieme ℝ𝑛 non è ordinato, ossia: Se è 𝑛 > 1, non è possibile definire in ℝ𝑛 una relazione d’ordine totale che sia compatibile con le operazioni di somma e di prodotto per un numero reale e in modo che continui a valere la proprietà di esistenza dell’estremo superiore. 4 La prima idea potrebbe essere quella di utilizzare l’ordinamento lessicografico (ossia quello del vocabolario). Si vede però subito che il sottoinsieme 𝐸 ∶= {(0, 𝑦) ∶ 𝑦 ∈ ℝ} (⊂ ℝ2 ), pur essendo superiormente limitato (per es. da (1, 0)), non è dotato di estremo superiore. Possiamo però definire in ℝ𝑛 un ordinamento parziale: Definizione 3.89. Dati x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) ∈ ℝ𝑛 , si assume x ≤ y se è 𝑥𝑖 ≤ 𝑦𝑖 , per ogni 𝑖 ≤ 𝑛.
Si ha dunque x < y se è 𝑥𝑖 ≤ 𝑦𝑖 per ogni 𝑖 ≤ 𝑛, ma con 𝑥𝑖∗ < 𝑦𝑖∗ per almeno un 𝑖∗ . Si scrive poi x ≪ y (o y ≫ x) se è 𝑥𝑖 < 𝑦𝑖 per ogni 𝑖 ≤ 𝑛, In tal caso si dice che x è fortemente minore di y (cfr. Esempio 1.11). ◁ Per esempio, in ℝ2 , si ha: (0, 0) < (0, 1) < (1, 1); (0, 0) < (1, 0) < (1, 1); (0, 0) ≪ (1, 1). Per contro, i punti (1, 0) e (0, 1) sono fra loro inconfrontabili. Questa relazione è compatibile con le due operazioni; inoltre, dotato ℝ𝑛 di questo ordine parziale, sussiste ancora il teorema di esistenza dell’estremo superiore. Infatti, dato un insieme non vuoto e superiormente limitato 𝐸, sia 𝐸𝑖 la sua 𝑖-ima proiezione. Ciascun 𝐸𝑖 è superiormente limitato; posto 𝑦𝑖 ∶= sup 𝐸𝑖 , risulta sup 𝐸 = y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ). Il punto di partenza per lo studio delle proprietà topologiche di ℝ è la nozione di intervallo. Questa nozione può essere estesa a ℝ𝑛 mediante la seguente
4 Diamo un’idea di una possibile dimostrazione. Supponiamo di aver introdotto in ℝ2 un ordine totale compatibile con le operazioni di somma e di prodotto per una costante. Non è restrittivo supporre che gli elementi (1, 0) e (0, 1) siano positivi; ne viene che sono positivi tutti gli elementi del primo quadrante e negativi tutti quelli del terzo. Inoltre l’ordine deve subordinare su ogni retta per l’origine uno dei due ordini naturali. L’insieme degli elementi positivi deve formare un semipiano generato da una retta per l’origine. Supponiamo intanto positivi tutti gli elementi del quarto quadrante con 𝑥 > 0. Per ogni elemento del tipo (0, 𝑦), con 𝑦 > 0, si ha (𝑥, 0) − (0, 𝑦) = (𝑥, −𝑦) > (0, 0), per ogni 𝑥 > 0. L’insieme {(0, 𝑦) ∶ 𝑦 > 0} è superiormente limitato, ma non ha estremo superiore. In caso contrario, diciamo 𝑦 = 𝑚𝑥, con 𝑚 < 0, l’equazione della retta di frontiera fra gli elementi positivi e quelli negativi. Supponiamo positivi gli elementi (𝑥, 𝑚𝑥) con 𝑥 < 0. Per ogni 𝑥 < 0, e per ogni 𝑦 > 0 si ha (0, 𝑦) − (𝑥, 𝑚𝑥) = (−𝑥, 𝑦 − 𝑚𝑥) > (0, 0), dato che è −𝑥 > 0 e 𝑦 − 𝑚𝑥 > 𝑚 ⋅ (−𝑥). L’insieme {(𝑥, 𝑚𝑥) ∶ 𝑥 < 0} è superiormente limitato ma, ancora una volta, non ha estremo superiore.
3.4. Lo spazio ℝ𝑛
126
Definizione 3.90. Dati x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) ∈ ℝ𝑛 , con x ≪ y, si definisce intervallo aperto di estremi x e y l’insieme ]𝑥, 𝑦[∶= {z ∶ x ≪ z ≪ y} = {(𝑧1 , 𝑧2 , … , 𝑧𝑛 ) ∶ (∀𝑖 ≤ 𝑛)(𝑥𝑖 < 𝑧𝑖 < 𝑦𝑖 )} .
In modo analogo si dà la nozione di intervallo chiuso [x, y], superiormente semiaperto [x, y[, inferiormente semiaperto ]x, y]. (Si ha, per esempio, [𝑥, 𝑦] ∶= {z ∶ x ≤ z ≤ y}, [x, y[∶= {z ∶ x ≤ z ≪ y}.) Si chiama poi centro dell’intervallo il punto m ∶= (𝑚1 , 𝑚2 , … , 𝑚𝑛 ), con 𝑚𝑖 ∶= (𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 )/2, ∀𝑖 ≤ 𝑛. Questi intervalli sono detti limitati. Son invece intervalli illimitati gli insiemi del tipo {x ∶ x ≪ a}, {x ∶ x ≤ a}, {x ∶ x ≫ a}, {x ∶ x ≥ a}, oltre a ℝ𝑛 . ◁ Osserviamo che un intervallo ]𝑎 − 𝑟, 𝑎 + 𝑟[ di ℝ può anche essere visto come l’insieme degli 𝑥 che distano da 𝑎 meno di 𝑟. Sappiamo già che questa osservazione porta alla distanza euclidea 𝑑2 di ℝ𝑛 . Abbiamo così esteso la nozione di intervallo di ℝ in due modi diversi che risulteranno però equivalenti, nel senso che le palle e gli intervalli di centro un punto z sono due basi per gli intorni di questo punto nella topologia euclidea. Ciò si ricava immediatamente dal seguente lemma (cfr. Definizione 1.22, Esercizio 1.8). Lemma 3.91. In (ℝ𝑛 , 𝑑2 ). 1. Per ogni intervallo aperto e limitato 𝐼 di centro z esistono due palle aperte 𝐵 ∶= 𝐵(z, 𝑟) e 𝐵 ′ ∶= 𝐵(z, 𝑟′ ) tali che 𝐵 ⊆ 𝐼 ⊆ 𝐵 ′ . 2. Per ogni palla aperta 𝐵 ∶= 𝐵(z, 𝑟) esistono due intervalli aperti e limitati 𝐼 e 𝐼 ′ di centro z tali che 𝐼 ⊆ 𝐵 ⊆ 𝐼 ′ .
Dimostrazione. 1. Sia 𝐼(⊂ ℝ𝑛 ) un intervallo aperto e limitato di centro z ∶= (𝑧1 , 𝑧2 , … , 𝑧𝑛 ). La 𝑗-ima proiezione di 𝐼 è un intervallo limitato (⊂ ℝ) di centro 𝑧𝑗 ; diciamo ℎ𝑗 il suo raggio. Si vede subito che si ha 𝐵(z, 𝑟) ⊂ 𝐼 ⊂ 𝐵(z, 𝑟′ ),
essendo 𝑟 ∶= min{ℎ1 , ℎ2 , … , ℎ𝑛 } e 𝑟′ ∶= √ℎ21 + ℎ22 + ⋯ + ℎ2𝑛 . 2. Data la palla 𝐵 ∶= 𝐵(z, 𝑟), si ha 𝐼 ′ ⊂ 𝐵 ⊂ 𝐼 ″ , essendo 𝐼 ′ e 𝐼 ″ gli intervalli aperti di centro z e componenti 𝐼𝑠′ ∶= ]𝑧𝑠 − ℎ′ , 𝑧𝑠 + ℎ′ [ e, rispettivamente, 𝐼𝑠″ ∶= ]𝑧𝑠 − 𝑟, 𝑧𝑠 + 𝑟[, con ℎ′ ∶= 𝑟/√𝑛.
3.4. Lo spazio ℝ𝑛
127
Abbiamo così verificato che: Gli intervalli di centro z ∈ (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) costituiscono una base di intorni del punto. Inoltre :La topologia dedotta dall’ordine parziale di ℝ𝑛 coincide con la topologia euclidea. Da quanto visto negli Esempi 3.13, 3.14 e dal fatto che la palla 𝐵1 (z, 𝑟) di (ℝ𝑛 , 𝑑1 ) contiene la palla 𝐵∞ (z, 𝑟/𝑛) di (ℝ𝑛 , 𝑑∞ ) segue facilmente il Corollario 3.92. In ℝ𝑛 tutte le distanze 𝑑𝑝 (con 1 ≤ 𝑝 ≤ ∞) sono fra loro equivalenti.
Teorema 3.93. In (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) gli intervalli aperti sono insiemi regolarmente aperti e gli intervalli chiusi sono insiemi regolarmente chiusi. Dimostrazione. Siano dati i punti x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ), z ∶= (𝑧1 , 𝑧2 , … , 𝑧𝑛 ) in (ℝ𝑛 , 𝑑2 ), con x ≪ y. Se è 𝑥𝑖 < 𝑧𝑖 < 𝑦𝑖 , ∀𝑖 ≤ 𝑛, poniamo 𝑟 ∶= min{𝑧1 − 𝑥1 , … , 𝑧𝑛 − 𝑥𝑛 , 𝑦1 − 𝑧1 , … , 𝑦𝑛 − 𝑧𝑛 }.
Si vede subito che è 𝐵(z, 𝑟) ⊆ ]x, y[. Ciò prova che ]x, y[ è un insieme aperto. Supponiamo che esista un indice 𝑘 ≤ 𝑛 tale che 𝑧𝑘 ∉ [𝑥𝑘 , 𝑦𝑘 ]. Sia, per esempio 𝑧𝑘 > 𝑦𝑘 . Posto 𝑟 ∶= 𝑧𝑘 − 𝑦𝑘 , si ha subito 𝐵(z, 𝑟) ∩ [x, y] = ∅. Ciò prova che [x, y] è un insieme chiuso. Supponiamo che esista un indice 𝑘 ≤ 𝑛 tale che 𝑧𝑘 ∈ {𝑥𝑘 , 𝑦𝑘 }, si ha subito z ∈ fr[x, y] = fr ]x, y[. Da quanto precede, si vede poi che, dato un intervallo 𝐼 di estremi x e y, con x ≪ y, si ha int 𝐼 = ]x, y[ e cl 𝐼 = [x, y]. Da ciò si ottiene subito la regolarità. Proveremo nel prossimo Capitolo che in (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) anche le palle aperte [chiuse] sono insiemi regolarmente aperti [chiusi] (si veda il Teorema 4.9) Dalla Definizione 3.9 e dal Lemma 3.91 si ottiene anche che
Proposizione 3.94. Un sottoinsieme 𝐸 ⊂ ℝ𝑛 è limitato se e solo se è contenuto in un intervallo limitato. Osserviamo che, analogamente a quanto visto nell’Osservazione 3.10, anche in questo caso la scelta del centro dell’intervallo è irrilevante (Esercizio!). Riportiamo ora alcuni classici risultati (certamente già noti al lettore). Teorema 3.95 (di Cantor). Data una successione di intervalli chiusi e limitati di ℝ𝑛 decrescenti per inclusione, esiste almeno un elemento che appartiene a tutti gli intervalli. Se l’ampiezza (diametro) degli intervalli diventa arbitrariamente piccola, allora il punto è unico. Dimostrazione. 𝑛 = 1. Sia data la successione (𝐼𝑚 )𝑚 , con 𝐼𝑚 ∶= [𝑎𝑚 , 𝑏𝑚 ], di intervalli chiusi e limitati e sia 𝐼0 ⊇ 𝐼1 ⊇ 𝐼2 ⊇ ⋯ ⊇ 𝐼𝑚 ⊇ ⋯ È dunque 𝑎0 ≤ 𝑎1 ≤ 𝑎2 ≤ ⋯ ≤ 𝑎𝑚 ≤ ⋯ e 𝑏0 ≥ 𝑏1 ≥ 𝑏2 ≥ ⋯ ≥ 𝑏𝑚 ≥ ⋯ Dati 𝑟, 𝑠 ∈ ℕ,
3.4. Lo spazio ℝ𝑛
128
si ha 𝑎𝑟 ≤ 𝑎𝑟+𝑠 < 𝑏𝑟+𝑠 ≤ 𝑏𝑠 . Dunque i due insiemi 𝐴 ∶= {𝑎𝑚 ∶ 𝑚 ∈ ℕ} e 𝐵 ∶= {𝑏𝑚 ∶ 𝑚 ∈ ℕ} sono due classi separate di ℝ. Per la continuità di ℝ, esiste almeno un elemento 𝑥 ∈ ℝ tale che 𝑎𝑟 ≤ 𝑥 ≤ 𝑏𝑠 per ogni 𝑟, 𝑠 ∈ ℕ; in particolare, si ha 𝑎𝑚 ≤ 𝑥 ≤ 𝑏𝑚 per ogni 𝑚 ∈ ℕ; si conclude che è 𝑥 ∈ 𝐼𝑚 per ogni 𝑚 ∈ ℕ, dato che gli 𝐼𝑚 sono chiusi. 𝑛 > 1. Diciamo (𝐼𝑚 )𝑚 la successione degli intervalli e indichiamo con 𝐼𝑚𝑘 la 𝑘-ima proiezione di 𝐼𝑚 , 𝑘 = 1, 2, … , 𝑛. Per ogni 𝑘, gli 𝐼𝑚𝑘 sono intervalli chiusi e limitati che formano una successione (𝐼𝑚𝑘 )𝑚 decrescente per inclusione; essi hanno quindi, per quanto visto in precedenza, almeno un elemento 𝑦𝑘 in comune. Si vede ora subito che il punto y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) appartiene a tutti gli intervalli dati. Unicità. Se ci sono due punti x e y appartenenti a tutti gli 𝐼𝑚 , l’ampiezza di questi non può essere inferiore a 𝑑(x, y). Ciò non può accadere se l’ampiezza degli intervalli diventa arbitrariamente piccola. Sappiamo già dal caso 𝑛 = 1 che il Teorema di Cantor cade in difetto senza l’ipotesi che gli intervalli siano chiusi e limitati. Basta prendere, per esempio, 𝐼𝑚 ∶= ]0, 1/𝑚] o 𝐼𝑚 ∶= [𝑚, +∞[.
Teorema 3.96 (di Bolzano-Weierstrass). Ogni sottoinsieme infinito e limitato 𝐸 di ℝ𝑛 ammette almeno un punto di accumulazione.
Dimostrazione. Per 𝑛 = 2; il caso generale si prova in modo analogo. Per ipotesi, esiste un intervallo chiuso e limitato 𝐼0 = 𝐼01 × 𝐼02 che contiene 𝐸. Dividendo a metà ciascuno dei due intervalli 𝐼01 ed 𝐼02 , 𝐼0 resta diviso in 4 sottointervalli che prendiamo chiusi. In almeno uno di essi cadono infiniti punti di 𝐸: diciamolo 𝐼1 . Operiamo su 𝐼1 come su 𝐼0 ottenendo un nuovo intervallo 𝐼2 . Così procedendo, si ottiene una successione decrescente (𝐼𝑚 )𝑚 di intervalli chiusi e limitati, in ciascuno dei quali cadono infiniti punti di 𝐸. Per il Teorema di Cantor 3.95, esiste un punto (nel nostro caso unico, dato che il diametro di 𝐼𝑚 tende a 0) 𝝃 comune a tutti gli 𝐼𝑚 . Il punto 𝝃 è di accumulazione per 𝐸, dato che ogni suo intorno contiene gli 𝐼𝑚 da un 𝑚∗ in poi. L’ipotesi che 𝐸 sia infinito è banalmente necessaria. Sappiamo poi già dal caso 𝑛 = 1 che, se 𝐸 non è limitato, il teorema precedente cade in difetto: basta prendere 𝐸 = ℕ. Teorema 3.97. 1. Se è ∅ ≠ 𝐸 ≠ ℝ𝑛 , allora è fr 𝐸 ≠ ∅. 2. Gli unici sottoinsiemi clopen di (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) sono ∅ e ℝ𝑛 stesso.
Dimostrazione. 1. Sia, intanto, 𝑛 = 1. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝐸 e un 𝑦 ∈ ℝ ⧵ 𝐸. Essendo fr 𝐸 = fr(ℝ ⧵ 𝐸), non è restrittivo supporre 𝑥 < 𝑦. Siano 𝑋 ∶= {𝑡 ∈ 𝐸 ∶ 𝑥 ≤ 𝑡 < 𝑦} e 𝜉 ∶= sup 𝐸. Si vede facilmente che è 𝜉 ∈ fr 𝐸. Caso 𝑛 = 2. Fissiamo un x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 ) ∈ 𝐸 e un y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 ) ∈ ℝ2 ⧵ 𝐸. Sia poi z ∶= (𝑦1 , 𝑥2 ) e supponiamo z ∈ ℝ2 ⧵ 𝐸, da cui z ≠ x; non è restrittivo
3.4. Lo spazio ℝ𝑛
129
supporre 𝑥1 < 𝑦1 . Sia 𝑋 ∶= {(𝑡1 , 𝑥2 ) ∈ 𝐸 ∶ 𝑥1 ≤ 𝑡1 < 𝑦1 }. Ordinato 𝑋 nel verso delle 𝑡1 crescenti, si vede facilmente che è 𝝃 ∶= sup 𝑋 ∈ fr 𝐸. Se è z ∈ 𝐸, da cui z ≠ y, si ragiona in modo analogo sul segmento che unisce z e y. Per 𝑛 > 2 c’è solo da considerare delle spezzate più lunghe. 2. Segue dal punto precedente e dalla Proposizione 1.40.6. Ricordiamo la seguente ben nota definizione.
Definizione 3.98. Sia 𝑓 una funzione di un insieme non vuoto 𝑋 in ℝ𝑛 , con 𝑓 (𝑥) ∶= (𝑓1 (𝑥), 𝑓2 (𝑥), … , 𝑓𝑛 (𝑥)), ∀𝑥 ∈ 𝑋. Le funzioni 𝑓𝑖 ∶ 𝑋 → ℝ sono dette le componenti di 𝑓 . ◁
Osservazione 3.99. Si prova immediatamente (Esercizio!) che: Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), una funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (ℝ𝑛 , 𝑑2 ), di componenti 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ , è continua in un punto 𝑧 ∈ 𝑋 se e solo se sono tali tutte le componenti 𝑓𝑖 . Come vedremo più avanti (cfr. Teorema 6.4 ed Esempio 6.11), il risultato appena enunciato è conseguenza di un teorema generale sulla topologia prodotto o, in altri termini, è un altro modo per affermare che la topologia euclidea di ℝ𝑛 coincide con la topologia prodotto di 𝑛 copie di (ℝ, 𝑑2 ). È naturale chiedersi se un analogo risultato sussiste anche se in ℝ𝑛 introduciamo una distanza 𝑑 diversa da quella euclidea. Chiaramente la risposta è affermativa se 𝑑 è equivalente a 𝑑2 . Gli esempi che seguono mostrano che, in caso contrario, la continuità di 𝑓 è indipendente da quella delle sue componenti. Per capire meglio questi esempi, sarebbe però utile chiarire che cosa intendiamo in questo contesto come “componente” di 𝑓 . Limitandoci al caso di una funzione 𝑓 = (𝑓1 , 𝑓2 ) ∶ (𝑋, 𝜏) → (ℝ2 , 𝑑), osserviamo che è diverso parlare di continuità di 𝑓1 da 𝑋 in ℝ con la topologia usuale o da 𝑋 in ℝ identificato con ℝ × {0} con la topologia indotta da 𝑑. 1. In ℝ2 introduciamo accanto a quella euclidea 𝑑2 , la distanza pettine 𝑑 dell’Esempio 3.17. Consideriamo ora la funzione identica 𝑖 ∶ (ℝ2 , 𝑑2 ) → (ℝ2 , 𝑑). Questa non è continua in alcun punto che non stia sull’asse delle ascisse. Per contro le componenti di 𝑖 sono continue, dato che 𝑑 induce su ciascuno degli assi la distanza euclidea. 2. Definiamo in ℝ2 la seguente distanza 𝑑 ′ che è una variante della distanza pettine. Dati i punti x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 ) di ℝ2 , si ponga: 𝑑 ′ (x, y) ∶=
|𝑥2 − 𝑦2 |, {|𝑥1 − 𝑦1 | + |𝑥2 − 1| + |𝑦2 − 1|
se è 𝑥1 = 𝑦1 . se è 𝑥1 ≠ 𝑦1
In questa distanza il ruolo che in 𝑑 aveva l’asse delle ascisse è svolto dalla retta di equazione 𝑦 = 1. Detta ancora 𝑑 la distanza del punto 1, consideriamo la funzione 𝑓 ∶ (ℝ2 , 𝑑) → (ℝ2 , 𝑑 ′ ) definita da 𝑓 (𝑢, 𝑣) = (𝑢, 𝑣 + 1) è continua (è un’isometria), mentre non lo è la sua prima componente, dato che 𝑑 ′ induce
3.4. Lo spazio ℝ𝑛
130
sull’asse delle ascisse una distanza 𝛿 equivalente a quella discreta. Si ha infatti 𝛿(𝑥, 𝑥) = 0 e, se è 𝑥′ ≠ 𝑥″ , 𝛿(𝑥′ , 𝑥″ ) = |𝑥′ − 𝑥″ | + 2. ◁
Proposizione 3.100. Una successione di (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) è di Cauchy se e solo se sono tali le successioni delle singole componenti. Inoltre, una successione di (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) converge (a un punto l) se e solo se sono convergenti tutte le sue componenti (alle rispettive componenti di l). Anche questa dimostrazione è lasciata per esercizio al lettore. Da ciò si ottiene immediatamente il
Teorema 3.101 (Completezza di ℝ𝑛 ). (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) è uno spazio metrico completo. Dal Teorema 3.96 si ottiene il seguente corollario. Teorema 3.102 (di Bolzano-Weierstrass). Una qualunque successione limitata 𝑆 di (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) ammette una sottosuccessione convergente.
Dimostrazione. Sia 𝑆 ∶= (x𝑛 )𝑛 una successione limitata in (ℝ𝑛 , 𝑑2 ). Se 𝑆 ha una sottosuccessione costante, siamo a posto. In caso contrario, l’insieme immagine 𝐸 ∶= 𝑆(ℕ) è infinito e, per ipotesi, limitato. Per il Teorema 3.96, 𝐸 ammette un punto di accumulazione 𝑧. Esiste una successione 𝑆1 ∶= (𝑥𝑘𝑛 )𝑛 in 𝐸 convergente a 𝑧. Per avere la tesi basta prendere una sottosuccessione di 𝑆1 con gli indici crescenti. Ci sarà utile anche il seguente ben noto risultato (cfr.Teorema 7.39).
Teorema 3.103 (di Weierstrass). Una funzione continua 𝑓 di un insieme chiuso e limitato 𝐸 ⊆ (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) in (ℝ, 𝑑2 ) assume in 𝐸 un valore minimo e uno massimo. Dimostrazione. Proviamo l’esistenza del massimo; per il minimo si procede in modo analogo. Sia 𝜆 ∶= sup 𝑓 (𝐸), da cui 𝜆 ∈ cl 𝑓 (𝐸) = 𝑓 (𝐸) ∪ 𝒟 𝑓 (𝐸). Se è 𝜆 ∈ 𝑓 (𝐸) siamo a posto; sia dunque 𝜆 ∈ 𝒟 𝐸. Esiste allora una successione (y𝑛 )𝑛 di elementi di 𝑓 (𝐸) convergente a 𝜆. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste un x𝑛 ∈ 𝐸 con 𝑓 (x𝑛 ) = y𝑛 . La successione 𝑆 ∶= (x𝑛 )𝑛 è limitata. Per il Teorema di Bolzano-Weierstrass 3.102, esiste una sottosuccessione 𝑆 ′ di 𝑆 convergente a un elemento z che deve appartenere ad 𝐸, dato che questo è chiuso. Ora si ha lim𝑛→∞ 𝑓 ∘ 𝑆 ′ = 𝜆 (Proposizione 2.37.2) e lim𝑛→∞ 𝑓 ∘ 𝑆 ′ = 𝑓 (z) per la continuità di 𝑓 (Lemma 2.83). È dunque 𝜆 = 𝑓 (z). Possiamo ora completare la dimostrazione di un’affermazione fatta nell’Esempio 3.13. Teorema 3.104. Per ogni 𝑛 ≥ 1, per ogni x0 ∈ ℝ𝑛 e per ogni 𝑟 > 0, da 1 ≤ 𝑝 < 𝑞 segue 𝐵𝑝 [x0 , 𝑟] ⊆ 𝐵𝑞 [x0 , 𝑟].
3.4. Lo spazio ℝ𝑛
131
Dimostrazione. Non è restrittivo supporre x0 = 0 e 𝑛 > 1. Consideriamo la funzione di classe 𝐶 1 𝑓 ∶ (ℝ𝑛 , 𝑑2 ) → (ℝ, 𝑑2 ) definita da 𝑓 (x) ∶= 𝑑𝑞 (x, 0)𝑞 = |𝑥1 |𝑞 + |𝑥2 |𝑞 + ⋯ + |𝑥𝑛 |𝑞 .
e ristretta all’insieme chiuso e limitato 𝐵 ∶= 𝐵𝑝 [0, 𝑟]. Per il Teorema di Weierstrass appena ricordato, 𝑓 assume in 𝐵 un valore massimo 𝑀(> 0). Basta provare che è 𝑀 ≤ 𝑟𝑞 . Dato che si ha ∇𝑓 (x) = 0 se e solo se è x = 0, con 𝑓 (0) = 0 = min 𝑓 (𝐵), basta occuparci dei valori di fr 𝐵. Sia dunque x = (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ) ∈ fr 𝐵, da cui 𝑑𝑝 (x, 0) = 𝑟. Per ragioni di simmetria, possiamo supporre 𝑥𝑖 ≥ 0, ∀𝑖 ≤ 𝑛 e che le eventuali coordinate nulle di x siano le ultime. È dunque x = (𝑥1 , … , 𝑥𝑘 , 0, … , 0), con 1 ≤ 𝑘 ≤ 𝑛 e 𝑥𝑖 > 0, ∀𝑖 ≤ 𝑘. Si studiano separatamente gli 𝑛 casi ottenuti al variare di 𝑘 da 1 a 𝑛. Il caso 𝑘 = 1 è banale. Fissato 𝑘 > 1, possiamo utilizzare il metodo dei moltiplicatori di Lagrange. Si ottiene facilmente 𝑥1 = ⋯ = 𝑥𝑘 = 𝑟/𝑘1/𝑝 , da cui 𝑓 (x) = 𝑟𝑞 /𝑘((𝑞/𝑝)−1) ≤ 𝑟𝑞 , essendo 𝑞/𝑝 > 1. Partendo invece dalla funzione 𝑓 (x) ∶= 𝑑𝑝 (x, 0)𝑝 col vincolo x ∈ 𝐵𝑞 [0, 𝑟], la stessa argomentazione permette di dimostrare che 𝐵𝑞 [0, 𝑟] ⊆ 𝐵𝑝 [0, 𝑟′ ], con 𝑟′ ∶= 𝑟 ⋅ 𝑛(𝑞−𝑝)/𝑝𝑞 . Si veda anche l’Esercizio 4.15.
Chiudiamo il paragrafo esaminando come si possano trasferire ad ℝ2 le distanze introdotte in ℝ alla fine del paragrafo precedente. Esempio 3.105. Nel piano 𝑥𝑧 introduciamo le figure degli esempi 3.86, 3.87 e 3.88 ed effettuiamo una loro rotazione completa attorno all’asse 𝑧. Nei primi due casi si ottengono una semisfera privata della circonferenza di base e, rispettivamente, una sfera privata di un punto. Nel terzo caso, si ottiene una specie di “toro”. La funzione 𝜑 proietta ora i punti del piano 𝑥𝑦 sulle superfici di rotazione ottenute. In ℝ2 introduciamo, di volta in volta, la distanza 𝑑(x, y) ∶= 𝑑2 (𝜑(x), 𝜑(y)).
Un completamento del primo spazio si ottiene aggiungendo un’infinità di punti all’infinito (uno per ogni semiretta uscente dall’origine). Un completamento del secondo spazio si ottiene aggiungendo un unico elemento che possiamo indicare con ∞. Il terzo spazio è completo. Le prime due distanze sono equivalenti a quella euclidea, mentre la terza è strettamente meno fine di questa. In quest’ultimo caso, le palle di centro l’origine hanno l’aspetto mostrato in figura. ◁
3.5. Metrizzabilità
132
Lo stesso tipo di costruzioni può essere esteso anche in dimensione 𝑛 ≥ 3.
3.5
Metrizzabilità
Gli spazi metrici costituiscono una classe di spazi topologici di estremo interesse in varie aree della Matematica e soprattutto per l’Analisi. Alcune proprietà importanti degli spazi metrici e le loro connessioni con l’Analisi (spazi normati, spazi di funzioni, compattezza, …) sono stati appena visti o si vedranno nei capitoli successivi. Nel presentare gli spazi metrici, siamo partiti dal concetto di distanza e da questo abbiamo ricavato i concetti topologici. Questo approccio, pur essendo molto utile dal punto di vista delle applicazioni, presenta forse qualche lacuna dal punto di vista teorico. In molti casi, infatti, sarebbe interessante poter assegnare direttamente una topologia e riconoscere poi che questa proviene da una distanza: ciò porta a considerare il problema della metrizzabilità di uno spazio topologico. Un altro aspetto collegato a questo è quello di capire se il concetto di metrizzabilità sia una proprietà di tipo topologico, ovvero se si preserva per omeomorfismi. Quest’ultimo quesito potrebbe apparire tutt’altro che ovvio, dato che, come si è già visto, vi sono delle proprietà della distanza, quali la completezza, la limitatezza, l’uniforme continuità di una funzione, che non si preservano per omeomorfismi. Storicamente, l’importanza della metrizzabilità è stata messa in evidenza negli anni ’20 da alcuni eminenti matematici russi quali Alexandrov, Urysohn e Tychonoff. Importanti progressi sono stati ottenuti negli anni ’50 da altri studiosi quali Bing, Nagata e Smirnov. In questo paragrafo non pretendiamo di offrire una panoramica completa dei risultati di metrizzabilità. Il lettore interessato ad approfondimenti su questo argomento potrà utilmente consultare alcuni testi classici quali [18]. Presenteremo tuttavia alcuni teoremi importanti che, come si vedrà, richiedono delle dimostrazioni piuttosto complesse. Per motivi espositivi, spezzeremo alcuni teoremi, presentandone in momenti diversi le condizioni necessarie rispetto a quelle sufficienti. Ritorneremo su questo argomento nel Capitolo 7 quando parleremo di spazi compatti. Iniziamo definendo formalmente la metrizzabilità. Definizione 3.106. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) si dice metrizzabile se esiste una distanza 𝑑 su 𝑋 tale che la corrispondente topologia 𝜏𝑑 coincide con 𝜏. ◁
Sappiamo che non tutti gli spazi topologici sono metrizzabili (cfr. pag. 104). Basta, infatti, prendere spazi non normali (in particolare, spazi non regolari o non di Hausdorff). Più avanti, in questo stesso paragrafo, presenteremo degli esempi un po’ più raffinati, in cui si considerano spazi perfettamente normali e non metrizzabili (cfr. Esempi 3.126 e 3.128). Storicamente, a partire da Alexandrov e Urysohn, il concetto di metrizzabilità è stato collegato ad alcune proprietà relative ad una base di aperti della topologia. Caratterizzazioni della metrizzabilità che fanno uso di questi
3.5. Metrizzabilità
133
concetti sono particolarmente interessanti. Da esse, infatti, discende in modo immediato il fatto che la metrizzabilità è una proprietà di tipo topologico. Presentiamo intanto una dimostrazione diretta di questo fatto. Teorema 3.107. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico metrizzabile. Allora: 1. Ogni suo sottospazio è metrizzabile. 2. Ogni spazio topologico omeomorfo ad esso è metrizzabile.
Dimostrazione. La 1 discende banalmente dalle definizioni di sottospazio metrico e sottospazio topologico (cfr. Teorema 3.40). Sia (𝑌 , 𝜎) uno spazio topologico omeomorfo allo spazio metrizzabile (𝑋, 𝜏). Indiciamo con 𝜑 ∶ 𝑌 → 𝑋 una biiezione che sia anche un omeomorfismo tra i due spazi topologici e sia inoltre 𝑑 una distanza in 𝑋 che genera la topologia 𝜏. Vogliamo definire una distanza 𝑑 ′ su 𝑌 che generi 𝜎. A tale scopo, seguiamo la procedura descritta a pag. 97, ponendo 𝑑 ′ (𝑎, 𝑏) ∶= 𝑑(𝜑(𝑎), 𝜑(𝑏)),
∀𝑎, 𝑏 ∈ 𝑌 .
Sappiamo che 𝑑 ′ è una distanza e chiamiamo 𝜎 ′ la topologia da essa generata. Se indichiamo con 𝐵𝑌 e 𝐵𝑋 le palle in 𝑌 e in 𝑋 relative alle distanze 𝑑 ′ e 𝑑, rispettivamente, otteniamo immediatamente che 𝐵𝑌 (𝑎, 𝜀) = 𝜑−1 (𝐵𝑋 (𝜑(𝑎), 𝜀)). Pertanto, ogni palla aperta in (𝑌 , 𝑑 ′ ) è un aperto di (𝑌 , 𝜎), da cui 𝜎 ′ ⊆ 𝜎. Viceversa, se 𝐴 ∈ 𝜎, 𝜑(𝐴) ∈ 𝜏 e quindi 𝜑(𝐴) è unione di palle aperte del tipo 𝐵𝑋 (𝑎′ , 𝛿𝑎′ ), con 𝑎′ ∈ 𝜑(𝐴). Poiché ogni 𝑎′ ∈ 𝜑(𝐴) è del tipo 𝑎′ = 𝜑(𝑎), con 𝑎 ∈ 𝐴, concludiamo che il 𝜎-aperto 𝐴 è unione di insiemi del tipo 𝜑−1 (𝐵𝑋 (𝜑(𝑎), 𝜀𝑎 )), dove, per comodità di notazione, abbiamo posto 𝜀𝑎 ∶= 𝛿𝜑(𝑎) . Risulta quindi che 𝐴 e unione di palle aperte del tipo 𝐵𝑌 (𝑎, 𝜀𝑎 ) e quindi appartiene alla topologia 𝜎′. Riprendendo il discorso fatto sopra riguardo al fatto di ottenere condizioni di metrizzabilità usando proprietà delle basi di aperti, presentiamo la seguente definizione.
Definizione 3.108. Una famiglia 𝒜 di insiemi di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detta localmente finita se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un suo intorno 𝑈 tale che 𝑈 ha intersezione non vuota con al più un numero finito di elementi di 𝒜 . Se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un suo intorno 𝑈 che interseca al più un elemento della famiglia, allora questa è detta discreta. Una famiglia 𝒜 di insiemi di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detta 𝜎-localmente finita [𝜎-discreta] se può essere espressa come unione al più numerabile di famiglie localmente finite [discrete]. ◁ Fra le quattro proprietà di cui alla precedente definizione sussistono chiaramente le implicazioni espresse (con ovvio significato dei simboli) nel grafico
3.5. Metrizzabilità
134 𝐷
che segue:
𝐿𝐹
𝜎𝐷
𝜎𝐿𝐹
Nessuna di queste implicazioni è invertibile. Inoltre le proprietà 𝐿𝐹 e 𝜎𝐷 sono fra loro indipendenti. L’Esempio 3.109 mostrerà che 𝜎𝐷 [che 𝜎𝐿𝐹 ] non implica né 𝐷 né 𝐿𝐹 ; l’Esempio 3.110 mostrerà che 𝐿𝐹 [che 𝜎𝐿𝐹 ] non implica né 𝐷 né 𝜎𝐷.
Esempio 3.109. In (ℝ, 𝜏𝑒 ). Per ogni 𝑘 ∈ ℤ e per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ si ponga 𝐼𝑘,𝑛 ∶=](𝑘 − 1)/𝑛, (𝑘 + 1)/𝑛[ . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , la famiglia 𝒜𝑛 ∶= {𝐼𝑘,𝑛 }𝑘∈ℤ è, come si vede facilmente, localmente finita e quindi la famiglia 𝒜 ∶= ⋃𝑛∈ℕ+ 𝒜𝑛 è 𝜎-localmente finita (ma non localmente finita, né tanto meno discreta). È interessante notare che la famiglia 𝒜 è una base di aperti per la topologia ordinaria. Infatti, per ogni coppia di intervalli della famiglia aventi intersezione non vuota, esiste un elemento della famiglia contenuto nell’intersezione dei due. Se, invece, si pone, sempre per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , 𝒜𝑛′ ∶= {𝐼4𝑘,𝑛 }𝑘∈ℤ , 𝒜𝑛″ ∶= {𝐼4𝑘+1,𝑛 }𝑘∈ℤ , 𝒜𝑛‴ ∶= {𝐼4𝑘+2,𝑛 }𝑘∈ℤ e 𝒜𝑛𝑖𝑣 ∶= {𝐼4𝑘+3,𝑛 }𝑘∈ℤ , si ha che ciascuna di queste quattro famiglie è discreta, per cui la famiglia 𝒜 ∶=
⋃+
𝑛∈ℕ
𝒜𝑛 =
⋃+
𝑛∈ℕ
(𝒜𝑛′ ∪ 𝒜𝑛″ ∪ 𝒜𝑛‴ ∪ 𝒜𝑛𝑖𝑣 )
è non solo 𝜎-localmente finita, ma addirittura 𝜎-discreta.
◁
Esempio 3.110. Siano 𝑋 ∶= ℝ dotato della topologia discreta, sia ℱ l’insieme dei suoi sottoinsiemi finiti. Si può dimostrare che 𝑋 e ℱ hanno la stessa cardinalità (cfr. [74, Cap. vii]). Sia dunque 𝜑 ∶ 𝑋 → ℱ una biiezione. Per ogni 𝑦 ∈ 𝑋 sia 𝑈𝑦 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑦 ∈ 𝜑(𝑥)} e si ponga 𝒰 ∶= {𝑈𝑦 ∶ 𝑦 ∈ 𝑋 }. Per ogni 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, si ha 𝑥 ∈ 𝑈𝑦 se e solo se è 𝑦 ∈ 𝜑(𝑥). Quindi 𝑥 appartiene esattamente a |𝜑(𝑥)| elementi di 𝒰. Si conclude che 𝒰 è localmente finita, dato che 𝑥 è un punto isolato. Mostriamo che 𝒰 non è 𝜎-discreta. Per ogni 𝑦 ∈ 𝑋, l’insieme 𝑈𝑦 ha tanti elementi quanti sono i sottoinsiemi finiti di 𝑋 che contengono 𝑦. Dunque 𝑈𝑦 è più che numerabile. Non solo ma, per ogni 𝑦, 𝑧 ∈ 𝑋, si ha 𝑈𝑦 ∩ 𝑈𝑧 = {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑦, 𝑧 ∈ 𝜑(𝑥)} e quindi anche 𝑈𝑦 ∩ 𝑈𝑧 è più che numerabile. La famiglia 𝒰 è anch’essa più che numerabile. Se, per assurdo, 𝒰 fosse 𝜎-discreta, esisterebbe una sua sottofamiglia 𝒰 ′ discreta e ancora più che numerabile. Ma abbiamo visto che l’intersezione di due elementi di 𝒰 (e quindi anche di 𝒰 ′ ) è sempre più che numerabile e, pertanto, ci sono sempre elementi di 𝑋 che appartengono a più di un elemento di 𝒰 ′ . ◁ L’Esempio 3.109 è un caso particolare del seguente risultato di immediata verifica. Lemma 3.111. Ogni spazio topologico 𝐴2 ha una base 𝜎-discreta.
3.5. Metrizzabilità
135
Una proprietà importante delle famiglie localmente finite è il fatto che, per esse, l’operatore di chiusura commuta con la riunione.
Lemma 3.112. Sia 𝒜 = {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 una famiglia localmente finita di insiemi di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). Per ogni sottofamiglia 𝒜 ′ = {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 ′ , con 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 , si ha cl ( 𝐴 = cl 𝐴𝛼 . ⋃ 𝛼) ⋃ 𝛼∈𝐽 ′
𝛼∈𝐽 ′
Dimostrazione. Siccome anche la famiglia 𝒜 ′ è localmente finita, non sarà restrittivo limitarsi al caso 𝒜 ′ = 𝒜 . Per la monotonia dell’operatore di chiusura rispetto all’inclusione, si ha subito cl(⋃𝛼∈𝐽 𝐴𝛼 ) ⊇ ⋃𝛼∈𝐽 cl 𝐴𝛼 . Fissiamo ora un 𝑥 ∈ cl(⋃𝛼∈𝐽 𝐴𝛼 ). Per ipotesi, esiste un intorno 𝑈 di 𝑥 che interseca al più un numero finito di elementi di 𝒜 . In altre parole, ponendo 𝐾 ∶= {𝛼 ∈ 𝐽 ∶ 𝐴𝛼 ∩ 𝑈 ≠ ∅}, abbiamo che 𝐾 è finito. Inoltre, poiché 𝑈 ∩ (⋃𝛼∈𝐽 ⧵𝐾 𝐴𝛼 ) = ∅, possiamo concludere che 𝑥 ∉ cl(⋃𝛼∈𝐽 ⧵𝐾 𝐴𝛼 ). Di conseguenza, si ha: 𝑥 ∈ cl (
⋃
𝛼∈𝐽
𝐴𝛼 ) = cl (
⇒ 𝑥 ∈ cl (
⋃
𝛼∈𝐾
⋃
𝛼∈𝐾
𝐴𝛼 ) =
Si ha così anche l’inclusione opposta.
𝐴𝛼 ) ∪ cl (
⋃
𝛼∈𝐾
cl 𝐴𝛼 ⊆
⋃
𝛼∈𝐽 ⧵𝐾
⋃
𝛼∈𝐽
𝐴𝛼 ) ⇒
cl 𝐴𝛼 .
Teorema 3.113. Ogni spazio topologico regolare (𝑋, 𝜏) che ammette una base di aperti 𝜎-localmente finita è perfettamente normale. Dimostrazione. Sia ℬ una base di aperti 𝜎-localmente finita per lo spazio 𝑋. Per definizione, possiamo esprimere ℬ come unione numerabile di famiglie ℬ𝑛 localmente finite di aperti. Ricordiamo che uno spazio topologico è perfettamente normale se e solo se è normale e tutti i suoi chiusi sono dei 𝐺𝛿 (cfr. Definizione 2.113 e Corollario 2.112). Invece di provare che i chiusi sono 𝐺𝛿 possiamo verificare che gli aperti sono degli 𝐹𝜎 . Siano 𝐴 un arbitrario aperto non vuoto di 𝑋 e 𝑥 ∈ 𝐴. Dall’ipotesi che 𝑋 sia regolare e che ℬ sia una sua base di aperti, segue che esiste un intorno aperto 𝑈𝑥 di 𝑥 tale che 𝑈𝑥 ∈ ℬ e 𝑥 ∈ 𝑈𝑥 ⊆ cl 𝑈𝑥 ⊆ 𝐴 (cfr. Teorema 1.91). Inoltre, sempre per ogni 𝑥, scegliamo un indice 𝑛𝑥 ∈ ℕ tale che 𝑈𝑥 ∈ ℬ𝑛𝑥 . Facendo variare 𝑦 ∈ 𝐴, per ogni numero naturale 𝑘, definiamo 𝐴𝑘 ∶= ⋃𝑛𝑦 =𝑘 𝑈𝑦 . Ogni 𝐴𝑘 è chiaramente aperto. Ogni elemento di 𝐴 appartiene a qualche 𝐴𝑘 . Ogni 𝐴𝑘 è unione di aperti che appartengono a una famiglia localmente finita. Pertanto, per il lemma precedente, la chiusura di 𝐴𝑘 è la riunione delle chiusure degli aperti che lo compongono e quindi cl 𝐴𝑘 ⊆ 𝐴. Abbiamo così ottenuto una successione (𝐴𝑘 )𝑘 di aperti tale che 𝐴 = ⋃𝑘∈ℕ 𝐴𝑘 ⊆ ⋃𝑘∈ℕ cl 𝐴𝑘 ⊆ 𝐴. Dunque 𝐴 è un 𝐹𝜎 .
3.5. Metrizzabilità
136
Ci resta da dimostrare che (𝑋, 𝜏) è normale. Siano 𝐶, 𝐷 due sottoinsiemi (non vuoti) chiusi e disgiunti di 𝑋. L’insieme 𝐴 ∶= 𝑋⧵𝐷 è un aperto contenente 𝐶. Per quanto visto sopra, si ha che esiste una famiglia numerabile di aperti 𝐴𝑘 tale che 𝐶⊆ 𝐴 , 𝐷 ∩ cl 𝐴𝑘 = ∅, ∀𝑘 ∈ ℕ. ⋃ 𝑘 𝑘∈ℕ
Simmetricamente, esiste una famiglia numerabile di aperti 𝐴′𝑘 tale che 𝐷⊆
⋃
𝑘∈ℕ
𝐴′𝑘 ,
𝐶 ∩ cl 𝐴′𝑘 = ∅, ∀𝑘 ∈ ℕ.
Ci troviamo così nelle stesse condizioni che avevamo all’inizio della dimostrazione del Teorema 1.102. Pertanto, ponendo 𝐺𝑛 ∶= 𝐴𝑛 ⧵
⋃
𝑘≤𝑛
cl 𝐴′𝑘 ,
𝐻𝑛 ∶= 𝐴′𝑛 ⧵
⋃
𝑘≤𝑛
cl 𝐴𝑘
e, in fine, 𝐺 ∶= ⋃𝑛∈ℕ 𝐺𝑛 e 𝐻 ∶= ⋃𝑛∈ℕ 𝐻𝑛 , concludiamo, con lo stesso procedimento visto a suo tempo, che 𝐺 e 𝐻 sono due aperti disgiunti contenenti, rispettivamente, 𝐶 e 𝐷. Ricordando che, per ipotesi, (𝑋, 𝜏) è 𝑇1 , si conclude che esso è normale. Per verificare che esistono spazi topologici regolari che non ammettono basi 𝜎-localmente finite, basta quindi prendere spazi regolari che non sono 𝑇4 , come quelli degli Esempi 1.95 e 1.96. Per verificare che esistono spazi topologici non regolari con basi 𝜎-localmente finite, basta banalmente prendere la topologia nulla su un insieme con almeno due punti. Se vogliamo che lo spazio sia anche di Hausdorff, possiamo prendere quello dell’inclinazione irrazionale (cfr. Esempio 1.90). Infatti, lo spazio 𝑋 è numerabile, 𝑇2 e non 𝑇3 ; si ha poi subito che ogni punto possiede una base numerabile di intorni e che quindi lo spazio è 𝐴2 (Teorema 1.71); si veda poi il Lemma 3.111. Abbiamo visto a suo tempo che gli spazi metrici sono perfettamente normali (cfr. Teorema 3.44). Nel teorema precedente abbiamo trovato delle condizioni sufficienti per tale proprietà. È interessante il fatto che le ipotesi del teorema precedente siano sufficienti a garantire la metrizzabilità dello spazio, come mostrato dal prossimo teorema. Teorema 3.114 (di Nagata-Smirnov: condizione sufficiente). Ogni spazio topologico regolare (𝑋, 𝜏) che ammette una base di aperti 𝜎-localmente finita è metrizzabile.
Dimostrazione. Indichiamo con ℬ una base di aperti 𝜎-localmente finita di (𝑋, 𝜏). È dunque ℬ = ⋃𝑛∈ℕ+ ℬ𝑛 , ℬ𝑛 = {𝑈𝑖𝑛 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽𝑛 }, con gli 𝑈𝑖𝑛 aperti e, per ogni 𝑛, ℬ𝑛 famiglia localmente finita. Per il teorema precedente, (𝑋, 𝜏) è perfettamente normale e quindi tutti i suoi chiusi sono degli zero-insiemi (cfr. Definizione 2.113). Dunque, per
3.5. Metrizzabilità
137
ciascuno degli aperti 𝑈𝑖𝑛 , esiste una funzione continua 𝑓𝑛,𝑖 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑥 ∈ 𝑈𝑖𝑛 ⇔ 𝑓𝑛,𝑖 (𝑥) > 0. Su 𝑋 × 𝑋 introduciamo la topologia prodotto generata dagli insiemi del tipo 𝐴 × 𝐵, con 𝐴, 𝐵 aperti di 𝑋. Definiamo ora, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , la funzione 𝑔𝑛 ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ ponendo 𝑔𝑛 (𝑥, 𝑦) ∶=
∑
𝑖∈𝐽𝑛
|𝑓𝑛,𝑖 (𝑥) − 𝑓𝑛,𝑖 (𝑦)|
(3.3)
e verifichiamo intanto che le funzioni 𝑔𝑛 sono ben definite e continue. Fissiamo 𝑛 ∈ ℕ+ . Per la definizione di locale finitezza, dato un generico elemento 𝑧 ∈ 𝑋, esiste un suo intorno aperto 𝑊𝑧 tale che 𝑊𝑧 ha intersezione non vuota con al più un numero finito di elementi di ℬ𝑛 . Fissati 𝑥0 , 𝑦0 ∈ 𝑋, esistono due intorni aperti 𝑊𝑥0 , 𝑊𝑦0 tali che, per 𝑥 ∈ 𝑊𝑥0 , risulta 𝑓𝑛,𝑖 (𝑥) > 0 per al più un numero finito di indici 𝑖 ∈ 𝐽𝑛 e, similmente, per 𝑦 ∈ 𝑊𝑦0 , risulta 𝑓𝑛,𝑖 (𝑦) > 0 per al più un numero finito di indici 𝑖 ∈ 𝐽𝑛 . Di conseguenza, nella (3.3), per ogni (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑊𝑥0 × 𝑊𝑦0 , c’è al più un numero finito di addendi non nulli e, pertanto, la funzione 𝑔𝑛 è ben definita in 𝑊𝑥0 × 𝑊𝑦0 e quindi in 𝑋 × 𝑋, data l’arbitrarietà del punto (𝑥0 , 𝑦0 ). È un semplice esercizio verificare che se 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ è una funzione continua, allora anche la funzione ℎ ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ definita da ℎ(𝑥, 𝑦) ∶= 𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑦) è continua rispetto alla topologia prodotto e, di conseguenza, anche la funzione |ℎ|, come pure ogni combinazione lineare finita di funzioni del tipo |ℎ|. Da ciò segue il fatto che, per ogni (𝑥0 , 𝑦0 ) ∈ 𝑋 × 𝑋, esiste un intorno aperto 𝑊𝑥0 × 𝑊𝑦0 tale che 𝑔𝑛 , ristretta a tale intorno sia continua. Dall’Osservazione 2.14 concludiamo, in fine, che le 𝑔𝑛 sono continue su tutto lo spazio. Definiamo ora, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , la funzione continua 𝛿𝑛 ∶ 𝑋 × 𝑋 → [0, +∞[, ponendo 𝛿𝑛 (𝑥, 𝑦) ∶= min{1, 𝑔𝑛 (𝑥, 𝑦)}, ∀𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, e sia, in fine,
𝑑(𝑥, 𝑦) ∶=
∞
1 𝛿 (𝑥, 𝑦), ∑ 2𝑛 𝑛 𝑛=1
∀𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋.
(3.4)
Poiché le 𝑔𝑛 e le 𝛿𝑛 sono funzioni continue da 𝑋 × 𝑋 in ℝ, per il Criterio di Weierstrass sulla convergenza uniforme delle serie, abbiamo che anche la 𝑑 ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ è una funzione continua. Resta da provare che la funzione 𝑑 ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ così definita è una metrica e che la topologia da essa dedotta coincide con 𝜏. Che la 𝑑 sia simmetrica e non negativa è ovvio. È anche chiaro dalla (3.3) che è 𝑑(𝑥, 𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Verifichiamo che, se è 𝑥 ≠ 𝑦, allora è 𝑑(𝑥, 𝑦) > 0. Dato che ℬ è una base di aperti per la topologia 𝜏 e che lo spazio è regolare e quindi 𝑇1 , esiste un aperto 𝑈 ∶= 𝑈𝑖𝑛 ∈ ℬ con 𝑥 ∈ 𝑈 e 𝑦 ∉ 𝑈 . Per la corrispondente funzione 𝑓𝑛,𝑖 , si ha 𝑓𝑛,𝑖 (𝑥) > 0 e 𝑓𝑛,𝑖 (𝑦) = 0, da cui 𝑔𝑛 (𝑥, 𝑦) > 0 e anche 𝑑(𝑥, 𝑦) > 0.
3.5. Metrizzabilità
138
Veniamo alla disuguaglianza triangolare. Dalla definizione (3.3) è evidente che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ e 𝑥, 𝑦, 𝑧 ∈ 𝑋, si ha 𝑔𝑛 (𝑥, 𝑧) ≤ 𝑔𝑛 (𝑥, 𝑦) + 𝑔𝑛 (𝑦, 𝑧).
Ma allora, la disuguaglianza triangolare sussiste anche per la funzione 𝛿𝑛 (Esercizio|) e, quindi, per la 𝑑. Abbiamo così ottenuto una distanza in 𝑋. Indichiamo con 𝜏𝑑 la topologia da essa generata. Ricordando la Proposizione 3.42.1, sappiamo che un punto 𝑧 appartiene alla 𝜏𝑑 -chiusura di un insieme 𝐸 se e solo se è 𝑑(𝑧, 𝐸) = 0. Se verifichiamo che la stessa condizione caratterizza la 𝜏-chiusura di 𝐸, avremo che le due topologie coincidono (cfr. Teorema 1.44). Dati un punto 𝑧 e un arbitrario insieme 𝐸, supponiamo che sia 𝑧 ∉ cl 𝐸 (dove la chiusura è quella in 𝜏). Dal fatto che ℬ è una base di aperti per 𝜏, si ha che esiste un aperto 𝑈 ∶= 𝑈𝑖𝑛 ∈ ℬ con 𝑧 ∈ 𝑈 e cl 𝐸 ∩ 𝑈 = ∅. Per la corrispondente funzione 𝑓𝑛,𝑖 , si ha 𝑓𝑛,𝑖 (𝑧) > 0 e 𝑓𝑛,𝑖 (𝑦) = 0, per ogni 𝑦 ∈ cl 𝐸, da cui 𝑔𝑛 (𝑧, 𝑦) = 𝑓𝑛,𝑖 (𝑧) > 0, ∀𝑦 ∈ cl 𝐸. Da ciò segue che è 𝛿𝑛 (𝑧, cl 𝐸) ≥ 𝜀 > 0, per un opportuno 𝜀. Si conclude che è 𝑑(𝑧, 𝐸) ≥ 𝜀/2𝑛 > 0. Supponiamo ora 𝑧 ∈ cl 𝐸. Consideriamo la funzione 𝜑 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝜑(𝑥) ∶= 𝑑(𝑥, 𝐸). Per la Proposizione 3.42.4, sappiamo che 𝜑 è continua rispetto alla topologia 𝜏𝑑 . Vogliamo far vedere che tale funzione è continua anche rispetto alla topologia 𝜏. Dalla Proposizione 3.42.3, si ha che |𝜑(𝑥) − 𝜑(𝑦)| ≤ 𝑑(𝑥, 𝑦)
e da ciò, utilizzando la continuità di 𝑑 rispetto alla topologia prodotto, segue immediatamente la continuità di 𝜑 rispetto alla topologia 𝜏 (Esercizio!). Per la Proposizione 2.27.2, sappiamo che è 𝜑(cl 𝐸) ⊆ cl 𝜑(𝐸) = cl{0} = {0}. Concludiamo che 𝜑(𝑧) = 𝑑(𝑧, 𝐸) = 0 poiché si è supposto 𝑧 ∈ cl 𝐸. Dal Teorema 3.114 segue immediatamente il seguente corollario.
Teorema 3.115 (di metrizzabilità di Urysohn). Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) secondo numerabile (𝐴2 ) è metrizzabile se (e solo se) è regolare.
Dimostrazione. Basta, ovviamente, provare il “se”. La topologia 𝜏 ammette una base numerabile di aperti 𝒜 = {𝐴𝑛 }𝑛∈ℕ . Per ogni 𝑛, la famiglia formata dal solo aperto 𝐴𝑛 è ovviamente localmente finita (cfr. Lemma 3.111). La tesi segue dal teorema precedente. Questo teorema fu dimostrato nel 1924 da Urysohn nel caso degli spazi normali e pubblicato postumo nel 1925. Subito dopo, nel 1925–26, Tychonoff dimostrò che la regolarità è sufficiente. Infatti ricordiamo che ogni spazio regolare e secondo numerabile è anche normale (cfr. Teorema 1.102). Un’altra dimostrazione del Teorema di Urysohn verrà data nel Capitolo 6 (cfr. Teorema 6.21.)
3.5. Metrizzabilità
139
Nei Teoremi 1.102 e 3.115 la proprietà 𝐴2 riveste un ruolo fondamentale. D’altra parte, mentre il primo assioma di numerabilità è sempre soddisfatto negli spazi metrici (cfr. Corollario 3.31), esistono spazi metrici che non sono 𝐴2 (basata prendere un insieme non numerabile con la distanza discreta). Negli spazi metrici, tuttavia, si può caratterizzare la proprietà 𝐴2 mediante la separabilità. Sussiste infatti il seguente risultato. Teorema 3.116. 1. Uno spazio metrico è secondo numerabile se e solo se è separabile. 2. La separabilità è una proprietà ereditaria per gli spazi metrici (cfr. Proposizione 2.119.5).
Dimostrazione. 1. Che ogni spazio 𝐴2 sia anche separabile è un fatto che vale per ogni spazio topologico (cfr. Teorema 1.73). Vediamo il viceversa. Sia 𝐷 ∶= {𝑢𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} un sottoinsieme numerabile e denso nello spazio metrico (𝑋, 𝑑). È facile verificare (Esercizio!) che l’insieme delle palle aperte 𝐵(𝑢𝑛 , 𝑟), dove 𝑟 è un numero razionale positivo costituisce una base numerabile di aperti. 2. Sia 𝐸 un sottospazio di uno spazio metrico separabile (𝑋, 𝑑). Per il punto 1, 𝑋 è 𝐴2 . È dunque tale anche 𝐸 (cfr. Teorema 1.106); ma allora 𝐸 è separabile per il Teorema 1.73. Il risultato appena visto, per quanto elementare, è spesso usato per verificare che uno spazio topologico separabile non è metrizzabile. Infatti, basterà verificare che non è 𝐴2 oppure che possiede un sottospazio non separabile. Un altro teorema di metrizzabilità che si può dedurre dal Teorema di Nagata-Smirnov è quello di Arhangel’skiĭ. In tale teorema si utilizzano i concetti di ricoprimento e di base regolare di cui diamo ora le definizioni. Definizione 3.117. Dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋, una famiglia {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 di sottoinsiemi di 𝑋 è detta un ricoprimento di 𝐸 se risulta ⋃𝛼∈𝐽 𝐴𝛼 ⊇ 𝐸. Dati due ricoprimenti di 𝐸, 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 e ℬ ∶= {𝐵𝛽 }𝛽∈𝐽 ′ , diremo che ℬ è un raffinamento di 𝒜 o anche che ℬ raffina 𝒜 se, per ogni 𝛽 ∈ 𝐽 ′ , esiste 𝛼 ∈ 𝐽 tale 𝐵𝛽 ⊆ 𝐴𝛼 . Una caso particolare di raffinamento di un ricoprimento 𝒜 è dato dai cosiddetti sottoricoprimenti, ossia dai ricoprimenti del tipo 𝒜 ′ ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 ′ , con 𝐽′ ⊆ 𝐽. Diremo che un ricoprimento è aperto [chiuso] se sono tali tutti gli insiemi che lo compongono. Un ricoprimento è detto numerabile [finito] se è tale l’insieme degli indici. ◁
Definizione 3.118. Una base ℬ di aperti di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) si dice regolare se, per ogni punto 𝑥 ∈ 𝑋 e ogni intorno 𝑈 di 𝑥, esiste un intorno 𝑉 di 𝑥 contenuto in 𝑈 tale che l’insieme degli aperti della base ℬ che hanno intersezione non vuota sia con 𝑉 che con 𝑋 ⧵ 𝑈 è finito. ◁
3.5. Metrizzabilità
140
Come conseguenza della definizione, abbiamo che, se ℬ è una base regolare, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni suo intorno 𝑈 , c’è al più un numero finito di elementi di ℬ che contengono propriamente 𝑈 (Esercizio). Come vedremo tra poco (cfr. Teorema 3.125), l’esistenza di una base regolare è condizione necessaria e sufficiente per la metrizzabilità di uno spazio 𝑇1 . Tuttavia, non è detto che negli spazi metrici le basi di aperti (anche quelle “naturali”) siano sempre regolari.
Esempio 3.119. In (ℝ, 𝑑2 ), una base naturale di aperti è data dagli intervalli aperti e limitati con estremi razionali. Si vede subito che questa base (numerabile) non è regolare. Per ottenere una base regolare, dobbiamo selezionare una opportuna sottofamiglia (sempre numerabile) ma, per così dire, con molti meno elementi. Una possibile scelta in tal senso è data, come facilmente si verifica, dalla famiglia di intervalli aperti del tipo ](𝑘 − 1)/𝑛, (𝑘 + 1)/𝑛[, 𝑘 ∈ ℤ, 𝑛 ∈ ℕ+ (cfr. Esempio 3.109). ◁ Teorema 3.120 (di Arhangel’skiĭ: condizione sufficiente). Se uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è 𝑇1 e possiede una base regolare, allora è metrizzabile.
Dimostrazione. Per il Teorema 3.114, è sufficiente provare che (𝑋, 𝜏) è regolare e che una base regolare di aperti è una famiglia 𝜎-localmente finita. Cominciamo con l’osservare che, se ℬ è una base regolare, dati 𝑥, 𝑈 , 𝑉 come nella definizione, risulta cl 𝑉 ⊆ 𝑈 . Infatti, siano 𝐴1 , 𝐴2 , … , 𝐴𝑘 gli unici elementi di ℬ che intersecano sia 𝑉 che 𝑋 ⧵𝑈 e, per ogni 𝑖, siano 𝑦𝑖 un elemento di 𝐴𝑖 ⧵ 𝑈 e 𝑧𝑖 un elemento di 𝐴𝑖 ∩ 𝑉 . Si vede subito che gli 𝑦𝑖 non sono aderenti a 𝑉 . Infatti, poiché lo spazio è 𝑇1 , potremo trovare un intorno 𝑊1 ∈ ℬ di 𝑦1 che non contiene alcuno degli 𝑧𝑖 . Quindi 𝑊1 non può essere uno degli aperti 𝐴𝑖 . D’altra parte, 𝑊1 ⧵ 𝑈 ≠ ∅ e quindi deve essere 𝑊1 ∩ 𝑉 = ∅. Ciò prova che 𝑦1 non è aderente a 𝑉 ; analogamente per gli altri 𝑦𝑖 . Sia ora 𝑤 aderente a 𝑉 , da cui 𝑤 ≠ 𝑦𝑖 , ∀𝑖. Essendo lo spazio 𝑇1 , con ragionamento analogo al precedente, potremo trovare un intorno 𝑊 ∈ ℬ di 𝑤 che non contiene alcuno degli 𝑦𝑖 e quindi 𝑊 non può essere uno degli aperti 𝐴𝑖 . D’altra parte, 𝑊 ∩ 𝑉 ≠ ∅ e, pertanto, si ha 𝑊 ⊆ 𝑈 , da cui 𝑤 ∈ 𝑈 . Dunque è cl 𝑉 ⊆ 𝑈 e quindi (𝑋, 𝜏) è regolare (cfr. Teorema 1.91). Indichiamo ora con ℬ 𝑚 la sottofamiglia di ℬ costituita degli aperti massimali per inclusione. Faremo vedere che questa famiglia è un ricoprimento localmente finito di 𝑋. Fissiamo un elemento 𝑥 ∈ 𝑋. Se, per assurdo, 𝑥 non appartenesse ad alcun aperto massimale di ℬ, esisterebbe una successione (𝑈𝑛 )𝑛 di aperti distinti di ℬ contenenti 𝑥 e crescente per inclusione. Tutti gli 𝑈𝑛 , con 𝑛 ≥ 2, contengono 𝑥 (e quindi intersecano ogni suo intorno) e, d’altra parte, intersecano anche 𝑋 ⧵ 𝑈1 , contraddicendo così la definizione di base regolare. Resta da provare che la famiglia ℬ 𝑚 è localmente finita. Siano 𝑥 ∈ 𝑋 e 𝑈 ∈ ℬ 𝑚 con 𝑥 ∈ 𝑈 . Se 𝑈 ′ (≠ 𝑈 ) è un altro elemento di ℬ 𝑚 contenente 𝑥, per la loro massimalità, deve essere 𝑈 ′ ⧵ 𝑈 ≠ ∅. D’altra parte, un tale 𝑈 ′
3.5. Metrizzabilità
141
intersecherà anche un qualunque intorno 𝑉 di 𝑥. Per la regolarità della base ℬ, può esistere solo un numero finito di aperti di tale tipo. Denotiamo con 𝐼(𝑋) la famiglia dei singoletti di 𝑋 che sono (anche) aperti. Si può ora vedere che la base ℬ può essere espressa come una riunione numerabile di famiglie ℬ𝑘 localmente finite, con ℬ1 ∶= ℬ 𝑚 ;
ℬ2 ∶= ((ℬ ⧵ ℬ1 ) ∪ 𝐼(𝑋))𝑚 , … , 𝑚
ℬ𝑘 ∶= ((ℬ ⧵ ℬ ∪ 𝐼(𝑋)) , … ⋃ 𝑖) 𝑖 0, 𝑉𝛼,𝑘 ∶=
⋃
𝐵(𝑐, 1/2𝑘 ),
dove la riunione è fatta su tutti i punti 𝑐 ∈ 𝑋 tali che 𝛼 è il minimo elemento di 𝐽 per cui è: • (𝑐 ∈)𝐵(𝑐, 3/2𝑘 ) ⊆ 𝐴𝛼 , • 𝑐 non appartiene agli insiemi del tipo 𝑉𝛽,𝑗 , con 𝑗 < 𝑘 e 𝛽 ∈ 𝐽 . È ovvio che gli insiemi 𝑉𝛼,𝑘 sono aperti. Inoltre, per ogni 𝛼, 𝑘, si ha 𝑉𝛼,𝑘 ⊆ 𝐴𝛼 . Infatti, se 𝑥 ∈ 𝑉𝛼,𝑘 , deve esistere 𝑐 ∈ 𝐴𝛼 tale che 𝑥 ∈ 𝐵(𝑐, 1/2𝑘 ) ⊆ 𝐵(𝑐, 3/2𝑘 ) ⊆ 𝐴𝛼 . Verificheremo che la famiglia 𝒱 ∶= ⋃∞ 𝑘=0 𝒱𝑘 è un ricoprimento di 𝑋 che, per costruzione, è un raffinamento aperto di 𝒜 . Siano 𝑧 un elemento arbitrario di 𝑋 e 𝛼𝑧 ∈ 𝐽 il minimo indice tale che 𝑧 ∈ 𝐴𝛼 . Prendiamo poi un intero 𝑘 ∶= 𝑘(𝑧) tale che 𝐵(𝑧, 3/2𝑘 ) ⊆ 𝐴𝛼𝑧 . Per definizione, o 𝑧 sta in 𝑉𝛼𝑧 ,𝑘 , oppure 𝑧 appartiene a un insieme del tipo 𝑉𝛽,𝑗 per qualche 𝑗 < 𝑘 e 𝛽 ∈ 𝐽 . Ciò prova che 𝑧 appartiene a qualche aperto della famiglia 𝒱 . Come passo successivo, mostriamo che, per ogni 𝑘, la famiglia 𝒱𝑘 è discreta, da cui si otterrà che 𝒱 è un raffinamento aperto 𝜎-discreto. Fissiamo 𝑘 ∈ ℕ e sia 𝑦 un arbitrario elemento di 𝑋. Ci proponiamo di dimostrare che la palla 𝐵(𝑦, 1/2𝑘+1 ) ha intersezione non vuota con al più un elemento della famiglia 𝒱𝑘 . Supponiamo, per assurdo, che ciò non accada: esisteranno quindi due elementi 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝐵(𝑦, 1/2𝑘+1 ) con 𝑥1 ∈ 𝑉𝛼1 ,𝑘 e 𝑥2 ∈ 𝑉𝛼2 ,𝑘 , con 𝛼1 ≠ 𝛼2 , per esempio, 𝛼1 < 𝛼2 . Si ha ovviamente 𝑑(𝑥1 , 𝑥2 ) < 1/2𝑘 . D’altra parte, dalla definizione degli insiemi 𝑉𝛼,𝑘 sappiamo che esistono dei punti 𝑐1 , 𝑐2 tali che 𝑥1 ∈ 𝐵(𝑐1 , 1/2𝑘 ) ⊆ 𝑉𝛼1 ,𝑘 e 𝑥2 ∈ 𝐵(𝑐2 , 1/2𝑘 ) ⊆ 𝑉𝛼2 ,𝑘 e, inoltre, 𝐵(𝑐1 , 3/2𝑘 ) ⊆ 𝐴𝛼1 , come pure 𝐵(𝑐2 , 3/2𝑘 ) ⊆ 𝐴𝛼2 . Per la minimalità di 𝛼2 , risulta che 𝑐2 ∉ 𝐴𝛼1 ; pertanto, 𝑐2 ∉ 𝐵(𝑐1 , 3/2𝑘 ). Si ottiene così 3 3 ≤ 𝑑(𝑐1 , 𝑐2 ) ≤ 𝑑(𝑐1 , 𝑥1 ) + 𝑑(𝑥1 , 𝑥2 ) + 𝑑(𝑐2 , 𝑥2 ) < 𝑘 , 2𝑘 2
da cui l’assurdo. Ci resta da provare che la famiglia 𝒱 è localmente finita. Fissiamo un 𝑦 ∈ 𝑋 e prendiamo un aperto del tipo 𝑉𝛼,𝑘 che lo contenga. Fissiamo quindi
3.5. Metrizzabilità
143
un 𝑛 sufficientemente grande affinché risulti 𝐵(𝑦, 1/2𝑛 ) ⊆ 𝑉𝛼,𝑘 . Faremo vedere che 𝐵(𝑦, 1/2𝑛+𝑘+1 ) ∩ 𝑉𝛽,𝑗 = ∅, ∀𝑗 ≥ 𝑛 + 𝑘 + 1, ∀𝛽 ∈ 𝐽 . (3.5)
Supponiamo infatti, per assurdo, che esistano 𝛽 ∈ 𝐽 , 𝑗 ≥ 𝑛 + 𝑘 + 1 e 𝑧 ∈ 𝐵(𝑦, 1/2𝑛+𝑘+1 ) ∩ 𝑉𝛽,𝑗 . Dall’essere 𝑧 ∈ 𝑉𝛽,𝑗 , segue che esiste un punto 𝑐 tale che 𝑧 ∈ 𝐵(𝑐, 1/2𝑗 ), con 𝑐 non appartenente a 𝑉𝛼,𝑘 , essendo 𝑘 < 𝑛 + 𝑘 + 1. Ne viene che è 𝑑(𝑐, 𝑦) ≥ 1/2𝑛 . Si ottiene la seguente catena di disuguaglianze: 1 1 1 1 1 ≤ 𝑑(𝑐, 𝑦) ≤ 𝑑(𝑐, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑦) < 𝑗 + 𝑛+𝑘+1 ≤ 𝑛+𝑘 ≤ 𝑛 , 2𝑛 2 2 2 2
che porta a un assurdo. Dalla (3.5) segue che l’intorno di 𝑦 dato dalla palla 𝐵(𝑦, 1/2𝑛+𝑘+1 ) può intersecare solo gli insiemi del tipo 𝑉𝛽,𝑗 con 𝑗 ≤ 𝑛 + 𝑘. Dato che questo intorno, essendo contenuto in 𝐵(𝑦, 1/2𝑘 ), incontra al più un elemento di ciascuna famiglia 𝒱𝑘 , si ha la tesi. Un immediato corollario è il seguente
Corollario 3.122. Ogni spazio metrizzabile possiede una base 𝜎-discreta.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico la cui topologia 𝜏 proviene da una distanza 𝑑. Consideriamo, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , il ricoprimento 𝒜𝑛 dato dalle palle aperte 𝐵(𝑥, 1/𝑛), con 𝑥 ∈ 𝑋. Per il Teorema di Stone, 𝒜𝑛 possiede un raffinamento aperto e 𝜎-discreto 𝒱𝑛 . Osserviamo che, per ogni 𝑉 ∈ 𝒱𝑛 , si ha diam 𝑉 ≤ 2/𝑛. Poniamo, in fine, 𝒱 ∶= ⋃𝑛∈ℕ+ 𝒱𝑛 . La famiglia 𝒱 è chiaramente un ricoprimento aperto ed è inoltre 𝜎-discreta per costruzione. Verifichiamo che 𝒱 è una base per 𝜏. Infatti, dati 𝑈 ∈ 𝜏 non vuoto e 𝑢 ∈ 𝑈 , esiste una palla aperta 𝐵(𝑢, 𝜀) ⊆ 𝑈 . Consideriamo ora il ricoprimento 𝒱𝑛 per 𝑛 > 2/𝜀. Esisterà quindi un aperto 𝑉 ∈ 𝒱𝑛 tale che 𝑢 ∈ 𝑉 . Per ogni 𝑥 ∈ 𝑉 , abbiamo 𝑑(𝑥, 𝑢) ≤ diam 𝑉 ≤ 2/𝑛 < 𝜀. Si ha quindi 𝑢 ∈ 𝑉 ⊆ 𝐵(𝑢, 𝜀) ⊆ 𝑈 . Per la genericità di 𝑢 ∈ 𝑈 , concludiamo che l’aperto 𝑈 è unione di insiemi della famiglia 𝒱 . Otteniamo in questo modo i seguenti risultati: Teorema 3.123 (di metrizzabilità di Bing). Uno spazio topologico è metrizzabile se e solo se è regolare e possiede una base di aperti 𝜎-discreta. Dimostrazione. Il “solo se” segue dal fatto che ogni spazio metrico è regolare e dal corollario precedente. Il “se” segue dal Teorema 3.114, dato che ogni base 𝜎-discreta è anche 𝜎-localmente finita. Teorema 3.124 (di metrizzabilità di Nagata-Smirnov). Uno spazio topologico è metrizzabile se e solo se è regolare e possiede una base di aperti 𝜎-localmente finita.
3.5. Metrizzabilità
144
Dimostrazione. Il “se” è stata provato nel Teorema 3.114. Il “solo se” segue dal fatto che ogni spazio metrico è regolare e dal Corollario 3.122, dato che ogni base 𝜎-discreta e anche 𝜎-localmente finita. Teorema 3.125 (di metrizzabilità di Arhangel’skiĭ). Uno spazio topologico è metrizzabile se e solo se è 𝑇1 e possiede una base regolare di aperti. Dimostrazione. Che le condizioni scritte siano sufficienti per la metrizzabilità è stato provato nel Teorema 3.120; proviamo che queste sono necessarie. Dato che ogni spazio metrico è 𝑇1 , basta verificare che esso possiede una base regolare. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico metrizzabile e 𝑑 una distanza in 𝑋 che genera 𝜏. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝒜𝑛 il ricoprimento aperto dato dalle palle aperte 𝐵(𝑥, 1/4𝑛), con 𝑥 ∈ 𝑋. Per il Teorema di Stone, 𝒜𝑛 possiede un raffinamento aperto 𝒱𝑛 localmente finito. Poniamo quindi 𝒱 ∶= ⋃𝑛∈ℕ+ 𝒱𝑛 . Ripetendo la stessa dimostrazione vista nel Corollario 3.122, si ha che 𝒱 è una base di aperti per 𝜏. Proviamo che tale base è regolare. Siano dati un punto 𝑥 ∈ 𝑋 e un suo intorno 𝑈 . Per prima cosa, osserviamo che esiste un intero 𝑘 tale che 𝐵(𝑥, 1/𝑘) ⊆ 𝑈 . poiché ciascuna delle 𝒱𝑛 è localmente finita, per ogni 𝑛 esisterà un intorno 𝑊𝑛 di 𝑥 che ha intersezione non vuota soltanto con un numero finito di elementi di 𝒱𝑛 . Consideriamo ora l’intorno 𝑉 di 𝑥 definito da 𝑉 ∶= 𝐵(𝑥, 1/2𝑘) ∩
⋂ 𝑖≤𝑘
𝑊𝑖 .
Vogliamo provare che l’insieme degli aperti della base 𝒱 che hanno intersezione non vuota sia con 𝑉 che con 𝑋 ⧵ 𝑈 è finito. Fissiamo un 𝐴 ∈ 𝒱 = ⋃𝑛∈ℕ+ 𝒱𝑛 e supponiamo che 𝐴 intersechi sia 𝑉 che 𝑋 ⧵ 𝑈 . Esistono dunque un 𝑦 ∈ 𝐴 ∩ 𝑉 e uno 𝑧 ∈ 𝐴 ∩ (𝑋 ⧵ 𝑈 ), da cui 𝑑(𝑦, 𝑧) > 1/2𝑘. Proviamo, intanto, che 𝐴 non può appartenere a un 𝒱𝑛 con 𝑛 > 𝑘. Infatti, se per assurdo esistesse un 𝑛 > 𝑘 con 𝐴 ∈ 𝒱𝑛 , si otterrebbe diam 𝐴 > 1/2𝑘 > 1/2𝑛. D’altra parte, dall’essere 𝐴 ∈ 𝒱𝑛 segue che diam 𝐴 ≤ 2(1/4𝑛) = 1/2𝑛 (si veda al riguardo la dimostrazione del Corollario 3.122); 𝐴 deve dunque appartenere a qualche 𝒱𝑛 con 𝑛 ≤ 𝑘. Dato che 𝐴 interseca 𝑉 , esso dovrà avere necessariamente intersezione non vuota con gli insiemi 𝑊1 , … , 𝑊𝑘 . Ora, per costruzione, ciascun 𝑊𝑖 interseca un numero finito di aperti di 𝒱𝑖 . Quindi 𝐴 deve essere un elemento di un’unione finita di insiemi finiti. Nella dimostrazione del teorema 3.114 abbiamo sfruttato in modo esplicito il fatto che lo spazio sia perfettamente normale. Infatti, per definire una distanza, abbiamo utilizzato la proprietà che i chiusi siano degli zero-insiemi. Sorge quindi spontanea la domanda se esistano degli spazi perfettamente normali (e quindi anche regolari) non metrizzabili. La risposta è affermativa come ora mostreremo con due esempi.
3.5. Metrizzabilità
145
Esempio 3.126. In ℝ introduciamo la topologia destra di Sorgenfrey 𝜏 + . Nel Teorema 2.118 abbiamo verificato che (ℝ, 𝜏 + ) è perfettamente normale. Vogliamo ora dimostrare che esso non è metrizzabile. Supponiamo, per assurdo, che la topologia 𝜏 + provenga da una distanza 𝑑 su ℝ. In tale caso, dovrebbe valere la seguente proprietà:
∗ Fissato 𝜀 > 0, ogni intervallo aperto 𝐼 contiene al suo interno un intervallo chiuso 𝐽 di diametro minore di 𝜀.
Per verificarlo, fissiamo un 𝜀 > 0 e due elementi 𝑎, 𝑏 ∈ 𝐼, con 𝑎 < 𝑏. L’intervallo aperto ]𝑎, 𝑏[ è un aperto per la topologia euclidea e quindi anche per quella di Sorgenfrey che è più fine. Siccome abbiamo assunto per ipotesi che la topologia 𝜏 + provenga dalla distanza 𝑑, esisteranno un punto 𝑎′ ∈ ]𝑎, 𝑏[ e un raggio 𝛿 > 0 che possiamo supporre minore di 𝜀/3, tali che 𝐵𝑑 (𝑎′ , 𝛿) ⊆ ]𝑎, 𝑏[. D’altra parte, 𝐵𝑑 (𝑎′ , 𝛿) è un intorno di 𝑎′ e deve pertanto contenere un intervallo del tipo [𝑎′ , 𝑐 ′ [. Prendiamo ora 𝑏′ con 𝑎′ < 𝑏′ < 𝑐 ′ e consideriamo l’intervallo chiuso 𝐽 ∶= [𝑎′ , 𝑏′ ]. Dati 𝑥, 𝑦 ∈ 𝐽 ⊆ 𝐵𝑑 (𝑎′ , 𝛿), si ha 𝑑(𝑥, 𝑦) ≤ diam 𝐵𝑑 (𝑎′ , 𝛿) ≤ 2𝛿; quindi anche diam 𝐽 ≤ 2𝛿 < 𝜀. Partiamo dall’intervallo 𝐼 ∶= ]0, 1[; prendendo 𝜀 = 1/𝑛 e procedendo per induzione, si ottiene una successione di intervalli 𝐽𝑛 ∶= [𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ] contenuti in 𝐼, ciascuno dei quali contiene il successivo nel suo interno e con diam 𝐽𝑛 < 1/𝑛. Sia, in fine, 𝑢 ∶= sup 𝑎𝑛 (cioè il limite della successione (𝑎𝑛 )𝑛 rispetto alla topologia euclidea). Per costruzione, 𝑢 ∈ ⋂𝑛∈ℕ+ 𝐽𝑛 e, pertanto, si ha 𝑑(𝑢, 𝑎𝑛 ) < 1/𝑛. Abbiamo quindi dimostrato che la successione (𝑎𝑛 )𝑛 converge a 𝑢 rispetto alla distanza 𝑑 (cfr. Lemma 3.47). D’altra parte, per costruzione, la successione (𝑎𝑛 )𝑛 è strettamente crescente e quindi 𝑎𝑛 < 𝑢, ∀𝑛 ∈ ℕ+ . Se prendiamo in 𝜏 + l’intorno [𝑢, 𝑢 + 1[ di 𝑢, esso non contiene alcun punto della successione e quindi 𝑎𝑛 non può convergere a 𝑢. Assurdo! Si può produrre anche una dimostrazione indiretta della non metrizzabilità di (ℝ, 𝜏 + ) mostrando che tale spazio è separabile ma non 𝐴2 , pur essendo chiaramente 𝐴1 . Che sia separabile è ovvio, dato che ℚ risulta denso in ℝ anche rispetto alla topologia 𝜏 + . Supponiamo, per assurdo, che lo spazio sia secondo numerabile e diciamo (𝐴𝑛 )𝑛 una sua base. Sia 𝐴𝑖 uno di questi aperti e indichiamo con 𝑈𝑖 il suo interno nella topologia euclidea. Sappiamo che 𝑈𝑖 è una riunione al più numerabile di intervalli aperti e limitati. Ciascuno di questi si può esprimere a sua volta come unione numerabile di intervalli del tipo [𝑎, 𝑏[ e quindi risulta 𝑈𝑖 = ⋃𝑗∈𝐽𝑖 [𝑎𝑖𝑗 , 𝑏𝑖𝑗 [, con 𝐽𝑖 al più numerabile. Come abbiamo fatto vedere nel Teorema 2.118, l’insieme 𝐵𝑖 ∶= 𝐴𝑖 ⧵ 𝑈𝑖 è numerabile. Sia ora 𝑆(⊂ ℝ) ∶= {𝑎𝑖𝑗 ∶ (𝑖 ∈ ℕ) ∧ (𝑗 ∈ 𝐽𝑖 )} ∪⋃𝑖∈ℕ 𝐵𝑖 . Per costruzione, 𝑆 è numerabile. Esiste quindi un 𝑟 ∈ ℝ ⧵𝑆. L’insieme 𝜏 + -aperto [𝑟, 𝑟+1[ non è esprimibile come unione di aperti della base. Infatti se, per assurdo, fosse [𝑟, 𝑟 + 1[ = ⋃𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 , con 𝐽 ⊆ ℕ, avremmo 𝑟 ∈ 𝐴𝑘 per qualche 𝑘. In tal caso, poiché non può essere 𝑟 ∈ 𝐵𝑘 , dovrebbe essere 𝑟 ∈ 𝑈𝑘 ∶= ⋃𝑗∈𝐽𝑘 [𝑎𝑘𝑗 , 𝑏𝑘𝑗 [. Tuttavia, 𝑟 è diverso da tutti gli 𝑎𝑖𝑗 e quindi ne consegue che è 𝑎𝑘𝑗 < 𝑟 < 𝑏𝑘𝑗 per qualche 𝑗. D’altra parte, per definizione, [𝑎𝑘𝑗 , 𝑏𝑘𝑗 [ ⊆ 𝐴𝑘 ⊆ [𝑟, 𝑟 + 1[, da cui 𝑎𝑘𝑗 ≥ 𝑟 (Assurdo!).
3.5. Metrizzabilità
146
Osserviamo in fine che, pur non essendo metrico, lo spazio di Sorgenfrey è ereditariamente separabile. Sia 𝐸 ⊆ ℝ un sottoinsieme non vuoto. Per ogni coppia di numeri razionali 𝑝, 𝑞, con 𝑝 < 𝑞, prendiamo (se esiste) un elemento 𝑒 ∈ 𝐸 tale che sia 𝑝 ≤ 𝑒 < 𝑞. Otteniamo, in questo modo, un sottoinsieme 𝐹 di 𝐸 che è al più numerabile. Sia poi 𝐹 ′ ∶= 𝐸 ⧵ cl𝐸 𝐹 . Se 𝑥 ∈ 𝐹 ′ , esiste un intorno [𝑥, 𝑥 + 𝛿[ in cui non ci sono punti di 𝐹 . Vediamo che si ha anche 𝐸∩ ]𝑥, 𝑥 + 𝛿[ = ∅. Infatti, se esistesse un 𝑦 ∈ 𝐸∩ ]𝑥, 𝑥 + 𝛿[, esisterebbero 𝑝, 𝑞 ∈ ℚ, con 𝑥 < 𝑝 < 𝑦 < 𝑞 < 𝑥 + 𝛿 e quindi ci sarebbe almeno un elemento in 𝐹 ∩ [𝑥, 𝑥 + 𝛿[ (assurdo!). Si ottiene che anche 𝐹 ′ è al più numerabile. Per costruzione, il sottoinsieme numerabile 𝐹 ∪ 𝐹 ′ è denso in 𝐸. ◁ Un altro classico esempio di spazio perfettamente normale e non metrizzabile è quello dovuto a L.F. McAuley nel 1956, che è interessante perché la topologia viene definita a partire da una semimetrica.
Definizione 3.127. Uno spazio topologico di Hausdorff (𝑋, 𝜏) è dotato di semimetrica se esiste una funzione 𝜂 ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ che soddisfi alle prime tre proprietà della distanza e tale che, dati un punto 𝑥 e un sottoinsieme 𝐸, si ha 𝑥 ∈ cl 𝐸 se e solo se è 𝜂(𝑥, 𝐸) ∶= inf {𝜂(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑦 ∈ 𝐸} = 0. ◁ Esempio 3.128 (di McAuley). In 𝑋 ∶= ℝ2 definiamo la seguente funzione 𝜂 ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ ponendo, per 𝑝1 ∶= (𝑥1 , 𝑦1 ) e 𝑝2 ∶= (𝑥2 , 𝑦2 ), 𝜂(𝑝1 , 𝑝2 ) ∶=
𝑑2 (𝑝1 , 𝑝2 ), {𝑑2 (𝑝1 , 𝑝2 ) + 𝛼(𝑝1 , 𝑝2 ),
se (𝑝1 = 𝑝2 ) ∨ (𝑦1 ⋅ 𝑦2 ≠ 0), altrimenti,
(3.6)
dove 𝑑2 indica al solito la distanza euclidea e 𝛼 è la misura in radianti dell’angolo acuto o retto fra l’asse delle 𝑥 e la retta per 𝑝1 e 𝑝2 . La funzione 𝜂 non è una metrica, in quanto non soddisfa alla disuguaglianza triangolare, pur verificando le proprietà 𝐷1, 𝐷2 e 𝐷3 (Esercizio!). Per ottenere una topologia, introduciamo gli intorni dei punti mediante “palle aperte” come nel caso degli spazi metrici. Più precisamente, dati 𝑝 ∈ 𝑋 e 𝑟 > 0 si chiama palla aperta di centro 𝑝 e raggio 𝑟 l’insieme dei punti 𝑞 ∈ 𝑋 per cui si ha 𝜂(𝑞, 𝑝) < 𝑟. Osserviamo che per un punto che non sta sull’asse delle 𝑥 le palle di raggio “piccolo” sono quelle usuali e quindi anche gli intorni. Per un punto 𝑝 ∶= (𝑥0 , 0), le palle di centro 𝑝 e raggio 𝑟 < 𝜋/2 sono degli oggetti a forma di farfalla (vedi figura). Tra parentesi, questa topologia 𝜏 viene anche chiamata topologia della farfalla o della cravatta a papillon (cfr. [76]).
Una variante di tale topologia è stata anche considerata da Alexandrov e Niemytzki nel 1938 (cfr. [18], Esercizio 3.1.I).
3.5. Metrizzabilità
147
È interessante osservare che la topologia di McAuley coincide con la topologia euclidea quando sia ristretta all’asse delle 𝑥 o al suo complementare; tuttavia essa è strettamente più fine di quella euclidea. Per esempio, la successione (0, 1/𝑛)𝑛 non converge a (0, 0). Per costruzione l’applicazione 𝜂 è una semimetrica rispetto alla topologia 𝜏. Proviamo che lo spazio topologico così ottenuto è regolare. Osserviamo preliminarmente che la chiusura delle “palle aperte” di raggio sufficientemente piccolo (che sono dischi o farfalle) si ottiene aggiungendo i punti di contorno nel senso della topologia euclidea. Da ciò segue immediatamente che, ogni qual volta un punto 𝑝 appartiene a un aperto 𝐴, esiste un intorno 𝑈 di 𝑝 con cl 𝑈 ⊆ 𝐴. Basta ora applicare il Teorema 1.91 di caratterizzazione di Tychonoff della regolarità. Per verificare la perfetta normalità è più economico ricondursi a un risultato generale che vedremo più avanti nel capitolo sulla paracompattezza (cfr. Corollario 8.22, Esempio 8.23). Tuttavia tale spazio non è metrizzabile. Per verificare questo fatto, usiamo di nuovo il Teorema 3.116, verificando che lo spazio è separabile ma non 𝐴2 . La separabilità è immediata: basta prendere come sottoinsieme numerabile denso l’insieme dei punti del piano con coordinate razionali. Verifichiamo che non vale il secondo assioma di numerabilità, pur essendo lo spazio chiaramente 𝐴1 . Sia ℬ una base di aperti di 𝜏. Per come sono definiti gli intorni di raggio “piccolo”, è evidente che, per ogni 𝑝 appartenente all’asse delle 𝑥, in ℬ devono esserci degli intorni “a farfalla” del punto 𝑝. Poiché punti diversi dell’asse 𝑥 richiedono intorni “a farfalla” diversi, si ottiene che ℬ ha almeno la cardinalità dei numeri reali. ◁
4
Spazi normati 4.1 Norme e prodotti scalari
Una classe importante di spazi metrici è costituita da spazi vettoriali (su ℝ o su ℂ) in cui sia definita una “norma”, nel senso che vedremo fra poco. Per semplicità di esposizione, ci limiteremo a considerare spazi reali normati, cioè spazi vettoriali normati a coefficienti in ℝ. A tale proposito, daremo per scontata la conoscenza delle nozioni di spazio vettoriale su ℝ e di quelle ad essa collegate (base, dimensione, sottospazio, dipendenza lineare, etc.). Ricordiamo che, dato un sottoinsieme non vuoto 𝐸 di uno spazio vettoriale 𝑋, si indica con sp(𝐸) il sottospazio di 𝑋 generato da 𝐸.
Definizione 4.1. Si dice che in uno spazio vettoriale 𝑋 su ℝ è definita una norma se è data un’applicazione ‖⋅‖ ∶ 𝑋 → ℝ soddisfacente alle seguenti proprietà: N1. (∀x ∈ 𝑋)(‖x‖ ≥ 0), non negatività N2. (∀x ∈ 𝑋)(‖x‖ = 0 ⇔ x = 0), non degeneratezza N3. (∀𝜆 ∈ ℝ)(∀x ∈ 𝑋)(‖𝜆x‖ = |𝜆| ⋅ ‖x‖), omogeneità N4. (∀x ∈ 𝑋)(∀y ∈ 𝑋)(‖x + y‖ ≤ ‖x‖ + ‖y‖). subadditività Se in uno spazio vettoriale 𝑋 è definita una norma ‖⋅‖, la coppia (𝑋, ‖⋅‖) è detta spazio (vettoriale) normato. La 𝑁4 è detta anche disuguaglianza di Minkowski. Un’applicazione 𝑝(⋅) ∶ 𝑋 → ℝ è detta una seminorma se soddisfa alle proprietà 𝑁1, 𝑁3 ed 𝑁4, ma può essere 𝑝(x) = 0 anche se è x ≠ 0. ◁ Dalla 𝑁3 si ha in ogni caso ‖0‖ = ‖2 ⋅ 0‖ = 2 ⋅ ‖0‖ e quindi ‖0‖ = 0. Per esempio, in ℝ𝑛 si definisce la norma euclidea ‖⋅‖2 data da ‖x‖2 = ‖(𝑥1 , … , 𝑥𝑛 )‖2 ∶= √𝑥21 + ⋯ + 𝑥2𝑛 .
Teorema 4.2. Ogni spazio vettoriale normato è uno spazio metrico e, quindi, uno spazio topologico (cfr. Teorema 3.30). 148
4.1. Norme e prodotti scalari
149
Dimostrazione. Sia (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato e si ponga, per ogni x, y ∈ 𝑋, 𝑑(x, y) ∶= ‖x − y‖.
Mostriamo che quella ora definita è una distanza. Le 𝐷1 e 𝐷2 seguono immediatamente dalle 𝑁1 e 𝑁2. Si ha poi: 𝑑(x, y) = ‖x − y‖ = ‖−(y − x)‖ = | − 1| ⋅ ‖y − x‖ = 𝑑(y, x);
𝑑(x, y) = ‖x − y‖ = ‖x − z + z − y‖ ≤ ‖x − z‖ + ‖z − y‖ = 𝑑(x, z) + 𝑑(z, y).
Sono così provate anche la 𝐷3 e la 𝐷4.
Con la stessa tecnica, partendo da una seminorma si ottiene una pseudometrica (cfr. Definizione 3.7). La pseudometrica dell’Esempio 3.4 è deducibile dalla seminorma di ℝ2 definita da ‖(𝑥, 𝑦)‖ ∶= |𝑥| (Esercizio!).
Definizione 4.3. Uno spazio normato (𝑋, ‖⋅‖) che, come spazio metrico, risulti completo è detto spazio di Banach e la norma è detta completa. ◁
Definizione 4.4. Si dice che una distanza 𝑑 definita su uno spazio vettoriale 𝑋 è deducibile da una norma se si può definire in 𝑋 una norma ‖⋅‖ per cui risulti 𝑑(x, y) = ‖x − y‖. La corrispondente topologia è detta indotta dalla norma. ◁ Teorema 4.5 (Deducibilità di una distanza da una norma). Una distanza 𝑑 definita su uno spazio vettoriale 𝑋 è deducibile da una norma se e solo se sono verificate le due seguenti proprietà: 1. (∀x ∈ 𝑋)(∀y ∈ 𝑋)(∀z ∈ 𝑋)(𝑑(x, y) = 𝑑(x + z, y + z)), 2. (∀x ∈ 𝑋)(∀y ∈ 𝑋)(∀𝜆 ∈ ℝ)(𝑑(𝜆x, 𝜆y) = |𝜆|𝑑(x, y)). Dimostrazione. Se la distanza 𝑑 è dedotta dalla norma ‖⋅‖, si ha:
𝑑(x, y) = ‖x − y‖ = ‖x + z − (y + z)‖ = 𝑑(x + z, y + z);
𝑑(𝜆x, 𝜆y) = ‖𝜆x − 𝜆y‖ = ‖𝜆(x − y)‖ = |𝜆|‖x − y‖ = |𝜆|𝑑(x, y).
Proviamo il viceversa. Data su 𝑋 una distanza 𝑑 soddisfacente alle proprietà 1 e 2, si ponga, per ogni x ∈ 𝑋, ‖x‖ ∶= 𝑑(x, 0). Proviamo che la ‖⋅‖ è una norma. La 𝑁1 e la 𝑁2 sono immediate. Inoltre si ha: ‖𝜆x‖ = 𝑑(𝜆x, 0) = 𝑑(𝜆x, 𝜆0) = |𝜆|𝑑(x, 0) = |𝜆|‖x‖;
‖x + y‖ = 𝑑(x + y, 0) = 𝑑(x, −y) ≤ 𝑑(x, 0) + 𝑑(0, −y) =
= 𝑑(x, 0) + 𝑑(−0, −y) = 𝑑(x, 0) + 𝑑(0, y) = ‖x‖ + ‖y‖.
Ciò prova la 𝑁3 e la 𝑁4. Si ha poi: 𝑑(x, y) = 𝑑(x − y, 0) = ‖x − y‖.
Chiaramente. la distanza 𝑑2 si deduce dalla norma euclidea ‖⋅‖2 .
4.1. Norme e prodotti scalari
150
Definizione 4.6. Siano dati due punti x1 , x2 in uno spazio vettoriale 𝑋, L’insieme 1 2 1 1 2 {x + 𝑡(x − x ) ∶ 𝑡 ∈ ℝ } = {(1 − 𝑡)x + 𝑡x ∶ 𝑡 ∈ ℝ }
costituisce la retta per x1 e x2 . Per 𝑡 ≥ 0, si ottiene la semiretta di origine x1 contenente x2 . Per 𝑡 ≥ 1, si ottiene la semiretta di origine x2 non contenente x1 . Per 𝑡 ∈ [0, 1], si ottiene il segmento di estremi x1 e x2 . ◁ Definizione 4.7. Sia 𝑋 uno spazio vettoriale. Un sottoinsieme 𝐴 di 𝑋 è detto convesso se, ogni volta che 𝐴 contiene due punti, contiene anche i punti del segmento che li unisce (cfr. Paragrafo 5.1). ◁ Teorema 4.8. In uno spazio normato le palle (aperte o chiuse) sono insiemi convessi.
Dimostrazione. Per la 1 del Teorema 4.5, basta occuparsi delle palle di centro 0. In uno spazio vettoriale normato (𝑋, ‖⋅‖) siano x e y due vettori di norma minore di 𝑟; per ogni 𝑡 ∈ [0, 1] si ha ‖(1 − 𝑡)x + 𝑡y‖ ≤ (1 − 𝑡)‖x‖ + 𝑡‖y‖ < (1 − 𝑡 + 𝑡)𝑟 = 𝑟.
La stesso tipo di stima che abbiamo appena usato per verificare la convessità delle palle aperte, si può utilizzare nel caso delle palle chiuse. Teorema 4.9. Sia (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato. Allora: 1. 𝐵(x0 , 𝑟) = x0 + 𝑟𝐵(0, 1), 𝐵[x0 , 𝑟] = x0 + 𝑟𝐵[0, 1]. 2. fr 𝐵(x0 , 𝑟) = fr 𝐵[x0 , 𝑟] = 𝑆(x0 , 𝑟) ∶= {x ∈ 𝑋 ∶ ‖x − x0 ‖ = 𝑟}.
3. cl 𝐵(x0 , 𝑟) = 𝐵[x0 , 𝑟]; int 𝐵[x0 , 𝑟] = 𝐵(x0 , 𝑟). 4. Le palle aperte [chiuse] sono insiemi regolarmente aperti [chiusi]. 5. (x𝑛 )𝑛 → y ⇔ x𝑛 = y + w𝑛 , con w𝑛 → 0.
Dimostrazione. Per la 1 basta osservare che è x = x0 + 𝑟
x − x0 =∶ x0 + 𝑟u; 𝑟
𝑑(x, x0 ) = 𝑟𝑑(u, 0).
Veniamo alla 2. Si ha subito fr 𝐵(x0 , 𝑟) ∪ fr 𝐵[x0 , 𝑟] ⊆ 𝑆(x0 , 𝑟). Viceversa, dato x ∈ 𝑆(x0 , 𝑟), consideriamo la semiretta di origine x0 contenente x, ossia l’insieme {u ∶= x0 + 𝑡(x − x0 ) ∶ 𝑡 ≥ 0}. Si ha 𝑑(u, x0 ) = 𝑑(𝑡(x − x0 ), 𝑡0) = 𝑡𝑑((x, x0 ) = 𝑡𝑟.
In ogni intorno di x ci sono dunque punti di 𝐵(x0 , 𝑟) ⊆ 𝐵[x0 , 𝑟] (per 𝑡 < 1) e punti di 𝑋 ⧵ 𝐵[x0 , 𝑟] ⊆ 𝑋 ⧵ 𝐵(x0 , 𝑟) (per 𝑡 > 1). Dalla 2 segue immediatamente la 3 e da questa la 4. Per la 5 basta osservare che è x𝑛 = y + (x𝑛 − y) =∶ y + w𝑛 , con w𝑛 → 0.
4.1. Norme e prodotti scalari
151
Si noti che nessuna di queste proprietà è vera per spazi metrici arbitrari. Esempio 4.10. Abbiamo gà visto nell’Osservazione 3.33 che in uno spazio metrico la 3 e la 4 non sono sempre verificate. Per le altre tre affermazioni, consideriamo lo spazio metrico 𝑋(⊂ ℝ) ∶= {−1, 0} ∪ [1, +∞[ dotato della distanza euclidea. Riguardo alla prima affermazione, basta osservare che 𝐵(0, 1) = {0} e 𝐵[0, 1] = {−1, 0, 1}, mentre è 𝐵(2, 1) =]1, 3[ e 𝐵[2, 1] = [1, 3]. Passiamo alla seconda. Si ha 𝐵(0, 1) = {0}; fr 𝐵(0, 1) = ∅; 𝐵[0, 1] = {−1, 0, 1}, fr 𝐵[0, 1] = {1}; 𝑆(0, 1) = {−1, 1}. La successione (1 + 1/𝑛)𝑛 = 1 + (1/𝑛)𝑛 tende a 1, ma in 𝑋 non ha nemmeno senso considerare la successione (1/𝑛)𝑛 . ◁
Possiamo controllare quali delle distanze descritte nel Paragrafo 3.1 siano deducibili da norme. La distanza discreta, anche se definita su uno spazio vettoriale, non è deducibile da una norma, in quanto non soddisfa alla seconda condizione di omogeneità del Teorema 4.5. Anche le distanze degli esempi 3.16, 3.17 e 3.18 non soddisfano alle condizioni del Teorema 4.5 e, pertanto, non sono deducibili da una norma. Si noti che, nel primo dei tre esempi, le palle sono comunque convesse, mentre ciò non è sempre vero negli altri due casi. Ne consegue che la proprietà del Teorema 4.8 non sussiste per un generico spazio vettoriale che sia solo metrico. Non è, ovviamente, normato nemmeno lo spazio dell’Esempio 3.21, in quanto l’insieme 𝑋 non può essere dotato di struttura di spazio vettoriale. Per quanto riguarda la distanza lagrangiana dell’Esempio 3.19, verifichiamo ora che proviene da una norma, che verrà, naturalmente, detta norma lagrangiana. Esempio 4.11. Sia 𝐸 un insieme non vuoto e indichiamo con ℱ𝑏 (𝐸, ℝ) l’insieme delle funzioni limitate di 𝐸 in ℝ. Per non appesantire la notazione, spesso scriveremo semplicemente ℱ𝑏 (𝐸). Su tale insieme possiamo definire in modo naturale un’addizione fra funzioni e una moltiplicazione fra una funzione e un numero reale, ottenendo uno spazio vettoriale (su ℝ). Data 𝑓 ∈ ℱ𝑏 (𝐸), poniamo ‖𝑓 ‖∞ ∶= sup {|𝑓 (𝑥)| ∶ 𝑥 ∈ 𝐸} .
Si constata facilmente che quella definita è effettivamente una norma e che la distanza da essa generata è proprio la metrica lagrangiana. Nel caso in cui 𝐸 sia anche uno spazio topologico, può essere interessante considerare il sottospazio vettoriale 𝐶𝑏 (𝐸) di ℱ𝑏 (𝐸) costituito dalle funzioni continue e limitate. Quando tutte le funzioni continue da 𝐸 in ℝ siano già limitate (come quando si assume come 𝐸 un intervallo chiuso e limitato di ℝ), tale sottospazio verrà indicato con 𝐶(𝐸, ℝ) o anche con 𝐶 0 (𝐸, ℝ). Supponiamo ora, come caso particolare, che sia 𝐸 ∶= {1, 2, … , 𝑛}. In tale situazione, ogni funzione da 𝐸 in ℝ è limitata, per cui si ha: ℱ𝑏 (𝐸, ℝ) = ℝ𝐸 =
4.1. Norme e prodotti scalari
152
ℝ𝑛 . In questo caso, la norma lagrangiana genera la metrica 𝑑∞ dell’Esempio 3.14, per cui si ha ‖𝑥‖∞ ∶= max{|𝑥1 |, |𝑥2 |, … , |𝑥𝑛 |},
∀x ∈ ℝ𝑛 .
◁
Il lettore provi, per esercizio che, se ‖⋅‖′ e ‖⋅‖″ sono due norme su un insieme 𝑋, sono tali anche ‖⋅‖′ + ‖⋅‖″ (norma somma) e 𝑘‖⋅‖′ , ∀𝑘 > 0 (norma dilatata). Si tenga presente che non esistono norme “normalizzate” (cfr. pagg. 100–101 per quanto riguarda le distanze). Nell’Esempio 3.13 avevamo lasciato in sospeso la verifica del fatto che le 𝑑𝑝 sono effettivamente delle distanze di ℝ𝑛 . Vogliamo ora arrivare a tale verifica. Osserviamo, intanto che le 𝑑𝑝 soddisfano alle proprietà del Teorema 4.5. Infatti, come si verifica immediatamente, per ogni 𝑝 > 0 si ha (|(𝑥1 + 𝑧1 ) − (𝑦1 + 𝑧1 )|𝑝 + ⋯ + |(𝑥𝑛 + 𝑧𝑛 ) − (𝑦𝑛 + 𝑧𝑛 )|𝑝 )1/𝑝 = = (|𝑥1 − 𝑦1 |𝑝 + ⋯ + |𝑥𝑛 − 𝑦𝑛 |𝑝 )1/𝑝 ;
(|𝜆𝑥1 |𝑝 + ⋯ + |𝜆𝑥𝑛 |𝑝 )1/𝑝 = |𝜆|(|𝑥1 |𝑝 + ⋯ + |𝑥𝑛 |𝑝 )1/𝑝 .
Dunque, ciascuna delle 𝑑𝑝 è una distanza se e solo se l’applicazione ‖⋅‖𝑝 ∶ ℝ𝑛 → ℝ definita da ‖𝑥‖𝑝 ∶= √|𝑥1 |𝑝 + |𝑥2 |𝑝 + ⋯ + |𝑥𝑛 |𝑝 𝑝
(4.1)
è una norma. Osserviamo che per 0 < 𝑝 < 1 la (4.1) non definisce una norma dato che le palle non risulterebbero convesse (vedi figura). Per esempio, sia 𝑝 = 1/2; i punti x ∶= (1, 0) e y ∶= (0, 1) apparterrebbero alla palla 𝐵[0, 1]; ma per il punto medio z del segmento che li unisce si avrebbe ‖z‖ = 2. Ne viene che, sempre per 0 < 𝑝 < 1, la (3.1) non definisce una distanza.
Sia dunque 1 ≤ 𝑝 ≤ +∞ e procediamo per gradi.
Teorema 4.12 (Disuguaglianza di Young). Siano 𝑝 > 1 e 𝑝′ il suo esponente coniugato definito da 1 1 + = 1, 𝑝 𝑝′
cioè 𝑝′ =
𝑝 . 𝑝−1
Allora, per ogni coppia di numeri reali non negativi 𝑎, 𝑏, si ha 𝑎𝑝 𝑏𝑝 𝑎𝑏 ≤ + ′, 𝑝 𝑝 ′
4.1. Norme e prodotti scalari
153
valendo il segno di uguale se e solo se è 𝑎𝑝 = 𝑏𝑝 . ′
Dimostrazione. Se è 𝑏 = 0, la tesi è ovvia. Fissiamo dunque un 𝑏 > 0. Basta provare che è non negativa la funzione 𝑓 ∶ [0, +∞[ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) ∶=
𝑥𝑝 𝑏𝑝 + ′ − 𝑏𝑥. 𝑝 𝑝 ′
Si ha 𝑓 ′ (𝑥) = 𝑥𝑝−1 − 𝑏 e quindi 𝑓 ′ (𝑥) < 0 se e solo se 𝑥 < 𝑏1/(𝑝−1) . Perciò 𝑓 assume il suo valore minimo in 𝑥0 ∶= 𝑏1/(𝑝−1) . È dunque, per ogni 𝑥 ≥ 0, 𝑏𝑝/(𝑝−1) 𝑏𝑝 𝑓 (𝑥) ≥ 𝑓 (𝑏 )= + ′ − 𝑏1+1/(𝑝−1) = 𝑝 𝑝 ′ 1 1 = + − 1 𝑏𝑝 = 0. ( 𝑝 𝑝′ ) ′
1/(𝑝−1)
Vale il segno di uguaglianza solo nel punto di minimo, ossia se e solo se è ′ 𝑥 = 𝑎 = 𝑏1/(𝑝−1) ossia se e solo se è 𝑎𝑝 = 𝑏𝑝 . Ricordiamo che, dati x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) ∈ ℝ𝑛 , si chiama loro prodotto scalare (euclideo) il numero reale ⟨𝑥, 𝑦⟩2 ∶= 𝑥1 𝑦1 + 𝑥2 𝑦2 + ⋯ + 𝑥𝑛 𝑦𝑛 .
(4.2)
Analogamente, date 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐶(𝐼.ℝ), con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏], si chiama loro prodotto scalare (euclideo) il numero reale ⟨𝑓 , 𝑔⟩2 ∶=
∫ 𝑎
𝑏
𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥) 𝑑𝑥.
(4.3)
Ritorneremo fra poco su questo argomento (cfr. Definizione 4.24).
Teorema 4.13 (Disuguaglianza di Hölder). Siano: x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) ∈ ℝ𝑛 , 𝑝 ≥ 1 e 𝑝′ = 𝑝/(𝑝 − 1) l’esponente coniugato di 𝑝, con 𝑝′ = +∞ se è 𝑝 = 1 e viceversa. Allora si ha |⟨x, y⟩2 | ≤ ‖x‖𝑝 ⋅ ‖y‖𝑝′ .
Dimostrazione. Per 𝑝 = 1 si ha |⟨x, y⟩2 | ≤
𝑛
∑ 𝑖=1
|𝑥𝑖 𝑦𝑖 | ≤ max {|𝑦𝑖 |} ⋅ 𝑖≤𝑛
𝑛
∑ 𝑖=1
|𝑥𝑖 | = ‖y‖∞ ⋅ ‖x‖1 .
(4.4)
Fissiamo un 𝑝 ∈ ]1, +∞[. Se uno dei due vettori è nullo, la tesi è ovvia; sia dunque x ≠ 0 ≠ y. Posto, per ogni 𝑖 ≤ 𝑛, 𝑎𝑖 ∶= |𝑥𝑖 |/‖x‖𝑝 e 𝑏𝑖 ∶= |𝑦𝑖 |/‖y‖𝑝′ , per la disuguaglianza di Young si ha 𝑝 𝑝 1 |𝑥𝑖 | 1 |𝑦𝑖 | 𝑎𝑖 𝑏𝑖 ≤ + . 𝑝 ‖x‖𝑝𝑝 𝑝′ ‖y‖𝑝′ 𝑝′ ′
4.1. Norme e prodotti scalari Sommando su 𝑖, si ottiene 𝑛
∑ 𝑖=1
𝑎𝑖 𝑏𝑖 ≤
154
|𝑥𝑖 | |𝑦𝑖 | 1 1 = |𝑥 𝑦 | ≤ 1. ∑ ‖x‖𝑝 ‖y‖𝑝′ ∑ 𝑖 𝑖 ‖x‖ ‖y‖ 𝑝 𝑝′ 𝑖=1 𝑖=1 𝑛
1 1 + = 1, 𝑝 𝑝′
𝑛
Dall’ultima disuguaglianza si ricava poi subito la (4.4).
Osserviamo che per 𝑝 = 2 la (4.4) si riduce alla disuguaglianza di CauchySchwarz (cfr. la dimostrazione del Teorema 3.2). Teorema 4.14 (Disuguaglianza di Minkowski). Dati x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ), y ∶= (𝑦1 , 𝑦2 , … , 𝑦𝑛 ) ∈ ℝ𝑛 , per ogni 𝑝 ≥ 1, sussiste la seguente disuguaglianza ‖x + y‖𝑝 ≤ ‖x‖𝑝 + ‖y‖𝑝 .
Quindi, per ogni 𝑝 ≥ 1, ‖⋅‖𝑝 è una norma.
Dimostrazione. I casi 𝑝 = 1 e 𝑝 = +∞ sono immediati e sono lasciati per esercizio (cfr. Esempio 4.11). Siano dunque 1 < 𝑝 < +∞ e 𝑝′ = 𝑝/(𝑝 − 1). Per ogni 𝑖 ≤ 𝑛 si ha |𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 |𝑝 = |𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 |𝑝−1 |𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 | ≤ |𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 |𝑝−1 (|𝑥𝑖 | + |𝑦𝑖 |).
Per la disuguaglianza di Hölder si ottiene 𝑛
∑ 𝑖=1
≤(
𝑛
|𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 | ≤ 𝑝
∑ 𝑖=1
|𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 |
𝑛
∑ 𝑖=1
(𝑝−1)𝑝′
|𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 |
𝑝−1
1/𝑝′
)
⋅ |𝑥𝑖 | +
⋅ ‖x‖𝑝 + (
da cui, essendo (𝑝 − 1)𝑝′ = 𝑝, si ricava ‖x + y‖𝑝 = 𝑝
𝑛
∑ 𝑖=1
𝑛
∑ 𝑖=1
𝑛
∑ 𝑖=1
|𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 |𝑝−1 ⋅ |𝑦𝑖 | ≤
|𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 |
(𝑝−1)𝑝′
1/𝑝′
)
⋅ ‖y‖𝑝 ;
|𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 |𝑝 ≤ ‖x + y‖𝑝 (‖x‖𝑝 + ‖y‖𝑝 ). 𝑝/𝑝′
(4.5)
Se è ‖x + y‖𝑝 = 0, la tesi è ovvia; in caso contrario, basta dividere il primo e il 𝑝
terzo membro della (4.5) per ‖x + y‖𝑝 ricordando che è 𝑝 − 𝑝/𝑝′ = 1. A questo punto, l’ultima parte della tesi è immediata, dato che le altre proprietà della norma sono ovvie. 𝑝/𝑝′
Esercizio 4.15. Utilizzando la disuguaglianza di Hölder, si verifichi che, per 1 ≤ 𝑝 < 𝑞 < ∞, vale la seguente relazione ‖x‖𝑞 ≤ ‖x‖𝑝 ≤ 𝑛(𝑞−𝑝)/(𝑝𝑞) ‖x‖𝑞
∀x ∈ ℝ𝑛 .
4.1. Norme e prodotti scalari
155
La prima disuguaglianza può essere verificata in modo diretto. Per x ≠ 0, si ha 𝑝 𝑛 𝑛 |𝑥𝑖 | 𝑞 |𝑥𝑖 | 𝑝 ‖x‖𝑝 1= ≤ = 𝑝. ∑ ( ‖x‖𝑞 ) ∑ ( ‖x‖𝑞 ) ‖x‖𝑞 𝑖=1 𝑖=1
Per la seconda disuguaglianza, si parte dall’espressione ‖x‖𝑝 = ⟨u, v⟩2 , con u ∶= (|𝑥1 |𝑝 , … , |𝑥𝑛 |𝑝 ) e v ∶= (1, … , 1). Si applica poi la (4.4) agli esponenti coniugati 𝑞/𝑝 e 𝑞/(𝑞 − 𝑝). ◁ 𝑝
Osservazione 4.16. L’introduzione delle norme 𝑝-ime in ℝ𝑛 suggerisce una tecnica per introdurre una norma in un qualunque spazio vettoriale. Sia 𝑋 un qualunque spazio vettoriale su ℝ (non banale). Supponiamo di fissare una base ℬ = {b𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } in 𝑋. Ogni x ∈ 𝑋 si esprime in un modo univoco come combinazione lineare di elementi di ℬ. Si ha quindi: x=
∑ 𝑖∈𝐽
𝛼𝑖 b𝑖 ,
con gli 𝛼𝑖 ∈ ℝ quasi tutti nulli. Definiamo ora: ‖x‖1 ∶=
∑ 𝑖∈𝐽
|𝛼𝑖 |.
Lasciamo al lettore la facile verifica del fatto che quella appena introdotta è effettivamente una norma. Si provi inoltre a definire, con la stessa tecnica, delle norme di tipo 𝑝. ◁
La definizione data dalla (4.1) e i due ultimi teoremi si estendono facilmente all’insieme 𝐶 0 (𝐼, ℝ) delle funzioni continue di un intervallo 𝐼 in ℝ. Definizione 4.17. Per ogni 𝑝 ∈ [1, +∞[ e per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝐼, ℝ), con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏], si pone 𝑏
1/𝑝
‖𝑓 ‖𝑝 ∶= ( |𝑓 (𝑥)|𝑝 𝑑𝑥) ∫ 𝑎
.
◁
Teorema 4.18 (Disuguaglianza di Hölder). Siano: 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏], 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐶(𝐼, ℝ), 𝑝 ≥ 1 e 𝑝′ = 𝑝/(𝑝 − 1) l’esponente coniugato di 𝑝, con 𝑝′ = +∞ se è 𝑝 = 1 e viceversa. Allora si ha |⟨𝑓 , 𝑔⟩2 | ≤ ‖𝑓 ‖𝑝 ⋅ ‖𝑔‖𝑝′ . (4.6) Dimostrazione. Per 𝑝 = 1 si ha |⟨𝑓 , 𝑔⟩2 | ≤
∫ 𝑎
𝑏
|𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥)| 𝑑𝑥 ≤ max{|𝑔(𝑥)|} ⋅ 𝑥∈𝐼
∫ 𝑎
𝑏
|𝑓 (𝑥)| 𝑑𝑥 = ‖𝑔‖∞ ⋅ ‖𝑓 ‖1 .
Fissiamo un 𝑝 ∈ ]1, +∞[. Se una delle due funzioni è quella nulla, la tesi è ovvia; sia dunque 𝑓 ≠ 0 ≠ 𝑔. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐼, dalla disuguaglianza di Young si ha ′ |𝑓 (𝑥)| |𝑔(𝑥)| 1 |𝑓 (𝑥)|𝑝 1 |𝑔(𝑥)|𝑝 ⋅ ≤ + ′ . ‖𝑓 ‖𝑝 ‖𝑔‖𝑝′ 𝑝 ‖𝑓 ‖𝑝𝑝 𝑝 ‖𝑔‖𝑝′ 𝑝′
4.1. Norme e prodotti scalari
156
Integrando su 𝐼, si ottiene
1 1 1 ⟨|𝑓 |, |𝑔|⟩2 ≤ + ′ = 1. ‖𝑓 ‖𝑝 ⋅ ‖𝑔‖𝑝′ 𝑝 𝑝
Dall’ultima disuguaglianza si ricava poi subito la (4.6).
Teorema 4.19 (Disuguaglianza di Minkowski). Dati 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐶(𝐼, ℝ), con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏], per ogni 𝑝 ≥ 1, sussiste la seguente disuguaglianza ‖𝑓 + 𝑔‖𝑝 ≤ ‖𝑓 ‖𝑝 + ‖𝑞‖𝑝 .
Quindi, per ogni 𝑝 ≥ 1, ‖⋅‖𝑝 è una norma.
Dimostrazione. I casi 𝑝 = 1 e 𝑝 = +∞ sono immediati e sono lasciati per esercizio (cfr. Esempi 3.19, 3.20). Siano dunque 1 < 𝑝 < +∞ e 𝑝′ = 𝑝/(𝑝 − 1). Per ogni 𝑥 ∈ 𝐼 si ha |𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)|𝑝 = |𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)|𝑝−1 |𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)| ≤ ≤ |𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)|𝑝−1 (|𝑓 (𝑥)| + |𝑔(𝑥)|).
Per la disuguaglianza di Hölder si ottiene 𝑏
≤
𝑏
∫ 𝑎
∫ 𝑎
|𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)|𝑝 𝑑𝑥 ≤
|𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)|𝑝−1 |𝑓 (𝑥)| 𝑑𝑥 +
≤ ‖𝑓 ‖𝑝 (
𝑏
∫ 𝑎
|𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)|
(𝑝−1)𝑝′
+ ‖𝑔‖𝑝 (
da cui, essendo (𝑝 − 1)𝑝′ = 𝑝, si ricava ‖𝑓 + 𝑔‖𝑝 = 𝑝
∫ 𝑎
𝑏
∫ 𝑎
𝑏
1/𝑝′
)
𝑏
∫ 𝑎
|𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)|𝑝−1 |𝑔(𝑥)| 𝑑𝑥 ≤
𝑑𝑥 +
|𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)|
(𝑝−1)𝑝′
1/𝑝′
)
𝑑𝑥;
|𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥)|𝑝 𝑑𝑥 ≤ ‖𝑓 + 𝑔‖𝑝 (‖𝑓 ‖𝑝 + ‖𝑔‖𝑝 ). 𝑝/𝑝′
(4.7)
Se è ‖𝑓 + 𝑔‖𝑝 = 0, la tesi è ovvia; in caso contrario, basta dividere il primo e il 𝑝
terzo membro della (4.7) per ‖𝑓 + 𝑔‖𝑝 ricordando che è 𝑝 − 𝑝/𝑝′ = 1. A questo punto, l’ultima parte della tesi è immediata, dato che le altre proprietà della norma sono ovvie. 𝑝/𝑝′
Sia data una funzione 𝑓 di uno spazio normato (𝑋, ‖⋅‖) in uno spazio metrico (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ). Ha ora senso la definizione di limite di 𝑓 per ‖x‖ che tende a infinito;
4.1. Norme e prodotti scalari
157
lo stesso vale, nel caso 𝑋 ′ = ℝ, per la definizione di limite infinito, sempre per ‖x‖ che tende a infinito. Si ha lim‖x‖→∞ 𝑓 (x) = 𝑙 ∈ 𝑋 ′ se (∀𝜀 > 0)(∃𝑘 ∈ ℝ)(∀x ∈ 𝑋)(‖x‖ > 𝑘 ⇒ 𝑑 ′ (𝑓 (x), 𝑙) < 𝜀).
L’altro caso è lasciato per esercizio al lettore. Ci saranno utili anche i seguenti risultati:
Lemma 4.20. Dato uno spazio normato (𝑋, ‖⋅‖), l’applicazione di 𝑋 in ℝ definita da x ↦ ‖x‖ è lipschitziana e, quindi, uniformemente continua.
Dimostrazione. Dati x e y in 𝑋, essendo ‖x‖ ≤ ‖x − y‖ + ‖y‖ e ‖y‖ ≤ ‖x − y‖ + ‖x‖, si ha |‖x‖ − ‖y‖| ≤ ‖x − y‖. Ciò prova che la funzione ‖⋅‖ è lipschitziana di costante 1.
Lemma 4.21. In uno spazio normato (𝑋, ‖⋅‖) siano (x𝑛 )𝑛 , (y𝑛 )𝑛 due successioni convergenti rispettivamente a x e y e siano (𝛼𝑛 )𝑛 , (𝛽𝑛 )𝑛 due successioni di numeri reali convergenti rispettivamente ad 𝛼 e 𝛽. Allora la successione (𝛼𝑛 x𝑛 + 𝛽𝑛 y𝑛 )𝑛 converge ad 𝛼x + 𝛽y. La verifica di quest’ultimo risultato è lasciata per esercizio al lettore.
Osservazione 4.22. Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato e 𝑊 suo sottoinsieme. Dalla definizione, risulta evidente che (𝑊 , ‖⋅‖) non è necessariamente uno spazio normato, in quanto 𝑊 potrebbe non essere un sottospazio vettoriale. Tuttavia, la distanza 𝑑 in 𝑋 generata dalla norma rende 𝑊 uno spazio metrico. È interessante sottolineare che questo fatto permette di ritrovare tutti i possibili spazi metrici, nel senso che ogni spazio metrico si può pensare come sottoinsieme di uno spazio normato, come mostra il teorema che segue. ◁ Teorema 4.23 (Immersione di uno spazio metrico in uno spazio normato). Ogni spazio metrico (non vuoto) (𝐸, 𝑑) è isometrico ad un sottoinsieme dello spazio normato 𝐶 ∗ (𝐸, ℝ) con la norma lagrangiana. Dimostrazione. La tecnica è quella utilizzata nella seconda dimostrazione del Teorema 3.84. Fissiamo un elemento 𝑧 ∈ 𝐸 e, per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, consideriamo la funzione 𝑓𝑥 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑓𝑥 (𝑡) ∶= 𝑑(𝑡, 𝑥) − 𝑑(𝑡, 𝑧),
∀𝑡 ∈ 𝐸.
Abbiamo già visto (cfr. pag. 122) che l’applicazione 𝜑 ∶ 𝐸 → 𝜑(𝐸) ⊆ 𝐶 ∗ (𝐸, ℝ) data da 𝜑 ∶ 𝑥 ↦ 𝑓𝑥 è un’isometria.
Definizione 4.24. Si dice che in uno spazio vettoriale reale 𝑋 è definito un prodotto scalare se è assegnata un’applicazione ⟨⋅, ⋅⟩ ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ soddisfacente alle seguenti proprietà:
4.1. Norme e prodotti scalari 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
158
(∀x1 ∈ 𝑋)(∀x2 ∈ 𝑋)(∀y ∈ 𝑋)(⟨x1 + x2 , y⟩ = ⟨x1 , y⟩ + ⟨𝑥2 , y⟩), (∀x ∈ 𝑋)(∀y1 ∈ 𝑋)(∀y2 ∈ 𝑋)(⟨x, y1 + y2 ⟩ = ⟨x, y1 ⟩ + ⟨𝑥, y2 ⟩), (∀x ∈ 𝑋)(∀y ∈ 𝑋)(∀𝜆 ∈ ℝ)(⟨𝜆x, y⟩ = 𝜆⟨x, y⟩), (∀x ∈ 𝑋)(∀y ∈ 𝑋)(∀𝜆 ∈ ℝ)(⟨x, 𝜆y⟩ = 𝜆⟨x, y⟩), (∀x ∈ 𝑋)(∀y ∈ 𝑋)(⟨x, y⟩ = ⟨y, x⟩), (∀x ∈ 𝑋)(⟨x, x⟩ ≥ 0), positiva definitezza (∀x ∈ 𝑋)(⟨x, x⟩ = 0 ⇔ x = 0), non degeneratezza.⊲
È immediato constatare che le espressioni (4.2) e (4.3) definiscono effettivamente dei prodotti scalari in ℝ𝑛 e in 𝐶(𝐼, ℝ) (detti euclidei).
Teorema 4.25. Dato uno spazio vettoriale 𝑋 dotato di un prodotto scalare ⟨⋅, ⋅⟩, si ponga ‖x‖ ∶= √⟨x, x⟩, ottenendo così un’applicazione ‖⋅‖ di 𝑋 in ℝ. 1. Sussiste la seguente disuguaglianza di Cauchy-Schwarz: |⟨x, y⟩| ≤ ‖x‖ ⋅ ‖y‖,
∀x, y ∈ 𝑋.
avendosi |⟨x, y⟩| = ‖x‖ ⋅ ‖y‖ se e solo se x e y sono linearmente dipendenti. 2. L’applicazione ‖⋅‖ ∶ 𝑋 → ℝ definisce una norma su 𝑋 (norma dedotta dal prodotto scalare). Dunque: Ogni spazio vettoriale dotato di prodotto scalare è uno spazio normato e, quindi, metrico.
Dimostrazione. 1. Quali che siano x, y ∈ 𝑋, con y ≠ 0, e 𝑡 ∈ ℝ, si ha ⟨x + 𝑡y, x + 𝑡y⟩ = ‖x‖2 + 2𝑡⟨x, y⟩ + 𝑡2 ‖y‖2 ≥ 0.
(4.8)
Ne viene che il trinomio a secondo membro della (4.8), pensato come funzione di 𝑡, deve avere discriminante minore o uguale a zero. È dunque Δ = ⟨x, y⟩2 − ‖x‖2 ⋅ ‖y‖2 ≤ 0. 4
Se è x = 𝜆y, con y ≠ 0, si ha
|⟨x, y⟩| = |⟨𝜆y, y⟩| = |𝜆| ⋅ |⟨y, y⟩| = |𝜆| ⋅ ‖y‖ ⋅ ‖y‖ = ‖𝜆y‖ ⋅ ‖y‖ = ‖x‖ ⋅ ‖y‖.
Proviamo ora il viceversa, sempre con y ≠ 0. Se è |⟨x, y⟩| = ‖x‖ ⋅ ‖y‖, nel trinomio della (4.8) è Δ = 0. Ma allora l’equazione che si ottiene uguagliando a 0 questo trinomio ha una e una sola soluzione −𝜆. Per un tale valore, si ottiene anche ⟨x − 𝜆y, x − 𝜆y⟩ = 0. Per la (7) della Definizione 4.24, si ha allora x − 𝜆y = 0, che è quanto si voleva. Il caso y = 0 è ovvio. 2 Basta provare che è soddisfatta la 𝑁4; le altre proprietà sono ovvie. Per ogni x, y ∈ 𝑋, si ha ‖x + y‖2 = ⟨x + y, x + y⟩ = ‖x‖2 + 2⟨x, y⟩ + ‖y‖2 ≤ ≤ ‖x‖2 + 2‖x‖ ⋅ ‖y‖ + ‖y‖2 = (‖x‖ + ‖y‖)2 .
4.1. Norme e prodotti scalari
159
Avendo ottenuto una norma, continua a sussistere il Lemma 4.21. A completamento di tale risultato, lasciamo al lettore di verificare che in uno spazio dotato di prodotto scalare vale la proprietà: (x𝑛 → x) ∧ (y𝑛 → y) ⇒ ⟨x𝑛 , y𝑛 ⟩ → ⟨x, y⟩.
Definizione 4.26. Uno spazio vettoriale dotato di prodotto scalare che, come spazio metrico, risulti completo è detto spazio di Hilbert. ◁ Per quanto visto, possiamo affermare che il prodotto scalare euclideo definito dalla (4.2) genera la norma euclidea e, pertanto, ℝ𝑛 con tale prodotto scalare è uno spazio di Hilbert. Si tenga presente che non tutte le norme sono deducibili da un prodotto scalare, infatti: Teorema 4.27 (Deducibilità di una norma da un prodotto scalare). Sia(𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato. La norma ‖⋅‖ è deducibile da un prodotto scalare se e solo se soddisfa alla seguente “identità del parallelogramma”: (∀x ∈ 𝑋)(∀y ∈ 𝑋)(‖x − y‖2 + ‖x + y‖2 = 2‖x‖2 + 2‖y‖2 ).
(4.9)
Dimostrazione. Che la condizione sia necessaria è di verifica immediata. Infatti, se la norma ‖⋅‖ proviene dal prodotto scalare ⟨⋅, ⋅⟩, si ha: ‖x − y‖2 + ‖x + y‖2 = ⟨x − y, x − y⟩ + ⟨x + y, x + y⟩ =
= ⟨x, x⟩ − ⟨x, y⟩ − ⟨y, x⟩ + ⟨y, y⟩ +
+ ⟨x, x⟩ + ⟨x, y⟩ + ⟨y, x⟩ + ⟨y, y⟩ =
= 2⟨x, x⟩ + 2⟨y, y⟩ = 2‖x‖2 + 2‖y‖2 .
Ben altra cosa è provare la sufficienza della condizione. Ciò fu dimostrato nel 1935 da P. Jordan e J. von Neumann. Supposta vera la (4.9), si ponga ⟨x, y⟩ ∶=
1 ‖x + y‖2 − ‖x − y‖2 ]. 4[
(4.10)
Proviamo che quello ora definito è effettivamente un prodotto scalare dal quale si deduce la norma data. Intanto, quali che siano x e y in 𝑋 si ha ⟨x, y⟩ = ⟨y, x⟩;
⟨x, x⟩ = ‖x‖2 ≥ 0;
⟨x, x⟩ = 0 ⇔ x = 0.
Passiamo alla proprietà (1). Si ha: ⟨x + y, z⟩ =
⟨x, z⟩ + ⟨y, z⟩ =
1 ‖x + y + z‖2 − ‖x + y − z‖2 ]; 4[
1 ‖x + z‖2 − ‖x − z‖2 + ‖y + z‖2 − ‖y − z‖2 ]. 4[
4.1. Norme e prodotti scalari
160
La tesi è:
‖x + y + z‖2 − ‖x + z‖2 − ‖y + z‖2 = ‖x + y − z‖2 − ‖x − z‖2 − ‖y − z‖2 ,
che, per l’identità del parallelogramma, è equivalente a
Ora si ha:
1 ‖x + y + z‖2 − [‖x + y + 2z‖2 + ‖x − y‖2 ] = 2 1 2 = ‖x + y − z‖ − [‖x + y − 2z‖2 + ‖x − y‖2 ]. 2
‖x + y + 2z‖2 = ‖(x + y + z) + z‖2 = 2‖x + y + z‖2 + 2‖z‖2 − ‖x + y‖2 ; ‖x + y − 2z‖2 = ‖(x + y − z) − z‖2 = 2‖x + y − z‖2 + 2‖z‖2 − ‖x + y‖2 .
Sostituendo nell’equazione precedente, si ottiene che entrambi i suoi membri sono uguali a −‖z‖2 − 12 ‖x − y‖2 + 12 ‖x + y‖2 . Passiamo, in fine, alla (3) e procediamo per passi successivi. Sia, intanto, 𝜆 = 𝑛 ∈ ℕ+ e procediamo per induzione. Il caso 𝑛 = 1, è ovvio. Supponiamo vera la tesi per 𝑛 e proviamola per 𝑛 + 1. Si ha: ⟨(𝑛 + 1)x, y⟩ = ⟨𝑛x + x, y⟩ = ⟨𝑛x, y⟩ + ⟨x, y⟩ = = 𝑛⟨x, y⟩ + ⟨x, y⟩ = (𝑛 + 1)⟨x, y⟩.
Si ha inoltre:
𝑛 1 ⟨x, y⟩ = ⟨ x, y⟩ = 𝑛⟨ x, y⟩, 𝑛 𝑛
da cui ⟨ 1𝑛 x, y⟩ = 1𝑛 ⟨x, y⟩. Dunque la tesi sussiste per ogni 𝜆 ∈ ℚ+ . Si ha poi: ⟨x, y⟩ = ⟨x + 0, y⟩ = ⟨x, y⟩ + ⟨0, y⟩, da cui ⟨0, y⟩ = 0 e ⟨0x, y⟩ = ⟨0, y⟩ = 0 = 0⟨x, y⟩. Inoltre si ha ⟨x, y⟩ + ⟨−x, y⟩ = ⟨x − x, y⟩ = ⟨0, y⟩ = 0, da cui ⟨−x, y⟩ = −⟨x, y⟩. La tesi è così provata per ogni 𝜆 razionale. Osserviamo poi che, per ogni y ∈ 𝑋, la funzione 𝑓y ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑓y (x) ∶= ⟨x, y⟩ =
1 ‖x + y‖2 − ‖x − y‖2 ] 4[
è continua (Lemma 4.20). La tesi sussiste perciò anche per ogni 𝜆 ∈ ℝ. Si vede poi subito che la norma dedotta da questo prodotto scalare è proprio quella di partenza dato che, per ogni x ∈ 𝑋, si ha ⟨x, x⟩ = ‖x‖2 . Il nome di “identità del parallelogramma” deriva dal fatto che, come subito si constata applicando due volte il Teorema del coseno, in un parallelogramma si ha 𝑑12 + 𝑑22 = 2𝑙12 + 2𝑙22 , essendo 𝑑1 , 𝑑2 le misure delle due diagonali e 𝑙1 , 𝑙2 quelle dei due lati. Inoltre, pensando due lati consecutivi del parallelogramma come due vettori u e v applicati nel vertice comune e con moduli 𝑙1 e 𝑙2 , i numeri 𝑑1 e 𝑑2 sono i moduli di u + v e u − v.
4.1. Norme e prodotti scalari
161
Esempio 4.28. La norma lagrangiana non è deducibile da un prodotto scalare. Posto 𝐼 ∶= [0, 2], siano: 𝑓 (𝑥) ∶=
1 − 𝑥, {0,
per 0 ≤ 𝑥 ≤ 1 ; per 1 < 𝑥 ≤ 2
𝑔(𝑥) ∶=
0 {−1 + 𝑥
per 0 ≤ 𝑥 ≤ 1 . per 1 < 𝑥 ≤ 2
Si vede subito che le funzioni 𝑓 , 𝑔, 𝑓 + 𝑔, 𝑓 − 𝑔 hanno tutte norma lagrangiana uguale a 1; non è dunque soddisfatta l’identità del parallelogramma. ◁ Esempio 4.29. Sulle norme ‖⋅‖𝑝 in ℝ𝑛 , con 𝑝 ≥ 1. Se è 𝑛 = 1, si ha, per ogni
𝑥, ‖𝑥‖𝑝 = |𝑥| = √𝑥2 = √⟨𝑥, 𝑥⟩. Se è 𝑛 > 1, la norma ‖⋅‖𝑝 è deducibile da un prodotto scalare solo per 𝑝 = 2. Sappiamo già che la norma euclidea proviene dal prodotto scalare (4.2). Può essere tuttavia interessante rifare la verifica utilizzando il Teorema 4.27. Infatti, si constata immediatamente che per 𝑝 = 2 è verificata l’identità del parallelogramma e che si ha =
⟨x, y⟩ = 𝑛
1 ‖x + y‖22 − ‖x − y‖22 ] = 4[ 𝑛
𝑛
1 (𝑥𝑖 + 𝑦𝑖 )2 − (𝑥 − 𝑦𝑖 )2 ] = 𝑥𝑦. ∑ 𝑖 ∑ 𝑖 𝑖 4[ ∑ 𝑖=1 𝑖=1 𝑖=1
Siano ora, in ℝ2 , x ∶= (1, 0) e y ∶= (0, 1). Si ha: ‖x + y‖2𝑝
+ ‖x − y‖2𝑝
x + y = (1, 1); =2⋅2
2/𝑝
=2
x − y = (1, −1);
(2/𝑝)+1
; 2(‖x‖2𝑝 + ‖u‖2𝑝 ) = 2 ⋅ 2 = 4 = 22 .
Quindi, per questa scelta di vettori, l’identità del parallelogramma sussiste se e solo se è 2𝑝 + 1 = 2 e quindi se e solo se è 𝑝 = 2. Ciò prova che, per 𝑝 ≠ 2, la
norma 𝑝-ima non proviene da un prodotto scalare. Quanto ora visto in ℝ2 si estende banalmente al caso generale. ◁ A partire dal prodotto scalare euclideo, si possono definire altri prodotti scalari in ℝ𝑛 con la seguente procedura: sia 𝑀 una matrice quadrata simmetrica definita positiva (nel senso che è tale la forma quadratica ad essa associata). La posizione ⟨𝑥, 𝑦⟩𝑀 ∶= ⟨𝑀x, y⟩2 (4.11) definisce un prodotto scalare che rende ancora ℝ𝑛 uno spazio di Hilbert. La facile verifica è lasciata per esercizio al lettore.
Teorema 4.30 (Caratterizzazione dei prodotti scalari di ℝ𝑛 ). Ogni prodotto scalare in ℝ𝑛 può essere espresso nella forma (4.11), dove 𝑀 è un’opportuna matrice simmetrica e definita positiva.
4.1. Norme e prodotti scalari
162
Dimostrazione. Fissiamo in ℝ𝑛 la base canonica {e1 , … , e𝑛 }; pertanto ogni vettore x = (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ) si esprime nella forma x = 𝑥1 e1 + ⋯ + 𝑥𝑛 e𝑛 . Sia ⟨⋅, ⋅⟩ un qualunque prodotto scalare definito in ℝ𝑛 . Dati x = (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ) e y = (𝑦1 , … , 𝑦𝑛 ) si ha ⟨x, y⟩ = ⟨
𝑛
∑ 𝑖=1
𝑥𝑖 e𝑖 ,
𝑛
𝑛
𝑛
𝑦e = ⟨e𝑖 , e ⟩𝑥𝑖 𝑦𝑗 = ⟨𝑀x, y⟩2 , ∑ 𝑗 ⟩ ∑∑ 𝑗=1
𝑗
𝑖=1 𝑗=1
𝑗
dove 𝑀 ∶= (𝑎𝑖𝑗 ) è la matrice simmetrica definita da 𝑎𝑖𝑗 ∶= ⟨e𝑖 , e ⟩. La forma quadratica associata alla matrice è 𝑄(x) = ⟨𝑀x, x⟩2 = ⟨x, x⟩ e, pertanto, è definita positiva (cfr. Proprietà (6), (7) della Definizione 4.24). 𝑗
Concludiamo questa parte dedicata ai prodotti scalari con un risultato che caratterizza le isometrie in (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ). Ricordiamo che una matrice quadrata 𝐴 di ordine 𝑛 è detta ortogonale se è invertibile e la sua inversa 𝐴−1 coincide con la trasposta 𝐴⊤ . Chiaramente per una siffatta matrice il determinante ha modulo unitario. Teorema 4.31. Una funzione 𝑓 ∶ (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ) → (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ) è un’isometria se e solo se è del tipo 𝑓 (x) = 𝐴x + b, (4.12) con 𝐴 matrice ortogonale e b(∶= 𝑓 (0)) ∈ ℝ𝑛 .
Dimostrazione. Per comodità di notazione omettiamo l’indice 2 nei prodotti scalari e nelle norme. Per prima cosa, osserviamo che 𝑓 è un’isometria se e solo se lo è la funzione 𝑔 definita da 𝑔(x) ∶= 𝑓 (x) − 𝑓 (0), con 𝑔(0) = 0. Non è dunque restrittivo supporre che sia già 𝑓 (0) = 0. Per provare il “se”, basta osservare che si ha ‖𝐴x‖2 = ⟨𝐴x, 𝐴x⟩ = ⟨𝐴⊤ 𝐴x, x⟩ = ⟨𝐴−1 𝐴x, x⟩ = ⟨x, x⟩ = ‖x‖2 .
Veniamo al viceversa. Se 𝑓 è un’isometria, si ha ‖𝑓 (x)‖ = ‖x‖, ∀x ∈ ℝ𝑛 ; inoltre, dati x, y ∈ ℝ𝑛 , si ottiene l’identità ‖𝑓 (x) − 𝑓 (y)‖2 = ‖x − y‖2 .
Esprimendo questa relazione mediante i prodotti scalari e usando ancora il fatto che 𝑓 preserva la norma, si ottiene ⟨𝑓 (x), 𝑓 (y)⟩ = ⟨x, y⟩.
(4.13)
Questa proprietà esprime il fatto che 𝑓 conserva i prodotti scalari (geometricamente ciò significa che un’isometria che mantiene fissa l’origine conserva gli angoli fra i vettori).
4.1. Norme e prodotti scalari
163
Proviamo che 𝑓 è lineare, verificando che è ‖𝑓 (x + y) − 𝑓 (x) − 𝑓 (y)‖ = 0 e ‖𝑓 (𝛼x) − 𝛼𝑓 (x)‖ = 0, con 𝛼 ∈ ℝ. Per la prima affermazione, si ha ‖𝑓 (x + y) − 𝑓 (x) − 𝑓 (y)‖2 =
= ‖𝑓 (x + y)‖2 + ‖𝑓 (x)‖2 + ‖𝑓 (y)‖2 − 2⟨𝑓 (x + y), 𝑓 (x)⟩ +
− 2⟨𝑓 (x + y), 𝑓 (y)⟩ + 2⟨𝑓 (x), 𝑓 (y)⟩ =
= ‖x + y‖ + ‖x‖ + ‖y‖ − 2⟨x + y, x⟩ − 2⟨x + y, y⟩ + 2⟨x, y⟩ = 2
2
2
= ‖(x + y) − x − y‖2 = 0.
In modo analogo si prova la seconda affermazione. Avendo verificato che 𝑓 è lineare, ne segue che esiste una matrice quadrata 𝐴 di ordine 𝑛 per cui si ha 𝑓 (x) = 𝐴x. Questa matrice non può essere singolare, dato che è ‖𝐴x‖ = ‖x‖. Inoltre, si ha ⟨x, y⟩ = ⟨𝐴x, 𝐴y⟩ = ⟨𝐴⊤ 𝐴x, y⟩, ∀x, y ∈ ℝ𝑛 .
(4.14)
Da quest’ultima relazione segue che 𝐴⊤ 𝐴 è la matrice identica e che pertanto risulta 𝐴−1 = 𝐴⊤ . Osservazione 4.32. Nel corso della dimostrazione appena vista abbiamo interpretato l’uguaglianza (4.13) come il fatto che un’isometria che mantiene fissa l’origine conserva gli angoli fra i vettori. In effetti possiamo dare un analogo significato geometrico a una qualunque isometria, considerando un angolo compreso fra due segmenti orientati uscenti dal medesimo punto. Più precisâ è mente, siano 𝑎, 𝑏, 𝑐 tre punti dello spazio, con 𝑏 ≠ 𝑎 ≠ 𝑐; l’angolo 𝛼 ∶= 𝑏𝑎𝑐 definito implicitamente dalla relazione cos 𝛼 ∶=
⟨𝑏 − 𝑎, 𝑐 − 𝑎⟩ . ‖𝑏 − 𝑎‖ ⋅ ‖𝑐 − 𝑎‖
Se applichiamo ora ai tre punti 𝑎, 𝑏, 𝑐 un’isometria 𝑓 , otteniamo ordinatamente ′ 𝑎′ 𝑐 ′ , si ottiene tre nuovi punti 𝑎′ , 𝑏′ , 𝑐 ′ . Posto 𝛼 ′ ∶= 𝑏̂ cos 𝛼 ′ =
⟨𝑏′ − 𝑎′ , 𝑐 ′ − 𝑎′ ⟩ ⟨𝑏 − 𝑎, 𝑐 − 𝑎⟩ = = cos 𝛼. ′ ′ ′ ′ ‖𝑏 − 𝑎 ‖ ⋅ ‖𝑐 − 𝑎 ‖ ‖𝑏 − 𝑎‖ ⋅ ‖𝑐 − 𝑎‖
◁
Osservazione 4.33. La dimostrazione del Teorema 4.31 è stata prodotta in (ℝ𝑛 ,‖⋅‖2 ). Osserviamo però che, per arrivare all’espressione (4.12) con 𝐴 matrice invertibile che conserva le norme e i prodotti scalari, non si è usata nessuna proprietà specifica di ℝ𝑛 o del prodotto scalare euclideo. Quindi fin qui il risultato è valido per ogni spazio vettoriale di dimensione finita in cui sia definito un prodotto scalare. Si tenga ben presente che, invece, nella (4.14) abbiamo usato il fatto che, dati due vettori u, v ed un’applicazione lineare espressa da una matrice 𝐴, si ha ⟨u, 𝐴v⟩ = ⟨𝐴⊤ u, v⟩. Questo fatto è vero in ℝ𝑛 per il
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
164
prodotto scalare euclideo. In uno spazio arbitrario dotato di prodotto scalare, tale relazione andrebbe sostituita con ⟨u, 𝐴v⟩ = ⟨𝐴∗ u, v⟩, dove, per definizione, 𝐴∗ è il cosiddetto operatore aggiunto rispetto al prodotto scalare fissato. In tal caso, la condizione da imporre ad 𝐴 è: 𝐴−1 = 𝐴∗ . Constatiamo che l’operatore aggiunto è sempre ben definito, limitandoci al caso ℝ𝑛 . Per ogni vettore u fissato, consideriamo l’applicazione lineare 𝜑u ∶ ℝ𝑛 → ℝ definita da 𝜑u (v) ∶= ⟨u, 𝐴v⟩. Per tale applicazione esiste un vettore w per cui si ha 𝜑u (v) = ⟨w, v⟩. L’applicazione che associa w a u, al variare di u in ℝ𝑛 è lineare e viene detta l’aggiunto di 𝐴 (cfr. [47]). ◁ Avendo visto il teorema di caratterizzazione delle isometrie in ℝ𝑛 , vale la pena di ricordare il concetto di similitudine.
Definizione 4.34. Una trasformazione 𝑓 ∶ ℝ𝑛 → ℝ𝑛 si dice similitudine di rapporto 𝑘 > 0 se, per ogni x, y ∈ ℝ𝑛 , si ha ‖𝑓 (x) − 𝑓 (y)‖ = 𝑘‖x − y‖. ◁ In analogia col Teorema 4.31, sussiste il seguente risultato la cui dimostrazione è lasciata per esercizio al lettore.
Teorema 4.35. Una funzione 𝑓 ∶ (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ) → (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ) è una similitudine se e solo se è del tipo 𝑓 (x) = 𝑘𝐴x + b, (4.15) con 𝐴 matrice ortogonale, 𝑘 ∈ ℝ e b(∶= 𝑓 (0)) ∈ ℝ𝑛 .
Il lettore verifichi per esercizio che quanto visto nell’Osservazione 4.32 sussiste anche nel caso delle similitudini.
4.2 Applicazioni lineari e norme equivalenti Cominciamo dal problema del confronto fra norme su un medesimo spazio vettoriale.
Definizione 4.36. Siano date due norme ‖⋅‖′ e ‖⋅‖″ su un medesimo spazio vettoriale non vuoto 𝑋. 1. Si dice che la prima è più fine della seconda (e si scrive ‖⋅‖″ ⪯ ‖⋅‖′ ) se ciò accade per le distanze da esse dedotte. 2. Le due norme sono fra loro equivalenti se generano distanze equivalenti e quindi la stessa topologia. ◁
Dunque, date due norme ‖⋅‖′ e ‖⋅‖″ sul medesimo spazio vettoriale 𝑋, ‖⋅‖′ è più fine di ‖⋅‖″ se l’applicazione identica 𝑖 ∶ (𝑋, ‖⋅‖′ ) → (𝑋, ‖⋅‖″ ) è continua. Le due norme sono equivalenti se 𝑖 ∶ (𝑋, ‖⋅‖′ ) → (𝑋, ‖⋅‖″ ) è un omeomorfismo. Si tenga anche presente che se una funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝑑) → (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) è continua, essa rimane tale anche se si sostituiscono le distanze 𝑑 e 𝑑 ′ con altre due ad esse rispettivamente equivalenti. Analogamente per le norme. (Esercizio!)
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
165
Esempio 4.37. In ℝ𝑛 . Dati 𝑝 e 𝑞, con 1 ≤ 𝑝 ≤ 𝑞 ≤ +∞, le norme ‖⋅‖𝑝 e ‖⋅‖𝑞 sono fra loro equivalenti, dato che lo sono le distanze 𝑑𝑝 e 𝑑𝑞 (cfr. Corollario 3.92). Osserviamo che, quale che sia il punto x ∈ ℝ𝑛 , si ha; 1𝑛 ‖x‖1 ≤ ‖x‖∞ ≤ ‖x‖1 . ◁ L’ultima osservazione dell’esempio precedente ha un carattere generale. Sussiste infatti il seguente risultato.
Teorema 4.38. Siano date su uno spazio vettoriale 𝑋 due norme ‖⋅‖′ e ‖⋅‖″ . 1. Si ha che ‖⋅‖′ è più fine di ‖⋅‖″ se e solo se esiste una costante 𝐾 > 0 tale che, per ogni x ∈ 𝑋, si ha ‖x‖″ ≤ 𝐾‖x‖′ . 2. Le due norme sono fra loro equivalenti se e solo se esistono due costanti positive 𝐻 e 𝐾 tali che (∀x ∈ 𝑋)(𝐻‖x‖′ ≤ ‖x‖″ ≤ 𝐾‖x‖′ ).
(4.16)
Dimostrazione. In entrambi i casi, la sufficienza è di verifica immediata e basta quindi provare la necessità. 1. Supponiamo che l’applicazione identica 𝑖 ∶ (𝑋, ‖⋅‖′ ) → (𝑋, ‖⋅‖″ ) sia continua. Ne viene che esiste un 𝐾 > 0 tale che, per ogni x ∈ 𝑋, da ‖x‖′ ≤ 𝐾1 x ′ segue ‖x‖″ < 1. Dato x ∈ 𝑋 ⧵ {0}, si ponga u ∶= 𝐾‖x‖ ′ , da cui x = 𝐾‖x‖ u. Si vede subito che è ‖u‖′ =
1 , 𝐾
e quindi ‖u‖″ < 1. Ora si ha: ″
‖x‖″ = ‖𝐾‖x‖′ u‖ = 𝐾‖x‖′ ‖u‖″ < 𝐾‖x‖′ .
Per x = 0, non c’è niente da dimostrare. 2. Se anche 𝑖−1 è continua, per quanto visto al punto 1, esiste un 𝐻 > 0 tale che ‖x‖′ ≤ (1/𝐻)‖x‖″ , ∀x ∈ 𝑋. Osservazione 4.39. Sottolineiamo alcuni fatti. Quando due norme sono equivalenti, tutte le successioni convergenti rispetto a una di esse sono convergenti ai medesimi limiti anche rispetto all’altra (segue dal fatto che la topologia è la medesima); tutte le successioni che sono di Cauchy rispetto a una delle due norme sono tali anche rispetto all’altra (segue dalla (4.16)). Da ciò segue immediatamente che: Se uno spazio normato è completo rispetto a una norma, allora esso è completo anche rispetto ad ogni altra norma ad essa equivalente. Per definizione, si ha ‖⋅‖″ ⪯ ‖⋅‖′ se e solo se l’applicazione identica 𝑖 ∶ (𝑋, ‖⋅‖′ ) → (𝑋, ‖⋅‖″ ) è continua. Ciò equivale a dire che, se indichiamo con 𝜏 ′ e 𝜏 ″ le topologie su 𝑋 indotte rispettivamente dalle norme ‖⋅‖′ e ‖⋅‖″ , si ha ‖⋅‖″ ⪯ ‖⋅‖′ se e solo se 𝜏 ′ è più fine di 𝜏 ″ . Ricordando ora che negli spazi metrici le funzioni continue sono tutte e sole quelle sequenzialmente continue e che in ogni spazio normato la convergenza è individuata dalle successioni
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
166
infinitesime (infatti x𝑛 → x ⇔ (x𝑛 − x) → 0), si ottiene che ‖⋅‖″ ⪯ ‖⋅‖′ se e solo se 𝜏′
𝜏″
x𝑛 −−−−−→ 0 ⇒ x𝑛 −−−−−→ 0.
◁
Osservazione 4.40. Quanto visto sopra non vale, in generale, per le distanze. Più precisamente: Per quanto riguarda il Teorema 4.38, una condizione analoga alla (4.16) per le distanze, cioè del tipo (∃𝐻, 𝐾 > 0)(∀𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋)(𝐻𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) ≤ 𝑑 ″ (𝑥, 𝑦) ≤ 𝐾𝑑 ′ (𝑥, 𝑦)),
(4.17)
è sì sufficiente per l’equivalenza, ma non necessaria. Basta confrontare, in ℝ la distanza euclidea con quella dell’Esempio 3.16. Per quanto riguarda l’Osservazione 4.39, non è, in generale, garantito che due distanze che inducono la medesima topologia abbiano le stesse successioni di Cauchy. Pertanto, uno spazio metrico può essere completo rispetto a una distanza ma non completo rispetto a un’altra distanza equivalente alla prima. (Si veda ancora l’Esempio 3.16 e anche l’Osservazione 3.85.) ◁ Definizione 4.41. Se due distanze su un insieme 𝑋 soddisfano alla (4.17), diremo che esse sono strettamente equivalenti. ◁ Il fatto che in ℝ𝑛 tutte le norme ‖⋅‖𝑝 sono equivalenti (cfr. Esempio 4.37) è generalizzabile (Teorema 4.43).
Lemma 4.42. Ogni spazio vettoriale su ℝ di dimensione 𝑛 è linearmente isomorfo a ℝ𝑛 . Dimostrazione. Siano dati uno spazio vettoriale 𝑋 su ℝ, di dimensione 𝑛, e una sua base {b1 , b2 , … , b𝑛 }. Sia poi 𝜑 l’applicazione di 𝑋 in ℝ𝑛 che all’elemento x ∶= 𝑥1 b1 + 𝑥2 b2 + ⋯ + 𝑥𝑛 b𝑛 ∈ 𝑋 associa l’elemento (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ) ∈ ℝ𝑛 . La verifica che 𝜑 è effettivamente un isomorfismo lineare è facile. Teorema 4.43. In un qualunque spazio lineare di dimensione finita tutte le norme sono fra loro equivalenti e rendono lo spazio completo.
Dimostrazione. Incominciamo col dimostrare il risultato in ℝ𝑛 . Basta anzi provare che in ℝ𝑛 ogni norma ‖⋅‖ è equivalente alla norma euclidea ‖⋅‖2 . Fissiamo dunque in ℝ𝑛 la base canonica {e1 , e2 , … , e𝑛 } e una norma ‖⋅‖. Sia inoltre a ∶= (‖e1 ‖, ‖e2 ‖, … , ‖e𝑛 ‖), 𝐾 ∶= ‖a‖2 e, per ogni x ∶= (𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ), x′ ∶= (|𝑥1 |, |𝑥2 |, … , |𝑥𝑛 |). Intanto si ha: ‖x‖ =
𝑛
𝑛
𝑛
𝑥𝑖 e𝑖 ≤ ‖𝑥 e𝑖 ‖ = |𝑥 |‖e𝑖 ‖ = ∑ 𝑖 ∑ 𝑖 ‖∑ ‖ 𝑖=1 𝑖=1 𝑖=1
= ⟨x′ , a⟩2 ≤ ‖x′ ‖2 ‖a‖2 = ‖x‖2 ‖a‖2 = 𝐾‖x‖2 .
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
167
Proviamo che la funzione 𝜑 ∶ (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ) → (ℝ, |⋅|) definita da 𝜑(x) = ‖x‖ è continua. Fissato z ∈ ℝ𝑛 , si ha: |‖x‖ − ‖z‖| ≤ ‖x − z‖ ≤ 𝐾‖x − z‖2 .
x Per ogni x ≠ 0, si ponga u ∶= ‖x‖ , da cui x = u‖x‖2 . Si vede subito che è 2 ‖u‖2 = 1. Ora l’insieme 𝑇 dei vettori di ℝ𝑛 con norma euclidea unitaria è chiuso e limitato. Essendo 𝜑 continua, assume su 𝑇 , per il Teorema di Weierstrass 3.103, un valore minimo 𝐻. Si ha dunque:
‖x‖ = ‖‖x‖2 u‖ = ‖x‖2 ‖u‖ ≥ 𝐻‖x‖2 .
Sia ora 𝑋 uno spazio vettoriale arbitrario di dimensione 𝑛. Come nel Lemma 4.42, fissiamo una base {b1 , b2 , … , b𝑛 } e, di conseguenza un’isomorfismo lineare 𝜑 ∶ 𝑋 → ℝ𝑛 . Ogni norma di 𝑋 si può trasferire isometricamente ad una norma di ℝ𝑛 , e viceversa. Infatti, se ‖⋅‖ è una norma in 𝑋, possiamo definire una norma ‖⋅‖′ in ℝ𝑛 come segue ‖x‖′ ∶= ‖𝜑−1 (x)‖, ∀x ∈ ℝ𝑛 .
Viceversa, la norma euclidea di ℝ𝑛 si trasporta in una norma ‖⋅‖″2 in 𝑋, ponendo ‖x‖″2 ∶= ‖𝜑(x)‖2 , ∀x ∈ 𝑋.
Dall’equivalenza fra ‖⋅‖′ e ‖⋅‖2 in ℝ𝑛 , si ha l’equivalenza fra le norme ‖⋅‖ e ‖⋅‖″2 in 𝑋. In fine, la completezza di ℝ𝑛 con la norma euclidea implica la completezza di 𝑋 rispetto alla norma ‖⋅‖″2 . Basta ora ricordare l’Osservazione 4.39. Sappiamo che già in ℝ𝑛 non sussiste un analogo risultato per le distanze. Tuttavia, si vede facilmente che la completezza è preservata per una distanza strettamente equivalente a quella euclidea.
Corollario 4.44. Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio vettoriale normato di dimensione finita e 𝑓 una funzione di 𝑋 in uno spazio topologico (𝑌 , 𝜏) [di uno spazio topologico (𝑌 , 𝜏) in 𝑋]. La continuità di 𝑓 è indipendente dalla norma ‖⋅‖. A questo punto vogliamo occuparci della continuità delle applicazioni lineari fra spazi vettoriali normati. Ricordiamo che, dati due spazi vettoriali 𝑉 e 𝑊 , un’applicazione 𝐿 ∶ 𝑉 → 𝑊 si dice lineare se (∀x, y ∈ 𝑉 )(𝐿(x + y) = 𝐿(x) + 𝐿(y)), (∀x ∈ 𝑋)(∀𝛼 ∈ ℝ)(𝐿(𝛼x) = 𝛼𝐿(x)).
Indicheremo con lin(𝑉 , 𝑊 ) l’insieme delle applicazioni lineari di 𝑉 in 𝑊 . Definendo in modo ovvio la somma di due applicazioni lineari e il prodotto di
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
168
un’applicazione lineare per uno scalare, si ha immediatamente che lin(𝑉 , 𝑊 ) è uno spazio vettoriale. Osserviamo anche che, se 𝐿 ∈ lin(𝑉 , 𝑊 ) e 𝐶 ⊆ 𝑉 è un insieme convesso (cfr. Definizione 4.7), allora anche 𝐿(𝐶) ⊆ 𝑊 è convesso (Esercizio!). In particolare, un’applicazione lineare trasforma sottospazi lineari in sottospazi lineari. Ricordiamo anche che se è 𝑊 = ℝ, un’applicazione lineare si chiama anche funzionale lineare e lo spazio 𝑉 ′ = lin(𝑉 , ℝ) è detto duale algebrico di 𝑉 . Come anticipato, ci limiteremo a considerare il caso delle applicazioni lineari fra spazi normati. Siano (𝑋, ‖⋅‖𝑋 ) e (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ) due spazi vettoriali normati. Sussiste il seguente risultato. Lemma 4.45 (Caratterizzazione delle applicazioni lineari continue). Sia data un’applicazione lineare 𝐿 ∶ (𝑋, ‖⋅‖𝑋 ) → (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ). Le seguenti affermazioni sono equivalenti: 1. 𝐿 è continua. 2. 𝐿 è continua in 0. 3. Esiste una costante 𝑘 ≥ 0 tale che ‖𝐿(x)‖𝑌 ≤ 𝑘‖x‖𝑋 , per ogni x ∈ 𝑋.
Dimostrazione. La 1 implica banalmente la 2. 2 ⇒ 3. Dalla continuità in 0, si ha che, posto 𝜀 = 1, esiste un 𝛿 > 0 tale 𝛿 che, da ‖v‖𝑋 ≤ 𝛿 segue ‖𝐿(v)‖𝑌 < 1. Dato v ≠ 0, si ponga u ∶= ‖v‖ v, da cui v =
‖v‖𝑋 𝛿
u. Essendo ‖u‖𝑋 = 𝛿, si ha ‖𝐿(u)‖𝑌 < 1. È dunque
‖𝐿(v)‖𝑌 = 𝐿 ‖ (
𝑋
‖v‖𝑋 ‖v‖𝑋 ‖v‖𝑋 1 u = 𝐿(u) = ‖𝐿(u)‖𝑌 < ‖v‖𝑋 . )‖𝑌 ‖ 𝛿 ‖𝑌 𝛿 𝛿 𝛿
Essendo 𝐿(0) = 0, per avere la tesi basta porre 𝑘 = 1/𝛿. 3 ⇒ 1. Fissiamo un 𝜀 > 0 e un v0 ∈ 𝑋. Dalla 3 si ha che, per ogni v ∈ 𝑋, è ‖𝐿(v) − 𝐿(v0 )‖𝑌 = ‖𝐿(v − v0 )‖𝑌 ≤ 𝑘 ‖v − v0 ‖𝑋 ,
che è minore di 𝜀 se è ‖v − v0 ‖𝑋 < 𝜀/𝑘, per 𝑘 > 0. Il caso 𝑘 = 0 è ovvio.
Teorema 4.46. Sia (𝑋, ‖⋅‖𝑋 ) uno spazio normato. 1. Se 𝑋 ha dimensione finita, allora, per ogni spazio normato (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ), ogni applicazione lineare 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 è continua. 2. Se 𝑋 ha dimensione infinita, allora, per ogni spazio normato 𝑌 ≠ {0}, esistono applicazioni lineari 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 non continue. Dimostrazione. 1. Sia 𝐵 ∶= {b1 , … , b𝑛 } una base di 𝑋 e poniamo 𝑘 ∶= ‖𝐿(b1 )‖𝑌 + ⋯ + ‖𝐿(b𝑛 )‖𝑌 . Ogni elemento v ∈ 𝑋 è esprimibile in uno e un sol modo come combinazione lineare degli elementi di 𝐵. È dunque v = 𝑎1 b1 + ⋯ + 𝑎𝑛 b𝑛 , con 𝑎𝑖 ∈ ℝ, 𝑖 = 1, … , 𝑛. Per il Corollario 4.44, la continuità di 𝐿 è indipendente dalla norma di 𝑋; possiamo quindi sceglierne una di comodo. Dato v = 𝑎1 b1 + ⋯ + 𝑎𝑛 b𝑛 , si ponga quindi ‖v‖ ∶= |𝑎1 | + ⋯ + |𝑎𝑛 |.
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
169
Si ha
‖𝐿(v)‖𝑌 = ‖𝐿(𝑎1 b1 + ⋯ + 𝑎𝑛 b𝑛 )‖𝑌 = ‖𝑎1 𝐿(b1 ) + ⋯ + 𝑎𝑛 𝐿(b𝑛 )‖𝑌 ≤ ≤ ‖𝑎1 𝐿(b1 )‖𝑌 + ⋯ + ‖𝑎𝑛 𝐿(b𝑛 )‖𝑌 =
= |𝑎1 | ⋅ ‖𝐿(b1 )‖𝑌 + ⋯ + |𝑎𝑛 | ⋅ ‖𝐿(b𝑛 )‖𝑌 ≤
≤ ‖v‖𝑋 (‖𝐿(b1 )‖𝑌 + ⋯ + ‖𝐿(b𝑛 )‖𝑌 ) = 𝑘‖v‖𝑋 .
2. In uno spazio lineare normato 𝑋 di dimensione infinita, siano date una successione 𝐸 ∶= {e1 , … , e𝑛 , …} di elementi di norma unitaria linearmente indipendenti e una base 𝐵 contenente 𝐸. Dato uno spazio vettoriale 𝑌 ≠ {0}, fissiamo un elemento e′ ∈ 𝑌 ⧵ {0} e consideriamo la seguente applicazione 𝐿 di 𝑋 in 𝑌 : si ponga 𝐿(e𝑛 ) = 𝑛e′ e 𝐿(b) = 0, ∀b ∈ 𝐵 ⧵ 𝐸. La si prolunghi poi per linearità su 𝑋. Si verifica subito che 𝐿 (che è lineare) non è continua, dato che non soddisfa, per costruzione, alla condizione 3 del Teorema 4.45. L’argomentazione utilizzata nella seconda parte della dimostrazione del precedente teorema si basa sul fatto ben noto che un’applicazione definita su un sottoinsieme 𝐴 di elementi linearmente indipendenti di uno spazio vettoriale 𝑉 in uno spazio 𝑊 può essere estesa ad un’applicazione lineare di 𝑉 in 𝑊 . Infatti si procede come segue: si prende una base di Hamel 1 𝐵 ⊇ 𝐴; si prolunga arbitrariamente l’applicazione agli elementi di 𝐵 ⧵ 𝐴; si estende per linearità (in modo unico) l’applicazione a tutto 𝑉 . Osservazione 4.47. Un simile procedimento può essere utilizzato per affrontare il problema relativo alla cosiddetta equazione funzionale di Cauchy. Ricordiamo che tale problema consiste nel trovare le funzioni 𝑓 ∶ ℝ → ℝ additive, ossia tali che 𝑓 (𝑥 + 𝑦) = 𝑓 (𝑥) + 𝑓 (𝑦), ∀𝑥, 𝑦 ∈ ℝ. (4.18)
Esso fu già affrontato da Legendre nel 1791 e da Gauss nel 1809. Cauchy nel suo famoso Corso di Analisi del 1821 ne diede la soluzione nel caso delle funzioni continue. La soluzione generale fu trovata da Hamel nel 1905. Dalla (4.18) è facile vedere che 𝑓 (0) = 0, 𝑓 (𝑛𝑥) = 𝑛𝑓 (𝑥), per ogni 𝑛 ∈ ℕ, 𝑓 (−𝑥) = −𝑓 (𝑥), 𝑓 (𝑚𝑥) = 𝑚𝑓 (𝑥), per ogni 𝑚 ∈ ℤ e quindi 𝑓 (𝑞𝑥) = 𝑞𝑓 (𝑥), per ogni 𝑞 ∈ ℚ. Questo permette di dire che 𝑓 (𝑥) = 𝑘𝑥, per ogni 𝑥 ∈ ℚ, dove 1 Per definizione, si chiama base di Hamel un sistema di generatori linearmente indipendenti di uno spazio vettoriale. Questa è l’usuale definizione di base che si incontra in Algebra. Nell’ambito degli Spazi di Banach o di Hilbert, ci sono anche altri concetti di base che rispondono a requisiti di tipo analitico (cfr. [9]). Per esempio: dato uno spazio di Hilbert 𝐻, si chiama sua base di Hilbert una famiglia ℰ ∶= {e𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } di vettori ortonormali (e quindi linearmente indipendenti) tali che ogni x ∈ 𝐻 è esprimibile in uno e un sol modo mediante un’espressione del tipo x = ∑𝛼∈𝐽 𝑥𝛼 e𝛼 , con gli 𝑥𝛼 numeri reali tutti nulli, tranne al più un’infinità numerabile. Torneremo su questo argomento nel Paragrafo 5.2. Un’estensione di questo concetto porta a definire quello di base di Schauder negli spazi di Banach (cfr. ancora [9]).
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
170
𝑘 = 𝑓 (1) e quindi 𝑓 è lineare rispetto ai coefficienti razionali. Rimane da discutere se ciò è vero anche per i coefficienti reali. Usando la densità di ℚ in ℝ, si può vedere che 𝑓 (𝑥) = 𝑘𝑥 per ogni 𝑥 ∈ ℝ se e solo se 𝑓 è continua (Esercizio). Ossia: Una funzione additiva è continua se e solo se è lineare. Diamo ora l’esempio (Hamel 1905) di una 𝑓 non continua che verifica la (4.18). Consideriamo ℝ come spazio vettoriale su ℚ e prendiamo due elementi linearmente indipendenti, per esempio, 𝑥1 = 1, 𝑥2 = √2. Definiamo 𝑓 come segue: 𝑓 (𝑥1 ) = 𝑓 (𝑥2 ) = 1; estendiamo 𝑓 a ℝ per linearità rispetto ai coefficienti di ℚ con la tecnica descritta sopra (prendendo cioè una base di Hamel 𝐵 di ℝ su ℚ con 𝐵 ⊃ {𝑥1 , 𝑥2 }). Chiaramente, 𝑓 è additiva; se, per assurdo, 𝑓 fosse continua, e quindi lineare rispetto ai coefficienti di ℝ, dovremmo avere 1 = 𝑓 (𝑥1 ) = 𝑥1 𝑓 (1) = 𝑓 (𝑥2 ) = 𝑥2 𝑓 (1), da cui 𝑥1 = 𝑥2 . Per chi volesse approfondire questo argomento, segnaliamo i libri di Aczel ([2]) e Kuczma ([38]), dove il lettore potrà trovare interessanti riferimenti storici e vari esempi di equazioni funzionali. ◁ Osservazione 4.48. Nel Teorema 4.46 si è visto che esistono applicazioni lineari non continue purché definite in spazi di dimensione infinita. Data però 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 lineare, c’è un modo canonico di dotare 𝑋 di una norma più fine di quella originaria in modo da rendere 𝐿 continua. Poniamo, infatti, ‖x‖′ ∶= ‖x‖𝑋 + ‖𝐿(x)‖𝑌 .
Dal Lemma 4.45 segue 𝐿 ∶ (𝑋, ‖⋅‖′ ) → (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ) è continua. La norma così introdotta in 𝑋 si chiama anche norma del grafico, poiché è la norma di un punto del grafico di 𝐿 nello spazio prodotto 𝑋 × 𝑌 , prendendo in quest’ultimo spazio la norma naturale data dalla somma delle due norme. ◁ Esercizio 4.49. Sia 𝐿 ∶ (𝑋, ‖⋅‖𝑋 ) → (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ) un’applicazione lineare e sia ker 𝐿 ∶= {x ∈ 𝑋 ∶ 𝐿(x) = 0}, ossia il suo nucleo. Si provi che ker 𝐿 è un sottospazio di 𝑋 e che, se 𝐿 è continua, allora ker 𝐿 è chiuso. ◁ Proviamo con un esempio che dal fatto che il nucleo di un’applicazione lineare 𝐿 è chiuso non segue la continuità di 𝐿. Ricordiamo che si indica con 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ) l’insieme delle funzioni 𝑘 volte derivabili con continuità sull’intervallo 𝐼 e a valori in ℝ.
Esempio 4.50. Si ponga 𝑋 ∶= 𝐶 1 ([0, 2𝜋]), 𝑌 ∶= 𝐶 0 ([0, 2𝜋]), entrambi con la norma del sup, e sia 𝐿 l’applicazione lineare che ad ogni 𝑓 ∈ 𝑋 associa la sua derivata 𝑓 ′ ∈ 𝑌 . Il nucleo di 𝐿 è dato dall’insieme delle funzioni costanti che è topologicamente isomorfo a ℝ ed è quindi completo e, pertanto, chiuso (cfr. Lemma 3.79). Si consideri ora la successione (𝑓𝑛 )𝑛 in 𝑋, con 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 1𝑛 sin 𝑛𝑥. Si ha
‖𝑓𝑛 ‖ = 1𝑛 → 0 per 𝑛 → +∞. Per contro si ha 𝑓𝑛′ (𝑥) = cos 𝑛𝑥, da cui ‖𝑓𝑛′ ‖ = 1. Si conclude che mentre la successione (𝑓𝑛 )𝑛 converge in 𝑋 alla funzione nulla 0, la successione (𝐿(𝑓𝑛 ))𝑛 non converge in 𝑌 alla funzione 𝐿(0) = 0 e che quindi 𝐿 non è continua. ◁
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
171
Osservazione 4.51. Se consideriamo l’esempio precedente in cui l’applicazione lineare 𝐿 è la derivata e prendiamo come spazio 𝑋 = 𝐶01 ([0, 2𝜋]) costituito dalle funzioni di classe 𝐶 1 in [0, 2𝜋], con 𝑓 (0) = 0, e ancora 𝑌 = 𝐶 0 ([0, 2𝜋]), entrambi con la norma del sup, abbiamo un esempio di applicazione lineare non continua con ker 𝐿 = {0}. ◁ Osservazione 4.52. Nell’esempio 4.50 abbiamo visto che l’operatore di derivata da 𝑋 ∶= 𝐶 1 ([0, 2𝜋]) a 𝑌 ∶= 𝐶 0 ([0, 2𝜋]), entrambi con la norma del sup, non è continuo. Per renderlo tale, basta introdurre in 𝑋 la norma del grafico (cfr. Osservazione 4.48) che, nel nostro caso, diventa 𝑢 ↦ ‖𝑢‖∞ + ‖𝑢′ ‖∞ ,
Essa è la norma naturale per lo spazio 𝐶 . 1
∀𝑢 ∈ 𝑋.
◁
Per i funzionali lineari si ha, per contro, il seguente risultato:
Teorema 4.53 (Continuità dei funzionali lineari). Un funzionale lineare 𝑓 definito in uno spazio normato (𝑋, ‖⋅‖) è continuo se e solo se il suo nucleo è un sottospazio chiuso. Dimostrazione. Basta ovviamente provare il “se”. Se 𝑓 è l’applicazione nulla, la tesi è ovvia. Supponiamo dunque che esista un x0 ∈ 𝑋 con 𝑓 (x0 ) ≠ 0. Sulla retta 𝑇 ∶= {𝑡x0 ∶ 𝑡 ∈ ℝ } esiste un punto z0
con 𝑓 (z0 ) = 1. Infatti, essendo 𝑓 (𝑡x0 ) = 𝑡𝑓 (x0 ), basta prendere 𝑡 = 1/𝑓 (x0 ). Sia ora 𝑊 ∶= z0 + ker 𝑓 = {w = z0 + x ∶ x ∈ ker 𝑓 }. Si vede facilmente che è 𝑊 = {z ∶ 𝑓 (z) = 1}. Essendo ker 𝑓 chiuso, risulta chiuso anche 𝑊 . Infatti, data una successione di termine generale w𝑛 = z0 + x𝑛 ∈ 𝑊 convergente a w ∈ 𝑋, la successione di termine generale x𝑛 = w𝑛 − z0 ∈ ker 𝑓 converge a w − z0 . Ora, essendo x𝑛 ∈ ker 𝑓 ed avendo supposto ker 𝑓 chiuso, si ha w − z0 ∈ ker 𝑓 , da cui 0 = 𝑓 (w − z0 ) = 𝑓 (w) − 𝑓 (z0 ); si ottiene 𝑓 (w) = 𝑓 (z0 ) = 1 e quindi w ∈ 𝑊 . Sia ora 𝛿0 la distanza dell’origine da 𝑊 . È dunque, per definizione, 𝛿0 ∶=
inf {‖z0 + x‖ ∶ x ∈ ker 𝑓 }. Deve essere 𝛿0 > 0, visto che altrimenti dovrebbe essere 0 ∈ cl 𝑊 = 𝑊 , dato che questo è chiuso, da cui 𝑓 (0) = 1. Proviamo che, se è x ∈ 𝐵(0, 𝛿0 ), risulta |𝑓 (x)| < 1. Supponiamo, per assurdo che ciò non sia. Esiste dunque un x̂ ∈ 𝐵(0, 𝛿0 ) tale che |𝑓 (x)| ̂ ≥ 1. Se è 𝑓 (x)̂ ≤ −1, posto x̃ = −x,̂ si ottiene 𝑓 (x)̃ = 𝑓 (−x)̂ = −𝑓 (x)̂ ≥ 1. Non è dunque restrittivo supporre che esista un x∗ ∈ 𝐵(0, 𝛿0 ) tale che 𝑓 (x∗ ) ≥ 1. Sia 𝐽 il segmento di estremi 0 e x∗ ; è dunque 𝐽 ∶= {x = 𝑡x∗ ∶ 𝑡 ∈ [0, 1]}. Posto 𝐹 (𝑡) ∶= 𝑓 (𝑡x∗ ) = 𝑡𝑓 (x∗ ), si ha 𝐹 (0) = 0, 𝐹 (1) ≥ 1. Per 𝑡 = 1/𝑓 (x∗ ) si ottiene un punto x̂ per cui è 𝑓 (x)̂ = 1, da cui x̂ ∈ 𝐵(0, 𝛿0 ) ∩ 𝑊 . Ma ciò è assurdo. Abbiamo così verificato che è |𝑓 (x)| < 1 per ogni x ∈ 𝐵(0, 𝛿0 ). Fissiamo ora un 𝜀 > 0. Per ogni y ∈ 𝐵(0, 𝜀𝛿0 ), si ha y 1 1 ‖ 𝜀 ‖ = 𝜀 ‖y‖ < 𝜀 𝜀𝛿0 = 𝛿0 ,
y |𝑓 ( 𝜀 )| < 1,
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
172
y y |𝑓 (y)| = |𝑓 (𝜀 )| = 𝜀 |𝑓 ( )| < 𝜀. 𝜀 𝜀 Ciò prova che 𝑓 è continua in 0 e quindi in 𝑋 per il Lemma 4.45. da cui
Da questo teorema e dalla Proposizione 4.46.2 segue subito che esistono applicazioni lineari il cui nucleo non è un sottospazio chiuso. Osservazione 4.54. Sottolineiamo che, dato un qualunque spazio vettoriale di dimensione infinita, è sempre possibile definire in un suo sottospazio (ancora di dimensione infinita) due norme che siano fra loro inconfrontabili. Infatti, dato un tale spazio 𝑋, prendiamo una successione (e𝑛 )𝑛 , con 𝑛 ∈ ℕ+ di elementi indipendenti. Sia 𝑊 il sottospazio da essi generato. Ogni elemento x ∈ 𝑊 si 𝑛 scrive in un unico modo nella forma x = ∑+∞ 𝑛=1 𝑎𝑛 e , dove gli 𝑎𝑛 sono numeri reali quasi tutti nulli. Definiamo ora due applicazioni di 𝑊 in [0, +∞[ ponendo ‖x‖1 ∶=
+∞
∑ 𝑛=1
|𝑎𝑛 |,
‖x‖ ∶=
+∞
+∞
1 |𝑎 |+ 𝑘|𝑎2𝑘 |. ∑ 𝑘 2𝑘−1 ∑ 𝑘=1 𝑘=1
Si constata facilmente che queste applicazioni definiscono due norme su 𝑊 (Esercizio!). Per constatare che esse sono fra loro inconfrontabili, basterà trovare una successione (w𝑛 )𝑛 in 𝑊 tale che ‖w𝑛 ‖1 = 1, ∀𝑛, mentre si ha inf {‖w𝑛 ‖ ∶ 𝑛 ∈ ℕ} = 0 e sup {‖w𝑛 ‖ ∶ 𝑛 ∈ ℕ} = +∞. Ora, la scelta w𝑛 ∶= e𝑛 realizza proprio tale richiesta. ◁ Sussiste anche il seguente risultato.
Proposizione 4.55. Sia 𝑋 uno spazio vettoriale di dimensione infinita. Allora è possibile definire in 𝑋 due norme confrontabili, ma non equivalenti. Dimostrazione. Sia ℬ ⊂ 𝑋 una base di 𝑋. Dato x ∈ 𝑋, sappiamo che x si esprime in un unico modo come combinazione lineare finita degli elementi di ℬ. Sia quindi x= 𝑥 e𝑖 , ∑ 𝑖 𝑖∈𝐽 (x)
con e𝑖 ∈ ℬ, 𝑥𝑖 ∈ ℝ e dove 𝐽 (x) è l’insieme finito degli indici per cui è 𝑥𝑖 ≠ 0. A questo punto, poniamo ‖x‖1 ∶=
∑
𝑖∈𝐽 (x)
|𝑥𝑖 |.
È agevole controllare che quella ora definita è effettivamente una norma. È altresì facile verificare che è una norma l’applicazione di 𝑋 in ℝ definita da ‖x‖∞ ∶= max {|𝑥𝑖 | ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 (x)} .
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
173
Per definizione, si ha sempre ‖x‖∞ ≤ ‖x‖1 . Per cui la prima norma è più fine della seconda. Tuttavia le due non sono equivalenti. Infatti, se prendiamo come x un elemento ottenuto sommando 𝑛 elementi della base tutti con coefficienti uguali a 1, si ottiene ‖x‖∞ = 1 e ‖x‖1 = 𝑛. Definizione 4.56. Dati due spazi normati (𝑋, ‖⋅‖𝑋 ) e (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ), indicheremo con ℒ (𝑋, 𝑌 ) l’insieme delle applicazioni lineari e continue di 𝑋 in 𝑌 . Dotato ℝ della norma euclidea ‖⋅‖2 , lo spazio ℒ (𝑋, ℝ) si indica con 𝑋 ∗ = ℒ (𝑋, ℝ) e viene detto il duale topologico di 𝑋. ◁ Con queste notazioni, il Teorema 4.46 si rienuncia:
Teorema 4.57. Sia 𝑋 uno spazio normato. Qualunque sia lo spazio normato 𝑌 ≠ {0}, si ha ℒ (𝑋, 𝑌 ) = lin(𝑋, 𝑌 ) se e solo se la dimensione dim 𝑋 di 𝑋 è finita. In particolare, si ha 𝑋 ∗ = 𝑋 ′ se e solo se dim 𝑋 < ∞.
Definizione 4.58. Data un’applicazione 𝐿 ∈ ℒ (𝑋, 𝑌 ), definiamo ‖𝐿‖ la minima costante 𝑘 ≥ 0 tale che ‖𝐿(x)‖𝑌 ≤ 𝑘‖x‖𝑋 , per ogni x ∈ 𝑋. ◁ La norma sopra definita in ℒ (𝑋, 𝑌 ) si chiama anche norma degli operatori. Dimostreremo fra un momento (cfr. Proposizione 4.59.1) che questa definizione è ben posta. Come conseguenza di ciò, si ottiene la disuguaglianza di Lipschitz: ‖𝐿(x)‖𝑌 ≤ ‖𝐿‖ ⋅ ‖x‖𝑋 ,
∀x ∈ 𝑋.
(4.19)
Lemma 4.59. Siano (𝑋, ‖⋅‖𝑋 ) e (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ) spazi normati. Sussistono allora le seguenti proprietà: 1. Per ogni 𝐿 ∈ ℒ (𝑋, 𝑌 ), si ha ‖𝐿‖ = sup x≠0
‖𝐿(x)‖𝑌 = sup ‖𝐿(x)‖𝑌 = sup ‖𝐿(x)‖𝑌 . ‖x‖𝑋 ‖x‖𝑋 =1 ‖x‖𝑋 ≤1
2. L’applicazione ‖⋅‖ ∶ ℒ (𝑋, 𝑌 ) → ℝ definisce una norma. 3. (ℒ (𝑋, 𝑌 ), ‖⋅‖) è completo se (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ) è completo. 4. Quale che sia lo spazio normato 𝑋, lo spazio duale 𝑋 ∗ è completo.
Dimostrazione. 1. Il risultato è evidente se 𝑋 = {0}, con la convenzione di porre sup ∅ = 0, per ∅ ⊂ ℝ+ . Supponiamo quindi 𝑋 ≠ {0}. Essendo ‖𝐿(0)‖𝑌 = ‖0‖𝑌 ≤ 𝑘 ‖0‖𝑋 , per ogni 𝑘 ≥ 0, non è restrittivo limitarci agli x ≠ 0. Poiché ‖𝐿(x)‖𝑌 ≤ 𝑘 ‖x‖𝑋 se e solo se ‖𝐿(x)‖𝑌 /‖x‖𝑋 ≤ 𝑘, dalla definizione di estremo superiore di un insieme come minimo dei maggioranti, segue immediatamente che l’insieme dei 𝑘 della Definizione 4.58 ha minimo e che quindi tale definizione è consistente. Inoltre si ha ‖𝐿‖ = sup x≠0
‖𝐿(x)‖𝑌 . ‖x‖𝑋
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti Usando il fatto che
‖𝐿(x)‖𝑌 = ‖𝐿(v)‖𝑌 , ‖x‖𝑋
con v ∶=
174
x ∈ 𝑆 ∶= 𝑆(0, 1), ‖x‖𝑋
si ottiene ‖𝐿‖ = sup‖x‖𝑋 =1 ‖𝐿(x)‖𝑌 . In fine, osservando che ‖x‖𝑋 ≤ 1 se e solo se x = 𝑟v, con v ∈ 𝑆 e 𝑟 ∈ [0, 1] e che ‖𝐿(𝑟v)‖𝑌 = 𝑟 ‖𝐿(v)‖𝑌 ≤ ‖𝐿(v)‖𝑌 , si completa la verifica. Ciò prova anche la (4.19). 2. La verifica della validità delle proprietà della norma è del tutto standard e viene lasciata per esercizio. 3. Supponiamo ora che (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ) sia completo e consideriamo una successione di Cauchy (𝐿𝑛 )𝑛 , con 𝐿𝑛 ∈ (ℒ (𝑋, 𝑌 ), ‖⋅‖). Si verifica immediatamente che, per ogni x ∈ 𝑋, la successione (𝐿𝑛 (x))𝑛 è di Cauchy in 𝑌 e quindi converge. Possiamo quindi definire 𝐿(x) ∶= lim 𝐿𝑛 (x), 𝑛→∞
∀x ∈ 𝑋.
È facile constatare che 𝐿 ∈ lin(𝑋, 𝑌 ). Usando, per ogni x ∈ 𝑋, la disuguaglianza ‖𝐿𝑛 (x)‖𝑌 ≤ ‖𝐿𝑛 ‖ ⋅ ‖x‖𝑋 ≤ 𝑀‖x‖𝑋 , dove 𝑀 è una costante che limita le norme ‖𝐿𝑛 ‖ (si ricordi che ogni successione di Cauchy è limitata), per la continuità della norma in 𝑌 , si ha ‖𝐿(x)‖𝑌 = lim ‖𝐿𝑛 (x)‖𝑌 ≤ 𝑀 ‖x‖𝑋 , 𝑛→∞
∀x ∈ 𝑋.
Abbiamo così dimostrato che 𝐿 ∈ ℒ (𝑋, 𝑌 ). Resta da provare che 𝐿𝑛 → 𝐿 rispetto alla norma di ℒ (𝑋, 𝑌 ). Dalla definizione di successione di Cauchy e dalla (4.19) si ha (∀𝜀 > 0)(∃𝑛 ̄ ∈ ℕ)(∀x ∈ 𝑋)(∀𝑚, 𝑛 ≥ 𝑛)̄
(‖𝐿𝑛 (x) − 𝐿𝑚 (𝑥)‖𝑌 = ‖(𝐿𝑛 − 𝐿𝑚 )(x)‖𝑌 ≤ ‖𝐿𝑛 − 𝐿𝑚 ‖ ⋅ ‖x‖𝑋 ≤ 𝜀 ‖x‖𝑋 ).
Ora, fissato 𝑛 ≥ 𝑛 ̄ e facendo tendere 𝑚 all’infinito, si ottiene che, per ogni x ∈ 𝑋, è (∀𝜀 > 0)(∃𝑛 ̄ ∈ ℕ)(∀𝑛 ≥ 𝑛)(‖𝐿 ̄ 𝑛 (x) − 𝐿(x)‖𝑌 = ‖(𝐿𝑛 − 𝐿)(x)‖𝑌 ≤ 𝜀 ‖x‖𝑋 ).
Abbiamo così dimostrato che
(∀𝜀 > 0)(∃𝑛 ̄ ∈ ℕ)(∀𝑛 ≥ 𝑛)(‖𝐿 ̄ 𝑛 − 𝐿‖ ≤ 𝜀).
4. Segue immediatamente dal punto 3, dato che (ℝ, ‖⋅‖2 ) è completo. Una domanda che può sorgere a questo punto è di chiedersi se, fissati gli spazi normati 𝑋 e 𝑌 , dal fatto che ℒ (𝑋, 𝑌 ) è completo segue la completezza di 𝑌 . La risposta è affermativa, ma la relativa dimostrazione non è immediata, in quanto sfrutta un importante risultato di Analisi Funzionale, il Teorema di Hahn-Banach 4.63 che presenteremo nel prossimo paragrafo.
4.2. Applicazioni lineari e norme equivalenti
175
Esempio 4.60. Vogliamo provare il seguente risultato. Quale che sia la matrice quadrata 𝐴, gli operatori espressi dalle matrici 𝐴 e 𝐴⊤ hanno la stessa norma in (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ). Ricordiamo intanto che, per ogni x, y ∈ ℝ𝑛 , si ha ⟨𝐴y, x⟩ = ⟨y, 𝐴⊤ x⟩. Infatti si ha ⟨𝐴y, x⟩ = (𝐴y)⊤ ⋅ x = (y⊤ ⋅ 𝐴⊤ ) ⋅ x = y⊤ ⋅ (𝐴⊤ x) = ⟨y, 𝐴⊤ x⟩.
Osserviamo ora che, per ogni w ∈ ℝ𝑛 , si ha ‖w‖2 = max‖x‖2 =1 {⟨w, x⟩}. Infatti, per la disuguaglianza di Cauchy-Schwarz, per ogni x ∈ ℝ𝑛 , con ‖x‖2 = 1, si ha ⟨w, x⟩ ≤ ‖w‖2 ⋅ ‖x‖2 = ‖w‖2 . Per x = w/‖w‖ si ha w 1 1 2 ⟨w, ‖w‖ ⟩ = ‖w‖ ⟨w, w⟩ = ‖w‖ ‖w‖ = ‖w‖.
A questo punto si ottiene
‖𝐴‖ = max {‖𝐴y‖2 } = max {⟨𝐴y, x⟩} = ‖y‖2 =1
‖y‖2 =1 ‖x‖2 =1
= max {⟨y, 𝐴⊤ x⟩} = max {‖𝐴⊤ x‖2 } = ‖𝐴⊤ ‖. ‖y‖2 =1 ‖x‖2 =1
‖x‖2 =1
◁
Riassumiamo i vari risultati fin qui visti nel caso degli spazi normati di dimensione finita e stabiliamo un altro risultato. Teorema 4.61. Sia 𝑋 uno spazio vettoriale su ℝ di dimensione 𝑛. 1. Due norme su 𝑋 sono fra loro equivalenti e rendono lo spazio completo. 2. 𝑋 con una sua norma qualunque è linearmente isomorfo a ℝ𝑛 e l’isomorfismo lineare è anche un omeomorfismo con (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ). 3. In 𝑋 con una norma qualunque valgono i Teoremi di Weierstrass e di Bolzano-Weierstrass.
Dimostrazione. La 1 è stata provata nel Teorema 4.43. La prima parte della 2 coincide col Lemma 4.42. La continuità dell’isomorfismo lineare e del suo inverso segue dalla Proposizione 4.46.1. Indicato con 𝜑 l’isomorfismo lineare di (𝑋, ‖⋅‖) su (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ) (che è una funzione continua assieme alla sua inversa), abbiamo che un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋 è limitato [chiuso] se e solo se lo è 𝜑(𝐸) in ℝ𝑛 . Per constatarlo si utilizzino i Teoremi 2.19 e 4.45. Poiché 𝜑 è un omeomorfismo, trasforma punti limite di successioni [punti di accumulazione] in punti dello stesso tipo. È ora banale constatare che i Teoremi 3.96, 3.102 e 3.103 sussistono in 𝑋. Un caso particolare del precedente teorema riguarda gli spazi ℝ𝑛 con le norme 𝑝-ime. Nel Paragrafo 4.4 vedremo che la situazione diventa più complessa passando dalle 𝑛-ple alle successioni.
4.3. Lo spazio duale
176
4.3 Lo spazio duale
Per prima cosa, introduciamo una notazione. Per 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ e x ∈ 𝑋, poniamo ⟨𝑓 , 𝑥⟩ ∶= 𝑓 (x).
L’applicazione ⟨⋅, ⋅⟩ ∶ 𝑋 ∗ ×𝑋 → ℝ si chiama prodotto scalare di dualità. Essa gode di proprietà analoghe a quelle del prodotto scalare. Sussistono, infatti, le seguenti proprietà, la cui verifica è lasciata per esercizio al lettore. 1. ⟨𝛼𝑓1 + 𝛽𝑓2 , x⟩ = 𝛼⟨𝑓1 , x⟩ + 𝛽⟨𝑓2 , x⟩; 2. ⟨𝑓 , 𝛼x1 + 𝛽x2 ⟩ = 𝛼⟨𝑓 , x1 ⟩ + 𝛽⟨𝑓 , x2 ⟩; 3. |⟨𝑓 , x⟩| ≤ ‖𝑓 ‖ ⋅ ‖x‖; 4. l’applicazione ⟨⋅, ⋅⟩ ∶ 𝑋 ∗ × 𝑋 → ℝ è continua. 2 In particolare, si ha che da 𝑓𝑛 → 𝑓 in 𝑋 ∗ e x𝑛 → x in 𝑋, segue ⟨𝑓𝑛 , x𝑛 ⟩ → ⟨𝑓 , x⟩. Si osservi che, con la notazione così introdotta, si ha ‖𝑓 ‖𝑋 ∗ = sup |⟨𝑓 , x⟩| = sup ⟨𝑓 , x⟩, ‖x‖≤1
‖x‖≤1
(x ∈ 𝑋).
(4.20)
Per l’ultima identità, basta tener presente che l’insieme {⟨𝑓 , x⟩ ∶ ‖x‖ ≤ 1} (⊆ ℝ) è un intervallo di centro l’origine (eventualmente ridotto al solo punto 0), dato che si ha ⟨𝑓 , −x⟩ = −⟨𝑓 , x⟩. Avendo definito lo spazio duale topologico per uno spazio normato arbitrario, possiamo ora considerare lo spazio 𝑋 ∗∗ ∶= (𝑋 ∗ )∗ .
Tale spazio viene detto spazio biduale topologico di 𝑋. Lo spazio biduale di 𝑋 contiene una copia dello spazio 𝑋. Infatti ogni elemento x ∈ 𝑋 può essere pensato come un elemento di 𝑋 ∗∗ mediante la seguente procedura. Fissato x ∈ 𝑋, consideriamo l’elemento 𝜑x ∈ 𝑋 ∗∗ definito da 𝜑x (𝑓 ) ∶= ⟨𝑓 , x⟩.
È evidente che il funzionale 𝜑x ∶ 𝑋 ∗ → ℝ è lineare. Esso è anche continuo per il Lemma 4.45. Infatti, per la (4.19), si ha |𝜑x (𝑓 )| = |⟨𝑓 , x⟩| ≤ ‖𝑓 ‖𝑋 ∗ ⋅ ‖x‖𝑋 ,
∀𝑓 ∈ 𝑋 ∗ .
Quest’ultima disuguaglianza prova anche che
‖𝜑x ‖𝑋 ∗∗ = sup |𝜑x (𝑓 )| ≤ ‖x‖𝑋 . ‖𝑓 ‖≤1
2 Dati due spazi normati 𝑋 e 𝑌 , nello spazio 𝑋 × 𝑌 si definisce canonicamente la norma ‖(x, y)‖ ∶= ‖x‖𝑋 + ‖y‖𝑌 . A questo punto, basta utilizzare la (3).
4.3. Lo spazio duale
177
Proveremo fra poco, come conseguenza del Teorema di Hahn-Banach 4.63, che vale in effetti l’uguaglianza ‖𝜑x ‖𝑋 ∗∗ = ‖x‖𝑋 ,
∀x ∈ 𝑋.
(4.21)
L’applicazione 𝐽 ∶ 𝑋 → 𝑋 ∗∗ che ad ogni x ∈ 𝑋 associa 𝜑x ∈ 𝑋 ∗∗ è detta immersione canonica di 𝑋 in 𝑋 ∗∗ . Evidentemente 𝐽 è lineare e, per la (4.21), è anche continua, con norma unitaria. In realtà, la (4.21) ci dice anche che 𝐽 è un isomorfismo lineare isometrico di 𝑋 sulla sua immagine 𝐽 (𝑋) ⊆ 𝑋 ∗∗ . Quindi siamo autorizzati a pensare 𝑋 come un sottospazio di 𝑋 ∗∗ , identificando x ∈ 𝑋 con 𝜑x ∈ 𝑋 ∗∗ . Questa osservazione collegata al fatto che 𝑋 ∗∗ è completo (Proposizione 4.59.4), permette di dimostrare che ogni spazio normato non completo ammette un completamento. Infatti potremo completare 𝑋 mediante cl 𝐽 (𝑋). Definizione 4.62. Uno spazio normato 𝑋 è detto riflessivo se 𝐽 (𝑋) = 𝑋 ∗∗ . Ciò significa che 𝑋 può essere identificato con 𝑋 ∗∗ mediante l’isomorfismo lineare isometrico 𝐽 . ◁
Ancora dalla Proposizione 4.59.4 si ha che: Ogni spazio riflessivo è di Banach. Nella definizione è essenziale utilizzare 𝐽 . Infatti, esistono spazi non riflessivi per i quali è possibile avere un’isometria suriettiva di 𝑋 su 𝑋 ∗∗ (cfr. [9, Osservazione 13, pag. 86]). Come conseguenza del teorema di rappresentazione di Riesz per gli spazi di Hilbert 5.54 avremo che ogni spazio di Hilbert è riflessivo (cfr. Corollario 5.55). Vedremo inoltre il legame tra questo teorema e l’immersione canonica 𝐽 di 𝑋 in 𝑋 ∗∗ (cfr. pagine 240 e seg.). Sono inoltre riflessivi gli spazi 𝐿𝑝 per 1 < 𝑝 < ∞. Più precisamente, ricordiamo che, dati un intervallo chiuso e limitato 𝐼, per esempio 𝐼 = [0, 1], e un numero reale 𝑝 ≥ 1, si indica con 𝐿𝑝 (𝐼) lo spazio delle funzioni 𝑓 ∶ 𝐼 → ℝ misurabili 3 tali che |𝑓 |𝑝 è integrabile su 𝐼 secondo Lebesgue. Identificando due funzioni 𝑓 e 𝑔 quando sono uguali quasi ovunque in 𝐼 (cioè quando l’insieme {𝑥 ∈ 𝐼 ∶ 𝑓 (𝑥) ≠ 𝑔(𝑥)} ha misura nulla secondo Lebesgue) si può dimostrare che 𝐿𝑝 (𝐼), con la norma ‖⋅‖𝑝 definita da ‖𝑓 ‖𝑝 ∶= (∫𝐼 |𝑓 (𝑥)|𝑝 𝑑𝑥)1/𝑝 , è uno spazio di Banach (cfr: pag. 186). È altresì di Banach lo spazio 𝐿∞ (𝐼) delle funzioni misurabili ed essenzialmente limitate, ossia tali che esiste 𝑀 > 0 per cui si ha |𝑓 (𝑥)| ≤ 𝑀, per quasi ogni 𝑥 ∈ 𝐼. L’estremo inferiore degli 𝑀 > 0 per cui vale tale disuguaglianza è, per definizione, ‖𝑓 ‖∞ . Due funzioni uguali quasi ovunque sono ancora identificate. Ricordiamo la disuguaglianza di Hölder 4.18 stabilita in 𝐶(𝐼): | ∫ 𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥) 𝑑𝑥| ≤ ‖𝑓 ‖𝑝 ⋅ ‖𝑔‖𝑞 , 𝐼
∀𝑓 ∈ 𝐿𝑝 (𝐼), ∀𝑔 ∈ 𝐿𝑞 (𝐼)
Ricordiamo che una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ, con 𝑋 insieme in cui è stata introdotta la famiglia degli insiemi misurabili, è detta misurabile se le controimmagini degli intervalli aperti sono insiemi misurabili. Nel nostro caso, è 𝑋 ∶= 𝐼 e la misura è quella di Lebesgue. 3
4.3. Lo spazio duale
178
dove 𝑝 e 𝑞 sono esponenti coniugati, cioè risulta 1/p + 1/q = 1, con 1/∞ = 0. Si constata che questa continua a sussistere anche nel caso presente. Da questa segue che, se è 1 ≤ 𝛼 ≤ 𝛽 ≤ ∞, allora è 𝐿𝛽 (𝐼) ⊆ 𝐿𝛼 (𝐼) (Esercizio). Inoltre, per ogni 𝑔 ∈ 𝐿𝑞 (𝐼), l’applicazione 𝑓 (∈ 𝐿𝑝 (𝐼)) ↦ ∫𝐼 𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥) 𝑑𝑥 è un funzionale lineare continuo ℱ𝑔 con ‖ℱ𝑔 ‖ = ‖𝑔‖𝑞 . (Esercizio!) Pertanto, ogni elemento 𝑔 ∈ 𝐿𝑞 (𝐼) può essere pensato come un elemento dello spazio duale 𝐿𝑝 (𝐼)∗ . Il teorema di rappresentazione di Riesz negli spazi 𝐿𝑝 (cfr. [70]), assicura che, se 1 < 𝑝 < ∞, allora, per ogni ℱ ∈ 𝐿𝑝 (𝐼)∗ , esiste un unico 𝑔 ∈ 𝐿𝑞 (𝐼) tale che ℱ (𝑓 ) = 𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥) 𝑑𝑥, ∀𝑓 ∈ 𝐿𝑝 (𝐼). ∫ 𝐼
Di conseguenza, per ogni 𝑝 > 1, lo spazio duale di 𝐿𝑝 può essere identificato con 𝐿𝑞 . Da questo fatto segue poi facilmente la riflessività degli spazi 𝐿𝑝 , con 1 < 𝑝 < +∞. (Si vedano anche l’Osservazione 5.56 e l’Esempio 5.57.) Un esempio importante di spazio non riflessivo è dato da 𝐶(𝐼) delle funzioni continue sull’intervallo 𝐼 con la norma infinito, come verrà dimostrato nel Paragrafo 5.2 (cfr. Osservazione 5.46 e Teorema 8.87; si veda anche [9]). Teorema 4.63 (di Hahn-Banach). Siano 𝑋 uno spazio vettoriale e 𝑋0 un suo sottospazio. Supponiamo che su 𝑋 sia definita una funzione 𝑝 a valori in ℝ che soddisfa alle seguenti proprietà: a. 𝑝(x + y) ≤ 𝑝(x) + 𝑝(y), ∀x, y ∈ 𝑋 (𝑝 è dunque subadditiva); b. 𝑝(𝛼x) = 𝛼𝑝(x), ∀𝛼 ≥ 0, ∀x ∈ 𝑋 (𝑝 è dunque positivamente omogenea di grado 1). Se su 𝑋0 è definito un funzionale lineare 𝑓0 , con 𝑓0 (x) ≤ 𝑝(x), ∀x ∈ 𝑋0 ,
allora esiste un funzionale lineare 𝑓 definito su 𝑋 tale che 1. 𝑓 (x) = 𝑓0 (x), ∀x ∈ 𝑋0 ; 2. 𝑓 (x) ≤ 𝑝(x), ∀x ∈ 𝑋. Dimostrazione. Per comodità, decidiamo di chiamare ammissibile un qualunque funzionale lineare 𝑔 ∶ 𝑊 → ℝ definito su un sottospazio 𝑊 con 𝑋0 ⊆ 𝑊 ⊆ 𝑋 tale che 𝑔(x) = 𝑓0 (x), ∀x ∈ 𝑋0 ; 𝑔(w) ≤ 𝑝(w), ∀w ∈ 𝑊 .
Evidentemente la tesi del teorema è raggiunta se dimostriamo che esiste un’estensione ammissibile di 𝑓0 definita su tutto 𝑋. Nella prima parte della dimostrazione, verifichiamo che, se 𝑔 ∶ 𝑊 → ℝ è ammissibile e inoltre 𝑊 ⊂ 𝑋, (4.22) allora è possibile prolungare propriamente 𝑔 ad un nuovo funzionale ammissibile. Nella seconda parte, con il Lemma di Zorn, faremo vedere che esistono estensioni ammissibili massimali che, pertanto, dovranno essere definite su tutto lo spazio 𝑋.
4.3. Lo spazio duale
179
1. Sia 𝑔 ∶ 𝑊 → ℝ ammissibile, con 𝑊 soddisfacente alla (4.22). Prendiamo un elemento z0 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑊 . Ci proponiamo di definire un’estensione ammissibile ℎ ∶ 𝑌 → ℝ, con 𝑌 ∶= sp(𝑊 , z0 ). Osservando che ogni elemento y ∈ 𝑌 si può rappresentare in un unico modo nella forma y = w + 𝑡z0 , con w ∈ 𝑊 e 𝑡 ∈ ℝ, poniamo ℎ(y) ∶= 𝑔(w) + 𝑡𝑘0 ,
dove 𝑘0 =∶ ℎ(z0 ) ∈ ℝ è una costante che dovremo fissare in modo che l’estensione sia ammissibile. Dalla definizione di ℎ e dall’unicità della rappresentazione degli elementi di 𝑌 , è immediato constatare che ℎ è lineare e inoltre ℎ(w) = 𝑔(w), per ogni w ∈ 𝑊 , da cui segue che ℎ estende 𝑓0 . Rimane da verificare che è possibile scegliere 𝑘0 in modo che risulti ℎ(y) = 𝑔(w) + 𝑡𝑘0 ≤ 𝑝(y) = 𝑝(w + 𝑡z0 ),
∀y = w + 𝑡z0 ∈ 𝑌 .
(4.23)
Poiché la disuguaglianza è verificata per 𝑡 = 0, discutiamo separatamente i casi 𝑡 > 0 e 𝑡 < 0. Nel primo caso, dividendo per 𝑡 > 0 e ricordando che 𝑔 è lineare e 𝑝 è positivamente omogenea di grado 1, si vede che la (4.23) è soddisfatta se e solo se 𝑘0 ≤ 𝑝(w′ + z0 ) − 𝑔(w′ ), ∀w′ = w/𝑡 ∈ 𝑊 . Nel secondo caso, poniamo 𝑡 = −𝑠, con 𝑠 > 0. Dividendo per 𝑠 e sfruttando le proprietà di 𝑔 e di 𝑝 richiamate sopra, si vede che la (4.23) è soddisfatta se e solo se −𝑝(w″ − z0 ) + 𝑔(w″ ) ≤ 𝑘0 , ∀w″ = w/𝑠 ∈ 𝑊 . Riassumendo, avremo che ℎ è un’estensione ammissibile se e solo se ℎ(z0 ) = 𝑘0 soddisfa alla condizione −𝑝(w″ − z0 ) + 𝑔(w″ ) ≤ 𝑘0 ≤ 𝑝(w′ + z0 ) − 𝑔(w′ ), ∀w′ , w″ ∈ 𝑊 .
Un tale 𝑘0 esisterà (come elemento di separazione di due classi separate di numeri reali) se e solo se è 𝑔(w′ + w″ ) ≤ 𝑝(w′ + z0 ) + 𝑝(w″ − z0 ), ∀w′ , w″ ∈ 𝑊 .
Quest’ultima disuguaglianza è sicuramente verificata perché è 𝑔 ≤ 𝑝 su 𝑊 e, inoltre, 𝑝(w′ + w″ ) = 𝑝(w′ + z0 + w″ − z0 ) ≤ 𝑝(w′ + z0 ) + 𝑝(w″ − z0 ).
2. Sia 𝒜 l’insieme di tutte le estensioni ammissibili di 𝑓0 . 𝒜 è banalmente non vuoto perché contiene almeno 𝑓0 . In 𝒜 definiamo ora un ordine parziale nel seguente modo: 𝑔1 ⪯ 𝑔2 se e solo se il dominio di 𝑔1 è contenuto nel dominio di 𝑔2 e 𝑔2 estende 𝑔1 . Si verifica banalmente che quella ora definita è effettivamente una relazione d’ordine.
4.3. Lo spazio duale
180
Sia ora 𝒞 ⊆ 𝒜 un insieme non vuoto e totalmente ordinato. Definiamo 𝑔 ̂ ∶ dom 𝑔 ̂ → ℝ nel seguente modo. Intanto si pone dom 𝑔 ̂ ∶= ⋃𝑔∈𝒞 dom 𝑔. Dato x ∈ dom 𝑔,̂ esiste 𝑔 ∗ ∈ 𝒞 tale che x ∈ dom 𝑔 ∗ ; si definisce 𝑔(x) ̂ ∶= 𝑔 ∗ (x). Non è difficile controllare che 𝑔 ̂ è ben definito, è un funzionale lineare, è ammissibile (e quindi appartiene ad 𝒜 ) e, in fine, 𝑔 ⪯ 𝑔,̂ ∀𝑔 ∈ 𝒞 . Abbiamo così dimostrato che ogni sottoinsieme totalmente ordinato di 𝒜 possiede maggioranti. Per il Lemma di Zorn, possiamo concludere che esiste un elemento massimale 𝑓 ∈ 𝒜 . Come vedremo, questo teorema è ricco di conseguenze e applicazioni. Teorema 4.64 (di prolungamento dei funzionali lineari continui). Siano dati uno spazio normato (𝑋, ‖⋅‖) e un suo sottospazio 𝑊 . Supponiamo che 𝑔 ∶ 𝑊 → ℝ sia un funzionale lineare continuo con norma ‖𝑔‖𝑊 ∗ , allora esiste un prolungamento lineare e continuo 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ di 𝑔 tale che ‖𝑓 ‖𝑋 ∗ = ‖𝑔‖𝑊 ∗
Dimostrazione. Applichiamo il Teorema di Hahn-Banach con 𝑋0 ∶= 𝑊 , 𝑓0 ∶= 𝑔 e 𝑝(x) ∶= 𝑘‖x‖, con 𝑘 ∶= ‖𝑔‖𝑊 ∗ . Esiste quindi un funzionale lineare 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ che prolunga 𝑔 a tutto 𝑋 e tale che 𝑓 (x) ≤ 𝑘‖x‖. Scrivendo la stessa relazione per −x, si ottiene che |𝑓 (x)| ≤ 𝑘‖x‖ per ogni x ∈ 𝑋. La disuguaglianza così ottenuta prova che 𝑓 è continuo e inoltre ‖𝑓 ‖𝑋 ∗ ≤ 𝑘 = ‖𝑔‖𝑊 ∗ . D’altra parte, sappiamo che 𝑓 = 𝑔 su 𝑊 e quindi |𝑔(x)| = |𝑓 (x)| ≤ ‖𝑓 ‖𝑋 ∗ ⋅ ‖x‖, ∀x ∈ 𝑊 . La definizione di norma di 𝑔 porta a concludere che ‖𝑔‖𝑊 ∗ ≤ ‖𝑓 ‖𝑋 ∗ e da qui la tesi. Mostriamo ora che ogni spazio non banale possiede funzionali lineari e continui non banali 4 . Corollario 4.65. Sia 𝑋 uno spazio normato. Per ogni x0 ∈ 𝑋 ⧵ {0}, esiste 𝑓x0 ∈ 𝑋 ∗ tale che ‖𝑓x0 ‖ = 1, ⟨𝑓x0 , x0 ⟩ = ‖x0 ‖.
Dimostrazione. Sia 𝑊 ∶= {𝑡x0 ∶ 𝑡 ∈ ℝ } il sottospazio di 𝑋 generato da x0 . Su 𝑊 definiamo il funzionale lineare continuo 𝑔(x) = 𝑔(𝑡x0 ) ∶= 𝑡‖x0 ‖. Si verifica facilmente che è ‖𝑔‖ = 1. Per il teorema precedente, sappiamo che 𝑔 è prolungabile ad un funzionale 𝑓x0 ∈ 𝑋 ∗ con la stessa norma. Da questo corollario si ottiene una relazione che, in un certo senso, è duale rispetto alla (4.20). Corollario 4.66. Sia 𝑋 uno spazio normato. Per ogni x ∈ 𝑋, si ha
4 D’ora in avanti, per non appesantire le notazioni, eviteremo di indicare, quando ciò non crea confusione, lo spazio a cui si riferisce il segno di norma
4.3. Lo spazio duale
181
1. ‖x‖𝑋 = max ⟨𝑓 , x⟩, ‖𝑓 ‖≤1
(𝑓 ∈ 𝑋 ∗ );
2. ‖𝜑x ‖𝑋 ∗∗ = max |⟨𝑓 , x⟩| = ‖x‖𝑋 . ‖𝑓 ‖≤1
Dimostrazione. Se x = 0, il risultato è banale. Sia dunque x ≠ 0. 1. Il corollario precedente garantisce che esiste 𝑓x ∈ 𝑋 ∗ tale che ⟨𝑓x , x⟩ = |⟨𝑓x , x⟩| = ‖x‖ e inoltre ‖𝑓x ‖ = 1. Tenuto conto che, per la (4.19), si ha ⟨𝑓 , x⟩ ≤ |⟨𝑓 , x⟩| ≤ ‖𝑓 ‖ ⋅ ‖x‖ ≤ ‖x‖, per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , con ‖𝑓 ‖ ≤ 1, si ottiene che è ‖x‖𝑋 = max‖𝑓 ‖≤1 ⟨𝑓 , x⟩. 2. Per definizione, è ‖𝜑x ‖𝑋 ∗∗ = sup‖𝑓 ‖≤1 |⟨𝑓 , x⟩| ≤ sup‖𝑓 ‖≤1 ‖𝑓 ‖𝑋 ∗ ⋅ ‖x‖𝑋 ≤ ‖x‖𝑋 . Per il punto (1), si ha che esiste 𝑓 ̂ ∶= 𝑓x ∈ 𝑋 ∗ tale che ⟨𝑓 ,̂ x⟩ = ‖x‖, con ‖𝑓 ‖̂ = 1. Si ha ‖𝜑x ‖𝑋 ∗∗ = max‖𝑓 ‖≤1 |⟨𝑓 , x⟩| = ‖x‖𝑋 . Abbiamo così giustificato tutte le affermazioni lasciate precedentemente in sospeso. Possiamo ora rispondere alla domanda che ci siamo fatti dopo il Lemma 4.59.
Lemma 4.67. Siano 𝑋 e 𝑌 due spazi normati, con 𝑋 non banale, e fissiamo un vettore v ∈ 𝑋 di norma unitaria. Per ogni y ∈ 𝑌 , esiste 𝐿y ∈ ℒ (𝑋, 𝑌 ) tale che: 1. 𝐿y (v) = y, 2. ‖𝐿y ‖ℒ (𝑋,𝑌 ) = ‖y‖𝑌 , 3. l’applicazione (𝑌 ∋)y ↦ 𝐿y ∈ ℒ (𝑋, 𝑌 ) è lineare e continua. Dimostrazione. Per il Corollario 4.65, esiste 𝑓v ∈ 𝑋 ∗ tale che ‖𝑓v ‖ = 1,
Per ogni y ∈ 𝑌 , poniamo ora
𝑓v (v) = 1.
𝐿y (x) ∶= 𝑓v (x) y,
∀x ∈ 𝑋.
Resta così definita un’applicazione 𝐿y ∶ 𝑋 → 𝑌 ed è anche evidente che 𝐿y (v) = 1 ⋅ y = y. Proviamo per prima cosa che 𝐿y ∈ ℒ (𝑋, 𝑌 ). Infatti si ha 𝐿y (𝛼x1 + 𝛽x2 ) = 𝑓v (𝛼x1 + 𝛽x2 ) y = (𝛼𝑓v (x1 ) + 𝛽𝑓v (x2 ))y = = 𝛼(𝑓v (x1 )y) + 𝛽(𝑓v (x2 )y) = 𝛼𝐿y (x1 ) + 𝛽𝐿y (x2 ),
da cui la linearità di 𝐿𝑦 . Inoltre, ∀x ∈ 𝑋, si ha
‖𝐿y (x)‖𝑌 = ‖𝑓v (x) y‖𝑌 = |𝑓v (x)| ‖y‖𝑌 ≤ ‖𝑓v ‖𝑋 ∗ ‖x‖𝑋 ‖y‖𝑌 = ‖y‖𝑌 ‖x‖𝑋 ,
da cui la continuità di 𝐿y . Ricordando la definizione di norma di un operatore, segue anche subito che ‖𝐿y ‖ℒ (𝑋,𝑌 ) = ‖y‖𝑌 .
4.3. Lo spazio duale
182
Verifichiamo, in fine, che l’applicazione y ↦ 𝐿y è lineare e continua. In effetti, sarà sufficiente verificare la linearità, visto che dalla precedente stima della norma segue che tale applicazione è addirittura un’isometria. Ora, per ogni, x ∈ 𝑋, si ha 𝐿(𝛼y1 +𝛽y2 ) (x) = 𝑓v (x) ⋅ (𝛼y1 + 𝛽y2 ) = 𝛼(𝑓v (x)y1 ) + 𝛽(𝑓v (x)y2 ) = = 𝛼𝐿y1 (x) + 𝛽𝐿y2 (x) = (𝛼𝐿y1 + 𝛽𝐿y2 )(x)
e quindi 𝐿(𝛼y1 +𝛽y2 ) = 𝛼𝐿y1 + 𝛽𝐿y2 .
Teorema 4.68. Siano (𝑋, ‖⋅‖𝑋 ) e (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ) due spazi normati, con 𝑋 non banale. Se ℒ (𝑋, 𝑌 ) con la norma degli operatori è uno spazio completo, allora è tale anche (𝑌 , ‖⋅‖𝑌 ).
Dimostrazione. Fissiamo un versore v ∈ 𝑋 e applichiamo il lemma precedente. Sia (y𝑛 )𝑛 una successione di punti in 𝑌 di Cauchy rispetto alla norma di 𝑌 . La relazione ‖𝐿y𝑛 − 𝐿y𝑚 ‖ℒ (𝑋,𝑌 ) = ‖𝐿y𝑛 −y𝑚 ‖ℒ (𝑋,𝑌 ) = ‖y𝑛 − y𝑚 ‖𝑌 assicura che la successione di operatori (𝐿y𝑛 )𝑛 è di Cauchy in ℒ (𝑋, 𝑌 ) e quindi, per la completezza di tale spazio, essa converge ad un opportuno operatore 𝐿̂ ∈ ℒ (𝑋, 𝑌 ). Poiché la convergenza nella norma degli operatori implica la convergenza puntuale, possiamo concludere che ̂ y𝑛 = 𝐿y𝑛 (v) → 𝐿(v) =∶ ŷ ∈ 𝑌 .
Il Corollario 4.65 relativo all’esistenza di funzionali continui non banali ammette la seguente (ovvia) interpretazione: Per ogni punto x0 che non appartiene al sottospazio nullo, esiste un funzionale 𝑓 lineare e continuo con 𝑓 (x0 ) ≠ 0 e 𝑓 che si annulla sul sottospazio (nullo). Vogliamo estendere ora questo risultato al caso di un sottospazio arbitrario. Corollario 4.69. Siano 𝑋 uno spazio normato e 𝑊 un suo sottospazio tale che cl 𝑊 ⊂ 𝑋. Per ogni elemento z ∈ 𝑋 ⧵ cl 𝑊 , esiste 𝑓z ∈ 𝑋 ∗ tale che ⟨𝑓z , w⟩ = 0, ∀w ∈ cl 𝑊 e ⟨𝑓z , z⟩ ≠ 0. Dimostrazione. Sia
𝑑 ∶= 𝑑(z, 𝑊 ) = inf {‖z − w‖ ∶ w ∈ 𝑊 } .
Per ipotesi, si ha 𝑑 > 0. Consideriamo ora il sottospazio 𝑌 di 𝑋 generato da 𝑊 e z. Ricordiamo che ogni elemento y ∈ 𝑌 si esprime in uno ed un sol modo come y = w + 𝑡z, con 𝑡 ∈ ℝ e w ∈ 𝑊 . Definiamo un funzionale 𝑔 ∶ 𝑌 → ℝ ponendo 𝑔(y) = 𝑔(w + 𝑡z) ∶= 𝑡𝑑. Per definizione, si ha 𝑔|𝑊 = 0 e 𝑔(z) = 𝑑. Sappiamo già che un funzionale di questo tipo è lineare (vedi la dimostrazione del Teorema di Hann-Banach). Verifichiamo ora che 𝑔 è continuo, dimostrando
4.4. Completezza negli spazi normati
183
che esiste una costante 𝑘 ≥ 0 per cui si ha |𝑔(w + 𝑡z)| ≤ 𝑘‖w + 𝑡z‖. Tale disuguaglianza è banalmente verificata, quale che sia 𝑘, se 𝑡 = 0. Supponiamo 𝑡 ≠ 0. Si ha |𝑔(w + 𝑡z)| = |𝑡𝑑| ≤ |𝑡| ⋅ ‖z − (−w/𝑡)‖ = ‖w + 𝑡z‖. Ciò prova che 𝑔 è continuo su 𝑌 , con ‖𝑔‖ ≤ 1. Il Teorema 4.64 garantisce l’esistenza di un 𝑓 = 𝑓z ∈ 𝑋 ∗ che prolunga 𝑔. Dato che 𝑓 si annulla in 𝑊 , per la continuità, deve annullarsi su tutto cl 𝑊 . Ovviamente, se 𝑊 non è chiuso e z ∈ cl 𝑊 ⧵𝑊 , la tesi dell’ultimo Corollario non sussiste.
4.4
Completezza negli spazi normati
Cominciamo col problema del completamento di uno spazio normato.
Definizione 4.70. Sia (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato non completo. Diremo suo completamento uno spazio di Banach (𝑋 ′ , ‖⋅‖′ ) tale che 𝑋 sia linearmente isometrico ad un sottospazio denso in 𝑋 ′ . Nel caso in cui la norma di 𝑋 provenga da un prodotto scalare, quando parleremo di completamento chiederemo anche che 𝑋 ′ sia di Hilbert. ◁ Teorema 4.71 (Completamento di uno spazio normato). Ogni spazio normato [Ogni spazio dotato di prodotto scalare] ammette un completamento che è unico a meno di isometrie lineari.
Dimostrazione. Sia (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato non completo e indichiamo con 𝑑 la distanza indotta dalla norma. Lo spazio (𝑋, 𝑑) ammette un completamento (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) (cfr. Teorema 3.84). Senza perdita di generalità, possiamo pensare 𝑋 come sottoinsieme di 𝑋 ′ . in tal modo ogni successione di Cauchy in 𝑋 converge a qualche elemento di 𝑋 ′ e inoltre, (per la densità di 𝑋 in 𝑋 ′ ), ogni elemento di 𝑋 ′ è limite di una successione in 𝑋. Per prima cosa, faremo vedere che si può dare a 𝑋 ′ una struttura di spazio vettoriale su ℝ in modo che 𝑋 risulti essere un sottospazio vettoriale di 𝑋 ′ . A tale scopo definiamo in 𝑋 ′ un’addizione e una moltiplicazione con coefficienti in ℝ. Dati x′ , y′ ∈ 𝑋 ′ , siano (x𝑛 )𝑛 e (y𝑛 )𝑛 due successioni di 𝑋 convergenti, rispettivamente, a x′ e a y′ . È facile verificare che la successione (x𝑛 + y𝑛 )𝑛 è di Cauchy in 𝑋 e, pertanto converge in 𝑋 ′ . Poniamo quindi: x′ + y′ ∶= lim (x𝑛 + y𝑛 ). 𝑛→+∞
Analogamente, per ogni 𝛼 ∈ ℝ, si verifica che la successione (𝛼x𝑛 )𝑛 è di Cauchy e si definisce 𝛼x′ ∶= lim (𝛼x𝑛 ). 𝑛→+∞
Lasciamo al lettore il facile, ma tedioso, compito di verificare che le precedenti definizioni sono ben poste (nel senso che non dipendono dalle particolari successioni scelte), che 𝑋 ′ con tali operazioni è uno spazio vettoriale e che
4.4. Completezza negli spazi normati
184
le restrizioni di tali operazioni a 𝑋 coincidono con le operazioni di partenza. Quindi, 𝑋 risulta essere un sottospazio vettoriale di 𝑋 ′ . L’applicazione ‖⋅‖ ∶ 𝑋 → ℝ è una funzione uniformemente continua e, pertanto, per la proprietà universale del completamento (cfr. Teorema 3.83), esiste un’unica applicazione uniformemente continua 𝑓 ∶ 𝑋 ′ → ℝ che la prolunga. Poniamo quindi: ‖x′ ‖′ ∶= 𝑓 (x′ ).
Si verifica senza difficoltà che quella ora introdotta è una norma in 𝑋 ′ e che si ha 𝑑 ′ (x′ , y′ ) = ‖x′ − y′ ‖′ . Concludiamo quindi che (𝑋 ′ , ‖⋅‖′ ) è uno spazio di Banach, che la norma ‖⋅‖′ ristretta al sottospazio 𝑋 coincide con la norma di 𝑋 e che 𝑋 è denso in 𝑋 ′ . Abbiamo così ottenuto un completamento di (𝑋, ‖⋅‖). Il fatto che esso sia unico a meno di isometrie lineari deriva dall’unicià del completamento per gli spazi metrici. Consideriamo, in fine, il caso in cui la norma in 𝑋 derivi da un prodotto scalare ⟨⋅, ⋅⟩. Dati x′ , y′ ∈ 𝑋 ′ , siano ancora (x𝑛 )𝑛 e (y𝑛 )𝑛 due successioni di 𝑋 convergenti, rispettivamente, a x′ e a y′ . È facile verificare che la successione 𝑛 𝑛 (⟨x , y ⟩)𝑛 è di Cauchy in ℝ. Per constatarlo basta fare una semplice stima con la disuguaglianza di Cauchy-Schwarz e ricordare che le successioni (x𝑛 )𝑛 e (y𝑛 )𝑛 sono limitate. Poniamo quindi: ⟨x′ , y′ ⟩ ∶= lim ⟨x𝑛 , y𝑛 ⟩. 𝑛→+∞
Si constata facilmente che quello appena definito è effettivamente un prodotto scalare in 𝑋 ′ , che coincide in 𝑋 con quello di partenza e che induce su 𝑋 ′ la norma ‖⋅‖′ . La dimostrazione appena vista non è ovviamente l’unica possibile. Come già osservato a pag. 177, una possibile alternativa consiste nell’immergere 𝑋 nel suo biduale. Noi abbiamo scelto la precedente verifica per il collegamento con quanto visto sugli spazi metrici. Esamineremo ora la completezza di alcuni fondamentali spazi normati. Osserviamo preliminarmente che Lemma 4.72. Nello spazio vettoriale 𝐶 0 (𝐼, ℝ), con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏], da 1 ≤ 𝑝 ≤ 𝑞 ≤ +∞ segue ‖⋅‖𝑝 ≺ ‖⋅‖𝑞 ≺ ‖⋅‖∞ Dimostrazione. Per prima cosa, osserviamo che, data 𝑓 ∈ 𝐶 0 (𝐼) e posto 𝑀 ∶= max 𝑓 (𝐼), per ogni 𝑝 ∈ [1, +∞[, si ha ‖𝑓 ‖𝑝 ∶= 𝑝
∫ 𝑎
𝑏
|𝑓 (𝑡)|𝑝 𝑑𝑡 ≤ 𝑀 𝑝 (𝑏 − 𝑎) = (𝑏 − 𝑎)‖𝑓 ‖∞ , 𝑝
da cui ‖⋅‖𝑝 ⪯ ‖⋅‖∞ . Inoltre, le due norme non sono equivalenti. Infatti, posto 𝐼 ∶= [0, 1], per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ sia 𝑓𝑛 ∶ 𝐼 → ℝ la funzione definita da 𝑓𝑛 (𝑡) ∶=
(𝑛 − 𝑛2 𝑡)1/𝑝 , per 0 ≤ 𝑡 ≤ 1/𝑛, per 1/𝑛 ≤ 𝑡 ≤ 1. {0,
4.4. Completezza negli spazi normati
185
Si ha ‖𝑓𝑛 ‖𝑝 = (1/2)1/𝑝 , mentre è ‖𝑓𝑛 ‖∞ = 𝑛1/𝑝 → ∞ per 𝑛 → ∞. Caso 1 ≤ 𝑝 < 𝑞 < +∞. Siano 𝛼 ∶= 𝑞/𝑝 e 𝛽 ∶= 𝛼/(𝛼 − 1) = 𝑞/(𝑞 − 𝑝) l’esponente coniugato di 𝛼. Utilizzando la disuguaglianza di Hölder (cfr. Teorema 4.18), nella forma |∫ 𝑎
𝑏
𝑔(𝑡)ℎ(𝑡) 𝑑𝑡 ≤ ‖𝑔‖𝛼 ‖ℎ‖𝛽 , |
per ogni funzione 𝑓 ∈ 𝐶 0 (𝐼), si ha: ‖𝑓 ‖𝑝 ∶= 𝑝
𝑏
∫ 𝑎
=(
|𝑓 (𝑡)|𝑝 𝑑𝑡 =
𝑏
𝑏
∫ 𝑎
𝑝/𝑞
|𝑓 (𝑡)|𝑝 ⋅ 1 𝑑𝑡 ≤ ‖|𝑓 |𝑝 ‖𝛼 ‖1‖𝛽 =
|𝑓 (𝑡)|𝑞 𝑑𝑡) (𝑏 − 𝑎)1/𝛽 = (𝑏 − 𝑎)1/𝛽 ‖𝑓 ‖𝑞 . ∫ 𝑎 𝑝
In conclusione, si ha ‖𝑓 ‖𝑝 ≤ (𝑏 − 𝑎)(𝑞−𝑝)/𝑝𝑞 ‖𝑓 ‖𝑞 e quindi ‖⋅‖𝑝 ⪯ ‖⋅‖𝑞 . Per verificare che queste norme non sono equivalenti, analogamente a quanto fatto sopra, consideriamo, con 𝐼 ∶= [0, 1] e al variare di 𝑛 ∈ ℕ+ , le funzioni continue (𝑛 − 𝑛2 𝑡)1/𝑞 , per 0 ≤ 𝑡 ≤ 1/𝑛, 𝑓𝑛 (𝑡) ∶= per 1/𝑛 ≤ 𝑡 ≤ 1. {0, Per tali funzioni si ha ‖𝑓𝑛 ‖𝑞 = (1/2)1/𝑞 . Per contro, si ha ‖𝑓𝑛 ‖𝑝 = 𝑝
1/𝑛
∫ 0
(𝑛 − 𝑛2 𝑡)𝑝/𝑞 𝑑𝑡 =
che tende a 0 per 𝑛 → ∞.
𝑛 𝑞 (𝑝−𝑞)/𝑞 1 𝑠𝑝/𝑞 𝑑𝑠 = 𝑛 𝑞 + 𝑝 𝑛2 ∫ 0
Sappiamo dal Teorema 3.55 che lo spazio (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖∞ ) delle funzioni continue (e limitate) dell’intervallo 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏] in ℝ con la norma lagrangiana è completo. Le cose stanno altrimenti se in 𝐶 0 (𝐼) introduciamo un norma 𝑝-ima con 1 ≤ 𝑝 < ∞.
Teorema 4.73 (Incompletezza di (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑝 )). Lo spazio (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑝 ), con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏] e 1 ≤ 𝑝 < ∞, non è completo. Dimostrazione. Fissiamo un 𝑝 ∈ [1, +∞[. Non è restrittivo supporre che sia 𝐼 ∶= [−1, 1]. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝑓𝑛 ∶ 𝐼 → ℝ la funzione definita da ⎧1, ⎪ 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= ⎨1 − 𝑛𝑥, ⎪0, ⎩
se 𝑥 ∈ [−1, 0[, se 𝑥 ∈ [0, 1/𝑛], se 𝑥 ∈ ]1/𝑛, 1].
Proviamo che la successione (𝑓𝑛 )𝑛 è di Cauchy in (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑝 ). Fissiamo dunque un 𝜀 > 0 e un 𝑘 ∈ ℕ+ con 𝑘 > 1/𝜀𝑝 . Per ogni 𝑚, 𝑛 > 𝑘 si ha ‖𝑓𝑛 − 𝑓𝑚 ‖𝑝 = 𝑝
1
∫ −1
|𝑓𝑛 (𝑥) − 𝑓𝑚 (𝑥)|𝑝 𝑑𝑥 =
∫ 0
1/𝑘
|𝑓𝑛 (𝑥) − 𝑓𝑚 (𝑥)|𝑝 𝑑𝑥
0. Infatti, supponiamo di prendere 𝑥 > 0 e fissiamo successivamente un 𝑎 con 0 < 𝑎 < 𝑥(≤ 1). Per 𝑛 > 1/𝑎, si ha: 1
∫ 𝑎
|𝜑(𝑡)|𝑝 𝑑𝑡 =
∫ 𝑎
1
|𝑓𝑛 (𝑡) − 𝜑(𝑡)|𝑝 𝑑𝑡 ≤
1
∫ −1
|𝑓𝑛 (𝑡) − 𝜑(𝑡)|𝑝 𝑑𝑡 = ‖𝑓𝑛 − 𝜑‖𝑝 → 0, 𝑝
da cui 𝜑(𝑡) = 0, ∀𝑡 ∈ [𝑎, 1] e quindi anche 𝜑(𝑥) = 0. In modo ancora più diretto si tratta il caso 𝑥 < 0. Si concluderebbe quindi che lim𝑥→0− 𝜑(𝑥) = 1 ≠ 0 = lim𝑥→0+ 𝜑(𝑥).
Per ogni 𝑝 ∈ [1, +∞[, si indica con 𝐿𝑝 (𝐼) il completamento dello spazio normato (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑝 ) . Non ci occuperemo di questi spazi, dato che questo argomento esula dai nostri scopi; al riguardo si può consultare il libro Real Analysis di Royden (cfr. [70]). Qui ci occuperemo invece tra poco della completezza degli spazi che vengono indicati con 𝑙𝑝 . Ciò ci permetterà di poter stabilire alcune proprietà significative che sono del tutto analoghe a quelle degli spazi 𝐿𝑝 , senza, d’altra parte, dover ricorrere a proprietà di teoria della misura che richiedono concetti preliminari che fin qui non sono stati affrontati. Il lettore che già conoscesse le proprietà degli spazi 𝐿𝑝 si accorgerà che tutti i risultati che ora esporremo possono essere interpretati come casi particolari di quelli analoghi per gli spazi di funzioni 𝐿𝑝 (𝐼) con 𝐼 ∶= [0, +∞[ o 𝐼 ∶= ℕ con la misura che conta i punti. La nozione di serie si estende in modo naturale al caso degli spazi normati. Stabiliamo intanto al riguardo il cosiddetto Criterio di convergenza assoluta negli spazi normati. Definizione 4.74. Data in uno spazio normato (𝑋, ‖⋅‖) una successione (𝑎𝑛 )𝑛 resta definita la nuova successione (𝑠𝑛 )𝑛 , con 𝑠𝑛 ∶= 𝑎0 + 𝑎1 + ⋯ + 𝑎𝑛 . La coppia 𝜎 ∶= ((𝑎𝑛 )𝑛 , (𝑠𝑛 )𝑛 ) prende il nome di serie in 𝑋. Ci si esprime scrivendo 𝜎 = ∑+∞ 𝑛=0 𝑎𝑛 . Se la successione (𝑠𝑛 )𝑛 converge, si dice che la serie è convergente. La serie è detta assolutamente convergente se è tale la serie numerica ∑+∞ 𝑛=0 ‖𝑎𝑛 ‖.◁ È immediato constatare che, se 𝜎 è convergente, allora si ha ‖𝑎𝑛 ‖ → 0. Sappiamo già dal caso reale che non sussiste l’implicazione opposta. Sappiamo anche che in ℝ ogni serie assolutamente convergente è convergente; questo risultato ammette la seguente generalizzazione.
Teorema 4.75 (Criterio di convergenza assoluta). In uno spazio normato completo (𝑋, ‖⋅‖) ogni serie assolutamente convergente è essa stessa convergente. Dimostrazione. Sia data la serie ∑+∞ 𝑛=0 𝑎𝑛 in 𝑋 e fissiamo un 𝜀 > 0. Siccome la serie ∑+∞ ‖𝑎 ‖ converge per ipotesi, esiste un 𝑘 ∈ ℕ tale che, per ogni 𝑛 > 𝑘 e 𝑛=0 𝑛 per ogni 𝑝 ∈ ℕ si ha ‖𝑎𝑛 ‖ + ‖𝑎𝑛+1 ‖ + ⋯ + ‖𝑎𝑛+𝑝 ‖ < 𝜀. Per gli stessi 𝑛 e 𝑝 si ha ‖𝑠𝑛+𝑝 − 𝑠𝑛 ‖ = ‖𝑎𝑛+1 + ⋯ + 𝑎𝑛+𝑝 ‖ ≤ ‖𝑎𝑛+1 ‖ + ⋯ + ‖𝑎𝑛+𝑝 ‖ < 𝜀.
4.4. Completezza negli spazi normati
187
Dunque la successione (𝑠𝑛 )𝑛 è di Cauchy ed è quindi convergente per la completezza di (𝑋, ‖⋅‖). Da questo risultato e dal Criterio del confronto sulle serie a termini reali, si ha poi il seguente risultato di immediata verifica.
Corollario 4.76 (di Weierstrass). In uno spazio normato completo (𝑋, ‖⋅‖) sia data una serie ∑+∞ 𝑛=0 𝑥𝑛 . Se per ogni 𝑛 ∈ ℕ esiste un numero reale 𝑎𝑛 > 0 tale che ‖𝑥𝑛 ‖ ≤ 𝑎𝑛 e risulta convergente la serie di numeri reali ∑+∞ 𝑛=0 𝑎𝑛 , allora la serie data è (assolutamente) convergente. È interessante rilevare che il Criterio di convergenza assoluta non è solo una conseguenza delle completezza dello spazio, ma è a tutti gli effetti ad essa equivalente. Teorema 4.77. Ogni spazio normato in cui valga il Criterio di convergenza assoluta è completo. Dimostrazione. Sia (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato in cui vale il Criterio di convergenza assoluta e sia 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 una successione di Cauchy in 𝑋. Per ogni 𝑛 ≥ 1, sia 𝑘𝑛 tale che ‖𝑥𝑝 − 𝑥𝑞 ‖ < 1/2𝑛 , per ogni 𝑝, 𝑞 ≥ 𝑘𝑛 . Senza perdita di generalità possiamo supporre crescenti i 𝑘𝑛 e, in tal modo, veniamo a definire una sottosuccessione 𝑆 ′ ∶= (𝑥𝑘𝑛 )𝑛 . Poniamo quindi 𝑦𝑛 ∶= 𝑥𝑘𝑛+1 − 𝑥𝑘𝑛 . Per come sono stati definiti i 𝑘𝑛 , risulta ‖𝑦𝑛 ‖ < 1/2𝑛 e quindi la serie di termine generale 𝑦𝑛 converge assolutamente. Per ipotesi, vale il Criterio di convergenza assoluta e quindi esiste 𝑥∗ ∶= ∑∞ 𝑛=1 𝑦𝑛 = lim𝑛→∞ (𝑥𝑘𝑛 − 𝑥𝑘1 ) e, pertanto, la sottosuccessione (𝑥𝑘𝑛 )𝑛 è convergente. La tesi segue ora dal Lemma 3.53. Definizione 4.78. Per ogni 𝑝 ∈ [1, +∞[, si indica con 𝑙𝑝 l’insieme delle succes𝑝 sioni 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 di numeri reali per cui risulta convergente la serie ∑+∞ 𝑛=0 |𝑎𝑛 | . Si pone poi +∞
1/𝑝
‖𝑆‖𝑝 ∶= ( |𝑎 |𝑝 ∑ 𝑛 ) 𝑛=0
.
Si indica inoltre con 𝑙∞ lo spazio delle successioni limitate con la norma lagrangiana. Si indica, in fine, con 𝑐0 l’insieme delle successioni infinitesime di numeri reali, ancora con la norma lagrangiana. ◁ Si vede facilmente che gli insiemi sopra definiti sono tutti spazi vettoriali su ℝ rispetto alle operazioni naturali (addizione di due successioni e moltiplicazione di una successione per una costante). Il fatto che ‖⋅‖𝑝 sia effettivamente una norma si prova procedendo come nei casi delle norme 𝑝-ime di ℝ𝑛 e di 𝐶 0 (𝐼, ℝ). Ne lasciamo la cura al lettore.
4.4. Completezza negli spazi normati
188
Per tale verifica, sarà utile anche ridimostrare la disuguaglianza di Hölder per successioni che, per 𝑝 e 𝑝′ esponenti coniugati, si esprime come 5 +∞
|∑ 𝑛=0
𝑎𝑛 𝑏𝑛 | ≤ (
+∞
∑ 𝑛=0
1/𝑝
|𝑎𝑛 |𝑝 )
⋅(
+∞
1/𝑝′
|𝑏 |𝑝 ∑ 𝑛 ) ′
𝑛=0
.
(4.24)
Teorema 4.79 (Completezza degli spazi di successioni). Sono completi gli spazi normati (𝑙∞ , ‖⋅‖∞ ), (𝑐0 , ‖⋅‖∞ ) e (𝑙𝑝 , ‖⋅‖𝑝 ).
Dimostrazione. 1. Dalla Proposizione 3.55.2 abbiamo subito la completezza di 𝑙∞ , dato che le successioni sono funzioni continue, se dotiamo ℕ della topologia (discreta) indotta da quella euclidea di ℝ. 2. Dato che 𝑐0 è un sottospazio di 𝑙∞ , per il punto 1 e la Proposizione 3.79.2, basta provare che 𝑐0 è chiuso. Fissiamo dunque un elemento 𝑆 ∶= (𝑏𝑛 )𝑛 ∈ 𝑙∞ ⧵𝑐0 . ̸ esistono un 𝜀 > 0 e una sottosuccessione (𝑛𝑘 )𝑘 di indici tali che, Dato che 𝑏𝑛 →0, per ogni 𝑘, si ha |𝑏𝑛𝑘 | > 2𝜀. Sia ora 𝑆0 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ 𝑐0 . Esiste un indice ℎ tale che, per ogni 𝑛 > ℎ, si ha |𝑎𝑛 | < 𝜀. Ne viene che è ‖𝑆 − 𝑆0 ‖∞ = sup {|𝑏𝑛 − 𝑎𝑛 | ∶ 𝑛 ∈ ℕ} > 𝜀.
Non è dunque possibile trovare una successione di elementi di 𝑐0 che converga a 𝑆 nella norma lagrangiana. Si conclude che 𝑆 ∉ cl 𝑐0 . 3. Proviamo ora la completezza degli spazi 𝑙𝑝 , con 1 ≤ 𝑝 < +∞. Per comodità, useremo la seguente notazione: data una successione 𝑆 di numeri reali, indicheremo con 𝑆(𝑖) l’𝑖-imo termine della successione. Indicheremo anche con |𝑆| la successione di termine generale |𝑆(𝑖)|. Sia ora (𝑆𝑛 )𝑛 una successione di elementi di 𝑙𝑝 (il lettore tenga presente che ogni termine 𝑆𝑛 è a sua volta una successione) tale che risulti convergente la serie delle sue norme 𝑝-ime. Poniamo quindi ∞
∑ 𝑛=0
‖𝑆𝑛 ‖𝑝 =∶ 𝐶 < +∞.
Vogliamo dimostrare che converge in 𝑙𝑝 anche la serie ∑+∞ 𝑛=0 𝑆𝑛 (cfr. Teorema 4.77). Per cominciare, osserviamo che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, si ha +∞
𝑛
∑(∑ 𝑖=0
𝑘=0
𝑝
|𝑆𝑘 (𝑖)|) =
𝑝
𝑛
𝑛
𝑝
𝑝
|𝑆 | ≤ ( ‖𝑆𝑘 ‖𝑝 ) ≤ ( ‖𝑆𝑘 ‖𝑝 ) = 𝐶 𝑝 . ∑ 𝑘‖ ∑ ∑ ‖𝑘=0 𝑘=0 𝑘=0 𝑝
Da ciò segue che, per ogni ℎ ∈ ℕ+ , si ha ℎ
𝑛
𝑝
|𝑆 (𝑖)| ≤ 𝐶 𝑝 . ∑(∑ 𝑘 )
5
+∞
𝑖=0
𝑘=0
Si accetta che sia ∞ ≤ ∞ e si assume 0 ⋅ ∞ ∶= 0.
4.4. Completezza negli spazi normati
189
Facendo tendere 𝑛 all’infinito, si ottiene, sempre per ogni ℎ, ℎ
+∞
𝑝
|𝑆 (𝑖)| ≤ 𝐶 𝑝 . ∑(∑ 𝑘 ) 𝑖=0
𝑘=0
+∞
+∞
In fine, passando al limite per ℎ → +∞, si ottiene ∑(∑ 𝑖=0
𝑘=0
𝑝
|𝑆𝑘 (𝑖)|) ≤ 𝐶 𝑝 .
∑∞ 𝑘=0 |𝑆𝑘 (𝑖)|
Quindi, per ogni 𝑖, la serie converge; ciò equivale a dire che la serie ∑∞ 𝑘=0 𝑆𝑘 (𝑖) è assolutamente convergente in ℝ per ogni 𝑖 e quindi anche semplicemente convergente. Per ogni 𝑖, risulta quindi ben definito in ℝ il numero 𝑇 (𝑖) ∶= ∑∞ 𝑘=0 𝑆𝑘 (𝑖). Abbiamo così ottenuto una nuova successione 𝑇 ∶= (𝑇 (𝑛))𝑛 . Faremo vedere che 𝑇 ∈ 𝑙𝑝 e che, inoltre, 𝑇 è la somma della serie di partenza. Per poter raggiungere questo ultimo obiettivo, abbiamo bisogno di una stima. Per ogni 𝜀 > 0, esiste un indice 𝑗𝜀 tale che, per ogni 𝑗 > 𝑗𝜀 , si ha ∞
∑ 𝑛=𝑗
‖𝑆𝑛 ‖𝑝 < 𝜀.
Quindi, ripetendo i passaggi precedenti (si tratta solo di sommare da 𝑗 all’infinito invece che da 0 all’infinito), si ottiene +∞
+∞
𝑝
∞
𝑝
|𝑆 (𝑖)| ≤ ( ‖𝑆𝑛 ‖𝑝 ) < 𝜀𝑝 . ∑(∑ 𝑘 ) ∑ 𝑖=0
𝑘=𝑗
D’altra parte, per ogni indice 𝑖, si ha
da cui
𝑛=𝑗
(4.25)
𝑗−1 | | | +∞ | +∞ |𝑇 (𝑖) − 𝑆𝑘 (𝑖)| = | 𝑆𝑘 (𝑖)| ≤ |𝑆𝑘 (𝑖)|, ∑ || || ||∑ || ∑ 𝑘=𝑗 𝑘=𝑗 𝑘=0
𝑗−1 +∞ | 𝑗−1 +∞ +∞ ‖ ‖ | 𝑝 𝑝 ‖𝑇 − ‖ | | 𝑆𝑘 = 𝑇 (𝑖) − 𝑆𝑘 (𝑖) ≤ |𝑆 (𝑖)| 𝑘 ) 0, esiste 𝑗𝜀 tale che, per ogni 𝑗 > 𝑗𝜀 , si ha 𝑗−1 ‖ ‖ ‖𝑇 − 𝑆𝑘 ‖ < 𝜀. ∑ ‖ ‖ ‖ ‖𝑝 𝑘=0
(4.26)
4.4. Completezza negli spazi normati
190
Per 𝜀 = 1, fissiamo un 𝑚 > 𝑗1 e sia 𝑅 la successione 𝑅 ∶= 𝑆1 + ⋯ + 𝑆𝑚 ∈ 𝑙𝑝 . Ricordiamo anche la disuguaglianza elementare (𝑎 + 𝑏)𝑝 ≤ 2𝑝 (𝑎𝑝 + 𝑏𝑝 ), per ogni 𝑎, 𝑏 ≥ 0. 6 Si ha pertanto +∞
∑ 𝑖=0
|𝑇 (𝑖)|𝑝 ≤ 2𝑝
= 2 ‖𝑇 𝑝
𝑝 − 𝑅‖𝑝
+∞
∑ 𝑖=0
|𝑇 (𝑖) − 𝑅(𝑖)|𝑝 + 2𝑝
+2
𝑝
𝑝 ‖𝑅‖𝑝
0, si ha (𝑎 + 𝑏)𝑝 ≤ (2𝑏)𝑝 = 2𝑝 𝑏𝑝 ≤ 2𝑝 (𝑎𝑝 + 𝑏𝑝 ).
4.4. Completezza negli spazi normati
191
Procedendo come nell’Esempio 4.29, si ricava l’espressione del prodotto scalare in (𝐶(𝐼), ‖⋅‖2 ) e 𝑙2 . Con ovvio significato dei simboli, si ottiene ⟨(𝑎𝑛 )𝑛 , (𝑏𝑛 )𝑛 ⟩2 =
+∞
∑ 𝑛=0
𝑎𝑛 𝑏𝑛 ;
⟨𝑓 , 𝑔⟩2 =
∫ 𝑎
𝑏
𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥) 𝑑𝑥.
◁
Teorema 4.81. Gli spazi 𝑙𝑝 , con 1 ≤ 𝑝 < +∞, sono tutti sottospazi di 𝑐0 e quindi di 𝑙∞ . Inoltre, da 1 ≤ 𝑝 < 𝑞 segue che 𝑙𝑝 è un sottospazio di 𝑙𝑞 .
Dimostrazione. Le prime affermazioni sono ovvie. Fissiamo due indici 𝑝 e 𝑞, con 1 ≤ 𝑝 < 𝑞. Sia 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ 𝑙𝑝 ; risulta dunque convergente la serie 𝑝 𝑝 ∑+∞ 𝑛=0 |𝑎𝑛 | . Ne viene che il termine generale |𝑎𝑛 | è infinitesimo e, pertanto, definitivamente minore di 1. Si ha quindi definitivamente anche |𝑎𝑛 |𝑞 ≤ |𝑎𝑛 |𝑝 . 𝑞 Per il Criterio del confronto, converge anche la serie ∑+∞ 𝑛=0 |𝑎𝑛 | . Esempio 4.82. Mostriamo con esempi che tutte le precedenti inclusioni son strette. Fissiamo un 𝑝 ≥ 1. La successione (1/(𝑛 + 1)1/𝑝 )𝑛 appartiene a 𝑙𝑞 per ogni 𝑞 > 𝑝, ma non appartiene a 𝑙𝑝 . La successione (1/ log(𝑛 + 2))𝑛 appartiene a 𝑐0 ma non appartiene ad alcun 𝑙𝑝 (con 1 ≤ 𝑝 < +∞). ◁ Osserviamo ancora che, a differenza di quanto accade in ℝ𝑛 in cui tutte le norme 𝑝-ime sono equivalenti e rendono lo spazio completo, nel caso degli spazi di successioni, le norme 𝑝-ime sono a due a due non equivalenti e l’unica norma 𝑞-ima che rende completo lo spazio 𝑙𝑝 è proprio la norma 𝑝-ima. Sia 𝑝 < 𝑞. Essendo 𝑙𝑝 ⊂ 𝑙𝑞 , non si può dotare 𝑙𝑞 della norma ‖⋅‖𝑝 . Teorema 4.83 (Incompletezza di (𝑙𝑝 , ‖⋅‖𝑞 )). Fissiamo 𝑝, 𝑞 ∈ [1, +∞], con 𝑝 < 𝑞. Nello spazio vettoriale 𝑙𝑝 , la norma 𝑞-ima è strettamente meno fine di quella 𝑝-ima e, inoltre, lo spazio (𝑙𝑝 , ‖⋅‖𝑞 ) non è completo.
Dimostrazione. Sia 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ 𝑙𝑝 e poniamo 𝑏𝑛 ∶= |𝑎𝑛 |/‖𝑆‖𝑝 . Chiaramente, 𝑝 si ha 𝑏𝑛 ≤ 1, ∀𝑛 e, inoltre, ∑+∞ 𝑛=0 𝑏𝑛 = 1. Da 0 ≤ 𝑏𝑛 ≤ 1, segue immediatamente che ‖(𝑏𝑛 )𝑛 ‖∞ ≤ 1 e quindi ‖𝑆‖∞ ≤ ‖𝑆‖𝑝 . Se è 𝑞 > 𝑝, con 𝑞 finito, si ottiene 1=
per cui si ha
+∞
𝑝 𝑏 ∑ 𝑛 𝑛=0
≥
+∞
𝑞 𝑏 ∑ 𝑛 𝑛=0
‖𝑆‖𝑞 ≤ ‖𝑆‖𝑝 ,
=
‖𝑆‖𝑞 𝑞
𝑞,
‖𝑆‖𝑝
∀𝑆 ∈ 𝑙𝑝 .
Si è così dimostrato che la norma 𝑞-ima è meno fine di quella 𝑝-ima. Per verificare che è strettamente meno fine, basta trovare una successione (𝑆𝑘 )𝑘 , con 𝑆𝑘 ∈ 𝑙𝑝 , ∀𝑘 convergente alla successione nulla nella norma 𝑞-ima, ma non
4.4. Completezza negli spazi normati
192
in quella 𝑝-ima. A tale scopo, per ogni 𝑘 ∈ ℕ, sia 𝑆𝑘 ∈ 𝑙𝑝 la successione di termine generale 𝑆𝑘 (𝑛) definito come segue 𝑆𝑘 (𝑛) ∶=
𝑘−1/𝑝 , per 𝑘 ≤ 𝑛 < 2𝑘, altrimenti. {0,
Per ogni 𝑘, si ha subito ‖𝑆𝑘 ‖𝑝 = 1. D’altra parte, passando alla norma 𝑞-ima, 𝑞 con 𝑞 ∈ ℝ, si ottiene ‖𝑆𝑘 ‖𝑞 = 𝑘 ⋅ 𝑘−𝑞/𝑝 e quindi ‖𝑆𝑘 ‖𝑞 = 𝑘(𝑝−𝑞)/𝑝𝑞 che tende a 0 per 𝑘 → +∞, essendo 𝑞 > 𝑝. Basta poi osservare che è ‖𝑆𝑘 ‖∞ = 𝑘−1/𝑝 → 0 per 𝑘 → ∞. Resta da verificare che lo spazio (𝑙𝑝 , ‖⋅‖𝑞 ) non è completo. A tal fine, produciamo nello spazio 𝑙𝑝 una successione (𝑆𝑘 )𝑘 che sia di Cauchy rispetto alla norma 𝑞-ima, ma non converga a un elemento di 𝑙𝑝 rispetto alla norma 𝑞-ima. Se 𝑞 ∈ ℝ, poniamo 𝛼 ∶= 2/(𝑝 + 𝑞); per ogni 𝑘 ∈ ℕ, sia 𝑆𝑘 ∈ 𝑙𝑝 la successione di termine generale 𝑆𝑘 (𝑛) definito come segue 𝑆𝑘 (𝑛) ∶=
(1 + 𝑛)−𝛼 , per 0 ≤ 𝑛 ≤ 𝑘, per 𝑛 > 𝑘. {0,
Consideriamo anche la successione 𝑆 di termine generale 𝑆(𝑛) ∶= 1/(𝑛 + 1)𝛼 . 𝑞 2𝑞/(𝑝+𝑞) Questa appartiene a 𝑙𝑞 , ma non a 𝑙𝑝 . Infatti, si ha ‖𝑆‖𝑞 = ∑+∞ < 𝑘=0 1/(1+𝑛) +∞ 2𝑝/(𝑝+𝑞) +∞, mentre risulta ∑𝑘=0 1/(1 + 𝑛) = +∞. Inoltre, per ogni 𝑘, si ottiene ‖𝑆
𝑞 − 𝑆𝑘 ‖𝑞
=
+∞
1 , ∑ (1 + 𝑛)2𝑞/(𝑝+𝑞) 𝑛=𝑘+1
che tende a 0 al divergere di 𝑘, visto che si tratta di un resto della serie 2𝑞/(𝑝+𝑞) convergente ∑+∞ . 𝑘=0 1/(1 + 𝑛) Se è 𝑞 = ∞, sia 𝑆𝑘 ∈ 𝑙𝑝 la successione di termine generale 𝑆𝑘 (𝑛) definito come segue 1/ log(2 + 𝑛), per 0 ≤ 𝑛 ≤ 𝑘, 𝑆𝑘 (𝑛) ∶= per 𝑛 > 𝑘. {0,
Consideriamo poi la successione 𝑆 di termine generale 𝑆(𝑛) ∶= 1/ log(2 + 𝑛). Questa appartiene a 𝑙∞ , ma non appartiene a 𝑙𝑝 . Inoltre, per ogni 𝑘, si ottiene ‖𝑆 − 𝑆𝑘 ‖∞ =
1 , log(3 + 𝑘)
che tende a 0 al divergere di 𝑘. In ogni caso, si conclude che la successione (𝑆𝑘 )𝑘 è di Cauchy in 𝑙𝑞 ma non converge (nella norma 𝑞-ima) a un elemento di 𝑙𝑝 . Mostriamo con un esempio che esistono norme inconfrontabili, definite su uno spazio vettoriale di dimensione infinita, per nessuna delle quali lo spazio è completo.
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
193
Esempio 4.84. Sia 𝑋 uno spazio vettoriale di dimensione infinita ma numerabile e sia {e1 , … , e𝑛 , … } una sua base. In 𝑋 introduciamo le due norme, fra loro inconfrontabili dell’Osservazione 4.54. Constatiamo che nessuna di queste due norme rende 𝑋 completo. Partiamo dalla norma ‖⋅‖1 . Per ogni 𝑛 > 0 sia x𝑛 ∶= (𝑥𝑛,𝑘 )𝑘 il vettore di coordinate 𝑥𝑛,𝑘 ∶= 1/2𝑘−1 per 1 ≤ 𝑘 ≤ 𝑛, e 𝑥𝑛,𝑘 ∶= 0 per 𝑘 > 𝑛. La successione (x𝑛 )𝑛 è di Cauchy. Infatti, per 𝑛 < 𝑚, si ha ‖x𝑛 − x𝑚 ‖1 =
1 1 1 + + ⋯ + 𝑚−1 , 2𝑛 2𝑛+1 2
che è un tratto di una serie geometrica di ragione 1/2. La tesi segue dalla convergenza di questa serie. Per 𝑛 → ∞, la successione convergerebbe ad un vettore con infinite componenti non nulle e che quindi non appartiene a 𝑋. Veniamo alla seconda norma. Per ogni 𝑛 > 0 sia ora x𝑛 ∶= (𝑦𝑛,𝑘 )𝑘 il vettore di coordinate 𝑦𝑛,2𝑘−1 ∶= 𝑘/2𝑘−1 per 1 ≤ 2𝑘 − 1 ≤ 𝑛, e 𝑥𝑛,𝑘 ∶= 0 altrimenti. Poi si procede seguendo lo stesso ragionamento del caso precedente. ◁
4.5 Il Teorema della Mappa aperta
Ricordiamo (cfr. Definizione 1.68) che un sottoinsieme 𝐸 di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) (in particolare uno spazio metrico (𝑋, 𝑑)) è detto ovunque non denso (nowhere dense) se si ha int cl 𝐸 = ∅. In particolare, un sottoinsieme chiuso 𝐶 di 𝑋 è ovunque non denso se è int 𝐶 = ∅. Il termine ovunque non denso deriva al fato che, come si constata facilmente, un sottoinsieme 𝐹 di 𝑋 è ovunque non denso se e solo se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni suo intorno 𝑈 , 𝑈 ∩ 𝐹 non è denso in 𝑈 .
Definizione 4.85. Un sottoinsieme 𝐸 di uno spazio metrico 𝑋 è detto di prima categoria (nel senso di Baire) o magro se è unione di un’infinità numerabile di insiemi ovunque non densi. 𝐸 è detto di seconda categoria (nel senso di Baire) se non è di prima categoria. ◁ Quindi uno spazio metrico 𝑋 è di prima categoria se esiste una famiglia numerabile {𝐶𝑛 }𝑛∈ℕ di sottoinsiemi di 𝑋, con 𝐶𝑛 chiuso e con interno vuoto, per ogni 𝑛, tale che 𝑋 = ⋃𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 . Vedremo fa poco che (ℝ, 𝑑2 ), essendo completo, è di seconda categoria. Per contro, (ℚ, 𝑑2 ) è di prima categoria, dato che si ha ℚ = ⋃𝑥∈ℚ {𝑥} e i singoletti sono in ℚ insiemi chiusi con interno vuoto e quindi ovunque non densi. Osservazione 4.86. Siano 𝑋 uno spazio metrico e 𝑥 ∈ 𝑋. Chiaramente il singoletto {𝑥} è un insieme chiuso. Si tenga però presente che, se 𝑥 è isolato, {𝑥} è anche aperto e, quindi, ha interno non vuoto. ◁ Lemma 4.87. Uno spazio metrico 𝑋 è di prima categoria se e solo se esiste una famiglia numerabile di sottoinsiemi aperti e densi in 𝑋 aventi intersezione vuota.
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
194
Dimostrazione. È la versione duale della definizione. Supponiamo che 𝑋 sia di prima categoria. Si ha dunque 𝑋 = ⋃𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 , con i 𝐶𝑛 chiusi e con interno vuoto. Per ogni 𝑛, sia 𝐴𝑛 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶𝑛 . Da ⋃𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 = 𝑋, si ha subito, per de Morgan, ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 = ∅. Inoltre, da int 𝐶𝑛 = ∅, si ha int(𝑋 ⧵ 𝐴𝑛 ) = ∅, 𝑋 ⧵ cl 𝐴𝑛 = ∅, cl 𝐴𝑛 = 𝑋. Il viceversa si prova in modo analogo. Sappiamo che, per contro, il Teorema di Baire (3.62) ci dice che: Se {𝐴𝑛 }𝑛∈ℕ è una famiglia numerabile di sottoinsiemi aperti e densi in uno spazio metrico non vuoto e completo 𝑋 , allora anche ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 è un sottoinsieme denso di 𝑋 .
Esempio 4.88. Sia 𝑋 ∶= (ℝ, 𝑑2 ). Ordiniamo in successione i numeri razionali: ℚ = {𝑞0 , 𝑞1 , … , 𝑞𝑛 , … }. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝐴𝑛 ∶= ℝ ⧵ {𝑞𝑛 }. Gli 𝐴𝑛 sono chiaramente aperti e densi in ℝ. L’insieme 𝐴∞ ∶= ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 è formato dai numeri irrazionali che è ancora denso in ℝ, anche se non è più aperto. ◁
Corollario 4.89. Ogni spazio metrico non vuoto e completo (𝑋, 𝑑) è di seconda categoria. Dimostrazione. Sia {𝐴𝑛 }𝑛∈ℕ una famiglia numerabile di sottoinsiemi aperti e densi di uno spazio metrico completo 𝑋. Per il teorema di Baire, ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 è ancora denso in 𝑋 e quindi non può essere vuoto. Per il Lemma 4.87 lo spazio (𝑋, 𝑑) non può essere di prima categoria.
Dunque, in particolare, (ℝ, 𝑑2 ) è di seconda categoria. Da ciò ricaviamo un’altra dimostrazione della non numerabilità di ℝ. Supponiamo, per assurdo, che ℝ sia numerabile. È dunque ℝ = {𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 , …}. Poniamo, per ogni 𝑛, 𝐶𝑛 ∶= {𝑥𝑛 }. I 𝐶𝑛 sono chiusi e con interno vuoto e la loro riunione dà tutto ℝ, che così risulta essere di prima categoria. Anche l’insieme (ℕ, 𝑑2 ) è uno spazio metrico completo ed è, quindi di seconda categoria. Ma ℕ è numerabile. Il fatto è che, come visto nell’Osservazione 4.86, gli insiemi formati da un solo punto, in questo caso, non sono ovunque non densi. Si tenga però presente che lo stesso ℕ, pensato come sottoinsieme di ℝ diventa di prima categoria, dato che ora gli insiemi del tipo {𝑥} sono effettivamente con interno vuoto. Sia ancora 𝑋 uno spazio metrico completo (non vuoto) e si abbia 𝑋 = ⋃𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 , con i 𝐶𝑛 chiusi. Per il Corollario 4.89, 𝑋 è di seconda categoria e quindi i 𝐶𝑛 non possono essere tutti con interno vuoto. Esiste perciò almeno un 𝑛 ̂ tale che int 𝐶𝑛̂ ≠ ∅. Per avere un esempio di spazio metrico non completo che sia di seconda categoria, basta prendere 𝑋 ∶= (ℝ ⧵ {0}, 𝑑2 ), o anche 𝑋 ∶= (ℝ ⧵ ℚ, 𝑑2 ). Il seguente risultato è ricco di conseguenze. Teorema 4.90 (di Banach della mappa aperta). Siano 𝑋, 𝑌 spazi di Banach, 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 un’applicazione lineare continua e suriettiva. Allora 𝐿 è aperta.
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
195
Dimostrazione. Divideremo la dimostrazione in alcuni passi. Per prima cosa introduciamo le seguenti notazioni: 𝐵𝑋 (u, 𝑟) ∶= 𝐵(u, 𝑟) ⊆ 𝑋;
𝐵𝑋 ∶= 𝐵𝑋 (0, 1) ⊆ 𝑋,
𝐵𝑌 (w, 𝑟) ∶= 𝐵(w, 𝑟) ⊆ 𝑌 ; 𝐸 ∶= 𝐿(𝐵𝑋 ) ⊆ 𝑌 .
Osserviamo anche che 𝐵𝑋 (0, 𝑛) = 𝑛𝐵𝑋 e, per la linearità di 𝐿, 𝐿(𝐵𝑋 (0, 𝑛)) = 𝑛𝐸. Poiché 𝐿 è suriettiva, dato y ∈ 𝑌 , esiste x ∈ 𝑋 tale che 𝐿(x) = y e quindi y ∈ 𝑛𝐸, con 𝑛 > ‖x‖. Possiamo quindi concludere che è 𝑌 =
∞
⋃ 𝑛=1
𝑛𝐸.
Per il Corollario 4.89, abbiamo che esiste 𝑛 ∈ ℕ tale che int(cl 𝑛𝐸) = 𝑛 int(cl 𝐸) ≠ ∅,
da cui anche int(cl 𝐸) ≠ ∅. Esistono quindi y0 ∈ 𝑌 e 𝑟 > 0 tali che 𝐵𝑌 (y0 , 𝑟) ⊆ cl 𝐸. Da ciò segue che 𝐵𝑌 (0, 𝑟) ⊆ cl 2𝐸 = 2 cl 𝐸.
Infatti, sia w ∈ 𝑌 , con ‖w‖ < 𝑟. Poiché y0 , y0 + w ∈ 𝐵𝑌 (y0 , 𝑟), esistono due successioni (y′𝑘 )𝑘 e (y″𝑘 )𝑘 , con y′𝑘 , y″𝑘 ∈ 𝐸, tali che y′𝑘 → y0 e y″𝑘 → y0 + w. Se ora, per ogni 𝑘, prendiamo x′𝑘 , x″𝑘 ∈ 𝐵𝑋 in modo che sia 𝐿(x′𝑘 ) = y′𝑘 e 𝐿(x″𝑘 ) = y″𝑘 , abbiamo che x″𝑘 − x′𝑘 ∈ 𝐵𝑋 (0, 2) = 2𝐵𝑋 e quindi y″𝑘 − y′𝑘 ∈ 2𝐸, con y″𝑘 − y′𝑘 → w. Ponendo 𝛿 ∶= 𝑟/2, possiamo dire di aver dimostrato che nello spazio 𝑌 vale l’inclusione cl 𝐿(𝐵𝑋 ) ⊇ 𝐵𝑌 (0, 𝛿). (4.27) Il prossimo passo nella dimostrazione consisterà nel dimostrare che esiste 𝜀 < 𝛿 per cui sia 𝐿(𝐵𝑋 ) ⊇ 𝐵𝑌 (0, 𝜀). (4.28)
Osserviamo che la (4.28) è la parte cruciale del teorema. Infatti prova che l’immagine tramite 𝐿 di un’intorno dell’origine in 𝑋 è un intorno dell’origine in 𝑌 . In alcuni testi viene considerato questo risultato come enunciato del teorema. Per pervenire alla (4.28), riscriviamo la (4.27) riscalandola. Più precisamente, abbiamo che, per ogni 𝑛, si ha cl(𝐿(𝐵𝑋 (0, 1/2𝑛 ))) ⊇ 𝐵𝑌 (0, 𝛿/2𝑛 ).
Prendiamo ora un generico punto y ∈ 𝑌 , con ‖y‖ < 𝛿. Dalla (4.27) abbiamo che esiste x1 ∈ 𝐵𝑋 tale che ‖y − 𝐿(x1 )‖ < 𝛿/2. Ora l’elemento y1 ∶= y − 𝐿(x1 )
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
196
appartiene a 𝐵𝑌 (0, 𝛿/2) ⊆ cl 𝐿(𝐵𝑋 (0, 1/2)). Pertanto, esiste un x2 ∈ 𝐵𝑋 (0, 1/2) tale che ‖y1 − 𝐿(x2 )‖ < 𝛿/4. Scrivendo in altro modo, si ha ‖y1 − 𝐿(x2 )‖ = ‖y − 𝐿(x1 ) − 𝐿(x2 )‖ = ‖y − 𝐿(x1 + x2 )‖ < 𝛿/4.
Procedendo per induzione, possiamo trovare in 𝑋 una successione (x𝑛 )𝑛 , con ‖x𝑛 ‖
0 in modo che sia 𝐵𝑌 (y0 , 𝑟) ⊆ 𝐿(𝐴). Sia x0 ∈ 𝐴 tale che 𝐿(x0 ) = y0 . Poiché x0 è interno ad 𝐴, esiste un 𝜌 > 0 tale che 𝐵𝑋 (x0 , 𝜌) = x0 + 𝜌𝐵𝑋 ⊆ 𝐴. Applicando 𝐿, avremo che è 𝐿(x0 + 𝜌𝐵𝑋 ) = 𝐿(x0 ) + 𝜌𝐿(𝐵𝑋 ) = y0 + 𝜌𝐿(𝐵𝑋 ) ⊆ 𝐿(𝐴). In fine, dalla (4.28), segue immediatamente che
𝐵𝑌 (y0 , 𝜌𝜀) = y0 + 𝜌𝐵𝑌 (0, 𝜀) ⊆ y0 + 𝜌𝐿(𝐵𝑋 ) ⊆ 𝐿(𝐴).
Basterà quindi prendere 𝑟 ∶= 𝜌𝜀.
Corollario 4.91. Siano 𝑋, 𝑌 spazi di Banach, 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 un’applicazione lineare continua e biiettiva. Allora 𝐿−1 ∶ 𝑌 → 𝑋 è continua. Pertanto, ogni isomorfismo lineare e continuo fra spazi di Banach è un omeomorfismo. Come conseguenza di questo risultato, dimostriamo ora il famoso Teorema del grafico chiuso. Per facilitarne la dimostrazione, premettiamo alcune nozioni. Dati 𝑋 e 𝑌 spazi normati, si può definire (in modo canonico) 7 una norma nello spazio vettoriale prodotto cartesiano 𝑋 × 𝑌 , ponendo 7
‖(x, y)‖𝑋×𝑌 ∶= ‖x‖𝑋 + ‖y‖𝑌 .
Si veda la nota all’inizio del Paragrafo 4.3.
(4.30)
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
197
È facile dimostrare che quella ora definita è effettivamente una norma. Si può inoltre verificare che, se prendiamo una norma arbitraria ⦀⋅⦀ in ℝ2 , la posizione (x, y) ↦ ⦀(‖x‖𝑋 , ‖y‖𝑌 )⦀
definisce in 𝑋 × 𝑌 una norma equivalente a quella definita dalla (4.30). Nello stesso modo con cui si dimostra che una successione in ℝ2 è convergente se e solo se entrambe le sue componenti lo sono, si constata che (x𝑛 , y𝑛 ) → (x, y) in 𝑋 × 𝑌 se e solo se (x𝑛 → x in 𝑋) ∧ (y𝑛 → y in 𝑌 ).
Da ciò si ottiene (Esercizio!) che 𝑋 × 𝑌 è completo se e solo se lo sono 𝑋 e 𝑌 . Sia ora 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑌 un’applicazione. Com’è ben noto, il grafico di 𝜑 è l’insieme 𝒢 (𝜑) ∶= {(x, 𝜑(x)) ∶ x ∈ 𝑋} . Per come è stata definita la topologia nello spazio prodotto, 𝒢 (𝜑) è chiuso in 𝑋 × 𝑌 se e solo se vale la seguente implicazione: ((x𝑛 → x) ∧ (𝜑(x𝑛 ) → y)) ⇒ (𝜑(x) = y).
(4.31)
Dalla definizione di continuità e dalla (4.31) segue immediatamente che ogni funzione continua ha il grafico chiuso. In generale, non sussiste il viceversa. Basta pensare alla funzione 𝜑 ∶ ℝ → ℝ definita da 𝜑(𝑥) = 1/𝑥, per 𝑥 ≠ 0 e 𝜑(0) = 0. Il prossimo teorema permette di invertire la precedente affermazione nel caso in cui 𝜑 sia lineare e 𝑋, 𝑌 siano spazi di Banach. Teorema 4.92 (del grafico chiuso). Un’applicazione lineare fra spazi di Banach è continua se e solo se il suo grafico è chiuso.
Dimostrazione. Per quanto premesso, basta provare il “se”. Sia 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 un’applicazione lineare fra due spazi di Banach e assumiamo che il suo grafico 𝒢 (𝐿) sia chiuso. Consideriamo l’applicazione di proiezione 𝜋𝑋 ∶ 𝑋 × 𝑌 → 𝑋 che è lineare e continua. Consideriamo altresì l’insieme 𝒢 (𝐿) che è un chiuso (e quindi completo) nello spazio completo 𝑋×𝑌 . Inoltre, 𝒢 (𝐿) è un sottospazio vettoriale di 𝑋 × 𝑌 , poiché 𝐿 è lineare. Possiamo concludere che 𝒢 (𝐿) è uno spazio di Banach. L’applicazione 𝜋𝑋 ∶ 𝒢 (𝐿) → 𝑋 è lineare, continua e biiettiva. Pertanto, per il corollario precedente, la sua inversa x ↦ (x, 𝐿(x)) è continua. Per il teorema di caratterizzazione delle applicazioni lineari e continue (Lemma 4.45) esiste 𝑘 > 0 tale che ‖(x, 𝐿(x))‖𝑋×𝑌 ≤ 𝑘‖x‖𝑋 ,
∀x ∈ 𝑋.
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
198
Per come è stata definita la norma nello spazio prodotto, segue immediatamente che ‖𝐿(x)‖𝑌 ≤ 𝑘‖x‖𝑋 , ∀x ∈ 𝑋, da cui la continuità di 𝐿.
Una conseguenza del Teorema del grafico chiuso che ha varie applicazioni in Analisi Funzionale è quella espressa dal corollario che segue. Ricordiamo che, dati uno spazio vettoriale 𝑋 e un suo sottospazio 𝑈 , si chiama proiezione di 𝑋 su 𝑈 ogni applicazione lineare 𝑝 ∶ 𝑋 → 𝑈 che ristretta ad 𝑈 sia l’identità o, equivalentemente, tale che 𝑝 ∘ 𝑝 = 𝑝. Ricordiamo inoltre che, dati due sottospazi 𝑈 , 𝑉 di uno spazio vettoriale 𝑋 si dice che 𝑋 è somma diretta di 𝑈 e 𝑉 se ogni elemento x ∈ 𝑋 si può esprimere in uno e in sol modo nella forma x = u + v, con u ∈ 𝑈 e v ∈ 𝑉 . In tal caso, si scrive 𝑋 = 𝑈 ⊕ 𝑉 .
Corollario 4.93. Sia (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio si Banach. Se 𝑋 si può esprimere come somma diretta di due sottospazi chiusi 𝑈 ed 𝑉 , allora le proiezioni lineari canoniche 𝑝𝑈 ∶ 𝑋 → 𝑈 e 𝑝𝑉 ∶ 𝑋 → 𝑉 sono continue. Dimostrazione. Sia 𝑋 = 𝑈 ⊕ 𝑉 . Per definizione di proiezione, da x = u + v si ha 𝑝𝑈 (x) = 𝑝𝑈 (u + v) ∶= u e 𝑝𝑉 (x) = 𝑝𝑉 (u + v) ∶= v. Per provare la continuità delle proiezioni 𝑝𝑈 e 𝑝𝑉 mostreremo che i relativi grafici 𝒢 (𝑝𝑈 ) e 𝒢 (𝑝𝑉 ) sono sottoinsiemi (sequenzialmente) chiusi di 𝑋 × 𝑈 e, rispettivamente, di 𝑋 × 𝑉 . Sia (x𝑛 , u𝑛 )𝑛 una successione di 𝒢 (𝑝𝑈 ) convergente a un elemento (x∗ , u∗ ) ∈ 𝑋 × 𝑋. È dunque u𝑛 = 𝑝𝑈 (x𝑛 ), ∀𝑛 ∈ ℕ, u𝑛 → u∗ e x𝑛 → x∗ . Essendo 𝑈 chiuso, si ha intanto u∗ ∈ 𝑈 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia v𝑛 ∶= x𝑛 −u𝑛 ∈ 𝑋 −𝑈 = 𝑉 . La successione (v𝑛 )𝑛 converge a v∗ ∶= x∗ −u∗ ∈ 𝑉 , dato che questo è chiuso. Si ottiene x∗ = u∗ + v∗ , con u∗ ∈ 𝑈 e v∗ ∈ 𝑉 , da cui, 𝑝𝑈 (x∗ ) = 𝑝𝑈 (u∗ + v∗ ) ∶= u∗ e (x∗ , u∗ ) ∈ 𝒢 (𝑝𝑈 ). Dunque 𝒢 (𝑝𝑈 ) è chiuso. In modo analogo si prova la chiusura di 𝒢 (𝑝𝑉 ).
Senza l’ipotesi che entrambi i sottospazi 𝑈 e 𝑉 siano chiusi, il precedente risultato può cadere in difetto, come mostra il seguente esempio.
Esempio 4.94. Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio di Banach di dimensione infinita ed 𝑓 ∶ (𝑋, ‖⋅‖) → (ℝ, 𝜏𝑒 ) un funzionale lineare non continuo (cfr. Proposizione 4.46.2). Sia poi 𝑈 ∶= ker 𝑓 . Per il Teorema 4.53, il sottospazio 𝑈 non è chiuso. Fissiamo un vettore w ∈ 𝑋 ⧵ 𝑈 , da cui 𝑓 (w) =∶ 𝑚 ≠ 0. Posto 𝑉 ∶= {𝑟w ∶ 𝑟 ∈ ℝ}, si ha che 𝑋 è somma diretta dei sottospazi 𝑈 e 𝑉 . Per constatarlo, si parte da un x ∈ 𝑋 ⧵ 𝑈 , da cui 𝑓 (x) = 𝑟𝑚, per un opportuno 𝑟 ≠ 0. Si pone poi u ∶= x − 𝑟w(∈ 𝑈 ). Si conclude che è x = u + 𝑟w; si constata, in fine, che questo è l’unico modo di esprimere x come somma di un elemento di 𝑈 e uno di 𝑉 . Il lettore osservi che il sottospazio 𝑉 è banalmente chiuso. Siano 𝑝𝑈 e 𝑝𝑉 le proiezioni di 𝑋 su 𝑈 e 𝑉 rispettivamente e indichiamo con 𝐼 l’identità di 𝑋. Dalla relazione 𝐼 = 𝑝𝑈 + 𝑝𝑉 , si ottiene che 𝑝𝑈 è continua
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
199
se e solo se lo è 𝑝𝑉 . Supposte continue le proiezioni, si ha che ker 𝑞𝑉 è un sottospazio chiuso. Dato x = u + ℎw ∈ ker 𝑞𝑉 , si ha 0 = 𝑞𝑉 (x) = (𝐼 − 𝑞𝑈 )(x) = x − 𝑞𝑈 (x) = u + ℎw − u = ℎw,
da cui ℎ = 0 e x ∈ 𝑈 . Viceversa, da x ∈ 𝑈 si ha immediatamente 𝑞𝑉 (x) = 0. È dunque ker 𝑞𝑉 = ker 𝑓 . Si ottiene che anche 𝑈 deve essere chiuso, ma ciò è assurdo. ◁ Il Corollario 4.93 può essere espresso anche nella seguente versione:
Corollario 4.95. Siano 𝑋 uno spazio di Banach e 𝑈 un suo sottospazio chiuso, proprio e non banale. Allora esiste una proiezione lineare continua 𝑝 ∶ 𝑋 → 𝑈 se e solo se esiste un sottospazio chiuso 𝑉 tale che 𝑋 = 𝑈 ⊕ 𝑉 .
Dimostrazione. Basta ovviamente provare il “solo se”. Siano 𝑋, 𝑈 , 𝑝 come da enunciato e poniamo 𝑉 ∶= ker 𝑝. Essendo 𝑝 continua, 𝑉 è un sottospazio chiuso. Si ha inoltre 𝑈 ∩ 𝑉 = {0}. Infatti, da x ∈ 𝑈 ∩ 𝑉 si ha x = 𝑝(x) = 0. Per ogni x ∈ 𝑋, si ha x = (x − 𝑝(x)) + 𝑝(x). Si ottiene 𝑝(x − 𝑝(x)) = 𝑝(x) − 𝑝(𝑝(x)) = 𝑝(x) − 𝑝(x) = 0.
È dunque x = v + u, con v ∶= x − 𝑝(x) ∈ 𝑉 e u ∶= 𝑝(x) ∈ 𝑈 . Se poi è anche x = v′ + u′ , con v′ ∈ 𝑉 e u′ ∈ 𝑈 , si ha v − v′ = u′ − u ∈ 𝑉 ∩ 𝑈 , da cui v = v′ e u − u′ . Si conclude che è 𝑋 = 𝑈 ⊕ 𝑉 .
Un sottospazio chiuso 𝑈 di uno spazio di Banach che ammetta una proiezione lineare continua 𝑝 ∶ 𝑋 → 𝑈 o, equivalentemente, che ammetta un sottospazio complementare chiuso 𝑉 si dice complementato (in inglese complemented). Ritorneremo su questo argomento più avanti (cfr. Corollario 5.49 e Teorema 9.23). Vedremo, fra l’altro, che non tutti i sottospazi chiusi di uno spazio di Banach sono complementati (cfr. Corollario 9.24). Può essere interessante osservare che il Corollario del Teorema della mappa aperta 4.91 che abbiamo utilizzato per dimostrare il Teorema del grafico chiuso è in qualche modo ad esso equivalente. Supponiamo che 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 sia un’applicazione lineare continua e biiettiva, con 𝑋, 𝑌 di Banach e verifichiamo che il grafico di 𝐿−1 è chiuso. Infatti, data una successione (y𝑛 , 𝐿−1 (y𝑛 ))𝑛 = (𝐿(x𝑛 ), x𝑛 )𝑛 ∈ 𝒢 (𝐿−1 ), con y𝑛 → y e x𝑛 → x, dalla continuità di 𝐿, si ha 𝐿(x𝑛 ) → 𝐿(x) e quindi y = 𝐿(x), cioè 𝐿−1 (y) = x. Dal Teorema del grafico chiuso si ottiene immediatamente la continuità di 𝐿−1 . Riprenderemo l’argomento relativo alla continuità di una funzione e la chiusura del suo grafico nel paragrafo 7.2, dopo aver trattato il concetto di compattezza. Qui vediamo intanto un’altra applicazione del Corollario 4.91.
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
200
Corollario 4.96. Siano ‖⋅‖ e ⦀ ⋅ ⦀ due norme su uno spazio vettoriale 𝑋 che lo rendono entrambe di Banach. Se una delle due è più fine dell’altra, allora esse sono equivalenti. Dimostrazione. Per fissare le idee, supponiamo che ‖⋅‖ sia più fine di ⦀ ⋅ ⦀. Ciò significa che ogni aperto per la norma ⦀ ⋅ ⦀ è anche aperto per la norma ‖⋅‖. Possiamo allora affermare che l’applicazione identica 𝑖 ∶ (𝑋, ‖⋅‖) → (𝑋, ⦀ ⋅ ⦀) è continua. Quindi se i due spazi sono entrambi di Banach, per il Corollario 4.91, avremo che anche 𝑖−1 è continua e che le due norme sono equivalenti.
Il seguente esempio 8 mostra che in uno spazio vettoriale 𝑋 di dimensione infinita possono esistere norme non equivalenti, ciascuna delle quali rende 𝑋 di Banach.
Esempio 4.97. Sia 𝐾 ∶= [0, 1] ∪ {2} e consideriamo lo spazio vettoriale 𝑋 ∶= 𝐶(𝐾) delle funzioni continue definite su 𝐾 e a valori in ℝ. Oltre alla norma ‖⋅‖∞ , definiamo ora in 𝑋 una seconda norma ‖⋅‖𝑓 come segue. Sia 𝑎(𝑡) la funzione identicamente nulla su [0, 1] e che vale 1 per 𝑡 = 2. Sia poi 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ un’applicazione lineare (non necessariamente continua) tale che 𝑓 (𝑎) = 1. Osserviamo che una tale 𝑓 esiste sempre. Basta ricordare che ogni applicazione definita su una base di uno spazio vettoriale e a valori in un altro spazio vettoriale può essere prolungata (in modo naturale) ad un’applicazione lineare. Nel nostro caso, la funzione 𝑎(⋅) è un elemento non nullo dello spazio 𝑋 e quindi esiste una base che la contiene. La 𝑓 potrebbe quindi essere così definita: 𝑓 (𝑎) ∶= 1, dando a 𝑓 valori arbitrari sugli elementi di una base contenente 𝑎, e poi prolungando per linearità su tutto 𝑋. Per ogni 𝑢 ∈ 𝑋, poniamo: ‖𝑢(⋅)‖𝑓 ∶= ‖2𝑢(⋅) − 𝑓 (𝑢)𝑎(⋅)‖∞ .
Dal fatto che ‖𝑢(⋅)‖𝑓 è definita come la norma lagrangiana della funzione ausiliaria 2𝑢(⋅) − 𝑓 (𝑢)𝑎(⋅) e utilizzando la linearità di 𝑓 , è immediato verificare la validità delle 𝑁1, 𝑁3 e 𝑁4. Resta da controllare che da ‖𝑢(⋅)‖𝑓 = 0 segue 𝑢 = 0. Infatti, se 2𝑢(⋅) − 𝑓 (𝑢)𝑎(⋅) = 0, ricordando la definizione di 𝑎(𝑡), si ottiene 𝑢(𝑡) = 0 su tutto [0, 1] e anche 2𝑢(2) − 𝑓 (𝑢) = 0. Si constata poi che è 𝑢(𝑡) = 𝑢(2)𝑎(𝑡) (distinguere i casi 𝑡 ∈ [0, 1] e 𝑡 = 2). Applicando la 𝑓 e ricordando che è 𝑓 (𝑎) = 1, si ha 𝑓 (𝑢) = 𝑢(2). D’altra parte, sappiamo già che 2𝑢(2) = 𝑓 (𝑢). In conclusione 𝑢(2) = 2𝑢(2) = 0 e la 𝑁2 è verificata. Come prossimo passo, verifichiamo che la nuova norma rende 𝑋 completo. Sia (𝑢𝑛 )𝑛 una successione di Cauchy in (𝑋, ‖⋅‖𝑓 ). Questo significa che la successione (𝑣𝑛 )𝑛 , con 8
𝑣𝑛 (𝑡) ∶= 2𝑢𝑛 (𝑡) − 𝑓 (𝑢𝑛 )𝑎(𝑡),
𝑡 ∈ [0, 1] ∪ {2},
L’esempio è adattato da uno analogo prodotto da A.R. Villena in Proc. Amer. Mat. Soc. 129, pp 1059–60.
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
201
è di Cauchy per la norma lagrangiana. Poiché 𝑎(𝑡) è nulla in [0, 1], si ha che la successione (2𝑢𝑛 )𝑛 converge uniformemente in [0, 1] a una funzione continua che chiameremo 2𝑢∗ . Chiamiamo ancora 2𝑢∗ il prolungamento di tale funzione a [0, 1] ∪ {2} tale che 𝑢∗ (2) = 0. La successione numerica di termine generale 𝑣𝑛 (2) = 2𝑢𝑛 (2) − 𝑓 (𝑢𝑛 ) ⋅ 1
è di Cauchy in ℝ e converge a un numero 𝑘. Definiamo ora la funzione 𝑢 ̄ ∶ 𝑋 → ℝ nel seguente modo: 𝑢(𝑡) ̄ ∶= 𝑢∗ (𝑡) + 𝑐 ⋅ 𝑎(𝑡) =
𝑢∗ (𝑡), {𝑐,
per 𝑡 ∈ [0, 1], per 𝑡 = 2.
Faremo ora vedere che per una scelta opportuna di 𝑐 ∈ ℝ si ha che 𝑢𝑛 → 𝑢 ̄ rispetto alla ‖⋅‖𝑓 . Per quanto osservato in precedenza su come è definita tale norma, ciò equivale a verificare che 2𝑢𝑛 (⋅) − 𝑓 (𝑢𝑛 )𝑎(⋅) converge uniformemente a 2𝑢(⋅) ̄ − 𝑓 (𝑢)𝑎(⋅) ̄ su 𝐾. A sua volta, ciò equivale alla convergenza uniforme di 2𝑢𝑛 (⋅) a 2𝑢(⋅) ̄ su [0, 1] e alla convergenza per 𝑡 = 2, cioè alla convergenza di 𝑣𝑛 (2) = 2𝑢𝑛 (2) − 𝑓 (𝑢𝑛 ) a 2𝑢(2) ̄ − 𝑓 (𝑢). ̄ Per quanto riguarda la convergenza uniforme sull’intervallo [0, 1] la cosa è banale; infatti sappiamo già che 2𝑢𝑛 converge (uniformemente) a 2𝑢∗ e, per definizione, 𝑢 ̄ coincide con 𝑢∗ su [0, 1]. Per quanto riguarda la convergenza per 𝑡 = 2, sappiamo già che 𝑣𝑛 (2) converge al numero 𝑘. Quindi dovremo avere 𝑘 = 2𝑢(2) ̄ − 𝑓 (𝑢). ̄ Dalla definizione di 𝑢 ̄ e tenendo presente che 𝑓 (𝑢∗ ) è ben definito, poiché la funzione 𝑢∗ è stata prolungata anche in 2, si ha 𝑘 = 2𝑢(2) ̄ − 𝑓 (𝑢)̄ = 2𝑐 − 𝑓 (𝑢∗ ) − 𝑓 (𝑐 ⋅ 𝑎) = 𝑐 − 𝑓 (𝑢∗ ).
Possiamo così concludere che, scegliendo 𝑐 = 𝑘 + 𝑓 (𝑢∗ ) nella definizione di 𝑢,̄ risulta che (𝑢𝑛 )𝑛 converge a 𝑢 ̄ ∈ 𝑋 nella norma ‖⋅‖𝑓 . Faremo, in fine, vedere che, per un’opportuna scelta del funzionale lineare 𝑓 la norma ‖⋅‖𝑓 non è equivalente a quella lagrangiana. In 𝑋 consideriamo una base ℬ che contenga l’insieme di elementi linearmente indipendenti ℰ ∶= {𝑎, 𝑒1 , 𝑒2 , … , 𝑒𝑛 , … }, dove 𝑎(⋅) è la funzione già definita e, per ogni 𝑛, 𝑒𝑛 (𝑡) ∶=
𝑡𝑛 , per 𝑡 ∈ [0, 1], {0, per 𝑡 = 2.
Definiamo ora su ℬ un’applicazione 𝑓0 a valori in ℝ ponendo 𝑓0 (𝑎) = 1,
𝑓0 (𝑒𝑛 ) = 𝑛 + 1,
𝑓0 (𝑏) = 0, ∀𝑏 ∈ ℬ ⧵ ℰ .
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
202
Dall’unicità della rappresentazione degli elementi di uno spazio vettoriale come combinazione lineare degli elementi di una base (di Hamel), segue immediatamente che esiste un’applicazione lineare che prolunga 𝑓0 su 𝑋. Si verifica (Esercizio) che 𝑓 non è continua rispetto alla norma lagrangiana. Si vede subito che, per ogni 𝑛, è ‖𝑒𝑛 ‖∞ = 1. D’altra parte, si ha 2𝑒𝑛 (𝑡) − 𝑓 (𝑒𝑛 )𝑎(𝑡) =
2𝑡𝑛 , {−(𝑛 + 1),
per 𝑡 ∈ [0, 1], per 𝑡 = 2.
Quindi ‖𝑒𝑛 ‖𝑓 = 𝑛 + 1 → ∞. Ciò prova che le due norme non sono equivalenti. Si potrebbe dimostrare (Esercizio) che, se l’applicazione lineare 𝑓 è anche continua, allora le due norme sono equivalenti. Questo tipo di costruzione è stato generalizzato in vari ambiti (cfr. [36]). ◁ Il Corollario 4.96 dice che, se due norme sul medesimo spazio non sono equivalenti e rendono lo spazio completo, allora sono fra loro inconfrontabili. Ne viene che le due norme del precedente esempio sono inconfrontabili. Quindi: Se in uno spazio vettoriale 𝑋 abbiamo una norma che lo rende di Banach, allora ogni altra norma con essa confrontabile, ma non equivalente ad essa, non rende lo spazio completo. Sappiamo che 𝐶 0 ([𝑎, 𝑏]) è completo rispetto alla norma lagrangiana, ma non rispetto a una qualunque norma 𝑝-ima che è meno fine di questa. Inoltre, l’esempio 4.84 mostra che possono esistere due norme inconfrontabili su uno spazio vettoriale 𝑋 nessuna delle quali lo rende completo. Partendo dall’Esempio 4.97, si può provare che: (1) Esistono norme confrontabili, ma non equivalenti, su un medesimo insieme 𝑋 con la meno fine completa e l’altra no. (2) Esistono coppie di norme inconfrontabili su uno spazio vettoriale 𝑋 una sola delle quali lo rende completo. Esempio 4.98. Partiamo dalle due norme ‖⋅‖∞ e ‖⋅‖𝑓 dell’Esempio 4.97 e consideriamo anche la norma ‖⋅‖ ∶= ‖⋅‖∞ + ‖⋅‖𝑓 . Questa è più fine della norma infinito e non è ad essa equivalente. Per constatarlo, basta partire ancora dalle funzioni 𝑒𝑛 e dal funzionale 𝑓 a suo tempo considerati. Per il Corollario 4.84, (𝑋, ‖⋅‖) non è completo. ◁ Esempio 4.99. Partiamo ancora dallo spazio 𝑋 dell’Esempio 4.97. In esso introduciamo, oltre alla norma ‖⋅‖𝑓 , un’altra norma ‖⋅‖ definita come segue. Ad ogni 𝑢 ∈ 𝑋 associamo la funzione 𝑢 ̂ ∶ [0, 2] → ℝ espressa da: 𝑢(𝑡) ̂ ∶=
Poniamo poi
𝑢(𝑡), {𝑢(1) + (𝑢(2) − 𝑢(1))(𝑡 − 1), ‖𝑢‖ ∶= ‖𝑢‖̂ 1 =
∫ 0
2
se 𝑡 ∈ [0, 1], se 𝑡 ∈ [1, 2].
|𝑢(𝑡)| ̂ 𝑑𝑡.
4.5. Il Teorema della Mappa aperta
203
Lo spazio (𝑋, ‖⋅‖) non è completo. Per verificarlo, si procede come nel Teorema 4.73, partendo dalla successione di funzioni 𝑢𝑛 che valgono 1 in [0, 1/2], 1+𝑛/2−𝑛𝑡 in [1/2, 1/2 + 1/𝑛] e 0 altrove. Sappiamo già che (𝑋, ‖⋅‖𝑓 ) è completo. Ci resta da verificare che le due norme sono inconfrontabili. Sia ℰ ∶= {𝑎, 𝑒1 , 𝑒2 , … , 𝑒𝑛 , … 𝑣1 , 𝑣2 , … , 𝑣𝑛 , … },
dove 𝑎 è ancora la funzione che vale 0 in [0, 1] e 1 in 2 e le altre funzioni sono definite da 𝑒𝑛 (𝑡) ∶=
𝑡𝑛 , {1,
se 𝑡 ∈ [0, 1], se 𝑡 = 2;
Sia poi ℬ una base di 𝑋 contenente ℰ . Si ha subito ‖𝑎‖ =
1 ; 2
𝑣𝑛 (𝑡) ∶=
1 < ‖𝑒𝑛 ‖ < 2;
√𝑡/𝑛, {1, 𝑛
se 𝑡 ∈ [0, 1], se 𝑡 = 2.
1 < ‖𝑣𝑛 ‖ < 2. 2
Sia ora 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ il funzionale lineare definito da 𝑓 (𝑎) ∶= 1;
𝑓 (𝑒𝑛 ) ∶= 𝑛 + 1;
𝑓 (𝑣𝑛 ) ∶=
1 ; 𝑛
e prolungato per linearità a tutto 𝑋. Si ottiene 2𝑒𝑛 (𝑡) − 𝑓 (𝑒𝑛 )𝑎(𝑡) =
e
2𝑡𝑛 , {−(𝑛 + 1),
2𝑣𝑛 (𝑡) − 𝑓 (𝑣𝑛 )𝑎(𝑡) =
2√𝑡/𝑛, {−1/𝑛,
se 𝑡 ∈ [0, 1], se 𝑡 = 2;
se 𝑡 ∈ [0, 1], se 𝑡 = 2;
𝑓 (𝑏) = 0, ∀𝑏 ∈ ℬ ⧵ ℰ . ‖𝑒𝑛 ‖𝑓 = 𝑛 + 1 −−−−→ +∞ 𝑛→∞
‖𝑣𝑛 ‖𝑓 =
2 −−−−→ 0. 𝑛 𝑛→∞
Riassumiamo in uno schema quanto visto in alcuni esempi. Norme confrontabili Entrambe complete Norme equival. (Cor. 4.96, Oss. 4.39) Solo la più fine completa (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖∞ ), (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑝 ) Solo la meno fine completa Esempio 4.98 Entrambe incomplete (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑝 ), (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑞 ) Norme inconfrontabili Entrambe complete Esempio 4.97 Una completa e una no Esempio 4.99 Entrambe incomplete Esempio 4.84
◁
4.6. Principio di uniforme limitatezza
4.6
204
Principio di uniforme limitatezza
Nel paragrafo precedente si è vista un’importante applicazione del concetto di categoria di Baire agli spazi di Banach, ossia i Teoremi della mappa aperta e del grafico chiuso. In questa sezione, consideriamo una seconda applicazione che porta al Principio di uniforme limitatezza e, nel caso degli spazi di Banach, al Teorema di Banach-Steinhaus. I Teoremi di Hahn-Banach, della mappa aperta / grafico chiuso e di Banach-Steinhaus sono di solito considerati i tre risultati più importanti nella teoria degli spazi normati. Definizione 4.100. Siano 𝑋 uno spazio metrico, 𝑌 uno spazio normato e ℱ ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) non vuoto. Se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un numero reale 𝑀𝑥 > 0 tale che ‖𝑓 (𝑥)‖ ≤ 𝑀𝑥 , ∀𝑓 ∈ ℱ , si dice che ℱ è una famiglia puntualmente limitata. In particolare, se è 𝑌 = ℝ, una famiglia non vuota ℱ ⊆ 𝐶(𝑋) è puntualmente limitata se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un numero reale 𝑀𝑥 > 0 tale che |𝑓 (𝑥)| ≤ 𝑀𝑥 , ∀𝑓 ∈ ℱ . ◁ Teorema 4.101 (Principio di uniforme limitatezza). Siano 𝑋 uno spazio metrico completo e ℱ ⊆ 𝐶(𝑋) una famiglia non vuota e puntualmente limitata. Allora esistono un aperto non vuoto 𝐴 ⊆ 𝑋 e una costante 𝑀 > 0 tali che |𝑓 (𝑥)| ≤ 𝑀,
∀𝑥 ∈ 𝐴, ∀𝑓 ∈ ℱ .
Dimostrazione. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝐶𝑛 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ |𝑓 (𝑥)| ≤ 𝑛, ∀𝑓 ∈ ℱ }. Proviamo che i 𝐶𝑛 sono chiusi. Fissiamo un 𝑛 e una funzione 𝑓 ∈ ℱ . L’insieme 𝐶𝑛,𝑓 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ |𝑓 (𝑥)| ≤ 𝑛}, essendo la controimmagine dell’intevallo chiuso [−𝑛, 𝑛] mediante la funzione continua 𝑓 , è un insieme chiuso. È dunque chiuso anche 𝐶𝑛 = ⋂𝑓 ∈ℱ 𝐶𝑛,𝑓 . Fissiamo un 𝑥0 ∈ 𝑋 e chiamiamo 𝑛∗ un intero che sia maggiore o uguale del corrispondente 𝑀𝑥0 . Per ogni 𝑓 ∈ ℱ , si ha |𝑓 (𝑥0 )| ≤ 𝑀𝑥0 ≤ 𝑛∗ , da cui 𝑥0 ∈ 𝐶𝑛∗ . È dunque 𝑋 = ⋃𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 . Per ipotesi, 𝑋 è completo ed è quindi di seconda categoria. Esiste pertanto un 𝑛 ̂ ∈ ℕ tale che 𝐴 ∶= int 𝐶𝑛̂ ≠ ∅. Abbiamo così un aperto non vuoto 𝐴 e un numero reale 𝑛 ̂ tali che dato che è 𝐴 ⊂ 𝐶𝑛̂.
|𝑓 (𝑥)| ≤ 𝑛 ̂ =∶ 𝑀,
∀𝑥 ∈ 𝐴, ∀𝑓 ∈ ℱ ,
Questo teorema è ricco di conseguenze.
Teorema 4.102 (di Banach-Steinhaus). Siano 𝑋 uno spazio di Banach, 𝑌 uno spazio normato qualunque e ℱ ⊆ ℒ (𝑋, 𝑌 ) una famiglia non vuota e puntualmente limitata. Esiste allora un 𝑀 > 0 tale che ‖𝐿‖ℒ (𝑋,𝑌 ) ≤ 𝑀,
∀𝐿 ∈ ℱ ,
4.6. Principio di uniforme limitatezza
205
ossia: se, per ogni x ∈ 𝑋, è sup {‖𝐿(x)‖ ∶ 𝐿 ∈ ℱ } < ∞, allora si ha anche sup {‖𝐿‖ℒ (𝑋,𝑌 ) ∶ 𝐿 ∈ ℱ } < ∞.
Dimostrazione. Per ogni 𝐿 ∈ ℒ (𝑋, 𝑌 ), sia 𝑓𝐿 ∶ 𝑋 → ℝ la funzione definita da 𝑓𝐿 (x) ∶= ‖𝐿(x)‖. Essendo 𝑓𝐿 = ‖⋅‖ ∘ 𝐿, si ha intanto 𝑓𝐿 ∈ 𝐶(𝑋). Poniamo
ora ℱ ′ ∶= {𝑓𝐿 ∶ 𝐿 ∈ ℱ }. Per ipotesi, si ha che, per ogni x ∈ 𝑋, esiste un 𝑀x > 0 tale che ‖𝐿(x)‖ ≤ 𝑀x , ∀𝐿 ∈ ℱ . Dunque, per ogni x ∈ 𝑋, esiste un 𝑀x > 0 tale che 𝑓𝐿 (x) = |𝑓𝐿 (x)| ≤ 𝑀x , ∀𝑓𝐿 ∈ ℱ ′ . Anche la famiglia ℱ ′ è puntualmente limitata. Siamo dunque nelle ipotesi del teorema precedente. Esistono pertanto un aperto non vuoto 𝐴 ⊆ 𝑋 e un 𝑛 ̂ ∈ ℕ tali che 0 ≤ 𝑓𝐿 (x) ≤ 𝑛,̂
∀x ∈ 𝐴, ∀𝑓𝐿 ∈ ℱ ′ ,
ossia, esistono un aperto non vuoto 𝐴 ⊆ 𝑋 e un 𝑛 ̂ ∈ ℕ tali che ‖𝐿(x)‖ ≤ 𝑛,̂
∀x ∈ 𝐴, ∀𝐿 ∈ ℱ .
Fissiamo un x0 ∈ 𝐴. Essendo 𝐴 aperto, esiste un 𝑟 > 0 tale che 𝐵[x0 , 𝑟] ⊂ 𝐴. Si ha dunque ‖𝐿(x)‖ ≤ 𝑛,̂ ∀x ∈ 𝐵[x0 , 𝑟], ∀𝐿 ∈ ℱ . Ora si ha x ∈ 𝐵[x0 , 𝑟] se e solo se x−x0 ∈ 𝐵[0, 𝑟], ossia se e solo se è x−x0 = w, con ‖w‖ ≤ 𝑟, ovvero x − x0 = 𝑟y, con ‖y‖ ≤ 1. Si ottiene, per ogni y ∈ 𝐵[0, 1] e per ogni 𝐿 ∈ ℱ , 𝑛 ̂ ≥ ‖𝐿(x0 + 𝑟y)‖ = ‖𝐿(x0 ) + 𝑟𝐿(y)‖ ≥ 𝑟‖𝐿(y)‖ − ‖𝐿(x0 )‖,
da cui 𝑟‖𝐿(y)‖ ≤ 𝑛 ̂ + ‖𝐿(x0 )‖ e, quindi ‖𝐿(y)‖ ≤
𝑛 ̂ + ‖𝐿(x0 )‖ 𝑛 ̂ + 𝑀x0 ≤ =∶ 𝑀, 𝑟 𝑟
Si conclude che, per definizione di ‖𝐿‖ℒ (𝑋,𝑌 ) , è ‖𝐿‖ℒ (𝑋,𝑌 ) ≤ 𝑀,
∀y ∈ 𝐵[0, 1], ∀𝐿 ∈ ℱ .
∀𝐿 ∈ ℱ .
Vediamo qualche applicazione agli spazi duali. D’ora in avanti, per evitare inutili complicazioni, supporremo sempre che lo spazio di partenza 𝑋 sia di Banach. Ricordiamo che, qualunque sia lo spazio 𝑋, gli spazi 𝑋 ∗ e 𝑋 ∗∗ sono completi (Lemma 4.59). Se nel Teorema di Banach-Steinhaus si pone 𝑌 = ℝ, si ottiene ℒ (𝑋, 𝑌 ) = 𝑋 ∗ . Un sottoinsieme (∅ ≠)ℬ ′ ⊆ 𝑋 ∗ è puntualmente limitato se, per ogni x ∈ 𝑋, l’insieme {⟨𝐿, x⟩ ∶ 𝐿 ∈ ℬ ′ } è limitato in ℝ. Si ha così il seguente risultato: Corollario 4.103. Siano 𝑋 uno spazio di Banach e ∅ ≠ ℬ ′ ⊆ 𝑋 ∗ . Se ℬ ′ è puntualmente limitato, allora esso è limitato rispetto alla norma di 𝑋 ∗ .
4.6. Principio di uniforme limitatezza
206
Corollario 4.104. Sia 𝑋 uno spazio di Banach. Un suo sottoinsieme non vuoto ℬ è limitato in 𝑋 se e solo se, per ogni 𝐿 ∈ 𝑋 ∗ , {⟨𝐿, x⟩ ∶ x ∈ ℬ} è un sottoinsieme limitato di ℝ. Dimostrazione. 1. Sia ℬ limitato. Esiste allora 𝑅 > 0 tale che ‖x‖ ≤ 𝑅, per ogni x ∈ ℬ. Fissato ora 𝐿 ∈ 𝑋 ∗ , si ha, per ogni x ∈ ℬ, |⟨𝐿, x⟩| ≤ ‖𝐿‖ ⋅ ‖x‖ ≤ ‖𝐿‖𝑅. Dunque, per ogni 𝐿 ∈ 𝑋 ∗ , l’insieme {⟨𝐿, x⟩ ∶ x ∈ ℬ} è limitato. 2. Siano 𝐽 l’immersione canonica di 𝑋 in 𝑋 ∗∗ e ℬ ″ ∶= 𝐽 (ℬ). Sappiamo (Corollario 4.66) che la legge x(∈ 𝑋) ↦ 𝜑(x) ∈ 𝑋 ∗∗ , con ⟨𝜑(x), 𝐿⟩ ∶= ⟨𝐿, x⟩, ∀𝐿 ∈ 𝑋 ∗ è un’isometria. Per ipotesi, per ogni 𝐿 ∈ 𝑋 ∗ , l’insieme {⟨𝐿, x⟩ ∶ x ∈ ℬ} = {⟨𝜑(x), 𝐿⟩ ∶ 𝜑(x) ∈ ℬ ″ } (⊂ ℝ) è limitato. Dunque ℬ ″ è puntualmente limitato. Per il corollario precedente, in cui si prende come 𝑋 lo spazio di Banach 𝑋 ∗ , si ha che ℬ ″ è limitato. È dunque imitato anche ℬ che è ad esso isometrico.
Teorema 4.105. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi normati, con 𝑋 di Banach. Se la successione (𝐿𝑛 )𝑛 di applicazioni lineari e continue di 𝑋 in 𝑌 converge puntualmente alla funzione 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 , allora anche 𝐿 è lineare e continua; inoltre si ha ‖𝐿‖ ≤ lim inf𝑛→∞ ‖𝐿𝑛 ‖. Dimostrazione. Si vede subito che 𝐿 è lineare, in quanto limite puntuale di funzioni lineari. Proviamo che 𝐿 è anche continua. Per ogni x ∈ 𝑋, la successione (𝐿𝑛 (x))𝑛 , essendo convergente, è limitata. Per il Teorema 4.102 di Banach-Stainhaus, la successione (𝐿𝑛 )𝑛 è uniformemente limitata in norma. Esiste cioè un 𝑀 ∈ ℝ tale che ‖𝐿𝑛 ‖ ≤ 𝑀, ∀𝑛 ∈ ℕ. Ora, per ogni 𝑛 ∈ ℕ e per ogni x ∈ 𝑋, si ha ‖𝐿𝑛 (x)‖ ≤ ‖𝐿𝑛 ‖ ⋅ ‖x‖ ≤ 𝑀‖x‖, da cui ‖𝐿(x)‖ = lim𝑛→∞ ‖𝐿𝑛 (x)‖ ≤ 𝑀‖x‖. Essendo 𝐿 lineare e continua, esiste ‖𝐿‖ ed è ‖𝐿‖ ∶= min {𝑐 ∈ ℝ ∶ ‖𝐿(x)‖ ≤ 𝑐‖x‖, ∀x ∈ 𝑋} .
Ora, posto 𝜆 ∶= lim inf𝑛→∞ ‖𝐿𝑛 ‖, esiste una sottosuccessione crescente di indici (𝑛𝑘 )𝑘 tale che ‖𝐿𝑛𝑘 ‖ → 𝜆. Siccome 𝐿𝑛𝑘 (x) → 𝐿(x), ∀x ∈ 𝑋, si ha, per la continuità della norma, ‖𝐿𝑛𝑘 (x)‖ → ‖𝐿(x)‖, ∀x ∈ 𝑋. D’altra parte, sempre per ogni x ∈ 𝑋, si ha ‖𝐿𝑛𝑘 (x)‖ ≤ ‖𝐿𝑛𝑘 ‖ ⋅ ‖x‖, da cui, passando al limite, ‖𝐿(x)‖ ≤ 𝜆‖x‖. Per la definizione di ‖𝐿‖, si conclude che è ‖𝐿‖ ≤ 𝜆.
5
Convessità e spazi di Hilbert 5.1 Insiemi convessi
Abbiamo già visto nella Definizione 4.7 che un sottoinsieme 𝐸 di uno spazio vettoriale 𝑋 è detto convesso se ogni volta che contiene due punti contiene anche il segmento che li unisce. Si è anche visto nel Teorema 4.8 che in uno spazio vettoriale normato (𝑋, ‖⋅‖) le palle sono insiemi convessi. In questo capitolo vogliamo approfondire alcuni aspetti legati alla convessità, con particolare riguardo agli spazi normati, di Hilbert e ℝ𝑛 . Dalla definizione è chiaro che in uno spazio vettoriale 𝑋 ogni singoletto, ogni segmento, come pure ogni insieme del tipo 𝑝 + 𝑊 , con 𝑊 sottospazio di 𝑋, è un insieme convesso. Per ragioni di comodità, accettiamo anche che l’insieme vuoto sia convesso. È ora immediato che Lemma 5.1. In uno spazio vettoriale 𝑋, l’intersezione di insiemi convessi è ancora un insieme convesso. Inoltre, per ogni sottoinsieme 𝐸 di 𝑋, esiste un convesso, minimo rispetto all’inclusione, che lo contiene.
Dimostrazione. La prima affermazione è immediata. Per la seconda basta prendere l’intersezione di tutti i convessi che contengono 𝐸, fra i quali c’è almeno 𝑋.
Definizione 5.2. Dato un sottoinsieme 𝐸 di uno spazio vettoriale 𝑋, il minimo convesso che lo contiene è detto inviluppo o involucro convesso di 𝐸 e si indica con conv 𝐸. ◁ Ci proponiamo di dare una semplice caratterizzazione dell’inviluppo convesso di un insieme. A tale proposito, premettiamo la seguente definizione. Definizione 5.3. Dati 𝑘 ≥ 2 punti x1 , … , x𝑘 , non necessariamente tutti distinti, di uno spazio vettoriale 𝑋, si chiama loro combinazione convessa, con
207
5.1. Insiemi convessi
208
coefficienti 𝛼1 , … , 𝛼𝑘 ∈ ℝ, il vettore w ∶=
𝑘
∑ 𝑖=1
𝛼𝑖 x𝑖 ,
con 𝛼𝑖 ≥ 0, ∀𝑖, e
𝑘
∑ 𝑖=1
𝛼𝑖 = 1.
Per un insieme arbitrario (non vuoto) 𝐸 di punti di 𝑋, si chiama combinazione convessa di elementi di 𝐸 ogni combinazione convessa di un numero finito di elementi di 𝐸. ◁ Ovviamente, partendo da due punti x1 , x2 , l’insieme delle loro combinazioni convesse coincide col segmento che li unisce. Lemma 5.4. Ogni insieme convesso 𝐶 contiene le combinazioni convesse dei suoi elementi.
Dimostrazione. Dimostreremo il risultato per induzione sul numero 𝑘 degli elementi. Se 𝑘 = 2, il risultato segue dalla definizione di convessità. Supponiamo vera la tesi per 𝑘 − 1 (con 𝑘 ≥ 3) e proviamola per 𝑘. Siano x1 , … x𝑘 ∈ 𝐶 e 𝛼1 , … , 𝛼𝑘 numeri reali non negativi come dalla definizione di combinazione convessa. Dobbiamo verificare che l’elemento w ∶= ∑𝑘𝑖=1 𝛼𝑖 x𝑖 appartiene a 𝐶. Senza perdita di generalità, possiamo escludere il caso 𝛼𝑘 = 1. In tal caso possiamo esprimere l’elemento w nel seguente modo con
w = (1 − 𝛼𝑘 )y + 𝛼𝑘 x𝑘 ,
y ∶=
𝑘−1
∑ 𝑖=1
𝛼𝑖′ x𝑖 ,
per 𝛼𝑖′ ∶=
𝛼𝑖 . 1 − 𝛼𝑘
L’ipotesi induttiva assicura che y ∈ 𝐶 e, a questo punto, la tesi segue dalla convessità di 𝐶. Teorema 5.5 (Caratterizzazione degli inviluppi convessi). Per ogni sottoinsieme (non vuoto) 𝐸 di uno spazio vettoriale 𝑋 il suo inviluppo convesso conv 𝐸 coincide con l’insieme di tutte le combinazioni convesse di elementi di 𝐸.
Dimostrazione. Per prima cosa, facciamo vedere che l’insieme 𝐸 ′ delle combinazioni convesse di 𝐸 è un convesso contenente 𝐸. Che sia 𝐸 ⊆ 𝐸 ′ è ovvio: basta scrivere x = 1x + 0x, con x ∈ 𝐸. Siano w, z ∈ 𝐸 ′ . Senza perdita di generalità, possiamo assumere che i due elementi siano stati ottenuti come combinazione convessa degli stessi elementi. Supporremo quindi w ∶= ∑𝑘𝑖=1 𝛼𝑖 x𝑖 e z ∶= ∑𝑘𝑖=1 𝛽𝑖 x𝑖 e consideriamo un punto arbitrario y del segmento di estremi w e z. Si ha y = (1 − 𝑡)w + 𝑡z =
𝑘
∑ 𝑖=1
𝛾𝑖 x 𝑖 ,
con 𝛾𝑖 ∶= (1 − 𝑡)𝛼𝑖 + 𝑡𝛽𝑖 .
5.1. Insiemi convessi
209
Si vede subito che si ha 𝛾𝑖 ≥ 0, ∀𝑖 e ∑𝑘𝑖=1 𝛾𝑖 = 1. Ne segue che il segmento di estremi w e z è contenuto in 𝐸 ′ . Per il lemma precedente, si ha poi immediatamente che, se 𝐶 è un convesso contenente 𝐸, allora 𝐶 deve contenere anche 𝐸 ′ . Come si è visto, una delle proprietà fondamentali delle palle aperte [chiuse] negli spazi normati è di essere insiemi convessi. Ricordando la Proposizione 4.9.1, non sarà restrittivo concentrare ora la nostra attenzione sulla palla unitaria (aperta o chiusa) di centro l’origine. La convessità di un insieme contenente l’origine non è ovviamente sufficiente per caratterizzare le palle con centro in tale punto. Definizione 5.6. Sia 𝑋 uno spazio vettoriale. Un suo sottoinsieme non vuoto 𝐸 si dice bilanciato se 𝛼𝐸 ⊆ 𝐸, ∀𝛼 ∈ ℝ con |𝛼| ≤ 1. ◁ È immediato constatare che ogni insieme bilanciato contiene l’origine.
Osservazione 5.7. Per semplificare l’esposizione, ci siamo sempre limitati allo studio degli spazi vettoriali su ℝ. La definizione di insieme bilanciato ha senso anche nel caso degli spazi vettoriali su ℂ; in tal caso, ovviamente, |𝛼| rappresenta il modulo del numero complesso 𝛼. Bisogna anche osservare che non tutti gli Autori concordano sulla precedente definizione di insieme bilanciato. Alcuni di essi, infatti, richiedono una condizione più debole, ovvero che sia 𝛼𝐸 ⊆ 𝐸 per ogni 𝛼, con |𝛼| = 1. Ovviamente, nel caso in cui il campo dei coefficienti sia ℝ, la condizione diventerebbe −𝐸 = 𝐸 (Esercizio); ciò equivale a chiedere che 𝐸 sia simmetrico rispetto all’origine. Nel caso dei coefficienti in ℂ, la condizione diventerebbe 𝑒𝑖𝜃 𝐸 = 𝐸. Gli Autori che usano la nostra definizione danno agli insiemi che soddisfano a quest’ultima condizione il nome di circled sets ovvero insiemi a simmetria circolare. Lasciamo al lettore la semplice verifica del fatto che per un insieme convesso contenente l’origine le due definizioni sono equivalenti. ◁ La proprietà di essere convesso e bilanciato non è ancora sufficiente per caratterizzare una palla unitaria. Si pensi, per esempio, di prendere in (ℝ2 , 𝑑2 ) un segmento congiungente due punti simmetrici rispetto all’origine. Ci serve quindi un’ulteriore proprietà che, in termini intuitivi, afferma che una palla si estende in tutte le direzioni dello spazio. Questo fatto viene espresso dalla seguente definizione. Definizione 5.8. Sia 𝑋 uno spazio vettoriale. Un suo sottoinsieme non vuoto 𝐸 si dice assorbente se, per ogni x ∈ 𝑋, esiste 𝛼 > 0, tale che x ∈ 𝛼𝐸 o, equivalentemente, esiste 𝛽 > 0 tale che 𝛽x ∈ 𝐸. ◁ È immediato constatare che ogni insieme assorbente contiene l’origine. Il nome “assorbente” sta a indicare che ogni punto di 𝑋 è “assorbito”, cioè raggiunto da un’opportuna dilatazione di 𝐸.
5.1. Insiemi convessi
210
Sottolineiamo che le tre proprietà di convessità, bilanciamento e assorbimento sono fra loro a due a due indipendenti. Il lettore dia, per esercizio, esempi di sottoinsiemi del piano che soddisfano a tutte tre, a solo due, o a solo una, a nessuna di esse. Definizione 5.9. Siano 𝑋 uno spazio vettoriale e 𝐵 un suo sottoinsieme assorbente. Per ogni x ∈ 𝑋, poniamo 𝑞(x) = 𝑞𝐵 (x) ∶= inf {𝜆 > 0 ∶ x ∈ 𝜆𝐵} .
(5.1)
La funzione 𝑞 ∶ 𝑋 → [0, +∞[ così definita si chiama funzionale di Minkowski associato a 𝐵. Tale funzione è anche detta gauge o jauge di 𝐵. ◁ Per capire il significato di gauge (= calibro, termine usato per misure, per esempio nel caso delle armi da fuoco), conviene pensare al caso particolare in cui 𝐵 sia la palla aperta 𝐵(0, 1) in uno spazio normato. Per ogni x ∈ 𝑋, si ha che ‖x‖ < 𝑟 se e solo se è x ∈ 𝑟𝐵. Pertanto, in questo caso, risulterà 𝑞𝐵(0,1) (x) = ‖x‖. In generale, tuttavia, la gauge avrà proprietà di seminorma e non di norma (cfr. Definizione 4.1). Il lettore, per esempio, studi la funzione di Minkowski associata al sottoinsieme 𝐸 ∶= ] − 1, 1[ ×ℝ ⊂ ℝ2 . In questo caso, dalla definizione si ha che 𝑞𝐸 si annulla su tutti i punti dell’asse 𝑦. Per poter enunciare il teorema principale sui funzionali di Minkowski, conviene estendere le nozioni di palla aperta e palla chiusa anche al caso di una seminorma 𝜂 ∶ 𝑋 → [0, +∞[. Le palle aperta e chiusa di centro l’origine e raggio 1 saranno indicate con 𝐵𝜂 (0, 1) e, rispettivamente, con 𝐵𝜂 [0, 1]. Possiamo finalmente enunciare il seguente risultato.
Teorema 5.10 (Sul funzionale di Minkowski). Sia 𝑋 uno spazio vettoriale. 1. Per ogni seminorma 𝜂 su 𝑋, le palle 𝐵𝜂 (0, 1) e 𝐵𝜂 [0, 1] sono insiemi convessi, bilanciati e assorbenti. 2. Se 𝐵(⊆ 𝑋) è un insieme convesso, bilanciato e assorbente, esiste un’unica seminorma 𝜂 su 𝑋 tale che 𝐵𝜂 (0, 1) ⊆ 𝐵 ⊆ 𝐵𝜂 [0, 1], e questa coincide col funzionale di Minkowski 𝑞𝐵 . Dimostrazione. 1. Ci occuperemo della palla aperta; per quella chiusa si procede in modo analogo. La convessità si prova esattamente come nel caso delle norme (cfr. Teorema 4.8). La proprietà di bilanciamento, in questo caso equivalente alla simmetria, segue dal fatto che 𝜂(−x) = 𝜂(x). Verifichiamo quindi che 𝐵𝜂 (0, 1) è assorbente. Fissiamo un x ∈ 𝑋. Se è 𝜂(x) = 0 la cosa è ovvia. In caso contrario, basta prendere 0 < 𝛽 < 1/𝜂(x) e osservare che è 𝜂(𝛽x) < 1. 2. Per prima cosa, proviamo che la funzione 𝑞 = 𝑞𝐵 è una seminorma. Dalla definizione è ovvio che è 0 ≤ 𝑞(x) < ∞, ∀x ∈ 𝑋, con 𝑞(0) = 0. Fissiamo un x ∈ 𝑋 e un 𝛼 > 0 arbitrario. Si ha 𝛼x ∈ 𝜆𝐵, con 𝜆 > 0 se e solo se x ∈ 𝜆′ 𝐵, con 𝜆′ ∶= 𝜆/𝛼. Quindi l’estremo inferiore dei 𝜆 > 0 tali che 𝛼x ∈ 𝜆𝐵 coincide con l’estremo inferiore dei 𝜆′ > 0 tali che x ∈ 𝜆′ 𝐵 moltiplicato per 𝛼. In simboli: 𝑞(𝛼x) = 𝛼𝑞(x), ∀𝛼 > 0. Osservando poi che x ∈ 𝜆𝐵 se e solo se
5.1. Insiemi convessi
211
−x ∈ 𝜆𝐵 (essendo 𝐵 simmetrico), otteniamo che è 𝑞(−x) = 𝑞(x). Si conclude che è 𝑞(𝛼x) = |𝛼|𝑞(x), ∀𝛼 ∈ ℝ. Siano dati x, y ∈ 𝑋. Poiché 𝐵 è assorbente, esistono due numeri reali 𝛼 > 0 e 𝛽 > 0, e due vettori u, v ∈ 𝐵 tali che x = 𝛼u e y = 𝛽v. Dalla convessità di 𝐵 segue che x+y 𝛽 𝛼 u+ v= ∈ 𝐵. 𝛼+𝛽 𝛼+𝛽 𝛼+𝛽 Abbiamo così che x + y ∈ (𝛼 + 𝛽)𝐵 e quindi
𝑞(x + y) ≤ 𝛼 + 𝛽.
(5.2)
Ricordando che 𝑞(x) si ottiene considerando l’estremo inferiore degli 𝛼 > 0 per cui x ∈ 𝛼𝐵 e, simmetricamente, 𝑞(y) si ottiene considerando l’estremo inferiore dei 𝛽 > 0 per cui y ∈ 𝛽𝐵, dalla (5.2) si ottiene la subadditività di 𝑞. Osservando che da 𝑞(x) < 1 segue x ∈ 𝐵, si ottiene immediatamente che 𝐵𝑞 (0, 1) ⊆ 𝐵. Inoltre, da x ∈ 𝐵 segue 𝑞(x) ≤ 1 e quindi 𝐵 ⊆ 𝐵𝑞 [0, 1]. Rimane da verificare l’unicità. Supponiamo che 𝜂 ∶ 𝑋 → [0, +∞[ sia una seminorma per cui risulti 𝐵𝜂 (0, 1) ⊆ 𝐵 ⊆ 𝐵𝜂 [0, 1]. Per quanto si è appena visto sopra, seguirà che 𝐵𝑞 (0, 1) ⊆ 𝐵𝜂 [0, 1],
𝐵𝜂 (0, 1) ⊆ 𝐵𝑞 [0, 1].
Vogliamo dimostrare che 𝑞(x) = 𝜂(x), ∀x ∈ 𝑋. Supponiamo, per assurdo, che esista y ∈ 𝑋 per cui sia 𝑞(y) < 𝜂(y) e prendiamo un numero reale 𝑐 strettamente compreso fra questi due valori. Per l’elemento z ∶= y/𝑐 si ha 𝑞(z) = 𝑞(y)/𝑐 < 1 e quindi z ∈ 𝐵𝑞 (0, 1) ⊆ 𝐵𝜂 [0, 1]. Risulta pertanto 1 ≥ 𝜂(z) = 𝜂(y)/𝑐, e quindi 𝜂(y) ≤ 𝑐 < 𝜂(y), assurdo. Si è così dimostrato che è 𝑞(x) ≥ 𝜂(x), ∀x ∈ 𝑋. In modo del tutto simmetrico si dimostra la disuguaglianza opposta.
Quando può accadere che per un x ≠ 0 risulti 𝑞(x) = 0? Ciò accadrà se e solo se esiste una successione strettamente decrescente (𝜆𝑛 )𝑛 di numeri reali positivi tale che 𝜆𝑛 → 0+ e x/𝜆𝑛 ∈ 𝐵. Usando il fatto che 𝐵 è un convesso contenente l’origine, si vede immediatamente che ciò accade se e solo se 𝐵 contiene la semiretta 𝑡x con 𝑡 ≥ 0, anzi, in tal caso 𝐵 deve contenere tutta la retta, dato che è simmetrico. Possiamo così enunciare il seguente risultato. Corollario 5.11. Siano 𝑋 uno spazio vettoriale e 𝐵 un suo sottoinsieme convesso, bilanciato e assorbente. Sia inoltre 𝑞 ∶ 𝑋 → [0, +∞[ la gauge associata a 𝐵. Allora 𝑞 è una norma se e solo se 𝐵 non contiene alcun sottospazio vettoriale non triviale. Dato un insieme 𝐵 convesso, bilanciato e assorbente e detta 𝑞 la corrispondente seminorma (gauge) associata, abbiamo visto che sussiste la catena di inclusioni 𝐵𝑞 (0, 1) ⊆ 𝐵 ⊆ 𝐵𝑞 [0, 1]. (5.3)
5.1. Insiemi convessi
212
Questo risultato non può essere ulteriormente raffinato senza aggiungere opportune ipotesi sull’insieme 𝐵. Per esempio, in un qualunque spazio normato 𝑋 la palla aperta 𝐵(0, 1) e quella chiusa 𝐵[0, 1] definiscono la stessa funzione di gauge che coincide proprio con la norma di partenza.
Esempio 5.12. Prendiamo in ℝ2 gli insiemi 𝐵 ′ ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥2 + 𝑦2 < 1} ∪ {(±1, 0)} e 𝐵 ″ ∶= [−1, 1]× ] − 1, 1[. Indicate con 𝑞 ′ e 𝑞 ″ le rispettive funzioni di gauge, vediamo che 𝑞 ′ coincide con la norma euclidea, mentre 𝑞 ″ dà la norma infinito. In entrambi i casi, gli insiemi 𝐵 ′ e 𝐵 ″ sono strettamente compresi fra la corrispondente palla unitaria aperta e quella chiusa. ◁
Teorema 5.13. In uno spazio normato (𝑋, ‖⋅‖) sia dato un sottoinsieme 𝐴 contenente l’origine che risulti aperto, convesso, limitato e simmetrico. La funzione di gauge 𝑞 associata ad 𝐴 è una norma equivalente a quella di partenza per la quale 𝐴 coincide con la palla aperta unitaria di centro l’origine.
Dimostrazione. Si osservi prima di tutto che 𝐴 è assorbente. Infatti, scelto 𝑟 > 0 in modo che 𝐵[0, 𝑟] ⊆ 𝐴, è immediato constatare che, per ogni x ∈ 𝑋, si ha x ∈ 𝛼𝐵[0, 𝑟] ⊆ 𝛼𝐴 pur di scegliere un opportuno 𝛼 > 0. Inoltre, 𝐴, essendo limitato, non contiene alcun sottospazio non triviale. Per il Corollario 5.11, 𝑞 risulta essere una norma. Per verificare l’equivalenza delle due norme, procediamo come segue. Poiché 𝐴 è limitato, esiste 𝑅 > 0 tale che 𝐴 ⊆ 𝐵(0, 𝑅). Siano x ∈ 𝑋 e 𝜆 > 0 tali che x ∈ 𝜆𝐴; si ottiene ‖x‖ < 𝜆𝑅 e quindi 𝜆 > ‖x‖/𝑅. Dalla definizione di gauge, si conclude che è 𝑞(x) ≥ ‖x‖/𝑅. Scelto ora 𝑟 > 0 in modo tale che sia 𝐵[0, 𝑟] ⊆ 𝐴, dalla (5.3) si ottiene che 𝑞(x) ≤ 1, per ogni x con ‖x‖ ≤ 𝑟. Quindi si ottiene 𝑞(𝑟x/‖x‖) ≤ 1, ∀x ≠ 0. Si conclude che è 𝑞(x) ≤ ‖x‖/𝑟. Per il Teorema 4.38, le due norme sono effettivamente equivalenti. L’insieme 𝐴 che era aperto rispetto alla norma originaria, è tale anche rispetto alla norma 𝑞. La relazione (5.3) si legge ora come 𝐵𝑞 (0, 1) ⊆ 𝐴 ⊆ 𝐵𝑞 [0, 1]. Per la Proposizione 4.9.3, 𝐴, essendo aperto, deve coincidere con 𝐵𝑞 (0, 1) = int 𝐵𝑞 [0, 1]. Poiché in ℝ𝑛 e, in generale, negli spazi di dimensione finita tutte le norme sono equivalenti, ricaviamo facilmente il seguente risultato.
Corollario 5.14. 1. In ℝ𝑛 con la topologia euclidea un qualunque insieme aperto 𝐴 limitato, convesso e simmetrico rispetto a 0 è la palla aperta unitaria rispetto a una opportuna norma di ℝ𝑛 . 2. In ℝ𝑛 con la topologia euclidea un qualunque insieme 𝐷 limitato, regolarmente chiuso, convesso e simmetrico rispetto a 0 è la palla chiusa unitaria rispetto a una opportuna norma di ℝ𝑛 . Dimostrazione. La 1 segue immediatamente dal teorema precedente. Occupiamoci della 2.
5.1. Insiemi convessi
213
Si ha 𝐷 = cl(int 𝐷). L’insieme 𝐷′ ∶= int 𝐷 soddisfa a tutte le ipotesi del punto precedente e coincide quindi con la palla aperta unitaria di 0 rispetto a un’opportuna norma ‖⋅‖. Essendo questa norma equivalente a quella euclidea, la chiusura euclidea 𝐷 di 𝐷′ coincide con la chiusura di 𝐷′ nella nuova norma. D’altra parte, per il Teorema 4.9, quest’ultima coincide, nella nuova norma, con la palla chiusa unitaria di 0. Abbiamo visto che utilizzando concetti intrinseci alla struttura di spazio vettoriale, quali convessità, simmetria …, si possono definire proprietà di tipo metrico o, più precisamente, pseudometrico. Può quindi valere la pena di approfondire questo tipo di concetti considerando in modo più dettagliato le topologie dedotte dalle seminorme. Presenteremo quindi i concetti di spazio vettoriale seminormato e di spazio vettoriale topologico. Ci limiteremo comunque ad alcuni concetti di base, rimandando il lettore interessato a testi specializzati sull’argomento, quali [37], [42] e [62]. I concetti che ora esporremo potrebbero essere sviluppati anche per spazi vettoriali a coefficienti nel campo complesso, ma noi ci limiteremo, come al solito, al caso reale.
Definizione 5.15. Uno spazio vettoriale (reale) 𝑋 si dice seminormato se esiste una famiglia 𝒫 ∶= {𝑝𝛼 }𝛼∈𝐽 di seminorme tale che, se 𝑝𝛼 (x) = 0, ∀𝛼 ∈ 𝐽 , allora x = 0. Indicheremo lo spazio con (𝑋, 𝒫 ). ◁ Banalmente, ogni spazio normato è anche seminormato.
Esempio 5.16. Un esempio tipico di spazio seminormato importante per l’Analisi Matematica è lo spazio 𝐶 ∞ ([𝑎, 𝑏]) = 𝐶 ∞ ([𝑎, 𝑏], ℝ) delle funzioni reali definite su un intervallo chiuso e limitato 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏] ed ivi infinite volte de𝑘 rivabili. Possiamo descrivere tale spazio come 𝐶 ∞ (𝐼) ∶= ⋂∞ 𝑘=0 𝐶 (𝐼). In ogni 𝑘 spazio 𝐶 abbiamo una norma naturale definita da (cfr, pag. 152 nonché le Osservazioni 4.48 e 4.52) ‖𝑢‖𝑘 ∶=
𝑘
‖𝑢(𝑗) ‖∞ . ∑ 𝑗=0
Possiamo definire, in questo modo, una successione (𝑝𝑘 )𝑘 di seminorme, ponendo, per ogni 𝑘, 𝑝𝑘 (⋅) ∶= ‖⋅‖𝑘 . A pag. 228 vedremo che questo spazio non è normato, nonostante il fatto che le 𝑝𝑘 siano delle norme. ◁ Esempio 5.17. Nell’insieme 𝐶 0 (ℝ) definiamo una successione di seminorme (𝑝𝑘 )𝑘 nel seguente modo: 𝑝𝑘 (𝑢) ∶= sup {|𝑢(𝑡)| ∶ 𝑡 ∈ [−𝑘, 𝑘]} , ∀𝑢 ∈ 𝐶 0 (ℝ). Si tenga presente che le 𝑝𝑘 sono effettivamente delle seminorme, dato che da 𝑝𝑘 (𝑢) = 0 segue solo che la funzione 𝑢 si annulla su tutto l’intervallo [−𝑘, 𝑘]. Anche questo spazio non è normato (cfr. pag. 228). ◁ In uno spazio seminormato si può definire in un modo canonico una topologia che verrà introdotta mediante le basi di intorni.
5.1. Insiemi convessi
214
Definizione 5.18. Sia (𝑋, 𝒫 ), con 𝒫 ∶= {𝑝𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐾 }, uno spazio seminormato. Per ogni x ∈ 𝑋, 𝜀 > 0 e 𝐽 (⊆ 𝐾) finito, si pone 𝑈 (𝑥, 𝜀, 𝐽 ) ∶= {y ∈ 𝑋 ∶ 𝑝𝛼 (y − x) < 𝜀, ∀𝛼 ∈ 𝐽 } .
Per ogni x0 ∈ 𝑋, la famiglia degli insiemi
0 {𝑈 (x , 𝜀, 𝐽 ) ∶ (𝜀 > 0) ∧ (𝐽 (⊆ 𝐾) finito)}
costituisce una base di intorni per x0 di una topologia dello spazio seminormato che indicheremo con 𝜏𝒫 (cfr. Lemma 5.19). ◁ Lemma 5.19. Sia (𝑋, 𝒫 ), con 𝒫 ∶= {𝑝𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐾 }, uno spazio seminormato. La famiglia {𝑈 (x0 , 𝜀, 𝐽 )} sopra definita costituisce una base di intorni per x0 . La corrispondente topologia 𝜏𝒫 è di Hausdorff.
Dimostrazione. Cominciamo col provare che la famiglia {𝑈 (x0 , 𝜀, 𝐽 )} soddisfa agli assiomi delle basi di intorni (cfr. pag. 9). La 𝑈 ′ 1 è ovvia. Anche la 𝑈 ′ 2 è immediata: infatti si ha 𝑈 (x0 , 𝜀′ , 𝐽 ′ ) ∩ 𝑈 (x0 , 𝜀″ , 𝐽 ″ ) ⊇ 𝑈 (x0 , 𝜀, 𝐽 ),
con 𝜀 ∶= min{𝜀′ , 𝜀″ } e 𝐽 ∶= 𝐽 ′ ∪ 𝐽 ″ . Passiamo alla 𝑈 ′ 3. Dato y ∈ 𝑈 (x0 , 𝜀, 𝐽 ), per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 si ha 𝑝𝛼 (x0 , y) = 𝑟𝛼 < 𝜀. Posto 𝑟 ∶= min {𝜀 − 𝑟𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 }, si vede subito che è 𝑈 (y, 𝑟, 𝐽 ) ⊆ 𝑈 (x0 , 𝜀, 𝐽 ). Per provare che la topologia 𝜏𝒫 è di Hausdorff, fissiamo due punti y, z ∈ 𝑋. Per definizione di spazio seminormato, deve esistere un 𝛽 ∈ 𝐾 tale che (0 0 tale che 𝜆x ∈ 𝑈 , ∀|𝜆| < 𝛿. 5. Sia ancora 𝑈 un intorno di 0. Per la continuità della funzione prodotto per una costante, esistono un intorno aperto 𝑊 dell’origine e un numero 𝜌 > 0 tali che 𝜆x ∈ 𝑈 , ∀|𝜆| ≤ 𝜌, ∀x ∈ 𝑊 . Questa proprietà può essere anche espressa dicendo che 𝑉 ⊆ 𝑈 , con 𝑉 ∶= 𝜆𝑊 . ⋃ |𝜆|≤𝜌
Dalla definizione, è evidente che 𝑉 è bilanciato ed è anche un intorno aperto dell’origine, poiché tali sono gli insiemi 𝜆𝑊 , con 𝜆 ≠ 0. 6. Sia sempre 𝑈 un intorno di 0. Prendiamo ora un intorno dell’origine 𝑊 tale che 𝑊 − 𝑊 ∶= 𝑊 + (−𝑊 ) ⊆ 𝑈 . (Un tale 𝑊 esiste sempre; Esercizio.) Verifichiamo che cl 𝑊 ⊆ 𝑈 . Sia x ∈ cl 𝑊 arbitrario. Per la definizione di chiusura, sappiamo che ogni intorno di x ha intersezione non vuota con 𝑊 . Poiché x + 𝑊 è intorno di x, dall’essere 𝑊 ∩ (x + 𝑊 ) ≠ ∅, avremo che esistono dei punti y, z ∈ 𝑊 tali che z = x + y. Pertanto, x = z − y ∈ 𝑊 − 𝑊 ⊆ 𝑈 . 7. Indiciamo con 𝐸 l’intersezione di tutti gli intorni dell’origine. Per prima cosa, verifichiamo che 𝐸 è un sottospazio vettoriale di 𝑋. Siano quindi x, y ∈ 𝐸 e 𝛼, 𝛽 ∈ ℝ. Ci proponiamo di dimostrare che 𝛼x + 𝛽y ∈ 𝐸. Non sarà restrittivo supporre 𝛼 e 𝛽 non entrambi nulli. Sia 𝑈 un intorno arbitrario di 0 e 𝑉 un intorno bilanciato di 0 tale che 𝑉 + 𝑉 ⊆ 𝑈 . Per la 3, anche 𝜆𝑉 è un intorno dell’origine, per 𝜆 ∶= 1/(𝛼 2 + 𝛽 2 ). Dall’essere x, y ∈ 𝐸 ⊆ 𝜆𝑉 e dal fatto che |𝛼𝜆| ≤ 1, |𝛽𝜆| ≤ 1, si ha 𝛼x + 𝛽𝑦 ∈ (𝛼𝜆𝑉 ) + (𝛽𝜆𝑉 ) ⊆ 𝑉 + 𝑉 ⊆ 𝑈 .
Dall’arbitrarietà di 𝑈 si ha la tesi. Ci resta da verificare che è 𝐸 = cl{0}. Siano x ∈ 𝐸 e 𝑈 un suo intorno arbitrario che sarà quindi del tipo 𝑈 = x + 𝑊 , con 𝑊 intorno dell’origine. Poiché anche −𝑊 è un intorno dell’origine e x appartiene a 𝐸, sarà anche x ∈ −𝑊 , ossia −x ∈ 𝑊 e quindi 0 = x − x ∈ x + 𝑊 = 𝑈 . È dunque x ∈ cl{0}. Viceversa, supponiamo che sia x ∈ cl{0} e sia 𝑈 un intorno arbitrario di 0. Poiché anche −𝑈 è intorno di 0, l’insieme 𝑊 ∶= x − 𝑈 è un intorno di x. Per ipotesi, 0 ∈ 𝑊 e quindi x ∈ 𝑈 . Dall’arbitrarietà di 𝑈 segue che x ∈ 𝐸.
5.1. Insiemi convessi
217
Nella dimostrazione del precedente lemma non si è fatto uso di alcun assioma di separazione, ma solo della continuità delle operazioni di somma e prodotto. In [79] si dimostra che le prime cinque proprietà caratterizzano gli intorni dell’origine nel senso che, assegnata in 𝑋 una topologia in cui valgano tali proprietà e in cui gli intorni dei vari punti siano i traslati di quelli in 𝒰(0), allora questa è compatibile con le operazioni. Dalle proprietà 4, 5, 6 dello stesso lemma segue anche che in uno SVT l’origine ammette una base di intorni assorbenti, bilanciati e chiusi. Infatti, un qualunque intorno 𝑈 dell’origine contiene un intorno chiuso 𝑉 che, a sua volta, conterrà un intorno bilanciato 𝑊 . Ora l’insieme cl 𝑊 (⊆ 𝑉 ) è un intorno chiuso dell’origine che è anche bilanciato (Esercizio!) e assorbente ed è contenuto in 𝑈. Lemma 5.23. Siano 𝑋 uno spazio vettoriale topologico, in particolare normato, ed 𝐸 un suo sottoinsieme non vuoto e convesso. Allora sono convessi anche int 𝐸 e cl 𝐸.
Dimostrazione. 1. Dati x, y ∈ int 𝐸, esiste un intorno 𝑈 di 0 tale che x + 𝑈 e y + 𝑈 sono contenuti in 𝐸. Fissato un 𝑎 ∈ ]0, 1[, per provare che anche z ∶= 𝑎x + (1 − 𝑎)y è interno a 𝐸, basta verificare che il suo intorno 𝑉 ∶= z + 𝑈 è contenuto in 𝐸. Fissato p ∈ 𝑉 , si ha p = z + u, con u ∈ 𝑈 . Si vede subito che è p = 𝑎(x + u) + (1 − 𝑎)(y + u) ∈ 𝐸, dato che questo è convesso. 2. Siano x, y ∈ cl 𝐸 fra loro distinti. Vogliamo provare che, dato 𝑎 ∈ [0, 1], si ha z ∶= 𝑎x + (1 − 𝑎)y ∈ cl 𝐸. Fissiamo un intorno 𝑉 di z. Si ha 𝑉 ∶= z + 𝑈 , con 𝑈 intorno di 0. Esiste un intorno bilanciato 𝑈0 di 0 con 𝑈0 + 𝑈0 ⊆ 𝑈 (cfr. Lemma 5.22). Consideriamo poi gli intorni 𝑉x ∶= x + 𝑈0 di x e 𝑉y ∶= y + 𝑈0 di y. Essendo x, y ∈ cl 𝐸, esistono x′ ∈ 𝑉x ∩ 𝐸 e y′ ∈ 𝑉y ∩ 𝐸, da cui 𝑎x′ +(1−𝑎)y′ ∈ 𝐸. Ora si ha x′ = x+u0 e y′ = y+v0 , con u0 , v0 ∈ 𝑈0 . Essendo 𝑈0 bilanciato, di ha anche 𝑎u0 , (1 − 𝑎)v0 ∈ 𝑈0 , da cui 𝑎u0 + (1 − 𝑎)v0 ∈ 𝑈 e quindi z′ ∶= z + 𝑎u0 + (1 − 𝑎)v0 ∈ 𝑉 . D’altra parte, si ha z′ = z + 𝑎u0 + (1 − 𝑎)v0 = 𝑎x + (1 − 𝑎)y + 𝑎u0 + (1 − 𝑎)v0 = = 𝑎(x + u0 ) + (1 − 𝑎)(y + v0 ) = 𝑎x′ + (1 − 𝑎)y′ ∈ 𝐸.
Si conclude che è z′ ∈ 𝑉 ∩ 𝐸 e che, per l’arbitrarietà di 𝑉 , z ∈ cl 𝐸. Dal lemma precedente, si ottiene il seguente corollario (Cfr. [73]).
Corollario 5.24. Siano (𝑋, 𝜏) uno SVT ed 𝐸 un suo sottoinsieme convesso con interno non vuoto. 1. Dati x ∈ int 𝐸 e y ∈ cl 𝐸, si ha ]x, y[ ⊆ int 𝐸. 2. 𝑐𝑙𝐸 = cl(int 𝐸). 3. int 𝐸 = int(cl 𝐸). 4. Se 𝐸 è aperto, è regolarmente aperto. 5. Se 𝐸 è chiuso, è regolarmente chiuso.
5.1. Insiemi convessi
218
Dimostrazione. 1. Fissiamo 𝜆 ∈ ]0, 1[ e proviamo che 𝜆x + (1 − 𝜆)y ∈ int 𝐸. Effettuando eventualmente una traslazione (che conserva la convessità), possiamo supporre che sia 𝜆x + (1 − 𝜆)y = 0. Si ottiene y = 𝛼x, con 𝛼 < 0. L’applicazione 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑋 definita da 𝐿(x) = 𝛼x è un omeomorfismo; e quindi 𝐿(int 𝐸) = {𝛼u ∶ u ∈ int 𝐸} è un aperto contenente y. Siccome y ∈ cl 𝐸, nel suo intorno 𝐿(int 𝐸) cadono punti di 𝐸. Si ottiene che esiste z ∈ int 𝐸 tale che 𝛼z ∈ 𝐸. Posto 𝜇 ∶= 𝛼/(𝛼 − 1), si ottiene 𝜇 ∈ ]0, 1[ e 𝜇z + (1 − 𝜇)𝛼z = 0. Anche l’applicazione definita da w ↦ 𝜇w + (1 − 𝜇)𝛼z è un omeomorfismo di 𝑋 in sé. Quindi l’insieme 𝑈 ∶= {𝜇w + (1 − 𝜇)𝛼z ∶ w ∈ int 𝐸} è un intorno aperto di 0, dato che muta z in 0. Essendo w ∈ int 𝐸 e 𝛼z ∈ 𝐸, e dato che 𝐸 è convesso, si conclude che è 𝑈 ⊆ 𝐸 e che quindi 0 ∈ int 𝐸. 2. Si ha banalmente cl(int 𝐸) ⊆ cl 𝐸. Dato y ∈ cl 𝐸, fissiamo un x ∈ int 𝐸. Per il punto 1, si ha ]x, y[ ∈ int 𝐸, da cui y ∈ cl(int 𝐸). 3. Si ha banalmente int 𝐸 ⊆ int(cl 𝐸). Fissiamo ora un elemento di int(cl 𝐸) e proviamo che esso appartiene a int 𝐸. Non è restrittivo supporre che questo elemento sia 0. Esiste un intorno 𝑉 di 0, che possiamo assumere bilanciato, contenuto in cl 𝐸. Per il punto 2, si ha 𝑉 ⊆ cl(int 𝐸). Esiste pertanto un y ∈ int 𝐸∩𝑉 . Essendo 𝑉 bilanciato, si ha −y ∈ 𝑉 ⊆ cl 𝐸. Si ha quindi y ∈ int 𝐸 e −y ∈ cl 𝐸. Per il punto 1, si conclude che è 0 = (1/2)y + (1/2)(−y) ∈ int 𝐸. 3. Se 𝐸 è aperto, per il punto 3 si ha 𝐸 = int 𝐸 = int(cl 𝐸). 4. Se 𝐸 è chiuso, per il punto 2 si ha 𝐸 = cl 𝐸 = cl(int 𝐸). Un’altra proprietà che vale in generale, senza richiedere alcun assioma di separazione è la seguente analoga a quella del Lemma 4.45. Lemma 5.25. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi vettoriali topologici. lineare 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 è continua se (e solo se) è tale in 0.
Un’applicazione
Dimostrazione. Ovviamente basta provare il “se”. Fissato z ∈ 𝑋, sia 𝑉 un intorno di 𝐿(z). È dunque 𝑉 = 𝐿(z) + 𝑉0 , con 𝑉0 intorno di 0 ∈ 𝑌 . Per la continuità di 𝐿 in 0, esiste un intorno 𝑈0 di 0 in 𝑋 tale che 𝐿(𝑈0 ) ⊆ 𝑉0 , da cui 𝐿(z + 𝑈0 ) = 𝐿(z) + 𝐿(𝑈0 ) ⊆ 𝐿(z) + 𝑉0 = 𝑉 . L’insieme 𝑈 ∶= z + 𝑈0 è un intorno di z per cui è 𝐿(𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Per quanto riguarda gli assiomi di separazione, il Lemma 5.22 può essere completato dalla seguente proprietà:
Teorema 5.26. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio vettoriale dotato di una topologia compatibile con le operazioni di somma e prodotto. Allora 𝜏 è di Hausdorff se (e solo se) {0} è chiuso e se (e solo se) 𝑋 è 𝑇0 . Dimostrazione. 1. Supponiamo che, dato x ≠ 0, esista un intorno 𝑉 di x che non contiene l’origine. Sappiamo che è 𝑉 = x + 𝑈 , con 𝑈 intorno di 0. Per la Proposizione 5.22.5, 𝑈 contiene un intorno 𝑈 ′ bilanciato. Se fosse x ∈ 𝑈 ′ ,
5.1. Insiemi convessi
219
si avrebbe anche −x ∈ 𝑈 ′ , da cui 0 = x + (−x) ∈ (x + 𝑈 ′ ) ⊆ 𝑉 . Ne viene che esiste un intorno di 0 che non contiene x. 1 2. Se {0} è chiuso, 𝑋 ⧵ {0} è un aperto. Quindi, per ogni x ≠ 0, esiste un intorno di x che non contiene 0. Per il punto 1 esiste anche un intorno dell’origine che non contiene x. Se 𝑋 è 𝑇0 , fissiamo un x ≠ 0. Tenuto conto del punto 1, si ha ancora che esiste un intorno dell’origine che non contiene x. Quindi sia nel caso che {0} sia chiuso, sia nel caso che 𝑋 sia 𝑇0 , per ogni x ≠ 0, esiste un intorno dell’origine che non contiene x. 3. Siano ora p, q ∈ 𝑋, con p ≠ q. Per quanto appena visto, esiste un intorno 𝑈 dell’origine che non contiene p − q(≠ 0). Si ottiene che 𝑉 ∶= q + 𝑈 è un intorno di q che non contiene p. Si conclude intanto che 𝑋 è 𝑇1 . 4. Siano ancora p, q ∈ 𝑋, con p ≠ q e 𝑈 un intorno dell’origine che non contiene p − q. Esiste un intorno bilanciato 𝑉 dell’origine tale che 𝑉 + 𝑉 ⊆ 𝑈 . Potremo anche scrivere 𝑉 − 𝑉 ⊆ 𝑈 , dato che 𝑉 = −𝑉 (𝑉 è bilanciato). Verificando che gli intorni (di p e q rispettivamente) p + 𝑉 e q + 𝑉 sono fra loro disgiunti. Supponiamo, per assurdo, che esista y ∈ (p + 𝑉 ) ∩ (q + 𝑉 ). Ciò equivale a dire che esistono dei punti u, v ∈ 𝑉 tali che y = p + u = q + v.
Ma allora si ha p − q = v − u ∈ 𝑉 − 𝑉 ⊆ 𝑈 , contro la scelta di 𝑈 . A questo punto, mettendo assieme quest’ultima osservazione con la Proposizione 5.22.6 e il Teorema 1.91, si ha il seguente Corollario 5.27. Ogni spazio vettoriale dotato di una topologia compatibile con le operazioni, è regolare se (e solo se) è 𝑇0 . Ne viene che nella Definizione 5.20 la condizione che lo spazio sia di Hausdorff implica che lo spazio è anche regolare. Nel Capitolo 8, daremo un esempio di SVT di Hausdorff non normale (cfr. Corollario 8.31).
Vogliamo ora stabilire alcuni risultati che riguardano le relazioni fra spazi seminormati e spazi vettoriali topologici. Cominciamo con il seguente
Teorema 5.28. Ogni spazio seminormato (𝑋, 𝜏𝒫 ), con 𝒫 ∶= {𝑝𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐾 }, è uno spazio vettoriale topologico localmente convesso. Ciò vale dunque, in particolare, per gli spazi normati.
Dimostrazione. Dal Lemma 5.19 sappiamo che 𝜏𝒫 è di Hausdorff. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 × 𝑋 → 𝑋 la funzione somma. Dati x0 , y0 ∈ 𝑋 e posto z0 ∶= x0 + y0 = 𝑓 (x0 , y0 ), consideriamo un intorno aperto 𝑈 ∶= 𝑈 (z0 , 𝜀, 𝐽 ) di z0 . Posto ora 𝑊 ∶= 𝑈 (x0 , 𝜀/2, 𝐽 ) × 𝑈 (y0 , 𝜀/2, 𝐽 ),
1 Si osservi che non è detto che sia x ∉ 𝑈 . In ℝ: siano x ∶= 1 e 𝑉 ∶= ℝ ⧵ {0}; si ottiene 𝑈 = ℝ ⧵ {−1} che contiene 1.
5.1. Insiemi convessi
220
risulta, per definizione di topologia prodotto che 𝑊 è un intorno di (x0 , y0 ). Verifichiamo che 𝑓 (𝑊 ) ⊆ 𝑈 . Infatti, data una seminorma 𝑝𝛼 , con 𝛼 ∈ 𝐽 , e per ogni (x, y) ∈ 𝑊 , si ha 𝑝𝛼 (𝑓 (x, y) − z0 ) = 𝑝𝛼 (x − x0 + y − y0 ) ≤ 𝑝𝛼 (x − x0 ) + 𝑝𝛼 (y − y0 ) < 𝜀.
Per l’arbitrarietà di 𝛼 ∈ 𝐽 si ha la continuità di 𝑓 . Sia ora 𝑔 ∶ ℝ × 𝑋 → 𝑋 la funzione prodotto. Dati 𝑟0 ∈ ℝ e x0 ∈ 𝑋 e posto 0 z ∶= 𝑟0 x0 = 𝑔(𝑟0 , x0 ), consideriamo un intorno aperto 𝑈 ∶= 𝑈 (z0 , 𝜀, 𝐽 ) di z0 . Posto ora 𝑊 ∶= ]𝑟0 − 𝛿, 𝑟0 + 𝛿[ ×𝑈 (x0 , 𝜀′ , 𝐽 ), risulta, per definizione di topologia prodotto che 𝑊 è un intorno di (𝑟0 , x0 ). Verifichiamo che, per un’opportuna scelta di 𝛿 ≤ 1 e di 𝜀′ , si ha 𝑓 (𝑊 ) ⊆ 𝑈 . Infatti, data una seminorma 𝑝𝛼 , con 𝛼 ∈ 𝐽 , e per ogni (𝑟, x) ∈ 𝑊 , si ha 𝑝𝛼 (𝑔(𝑟, x) − z0 ) = 𝑝𝛼 (𝑟x − 𝑟0 x0 ) = 𝑝𝛼 (𝑟x − 𝑟x0 + 𝑟x0 − 𝑟0 x0 ) ≤
≤ |𝑟|𝑝𝛼 (x − x0 ) + |𝑟 − 𝑟0 |𝑝𝛼 (x0 ) ≤ (|𝑟0 | + 1)𝑝𝛼 (x − x0 ) + |𝑟 − 𝑟0 |𝑝𝛼 (x0 ).
Basta ora prendere 𝜀′ < 𝜀/(2|𝑟0 | + 2) e 𝛿 < 𝜀/(2𝑝𝛼 (x0 )), con 𝛿 = 1 se è 𝑝𝛼 (x0 ) = 0. Per l’arbitrarietà di 𝛼 ∈ 𝐽 si ha la continuità di 𝑔. Per concludere la dimostrazione, basta osservare che, per ogni 𝛼 ∈ 𝐾 e 𝑟 > 0, l’insieme {y ∈ 𝑋 ∶ 𝑝𝛼 (y − x) < 𝑟} è convesso (si vede come nel caso delle norme). Quindi gli intorni di base del tipo 𝑈 (x, 𝜀, 𝐽 ) sono convessi in quanto intersezioni di insiemi convessi. Esempio 5.29. Nella Definizione 4.78, abbiamo considerato gli spazi normati 𝑙𝑝 per 1 ≤ 𝑝 ≤ ∞. Sia ora 𝑝 un numero reale con 0 < 𝑝 < 1 e indichiamo sempre con 𝑙𝑝 l’insieme delle successioni 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 di numeri reali per cui 𝑝 risulta convergente la somma ∑+∞ 𝑛=0 |𝑎𝑛 | . Introduciamo, inoltre, la scrittura +∞
‖𝑆‖𝑝 ∶= ( |𝑎 |𝑝 ∑ 𝑛 ) 𝑛=0
1/𝑝
.
Si tenga ben presente che questa non è una norma, in quanto le corrispondenti palle unitarie non risulterebbero convesse (cfr. pag. 152). Dato un elemento 𝑆0 ∈ 𝑙𝑝 e fissato 𝜀 > 0, definiamo intorno di base di 𝑆0 l’insieme 𝑈 (𝑆0 , 𝜀) ∶= {𝑆 ∈ 𝑙𝑝 ∶ ‖𝑆 − 𝑆0 ‖𝑝 < 𝜀} .
Il lettore verifichi la validità degli assiomi 𝑈 ′ 1, 𝑈 ′ 2, 𝑈 ′ 3 delle basi di intorni (cfr. pag. 9); per l’ultimo, si sfrutti il fatto che, per 0 < 𝑝 < 1, la funzione 𝑡 ↦ 𝑡𝑝 è concava in [0, +∞[ e quindi subadditiva. Indicata con 𝜏𝑝 la topologia così generata, si ha che (𝑙𝑝 , 𝜏𝑝 ) è uno spazio vettoriale topologico non localmente convesso.
5.1. Insiemi convessi
221
La continuità del prodotto è di facile verifica usando il fatto che ‖𝛼𝑆‖𝑝 = |𝛼| ⋅ ‖𝑆‖𝑝 e viene lasciata per esercizio al lettore. Verifichiamo, invece, la continuità della somma. Fissiamo 𝑆0 , 𝑇0 ∈ 𝑙𝑝 e un 𝜀 > 0. Per 𝑆, 𝑇 ∈ 𝑙𝑝 si ha, con ovvio significato dei simboli, =
‖(𝑆 + 𝑇 ) − (𝑆0 + 𝑇0 )‖𝑝 = ‖(𝑆 − 𝑆0 ) + (𝑇 − 𝑇0 )‖𝑝 =
∞
∑ 𝑛=0
𝑝
|(𝑠𝑛 − 𝑠0𝑛 ) + (𝑡𝑛 − 𝑡0𝑛 )|𝑝 ≤
∞
∑ 𝑛=0
|𝑠𝑛 − 𝑠0𝑛 |𝑝 +
∞
∑ 𝑛=0
𝑝
|𝑡𝑛 − 𝑡0𝑛 |𝑝 .
Si noti che nelle diseguaglianze precedenti si è sfruttata ancora la subadditività della funzione 𝑡 ↦ 𝑡𝑝 in [0, +∞[. Se prendiamo ora 𝑆 e 𝑇 in modo che sia ‖𝑆 − 𝑆0 ‖𝑝 < (𝜀/2)1/𝑝 e ‖𝑇 − 𝑇0 ‖𝑝 < (𝜀/2)1/𝑝 , otteniamo ‖(𝑆 + 𝑇 ) − (𝑆0 + 𝑇0 )‖𝑝 < 𝜀. È poi facile vedere che la topologia 𝜏𝑝 è 𝑇1 e quindi 𝑇2 (si veda quanto detto subito dopo il Teorema 5.26). Per il teorema precedente, si ha quindi che (𝑙𝑝 , 𝜏𝑝 ) non è uno spazio vettoriale seminormato. Su vari testi (cfr. [42]), come esempio “classico” di SVT non localmente convesso, si considerano gli spazi 𝐿𝑝 (𝐼), con 0 < 𝑝 < 1 ed 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏] ⊂ ℝ. Come in altre occasioni (cfr. pag. 186), abbiamo preferito presentare un esempio basato su uno spazio di successioni in modo da non dover richiedere come prerequisiti alcuni risultati relativi alla misura di Lebesgue. ◁ È interessante notare che il Teorema 5.28 è invertibile. Per dimostrarlo, definiremo in uno spazio vettoriale topologico localmente convesso una famiglia di seminorme che sono delle gauge di opportuni sottoinsiemi. A tale scopo, è utile premettere il seguente risultato preliminare.
Lemma 5.30. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio vettoriale topologico localmente convesso. Allora esiste una base di intorni dell’origine costituita da insiemi aperti, convessi, bilanciati e assorbenti. Dimostrazione. Per ipotesi, esiste una base ℬ(0) di intorni aperti e convessi dell’origine. Per ogni 𝑈 ∈ ℬ(0), esiste un aperto bilanciato 𝑉 con 0 ∈ 𝑉 ⊆ 𝑈 (crf. Proposizione 5.22.5). Definito tale 𝑉 , indichiamo con 𝑉 ′ l’inviluppo convesso di 𝑉 . Dall’essere 𝑉 ⊆ 𝑈 e 𝑈 convesso, si ha anche 𝑉 ′ ⊆ 𝑈 . Inoltre anche 𝑉 ′ è bilanciato. Quindi 𝑉 ′ è un intorno convesso e bilanciato dell’origine contenuto in 𝑈 . Le stesse proprietà sono ereditate da 𝑊 ∶= int 𝑉 ′ che è un sottoinsieme aperto, bilanciato e convesso di 𝑈 contenente l’origine. L’insieme 𝑊 è anche assorbente per la continuità del prodotto. Possiamo ora concludere col seguente Teorema 5.31 (Caratterizzazione degli spazi vettoriali topologici localmente convessi). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio vettoriale topologico. Sono allora equivalenti le seguenti proprietà:
5.1. Insiemi convessi
222
1. (𝑋, 𝜏) è un SVT localmente convesso. 2. Esiste una famiglia 𝒫 si seminorme su 𝑋 tale che il corrispondente spazio seminormato (𝑋, 𝒫 ) ha la topologia 𝜏𝒫 coincidente con 𝜏.
Dimostrazione. 2 ⇒ 1. Abbiamo già visto (cfr. Teorema 5.28) che, se (𝑋, 𝒫 ) è uno spazio seminormato, allora la topologia 𝜏𝒫 rende 𝑋 un SVT localmente convesso. 1 ⇒ 2. Se (𝑋, 𝜏) è un SVT localmente convesso, per il Lemma 5.30 esiste una base ℬ(0) di intorni dell’origine costituita da insiemi aperti, convessi, bilanciati e assorbenti. Per ogni 𝑈 ∈ ℬ(0), definiamo la gauge 𝑞𝑈 (x) ∶= inf {𝜆 > 0 ∶ x ∈ 𝜆𝑈 } .
Per la Proposizione 5.10.2, la funzione 𝑞𝑈 ∶ 𝑋 → [0, +∞[ è una seminorma su 𝑋 e valgono le inclusioni {x ∈ 𝑋 ∶ 𝑞𝑈 (x) < 1} ⊆ 𝑈 ⊆ {x ∈ 𝑋 ∶ 𝑞𝑈 (x) ≤ 1} .
In conclusione, abbiamo ottenuto una famiglia di seminorme 𝒫 ∶= {𝑞𝛼 }𝛼∈𝐾 , dove, nel nostro caso, è 𝐾 ∶= ℬ(0) e 𝛼 ∶= 𝑈 , con 𝑈 un intorno di base dell’origine aperto, convesso, bilanciato e assorbente. In base alla Definizione 5.15, per poter dire che (𝑋, 𝒫 ) è uno spazio seminormato, manca da verificare che l’unico elemento che annulla tutte le 𝑞𝛼 è l’origine. Per constatare questo fatto, è sufficiente osservare che, poiché 𝜏 è 𝑇1 , per ogni y ≠ 0, esiste un 𝑈 ∈ ℬ(0) per cui 0 ∈ 𝑈 e y ∉ 𝑈 . Per tale intorno, si ha 𝑞𝑈 (y) ≥ 1(≠ 0). A questo punto, è evidente che la topologia 𝜏𝒫 coincide con 𝜏, dato che le due topologie danno gli stessi intorni dell’origine. Grazie al risultato appena visto, possiamo parlare indifferentemente di spazio seminormato o di spazio vettoriale topologico localmente convesso. Rimane da analizzare sotto quali condizioni gli spazi seminormati siano, a tutti gli effetti, degli spazi normati. Per una singola seminorma 𝑝, il fatto è ovvio (basta controllare se 𝑝 si annulla solo nell’origine). Abbiamo anche già visto quando una speciale seminorma (la gauge) è anche una norma (cfr. Corollario 5.11). Il quesito in generale, cioè per un’arbitraria famiglia 𝒫 di seminorme, non è banale ed ha un notevole interesse anche dal punto di vista delle applicazioni agli spazi di funzioni. Per esempio, è del tutto naturale chiedersi se le topologie degli spazi seminormati definiti negli Esempi 5.16 e 5.17 sono ottenibili da opportune norme. Per affrontare questa questione, è utile introdurre un concetto generale di limitatezza che coincida con quello usuale per gli spazi normati ma abbia senso anche per gli SVT. Definizione 5.32. Sia (𝑋, 𝜏) un SVT. Un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋 si dice limitato se, per ogni intorno 𝑈 dell’origine, esiste 𝜆 > 0 tale che 𝐸 ⊆ 𝜆𝑈 . ◁
5.1. Insiemi convessi
223
Ovviamente, nel caso di uno spazio normato, dato un qualunque intorno 𝑈 dell’origine, esso contiene una palla chiusa 𝐵 ∶= 𝐵[0, 𝛿]. Dire che vale l’inclusione 𝐸 ⊆ 𝜆𝐵(⊆ 𝜆𝑈 ) equivale ad affermare che 𝐸 ⊆ 𝐵[0, 𝑟], con 𝑟 ∶= 𝜆𝛿. È pertanto evidente che un insieme 𝐸 è limitato secondo la precedente definizione se e solo se lo è rispetto alla distanza dedotta dalla norma. Siamo ora in grado di enunciare il teorema che caratterizza gli SVT dotati di norma (cfr. Teorema 5.36). Siccome tale risultato utilizza il concetto di gauge, sarà tuttavia utile premettere il seguente lemma che descrive alcune proprietà delle funzioni di Minkowski in uno SVT. Lemma 5.33. Siano (𝑋, 𝜏) un SVT, 𝑊 ⊆ 𝑋 un sottoinsieme convesso, bilanciato e assorbente e 𝑞 ∶= 𝑞𝑊 la funzione di gauge associata a 𝑊 . Sussistono le seguenti proprietà: 1. int 𝑊 ⊆ 𝐵𝑞 (0, 1) ⊆ 𝑊 ⊆ 𝐵𝑞 [0, 1] ⊆ cl 𝑊 . 2. 𝑊 = 𝐵𝑞 (0, 1) se 𝑊 è aperto. 3. 𝑊 = 𝐵𝑞 [0, 1] se 𝑊 è chiuso. 4. Se 𝑞 ∶ 𝑋 → ℝ è continua, allora int 𝑊 = 𝐵𝑞 (0, 1) e 𝐵𝑞 [0, 1] = cl 𝑊 . 5. La funzione 𝑞 ∶ 𝑋 → ℝ è continua se e solo se 0 ∈ int 𝑊 .
Dimostrazione. 1. Dalla (5.3) sappiamo già che è 𝐵𝑞 (0, 1) ⊆ 𝑊 ⊆ 𝐵𝑞 [0, 1]. Dimostriamo ora la prima inclusione. Sia x ∈ int 𝑊 . Per definizione, esiste un intorno aperto 𝑈 di x tale che x ∈ 𝑈 ⊆ 𝑊 . Per la continuità della moltiplicazione per uno scalare, esiste un 𝜀 > 0 tale che 𝜆x ∈ 𝑈 , ∀𝜆 > 0, con |𝜆 − 1| < 𝜀. Quindi x ∈ (1/𝜆)𝑊 e, dalla definizione di gauge, 𝑞(x) ≤ 1/𝜆. Prendendo 1 < 𝜆 < 1 + 𝜀, otteniamo 𝑞(x) < 1 e quindi x ∈ 𝐵𝑞 (0, 1). Sia x ∈ 𝐵[0, 1]. Per definizione, si ha 𝑞(x) ≤ 1. Si consideri la successione (x𝑛 )𝑛 , con x𝑛 ∶= (1 − 1/𝑛)x. Dato che risulta 𝑞((1 − 1/𝑛)x) = (1 − 1/𝑛)𝑞(x) < 1. si ottiene x𝑛 ∈ 𝐵𝑞 (0, 1) ⊆ 𝑊 . D’altra parte, la continuità della moltiplicazione implica che (1 − 1/𝑛)x → x, da cui x ∈ cl 𝑊 . 2. Segue immediatamente dalla 1 e dal Teorema 1.32. 3. Segue immediatamente dalla 1 e dal Teorema 1.36. 4. Se 𝑞 ∶ 𝑋 → ℝ è continua, allora 𝐵𝑞 (0, 1) è un aperto, in quanto controimmagine dell’intervallo aperto ] − ∞, 1[ mediante 𝑞. Dato che, per la 1, tale aperto contiene int 𝑊 , deve coincidere con quest’ultimo. In modo del tutto analogo, la continuità di 𝑞 comporta che l’insieme 𝐵𝑞 [0, 1] è un insieme chiuso contenente 𝑊 e quindi anche la sua chiusura. 5. Abbiamo appena visto che, se 𝑞 è continua, allora si ha (0 ∈)𝐵𝑞 (0, 1) = int 𝑊 . Proviamo il viceversa. Per prima cosa, osserviamo che anche per le seminorme vale la disuguaglianza di Minkowski (Teorema 4.20), Si ha cioé: |𝑞(x) − 𝑞(y)| ≤ 𝑞(x − y),
∀x, y ∈ 𝑋.
La dimostrazione è la stessa utilizzata a suo tempo. Fissiamo ora x0 ∈ 𝑋 e verifichiamo la continuità di 𝑞 in tale punto. Per l’ultima diseguaglianza e per il fatto che gli intorni di x0 sono tutti e soli i traslati degli intorni dell’origine,
5.1. Insiemi convessi
224
basterà verificare la continuità in 0. Poiché 0 ∈ int 𝑊 ⊆ 𝐵𝑞 (0, 1), esiste un intorno aperto 𝐴 di 0 tale che 𝑞(x) < 1, ∀x ∈ 𝐴. Da ciò segue immediatamente che, per ogni 𝜀 > 0, esiste un intorno dell’origine 𝑈 ∶= 𝜀𝐴 tale che −𝜀 < 0 ≤ 𝑞(𝑢) < 𝜀, ∀𝑢 ∈ 𝑈 . A prima vista ci troviamo davanti a una contraddizione. Le gauge di insiemi convessi, bilanciati e assorbenti sono seminorme (cfr. Proposizione 5.10.2) che sono funzioni continue; qui però sembra che ci possano essere delle gauge non continue. Evidentemente la topologia dell’SVT non è quella dedotta dalla seminorma. Si tenga presente che per noi uno SVT è di Hausdorff mentre, quando una topologia deriva da una seminorma che non sia una norma, lo spazio non può essere 𝑇2 . Mostriamo con un esempio che ci sono effettivamente funzioni di gauge non continue. Esempio 5.34. Sia (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato (e quindi SVT) di dimensione infinita. In esso fissiamo una successione (e𝑛 )𝑛 di versori linearmente indipendenti. Consideriamo il funzionale lineare definito da 𝑓 (e𝑛 ) ∶= 𝑛, 𝑓 (x) ∶= 0, per ogni x che non sta nel sottospazio generato dagli e𝑛 , e poi prolungato per linearità. Questo funzionale non è continuo perché non soddisfa alla proprietà 3 del Lemma 4.45. Sia poi 𝑝 ∶ 𝑋 → ℝ+ ∪ {0} la funzione definita da 𝑝(x) ∶= |𝑓 (x)|, ∀x ∈ 𝑋. Mostriamo che anche la funzione 𝑝 non è continua in 0. Fissiamo 𝜀 ∈ ]0, 1[. Per ogni 𝛿 ∈ ]0, 1[, esiste 𝑛 > 1 tale che 1/𝑛 < 𝛿. Si ha ‖(1/𝑛)e𝑛 ‖ < 𝛿, ma 𝑝(e𝑛 /𝑛) = 1 > 𝜀. Verifichiamo che la funzione 𝑝 è una seminorma. Si ha chiaramente 𝑝(x) ≥ 0, ∀x ∈ 𝑋 e 𝑝(0) = 0. Dati x ∈ 𝑋 e 𝜆 ∈ ℝ, si ha 𝑝(𝜆x) = |𝑓 (𝜆x)| = |𝜆|𝑝(x). In fine, dati x, y ∈ 𝑋, si ha 𝑝(x+y) = |𝑓 (x+y)| = |𝑓 (x)+𝑓 (y)| ≤ |𝑓 (x)|+|𝑓 (y)| = 𝑝(x) + 𝑝(y). (Si osservi che è 𝑝(e1 + e2 − e3 ) = 0.) Sia ora 𝐵 ∶= {x ∈ 𝑋 ∶ 𝑝(x) < 1}. Per la Proposizione 5.10.1, 𝐵 è un insieme convesso, bilanciato e assorbente. Per la Proposizione 5.10.2, 𝑝 coincide con la gauge 𝑞𝐵 . ◁
Nel Capitolo 15 proveremo il seguente risultato dovuto a Tychonoff: Ogni SVT su ℝ di dimensione 𝑛 è omeomorfo/isomorfo a (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) ed è quindi, oltre che localmente convesso, uno spazio normato completo. (Cfr. Lemma 15.46). Ammesso ciò, possiamo mostrare che: Corollario 5.35. In uno spazio vettoriale topologico 𝑋 di dimensione finita 𝑛, fissiamo un insieme 𝐸 convesso, bilanciato e assorbente. Allora la gauge 𝑞 di 𝐸 è una funzione continua.
Dimostrazione. Per il Lemma 15.46, non è restrittivo supporre che il nostro SVT sia (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ). Sia poi {e1 , … , e𝑛 } la base canonica di ℝ𝑛 . Consideriamo un sottoinsieme 𝐸 ⊆ ℝ𝑛 che sia convesso, bilanciato e assorbente e diciamo 𝑞 la relativa funzione di gauge. Per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}, esiste un 𝜆𝑖 > 0 tale che ] − 𝜆𝑖 e𝑖 , 𝜆𝑖 e𝑖 [ ⊆ 𝐸. Posto 𝛿 ∶= min{𝜆1 , … , 𝜆𝑛 }, si ha ] − 𝛿e𝑖 , 𝛿e𝑖 [ ⊆ 𝐸, ∀𝑖 e
5.1. Insiemi convessi
225
quindi, per la convessità di 𝐸, l’insieme conv{𝛿e1 , … , 𝛿e𝑛 }, che coincide con la palla 𝐵1 (0, 𝛿) di (ℝ𝑛 , ‖⋅‖1 ), è contenuto in 𝐸. Siccome in ℝ𝑛 tutte le norme sono equivalenti, esiste anche una palla 𝐵2 (0, 𝑟) di (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ) contenuta in 𝐵1 (0, 𝛿) ⊆ 𝐸. Si ottiene che 0 ∈ int 𝐸. La tesi segue dalla Proposizione 5.33.5.
Teorema 5.36 (Caratterizzazione degli SVT dotati di norma). Sia (𝑋, 𝜏) un SVT. Le due seguenti condizioni sono fra loro equivalenti. 1. Esiste una norma ‖⋅‖ su 𝑋 che induce la topologia 𝜏. 2. Esiste un intorno aperto convesso e limitato dell’origine. Dimostrazione. Che da 1 segua 2 è ovvio. Proviamo il viceversa, procedendo per tappe. Per prima cosa, osserviamo che esiste un intorno 𝑊 dell’origine aperto, limitato, convesso e bilanciato. Per constatarlo è sufficiente ripetere la dimostrazione della Proposizione 5.22.5. L’insieme 𝑊 è anche assorbente per la Proposizione 5.22.4. Consideriamo ora la funzione di gauge 𝑞 ∶= 𝑞𝑊 associata all’insieme 𝑊 e verifichiamo che essa è una norma. Che 𝑞 sia una seminorma è stato già visto nella Proposizione 5.10.2. Si tratta quindi di dimostrare che 𝑞(x) > 0, ∀x ≠ 0.
Fissiamo quindi un elemento x non nullo. Poiché la topologia è 𝑇1 , esiste un intorno aperto 𝑈 dell’origine che non contiene x. Per la Proposizione 5.22.5, possiamo supporre che 𝑈 sia anche bilanciato. Dall’ipotesi che 𝑊 sia limitato segue che esiste 𝜆 > 0 tale che 𝑊 ⊆ 𝜆𝑈 . D’altra parte, essendo 𝑊 assorbente, esiste 𝜇 > 0 per cui x ∈ 𝜇𝑊 . In questo modo si ottiene x ∈ 𝜆𝜇𝑈 , ovvero x/(𝜆𝜇) ∈ 𝑈 . Se, per assurdo, fosse 𝜆𝜇 ≤ 1, avremmo x = (𝜆𝜇) ⋅ (x/(𝜆𝜇)) ∈ 𝑈 , poiché 𝑈 è bilanciato, contro il fatto che x ∉ 𝑈 . Abbiamo così verificato che è 𝜇 > 1/𝜆. Questo risultato è stato dimostrato per ogni 𝜇 tale che x ∈ 𝜇𝑊 . In conclusione, ricordando la definizione di gauge, abbiamo che 𝑞(x) = inf {𝜇 > 0 ∶ x ∈ 𝜇𝑊 } ≥ 1/𝜆 > 0.
Per concludere la dimostrazione, verifichiamo che la topologia generata dalla norma 𝑞(⋅) coincide con 𝜏. Dalla (5.3) si ha 𝐵𝑞 (0, 1) ⊆ 𝑊 ⊆ 𝐵𝑞 [0, 1]. Il fatto che 𝑊 sia un 𝜏-aperto ci permette, per la Proposizione 5.33.2, di stabilire che è 𝑊 = {x ∈ 𝑋 ∶ 𝑞(x) < 1} .
Da ciò segue immediatamente che anche l’insieme 𝑟𝑊 = {x ∈ 𝑋 ∶ 𝑞(x) < 𝑟} è un 𝜏-aperto. D’altra parte, al variare di 𝑟 > 0, otteniamo una base di intorni dell’origine per la topologia 𝜏𝑞 dedotta dalla norma. Si tratta quindi di verificare che ogni 𝜏-intorno aperto dell’origine contiene un 𝜏𝑞 -aperto del tipo 𝑟𝑊 .
5.1. Insiemi convessi
226
Sia ora 𝑈 un 𝜏-intorno aperto dell’origine. poiché l’insieme 𝑊 è limitato, esiste 𝜆 > 0 tale che 𝑊 ⊆ 𝜆𝑈 . Ma ciò equivale a dire che 𝑈 ⊇ 𝑟𝑊 , con 𝑟 ∶= 1/𝜆 > 0, da cui la tesi. Concludiamo questo paragrafo discutendo il problema della metrizzabilità per gli spazi vettoriali seminormati o, equivalentemente, per gli SVT localmente convessi. Il teorema che ci proponiamo di dimostrare afferma l’equivalenza tra la metrizzabilità della topologia e l’esistenza di una famiglia al più numerabile di seminorme che la generano. Come osservazione preliminare, notiamo che, se la famiglia di seminorme che inducono la topologia è finita, si trova una seminorma che la genera. Infatti, assumendo 𝒫 ∶= {𝑝1 , … , 𝑝𝑘 }, è facile verificare (Esercizio) che, posto 𝑝(x) ∶= max {𝑝𝑖 (x) ∶ 1 ≤ 𝑖 ≤ 𝑘} ,
∀x ∈ 𝑋.
si ottiene una seminorma che induce la topologia 𝜏𝒫 . Pertanto, il caso interessante è quando la famiglia 𝒫 è infinita. Premettiamo il seguente risultato. Lemma 5.37. Sia (𝑋, 𝒫 ) uno spazio seminormato, ottenuto a partire da una famiglia numerabile di seminorme 𝒫 ∶= {𝑝𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. Esiste allora una famiglia numerabile 𝒬 ∶= {𝑞𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} di seminorme che rende ancora lo spazio seminormato, che induce la stessa topologia e tale che, per ogni x ∈ 𝑋 la successione (𝑞𝑛 (x))𝑛 è monotona crescente (anche solo debolmente). Dimostrazione. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, poniamo
𝑞𝑛 (x) ∶= max {𝑝𝑖 (x) ∶ 0 ≤ 𝑖 ≤ 𝑛} ,
∀x ∈ 𝑋.
Come osservato precedentemente, ogni 𝑞𝑛 è una seminorma; inoltre, la famiglia 𝒬 ∶= {𝑞𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} rende 𝑋 uno spazio seminormato. Per costruzione, la successione (𝑞𝑛 (x))𝑛 è monotona crescente. Rimane da verificare che le due famiglie generano la stessa topologia. A tale scopo, ricordiamo la Definizione 5.18, secondo cui una base di intorni di x è costituita dagli insiemi del tipo 𝑈 (x, 𝜀, 𝐽 ) ∶= {y ∈ 𝑋 ∶ 𝑝𝛼 (y − x) < 𝜀, ∀𝛼 ∈ 𝐽 } ,
al variare di 𝜀 > 0 e di 𝐽 (⊂ ℕ) finito. Da tale definizione, si vede che non è restrittivo prendere 𝐽 ∶= {0, … , 𝑚}, al variare di 𝑚 ∈ ℕ. Fissati ora un 𝜀 > 0 e un insieme finito di indici 𝐽𝑚 ∶= {0, … , 𝑚}, si ha 𝑈 (x, 𝜀, 𝐽𝑚 ) = {y ∈ 𝑋 ∶ 𝑞𝑚 (y − x) < 𝜀} .
Da ciò segue immediatamente che è 𝜏𝒫 = 𝜏𝒬 .
Teorema 5.38 (Metrizzabilità degli SVT localmente convessi). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio vettoriale topologico localmente convesso. Sono allora equivalenti le seguenti affermazioni:
5.1. Insiemi convessi
227
1. (𝑋, 𝜏) è metrizzabile. 2. Esiste una famiglia numerabile 𝒫 di seminorme per cui (𝑋, 𝒫 ) è seminormato con 𝜏𝒫 = 𝜏.
Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Essendo 𝜏 metrizzabile, esiste una famiglia numerabile 𝒜 ∶= {𝐴𝑛 }𝑛∈ℕ+ di aperti convessi che costituiscono una base di intorni dell’origine. Potremo supporre gli 𝐴𝑛 ordinati in modo decrescente rispetto all’inclusione e (senza perdita di generalità, cfr. Lemmi 5.22 e 5.30) bilanciati e assorbenti. Siano, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , 𝑝𝑛 la funzione di gauge dell’insieme 𝐴𝑛 e 𝒫 ∶= {𝑝𝑛 }. Lo spazio (𝑋, 𝒫 ) è seminormato: infatti l’origine è l’unico elemento che annulla tutte le 𝑝𝑛 . Le topologie 𝜏 e 𝜏𝒫 devono coincidere visto che danno gli stessi intorni dell’origine (cfr. Teorema 5.31). 2 ⇒ 1. Sia 𝒫 ∶= {𝑝𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } una famiglia di seminorme che rendono lo spazio 𝑋 seminormato con 𝜏𝒫 = 𝜏. Grazie al Lemma 5.37, passando eventualmente a un’altra famiglia di seminorme che induca la medesima topologia, possiamo supporre 𝑝𝑛 (x) ≤ 𝑝𝑛+1 (x), ∀𝑛 ∈ ℕ+ , ∀x ∈ 𝑋. Definiamo ora una funzione 𝑑 ∶ 𝑋 × 𝑋 → ℝ+ ∪ {0} e verifichiamo che essa è una distanza in 𝑋 che genera 𝜏. Sia dunque 𝑑(x, y) ∶=
𝑝𝑛 (x − y) , ∑ 2𝑛 (1 + 𝑝𝑛 (x − y)) ∞
𝑛=1
∀x, y ∈ 𝑋.
È ovvio che è sempre 𝑑(x, y) ≥ 0 e, inoltre, 𝑑(x, y) = 0 se e solo se 𝑝𝑛 (x − y) = 0, ∀𝑛 ∈ ℕ+ e quindi se e solo se x = y. Poiché le 𝑝𝑛 sono seminorme, si ha subito anche la simmetria della funzione 𝑑. Per quanto riguarda la disuguaglianza triangolare, basta ripetere, su ogni singolo addendo, quanto visto relativamente alla normalizzazione di una distanza (cfr. Esempio 3.27). Verificato quindi che 𝑑 è una distanza, rimane da vedere che la topologia da essa generata coincide con 𝜏. Dalla definizione di questa distanza, risulta 𝑑(x, y) = 𝑑(x − y, 0),
∀x, y ∈ 𝑋,
da cui segue che gli intorni di un punto z secondo la distanza 𝑑 sono i traslati in z degli intorni dell’origine. Pertanto basterà confrontare una base di 𝜏-intorni dell’origine con le 𝑑-palle di ugual centro. Per come è definita la topologia di uno spazio seminormato, possiamo prendere come intorni di base dell’origine in 𝜏 = 𝜏𝒫 gli insiemi del tipo 𝑈𝑛,𝜀 ∶= {x ∈ 𝑋 ∶ 𝑝𝑛 (x) < 𝜀} ,
∀𝜀 > 0, ∀𝑛 ∈ ℕ+ .
Fissato 𝑟 > 0, abbiamo la palla aperta 𝐵(0, 𝑟). Prendiamo 𝑛 ∈ ℕ+ abbastanza grande affinché sia 1/2𝑛 < 𝑟 e, in fine, 𝜀 < 1/2𝑛+1 . Dimostreremo che 𝑈𝑛+1,𝜀 ⊆ 𝐵(0, 𝑟).
5.1. Insiemi convessi
228
A tal fine, sia x ∈ 𝑈𝑛+1,𝜀 . Ne segue che 𝑝1 (x) ≤ 𝑝2 (x) ≤ ⋯ ≤ 𝑝𝑛+1 (x) < 𝜀. Si ottiene 𝑑(x, 0) =
∞
𝑝𝑗 (x)
∑ 2𝑗 (1 + 𝑝𝑗 (x)) 𝑗=1
𝑛+1
∞
=
𝑝𝑗 (x)
𝑛+1
∑ 2𝑗 (1 + 𝑝𝑗 (x)) 𝑗=1 ∞
+
𝑝𝑗 (x) < ∑ 2𝑗 (1 + 𝑝𝑗 (x)) 𝑗=𝑛+2 ∞
1 1 1 1 1 1 0 in modo che risulti 𝐵(0, 𝛿) ⊆ 𝑈𝑛,𝜀 .
A tale scopo, prendiamo 𝑘 ∈ ℕ+ con 1/2𝑘 < 𝜀 e sia poi 𝑗 ∶= 𝑛 + 𝑘 + 1. Verificheremo l’ultima inclusione per 𝛿 ∶= 1/2𝑗 . Supponiamo pertanto x ∈ 𝑋 tale che 𝑑(x, 0) < 𝛿. Da ciò segue 𝑝𝑛 (x) 1 1 < = 𝑛+𝑘+1 . 2𝑛 (1 + 𝑝𝑛 (x)) 2𝑗 2
Moltiplicando per 2𝑛 e ricavando 𝑝𝑛 (x), si ottiene da cui segue x ∈ 𝑈𝑛,𝜀 .
𝑝𝑛 (x)
0 tale che 𝐴 ⊆ 𝜆𝑈 . Prendendo come intorni dell’origine gli insiemi {𝑢 ∶ ‖𝑢‖𝑘 < 1}, concludiamo che, per ogni 𝑘 ∈ ℕ, esiste una costante 𝜆𝑘 > 0 tale che ‖𝑢‖𝑘 ≤ 𝜆𝑘 , ∀𝑢 ∈ 𝐴. Il fatto che l’insieme 𝐴 sia aperto implica che esistono 𝜀 > 0 e un insieme finito 𝐽 tali che 𝑈 (0, 𝜀, 𝐽 ) ⊆ 𝐴. Posto
5.1. Insiemi convessi
229
𝑚 ∶= 1 + max 𝐽 , ne risulta che {𝑢 ∶ ‖𝑢‖𝑚 < 𝜀} ⊆ 𝐴. Consideriamo ora, per ogni 𝜇 > 1, la funzione 𝑓𝜇 ∈ 𝐶 ∞ ([𝑎, 𝑏]) definita da 𝑓𝜇 (𝑡) ∶=
𝜀 sin(𝜇(𝑡 − 𝑎)) , 2𝑚𝜇 𝑚
con 𝑡 ∈ [𝑎, 𝑏].
Ovviamente ‖𝑓𝜇 ‖∞ ≤ 𝜀/(2𝑚𝜇 𝑚 ). Da un conto elementare si vede che, per ogni
𝑘 ∈ ℕ+ il modulo della derivata 𝑓𝜇 è maggiorato da 𝜀/(2𝑚𝜇 𝑚−𝑘 ) = 𝜀𝜇 𝑘 /(2𝑚𝜇𝑚 ). Pertanto, si ha (𝑘)
‖𝑓𝜇 ‖𝑚 ≤
𝜀 𝜀 1 + 𝑚𝜇 𝑚 𝑗 𝜇 < < 𝜀. 2𝑚𝜇 𝑚 ∑ 2𝑚 𝜇𝑚 𝑗=0 𝑚
Concludiamo che 𝑓𝜇 ∈ 𝐴, ∀𝜇 > 1. D’altra parte, per quanto detto all’inizio, dovremmo avere (𝑘) ‖𝑓𝜇 ‖∞ ≤ ‖𝑓𝜇 ‖𝑘 ≤ 𝜆𝑘 , ∀𝜇 > 1,
con 𝜆𝑘 che non dipende da 𝜇. Calcolando le derivate di ordine dispari per 𝑡 = 𝑎, la disuguaglianza di sopra porta a 𝜀 (𝑘) = |𝑓𝜇 (𝑎)| ≤ 𝜆𝑘 , 𝑚−𝑘 2𝑚𝜇
∀𝜇 > 1.
Fissato 𝑘 > 𝑚 e dispari, si ha ovviamente un assurdo, dal momento che l’ultima disuguaglianza deve valere per ogni 𝜇 > 1. Basta ora far tendere 𝜇 all’infinito.◁
Avendo caratterizzato gli SVT metrizzabili, sarà naturale considerare il concetto di completezza per tali spazi. A tale proposito si considera la seguente definizione. Definizione 5.39. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio vettoriale topologico localmente convesso. Se 𝜏 proviene da una distanza 𝑑 che lo rende completo e che è invariate per traslazioni, allora lo spazio è detto di Fréchet. ◁ Ricordiamo che una distanza 𝑑 su uno spazio vettoriale 𝑋 è detta invariate per traslazioni se, quali che siano x, y, v ∈ 𝑋, si ha 𝑑(x + v, y + v) = 𝑑(x, y). Il lettore verifichi che gli spazi degli esempi 5.16 e 5.17, rispetto alle distanze naturalmente dedotte dalle rispettive famiglie di seminorme sono spazi di Fréchet. (Si tenga ben presente che non sono spazi di Banach.) Presentiamo, in fine, un altro teorema di metrizzabilità che, a differenza del Teorema 5.38, non richiede che lo spazio sia localmente convesso. Teorema 5.40 (Metrizzabilità degli SVT). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio vettoriale topologico. Sono allora equivalenti le seguenti affermazioni: 1. (𝑋, 𝜏) è metrizzabile. 2. (𝑋, 𝜏) è primo numerabile. Inoltre, se una di queste condizioni è soddisfatta, si può prendere una metrica invariate per traslazioni che genera 𝜏.
5.1. Insiemi convessi
230
Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Sussiste in generale, come visto nella Proposizione 3.31.3. 2 ⇒ 1. Per ipotesi, lo spazio topologico è 𝐴1 e quindi esiste una base numerabile di intorni dell’origine. In virtù delle Proposizioni 5.22.2 e 5.22.5, non sarà restrittivo prendere come base di intorni dell’origine una successione decrescente per inclusione (𝑈𝑛 )𝑛 di intorni aperti, bilanciati e tali che, per ogni 𝑛 ≥ 1, sia 𝑈𝑛 + 𝑈𝑛 + 𝑈𝑛 ⊆ 𝑈𝑛−1 . Supporremo, inoltre, 𝑈0 ∶= 𝑋. Poiché lo spazio è di Hausdorff, per la Proposizione 5.22.7 e il Teorema 5.26, sappiamo anche che ∞
⋂ 𝑛=1
𝑈𝑛 = {0}.
(5.4)
Introduciamo ora la seguente funzione 𝜂 ∶ 𝑋 → [0, 1] definita da 𝜂(x) ∶= inf {2−𝑛 ∶ x ∈ 𝑈𝑛 } .
Dalla definizione e dalla (5.4), è chiaro che 𝜂(x) = 0 se e solo se x è il vettore nullo. Dal fatto che gli intorni 𝑈𝑛 sono bilanciati, segue anche che 𝜂(−x) = 𝜂(x), ∀x ∈ 𝑋. Affermiamo che la funzione 𝜂 soddisfa alla seguente disuguaglianza 𝜂(x1 + ⋯ + x𝑘 ) ≤ 2(𝜂(x1 ) + ⋯ + 𝜂(x𝑘 )). (5.5) La dimostrazione di questa disuguaglianza è piuttosto laboriosa e la rimandiamo alla fine. Supponiamo quindi, per un momento, che la (5.5) sia acquisita. Definiamo ora la funzione 𝑝 ∶ 𝑋 → [0, 1] ponendo 𝑝(x) ∶= inf
𝑚
{∑ 𝑖=1
𝜂(x𝑖 ) ∶ x =
𝑚
∑ 𝑖=1
x𝑖 , 𝑚 ≥ 1
}
Dalla definizione di 𝑝 e dalle proprietà di 𝜂 si ha subito che
.
1 𝜂(x) ≤ 𝑝(x) ≤ 𝜂(x). 2
Da ciò segue immediatamente che è 𝑝(x) = 0 se e solo se x = 0. Inoltre, 𝑝(−x) = 𝑝(x), ∀x ∈ 𝑋. Si ottiene in fine che vale la disuguaglianza triangolare per la funzione 𝑝; si ha cioè 𝑝(x + y) ≤ 𝑝(x) + 𝑝(y),
∀x, y ∈ 𝑋.
Infatti, fissati x e y, per ogni 𝜀 > 0, possiamo trovare 𝑛 elementi x1 , … , x𝑛 , con x = x1 + ⋯ + x𝑛 e 𝑚 elementi y1 , … , y𝑚 , con y = y1 + ⋯ + y𝑚 , tali 𝑗 che ∑𝑛𝑖=1 𝜂(x𝑖 ) < 𝑝(x) + 𝜀 e ∑𝑚 𝑗𝑖=1 𝜂(y ) < 𝑝(y) + 𝜀. D’altra parte, 𝑝(x + y) ≤ ∑𝑛𝑖=1 𝜂(x𝑖 ) + ∑𝑚 𝑗=1 𝜂(y ). Si conclude che è 𝑝(x + y) < 𝑝(x) + 𝑝(y) + 2𝜀, da cui la tesi per l’arbitrarietà di 𝜀. 𝑗
5.1. Insiemi convessi
231
A questo punto, si pone
𝑑(x, y) ∶= 𝑝(x − y),
∀x, y ∈ 𝑋.
La funzione 𝑑 è chiaramente una distanza su 𝑋 che, per definizione, è invariate per traslazioni. Proviamo che essa genera la topologia di partenza. Come già osservato in altre occasioni, basterà verificare che la topologia originaria 𝜏 e quella 𝜏𝑑 dedotta dalla metrica hanno gli stessi intorni dell’origine. Sia 𝑉 un 𝜏-intorno dell’origine. Esso contiene un insieme del tipo 𝑈𝑛 . Prendiamo 𝑟 ∈ ]0, 1/2𝑛+1 [ e sia x ∈ 𝐵(0, 𝑟). Da 𝑝(x) < 𝑟 segue 𝜂(x) < 1/2𝑛 e quindi x ∈ 𝑈𝑛 . Ciò prova che 𝐵(0, 𝑟) ⊆ 𝑈𝑛 . Viceversa, fissato un raggio 𝑅 > 0, prendiamo 𝑚 tale che 1/2𝑚 < 𝑅. Se x ∈ 𝑈𝑚 , per definizione, si ha 𝑝(x) ≤ 𝜂(x) ≤ 1/2𝑚 e quindi x ∈ 𝐵(0, 𝑅). Ciò prova che 𝑈𝑚 ⊆ 𝐵(0, 𝑅). In questo modo il teorema è dimostrato, fatto salvo il fatto che bisogna verificare la validità della disuguaglianza (5.5). Cominciamo questa verifica con l’osservare che, presi comunque tre punti x, y, z ∈ 𝑋, si ha 𝜂(x + y + z) ≤ 2 max{𝜂(x), 𝜂(y), 𝜂(z)}.
(5.6)
Non è restrittivo supporre che sia max{𝜂(x), 𝜂(y), 𝜂(z)} = 𝜂(z). Supporremo inoltre che sia 0 < 𝜂(z) < 1; infatti i casi 𝜂(z) = 0 e 𝜂(z) = 1 sono immediati. Per come è definita la funzione 𝜂, possiamo supporre che sia 𝜂(z) = 1/2𝑚 per un opportuno 𝑚 ≥ 1. Dall’essere 𝜂(x), 𝜂(y) ≤ 1/2𝑚 , si ottiene x, y, z ∈ 𝑈𝑚 . Quindi x + y + z ∈ 𝑈𝑚 + 𝑈𝑚 + 𝑈𝑚 ⊆ 𝑈𝑚−1 e pertanto 𝜂(x + y + z) ≤ 1/2𝑚−1 = 2𝜂(z). La (5.6) è così verificata. Fatto ciò, dimostreremo la (5.5) facendo induzione su 𝑘. Per 𝑘 = 1, 2, 3 la proprietà segue banalmente dalla (5.6). Possiamo quindi supporre 𝑘 ≥ 3 e che la (5.5) sia vera per ogni 𝑗 ≤ 𝑘. Siano dati 𝑘 + 1 elementi x1 , … , x𝑘+1 ∈ 𝑋. Possiamo ancora supporre 0 < 𝜂(x𝑖 ) < 1, ∀𝑖 ≤ 𝑘 + 1 e che sia 𝜂(x1 ) ≤ 𝜂(x2 ) ≤ ⋯ ≤ 𝜂(x𝑘 ) ≤ 𝜂(x𝑘+1 ). Se esiste 𝑖 ≥ 2 tale che 𝜂(x𝑖 ) = 𝜂(x𝑖+1 ), si ha 𝜂(x𝑖−1 + x𝑖 + x𝑖+1 ) ≤ 2𝜂(x𝑖+1 ) ≤ 𝜂(x𝑖−1 ) + 𝜂(x𝑖 ) + 𝜂(x𝑖+1 ).
Sfruttando l’ipotesi induttiva si ottiene
𝜂(x1 + ⋯ + x𝑘+1 ) =
= 𝜂(x1 + ⋯ + (x𝑖−1 + x𝑖 + x𝑖+1 ) + ⋯ + x𝑘+1 ) ≤
≤ 2(𝜂(x1 ) + ⋯ + 𝜂(x𝑖−1 + x𝑖 + x𝑖+1 ) + ⋯ + 𝜂(x𝑘+1 )) ≤ ≤ 2(𝜂(x1 ) + ⋯ + 𝜂(x𝑘+1 )).
In caso contrario, si ha 𝜂(x1 ) ≤ 𝜂(x2 ) < 𝜂(x3 ) < ⋯ < 𝜂(x𝑘 ) < 𝜂(x𝑘+1 ). Per la definizione di 𝜂, esistono degli interi positivi 𝑠1 ≥ 𝑠2 > 𝑠3 > ⋯ > 𝑠𝑘 > 𝑠𝑘+1 > 0 tali che x𝑖 ∈ 𝑈𝑠𝑖 , ∀𝑖 ≤ 𝑘 + 1. Osserviamo, intanto, che gli elementi x1 , x2 , x3
5.2. Spazi di Hilbert
232
appartengono tutti a 𝑈𝑠3 e quindi la loro somma sta in 𝑈𝑠3 −1 ⊆ 𝑈𝑠4 . Si ha pertanto x1 +x2 +x3 +x4 ∈ 𝑈𝑠4 +𝑈𝑠4 ⊆ 𝑈𝑠4 −1 ⊆ 𝑈𝑠5 . In conclusione, procedendo in questo modo, si ottiene che
e, in fine, da cui
x1 + ⋯ + x𝑘 ∈ 𝑈𝑠𝑘 −1 ⊆ 𝑈𝑠𝑘+1 x1 + ⋯ + x𝑘+1 ∈ 𝑈𝑠𝑘+1 −1 ,
1 2 = 𝑠 = 2 𝑘+1 2𝑠𝑘+1 −1 = 2𝜂(x𝑘+1 ) ≤ 2(𝜂(x1 ) + ⋯ + 𝜂(x𝑘+1 )).
𝜂(x1 + ⋯ + x𝑘+1 ) ≤
5.2
Spazi di Hilbert
Nel paragrafo precedente abbiamo esaminato alcune conseguenze della convessità negli spazi vettoriali considerando ipotesi molto generali sulla topologia dello spazio, anzi esaminando perfino alcuni casi in cui non esistono norme che la generano. Vediamo ora una situazione completamente opposta, cioè quella in cui la norma proviene da un prodotto scalare. In tal caso (quello degli spazi di Hilbert), le proprietà di convessità permettono di ottenere risultati molto ricchi e densi di conseguenze. Occupiamoci intanto di due classici risultati sugli spazi di Hilbert. Teorema 5.41 (della proiezione negli spazi di Hilbert). Siano 𝐻 uno spazio di Hilbert e 𝐶 ⊆ 𝐻 un insieme non vuoto, chiuso e convesso. Allora, per ogni x ∈ 𝐻, esiste un unico elemento x𝐶 ∈ 𝐶 che realizza la minima distanza da x. Inoltre valgono le seguenti proprietà: 1. per ogni w ∈ 𝐶, si ha ⟨w − x𝐶 , x − x𝐶 ⟩ ≤ 0; 2. per la proiezione 𝑃𝐶 ∶ 𝐻 → 𝐶 definita da 𝑃𝐶 (x) ∶= x𝐶 si ha ‖𝑃𝐶 (x′ ) − 𝑃𝐶 (x″ )‖ ≤ ‖x′ − x″ ‖,
∀x′ , x″ ∈ 𝐻.
Dimostrazione. Fissiamo un punto x ∈ 𝐻 e sia 𝑑 ∶= infc∈𝐶 {‖x − c‖}. Consideriamo una successione (c𝑛 )𝑛 , con c𝑛 ∈ 𝐶 tale che 𝑑𝑛 ∶= ‖x − c𝑛 ‖ ↘ 𝑑. Osserviamo che (c𝑛 + c𝑚 )/2 ∈ 𝐶 (segue dalla convessità di 𝐶). Per l’identità del parallelogramma, si ha: ‖c𝑛 − c𝑚 ‖2 = 2‖x − c𝑛 ‖2 + 2‖x − c𝑚 ‖2 − 4‖x − (c𝑛 + c𝑚 )/2‖2 ≤ ≤ 2(𝑑𝑛2 + 𝑑𝑚2 − 2𝑑 2 )
e da ciò segue facilmente che la successione (c𝑛 )𝑛 è di Cauchy e quindi converge in 𝐶, dato che esso è chiuso. Sia c∗ ∈ 𝐶 tale che c𝑛 → c∗ . Da ‖x − c𝑛 ‖ = 𝑑𝑛 , passando al limite, si ottiene ‖x − c∗ ‖ = 𝑑 e quindi c∗ è un punto di 𝐶 che realizza la minima distanza da x.
5.2. Spazi di Hilbert
233
Verifichiamo ora che c’è un unico punto di 𝐶 che realizza la minima distanza da x. Infatti, se c1 , c2 ∈ 𝐶 sono tali che ‖x − c1 ‖ = ‖x − c2 ‖ = 𝑑,
riutilizzando l’identità del parallelogramma per c1 e c2 , si ha
‖c1 − c2 ‖2 = 2‖x − c1 ‖2 + 2‖x − c2 ‖2 − 4‖x − (c1 + c2 )/2‖2 ≤ ≤ 2(𝑑 2 + 𝑑 2 − 2𝑑 2 ) = 0
e quindi c1 = c2 = c∗ . A questo punto, possiamo indicare con x𝐶 ∶= c∗ il punto di minima distanza (in dipendenza da x) ed abbiamo che la proiezione 𝑃𝐶 ∶ 𝐻 → 𝐶 data da x ↦ x𝐶 è ben definita. Osserviamo che 𝑃𝐶 coincide con l’identità sull’insieme 𝐶. Dimostriamo ora che ⟨w − x𝐶 , x − x𝐶 ⟩ ≤ 0,
∀ w ∈ 𝐶.
(5.7)
Sia w ∈ 𝐶 e consideriamo un generico punto x𝐶 + 𝑡(w − x𝐶 ), con 𝑡 ∈ ]0, 1], del segmento di estremi x𝐶 e w, privato del punto x𝐶 , che è contenuto in 𝐶. Dal fatto che x𝐶 è il punto di 𝐶 a minima distanza da x, si ha, per ogni 𝑡 ∈ ]0, 1], ‖x − x𝐶 ‖2 ≤ ‖x − (x𝐶 + 𝑡(w − x𝐶 ))‖2 =
= ‖x − x𝐶 ‖2 − 2𝑡⟨x − x𝐶 , w − x𝐶 ⟩ + 𝑡2 ‖w − x𝐶 ‖2 ,
e quindi si ottiene, sempre per ogni 𝑡 ∈ ]0, 1], ⟨x − x𝐶 , w − x𝐶 ⟩ ≤
𝑡 ‖w − x𝐶 ‖2 , 2
da cui segue la (5.7) facendo tendere 𝑡 a 0+ . Consideriamo, in fine, due punti x, y ∈ 𝐻 e siano x𝐶 ∶= 𝑃𝐶 (x) e y𝐶 ∶= 𝑃𝐶 (y) i punti corrispondenti proiettati su 𝐶. Per la (5.7), possiamo scrivere ⟨y𝐶 − x𝐶 , x − x𝐶 ⟩ ≤ 0,
Sommando, si ha: e quindi
⟨x𝐶 − y𝐶 , y − y𝐶 ⟩ ≤ 0.
⟨y𝐶 − x𝐶 , y𝐶 − x𝐶 − (y − x)⟩ ≤ 0
‖𝑃𝐶 (y) − 𝑃𝐶 (x)‖2 = ‖y𝐶 − x𝐶 ‖2 = ⟨y𝐶 − x𝐶 , y𝐶 − x𝐶 ⟩ ≤ ≤ ⟨y𝐶 − x𝐶 , y − x⟩ ≤ ‖y𝐶 − x𝐶 ‖ ⋅ ‖y − x‖,
da cui segue facilmente il fatto che la proiezione 𝑃𝐶 è 1-lipschitziana.
5.2. Spazi di Hilbert
234
Osservazione 5.42. Senza l’ipotesi della convessità, non è garantita né l’esistenza né l’unicità. Per quest’ultima basta pensare ai punti di una circonferenza del piano che hanno tutti ugual distanza dal centro. Trovare esempi in cui manca l’esistenza è più difficile (cfr. Esempio 5.53). Proviamo intanto che, se 𝐻 ha dimensione finita, l’esistenza è comunque assicurata. Siano 𝐶 un chiuso di 𝐻, x ∈ 𝐻 ⧵ 𝐶 e 𝛿 ∶= inf {‖c − x‖ ∶ c ∈ 𝐶}. Esiste una successione 𝑆 ∶= (c𝑛 )𝑛 in 𝐶 con ‖x𝑛 − c‖ ↘ 𝛿. La successione 𝑆 è limitata e 𝑛 quindi, dato che 𝐻 ha dimensione finita, ammette una sottosuccessione (c 𝑘 )𝑘 ∗ convergente ad un elemento c ∈ 𝐶, dato che 𝐶 è chiuso (cfr. Proposizione 𝑛 4.61.3). Per la continuità della norma, si ottiene ‖c 𝑘 − x‖ → ‖c∗ − x‖, da cui ‖c∗ − x‖ = 𝛿. ◁
Osserviamo che, in uno spazio di Banach 𝑋, la proprietà che ogni chiuso 𝐶 abbia elementi di minima distanza da un prefissato x ∈ 𝑋 equivale al fatto che in ogni chiuso 𝐶 ci siano elementi di minima norma. (Esercizio!) Il Teorema 5.41 dice dunque che in uno spazio di Hilbert 𝐻, ogni sottoinsieme 𝐶 non vuoto, chiuso e convesso, contiene un unico elemento di minima norma. (Il caso interessante si ha per 0 ∉ 𝐶). Un caso importante è quello delle varietà chiuse e affini. Ricordiamo che, dato uno spazio normato 𝑋, si chiama varietà affine (e chiusa) ogni sottoinsieme del tipo 𝑊 + p, con p ∈ 𝑋 e 𝑊 ⊆ 𝑋 sottospazio chiuso di 𝑋. Il lettore verifichi che ogni varietà affine è convessa. Possiamo quindi enunciare il seguente corollario: Corollario 5.43. In ogni varietà chiusa e affine di uno spazio di Hilbert, esiste un unico punto di minima norma. Osservazione 5.44. Un esempio interessante di varietà affine e chiusa in uno spazio normato 𝑋 è dato dagli insiemi del tipo 𝑀 ∶= {x ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (x) = 𝑐} , con 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ ⧵ {0}, 𝑐 ∈ ℝ.
Infatti, esso è il traslato del sottospazio chiuso ker 𝑓 mediante un arbitrario punto p ∈ 𝑋 tale che 𝑓 (p) = 𝑐. (Per trovare un tale p, sarà sufficiente considerare un punto z0 ∈ 𝑋 tale che 𝑓 (z0 ) ≠ 0 e quindi prendere p ∶= 𝑐 0 z0 .) ◁ 𝑓 (z )
Presentiamo intanto due esempi che dimostrano come il Corollario 5.43 (e quindi a maggior ragione il Teorema 5.41) non sussiste in generale per spazi di Banach. Esempio 5.45 (Non esistenza dell’elemento di minima norma). Poniamo 𝑋 ∶= 𝐶([0, 1]), con la norma ‖⋅‖∞ della convergenza uniforme e sia 𝑀 ∶= {𝑢 ∈ 𝑋 ∶ ∫ 0
1/2
𝑢(𝑡) 𝑑𝑡 −
1
∫ 1/2
𝑢(𝑡) 𝑑𝑡 = 1}.
5.2. Spazi di Hilbert
235
Si vede subito che è 𝑀 ≠ ∅. Dall’osservazione precedente si vede che 𝑀 è una varietà chiusa e affine di 𝑋, con 0 ∉ 𝑀; infatti l’applicazione definita da 1/2 1 𝑢 ↦ ∫0 𝑢(𝑡) 𝑑𝑡 − ∫1/2 𝑢(𝑡) 𝑑𝑡 è un funzionale lineare, continuo e non banale definito su 𝑋. Ci proponiamo di dimostrare che non esiste in 𝑀 un elemento di minima norma. Cominciamo col verificare che, se 𝑢 ∈ 𝑀, allora ‖𝑢‖∞ > 1. Infatti, se, 1 per assurdo, esistesse un 𝑢 ∈ 𝑀 con ‖𝑢‖∞ ≤ 1, si avrebbe ∫1/2 𝑢(𝑡) 𝑑𝑡 ≥ −1/2, da cui − ∫1/2 𝑢(𝑡) 𝑑𝑡 ≤ 1/2 e quindi ∫0 𝑢(𝑡) 𝑑𝑡 ≥ 1/2; ciò è possibile solo se 𝑢 è costantemente uguale a 1 su [0, 1/2[. In modo del tutto simmetrico, dalla 1 1/2 relazione ∫1/2 𝑢(𝑡) 𝑑𝑡 − ∫0 𝑢(𝑡) 𝑑𝑡 = −1, si otterrebbe che 𝑢 dovrebbe essere costantemente uguale a −1 su ]1/2, 1], contro la continuità di 𝑢. Dimostriamo ora che esiste una successione di funzioni 𝑢𝑛 ∈ 𝑀 tali che ‖𝑢𝑛 ‖∞ → 1. Siano (𝑐𝑛 )𝑛 e (𝑑𝑛 )𝑛 due successioni decrescenti di numeri reali convergenti a 0, con 𝑐1 < 1/2. Sia 𝑢𝑛 la funzione definita da 1
1/2
⎧1 + 𝑑𝑛 , ⎪ 1+𝑑 𝑢𝑛 (𝑡) ∶= ⎨− 𝑐 𝑛 (𝑡 − 1/2), 𝑛 ⎪−1 − 𝑑 , ⎩ 𝑛
se 𝑡 ∈ [0, 1/2 − 𝑐𝑛 ], se 𝑡 ∈ [1/2 − 𝑐𝑛 , 1/2 + 𝑐𝑛 ], se 𝑡 ∈ [1/2 + 𝑐𝑛 , 1].
Si verifica facilmente che 𝑢𝑛 ∈ 𝑋, con 1 < ‖𝑢𝑛 ‖∞ = 1 + 𝑑𝑛 → 1. D’altra parte, 1/2 1 si ha che ∫0 𝑢𝑛 (𝑡) 𝑑𝑡 − ∫1/2 𝑢𝑛 (𝑡) 𝑑𝑡 = (1 − 𝑐𝑛 )(1 + 𝑑𝑛 ). Se scegliamo 𝑐𝑛 e 𝑑𝑛 in 𝑐 modo che sia (1 − 𝑐𝑛 )(1 + 𝑑𝑛 ) = 1, per esempio 𝑑𝑛 = 1−𝑐𝑛 , si ha che 𝑢𝑛 ∈ 𝑀, per 𝑛 ogni 𝑛. ◁
Osservazione 5.46. Il fatto che non esista un elemento di minima norma è una prova della non riflessività dello spazio 𝑋 = 𝐶([0, 1]). Infatti nel Paragrafo 8.4 (Teorema 8.87) dimostreremo che in uno spazio (di Banach) riflessivo ogni varietà affine chiusa possiede elementi di minima norma. ◁ Osservazione 5.47. È interessante osservare che, se nell’Esempio 5.45 consideriamo come spazio ambiente 𝑋 ∶= 𝐿2 ([0, 1]), con la norma ‖⋅‖2 (che è uno spazio di Hilbert), allora il Corollario 5.43 garantisce l’esistenza di un unico elemento di minima norma appartenente alla varietà chiusa e affine 𝑀. In tal caso sappiamo anche facilmente trovare l’elemento 𝑤 di minima norma. Infatti, si vede subito che 𝑤 è la funzione che vale 1 su [0, 1/2] e −1 su ]1/2, 1]. Il valore nel punto 1/2 è irrilevante, dato che identifichiamo funzioni che assumono valori diversi su insiemi trascurabili. Osserviamo ancora che per la successione (𝑢𝑛 )𝑛 introdotta nell’Esempio 5.45 si ha anche ‖𝑢𝑛 ‖2 → 1. Abbiamo infatti che 𝑢𝑛 → 𝑤 in 𝐿2 ([0, 1]). Ovviamente la successione (𝑢𝑛 )𝑛 non possiede sottosuccessioni convergenti in 𝐶([0, 1]) neanche rispetto alla norma ‖⋅‖2 . ◁
La non unicità dell’elemento di minima norma (per varietà affini) si verifica già nel caso degli spazi di dimensione finita, come mostra l’esempio che segue.
5.2. Spazi di Hilbert
236
Esempio 5.48. Siano: 𝑋 ∶= (ℝ2 , ‖⋅‖1 ) e 𝑀 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥 + 𝑦 = 1}. Per ogni (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑀, si ha ‖(𝑥, 𝑦)‖1 = |𝑥| + |𝑦| ≥ 1, con ‖(𝑥, 𝑦)‖1 = 1 per tutti e soli i punti di 𝑀 che stanno nel primo quadrante. ◁ Il seguente corollario specializza il Teorema della proiezione 5.41 nel caso in cui 𝐶 sia un sottospazio.
Corollario 5.49. Siano 𝑀 un sottospazio chiuso di uno spazio di Hilbert 𝐻 e 𝑃𝑀 la relativa proiezione. Allora 𝑃𝑀 è lineare e continua. Inoltre, per ogni x ∈ 𝐻, si ha ⟨x − 𝑃𝑀 (x), w⟩ = 0 per ogni w ∈ 𝑀. Dimostrazione. Fissiamo un x ∈ 𝐻. Per ogni w ∈ 𝑀, consideriamo y ∶= 𝑃𝑀 (x) ± w ∈ 𝑀. Dalla 1 del Teorema 5.41, si ha ⟨y − 𝑃𝑀 (x), x − 𝑃𝑀 (x)⟩ = ±⟨w, x − 𝑃𝑀 (x)⟩ ≤ 0 e quindi ⟨x − 𝑃𝑀 (x), w⟩ = 0. La linearità si verifica direttamente utilizzando il fatto che 𝑀 è un sottospazio (Esercizio!); la continuità segue poi dalla 2 del Teorema 5.41.
Ricordiamo che nell’Osservazione 4.32, grazie alla disuguaglianza di CauchySchwarz, si poteva definire l’angolo fra due vettori non nulli in uno spazio vettoriale dotato di prodotto scalare. In generale, diremo che due vettori (anche nulli) sono ortogonali se il loro prodotto scalare è nullo. In quest’ottica, il risultato del corollario precedente può venire espresso dicendo che il vettore x − 𝑃𝑀 (x) è ortogonale ad ogni elemento del sottospazio 𝑀. Si usa pertanto dire che 𝑃𝑀 è la proiezione ortogonale di 𝐻 su 𝑀. È ora immediato verificare il seguente risultato: Teorema 5.50 (di Pitagora). Dati due vettori ortogonali u, v in uno spazio vettoriale dotato di prodotto scalare, si ha ‖u ± v‖2 = ‖u‖2 + ‖v‖2 . Esercizio 5.51. Siano 𝑀 un sottospazio chiuso di uno spazio di Hilbert 𝐻 e 𝑃𝑀 la relativa proiezione. Fissiamo un x ∈ 𝑋. Tenuto conto del Teorema di Pitagora, si provi che, se per uno z ∈ 𝑀 si ha ⟨x − z, w⟩ = 0, ∀w ∈ 𝑀, allora si ha z = 𝑃𝑀 (x). ◁ Definizione 5.52. Un insieme 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } di elementi di uno spazio di 𝑗 Hilbert 𝐻 è detto un sistema ortonormale se è ‖u𝑖 ‖ = 1, ∀𝑖 ∈ 𝐽 e ⟨u𝑖 , u ⟩ = 0, ∀𝑖, 𝑗 ∈ 𝐽 , 𝑖 ≠ 𝑗. ◁
Gli elementi di un sistema ortonormale sono sempre linearmente indipendenti. (Esercizio!) In uno spazio di Hilbert 𝐻, sia dato un insieme 𝐹 , finito o numerabile, di vettori linearmente indipendenti (e quindi non nulli). Vogliamo costruire un sistema ortonormale 𝐸 che generi il medesimo sottospazio ottenuto a partire dagli elementi di 𝐹 ; useremo la cosiddetta costruzione di Gram-Schmidt. Per comodità, supponiamo ora 𝐹 numerabile (nel caso finito, la costruzione termina
5.2. Spazi di Hilbert
237
in un numero limitato di passi). Sia, pertanto 𝐹 ∶= {v𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }, con i v𝑛 linearmente indipendenti. Si pone, per prima cosa, u1 ∶=
v1 . ‖v1 ‖ 2 2
Secondo passo: si pone w2 ∶= v − ⟨v , u1 ⟩u1 (≠ 0) e poi u2 ∶= In generale, una volta definiti {u1 , … , u𝑘 }, si pone w𝑘+1 ∶= v𝑘+1 −
𝑘
∑ 𝑖=1
⟨v𝑘+1 , u𝑖 ⟩u𝑖 ,
u𝑘+1 ∶=
w𝑘+1
‖w𝑘+1 ‖
w2 . ‖w2 ‖
.
In virtù della costruzione utilizzata, si constata facilmente che: 1. 𝐸 ∶= {u𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } è un sistema ortonormale. 2. Per ogni 𝑘 ∈ ℕ+ , si ha sp(v1 , … , v𝑘 ) = sp(u1 , … , u𝑘 ). 3. Per ogni 𝑘 ∈ ℕ+ , l’elemento ∑𝑘𝑖=1 ⟨v𝑘+1 , u𝑖 ⟩u𝑖 è la proiezione ortogonale di v𝑘+1 sullo spazio sp(u1 , … , u𝑘 ). 4. Più in generale, si ha che: Dato un qualunque vettore v e posto 𝑉𝑘 ∶= sp(u1 , … , u𝑘 ) = sp(v1 , … , v𝑘 ), l’elemento ∑𝑘𝑖=1 ⟨v, u𝑖 ⟩u𝑖 è la proiezione ortogonale di v sullo spazio 𝑉𝑘 . I numeri reali ⟨v, u𝑖 ⟩ sono chiamati anche coefficienti di Fourier rispetto al sistema {u1 , … , u𝑛 … }. Possiamo ora produrre il preannunciato esempio di un sottoinsieme chiuso di uno spazio di Hilbert di dimensione infinita che non ha elementi di minima norma (cfr. Osservazione 5.42). Esempio 5.53 (Non esistenza dell’elemento di minima norma). Sia 𝐻 uno spazio di Hilbert di dimensione infinita. Dalla costruzione di Gram-Schmidt sappiamo che in 𝐻 esiste una successione (e𝑛 )𝑛 di elementi ortonormali. Se è 𝑛 ≠ 𝑘, si ha ‖e𝑛 − e𝑘 ‖2 = ⟨e𝑛 − e𝑘 , e𝑛 − e𝑘 ⟩ = 2,
‖e𝑛 − e𝑘 ‖ = √2.
Si ponga ora, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , w𝑛 ∶= 𝜆𝑛 e𝑛 , con 𝜆𝑛 ∶= 1 + 1/𝑛 e poi 𝑊 ∶= 𝑛 𝑛 + + {w ∶ 𝑛 ∈ ℕ }. Si ha ‖w ‖ = 𝜆𝑛 > 1, inf {‖w ‖ ∶ 𝑛 ∈ ℕ } = 1. Quindi in 𝑊 non esistono elementi di minima norma. Resta da provare che 𝑊 è chiuso. Basta verificare che 𝑊 non ammette punti di accumulazione. Supponiamo che z sia di accumulazione per 𝑊 . Esiste allora una sottosuc𝑛 cessione (w 𝑘 )𝑘 convergente a z; questa deve essere pertanto di Cauchy. Si ha però 𝑛
‖w𝑛 − w𝑘 ‖ = ‖𝜆𝑛 e𝑛 − 𝜆𝑘 e𝑘 ‖ = ‖e𝑛 − e𝑘 + 1𝑛 e𝑛 − 𝑘1 e𝑘 ‖ ≥ 1 1 1 1 ≥ ‖e𝑛 − e𝑘 ‖ − ‖e𝑛 ‖ − ‖e𝑘 ‖ = √2 − − → √2. 𝑛 𝑘 𝑛 𝑘
◁
Possiamo ora dimostrare il seguente Teorema di rappresentazione di Riesz.
5.2. Spazi di Hilbert
238
Teorema 5.54 (di rappresentazione di Riesz). Sia 𝐻 uno spazio di Hilbert. Per ogni 𝑓 ∈ 𝐻 ∗ , esiste un unico elemento y𝑓 ∈ 𝐻 tale che 𝑓 (x) = ⟨x, y𝑓 ⟩𝐻 ,
∀x ∈ 𝐻.
(5.8)
‖𝑓 ‖𝐻 ∗ = ‖y𝑓 ‖𝐻 .
Inoltre
Dimostrazione. Se 𝑓 = 0, prendiamo y𝑓 = 0. Supponiamo quindi 𝑓 ≠ 0. Sia 𝑀 = ker 𝑓 . Dal fatto che 𝑓 è lineare e continuo, segue che 𝑀 è un sottospazio chiuso di 𝐻. Sia z0 tale che 𝑓 (z0 ) ≠ 0 e quindi z0 ∉ 𝑀. Osserviamo che ogni elemento x ∈ 𝐻 si può scrivere in un unico modo nella forma x = w + 𝑡z0 , con w ∈ 𝑀 e 𝑡 ∈ ℝ. Infatti, dato x ∈ 𝐻 possiamo scrivere 𝑓 (x) = 𝑠𝑓 (z0 ), dove 𝑠 = 𝑓 (x)/𝑓 (z0 ). Usando la linearità di 𝑓 , otteniamo 𝑓 (x − 𝑠z0 ) = 0 e quindi x − 𝑠z0 =∶ w ∈ 𝑀. Supponiamo ora che sia x = w1 + 𝑡1 z0 = w2 + 𝑡2 z0 . Si ottiene (𝑡1 − 𝑡2 )z0 = w2 − w1 ∈ 𝑀 e allora 𝑡1 = 𝑡2 , visto che z0 ∉ 𝑀. Da ciò segue banalmente che w1 = w2 . Sia ora w0 l’elemento di 𝑀 che realizza la minima distanza da z0 . Per il Corollario 5.49, abbiamo che il versore v0 ∶=
z0 − w0
‖z0 − w0 ‖
è ortogonale al sottospazio 𝑀. Osserviamo anche che ⟨z0 , v0 ⟩ ≠ 0. Infatti, essendo ⟨w0 , z0 − w0 ⟩ = 0, si ha ⟨z0 , z0 − w0 ⟩ = ⟨z0 − w0 , z0 − w0 ⟩ ≠ 0, poiché z0 ≠ w0 . Andiamo ora alla ricerca di un elemento del tipo y𝑓 ∶= 𝜗v0 ,
dove 𝜗 ∈ ℝ è un numero da determinarsi, in modo che sia verificata la (5.8). Ricordando il modo in cui possiamo rappresentare un generico elemento x ∈ 𝐻, otteniamo 𝑓 (x) = 𝑓 (w + 𝑡z0 ) = 𝑡𝑓 (z0 ) = ⟨w + 𝑡z0 , 𝜗v0 ⟩ = 𝑡𝜗⟨z0 , v0 ⟩.
Dovendo tale uguaglianza valere per ogni 𝑡, si ottiene 𝜗=
Quindi, ponendo
otteniamo la (5.8).
y𝑓 =
𝑓 (z0 )
⟨z0 , v0 ⟩ 𝑓 (z0 )
⟨z0 , v0 ⟩
.
v,
5.2. Spazi di Hilbert
239
Verifichiamo ora l’unicità di y𝑓 . Infatti, se ⟨x, y𝑓 ⟩ = ⟨x, u𝑓 ⟩ per ogni x ∈ 𝐻, si ottiene ⟨x, y𝑓 − u𝑓 ⟩ = 0, ∀x ∈ 𝐻, da cui ‖y𝑓 − u𝑓 ‖2 = ⟨y𝑓 − u𝑓 , y𝑓 − u𝑓 ⟩ = 0
e quindi y𝑓 = u𝑓 . In fine, dalla (5.8) e dalla disuguaglianza di Cauchy-Schwarz abbiamo ‖𝑓 ‖𝐻 ∗ = sup |⟨x, y𝑓 ⟩| ≤ ‖y𝑓 ‖. ‖x‖≤1
D’altra parte, per la definizione di norma di un’applicazione lineare continua, dalla (5.8) e dalla (4.19) si ha e quindi
‖y𝑓 ‖2 = ⟨y𝑓 , y𝑓 ⟩ = 𝑓 (y𝑓 ) ≤ ‖f‖𝐻 ∗ ⋅ ‖y𝑓 ‖ ‖y𝑓 ‖ ≤ ‖𝑓 ‖𝐻 ∗ .
Dal teorema appena dimostrato, ricaviamo la riflessività degli spazi di Hilbert. Corollario 5.55. Ogni spazio di Hilbert è riflessivo.
Dimostrazione. Sia 𝐻 uno spazio di Hilbert e consideriamo il suo duale 𝐻 ∗ . L’applicazione che a 𝑓 ∈ 𝐻 ∗ associa l’elemento y𝑓 ∈ 𝐻 che proviene dal Teorema di Riesz è un’isometria lineare fra i due spazi. Possiamo quindi definire un prodotto scalare in 𝐻 ∗ mediante la posizione ⟨𝑓 , 𝑔⟩𝐻 ∗ ∶= ⟨y𝑓 , y𝑔 ⟩𝐻 . È immediato verificare che tale posizione definisce effettivamente un prodotto scalare in 𝐻 ∗ e che la norma da esso dedotta coincide con la norma originaria di 𝐻 ∗ . Consideriamo ora un 𝑓 ∈ 𝐻 ∗ e un w ∈ 𝐻. Sia y𝑓 l’elemento di 𝐻 che rappresenta 𝑓 secondo il Teorema di Riesz e sia 𝑔 ∈ 𝐻 ∗ il funzionale x ↦ ⟨x, w⟩𝐻 . Osserviamo che y𝑔 = w. Inoltre, avremo che 𝑓 (w) = ⟨𝑓 , w⟩ = ⟨y𝑓 , w⟩𝐻 = ⟨𝑓 , 𝑔⟩𝐻 ∗ .
(5.9)
Sia ora 𝜑 ∈ 𝐻 ∗∗ , cioè un funzionale lineare continuo di 𝐻 ∗ . Per il Teorema di rappresentazione di Riesz applicato a 𝐻 ∗ , esiste un unico elemento 𝑔𝜑 ∈ 𝐻 ∗ per cui risulta 𝜑(𝑓 ) = ⟨𝑓 , 𝑔𝜑 ⟩𝐻 ∗ , per ogni 𝑓 ∈ 𝐻 ∗ . Inoltre, ‖𝜑‖𝐻 ∗∗ = ‖𝑔𝜑 ‖𝐻 ∗ . L’elemento 𝑔𝜑 ∈ 𝐻 ∗ corrisponde in modo isometrico ad un unico elemento y𝜑 ∈ 𝐻, con ‖𝑔𝜑 ‖𝐻 ∗ = ‖y𝜑 ‖𝐻 . Dalla (5.9) abbiamo poi ⟨𝑓 , 𝑔𝜑 ⟩𝐻 ∗ = 𝑓 (y𝜑 ) = ⟨𝑓 , y𝜑 ⟩. In fine, ricordiamo che, per ogni x ∈ 𝐻, risulta definito l’elemento 𝜑x ∈ 𝐻 ∗∗ mediante la posizione 𝜑x (𝑓 ) ∶= 𝑓 (x). Dalle considerazioni precedenti, risulta quindi che ogni 𝜑 ∈ 𝐻 ∗∗ è del tipo 𝜑x per un opportuno (unico) x ∈ 𝐻, precisamente x = y𝜑 . Abbiamo così dimostrato che l’immersione canonica di 𝐻 in 𝐻 ∗∗ è suriettiva e quindi, dalla Definizione 4.62, concludiamo che 𝐻 è riflessivo.
5.2. Spazi di Hilbert
240
Osservazione 5.56. Nel corso della dimostrazione, abbiamo osservato che 𝐻 ∗ , oltre ad essere linearmente isomorfo ed isometrico ad 𝐻, può anche essere munito in modo canonico di un prodotto scalare che coincide col prodotto scalare di 𝐻, non appena si proceda all’identificazione 𝑓 ≡ y𝑓 . Come osservato anche nel libro di Brezis ([9]), a lato pratico, cioè per spazi di Hilbert “concreti” (per esempio spazi di funzioni) tale identificazione è utile, ma, come mostrano anche i due esempi che seguono, va attuata con una certa cura. ◁ Esempio 5.57. Sia 𝐼 un intervallo chiuso e limitato e sia 𝑝 > 2. Consideriamo anche 𝑞 = 𝑝/(𝑝 − 1) ∈ ]1, 2[ l’esponente coniugato di 𝑝. In questo caso, identificando lo spazio 𝐿2 con il suo duale, si ottiene la relazione corretta: 𝐿𝑝 ⊂ 𝐿2 ⊂ 𝐿𝑞 . Immaginiamo ora di avere due spazi di Hilbert, 𝐻 e 𝑊 , con 𝑊 sottospazio proprio di 𝐻. Si vede facilmente che 𝐻 ∗ è un sottospazio proprio di 𝑊 ∗ . Possiamo ora identificare 𝐻 ≡ 𝐻 ∗ in modo da ottenere la relazione 𝑊 ⊂ 𝐻 ⊂ 𝑊 ∗ . A questo punto, però, non possiamo più identificare 𝑊 con 𝑊 ∗. ◁
Sempre in relazione a questo discorso, consideriamo ancora il seguente esempio: Esempio 5.58. Siano 𝐻 e 𝑍 i seguenti spazi:
+∞
𝐻 ∶= 𝑙2 = {x = (𝑥𝑛 )𝑛 ∶ 𝑥2 < ∞}, ∑ 𝑛 +∞
𝑛=1
𝑍 ∶= {x = (𝑥𝑛 )𝑛 ∶ 𝑛2 𝑥2𝑛 < ∞}, ∑ 𝑛=1
dotati dei prodotti scalari ⟨x, y⟩𝐻 ∶=
∞
∑ 𝑛=1
𝑥𝑛 𝑦𝑛 ,
⟨x, 𝑦⟩𝑍 ∶=
∞
∑ 𝑛=1
𝑛2 𝑥𝑛 𝑦𝑛 .
Osserviamo che una successione x ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 ∈ 𝑍 se e solo se la successione x′ ∶= (𝑛𝑥𝑛 )𝑛 ∈ 𝐻. Dunque 𝑍 ⊂ 𝐻. Lasciamo al lettore di verificare che 𝐻 e 𝑍 muniti dei corrispondenti prodotti scalari sono degli spazi di Hilbert. Inoltre, non solo 𝑍 è un sottospazio vettoriale di 𝐻, ma si ha anche che l’immersione 𝐽 ∶ 𝑍 → 𝐻 è continua, visto che ‖x‖𝐻 ≤ ‖x‖𝑍 , per ogni x ∈ 𝑍. Quindi, per ogni 𝑓 ∈ 𝐻 ∗ , la restrizione 𝑓 |𝑍 ∈ 𝑍 ∗ . In fine, osserviamo che 𝑍 è denso in 𝐻 rispetto alla norma di 𝐻. Infatti, dati x ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 ∈ 𝐻 e 𝛿 > 0, basta 2 2 prendere 𝑘 = 𝑘𝛿 tale che ∑∞ 𝑛=𝑘+1 𝑥𝑛 < 𝛿 e abbiamo che l’elemento y ∶= (𝑦𝑛 )𝑛 , con 𝑦𝑛 ∶= 𝑥𝑛 per 𝑛 ≤ 𝑘𝛿 e 𝑦𝑛 ∶= 0 per 𝑛 > 𝑘𝛿 appartiene a 𝑍 e dista da x meno di 𝛿. Con queste premesse, ogni 𝑓 ∈ 𝐻 ∗ può essere pensata come un elemento di 𝑍 ∗ e, inoltre, se 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐻 ∗ ed è 𝑓 |𝑍 = 𝑔|𝑍 , si ha 𝑓 = 𝑔. Pertanto possiamo identificare 𝐻 ∗ come un sottospazio di 𝑍 ∗ . Concludiamo quindi che 𝑍 ⊂ 𝐻
5.2. Spazi di Hilbert
241
e 𝐻 ∗ ⊆ 𝑍 ∗ . È chiaro quindi che se identifichiamo 𝐻 con 𝐻 ∗ , non possiamo contemporaneamente identificare 𝑍 con 𝑍 ∗ , e viceversa. ◁
Riprendiamo ora il concetto di sistema ortonormale in uno spazio di Hilbert. Il nostro scopo è quello di dimostrare che alcuni sistemi ortonormali (quelli completi o massimali) svolgono, in forma analitica, il ruolo di base. Vedremo infatti che, grazie a tali sistemi, sarà possibile rappresentare univocamente ogni elemento dello spazio come serie (invece che come somma finita) di elementi del sistema. Premettiamo la seguente definizione. Definizione 5.59. Sia 𝐸 un sistema ortonormale in uno spazio di Hilbert 𝐻. 1. 𝐸 è detto completo se il sottospazio generato da 𝐸 è denso in 𝐻; in altri termini, se cl(sp(𝐸)) = 𝐻. 2. 𝐸 è detto massimale se lo è rispetto all’inclusione come sistema ortonormale; in altri termini non esiste in 𝐻 alcun elemento non nullo che sia ortogonale a tutti gli elementi di 𝐸. ◁
Teorema 5.60. In uno spazio di Hilbert 𝐻 un sistema ortonormale 𝐸 è completo se e solo se è massimale. Dimostrazione. Supponiamo intanto 𝐸 completo e fissiamo un elemento z ∈ 𝐻. Sia x = ∑𝑖∈𝐽 𝛼𝑖 e𝑖 una combinazione lineare finita di elementi di 𝐸. In tal caso, si ha 2
‖z − x‖ = z − 𝛼e = ‖z‖2 + 𝛼2 − 2 𝛼 ⟨z, e𝑖 ⟩ ≥ ∑ 𝑖 ‖ ∑ 𝑖 ∑ 𝑖 ‖ 𝑖∈𝐽 𝑖∈𝐽 𝑖∈𝐽 2
𝑖
≥ ‖z‖2 − 2
∑ 𝑖∈𝐽
𝛼𝑖 ⟨z, e𝑖 ⟩.
Se z è ortogonale a tutti gli elementi di 𝐸, la distanza fra z e lo spazio generato da 𝐸 è maggiore o uguale alla norma di z. Quindi z deve essere il vettore nullo, dato che, per ipotesi, è 𝑑(z, sp(𝐸)) = 0. Supponiamo ora che 𝐸 non sia completo. Esiste pertanto z ∈ 𝐻 ⧵ 𝐾, con 𝐾 ∶= cl(sp(𝐸)). Essendo 𝐾 un sottospazio chiuso e convesso, 2 possiamo w applicare il Corollario 5.49. Siano w ∶= z−𝑃𝐾 (z) e v ∶= ‖w‖ . Il versore v(∉ 𝐸) è ortogonale a tutti gli elementi di 𝐸 che, quindi, non è massimale. Il teorema appena dimostrato presenta un’analogia con il classico risultato per gli spazi vettoriali che afferma che un insieme di elementi linearmente indipendenti è massimale se e solo se genera tutto lo spazio. In questo caso, 2 Cfr. Lemma 5.23. Proviamo qui in modo più elementare che se 𝐹 ⊆ 𝐻 è un insieme convesso, allora è tale anche cl 𝐹 . Dati x, y ∈ cl 𝐹 , esistono in 𝐹 due successioni (x𝑛 )𝑛 e (y𝑛 )𝑛 convergenti rispettivamente a x e a y. Per ogni 𝜏 ∈ ]0, 1[, la successione (z𝑛 )𝑛 , con zn ∶= x𝑛 + 𝜏(y𝑛 − x𝑛 ), converge a z ∶= x + 𝜏(y − x) che dunque appartiene a cl 𝐹 . Ciò prova che anche cl 𝐹 è convesso. Ciò vale, in particolare, per i sottospazi.
5.2. Spazi di Hilbert
242
abbiamo una base dello spazio vettoriale detta di Hamel (cfr. pag. 169). Nel caso dei sistemi ortonormali, abbiamo comunque elementi linearmente indipendenti e, in questo caso, la massimalità è equivalente al fatto che la chiusura del sottospazio generato coincida con tutto lo spazio. Ciò porta alla seguente definizione: Definizione 5.61. In uno spazio di Hilbert 𝐻, ogni sistema ortonormale e completo è detto base di Hilbert o base ortonormale. ◁ A meno che lo spazio non si riduca al solo elemento nullo (base vuota), possiamo partire da almeno un elemento di norma unitaria, che è un sistema ortonormale (banale). Usando il Lemma di Zorn sulla famiglia di tutti i sistemi ortonormali ordinati per inclusione, si dimostra con tecniche standard il seguente risultato. Teorema 5.62. Ogni spazio di Hilbert ammette una base ortonormale.
Siano 𝐻 uno spazio di Hilbert e 𝑀 un suo sottospazio chiuso, proprio e non banale. Poniamo 𝑁 = {x ∈ 𝐻 ∶ ⟨x, 𝑀⟩ = 0} ∶= {x ∈ 𝐻 ∶ ⟨x, m⟩ = 0, ∀m ∈ 𝑀} .
(5.10)
Si constata facilmente che 𝑁 è un sottospazio chiuso di 𝐻. 𝑁 è detto il sottospazio di 𝐻 ortogonale a 𝑀 e lo si indica di solito con 𝑀 ⊥ . Sia 𝐸 ′ ∶= {e𝑖 }𝑖∈𝐽 ′ una base ortonormale di 𝑀. Prolunghiamo 𝐸 ′ in una base ortonormale 𝐸 ∶= {e𝑖 }𝑖∈𝐽 di 𝐻. Si ottiene che, posto 𝐽 ″ ∶= 𝐽 ⧵ 𝐽 ′ , il sistema ortonormale 𝐸 ″ ∶= {e𝑖 }𝑖∈𝐽 ″ genera il sottospazio 𝑀 ⊥ e che risulta 𝐻 = 𝑀 ⊕ 𝑀 ⊥. Sia 𝐻 uno spazio vettoriale di dimensione finita 𝑛 e dotato di prodotto scalare. Dal Teorema 4.61 abbiamo che 𝐻 è di Hilbert ed è linearmente isomorfo e omeomorfo a (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 ). Più precisamente, data una base (di Hamel) di 𝐻, esiste una base ortonormale ancora di dimensione 𝑛 (cfr. il punto 2 della costruzione di Gram-Schmidt, pag. 236). Sia, pertanto, {u1 , … , u𝑛 } una base ortonormale di 𝐻. Per il punto 4 della costruzione di Gram-Schmidt, ogni elemento x si esprime in un unico modo come x=
𝑛
∑ 𝑖=1
⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖 .
Associando al vettore u𝑖 l’elemento e𝑖 della base canonica di ℝ𝑛 e prolungando per linearità, si ottiene l’isomorfismo lineare 𝜑 da 𝐻 su ℝ𝑛 che all’elemento x associa la 𝑛-pla (⟨x, u1 ⟩, … , ⟨x, u𝑛 ⟩) (cfr. Lemma 4.42). Osserviamo che per x = ∑𝑛𝑖=1 ⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖 e y = ∑𝑛𝑖=1 ⟨y, u𝑖 ⟩u𝑖 , si ha ⟨x, y⟩𝐻 =
𝑛
⟨x, u𝑖 ⟩ ⋅ ⟨y, u𝑖 ⟩ = ⟨𝜑(x), 𝜑(y)⟩2 . ∑ 𝑖=1
5.2. Spazi di Hilbert
243
Quindi, fissata una base ortonormale in 𝐻 e considerato l’isomorfismo canonico (continuo) 𝜑 su ℝ𝑛 del Lemma 4.42, 𝐻 si comporta a tutti gli effetti come ℝ𝑛 con l’usuale prodotto scalare.
5.2.1 Basi numerabili Focalizzeremo ora la nostra attenzione al caso degli spazi di Hilbert separabili. In questo caso, infatti, si può sviluppare una teoria che è una naturale estensione del caso degli spazi di dimensione finita con prodotto scalare. Teorema 5.63. Sia 𝐻 uno spazio di Hilbert separabile e di dimensione infinita. Allora: 1. Ogni sistema ortonormale in 𝐻 è al più numerabile. 2. Esiste una base di Hilbert numerabile (infinita).
Dimostrazione. 1. Supponiamo, per assurdo, che esista un sistema ortonormale 𝐸 non numerabile. Fissiamo due elementi distinti u, y ∈ 𝐸. La distanza fra u e y è √2, come si vede da un’applicazione banale del Teorema di Pitagora 5.50. Ne segue che, fissato un raggio 𝑟, con 0 < 𝑟 < √2/2, gli insiemi 𝐵(x, 𝑟), al variare di x in 𝐸 sono a due a due disgiunti e costituiscono un’infinità non numerabile. Ma ciò va contro la supposta separabilià dello spazio. 2. Dal punto 1 sappiamo che una base di Hilbert (che esiste per il teorema precedente) può essere al più numerabile. Se essa fosse finita, lo spazio stesso sarebbe di dimensione finita, contro l’ipotesi su 𝐻. Siano 𝐻 uno spazio di Hilbert separabile di dimensione infinita ed 𝐸 ∶= 𝑖 u { ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } un sistema ortonormale al più numerabile. Ricordiamo che, per ogni x ∈ 𝑋, i numeri reali ⟨x, u𝑖 ⟩ sono detti coefficienti di Fourier di x rispetto a 𝐸 (cfr.pag. 237). Teorema 5.64 (Disuguaglianza di Bessel). Dati 𝐻 ed 𝐸 come sopra, sussiste la seguente disuguaglianza di Bessel ∑ 𝑖∈𝐽
|⟨x, u𝑖 ⟩|2 ≤ ‖x‖2 ,
∀x ∈ 𝐻.
(5.11)
Dimostrazione. Sia 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 un qualunque sottoinsieme finito (non vuoto) di indici e, per comodità, poniamo y ∶= ∑𝑖∈𝐽 ′ 𝛼𝑖 u𝑖 , dove gli 𝛼𝑖 sono i coefficienti di Fourier definiti sopra. Si ha: 0 ≤ ‖x − y‖2 = ⟨x − y, x − y⟩ = ‖x‖2 − 2⟨x, y⟩ + ‖y‖2 =
= ‖x‖2 − 2
∑′
𝑖∈𝐽
𝛼𝑖 ⟨x, u𝑖 ⟩ +
∑′
𝑖,𝑘∈𝐽
𝛼𝑖 𝛼𝑘 ⟨u𝑖 , u𝑘 ⟩ = ‖x‖2 − 2
∑′
𝑖∈𝐽
𝛼𝑖2 +
∑′
𝑖∈𝐽
𝛼𝑖2 .
Abbiamo così dimostrato la disuguaglianza sommando sugli indici di un qualunque sottoinsieme finito di 𝐽 . Se è 𝐽 = ℕ+ , basta prendere 𝐽 ′ ∶= {1, … , 𝑛} e far tendere 𝑛 all’infinito.
5.2. Spazi di Hilbert
244
Come vedremo fra poco, questo risultato sussiste anche senza l’ipotesi della separabilità (cfr. Teorema 5.84). Il seguente risultato fa vedere che la disuguaglianza (5.11) diventa un’identità quando 𝐸 è una base di Hilbert.
Teorema 5.65 (Identità di Parseval). Dati 𝐻 ed 𝐸 come sopra, con 𝐸 completo (e quindi 𝐸 = {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ ℕ+ }), si ha che ogni elemento x ∈ 𝐻 si esprime in un unico modo nella forma x=
+∞
∑ 𝑖=1
⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖
(5.12)
e sussiste la seguente identità di Parseval +∞
∑ 𝑖=1
|⟨x, u𝑖 ⟩|2 = ‖x‖2 .
(5.13)
Dimostrazione. Sia x ∈ 𝐻 arbitrario. Poiché 𝐸 è completo, si ha x ∈ cl(sp(𝐸)) (cfr. definizione 5.59). Quindi, per ogni 𝜀 > 0, esiste un 𝑁 = 𝑁𝜀 ∈ ℕ+ tale che 𝑑(x, 𝑊𝑁 ) < 𝜀, dove abbiamo indicato con 𝑊𝑁 il sottospazio di 𝐻 di dimensione 𝑁 generato dai primi 𝑁 elementi di 𝐸. La distanza fra x e 𝑊𝑁 coincide con la distanza fra x e la sua proiezione ortogonale su 𝑊𝑁 , data dall’elemento 𝑖 𝑖 ∑𝑁 𝑖=1 ⟨x, u ⟩u . In simboli, si ha: 𝑁
2
𝑁
𝑖 2 2 ‖x − ∑⟨x, u ⟩u ‖ = ‖x‖ − ∑ |⟨x, u ⟩| < 𝜀 . 𝑖=1
𝑖
𝑖
2
𝑖=1
Poiché 𝑊𝑁 ⊆ 𝑊𝑛 , ∀𝑛 ≥ 𝑁, si ha che la precedente relazione sussiste per ogni 𝑛 ≥ 𝑁. Per l’arbitrarietà di 𝜀, concludiamo che la serie che compare nella (5.12) converge a x e che vale l’identità di Parseval (5.13). In fine, per quanto concerne l’unicità della rappresentazione (5.12), basta 𝑖 osservare che se x = ∑∞ 𝑖=1 𝛽𝑖 u , moltiplicando scalarmente ambo i membri per u𝑘 , si ha necessariamente 𝛽𝑘 = ⟨x, u𝑘 ⟩. L’ultimo teorema si può anche invertire nel senso che, se per un sistema ortonormale sussiste la (5.13), allora il sistema è completo. Infatti: Teorema 5.66. Siano 𝐻 uno spazio di Hilbert separabile di dimensione infinita ed 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } un sistema ortonormale. Sono allora equivalenti le seguenti affermazioni: 1. 𝐸 è completo. 2. 𝐸 è massimale. 3. Per ogni x ∈ 𝐻, si ha x= ⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖 . ∑ 𝑖∈𝐽
5.2. Spazi di Hilbert
245
4. Per ogni x ∈ 𝐻, sussiste l’identità di Parseval ∑ 𝑖∈𝐽
|⟨x, u𝑖 ⟩|2 = ‖x‖2 .
Dimostrazione. L’equivalenza fra 1 e 2 è stata provata in generale nel Teorema 5.60. Nel teorema precedente abbiamo poi provato che dalla 1 seguono la 3 e la 4. Tenendo conto che 𝐻 è separabile e di dimensione infinita, non sarà restrittivo supporre 𝐽 = ℕ+ . Proviamo ora l’equivalenza fra 3 e 4. A tal fine, ricordiamo che, fissato 𝑁 ∈ ℕ+ , si ha 𝑁
𝑁
2
𝑖 𝑖 𝑖 2 2 ‖x − ∑⟨x, u ⟩u ‖ = ‖x‖ − ∑ |⟨x, u ⟩| . 𝑖=1
𝑖=1
Basta ora far tendere 𝑁 all’infinito. Come ultimo passo, dimostriamo che dalla 3 segue la 1 (cfr. Teorema 5.65). 𝑖 𝑖 Infatti, Se vale la 3, abbiamo lim𝑁→∞ ‖x − ∑𝑁 𝑖=1 ⟨x, u ⟩u ‖ = 0 e, pertanto, x ∈ cl(sp(𝐸)). Quanto appena visto giustifica il nome di base dato a un sistema ortonormale completo. Infatti, invece di esprimere univocamente ogni elemento di 𝐻 come combinazione lineare finita di elementi della base (di Hamel) ora la rappresentazione (sempre univoca) avviene mediante una serie. Abbiamo visto che gli spazi di Hilbert separabili di dimensione infinita possiedono una base di Hilbert numerabile. Notiamo che sussiste anche l’implicazione opposta. Vale infatti il seguente risultato. Teorema 5.67. Sia 𝐻 uno spazio di Hilbert con base di Hilbert al più numerabile. Allora lo spazio è separabile.
Dimostrazione. Sia 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } una base di Hilbert in 𝐻, con 𝐽 al più numerabile. Sia 𝐷 l’insieme di tutte le combinazioni lineari finite di elementi di 𝐸 con coefficienti razionali. 𝐷 è chiaramente numerabile; proviamo che esso è denso in 𝐻. Fissato un x ∈ 𝐻 e un 𝜀 > 0, per la completezza di 𝐸 esiste un elemento y del tipo y = ∑𝑖∈𝐽 ′ 𝛼𝑖 u𝑖 , con 𝐽 ′ finito e ‖y − x‖ < 𝜀/2. Sia 𝑘 il numero degli elementi di 𝐽 ′ . Per ogni coefficiente 𝛼𝑖 , prendiamo un razionale 𝑞𝑖 in modo che |𝛼𝑖 − 𝑞𝑖 | sia minore di un opportuno 𝜀′ . Si ha ora la seguente stima 𝑖 𝑖 𝑖 ‖x − ∑ 𝑞𝑖 u ‖ ≤ ‖x − y‖ + ‖ ∑ 𝛼𝑖 u − ∑ 𝑞𝑖 u ‖ < ′ ′ ′ 𝑖∈𝐽
𝑖∈𝐽
𝑖∈𝐽
𝜀 𝜀 𝜀 < +‖ (𝛼𝑖 − 𝑞𝑖 )u𝑖 ‖ ≤ + |𝛼𝑖 − 𝑞𝑖 | < + 𝑘𝜀′ = 𝜀, ∑ ∑ 2 2 𝑖∈𝐽 2 𝑖∈𝐽 ′
per 𝜀′ ∶= 𝜀/(2𝑘).
5.2. Spazi di Hilbert
246
Confrontando le due definizioni di base, è interessante osservare che, mentre per gli spazi di dimensione finita, i due concetti sono equivalenti (spazi isomorfi e omeomorfi a (ℝ𝑛 , ‖⋅‖2 )), le cose stanno diversamente per gli spazi di dimensione infinita. Ovviamente dal confronto delle due definizioni è chiaro che la cardinalità di una base di Hilbert è sempre minore o uguale a quella di una base di Hamel. Teorema 5.68. Sia 𝐻 uno spazio di Hilbert separabile e di dimensione infinita. Allora ogni sua base di Hamel è non numerabile.
Dimostrazione. Sia 𝐻 come sopra e supponiamo, per assurdo, che ammetta una base di Hamel 𝐵 ∶= {b𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } numerabile. Con il procedimento di Gram-Schmidt, si può costruire una base di Hamel 𝐸 ∶= {e𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ortonormale. Sappiamo infatti che sp(𝐸) = sp(𝐵) = 𝐻. Consideriamo ora l’elemento z ∶= ∑𝑛∈ℕ+ (1/𝑛!)e𝑛 . La definizione è ben posta perché 𝐻 è completo e la serie delle norme è convergente (cfr. Teorema 4.75). Per definizione di base di Hamel, z deve poter essere espresso anche come combinazione lineare finita 𝑖 di elementi della base. Avremmo quindi anche z = ∑𝑁 𝑖=1 𝛼𝑖 e . Si ottiene un assurdo facendo il prodotto scalare ⟨z, e𝑖 ⟩, per 𝑖 > 𝑁. Si tenga ben presente che nel precedente teorema la completezza dello spazio riveste un ruolo fondamentale.
Esempio 5.69. Consideriamo lo spazio 𝑙2 con il suo usuale prodotto scalare (cfr. Definizione 4.78, Esempio 4.80) e in esso il sottospazio vettoriale 𝑉 generato dalla successioni del tipo 𝑈 𝑖 ∶= (𝑎𝑖𝑛 )𝑛 , con 𝑎𝑖𝑛 sempre nullo per 𝑖 ≠ 𝑛 e 𝑎𝑖𝑖 = 1. L’insieme degli 𝑈 𝑖 , con 𝑖 ∈ ℕ+ è un sistema ortonormale completo per lo spazio 𝑉 col prodotto scalare di 𝑙2 ed è, nello stesso tempo, anche una sua base di Hamel. Chiaramente 𝑉 non è completo. Il suo completamento è proprio 𝑙2 . (Esercizio.) Quindi l’insieme degli 𝑈 𝑖 è proprio una base di Hilbert per 𝑙2 . Si osservi, in fine, che ogni successione 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 in 𝑙2 si può esprimere come 𝑆=
∞
∑ 𝑛=1
𝑎𝑛 𝑈 𝑛 =
∞
⟨𝑆, 𝑈 𝑛 ⟩2 𝑈 𝑛 . ∑ 𝑛=1
Risulta quindi che, per questa scelta particolare di base di Hilbert, i coefficienti della successione 𝑆 sono esattamente i coefficienti di Fourier. In questo caso, 2 l’identità di Parseval si legge come ‖𝑆‖22 = ∑∞ 𝑛=1 𝑎𝑛 ritrovando così la definizione della norma due nello spazio. In conclusione, si ha una perfetta analogia con il caso di ℝ𝑛 con la norma euclidea e la base canonica. ◁ L’esempio appena visto ci dà lo spunto per osservare che, come nel caso della dimensione finita gli spazi euclidei ℝ𝑛 costituiscono il “modello” per gli spazi di Hilbert, così nel caso degli spazi separabili di dimensione infinita, lo spazio 𝑙2 è il “modello universale”.
5.2. Spazi di Hilbert
247
Teorema 5.70. Sia 𝐻 uno spazio di Hilbert separabile di dimensione infinita e sia 𝐸 ∶= {u𝑛 ∶ 𝑛 ∈ 𝑁 + } una sua base di Hilbert. L’applicazione che a un elemento x ∈ 𝐻 associa la successione dei suoi coefficienti di Fourier è un isomorfismo lineare e isometrico di 𝐻 su 𝑙2 e quindi anche un omeomorfismo. Dimostrazione. Sia 𝜑 ∶ 𝐻 → 𝑙2 definita da 𝜑(x) ∶= (⟨x, u𝑛 ⟩)𝑛 . La disuguaglianza di Bessel 5.11 garantisce che la definizione è ben posta, perché la serie dei quadrati dei coefficienti di Fourier converge. La linearità è immediata. L’identità di Parseval 5.13 prova che ‖𝜑(x) − 𝜑(y)‖22 = ‖𝜑(x − y)‖22 = ‖x − y‖2𝐻 ,
da cui segue che 𝜑 è un’isometria fra 𝐻 e 𝜑(𝐻) ⊆ 𝑙2 . Per concludere, basta dimostrare che 𝜑 è suriettiva. Presa una generica 𝑛 successione 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ 𝑙2 , consideriamo l’elemento x ∶= ∑∞ 𝑛=1 𝑎𝑛 u . Si osservi che la definizione di x è ben posta, nel senso che la successione (x𝑛 )𝑛 , con x𝑛 ∶= ∑𝑛𝑖=1 𝑎𝑖 u𝑖 è di Cauchy in 𝐻 (Esercizio! Si valuti ‖x𝑛 − x𝑚 ‖2𝐻 ). È ora evidente che gli 𝑎𝑛 sono i coefficienti di Fourier di x e che quindi si ha 𝜑(x) = 𝑆.
5.2.2 Cenni sulle serie di Fourier Il nome di coefficienti di Fourier, da noi adottato nel paragrafo precedente, si riferisce al famoso matematico francese Joseph Fourier (1768–1830) che diede importanti contributi allo studio delle serie trigonometriche, in particolare quelle che oggi vengono chiamate serie di Fourier e che costituiscono un capitolo importante di quell’area dell’Analisi Matematica detta Analisi armonica. Le serie di Fourier risultano essere uno strumento importante in svariate applicazioni della Matematica alla Fisica e all’Ingegneria; esse forniscono un metodo per affrontare problemi di elettronica, meccanica, idraulica. Appaiono in modo naturale in tutti quei modelli matematici rivolti all’analisi di processi di tipo periodico, quali la teoria delle vibrazioni, i moti delle onde, lo studio della luce e del suono. A partire dalla teoria delle serie di Fourier, sono stati poi sviluppati ulteriori strumenti moderni che vengono impiegati nello studio dei segnali e dell’analisi delle frequenze e che vengono utilizzati anche in fenomeni non periodici. Definizione 5.71. Per serie trigonometrica intendiamo usualmente un’espressione del tipo 𝑎0 +
∞
∑ 𝑛=1
(𝑎𝑛 cos 𝑛𝑡 + 𝑏𝑛 sin 𝑛𝑡),
dove i numeri reali 𝑎𝑖 e 𝑏𝑖 sono detti coefficienti della serie.
(5.14) ◁
5.2. Spazi di Hilbert
248
Si noti che le funzioni cos 𝑛𝑡, sin 𝑛𝑡, con 𝑛 ∈ ℕ (per 𝑛 = 0 si ottengono le funzioni costanti 1 e 0; quest’ultima, ovviamente, non si considera) giocano un ruolo analogo a quello delle funzioni 𝑡𝑛 nel caso delle serie di potenze. L’idea di utilizzare delle serie trigonometriche (in luogo di serie di potenze) per rappresentare delle funzioni sorge in modo spontaneo quando tali funzioni siano periodiche. Nell’esempio dato nella (5.14), per motivi di semplicità espositiva, ci siamo limitati al caso di funzioni 2𝜋-periodiche e centrate in 0. Quanto esporremo in questo paragrafo può essere facilmente adattato al caso di funzioni 𝑇 -periodiche centrate in un punto 𝛼, considerando al posto della (5.14) un’espressione del tipo 𝑎0 +
∞
(𝑎 cos 𝑛𝜔(𝑡 − 𝛼) + 𝑏𝑛 sin 𝑛𝜔(𝑡 − 𝛼)), ∑ 𝑛 𝑛=1
𝜔 ∶=
2𝜋 . 𝑇
Precursori della teoria, avendo considerato nei loro studi serie trigonometriche, sono stati importanti matematici quali Daniel Bernoulli, D’Alembert, Lagrange ed Eulero. Alcuni storici fanno risalire l’idea di utilizzare polinomi trigonometrici per studiare funzioni periodiche addirittura agli astronomi e matematici greci. Fourier introdusse le serie che portano il suo nome in un trattato sulla propagazione del calore del 1807, pubblicando poi la sua teoria in forma più completa nel suo libro Théorie analytique de la chaleur nel 1822. La teoria di Fourier, per quanto presentasse degli sviluppi rivoluzionari, fu accolta con poco entusiasmo da alcuni colleghi matematici, visto che all’epoca non era stata ancora sviluppata adeguatamente la teoria della convergenza delle serie di funzioni e quindi l’utilizzo delle serie trigonometriche spesso portava a risultati apparentemente paradossali. Come vedremo più avanti (cfr. Esempio 5.76), se ci proponiamo di esprimere una data funzione 2𝜋-periodica 𝑓 mediante l’uguaglianza 𝑓 (𝑡) = 𝑎0 +
∞
∑ 𝑛=1
(𝑎𝑛 cos 𝑛𝑡 + 𝑏𝑛 sin 𝑛𝑡),
(5.15)
è facile trovare esempi di funzioni anche semplici in cui ciò non è vero per ogni 𝑡, nel senso della convergenza puntuale. Fourier credeva erroneamente che ogni funzione fosse sviluppabile il serie trigonometriche. Come si vedrà, pur di interpretare il segno di uguale in modo appropriato, la sua idea era fondamentalmente giusta, almeno per una vasta classe di funzioni (cfr. Teorema 5.74). Il tentativo di chiarire queste problematiche ha portato a importanti sviluppi dell’Analisi. Per evitare equivoci sull’uso del segno di uguaglianza nella (5.15), spesso si preferisce sostituire il segno “=” col segno “∼”. Prima di addentrarci in un elenco di proprietà specifiche relative alle serie trigonometriche, prendiamo in esame la (5.15) e premettiamo delle osservazioni di carattere elementare assumendo che il lettore abbia familiarità con i concetti di convergenza puntuale e uniforme. Per prima cosa, notiamo che la (5.14) è una serie di funzioni e quindi con tale scrittura intendiamo considerare il limite
5.2. Spazi di Hilbert
249
per 𝑛 che tende all’infinito delle somme parziali date dai polinomi trigonometrici 𝑝𝑛 (𝑡) ∶= 𝑎0 +
𝑛
∑
(𝑎𝑘 cos 𝑘𝑡 + 𝑏𝑘 sin 𝑘𝑡),
𝑘=1
Le funzioni cos 𝑗𝑡 e sin 𝑘𝑡 hanno la proprietà che 𝜋
𝜋
∫ −𝜋
∫ −𝜋
𝑛 ≥ 1.
cos 𝑗𝑡 sin 𝑘𝑡 𝑑𝑡 = 0, ∀𝑗, 𝑘 ∈ ℕ; 𝜋
cos 𝑗𝑡 cos 𝑘𝑡 𝑑𝑡 = 0, ∀𝑗 ≠ 𝑘 ∈ ℕ;
∫ −𝜋
sin 𝑗𝑡 sin 𝑘𝑡 𝑑𝑡 = 0, ∀𝑗 ≠ 𝑘 ∈ ℕ.
Da punto di vista analitico funzionale, considerando nello spazio delle funzioni 2𝜋-periodiche (e continue) il prodotto scalare ⟨𝑢(⋅), 𝑣(⋅)⟩2 ∶=
𝜋
∫ −𝜋
𝑢(𝑡)𝑣(𝑡) 𝑑𝑡,
le relazioni viste sopra dicono che le funzioni 1, cos 𝑗𝑡 e sin 𝑗𝑡 (𝑗 ≥ 1), sono a due a due ortogonali. Possiamo ora considerare la loro norma rispetto a questo prodotto scalare che viene dunque espressa da ‖1‖2 = √2𝜋;
‖𝑤𝑙 ‖2 = √𝜋, se 𝑤𝑙 (𝑡) ∶= cos 𝑗𝑡;
‖𝑤𝑙 ‖2 = √𝜋, se 𝑤𝑙 (𝑡) ∶= sin 𝑗𝑡.
Quindi, a meno di costanti di normalizzazione (1/√2𝜋 e 1/√𝜋), abbiamo un sistema ortonormale rispetto al prodotto scalare ⟨⋅, ⋅⟩2 . Purtroppo la strada è ancora lunga per poter rientrare nella teoria generale vista nel paragrafo precedente. Infatti, per prima cosa, lo spazio delle funzioni continue con la norma ‖⋅‖2 non è di Hilbert (cfr. Teorema 4.73); inoltre, è da dimostrare che il nostro sistema ortonormale sia completo (massimale). Tuttavia, con queste informazioni, siamo per lo meno in grado di valutare i coefficienti 𝑎𝑛 e 𝑏𝑛 in modo tale che lo sviluppo di una funzione 2𝜋-periodica 𝑓 secondo la (5.15) sia corretto. Da un primo punto di vista (più diretto), possiamo ragionare come segue: supponiamo che valga la rappresentazione (5.15) nel senso della convergenza uniforme. Usando i teoremi di passaggio al limite sotto il segno di integrale per le successioni uniformemente convergenti, si otterrà: 𝑎𝑛 =
1 𝜋
𝑎0 =
∫−𝜋 𝑓 (𝑡) cos 𝑛𝑡 𝑑𝑡; 𝜋
1 2𝜋
∫−𝜋 𝑓 (𝑡) 𝑑𝑡; 𝜋
𝑏𝑛 =
1 𝜋
∫−𝜋 𝑓 (𝑡) sin 𝑛𝑡 𝑑𝑡; 𝜋
𝑛 ≥ 1.
(5.16)
Infatti, la prima relazione si ottiene facendo la media integrale su entrambi i membri della (5.15), mentre le altre relazioni si ottengono moltiplicando per
5.2. Spazi di Hilbert
250
cos 𝑛𝑡 o sin 𝑛𝑡 e integrando da −𝜋 a 𝜋. I coefficienti 𝑎0 , 𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 , (𝑛 ≥ 1) sono tradizionalmente detti i coefficienti di Eulero-Fourier della funzione 𝑓 e la corrispondente serie trigonometrica nella (5.15) è detta serie di Fourier associata a 𝑓. Da un secondo punto di vista (più astratto), possiamo anche ragionare nel seguente modo. Sia 𝑋 il completamento dello spazio delle funzioni continue 2𝜋-periodiche rispetto alla norma ‖⋅‖2 (cfr. Teorema 4.71). Sia poi 𝐻 la chiusura in 𝑋 dello spazio generato dalle funzioni 1, cos 𝑛𝑡, sin 𝑛𝑡, con 𝑛 ≥ 1. Per costruzione, (𝐻, ⟨⋅, ⋅⟩2 ) è uno spazio di Hilbert separabile di cui l’insieme 𝐸 ∶=
1 1 1 , cos 𝑛𝑡, sin 𝑛𝑡, con 𝑛 ≥ 1 { √2𝜋 √𝜋 } √𝜋
è un sistema ortonormale completo. Ogni elemento 𝑔 ∈ 𝐻 si esprime, per il Teorema 5.66, in un unico modo nella forma
+
∞
𝜋
∑ [∫ −𝜋 𝑛=1
𝑔(𝑡) =
𝑔(𝑡)
con 𝑐𝑛 ∶=
1 𝜋
cos 𝑛𝑡 √𝜋
𝑑𝑡 ⋅
𝜋
∫ −𝜋 1
√𝜋
= 𝑐0 +
∞
∑ 𝑛=1
1
𝑑𝑡 ⋅
√2𝜋
cos 𝑛𝑡 +
𝜋
∫ −𝜋
1
√2𝜋
𝑔(𝑡)
+
sin 𝑛𝑡 √𝜋
(𝑐𝑛 cos 𝑛𝑡 + 𝑑𝑛 sin 𝑛𝑡),
𝑐0 ∶=
∫−𝜋 𝑔(𝑡) cos 𝑛𝑡 𝑑𝑡; 𝜋
𝑔(𝑡)
1 2𝜋
∫−𝜋 𝑔(𝑡) 𝑑𝑡; 𝜋
𝑑𝑛 ∶=
1 𝜋
𝑑𝑡 ⋅
√𝜋
∫−𝜋 𝑔(𝑡) sin 𝑛𝑡 𝑑𝑡; 𝜋
1
sin 𝑛𝑡 = ]
𝑛 ≥ 1.
Abbiamo così ritrovato esattamente la stessa espressione della (5.16) per la funzione 𝑔. Questi due punti di vista, pur portando allo stesso risultato in termini dei coefficienti di Fourier nella (5.15), fanno uso di ipotesi di partenza diverse e sono entrambi (per il momento) incompleti. Nel primo caso abbiamo supposto che la convergenza della serie trigonometrica fosse uniforme, abbiamo trovato i coefficienti (condizione necessaria) usando i teoremi sulle serie di funzioni continue, ma rimarrebbe da dimostrare che, per tali coefficienti, vale effettivamente la rappresentazione (5.15) almeno in senso puntuale. Nel secondo caso, applicando la teoria generale, otteniamo l’identità (5.15), ma essa è garantita soltanto nel senso della convergenza della norma ‖⋅‖2 . Inoltre, la trattazione non è ancora completa perché abbiamo dimostrato che la rappresentazione vale per gli elementi dello spazio 𝐻, ma non sappiamo al momento come siano caratterizzati tali elementi.
5.2. Spazi di Hilbert
251
2 Per questo secondo punto, la risposta è che è 𝑋 = 𝐻 = 𝐿2𝜋 , dove questo simbolo indica lo spazio delle funzioni 𝑓 ∶ ℝ → ℝ tali che 𝑓 (𝑡 + 2𝜋) = 𝑓 (𝑡) 𝜋 per quasi ogni 𝑡 ∈ ℝ e tali che ∫−𝜋 |𝑓 (𝑡)|2 𝑑𝑡 < ∞. Il termine “quasi ogni” significa “a meno di insieme di misura nulla” rispetto alla misura di Lebesgue e l’integrale è quello di Lebesgue. Questo spazio si può identificare con lo spazio 𝐿2 (𝐼), con 𝐼 ∶= [−𝜋, 𝜋] (cfr. pag. 186). Fatta salva l’identità dello spazio 𝐻 che abbiamo enunciato senza dimostrazione e per la quale rimandiamo a qualche testo specializzato sull’integrale di Lebesgue (per esempio [70]), la teoria generale sviluppata nel paragrafo precedente ci permette di affermare che, per ogni funzione 𝑓 ∈ 𝐿22𝜋 , vale la rappresentazione data dalla (5.15), con i coefficienti (di Fourier) espressi dalla (5.16); naturalmente, l’uguaglianza va 2 intesa nello spazio 𝐿2𝜋 . Inoltre, l’identità di Parseval (cfr. Teorema 5.66) ci permette anche di dire che ∞
1 1 2 2 ‖𝑓 ‖22 = 𝑎20 + (𝑎𝑛 + 𝑏𝑛 ). 2𝜋 2∑ 𝑛=1
(5.17)
Ammettendo l’uguaglianza 𝑋 = 𝐻 = 𝐿22𝜋 , possiamo applicare tutti i risultati visti nel paragrafo precedente. In particolare, il Teorema 5.70 ci assicura una condizione necessaria e sufficiente affinché una serie trigonometriche del tipo (5.14) definisca una funzione in 𝐿22𝜋 . Da esso, infatti, si ottiene il seguente risultato (cfr. [84]): 2 2 Teorema 5.72 (di Riesz-Fischer). Se (e solo se) la serie 𝑎20 + ∑∞ 𝑛=1 (𝑎𝑛 + 𝑏𝑛 ) converge, allora esiste una funzione 𝑓 ∈ 𝐿22𝜋 di cui gli elementi 𝑎𝑖 , 𝑏𝑗 sono i coefficienti di Fourier.
Osservazione 5.73. Sottolineiamo che la funzione 𝑓 di cui al teorema precedente è unica (come elemento di 𝐿22𝜋 ), cioè a meno di un insieme di misura nulla. Per chiarire questo concetto a chi non ha familiarità con gli spazi 𝐿𝑝 , consideriamo il seguente esempio banale. Sia 𝑓 ∶ ℝ → ℝ la funzione di Dirichlet, ovvero la funzione caratteristica dell’insieme dei numeri razionali. Dalle proprietà dell’integrale di Lebesgue segue che tutti i coefficienti di Fourier di 𝑓 sono nulli. La corrispondente serie trigonometrica genera ovviamente la funzione nulla. La cosa è perfettamente coerente visto che 𝑓 e la funzione nulla si identificano come elementi di 𝐿2 . ◁
Ricapitolando, la situazione per gli spazi 𝐿2 è la seguente: • Ogni funzione di 𝐿22𝜋 è sviluppabile univocamente in serie di Fourier con coefficienti dati dalla (5.16) e la convergenza della serie s’intende nella norma di 𝐿2 . • Vale l’identità di Parseval nella forma della (5.17). • Assegnata una sequenza 𝑎𝑖 , 𝑏𝑗 , con 𝑖 ≥ 0, 𝑗 ≥ 1, di coefficienti in 𝑙2 , esiste una (unica) funzione di 𝐿22𝜋 sviluppabile in serie di Fourier esattamente con questi coefficienti.
5.2. Spazi di Hilbert
252
A questo punto, la teoria è sistemata per gli spazi 𝐿2 . Rimangono aperte moltissime questioni che, sia per motivi di spazio, sia per la scelta delle tematiche da trattare in questo libro, non possiamo affrontare e per le quali rimandiamo ai testi specializzati (cfr. [13], [58], [71], [84]). Concludiamo comunque il paragrafo fornendo alcune informazioni che possono essere utili per farsi un’idea della grande quantità di risultati significativi sull’argomento. Per semplicità di esposizione, nella rassegna degli spazi che andremo ora a considerare ometteremo l’indice 2𝜋 anche se supporremo sempre le funzioni 2𝜋-periodiche. Cominciamo col segnalare il seguente risultato, di cui non riportiamo la dimostrazione per motivi di spazio:
Teorema 5.74. Se 𝑓 ∈ 𝐿𝑝 , con 𝑝 ∈ ]1, ∞[, allora la sua serie di Fourier converge a 𝑓 nella norma 𝑝-ima e, inoltre, la convergenza è puntuale a meno di un insieme di misura nulla. La prima parte del risultato ora enunciato è classica, mentre per quanto riguarda la convergenza puntuale, si tratta di un teorema fondamentale per l’Analisi moderna e la sua dimostrazione è generalmente considerata la più difficile e complessa nella teoria delle serie di Fourier (cfr. [58]). Il risultato fu dimostrato per la prima volta nel caso 𝑝 = 2 nel 1966 da Lennart Carleson, risolvendo così un problema che era rimasto aperto per molto tempo (congettura di Luzin, 1915). L’estensione agli spazi 𝐿𝑝 , con 1 < 𝑝 < ∞, è dovuta a Richard Hunt (1968), per cui la parte del teorema che si riferisce alla convergenza puntuale è nota anche come Teorema di Carleson-Hunt. La situazione è drasticamente diversa per la norma 1. Infatti nel 1926 Kolmogorov trovò un esempio di una funzione di 𝐿1 la cui serie di Fourier non converge in alcun punto e tanto meno nella norma 1 (cfr. ancora [58], [84]). Le funzioni di 𝐿1 sono comunque importanti nella trattazione delle serie di Fourier perché sono la classe più ampia di funzioni per cui possiamo definire i coefficienti di Fourier. Per esse vale un risultato noto come Lemma di Riemann-Lebesgue che assicura che i coefficienti di Fourier definiti dalla (5.16) sono infinitesimi. Questo risultato ha un interesse che va oltre la teoria delle serie di Fourier e, pertanto, ne daremo una dimostrazione alla fine del paragrafo (cfr. Teorema 5.77). Per quanto riguarda le funzioni in 𝐿∞ e quindi “essenzialmente limitate”, ci si può ricondurre ad alcuni risultati più classici sviluppati, nel caso delle funzioni continue o continue a tratti, già dai matematici del XIX secolo (cfr. [13]). Teorema 5.75. Se 𝑓 ∈ 𝐿∞ è lipschitziana in un punto 𝑡0 , allora la sua serie di Fourier converge nel punto. Se la funzione è globalmente lipschitziana, allora la sua serie di Fourier converge addirittura uniformemente. Nel caso in cui, in un punto 𝑡0 , esistano finiti i limiti destro e sinistro 𝑙+ ed 𝑙− e, inoltre, il rapporto incrementale di 𝑓 si mantenga limitato sia in un intorno destro sia
5.2. Spazi di Hilbert
253
in uno sinistro di 𝑡0 , allora la serie di Fourier, nel punto 𝑡0 , converge al valor medio (𝑙+ + 𝑙− )/2.
Ne segue che per una funzione di classe 𝐶 1 a tratti c’è: (𝑎) la convergenza puntuale in tutti i punti esclusi quelli “di salto”, (𝑏) la convergenza al valor medio dei limiti sinistro e destro per questi punti e (𝑐) la convergenza uniforme in ogni sottointervallo chiuso e limitato che non contenga punti di salto. In fine, per quanto riguarda la continuità soltanto, se ci accontentiamo della convergenza quasi ovunque e in 𝐿2 , possiamo fare riferimento al Teorema 5.74; se invece volessimo ottenere la convergenza puntuale ovunque, purtroppo ciò non è possibile, visto che du Bois-Reymond trovò nel 1876 un esempio di funzione continua la cui serie di Fourier non converge in un punto (cfr. [84]). Come preannunciato a pag. 248, diamo un esempio di funzione sviluppabile in serie di Fourier per cui l’uguaglianza (5.15) non si può leggere per ogni 𝑡. Esempio 5.76. Consideriamo la funzione 𝑓 (𝑡) ∶= 𝑡, per 𝑡 ∈ [−𝜋, 𝜋[ e prolungata per periodicità a tutto ℝ. La funzione è dispari nell’intervallo aperto ] − 𝜋, 𝜋[, pertanto i coefficienti 𝑎𝑛 dei termini col coseno sono nulli. Con un semplice calcolo, si vede che risulta 𝑏𝑛 =
La (5.15) diventa
1 2 𝑡 sin 𝑛𝑡 𝑑𝑡 = (−1)𝑛+1 . ∫ 𝜋 −𝜋 𝑛 𝜋
𝑓 (𝑡) ∼
∞
2 (−1)𝑛+1 sin 𝑛𝑡. ∑ 𝑛 𝑛=1
È chiaro che tale formula non vale per ogni 𝑡 ∈ ℝ; infatti è ovviamente falsa per 𝑡 = 𝑘𝜋, con 𝑘 ∈ ℤ. Tuttavia, per 𝑡 = 𝑘𝜋, la media fra i limiti destro e sinistro di 𝑓 è nulla e coincide con il valore della serie trigonometrica calcolata nel punto. Il Teorema 5.75 assicura che, per ogni 𝑡0 ≠ 𝑘𝜋 vale proprio la (5.15). Inoltre, per tale teorema, sappiamo anche che c’è la convergenza uniforme in ogni intervallo del tipo [−𝑎, 𝑎], con 0 < 𝑎 < 𝜋. Se applichiamo l’identità di Parseval (5.17) nel nostro caso, otteniamo ∞
2𝜋 2 1 1 = 𝑡2 𝑑𝑡 = 4 , 2 ∑ 3 𝜋∫ 𝑛 −𝜋 𝑛=1 𝜋
da cui si ottiene l’identità
∞
1 𝜋2 = . ∑ 𝑛2 6 𝑛=1
Quest’ultima identità ha una notevole importanza storica: Infatti, fu dimostrata per la prima volta da Eulero nel 1735 (a 28 anni) risolvendo il cosiddetto Problema di Basilea, proposto da Mengoli nel 1644, e che consisteva nel determinare la somma della serie dei quadrati dei reciproci dei numeri naturali
5.2. Spazi di Hilbert
254
positivi. Successivamente, Eulero generalizzò il suo risultato a serie numeriche più complicate e le sue ricerche ispirarono Riemann nella sua definizione della funzione “zeta” (1859) definita da 𝜁(𝑠) ∶=
∞
1 . ∑ 𝑛𝑠 𝑛=1
Con questo esercizio, grazie alle serie di Fourier, abbiamo dimostrato che è 𝜁(2) = 𝜋 2 /6. ◁
Come preannunciato, concludiamo il paragrafo dando una dimostrazione del Lemma di Riemann-Lebesgue. Per semplicità, l’esposizione viene fatta nell’ambito delle funzioni integrabili secondo Riemann. La stessa argomentazione può essere estesa al caso delle funzioni integrabili secondo Lebesgue. Teorema 5.77 (Lemma di Riemann-Lebesgue). Sia 𝑓 una funzione assolutamente integrabile secondo Riemann su un intervallo 𝐼 (limitato o no). Si ha allora lim 𝑓 (𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 = 0; lim 𝑓 (𝑡) cos 𝜆𝑡 𝑑𝑡 = 0. 𝜆→∞ ∫ 𝜆→∞ ∫ 𝐼 𝐼
Dimostrazione. Occupiamoci del primo limite, procedendo per gradi; l’altro si prova in modo analogo. Intanto, l’ipotesi su 𝑓 garantisce l’esistenza dei due integrali di cui sopra. Supponiamo, intanto, che sia 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏] e che 𝑓 sia la funzione costante 1. Si ha
da cui
∫ 𝑎
𝑏
𝑓 (𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 =
∫ 𝑎
|∫ 𝑎
𝑏
𝑏
sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 = [−
cos 𝜆𝑡 𝑏 1 = (cos 𝜆𝑎 − cos 𝜆𝑏), 𝜆 ]𝑎 𝜆
2 𝑓 (𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 ≤ −−−−→ 0. | 𝜆 𝜆→∞
Ovviamente, la stessa dimostrazione prova che ∫𝐽 sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 → 0, per 𝜆 → ∞, con 𝐽 arbitrario sottointervallo di 𝐼. Come secondo passo, supponiamo che 𝑓 sia una funzione a scala, sempre con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏]. Esistano cioè 𝑁(∈ ℕ+ ) intervalli 𝐼𝑘 ∶= [𝑎𝑘−1 , 𝑎𝑘 ], con 𝑎 =∶ 𝑎0 < 𝑎1 < ⋯ < 𝑎𝑁 ∶= 𝑏, tali che 𝑓 assume un valore costante 𝑐𝑘 su int 𝐼𝑘 . Possiamo scrivere allora 𝑓 (𝑡) ≃ 𝑔(𝑥) ∶=
𝑁
∑
𝑘=1
𝑐𝑘 𝑔𝑘 (𝑡),
dove, per ogni 𝑘 ≤ 𝑁, 𝑔𝑘 è la funzione che vale 1 su 𝐼𝑘 e 0 su 𝐼 ⧵ 𝐼𝑘 . Le funzioni 𝑓 e 𝑔 coincidono su 𝐼 salvo che su un numero finito di punti. Si ottiene ∫ 𝑎
𝑏
𝑓 (𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 =
𝑁
∑∫ 𝑎
𝑘=1
𝑏
𝑐𝑘 𝑔𝑘 (𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 =
𝑁
∑
𝑘=1
𝑐𝑘
∫ 𝐼𝑘
sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 −−−−→ 0, 𝜆→∞
5.2. Spazi di Hilbert
255
dato che si tratta della somma di un numero finito di addendi ciascuno dei quali, per il punto precedente, è infinitesimo. Sia ora 𝑓 un’arbitraria funzione assolutamente integrabile secondo Riemann su 𝐼, sempre con 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏]. Fissato 𝜀 > 0, esiste una funzione a scala 𝑔 ∶ 𝐼 → ℝ tale che 𝑏 𝜀 |𝑓 (𝑡) − 𝑔(𝑡)| 𝑑𝑡 < . ∫ 2 𝑎 Per una tale 𝑔, si ottiene 𝑏
𝑏
𝑏
𝑓 (𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 = (𝑓 (𝑡) − 𝑔(𝑡)) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 + 𝑔(𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 ≤ |∫ | |∫ | ∫ 𝑎 𝑎 𝑎 ≤
∫ 𝑎
𝑏
≤
∫ 𝑎
𝑏
|𝑓 (𝑡) − 𝑔(𝑡)|| sin 𝜆𝑡| 𝑑𝑡 +
|𝑓 (𝑡) − 𝑔(𝑡)| 𝑑𝑡 +
𝑏
|∫ 𝑎
𝑔(𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 ≤ |
𝜀 𝑔(𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 ≤ + 𝑔(𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 . |∫ | |∫ | 2 𝑎 𝑎 𝑏
𝑏
A questo punto, la tesi è immediata, dato che anche l’ultimo integrale è definitivamente minore di 𝜀/2. Come ultimo passo, consideriamo una funzione 𝑓 assolutamente integrabile su un qualunque intervallo 𝐼. Il caso in cui 𝐼 sia limitato, ma non chiuso, si risolve facilmente: basta prolungare arbitrariamente 𝑓 agli estremi dell’intervallo. Supponiamo dunque che 𝐼 sia illimitato. Fissato 𝜀 > 0, esiste un intervallo chiuso e limitato 𝐽 ⊂ 𝐼 tale che ∫𝐼⧵𝐽 |𝑓 (𝑡)| 𝑑𝑡 < 𝜀/2. Ora si ha |∫ 𝐼
𝜀 𝑓 (𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 ≤ 𝑓 (𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 + |𝑓 (𝑡)|𝑑𝑡 ≤ 𝑓 (𝑡) sin 𝜆𝑡 𝑑𝑡 + . | |∫ | |∫ | ∫ 2 𝐽 𝐼⧵𝐽 𝐽
Siamo così in una situazione analoga alla precedente.
5.2.3 Altri esempi di sistemi ortonormali L’esempio delle serie di Fourier è storicamente quello più rilevante e, come si è visto, si presta ottimamente a trattare il caso delle funzioni periodiche. Prendendo dei sottosistemi (per esempio quello costituito dalle sole funzioni di tipo coseno o del tipo seno), si potrebbero trattare le funzioni pari su [−𝜋, 𝜋] o, rispettivamente, quelle sull’intervallo [0, 𝜋] che si annullano agli estremi (e che quindi generano le funzioni dispari su ] − 𝜋, 𝜋[). Il procedimento di Gram-Schmidt è, tuttavia, di tipo universale. Pertanto, una volta che sia fissato un prodotto scalare che renda completo un certo spazio di funzioni, esso permette di costruire sistemi ortonormali anche a partire da funzioni che non abbiano particolari simmetrie. Si possono ottenere così altri modi per rappresentare una funzione 𝑓 nella forma 𝑓∼
∞
∑ 𝑛=0
𝑐𝑛 𝜑𝑛 ,
(5.18)
5.2. Spazi di Hilbert
256
dove le 𝜑𝑛 sono speciali funzioni di un sistema ortonormale completo, i 𝑐𝑛 sono i corrispondenti coefficienti di Fourier (rispetto a un certo prodotto scalare) e il simbolo ∼ indica il fatto che 𝑓 si rappresenta come una serie del tipo di Fourier in termini di tali funzioni speciali. Bisognerà poi discutere di volta in volta se la rappresentazione (5.18), che la teoria ci garantisce nel senso della convergenza di una serie in uno spazio di Hilbert, è anche una convergenza in senso puntuale o uniforme. Tali problematiche sono di fondamentale importanza anche nella teoria dell’approssimazione e quindi anche nell’Analisi Numerica e, in senso lato, anche in settori quali l’Informatica e l’Ingegneria. Un tipico esempio per produrre sistemi ortonormali negli spazi 𝐿2 è il seguente. Si fissa un intervallo 𝐼 ⊆ ℝ (non necessariamente chiuso e limitato) e si considera una funzione peso 𝜂 ∶ 𝐼 → ℝ+ ∪ {0} continua, integrabile e strettamente positiva a meno di un numero finito di punti. Si introduce quindi uno spazio 𝐻 ∶= 𝐿2𝜂 (𝐼) costituito dalle funzioni 𝑓 ∶ 𝐼 → ℝ, misurabili secondo Lebesgue 3 e tali che l’integrale ∫𝐼 𝑓 2 (𝑡)𝜂(𝑡) 𝑑𝑡 sia finito. Definendo in 𝐻 il prodotto scalare e la conseguente norma ⟨𝑓 , 𝑔⟩𝜂 ∶=
∫ 𝐼
𝑓 (𝑡)𝑔(𝑡)𝜂(𝑡) 𝑑𝑡,
‖𝑓 ‖𝜂 ∶=
√∫ 𝐼
𝑓 2 (𝑡)𝜂(𝑡) 𝑑𝑡,
si può verificare (fatto non banale) che 𝐻 è uno spazio di Hilbert separabile. Il sistema ortonormale viene ora prodotto, con il metodo di Gram-Schmidt, a partire da una successione di funzioni che generi un sottospazio denso. Questa successione di funzioni verrà scelta a partire da certe proprietà caratteristiche fissate di volta in volta. In molti esempi classici tali funzioni sono soluzioni di opportune equazioni differenziali lineari. Elenchiamo ora alcuni fra i più noti esempi che hanno un certo rilievo anche dal punto di vista dell’Analisi Numerica. Esempio 5.78 (Polinomi di Legendre). Si prende 𝐼 ∶= ] − 1, 1[, 𝜂(𝑡) ∶= 1. In questo caso, 𝐻 ∶= 𝐿2 (𝐼) con l’usuale prodotto scalare. Il sistema ortonormale (𝜑𝑛 )𝑛 è quello ottenuto a partire dalle funzioni 1, 𝑡, … , 𝑡𝑛 , … . Avremo così 𝜑0 (𝑡) ∶=
1
√2
,
3 𝜑1 (𝑡) ∶= √ 𝑡, 2
𝜑2 (𝑡) ∶=
3 5 2 (𝑡 − 1/3), … 2√2
Si può verificare che tali funzioni sono del tipo 𝜑𝑛 (𝑡) ∶= √
2𝑛 + 1 ℒ𝑛 (𝑡), 2
dove le funzioni ℒ𝑛 , dette polinomi di Legendre, si ottengono per ricorrenza da ℒ0 (𝑡) ∶= 1,
3
ℒ1 (𝑡) ∶= 𝑡,
Cfr. nota a pag. 177.
ℒ𝑛+1 (𝑡) ∶=
2𝑛 + 1 𝑛 𝑡ℒ𝑛 (𝑡) − ℒ (𝑡), 𝑛+1 𝑛 + 1 𝑛−1
5.2. Spazi di Hilbert
257
o, equivalentemente, possono essere espressi mediante la formula di Rodrigues ℒ𝑛 (𝑡) =
Si vede facilmente che è funzioni pari per 𝑛 pari e ottiene ℒ2 (𝑡) =
1 𝑑𝑛 2 (𝑡 − 1)𝑛 . 2𝑛 𝑛! 𝑑𝑡𝑛
ℒ𝑛 (−𝑡) = (−1)𝑛 ℒ𝑛 (𝑡), per cui questi polinomi sono dispari per 𝑛 dispari. Facendo poi qualche calcolo si
1 2 (3𝑡 − 1), 2
ℒ3 (𝑡) =
1 3 (5𝑡 − 3𝑡), … 2
L’insieme dei polinomi di Legendre {ℒ𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} costituisce un sistema ortogonale completo in 𝐿2 (𝐼). (La verifica di questo fatto si ottiene agevolmente da quanto osservato in precedenza, purché si sappia che l’insieme dei polinomi in 𝑡 è denso in 𝐿2 (𝐼).) Si può, in fine, dimostrare che i polinomi di Legendre di ordine 𝑛 sono soluzioni dell’equazione differenziale lineare omogenea (dipendente da 𝑛) (1 − 𝑡2 )𝑦″ − 2𝑡𝑦′ + 𝑛(𝑛 + 1)𝑦 = 0.
◁
Esempio 5.79 (Polinomi di Hermite). Partiamo dall’intervallo 𝐼 ∶= ℝ e dalla funzione peso 𝜂(𝑡) ∶= exp(−𝑡2 /2). In questo caso, come sopra si è detto, lo spazio di Hilbert 𝐻 è quello delle funzioni 𝑓 ∶ ℝ → ℝ misurabili secondo Lebesgue e +∞ tali che ∫−∞ 𝑓 2 (𝑡)𝜂(𝑡) 𝑑𝑡 < ∞ e il prodotto scalare diventa ⟨𝑓 , 𝑔⟩ =
+∞
∫ −∞
𝑓 (𝑡)𝑔(𝑡) exp(−𝑡2 /2) 𝑑𝑡.
È facile verificare che tutti i polinomi nella variabile 𝑡 appartengono a tale spazio. Si può quindi considerare il sistema ortonormale (𝜑𝑛 )𝑛 ottenuto a partire dalle funzioni 1, 𝑡, … , 𝑡𝑛 , … . Si può verificare che tali funzioni sono del tipo 𝜑𝑛 (𝑡) ∶=
1
(2𝜋)1/4 √𝑛!
ℋ𝑛 (𝑡),
dove le funzioni ℋ𝑛 , dette polinomi di Hermite, si ottengono per ricorrenza da ℋ0 (𝑡) ∶= 1,
ℋ1 (𝑡) ∶= 𝑡,
ℋ𝑛+1 (𝑡) ∶= 𝑡ℋ𝑛 (𝑡) − ℋ𝑛′ (𝑡),
o, equivalentemente, possono essere espresse mediante la formula ℋ𝑛 (𝑡) = (−1)𝑛 exp(𝑡2 /2)
𝑑𝑛 exp(−𝑡2 /2). 𝑑𝑡𝑛
Si vede ancora che questi polinomi sono funzioni pari per 𝑛 pari e dispari per 𝑛 dispari. Facendo poi qualche calcolo si ottiene ℋ2 (𝑡) = 𝑡2 − 1,
ℋ3 (𝑡) = 𝑡3 − 3𝑡,
ℋ4 (𝑡) = 𝑡4 − 6𝑡2 + 3, …
5.2. Spazi di Hilbert
258
Anche l’insieme dei polinomi di Hermite {ℋ𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} costituisce un sistema ortogonale completo in 𝐿2𝜂 (ℝ), ma la verifica richiederebbe degli strumenti che esulano dai nostri scopi. Nell’esempio precedente abbiamo visto che la base ortogonale dei polinomi di Legendre poteva essere definita mediante una famiglia di soluzioni di una classe di equazioni differenziali. Anche in questo caso vale un risultato analogo. Consideriamo l’operatore differenziale 𝑢 ↦ −𝑢″ + 𝑡𝑢′
e chiamiamo suoi autovalori i numeri reali 𝜆 per cui esistono soluzioni non triviali dell’equazione differenziale −𝑢″ + 𝑡𝑢′ = 𝜆𝑢 che soddisfano a particolari condizioni agli estremi dell’intervallo di definizione. Visto che si studia un problema su un intervallo non limitato (tutto ℝ), imponiamo inoltre che tali soluzioni non triviali abbiano crescita all’infinito al più polinomiale. Con tali condizioni, i polinomi di Hermite sono le autosoluzioni corrispondenti agli autovalori 𝜆𝑛 = 𝑛. In altri termini, le funzioni ℋ𝑛 (𝑡) soddisfano all’equazione differenziale lineare 𝑦″ − 𝑡𝑦′ + 𝑛𝑦 = 0. È ben noto (tecnica del fattore integrante) che tale equazione è equivalente a 2 ′ 2 ( exp(−𝑡 /2)𝑦 ) + 𝑛 exp(−𝑡 /2)𝑦 = 0, ′
in cui risulta esplicita la presenza della funzione peso exp(−𝑡2 /2). Alcuni Autori definiscono i polinomi di Hermite da noi considerati come polinomi di Hermite “del probabilista”, visto che sono associati alla funzione Gaussiana espressa da (1/√2𝜋) exp(−𝑡2 /2) che ha integrale 1 fra −∞ e +∞. Vi sono altri polinomi di Hermite detti “del fisico”, che indicheremo con 𝐻𝑛 (𝑡) e che si ottengono con lo stesso procedimento prendendo come funzione 2 peso 𝜂(𝑡) ∶= 𝑒−𝑡 . Il sistema ortonormale (𝜑𝑛 )𝑛 viene ora ottenuto da 𝜑𝑛 (𝑡) ∶=
1
(𝜋)1/4 √2𝑛 𝑛!
𝐻𝑛 (𝑡),
dove le funzioni 𝐻𝑛 , dette ancora polinomi di Hermite, si ottengono per ricorrenza da 𝐻0 (𝑡) ∶= 1,
𝐻1 (𝑡) ∶= 2𝑡,
𝐻𝑛+1 (𝑡) ∶= 2𝑡𝐻𝑛 (𝑡) − 𝐻𝑛′ (𝑡),
o, equivalentemente, possono essere espresse mediante la formula 𝐻𝑛 (𝑡) = (−1)𝑛 𝑒𝑡
2
𝑑 𝑛 −𝑡2 𝑒 . 𝑑𝑡𝑛
Si vede ancora che questi polinomi sono funzioni pari per 𝑛 pari e dispari per 𝑛 dispari. Facendo poi qualche calcolo si ottiene 𝐻2 (𝑡) = 4𝑡2 − 2,
𝐻3 (𝑡) = 8𝑡3 − 12𝑡,
𝐻4 (𝑡) = 16𝑡4 − 48𝑡2 + 12, …
5.2. Spazi di Hilbert
259
Si passa da una classe all’altra dei polinomi di Hermite mediante le formule 𝐻𝑛 (𝑡) = 2𝑛/2 ℋ𝑛 (√2𝑡),
ℋ𝑛 (𝑡) = 2−𝑛/2 𝐻𝑛 (𝑡/√2).
In fine, se vogliamo esprimere questa seconda classe dei polinomi di Hermite come autosoluzioni corrispondenti a un problema di autovalori per equazioni differenziali lineari, l’equazione di riferimento diventa 𝑦″ − 2𝑡𝑦′ + 2𝑛𝑦 = 0.
I polinomi di Hermite del fisico sono importanti perché si utilizzano nella ricerca delle soluzioni dell’equazione di Schrödinger per l’oscillatore armonico quantistico: !2 𝜕 2 𝜓 𝑘 2 − + 𝑧 𝜓 = 𝐸𝜓, 2𝑚 𝜕𝑧2 2 dove ! è la costante di Planck, 𝑚 è la massa della particella, 𝑘 > 0 è una costante ed 𝐸 è l’energia della particella. Questa equazione è l’analogo in Meccanica Quantistica dell’equazione dell’oscillatore armonico nella Meccanica Classica che è del tipo 𝑦″ + 𝑘𝑦 = 0. Per trovare delle soluzioni dell’equazione di Schrödinger, per prima cosa, si attua un cambiamento di variabili, scrivendo l’equazione in una forma adimensionale del tipo 𝜕2𝜓 − 𝑧2 𝜓 = −𝜀𝜓. 𝜕𝑧2
Di tale equazione si cercano delle soluzioni del tipo
𝑈 (𝑧) ∶= exp(−𝑧2 /2)𝐻𝑛 (𝑧),
dove 𝐻𝑛 (𝑧) è l’𝑛-imo polinomio di Hermite (del fisico) che, come si è visto sopra, è soluzione dell’equazione differenziale 𝑦″ (𝑧) − 2𝑧𝑦′ (𝑧) + 2𝑛𝑦(𝑧) = 0. Dopo aver calcolato 𝑈 ′ (𝑧) e 𝑈 ″ (𝑧) e tenuto conto della precedente relazione riguardante 𝐻𝑛 (𝑧), si ottiene 𝑈 ″ (𝑧) + ((2𝑛 + 1) − 𝑧2 ) 𝑈 (𝑧) = 0. Tale equazione ha la stessa struttura dell’equazione di Schrödinger che infatti si può scrivere in modo equivalente come 𝜓 ″ (𝑧) + (
2𝑚𝐸 𝑚𝑘 2 − 2 𝑧 ) 𝜓(𝑧) = 0. !2 !
Con dei semplici riscalamenti, si può esprimere la funzione 𝜓 come 𝜓(𝑧) = 𝑈 (𝛼𝑧),
con 𝛼 > 0 opportuna costante. Infatti, si ha
𝜓 ″ (𝑧) = 𝛼 2 𝑈 ″ (𝛼𝑧) = −𝛼 2 ((2𝑛 + 1) − 𝛼 2 𝑧2 ) 𝜓(𝑧).
5.2. Spazi di Hilbert
260
Quindi si tratta di scegliere 𝛼 > 0 in modo che sia 𝛼 4 = 𝑚𝑘/!2 . Per tale scelta di 𝛼, si ricava ovviamente √𝑚𝑘/! = 𝛼 2 e, pertanto, si ottiene la condizione
√𝑚𝑘(2𝑛 + 1) 2𝑚𝐸 = 2 ! ! affinché la funzione 𝜓 definita sopra sia soluzione dell’equazione di Schrödinger. Questo comporta la seguente condizione sul coefficiente 𝐸 che rappresenta l’energia: 𝑘 1 𝐸 = ! √ (𝑛 + ) . 𝑚 2 Quest’ultima è una famosa formula della Fisica Atomica perché rappresenta i possibili livelli di energia. ◁ Esempio 5.80 (Polinomi di Chebyshev). Come nel caso di Legendre, partiamo dall’intervallo 𝐼 ∶= ]−1, 1[, ma con la funzione peso 𝜂(𝑡) ∶= 1/√1 − 𝑡2 . In questo caso, si ha 𝐻 ∶= 𝐿2𝜂 (𝐼) con il prodotto scalare ⟨𝑓 , 𝑔⟩ =
𝑓 (𝑡)𝑔(𝑡) 𝑑𝑡. ∫ −1 √1 − 𝑡2 1
È facile verificare che tutti i polinomi nella variabile 𝑡 appartengono al nostro spazio. Si può quindi considerare il sistema ortonormale (𝜑𝑛 )𝑛 ottenuto a partire dalle funzioni 1, 𝑡, … , 𝑡𝑛 , … Le funzioni 𝜑𝑛 risultano essere del tipo 𝜑0 (𝑡) =
1
√𝜋
,
2 𝜑𝑛 (𝑡) = √ 𝑇𝑛 (𝑡), 𝜋
dove le funzioni 𝑇𝑛 , dette polinomi di Chebyshev o di Tschebyshev, si ottengono per ricorrenza da 𝑇0 (𝑡) ∶= 1,
𝑇1 (𝑡) ∶= 𝑡,
𝑇𝑛+1 (𝑡) ∶= 2𝑡𝑇𝑛 (𝑡) − 𝑇𝑛−1 (𝑡).
Come nel caso dei polinomi di Legendre e di Hermite, si vede facilmente che questi polinomi sono funzioni pari per 𝑛 pari e dispari per 𝑛 dispari. Facendo poi qualche calcolo, si ottiene 𝑇2 (𝑡) = 2𝑡2 − 1,
𝑇3 (𝑡) = 4𝑡3 − 3𝑡,
𝑇4 (𝑡) = 8𝑡4 − 8𝑡2 + 1, …
Un’ovvia conseguenza della formula di ricorrenza mostra che il coefficiente principale del polinomio 𝑇𝑛 , per 𝑛 ≥ 1, è 2𝑛−1 . Anche l’insieme dei polinomi di Chebyshev {𝑇𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} costituisce un sistema ortogonale completo in 𝐿2𝜂 (𝐼). In analogia con il caso dei polinomi di Hermite, anche la classe dei polinomi di Chebyshev può essere vista come una famiglia di autosoluzioni di un problema di autovalori per equazioni differenziali lineari. In questo caso, si considera l’equazione (1 − 𝑡2 )𝑦″ − 𝑡𝑦′ + 𝜆𝑦 = 0.
5.2. Spazi di Hilbert
261
A volte, questa equazione è scritta nella forma equivalente ′
2 ′ √ ( 1−𝑡 𝑦 ) +
𝜆
√1 − 𝑡2
𝑦 = 0.
Si cercano i valori di 𝜆 ∈ ℝ tali che l’equazione differenziale considerata possiede soluzioni limitate nell’intervallo ] − 1, 1[. Questo accade per gli autovalori 𝜆𝑛 = 𝑛2 e le funzioni 𝑇𝑛 sono autofunzioni associate a tali autovalori. A tale proposito, osserviamo che dallo studio dell’equazione differenziale si può dare un’altra interpretazione dei polinomi di Chebyshev. Fissiamo, infatti, 𝜆 = 𝑛2 e consideriamo l’equazione differenziale (1 − 𝑡2 )𝑦″ − 𝑡𝑦′ + 𝑛2 𝑦 = 0.
Facendo il cambiamento di variabile 𝑡 = cos 𝜗, si ottiene l’equazione equivalente 𝑢″ + 𝑛2 𝑢 = 0,
con 𝑢 = 𝑦 cos 𝜗.
Di quest’ultima equazione si sa che la soluzione generale è del tipo 𝑢(𝜗) = 𝑐1 cos 𝑛𝜗 + 𝑐2 sin 𝑛𝜗, con 𝑐1 , 𝑐2 ∈ ℝ. Ne segue che la soluzione generale dell’equazione differenziale di partenza si potrà esprimere nella forma 𝑦(𝑡) = 𝑐1 cos(𝑛 arccos 𝑡) + 𝑐2 sin(𝑛 arccos 𝑡),
A questo punto si verifica che è
con 𝑡 ∈ 𝐼.
𝑇𝑛 (𝑡) = cos(𝑛 arccos 𝑡),
−1 < 𝑡 < 1.
𝑈𝑛 (𝑡) ∶= sin(𝑛 arccos 𝑡),
−1 < 𝑡 < 1.
Accanto ai polinomi di Chebyshev ritrovati in questo modo, abbiamo scoperto una seconda famiglia di funzioni espresse da Anche queste funzioni sono dei polinomi in 𝑡 detti polinomi di Chebyshev di seconda specie, mentre i polinomi 𝑇𝑛 sono detti polinomi di Chebyshev di prima specie. L’aspetto trigonometrico di queste famiglie di polinomi permette di ottenere alcune identità interessanti e anche di reinterpretare alcuni risultati già esposti. Per esempio, l’identità trigonometrica cos 2𝜗 = 2 cos2 𝜗 − 1 giustifica perché risulta 𝑇2 (𝑡) = 2𝑡2 − 1. Analogamente si confronti l’espressione di 𝑇3 (𝑡) con l’identità trigonometrica cos 3𝜗 = 4 cos3 𝜗 − 3 cos 𝜗. Ulteriori relazioni facili da dimostrare sono le seguenti: 𝑇𝑛 (𝑇𝑚 (𝑡)) = 𝑇𝑚𝑛 (𝑡);
𝑇𝑛′ (𝑡) = 𝑛𝑈𝑛−1 (𝑡);
2 𝑇𝑛2 (𝑡) + (1 − 𝑡2 )𝑈𝑛−1 (𝑡) = 1.
◁
I tre esempi precedenti sono molto classici e risalgono in sostanza a ricerche effettuate nel secolo XIX. L’ultimo esempio che consideriamo, benché abbia i suoi fondamenti teorici nella matematica della prima metà del ’900, rappresenta uno sviluppo più recente della Matematica Applicata che ha avuto una notevole crescita negli ultimi trent’anni. L’esposizione che proponiamo è estremamente semplificata e serve solo per dare un’idea generale dell’argomento, rimandando alla letteratura specializzata per gli approfondimenti (cfr. [12], [51]).
5.2. Spazi di Hilbert
262
Esempio 5.81 (Ondine). Col termine di “ondina” (in Inglese wavelet e in Francese ondelette) si indica una funzione reale di variabile reale il cui grafico appare come una piccola onda. Può essere immaginata come una piccola oscillazione che ricorda il segnale rilevato da un sismografo o da un monitor che visualizza il battito cardiaco. Non esiste un unico tipo di ondina. L’idea consiste nel prendere una funzione “madre” 𝜓(𝑡) il cui grafico abbia una forma utile a descrivere il tipo di segnale che ci interessa studiare. A partire da 𝜓 verranno generate delle funzioni “figlie” con cui costruire una base utile a rappresentare le funzioni nella forma (5.18). Le ipotesi che di solito vengono fatte sulla funzione 𝜓 sono del tipo +∞
∫ −∞
𝜓 2 (𝑡) 𝑑𝑡 = 1,
+∞
∫ −∞
𝜓(𝑡) 𝑑𝑡 = 0.
Molto spesso queste condizioni sono facilmente soddisfatte prendendo una funzione 𝜓 a supporto compatto (cfr. pag. 401). Nel nostro caso, ciò significa che la 𝜓 è identicamente nulla al di fuori di un intervallo limitato. A partire da una tale funzione 𝜓, si costruiscono le funzioni figlie scegliendo in modo opportuno traslazioni e riscalamenti di questa, del tipo 𝜓𝑎,𝑏 (𝑡) ∶=
1
√𝑎
𝜓 ( 𝑡−𝑏 , 𝑎 )
con 𝑎 > 0, 𝑏 ∈ ℝ.
Per illustrare un esempio, consideriamo il caso “più semplice” che risale ad Haar (1910 circa). Questo esempio ha interesse teorico per illustrare il metodo, anche se dal punto di vista pratico le ondine di Haar non sono quelle utilizzate nelle applicazioni odierne. Hanno trovato comunque applicazione per studiare il moto browniano. Si prende come funzione madre 𝜓(𝑡) la funzione a scala che vale 1 su [0, 1/2[, −1 su [1/2, 1[ ed è identicamente nulla altrove. Come figlie si prendono le funzioni 𝜑𝑗,𝑘 (𝑡) ∶= 2𝑗/2 𝜓(2𝑗 𝑡 − 𝑘), 𝑗, 𝑘 ∈ ℤ.
che sono del tipo precedente e sono chiamate ondine di Haar (o Haar-wavelets). Si può verificare che le 𝜑𝑗,𝑘 costituiscono una famiglia ortonormale rispetto al prodotto scalare di 𝐿2 (ℝ), nel senso che +∞
∫ −∞
𝜑𝑗,𝑘 (𝑡)𝜑𝑙,𝑚 (𝑡) 𝑑𝑡 = 0,
∀(𝑗, 𝑘) ≠ (𝑙, 𝑚).
Ciò prova l’ortogonalità; il fatto che sia ∫−∞ 𝜑2𝑗,𝑘 (𝑡) 𝑑𝑡 = 1 è di facile verifica. Più complicato è constatare che la famiglia {𝜑𝑗,𝑘 ∶ 𝑗, 𝑘 ∈ ℤ} è effettivamente una base per lo spazio 𝐻 = 𝐿2 (ℝ). Ammesso questo fatto, rientriamo nella teoria precedentemente sviluppata. Un’altra classica famiglia di ondine si ottiene partendo dalla funzione +∞
sinc(𝑡) ∶=
sin 𝜋𝑡 , 𝜋𝑡
con sinc 0 = 1.
5.2. Spazi di Hilbert
263
Il termine “sinc” sta per seno cardinale. A partire da essa, si considera di solito la funzione madre 𝜓(𝑡) ∶= 2 sinc 2𝑡 − sinc 𝑡.
Le ondine da essa generale vengono anche chiamate ondine di Shannon (o sincwavelets), perché la funzione “sinc” è stata utilizzata dal matematico Shannon nello studio dei segnali filtrati. A partire dalla funzione 𝜓 si costruiscono le funzioni figlie 𝜑𝑗,𝑘 (𝑡) nel seguente modo: si fissano due costanti reali 𝑐 > 1 e 𝑑 > 0 (una scelta tipica, come nel caso delle ondine di Haar è 𝑐 = 2, 𝑑 = 1) e si pone 𝜑𝑗,𝑘 (𝑡) ∶= 𝑐 −𝑗/2 𝜓(𝑐 −𝑗 𝑡 − 𝑘𝑑), 𝑗, 𝑘 ∈ ℤ. In entrambi i casi, la rappresentazione (5.18) sarà del tipo 𝑓∼
∑∑
𝑗∈ℤ 𝑘∈ℤ
𝛼𝑗,𝑘 𝜓𝑗,𝑘 ,
con 𝛼𝑗,𝑘 ∶=
+∞
∫ −∞
𝑓 (𝑡)𝜓𝑗,𝑘 (𝑡) 𝑑𝑡.
A partire dal 1985, i matematici Y. Meier, S. Mallat e I. Daubechies hanno introdotto indipendentemente famiglie di ondine che si sono rivelate molto importanti in molteplici applicazioni che vanno dall’analisi dei segnali alla compressione di immagini. La teoria delle ondine viene utilizzata nella televisione ad alta definizione e nel recupero di antiche incisioni musicali. La famosa agenzia americana FBI usa algoritmi basati sulle ondine per immagazzinare le informazioni relative alle impronte digitali. ◁
5.2.4 Cenno al caso non separabile Nelle sezioni precedenti abbiamo considerato il caso in cui lo spazio di Hilbert è separabile e, pertanto, possiede un sistema ortonormale (base di Hilbert) numerabile. Consideriamo ora il caso in cui lo spazio di Hilbert 𝐻 possieda una base di Hilbert 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 }, con 𝐽 insieme infinito non numerabile. Come vedremo tra poco, la teoria si estende al caso di sistemi ortonormali di cardinalià arbitraria. A tale scopo, è necessario dare significato a un’espressione del tipo ⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖 (5.19) ∑ 𝑖∈𝐽
quando l’insieme 𝐽 non sia numerabile. Per prima cosa, vediamo di dare significato all’espressione ∑ 𝑖∈𝐽
𝑎𝑖
quando gli 𝑎𝑖 siano numeri reali non negativi. In questo caso, si può definire ∑ 𝑖∈𝐽
𝑎𝑖 ∶= sup
∑′ {𝑖∈𝐽
𝑎𝑖 ∶ 𝐽 ′ (⊆ 𝐽 ) finito }
5.2. Spazi di Hilbert
264
Se 𝐽 è al più numerabile, la definizione appena data è, come facilmente si constata, equivalente a quella usuale di serie. Supponiamo pertanto, d’ora in poi, che 𝐽 non sia numerabile. In tal caso, sussiste il seguente risultato.
Lemma 5.82. Supponiamo che sia ∑𝑖∈𝐽 𝑎𝑖 < ∞ (con 𝑎𝑖 ≥ 0, ∀𝑖 ∈ 𝐽 ). Allora l’insieme 𝐽0 degli indici 𝑖 per cui è 𝑎𝑖 > 0 è al più numerabile. Dimostrazione. Per ogni 𝑘 ∈ ℕ+ , sia 𝐽𝑘 ∶= {𝑖 ∈ 𝐽 ∶ 𝑎𝑖 > 1/𝑘}. Ciascuno degli insieme 𝐽𝑘 deve essere finito. Essendo 𝐽0 = ⋃𝑘∈ℕ+ 𝐽𝑘 , si ottiene la tesi. Possiamo ora provare il seguente risultato che dà un senso alla (5.19).
Teorema 5.83. Siano 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } una famiglia ortonormale di vettori in uno spazio di Hilbert 𝐻 e {𝑐𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } una famiglia di coefficienti reali tale che ∑𝑖∈𝐽 𝑐𝑖2 < ∞. Allora risulta ben definito il vettore w ∶= ∑𝑖∈𝐽 𝑐𝑖 u𝑖 , nel senso che la sommatoria viene effettuata su un insieme numerabile di indici e il risultato non dipende dall’ordinamento di questi.
Dimostrazione. Dall’ipotesi ∑𝑖∈𝐽 𝑐𝑖2 < ∞, per il lemma precedente, si ha che i 𝑐𝑖 sono non nulli solo per un sottoinsieme 𝐽0 al più numerabile di indici. Se 𝐽0 è finito, il risultato è banale. Sia data quindi un biiezione 𝜎 ∶ ℕ → 𝐽0 . Ponendo 𝜎 𝑛 𝑑𝑛 ∶= 𝑐𝜎𝑛 e v𝑛 ∶= u 𝑛 , verifichiamo che la serie ∑∞ 𝑛=0 𝑑𝑛 v è convergente in 𝐻. ∞ 𝑛 (Per le notazioni introdotte, sarà 𝑤 = ∑𝑛=0 𝑑𝑛 v .) A tal fine, introducendo la successione delle somme parziali s𝑘 ∶= ∑𝑘𝑛=0 𝑑𝑛 v𝑛 , verifichiamo che questa è di Cauchy. Infatti, per ogni 𝑝 ≥ 1, si ha ‖s
𝑘+𝑝
𝑘+𝑝
2
𝑘+𝑝
− s𝑘 ‖2 = || 𝑑 v𝑛 = 𝑑2. ∑ 𝑛 || ∑ 𝑛 𝑛=𝑘+1
𝑛=𝑘+1
Poiché la serie di termine generale 𝑑𝑛2 converge, essa è di Cauchy, da cui la tesi. 𝑛 È quindi definito il vettore w ∶= ∑∞ 𝑛=0 𝑑𝑛 v associato alla biiezione 𝜎. Resta da provare che w è indipendente da 𝜎. In altre parole, dobbiamo verificare che la serie che definisce w è incondizionatamente convergente, cioè indipendente da permutazioni degli indici. Sia 𝜑 ∶ ℕ → ℕ una biiezione e consideriamo la serie 𝜑𝑛 ∑∞ 𝑛=0 𝑐𝜑𝑛 u . Anche questa nuova serie converge, per quanto sopra visto, dato 𝑘 2 che la serie numerica ∑∞ 𝑛=0 𝑐𝜑𝑛 è convergente. Indichiamo con t la ridotta 𝑘-ima 𝑛 della serie ∑∞ 𝑛=0 𝑐𝜑𝑛 u . Ponendo, per ogni 𝑘 ≥ 1, 𝐴𝑘 ∶= {0, … , 𝑘}⧵{𝜑0 , … , 𝜑𝑘 } e 𝐵𝑘 ∶= {𝜑0 , … , 𝜑𝑘 } ⧵ {0, … , 𝑘}, si osserva che è
𝜑
‖s𝑘 − t𝑘 ‖2 =
∑
𝑖∈𝐴𝑘
𝑐𝑖2 +
che tende a 0 per 𝑘 che tende a ∞.
∑
𝑖∈𝐵𝑘
𝑐𝜑2 𝑖 ≤
∞
∑
𝑖=𝑘+1
𝑐𝜑2 𝑖 +
∞
∑
𝑖=𝑘+1
𝑐𝑖2 ,
5.2. Spazi di Hilbert
265
Il prossimo passo sarà ora quello di verificare che la disuguaglianza di Bessel (5.11) continua a sussistere.
Teorema 5.84 (Disuguaglianza di Bessel). Sia 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } una famiglia ortonormale di vettori in uno spazio di Hilbert 𝐻. Allora sussiste la seguente disuguaglianza di Bessel ∑ 𝑖∈𝐽
|⟨x, u𝑖 ⟩|2 ≤ ‖x‖2 ,
∀x ∈ 𝐻.
(5.20)
Dimostrazione. La dimostrazione segue lo stesso schema visto nel Teorema 5.64 per il caso numerabile. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , sia 𝛼𝑖 ∶= ⟨x, u𝑖 ⟩ il coefficiente di Fourier relativo al vettore 𝑖 u . Preso un qualunque sottoinsieme finito (non vuoto) di indici 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 , poniamo y ∶= ∑𝑖∈𝐽 ′ 𝛼𝑖 u𝑖 . Ripetendo i calcoli visti nella dimostrazione del Teorema 5.64, si ha: 0 ≤ ‖x − y‖2 = ‖x‖2 −
Abbiamo così dimostrato che è ∑′
𝑖∈𝐽
𝛼𝑖2 ≤ ‖x‖2 ,
∑′
𝑖∈𝐽
𝛼𝑖2 .
∀𝐽 ′ (⊆ 𝐽 ) finito.
In base alla definizione di sommatoria di una famiglia di numeri reali non negativi su un insieme arbitrario di indici, segue ∑ 𝑖∈𝐽
𝛼𝑖2 ≤ ‖x‖2 .
Come conseguenza della disuguaglianza appena vista e del Lemma 5.82, concludiamo che, anche in presenza di una famiglia ortonormale non numerabile, per ogni x ∈ 𝐻, i coefficienti di Fourier sono nulli a meno di un insieme al più numerabile di indici e, di conseguenza, il Teorema 5.83 assicura che il vettore ∑𝑖∈𝐽 ⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖 è ben definito. Vediamo ora che anche i Teorema 5.65 e 5.66 continuano a sussistere. Ricordiamo che in tutta questa sezione, i sistemi ortonormali completi che consideriamo sono infiniti e non numerabili. Teorema 5.85 (Identità di Parseval). Dati 𝐻 ed 𝐸 come nel teorema precedente, con 𝐸 completo, si ha che ogni elemento x ∈ 𝐻 si esprime in un unico modo nella forma x= ⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖 (5.21) ∑ 𝑖∈𝐽
e sussiste la seguente identità di Parseval ∑ 𝑖∈𝐽
|⟨x, u𝑖 ⟩|2 = ‖x‖2 .
(5.22)
5.2. Spazi di Hilbert
266
Dimostrazione. Sia x ∈ 𝐻 arbitrario. Poiché 𝐸 è completo, si ha x ∈ cl(sp(𝐸)) (cfr. definizione 5.59). Quindi, per ogni 𝜀 > 0, esiste un sottoinsieme finito di indici 𝐽 ′ ⊂ 𝐽 tale che la distanza 𝑑(x, 𝑊 ) < 𝜀, dove si è indicato con 𝑊 il sottospazio di 𝐻 generato dall’insieme di vettori {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 ′ }. La distanza fra x e 𝑊 coincide con la distanza fra x e la sua proiezione ortogonale su 𝑊 , data dall’elemento ∑𝑖∈𝐽 ′ ⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖 . Pertanto, si ha: 2
𝑖 𝑖 𝑖 2 2 2 ‖x − ∑ ⟨x, u ⟩u ‖ = ‖x‖ − ∑ |⟨x, u ⟩| < 𝜀 . ′ ′ 𝑖∈𝐽
𝑖∈𝐽
In altri termini, per ogni 𝜀 > 0, esiste un insieme finito di indici 𝐽 ′ tale che ∑𝑖∈𝐽 ′ |⟨x, u𝑖 ⟩|2 > ‖x‖2 − 𝜀2 . Questa proprietà, assieme alla disuguaglianza di Bessel, fornisce la (5.22) (definizione di estremo superiore). Prendendo 𝜀 ∶= 1/𝑛, con 𝑛 ∈ ℕ+ , possiamo definire una successione 𝐽1′ ⊆ ′ ′ 𝐽2 ⊆ ⋯ ⊆ 𝐽𝑛′ ⊆ 𝐽𝑛+1 ⊆ ⋯ di insiemi finiti di indici tali che 1 𝑖 𝑖 ‖x − ∑ ⟨x, u ⟩u ‖ < 𝑛 . ′ 𝑖∈𝐽𝑛
𝑖 𝑖 ′ Posto 𝐽0 ∶= ⋃∞ 𝑛=1 𝐽𝑛 , si ottiene x = ∑𝑖∈𝐽0 ⟨x, u ⟩u . Osserviamo ancora che, per l’ortonormalità di 𝐸, si ha che, per 𝑗 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽0 , 𝑗 è ⟨x, u ⟩ = 0. In questo modo concludiamo che x si rappresenta con la (5.21). Ricordiamo anche il Teorema 5.83 che garantisce che il termine a destra della (5.21) è ben definito. In fine, per quanto concerne l’unicità della rappresentazione (5.21), basta osservare che se x = ∑𝑖∈𝐽 𝛽𝑖 u𝑖 , con i 𝛽𝑖 nulli a meno di un insieme al più numerabile, moltiplicando scalarmente ambo i membri per u𝑘 , si ha necessariamente 𝛽𝑘 = ⟨x, u𝑘 ⟩.
Teorema 5.86. Siano 𝐻 uno spazio di Hilbert di dimensione infinita ed 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } un sistema ortonormale. Sono allora equivalenti le seguenti affermazioni: 1. 𝐸 è completo. 2. 𝐸 è massimale. 3. Per ogni x ∈ 𝐻, si ha x= ⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖 . ∑ 𝑖∈𝐽
4. Per ogni x ∈ 𝐻, sussiste l’identità di Parseval ∑ 𝑖∈𝐽
|⟨x, u𝑖 ⟩|2 = ‖x‖2 .
Dimostrazione. L’equivalenza fra 1 e 2 è stata provata in generale nel Teorema 5.60. Nel teorema precedente abbiamo poi provato che dalla 1 seguono la 3 e la 4.
5.2. Spazi di Hilbert
267
Proviamo ora l’equivalenza fra 3 e 4. A tal fine, ricordiamo che, fissato un sottoinsieme finito di indici 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 , si ha 2
𝑖 𝑖 𝑖 2 2 ‖x − ∑ ⟨x, u ⟩u ‖ = ‖x‖ − ∑ |⟨x, u ⟩| . ′ ′ 𝑖∈𝐽
𝑖∈𝐽
Osserviamo anche che, in virtù della disuguaglianza di Bessel, i coefficienti di Fourier sono nulli a meno di un sottoinsieme numerabile 𝐽0 ⊆ 𝐽 . Pertanto, sia nella 3 che nella 4, possiamo supporre che la sommatoria sia fatta sull’insieme numerabile 𝐽0 . A questo punto, si procede invadendo 𝐽0 con una successione crescente di sottoinsiemi finiti di indici 𝐽𝑛′ , come nella dimostrazione del teorema precedente. Come ultimo passo, dimostriamo che dalla 3 segue la 1. Infatti, se vale la 3, per ogni 𝜀 > 0, esiste un sottoinsieme finito di indici 𝐽 ′ tale che Pertanto, x ∈ cl(sp(𝐸)).
𝑖 𝑖 ‖x − ∑ ⟨x, u ⟩u ‖ < 𝜀. ′ 𝑖∈𝐽
Nelle sezioni precedenti abbiamo visto che gli spazi di Hilbert 𝐻 (reali) di dimensione finita sono linearmente isomorfi e isometrici a ℝ𝑛 e che quelli separabili sono linearmente isomorfi e isometrici a 𝑙2 . Nel caso in cui 𝐻 sia dotato di base 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } di cardinalità più che numerabile, si può introdurre un isomorfismo con lo spazio 𝑙2 (𝐽 ) che è l’insieme delle successioni generalizzate (𝑐𝑖 )𝑖∈𝐽 tali che 𝑐 2 < ∞. (5.23) ∑ 𝑖 𝑖∈𝐽
Tale spazio non è altro che quello delle funzioni 𝑓 ∶ 𝐽 → ℝ tali che valga la (5.23) per 𝑐𝑖 ∶= 𝑓 (𝑖). È immediato verificare che 𝑙2 (𝐽 ) è uno spazio vettoriale reale con le usuali operazioni di somma di funzioni e prodotto per una costante. Si può introdurre un prodotto scalare ponendo ⟨𝑓 , 𝑔⟩ ∶=
∑ 𝑖∈𝐽
𝑓 (𝑖)𝑔(𝑖).
Che la definizione sia ben posta, segue dal fatto che la serie converge incondizionatamente, visto che si ha 2
2 2 ( ∑ |𝑓 (𝑖)𝑔(𝑖)|) ≤ ∑ |𝑓 (𝑖)| ⋅ ∑ |𝑔(𝑖)| . 𝑖∈𝐽
𝑖∈𝐽
𝑖∈𝐽
Questa è la disuguaglianza di Cauchy-Schwarz che si dimostra a partire dai sottoinsiemi finiti di indici e passando all’estremo superiore.
5.2. Spazi di Hilbert
268
Da tale prodotto scalare viene dedotta in modo canonico la norma e, in fine, si può dimostrare che lo spazio è di Hilbert (completo). La dimostrazione è simile a quella fatta per 𝑙2 (cfr. Teorema 4.79) nel caso numerabile, tenendo conto che tutte le sommatorie che intervengono sono, di volta in volta, fatte su sottoinsiemi numerabili di 𝐽 (Esercizio!). I seguenti risultati mettono in relazione gli spazi di Hilbert dotati di base non numerabile con gli spazi 𝑙2 (𝐽 ).
Teorema 5.87. Siano 𝐻 uno spazio di Hilbert ed 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } una base di Hilbert non numerabile. 1. Per ogni x ∈ 𝐻 la successione generalizzata dei suoi coefficienti di Fourier appartiene a 𝑙2 (𝐽 ). 2. Data una qualunque successione generalizzata (𝑐𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑙2 (𝐽 ), esiste un unico y ∈ 𝐻 i cui coefficienti di Fourier sono proprio i 𝑐𝑖 . Dimostrazione. 1. Sia x ∈ 𝐻 un elemento fissato e (𝑎𝑖 )𝑖∈𝐽 , la successione generalizzata dei suoi coefficienti di Fourier; è dunque 𝑎𝑖 ∶= ⟨x, u𝑖 ⟩, ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Dalla disuguaglianza di Bessel (5.20) sappiamo che è ∑𝑖∈𝐽 𝑎2𝑖 < ∞. Pertanto, si conclude che (𝑎𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑙2 (𝐽 ). 2. Sia (𝑐𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑙2 (𝐽 ) una successione generalizzata. Per il Teorema 5.83, risulta ben definito il vettore y ∶= ∑𝑖∈𝐽 𝑐𝑖 u𝑖 . Poiché, per ogni 𝑗 ∈ 𝐽 , si ha 𝑗 ⟨y, u ⟩ = 𝑐𝑗 , risulta che la successione generalizzata (𝑐𝑖 )𝑖∈𝐽 è proprio quella dei coefficienti di Fourier dell’elemento y. Per il Teorema 5.85, l’elemento y si esprime (in un unico modo) nella forma ∑𝑖∈𝐽 ⟨y, u𝑖 ⟩u𝑖 . In fine, se x ∈ 𝐻 è tale che i suoi coefficienti di Fourier coincidono con quelli di y, deve essere necessariamente x = y.
Teorema 5.88. Siano 𝐻 uno spazio di Hilbert ed 𝐸 ∶= {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } una base di Hilbert non numerabile. L’applicazione che ad ogni elemento x ∈ 𝐻 associa la successione dei suoi coefficienti di Fourier è un isomorfismo lineare e isometrico di 𝐻 su 𝑙2 (𝐽 ) e quindi anche un omeomorfismo.
Dimostrazione. Siano x ∈ 𝐻 un elemento arbitrario e (⟨x, u𝑖 ⟩)𝑖∈𝐽 , la successione generalizzata dei suoi coefficienti di Fourier. Per il teorema precedente, questa successione generalizzata appartiene a 𝑙2 (𝐽 ). Risulta quindi ben definita l’applicazione 𝜑 ∶ 𝐻 → 𝑙2 (𝐽 ) che a x associa la successione generalizzata dei suoi coefficienti di Fourier. Per la Proposizione 5.87.2, la 𝜑 è chiaramente biiettiva. Per la linearità del prodotto scalare rispetto alla prima variabile, si ha che 𝜑 è anche lineare, quindi un isomorfismo lineare fra spazi vettoriali su ℝ. Dall’identità di Parseval (5.22) segue immediatamente che 2 ‖𝜑(x) − 𝜑(y)‖2𝑙2 (𝐽 ) = ‖𝜑(x − y)‖2𝑙2 (𝐽 ) = ‖x − y‖𝐻 ,
da cui segue che 𝜑 è un’isometria fra 𝐻 e 𝜑(𝐻) = 𝑙2 (𝐽 ).
5.2. Spazi di Hilbert
269
Giunti a questo punto, è spontaneo chiedersi se, come nel caso delle basi di Hamel, anche per quelle di Hilbert, vale il risultato che afferma che in ogni spazio (fissato) esse hanno tutte la stessa cardinalità. Ricordiamo che, nel caso delle basi di Hamel, questo risultato (cfr. [33]) segue dal classico Teorema di Bernstein di Teoria degli Insiemi (noto anche come Teorema di CantorBernstein-Schröder, cfr. [16]). Faremo ora vedere che, lo stesso schema di dimostrazione si può estendere al caso delle basi di Hilbert. Teorema 5.89. In uno spazio di Hilbert 𝐻, tutti i sistemi ortonormali completi sono fra loro equipotenti. Dimostrazione. Se lo spazio ha dimensione di Hamel finita 𝑛, tale è anche la cardinalià di ogni suo sistema ortanormale completo. Se lo spazio ha dimensione di Hamel infinita, ma è separabile, allora (cfr. Teoremi 5.63 e 5.67) tutti i sistemi ortonormali completi sono infiniti numerabili (e viceversa). Supponiamo dunque che lo spazio 𝐻 abbia dimensione di Hamel infinita e non sia separabile. Per quanto detto sopra, sappiamo che ogni sua base di Hilbert è non numerabile. Siano quindi {u𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐴} e {v𝑘 ∶ 𝑘 ∈ 𝐵 } due sistemi ortonormali completi di 𝐻. Per il Teorema 5.85, ogni elemento x ∈ 𝐻 si esprime in un unico modo come x=
⟨x, u𝑖 ⟩u𝑖 = ⟨x, v𝑘 ⟩v𝑘 . ∑ ∑ 𝑖∈𝐴
𝑘∈𝐵
Applicando questa identità a tutti gli elementi v𝑘 , si ha v𝑘 =
∑ 𝑖∈𝐴
⟨v𝑘 , u𝑖 ⟩u𝑖 .
Quindi, per ogni 𝑘 ∈ 𝐵, l’insieme 𝐴𝑘 ∶= {𝑖 ∈ 𝐴 ∶ ⟨v𝑘 , u𝑖 ⟩ ≠ 0} è al più numerabile. Dall’essere 𝐵 = ⋃𝑘∈𝐵 𝐴𝑘 , concludiamo che 𝐵 è unione di insiemi numerabili indiciati in 𝐴 e quindi card 𝐵 ≤ ℵ0 ⋅ card 𝐴 = card 𝐴.
L’ultimo passaggio segue dal fatto che è card 𝐴 ≥ ℵ0 . Ripetendo simmetricamente il ragionamento appena visto e partendo dagli elementi u𝑖 , si ottiene card 𝐴 ≤ card 𝐵. La tesi segue immediatamente dal Teorema di Bernstein.
Definizione 5.90. La cardinalità di un sistema ortonormale completo in uno spazio di Hilbert è detta dimensione di Hilbert dello spazio. ◁ Come visto per gli spazi di Hilbert separabili, si ha in ogni caso che una base di Hilbert non è mai una base di Hamel (dato che quest’ultima utilizza solo combinazioni finite). Ne viene che la dimensione di Hilbert è sempre minore o uguale a quella di Hamel. Abbiamo visto che nel caso separabile vale sempre la disuguaglianza stretta. Vi sono dei casi in cui le due cardinalità coincidono. Un esempio è dato da 𝑙2 (𝐽 ), con card 𝐽 = 𝔠.
6
Prodotti e quozienti 6.1 Introduzione In questo capitolo introdurremo due esempi importanti di topologie da assegnare ad un insieme in modo da soddisfare in modo ottimale a delle richieste di continuità rispetto a una o più applicazioni assegnate. Le topologie che introdurremo (quella prodotto e quella quoziente) sono utili anche per definire o costruire opportuni spazi topologici che soddisfino a delle specifiche proprietà. In generale, le topologie che andiamo a descrivere possono essere introdotte utilizzando il seguente schema: Siano 𝑋 e 𝑌 due insiemi (non vuoti) e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑌 un’applicazione. Supponendo che su uno dei due insiemi sia definita una topologia, vogliamo definire anche sull’altro insieme un’opportuna topologia che sia “la migliore possibile” in modo da rendere 𝜑 continua. A seconda che l’insieme originariamente privo di topologia sia 𝑋 o 𝑌 , si parlerà di topologia iniziale o debole e topologia finale. Le topologie iniziali sono anche dette proiettive, mentre quelle finali prendono anche il nome di topologie induttive La situazione ora descritta può essere facilmente generalizzata al caso di una famiglia di applicazioni aventi tutte lo stesso dominio o, rispettivamente, lo stesso codominio. Seguendo questo schema, cominciamo coll’introdurre una topologia iniziale su 𝑋.
6.2 Topologie deboli e spazi prodotto
Siano dati un insieme (non vuoto) 𝑋, una famiglia arbitraria di spazi topologici {(𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 e, in fine, una famiglia {𝜑𝑖 }𝑖∈𝐽 di applicazioni, con 𝜑𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑌𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Il problema è quello di definire un’opportuna topologia su 𝑋 che renda continue tutte le 𝜑𝑖 . È ovvio che una tale topologia esiste sempre ed è quella discreta. È altresì banale constatare che, se 𝜏 è una topologia su 𝑋 che rende continue tutte le 𝜑𝑖 , allora anche ogni topologia su 𝑋 più fine di 𝜏 ha la 270
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
271
stessa proprietà. Sarà pertanto interessante trovare (se esiste) una topologia 𝜏 su 𝑋 che soddisfi ai requisiti di continuità richiesti e che sia la meno fine possibile. Ricordiamo che l’insieme delle topologie su un insieme assegnato è un reticolo completo rispetto alla relazione d’ordine parziale ⪯ (ordine per finezza, cfr. pag. 5). Resta da provare che il massimo precedente comune fra le topologie su 𝑋 che rendono continue le 𝜑𝑖 è effettivamente il minimo dell’insieme. Inoltre, ai fini pratici di poter operare con tale topologia, sarà utile caratterizzare i suoi insiemi aperti. Ciò può essere ottenuto descrivendone una base di aperti. Lemma 6.1. Siano dati un insieme (non vuoto) 𝑋, una famiglia arbitraria di spazi topologici {(𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 e una famiglia {𝜑𝑖 }𝑖∈𝐽 di applicazioni, con 𝜑𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑌𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Sia 𝜏 la topologia su 𝑋 generata dagli insiemi del tipo 𝜑𝑖−1 (𝐴′𝑖 ), con 𝐴′𝑖 ∈ 𝜏𝑖 . Allora 𝜏 è la minima topologia su 𝑋 che rende continue tutte le 𝜑𝑖 .
Dimostrazione. Per il Teorema 2.4, sappiamo che, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 fissato, la 𝜑𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑌𝑖 è continua se e solo se, per ogni sottoinsieme aperto 𝐴′𝑖 ⊆ 𝑌𝑖 , la ′ controimmagine 𝜑−1 𝑖 (𝐴𝑖 ) è un aperto di 𝑋. Quindi la topologia (su 𝑋) cercata dovrà necessariamente contenere le controimmagini dei 𝜏𝑖 -aperti. L’insieme di queste controimmagini genera una topologia che indichiamo con 𝜏. Per definizione di topologia generata, 𝜏 è la più debole possibile. In virtù del lemma appena visto, possiamo dare la seguente definizione.
Definizione 6.2. Siano dati un insieme (non vuoto) 𝑋, una famiglia arbitraria di spazi topologici {(𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 e una famiglia {𝜑𝑖 }𝑖∈𝐽 di applicazioni, con 𝜑𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑌𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 . La topologia di 𝑋 generata dalla sottobase ′ ′ 𝒜 ∶= {𝜑−1 𝑖 (𝐴𝑖 ) ∶ (𝐴𝑖 ∈ 𝜏𝑖 ) ∧ (𝑖 ∈ 𝐽 )} è detta topologia debole o iniziale generata dalla famiglia {(𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 . ◁ Per come viene definita una topologia a partire da un sistema di generatori, sappiamo che un aperto della topologia debole su 𝑋 sarà esprimibile come ′ una riunione (arbitraria) di intersezioni finite di insiemi del tipo 𝜑−1 𝑖 (𝐴𝑖 ), con ′ 𝐴𝑖 ∈ 𝜏𝑖 . Vediamo subito alcune applicazioni che dimostrano l’utilità di aver considerato una topologia minimale su 𝑋.
Teorema 6.3. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico, dove 𝜏 è la topologia debole rispetto a una famiglia {(𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 . Siano inoltre dati uno spazio topologico (𝑍, 𝜎) e un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑍 → 𝑋. Allora 𝑓 è continua se e solo se 𝜑𝑖 ∘ 𝑓 ∶ 𝑍 → 𝑌𝑖 è continua, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 . Dimostrazione. Il “solo se” segue banalmente dal Teorema di continuità della funzione composta 2.9. Veniamo al viceversa.
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
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Sia 𝐴 un 𝜏-aperto di 𝑋 arbitrario. Si tratta di verificare che 𝑓 −1 (𝐴)(⊆ 𝑍) è aperto in 𝜎. Poiché 𝐴 si può rappresentare come unione di insiemi 𝐵 dove ′ ciascun 𝐵 è a sua volta intersezione finita di insiemi del tipo 𝜑−1 𝑖 (𝐴𝑖 ), con ′ 𝐴′𝑖 ∈ 𝜏𝑖 , basterà verificare che ogni insieme del tipo 𝑓 −1 (𝜑−1 𝑖 (𝐴𝑖 )) è aperto −1 −1 ′ −1 ′ nella topologia di 𝑍. Poiché 𝑓 (𝜑𝑖 (𝐴𝑖 )) = (𝜑𝑖 ∘ 𝑓 ) (𝐴𝑖 ), la tesi segue dalla continuità delle applicazioni composte 𝜑𝑖 ∘ 𝑓 . Il Teorema 6.3 è stato enunciato e dimostrato per funzioni continue nei loro domini. È un facile esercizio che lasciamo al lettore quello di rienunciare il teorema per la continuità nei singoli punti. La proprietà di tipo “universale” del precedente teorema caratterizza le topologie deboli, nel senso espresso dal seguente teorema.
Teorema 6.4. Siano dati: uno spazio topologico (𝑋, 𝜏𝑋 ), una famiglia di spazi topologici {(𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 e una famiglia {𝜑𝑖 }𝑖∈𝐽 di applicazioni, con 𝜑𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑌𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Allora 𝜏𝑋 è la topologia debole su 𝑋 generata dalla famiglia {(𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 se e solo se vale la proprietà universale espressa dal teorema precedente. Dimostrazione. Basta, ovviamente, provare il “se”. Sia 𝜏 la topologia iniziale di 𝑋 generata dalla famiglia {(𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 . Per prima cosa, osserviamo che tutte le 𝜑𝑖 ∶ (𝑋, 𝜏𝑋 ) → (𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 ) sono continue. Infatti, l’identità 𝑖𝑋 ∶ (𝑋, 𝜏𝑋 ) → (𝑋, 𝜏𝑋 ) è ovviamente continua e, pertanto, lo sono anche le 𝜑𝑖 che coincidono con 𝜑𝑖 ∘ 𝑖𝑋 . Ciò prova, vista la minimalità di 𝜏, che 𝜏𝑋 è più fine di 𝜏. Consideriamo ora l’identità 𝑖𝑋 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋, 𝜏𝑋 ). Le applicazioni composte 𝜑𝑖 ∘ 𝑖𝑋 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 ) sono continue, per definizione di topologia debole. La proprietà universale ci garantisce ora la continuità di 𝑖𝑋 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋, 𝜏𝑋 ). Ciò equivale a dire che 𝜏 è più fine di 𝜏𝑋 (cfr. pag. 43). Il Teorema 6.3 è utile anche per caratterizzare le successioni convergenti in uno spazio dotato di topologia debole rispetto a una famiglia assegnata di spazi topologici e di funzioni. A tale scopo, è sufficiente richiamare l’equivalenza fra il concetto di limite di successioni e quello di continuità nel “punto all’infinito” (cfr. pag. 57). Possiamo quindi enunciare il seguente corollario.
Corollario 6.5. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico, dove 𝜏 è la topologia debole rispetto a una famiglia {(𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 . Siano inoltre 𝑆 ∶= (𝑤𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋 e 𝑙 ∈ 𝑋. Allora 𝑆 → 𝑙 rispetto a 𝜏 se e solo se, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , si ha (𝜑𝑖 (𝑤𝑛 ))𝑛 → 𝜑𝑖 (𝑙) rispetto a 𝜏𝑖 . Un esempio importante di topologia debole è la topologia prodotto.
Definizione 6.6. Sia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici. Consideriamo l’insieme prodotto cartesiano 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 e siano 𝑝𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑋𝑖 le relative proiezioni. Si definisce topologia prodotto su 𝑋 la topologia debole generata dalla famiglia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝑝𝑖 )}𝑖∈𝐽 . ◁
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
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Abbiamo visto che, in generale, gli aperti di una topologia debole si ottengono come riunioni arbitrarie di intersezioni finite di controimmagini di aperti. Nel caso della topologia prodotto, fissato un aperto 𝐴′ in uno degli spazi fattori ′ ′ 𝑋𝑘 , la controimmagine 𝑝−1 𝑘 (𝐴 ) è un insieme prodotto del tipo ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , dove ′ ′ ′ 𝑋𝑖 ∶= 𝑋𝑖 per 𝑖 ≠ 𝑘 e 𝑋𝑘 ∶= 𝐴 . Un’intersezione finita di insiemi di questo tipo, è ancora un insieme prodotto del tipo ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , dove 𝑋𝑖′ ∶= 𝑋𝑖 a meno di un insieme finito di indici 𝐽 ′ , mentre, per 𝑖 ∈ 𝐽 ′ , si ha che 𝑋𝑖′ è un sottoinsieme aperto di 𝑋𝑖 . Si noti che gli insiemi “intersezione” così descritti costituiscono una base per la topologia prodotto (cfr. Definizione 1.7). Ne consegue che, nel caso in cui l’insieme 𝐽 sia finito, una base per la topologia prodotto è data dagli insiemi del tipo ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , dove, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , si ha che 𝑋𝑖′ è un sottoinsieme aperto di 𝑋𝑖 .
Osservazione 6.7. Siano ancora {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici, 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 e 𝑝𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑋𝑖 le relative proiezioni. Possiamo definire in 𝑋 una nuova topologia 𝜎 in cui una base di aperti è data dagli insiemi del tipo ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , dove, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , si ha che 𝑋𝑖′ è un sottoinsieme aperto di 𝑋𝑖 , anche nel caso in cui 𝐽 sia infinito. Questa topologia, introdotta da Tietze nel 1923, è nota come box topology (dall’Inglese box che significa scatola). A meno di casi banali, quando 𝐽 è infinito, la topologia 𝜎 è sempre strettamente più fine della topologia prodotto. La box topology è utile per costruire alcuni controesempi (Si veda [76]). ◁
Osservazione 6.8. Siano ancora {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici e 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , con la topologia prodotto. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 siano 𝐴𝑖 e 𝐶𝑖 un aperto e, rispettivamente, un chiuso di 𝑋𝑖 . Come già sottolineato, se 𝐽 è infinito, non è detto che l’insieme 𝐴 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 sia un aperto di 𝑋. Basta prendere 𝐽 ∶= ℕ, (𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 ) ∶= (ℝ, 𝜏𝑒 ) e 𝐴𝑖 ∶= ]0, 1[, per ogni 𝑖 ∈ ℕ. Si osservi che, per contro, l’insieme 𝐶 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝐶𝑖 è un chiuso di 𝑋. Infatti, se 𝑧 ∶= (𝑧𝑖 )𝑖∈𝐽 ∉ 𝐶, esiste un indice 𝑘 ∈ 𝐽 tale che 𝑧𝑘 ∉ 𝐶𝑘 . Essendo 𝐶𝑘 chiuso, esiste un intorno aperto 𝑈𝑘 di 𝑧𝑘 disgiunto da 𝐶𝑘 . L’insieme 𝐵 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝐵𝑖 , con 𝐵𝑘 ∶= 𝑈𝑘 e 𝐵𝑖 ∶= 𝑋𝑖 per 𝑖 ≠ 𝑘, è un intorno aperto di 𝑧 disgiunto da 𝐶. ◁ Dai Teoremi 6.3 e 6.4 e dal fatto che la topologia prodotto è una topologia debole, segue immediatamente il seguente corollario.
Corollario 6.9. Assegnata una famiglia di spazi topologici (𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 ), sia (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto cartesiano dotato della topologia prodotto. Dato uno spazio topologico (𝑍, 𝜎) e un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑍 → 𝑋, definiamo le applicazioni (componenti 𝑖-ime di 𝑓 ) 𝑓𝑖 ∶ 𝑍 → 𝑋𝑖 ,
𝑓𝑖 (𝑢) ∶= 𝑝𝑖 (𝑓 (𝑢)), ∀𝑢 ∈ 𝑍, ∀𝑖 ∈ 𝐽 .
Allora 𝑓 è continua se e solo se 𝑓𝑖 è continua per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 . Inoltre, tale proprietà caratterizza la topologia prodotto su 𝑋.
È ora ovvio come si può enunciare il Corollario 6.5 relativo ai limiti di successioni nel contesto delle topologie prodotto; vale a dire che una successione
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nello spazio prodotto converge a un punto se e solo se converge componente per componente nei singoli spazi fattori, come espresso dal seguente corollario:
Corollario 6.10. Assegnata una famiglia di spazi topologici (𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 ), sia (𝑋, 𝜏), lo spazio prodotto cartesiano, dotato della topologia prodotto. Siano inoltre 𝑆 ∶= (𝑤𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋, con 𝑤𝑛 ∶= {𝑤𝑖𝑛 }𝑖∈𝐽 e 𝑙 ∶= {𝑙𝑖 }𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋. Allora 𝑆 → 𝑙 rispetto a 𝜏 se e solo se, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , si ha (𝑤𝑛𝑖 )𝑛 → 𝑙𝑖 rispetto a 𝜏𝑖 . Esempio 6.11. Consideriamo lo spazio vettoriale reale 𝑛-dimensionale ℝ𝑛 e lo dotiamo della topologia prodotto ottenuta prendendo su ogni fattore componente ℝ la topologia euclidea. Gli intorni di un punto 𝑄 ∶= (𝑞1 , … , 𝑞𝑛 ) sono ovviamente tutti e soli gli insiemi che contengono un prodotto di intervalli aperti del tipo ∏𝑛𝑘=1 𝐼𝑘 , con 𝐼𝑘 ∶= ]𝑞𝑘 − 𝜀, 𝑞𝑘 + 𝜀[. Tale topologia coincide con la topologia dedotta dall’ordine parziale di ℝ𝑛 che a sua volta coincide con la topologia dedotta della distanza (norma) euclidea (Cfr. Lemma 3.91). Dato che in ℝ𝑛 tutte le norme sono equivalenti, possiamo concludere che da una qualunque norma di ℝ𝑛 si ottiene la topologia prodotto. In questo contesto, il Corollario 6.9 si ricollega all’Osservazione 3.99. ◁ Esempio 6.12. Sia 𝐸 un arbitrario insieme non vuoto. Lo spazio vettoriale ℝ𝐸 delle funzioni di 𝐸 in ℝ può essere visto come il prodotto cartesiano di copie dell’insieme ℝ indiciato sull’insieme 𝐸. Se in ℝ prendiamo la topologia euclidea, rimane determinata in ℝ𝐸 una topologia 𝜏 che è quella prodotto e che, pertanto, è la meno fine fra quante rendono continue le “valutazioni”, ossia le applicazioni del tipo 𝑓 ↦ 𝑓 (𝑥), con 𝑥 ∈ 𝐸 arbitrariamente prefissato. Una successione di elementi di ℝ𝐸 non è altro che una successione (𝑓𝑛 )𝑛 di funzioni da 𝐸 in ℝ. In questa situazione, coerentemente con il Corollario 6.10, avremo che 𝑓𝑛 → 𝑓 rispetto a 𝜏 se e solo se, per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, si ha 𝑓𝑛 (𝑥) → 𝑓 (𝑥) in ℝ. Questa non è altro che la ben nota convergenza puntuale (su 𝐸). Per studiare un po’ meglio la topologia prodotto 𝜏 su ℝ𝐸 , che d’ora in avanti possiamo chiamare anche topologia della convergenza puntuale, sarà utile descrivere quali sono gli intorni di un elemento 𝑓 ∈ ℝ𝐸 . In base alla definizione 6.6, è immediato constatare che una base di intorni di 𝑓 è data dagli insiemi del tipo 𝑈 (𝐸 ′ , 𝜀) ∶= {𝑔 ∈ ℝ𝐸 ∶ |𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝐸 ′ } , al variare di 𝐸 ′ (⊆ 𝐸) finito e di 𝜀 > 0.
◁
Osservazione 6.13. In relazione all’esempio appena visto, vale la pena di osservare che, quale che sia l’insieme non vuoto 𝐸, lo spazio 𝑋 ∶= ℝ𝐸 è anche uno spazio vettoriale topologico localmente convesso. Infatti, in ℝ𝐸 risulta definita in modo naturale una struttura di spazio vettoriale su ℝ. È inoltre immediato osservare che gli intorni di un elemento 𝑓 ∈ ℝ𝐸 sono i traslati degli intorni dell’origine (funzione nulla). Verifichiamo che la somma è una funzione continua da 𝐸 × 𝐸 in 𝐸. Sia 𝑉 un intorno di 𝑓 + 𝑔 ∈ 𝑋 che possiamo pensare della forma 𝑉 ∶= {ℎ ∈ 𝑋 ∶ |ℎ(𝑥) − (𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥))| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝐸 ′ }, con
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275
𝐸 ′ sottoinsieme finito di 𝐸 ed 𝜀 > 0. Basta ora considerare gli intorni 𝑈𝑓 di 𝑓 e 𝑈𝑔 di 𝑔 dati dagli elementi di 𝑋 che distano da 𝑓 e, rispettivamente, da 𝑔 meno di 𝜀/2 nei punti di 𝐸 ′ . Analogamente per il prodotto (Esercizio). Si vede poi subito che se due funzioni distano da 0 meno di 𝜀 in ogni punto di 𝐸 ′ , accade lo stesso per ogni loro combinazione convessa. Quindi lo spazio 𝑋 è localmente convesso. Si vede poi subito che, se anche 𝐸 è uno spazio topologico, l’insieme 𝐶(𝐸) con la topologia della convergenza puntuale è ancora uno SVT localmente convesso che è un sottospazio di ℝ𝐸 . ◁ È naturale chiedersi ora quale sia la topologia di ℝ𝐸 che genera la convergenza uniforme. Esempio 6.14. Un modo naturale per descrivere questa topologia è fare riferimento alla definizione di intorno vista nell’esempio precedente. In questo caso, una base di intorni di 𝑓 è data dagli insiemi del tipo 𝑈 (𝜀) ∶= {𝑔 ∈ ℝ𝐸 ∶ |𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝐸 } ,
al variare di 𝜀 > 0. La topologia così determinata verrà detta topologia della convergenza uniforme (su 𝐸). Infatti è immediato constatare che 𝑓𝑛 → 𝑓 in questa topologia se e solo se 𝑓𝑛 converge a 𝑓 uniformemente su 𝐸. Se, invece, al variare di 𝑥 ∈ 𝐸, prendiamo di volta in volta degli 𝜀𝑥 > 0, in modo da ottenere insiemi del tipo 𝑉 ∶= {𝑔 ∈ ℝ𝐸 ∶ |𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑥)| < 𝜀𝑥 , ∀𝑥 ∈ 𝐸 } ,
otteniamo la box topology. Dal confronto delle definizioni, è chiaro che la box topology è più fine della topologia della convergenza uniforme e che questa è a sua volta più fine di quella della convergenza puntuale. Ovviamente, se 𝐸 è finito, le tre topologie coincidono e solo in questo caso. Nell’ottica di quanto visto nei casi precedenti, può essere interessante caratterizzare anche nel caso della box topology quale è la convergenza per le successioni di funzioni. Poiché gli intorni di una funzione 𝑓 sono i traslati degli intorni di 0, sarà sufficiente caratterizzare le successioni convergenti a 0. A tale proposito, osserviamo che (𝑓𝑛 )𝑛 tende a 0 nella box topology se e solo se esistono un sottoinsieme finito 𝐸 ′ di 𝐸 ed un intero 𝑛∗ tali che 𝑓𝑛 (𝑥) = 0 per ogni 𝑛 ≥ 𝑛∗ e per ogni 𝑥 ∈ 𝐸 ⧵ 𝐸 ′ e, inoltre 𝑓𝑛 → 0 puntualmente (uniformemente) in 𝐸 ′ . La verifica è lasciata per esercizio al lettore. Questo esempio potrebbe renderci piuttosto delusi sull’utilità di considerare la box topology, visto che dà un risultato triviale per quanto riguarda la convergenza (di successioni di funzioni). Il fatto però che le convergenze siano triviali non significa, in generale, che siano tali le topologie. A tale proposito si ricordi il caso della topologia conumerabile su ℝ (cfr. Esempio 1.15); per tale topologia, le uniche successioni convergenti sono quelle definitivamente costanti, esattamente come per la topologia discreta. Inoltre, come si è già detto, la box topology è utile per produrre controesempi (cfr. [76]). ◁
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
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Osservazione 6.15. Sia (𝐸, 𝜏) uno spazio topologico non banale. L’insieme 𝐶(𝐸) delle funzioni continue da 𝐸 in (ℝ, 𝑑2 ) è, ovviamente, un sottospazio vettoriale di ℝ𝐸 . Su questo spazio abbiamo considerato tre diverse topologie: quella della convergenza uniforme, quella della convergenza puntuale (che è la topologia prodotto) e la box topology. Lo spazio 𝐶(𝐸) con tali topologie viene di solito indicato con 𝐶𝑢 (𝐸), 𝐶𝑝 (𝐸) e 𝐶! (𝐸), rispettivamente. In un libro ormai classico (Topological function spaces, 1992), A. V. Arhangel’skii ha impostato il problema di determinare le relazioni fra le proprietà topologiche dello spazio 𝐸 e quelle di 𝐶𝑝 (𝐸). Questo tipo di problematiche ha avuto notevoli sviluppi negli ultimi vent’anni. Per quanto riguarda la box topology, solo più recentemente si sono cominciate a studiare le relazioni fra 𝐸 e 𝐶! (𝐸). Si è dimostrato che per una vasta categoria di spazi topologici 𝐶! (𝐸) è un sottospazio discreto di ℝ𝐸 . ◁ In seguito, trattando gli spazi prodotto, sarà naturale raggruppare taluni degli spazi fattore. Una procedura di tal tipo viene comunemente effettuata (senza neanche pensarci) nei Corsi di Base di Analisi, quando si identifica, per esempio, ℝ2 × ℝ con ℝ3 . Nel caso di spazi prodotto dipendenti da un insieme arbitrario di indici, questo fatto è tutt’altro che banale e rispecchia quella che di solito viene chiamata proprietà associativa del prodotto di spazi topologici. Presentiamo ora questo risultato nella sua forma più generale. Teorema 6.16. Sia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici. Consideriamo l’insieme prodotto cartesiano 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 . Sia 𝐽 ∶= ⋃𝛼∈𝐾 𝐽𝛼 , con i 𝐽𝛼 non vuoti e a due a due disgiunti; poniamo poi 𝑌 ∶= ∏𝛼∈𝐾 𝑌𝛼 , dove per ogni 𝛼 ∈ 𝐾, è 𝑌𝛼 ∶= ∏𝑖∈𝐽𝛼 𝑋𝑖 . Gli spazi 𝑋, 𝑌 e 𝑌𝛼 , ∀𝛼 ∈ 𝐾 sono dotati delle rispettive topologie prodotto. Allora gli spazi 𝑋 e 𝑌 sono canonicamente omeomorfi. Dimostrazione. Per prima cosa, introduciamo la seguente notazione. Dato un sottoinsieme non vuoto di indici 𝐻 ⊆ 𝐽 , per ogni 𝑥 ∶= (𝑥𝑖 )𝑖∈𝐽 , definiamo 𝑥𝐻 ∶= (𝑥𝑖 )𝑖∈𝐻 .
Ovviamente, si ha 𝑥𝐽 = 𝑥 e 𝑥{𝑖} = 𝑥𝑖 = 𝑝𝑖 (𝑥), dove 𝑝𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑋𝑖 è la proiezione 𝑖-ima. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni 𝛼 ∈ 𝐾, poniamo 𝑦𝛼 (𝑥) ∶= 𝑥𝐽𝛼 ∈ 𝑌𝛼 . Sia ora 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 la funzione definita da 𝑓 (𝑥) ∶= (𝑦𝛼 (𝑥))𝛼∈𝐾 .
Proviamo che 𝑓 è un omeomorfismo. La funzione 𝑓 è iniettiva. Infatti, dati in 𝑋 due elementi distinti 𝑥′ ∶= ′ (𝑥𝑖 )𝑖∈𝐽 e 𝑥″ ∶= (𝑥″𝑖 )𝑖∈𝐽 , esiste almeno un indice 𝑖∗ ∈ 𝐽 con 𝑥′𝑖∗ ≠ 𝑥″𝑖∗ . L’indice 𝑖∗ appartiene ad un (unico) 𝐽𝛼∗ . Quindi si ha 𝑦𝛼 ∗ (𝑥′ ) ≠ 𝑦𝛼∗ (𝑥″ ). La funzione 𝑓 è suriettiva. Infatti, dato 𝑤 ∶= (𝑤𝛼 )𝛼∈𝐾 , definiamo un elemento 𝑥 ∈ 𝑋 come segue. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 sia 𝛼𝑖 l’unico indice 𝛼 ∈ 𝐾 tale che
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𝑖 ∈ 𝐽𝛼 . (Ciò è possibile perché i 𝐽𝛼 formano una partizione di 𝐽 .) Nello spazio 𝑌𝛼𝑖 si prende la componente 𝑖-ima dell’elemento 𝑤𝛼𝑖 che sarà indicato con 𝑥𝑖 . Per costruzione, l’elemento 𝑥 ∶= (𝑥𝑖 )𝑖∈𝐽 è tale che 𝑓 (𝑥) = 𝑤. La funzione 𝑓 è continua. Per il Corollario 6.9, basta verificare che, per ogni 𝛼 ∈ 𝐾, l’applicazione 𝑓𝛼 ∶ 𝑋 → 𝑌𝛼 definita da 𝑓𝛼 (𝑥) ∶= 𝑦𝛼 (𝑥) è continua. Poiché 𝑓𝛼 ha come codominio uno spazio prodotto, per lo stesso corollario, basterà mostrare che la composizione di 𝑓𝛼 con una generica proiezione di 𝑌𝛼 in uno dei suoi fattori è continua. Siano quindi 𝑙 ∈ 𝐽𝛼 e 𝑞𝑙 ∶ 𝑌𝛼 → 𝑋𝑙 la corrispondente proiezione. È immediato constatare che 𝑞𝑙 ∘ 𝑓𝛼 ∶ 𝑋 → 𝑋𝑙 coincide con la proiezione 𝑝𝑙 di 𝑋 nel suo fattore 𝑋𝑙 che è continua per definizione. La funzione 𝑓 −1 è continua. Ricordando come si è verificata la suriettività di 𝑓 e utilizzando sempre il Corollario 6.9, sarà sufficiente, fissato un arbitrario indice 𝑖 ∈ 𝐽 , controllare che la funzione che a 𝑤 ∶= (𝑤𝛼 )𝛼∈𝐾 ∈ 𝑌 associa la 𝑖-ima componente dell’elemento 𝑤𝛼𝑖 ∈ 𝑌𝛼𝑖 , precedentemente indicata con 𝑥𝑖 , è continua. Questa applicazione è la composizione della proiezione di 𝑌 su 𝑌𝛼𝑖 con la proiezione di 𝑌𝛼𝑖 su 𝑋𝑖 ed è quindi continua. In virtù di questo risultato, identificheremo senza problemi spazi prodotto ottenuti raggruppando arbitrariamente gli spazi fattore. Oltre alla proprietà associativa, vale anche una proprietà di tipo commutativo che enunciamo lasciando la semplice dimostrazione al lettore come esercizio.
Teorema 6.17. Sia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici e sia 𝜎 ∶ 𝐽 → 𝐽 una biiezione. Allora gli spazi 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 e 𝑌 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝜎(𝑖) sono canonicamente omeomorfi.
Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e {𝑥𝛼 }𝛼∈𝐽 una famiglia di singoletti. Consideriamo il prodotto 𝑌 ∶= 𝑋 ×∏𝛼∈𝐽 {𝑥𝛼 }, dotato della topologia prodotto. La funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 che a ogni 𝑥 ∈ 𝑋 associa l’unico elemento di 𝑌 che ha 𝑥 come prima componente è chiaramente un omeomorfismo che prende il nome di immersione di 𝑋 in 𝑌 . Generalizzando questa idea, si ha la seguente definizione. Definizione 6.18. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , sia dato uno spazio topologico (𝑋𝛼 , 𝜏𝛼 ) e diciamo (𝑌 , 𝜏) il loro prodotto, dotato della topologia prodotto. Fissiamo un indice 𝛽 ∈ 𝐽 e, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 diverso da 𝛽, fissiamo un elemento 𝑧𝛼 ∈ 𝑋𝛼 . L’applicazione 𝑗 ∶ 𝑋𝛽 → 𝑌 definita da 𝑥 ↦ (𝑦𝛼 )𝛼∈𝐽 ∈ 𝑌 , con 𝑦𝛽 ∶= 𝑥 e 𝑦𝛼 ∶= 𝑧𝛼 , ∀𝛼 ≠ 𝛽 è detta immersione di 𝑋 in 𝑌 . ◁ Si vede subito che l’immersione 𝑗 sopra definita è un omeomorfismo fra 𝑋𝛽 e la sua immagine in 𝑌 (cfr. Teorema 6.32 e Proposizione 6.34.2).
Esempio 6.19 (Il cubo di Hilbert). Posto 𝐼 ∶= [0, 1], l’insieme 𝐼 ℕ delle successioni di ℕ+ in 𝐼 è chiamato cubo di Hilbert. Tale insieme può essere anche descritto come prodotto cartesiano ∏∞ 𝑛=1 𝑋𝑛 , con 𝑋𝑛 ∶= 𝐼, ∀𝑛. Il cubo +
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di Hilbert viene sinteticamente indicato con i seguenti simboli: 𝐼 ∞ , 𝐼 𝜔 o anche 𝑄. La topologia canonica su 𝐼 ∞ è quella prodotto, pensando 𝐼 come sottospazio topologico di (ℝ, 𝑑2 ). In alcuni testi il cubo di Hilbert viene definito come il sottoinsieme di 𝑙2 così definito: 𝐵 ∶= {(𝑥𝑛 )𝑛 ∶ 0 ≤ 𝑥𝑛 ≤ 1/𝑛, ∀𝑛 ∈ 𝑁 + } ⊂ 𝑙2 .
La topologia su 𝐵 è quella dedotta dalla norma di 𝑙2 . Si tratta di verificare che i due spazi 𝐼 ∞ e 𝐵 con le rispettive topologie sono fra loro omeomorfi. La biiezione naturale 𝜑 ∶ 𝐼 ∞ → 𝐵 è definita da 𝜑 ∶ (𝑥𝑛 )𝑛 ↦ (𝑥′𝑛 )𝑛 ,
con 𝑥′𝑛 ∶= 𝑥𝑛 /𝑛.
Bisogna ora verificare la continuità di 𝜑 e della sua inversa. Cominciamo con la continuità di 𝜑 in un punto 𝑆0 ∶= (𝑤𝑛 )𝑛 . Si tratta di verificare che, per ogni 𝜀 > 0, esiste un intorno 𝐴 di 𝑆0 in 𝐼 ∞ tale che ‖𝜑(𝑆) − 𝜑(𝑆0 )‖2 < 𝜀, ∀𝑆 ∈ 𝐴. Dato 𝜀 > 0, fissiamo 𝑁 in modo tale che risulti 2 2 ∞ definito da ∑∞ 𝑘=𝑁+1 1/𝑘 < 𝜀 /2. Consideriamo ora l’aperto 𝐴 di 𝐼 𝐴 ∶= 𝐴1 × 𝐴2 × ⋯ × 𝐴𝑁 ×
∞
∏
𝑘=𝑁+1
𝑋𝑘
(𝑋𝑘 ∶= 𝐼, ∀𝑘 > 𝑁)
e dove, per ogni 𝑖 ≤ 𝑁, si ha 𝐴𝑖 ∶= ]𝑤𝑖 − 𝜀/2, 𝑤𝑖 + 𝜀/2[ ∩ 𝐼. Per ogni 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 ∈ 𝐴, si ha |𝑥𝑖 − 𝑤𝑖 | < 𝜀/2, ∀𝑖 ≤ 𝑁 e |𝑥𝑖 − 𝑤𝑖 | ≤ 1, ∀𝑖 > 𝑁. Ricordando la definizione di 𝜑, si ha ‖𝜑(𝑆) − 𝜑(𝑆0 )‖22 =
∞
𝑁
1 𝜀2 1 𝜀2 2 (𝑥 − 𝑤 ) < + < 𝜀2 . 𝑘 𝑘 ∑ 𝑘2 ∑ 𝑘2 4 2 𝑘=1 𝑘=1
1 2 Si tenga presente che è ∑𝑁 𝑘=1 𝑘2 < 𝜋 /6 < 2 (cfr. Esempio 5.76). Veniamo alla continuità di 𝜑−1 ∶ 𝐵 → 𝐼 ∞ definita da
𝜑−1 ∶ (𝑦𝑛 )𝑛 ↦ (𝑦′𝑛 )𝑛 ,
con 𝑦′𝑛 ∶= 𝑛𝑦𝑛 .
Per la continuità di 𝜑−1 in un punto 𝑆0 ∶= (𝑣𝑛 )𝑛 , tale che 0 ≤ 𝑣𝑛 ≤ 1/𝑛, si tratta di verificare che, per ogni intorno di base 𝑉 della successione (𝑣′𝑛 )𝑛 ∶= 𝜑−1 (𝑆0 ), esiste un 𝜂 > 0 tale che, per ogni 𝑆 ∈ 𝐵, con ‖𝑆 − 𝑆0 ‖2 < 𝜂, si ha 𝜑−1 (𝑆) ∈ 𝑉 . Un generico intorno di base 𝑉 di 𝜑−1 (𝑆0 ) conterrà un insieme del tipo 𝐴 ∶= 𝐴1 × 𝐴2 × ⋯ × 𝐴𝑁 ×
∞
∏
𝑘=𝑁+1
𝑋𝑘
(𝑋𝑘 ∶= 𝐼, ∀𝑘 > 𝑁)
e dove, per ogni 𝑖 ≤ 𝑁 si ha 𝐴𝑖 ∶= ]𝑣′𝑖 −𝜎, 𝑣′𝑖 +𝜎[ ∩ 𝐼, con 𝑁 ∈ ℕ+ e 𝜎 > 0 fissati. 2 2 Sia 𝑆 ∶= (𝑦𝑛 )𝑛 ∈ 𝐵, con ‖𝑆 − 𝑆0 ‖2 < 𝜂; si ha dunque ∑∞ 𝑛=1 (𝑦𝑛 − 𝑣𝑛 ) < 𝜂 . Ciò ′ ′ implica che, per ogni 𝑛, si ha |𝑦𝑛 − 𝑣𝑛 | < 𝜂 e quindi anche |𝑦𝑛 − 𝑣𝑛 | = 𝑛|𝑦𝑛 − 𝑣𝑛 | < 𝑛𝜂. Se, fissati 𝑁 e 𝜎, scegliamo 𝜂 in modo che risulti 0 < 𝜂 < 𝜎/𝑁, avremo che 𝜑−1 (𝑆) ∈ 𝐴. ◁
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
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Il risultato ora dimostrato è di notevole importanza perché dà come immediata conseguenza il seguente corollario: Corollario 6.20. Il cubo di Hilbert 𝐼 ∞ con la topologia prodotto è metrizzabile. Dimostrazione. Basta osservare che, a meno di omeomorfismi, 𝐼 ∞ è un sottoinsieme di uno spazio normato.
La metrizzabilità del cubo di Hilbert permette di dare delle dimostrazioni di metrizzabilità di alcuni spazi topologici. La tecnica dimostrativa consiste nel definire un’immersione dello spazio topologico nel cubo di Hilbert. Per mostrare un esempio di questa tecnica dimostrativa, ridimostriamo il Teorema di metrizzabilità di Urysohn 3.115. A suo tempo, era stato provato come corollario del Teorema di Nagata-Smirnov 3.114. Per comodità del lettore, riportiamo anche l’enunciato del teorema. Teorema 6.21 (di Urysohn). Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) secondo numerabile (𝐴2 ) è metrizzabile se (e solo se) è regolare.
Dimostrazione. Basta, ovviamente, provare il “se”. Per il Teorema 1.102, possiamo supporre che lo spazio topologico (𝑋, 𝜏), oltre che 𝐴2 , sia anche normale. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝑛 }𝑛∈ℕ una base numerabile di aperti per la topologia 𝜏. Consideriamo tutte le coppie di aperti di base 𝐴𝑖 , 𝐴𝑗 tali che cl 𝐴𝑖 ⊆ 𝐴𝑗 . Alternativamente, possiamo definire queste coppie di insiemi richiedendo che i chiusi cl 𝐴𝑖 e 𝑋 ⧵ 𝐴𝑗 siano disgiunti. Coppie di insiemi non vuoti di tale tipo esistono sempre (Teorema 1.91) e formano una quantità al più numerabile. Poiché lo spazio è normale, per il Lemma di Urysohn 2.100, esiste una funzione continua 𝑓𝑖,𝑗 ∶ 𝑋 → 𝐼 ∶= [0, 1] tale che 𝑓𝑖,𝑗 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ cl 𝐴𝑖 e 𝑓𝑖,𝑗 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐴𝑗 . Rinumeriamo le 𝑓𝑖,𝑗 in una nuova successione: (𝑔𝑛 )𝑛 . A posteriori vedremo che se le 𝑔𝑛 fossero in numero finito, il risultato sarebbe banale. A partire dalla successione (𝑔𝑛 )𝑛 , definiamo un’applicazione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝐼 ∞ ponendo 𝜑(𝑥) ∶= (𝑔𝑛 (𝑥))𝑛 .
Verifichiamo che 𝜑 è un omeomorfismo fra (𝑋, 𝜏) e 𝜑(𝑋) con la topologia indotta da quella prodotto di 𝐼 ∞ . È immediato verificare la continuità di 𝜑. Infatti, basta osservare che le composte 𝑝𝑖 ∘ 𝜑, dove 𝑝𝑖 è la proiezione di 𝐼 ∞ sull’𝑖-imo fattore, coincidono con le 𝑔𝑖 e applicare poi il Corollario 6.9. Verificare che 𝜑 è iniettiva significa provare che, dati due punti distinti qualunque 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, esiste una 𝑔𝑛 = 𝑓𝑖,𝑗 tale che 𝑔𝑛 (𝑥) ≠ 𝑔𝑛 (𝑦). A tale scopo, basta osservare che esiste un aperto (di base) 𝐴 che contiene 𝑥, ma non 𝑦; a sua volta 𝐴 contiene la chiusura di un aperto (di base) 𝑈 contenente 𝑥. La funzione 𝑔 associata alla coppia 𝑈 , 𝐴 è tale che 𝑔(𝑥) = 0 e 𝑔(𝑦) = 1. Come ultimo passo, per verificare che 𝜑−1 è continua, controlliamo che 𝜑 trasforma aperti di base di 𝑋 in aperti di 𝜑(𝑋). Sia 𝐴 ∈ 𝒜 . Si tratta di provare che 𝜑(𝐴) è l’intersezione di un aperto 𝐴′ ⊆ 𝐼 ∞ con 𝜑(𝑋). Sia 𝑢 ∈ 𝐴 un punto
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280
arbitrario e 𝑈 un aperto di base con 𝑢 ∈ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝐴. Sia ora 𝑔𝑘 la funzione relativa alla coppia di aperti 𝑈 , 𝐴 tale che 𝑔𝑘 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝑈 e 𝑔𝑘 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∉ 𝐴. Sia quindi 𝑉𝑢 ⊂ 𝐼 ∞ definito come il prodotto avente l’intervallo [0, 1[ alla 𝑘-ima componente e 𝐼 in tutte le altre. 𝑉𝑢 è aperto in 𝐼 ∞ dato che [0, 1[ è aperto in 𝐼. Inoltre, 𝑉𝑢 ∩ 𝜑(𝑋) ⊆ 𝜑(𝐴). Concludiamo che è 𝜑(𝐴) = 𝐴′ ∩ 𝜑(𝑋), con 𝐴′ ∶= ⋃𝑢∈𝐴 𝑉𝑢 . Esempio 6.22. Spazi prodotto importanti nella teoria dei Sistemi Dinamici sono gli spazi di sequenze su un alfabeto (finito) di 𝑚 simboli. Per comodità di esposizione, ci limiteremo al caso di soli due simboli che nelle applicazioni possono essere “testa e croce”, “destra e sinistra”, “pari e dispari” e che, convenzionalmente, si indicano con 0 e 1. Considereremo di conseguenza lo spazio delle successioni di due simboli ℕ Σ+ 2 ∶= {(𝑠0 , 𝑠1 , … , 𝑠𝑛 , … ) ∶ 𝑠𝑗 ∈ {0, 1}} = {0, 1} .
Questo spazio di sequenze può essere interpretato come un modello i cui elementi sono tutti le possibili sequenze ottenute dal lancio di una moneta. In alcune applicazioni, è conveniente studiare dei processi che non solo si sviluppano in futuro, ma sono illimitati anche in passato; in tal caso si considerano le cosiddette sequenze bi-infinite, cioè indiciate sull’insieme ℤ degli interi relativi. In questo caso, lo spazio degli eventi corrispondenti diventa Σ2 ∶= {0, 1}ℤ .
Per descrivere gli oggetti del primo spazio, non ci sono ambiguità. Se viene assegnata la sequenza di simboli 0 0 1 1 0 0 … , è evidente che 𝑠4 = 0. Se abbiamo, invece, una sequenza bi-infinita di due simboli, è importante indicare la posizione di 𝑠0 . Si usa quindi, di solito, la seguente scrittura: … 0 1 0 0 1.1 1 0 0 …
che si interpreta nel senso che la prima cifra a destra del punto corrisponde a 𝑠0 . Per esempio, nel caso sopra rappresentato, si ha 𝑠−2 = 0, 𝑠0 = 1 e 𝑠3 = 0. Sia in Σ+ 2 che in Σ2 , la topologia standard è quella dello spazio prodotto di un’infinità numerabile di copie dell’insieme {0, 1} con la topologia discreta. Nel caso di 𝑚 simboli, rappresentati dall’insieme {0, 1, … , 𝑚 − 1}, si definiscono in modo analogo gli spazi di sequenze ℕ Σ+ 𝑚 ∶= {0, 1, … , 𝑚 − 1} ,
Σ𝑚 ∶= {0, 1, … , 𝑚 − 1}ℤ ,
dotati della topologia prodotto relativamente alla topologia discreta sull’insieme {0, 1, … , 𝑚 − 1}. Analogamente al caso del cubo di Hilbert, anche questi spazi sono metrizzabili. Presentiamo in dettaglio il caso per Σ+ 2 . Per gli altri si procede in modo analogo, con ovvie modifiche.
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
281
Date due successioni 𝑆 ∶= (𝑠𝑛 )𝑛 e 𝑇 ∶= (𝑡𝑛 )𝑛 , definiamo 𝑑(𝑆, 𝑇 ) ∶=
∞
∑ 𝑖=0
|𝑠𝑖 − 𝑡𝑖 | . 2𝑖
(6.1)
Osserviamo che, poiché |𝑠𝑖 −𝑡𝑖 | è sempre 0 o 1, la serie definita sopra è dominata dalla serie geometrica di ragione 1/2 e, pertanto, si ha 𝑑(𝑆, 𝑇 ) ≤ 2, ∀𝑆, 𝑇 ∈ Σ+ 2. Lasciamo per esercizio al lettore la verifica che quella ora definita è effettivamente una distanza. Un po’ più complesso è verificare che (Σ+ 2 , 𝑑) è uno spazio metrico completo. Lo schema dimostrativo è comunque del tutto analogo a quello utilizzato nel caso degli spazi 𝑙𝑝 studiati nel Paragrafo 4.4. Verificheremo invece che la topologia indotta da questa distanza è esattamente la topologia prodotto. Cominciamo con l’esaminare come sono fatti gli intorni di un elemento di Σ+ 2 rispetto alla topologia prodotto. Sia 𝑆 ∶= (𝑠𝑛 )𝑛 ∈ Σ+ una sequenza fissata. Un intorno 𝑈 di 𝑆 dovrà contenere un intorno di 2 base del tipo 𝑉𝑁 ∶= {𝑇 ∶= (𝑡𝑛 )𝑛 ∈ Σ+ 2 ∶ 𝑡𝑛 = 𝑠𝑛 , ∀𝑛 ≤ 𝑁 } ,
con 𝑁 ∈ ℕ. Osserviamo anche che, se 𝑇 ∈ 𝑉𝑁 , allora si ha 𝑑(𝑇 , 𝑆) = 𝑖 𝑁 ∑∞ 𝑖=𝑁+1 |𝑠𝑖 − 𝑡𝑖 |/2 ≤ 1/2 . Si conclude che, fissato un 𝜀 > 0 arbitrario, esiste + 𝑁 ∈ ℕ tale che 𝑉𝑁 ⊆ 𝐵(𝑆, 𝜀); basta che sia 1/2𝑁 < 𝜀. Viceversa, fissato un 𝑉𝑁 , verifichiamo che esiste un 𝛿 > 0 tale che 𝐵(𝑆, 𝛿) ⊆ 𝑉𝑁 . A tale scopo, basterà prendere 0 < 𝛿 < 1/2𝑁 . Infatti, se, per assurdo, esistesse 𝑖 ∈ [0, 𝑁] tale che 𝑠𝑖 ≠ 𝑡𝑖 , avremmo 𝑑(𝑆, 𝑇 ) ≥ 1/2𝑖 ≥ 1/2𝑁 e quindi 𝑇 ∉ 𝐵(𝑆, 𝛿). Si è così verificato che le due topologie hanno le stesse famiglie di intorni. Lo stesso ragionamento si può utilizzare per verificare che la topologia di Σ2 è quelle che proviene dalla metrica definita da 𝑑(𝑆, 𝑇 ) ∶=
+∞
∑ −∞
|𝑠𝑖 − 𝑡𝑖 | 2|𝑖|
.
(6.2)
Da un punto di vista insiemistico, possiamo osservare che: introducendo in Σ2 una relazione binaria per cui due sequenze bi-infinite sono in relazione se e solo se coincidono su ℕ, si ottiene un’equivalenza 𝜌 per cui gli elementi di Σ+ 2 sono in corrispondenza biunivoca con l’insieme quoziente Σ2 /𝜌. Un sottoinsieme importante di Σ+ 2 è costituito dalle sequenze (𝑠𝑛 )𝑛 periodiche, cioè tali che esiste 𝑘 ≥ 1 per cui risulta 𝑠𝑛+𝑘 = 𝑠𝑛 , ∀𝑛 ≥ 0. L’insieme di queste sequenze periodiche (su due simboli) verrà indicato con Per+ 2 . Analogamente, il simbolo Per2 designerà l’insieme delle sequenze periodiche bi-infinite di due simboli, cioè tali che 𝑠𝑛+𝑘 = 𝑠𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℤ. Chiaramente, gli insiemi Per+ 2 e Per2 sono in corrispondenza biunivoca naturale. Va però sottolineato che valutare la distanza fra due sequenze periodiche pensate come elementi di Per+ 2 non è equivalente a farlo in Per2 . Ciò non dipende soltanto da un fattore di scala, ma è un fatto intrinseco. Per giustificare
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
282
questa affermazione, consideriamo il seguente esempio: indichiamo con 𝑆𝑁 la sequenza (𝑠𝑛 )𝑛 tale che 𝑠𝑛 = 0, ∀𝑛 ∈ [0, 𝑁 − 1] e 𝑠𝑁 = 1 e prolungata per periodicità (con periodo 𝑁 + 1) sia in Σ+ 2 che in Σ2 . Se indichiamo con 0 la sequenza periodica identicamente nulla, si ha: 𝑑(𝑆𝑁 , 0) =
2
2𝑁+1
−1
, in Σ+ 2;
𝑑(𝑆𝑁 , 0) =
2 + 2𝑁 , in Σ2 . 2𝑁+1 − 1
Quindi, (𝑆𝑁 )𝑁 → 0 in Σ+ 2 , mentre ciò non accade in Σ2 . Rispetto alla distanza di Σ2 il limite della successione (𝑆𝑁 )𝑁 è la sequenza bi-infinita non periodica … 0 0 0 1. 0 0 0 … che sta nella stessa classe di equivalenza della sequenza nulla. Osserviamo, in fine, che in entrambi gli spazi, le sequenze periodiche costituiscono un sottoinsieme denso (Esercizio!). ◁
Abbiamo visto che il cubo di Hilbert 𝐼 ∞ e gli spazi di sequenze Σ+ 2 e Σ2 con la topologia prodotto sono metrizzabili e la verifica è stata fatta descrivendo esplicitamente le relative distanze. A conclusione di questo discorso, osserviamo che questi risultati di metrizzabilità possono essere dedotti dal seguente teorema generale:
Teorema 6.23 (Metrizzabilità dell’insieme prodotto). Siano {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici e (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto dotato della topologia prodotto. Supponiamo inoltre che l’insieme 𝐽 degli indici sia numerabile. Allora (𝑋, 𝜏) è metrizzabile se e solo se lo sono tutti gli spazi fattori. Dimostrazione. Il “solo se” è di verifica immediata. Basta infatti immergere canonicamente ogni spazio fattore un quello prodotto e utilizzare il Teorema 3.107. Questa proprietà è indipendente dalla cardinalità dell’insieme degli indici. Proviamo ora il “se”. Se 𝐽 è finito, il risultato è di facile verifica: basta definire come distanza in 𝑋 la somma delle distanze fra le corrispondenti proiezioni. Supponiamo ora che 𝐽 sia infinito numerabile e, senza perdita di generalità, prendiamo 𝐽 = ℕ+ e quindi 𝑋 = ∏∞ 𝑖=1 𝑋𝑖 . Per ipotesi, ogni topologia 𝜏𝑖 di 𝑋𝑖 proviene da una distanza 𝑑𝑖 . Ancora senza perdita di generalità, possiamo supporre che, per ogni 𝑖 ∈ ℕ+ , sia 𝑑𝑖 (𝑎, 𝑏) ≤ 1, ∀𝑎, 𝑏 ∈ 𝑋𝑖 (cfr. Esempio 3.27). A questo punto, dati due elementi 𝑃 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 , 𝑄 ∶= (𝑦𝑛 )𝑛 nello spazio prodotto, definiamo ∞ 𝑑𝑖 (𝑥𝑖 , 𝑦𝑖 ) 𝑑(𝑃 , 𝑄) ∶= . (6.3) ∑ 2𝑖 𝑖=1 La verifica che 𝑑 è una distanza in 𝑋 e che questa induce la topologia prodotto è analoga a quanto visto per Σ+ 2 e viene lasciata per esercizio. Corollario 6.24. Prendendo su ℝ l’usuale topologia euclidea, sono metrizzabili i seguenti spazi prodotto:
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
283
1. Lo spazio ℝ∞ ∶= ℝℕ delle successioni di numeri reali, con la topologia della convergenza puntuale. 2. Lo spazio 𝑙∞ delle successioni limitate di numeri reali, con la topologia della convergenza puntuale. ∞ 3. Gli spazi 𝑙𝑝 delle successioni (𝑥𝑛 )𝑛 di numeri reali tali che ∑𝑛=1 |𝑥𝑛 |𝑝 < ∞, con la topologia della convergenza puntuale. Corollario 6.25. Il prodotto topologico di un’infinità numerabile di spazi discreti è metrizzabile. Dimostrazione. Basta ricordare che la topologia discreta proviene dalla distanza discreta (cfr. pag. 102). Il Teorema 6.23 non è sostanzialmente migliorabile, nel senso che, eccettuato il caso banale in cui gli spazi fattori sono quasi tutti (cioè a meno di un’infinità numerabile) dei singoletti, se l’insieme degli indici è più che numerabile, allora lo spazio prodotto non è metrizzabile.
Teorema 6.26. Siano {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici e (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto dotato della topologia prodotto. Supponiamo inoltre che l’insieme 𝐽 degli indici sia più che numerabile e che ciascuno degli 𝑋𝑖 abbia almeno due elementi. Allora (𝑋, 𝜏) non è metrizzabile.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che 𝑋 sia metrizzabile e fissiamo un suo punto 𝑤 ∶= (𝑤𝑖 )𝑖∈𝐽 . Poiché gli spazi metrizzabili sono 𝐴1 (primo numerabili) dovrebbe esistere una successione numerabile di intorni aperti (𝑈𝑛 )𝑛 di 𝑤 tale che ⋂∞ 𝑛=1 𝑈𝑛 = {𝑤}. Per come sono definiti gli aperti nello spazio prodotto, (𝑛) ogni 𝑈𝑛 deve a sua volta contenere un intorno di base del tipo ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , dove (𝑛) 𝑋𝑖 coincide con 𝑋𝑖 a meno di un insieme finito 𝐽𝑛 di indici. Posto 𝐽 ′ ∶= ⋃ 𝐽𝑛 , ′ si ha che l’insieme ⋂∞ 𝑛=1 𝑈𝑛 contiene un insieme del tipo 𝑊 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , do′ ′ ′ ve 𝑋𝑖 = 𝑋𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽 . Poiché 𝐽 è numerabile e gli spazi fattori non sono singoletti, 𝑊 contiene elementi diversi da 𝑤.
Corollario 6.27. Prendendo su ℝ e sui suoi sottoinsiemi l’usuale topologia euclidea, risultano non metrizzabili i seguenti spazi prodotto: 1. Lo spazio ℝℝ delle funzioni reali di variabile reale, con la topologia della convergenza puntuale. 2. Lo spazio ℝ𝐼 delle funzioni reali definite su un intervallo 𝐼 di ℝ, con la topologia della convergenza puntuale. 3. Lo spazio [𝑎, 𝑏]𝐼 delle funzioni definite sull’intervallo 𝐼 e a valori nell’intervallo [𝑎, 𝑏], con la topologia della convergenza puntuale. 4. Lo spazio ℱ𝑏 (𝐼, ℝ) delle funzioni limitate definite sull’intervallo 𝐼 e a valori in ℝ, con la topologia della convergenza puntuale.
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
284
Dimostrazione. Le prime tre affermazioni sono evidenti, perché si tratta di spazi prodotto su un’infinità non numerabile di fattori non banali. Per il quarto caso, basta osservare che [𝑎, 𝑏]𝐼 è un sottoinsieme di ℱ𝑏 (𝐼, ℝ); pertanto, se quest’ultimo fosse metrizzabile, sarebbe tale anche [𝑎, 𝑏]𝐼 . Tenuto conto dell’Osservazione 6.13, lo spazio ℝ𝐼 , con la topologia della convergenza puntuale fornisce un esempio di spazio vettoriale topologico localmente convesso non metrizzabile. Corollario 6.28. Il prodotto topologico di spazi discreti è metrizzabile se e solo se essi sono dei singoletti, a meno di un’infinità al più numerabile. Avendo introdotto anche il concetto di box-topology, ne discutiamo brevemente il problema della metrizzabilità. Una prima osservazione che possiamo fare è che un prodotto arbitrario di spazi discreti con la box-topology è ancora metrizzabile, in quanto risulta dotato della topologia discreta. Se a una famiglia arbitraria di spazi discreti aggiungiamo una famiglia finita di spazi metrizzabili, avremo ancora la metrizzabilità dello spazio prodotto con la box-topology. Possiamo quindi limitarci a considerare un prodotto infinito di spazi metrizzabili e non discreti. In questo caso sussiste il seguente risultato: Teorema 6.29. Siano {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi metrici e (𝑋, 𝜏! ) lo spazio prodotto dotato della box-topology. Supponiamo inoltre che l’insieme 𝐽 degli indici sia infinito e che in ogni 𝑋𝑖 vi sia almeno un punto non isolato. Allora (𝑋, 𝜏! ) non è metrizzabile.
Dimostrazione. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , sia 𝑤𝑖 un elemento di 𝑋𝑖 non isolato e poniamo 𝐴𝑖 ∶= 𝑋𝑖 ⧵ {𝑤𝑖 }. Posto 𝑤 ∶= (𝑤𝑖 )𝑖∈𝐽 e 𝐴 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 , si ha che 𝑤 ∈ cl! 𝐴, infatti, ogni intorno di 𝑤 contiene un aperto del tipo ∏𝑖∈𝐽 𝐵(𝑤𝑖 , 𝑟𝑖 ) che ha intersezione non vuota con 𝐴, visto che i 𝑤𝑖 sono non isolati. Se la 𝜏! fosse metrizzabile, per la Proposizione 3.31.4, esisterebbe una successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐴 convergente a 𝑤. Per ogni 𝑛, si ha 𝑥𝑛 ∶= (𝑥𝑛𝑖 )𝑖∈𝐽 . Sia 𝐽 ′ un sottoinsieme numerabile di 𝐽 i cui elementi, per comodità, verranno indicati come interi positivi. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝑟𝑛 ∈ ]0, 𝑑𝑛 (𝑥𝑛𝑛 , 𝑤𝑛 )[ e, in fine, consideriamo l’intorno aperto 𝑈 di 𝑤 definito da 𝑈 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝐵(𝑤𝑖 , 𝜀𝑖 ), con 𝜀𝑖 = 1 per 𝑖 ∈ 𝐽 ⧵𝐽 ′ e 𝜀𝑛 ∶= 𝑟𝑛 per 𝑛 ∈ 𝐽 ′ . Per costruzione, la successione (𝑥𝑛 )𝑛 non finisce in 𝑈 . Torniamo ora a considerare la topologia prodotto e focalizziamo la nostra attenzione sulla convergenza (puntuale) da essa dedotta. Per quanto riguarda la topologia prodotto, abbiamo già discusso il problema della metrizzabilità. Una questione più sottile riguarda invece il fatto che la convergenza puntuale possa essere dedotta da una metrica (non necessariamente equivalente alla topologia di partenza). Per comprendere meglio questa questione, consideriamo come esempio la topologia su ℝ per cui i chiusi sono, oltre a ℝ, tutti e soli gli insiemi al più numerabili (cfr. Esempio 1.15). Tale topologia non è di Hausdorff e
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
285
quindi non è metrizzabile. Tuttavia la convergenza da essa dedotta è quella discreta che proviene anche dalla distanza discreta (cfr. Esempio 3.11). Senza entrare troppo in dettaglio, studieremo il caso degli spazi 𝐶(𝐼), cioè gli spazi delle funzioni reali e continue definite su un intervallo 𝐼 di ℝ con la convergenza puntuale.
Teorema 6.30. Non esiste alcuna metrica su 𝐶(𝐼) che induca la convergenza puntuale. In particolare, 𝐶𝑝 (𝐼) non è metrizzabile.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che esista una distanza 𝑑 su 𝐶(𝐼) che generi la convergenza puntuale. Indicheremo con 𝐵(𝑟) la palla di centro l’origine (funzione identicamente nulla) e raggio 𝑟 in (𝐶(𝐼), 𝑑). Per ogni 𝑡 ∈ 𝐼 che non sia l’estremo destro dell’intervallo, e per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ per cui è 𝑡 + 2/𝑛 ∈ 𝐼, sia 𝑔𝑡,𝑛 ∶ 𝐼 → ℝ la funzione continua per cui 𝑔𝑡,𝑛 (𝑥) ∶= 0 fuori dell’intervallo ]𝑡, 𝑡 + 2/𝑛[, mentre su [𝑡, 𝑡 + 2/𝑛] il suo grafico è dato dalla spezzata che unisce i punti (𝑡, 0), (𝑡 + 1/𝑛, 2), (𝑡 + 2/𝑛, 0). Sia poi 𝑓𝑡,𝑛 ∶ 𝐼 → [0, 1] definita da 𝑓𝑡,𝑛 (𝑥) ∶= min{𝑔𝑡,𝑛 (𝑥), 1}. Si vede subito che, per ogni 𝑡 ∈ 𝐼 (con 𝑡 < sup 𝐼), la successione (𝑓𝑡,𝑛 )𝑛 converge puntualmente a 0. Fissato un 𝑡0 (con 𝑡0 < sup 𝐼), e un raggio 𝑟1 ∶= 1, esiste un 𝑛1 tale che 𝑓𝑡0 ,𝑛 ∈ 𝐵(𝑟1 ), ∀𝑛 ≥ 𝑛1 . Esiste un intervallo 𝐼1 ∶= [𝑡1 , 𝑠1 ] ⊂ [𝑡0 , 𝑡0 + 2/𝑛1 ] dove la funzione 𝑓𝑡0 ,𝑛1 vale costantemente 1. Consideriamo ora la successione (𝑓𝑡1 ,𝑛 )𝑛 che converge puntualmente a 0. Questa successione deve finire nella palla 𝐵(𝑟2 ), con 𝑟2 ∶= 1/2. Esiste pertanto un 𝑛2 > 𝑛1 tale che 𝑓𝑡1 ,𝑛 ∈ 𝐵(𝑟2 ), ∀𝑛 ≥ 𝑛2 . Ragionando come sopra, si ha che esiste un intervallo 𝐼2 ∶= [𝑡2 , 𝑠2 ] ⊂ [𝑡1 , 𝑡1 + 2/𝑛2 ] dove la funzione 𝑓𝑡1 ,𝑛2 vale costantemente 1. Procedendo per induzione, troviamo una successione decrescente di intervalli chiusi ([𝑡𝑘 , 𝑠𝑘 ])𝑘 (con 𝑘 > 0) in corrispondenza dei quali le funzioni 𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 assumono costantemente il valore 1. Inoltre la successione (𝑛𝑘 )𝑘 è strettamente crescente e, in fine, ogni funzione 𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 appartiene alla palla 𝐵(𝑟𝑘 ), con 𝑟𝑘 ∶= 1/2𝑘 . Per costruzione, la successione (𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 )𝑘 deve convergere a 0 rispetto alla metrica. D’altra parte, esiste un (unico) elemento + 𝑧 ∈ ⋂∞ 𝑘=1 [𝑡𝑘 , 𝑠𝑘 ] (cfr. Teorema 3.95). Si ottiene 𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 (𝑧) = 1, ∀𝑘 ∈ ℕ e quindi la successione non converge puntualmente a 0. Il precedente ragionamento può essere esteso al caso più generale dello spazio 𝐶(𝑋) delle funzioni reali e continue definite su uno spazio metrico completo 𝑋 privo di punti isolati.
Teorema 6.31. Sia (𝑋, 𝑑𝑋 ) uno spazio metrico completo privo di punti isolati. Non esiste alcuna metrica su 𝐶(𝑋) che induca la convergenza puntuale. In particolare, 𝐶𝑝 (𝑋) non è metrizzabile. Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che esista una distanza 𝑑 su 𝐶(𝑋) che genera la convergenza puntuale. Indicheremo con 𝐵(𝑟) la palla di centro l’origine (funzione identicamente nulla) e raggio 𝑟 in (𝐶(𝑋), 𝑑). Per ogni 𝑡0 ∈ 𝑋, esiste una successione (𝑤0𝑛 )𝑛 di punti distinti convergente a 𝑡0 e tale
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
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che 𝑑𝑋 (𝑡0 , 𝑤0𝑛+1 ) < 𝑑𝑋 (𝑡0 , 𝑤0𝑛 ). Sappiamo che ogni spazio metrico è completamente regolare anzi, addirittura perfettamente normale (cfr. Teorema 3.44). Pertanto, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ esiste una funzione continua 𝑓𝑡0 ,𝑛 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓𝑡0 ,𝑛 (𝑥) ∶= 0 in 𝑋 ⧵ 𝐵(𝑤0𝑛 , 𝑑𝑋 (𝑡0 , 𝑤0𝑛 )) e 𝑓𝑡0 ,𝑛 (𝑤0𝑛 ) ∶= 1. La successione di funzioni (𝑓𝑡0 ,𝑛 )𝑛 converge puntualmente a 0. Fissati 𝑡0 ∈ 𝑋 e un raggio 𝑟1 ∶= 1, esiste un 𝑛1 tale che 𝑓𝑡0 ,𝑛1 ∈ 𝐵(𝑟1 ). Questa funzione vale 1 nel punto 𝑡1 ∶= 𝑤0𝑛1 . Senza perdita di generalità, possiamo supporre 𝑑𝑋 (𝑡0 , 𝑡1 ) < 1. Introduciamo anche l’aperto 𝐴1 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓𝑡0 ,𝑛1 (𝑥) > 1/2} e
il chiuso 𝐶1 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓𝑡0 ,𝑛1 (𝑥) ≥ 1/2}. Si ha 𝑡1 ∈ 𝐴1 ⊆ 𝐶1 ⊆ 𝐵(𝑡1 , 𝑑𝑋 (𝑡0 , 𝑡1 )). Poiché 𝑡1 non è isolato, esiste in 𝐴1 una successione (𝑤1𝑛 )𝑛 di punti distinti convergente a 𝑡1 e tale che 𝑑𝑋 (𝑡1 , 𝑤1𝑛+1 ) < 𝑑𝑋 (𝑡1 , 𝑤1𝑛 ). Pur di prendere 𝑛 abbastanza grande, possiamo supporre 𝐵[𝑤1𝑛 , 𝑑𝑋 (𝑡1 , 𝑤1𝑛 )] ⊆ 𝐴1 . Come sopra, definiamo, per ogni 𝑛 siffatto, una funzione continua 𝑓𝑡1 ,𝑛 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓𝑡1 ,𝑛 (𝑥) ∶= 0 in 𝑋 ⧵ 𝐵(𝑤1𝑛 , 𝑑𝑋 (𝑡1 , 𝑤1𝑛 )) e 𝑓𝑡1 ,𝑛 (𝑤1𝑛 ) ∶= 1. La successione di funzioni (𝑓𝑡1 ,𝑛 )𝑛 converge puntualmente a 0 e quindi dovrà finire in 𝐵(𝑟2 ), con 𝑟2 ∶= 1/2. Esiste quindi un 𝑛2 > 𝑛1 tale che 𝑓𝑡1 ,𝑛2 ∈ 𝐵𝑟2 e, inoltre, si ha 𝑓𝑡1 ,𝑛2 (𝑡2 ) = 1, per 𝑡2 ∶= 𝑤1𝑛2 . Senza perdita di generalità, possiamo supporre 𝑑𝑋 (𝑡1 , 𝑡2 ) < 1/2. Procedendo per induzione, otteniamo una successione di punti (𝑡𝑘 )𝑘 , e due successioni decrescenti per inclusione di chiusi (𝐶𝑘 )𝑘 e di aperti (𝐴𝑘 )𝑘 tali che 𝑡𝑘 ∈ 𝐴𝑘 ⊆ 𝐶𝑘 ⊆ 𝐵(𝑡𝑘 , 𝑑𝑋 (𝑡𝑘−1 , 𝑡𝑘 )) e 𝑑𝑋 (𝑡𝑘−1 , 𝑡𝑘 ) < 1/2𝑘 . Inoltre, ad ogni passo 𝑘-imo, vi sono delle funzioni continue 𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 ∶ 𝑋 → [0, 1] tali che 𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 ∈ 𝐵(𝑟𝑘 ), con 𝑟𝑘 ∶= 1/2𝑘 e 𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 (𝑥) ≥ 1/2, ∀𝑥 ∈ 𝐶𝑘 . Per la prima proprietà, abbiamo che la successione (𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 )𝑘 tende a 0 rispetto alla metrica 𝑑. Tuttavia, per il Teorema 3.61, esiste un (unico) elemento 𝑧 ∈ ⋂∞ 𝑘=1 𝐶𝑘 per cui si ha 𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 (𝑧) ≥ 1/2, ∀𝑘; si conclude che la successione (𝑓𝑡𝑘−1 ,𝑛𝑘 )𝑘 non può convergere puntualmente a 0. Se 𝑋 ∶= (ℕ, 𝑑2 ) con la metrica discreta, abbiamo uno spazio completo, ma con punti isolati. Se 𝑋 ∶= (ℚ, 𝑑2 ), abbiamo uno spazio privo di punti isolati ma non completo. In entrambi i casi, 𝐶𝑝 (𝑋) è metrizzabile per il Teorema 6.23.
Abbiamo fin qui visto sia risultati di metrizzabilità sia di non metrizzabilità relativamente agli spazi prodotto. Nel caso in cui la metrizzabilità sia garantita, sarà interessante esaminare se, per qualche metrica canonica definita sullo spazio prodotto, è conservata anche la completezza. Cominciamo con l’esaminare il caso banale di un numero finito di spazi metrici completi. Siano dunque (𝑋𝑖 , 𝑑𝑖 ), 𝑖 = 1, … , 𝑘, spazi metrici arbitrari. Nello spazio prodotto (𝑋, 𝜏), con 𝑋 ∶= ∏𝑘𝑖=1 𝑋𝑖 e 𝜏 topologia prodotto indotta dalle topologie 𝜏𝑖 generate dalle 𝑑𝑖 , possiamo introdurre in modo canonico la
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto distanza 𝑑(𝑥, 𝑦) ∶=
𝑘
∑ 𝑖=1
𝑑𝑖 (𝑥𝑖 , 𝑦𝑖 ),
287
con 𝑥 ∶= (𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ), 𝑦 ∶= (𝑦1 , … , 𝑦𝑘 ).
È immediato verificare che la topologia dedotta da 𝑑 coincide con 𝜏 e che, inoltre, (𝑋, 𝑑) è completo se e solo se lo sono tutti gli spazi (𝑋𝑖 , 𝑑𝑖 ). La distanza 𝑑 sopra definita si può pensare come la norma ‖⋅‖1 di ℝ𝑘 applicata al vettore di componenti 𝑑𝑖 (𝑥𝑖 , 𝑦𝑖 ). Visto che in ℝ𝑘 tutte le norme sono fra loro equivalenti (cfr: Teorema 4.43), possiamo anche utilizzare la seguente procedura: Fissiamo una norma ‖⋅‖ in ℝ𝑘 e definiamo la distanza 𝑑 ′ (𝑥, 𝑦) ∶= ‖(𝛿1 , … , 𝛿𝑘 )‖,
con 𝛿𝑖 ∶= 𝑑𝑖 (𝑥𝑖 , 𝑦𝑖 ).
Per il Teorema 4.43 la norma scelta è equivalente alla ‖⋅‖1 e, pertanto, le distanze 𝑑 e 𝑑 ′ sono strettamente equivalenti (cfr. Definizione 4.41) e quindi (𝑋, 𝑑) è completo se e solo se lo è (𝑋, 𝑑 ′ ). Veniamo ora al caso del prodotto di una famiglia non finita di spazi metrici. Per quanto visto precedentemente, possiamo limitarci a considerare il caso di una famiglia numerabile. Consideriamo quindi una successione ((𝑋𝑖 , 𝑑𝑖 ))𝑖 di spazi metrici arbitrari. Sia poi (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto con 𝜏 topologia prodotto indotta dalle topologie 𝜏𝑖 generate dalle 𝑑𝑖 . Nel Teorema 6.23 di metrizzabilità dell’insieme prodotto, abbiamo visto che la topologia 𝜏 è metrizzabile ed è dedotta dalla distanza 𝑑(𝑃 , 𝑄) ∶=
𝑑𝑖 (𝑥𝑖 , 𝑦𝑖 ) 1 , ∑ 2𝑖 1 + 𝑑𝑖 (𝑥𝑖 , 𝑦𝑖 ) 𝑖=1 ∞
con 𝑃 ∶= (𝑥𝑖 )𝑖 , 𝑄 ∶= (𝑦𝑖 )𝑖 .
(6.4)
Si osservi che la definizione data dalla (6.4) corrisponde alla (6.3). Infatti, nella (6.3) eravamo partiti da distanze già normalizzate, mentre ora le distanze sono arbitrarie e quindi, in ogni addendo della formula si effettua una normalizzazione passando da 𝑑𝑖 a 𝑑𝑖∗ ∶= 𝑑𝑖 /(1 + 𝑑𝑖 ). Ci occupiamo dunque della completezza dello spazio (𝑋, 𝑑). (Quanto otterremo sarà ovviamente valido per ogni spazio del tipo (𝑋, 𝑑 ′ ), con 𝑑 ′ strettamente equivalente a 𝑑.) Con tali notazioni, vale il seguente risultato:
Teorema 6.32 (Completezza dello spazio prodotto). Lo spazio (𝑋, 𝑑) è completo se e solo se lo sono gli spazi (𝑋𝑖 , 𝑑𝑖 ). Dimostrazione. Osserviamo preliminarmente che, per ogni 𝑖, (𝑋𝑖 , 𝑑𝑖 ) è completo se e solo se lo è (𝑋𝑖 , 𝑑𝑖∗ ), dato che le due distanze generano le stesse successioni di Cauchy. Infatti si ha sempre 𝑑𝑖∗ ≤ 𝑑𝑖 e, per 𝑑𝑖 (𝑥, 𝑦) < 1, 𝑑𝑖∗ (𝑥, 𝑦) > 𝑑(𝑥, 𝑦)/2. Consideriamo quindi direttamente gli spazi (𝑋𝑖 , 𝑑𝑖∗ ). Supponiamo intanto (𝑋, 𝑑) completo e fissiamo una successione di Cauchy 𝑗 (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋𝑗 . A partire da questa, definiamo una successione (𝑃𝑛 )𝑛 in 𝑋, con
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
288
𝑃𝑛 ∶= (𝑝𝑖𝑛 )𝑖 , dove 𝑝𝑛 ∶= 𝑥𝑛 e, per 𝑖 ≠ 𝑗, 𝑝𝑖𝑛 ∶= 𝑦𝑖 , con 𝑦𝑖 elemento fissato di 𝑋𝑖 𝑗 𝑗 (cfr. Definizione 6.18). Risultando 𝑑(𝑃𝑛 , 𝑃𝑚 ) = 𝑑𝑗∗ (𝑥𝑛 , 𝑥𝑚 )/2𝑗 , si ha che anche la successione (𝑃𝑛 )𝑛 è di Cauchy e quindi converge a un elemento 𝑄 ∶= (𝑞 𝑖 )𝑖 , 𝑗 con 𝑞 𝑖 ∶= 𝑦𝑖 , per 𝑖 ≠ 𝑗. Inoltre la successione (𝑥𝑛 )𝑛 converge all’elemento 𝑞 𝑗 in (𝑋𝑗 , 𝑑𝑗∗ ). Supponiamo, inversamente, che ogni (𝑋𝑖 , 𝑑𝑖 ) sia completo. Dal fatto che, per ogni 𝑖, si ha 𝑑𝑖∗ ≤ 2𝑖 𝑑, segue immediatamente che tutte le proiezioni di una successione di Cauchy in (𝑋, 𝑑) sono successioni di Cauchy negli spazi fattori. Sia quindi (𝑃𝑛 )𝑛 una successione di Cauchy in (𝑋, 𝑑), con 𝑃𝑛 ∶= (𝑥𝑖𝑛 )𝑖 . Per quanto appena detto, ogni singola successione (𝑥𝑖𝑛 )𝑛 è di Cauchy in (𝑋𝑖 , 𝑑𝑖∗ ) e, pertanto, converge a un elemento 𝑦𝑖 ∈ 𝑋𝑖 . Poniamo ora 𝑄 ∶= (𝑦𝑖 )𝑖 ∈ 𝑋 e proviamo che 𝑃𝑛 → 𝑄 in (𝑋, 𝑑). Infatti, si ha 𝑗
𝑗
𝑑(𝑃𝑛 , 𝑄) ∶=
∞
∑ 𝑖=1
𝑑𝑖∗ (𝑥𝑖𝑛 , 𝑦𝑖 ) 2𝑖
.
𝑖 Fissato 𝜀 > 0, scegliamo 𝑘 ∈ ℕ in modo che ∑∞ 𝑖=𝑘+1 1/2 < 𝜀/2. Ora, una volta determinato 𝑘, sugli spazi fattori 𝑋𝑖 , con 1 ≤ 𝑖 ≤ 𝑘, scegliamo un indice ℎ𝑖 in modo che sia 𝑑𝑖∗ (𝑥𝑖𝑛 , 𝑦𝑖 ) < 𝜀/(2𝑘), ∀𝑛 > ℎ𝑖 . Posto ℎ̂ ∶= max{ℎ1 , … , ℎ𝑘 }, concludiamo che è 𝑑(𝑃𝑛 , 𝑄) < 𝜀, ∀𝑛 > ℎ.̂
Esempio 6.33. Nel Corollario 6.24, prendendo su ℝ l’usuale topologia euclidea, abbiamo considerato lo spazio ℝ∞ ∶= ℝℕ delle successioni di numeri reali, con la topologia della convergenza puntuale. Questo corollario ci dice che ℝ∞ è metrizzabile. La relativa distanza, in base al Teorema 6.23 è 𝑑(𝑥, 𝑦) ∶=
|𝑥𝑖 − 𝑦𝑖 | 1 , ∑ 2𝑖 1 + |𝑥𝑖 − 𝑦𝑖 | 𝑖=1 ∞
con 𝑥 ∶= (𝑥𝑖 )𝑖 , 𝑦 ∶= (𝑦𝑖 )𝑖
(6.5)
(cfr. la (6.3) e la (6.4)). Il teorema appena dimostrato ci dice che lo spazio metrico (ℝ∞ , 𝑑) è completo. Spesso questo spazio viene indicato anche con il simbolo ℝ𝜔 e viene chiamato spazio di Fréchet (cfr. [76, Esempio 37]). Questo spazio ha una proprietà di tipo universale nel senso che ogni spazio metrico separabile (𝑌 , 𝛿) può essere immerso (tramite un omeomorfismo) come sottospazio di ℝ∞ . Infatti, fissato un sottoinsieme numerabile denso 𝑌 ′ ∶= {𝑦𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}, ad ogni elemento 𝑤 ∈ 𝑌 possiamo associare l’elemento 𝑓 (𝑦) ∶= (𝛿(𝑦, 𝑦𝑖 ))𝑖 ∈ ℝ∞ . Lasciamo al lettore il compito di verificare che 𝑓 è un omeomorfismo fra 𝑌 e 𝑓 (𝑌 ) ⊆ ℝ∞ . ◁ Sempre dal Teorema 6.32 segue immediatamente la completezza del cubo di Hilbert 𝐼 ∞ e degli spazi Σ2 e Σ+ 2 con le loro distanze canoniche. La completezza di tali spazi si può dedurre anche come conseguenza di un teorema sugli spazi metrici compatti (cfr. Teorema 7.16). Dopo aver studiato il problema della metrizzabilità, passiamo a considerare il problema relativo al fatto che gli assiomi di separazione si preservino o meno
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
289
nello spazio prodotto; analogamente vedremo cosa succede per le proprietà collegate alla numerabilità, quali separabilità, assiomi 𝐴1 e 𝐴2 .
Lemma 6.34. Siano {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici e (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto dotato della topologia prodotto. 1. Ogni proiezione dello spazio prodotto su un suo fattore è un’applicazione continua e aperta. 2. Ogni spazio fattore è omeomorfo a un sottospazio dello spazio prodotto.
Dimostrazione. 1. La continuità segue banalmente dalla definizione di topologia prodotto. È altresì immediato che ogni proiezione muta un aperto di base in un aperto (che potrebbe anche essere tutto lo spazio fattore). Basta poi osservare che l’immagine della riunione di una famiglia di insiemi è l’unione delle relative immagini. 2. Fissiamo un indice 𝑘 ∈ 𝐽 e, per ogni 𝑖 ≠ 𝑘 un elemento 𝑧𝑖 ∈ 𝑋𝑖 . Consideriamo ora nello spazio prodotto il sottoinsieme 𝑍 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , dove 𝑋𝑖′ ∶= {𝑧𝑖 }, ∀𝑖 ≠ 𝑘 e 𝑋𝑘′ ∶= 𝑋𝑘 . Su 𝑍 consideriamo la topologia indotta da quella di 𝑋. La proiezione 𝑝𝑘 ∶ 𝑋 → 𝑋𝑘 , ristretta a 𝑍 fornisce l’omeomorfismo cercato. (Cfr. Definizione 6.18.) Osserviamo che l’omeomorfismo definito al punto 2 non immerge necessariamente 𝑋𝑘 in 𝑋 come sottospazio chiuso. Consideriamo per esempio 𝑋 ∶= ℝ × {0, 1}, dove in ℝ prendiamo l’usuale topologia euclidea e in {0, 1} la topologia banale. Abbiamo solo due scelte per immergere lo spazio fattore ℝ nel prodotto secondo lo schema precedente, ottenendo 𝑍 ∶= ℝ × {0} oppure 𝑍 ∶= ℝ × {1}. Consideriamo il primo caso. Se, per assurdo, 𝑍 fosse chiuso, necessariamente il suo complementare 𝑋 ⧵ 𝑍 ∶= ℝ × {1} sarebbe aperto, ma allora proiettando sulla seconda componente, avremmo che {1} sarebbe aperto, visto che le proiezioni sono applicazioni aperte. Un chiuso del prodotto è del tipo 𝐶 × {0, 1}, con 𝐶 chiuso di ℝ. Pertanto, non esiste alcun omeomorfismo di ℝ in un sottoinsieme chiuso del prodotto.
Teorema 6.35 (Proprietà ereditate da quelle del prodotto). Sia data una famiglia di spazi topologici {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 e sia (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto dotato della topologia prodotto. 1. Se per lo spazio prodotto sussiste una qualunque delle proprietà 𝑇𝑖 , allora accade lo stesso per ogni spazio fattore. 2. Se lo spazio prodotto è regolare, completamente regolare, normale, completamente o perfettamente normale, allora accade lo stesso per ogni spazio fattore. 3. Se lo spazio prodotto è separabile, 𝐴1 o 𝐴2 , allora è tale anche ogni singolo fattore.
Dimostrazione. 1. Supponiamo intanto che lo spazio prodotto goda di una delle proprietà 𝑇𝑖 con 0 ≤ 𝑖 ≤ 2. Fissiamo uno spazio fattore 𝑋𝑘 e verifichiamo che la medesima proprietà 𝑇𝑖 vale anche in 𝑋𝑘 . Dati due punti distinti 𝑦, 𝑧 ∈ 𝑋𝑘 ,
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
290
consideriamo due punti dello spazio prodotto 𝑢 ∶= (𝑢𝑖 )𝑖∈𝐽 e 𝑣 ∶= (𝑣𝑖 )𝑖∈𝐽 , dove 𝑢𝑖 = 𝑣𝑖 , ∀𝑖 ≠ 𝑘 e 𝑢𝑘 ∶= 𝑦 e 𝑣𝑘 ∶= 𝑧. Nello spazio prodotto esistono due intorni aperti di base 𝑈 di 𝑢 e 𝑉 di 𝑣 che separano i due punti coerentemente con l’assioma 𝑇𝑖 che si sta considerando di volta in volta. Gli aperti 𝑝𝑘 (𝑈 ) e 𝑝𝑘 (𝑉 ) separano analogamente i punti 𝑦 e 𝑧 in 𝑋𝑘 . Per l’assioma 𝑇 1 , si procede in modo analogo, con le stesse notazioni di 2
2
sopra. Questa volta possiamo prendere due intorni di base 𝑈 di 𝑢 e 𝑉 di 𝑣 con cl 𝑈 ∩ cl 𝑉 = ∅. Posto 𝑈𝑘 ∶= 𝑝𝑘 (𝑈 ) e 𝑉𝑘 ∶= 𝑝𝑘 (𝑉 ), verifichiamo che è anche cl 𝑈𝑘 ∩cl 𝑉𝑘 = ∅. Supponiamo, per assurdo, che esista 𝑤 ∈ cl 𝑈𝑘 ∩cl 𝑉𝑘 e fissiamo un suo intorno aperto (arbitrario) 𝐴𝑘 ⊆ 𝑋𝑘 . Per ipotesi, si ha 𝐴𝑘 ∩ 𝑈𝑘 ≠ ∅ e 𝐴𝑘 ∩ 𝑉𝑘 ≠ ∅. L’insieme 𝑝−1 𝑘 (𝐴𝑘 ) è un intorno aperto del punto 𝑠 ∶= (𝑠𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋, con 𝑠𝑖 ∶= 𝑢𝑖 , ∀𝑖 ≠ 𝑘 e 𝑠𝑘 = 𝑤. In tale intorno cadono sia punti di 𝑈 sia punti di 𝑉 ; dall’arbitrarietà di 𝐴 si ottiene 𝑠 ∈ cl 𝑈 ∩ cl 𝑉 , che è assurdo. Per l’assioma 𝑇3 conviene sfruttare la caratterizzazione del Teorema 1.91. Siano dunque dati nello spazio fattore 𝑋𝑘 un punto 𝑦 e un aperto 𝐴 che lo contiene. Consideriamo ora nello spazio prodotto il punto 𝑢 ∶= (𝑢𝑖 )𝑖∈𝐽 , con 𝑢𝑘 ∶= 𝑦 e 𝑢𝑖 arbitrario, ma fissato, per 𝑖 ≠ 𝑘. Sia poi 𝑈 ∶= 𝑝−1 𝑘 (𝐴) che è un aperto dello spazio prodotto contenente 𝑢. Per ipotesi, 𝑋 è 𝑇3 e quindi esiste un aperto di base 𝑊 tale che 𝑢 ∈ 𝑊 ⊆ cl 𝑊 ⊆ 𝑈 . È ovvio che 𝑝𝑘 (𝑊 ) è un aperto di 𝑋𝑘 che contiene il punto 𝑦 ed è contenuto in 𝐴. Procedendo analogamente al caso precedente, si constata che è anche cl 𝑝𝑘 (𝑊 ) ⊆ 𝐴. Supponiamo ora che 𝑋 soddisfi all’assioma 𝑇 1 e consideriamo sullo spazio 3
2
fattore 𝑋𝑘 un punto 𝑦 e un chiuso 𝐶 che non lo contiene. Definendo 𝑢 ∶= ′ (𝑢𝑖 )𝑖∈𝐽 come sopra (con 𝑢𝑘 ∶= 𝑦) e 𝐶 ′ ∶= 𝑝−1 𝑘 (𝐶), dall’essere 𝑢 ∉ 𝐶 , segue che esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ con 𝑓 (𝑢) = 0 e 𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐶 ′ . Consideriamo anche l’immersione 𝑗 ∶ 𝑋𝑘 → 𝑋 che a un elemento 𝑡 ∈ 𝑋𝑘 associa l’elemento 𝑗(𝑡) ∶= (𝑥𝑖 )𝑖∈𝐽 , con 𝑥𝑘 ∶= 𝑡 e 𝑥𝑖 ∶= 𝑢𝑖 , ∀𝑖 ≠ 𝑘. Si verifica facilmente che 𝑗 è continua (Esercizio!, vedi anche la Proposizione 6.34.2). La funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋𝑘 → ℝ definita da 𝑔(𝑡) ∶= 𝑓 (𝑗(𝑡)) separa il punto 𝑦 dal chiuso 𝐶. Veniamo al caso in cui 𝑋 sia 𝑇4 . Siano 𝐶 e 𝐷 due chiusi disgiunti in 𝑋𝑘 . ′ −1 Gli insiemi 𝐶 ′ ∶= 𝑝−1 𝑘 (𝐶) e 𝐷 ∶= 𝑝𝑘 (𝐷) sono due chiusi disgiunti di 𝑋. Per il Lemma di Urysohn 2.100, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝐶 ′ e 𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐷′ . A partire da 𝑓 e procedendo come nel caso 𝑇 1 , possiamo definire (mediante un’opportuna immersione 𝑗) 3
2
una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋𝑘 → ℝ tale che 𝑔(𝑡) = 0, ∀𝑡 ∈ 𝐶 e 𝑔(𝑡) = 1, ∀𝑡 ∈ 𝐷. Dal Teorema 2.104, segue immediatamente che 𝑋𝑘 è 𝑇4 . Supponiamo che lo spazio prodotto sia 𝑇5 e sia 𝐴 un sottospazio aperto di 𝑋𝑘 . Consideriamo lo spazio prodotto 𝑋 ′ ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , dove 𝑋𝑖′ ∶= 𝑋𝑖 , per 𝑖 ≠ 𝑘, e 𝑋𝑘′ ∶= 𝐴. È facile verificare che in 𝑋 ′ la topologia prodotto coincide ′ con quella subordinata dalla topologia di 𝑋. Inoltre si ha 𝑋 ′ = 𝑝−1 𝑘 (𝐴); 𝑋 è ′ quindi un sottospazio aperto di 𝑋. Per il Teorema 1.110, 𝑋 è 𝑇4 . Per quanto visto sopra, anche il 𝑘-imo fattore di 𝑋 ′ , che è l’aperto 𝐴, è 𝑇4 . Abbiamo così
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
291
verificato che ogni sottospazio aperto di 𝑋𝑘 è 𝑇4 . Applicando ancora il Teorema 1.110, otteniamo che 𝑋𝑘 è 𝑇5 . 2. Dal punto 1 si ha immediatamente che se 𝑋 è regolare, completamente regolare, normale o completamente normale, è tale ogni singolo fattore. Veniamo alla perfetta normalità. Siano 𝐶 un chiuso (non vuoto) di 𝑋𝑘 e ′ 𝐶 ′ ∶= 𝑝−1 𝑘 (𝐶). 𝐶 è un chiuso di 𝑋; per ipotesi, esiste quindi una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tale che 𝐶 ′ = 𝑓 −1 ({0}). Sia ancora 𝑗 ∶ 𝑋𝑘 → 𝑋 l’immersione già introdotta in casi precedenti. Consideriamo, in fine, la funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋𝑘 → ℝ definita da 𝑔(𝑡) ∶= 𝑓 (𝑗(𝑡)), ∀𝑡 ∈ 𝑋𝑘 . Si ha immediatamente 𝐶 = 𝑔 −1 ({0}). 3. Supponiamo, intanto che 𝑋 sia separabile e sia 𝐷 un suo sottoinsieme numerabile con cl 𝐷 = 𝑋. Proviamo che, per ogni 𝑘 ∈ 𝐽 , l’insieme numerabile 𝐷𝑘 ∶= 𝑝𝑘 (𝐷) è denso in 𝑋𝑘 . Siano 𝐴 un arbitrario aperto di 𝑋𝑘 e 𝐴′ ∶= 𝑝−1 𝑘 (𝐴). 𝐴′ è aperto in 𝑋; è dunque 𝐴′ ∩ 𝐷 ≠ ∅, da cui 𝑝𝑘 (𝐴′ ) ∩ 𝑝𝑘 (𝐷) ≠ ∅, ossia 𝐴 ∩ 𝐷𝑘 ≠ ∅. Supponiamo ora che lo spazio 𝑋 sia 𝐴1 . Fissiamo un 𝑘 ∈ 𝐽 e un elemento 𝑥 ∈ 𝑋𝑘 . Sia poi 𝑢 ∶= (𝑢𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋, con 𝑢𝑘 ∶= 𝑥 e, per ogni 𝑖 ≠ 𝑘, 𝑢𝑖 fissato ad arbitrio. Per ipotesi, esiste una base numerabile ℬ ∶= (𝑈𝑛 )𝑛 di intorni aperti di 𝑢. Proviamo che ℬ 𝑘 ∶= (𝑈𝑛𝑘 )𝑛 con 𝑈𝑛𝑘 ∶= 𝑝𝑘 (𝑈𝑛 ) è una base di intorni di 𝑥. Intanto, gli 𝑈𝑛𝑘 sono aperti in 𝑋𝑘 . Dato un intorno 𝑉 di 𝑥, sia 𝑉 ′ ∶= 𝑝−1 𝑘 (𝑉 ); essendo 𝑉 ′ un intorno di 𝑢, esiste un 𝑈𝑛 ∈ ℬ con 𝑈𝑛 ⊆ 𝑉 ′ . Si conclude che è 𝑈𝑛𝑘 ⊆ 𝑉 . Supponiamo, in fine, che lo spazio 𝑋 sia 𝐴2 e sia ℬ ∶= (𝐴𝑛 )𝑛 una base di aperti di 𝜏. Procedendo come sopra, si vede facilmente che, per ogni 𝑘 ∈ 𝐽 , ℬ 𝑘 ∶= (𝐴𝑘𝑛 )𝑛 , con 𝐴𝑘𝑛 ∶= 𝑝𝑘 (𝐴𝑛 ) è una base di aperti per 𝑋𝑘 . Osservazione 6.36. Supponiamo che lo spazio prodotto 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 sia 𝐴1 . Dato 𝑢 ∶= (𝑢𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋, sia ℬ ∶= (𝑈𝑛 )𝑛 una base di suoi intorni che possiamo pensare come aperti di base. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste dunque un sottoinsieme finito 𝐽𝑛 di indici per cui si abbia 𝑈𝑛 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , con 𝑋𝑖′ ∶= 𝑋𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽𝑛 e 𝑋𝑖′ ∈ 𝜏𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽𝑛 . Ora l’insieme 𝐽 ∗ ∶= ⋃𝑛∈ℕ 𝐽𝑛 è al più numerabile. Ciò comporta che, se 𝐽 non è numerabile, si ha 𝑝𝑖 (𝑈𝑛 ) = 𝑋𝑖 , ∀𝑛 ∈ ℕ, ∀𝑖 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽 ∗ . Ne viene che, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽 ∗ , la topologia di 𝑋𝑖 è quella nulla. Ciò vale in particolare se lo spazio 𝑋 è 𝐴2 . Diversa è la situazione per quanto riguarda la separabilità. Può cioè accadere che il prodotto di un’infinità non numerabile di spazi separabili non banali sia ancora separabile. Sia 𝐽 arbitrario. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , siano 𝑋𝑖 ∶= {0, 1} e 𝜏𝑖 la topologia di Sierpinski con 0 punto isolato. Sia poi 𝑢 ∶= (𝑢𝑖 )𝑖∈𝐼 , con 𝑢𝑖 ∶= 0, ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Si vede subito che il singoletto {𝑢} è denso in 𝑋. ◁
Teorema 6.37 (Proprietà preservate dal prodotto). Siano {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici e (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto dotato della topologia prodotto.
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
292
1. Lo spazio prodotto 𝑋 soddisfa a uno degli assiomi 𝑇𝑖 , con 0 ≤ 𝑖 ≤ 3 12 , se (e solo se) gode di tale proprietà ogni spazio fattore 𝑋𝑘 . Lo stesso vale per gli spazi regolari e completamente regolari. 2. Se 𝐽 è al più numerabile, allora lo spazio prodotto 𝑋 è uno spazio separabile, 𝐴1 o 𝐴2 se (e solo se) gode della medesima proprietà ciascun fattore 𝑋𝑘 . Dimostrazione. Per il teorema precedente, basta in ogni caso provare il “se”. 1. Supponiamo intanto che ciascun fattore 𝑋𝑖 goda di una delle proprietà 𝑇𝑖 , con 0 ≤ 𝑖 ≤ 2. Dati due punti distinti 𝑥 ∶= (𝑥𝑖 )𝑖∈𝐽 e 𝑦 ∶= (𝑦𝑖 )𝑖∈𝐽 , esiste almeno un indice 𝑘 ∈ 𝐽 con 𝑥𝑘 ≠ 𝑦𝑘 . Nello spazio 𝑋𝑘 esistono due intorni aperti 𝐴𝑘 di 𝑥𝑘 e 𝐵𝑘 di 𝑦𝑘 che separano i due punti coerentemente con l’assioma 𝑇𝑖 che si −1 sta considerando di volta in volta. Gli aperti 𝑝−1 𝑘 (𝐴𝑘 ) e 𝑝𝑘 (𝐵𝑘 ) separano nello stesso modo i punti 𝑥 e 𝑦. Per l’assioma 𝑇 1 si procede nello stesso modo dove però 𝐴𝑘 e 𝐵𝑘 sono 2
2
intorni chiusi. Per l’assioma 𝑇3 , conviene sfruttate la caratterizzazione del Teorema 1.91. Siano dunque dati un punto 𝑥 ∶= (𝑥𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋 e un aperto 𝐴 che lo contiene. Non è restrittivo supporre che 𝐴 sia un aperto di base della topologia prodotto, cioè 𝐴 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , dove 𝑋𝑖′ ∶= 𝑋𝑖 a meno di un insieme finito di indici 𝐽 ′ , mentre, per 𝑖 ∈ 𝐽 ′ , si ha che 𝑋𝑖′ è un sottoinsieme aperto di 𝑋𝑖 . Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 ′ , esiste un aperto 𝐴𝑖 con 𝑥𝑖 ∈ 𝐴𝑖 ⊆ cl 𝐴𝑖 ⊆ 𝑋𝑖′ . Poniamo 𝐵𝑖 ∶= cl 𝐴𝑖 e osserviamo che l’insieme 𝐵 ∶= ⋂𝑖∈𝐽 ′ 𝑝−1 𝑖 (𝐵𝑖 ) è un chiuso di 𝑋 contenuto in 𝐴 e contenente l’aperto 𝐴′ ∶= ⋂𝑖∈𝐽 ′ 𝑝−1 (𝐴 𝑖 ) che a sua volta contiene il punto 𝑥. 𝑖 Dal preservarsi delle proprietà 𝑇3 e 𝑇1 si ha immediatamente che il prodotto di spazi regolari è ancora regolare. Venendo all’assioma 𝑇 1 , fissiamo un punto 𝑥 ∶= (𝑥𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋 e un chiuso 3
2
𝐶 che non lo contiene. Nell’aperto 𝑋 ⧵ 𝐶 prendiamo un aperto di base 𝐴 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ che contiene 𝑥. Al solito, a meno di un insieme finito di indici 𝐽 ′ , si ha 𝑋𝑖′ ∶= 𝑋𝑖 . D’altra parte, sarà 𝑋𝑖′ ≠ 𝑋𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 ′ . Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 ′ , consideriamo il punto 𝑥𝑖 e il chiuso 𝐶𝑖 ∶= 𝑋𝑖 ⧵ 𝑋𝑖′ che non lo contiene. Per ipotesi, esiste una funzione continua 𝑓𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → ℝ, con 𝑓𝑖 (𝑥𝑖 ) = 0 e 𝑓𝑖 (𝑤) = 1, ∀𝑤 ∈ 𝐶𝑖 . La funzione 𝑓𝑖 è definita soltanto sullo spazio fattore 𝑋𝑖 ; la possiamo “estendere” a tutto lo spazio prodotto introducendo la funzione 𝑔𝑖 ∶ 𝑋 → ℝ, data da 𝑔𝑖 (𝑦) ∶= 𝑓𝑖 (𝑝𝑖 (𝑦)). Ogni funzione 𝑔𝑖 è continua perché composta di funzioni continue. Inoltre ogni 𝑔𝑖 si annulla in 𝑥 e vale 1 in 𝑝−1 𝑖 (𝐶𝑖 ). Consideriamo, in fine, la funzione 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑔(𝑦) ∶= max {𝑔𝑖 (𝑦) ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 ′ } .
La 𝑔 è continua (Esercizio!), si annulla in 𝑥 e assume il valore 1 sull’insieme 𝐶 ′ ∶= ⋃𝑖∈𝐽 ′ 𝑝−1 𝑖 (𝐶𝑖 ). Per concludere, osserviamo che è 𝑋 ⧵ 𝐶′ =
⋂′
𝑖∈𝐽
(𝑋 ⧵ 𝑝−1 𝑖 (𝐶𝑖 )) =
⋂′
𝑖∈𝐽
′ 𝑝−1 𝑖 (𝑋𝑖 ) = 𝐴.
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
293
Quindi, 𝑔(𝑦) = 1, ∀𝑦 ∈ 𝐶 ⊆ 𝐶 ′ . È ora evidente che il prodotto di spazi completamente regolari è completamente regolare. 2. Supponiamo che l’insieme degli indici sia numerabile e rappresentiamo quindi lo spazio prodotto come 𝑋 ∶= ∏∞ 𝑘=1 𝑋𝑘 . Supponiamo intanto che ogni 𝑋𝑘 sia separabile e sia quindi, per ogni 𝑘, 𝐷𝑘 un sottoinsieme numerabile e denso in 𝑋𝑘 . L’insieme prodotto 𝐷 ∶= ∏∞ 𝑘=1 𝐷𝑘 è numerabile ed è inoltre denso in 𝑋. Supponiamo ora che ogni spazio 𝑋𝑘 sia primo numerabile. Quindi, per ogni 𝑥𝑘 ∈ 𝑋𝑘 , sia ℬ 𝑘 (𝑥𝑘 ) una base numerabile di suoi intorni aperti. Per il punto 𝑥 ∶= (𝑥𝑘 )𝑘 , possiamo definire una base ℬ(𝑥) di intorni aperti di 𝑥, prescrivendo che un sottoinsieme 𝑈 di 𝑋 sta in ℬ(𝑥) se e solo se è del tipo 𝑈 ∶= ∏∞ 𝑘=1 𝑈𝑘 , dove 𝑈𝑘 = 𝑋𝑘 salvo al più un numero finito (non vuoto) di indici per cui invece si ha 𝑈𝑘 ∈ ℬ 𝑘 (𝑥𝑘 ). Chiaramente gli insiemi di questo tipo costituiscono una famiglia numerabile, poiché la totalità dei sottoinsiemi finiti di ℕ è numerabile. Per costruzione ℬ(𝑥) è una base di intorni di 𝑥. Supponiamo, in fine, che ogni spazio 𝑋𝑘 sia 𝐴2 e prendiamo quindi, per ogni 𝑘, una base numerabile 𝒜𝑘 ∶= {𝐴𝑘𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} di aperti nella topologia di 𝑋𝑘 . È ′ ′ immediato constatare che gli aperti del tipo 𝐴 ∶= ∏∞ 𝑘=1 𝑋𝑘 , con 𝑋𝑘 ∶= 𝑋𝑘 salvo ′ al più un numero finito di indici per cui invece si ha 𝑋𝑘 ∈ 𝒜𝑘 , costituiscono una base numerabile di aperti per la topologia prodotto di 𝑋. Osserviamo che la 2 del teorema precedente non si estende, in generale, a prodotti non numerabili. (Per gli assiomi 𝐴1 e 𝐴2 , si veda l’Osservazione 6.36.) Quanto agli assiomi di separazione da 𝑇4 in poi, vedremo che le proprietà non si preservano nemmeno per prodotti finiti (cfr. Esempio 6.40).
Esempio 6.38. Sia 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , dove per ogni 𝑖 si ha 𝑋𝑖 ∶= ℕ dotato della topologia discreta. In 𝑋 è definita la topologia prodotto. Sia poi 𝜆 ∶= card 𝐽 . Lo spazio ℕ soddisfa chiaramente a tutti gli assiomi di separazione fino alla perfetta normalità (ℕ è chiaramente anche metrizzabile); inoltre è separabile e 𝐴2 . Dai risultati precedenti, sappiamo che lo spazio prodotto 𝑋 è almeno completamente regolare. Esso inoltre è 𝐴1 e 𝐴2 , separabile se è 𝜆 ≤ ℵ0 . Per 𝜆 ≤ ℵ0 , 𝑋 è anche normale (Corollario 6.28). Supponiamo, d’ora in avanti, 𝜆 > ℵ0 . Dall’Osservazione 6.36, abbiamo intanto che 𝑋 non è 𝐴1 e quindi neanche 𝐴2 . Per quanto riguarda la separabilità, la situazione è più complessa. Infatti sussiste il seguente risultato: Proposizione. Lo spazio 𝑋 è separabile se e solo se è 𝜆 ≤ 2ℵ0 .
Supponiamo intanto 𝜆 ≤ 2ℵ0 . Indichiamo, al solito, con 𝐼 l’intervallo [0, 1] che, come è noto, ha cardinalità 2ℵ0 . Esiste una biiezione 𝜑 ∶ 𝐽 → 𝐼 ′ ∶= 𝜑(𝐽 ), con 𝐼 ′ sottoinsieme di 𝐼. Per ogni intero 𝑘 ≥ 1, sia {𝐼1 , … , 𝐼𝑘 } una famiglia di sottointervalli chiusi di 𝐼 a due a due disgiunti e con estremi razionali. Sia inoltre (𝑛1 , … , 𝑛𝑘 ) una 𝑘-upla di numeri naturali. A partire da queste due 𝑘uple, determiniamo il punto 𝑦 = 𝑦(𝐼1 , … , 𝐼𝑘 , 𝑛1 , … , 𝑛𝑘 ) ∶= (𝑦𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋 definito come segue: 𝑦𝑖 ∶= 𝑛𝑙 se 𝜑(𝑖) ∈ 𝐼𝑙 e 𝑦𝑖 ∶= 0 altrimenti. Indichiamo con 𝐷(⊆ 𝑋)
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
294
l’insieme di punti 𝑦 così definiti. Si vede subito che 𝐷 è numerabile. Proveremo che 𝐷 è denso in 𝑋. Sia 𝐴 un aperto di base in 𝑋. L’insieme 𝐴 è dunque del tipo 𝐴 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 , dove 𝐴𝑖 ∶= ℕ a meno di un insieme finito e non vuoto di indici 𝐽 ′ ∶= {𝑖1 , … 𝑖𝑘 }; per 𝑖𝑙 ∈ 𝐽 ′ , si può pensare che 𝐴𝑖𝑙 sia un singoletto {𝑛𝑙 }. Abbiamo così una 𝑘-upla di numeri naturali {𝑛1 , … , 𝑛𝑘 }. L’insieme 𝜑(𝐽 ′ ) è formato da 𝑘 punti di 𝐼; quindi esistono 𝑘 intervalli chiusi 𝐼𝑖1 , … , 𝐼𝑖𝑘 a due a due disgiunti di estremi razionali contenuti in 𝐼 con 𝜑(𝑖𝑙 ) ∈ 𝐼𝑖𝑙 . L’elemento 𝑦 = 𝑦(𝐼𝑖1 , … , 𝐼𝑖𝑘 , 𝑛𝑖1 , … , 𝑛𝑖𝑘 ) appartiene ad 𝐴 ∩ 𝐷. Supponiamo, viceversa, che 𝑋 sia separabile e sia 𝐷 un suo sottoinsieme numerabile e denso. Per ogni indice 𝑖 ∈ 𝐽 , l’insieme 𝐷𝑖 ∶= 𝐷 ∩ 𝑝−1 𝑖 ({1}) è non vuoto. Risulta quindi definita un’applicazione 𝜓 ∶ 𝐽 → 𝒫 (𝐷). Dati due indici −1 distinti 𝑗, 𝑘 ∈ 𝐽 , consideriamo gli aperti 𝑝−1 𝑗 ({1}) e 𝑝𝑘 ({1}). Tali insiemi sono clopen e a due a due diversi. Esiste un elemento 𝑤 che appartiene a uno solo −1 dei due insiemi, sia per esempio 𝑤 ∈ 𝑝−1 𝑗 ({1}) ⧵ 𝑝𝑘 ({1}). Essendo i due insiemi −1 clopen, esiste un intorno aperto 𝑈 di 𝑤 con 𝑈 ⊂ 𝑝−1 𝑗 ({1}) ⧵ 𝑝𝑘 ({1}). In 𝑈 ci sono punti di 𝐷 e quindi di 𝐷𝑗 ⧵ 𝐷𝑘 . Da ciò segue che 𝜓 è iniettiva. Quindi 𝐽 è in corrispondenza biunivoca con un sottoinsieme di 𝒫 (𝐷). Si conclude che è 𝜆 ≤ 2 ℵ0 . La proposizione appena vista continua a sussistere in generale per quanto riguarda la sufficienza (cfr. Teorema 10.56). Per quanto riguarda la necessità, essa continua a sussistere se gli spazi fattori sono di Hausdorff e con almeno due elementi ciascuno (cfr. [82]). Il Corollario 6.28 ci garantisce che, per 𝜆 > ℵ0 , 𝑋 non è metrizzabile. D’altra parte, sappiamo che 𝑋 è completamente regolare (cfr. Teorema 6.37). Sarà quindi interessante capire se sono soddisfatte altre proprietà di separazione. Sussiste il seguente risultato dovuto a A. H. Stone (1948): Proposizione.(Esempio di Stone) Lo spazio 𝑋 è normale (se e) solo se è 𝜆 ≤ ℵ0 . Sia 𝜆 > ℵ0 . Esibiremo due insiemi chiusi, non vuoti e disgiunti 𝐶0 e 𝐶1 non separabili in 𝑋 mediante aperti. Per 𝑘 ∈ {0, 1}, sia 𝐶𝑘 ∶= {(𝑥𝑖 )𝑖∈𝐽 ∶ ∀𝑙 ∈ ℕ ⧵ {𝑘}, 𝑥𝑖 = 𝑙, per al più un indice 𝑖} .
Poiché 𝐽 è più che numerabile, si ha 𝐶0 ∩ 𝐶1 = ∅. Infatti in ogni elemento di 𝐶0 le coordinate in cui compaiono numeri diversi da 0 costituiscono un sottoinsieme numerabile. In conclusione, in ogni 𝑥 ∈ 𝐶0 c’è un’infinità non numerabile di indici in cui la coordinata è 0; un tale 𝑥 non può appartenere a 𝐶1 . Per verificare che 𝐶0 è chiuso, prendiamo un elemento 𝑦 ∶= (𝑦𝑖 )𝑖∈𝐽 ∉ 𝐶0 . Esisteranno almeno due indici distinti 𝑟, 𝑠 ∈ 𝐽 e un numero 𝑛 ≠ 0, per cui 𝑦𝑟 = 𝑦𝑠 = 𝑛. L’aperto −1 𝐴 ∶= 𝑝−1 𝑟 ({𝑛})∩𝑝𝑠 ({𝑛}) contiene il punto 𝑦 ed è disgiunto da 𝐶0 . Analogamente per 𝐶1 . Siano 𝑈 e 𝑉 due aperti di 𝑋 contenenti rispettivamente 𝐶0 e 𝐶1 . Ci proponiamo di trovare un elemento che appartiene a 𝑈 ∩ 𝑉 . Per fare ciò introdurremo la seguente notazione. Fissato un insieme finito di indici 𝐹 ⊂ 𝐽 e un punto 𝑤 ∶= (𝑤𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋, poniamo 𝐹 (𝑤) ∶= ⋂𝑙∈𝐹 𝑝−1 𝑙 ({𝑤𝑙 }) = ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , dove 𝑋𝑙′ ∶= {𝑤𝑙 }, ∀𝑙 ∈ 𝐹 e 𝑋𝑙′ ∶= ℕ altrimenti. Partiamo dal punto
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
295
𝑥0 ∶= (𝑥0𝑖 )𝑖∈𝐽 , con 𝑥0𝑖 ∶= 0, ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Poiché è 𝑥0 ∈ 𝑈 , esiste un aperto di base contenente 𝑥0 e contenuto in 𝑈 . In altri termini, esiste un insieme finito di indici 𝐹0 ∶= {𝑙0 , … , 𝑙𝑛0 } tale che 𝐹0 (𝑥0 ) ⊆ 𝑈 . L’insieme 𝐹0 così trovato permette di definire un nuovo elemento 𝑥1 ∶= (𝑥1𝑖 )𝑖∈𝐽 tale che 𝑥1𝑙 ∶= 𝑘, ∀𝑙𝑘 ∈ 𝐹0
e 𝑥1𝑖 ∶= 0 altrimenti. Per definizione, 𝑥1 ∈ 𝐶0 ⊆ 𝑈 . Procedendo come sopra, esiste un intorno di base contenente 𝑥1 e contenuto in 𝑈 . Senza perdita di generalità, possiamo supporre che tale intorno di base sia del tipo 𝐹1 (𝑥1 ) dove 𝐹1 è un insieme finito di indici contenente propriamente 𝐹0 . Essendo 𝐹0 ⊂ 𝐹1 , possiamo scrivere 𝐹1 ∶= {𝑙0 , … , 𝑙𝑛0 , … , 𝑙𝑛1 }. Dall’insieme 𝐹1 definiamo quindi un elemento 𝑥2 ∶= (𝑥2𝑖 )𝑖∈𝐽 tale che 𝑥2𝑙 ∶= 𝑘, ∀𝑙𝑘 ∈ 𝐹1 e 𝑥2𝑖 ∶= 0 altrimenti. 𝑘
Come per il punto 𝑥1 , si ha che è anche 𝑥2 ∈ 𝐶0 . Procedendo avanti in questo modo, si può definire induttivamente una successione (𝐹𝑛 )𝑛 di insiemi finiti di indici strettamente crescente per inclusione e una successione (𝑥𝑛 )𝑛 , con 𝑥𝑛 ∶= (𝑥𝑛𝑖 )𝑖∈𝐽 , tale che 𝑥𝑛𝑙 ∶= 𝑘, ∀𝑙𝑘 ∈ 𝐹𝑛−1 e 𝑥𝑛𝑖 ∶= 0 altrimenti. Si ha inoltre, 𝑘 per ogni 𝑛, 𝐹𝑛 (𝑥𝑛 ) ⊆ 𝑈 . Poniamo, per comodità, 𝐹∞ ∶= ⋃∞ 𝑛=0 𝐹𝑛 e definiamo 𝑦 ∶= (𝑦𝑖 )𝑖∈𝐽 ponendo 𝑦𝑙𝑘 ∶= 𝑘, ∀𝑙𝑘 ∈ 𝐹∞ e 𝑦𝑖 ∶= 1 altrimenti. Per definizione, 𝑦 ∈ 𝐶1 . Esiste quindi un insieme finito 𝐺 ⊂ 𝐽 tale che 𝐺(𝑦) ⊆ 𝑉 (ricordando che 𝑉 è un aperto contenente 𝐶1 ). Per la monotonia della successione (𝐹𝑛 )𝑛 , esiste un intero 𝑚 tale che 𝐺 ∩ 𝐹∞ = 𝐺 ∩ 𝐹𝑚 . Definiamo, in fine, un punto 𝑧 ∶= (𝑧𝑖 )𝑖∈𝐽 , con 𝑧𝑙𝑘 ∶= 𝑘, ∀𝑙𝑘 ∈ 𝐹𝑚 , 𝑧𝑙𝑘 ∶= 0, ∀𝑙𝑘 ∈ 𝐹𝑚+1 ⧵ 𝐹𝑚 e 𝑧𝑖 ∶= 1 altrimenti. Dalla definizione risulta 𝑧𝑖 = 𝑦𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐺∩𝐹𝑚 e 𝑧𝑖 = 𝑦𝑖 = 1, ∀𝑖 ∈ 𝐺⧵𝐹𝑚 . Concludiamo che 𝑧 ∈ 𝐺(𝑦) ⊆ 𝑉 . D’altra parte, 𝑧𝑙𝑘 = 𝑘 = 𝑥𝑚+1 , ∀𝑙𝑘 ∈ 𝐹𝑚 e 𝑙 𝑘
𝑘
𝑧𝑖 = 𝑥𝑚+1 , ∀𝑖 ∈ 𝐹𝑚+1 ⧵ 𝐹𝑚 . Concludiamo che 𝑧 ∈ 𝐹𝑚+1 (𝑥𝑚+1 ) ⊆ 𝑈 . Abbiamo 𝑖 così ottenuto l’elemento cercato. Una generalizzazione di questo risultato sarà fornita dal Teorema 8.29. ◁
Nel Corollario 6.27 abbiamo visto che lo spazio 𝐼 𝐼 delle funzioni dell’intervallo 𝐼 ∶= [0, 1] in sé con la topologia della convergenza puntuale non è metrizzabile. Nel prossimo esempio vediamo alcune ulteriori proprietà di questo spazio. Esempio 6.39. Siano 𝐼 ∶= [0, 1] con la topologia ordinaria e 𝑋 ∶= 𝐼 𝐼 dotato della topologia prodotto che è quella della convergenza puntuale. Questo spazio è banalmente di Hausdorff (cfr. Teorema 6.37). Proveremo nella sezione sugli insiemi compatti che 𝑋 è anche normale (cfr. Teorema 7.33). Usando l’esempio precedente, possiamo dimostrare che 𝑋 non è completamente normale, esibendo un suo sottospazio non normale. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐼, sia 𝑋𝑖 ∶= {1/(𝑛 + 1) ∶ 𝑛 ∈ ℕ} ⊂ 𝐼. La topologia dell’intervallo 𝐼 induce su 𝑋𝑖 quella discreta. Quindi 𝑋𝑖 è omeomorfo a ℕ. Dall’esempio precedente sappiamo che lo spazio 𝑌 ∶= ∏𝑖∈𝐼 𝑋𝑖 non è normale. ◁ Nei due esempi precedenti abbiamo visto che la proprietà di (completa) normalità non si preserva per prodotti arbitrari. Il prossimo esempio è ancora
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
296
più forte nel senso che mostra che queste proprietà non si preservano nemmeno per il prodotto di due spazi.
Esempio 6.40 (di Sorgenfrey). Sia ℝ la retta reale con la topologia destra 𝜏 + di Sorgenfrey (cfr. Esempio 1.10) e consideriamo lo spazio prodotto 𝑋 ∶= ℝ ×ℝ con la topologia prodotto. Osserviamo che, dato un punto 𝑃 ∶= (𝑎, 𝑏), una sua base di intorni è costituita dai quadrati superiormente aperti 𝒬(𝑃 , 𝜀) ∶= [𝑎, 𝑎 + 𝜀[ ×[𝑏, 𝑏 + 𝜀[. Il Teorema 2.118 assicura che (ℝ, 𝜏 + ) è perfettamente normale. Pertanto, per il Teorema 6.37, lo spazio prodotto 𝑋 è almeno completamente regolare. Faremo ora vedere che non è normale e quindi non può essere neanche completamente o perfettamente normale. Consideriamo la retta diagonale 𝐿 ∶= {(𝑥, −𝑥) ∶ 𝑥 ∈ ℝ}. Come sottospazio di 𝑋, 𝐿 eredita la topologia discreta. In 𝐿 prendiamo i due sottoinsiemi 𝐶 e 𝐷 costituiti dai punti di coordinate razionali e, rispettivamente, irrazionali. Si vede subito che questi due insiemi disgiunti sono chiusi in 𝑋. Verifichiamo che non si possono separare mediante aperti. Supponiamo quindi, per assurdo, che esistano due aperti disgiunti 𝑈 e 𝑉 nella topologia prodotto contenenti rispettivamente 𝐶 e 𝐷. Ogni punto 𝑃 ∈ 𝐿 appartiene a 𝑈 oppure a 𝑉 , pertanto, esiste un naturale 𝑛 > 0 tale che l’intorno 𝒬(𝑃 , 1/𝑛) è contenuto in uno e uno solo degli aperti 𝑈 e 𝑉 . Per ogni 𝑛 > 0, siano 𝐸𝑛′ l’insieme dei numeri razionali 𝑥 tali che 𝒬((𝑥, −𝑥), 1/𝑛) ⊂ 𝑈 e, simmetricamente, 𝐸𝑛″ l’insieme dei numeri irrazionali ′ ″ 𝑥 tali che 𝒬((𝑥, −𝑥), 1/𝑛) ⊂ 𝑉 . Per definizione, si ha ℝ = ⋃+∞ 𝑛=1 (𝐸𝑛 ∪ 𝐸𝑛 ). Poiché, per il Corollario 4.89, lo spazio (ℝ, 𝑑2 ) è di seconda categoria, esiste un 𝑛 ̄ tale che o cl 𝐸𝑛′ ̄ o cl 𝐸𝑛″̄ ha, nella topologia usuale di ℝ, interno non vuoto e quindi contiene un intervallo 𝐾. Giusto per fissare le idee, supponiamo che sia cl 𝐸𝑛′ ̄ ⊃ 𝐾. L’altro caso si risolve in modo analogo. Esiste quindi in 𝐸𝑛′ ̄ una successione di numeri razionali (𝑞𝑘 )𝑘 che converge a un numero irrazionale 𝑟 ∈ 𝐾. Posto 𝛿 ∶= 1/𝑛,̄ si ha che tutti gli intorni 𝒬((𝑞𝑘 , −𝑞𝑘 ), 𝛿) sono contenuti in 𝑈 e disgiunti da 𝑉 . D’altra parte, esiste 𝜀 > 0 tale che 𝒬((𝑟, −𝑟), 𝜀) è contenuto in 𝑉 e quindi disgiunto da 𝑈 . Ciò porta a una contraddizione, poiché 𝒬((𝑞𝑘 , −𝑞𝑘 ), 𝛿) ∩ 𝒬((𝑟, −𝑟), 𝜀) ≠ ∅, per 𝑘 sufficientemente grande. La non normalità di 𝑋 può essere verificata in un altro modo. Sappiamo che la topologia di 𝑋 induce sulla diagonale 𝐿 quella discreta; dunque ogni funzione 𝑓 ∶ 𝐿 → ℝ è continua. La cardinalità dell’insieme delle funzioni (continue) da 𝐿 a ℝ è data da 𝔠𝔠 , dove 𝔠 indica al solito la potenza del continuo. Essendo, 𝔠 = 2ℵ0 , si ha 𝔠𝔠 = (2ℵ0 )𝔠 = 2ℵ0 ⋅𝔠 = 2𝔠 (cfr. [74]). Supposto, per assurdo, che 𝑋 sia normale e tenuto conto che 𝐿 è chiuso, possiamo applicare il Teorema 2.101 di Tietze. Dunque ogni funzione di 𝐿 in ℝ ammette almeno un prolungamento continuo da 𝑋 a ℝ. Ne viene che l’insieme 𝐶(𝑋) delle funzioni continue da 𝑋 a ℝ ha almeno la cardinalità 2𝔠 . D’altra parte, ℚ2 è denso in 𝑋. Quindi, per il Teorema 2.94, ogni funzione continua da ℚ2 in ℝ ammette al più un prolungamento continuo da 𝑋 a ℝ. Ne viene che la cardinalità di 𝐶(𝑋) non può essere maggiore di quella di 𝐶(ℚ2 ). Ora, però, la cardinalità di 𝐶(ℚ2 ) è
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
297
minore uguale a 𝔠ℵ0 = (2ℵ0 )ℵ0 = 2ℵ0 ⋅ℵ0 = 2ℵ0 = 𝔠 < 2𝔠 . Si ottiene così una contraddizione. ◁ L’Esempio di Sorgenfrey è un risultato classico (1947); è infatti il primo esempio noto di prodotto di spazi normali non normale. Esso prova anche che la completa e la perfetta normalità non si preservano con il prodotto. Esistono esempi ancora più forti: si può infatti dimostrare che il prodotto di uno spazio metrico con uno spazio normale non è sempre normale, come vedremo tra un attimo. Lo stesso Esempio 6.40 dimostra in modo indiretto che (ℝ, 𝜏 + ) non è metrizzabile (cfr. Esempio 3.126), altrimenti si contraddirebbe il Teorema 6.23. Affronteremo più avanti il problema della normalità dello spazio delle funzioni da un intervallo 𝐴 in un intervallo 𝐵, con la topologia della convergenza puntuale (cfr. Corollario 8.31). Esempio 6.41 (di Michael). In questo esempio, introduciamo lo spazio topologico di E. Michael (1963). Esso è uno spazio topologico prodotto (𝑋, 𝜏), dove 𝑋 ∶= ℝ × ℚ′ , con ℚ′ ∶= ℝ ⧵ ℚ. Le topologie dei due spazi fattori sono le seguenti. Su ℚ′ consideriamo l’usuale topologia euclidea 𝜏𝑒 ereditata da ℝ; pertanto (ℚ′ , 𝜏𝑒 ) è uno spazio metrizzabile e anche separabile (Esercizio!). Su ℝ, invece, definiamo una topologia particolare 𝜎 detta estensione irrazionale discreta di 𝜏𝑒 . Questa topologia è definita come segue. I punti irrazionali sono isolati; per quelli razionali, la topologia è quella usuale. Essendo una topologia strettamente più fine di quella euclidea, essa è 𝑇0 , 𝑇1 , 𝑇2 , 𝑇 1 e Urysohn, cioè 2
2
separa i punti (cfr. Definizione 2.109). Vedremo ora che (ℝ, 𝜎) è anche 𝑇5 (e quindi completamente normale, cfr. Definizione 1.109). Infatti, siano 𝐴, 𝐵 ⊆ ℝ due sottoinsiemi separati, cioè cl 𝐴 ∩ 𝐵 = ∅ = 𝐴 ∩ cl 𝐵. Posto 𝐴′ ∶= 𝐴 ∩ ℚ e 𝐵 ′ ∶= 𝐵 ∩ ℚ, abbiamo che 𝐴′ e 𝐵 ′ sono separati nella topologia euclidea. Esistono quindi due aperti e disgiunti nella topologia euclidea 𝑈 ′ , 𝑉 ′ e contenenti, rispettivamente, 𝐴′ e 𝐵 ′ . Gli insiemi 𝑈 ∶= 𝑈 ′ ∪ (𝐴 ∩ ℚ′ ) e 𝑉 ∶= 𝑉 ′ ∪ (𝐵 ∩ ℚ′ ) sono chiaramente aperti in 𝜎, disgiunti e contengono, rispettivamente, 𝐴 e 𝐵. Verifichiamo che (𝑋, 𝜏) non è normale. Poniamo 𝐴 ∶= ℚ × ℚ′ e 𝐵 ∶= ′ {(𝑧, 𝑧) ∶ 𝑧 ∈ ℚ }. I due insieme sono chiaramente disgiunti; essi sono anche chiusi. Infatti: 𝐴 è il prodotto di ℚ che è chiuso in (ℝ, 𝜎) per tutto ℚ′ . Passiamo all’insieme 𝐵. Se (𝑥, 𝑦) ∉ 𝐵, dobbiamo avere 𝑥 ≠ 𝑦; esiste quindi 𝜀 > 0 tale che gli intervalli ]𝑥 − 𝜀, 𝑥 + 𝜀[ e ]𝑦 − 𝜀, 𝑦 + 𝜀[ sono disgiunti. Poiché il primo intervallo è un intorno di 𝑥 nella topologia 𝜎 che è più fine di quella euclidea, concludiamo che ]𝑥 − 𝜀, 𝑥 + 𝜀[ ×(]𝑦 − 𝜀, 𝑦 + 𝜀[ ∩ℚ′ ) è un aperto della topologia prodotto disgiunto da 𝐵. Supponiamo ora, per assurdo, che, nello spazio prodotto, esistano due aperti disgiunti 𝑈 ⊇ 𝐴 e 𝑉 ⊇ 𝐵. Per ogni (𝑧, 𝑧) ∈ 𝐵, esiste un 𝑛 ∈ ℕ+ tale che {𝑧}× ]𝑧 − 1/𝑛, 𝑧 + 1/𝑛[ ⊆ 𝑉 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝐸𝑛 ∶= {𝑧 ∈ ℚ′ ∶ {𝑧}× ]𝑧 − 1/𝑛, 𝑧 + 1/𝑛[ ⊆ 𝑉 } .
6.2. Topologie deboli e spazi prodotto
298
Chiaramente la famiglia degli 𝐸𝑛 ricopre ℚ′ . Poiché ℚ′ è di seconda categoria (cfr. pag. 194), esiste almeno un 𝑘 ∈ ℕ+ per cui la chiusura di 𝐸𝑘 nella topologia euclidea contiene un intervallo; anzi, non sarà restrittivo supporre che quest’ultimo sia del tipo 𝐼 ∶= ]𝑞 − 𝛿, 𝑞 + 𝛿[, con 𝑞 ∈ ℚ. Per ogni 𝑥 ∈ ℚ′ ∩ 𝐼, si ha che l’insieme {𝑥} × (]𝑥 − 1/𝑘, 𝑥 + 1/𝑘[∩ℚ′ ) è contenuto in 𝑉 . Dunque 𝑉 contiene l’insieme 𝑉 ′ ∶=
⋃
𝑥∈𝐼∩ℚ′
{𝑥} × (]𝑥 − 1/𝑘, 𝑥 + 1/𝑘[ ∩ℚ′ ).
Per ogni 𝑞 ′ ∈ ℚ′ , il punto (𝑞, 𝑞 ′ ) ∈ 𝐴 e quindi esiste un rettangolo del tipo ]𝑞 − 𝜀1 , 𝑞 + 𝜀1 [ × (]𝑞 ′ − 𝜀2 , 𝑞 ′ + 𝜀2 [ ∩ℚ′ ) ⊆ 𝑈 . È chiaro ora che, se |𝑞 − 𝑞 ′ | è sufficientemente piccolo, in tale rettangolo vi sono dei punti di 𝑉 ′ . ◁
Osservazione 6.42. La topologia 𝜎 di ℝ definita come estensione irrazionale discreta di 𝜏𝑒 è un caso particolare di una costruzione più generale che si ottiene considerando un qualunque sottoinsieme 𝐷 di ℝ tale che 𝐷 e ℝ ⧵ 𝐷 siano entrambi densi in ℝ. In questo caso, l’estensione discreta di 𝜏𝑒 si ottiene raffinando la topologia euclidea con l’assumere che tutti i punti di 𝐷 siano isolati. Questo procedimento può essere chiaramente applicato per un qualunque spazio topologico e un suo arbitrario sottoinsieme denso. Con la stessa dimostrazione che si è vista sopra, si prova che ℝ con tale topologia, che chiamiamo ancora 𝜎, soddisfa a tutti gli assiomi di separazione da 𝑇0 a 𝑇5 . Inoltre è immediato che (ℝ, 𝜎) è primo numerabile (𝐴1 ). Nel caso in cui 𝐷 sia numerabile, come nel caso 𝐷 ∶= ℚ, lo spazio (ℝ, 𝜎) ha base numerabile di aperti e, quindi, è metrizzabile per il Teorema di Urysohn 3.115. 1 Anzi, una distanza che genera 𝜎 può essere definita esplicitamente. Infatti, posto 𝐷 ∶= {𝑟𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }, poniamo 𝑑(𝑥, 𝑦) ∶= 0 se 𝑥 = 𝑦, mentre, per 𝑥 ≠ 𝑦, per esempio 𝑥 < 𝑦, poniamo 𝑑(𝑥, 𝑦) ∶= 1/𝑛, dove 𝑛 è il minimo indice per cui si ha 𝑥 ≤ 𝑟𝑛 ≤ 𝑦. Lasciamo per esercizio al lettore di verificare che si tratta effettivamente di una distanza. Resta da controllare che da questa distanza si deduce la topologia 𝜎. Vediamo per prima cosa che gli elementi di 𝐷 sono isolati. Infatti, sia 𝑝 ∈ 𝐷 e quindi 𝑝 ∶= 𝑟𝑘 per un opportuno 𝑘 ∈ ℕ+ . Ora, per ogni 𝑥 ≠ 𝑝, si ha 𝑑(𝑥, 𝑝) ≥ 1/𝑘; infatti, 𝑟𝑘 appartiene all’intervallo chiuso di estremi 𝑥 e 𝑝. Quindi, fissato 𝜀 ∈ ]0, 1/𝑘[, si ha che 𝐵(𝑝, 𝜀) = {𝑝}. Fissiamo ora 𝑝 ∉ 𝐷 e, per un certo 𝜀 > 0, consideriamo la palla aperta 𝐵(𝑝, 𝜀). Se 𝑧 ∈ 𝐵(𝑝, 𝜀) ⧵ {𝑝}, si ha 0 < 𝑑(𝑝, 𝑧) < 𝜀. Giusto per fissare le idee, supponiamo che sia 𝑝 < 𝑧. Se consideriamo ora un punto 𝑦 con 𝑝 < 𝑦 < 𝑧, si ha 𝑑(𝑝, 𝑦) ≤ 𝑑(𝑝, 𝑧) < 𝜀; analogamente per 𝑝 > 𝑧. Abbiamo così dimostrato che la palla contiene un intervallo aperto di centro 𝑝. Se, invece, 𝐷 non è numerabile, come nel caso 𝐷 ∶= ℝ ⧵ ℚ, lo spazio (ℝ, 𝜎) non è 𝐴2 né separabile. Per ulteriori proprietà di questo spazio, si veda l’Esempio 7.24. ◁ Attenzione! Questo (ℝ, 𝜎) non è lo stesso di quello dell’esempio precedente; Lì era 𝐷 = ℝ ⧵ ℚ. 1
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
299
A conclusione di questo paragrafo, osserviamo che la topologia dei sottospazi di uno spazio topologico assegnato può essere vista come una topologia debole. Infatti, dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un sottoinsieme (non vuoto) 𝐸 di 𝑋, la topologia 𝜏𝐸 indotta su 𝐸 da 𝜏 non è altro che la meno fine fra le topologie su 𝐸 che rendono continua l’immersione canonica 𝑗 ∶ 𝐸 → 𝑋. Per rendersene conto, è sufficiente osservare che, per ogni 𝑈 ⊆ 𝑋, si ha 𝑗 −1 (𝑈 ) = 𝑈 ∩𝐸.
6.3 Spazi unione disgiunta e quoziente In questa sezione consideriamo una situazione che è duale a quella affrontata nel paragrafo precedente. Siano dati un insieme (non vuoto) 𝑌 , una famiglia arbitraria di spazi topologici {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 e una famiglia {𝜑𝑖 }𝑖∈𝐽 di applicazioni, con 𝜑𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → 𝑌 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Il problema è quello di definire un’opportuna topologia in 𝑌 che renda continue le 𝜑𝑖 . È ovvio che una tale topologia esiste sempre ed è quella banale. È anche evidente che, se 𝜏 è una topologia su 𝑌 che rende continue tutte le 𝜑𝑖 , allora accade lo stesso per ogni topologia su 𝑌 più debole di 𝜏. Ci interessa pertanto trovare (se esiste) una topologia su 𝑌 che sia la più fine possibile. Ricordiamo che le topologie su 𝑌 costituiscono un reticolo completo rispetto all’ordine per finezza (cfr. pag. 5). Resta da provare che il minimo seguente comune fra le topologie su 𝑌 che rendono continue le 𝜑𝑖 è effettivamente il massimo dell’insieme (topologia finale). Essa può essere descritta in modo esplicito indicando quali sono i suoi aperti. Lemma 6.43. Siano dati un insieme (non vuoto) 𝑌 , una famiglia arbitraria di spazi topologici {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 e una famiglia {𝜑𝑖 }𝑖∈𝐽 di applicazioni, con 𝜑𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → 𝑌 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Sia 𝜏 la topologia su 𝑌 per cui un sottoinsieme 𝐴 ⊆ 𝑌 è aperto se e solo se 𝜑−1 𝑖 (𝐴) ∈ 𝜏𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Allora 𝜏 è la massima (più fine) topologia su 𝑌 che rende continue tutte le 𝜑𝑖 . Dimostrazione. Cominciamo col verificare che 𝜏 è effettivamente una topologia. Chiaramente, si ha ∅, 𝑌 ∈ 𝜏. Siccome l’operatore di controimmagine commuta con l’intersezione e l’unione arbitrarie, si ha che 𝜏 è chiusa rispetto all’intersezione finita e all’unione arbitraria. Per il Teorema 2.4, sappiamo che, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 fissato, l’applicazione 𝜑𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → 𝑌 è continua se e solo se le controimmagini degli aperti di 𝑌 sono aperti in 𝑋𝑖 . Quindi la topologia 𝜏 su 𝑌 definita sopra rende continue tutte le 𝜑𝑖 . In fine, se 𝜏 ′ è una topologia su 𝑌 che rende continue tutte le 𝜑𝑖 , si ha che, ′ per ogni 𝐴′ ∈ 𝜏 ′ , gli insiemi 𝜑−1 𝑖 (𝐴 ) sono 𝜏𝑖 -aperti e quindi, per definizione, ′ 𝐴 ∈ 𝜏. Ciò prova la massimalità di 𝜏. In virtù del lemma appena visto, possiamo dare la seguente definizione.
Definizione 6.44. Siano dati un insieme (non vuoto) 𝑌 , una famiglia arbitraria di spazi topologici {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 e una famiglia {𝜑𝑖 }𝑖∈𝐽 di applicazioni, con
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
300
𝜑𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → 𝑌 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 . La topologia 𝜏 ∶= {𝐴 ⊆ 𝑌 ∶ 𝜑−1 𝑖 (𝐴) ∈ 𝜏𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 } è detta topologia finale indotta dalla famiglia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 . ◁ Nel caso duale del paragrafo precedente, avevamo utilizzato il nome di topologia debole per indicare quella meno fine. Tuttavia preferiamo non utilizzare qui il termine topologia forte perché in Analisi questo termine è utilizzato in certi contesti con un significato completamente diverso. (Per esempio, nel caso degli spazi normati, si usa chiamare topologia forte quella generata dalla norma.) Analogamente al Teorema 6.3 vale ora il seguente risultato.
Teorema 6.45. Sia (𝑌 .𝜏) uno spazio topologico, dove 𝜏 è la topologia finale rispetto a una famiglia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 . Siano dati, inoltre, uno spazio topologico (𝑍, 𝜎) e un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑌 → 𝑍. Allora 𝑓 è continua se e solo se 𝑓 ∘ 𝜑𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → 𝑍 è continua, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 . Dimostrazione. Il “solo se” segue banalmente dal Teorema di continuità della funzione composta 2.9. Veniamo al viceversa. Sia 𝑊 un 𝜎-aperto di 𝑍 arbitrario. Si tratta di verificare che 𝐴 ∶= 𝑓 −1 (𝑊 ) ⊆ 𝑌 è aperto in 𝜏. Ma ciò equivale a verificare che 𝜑−1 𝑖 (𝐴) è un 𝜏𝑖 -aperto in 𝑋𝑖 . Questo fatto è chiaramente vero −1 perché si ha 𝜑𝑖 (𝐴) = (𝑓 ∘ 𝜑𝑖 )−1 (𝑊 ) che è 𝜏𝑖 -aperto per ipotesi. È facile verificare che vale un analogo risultato per la continuità nei singoli punti (Esercizio!). La proprietà di tipo universale vista nel teorema precedente caratterizza le topologie finali. Vale infatti il seguente risultato (cfr. Teorema 6.4).
Teorema 6.46. Siano dati: uno spazio topologico (𝑌 , 𝜏𝑌 ), una famiglia di spazi topologici {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 e una famiglia {𝜑𝑖 }𝑖∈𝐽 di funzioni, con 𝜑𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → 𝑌 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 . Allora 𝜏𝑌 è la topologia finale su 𝑌 generata dalla famiglia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 se e solo se vale la proprietà universale espressa dal teorema precedente. Dimostrazione. Basta ovviamente provare il “se”. Sia 𝜏 la topologia finale generata dalla famiglia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 . Per prima cosa, osserviamo che tutte le 𝜑𝑖 ∶ (𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 ) → (𝑌 , 𝜏𝑌 ) sono continue. Infatti, l’identità 𝑖𝑌 ∶ (𝑌 , 𝜏𝑌 ) → (𝑌 , 𝜏𝑌 ) è ovviamente continua e, pertanto, lo sono anche le 𝜑𝑖 che coincidono con 𝑖𝑌 ∘ 𝜑𝑖 . Ciò prova, vista la massimalità di 𝜏, che 𝜏𝑌 è meno fine di 𝜏. Consideriamo ora l’identità 𝑖𝑌 ∶ (𝑌 , 𝜏𝑌 ) → (𝑌 , 𝜏). Le applicazioni composte 𝜑𝑖 ∘ 𝑖𝑌 ∶ (𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 ) → (𝑌 , 𝜏) sono continue, per definizione di topologia finale. La proprietà universale ci garantisce ora la continuità di 𝑖𝑌 ∶ (𝑌 , 𝜏𝑌 ) → (𝑌 , 𝜏). Ciò equivale a dire che 𝜏𝑌 è più fine di 𝜏 (cfr. pag. 43). Un primo esempio di topologia finale è dato dalla topologia dell’unione disgiunta, nota anche come somma diretta o somma topologica. Premettiamo la
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
301
definizione di unione disgiunta di due insiemi. Siano dati due insiemi (non vuoti) 𝐴 e 𝐵. Se tali insiemi sono già disgiunti, l’unione disgiunta dei due insiemi è semplicemente la loro riunione. Quello che vogliamo definire è un concetto di unione disgiunta anche nel caso in cui sia 𝐴 ∩ 𝐵 ≠ ∅ (potrebbe addirittura essere 𝐴 = 𝐵). L’idea è quella di attaccare due “etichette” diverse, una ad 𝐴 e l’altra a 𝐵 in modo che gli eventuali elementi dell’intersezione vengano pensati in modo diverso a seconda che li immaginiamo come appartenenti ad 𝐴 o a 𝐵. Per far ciò, si può identificare 𝐴 con la coppia (𝐴, 0) e 𝐵 con la coppia (𝐵, 1) e procedere all’unione di questi due ultimi insiemi. L’insieme che così si ottiene si indica con 𝑋 ⨿ 𝑌 , 𝑋 ⊕ 𝑌 .
Definizione 6.47. Data una famiglia di insiemi {𝐴𝑖 }𝑖∈𝐽 , si chiama loro unione disgiunta o coprodotto l’insieme ∐ 𝑖∈𝐽
𝐴𝑖 =
⨁ 𝑖∈𝐽
𝐴𝑖 ∶=
(𝐴 , 𝑖). ⋃ 𝑖 𝑖∈𝐽
◁
Nel caso in cui gli insiemi 𝐴𝑖 siano a due a due disgiunti, basterà considerare l’unione usuale.
Definizione 6.48. Sia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici. Identificando 𝑋𝑖 con (𝑋𝑖 , 𝑖), otteniamo, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , un’immersione 𝜑𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → 𝑋 ∶= ∐𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , detta iniezione canonica o inclusione canonica. Definiamo topologia della somma disgiunta (o coprodotto) la topologia finale indotta della famiglia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 )}𝑖∈𝐽 , ossia la più fine topologia su 𝑋 che rende continue le 𝜑𝑖 . ◁ Ricordando (cfr. Lemma 6.43) che un sottoinsieme 𝐴 ⊆ 𝑋 è aperto nella topologia finale se e solo se 𝜑−1 𝑖 (𝐴) ∈ 𝜏𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 e osservando che, nel nostro caso, le 𝜑𝑖 sono immersioni canoniche, risulta chiaro che 𝐴 è un aperto di 𝑋 se e solo se 𝐴 ∩ 𝑋𝑖 è 𝜏𝑖 -aperto, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 . In altri termini, gli aperti di 𝑋 sono tutti e soli gli insiemi del tipo ∐𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 , con 𝐴𝑖 aperto (eventualmente vuoto) di (𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 ). (Come detto sopra, abbiamo identificato 𝑋𝑖 con (𝑋𝑖 , 𝑖) in modo che 𝑋𝑖 possa essere pensato come sottoinsieme di 𝑋). Nella situazione appena descritta, si ha il seguente risultato: Lemma 6.49. Le inclusioni canoniche 𝜑𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → 𝑋, con 𝑋 ∶= ∐𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , sono applicazioni aperte e chiuse.
Dimostrazione. Fissiamo un 𝑘 ∈ 𝐽 e un aperto 𝐴 in 𝑋𝑘 . Si ha 𝜑𝑘 (𝐴) = ∐𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , con 𝑋𝑘′ = 𝐴 e 𝑋𝑖′ = ∅, ∀𝑖 ≠ 𝑘, che è un aperto di 𝑋. Sempre con 𝑘 ∈ 𝐽 fissato, sia ora 𝐶 un chiuso di 𝑋𝑘 . Posto 𝐴 ∶= 𝑋𝑘 ⧵𝐶, per l’iniettività di 𝜑𝑘 , si ha 𝜑𝑘 (𝐶) = 𝑋 ⧵ ∐𝑖∈𝐽 𝑋𝑖′ , con 𝑋𝑘′ = 𝐴 e 𝑋𝑖′ = 𝑋𝑖 , ∀𝑖 ≠ 𝑘, che è un chiuso di 𝑋. Come dal Teorema 6.4, che caratterizzava le applicazioni continue per le topologie deboli, abbiamo ottenuto il Corollario 6.9, che specializzava tale risultato nel caso degli spazi prodotto, in modo duale possiamo ora caratterizza-
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
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re la continuità per la somma diretta. Infatti, dal Teorema 6.45 otteniamo il seguente risultato.
Corollario 6.50. Sia {(𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 )}𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici e sia 𝑋 ∶= ∐𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 la loro unione disgiunta con la relativa topologia canonica 𝜏. Dato poi uno spazio topologico (𝑍, 𝜎), un’applicazione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑍, 𝜎) è continua se e solo se sono tali tutte le sue restrizioni agli 𝑋𝑖 .
Non insisteremo molto sulla topologia dell’unione disgiunta dato che, dal punto di vista delle applicazioni, vi sono altre topologie finali, come quella quoziente, che producono esempi molto più interessanti. Tuttavia presentiamo un esempio allo scopo di chiarire come tale topologia si presenta in alcuni casi concreti.
Esempio 6.51. 1. Gli spazi topologici discreti ℕ e ℤ si possono pensare come unioni disgiunte (numerabili) dei loro singoli punti dotati ancora della topologia discreta. Lo stesso discorso vale per un qualunque spazio topologico con la topologia discreta che può essere visto come la somma diretta dei suoi singoletti. 2. Da un punto di vista insiemistico, ℝ è l’unione disgiunta di ℚ con ℝ ⧵ ℚ. Tuttavia (ℝ, 𝜏𝑒 ) non può essere espresso come somma topologica di ℚ e ℝ ⧵ ℚ, ossia non è possibile assegnare a tali sottoinsiemi due topologie 𝜏 ′ e 𝜏 ″ in modo che risulti (ℝ, 𝜏) = (ℚ, 𝜏 ′ ) ⨿ (ℝ ⧵ ℚ, 𝜏 ″ ). Infatti, dovendo risultare continue le immersioni canoniche di ℚ e di ℝ ⧵ ℚ in ℝ, per quanto osservato più sopra, dovrebbero sicuramente essere aperte in (ℚ, 𝜏 ′ ) le intersezioni degli intervalli aperti di ℝ con ℚ. Similmente, dovrebbero sicuramente essere aperte in ℝ⧵ℚ le intersezioni degli intervalli aperti di ℝ con ℝ ⧵ ℚ. Chiaramente ogni intervallo aperto di ℝ (e quindi ogni aperto di ℝ) sarà anche aperto nella topologia somma diretta, ma questa è strettamente più fine della topologia euclidea. Per constatarlo, basta prendere un insieme del tipo (]𝑎, 𝑏[ ∩ℚ) ∪ (]𝑐, 𝑑[ ⧵ℚ), con (𝑎, 𝑏) ≠ (𝑐, 𝑑) che è aperto in ℚ ∐(ℝ ⧵ ℚ). ◁ Ricordiamo che, dato un insieme (non vuoto) 𝑋 e in esso una relazione di equivalenza ∼, lo spazio quoziente 𝑋/∼ è l’insieme delle classi di equivalenza degli elementi di 𝑋. Resta anche definita l’applicazione quoziente 𝑞 ∶ 𝑋 → 𝑋/∼ espressa da 𝑞(𝑥) = [𝑥], dove [𝑥] indica, come sempre, la classe di equivalenza di 𝑥. Se per un certo 𝑥 ∈ 𝑋 risulta [𝑥] = {𝑥}, scriveremo spesso 𝑥̂ in luogo di [𝑥]. Definizione 6.52. In uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) sia data una relazione di equivalenza ∼. Si definisce topologia quoziente su 𝑌 ∶= 𝑋/∼ la topologia finale 𝜏/∼ indotta da (𝑋, 𝜏, 𝑞), ossia la più fine topologia su 𝑌 che rende continua l’applicazione quoziente 𝑞. ◁ Ricordando (cfr. Lemma 6.43) che un sottoinsieme 𝐴 ⊆ 𝑌 è aperto nella topologia finale se e solo se 𝑞 −1 (𝐴) ∈ 𝜏, otteniamo che è 𝐴 ∈ 𝜏/∼ se e solo se l’insieme 𝐴′ ∶= ⋃[𝑥]∈𝐴 [𝑥] = 𝑞 −1 (𝐴) è un aperto in 𝜏. Similmente, poiché il
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
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complementare di una controimmagine è la controimmagine del complementare, abbiamo che un sottoinsieme 𝐶 ⊆ 𝑌 è chiuso nella topologia finale se e solo se 𝑞 −1 (𝐶) è un chiuso di 𝜏. Osservazione 6.53. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico, 𝑌 un insieme non vuoto e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑌 un’applicazione suriettiva. Possiamo definire su 𝑌 la topologia finale 𝜎 indotta da (𝑋, 𝜏, 𝜑). Sia ∼ la relazione di equivalenza in 𝑋 definita da 𝑥′ ∼ 𝑥″ se e solo se è 𝜑(𝑥′ ) = 𝜑(𝑥″ ). Si vede subito che 𝑌 può essere identificato con il quoziente 𝑋/∼ . A questo punto è facile verificare che anche la topologia finale 𝜎 su 𝑌 coincide con la topologia quoziente 𝜏/∼ . In questo caso, la topologia finale su 𝑌 viene anche detta topologia di identificazione rispetto a 𝜑 e a (𝑋, 𝜏). Infatti, mediante la funzione 𝜑 identifichiamo fra loro i punti di 𝑋 che hanno la medesima immagine. A tale proposito, si usa anche la seguente terminologia: per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , la controimmagine 𝑓 −1 (𝑦) ∶= 𝑓 −1 ({𝑦}) viene detta fibra di 𝑦. Si noti che le fibre costituiscono una partizione di 𝑋. Quindi 𝑌 con la topologia quoziente può essere interpretato come lo spazio delle fibre di 𝑋. ◁ La proprietà universale del Teorema 6.45 si enuncia ora in modo ovvio.
Corollario 6.54. Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), una relazione di equivalenza ∼ in 𝑋 e uno spazio topologico (𝑍, 𝜎). Un’applicazione 𝑓 ∶ (𝑋/∼ , 𝜏/∼ ) → (𝑍, 𝜎) è continua se e solo se è tale l’applicazione 𝑓 ∘ 𝑞 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑍, 𝜎). Questa proprietà caratterizza la topologia quoziente. Il lettore ha già visto l’importanza delle costruzioni basate sul concetto di passaggio al quoziente utilizzate per introdurre nuove strutture algebriche e insiemi numerici. Di pari importanza è l’utilizzo del passaggio al quoziente per definire nuovi spazi topologici. Un tipo di costruzione che spesso viene fatta e che esplicita il procedimento di identificazione è il seguente. Dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋, identifichiamo gli elementi di 𝐸 e lasciamo invariati gli altri elementi. Dal punto di vista della relazione di equivalenza si ha che, per ogni 𝑥′ , 𝑥″ ∈ 𝑋, risulta 𝑥′ ∼ 𝑥″ se e solo se (𝑥′ = 𝑥″ ) ∨ (𝑥′ , 𝑥″ ∈ 𝐸). Lo spazio topologico quoziente che in questo modo si ottiene verrà indicato con 𝑋/𝐸. Lo spazio così quozientato può essere identificato con l’insieme 𝑌 ∶= (𝑋 ⧵ 𝐸) ∪ {𝑒}, dove 𝑒 è un oggetto non appartenente a 𝑋. Un sottoinsieme 𝐴 di 𝑌 è aperto in 𝜏/∼ se e solo se soddisfa a una delle seguenti condizioni: 1. 𝑒 ∉ 𝐴 e 𝐴 è un aperto di 𝑋; 2. 𝑒 ∈ 𝐴 e (𝐴 ⧵ {𝑒}) ∪ 𝐸 e aperto in 𝑋. Sia ora 𝑓 un’applicazione da (𝑌 , 𝜏/∼ ) in uno spazio topologico (𝑍, 𝜎). L’applicazione 𝑓 genera un’ulteriore applicazione 𝑓 ̃ ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑍, 𝜎) definita da ̃ ∶= 𝑓 (𝑥), per 𝑥 ∉ 𝐸 e 𝑓 (𝑥) ̃ ∶= 𝑓 (𝑒) per 𝑥 ∈ 𝐸. Il Corollario 6.54 assicura 𝑓 (𝑥) che 𝑓 è continua se e solo se è tale 𝑓 .̃ Esempio 6.55. Un esempio classico di topologia quoziente si ottiene identificando i due punti estremi di un intervallo chiuso e limitato 𝐼 della retta
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reale dotato della topologia euclidea. Per comodità, possiamo supporre che sia 𝐼 ∶= [0, 1]. Prendiamo 𝐸 ∶= {0, 1} e consideriamo lo spazio quoziente 𝑌 ∶= 𝐼/𝐸. Si può vedere che lo spazio quoziente così definito è omeomorfo alla circonferenza unitaria 𝑆 1 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥2 + 𝑦2 = 1} ⊂ (ℝ2 , 𝜏𝑒 ). Consideriamo ̃ ∶= (cos 2𝜋𝑡, sin 2𝜋𝑡). Sia infatti la funzione 𝑓 ̃ ∶ [0, 1] → 𝑆 1 definita da 𝑓 (𝑡) 1 ̃ poi 𝑓 ∶ 𝑌 → 𝑆 definita da 𝑓 (𝑡) ∶= 𝑓 (𝑡), per 0 < 𝑡 < 1 e 𝑓 (𝑒) ∶= (1, 0), per 𝑒 ∶= [0] = {0, 1}. L’applicazione 𝑓 è banalmente biiettiva; essa è poi continua, dato che lo è la 𝑓 .̃ Per raggiungere la tesi, basta verificare che anche 𝑓 −1 ∶ 𝑆 1 → 𝑌 è continua. Questo fatto è conseguenza di un teorema generale (Teorema di omeomorfismo 7.36). Qui procederemo con una verifica diretta. Basta osservare che, per ogni punto (𝑥0 , 𝑦0 ) ∈ 𝑆 1 ⧵ {(1, 0)}, esiste un intorno di tale punto intersecato 𝑆 1 per cui si ha: 𝑓
−1
⎧1/4 − (1/2𝜋) arctan(𝑥/𝑦), ⎪ (𝑥, 𝑦) = ⎨1/2 + (1/2𝜋) arctan(𝑦/𝑥), ⎪3/4 − (1/2𝜋) arctan(𝑥/𝑦), ⎩
per 𝑦 > 0; per 𝑥 < 0; per 𝑦 < 0,
da cui la continuità in (𝑥0 , 𝑦0 ). Rimane da verificare la continuità di 𝑓 −1 in (1, 0). Fissato un qualunque intorno 𝑈 del punto 𝑒, possiamo prendere 𝜀 > 0, con 𝜀 < 1/2, in modo che sia 𝑞([0, 𝜀[ ∪ ]1 − 𝜀, 1]) ⊆ 𝑈 , dove 𝑞 è l’applicazione quoziente. Sia ora 𝑉 l’intorno di (1, 0) definito da 𝑉 ∶= ] cos 2𝜋𝜀, +∞[ ×ℝ. Per definizione si ha 𝑓 −1 (𝑉 ∩ 𝑆 1 ) ⊆ 𝑈 . Si ottiene il medesimo spazio topologico (a meno di un omeomorfismo) considerando lo spazio quoziente ℝ/∼ dove ∼ è la relazione di equivalenza su ℝ definita da 𝑥 ∼ 𝑦 ⇔ 𝑥 − 𝑦 ∈ ℤ. Lo spazio così ottenuto viene di solito indicato con ℝ/𝑍 o 𝕋 1 ed è detto anche toro unidimensionale. ◁ Una classe interessante di spazi topologici (che a tutti gli effetti sono descrivibili come “superfici” geometriche) si ottengono identificando in vario modo i lati opposti del quadrato 𝐼 2 ∶= [0, 1]2 . Vediamo alcuni esempi.
Esempio 6.56. Identificando, al variare di 𝑡 in 𝐼 ∶= [0, 1], i punti (0, 𝑡) e (1, 𝑡) e passando al quoziente del quadrato, si ottiene uno spazio topologico che è omeomorfo al cilindro 𝑆 1 × 𝐼. La relativa verifica segue gli stessi passi visti nell’esempio precedente ed è lasciata al lettore. Questo cilindro è chiaramente immerso in ℝ3 , infatti può essere descritto come la superficie data da 2 2 ◁ {(𝑥, 𝑦, 𝑧) ∶ (𝑥 + 𝑦 = 1) ∧ (0 ≤ 𝑧 ≤ 1)}. Esempio 6.57 (La striscia di Möbius). Identificando, al variare di 𝑡 in 𝐼 ∶= [0, 1], i punti (0, 𝑡) e (1, 1−𝑡) e passando al quoziente del quadrato, si ottiene uno spazio topologico 𝑀 detto striscia di Möbius. Anche questo oggetto può essere descritto come un sottoinsieme di ℝ3 . La striscia di Möbius è celebre perché fornisce un esempio semplice di superficie non orientabile. Essa fu scoperta
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
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indipendentemente nel 1858 dai matematici tedeschi A. F. Möbius e J. B. Listing.
Una sua rappresentazione parametrica è la seguente: 𝑥(𝑢, 𝑣) = (1 + 𝑣2 cos 2𝑢 ) cos 𝑢 ⎧ ⎪ 𝑣 𝑢 ⎨ 𝑦(𝑢, 𝑣) = (1 + 2 cos 2 ) sin 𝑢 𝑣 𝑢 ⎪ ⎩ 𝑧(𝑢, 𝑣) = 2 sin 2
con 𝑢 ∈ [0, 2𝜋]; 𝑣 ∈ [−1, 1]
◁
Esempio 6.58 (Il toro). Identifichiamo, al variare di 𝑡 in 𝐼 ∶= [0, 1], i punti (0, 𝑡) e (1, 𝑡), ottenendo un cilindro; successivamente, al variare di 𝑠 in [0, 1], i punti (𝑠, 0) e (𝑠, 1); passando al quoziente si ottiene uno spazio topologico 𝕋 2 detto superficie toroidale o toro bidimensionale che si può anche descrivere come ℝ2 /ℤ2 intendendo con tale simbolo il piano ℝ2 quozientato rispetto alla relazione di equivalenza (𝑥1 , 𝑦1 ) ∼ (𝑥2 , 𝑦2 ) ⇔ (𝑥1 − 𝑦1 ∈ ℤ) ∧ (𝑥2 − 𝑦2 ∈ ℤ).
Anche se più complicato rispetto al caso del cilindro, si può verificare che 𝕋 2 è omeomorfo 𝑆 1 × 𝑆 1 .
Un altro modo per immaginare la superficie toroidale è quello di partire da una superficie cilindrica 𝑆 1 × 𝐼 e identificare ordinatamente i punti delle due circonferenze di base. La superficie toroidale può essere immaginata come immersa in ℝ3 , generata dalla rotazione di una circonferenza 𝐶 attorno ad un asse ad essa esterno. Fissiamo due numeri positivi (raggi) 𝑅 > 𝑟 che rappresentano rispettivamente la distanza del centro di 𝐶 dall’asse di rotazione e il raggio di 𝐶. Si vede allora che, a meno di omeomorfismi, si ha 𝕋 2 = {(𝑥, 𝑦, 𝑧) ∶ (√𝑥2 + 𝑦2 − 𝑅) + 𝑧2 = 𝑟2 } . 2
◁
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
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Esempio 6.59 (La bottiglia di Klein). Identifichiamo, al variare di 𝑡 in 𝐼 ∶= [0, 1], i punti (0, 𝑡) e (1, 𝑡) , ottenendo un cilindro; successivamente, al variare di 𝑠 in [0, 1], i punti (𝑠, 0) e (1 − 𝑠, 1); passando al quoziente si ottiene uno spazio topologico 𝐾 detto bottiglia (Flasche) o superficie (Fläche) di Klein dal nome del matematico tedesco Felix Klein che l’ha introdotta nel 1882.
Un altro modo per immaginare la superficie di Klein è quello di partire da una superficie cilindrica 𝑆 1 × 𝐼 e identificare ordinatamente i punti delle due circonferenze di base percorse in versi opposti. L’oggetto che si ottiene in questo modo è una superficie bidimensionale chiusa (dal punto di vista della geometria differenziale) che però non è orientabile (come nel caso del nastro di Möbius). La superficie di Klein può essere immersa in ℝ4 , ma non in ℝ3 . Qualunque tentativo di rappresentare l’insieme 𝐾 come sottoinsieme di ℝ3 porta a far apparire una autointersezione della superficie stessa (cosa che non accade in realtà). Il fatto non deve sorprendere: per analogia, si pensi ad una curva chiusa e semplice in ℝ3 che si annodi su se stessa; mentre in ℝ3 non ci sono autointersezioni, queste compaiono quando tentiamo di rappresentarla su un piano. La rappresentazione in ℝ3 della superficie di Klein appare quindi come una strana bottiglia (da cui il nome) che però non potrebbe contenere alcun liquido, visto che non si distingue l’interno dall’esterno. Una sua possibile rappresentazione parametrica è la seguente 2 6 ⎧ 𝑥(𝑡, 𝑣) = − 15 cos 𝑡(3 cos 𝑣 + 5 sin 𝑡 cos 𝑣 cos 𝑡 − 30 sin 𝑡 − 60 sin 𝑡 cos 𝑡+ 4 ⎪ + 90 sin 𝑡 cos 𝑡) ⎪ 1 ⎪ 𝑦(𝑡, 𝑣) = − 15 sin 𝑡(80 cos 𝑣 cos7 𝑡 sin 𝑡 + 48 cos 𝑣 cos6 𝑡+ ⎨ − 80 cos 𝑣 cos5 𝑡 sin 𝑡 − 48 cos 𝑣 cos4 𝑡 − 5 cos 𝑣 cos3 𝑡 sin 𝑡+ ⎪ ⎪ − 3 cos 𝑣 cos2 𝑡 + 5 sin 𝑡 cos 𝑣 cos 𝑡 + 3 cos 𝑣 − 60 sin 𝑡) ⎪ 𝑧(𝑡, 𝑣) = 2 sin 𝑣 3 + 5 sin 𝑡 cos 𝑡 ( ) ⎩ 15 con 𝑡 ∈ [0, 𝜋], 𝑣 ∈ [0, 2𝜋].
◁
Esempio 6.60. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico non 𝑇0 . Esistono allora almeno due punti di 𝑋 che hanno come intorni esattamente gli stessi sottoinsiemi di 𝑋. Introduciamo in 𝑋 la seguente relazione di equivalenza: 𝑥 ∼ 𝑦 ⇔ 𝒰(𝑥) = 𝒰(𝑦)
e passiamo al quoziente. Si vede subito che lo spazio 𝑋/∼ è 𝑇0 . Ciò giustifica alcune affermazioni fatte in precedenza, secondo cui non è restrittivo richiedere
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che già lo spazio di partenza sia 𝑇0 . In alcuni testi le classi di equivalenza non ridotte a un solo punto sono dette gruppi caotici e il procedimento di passaggio al quoziente appena descritto è detto eliminazione dei gruppi caotici o quoziente di Kolmogorov. ◁
Esempio 6.61. Consideriamo il disco chiuso 𝐷 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥2 + 𝑦2 ≤ 1} di ℝ2 e la sua frontiera 𝑆 1 ∶= fr 𝐷. Identificando in 𝐷 ogni punto di 𝑆 1 con il suo antipodale, si ottiene come spazio quoziente il piano reale proiettivo che si indica con ℙ2 , ℙ2 (ℝ) o con ℝℙ2 . Intuitivamente, questo insieme può essere interpretato nel seguente modo: Il disco aperto 𝐵 = 𝐵(0, 1) ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥2 + 𝑦2 < 1} è un modello topologico del piano euclideo ℝ2 . Infatti l’applicazione 𝑓 ∶ ℝ2 → 𝐵 che a un vettore x associa il vettore x/(‖x‖ + 1) è un omeomorfismo. In tale contesto, i punti di 𝑆 1 possono essere immaginati come “punti all’infinito”. Più precisamente, ogni elemento di 𝑆 1 è un versore e quindi individua una direzione orientata nel piano. Identificando i punti antipodali di 𝑆 1 , dimentichiamo il verso e consideriamo solo la direzione. Pertanto, lo spazio quoziente ℙ2 può essere immaginato come ottenuto aggiungendo, al piano ℝ2 , dei punti all’infinito che rappresentano tutte le possibili direzioni. Lo stesso tipo di costruzione si può estendere a qualunque dimensione. In particolare, considerata in ℝ𝑛 la palla chiusa 𝐷𝑛 ∶= 𝐵[0, 1] = {x ∶ ‖x‖ ≤ 1} e la sfera (𝑛 − 1)-dimensionale 𝑆 𝑛−1 ∶= fr 𝐷𝑛 , identificando in 𝐷𝑛 ogni punto di 𝑆 𝑛−1 con il suo antipodale, si ottiene come spazio quoziente lo spazio reale proiettivo 𝑛-dimensionale che si indica con ℙ𝑛 (ℝ) o con ℝℙ𝑛 o, in fine, anche solo con ℙ𝑛 . Si osservi che, per 𝑛 = 1, si ottiene il quoziente dell’intervallo chiuso [−1, 1] in cui abbiamo identificato i due punti estremi (cfr. Esempio 6.55), per cui, a meno di omeomorfismi, si ha ℙ1 = 𝕋 1 = 𝑆 1 . Segnaliamo che, in alcuni testi, lo spazio proiettivo 𝑛-dimensionale viene introdotto come quoziente di ℝ𝑛+1 ⧵ {0} rispetto alla relazione di equivalenza x ∼ y se e solo se esiste un numero reale 𝜆 ≠ 0 tale che y = 𝜆x. Il lettore verifichi per esercizio che questi due modi di introdurre gli spazi proiettivi sono equivalenti nel senso che generano spazi omeomorfi. ◁ Esempio 6.62. Consideriamo, come nell’esempio precedente, la palla chiusa unitaria 𝐷𝑛 di ℝ𝑛 e la sfera (𝑛 − 1)-dimensionale 𝑆 𝑛−1 ∶= fr 𝐷𝑛 . Identifichiamo ora tutti i punti di 𝑆 𝑛−1 . Passando al quoziente, si ottiene uno spazio 𝑌 che può essere visto come la riunione della palla aperta 𝐵 con un punto 𝑒. Nella topologia dello spazio quoziente 𝑌 , gli intorni dei punti di 𝐵 sono quelli della topologia euclidea, mentre un intorno di base di 𝑒 è del tipo {𝑒}∪{x ∶ ‖x‖ > 𝑟}, con 0 < 𝑟 < 1. Poiché la palla aperta 𝐵 è omeomorfa a ℝ𝑛 , lo spazio quoziente 𝑌 è omeomorfo allo spazio topologico che si ottiene aggiungendo a ℝ𝑛 un singolo punto all’infinito “∞”. La topologia di ℝ𝑛 ∪ {∞} è tale per cui gli intorni dei punti di ℝ𝑛 sono quelli usuali, mentre gli intorni di base di ∞ sono i complementari degli insiemi limitati. Non è difficile verificare che questo spazio topologico è omeomorfo alla sfera 𝑛-dimensionale 𝑆 𝑛 . Infatti, possiamo immaginare di fis-
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sare il punto 𝑁 ∶= (0, 0, … , 0, 1) ∈ 𝑆 𝑛 , chiamato convenzionalmente polo nord e la relativa proiezione stereografica che è un omeomorfismo fra 𝑆 𝑛 ⧵ {𝑁} e ℝ𝑛 . Associando ∞ a 𝑁, si ottiene un prolungamento di tale proiezione che è un omeomorfismo fra 𝑆 𝑛 e ℝ𝑛 ∪ {∞} (vedremo i dettagli nel Teorema 14.23). Nei Corsi di Analisi, si sono incontrate le funzioni coercive, cioè funzioni 𝑓 ∶ ℝ𝑛 → ℝ tali che lim‖x‖→∞ 𝑓 (x) = +∞, dove con tale scrittura si intende che, per ogni 𝑀 ∈ ℝ, esiste 𝐾 > 0 tale che, da ‖x‖ > 𝐾 segue 𝑓 (x) > 𝑀. Introducendo il punto all’infinito come sopra esposto, il concetto di funzione coerciva si esprime equivalentemente con la condizione limx→∞ 𝑓 (x) = +∞. Ritorneremo su questo punto nel Paragrafo 10.1 (cfr. pag. 499). ◁ Passando al quoziente di prodotti di uno spazio topologico per un intervallo reale, si possono produrre nuovi spazi topologici che intervengono in alcune costruzioni di Topologia Algebrica, come il cono su uno spazio topologico e la sospensione di uno spazio topologico. Esempio 6.63 (Cono su uno spazio topologico). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Il cono sopra 𝑋, indicato di solito con 𝐶𝑋 oppure con Cone(𝑋), è il quoziente dello spazio prodotto 𝑋 × [0, 1] (con la topologia prodotto) rispetto alla relazione che identifica fra loro tutti i punti del tipo (𝑥, 1). In altri termini, abbiamo 𝐶𝑋 ∶= (𝑋 × [0, 1])/(𝑋 × {1}).
Il motivo per cui si sceglie questo nome è ovvio. Per esempio, se 𝑋 è un disco chiuso in ℝ2 , l’insieme 𝐶𝑋 è omeomorfo al cono solido (pieno) di base 𝑋 e altezza 1. Essendo tale cono solido omeomorfo alla palla chiusa tridimensionale, è tale anche 𝐶𝑋. In generale, si può dimostrare che, se 𝑋 è la palla chiusa 𝑛-dimensionale, allora 𝐶𝑋 è omeomorfo alla palla chiusa (𝑛 + 1)-dimensionale.◁ Esempio 6.64 (Sospensione di uno spazio topologico). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Si chiama sospensione di 𝑋, indicata di solito con 𝑆𝑋, il quoziente dello spazio prodotto 𝑋 × [−1, 1] (con la topologia prodotto) rispetto alla relazione che identifica fra loro, da un lato, tutti i punti del tipo (𝑥, −1) e, dall’altro, tutti i punti del tipo (𝑥, 1). In altri termini, abbiamo 𝑆𝑋 ∶= (𝑋 × [−1, 1])/∼ ,
con (𝑥, −1) ∼ (𝑥′ , −1), (𝑥, 1) ∼ (𝑥′ , 1), ∀𝑥, 𝑥′ ∈ 𝑋.
Un modo per visualizzare la sospensione è quello di immaginare 𝑆𝑋 come la riunione di due coni con la base 𝑋 ×{0} in comune. O anche come un cilindro 𝑋 × [−1, 1] in cui le due basi 𝑋 × {−1} e 𝑋 × {1} sono colassate ciascuna in un punto. Il nome sospensione deriva dal fatto che, in questo modello, lo spazio 𝑋 (identificato con 𝑋 × {0}) lo si immagina come “sospeso” fra i suoi punti finali. ◁ Osservazione 6.65. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 che sia continua e suriettiva. In generale la topologia 𝜎
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sarà meno fine di quella finale generata da (𝑋, 𝜏, 𝑓 ). Nel caso in cui le due topologie coincidano, si dice che 𝑓 è un’applicazione quoziente. Questo nome è perfettamente giustificato alla luce dell’Osservazione 6.53. ◁ Per quanto riguarda le applicazioni quoziente vale il seguente risultato.
Teorema 6.66. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 che sia continua e suriettiva. Se 𝑓 è una funzione aperta o chiusa, allora è un’applicazione quoziente. Dimostrazione. Poiché la topologia finale è la più fine fra quelle che rendono continua 𝑓 , è chiaro che ogni 𝜎-aperto è aperto anche nella topologia finale. Viceversa, se 𝑓 è aperta, allora, per ogni 𝐴 ∈ 𝜏, 𝑓 (𝐴) è aperto in 𝜎. Sia ora 𝐴′ un aperto della topologia finale; per definizione, 𝑓 −1 (𝐴′ ) è aperto in 𝜏 e quindi, poiché 𝑓 è suriettiva, 𝐴′ = 𝑓 (𝑓 −1 (𝐴′ )) è 𝜎-aperto. Nel caso in cui 𝑓 sia chiusa si procede in modo analogo (Esercizio!). Da questo teorema e dalla Proposizione 6.34.1 si ottiene che: Le proiezioni di uno spazio prodotto sui suoi fattori sono mappe quoziente. Si osservi che una mappa quoziente non è sempre aperta né sempre chiusa, come mostra l’esempio che segue. Esempio 6.67. Sia 𝑋 ∶= {0} ∪ {±1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } con la topologia indotta da quella euclidea. Prendiamo il sottoinsieme 𝐸 ∶= {0, 1} e consideriamo lo spazio quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/𝐸 con la sua topologia quoziente. L’applicazione quoziente 𝑞 non è aperta. Infatti, posto 𝐴 ∶= {1}, si ha che 𝐴 è aperto in 𝑋. D’altra parte 𝑞(𝐴) = {𝑒} non è aperto in 𝑌 , dato che 𝑞 −1 (𝑞(𝐴)) = {0, 1} non è aperto in 𝑋. L’applicazione 𝑞 è però chiusa. Infatti, per ogni chiuso 𝐶 di 𝑋, l’insieme 𝑞 −1 (𝑞(𝐶)) coincide con 𝐶 o con 𝐶 ∪ {0, 1} che sono chiusi in 𝑋. Prendiamo ora il sottoinsieme 𝐸 ′ ∶= {−1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } e consideriamo lo spazio quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/𝐸 ′ con la sua topologia quoziente. L’applicazione quoziente 𝑞 non è chiusa. Infatti, posto 𝐶 ∶= {−1}, si ha che 𝐶 è chiuso in 𝑋. D’altra parte 𝑞(𝐶) = {𝑒} non è chiuso in 𝑌 , dato che 𝑞 −1 (𝑞(𝐶)) = 𝐸 ′ non è chiuso in 𝑋. L’applicazione 𝑞 è però aperta. Infatti, per ogni aperto 𝐴 di 𝑋, l’insieme 𝑞 −1 (𝑞(𝐴)) coincide con 𝐴 o con 𝐴 ∪ {−1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } che sono aperti in 𝑋. Sia poi ∼ l’equivalenza in 𝑋 definita da 0 ∼ 1, −1/𝑛 ∼ −1/𝑚, ∀𝑛.𝑚 ∈ ℕ+ , 𝑥 ∼ 𝑥, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Da quanto precede, si ottiene subito che l’applicazione quoziente 𝑞 ∶ 𝑋 → 𝑋/∼ non è né aperta né chiusa. In fine, dato un qualunque spazio topologico (𝑋, 𝜏), consideriamo in 𝑋 l’equivalenza discreta. La relativa applicazione quoziente è ovviamente sia aperta che chiusa. ◁ Data un’applicazione continua e suriettiva di uno spazio topologico su un altro, si è visto che essa è di tipo quoziente se e solo se la topologia del codominio
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
310
è quella finale. È ora interessante analizzare proprietà delle applicazioni definite sul codominio e a valori in un terzo spazio. Schematizziamo questa situazione nel seguente diagramma, con 𝛾 = 𝛽 ∘ 𝛼: 𝐴
𝛼
𝛾
𝐵
𝛽
𝐶
Il Teorema 6.45 assicura che se la mappa 𝛼 è quoziente, allora 𝛽 è continua se e solo se lo è 𝛾. Ciò per quanto riguarda la continuità. Nel caso invece in cui siamo interessati a decidere se le mappe coinvolte sono di tipo quoziente, è immediato constatare (Esercizio!) che la composta di mappe quoziente è una mappa quoziente. Vale inoltre il seguente risultato. Teorema 6.68. Nella situazione descritta dal precedente diagramma, si ha che, se 𝛼 e 𝛽 sono continue e 𝛾 è quoziente, allora lo è anche 𝛽.
Dimostrazione. Supponiamo che 𝛾 sia quoziente. È ovvio intanto che 𝛽 è suriettiva, poiché è tale 𝛾. Consideriamo un sottoinsieme 𝑉 di 𝐶 tale che 𝛽 −1 (𝑉 ) sia un chiuso di 𝐵. Per la continuità di 𝛼, l’insieme 𝛼 −1 (𝛽 −1 (𝑉 )) = 𝛾 −1 (𝑉 ) è un chiuso di 𝐴. L’ipotesi che 𝛾 sia una mappa quoziente implica che 𝑉 è un chiuso di 𝐶. Abbiamo così dimostrato che i chiusi di 𝐶 sono tutti e soli i sottoinsiemi 𝑉 per cui 𝛽 −1 (𝑉 ) è un chiuso di 𝐵. Ciò prova che 𝛽 è quoziente.
Il precedente risultato non può essere migliorato. Infatti può accadere che 𝛽 e 𝛾 siano applicazioni quoziente senza che lo sia 𝛼. Inoltre se 𝛽 è quoziente, non è detto che sia tale anche 𝛾. Per constatarlo, fissiamo un’applicazione suriettiva 𝛼 ∶ 𝐴 → 𝐵 e consideriamo i seguenti casi: (1) 𝐶 ∶= {𝑐}, 𝛽 l’applicazione costante da 𝐵 a 𝐶, 𝛾 ∶ 𝐴 → 𝐶 data da 𝛾 ∶= 𝛽 ∘ 𝛼 (ancora costante); 𝛽 e 𝛾 sono applicazioni quoziente anche quando 𝛼 non lo è. (2) 𝐶 ∶= 𝐵, 𝛽 ∶= 𝑖𝐵 , 𝛾 ∶= 𝛽 ∘ 𝛼; 𝛽 è quoziente, mentre 𝛼 lo è se e solo se è tale 𝛾. In generale, il passaggio ad una topologia quoziente non preserva gli assiomi di separazione e, inoltre, può anche succedere che lo spazio quoziente possieda delle nuove proprietà di separazione rispetto allo spazio originario (cfr. Esempio 6.60). Un esempio particolarmente semplice si ottiene considerando in ℝ la partizione in due classi formate, rispettivamente, dai numeri razionali e da quelli irrazionali. Il quoziente è uno spazio di due elementi con la topologia banale e quindi non gode di nessuno degli assiomi di separazione. Fatta questa premessa, osserviamo che alcuni risultati positivi si possono ottenere assumendo opportune ipotesi sulla relazione di equivalenza o sulla mappa quoziente. Esporremo ora alcuni casi. Teorema 6.69. Dati uno spazio topologico arbitrario (𝑋, 𝜏) e una relazione di equivalenza ∼ in 𝑋, consideriamo lo spazio quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/∼ con la sua topologia canonica 𝜏/∼ . Allora (𝑌 , 𝜏/∼ ) è 𝑇1 se e solo se tutte le classi di
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
311
equivalenza sono insiemi chiusi in 𝑋. In particolare, se 𝐸 è un sottoinsieme di 𝑋, allora 𝑋/𝐸 è 𝑇1 se e solo se 𝐸 e tutti i punti di 𝑋 ⧵ 𝐸 sono chiusi in 𝑋.
Dimostrazione. Per il Teorema 1.79, 𝑌 è 𝑇1 se e solo se tutti i suoi punti sono chiusi e quindi, per la definizione di 𝜏/∼ , se e solo se le controimmagini dei punti sono insiemi chiusi in 𝑋. Ora, per definizione di applicazione quoziente, le controimmagini dei punti dello spazio quoziente sono le classi di equivalenza di 𝑋 rispetto a ∼. Teorema 6.70. Dati uno spazio topologico arbitrario (𝑋, 𝜏) e una relazione di equivalenza ∼ in 𝑋, consideriamo lo spazio quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/∼ con la sua topologia canonica 𝜏/∼ . Indichiamo poi con ℛ il sottoinsieme di 𝑋 × 𝑋 formato da tutte le coppie (𝑥′ , 𝑥″ ) tali che 𝑥′ ∼ 𝑥″ . 1. Se 𝑌 è 𝑇2 , allora ℛ è chiuso in 𝑋 × 𝑋 dotato della topologia prodotto. 2. Se ℛ è chiuso in 𝑋 × 𝑋 e la mappa quoziente è aperta, allora 𝑌 è 𝑇2 .
Dimostrazione. 1. Proviamo la contronominale. Se ℛ non è chiuso, esiste un (𝑢, 𝑣) ∈ cl ℛ ⧵ ℛ. Da (𝑢, 𝑣) ∉ ℛ segue che gli elementi 𝑥 ∶= 𝑞(𝑢) e 𝑦 ∶= 𝑞(𝑣) sono distinti in 𝑌 . Siano 𝐴 e 𝐵 due intorni aperti di 𝑥 e, rispettivamente, di 𝑦. L’insieme 𝑈 ∶= 𝑞 −1 (𝐴) × 𝑞 −1 (𝐵) è un intorno aperto di (𝑢, 𝑣). Essendo (𝑢, 𝑣) ∈ cl ℛ, esiste (𝑢′ , 𝑣′ ) ∈ 𝑈 ∩ ℛ. Si ottiene 𝑞(𝑢′ ) = 𝑞(𝑣′ ) ∈ 𝐴 ∩ 𝐵. 2. Supponiamo ora che ℛ sia chiuso e consideriamo due punti distinti 𝑦, 𝑧 ∈ 𝑌 . Siano inoltre 𝑢, 𝑣 ∈ 𝑋 tali che 𝑞(𝑢) = 𝑦 e 𝑞(𝑣) = 𝑧. L’elemento (𝑢, 𝑣) appartiene a 𝑋 × 𝑋 ⧵ ℛ che, per ipotesi, è aperto. Esistono dunque due aperti 𝐴, 𝐵 di 𝑋 contenenti rispettivamente 𝑢 e 𝑣, con 𝐴 × 𝐵 ⊆ 𝑋 × 𝑋 ⧵ ℛ. Poiché la mappa quoziente 𝑞 è aperta, 𝑞(𝐴) e 𝑞(𝐵) sono due aperti di 𝑌 contenenti, rispettivamente, 𝑦 e 𝑧. Inoltre, 𝑞(𝐴) e 𝑞(𝐵) sono disgiunti. Infatti, se esistesse un elemento 𝑥 ∈ 𝑞(𝐴) ∩ 𝑞(𝐵), dovrebbero esistere 𝑢′ ∈ 𝐴 e 𝑣′ ∈ 𝐵 con 𝑞(𝑢′ ) = 𝑞(𝑣′ ) = 𝑥, da cui (𝑢′ , 𝑣′ ) ∈ 𝐴 × 𝐵 ∩ ℛ. Se ℛ è chiuso e 𝑞 non è aperta, nulla si può dire sul fatto che 𝑌 sia o meno 𝑇2 . La prima parte dell’Esempio 6.67 mostra che 𝑌 può essere 𝑇2 (con 𝑞 non aperta). Che 𝑌 possa non essere 𝑇2 si prova modificando leggermente lo stesso esempio.
Esempio 6.71. Siano: 𝐵 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }, 𝑋 ∶= 𝐵 ∪ {−1, 0}, 𝐸 ∶= {0, 1} e 𝑌 ∶= 𝑋/𝐸. In 𝑋 definiamo la seguente topologia 𝜏: i punti di 𝐵 ∪ {−1} sono isolati; una base di intorni di 0 è data dagli insiemi del tipo {1/𝑛 ∶ 𝑛 > 𝑛} ∪ {−1, 0}. Si ha immediatamente che ℛ è chiuso e che 𝑌 non è nemmeno 𝑇1 ; sappiamo già che 𝑞 non è aperta. ◁
Teorema 6.72. Dati uno spazio topologico normale (𝑋, 𝜏) e una relazione di equivalenza ∼ in 𝑋, consideriamo lo spazio quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/∼ con la sua topologia canonica 𝜏/∼ . Supponiamo, inoltre, che la mappa quoziente sia chiusa. Allora anche lo spazio quoziente (𝑌 , 𝜏/∼ ) è normale.
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
312
Dimostrazione. Per ipotesi, 𝑋 è 𝑇1 , quindi (cfr. Teorema 1.79) i suoi punti sono chiusi. Essendo 𝑞 chiusa, sono tali anche i punti di 𝑌 e quindi anche questo spazio è 𝑇1 . Verifichiamo che 𝑌 è anche 𝑇4 . Siano pertanto dati in 𝑌 un chiuso 𝐶 ′ e un aperto 𝐴′ con 𝐶 ′ ⊆ 𝐴′ ; siano poi 𝐶 ∶= 𝑞 −1 (𝐶 ′ ) e 𝐴 ∶= 𝑞 −1 (𝐴′ ). 𝐶 e 𝐴 sono rispettivamente un chiuso e un aperto di 𝑋, con 𝐶 ⊆ 𝐴. Essendo 𝑋, per ipotesi, 𝑇4 , esiste (cfr. Teorema 1.105) un aperto 𝑈 in 𝑋 tale che 𝐶 ⊆ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝐴, da cui 𝐶 ′ ⊆ 𝑞(𝑈 ) ⊆ 𝑞(cl 𝑈 ) ⊆ 𝐴′ . Dato che 𝑞 è chiusa, si ha che 𝐵 ′ ∶= 𝑞(cl 𝑈 ) è chiuso in 𝑌 . 𝑋 ⧵ 𝑈 è un chiuso di 𝑋 disgiunto da 𝐶 e contenente 𝑋 ⧵ cl 𝑈 ⊇ 𝑋 ⧵ 𝑞 −1 (𝐵 ′ ); ne viene che 𝐷′ ∶= 𝑞(𝑋 ⧵ 𝑈 ) è un chiuso di 𝑌 disgiunto da 𝐶 ′ e contenente 𝑞(𝑋 ⧵ 𝑞 −1 (𝐵 ′ )) = 𝑌 ⧵ 𝐵 ′ ⊇ 𝑌 ⧵ 𝐴′ . Quindi 𝑉 ′ ∶= 𝑌 ⧵ 𝐷′ è un aperto di 𝑌 contenente 𝐶 ′ e contenuto in 𝐵 ′ ⊆ 𝐴′ . Si conclude che è 𝐶 ′ ⊆ 𝑉 ′ ⊆ cl 𝑉 ′ ⊆ 𝐵 ′ ⊆ 𝐴′ . Senza l’ipotesi che 𝑞 sia chiusa, il precedente teorema cade in difetto. Basta prendere ancora ℝ e ripartirlo nelle due classi dei razionali e degli irrazionali. Disponendo dei concetti di unione disgiunta e di spazio quoziente, possiamo ora introdurre quello di incollamento di due spazi tramite una funzione.
Definizione 6.73. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑈 → 𝑋 ′ , con 𝑈 sottospazio (non vuoto) di 𝑋. Sia (𝑌 , 𝜎) lo spazio unione disgiunta 𝑋 ⨿𝑋 ′ quozientato rispetto alla relazione di equivalenza generata dalla condizione 𝑥 ∼ 𝑓 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Lo spazio (𝑌 , 𝜎) viene di solito indicato con uno dei simboli 𝑋 ⨿𝑓 𝑋 ′ , 𝑋 ∪𝑓 𝑋 ′ . Diremo che tale spazio è l’incollamento di 𝑋 con 𝑋 ′ mediante 𝑓 . (In inglese si usa il termine gluing space.) ◁
Esempio 6.74. Siano 𝑋 ∶= [𝑎, 𝑏] e 𝑋 ′ ∶= [𝑎′ , 𝑏′ ] due intervalli chiusi della retta reale con la topologia euclidea. Sia 𝑈 ∶= {𝑎, 𝑏} e 𝑓 ∶ 𝑈 → 𝑋 ′ la funzione definita da 𝑓 (𝑎) ∶= 𝑎′ e 𝑓 (𝑏) ∶= 𝑏′ . È immediato verificare che l’incollamento di 𝑋 e 𝑋 ′ tramite 𝑓 è omeomorfo alla circonferenza 𝑆 1 . Nulla cambia se invertiamo le immagini dei punti 𝑎 e 𝑏, considerando cioè 𝑓 (𝑎) ∶= 𝑏′ e 𝑓 (𝑏) ∶= 𝑎′ . Supponiamo ora di considerare la funzione 𝑓 ∶ 𝑈 → 𝑋 ′ definita da 𝑓 (𝑎) ∶= ′ 𝑎 e 𝑓 (𝑏) ∶= 𝑎′ . Lo spazio 𝑌 si presenta come l’unione di 𝑆 1 con un segmento che ha su di essa uno dei due estremi. Analogamente, partendo da due dischi chiusi e identificando ordinatamente i punti delle due frontiere, si ottiene 𝑆 2 . (Esercizio!) ◁ Un caso particolare della precedente definizione si ha nella seguente situazione. Siano (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) due spazi topologici, con 𝐴 ∶= 𝑋 ∩ 𝑋 ′ ≠ ∅. Se 𝑓 ∶ 𝐴 → 𝑋 ′ è l’identità su 𝐴, lo spazio 𝑋 ∪𝑓 𝑋 ′ viene anche indicato con 𝑋 ∪𝐴 𝑋 ′ e si chiama l’incollamento di 𝑋 con 𝑋 ′ mediante 𝐴. La topologia di 𝑋 ∪𝐴 𝑋 ′ coincide con 𝜏 in 𝑋 ⧵ 𝐴 e con 𝜏 ′ in 𝑋 ′ ⧵ 𝐴, mentre in 𝐴 coincide con 𝜏⊥𝜏 ′ (cfr. pag. 5). Esempio 6.75. Siano: 𝑋 la semiretta [−1, +∞[ con la topologia sinistra di Sorgenfrey 𝜏 − e 𝑋 ′ la semiretta [−∞, 1[ con la topologia destra di Sorgenfrey
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
313
𝜏 + ; si ha 𝐴 ∶= [−1, 1[. Si vede subito che nello spazio 𝑋 ∪𝐴 𝑋 ′ gli intorni dei punti di 𝐴 sono quelli della topologia euclidea (cfr. ancora pag. 5). ◁ La situazione precedente può essere così generalizzata. Siano (𝑋, 𝜏) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) due spazi topologici e supponiamo che esistano due sottospazi 𝐴 ⊆ 𝑋 e 𝐴′ ⊆ 𝑋 ′ fra loro omeomorfi mediante l’applicazione 𝑓 ∶ 𝐴 → 𝐴′ . Se in particolare è 𝐴 = 𝑋, si ottiene un’immersione di 𝑋 in 𝑋 ′ .
Esempio 6.76. Siano dati gli spazi topologici (𝑋, 𝜏) ∶= (ℝ, 𝜏 + ) e (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) ∶= (ℝ, 𝜏 − ), dove 𝜏 + e 𝜏 − sono, rispettivamente, la topologia destra e sinistra di Sorgenfrey. Sia 𝜏 + che 𝜏 − inducono su ℤ la topologia discreta. Ne viene che l’applicazione identica 𝑓 ∶ ℤ(⊂ 𝑋) → ℤ(⊂ 𝑋 ′ ) è un omeomorfismo. Sia poi (𝑌 , 𝜎) ∶= 𝑋 ∪ℤ 𝑋 ′ . Vediamo come sono fatti gli intorni dei punti di 𝑌 . Se 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ ℤ [𝑥′ ∈ 𝑋 ′ ⧵ ℤ] i suoi intorni sono quelli di 𝜏 [rispettivamente di 𝜏 ′ ]. Se 𝑧 ∈ ℤ, una base di suoi intorni è l’unione di un suo 𝜏-intorno in 𝑋 (linea continua) e un suo 𝜏 ′ -intorno in 𝑋 ′ (linea tratteggiata). ◁ X
x
z X
0
x0
Esempio 6.77. Siano 𝑋 e 𝑌 spazi topologici in cui abbiamo fissato due punti 𝑥0 ∈ 𝑋 e 𝑦0 ∈ 𝑌 . Si indica con 𝑋 ∨ 𝑌 lo spazio topologico ottenuto da 𝑋 ⨿ 𝑌 quozientato rispetto alla relazione 𝑥0 ∼ 𝑦0 . Questo spazio prende il nome di somma wedge o prodotto wedge (in Inglese wedge sum) di 𝑋 e 𝑌 . Questa procedura è facilmente estendibile ad una famiglia arbitraria di spazi topologici 𝑋𝑖 in ciascuno dei quali sia stato fissato un punto 𝑥0𝑖 , quozientando poi lo spazio unione disgiunta ∐𝑖 𝑋𝑖 rispetto alla relazione che identifica tra loro tutti i punti 𝑥0𝑖 . La somma wedge può essere utilizzata per definire in modo preciso alcuni spazi topologici a partire da esempi più semplici. Per esempio, per descrivere una figura a “8”, si potrà parlare di somma wedge di due circonferenze. ◁ I concetti di spazio prodotto, somma diretta e spazio quoziente, se collegati allo studio di funzioni continue, portano a considerare diagrammi che non sempre sono commutativi. Per fare un esempio, supponiamo che siano assegnati tre spazi topologici 𝑋, 𝑌 , 𝑍 e due applicazioni continue 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑍 e 𝑔 ∶ 𝑌 → 𝑍. Si consideri ora il diagramma, 𝑋×𝑌 𝑝𝑋
𝑋
𝑝𝑌
𝑓
𝑌
𝑔
𝑍
dove 𝑝𝑋 e 𝑝𝑌 sono le proiezioni. Non è detto, in generale, che tale diagramma sia commutativo su tutto 𝑋 × 𝑌 . Tuttavia, esso risulta commutativo sul
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
314
sottoinsieme (eventualmente vuoto) definito da
𝑋 ×𝑍 𝑌 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑓 (𝑥) = 𝑔(𝑦)} .
Illustriamo questo fatto con un esempio banale. Siano 𝑋 ∶= {𝑥}, 𝑌 ∶= {𝑦}, 𝑍 ∶= {𝑎, 𝑏}, 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑎, 𝑓 (𝑦) ∶= 𝑏. In questo caso, si ha ovviamente 𝑋×𝑍 𝑌 = ∅.
Definizione 6.78. L’insieme 𝑋 ×𝑍 𝑌 , dotato della topologia di sottospazio di 𝑋 × 𝑌 , è detto il pullback di 𝑋 e 𝑌 rispetto alle funzioni 𝑓 , 𝑔. ◁ Il concetto di pullback trova interessanti applicazioni in topologia algebrica grazie alla proprietà universale enunciata dal seguente teorema: Teorema 6.79. Siano 𝑋, 𝑌 , 𝑍, 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑍, 𝑔 ∶ 𝑌 → 𝑍 come nella definizione di pullback. Siano inoltre 𝑊 uno spazio topologico e 𝑞1 ∶ 𝑊 → 𝑋, 𝑞2 ∶ 𝑊 → 𝑌 continue e tali che 𝑓 ∘ 𝑞 1 = 𝑔 ∘ 𝑞2 .
Esiste allora un’unica applicazione continua 𝜑 ∶ 𝑊 → 𝑋 ×𝑍 𝑌 tale da rendere commutativo il diagramma 𝑊
𝜑 𝑞1
𝑞2
𝑋 ×𝑍 𝑌 𝑝𝑋
𝑋
𝑝𝑌 𝑓
𝑌
𝑔
𝑍
Dimostrazione. Grazie alle applicazioni 𝑞1 e 𝑞2 , possiamo definire una funzione 𝜑 ∶ 𝑊 → 𝑋 × 𝑌 ponendo 𝜑(𝑤) ∶= (𝑞1 (𝑤), 𝑞2 (𝑤)). Dalle ipotesi, si ha subito che è 𝜑(𝑤) ∈ 𝑋 ×𝑍 𝑌 e che quindi il diagramma è commutativo. La continuità di 𝜑 segue subito dalla proprietà universale associata alla topologia prodotto (cfr. Corollario 6.9). Rimane da verificare che 𝜑 è unica; ma ciò è ovvio perché, se 𝜓 ∶ 𝑊 → 𝑋 × 𝑌 rende commutativo il diagramma, allora, per ogni 𝑤 ∈ 𝑊 , si deve avere 𝑝𝑋 (𝜓(𝑤)) = 𝑞1 (𝑤) e, analogamente, 𝑝𝑌 (𝜓(𝑤)) = 𝑞2 (𝑤), da cui 𝜓(𝑤) = 𝜑(𝑤). Il sussistere della proprietà universale e il fatto che c’è almeno un oggetto che la soddisfa permette di dare una definizione di tipo più astratto, parlando di pullback di due spazi topologici (relativamente a una data coppia di funzioni) come di uno spazio, definito a meno di omeomorfismi, che verifica la proprietà universale espressa dal teorema precedente. Esempio 6.80. Un tipico esempio di pullback si incontra nella seguente situazione. Siano 𝑋 ∶= {1}, 𝑌 ∶= ℝ, 𝑍 ∶= 𝑆 1 = {𝑧 ∈ ℂ ∶ |𝑧| = 1} con le topologie naturali. Consideriamo inoltre le funzioni 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑍 definita da 𝑓 (1) ∶= 1 e 𝑔 ∶ 𝑌 → 𝑍 definita da 𝑔(𝑡) ∶= 𝑒2𝜋𝑖𝑡 . In questo caso, il pullback è l’insieme {1} × ℤ che si può identificare con ℤ stesso. ◁
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
315
Come concetto duale del pullback, si ha quello di pushout. Siano assegnati tre spazi topologici 𝑋, 𝑌 , 𝑍 e due applicazioni continue 𝑓 ∶ 𝑍 → 𝑋 e 𝑔 ∶ 𝑍 → 𝑌 . Si consideri ora il diagramma, 𝑔
𝑍
𝑓
𝑋
𝜑𝑋
𝑌
𝜑𝑌
𝑋 ⨿𝑍 𝑌
dove 𝜑𝑋 e 𝜑𝑌 sono le inclusioni canoniche. Non è detto, in generale, che tale diagramma sia commutativo su tutto 𝑍. Tuttavia, esso risulta commutativo sostituendo al codominio un opportuno quoziente in cui identifichiamo 𝑓 (𝑧) con 𝑔(𝑧), per ogni 𝑧 ∈ 𝑍. Si introduce pertanto lo spazio topologico 𝑋 ⨿𝑍 𝑌 ∶= 𝑋 ⨿ 𝑌 /∼ ,
con
(𝑥, 0) ∼ (𝑦, 1) ⇔ (∃𝑧 ∈ 𝑍)((𝑓 (𝑧) = 𝑥) ∧ (𝑔(𝑧) = 𝑦)).
Definizione 6.81. L’insieme 𝑋 ⨿𝑍 𝑌 , dotato della topologia quoziente, è detto il pushout di 𝑋 e 𝑌 rispetto alle funzioni 𝑓 , 𝑔. ◁ Analogamente a quello del pullback, anche in questo caso c’è una proprietà universale duale di quella del Teorema 6.79. Teorema 6.82. Siano 𝑋, 𝑌 , 𝑍, 𝑓 ∶ 𝑍 → 𝑋, 𝑔 ∶ 𝑍 → 𝑌 come nella definizione di pushout. Siano inoltre 𝑊 uno spazio topologico e 𝑞1 ∶ 𝑋 → 𝑊 , 𝑞2 ∶ 𝑌 → 𝑊 continue e tali che 𝑞1 ∘ 𝑓 = 𝑞2 ∘ 𝑔.
Esiste allora un’unica applicazione continua 𝜓 ∶ 𝑋 ⨿𝑍 𝑌 → 𝑊 tale da rendere commutativo il diagramma 𝑍
𝑓
𝑋
𝑌
𝑔
𝜑1
𝜑2
𝑋 ⨿𝑍 𝑌 𝑞1
𝑞2
𝜓
𝑊
Dimostrazione. Per semplificare le notazioni, identifichiamo 𝑋 con 𝑋 × {0} e 𝑌 con 𝑌 × {1}. Definiamo ora l’applicazione 𝜓 ∶ 𝑋 ⨿𝑍 𝑌 → 𝑊 ponendo 𝜓([𝑥]) ∶= 𝑞1 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋 e 𝜓([𝑦]) ∶= 𝑞2 (𝑦), ∀𝑦 ∈ 𝑌 . Per prima cosa, si tratta di verificare che la posizione appena fatta definisce correttamente un’applicazione. Siano, infatti, 𝑢′ , 𝑢″ ∈ 𝑋 ⨿ 𝑌 , con [𝑢′ ] = [𝑢″ ]. In questo caso, 𝑢′ ∼ 𝑢″ e quindi 𝑢′ = 𝑢″ (quando 𝑢′ , 𝑢″ stanno nello stesso insieme), oppure i due elementi stanno in spazi diversi, per esempio, 𝑢′ ∈ 𝑋 e 𝑢″ ∈ 𝑌 e inoltre sono tali che 𝑢′ = 𝑓 (𝑧) e 𝑢″ = 𝑔(𝑧) per qualche 𝑧 ∈ 𝑍. Per la commutatività del diagramma, sappiamo che 𝑞1 (𝑓 (𝑧)) = 𝑞2 (𝑔(𝑧)) e quindi 𝑞1 (𝑢′ ) = 𝑞2 (𝑢″ ) = 𝜓([𝑢′ ]). Per costruzione il diagramma ora commuta in tutte le sue parti. La continuità
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
316
di 𝜓 segue subito dalla proprietà universale associata alla topologia quoziente (cfr. Corollario 6.50). Rimane da verificare che 𝜓 è unica; ma ciò è ovvio perché, se 𝜂 ∶ 𝑋 ⨿𝑍 𝑌 → 𝑊 rende commutativo il diagramma, allora, per ogni [𝑢] ∈ 𝑋 ⨿𝑍 𝑌 , deve essere 𝜂([𝑢]) = 𝑞1 (𝑢), se 𝑢 ∈ 𝑋 e 𝜂([𝑢]) = 𝑞2 (𝑢), se 𝑢 ∈ 𝑌 . (Ovviamente, perché 𝜂 sia ben definita, dovrà essere 𝜂([𝑢′ ]) = 𝜂([𝑢″ ]) se 𝑢′ ∈ 𝑋 e 𝑢″ ∈ 𝑌 , con 𝑢′ ∼ 𝑢″ ). Il sussistere della proprietà universale e il fatto che c’è almeno un oggetto che la soddisfa permette di dare una definizione di tipo più astratto, parlando di pushout di due spazi topologici (relativamente a una data coppia di funzioni) come di uno spazio, definito a meno di omeomorfismi, che verifica la proprietà universale espressa dal teorema precedente. Un primo esempio di pushout è dato dall’incollamento di due spazi mediante una funzione visto nella Definizione 6.73. Infatti, facendo riferimento a tale definizione, ci troviamo in presenza di uno spazio 𝑍 ∶= 𝑈 e di due funzioni 𝑖 ∶ 𝑈 → 𝑋 e 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ . In tal caso, l’incollamento 𝑋 ∪𝑓 𝑋 ′ coincide con 𝑋 ⨿𝑈 𝑋 ′ . Il lettore provi a verificare che anche altri esempi (come la sospensione di uno spazio) rientrano nella definizione di pushout. Concludiamo questo capitolo con una breve rassegna di proprietà degli spazi quoziente quando lo spazio di partenza abbia una struttura più ricca. In particolare, vedremo i casi degli spazi di Banach, di Hilbert e vettoriali topologici. Daremo anche un cenno al concetto di metrica quoziente. Siano 𝑋 uno spazio vettoriale e 𝑀 un suo sottospazio non banale. Definiamo in 𝑋 la relazione binaria x ∼ y ⇔ x − y ∈ 𝑀. Si constata immediatamente che si tratta di una relazione di equivalenza e che, per ogni x ∈ 𝑋, la sua classe di equivalenza [x] è data da [x] = x + 𝑀 ∶= {x + m ∶ m ∈ 𝑀} .
Come è ben noto, in Algebra queste classi di equivalenza si chiamano anche laterali (in inglese cosets). Si verifica immediatamente (Esercizio!) che si può dotare 𝑋/𝑀 ∶= 𝑋/∼ della struttura di spazio vettoriale ponendo 𝑀.
(x + 𝑀) + (y + 𝑀) ∶= (x + y) + 𝑀;
𝛼(x + 𝑀) = 𝛼x + 𝑀.
Ricordiamo che la dimensione dello spazio 𝑋/𝑀 è detta codimensione di
Un interessante esempio è quello in cui è 𝑋 ∶= 𝐶(ℝ) e 𝑀 il sottospazio (non chiuso) formato dai polinomi. La corrispondente equivalenza in 𝑋 è quella che dichiara equivalenti due funzioni continue se la loro differenza è un polinomio. La mappa quoziente 𝑞 ∶ 𝑋 → 𝑋/𝑀 è detta proiezione canonica. Si vede facilmente (Esercizio!) che: (1) 𝑞 è lineare; (2) 𝑞 è suriettiva e si ha ker 𝑞 = 𝑀; (3) da 𝐸 ⊆ 𝑋, si ha 𝑞 −1 (𝑞(𝐸)) = 𝐸 + 𝑀 = {e + m ∶ e ∈ 𝐸, m ∈ 𝑀}. È di facile verifica il seguente risultato.
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
317
Teorema 6.83. Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato e 𝑀 un suo sottospazio chiuso non banale. Allora, posto 𝑌 ∶= 𝑋/𝑀, l’applicazione ‖⋅‖𝑌 ∶ 𝑌 → ℝ definita da ‖x + 𝑀‖𝑌 ∶= 𝑑(x, 𝑀) = inf ‖x − m‖. (6.6) è una norma in 𝑌 .
m∈𝑀
Se 𝑀 non è chiuso, la (6.6) definisce solo una seminorma.
Teorema 6.84. Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio di Banach e 𝑀 un suo sottospazio chiuso. Allora lo spazio quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/𝑀 è di Banach. Dimostrazione. Sappiamo che 𝑌 è uno spazio normato; resta da verificare che è completo. Sia (x𝑛 + 𝑀)𝑛 una successione di Cauchy in 𝑌 . Purtroppo questo non garantisce che la successione (x𝑛 )𝑛 sia di Cauchy in 𝑋. Sostituendo ogni x𝑛 con un vettore del tipo x𝑛 + m, con m ∈ 𝑀, si ottiene un elemento della stessa classe di equivalenza. Mostriamo che, scegliendo opportunamente una 𝑛 𝑛 sottosuccessione (x 𝑘 )𝑘 e sostituendo x 𝑘 con appropriati elementi della stessa classe di equivalenza, si può ottenere una sottosuccessione in 𝑌 che è di Cauchy che è convergente. Da ciò proveremo poi che anche la successione di partenza è convergente. Cominciamo con l’osservare che, siccome la successione di partenza è di 𝑛 Cauchy, esiste una sottosuccessione (x 𝑘 + 𝑀)𝑘 tale che, per ogni 𝑘, si ha 𝑛𝑘+1
‖(x
− x 𝑘 ) + 𝑀‖ = ‖(x 𝑛
𝑛𝑘+1
+ 𝑀) − (x
𝑛𝑘
+ 𝑀)‖ < 2−𝑘 .
Definiamo ora in 𝑀 una successione (m𝑘 )𝑘 in modo che (x successione convergente in 𝑋. Poniamo m1 ∶= 0. Si ha
𝑛𝑘
− m𝑘 )𝑘 sia una
inf ‖(x 1 − m1 ) − (x 2 − m)‖ = inf ‖(x 1 − x 2 ) + m)‖ < 𝑛
m∈𝑀
𝑛
Esiste quindi m2 ∈ 𝑀 tale che
m∈𝑀
𝑛
‖(x 1 − m1 ) − (x 2 − m2 )‖ < 𝑛
Poiché m2 ∈ 𝑀, si ha
𝑛
𝑛
1 . 2
inf ‖(x 2 − m2 ) − (x 3 − m)‖ = inf ‖(x 2 − x 3 ) + m′ )‖ < ′
m∈𝑀
𝑛
𝑛
Esiste quindi m3 ∈ 𝑀 tale che
m ∈𝑀
𝑛
‖(x 2 − m2 ) − (x 3 − m3 )‖ < 𝑛
𝑛
1 . 2
𝑛
1 . 22
1 . 22
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
318
Poi si prosegue per induzione. Si ottiene così una successione (z𝑘 )𝑘 , con z𝑘 ∶= 𝑛 x 𝑘 − m𝑘 , tale che ‖z𝑘 − z𝑘+1 ‖ < 1/2𝑘 . Si vede subito che questa successione è di Cauchy in 𝑋. Poiché 𝑋 è completo, essa converge a un elemento z ∈ 𝑋. Ora si ha ‖(x
𝑛𝑘
+ 𝑀) − (z + 𝑀)‖ = ‖x
𝑛𝑘
− m𝑘 − z + 𝑀‖ =
‖z𝑘 − z + 𝑀‖ ≤ ‖z𝑘 − z‖ → 0.
Quindi (x 𝑘 + 𝑀)𝑘 è una sottosuccessione convergente della successione di Cauchy (x𝑛 +𝑀)𝑛 . Ne viene che anche la successione di partenza è convergente. 𝑛
Lemma 6.85. Siano 𝐻 uno spazio di Hilbert, 𝑀 un suo sottospazio chiuso e 𝑃𝑀 ∶ 𝐻 → 𝑀 la proiezione ortogonale canonica. Allora 𝐻/𝑀 è isometrico e linearmente isomorfo a 𝑀 ⊥ .
Dimostrazione. Sappiamo che il sottospazio quoziente 𝑌 ∶= 𝐻/𝑀 è di Banach, così come 𝑀 ⊥ . Essendo 𝐻 = 𝑀 ⊕ 𝑀 ⊥ , ogni x ∈ 𝐻, è esprimibile in uno e un sol modo nella forma x = m + y, con m ∈ 𝑀 e y ∈ 𝑀 ⊥ . Consideriamo ora la funzione 𝜑 ∶ 𝑌 → 𝑀 ⊥ definita da 𝜑([x]) ∶= y. La definizione è coerente, dato che gli elementi di 𝑌 sono del tipo y + 𝑀. Si vede poi subito che 𝜑 è lineare e biiettiva. Per il Corollario 5.49, si ha ⟨y, m⟩ = ⟨x − 𝑃𝑀 (x), m⟩ = 0, per ogni m ∈ 𝑀 (cfr. anche la (5.10)). Quindi, per il Teorema di Pitagora 5.50, si ha ‖y + m‖ = (‖𝑦‖2 + ‖m‖2 )1/2 , da cui, ‖y + 𝑀‖ = infm∈𝑀 ‖y + m‖ = ‖y‖. Ciò prova che 𝜑 è un’isometria. Teorema 6.86. Siano 𝐻 uno spazio di Hilbert, 𝑀 un suo sottospazio chiuso e 𝑃𝑀 ∶ 𝐻 → 𝑀 la proiezione ortogonale canonica. Allora anche 𝐻/𝑀 è uno spazio di Hilbert.
Dimostrazione. Per il lemma precedente, 𝑋/𝑀 è linearmente isomorfo e isometrico al sottospazio 𝑀 ⊥ . In questo spazio sussiste l’identità del parallelogramma e quindi essa vale anche in 𝐻/𝑀. Dal Teorema di Jordan-von Newmann (cfr. la (4.10)) si ha che in 𝐻/𝑀 risulta canonicamente definito un prodotto scalare ponendo ⟨[x], [y]⟩ ∶=
1 ‖x + y + 𝑀‖2 − ‖x − y + 𝑀‖2 ]. 4[
Per l’isometria appena dimostrata, si ha ⟨[x], [y]⟩ =
1 ‖𝜑([x + y])‖2 − ‖𝜑([x − y])‖2 ], 4[
dove, come nel lemma precedente, 𝜑([w]) = w − 𝑃𝑀 (w) ∈ 𝑀 ⊥ . Ne segue che ⟨[x], [y]⟩𝐻/𝑀 = ⟨𝜑([x]), 𝜑([y])⟩𝑀 ⊥ = ⟨𝜑([x]), 𝜑([y])⟩𝐻 .
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
319
Lemma 6.87. Siano 𝑋 uno spazio vettoriale topologico e 𝑀 un suo sottospazio (vettoriale) proprio e non banale. Allora l’applicazione quoziente 𝑞 ∶ 𝑋 → 𝑋/𝑀 è aperta. Dimostrazione. Sia 𝐴 un aperto di 𝑋. si ha 𝑞 −1 (𝑞(𝐴)) = 𝐴 + 𝑀 ∶=
⋃
m∈𝑀
(𝐴 + m).
Poiché 𝑋 è uno SVT, gli insiemi 𝐴 + m, essendo dei traslati di un aperto, sono ancora aperti. Si ottiene che 𝑞 −1 (𝑞(𝐴)) è aperto in 𝑋 e quindi, per definizione di topologia quoziente, che 𝑞(𝐴) è aperto in 𝑋/𝑀. In generale, non è detto che la mappa quoziente sia un’applicazione chiusa.
Esempio 6.88. In (ℝ2 , 𝜏𝑒 ), sia 𝑀 il sottospazio formato dall’asse delle ascisse. La corrispondente applicazione quoziente 𝑞 coincide con la proiezione ortogonale di ℝ2 sull’asse delle ascisse. Sia ora 𝐶 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ 𝑥𝑦 = 1}. L’insieme 𝐶 è chiaramente chiuso, ma l’immagine 𝑞(𝐶) = 𝑀 ⧵ {0} non lo è. ◁
Teorema 6.89. Siano 𝑋 uno spazio vettoriale topologico e 𝑀 un suo sottospazio chiuso, proprio e non banale. Allora lo spazio quoziente 𝑋/𝑀 dotato della topologia quoziente è ancora uno spazio vettoriale topologico.
Dimostrazione. Per comodità, indichiamo con + la somma in 𝑋 e con ⊞ quella in 𝑌 ∶= 𝑋/𝑀. Proviamo che ⊞ è continua in (0, 0) ∈ 𝑌 × 𝑌 , mostrando che, per ogni intorno 𝑈 di 0 ∈ 𝑌 , ⊞−1 (𝑈 ) è un intorno di (0, 0). La continuità della mappa quoziente 𝑞 ∶ 𝑋 → 𝑌 implica che 𝑞 −1 (𝑈 ) è un intorno dell’origine in 𝑋. Per la Proposizione 5.22.2, in 𝑋 esiste un intorno aperto 𝑉 dell’origine tale che 𝑉 + 𝑉 ⊆ 𝑞 −1 (𝑈 ). Per la linearità di 𝑞, si ha 𝑞(𝑉 ) ⊞ 𝑞(𝑉 ) = 𝑞(𝑉 + 𝑉 ) ⊆ 𝑈 , ossia 𝑞(𝑉 ) × 𝑞(𝑉 ) ⊆ ⊞−1 (𝑈 ). Poiché 𝑞 è aperta, 𝑞(𝑉 ) è un intorno aperto dell’origine in 𝑌 e quindi ⊞−1 (𝑈 ) è un intorno di (0, 0) in 𝑌 × 𝑌 . Analogamente si prova la continuità del prodotto per uno scalare, da cui seguirà anche la continuità della differenza. Resta da provare che anche 𝑌 è di Hausdorff. Sia ℛ ⊆ 𝑋 × 𝑋 l’insieme formato da tutte le coppie di elementi di 𝑋 che sono fra loro equivalenti. Sia ora (u, v) ∉ ℛ. Ciò significa che u − v ∉ 𝑀. Per la continuità della differenza e per il fatto che 𝑀 è chiuso, esistono un intorno aperto 𝑈 di u e un intorno aperto 𝑉 di v tali che x − y ∉ 𝑀, per ogni x ∈ 𝑈 e ogni y ∈ 𝑉 . Si conclude che è (𝑈 × 𝑉 ) ∩ ℛ = ∅. Abbiamo così dimostrato che ℛ è chiuso. La tesi segue ora dalla Proposizione 6.70.2. Il lettore verifichi per esercizio che, se 𝑀 non è chiuso, allora 𝑌 non è di Hausdorff.
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
320
In generale non è banale lo studio delle proprietà di metrizzabilità degli spazi quoziente (oltre alla normalità ottenuta dal Teorema 6.72). A tale riguardo, segnaliamo un risultato di A. J. Jayanthan e V. Kannan 2 , dove gli Autori dimostrano che: Se 𝑋 è uno spazio metrico, ogni suo quoziente 𝑇2 è metrizzabile, se e solo se 𝒟 𝑋 è compatto (cfr. Capitolo 7). Alla luce dei risultati che abbiamo visto nei casi degli spazi vettoriali (Banach, Hilbert, SVT), è naturale chiedersi se, in generale, in un quoziente di uno spazio metrico è possibile definire in modo “canonico” una distanza che coincida con quella di partenza nel caso dell’equivalenza discreta (uguaglianza). Dati uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) e una relazione di equivalenza ∼ in 𝑋, Consideriamo lo spazio quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/∼ . Dati due elementi di 𝑌 , [𝑢] e [𝑣], chiamiamo catena di estremi [𝑢] e [𝑣] una sequenza finita 𝐶 di elementi di 𝑌 : [𝑢0 ] ∶= [𝑢], [𝑢1 ], … , [𝑢𝑛 ] ∶= [𝑣]. Definiamo poi 𝑛−1 ⎧ ⎫ ⎪ ⎪ 𝑑 ([𝑢], [𝑣]) ∶= inf ⎨ 𝑑(𝑝𝑖 , 𝑞𝑖 ) ∶ 𝑝0 ∈ [𝑢0 ], 𝑞𝑛 ∈ [𝑢𝑛 ], 𝑞𝑖 ∼ 𝑝𝑖+1 ⎬ , ∑ ⎪ ⎪ ⎩ 𝑖=0 ⎭ ′
(6.7)
dove l’estremo inferiore si intende definito su tutte le possibili catene finite di estremi [𝑢] e [𝑣] e tutte le possibili scelte degli elementi 𝑝𝑖 , 𝑞𝑖 . Indicheremo con Σ𝐶 l’insieme delle somme che compaiono nella (6.7) con 𝐶 fissata.
Teorema 6.90. L’applicazione 𝑑 ′ ∶ 𝑌 × 𝑌 → ℝ definita dalla (6.7) è una pseudometrica. Inoltre, per ogni 𝑢, 𝑣 ∈ 𝑋, si ha 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) ≤ 𝑑(𝑢, 𝑣), valendo sempre il segno di “=” se e solo se l’equivalenza in 𝑋 è quella discreta.
Dimostrazione. Si ha banalmente 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) ≥ 0 e 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) = 𝑑 ′ ([𝑣], [𝑢]), quali che siano 𝑢, 𝑣 ∈ 𝑋. Fissiamo tre punti 𝑢, 𝑣, 𝑤 ∈ 𝑋. Unendo una catena 𝐶 ′ di estremi [𝑢], [𝑤] con una 𝐶 ″ di estremi [𝑤], [𝑣] si ottiene una catena 𝐶 ∗ di estremi [𝑢], [𝑣]. Siccome ci sono catene 𝐶 di estremi [𝑢], [𝑣] che non incontrano [𝑤], si ottiene che la distanza 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) è minore uguale dell’estremo inferiore delle somme Σ𝐶 ∗ . Siccome ogni Σ𝐶 ∗ è la somma di una Σ𝐶 ′ con una Σ𝐶 ″ , si ottiene che è anche 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) ≤ Σ𝐶 ′ + Σ𝐶 ″ , da cui 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) ≤ 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑤]) + 𝑑 ′ ([𝑤], [𝑣]). Fissiamo 𝑢, 𝑣 ∈ 𝑋. Fra le catene di estremi 𝑢, 𝑣 c’è anche la catena 𝐶0 ∶= [𝑢], [𝑣]. Le somme Σ𝐶0 si riducono agli elementi 𝑑(𝑝, 𝑞), con 𝑝 ∈ [𝑢], 𝑞 ∈ [𝑣]. Preso 𝑝 ∶= 𝑢 e 𝑞 ∶= 𝑣, si ottiene 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) ≤ 𝑑(𝑢, 𝑣). In particolare, da 𝑢 ∼ 𝑣 si ricava 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) = 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑢]) = 0. Se in 𝑋 esistono due elementi equivalenti 𝑢, 𝑣, si ha 0 = 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) < 𝑑(𝑢, 𝑣). Se l’equivalenza in 𝑋 è quella discreta, dati 𝑢, 𝑣 ∈ 𝑋, per ogni catena 𝐶 di estremi [𝑢], [𝑣], si ha che 𝑑(𝑢, 𝑣) ≤ Σ𝐶 e quindi, per definizione di 𝑑 ′ , si ottiene 𝑑(𝑢, 𝑣) ≤ 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]). 2 A. J. Jayanthan and V. Kannan, Spaces every quotient of weich is metrizable, Proc. Amer. Math. Soc. 103 (1988), 294–298.
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
321
Data su un insieme non vuoto 𝑋 una pseudometrica 𝑑, procedendo come nel caso delle distanze, si possono introdurre le nozioni di palla (aperta o chiusa) e di intorno (cfr. Definizione 3.8). Poi, procedendo come nel caso del Teorema 3.30, di prova che (𝑋, 𝑑) è uno spazio topologico 𝐴1 di cui le palle aperte costituiscono una base. Si constata poi immediatamente che (𝑋, 𝑑) è di Hausdorff se e solo se 𝑑 è una distanza. Si è appena visto che, introducendo su uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) un’equivalenza, il quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/∼ è dotato di una pseudometrica 𝑑 ′ . È naturale chiedersi se si possono dare delle condizioni affinché 𝑑 ′ sia una distanza. Si vede immediatamente che se esiste in 𝑋 un elemento 𝑥 aderente a due classi distinte di equivalenza, il quoziente non può essere uno spazio metrico. Esempio 6.91. Nello spazio metrico (𝐼, 𝑑2 ), con 𝐼 ∶= [0, 1], introduciamo l’equivalenza che identifica tra loro tutti i razionali. Per ogni 𝛼, 𝛽 ∈ 𝐼, si ha 𝑑 ′ ([𝛼], [𝛽]) ≤ 𝑑 ′ ([𝛼], [0]) + 𝑑 ′ ([0], [𝛽]) = 0. La topologia di 𝑌 indotta dalla pseudometrica è dunque quella nulla e coincide con quella quoziente. ◁ Da quanto precede, si ottiene che: Condizione necessaria affinché il quoziente 𝑌 sia uno spazio metrico è che le classi di equivalenza siano insiemi chiusi. Mostriamo con un esempio che questa non è però una condizione sufficiente.
Esempio 6.92. In ℝ2 . Dichiariamo equivalenti, da un lato tutti i punti dell’asse delle ascisse ottenendo la classe [(0, 0)], dall’altro tutti i punti del tipo (𝑥, 𝑒𝑥 ), ottenendo la classe [(0, 1)]; per ogni altro 𝑧 ∈ ℝ2 , si ha [𝑧] = {𝑧}. È immediato che tutte le classi di equivalenza sono insiemi chiusi; tuttavia si ha 𝑑 ′ ([(0, 0)], [(0, 1)]) = 0. ◁
Supponiamo, in fine, che anche 𝑑 ′ sia una metrica. In 𝑌 consideriamo oltre alla topologia quoziente 𝜏𝑞 , anche quella 𝜏𝑑 ′ indotta dalla distanza 𝑑 ′ . Dalla relazione 𝑑 ′ ([𝑢], [𝑣]) ≤ 𝑑(𝑢, 𝑣) del Teorema 6.90, si ottiene che la funzione quoziente 𝑞 ∶ (𝑋, 𝑑) → (𝑌 , 𝑑 ′ ) è continua (addirittura lipschitziana). Siccome, per definizione, 𝜏𝑞 è la più fine topologia di 𝑌 che rende continua la funzione 𝑞, si conclude che è 𝜏𝑑 ′ ⪯ 𝜏𝑞 . Mostriamo con un esempio che può essere 𝜏𝑑 ′ ≠ 𝜏𝑞 .
Esempio 6.93. Sia 𝑋 il sottoinsieme di (ℝ2 , 𝑑2 ) definito da 𝑋 ∶= 𝐼 × ℕ, con 𝐼 ∶= [0, 1]. In 𝑋 introduciamo la relazione di equivalenza ∼ che identifica i punti del tipo (0, 𝑛), ottenendo la classe di equivalenza [(0, 0)]; per ogni altro 𝑧 ∈ 𝑋, si ha [𝑧] = {𝑧}. Proviamo che la corrispondente pseudometrica 𝑑 ′ di 𝑌 ∶= 𝑋/∼ è una distanza. Per ogni (𝑥, 𝑛) ∈ 𝑋, con 𝑥 > 0, si ha 𝑑 ′ ([(𝑥, 𝑛)], [(0, 0)]) = 𝑥. Dati (𝑥, 𝑛) e (𝑦, 𝑚) in 𝑋 si ha che 𝑑 ′ ([(𝑥, 𝑛)], [(𝑦, 𝑚)]) è il minimo fra 𝑑2 ((𝑥, 𝑛), (𝑦, 𝑚)) e 𝑥 + 𝑦, che si annulla se e solo se è (𝑑2 ((𝑥, 𝑛), (𝑦, 𝑚)) = 0) ∨ (𝑥 + 𝑦 = 0) e quindi se e solo se i due punti [(𝑥, 𝑛)], [(𝑦, 𝑚)] coincidono. Proviamo che l’applicazione identica 𝑖 ∶ (𝑌 , 𝑑 ′ ) → (𝑌 , 𝜏𝑞 ) non è continua. Consideriamo il sottoinsieme 𝐴 di 𝑋 definito da 𝐴 ∶=
⋃
𝑛∈ℕ
{(𝑥, 𝑛) ∶ 0 ≤ 𝑥 < 1/(𝑛 + 1)} .
6.3. Spazi unione disgiunta e quoziente
322
𝐴 è un aperto di 𝑋 e si ha 𝐴 = 𝑞 −1 (𝑞(𝐴)). Ne viene che 𝐴′ ∶= 𝑞(𝐴) è un aperto di (𝑌 , 𝜏𝑞 ). Se 𝐴′ fosse aperto anche in (𝑌 , 𝑑 ′ ), dovrebbe esistere un 𝑟 ∈ ]0, 1[ con 𝐵 ∶= 𝐵([(0, 0)], 𝑟) ⊆ 𝐴′ , ma ciò è impossibile. Infatti, per 𝑛 sufficientemente grande, gli elementi del tipo (𝑥, 𝑛) con 0 < 𝑥 < 𝑟 stanno in 𝐵 ma non tutti in 𝐴′ . ◁
7
Compattezza 7.1
Insiemi compatti
In questo capitolo, consideriamo il concetto di compattezza da diversi punti di vista. Tale concetto è uno dei più importanti in Topologia e porta a diverse conseguenze fondamentali nelle sue applicazioni all’Analisi Matematica. (Si pensi soltanto al Teorema di Weierstrass nelle sue diverse versioni, dal caso delle funzioni di una variabile a quello dei funzionali nel Calcolo delle Variazioni.) Per molte applicazioni all’Analisi Matematica, il concetto di compattezza più utilizzato è quello della sequenziale compattezza. Vi sono tuttavia vari casi importanti in cui tale concetto può risultare inadeguato e quindi sia più opportuno considerare una nozione diversa (e spesso più generale) che è quella della compattezza per ricoprimenti. I vari concetti di compattezza che esamineremo nel seguito e che vengono presentati in una forma generale e astratta, da un punto di vista storico, furono introdotti avendo in mente degli esempi “concreti” che appaiono in modo naturale in vari teoremi di Analisi e Geometria, quali la Proprietà di Bolzano-Weierstrass sull’esistenza di sottosuccessioni convergenti, il Lemma di Cantor sulle successioni decrescenti di intervalli chiusi e limitati, il Teorema di Weierstrass sull’esistenza di massimi e minimi per funzioni continue a valori in ℝ, il Teorema di Ascoli-Arzelà sull’esistenza di successioni uniformemente convergenti. L’uso del termine compatto si fa usualmente risalire al matematico francese Maurice Fréchet (1906), che lo introdusse con lo scopo di generalizzare la proprietà di Bolzano-Weierstrass. Il concetto di compattezza per ricoprimenti è dovuto ai matematici russi Pavel Alexandrov e Pavel Urysohn (1929), che lo introdussero con l’idea di dare una definizione più adatta al caso degli spazi topologici. Nel formulare e sviluppare questi concetti, oltre ai matematici Bolzano, Weierstrass, già citati, hanno avuto un ruolo importante anche D. Hilbert, E. Heine, E. Borel, P. Cousin, H. Lebesgue. Cominciamo col ricordare un’osservazione banale, ma utile. In uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), siano dati un sottoinsieme 𝐴 e un punto 𝑥. Se esiste una 323
7.1. Insiemi compatti
324
successione (𝑥𝑛 )𝑛 di punti distinti di 𝐴 convergente a 𝑥, allora il punto 𝑥 è di 𝜔accumulazione per 𝐴. L’implicazione opposta sussiste negli spazi metrici (cfr. Proposizione 3.31.4), ma non per gli spazi topologici qualunque (cfr. Esempio 2.46.2)
Definizione 7.1. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto sequenzialmente compatto se ogni successione di elementi di 𝑋 ammette una sottosuccessione convergente a un punto di 𝑋. ◁ Definizione 7.2. Si dice che in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è verificata la proprietà di Bolzano-Weierstrass se ogni sottoinsieme infinito di 𝑋 ammette almeno un punto di 𝜔-accumulazione. ◁
Teorema 7.3. 1. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) sequenzialmente compatto gode della proprietà di Bolzano-Weierstrass. 2. Uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) con la proprietà di Bolzano-Weierstrass è sequenzialmente compatto.
Dimostrazione. 1. Supponiamo (𝑋, 𝜏) sequenzialmente compatto e diciamo 𝐸 un suo sottoinsieme infinito. È dunque possibile estrarre una successione 𝑆 di elementi distinti di 𝐸. Per ipotesi, esiste una sottosuccessione 𝑆 ′ di 𝑆 convergente a un elemento 𝑧 ∈ 𝑋, che è quindi di 𝜔-accumulazione per 𝐸. 2. Supponiamo che lo spazio metrico (𝑋, 𝑑) soddisfi alla proprietà di Bolzano-Weierstrass e sia 𝑆 = (𝑥𝑛 )𝑛 una successione di punti di 𝑋. Se l’insieme 𝐸 ∶= {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} è finito, 𝑆 ammette una sottosuccessione costante che è, ovviamente, convergente. Se 𝐸 è infinito, ammette, per ipotesi, un punto di 𝜔-accumulazione 𝑧 ∈ 𝑋. Esiste quindi una successione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 di punti distinti di 𝐸 convergente a 𝑧 (Esercizio!). Per avere la tesi, basta prendere una sua sottosuccessione con gli indici 𝑛𝑘1 , 𝑛𝑘2 , … , 𝑛𝑘𝑝 , … crescenti. Osservazione 7.4. Esistono spazi topologici non sequenzialmente compatti che godono della proprietà di Bolzano-Weierstrass (cfr. l’Esempio 7.25). ◁ Definizione 7.5. Sia {𝐸𝛼 }𝛼∈𝐽 una famiglia di sottoinsiemi di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). Diremo che tale famiglia soddisfa alla proprietà dell’intersezione finita se, per ogni sottoinsieme finito 𝐽 ′ di 𝐽 , si ha ⋂𝛼∈𝐽 ′ 𝐸𝛼 ≠ ∅. Si dice che uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) verifica la proprietà (forte) di Cantor se, data comunque una famiglia {𝐶𝛼 }𝛼∈𝐽 di sottoinsiemi chiusi di 𝑋 soddisfacente alla proprietà dell’intersezione finita, si ha ⋂𝛼∈𝐽 𝐶𝛼 ≠ ∅. ◁ Ogni successione di insiemi non vuoti e decrescente per inclusione soddisfa ovviamente alla proprietà dell’intersezione finita.
Esempio 7.6. Sia 𝑋 un insieme infinito e diciamo {𝐸𝑖 }𝑖∈𝐽 la famiglia dei suoi sottoinsiemi cofiniti, ossia aventi complementare finito. Si vede subito che tale famiglia soddisfa alla proprietà dell’intersezione finita. Altrettanto facilmente si vede che l’intersezione di tutti gli 𝐸𝑖 è vuota. ◁
7.1. Insiemi compatti
325
Esempio 7.7. In ℝ𝑛 con la metrica euclidea 𝑑2 non è soddisfatta la proprietà forte di Cantor (Esercizio). Vedremo che un sottospazio (𝑋, 𝑑2 ) la soddisfa se e solo se 𝑋 è chiuso e limitato. ◁
Ricordiamo (cfr. Definizione 3.117) che una famiglia {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 di sottoinsiemi aperti di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detta un ricoprimento aperto di 𝑋 se è ⋃𝛼∈𝐽 𝐴𝛼 = 𝑋. Ogni sottofamiglia {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 ′ (con 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 ) è un sottoricoprimento di 𝑋 se si ha anche ⋃𝛼∈𝐽 ′ 𝐴𝛼 = 𝑋. Se 𝐽 ′ è numerabile [finito], si parla di sottoricoprimento numerabile [risp. finito]. Definizione 7.8. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. (𝑋, 𝜏) è detto compatto se ogni suo ricoprimento aperto ammette un sottoricoprimento finito. (𝑋, 𝜏) è detto numerabilmente compatto se ogni suo ricoprimento aperto e numerabile ammette un sottoricoprimento finito. (𝑋, 𝜏) è detto di Lindelöf se ogni suo ricoprimento aperto ammette un sottoricoprimento numerabile. ◁
Naturalmente, ogni spazio topologico compatto è anche numerabilmente compatto e di Lindelöf. Inversamente, se uno spazio topologico è di Lindelöf e numerabilmente compatto, allora è compatto. (ℝ, 𝑑2 ) è un esempio di spazio topologico di Lindelöf non compatto (cfr. Lemma 7.18). Esistono anche spazi topologici numerabilmente compatti, ma non compatti (cfr. Teorema 7.11; ne daremo un Esempio nel Capitolo sugli ordinali). Esercizio 7.9. Si provi che uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è compatto se e solo se gode della proprietà forte di Cantor. Si esprimano in termini di intersezione di insiemi chiusi anche la numerabile compattezza e la proprietà di Lindelöf. ◁
Per quanto riguarda la Proprietà di Cantor, probabilmente chi legge avrà presente la versione in ℝ𝑛 (cfr. Teorema 3.95). Ne diamo ora una versione generale per spazi topologici (cfr. Esercizio 7.9). Teorema 7.10. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. (Lemma di Cantor) Sia 𝑋 numerabilmente compatto. Allora ogni successione decrescente (𝐶𝑛 )𝑛 di chiusi non vuoti ha intersezione non vuota. 2. Se in 𝑋 ogni successione decrescente (𝐶𝑛 )𝑛 di chiusi non vuoti ha intersezione non vuota, allora 𝑋 è numerabilmente compatto. Dimostrazione. 1. Se, per assurdo, fosse ⋂𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 = ∅, risulterebbe che la famiglia di aperti (𝐴𝑛 )𝑛 , con 𝐴𝑛 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶𝑛 forma un ricoprimento aperto e numerabile di 𝑋. Si osservi inoltre che 𝐴𝑛 ⊆ 𝐴𝑛+1 . L’esistenza di un sottoricoprimento finito, in questo caso, porta a concludere che esiste un 𝑛 ∈ ℕ tale che 𝐴𝑛 = 𝑋, da cui 𝐶𝑛 = ∅. Il punto 2 si prova in modo analogo.
7.1. Insiemi compatti
326
Il punto 1 del precedente teorema generalizza il Teorema 3.95, come risulterà chiaro dal Teorema 7.28. Confrontando la Proposizione 7.10.1 con il Teorema 3.61, vediamo che ci sono due versioni del Lemma di Cantor che riguardano successioni decrescenti di chiusi: una per spazi compatti e una per spazi metrici completi e successioni evanescenti. È facile trovare successioni decrescenti di chiusi con intersezione vuota se vengono a cadere le ipotesi di compattezza o, rispettivamente di evanescenza o completezza. A tale proposito, riconsideriamo gli esempi di successioni (𝐼𝑛 )𝑛 con 𝐼𝑛 ∶= ]0, 1/𝑛] nello spazio metrico (𝑋, 𝜏) ∶= (]0, 1], 𝑑2 ) oppure 𝐼𝑛 ∶= [𝑛, +∞[ nello spazio metrico (𝑋, 𝜏) ∶= (ℝ, 𝑑2 ) (cfr. pag. 128). Teorema 7.11. 1. Uno spazio topologico è numerabilmente compatto se e solo se ha la proprietà di Bolzano-Weierstrass. 2. Teorema di Bolzano-Weierstrass. Ogni spazio topologico compatto ha la proprietà di Bolzano-Weierstrass.
Dimostrazione. 1. Siano: (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico numerabilmente compatto, 𝐸 un suo sottoinsieme infinito e (𝑥𝑛 )𝑛 una successione di elementi distinti di 𝐸. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, siano 𝐵𝑛 ∶= {𝑥𝑚 ∶ 𝑚 ≥ 𝑛} e 𝐶𝑛 ∶= cl 𝐵𝑛 . La famiglia dei 𝐶𝑛 è una successione di chiusi decrescente per inclusione e ha la proprietà dell’intersezione finita. Esiste quindi 𝑤 ∈ ⋂∞ 𝑛=0 𝐶𝑛 . Dunque 𝑤 è aderente a ogni 𝐵𝑛 . In ogni intorno di 𝑤 cadono 𝑥𝑛 con l’indice arbitrariamente grande e, in conclusione, cadono infiniti elementi di 𝐸. Supponiamo, viceversa, che lo spazio topologico (𝑋, 𝜏) abbia la proprietà di Bolzano-Weierstrass e consideriamo una successione (𝐶𝑛 )𝑛 di sottoinsiemi chiusi di 𝑋 con la proprietà dell’intersezione finita. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝐶0 ∩⋯∩𝐶𝑛 . Se l’insieme 𝐸 ∶= {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} è finito, si ha subito che esiste un 𝑤 ∈ ⋂∞ 𝑛=0 𝐶𝑛 . Se 𝐸 è infinito, esiste un elemento 𝑤 di 𝜔-accumulazione per 𝐸. In ogni intorno di 𝑤 cadono infiniti 𝑥𝑛 , ossia elementi di ogni 𝐶𝑛 . Dunque 𝑤 è aderente ad ogni 𝐶𝑛 e quindi appartiene a ciascuno di questi insiemi, dato che essi sono chiusi. La verifica del punto 2 è ora immediata. Dai Teoremi 7.3 e 7.11 si ha immediatamente il seguente risultato.
Teorema 7.12. 1. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) sequenzialmente compatto è numerabilmente compatto. 2. Uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) numerabilmente compatto è sequenzialmente compatto. Vedremo che esistono spazi topologici addirittura compatti, ma non sequenzialmente compatti (cfr. Esempio 7.25).
Definizione 7.13. Si dice che in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) è verificata la proprietà delle 𝜀-reti o che (𝑋, 𝑑) è totalmente limitato se per ogni 𝜀 > 0 esiste un ricoprimento finito di 𝑋 formato da palle aperte di raggio minore o uguale a 𝜀. ◁
7.1. Insiemi compatti
327
Esempio 7.14. Sia 𝑋 ∶= ]0, 1]. Se in 𝑋 introduciamo la distanza euclidea, la proprietà delle 𝜀-reti è soddisfatta. Non così se in 𝑋 introduciamo la distanza 𝑑 definita da 𝑑(𝑥, 𝑦) ∶= | 𝑥1 − 1𝑦 |, ∀𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋. ◁
Osservazione 7.15. Se uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) soddisfa alla proprietà delle 𝜀-reti è limitato. (Esercizio!) Non è però vero il viceversa. Basta prendere un insieme infinito con la distanza discreta. Un altro esempio si ottiene dotando il piano della distanza pettine e prendendo 𝐸 ∶= [0, 1] × [0, 1]. Ciò spiega perché uno spazio metrico con la proprietà delle 𝜀-reti è detto totalmente limitato. ◁ Teorema 7.16. Uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) è sequenzialmente compatto se e solo se è completo e gode della proprietà delle 𝜀-reti.
Dimostrazione. 1. Proviamo intanto che, se 𝑋 è sequenzialmente compatto, allora gode della proprietà delle 𝜀-reti. Procediamo per assurdo e supponiamo che esista un 𝜀∗ tale che non esistano ricoprimenti finiti fatti con palle aperte di raggio minore o uguale a 𝜀∗ . Fissiamo un punto 𝑥1 ; esiste un punto 𝑥2 ∉ 𝐵(𝑥1 , 𝜀∗ ); esiste poi un 𝑥3 ∉ 𝐵(𝑥1 , 𝜀∗ ) ∪ 𝐵(𝑥2 , 𝜀∗ ), e così via: per ogni 𝑛 > 1, esiste un 𝑥𝑛 ∉ 𝐵(𝑥1 , 𝜀∗ ) ∪ 𝐵(𝑥2 , 𝜀∗ ) ∪ ⋯ ∪ 𝐵(𝑥𝑛−1 , 𝜀∗ ). La successione (𝑥𝑛 )𝑛 ha una sottosuccessione convergente a un punto 𝑥∗ ∈ 𝑋. Fissata la palla 𝐵(𝑥∗ , 𝜀∗ /2), esistono due indici 𝑝 e 𝑞, con 𝑝 < 𝑞, tali che 𝑥𝑝 , 𝑥𝑞 ∈ 𝐵(𝑥∗ , 𝜀∗ /2), da cui 𝑑(𝑥𝑝 , 𝑥𝑞 ) < 𝜀∗ . Ne viene che è 𝑥𝑞 ∈ 𝐵(𝑥𝑝 , 𝜀∗ ); ma ciò contraddice il modo con cui sono stati scelti i punti 𝑥𝑛 . 2. Proviamo ora che, se 𝑋 è sequenzialmente compatto, allora è completo. Sia data una successione di Cauchy (𝑥𝑛 )𝑛 . Per la compattezza sequenziale, esiste una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 convergente a un punto 𝑥 ∈ 𝑋. Proviamo che anche la successione (𝑥𝑛 )𝑛 converge a 𝑥. Fissiamo un 𝜀 > 0. Esiste un 𝜈(𝜀) ∈ ℕ tale che da 𝑛1 , 𝑛2 maggiori di 𝜈 segue 𝑑(𝑥𝑛1 , 𝑥𝑛2 ) < 𝜀/2. Siccome la successione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 converge a 𝑥, esiste un 𝑛′ > 𝜈 tale che 𝑑(𝑥𝑛′ , 𝑥) < 𝜀/2. Per 𝑛 > 𝜈, si ha: 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥) ≤ 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑛′ ) + 𝑑(𝑥𝑛′ , 𝑥) < 𝜀. 3. Proviamo, in fine, che se (𝑋, 𝑑) è completo e gode della proprietà delle 𝜀-reti, allora è sequenzialmente compatto. Sia 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋. Se 𝑆 ha una sottosuccessione costante, la tesi è raggiunta. In caso contrario, l’insieme 𝐸 ∶= {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} è infinito. Siccome esiste, per ipotesi un ricoprimento finito di palle aperte di raggio 1, esiste una di queste palle che contiene infiniti punti di 𝐸; indichiamola con 𝐵1 . Dunque 𝐸 ∩ 𝐵1 è infinito. Sempre per ipotesi, esiste un ricoprimento finito fatto con palle aperte di raggio 1 ; esiste perciò una di queste palle che contiene infiniti punti di 𝐸 ∩ 𝐵1 ; sia 2 questa 𝐵2 . Dunque 𝐸 ∩ 𝐵1 ∩ 𝐵2 è infinito. In generale, definite le 𝐵𝑘 per ogni 𝑘 < 𝑛, esiste una palla aperta 𝐵𝑛 di raggio 1𝑛 tale che 𝐸 ∩ 𝐵1 ∩ 𝐵2 ∩ ⋯ ∩ 𝐵𝑛 è infinito. Costruiamo ora una sottosuccessione 𝑆 ′ ∶= (𝑥𝑘𝑛 )𝑛 di 𝑆: 𝑘1 è il minimo indice per cui è 𝑥𝑘1 ∈ 𝐸 ∩ 𝐵1 , 𝑘2 è il minimo indice maggiore di 𝑘1 per cui è 𝑥𝑘2 ∈ 𝐸 ∩ 𝐵1 ∩ 𝐵2 , …, 𝑘𝑛 è il minimo indice maggiore di 𝑘𝑛−1 per cui è 𝑥𝑘𝑛 ∈ 𝐸 ∩ 𝐵1 ∩ 𝐵2 ∩ ⋯ ∩ 𝐵𝑛 . Per costruzione, 𝑆 ′ è una successione di Cauchy ed è quindi convergente ad un punto 𝑧 ∈ 𝑋, dato che lo spazio è completo.
7.1. Insiemi compatti
328
Osservazione 7.17. La completezza o la proprietà delle 𝜀-reti prese singolarmente non implicano la sequenziale compattezza. Lo spazio metrico (ℝ, 𝑑2 ) è completo, ma non gode della proprietà delle 𝜀-reti e non è sequenzialmente compatto. L’intervallo ]0, 1[, con la distanza euclidea gode della proprietà delle 𝜀-reti, ma non è completo e non è sequenzialmente compatto. ◁
Lemma 7.18. 1. Uno spazio metrico è separabile se e solo se è uno spazio di Lindelöf. 2. Ogni spazio metrico compatto è separabile.
Dimostrazione. 1. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico separabile ed 𝐸 un suo sottoinsieme numerabile e denso in 𝑋. Supponiamo assegnato un ricoprimento aperto {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 di 𝑋. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esistono un 𝛼(𝑥) ∈ 𝐽 ed una palla 𝐵(𝑥, 𝜀) tali che 𝑥 ∈ 𝐵(𝑥, 𝜀) ⊆ 𝐴𝛼(𝑥) . Per la densità di 𝐸 in 𝑋, esistono un 𝑤(𝑥) ∈ 𝐸 e un 𝑛 ∈ ℕ+ tali che 𝑥 ∈ 𝐵(𝑤(𝑥), 1/𝑛) ⊆ 𝐵(𝑥, 𝜀) ⊆ 𝐴𝛼(𝑥) . Ora l’insieme delle palle 𝐵(𝑤(𝑥), 1/𝑛), con 𝑥 ∈ 𝑋 e 𝑛 ∈ ℕ+ , così trovate costituisce un ricoprimento aperto e numerabile di 𝑋; pensiamo i suoi elementi ordinati in successione: 𝐵1 , 𝐵2 , … , 𝐵𝑛 , … Ad ogni 𝑛 ∈ ℕ+ associamo un 𝛼(𝑛) ∈ 𝐽 tale che 𝐵𝑛 ⊆ 𝐴𝛼(𝑛) . La famiglia {𝐴𝛼(𝑛) }𝑛∈ℕ+ costituisce un sottoricoprimento numerabile di quello dato. Supponiamo, viceversa, che lo spazio (𝑋, 𝑑) sia di Lindelöf. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, consideriamo la palla aperta 𝐵(𝑥, 1). La famiglia {𝐵(𝑥, 1)}𝑥∈𝑋 è un ricoprimento aperto di 𝑋. Essendo lo spazio 𝑋 di Lindelöf, esiste un sottoricoprimento numerabile {𝐵11 (𝑥11 , 1), 𝐵21 (𝑥12 , 1), … , 𝐵𝑛1 (𝑥1𝑛 , 1), … }. Poniamo 𝐸1 ∶= 1 + + {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ }. Analogamente, per ogni 𝑚 ∈ ℕ , la famiglia delle palle aper1 te {𝐵(𝑥, /𝑚) ∶ 𝑥 ∈ 𝑋} costituisce un ricoprimento aperto di 𝑋; esiste quindi 𝑚 𝑚 1 1 un sottoricoprimento numerabile {𝐵1𝑚 (𝑥𝑚 1 , /𝑚), … , 𝐵𝑛 (𝑥𝑛 , /𝑚), … }. Poniamo 𝑚 + 𝐸𝑚 ∶= {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ }. Si vede subito che l’insieme 𝐸 ∶= ⋃𝑚∈ℕ+ 𝐸𝑚 è un sottoinsieme numerabile e denso di 𝑋. La 2, a questo punto, è immediata. Si noti che per gli spazi topologici, separabilità e proprietà di Lindelöf sono indipendenti (cfr. Esempi 7.23, 7.57 e 7.58). Teorema 7.19. Uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) è sequenzialmente compatto se e solo se è compatto.
Dimostrazione. 1. Per provare il “se”, basta osservare che, se (𝑋, 𝑑) è compatto, allora gode della proprietà di Bolzano-Weierstrass (cfr. Proposizione 7.11.2) ed è quindi sequenzialmente compatto (cfr. Proposizione 7.3.2). 2. Passiamo all’implicazione opposta e proviamo che Ogni spazio metrico (𝑋, 𝑑) sequenzialmente compatto è separabile. Godendo 𝑋 della proprietà delle 𝜀-reti (Teorema 7.16), si ha che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , esistono 𝑘𝑛 palle aperte di raggio 1/𝑛 ricoprenti 𝑋. Diciamo ℬ l’insieme di tutte queste palle ed 𝐸 quello dei loro centri; 𝐸 è dunque un insieme del tipo {𝑥𝑛𝑗 ∶ (𝑗 = 1, 2, … , 𝑘𝑛 ) ∧ (𝑛 ∈ ℕ+ )}.
7.1. Insiemi compatti
329
𝐸 è ovviamente numerabile; proviamo che è cl 𝐸 = 𝑋. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑋 e un suo intorno aperto 𝐴. Esiste una palla 𝐵(𝑥, 𝜀) contenuta in 𝐴. Sia ora 𝑘𝑛 𝑛 un naturale tale che 1/𝑛 < 𝜀/2. Essendo 𝑥 ∈ ⋃𝑗=1 𝐵(𝑥𝑛𝑗 , 1/𝑛), ne viene che esiste un 𝑗 ∗ tale che 𝑥 ∈ 𝐵(𝑥𝑛𝑗 ∗ , 1/𝑛); si ottiene 𝐵(𝑥𝑛𝑗 ∗ , 1/𝑛) ⊆ 𝐵(𝑥, 𝜀) ⊆ 𝐴; di conseguenza, c’è almeno un punto di 𝐸 che appartiene a 𝐵(𝑥, 𝜀) e quindi ad 𝐴. In conclusione, se (𝑋, 𝑑) è sequenzialmente compatto, allora è separabile e quindi di Lindelöf (Lemma 7.18). Essendo d’altra parte (𝑋, 𝑑) numerabilmente compatto (Proposizione 7.12.1), si conclude che esso è anche compatto. Riassumendo, si ha il
Corollario 7.20. Per uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. (𝑋, 𝑑) è compatto. 2. In (𝑋, 𝑑) vale la proprietà forte di Cantor. 3. In (𝑋, 𝑑) vale il Lemma di Cantor. 4. (𝑋, 𝑑) è numerabilmente compatto. 5. (𝑋, 𝑑) è sequenzialmente compatto. 6. In (𝑋, 𝑑) vale la proprietà di Bolzano-Weierstrass. 7. (𝑋, 𝑑) è completo e gode della proprietà delle 𝜀-reti.
Per gli spazi metrici non ha dunque senso distinguere fra questi tipi di compattezza. Un altro risultato interessante sugli spazi metrici è quello che segue. Teorema 7.21. Per uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. (𝑋, 𝑑) è secondo numerabile (𝐴2 ). 2. (𝑋, 𝑑) è di Lindelöf. 3. (𝑋, 𝑑) è separabile. 4. (𝑋, 𝑑) è ereditariamente separabile.
Dimostrazione. L’equivalenza fra 1 e 3 è data dalla Proposizione 3.116.1; quella fra 2 e 3 è stata vista nel Lemma 7.18; in fine, quella fra 3 e 4 è espressa dalla Proposizione 3.116.2. Osservazione 7.22. Si constata facilmente che: In uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) sussiste la proprietà delle 𝜀-reti se e solo se, per ogni 𝜀 > 0, esiste un insieme finito 𝐸𝜀 tale che ogni 𝑥 ∈ 𝑋 dista meno di 𝜀 da almeno un elemento di 𝐸𝜀 . Analogamente, uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) è separabile se e solo se esiste un sottoinsieme numerabile 𝐸 ⊆ 𝑋 tale che, fissato un 𝜀 > 0, ogni 𝑥 ∈ 𝑋 dista meno di 𝜀 da almeno un elemento di 𝐸. ◁
7.1. Insiemi compatti
330
Come già detto, per gli spazi topologici, separabilità e proprietà di Lindelöf sono indipendenti; per questi spazi sono parimenti indipendenti anche la compattezza e la compattezza sequenziale. Non sono invece indipendenti l’assioma 𝐴2 e la proprieà di Lindelöf (cfr. Lemma 7.61).
Esempio 7.23. Definiamo in ℝ la seguente topologia 𝜏. I punti razionali son tutti isolati. Una base di intorni di un punto 𝛼 irrazionale è data dagli insiemi del tipo {𝛼} ∪ (]𝛼 − 𝛿, 𝛼 + 𝛿[ ∩ℚ). Si vede facilmente che ℚ è denso in ℝ, ma che (ℝ, 𝜏) non ha la proprietà di Lindelöf. ◁
Esempio 7.24. Un altro esempio di spazio non Lindelöf è dato da ℝ con la topologia data dall’estensione irrazionale discreta di 𝜏𝑒 (cfr. Osservazione 6.42). Per vedere ciò, ordiniamo gli elementi di ℚ in successione: ℚ ∶= {𝑞𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }. Quindi, prendiamo in (ℝ, 𝜎) il ricoprimento aperto dato dai singoletti di ℚ′ ∶= ℝ ⧵ℚ e dagli intervalli aperti ]𝑞𝑛 −2−𝑛 , 𝑞𝑛 +2−𝑛 [. Si verifica che tale ricoprimento non ammette un sottoricoprimento numerabile. ◁ Esempio 7.25 (Il Cubo di Hilbert). 1 Sia 𝑋 ∶= {0, 1}𝐼 l’insieme di tutte le applicazioni di 𝐼 ∶= [0, 1] nell’insieme 𝑌 ∶= {0, 1} dotato della topologia discreta. In 𝑋 introduciamo la topologia prodotto 𝜏. Dunque ∅ ∈ 𝜏; sono inoltre aperti gli insiemi formati dalle funzioni che assumono valori prefissati nei punti di un sottoinsieme finito 𝐽 di 𝐼 e le loro unioni arbitrarie. Partendo da 𝐽 = ∅, si trova tutto 𝑋. Per il Teorema di Tychonoff che proveremo più avanti in questo paragrafo (cfr. Teorema 7.37), lo spazio topologico (𝑋, 𝜏) è compatto. Proviamo che esso non è sequenzialmente compatto. Una successione (𝑓𝑛 )𝑛 di elementi di 𝑋 converge a un elemento 𝑓 ∈ 𝑋 se e solo se, per ogni 𝑥 ∈ 𝐼 la successione numerica (𝑓𝑛 (𝑥))𝑛 assume definitivamente il valore costante 𝑓 (𝑥). Rappresentiamo gli elementi di 𝐼 in base 2. Dunque ogni elemento 𝑥 ∈ 𝐼 è espresso nella forma 𝑥 = 0, 𝑎1 (𝑥)𝑎2 (𝑥) … 𝑎𝑛 (𝑥) …, dove ogni 𝑎𝑛 (𝑥) può assumere o il valore 0 o il valore 1. Consideriamo ora la successione (𝑓𝑛 )𝑛 definita da 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 𝑎𝑛 (𝑥) e proviamo che essa non ha sottosuccessioni convergenti. In vero, data la sottosuccessione (𝑓𝑛𝑘 )𝑘 , consideriamo il punto 𝑥 = 0, 𝑎1 (𝑥)𝑎2 (𝑥) … 𝑎𝑚 (𝑥) … con 𝑎𝑛𝑘 (𝑥) = 12 [1 + (−1)𝑘 ] e 𝑎𝑚 = 0 per gli altri valori di 𝑚. Siccome la successione 𝑓𝑛𝑘 (𝑥) non è definitivamente costante, la successione (𝑓𝑛𝑘 )𝑘 non può convergere ad alcun elemento di 𝑋. Essendo compatto, (𝑋, 𝜏) ha la proprietà di Bolzano-Weierstrass, (Proposizione 7.11.2) pur non essendo sequenzialmente compatto. ◁ Un altro esempio di spazio compatto non sequenzialmente compatto è dato dallo spazio 𝛽ℕ che verrà presentato nel Capitolo 10 sulle compattificazioni
Nell’Esempio 6.19, abbiamo introdotto il cubo di Hilbert come lo spazio prodotto 𝐼 ℕ . Alcuni Autori considerano una versione generalizzata di cubo di Hilbert del tipo 𝐼 𝐼 , sempre con la topologia della convergenza puntuale. Il caso che trattiamo nel presente esempio è chiaramente un sottospazio di 𝐼 𝐼 . 1
+
7.1. Insiemi compatti
331
(cfr. Corollario 10.64). Gli altri controesempi verranno prodotti più avanti (cfr. Esempi 7.57, 7.58; un esempio di spazio sequenzialmente compatto ma non compatto verrà dato nel Capitolo sugli ordinali). Teorema 7.26. In uno spazio metrico (𝑋, 𝑑), ogni sottoinsieme compatto 𝐾 è chiuso e limitato.
Dimostrazione. Se 𝐾 non è chiuso, esiste 𝑧 ∈ (cl 𝐾) ⧵ 𝐾. Esiste una successione (𝑥𝑛 )𝑛 di punti distinti di 𝐾 che converge a 𝑧. Ogni sua sottosuccessione deve convergere ancora a 𝑧 e non può avere quindi limite in 𝐾; ma ciò va contro il fatto che questo insieme è compatto. Supponiamo ora 𝐾 illimitato e fissiamo un suo elemento 𝑧. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝐾 tale che 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑧) > 𝑛. Proviamo che la successione (𝑥𝑛 )𝑛 così ottenuta è priva di sottosuccessioni convergenti in 𝐾. Supponiamo, per assurdo, che esista una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 convergente a un elemento 𝑤 ∈ 𝐾. Si ottiene 𝑑(𝑥𝑛𝑘 , 𝑤) → 0. Ma si ha 𝑑(𝑥𝑛𝑘 , 𝑧) ≤ 𝑑(𝑥𝑛𝑘 , 𝑤) + 𝑑(𝑤, 𝑧) → 𝑑(𝑤, 𝑧), mentre sappiamo che la successione di termine generale 𝑑(𝑥𝑛𝑘 , 𝑧) diverge. E ciò va ancora contro la compattezza di 𝐾. Non sussiste l’implicazione opposta del precedente teorema.
Esempio 7.27. Nello spazio metrico ℚ, con la distanza euclidea, si consideri l’insieme 𝐾 ∶= {𝑥 ∶ 0 ≤ 𝑥 ≤ 4}. Chiaramente, 𝐾 è chiuso e limitato in ℚ. 𝑛 Ora però la successione di termine generale (1 + 1𝑛 ) ∈ 𝐾 non ha in 𝐾 alcuna sottosuccessione convergente. Dunque 𝐾 non è compatto. ◁
Teorema 7.28 (di Borel). In ℝ𝑛 , dotato della distanza euclidea, sono compatti tutti e soli gli insiemi chiusi e limitati. Dimostrazione. In virtù del teorema precedente, basta provare il “tutti”. Fissiamo dunque un sottoinsieme chiuso e limitato 𝐾 di ℝ𝑛 e diciamo 𝐸 un suo sottoinsieme infinito. Essendo 𝐸 un sottoinsieme infinito e limitato di ℝ𝑛 , ammette, per il Teorema di Bolzano-Weierstrass, (cfr. Teorema 3.96) un punto di 𝜔-accumulazione che deve appartenere a 𝐾, dato che questo è chiuso. Dunque 𝐾 ha la proprietà di Bolzano-Weierstrass ed è quindi compatto per il Corollario 7.20. Un risultato analogo a quello del Teorema 7.26 vale anche per gli SVT. Anche se lo spazio in questione non è metrizzabile, nella definizione 5.32 abbiamo introdotto un concetto di limitatezza che coincide con quello usuale quando l’SVT è metrizzabile. Teorema 7.29. Sia 𝑋 uno SVT. I compatti di 𝑋 sono insiemi chiusi e limitati.
7.1. Insiemi compatti
332
Dimostrazione. Sia 𝐶 un compatto di 𝑋. 𝐶 è chiuso perché 𝑋 è 𝑇2 (cfr. Proposizione 7.30.2). Fissiamo un elemento x ∈ 𝑋 e un intorno aperto, assorbente e bilanciato 𝑈 di 0. Esiste 𝜆 > 0 tale che 𝜆x ∈ 𝑈 , da cui x ∈ (1/𝜆)𝑈 . Per ogni x ∈ 𝐶, sia 𝛼x > 0 tale che x ∈ 𝛼x 𝑈 . La famiglia {𝛼x 𝑈 ∶ x ∈ 𝐶 } è un ricoprimento aperto di 𝐶. Esiste un sottoricoprimento finito 𝛼1 𝑈 , … , 𝛼𝑘 𝑈 . Posto 𝛽 ∶= max{𝛼1 , … , 𝛼𝑘 }, si ha 𝐶 ⊆ 𝛽𝑈 . Teorema 7.30. Sia dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). 1. Se 𝑋 è compatto, ogni sottoinsieme chiuso 𝐾 di 𝑋 è compatto. 2. Se 𝑋 è di Hausdorff, ogni suo sottoinsieme compatto 𝐾 è chiuso. 3. Se 𝑋 è compatto e 𝑇2 , allora i sottoinsiemi compatti di 𝑋 sono tutti e soli quelli chiusi.
Dimostrazione. 1. Sia {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝐾 e diciamo 𝐴 il complementare di 𝐾 in 𝑋. La famiglia {𝐴} ∪ {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 è un ricoprimento aperto di 𝑋. Essendo 𝑋 compatto, esiste un suo sottoricoprimento finito, da cui, togliendo eventualmente 𝐴 si ottiene un sottoricoprimento finito di 𝐾. 2. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐾 arbitrario. Per ogni 𝑧 ∈ 𝐾, esistono un intorno aperto 𝐴𝑧 di 𝑧 e un intorno aperto 𝐵𝑧 di 𝑥 fra loro disgiunti. Gli 𝐴𝑧 costituiscono un ricoprimento aperto di 𝐾; essendo questo compatto, esiste un sottoricoprimento finito 𝐴𝑧1 , 𝐴𝑧2 , …𝐴𝑧𝑛 . L’insieme 𝐵𝑧1 ∩ 𝐵𝑧2 ∩ … ∩ 𝐵𝑧𝑛 è un intorno aperto di 𝑥 in cui non cadono punti di 𝐾. Dunque è 𝑥 ∉ cl 𝐾 e, pertanto, 𝐾 è chiuso. 3. Segue immediatamente dai punti precedenti.
Osservazione 7.31. Osserviamo che, se 𝑋 non è 𝑇2 , la 2 non sussiste. Basta prendere 𝑋 ∶= ℕ ∪ {𝑝, 𝑞}, dove i punti di ℕ sono isolati e una base di intorni di 𝑝 [di 𝑞] è data dagli insiemi del tipo {𝑝}∪{𝑛 ∶ 𝑛 > 𝑘} [del tipo {𝑞}∪{𝑛 ∶ 𝑛 > 𝑘}]. Lo spazio 𝑥 è 𝑇1 , ma non 𝑇2 . L’insieme ℕ ∪ {𝑝} è compatto e sequenzialmente compatto, ma non chiuso. ◁ Teorema 7.32. 1. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇2 , 𝐶 ⊆ 𝑋 compatto e 𝑧 ∈ 𝑋 ⧵𝐶. Esistono allora due aperti disgiunti che separano 𝐶 e 𝑧. 2. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇3 , 𝐶 ⊆ 𝑋 compatto e 𝐷 ⊆ 𝑋 ⧵𝐶 chiuso. Esistono allora due aperti disgiunti che separano 𝐶 e 𝐷. 3. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇3 , 𝐶 ⊆ 𝑋 compatto e 𝐴 ⊆ 𝑋 aperto contenente 𝐶. Esiste allora un aperto 𝑈 tale che 𝐶 ⊆ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝐴. 4. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇 1 , 𝐶 ⊆ 𝑋 compatto e 𝐷 ⊆ 𝑋 ⧵ 𝐶 chiuso. Esiste 3
2
allora una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝐼(∶= [0, 1]), tale che 𝑓 (𝐶) = {0} e 𝑓 (𝐷) = {1}.
Dimostrazione. 1. Per ogni 𝑐 ∈ 𝐶, esistono due aperti disgiunti 𝐴𝑐 e 𝐵𝑐 contenenti, rispettivamente, 𝑐 e 𝑧. Gli 𝐴𝑐 costituiscono un ricoprimento aperto del compatto 𝐶, dal quale si può estrarre un sottoricoprimento finito 𝐴𝑐1 , … , 𝐴𝑐𝑘 .
7.1. Insiemi compatti
333
Gli insiemi 𝐴 ∶= 𝐴𝑐1 ∪ ⋯ ∪ 𝐴𝑐𝑘 e 𝐵 ∶= 𝐵𝑐1 ∩ ⋯ ∩ 𝐴𝑐𝑘 so due aperti che separano 𝐶 e 𝑧. 2. Si prova in modo analogo. 3. Siccome 𝑋 è 𝑇3 , per ogni 𝑐 ∈ 𝐶 esiste un aperto 𝑈𝑐 tale che 𝑐 ∈ 𝑈𝑐 ⊆ cl 𝑈𝑐 ⊆ 𝐴. Gli 𝑈𝑐 costituiscono un ricoprimento aperto del compatto 𝐶, dal quale si può estrarre un sottoricoprimento finito 𝑈𝑐1 , … , 𝑈𝑐𝑘 . Si ottiene 𝐶 ⊆ 𝑈 ∶= 𝑈𝑐1 ∪ ⋯ ∪ 𝑈𝑐𝑘 ⊆ cl 𝑈 = cl 𝑈𝑐1 ∪ ⋯ ∪ cl 𝑈𝑐𝑘 ⊆ 𝐴.
4. Per l’ipotesi su 𝑋, si ha che, per ogni 𝑐 ∈ 𝐶, esiste una funzione continua 𝑓𝑐 ∶ 𝑋 → 𝐼 tale che 𝑓𝑐 (𝑐) ∶= 0 e 𝑓𝑐 (𝑥) ∶= 1, ∀𝑥 ∈ 𝐷. Fissato un 𝜀 ∈ ]0, 1/2[, poniamo 𝐴𝑐 ∶= 𝑓𝑐−1 (] − 𝜀, 𝜀[). La famiglia 𝒜 ∶= {𝐴𝑐 }𝑐∈𝐶 costituisce un ricoprimento aperto del compatto 𝐶. Esiste quindi un sottoricoprimento finito 𝐴𝑐1 , … , 𝐴𝑐𝑘 . A questo punto, sia 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝐼 la funzione continua definita da 𝑔(𝑥) ∶= 𝑓𝑐1 (𝑥) ∧ ⋯ ∧ 𝑓𝑐𝑘 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋. Si ha chiaramente 0 ≤ 𝑔(𝑥) < 𝜀 < 1/2, ∀𝑥 ∈ 𝐶,
𝑔(𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐷.
Si vede, in fine, che la funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝐼 definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 0 ∨ (2𝑔(𝑥) − 1) assume il valore 0 nei punti di 𝐶 e il valore 1 in quelli di 𝐷. I risultati di questo teorema ci dicono che, in certe circostanze, i compatti si comportano come dei ”punti”. Teorema 7.33. Ogni spazio topologico che sia compatto e di Hausdorff è normale.
Dimostrazione. Siano 𝐶, 𝐷 due chiusi disgiunti di 𝑋. Essi sono due sottospazi compatti. Fissiamo un 𝑐 ∈ 𝐶. Per ogni 𝑑 ∈ 𝐷, esistono due aperti disgiunti 𝐴𝑐 contenente 𝑐 e 𝐵𝑑 contenente 𝑑. La famiglia {𝐵𝑑 }𝑑∈𝐷 è un ricoprimento aperto di 𝐷. Essendo questo compatto, esiste un sottoricoprimento finito 𝐵𝑑1 , … 𝐵𝑑𝑘 . L’insieme 𝑉𝑐 ∶= 𝐵𝑑1 ∪ ⋯ ∪ 𝐵𝑑𝑘 è un aperto contenente 𝐷 e disgiunto dall’aperto 𝑈𝑐 ∶= 𝐴𝑐1 ∩ ⋯ ∩ 𝐴𝑐𝑘 contenente 𝑐. Dunque, per ogni 𝑐 ∈ 𝐶, esistono un aperto 𝑈𝑐 contenente 𝑐 e un aperto 𝑉𝑐 contenente 𝐷 fra loro disgiunti. La famiglia {𝑈𝑐 }𝑐∈𝐶 è un ricoprimento aperto di 𝐶. Essendo questo compatto, esiste un sottoricoprimento finito 𝑈𝑐1 , … 𝑈𝑐ℎ . Siano 𝑈 ∶= 𝑈𝑐1 ∪ ⋯ ∪ 𝑈𝑐ℎ e 𝑉 ∶= 𝑉𝑐1 ∩ ⋯ ∩ 𝑉𝑐ℎ . 𝑈 e 𝑉 sono due aperti disgiunti contenenti rispettivamente 𝐶 e 𝐷. Teorema 7.34. Ogni spazio topologico (𝑋, 𝜏) che sia 𝐴1 , 𝑇2 e numerabilmente compatto è regolare.
Dimostrazione. Ogni 𝑥 ∈ 𝑋 ammette una base numerabile di intorni aperti (𝑈𝑥,𝑛 )𝑛 , che posiamo supporre decrescente per inclusione. Fissiamo in 𝑋 un chiuso 𝐶 e un punto 𝑧 ∉ 𝐶. Per ogni 𝑐 ∈ 𝐶, esiste un indice 𝑛(𝑐) tale che 𝑈𝑧,𝑛(𝑐) ∩ 𝑈𝑐,𝑛(𝑐) = ∅. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝑉𝑛 ∶= ⋃𝑐∈𝐶 𝑈𝑐,𝑛(𝑐) . I 𝑉𝑛 non vuoti
7.1. Insiemi compatti
334
formano un ricoprimento aperto e numerabile 𝒱 di 𝐶. Aggiungendo l’aperto 𝑋 ⧵ 𝐶 si ottiene un ricoprimento aperto e numerabile 𝒱 ′ di 𝑋. Essendo questo numerabilmente compatto, da 𝒱 ′ si può estrarre un sottoricoprimento finito 𝒱0′ di 𝑋. Togliendo da 𝒱0′ l’aperto 𝑋 ⧵ 𝐶, se c’è, si ottiene un ricoprimento finito 𝒱0 di 𝐶 che è un sottoricoprimento di 𝒱 . Sia 𝒱0 =∶ 𝑉𝑛1 , … , 𝑉𝑛𝑝 . Si ponga, in fine, 𝑉 ∶= 𝑉𝑛1 ∪ ⋯ ∪ 𝑉𝑛𝑝 e 𝑈 ∶= 𝑈𝑛1 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑛𝑝 . 𝑈 e 𝑉 sono due aperti disgiunti contenenti, rispettivamente 𝑧 e 𝐶. Nel corso dell’ultima dimostrazione, abbiamo anche visto che Un sottospazio chiuso di uno spazio numerabilmente compatto è ancora numerabilmente compatto.
Teorema 7.35 (di compattezza). Sia 𝑓 un’applicazione di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) in uno spazio topologico (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ). 1. Se 𝑓 è continua e 𝑋 è compatto, allora è compatto anche 𝑓 (𝑋). 2. Se 𝑓 è sequenzialmente continua o, in particolare, continua (cfr. pag. 64) e 𝑋 è sequenzialmente compatto, allora è tale anche 𝑓 (𝑋). Dimostrazione. 1. Sia dato un ricoprimento aperto {𝐵𝛼 }𝛼∈𝐽 di 𝑓 (𝑋). Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , sia 𝐴𝛼 ∶= 𝑓 −1 (𝐵𝛼 ). Gli 𝐴𝛼 sono aperti e formano un ricoprimento di 𝑋. Essendo 𝑋 compatto esiste un sottoricoprimento finito {𝐴1 , 𝐴2 , … , 𝐴𝑛 }. Questi sono le controimmagini di altrettanti 𝐵𝑖 che formano un sottoricoprimento finito di quello dato. 2. Sia data una successione (𝑦𝑛 )𝑛 di elementi di 𝑓 (𝑋). Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste un elemento 𝑥𝑛 ∈ 𝑋 tale che 𝑓 (𝑥𝑛 ) = 𝑦𝑛 . Essendo 𝑋 sequenzialmente compatto, la successione (𝑥𝑛 )𝑛 deve ammettere una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 convergente a un elemento 𝑥 ∈ 𝑋. Per la sequenziale continuità di 𝑓 (cfr. Definizione 2.60) la sottosuccessione (𝑓 (𝑥𝑛𝑘 ))𝑘 di (𝑦𝑛 )𝑛 deve convergere a 𝑓 (𝑥) ∈ 𝑓 (𝑋).
Dal Teorema di compattezza e dal Teorema 7.30 si ottiene il seguente risultato. Teorema 7.36 (di omeomorfismo). Siano 𝑋 e 𝑌 due spazi topologici, con 𝑋 compatto e 𝑌 di Hausdorff. Se 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 è continua e biiettiva, allora anche 𝑓 −1 è continua, ossia 𝑓 è un omeomorfismo. In particolare, se 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑌 , con 𝑌 spazio topologico 𝑇2 , è continua e iniettiva, allora l’insieme immagine 𝛾([0, 1]) è omeomorfo a [0, 1].
Dimostrazione. Basta provare che la controimmagine mediante 𝑓 −1 di un chiuso 𝐾 ⊆ 𝑋 è un chiuso di 𝑌 , ossia che 𝑓 porta insiemi chiusi in insiemi chiusi. Sia dunque 𝐾 un chiuso di 𝑋. Essendo 𝑋 compatto, è tale anche 𝐾 (Proposizione 7.30.1). Per il Teorema di compattezza, anche 𝑓 (𝐾) è compatto e quindi chiuso, dato che 𝑌 è di Hausdorff (Proposizione 7.30.2).
7.1. Insiemi compatti
335
Proviamo ora il preannunciato Teorema di Tychonoff. Useremo l’abbreviazione PIF in luogo di “proprietà dell’intersezione finita”.
Teorema 7.37 (di Tychonoff). Sia {𝑋𝛼 }𝛼∈𝐽 una famiglia di spazi topologici e sia 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 con la topologia prodotto. Se gli spazi 𝑋𝛼 sono compatti, allora anche 𝑋 è compatto.
Dimostrazione. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , sia 𝑝𝛼 ∶ 𝑋 → 𝑋𝛼 la proiezione 𝛼-ima. Una base della topologia 𝜏 di 𝑋 è data dalle intersezioni di un numero finito di insiemi del tipo 𝑝−1 𝛼 (𝐴𝛼 ), essendo 𝐴𝛼 un aperto di 𝑋𝛼 . Sia 𝒞 una famiglia di chiusi di 𝑋 con la PIF. Per il Lemma di Zorn, esiste una famiglia ℬ di sottoinsiemi di 𝑋 (non necessariamente chiusi) contenente 𝒞 , ancora con la PIF e che sia massimale rispetto all’inclusione. Ne viene che ℬ è stabile rispetto all’intersezione finita, che se contiene un insieme contiene anche ogni suo soprainsieme e che, se un sottoinsieme di 𝑋 interseca ogni elemento di ℬ, allora appartiene anch’esso a ℬ. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , sia ℬ𝛼 la famiglia dei sottoinsiemi di 𝑋𝛼 del tipo 𝑝𝛼 (𝐵), con 𝐵 ∈ ℬ. Anche le famiglie ℬ𝛼 hanno la PIF. Essendo ogni 𝑋𝛼 compatto, esiste, sempre per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , un 𝑥𝛼 ∈ ⋂𝐵∈ℬ cl(𝑝𝑎 (𝐵)). Sia 𝑥 ∈ 𝑋 il punto di coordinate 𝑥𝛼 . Proviamo che in ogni intorno aperto 𝐴 di 𝑥 cadono punti di 𝐵, per ogni 𝐵 ∈ ℬ. Sia intanto 𝐴 = 𝑝−1 𝛼 ∗ (𝐴𝛼 ∗ ) = 𝐴𝛼 ∗ × ∏𝛼∈𝐽 ⧵{𝛼 ∗ } 𝑋𝛼 , con 𝐴𝛼 ∗ aperto di 𝑋𝛼 ∗ e contenente 𝑥𝛼∗ , 𝛼 ∗ ∈ 𝐽 . Poiché 𝑥𝛼∗ ∈ cl(𝑝𝛼∗ (𝐵)), per ogni 𝐵 ∈ ℬ, in 𝐴 cadono punti di 𝐵, ancora per ogni 𝐵 ∈ ℬ. Per la massimalità di ℬ si ottiene 𝐴 ∈ ℬ. Ne viene che tutti gli aperti di 𝑋 contenenti 𝑥 stanno in ℬ. In particolare, si ha che ogni intorno aperto di 𝑥 interseca ogni 𝐶 ∈ 𝒞 ; è dunque 𝑥 ∈ cl 𝐶 = 𝐶, per ogni 𝐶 ∈ 𝒞 , da cui ⋂𝛼∈𝐽 𝐶𝛼 ≠ ∅. Si provi, per esercizio, che il Teorema di Tychonoff è invertibile. Un’immediata conseguenza del teorema appena visto e del Teorema 7.33 è quella espressa dal seguente esempio.
Esempio 7.38. Siano 𝐼 ∶= [0, 1] con la topologia ordinaria e 𝑋 ∶= 𝐼 𝐼 dotato della topologia prodotto che è quella della convergenza puntuale. Tale spazio è compatto e di Hausdorff (cfr. Teoremi 7.37 e 6.37) e quindi normale (cfr. Teorema 7.33). Ricordiamo a questo proposito che nell’Esempio 6.39 abbiamo fatto vedere che questo spazio non è completamente normale. ◁ Dai Teoremi di compattezza e di Borel, si ottiene subito il seguente risultato, la cui dimostrazione è lasciata per esercizio al lettore. Teorema 7.39 (di Weierstrass). Una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐾 → ℝ, con 𝐾 spazio topologico compatto, assume un valore massimo e uno minimo.
Una analogo risultato si ha anche quando il dominio è uno spazio numerabilmente compatto (cfr. Teorema 8.65).
7.1. Insiemi compatti
336
Vogliamo a questo punto dare una risultato che esprime la compattezza per ricoprimenti mediante la convergenza di ultrafiltri. Già nel paragrafo 1.2, Definizione 1.18, abbiamo introdotto la nozione di filtro e quella del loro ordine (parziale) per finezza.
Definizione 7.40. Data 𝒢 ⊆ 𝒫 (𝑋), diremo che 𝒢 è una base di filtro se sono soddisfatte le seguenti proprietà BF1 𝒢 ≠ ∅ e 𝐺 ≠ ∅, ∀𝐺 ∈ 𝒢 . BF2 Se è 𝐺1 , 𝐺2 ∈ 𝒢 , allora esiste 𝐺 ∈ 𝒢 tale che 𝐺 ⊆ 𝐺1 ∩ 𝐺2 . ◁ Una famiglia 𝒢 non vuota di sottoinsiemi non vuoti di 𝑋 genera un filtro su 𝑋, nel senso che esiste un filtro su 𝑋 che la contiene, se e solo se tale famiglia gode della proprietà dell’intersezione finita. In tal caso, esiste un filtro ℱ , minimo rispetto alla relazione di inclusione, che contiene 𝒢 ; esso è definito da ℱ ∶= {𝑈 ⊆ 𝑋 ∶ ∃𝑈1 , 𝑈2 , … , 𝑈𝑛 ∈ 𝒢 tali che 𝑈 ⊇ 𝑈1 ∩ 𝑈2 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑛 } .
Definizione 7.41. Una famiglia non vuota 𝒢 di sottoinsiemi non vuoti di un insieme 𝑋 con la proprietà dell’intersezione finita è detta sottobase di filtro e il corrispondente filtro ℱ sopra definito è detto generato da 𝒢 . ◁
Introduciamo ora un concetto importante, quello di ultrafiltro, che trova numerose applicazioni in varie aree della Matematica, quali la Logica, la Teoria degli Insiemi, la Matematica Combinatoria, oltre che, naturalmente, la Topologia e l’Analisi Matematica. In quest’ultimo ambito, gli ultrafiltri trovano applicazione nell’Analisi non standard. Per il momento, ci accontentiamo di mostrare come l’introduzione di questo concetto permetta di dare delle dimostrazioni semplici ed eleganti di vari risultati relativi ai limiti e alla compattezza. Il concetto di ultrafiltro fu introdotto nel 1908 dal matematico F. Riesz al Congresso internazionale dei matematici a Roma. Il suo utilizzo sistematico in Matematica iniziò a partire dagli anni ’30 grazie ai contributi dei matematici della scuola polacca (con Banach, Tarski, Ulam). Definizione 7.42. Se un filtro su 𝑋 non ammette filtri strettamente più fini, allora è detto un ultrafiltro. ◁
Esempio 7.43. 1. Siano dati una funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), un punto 𝑧 ∈ 𝑋 e la famiglia 𝒰(𝑧) dei suoi intorni. La famiglia 𝑓 (𝒰) ∶= {𝑓 (𝑈 ) ∶ 𝑈 ∈ 𝒰(𝑧)} è una base di filtro in 𝑋 ′ . 2. Dato 𝑧 ∈ 𝑋, la famiglia 𝑧 ̇ ∶= {𝐹 ⊆ 𝑋 ∶ 𝑧 ∈ 𝐹 } è un ultrafiltro detto filtro principale generato da 𝑧. Questo è un caso molto particolare di filtro, poiché l’intersezione di tutti i suoi elementi è non vuota. Un filtro si dice libero, se, invece, l’intersezione di tutti i suoi elementi è l’insieme vuoto. 3. Dato 𝐸 ⊆ 𝑋, con 𝐸 dotato di almeno due elementi, la famiglia ℰ ∶= {𝐹 ⊆ 𝑋 ∶ 𝐸 ⊆ 𝐹 } è un filtro, ma non un ultrafiltro. 4. In ℕ, possiamo considerare gli insiemi 𝐸𝑛 ∶= {𝑘 ∈ ℕ ∶ 𝑘 ≥ 𝑛}. la famiglia di questi insiemi ha la proprietà dell’intersezione finita. Inoltre l’intersezione
7.1. Insiemi compatti
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di un numero finito di 𝐸𝑛 è ancora un insieme dello stesso tipo. La famiglia ℰ ∶= {𝐸𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} è dunque una base di filtro e il filtro da essa generato è il filtro di Fréchet (cfr. pag. 8). Si vede subito che questo filtro è libero. 5. In ℕ, possiamo considerare gli insiemi del tipo ℕ ⧵ {𝑛}, al variare di 𝑛 ∈ ℕ. La famiglia di tali insiemi ha la proprietà dell’intersezione finita e il filtro generato è ancora quello di Fréchet. ◁ Esistono definizioni equivalenti del concetto di ultrafiltro, come mostra il seguente Teorema. Teorema 7.44 (Caratterizzazione degli ultrafiltri). Sia ℱ una famiglia non vuota di sottoinsiemi (non vuoti) di un insieme 𝑋 con la proprietà dell’intersezione finita (PIF). Le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. ℱ è un ultrafiltro. 2. ℱ è massimale rispetto all’inclusione. 3. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋, se 𝐸 ∩ 𝐹 ≠ ∅, ∀𝐹 ∈ ℱ , allora si ha 𝐸 ∈ ℱ . 4. Per ogni 𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋, si ha 𝐴 ∪ 𝐵 ∈ ℱ se e solo se (𝐴 ∈ ℱ ) ∨ (𝐵 ∈ ℱ ). 5. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋 si ha 𝐸 ∈ ℱ oppure 𝑋 ⧵ 𝐸 ∈ ℱ .
Dimostrazione. Diremo che un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋 interseca ℱ se 𝐸 ha intersezione non vuota con ogni elemento di ℱ . 1 ⇒ 2. Ovvio. 2 ⇒ 3. Se, per assurdo, esistesse un elemento 𝐸 ∉ ℱ che interseca ℱ , potremmo definire la famiglia 𝒢 ∶= ℱ ∪ {𝐸} che ha ancora la PIF, contro la massimalità di ℱ . 3 ⇒ 1. Dati 𝐸 ∈ ℱ ed 𝐸 ′ ⊆ 𝑋, con 𝐸 ′ ⊇ 𝐸, si ha che anche 𝐸 ′ interseca ℱ e quindi 𝐸 ′ ∈ ℱ . Pertanto, ℱ è un filtro. Se ℱ non fosse un ultrafiltro, esisterebbe un 𝐸 ⊆ 𝑋, con 𝐸 ∉ ℱ che interseca ℱ : Assurdo. 3 ⇒ 4. Se 𝐴 ∈ ℱ , 𝐴 interseca ℱ e quindi fa lo stesso anche 𝐴 ∪ 𝐵; pertanto anche 𝐴 ∪ 𝐵 ∈ ℱ . Da 𝐴 ∉ ℱ segue che esiste 𝐹1 ∈ ℱ con 𝐹1 ∩ 𝐴 = ∅. Analogamente, da 𝐵 ∉ ℱ segue che esiste 𝐹2 ∈ ℱ con 𝐹2 ∩ 𝐵 = ∅. Sia ora 𝐹 ∶= 𝐹1 ∩ 𝐹2 ∈ ℱ ; si ottiene 𝐹 ∩ (𝐴 ∪ 𝐵) = ∅, contro il fatto che è 𝐴 ∪ 𝐵 ∈ ℱ . 4 ⇒ 5. Fissiamo un 𝐹 ∈ ℱ . Si ha 𝑋 = 𝐹 ∪ (𝑋 ⧵ 𝐹 ). È dunque 𝑋 ∈ ℱ . Per ogni sottoinsieme 𝐵 di 𝑋, sia 𝐵 ′ ∶= 𝑋 ⧵ 𝐵. Si ha 𝐵 ∪ 𝐵 ′ ∈ ℱ , da cui (𝐵 ∈ ℱ ) ∨ (𝐵 ′ ∈ ℱ ). 5 ⇒ 3. Intanto, essendo ∅ ∉ ℱ , deve essere 𝑋 ∈ ℱ . Se esistesse 𝐸 ⊆ 𝑋 che interseca ℱ , ma con 𝐸 ∉ ℱ , dovrebbe essere 𝑋 ⧵ 𝐸 ∈ ℱ , da cui seguirebbe 𝐸 ∩ (𝑋 ⧵ 𝐸) ≠ ∅. Il lettore attento non avrà mancato di notare l’analogia fra le argomentazioni usate nell’ultima dimostrazione e quelle utilizzate in quella del Teorema di Tychonoff. In effetti, l’introduzione degli ultrafiltri permette di utilizzare delle proprietà che forniscono una dimostrazione molto più semplice del Teorema di Tychonoff (cfr. pag. 340).
7.1. Insiemi compatti
338
Dal Teorema precedente, si ha immediatamente che il filtro ℱ di Fréchet non è un ultrafiltro. Infatti, né l’insieme dei naturali pari né quello dei naturali dispari appartiene a ℱ , mentre vi appartiene la loro unione. Dal Lemma di Zorn, si ha immediatamente il Corollario 7.45. Per ogni filtro su un insieme 𝑋, esiste un ultrafiltro di esso più fine.
Segnaliamo, senza poterlo qui verificare, che gli unici ultrafiltri che siamo in grado di descrivere esplicitamente sono quelli principali. In particolare, in un insieme finito questi sono gli unici ultrafiltri (Esercizio!). Poiché il filtro di Fréchet su ℕ non è un ultrafiltro, esistono ultrafiltri strettamente più fini di esso. Si osservi che nessuno di questi può essere principale (Esercizio!). L’insieme di tutti gli ultrafiltri su ℕ si indica con 𝛽ℕ. Rivedremo questo concetto parlando di compattificazioni (compattificazione di StoneČech, cfr. pagg. 513 e seg.). Per il momento, ci accontentiamo di osservare che ogni numero naturale può essere identificato con l’ultrafiltro principale da esso generato, quindi 𝛽ℕ può essere immaginato come l’insieme dei numeri naturali a cui abbiamo aggiunto dei “punti all’infinito” corrispondenti agli ultrafiltri liberi. Su un insieme 𝑋, siano date due basi di filtro 𝒢1 e 𝒢2 e siano ℱ1 e ℱ2 i filtri da esse rispettivamente generati. Si vede subito che si ha ℱ2 ⪯ ℱ1 se e solo se, per ogni 𝐺2 ∈ 𝒢2 , esiste 𝐺1 ∈ 𝒢1 con 𝐺1 ⊆ 𝐺2 . Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ , un punto 𝑧 ∈ 𝑋. Sia poi 𝒰(𝑧) il filtro degli intorni di 𝑧. Nell’Esempio 7.43.1, abbiamo segnalato che la famiglia 𝑓 (𝒰) ∶= {𝑓 (𝑈 ) ∶ 𝑈 ∈ 𝒰} è una base di filtro in 𝑋 ′ . Da quanto appena detto sopra e dalla definizione di continuità in un punto e di limite, si ottengono i seguenti risultati. Corollario 7.46. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ , un punto 𝑧 ∈ 𝑋. Sia poi 𝒰(𝑧) il filtro degli intorni di 𝑧. Allora 𝑓 è continua in 𝑧 se e solo se il filtro generato dalla famiglia 𝑓 (𝒰) è più fine del filtro degli intorni di 𝑓 (𝑧). Lemma 7.47. Siano dati, su un insieme 𝑋 un filtro ℱ e un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋 tale che 𝐸 ∩ 𝐹 ≠ ∅, ∀𝐹 ∈ ℱ . Allora la famiglia ℱ𝐸 ∶= {𝐹 ∩ 𝐸 ∶ 𝐹 ∈ ℱ } è un filtro in 𝐸. Corollario 7.48. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ), un sottoinsieme 𝐸 ⊂ 𝑋 tale che 𝐸 ∩ 𝐹 ≠ ∅, ∀𝐹 ∈ ℱ , una funzione 𝑓 ∶ 𝐸 → 𝑋 ′ , un punto 𝑧 ∈ 𝒟 𝐸 ⧵ 𝐸 e un 𝑙 ∈ 𝑋 ′ . Sia poi 𝒰(𝑧) il filtro degli intorni di 𝑧. Allora si ha 𝑓 (𝑥) → 𝑙 per 𝑥 → 𝑧 se e solo se il filtro generato dalla famiglia 𝑓 (𝒰𝐸 ) è più fine del filtro degli intorni di 𝑙.
Un caso particolare di quest’ultimo teorema è quello delle successioni a valori in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). In questo caso, su ℕ si pensa assegnato il filtro di Fréchet.
7.1. Insiemi compatti
339
Definizione 7.49. In uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) siano assegnati un punto 𝑧 e un filtro ℱ . Si dice che ℱ converge a 𝑧 se ℱ è più fine del filtro degli intorni di 𝑧. In tal caso, si dice che 𝑧 è un limite di ℱ e si scrive ℱ → 𝑧. ◁ Teorema 7.50. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è di Hausdorff se e solo se ogni ultrafiltro converge al più ad un punto di 𝑋.
Dimostrazione. Supponiamo che 𝑋 sia 𝑇2 e fissiamo due punti distinti 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋. Esistono un intorno 𝑈 di 𝑥 e un intorno 𝑉 di 𝑦 con 𝑈 ∩ 𝑉 = ∅. Se un ultrafiltro ℱ converge a 𝑥, deve contenere tutti gli intorni di 𝑥 e, quindi, non può contenere 𝑉 . Si conclude che ℱ non converge a 𝑦. Per l’arbitrarietà di 𝑥 e 𝑦, si ha che in 𝑋 c’è l’unicità del limite per gli ultrafiltri. Supponiamo ora che 𝑋 non sia 𝑇2 . Esistono allora due punti distinti 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋 tali che, per ogni intorno 𝑈 di 𝑥 e per ogni intorno 𝑉 di 𝑦 si ha 𝑈 ∩ 𝑉 ≠ ∅. Dette 𝒰(𝑥) e 𝒰(𝑦) le famiglie degli intorni di 𝑥 e, rispettivamente, di 𝑦, si ha che la famiglia 𝒰(𝑥) ∪ 𝒰(𝑦) ha la proprietà dell’intersezione finita. Essa genera un filtro e, quindi, almeno un ultrafiltro ℱ che converge sia a 𝑥 che a 𝑦. Si conclude che in 𝑋 non c’è l’unicità del limite per gli ultrafiltri. Teorema 7.51 (Compattezza con gli ultrafiltri). Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è compatto se e solo se ogni ultrafiltro su 𝑋 converge in 𝑋.
Dimostrazione. Proviamo il “solo se”. Supponiamo dunque (𝑋, 𝜏) compatto e sia ℱ un ultrafiltro in 𝑋. Supponiamo, per assurdo, che ℱ non converga ad alcun punto di 𝑋. Dunque, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un suo intorno aperto 𝐴𝑥 che non appartiene a ℱ . La famiglia degli 𝐴𝑥 è un ricoprimento aperto di 𝑋. Essendo questo compatto, esiste un numero finito di aperti 𝐴𝑥1 , 𝐴𝑥2 , … , 𝐴𝑥𝑛 , tali che 𝐴𝑥1 ∪ 𝐴𝑥2 ∪ ⋯ ∪ 𝐴𝑥𝑛 = 𝑋 ∈ ℱ . Ciò contraddice il Teorema 7.44. Proviamo il “se”. Sia {𝐶𝛼 }𝛼∈𝐽 una famiglia di chiusi di 𝑋 con la proprietà dell’intersezione finita. Questa è una sottobase di filtro. Esistono un filtro e, quindi, un ultrafiltro ℱ che contiene tali chiusi. Ora, per ipotesi. ℱ converge ad almeno un punto 𝑧 ∈ 𝑋. Quindi un qualunque intorno 𝑈 di 𝑧 appartiene ad ℱ e, pertanto, deve intersecare tutti i 𝐶𝛼 . Concludiamo che 𝑧 è aderente a tutti i 𝐶𝛼 e quindi appartiene a ciascuno di essi, dato che sono chiusi. Corollario 7.52. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è compatto e 𝑇2 se e solo se ogni ultrafiltro in 𝑋 converge a uno e un solo elemento.
La proprietà di uno spazio topologico di essere compatto e 𝑇2 costituisce una sorta di equilibrio, Infatti, raffinando la topologia si può perdere la compattezza, mentre rimane la validià dell’assioma 𝑇2 ; per contro, indebolendo la topologia, si può perdere la proprieà di Hausdorff, mentre, come subito si vede, si conserva la compattezza. Presentiamo ora una nuova dimostrazione del Teorema di Tychonoff che sfrutta gli ultrafiltri.
7.1. Insiemi compatti
340
Altra dimostrazione del Teorema di Tychonoff 7.37. Usiamo le stesse notazioni usate nella precedente dimostrazione. Sullo spazio prodotto 𝑋, consideriamo un ultrafiltro ℱ . Per ogni indice 𝛼 ∈ 𝐼, consideriamo nello spazio fattore 𝑋𝛼 l’insieme ℱ𝛼 ∶= {𝐹𝛼 ⊆ 𝑋𝛼 ∶ 𝑝−1 𝛼 (𝐹𝛼 ) ∈ ℱ } .
Si vede facilmente che ogni ℱ𝛼 è un filtro; proviamo che è un ultrafiltro. A tale scopo, fissiamo un indice 𝑘 ∈ 𝐽 e in 𝑋𝑘 un suo sottoinsieme 𝐵 e il suo ′ −1 complementare 𝐵 ′ ∶= 𝑋𝑘 ⧵𝐵. Essendo 𝑝𝑘 suriettiva, si ha 𝑝−1 𝑘 (𝐵 ) = 𝑋 ⧵𝑝𝑘 (𝐵). Uno e uno solo di questi due ultimi insiemi appartiene a ℱ (cfr. Teorema 7.44) e, di conseguenza uno e uno solo fra 𝐵 e 𝐵 ′ sta in ℱ𝑘 . La tesi segue dallo stesso teorema. Poiché ogni 𝑋𝛼 è compatto, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , esiste un elemento 𝑧𝛼 ∈ 𝑋𝛼 tale che ℱ𝛼 → 𝑧𝛼 . Consideriamo ora l’elemento 𝑧 ∶= (𝑧𝛼 )𝛼∈𝐼 . Verifichiamo che l’ultrafiltro ℱ converge a 𝑧, ossia che ℱ contiene tutti gli intorno di 𝑧. Per far ciò, basta mostrare che, fissato un 𝑘 ∈ 𝐽 , ℱ contiene ogni aperto 𝑈 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼′ , con 𝑋𝑘′ ∶= 𝐴𝑘 , 𝑧𝑘 ∈ 𝐴𝑘 ∈ 𝜏𝑘 e 𝑋𝛼′ ∶= 𝑋𝛼 , ∀𝛼 ≠ 𝑘. Si ha 𝐴𝑘 ∈ ℱ𝑘 , dato che ℱ𝑘 → 𝑧𝑘 , da cui 𝑈 = 𝑝−1 𝑘 (𝐴𝑘 ) ∈ ℱ . È appena il caso di sottolineare che il Teorema di compattezza 7.35 assicura che se (𝑋, 𝜏) è compatto o sequenzialmente compatto, allora è tale ogni suo spazio quoziente dotato della topologia quoziente. Si tenga presente che ogni funzione continua è anche sequenzialmente continua (cfr. pag. 64).
Osservazione 7.53. Un’immediata applicazione del Teorema di Tychonoff è la compattezza di alcuni spazi prodotto che abbiamo considerato precedentemente. In particolare, risultano compatti i Cubi di Hilbert {0, 1}𝐼 , 𝐼 𝐼 (cfr. Esempio 7.25), 𝐼 ∞ (cfr. Esempio 6.19) e gli spazi di sequenze su un alfabeto finito, come Σ+ 2 e Σ2 (cfr. Esempio 6.22). Per gli ultimi tre spazi elencati, la topologia prodotto è metrizzabile (cfr. Corollario 6.20, Teorema 6.23). Quindi tali spazi sono anche sequenzialmente e numerabilmente compatti, oltre che completi. Ricordiamo che, invece, i Cubi di Hilbert {0, 1}𝐼 e 𝐼 𝐼 non sono sequenzialmente compatti; per il primo, si veda l’Esempio 7.25, per il secondo basta osservare che la stessa successione di funzioni priva di sottosuccessioni convergenti definita in tale esempio va bene anche in questo secondo spazio. ◁ Gli esempi appena visti possono essere utilizzati anche per mettere in evidenza il fatto che il Teorema di Tychonoff non sussiste nel caso della box topology (ovviamente quando intervenga un’infinità numerabile di fattori non banali). ℕ Esempio 7.54. Ricordiamo l’insieme Σ+ 2 ∶= {0, 1} introdotto nell’Esempio 6.22 e supponiamo di introdurre in esso la box topology. Indicheremo lo spazio topologico risultante con (Σ+ 2 , 𝜏! ). Verifichiamo che questo spazio non è compatto. Infatti, dall’Osservazione 6.7, sappiamo che gli aperti di 𝜏! sono i prodotti di aperti dei singoli fattori. Poiché in {0, 1} c’è la topologia discreta, risulta tale anche 𝜏! . Uno spazio infinito con la topologia discreta non è mai compatto, né sequenzialmente compatto. ◁
7.1. Insiemi compatti
341
Per comodità del lettore, riassumiamo in due schemi alcuni dei risultati visti in questo paragrafo. Negli spazi metrici Bolzano–Weierstrass
Compattezza sequenziale
"-reti + Completezza
Numerabile compattezza Compattezza
Separabilit`a
Numerabile compattezza + Lindel¨of
Lindel¨of
Negli spazi topologici Propriet`a di Cantor
Compattezza
Convergenza di ultrafiltri Numerabile compattezza + Lindel¨of
Bolzano–Weierstrass Numerabile compattezza Compattezza sequenziale
Dati questi schemi, è naturale chiedersi sotto quali condizioni uno spazio topologico compatto sia anche metrizzabile. Chiaramente, per essere metrizzabile dovrà essere di Hausdorff, anzi normale. Ma questa condizione non è sufficiente. Basta infatti considerare il Cubo di Hilbert {0, 1}𝐼 dell’Esempio 7.25 che è compatto e di Hausdorff (cfr. Proposizione 6.37.1), ma non metrizzabile, in quanto non sequenzialmente compatto e anche per il Teorema 6.26. Per avere la metrizzabilità, possiamo, per esempio, ricondurci al Teorema di metrizzabilità di Urysohn. Teorema 7.55. Ogni spazio topologico compatto di Hausdorff è metrizzabile se e solo se è secondo numerabile.
Dimostrazione. Essendo, per ipotesi, compatto e 𝑇2 , 𝑋 è normale per il Teorema 7.33 e quindi regolare. Se 𝑋 è 𝐴2 , è metrizzabile per il Teorema di metrizzabilità di Urysohn 3.115. Proviamo il viceversa. Se 𝑋 è metrizzabile e compatto, allora è separabile (Lemma 7.18) e quindi 𝐴2 per il Teorema 7.21. È stato già osservato (cfr. Teorema 3.116) che per gli spazi metrizzabili la separabilità e l’esistenza di una base di aperti numerabile (assioma 𝐴2 ) sono equivalenti. In virtù del teorema appena visto, è naturale chiedersi se gli spazi
7.1. Insiemi compatti
342
compatti, di Hausdorff e separabili sono metrizzabili. La risposta è negativa come si vede dall’esempio che segue. Esempio 7.56. Consideriamo il Cubo di Hilbert 𝑋 ∶= {0, 1}𝐼 che è un sottospazio dello spazio 𝑌 ∶= ℕ𝐼 , con la topologia prodotto. La prima Proposizione contenuta nell’esempio 6.38 garantisce che 𝑌 è separabile e la stessa dimostrazione può essere ripetuta per lo spazio 𝑋. Sappiamo già che 𝑋 non è metrizzabile, tuttavia è un compatto di Hausdorff. ◁
Data l’importanza del concetto di compattezza negli spazi metrici, molti Autori hanno studiato il problema della metrizzabilità per spazi di Hausdorff 𝐴1 e compatti. Come per la separabilità, anche il concetto di primo numerabile non è sufficiente a garantire la metrizzabilità. A tale scopo esistono vari esempi di spazi topologici interessanti e facili da descrivere. Ne presentiamo alcuni che hanno un interesse generale. Esempio 7.57 (Cerchio doppio di Alexandrov). In ℝ2 = ℂ, consideriamo l’insieme 𝑋 ∶= 𝐶1 ∪ 𝐶2 , con 𝐶𝑘 ∶= {𝑘𝑒𝑖𝜗 ∶ 𝜗 ∈ ℝ }, cioè la circonferenza di centro l’origine e raggio 𝑘, per 𝑘 = 1, 2. Consideriamo anche l’applicazione 𝜑 ∶ 𝐶1 → 𝐶2 definita da 𝜑(𝑧) ∶= 2𝑧. In 𝑋 definiamo la seguente topologia 𝜏. I punti di 𝐶2 sono isolati. Un intorno di base di un punto generico 𝑧 = 𝑒𝑖𝜗 ∈ 𝐶1 è dato da un intorno ordinario 𝑈 di 𝑧 in 𝐶1 unito a 𝜑(𝑈 ) ⧵ {𝜑(𝑧)}. Lo spazio (𝑋, 𝜏) è chiaramente 𝐴1 e 𝑇2 . Non è però né separabile né 𝐴2 , dato che ha un’infinità non numerabile di punti isolati. Proviamo che (𝑋, 𝜏) è compatto. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝑋. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , sia 𝐴′𝛼 ∶= 𝐴𝛼 ∩𝐶1 ; sia poi 𝐽 ′ ∶= {𝛼 ∈ 𝐽 ∶ 𝐴′𝛼 ≠ ∅}. La famiglia 𝒜 ′ ∶= {𝐴′𝛼 }𝛼∈𝐽 ′ è un ricoprimento aperto di 𝐶1 . Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 ′ , è 𝐴′𝛼 = ′ ′ , con 𝑈𝛼𝑘 ∶= {𝑒𝑖𝜗 ∶ 𝑎𝛼𝑘 < 𝜗 < 𝑏𝛼𝑘 }, dove 𝑎𝛼𝑘 , 𝑏𝛼𝑘 sono numeri reali ⋃𝑘∈𝐽𝛼 𝑈𝛼𝑘
′ opportuni. È immediato che anche la famiglia 𝒰 ′ ∶= {𝑈𝛼𝑘 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 ′ , 𝑘 ∈ 𝐽𝛼 } è un ricoprimento aperto di 𝐶1 . La topologia 𝜏 induce su 𝐶1 quella euclidea; ne viene che (𝐶1 , 𝜏) è compatto, dato che 𝐶1 è chiuso e limitato in (ℝ2 , 𝜏𝑒 ). 𝒰 ′ ammette dunque un sottoricoprimento finito 𝒱 ′ ∶= 𝑈1′ , … , 𝑈𝑛′ . Per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}, siano ora 𝑧𝑖 il punto medio di 𝑈𝑖′ e 𝑈𝑖 ∶= 𝑈𝑖′ ∪𝜑(𝑈𝑖 )⧵{𝜑(𝑧𝑖 )}. L’insieme 𝑈 ∶= 𝑈1 ∪ ⋯ ∪ 𝑈𝑛 contiene tutto 𝑋 tranne, al più i punti 𝜑(𝑧1 ), … , 𝜑(𝑧𝑛 ). Aggiungendo ad 𝒰 gli aperti {𝜑(𝑧1 )}, … , {𝜑(𝑧𝑛 )} si ottiene un ricoprimento finito ℬ di 𝑋. Ogni aperto di ℬ è contenuto in un aperto di 𝒜 ; questi ultimi danno il sottoricoprimento finito cercato. Abbiamo così un esempio di spazio compatto (e quindi di Lindelöf) non separabile (cfr. pag. 330). Non essendo 𝐴2 , (𝑋, 𝜏) non è metrizzabile (cfr. Teorema 7.55). Per il Teorema 7.33, (𝑋, 𝜏) è però normale. Esso è 𝑇5 , ma non perfettamente normale. Per controllare che è 𝑇5 , prendiamo due sottoinsiemi arbitrari 𝐴 e 𝐵 che siano separati e dimostriamo che esistono due aperti disgiunti 𝑈 e 𝑉 contenenti rispettivamente 𝐴 e 𝐵. Per prima cosa, consideriamo gli insiemi 𝐴1 ∶= 𝐴 ∩ 𝐶1 e 𝐵1 ∶= 𝐵 ∩𝐶1 . Essi sono chiaramente separati in 𝐶1 . Poiché la topologia indotta da 𝜏 su 𝐶1 è quella euclidea, che è metrizzabile e quindi 𝑇5 (cfr. Teoremi 3.44 e
7.1. Insiemi compatti
343
2.115), esistono in 𝐶1 due aperti 𝑈1 e 𝑉1 che separano 𝐴1 e 𝐵1 . Osserviamo ora che, per ogni 𝑎 ∈ 𝐴1 , esiste un aperto 𝑈𝑎 della topologia 𝜏 tale che 𝑈𝑎 ∩ 𝐵 = ∅ e 𝑈𝑎 ∩ 𝐶1 ⊆ 𝑈1 . Simmetricamente, per ogni 𝑏 ∈ 𝐵1 , esiste un aperto 𝑉𝑏 della topologia 𝜏 tale che 𝑉𝑏 ∩ 𝐴 = ∅ e 𝑉𝑏 ∩ 𝐶1 ⊆ 𝑉1 . Basta ora porre 𝑈 ∶= (𝐴 ∩ 𝐶2 ) ∪ (
⋃
𝑎∈𝐴∩𝐶1
𝑈𝑎 );
𝑉 ∶= (𝐵 ∩ 𝐶2 ) ∪ (
⋃
𝑏∈𝐵∩𝐶1
𝑉𝑏 )
e abbiamo così trovato gli aperti disgiunti che separano 𝐴 e 𝐵. Per verificare che non è perfettamente normale, basta trovare un chiuso che non è un 𝐺𝛿 (cfr: Corollario 2.112). Dato che i punti di 𝐶2 sono isolati, si ha che 𝐶1 è chiuso. Ogni aperto 𝐴 contenente 𝐶1 è unione di aperti elementari. Anzi, essendo 𝐶1 compatto, esso è contenuto nell’unione di un numero finito di tali aperti. Dunque 𝐴 è tutto 𝑋, tranne al più un numero finito di punti di 𝐶2 . Sia ora data una successione (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti contenenti 𝐶1 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste dunque al più un insieme finito di punti di 𝐶2 che non appartiene ad 𝐴1 ∩ ⋯ ∩ 𝐴𝑛 ; si ottiene che l’insieme ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 esclude al più un’infinità numerabile di punti di 𝐶2 . Si conclude che tale intersezione non può coincidere con 𝐶1 . ◁ Esempio 7.58. Sia 𝑋 ∶= [0, 1]2 il quadrato unitario in ℝ2 in cui introduciamo una relazione d’ordine stretto ≺ definita da (𝑎, 𝑏) ≺ (𝑐, 𝑑) se e solo se 𝑎 < 𝑐, oppure (𝑎 = 𝑐) ∧ (𝑏 < 𝑑). Un ordine di questo tipo è di solito detto lessicografico (è infatti quello con cui ordiniamo le parole del vocabolario). Si noti che lo spazio (𝑋, ≺) è un insieme totalmente ordinato. Vedremo nel capitolo sugli insiemi ordinati che in questi casi, c’è una topologia canonica che può essere assegnata e che è detta topologia dell’ordine. Per definizione, questa topologia si ottiene a partire dalla sottobase delle “semirette” del tipo (←, 𝑝[ ∶= {𝑧 ∈ 𝑋 ∶ 𝑧 ≺ 𝑝} e ]𝑞, →) ∶= {𝑧 ∈ 𝑋 ∶ 𝑧 ≻ 𝑞}, al variare di 𝑝 e 𝑞 in 𝑋. In questo modo, gli intervalli aperti ]𝑝, 𝑞[ ∶= {𝑧 ∈ 𝑋 ∶ 𝑝 ≺ 𝑧 ≺ 𝑞} risultano aperti. Gli intorni di base dei singoli punti sono illustrati in figura. z3
(1, 1)
z2
(0, 0)
z1
Lo spazio (𝑋, 𝜏) è chiaramente 𝐴1 e 𝑇2 . Verifichiamo che non è separabile né 𝐴2 . Sia 𝐸 ∶= {(𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ) ∶ 𝑛 ∈ ℕ} un sottoinsieme numerabile di 𝑋. Esiste 𝑎 ∈ [0, 1] ⧵ {𝑎𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. Il punto (𝑎, 1/2) non appartiene alla chiusura di 𝐸. Sia ora 𝒜 una base per 𝜏. Esiste un’infinità non numerabile di aperti del tipo
7.1. Insiemi compatti
344
“segmenti verticali” a due a due disgiunti, ognuno dei quali deve contenere un aperto di 𝒜 ; ne viene che 𝒜 è più che numerabile. Proviamo che (𝑋, 𝜏) è compatto. Poniamo 𝐼0 ∶= {(𝑥, 0) ∶ 𝑥 ∈ [0, 1]} e 𝐼1 ∶= {(𝑥, 1) ∶ 𝑥 ∈ [0, 1]}. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝑋. Per ogni 𝑎 ∈ [0, 1] esistono 𝛼𝑎 , 𝛽𝑎 ∈ 𝐽 tali che (𝑎, 0) ∈ 𝑈𝑎 ⊆ 𝐴𝛼𝑎 e (𝑎, 1) ∈ 𝑉𝑎 ⊆ 𝐴𝛽𝑎 , con 𝑈𝑎 e 𝑉𝑎 intorni di base di (𝑎, 0) e (𝑎, 1) rispettivamente. Posto, per ogni 𝑎 ∈ [0, 1], 𝑊𝑎 ∶= 𝑈𝑎 ∪ 𝑉𝑎 , si ha che la famiglia degli insiemi 𝑊𝑎 ∩ 𝐼0 è un ricoprimento aperto di 𝐼0 secondo la topologia euclidea. Essendo 𝐼0 compatto in 𝜏𝑒 , esiste un numero finito di punti 𝑎1 , … , 𝑎𝑛 tale che 𝑊𝑎1 ∩ 𝐼0 , … , 𝑊𝑎𝑛 ∩ 𝐼0 formano un sottoricoprimento finito di 𝐼0 . La famiglia di aperti ℬ ⊆ 𝒜 formata dagli elementi di indici 𝛼𝑎1 , … , 𝛼𝑎𝑛 , 𝛽𝑎1 , … , 𝛽𝑎𝑛 copre tutto 𝑋 tranne al più elementi dei “segmenti verticali” 𝐾𝑖 ∶= {(𝑎𝑖 , 𝑦) ∶ 𝑦 ∈ [0, 1]}, con 𝑖 = 1, 2, … , 𝑛. Ogni 𝐾𝑖 è omeomorfo all’intervallo euclideo [0, 1]; esso è dunque compatto ed è pertanto ricopribile con un numero finito di elementi di 𝒜 . La famiglia così ottenuta al variare di 𝑖 e a cui si aggiungono gli elementi di ℬ formano il sottoricoprimento finito cercato. Abbiamo così un altro esempio di spazio compatto (e quindi di Lindelöf) non separabile (cfr. pag. 330). Non essendo 𝐴2 , (𝑋, 𝜏) non è metrizzabile (cfr. Teorema 7.55). Per il Teorema 7.33, (𝑋, 𝜏) è però normale. Esso è 𝑇5 , ma non perfettamente normale. Che lo spazio sia 𝑇5 non è un fatto elementare, ma è una conseguenza di un teorema più generale che afferma che ogni topologia dell’ordine in uno spazio totalmente ordinato è completamente normale; lo proveremo nel capitolo sugli insiemi ordinati. Per verificare che non è perfettamente normale, basta trovare un chiuso che non è un 𝐺𝛿 (cfr: Corollario 2.112). Sia ora 𝐶 ∶= 𝐼0 ∪ 𝐼1 = {(𝑥, 𝑦) ∶ (0 ≤ 𝑥 ≤ 1) ∧ (𝑦 ∈ {0, 1})} .
Si vede subito che 𝐶 è chiuso. Ogni aperto 𝐴 contenente 𝐶 deve contenere l’unione di una famiglia di aperti elementari del tipo a “striscia” (si veda la figura precedente) a due a due disgiunti. Ciascuno di essi contiene un intervallo del tipo [(𝑎, 1), (𝑏, 1)[; ne viene che questa famiglia è al più numerabile. C’è dunque al più un infinità numerabile di punti del tipo (𝑎, 1/2) non appartenente ad 𝐴. Sia ora data una successione (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti contenenti 𝐶. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste dunque al più un insieme numerabile di punti di questo tipo che non appartiene ad 𝐴1 ∩ ⋯ ∩ 𝐴𝑛 ; accade quindi lo stesso anche per ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 . Si conclude che tale intersezione non può coincidere con 𝐶. ◁ Esempio 7.59 (Doppia freccia di Alexandrov). Nello spazio 𝑋 ∶= [0, 1]2 dell’esempio precedente, dotato della topologia dedotta dall’ordine lessicografico, si consideri il sottospazio 𝑌 ∶= {(𝑥, 0) ∶ 0 < 𝑥 ≤ 1} ∪ {(𝑥, 1) ∶ 0 ≤ 𝑥 < 1} .
Lo spazio (𝑌 , 𝜏) è chiaramente 𝐴1 e 𝑇2 ; anzi è 𝑇5 , essendo tale 𝑋. Essendo 𝑌 un chiuso del compatto 𝑋, si ha poi che anche 𝑌 è compatto (cfr. Teorema
7.1. Insiemi compatti
345
7.30). Poniamo ancora 𝐼0 ∶= {(𝑥, 0) ∶ 𝑥 ∈ ]0, 1]} e 𝐼1 ∶= {(𝑥, 1) ∶ 𝑥 ∈ [0, 1[}. La topologia di 𝑌 induce su 𝐼0 e 𝐼1 rispettivamente la topologia sinistra e la topologia destra di Sorgenfrey che non sono metrizzabili (cfr. Esempio 3.126). Ne viene che anche 𝑌 non è metrizzabile e, pertanto, non è 𝐴2 (cfr. Teorema 7.55). Proviamo che 𝑌 è perfettamente normale, mostrando che ogni suo aperto è un 𝐹𝜎 . Cominciamo col mostrare che è un 𝐹𝜎 ogni aperto del tipo 𝑈 ∶= ]𝑎, 𝑏[ ×{0, 1}, con 0 ≤ 𝑎 < 𝑏 ≤ 1. Ora, per 𝑛 > 𝑛, con 𝑛 sufficientemente grande, si ha 𝑎 < 𝑎 + 1/𝑛 < 𝑏 − 1/𝑛 < 𝑏; si constata subito che gli insiemi 𝐶𝑛 ∶= [𝑎 + 1/𝑛, 𝑏 − 1/𝑛] × {0, 1} sono chiusi e che si ha 𝑈 = ⋃𝑛>𝑛 𝐶𝑛 . Sono poi 𝐹𝜎 anche gli aperti del tipo 𝑈𝑎 ∶= 𝑈 ∪ {(𝑎, 1)}, 𝑈𝑏 ∶= 𝑈 ∪ {(𝑏, 0)}, 𝑈𝑎,𝑏 ∶= 𝑈 ∪ {(𝑎, 1), (𝑏, 0)}, dato che questi si ottengono aggiungendo ad 𝑈 uno o due punti che sono insiemi chiusi. (Si noti comunque che gli insiemi del tipo 𝑈𝑎,𝑏 sono clopen.) Sia ora 𝐴 un arbitrario aperto di 𝑌 . Si ha 𝐴 = ⋃∞ 𝑖=0 𝐴𝑖 , dove gli 𝐴𝑖 sono insiemi, a due a due disgiunti, dei tipi precedenti. Per ogni 𝑖 ∈ ℕ, si ha 𝐴𝑖 = ⋃∞ 𝑘=0 𝐶𝑖𝑘 , con i 𝐶𝑖𝑘 chiusi. Posto 𝐷0 ∶= 𝐶0,0 , 𝐷1 ∶= 𝐶1,0 ∪ 𝐶0,1 , …, 𝐷𝑛 ∶= 𝐶𝑛,0 ∪ 𝐶𝑛−1,1 ∪ ⋯ ∪ 𝐶0,𝑛 , si ha che i 𝐷𝑛 sono chiusi e che risulta 𝐴 = ⋃∞ 𝑛=0 𝐷𝑛 . Verifichiamo, in fine, che (𝑌 , 𝜏) è anche ereditariamente separabile. Sia dato un sottoinsieme non vuoto 𝐸 di 𝑌 ; si ha 𝐸 = 𝐸0 ∪ 𝐸1 , con 𝐸0 ∶= 𝐸 ∩ 𝐼0 ed 𝐸1 ∶= 𝐸 ∩ 𝐼1 . Sappiamo che, se 𝐸0 [𝐸1 ] non è vuoto, esiste un sottoinsieme numerabile 𝐷0 denso in 𝐸0 [un sottoinsieme numerabile 𝐷1 denso in 𝐸1 ]. Si vede subito che 𝐷0 ∪ 𝐷1 è un sottoinsieme numerabile e denso in 𝐸. ◁ L’Esempio 6.39 relativo allo spazio 𝐼 𝐼 mostra che esistono spazi compatti di Hausdorff (e quindi normali) che non sono completamente normali. Forniamo ora un ulteriore esempio in cui l’insieme sostegno è il quadrato unitario come nel caso dell’Esempio 7.58. Esempio 7.60 (Quadrato di Alexandrov). Sia ancora 𝑋 ∶= [0, 1]2 e definiamo in esso la seguente topologia 𝜏, assegnando una base di intorni per i singoli punti. Cominciamo con i punti che non stanno sulla diagonale principale Δ. Sia (𝑟, 𝑠) ∈ 𝑋 ⧵ Δ, da cui 𝑟 ≠ 𝑠. Una base di suoi intorni è data dagli insiemi del tipo {(𝑟, 𝑦) ∈ 𝑋 ⧵ Δ ∶ |𝑦 − 𝑠| < 𝜀}, con 𝜀 > 0. Questi insiemi sono dei segmenti verticali centrati nel punto o, semi intervalli aventi il punto come estremo se è 𝑠 ∈ {0, 1}. Invece una base di intorni per i punti (𝑟, 𝑟) della diagonale è data dagli insiemi del tipo {(𝑥, 𝑦) ∶ (|𝑦 − 𝑟| < 𝜀) ∧ (𝑥 ≠ 𝑥1 , … 𝑥𝑛 )} ,
con {𝑥1 , … , 𝑥𝑛 } insieme finito di [0, 1] non contenente 𝑟. Questi insiemi sono delle strisce orizzontali private eventualmente di un numero finito di segmenti verticali. Come si constata facilmente (Esercizio!) lo spazio (𝑋, 𝜏) è 𝑇2 . Esso non è nemmeno 𝐴1 dato che i punti di Δ non hanno una base numerabile di intorni. Proviamo che (𝑋, 𝜏) è compatto. Sua 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝑋. Diciamo 𝐽 ′ ∶= {𝛼 ∈ 𝐽 ∶ 𝐴𝛼 ∩ Δ ≠ ∅}. Detta 𝑝2 la seconda proiezione
7.1. Insiemi compatti
346
di 𝑋 in [0, 1], si ha che la famiglia ℬ ∶= {𝑝2 (𝐴𝛼 ) ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 ′ } è un ricoprimento aperto di ([0, 1], 𝜏2 ). Essendo questo spazio compatto, esiste un sottoricoprimento finito {𝑝2 (𝐴𝛼1 ), … , 𝑝2 (𝐴𝛼𝑛 )}. Gli aperti {𝐴𝛼1 , … , 𝐴𝛼𝑛 } ricoprono tutto 𝑋 tranne, al più, un numero finito di segmenti verticali chiusi e disgiunti da Δ. Ciascuno di essi è omeomorfo ad un intervallo chiuso e limitato di (ℝ, 𝜏2 ) ed è quindi compatto. A questo punto, la tesi è immediata. Per il Teorema 7.33, (𝑋, 𝜏) è normale. Proviamo che esso non è però 𝑇5 . Consideriamo i sottoinsiemi 𝐴 ∶= Δ ⧵ {0, 0} e 𝐵 ∶= {(𝑥, 0) ∈ 𝑋 ∶ 𝑥 > 0}. Si vede subito che essi sono separati. Sia 𝑉 un aperto contenente 𝐵. Per ogni (𝑥, 0) ∈ 𝐵 ⊆ 𝑉 , esiste un 𝑛𝑥 ∈ ℕ+ tale che {(𝑥, 𝑦) ∶ 0 ≤ 𝑦 < 1/𝑛𝑥 } ⊂ 𝑉 . Fra gli 𝑛𝑥 ne esiste uno che si ripete infinite volte; sia esso 𝑚. Ora un qualunque intorno di base del punto (1/𝑚, 1/𝑚) ∈ 𝐴 interseca 𝑉 . Ne viene che non esistono due aperti disgiunti contenenti rispettivamente 𝐴 e 𝐵. Osserviamo, in fine, che lo spazio (𝑋, 𝜏) non è separabile. Lo si constata ragionando come nel caso dell’Esempio 7.58 (Esercizio!). ◁ Taluni Autori chiamano l’esempio precedente col nome di quadrato di Alexandrov-Urysohn. Il motivo è che questo esempio, come altri esempi sugli spazi compatti, apparve nella Mémoire sur les espaces topologiques compacts di Alexandrov e Urysohn del 1929. In realtà la stesura finale del manoscritto fu preparata nel 1923 da Alexandrov subito dopo la morte prematura di Urysohn. Come si è visto, il Teorema 7.55 stabilisce che uno spazio topologico compatto e 𝑇2 è metrizzabile se e solo se è secondo numerabile. È naturale chiedersi se sussiste un analogo risultato per gli spazi sequenzialmente compatti. Lemma 7.61. Ogni spazio topologico secondo numerabile è di Lindelöf.
Dimostrazione. Sono dati: uno spazio topologico secondo numerabile (𝑋, 𝜏), una sua base numerabile di aperti ℬ ∶= (𝐵𝑛 )𝑛 e un ricoprimento aperto 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 di 𝑋. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, prendiamo, se esiste, un 𝐴𝛼𝑛 ∈ 𝒜 contenente 𝐵𝑛 e diciamo 𝐽 ′ l’insieme, al più numerabile, degli indici 𝛼𝑛 così trovati. Proviamo che la famiglia 𝒜 ′ ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 ′ fornisce il sottoricoprimento (al più) numerabile cercato. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑋. Siccome 𝒜 è un ricoprimento di 𝑋, esiste un 𝛽 ∈ 𝐽 tale che 𝑥 ∈ 𝐴𝛽 . Poiché i 𝐵𝑛 che contengono 𝑥 formano una sua base di intorni, si ha che esiste un 𝑚 ∈ ℕ tale che 𝑥 ∈ 𝐵𝑚 ⊆ 𝐴𝛽 . Dunque esiste almeno un elemento di 𝒜 che contiene 𝐵𝑚 , da cui 𝑥 ∈ ⋃𝛼∈𝐽 ′ 𝐴𝛼 . Gli Esempi 7.57, 7.58 e 7.59 mostrano che ci sono spazi compatti, e quindi di Lindelöf che non sono 𝐴2 .
Teorema 7.62. Ogni spazio topologico (𝑋, 𝜏) sequenzialmente compatto e secondo numerabile è compatto. Dimostrazione. Per il lemma precedente, (𝑋, 𝜏) è di Lindelöf. D’altra parte, per la Proposizione 7.12.1, (𝑋, 𝜏), essendo sequenzialmente compatto, è numerabilmente compatto.
7.1. Insiemi compatti
347
Possiamo finalmente concludere col seguente Teorema 7.63. Uno spazio topologico sequenzialmente compatto e di Hausdorff è metrizzabile se e solo se è secondo numerabile.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico sequenzialmente compatto e 𝑇2 . Se esso è 𝐴2 , allora è un compatto di Hausdorff per il teorema precedente ed è quindi metrizzabile per il Teorema 7.55. Se (𝑋, 𝜏) è metrizzabile, esso è anche compatto (Teorema 7.19) ed è quindi 𝐴2 , ancora per il Teorema 7.55. Concludiamo questi risultati sulla metrizzabilità ritornando brevemente sul problema della metrizzabilità del quoziente. In uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) si definisca una relazione di equivalenza ∼ e nel quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/∼ si introduca la pseudometrica 𝑑 ′ definita dalla (6.7). Vedremo fra un attimo che, se 𝑋 è compatto e 𝑑 ′ è una distanza, in 𝑌 la topologia quoziente 𝜏𝑞 e quella 𝜏𝑑 ′ della metrica 𝑑 ′ coincidono. Mostriamo intanto con un esempio che, anche sotto l’ipotesi che 𝑋 sia compatto, non è detto che 𝑑 ′ sia una distanza. Esempio 7.64. Sia 𝑋 il sottoinsieme compatto di (ℝ, 𝑑2 ) definito da 𝑋 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ∪ {2 + 1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ∪ {0, 2}.
In 𝑋 introduciamo la relazione che, per ogni 𝑛, dichiara equivalenti i due elementi 1/𝑛 e 2 + 1/𝑛, ottenendo l’elemento [1/𝑛] ∈ 𝑌 ; si ha poi [0] = {0} e [2] = {2}. Si constata immediatamente che è 𝑑 ′ ([0], [2]) = 0, pur essendo [0] ≠ [2]. Che 𝑑 ′ non sia una distanza si deduce immediatamente anche dal fatto che la successione ([1/𝑛])𝑛 converge in 𝑌 sia a [0] sia a [2]. ◁
Teorema 7.65. In uno spazio metrico compatto (𝑋, 𝑑) si definisca una relazione di equivalenza ∼ e nel quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/∼ si introduca la pseudometrica 𝑑 ′ definita dalla (6.7). Allora, se 𝑑 ′ è una distanza, in 𝑌 la topologia quoziente 𝜏𝑞 e quella 𝜏𝑑 ′ della metrica 𝑑 ′ coincidono. Dimostrazione. Siccome 𝜏𝑞 è almeno debolmente più fine di 𝜏𝑑 ′ , la funzione identica 𝑖 ∶ (𝑌 , 𝜏𝑞 ) → (𝑌 , 𝜏𝑑 ′ ) è (iniettiva e) continua. Per il Teorema di compattezza, si ha che anche (𝑌 , 𝜏𝑞 ) è compatto. Dunque 𝑖 va da uno spazio compatto in uno spazio di Hausdorff e, per il Teorema 7.36, essa è un omeomorfismo.
L’Esempio 6.93 mostra che, senza l’ipotesi che 𝑋 sia compatto, l’ultimo teorema cade in difetto. Osserviamo che se come spazio di partenza assumiamo l’insieme 𝑋 ∶= cl 𝐴, dove 𝐴 è l’aperto considerato in tale esempio, si ottiene che 𝑋 è compatto ed è quindi tale anche 𝑌 . Il teorema precedente ci assicura che adesso le due topologie 𝜏𝑞 e 𝜏𝑑 ′ coincidono.
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
348
7.2 Ulteriori risultati sulla compattezza
Dal Teorema di compattezza 7.35, sappiamo che una funzione continua da ℝ in ℝ muta insiemi compatti (chiusi e limitati) in insiemi compatti. Sappiamo dai corsi elementari di Analisi (Teorema dei valori intermedi) che una simile funzione muta intervalli in intervalli (eventualmente degeneri). Ci si può chiedere se queste proprietà caratterizzano la continuità in ℝ. A tale riguardo, sussiste il seguente risultato. Teorema 7.66. Una funzione 𝑓 ∶ 𝐼(⊆ ℝ) → ℝ, con 𝐼 un intervallo, che muta compatti in compatti e intervalli in intervalli è continua.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che 𝑓 non sia continua in un punto 𝑧 ∈ 𝐼. Non è restrittivo supporre che sia 𝑓 (𝑧) = 0. Esistono dunque un 𝜀 > 0 e una successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐼 tali che 𝑥𝑛 → 𝑧 e |𝑓 (𝑥𝑛 )| > 𝜀, ∀𝑛. Senza perdita di generalità, possiamo supporre che sia 𝑓 (𝑥𝑛 ) > 𝜀, ∀𝑛 e che la successione (𝑥𝑛 )𝑛 sia strettamente monotona, (per esempio, crescente). Dato che 𝑓 muta intervalli in intervalli, si ha che, per ogni 𝑛, 𝑓 ([𝑥𝑛 , 𝑧]) deve contenere l’intervallo [0, 𝜀]. Si ottiene che, per ogni 𝑛 > 1/𝜀, esiste un 𝑦𝑛 ∈ ]𝑥𝑛 , 𝑧[ tale che (0 1/𝜀} ∪ {𝑧}, si ha che 𝐶 è un compatto di 𝐼 (cioè un compatto di ℝ contenuto in 𝐼), mentre non lo è 𝑓 (𝐶), dato che 𝜀 = sup 𝑓 (𝐶) ∉ 𝑓 (𝐶), contro il fatto che, per ipotesi, 𝑓 muta compatti in compatti.
Osservazione 7.67. Si tenga presente che dalla sola condizione che 𝑓 muti intervalli in intervalli o, rispettivamente, compatti in compatti non segue la sua continuità. Infatti la funzione 𝑓 definita da 𝑓 (𝑥) ∶= sign 𝑥, con 𝑓 (0) ∶= 0, muta qualunque sottoinsieme di ℝ in un compatto, ma non è continua in 0. Chiaramente, essa non muta intervalli in intervalli. Per contro, la funzione 𝑓 definita da 𝑓 (𝑥) ∶= sin(1/𝑥), con 𝑓 (0) ∶= 0, pur non essendo continua in 0, muta intervalli in intervalli, ma non compatti in compatti. Per constatarlo basta prendere il sottoinsieme chiuso e limitato 𝐶, con 𝐶 ∶= {0} ∪ {𝑥 ∈ ]0, 1] ∶ sin(1/𝑥) = 1 − 𝑥} e osservare che 𝑓 (𝐶) non è chiuso, dato che risulta 1 ∈ cl 𝑓 (𝐶) ⧵ 𝑓 (𝐶). In fine, va notato anche che l’ultimo teorema può cadere in difetto se il suo dominio 𝐼 non è un intervallo. Per constatarlo, basta prendere ancora la funzione 𝑓 (𝑥) ∶= sign 𝑥 ristretta al compatto 𝐽 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ∪{0}. Infatti ora gli unici intervalli contenuti in 𝐽 sono quelli degeneri. ◁ Un problema collegato a questo e che avevamo lasciato in sospeso nel Paragrafo 2.1 era relativo ai legami, per una funzione reale di variabile reale fra essere aperta, chiusa, continua. Rimaneva solo da verificare che ogni funzione aperta e chiusa da ℝ in ℝ è continua. Premettiamo un’osservazione. Sappiamo che la famiglia degli intervalli aperti è una base per la topologia euclidea di ℝ. Ne viene che ogni aperto
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
349
di ℝ o è un intervallo o è unione di intervalli aperti a due a due disgiunti. Siccome ciascuno di essi contiene almeno un numero razionale, si conclude che: Ogni aperto di (ℝ, 𝜏𝑒 ) è unione di una famiglia al più numerabile di intervalli aperti a due a due disgiunti. Teorema 7.68. Sia 𝑓 ∶ ℝ → ℝ una funzione aperta e chiusa. Allora 𝑓 è continua.
Dimostrazione. Seguiremo lo schema dimostrativo utilizzato in [6], con alcune semplificazioni. Sia 𝑥 ∈ ℝ un elemento arbitrario, ma fissato e ci proponiamo di verificare che 𝑓 è continua in 𝑥. Per prima cosa, dimostreremo che esiste un intervallo chiuso 𝐼 di centro 𝑥 e raggio opportuno tale che 𝑓 (𝐼) è compatto. Supponiamo, per assurdo, che ciò non sia vero. Definiti, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ gli intervalli aperti 𝑈𝑛 ∶= ]𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 [, con 𝑎𝑛 ∶= 𝑥 − 1/𝑛 e 𝑏𝑛 ∶= 𝑥 + 1/𝑛, avremo che nessuno degli insiemi 𝑓 ([𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ]) è compatto. Tali insiemi tuttavia sono chiusi, perché 𝑓 è chiusa; quindi devono essere tutti illimitati. Non è restrittivo supporre che siano tutti illimitati superiormente. (Analogamente nell’altro caso.) Osserviamo ora che, con questa premessa, almeno uno di essi non contiene alcun intervallo illimitato contenente 𝑓 (𝑥). Se così non fosse, ciascun 𝑓 ([𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ]) dovrebbe contenere tutta la semiretta [𝑓 (𝑥), +∞[. Fissiamo quindi arbitrariamente un 𝑦 > 𝑓 (𝑥) e scegliamo una successione strettamente decrescente (𝑦𝑛 )𝑛 convergente a 𝑦. Per ogni 𝑛, sia ora 𝑥𝑛 ∈ [𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ] con 𝑓 (𝑥𝑛 ) = 𝑦𝑛 . Si ottiene che l’insieme 𝐸 ∶= {𝑥} ∪ {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} è un chiuso, mentre 𝑓 (𝐸) non lo è, dato che 𝑦 ∈ cl 𝑓 (𝐸) ⧵ 𝑓 (𝐸). Abbiamo così ottenuto una contraddizione e quindi possiamo affermare che esiste un intervallo 𝑈𝑛 , che indicheremo d’ora in avanti con 𝑈 ∶= ]𝑎, 𝑏[, tale che 𝑓 ([𝑎, 𝑏]) è illimitato, ma non contiene alcuna semiretta contenente 𝑓 (𝑥). In altri termini, esistono 𝑦1 , 𝑦2 ∉ 𝑓 ([𝑎, 𝑏]), con 𝑦1 < 𝑓 (𝑥) < 𝑦2 e 𝜀 > 0 tali che [𝑦1 − 𝜀, 𝑦1 + 𝜀] ∪ [𝑦2 − 𝜀, 𝑦2 + 𝜀] ⊂ ℝ ⧵ 𝑓 ([𝑎, 𝑏]). Lo stesso accade chiaramente anche per 𝑓 (𝑈 ). Poiché 𝑓 è aperta, 𝑓 (𝑈 ) è un aperto di ℝ e, di conseguenza, si può esprimere come unione al più numerabile di intervalli aperti, non vuoti e a due a due disgiunti. Di tali intervalli, almeno uno, quello contenente 𝑓 (𝑥), è limitato. Poniamo quindi 𝑓 (𝑈 ) ∶= 𝑉0 ∪
⋃ 𝑖≥1
𝑉𝑖 ,
dove 𝑉0 è un intervallo aperto e limitato contenente 𝑓 (𝑥) e i 𝑉𝑖 , con 𝑖 ≥ 1, sono intervalli aperti (a due a due disgiunti e disgiunti da 𝑉0 ). Si osservi che 𝑉0 non può coincidere con 𝑓 (𝑈 ), poiché quest’ultimo è illimitato. Notiamo ora che l’insieme chiuso 𝑓 ([𝑎, 𝑏]) si ottiene da 𝑓 (𝑈 ) aggiungendo i valori 𝑓 (𝑎) e 𝑓 (𝑏) (eventualmente coincidenti.) D’altra parte, 𝑓 ([𝑎, 𝑏]) è un chiuso che contiene 𝑓 (𝑈 ) e quindi deve contenere tutti i punti aderenti a 𝑉0 e a tutti i 𝑉𝑖 . Per ottenere cl 𝑓 (𝑈 ) bisogna aggiungere almeno tre punti: gli estremi di 𝑉0 e almeno un punto nella chiusura dei 𝑉𝑖 . L’assurdo così ottenuto prova l’esistenza
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
350
di un intervallo 𝐼 ∶= [𝑥 − 𝛿, 𝑥 + 𝛿] tale che 𝑓 (𝐼) è compatto. Si vede subito che 𝑓 ristretta ad 𝐼 muta compatti in compatti (Esercizio!). Sia ora 𝐼 ′ un intervallo, con int 𝐼 ′ ∶= ]𝛼, 𝛽[ ⊂ 𝐼 e proviamo che 𝑓 (int 𝐼 ′ ) è un intervallo. Procediamo ancora per assurdo, supponendo che 𝑓 (int 𝐼 ′ ) non sia un intervallo. D’altra parte, poiché 𝑓 è aperta, 𝑓 (int 𝐼 ′ ) è un aperto che è anche limitato, perché contenuto nel compatto 𝑓 (𝐼). Devono quindi esistere almeno tre punti distinti non appartenenti a 𝑓 (int 𝐼 ′ ) ma ad esso aderenti. Questo porta ancora a una contraddizione, poiché si ha che 𝑓 ([𝛼, 𝛽]) = 𝑓 (int 𝐼 ′ ) ∪ {𝑓 (𝛼), 𝑓 (𝛽)} è chiuso, essendo tale 𝑓 . Abbiamo così verificato che 𝑓 (int 𝐼 ′ ) è un intervallo (aperto) e limitato ]𝛼 ′ , 𝛽 ′ [. Poiché 𝑓 ([𝛼, 𝛽]) è un chiuso contenente ]𝛼 ′ , 𝛽 ′ [ (infatti 𝑓 è chiusa), dobbiamo avere necessariamente 𝑓 ([𝛼, 𝛽]) = [𝛼 ′ , 𝛽 ′ ]. In fine, poiché ]𝛼, 𝛽[ ⊆ 𝐼 ′ ⊆ [𝛼, 𝛽], concludiamo che è ]𝛼 ′ , 𝛽 ′ [ ⊆ 𝑓 (𝐼 ′ ) ⊆ [𝛼 ′ , 𝛽 ′ ] e che quindi 𝑓 (𝐼 ′ ) è un intervallo. Per il Teorema 7.66, la restrizione di 𝑓 ad 𝐼 è continua. Poiché 𝑥 è interno a 𝐼 (cfr. Osservazione 2.14), ciò è sufficiente per concludere che 𝑓 ∶ ℝ → ℝ è continua in 𝑥. Dall’arbitrarietà di 𝑥 si ha la tesi. Vogliamo verificare che, se 𝑓 ∶ ℝ → ℝ è aperta e chiusa, allora essa è addirittura un omeomorfismo.
Lemma 7.69. Una funzione 𝑓 ∶ 𝐼(⊆ ℝ) → ℝ, con 𝐼 intervallo, che sia aperta e continua è strettamente monotona e, quindi, iniettiva. Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, 𝑓 non strettamente monotona. Esistono allora in 𝐼 tre elementi 𝑎 < 𝑏 < 𝑐, con 𝑓 (𝑎) ≤ 𝑓 (𝑏) ≥ 𝑓 (𝑐), oppure 𝑓 (𝑎) ≥ 𝑓 (𝑏) ≤ 𝑓 (𝑐). Esaminiamo il primo caso; il secondo si tratta in modo analogo. Essendo 𝑓 continua, 𝑓 ([𝑎, 𝑐]) è un intervallo chiuso [𝑚, 𝑀]. Il massimo 𝑀 di 𝑓 ([𝑎, 𝑐]) è assunto in un punto interno; ne viene che 𝑀 è anche il massimo di 𝑓 (]𝑎, 𝑐[) e che quest’ultimo insieme non è aperto, mentre è tale 𝑓. Corollario 7.70. Sia 𝑓 ∶ ℝ → ℝ una funzione aperta e chiusa. Allora 𝑓 è un omeomorfismo di ℝ in sé.
Dimostrazione. Dal Teorema 7.68, abbiamo la continuità di 𝑓 . Essendo 𝑓 anche aperta, per il lemma precedente, deve essere strettamente monotona e quindi iniettiva. Essendo chiusa, continua e iniettiva, essa è anche suriettiva (cfr. Proposizione 2.22.2). La continuità dell’inversa è conseguenza immediata del fatto che 𝑓 è aperta. Teorema 7.71 (di Heine). Una funzione 𝑓 definita e continua in uno spazio metrico compatto (𝐾, 𝑑) e a valori in uno spazio metrico (𝑀, 𝛿) è uniformemente continua.
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
351
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che 𝑓 non sia uniformemente continua. Ne viene che (∃𝜀 > 0)(∀𝑛 ∈ ℕ+ )(∃𝑥𝑛 ∈ 𝐾)(∃𝑦𝑛 ∈ 𝐾)
((𝑑(𝑥𝑛 , 𝑦𝑛 ) < 1𝑛 ) ∧ (𝛿(𝑓 (𝑥𝑛 ), 𝑓 (𝑦𝑛 )) ≥ 𝜀)).
Essendo 𝐾 compatto, esiste una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 di (𝑥𝑛 )𝑛 convergente a un punto 𝜉 ∈ 𝐾. Anche la sottosuccessione (𝑦𝑛𝑘 )𝑘 converge a 𝜉, dato che è 𝑑(𝑦𝑛𝑘 , 𝜉) ≤ 𝑑(𝑦𝑛𝑘 , 𝑥𝑛𝑘 ) + 𝑑(𝑥𝑛𝑘 , 𝜉) → 0. Per la continuità di 𝑓 in 𝜉, devono convergere a 𝑓 (𝜉) entrambe le successioni (𝑓 (𝑥𝑛𝑘 ))𝑘 e (𝑓 (𝑦𝑛𝑘 ))𝑘 , contro il fatto che, per ogni 𝑘, è 𝛿(𝑓 (𝑥𝑛𝑘 ), 𝑓 (𝑦𝑛𝑘 )) ≥ 𝜀. Un concetto particolarmente importante per le applicazioni è il seguente:
Definizione 7.72. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝐴 un suo sottoinsieme. 𝐴 è detto relativamente compatto se la sua chiusura cl 𝐴 è un insieme compatto. 𝐴 è detto relativamente sequenzialmente compatto se ogni successione in 𝐴 ha una sottosuccessione convergente in 𝑋. ◁
Teorema 7.73. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico ed 𝐴 un suo sottoinsieme. 1. 𝐴 è relativamente compatto se e solo se è relativamente sequenzialmente compatto. 2. Se 𝐴 è relativamente compatto, allora ha la proprietà delle 𝜀-reti.
Dimostrazione. Siano: 𝐴 ⊆ 𝑋 relativamente sequenzialmente compatto, 𝐾 ∶= cl 𝐴 e (𝑦𝑛 )𝑛 una successione in 𝐾. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste 𝑥𝑛 ∈ 𝐴 tale che 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑦𝑛 ) < 1/𝑛. Per ipotesi, esiste una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 di (𝑥𝑛 )𝑛 convergente ad uno 𝑧 ∈ 𝑋; ne viene che anche 𝑦𝑛𝑘 converge a 𝑧. Dato che si ha anche 𝑧 ∈ 𝐾, si ottiene che 𝐾 è sequenzialmente compatto e quindi compatto. Viceversa, se 𝐾 è compatto è anche sequenzialmente compatto: ogni successione in 𝐾, e quindi anche in 𝐴, ha sottosuccessioni convergenti in 𝐾. Passiamo alla 2 e fissiamo un 𝜀 > 0. L’insieme 𝐾, essendo compatto, ha la proprietà delle 𝜀-reti. Per avere un 𝜀-ricoprimento di 𝐴, basta intersecare con 𝐴 le palle di un 𝜀-ricoprimento di 𝐾. Come vedremo (cfr. Lemma 7.95) è del tutto indifferente che queste palle abbiano o meno i centri in 𝐴. In Analisi Matematica rivestono una grande importanza i teoremi di dipendenza continua. Esempi in tal senso sono: la dipendenza continua delle soluzioni di un’equazione differenziale dai dati iniziali; la dipendenza continua, rispetto a uno o più parametri, delle soluzioni di un’equazione i cui coefficienti dipendano da tali parametri… Analizzando alcune di queste dimostrazioni, ci si accorge che esse si basano sull’utilizzo della compattezza sequenziale e, di solito, si possono riassumere nel seguente fatto: unicità implica dipendenza continua. Uno schema comune in questi tipi di dimostrazione è di verificare la continuità di un’applicazione provando che il suo grafico è chiuso. Abbiamo già
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
352
visto (cfr. Teorema 4.92) che nel caso delle applicazioni lineari fra spazi di Banach la continuità equivale al fatto che il grafico sia chiuso. Abbiamo altresì visto un esempio banale per cui tale proprietà non sussiste neanche in ℝ per applicazioni non lineari. Ci proponiamo ora di investigare la relazione fra la continuità di una funzione e la chiusura del suo grafico nell’ambito degli spazi topologici e sfruttando, in particolare, il concetto di compattezza. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Per definizione, il grafico 𝒢 (𝑓 ) è un sottoinsieme dello spazio prodotto 𝑋 × 𝑌 dotato della topologia prodotto. Quindi, quando parleremo di grafico chiuso, intenderemo riferirci a quest’ultima topologia. Inoltre, nel caso in cui 𝑋 e 𝑌 siano metrici, con distanze 𝑑𝑋 e 𝑑𝑌 , anche lo spazio prodotto si può metrizzare (cfr. Teorema 6.23). Trattandosi di soli due spazi, prenderemo come distanza nello spazio prodotto la somma delle distanze dei due fattori. Un primo risultato che non richiede alcuna ipotesi sugli spazi è il seguente: Lemma 7.74. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Se 𝑓 è continua, allora 𝒢 (𝑓 ) è omeomorfo a 𝑋.
Dimostrazione. Sia 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝒢 (𝑓 ) l’applicazione definita da 𝑥 ↦ (𝑥, 𝑓 (𝑥)). Chiaramente, 𝜑 è biiettiva. Essa è poi continua, dato che, stante la continuità di 𝑓 , sono tali le sue componenti (cfr. Corollario 6.9). In fine, è continua anche 𝜑−1 , dato che è la restrizione a 𝒢 (𝑓 ) della proiezione di 𝑋 × 𝑌 su 𝑋. Ci sarà utile il seguente lemma che caratterizza le funzioni con grafico chiuso.
Lemma 7.75. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Il grafico 𝒢 (𝑓 ) è chiuso se e solo se vale la seguente proprietà: (∗) Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e 𝑦 ∈ 𝑌 , con 𝑓 (𝑥) ≠ 𝑦, esistono un intorno aperto 𝑈 di 𝑥 e un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 tali che 𝑓 (𝑈 ) ∩ 𝑉 = ∅.
Dimostrazione. Proviamo il “se”. Fissiamo un punto (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑋 × 𝑌 ⧵ 𝒢 (𝑓 ), da cui 𝑦 ≠ 𝑓 (𝑥). Per ipotesi, esistono un intorno aperto 𝑈 di 𝑥 e un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 tali che 𝑓 (𝑈 ) ∩ 𝑉 = ∅. 𝑈 × 𝑉 è un intorno di (𝑥, 𝑦) in cui non ci sono punti del grafico. Passiamo al “solo se”. Supponiamo, per assurdo, che non sussista la (∗). Esistono allora 𝑥 ∈ 𝑋 e 𝑦 ∈ 𝑌 , con 𝑓 (𝑥) ≠ 𝑦, tali che, per ogni intorno aperto 𝑈 di 𝑥 e per ogni intorno aperto 𝑉 di 𝑦, risulta 𝑓 (𝑈 ) ∩ 𝑉 ≠ ∅. Ciò comporta che in 𝑈 × 𝑉 cadono punti del grafico. Siccome ogni intorno di (𝑥, 𝑦) contiene un aperto del tipo 𝑈 × 𝑉 , si conclude che è (𝑥, 𝑦) ∈ cl 𝒢 (𝑓 ) ⧵ 𝒢 (𝑓 ).
In generale, la continuità di 𝑓 non implica che il grafico sia chiuso. Vale tuttavia il seguente risultato: Teorema 7.76. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Se 𝑓 è continua e 𝑌 è 𝑇2 , allora 𝒢 (𝑓 ) è chiuso.
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
353
Dimostrazione. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑋 e un 𝑦 ∈ 𝑌 , con 𝑦 ≠ 𝑓 (𝑥). Essendo 𝑌 uno spazio di Hausdorff, esistono un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 e un intorno aperto 𝑉 ′ di 𝑓 (𝑥) fra loro disgiunti. Per la continuità di 𝑓 in 𝑥, esiste un intorno aperto 𝑈 di 𝑥 con 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 ′ e quindi 𝑓 (𝑈 ) ∩ 𝑉 = ∅. La tesi segue ora dal Lemma 7.75. Senza l’ipotesi che 𝑌 sia 𝑇2 , il teorema precedente cade in difetto, come mostra l’esempio che segue.
Esempio 7.77. Sia 𝑌 ∶= ℕ ∪ {𝑝, 𝑞}, con 𝑝 ≠ 𝑞 e 𝑝, 𝑞 ∉ ℕ. In 𝑌 definiamo la seguente topologia 𝜏 (cfr. Esempio 2.95): i punti di ℕ sono isolati; una base di intorni di 𝑝 [di 𝑞] è data dagli insiemi del tipo {𝑝} ∪ {𝑛 ∈ ℕ ∶ 𝑛 > 𝑘} [rispettivamente del tipo {𝑞} ∪ {𝑛 ∈ ℕ ∶ 𝑛 > 𝑘}]. Lo spazio (𝑌 , 𝜏) è 𝑇1 , ma non 𝑇2 . Sia poi 𝑋 ∶= 𝑌 ⧵ {𝑞} con la topologia indotta da 𝜏. 𝑋 è un compatto di Hausdorff. L’immersione canonica 𝑓 di 𝑋 in 𝑌 è ovviamente continua. Ora però si ha (𝑝, 𝑞) ∈ cl 𝒢 (𝑓 ) ⧵ 𝒢 (𝑓 ). ◁ Osservando che la diagonale Δ ∶= {(𝑥, 𝑥) ∶ 𝑥 ∈ 𝑋} ⊆ 𝑋 × 𝑋 è il grafico dell’identità, è interessante, in questo contesto, segnalare che: Teorema 7.78. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è di Hausdorff se e solo se la diagonale Δ è un sottoinsieme chiuso di 𝑋 × 𝑋.
Dimostrazione. La diagonale Δ è il grafico dell’identità di 𝑋, che è ovviamente continua. Se 𝑋 è di Hausdorff, si ha che Δ è chiusa per il Teorema 7.76. Se 𝑋 non è di Hausdorff, esistono 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, tali che, per ogni intorno aperto 𝑈 di 𝑥 e per ogni intorno aperto 𝑉 di 𝑦, risulta 𝑈 ∩ 𝑉 ≠ ∅. Ciò comporta che in 𝑈 × 𝑉 cadono punti di Δ. Siccome ogni intorno di (𝑥, 𝑦) contiene un aperto del tipo 𝑈 × 𝑉 , si conclude che è (𝑥, 𝑦) ∈ cl Δ ⧵ Δ. Il risultato può anche essere visto come un caso di applicazione del Teorema 6.70 sugli spazi quoziente. Teorema 7.79. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Supponiamo inoltre che il grafico 𝒢 (𝑓 ) sia chiuso. Allora: 1. Per ogni 𝐾(⊆ 𝑋) compatto, 𝑓 (𝐾) è chiuso in 𝑌 . 2. Per ogni 𝐾 ′ (⊆ 𝑌 ) compatto, 𝑓 −1 (𝐾 ′ ) è chiuso in 𝑋.
Dimostrazione. 1. Fissiamo un 𝑦 ∈ 𝑌 ⧵ 𝑓 (𝐾). Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾, è 𝑓 (𝑥) ≠ 𝑦. Essendo il grafico di 𝑓 chiuso, per il Lemma 7.75, si ha che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐾, esistono un intorno aperto 𝑈𝑥 di 𝑥 e un intorno aperto 𝑉𝑥 di 𝑦 tali che 𝑓 (𝑈𝑥 ) ∩ 𝑉𝑥 = ∅. La famiglia degli 𝑈𝑥 è un ricoprimento aperto di 𝐾; essendo questo compatto, esiste un sottoricoprimento finito 𝑈𝑥1 , … , 𝑈𝑥𝑛 . L’insieme 𝑉 ∶= 𝑉𝑥1 ∩ ⋯ ∩ 𝑉𝑥𝑛 è un intorno aperto di 𝑦 disgiunto da 𝑓 (𝐾). Si ottiene 𝑦 ∉ cl 𝑓 (𝐾); dall’arbitrarietà di 𝑦, si ottiene che 𝑓 (𝐾) è chiuso. 2. Supponiamo che 𝐾 ∶= 𝑓 −1 (𝐾 ′ ) non sia chiuso. Esiste dunque 𝑧 ∈ cl 𝐾⧵𝐾, da cui 𝑓 (𝑧) ∉ 𝐾 ′ . Per ogni 𝑦 ∈ 𝐾 ′ è dunque 𝑓 (𝑧) ≠ 𝑦. Per il Lemma 7.75, si
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
354
ha che, per ogni 𝑦 ∈ 𝐾 ′ , esistono un intorno aperto 𝑈𝑦 di 𝑧 e un intorno aperto 𝑉𝑦 di 𝑦 tali che 𝑓 (𝑈𝑦 ) ∩ 𝑉𝑦 = ∅. La famiglia dei 𝑉𝑦 è un ricoprimento aperto di 𝐾 ′ ; essendo questo compatto, esiste un sottoricoprimento finito 𝑉𝑦1 , … , 𝑉𝑦𝑛 . L’insieme 𝑈 ∶= 𝑈𝑦1 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑦𝑛 è un intorno aperto di 𝑧 con 𝑓 (𝑈 ) disgiunto da 𝑉 ∶= 𝑉𝑦1 ∪ ⋯ ∪ 𝑉𝑦𝑛 ⊇ 𝐾 ′ . Siccome però è 𝑧 ∈ cl 𝐾, esiste 𝑥 ∈ 𝑈 ∩ 𝐾, da cui 𝑓 (𝑥) ∈ 𝐾 ′ . Assurdo. Corollario 7.80. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Se 𝑌 è compatto e il grafico 𝒢 (𝑓 ) è chiuso, allora 𝑓 è continua.
Dimostrazione. Sia 𝐾 ′ un chiuso di 𝑌 . Essendo 𝑌 compatto, 𝐾 ′ è compatto (cfr. Proposizione 7.30.1). Per il teorema precedente si conclude che 𝑓 −1 (𝐾 ′ ) è un chiuso di 𝑋 e che quindi 𝑓 è continua. Come già osservato nel Paragrafo 4.5, la chiusura del grafico non implica la continuità della funzione (quando il codominio non sia compatto). Basta pensare alla funzione 𝑓 ∶ ℝ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 1/𝑥, per 𝑥 ≠ 0 e 𝑓 (0) = 0. Dal Teorema 7.76 e dal Corollario 7.80 segue immediatamente il
Corollario 7.81. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Se 𝑌 è compatto e 𝑇2 , allora 𝑓 è continua se e solo se il grafico 𝒢 (𝑓 ) è chiuso.
Nel caso degli spazi numerabilmente compatti sussiste la seguente variante del Corollario 7.80. Teorema 7.82. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎), con 𝑋 di Fréchet (cfr. Definizione 2.54) e 𝑌 numerabilmente compatto. Allora ogni funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 con grafico 𝒢 (𝑓 ) chiuso è continua.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che esistano una 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 e un punto 𝑧 ∈ 𝑋 con 𝑓 non continua in 𝑧. Esiste allora un intorno 𝑉0 di 𝑓 (𝑧) tale che, per ogni intorno 𝑈 di 𝑧, 𝑓 (𝑈 ) ⊈ 𝑉0 ; quindi, per ogni 𝑈 esiste un 𝑥𝑈 ∈ 𝑈 tale che 𝑓 (𝑥𝑈 ) ∉ 𝑉0 . Sia 𝐻 l’insieme di questi 𝑥𝑈 ; si ha 𝑧 ∈ cl 𝐻. Essendo 𝑋 di Fréchet, esiste in 𝐻 una successione (𝑥𝑛 )𝑛 convergente a 𝑧. Sia poi 𝐾 ∶= {𝑓 (𝑥𝑛 ) ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. Se esiste una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 dove 𝑓 assume un valore costante 𝑦, si ha 𝑦 ≠ 𝑓 (𝑧). Si vede subito che il punto (𝑧, 𝑦) ∈ cl 𝒢 (𝑓 ) ⧵ 𝒢 (𝑓 ). Supponiamo ora che la successione (𝑥𝑛 )𝑛 non abbia sottosuccessioni di valore costante. È lecito supporre che la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 abbia elementi tutti distinti. In questo caso, 𝐾 è infinito. Essendo 𝑌 numerabilmente compatto, in esso sussiste la proprietà di Bolzano-Weierstrass (cfr. Teorema 7.11). Esiste pertanto un punto 𝑦 ̂ ∈ 𝑌 di 𝜔-accumulazione per 𝐾. Si ha 𝑦 ̂ ≠ 𝑓 (𝑧), dato che, per costruzione, si ha 𝐾 ∩ 𝑉0 = ∅. Proviamo che (𝑧, 𝑦)̂ ∈ cl 𝒢 (𝑓 ) ⧵ 𝒢 (𝑓 ). Un intorno di base del punto (𝑧, 𝑦)̂ è del tipo 𝑈 × 𝑉 , con 𝑈 intorno di 𝑧 e 𝑉 intorno di 𝑦.̂ In 𝑈 cadono tutti gli 𝑥𝑛 con 𝑛 maggiore di un opportuno 𝑛; in 𝑉 cadono
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
355
infiniti elementi del tipo 𝑓 (𝑥𝑛 ) e quindi anche per degli 𝑛 > 𝑛. Si conclude che, effettivamente, è (𝑧, 𝑦)̂ ∈ cl 𝒢 (𝑓 ) ⧵ 𝒢 (𝑓 ). In ciascun caso si contraddice il fatto che, per ipotesi, 𝒢 (𝑓 ) è chiuso. Mostreremo ora alcune applicazioni del Teorema 7.82 nel contesto degli spazi metrici. Poiché gli spazi metrici sono di Fréchet e in essi la compattezza coincide con la numerabile compattezza, il Corollario 7.80 e il Teorema 7.82 vengono a coincidere. In particolare, il Corollario 7.81 si scrive nella forma seguente: Teorema 7.83. Siano dati due spazi metrici 𝑋 e 𝑌 , con 𝑌 compatto, e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Allora 𝑓 è continua se e solo se il suo grafico è chiuso.
Nel caso degli spazi metrici, la chiusura di 𝒢 (𝑓 ) equivale al sussistere della seguente proprietà: (𝑥𝑛 → 𝑢) ∧ (𝑦𝑛 ∶= 𝑓 (𝑥𝑛 ) → 𝑣) ⇒ (𝑣 = 𝑓 (𝑢)).
(7.1)
Come prima applicazione, consideriamo un risultato di dipendenza continua che si ritrova in molti esempi. Siano 𝑋, 𝑌 , 𝑍 spazi metrici e 𝑔 ∶ 𝑋 × 𝑌 → 𝑍 una funzione continua. Fissiamo 𝑧0 ∈ 𝑍 e supponiamo che 𝐴 ⊆ 𝑋 e 𝐵 ⊆ 𝑌 siano due insiemi non vuoti tali che per ogni 𝑥 ∈ 𝐴 esiste un unico 𝑦 ∈ 𝐵 tale che 𝑔(𝑥, 𝑦) = 𝑧0 . Resta così definita una funzione 𝑓 ∶ 𝐴 → 𝐵 tale che nell’insieme prodotto 𝐴 × 𝐵 risulta 𝑔(𝑥, 𝑦) = 𝑧0 ⇔ 𝑦 = 𝑓 (𝑥). Teorema 7.84. Nelle condizioni di cui sopra, se 𝐵 è compatto, allora 𝑓 è continua. Dimostrazione. Basta verificare la (7.1). Siano (𝑥𝑛 )𝑛 una successione di elementi di 𝐴 convergente a un punto 𝑢 ∈ 𝐴 e, per ogni 𝑛, 𝑦𝑛 ∶= 𝑓 (𝑥𝑛 ) → 𝑣 ∈ 𝐵. Risulta 𝑧0 = 𝑔(𝑥𝑛 , 𝑦𝑛 ) → 𝑔(𝑢, 𝑣), per la continuità di 𝑔. Quindi 𝑣 = 𝑓 (𝑢). Riprendiamo la distanza fra insiemi della Definizione 3.43.
Teorema 7.85. Siano 𝐶, 𝐷 due chiusi non vuoti e disgiunti in uno spazio metrico (𝑋, 𝑑). Se almeno uno dei due è compatto, allora si ha 𝑑(𝐶, 𝐷) > 0. Dimostrazione. Supponiamo che 𝐶 sia compatto. Sia 𝑓 ∶ 𝐶 → ℝ la funzione definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑑(𝑥, 𝐷) = inf {𝑑(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑦 ∈ 𝐷}. Per la Proposizione 3.42.4, 𝑓 è continua; inoltre, è sempre positiva perché l’insieme 𝐷 è chiuso e 𝑥 ∉ 𝐷 (cfr. Proposizione 3.42.1). Essendo 𝐶 compatto, per il Teorema di Weierstrass, 𝑓 ha minimo 𝛿 > 0. Esiste un 𝑥 ∈ 𝐶 tale che 𝛿 = 𝑓 (𝑥) ∶= inf {𝑑(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑦 ∈ 𝐷}. Si ha, intanto, 𝛿 ≥ 𝜂 ∶= inf {𝑑(𝑥, 𝑦) ∶ (𝑥 ∈ 𝐶) ∧ (𝑦 ∈ 𝐷)} =∶ 𝑑(𝐶, 𝐷). In realtà, si ha 𝛿 = 𝜂 = 𝑑(𝐶, 𝐷). Supponiamo, per assurdo, che sia 𝛿 > 𝜂. Devono allora esistere 𝑥̂ ∈ 𝐶 e 𝑦 ̂ ∈ 𝐷 tali che 𝑑(𝑥,̂ 𝑦)̂ < 𝛿: Ma allora si ottiene 𝑓 (𝑥)̂ ∶= inf {𝑑(𝑥,̂ 𝑦) ∶ 𝑦 ∈ 𝐷} ≤ 𝑑(𝑥,̂ 𝑦)̂ < 𝛿, contro la minimalità di 𝛿.
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
356
Osservazione 7.86. In generale, sotto le ipotesi del teorema precedente, non è detto che esista una coppia di punti (𝑥,̂ 𝑦)̂ ∈ 𝐶 × 𝐷 che realizzi la minima distanza, come mostra i seguente esempio. In 𝑋 ∶= 𝐶([0, 1], ℝ) con la distanza lagrangiana, consideriamo il compatto 𝐶 ∶= {0} (funzione nulla) e 𝐷 l’insieme delle funzioni del tipo 𝑓𝑛 ∈ 𝑋, 𝑛 ∈ ℕ+ , con 𝑓𝑛 (𝑡) ∶= 𝑛+1 𝑡𝑛 . Per ogni 𝑛 si ha ‖𝑓𝑛 ‖∞ = 𝑑∞ (0, 𝑓𝑛 ) = 1 + 1/𝑛 > 1. D’altra 𝑛 parte, si ha 𝑑(𝐶, 𝐷) = 1 e quindi non esiste 𝑦 ̂ ∈ 𝐷 che realizzi la minima distanza da 𝐶. Resta da controllare che 𝐷 è chiuso. La successione (𝑓𝑛 )𝑛 (e quindi ogni sua sottosuccessione) converge puntualmente alla funzione 𝜑 che vale 1 in 1 e 0 altrove. Siccome 𝜑 non è continua, la convergenza non può essere uniforme. ◁
Definizione 7.87. Sia 𝐶 un sottoinsieme non vuoto, chiuso e convesso contenuto propriamente in ℝ𝑚 . Dato un punto u ∈ fr 𝐶, un versore 𝜈 ∈ 𝑆 𝑚−1 si dice versore normale esterno a 𝐶 in u se risulta 𝐶 ⊆ {x ∈ ℝ𝑚 ∶ ⟨x − u, 𝜈⟩ ≤ 0} .
L’insieme degli x ∈ ℝ𝑚 in cui il precedente prodotto scalare si annulla si chiama iperpiano di supporto. ◁ È facile trovare, già nel piano, degli esempi per cui non c’è l’unicità del vettore normale esterno. Basta prendere un rettangolo di ℝ2 e considerarne i vertici. D’altra parte, se uno traccia nel piano una figura convessa priva di spigoli, ha l’impressione che i versori normali esterni varino con continuità. Quest’idea intuitiva può essere confermata dal seguente risultato. Teorema 7.88. Sia 𝐴 ⊆ fr 𝐶 un sottoinsieme non vuoto del chiuso, convesso 𝐶 tale che, per ogni x ∈ 𝐴, esiste un unico versore normale esterno 𝜈(x) ∈ 𝑆 𝑚−1 . Allora l’applicazione 𝑓 ∶ 𝐴 → 𝑆 𝑚−1 che così resta definita è continua.
Dimostrazione. Come nel caso del teorema precedente, facciamo vedere che sussiste la (7.1). Siano (x𝑛 )𝑛 una successione di elementi di 𝐴 convergente a un punto u ∈ 𝐴 e, per ogni 𝑛, 𝜈𝑛 ∶= 𝑓 (x𝑛 ) → v ∈ 𝑆 𝑚−1 . Siccome, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, si ha ⟨x − x𝑛 , 𝜈𝑛 ⟩ ≤ 0, ∀x ∈ 𝐶, si ha anche ⟨x − u, v⟩ ≤ 0, ∀x ∈ 𝐶. Dunque v è un versore normale esterno a 𝐶 in u; dato che questo è unico, per ipotesi, si ha perciò v = 𝑓 (u). Presenteremo un ulteriore teorema di dipendenza continua nel Capitolo 12, dopo aver visto il Teorema di Ascoli-Arzelà (cfr. Teorema 12.122). Un ragionamento simile a quelli usati in questi ultimi risultati viene utilizzato per verificare l’esistenza di limite per una funzione che, in qualche modo, inverte il teorema sul limite della restrizione.
Teorema 7.89. Siano (𝑋, 𝑑) e (𝑌 , 𝛿) due spazi metrici, di cui il secondo compatto. Siano poi dati una funzione 𝑓 ∶ 𝐷(⊆ 𝑋) → 𝑌 e un punto 𝑧 ∈ 𝑋 di accumulazione per 𝐷. Se non esistono due successioni (𝑥𝑛 )𝑛 e (𝑥′𝑛 )𝑛 di 𝐷 ⧵ {𝑧}
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
357
convergenti a 𝑧 tali che (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 e (𝑓 (𝑥′𝑛 ))𝑛 hanno limiti diversi, allora esiste il limite di 𝑓 per 𝑥 → 𝑧.
Dimostrazione. Sia 𝑆 ∶= (𝑢𝑛 )𝑛 una successione in 𝐷 ⧵ {𝑧} convergente a 𝑧. Per la compattezza di 𝑌 , la successione 𝑓 (𝑆) di termine generale 𝑦𝑛 ∶= 𝑓 (𝑢𝑛 ) ha una sottosuccessione convergente a un punto 𝑙 ∈ 𝑌 . Questa è del tipo 𝑓 (𝑆 ′ ), con 𝑆 ′ sottosuccessione di 𝑆. Verificheremo ora che 𝑓 (𝑆) → 𝑙. Se così non fosse, esisterebbe una sua sottosuccessione priva di sottosuccessioni convergenti a 𝑙 (Assioma di Urysohn, Teorema 2.39). D’altra parte, sempre per la compattezza di 𝑌 , questa sottosuccessione dovrebbe anch’essa avere una sottosuccessione convergente a un elemento di 𝑌 che, per l’ipotesi, dovrebbe coincidere con 𝑙. Quanto visto assicura che, per ogni successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝐷 ⧵ {𝑧} convergente a 𝑧, la successione delle immagini converge a 𝑙. La tesi segue ora dal Teorema 3.57, prendendo 𝐸 ∶= 𝐷 ⧵ {𝑧}. Un caso particolare di questo risultato si ha con 𝑌 ∶= ℝ (retta ampliata).
Un’altra applicazione della compattezza negli spazi metrici permette di definire una “vera” distanza fra insiemi (cfr. pag. 106). Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico. Dato un sottoinsieme non vuoto 𝐴 ⊆ 𝑋 e un numero reale 𝜀 > 0, definiamo la 𝜀-espansione 𝐴(𝜀) di 𝐴 come segue: 𝐴(𝜀) ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑑(𝑥, 𝐴) < 𝜀} =
⋃
𝑎∈𝐴
𝐵(𝑎, 𝜀).
Definizione 7.90. Dati due sottoinsiemi non vuoti 𝐴 e 𝐵 di uno spazio metrico (𝑋, 𝑑), definiamo la distanza di Hausdorff fra 𝐴 e 𝐵 ponendo: 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) ∶= inf {𝜀 > 0 ∶ (𝐴(𝜀) ⊇ 𝐵) ∧ (𝐵(𝜀) ⊇ 𝐴)} .
Si noti che è 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) ∈ [0, +∞].
(7.2) ◁
Lemma 7.91. La distanza di Hausdorff fra due sottoinsiemi non vuoti 𝐴 e 𝐵 di uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) può essere definita equivalentemente ponendo 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) ∶= max{sup{𝑑(𝑎, 𝐵)}, sup{𝑑(𝑏, 𝐴)}} ∈ [0, +∞]. 𝑎∈𝐴
𝑏∈𝐵
(7.3)
Dimostrazione. Dati 𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋 non vuoti, siano 𝛿 e 𝛿 ′ le distanze definite, rispettivamente, dalla (7.2) e dalla (7.3). 1. Sia 𝛿 ′ = +∞. Non è restrittivo supporre che sia sup𝑎∈𝐴 {𝑑(𝑎, 𝐵)} = +∞. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ esiste un 𝑎𝑛 ∈ 𝐴 tale che 𝑑(𝑎𝑛 , 𝐵) > 𝑛 e quindi 𝐴 ⊈ 𝐵(𝑛). Si conclude che è anche 𝛿 = +∞. 2. Sia 𝛿 ′ = 0. Si ha 𝑑(𝑎, 𝐵) = 0, ∀𝑎 ∈ 𝐴 e 𝑑(𝑏, 𝐴) = 0, ∀𝑏 ∈ 𝐵. Quindi, per ogni 𝜀 > 0, si ha 𝐴 ⊆ 𝐵(𝜀) e 𝐵 ⊆ 𝐴(𝜀), da cui anche 𝛿 = 0.
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
358
3. Sia 0 < 𝛿 ′ < +∞. Anche in questo caso, non è restrittivo supporre che sia sup𝑎∈𝐴 {𝑑(𝑎, 𝐵)} = 𝛿 ′ . Fissiamo 𝜀′ e 𝜀″ , con 0 < 𝜀′ < 𝛿 ′ < 𝜀″ . Esiste un 𝑎 ∈ 𝐴 tale che 𝑑(𝑎, 𝐵) > 𝜀′ ; si ottiene 𝑎 ∉ 𝐵(𝜀′ ) e quindi 𝐴 ⊈ 𝐵(𝜀′ ), da cui 𝛿 > 𝜀′ , ∀𝜀′ < 𝛿 ′ . Si ha 𝑑(𝑎, 𝐵) < 𝜀″ , ∀𝑎 ∈ 𝐴 e 𝑑(𝑏, 𝐴) < 𝜀″ , ∀𝑏 ∈ 𝐵. Si ottiene 𝐴 ⊆ 𝐵(𝜀″ ) e 𝐵 ⊆ 𝐴(𝜀″ ), da cui 𝛿 < 𝜀″ , ∀𝜀″ > 𝛿 ′ . Si conclude che è 𝛿 = 𝛿 ′ . È ovvio che, se uno solo dei due insiemi è illimitato, allora la distanza di Hausdorff risulta essere infinita. Si noti che la distanza di Hausdorff può essere finita anche se i due insiemi sono tutti due illimitati. Un esempio in (ℝ2 , 𝑑2 ) si ottiene prendendo come insiemi 𝐴 e 𝐵 i grafici della funzione nulla 2 e, rispettivamente, della funzione 𝑓 ∶ ℝ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑒−𝑥 ; pur essendo i due insiemi illimitati, si ha 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) = 1. In generale, date due funzioni 𝑓 , 𝑔 ∶ 𝐸(⊆ ℝ) → ℝ la distanza di Hausdorff in ℝ2 dei rispettivi grafici è sempre limitata superiormente da sup𝑥∈𝐸 {|𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|}. Supponiamo che per due sottoinsiemi non vuoti 𝐴, 𝐵 di (𝑋, 𝑑), si abbia 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) = 𝛿 < ∞. Allora, dalla Definizione 7.90, segue immediatamente che sussiste la seguente proprietà: (∀𝜀 > 0) ((∀𝑎 ∈ 𝐴)(∃𝑏 ∈ 𝐵)(𝑑(𝑎, 𝑏) < 𝛿 + 𝜀)∧ ∧(∀𝑏 ∈ 𝐵)(∃𝑎 ∈ 𝐴)(𝑑(𝑎, 𝑏) < 𝛿 + 𝜀))
(7.4)
È poi facile vedere che la distanza di Hausdorff fra un insieme e la sua chiusura è nulla (Esercizio!). Per tali motivi, ci limiteremo a considerare insiemi chiusi e limitati. Teorema 7.92. Sia ℋ (𝑋) l’insieme dei sottoinsiemi non vuoti, chiusi e limitati dello spazio metrico (𝑋, 𝑑). Allora 𝑑𝐻 è una distanza in ℋ (𝑋).
Dimostrazione. Osserviamo, intanto, che, quali che siano i sottoinsiemi non vuoti 𝐴, 𝐵 di 𝑋, si ha 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) ≤ sup {𝑑(𝑎, 𝑏) ∶ (𝑎 ∈ 𝐴) ∧ (𝑏 ∈ 𝐵)}. Quindi, se 𝐴 e 𝐵 sono limitati, si ha 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) ∈ ℝ. Inoltre, si ha subito 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) ≥ 0, 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐴) = 0 e 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) = 𝑑𝐻 (𝐵, 𝐴). Sia ora 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) = 0. È dunque 𝑑(𝑎, 𝐵) = 0, ∀𝑎 ∈ 𝐴 e 𝑑(𝑏, 𝐴) = 0, ∀𝑏 ∈ 𝐵 e quindi 𝐴 ⊆ cl 𝐵 = 𝐵 e 𝐵 ⊆ cl 𝐴 = 𝐴. Siano ora 𝐴, 𝐵, 𝐶 ∈ ℋ (𝑋). Quali che siano 𝑎 ∈ 𝐴, 𝑏 ∈ 𝐵, 𝑐 ∈ 𝐶, si ha 𝑑(𝑎, 𝑏) ≤ 𝑑(𝑎, 𝑐) + 𝑑(𝑐, 𝑏), da cui 𝑑(𝑎, 𝐵) ≤ 𝑑(𝑎, 𝐶) + 𝑑(𝑐, 𝐵) e 𝑑(𝑏, 𝐴) ≤ 𝑑(𝑐, 𝐴) + 𝑑(𝑏, 𝐶). Si ottiene sup{𝑑(𝑎, 𝐵)} ≤ sup{𝑑(𝑎, 𝐶)} + sup{𝑑(𝑐, 𝐵)}; 𝑎∈𝐴
𝑎∈𝐴
𝑐∈𝐶
sup{𝑑(𝑏, 𝐴)} ≤ sup{𝑑(𝑐, 𝐴)} + sup{𝑑(𝑏, 𝐶)}. 𝑏∈𝐵
𝑐∈𝐶
𝑏∈𝐵
Si conclude immediatamente che è 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) ≤ 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐶) + 𝑑𝐻 (𝐶, 𝐵).
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
359
Dato che, in uno spazio metrico, i compatti sono sempre insiemi chiusi e limitati (cfr. Teorema 7.26), si ottiene immediatamente il
Corollario 7.93. Sia 𝒦 (𝑋) l’insieme dei sottoinsiemi non vuoti e compatti dello spazio metrico (𝑋, 𝑑). Allora 𝑑𝐻 è una distanza in 𝒦 (𝑋). È interessante stabilire delle relazioni fra le distanze 𝑑 e 𝑑𝐻 . Una prima ovvia proprietà è che si ha 𝑑(𝐴, 𝐵) ≤ 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵), dove 𝑑(𝐴, 𝐵) è la “distanza” fra due insiemi vista nella definizione 3.43. Inoltre, si può osservare che, siccome i singoletti sono sempre insiemi compatti, identificando i punti di 𝑋 con i relativi singoletti, si ha 𝑋 ⊆ 𝒦 (𝑋) ⊆ ℋ (𝑋). È poi banale verificare che la distanza di Hausdorff 𝑑𝐻 , ristretta a 𝑋 × 𝑋, coincide con 𝑑. Osserviamo anche che, per il Teorema di Borel (cfr. Teorema 7.28), in (𝑋, 𝑑) ∶= (ℝ𝑚 , 𝑑2 ) gli insiemi 𝒦 (𝑋) e ℋ (𝑋) coincidono.
Lemma 7.94. Con l’identificazione precedente, si ha che 𝑋 è un sottospazio chiuso di ℋ (𝑋) e quindi anche di 𝒦 (𝑋). Dimostrazione. Sia 𝐴 un sottoinsieme non vuoto, chiuso e limitato di 𝑋 e (𝑥𝑛 )𝑛 una successione di punti di 𝑋 tale che 𝑑𝐻 ({𝑥𝑛 }, 𝐴) → 0. Ciò implica che, per ogni 𝜀 > 0, esiste un 𝑛∗ tale che 𝐴 ⊆ 𝐵(𝑥𝑛 , 𝜀), ∀𝑛 > 𝑛∗ . Quindi, fissato 𝑧 ∈ 𝐴, si ha 𝑑(𝑧, 𝑥𝑛 ) < 𝜀, ∀𝑛 > 𝑛∗ . Concludiamo che 𝑥𝑛 → 𝑧 in (𝑋, 𝑑). Per l’unicità del limite, segue che è 𝐴 = {𝑧}. Lemma 7.95. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico e 𝐶 un sottoinsieme non vuoto di 𝑋. Se (𝑋, 𝑑) è totalmente limitato, è tale anche (𝐶, 𝑑). Dimostrazione. Fissiamo un 𝜀 > 0. Esiste un numero finito di palle aperte 𝐵1 , … , 𝐵𝑛 di 𝑋 con raggio 𝜀/2 ricoprente 𝐶. Si può supporre che ciascuna di esse intersechi 𝐶. Pe ogni 𝑖 ≤ 𝑛, prendiamo un punto 𝑐𝑖 ∈ 𝐵𝑖 ∩ 𝐶. Le palle aperte di centro 𝑐𝑖 e raggio 𝜀 costituiscono un 𝜀-ricoprimento di 𝐶 con palle i cui centri stanno in 𝐶.
La dimostrazione del risultato precedente implica anche che, quando parliamo di sottoinsieme totalmente limitato 𝐶 di uno spazio metrico 𝑋, è equivalente pensare che, per ogni 𝜀 > 0 vi sia una 𝜀-rete per 𝐶 costituita da punti (centri) di 𝐶 o da punti (centri) di 𝑋.
Lemma 7.96. Siano: (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico e (𝑆𝑛 )𝑛 una successione di sottoinsiemi non vuoti di 𝑋 convergente a un insieme non vuoto 𝐸 ⊆ 𝑋 nella metrica di Hausdorff. Allora, per ogni 𝑧 ∈ 𝐸, esiste una successione (𝑥𝑛 )𝑛 , con 𝑥𝑛 ∈ 𝑆𝑛 , ∀𝑛, tale che 𝑥𝑛 → 𝑧 in 𝑑. Dimostrazione. Dall’ipotesi 𝑆𝑛 → 𝐸 si ottiene
(∀𝜀 > 0)(∃𝜈(𝜀) ∈ ℕ)(∀𝑛 ∈ ℕ)(𝑛 > 𝜈(𝜀) ⇒ 𝐸 ⊆ 𝑆𝑛 (𝜀)).
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
360
Fissiamo un arbitrario 𝑧 ∈ 𝐸. Dalla proposizione precedente si ottiene che, per ogni 𝑛 > 𝜈(𝜀), esiste un 𝑦𝑛 ∈ 𝑆𝑛 tale che 𝑑(𝑦𝑛 , 𝑧) < 𝜀. Sia ora 𝜀 = 1/𝑚, con 𝑚 ∈ ℕ+ . Si ottiene (∀𝑚 ∈ ℕ+ )(∃𝜈(𝑚) ∈ ℕ)(∀𝑛 ∈ ℕ)
𝑚 (𝑛 > 𝜈(𝑚) ⇒ (∃𝑦𝑚 𝑛 ∈ 𝑆𝑛 )(𝑑(𝑦𝑛 , 𝑧) < 1/𝑚)).
Costruiamo ora la successione (𝑥𝑛 )𝑛 come segue. Per 𝑛 < 𝜈(1), 𝑥𝑛 è un arbitrario elemento di 𝑆𝑛 . Per 𝜈(𝑘) ≤ 𝑛 < 𝜈(𝑘 + 1), è 𝑥𝑛 ∶= 𝑦𝑘𝑛 . Per costruzione, si ha 𝑥𝑛 ∈ 𝑆𝑛 e 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑧) < 1/𝑚, ∀𝑛 > 𝜈(𝑚). Si conclude che (𝑥𝑛 )𝑛 è la successione cercata. Si vede facilmente che il lemma precedente non è invertibile. In (ℝ, 𝑑2 ), si ponga 𝑆2𝑛 ∶= [0, 1], 𝑆2𝑛+1 ∶= [−1, 0] e 𝐸 ∶= {0}. Teorema 7.97. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico, 𝒦 (𝑋) l’insieme dei suoi sottoinsiemi non vuoti e compatti e ℋ (𝑋) l’insieme dei suoi sottoinsiemi non vuoti, chiusi e limitati. Allora: 1. Se 𝑋 è totalmente limitato, è tale anche ℋ (𝑋). 2. (Teorema di Price) Se 𝑋 è completo, è tale anche ℋ (𝑋) (cfr. [69]). 3. Se 𝑋 è compatto, è tale anche ℋ (𝑋) = 𝒦 (𝑋).
Dimostrazione. 1. Fissato 𝜀 > 0, siano 𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ∈ 𝑋 i centri di 𝑛 palle aperte ricoprenti 𝑋. Siano 𝑌1 , … , 𝑌𝑘 , con 𝑘 ∶= 2𝑛 − 1, i sottoinsiemi non vuoti dell’insieme {𝑥1 , … , 𝑥𝑛 }. È banale constatare che tutti gli 𝑌𝑖 sono elementi di ℋ (𝑋) (addirittura di 𝒦 (𝑋)). Fissiamo ora un arbitrario 𝐸 ∈ ℋ (𝑋). Per definizione, si ha 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐵(𝑥𝑖 , 𝜀). Sia 𝐽 ⊆ {1, … , 𝑛} l’insieme degli indici 𝑖 per cui è 𝐵(𝑥𝑖 , 𝜀) ∩ 𝐸 ≠ ∅. È 𝐽 ≠ ∅, dato che è 𝐸 ≠ ∅. L’insieme 𝐽 individua uno dei sottoinsiemi 𝑌1 , … , 𝑌𝑘 . Sia questo 𝑌𝑟 . Per definizione di distanza di Hausdorff, si ha 𝐸 ⊆ 𝑌𝑟 (𝜀). D’altra parte, per la simmetria di 𝑑, si ha anche che 𝑌𝑟 ⊆ 𝐸(𝜀). Concludiamo così che si ha 𝑑𝐻 (𝐸, 𝑌𝑟 ) < 𝜀, da cui 𝐸 ⊆ 𝐵(𝑌𝑟 , 𝜀). Per l’arbitrarietà di 𝐸, si ha che l’insieme di punti {𝑌1 , … , 𝑌𝑘 } costituisce una 𝜀-rete di ℋ (𝑋). 2. Sia (𝑆𝑛 )𝑛 una successione di Cauchy in (ℋ (𝑋), 𝑑𝐻 ). Lo scopo è di dimostrare che la successione converge in ℋ (𝑋). Per il Lemma 3.53, basterà trovare una sottosuccessione convergente. Poiché la successione di partenza è di Cauchy, esiste una sottosuccessione (𝑆𝑛′ )𝑛 tale che ∞
∑ 𝑛=1
′ 𝑑𝐻 (𝑆𝑛′ , 𝑆𝑛+1 ) < ∞.
(Esercizio!) Per ogni 𝑛, prendiamo un punto 𝑥𝑛 ∈ 𝑆𝑛′ in modo che risulti ′ 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑛+1 ) < 𝑑𝐻 (𝑆𝑛′ , 𝑆𝑛+1 ) + 1/2𝑛 . Per verificare che una tale scelta è possibile, ′ fissiamo 𝜀 = 1/2, 𝑥1 ∈ 𝑆1 arbitrario e, in virtù della Proprietà (7.4), troviamo un 𝑥2 ∈ 𝑆2′ tale che 𝑑(𝑥1 , 𝑥2 ) < 𝑑𝐻 (𝑆1′ , 𝑆2′ ) + 1/2. Successivamente, riapplicando la stessa proprietà per 𝜀 = 1/4 e avendo già fissato 𝑥2 , troviamo un 𝑥3 ∈ 𝑆3′
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
361
tale che 𝑑(𝑥2 , 𝑥3 ) < 𝑑𝐻 (𝑆2′ , 𝑆3′ ) + 1/4. Procedendo induttivamente, si ottiene la successione cercata. La successione (𝑥𝑛 )𝑛 è di Cauchy; infatti essa soddisfa alla condizione ∑∞ 𝑛=1 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑛+1 ) < ∞. Poiché 𝑋 è completo, esiste 𝑧 ∈ 𝑋 con 𝑥𝑛 → 𝑧. Sia ora 𝐸 ⊆ 𝑋 la chiusura dell’insieme di tutti i punti limite di successioni (𝑥𝑛 )𝑛 ottenute col procedimento sopra descritto. Per costruzione, 𝐸 è non vuoto e chiuso; proviamo che è anche limitato. Infatti, la successione (𝑆𝑛′ )𝑛 , essendo di Cauchy, è limitata. Quindi esiste 𝑟 > 0 tale che 𝑑(𝑆𝑖′ , 𝑆1′ ) ≤ 𝑟, ∀𝑖 ≥ 1. Fissato un punto 𝑢 ∈ 𝑆1′ , esiste 𝑟1 tale che 𝑆1′ ⊆ 𝐵[𝑢, 𝑟1 ]. Si conclude che, per 𝛿 ∶= 𝑟 + 𝑟1 + 1, si ha che 𝑆𝑖′ ⊆ 𝐵[𝑢, 𝛿], ∀𝑖 e quindi anche 𝐸 ⊆ 𝐵[𝑢, 𝛿]. Resta da verificare che 𝑆𝑘′ → 𝐸 in (ℋ (𝑋), 𝑑𝐻 ), cioè che, per ogni 𝜀 > 0, esiste un 𝑛𝜀 tale che 𝑑𝐻 (𝑆𝑖′ , 𝐸) < 𝜀, ∀𝑖 ≥ 𝑛𝜀 . Fissiamo dunque un 𝜀 > 0. Per un arbitrario 𝑣 ∈ 𝐸, esiste 𝑧 ∈ 𝑋 (𝑧 dipendente da 𝑣) con 𝑑(𝑣, 𝑧) < 𝜀/2 e 𝑧 limite di una successione (𝑥𝑛 )𝑛 ottenuta in modo che 𝑥𝑛 ∈ 𝑆𝑛′ , ∀𝑛 e 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑥𝑛+1 ) < ′ 𝑑𝐻 (𝑆𝑛′ , 𝑆𝑛+1 ) + 2−𝑛 . In corrispondenza dello stesso 𝜀, prendiamo 𝑚 tale che ′ ′ −𝑘 ∑∞ 𝑘=𝑚 (𝑑𝐻 (𝑆𝑘 , 𝑆𝑘+1 ) + 2 ) < 𝜀/2. Per ogni indice 𝑖 ≥ 𝑚, valutiamo la distanza ′ fra 𝑣 e 𝑆𝑖 . Si ha 𝑑(𝑣, 𝑆𝑖′ ) ≤ 𝑑(𝑣, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑆𝑖′ ) ≤ 𝑑(𝑣, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑥𝑖 ) ≤ ≤ 𝑑(𝑣, 𝑧) + 𝑑(𝑧, 𝑥𝑖+𝑝 ) +
Passando al limite per 𝑝 → ∞, si ottiene 𝑑(𝑣, 𝑆𝑖′ ) ≤ 𝑑(𝑣, 𝑧) +
< 𝑑(𝑣, 𝑧) +
∞
∑ 𝑘=𝑖 ∞
∑
𝑖+𝑝
∑ 𝑘=𝑖
𝑑(𝑥𝑘 , 𝑥𝑘+1 ).
𝑑(𝑥𝑘 , 𝑥𝑘+1 ) ≤ 𝑑(𝑣, 𝑧) +
∞
∑
𝑘=𝑚
′ (𝑑𝐻 (𝑆𝑘′ , 𝑆𝑘+1 ) + 2−𝑘 ) < 2
𝑘=𝑚
𝑑(𝑥𝑘 , 𝑥𝑘+1 )
0. Fissato 𝑘 ∈ ℕ+ . consideriamo l’intorno 𝑈 di 𝑥 −𝑛 in ℭ dato da 𝑈 ∶= {𝑦 ∈ ℭ ∶ |𝑦 − 𝑥| < 3−𝑘 }. Posto 𝑦 ∶= ∑+∞ 𝑛=1 𝑏𝑛 3 , si ottiene 𝑏𝑛 = 𝑐𝑛 per ogni 𝑛 ≤ 𝑘. Per come sono state definite 𝑓 e la distanza in Σ+ 2 (cfr. −𝑖 𝑘−1 la (6.1)), si ottiene 𝑑(𝑓 (𝑦), 𝑓 (𝑥)) ≤ ∑+∞ 2 = 1/2 , che è minore di 𝜀 per 𝑘 𝑖=𝑘 sufficientemente grande. Corollario 7.107. L’insieme di Cantor è omeomorfo a un prodotto numerabile di copie di se stesso.
Dimostrazione. Sia 𝐸 un insieme infinito numerabile. In analogia all’insieme ℝ𝐸 considerato nell’Esempio 6.12, possiamo considerare l’insieme 𝑋 ∶= {0, 1}𝐸 delle applicazioni dell’insieme 𝐸 nell’insieme {0, 1} (quest’ultimo con la topologia discreta). Dotiamo 𝑋 della topologia della convergenza puntuale, ovvero la topologia prodotto, immaginando 𝑋 come lo spazio prodotto di un’infinità numerabile di copie di {0, 1} indiciate sull’insieme 𝐸. È ovvio che gli spazi 𝑋 ∶= {0, 1}𝐸 e {0, 1}ℕ con le loro rispettive topologie, sono fra loro omeomorfi. D’altra parte, se prendiamo ora come 𝐸 un’unione disgiunta infinita e numerabile di copie di ℕ, avremo che 𝑋 è omeomorfo a un prodotto numerabile di + ℕ spazi del tipo Σ+ 2 . Possiamo così concludere che Σ2 ∶= {0, 1} è omeomorfo al prodotto di un’infinità numerabile di copie di se stesso. La tesi si ha immediatamente dal teorema precedente.
7.2. Ulteriori risultati sulla compattezza
368
Teorema 7.108. Ogni spazio metrico compatto è omeomorfo a un sottoinsieme chiuso del cubo di Hilbert 𝐼 ∞ .
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico compatto. Normalizzando eventualmente la distanza (cosa che non altera la relativa topologia), come visto nell’Esempio 3.27 e nel Teorema 3.38, possiamo supporre che sia 𝑑(𝑥, 𝑦) ≤ 1, ∀𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋. Sia ora 𝐷 un sottoinsieme denso in 𝑋 al più numerabile (cfr. Proposizione 7.18.2). Consideriamo intanto il caso più interessante in cui 𝐷 è infinito e poniamo 𝐷 ∶= {𝑧𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. Introduciamo quindi la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝐼 ∞ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= (𝑑(𝑥, 𝑧𝑛 ))𝑛 . Componendo 𝑓 con la proiezione 𝑖-ma 𝑝𝑖 ∶ 𝐼 ∞ → 𝐼𝑖 ∶= [0, 1], si ottiene l’applicazione 𝑥 ↦ 𝑑(𝑥, 𝑧𝑖 ) che ovviamente è continua. Per il teorema di caratterizzazione della continuità delle applicazioni a valori in uno spazio prodotto (Corollario 6.9), si conclude che 𝑓 è continua. Possiamo, per il momento, affermare che 𝑓 (𝑋) è un sottoinsieme compatto di 𝐼 ∞ . Per il Teorema di Omeomorfismo 7.36, 𝑋 e 𝑓 (𝑋) sono fra loro omeomorfi se 𝑓 è iniettiva. Verifichiamo pertanto l’iniettività di 𝑓 . Siano 𝑢, 𝑣 due elementi distinti di 𝑋 e sia 𝛿 ∶= 𝑑(𝑢, 𝑣) > 0. Nella palla 𝐵(𝑢, 𝛿/2) cade almeno un elemento 𝑧𝑘 ∈ 𝐷. Chiaramente si ha 𝑑(𝑢, 𝑧𝑘 ) < 𝛿/2 < 𝑑(𝑣, 𝑧𝑘 ). Si conclude che è 𝑓 (𝑢) ≠ 𝑓 (𝑣). Sia ora 𝐷 ∶= {𝑧1 , … , 𝑧𝑘 } finito e supponiamo che esista 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐷. Posto 𝛿 ∶= min {𝑑(𝑥, 𝑧𝑖 ) ∶ 1 ≤ 𝑖 ≤ 𝑘}, si ha 𝐵(𝑥, 𝛿) ∩ 𝐷 = ∅. È dunque 𝑋 = 𝐷. In questo caso, la tesi è quindi immediata. Teorema 7.109. Il cubo di Hilbert 𝐼 ∞ è immagine continua dell’insieme di Cantor.
Dimostrazione. Cominciamo osservando che l’intervallo [0, 1] è immagine con−𝑛 tinua dell’insieme di Cantor ℭ. Per ogni 𝑥 ∶= ∑+∞ 𝑛=1 𝑐𝑛 3 , si pone 𝑓 (𝑥) ∶= +∞ −𝑛 ∑𝑛=1 (𝑐𝑛 /2)2 . L’applicazione 𝑓 ∶ ℭ → [0, 1] così definita è chiaramente suriettiva e continua. Non è però iniettiva. Un modo diretto per constatarlo è + trovare due sequenze (𝑐𝑛 )𝑛 e (𝑑𝑛 )𝑛 in {0, 2}ℕ con la stessa immagine (Esercizio). Un modo indiretto si basa ancora una volta sul Teorema di Omeomorfismo. Infatti se 𝑓 fosse anche iniettiva, ℭ e [0, 1] sarebbero fra loro omeomorfi, cosa palesemente falsa (Esercizio). Applicando la proprietà appena vista, si deduce che il cubo di Hilbert è immagine continua del prodotto di un’infinità numerabile di copie dell’insieme di Cantor. Quest’ultimo prodotto è, a sua volta, omeomorfo all’insieme di Cantor (Corollario 7.107). Corollario 7.110. Ogni spazio metrico compatto è immagine continua dell’insieme di Cantor.
7.3. Convergenze e topologie deboli
369
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico compatto. Per il Teorema 7.108, esiste un sottoinsieme compatto 𝑌 ⊆ 𝐼 ∞ omeomorfo a 𝑋. Sia, inoltre, 𝑓 ∶ ℭ → 𝐼 ∞ un’applicazione continua e suriettiva. L’insieme 𝐺 ∶= 𝑓 −1 (𝑌 ) è un sottoinsieme chiuso, e quindi compatto, di ℭ. Se dimostriamo che 𝐺 è immagine continua di ℭ, avremo raggiunto la tesi. A tale scopo, dimostriamo una proprietà di tipo generale per l’insieme di Cantor che afferma che Ogni sottoinsieme chiuso e non vuoto di ℭ è un retratto di ℭ, ovvero: esiste un’applicazione continua, detta retrazione da ℭ sul chiuso che coincide con l’identità su quest’ultimo. Ritorneremo su questo argomento più avanti (cfr. Definizione 14.9). Sia quindi 𝐺 un sottoinsieme chiuso e non vuoto di ℭ. Introduciamo un insieme di Cantor modificato ℭ′ definito come l’insieme di tutti i numeri ′ −𝑛 ′ reali del tipo ∑+∞ 𝑛=1 𝑐𝑛 6 , con 𝑐𝑛 ∈ {0, 5}. Ripetendo, con ovvie modifiche, la dimostrazione del Teorema 7.106, si ottiene che ℭ′ è omeomorfo a Σ+ 2 e quindi è omeomorfo a ℭ. Chiamando 𝐺′ un sottoinsieme chiuso di ℭ′ omeomorfo a 𝐺, basterà verificare la proprietà di retrazione per la coppia (ℭ′ , 𝐺′ ). L’utilizzo dell’insieme di Cantor modificato ℭ′ in luogo di ℭ, è vantaggioso perché in ℭ′ c’è la proprietà che il punto medio di due punti distinti di ℭ′ non sta mai in ℭ′ (Esercizio). Tale proprietà non vale per ℭ, basta prendere i punti 0 e 2/3. Dato ora un arbitrario 𝑥′ ∈ ℭ′ , poiché 𝐺′ è chiuso (compatto), esiste un elemento 𝑦′ ∈ 𝐺′ che realizza la minima distanza da 𝑥′ . Ciò segue dalla continuità della funzione distanza e dal teorema di Weierstrass. Fissato 𝑥′ , 𝑦′ è univocamente determinato. Infatti, se esistessero due punti 𝑦′ , 𝑧′ ∈ 𝐺′ tali che |𝑥′ − 𝑦′ | = |𝑥′ − 𝑧′ |, l’elemento 𝑥′ dovrebbe necessariamente essere il punto medio di 𝑦′ e 𝑧′ . Rimane quindi bene definita una funzione 𝜑 ∶ ℭ′ → 𝐺′ tale che |𝑥′ − 𝜑(𝑥′ )| = 𝑑(𝑥′ , 𝐺′ ). Chiaramente 𝜑(𝑥′ ) = 𝑥′ , ∀𝑥′ ∈ 𝐺′ . Inoltre, verifichiamo che la 𝜑 è continua dimostrando che ha il grafico chiuso; potremo così applicare il Teorema 7.83. Sia pertanto (𝑢𝑛 )𝑛 → 𝑢 e (𝜑(𝑢𝑛 ))𝑛 → 𝑣, con 𝑢 e gli 𝑢𝑛 in ℭ′ , 𝑣 e i 𝜑(𝑢𝑛 ) in 𝐺′ . Per ogni 𝑛 sussiste la relazione |𝑢𝑛 − 𝜑(𝑢𝑛 )| = 𝑑(𝑢𝑛 , 𝐺′ ).
Passando al limite e usando la continuità della distanza, si ottiene |𝑢 − 𝑣| = 𝑑(𝑢.𝐺′ ). Quindi 𝑣 è un punto di 𝐺′ a minima distanza da 𝑢 e, per l’unicità, si ha 𝑣 = 𝜑(𝑢). Ciò prova appunto che il grafico di 𝜑 è chiuso.
7.3
Convergenze e topologie deboli negli spazi di Banach
In questo paragrafo studieremo un’applicazione importante in Analisi Funzionale che utilizza il concetto di compattezza assieme a quello di topologia debole determinata da una famiglia di funzioni. Come vedremo nel Paragrafo 9.3 sulla compattezza locale, le palle chiuse di uno spazio normato 𝑋 sono compatte se e solo se 𝑋 ha dimensione finita (cfr. Corollario 9.87). Questo fatto apparentemente sembrerebbe impedire di poter estendere a spazi di dimensione
7.3. Convergenze e topologie deboli
370
infinita alcuni classici teoremi dell’Analisi che valgono negli spazi ℝ𝑛 . Questa difficoltà viene superata, almeno negli spazi riflessivi, grazie al Teorema di Banach-Alaoglu 7.129, introducendo un’opportuna topologia debole, associata alla topologia di partenza, analoga alla topologia prodotto. Alcuni dei teoremi che presenteremo sono validi per spazi normati arbitrari, altri (tipicamente quelli collegati al Teorema di Banach-Steinhaus) richiedono anche la completezza. Per evitare di distinguere anche in uno stesso enunciato queste due possibilità, enunceremo tutti i teoremi principali per gli spazi di Banach, con l’unica eccezione delle versioni geometriche del Teorema di Hahn-Banach per i quali vale la pena di mettere in risalto che sono di validità generale.. Definizione 7.111. Sia 𝑋 uno spazio di Banach. Si dice che una successione (x𝑛 )𝑛 converge debolmente a un elemento x ∈ 𝑋 se, per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , si ha ⟨𝑓 , x𝑛 ⟩ → ⟨𝑓 , x⟩ in ℝ. Useremo anche la notazione 𝑥𝑛 ⇀ 𝑥. Per esprimere il fatto che una successione di uno spazio normato 𝑋 è convergente nella topologia della norma, diremo che essa è fortemente convergente. ◁
Lemma 7.112. Sia (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio di Banach. 1. Ogni successione fortemente convergente in 𝑋 è anche debolmente convergente. 2. Ogni successione debolmente convergente in 𝑋 è limitata. 3. Se x𝑛 ⇀ x, allora si ha ‖x‖ ≤ lim inf𝑛→∞ ‖x𝑛 ‖. 4. Se x𝑛 ⇀ x e 𝑓𝑛 → 𝑓 , allora ⟨𝑓𝑛 , x𝑛 ⟩ → ⟨𝑓 , x⟩. 5. Se x𝑛 ⇀ x e y𝑛 ⇀ y, allora, quali che siano 𝛼, 𝛽 ∈ ℝ, si ha 𝛼x𝑛 + 𝛽y𝑛 ⇀ 𝛼x + 𝛽y.
Dimostrazione. 1. Segue immediatamente dalla continuità di 𝑓 . 2. Sia ℬ ∶= {x𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. Per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , la successione (⟨𝑓 , x𝑛 ⟩)𝑛 è convergente per ipotesi ed è quindi limitata in ℝ. Per il Corollario 4.104 è limitato anche l’insieme ℬ. 3. Sappiamo che, per ogni x ∈ 𝑋, esiste uno ed un solo 𝜑x ∈ 𝑋 ∗∗ tale che ⟨𝑓 , x⟩ = ⟨𝜑x , 𝑓 ⟩, ∀𝑓 ∈ 𝑋 ∗ . Ora dall’ipotesi sappiamo che, per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , è ⟨𝑓 , x𝑛 ⟩ → ⟨𝑓 , x⟩, da cui ⟨𝜑x𝑛 , 𝑓 ⟩ → ⟨𝜑x , 𝑓 ⟩, sempre per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ . Dunque la successione (𝜑x𝑛 )𝑛 converge puntualmente a 𝜑x . Per il Teorema 4.105, si ha ‖𝜑x ‖𝑋 ∗∗ ≤ lim inf𝑛→∞ ‖𝜑x𝑛 ‖𝑋 ∗∗ , da cui ‖x‖ ≤ lim inf𝑛→∞ ‖x𝑛 ‖, dato che l’applicazione x ↦ 𝜑x è un’isometria. 4. Sappiamo dal punto (2) che la successione (x𝑛 )𝑛 è limitata. Sia dunque 𝑛 ‖x ‖ ≤ 𝑀, ∀𝑛 ∈ ℕ. Ora si ha |⟨𝑓𝑛 , x𝑛 ⟩ − ⟨𝑓 , x⟩| ≤ |⟨𝑓𝑛 , x𝑛 ⟩ − ⟨𝑓 , x𝑛 ⟩| + |⟨𝑓 , x𝑛 ⟩ − ⟨𝑓 , x⟩| ≤ ≤ ‖x𝑛 ‖ ⋅ ‖𝑓𝑛 − 𝑓 ‖ + |⟨𝑓 , x𝑛 ⟩ − ⟨𝑓 , x⟩| ≤
≤ 𝑀‖𝑓𝑛 − 𝑓 ‖ + |⟨𝑓 , x𝑛 ⟩ − ⟨𝑓 , x⟩| −−−−→ 0.
5. Basta osservare che, per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , si ha
𝑛→∞
⟨𝑓 , 𝛼x𝑛 + 𝛽y𝑛 ⟩ = 𝛼⟨𝑓 , x𝑛 ⟩ + 𝛽⟨𝑓 , y𝑛 ⟩ → 𝛼⟨𝑓 , x⟩ + 𝛽⟨𝑓 , y⟩.
7.3. Convergenze e topologie deboli
371
Ci si chiede naturalmente se esistono successioni debolmente convergenti, ma non fortemente convergenti. Esempio 7.113. Sia 𝐻 ∶= (𝐿2 ([0, 𝜋], ℝ), ‖⋅‖2 ). Dunque 𝐻 è l’insieme delle applicazioni di [0, 𝜋] in ℝ il cui quadrato è integrabile secondo Lebesgue. 𝐻 è uno spazio di Hilbert, in quanto è completo e dotato del prodotto scalare definito da 𝜋 ⟨𝑓 , 𝑔⟩2 ∶=
∫ 0
𝑓 (𝑥)𝑔(𝑥) 𝑑𝑥.
Dal Teorema di rappresentazione di Riesz (cfr. Teorema 5.54) sappiamo che, per ogni applicazione 𝑓 ∈ (𝐿2 )∗ , esiste un unico 𝑣𝑓 ∈ 𝐿2 tale che ⟨𝑓 , 𝑢⟩ = ⟨𝑢, 𝑣𝑓 ⟩2 , per ogni 𝑢 ∈ 𝐻. Sia data una successione (𝑢𝑛 )𝑛 in 𝐻. Si ha 𝑢𝑛 ⇀ 𝑢 ∈ 𝐻 se e solo se, per ogni 𝑤 ∈ 𝐻, si ha ⟨𝑢𝑛 , 𝑤⟩2 → ⟨𝑢, 𝑤⟩2 , ossia se e solo se, per ogni 𝑤 ∈ 𝐻, si ha ∫ 0
𝜋
𝑢𝑛 (𝑡)𝑤(𝑡) 𝑑𝑡 →
𝜋
∫ 0
𝑢(𝑡)𝑤(𝑡) 𝑑𝑡.
In realtà, si può dimostrare (Esercizio) che 𝑢𝑛 ⇀ 𝑢 se e solo se ⟨𝑢𝑛 , 𝑤⟩2 → ⟨𝑢, 𝑤⟩2 , per ogni 𝑤 appartenente ad un sottoinsieme denso di 𝐻. D’altra parte, dalla teoria dei mollificatori (cfr. [9]) si ottiene che l’insieme 𝐶𝑐∞ delle funzioni di classe 𝐶 ∞ a supporto compatto (cfr. pag. 401) è denso in 𝐿2 rispetto alla norma ‖⋅‖2 . Di conseguenza, 𝑢𝑛 ⇀ 𝑢 se e solo se si ha ∫ 0
𝜋
𝑢𝑛 (𝑡)𝜑(𝑡) 𝑑𝑡 →
𝜋
∫ 0
per ogni 𝜑 ∈ 𝐶𝑐∞ (]0, 𝜋[). Sia ora, per ogni 𝑛, 𝑢𝑛 (𝑡) ∶= sin(𝑛𝑡). Si ha 𝜋
∫ 0
𝑢(𝑡)𝜑(𝑡) 𝑑𝑡.
𝜋 𝜋 cos(𝑛𝑡) cos(𝑛𝑡) ′ 𝜑(𝑡)] + 𝜑 (𝑡) 𝑑𝑡 = ∫ 𝑛 𝑛 0 0 𝜋 1 =0+ cos(𝑛𝑡)𝜑′ (𝑡) 𝑑𝑡. 𝑛∫ 0
sin(𝑛𝑡)𝜑(𝑡) 𝑑𝑡 = [ −
Ora si ha
𝜋
𝜋
′ ′ | ∫ cos(𝑛𝑡)𝜑 (𝑡) 𝑑𝑡| ≤ ∫ |𝜑 (𝑡)| 𝑑𝑡 =∶ 𝑐, 0
0
𝑐 −−−→ 0. | ∫ sin(𝑛𝑡)𝜑(𝑡) 𝑑𝑡| ≤ 𝑛 −𝑛→∞ 0 Si conclude che la successione (𝑢𝑛 )𝑛 converge debolmente alla funzione nulla. Per contro, posto 𝑠 = 𝑛𝑡, si ha da cui
‖𝑢𝑛 ‖22 =
∫ 0
𝜋
𝜋
sin2 (𝑛𝑡) 𝑑𝑡 =
1 𝑛∫ 0
𝑛𝜋
sin2 (𝑠) 𝑑𝑠 =
𝑛 𝜋 sin2 (𝑠) 𝑑𝑠 = , 𝑛∫ 2 0 𝜋
da cui ‖𝑢𝑛 ‖2 = √𝜋/2. Dunque, per ogni 𝑛, 𝑢𝑛 ∈ 𝑆 (0, √𝜋/2) e non può convergere fortemente a 0. ◁
7.3. Convergenze e topologie deboli
372
Siano 𝑋 uno spazio topologico qualunque e 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 un’arbitraria successione in 𝑋 convergente a un elemento 𝑥 ∈ 𝑋. Ricordiamo che la convergenza di 𝑆 si può esprimere in termini di continuità. Come si è visto a pag. 57, una successione è, per definizione, un’applicazione 𝑓 ∶ ℕ → 𝑋, con 𝑓 (𝑛) ∶= 𝑥𝑛 . Si pensa poi il limite 𝑥 come 𝑓 (∞). Definiamo dunque l’insieme ℕ̄ ∶= ℕ ∪ {∞}. e dotiamolo della topologia naturale: i punti di ℕ sono isolati; sono intorni di ∞ gli insiemi del tipo 𝑈𝑛 ∶= {∞} ∪ {𝑘 ∈ ℕ ∶ 𝑘 ≥ 𝑛} e i loro soprainsiemi. A questo punto, si può prolungare la funzione 𝑓 ponendo 𝑓 (∞) ∶= 𝑥 e, come già visto, si ha che la successione 𝑆 converge a 𝑥 se e solo se la funzione 𝑓 è continua in ∞. Sia ora 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑌𝑖 dotato della topologia debole 𝜏 relativa alla famiglia (𝑌𝑖 , 𝜏𝑖 , 𝜑𝑖 ), con 𝜏𝑖 topologia di 𝑌𝑖 e 𝜑𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑌𝑖 (cfr. Definizione 6.2). Sia poi 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋. Quanto appena visto porta a concludere, in virtù del Corollario 6.5, che 𝑆 è convergente a un elemento 𝑥 ∈ 𝑋 in 𝜏 se e solo se, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , la successione (𝜑𝑖 (𝑥𝑛 ))𝑛 converge a 𝜑𝑖 (𝑥). Esamineremo ora tre casi importanti di topologie deboli. Indicheremo sempre con 𝑋 uno spazio di Banach. Sappiamo che sono spazi di Banach anche 𝑋 ∗ e 𝑋 ∗∗ (cfr. Definizione 4.56 e pag. 176). Esempio 7.114 (La topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) su 𝑋). Dato uno spazio di Banach 𝑋, diciamo 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) la topologia debole relativa all’insieme 𝑋 ∗ . Dunque tutti gli 𝑌𝑖 coincidono con ℝ e le 𝜑𝑖 sono i funzionali lineari continui di 𝑋 in ℝ, dotato della topologia ordinaria. Per quanto si è visto, si ha che un’applicazione 𝑔 di un arbitrario spazio topologico 𝑍 in 𝑋 è continua se e solo se sono continue le applicazioni 𝑓 ∘ 𝑔, per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ (cfr. Teoremi 6.3 e 6.4). Inoltre, una successione 𝑆 = (x𝑛 )𝑛 di 𝑋 converge a un elemento x ∈ 𝑋 se e solo se (⟨𝑓 , x𝑛 ⟩)𝑛 converge a ⟨𝑓 , x⟩ ∈ ℝ, sempre per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , ossia se e solo se x𝑛 ⇀ x. ◁
Dalla definizione di topologia debole, segue che, dato un punto x0 ∈ 𝑋, una base di suoi intorni rispetto alla topologia 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) è costituita dagli insiemi del tipo 𝑈 ∶= {x ∈ 𝑋 ∶ |⟨𝑓𝑖 , x − x0 ⟩| < 𝜀, ∀𝑖 = 1, … , 𝑛} , (7.5) al variare di 𝜀 > 0 e di un numero finito di funzionali 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 ∈ 𝑋 ∗ .
Teorema 7.115. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio di Banach. 1. Se 𝑋 ha dimensione finita, allora la topologia debole 𝜎 ∶= 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) coincide con 𝜏. 2. Se 𝑋 ha dimensione infinita, allora la topologia debole 𝜎 ∶= 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) è strettamente meno fine di 𝜏 e non è deducibile da una norma. Dimostrazione. 1. Basta provare che 𝜏 è meno fine di 𝜎. Per fare ciò, basta verificare che, fissati un x0 ∈ 𝑋 e un 𝜀 > 0, la palla 𝐵(x0 , 𝜀) in 𝜏 è un 𝜎-intorno di x0 . Sia 𝒰 = {u1 , u2 , … , u𝑛 } una base di 𝑋, con ‖u𝑖 ‖ = 1. Per ogni x ∈ 𝑋, è x = 𝑥1 u1 +⋯+𝑥𝑛 u𝑛 , con x0 = 𝑥01 u1 +⋯+𝑥0𝑛 u𝑛 . Poniamo 𝜀′ ∶= 𝜀/𝑛. Sia poi, per ogni
7.3. Convergenze e topologie deboli
373
𝑖 ∈ {1, 2, … , 𝑛}, 𝑓𝑖 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑓𝑖 (x) ∶= 𝑥𝑖 . Le 𝑓𝑖 sono chiaramente lineari e, quindi, continue. Le controimmagini 𝑓𝑖−1 (]𝑥0𝑖 −𝜀′ , 𝑥0𝑖 +𝜀′ [) sono aperte in 𝜎; è dunque tale anche la loro intersezione 𝐴 ∶= {x ∈ 𝑋 ∶ |𝑥𝑖 − 𝑥0𝑖 | < 𝜀′ , ∀𝑖}. Si vede subito che, per ogni x ∈ 𝐴, è ‖x − x0 ‖ ≤ ∑𝑛𝑖=1 |𝑥𝑖 − 𝑥0𝑖 | < 𝑛𝜀′ = 𝜀. È dunque 𝐴 ⊆ 𝐵(x0 , 𝜀); quindi 𝐵(x0 , 𝜀) è un 𝜎-intorno di x0 . 2. Sappiamo che una base di 𝜎-intorni di 0 è data dagli insiemi del tipo 𝐴𝑖1 …𝑖𝑛 ∶= ⋂𝑛𝑠=1 𝑓𝑖−1 (𝐼), con 𝐼 ∶= ] − 𝜀, 𝜀[, 𝜀 > 0, e 𝑓𝑖𝑠 ∈ 𝑋 ∗ . Se proviamo 𝑠 che ogni 𝐴𝑖1 …𝑖𝑛 è illimitato, abbiamo che (𝑋, 𝜎) non è normato e che 𝜎, non potendo perciò coincidere con 𝜏, è strettamente meno fine di questa. Date le funzioni 𝑓𝑖1 , 𝑓𝑖2 , … , 𝑓𝑖𝑛 ∈ 𝑋 ∗ , consideriamo la funzione 𝜑𝑖1 𝑖2 …𝑖𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ𝑛 definita da 𝜑𝑖1 𝑖2 …𝑖𝑛 (x) ∶= (𝑓𝑖1 (x), 𝑓𝑖2 (x), … , 𝑓𝑖𝑛 (x))⊤ . La 𝜑𝑖1 𝑖2 …𝑖𝑛 è lineare e continua, essendo tali le sue componenti. Dato che 𝑋 ha dimensione infinita, mentre ℝ𝑛 ha dimensione 𝑛, deve essere ker 𝜑𝑖1 𝑖2 …𝑖𝑛 ≠ {0}. Sia dunque x̂ ∈ ker 𝜑𝑖1 𝑖2 …𝑖𝑛 ⧵ {0}. Posto 𝑇 ∶= {𝑡x̂ ∶ 𝑡 ∈ ℝ}, si ha 𝑇 ⊂ ker 𝜑𝑖1 𝑖2 …𝑖𝑛 e quindi 𝑇 ⊂ 𝐴𝑖1 𝑖2 …𝑖𝑛 che risulta perciò illimitato. Esaminiamo le cose in termini di insiemi chiusi. Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝜏 la sua topologia (forte) e 𝜎 quella debole. Diremo che un insieme 𝐶 ⊆ 𝑋 è fortemente [debolmente] chiuso se 𝐶 è chiuso in 𝜏 [rispettivamente, in 𝜎]. Essendo 𝜏 più fine di 𝜎, si ha che ogni insieme debolmente chiuso è anche fortemente chiuso. Dal teorema precedente sappiamo che, se la dimensione di 𝑋 è infinita, non sussiste l’implicazione opposta. Esempio 7.116. Sappiamo che, in uno spazio di Banach 𝑋, la sfera 𝑆 ∶= 𝑆(0, 1) è fortemente chiusa, dato che in uno spazio topologico la frontiera di un insieme è sempre un insieme chiuso. Vediamo che per contro, se la dimensione di 𝑋 è infinita, si ha cl𝜎 𝑆 ⊇ 𝐵[0, 1]. Dobbiamo provare che, se x è un arbitrario punto di 𝐵[0, 1], in ogni suo 𝜎-intorno cadono punti di 𝑆. Se è x ∈ 𝑆, non c’è niente da dimostrare. Sia dunque x ∈ 𝐵(0, 1). Una base di 𝜎-intorni aperti di x è data dagli insiemi 𝐴′𝑖 …𝑖 così definiti. Per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , poniamo 𝑦𝑓 ∶=
⟨𝑓 , x⟩ ∈ ℝ e poi 𝐴′𝑖 …𝑖 ∶= ⋂𝑛𝑠=1 𝑓𝑠−1 (𝐼𝑓′ ), con 𝐼𝑓′ ∶= ]𝑦𝑓𝑠 − 𝜀, 𝑦𝑓𝑠 + 𝜀[. Si vede 1
𝑛
1
𝑛
𝑠
𝑠
subito che è 𝐴′𝑖 …𝑖 = {x + z ∶ 𝑧 ∈ 𝐴𝑖1 …𝑖𝑛 }, con 𝐴𝑖1 …𝑖𝑛 ∶= ⋂𝑛𝑠=1 𝑓𝑠−1 (] − 𝜀, 𝜀[). 1 𝑛 Dal teorema precedente sappiamo che ogni 𝐴𝑖1 …𝑖𝑛 contiene una retta per l’origine 𝑇 ∶= {𝑡x̂ ∶ 𝑡 ∈ ℝ}, con x̂ ≠ 0. Dunque 𝐴′𝑖 …𝑖 contiene una retta del 1 𝑛 tipo 𝑇 ′ ∶= {x + 𝑡x̂ ∶ 𝑡 ∈ ℝ}. Si ha x ∈ 𝑇 ′ ∩ 𝐵(0, 1) e lim𝑡→+∞ ‖x + 𝑡x‖ ̂ = +∞. Esiste quindi un 𝑡 ̄ ∈ ℝ tale che x + 𝑡x̄ ̂ ∉ 𝐵(0, 1). Ne viene che 𝑇 ′ ∩ 𝑆 ≠ ∅. Quindi ogni 𝜎-intorno di x interseca 𝑆. ◁
In questo Esempio abbiamo dimostrato che, quando la dimensione dello spazio è infinita, si ha sempre cl𝜎 𝑆 ⊇ 𝐵[0, 1]. In realtà, si ha proprio cl𝜎 𝑆 = 𝐵[0, 1]. Ciò segue da un importante teorema che afferma che in ogni spazio di Banach i chiusi e convessi sono anche debolmente chiusi (cfr. Teorema 7.125). Per arrivare a questo risultato, abbiamo bisogno di alcune premesse, fra cui una versione geometrica del Teorema di Hahn-Banach.
7.3. Convergenze e topologie deboli
374
Richiamiamo brevemente la nozione di gauge studiata nel Paragrafo 5.1. Sia 𝐶 un sottoinsieme assorbente di uno spazio vettoriale 𝑋 contenente 0. Si chiama gauge di 𝐶 la funzione 𝑝 ∶ 𝑋 → ℝ così definita 𝑝(x) = 𝑝𝐶 (x) ∶= inf {𝑟 > 0 ∶ x ∈ 𝑟𝐶} ,
∀x ∈ 𝑋.
Ovviamente, da x ∈ 𝐶 segue 𝑝𝐶 (x) ≤ 1. Se, in particolare, 𝑋 è normato e 𝐶 è un aperto convesso contenente l’origine, la relativa gauge 𝑝 soddisfa alle seguenti proprietà, alcune delle quali già contenute nel Teorema 5.10, che comunque qui ridimostriamo per comodità del lettore: Teorema 7.117. Sia 𝑝 la gauge di un aperto convesso 𝐶 ⊆ 𝑋 contenente 0, con 𝑋 normato. Allora si ha: 1. 𝑝(𝜆x) = 𝜆𝑝(x), ∀𝜆 ≥ 0, ∀x ∈ 𝑋; 2. 𝑝(x + y) ≤ 𝑝(x) + 𝑝(y), ∀x, y ∈ 𝑋; 3. (∃𝑀 > 0)(𝑝(x) ≤ 𝑀‖x‖), ∀x ∈ 𝑋; 4. 𝐶 = {x ∈ 𝑋 ∶ 𝑝(x) < 1}.
Dimostrazione. La (1) segue immediatamente dalla definizione di 𝑝. La (3) segue dal fatto che esiste 𝐵[0, 𝛿] ⊆ 𝐶 e quindi, per ogni x ∈ 𝑋 ⧵ {0}, 𝛿 si ha ‖x‖ x ∈ 𝐶. Pertanto, 𝑝(x) ≤ 𝛿1 ‖x‖. Dimostriamo ora la (4). Se x ∈ 𝐶, allora esiste 𝜂 > 0 (sufficientemente x −1 piccolo) per cui x(1 + 𝜂) = (1+𝜂) < 1. Viceversa, −1 ∈ 𝐶. Quindi 𝑝(x) ≤ (1 + 𝜂) supponiamo che sia 𝑝(x) < 1. Per la definizione di estremo inferiore, esiste 𝑟 ∈ ]0, 1[ tale che x/𝑟 ∈ 𝐶. Poiché 𝐶 è convesso e contiene 0, anche il segmento congiungente 0 a x/𝑟 è contenuto in 𝐶. Possiamo concludere che x ∈ 𝐶. Rimane da dimostrare la (2). Siano x, y ∈ 𝑋 e fissiamo un 𝜀 > 0. Per x la (1) si ha 𝑝(x/(𝑝(x) + 𝜀)) < 1. Dalla (4) segue che u ∶= 𝑝(x)+𝜀 ∈ 𝐶. Per y lo stesso motivo, abbiamo anche che v ∶= 𝑝(y)+𝜀 ∈ 𝐶. Di conseguenza, anche ogni combinazione convessa di u e v appartiene a 𝐶. Se consideriamo ora la x+y 𝑝(x)+𝜀 combinazione 𝑡u + (1 − 𝑡)v, con 𝑡 ∶= 𝑝(x)+𝑝(y)+2𝜀 , segue che 𝑝(x)+𝑝(y)+2𝜀 ∈ 𝐶. Per la (4) e la (1), possiamo concludere che
𝑝(x + y) < 𝑝(x) + 𝑝(y) + 2𝜀.
Dall’arbitrarietà di 𝜀, segue la tesi.
Definizione 7.118. Siano 𝑋 uno spazio normato e 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ un funzionale lineare non identicamente nullo. Si chiama iperpiano (affine) un insieme del tipo [𝑓 = 𝛼] ∶= {x ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (x) = 𝛼}, con 𝛼 ∈ ℝ fissato. Siano ora 𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋. Diciamo che l’iperpiano [𝑓 = 𝛼] separa 𝐴 e 𝐵 in senso largo, se si ha: 𝑓 (x) ≤ 𝛼, ∀x ∈ 𝐴, 𝑓 (x) ≥ 𝛼, ∀x ∈ 𝐵. Si dice che l’iperpiano [𝑓 = 𝛼] separa 𝐴 e 𝐵 in senso stretto, se esiste 𝜀 > 0 per cui si ha: 𝑓 (x) ≤ 𝛼 − 𝜀, ∀x ∈ 𝐴,
𝑓 (x) ≥ 𝛼 + 𝜀, ∀x ∈ 𝐵.
◁
7.3. Convergenze e topologie deboli
375
Il nostro primo risultato è il seguente:
Teorema 7.119. Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝐶 ⊆ 𝑋 un convesso aperto non vuoto e x0 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐶. Allora esiste 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ tale che 𝑓 (x) < 𝑓 (x0 ), ∀x ∈ 𝐶.
In particolare, l’iperpiano [𝑓 = 𝛼], con 𝛼 = 𝑓 (x0 ) separa in senso largo l’insieme 𝐶 e il punto x0 .
Dimostrazione. Prendiamo un punto z ∈ 𝐶 e consideriamo il traslato 𝐶 ′ ∶= 𝐶 − z che risulta essere un aperto convesso contenente l’origine e a cui è quindi associata una gauge 𝑝 (cfr. pag. 374 e Definizione 5.9). Consideriamo inoltre il punto y ∶= x0 − z(≠ 0) e definiamo su sp(y) il funzionale lineare 𝑔(𝑡y) ∶= 𝑡. Si verifica facilmente che è 𝑔(x) ≤ 𝑝(x), ∀x ∈ sp(y). Infatti, osservato che 𝑔(0) = 𝑝(0) = 0, per x = 𝑡y, con 𝑡 > 0, si ha 𝑔(x) = 𝑔(y) = 1, mentre è 𝑡 = 𝑝(y) ≥ 1. In modo analogo si verifica il caso 𝑡 < 0. Siamo nelle ipotesi del Teorema di Hahn-Banach e, pertanto, esiste un funzionale lineare 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ che prolunga 𝑔 e tale che 𝑓 (x) ≤ 𝑝(x), ∀x ∈ 𝑋. Dalla proprietà (3) della gauge, segue che esiste 𝑀 > 0 tale che 𝑓 (±x) ≤ 𝑀‖x‖, ∀x ∈ 𝑋; pertanto, 𝑓 è continua. Dalla proprietà (4) della gauge e dalla definizione del traslato 𝐶 ′ , segue che è 𝑓 (x − z) ≤ 𝑝(x − z) < 1, ∀x ∈ 𝐶, da cui 𝑓 (x) < 1 + 𝑓 (z) = 𝑔(y) + 𝑓 (z) = 𝑓 (x0 − z) + 𝑓 (z) = 𝑓 (x0 ), ∀x ∈ 𝐶. 𝑝(x) 𝑡
Il secondo passo è dato da due “versioni geometriche” del Teorema di HahnBanach. Teorema 7.120 (Prima forma geometrica del Teorema di Hahn-Banach). Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋 convessi, non vuoti e disgiunti. Se uno dei due insiemi è aperto, allora esiste un iperpiano chiuso che li separa in senso largo. Dimostrazione. Supponiamo 𝐴 aperto e poniamo 𝐶 ∶= 𝐴 − 𝐵 =
⋃
y∈𝐵
(𝐴 − y).
È evidente che: 𝐶 è convesso, 𝐶 è aperto e 0 ∉ 𝐶. Per il teorema precedente, esiste 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ tale che 𝑓 (w) < 𝑓 (0) = 0, ∀w ∈ 𝐶. In altri termini, si ha 𝑓 (x) − 𝑓 (y) < 0, ∀x ∈ 𝐴, ∀y ∈ 𝐵. Per la continuità di ℝ, esiste 𝛼 ∈ ℝ tale che 𝑓 (x) ≤ 𝛼 ≤ 𝑓 (y), ∀x ∈ 𝐴, ∀y ∈ 𝐵. Quindi l’iperpiano [𝑓 = 𝛼] (che è chiuso, essendo 𝑓 continua) separa 𝐴 e 𝐵 in senso largo. Teorema 7.121 (Seconda forma geometrica del Teorema di Hahn-Banach). Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝐴, 𝐵 ⊂ 𝑋 convessi, non vuoti e disgiunti. Se uno dei due insiemi è chiuso e l’altro compatto, allora esiste un iperpiano chiuso che li separa in senso stretto.
7.3. Convergenze e topologie deboli
376
Dimostrazione. Supponiamo 𝐴 chiuso e 𝐵 compatto. Fissato 𝜀 > 0, poniamo 𝐴𝜀 ∶= 𝐴 + 𝐵(0, 𝜀) = ⋃a∈𝐴 (a + 𝐵(0, 𝜀)) e 𝐵𝜀 ∶= 𝐵 + 𝐵(0, 𝜀) = ⋃b∈𝐵 (b + 𝐵(0, 𝜀)). Chiaramente 𝐴𝜀 e 𝐵𝜀 sono aperti e non vuoti. Sono inoltre anche convessi, poiché sono tali 𝐴, 𝐵 e 𝐵(0, 𝜀). Si può poi facilmente verificare che, pur di prendere 𝜀 sufficientemente piccolo, essi sono anche disgiunti (Esercizio). Per il teorema precedente, esistono 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ ⧵ {0} e 𝛼 ∈ ℝ tali che l’iperpiano chiuso [𝑓 = 𝛼] separa in senso largo 𝐴𝜀 e 𝐵𝜀 . Per definizione di 𝐴𝜀 , 𝐵𝜀 e di iperpiano di separazione, possiamo scrivere 𝑓 (x + 𝜀w) ≤ 𝛼 ≤ 𝑓 (y + 𝜀z), ∀x ∈ 𝐴, ∀y ∈ 𝐵, ∀w, z ∈ 𝐵(0, 1).
Da ciò possiamo scrivere
𝑓 (x) + 𝜀‖𝑓 ‖ ≤ 𝛼 ≤ 𝑓 (y) − 𝜀‖𝑓 ‖, ∀x ∈ 𝐴, ∀y ∈ 𝐵
e quindi si conclude che 𝐴 e 𝐵 sono separati in modo stretto dall’iperpiano chiuso [𝑓 = 𝛼].
Il teorema appena dimostrato, valido per uno spazio normato arbitrario 𝑋, si presta a considerazioni interessanti anche quando viene applicato allo spazio euclideo ℝ𝑛 munito dell’usuale prodotto scalare. Per prima cosa, osserviamo che un iperpiano di ℝ𝑛 è un insieme del tipo 𝑛 {x ∈ ℝ ∶ ⟨x, 𝝂⟩ = 𝛼 } ,
dove 𝝂 è un vettore non nullo e 𝛼 ∈ ℝ. Quindi il Teorema 7.121 ammette il seguente corollario:
Corollario 7.122. Siano 𝐴, 𝐵 ⊂ ℝ𝑛 chiusi, convessi, non vuoti e disgiunti, con 𝐵 compatto. Allora esistono un vettore 𝝂 ≠ 0 e una costante 𝛼 ∈ ℝ tali che ⟨x, 𝝂⟩ < 𝛼 < ⟨y, 𝝂⟩, ∀x ∈ 𝐴, ∀y ∈ 𝐵. Il lettore provi a trovare una dimostrazione diretta di questo risultato usando le proprietà del prodotto scalare in ℝ𝑛 .
Osservazione 7.123. Già in dimensione 2, è possibile presentare un controesempio al fatto che la separazione stretta non sussiste se viene a mancare l’ipotesi di compattezza. Basta considerare i due insiemi chiusi: 𝐴 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑦 ≤ 0} e 𝐵 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑦 ≥ 𝑒𝑥 }. ◁ Il Corollario 7.122 entra in gioco nella dimostrazione del seguente risultato che utilizzeremo in seguito.
Teorema 7.124 (Lemma di Helly). Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 ∈ 𝑋 ∗ e 𝑐1 , … , 𝑐𝑛 ∈ ℝ. Allora le due seguenti proprietà sono fra loro equivalenti: 1. (∀𝜀 > 0)(∃x𝜀 ∈ 𝑋)(∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛})((‖x𝜀 ‖ ≤ 1) ∧ (|⟨𝑓𝑖 , x𝜀 ⟩ − 𝑐𝑖 | < 𝜀));
7.3. Convergenze e topologie deboli 2.
𝑛
𝑛
𝑎𝑖 𝑐𝑖 ≤ 𝑎𝑖 𝑓𝑖 , |∑ | ‖∑ ‖ 𝑖=1 𝑖=1
377
∀𝑎1 , … , 𝑎𝑛 ∈ ℝ.
Dimostrazione. 1. Supponiamo verificata la (1). Fissati i coefficienti 𝑎1 , … , 𝑎𝑛 e posto 𝐴 ∶= ∑𝑛𝑖=1 |𝑎𝑖 |, per ogni 𝜀 > 0, si ha 𝑛
≤ ≤
𝑛
𝑛
𝑎𝑖 𝑐𝑖 = 𝑎𝑐 ± 𝑎 ⟨𝑓 , x𝜀 ⟩ ≤ ∑ 𝑖 𝑖 ∑ 𝑖 𝑖 |∑ | | | 𝑖=1 𝑖=1 𝑖=1 𝑛
𝑛
𝑎𝑖 (𝑐𝑖 − ⟨𝑓𝑖 , x𝜀 ⟩) + 𝑎 ⟨𝑓 , x𝜀 ⟩ ≤ ∑ 𝑖 𝑖 |∑ | | | 𝑖=1 𝑖=1
𝑛
𝑛
|𝑎 | ⋅ |𝑐𝑖 − ⟨𝑓𝑖 , x𝜀 ⟩| + ⟨ 𝑎 𝑓 , x𝜀 ≤ ∑ 𝑖 ∑ 𝑖 𝑖 ⟩| | 𝑖=1 𝑖=1
≤ 𝐴𝜀 +
𝑛
‖∑ 𝑖=1
𝑎𝑖 𝑓𝑖
‖
‖x𝜀 ‖ ≤
𝑛
‖∑ 𝑖=1
𝑎𝑖 𝑓𝑖 + 𝐴𝜀. ‖
Facendo tendere 𝜀 a 0, si ottiene la (2). 2. I coefficienti 𝑐1 , … , 𝑐𝑛 determinano un vettore y ∶= (𝑐1 , … , 𝑐𝑛 )⊤ ∈ ℝ𝑛 . Gli 𝑛 funzionali 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 determinano un’applicazione lineare 𝐿 ∶ 𝑋 → ℝ𝑛 , con 𝐿x ∶= (⟨𝑓1 , x⟩, … , ⟨𝑓𝑛 , x⟩)⊤ .
Se indichiamo con 𝐵 la palla unitaria chiusa dello spazio di Banach 𝑋, possiamo esprimere in modo equivalente la condizione (1) affermando che il vettore y appartiene alla chiusura di 𝐿(𝐵). Assumiamo ora, per assurdo, che sia y ∉ cl 𝐿(𝐵). Il Corollario 7.122 permette di separare il compatto {y} dal chiuso convesso cl 𝐿(𝐵). Quindi esistono un vettore 𝝂 = (𝜈1 , … , 𝜈𝑛 )⊤ ≠ 0 e una costante 𝛼 ∈ ℝ tali che ⟨𝐿x, 𝝂⟩ < 𝛼 < ⟨y, 𝝂⟩, ∀x ∈ 𝐵. Tenendo conto che la palla 𝐵 assieme ad ogni elemento x contiene anche il suo opposto −x, possiamo scrivere |⟨𝐿x, 𝝂⟩| < 𝛼 < ⟨y, 𝝂⟩,
∀x ∈ 𝐵,
e quindi, passando all’estremo superiore per gli x ∈ 𝐵, avremo sup |⟨𝐿x, 𝝂⟩| ≤ 𝛼 < ⟨y, 𝝂⟩.
‖x‖≤1
(7.6)
Dalla definizione di 𝐿x, è evidente che ⟨𝐿x, 𝝂⟩ = ⟨∑𝑛𝑖=1 𝜈𝑖 𝑓𝑖 , x⟩ ed è altresì ovvio che ⟨y, 𝝂⟩ = ∑𝑛𝑖=1 𝜈𝑖 𝑐𝑖 . In fine, per la definizione di norma di un’applicazione lineare e continua e dalla (7.6), otteniamo 𝑛
𝑛
𝜈𝑖 𝑓𝑖 ≤ 𝛼 < 𝜈𝑐. ∑ 𝑖 𝑖 ‖∑ ‖ 𝑖=1 𝑖=1
Ma ciò contraddice la condizione (2).
7.3. Convergenze e topologie deboli
378
Come ulteriore conseguenza del Teorema 7.121, possiamo finalmente provare il seguente risultato Teorema 7.125 (Sulla chiusura debole e forte dei convessi). In uno spazio di Banach 𝑋 un sottoinsieme convesso è chiuso se e solo se è debolmente chiuso.
Dimostrazione. Basta ovviamente verificare il solo se. Sia quindi 𝐶 ⊆ 𝑋 un insieme convesso (non vuoto) e chiuso rispetto alla topologia forte. Verifichiamo che 𝑋 ⧵ 𝐶 è aperto rispetto alla topologia debole. Prendiamo quindi x0 ∉ 𝐶 e cerchiamo un intorno 𝑈x0 rispetto alla topologia debole in modo che sia 𝑈x0 ∩ 𝐶 = ∅. Poiché 𝐶 è chiuso e convesso e {x0 } è compatto e convesso, per il Teorema 7.121, esistono 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ e 𝛼 ∈ ℝ tali che ⟨𝑓 , x0 ⟩ < 𝛼 < ⟨𝑓 , y⟩, ∀y ∈ 𝐶.
Questo porta a concludere che l’insieme
𝑈x0 ∶= {x ∈ 𝑋 ∶ ⟨𝑓 , x⟩ < 𝛼} ,
che contiene x0 ed è un aperto per la topologia debole, è disgiunto da 𝐶.
Esempio 7.126 (La topologia debole 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋 ∗∗ ) su 𝑋 ∗ ). Dato uno spazio di Banach 𝑋, consideriamo come spazio di partenza il suo duale 𝑋 ∗ . Diciamo 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋 ∗∗ ) la topologia debole su 𝑋 ∗ relativa all’insieme 𝑋 ∗∗ , ossia rispetto all’insieme di tutti i funzionali lineari continui di 𝑋 ∗ in ℝ, dotato della topologia ordinaria. Per quanto si è visto, si ha che un’applicazione 𝑔 di un arbitrario spazio topologico 𝑍 in 𝑋 ∗ è continua se e solo se sono continue le applicazioni 𝜑 ∘ 𝑔, per ogni 𝜑 ∈ 𝑋 ∗∗ . Inoltre, una successione 𝑆 = (𝑓𝑛 )𝑛 di 𝑋 ∗ converge a un elemento 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ se e solo se (⟨𝜑, 𝑓𝑛 ⟩)𝑛 converge a ⟨𝜑, 𝑓 ⟩ ∈ ℝ, sempre per ogni 𝜑 ∈ 𝑋 ∗∗ , ossia se e solo se 𝑓𝑛 ⇀ 𝑓 . ◁
Esempio 7.127 (La topologia debole∗ 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) su 𝑋 ∗ ). Sia 𝑋 uno spazio di Banach. Sappiamo che ad ogni x ∈ 𝑋 è associato in modo canonico un elemento 𝜑x ∈ 𝑋 ∗∗ tale che ⟨𝜑x , 𝑓 ⟩ = ⟨𝑓 , x⟩, ∀𝑓 ∈ 𝑋 ∗ . Indichiamo ora con 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) la topologia debole su 𝑋 ∗ relativa agli elementi di 𝑋 ∗∗ che sono del tipo 𝜑x , con x ∈ 𝑋. Questa topologia è detta topologia debole∗ . Un sistema di generatori degli aperti di tale topologia è dato dalle controimmagini degli intervalli aperti di ℝ mediante le 𝜑x . Siccome questi insiemi sono aperti anche nella topologia debole 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋 ∗∗ ) si ottiene che 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋 ∗∗ ) è più fine di 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋). Naturalmente, se lo spazio 𝑋 è riflessivo (Cfr. Definizione 4.62), le due topologie deboli coincidono. ◁ Dalla definizione generale di topologia debole, segue che, dato un punto 𝑓0 ∈ 𝑋 ∗ , una base di suoi intorni rispetto alla topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) è costituita dagli insiemi del tipo 𝑉 ∶= {𝑓 ∈ 𝑋 ∗ ∶ |⟨𝑓 − 𝑓0 , x𝑖 ⟩| < 𝜀, ∀𝑖 = 1, … , 𝑛} ,
(7.7)
7.3. Convergenze e topologie deboli
379
al variare di 𝜀 > 0 e di un numero finito di punti x1 , … , x𝑛 ∈ 𝑋.
Per esprimere il fatto che la successione (𝑓𝑛 )𝑛 di 𝑋 ∗ converge a 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ in 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋), useremo la notazione 𝑓𝑛 ⇀∗ 𝑓 . Si ha dunque 𝑓𝑛 ⇀∗ 𝑓 se e solo se ⟨𝜑x , 𝑓𝑛 ⟩ → ⟨𝜑x , 𝑓 ⟩, ∀x ∈ 𝑋, ossia se e solo se ⟨𝑓𝑛 , x⟩ → ⟨𝑓 , x⟩, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Il Lemma 7.112 viene così riformulato: Lemma 7.128. Sia 𝑋 uno spazio di Banach. 1. Se 𝑓𝑛 → 𝑓 in 𝑋 ∗ , allora è 𝑓𝑛 ⇀ 𝑓 . Se 𝑓𝑛 ⇀ 𝑓 in 𝑋 ∗ , allora è 𝑓𝑛 ⇀∗ 𝑓 . 2. Ogni successione debolmente∗ convergente in 𝑋 ∗ è limitata. 3. Se 𝑓𝑛 ⇀∗ 𝑓 , allora si ha ‖𝑓 ‖ ≤ lim inf𝑛→∞ ‖𝑓𝑛 ‖. 4. Se 𝑓𝑛 ⇀∗ 𝑓 e x𝑛 → x, allora ⟨𝑓𝑛 , x𝑛 ⟩ → ⟨𝑓 , x⟩. 5. Se 𝑓𝑛 ⇀∗ 𝑓 e 𝑔𝑛 ⇀∗ 𝑔, allora, quali che siano 𝛼, 𝛽 ∈ ℝ, si ha 𝛼𝑓𝑛 +𝛽𝑔𝑛 ⇀∗ 𝛼𝑓 + 𝛽𝑔.
Siano 𝑋 uno spazio di Banach e 𝑋 ∗ il suo duale topologico. Abbiamo visto che in 𝑋 ∗ possiamo considerare tre topologie: quella forte (quella di partenza), quella debole 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋 ∗∗ ) e quella debole∗ 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋). Quest’ultima è la più debole di tutte ed è pertanto quella in cui dovremmo avere maggiore “facilità” nelle verifica della proprietà di compattezza. Un esempio in questa direzione è dato dal celebre risultato che segue:
Teorema 7.129 (di Banach-Alaoglu). Siano 𝑋 uno spazio di Banach e 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1] ⊆ 𝑋 ∗ la palla unitaria chiusa nello spazio duale. L’insieme 𝐵 è compatto rispetto alla topologia debole∗ . Dimostrazione. Consideriamo lo spazio
𝑊 ∶= ℝ𝑋 =
∏
x∈𝑋
ℝ
munito della topologia prodotto 𝜏. Indichiamo un generico elemento w ∈ 𝑊 come w = (wx )x∈𝑋 .
Ricordiamo che 𝜏 è la topologia meno fine su 𝑊 che rende continue tutte le proiezioni 𝑝x di 𝑊 su ℝ definite da 𝑝x (w) ∶= 𝑤x . Consideriamo anche 𝑋 ∗ munito della topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) e l’applicazione Φ ∶ 𝑋 ∗ → 𝑊 definita da Φ(𝑓 ) ∶= (⟨𝑓 , x⟩)x∈𝑋 .
(7.8)
Ci proponiamo di dimostrare che Φ è un omeomorfismo di 𝑋 ∗ su Φ(𝑋 ∗ ). Per prima cosa, osserviamo che Φ è continua. A tale scopo, è sufficiente verificare che, per ogni x ∈ 𝑋, l’applicazione 𝑝x ∘ Φ ∶ 𝑋 ∗ → ℝ è continua (cfr. Teorema 6.3). Per definizione, si ha che (𝑝x ∘ Φ)(𝑓 ) = ⟨𝑓 , x⟩. Quindi 𝑝x ∘ Φ è lineare e inoltre |(𝑝x ∘ Φ)(𝑓 )| = |⟨𝑓 , x⟩| ≤ ‖x‖ ‖𝑓 ‖, il che prova la continuità di 𝑝x ∘ Φ. L’iniettività di Φ segue immediatamente dalla definizione. Resta da dimostrare che Φ−1 ∶ Φ(𝑋 ∗ ) → 𝑋 ∗ è continua. Ancora dal Teorema 6.3 e ricordando
7.3. Convergenze e topologie deboli
380
la definizione di topologia debole∗ , basterà verificare che, per ogni x ∈ 𝑋, l’applicazione w ↦ ⟨Φ−1 (w), x⟩ è continua su Φ(𝑋 ∗ ). Ora, se osserviamo che w ∈ Φ−1 (𝑋 ∗ ) è del tipo w = (wx )x∈𝑋 , con wx ∶= ⟨𝑓 , x⟩ per qualche 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , possiamo scrivere ⟨Φ−1 (w), x⟩ = ⟨𝑓 , x⟩ = wx , da cui risulta che l’applicazione w ↦ ⟨Φ−1 (w), x⟩ altro non è che la proiezione continua 𝑝x . Poniamo ora 𝐾 ∶= Φ(𝐵) ⊆ Φ(𝑋 ∗ ). Ci proponiamo di dimostrare che 𝐾 è un compatto per la topologia prodotto 𝜏. Fatto ciò, avremo la compattezza di 𝐵 in 𝑋 ∗ rispetto alla topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) come conseguenza del fatto che, come si è visto, Φ è un omeomorfismo. Dalla (7.8) vediamo che è w = (wx )x∈𝑋 ∈ 𝐾
se e solo se sono verificate le seguenti condizioni x+y y 1. w = wx + w , ∀x, y ∈ 𝑋, 𝛼x x 2. w = 𝛼w , ∀𝛼 ∈ ℝ∀x ∈ 𝑋, 3. |wx | ≤ ‖x‖, ∀x ∈ 𝑋. Se indichiamo con 𝐾𝑖 , con 𝑖 = 1, 2, 3, l’insieme dei w ∈ 𝑊 che verificano, rispettivamente, la 𝑖-ma condizione, avremo evidentemente che è 𝐾 = 𝐾1 ∩ 𝐾2 ∩ 𝐾3 . 𝐾1 è chiuso. Infatti, si ha 𝐾1 =
⋂
x.y∈𝑋
𝑀x,y ,
con 𝑀x,y ∶= {w ∈ 𝑊 ∶ w
x+y
− wx − w = 0 } y
e, per ogni x, y ∈ 𝑋, l’insieme 𝑀x,y è chiuso, perché controimmagine del chiuso {0} tramite l’applicazione continua 𝑝x+y − 𝑝x − 𝑝y . In modo del tutto simile si verifica che anche 𝐾2 è chiuso. Per quando riguarda l’insieme 𝐾3 , osserviamo che w ∈ 𝐾3 se e solo se e pertanto
−‖x‖ ≤ wx ≤ ‖x‖, 𝐾3 =
∏
∀x ∈ 𝑋,
[−‖x‖, ‖x‖].
Essendo 𝐾3 un prodotto di compatti, dal Teorema di Tychonoff segue che esso è compatto. Si conclude che 𝐾 è compatto e, con esso, anche 𝐵. x∈𝑋
Come vedremo più avanti (cfr. Corollario 9.87), in uno spazio normato arbitrario di dimensione infinita, la palla unitaria non è mai compatta rispetto alla topologia della norma (forte). Invece, grazie al Teorema di Banach-Alaoglu, siamo riusciti ad ottenere la compattezza della palla unitaria anche per gli spazi di dimensione infinita, anche se la topologia non è quella della norma, ma una opportuna topologia debole. Il prossimo passo consiste nel trasferire il suddetto teorema dallo spazio duale a uno spazio di Banach assegnato. Ciò si può fare nel caso degli spazi riflessivi. Infatti, vale il seguente:
7.3. Convergenze e topologie deboli
381
Teorema 7.130. Sia 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo. Allora la palla chiusa unitaria 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1](⊆ 𝑋) è compatta rispetto alla topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ). Dimostrazione. Ricordiamo (cfr. la Definizione 4.62) che per uno spazio riflessivo 𝑋 l’applicazione 𝐽 ∶ 𝑋 → 𝑋 ∗∗ ,
x ↦ 𝜑x ,
𝜑x (𝑓 ) ∶= ⟨𝑓 , x⟩, ∀𝑓 ∈ 𝑋 ∗
è un’isometria suriettiva (oltre che un isomorfismo lineare). Consideriamo ora l’insieme 𝐽 (𝐵) ⊂ 𝑋 ∗∗ , che risulta essere la palla chiusa unitaria di 𝑋 ∗∗ . Per il Teorema di Banach-Alaoglu applicato allo spazio 𝑋 ∗∗ , abbiamo che 𝐽 (𝐵) è compatto rispetto alla topologia 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ). Per il Teorema di compattezza negli spazi topologici, sarà quindi sufficiente verificare che l’applicazione 𝐽 −1 ∶ 𝑋 ∗∗ → 𝑋 è continua rispetto alle topologie 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ) per il dominio e 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) per il codominio. Per il Teorema 6.3, che caratterizza la continuità di un’applicazione rispetto alla topologia debole del codominio, potremo affermare che 𝐽 −1 è continua rispetto alle topologie indicate sopra se e solo se, per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , l’applicazione 𝑋 ∗∗ ∋ 𝝃 ↦ ⟨𝑓 , 𝐽 −1 (𝝃)⟩ ∈ ℝ
è continua su 𝑋 ∗∗ munito della topologia 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ). Posto w ∶= 𝐽 −1 (𝝃), per definizione di 𝐽 −1 , abbiamo che ⟨𝑓 , 𝐽 −1 (𝝃)⟩ = ⟨𝑓 , w⟩ = 𝜑w (𝑓 ) = 𝐽 (w)(𝑓 ) = 𝝃(𝑓 ).
Pertanto, ci basterà verificare che, per ogni 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ , l’applicazione 𝑋 ∗∗ ∋ 𝝃 ↦ 𝝃(𝑓 ) = ⟨𝝃, 𝑓 ⟩ ∈ ℝ
è continua rispetto alla topologia 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ) di 𝑋 ∗∗ . Ma ciò è ovvio, dato che, per definizione, questa topologia è proprio quella più debole che rende continue tali applicazioni. Come conseguenza di questo teorema, abbiamo il seguente risultato fondamentale: Teorema 7.131 (Sugli insiemi debolmente compatti negli spazi riflessivi). Siano 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo e 𝐾 ⊆ 𝑋 un sottoinsieme convesso, chiuso e limitato (rispetto alla norma dello spazio). Allora 𝐾 è compatto rispetto alla topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ). Dimostrazione. Essendo 𝐾 limitato, esiste 𝑟 > 0 tale che 𝐾 ⊆ 𝐵[0, 𝑟] = 𝑟𝐵[0, 1]. L’insieme 𝐾 è compatto per la topologia debole; infatti esso è chiuso per tale topologia in virtù del Teorema 7.125 e, inoltre, 𝐵[0, 𝑟] è debolmente compatto (banale conseguenza del teorema precedente).
8
Paracompattezza 8.1
Spazi paracompatti
Il concetto di paracompattezza, introdotto dal matematico francese Jean Dieudonné nel 1944, è un’estensione del concetto di compattezza per ricoprimenti e ha trovato utili applicazioni nel campo dell’Analisi Matematica. Una delle conseguenze di questo concetto è la possibilità di definire partizioni dell’unità le quali, a loro volta, permettono di costruire funzioni continue dotate di specifiche proprietà. Costruzioni basate sull’uso di partizioni dell’unità sono frequenti nella Geometria Differenziale e in Analisi Matematica. Senza la pretesa di una trattazione approfondita sugli spazi paracompatti, introdurremo in questo paragrafo alcune definizioni e proprietà principali, fra cui il famoso Teorema di Stone che asserisce che ogni spazio metrico è paracompatto. Nel prossimo paragrafo, introdurremo poi il concetto di partizione dell’unità e ne presenteremo, in fine, alcune applicazioni utili all’Analisi. Alcune delle proprietà considerate in questo paragrafo sono state già introdotte da un altro punto di vista nel paragrafo 3.5. Cominciamo richiamando il concetto di raffinamento di un ricoprimento (cfr. Definizione 3.117). Definizione 8.1. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un suo ricoprimento. Per raffinamento di 𝒜 intendiamo un ricoprimento ℬ ∶= {𝐵𝛽 }𝛽∈𝐽 ′ tale che per ogni 𝐵𝛽 ∈ ℬ, esiste un 𝐴𝛼 ∈ 𝒜 tale che 𝐵𝛽 ⊆ 𝐴𝛼 . Il raffinamento si dice preciso se gli insiemi di indici 𝐽 e 𝐽 ′ coincidono e, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , si ha 𝐵𝛼 ⊆ 𝐴𝛼 . Il raffinamento ℬ si dice localmente finito se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un intorno 𝑈𝑥 che ha intersezione non vuota con al più un numero finito di elementi di ℬ. ◁
Si ha immediatamente che: Ogni sottoricoprimento di un ricoprimento 𝒜 è un suo raffinamento.
Definizione 8.2. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) si dice paracompatto se ogni ricoprimento aperto di 𝑋 possiede un raffinamento aperto localmente finito. ◁ 382
8.1. Spazi paracompatti
383
Si presti attenzione al fatto che molti Autori, parlando di spazi paracompatti, assumono sempre la condizione che gli spazi siano di Hausdorff. (Si veda, per es. [18] e [52, 53].) Dalla definizione di compattezza per ricoprimenti si ottiene subito il Corollario 8.3. 1. Ogni spazio discreto è paracompatto. 2. Ogni spazio compatto è paracompatto. Dal Teorema di Stone 3.121 si ha immediatamente il seguente risultato: Teorema 8.4 (di Stone). Ogni spazio metrico (o metrizzabile) è paracompatto. Analogamente alla Proposizione 7.30.1, sussiste il seguente risultato, la cui dimostrazione è lasciata per esercizio al lettore. Lemma 8.5. Ogni sottospazio chiuso di uno spazio paracompatto è ancora paracompatto. Si vede facilmente che sussiste il seguente lemma:
Lemma 8.6. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è paracompatto se e solo se ogni ricoprimento aperto di 𝑋 possiede un raffinamento aperto localmente finito e preciso. Dimostrazione. Basta ovviamente provare il “solo se”. Siano 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝑋 e ℬ ∶= {𝐵𝛽 }𝛽∈𝐽 ′ un suo raffinamento aperto localmente finito. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 consideriamo l’insieme 𝐽𝛼 (eventualmente vuoto) costituito dai 𝛽 ∈ 𝐽 ′ tali che 𝐵𝛽 ⊆ 𝐴𝛼 . Definiamo ora un nuovo ricoprimento aperto 𝒞 ∶= {𝐶𝛼 }𝛼∈𝐽 dove, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , è 𝐶𝛼 ∶= ⋃𝛽∈𝐽𝛼 𝐵𝛽 . 𝒞 è chiaramente un raffinamento aperto di 𝒜 ed è localmente finito perché tale era ℬ.
Interessanti risultati si ottengono abbinando la paracompattezza agli assiomi di separazione. Nel capitolo precedente abbiamo visto, per esempio, che ogni spazio compatto e di Hausdorff è normale (cfr. Teorema 7.33). Questo risultato può essere generalizzato alla paracompattezza. Teorema 8.7 (di Dieudonné). Ogni spazio topologico paracompatto e di Hausdorff è normale.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico paracompatto e di Hausdorff. Cominciamo col provare che lo spazio è regolare. Consideriamo pertanto un sottoinsieme chiuso 𝐶 ⊂ 𝑋 e un punto 𝑝 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐶. Per ogni punto 𝑐 ∈ 𝐶, esistono due aperti disgiunti 𝑈𝑐 e 𝑉𝑐 con 𝑝 ∈ 𝑈𝑐 e 𝑐 ∈ 𝑉𝑐 . Pertanto 𝑝 ∉ cl 𝑉𝑐 , ∀𝑐 ∈ 𝐶. Considerando anche l’aperto 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶, assieme alla famiglia dei 𝑉𝑐 , al variare di 𝑐 ∈ 𝐶, si ottiene un ricoprimento 𝒜 di 𝑋. Per l’ipotesi di paracompattezza, esiste un raffinamento aperto ℬ ∶= {𝐵𝛽 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 } di 𝒜 localmente
8.1. Spazi paracompatti
384
finito. Consideriamo ora l’insieme degli indici 𝐽 ′ ∶= {𝛽 ∈ 𝐽 ∶ 𝐵𝛽 ∩ 𝐶 ≠ ∅}. Chiaramente la famiglia {𝐵𝛽 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 ′ } è un ricoprimento aperto di 𝐶 e quindi 𝑉 ∶= ⋃𝛽∈𝐽 ′ 𝐵𝛽 è un aperto contenente 𝐶. Verifichiamo ora che 𝑝 ∉ cl 𝑉 . Dalla definizione di raffinamento, e per la definizione di 𝐽 ′ , sappiamo che, per ogni 𝛽 ∈ 𝐽 ′ , esiste un 𝑉𝑐(𝛽) che contiene 𝐵𝛽 . Quindi cl 𝐵𝛽 ⊆ cl 𝑉𝑐(𝛽) che non contiene 𝑝. Concludiamo che 𝑝 ∉ ⋃𝛽∈𝐽 ′ cl 𝐵𝛽 . Per il Lemma 3.112, si ha 𝑝∉
⋃
𝛽∈𝐽 ′
cl 𝐵𝛽 = cl
⋃
𝛽∈𝐽 ′
𝐵𝛽 = cl 𝑉 .
Posto 𝑈 ∶= 𝑋 ⧵cl 𝑉 , abbiamo ottenuto due aperti disgiunti 𝑈 e 𝑉 che separano 𝑝 e 𝐶. Consideriamo ora due chiusi disgiunti 𝐶 e 𝐷. Per quanto appena visto, dato un qualunque punto 𝑑 ∈ 𝐷, esistono due aperti disgiunti 𝑈𝑑 e 𝑉𝑑 con 𝑑 ∈ 𝑈𝑑 e 𝐶 ⊆ 𝑉𝑑 . Pertanto, 𝐶 ∩ cl 𝑈𝑑 = ∅, ∀𝑑 ∈ 𝐷. Considerando anche l’aperto 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶, assieme alla famiglia degli 𝑈𝑑 , al variare di 𝑑 ∈ 𝐷, si ottiene un ricoprimento 𝒜 di 𝑋. Per l’ipotesi di paracompattezza, esiste un raffinamento aperto ℬ ∶= {𝐵𝛽 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 } di 𝒜 localmente finito. Consideriamo ancora l’insieme degli indici 𝐽 ′ ∶= {𝛽 ∈ 𝐽 ∶ 𝐵𝛽 ∩ 𝐷 ≠ ∅}. Chiaramente la famiglia {𝐵𝛽 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 ′ } è un ricoprimento aperto di 𝐷 e quindi 𝑈 ∶= ⋃𝛽∈𝐽 ′ 𝐵𝛽 è un aperto contenente 𝐷. Verifichiamo ora che 𝐶 ∩ cl 𝑈 = ∅. Dalla definizione di raffinamento, e per la definizione di 𝐽 ′ , sappiamo che, per ogni 𝛽 ∈ 𝐽 ′ , esiste un 𝑈𝑑(𝛽) che contiene 𝐵𝛽 . Quindi cl 𝐵𝛽 ⊆ cl 𝑈𝑑(𝛽) che ha intersezione vuota con 𝐶. Concludiamo che 𝐶 ∩ ⋃𝛽∈𝐽 ′ cl 𝐵𝛽 = ∅. Sempre per il Lemma 3.112, si ha ∅=𝐶∩
⋃
𝛽∈𝐽 ′
cl 𝐵𝛽 = 𝐶 ∩ cl
⋃
𝛽∈𝐽 ′
𝐵𝛽 = 𝐶 ∩ cl 𝑈 .
Posto 𝑊 ∶= 𝑋 ⧵ cl 𝑈 , abbiamo ottenuto due aperti disgiunti 𝑊 e 𝑈 che separano 𝐶 e 𝐷. Il risultato appena visto non è invertibile; esistono cioè spazi normali non paracompatti. Un esempio in tal senso è il seguente noto anche come Sottospazio chiuso di Michael (cfr. [76]).
Esempio 8.8. Sia 𝑋 ∶= {0, 1}𝒫 (ℝ) , ovvero lo spazio di tutte le funzioni dall’insieme delle parti di ℝ a valori in {0, 1}, con la topologia discreta, e diciamo 𝜏 la topologia prodotto di 𝑋. Trattandosi di uno spazio prodotto, possiamo pensare 𝑋 come ∏𝐸⊆ℝ {0, 1}𝐸 e indichiamo con 𝑝𝐸 ∶ 𝑋 → {0, 1}𝐸 = {0, 1} la proiezione canonica di indice 𝐸. Per definizione di topologia prodotto, le 𝑝𝐸 −1 sono continue e gli insiemi 𝑝−1 𝐸 (0) e 𝑝𝐸 (1) sono aperti in (𝑋, 𝜏) (anzi, al variare di 𝐸 ⊆ ℝ costituiscono un sistema di generatori per 𝜏). Per ogni 𝑟 ∈ ℝ, sia 𝑓𝑟 la funzione da 𝒫 (ℝ) in {0, 1} tale che 𝑓𝑟 (𝐴) = 1 se e solo se 𝑟 ∈ 𝐴. Sia poi 𝑀 ∶= {𝑓𝑟 ∈ 𝑋 ∶ 𝑟 ∈ ℝ } ⊂ 𝑋. Rispetto alla topologia prodotto 𝜏 (che è quella della convergenza puntuale) si ottiene che l’insieme
8.1. Spazi paracompatti
385
𝑋 ⧵ 𝑀 è denso in 𝑋. Per provare questo fatto, basta verificare che, fissata una funzione 𝑓𝑟 e scelto un suo intorno di base 𝑈 , esiste in 𝑈 una funzione di 𝑋 ⧵ 𝑀 (Esercizio). Indichiamo ora con 𝜎 la topologia di 𝑋 data dall’estensione discreta di 𝜏 mediante 𝑋 ⧵𝑀. Dunque i punti di 𝑋 ⧵𝑀 sono isolati in 𝜎 mentre i 𝜎-intorni di un punto di 𝑀 sono tutti e soli i suoi 𝜏-intorni (cfr. Osservazione 6.42). Prima di ulteriori considerazioni, stabiliamo alcune proprietà dell’insieme 𝑀. Esso è chiuso in (𝑋, 𝜎), poiché il suo complementare è aperto per costruzione. Inoltre, 𝑀, come sottospazio, ha la topologia discreta. Infatti, se 𝑓𝑟 ∈ 𝑀 ed 𝐸 ∶= {𝑟}, allora 𝑝−1 𝐸 (1) ∩ 𝑀 = {𝑓𝑟 }. Come osservato all’inizio, l’insieme −1 𝑝𝐸 (1) è un 𝜏-aperto e quindi anche un 𝜎-aperto. Un ragionamento simile mostra che due qualunque sottoinsiemi disgiunti di 𝑀 sono contenuti in due aperti disgiunti di (𝑋, 𝜏). Infatti, siano 𝐶, 𝐷 ⊆ 𝑀 non vuoti e con 𝐶 ∩ 𝐷 = ∅. Sia −1 𝐸 ∶= {𝑟 ∈ ℝ ∶ 𝑓𝑟 ∈ 𝐶 }. Consideriamo 𝑝−1 𝐸 (1) e 𝑝𝐸 (0); questi sono due 𝜏-aperti e quindi 𝜎-aperti disgiunti contenenti rispettivamente 𝐶 e 𝑀 ⧵𝐶 ⊇ 𝐷. Il lettore osservi che 𝑝−1 𝐸 (1) ∩ 𝑀 = 𝐶. Possiamo ora verificare che (𝑋, 𝜎) è normale. Intanto tale spazio è di Hausdorff, poiché lo è (𝑋, 𝜏) e 𝜎 raffina 𝜏. Siano ora 𝐻, 𝐾 due chiusi disgiunti di (𝑋, 𝜎). Per quanto appena visto, esistono due 𝜎-aperti disgiunti 𝑈 e 𝑉 contenenti rispettivamente 𝐻 ∩ 𝑀 e 𝐾 ∩ 𝑀. Ricordando che i singoletti di 𝑋 ⧵ 𝑀 sono aperti, vediamo immediatamente che gli insiemi 𝐴 ∶= 𝑈 ∪ (𝐻 ⧵ 𝑀),
𝐵 ∶= 𝑉 ∪ (𝐾 ⧵ 𝑀)
sono due aperti disgiunti che separano 𝐻 e 𝐾. Supponiamo ora, per assurdo, che (𝑋, 𝜎) sia paracompatto e consideriamo un ricoprimento aperto 𝒜 di 𝑋 fatto da aperti di base. Per il Lemma 8.6, 𝒜 possiede un raffinamento aperto, localmente finito e preciso ℬ. Poiché abbiamo preso per 𝒜 aperti di base, dovranno far parte del raffinamento tutti i singoletti del tipo {𝑔} con 𝑔 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑀. D’altra parte, essendo ℬ localmente finito, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 deve esistere un intorno 𝑈𝑥 che conterrà solo un numero finito di elementi di 𝑋 ⧵ 𝑀. Ciò è impossibile se 𝑥 = 𝑓𝑟 ∈ 𝑀 (per qualche 𝑟 ∈ ℝ), dato che ogni intorno di 𝑓𝑟 contiene infiniti elementi di 𝑋 ⧵ 𝑀. Infatti, essendo lo spazio 𝑇1 , ogni punto di accumulazione è di 𝜔-accumulazione (cfr. Teorema 1.79) e chiaramente ogni elemento di 𝑀 è di accumulazione per 𝑋 ⧵ 𝑀, dato che questo insieme è denso in 𝑋. ◁ Osservazione 8.9. Il Teorema di Dieudonné 8.7 è anche utile per produrre esempi di spazi 𝑇2 non paracompatti; infatti basta utilizzare un qualunque esempio di spazio 𝑇2 non normale. Questa semplice osservazione permette anche di asserire che, in generale, non sussiste un “Teorema di paracompattezza” analogo a quello di compattezza 7.35. Infatti, se 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 è una funzione continua, con 𝑋 paracompatto anche 𝑇2 , non è garantito che 𝑓 (𝑋) sia ancora paracompatto. Basta partire da uno spazio (𝑌 , 𝜏) che non sia normale (come quello dell’Esempio 1.90), assumere come 𝑋 ancora lo spazio 𝑌 ma con la topologia discreta e considerare la funzione identica 𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑌 . È infatti immediato
8.1. Spazi paracompatti
386
osservare che ogni spazio con la topologia discreta è paracompatto. Più avanti (cfr. Proposizione 11.62.3) vedremo condizioni sulla 𝑓 che garantiscono che l’immagine di un paracompatto è ancora paracompatta. ◁ Il seguente lemma, dovuto a E. Michael ([52]), è utile per semplificare alcune dimostrazioni sulla paracompattezza.
Lemma 8.10 (di Michael). In uno spazio topologico regolare (𝑋, 𝜏) le seguenti affermazioni sono equivalenti: 1. (𝑋, 𝜏) è paracompatto. 2. Ogni ricoprimento aperto possiede un raffinamento localmente finito. 3. Ogni ricoprimento aperto possiede un raffinamento chiuso localmente finito. Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Ovvio. 2 ⇒ 3. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico regolare e 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } un ricoprimento aperto di 𝑋. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, scegliamo un 𝐴𝛼(𝑥) ∈ 𝒜 con 𝑥 ∈ 𝐴𝛼(𝑥) . Per la Caratterizzazione di Tychonoff della regolarità (cfr. Teorema 1.91), sappiamo che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 esiste un aperto 𝑈𝑥 tale che 𝑥 ∈ 𝑈𝑥 ⊆ cl 𝑈𝑥 ⊆ 𝐴𝛼(𝑥) .
La famiglia 𝒰 ∶= {𝑈𝑥 ∶ 𝑥 ∈ 𝑋 } è un ricoprimento aperto di 𝑋 che è anche un raffinamento di 𝒜 . Per ipotesi, essa possiede un raffinamento ℬ ∶= ′ {𝐵𝛽 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 } localmente finito. Per la definizione di raffinamento, ℬ è un ricoprimento di 𝑋 e, per ogni 𝛽 ∈ 𝐽 ′ , esiste un 𝑥𝛽 ∈ 𝑋 tale che 𝐵𝛽 ⊆ 𝑈𝑥𝛽 .
Si ottiene che ℬ ′ ∶= {cl 𝐵𝛽 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 ′ } è un raffinamento di 𝒰 (e quindi di 𝒜 ) localmente finito formato da insiemi chiusi. 3 ⇒ 1. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico regolare e 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } un ricoprimento aperto di 𝑋. Consideriamo dapprima un raffinamento ℬ di 𝒜 localmente finito. (L’ipotesi garantisce che esiste addirittura un raffinamento fatto da insiemi chiusi.) Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un suo intorno aperto 𝑈𝑥 che ha intersezione non vuota con al più un numero finito di elementi di ℬ. La famiglia di questi 𝑈𝑥 costituisce un ricoprimento aperto di 𝑋 ed esso, a sua volta, possiederà un raffinamento chiuso 𝒞 localmente finito. Per ogni 𝐵 ∈ ℬ, sia 𝑊 (𝐵) ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶, con (𝐶 ∈ 𝒞 ) ∧ (𝐶 ∩ 𝐵 = ∅). ⋃ Tenuto ancora conto del Lemma 3.112, si ha che 𝑊 (𝐵) è un aperto contenente 𝐵. Inoltre, ogni 𝐶 ∈ 𝒞 interseca 𝑊 (𝐵) se e solo se interseca 𝐵. Sempre per ogni 𝐵 ∈ ℬ, esiste un 𝐴𝐵 ∈ 𝒜 tale che 𝐵 ⊆ 𝐴𝐵 . Sia ora, per ogni 𝐵 ∈ ℬ, 𝑈 (𝐵) ∶= 𝑊 (𝐵) ∩ 𝐴𝐵 . La famiglia 𝒰 ∶= {𝑈 (𝐵) ∶ 𝐵 ∈ ℬ} è un raffinamento aperto di 𝒜 . Inoltre, poiché ogni 𝐶 interseca al più un numero finito di elementi di 𝒰, si ha che 𝒰 è un raffinamento aperto e localmente finito di 𝒜 .
8.1. Spazi paracompatti
387
Nel caso dei ricoprimenti numerabili, sussiste un risultato che garantisce addirittura l’esistenza di un raffinamento preciso e sempre localmente finito. Sussiste infatti il seguente risultato. Lemma 8.11. Ogni ricoprimento aperto numerabile di uno spazio topologico possiede un raffinamento preciso localmente finito. Dimostrazione. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } un ricoprimento aperto numerabile di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). A partire da questo ricoprimento, definiamo la seguente famiglia di insiemi ℬ ∶= {𝐵𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ponendo 𝐵1 ∶= 𝐴1 ,
𝐵𝑛 ∶=
𝑛
⋃ 𝑖=1
𝐴𝑖 ⧵ (
𝑛−1
⋃ 𝑖=1
𝐴𝑖 ), ∀𝑛 ≥ 2.
Chiaramente, la famiglia ℬ è un ricoprimento, non necessariamente aperto, di 𝑋 e, per costruzione, 𝐵𝑛 ⊆ 𝐴𝑛 , ∀𝑛. Abbiamo così ottenuto un raffinamento preciso di 𝒜 . Proviamo che esso è anche localmente finito. Infatti, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, fissiamo un aperto 𝐴𝑘 ∈ 𝒜 , con 𝑥 ∈ 𝐴𝑘 (che ci fornisce un intorno di 𝑥) e osserviamo che 𝐵𝑗 ∩ 𝐴𝑘 = ∅, ∀𝑗 ≥ 𝑘 + 1. Teorema 8.12. Ogni spazio regolare di Lindelöf è paracompatto.
Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico regolare e di Lindelöf e 𝒜 un ricoprimento aperto di 𝑋. Per la proprietà di Lindelöff, esiste un sottoricoprimento, e quindi un raffinamento, aperto e numerabile 𝒜 ′ . Per il Lemma 8.11, 𝒜 ′ possiede un raffinamento (preciso) ℬ che è localmente finito. Ovviamente ℬ è anche un raffinamento di 𝒜 . Essendo lo spazio regolare, possiamo applicare il Lemma di Michael 8.10 concludendo che (𝑋, 𝜏) è paracompatto. Dall’ultimo teorema si deducono immediatamente alcune conseguenze interessanti. Esempio 8.13. Consideriamo ancora una volta lo spazio (ℝ, 𝜏 + ) con la topologia destra di Sorgenfrey. Nell’Esempio 7.105 abbiamo visto che tale spazio è di Lindelöf. Sappiamo inoltre, per il Corollario 1.92, che esso è regolare. Per il teorema precedente, (ℝ, 𝜏 + ) è paracompatto. D’altra parte, si è visto nell’Esempio 3.126 che la retta di Sorgenfrey non è metrizzabile. Quindi (ℝ, 𝜏 + ) fornisce un esempio di spazio Lindelöf, paracompatto, perfettamente normale (cfr. Esempio 6.40 e Teorema 2.118), non metrizzabile, non 𝐴2 (infatti, se fosse 𝐴2 sarebbe metrizzabile per il Teorema 3.115), non compatto. Sia (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto di (ℝ, 𝜏 + ) con se stesso. Nell’Esempio 7.105 abbiamo già osservato che tale spazio, che sappiamo essere addirittura completamente regolare, non è Lindelöf e non è metrizzabile, visto che non è normale (cfr. anche Esempio 6.40). Resta da capire se tale prodotto è o meno paracompatto. Utilizzando il Teorema 8.7, è immediato ottenere una risposta negativa.
8.1. Spazi paracompatti
388
Infatti se, per assurdo, (𝑋, 𝜏) fosse paracompatto, essendo esso di Hausdorff, dovrebbe anche essere normale (cfr. ancora Esempio 6.40). Da questa osservazione segue che, a differenza della compattezza che si preserva per prodotti arbitrari, la paracompattezza non si conserva nemmeno per prodotti finiti. Siccome l’Esempio di Sorgenfrey è molto importante, presentiamo anche una verifica diretta che lo spazio prodotto non è paracompatto. Ricordiamo che, dato un punto 𝑃 ∶= (𝑎, 𝑏), una sua base di intorni è costituita dai quadrati superiormente aperti 𝒬(𝑃 , 𝜀) ∶= [𝑎, 𝑎 + 𝜀[ × [𝑏, 𝑏 + 𝜀[. Come nell’Esempio 6.40, consideriamo ancora la retta diagonale 𝐿 data da 𝐿 ∶= {(𝑥, −𝑥) ∶ 𝑥 ∈ ℝ}. Sappiamo che 𝐿, come sottospazio di 𝑋, è chiuso e ha la topologia discreta. In 𝐿 consideriamo i sottospazi chiusi 𝐶 e 𝐷 costituiti dai punti di coordinate razionali e, rispettivamente, irrazionali. Sia poi 𝒜 il ricoprimento aperto (numerabile) di 𝑋 dato da 𝒜 ∶= {𝑋 ⧵ 𝐶} ∪ {𝒬(𝑃 , 1) ∶ 𝑃 ∈ 𝐶} .
Supponiamo che ℬ sia un raffinamento aperto di 𝒜 . Per ogni punto 𝑃 ∈ 𝐶, esiste un raggio 𝑟𝑝 > 0 tale che l’intorno 𝒬(𝑃 , 𝑟𝑝 ) è contenuto in qualche elemento di ℬ. Si noti anche che ogni elemento di ℬ può contenere al più uno di tali intorni. Supponiamo ora, per assurdo, che ℬ sia localmente finito; dunque ogni punto dello spazio 𝑋 possiede un intorno che interseca solo un numero finito di elementi di ℬ. Applicando questa proprietà agli intorni dei punti 𝑄 ∈ 𝐷, si ha che ognuno di essi possiede un intorno che interseca solo un numero finito degli insiemi 𝒬(𝑃 , 𝑟𝑝 ). Dato quindi 𝑄 ∈ 𝐷, esiste un intorno 𝑉 di 𝑄 che, o non interseca alcun insieme del tipo 𝒬(𝑃 , 𝑟𝑝 ) o ne incontra solo un numero finito. In questo secondo caso, siano essi 𝒬(𝑃1 , 𝑟1 ), … , 𝒬(𝑃𝑘 , 𝑟𝑘 ). Allora l’intorno 𝑉 conterrà un intorno 𝑉 ′ ∶= 𝒬(𝑄, 𝛿𝑞 ) che ha intersezione vuota con tutti i precedenti. In ogni caso, per ogni 𝑄 ∈ 𝐷, esiste un raggio 𝛿𝑞 > 0 tale che 𝒬(𝑄, 𝛿𝑞 ) ∩ 𝒬(𝑃 , 𝑟𝑝 ) = ∅, ∀𝑃 ∈ 𝐶. Consideriamo, in fine, gli aperti in 𝑋 𝒰 ∶=
⋃
𝑃 ∈𝐶
𝒬(𝑃 , 𝑟𝑝 );
𝒱 ∶=
⋃
𝑄∈𝐷
𝒬(𝑄, 𝛿𝑞 ).
Per costruzione, sono due aperti disgiunti che separano i chiusi 𝐶 e 𝐷. Questo contraddice quanto dimostrato nell’Esempio 6.40 dove si è verificato che 𝐶 e 𝐷 non sono separabili mediante aperti di 𝜏. ◁ Corollario 8.14. Ogni spazio topologico regolare e secondo numerabile è paracompatto.
Dimostrazione. Verifichiamo il risultato in due modi diversi. Una prima possibilità è di osservare che dal Teorema di Metrizzabilità di Urysohn 3.115 si ottiene che lo spazio è metrizzabile. Il Teorema di Stone 8.4 ci assicura quindi che lo spazio è paracompatto. Un’altra possibilità è quella di utilizzare il
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Lemma 7.61, che ci assicura che lo spazio è di Lindelöff e quindi il Teorema 8.12. Dai Teoremi 8.12 e 8.7 (ricordando, ovviamente, che ogni spazio regolare è di Hausdorff) si riottiene immediatamente il risultato che: Ogni spazio topologico regolare e di Lindelöff è normale. (cfr. Lemma 7.103). È appena il caso di osservare che se cerchiamo un esempio di spazio paracompatto non regolare, dobbiamo rinunciare alla proprietà di Hausdorff. Un esempio di uno spazio addirittura compatto 𝑇1 non regolare (e neanche 𝑇2 ) è quello visto nell’Osservazione 7.31. Restando sempre nell’ambito degli spazi regolari, presenteremo ulteriori risultati sulla paracompattezza. Sarà utile premettere il seguente lemma che vale per spazi topologici arbitrari. Lemma 8.15. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Ogni ricoprimento aperto 𝜎-localmente finito di 𝑋 possiede un raffinamento localmente finito. Dimostrazione. Sia 𝒜 ∶= ⋃𝑛∈ℕ+ 𝒜𝑛 un ricoprimento aperto di 𝑋 tale che, per ogni 𝑛, la famiglia di aperti 𝒜𝑛 è localmente finita. (Si badi che non è detto che le famiglie 𝒜𝑛 siano dei ricoprimenti.) Definiamo ora in modo induttivo le seguenti famiglie di insiemi: ℬ1 ∶= 𝒜1 ; ℬ2 è formata da tutti gli insiemi del tipo 𝑈 ⧵ 𝑉 , dove 𝑈 ∈ 𝒜2 e 𝑉 è una riunione arbitraria di aperti di 𝒜1 ; ℬ3 è formata da tutti gli insiemi del tipo 𝑈 ⧵ 𝑉 , dove 𝑈 ∈ 𝒜3 e 𝑉 è una riunione arbitraria di aperti di 𝒜1 ∪ 𝒜2 ; e così via. Poniamo, in fine, ℬ ∶= ⋃𝑛∈ℕ+ ℬ𝑛 e proviamo che tale famiglia ha le proprietà desiderate. Si osservi che gli elementi di ℬ non sono necessariamente aperti. Prima di tutto constatiamo che ℬ è un ricoprimento di 𝑋. Infatti, dato un qualunque elemento 𝑥 ∈ 𝑋, possiamo associargli un intero 𝑚 definito come il minimo indice 𝑖 tale che 𝑥 appartiene a un insieme della famiglia 𝒜𝑖 ; quindi esiste un insieme 𝑈 ∈ 𝒜𝑚 tale che 𝑥 ∈ 𝑈 e inoltre 𝑥 ∉ 𝐴 per ogni 𝐴 ∈ 𝒜𝑗 , con 𝑗 < 𝑚. Per costruzione, 𝑥 appartiene a un elemento della famiglia ℬ𝑚 e quindi a ℬ. È ovvio che ℬ sia un raffinamento di 𝒜 , perché, per costruzione, ogni elemento di ℬ𝑛 è un sottoinsieme di qualche elemento di 𝒜𝑛 . In fine, verifichiamo che la famiglia ℬ è localmente finita. Dato un qualunque elemento 𝑥 ∈ 𝑋, possiamo, come sopra, associargli un intero 𝑚 definito come il minimo indice 𝑖 tale che 𝑥 appartiene a un insieme della famiglia 𝒜𝑖 . Per la definizione di 𝑚, esiste un elemento 𝐴 ∈ 𝒜𝓂 tale che 𝑥 ∈ 𝐴 e inoltre esiste anche un elemento 𝐵 ∈ ℬ𝑚 tale che 𝑥 ∈ 𝐵 ⊆ 𝐴. Si osservi che, per costruzione, 𝑥 non può appartenere ad alcun elemento delle famiglie ℬ𝑗 , con 𝑗 > 𝑚; inoltre l’aperto 𝐴 ha intersezione vuota con tutti gli elementi delle famiglie ℬ𝑗 , con 𝑗 > 𝑚. Poiché le famiglie 𝒜𝑖 , con 𝑖 ≤ 𝑚, sono localmente finite,
8.1. Spazi paracompatti
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esistono 𝑚 intorni 𝑊1 , … , 𝑊𝑚 di 𝑥 che incontrano, rispettivamente, al più un numero finito di elementi di 𝒜1 , … , 𝒜𝑚 e quindi al più un numero finito di elementi di ℬ1 , … , ℬ𝑚 . Ora l’intorno 𝑊 ∶= 𝑊1 ∩ ⋯ ∩ 𝑊𝑚 ∩ 𝐴 incontra al più un numero finito di elementi di ℬ1 ∪ ⋯ ∪ ℬ𝑚 e nessun elemento di ℬ𝑗 , con 𝑗 > 𝑚. Mettendo assieme il lemma precedente con il Lemma di Michael 8.10, si può aggiungere un’ulteriore caratterizzazione della paracompattezza per gli spazi regolari.
Lemma 8.16. In uno spazio topologico regolare (𝑋, 𝜏) le seguenti affermazioni sono equivalenti: 1. (𝑋, 𝜏) è paracompatto. 2. Ogni ricoprimento aperto possiede un raffinamento aperto 𝜎-localmente finito. Dimostrazione. Dalla 1 segue banalmente la 2. Per il viceversa, basta applicare prima il lemma precedente e poi quello di Michael. Presentiamo il seguente risultato che migliora il Lemma 8.5 nel caso degli spazi regolari.
Corollario 8.17. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico regolare e 𝑌 ⊆ 𝑋 un 𝐹𝜎 . Se 𝑋 è paracompatto, è tale anche 𝑌 rispetto alla topologia indotta.
Dimostrazione. Sia 𝑌 ∶= ⋃+∞ 𝑛=1 𝐶𝑛 con 𝐶𝑛 chiuso di 𝑋, per ogni 𝑛. Consideriamo in 𝑌 un ricoprimento aperto 𝒜 ∶= {𝐴𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 }. Per definizione di topologia indotta, ogni 𝐴𝑖 ⊆ 𝑌 è del tipo 𝑈𝑖 ∩ 𝑌 , con 𝑈𝑖 aperto di 𝑋. Definiamo ora, per ogni indice 𝑛, la famiglia ℬ𝑛 di aperti di 𝑋 costituita dagli 𝑈𝑖 e dall’insieme 𝑋 ⧵ 𝐶𝑛 . ℬ𝑛 è un ricoprimento aperto di 𝑋 e, per la paracompattezza dello spazio, possiede un raffinamento aperto localmente finito 𝒱𝑛 . La famiglia 𝒲𝑛 formata dalle intersezioni con 𝑌 degli elementi di 𝒱𝑛 , esclusi eventualmente sottoinsiemi di 𝑋 ⧵ 𝐶𝑛 , è localmente finita in 𝑌 . In fine, la famiglia 𝒲 ∶= ⋃𝑛∈ℕ+ 𝒲𝑛 è 𝜎-localmente finita, costituita da aperti di 𝑌 ed è un raffinamento della famiglia 𝒜 di partenza. Essa è intanto un ricoprimento, poiché, dato 𝑦 ∈ 𝑌 , esiste 𝑛 ∈ ℕ+ per cui 𝑦 ∈ 𝐶𝑛 , e quindi 𝑦 appartiene a un elemento della famiglia 𝒱𝑛 non contenuto in 𝑋 ⧵ 𝐶𝑛 e, in definitiva, 𝑦 appartiene a un elemento della famiglia 𝒲𝑛 . Per verificare che si tratta di un raffinamento, prendiamo un generico 𝑊 ∈ 𝒲 . Esiste un indice 𝑛 per cui è 𝑊 ∈ 𝒲𝑛 e quindi 𝑊 è un insieme del tipo 𝑉 ∩ 𝑌 , con 𝑉 ∈ 𝒱𝑛 e 𝑉 ⊈ 𝑋 ⧵ 𝐶𝑛 . Per come è stata definita la famiglia 𝒱𝑛 , concludiamo che esiste un aperto 𝑈𝑖 tale che 𝑉 ⊆ 𝑈𝑖 e 𝐴𝑖 = 𝑈𝑖 ∩ 𝑌 . Abbiamo così ottenuto che 𝑊 = 𝑉 ∩ 𝑌 ⊆ 𝑈𝑖 ∩ 𝑌 = 𝐴𝑖 . Per concludere, basta osservare che anche 𝑌 è regolare (cfr. Proposizione 1.106.1) e applicare il lemma precedente.
8.1. Spazi paracompatti
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Si noti che non sussiste un’analoga proprietà per gli spazi compatti. Basta prendere come 𝑋 un intervallo chiuso e limitato della retta reale e come 𝑌 l’insieme dei suoi punti razionali. Banalmente, 𝑌 è un sottoinsieme 𝐹𝜎 del metrico compatto 𝑋, ma non è compatto. Il Corollario 8.17 ha varie conseguenze. Sappiamo, per esempio, che, negli spazi perfettamente normali, tutti i chiusi sono dei 𝐺𝛿 e che, in modo duale, tutti gli aperti sono degli 𝐹𝜎 . Pertanto, in uno spazio topologico perfettamente normale (e quindi anche regolare) e paracompatto, ogni sottospazio aperto è paracompatto. Da ciò segue che: Corollario 8.18. In uno spazio paracompatto e perfettamente normale, ogni sottospazio è paracompatto. Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏) paracompatto e perfettamente normale ed 𝐸 un suo sottoinsieme (non vuoto e proprio). Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝐸 rispetto alla topologia indotta. Dunque ogni 𝐴𝛼 è un sottoinsieme di 𝐸 del tipo 𝐴𝛼 ∶= 𝐴′𝛼 ∩ 𝐸, con 𝐴′𝛼 aperto di 𝑋. L’insieme 𝑈 ′ ∶= ⋃𝛼∈𝐽 𝐴′𝛼 è un aperto di 𝑋 che contiene 𝐸. Inoltre, la famiglia 𝒜 ′ ∶= {𝐴′𝛼 }𝛼∈𝐽 è un ricoprimento aperto di 𝑈 ′ . Per quanto visto sopra, 𝑈 ′ è paracompatto; pertanto, esiste un raffinamento ℬ ′ ∶= {𝐵𝛼′ }𝛼∈𝐽 (cfr. Lemma 8.6) localmente finito e preciso, costituito da aperti 𝐵𝛼′ ⊆ 𝐴′𝛼 . Intersecando con 𝐸 ogni 𝐵𝛼′ , si ottiene un raffinamento aperto localmente finito di 𝒜 che ricopre 𝐸. Analogamente a quanto visto per altri concetti, gli spazi paracompatti tali che ogni loro sottospazio è ancora paracompatto sono detti ereditariamente paracompatti. Un risultato analogo a quello del Lemma 7.103 è il seguente: Teorema 8.19. Ogni spazio topologico regolare e ereditariamente Lindelöff è perfettamente normale. Dimostrazione. Ricordiamo che uno spazio è perfettamente normale se è normale e ogni suo chiuso è un 𝐺𝛿 (cfr. Definizione 2.113 e quanto successivamente osservato). Sia dunque (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico regolare ed ereditariamente Lindelöff. Intanto lo spazio è normale per il Lemma 7.103. Sia ora 𝐶 ⊆ 𝑋 un chiuso arbitrario che, per evitare casi banali, supporremo non vuoto e proprio. Vogliamo dimostrare che 𝐶 è un’intersezione numerabile di aperti. In modo equivalente, possiamo considerare l’aperto 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶 e provare che esso è un 𝐹𝜎 , cioè unione numerabile di chiusi. Poiché 𝑋 è regolare, per ogni 𝑝 ∈ 𝐴, esiste un aperto 𝑈𝑝 tale che 𝑝 ∈ 𝑈𝑝 ⊆ cl 𝑈𝑝 ⊆ 𝐴 (Teorema 1.91). La famiglia degli aperti 𝑈𝑝 costituisce un ricoprimento aperto di 𝐴. Poiché 𝐴 è di Lindelöff per la topologia indotta (ipotesi di ereditarietà), esiste un sottoricoprimento numerabile 𝑈𝑝1 , 𝑈𝑝2 , … , 𝑈𝑝𝑛 , … di 𝐴. Passando alle chiusure, si ha 𝐴 = ⋃+∞ 𝑛=1 cl 𝑈𝑝𝑛 .
8.1. Spazi paracompatti
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A prima vista, può sembrare complicato verificare che uno spazio topologico sia ereditariamente Lindelöff. Un fatto già visto è che gli spazi 𝐴2 sono Lindelöff (cfr. Lemma 7.61) e la proprietà 𝐴2 è ereditaria. Un’altra tecnica per verificare questa proprietà di ereditarietà è di ricorrere a un concetto più generale di quello di base di aperti per una topologia che è quello di network. Il termine inglese di network si traduce, di solito, in Italiano con rete o con reticolo; dato però che questi termini sono già utilizzati con altri significati matematici, converrà non tradurlo. Definizione 8.20. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝒩 una famiglia di sottoinsiemi di 𝑋. 𝒩 si dice un network per 𝑋 se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni aperto 𝐴 contenente 𝑥 esiste un insieme 𝑁 ∈ 𝒩 tale che 𝑥 ∈ 𝑁 ⊆ 𝐴. ◁
Esempi banali di network sono: una qualunque base di aperti, o anche l’insieme di tutti i singoletti. Una proprietà interessante per lo spazio è quella di possedere un network numerabile. Tale proprietà è chiaramente ereditaria.
Lemma 8.21. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico dotato di un network numerabile 𝒩 ∶= {𝑁𝑘 ∶ 𝑘 ∈ ℕ}. Allora: 1. per ogni 𝑌 ⊆ 𝑋, (𝑌 , 𝜏𝑌 ) ha un network numerabile; 2. (𝑋, 𝜏) è ereditariamente separabile; 3. (𝑋, 𝜏) è ereditariamente di Lindelöff. Dimostrazione. 1. Dato 𝑌 ⊆ 𝑋, per ogni 𝑁 ∈ 𝒩 , sia 𝑁 ′ ∶= 𝑁 ∩ 𝑌 . Proviamo che la famiglia al più numerabile degli 𝑁 ′ ≠ ∅ costituisce un network di 𝑌 . Siano dati un punto 𝑝 ∈ 𝑌 e un suo 𝜏𝑌 -intorno aperto 𝐴′ . Si ha 𝐴′ = 𝑌 ∩𝐴, con 𝐴 𝜏-intorno aperto di 𝑝. Esiste 𝑁 ∈ 𝒩 tale che 𝑝 ∈ 𝑁 ⊆ 𝐴, da cui 𝑝 ∈ 𝑁 ′ ⊆ 𝐴′ . 2. In virtù della 1, basta provare che (𝑋, 𝜏) è separabile. Per ogni 𝑘 ∈ ℕ, fissiamo un punto 𝑝𝑘 ∈ 𝑁𝑘 e poniamo 𝐷 ∶= {𝑝𝑘 ∶ 𝑘 ∈ ℕ}. Dato un aperto non vuoto 𝐴 di 𝑋 e fissato un suo punto 𝑞, esiste 𝑘 ∈ ℕ tale che 𝑞 ∈ 𝑁𝑘 ⊆ 𝐴; è quindi 𝑝𝑘 ∈ 𝐴 ∩ 𝐷. Si conclude che 𝐷 è denso in 𝑋. 3. Ancora in virtù della 1, basta provare che (𝑋, 𝜏) è di Lindelöff. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝑋. Per ogni 𝑝 ∈ 𝑋, esiste un 𝐴𝛼(𝑝) ∈ 𝒜 che lo contiene; esiste quindi un 𝑁𝑘(𝑝) ∈ 𝒩 tale che 𝑝 ∈ 𝑁𝑘(𝑝) ⊆ 𝐴𝛼(𝑝) . Sia ora 𝒩 ′ ∶= ′ ′ {𝑁𝑘(𝑝) ∶ 𝑝 ∈ 𝑋 } ⊆ 𝒩 . Poniamo, per comodià, 𝒩 =∶ {𝑁𝑘 ∶ 𝑘 ∈ ℕ}. Per ogni ′ 𝑘 ∈ ℕ, esiste un 𝐴𝛼𝑘 ∈ 𝒜 tale che 𝑁𝑘 ⊆ 𝐴𝛼𝑘 . La famiglia degli 𝐴𝛼𝑘 fornisce un sottoricoprimento numerabile di 𝑋. Se 𝒩 ′ è finito, 𝑋 è compatto. Corollario 8.22. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio regolare dotato di un network numerabile. Allora 𝑋 è perfettamente normale.
Dimostrazione. Basta osservare che lo spazio è regolare ed ereditariamente Lindelöff e applicare il Teorema 8.19.
8.1. Spazi paracompatti
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Esempio 8.23. (di McAuley). Ricordiamo l’Esempio 3.128 in cui si considerava la topologia a farfalla su ℝ2 . Abbiamo a suo tempo verificato che lo spazio è regolare. Restava da controllarne la perfetta normalità. Sappiamo che la topologia indotta su ciascuno dei sottospazi 𝐴 ∶= {(𝑟, 0) ∶ 𝑟 ∈ ℝ} e 𝐵 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐴 è quella ordinaria. Ciascuno di questi due spazi ha una base numerabile di aperti. La riunione di queste due basi non dà una base per 𝑋, ma produce un network numerabile. A questo punto basta applicare il corollario precedente. Inoltre, per il Lemma 8.21, lo spazio è anche (ereditariamente) Lindelöff e quindi paracompatto per il Teorema 8.12. ◁ L’introduzione del piano con la topologia della farfalla (detta anche topologia bow-tie) dovuto a McAuley, è interessante anche in relazione al Teorema di Stone 8.4. Infatti, come abbiamo visto, il Teorema di Stone assicura che ogni spazio metrizzabile è paracompatto. D’altra parte, l’esempio di McAuley mostra che non sussiste l’implicazione opposta. Un altro esempio più semplice di spazio paracompatto di Hausdorff non metrizzabile è dato dal Cubo di Hilbert 𝐼 𝐼 . Come osservato nell’Esempio 7.38, questo spazio è compatto di Hausdorff e quindi normale; essendo compatto è ovviamente anche paracompatto. Tuttavia esso non può essere metrizzabile, poiché non è sequenzialmente compatto (cfr. l’Esempio 7.25 che mostra che {0, 1}𝐼 non è sequenzialmente compatto e quindi non può esserlo neanche 𝐼 𝐼 ), mentre sappiamo che per gli spazi metrici i due concetti di compattezza coincidono. L’Esempio di McAuley è comunque più fine di quello del cubo di Hilbert perché quest’ultimo non è perfettamente normale, anzi neanche completamente normale (cfr. Esempio 6.39), mentre lo è lo spazio a farfalla.
Lemma 8.24 (Tube-lemma). Siano 𝑋, 𝑌 due spazi topologici con 𝑌 compatto, e 𝐴 ⊆ 𝑋 × 𝑌 un aperto contenente una “retta” del tipo {𝑥} × 𝑌 . Allora esiste un intorno aperto 𝑈 di 𝑥 tale che 𝑈 × 𝑌 ⊆ 𝐴. Dimostrazione. Per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , poiché la coppia (𝑥, 𝑦) ∈ 𝐴, esiste una coppia di aperti 𝑈𝑦 ⊆ 𝑋 e 𝑉𝑦 ⊆ 𝑌 tali che (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑈𝑦 × 𝑉𝑦 ⊆ 𝐴. Poiché la famiglia dei 𝑉𝑦 è un ricoprimento aperto di 𝑌 , per la sua compattezza, esiste un sottoricoprimento finito 𝑉𝑦1 , … , 𝑉𝑦𝑛 di 𝑌 . Posto ora 𝑈 ∶= 𝑈𝑦1 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑦𝑛 , si ha 𝑈 × 𝑌 ⊆ 𝐴.
Esiste una versione generalizzata di quest’ultimo risultato che si enuncia come segue e di cui lasciamo la dimostrazione al lettore, come esercizio non del tutto banale.
Proposizione 8.25. Siano 𝑋, 𝑌 spazi topologici e 𝐶, 𝐷 due sottoinsiemi compatti, rispettivamente di 𝑋 e di 𝑌 . Per ogni aperto 𝐴 ⊆ 𝑋 ×𝑌 contenente 𝐶 ×𝐷, esistono due aperti 𝑈 , 𝑉 , in 𝑋 e 𝑌 rispettivamente, con 𝐶 ×𝐷 ⊆ 𝑈 ×𝑉 ⊆ 𝐴. Se si toglie l’ipotesi di compattezza, gli ultimi due risultati cadono in difetto. Per esempio, consideriamo nel piano cartesiano l’aperto 𝐴 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ |𝑥𝑦| < 1}.
8.1. Spazi paracompatti
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Tale insieme contiene l’asse delle ordinate, ma non contiene alcuna striscia del tipo 𝑈 × ℝ, con 𝑈 aperto contenente 𝑥 = 0. Teorema 8.26 (di Dieudonné). Il prodotto di uno spazio compatto per uno paracompatto è uno spazio paracompatto.
Dimostrazione. Siano 𝑋 uno spazio paracompatto e 𝑌 uno spazio compatto. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } un ricoprimento aperto dello spazio prodotto 𝑋×𝑌 . Per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, prendiamo gli aperti della famiglia 𝒜 che contengono un elemento del tipo (𝑧, 𝑦). Questa sottofamiglia è un ricoprimento aperto di {𝑧} × 𝑌 che è omeomorfo a 𝑌 . Per la compattezza di 𝑌 , esiste un sottoricoprimento finito {𝐵𝑦𝑧1 , 𝐵𝑦𝑧2 , … , 𝐵𝑦𝑧𝑛(𝑧) } di {𝑧} × 𝑌 (con gli 𝑦𝑖 dipendenti da 𝑧). Per il tube-lemma, esiste un aperto 𝑈𝑧 di 𝑋 tale che {𝑧} × 𝑌 ⊆ 𝑈𝑧 × 𝑌 ⊆
𝑛(𝑧)
⋃ 𝑖=1
𝐵𝑦𝑧𝑖 .
La famiglia 𝒰 ∶= {𝑈𝑥 ∶ 𝑥 ∈ 𝑋 } è un ricoprimento aperto dello spazio paracompatto 𝑋 ed esiste quindi un suo raffinamento 𝒱 localmente finito e preciso (cfr. Lemma 8.6). Dato che ogni raffinamento è ancora un ricoprimento, ogni 𝑥 ∈ 𝑋 appartiene a qualche 𝑉𝑥 ∈ 𝒱 tale che 𝑉𝑥 ⊆ 𝑈𝑥 . Prendiamo, in fine, la famiglia 𝒲 costituita dagli aperti del tipo (𝑉𝑥 × 𝑌 ) ∩ 𝐵𝑦𝑥𝑖 , dove 𝐵𝑦𝑥𝑖 appartiene alla famiglia finita {𝐵𝑦𝑥1 , 𝐵𝑦𝑥2 , … , 𝐵𝑦𝑥𝑛(𝑥) } che ricopre {𝑥} × 𝑌 . È evidente che la famiglia 𝒲 è un ricoprimento aperto di 𝑋 × 𝑌 . Essa è inoltre un raffinamento del ricoprimento 𝒜 . Rimane da controllare che 𝒲 è localmente finito. A tale proposito, fissiamo (𝑎, 𝑏) ∈ 𝑋 × 𝑌 . Poiché la famiglia 𝒱 è localmente finita, esiste un intorno 𝐸 di 𝑎 in 𝑋 che interseca al più un numero finito di elementi di 𝒱 . Ora l’aperto 𝐸 × 𝑌 è un intorno di (𝑎, 𝑏) e interseca solo un numero finito di elementi di 𝒲 . Questo risultato si generalizza a un prodotto arbitrario di spazi topologici di cui uno sia paracompatto e tutti gli altri compatti. Sappiamo che, per contro, non è detto che il prodotto di due spazi paracompatti sia ancora paracompatto. Infatti, Sorgenfrey nel 1947 ha dimostrato che il quadrato di (ℝ, 𝜏 + ) con se stesso non è paracompatto, mentre (ℝ, 𝜏 + ) lo è (cfr. Esempio 8.13). Sempre con l’ipotesi che uno dei due spazi sia paracompatto, cerchiamo condizioni, diverse dalla compattezza, che garantiscano la paracompattezza dello spazio prodotto. Una prima osservazione di tipo negativo è la seguente: Il prodotto di uno spazio paracompatto per uno spazio metrico non è necessariamente paracompatto. Ciò segue dall’Esempio di Michael 6.41 che richiamiamo brevemente. Esempio 8.27 (di Michael). Consideriamo la retta reale ℝ con la topologia 𝜎 dell’estensione irrazionale discreta. Ricordiamo che, per tale topologia, i punti
8.1. Spazi paracompatti
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irrazionali sono isolati, mentre, per quelli razionali, gli intorni sono quelli della topologia euclidea. Come si è visto nell’Esempio 6.41, (ℝ, 𝜎) è completamente normale. Verifichiamo che (ℝ, 𝜎) è paracompatto. Sia, infatti, 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di (ℝ, 𝜎). Sia 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 l’insieme degli indici 𝛼 per cui 𝐴𝛼 è aperto anche in 𝜏𝑒 . Poniamo, inoltre, 𝑈 ∶= ⋃𝛼∈𝐽 ′ 𝐴𝛼 . 𝑈 è aperto nella topologia euclidea ed è quindi paracompatto (infatti (ℝ, 𝜏𝑒 ) è paracompatto e perfettamente normale, oltre che metrizzabile). Poiché la famiglia {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 ′ è un ricoprimento aperto di 𝑈 , essa possiede un raffinamento aperto (nella topologia euclidea) localmente finito. Gli aperti di tale raffinamento sono aperti anche nella topologia 𝜎 che è strettamente più fine di quella euclidea. Basta ora aggiungere i singoletti dei numeri irrazionali che non stanno in 𝑈 . la famiglia risultante è costituita da aperti di 𝜎 ed è un raffinamento di 𝒜 ancora localmente finito. Sia ora 𝑋 ∶= ℝ × ℚ′ , con ℚ′ ∶= ℝ ⧵ ℚ; dotiamo ℝ della topologia 𝜎 e ℚ′ di quella euclidea. Nell’Esempio 6.41 abbiamo verificato che 𝑋 non è normale e quindi, essendo di Hausdorff, non può essere nemmeno paracompatto (cfr. Teorema 8.7). ◁ L’esempio appena visto mostra che il prodotto di uno spazio paracompatto e completamente normale per uno spazio metrico può non essere paracompatto. Il risultato successivo mostra che le cose vanno meglio se lo spazio paracompatto è perfettamente normale. Teorema 8.28. Il prodotto di uno spazio paracompatto e perfettamente normale per uno spazio metrico è paracompatto e perfettamente normale.
Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏𝑋 ) uno spazio paracompatto perfettamente normale e (𝑌 , 𝜏𝑌 ) uno spazio metrizzabile. Consideriamo nella topologia prodotto 𝜏 un ricoprimento aperto 𝒜 di 𝑋×𝑌 . Il Teorema 3.124 ci assicura che 𝑌 possiede una base di aperti 𝜎-localmente finita ℬ ∶= ⋃+∞ 𝑛=1 ℬ𝑛 , con ℬ𝑛 famiglia localmente finita di 𝜏𝑌 -aperti. Senza perdita di generalità (passando eventualmente a un raffinamento aperto di 𝒜 ), possiamo supporre che gli aperti della famiglia 𝒜 siano del tipo 𝑈 × 𝑉 , con 𝑈 aperto di 𝑋 e 𝑉 ∈ ℬ. Per ogni 𝑉 ∈ ℬ, consideriamo la famiglia di 𝜏𝑋 -aperti 𝒟𝑉 ∶= {𝑈 ⊆ 𝑋 ∶ 𝑈 × 𝑉 ∈ 𝒜 } e l’insieme 𝑈𝑉 ∶= ⋃𝑈 ∈𝒟𝑉 𝑈 . Per costruzione, ogni 𝑈𝑉 è un aperto di 𝑋 e 𝒟𝑉 è un suo ricoprimento aperto. Poiché 𝑋 è paracompatto e perfettamente normale, esso è anche ereditariamente paracompatto. Quindi ogni 𝑈𝑉 è paracompatto. Quest’ultimo risultato segue anche direttamente dal fatto che 𝑈𝑉 è un 𝐹𝜎 (cfr. Corollario 8.18 e l’osservazione che lo precede). Quindi ogni 𝒟𝑉 possiede un raffinamento aperto localmente finito relativamente a 𝑈𝑉 che denoteremo con ℰ𝑉 . Introduciamo ora, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , la famiglia di aperti 𝒲𝑛 ∶= {𝑈 ′ × 𝑉 ∶ (𝑈 ′ ∈ ℰ𝑉 ) ∧ (𝑉 ∈ ℬ𝑛 )} .
e, in fine, sia 𝒲 ∶= ⋃+∞ 𝑛=1 𝒲𝑛 . Per costruzione, la famiglia 𝒲 è un ricoprimento aperto di 𝑋 × 𝑌 , che raffina la famiglia 𝒜 . Essa è anche 𝜎-localmente finita
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poiché ogni 𝒲𝑛 è localmente finita. Infatti, per ogni punto (𝑎, 𝑏) ∈ 𝑋 × 𝑌 , procediamo nel seguente modo: fissiamo un 𝑛 ∈ ℕ+ e prendiamo un intorno aperto 𝐵 ⊆ 𝑌 contenente 𝑏 e tale che 𝐵 ha intersezione non vuota con al più un numero finito di aperti 𝑉1 , 𝑉2 , … , 𝑉𝑘 di ℬ𝑛 . Per ciascuno dei 𝑉𝑖 , consideriamo la corrispondente famiglia localmente finita ℰ𝑉𝑖 . Esiste quindi un intorno aperto 𝐺𝑖 di 𝑎 che incontra un numero finito di aperti di ℰ𝑉𝑖 . Introdotto l’aperto
𝐺 ∶= ⋂𝑘𝑖=1 𝐺𝑖 ⊆ 𝑋, si ha che l’aperto 𝐺 × 𝐵 ⊆ 𝑋 × 𝑌 è un intorno di (𝑎, 𝑏) che incontra solo un numero finito di elementi di 𝑊𝑛 . Il Lemma 8.16 ci garantisce che 𝑋 × 𝑌 è paracompatto, dato che esso è certamente normale. Resta da provare che 𝑋 × 𝑌 è perfettamente normale. Invece di dimostrare che ogni chiuso del prodotto è un 𝐺𝛿 , proveremo in modo duale che ogni suo aperto è un 𝐹𝜎 . Sia 𝐴 ⊆ 𝑋 × 𝑌 un aperto che, senza perdita di generalità, possiamo supporre non vuoto. Sia ancora ℬ ∶= ⋃+∞ 𝑛=1 ℬ𝑛 una base di aperti in 𝑌 che sia 𝜎-localmente finita e supponiamo non vuoti tutti i suoi elementi. Consideriamo ora le coppie (𝑈 , 𝐵), con 𝑈 aperto in 𝑋 e 𝐵 ∈ ℬ tali che 𝑈 ×cl 𝐵 ⊆ 𝐴. Coppie di questo tipo esistono sicuramente, dato che 𝑌 è regolare (si veda anche più avanti). Ci limitiamo d’ora in avanti a considerare solo gli elementi 𝐵 ∈ ℬ per cui esiste un primo elemento non vuoto della coppia. Per ogni 𝑖, la famiglia ℬ𝑖′ ottenuta dalle coppie per cui è 𝐵 ∈ ℬ𝑖 è ancora localmente finita. Prestiamo ora l’attenzione agli aperti di tipo 𝑈 (primi elementi delle coppie). Ciascuno di questi aperti è un 𝐹𝜎 (dato che 𝑋 è perfettamente normale). Per ogni 𝐵 ∈ ℬ𝑖′ , prendiamo l’aperto (non vuoto) 𝑈 (𝐵) dato dalla riunione di tutti gli aperti 𝑈 tali che 𝑈 ×cl 𝐵 ⊆ 𝐴 e, in corrispondenza di tale aperto, una famiglia numerabile di chiusi {𝐶𝑗 (𝐵) ∶ 𝑗 ∈ ℕ+ } tali che 𝑈 (𝐵) = ⋃𝑗 𝐶𝑗 (𝐵). Consideriamo in fine la famiglia ℰ𝑗𝑖 degli insiemi del tipo 𝐶𝑗 (𝐵) × cl 𝐵, al variare di 𝐵 ∈ ℬ𝑖′ . Ciascuno di tali insiemi è un chiuso nel prodotto (Esercizio!). Fissati 𝑖 e 𝑗, sia 𝐷𝑗𝑖 ∶= ⋃𝐵∈ℬ ′ (𝐶𝑗 (𝐵) × cl 𝐵). Utilizzando il Lemma 3.112, è immediato 𝑖 constatare che cl 𝐷𝑗𝑖 = 𝐷𝑗𝑖 , grazie al fatto che la famiglia ℬ𝑖′ è localmente finita. Si conclude che è 𝐴 = ⋃+∞ 𝑗,𝑖=1 𝐷𝑗𝑖 e che quindi 𝐴 è un 𝐹𝜎 . Infatti, 𝐴 contiene sicuramente la riunione dei 𝐷𝑗𝑖 . Viceversa, sia (𝑎, 𝑏) ∈ 𝐴. Per la topologia dello spazio prodotto, esistono due aperti 𝑈 , 𝑉 tali che (𝑎, 𝑏) ∈ 𝑈 × 𝑉 ⊆ 𝐴. Poiché 𝑌 è regolare, esiste un aperto 𝑉 ′ con 𝑏 ∈ 𝑉 ′ ⊆ cl 𝑉 ′ ⊆ 𝑉 . poiché ℬ è una base di aperti in 𝑌 , esiste 𝐵 ∈ ℬ𝑛 , per qualche 𝑛, tale che 𝑏 ∈ 𝐵 ⊆ 𝑉 ′ e quindi (𝑎, 𝑏) ∈ 𝑈 × cl 𝐵 ⊆ 𝐴. Ne segue anche che (𝑎, 𝑏) ∈ 𝑈 (𝐵) × cl 𝐵 ⊆ 𝐴, con 𝐵 ∈ ℬ𝑛′ . Per come sono definiti i 𝐷𝑗𝑖 , avremo che si ha (𝑎, 𝑏) ∈ 𝐷𝑗𝑛 per qualche 𝑗. A conclusione di questa panoramica sugli spazi prodotto, presentiamo il seguente teorema di A. H. Stone (1948) che generalizza quanto già visto per il prodotto di copie di ℕ (cfr. Esempio 6.38, pag. 294). Teorema 8.29 (di Stone). Il prodotto di spazi metrici è normale se e solo se al più un’infinità numerabile dei fattori non è compatta.
Dimostrazione. Sia 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 uno spazio prodotto di spazi metrici (𝑋𝑖 , 𝑑𝑖 ). Supponiamo che 𝑋 sia normale. Sia 𝑌 un eventuale spazio fattore non compatto
8.1. Spazi paracompatti
397
e che quindi non gode della proprietà di Bolzano-Weierstrass (cfr. Corollario 7.20). Esiste quindi un insieme infinito numerabile 𝐶 ⊆ 𝑌 privo di punti di accumulazione. Questo sottoinsieme 𝐶 è un chiuso di 𝑌 omeomorfo a ℕ in quanto eredita la topologia discreta come sottospazio di 𝑌 . Se, per assurdo, esiste un insieme più che numerabile di indici 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 con 𝑋𝑖 non compatto, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 ′ , lo spazio prodotto 𝑋 contiene un sottospazio del tipo 𝒞 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝐶𝑖 , con 𝐶𝑖 sottoinsieme chiuso di 𝑋𝑖 e 𝐶𝑖 omeomorfo a ℕ se 𝑖 ∈ 𝐽 ′ e 𝐶𝑖 è un singoletto {𝑤𝑖 } fissato in 𝑋𝑖 per 𝑖 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽 ′ . Proviamo che 𝒞 è un sottospazio chiuso di 𝑋. Prendiamo, infatti, un punto 𝑧 ∶= (𝑧𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋⧵𝒞 . Se, per qualche 𝑖 ∈ 𝐽 ⧵𝐽 ′ si ha 𝑧𝑖 ≠ 𝑤𝑖 , scegliamo un aperto 𝑈 dello spazio prodotto che nella componente 𝑖-ima contiene 𝑧𝑖 ed esclude 𝑤𝑖 , e coincide con gli spazi fattori in tutte le altre componenti. Chiaramente, è 𝑧 ∈ 𝑈 e 𝑈 ∩ 𝒞 = ∅. Se 𝑧𝑖 = 𝑤𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽 ′ , significa che esiste un indice 𝑘 ∈ 𝐽 ′ tale che 𝑧𝑘 ∉ 𝐶𝑘 . Per il Teorema 3.42 e ricordando che 𝐶𝑘 è chiuso, si ha che la distanza 𝜎 ∶= 𝑑(𝑧𝑘 , 𝐶𝑘 ) fra 𝑧𝑘 e 𝐶𝑘 è positiva. Basta ora prendere un aperto 𝑈 come sopra la cui componente 𝑘-ima è la palla aperta 𝐵(𝑧𝑘 , 𝑟), con 0 < 𝑟 < 𝜎 e coincide con gli spazi fattori in tutte le altre componenti. Essendo 𝑋 normale, è tale anche 𝒞 (cfr. Proposizione 1.106.2). D’altra parte, il sottospazio 𝒞 così definito è chiaramente omeomorfo al prodotto ∏𝑖∈𝐽 ′ 𝐶𝑖 (cfr. Definizione 6.18) che, a sua volta, è omeomorfo a un prodotto non numerabile di copie di ℕ. In tal modo si contraddice la seconda Proposizione dell’Esempio 6.38. Viceversa, supponiamo che al più un’infinità numerabile di fattori non sia compatta. A meno di omeomorfismi (permutando la famiglia degli indici), lo spazio 𝑋 si riduce ad un prodotto del tipo 𝑌 × 𝑍, con 𝑌 uno spazio topologico compatto (ottenuto dal prodotto delle componenti compatte) e 𝑍 uno spazio metrico, in quanto ottenuto da un prodotto al più numerabile di spazi metrici (cfr. Teorema 6.23). Poiché ogni spazio metrico è anche paracompatto (cfr. Teorema 8.4), abbiamo che lo spazio 𝑋 è il prodotto di un compatto per un paracompatto ed è quindi paracompatto per il Teorema 8.26. D’altra parte, 𝑋 è anche di Hausdorff (cfr. Teorema 6.37) e quindi normale per il Teorema 8.7. Se gli spazi fattore sono tutte copie dello stesso spazio, allora per lo spazio prodotto 𝑋 vale il seguente risultato
Corollario 8.30. Sia 𝑋 ∶= 𝑌 𝐽 , con 𝑌 spazio metrico. Se 𝐽 è al più numerabile, 𝑋 è sempre normale. Se 𝐽 non è numerabile, 𝑋 è normale se e solo se lo spazio fattore 𝑌 è compatto. Ci sono delle immediate conseguenze di questo risultato per gli spazi di funzioni 𝐸 𝐼 con la topologia della convergenza puntuale, cioè quella prodotto.
Corollario 8.31. Siano 𝐸 e 𝐼 due intervalli della retta reale e consideriamo lo spazio 𝑋 ∶= 𝐸 𝐼 delle funzioni da 𝐼 in 𝐸 con la topologia della convergenza
8.1. Spazi paracompatti
398
puntuale. 𝑋 è normale se e solo se 𝐸 è compatto. In particolare, si ha che ℝ [0, 1]ℝ è normale, mentre non lo è ℝ .
Poiché ℝ è 𝑇2 , anzi completamente regolare (cfr. Proposizione 6.37.1), il ℝ corollario precedente ci mostra che ℝ non è 𝑇4 . I risultati visti in questo paragrafo permettono di dimostrare il seguente teorema: ℝ
Teorema 8.32. Sia (𝐸, 𝜏) uno spazio topologico 𝐴2 e consideriamo lo spazio 𝑋 ∶= 𝐶𝑝 (𝐸) costituito dalle funzioni continue di 𝐸 in ℝ con la topologia della convergenza puntuale. Allora 𝑋 è normale. Dimostrazione. Una possibile dimostrazione consiste nel provare che 𝑋 è dotato di un network numerabile. Da ciò seguirà, in virtù del Lemma 8.21, che 𝑋 è di Lindelöff. D’altra parte, 𝑋 è un sottospazio dello spazio ℝ𝐸 (dotato della topologia prodotto) che è regolare per la Proposizione 6.37.1; quindi anche 𝑋 è regolare per la Proposizione 1.106.1. A questo punto, avendo verificato che 𝑋 è li Lindelöff e regolare, la tesi segue dal Lemma di Tychonoff 7.103. Vediamo dunque di provare che 𝑋 ammette effettivamente un network numerabile. Siano 𝒜 ∶= {𝐴𝑛 }𝑛 una base numerabile di aperti di 𝐸 e ℬ ∶= {𝐵𝑛 }𝑛 una base numerabile di aperti di (ℝ, 𝜏𝑒 ). Per ogni coppia (𝑚, 𝑛) di numeri naturali, consideriamo l’insieme di funzioni 𝐹𝑚,𝑛 ∶= {𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝐸) ∶ 𝑓 (𝐴𝑚 ) ⊆ 𝐵𝑛 }
e sia 𝒩 l’insieme numerabile di tutte le intersezioni finite di tali insiemi. Ci proponiamo di verificare che 𝒩 è un network. Secondo la Definizione 8.20, verifichiamo che, per ogni 𝑓 ∶ 𝐸 → ℝ continua e per ogni aperto di base 𝑈 in 𝐶𝑝 (𝐸) contenente 𝑓 , esiste un elemento 𝑁 ∈ 𝒩 tale che 𝑓 ∈ 𝑁 ⊆ 𝑈 . Siano quindi assegnati 𝑓 e 𝑈 come sopra. Per come è definita la topologia prodotto, avremo che esiste un numero finito di punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ∈ 𝐸 e un numero finito di aperti di base di ℝ, 𝐵𝑖1 , … , 𝐵𝑖𝑘 , contenenti rispettivamente 𝑓 (𝑥1 ), … , 𝑓 (𝑥𝑘 ), tali che, detto 𝒱 l’intorno di base di 𝑓 dato da 𝒱 ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝐸) ∶ 𝑔(𝑥𝑗 ) ∈ 𝐵𝑖𝑗 , ∀𝑗 = 1, … , 𝑘} ,
si ha 𝑓 ∈ 𝒱 ⊆ 𝑈 . Usando la continuità di 𝑓 nei punti prescelti, si ha che, per 𝑗 = 1, … , 𝑘, 𝑓 −1 (𝐵𝑖𝑗 ) è un aperto di 𝐸 contenente 𝑥𝑗 e quindi esiste un aperto di base 𝐴𝑝𝑗 ∈ 𝒜 (nella topologia di 𝐸) con 𝑥𝑗 ∈ 𝐴𝑝𝑗 e tale che 𝑓 (𝐴𝑝𝑗 ) ⊆ 𝐵𝑖𝑗 . Concludiamo quindi che 𝑓 ∈ 𝑁 ∶=
e, per definizione, 𝑁 ∈ 𝒩 .
𝑘
⋂ 𝑗=1
𝐹𝑝𝑗 ,𝑖𝑗 ⊆ 𝒱 ⊆ 𝑈
8.2. Partizioni dell’unità
399
Osservazione 8.33. Nella dimostrazione del precedente teorema non si sono usate particolari proprietà di ℝ, tranne il fatto che sia uno spazio 𝐴2 e regolare. Pertanto il risultato è vero nel caso in cui 𝑋 sia lo spazio delle funzioni continue da 𝐸 in 𝑌 , dotato della topologia della convergenza puntuale, se entrambi gli spazi 𝐸 e 𝑌 sono 𝐴2 , con 𝑌 regolare. È interessante confrontare il Teorema 8.32 con il Corollario 8.30 nel caso degli intervalli della retta reale. Per esempio, se 𝐸, 𝐼 ⊆ ℝ sono due intervalli, sappiamo che lo spazio delle funzioni da 𝐸 in 𝐼 con la topologia della convergenza puntuale è normale se e solo se 𝐼 è compatto, mentre il suo sottospazio delle funzioni continue è sempre normale. In particolare, ℝ[0,1] non è normale, mentre 𝐶𝑝 ([0, 1]) è normale. ◁
8.2
Partizioni dell’unità
Un concetto strettamente collegato con la paracompattezza e che ha notevoli applicazioni sia in Analisi che in Geometria (per esempio nello studio delle varietà differenziabili) è quello di partizione dell’unità. Definizione 8.34. Dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e una famiglia ℱ di funzioni continue dallo spazio 𝑋 nell’intervallo unitario [0, 1] ⊂ ℝ, si dice che ℱ è una partizione dell’unità per 𝑋 se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un intorno 𝑈 (𝑥) di 𝑥 in cui tutte le funzioni di ℱ , salvo un numero finito, sono nulle e, inoltre, si ha ∑𝑓 ∈ℱ 𝑓 (𝑡) = 1, ∀𝑡 ∈ 𝑈 (𝑥). ◁
La precedente somma è chiaramente ben definita, dato che gli addendi non nulli sono in numero finito. Alcuni Autori (cfr. [18]) propongono una definizione leggermente più generale, chiedendo che, per ogni punto 𝑥 ∈ 𝑋, le funzioni della famiglia ℱ si annullino a meno di un’infinità numerabile e assumono inoltre che sia ∑𝑓 ∈ℱ 𝑓 (𝑥) = 1. In questo caso, invece di una somma finita, si considera una serie e, come già osservato a proposito delle serie di Fourier (cfr. pag. 264), la somma è indipendente dall’ordine, essendo a termini non negativi (serie incondizionatamente convergenti). Nel nostro caso, preferiamo limitarci alle somme finite perché ciò è quello che accade nel caso della paracompattezza. Le partizioni dell’unità secondo la nostra definizione vengono anche dette partizioni dell’unità localmente finite. In questo paragrafo considereremo delle partizioni dell’unità che sono associate a dei ricoprimenti. Tale scelta ha un senso ben preciso in quanto una partizione dell’unità definisce in modo naturale un ricoprimento dello spazio. Infatti, data una partizione dell’unità ℱ di uno spazio 𝑋, è immediato constatare che la famiglia 𝒲ℱ ∶= {𝑓 −1 (]0, 1]) ∶ 𝑓 ∈ ℱ } (8.1)
è un ricoprimento di 𝑋. Osserviamo che, poiché le funzioni assumono valori compresi fra 0 e 1, gli elementi di 𝒲ℱ sono tutti aperti. Se farà comodo, non sarà restrittivo supporre che tutte le funzioni di ℱ siano non identicamente nulle; in tal caso tutti gli elementi di 𝒲ℱ sono non vuoti.
8.2. Partizioni dell’unità
400
Definizione 8.35. Sia ℱ una partizione dell’unità di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e sia 𝒜 un ricoprimento di 𝑋. Diremo che ℱ è subordinata al ricoprimento 𝒜 se la famiglia di aperti 𝒲ℱ sopra definita è un raffinamento di 𝒜. ◁ Il teorema principale che lega il concetto di paracompattezza con quello di partizione dell’unità è il seguente. Teorema 8.36. In uno spazio topologico 𝑇1 (𝑋, 𝜏) le due seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti. 1. Lo spazio è paracompatto di Hausdorff. 2. Ogni ricoprimento aperto di 𝑋 ammette una partizione dell’unità ad esso subordinata.
Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio paracompatto di Hausdorff e 𝒜 un ricoprimento aperto di 𝑋. Ricordiamo che, grazie al Teorema di Dieudonné 8.7, lo spazio è normale (e quindi anche regolare). Per la paracompattezza, esiste un raffinamento ℬ di 𝒜 che è aperto e localmente finito. Questo a sua volta, per il Lemma 8.10, possiede un raffinamento chiuso localmente finito 𝒞 . Non sarà restrittivo supporre che 𝒞 sia preciso rispetto a ℬ. Per verificare questo fatto, basta ripetere la dimostrazione del Lemma 8.6 e osservare, ancora una volta, che per famiglie localmente finite la riunione delle chiusure coincide con la chiusura della riunione (cfr. Lemma 3.112). Poniamo quindi ℬ ∶= {𝐵𝛽 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 } e 𝒞 ∶= {𝐶𝛽 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 }, con 𝐶𝛽 ⊆ 𝐵𝛽 , ∀𝛽 ∈ 𝐽 , 𝐶𝛽 chiuso e 𝐵𝛽 aperto. Poiché, come appena osservato, lo spazio è normale, possiamo applicare il Lemma di Urysohn 2.100 ai chiusi disgiunti 𝐶𝛽 e 𝑋 ⧵ 𝐵𝛽 . Di conseguenza, per ogni 𝛽 ∈ 𝐽 , esiste una funzione continua 𝑓𝛽 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓𝛽 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐶𝛽 e 𝑓𝛽 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∉ 𝐵𝛽 . Poiché la famiglia di aperti ℬ è localmente finita, per ogni 𝑥0 ∈ 𝑋, si ha che 𝑓𝛽 (𝑥0 ) ≠ 0 al più per un numero finito di indici. Risulta così ben definita la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ+ , con 𝑓 (𝑥) ∶=
∑
𝛽∈𝐽
𝑓𝛽 (𝑥).
(8.2)
Inoltre, per ogni 𝑥0 ∈ 𝑋, si ha 𝑓 (𝑥0 ) ≥ 1, dato che la famiglia 𝒞 è un ricoprimento e 𝑓𝛽 (𝑥0 ) = 1 se 𝑥0 ∈ 𝐶𝛽 . La funzione definita dalla (8.2) è continua; ciò segue dal fatto che la famiglia ℬ è localmente finita. Per verificarlo, sia 𝑈0 un intorno aperto di 𝑥0 che incontra un numero finito di elementi di ℬ: 𝐵𝑖1 , … , 𝐵𝑖𝑘 . Quindi, se 𝑥 ∈ 𝑈0 , risulta 𝑓 (𝑥) ∶=
𝑘
∑ 𝑝=1
𝑓𝑖𝑝 (𝑥)
e, pertanto, 𝑓 ristretta a 𝑈0 è continua in 𝑥0 in quanto somma di funzioni continue. Essendo 𝑈0 aperto, si ha la continuità di 𝑓 nel punto (cfr. Osservazione 2.14).
8.2. Partizioni dell’unità
401
Si può concludere ora facilmente la verifica di questa implicazione, semplicemente normalizzando 𝑓 . In altri termini, è immediato controllare che la famiglia ℱ ∶= {𝑓𝛽 /𝑓 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 } costituisce una partizione dell’unità subordinata al ricoprimento 𝒜 . 2 ⇒ 1. Sia 𝒜 un ricoprimento aperto dello spazio 𝑋. Per ipotesi, esiste una partizione dell’unità (localmente finita) ℱ subordinata ad 𝒜 . Per definizione, la famiglia di aperti 𝒲ℱ è un raffinamento aperto localmente finito di 𝒜 ; quindi 𝑋 è paracompatto. Si tratta quindi solo di verificare che lo spazio è di Hausdorff. Consideriamo una coppia di punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋. Ricordando che i punti sono chiusi negli spazi 𝑇1 , consideriamo il ricoprimento di 𝑋 costituito dai due aperti 𝐴1 ∶= 𝑋 ⧵ {𝑝} e 𝐴2 ∶= 𝑋 ⧵ {𝑞}. L’ipotesi garantisce che esiste una partizione dell’unità ℱ subordinata a {𝐴1 , 𝐴2 }. Per definizione, esiste una funzione continua 𝑔 ∈ ℱ tale che 𝑔(𝑝) = 𝑐 > 0. Inoltre, per la Definizione 8.35, l’insieme 𝐸 ∶= 𝑔 −1 (]0, 1]) deve essere contenuto in 𝐴1 o 𝐴2 . Essendo 𝑔(𝑝) > 0, non può essere 𝐸 ⊆ 𝐴1 e quindi si ha 𝐸 ⊆ 𝐴2 , da cui segue 𝑔(𝑞) = 0. Ricapitolando, e passando eventualmente alla funzione 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑔(𝑥)/𝑐 abbiamo trovato una funzione continua che separa i due punti. Per il Lemma 2.103, concludiamo che lo spazio è almeno 𝑇 1 e quindi 𝑇2 . 2
2
Il teorema appena visto si può quindi riassumere affermando che per gli spazi 𝑇2 la paracompattezza è equivalente al fatto che ogni ricoprimento aperto possiede una partizione dell’unità ad esso subordinata. Alcuni Autori adottano un’ulteriore punto di vista nell’introdurre il concetto di partizione dell’unità. Precisamente, definito il supporto Supp 𝜑 di una funzione 𝜑 ∶ 𝑋 → ℝ come l’insieme Supp 𝜑 ∶= cl {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝜑(𝑥) ≠ 0} ,
si dice che una partizione dell’unità ℱ è subordinata a un ricoprimento 𝒜 di 𝑋 se, per ogni 𝐴 ∈ 𝒜 esiste una funzione 𝑓 ∈ ℱ con Supp 𝑓 ⊆ 𝐴 e inoltre la famiglia {Supp 𝑓 ∶ 𝑓 ∈ ℱ } è localmente finita. Questa definizione alternativa, anche se sembra più restrittiva, in realtà è equivalente a quella da noi adottata. Sussiste infatti il seguente
Teorema 8.37 (Esistenza di partizioni dell’unità). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico paracompatto di Hausdorff e 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } un ricoprimento aperto di 𝑋. Esiste allora una famiglia di funzioni continue 𝒢 ∶= {𝑔𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 }, con 𝑔𝛼 ∶ 𝑋 → [0, 1], ∀𝛼 ∈ 𝐽 , che gode delle seguenti proprietà: 1. Supp 𝑔𝛼 ⊆ 𝐴𝛼 , ∀𝛼 ∈ 𝐽 ; 2. {Supp 𝑔𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } è localmente finita; 3. ∑𝛼∈𝐽 𝑔𝛼 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Dimostrazione. La dimostrazione segue lo schema di quella della prima implicazione del teorema precedente, ricordando anche quella del Lemma 8.10 di Michael.
8.2. Partizioni dell’unità
402
Dato il ricoprimento aperto 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 }, prendiamo prima di tutto un suo raffinamento aperto e preciso 𝒜 ′ ∶= {𝐴′𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } che sia localmente finito. Ricordando che lo spazio è anche regolare, procediamo ora come nell’implicazione 2 ⇒ 3 del Lemma 8.10. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un aperto 𝐴′𝛼 del raffinamento tale che 𝑥 ∈ 𝐴′𝛼 e, per la caratterizzazione di Tychonoff della regolarità, un aperto 𝐵𝑥 tale che 𝑥 ∈ 𝐵𝑥 ⊆ cl 𝐵𝑥 ⊆ 𝐴′𝛼 . La famiglia dei 𝐵𝑥 è un ricoprimento aperto di 𝑋 che è anche un raffinamento di 𝒜 ′ . Esso a sua volta possiederà un raffinamento aperto localmente finito ℬ ′ . Ogni elemento di ℬ ′ ha, per costruzione, la chiusura contenuta in qualche elemento di 𝒜 ′ . Poiché la chiusura di una riunione localmente finita coincide con l’unione delle chiusure, procedendo come nel Lemma 8.6, possiamo ricondurci al caso di un raffinamento preciso. Abbiamo così dimostrato che esiste un ricoprimento aperto localmente finito 𝒰 ∶= {𝑈𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } tale che, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , si ha 𝑈𝛼 ⊆ cl 𝑈𝛼 ⊆ 𝐴′𝛼 ⊆ 𝐴𝛼 . Iterando una seconda volta il procedimento, perveniamo a un ulteriore raffinamento aperto localmente finito e preciso 𝒱 ∶= {𝑉𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } per cui si ha 𝑉𝛼 ⊆ cl 𝑉𝛼 ⊆ 𝑈𝛼 ⊆ cl 𝑈𝛼 ⊆ 𝐴𝛼 , ∀𝛼 ∈ 𝐽 .
A questo punto, ci ricolleghiamo alla dimostrazione della prima parte del teorema precedente, applicando il Lemma di Urysohn ai chiusi disgiunti cl 𝑉𝛼 e 𝑋 ⧵ 𝑈𝛼 e quindi, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , resta garantita l’esistenza di una funzione continua 𝑓𝛼 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓𝛼 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ cl 𝑉𝛼 e 𝑓𝛼 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∉ 𝑈𝛼 . Per gli stessi motivi già visti precedentemente, la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ+ data da 𝑓 (𝑥) ∶= ∑𝛼∈𝐽 𝑓𝛼 (𝑥) è ben definita e continua. A differenza di quanto visto nel teorema precedente, abbiamo ora che il supporto di 𝑓𝛼 è contenuto in cl 𝑈𝛼 ⊆ 𝐴𝛼 . In fine, normalizzando le 𝑓𝛼 nelle funzioni 𝑔𝛼 (𝑥) ∶= 𝑓𝛼 (𝑥)/𝑓 (𝑥), si ottiene la famiglia 𝒢 di funzioni continue che verifica le proprietà richieste. È chiaro che, in analogia al Teorema 8.36, vale anche qui l’implicazione opposta. Sempre in riferimento al Teorema 8.36, osserviamo anche che, mentre l’implicazione 2 ⇒ 1 sussiste per gli spazi 𝑇1 , l’opposta richiede che lo spazio sia 𝑇2 . Infatti non è vero che tutti gli spazi paracompatti 𝑇1 ammettono partizioni dell’unità subordinate ai ricoprimenti aperti.
Esempio 8.38. Siano 𝑋 ∶= ]0, 1] ∪ {𝑎, 𝑏}, con 𝑎, 𝑏 ∉ ]0, 1] e 𝑎 ≠ 𝑏, e 𝜏 la seguente topologia che descriviamo mediante intorni di base. Per ogni 𝑟 ∈ ]0, 1], gli intorni sono quelli usuali della topologia euclidea. Una base di intorni di 𝑎 è data dagli insiemi del tipo {𝑎}∪ ]0, 𝜀[; analogamente, una base di intorni di 𝑏 è data dagli insiemi del tipo {𝑏}∪ ]0, 𝜀[. Da un punto di vista intuitivo, è come se l’intervallo semiaperto ]0, 1] venisse chiuso a sinistra con due origini. È banale osservare che lo spazio è 𝑇1 ma non 𝑇2 . Infatti 𝑎 e 𝑏 non possiedono intorni disgiunti. Lo spazio 𝑋 è anche paracompatto in quanto compatto. Consideriamo il ricoprimento aperto 𝒜 ∶= {𝑈𝑎 , 𝑈𝑏 }, con 𝑈𝑎 ∶= {𝑎}∪ ]0, 1] e 𝑈𝑏 ∶= {𝑏}∪ ]0, 1]. Supponiamo ora, per assurdo, che esista una partizione
8.2. Partizioni dell’unità
403
dell’unità ℱ subordinata ad 𝒜 . Per definizione, esisterà una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓 (𝑎) > 0. D’altra parte, 𝑓 −1 (]0, 1]) è contenuta in 𝑈𝑎 o in 𝑈𝑏 . Il secondo caso non può capitare, perché altrimenti si otterrebbe 𝑓 (𝑎) = 0. È dunque 𝑓 −1 (]0, 1]) ⊆ 𝑈𝑎 , da cui 𝑓 (𝑏) = 0. Quindi 𝑓 separa i punti 𝑎 e 𝑏 e, ovviamente, i due punti dovranno avere intorni disgiunti. Poiché i singoletti {𝑎} e {𝑏} sono chiusi ma non possono essere separati da aperti, lo spazio non è neanche normale. Ciò prova che il Teorema di Dieudonné 8.7 non può essere esteso agli spazi 𝑇1 . ◁ Un’importante applicazione degli spazi paracompatti e delle partizioni dell’unità si ha nel Teorema di selezione di Michael che è un famoso risultato nello studio delle multifunzioni. Introduciamo quindi brevemente questo argomento. Come è ben noto, una funzione 𝑓 da un insieme 𝑋 a un insieme 𝑌 è una legge che ad ogni elemento 𝑥 ∈ 𝑋 associa un elemento 𝑓 (𝑥) ∈ 𝑌 (univocamente determinato). Pertanto, nella definizione di funzione non si permette che a qualche elemento di 𝑋 vengano associati più elementi. Tuttavia, nel XX secolo molti matematici hanno sentito l’esigenza (motivata da applicazioni alla Biologia, alla Teoria dei giochi, all’Economia) di considerare delle “leggi” per cui ad un elemento si possano associare più elementi. Per fare un esempio, si immagini che la nostra legge descriva un fenomeno per cui, in corrispondenza ad un dato 𝑥 sia naturale considerare un insieme di risultati dipendenti da 𝑥. Si ottengono in questo modo quelle che sono state denominate funzioni multivoche o multifunzioni. Da un punto di vista formale, si riesce a rientrare nel concetto tradizionale di funzione pensando che ad ogni elemento 𝑥 ∈ 𝑋 si associa un sottoinsieme 𝐹 (𝑥) ⊆ 𝑌 . In tal modo, una multifunzione da 𝑋 in 𝑌 è una funzione da 𝑋 in 𝒫 (𝑌 ). In questo caso si userà la notazione 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌.
In questa definizione, a priori, 𝐹 (𝑥), essendo un sottoinsieme di 𝑌 potrebbe anche essere vuoto. Pertanto, si usa definire dominio (effettivo) di 𝐹 il sottoinsieme dom 𝐹 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝐹 (𝑥) ≠ ∅} . Quando dom 𝐹 = 𝑋, 𝐹 si dice stretta, mentre si dice propria se dom 𝐹 ≠ ∅. I concetti di grafico e di insieme immagine si definiscono in modo naturale, cioè 𝒢 (𝐹 ) ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝑋 × 𝑌 ∶ 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑥)} ;
𝐹 (𝐴) ∶=
⋃
𝑥∈𝐴
𝐹 (𝑥), ∀𝐴 ⊆ 𝑋.
Come si vede, il concetto di funzione multivoca è molto generale. Infatti, un qualunque sottoinsieme non vuoto ℛ ⊆ 𝑋 × 𝑌 (usualmente detto anche relazione) si può descrivere come grafico di una funzione multivoca avente come dominio l’insieme 𝐷 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ (∃𝑦 ∈ 𝑌 )((𝑥, 𝑦) ∈ ℛ)}. In fine, data una multifunzione 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 , esiste naturalmente una multifunzione inversa 𝐹 −1 ∶ 𝑌 ⊸ 𝑋 avente come dominio 𝐹 (𝑋) e definita mediante la regola 𝑥 ∈ 𝐹 −1 (𝑦) ⇔ 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑥).
8.2. Partizioni dell’unità
404
A questo punto, dato un sottoinsieme 𝐸 ′ di 𝑌 , possiamo definire 𝐹 −1 (𝐸 ′ ) ∶= ⋃𝑦∈𝐸 ′ 𝐹 −1 (𝑦). Ne risulta che 𝑥 ∈ 𝐹 −1 (𝐸 ′ ) ⇔ 𝐹 (𝑥) ∩ 𝐸 ′ ≠ ∅.
Un esempio naturale di funzione multivoca si ottiene considerando le controimmagini delle funzioni univoche (non iniettive). Sia infatti 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 una funzione univoca fra due insiemi e consideriamo la multifunzione 𝐹 ∶ 𝑌 ⊸ 𝑋 che a 𝑦 ∈ 𝑌 associa la controimmagine 𝐹 (𝑦) ∶= 𝑓 −1 ({𝑦}) = {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) = 𝑦} .
(8.3)
In questo caso, dom 𝐹 = 𝑓 (𝑋). Mentre dal punto di vista insiemistico, questa trattazione più generale semplifica lo studio delle funzioni, dal punto di vista topologico e delle applicazioni all’Analisi, le cose sono molto più complicate. Per esempio, se vogliamo estendere il concetto di continuità al caso delle multifunzioni, ci si accorge subito che ci possono essere diversi modi di procedere. Le due versioni più classiche di continuità per le multifunzioni sono quelle di semicontinuità superiore e semicontinuità inferiore. Tali concetti sono stati introdotti nel 1932, in maniera indipendente, da Bouligand e da Kuratowski. In queste pagine riporteremo solo alcuni risultati essenziali. Chi fosse interessato a un approfondimento, potrebbe trovare utile la lettura del libro di Berge [7], dove i concetti di base vengono presentati in modo chiaro ed esauriente. Definizione 8.39. Siano dati: due spazi topologici 𝑋, 𝑌 , una multifunzione 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 e un punto 𝑥0 ∈ 𝑋. Allora: 1. 𝐹 è detta superiormente semicontinua in 𝑥0 se, per ogni aperto 𝑉 ⊇ 𝐹 (𝑥0 ), esiste un intorno 𝑈 di 𝑥0 tale che 𝐹 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . 2. 𝐹 è detta inferiormente semicontinua in 𝑥0 se, per ogni punto 𝑦0 ∈ 𝐹 (𝑥0 ) e per ogni intorno 𝑉𝑦0 di 𝑦0 , esiste un intorno 𝑈 di 𝑥0 tale che 𝐹 (𝑥)∩𝑉𝑦0 ≠ ∅, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . 3. 𝐹 è detta continua in 𝑥0 se è sia superiormente che inferiormente semicontinua nel punto. ◁
Ovviamente si dirà che una multifunzione 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 è superiormente, inferiormente semicontinua, continua in 𝑋, se è tale in ogni suo punto. È immediato constatare che, se 𝐹 è univoca, le precedenti definizioni coincidono con quella usuale di continuità. Per la semicontinuità superiore e inferiore valgono proprietà sulle controimmagini degli aperti e dei chiusi analoghe a quelle che caratterizzano la continuità delle funzioni univoche (cfr. Teorema 2.4). Sussistono infatti i seguenti risultati. Lemma 8.40. Siano dati due spazi topologici 𝑋, 𝑌 e una multifunzione 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 . 𝐹 è superiormente semicontinua se e solo se le controimmagini dei chiusi sono insiemi chiusi.
8.2. Partizioni dell’unità
405
Dimostrazione. Supponiamo 𝐹 superiormente semicontinua. Siano 𝐶 ′ un chiuso (non vuoto) di 𝑌 e 𝐶 ∶= 𝐹 −1 (𝐶 ′ ). Verifichiamo che 𝑋 ⧵ 𝐶 è aperto. Infatti, se 𝑥0 ∉ 𝐶, 𝐹 (𝑥0 ) ∩ 𝐶 ′ = ∅, ovvero 𝐹 (𝑥0 ) ⊆ 𝐴′ ∶= 𝑌 ⧵ 𝐶 ′ . Per la semicontinuità superiore di 𝐹 in 𝑥0 , esiste un intorno (aperto) 𝑈 di 𝑥0 tale che 𝐹 (𝑈 ) ⊆ 𝐴′ . Poiché 𝐹 (𝑈 ) ∩ 𝐶 ′ = ∅, ne segue che 𝑈 ∩ 𝐶 = ∅. Per l’arbitrarietà di 𝑥0 si ottiene che 𝑋 ⧵ 𝐶 è aperto. Viceversa, supponiamo valida la proprietà sulla controimmagine dei chiusi. Sia 𝑥0 ∈ 𝑋 un punto arbitrario e 𝑉 ⊂ 𝑌 un aperto contenente 𝐹 (𝑥0 ). 𝐶 ′ ∶= 𝑌 ⧵ 𝑉 è un chiuso di 𝑌 ; per ipotesi, 𝐹 −1 (𝐶 ′ ) è un chiuso di 𝑋 che non contiene 𝑥0 . Posto 𝑈 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐹 −1 (𝐶 ′ ), si ha che 𝑈 è un aperto contenente 𝑥0 , con 𝐹 (𝑈 ) ∩ 𝐶 ′ = ∅ e quindi 𝐹 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Un banale corollario di questo lemma è il seguente.
Corollario 8.41. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 una funzione fra due spazi topologici e sia 𝐹 ∶ 𝑌 ⊸ 𝑋 definita dalla (8.3). Se 𝑓 è chiusa, allora 𝐹 è semicontinua superiormente. Dimostrazione. Sia 𝐶 ⊆ 𝑋 chiuso e non vuoto. L’insieme 𝐹 −1 (𝐶) = {𝑦 ∈ 𝑌 ∶ 𝐹 (𝑦) ∩ 𝐶 ≠ ∅}
viene necessariamente a coincidere con 𝑓 (𝐶) che è chiuso per ipotesi.
Lemma 8.42. Siano dati due spazi topologici 𝑋, 𝑌 e una multifunzione 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 . 𝐹 è inferiormente semicontinua se e solo se le controimmagini degli aperti sono insiemi aperti. Dimostrazione. Supponiamo 𝐹 inferiormente semicontinua. Siano 𝐴′ un aperto (non vuoto) di 𝑌 e 𝐴 ∶= 𝐹 −1 (𝐴′ ). Verifichiamo che 𝐴 è aperto. Infatti, se 𝑥0 ∈ 𝐴, ne segue che 𝐹 (𝑥0 ) ∩ 𝐴′ ≠ ∅. Preso 𝑦0 ∈ 𝐹 (𝑥0 ) ∩ 𝐴′ e osservato che 𝐴′ è intorno di 𝑦0 , per la semicontinuità inferiore di 𝐹 in 𝑥0 , concludiamo che esiste un intorno (aperto) 𝑈 di 𝑥0 tale che 𝐹 (𝑥) ∩ 𝐴′ ≠ ∅, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Per la definizione di controimmagine, si ha quindi che 𝑈 ⊆ 𝐴 e, per l’arbitrarietà di 𝑥0 , si ottiene che 𝐴 è aperto. Viceversa, supponiamo valida la proprietà sulla controimmagine degli aperti. Sia 𝑥0 ∈ 𝑋 un punto arbitrario e 𝑦0 ∈ 𝐹 (𝑥0 ). Dato un intorno (aperto) 𝑉𝑦0 di 𝑦0 , per ipotesi, 𝑈 ∶= 𝐹 −1 (𝑉𝑦0 ) è un aperto che contiene 𝑥0 . Inoltre, per definizione, 𝐹 (𝑥) ∩ 𝑉𝑦0 ≠ ∅, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Ciò prova la semicontinuità inferiore di 𝐹 in 𝑥0 . Osservazione 8.43. Mostriamo con due semplici esempi che le nozioni di semicontinuità superiore e inferiore sono indipendenti, con 𝑋 = 𝑌 ∶= ℝ dotati della topologia usuale.
8.2. Partizioni dell’unità
406
1. Sia 𝐹1 ∶ ℝ ⊸ ℝ la multifunzione definita da 𝐹1 (𝑥) ∶= {0}, ∀𝑥 ≠ 0 e 𝐹1 (0) ∶= [−1, 1]. Si constata facilmente (Esercizio!) che 𝐹1 è ovunque semicontinua superiormente ma non inferiormente semicontinua in 0. 2. Sia 𝐹2 ∶ ℝ ⊸ ℝ la multifunzione che associa l’intervallo [−1, 1] a ogni 𝑥 ≠ 0 e con 𝐹2 (0) ∶= {0}. Si constata facilmente (Esercizio!) che 𝐹2 è ovunque semicontinua inferiormente ma non superiormente semicontinua in 0. Gli stessi esempi mostrano che il Lemma 8.40 non vale per gli aperti e il Lemma 8.42 non vale per i chiusi. Nel primo caso, basta considerare l’aperto 𝐴′ ∶= ]0, 1[ e osservare che è 𝐹1−1 (𝐴′ ) = {0}. Nel secondo, basta considerare il chiuso 𝐶 ′ ∶= [1/2, 1] e osservare che è 𝐹2−1 (𝐶 ′ ) = ℝ ⧵ {0}. ◁ Nel Paragrafo 7.2 abbiamo esaminato le relazioni che intercorrono fra la continuità di una funzione e il fatto che il suo grafico sia chiuso. Sussistono dei risultati analoghi anche per la semicontinuità superiore delle multifunzioni.
Teorema 8.44. Siano 𝑋, 𝑌 spazi topologici, con 𝑌 regolare, e 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 una multifunzione superiormente semicontinua e tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝐹 (𝑥) è chiuso in 𝑌 . Allora il grafico di 𝐹 è chiuso nello spazio prodotto. Dimostrazione. Fissiamo un 𝑥0 ∈ 𝑋 e un 𝑦0 ∈ 𝑌 , con 𝑦0 ∉ 𝐹 (𝑥0 ). Per ipotesi, 𝐹 (𝑥0 ) è un chiuso di 𝑌 ; per la regolarità del codominio, esistono due aperti disgiunti 𝑉 ′ , 𝑉 ″ , con 𝑦0 ∈ 𝑉 ′ e 𝐹 (𝑥0 ) ⊆ 𝑉 ″ . Per la semicontinuità superiore di 𝐹 in 𝑥0 , esiste un intorno aperto 𝑈 di 𝑥0 tale che 𝐹 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 ″ . Per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 , 𝐹 (𝑥) è disgiunto da 𝑉 ′ . Quindi l’aperto 𝑈 × 𝑉 ′ di 𝑋 × 𝑌 è un intorno di (𝑥0 , 𝑦0 ) disgiunto dal grafico.
Teorema 8.45. Siano 𝑋, 𝑌 spazi topologici, con 𝑌 compatto, e 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 una multifunzione col grafico 𝒢 (𝐹 ) chiuso nello spazio prodotto. Allora 𝐹 è superiormente semicontinua. Dimostrazione. Per il Lemma 8.40, sarà equivalente dimostrare che le controimmagini dei chiusi sono chiuse. Sia quindi 𝐶 ′ ⊆ 𝑌 chiuso e non vuoto. Poiché 𝑌 è compatto, è tale anche 𝐶 ′ . Supponiamo ora, per assurdo, che l’insieme 𝐶 ∶= 𝐹 −1 (𝐶 ′ ) non sia chiuso. Esiste dunque 𝑧 ∈ cl 𝐶 ⧵ 𝐶, da cui 𝐹 (𝑧) ∩ 𝐶 ′ = ∅. Per ogni 𝑦 ∈ 𝐶 ′ , (𝑧, 𝑦) ∉ 𝒢 (𝐹 ). Essendo il grafico chiuso, esisteranno un intorno aperto 𝑈𝑦 di 𝑧 e un intorno aperto 𝑉𝑦 di 𝑦 tali che 𝑈𝑦 × 𝑉𝑦 ∩ 𝒢 (𝐹 ) = ∅. Cioè 𝐹 (𝑥) ∩ 𝑉𝑦 = ∅, ∀𝑥 ∈ 𝑈𝑦 . Poiché la famiglia dei 𝑉𝑦 costituisce un ricoprimento aperto di 𝐶 ′ e quest’ultimo è compatto, da esso si può estrarre un sottoricoprimento finito 𝑉𝑦1 , … , 𝑉𝑦𝑛 . Posto 𝑈 ∶= 𝑈𝑦1 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑦𝑛 , si ha che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 , 𝐹 (𝑥) è disgiunto da 𝑉 ∶= 𝑉𝑦1 ∪ ⋯ ∪ 𝑉𝑦𝑛 ⊃ 𝐶 ′ . Quindi 𝑈 ∩ 𝐶 = ∅, con 𝑈 intorno aperto di 𝑧, contro l’ipotesi 𝑧 aderente a 𝐶. Questi ultimi due teoremi si riducono rispettivamente al Teorema 7.76 e 7.80 nel caso che 𝐹 sia univoca. Gli esempi dell’Osservazione 8.43 mostrano
8.2. Partizioni dell’unità
407
che i due precedenti teoremi non sussistono per le multifunzioni inferiormente semicontinue. Un caso interessante è quello in cui si applica la teoria delle multifunzioni nell’ambito degli spazi metrici. In questa situazione sarà utile caratterizzare i concetti di semicontinuità in modo sequenziale. Teorema 8.46. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi metrici, 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 una multifunzione e 𝑧 un elemento fissato di 𝑋. Sussistono le seguenti proprietà. 1. (Caratterizzazione sequenziale della semicontinuità superiore.) Sia 𝑌 compatto. 𝐹 è superiormente semicontinua in 𝑧 con 𝐹 (𝑧) chiuso, se e solo se, comunque si prendano 𝑦 ∈ 𝑌 e due successioni (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋 e (𝑦𝑛 )𝑛 in 𝑌 , tali che 𝑥𝑛 → 𝑧, 𝑦𝑛 → 𝑦 e 𝑦𝑛 ∈ 𝐹 (𝑥𝑛 ), segue che 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑧). 2. (Caratterizzazione sequenziale della semicontinuità inferiore.) 𝐹 è inferiormente semicontinua in 𝑧 se e solo se, comunque si prendano una successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋 con 𝑥𝑛 → 𝑧, e un punto 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑧) esiste una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 ed una successione (𝑦𝑘 )𝑘 , con 𝑦𝑘 ∈ 𝐹 (𝑥𝑛𝑘 ) tale che 𝑦𝑘 → 𝑦.
Dimostrazione. 1. Osserviamo preliminarmente che chiedere che la condizione sia valida per ogni punto 𝑧 ∈ 𝑋 equivale alla condizione che il grafico di 𝐹 sia chiuso. Si tratterà quindi di riprodurre le dimostrazioni dei teoremi 8.44 e 8.45 in forma locale. Sia 𝐹 superiormente semicontinua in 𝑧, con 𝐹 (𝑧) chiuso. Siano inoltre (𝑥𝑛 )𝑛 , (𝑦𝑛 )𝑛 e 𝑦 come nell’enunciato. Se, per assurdo, 𝑦 ∉ 𝐹 (𝑧), esiste una palla chiusa 𝐵[𝑦, 𝛿] disgiunta da 𝐹 (𝑧). Si consideri ora l’aperto 𝑉 ∶= 𝑌 ⧵ 𝐵[𝑦, 𝛿] ⊇ 𝐹 (𝑧). Per l’ipotesi di semicontinuità superiore, esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 con 𝐹 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Poiché 𝑥𝑛 → 𝑧, la successione (𝑥𝑛 )𝑛 finisce in 𝑈 e quindi si ha definitivamente 𝑦𝑛 ∈ 𝐹 (𝑥𝑛 ) ⊆ 𝑉 , ovvero 𝑦𝑛 ∉ 𝐵[𝑦, 𝛿], in contraddizione col fatto che 𝑦𝑛 → 𝑦. Si noti che, per questa parte della dimostrazione si è sfruttato il fatto che 𝐹 (𝑧) sia chiuso, ma non la compattezza di 𝑌 (cfr. Teorema 8.44). Viceversa, supponiamo verificata la proprietà sequenziale e verifichiamo che 𝐹 (𝑧) è chiuso e che 𝐹 è semicontinua superiormente in 𝑧. Per prima cosa, prendiamo una successione (𝑦𝑛 )𝑛 in 𝑌 , con 𝑦𝑛 ∈ 𝐹 (𝑧), ∀𝑛 e 𝑦𝑛 → 𝑦. Prendendo 𝑥𝑛 ∶= 𝑧, ∀𝑛, per ipotesi abbiamo che 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑧). Ciò prova che 𝐹 (𝑧) è sequenzialmente chiuso e quindi chiuso. Dimostriamo ora la semicontinuità superiore di 𝐹 in 𝑧. Supponiamo, per assurdo, che ciò non sia; esiste pertanto un aperto 𝑉 contenente 𝐹 (𝑧) tale che 𝐹 (𝐵(𝑧, 1/𝑛)) ⊈ 𝑉 , ∀𝑛. Esistono quindi due successioni (𝑥𝑛 )𝑛 e (𝑦𝑛 )𝑛 tali che 𝑥𝑛 → 𝑧, 𝑦𝑛 ∈ 𝐹 (𝑥𝑛 ) ⧵ 𝑉 . Per la compattezza di 𝑌 , esiste una sottosuccessione (𝑦𝑛𝑘 )𝑘 con 𝑦𝑛𝑘 → 𝑤 ∈ 𝑌 ⧵ 𝑉 . Applicando la proprietà sequenziale alle coppie di successioni (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 e (𝑦𝑛𝑘 )𝑘 , si ottiene invece 𝑤 ∈ 𝐹 (𝑧) ⊆ 𝑉 . 2. Sia 𝐹 inferiormente semicontinua in 𝑧 e siano (𝑥𝑛 )𝑛 , con 𝑥𝑛 → 𝑧 e 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑧). Prendiamo come intorno di 𝑦 l’aperto 𝑉𝑘 ∶= 𝐵(𝑦, 1/𝑘). Per l’ipotesi di semicontinuità inferiore, esiste un intorno 𝑈𝑘 di 𝑧 tale che 𝐹 (𝑥) ∩ 𝑉𝑘 ≠ ∅, ∀𝑥 ∈ 𝑈𝑘 . Poiché 𝑥𝑛 → 𝑧, si ha definitivamente 𝑥𝑛 ∈ 𝑈𝑘 . Possiamo quindi determinare
8.2. Partizioni dell’unità
408
una successione crescente di indici (𝑛𝑘 )𝑘 in modo che 𝑥𝑛𝑘 ∈ 𝑈𝑘 , ∀𝑘. Inoltre 𝑥𝑛𝑘 → 𝑧. D’altra parte, 𝐹 (𝑥𝑛𝑘 ) ∩ 𝑉𝑘 ≠ ∅ e, pertanto, esiste una successione (𝑦𝑘 )𝑘 con 𝑦𝑘 ∈ 𝐹 (𝑥𝑛𝑘 ) convergente a 𝑦. Viceversa, assumiamo la proprietà sequenziale e verifichiamo che 𝐹 è inferiormente semicontinua in 𝑧. Supponiamo che ciò non sia. Esistono allora un punto 𝑤 ∈ 𝐹 (𝑧) e un suo intorno aperto 𝑉 tali che, per ogni 𝑛, c’è almeno un punto 𝑥𝑛 ∈ 𝐵(𝑧, 1/𝑛) tale che 𝐹 (𝑥𝑛 ) ∩ 𝑉 = ∅. Per definizione, 𝑥𝑛 → 𝑧. Per l’ipotesi sequenziale, esistono una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 e una successione (𝑦𝑘 )𝑘 con 𝑦𝑘 ∈ 𝐹 (𝑥𝑛𝑘 ) e 𝑦𝑘 → 𝑤. D’altra parte, 𝑦𝑘 ∉ 𝑉 ed essendo 𝑌 ⧵ 𝑉 chiuso, si ottiene 𝑤 ∉ 𝑉 .
In relazione al punto 1, è appena il caso di osservare che una funzione superiormente semicontinua non è necessariamente a immagini chiuse, anche quando il codominio sia compatto. Basta prendere 𝑋 ∶= ℝ, 𝑌 ∶= [0, 1] e 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 la multifunzione definita da 𝐹 (𝑥) ∶= ]0, 1[ , ∀𝑥 ∈ 𝑋.
Le nozioni di semicontinuità superiore e inferiore per funzioni multivoche possono essere espresse anche utilizzando degli opportuni concetti di limite per successioni di insiemi. A tale proposito introduciamo alcune definizioni e una terminologia appropriata. Sia (𝐸𝑛 )𝑛 una successione di sottoinsiemi di un dato insieme 𝑋. La successione si dice crescente se 𝐸𝑛 ⊆ 𝐸𝑛+1 , ∀𝑛 e, rispettivamente, decrescente se 𝐸𝑛 ⊇ 𝐸𝑛+1 , ∀𝑛. Le successioni crescenti e decrescenti di insiemi verranno dette monotone. Nel caso delle successioni monotone di insiemi, si può introdurre un concetto di limite come segue. Definizione 8.47. Sia (𝐸𝑛 )𝑛 una successione monotona di sottoinsiemi di un insieme 𝑋. Se (𝐸𝑛 )𝑛 è crescente [decrescente], si definisce lim 𝐸𝑛 ∶=
𝑛→+∞
⋃
𝑛∈ℕ
𝐸𝑛 ;
lim 𝐸𝑛 ∶= 𝐸 . [ 𝑛→+∞ ⋂ 𝑛] 𝑛∈ℕ
◁
Data una successione non necessariamente monotona (𝐸𝑛 )𝑛 di insiemi, a partire da essa, si possono costruire in modo naturale delle altre successioni che sono monotone. Precisamente, posto 𝐸𝑛′ ∶=
⋂
𝑘≥𝑛
𝐸𝑘 ,
𝐸𝑛″ ∶=
⋃
𝑘≥𝑛
𝐸𝑘 ,
le nuove successioni sono, rispettivamente, crescente e decrescente.
Definizione 8.48. Data una successione arbitraria (𝐸𝑛 )𝑛 di sottoinsiemi di un insieme 𝑋, si definiscono il limite inferiore e il limite superiore della successione ponendo lim inf 𝐸𝑛 ∶= lim 𝐸𝑛′ = 𝑛→+∞
𝑛→+∞
𝑛→+∞
𝑛→+∞
lim sup 𝐸𝑛 ∶= lim 𝐸𝑛″ =
⋃ (⋂
𝑛∈ℕ
𝑘≥𝑛
𝐸𝑘 ),
⋂ (⋃
𝑛∈ℕ
𝑘≥𝑛
𝐸𝑘 ).
◁
8.2. Partizioni dell’unità
409
Ovviamente, per ogni successione di insiemi esistono sempre il limite inferiore e quello superiore, eventualmente vuoti. Si prova poi facilmente il seguente Lemma 8.49. Sia data una successione arbitraria (𝐸𝑛 )𝑛 di sottoinsiemi di un insieme 𝑋. 1. Un elemento 𝑥 ∈ 𝑋 appartiene a lim inf 𝐸𝑛 se e solo se appartiene a tutti gli 𝐸𝑛 tranne al più un numero finito. 2. Un elemento 𝑥 ∈ 𝑋 appartiene a lim sup 𝐸𝑛 se e solo se appartiene a un numero infinito di 𝐸𝑛 . 3. Si ha sempre lim inf 𝐸𝑛 ⊆ lim sup 𝐸𝑛 .
Non è difficile trovare esempi in cui l’inclusione del punto 3 è stretta. Se il lim inf e il lim sup coincidono, si dice che la successione ha limite e si indica con lim𝑛→+∞ 𝐸𝑛 . Si osservi che se la successione di partenza è crescente, si ha lim inf𝑛→+∞ = lim sup𝑛→+∞ 𝐸𝑛 = ⋃𝑛∈ℕ 𝐸𝑛 mentre, se la successione è decrescente, si ha lim inf𝑛→+∞ = lim sup𝑛→+∞ 𝐸𝑛 = ⋂𝑛∈ℕ 𝐸𝑛 . Quindi, in entrambi i casi, il concetto di limite introdotto all’inizio coincide con quello appena definito. Questo tipo di trattazione si rivela utile in Teoria della Misura dove, per esempio, si dimostra che se (𝐸𝑛 )𝑛 è una successione monotona crescente di insiemi misurabili in una 𝜎-algebra con misura 𝜇, allora lim𝑛→+∞ 𝜇(𝐸𝑛 ) = 𝜇(lim𝑛→+∞ 𝐸𝑛 ). Tuttavia, nel caso degli spazi topologici, risulta opportuno modificare la definizione di limite superiore e inferiore. Questi nuovi limiti verranno indicati con Ls e Li, seguendo le notazioni di Kuratowski in [41].
Definizione 8.50. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e (𝐸𝑛 )𝑛 una successione di sottoinsiemi di 𝑋. Definiamo come limite inferiore (topologico) della successione (𝐸𝑛 )𝑛 l’insieme Li𝑛→+∞ 𝐸𝑛 formato da tutti gli 𝑥 ∈ 𝑋 che hanno la proprietà che ogni intorno di 𝑥 interseca gli insiemi 𝐸𝑛 da un certo indice in poi. ◁ Definizione 8.51. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e (𝐸𝑛 )𝑛 una successione di sottoinsiemi di 𝑋. Definiamo come limite superiore (topologico) della successione (𝐸𝑛 )𝑛 l’insieme Ls𝑛→+∞ 𝐸𝑛 formato da tutti gli 𝑥 ∈ 𝑋 che hanno la proprietà che ogni intorno di 𝑥 interseca gli 𝐸𝑛 per infiniti 𝑛. ◁ Per semplicità di notazione, scriveremo semplicemente Li ed Ls in luogo di Li𝑛→+∞ e Li𝑛→+∞ . Se confrontiamo queste definizioni con i primi due punti del Lemma 8.49, risulta chiara l’analogia e si vede che vale ancora l’inclusione del punto 3.
Esempio 8.52. In (ℝ, 𝜏𝑒 ). Ordiniamo i razionali in una successione (𝑞𝑛 )𝑛 e, per ogni 𝑛, sia 𝐸𝑛 ∶= {𝑞𝑛 }. Si vede facilmente che si ha Li𝑛→+∞ 𝐸𝑛 = ∅ e Ls𝑛→+∞ 𝐸𝑛 = ℝ. Si ha ovviamente lim inf𝑛→+∞ 𝐸𝑛 = lim sup𝑛→+∞ 𝐸𝑛 = ∅. Ancora in (ℝ, 𝜏𝑒 ), sia ora 𝐸𝑛 ∶= [1/𝑛, 1], con 𝑛 ∈ ℕ+ . Si ha lim inf 𝐸𝑛 = lim sup 𝐸𝑛 = lim 𝐸𝑛 = ⋃ 𝐸𝑛 = ]0, 1], mentre è Li 𝐸𝑛 = Ls 𝐸𝑛 = [0, 1]. ◁
8.2. Partizioni dell’unità
410
L’esempio appena visto può essere generalizzato al caso di una successione di punti arbitrari di uno spazio topologico. Data, infatti, una successione (𝑝𝑛 )𝑛 di punti di uno spazio topologico e posto 𝐸𝑛 ∶= {𝑝𝑛 }, si vede immediatamente che 𝑥 ∈ Li 𝐸𝑛 se e solo se 𝑝𝑛 → 𝑥 (non è richiesta l’unicità del limite). Per contro, si ha 𝑥 ∈ Ls 𝐸𝑛 se e solo se esiste una sottosuccessione 𝑝𝑛𝑘 → 𝑥. Come esercizio, si constati che il limite inferiore topologico di una sottosuccessione di insiemi contiene quello della successione. Per i limiti superiori topologici vale l’inclusione opposta. Inoltre Li ed Ls non vengono modificati se si altera un numero finito di insiemi della successione. Un’altra osservazione immediata è che se 𝐸𝑛 = 𝐸, ∀𝑛, allora si ha Li 𝐸𝑛 = Ls 𝐸𝑛 = cl 𝐸. Per quanto riguarda il prodotto, sussistono le seguenti proprietà che seguono direttamente dalle definizioni: Li(𝐸𝑛 × 𝐹𝑛 ) = Li 𝐸𝑛 × Li 𝐹𝑛 ,
Ls(𝐸𝑛 × 𝐹𝑛 ) ⊆ Ls 𝐸𝑛 × Ls 𝐹𝑛 .
Si osservi che per il limite superiore non sussiste, in generale, l’uguaglianza. Per constatarlo, si considerino in (ℝ, 𝑑2 ) le successioni (𝐸𝑛 )𝑛 e (𝐹𝑛 )𝑛 definite da 𝐸𝑛 = 𝐹𝑛 ∶= {(−1)𝑛 }. Ora si ha Ls(𝐸𝑛 ×𝐹𝑛 ) = {(−1, −1), (1, 1)}, ma Ls 𝐸𝑛 ×Ls 𝐹𝑛 = {−1, 1} × {−1, 1}. Abbiamo anche usato la caratterizzazione di Li e Ls nel caso in cui gli insiemi siano dei singoletti. In fine, per quanto riguarda la chiusura, sussiste il seguente risultato che, fra l’altro, implica che Li e Ls sono sempre insiemi chiusi. Teorema 8.53. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e (𝐸𝑛 )𝑛 una successione di sottoinsiemi di 𝑋. Allora si ha cl(Li 𝐸𝑛 ) = Li 𝐸𝑛 = Li(cl 𝐸𝑛 ),
cl(Ls 𝐸𝑛 ) = Ls 𝐸𝑛 = Ls(cl 𝐸𝑛 ).
Dimostrazione. Siano 𝑥 ∈ cl(Li 𝐸𝑛 ) e 𝑈 un intorno arbitrario di 𝑥 che possiamo supporre aperto. Esiste 𝑦 ∈ 𝑈 ∩ Li 𝐸𝑛 . Poiché 𝑈 è anche intorno di 𝑦, si ha definitivamente 𝑈 ∩ 𝐸𝑛 ≠ ∅. Quindi l’intorno 𝑈 di 𝑥 interseca quasi tutti gli 𝐸𝑛 . Per l’arbitrarietà di 𝑈 , segue che 𝑥 ∈ Li 𝐸𝑛 . Ciò prova, intanto, che Li 𝐸𝑛 è chiuso. Dalla definizione di Li, è altresì chiaro che Li 𝐸𝑛 ⊆ Li(cl 𝐸𝑛 ). Viceversa, siano 𝑥 ∈ Li(cl 𝐸𝑛 ) e 𝑈 un intorno aperto di 𝑥. Quindi 𝑈 ∩ cl 𝐸𝑛 ≠ ∅ per quasi tutti gli 𝑛. Per definizione di chiusura, si ottiene che 𝑈 ∩ 𝐸𝑛 ≠ ∅, ancora per quasi tutti gli 𝑛. Per l’arbitrarietà di 𝑈 , si ha che 𝑥 ∈ Li 𝐸𝑛 . In modo analogo si prova l’uguaglianza relativa agli Ls. Nel caso degli spazi metrici, possiamo caratterizzare Li ed Ls in termini di proprietà della distanza. Vale infatti il seguente risultato.
Teorema 8.54. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico e (𝐸𝑚 )𝑚 una successione di sottoinsiemi di 𝑋. Allora: 1. Un elemento 𝑝 ∈ Li 𝐸𝑚 se e solo se esiste una successione (𝑦𝑚 )𝑚 , con 𝑦𝑚 ∈ 𝐸𝑚 tale che 𝑦𝑚 → 𝑝 e se e solo se lim 𝑑(𝑝, 𝐸𝑚 ) = 0.
8.2. Partizioni dell’unità
411
2. Un elemento 𝑝 ∈ Ls 𝐸𝑚 se e solo se esiste una sottosuccessione (𝑦𝑚𝑘 )𝑘 , con 𝑦𝑚𝑘 ∈ 𝐸𝑚𝑘 tale che 𝑦𝑚𝑘 → 𝑝 e se e solo se lim inf 𝑑(𝑝, 𝐸𝑚 ) = 0.
Dimostrazione. 1. Sia 𝑝 ∈ Li 𝐸𝑚 e, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝐵(𝑝, 1/𝑛) la palla aperta di centro 𝑝 e raggio 1/𝑛. Per ogni 𝑛, 𝐵(𝑝, 1/𝑛) interseca definitivamente gli 𝐸𝑚 , cioè esiste un 𝑘𝑛 tale che 𝐵(𝑝, 1/𝑛) ∩ 𝐸𝑚 ≠ ∅, ∀𝑚 > 𝑘𝑛 ; per ogni 𝑚 > 𝑘𝑛 , esiste quindi un punto 𝑥𝑛,𝑚 ∈ 𝐵(𝑝, 1/𝑛) ∩ 𝐸𝑚 . Scegliendo in modo arbitrario dei punti in 𝐸𝑚 per 𝑚 ≤ 𝑘𝑛 , otteniamo una successione (𝑥𝑛,𝑚 )𝑚 con 𝑥𝑛,𝑚 ∈ 𝐸𝑚 e 𝑑(𝑝, 𝑥𝑛,𝑚 ) < 1/𝑛, ∀𝑚 > 𝑘𝑛 . Non sarà restrittivo supporre che la successione (𝑘𝑛 )𝑛 sia strettamente crescente. Procedendo in modo analogo a quanto fatto nella dimostrazione del Lemma diagonale 2.72, costruiamo la successione (𝑦𝑛 )𝑛 . 𝑦𝑛 ∶=
𝑥1,𝑛 , se 1 ≤ 𝑛 ≤ 𝑘2 , {𝑥𝑗,𝑛 , se 𝑘𝑗 < 𝑛 ≤ 𝑘𝑗+1 .
Per costruzione, 𝑦𝑛 ∈ 𝐸𝑛 , ∀𝑛 e, inoltre, la distanza fra 𝑝 e 𝑦𝑛 tende a 0. Viceversa, se esiste una successione di punti 𝑦𝑚 ∈ 𝐸𝑚 , ∀𝑚 tale che 𝑑(𝑝, 𝑦𝑚 ) → 0, 𝑦𝑚 deve stare definitivamente in ogni intorno di 𝑝 e quindi ogni intorno di 𝑝 ha intersezione non vuota con quasi tutti gli 𝐸𝑚 , per cui 𝑝 ∈ Li 𝐸𝑚 . 2. Sia 𝑝 ∈ Ls 𝐸𝑚 e, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝐵(𝑝, 1/𝑛) la palla aperta di centro 𝑝 e raggio 1/𝑛. Per ogni 𝑛, 𝐵(𝑝, 1/𝑛) interseca infiniti 𝐸𝑚 , cioè esiste una sottosuccessione (𝑘𝑛,𝑚 )𝑚 tale che 𝐵(𝑝, 1/𝑛) ∩ 𝐸𝑘𝑛,𝑚 ≠ ∅, ∀𝑚. Esiste quindi un punto 𝑥𝑛,𝑚 ∈ 𝐵(𝑝, 1/𝑛) ∩ 𝐸𝑘𝑛,𝑚 . Costruiamo la successione (𝑦𝑛 )𝑛 : 𝑦𝑛 ∶= 𝑥𝑛,𝑗𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ+ ,
scegliendo 𝑗𝑛 in modo che la successione di indici (𝑘𝑛,𝑗𝑛 ) sia strettamente crescente. Per costruzione, 𝑦𝑛 ∈ 𝐸𝑗𝑛 , ∀𝑛 e, inoltre, la distanza fra 𝑝 e 𝑦𝑛 tende a 0. Per il viceversa, si procede come nel caso precedente. In analogia al caso del limite di successioni di insiemi, anche in questo contesto possiamo definire un concetto di limite topologico di una successione (𝐸𝑛 )𝑛 di sottoinsiemi di uno spazio topologico, quando Li 𝐸𝑛 = Ls 𝐸𝑛 . Non trattiamo qui questo concetto di limite che comunque ha varie applicazioni; il lettore interessato può approfondire l’argomento sul libro di Kuratowski [41, vol. I]. Possiamo finalmente provare la caratterizzazione della semicontinuità delle mappe multivoche utilizzando la teoria dei limiti topologici delle successioni di insiemi. Teorema 8.55. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi metrici, 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 e 𝑧 un elemento fissato di 𝑋. Sussistono le seguenti proprietà: 1. (Caratterizzazione sequenziale della semicontinuità superiore.) Sia 𝑌 compatto. 𝐹 è semicontinua superiormente in 𝑧, con 𝐹 (𝑧) chiuso, se e solo se da 𝑥𝑛 → 𝑧 segue che Ls 𝐹 (𝑥𝑛 ) ⊆ 𝐹 (𝑧).
8.2. Partizioni dell’unità
412
2. (Caratterizzazione sequenziale della semicontinuità inferiore.) 𝐹 è semicontinua inferiormente in 𝑧 se e solo se da 𝑥𝑛 → 𝑧 segue Li 𝐹 (𝑥𝑛 ) ⊇ 𝐹 (𝑧).
Dimostrazione. 1. Supponiamo 𝐹 semicontinua superiormente in 𝑧 e sia (𝑥𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋 convergente a 𝑧. Sia ora 𝑤 ∈ Ls 𝐹 (𝑥𝑛 ). Per il teorema precedente, esiste una sottosuccessione (𝑦𝑛𝑘 )𝑘 , con 𝑦𝑛𝑘 ∈ 𝐹 (𝑥𝑛𝑘 ) convergente a 𝑤. D’altra parte, anche 𝑥𝑛𝑘 converge a 𝑧; per la semicontinuità superiore di 𝐹 in 𝑧, concludiamo che 𝑤 ∈ 𝐹 (𝑧) (cfr. Proposizione 8.46.1). Viceversa, supponiamo verificata la proprietà sequenziale e verifichiamo che 𝐹 (𝑧) è chiuso e che 𝐹 è semicontinua superiormente in 𝑧. Per prima cosa, prendiamo in 𝑋, come successione convergente a 𝑧, la successione di termine costante 𝑧. Per ipotesi, avremo Ls 𝐹 (𝑧) ⊆ 𝐹 (𝑧). D’altra parte, sappiamo che Ls 𝐹 (𝑧) = cl 𝐹 (𝑧) (cfr. pag. 410); si conclude così che 𝐹 (𝑧) è chiuso. Dimostriamo ora la semicontinuità superiore di 𝐹 in 𝑧. Supponiamo, per assurdo, che così non sia; esiste pertanto un aperto 𝑉 contenente 𝐹 (𝑧) tale che 𝐹 (𝐵(𝑧, 1/𝑛)) ⊈ 𝑉 , ∀𝑛. Esistono quindi due successioni (𝑥𝑛 )𝑛 e (𝑦𝑛 )𝑛 tali che 𝑥𝑛 → 𝑧, 𝑦𝑛 ∈ 𝐹 (𝑥𝑛 ) ⧵ 𝑉 . Per la compattezza di 𝑌 , esiste una sottosuccessione (𝑦𝑛𝑘 )𝑘 con 𝑦𝑛𝑘 → 𝑤 ∈ 𝑌 ⧵ 𝑉 . D’altra parte, per l’ipotesi sequenziale, dobbiamo avere Ls 𝐹 (𝑥𝑛 ) ⊆ 𝐹 (𝑧) ⊆ 𝑉 e, per definizione di Ls, risulta 𝑤 ∈ Ls 𝐹 (𝑥𝑛 ). 2. Sia 𝐹 inferiormente semicontinua in 𝑧 e siano (𝑥𝑛 )𝑛 , con 𝑥𝑛 → 𝑧 e 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑧). Vogliamo dimostrare che 𝑦 ∈ Li 𝐹 (𝑥𝑛 ). Sia 𝑉 un intorno arbitrario di 𝑦. Per l’ipotesi di semicontinuità inferiore, esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 tale che 𝐹 (𝑥) ∩ 𝑉 ≠ ∅, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Poiché 𝑥𝑛 → 𝑧, si ha definitivamente 𝑥𝑛 ∈ 𝑈 e, di conseguenza, si ha definitivamente 𝐹 (𝑥𝑛 ) ∩ 𝑉 ≠ ∅. Dalla definizione di Li segue che 𝑦 ∈ Li 𝐹 (𝑥𝑛 ). Viceversa, assumiamo la proprietà sequenziale e verifichiamo che 𝐹 è inferiormente semicontinua in 𝑧. Supponiamo che ciò non sia. Esistono allora un punto 𝑤 ∈ 𝐹 (𝑧) e un suo intorno aperto 𝑉 tali che, per ogni 𝑛, c’è almeno un punto 𝑥𝑛 ∈ 𝐵(𝑧, 1/𝑛) tale che 𝐹 (𝑥𝑛 ) ∩ 𝑉 = ∅. Per costruzione, 𝑥𝑛 → 𝑧. Per l’ipotesi sequenziale, 𝐹 (𝑧) ⊆ Li 𝐹 (𝑥𝑛 ) e quindi 𝑤 ∈ Li 𝐹 (𝑥𝑛 ). Per definizione di Li, ogni intorno di 𝑤 deve intersecare definitivamente gli insiemi 𝐹 (𝑥𝑛 ), contro quanto supposto per l’aperto V. Il teorema appena visto fornisce un’analogia fra le definizioni di semicontinuità per le multifunzioni e le tradizionali definizioni di semicontinuità per le funzioni a valori in ℝ (o nella retta ampliata). Ricordiamo, infatti che, data una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ, con 𝑋 spazio metrico, si dice che 𝑓 è semicontinua superiormente [inferiormente] in un punto 𝑧 ∈ 𝑋 se, da 𝑥𝑛 → 𝑧 segue che lim sup 𝑓 (𝑥𝑛 ) ≤ 𝑓 (𝑧) [risp. lim inf 𝑓 (𝑥𝑛 ) ≥ 𝑓 (𝑧)]. Ritorneremo più dettagliatamente su questo punto nel prossimo paragrafo (cfr. pag. 419 e seguenti). In anni recenti, ha avuto un notevole sviluppo lo studio di equazioni differenziali ordinarie in cui il campo vettoriale a secondo membro è una funzione
8.2. Partizioni dell’unità
413
multivoca. Tali equazioni appaiono in una forma del tipo 𝑥′ ∈ 𝐹 (𝑥).
(8.4)
𝑥′ (𝑡) ∈ 𝐹 (𝑥(𝑡)), ∀𝑡 ∈ 𝐼.
(8.5)
𝑥′ ∈ 𝐹 (𝑥),
𝑥(𝑡0 ) = 𝑥0 .
(8.6)
𝑥′ = 𝑓 (𝑥),
𝑥(𝑡0 ) = 𝑥0 ,
(8.7)
Per semplicità, abbiamo considerato il caso di un’equazione autonoma. Si potrebbe studiare anche il caso più generale 𝑥′ ∈ 𝐹 (𝑡, 𝑥). Nell’equazione (8.4) si suppone che 𝐹 ∶ 𝐴(⊆ ℝ𝑛 ) ⊸ ℝ𝑛 , con 𝐴 = dom 𝐹 un aperto di ℝ𝑛 . Esempi di equazioni differenziali di questo tipo, dette equazioni differenziali multivoche o inclusioni differenziali, appaiono in modo naturale in molti problemi di Economia, Teoria del controllo, Biologia. Per soluzione classica di (8.4) si intende una funzione 𝑥 ∶ 𝐼 → 𝐴, con 𝐼 intervallo di ℝ tale che In realtà, non potremo aspettarci, in generale, che la (8.5) sia soddisfatta per ogni 𝑡 ∈ 𝐼. Si considera quindi un concetto di soluzione generalizzata chiedendo che 𝑥(𝑡) sia assolutamente continua su 𝐼 (e quindi derivabile quasi ovunque) e che valga la (8.5) per quasi ogni 𝑡 ∈ 𝐼 (cfr. [70], [83]). Ci saranno comunque anche casi in cui 𝑥 è derivabile su 𝐼 e la (8.5) vale per ogni 𝑡 ∈ 𝐼. Un Problema di Cauchy associato a (8.5) si esprime esattamente come per le equazioni ordinarie. Cioè, fissati 𝑡0 ∈ ℝ e 𝑥0 ∈ 𝐴, si considera il Problema Nonostante l’apparente semplicità della formulazione, il problema (8.6) è di natura complessa ed è stato oggetto di ricerca da parte di importanti matematici ([5]). Un modo per affrontare il problema (8.6) è quello di cercare di risolvere un Problema di Cauchy per un’equazione differenziale tradizionale, del tipo dove 𝑓 (𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝐴. Il Teorema di Peano infatti assicura l’esistenza di una soluzione (classica) per il Problema (8.7) definita in un intervallo contenente 𝑡0 , sotto l’ipotesi che 𝑓 sia continua su 𝐴 (cfr. [83] e Teorema 15.96). Si perviene così in modo naturale allo studio della ricerca di una selezione continua della multifunzione 𝐹 . Formalmente: Definizione 8.56. Siano 𝑋, 𝑌 due insiemi non vuoti e 𝐹 ∶ dom 𝐹 = 𝑋 ⊸ 𝑌 una funzione multivoca. Si dice selezione di 𝐹 una qualunque funzione univoca 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 tale che 𝑓 (𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋. Inoltre se 𝑋 e 𝑌 sono spazi topologici e 𝑓 è continua, si parla di selezione continua. ◁ Un importante teorema di selezione continua è quello di Michael del 1956.
Teorema 8.57 (di selezione di Michael). Siano: 𝑋 uno spazio topologico paracompatto e 𝑇2 , 𝑌 uno spazio di Banach e 𝐹 ∶ dom 𝐹 = 𝑋 ⊸ 𝑌 una multifunzione inferiormente semicontinua a valori chiusi e convessi. Allora 𝐹 possiede una selezione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 .
8.2. Partizioni dell’unità
414
Dimostrazione. Seguiamo la dimostrazione di Michael in [53]. Si tenga presente che per l’Autore la paracompattezza riguarda solo gli spazi di Hausdorff. Per prima cosa, si dimostra la seguente proprietà intermedia 𝒫 che si può interpretare come l’esistenza di una “selezione approssimata”:
𝒫 ∶ Per ogni intorno aperto e convesso 𝑉 dell’origine in 𝑌 , esiste una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝑌 tale che 𝑔(𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥) + 𝑉 , ∀𝑥 ∈ 𝑋 . Ovviamente si è posto 𝐹 (𝑥) + 𝑉 ∶= {𝑢 + 𝑣 ∶ (𝑢 ∈ 𝐹 (𝑥)) ∧ (𝑣 ∈ 𝑉 )}. Per dimostrare tale proprietà, fissiamo un intorno aperto e convesso 𝑉 dell’origine in 𝑌 e, per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , si consideri l’insieme 𝐴𝑦 ⊆ 𝑋 definito da 𝐴𝑦 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑥) + 𝑉 } .
Verifichiamo che la famiglia degli 𝐴𝑦 non vuoti è un ricoprimento aperto di 𝑋. Che sia un ricoprimento è ovvio; resta da provare che tali insiemi sono aperti. Sia 𝑥0 un punto arbitrario di 𝐴𝑦 . Per definizione, 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑥0 ) + 𝑉 , ovvero 𝑦 = 𝑦0 + 𝑣, con 𝑦0 ∈ 𝐹 (𝑥0 ) e 𝑣 ∈ 𝑉 . Dalla stessa relazione, risulta 𝑦0 ∈ {𝑦} − 𝑉 che è un aperto e quindi un intorno di 𝑦0 . Per la definizione di semicontinuità inferiore, esiste un intorno 𝑈 di 𝑥0 tale che 𝐹 (𝑥) ∩ ({𝑦} − 𝑉 ) ≠ ∅, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . In altri termini, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 , esiste un 𝑤𝑥 ∈ 𝐹 (𝑥) tale che 𝑤𝑥 ∈ {𝑦} − 𝑉 e quindi 𝑦 ∈ {𝑤𝑥 } + 𝑉 . Ne segue che 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑥) + 𝑉 e, per la definizione di 𝐴𝑦 , risulta 𝑥 ∈ 𝐴𝑦 . Abbiamo così verificato che 𝑈 ⊆ 𝐴𝑦 e che pertanto 𝐴𝑦 è un intorno di 𝑥0 . Per l’arbitrarietà di 𝑥0 , si conclude che 𝐴𝑦 è un aperto di 𝑋. Per la paracompattezza di 𝑋 (che è anche 𝑇2 ), esiste una partizione dell’unità (localmente finita) subordinata a tale ricoprimento (cfr. Teorema 8.37). Esiste cioè una famiglia 𝒢 ∶= {𝑔𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } di funzioni continue 𝑔𝛼 ∶ 𝑋 → [0, 1] tali che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un intorno 𝑈 (𝑥) di 𝑥 in cui tutte le funzioni di 𝒢 sono nulle salvo al più un numero finito, e, inoltre, per ogni 𝑔𝛼 ∈ 𝒢 , esiste un insieme 𝐴𝛼 = 𝐴𝑦 tale che 𝑔𝛼 (𝑡) = 0, ∀𝑡 ∉ 𝐴𝛼 . In fine, si ha anche che ∑𝛼∈𝐽 𝑔𝛼 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Possiamo ora definire la funzione 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝑌 come segue. Per ogni indice 𝛼 ∈ 𝐽 , prendiamo un 𝑦𝛼 ∈ 𝑌 tale che 𝑔𝛼 (𝑡) = 0, ∀𝑡 ∉ 𝐴𝑦𝛼 e poniamo quindi 𝑔(𝑥) ∶= 𝑔 (𝑥)𝑦𝛼 . (8.8) ∑ 𝛼 𝛼∈𝐽
Fissiamo ora un punto arbitrario 𝑧 ∈ 𝑋 e verifichiamo che 𝑔 è continua in 𝑧. Per ipotesi, esiste un intorno (aperto) 𝑈 di 𝑧 tale che le funzioni 𝑔𝛼 sono identicamente nulle in 𝑈 , salvo al più un numero finito. La (8.8) si legge quindi come 𝑔(𝑡) ∶=
𝑘
∑ 𝑖=1
𝑔𝛼𝑖 (𝑡)𝑦𝛼𝑖 ,
∀𝑡 ∈ 𝑈 .
Da ciò segue immediatamente che la (8.8) definisce in modo corretto una funzione da 𝑋 in 𝑌 e che tale funzione è continua (cfr. Proposizione 2.15.1). Il passo successivo è di verificare che 𝑔(𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥) + 𝑉 , ∀𝑥 ∈ 𝑋. A tale scopo, ricordiamo che la famiglia 𝒢 definisce una partizione dell’unità subordinata al
8.2. Partizioni dell’unità
415
ricoprimento degli 𝐴𝑦 . Prendiamo ora un 𝑥 ∈ 𝑋 arbitrario ed osserviamo che la (8.8) è in realtà una somma (finita) del tipo 𝑔(𝑥) ∶=
𝑚
∑ 𝑖=1
𝑔𝛼𝑖 (𝑥)𝑦𝛼𝑖 ,
dove 𝑔𝛼𝑖 (𝑥) può essere non nullo solo in 𝐴𝑦𝛼 . Dalla definizione degli 𝐴𝑦 ne 𝑖 segue che i punti 𝑦𝛼𝑖 devono appartenere a 𝐹 (𝑥) + 𝑉 , che è un insieme convesso perché somma di convessi. poiché la somma delle 𝑔𝛼𝑖 è 1, si ottiene che è anche 𝑔(𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥) + 𝑉 , essendo una combinazione convessa di punti di un convesso. La proprietà 𝒫 appena dimostrata utilizza soltanto il fatto che 𝐹 sia a immagini convesse e la struttura di 𝑌 come spazio vettoriale topologico. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝐵𝑛 ∶= 𝐵(0, 𝑟𝑛 ), dove la successione dei raggi è presa in modo che sia 𝑟𝑛+1 ≤ 𝑟𝑛 /2𝑛 . Ci si propone di costruire una successione (𝑔𝑛 )𝑛 di funzioni continue da 𝑋 in 𝑌 tali che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, risulti 𝑔𝑛 (𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥) + 𝐵𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ+ ,
‖𝑔𝑛 (𝑥) − 𝑔𝑛−1 (𝑥)‖ ≤ 2𝑟𝑛−1 , ∀𝑛 ≥ 2.
(8.9)
Se si riesce a produrre una siffatta successione, possiamo definire 𝑓 (𝑥) ∶= lim 𝑔𝑛 (𝑥). 𝑛→+∞
(8.10)
La 𝑓 così introdotta risulta ben definita perché, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, la successione (𝑔𝑛 (𝑥))𝑛 è di Cauchy in 𝑌 e quest’ultimo spazio è completo. Per verificare che (𝑔𝑛 (𝑥))𝑛 è di Cauchy, basta osservare che, per ogni 𝑝 ≥ 1, si ha ‖𝑔𝑛+𝑝 (𝑥) − 𝑔𝑛 (𝑥)‖ ≤ 2
+∞
∑
𝑘=𝑛
𝑟𝑘 ≤ 2𝑟𝑛
+∞
1 = 4𝑟𝑛 → 0. ∑ 2𝑘
𝑘=0
(8.11)
(Abbiamo usato la seconda condizione della (8.9).) Passando al limite nella prima condizione in (8.9), si ottiene che 𝑓 (𝑥) ∈ cl 𝐹 (𝑥) = 𝐹 (𝑥). (𝐹 (𝑥) è chiuso per ipotesi.) Quanto alla continuità di 𝑓 , essa è garantita dal fatto che le 𝑔𝑛 in realtà convergono uniformemente a 𝑓 ; tuttavia, siccome ci troviamo in una situazione leggermente diversa rispetto a quella del Teorema 3.56, verifichiamolo direttamente, per comodità del lettore, anche se si tratta di un semplice esercizio. (Nel teorema citato si supponeva di considerare funzioni limitate, cosa che qui non è.) Sia 𝑧 ∈ 𝑋 arbitrario e 𝜀 > 0 fissato. Per la stima in (8.11), abbiamo che esiste un 𝑛 tale che, per ogni 𝑛, 𝑚 ≥ 𝑛, si ha ‖𝑔𝑛 (𝑥) − 𝑔𝑚 (𝑥)‖ < 𝜀/4, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Tenendo fisso 𝑛 e facendo tendere 𝑚 all’infinito, si ha ‖𝑔𝑛 (𝑥) − 𝑓 (𝑥)‖ ≤ 𝜀/4 < 𝜀/3, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Fissiamo ora 𝑛 ≥ 𝑛 e, utilizzando la continuità di 𝑔𝑛 in 𝑧, troviamo un intorno 𝑈 di 𝑧 tale che ‖𝑔𝑛 (𝑥) − 𝑔𝑛 (𝑧)‖ < 𝜀/3, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Si vede ora subito che ‖𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧)‖ < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Resta da costruire una successione (𝑔𝑛 )𝑛 di funzioni che soddisfino alle condizioni in (8.9). Tale successione verrà definita in modo ricorsivo. L’esistenza della funzione 𝑔1 è garantita dalla proprietà 𝒫 vista all’inizio. Supponiamo
8.2. Partizioni dell’unità
416
ora (per ipotesi induttiva) di aver definito le 𝑔𝑖 per ogni 𝑖 ≤ 𝑘 e definiremo la funzione 𝑔𝑘+1 . A tale scopo, si introduce una multifunzione 𝐹𝑘+1 (𝑥) ∶= 𝐹 (𝑥) ∩ ({𝑔𝑘 (𝑥)} + 𝐵𝑘 ) = 𝐹 (𝑥) ∩ 𝐵(𝑔𝑘 (𝑥), 𝑟𝑘 ).
Il fatto che l’insieme 𝐹𝑘+1 (𝑥) non sia vuoto (per ogni 𝑥 ∈ 𝑋) segue dall’ipotesi induttiva che 𝑔𝑘 (𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥) + 𝐵𝑘 . Inoltre 𝐹𝑘+1 (𝑥) è convesso perché intersezione di convessi. La multifunzione 𝐹𝑘+1 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 è anche semicontinua inferiormente (Esercizio!). Prendendo ora come intorno di 0 l’insieme 𝑉 ∶= 𝐵𝑘+1 , e riapplicando il risultato iniziale 𝒫 di selezione approssimata alla multifunzione 𝐹𝑘+1 e all’insieme aperto e convesso 𝑉 , otteniamo l’esistenza di una funzione continua 𝑔𝑘+1 da 𝑋 in 𝑌 tale che 𝑔𝑘+1 (𝑥) ∈ 𝐹𝑘+1 (𝑥) + 𝐵𝑘+1 , ∀𝑥 ∈ 𝑋.
(8.12)
È ovvio quindi che 𝑔𝑘+1 (𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥) + 𝐵𝑘+1 ; pertanto la prima delle (8.9) è verificata per 𝑛 = 𝑘 + 1. Resta da valutare ‖𝑔𝑘+1 (𝑥) − 𝑔𝑘 (𝑥)‖. A tale scopo, osserviamo che, dalla (8.12) sappiamo che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un 𝑤𝑥 ∈ 𝐹𝑘+1 (𝑥) tale che ‖𝑔𝑘+1 (𝑥) − 𝑤𝑥 ‖ < 𝑟𝑘+1 . D’altra parte, è anche 𝑤𝑥 ∈ 𝑔𝑘 (𝑥) + 𝐵𝑘 e quindi ‖𝑔𝑘 (𝑥) − 𝑤𝑥 ‖ < 𝑟𝑘 . Per la disuguaglianza triangolare, si conclude che è ‖𝑔𝑘+1 (𝑥) − 𝑔𝑘 (𝑥)‖ < 𝑟𝑘+1 + 𝑟𝑘 < 2𝑟𝑘 . Il passo induttivo è così completamente verificato. In [53], Michael ha anche dimostrato che per gli spazi 𝑇1 la validità del Teorema di selezione per ogni spazio di Banach come codominio implica che il dominio è paracompatto di Hausdorff. Mostriamo con alcuni esempi che non si può rinunciare né all’ipotesi di convessità, né a quella di chiusura di 𝐹 (𝑥) e nemmeno al fatto che il codominio sia di Banach; inoltre, la condizione di semicontinuità inferiore non può essere sostituita da quella di semicontinuità superiore. Cominciamo esaminando quest’ultimo caso. Esempio 8.58. Siano 𝑋 = 𝑌 ∶= ℝ dotati della topologia usuale e consideriamo la multifunzione 𝐹 ∶ ℝ ⊸ ℝ definita de ⎧{𝑥 − 1}, ⎪ 𝐹 (𝑥) ∶= ⎨[−1, 1], ⎪{𝑥 + 1}, ⎩
per 𝑥 < 0, per 𝑥 = 0, per 𝑥 > 0.
Si vede subito che 𝐹 è superiormente, ma non inferiormente semicontinua e che, inoltre, è a valori chiusi e convessi. Si vede altrettanto facilmente che qualunque funzione selezione 𝑓 non può essere continua in 0. ◁ Gli esempi che seguono sono dovuti allo stesso Michael e contenuti nel suo articolo originale [53]. Come primo esempio, dimostriamo che l’ipotesi di chiusura per 𝐹 (𝑥) è essenziale.
8.2. Partizioni dell’unità
417
Esempio 8.59. Siano 𝑋 = 𝐼 ∶= [0, 1] con la topologia usuale e 𝑌 l’insieme delle funzioni 𝑦 ∶ 𝐼 → ℝ che si annullano in 𝐼 salvo al più un sottoinsieme numerabile e tali che la serie ∑𝑥∈𝐼 |𝑦(𝑥)| è convergente. 𝑌 con le operazioni usuali è uno spazio vettoriale reale; esso è di Banach con la norma ‖𝑦‖ ∶= ∑𝑥∈𝐼 |𝑦(𝑥)|. Tale spazio può essere pensato come l’insieme delle successioni generalizzate (cioè indicate sull’insieme non numerabile 𝐼), con norma 𝑙1 (cfr. la sezione 5.2.4, in particolare pag. 267, dove si è trattato il caso 𝑙2 ). Consideriamo la multifunzione 𝐹 ∶ 𝐼 ⊸ 𝑌 che ad ogni 𝑥 ∈ 𝐼 associa l’insieme 𝐹 (𝑥) ∶= {𝑦 ∈ 𝑌 ∶ 𝑦(𝑥) > 0}. Si noti che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐼, l’insieme 𝐹 (𝑥) non è chiuso. Esso è invece aperto e convesso (Esercizio). Dimostriamo che 𝐹 è semicontinua inferiormente. Fissiamo un punto 𝑥0 ∈ 𝐼 e un punto arbitrario 𝑦0 ∈ 𝐹 (𝑥0 ). Sia inoltre 𝜀 > 0 raggio di una palla 𝐵 ∶= 𝐵(𝑦0 , 𝜀) intorno di 𝑦0 . Per verificare la semicontinuità, dobbiamo trovare un intorno 𝑈 di 𝑥0 tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 , esiste 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑥) ∩ 𝐵. Osserviamo che è 𝑦0 (𝑥0 ) > 0 e, inoltre, che può essere 𝑦0 (𝑥) < −𝜀/2 al più per un numero finito di 𝑥. Prendiamo quindi un intorno 𝑈 di 𝑥0 che esclude tali punti in modo che 𝑦0 (𝑥) ≥ −𝜀/2, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Per un arbitrario 𝑥1 ∈ 𝑈 , consideriamo l’insieme 𝐹 (𝑥1 ) e in esso prendiamo una funzione 𝑦 tale che 𝑦(𝑥1 ) = 3𝜀/4 e, inoltre, 𝑦(𝑡) = 𝑦0 (𝑡), ∀𝑡 ∈ 𝐼 ⧵ {𝑥1 }. Chiaramente, è 𝑦(𝑥1 ) > 0, da cui 𝑦 ∈ 𝐹 (𝑥1 ); inoltre, si ha ‖𝑦 − 𝑦0 ‖ =
∑ 𝑡∈𝐼
|𝑦(𝑡) − 𝑦0 (𝑡)| = |𝑦(𝑥1 ) − 𝑦0 (𝑥1 )| < 𝜀.
Mostriamo ora che 𝐹 non ammette una selezione continua. Supponiamo, per assurdo, che esista una 𝑓 ∶ 𝐼 → 𝑌 continua tale che 𝑓 (𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝐼. Si dovrà quindi avere (𝑓 (𝑥))(𝑥) > 0, ∀𝑥 ∈ 𝐼. La continuità di 𝑓 implica che, per ogni 𝑥0 ∈ 𝐼, esiste un intorno 𝑈 (𝑥0 ) tale che (𝑓 (𝑡))(𝑥0 ) > 0, ∀𝑡 ∈ 𝑈 (𝑥0 ). Ciascuno di questi intorni contiene qualche numero razionale. Pertanto, esiste un 𝑟 ∈ ℚ ∩ 𝐼 tale che 𝑟 appartiene a un’infinità non numerabile di intorni 𝑈 (𝑥). Per quanto detto sopra, segue che (𝑓 (𝑟))(𝑥) > 0 per un insieme non numerabile di 𝑥, contro l’appartenenza di 𝑓 (𝑟) allo spazio 𝑌 (cfr. Lemma 5.82). ◁ Il prossimo esempio mostra l’essenzialità dell’ipotesi di convessità per 𝐹 (𝑥).
Esempio 8.60. Siano 𝑋 = 𝐼 ∶= [0, 1] e 𝑌 ∶= ℝ2 , entrambi con la topologia usuale. Ad ogni 𝑡 ∈ 𝐼 associamo l’insieme 𝐹 (𝑡) definito come segue: 𝐹 (𝑡) ∶=
{(𝑥, sin 1/𝑥) ∶ 𝑡/2 ≤ 𝑥 ≤ 𝑡} , per 𝑡 > 0, per 𝑡 = 0. {{(0, 𝑦) ∶ −1 ≤ 𝑦 ≤ 1} ,
In tal modo, ad ogni 𝑡 > 0 si associa un tratto del grafico della funzione 𝑦 = sin 1/𝑥 e un segmento verticale per 𝑡 = 0. Per ogni 𝑡, 𝐹 (𝑡) è un chiuso (addirittura compatto), omeomorfo a un intervallo ma non convesso per 𝑡 > 0. Si osservi che, per 𝑡′ e 𝑡″ positivi e vicini, 𝐹 (𝑡′ ) e 𝐹 (𝑡″ ) sono parti di grafico che si sovrappongono per un certo tratto. Da ciò è facile verificare la semicontinuità inferiore in un punto 𝑡0 > 0. Per la semicontinuità inferiore in 𝑡0 = 0, basta
8.2. Partizioni dell’unità
418
osservare che un qualunque intorno di un punto del tipo (0, 𝑦), con 𝑦 ∈ [−1, 1], interseca tratti di grafico della funzione sin 1/𝑥, per ogni 𝑥 > 0 sufficientemente piccolo. Verifichiamo che non esiste una selezione continua. Supponiamo, per assurdo, che esista una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐼 → ℝ2 tale che 𝑓 (𝑡) =∶ (𝑥(𝑡), 𝑦(𝑡)) ∈ 𝐹 (𝑡), ∀𝑡 ∈ 𝐼. Per come è definita 𝐹 , si ha 𝑡/2 ≤ 𝑥(𝑡) ≤ 𝑡 e 𝑦(𝑡) = sin 1/𝑥(𝑡), per 𝑡 > 0; per 𝑡 = 0 deve essere 𝑥0 = 0 e 𝑦(0) = 𝑦0 ∈ [−1, 1]. Per il teorema dei valori intermedi, sappiamo che l’insieme immagine {𝑥(𝑡) ∶ 𝑡 ∈ 𝐼} contiene l’intervallo [0, 1/2]. esiste quindi una successione (𝑡′𝑛 )𝑛 → 0 tale che 𝑥(𝑡′𝑛 ) ∶= 1/(𝑛𝜋), da cui 𝑦(𝑡′𝑛 ) = 0; d’altra parte, esiste anche una successione (𝑡″𝑛 )𝑛 → 0 tale che 𝑥(𝑡″𝑛 ) ∶= 2/((4𝑛 + 1)𝜋), da cui 𝑦(𝑡″𝑛 ) = 1. Per la continuità di 𝑓 , il punto 𝑓 (0) = (0, 𝑦0 ) dovrebbe essere contemporaneamente (0, 0) e (0, 1). ◁ In fine, diamo un esempio sul fatto che non basta che il codominio sia uno spazio normato, ma è essenziale che sia di Banach. Questo esempio segue in parte la struttura dell’Esempio 8.59.
Esempio 8.61. Siano 𝑋 ∶= [0, 1] con la topologia usuale, 𝑍 ∶= 𝑋 ∩ ℚ e 𝑌 l’insieme delle funzioni 𝑦 ∶ 𝑍 → ℝ che si annullano in 𝑍 salvo al più un sottoinsieme finito. 𝑌 con le operazioni usuali è uno spazio vettoriale reale. In esso introduciamo la norma ‖𝑦‖ ∶= ∑𝑥∈𝑍 |𝑦(𝑥)|. 𝑌 è un sottospazio di 𝑙1 (𝑍), ovvero delle funzioni 𝑤 ∶ 𝑍 → ℝ con ∑𝑥∈𝑍 |𝑤(𝑥)| < ∞. Lo spazio 𝑙1 (𝑍) con la sua norma naturale è completo (cfr. Teorema 4.79), ma 𝑌 non è completo perché non è chiuso (cfr. Lemma 3.79). Per constatarlo, basta prendere una successione di funzioni in 𝑌 che converge in 𝑙1 a una funzione non nulla in infiniti punti. Infatti, ordinati gli elementi di 𝑍 in una successione 𝑍 = {𝑟𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ,
basta prendere la successione (𝑦𝑛 )𝑛 , con 𝑦𝑛 (𝑥) = ∑𝑛𝑖=1 𝜒𝑟𝑖 (𝑥)/𝑖2 , dove 𝜒𝑟𝑖 è la funzione caratteristica che vale 1 su 𝑟𝑖 e 0 altrove. Tale successione converge a una funzione che è diversa da 0 in infiniti punti. Introduciamo, in fine, l’insieme 𝑌 + ∶= {𝑦 ∈ 𝑌 ∶ 𝑦(𝑥) ≥ 0, ∀𝑥 ∈ 𝑍} .
La multifunzione 𝐹 ∶ 𝑋 ⊸ 𝑌 è definita come segue 𝐹 (𝑥) ∶=
𝑌 +, se 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑍, {𝑌 + ∩ {𝑦 ∈ 𝑌 ∶ 𝑦(𝑟𝑛 ) ≥ 1/𝑛} , se 𝑥 = 𝑟𝑛 ∈ 𝑍.
Si verifica facilmente che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝐹 (𝑥) è chiuso e convesso e che 𝐹 è semicontinua inferiormente (Esercizio!). Proviamo che non esiste una selezione continua. Supponiamo, per assurdo, che esista una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 tale che 𝑓 (𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋. Poiché deve essere (𝑓 (𝑟𝑛 ))(𝑟𝑛 ) ≥ 1/𝑛 > 1/2𝑛, per la continuità, dovrebbe esistere un intorno aperto 𝑈𝑛 di 𝑟𝑛 tale che (𝑓 (𝑥))(𝑟𝑛 ) > 1/2𝑛, ∀𝑥 ∈ cl 𝑈𝑛 ∩ 𝐼. In modo
8.3. Semicontinuità
419
induttivo, possiamo ora definire una successione crescente di indici (𝑛𝑘 )𝑘 tale che 𝑟𝑛𝑘+1 ∈ ⋂𝑘𝑗=1 𝑈𝑛𝑗 , ∀𝑘 (si procede come nella dimostrazione del Teorema di Baire 3.62). La successione di chiusi (cl 𝑈𝑛𝑘 ∩𝐼)𝑘 ha la proprietà dell’intersezione finita e quindi, per la compattezza di 𝐼, esiste un elemento 𝑤 ∈ ⋂𝑘∈ℕ+ cl 𝑈𝑛𝑘 . Ne viene che (𝑓 (𝑤))(𝑟𝑛𝑘 ) > 0, ∀𝑘. Quindi 𝑓 (𝑤) assume valori non nulli su un sottoinsieme infinito di 𝑍, contro il fatto che è 𝑓 (𝑤) ∈ 𝑌 . ◁
8.3 Semicontinuità Nella dimostrazione del Teorema di selezione di Michael, si è visto il ruolo fondamentale svolto dal concetto di partizione dell’unità. Mostreremo ancora qualche altra applicazione di questo concetto. Un primo risultato riguarda le funzioni semicontinue a valori reali. Queste funzioni rivestono un ruolo fondamentale anche in altri contesti, in particolare nello studio dei problemi di minimo per i funzionali a valori reali. Facciamo alcune premesse.
Definizione 8.62. Siano dati: uno spazio topologico 𝑋, una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ e un punto 𝑧 ∈ 𝑋. 1. Si dice che 𝑓 è superiormente semicontinua in 𝑧 se, per ogni 𝜀 > 0, esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 tale che 𝑓 (𝑥) < 𝑓 (𝑧) + 𝜀, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 . 2. Si dice che 𝑓 è inferiormente semicontinua in 𝑧 se, per ogni 𝜀 > 0, esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 tale che 𝑓 (𝑥) > 𝑓 (𝑧) − 𝜀, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈 . ◁ È ovvio che una funzione a valori reali è continua in un punto se e solo se è semicontinua sia inferiormente che superiormente. Alcuni Autori considerano le definizioni di semicontinuità per funzioni a valori nella retta ampliata ℝ ∪ {−∞, +∞}. Per comodità ci limiteremo al caso di funzioni a valori reali. Come nel caso delle funzioni continue, anche per quelle semicontinue si può dare una definizione di tipo sequenziale.
Definizione 8.63. Siano dati: uno spazio topologico 𝑋, una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ e un punto 𝑧 ∈ 𝑋. 1. Si dice che 𝑓 è sequenzialmente superiormente semicontinua in 𝑧 se, per ogni successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋, con 𝑥𝑛 → 𝑧, segue che lim sup 𝑓 (𝑥𝑛 ) ≤ 𝑓 (𝑧). 2. Si dice che 𝑓 è sequenzialmente inferiormente semicontinua in 𝑧 se, per ogni successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋, con 𝑥𝑛 → 𝑧, segue che lim inf 𝑓 (𝑥𝑛 ) ≥ 𝑓 (𝑧). ◁
Analogamente a quanto visto nel Capitolo 2, ogni funzione semicontinua superiormente o inferiormente in 𝑧 ha anche la stessa proprietà di tipo sequenziale. Il viceversa non è vero in generale (basta riesaminare l’Esempio 2.46 e successive osservazioni), tuttavia esso sussiste per gli spazi primo numerabili e, in particolare, per gli spazi metrici. Lasciamo al lettore, come esercizio, la verifica di queste affermazioni.
8.3. Semicontinuità
420
Ovviamente se, data una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ, si ha che una delle quattro precedenti proprietà di semicontinuità è valida per ogni punto 𝑧 del dominio, si dice che 𝑓 ha tale proprietà su 𝑋. Una caratterizzazione delle funzioni semicontinue su tutto 𝑋 è data dal seguente lemma, la cui verifica è lasciata per esercizio al lettore. Lemma 8.64. Siano 𝑋 uno spazio topologico e 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ. 1. 𝑓 è semicontinua superiormente su 𝑋 se e solo se, per ogni 𝛼 l’insieme 𝑓 −1 (] − ∞, 𝛼[) è aperto in 𝑋 e se e solo se, per ogni 𝛽 l’insieme 𝑓 −1 ([𝛽, +∞[) è chiuso in 𝑋. 2. 𝑓 è semicontinua inferiormente su 𝑋 se e solo se, per ogni 𝛼 l’insieme 𝑓 −1 (]𝛼, +∞[) è aperto in 𝑋 e se e solo se, per ogni 𝛽 l’insieme 𝑓 −1 (] − ∞, 𝛽]) è chiuso in 𝑋.
∈ ℝ, ∈ ℝ,
∈ ℝ, ∈ ℝ,
Le funzioni semicontinue svolgono un ruolo importante nello studio dei problemi di massimo o, rispettivamente, di minimo. Sussiste infatti il seguente risultato analogo al Teorema di Weierstrass 7.39.
Teorema 8.65 (di Weierstrass). Sia 𝑋 uno spazio topologico numerabilmente compatto. Ogni funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ superiormente [inferiormente] semicontinua su 𝑋 ha massimo [minimo]. Dimostrazione. Verifichiamo la proprietà del minimo per 𝑓 inferiormente semicontinua; l’altra si prova in modo simmetrico. Siano 𝜂(∈ ℝ ∪ {−∞}) ∶= inf 𝑓 (𝑋) e (𝛽𝑛 )𝑛 una successione decrescente di numeri reali tendente a 𝜂 e con 𝛽𝑛 > 𝜂, ∀𝑛. Per ogni 𝑛, l’insieme 𝐶𝑛 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) ≤ 𝛽𝑛 } è un chiuso, per la semicontinuità inferiore di 𝑓 , non vuoto. La successione (𝐶𝑛 )𝑛 è decrescente per inclusione e, pertanto, ha intersezione non vuota per il Teorema 7.10. Sia ora 𝑧 ∈ ⋂𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 . Per come sono stati definiti i 𝐶𝑛 , si ha 𝜂 ≤ 𝑓 (𝑧) ≤ 𝛽𝑛 , ∀𝑛, da cui 𝑓 (𝑧) = 𝜂 = min 𝑓 (𝑥). Un’immediata conseguenza di questo Teorema è data dal seguente
Corollario 8.66. Siano 𝑋 uno spazio topologico di Hausdorff e 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tale che, per ogni 𝛽 ∈ ℝ, l’insieme 𝑓 −1 (] − ∞, 𝛽]) è compatto in 𝑋. Allora 𝑓 ha minimo in 𝑋.
Poiché ogni funzione continua è anche semicontinua sia superiormente che inferiormente, si deduce immediatamente che il teorema di Weierstrass 7.39 sussiste anche se il dominio è solo numerabilmente compatto. Analogamente al teorema appena visto, sussiste anche una versione di tipo sequenziale
Teorema 8.67 (di Weierstrass). Sia 𝑋 uno spazio topologico sequenzialmente compatto. Ogni funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ superiormente [inferiormente] sequenzialmente semicontinua su 𝑋 ha massimo [minimo].
8.3. Semicontinuità
421
Dimostrazione. Verifichiamo la proprietà del minimo per 𝑓 inferiormente sequenzialmente semicontinua; l’altra si prova in modo simmetrico. Siano 𝜂(∈ ℝ ∪ {−∞}) ∶= inf 𝑓 (𝑋) e (𝛽𝑛 )𝑛 una successione decrescente di numeri reali tendente a 𝜂 e con 𝛽𝑛 > 𝜂, ∀𝑛. Per ogni 𝑛, sia ancora 𝐶𝑛 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) ≤ 𝛽𝑛 }. Poiché 𝐶𝑛 è non vuoto, per ogni 𝑛, fissiamo un 𝑥𝑛 ∈ 𝐶𝑛 . Poiché lo spazio è sequenzialmente compatto, esiste una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 di (𝑥𝑛 )𝑛 convergente a un punto 𝑧 ∈ 𝑋. Per la sequenziale semicontinuità di 𝑓 in 𝑧, si ha 𝜂 ≤ 𝑓 (𝑧) ≤ lim inf 𝑓 (𝑥𝑛𝑘 ) ≤ lim inf 𝛽𝑛𝑘 = lim 𝛽𝑛 = 𝜂, da cui 𝑓 (𝑧) = 𝜂 = min 𝑓 (𝑥). Poiché ogni funzione sequenzialmente continua è anche sequenzialmente semicontinua sia superiormente che inferiormente, si deduce immediatamente che il Teorema di Weierstrass 7.39 sussiste per funzioni sequenzialmente continue se il dominio è sequenzialmente compatto. Le funzioni semicontinue si presentano in modo naturale quando consideriamo l’inf o il sup di una famiglia (non necessariamente finita) di funzioni continue.
Teorema 8.68. Sia {𝑓𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } una famiglia di funzioni definite in uno spazio topologico 𝑋 e a valori in ℝ. Siano 𝑔, ℎ ∶ 𝑋 → ℝ le funzioni definite da 𝑔(𝑥) ∶= inf {𝑓𝑖 (𝑥) ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } ;
ℎ(𝑥) ∶= sup {𝑓𝑖 (𝑥) ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } .
1. Se le 𝑓𝑖 sono tutte semicontinue superiormente, è tale anche la 𝑔, purché a valori in ℝ. 2. Se le 𝑓𝑖 sono tutte semicontinue inferiormente, è tale anche la ℎ, purché a valori in ℝ.
Dimostrazione. 1. Fissiamo un arbitrario 𝛼 ∈ ℝ e osserviamo che, per un dato 𝑤 ∈ 𝑋, si ha 𝑔(𝑤) < 𝛼 se e solo se esiste un indice 𝑖 ∈ 𝐽 tale che 𝑓𝑖 (𝑤) < 𝛼. Si ha dunque 𝑔 −1 (] − ∞, 𝛼[) = ⋃𝑖∈𝐽 𝑓𝑖−1 (] − ∞, 𝛼[). Per il Teorema 8.64 questi ultimi insiemi sono tutti aperti ed è quindi aperto anche 𝑔 −1 (] − ∞, 𝛼[). La tesi segue ora dallo stesso teorema. La 2 si prova in modo analogo. Come osservato in precedenza, alcuni Autori considerano il concetto di semicontinuità per funzioni a valori nella retta ampliata. In tale ambito il precedente teorema continua a valere, senza dover precisare che 𝑔 e ℎ assumano valori in ℝ.
Osservazione 8.69. Un corollario immediato del teorema appena visto ci dice che l’estremo inferiore [superiore] di una famiglia di funzioni continue a valori reali è una funzione semicontinua superiormente [inferiormente]. Si noti che la continuità si preserva sempre per famiglie finite mentre, in generale, non si
8.3. Semicontinuità
422
preserva per famiglie infinite. Infatti, date due funzioni continue a valori reali, si ha 1 [𝑓 (𝑥) + 𝑓2 (𝑥) − |𝑓1 (𝑥) − 𝑓2 (𝑥)|], 2 1 1 max(𝑓1 (𝑥), 𝑓2 (𝑥)) = [𝑓1 (𝑥) + 𝑓2 (𝑥) + |𝑓1 (𝑥) − 𝑓2 (𝑥)|], 2 min(𝑓1 (𝑥), 𝑓2 (𝑥)) =
(cfr. la (2.1) e il Teorema 2.11) da cui è evidente il risultato per una famiglia di due funzioni e, per induzione, anche per una qualunque famiglia finita. Per contro, consideriamo la successione di funzioni continue 𝑓𝑛 ∶ [−1, 1] → ℝ, con 𝑛 ∈ ℕ, definite da 𝑓𝑛 (𝑥) = 𝑥2𝑛+1 . Si ha ⎧𝑥, ⎪ 𝑔(𝑥) ∶= ⎨0, ⎪1, ⎩
per 𝑥 ≤ 0 per 0 < 𝑥 < 1 , per 𝑥 = 1
⎧−1, ⎪ ℎ(𝑥) ∶= ⎨0, ⎪𝑥, ⎩
per 𝑥 = −1 per − 1 < 𝑥 < 0 , per 𝑥 ≥ 0
si ha che le funzioni 𝑔 e ℎ non sono continue. In particolare, si ha che 𝑔 non è inferiormente semicontinua in 1 e che ℎ non è superiormente semicontinua in −1. Ciò mostra che nel Teorema 8.68 non si può scambiare il tipo di semicontinuità per le funzioni 𝑔 e ℎ. ◁ Ricollegandoci a quanto detto nell’osservazione precedente, applichiamo il Teorema 8.68 ad una famiglia {𝑓𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } di funzioni continue, otteniamo una funzione semicontinua superiormente 𝑔 che le limita dal basso e una semicontinua inferiormente ℎ che le limita dall’alto. Poiché non è detto che 𝑔 e ℎ siano continue, è naturale, in questo contesto, chiedersi, qualora sia 𝑔 < ℎ, se esiste una funzione continua “intermedia” (in senso stretto) fra le due. Una risposta parziale a questa domanda è data dal seguente Teorema di Dowker.
Teorema 8.70 (di Dowker). Siano: 𝑋 uno spazio topologico paracompatto e 𝑇2 , 𝑔, ℎ ∶ 𝑋 → ℝ due funzioni semicontinue rispettivamente superiormente e inferiormente, con 𝑔(𝑥) < ℎ(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋. Allora esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tale che 𝑔(𝑥) < 𝑓 (𝑥) < ℎ(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋. Dimostrazione. Per ogni numero razionale 𝑟, sia
𝐴𝑟 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ (𝑔(𝑥) < 𝑟) ∧ (ℎ(𝑥) > 𝑟)} .
In virtù del Lemma 8.64, si ha immediatamente che gli 𝐴𝑟 sono aperti. Quelli non vuoti costituiscono un ricoprimento di 𝑋, dato che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, è 𝑔(𝑥) < ℎ(𝑥). Per il Teorema 8.37, esiste una partizione dell’unità ad esso subordinata. Più precisamente, esiste una famiglia di funzioni continue Φ ∶= {𝜑𝑟 ∶ 𝑟 ∈ 𝐽 ⊆ ℚ} tali che 𝜑𝑟 ∶ 𝑋 → [0, 1], Supp 𝜑𝑟 ⊆ 𝐴𝑟 , ∀𝑟 ∈ 𝐽 , {Supp 𝜑𝑟 ∶ 𝑟 ∈ 𝐽 } è localmente finita e ∑𝑟∈𝐽 𝜑𝑟 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Definiamo ora 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑟𝜑 (𝑥). ∑ 𝑟 𝑟∈𝐽
8.3. Semicontinuità
423
Non c’è dubbio che 𝑓 sia ben definita. La funzione è anche continua, poiché, per ogni 𝑥0 ∈ 𝑋, esiste un intorno aperto 𝑈 (𝑥0 ) tale che 𝑈 (𝑥0 ) ha intersezione non vuota con al più un numero finito di supporti delle funzioni 𝜑𝑟 ; di conseguenza, esiste un insieme finito di numeri razionali 𝐽𝑥0 tale che 𝑓 (𝑥) =
∑
𝑟∈𝐽𝑥0
𝑟𝜑𝑟 (𝑥),
∀𝑥 ∈ 𝑈 (𝑥0 ).
Quindi, ristretta a 𝑈 (𝑥0 ), 𝑓 è continua in quanto combinazione lineare di funzioni continue. La tesi segue ora dal Teorema 2.15. Sempre per lo stesso 𝑥0 , poiché i supporti delle 𝜑𝑟 , con 𝑟 ∈ 𝐽𝑥0 sono contenuti negli aperti 𝐴𝑟 , abbiamo che 𝑔(𝑥0 ) < 𝑟 < ℎ(𝑥0 ), ∀𝑟 ∈ 𝐽𝑥0 . Concludiamo ora con la seguente catena di disuguaglianze 𝑔(𝑥0 ) = 𝑔(𝑥0 ) ⋅ 1 = 𝑔(𝑥0 ) =
∑
𝑟∈𝐽𝑥0
∑
𝑟∈𝐽
𝑔(𝑥0 )𝜑𝑟 (𝑥0 )
0. Per il lemma precedente, le 𝜑𝛼 sono lipschitziane di costante 1, mentre le 𝑔𝛼 sono localmente lipschitziane per quanto osservato subito dopo il medesimo lemma. Poiché ogni 𝑔𝛼 ha lo stesso (cfr. pag. 401) supporto di 𝜑𝛼 , le prime due proprietà sono immediate. La terza segue banalmente dalla stessa definizione. Il Teorema di Dowker 8.70 ammette una variante per le funzioni localmente lipschitziane ([45]). Teorema 8.74. Siano: 𝑋 uno spazio metrico, 𝑔, ℎ ∶ 𝑋 → ℝ due funzioni semicontinue rispettivamente superiormente e inferiormente, con 𝑔(𝑥) < ℎ(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋. Allora esiste una funzione localmente lipschitziana 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tale che 𝑔(𝑥) < 𝑓 (𝑥) < ℎ(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋.
Dimostrazione. Si procede come nel caso del Teorema di Dowker, sfruttando il Teorema 8.73 e sostituendo la continuità con la locale lipschitzianità. Finalmente possiamo dimostrare il teorema di approssimabilità mediante funzioni localmente lipschitziane (cfr. [54] per una dimostrazione diretta).
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
426
Teorema 8.75. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico ed 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua. Allora, per ogni 𝜀 > 0, esiste una funzione localmente lipschitziana 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ tale che |𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋.
Dimostrazione. Data la funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ e fissato un 𝜀 > 0, consideriamo le due funzioni 𝑔, ℎ ∶ 𝑋 → ℝ definite da 𝑔(𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥)−𝜀 e ℎ(𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥) + 𝜀. Le funzioni 𝑔 e ℎ soddisfano chiaramente alle ipotesi del Teorema 8.74, da cui si ha subito l’esistenza di una funzione intermedia localmente lipschitziana. Da questo risultato segue un interessante corollario:
Teorema 8.76 (di approssimabilità uniforme). Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico ed 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua. Allora esiste una successione (𝑔𝑛 )𝑛 di funzioni localmente lipschitziane di 𝑋 in ℝ che converge a 𝑓 uniformemente su 𝑋.
Dimostrazione. Basta applicare il risultato precedente con 𝜀 ∶= 1/𝑛 e chiamare 𝑔𝑛 la corrispondente funzione 𝑔. Osserviamo che gli ultimi due risultati non sussistono se si cercano soluzioni nell’ambito delle funzioni lipschitziane.
Esempio 8.77. La funzione 𝑓 ∶ ℝ → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) = 𝑥2 non è approssimabile uniformemente da funzioni lipschitziane. Supponiamo, per assurdo, che esista una funzione 𝑔 ∶ ℝ → ℝ lipschitziana di costante 𝐿 tale che |𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)| < 1, ∀𝑥 ∈ ℝ. Da ciò segue immediatamente che dovrebbe essere |𝑥2 − 𝑦2 | = |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑦)| ≤
≤ |𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)| + |𝑔(𝑥) − 𝑔(𝑦)| + |𝑔(𝑦) − 𝑓 (𝑦)| < 2 + 𝐿|𝑥 − 𝑦|.
Prendendo 𝑥 ∶= 𝑛 + 1 e 𝑦 ∶= 𝑛, si ottiene 2𝑛 + 1 < 2 + 𝐿, che è assurdo per 𝑛 sufficientemente grande. ◁
8.4
Funzioni convesse e spazi riflessivi
Definizione 8.78. Siano 𝑋 uno spazio vettoriale, 𝐶 un suo sottoinsieme convesso e 𝑓 ∶ 𝐶 → ℝ. Si dice che il funzionale 𝑓 è convesso in 𝐶 se, comunque si prendano u1 , u2 ∈ 𝐶, si ha 𝑓 ((1 − 𝑡)u1 + 𝑡u2 ) ≤ (1 − 𝑡)𝑓 (u1 ) + 𝑡𝑓 (u2 ),
∀𝑡 ∈ [0, 1].
(8.13)
Ovviamente, i funzionali lineari sono convessi. Un altro tipico esempio di funzionale convesso è dato dalle norme negli spazi normati (Esercizio!). La condizione di convessità (8.13) equivale alla 𝑓 (u1 + 𝑡(u2 − u1 )) ≤ 𝑓 (u1 ) + 𝑡(𝑓 (u2 ) − 𝑓 (u1 )),
∀𝑡 ∈ [0, 1].
(8.14)
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
427
Lemma 8.79. Siano 𝑋 uno spazio vettoriale e 𝑓 ∶ 𝐶(⊆ 𝑋) → ℝ un funzionale convesso. Dati 𝑛 punti u1 , … , u𝑛 ∈ 𝐶 e una loro combinazione convessa x = ∑𝑛𝑖=1 𝑎𝑖 u𝑖 , si ha 𝑓 (x) = 𝑓
𝑛
(∑ 𝑖=1
𝑎𝑖 u𝑖
)
≤
𝑛
∑ 𝑖=1
𝑎𝑖 𝑓 (u𝑖 ).
Dimostrazione. È lecito supporre 𝑛 > 2 e non sarà restrittivo supporre 𝑎𝑛 < 1. Dato x = ∑𝑛𝑖=1 𝑎𝑖 u𝑖 ∈ 𝐶, sappiamo che è x = (1 − 𝑎𝑛 )x′ + 𝑎𝑛 u𝑛 , con x′ = 𝑎𝑖 𝑖 ∑𝑛−1 𝑖=1 1−𝑎 u ∈ 𝐶, da cui 𝑛
𝑓 (x) = 𝑓 ((1 − 𝑎𝑛 )x′ + 𝑎𝑛 u𝑛 ) ≤ (1 − 𝑎𝑛 )𝑓 (x′ ) + 𝑎𝑛 𝑓 (u𝑛 ) ≤ 𝑎𝑖 ≤ (1 − 𝑎𝑛 ) 𝑓 (u𝑖 ) + 𝑎𝑛 𝑓 (u𝑛 ) = 𝑎 𝑓 (u𝑖 ). ∑ 1 − 𝑎𝑛 ∑ 𝑖 𝑖=1 𝑖=1 𝑛−1
𝑛
Osservazione 8.80. Dalla relazione (8.13) segue immediatamente che, se 𝑓 ∶ 𝐶 → ℝ è un funzionale convesso, allora, per ogni 𝛼 ∈ ℝ, l’insieme di sottolivello {x ∈ 𝐶 ∶ 𝑓 (x) ≤ 𝛼}
è convesso. In generale, non vale il viceversa. Il lettore trovi un esempio di una funzione non convessa 𝑓 ∶ ℝ → ℝ tale che tutti i suoi insiemi di sottolivello siano degli intervalli magari anche compatti (eventualmente degeneri o vuoti). I funzionali i cui insiemi di sottolivello sono convessi vengono detti quasiconvessi. ◁ Osservazione 8.81. Dovrebbe essere ben noto che una funzione convessa da un intervallo di ℝ in ℝ è continua in tutti i punti interni al suo dominio. In generale, nei punti non interni la continuità non è assicurata. Più delicato è il problema della continuità delle funzioni convesse definite su un sottoinsieme di uno spazio normato. Un significativo risultato (cfr. Teorema 8.85) afferma che una funzione convessa definita su un sottoinsieme convesso e aperto di uno spazio normato di dimensione finita è continua. Ciò invece non è vero se la dimensione dello spazio non è finita. A tale proposito, basta pensare al seguente esempio: Sia 𝑋 ∶= 𝐶([0, 1]) con la norma ‖⋅‖1 e definiamo, per u ∈ 𝑋, 𝑓 (u) ∶= ‖u‖∞ . La funzione 𝑓 è chiaramente convessa (ogni norma lo è); d’altra parte, 𝑓 non è continua rispetto alla norma ‖⋅‖1 che abbiamo definito in 𝑋. Per constatarlo, si consideri la successione (u𝑛 )𝑛 , con u𝑛 (𝑡) ∶= 𝑡𝑛 , per cui u𝑛 → 0 ̸ (0) = 0. nella norma ‖⋅‖1 , ma 𝑓 (u𝑛 ) = 1→𝑓 ◁ Teorema 8.82. Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝐴 un sottoinsieme aperto di 𝑋 e 𝑓 ∶ 𝐴 → ℝ una funzione convessa (da cui 𝐴 convesso). Se 𝑓 è superiormente limitata in un intorno di un punto x0 ∈ 𝐴, allora 𝑓 è localmente limitata in 𝐴.
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
428
Dimostrazione. Proviamo intanto che, se 𝑓 è superiormente limitata nell’intorno 𝐵𝜀 ∶= 𝐵(x0 , 𝜀) di x0 ∈ 𝐴, allora lo è anche inferiormente. Non è restrittivo supporre che sia x0 = 0 (altrimenti si lavora con la funzione 𝑓 (x0 + t)). Sia dunque 𝑓 (x) ≤ 𝑀, ∀x ∈ 𝐵𝜀 . Essendo 0 = 12 x + 12 (−x), dalla convessità di 𝑓 si ottiene 𝑓 (0) ≤ 12 𝑓 (x) + 12 𝑓 (−x) e quindi 𝑓 (x) ≥ 2𝑓 (0) − 𝑓 (−x) ≥ 2𝑓 (0) − 𝑀. Fissiamo ora un y ∈ 𝐴 ⧵ {0} e proviamo che 𝑓 è localmente limitata in y. Fissiamo un 𝜌 > 1 tale che z ∶= 𝜌y ∈ 𝐴 e poniamo 𝜆 ∶= 1/𝜌. Consideriamo l’insieme 𝐷 ∶= {v ∈ 𝑋 ∶ v = (1 − 𝜆)x + 𝜆z, x ∈ 𝐵𝜀 } . Essendo 𝐴 convesso, è 𝐷 ⊆ 𝐴. Per ogni v ∈ 𝐷, si ha
‖v − y‖ = ‖(1 − 𝜆)x + 𝜆z − y‖ = (1 − 𝜆)‖x‖ ≤ (1 − 𝜆)𝜀.
È dunque 𝐷 ⊆ 𝐵(y, (1−𝜆)𝜀). Viceversa, dato v ∈ 𝐵(y, (1−𝜆)𝜀), si ha v = w+y, w con ‖w‖ < (1 − 𝜆)𝜀 e quindi v = (1 − 𝜆)x + 𝜆z, con x ∶= 1−𝜆 . Essendo ‖x‖ = ‖w‖ < 𝜀, si ottiene che è x ∈ 𝐵𝜀 e quindi v ∈ 𝐷. Si conclude che è 1−𝜆 𝐷 = 𝐵(y, (1 − 𝜆)𝜀). In fine, per la convessità di 𝑓 , si ha, per ogni v ∈ 𝐷, 𝑓 (v) = 𝑓 ((1 − 𝜆)x + 𝜆z) ≤ (1 − 𝜆)𝑓 (x) + 𝜆𝑓 (z) ≤ 𝑀 + 𝑓 (z).
Quindi 𝑓 è superiormente limitata in 𝐷 = 𝐵(y, (1 − 𝜆)𝜀) e, per la prima parte della dimostrazione, lo è anche inferiormente.
Teorema 8.83. Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝐴 un sottoinsieme aperto di 𝑋 e 𝑓 ∶ 𝐴 → ℝ una funzione convessa. Se 𝑓 è superiormente limitata in un intorno di un punto x0 ∈ 𝐴, allora 𝑓 è localmente lipschitziana in 𝐴.
Dimostrazione. Per il Teorema 8.82, 𝑓 è localmente limitata. Dato x0 ∈ 𝐴, esistono quindi due costanti positive 𝜀 e 𝑀 tali che 𝐵2𝜀 ∶= 𝐵(x0 , 2𝜀) ⊆ 𝐴 e |𝑓 (x)| ≤ 𝑀, ∀x ∈ 𝐵2𝜀 . Proviamo che 𝑓 è lipschitziana in 𝐵𝜀 ∶= 𝐵(x0 , 𝜀), con costante di Lipschitz 2𝑀 . Supponiamo, per assurdo, che esistano x1 , x2 ∈ 𝐵𝜀 , 𝜀 con 𝑓 (x1 ) < 𝑓 (x2 ), tali che Sia x3 ∶= x2 +
𝑓 (x2 ) − 𝑓 (x1 ) ‖x − x ‖
𝜀 (x2 − x1 ). ‖x2 −x1 ‖
2
1
>
2𝑀 . 𝜀
Si ha subito ‖x3 − x2 ‖ = 𝜀 e x3 ∈ 𝐵2𝜀 . Inoltre,
per costruzione, i tre punti sono allineati, con x2 ∈ [x1 , x3 ]. È dunque x2 = x1 + 𝑡1 (x3 − x1 );
da cui, passando alle norme, 𝑡1 =
‖x2 − x1 ‖ ‖x3 − x1 ‖
;
𝑡2 =
x2 = x3 + 𝑡2 (x1 − x3 ),
‖x3 − x2 ‖ ‖x3 − x1 ‖
,
𝑡1 , 𝑡2 ∈ [0, 1].
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
429
Dalla convessità di 𝑓 (disuguaglianza (8.14)) si ottiene ‖x2 − x1 ‖
𝑓 (x2 ) − 𝑓 (x1 ) ≤
𝑓 (x2 ) − 𝑓 (x3 ) ≤
da cui
𝑓 (x3 ) − 𝑓 (x2 ) ‖x − x ‖ 3
2
‖x3 − x1 ‖
(𝑓 (x3 ) − 𝑓 (x1 )),
‖x3 − x2 ‖ ‖x3 − x1 ‖
≥
(𝑓 (x1 ) − 𝑓 (x3 )),
𝑓 (x3 ) − 𝑓 (x1 ) ‖x − x ‖ 3
1
≥
𝑓 (x3 ) > 𝑓 (x1 ), 𝑓 (x3 ) > 𝑓 (x2 )
𝑓 (x2 ) − 𝑓 (x1 ) ‖x − x ‖ 2
1
≥
2𝑀 𝜀
e quindi 𝑓 (x ) − 𝑓 (x ) > 2𝑀, contro la condizione x2 , x3 ∈ 𝐵2𝜀 . 3
2
Teorema 8.84. Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝐴 un sottoinsieme aperto di 𝑋 e 𝑓 ∶ 𝐴 → ℝ una funzione convessa. Se 𝑓 è superiormente limitata in un intorno di un punto x0 ∈ 𝐴, allora 𝑓 è continua in 𝐴 e lipschitziana sui sottoinsiemi compatti di 𝐴.
Dimostrazione. Per il Teorema 8.83, 𝑓 è localmente lipschitziana e quindi continua in ogni punto di 𝐴. Sia ora 𝐾 ⊂ 𝐴 compatto e supponiamo, per assurdo che 𝑓 non sia lipschitziana su 𝐾. Dunque, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esistono x𝑛 , y𝑛 ∈ 𝐾 tali che |𝑓 (x𝑛 ) − 𝑓 (y𝑛 )| > 𝑛‖x𝑛 − y𝑛 ‖. Per la compattezza di 𝐾, esiste una sottosucces𝑛 𝑛 sione di indici (𝑛𝑘 )𝑘 tale che x 𝑘 → x̂ ∈ 𝐾 e y 𝑘 → ŷ ∈ 𝐾. Sia intanto x̂ = y;̂ per ipotesi, esiste una palla 𝐵(x,̂ 𝑟) in cui 𝑓 è lipschitziana con una costante 𝐿. 𝑛 𝑛 𝑛 𝑛 Si ottiene dunque che è definitivamente |𝑓 (x 𝑘 ) − 𝑓 (y 𝑘 )| ≤ 𝐿‖x 𝑘 − y 𝑘 ‖, ma ciò contraddice il modo con cui sono stati presi i punti x𝑛 e y𝑛 . Se poi è x̂ ≠ y,̂ 𝑛 𝑛 si ottiene |𝑓 (x 𝑘 ) − 𝑓 (y 𝑘 )| → +∞, contro il fatto che 𝑓 , essendo continua, è limitata su 𝐾. Possiamo finalmente provare il risultato annunciato nell’Osservazione 8.81
Teorema 8.85. Siano 𝑋 uno spazio normato di dimensione finita 𝑛, 𝐴 un sottoinsieme aperto di 𝑋 e 𝑓 ∶ 𝐴 → ℝ una funzione convessa. Allora 𝑓 è lipschitziana su ogni sottoinsieme compatto di 𝐴 ed è quindi continua in 𝐴. Dimostrazione. Non è restrittivo supporre 0 ∈ 𝐴. Detta {e1 , … , e𝑛 } una base di 𝑋, esiste un 𝛼 > 0 tale che 𝑉 ∶= co{0, 𝛼e1 , … , 𝛼e𝑛 } ⊆ 𝐴.
Si vede facilmente che è 𝑉 ′ ∶= int 𝑉 ≠ ∅. Ogni x ∈ 𝑉 può essere espresso nella forma x = 𝜆0 0 + 𝜆1 𝛼e1 + ⋯ + 𝜆𝑛 𝛼e𝑛 , con i 𝜆𝑖 ≥ 0 e ∑𝑛𝑖=0 𝜆𝑖 = 1. Quindi, per i Lemma 8.79, si ha 𝑓 (x) ≤ 𝜆0 𝑓 (0) +
𝑛
∑ 𝑖=1
𝜆𝑖 𝑓 (𝛼e𝑖 ) ≤ max{𝑓 (0), 𝑓 (𝛼e1 ), … , 𝑓 (𝛼e𝑛 )}.
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
430
Ne consegue che 𝑓 è superiormente limitata sull’aperto 𝑉 ′ , da cui la tesi per i Teoremi 8.83 e 8.84. Osservazione 8.86. L’esempio prodotto nell’Osservazione 8.81 mostra che, se la dimensione dello spazio 𝑋 è infinita, esistono funzioni convesse di 𝑋 in ℝ che, non essendo continue, risultano illimitate su qualunque sottoinsieme aperto di 𝑋. (cfr. Teorema 8.84 e Proposizione 4.46.2.) ◁ Come ulteriore proprietà delle funzioni convesse, mostriamo ora una generalizzazione parziale (non c’è unicità) del teorema della proiezione negli spazi di Hilbert (Teorema 5.41) nel caso degli spazi di Banach riflessivi.
Teorema 8.87 (Sugli elementi di minima distanza negli spazi riflessivi). Siano 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo e 𝐶 ⊆ 𝑋 un insieme non vuoto, chiuso e convesso. Allora, per ogni x ∈ 𝑋, esiste un elemento x𝐶 ∈ 𝐶 che realizza la minima distanza da x. Dimostrazione. Fissiamo un x ∈ 𝑋. Sia 𝑑 ∶= inf {‖c − x‖ ∶ c ∈ 𝐶} la distanza di x da 𝐶. Consideriamo la funzione 𝑓 ∶ 𝐶 → ℝ definita da 𝑓 (y) ∶= ‖y − x‖.
Tale funzione è convessa (segue dalla convessità della norma). Sia ora 𝛼 un numero reale e consideriamo l’insieme 𝐶𝛼 ∶= {y ∈ 𝐶 ∶ 𝑓 (y) ≤ 𝛼} .
Tale insieme è chiuso in 𝑋 rispetto alla topologia della norma, in quanto controimmagine di un chiuso tramite una funzione continua (qui si usa anche il fatto che l’insieme 𝐶 sia chiuso). Inoltre, esso è limitato, dato che è contenuto in 𝐵[x, 𝛼], e convesso (cfr. l’Osservazione 8.80). Per il Teorema 7.131, l’insieme 𝐶𝛼 è un compatto di 𝑋 (e quindi di 𝐶) rispetto alla topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ). Ci troviamo quindi esattamente nelle condizioni della versione del Teorema di Weierstrass data dal Corollario 8.66 e concludiamo che esiste x𝐶 ∈ 𝐶 tale che ‖x − x𝐶 ‖ = 𝑑.
Chiaramente, quando sia x = 0, il Teorema 8.87 garantirà l’esistenza di elementi di minima norma in ogni insieme che sia non vuoto, chiuso e convesso in uno spazio di Banach riflessivo. Da un certo punto di vista, questo è il miglior risultato che si possa ottenere sotto le ipotesi considerate. Infatti, il banale Esempio 5.48 del piano con la norma ‖⋅‖1 mostra che, in generale, l’unicità dell’elemento di minima distanza non può essere garantita, mentre l’Esempio 5.45 mostra che il risultato di esistenza non sussiste se lo spazio non è riflessivo (cfr. Osservazione 5.46). Un’attenta lettura della dimostrazione del Teorema 8.87 mostra che la proprietà che abbiamo effettivamente utilizzato è stata la semicontinuità inferiore della norma rispetto alla topologia debole. Questo fatto può essere visto anche come conseguenza del seguente teorema:
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
431
Teorema 8.88. Siano 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo, 𝐷(⊆ 𝑋) chiuso e convesso, 𝑓 ∶ 𝐷 → ℝ una funzione convessa. Se 𝑓 è continua (rispetto alla topologia forte), allora essa è anche semicontinua inferiormente rispetto alla topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ).
Dimostrazione. Dato 𝛼 ∈ ℝ, poniamo 𝐷𝛼 ∶= {y ∈ 𝐷 ∶ 𝑓 (y) ≤ 𝛼}. Per la continuità di 𝑓 , tale insieme è chiuso in 𝐷 ed è pertanto anche un chiuso di 𝑋; inoltre, dalla convessità di 𝑓 e dell’insieme 𝐷, segue che 𝐷𝛼 è anche convesso. Il Teorema 7.125 assicura che 𝐷𝛼 è debolmente chiuso in 𝑋. D’altra parte, anche l’insieme 𝐷 è debolmente chiuso in 𝑋 (per lo stesso teorema). Quindi, 𝐷𝛼 è un chiuso in 𝐷 rispetto alla topologia debole. La Proposizione 8.64.2 permette di concludere che 𝑓 è debolmente semicontinua inferiormente. La nozione di funzione coerciva ricordata nell’Esempio 6.62 per le funzioni da ℝ𝑛 a ℝ si estende banalmente al caso dei funzionali definiti in spazi normati. Precisamente, si dice che una funzione 𝑓 ∶ 𝐷(⊆ 𝑋) → ℝ, con 𝑋 spazio normato e 𝐷 illimitato, è coerciva se si ha lim‖x‖→∞ 𝑓 (x) = +∞, dove con tale scrittura si intende ovviamente che, per ogni 𝑀 ∈ ℝ, esiste 𝐾 > 0 tale che, da x ∈ 𝐷 e ‖x‖ > 𝐾 segue 𝑓 (x) > 𝑀. Come corollario del Teorema 8.88, possiamo enunciare il seguente
Teorema 8.89. Siano 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo, 𝐷(⊆ 𝑋) chiuso e convesso, 𝑓 ∶ 𝐷 → ℝ una funzione continua e convessa. Allora 𝑓 possiede minimo su ogni sottoinsieme chiuso, limitato e convesso di 𝐷. In particolare, se 𝐷 è illimitato e 𝑓 è coerciva, allora 𝑓 ha minimo assoluto su 𝐷.
Dimostrazione. Sia 𝐸 ⊆ 𝐷 un chiuso, limitato e convesso. Per il Teorema 7.131, 𝐸 è debolmente compatto, mentre per il Teorema 8.88, 𝑓 è debolmente semicontinua inferiormente. Per il Teorema di Weierstrass 8.65, 𝑓 assume minimo su 𝐸. Il caso della funzione coerciva su un dominio illimitato si tratta in modo standard. Fissato x0 ∈ 𝐷 illimitato, si prende un 𝑀 > |𝑓 (x0 )|. Esiste 𝐾 > 0 tale che da ‖x‖ > 𝐾 segue 𝑓 (x) > 𝑀. Dall’Osservazione 8.80 abbiamo che l’insieme 𝐷𝑀 ∶= {x ∈ 𝐷 ∶ 𝑓 (x) ≤ 𝑀} è convesso, oltre che chiuso. Essendo 𝐷𝑀 ⊆ 𝐵[0, 𝐾], esso è anche limitato. Per quanto precede, 𝑓 ha un minimo in 𝐷𝐾 che risulta essere minimo su tutto 𝐷. Col Teorema 8.89 ci siamo ricollegati al Teorema di Weierstrass 8.65 nell’ambiente degli spazi riflessivi e delle funzioni convesse. Si noterà tuttavia che abbiamo utilizzato proprietà di compattezza, nel senso dei ricoprimenti (per la topologia debole). È naturale ora chiedersi cosa si può dire relativamente alla compattezza sequenziale e alla corrispondente versione del Teorema di Weierstrass in cui si utilizzano le successioni minimizzanti. Ricordiamo intanto la
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
432
Definizione 8.90. Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝐷 un suo sottoinsieme non vuoto e ℱ ∶ 𝐷 → ℝ un funzionale. Una successione (x𝑛 )𝑛 ∈ 𝐷ℕ tale che ℱ (x𝑛 ) → inf𝐷 ℱ si dice minimizzante per ℱ su 𝐷. ◁ I risultati che seguiranno e daranno una risposta a tale questione fanno parte della Teoria di Eberlein-Smulian, di cui presentiamo alcuni dei teoremi principali. Prima di tutto, osserviamo che, se sapessimo che un insieme compatto nella topologia debole risulta metrizzabile, allora avremmo facilmente la compattezza sequenziale in virtù dei noti risultati sugli spazi metrici compatti (cfr. Corollario 7.20). Più precisamente, ricordiamo il Teorema 7.129 di BanachAlaoglu che ci garantisce che la palla unitaria chiusa 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1] ⊆ 𝑋 ∗ è compatta rispetto alla topologia debole*. Cosa possiamo dire, in questo caso, relativamente alla compattezza sequenziale? Cominciamo con l’osservare che: Lemma 8.91. Lo spazio 𝑋 ∗ con la topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) è metrizzabile se e solo se 𝑋 è di dimensione finita.
Dimostrazione. Infatti, è chiaro che se 𝑋 è di dimensione finita, e quindi isomorfo a ℝ𝑛 , lo spazio vettoriale duale 𝑋 ∗ coincide con il duale di ℝ𝑛 . Dalla (7.7) risulta che gli intorni di base di un funzionale lineare 𝑓0 ∶= ∑𝑛𝑖=1 𝑎𝑖 𝑥𝑖 ∈ (ℝ𝑛 )∗ nella topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) sono del tipo: 𝑉 (𝑓0 , 𝜀) ∶=
{
𝑓=
𝑛
∑ 𝑖=1
𝑏𝑖 𝑥𝑖 ∈ (ℝ𝑛 )∗ ∶ |𝑏𝑖 − 𝑎𝑖 | < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}
}
e, pertanto, sono intorni rispetto a una norma equivalente a quella euclidea. Viceversa, per dimostrare che la topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) non è metrizzabile se 𝑋 ha dimensione infinita, procediamo come segue. Supponiamo per assurdo che 𝑋 (e quindi anche 𝑋 ∗ ) abbia dimensione infinita e la topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) sia deducibile da una metrica 𝑑. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ consideriamo la palla aperta 𝐵(0, 𝑟𝑛 ) ∶= {𝑓 ∈ 𝑋 ∗ ∶ 𝑑(𝑓 , 0) < 𝑟𝑛 } , con 𝑟𝑛 ∶= 1/𝑛.
Per ipotesi, 𝐵(0, 𝑟𝑛 ) contiene un aperto di base per la topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋), cioè 𝐵(0, 𝑟𝑛 ) ⊇ 𝑉𝑛 , con 𝑉𝑛 ∶= {𝑓 ∈ 𝑋 ∗ ∶ |⟨𝑓 , x𝑖 ⟩| < 𝜀𝑛 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘𝑛 }} , (𝑛)
dove 𝜀𝑛 è un opportuno numero positivo e x1 , … , x𝑘𝑛 sono punti di 𝑋. Ripetendo lo stesso ragionamento utilizzato per provare la Proposizione 7.115.2, si (𝑛) dimostra l’esistenza di un funzionale 𝑓𝑛 ∈ 𝑋 ∗ tale che ⟨𝑓𝑛 , x𝑖 ⟩ = 0 per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑘𝑛 }. Senza perdita di generalità, possiamo anche supporre ‖𝑓𝑛 ‖ = 1, per ogni 𝑛. Consideriamo ora i funzionali 𝑔𝑛 ∶= 𝑛𝑓𝑛 ∈ 𝑋 ∗ . Si ha che (𝑛)
𝑔𝑛 ∈ 𝑉𝑛 ⊆ 𝐵(0, 𝑟𝑛 ),
(𝑛)
‖𝑔𝑛 ‖ → ∞.
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
433
Dalla prima relazione, si ha che 𝑔𝑛 → 0 rispetto alla distanza 𝑑 e quindi 𝑔𝑛 ⇀∗ 0. D’altra parte, per la seconda relazione di sopra, la successione (𝑔𝑛 )𝑛 è illimitata in norma; ciò contraddice la Proposizione 7.128.2. La dimostrazione appena prodotta è consistita nell’arrivare a un assurdo producendo una successione illimitata in 𝑋 ∗ . Questo fatto suggerisce di ricercare le proprietà di metrizzabilità riducendosi ai sottoinsiemi limitati rispetto alla norma di 𝑋 ∗ . Senza perdita di generalità, ci ridurremo alla palla chiusa unitaria. Abbiamo ora il seguente risultato. Teorema 8.92 (di metrizzabilità). Siano 𝑋 uno spazio di Banach e 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1] ⊆ 𝑋 ∗ la palla unitaria chiusa nello spazio duale. Se 𝑋 è separabile, allora 𝐵 è metrizzabile rispetto alla topologia debole*, esiste cioè una distanza su 𝐵 tale che la topologia ad essa associata coincide con 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) ristretta a 𝐵. Dimostrazione. Sia 𝐷 ⊆ 𝑋 un sottoinsieme denso e numerabile di 𝑋 e siano (x𝑛 )𝑛 gli elementi dell’insieme 𝐷 di norma minore o uguale a 1. Definiamo ora una distanza su 𝐵 ⊆ 𝑋 ∗ nel seguente modo: 𝑑(𝑓 , 𝑔) ∶=
+∞
1 |⟨𝑓 − 𝑔, x𝑛 ⟩|, ∑ 2𝑛 𝑛=1
∀𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐵.
Si vede facilmente che è 0 ≤ 𝑑(𝑓 , 𝑔) ≤ ‖𝑓 −𝑔‖, con 𝑑(𝑓 , 𝑔) > 0 se è 𝑓 ≠ 𝑔, e che 𝑑 è simmetrica. La diseguaglianza triangolare si ha immediatamente applicando quella del valore assoluto ad ogni singolo addendo. Lo scopo della dimostrazione è quello di verificare che, su 𝐵, la topologia generata da questa distanza coincide con la 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋). A tal fine, faremo vedere che, per un arbitrario elemento 𝑓0 ∈ 𝐵, gli intorni nelle due topologie coincidono. Sia 𝑉 un intorno di 𝑓0 per 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋). Senza perdita di generalità, possiamo assumere che 𝑉 sia un intorno di base e pertanto, dalla (7.7), sarà del tipo 𝑉 ∶= {𝑓 ∈ 𝐵 ∶ |⟨𝑓 − 𝑓0 , y𝑖 ⟩| < 𝜀′ , ∀𝑖 = 1, … , 𝑚} ,
per un certo 𝜀′ > 0, e in corrispondenza ad alcuni punti y1 , … , y𝑚 ∈ 𝑋 (distinti e non nulli). L’insieme appena definito si può anche scrivere come 𝑉 = {𝑓 ∈ 𝐵 ∶ |⟨𝑓 − 𝑓0 , z𝑖 ⟩| < 𝜀, ∀𝑖 = 1, … , 𝑚} ,
per z𝑖 ∶= y𝑖 /𝑀 e 𝜀 ∶= 𝜀′ /𝑀, con 𝑀 ∶= max{‖y𝑖 ‖}. In tal modo, l’intorno 𝑉 è ottenuto a partire da punti che stanno nella palla chiusa unitaria di 𝑋. Per la densità dei punti x𝑛 in 𝑋, abbiamo che, fissato un 𝛿 > 0 arbitrario, per ogni 𝑖 = 1, … , 𝑚, esiste un 𝑘𝑖 tale che ‖y𝑖 − x 𝑖 ‖ < 𝛿. 𝑘
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
434
Consideriamo l’intorno 𝑈 di 𝑓0 rispetto alla metrica 𝑑, dato dalla palla aperta di centro 𝑓0 e raggio 𝑟 > 0 (da determinarsi in seguito); è dunque 𝑈 ∶= {𝑓 ∈ 𝐵 ∶ 𝑑(𝑓 , 𝑓0 ) < 𝑟} .
Ci proponiamo di dimostrare che, scegliendo opportunamente 𝑟 (in funzione di 𝜀 e degli y𝑖 ), risulta 𝑈 ⊆ 𝑉 . Infatti, se 𝑓 ∈ 𝑈 , abbiamo +∞
1 |⟨𝑓 − 𝑓0 , x𝑛 ⟩| < 𝑟 ∑ 2𝑛 𝑛=1
e quindi, in particolare,
Ne segue che
𝑘 1 |⟨𝑓 − 𝑓0 , x 𝑖 ⟩| < 𝑟, 𝑘 𝑖 2
∀𝑖 = 1, … , 𝑚.
|⟨𝑓 − 𝑓0 , y𝑖 ⟩| ≤ |⟨𝑓 − 𝑓0 , y𝑖 − x 𝑖 ⟩| + |⟨𝑓 − 𝑓0 , x 𝑖 ⟩| < 2𝛿 + 𝑟2𝑘𝑖 𝑘
𝑘
e, pertanto, la tesi è raggiunta se prendiamo 𝛿 = 𝜀/4 e 𝑟 tale che 𝑟2𝑘𝑖 < 𝜀/2, per ogni 𝑖 = 1, … , 𝑚. Veniamo al viceversa. Supponiamo di fissare un intorno 𝑈 di 𝑓0 rispetto alla metrica 𝑑. Sia dunque 𝑈 ∶= {𝑓 ∈ 𝐵 ∶ 𝑑(𝑓 , 𝑓0 ) < 𝑟}, con 𝑟 > 0 prefissato. Ci proponiamo di dimostrare che, pur di prendere un naturale 𝑚 sufficientemente grande, si ha che 𝑊 ⊆ 𝑈 , per 𝑊 ∶= {𝑓 ∈ 𝐵 ∶ |⟨𝑓 − 𝑓0 , x𝑖 ⟩| < 𝑟/2, ∀𝑖 = 1, … , 𝑚} ,
intorno di 𝑓0 nella topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋). Sia 𝑓 ∈ 𝑊 . Si ha che +∞
𝑚
1 1 𝑑(𝑓 , 𝑓0 ) = |⟨𝑓 − 𝑓0 , x𝑛 ⟩| + |⟨𝑓 − 𝑓0 , x𝑛 ⟩| < ∑ 2𝑛 ∑ 2𝑛 𝑛=1 𝑛=𝑚+1 𝑚
+∞
𝑟 1 1 𝑟 1 < +2 < + 𝑚−1 < 𝑟, 𝑛 ∑ 2𝑛 2∑ 2 2 2 𝑛=1 𝑛=𝑚+1
pur di prendere 𝑚 sufficientemente grande.
Il lettore attento noterà l’analogia fra la precedente dimostrazione e quella del Teorema 5.38. È interessante osservare che sussiste anche l’implicazione opposta del Teorema 8.92. Teorema 8.93. Siano 𝑋 e 𝐵 come nel teorema precedente. Se 𝐵 è metrizzabile rispetto alla topologia debole*, allora 𝑋 è separabile.
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
435
Dimostrazione. Supponiamo che esista una distanza 𝑑 che generi la topologia debole∗ sulla palla 𝐵 ⊂ 𝑋 ∗ . Per ogni 𝑛, sia 1 𝑈𝑛 ∶= {𝑓 ∈ 𝐵 ∶ 𝑑(𝑓 , 0) < } . 𝑛
Per ipotesi, 𝑈𝑛 è un intorno di 0 anche per 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋) e pertanto contiene un intorno di base 𝑉𝑛 di tale topologia. In altri termini, per ogni 𝑛, esistono 𝜀𝑛 > 0 e un insieme finito di punti 𝐸𝑛 ⊂ 𝑋 tale che 𝑉𝑛 ∶= {𝑓 ∈ 𝐵 ∶ |⟨𝑓 , x⟩| < 𝜀𝑛 , ∀x ∈ 𝐸𝑛 } ⊆ 𝑈𝑛 .
Da tali inclusioni segue che
⋂ 𝑛≥1
(8.15)
𝑉𝑛 = {0}.
Definiamo ora il sottospazio vettoriale 𝑊 di 𝑋 generato dall’insieme numerabile 𝐸 ∶= ⋃𝑛≥1 𝐸𝑛 . Gli elementi di 𝑊 sono le combinazioni lineari finite, con coefficienti in ℝ, degli elementi di 𝐸. Esso contiene un sottoinsieme denso e numerabile costituito dalle combinazioni lineari finite, con coefficienti in ℚ, degli elementi di 𝐸. Quindi la tesi sarà raggiunta se dimostriamo che 𝑊 è denso in 𝑋. Consideriamo il sottospazio chiuso cl 𝑊 e supponiamo, per assurdo, che esista z ∈ 𝑋 ⧵ cl 𝑊 . Per una conseguenza del Teorema di Hann-Banach (cfr. Corollario 4.69) esiste 𝑔 ∈ 𝑋 ∗ tale che 𝑔(z) ≠ 0 e 𝑔(x) = 0 per ogni x ∈ cl 𝑊 . In particolare, avremo che ⟨𝑔, x⟩ = 0, ∀x ∈ 𝐸
e quindi 𝑔 ∈ 𝑉𝑛 , ∀𝑛 ≥ 1. Dalla (8.15) si ottiene che 𝑔 è il funzionale nullo su tutto 𝑋. Si ha così una contraddizione. Dal Teorema 8.92 e da quello di Banach-Alaoglu segue facilmente il:
Corollario 8.94. Sia (𝑓𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋 ∗ limitata rispetto alla sua norma naturale. Se 𝑋 è separabile, allora (𝑓𝑛 )𝑛 possiede una sottosuccessione convergente a un elemento di 𝑋 ∗ rispetto alla topologia 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋). Dimostrazione. Sia 𝐾 tale che ‖𝑓𝑛 ‖ ≤ 𝐾, ∀𝑛 ∈ ℕ. La successione (𝑓𝑛 /𝐾)𝑛 è contenuta in 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1](⊆ 𝑋 ∗ ). La palla 𝐵, munita della topologia debole*, è uno spazio sequenzialmente compatto, quindi esistono un elemento 𝑔 ∈ 𝐵 e una sottosuccessione (𝑓𝑘𝑛 /𝐾)𝑛 tali che 𝑓𝑘𝑛 /𝐾 ⇀∗ 𝑔.
Da ciò segue immediatamente che 𝑓𝑘𝑛 ⇀∗ 𝑓 ∶= 𝐾𝑔 (cfr. Proposizione 7.128.5). Si osservi, inoltre, che si ha ‖𝑓 ‖ ≤ 𝐾.
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
436
Segnaliamo che esistono degli esempi di spazi di Banach 𝑋 (non riflessivi e non separabili) per cui si può trovare una successione limitata (𝑓𝑛 )𝑛 in 𝑋 ∗ che non possiede alcuna sottosuccessione convergente nella topologia debole* (cfr. [9], pag. 77). Poiché la palla chiusa unitaria è compatta nella topologia debole*, si vengono in tal modo a costruire ulteriori esempi di spazi topologici compatti non sequenzialmente compatti. Questo fatto non deve sorprendere se si pensa che il Teorema di Banach-Alaoglu si dimostra utilizzando il Teorema di Tychonoff e che la topologia debole* è in sostanza una topologia di convergenza puntuale in uno spazio di funzioni e quindi non siamo molto distanti dal “Cubo di Hilbert” dell’Esempio 7.25. I teoremi appena visti mettono in evidenza l’importanza della separabilità dello spazio 𝑋. Per poter ora applicare il teorema di metrizzabilità alla topologia debole in uno spazio riflessivo, ricordando che questa viene a coincidere con la topologia debole* del biduale, abbiamo la necessità di utilizzare la separabilità di 𝑋 ∗ . Teorema 8.95. Sia 𝑌 uno spazio di Banach tale che 𝑌 ∗ è separabile. Allora 𝑌 è separabile. Dimostrazione. Assumiamo il caso non banale 𝑌 ≠ 0. Per la sua separabilità, esiste un sottoinsieme numerabile (𝑔𝑛 )𝑛 denso in 𝑌 ∗ . Ricordando che è ‖𝑓 ‖𝑌 ∗ = sup ⟨𝑓 , y⟩ = sup ⟨𝑓 , v⟩ ‖y‖≤1
‖v‖=1
(cfr. la (4.20) di pag. 176), dalle proprietà dell’estremo superiore segue che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esiste y𝑛 ∈ 𝑌 tale che ‖y𝑛 ‖ = 1,
⟨𝑔𝑛 , y𝑛 ⟩ ≥
1 ‖𝑔 ‖. 2 𝑛
Sia 𝑊 il sottospazio vettoriale di 𝑌 generato dagli y𝑛 . Per raggiungere la tesi, basterà verificare che 𝑊 è denso in 𝑌 . Chiaramente 𝑊 non è numerabile, ma possiede un sottoinsieme numerabile denso costituito dalle combinazioni lineari (finite) degli y𝑛 con coefficienti razionali. Se, per assurdo, fosse cl 𝑊 ⊂ 𝑌 , esisterebbero z ∈ 𝑌 ⧵ cl 𝑊 e 𝑓 ∈ 𝑌 ∗ tali che ⟨𝑓 , z⟩ ≠ 0 e ⟨𝑓 , w⟩ = 0, ∀w ∈ 𝑊 (cfr. Corollario 4.69). Fissiamo un 𝜀 > 0 arbitrario. Per la densità dei 𝑔𝑛 in 𝑌 ∗ , esiste un 𝑛 tale che ‖𝑓 − 𝑔𝑛 ‖ < 𝜀. Tenuto conto che 𝑓 si annulla su 𝑊 e, in particolare, sugli y𝑛 , si ottiene: 1 ‖𝑓 ‖ ≤ ‖𝑓 − 𝑔𝑛 ‖ + ‖𝑔𝑛 ‖ < 𝜀 + 2 × ‖𝑔𝑛 ‖ ≤ 2 ≤ 𝜀 + 2⟨𝑔𝑛 , y𝑛 ⟩ = 𝜀 + 2(⟨𝑔𝑛 − 𝑓 , y𝑛 ⟩ + ⟨𝑓 , y𝑛 ⟩) = = 𝜀 + 2⟨𝑔𝑛 − 𝑓 , y𝑛 ⟩ ≤ 𝜀 + 2‖𝑔𝑛 − 𝑓 ‖ × 1 = 3𝜀.
Quindi, per l’arbitrarietà di 𝜀, si ha ‖𝑓 ‖ = 0, da cui 𝑓 = 0, contro il fatto che è ⟨𝑓 , z⟩ ≠ 0.
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
437
Come conseguenza di questo teorema, abbiamo il seguente
Corollario 8.96. Sia 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo e separabile. Allora 𝑋 ∗ è separabile. Dimostrazione. Se 𝑋 è riflessivo e separabile, allora 𝑋 ∗∗ è separabile (essendo “identificabile” con 𝑋). Dal Teorema 8.95 si ha che è separabile anche 𝑋 ∗ . Possiamo ora enunciare un primo teorema di compattezza sequenziale.
Teorema 8.97. Sia 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo e separabile. Allora ogni successione limitata di 𝑋 possiede una sottosuccessione debolmente convergente in 𝑋. Dimostrazione. Sia (x𝑛 )𝑛 una successione limitata in 𝑋. Identificando 𝑋 con 𝑋 ∗∗ mediante lo stesso procedimento descritto nella dimostrazione del Teorema 7.130, possiamo pensare x𝑛 come un elemento 𝜑x𝑛 di 𝑋 ∗∗ mediante l’isomorfismo 𝐽 . Poiché 𝑋 è riflessivo e separabile, per il Corollario 8.96 risulta che 𝑋 ∗ è separabile. Il Corollario 8.94 assicura che (𝜑x𝑛 )𝑛 possiede una sottosuccessione convergente a un elemento 𝜉 ∈ 𝑋 ∗∗ rispetto alla topologia debole* 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ). Applichiamo ora 𝐽 −1 per passare da 𝑋 ∗∗ a 𝑋 e poniamo w ∶= 𝐽 −1 (𝜉). Nella dimostrazione del Teorema 7.130 si è fatto vedere che 𝐽 −1 è continua rispetto alle topologie 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ) per il dominio e 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) per il codominio. Pertanto, la successione (x𝑛 )𝑛 possiede una sottosuccessione convergente a w rispetto alla topologia 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ). Il prossimo passo consiste in un miglioramento tecnico di questo teorema, che ci permetta di togliere l’ipotesi di separabilità. L’idea si basa sul considerare il sottospazio chiuso di 𝑋 generato dai termini della successione (x𝑛 )𝑛 il quale risulta essere separabile anche se non lo è 𝑋. Per poter seguire questo schema dimostrativo, sarà però necessario risistemare alcuni risultati precedenti estendendoli al caso dei sottospazi chiusi degli spazi riflessivi. Seguendo il libro di Brezis ([9]), cominciamo dal seguente risultato: Teorema 8.98 (di Kakutani). Uno spazio di Banach 𝑋 è riflessivo se e solo se la sua palla chiusa unitaria è compatta rispetto alla topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ),
Dimostrazione. Per il Teorema 7.130, basta provare il “se”. Siano 𝑋 ∗∗ lo spazio biduale topologico di 𝑋 e 𝐽 ∶ 𝑋 → 𝑋 ∗∗ l’immersione canonica. Sappiamo già che 𝐽 è un isomorfismo lineare che è anche un’isometria di 𝑋 su 𝐽 (𝑋) (cfr. Definizione 4.62). Dobbiamo verificare che, sotto l’ipotesi che la palla chiusa unitaria 𝐵 ⊂ 𝑋 è compatta rispetto alla topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ), allora 𝐽 è suriettiva. Indichiamo con 𝐵 ″ la palla chiusa unitaria in 𝑋 ∗∗ . Per l’omogeneità positiva delle norme e la linearità di 𝐽 , è evidente che 𝐽 (𝑋) = 𝑋 ∗∗ se e solo se 𝐽 (𝐵) = 𝐵 ″ .
(8.16)
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
438
Per dimostrare la (8.16) utilizzeremo le topologie deboli e, per prima cosa, faremo vedere (Lemma di Goldstine [9]) che 𝐽 (𝐵) è un sottoinsieme denso in 𝐵 ″ rispetto alla topologia 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ). Siano 𝜑 ∈ 𝐵 ″ e 𝑊 un intorno di base di 𝜑 per la topologia 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ). Per definizione, è 𝑊 ∶= {𝜓 ∈ 𝑋 ∗∗ ∶ |⟨𝜓 − 𝜑, 𝑓𝑖 ⟩| < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}}
con 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 ∈ 𝑋 ∗ . Poniamo 𝑐𝑖 ∶= ⟨𝜑, 𝑓𝑖 ⟩ ∈ ℝ e sia (𝑎1 , … , 𝑎𝑛 ) un’𝑛-pla arbitraria di numeri reali. Dalla disuguaglianza 𝑛
𝑛
𝑛
𝑎𝑖 𝑐𝑖 = 𝑎𝑖 ⟨𝜑, 𝑓𝑖 ⟩ = ⟨𝜑, 𝑎𝑓 ≤ ∑ 𝑖 𝑖 ⟩| |∑ | |∑ | | 𝑖=1 𝑖=1 𝑖=1 ≤ ‖𝜑‖ ⋅
𝑛
𝑛
𝑎𝑖 𝑓𝑖 ≤ 𝑎𝑖 𝑓𝑖 , ‖∑ ‖ ‖∑ ‖ 𝑖=1 𝑖=1
che corrisponde alla Proposizione 7.124.2 del Lemma di Helly, possiamo concludere che esiste un elemento x ∶= x𝜀 ∈ 𝐵 tale che |⟨𝑓𝑖 , x⟩ − 𝑐𝑖 | = |⟨𝑓𝑖 , x⟩ − ⟨𝜑, 𝑓𝑖 ⟩| < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}.
Posto 𝜑x ∶= 𝐽 (x) ∈ 𝐽 (𝐵) e ricordando che ⟨𝜑x , 𝑔⟩ = ⟨𝑔, x⟩, ∀𝑔 ∈ 𝑋 ∗ , ci accorgiamo che la precedente disuguaglianza può essere scritta come |⟨𝜑x − 𝜑, 𝑓𝑖 ⟩| < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛},
da cui si conclude che 𝜑x ∈ 𝑊 e, pertanto, 𝑊 ∩ 𝐽 (𝐵) ≠ ∅. Poiché l’operatore 𝐽 ∶ 𝑋 → 𝑋 ∗∗ è continuo rispetto alle norme dei due spazi, esso (essendo lineare) è anche continuo da 𝑋 con la topologia 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) a 𝑋 ∗∗ con la topologia 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ), essendo quest’ultima meno fine di 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗∗∗ ). Dato che 𝐵 è debolmente compatto, 𝐽 (𝐵) è compatto e quindi chiuso rispetto alla 𝜎(𝑋 ∗∗ , 𝑋 ∗ ) (che è di Hausdorff). Dalla densità di 𝐽 (𝐵) in 𝐵 ″ , segue la (8.16) e quindi la tesi. Useremo il Teorema di Kakutani per dimostrare che un sottospazio chiuso di uno spazio riflessivo è anch’esso riflessivo. In altre parole, dato uno spazio di Banach riflessivo 𝑋 e un suo sottospazio chiuso 𝑌 , dimostreremo la riflessività di 𝑌 verificando la compattezza della palla unitaria di 𝑌 rispetto alla topologia debole. Osserviamo intanto che 𝑌 (dotato della stessa norma presente in 𝑋) è uno spazio di Banach e pertanto su 𝑌 possiamo definire la topologia debole 𝜎(𝑌 , 𝑌 ∗ ). D’altra parte, 𝑌 , come sottoinsieme di 𝑋, eredita la topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ). Quindi, la prima cosa da fare è confrontare tali topologie. Teorema 8.99. Siano 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo e 𝑌 un suo sottospazio vettoriale chiuso. Allora:
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
439
1. La topologia debole 𝜎(𝑌 , 𝑌 ∗ ) coincide con la restrizione su 𝑌 della topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ). 2. 𝑌 è riflessivo.
Dimostrazione. 1. Ricordiamo che un intorno di base di un punto y0 ∈ 𝑌 rispetto alla traccia di 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) è del tipo 𝑈 = {y ∈ 𝑌 ∶ |⟨𝑓𝑖 , y − y0 ⟩| < 𝜀, 𝑖 = 1, … , 𝑛} ,
con 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 ∈ 𝑋 ∗ (cfr. la (7.5)). Per lo stesso motivo, un intorno di base di y0 rispetto a 𝜎(𝑌 , 𝑌 ∗ ) è del tipo 𝑉 = {y ∈ 𝑌 ∶ |⟨𝑔𝑖 , y − y0 ⟩| < 𝜀, 𝑖 = 1, … , 𝑚} ,
con 𝑔1 , … , 𝑔𝑚 ∈ 𝑌 ∗ . Poiché la restrizione a 𝑌 di un 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ appartiene a 𝑌 ∗ e, viceversa, ogni 𝑔 ∈ 𝑌 ∗ si può prolungare ad un 𝑓 ∈ 𝑋 ∗ (cfr. Teorema 4.64), è facile concludere che gli intorni di base delle due topologie coincidono. 2. Per il Teorema di Kakutani, sarà sufficiente dimostrare che la palla chiusa unitaria 𝐵𝑌 ∶= {y ∈ 𝑌 ∶ ‖𝑦‖ ≤ 1}
è un compatto per la topologia 𝜎(𝑌 , 𝑌 ∗ ). Noi sappiamo già che la palla chiusa unitaria 𝐵 in 𝑋 è compatta in 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) (cfr. Teorema 7.130). Inoltre, 𝐵𝑌 = 𝐵 ∩ 𝑌 è un sottoinsieme chiuso e convesso di 𝐵 e, pertanto, è anche debolmente chiuso (cfr. Teorema 7.125) e quindi compatto per 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) e pertanto in 𝜎(𝑌 , 𝑌 ∗ ). In fine, possiamo perfezionare il Teorema 8.97 col seguente enunciato:
Teorema 8.100 (di Eberlein-Smulian). Sia 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo. Allora ogni successione limitata di 𝑋 possiede una sottosuccessione debolmente convergente in 𝑋.
Dimostrazione. Sia (x𝑛 )𝑛 una successione nello spazio 𝑋, limitata in norma e sia 𝑌 la chiusura in 𝑋 del sottospazio generato dagli x𝑛 . Le combinazioni lineari (finite) degli x𝑛 con coefficienti razionali costituiscono un sottoinsieme denso e numerabile di 𝑌 che risulterà pertanto essere uno spazio di Banach separabile. Lo spazio 𝑌 è anche riflessivo in quanto sottospazio chiuso di uno spazio riflessivo (cfr. la Proposizione 8.99.2). Per il Teorema 8.97 relativamente allo spazio 𝑌 , possiamo concludere che (x𝑛 )𝑛 possiede una sottosuccessione convergente a un punto z ∈ 𝑌 ⊆ 𝑋 relativamente alla topologia debole 𝜎(𝑌 , 𝑌 ∗ ). La Proposizione 8.99.1 garantisce che tale topologia coincide con la restrizione su 𝑌 della topologia debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) e quindi la successione (x𝑛 )𝑛 possiede una sottosuccessione convergente debolmente a z ∈ 𝑋.
8.4. Funzioni convesse e spazi riflessivi
440
Segnaliamo che sussiste anche l’implicazione opposta del teorema precedente; la relativa dimostrazione viene omessa perché richiederebbe ulteriori approfondimenti non banali di questa teoria (cfr. [9], Capitolo 3, Teorema 3.28). Grazie al Teorema di Eberlein-Smulian 8.100 siamo ora in grado di riconsiderare il problema dell’esistenza di minimo per un funzionale (non necessariamente lineare) definito su un sottoinsieme di uno spazio riflessivo, utilizzando un approccio di tipo “sequenziale”. Siano 𝑋 uno spazio normato, 𝐷 ⊆ 𝑋 un sottoinsieme non vuoto e ℱ ∶ 𝐷 → ℝ un funzionale. Siamo interessati al problema della ricerca di minimo per ℱ su 𝐷. Detto 𝛽 ∶= inf ℱ (𝐷) = inf𝐷 ℱ , esiste in 𝐷 una successione (x𝑛 )𝑛 minimizzante per ℱ . Vediamo ora di raccogliere tutte le informazioni ottenute in questo Paragrafo per poter concludere che la successione minimizzante possiede una sottosuccessione convergente (rispetto a qualche topologia) ad un punto di 𝐷 su cui ℱ raggiunge il minimo. Questo problema verrà risolto negli spazi riflessivi usando le topologie deboli. Definizione 8.101. Un funzionale ℱ ∶ 𝐷 → ℝ, con 𝐷 sottoinsieme non vuoto di uno spazio normato 𝑋, si dice debolmente sequenzialmente semicontinuo inferiormente se, per ogni w ∈ 𝐷, vale la seguente implicazione (∀(x𝑛 )𝑛 ∈ 𝐷ℕ )(x𝑛 ⇀ w ⇒ ℱ (w) ≤ lim inf ℱ (x𝑛 )). 𝑛→∞
◁
Esempi di funzioni debolmente sequenzialmente semicontinue inferiormente sono la norma (cfr. Proposizione 7.112.3) e, più in generale, le funzioni convesse su 𝐷 che sono continue rispetto alla norma. Teorema 8.102. Siano 𝑋 uno spazio di Banach riflessivo, 𝐷 ⊆ 𝑋 chiuso e convesso e ℱ ∶ 𝐷 → ℝ un funzionale debolmente sequenzialmente semicontinuo inferiormente. Sia poi (x𝑛 )𝑛 una successione minimizzante per ℱ su 𝐷. Allora, se la successione (x𝑛 )𝑛 è limitata, essa possiede una sottosuccessione debolmente convergente ad un punto di minimo per ℱ su 𝐷.
Dimostrazione. La successione (x𝑛 )𝑛 , essendo limitata, possiede una sottosuccessione debolmente convergente ad un punto w ∈ 𝑋 (Teorema di EberleinSmulian). Essendo l’insieme 𝐷 chiuso e convesso, esso è anche debolmente chiuso (Teorema 7.125) e quindi w ∈ 𝐷. In fine, per raggiungere la tesi basta osservare che ℱ (x𝑛 ) → inf ℱ (𝐷), in quanto (x𝑛 )𝑛 è una successione minimizzante e, inoltre, per la debole semicontinuità inferiore, è ℱ (w) ≤ lim inf𝑛→∞ ℱ (x𝑛 ) = lim𝑛→∞ ℱ (x𝑛 ) = inf ℱ (𝐷), da cui ℱ (w) = min ℱ (𝐷).
9
Estensioni del concetto di compattezza 9.1 Spazi pseudo-compatti Nei capitoli precedenti abbiamo visto il classico Teorema di Weierstrass 7.39, come pure due sue varianti, Teoremi 8.65 e 8.67. Data l’importanza di questo teorema per le sue applicazioni in Analisi Matematica, sorge in modo abbastanza naturale la domanda se esistano delle versioni di tale teorema senza l’ipotesi di compattezza. Da questo punto di vista, diventa interessante il concetto di pseudo-compattezza che andiamo ora a introdurre formalmente.
Definizione 9.1. Si dice che uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è pseudo-compatto se ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ è limitata. ◁ Questo concetto è stato introdotto nel 1948 in [28] dal matematico americano Edwin Hewitt, importante soprattutto per i suoi studi sugli spazi delle funzioni continue e in Analisi Armonica. La definizione originaria è stata data per spazi di Tychonoff, ovvero completamente regolari. Infatti, se si studia lo spazio delle funzioni continue da uno spazio topologico 𝑋 in ℝ, è utile avere come dominio uno spazio che garantisce l’esistenza di funzioni continue che separano i punti dai chiusi. Si tenga quindi presente che in molti testi, quando si parla di spazi pseudo-compatti, si intende che tali spazi siano completamente regolari. Qui preferiamo dare una definizione più generale. Dal Teorema 8.65 segue immediatamente che ogni spazio numerabilmente compatto è pseudo-compatto (cfr. Proposizione 9.3.1). Inoltre, come conseguenze immediate del Teorema 7.12 e della definizione di compattezza, si ha che tutti gli spazi sequenzialmente compatti e tutti gli spazi compatti sono pseudo-compatti. Un primo controesempio è il seguente:
Esempio 9.2. Sia 𝑋 un insieme infinito con la topologia del punto speciale (cfr. Esempio 1.113). Pertanto, si fissa un punto 𝑝 ∈ 𝑋 e si considera la topologia 𝜏 in cui gli aperti sono, oltre al vuoto, tutti e soli i sottoinsiemi che contengono 𝑝. Si vede subito che lo spazio (𝑋, 𝜏) non è numerabilmente compatto. Sia, infatti, 𝑌 un sottoinsieme numerabile di 𝑋 non contenente 𝑝 e consideriamo il ricoprimento numerabile fatto dagli aperti 𝐴𝑦 ∶= {𝑦} ∪ (𝑋 ⧵ 𝑌 ), al variare 441
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di 𝑦 in 𝑌 . Questo ricoprimento non ammette sottoricoprimenti finiti. Ne viene che lo spazio non è nemmeno sequenzialmente compatto. Per constatarlo direttamente, basta prendere una successione di punti, a due a due distinti e diversi da 𝑝, questa è priva di sottosuccessioni convergenti. La famiglia 𝒜 ∶= {𝐴𝑦 ∶ 𝑦 ∈ 𝑌 } non possiede alcun raffinamento localmente finito. Infatti, se ℬ ∶= {𝐵𝑦 ∶ 𝑦 ∈ 𝑌 } è un suo raffinamento aperto (che, senza perdita di generalità, possiamo pensare preciso), per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , si ha {𝑦, 𝑝} ⊆ 𝐵𝑦 . Quindi, se 𝐸 è un qualunque intorno (aperto) di 𝑝, cioè 𝑝 ∈ 𝐸, 𝐸 ha intersezione non vuota con tutti i 𝐵𝑦 . Si conclude che (𝑋, 𝜏) non è paracompatto. D’altra parte, lo spazio (𝑋, 𝜏) è pseudo-compatto. Sia, infatti 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua, con 𝑓 (𝑝) ∶= 𝑧 ∈ ℝ. Posto 𝐴′ ∶= ℝ ⧵ {𝑧} si ha che 𝐴 ∶= 𝑓 −1 (𝐴′ ) è un aperto non contenente 𝑝; è dunque 𝐴 = ∅ e quindi si conclude che 𝑓 è costante. ◁
L’esempio appena visto non è molto soddisfacente perché lo spazio (𝑋, 𝜏) non è neanche 𝑇1 . Vedremo in seguito degli esempi più complessi, ma anche più consistenti (cfr. Esempi 9.10, 9.17). Per cominciare, presentiamo alcuni classici risultati sulla pseudo-compattezza. Teorema 9.3. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Se 𝑋 è numerabilmente compatto, allora è pseudo-compatto. 2. Se 𝑋 è normale (e quindi 𝑇2 ), allora 𝑋 è pseudo-compatto se e solo se è numerabilmente compatto.
Dimostrazione. 1. Dal Teorema di Weierstrass riferito agli spazi numerabilmente compatti (cfr. Teorema 8.65) segue immediatamente che ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ è limitata, visto che 𝑓 (𝑋) ha massimo e minimo. 2. Basta ovviamente dimostrare il “solo se”. Sia 𝑋 uno spazio normale e pseudo-compatto e supponiamo, per assurdo, che non sia numerabilmente compatto. Per il Teorema 7.11, in 𝑋 non vale la proprietà di BolzanoWeierstrass. Esiste pertanto un sottoinsieme infinito 𝑌 di 𝑋 privo di punti di 𝜔-accumulazione. Da ciò segue che esiste un insieme numerabile 𝑍 ∶= + {𝑧𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ } ⊆ 𝑌 privo di punti di accumulazione (cfr. Teorema 1.79). Consideriamo ora la funzione 𝑔 ∶ 𝑍 → ℝ definita da 𝑔(𝑧𝑛 ) ∶= 𝑛. Poiché 𝑋 è 𝑇2 , la topologia indotta su 𝑍 è quella discreta e quindi 𝑔 è continua su 𝑍. Inoltre, l’insieme 𝑍 è chiuso perché coincide con l’insieme dei suoi punti aderenti. Possiamo ora applicare il Teorema di estensione di Tietze 2.101 che ci assicura l’esistenza di una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ che prolunga 𝑔. Per costruzione, 𝑓 è illimitata, contro l’ipotesi di pseudo-compattezza. Da ciò segue immediatamente il Corollario 9.4. Uno spazio metrico è pseudo-compatto se e solo se è compatto.
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Analogamente al Teorema di compattezza 7.35, sussiste il seguente risultato:
Teorema 9.5. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑋 ′ , 𝜏 ′ ) e una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ′ . Allora, se 𝑋 è pseudo-compatto, è tale anche 𝑓 (𝑋).
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che esista una funzione 𝑔 ∶ 𝑓 (𝑋) → ℝ continua e illimitata. Allora è tale anche la funzione 𝑔 ∘ 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ, contro l’ipotesi su 𝑋. Poiché nella definizione di pseudo-compattezza intervengono le funzioni continue, è naturale sviluppare questo concetto in una classe di spazi dove sia possibile avere “molte” funzioni continue. Pertanto, fin dall’inizio col sopracitato articolo di Hewitt, si è trattata la pseudo-compattezza nell’ambito degli spazi completamente regolari. In effetti, come si è già detto, alcuni Autori, quando parlano di spazi pseudo-compatti, suppongono implicitamente che lo spazio sia completamente regolare. Noi preferiamo tener distinti questi casi e diremo esplicitamente di volta in volta quando ricorreremo alla completa regolarità. In questo modo ci si può anche accorgere che molte dimostrazioni di risultati sulla pseudo-compattezza enunciati nel caso degli spazi completamente regolari hanno validità più generale.
Teorema 9.6. In uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) le seguenti condizioni sono fra loro equivalenti. 1. 𝑋 è pseudo-compatto. 2. Ogni funzione continua da 𝑋 in ℝ ha massimo e minimo. 3. Ogni funzione continua da 𝑋 in ℝ ha immagine compatta.
Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Supponiamo, per assurdo, che esista una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ priva di minimo. Poiché però 𝑓 (𝑋) è limitato, il suo estremo inferiore 𝜆 è finito. Ne viene che la funzione 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑔(𝑥) ∶= 1/(𝑓 (𝑥)−𝜆) è continua ed ha immagine illimitata. Si ha così un assurdo. Analogamente per il caso del massimo. 2 ⇒ 3. Supponiamo, ancora per assurdo, che esista una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ con 𝑓 (𝑋) non compatto. Siccome, per ipotesi, 𝑓 ha massimo e minimo, ne viene che esisterà un numero reale 𝑐 ∈ cl 𝑓 (𝑋) ⧵ 𝑓 (𝑋), con min 𝑓 (𝑋) < 𝑐 < max 𝑓 (𝑋). Poiché in ogni intorno di 𝑐 esistono punti di 𝑓 (𝑋), possiamo supporre, senza perdita di generalità, che per ogni 𝜀 > 0 esistano punti di 𝑓 (𝑋) nell’intervallo ]𝑐, 𝑐 + 𝜀[. Consideriamo ora i due aperti di 𝑋 𝐴′ ∶= 𝑓 −1 (] − ∞, 𝑐[) e 𝐴″ ∶= 𝑓 −1 (]𝑐, +∞[). I due insiemi sono chiaramente non vuoti e disgiunti e ricoprono 𝑋. Inoltre si ha 𝑐 = inf 𝑓 (𝐴″ ) con 𝑓 (𝐴″ ) privo di minimo. Definiamo in fine la funzione 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ espressa da 𝑔(𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥) per ogni 𝑥 ∈ 𝐴″ e 𝑔(𝑥) ∶= 𝑐 + 1 per ogni 𝑥 ∈ 𝐴′ . Chiaramente le restrizioni di 𝑔 ad 𝐴′ e 𝐴″ sono continue; 𝑔 risulta continua in 𝑋 per il Teorema 2.15. Per costruzione, 𝑔 è priva di minimo. 3 ⇒ 1. Ovvio, dato che i compatti di ℝ sono limitati.
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Teorema 9.7. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico completamente regolare. Le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. 𝑋 è pseudo-compatto. 2. Ogni famiglia localmente finita di aperti non vuoti è finita. 3. Ogni ricoprimento aperto localmente finito ammette un sottoricoprimento finito. Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Supponiamo, per assurdo, che in uno spazio pseudocompatto esita una famiglia 𝒜 localmente finita di aperti non vuoti che non è finita. Senza perdita di generalità, potremo supporre 𝒜 ∶= {𝐴𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }. Per ogni 𝑛, prendiamo un punto 𝑥𝑛 ∈ 𝐴𝑛 e consideriamo il chiuso 𝐶𝑛 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐴𝑛 . La completa regolarità di 𝑋 assicura l’esistenza di una funzione continua 𝑔𝑛 ∶ 𝑋 → [0, 1] che separa il punto dal chiuso. Assumiamo per comodità che sia 𝑔𝑛 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝐶𝑛 e 𝑔𝑛 (𝑥𝑛 ) = 1. (In riferimento alla Definizione 2.102, basterebbe prendere la funzione 1 − 𝑓 di tale definizione.) Consideriamo ora la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, +∞] data da 𝑓 (𝑥) ∶=
+∞
∑ 𝑛=1
𝑛𝑔𝑛 (𝑥).
Poiché la famiglia 𝒜 è localmente finita, per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, esiste un aperto 𝑈𝑧 contenente 𝑧 che interseca un numero finito di 𝐴𝑛 . Si vede così che, sempre per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, 𝑓 (𝑧) si ottiene sommando un numero finito di termini non nulli; ciò prova che 𝑓 (𝑧) ∈ ℝ. Sempre per lo stesso ragionamento, si ha che 𝑓 ristretta a 𝑈𝑧 è somma finita di funzioni continue e quindi è continua in 𝑧. (Il ragionamento è analogo a quanto visto in occasione dello studio delle partizioni dell’unità.) Dall’Osservazione 2.14 si ha la continuità di 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, +∞[ in ogni punto di 𝑋. In fine, per costruzione, 𝑓 (𝑥𝑛 ) ≥ 𝑛 e quindi 𝑓 non è limitata. 2 ⇒ 3. Ovvio. 3 ⇒ 1. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua. Per ogni 𝑛 ∈ ℤ, sia 𝐴𝑛 ∶= 𝑓 −1 (]𝑛 − 1, 𝑛 + 1[). Verifichiamo che la famiglia 𝒜 ∶= {𝐴𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℤ} è un ricoprimento aperto di 𝑋 localmente finito. Che gli insiemi siano aperti e costituiscano un ricoprimento è ovvio. Per verificare la locale finitezza. fissiamo un elemento arbitrario 𝑧 ∈ 𝑋 e consideriamo il valore 𝑓 (𝑧). Per costruzione, 𝑓 (𝑧) può appartenere al più a due intervalli del tipo 𝐼𝑛 ∶= ]𝑛 − 1, 𝑛 + 1[. poiché questi intervalli sono aperti, esisterà un 𝜀 > 0 tale che l’intervallo 𝐽 ∶= ]𝑓 (𝑧) − 𝜀, 𝑓 (𝑧) + 𝜀[ è contenuto in al più due intervalli del tipo 𝐼𝑛 ed è disgiunto da tutti gli altri. Ne viene che l’insieme 𝑈𝑧 ∶= 𝑓 −1 (𝐽 ) è un aperto contenente 𝑧 che interseca al più due insiemi della famiglia 𝒜 . Si è così verificato che la famiglia è localmente finita. Dall’ipotesi, segue ora che esiste un sottoricoprimento finito 𝐴𝑛1 , … , 𝐴𝑛𝑘 di 𝑋. Si ottiene immediatamente che è 𝑓 (𝑋) ⊆ [𝑚 − 1, 𝑀 + 1], dove 𝑚 e 𝑀 sono rispettivamente il minimo e il massimo dell’insieme {𝑛1 , … , 𝑛𝑘 }.
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Osserviamo che nell’ultima dimostrazione l’ipotesi che lo spazio sia completamente regolare è stata utilizzata solo nell’implicazione da 1 a 2. (Abbiamo addirittura usato solo l’assioma 𝑇 1 .) 3
2
Corollario 9.8. Ogni spazio topologico completamente regolare, paracompatto e pseudo-compatto è compatto. Dimostrazione. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } un ricoprimento aperto di 𝑋. Per l’ipotesi di paracompattezza, esiste un raffinamento aperto localmente finito; esiste cioè una famiglia di aperti ℬ ∶= {𝐵𝛽 ∶ 𝛽 ∈ 𝐽 ′ } che ricopre 𝑋 e tale che, per ogni 𝛽 ∈ 𝐽 ′ , esiste un 𝛼 ∈ 𝐽 con 𝐵𝛽 ⊆ 𝐴𝛼 . Inoltre la famiglia ℬ è localmente finita. Senza perdita di generalità, possiamo supporre tutti i 𝐵𝛽 non vuoti, visto che ricoprono 𝑋. Per il teorema precedente (caso 1 ⇒ 2), sappiamo che la famiglia ℬ è finita. A questo punto la tesi è ovvia. Taluni Autori danno agli spazi con la Proprietà 2 del Teorema 9.7 il nome di spazi lightly compact (leggermente compatti). Un’ulteriore conseguenza del Teorema 9.7 è data dal seguente risultato che ricorda il Teorema di Cantor sulle successioni decrescenti di insiemi chiusi. Teorema 9.9. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico completamente regolare. Le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. 𝑋 è pseudo-compatto. 2. Data una successione di aperti non vuoti decrescente per inclusione, l’intersezione delle loro chiusure è diversa dal vuoto. 3. Data una famiglia numerabile di aperti con la proprietà dell’intersezione finita, l’intersezione delle chiusure è diversa dal vuoto.
Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Supponiamo 𝑋 pseudo-compatto e consideriamo una successione (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti non vuoti tali che 𝐴𝑛 ⊇ 𝐴𝑛+1 . Se la famiglia degli 𝐴𝑛 è localmente finita, allora essa è finita per il Teorema 9.7 e quindi addirittura l’intersezione degli 𝐴𝑛 coincide con uno di tali insiemi ed è non vuota. Supponiamo dunque che la famiglia non sia localmente finita. Esiste pertanto un punto 𝑧 ∈ 𝑋 tale che ogni suo intorno interseca infiniti 𝐴𝑛 e anzi (per il fatto che la successione è decrescente) interseca tutti gli 𝐴𝑛 . Ne viene che 𝑧 ∈ ⋂+∞ 𝑛=1 cl 𝐴𝑛 . 2 ⇒ 3. Consideriamo una famiglia numerabile (successione) (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti non vuoti che gode della proprietà dell’intersezione finita. Ponendo: 𝑈1 ∶= 𝐴1 , 𝑈2 ∶= 𝐴1 ∩ 𝐴2 , …, 𝑈𝑛 ∶= 𝐴1 ∩ ⋯ ∩ 𝐴𝑛 , …, si ottiene una successione di aperti non vuoti e decrescente per inclusione. Per ipotesi, l’intersezione delle chiusure degli 𝑈𝑛 è non vuota; è quindi tale anche quella delle chiusure degli 𝐴𝑛 . 3 ⇒ 1. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝐴𝑛 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ |𝑓 (𝑥)| > 𝑛}. Se, per assurdo, 𝑓 non è limitata, gli aperti 𝐴𝑛 sono tutti non vuoti e formano una famiglia numerabile decrescente per inclusione e che quindi ha la proprietà dell’intersezione finita. Per ipotesi, esiste 𝑧 ∈ ⋂+∞ 𝑛=1 cl 𝐴𝑛 . Poiché cl 𝐴𝑛 ⊆ {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ |𝑓 (𝑥)| ≥ 𝑛}, si ha che |𝑓 (𝑧)| ≥ 𝑛, ∀𝑛, che è assurdo.
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Osserviamo che nella dimostrazione dell’ultima implicazione del precedente teorema non si è fatto uso della completa regolarità dello spazio. La proprietà 3 è quindi condizione sufficiente ed è spesso utilizzata per verificare la pseudocompattezza degli spazi topologici. Ne diamo un esempio. Esempio 9.10. Sull’intervallo 𝑋 ∶= [0, 1] consideriamo, accanto a quella euclidea 𝜏𝑒 , anche la topologia 𝜏 generata dalla famiglia degli aperti di 𝜏𝑒 alla quale aggiungiamo l’insieme 𝐸 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐹 , con 𝐹 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } .
Questa topologia è chiaramente più fine (strettamente) di quella euclidea e pertanto è di Hausdorff. Osserviamo che in questa nuova topologia, l’insieme 𝐸 è un intorno aperto di 0; mentre tutti i punti diversi da 0 hanno gli stessi intorni di prima. Quindi, un punto 𝑝 ≠ 0 sta nella 𝜏-chiusura di un insieme se e solo se sta nella sua 𝜏𝑒 -chiusura. Per l’origine, questo non è vero. Infatti, 0 ∈ cl𝜏𝑒 𝐹 , ma 0 ∉ cl𝜏 𝐹 . Tuttavia, se 𝐴 un 𝜏-aperto, e 0 ∈ cl𝜏𝑒 𝐴, allora è anche 0 ∈ cl𝜏 𝐴. Se 0 ∈ 𝐴, la cosa è banale; sia dunque 0 ∉ 𝐴. Prendiamo un 𝜏-intorno 𝑈 di 0 del tipo 𝑈 ∶= [0, 𝜀[⧵𝐹 . Poiché, per ipotesi, 0 ∈ cl𝜏𝑒 𝐴, esiste un intervallo aperto 𝐼 ⊆ ]0, 𝜀[ ∩𝐴 (si tenga presente che, non contenendo 0, 𝐴 è aperto anche in 𝜏𝑒 ed è quindi unione di intervalli aperti). Ma allora 𝑈 ∩ 𝐴 ⊇ 𝐼 ⧵ 𝐹 ≠ ∅. Abbiamo così verificato che ogni 𝜏-intorno di 0 contiene punti di 𝐴 e che quindi 0 ∈ cl𝜏 𝐴. Come conseguenza di quanto dimostrato, possiamo concludere che, mentre non tutti i chiusi di 𝜏 sono 𝜏𝑒 -chiusi, tuttavia la cosa è vera per le 𝜏-chiusure di 𝜏-aperti. Possiamo ora verificare che lo spazio (𝑋, 𝜏) è pseudo-compatto, sfruttando l’implicazione 3 ⇒ 1 del Teorema 9.9 che, come precedentemente osservato, è valida in generale. A tale scopo, consideriamo una famiglia 𝒜 ∶= + {𝐴𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ } di 𝜏-aperti con la proprietà dell’intersezione finita e sia 𝒞 ∶= + {𝐶𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ } quella delle relative 𝜏-chiusure. Per quanto detto sopra, 𝒞 è una famiglia di chiusi nella topologia euclidea con la proprietà dell’intersezione finita. La 𝜏𝑒 -compattezza di [0, 1] implica che l’intersezione degli elementi di 𝒞 è non vuota. Proviamo che lo spazio non è numerabilmente compatto (e quindi nemmeno sequenzialmente compatto o compatto). A tal fine consideriamo ancora l’insieme 𝐹 sopra definito. Questo è infinito, ma privo di punti di accumulazione in 𝜏. Infatti, i punti del tipo 1/𝑛 sono isolati; i punti che stanno in ]0, 1] ⧵ 𝐹 non sono aderenti in nessuna delle due topologie; in fine, 0 ∉ cl𝜏 𝐹 perché è 𝐸 ∩ 𝐹 = ∅, con 𝐸 𝜏-intorno di 0. Mancando la proprietà di Bolzano-Weierstrass, non può sussistere nemmeno la numerabile compattezza (cfr. Teorema 7.11). Constatiamo, in fine, che lo spazio (𝑋, 𝜏) che sappiamo essere di Hausdorff non è regolare, mostrando che il punto 0 e il chiuso 𝐹 non possono essere separati da aperti. Sia 𝐴 un 𝜏-aperto contenete 0. 𝐴 dovrà contenere un insieme del tipo 𝑈 ∶= [0, 𝜀[ ∩𝐸; d’altra parte, ogni aperto 𝐵 contenente 𝐹
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deve contenere un intervallo aperto di centro 1/𝑛, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ e non può quindi avere intersezione vuota con 𝐴. ◁
Prima di proseguire, ricordiamo che date due funzioni 𝑔, ℎ ∶ 𝐸 → ℝ, dove 𝐸 è un arbitrario insieme non vuoto, si ha: (𝑔 ∨ ℎ)(𝑥) ∶= max{𝑔, ℎ}(𝑥) = 12 (𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥) + |𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|); (𝑔 ∧ ℎ)(𝑥) ∶= min{𝑔, ℎ}(𝑥) = 12 (𝑓 (𝑥) + 𝑔(𝑥) − |𝑓 (𝑥) − 𝑔(𝑥)|).
Pertanto, se 𝐸 è uno spazio topologico e 𝑔, ℎ sono continue, sono tali anche 𝑔 ∨ ℎ e 𝑔 ∧ ℎ (cfr. Definizione 2.10 e Teorema 2.11). Il Teorema 9.9 stabilisce che in uno spazio pseudo-compatto completamente regolare sussiste una forma più debole della proprietà espressa dal Lemma di Cantor 7.10. L’esempio precedente mostra che, in generale, il Lemma di Cantor non vale per spazi pseudo-compatti. Infatti, si considerino, unitamente all’insieme 𝐹 , gli insiemi 𝐹𝑘 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ≥ 𝑘}, con 𝑘 ∈ ℕ+ . Nella topologia 𝜏 definita nell’esempio, questi formano una successione decrescente di chiusi avente intersezione vuota. In tale esempio, tuttavia, lo spazio non è completamente regolare. Vedremo in seguito (cfr. Osservazione 9.18) che il Lemma di Cantor cade in difetto anche per spazi pseudo-compatti e completamente regolari. Un ulteriore confronto con il Lemma di Cantor per successioni decrescenti di chiusi si ha considerando la famiglia degli zero-insiemi (cfr. Definizione 2.113). Ciò risulta dal Teorema di Hewitt che vedremo fra un attimo e che caratterizza gli spazi pseudo-compatti come quelli spazi per cui il Lemma di Cantor vale per le successioni decrescenti di zero-insiemi. Ricordiamo che un sottoinsieme 𝐶 di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto zero-insieme se esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tale che 𝐶 = 𝑓 −1 ({0}) =∶ 𝒵 (𝑓 ). Ovviamente, tutti gli zero-insiemi sono chiusi. Ricordiamo che nella medesima definizione abbiamo chiamato perfettamente normali quegli spazi normali in cui i chiusi sono tutti e soli gli zero-insiemi. Inoltre il Corollario 2.112 caratterizza gli zero-insiemi negli spazi normali come tutti e soli i chiusi 𝐺𝛿 . La pseudo-compattezza permette di introdurre alcune ulteriori proprietà significative per gli zero-insiemi nella classe degli spazi completamente regolari. Cominciamo introducendo una notazione. Definizione 9.11. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Denotiamo con 𝒵 (𝑋) la famiglia degli zero-insiemi di 𝑋. ◁
Per comodità, assumiamo ∅ ∈ 𝒵 (𝑋). Infatti il vuoto è l’insieme degli zeri della funzione continua che vale costantemente 1. Inoltre, dato uno zeroinsieme 𝐶, non sarà restrittivo assumere che esso sia l’insieme degli zeri di una funzione continua da 𝑋 in [0, 1], in accordo con la Definizione 2.113. Basta sostituire 𝑓 con |𝑓 | ∧ 1. La famiglia 𝒵 (𝑋) ha delle proprietà simili a quelle dei chiusi. Lemma 9.12. La famiglia 𝒵 (𝑋) ha le seguenti proprietà:
9.1. Spazi pseudo-compatti 1. 2. 3. 4. 5.
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∅, 𝑋 ∈ 𝒵 (𝑋); è chiusa per unioni finite; è chiusa per intersezioni numerabili; Ogni elemento di 𝒵 (𝑋) è un chiuso 𝐺𝛿 . Se lo spazio è completamente regolare: a) ogni chiuso è intersezione di zero-insiemi; b) ogni singoletto che sia un 𝐺𝛿 è uno zero-insieme.
Dimostrazione. La 1 è ovvia. Passiamo alla 2. Data una 𝑛-pla 𝐶1 , … , 𝐶𝑛 ∈ 𝒵 (𝑋), e considerate funzioni continue 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 da 𝑋 in [0, 1] che si annullano, rispettivamente, nei 𝐶𝑖 , si ha che la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] definita da 𝑓 (𝑥) ∶= min{𝑓1 (𝑥), … , 𝑓𝑛 (𝑥)}, ∀𝑥 ∈ 𝑋 si annulla esattamente nell’unione dei 𝐶𝑖 . Per quanto detto a pag. 447, 𝑓 è continua. Per provare la 3, consideriamo una successione (𝐶𝑛 )𝑛 in 𝒵 (𝑋) e una successione (𝑓𝑛 )𝑛 di funzioni continue da 𝑋 in [0, 1] che si annullano rispettivamente nei chiusi 𝐶𝑛 . Definiamo poi la funzione 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1] ponendo 𝑔(𝑥) ∶=
𝑓𝑛 (𝑥) , ∀𝑥 ∈ 𝑋. ∑ 2𝑛 𝑛=1
𝑓 (𝑥) ∶=
𝑔𝑛 (𝑥) , ∀𝑥 ∈ 𝑋. ∑ 2𝑛 𝑛=1
+∞
È ovvio che la funzione 𝑔 è ben definita. Si ha che il termine generale della serie è maggiorato da 1/2𝑛 per cui 𝑔 è continua per il Criterio di Weierstrass 2.12. La funzione 𝑔 si annulla se e solo se si annullano tutti i termini della serie e quindi l’intersezione dei 𝐶𝑛 è uno zero-insieme. Verifichiamo la 4. Il ragionamento è sostanzialmente lo stesso di quello usato per il Corollario 2.112. Sia 𝐶 ∈ 𝒵 (𝑋) e supponiamo ∅ ≠ 𝐶 ≠ 𝑋 per evitare casi banali. Sia inoltre 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] una funzione continua per cui è 𝐶 = 𝑓 −1 ({0}). Ponendo ora 𝑉𝑛 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) < 1/𝑛} , ∀𝑛 ∈ ℕ+ , otteniamo una successione di aperti la cui intersezione coincide con 𝐶. Veniamo alla 5, supponendo d’ora in avanti che lo spazio sia completamente regolare e che 𝐶 sia un sottoinsieme chiuso di 𝑋. I casi 𝐶 = ∅ e 𝐶 = 𝑋 sono banali. Sia dunque ∅ ≠ 𝐶 ≠ 𝑋. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐶, esiste una funzione continua 𝑓𝑥 ∶ 𝑋 → ℝ che vale 0 nei punti di 𝐶 e 1 in 𝑥. Posto, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐶, 𝐶𝑥 ∶= 𝑓𝑥−1 ({0}), si ha subito 𝐶 = ⋂𝑥 𝐶𝑥 . Ciò prova la 5𝑎. In fine, per verificare la 5𝑏, consideriamo un singoletto {𝑧} che sappiamo essere chiuso perché lo spazio è 𝑇1 per ipotesi. Per evitare casi banali, supponiamo che 𝑧 non sia l’unico punto di 𝑋. Per ipotesi, il singoletto {𝑧} è un 𝐺𝛿 e quindi esiste una successione (𝑈𝑛 )𝑛 di intorni aperti di 𝑧 tale che l’intersezione di tutti gli 𝑈𝑛 si riduce al singoletto 𝑧. Per ogni 𝑛, consideriamo ora il chiuso 𝐶𝑛 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈𝑛 che non contiene il punto 𝑧. Per la completa regolarità, esiste una funzione continua 𝑔𝑛 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑔𝑛 (𝑧) = 0 e 𝑔𝑛 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐶𝑛 . Per ogni 𝑛, lo zero-insieme della funzione 𝑔𝑛 è contenuto in 𝑈𝑛 . In fine, definiamo la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] ponendo +∞
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Come prima, si ha che 𝑓 è ben definita e continua per il Criterio di Weierstrass 2.12. Inoltre la 𝑓 si annulla nell’intersezione degli zero-insiemi delle 𝑔𝑛 che coincide con {𝑧}. In riferimento alla proprietà 3 del precedente lemma, osserviamo che un’intersezione arbitraria di zero-insiemi non è necessariamente uno zero-insieme e ciò anche se lo spazio è normale.
Esempio 9.13. Sia 𝑋 un insieme non numerabile in cui fissiamo un punto 𝑧. Introduciamo una topologia 𝜏 in 𝑋. Tutti i punti diversi da 𝑧 sono isolati. Una base di intorni aperti di 𝑧 è data dagli insiemi co-numerabili contenenti 𝑧. È ovvio che i singoli punti sono chiusi e che quindi lo spazio è 𝑇1 . Lo spazio è anche normale e quindi anche completamente regolare (cfr. Corollario 2.110). Infatti, dati due chiusi disgiunti 𝐶 e 𝐷, almeno uno dei due non contiene 𝑧 e quindi è clopen; sia esso 𝐶. Di conseguenza se prendiamo la funzione caratteristica di 𝐶, essa è continua e separa i due chiusi. D’altra parte, il singoletto {𝑧}, pur essendo un chiuso, non è un 𝐺𝛿 ; infatti, una qualunque famiglia numerabile di intorni aperti (di base) contenente 𝑧 ha intersezione non numerabile e quindi non può ridursi al singoletto {𝑧}. Per la Proprietà 4 del lemma precedente, {𝑧} non è uno zero-insieme. Consideriamo ora, per ogni 𝑥 ≠ 𝑧, la funzione che vale 1 in 𝑥 e 0 altrove. Essendo {𝑥} un clopen, tale funzione è continua e, pertanto, l’insieme 𝐴𝑥 ∶= 𝑋 ⧵ {𝑥} è uno zero-insieme contenente 𝑧. Intersecando tutti gli 𝐴𝑥 , con 𝑥 ≠ 𝑧, si ottiene il singoletto {𝑧} che non è uno zero-insieme. ◁ Sussiste il seguente risultato
Teorema 9.14 (di Hewitt). Uno spazio topologico completamente regolare (𝑋, 𝜏) è pseudo-compatto se e solo se, ogni successione decrescente (𝐶𝑛 )𝑛 di zero-insiemi non vuoti ha intersezione non vuota, se e solo se ogni famiglia numerabile di zero-insiemi con la proprietà dell’intersezione finita ha intersezione non vuota. Dimostrazione. Per un ragionamento analogo a quello utilizzato nel Teorema 9.9, basta provare la prima caratterizzazione (Esercizio!). Supponiamo che valga la proprietà tipo Cantor in 𝒵 (𝑋) e supponiamo, per assurdo, che lo spazio non sia pseudo-compatto. Esiste allora una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ e illimitata. Considerando, al posto della 𝑓 la funzione 𝑔 ∶= 𝑓 2 , otteniamo una funzione non negativa e superiormente illimitata. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝐶𝑛 il chiuso non vuoto definito da 𝐶𝑛 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑔(𝑥) ≥ 𝑛}. La funzione 𝑔𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑔𝑛 (𝑥) ∶= 1𝑛 min{𝑔(𝑥), 𝑛} assume valori in [0, 1] e vale 1 se e solo se 𝑥 ∈ 𝐶𝑛 . Quindi l’insieme 𝐶𝑛 è uno zero-insieme per la funzione continua 𝑓𝑛 ∶= 1 − 𝑔𝑛 . Abbiamo così ottenuto una successione (𝐶𝑛 )𝑛 decrescente per inclusione di elementi di 𝒵 (𝑋) che, per costruzione, ha intersezione vuota, contro l’ipotesi.
9.1. Spazi pseudo-compatti
450
Supponiamo, viceversa, che lo spazio sia pseudo-compatto e consideriamo una successione decrescente (𝐶𝑛 )𝑛 di zero-insiemi non vuoti. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , esiste una funzione continua 𝑓𝑛 ∶ 𝑋 → [0, 1] che si annulla in tutti e soli i punti di 𝐶𝑛 . Ponendo ora 𝑔(𝑥) ∶=
𝑓𝑛 (𝑥) , ∀𝑥 ∈ 𝑋, ∑ 2𝑛 𝑛=1 +∞
otteniamo una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1], il cui zero-insieme è l’intersezione dei 𝐶𝑛 (cfr. la dimostrazione del punto 3 del lemma precedente). Se, per assurdo, tale intersezione è vuota, la funzione 𝑔 non è mai nulla. Quindi ha un minimo positivo (cfr. Teorema 9.6); sia esso 𝑚. Sia ora 𝑛∗ tale che, ∑𝑛>𝑛∗ 1/2𝑛 < 𝑚. Otteniamo ora un assurdo nel seguente modo: prendiamo un punto 𝑝 ∈ 𝐶𝑛∗ ; per la monotonia della successione dei 𝐶𝑛 , si ha che 𝑝 ∈ 𝐶𝑛 per ogni 𝑛 ≤ 𝑛∗ e quindi 𝑓𝑛 (𝑝) = 0, ∀𝑛 ≤ 𝑛∗ . Dalla definizione di 𝑔(𝑥) segue ora che 𝑚 ≤ 𝑔(𝑝) =
𝑓𝑛 (𝑝) 𝑓𝑛 (𝑝) 1 = ≤ < 𝑚, ∑ 2𝑛 ∑∗ 2𝑛 ∑∗ 2𝑛 𝑛>𝑛 𝑛>𝑛 𝑛=1 ∞
che è l’assurdo cercato. Una conseguenza del Teorema 9.9 è l’ereditarietà della pseudo-compattezza, non su tutti i chiusi, ma su quelli regolarmente chiusi (cfr. Definizione 1.50). Che la pseudo-compattezza non si conservi, in generale, per i sottoinsiemi chiusi si vede dall’Esempio 9.10; infatti, l’insieme 𝐹 considerato nell’esempio è chiuso ma, come sottospazio, non è pseudo-compatto, dato che è infinito ed eredita la topologia discreta. Prima di presentare il teorema che assicura l’ereditarietà della pseudocompat-tezza per gli insiemi regolarmente chiusi, osserviamo che, come si constata facilmente, un chiuso 𝐶 è regolarmente chiuso se e solo se è la chiusura di un aperto (Esercizio!). Teorema 9.15. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico completamente regolare e 𝐶 un suo sottoinsieme regolarmente chiuso. Allora, se 𝑋 è pseudo-compatto, è tale anche 𝐶.
Dimostrazione. Per evitare casi banali, supporremo che 𝐶 sia un chiuso non vuoto tale che 𝐶 = cl 𝐴, con 𝐴 aperto (non vuoto). Prendiamo in 𝐶 una successione (𝐴𝑛 )𝑛 decrescente per inclusione di aperti relativamente a 𝐶 e non vuoti. Questi aperti saranno del tipo 𝐴𝑛 ∶= 𝐸𝑛 ∩ 𝐶, con 𝐸𝑛 aperto non vuoto di 𝑋 e gli 𝐸𝑛 decrescenti per inclusione. Consideriamo ora in 𝑋 la successione decrescente di aperti 𝐸𝑛′ ∶= 𝐸𝑛 ∩ 𝐴. Poiché 𝐸𝑛 ∩ 𝐶 ≠ ∅, ∀𝑛, per ipotesi, si ha anche 𝐸𝑛 ∩ 𝐴 ≠ ∅, ∀𝑛. Ne viene che la successione (𝐸𝑛′ )𝑛 è decrescente e costituita da aperti non vuoti di 𝑋. Per il Teorema 9.9, si ha che l’intersezione delle chiusure in 𝑋 degli 𝐸𝑛′ è non vuota. Constatiamo ora che l’intersezione
9.1. Spazi pseudo-compatti
451
delle chiusure in 𝐶 degli aperti 𝐴𝑛 è non vuota. Poiché cl𝐶 𝐴𝑛 = 𝐶 ∩ cl𝑋 𝐴𝑛 , si ottiene =𝐶∩
∅≠
⋂ 𝑛
⋂ 𝑛
cl𝑋 𝐸𝑛′ =
⋂ 𝑛
cl𝑋 (𝐸𝑛 ∩ 𝐶) = 𝐶 ∩
cl𝑋 (𝐸𝑛 ∩ 𝐴) ⊆
⋂ 𝑛
cl𝑋 𝐴𝑛 =
⋂
⋂ 𝑛
𝑛
cl𝑋 (𝐸𝑛 ∩ 𝐶) =
(𝐶 ∩ cl𝑋 𝐴𝑛 ) =
⋂ 𝑛
cl𝐶 𝐴𝑛 .
La tesi segue ancora dal teorema 9.9. A questo punto, avendo visto alcune proprietà che rendono interessanti gli spazi pseudo-compatti, è il momento per presentare qualche esempio di spazio pseudo-compatto con una struttura più ricca di quella dell’Esempio 9.2. Poiché siamo interessati a considerare spazi completamente regolari, sarà utile premettere un lemma a tale riguardo.
Lemma 9.16. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico 𝑇0 in cui ogni punto possiede una base di intorni aperti e chiusi (clopen). Allora 𝑋 è completamente regolare. Dimostrazione. Fissiamo un punto 𝑝 e un chiuso 𝐶, con 𝑝 ∉ 𝐶. Per ipotesi, 𝑋 ⧵𝐶 è un aperto contenente 𝑝 e quindi esiste un clopen 𝑈𝑝 con 𝑝 ∈ 𝑈𝑝 ⊆ 𝑋 ⧵𝐶. Poiché 𝑈𝑝 e 𝑉𝑝 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈𝑝 sono due aperti non vuoti e disgiunti che ricoprono 𝑋, la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ che vale 0 in 𝑈𝑝 e 1 in 𝑉𝑝 è continua e separa il punto 𝑝 dal chiuso 𝐶. Dunque (𝑋, 𝜏) è 𝑇 1 e quindi anche completamente regolare, 3
2
essendo 𝑇0 per ipotesi (cfr. Definizione 2.109).
Uno spazio topologico in cui ogni punto possiede una base di intorni clopen è anche detto zero-dimensionale (ce ne occuperemo nel capitolo sulla dimensione). Ritorneremo su questo argomento anche nel capitolo sulle compattificazioni. Osserviamo inoltre che ci sono vari concetti di dimensione, per cui tecnicamente sarebbe corretto dire che il concetto di zero-dimensionalità qui considerato riguarda la cosiddetta dimensione induttiva piccola. Per approfondimenti su questo tema si veda anche l’articolo [39]. Esempio 9.17. Spazio di Mrówka. Siano ℕ l’insieme dei numeri naturali e ℛ una famiglia di sottoinsiemi infiniti di ℕ con le seguenti proprietà: 1. ℛ è infinita; 2. l’intersezione di due qualunque elementi di ℛ è finita, 3. Ogni sottoinsieme infinito di ℕ ha intersezione infinita con qualche elemento di ℛ. Sia, in fine, 𝑋 ∶= ℕ ∪ ℛ. Si osservi che gli elementi di ℛ (che sono sottoinsiemi infiniti di ℕ) sono punti di 𝑋. Per evitare equivoci, useremo la seguente notazione: se 𝑥 ∈ ℛ, scriviamo 𝑥 quando lo pensiamo come elemento di 𝑋 e [𝑥] quando lo pensiamo come sottoinsieme infinito di ℕ. In 𝑋 definiamo la seguente topologia 𝜏. I punti di ℕ sono tutti isolati. Dato 𝑥 ∈ ℛ, una sua base di intorni è data dagli insiemi del tipo {𝑥} ∪ 𝐸, con 𝐸 ⊆ [𝑥] tale che [𝑥] ⧵ 𝐸
9.1. Spazi pseudo-compatti
452
è finito. Osserviamo che, in questo modo, per ogni elemento di 𝑋, abbiamo definito una base di intorni che sono clopen. È anche immediato constatare che, grazie alla proprietà 2, lo spazio (𝑋, 𝜏) ora definito è di Hausdorff. Per il lemma precedente, abbiamo immediatamente che lo spazio è completamente regolare. Proviamo che (𝑋, 𝜏) è pseudo-compatto. A tale scopo sia 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua. Essendo ℕ denso in 𝑋, 𝑓 è limitata (su 𝑋) se e solo se lo è su ℕ. Supponiamo, per assurdo, che l’insieme 𝑓 (ℕ) non sia limitato. Per induzione, possiamo costruire una successione crescente 𝑠 ∶= (𝑘𝑛 )𝑛 di numeri naturali tale che |𝑓 (𝑘𝑛 )| > 𝑛. Per la proprietà 3, esiste un elemento 𝑥 ∈ ℛ tale che in [𝑥] vi sono infiniti elementi della successione 𝑠. Consideriamo ora l’intervallo aperto 𝑉 ∶= ]𝑓 (𝑥) − 1, 𝑓 (𝑥) + 1[ che è un intorno di 𝑓 (𝑥) in ℝ. Per la continuità di 𝑓 , esiste un intorno di base 𝑈𝑥 di 𝑥 ∈ 𝑋 tale che 𝑓 (𝑈𝑥 ) ⊆ 𝑉 . D’altra parte, per come sono stati definiti gli intorni, in 𝑈𝑥 vi sono infiniti elementi della successione 𝑠 e quindi 𝑓 (𝑈𝑥 ) è illimitato. Si ha così un assurdo. Proviamo ora che lo spazio (𝑋, 𝜏) non è numerabilmente compatto e quindi neanche compatto o sequenzialmente compatto. Infatti, l’insieme ℛ pensato come sottospazio di 𝑋 è un chiuso con la topologia discreta, inoltre è infinito; quindi ℛ non è un sottospazio numerabilmente compatto rispetto alla topologia ereditata da 𝑋. Ne segue che nemmeno 𝑋 è numerabilmente compatto (cfr. Proposizione 7.30.1, dimostrata per la compattezza, ma che vale ovviamente anche per la numerabile compattezza). In fine, per il Teorema 9.3, possiamo concludere che il nostro spazio non è normale. Abbiamo così ottenuto anche un esempio di spazio completamente regolare e non normale. ◁ Osservazione 9.18. Con riferimento all’esempio precedente, osserviamo che l’insieme chiuso ℛ, avendo interno vuoto, non è regolarmente chiuso. Inoltre, essendo infinito e dato che come sottospazio di 𝑋 eredita la topologia discreta, (ℛ, 𝜏) non è pseudo-compatto. Ciò prova che nel Teorema 9.15 l’ipotesi che 𝐶 sia regolarmente chiuso è essenziale. Inoltre, unitamente a ℛ, sono chiusi anche tutti i suoi sottoinsiemi. Fissiamo ora un sottoinsieme numerabile di ℛ: 𝐶0 ∶= {𝑥0 , 𝑥1 , … , 𝑥𝑛 , … } e poniamo, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, 𝐶𝑛+1 ∶= 𝐶𝑛 ⧵ {𝑥𝑛 }. Si ottiene così in 𝑋 una successione di chiusi 𝐶𝑛 , decrescente per inclusione; per costruzione, si ha poi ⋂𝑛 𝐶𝑛 = ∅. Ciò prova che il Lemma di Cantor può cadere in difetto anche in spazi pseudo-compatti che siano completamente regolari. ◁ Definizione 9.19. Una famiglia di insiemi che hanno a due a due intersezione finita è detta Almost Disjoint o semplicemente AD. Nell’esempio appena visto, si considera una famiglia AD di sottoinsiemi infiniti di ℕ. In tale ambito, la proprietà 3 equivale alla massimalità della famiglia (rispetto all’inclusione). Le famiglie AD massimali vengono anche chiamate MAD, acronimo di Maximal Almost Disjoint. ◁
9.1. Spazi pseudo-compatti
453
Osservazione 9.20. Non è difficile constatare che esistono famiglie MAD di sottoinsiemi di ℕ. Esempi triviali si ottengono decomponendo ℕ in un numero finito di sottoinsiemi infiniti a due a due disgiunti (ad esempio, pari e dispari). Per avere esempi non triviali, cioè di famiglie MAD infinite, si parte da una partizione ℛ0 di ℕ in infiniti sottoinsiemi infiniti; poi aggiungiamo sottoinsiemi infiniti che hanno intersezione finita con ogni elemento di ℛ0 , ottenendo famiglie più ampie di sottoinsiemi con le prime due proprietà. Per ottenere la 3, si applica il Lemma di Zorn. Ci limiteremo d’ora in avanti a queste famiglie. Osserviamo che una famiglia ℛ di sottoinsiemi di ℕ che gode delle tre proprietà non può essere numerabile. Infatti, data una successione AD (𝐸𝑛 )𝑛 di sottoinsiemi infiniti di ℕ, si può definire un nuovo sottoinsieme di ℕ che ha intersezione finita con ogni 𝐸𝑛 con un opportuno procedimento diagonale (Esercizio!). Un’altra osservazione banale è che ℕ non può far parte di ℛ e neanche può avvenire che un numero finito di elementi di ℛ abbia come unione ℕ. Sottolineiamo anche il fatto che ogni elemento 𝐴 di ℛ ha complementare infinito. Se così non fosse, sostituendo nella famiglia ℛ l’elemento 𝐴 con 𝐴′ ∶= 𝐴 ∪ (ℕ ⧵ 𝐴), avremmo ancora una famiglia MAD che però conterrebbe 𝐴′ = ℕ. Nello stesso modo si vede che, preso un numero finito di elementi 𝐴1 , … , 𝐴𝑛 in ℛ, l’insieme 𝐴1 ∪ ⋯ ∪ 𝐴𝑛 ha complementare infinito. Se così non fosse, aggiungendo questo complementare finito a uno degli 𝐴𝑘 , avremmo ancora una famiglia MAD dove però un numero finito di suoi elementi ha come unione ℕ.◁
L’utilizzo di famiglie MAD per la costruzione di esempi e controesempi in Topologia è piuttosto comune e si fa risalire a un lavoro di Alexandrov e Urysohn del 1925, dove costruirono uno spazio topologico prendendo, per ogni numero irrazionale 𝑟 ∈ ]0, 1[ una successione (𝑞𝑛𝑟 )𝑛 di razionali di ]0, 1[ convergente a 𝑟. Chiaramente, se consideriamo una corrispondenza biunivoca fra ℕ e ℚ, la famiglia di queste successioni definisce una famiglia AD di sottoinsiemi infiniti di ℕ. La stessa idea garantisce che esistono famiglie AD di sottoinsiemi infiniti di ℕ aventi la cardinalità del continuo. Immergendo una famiglia AD come questa in una massimale, abbiamo degli esempi di famiglie MAD in ℕ aventi la potenza del continuo. In particolare, nell’Esempio 9.17 sappiamo che un insieme come ℛ esiste sempre e si può prendere in modo che abbia cardinalità 𝔠. D’altra parte, per quanto osservato sopra, la famiglia ℛ è sempre più che numerabile. L’Esempio 9.17 è dovuto a un lavoro di S. Mrówka [59] del 1954. Spazi topologici costruiti a partire da una famiglia MAD ℛ vengono di solito indicati con Ψ(ℛ) o semplicemente come spazi Ψ di Mrówka-Isbell. Per mostrare un’applicazione del concetto di famiglia MAD, presentiamo un risultato dovuto a R. Whitley 1 , in cui fornisce una semplice dimostrazione di un classico teorema dovuto a R. S. Phillips (1940). Dall’Osservazione 9.20 otteniamo immediatamente che: 1 R. Whitley, Mathematical Notes: Projecting 𝑚 onto 𝑐0 , Amer. Math. Monthly 73 (1966), 285–286.
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Lemma 9.21. Sia 𝐸 un insieme numerabile (infinito). Allora esiste una famiglia più che numerabile {𝑈𝑖 }𝑖∈𝐽 di sottoinsiemi infiniti di 𝐸 tale che sia MAD.
Definizione 9.22. Siano 𝑋 uno spazio di Banach e 𝐻 un sottoinsieme dello spazio duale 𝑋 ∗ . Si dice che 𝐻 è totale se 0 è l’unico vettore di 𝑋 in cui si annullano tutti gli elementi di 𝐻. Diremo poi che lo spazio 𝑋 ha la proprietà (ℬ) se 𝑋 ∗ ha un sottoinsieme totale che sia numerabile. ◁ Si vede facilmente che la proprietà (ℬ) si conserva per isomorfismi lineari e che è ereditata dai sottospazi (Esercizio!).
Teorema 9.23 (di Phillips). Non esiste alcuna proiezione lineare e continua dello spazio di Banach 𝑙∞ sul sottospazio chiuso 𝑐0 .
Dimostrazione. Per comodità, poniamo 𝑋 ∶= 𝑙∞ . Supponiamo, per assurdo, che esista una proiezione lineare e continua 𝑝 ∶ 𝑋 → 𝑐0 . Per il Corollario 4.95, si ha 𝑋 = 𝑐0 ⊕ 𝑉 , con 𝑉 sottospazio chiuso di 𝑋. Proviamo che 𝑋 ha la proprietà (ℬ). Sia ℱ ∶= {𝑓𝑛 }𝑛 , dove, per ogni 𝑛, 𝑓𝑛 è il funzionale lineare che a un elemento 𝑥 ∈ 𝑋 associa il suo termine 𝑛-imo. È immediato che se, per ogni 𝑛, è 𝑓𝑛 (𝑥) = 0, allora 𝑥 è la successione nulla, da cui la tesi, dato che ℱ è numerabile e totale. Ne viene che anche 𝑉 ha la proprietà (ℬ) e deve quindi accadere lo stesso per lo spazio quoziente 𝑌 ∶= 𝑋/𝑐0 che gli è linearmente isomorfo. Se mostriamo che, invece, 𝑌 non gode della (ℬ) otteniamo una contraddizione che conclude la dimostrazione del teorema. Si ha 𝑋 = ℱ𝑏 (𝐸), con 𝐸 numerabile. Per il Lemma 9.21, esiste una famiglia più che numerabile {𝑈𝑖 }𝑖∈𝐽 di sottoinsiemi infiniti di 𝐸 tale che sia MAD. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , sia poi 𝐹𝑖 l’elemento di 𝑌 che (pensato come classe di equivalenza) contiene la funzione caratteristica 𝑓𝑖 di 𝑈𝑖 . Si ha subito che gli 𝐹𝑖 sono elementi distinti di 𝑌 . In 𝑌 si introduce in modo canonico una norma definita da ‖𝐹 ‖𝑌 ∶= inf {‖𝑓 ‖𝑋 ∶ 𝑓 ∈ 𝐹 } (cfr. Teorema 6.83). Fissiamo 𝑔 ∈ 𝑌 ∗ e proviamo che l’insieme 𝐶(𝑔) ∶= {𝐹𝑖 ∈ 𝑌 ∶ 𝑔(𝐹𝑖 ) ≠ 0} è numerabile. Per fare ciò basta mostrare che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , è al più numerabile l’insieme 𝐶𝑛 (𝑔) ∶= {𝐹𝑖 ∈ 𝑌 ∶ |𝑔(𝐹𝑖 )| ≥ 1/𝑛}. Scegliamo un insieme {𝐹𝛽 }𝛽∈𝐾 di elementi di 𝐶𝑛 , con 𝐾 finito. Per ogni 𝛽, sia 𝑞𝛽 ∶= sign 𝑔(𝐹𝛽 ). Sia poi 𝑊 ∶= ∑𝛽∈𝐾 𝑞𝛽 𝐹𝛽 . Gli elementi della classe di equivalenza 𝑊 sono del tipo 𝑤 ∶= 𝜑 + ∑𝛽∈𝐾 𝑞𝛽 𝑓𝛽 , dove 𝜑 ∈ 𝑐0 . Possiamo prendere 𝜑 in modo che risulti definitivamente nulla e che sia ‖𝑤‖ = 1. Si ottiene che è anche ‖𝑊 ‖ = 1. Dalla (4.19) si ottiene |𝑔(𝑊 )| ≤ ‖𝑔‖ ⋅ ‖𝑊 ‖ = ‖𝑔‖. D’altra parte, si ha 𝑔(𝑊 ) = ∑𝛽∈𝐾 𝑞𝛽 𝑔(𝐹𝛽 ) ≥ 𝑚/𝑛, con 𝑚 ∶= card 𝐾. Ne viene che è 𝑚 ≤ 𝑛𝑔(𝑊 ) ≤ 𝑛‖𝑔‖. Si conclude che per ogni 𝑛 fissato, l’insieme 𝐶𝑛 è addirittura finito. Sia, in fine, {𝑔𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} un sottoinsieme numerabile di 𝑌 ∗ . Per quanto precede, risulta numerabile l’insieme 𝐶 ∶= ⋃𝑛 𝐶(𝑔𝑛 ) degli elementi 𝐹𝑖 ∈ 𝑌 per cui è 𝑔𝑛 (𝐹𝑖 ) ≠ 0 per qualche 𝑛. Essendo 𝐽 più che numerabile, esiste 𝐹𝑘 ∈ 𝑌 ⧵ 𝐶,
9.1. Spazi pseudo-compatti
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con 𝑘 ∈ 𝐽 . Si ha 𝑔𝑛 (𝐹𝑘 ) = 0, ∀𝑛. Dall’arbitrarietà dell’insieme {𝑔𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}, si conclude che effettivamente 𝑌 non gode della (ℬ). Dal Corollario 4.95 si ottiene il
Corollario 9.24. Il sottospazio 𝑐0 di 𝑙∞ non è complementato.
Il problema dell’esistenza o meno di proiezioni lineari e continue sui sottospazi chiusi di uno spazio di Banach fu introdotto per la prima volta da S. Banach stesso nel suo famoso trattato sulla teoria degli operatori lineari del 1932. Successivamente, F. J. Murray risolse in senso negativo questo problema nel 1937 per gli spazi 𝐿𝑝 e 𝑙𝑝 con 𝑝 ≠ 2. Il problema sulla complementarietà negli spazi di Banach è un argomento di ricerca ancora attuale; esso è invece completamente risolto negli spazi di Hilbert come conseguenza dal Teorema 5.62 (cfr. Corollario 5.49 e Lemma 6.85). Visto che ci stiamo occupando prevalentemente di spazi completamente regolari, è l’occasione per rivisitare alcune proprietà sulle funzioni continue e riesaminare alcuni esempi già visti. Esempio 9.25. Riconsideriamo il piano di Niemytzki presentato nell’Esempio 1.96 e proviamo che questo spazio è completamente regolare. Ricordiamo che 𝑋 è il semipiano {(𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ 𝑦 ≥ 0} in cui gli intorni sono quelli della topologia euclidea per 𝑦 > 0, mentre per i punti del tipo (𝑥, 0) gli intorni di base sono dati dal punto unito a un disco aperto contenuto nel semipiano superiore e tangente nel punto stesso all’asse delle ascisse che abbiamo indicato con 𝑡. Sappiamo già che lo spazio è regolare ma non normale. Siano 𝑝 e 𝐶 un punto e un chiuso di 𝑋 con 𝑝 ∶= (𝑥0 , 𝑦0 ) ∉ 𝐶. Distinguiamo due casi. 1. Sia 𝑦0 > 0. Esiste un 𝛿 > 0 tale che la palla ordinaria aperta 𝐵 ∶= 𝐵(𝑝, 𝛿) è contenuta in 𝑋 ⧵ 𝐶 ed è disgiunta anche da 𝑡. L’insieme 𝑋 ⧵ 𝐵 è chiuso sia in 𝜏𝑒 sia nella topologia 𝜏 di Niemytzki. Essendo metrico, (𝑋, 𝜏𝑒 ) è completamente regolare; esiste quindi una funzione 𝜏𝑒 -continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ che vale 0 in 𝑝 e 1 in 𝑋 ⧵ 𝐵(⊇ 𝐶). Resta da provare che 𝑓 è continua anche rispetto alla topologia 𝜏. Certamente 𝑓 è continua in 𝑋 ⧵ 𝑡. Sia 𝑞 ∶= (𝑥, 0) ∈ 𝑡. Per ogni 𝜀 > 0, esiste un disco aperto 𝐷𝑞 centrato in 𝑞 e di raggio 𝛿 tale che 𝑓 (𝐷𝑞 ∩ 𝑋) ⊆ ]1 − 𝜀, 1 + 𝜀[. poiché 𝐷𝑞 ∩ 𝑋 contiene il 𝜏-intorno {𝑞} ∪ 𝐵((𝑥, 𝛿/2), 𝛿/2), si ha la continuità di 𝑓 anche in 𝑞. 2. Sia 𝑦0 = 0. Essendo 𝐶 chiuso in 𝜏, esiste un disco aperto 𝑈 di 𝑋 tangente a 𝑡 in 𝑝 e disgiunto da 𝐶. Indichiamo con 𝑟 il raggio di 𝑈 e con Γ la sua frontiera. Al variare del parametro 𝜆 ∈ ]0, 1], siano 𝑈𝜆 il disco aperto di centro (𝑥0 , 𝜆𝑟) e raggio 𝜆𝑟 (quindi ancora contenuto in 𝑋 e tangente a 𝑡 in 𝑝) e Γ𝜆 la sua frontiera. Con queste posizioni, si ha 𝑈 = 𝑈1 e Γ = Γ1 . Ogni punto di 𝑈 appartiene ad uno e un solo Γ𝜆 . Definiamo ora la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] nel seguente modo: 𝑓 (𝑧) = 1 se 𝑧 ∉ 𝑈 ∪ {𝑝}; 𝑓 (𝑝) = 0; 𝑓 (𝑧) = 𝜆 se 𝑧 ∈ Γ𝜆 ⧵ {𝑝}. Certamente 𝑓 separa il punto 𝑝 dal chiuso 𝐶, dove la funzione vale 1. Resta
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da provare che 𝑓 è continua. Per i punti che non stanno in cl 𝑈 (dove 𝑓 vale 1), la cosa è banale. Fissiamo 𝑞 ∈ Γ ⧵ {𝑝} (dove 𝑓 vale ancora 1) e un 𝜀 ∈ ]0, 1[; posto 𝑊 ∶= 𝑋 ⧵ cl 𝑈1−𝜀 , si ha che 𝑊 è un intorno di 𝑞, con 𝑓 (𝑤) > 1 − 𝜀, ∀𝑤 ∈ 𝑊 . Veniamo alla continuità in 𝑝 e fissiamo ancora un 𝜀 ∈ ]0, 1[; per 𝑊 ∶= 𝑈𝜀 , si ha 𝑓 (𝑊 ) ⊆ [0, 𝜀[. Sia, in fine, 𝑞 ∈ 𝑈 , per cui 𝑓 (𝑞) ∈ ]0, 1[. Per come è definita 𝑓 , sappiamo che 𝑞 ∈ Γ𝑓 (𝑞) . Preso ancora 𝜀 con 0 < 𝜀 < min{𝑓 (𝑞), 1−𝑓 (𝑞)}, consideriamo l’insieme 𝑊 ∶= 𝑈𝑓 (𝑞)+𝜀 ⧵cl 𝑈𝑓 (𝑞)−𝜀 che è contenuto in 𝑋 ⧵ 𝑡 ed è un intorno di 𝑞 anche nella topologia euclidea. Per costruzione si ha 𝑓 (𝑤) ∈ ]𝑓 (𝑞) − 𝜀, 𝑓 (𝑞) + 𝜀[, ∀𝑤 ∈ 𝑊 . ◁ Si è già osservato che alcune varianti della compattezza non si prestano bene per quanto riguarda il prodotto di spazi (cfr. Esempio 8.13). Nel capitolo sugli ordinali vedremo, in particolare, che esistono spazi pseudo-compatti il cui prodotto non è pseudo-compatto (Esempio di Terasaka). Per intanto possiamo stabilire al riguardo i seguenti risultati. Teorema 9.26. Il prodotto di uno spazio topologico compatto con uno pseudocompatto e completamente regolare è pseudo-compatto.
Dimostrazione. Siano (𝑋1 , 𝜏1 ) uno spazio compatto e (𝑋2 , 𝜏2 ) uno spazio completamente regolare pseudo-compatto e indichiamo con (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto. Useremo il Teorema 9.9. Consideriamo quindi in 𝑋 una successione (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti non vuoti decrescente per inclusione. Il nostro scopo è di dimostrare che ⋂𝑛 cl 𝐴𝑛 ≠ ∅. Sia 𝑝2 ∶ 𝑋 → 𝑋2 la proiezione sul secondo fattore. La successione degli insiemi 𝑉𝑛 ∶= 𝑝2 (𝐴𝑛 ) è decrescente per inclusione in 𝑋2 . I 𝑉𝑛 sono inoltre aperti (cfr. Lemma 6.34). Le ipotesi sullo spazio 𝑋2 garantiscono che l’intersezione delle chiusure dei 𝑉𝑛 è non vuota. Quindi esiste un punto 𝑧2 ∈ 𝑋2 che è aderente a tutti i 𝑉𝑛 ; ne segue anche che, se 𝑊 è un arbitrario intorno aperto di 𝑧2 , 𝑝−1 2 (𝑊 ) ∩ 𝐴𝑛 ≠ ∅, ∀𝑛. Per ogni aperto 𝑊 come sopra, indichiamo con 𝑈𝑛 (𝑊 ) ∶= 𝑝1 (𝑝−1 2 (𝑊 ) ∩ 𝐴𝑛 ). La famiglia ℬ degli insiemi 𝑈𝑛 (𝑊 ) (al variare di 𝑊 e di 𝑛) è formata da aperti di 𝑋1 non vuoti. Per ogni 𝑊 si ha una successione decrescente per inclusione. Poiché l’intersezione di un numero finito di intorni aperti di 𝑧2 è ancora un intorno aperto di 𝑧2 , la famiglia ℬ ha la proprietà dell’intersezione finita. Per la compattezza di 𝑋1 , esiste almeno un punto 𝑧1 che appartiene alle chiusure di tutti gli elementi di ℬ. Concludiamo la dimostrazione provando che il punto 𝑧 ∶= (𝑧1 , 𝑧2 ) ∈ ⋂𝑛 cl 𝐴𝑛 . Infatti, se 𝑆 è un qualunque intorno di 𝑧, esistono un intorno aperto 𝑆1 di 𝑧1 e un intorno aperto 𝑆2 di 𝑧2 tali che 𝑆1 × 𝑆2 ⊆ 𝑆. Per costruzione, abbiamo che, per ogni 𝑛, 𝑆1 ∩ 𝑈𝑛 (𝑆2 ) ≠ ∅; quindi 𝑆1 × 𝑋2 interseca 𝑝−1 2 (𝑆2 ) ∩ 𝐴𝑛 = 𝐴𝑛 ∩ (𝑋1 × 𝑆2 ). In altri termini, ∅ ≠ (𝑆1 × 𝑋2 ) ∩ 𝐴𝑛 ∩ (𝑋1 × 𝑆2 ) = 𝐴𝑛 ∩ (𝑆1 × 𝑆2 ). Concludiamo che 𝐴𝑛 ∩ 𝑆 è diverso dal vuoto. Teorema 9.27. Il prodotto di uno spazi topologico sequenzialmente compatto con uno pseudo-compatto e completamente regolare è pseudo-compatto.
9.1. Spazi pseudo-compatti
457
Dimostrazione. Siano (𝑋1 , 𝜏1 ) uno spazio topologico sequenzialmente compatto, (𝑋2 , 𝜏2 ) uno spazio pseudo-compatto completamente regolare e indichiamo con (𝑋, 𝜏) lo spazio prodotto. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua arbitraria. Dimostreremo che 𝑓 è limitata. Supponiamo, per assurdo, che ciò non sia vero e, pertanto, esisterà una successione (𝑥1𝑛 , 𝑥2𝑛 )𝑛 in 𝑋 tale che |𝑓 (𝑥1𝑛 , 𝑥2𝑛 )| > 𝑛. Per la sequenziale compattezza di 𝑋1 , esiste una sottosuccessione (𝑥1𝑘 )𝑛 di (𝑥1𝑛 )𝑛 convergente a un punto 𝑧1 ∈ 𝑋1 . Consideriamo ora lo spazio topologico 𝑛
𝐸 ∶= {𝑥1𝑘 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} ∪{𝑧1 }, con la topologia indotta da 𝜏1 . Osserviamo che tale 𝑛 spazio è compatto. Per il teorema precedente, lo spazio prodotto 𝑌 ∶= 𝐸 × 𝑋2 è pseudo-compatto. D’altra parte, la funzione 𝑓 ristretta a 𝑌 è continua, ma non è limitata, dato che è |𝑓 (𝑥1𝑘 , 𝑥2𝑘 )| → ∞. 𝑛
𝑛
Dai risultati appena visti e dai Teoremi 7.37 e 7.101 segue immediatamente il seguente corollario. Corollario 9.28. 1. Il prodotto di una famiglia di spazi topologici, di cui uno pseudo-compatto completamente regolare e gli altri compatti, è pseudo-compatto. 2. Il prodotto di una famiglia numerabile di spazi topologici, di cui uno pseudo-compatto completamente regolare e gli altri sequenzialmente compatti, è pseudo-compatto. Un’ulteriore applicazione della pseudo-compattezza si ha nello studio della convergenza uniforme. Ricordiamo che, date una successione di funzioni 𝑓𝑛 ∶ (𝑋, 𝜏) → ℝ e una funzione 𝑓 ∶ (𝑋, 𝜏) → ℝ, si dice che (𝑓𝑛 )𝑛 converge uniformemente a 𝑓 su 𝑋 se, per ogni 𝜀 > 0, esiste un indice 𝑛∗ tale che, per ogni 𝑛 ≥ 𝑛∗ è |𝑓𝑛 (𝑥) − 𝑓 (𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Accanto a questa definizione classica, introduciamo anche la seguente di carattere locale. Date 𝑓𝑛 e 𝑓 come sopra, si dice che (𝑓𝑛 )𝑛 converge localmente uniformemente a 𝑓 su 𝑋 se, per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, esiste un intorno 𝑈𝑧 di 𝑧 tale che la successione delle 𝑓𝑛 converge uniformemente a 𝑓 su 𝑈𝑧 . Sappiamo già dai Corsi elementari di Analisi che la convergenza uniforme implica quella puntuale, ma che non sussiste il viceversa. Sappiamo inoltre che, se una successione di funzioni continue reali di variabile reale converge puntualmente, la funzione limite può essere non continua, mentre la continuità della funzione limite è garantita dalla convergenza uniforme. Dimostriamo che questo risultato ben noto continua a valere quando il dominio sia uno spazio topologico arbitrario. Teorema 9.29. Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), una successione di funzioni continue 𝑓𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ. 1. Se (𝑓𝑛 )𝑛 converge uniformemente a 𝑓 in 𝑋, allora 𝑓 è continua. 2. Se (𝑓𝑛 )𝑛 converge localmente uniformemente a 𝑓 in 𝑋, allora 𝑓 è continua. 3. Se (𝑓𝑛 )𝑛 converge uniformemente a 𝑓 e ciascuna funzione 𝑓𝑛 è superiormente [inferiormente] limitata, è tale anche 𝑓 .
9.1. Spazi pseudo-compatti
458
Dimostrazione. 1. Sia 𝑧 ∈ 𝑋 un punto fissato e verifichiamo che 𝑓 è continua in 𝑧. Fissiamo un 𝜀 > 0 arbitrario. Per la convergenza uniforme della successione (𝑓𝑛 )𝑛 a 𝑓 , esiste un indice 𝑚 tale che, |𝑓𝑚 (𝑥)−𝑓 (𝑥)| < 𝜀/3, ∀𝑥 ∈ 𝑋. La continuità di 𝑓𝑚 in 𝑧 assicura che esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 tale che |𝑓𝑚 (𝑥)−𝑓𝑚 (𝑧)| < 𝜀/3, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Segue allora immediatamente che |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑧)| ≤ |𝑓 (𝑥) − 𝑓𝑚 (𝑥)| + |𝑓𝑚 (𝑥) − 𝑓𝑚 (𝑧)| + |𝑓𝑚 (𝑧) − 𝑓 (𝑧)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑈 .
2. Basta ripetere la dimostrazione precedente osservando che questa volta esiste un intorno 𝑉 di 𝑧 dove c’è convergenza uniforme. L’ultima catena di disuguaglianze sarà quindi valida in 𝑈 ∩ 𝑉 che è ancora un intorno di 𝑧. 3. Fissiamo 𝜀 = 1. Per ipotesi, esiste un 𝑛∗ tale che, per ogni 𝑛 ≥ 𝑛∗ , si ha 𝑓𝑛 (𝑥) − 1 < 𝑓 (𝑥) < 𝑓𝑛 (𝑥) + 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋,
da cui banalmente la tesi.
Ovviamente, la proprietà 1 è strettamente collegata al Criterio di Weierstrass 2.12. Già per le funzioni da ℝ in ℝ, è facile fornire esempi in cui vi è convergenza localmente uniforme, ma non uniforme. Basta prendere 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 𝑥/𝑛 che converge localmente uniformemente a 0, ma non uniformemente su tutto ℝ. È anche facile vedere che la 3 non sussiste se la convergenza è solo localmente uniforme, ma non uniforme. Si consideri, per esempio la successione (𝑓𝑛 )𝑛 , con 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= min{𝑥, 𝑛}, ∀𝑥 ∈ ℝ, che è una successione di funzioni continue, limitate superiormente, localmente uniformemente convergente su ℝ alla funzione identica che non è superiormente limitata. I concetti appena esposti si collegano bene al caso della pseudo-compattezza. Sussiste infatti il seguente risultato. Teorema 9.30. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è pseudo-compatto se e solo se ogni successione di funzioni reali continue su 𝑋 che converge localmente uniformemente converge uniformemente anche su tutto 𝑋.
Dimostrazione. Proviamo il “se”. Supponiamo, per assurdo, che lo spazio non sia pseudo-compatto. Esiste dunque una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ non limitata. Senza perdita di generalità, supporremo 𝑓 superiormente illimitata. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ introduciamo la funzione troncamento 𝑓𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= min{𝑓 (𝑥), 𝑛}. Le funzioni appena definite sono ancora continue. Si osservi, inoltre, che la successione (𝑓𝑛 )𝑛 è debolmente crescente, ovvero 𝑓𝑛 (𝑥) ≤ 𝑓𝑛+1 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋. È ovvio che la successione (𝑓𝑛 )𝑛 converge puntualmente a 𝑓 . Verifichiamo ora che la convergenza è localmente uniforme. Sia infatti 𝑧 ∈ 𝑋 e consideriamo 𝑓 (𝑧). Fissato 𝑛 > 𝑓 (𝑧), per la continuità di 𝑓 in 𝑧, esiste un intorno 𝑈 di questo punto tale che 𝑓 (𝑥) < 𝑛, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Dalla definizione di troncamento (e dalla monotonia della successione) si vede subito che 𝑓𝑛 (𝑥) = 𝑓 (𝑥), ∀𝑛 ≥ 𝑛, ∀𝑥 ∈
9.1. Spazi pseudo-compatti
459
𝑈 . Per l’arbitrarietà di 𝑧 ∈ 𝑋, resta così dimostrata la locale convergenza uniforme. D’altra parte, non vi può essere convergenza uniforme su tutto 𝑋, dato che la funzione limite è superiormente illimitata, contro l’ipotesi (cfr. Proposizione 9.29.3). Veniamo al “solo se”. Supponiamo, ancora per assurdo, che esista una successione di funzioni continue (𝑓𝑛 )𝑛 , tutte da 𝑋 in ℝ, con (𝑓𝑛 )𝑛 localmente uniformemente convergente a una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ, ma non uniformemente su tutto 𝑋. Per il teorema precedente, 𝑓 è continua. Negare la definizione di convergenza uniforme equivale ad asserire che esistono un 𝜀 > 0 e una successione (𝑥𝑛 )𝑛 di punti di 𝑋 tali che, per ogni 𝑛, si ha |𝑓𝑛 (𝑥𝑛 )−𝑓 (𝑥𝑛 )| > 𝜀. Poiché la convergenza è localmente uniforme, si ha che l’insieme degli 𝑥𝑛 è infinito, non è perciò restrittivo supporre questi punti a due a due distinti. Introduciamo ora, per ogni 𝑛, la funzione 𝑔𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑔𝑛 (𝑥) ∶= max{|𝑓𝑛 (𝑥) − 𝑓 (𝑥)| − 𝜀/2, 0}.
Le funzioni 𝑔𝑛 sono continue, non negative e, inoltre, 𝑔𝑛 (𝑥𝑛 ) ≥ 𝜀/2. A partire da queste, definiamo un’ulteriore funzione 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ, ponendo 𝑔(𝑥) ∶=
+∞
𝑛 𝑔 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋. ∑ 𝑔𝑛 (𝑥𝑛 ) 𝑛 𝑛=1
La funzione 𝑔 è ben definita. Infatti, fissato un qualunque 𝑧 ∈ 𝑋, per la locale uniforme convergenza delle 𝑓𝑛 , esistono un intorno aperto 𝑈 (𝑧) di 𝑧 e un indice 𝑛(𝑧) tali che |𝑓𝑛 (𝑥) − 𝑓 (𝑥)| < 𝜀/2, ∀𝑛 > 𝑛(𝑧), ∀𝑥 ∈ 𝑈 (𝑧), da cui 𝑔𝑛 (𝑥) = 0. Quindi in questo intorno di 𝑧 la sommatoria si riduce a una somma finita. Ciò prova anche che 𝑔 è continua in 𝑈 (𝑧) e quindi in tutto 𝑋 (cfr. Proposizione 2.15.1). Per costruzione, la 𝑔 è illimitata, contro l’ipotesi che 𝑋 è pseudo-compatto. Siano ancora dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e una successione (𝑓𝑛 )𝑛 di funzioni continue di 𝑋 in ℝ convergente puntualmente a una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ. In generale, dalla continuità della funzione limite 𝑓 non segue la locale convergenza uniforme della successione (𝑓𝑛 )𝑛 (cfr. Proposizione 9.29.2). Basta prendere come spazio topologico l’intervallo [0, 1] con la topologia euclidea e, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , come 𝑓𝑛 la funzione continua il cui grafico è dato dalla spezzata che unisce i punti (0, 0), (1/𝑛, 1), (2/𝑛, 0), (1, 0). La cosa cambia se la successione (𝑓𝑛 )𝑛 è monotona. Sussiste, infatti, il seguente risultato. Lemma 9.31. Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e una successione monotona (𝑓𝑛 )𝑛 di funzioni continue di 𝑋 in ℝ convergente puntualmente a una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ. Allora la convergenza è localmente uniforme se (e solo se) 𝑓 è continua.
Dimostrazione. Il “solo se” segue dalla Proposizione 9.29.2. Basta quindi provare il “se”. Supponiamo dunque che 𝑓 sia continua. Senza perdita di generalità, possiamo supporre la successione di funzioni debolmente decrescente
9.1. Spazi pseudo-compatti
460
e assumere come 𝑓 la funzione identicamente nulla. Fissiamo un 𝜀 > 0 e un punto 𝑧 ∈ 𝑋. Siccome la successione numerica (𝑓𝑛 (𝑧))𝑛 converge a 0, esiste un 𝑛 tale che 𝑓𝑛 (𝑧) < 𝜀, ∀𝑛 ≥ 𝑛. Per la continuità di 𝑓𝑛 in 𝑧, esiste un intorno 𝑈 di tale punto per cui è 𝑓𝑛 (𝑈 ) ⊆ [0, 𝜀[ e quindi, per la decrescenza della successione, 𝑓𝑛 (𝑈 ) ⊆ [0, 𝜀[, ∀𝑛 ≥ 𝑛. Per l’arbitrarietà di 𝑧 si ha che la convergenza è localmente uniforme. Da questo lemma e dal Teorema 9.30 segue immediatamente il
Teorema 9.32 (di Dini). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico pseudo-compatto. Se una successione monotona (𝑓𝑛 )𝑛 di funzioni continue di 𝑋 in ℝ converge puntualmente a una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ, allora la convergenza è uniforme. Sottolineiamo il fatto che nei Corsi di Analisi spesso il Teorema di Dini viene presentato per funzioni definite su un intervallo chiuso e limitato e di solito le dimostrazioni sfruttano o la sequenziale compattezza o la compattezza mediante ricoprimenti. Le stesse dimostrazioni potrebbero essere riproposte per funzioni aventi come dominio spazi sequenzialmente compatti o, rispettivamente, compatti. In qualche modo, la precedente versione per spazi pseudo-compatti unifica i due approcci, visto che sia gli spazi compatti sia quelli sequenzialmente compatti sono pseudo-compatti. Osserviamo inoltre che nessuna di queste versioni richiede la completa regolarità dello spazio. Un ulteriore fatto degno di nota è il seguente: Teorema 9.33. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è pseudo-compatto se e solo se in esso vale il Teorema di Dini.
Dimostrazione. Il “solo se” è provato dal teorema precedente. Il “se” segue da un ragionamento analogo a quello utilizzato nella dimostrazione della prima parte del Teorema 9.30. Infatti, se per assurdo esistesse un funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ continua e illimitata superiormente, introducendo ancora i troncamenti 𝑓𝑛 ∶= 𝑓 ∧ 𝑛 si otterrebbe una successione monotona convergente puntualmente a una funzione continua. D’altra parte, questa convergenza non sarebbe uniforme, contro il Teorema di Dini. Simmetricamente nell’ipotesi che 𝑓 sia limitata inferiormente. Chiudiamo il paragrafo con alcune osservazioni che ci permetteranno di fare un collegamento con i risultati di Baire visti nei paragrafi 3.3 e 4.5. Ricordiamo a tale proposito il Teorema di Baire 3.62 che assicura che in uno spazio metrico (non vuoto) e completo ogni famiglia numerabile di sottoinsiemi aperti e densi ha intersezione densa nello spazio. Questa proprietà è conseguenza del Lemma di Cantor 3.61 per successioni evanescenti di chiusi negli spazi metrici completi. Visto che qui abbiamo trattato diffusamente la proprietà di Cantor in relazione alla pseudo-compattezza, è abbastanza naturale considerare ora la proprietà
9.1. Spazi pseudo-compatti
461
espressa dal Teorema di Baire in ambito puramente topologico, senza dover utilizzare proprietà di tipo metrico. Premettiamo una definizione. Definizione 9.34. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) si dice di Baire se ogni famiglia numerabile di sottoinsiemi aperti e densi ha intersezione densa nello spazio. ◁ La definizione ha senso, seppure se in modo vacuo, anche se 𝑋 = ∅. Una prima caratterizzazione è data dal seguente risultato, la cui immediata dimostrazione è lasciata per esercizio al lettore.
Teorema 9.35. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è di Baire se e solo se ogni riunione numerabile di chiusi con interno vuoto ha interno vuoto. Segnaliamo che taluni Autori assumono la proprietà riguardante i chiusi come definizione di spazio di Baire. Come visto nel paragrafo 4.5, la proprietà di spazio di Baire è associata a quella di spazio di seconda categoria. Le definizioni di prima e seconda categoria introdotte nel contesto degli spazi metrici (cfr. Definizione 4.85) possono essere estese a spazi topologici arbitrari. In particolare, seguendo il libro di Munkres [61], diciamo che un insieme 𝐹 ⊆ 𝑋 è di prima categoria se esiste una successione (𝐶𝑛 )𝑛 di chiusi con interno vuoto tale 𝐹 ⊆ ⋃𝑛 𝐶𝑛 . In caso contrario, 𝐹 è detto di seconda categoria. Si vede facilmente che questa definizione è in accordo con quella precedente. Lemma 9.36. Se uno spazio topologico è di Baire, è tale ogni suo sottospazio aperto. Dimostrazione. Siano dati uno spazio topologico di Baire (𝑋, 𝜏), un sottoinsieme aperto non vuoto 𝐸 di 𝑋 e una successione (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti densi in (𝐸, 𝜏𝐸 ). Essendo, per ipotesi, 𝐸 un aperto, gli 𝐴𝑛 sono anche aperti in 𝑋. Per ogni 𝑛, sia ora 𝐴′𝑛 ∶= 𝐴𝑛 ∪ 𝐸 ′ , con 𝐸 ′ ∶= 𝑋 ⧵ cl 𝐸. Si vede subito che gli 𝐴′𝑛 sono 𝜏-aperti e densi in 𝑋. Per ipotesi, l’intersezione degli 𝐴′𝑛 è un insieme denso in 𝑋. Ora si ha 𝑋 = cl (
⋂ 𝑛
𝐴′𝑛 ) = cl (
= cl 𝐸 ′ ∪ cl (
⋂ 𝑛
⋂ 𝑛
(𝐴𝑛 ∪ 𝐸 ′ )) = cl (𝐸 ′ ∪ (
𝐴𝑛 ) ⊆ (𝑋 ⧵ 𝐸) ∪ cl (
⋂ 𝑛
⋂ 𝑛
𝐴𝑛 )) =
𝐴𝑛 ).
L’ultima inclusione segue dal fatto che, essendo 𝐸 aperto, si ha 𝐸 ∩ cl 𝐸 ′ = ∅. Si deduce che cl ( ⋂𝑛 𝐴𝑛 ) ⊇ 𝐸. Notiamo che un sottoinsieme non aperto di uno spazio di Baire può non essere uno spazio di Baire. Per constatarlo, basta partire dallo spazio metrico completo (ℝ, 𝜏𝑒 ) e prendere come sottoinsieme quello ℚ dei razionali (cfr. Corollario 4.89 e Lemma 4.87). Lemma 9.37. Uno spazio topologico non vuoto di Baire è di seconda categoria.
9.1. Spazi pseudo-compatti
462
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio di Baire, con 𝑋 ≠ ∅. Se, per assurdo, lo spazio fosse di prima categoria, 𝑋 sarebbe unione numerabile di chiusi con interno vuoto; ma allora anche 𝑋 avrebbe interno vuoto: assurdo. Per avere un esempio di spazio di seconda categoria che non sia uno spazio di Baire, basta fare l’unione di uno spazio di prima con uno di seconda categoria, fra loro disgiunti. Per esempio, sia 𝑋 ∶= [0, 1] ∪ (]1, 2] ∩ ℚ) con la topologia euclidea. Si constata facilmente (Esercizio!) che 𝑋 è di seconda categoria, ma non è uno spazio di Baire. Lemma 9.38. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è di Baire se e solo se ogni suo sottoinsieme aperto non vuoto è di seconda categoria.
Dimostrazione. Per i lemmi precedenti, si ha che ogni sottoinsieme aperto di uno spazio di Baire, essendo ancora uno spazio di Baire, è di seconda categoria. Supponiamo, viceversa, che ogni sottoinsieme aperto dello spazio (𝑋, 𝜏) sia di seconda categoria e proviamo che 𝑋 è di Baire. Sia {𝐶𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} una famiglia numerabile di sottoinsiemi chiusi di 𝑋 con interno vuoto e diciamo 𝐶 la loro riunione. Se fosse int 𝐶 ≠ ∅, 𝐶 dovrebbe contenere un aperto 𝐴 che risulterebbe di prima categoria, contro l’ipotesi. Teorema 9.39. Ogni spazio topologico compatto di Hausdorff è di Baire.
Dimostrazione. Sia (𝐶𝑛 )𝑛 una successione di insiemi chiusi non vuoti aventi interno vuoto e chiamiamo 𝐶 la loro riunione. Dimostreremo che l’interno di 𝐶 è vuoto. A tale scopo, fissato un generico aperto 𝑈 non vuoto di 𝑋, troveremo che esiste un punto 𝑢 ∈ 𝑈 tale che 𝑢 ∉ 𝐶 e che quindi non ci sono aperti contenuti in 𝐶. Prendiamo per prima cosa l’insieme 𝐶1 . Poiché int 𝐶1 = ∅, sappiamo che 𝑈 ⊈ 𝐶1 . Quindi 𝑈1 ∶= 𝑈 ⧵ 𝐶1 è un aperto non vuoto. Prendiamo un punto 𝑢1 ∈ 𝑈1 . Poiché lo spazio, essendo compatto e di Hausdorff, è regolare in quanto normale (cfr. Teorema 7.33), esiste un aperto 𝐴1 con 𝑢1 ∈ 𝐴1 ⊆ cl 𝐴1 ⊆ 𝑈1 che è a sua volta disgiunto da 𝐶1 . Poiché anche 𝐶2 ha interno vuoto, esso non contiene 𝐴1 , da cui 𝑈2 ∶= 𝐴1 ⧵ 𝐶2 ≠ ∅. Esisteranno quindi un punto 𝑢2 e un aperto 𝐴2 con 𝑢2 ∈ 𝐴2 ⊆ cl 𝐴2 ⊆ 𝑈2 che è a sua volta disgiunto da 𝐶1 ∪ 𝐶2 . Procedendo in questo modo, per induzione, si ottengono due successioni decrescenti per inclusione di aperti non vuoti (𝐴𝑛 )𝑛 e (𝑈𝑛 )𝑛 , con 𝐴𝑛 ⊆ cl 𝐴𝑛 ⊆ 𝑈𝑛 ,
𝑈𝑛 ∩ (𝐶1 ∪ ⋯ ∪ 𝐶𝑛 ) = ∅.
Inoltre, si ha 𝑈𝑛 ⊆ 𝑈 , ∀𝑛. Per il Lemma di Cantor, l’intersezione delle chiusure degli 𝐴𝑛 e quindi quella degli 𝑈𝑛 è non vuota. Detto 𝑢 un punto in ⋂𝑛 𝑈𝑛 , per la scelta di tali insiemi si ha 𝑢 ∈ 𝑈 ⧵ 𝐶.
9.1. Spazi pseudo-compatti
463
Leggendo attentamente la dimostrazione, si vede che è sufficiente richiedere che lo spazio sia regolare e numerabilmente compatto. Se assumiamo la completa regolarità dello spazio, vale un risultato ancora più generale utilizzando la pseudo-compattezza. Teorema 9.40. Ogni spazio topologico pseudo-compatto e completamente regolare è di Baire. Dimostrazione. Siano dati uno spazio topologico completamente regolare pseudo-compatto (𝑋, 𝜏) e una famiglia numerabile di aperti {𝐴𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } densi in 𝑋; indichiamo con 𝐸 l’intersezione di tutti gli 𝐴𝑛 . Vogliamo provare che 𝐸 è denso in 𝑋. A tale scopo, faremo vedere che, fissati arbitrariamente un punto 𝑧 ∈ 𝑋 e un suo intorno aperto 𝑈 , risulta 𝑈 ∩ 𝐸 ≠ ∅. Per ogni indice 𝑛, sia 𝑈𝑛 l’aperto 𝐴𝑛 ∩ 𝑈 . Consideriamo dapprima l’insieme 𝑈1 . esso non è vuoto perché 𝐴1 è denso in 𝑋. Sia quindi 𝑧1 ∈ 𝑈1 e, per la regolarità dello spazio, sia 𝑉1 un aperto tale che 𝑧1 ∈ 𝑉1 ⊆ cl 𝑉1 ⊆ 𝑈1 . Essendo 𝑉1 ⊆ 𝑈 , si ha 𝑉1 ∩ 𝐴2 ⊆ 𝑈2 . Per la densità di 𝐴2 in 𝑋, esiste un punto 𝑧2 ∈ 𝑉1 ∩ 𝐴2 e quindi, ancora per la regolarità, esiste un aperto 𝑉2 con 𝑧2 ∈ 𝑉2 ⊆ cl 𝑉2 ⊆ 𝑉1 ∩ 𝐴2 ⊆ 𝑈2 . Procedendo in questo modo per induzione, si determina una successione di aperti (𝑉𝑛 )𝑛 tale che cl 𝑉1 ⊇ 𝑉1 ⊇ cl 𝑉2 ⊇ 𝑉2 ⊇ ⋯ ⊇ cl 𝑉𝑛 ⊇ 𝑉𝑛 ⊇ ⋯ Inoltre, per costruzione, si ha cl 𝑉𝑛 ⊆ 𝑈𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ+ . Poiché lo spazio è pseudocompatto e completamente regolare, dal Teorema 9.9 segue che ⋂𝑛 cl 𝑉𝑛 ≠ ∅. Ma allora anche ⋂𝑛 𝑈𝑛 = 𝑈 ∩ 𝐸 ≠ ∅. Vogliamo segnalare ancora il seguente risultato sulla metrizzabilità. Ricordiamo che, dato un insieme non vuoto 𝐸, si chiama diagonale il sottoinsieme Δ ⊆ 𝐸 × 𝐸 definito da Δ ∶= {(𝑥, 𝑥) ∶ 𝑥 ∈ 𝐸}. Teorema 9.41. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio compatto di Hausdorff. Lo spazio è metrizzabile se e solo se la sua diagonale Δ è un 𝐺𝛿 .
Dimostrazione. Prima di procedere alla dimostrazione, ricordiamo che uno spazio topologico è di Hausdorff se e solo se la sua diagonale è un chiuso (cfr. Teorema 7.78). Se lo spazio è metrizzabile, anche il prodotto lo è e quindi è perfettamente normale (cfr. Teorema 3.44); pertanto ogni suo chiuso (come la diagonale) è uno zero-insieme e quindi un 𝐺𝛿 (cfr. Teoremi 2.114, 2.112). Ovviamente, qui il risultato è generale, senza dover richiedere la compattezza. Venendo al viceversa, supponiamo che lo spazio sia compatto 𝑇2 e che la sua diagonale sia un chiuso 𝐺𝛿 . Verificheremo che lo spazio è metrizzabile utilizzando il Criterio di Metrizzabilità di Urysohn 3.115 e quindi verificando che lo spazio è regolare e secondo numerabile. La parte relativa alla regolarità è evidente, poiché ogni spazio compatto di Hausdorff è addirittura normale (cfr. Teorema 7.33). Resta da verificare che lo spazio è 𝐴2 . Intanto osserviamo che
9.1. Spazi pseudo-compatti
464
𝑋 × 𝑋 è normale. Questo non segue dalla normalità di 𝑋 (cfr. Esempio di Sorgenfrey 6.40), ma dal fatto che 𝑋 × 𝑋 è compatto di Hausdorff. L’ipotesi che la diagonale è un 𝐺𝛿 garantisce che esiste una successione decrescente di aperti dello spazio prodotto (𝐴𝑛 )𝑛 tale che la loro intersezione coincide con Δ. Questa proprietà può essere raffinata nel seguente modo: poiché 𝑋 × 𝑋 è normale, si può prendere una successione (𝑈𝑛 )𝑛 di aperti di 𝑋 × 𝑋 tale che 𝑈0 ⊇ cl 𝑈1 ⊇ 𝑈1 ⊇ ⋯ ⊇ cl 𝑈𝑛 ⊇ 𝑈𝑛 ⊇ ⋯ ∞ e, inoltre, Δ = ⋂∞ 1 𝑈𝑛 = ⋂1 cl 𝑈𝑛 . Per verificarlo, procediamo induttivamente come segue. Poniamo 𝑈0 ∶= 𝐴0 . Poi, usando il Teorema 1.105, determiniamo un aperto 𝑈1 con Δ ⊆ 𝑈1 ⊆ cl 𝑈1 ⊆ 𝑈0 . Come passo successivo, sempre per lo stesso teorema, determiniamo un aperto 𝑈2 , con Δ ⊆ 𝑈2 ⊆ cl 𝑈2 ⊆ 𝑈1 ∩ 𝐴1 , e così via. A partire dalla successione di questi 𝑈𝑛 , definiamo i seguenti sottoinsiemi 𝑉𝑛 (𝑦) di 𝑋, al variare di 𝑦 ∈ 𝑋:
𝑉𝑛 (𝑦) ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑈𝑛 } .
Per ogni 𝑛 ∈ ℕ e per ogni 𝑦 ∈ 𝑋, gli insiemi 𝑉𝑛 (𝑦) sono non vuoti e aperti. Per la prima affermazione, basta osservare che 𝑦 ∈ 𝑉𝑛 (𝑦), dato che 𝑈𝑛 ⊇ Δ. Veniamo alla seconda. Se 𝑢 ∈ 𝑉𝑛 (𝑦), allora (𝑢, 𝑦) ∈ 𝑈𝑛 . Poiché quest’ultimo insieme è aperto, esistono un aperto 𝐴𝑢 contenente 𝑢 e un aperto 𝐵𝑦 contenente 𝑦 tali che 𝐴𝑢 × 𝐵𝑦 ⊆ 𝑈𝑛 . Ma allora anche 𝐴𝑢 × {𝑦} ⊆ 𝑈𝑛 e, pertanto, 𝐴𝑢 ⊆ 𝑉𝑛 (𝑦). Abbiamo così verificato che 𝑉𝑛 (𝑦) è intorno di ogni suo punto. Come prossimo passo, proviamo che la famiglia {𝑉𝑛 (𝑦) ∶ 𝑛 ∈ ℕ, 𝑦 ∈ 𝑋 } è una base (di aperti) di 𝑋. A tal fine, mostriamo infatti che, per ogni 𝑦 ∈ 𝑋 e per ogni 𝑊 intorno aperto di 𝑦 in 𝑋, esiste un 𝑛 tale che 𝑉𝑛 (𝑦) ⊆ 𝑊 . Supponiamo, per assurdo, che ciò non accada. Esistono dunque un punto 𝑦 ∈ 𝑋 e un suo intorno aperto 𝑊 tali che, per ogni 𝑛, 𝑉𝑛 (𝑦) ⧵ 𝑊 ≠ ∅. Prendiamo quindi, per ogni 𝑛, un punto 𝑧𝑛 ∈ 𝑉𝑛 (𝑦) ⧵ 𝑊 . Per come sono definiti gli 𝑈𝑛 , abbiamo che 𝑧𝑛 sta anche nella chiusura dei 𝑉𝑘 (𝑦), ∀𝑘 ≤ 𝑛. Osserviamo ora che ⋂ 𝑛
cl 𝑉𝑛 (𝑦) = {𝑦};
(9.1)
ciò segue dal fatto che ⋂𝑛 cl 𝑈𝑛 = Δ. Se la successione (𝑧𝑛 )𝑛 possiede una sottosuccessione di valore costante 𝑝, dovrà necessariamente essere 𝑝 = 𝑦 e questo contraddice il fatto che 𝑧𝑛 ∉ 𝑊 , ∀𝑛. Possiamo quindi supporre gli 𝑧𝑛 tutti distinti. Per la proprietà di Bolzano-Weierstrass, esiste un punto di 𝜔accumulazione per l’insieme degli 𝑧𝑛 . In virtù della (9.1), si ha che questo punto non può che essere 𝑦. Ora, essendo 𝑦 ∈ 𝑊 punto di 𝜔-accumulazione per l’insieme degli 𝑧𝑛 , ne viene che infiniti di questi devono appartenere a 𝑊 , contro il modo con cui sono stati presi questi punti. Abbiamo così provato che gli aperti 𝑉𝑛 (𝑦) formano una base per 𝜏. Come ultimo passo, faremo vedere che la base appena ottenuta si può raffinare con una base numerabile. Consideriamo di nuovo gli insiemi 𝑈𝑛 nello spazio prodotto e, per ogni 𝑢 ∈ 𝑋, prendiamo un aperto 𝐻𝑛,𝑢 contenente 𝑢 e tale che
9.2. 𝑘-spazi
465
𝐻𝑛,𝑢 × 𝐻𝑛.𝑢 ⊆ 𝑈𝑛 . Per ogni 𝑛 fissato, la famiglia di aperti ℋ𝑛 ∶= {𝐻𝑛,𝑢 ∶ 𝑢 ∈ 𝑋 } costituisce un ricoprimento aperto di 𝑋 e quindi possiede un sottoricoprimento finito ℋ𝑛′ . L’unione degli ℋ𝑛′ è una famiglia numerabile di aperti che ricopre 𝑋. Faremo vedere che è una base che raffina quella precedente. Infatti, dati 𝑦 ∈ 𝑋 e un suo intorno aperto 𝑊 , prendiamo 𝑛 in modo che sia 𝑉𝑛 (𝑦) ⊆ 𝑊 . Per tale 𝑛, consideriamo l’aperto 𝑈𝑛 dell’insieme prodotto e prendiamo 𝐻𝑛,𝑦 in modo che sia 𝐻𝑛,𝑦 × 𝐻𝑛,𝑦 ⊆ 𝑈𝑛 . L’aperto 𝐻𝑛,𝑦 appartiene alla famiglia ℋ𝑛 e quindi 𝑦 apparterrà ad uno degli aperti della famiglia ℋ𝑛′ . Sia quindi 𝑢 tale che 𝑦 ∈ 𝐻𝑛,𝑢 ∈ ℋ𝑛′ e inoltre 𝐻𝑛,𝑢 × 𝐻𝑛,𝑢 ⊆ 𝑈𝑛 . Allora anche 𝐻𝑛,𝑢 × {𝑦} ∈ 𝑈𝑛 e quindi 𝐻𝑛,𝑢 ⊆ 𝑉𝑛 (𝑦) ⊆ 𝑊 . Osservazione 9.42. Sottolineiamo il fatto che, nel teorema precedente, la parte del “se” può cadere in difetto se lo spazio è solo pseudo-compatto. Per constatarlo, utilizzeremo ancora lo spazio (𝑋, 𝜏) di Mrówka dell’Esempio 9.17. Sappiamo che questo spazio è pseudo-compatto e 𝑇2 , non numerabilmente compatto e quindi non normale (cfr. Teorema 9.3); ne segue che esso non è metrizzabile. Resta da verificare che la diagonale Δ di 𝑋 × 𝑋, che è un chiuso dato che 𝑋 e di Hausdorff, è anche un 𝐺𝛿 . Per comodità, poniamo Δ0 ∶= {(𝑛, 𝑛) ∶ 𝑛 ∈ ℕ} (⊂ Δ). Si ha immediatamente che Δ0 è un aperto di 𝑋 2 . Osserviamo ancora che, essendo lo spazio 𝑇1 , per ogni 𝑛 ∈ ℕ, l’insieme ({𝑛} × 𝑋) ∪ (𝑋 × {𝑛}) è un chiuso. Per ogni 𝑥 ∈ ℛ, siano 𝐴𝑥 ∶= {𝑥} ∪ [𝑥] e 𝑉𝑥 ∶= 𝐴𝑥 × 𝐴𝑥 . Essendo gli 𝐴𝑥 aperti di 𝑋, i 𝑉𝑥 sono aperti di 𝑋 2 . Si ponga ora 𝑈 ∶=
⋃
𝑥∈ℛ
𝑉𝑥 ;
𝑈𝑛 ∶= (𝑈 ⧵ (({𝑛} × 𝑋) ∪ (𝑋 × {𝑛}))) ∪ Δ0 , ∀𝑛 ∈ ℕ.
Si vede subito che gli 𝑈𝑛 sono aperti di 𝑋 2 contenenti Δ e che la loro intersezione coincide proprio con la diagonale di 𝑋 2 . ◁
9.2 𝑘-spazi
Nel paragrafo precedente si è preso spunto dal Teorema di Weierstrass sull’esistenza di massimo e minimo, per funzioni continue a valori reali, per analizzare quali sono gli spazi in cui tale proprietà continua a sussistere senza necessariamente richiedere la compattezza dello spazio. In questo paragrafo fermiamo la nostra attenzione su un’altra proprietà degli spazi compatti di Hausdorff per cui i sottospazi chiusi sono tutti e soli quelli compatti (cfr. Teorema 7.30). Un modo (leggermente diverso) per esprimere questo fatto è il seguente: Un insieme è chiuso se e solo se ha intersezione chiusa con ogni compatto. Useremo questa proprietà per introdurre una classe di spazi detti k-spazi. Definizione 9.43. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio di Hausdorff. Esso è detto k-spazio se i suoi sottoinsiemi chiusi sono tutti e soli quelli che hanno intersezione chiusa con tutti i sottoinsiemi compatti di 𝑋. ◁
9.2. 𝑘-spazi
466
I 𝑘-spazi sono stati introdotti nel 1950 da David Gale che, comunque, fa risalire il concetto a Hurewicz. Alcuni Autori considerano una definizione più generale di 𝑘-spazio, non chiedendo che lo spazio sia 𝑇2 . In tal caso, la definizione di 𝑘-spazio viene modificata chiedendo che i chiusi siano tutti e soli i sottoinsiemi che hanno intersezione chiusa con i compatti chiusi. Benché questo modo sia molto più generale, preferiamo restringerci alla classe degli spazi di Hausdorff visto che i risultati più significativi si ottengono in questo caso. Una definizione equivalente può essere data mediante gli insiemi aperti. Lemma 9.44. Condizione necessaria e sufficiente affinché uno spazio di Hausdorff sia un 𝑘-spazio è che un sottoinsieme 𝐴 di 𝑋 sia aperto se e solo se 𝐴 ∩ 𝐾 è aperto in 𝐾, per ogni sottospazio compatto 𝐾 di 𝑋.
Dimostrazione. Se 𝐸 è un sottoinsieme aperto [chiuso] di 𝑋, 𝐸 ∩ 𝐾 è aperto [chiuso] in 𝐾. Proviamo la necessità. Sia 𝐴 ⊆ 𝑋 tale che 𝐴 ∩ 𝐾 è aperto in 𝐾 per ogni compatto 𝐾. Ne viene che 𝐾 ∩ (𝑋 ⧵ 𝐴) = 𝐾 ⧵ 𝐴 è chiuso in 𝐾, sempre per ogni compatto 𝐾. Da ciò segue, per ipotesi, che 𝑋 ⧵ 𝐴 è un 𝜏-chiuso e che quindi 𝐴 è un 𝜏-aperto. La sufficienza si prova in modo perfettamente analogo. La proprietà espressa dal lemma precedente può essere interpretata dicendo che la famiglia dei sottospazi compatti di 𝑋 determina la topologia di 𝑋, dato che la famiglia degli aperti dei sottospazi compatti determina quella degli aperti di 𝑋. Lo stesso termine 𝑘-spazio sottintende questo fatto. Infatti, la lettera 𝑘 è l’iniziale della parola tedesca kompakt e gli spazi si chiamano anche compattamente generati. Il caso dei 𝑘-spazi è un esempio particolare di quella che si chiama una topologia coerente con (o determinata da) una famiglia di sottospazi. Più precisamente: data una famiglia 𝒞 ∶= {𝐶𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } di sottospazi di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) che costituisca un ricoprimento di 𝑋, si dice che 𝜏 è coerente con 𝒞 se un sottoinsieme 𝐴 di 𝑋 è aperto in 𝜏 se e solo se 𝐴 ∩ 𝐶𝛼 è aperto in 𝐶𝛼 , per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 . Questa proprietà si può esprimere in modo equivalente considerando le immersioni canoniche 𝑗𝛼 ∶ 𝐶𝛼 → 𝑋. Allora la topologia 𝜏 è coerente con la famiglia 𝒞 se e solo se essa è la topologia finale indotta da {(𝐶𝛼 , 𝜏𝛼 , 𝑗𝛼 )}𝛼∈𝐽 , dove 𝜏𝛼 è la topologia di 𝐶𝛼 pensato come sottospazio di 𝑋 (cfr. Definizione 6.44). Il collegamento che abbiamo appena fatto col concetto di topologia coerente mostra che i 𝑘-spazi hanno un tipo di topologia quoziente. Valgono infatti alcuni risultati analoghi a quelli delle topologie quoziente. Dal Teorema 6.45 si ottiene immediatamente il seguente risultato.
9.2. 𝑘-spazi
467
Teorema 9.45. Siano (𝑋, 𝜏) e (𝑍, 𝜎) due spazi topologici con 𝑋 𝑘-spazio. Un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑍 è continua se e solo se è continua la sua restrizione a ogni suo sottospazio compatto. Dimostrazione. Basta ovviamente provare il “se”. Sia 𝒦 ∶= {𝐾𝑖 ∶ 𝑖 ∈ 𝐽 } l’insieme dei sottoinsiemi compatti di 𝑋. 𝒦 non è vuoto, dato che contiene almeno i sottoinsiemi finiti di 𝑋. Supponiamo dunque che, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , la funzione 𝑓 ∘ 𝑗𝑖 sia continua e fissiamo un aperto 𝑊 di 𝑍. Ne viene che, sempre per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , (𝑓 ∘𝑗𝑖 )−1 (𝑊 ) = 𝑗𝑖−1 (𝑓 −1 (𝑊 )) = 𝐾𝑖 ∩𝑓 −1 (𝑊 ) è un aperto di 𝐾𝑖 . Essendo 𝑋 un 𝑘-spazio, si ha che 𝑓 −1 (𝑊 ) è un 𝜏-aperto e che quindi 𝑓 è continua. Per il prossimo risultato, richiamiamo il concetto di applicazione quoziente visto precedentemente (cfr. Osservazione 6.65): un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 è detta applicazione quoziente se è continua, suriettiva e gli aperti di 𝑌 sono tutti e soli i suoi sottoinsiemi la cui controimmagine è aperta in 𝑋. Abbiamo anche già visto che ogni applicazione continua, suriettiva e aperta o chiusa è di tipo quoziente (cfr. Teorema 6.66).
Teorema 9.46. Siano (𝑋, 𝜏) e (𝑍, 𝜎) due spazi topologici di Hausdorff ed 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑍 un’applicazione quoziente. Allora, se 𝑋 è un 𝑘-spazio, è tale anche 𝑍.
Dimostrazione. Per ipotesi, 𝑓 è un’applicazione continua e suriettiva; inoltre, un sottoinsieme 𝐴′ è aperto in 𝑍 se e solo se 𝐴 ∶= 𝑓 −1 (𝐴′ ) è aperto in 𝑋. Ne viene che un sottoinsieme 𝐶 ′ è chiuso in 𝑍 se e solo se 𝐶 ∶= 𝑓 −1 (𝐶 ′ ) è chiuso in 𝑋. Sia ora 𝐵 ′ un sottoinsieme di 𝑍 tale che 𝐵 ′ ∩ 𝐾 ′ è chiuso in 𝐾 ′ , per ogni compatto 𝐾 ′ di 𝑍. Poniamo 𝐵 ∶= 𝑓 −1 (𝐵 ′ ) e fissiamo un compatto 𝐻 di 𝑋. 𝑓 (𝐻) è un compatto di 𝑍, quindi 𝑓 (𝐻) ∩ 𝐵 ′ è chiuso in 𝑓 (𝐻). Siccome −1 𝑓𝐻 ∶= 𝑓 |𝐻 è continua, si ha che 𝑓𝐻 (𝑓 (𝐻) ∩ 𝐵 ′ ) = 𝐻 ∩ 𝐵 è un chiuso di 𝐻. Poiché 𝑋 è un 𝑘-spazio e data l’arbitrarietà di 𝐻, si conclude che 𝐵 è un chiuso di 𝑋, ma allora, per definizione di applicazione quoziente, 𝐵 ′ è un chiuso di 𝑍. Si ottiene così che anche 𝑍 è un 𝑘-spazio. La proprietà di essere 𝑘-spazio è ereditata da certi sottospazi.
Lemma 9.47. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un suo sottoinsieme. Un sottoinsieme 𝐾 di 𝐸 è compatto in 𝐸 se e solo se è tale in 𝑋.
Dimostrazione. Sia 𝐾(⊆ 𝐸) compatto in 𝑋 e supponiamo che sia 𝐾 ⊆ ⋃𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 , con gli 𝐴𝑖 aperti di 𝐸. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , esiste un aperto 𝐴′𝑖 di 𝑋, con 𝐴𝑖 = 𝐴′𝑖 ∩𝐸. Si ha ovviamente 𝐾 ⊆ ⋃𝑖∈𝐽 𝐴′𝑖 . Essendo 𝐾 compatto in 𝑋, esiste un numero finito di indici 𝑖1 , … , 𝑖𝑛 ∈ 𝐽 tali che 𝐾 ⊆ 𝐴′𝑖 ∪ ⋯ ∪ 𝐴′𝑖 . Ma allora si ha anche 1 𝑛 𝐾 ⊆ 𝐸 ∩ (𝐴′𝑖 ∪ ⋯ ∪ 𝐴′𝑖 ) = 𝐴𝑖1 ∪ ⋯ ∪ 𝐴𝑖𝑛 . Per l’arbitrarietà del ricoprimento, 𝐾 1 𝑛 è compatto anche in 𝐸.
9.2. 𝑘-spazi
468
Veniamo al viceversa. Sia 𝐾(⊆ 𝐸) compatto in 𝐸 e supponiamo che sia 𝐾 ⊆ ⋃𝑖∈𝐽 𝐴′𝑖 , con gli 𝐴′𝑖 aperti di 𝑋. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , sia 𝐴𝑖 ∶= 𝐴′𝑖 ∩ 𝐸. Gli 𝐴𝑖 sono aperti in 𝐸 e si ha, ovviamente, 𝐾 ⊆ ⋃𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 . Essendo 𝐾 compatto in 𝐸, esiste un numero finito di indici 𝑖1 , … , 𝑖𝑛 ∈ 𝐽 tali che 𝐾 ⊆ 𝐴𝑖1 ∪ ⋯ ∪ 𝐴𝑖𝑛 ⊆ 𝐴′𝑖 ∪⋯∪𝐴′𝑖 . Per l’arbitrarietà del ricoprimento, 𝐾 è compatto anche in 𝑋. 1
𝑛
Lemma 9.48. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico 𝑇2 ed 𝐸 un suo sottoinsieme chiuso. Se 𝐾 è un sottoinsieme compatto di 𝑋, allora 𝐾 ∩ 𝐸 è compatto in 𝐸.
Dimostrazione. Sia 𝐾 un compatto di 𝑋. 𝐾 è chiuso ed è quindi tale anche 𝐾 ∩ 𝐸. Ne viene che 𝐾 ∩ 𝐸 è un compatto di 𝑋 e quindi di 𝐸, per il lemma precedente. Teorema 9.49. Sia (𝑋, 𝜏) un 𝑘-spazio. 1. Ogni suo sottoinsieme chiuso è un 𝑘-spazio. 2. Ogni suo sottoinsieme aperto è un 𝑘-spazio.
Dimostrazione. 1. Fissiamo un sottoinsieme chiuso 𝐸 di 𝑋 e sia 𝐶 un sottoinsieme di 𝐸 avente intersezione chiusa con ogni compatto di 𝐸. Per ogni compatto 𝐾 ′ di 𝑋, si ha 𝐾 ′ ∩ 𝐶 = (𝐾 ′ ∩ 𝐸) ∩ 𝐶 = 𝐾 ∩ 𝐶, con 𝐾 ∶= 𝐾 ′ ∩ 𝐸. Essendo 𝐾 un compatto di 𝐸, si ha che 𝐾 ′ ∩ 𝐶 è, per ipotesi, chiuso in 𝐾 e quindi in 𝐾 ′ , dato che 𝐸 è chiuso. Essendo 𝑋 un 𝑘-spazio, si conclude che 𝐶 è chiuso in 𝑋 e quindi in 𝐸. 2. Siano ora 𝐸 un sottoinsieme aperto di 𝑋 ed 𝐴 un sottoinsieme di 𝐸 che ha intersezione aperta con ogni compatto di 𝐸. Fissiamo un compatto 𝐾 di 𝑋 e verifichiamo che 𝐴 ∩ 𝐾 è aperto in 𝐾. Dall’arbitrarietà di 𝐾, si ottiene che 𝐴 è aperto in 𝑋 e quindi in 𝐸, da cui la tesi. Fissiamo un punto 𝑧 ∈ 𝐴 ∩ 𝐾(⊆ 𝐹 ∶= 𝐸 ∩ 𝐾). Essendo 𝐾 un compatto 𝑇2 , esso è normale e quindi regolare. 𝐹 è un aperto di 𝐾 contenente 𝑧; esiste pertanto un aperto 𝑈𝑧 di 𝐾 tale che 𝑧 ∈ 𝑈𝑧 ⊆ cl 𝑈𝑧 ⊆ 𝐹 (⊆ 𝐸). L’insieme cl 𝑈𝑧 , essendo un chiuso di 𝐾 è compatto in 𝐾. Per il Lemma 9.47, cl 𝑈𝑧 è compatto in 𝐹 e anche in 𝐸. Per ipotesi, 𝐴 ∩ cl 𝑈𝑧 è aperto in cl 𝑈𝑧 . Esiste quindi un aperto 𝑉𝑧 di 𝐾 tale che 𝐴 ∩ cl 𝑈𝑧 = 𝑉𝑧 ∩ cl 𝑈𝑧 , da cui 𝐴 ∩ 𝑈𝑧 = (𝐴 ∩ cl 𝑈𝑧 ) ∩ 𝑈𝑧 = (𝑉𝑧 ∩ cl 𝑈𝑧 ) ∩ 𝑈𝑧 = 𝑉𝑧 ∩ 𝑈𝑧 ,
che è aperto in 𝐾. Si conclude 𝐴 ∩ 𝐾 = ⋃𝑧∈𝐴∩𝐾 𝐴 ∩ 𝑈𝑧 che è un aperto di 𝐾. Mostriamo con un esempio che la proprietà di essere un 𝑘-spazio non è ereditata da tutti i sottoinsiemi.
Esempio 9.50. Consideriamo ancora la spazio (𝑋, 𝜏) dell’esempio 2.56. È dunque 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ 𝐵 ∪ {𝑝}, con 𝐵 ∶= {𝑏𝑚 ∶ 𝑚 ∈ ℕ}, i 𝑏𝑚 ∉ ℕ2 e fra loro distinti e 𝑝 ∉ ℕ2 ∪ 𝐵. In 𝑋 definiamo la seguente topologia 𝜏. I punti di ℕ2
9.2. 𝑘-spazi
469
sono isolati. Una base di intorni di 𝑏𝑚 è data dagli insiemi del tipo 𝐵𝑚,𝑘 ∶= {𝑏𝑚 } ∪ {(𝑚, 𝑛) ∶ 𝑛 > 𝑘}. Una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi del tipo 𝐵𝑘,𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {𝑏𝑚 ∈ 𝐵 ∶ 𝑚 > 𝑘} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ (𝑚 > 𝑘) ∧ (𝑛 > 𝑓 (𝑚))} dove 𝑓 è un’arbitraria funzione di ℕ in ℕ. Sappiamo che questo spazio è 𝑇2 e sequenziale; vedremo tra un attimo (cfr. Teorema 9.52) che di conseguenza esso è un 𝑘spazio. Sia ora 𝑌 ∶= ℕ2 ∪ {𝑝}. Osserviamo che gli unici sottoinsiemi compatti di 𝑌 sono quelli finiti. Infatti, se 𝐸(⊆ 𝑌 ) è infinito, esiste un intorno aperto 𝐴 di 𝑝 tale che 𝐹 ∶= 𝐸 ⧵ 𝐴 è ancora infinito (Esercizio). Il ricoprimento di 𝐸 dato da 𝐴 e dai singoletti di 𝐹 non ha sottoricoprimenti finiti. Ciò prova che ogni sottoinsieme di 𝑌 ha intersezione chiusa con i compatti di 𝑌 ; questo vale anche per 𝑌 ⧵ {𝑝} che non è un chiuso; dunque 𝑌 non è un 𝑘-spazio. Osserviamo che 𝑌 non è né aperto né chiuso. ◁
Con riferimento al Teorema 9.46, osserviamo che non tutte le applicazioni continue e suriettive mutano 𝑘-spazi in 𝑘-spazi, come mostra l’esempio che segue. Esempio 9.51. Siano 𝑋 ∶= ℕ2 con la topologia discreta e (𝑌 , 𝜏) lo spazio visto nell’esempio precedente. Sappiamo che 𝑋 è un 𝑘-spazio mentre 𝑌 non lo è. Definiamo ora una funzione continua e suriettiva 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Si pone 𝑓 (0, 0) ∶= 𝑝, 𝑓 (0, 𝑛) ∶= (0, 𝑛 − 1), ∀𝑛 > 0 e 𝑓 (𝑥) = 𝑥, per tutti gli altri elementi di ℕ2 . Chiaramente 𝑓 è continua e suriettiva. ◁ Dopo aver visto queste proprietà generali, vediamo di stabilire alcuni esempi significativi. Teorema 9.52. Ogni spazio topologico (𝑋, 𝜏) di Hausdorff e sequenziale (in particolare di Fréchet, primo numerabile, metrico) è un 𝑘-spazio.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che in 𝑋 esista un sottoinsieme 𝐸 non chiuso che abbia intersezione chiusa con un qualunque compatto di 𝑋. Poiché 𝑋 è uno spazio sequenziale, in esso sono chiusi tutti e soli i suoi sottoinsiemi sequenzialmente chiusi (cfr. Definizione 2.53). Quindi 𝐸 non è sequenzialmente chiuso. Esiste dunque una successione (𝑥𝑛 )𝑛 di punti di 𝐸 convergente a un punto 𝑧 ∉ 𝐸. Sia 𝐶 ∶= {𝑧} ∪ {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. Si vede subito che 𝐶 è compatto in 𝑋. Ora però si ha 𝐶 ∩ 𝐸 = {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} che non è chiuso in 𝐶, contro l’ipotesi su 𝐸. Osservazione 9.53. Poiché ogni spazio metrico è perfettamente normale, ci si può chiedere se il teorema precedente sussiste anche per gli spazi perfettamente normali. L’esempio 9.50 mostra che la risposta è negativa. Infatti si è visto che il sottospazio 𝑌 ivi considerato non è un 𝑘-spazio. Verificheremo ora che esso è perfettamente normale. Per prima cosa, si osserva che ogni suo punto ha una base di intorni che sono clopen. Per il Lemma 9.16 esso è completamente regolare e quindi regolare.
9.2. 𝑘-spazi
470
Tale spazio è anche normale, poiché è numerabile. Per constatarlo, si ripete lo stesso ragionamento già utilizzato nel Teorema 1.102 e nel Lemma di Tychonoff 7.103 (Esercizio!). Per il Corollario 2.112 e per quanto osservato dopo la Definizione 2.113, basta verificare che ogni suo chiuso è un 𝐺𝛿 . Questo fatto è banale se il chiuso non contiene il punto 𝑝. Sia quindi 𝐶 un chiuso contenente 𝑝 e diciamo 𝐴 il suo complementare. Anche 𝐴 è numerabile (eventualmente finito) e i suoi punti sono clopen. Togliendo da 𝑌 uno alla volta gli elementi di 𝑌 ⧵ 𝐶 si ottiene una successione (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti debolmente decrescente per inclusione, la cui intersezione coincide con 𝐶. ◁ Osservazione 9.54. Dotando un arbitrario insieme non vuoto 𝑋 della topologia discreta, si ottiene uno spazio metrico e, quindi, un 𝑘-spazio. Ne viene che per ogni topologia di Hausdorff 𝜏 su un insieme 𝑋, esiste una topologia 𝜎 su 𝑋 più fine di 𝜏 tale che (𝑋, 𝜎) è un 𝑘-spazio. Osserviamo ancora che, date due topologie confrontabili su un medesimo insieme non vuoto 𝑋, se una delle due rende 𝑋 un 𝑘-spazio (e in tal caso diremo che è una 𝑘-topologia), nulla si può dire, in generale dell’altra. Mostreremo anzi che esistono topologie che si raffinano e indeboliscono sia mediante 𝑘-topologie sia mediante topologie 𝑇2 che non generano 𝑘-spazi. Sia 𝑋 ∶= {(1/𝑛, 1/𝑚) ∶ 𝑛, 𝑚 ∈ ℕ+ } ∪ {(0, 0)} e definiamo in esso 5 topologie 𝜏1 , … , 𝜏5 . In ciascuna di esse, i punti diversi da (0, 0) sono isolati. Definiamo, per ogni topologia, una base di intorni dell’origine. 𝜏 1 → 𝑈𝑘
𝜏2 → 𝑈ℎ,𝑘,𝑓 𝜏3 → 𝑈ℎ,𝑘 𝜏4 → 𝑈𝑘,𝑓 𝜏 5 → 𝑈0
∶= ∶= ∶= ∶=
1 1 {( 𝑛 , 𝑚 ) ∶ (𝑛 > 𝑘) ∧ (𝑚 > 𝑘)} ∪ {(0, 0)} 1 1 {( 𝑛 , 𝑚 ) ∶ (𝑚 > 𝑘) ∧ (𝑛 > 𝑓 (𝑚))} ∪
∪ {( 1𝑛 , 𝑚1 ) ∶ (𝑛 > 𝑘) ∧ (𝑚 > ℎ𝑘 𝑛)} ∪ {(0, 0)} 1 1 ℎ {( 𝑛 , 𝑚 ) ∶ (𝑛 > 𝑘) ∧ (𝑚 > 𝑘 𝑛)} ∪ {(0, 0)}
1 1 {( 𝑛 , 𝑚 ) ∶ (𝑛 > 𝑘) ∧ (𝑚 > 𝑓 (𝑛))} ∪ {(0, 0)} ∶= {(0, 0)}.
Si ha, ovviamente, 𝜏𝑖 ⪯ 𝜏𝑖+1 , per 𝑖 = 1, … , 4. Le topologie 𝜏1 , 𝜏3 , 𝜏5 sono primo-numerabili e quindi generano 𝑘-spazi. Invece 𝜏2 , 𝜏4 non sono 𝑘-topologie (cfr: Esempio 9.50). La 𝑘-topologia 𝜏3 soddisfa alla nostra richiesta. Si può anche sostituire 𝜏3 con una topologia 𝜎 che non genera un 𝑘-spazio. I punti diversi da (0, 0) sono ancora isolati. Ponendo 𝜎 → 𝑈𝑘,𝑓
∶=
1 1 {( 𝑛 , 𝑚 ) ∶ (𝑚 > 𝑘) ∧ (𝑛 > 𝑓 (𝑚))} ∪ ∪ {( 1𝑛 , 𝑚1 ) ∶ (𝑛 > 𝑘) ∧ (𝑚 > 𝑓 (𝑛))} ∪ {(0, 0)},
otteniamo una base di intorni dell’origine con le proprietà richieste.
◁
La classe dei 𝑘-spazi risulta essere interessante per le applicazioni dato che comprende, oltre ai compatti di Hausdorff, anche tutti gli spazi metrici. Dal
9.3. Compattezza locale
471
lato negativo, possono venire a mancare alcune proprietà di separazione. Per esempio, poiché gli spazi compatti 𝑇2 e quelli metrici sono normali, ci si può chiedere se accade lo stesso anche per i 𝑘-spazi. La risposta è negativa: esistono infatti 𝑘-spazi che non sono nemmeno regolari. Esempio 9.55. Siano 𝑌 ∶= [0, 1] e 𝑋 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ∪{0}. In 𝑋 definiamo la topologia ereditata da quella euclidea. La topologia di 𝑌 è la seguente: sono isolati tutti i punti diversi da 0; una base di intorni di 0 è costituita dagli insiemi {0} ∪ 𝑊 , con 𝑊 sottoinsieme cofinito di 𝑌 . Nello spazio prodotto 𝑋 × 𝑌 , si considerino i sottospazi 𝑍 ∶= 𝑋 × 𝑌 ⧵ {(0, 0)}, 𝐴 ∶= (𝑋 ⧵ {0}) × {0} e 𝐵 ∶= {0} × (𝑌 ⧵ {0}). Gli insiemi 𝐴 e 𝐵 sono due insiemi disgiunti di 𝑍. Essi sono anche chiusi in 𝑍. Questo fatto non è ovvio, il lettore può verificarlo per esercizio, una volta compresa bene la topologia prodotto. Facciamo vedere che 𝐴 e 𝐵 non possono essere separati da aperti in 𝑍. Per comodità, indichiamo con 𝐻 l’insieme {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } × ]0, 1]. Ogni aperto 𝑈 contenente 𝐴 deve contenere quasi tutti gli elementi del segmento {1/𝑛}× ]0, 1], ∀𝑛 ∈ ℕ+ . Ne viene che 𝐻 ⧵ 𝑈 è al più numerabile. D’altra parte, ogni insieme aperto 𝑉 contenente 𝐵 deve contenere quasi tutti gli elementi del tipo (1/𝑛, 𝑦), per ogni prefissato 𝑦 ∈ ]0, 1]. Ne viene che 𝑉 ∩ 𝐻 ha la potenza del continuo e non può quindi essere contenuto in 𝐻 ⧵ 𝑈 . Fatto ciò considereremo lo spazio quoziente 𝑍/𝐴. In tale spazio, quello che prima era l’insieme 𝐴 sarà identificato con un punto. Da ciò segue che 𝑍/𝐴 non è regolare. Mostriamo, in fine, che 𝑍/𝐴 è un 𝑘-spazio. Gli spazi 𝑋 e 𝑌 sono compatti di Hausdorff; è quindi tale anche lo spazio 𝑋 × 𝑌 che, pertanto, è un 𝑘-spazio. L’insieme 𝑍 è un sottoinsieme aperto di 𝑋 × 𝑌 e quindi è ancora un 𝑘-spazio (cfr. Teorema 9.49). Ne viene che anche 𝑍/𝐴 è un 𝑘-spazio, per il Teorema 9.46. ◁ La proprietà di essere 𝑘-spazio non si preserva con il prodotto; nel prossimo paragrafo inquadreremo questo problema in un ambito più generale (cfr. Esempio 9.79).
9.3 Compattezza locale Come è noto fin dai corsi di Matematica di base, e come si è visto nei capitoli precedenti, il concetto di compattezza e gli spazi compatti rivestono un ruolo fondamentale nelle applicazioni della Topologia. Tuttavia, molti spazi importanti, come per esempio ℝ o ℝ𝑛 , non sono compatti. Comunque questi spazi hanno una proprietà importante nel senso che in essi ogni punto possiede intorni che sono compatti. Questo fatto può essere generalizzato al caso di spazi topologici arbitrari ed esso porta al concetto di locale compattezza. Se si considera il modo in cui questo concetto è presentato dai diversi Autori, si nota che esistono degli approcci abbastanza differenti che portano a definizioni fra loro simili, ma non equivalenti. Ne citiamo alcune.
9.3. Compattezza locale
472
Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto localmente compatto se:
Def. Def. Def. Def.
1. 2. 3. 4.
Ogni Ogni Ogni Ogni
punto punto punto punto
di di di di
𝑋 𝑋 𝑋 𝑋
possiede possiede possiede possiede
un intorno compatto. un intorno a chiusura compatta. una base di intorni compatti. una base di intorni a chiusura compatta.
La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che alcuni Autori, (si veda, per esempio, [18, Cap.3]), quando parlano di insiemi compatti, si riferiscono implicitamente a spazi di Hausdorff. Quindi, nelle definizioni di sopra, gli intorni considerati potrebbero essere di Hausdorff senza che sia tale lo spazio. In generale, le definizioni date sopra non sono fra loro equivalenti, tuttavia esse lo sono se lo spazio è 𝑇2 . Teorema 9.56. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Tutte le precedenti definizioni implicano la prima. 2. La Def. 2 e la Def. 4 sono equivalenti, 3. Se lo spazio è di Hausdorff, le quattro definizioni sono tutte fra loro equivalenti. Dimostrazione. 1. Che dalla Def. 2 o dalla Def. 3 segua la Def. 1 è ovvio. Inoltre, la Def. 4 implica banalmente la Def. 2 e quindi la Def. 1. 2. Basta provare cha dalla Def. 2 segua la Def. 4. Fissiamo un punto 𝑧 ∈ 𝑋 e sia 𝑉 un suo intorno con cl 𝑉 compatto. Detta ℬ una base di intorni di 𝑧, per ogni 𝐵 ∈ ℬ, sia 𝐵 ′ ∶= 𝐵 ∩ 𝑉 . Anche l’insieme dei 𝐵 ′ è una base di intorni di 𝑧. ora si ha cl 𝐵 ′ ⊆ cl 𝑉 . Per la Proposizione 7.30.1, si ha che anche cl 𝐵 ′ è compatto. 3. Supponiamo che lo spazio (𝑋, 𝜏) sia di Hausdorff. Ci basta provare che dalla Def. 1 seguono la Def. 2 e la Def. 3. Fissiamo un punto 𝑧 ∈ 𝑋 e diciamo 𝑉 un suo intorno compatto. Essendo lo spazio di Hausdorff, 𝑉 è chiuso (Proposizione 7.30.2). Ciò prova, intanto, la Def. 2. Sia 𝑉 ′ ∶= int 𝑉 . Si ha che l’insieme cl 𝑉 ′ è un chiuso contenuto in cl 𝑉 = 𝑉 ed è quindi anch’esso un intorno compatto di 𝑧. Non è restrittivo supporre 𝑉 = cl 𝑉 ′ . Sia, in fine, ℬ una base di intorni aperti di 𝑧 che possiamo pensare tutti contenuti in int 𝑉 . Essendo 𝑉 compatto e 𝑇2 , è normale (Teorema 7.33) e quindi regolare. Per ogni 𝐵 ∈ ℬ, esiste un aperto 𝑈 tale che 𝑧 ∈ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝐵 ⊆ 𝑉 . Gli insiemi cl 𝑈 così trovati formano una base di intorni chiusi di 𝑧; essi sono anche compatti in quanto contenuti nel compatto 𝑉 .
Per controllare che, in generale, le quattro definizioni non sono equivalenti, ci saranno utili i seguenti esempi. Esempio 9.57. Sia 𝑋 ∶= [0, 1[ ∪ℕ+ . In esso definiamo la seguente topologia 𝜏. In [0, 1[ la topologia è quella euclidea. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , una base di suoi intorni è data dagli insiemi del tipo {𝑛}∪ ]𝑎, 1[, con 𝑎 ∈ ]0, 1[. Lo spazio è chiaramente 𝑇1 , ma non 𝑇2 .
9.3. Compattezza locale
473
Questa topologia soddisfa alla Def. 1 e alla Def. 3, ma non alla Def. 2 e alla Def. 4. Si noti che, per esempio, il punto 1 ha come intorno l’insieme compatto 𝑈 ∶= [1/2, 1], ma è cl 𝑈 = 𝑈 ∪ ℕ+ che non è compatto. Infatti gli aperti del tipo 𝐴𝑛 ∶= ]0, 1[ ∪{𝑛}, al variare di 𝑛 in ℕ+ , formano un ricoprimento di cl 𝑈 che non ha un sottoricoprimento finito. ◁
Esempio 9.58. Sia 𝑋 ∶= [0, 1[ e in esso definiamo la seguente topologia 𝜏. Per ogni punto 𝑥 ∈ ]0, 1[, una base di suoi intorni aperti è data dagli insiemi conumerabili contenenti 𝑥 e contenuti in ]0, 1[. Una base di intorni aperti di 0 è data dagli insiemi cofiniti contenenti 0. Lo spazio è chiaramente 𝑇1 , ma non 𝑇2 . Lo spazio 𝑋 è compatto e quindi sussistono la Def. 1 e la Def. 2. Non soddisfa invece alla Def. 3. Infatti, siano 𝑥 ∶= 1/2 e 𝑈 (⊆ ]0, 1[) un suo intorno della base suddetta. 𝑈 ha la potenza del continuo. Sia 𝐸 ∶= {𝑒𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} un suo sottoinsieme numerabile e poniamo 𝑈 ′ ∶= 𝑈 ⧵ 𝐸. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ sia poi 𝑈𝑛 ∶= 𝑈 ′ ∪ {𝑒0 , … , 𝑒𝑛 }. Gli 𝑈𝑛 sono aperti e costituiscono una famiglia crescente per inclusione che ricopre 𝑈 . È evidente che questo ricoprimento non possiede sottoricoprimenti finiti. Quindi nessun aperto della base di 𝑥 sopra considerata è compatto. Sia ora ℬ una base arbitraria di intorni di 𝑥. Ogni intorno 𝑉 ∈ ℬ deve contenere un elemento della base di partenza e ha quindi la potenza del continuo. Ragionando come sopra, si vede che 𝑉 non può essere compatto. ◁ In base a queste premesse, noi accetteremo la seguente
Definizione 9.59. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto localmente compatto se è 𝑇2 e se ogni punto di 𝑋 possiede una base di intorni a chiusura compatta (o se soddisfa a una delle altre tre condizioni equivalenti). ◁
Esempio 9.60. È immediato che (ℝ, 𝜏𝑒 ) è localmente compatto, mentre non lo è (ℚ, 𝜏𝑒 ). Verifichiamo che neanche (ℝ, 𝜏 + ) è localmente compatto. Siccome lo spazio è di Hausdorff, le quattro definizioni sono equivalenti. Se, per assurdo, 0 possedesse un intorno 𝑈 compatto, dovrebbe essere compatto anche un intervallo del tipo [0, 𝛿[ ⊆ 𝑈 , dato che esso è 𝜏 + -chiuso. Ma questo non è vero, come si constata partendo da un suo ricoprimento fatto con aperti del tipo [0, 𝛿𝑛 [, con 𝛿𝑛 < 𝛿𝑛+1 < 𝛿. ◁ Teorema 9.61. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico 𝑇2 . 1. Se 𝑋 è compatto, allora è localmente compatto. 2. Se 𝑋 è localmente compatto, allora è un 𝑘-spazio.
Dimostrazione. 1. Basta osservare che, se 𝑋 è compatto, ogni intorno aperto di un qualunque punto 𝑧 ∈ 𝑋 ha la chiusura compatta (Proposizione 7.30.1). 2. Supponiamo (𝑋, 𝜏) localmente compatto e sia 𝐶 un sottoinsieme di 𝑋 tale che 𝐶 ∩ 𝐾 è chiuso in 𝐾, per ogni compatto 𝐾 di 𝑋. Fissiamo un punto 𝑧 ∈ cl 𝐶 e un suo intorno aperto 𝑉 . Si vede subito che è 𝑧 ∈ cl𝑉 (𝐶 ∩ 𝑉 ). Per ipotesi, possiamo supporre cl 𝑉 compatto in 𝑋. Ne viene che 𝐶 ∩ cl 𝑉 è un
9.3. Compattezza locale
474
chiuso di 𝑉 ′ ∶= cl 𝑉 . Si ottiene 𝑧 ∈ cl𝑉 (𝐶 ∩ 𝑉 ) ⊆ cl𝑉 ′ (𝐶 ∩ cl 𝑉 ) = 𝐶 ∩ cl 𝑉 ⊆ 𝐶. Per l’arbitrarietà di 𝑧, si ha che 𝐶 è chiuso in 𝑋. Nessuna delle due implicazioni del teorema precedente è invertibile. (ℝ, 𝜏𝑒 ) è localmente compatto ma non compatto. (ℚ, 𝜏𝑒 ), essendo uno spazio metrico, è un 𝑘-spazio, ma non è localmente compatto. Per lo studio della locale compattezza, ci siamo ristretti al caso degli spazi di Hausdorff. È naturale quindi chiedersi se l’ipotesi di locale compattezza garantisce la validità di altri assiomi di separazione, come ad esempio l’assioma di normalità che sussiste per i compatti di Hausdorff. Ebbene, vedremo che la compattezza locale implica la completa regolarità, ma non la normalità.
Teorema 9.62 (di Tychonoff). Ogni spazio localmente compatto è completamente regolare.
Dimostrazione. In uno spazio localmente compatto (𝑋, 𝜏), siano assegnati un punto 𝑧 e un chiuso non vuoto 𝐶, con 𝑧 ∉ 𝐶. Per la locale compattezza, esiste un intorno aperto 𝑈 di 𝑧 con cl 𝑈 compatto. Consideriamo ora l’insieme 𝐸 ∶= (cl 𝑈 ⧵ 𝑈 ) ∪ (cl 𝑈 ∩ 𝐶). L’insieme 𝐸 è un chiuso contenuto nel compatto cl 𝑈 ed è disgiunto dal singoletto {𝑧} che è un chiuso. Supponiamo intanto 𝐸 ≠ ∅. Per il Teorema 7.33, lo spazio compatto di Hausdorff cl 𝑈 è normale. Per il Lemma di Urysohn 2.100, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ cl 𝑈 → [0, 1] che separa i due chiusi {𝑧} ed 𝐸. Possiamo quindi supporre che sia 𝑓 (𝑧) = 0 e 𝑓 (𝐸) ⊆ {1}. Se è 𝐸 = ∅, prendiamo come 𝑓 la funzione identicamente nulla su cl 𝑈 . In ogni caso, data la 𝑓 , la prolunghiamo a tutto 𝑋 assegnando il valore 1 a tutti i punti di 𝑋 ⧵ cl 𝑈 e chiamiamo 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1] questo prolungamento. Per costruzione, si ha 𝑔(𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐶. Resta da verificare che 𝑔 è continua. A tale scopo osserviamo che lo spazio 𝑋 può essere espresso come la riunione dei chiusi cl 𝑈 e 𝑋 ⧵ 𝑈 . La funzione 𝑔 ristretta al primo insieme è continua perché coincide con 𝑓 , mentre sul secondo è continua in quanto costante. Per il Teorema 2.15, 𝑔 è continua su tutto 𝑋. Per constatare che non sussiste l’implicazione opposta di questo teorema, basta considerare lo spazio topologico (ℚ, 𝜏𝑒 ). Questo spazio, essendo metrico, è addirittura normale, ma non è localmente compatto. Ci sono alcuni classici esempi di spazi localmente compatti non normali e quindi non paracompatti (cfr. Teorema 8.7); qui ne proponiamo due.
Esempio 9.63. [Topologia delle successioni razionali.] Nell’insieme 𝑋 ∶= ℝ definiamo la seguente topologia 𝜏, che è un raffinamento di quella dell’Esempio 1.95. I punti razionali sono isolati. Per ogni numero irrazionale 𝑧 selezioniamo una successione 𝑄𝑧 ∶= (𝑞𝑛𝑧 )𝑛 di numeri razionali distinti convergente a 𝑧 nella topologia euclidea. Un intorno di base di 𝑧 è dato dagli insiemi ottenuti aggiungendo a {𝑧} una coda della successione 𝑄𝑧 . È immediato che si tratta effettivamente di una topologia e che questa è di Hausdorff. Ogni punto di 𝑋
9.3. Compattezza locale
475
ha un intorno compatto e quindi lo spazio è localmente compatto. Proviamo che esso non è normale. Chiamiamo 𝑆 l’insieme ℝ ⧵ℚ. Ogni sottoinsieme di 𝑆 è chiuso. Per ogni 𝐶 ⊆ 𝑆, indichiamo con 𝐶 ′ il suo complementare in 𝑆. Se, per assurdo, 𝑋 fosse normale, esisterebbero due aperti disgiunti 𝑈𝐶 , 𝑉𝐶 contenenti, rispettivamente 𝐶 e 𝐶 ′ . Ad ogni 𝐶 quindi possiamo associare il sottoinsieme 𝜑(𝐶) di ℚ dato da ℚ ∩ 𝑈𝐶 . Si ottiene così un’applicazione 𝜑 ∶ 𝒫 (𝑆) → 𝒫 (ℚ). Si perviene all’assurdo dimostrando che questa applicazione è iniettiva (cfr. gli Esempi 1.95 e 1.96, dove si è utilizzato un analogo ragionamento). Siano 𝐶 e 𝐷 due sottoinsiemi distinti di 𝑆. Esiste quindi un elemento che appartiene ad uno solo dei due. Sia, per esempio, 𝑧 ∈ 𝐶 ⧵ 𝐷. L’insieme 𝜑(𝐶) contiene una coda 𝐾 della successione 𝑄𝑧 . Poiché 𝑧 ∈ 𝐷′ , una coda 𝐾 ′ di 𝑄𝑧 deve stare anche nell’insieme 𝑉𝐷 che è disgiunto da 𝑈𝐷 . L’insieme 𝐾 ∩ 𝐾 ′ è quindi contenuto in 𝜑(𝐶), ma non in 𝜑(𝐷). Pertanto si ha 𝜑(𝐶) ≠ 𝜑(𝐷). ◁ Esempio 9.64. [Thomas plank/Piano di Thomas.] ℝ2 definito da 𝑋 ∶=
⋃
𝑛∈ℕ+
Sia 𝑋 il sottoinsieme di
{(𝑥, 1/𝑛) ∶ 0 ≤ 𝑥 < 1} ∪ {(𝑥, 0) ∶ 0 < 𝑥 < 1} .
Definiamo in 𝑋 la seguente topologia 𝜏 assegnando gli intorni di base dei singoli punti. I punti del tipo (𝑥, 1/𝑛), con 𝑥 > 0 sono isolati. Una base di intorni di un punto del tipo (0, 1/𝑛) è costituita dal singoletto {(0, 1/𝑛)} unito ai sottoinsiemi cofiniti dell’insieme 𝐿𝑛 ∶= ]0, 1[ ×{1/𝑛}. In fine, una base di intorni di un punto del tipo (𝑥, 0) è data dagli insiemi del tipo {(𝑥, 0)} ∪ [𝑥]𝑘 , con [𝑥𝑘 ] ∶= {(𝑥, 1/𝑛) ∶ 𝑛 > 𝑘}. Lo spazio è chiaramente 𝑇2 . È agevole verificare (Esercizio!) che lo spazio è anche localmente compatto. Resta da provare che non è normale. Consideriamo i due insiemi chiusi e disgiunti 𝐶 ∶= {(0, 1/𝑛) ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } e 𝐷 ∶= {(𝑥, 0) ∶ 0 < 𝑥 < 1}. Poniamo anche 𝐸 ∶= 𝑋 ⧵ (𝐶 ∪ 𝐷). Ogni aperto 𝑈 contenente 𝐶 esclude al più un’infinità numerabile di punti di 𝐸. Per contro, ogni aperto 𝑉 contenente 𝐷 contiene un’infinità non numerabile di punti di 𝐸. Si conclude che 𝑈 ∩ 𝑉 non può essere vuoto. ◁ Occupiamoci ora delle proprietà connesse alle funzioni continue definite su spazi localmente compatti, con particolare riguardo alle mappe quoziente. Teorema 9.65. Siano 𝑋 e 𝑌 spazi topologici, con 𝑋 localmente compatto e 𝑌 di Hausdorff. Se esiste 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 continua, aperta e suriettiva, allora anche 𝑌 è localmente compatto.
Dimostrazione. Sia 𝑤 ∈ 𝑌 un elemento arbitrario. Essendo 𝑓 suriettiva, esiste 𝑧 ∈ 𝑋 con 𝑓 (𝑧) = 𝑤. Per ipotesi, 𝑧 ha un intorno compatto 𝐾. Si ha dunque 𝑧 ∈ int 𝐾 ⊆ 𝐾, da cui 𝑤 ∈ 𝑓 (int 𝐾) ⊆ 𝑓 (𝐾). Essendo 𝑓 aperta, l’insieme 𝑓 (int 𝐾) è un intorno aperto di 𝑤. Ne viene che 𝑓 (𝐾) è un intorno compatto dello stesso punto.
9.3. Compattezza locale
476
Il risultato non è vero, in generale, per suriezioni solo aperte o solo continue, neanche nel caso in cui siano chiuse, come mostrano gli esempi che seguono. Si consideri intanto la funzione identica 𝑖 ∶ (ℝ, 𝜏𝑒 ) → (ℝ, 𝜏 + ). È un’applicazione suriettiva, aperta e chiusa; essa non è continua (𝜏 + è strettamente più fine di 𝜏𝑒 ) e inoltre porta uno spazio localmente compatto su uno che non lo è (cfr. Esempio 9.60). Mostriamo con un esempio che nel teorema precedente l’ipotesi che 𝑓 sia aperta è essenziale. Esempio 9.66. Sia 𝑌 ∶= (ℝ ⧵ ℤ) ∪ {𝑤}, con 𝑤 ∉ ℝ e definiamo in esso la seguente topologia 𝜏. Per i punti diversi da 𝑤 una base di intorni è data dagli intorni aperti euclidei intersecati con 𝑌 . Una base di intorni di 𝑤 è data dagli insiemi del tipo ⋃𝑛∈ℤ (𝐽𝑛 ⧵ {𝑛}) ∪ {𝑤}, dove, per ogni 𝑛, 𝐽𝑛 è un intervallo aperto contenente 𝑛 e contenuto in ]𝑛 − 1, 𝑛 + 1[. La topologia 𝜏 può essere vista come ottenuta quozientando (ℝ, 𝜏𝑒 ) con ℤ. Chiaramente, lo spazio (𝑌 , 𝜏) è di Hausdorff. Proviamo che esso non è localmente compatto, mostrando che il punto 𝑤 non ha intorni compatti. Fissiamo dunque un intorno 𝑉 di 𝑤. Per ogni 𝑛 ∈ ℤ, l’intersezione di 𝑉 con l’intervallo 𝐼𝑛 ∶= ]𝑛, 𝑛+1[ deve contenere due intervalli del tipo ]𝑛, 𝑛 + 𝜀𝑛 [ e ]𝑛 + 1 − 𝛿𝑛 , 𝑛 + 1[, con 𝜀𝑛 , 𝛿𝑛 ∈ ]0, 1[. Consideriamo poi l’intorno aperto A di 𝑤 definito da 𝐴 ∶=
⋃
(]𝑛, 𝑛 + 𝜀𝑛 /2[ ∪ ]𝑛 + 1 − 𝛿𝑛 /2, 𝑛 + 1[) ∪ {𝑤}.
𝑛∈ℤ
Per costruzione è 𝐴 ⊂ 𝑉 . La famiglia 𝒜 ∶= {𝐴} ∪ {𝐼𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℤ} è un ricoprimento aperto di 𝑉 che non ammette sottoricoprimenti finiti. Sia ora 𝑓 ∶ ℝ → 𝑌 la funzione definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥, ∀𝑥 ∈ ℝ ⧵ ℤ e 𝑓 (𝑛) ∶= 𝑤, ∀𝑛 ∈ ℤ. La funzione 𝑓 è un’applicazione quoziente ed è quindi continua. La funzione 𝑓 non è aperta: l’insieme 𝑓 (] − 1, 1[) non è un aperto di 𝑌 , dato che contiene 𝑤 ma non un suo intorno. Proviamo, in fine, che 𝑓 è chiusa. Supponiamo, per assurdo, che esista un chiuso 𝐶 di ℝ con 𝑓 (𝐶) non chiuso in 𝑌 . Esiste dunque 𝑥 ∈ cl 𝑓 (𝐶) ⧵ 𝑓 (𝐶). Siccome i punti di ℝ ⧵ ℤ hanno le stesse basi di intorni in ℝ e in 𝑌 , deve necessariamente essere 𝑥 = 𝑤. Dato che 𝑤 ∉ 𝑓 (𝐶), il chiuso 𝐶 non contiene nessun intero; quindi, per ogni 𝑛 ∈ ℤ, esiste in numero reale 𝛿𝑛 ∈ ]0, 1[ tale che 𝐶 ha intersezione vuota con l’intervallo aperto 𝑈𝑛 ∶= ]𝑛 − 𝛿𝑛 , 𝑛 + 𝛿𝑛 [. L’insieme ⋃𝑛∈ℤ (𝑈𝑛 ⧵ {𝑛}) ∪ {𝑤} è un intorno aperto di 𝑤 che ha intersezione vuota con 𝑓 (𝐶), contro l’ipotesi 𝑤 ∈ cl 𝑓 (𝐶). ◁ Il risultato centrale su questo argomento è il seguente.
Teorema 9.67. I 𝑘-spazi sono tutti e soli i quozienti di spazi localmente compatti.
Dimostrazione. Siano 𝑍 uno spazio localmente compatto e 𝑋 un suo quoziente. Per la Proposizione 9.61.2, 𝑍 è un 𝑘-spazio. D’altra parte, si è visto che i quozienti di 𝑘-spazi sono ancora 𝑘-spazi (Teorema 9.46).
9.3. Compattezza locale
477
Sia ora 𝑋 un 𝑘-spazio. Indichiamo con 𝒞 la famiglia dei sottoinsiemi non vuoti e compatti di 𝑋. La famiglia 𝒞 è non vuota perché contiene almeno i singoletti. Sia ora 𝑊 lo spazio unione disgiunta (somma diretta) degli elementi di 𝒞 (cioè 𝑊 ∶= ∐𝐶∈𝒞 𝐶). Formalmente, i vari insiemi 𝐶 ∈ 𝒞 vanno pensati a due a due disgiunti e pertanto come coppie del tipo (𝐶, {𝐶}). È dunque 𝑊 ∶= ⋃𝐶∈𝒞 (𝐶, {𝐶}). In 𝑊 definiamo la seguente topologia 𝜎, assegnando gli intorni dei singoli punti. Un elemento di 𝑊 è del tipo (𝑥, {𝐶}), con 𝑥 ∈ 𝐶. Una base di suoi 𝜎-intorni è data dagli insiemi del tipo (𝐴, {𝐶}), con 𝐴 intorno aperto di 𝑥 nella topologia indotta da 𝜏 su 𝐶. Ne viene, in particolare, che sono aperti in 𝜎 tutti i sottoinsiemi di 𝑊 la cui traccia con qualunque 𝐶 ∈ 𝒞 è aperta in 𝐶. Il lettore verifichi che, anche se il contesto è diverso, la topologia 𝜎 è dello stesso tipo di quella considerata nella Definizione 6.48. A ogni elemento (𝑥, {𝐶}) ∈ 𝑊 associamo ora l’elemento 𝑥 ∈ 𝑋. Si ottiene così un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑊 → 𝑋. Mostriamo che 𝑓 è continua. Infatti, dato un aperto 𝐴 in 𝑋, 𝑓 −1 (𝐴) è, per definizione, dato dall’unione degli insiemi (𝐴 ∩ 𝐶, {𝐶}) al variare di 𝐶 ∈ 𝒞 . Questo insieme è aperto in 𝑊 perché, per costruzione, ha traccia aperta con ogni 𝐶 ∈ 𝒞 . Inoltre 𝑓 è ovviamente suriettiva. Verifichiamo che 𝑓 è un’applicazione quoziente. Essendo 𝑋 un 𝑘-spazio, i suoi aperti non vuoti sono tutti e soli i sottoinsiemi che hanno traccia aperta sui compatti di 𝑋 e quindi tutti e soli i sottoinsiemi che hanno controimmagine aperta in 𝑊 . La tesi sarà raggiunta se verifichiamo che 𝑊 è uno spazio localmente compatto. Cominciamo col constatare che 𝑊 è di Hausdorff. Siano dati due punti distinti (𝑥1 , {𝐶1 }), (𝑥2 , {𝐶2 }) ∈ 𝑊 . Se è 𝐶1 ≠ 𝐶2 , basta prendere gli aperti disgiunti (𝐶1 , {𝐶1 }) e (𝐶2 , {𝐶2 }). In caso contrario, si ha 𝑥1 ≠ 𝑥2 . Poiché 𝑋 è di Hausdorff, esistono due aperti disgiunti 𝐴1 , 𝐴2 in 𝑋, con 𝑥1 ∈ 𝐴1 e 𝑥2 ∈ 𝐴2 . I 𝜎-aperti disgiunti (𝐴1 ∩𝐶1 , {𝐶1 }) e (𝐴2 ∩𝐶1 , {𝐶1 }) separano i due punti. Mostriamo, in fine, che 𝑊 è localmente compatto. Fissiamo un elemento (𝑥, {𝐶}) ∈ 𝑊 . Un suo intorno compatto è dato da (𝐶, {𝐶}) (Esercizio!). Osserviamo che, in generale, l’applicazione quoziente 𝑓 sopra definita non è un’applicazione aperta. In effetti, si vede che ogni insieme (𝐶, {𝐶}) è un clopen compatto di 𝑊 . In particolare ciò accade nel caso che 𝐶 sia un singoletto. Dunque 𝑓 è aperta se e solo se 𝜏 è la topologia discreta.
Analogamente a quanto visto per i 𝑘-spazi (cfr. Teorema 9.49), anche la locale compattezza si preserva per i sottoinsiemi aperti e per quelli chiusi. Sussiste infatti il seguente risultato: Teorema 9.68. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio localmente compatto. 1. Ogni suo sottoinsieme chiuso è localmente compatto. 2. Ogni suo sottoinsieme aperto è localmente compatto.
Dimostrazione. 1. Siano 𝐶 un sottoinsieme chiuso di 𝑋 e 𝑧 un suo elemento arbitrario. Essendo 𝑋 localmente compatto, 𝑧 ha in 𝑋 un intorno compatto 𝑈 .
9.3. Compattezza locale
478
Esso è chiuso perché 𝑋 è 𝑇2 . L’insieme 𝑈 ∩ 𝐶 è un chiuso di 𝑋 contenuto in 𝑈 ; esso è quindi un chiuso di 𝑈 ed è pertanto compatto in 𝐶 (cfr. Lemma 9.47). D’altra parte, esso è anche un intorno di 𝑧 in 𝐶. Quindi anche 𝐶 è localmente compatto. 2. Siano 𝐴 un sottoinsieme aperto di 𝑋 e 𝑧 un suo elemento arbitrario. Essendo lo spazio 𝑋 localmente compatto, 𝑧 possiede una base di 𝜏-intorni compatti. Siccome 𝐴 è un intorno di 𝑧, esiste un intorno compatto 𝐾 del punto contenuto in 𝐴. La tesi segue dal fatto che 𝐾 è un intorno compatto di 𝑧 anche nello spazio topologico 𝐴. Per constatare che la compattezza locale non è ereditata da un qualunque sottoinsieme basta considerare (ℝ, 𝜏𝑒 ) e il suo sottospazio (ℚ, 𝜏𝑒 ). Osserviamo che il teorema precedente e il Teorema 9.49 possono essere così enunciati: Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico localmente compatto [un 𝑘-spazio] allora ogni sottoinsieme 𝐸 di 𝑋 che sia intersezione di un aperto con un chiuso è ancora uno spazio localmente compatto [un 𝑘-spazio]. Per quanto riguarda gli spazi localmente compatti, l’ultima affermazione è invertibile. Per verificarlo, premettiamo il seguente lemma. Lemma 9.69. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico 𝑇2 ed 𝐸 un suo sottoinsieme localmente compatto e denso in 𝑋. Allora 𝐸 è aperto.
Dimostrazione. Dato 𝑥 ∈ 𝐸, esiste un suo intorno aperto 𝑈 rispetto ad 𝐸 la cui chiusura in 𝐸 è compatta in 𝐸 e quindi in 𝑋. Essendo 𝑋 di Hausdorff, cl𝐸 𝑈 è un chiuso di 𝑋, da cui cl𝐸 𝑈 = cl 𝑈 . D’altra parte, si ha 𝑈 = 𝐸 ∩ 𝐴, con 𝐴 aperto di 𝑋. Poiché 𝐸 è denso in 𝑋, risulta cl 𝐴 = cl(𝐴 ∩ 𝐸). Infatti, dato 𝑦 ∈ cl 𝐴, in ogni suo intorno aperto 𝑉 cadono punti di 𝐴; ma 𝑉 ∩ 𝐴, essendo un aperto non vuoto, contiene anche punti di 𝐸. Quindi ogni intorno aperto 𝑉 di 𝑦 contiene punti di 𝐴 ∩ 𝐸. Abbiamo pertanto che 𝑥 ∈ 𝐴 ⊆ cl 𝐴 = cl(𝐴 ∩ 𝐸) = cl 𝑈 = cl𝐸 𝑈 ⊆ 𝐸;
quindi 𝐸 è intorno di 𝑥. Per l’arbitrarietà di 𝑥, si conclude che 𝐸 è effettivamente aperto.
Teorema 9.70. In uno spazio localmente compatto (𝑋, 𝜏) sono localmente compatti tutti e soli i suoi sottoinsiemi che si possono esprimere nella forma 𝐴 ∩ 𝐶, con 𝐴 aperto e 𝐶 chiuso. Dimostrazione. In virtù del Teorema 9.68, basta provare che se 𝐾 ⊆ 𝑋 è localmente compatto, allora è intersezione di un aperto con un chiuso. Consideriamo 𝐾 come sottoinsieme denso di 𝑌 ∶= cl 𝐾. Quest’ultimo è uno spazio di Hausdorff avente 𝐾 come suo sottospazio localmente compatto e denso. Per il lemma precedente, 𝐾 è aperto in 𝑌 ; esiste dunque un aperto 𝐴 di 𝑋 tale che 𝐾 = 𝐴 ∩ 𝑌 . La tesi segue dal fatto che 𝑌 è chiuso in 𝑋.
9.3. Compattezza locale
479
Poiché ℝ𝑛 con la topologia euclidea è uno spazio localmente compatto, dal teorema precedente abbiamo una caratterizzazione dei suoi sottospazi localmente compatti. In varie occasioni, ci siamo occupati della retta reale con la topologia di Sorgenfrey perché rappresenta una struttura semplice da descrivere e nello stesso tempo utile per la costruzione di esempi e controesempi. Lo spazio (ℝ, 𝜏 + ) gode delle seguenti proprietà: è primo numerabile, ma non secondo numerabile; è separabile (ℚ è denso in ℝ); è perfettamente normale (Teorema 2.118) ma non metrizzabile (Esempio 3.126); è di Lindelöf (Esempio 7.105) e paracompatto (Esempio 8.13), ma non compatto; è normale, ma il suo quadrato non è normale (Esempio 6.40); non è localmente compatto (Esempio 9.60). Vediamo ora ulteriori proprietà.
Esempio 9.71. Consideriamo lo spazio (ℝ, 𝜏 + ). Vogliamo verificare che esso è un 𝑘-spazio, è uno spazio di Baire e che non è pseudo-compatto. Essendo primo numerabile, è di Fréchet e quindi sequenziale; pertanto è un 𝑘-spazio (cfr. Teorema 9.52). Verifichiamo che è uno spazio di Baire. Per prima cosa osserviamo che un sottoinsieme 𝐷 ⊆ ℝ è denso in ℝ se e solo se è denso nella topologia euclidea (Esercizio!). Supponiamo ora di avere una famiglia numerabile {𝐴𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} di insiemi aperti e densi in ℝ, rispetto a 𝜏 + , e sia 𝐴 ∶= ⋂𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝑈𝑛 ∶= int 𝐴𝑛 rispetto alla topologia euclidea e indichiamo con 𝑈 la loro intersezione. Gli 𝑈𝑛 sono tutti non vuoti e sono densi in ℝ e, per definizione, 𝜏𝑒 -aperti. Poiché (ℝ, 𝜏𝑒 ), essendo spazio metrico completo, è di Baire (Teorema 3.62), ne viene che 𝑈 è denso in ℝ rispetto a 𝜏𝑒 e quindi anche rispetto a 𝜏 + . Essendo 𝑈 ⊆ 𝐴, si ha subito la tesi. Il fatto che lo spazio non sia pseudo-compatto è banale; basta considerare la funzione 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥 da (ℝ, 𝜏 + ) in (ℝ, 𝜏𝑒 ). Essa è continua perché 𝜏 + è più fine di 𝜏𝑒 , ma non è limitata. ◁ Un altro esempio interessante che abbiamo già incontrato è quello della topologia di Hjalmar Ekdal su ℕ+ . Vediamo di studiare alcune sue proprietà.
Esempio 9.72 (Topologia di Hjalmar Ekdal). Nell’insieme ℕ+ dei naturali positivi introduciamo la topologia 𝜏 di Hjalmar Ekdal. 2 Ricordiamo (cfr. Esempio 1.83) che in questa topologia i punti pari sono isolati e che una base di intorni di un punto dispari 𝑑 è data dall’insieme 𝐵𝑑 ∶= {𝑑, 𝑑 + 1}. Si ottiene che questi ultimi insiemi sono clopen. Lo spazio è chiaramente 𝐴2 e 𝑇0 , ma non 𝑇1 ; non è 𝑇3 (Proposizione 1.81.1); è 𝑇4 e 𝑇5 (Esempio 1.83). Un sottoinsieme 𝐴 ⊆ ℕ+ è aperto se e solo se, ogni volta che contiene un numero dispari 𝑑, contiene anche il pari 𝑑 + 1. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } un qualunque ricoprimento aperto di ℕ+ . Ogni numero dispari 𝑑 deve appartenere 2
Il nome Hjalmar Ekdal è uno pseudonimo tratto da un personaggio de “L’anitra selvatica” di H. Ibsen.
9.3. Compattezza locale
480
a qualche 𝐴𝛼 ; essendo questi aperto, deve contenere anche il pari 𝑑 + 1; dunque, per ogni 𝛼, esiste un 𝑑 tale che 𝐵𝑑 ⊆ 𝐴𝛼 . D’altra parte, poiché la famiglia 𝒜 è un ricoprimento aperto, ogni 𝐵𝑑 è contenuto in qualche 𝐴𝛼 . Ne viene che la famiglia ℬ ∶= {𝐵𝑑 ∶ (𝑑 = 2𝑘 + 1) ∧ (𝑘 ∈ ℕ)} è un raffinamento di 𝒜 localmente finito. Dunque (ℕ+ , 𝜏) è paracompatto, ma non compatto. La funzione 𝑓 ∶ ℕ+ → ℝ definita da 𝑓 (2𝑘 − 1) = 𝑓 (2𝑘) ∶= 𝑘, ∀𝑘 ∈ ℕ+ è continua e illimitata. Il nostro spazio non è pseudo-compatto. Siccome ogni punto ha un intorno aperto fatto da un numero finito di elementi, si ottiene che un sottoinsieme 𝐾 di ℕ+ è compatto (se e) solo se è finito. 𝐾 è anche chiuso se e solo se, ogni volta che contiene un numero pari 𝑝, contiene anche il dispari 𝑝 − 1 e quindi contiene 𝐵𝑝−1 . Sia ora 𝐶 un sottoinsieme di ℕ+ che ha intersezione chiusa con ogni compatto chiuso 𝐾. Si vede subito che allora 𝐶 è chiuso. Non essendo 𝑇2 , in base alla definizione da noi adottata, lo spazio non è un 𝑘-spazio; lo sarebbe se prescindessimo dalla proprietà di Hausdorff. Per la stessa ragione, (ℕ+ , 𝜏) non è localmente compatto; tuttavia esso soddisfa alle proprietà Def.1, …, Def.4 di pag. 472 (Esercizio!). Abbiamo così un esempio di uno spazio in cui sussistono tutte quattro le definizioni di locale compattezza, ma che non è di Hausdorff. ◁ Veniamo allo studio del prodotto di 𝑘-spazi e di spazi localmente compatti. Il primo risultato è il seguente:
Teorema 9.73. Il prodotto di due spazi localmente compatti è localmente compatto.
Dimostrazione. Siano (𝑋1 , 𝜏1 ) e (𝑋2 , 𝜏2 ) due spazi localmente compatti. Quindi ogni punto di 𝑋1 (di 𝑋2 ) ha una base di intorni con chiusura compatta. Nello spazio prodotto (di Hausdorff) 𝑋1 × 𝑋2 fissiamo un punto 𝑥 ∶= (𝑥1 , 𝑥2 ). Ogni intorno di 𝑥 contiene un aperto del tipo 𝐴1 × 𝐴2 , con 𝐴𝑖 intorno di 𝑥𝑖 , 𝑖 = 1, 2. In base all’ipotesi possiamo supporre che le chiusure di 𝐴𝑖 siano compatte in 𝑋𝑖 , sempre con 𝑖 = 1, 2. Ne viene che cl(𝐴1 × 𝐴2 ) = cl 𝐴1 × cl 𝐴2 è un intorno compatto di 𝑥 in 𝑋1 × 𝑋2 . Il teorema si estende banalmente al prodotto di un numero finito di spazi localmente compatti. Questa proprietà non si conserva invece, in generale, per i prodotti di infiniti fattori. Per constatarlo, basta considerare lo spazio ℝℕ (che è metrizzabile). Infatti gli intorni di base di un punto sono insiemi illimitati che quindi non possono avere chiusura compatta. Passiamo ora a considerare i 𝑘-spazi. Vedremo fra un po’ (Esempio 9.79) che il prodotto di 𝑘-spazi non è necessariamente un 𝑘-spazio. Vale tuttavia un risultato intermedio per cui il prodotto di uno spazio localmente compatto con un 𝑘-spazio è ancora un 𝑘-spazio. Per poterlo constatare premetteremo il seguente risultato tecnico.
9.3. Compattezza locale
481
Lemma 9.74 (di Whitehead). Siano (𝑋, 𝜏𝑋 ) e (𝑍, 𝜏𝑍 ) due spazi topologici arbitrari e 𝜑 ∶ 𝑍 → 𝑋 un’applicazione quoziente. Per ogni spazio (𝑌 , 𝜏𝑌 ) localmente compatto, l’applicazione 𝑓 ∶ 𝑍 × 𝑌 → 𝑋 × 𝑌 definita da 𝑓 (𝑧, 𝑦) ∶= (𝜑(𝑧), 𝑦) è ancora una mappa quoziente. Dimostrazione. Poiché ogni mappa quoziente è continua e suriettiva, dalle proprietà di 𝜑 segue immediatamente che anche 𝑓 è continua e suriettiva. Quindi basta dimostrare che se 𝑊 ⊆ 𝑋 × 𝑌 ha controimmagine aperta in 𝑍 × 𝑌 , allora 𝑊 è aperto. Consideriamo un punto arbitrario 𝑤 ∶= (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑊 . Scegliamo un punto 𝑤′ ∈ 𝑓 −1 ({𝑤}) che sarà del tipo 𝑤′ ∶= (𝑧, 𝑦) con 𝜑(𝑧) = 𝑥. Poiché 𝑌 è localmente compatto, esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 a chiusura compatta tale che {𝑧} × cl 𝑉 ⊆ 𝑊 ′ , con 𝑊 ′ ∶= 𝑓 −1 (𝑊 ). (Si tenga presente che il punto 𝑦 ha una base di intorni compatti.) Osserviamo inoltre che si ha anche 𝜑−1 ({𝑥}) × cl 𝑉 ⊆ 𝑊 ′ . Vale, in effetti, anche una proprietà più generale, ovvero, per ogni 𝑢 ∈ 𝑍: 𝜑−1 ({𝜑(𝑢)}) × cl 𝑉 ⊆ 𝑊 ′ ⇔ {𝑢} × cl 𝑉 ⊆ 𝑊 ′ .
(9.2)
Introduciamo a questo punto l’insieme
𝐴 ∶= {𝑡 ∈ 𝑋 ∶ 𝜑−1 ({𝑡}) × cl 𝑉 ⊆ 𝑊 ′ } .
Questo insieme contiene il punto 𝑥. Se dimostriamo che 𝐴 è un aperto di 𝑋, avremo trovato un aperto 𝐴 × 𝑉 contenente 𝑤 e contenuto in 𝑊 , verificando così che 𝑊 è intorno di 𝑤 e, per l’arbitrarietà del punto, che 𝑊 è aperto. Per dimostrare che 𝐴 è aperto, sfrutteremo il fatto che 𝜑 è un’applicazione quoziente e quindi verificheremo che l’insieme 𝜑−1 (𝐴) = {𝑠 ∈ 𝑍 ∶ 𝜑−1 ({𝜑(𝑠)}) × cl 𝑉 ⊆ 𝑊 ′ }
è un aperto di 𝑍. Dalla (9.2) si ha 𝜑−1 (𝐴) = {𝑠 ∈ 𝑍 ∶ {𝑠} × cl 𝑉 ⊆ 𝑊 ′ }. In fine, sia 𝑠0 un punto arbitrario di 𝜑−1 (𝐴). Per il Lemma tubolare 8.24, applicato a 𝑋 × cl 𝑉 , esiste un aperto 𝑈0 contenente 𝑠0 tale che 𝑈0 × cl 𝑉 ⊆ 𝑊 ′ e quindi 𝑈0 ⊆ 𝜑−1 (𝐴). Abbiamo così dimostrato che 𝜑−1 (𝐴) è intorno di ogni suo punto. Teorema 9.75. Il prodotto di un 𝑘-spazio per uno localmente compatto è un 𝑘-spazio.
Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏𝑋 ) un 𝑘-spazio e (𝑌 , 𝜏𝑌 ) uno spazio localmente compatto. Per il Teorema 9.67, esistono uno spazio localmente compatto (𝑍, 𝜎) e un’applicazione 𝜑 ∶ 𝑍 → 𝑋 di tipo quoziente. Consideriamo, in fine, l’applicazione 𝑓 ∶ 𝑍 × 𝑌 → 𝑋 × 𝑌 definita da 𝑓 (𝑧, 𝑦) ∶= (𝜑(𝑧), 𝑦). Dal Teorema 9.73 sappiamo che 𝑍 ×𝑌 è localmente compatto. Per il Lemma di Whitehead 9.74, 𝑓 è un’applicazione quoziente. Si conclude che lo spazio 𝑋 × 𝑌 è un 𝑘-spazio, ancora per il Teorema 9.67.
9.3. Compattezza locale
482
Il Lemma di Whitehead, di cui abbiamo visto l’utilità nel teorema precedente, riguarda prodotti in cui uno dei fattori è uno spazio localmente compatto. Esiste una variante di questo risultato nel caso del prodotto di 𝑘-spazi che viene espressa dal Lemma 9.78. Un’osservazione preliminare è la seguente: Se il prodotto di due spazi topologici è un 𝑘-spazio, allora è tale ciascuno dei fattori. (Per constatarlo si possono usare i Teoremi 6.66 e 9.67 assieme al fatto che la composta di mappe quoziente è ancora di tipo quoziente.)
Lemma 9.76. Siano 𝑋, 𝑍 spazi topologici, con 𝑋 𝑘-spazio, e 𝑓 ∶ 𝑍 → 𝑋 un’applicazione continua. Dato un qualunque compatto 𝐾 ⊆ 𝑋, indichiamo con 𝑓𝐾 la restrizione di 𝑓 a 𝑓 −1 (𝐾), per cui 𝑓𝐾 ∶ 𝑓 −1 (𝐾) → 𝐾. Allora l’applicazione 𝑓 è aperta, chiusa, quoziente se e solo se è tale la 𝑓𝐾 per ogni compatto 𝐾 di 𝑋. Dimostrazione. È facile verificare che, se l’applicazione 𝑓 ha una delle proprietà suddette, allora anche tutte le sue restrizioni 𝑓𝐾 hanno le stesse proprietà. Resta da provare il viceversa. Si osservi intanto che, dati 𝐾 ⊆ 𝑋 e 𝐴 ⊆ 𝑍, si ha 𝑓 (𝐴) ∩ 𝐾 = 𝑓 (𝐴 ∩ 𝑓 −1 (𝐾)) = 𝑓𝐾 (𝐴 ∩ 𝑓 −1 (𝐾)).
Supponiamo 𝑓𝐾 aperta per ogni compatto 𝐾 di 𝑋 e fissiamo un aperto 𝐴 di 𝑍. Allora 𝐴 ∩ 𝑓 −1 (𝐾) è un aperto di 𝑓 −1 (𝐾). Quindi 𝑓𝐾 (𝐴 ∩ 𝑓 −1 (𝐾)) è un aperto di 𝐾. Si ottiene che 𝑓 (𝐴) ha intersezione aperta in 𝐾, per ogni compatto 𝐾 di 𝑋. Si conclude che 𝑓 (𝐴) è aperto in 𝑋, dato che questo è un 𝑘-spazio. Analogamente nel caso che 𝑓𝐾 sia chiusa, per ogni compatto 𝐾 di 𝑋. Supponiamo, in fine, che ogni 𝑓𝐾 sia di tipo quoziente. Fissiamo un 𝐵 ⊆ 𝑋 tale che 𝑓 −1 (𝐵) sia un chiuso di 𝑍. Quale che sia il compatto 𝐾 ⊆ 𝑋, 𝑓𝐾−1 (𝐵 ∩ 𝐾) = 𝑓 −1 (𝐵) ∩ 𝑓 −1 (𝐾) è un chiuso di 𝑓 −1 (𝐾). Siccome, per ipotesi, 𝑓𝐾 è un’applicazione quoziente, abbiamo che 𝐵 ∩𝐾 è chiuso in 𝐾. Dato che 𝑋 è un 𝑘-spazio, si conclude che 𝐵 è chiuso in 𝑋 e pertanto 𝑓 è di tipo quoziente.
Lemma 9.77. Siano 𝑋, 𝑌 , 𝑍 tre spazi topologici, e 𝜑 ∶ 𝑍 → 𝑋 una mappa quoziente. Se 𝑋 × 𝑌 è un 𝑘-spazio, allora l’applicazione 𝑔 ∶ 𝑍 × 𝑌 → 𝑋 × 𝑌 definita da 𝑔(𝑧, 𝑦) ∶= (𝜑(𝑧), 𝑦) è una mappa quoziente.
Dimostrazione. Osserviamo che, implicitamente, 𝑋, 𝑌 sono assunti essere di Hausdorff, dato che il loro prodotto è un 𝑘-spazio (cfr. Proposizione 6.35.1). Siano 𝐻 un compatto di 𝑋 e 𝐾 un compatto di 𝑌 . Il loro prodotto cartesiano 𝐽 ∶= 𝐻 × 𝐾 è un compatto di 𝑋 × 𝑌 . Consideriamo ora la restrizione 𝑔𝐽 ∶ 𝑔 −1 (𝐽 ) → 𝐽 . Poiché 𝑔 −1 (𝐽 ) = 𝜑−1 (𝐻) × 𝐾, ne segue che 𝑔𝐽 è data da (𝜑𝐻 , 𝑖𝐾 ). Per il Lemma di Whitehead 9.74, l’applicazione 𝑔𝐽 è di tipo quoziente. Notiamo ora che, se 𝑆 ⊆ 𝑋 × 𝑌 è un qualunque compatto dello spazio prodotto, esso è contenuto nel prodotto delle sue proiezioni 𝑆𝑋 , 𝑆𝑌 sugli spazi fattori che è anch’esso un compatto. Per la parte già dimostrata, abbiamo che
9.3. Compattezza locale
483
𝑔𝐽 è di tipo quoziente per 𝐽 ∶= 𝑆𝑋 × 𝑆𝑌 e quindi è tale anche 𝑔𝑆 per il lemma precedente (parte ovvia). Risulta così dimostrato che, per ogni sottoinsieme compatto 𝑆 di 𝑋 × 𝑌 , la mappa 𝑔𝑆 è di tipo quoziente. La tesi segue dal lemma precedente (parte non banale). Possiamo ora dimostrare una versione più generale del Lemma di Whitehead 9.74. Lemma 9.78 (di Whitehead). Siano (𝑋𝑖 , 𝜏𝑖 ), (𝑍𝑖 , 𝜎𝑖 ) spazi topologici ed esistano mappe quozienti 𝜑𝑖 ∶ 𝑍𝑖 → 𝑋𝑖 , con 𝑖 ∈ {1, 2}. Supponiamo che 𝑋1 × 𝑋2 e 𝑍1 siano 𝑘-spazi. Allora l’applicazione prodotto 𝑓 ∶= (𝜑1 , 𝜑2 ) ∶ 𝑍1 × 𝑍2 → 𝑋1 × 𝑋2 è una mappa quoziente.
Dimostrazione. Iniziamo assumendo l’ipotesi semplificativa che 𝑍1 sia localmente compatto e consideriamo anche lo spazio prodotto 𝑍1 × 𝑋2 che è un 𝑘-spazio per il Teorema 9.75. L’applicazione 𝑓 è la composizione delle applicazioni 𝑔 ∶= (𝑖𝑍1 , 𝜑2 ) ∶ 𝑍1 × 𝑍2 → 𝑍1 × 𝑋2 e ℎ ∶= (𝜑1 , 𝑖𝑋2 ) ∶ 𝑍1 × 𝑋2 → 𝑋1 × 𝑋2 . La 𝑔 è quoziente per il Lemma di Whitehead 9.74; inoltre è noto che la composta di mappe quoziente è di tipo quoziente. La ℎ è quoziente per il lemma precedente. Se 𝑍1 non è localmente compatto, esistono comunque uno spazio localmente compatto 𝑊 e un’applicazione quoziente 𝜓 ∶ 𝑊 → 𝑍1 (cfr: Teorema 9.67). L’applicazione (𝜑1 ∘ 𝜓, 𝜑2 ) ∶ 𝑊 × 𝑍2 → 𝑋1 × 𝑋2 è di tipo quoziente per quanto precede. D’altra parte, la funzione (𝜑1 ∘ 𝜓, 𝜑2 ) è la composizione delle applicazioni continue e suriettive (𝜓, 𝑖𝑍2 ) ∶ 𝑊 × 𝑍2 → 𝑍1 × 𝑍2 e 𝑓 . Per il Teorema 6.68 (con 𝑓 = 𝛽) otteniamo che anche 𝑓 è di tipo quoziente. Possiamo finalmente fornire l’esempio di due 𝑘-spazi il cui prodotto non è un 𝑘-spazio.
Esempio 9.79. Consideriamo lo spazio topologico 𝑌 ∶= ℝ ⧵ {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } dotato della topologia euclidea. Sia, inoltre, 𝑋 ∶= (ℝ ⧵ ℤ) ∪ {𝑤}, con 𝑤 ∉ ℝ lo spazio topologico dell’Esempio 9.66 in cui abbiamo identificato tutti i numeri interi in un unico punto indicato con 𝑤. Si vede facilmente che sono entrambi 𝑘-spazi. 𝑌 , infatti, è uno spazio metrico, mentre 𝑋 è un 𝑘-spazio essendo un quoziente di (ℝ, 𝜏𝑒 ) che è localmente compatto. Verificheremo che lo spazio prodotto non è un 𝑘-spazio. A tale scopo, poniamo: 𝑍1 ∶= ℝ con la topologia euclidea; 𝑋1 ∶= 𝑋 con la topologia quoziente descritta sopra e 𝑍2 = 𝑋2 ∶= 𝑌 con la topologia euclidea. Consideriamo inoltre le applicazioni 𝜑1 ∶ 𝑍1 → 𝑋1 e 𝜑2 ∶ 𝑍2 → 𝑋2 , dove 𝜑1 è la mappa quoziente già vista nell’esempio 9.66 e 𝜑2 è l’identità. Se lo spazio 𝑋 × 𝑌 = 𝑋1 × 𝑋2 fosse un 𝑘-spazio, avremmo, in virtù del lemma precedente, che l’applicazione 𝑓 ∶= (𝜑1 , 𝜑2 ) dovrebbe essere di tipo quoziente. In realtà faremo vedere che questa applicazione non è quoziente e pertanto ne dedurremo che 𝑋 × 𝑌 non è un 𝑘-spazio.
9.3. Compattezza locale
484
Consideriamo il sottoinsieme 𝐶 di 𝑍1 × 𝑍2 definito da 𝐶 ∶=
⋃+
𝑛∈ℕ
𝐶𝑛 ;
1 1 𝜋 𝐶𝑛 ∶= {(𝑛 + , + ) ∶ 𝑚 ∈ ℕ+ ⧵ {1}} . 𝑚 𝑛 𝑚
Si vede subito che 𝐶 è chiuso e che si ha 𝐶 = 𝑓 −1 (𝑓 (𝐶)). Ora però 𝑓 (𝐶) non è chiuso in 𝑋1 × 𝑋2 , dato che è (𝑤, 0) ∈ cl 𝑓 (𝐶) ⧵ 𝑓 (𝐶). Nel contesto di questo esempio, si osservi che lo spazio 𝑌 non è localmente compatto (se lo fosse, lo spazio prodotto sarebbe un 𝑘-spazio per il Teorema 9.75). Il lettore interessato lo verifichi direttamente controllando che l’origine non possiede intorni compatti. ◁ Poiché sia la paracompattezza che la locale compattezza sono generalizzazioni della compattezza, almeno per gli spazi di Hausdorff, è naturale chiedersi che relazione ci sia fra questi concetti per gli spazi 𝑇2 . Un primo risultato è il seguente: Teorema 9.80. Ogni spazio localmente compatto e secondo numerabile è paracompatto. Dimostrazione. Per il Teorema 9.62, ogni spazio localmente compatto è (completamente) regolare e quindi, se è anche 𝐴2 , è paracompatto per il Teorema 8.14. Un altro punto di vista è il seguente: ogni spazio localmente compatto è (completamente) regolare e quindi, se è anche 𝐴2 , è metrizzabile (cfr. Teorema 3.115) e quindi paracompatto per il Teorema di Stone 8.4. In generale, i concetti di paracompattezza e compattezza locale sono però indipendenti. La retta reale con la topologia destra di Sorgenfrey (ℝ, 𝜏 + ) dà un esempio di spazio paracompatto (cfr. Esempio 8.13) non localmente compatto (cfr. Esempio 9.60). Il Teorema 8.7 afferma che ogni spazio paracompatto di Hausdorff è normale; d’altra parte gli Esempi 9.63 e 9.64 mostrano che esistono spazi localmente compatti non normali. Si noti inoltre che possiamo avere spazi di Hausdorff che sono contemporaneamente localmente compatti e paracompatti, ma non metrizzabili. Basta prendere uno spazio compatto di Hausdorff non metrizzabile, come per esempio 𝐼 𝐼 (cfr. Esempio 6.39, Teorema 6.26). Continuando ad analizzare la parziale analogia fra spazi localmente compatti e paracompatti, consideriamo ora alcune versioni dei teoremi di partizione dell’unità studiati nel Paragrafo 8.2, restringendoci alla classe degli spazi localmente compatti. Ricordiamo che tali spazi sono completamente regolari per il Teorema 9.62. Nel paragrafo sulla partizione dell’unità avevamo introdotto il concetto di supporto di una funzione 𝜑 ∶ 𝑋 → ℝ come l’insieme Supp 𝜑 ∶= cl {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝜑(𝑥) ≠ 0} .
9.3. Compattezza locale
485
Considereremo ora il caso di funzioni a supporto compatto. Se (𝑋, 𝜏) è uno spazio topologico, indicheremo con 𝐶𝑐 (𝑋) l’insieme delle funzioni continue di 𝑋 in ℝ a supporto compatto. È facile verificare che una combinazione lineare di due funzioni a supporto compatto è ancora a supporto compatto. Da questo segue immediatamente che l’insieme 𝐶𝑐 (𝑋) è un sottospazio vettoriale di 𝐶(𝑋). Nel caso degli spazi localmente compatti, vale la seguente versione del Lemma di Urysohn 2.100. Teorema 9.81 (Lemma di Urysohn per spazi localmente compatti). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico localmente compatto. Per ogni coppia (𝐾, 𝑈 ), con 𝐾 compatto di 𝑋 e 𝑈 ∈ 𝜏 tali che 𝐾 ⊆ 𝑈 , esiste una funzione 𝑓 ∈ 𝐶𝑐 (𝑋) con le seguenti proprietà: 1. 0 ≤ 𝑓 (𝑥) ≤ 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋, 2. 𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐾, 3. Supp 𝑓 ⊆ 𝑈 .
Dimostrazione. Osserviamo intanto che, se lo spazio fosse normale, il Lemma di Urysohn 2.100 garantirebbe l’esistenza di una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1], tale che 𝑔(𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐾 e 𝑔(𝑥) = 0, ∀𝑥 ∉ 𝑈 . Per una tale funzione 𝑔, avremmo per costruzione Supp 𝑔 ⊆ 𝑈 . Questo però non è esattamente quanto richiesto, perché, a priori, non è detto che il supporto di 𝑔 sia compatto. Inoltre, non si è assunto esplicitamente che lo spazio sia normale. L’idea della dimostrazione è di rientrare nel caso appena descritto sfruttando la locale compattezza. Essendo lo spazio regolare, per ogni 𝑥 ∈ 𝐾, esiste un suo intorno aperto 𝐴𝑥 con 𝑥 ∈ 𝐴𝑥 ⊆ cl 𝐴𝑥 ⊆ 𝑈 (cfr. Teorema 1.91). Dato poi che (𝑋, 𝜏) è localmente compatto, ogni suo punto ha una base di intorni a chiusura compatta; esiste pertanto un aperto 𝑉𝑥 ⊆ 𝐴𝑥 con cl 𝑉𝑥 compatto. Si ha dunque 𝑥 ∈ 𝑉𝑥 ⊆ cl 𝑉𝑥 ⊆ cl 𝐴𝑥 ⊆ 𝑈 . La famiglia degli aperti {𝑉𝑥 ∶ 𝑥 ∈ 𝐾 } costituisce un ricoprimento aperto di 𝐾. Per la compattezza di 𝐾, esiste un sottoricoprimento finito 𝑉𝑥1 , … , 𝑉𝑥𝑛 di 𝐾. Posto 𝑉 ∶= 𝑉𝑥1 ∪ ⋯ ∪ 𝑉𝑥𝑛 , si ha che cl 𝑉 = cl 𝑉𝑥1 ∪ ⋯ ∪ cl 𝑉𝑥𝑛 ⊆ 𝑈 è compatto 𝑇2 e quindi normale. Se ci restringiamo allo spazio cl 𝑉 possiamo applicare il Lemma di Urysohn. Se è cl 𝑉 ⧵ 𝑉 ≠ ∅, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ cl 𝑉 → [0, 1] che vale 1 in 𝐾 e 0 in cl 𝑉 ⧵ 𝑉 . Prolunghiamo poi la funzione 𝑓 a tutto 𝑋 ponendo 𝑓 (𝑥) ∶= 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ cl 𝑉 . Se è cl 𝑉 ⧵ 𝑉 = ∅, si considera la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] che vale 1 in 𝑉 e 0 altrove; 𝑓 è continua, dato che, in questo caso, 𝑉 è clopen. Si ha poi sempre Supp 𝑓 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝑈 e quindi esso è un compatto, dato che è un sottoinsieme chiuso del compatto cl 𝑉 . Il risultato appena visto viene anche enunciato, in forma più sintetica, ricorrendo a una notazione particolare (cfr. [71]). Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), con la notazione 𝐾≺𝑓
9.3. Compattezza locale
486
intendiamo i seguenti fatti: 𝐾 è un sottoinsieme compatto di 𝑋; 𝑓 ∈ 𝐶𝑐 (𝑋), con 𝑓 (𝑋) ⊆ [0, 1]; 𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐾. Inoltre, con la notazione 𝑓 ≺𝑈
intendiamo i seguenti fatti: 𝑈 è un sottoinsieme aperto di 𝑋; 𝑓 ∈ 𝐶𝑐 (𝑋), con 𝑓 (𝑋) ⊆ [0, 1]; Supp 𝑓 ⊆ 𝑈 . In questo modo, il teorema 9.81 assicura che, per ogni coppia (𝐾, 𝑈 ) in uno spazio localmente compatto 𝑋, esiste una funzione continua 𝑓 tale che 𝐾 ≺ 𝑓 ≺ 𝑈.
La versione del Lemma di Urysohn per gli spazi localmente compatti permette di avere un teorema di esistenza di partizioni dell’unità che rappresenta una versione semplificata del teorema generale già visto (cfr. Teorema 8.37). D’altra parte, non è un suo ovvio corollario, dato che gli spazi localmente compatti non sono necessariamente paracompatti. Teorema 9.82. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico localmente compatto e 𝐾 ⊆ 𝑋 un suo sottoinsieme compatto (non vuoto). Per ogni ricoprimento finito con aperti {𝐴1 , … , 𝐴𝑛 } di 𝐾, esistono funzioni continue 𝑓𝑖 , con 𝑓𝑖 ≺ 𝐴𝑖 , 𝑖 = 1, … , 𝑛 tali che 𝑛
∑ 𝑖=1
𝑓𝑖 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐾.
Dimostrazione. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾, esiste un indice 𝑖 ∶= 𝑖𝑥 tale che 𝑥 ∈ 𝐴𝑖 . Per la locale compattezza, esisterà, di conseguenza, un intorno aperto 𝑉𝑥 a chiusura compatta tale che 𝑥 ∈ 𝑉𝑥 ⊆ cl 𝑉𝑥 ⊆ 𝐴𝑖 . La famiglia dei 𝑉𝑥 , al variare di 𝑥 ∈ 𝐾, costituisce un ricoprimento aperto di 𝐾 che ammette, a sua volta, un sottoricoprimento finito 𝑉𝑥1 , … , 𝑉𝑥𝑘 . Per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}, sia 𝑊𝑖 la riunione (finita) degli insiemi 𝑉𝑥𝑗 contenuti in 𝐴𝑖 . Abbiamo in questo modo, per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}, un aperto 𝑊𝑖 a chiusura compatta contenuta in 𝐴𝑖 e la cui riunione contiene il compatto 𝐾. Posto 𝐾𝑖 ∶= cl 𝑊𝑖 , ci troviamo nelle ipotesi del teorema precedente e pertanto, per ogni 𝑖, esiste una funzione 𝑔𝑖 tale che 𝐾𝑖 ≺ 𝑔𝑖 ≺ 𝐴𝑖 . Definiamo ora, in modo induttivo, le funzioni 𝑓𝑖 ponendo: 𝑓1 ∶= 𝑔1 ; 𝑓2 ∶= (1−𝑔1 )𝑔2 ; …; 𝑓𝑛 ∶= (1−𝑔1 )(1−𝑔2 ) ⋯ (1−𝑔𝑛−1 )𝑔𝑛 . Le 𝑓𝑖 ∶ 𝑋 → ℝ sono tutte funzioni continue con immagine in [0, 1]; inoltre, per ogni 𝑖, si ha 𝑓𝑖 ≺ 𝐴𝑖 . Infatti, la funzione 𝑓𝑖 si presenta come il prodotto di un certo numero di funzioni per la funzione 𝑔𝑖 . Per ipotesi, è Supp 𝑔𝑖 ⊆ 𝐴𝑖 ; ciò significa che 𝑔𝑖 è identicamente nulla al di fuori di un compatto 𝐻𝑖 , con 𝐾𝑖 ⊆ 𝐻𝑖 ⊆ 𝐴𝑖 . Ne viene che anche 𝑓𝑖 è identicamente nulla al di fuori di 𝐻𝑖 . Si ottiene così Supp 𝑓𝑖 ⊆ Supp 𝑔𝑖 ⊆ 𝐴𝑖 . Resta da valutare la somma delle 𝑓𝑖 . Dalla definizione, si verifica per induzione che sussiste l’identità 𝑓1 + 𝑓2 + ⋯ + 𝑓𝑛 = 1 − (1 − 𝑔1 )(1 − 𝑔2 ) ⋯ (1 − 𝑔𝑛 ).
9.3. Compattezza locale
487
Dato un arbitrario 𝑥 ∈ 𝐾, esiste un aperto 𝑉𝑥𝑗 che lo contiene da cui 𝑥 ∈ 𝑊𝑖 ⊆ 𝐾𝑖 per qualche 𝑖. D’altronde, 𝐾𝑖 ≺ 𝑔𝑖 , per cui 𝑔𝑖 (𝑥) = 1 e, per l’identità vista sopra, 𝑓1 (𝑥) + ⋯ + 𝑓𝑛 (𝑥) = 1. Un ulteriore interessante risultato sugli spazi localmente compatti è il seguente. Teorema 9.83. Ogni spazio localmente compatto è uno spazio di Baire. Dimostrazione. La dimostrazione seguirà lo stesso schema di quella utilizzata nel Teorema 9.40. Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) localmente compatto (e quindi, per il Teorema 9.62, anche regolare) e una famiglia numerabile di aperti {𝐴𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } densi in 𝑋; indichiamo con 𝐸 l’intersezione di tutti gli 𝐴𝑛 . Vogliamo provare che 𝐸 è denso in 𝑋. A tale scopo, faremo vedere che, fissati arbitrariamente un punto 𝑧 ∈ 𝑋 e un suo intorno aperto 𝑈 , risulta 𝑈 ∩ 𝐸 ≠ ∅. Dato l’aperto 𝑈 , per la locale compattezza, esiste un aperto 𝑉 tale che 𝑧 ∈ 𝑉 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝑈 e con cl 𝑉 compatta. Per ogni indice 𝑛, sia 𝑈𝑛 l’aperto 𝐴𝑛 ∩ 𝑉 . Consideriamo dapprima l’insieme 𝑈1 . Esso non è vuoto perché 𝐴1 è denso in 𝑋. Sia quindi 𝑧1 ∈ 𝑈1 e, per la regolarità dello spazio, sia 𝑉1 un aperto tale che 𝑧1 ∈ 𝑉1 ⊆ cl 𝑉1 ⊆ 𝑈1 . Essendo 𝑉1 ⊆ 𝑉 , si ha 𝑉1 ∩ 𝐴2 ⊆ 𝑈2 . Per la densità di 𝐴2 in 𝑋, esiste un punto 𝑧2 ∈ 𝑉1 ∩ 𝐴2 e quindi, ancora per la regolarità, esiste un aperto 𝑉2 con 𝑧2 ∈ 𝑉2 ⊆ cl 𝑉2 ⊆ 𝑉1 ∩ 𝐴2 ⊆ 𝑈2 . Procedendo in questo modo per induzione, si determina una successione di aperti (𝑉𝑛 )𝑛 tale che cl 𝑉1 ⊇ 𝑉1 ⊇ cl 𝑉2 ⊇ 𝑉2 ⊇ ⋯ ⊇ cl 𝑉𝑛 ⊇ 𝑉𝑛 ⊇ ⋯
Inoltre, per costruzione, si ha cl 𝑉𝑛 ⊆ 𝑈𝑛 ⊆ 𝑉 ⊆ cl 𝑉 , ∀𝑛 ∈ ℕ+ . Poiché lo spazio cl 𝑉 è compatto, per il Lemma di Cantor segue che ⋂𝑛 cl 𝑉𝑛 ≠ ∅. Ma allora anche ∅ ≠ ⋂𝑛 𝑈𝑛 = 𝑉 ∩ 𝐸 ⊆ 𝑈 ∩ 𝐸. Negli spazi normati, la locale compattezza svolge un ruolo fondamentale. Infatti, sono localmente compatti tutti e soli gli spazi normati di dimensione finita (cfr. Proposizione 9.87.2). Si perviene a questo risultato osservando prima di tutto che, se uno spazio normato è di dimensione finita, allora esso è omeomorfo tramite un isomorfismo lineare ad uno spazio del tipo ℝ𝑛 con la topologia euclidea (cfr. paragrafo 4.2) e quindi è localmente compatto. Come secondo punto, si dimostra che ogni spazio normato di dimensione infinita non può essere localmente compatto (cfr. Corollario 9.86). Fatto ciò, si osserva che, partendo da un qualunque spazio di Banach di dimensione infinita, si ottiene un esempio di spazio di Baire (in quanto metrico completo) non localmente compatto. Un esempio elementare è il seguente. Esempio 9.84. Sia 𝑋 = 𝐶([0, 1]) con la norma infinito. Sia 𝑈 un qualunque intorno dell’origine (funzione nulla). L’insieme 𝑈 contiene una palla chiusa di centro 0 e raggio 𝛿 > 0. Consideriamo ora la successione (𝑥𝑛 )𝑛 con 𝑥𝑛 (𝑡) ∶= 𝛿𝑡𝑛
9.3. Compattezza locale
488
appartiene alla sfera 𝑆(0, 𝛿) di raggio 𝛿 contenuta in 𝑈 . Questa successione non ha sottosuccessioni convergenti in 𝑋 rispetto alla norma considerata. Ciò prova che l’insieme cl 𝑈 non è compatto. Per l’arbitrarietà di 𝑈 , abbiamo che l’origine non possiede intorni a chiusura compatta. ◁ Verifichiamo ora che, come sopra annunciato, gli spazi di dimensione infinita non possono mai essere localmente compatti. Per dimostrare ciò, premettiamo il seguente lemma.
Lemma 9.85 (di Riesz o dell’elemento quasi ortogonale). Sia 𝑊 un sottospazio chiuso e proprio di uno spazio normato (𝑋, ‖⋅‖). Per ogni 𝑦 ∉ 𝑊 e per ogni 𝜎 ∈ ]0, 1[, esiste un elemento 𝑧, appartenente al sottospazio sp(𝑊 , 𝑦) generato da 𝑊 e da 𝑦, tale che ‖𝑧‖ = 1 e 𝑑(𝑧, 𝑊 ) > 𝜎. 3 Dimostrazione. Intanto, dal fatto che 𝑦 ∉ 𝑊 , con 𝑊 chiuso, si ottiene 𝜂 ∶= 𝑑(𝑦, 𝑊 ) > 0. Dato 𝜎 ∈ ]0, 1[, prendiamo 𝜀 > 0 in modo che sia 𝜂 > 𝜎(𝜂 + 𝜀). Dalla definizione di distanza di un punto 𝑦 da un insieme 𝑊 come estremo inferiore delle distanze ‖𝑦 − 𝑤‖, con 𝑤 ∈ 𝑊 , segue che esiste 𝑤0 ∈ 𝑊 tale che ‖𝑦 − 𝑤0 ‖ < 𝜂 + 𝜀. Fatte queste premesse, affermiamo che 𝑧 ∶=
𝑦 − 𝑤0 ‖𝑦 − 𝑤0 ‖
è l’elemento cercato. Infatti, è evidentemente ‖𝑧‖ = 1. Inoltre, per ogni 𝑤 ∈ 𝑊 , si ha =
‖𝑧 − 𝑤‖ =
𝑦 − 𝑤0 −𝑤 = ‖ ‖𝑦 − 𝑤0 ‖ ‖
𝜂 1 𝑦 − (𝑤0 + 𝑤 ‖𝑦 − 𝑤0 ‖)‖ > > 𝜎, ‖𝑦 − 𝑤0 ‖ ‖ 𝜂+𝜀
dato che è 𝑤0 + 𝑤‖𝑦 − 𝑤0 ‖ ∈ 𝑊 . Passando all’estremo inferiore sui punti 𝑤 ∈ 𝑊 , si ottiene la tesi. Corollario 9.86. In ogni spazio normato di dimensione infinita la sfera unitaria non è compatta. Infatti, esiste una successione (𝑥𝑛 )𝑛 con ‖𝑥𝑛 ‖ = 1, per ogni 𝑛, e ‖𝑥𝑖 − 𝑥𝑗 ‖ ≥ 12 , per ogni 𝑖 ≠ 𝑗. Dimostrazione. Sia 𝑥1 un qualunque elemento di norma unitaria in 𝑋. Procediamo ora definendo per induzione la successione cercata. Supponiamo quindi di aver definito l’insieme {𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 } con ‖𝑥𝑘 ‖ = 1, per ogni 𝑘 ≤ 𝑛, e
3 Osserviamo che, se ci troviamo in uno spazio di Hilbert, per ogni 𝑦 ∉ 𝑊 , esiste un elemento 𝑧 appartenente al sottospazio sp(𝑊 , 𝑦) generato da 𝑊 e da 𝑦, tale che ‖𝑧‖ = 1 e 𝑑(𝑧, 𝑊 ) = 1. Tale 𝑧 si ottiene considerando la proiezione ortogonale 𝑃𝑊 (𝑦) di 𝑦 su 𝑊 e normalizzando il vettore 𝑦 − 𝑃𝑊 (𝑦) (cfr. Teorema 5.41 e Corollario 5.49).
9.3. Compattezza locale
489
‖𝑥𝑖 − 𝑥𝑗 ‖ ≥ 12 , per ogni 𝑖 ≠ 𝑗. Sia 𝑊 ∶= sp(𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 ). 𝑊 è un sottospazio di 𝑋 avente dimensione finita e quindi è chiuso in quanto completo (cfr. Lemma 3.79). Poiché 𝑋 ha dimensione infinita, esiste un elemento 𝑦 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑊 . Applicando il lemma precedente con 𝜎 = 12 , otteniamo che esiste un elemento 𝑥𝑛+1 di norma unitaria e tale che 𝑑(𝑥𝑛+1 , 𝑊 ) ≥ 12 . Abbiamo così realizzato, a partire dall’insieme {𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 }, un insieme {𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 , 𝑥𝑛+1 } con le proprietà richieste.
Da questo risultato e dal fatto che 𝑆(0, 1) è un insieme chiuso segue che in uno spazio normato 𝑋 di dimensione infinita anche la palla chiusa unitaria 𝐵[0, 1] non è compatta (Proposizione 7.30.1). Ma allora, per ogni 𝑥0 ∈ 𝑋 e per ogni 𝑟 > 0, anche la palla chiusa 𝐵[𝑥0 , 𝑟] non è compatta. (Esercizio: Considerare l’omeomorfismo 𝑥 ↦ 𝑥0 + 𝑟𝑥.) Come ulteriore conseguenza, abbiamo che: Un insieme 𝐸 con interno non vuoto non potrà mai essere compatto. Infatti, se 𝑥0 ∈ int 𝐸, esiste 𝐵 = 𝐵[𝑥0 , 𝑟] ⊆ 𝐸; se 𝐸 è compatto, deve essere tale anche 𝐵, contro quanto visto in precedenza. Possiamo concludere con il seguente corollario: Corollario 9.87. 1. Uno spazio normato ha dimensione finita se e solo se ha la proprietà che in esso sono compatti tutti e soli i sottoinsiemi chiusi e limitati. 2. Uno spazio normato ha dimensione finita se e solo se è localmente compatto.
Dimostrazione. Sia intanto (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato di dimensione finita 𝑛. Come sopra ricordato, esso è omeomorfo tramite un isomorfismo lineare a (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) (cfr. paragrafo 4.2) e quindi, per il Teorema di Borel 7.28, in esso sono compatti tutti e soli i sottoinsiemi chiusi e limitati. D’altra parte, in uno spazio metrico le palle chiuse formano basi di intorni; quindi negli spazi normati di dimensione finita queste formano basi di intorni compatti. Come già osservato, il lemma precedente ci dice poi che in spazi normati di dimensione infinita le palle chiuse sono insiemi chiusi e limitati non compatti. Dato un qualunque punto z dello spazio e un suo intorno 𝑈 , esso deve contenere una palla chiusa che non è compatta. Quindi nemmeno cl 𝑈 è compatta. Dall’arbitrarietà di z e 𝑈 segue la tesi. Si tenga comunque presente che il teorema 7.26 ci dice che in uno spazio metrico (in particolare, in uno spazio normato) i compatti sono sempre chiusi e limitati. Osserviamo ancora che questo risultato vale per gli spazi normati. Se ci restringiamo alla sola metrica, dato un qualunque insieme, possiamo assegnargli una metrica in modo da renderlo localmente compatto: basta prendere quella discreta. Invece il risultato continua a sussistere nel caso degli spazi vettoriali topologici (cfr. Definizione 5.20). Sussiste infatti il seguente risultato per la
9.4. Spazi metacompatti
490
cui dimostrazione rimandiamo al libro di R Larsen [42, pp.35–37]. Si vedano anche il Lemma 15.46 e il Teorema 15.49.
Teorema 9.88. Sia 𝑋 uno spazio vettoriale topologico (di Hausdorff). Allora 𝑋 è localmente compatto se e solo se è di dimensione finita.
9.4
Spazi metacompatti
Chiudiamo il capitolo esponendo alcuni fatti principali relativi alla teoria degli spazi metacompatti. È una classe di spazi che include quella dei paracompatti. È stata introdotta nel 1950 da Arens e Dugundji. Vedremo che alcuni teoremi dimostrati precedentemente per gli spazi paracompatti continuano a sussistere per questi spazi. Gli spazi metacompatti sono inoltre interessanti perché permettono di introdurre in modo naturale un concetto di dimensione, argomento che non trattiamo in questo primo volume. Cominciamo col dare la seguente definizione: Definizione 9.89. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) si dice metacompatto [numerabilmente metacompatto] se ogni ricoprimento aperto [numerabile] di 𝑋 possiede un raffinamento aperto puntualmente finito, ossia tale che ogni punto appartiene a un numero finito di aperti del raffinamento. ◁
È immediato che ogni spazio compatto è metacompatto; inoltre, confrontando le relative definizioni, si ha anche che ogni spazio paracompatto è metacompatto. Quindi anche gli spazi metrici sono metacompatti. La metacompattezza è chiamata da taluni autori paracompattezza puntuale o anche paracompattezza debole. Per esempio R. Engelking in [18] chiama questi spazi weakly paracompact e suppone che siano sempre di Hausdorff. Un esempio di spazio metacompatto e non paracompatto è dato dal cosiddetto piano di Dieudonné (Dieudonné plank) che è una variante del Tychonoff plank e che proporremo nel capitolo sugli ordinali. Mostriamo con un esempio che la metacompattezza non si preserva col prodotto. Esempio 9.90. Consideriamo di nuovo lo spazio di Sorgenfrey (ℝ, 𝜏 + ) e sia 𝑋 ∶= ℝ × ℝ con la topologia prodotto (cfr. Esempio 6.40). Sappiamo che (ℝ, 𝜏 + ) è paracompatto e quindi metacompatto. Nell’Esempio 8.13 abbiamo visto che 𝑋 non è paracompatto. Negli esempi sopra citati abbiamo considerato la retta diagonale 𝐿 ∶= {(𝑥, −𝑥) ∶ 𝑥 ∈ ℝ} e i suoi sottoinsiemi 𝐶 e 𝐷 formati dai punti di coordinate razionali e, rispettivamente, irrazionali che sono dei chiusi di 𝑋. Consideriamo ora il ricoprimento aperto di 𝑋 𝒜 ∶= {𝑋 ⧵ 𝐷} ∪ {𝒬(𝑃 , 1) ∶ 𝑃 ∈ 𝐷}, dove si è ancora posto 𝒬(𝑃 , 1) ∶= [𝑎, 𝑎 + 1[ ×[−𝑎, −𝑎 + 1[, con 𝑃 =∶ (𝑎, −𝑎). Sia ℬ ∶= {𝐵𝑖 }𝑖∈𝐽 un arbitrario raffinamento aperto di 𝒜 . Procediamo in modo analogo a quanto fatto nell’Esempio 6.40. Per ogni intero 𝑛 > 0, sia 𝐸𝑛 l’insieme dei numeri irrazionali 𝑥 tali che 𝒬((𝑥, −𝑥), 1/𝑛) è contenuto in un aperto del raffinamento. Poiché ℝ ⧵ ℚ coincide con la riunione
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degli 𝐸𝑛 ed è di seconda categoria in (ℝ, 𝑑2 ), esiste un 𝑛 ̄ tale che la chiusura euclidea di 𝐸𝑛̄ contiene un intervallo. Posto ora 𝛿 ∶= 1/𝑛,̄ possiamo concludere che la diagonale 𝐿 contiene un insieme 𝐸 ∶= 𝐸𝑛̄ la cui chiusura nella topologia euclidea include un intervallo del tipo 𝑀 ∶= {(𝑥, −𝑥) ∶ 𝑎 ≤ 𝑥 ≤ 𝑏} e, in fine, per ogni 𝑃 ∈ 𝐸, l’intorno 𝒬(𝑃 , 𝛿) è contenuto in qualche aperto del raffinamento. Per come sono stati scelti gli aperti di 𝒜 , si ha che ogni 𝒬(𝑃 , 𝛿) è contenuto in un solo aperto di ℬ che, a sua volta, è contenuto in 𝒬(𝑃 , 1). Un raffinamento con questa proprietà non può essere puntualmente finito. Siano infatti (𝛼, −𝛼) e (𝛽, −𝛽) due punti di 𝐸 tali che 𝑎 < 𝛼 < 𝛽 < 𝑏 e con 𝛽 − 𝛼 < 𝛿/2. Il punto di coordinate (𝛽, −𝛼) appartiene a tutti gli aperti 𝒬(𝑃 , 𝛿) per ogni 𝑃 ∶= (𝑥, −𝑥) ∈ 𝐸 con 𝛼 ≤ 𝑥 ≤ 𝛽. Dalla densità di 𝐸 in 𝑀 (rispetto alla topologia euclidea), si ha chiaramente che l’insieme dei punti 𝑃 con questa proprietà è infinito. poiché, per ipotesi, ciascuno dei 𝒬(𝑃 , 𝛿) è contenuto in un solo aperto di ℬ, risulta che il punto (𝛽, −𝛼) appartiene a infiniti aperti del raffinamento. ◁ Sussiste, per contro, il seguente risultato. Teorema 9.91. Il prodotto di uno spazio compatto per uno metacompatto è metacompatto.
Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏𝑋 ) uno spazio metacompatto, (𝑌 , 𝜏𝑌 ) uno spazio compatto e (𝑍, 𝜏𝑍 ) lo spazio prodotto dotato della topologia prodotto. Dato un qualunque ricoprimento aperto 𝒜 di 𝑍, sia ℬ un suo raffinamento fatto da aperti di base. È dunque ℬ ∶= {𝑈𝑥𝑦 × 𝑉𝑥𝑦 ∶ (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑍 }, con 𝑈𝑥𝑦 intorno aperto di 𝑥 e 𝑉𝑥𝑦 intorno aperto di 𝑦. Per ogni 𝑤 ∈ 𝑋, l’aperto 𝑊 ∶= ⋃𝑦∈𝑌 𝑈𝑤𝑦 ×𝑉𝑤𝑦 contiene l’insieme {𝑤}×𝑌 . Essendo 𝑌 compatto, per il Tube-lemma 8.24, esiste un aperto 𝑈𝑤′ tale che 𝑈𝑤′ ×𝑌 ⊆ 𝑊 . La famiglia {𝑈𝑥′ ∶ 𝑥 ∈ 𝑋 } è un ricoprimento aperto di 𝑋. Essendo questo spazio metacompatto, esiste un raffinamento aperto {𝑈𝑘″ }𝑘∈𝐾 puntualmente finito. Dato 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un insieme finito di indici 𝑘𝑥1 , … , 𝑘𝑥𝑝(𝑥) ∈ 𝐾 tale che 𝑥 ∈ 𝑈𝑘″𝑥 , ∀𝑗 ∈ {1, … , 𝑝(𝑥)} e a nessun altro degli 𝑈𝑘″ . Posto, sempre per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni 𝑗 ∈ {1, … , 𝑝(𝑥)}, 𝑈̂ 𝑥𝑘𝑥 ∶= 𝑈𝑥′ ∩𝑈𝑘″𝑥 , 𝑗
𝑗
la famiglia degli 𝑈̂ 𝑥𝑘𝑥 è un raffinamento di {𝑈𝑘″ }𝑘∈𝐾 che è ancora puntualmente 𝑗 finito. D’altra parte, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, la famiglia {𝑉𝑥𝑦 }𝑦∈𝑌 è un ricoprimento aperto di {𝑥} × 𝑌 che è omeomorfo a 𝑌 . Essendo questo spazio compatto, esiste un sottoricoprimento finito {𝑉𝑥𝑦1 , … , 𝑉𝑥𝑦𝑞(𝑥) }. La famiglia 𝒞 ∶= {𝑈̂ 𝑥𝑘𝑥 × 𝑉𝑥𝑦ℎ ∶ (𝑥 ∈ 𝑋) ∧ (1 ≤ 𝑗 ≤ 𝑝(𝑥)) ∧ (1 ≤ ℎ ≤ 𝑞(𝑥))} 𝑗
𝑗
è un raffinamento aperto di ℬ e quindi di 𝒜 . Questo raffinamento è puntualmente finito. Infatti, per costruzione, dato (𝑥, 𝑦) ∈ 𝑍, 𝑥 appartiene a un numero finito di 𝑈̂ 𝑥𝑘𝑥 e 𝑦 appartiene a un numero finito di 𝑉𝑥𝑦ℎ . 𝑗
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Alcune volte può essere comodo utilizzare dei ricoprimenti di tipo speciale detti irriducibili.
Definizione 9.92. Dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un suo ricoprimento 𝒜 ∶= {𝐴𝑖 }𝑖∈𝐽 , diciamo che 𝒜 è irriducibile se ⋃𝑖∈𝐽 ′ 𝐴𝑖 ≠ 𝑋, per ogni sottoinsieme proprio 𝐽 ′ di 𝐽 . ◁ Vale il seguente risultato:
Lemma 9.93. Ogni ricoprimento puntualmente finito di uno spazio topologico possiede un sottoricoprimento irriducibile.
Dimostrazione. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝑖 }𝑖∈𝐽 un ricoprimento puntualmente finito di uno spazio (𝑋, 𝜏). In 𝒫 (𝐽 ) consideriamo l’insieme ℱ degli insiemi di indici 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 tali che ⋃𝑖∈𝐽 ′ 𝐴𝑖 = 𝑋. In ℱ consideriamo la seguente relazione d’ordine: 𝐽 ′ ⪯ 𝐽 ″ se e solo se 𝐽 ′ ⊇ 𝐽 ″ . Sia ora ℱ ′ un sottoinsieme totalmente ordinato di ℱ . Definiamo un nuovo insieme di indici 𝐾 ponendo 𝐾 ∶= ⋂𝐽 ′ ∈ℱ ′ 𝐽 ′ . Verifichiamo che la famiglia ℬ ∶= {𝐴𝑖 }𝑖∈𝐾 è ancora un ricoprimento di 𝑋. Sia 𝑥 ∈ 𝑋 arbitrario. Poiché 𝒜 è puntualmente finito, 𝑥 appartiene a un numero finito di 𝐴𝑖 . Risulta quindi definito un insieme finito di indici 𝐹𝑥 tale che 𝑥 ∈ 𝐴𝑖 se e solo se 𝑖 ∈ 𝐹𝑥 . L’insieme 𝐹𝑥 deve avere intersezione non vuota con tutti i 𝐽 ′ di ℱ ′ . Poiché la famiglia {𝐹𝑥 ∩ 𝐽 ′ ∶ 𝐽 ′ ∈ ℱ ′ } è totalmente ordinata ed è costituita da insiemi finiti non vuoti, c’è almeno un indice 𝑖∗ che appartiene a tutti i 𝐽 ′ ∩ 𝐹𝑥 e quindi appartiene a tutti i 𝐽 ′ e, in fine, a 𝐾. Ciò prova che 𝐾 ∈ ℱ e inoltre, per definizione, 𝐽 ′ ⪯ 𝐾, ∀𝐽 ′ ∈ ℱ ′ . Possiamo quindi applicare il Lemma di Zorn. Esiste perciò un elemento massimale 𝐽 ∗ di ℱ . Il ricoprimento {𝐴𝑖 }𝑖∈𝐽 ∗ è, per costruzione, un sottoricoprimento irriducibile di 𝒜. Anche se utilizzeremo questo risultato nell’ambito della metacompattezza, esso ha un valore generale. Infatti nella dimostrazione non si utilizzano proprietà topologiche dello spazio. Teorema 9.94 (di Arens-Dugundji). Uno spazio topologico è compatto se e solo se è numerabilmente compatto e metacompatto. Dimostrazione. Basta ovviamente provare il “se”. In uno spazio topologico numerabilmente compatto e metacompatto (𝑋, 𝜏), sia dato un ricoprimento aperto 𝒜 . Essendo 𝑋 metacompatto, 𝒜 ammette un raffinamento ℬ puntualmente finito che a sua volta, per il lemma precedente, ha un sottoricoprimento irriducibile 𝒞 ∶= {𝐶𝑖 }𝑖∈𝐽 . Per ogni 𝐶𝑘 ∈ 𝒞 , esiste un 𝑥𝑘 ∈ 𝐶𝑘 che non appartiene a nessun altro dei 𝐶𝑖 . Se così non fosse, togliendo 𝐶𝑘 da 𝒞 si otterrebbe ancora un ricoprimento, contro la minimalità di 𝒞 . Se 𝒞 fosse infinito, sarebbe tale anche l’insieme 𝐷 ∶= {𝑥𝑘 ∶ 𝑘 ∈ 𝐽 } che quindi ammetterebbe, per la numerabile compattezza di 𝑋 (cfr. Proposizione 7.11.1), un punto 𝑧 di 𝜔accumulazione. Esisterebbe allora 𝑖 ∈ 𝐽 con 𝑧 ∈ 𝐶𝑖 e, di conseguenza, avremmo
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degli elementi di 𝐷 appartenenti a più di un 𝐶𝑘 . Si conclude che 𝒞 è finito e che quindi, come subito si constata, 𝑋 è compatto. Il teorema appena visto ammette come immediata conseguenza il Corollario 9.95. Uno spazio topologico è compatto se e solo se è numerabilmente compatto e paracompatto. Questo risultato, a sua volta, permette di dare un’altra dimostrazione del Corollario 9.8 che afferma che ogni spazio completamente regolare, paracompatto e pseudo-compatto è compatto. Infatti, se lo spazio è completamente regolare e paracompatto, esso è un paracompatto 𝑇2 e quindi è normale (cfr. Teorema di Dieudonné 8.7). D’altra parte, si è visto che ogni spazio normale e pseudo-compatto è numerabilmente compatto (cfr. Proposizione 9.3.2). Per il teorema precedente, si conclude così che lo spazio risulta compatto. A questo punto, viene naturale chiedersi se il Corollario 9.8 può essere generalizzato agli spazi metacompatti. Questo problema fu risolto (indipendentemente) da Scott, Förster e Watson alla fine degli anni ’70 (si veda l’articolo di Watson [80] che qui seguiremo). Premettiamo un lemma. In [80] viene introdotto il concetto di 𝜋-base per uno spazio topologico 𝑋, intesa come una famiglia ℬ di aperti non vuoti di 𝑋 tale che, per ogni aperto non vuoto 𝐴 ⊆ 𝑋, esiste 𝐵 ∈ ℬ tale che 𝐵 ⊆ 𝐴. Ogni base di aperti è chiaramente una 𝜋-base. Per vedere che non vale il viceversa basta prendere in (ℝ, 𝜏𝑒 ) un sottoinsieme non vuoto 𝐸 formato da punti isolati e considerare la famiglia degli intervalli aperti che non contengono punti di 𝐸. Lemma 9.96. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico di Baire. Per ogni ricoprimento aperto puntualmente finito 𝒜 di 𝑋, esiste una 𝜋-base 𝒱 tale che per ogni 𝐵 ∈ 𝒱 e per ogni 𝐴 ∈ 𝒜 , si ha 𝐵 ⊆ 𝐴, oppure 𝐵 ∩ 𝐴 = ∅. Dimostrazione. Fissato 𝒜 , consideriamo, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , l’insieme 𝐸𝑛 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑥 appartiene al più a 𝑛 elementi di 𝒜 } .
Ovviamente, la successione degli 𝐸𝑛 è crescente per inclusione. Dalla definizione segue anche che, se 𝑥 ∈ 𝐸𝑚 ⧵ 𝐸𝑛 , con 𝑛 < 𝑚, ciò significa che 𝑥 appartiene ad almeno 𝑛+1 insiemi del ricoprimento. Proviamo, intanto, che gli 𝐸𝑛 sono chiusi. Supponiamo, per assurdo, che esistano 𝑛 ∈ ℕ+ e un 𝑥 ∈ cl 𝐸𝑛 ⧵ 𝐸𝑛 . Questo 𝑥 deve appartenere ad un 𝐸𝑚 , con 𝑚 > 𝑛 e quindi sta in almeno 𝑛 + 1 aperti di 𝒜 . Siano questi 𝐴1 , … 𝐴𝑛+1 e indichiamo con 𝑈 la loro intersezione. Poiché 𝑥 ∈ cl 𝐸𝑛 e 𝑈 è intorno aperto di 𝑥, esiste almeno uno 𝑧 ∈ 𝐸𝑛 ∩ 𝑈 . Ma allora 𝑧 appartiene ad almeno 𝑛 + 1 elementi di 𝒜 contraddicendo il fatto che 𝑧 può appartenere ad al più 𝑛 elementi di 𝒜 . Sia ora 𝑈 un qualunque aperto (non vuoto) di 𝑋. Poiché l’unione degli 𝐸𝑛 dà chiaramente tutto 𝑋, e 𝑋 è di Baire, come pure tutti i suoi sottoinsiemi aperti non vuoti (cfr. Lemma 9.36), concludiamo che almeno uno degli 𝐸𝑛 è
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tale che 𝐸𝑛 ∩ 𝑈 ha interno non vuoto. Sia 𝑛0 ∶= 𝑛0 (𝑈 ) il minimo indice per cui vale questa proprietà. Sia ora 𝑈 ′ ∶= int(𝑈 ∩ 𝐸𝑛0 ). Per la minimalità di 𝑛0 , sappiamo che ogni punto di 𝑈 ′ appartiene esattamente a 𝑛0 aperti di 𝒜 . Per ogni 𝑧 ∈ 𝑈 ′ , indichiamo con 𝐴𝑧1 , … , 𝐴𝑧𝑛0 gli 𝑛0 aperti di 𝒜 contenenti 𝑧. Poniamo, in fine, 𝑉 (𝑧, 𝑈 ) ∶= 𝑈 ′ ∩ 𝐴𝑧1 ∩ ⋯ ∩ 𝐴𝑧𝑛0 (⊆ 𝑈 ). Per costruzione, ogni 𝑉 (𝑧, 𝑈 ) è aperto e ogni aperto di 𝑋 contiene almeno uno dei 𝑉 (𝑧, 𝑈 ). Si conclude che la famiglia 𝒱 ∶= {𝑉 (𝑧, 𝑈 ) ∶ (𝑈 ∈ 𝜏) ∧ (𝑧 ∈ 𝑈 ′ )}
è una 𝜋-base di 𝑋. Siccome è 𝑉 (𝑧, 𝑈 ) ⊆ 𝐸𝑛0 , ogni elemento 𝑤 ∈ 𝑉 (𝑧, 𝑈 ) appartiene a 𝑛0 aperti di 𝒜 ; per costruzione di 𝑉 (𝑧, 𝑈 ), questi aperti devono essere ancora 𝐴𝑧1 , … , 𝐴𝑧𝑛0 . Si conclude che 𝑉 (𝑧, 𝑈 ) è contenuto in ciascuno di questi aperti ed è disgiunto dagli altri aperti di 𝒜 . Teorema 9.97. Uno spazio topologico completamente regolare è compatto se e solo se è pseudo-compatto e metacompatto.
Dimostrazione. Basta ovviamente provare il “se”. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico completamente regolare, pseudo-compatto e metacompatto; in esso fissiamo un ricoprimento 𝒜 con aperti non vuoti. Sia 𝒜 ′ un raffinamento aperto puntualmente finito di 𝒜 (garantito dalla metacompattezza). Usando la regolarità dello spazio, possiamo supporre che, per ogni aperto 𝑈 ∈ 𝒜 ′ esista qualche 𝐴 ∈ 𝒜 tale che cl 𝑈 ⊆ 𝐴. (Eventualmente si raffina ulteriormente 𝒜 ′ usando il Teorema 1.91. Esercizio!) Perché gli spazi completamente regolari e pseudo-compatti sono di Baire (cfr. Teorema 9.40), il lemma precedente garantisce l’esistenza di una 𝜋-base 𝒱 tale che, per ogni 𝐵 ∈ 𝒱 e ogni 𝑈 ∈ 𝒜 ′ , si ha o 𝐵 ⊆ 𝑈 o 𝐵 ∩ 𝑈 = ∅. Definiamo ora induttivamente una famiglia di aperti di 𝒱 . Sia 𝐵1 ∈ 𝒱 arbitrario. Sia 𝐵2 ∈ 𝒱 , se esiste, scelto in modo che 𝐵2 sia disgiunto dalla chiusura dell’unione degli insiemi 𝑈 ∈ 𝒜 ′ tali che 𝑈 ∩ 𝐵1 ≠ ∅, ossia tali che 𝑈 ⊇ 𝐵1 . Supponiamo di aver scelto i 𝐵𝑘 , con 1 ≤ 𝑘 ≤ 𝑛. In tal caso, l’insieme 𝐵𝑛+1 ∈ 𝒱 è preso, se esiste, in modo che sia disgiunto dalla chiusura dell’unione degli 𝑈 ∈ 𝒜 ′ tali che 𝑈 ∩ 𝐵𝑘 ≠ ∅, ossia tali che 𝑈 ⊇ 𝐵𝑘 , per qualche 𝑘 ≤ 𝑛. Supponiamo, per assurdo, che esista un 𝐵𝑛 per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ . Fissiamo uno 𝑧𝑛 ∈ 𝐵𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ+ . Essendo lo spazio completamente regolare esiste, sempre per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , una funzione continua 𝑔𝑛 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑔𝑛 (𝑧𝑛 ) ∶= 1 e 𝑔𝑛 (𝑥) ∶= 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐵𝑛 . Sia, in fine, 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ la funzione definita da 𝑓 (𝑥) ∶=
+∞
∑ 𝑛=1
𝑛𝑔𝑛 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋.
Siccome ogni 𝑥 ∈ 𝑋 appartiene al più a un 𝐵𝑛 , si ha che 𝑓 è ben definita. Fissiamo 𝑧 ∈ 𝑋 e proviamo che 𝑓 è continua in 𝑧. Essendo 𝒜 ′ puntualmente
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finito, 𝑧 appartiene a un numero finito di aperti 𝐴𝑧1 , … , 𝐴𝑧𝑛(𝑧) di 𝒜 ′ ; diciamo 𝐴(𝑧) la loro unione. Ogni 𝐴𝑧𝑖 interseca (e quindi contiene) al più uno dei 𝐵𝑗 . Ne viene che 𝑓 |𝐴(𝑧) è continua in 𝑧 in quanto esprimibile come somma di un numero finito di funzioni continue. Siccome 𝐴(𝑧) è aperto, si ottiene che anche 𝑓 è continua in 𝑧. Ora però 𝑓 è illimitata per costruzione, contro il fatto che 𝑋 è pseudo-compatto. Dunque l’induzione si deve fermare a un certo passo. Usando anche il fatto che 𝒜 ′ è puntualmente finito, viene determinato un indice 𝑛 tale che, per ogni 𝑘 ≤ 𝑛, 𝐵𝑘 è contenuto in un numero finito di elementi di 𝒜 ′ e quindi 𝐵𝑘 interseca un numero finito di elementi di 𝒜 ′ . Dunque c’è un numero finito di elementi di 𝒜 ′ la cui unione è densa in 𝑋 e pertanto c’è un numero finito di elementi del ricoprimento originario 𝒜 che ricopre 𝑋, dato che, per costruzione, la chiusura di ogni elemento di 𝒜 ′ è contenuta in qualche elemento di 𝐴. Si è ottenuto così un sottoricoprimento finito di 𝒜 . Si conclude che 𝑋 è compatto. Per ragioni di completezza, ricordiamo alcune altre varianti del concetto di compattezza. Cominciamo dalla seguente Definizione 9.98. Uno spazio topologico è detto semicompatto o perifericamente compatto (o anche rim-compact) se ammette una base di aperti a frontiera compatta. ◁ Ovviamente, ogni spazio compatto è semicompatto, dato che le frontiere sono sottoinsiemi chiusi. Non sussiste l’implicazione opposta. Un banale controesempio è dato da (ℝ, 𝜏𝑒 ). Ritroveremo questi spazi quando tratteremo il concetto di dimensione e presenteremo la compattificazione di Freudenthal. Del concetto di real-compattezza, tratteremo nel paragrafo 11.1. Ricordiamo in fine che taluni Autori, parlando di compattezza richiedono che lo spazio sia 𝑇2 e parlano, in caso contrario, di spazi quasi compatti. Per altri, invece, la definizione di compattezza è la stessa utilizzata da noi ma, per distinguere nell’ambito degli spazi compatti quelli di Hausdorff, chiamano questi ultimi bicompatti.
10
Compattificazioni 10.1 Generalità e primi esempi Negli ultimi tre capitoli abbiamo studiato il concetto di compattezza e diverse sue varianti e generalizzazioni. Anche dal largo spazio dedicato all’argomento, risulta evidente l’importanza di questi concetti; diventa pertanto naturale immaginare di studiare dei problemi restringendosi alla classe degli spazi compatti. Tuttavia, visto che sfortunatamente molti spazi fondamentali, come per esempio ℝ𝑛 , non sono compatti, è utile chiedersi se è possibile “immergere” questi spazi in altri che siano compatti. Chiederemo inoltre che questa immersione sia densa, in modo che l’insieme compatto non sia inutilmente ampio e anzi sia il più possibile individuato dallo spazio di partenza. Questi procedimenti di “immersione” prendono il nome di compattificazioni. Per iniziare il discorso, consideriamo degli esempi semplici ma significativi. Esempio 10.1. Partiamo dall’insieme (ℝ, 𝜏𝑒 ) (o un suo generico intervallo aperto ]𝑎, 𝑏[ che gli è omeomorfo). Pensando all’intervallo limitato, viene naturale immergerlo nel corrispondente intervallo chiuso [𝑎, 𝑏] che è compatto. Ciò equivale ad aggiungere all’insieme di partenza “due estremi”. L’applicazione 𝜑 𝑡−𝑎 che a 𝑡 ∈ ]𝑎, 𝑏[ associa 𝑒𝑖𝛾(𝑡) , con 𝛾(𝑡) ∶= −𝜋 + 𝑏−𝑎 2𝜋, stabilisce un omeomorfismo tra l’intervallo ]𝑎, 𝑏[ e 𝑆 1 ⧵ {(−1, 0)}. Aggiungendo questo unico punto si ottiene un’altra compattificazione dell’intervallo aperto. Ritornando alla retta ℝ, le due compattificazioni si possono pensare ottenute aggiungendo, nel primo caso, i punti −∞, +∞ e, nel secondo, un elemento da indicare con ∞. ◁
Esempio 10.2. Partiamo dall’insieme (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) (o un suo generico disco aperto 𝐷 che gli è omeomorfo). ℝ2 è l’immagine omeomorfa della proiezione stereografica di una sfera 𝑆 di centro (0, 0, 1) e raggio 1 privata del “polo nord” 𝑧 ∶= (0, 0, 2) (cfr. Esempio 6.62 e Teorema 14.23, dove forniremo tutti dettagli). Per compattificare 𝑆 ⧵ {𝑧}, basta aggiungere questo punto. Ciò equivale ad aggiungere a ℝ2 un punto che si indica con ∞. Pensando invece al disco 𝐷, può essere naturale aggiungere a 𝐷 tutti i punti della sua frontiera, ottenendo così il disco chiuso (e quindi compatto). Si può anche pensare di unificare poi i 496
10.1. Generalità e primi esempi
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punti del bordo fra loro diametralmente opposti (si compattifica ogni diametro di 𝐷 con un solo punto). È quello che si fa in geometria proiettiva con l’aggiunta dei punti impropri. Ovviamente, tutto questo si può generalizzare ad ℝ𝑛 . ◁ Veniamo ad una definizione formale di compattificazione.
Definizione 10.3. Dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e un’applicazione ℎ ∶ 𝑋 → 𝑌 , si dice che ℎ è un’immersione (inglese embedding) di 𝑋 in 𝑌 se ℎ è un’omeomorfismo di (𝑋, 𝜏) in (ℎ(𝑋), 𝜎). L’immersione si dice densa se ℎ(𝑋) è denso in 𝑌 . La coppia (𝑌 , ℎ) si dice una compattificazione di 𝑋 se ℎ è un’immersione densa e 𝑌 è compatto. Quando l’immersione è ovvia, si considera direttamente 𝑌 come compattificazione di 𝑋. ◁
La definizione, a priori, non richiede che gli spazi coinvolti siano di Hausdorff, tuttavia questo è il caso più interessante. Consideriamo due insiemi 𝑌1 e 𝑌2 e diciamo 𝑋 la loro intersezione che supponiamo non vuota; su ciascuno dei tre insiemi introduciamo la topologia banale. Tutti gli insiemi sono compatti; ciononostante, sia 𝑌1 che 𝑌2 costituiscono due compattificazioni di 𝑋. In generale, uno spazio potrà avere più compattificazioni. Quando però si considera una compattificazione fissata, potremo identificare 𝑋 con ℎ(𝑋) pensando 𝑋 come un sottoinsieme di 𝑌 e quindi 𝑌 ottenuto “aggiungendo” opportuni elementi a 𝑋 (si vedano gli esempi precedenti). Definizione 10.4. Due compattificazioni (𝑌1 , ℎ1 ) e (𝑌2 , ℎ2 ) di un medesimo spazio 𝑋 si dicono equivalenti, e si scrive 𝑌1 ∼ 𝑌2 , se esiste un omeomorfismo 𝜓 ∶ 𝑌1 → 𝑌2 tale che 𝜓 ∘ ℎ1 = ℎ2 , ossia che lascia fissi gli elementi di 𝑋, ovviamente pensato come sottospazio dei due compatti. ◁
Val la pena di sottolineare il fatto che due compattificazioni di Hausdorff di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) fra loro omeomorfe non sono necessariamente equivalenti, come mostra l’esempio che segue. Esempio 10.5. Presentiamo due immersioni dense di ℕ+ in uno stesso compatto di Hausdorff 𝑌 che non producono compattificazioni equivalenti. Sia dunque 𝑌 ∶= {(1/𝑛, 𝑖) ∶ (𝑛 ∈ ℕ+ ) ∧ (𝑖 ∈ {1, 2})} ∪ {(0, 1), (0, 2)} ⊂ ℝ2 , dotato della topologia euclidea. Consideriamo le due immersioni dense di ℕ+ in 𝑌 così definite: ℎ1 (2𝑛) ∶= (1/𝑛, 1), { ℎ1 (2𝑛 − 1) ∶= (1/𝑛, 2);
⎧(1/𝑗, 1), se 𝑛 è il 𝑗-mo elemento della successione ⎪ ℎ2 (𝑛) ∶= ⎨ (1, 2, 4, 5, 7, 8, 10, 11, … ), ⎪(1/𝑗, 2), se è 𝑛 = 3𝑗. ⎩
(𝑌 , ℎ1 ) e (𝑌 , ℎ2 ) sono due compattificazioni di ℕ+ , ciascuna con due punti, ottenute con spazi topologici ovviamente omeomorfi. Mostriamo che le
10.1. Generalità e primi esempi
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due compattificazioni non sono equivalenti. Sia 𝑓 ∶ 𝑌 → 𝑌 un qualunque omeomorfismo. Siccome (1/2𝑛, 1) → (0, 1), per la continuità di 𝑓 , deve essere 𝑓 (1/2𝑛, 1) → 𝑓 (0, 1) ∈ {(0, 1), (0, 2)}. Ora però la successione (ℎ2 (2𝑛))𝑛 è data da (1/2, 1), (1/3, 1), (1/2, 2), (1/6, 1), (1/7, 1), (1/4, 2), … che non ha limite. È dunque ℎ2 ≠ 𝑓 ∘ ℎ1 .
◁
Il modo più semplice di compattificare uno spazio è quello di “aggiungere un punto all’infinito”.
Definizione 10.6. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), si consideri un elemento ∞ ∉ 𝑋 e nell’insieme 𝑋 ∗ ∶= 𝑋 ∪ {∞} si definisca la topologia 𝜎 in cui un insieme 𝐴 è aperto se o non contiene ∞ ed è un aperto di 𝜏, o contiene ∞ e il suo complementare in 𝑋 ∗ è un chiuso e compatto di 𝑋. Come immersione ℎ ∶ 𝑋 → 𝑋 ∗ si considera l’inclusione naturale. La coppia (𝑋 ∗ , ℎ) prende il nome di compattificazione con un punto o di Alexandrov. L’insieme 𝑋 ∗ viene spesso indicato con 𝛼𝑋. ◁
Per prima cosa osserviamo che se 𝑋 è compatto, allora ∞ è un punto isolato di 𝑋 ∗ e quindi 𝑋 non è denso in 𝑋 ∗ . La costruzione ha quindi senso se 𝑋 non è compatto. Si verifica poi facilmente che, se 𝑋 non è compatto, 𝑋 ∗ è effettivamente una sua compattificazione. Ovviamente la scelta di un punto non di 𝑋 che viene aggiunto per ottenere 𝑋 ∗ è del tutto arbitraria nel senso che due di tali compattificazioni sono fra loro equivalenti. Sussiste il seguente risultato: Teorema 10.7 (di Alexandrov). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico non compatto e 𝑋 ∗ la sua compattificazione con un punto. Allora 𝑋 ∗ è di Hausdorff se e solo se 𝑋 è (di Hausdorff e) localmente compatto. Dimostrazione. Supponiamo che 𝑋 ∗ sia 𝑇2 . Poiché 𝑋 ∗ è localmente compatto (essendo compatto) ed 𝑋 è un suo sottospazio aperto, esso risulta, oltre che di Hausdorff, anche localmente compatto per il Teorema 9.68. Per provare il viceversa, fissiamo due punti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋 ∗ . Se entrambi appartengono a 𝑋 non c’è niente da dimostrare. Supponiamo dunque che uno dei due coincida con ∞; sia esso 𝑞. Poiché 𝑋 è localmente compatto, 𝑝 ha un 𝜏-intorno aperto 𝑈 a chiusura compatta. D’altra parte, 𝑉 ∶= 𝑋 ∗ ⧵ cl 𝑈 è un aperto di 𝑋 ∗ contenente 𝑞 = ∞. Abbiamo così trovato in 𝑋 ∗ due intorni aperti e disgiunti 𝑈 , 𝑉 che separano 𝑝 e 𝑞.
Esempio 10.8. Partiamo dallo spazio di Hausdorff non localmente compatto (ℚ, 𝜏𝑒 ). I sottoinsiemi compatti di ℚ sono tutti e soli quelli chiusi, limitati e privi di punti di accumulazione irrazionali. Nello spazio ℚ∗ gli intorni di ∞ sono quindi i sottoinsiemi che contengono, oltre a ∞, un insieme del tipo ℚ ⧵ 𝐶, dove 𝐶 è chiuso, limitato e privo di punti di accumulazione irrazionali. Consideriamo i punti 0 e ∞ e mostriamo che essi non ammettono intorni aperti disgiunti. Se
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così non fosse, esisterebbero un intervallo aperto ] − 𝜀, 𝜀[ e un insieme del tipo ℚ ⧵ 𝐶, con 𝐶 chiuso, limitato e privo di punti di accumulazione irrazionali, fra loro disgiunti; da ciò si otterrebbe ] − 𝜀, 𝜀[ ⊆ 𝐶. Ciò è palesemente assurdo perché ogni intervallo razionale ha punti di accumulazione irrazionali. Nonostante lo spazio 𝑋 ∗ non sia di Hausdorff, esso ha tuttavia caratteristiche interessanti. Per esempio, in esso vale ancora l’unicità del limite. Infatti una sua successione converge a un punto razionale se e solo se vi tende in senso ordinario, mentre converge a ∞ se e solo se non contiene sottosuccessioni convergenti a numeri razionali. ◁
Riesaminiamo l’Esempio 6.62. Compattifichiamo ℝ𝑛 con un punto all’infinito ed ℝ con l’aggiunta dei due punti {−∞, +∞}. Data una funzione coerciva 𝑓 ∶ ℝ𝑛 → ℝ, è ora ben chiaro perché la condizione lim‖x‖→+∞ 𝑓 (x) = +∞ possa essere espressa nella forma limx→∞ 𝑓 (x) = +∞. Inoltre, definendo 𝑓 (∞) ∶= +∞, la precedente condizione equivale alla continuità di 𝑓 nel punto ∞. Si veda anche quanto si è detto a pag. 57 a proposito delle successioni; in sostanza, lì si è compattificato con un punto l’insieme ℕ dei numeri naturali. A meno che lo spazio di partenza non sia già compatto e quindi la sua compattificazione “minimale” è lo spazio stesso, quella di Alexandrov appare a prima vista la più piccola possibile. Tuttavia, per rendere rigoroso questo concetto, introdurremo una relazione d’ordine fra le diverse possibili compattificazioni. Definizione 10.9. Siano (𝑌1 , ℎ1 ) e (𝑌2 , ℎ2 ) due compattificazioni di un medesimo spazio (𝑋, 𝜏). Si dice che la prima è più ampia della seconda e si scrive (𝑌1 , ℎ1 ) ⪰ (𝑌2 , ℎ2 ) se esiste una funzione continua e suriettiva 𝜓 ∶ 𝑌1 → 𝑌2 tale che 𝜓 ∘ ℎ1 = ℎ2 . ◁ Lemma 10.10. Nella situazione della definizione precedente, se lo spazio 𝑌2 è di Hausdorff, allora una funzione continua 𝜓 ∶ 𝑌1 → 𝑌2 tale che 𝜓 ∘ ℎ1 = ℎ2 è necessariamente suriettiva.
Dimostrazione. L’insieme 𝜓(𝑌1 ) è chiuso in quanto compatto di uno spazio 𝑇2 . Inoltre, 𝜓(𝑌1 ) ⊇ ℎ2 (𝑋); quindi 𝜓(𝑌1 ) = cl 𝜓(𝑌1 ) ⊇ cl ℎ2 (𝑋) = 𝑌2 . Sottolineiamo che la condizione precedente equivale a chiedere che l’applicazione ℎ2 ∘ ℎ−1 1 ∶ ℎ1 (𝑋) → 𝑌2 ammette un prolungamento continuo e suriettivo definito su tutto 𝑌1 (Esercizio!). Nel caso in cui 𝜓 sia un omeomorfismo si ritrova il concetto di equivalenza. Osserviamo quindi che se (𝑌1 , ℎ1 ) e (𝑌2 , ℎ2 ) sono due compattificazioni equivalenti, allora ciascuna di esse è più ampia dell’altra. Non vale in generale il viceversa, come vedremo tra poco (cfr. Esempio 10.13); tuttavia la proprietà può essere invertita nel caso degli spazi di Hausdorff. Sussiste infatti il seguente
10.1. Generalità e primi esempi
500
Lemma 10.11. Siano (𝑌1 , ℎ1 ) e (𝑌2 , ℎ2 ) due compattificazioni di un medesimo spazio (𝑋, 𝜏) tali che ciascuna delle due sia più ampia dell’altra. Se esse sono di Hausdorff, allora sono equivalenti.
Dimostrazione. Per definizione, esistono 𝜓1 ∶ 𝑌1 → 𝑌2 e 𝜓2 ∶ 𝑌2 → 𝑌1 continue −1 e suriettive tali che 𝜓1 (𝑢) = ℎ2 (ℎ−1 1 (𝑢)), ∀𝑢 ∈ ℎ1 (𝑋) e 𝜓2 (𝑣) = ℎ1 (ℎ2 (𝑣)), ∀𝑣 ∈ ℎ2 (𝑋). Componendo ora 𝜓1 con 𝜓2 si ottiene un’applicazione da 𝑌1 in sé che, ristretta al sottospazio denso ℎ1 (𝑋) coincide con l’identità. Per il Teorema 2.94, 𝜓2 ∘ 𝜓1 deve coincidere con l’identità di 𝑌1 . Analogamente, si vede che 𝜓1 ∘ 𝜓2 coincide con l’identità di 𝑌2 . Ne viene che 𝜓1 e 𝜓2 sono l’una l’inversa dell’altra e che, essendo continue, sono degli omeomorfismi. Dal Lemma precedente si ottiene il
Corollario 10.12. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝒞𝐻 (𝑋) l’insieme delle sue compattificazioni di Hausdorff. Se è 𝒞𝐻 (𝑋) ≠ ∅, il quoziente 𝒞𝐻 (𝑋)/∼ è parzialmente ordinato rispetto alla relazione ⪰. Dimostrazione. Per constatarlo, basta verificare che la relazione ⪰ è compatibile con quella di equivalenza. Dobbiamo cioè constatare che se gli spazi topologici (𝑌1 , ℎ1 ), (𝑌1′ , ℎ′1 ), (𝑌2 , ℎ2 ), (𝑌2′ , ℎ′2 ) sono compattificazioni 𝑇2 di un medesimo spazio 𝑋 con 𝑌1 ∼ 𝑌1′ , 𝑌2 ∼ 𝑌2′ , 𝑌1 ⪰ 𝑌2 , allora è anche 𝑌1′ ⪰ 𝑌2′ . Esistono quindi due omeomorfismi 𝜓1 ∶ 𝑌1′ → 𝑌1 e 𝜓2 ∶ 𝑌2 → 𝑌2′ e un’applicazione continua e suriettiva 𝜑 ∶ 𝑌1 → 𝑌2 che rendono commutativo il primo dei due diagrammi seguenti. 𝑌1
𝜑
𝑌2
ℎ1 ℎ2
𝜓1
𝑋 𝜓2
𝑌1′
ℎ′1 ℎ′2
𝑌1
𝜑
𝑌2′
𝑌2
ℎ1 ℎ2
𝜓1
𝑋 𝜓2
𝑌1′
ℎ′1 ℎ′2
𝜑′
𝑌2′
Posto 𝜑′ ∶= 𝜓2 ∘ 𝜑 ∘ 𝜓1 , si ottiene un’applicazione continua di 𝑌1′ su 𝑌2′ che rende commutativo anche il secondo diagramma. L’Esempio 10.5 mostra che la relazione ⪰ fra le classi di equivalenza fornisce un ordinamento che è effettivamente solo parziale. Ciò avviene anche nel caso 𝑇2 . Il risultato del Lemma 10.11 non sussiste se le compattificazioni non sono di Hausdorff.
10.1. Generalità e primi esempi
501
Esempio 10.13. Si considerino i seguenti sottoinsiemi di (ℝ2 , 𝜏𝑒 ): 𝑆 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑥2 + 𝑦2 = 1} ,
𝐼 ∶= {(𝑥, 0) ∶ |𝑥| ≤ 1} ,
𝑁 ∶= {(0, 1/𝑛) ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } .
La topologia indotta su 𝑁 è quella discreta, quindi (𝑁, 𝜏𝑒 ) non è compatto. Costruiamo due compattificazione di 𝑁. Poniamo 𝑌1 ∶= 𝑁 ∪ 𝑆 e 𝑌2 ∶= 𝑁 ∪ 𝐼. Definiamo in questi insiemi le due topologie 𝜎1 e 𝜎2 così definite. In entrambi gli insiemi i punti di 𝑁 sono isolati. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑌1 ⧵ 𝑁, una base di intorni di 𝑥 è data gli insiemi del tipo 𝑈𝑥 ∶= 𝑈𝑥′ ∪ 𝑀𝑘 , con 𝑈𝑥′ 𝜏𝑒 -intorno di 𝑥 e 𝑀𝑘 ∶= {(0, 1/𝑛) ∶ 𝑛 > 𝑘}. Analogamente, per ogni 𝑥 ∈ 𝑌2 ⧵ 𝑁, una base di intorni di 𝑥 è data gli insiemi del tipo 𝑉𝑥 ∶= 𝑉𝑥′ ∪ 𝑀𝑘 , con 𝑉𝑥′ 𝜏𝑒 -intorno di 𝑥 e 𝑀𝑘 ∶= {(0, 1/𝑛) ∶ 𝑛 > 𝑘}. Gli spazi (𝑌1 , 𝜎1 ) (𝑌2 , 𝜎2 ) sono compatti. Dette ℎ1 e ℎ2 le immersioni canoniche di 𝑁 in 𝑌1 e, rispettivamente, in 𝑌2 . si ottengono due compattificazioni non 𝑇2 di 𝑁. Si considerino ora le due applicazioni 𝜑1 ∶ 𝑌1 → 𝑌2 e 𝜑2 ∶ 𝑌2 → 𝑌1 definite come segue. Entrambi coincidono con l’identità su 𝑁. Si ha poi 𝜑1 (𝑥, 𝑦) ∶= (𝑥, 0), ∀(𝑥, 𝑦) ∈ 𝑆 e 𝜑2 (𝑥, 0) ∶= (cos 𝑥, sin 𝑥), ∀(𝑥, 0) ∈ 𝐼. Chiaramente, queste funzioni sono continue e suriettive. Inoltre, si ha banalmente 𝜑1 ∘ ℎ1 = ℎ2 e 𝜑2 ∘ ℎ2 = ℎ2 . Si conclude che ciascuna delle due compattificazioni è più ampia dell’altra. Mostriamo che esse non sono equivalenti. Supponiamo, per assurdo, che esista un omeomorfismo 𝜓 di 𝑌1 su 𝑌2 . Esso, come l’inversa 𝜓 −1 , deve portare punti isolati in punti isolati e quindi 𝑁 su 𝑁 e 𝑆 su 𝐼. Diciamo 𝑃 il punto di 𝑆 per cui è 𝜓(𝑃 ) = (0, 0). Deve risultare 𝜓(𝑆 ⧵ {𝑃 }) = 𝐼 ⧵ {(0, 0)}. Le topologie su 𝑆 e 𝐼 coincidono con quella euclidea. Ora però 𝑆⧵{𝑃 } è omeomorfo ad un intervallo aperto, mentre non lo è 𝐼⧵{(0, 0)} e sappiamo che una funzione reale di variabile reale continua muta intervalli in intervalli. Torneremo su questo punto nel Capitolo sulla connessione. ◁ In virtù di tutto quanto precede, è chiaro che sarà conveniente, nello studio delle compattificazioni, limitarci al caso degli spazi di Hausdorff ed è quello che faremo d’ora in avanti. In tale contesto, possiamo immediatamente dedurre una condizione necessaria affinché uno spazio topologico ammetta compattificazioni 𝑇2 . Lemma 10.14. Se uno spazio di Hausdorff possiede una compattificazione 𝑇2 , allora esso è almeno completamente regolare.
Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico non compatto e (𝑌 , 𝜎) una sua compattificazione entrambi di Hausdorff. Lo spazio 𝑌 è un compatto 𝑇2 ed è quindi normale. Come si vedrà nel prossimo esempio, la normalità non è necessariamente ereditata dai sottospazi. Tuttavia il Corollario 2.110 ci assicura che 𝑌 è completamente regolare, mentre il Teorema 2.119 garantisce che quest’ultima proprietà è ereditaria.
10.1. Generalità e primi esempi
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Quest’ultima proprietà implica che studiare le compattificazioni nella categoria degli spazi di Hausdorff equivale a studiare il problema in quella degli spazi di Tychonoff (completamente regolari). Vedremo fra poco, come conseguenza della compattificazione di Stone-Čech, che ogni spazio completamente regolare possiede compattificazioni 𝑇2 . Esempio 10.15. Si tratta dello spazio studiato nell’Esempio 6.39. Lo riproponiamo qui per comodità del lettore. Dato 𝐼 ∶= [0, 1] con l’usuale topologia euclidea, sia 𝑋 ∶= 𝐼 𝐼 con la topologia prodotto (cubo di Hilbert). Per il Teorema di Tychonoff e il Teorema 6.37 sul prodotto di spazi di Hausdorff, sappiamo che 𝑋 è un compatto di Hausdorff e quindi normale. Su ogni fattore 𝐼𝛼 = 𝐼 si consideri l’insieme 𝐹𝛼 = 𝐹 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } dotato della topologia indotta. Si noti che 𝐹 pensato come sottospazio di 𝐼 eredita la topologia discreta e quindi è omeomorfo a ℕ. Definiamo, in fine, il sottospazio 𝐸 ⊂ 𝑋 dato da 𝐸 ∶= 𝐹 𝐼 . A suo tempo si è visto (Esempio di Stone 6.38) che un prodotto di copie di ℕ è normale se e solo se coinvolge un’infinità al più numerabile di fattori; quindi 𝐹 non è normale. ◁ Dai Teoremi 10.7 e 10.14 si riottiene il Teorema 9.62:
Corollario 10.16. Ogni spazio topologico di Hausdorff e localmente compatto è completamente regolare. Possiamo ora verificare l’affermazione precedente relativa alla minimalità della compattificazione di Alexandrov nel caso degli spazi di Hausdorff. Ci sarà utile anche ricordare due risultati precedenti che qui raccogliamo nel seguente lemma: Lemma 10.17. Siano (𝑍, 𝜏) uno spazio topologico di Hausdorff e 𝑊 un suo sottospazio denso. 1. Se 𝑊 è localmente compatto, allora è aperto. 2. Se (𝑍, 𝜏) è compatto e 𝑊 è aperto, allora 𝑊 è localmente compatto.
Dimostrazione. La 1 è data dal Lemma 9.69, mentre la 2 segue immediatamente dalla Proposizione 9.68.2. Teorema 10.18. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico di Hausdorff localmente compatto e non compatto. Allora la sua compattificazione con un punto è minimale rispetto alle compattificazioni di Hausdorff. Dimostrazione. Sia (𝑋 ∗ , 𝑗) la compattificazione di 𝑋 con il punto ∞ e 𝑗 ∶ 𝑋 → 𝑋 ∗ l’immersione canonica. Sia inoltre (𝑌 , ℎ) una qualunque compattificazione di Hausdorff. Vogliamo definire un’applicazione continua e suriettiva 𝜓 ∶ 𝑌 → 𝑋 ∗ tale che 𝜓 ∘ ℎ = 𝑗. Il modo naturale per definire 𝜓 è quello di porre 𝜓(𝑦) ∶= ℎ−1 (𝑦), ∀𝑦 ∈ ℎ(𝑋) e 𝜓(𝑦) ∶= ∞, ∀𝑦 ∈ 𝑌 ⧵ ℎ(𝑋). Il significato di tale posizione è chiaro; identificando ℎ(𝑋) con 𝑋, si può dire che 𝜓 lascia fissi tutti gli elementi di 𝑋, mentre porta i punti rimanenti in ∞. Per costruzione è
10.1. Generalità e primi esempi
503
𝜓 ∘ ℎ = 𝑗, quindi basterà verificare la continuità di 𝜓. Sia 𝐴 un aperto di 𝑋 ∗ . Se 𝐴 non contiene ∞, allora 𝐴 ⊆ 𝑋 e ℎ(𝐴) = 𝜓 −1 (𝐴) è un aperto di ℎ(𝑋) che è localmente compatto e denso in 𝑌 (ℎ è un omeomorfismo fra 𝑋 e ℎ(𝑋)). Per il lemma precedente, ℎ(𝑋) è aperto in 𝑌 e quindi ℎ(𝐴) è aperto anche in 𝑌 . Se invece 𝐴 contiene ∞, 𝐾 ∶= 𝑋 ∗ ⧵ 𝐴 è un compatto di 𝑋. Quindi ℎ(𝐾) = 𝜓 −1 (𝐾) è un compatto di 𝑌 per la continuità di ℎ ed è quindi chiuso in 𝑌 . Concludiamo che 𝜓 −1 (𝐴) = 𝑌 ⧵ ℎ(𝐾) è un aperto di 𝑌 . Nel contesto della relazione d’ordine fra compattificazioni di Hausdorff, saranno utili i seguenti risultati.
Lemma 10.19. Siano 𝑌 , 𝑍 due spazi topologici e 𝑓 ∶ 𝑌 → 𝑍 un’applicazione continua. Supponiamo inoltre che 𝑌 sia di Hausdorff ed esista un sottospazio denso 𝐸 di 𝑌 tale che la restrizione di 𝑓 a 𝐸 sia un omeomorfismo fra 𝐸 e 𝑓 (𝐸). Si ha allora 𝑓 (𝑌 ⧵ 𝐸) ⊆ 𝑍 ⧵ 𝑓 (𝐸). Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che esista un 𝑦 ∈ 𝑌 ⧵ 𝐸 tale che 𝑓 (𝑦) ∈ 𝑓 (𝐸). Per ipotesi, 𝑦 è aderente ad 𝐸. Non è restrittivo supporre che sia 𝑌 = 𝐸 ∪ {𝑦}; inoltre risultando a questo punto 𝑓 (𝑌 ) = 𝑓 (𝐸), possiamo supporre anche 𝑍 = 𝑓 (𝑌 ). Da 𝑓 (𝑦) ∈ 𝑓 (𝐸), segue che esiste 𝑤 ∈ 𝐸 tale che 𝑓 (𝑤) = 𝑓 (𝑦). Essendo 𝑌 di Hausdorff, esistono un intorno 𝑈 di 𝑦 e un intorno 𝑉 di 𝑤 entrambi aperti e fra loro disgiunti. Consideriamo l’insieme 𝐴 ∶= 𝐸 ⧵ 𝑉 che è un chiuso del sottospazio 𝐸, ma non di 𝑌 dato che 𝑦 ∈ cl 𝐴 ⧵ 𝐴. Essendo 𝑓 |𝐸 un omeomorfismo, si ottiene che 𝑓 (𝐴) è un chiuso di 𝑓 (𝐸) = 𝑍. Ma allora, per la continuità di 𝑓 , si ottiene che 𝑓 −1 (𝑓 (𝐴)) = 𝐴 è chiuso in 𝑌 , contro quanto sopra osservato. Lemma 10.20. Siano (𝑌1 , ℎ1 ), (𝑌2 , ℎ2 ) due compattificazioni di Hausdorff del medesimo spazio topologico 𝑇2 (𝑋, 𝜏) e 𝜓 ∶ 𝑌1 → 𝑌2 un’applicazione continua tale che 𝜓 ∘ ℎ1 = ℎ2 . Valgono allora le seguenti relazioni: 1. 𝜓(ℎ1 (𝑋)) = ℎ2 (𝑋); 2. 𝜓(𝑌1 ⧵ ℎ1 (𝑋)) = 𝑌2 ⧵ ℎ2 (𝑋).
Dimostrazione. La 1 è ovvia. Verifichiamo la 2. Dal Lemma 10.10 sappiamo che 𝜓 è suriettiva. Da ciò si ottiene immediatamente che è 𝑌2 ⧵ ℎ2 (𝑋) ⊆ 𝜓(𝑌1 ⧵ ℎ1 (𝑋)). L’inclusione opposta segue immediatamente dal lemma precedente. Infatti gli spazi ℎ1 (𝑋) (⊆ 𝑌1 ) e ℎ2 (𝑋) (⊆ 𝑌2 ) sono fra loro omeomorfi e ℎ1 (𝑋) è denso in 𝑌1 . Possiamo finalmente enunciare il seguente risultato
Teorema 10.21. Nella famiglia 𝒞𝐻 (𝑋) di tutte le compattificazioni di Hausdorff di uno spazio non compatto (𝑋, 𝜏), esiste un elemento minimale rispetto alla relazione d’ordine ⪯ se e solo se 𝑋 è localmente compatto e, in tal caso, la compattificazione minimale coincide con quella di Alexandrov. Essa è minima, a meno di omeomorfismi.
10.1. Generalità e primi esempi
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Dimostrazione. Per il Teorema 10.18, basta provare il “solo se”. Sia (𝑌 , ℎ) una compattificazione di Hausdorff dello spazio 𝑋 minimale rispetto all’ordine e definiamo 𝑍 ∶= 𝑌 ⧵ ℎ(𝑋). Osserviamo preliminarmente che 𝑍 non è vuoto e che, se esso è un singoletto, allora è 𝑌 = 𝛼𝑋. Infatti, indicato con ∞ l’unico elemento di 𝑌 ⧵ ℎ(𝑋) e identificando 𝑋 con ℎ(𝑋), si ha che gli aperti 𝐴 di 𝑌 contenenti ∞ sono tutti e soli quelli i cui complementari 𝐶 ∶= 𝑌 ⧵ 𝐴 sono chiusi di 𝑌 e contenuti in 𝑋; questi 𝐶 sono anche compatti di 𝑌 e quindi anche di 𝑋 e, in definitiva sono chiusi e compatti di 𝑋 cfr. Definizione 10.6. Supponiamo quindi, per assurdo, che 𝑍 contenga almeno due punti distinti 𝑢, 𝑣. Consideriamo ora lo spazio 𝑌1 ∶= 𝑌 ⧵{𝑢, 𝑣}. Per la minimalità di 𝑌 e il fatto che 𝑋 non è compatto, abbiamo che 𝑌1 non può essere compatto. Tuttavia, esso è localmente compatto perché è aperto in 𝑌 (cfr. Teorema 9.68). Lo spazio 𝑌1 possiede quindi una compattificazione di Alexandrov che indichiamo con 𝛼𝑌1 = 𝑌1 ∪{∞}. Questa compattificazione è anche una compattificazione di 𝑋 (𝑋, o meglio la sua immagine ℎ(𝑋) era densa in 𝑌 e quindi anche in 𝑌1 e, in definitiva, in 𝛼𝑌1 ). Essendo (𝑌 , ℎ) minimale fra le compattificazioni di 𝑋, esiste un’applicazione continua e suriettiva 𝜓 ∶ 𝛼𝑌1 → 𝑌 tale che 𝜓(𝑤) = 𝑤, ∀𝑤 ∈ ℎ(𝑋). Per l’unicità del prolungamento (Teorema 2.94), 𝜓 deve coincidere con l’identità su tutto 𝑌1 . Per la Proposizione 10.20.2 applicata agli spazi 𝑌 e 𝛼𝑌1 pensati come compattificazioni di 𝑌1 , si ottiene che 𝜓({∞}) = {𝑢, 𝑣}, che è palesemente assurdo. Come già detto, vedremo tra poco che ogni spazio completamente regolare ammette compattificazioni di Hausdorff. Il teorema appena visto ci assicura che esistono spazi 𝑋 di Hausdorff tali che la famiglia 𝒞𝐻 (𝑋) delle loro compattificazioni 𝑇2 non ha minimo. Per constatarlo, basterà prendere un insieme completamente regolare e non localmente compatto, come ad esempio (ℚ, 𝜏𝑒 ). In particolare, si osservi che la compattificazione ℚ∗ di ℚ introdotta nell’Esempio 10.8 non è minimale. Osservazione 10.22. A prima vista, può sembrare strano che la compattificazione ℚ∗ di ℚ possa non essere minimale, dato che è ottenuta aggiungendo un insieme di cardinalità che è la minima possibile. In realtà, in questa situazione, considerare una compattificazione di ℚ che sia meno ampia di 𝛼ℚ equivale a definire in 𝑌 ∶= ℚ ∪ {∞} un’opportuna topologia che lo renda compatto e che sia strettamente meno fine di 𝛼ℚ. Un esempio si ottiene lasciando invariati gli intorni degli elementi di ℚ e assumendo come intorni aperti di ∞ i sottoinsiemi cofiniti di 𝑌 che contengono il punto. Un altro modo è quello di definire in ℚ ∪ {∞} la topologia dell’estensione aperta (cfr. Osservazione 1.85) in cui l’unico aperto che contiene ∞ è tutto il nuovo spazio. Quest’ultima topologia, non 𝑇2 , è certamente la meno fine possibile fra quelle che compattificano ℚ con un punto. ◁ Per evitare situazioni patologiche, diversi Autori, considerano il concetto di compattificazione solamente nell’ambito degli spazi di Hausdorff. Si vedano, per esempio i testi di Engelking [18] e Munkres [61]. Nell’ambito degli spazi
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
505
non 𝑇2 è interessante e curioso il concetto di no-point compactification (compattificazione senza punto) considerata da Wilansky in [81] che consiste nella seguente costruzione. Dato uno spazio topologico 𝑋, consideriamo l’insieme 𝑋 ′ ∶= 𝑋 ⧵ {𝑧}, con 𝑧 punto fissato di 𝑋, e quindi la compattificazione di Alexandrov di 𝑋 ′ . In questo modo, il punto 𝑧 diventa punto all’infinito, ma la topologia di 𝑋 può risultare modificata.
Esercizio 10.23. Si provi che, se 𝑋 è uno spazio di Hausdorff compatto e 𝑧 è un punto non isolato, allora la compattificazione senza punto di 𝑋 mediante 𝑧 è omeomorfa a 𝑋. ◁
Si osservi che la compattificazione senza punto di (ℝ, 𝜏𝑒 ) mediante il punto 0, dà luogo a uno spazio a forma di “8” con la topologia dell’Esempio 3.88. Chiudiamo il paragrafo segnalando che la compattificazione di Alexandrov non commuta con il prodotto. Esempio 10.24. Consideriamo l’insieme ℕ con la topologia discreta e sia 𝛼ℕ = ℕ ∪ {∞}, con ∞ > 𝑛, ∀𝑛 ∈ ℕ, la sua compattificazione di Alexandrov. Nell’insieme 𝛼ℕ × 𝛼ℕ con la topologia prodotto, un intorno di base del punto (∞, ∞) è del tipo {(𝑛, 𝑚) ∈ (𝛼ℕ)2 ∶ 𝑛, 𝑚 ≥ 𝑘}. Ma il complementare di un tale insieme, se non è vuoto, non è finito e quindi non compatto in ℕ2 . Nella topologia di 𝛼(ℕ2 ) i punti di ℕ2 sono isolati mentre gli intorni di ∞ sono gli insiemi cofiniti che lo contengono. È ora evidente che le due topologie non sono equivalenti. ◁
10.2 Compattificazione di Stone-Čech È ora il momento di introdurre la compattificazione di Stone-Čech di uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏). Saranno necessarie comunque alcune premesse di carattere tecnico. Indichiamo con 𝐼 ∶= [0, 1] l’intervallo chiuso unitario con la topologia euclidea. Sia poi 𝐶(𝑋, 𝐼) l’insieme delle applicazioni continue di 𝑋 in 𝐼. Per il Teorema di Tychonoff e il Teorema 6.37, il cubo 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) è un compatto di Hausdorff. L’idea della compattificazione di Stone-Čech è di utilizzare tale compatto (molto grande) come spazio ambiente in cui immergere 𝑋; la chiusura dell’immagine immersa sarà la compattificazione cercata. È chiaro che in questa costruzione il passo cruciale è quello di definire in modo opportuno l’immersione. L’immersione naturale di 𝑋 in 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) viene anche detta valutazione (evaluation map) e verrà indicata con la lettera 𝑒. La mappa di valutazione opera nel seguente modo: ad ogni 𝑥 ∈ 𝑋 associa l’elemento 𝑒(𝑥) ∈ 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) la cui 𝑓 -ima coordinata è 𝑓 (𝑥), per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝐼). Essa è continua per il Corollario 6.9. Osserviamo che il fatto che 𝑋 sia completamente regolare implica che 𝑒 ∶ 𝑋 → 𝑒(𝑋) è un omeomorfismo. Infatti essa è iniettiva e aperta. Ciò seguirà immediatamente dal prossimo lemma.
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
506
Definizione 10.25. Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e una famiglia 𝐹 di funzioni continue 𝑓 di 𝑋 in spazi topologici (𝑌𝑓 , 𝜎𝑓 ). Diremo allora che 𝐹 separa i punti se, per ogni coppia di punti distinti 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝑋, esiste 𝑓 ∈ 𝐹 tale che 𝑓 (𝑥1 ) ≠ 𝑓 (𝑥2 ); diremo che 𝐹 separa i punti dai chiusi se, comunque si scelgano un chiuso 𝐶 ⊂ 𝑋 e un punto 𝑥 ∉ 𝐶, esiste 𝑓 ∈ 𝐹 tale che 𝑓 (𝑥) ∉ cl 𝑓 (𝐶). ◁ Lemma 10.26 (Embedding lemma). Siano dati uno spazio topologico 𝑋 e una famiglia 𝐹 di funzioni continue 𝑓 di 𝑋 in spazi topologici 𝑌𝑓 . Allora 1. La funzione di valutazione 𝑒 ∶ 𝑋 → 𝑌 ∶= ∏𝑓 ∈𝐹 𝑌𝑓 è continua. 2. La funzione 𝑒 è iniettiva se e solo se 𝐹 separa i punti. 3. Se 𝐹 separa i punti dai chiusi, allora 𝑒 è una mappa aperta da 𝑋 su 𝑒(𝑋).
Dimostrazione. La 1 segue, come detto sopra, dal Corollario 6.9 e la 2 è ovvia. Proviamo la 3. Fissiamo un aperto 𝑈 ⊂ 𝑋 e un punto 𝑦 ∈ 𝑒(𝑈 ); vogliamo provare che 𝑦 è interno a 𝑒(𝑈 ) in 𝑒(𝑋). Sia 𝐶 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈 e fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑈 ̂ ̂ tale che 𝑒(𝑥) = 𝑦. Per ipotesi, esiste 𝑓 ̂ ∈ 𝐹 tale che 𝑓 (𝑥) ∉ cl 𝑓 (𝐶). Sia ̂ 𝐾 ∶= ∏𝑓 ∈𝐹 𝑌𝑓′ , con 𝑌 ′ ̂ ∶= cl 𝑓 (𝐶) e 𝑌𝑓′ ∶= 𝑌𝑓 negli altri casi. Essendo 𝐾 𝑓 chiuso in 𝑌 , il suo complementare 𝐴 è un aperto di 𝑌 contenente 𝑒(𝑥). Dunque 𝐴 ∩ 𝑒(𝑋) è un aperto in 𝑒(𝑋) tale che 𝑦 ∈ 𝐴 ∩ 𝑒(𝑋) ⊆ 𝑒(𝑈 ), dato che in 𝐴 ∩ 𝑒(𝑋) non ci sono punti di 𝐾 e quindi di 𝑒(𝐶). Nel contesto dell’Embedding Lemma, sussiste anche il seguente risultato utilizzato da qualche autore per dimostrare la proprietà universale della compattificazione di Stone-Čech che vedremo tra poco (si veda il libro di Kelley [34]). Lemma 10.27. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏) e (𝑌 , 𝜎) e una funzione arbitraria 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Definiamo inoltre 𝑓 ∗ ∶ 𝐼 𝑌 → 𝐼 𝑋 , ponendo 𝑓 ∗ (ℎ) ∶= ℎ ∘ 𝑓 , ∀ℎ ∈ 𝐼 𝑌 . Allora 𝑓 ∗ è continua.
Dimostrazione. La funzione 𝑓 ∗ ∶ 𝐼 𝑌 → 𝐼 𝑋 , avendo come codominio uno spazio prodotto, è continua se e solo se è continua ogni sua composizione con una qualunque proiezione. Poiché 𝐼 𝑋 = ∏𝑥∈𝑋 𝐼, le proiezioni sono del tipo 𝑝𝑥 ∶ 𝐼 𝑋 → 𝐼, con 𝑝𝑥 (𝜑) = 𝜑(𝑥). Quindi, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si ha 𝑝𝑥 (𝑓 ∗ (ℎ)) = ℎ(𝑓 (𝑥)). Risulta quindi che la funzione 𝑓 ∗ è continua se e solo se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’applicazione di 𝐼 𝑌 in 𝑋 che ad ℎ associa ℎ(𝑓 (𝑥)) è continua. Posto 𝑢 ∶= 𝑓 (𝑥) ∈ 𝑌 , ciò equivale a chiedersi se l’applicazione 𝜓 ∶ ℎ ↦ ℎ(𝑢) è continua. Ciò è vero perché è 𝐼 𝑌 = ∏𝑦∈𝑌 𝐼 e quindi 𝜓 è la proiezione di 𝐼 𝑌 sulla sua componente 𝑢. Si noti che non è richiesta la continuità di 𝑓 . Definizione 10.28. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) completamente regolare non compatto e considerata la mappa di valutazione 𝑒 ∶ 𝑋 → 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) , definiamo compattificazione di Stone-Čech l’insieme 𝛽𝑋 ∶= cl 𝑒(𝑋). Questa compattificazione sarà anche indicata con (𝛽𝑋, 𝑒). ◁
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
507
Se 𝑋 è completamente regolare, l’insieme 𝐶(𝑋, 𝐼) separa i punti e i punti dai chiusi; quindi per il Lemma 10.26 si conclude che 𝑋 e 𝑒(𝑋) sono omeomorfi e che 𝛽𝑋 è effettivamente una compattificazione 𝑇2 di 𝑋. Ne viene che, in questo caso, 𝒞𝐻 (𝑋) è diverso dal vuoto. Teorema 10.29. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare e 𝛽𝑋 la sua compattificazione di Stone-Čech. Ogni funzione continua da 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝐼 ∶= [0, 1] è prolungabile in modo unico per continuità a tutto 𝛽𝑋.
Dimostrazione. Siano 𝑖 ∶ 𝛽𝑋 → 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) l’immersione canonica e 𝑝𝑓 ∶ 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) → 𝐼 = 𝐼𝑓 la proiezione sulla componente 𝑓 . Si ha immediatamente 𝑝𝑓 ∘𝑖∘𝑒 = 𝑓 . Sia poi 𝑓 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → 𝐼 la funzione definita da 𝑓 ̂ ∶= 𝑝𝑓 ∘ 𝑖. Per costruzione, si ha 𝑓 ̂ ∘ 𝑒 = 𝑓 . Tutte le applicazioni coinvolte sono chiaramente continue. Quindi 𝑓 ̂ è un prolungamento di 𝑓 a tutto 𝛽𝑋; che esso sia unico segue dal teorema di unicità del prolungamento 2.94. Il prossimo risultato generalizza quello precedente al caso in cui il codominio di 𝑓 sia un qualunque compatto di Hausdorff. Esso è un risultato fondamentale perché permetterà di dimostrare la massimalità della compattificazione di Stone-Čech. Inoltre esso esprime una proprietà universale di estensione che in effetti caratterizza questa compattificazione (sempre a meno di equivalenze). Ovviamente, nel teorema che segue, supporremo che lo spazio 𝑋 di cui si parla non sia compatto. Teorema 10.30 (Proprietà universale di estensione). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare, 𝛽𝑋 la sua compattificazione di Stone-Čech e (𝑌 , 𝜎) un qualunque compatto di Hausdorff. Ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 è prolungabile in modo unico per continuità a tutto 𝛽𝑋. Una compattificazione di 𝑋 che goda di questa proprietà è equivalente a 𝛽𝑋. Dimostrazione. Per semplicità di notazione, nel corso della dimostrazione, identificheremo 𝑋 con la sua immagine in 𝛽𝑋 tramite la funzione di valutazione; si ha quindi che 𝑋 è un sottoinsieme denso di 𝛽𝑋. 𝑌 , essendo compatto e 𝑇2 , è completamente regolare. Per il lemma di immersione (embedding lemma), la funzione di valutazione 𝑒𝑌 ∶ 𝑌 → 𝐼 𝐶(𝑌 ,𝐼) è un’immersione di 𝑌 nello spazio prodotto 𝐼 𝐶(𝑌 ,𝐼) ed è un omeomorfismo fra 𝑌 e la sua immagine. Anche qui, per comodità, identificheremo 𝑌 con 𝑒𝑌 (𝑌 ), pensando quindi 𝑌 come un sottospazio di 𝐼 𝐶(𝑌 ,𝐼) ; quest’ultimo spazio verrà indicato d’ora in avanti anche con 𝑍. Considerata ora la funzione continua assegnata 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 e componendola con 𝑒𝑌 , otteniamo una funzione 𝑓 ̂ ∶= 𝑒𝑌 ∘ 𝑓 da 𝑋 a 𝑍. Con l’identificazione fatta sopra, 𝑓 ̂ coincide a tutti gli effetti con 𝑓 , solo si è ampliato il codominio. La 𝑓 ̂ a un elemento 𝑥 ∈ 𝑋 associa la famiglia (ℓ(𝑓 (𝑥)))ℓ∈𝐶(𝑌 ,𝐼) . Fissata quindi una qualunque funzione continua 𝑔 ∶ 𝑌 → 𝐼, essa è un elemento di 𝐶(𝑌 , 𝐼) ed è pertanto un indice dello spazio prodotto 𝑍. Considerando ora
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
508
̂ la proiezione 𝑝𝑔 ∶ 𝑌 𝐶(𝑌 ,𝐼) → 𝐼, si ottiene 𝑝𝑔 (𝑓 (𝑥)) = 𝑔(𝑓 (𝑥)). Abbiamo così ottenuto un’applicazione continua da 𝑋 in 𝐼 che indicheremo con 𝑓𝑔 . Per il teorema precedente, 𝑓𝑔 ∶ 𝑋 → 𝐼 ammette un unico prolungamento continuo 𝑓𝑔̃ ∶ 𝛽𝑋 → 𝐼. Al variare di 𝑔 ∈ 𝐶(𝑌 , 𝐼), otteniamo un’applicazione 𝑓 ̃ ∶ 𝛽𝑋 → ̃ ∶= (𝑓𝑔̃ (𝑢))𝑔∈𝐶(𝑌 ,𝐼) . Questa applicazione 𝑓 ̃ è continua perché 𝑍 definita da 𝑓 (𝑢) sono tali tutte le sue componenti. Poiché 𝑓𝑔̃ prolunga 𝑓𝑔 , per ogni possibile ̃ = 𝑓 (𝑥) = 𝑓 (𝑥) ̂ 𝑔 ∈ 𝐶(𝑌 , 𝐼), abbiamo che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si ha 𝑓 (𝑥) (usando l’identificazione di 𝑌 con 𝑒𝑌 (𝑌 )). 𝑋
𝑓
𝑌
𝑒𝑋
𝑓̂
𝑒𝑌
𝑍
𝑓𝑔 𝑓 ̃
𝑝𝑔
𝛽𝑋 𝐼
𝑓𝑔′̃
̃ ̃ 𝑋) ⊆ cl 𝑓 (𝑋) ̃ In fine, dato che cl 𝑋 = 𝛽𝑋, abbiamo 𝑓 (𝛽𝑋) = 𝑓 (cl ⊆ cl 𝑌 , dove la chiusura di 𝑌 si intende fatta nello spazio 𝑍, identificando ancora 𝑌 con la sua immagine 𝑒𝑌 (𝑌 ). Poiché 𝑌 è compatto e quindi chiuso in 𝑍, possiamo ̃ concludere che 𝑓 (𝛽𝑋) ⊆ 𝑌. In particolare, se 𝑌 è una compattificazione di 𝑋, si ottiene 𝛽𝑋 ⪰ 𝑌 . Se anche 𝑌 gode della proprietà universale di prolungabilità, si ottiene anche 𝑌 ⪰ 𝛽𝑋 e quindi, per il Corollario 10.12, 𝑌 ∼ 𝛽𝑋. Corollario 10.31. Dato uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏), 𝛽𝑋 è massimale in 𝒞𝐻 (𝑋)/∼ . Dalla dimostrazione del precedente teorema, si vede che la validità della proprietà universale per 𝑌 compatto di Hausdorff è equivalente al sussistere di tale proprietà quando 𝑌 è un intervallo compatto, ad esempio 𝐼 = [0, 1].
Teorema 10.32. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare non compatto immerso in modo denso in uno spazio compatto di Hausdorff (𝑊 , 𝜎). Sono allora fra loro equivalenti le seguenti affermazioni: 1. 𝑊 ∼ 𝛽𝑋; 2. ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] è prolungabile in modo unico per continuità a 𝑊 ; 3. per ogni compatto di Hausdorff 𝑌 , ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 è prolungabile in modo unico per continuità a 𝑊 ; 4. 𝑊 è massimale in 𝒞𝐻 (𝑋)/∼ .
Nella nostra costruzione della compattificazione di Stone-Čech di uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏), siamo partiti dall’insieme di tutte le applicazioni continue di 𝑋 in 𝐼 ∶= [0, 1]. Si osserva però che il punto cruciale della costruzione (grazie all’Embedding lemma) è che la famiglia delle funzioni considerate separa i punti dai chiusi (e quindi separa anche i punti). Potremmo pertanto partire da una famiglia ℱ ⊆ 𝐶(𝑋, 𝐼) con la proprietà di separare i punti dai chiusi e immergere omeomorficamente 𝑋 in 𝑒(𝑋) ⊆ 𝐼 ℱ . Quest’ultimo spazio è
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
509
ancora un compatto di Hausdorff e quindi la chiusura di 𝑒(𝑋) in esso fornisce una compattificazione di Hausdorff di 𝑋. Si costruiscono così diverse compattificazioni. Non è però, in generale, facile stabilire quando due di queste siano fra loro equivalenti. Un criterio per decidere in tal senso è una conseguenza del seguente Teorema di Taimanov.
Teorema 10.33 (di Taimanov). Siano dati: uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), un sottoinsieme 𝐷 denso in 𝑋 e uno spazio compatto 𝑇2 (𝑌 , 𝜎). Una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐷 → 𝑌 ammette un (unico) prolungamento continuo 𝑓 ̃ ∶ 𝑋 → 𝑌 se e solo se, per ogni coppia di sottoinsiemi chiusi e disgiunti 𝐻, 𝐾 di 𝑌 , si ha cl𝑋 𝑓 −1 (𝐻) ∩ cl𝑋 𝑓 −1 (𝐾) = ∅.
Dimostrazione. Per verificare il “solo se”, basta osservare che, se una 𝑓 ̃ esiste, ̃ (𝐻) e 𝑓 −1 ̃ (𝐾) sono due chiusi disgiunti di 𝑋 e che si ha 𝑓 −1 ̃ (𝐻) ⊇ gli insiemi 𝑓 −1 −1 −1 −1 ̃ cl𝑋 𝑓 (𝐻) e 𝑓 (𝐾) ⊇ cl𝑋 𝑓 (𝐾). Passiamo a dimostrare il “se”. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 consideriamo la famiglia ℱ𝑥 di sottoinsiemi chiusi di 𝑌 definita da ℱ𝑥 ∶= {cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈 ) ∶ 𝑈 ∈ 𝒰(𝑥)} .
Essendo 𝐷 denso in 𝑋, per ogni 𝑈1 , 𝑈2 ∈ 𝒰(𝑥), si ha
cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈1 ) ∩ cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈2 ) ⊇ cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈1 ∩ 𝑈2 ) ≠ ∅.
Dunque, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, ℱ𝑥 è una famiglia di chiusi di 𝑌 con la proprietà dell’intersezione finita. Essendo 𝑌 compatto, si ottiene che l’insieme ⋂ ℱ𝑥 dato dall’intersezione di tutti gli elementi di ℱ𝑥 è diverso dal vuoto. Proviamo che tale intersezione consta di un solo punto. Supponiamo, per assurdo, che esistano due punti distinti 𝑦, 𝑧 ∈ ⋂ ℱ𝑥 . Essendo 𝑌 regolare, esistono due aperti 𝑈 , 𝑉 , intorni rispettivamente di 𝑦 e di 𝑧, le cui chiusure sono disgiunte (cfr. Teorema 1.93). Per ipotesi, si ottiene cl𝑋 𝑓 −1 (cl 𝑈 ) ∩ cl𝑋 𝑓 −1 (cl 𝑉 ) = ∅,
da cui cl𝑋 𝑓 −1 (𝑈 ) ∩ cl𝑋 𝑓 −1 (𝑉 ) = ∅. Passando ai complementari, si ottiene (𝑋 ⧵ cl𝑋 𝑓 −1 (𝑈 )) ∪ (𝑋 ⧵ cl𝑋 𝑓 −1 (𝑉 )) = 𝑋. L’elemento 𝑥 deve appartenere ad uno di questi due aperti; sia 𝑥 ∈ 𝑊 ∶= 𝑋 ⧵ cl𝑋 𝑓 −1 (𝑈 ). Poiché 𝑊 è un intorno di 𝑥, si ha cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑊 ) ∈ ℱ𝑥 e quindi 𝑦 ∈ cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑊 ). Se facciamo vedere che è 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑊 ) ⊆ 𝑌 ⧵ 𝑈 , abbiamo ottenuto una contraddizione. Si ha ovviamente 𝐷 ∩ 𝑊 = 𝐷 ⧵ cl𝑋 𝑓 −1 (𝑈 ). Quindi, per ogni 𝑢 ∈ 𝐷 ∩ 𝑊 , si ha 𝑢 ∉ cl𝑋 𝑓 −1 (𝑈 ) e pertanto 𝑢 ∉ 𝑓 −1 (𝑈 ) e, in fine, 𝑓 (𝑢) ∉ 𝑈 . Si ha così l’unicità del punto di intersezione. ̃ ∶= 𝑦, con {𝑦} ∶= ⋂ ℱ𝑥 . Definiamo 𝑓 (𝑥) Per prima cosa, proviamo che si ha 𝑓 |̃ 𝐷 = 𝑓 . Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝐷 e sia 𝑊 un suo intorno in 𝑋. Essendo 𝑓 continua in 𝑥, per ogni intorno 𝑉 di 𝑓 (𝑥), esiste
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
510
un intorno 𝑈 di 𝑥 tale che 𝑓 (𝑈 ∩ 𝐷 ∩ 𝑊 ) ⊆ 𝑉 . Ne viene che 𝑓 (𝑥) ∈ cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑊 ). ̃ Per l’arbitrarietà di 𝑊 , si ha 𝑓 (𝑥) ∈ ⋂ ℱ𝑥 e quindi 𝑓 (𝑥) = 𝑓 (𝑥). Rimane da provare che 𝑓 ̃ è continua. Fissiamo un punto 𝑥 ∈ 𝑋 e un intorno ̃ aperto 𝑉 di 𝑦 ∶= 𝑓 (𝑥). Si ha {𝑦} =
⋂
𝑈 ∈𝒰(𝑥)
cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈 ) ⊆ 𝑉 .
Per la compattezza di 𝑌 , esiste un numero finito di intorni 𝑈1 , … , 𝑈𝑛 di 𝑥 tali che cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈1 ) ∩ cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈2 ) ∩ ⋯ ∩ cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈𝑛 ) ⊆ 𝑉 . (Il lettore lo può verificare ragionando sui complementari.) Posto 𝑊 ∶= 𝑈1 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑛 , per ogni 𝑧 ∈ 𝑊 , si ha ̃ ∈ cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑊 ) ⊆ cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈1 ) ∩ ⋯ ∩ cl 𝑓 (𝐷 ∩ 𝑈𝑛 ) ⊆ 𝑉 . 𝑓 (𝑧)
̃ ) ⊆ 𝑉 e quindi 𝑓 ̃ è continua in 𝑥. È dunque 𝑓 (𝑊
Osservazione 10.34. Il Teorema di Taimanov è interessante perché, rispetto al Teorema di prolungabilità 2.98, fornisce un criterio senza utilizzare in modo esplicito il concetto di limite. esso può essere inoltre utilizzato per dimostrare in modo semplice che una data funzione non è prolungabile per continuità. Si pensi, ad esempio alla funzione 𝑓 ∶ ℝ ⧵ {0} → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) = 𝑥/|𝑥|. Posto 𝐻 ∶= {1} e 𝐾 ∶= {−1}, si vede immediatamente che la condizione di Taimanov non è soddisfatta e quindi la funzione non si può prolungare per continuità a tutto ℝ. Il lettore utilizzi lo stesso metodo per provare che altre funzioni limitate non sono prolungabili in modo continuo, tipo sin(1/𝑥). ◁ Corollario 10.35 (Criterio di equivalenza). Siano dati uno spazio topologico completamente regolare (𝑋, 𝜏) e due sue compattificazioni di Hausdorff (𝑌1 , ℎ1 ), (𝑌2 , ℎ2 ). Allora esse sono fra loro equivalenti se e solo se vale la seguente condizione: cl𝑌1 ℎ1 (𝐶) ∩ cl𝑌1 ℎ1 (𝐷) = ∅ ⇔ cl𝑌2 ℎ2 (𝐶) ∩ cl𝑌2 ℎ2 (𝐷) = ∅, per ogni coppia di chiusi disgiunti 𝐶, 𝐷 ⊆ 𝑋.
(10.1)
Dimostrazione. Supponiamo, intanto, che le due compattificazioni siano equivalenti e sia 𝜓 ∶ 𝑌1 → 𝑌2 un omeomorfismo tale che 𝜓 ∘ ℎ1 = ℎ2 . Due chiusi 𝐶1 , 𝐷1 di 𝑌1 sono disgiunti se e solo se lo sono i chiusi di 𝑌2 𝜓(𝐶1 ), 𝜓(𝐷1 ). Ciò vale in particolare se è 𝐶1 = cl𝑌1 ℎ1 (𝐶) e 𝐷1 = cl𝑌1 ℎ1 (𝐷), con 𝐶, 𝐷 chiusi e disgiunti di 𝑋. Veniamo al viceversa. Ricordiamo che ℎ1 (𝑋) e ℎ2 (𝑋) sono sottoinsiemi densi di 𝑌1 e, rispettivamente, di 𝑌2 . Consideriamo l’omeomorfismo 𝜑1 ∶= ℎ2 ∘ ℎ−1 1 ∶ ℎ1 (𝑋) → ℎ2 (𝑋) ⊆ 𝑌2 . Vogliamo provare che 𝜑1 è prolungabile a tutto 𝑌1 . Fissiamo due chiusi disgiunti 𝐶2 , 𝐷2 di 𝑌2 e poniamo 𝐶2′ ∶= 𝐶2 ∩ ℎ2 (𝑋),
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
511
𝐷2′ ∶= 𝐷2 ∩ ℎ2 (𝑋), ottenendo due chiusi disgiunti di ℎ2 (𝑋) e, quindi di 𝑋 −1 −1 ′ (applicando ℎ−1 2 ) che chiameremo 𝐶 e 𝐷. Ora si ha 𝜑1 (𝐶2 ) = ℎ1 (ℎ2 (𝐶2 )) = −1 −1 ′ ℎ1 (𝐶) e 𝜑1 (𝐷2 ) = ℎ1 (ℎ2 (𝐷2 )) = ℎ1 (𝐷). D’altra parte, per costruzione. si ha ℎ2 (𝐶) = 𝐶2′ e ℎ2 (𝐷) = 𝐷2′ . Poiché 𝐶2 = cl𝑌2 ℎ2 (𝐶) e 𝐷2 = cl𝑌2 ℎ2 (𝐷) sono per ipotesi disgiunti, dalla (10.1) si ha anche cl𝑌1 𝜑−1 (𝐶2 ) ∩ cl𝑌1 𝜑−1 (𝐷2 ) = cl ℎ1 (𝐶) ∩ cl ℎ1 (𝐷) = ∅. Per il Teorema di Taimanov, la 𝜑1 è prolungabile per continuità a una funzione 𝜓1 ∶ 𝑌1 → 𝑌2 che sarà suriettiva per il Lemma 10.10. Si ottiene dunque (𝑌1 , ℎ1 ) ⪰ (𝑌2 , ℎ2 ). La simmetria della situazione assicura che è anche (𝑌2 , ℎ2 ) ⪰ (𝑌1 , ℎ1 ). La tesi segue ora dal Lemma 10.11. Nel Teorema 10.32, per caratterizzare la compattificazione di Stone-Čech, abbiamo considerato applicazioni continue a valori in [0, 1]. In analogia a quanto visto a suo tempo relativamente al Teorema di Tietze 2.101, si potrebbero considerare funzioni continue e limitate a valori reali. Al fine di approfondire questo discorso, introduciamo la seguente definizione. Definizione 10.36. Siano (𝑊 , 𝜏) uno spazio topologico e 𝑋 un suo sottospazio. 𝑋 si dice 𝐶 ∗ -immerso (𝐶 ∗ -embedded) in 𝑊 se ogni applicazione continua e limitata da 𝑋 in ℝ si può prolungare a una funzione continua definita su tutto 𝑊. ◁
Dal Teorema di Tietze segue immediatamente che ogni sottoinsieme chiuso di uno spazio normale è 𝐶 ∗ -immerso nello spazio. Si osservi invece che l’intervallo semiaperto ]0, 1] non è 𝐶 ∗ -immerso in [0, 1]: basta considerare la funzione sin(1/𝑥). Teorema 10.37. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare e 𝑊 una sua compattificazione (di Hausdorff). Allora 𝑊 ∼ 𝛽𝑋 se e solo se 𝑋 è 𝐶 ∗ -immerso in 𝑊 .
Dimostrazione. Sia (𝑊 , ℎ) ∼ (𝛽𝑋, 𝑒). Ovviamente penseremo 𝑋 non compatto, dato che altrimenti si avrebbe 𝑋 = 𝛽𝑋. Inoltre, identificando 𝑋 con la sua immagine in 𝛽𝑋, avremo che 𝑋 è un sottospazio (denso) di 𝛽𝑋 e, similmente, identificheremo 𝑋 con la sua immagine ℎ(𝑋) in 𝑊 . Sia, in fine, 𝜓 ∶ 𝑊 → 𝛽𝑋 un omeomorfismo che lascia fissi gli elementi di 𝑋. Sia assegnata 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua e limitata. Prendiamo quindi un intervallo [𝑎, 𝑏] che contenga 𝑓 (𝑋). Sia ora 𝜑 ∶ [𝑎, 𝑏] → [0, 1] un omeomorfismo. L’applicazione 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1] definita da 𝑔 ∶= 𝜑 ∘ 𝑓 possiede un’estensione continua 𝑔 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → [0, 1]. Posto 𝑓 ̂ ∶= 𝜑−1 ∘ 𝑔 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → [𝑎, 𝑏], abbiamo ottenuto un prolungamento continuo (e limitato) di 𝑓 da 𝛽𝑋 in ℝ. In fine, la funzione 𝜓 ∘ 𝑓 ̂ ∶ 𝑊 → ℝ è il prolungamento cercato. Viceversa, supponiamo che 𝑋 sia 𝐶 ∗ -immerso in 𝑊 . Ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] è ovviamente anche una funzione continua e limitata da 𝑋 in ℝ. Per ipotesi, 𝑓 si prolunga in modo continuo ad una funzione 𝑓 ̂ ∶ 𝑊 → ℝ. Per la densità di 𝑋 nello spazio di Hausdorff 𝑊 , si ha che questo prolungamento è
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
512
unico e a valori in [0,1] (sempre per la densità e per il fatto che [0, 1] è chiuso). L’equivalenza fra 𝑊 e 𝛽𝑋 segue ora dal Teorema 10.32. Data la massimalità della compattificazione di Stone-Čech, l’insieme dei punti che sono stati aggiunti allo spazio di partenza sarà molto ampio. Ne accenneremo in seguito senza entrare troppo in dettaglio. All’insieme 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 si dà il nome di corona. Dal Lemma 9.69 si ha che, se 𝑋 è localmente compatto, la corona 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 è un chiuso e quindi un compatto.
Esistono dei modi alternativi per introdurre la compattificazione di Sto-neČech e ad uno di questi, basato sulle proprietà dell’anello delle funzioni continue e limitate da 𝑋 in ℝ, accenneremo brevemente alla fine di questo paragrafo. Presentiamo invece ora un approccio alternativo che si considera quando 𝑋 è uno spazio infinito con la topologia discreta (in particolare, 𝑋 = ℕ). La relativa compattificazione di Stone-Čech può essere definita, insiemisticamente, come l’insieme di tutti gli ultrafiltri su 𝑋 e ogni elemento 𝑥 ∈ 𝑋 verrà identifi. cato con l’ultrafiltro principale 𝑥 ∶= {𝐸 ⊆ 𝑋 ∶ 𝑥 ∈ 𝐸}. Sviluppiamo un po’ in dettaglio questo approccio. In particolare, indicheremo ancora con 𝛽𝑋 la compattificazione che si ottiene utilizzando gli ultrafiltri. Al momento, l’utilizzo della notazione 𝛽𝑋 già introdotta precedentemente in un contesto completamente diverso potrebbe apparire scorretto. Verificheremo invece che non c’è abuso di notazione dato che le due compattificazioni risulteranno equivalenti.
Definizione 10.38. Sia 𝑋 un insieme non vuoto su cui introduciamo la topologia discreta. Indichiamo con 𝛽𝑋 l’insieme degli ultrafiltri definiti su 𝑋. Per ogni sottoinsieme 𝐴 ⊆ 𝑋, sia ⟨𝐴⟩ l’insieme degli ultrafiltri su 𝑋 che contengono 𝐴; poniamo cioè ⟨𝐴⟩ ∶= {𝒰 ∈ 𝛽𝑋 ∶ 𝐴 ∈ 𝒰} . ◁ Per un insieme finito, gli ultrafiltri sono tutti e soli quelli principali e lo spazio è già compatto. D’ora in poi penseremo sempre 𝑋 infinito.
Teorema 10.39. L’applicazione da 𝒫 (𝑋) a 𝒫 (𝛽𝑋) definita da 𝐴 ↦ ⟨𝐴⟩ gode delle seguenti proprietà: 1. ⟨∅⟩ = ∅; ⟨𝑋⟩ = 𝛽𝑋; 2. (∀𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋)(𝐴 ⊆ 𝐵 ⇒ ⟨𝐴⟩ ⊆ ⟨𝐵⟩); 3. (∀𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋)(⟨𝐴 ∩ 𝐵⟩ = ⟨𝐴⟩ ∩ ⟨𝐵⟩); 4. (∀𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋)(⟨𝐴 ∪ 𝐵⟩ = ⟨𝐴⟩ ∪ ⟨𝐵⟩); 5. (∀𝐴 ⊆ 𝑋)(⟨𝑋 ⧵ 𝐴⟩ = 𝛽𝑋 ⧵ ⟨𝐴⟩); 6. l’applicazione 𝐴 ↦ ⟨𝐴⟩ è iniettiva. Dimostrazione. Tenuto conto del Teorema 7.44, le prime 5 affermazioni sono di facile verifica; ne lasciamo la cura per esercizio al lettore. Verifichiamo l’ultima. Siano 𝐴, 𝐵 due sottoinsiemi di 𝑋 fra loro diversi e supponiamo, per esempio, . . . . che esista un 𝑥 ∈ 𝐴 ⧵ 𝐵. Si ha 𝐴 ∈ 𝑥 e 𝐵 ∉ 𝑥; si ottiene 𝑥 ∈ ⟨𝐴⟩, ma 𝑥 ∉ ⟨𝐵⟩, da cui ⟨𝐴⟩ ≠ ⟨𝐵⟩.
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
513
Corollario 10.40. 1. L’insieme {⟨𝐴⟩ ∶ 𝐴 ⊆ 𝑋} è una base di aperti in 𝛽𝑋. 2. Nella topologia 𝜎 (detta di Stone) così ottenuta, gli insiemi ⟨𝐴⟩ sono clopen. . 3. L’applicazione 𝑖 ∶ 𝑋 → 𝛽𝑋 definita da 𝑖(𝑥) ∶= 𝑥 è un’immersione densa.
Dimostrazione. La 1 segue immediatamente dalle prime affermazioni del teorema precedente. La 2 segue dalla Proposizione 10.39.5. Veniamo alla 3. L’applicazione 𝑖 è chiaramente iniettiva ed è continua perché in 𝑋 c’è la topologia . . discreta. Inoltre, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si ha ⟨{𝑥}⟩ = {𝑥}, e quindi i singoletti {𝑥} sono aperti di 𝛽𝑋 e 𝑖, risultando aperta, è un omeomorfismo fra 𝑋 e 𝑖(𝑋). Resta da provare che 𝑖(𝑋) è denso in 𝛽𝑋. Ogni aperto non vuoto 𝑈 di 𝛽𝑋 contiene un insieme del tipo ⟨𝐴⟩ per qualche insieme 𝐴 ⊆ 𝑋. Preso un 𝑥 ∈ 𝐴, . . si ha {𝑥} = ⟨{𝑥}⟩ ⊆ ⟨𝐴⟩ e quindi 𝑥 ∈ 𝑈 . Ci sarà utile il seguente risultato sugli ultrafiltri.
Lemma 10.41. Siano 𝑋, 𝑌 due insiemi non vuoti, 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 arbitraria e 𝒰 un ultrafiltro su 𝑋. Indichiamo con 𝑓∗ (𝒰) il filtro su 𝑌 generato dagli insiemi 𝑓 (𝐴), al variare di 𝐴 in 𝒰. Allora 𝑓∗ (𝒰) è un ultrafiltro. In particolare, se è . . . 𝒰 = 𝑥, per un 𝑥 ∈ 𝑋, si ha 𝑓∗ (𝒰) = 𝑓∗ (𝑥) = 𝑦, con 𝑦 ∶= 𝑓 (𝑥).
Dimostrazione. Che la famiglia {𝑓 (𝐴) ∶ 𝐴 ∈ 𝒰} generi un filtro è di verifica immediata. Sia 𝑈 ′ un sottoinsieme di 𝑌 che interseca tutti gli elementi di 𝑓∗ (𝒰). In particolare, 𝑈 ′ interseca tutti i sottoinsiemi di 𝑌 del tipo 𝑓 (𝐴), al variare di 𝐴 in 𝒰. Ne viene che è 𝑓 −1 (𝑈 ′ ) ∩ 𝐴 ≠ ∅, ∀𝐴 ∈ 𝒰. Per il Teorema 7.44, si ha 𝑓 −1 (𝑈 ′ ) ∈ 𝒰, da cui 𝑓 (𝑓 −1 (𝑈 ′ )) ∈ 𝑓∗ (𝒰) e quindi anche (𝑓 (𝑓 −1 (𝑈 ′ )) ⊆)𝑈 ′ ∈ 𝑓∗ (𝒰). Ancora dal Teorema 7.44, si ha che 𝑓∗ (𝒰) è un ultrafiltro. L’ultima parte della tesi è immediata, dato che da {𝑥} ∈ 𝒰 segue immediatamente {𝑓 (𝑥)} ∈ 𝑓∗ (𝒰). Teorema 10.42. Per ogni spazio discreto 𝑋, lo spazio 𝛽𝑋 sopra definito è una sua compattificazione di Hausdorff equivalente a quella di Stone-Čech della Definizione 10.28.
Dimostrazione. Proviamo, intanto, che 𝛽𝑋 è di Hausdorff. Siano 𝒰1 , 𝒰2 due elementi distinti di 𝛽𝑋, ossia due ultrafiltri distinti su 𝑋. Esiste dunque un sottoinsieme non vuoto 𝐴 ⊂ 𝑋 che appartiene ad uno e uno solo dei due ultrafiltri; sia, per esempio, 𝐴 ∈ 𝒰1 . Ne viene che 𝐴′ ∶= 𝑋 ⧵ 𝐴 ∈ 𝒰2 ⧵ 𝒰1 . Ogni ultrafiltro su 𝑋 deve contenere uno e uno solo dei sottoinsiemi 𝐴 e 𝐴′ . Si conclude che gli insiemi ⟨𝐴⟩ e ⟨𝐴′ ⟩ sono due aperti disgiunti di 𝛽𝑋 che contengono rispettivamente 𝒰1 e 𝒰2 . Come secondo passo, proviamo che 𝛽𝑋 è compatto. Ricordiamo che, per ogni 𝐴 ⊆ 𝑋 l’insieme ⟨𝐴⟩ è un chiuso di 𝛽𝑋. Consideriamo una famiglia {⟨𝐴𝛼 ⟩}𝛼∈𝐽 con la proprietà dell’intersezione finita e mostriamo che allora si ha ⋂𝛼∈𝐽 ⟨𝐴𝛼 ⟩ ≠ ∅. Ciò non è restrittivo perché la famiglia degli insiemi di tipo
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
514
⟨𝐴⟩ è una base di aperti che sono clopen. Quindi ogni chiuso è intersezione di elementi di questo tipo. Fissati 𝛼1 , … , 𝛼𝑛 ∈ 𝐽 , si ha ⟨𝐴𝛼1 ∩ 𝐴𝛼2 ∩ ⋯ ∩ 𝐴𝛼𝑛 ⟩ = ⟨𝐴𝛼1 ⟩ ∩ ⟨𝐴𝛼2 ⟩ ∩ ⋯ ∩ ⟨𝐴𝛼𝑛 ⟩ ≠ ∅ = ⟨∅⟩,
da cui 𝐴𝛼1 ∩ 𝐴𝛼2 ∩ ⋯ ∩ 𝐴𝛼𝑛 ≠ ∅. Dunque la famiglia {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 ha la proprietà dell’intersezione finita; essa genera pertanto un filtro che, a sua volta, è raffinato da un ultrafiltro 𝒰 ∈ 𝛽𝑋. Si conclude che, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , 𝐴𝛼 ∈ 𝒰 e che quindi è 𝒰 ∈ ⋂𝛼∈𝐽 ⟨𝐴𝛼 ⟩. Resta da provare la proprietà universale. Sia dunque data un’arbitraria funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 , con 𝑌 spazio compatto di Hausdorff. Siccome 𝑋 è uno spazio discreto, 𝑓 è continua. Dato un ultrafiltro 𝒰 su 𝑋, il lemma precedente ci assicura che 𝒰 ′ ∶= 𝑓∗ (𝒰) è un ultrafiltro di 𝑌 . Essendo quest’ultimo un compatto di Hausdorff, 𝒰 ′ converge a un unico punto 𝑧𝒰 ∈ 𝑌 che dipende ̂ univocamente da 𝒰 per cui poniamo 𝑓 (𝒰) ∶= 𝑧𝒰 . In tale situazione, scriveremo ̂ 𝑓∗ (𝒰) → 𝑓 (𝒰) (cfr. Definizione 7.49). Abbiamo così definito una funzione . . 𝑓 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → 𝑌 . In particolare, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si ha 𝑓 (̂ 𝑥) = 𝑦, con 𝑦 = 𝑓 (𝑥). Da ciò segue immediatamente che è 𝑓 ̂∘ 𝑖 = 𝑓 , (dove, come sopra detto, 𝑖 ∶ 𝑋 → 𝛽𝑋 . è l’immersione 𝑥 ↦ 𝑥). Verifichiamo che 𝑓 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → 𝑌 è continua. Fissiamo un elemento 𝒰 ∈ 𝛽𝑋 e ̂ un intorno aperto 𝑉 di 𝑓 (𝒰) in 𝑌 . Basta trovare in 𝛽𝑋 un aperto di base ⟨𝑈 ⟩ tale che ̂ (𝑉 ). 𝒰 ∈ ⟨𝑈 ⟩ ⊆ 𝑓 −1
̂ Poiché 𝑌 è regolare, esiste un aperto 𝑉1 di 𝑌 tale che 𝑓 (𝒰) ∈ 𝑉1 ⊆ cl 𝑉1 ⊆ 𝑉 . Poniamo 𝑈 ∶= 𝑓 −1 (𝑉1 ) ⊆ 𝑋. L’insieme ⟨𝑈 ⟩ è un aperto di 𝛽𝑋. Esso ̂ contiene il punto 𝒰. Infatti, per definizione 𝑓∗ (𝒰) → 𝑓 (𝒰) ∈ 𝑉1 e quindi 𝑉1 ∈ 𝑓∗ (𝒰), da cui 𝑈 = 𝑓 −1 (𝑉1 ) ∈ 𝒰 e, in fine, 𝒰 ∈ ⟨𝑈 ⟩. Proviamo ora che ̂ ⟩) ⊆ cl 𝑉1 . Supponiamo, per assurdo, che esista 𝒰1 ∈ ⟨𝑈 ⟩ tale che si ha 𝑓 (⟨𝑈 ̂ 1 ) ∉ cl 𝑉1 . Quindi 𝑓∗ (𝒰1 ) → 𝑓 (𝒰 ̂ 1 ) ∉ cl 𝑉1 . Si ottiene 𝑌 ⧵ cl 𝑉1 ∈ 𝑓∗ (𝒰1 ), da 𝑓 (𝒰 cui 𝑓 −1 (𝑌 ⧵cl 𝑉1 ) ∈ 𝒰1 . D’altra parte, si ha anche 𝑓 −1 (𝑉1 ) = 𝑈 ∈ 𝒰1 . Si ha così una contraddizione, dato che gli insiemi 𝑓 −1 (𝑌 ⧵ cl 𝑉1 ) e 𝑓 −1 (𝑉1 ) sono disgiunti e non possono appartenere ad un medesimo filtro. L’unicità del prolungamento 𝑓 ̂ segue dal Teorema 2.94. Per il Teorema 10.30, si conclude che 𝛽𝑋 è una compattificazione di 𝑋 che è equivalente a quella di Stone-Čech della Definizione 10.28. Un caso molto importante è quello in cui lo spazio discreto è numerabile e quindi, a tutti gli effetti, una copia di ℕ. Esporremo ora alcune interessanti proprietà della sua compattificazione di Stone-Čech 𝛽ℕ. Cominciamo col premettere alcune definizioni che riguardano i cosiddetti invarianti cardinali. Definizione 10.43. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), indichiamo con 𝑤(𝑋) il peso (inglese weight) dello spazio 𝑋, ossia la minima cardinalità di una sua base di aperti. ◁
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
515
Definizione 10.44. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), indichiamo con 𝑑(𝑋) la densità dello spazio 𝑋, ossia la minima cardinalità di un suo sottoinsieme denso. ◁
Definizione 10.45. Dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un suo punto 𝑥, indichiamo con 𝜒(𝑥, 𝑋) il carattere dello spazio 𝑋 nel punto 𝑥, ossia la minima cardinalità di una base di intorni del punto. Si chiama poi carattere dello spazio 𝑋 l’estremo superiore dei caratteri dei suoi punti; è dunque 𝜒(𝑋) ∶= sup {𝜒(𝑥, 𝑋) ∶ 𝑥 ∈ 𝑋}. ◁
Oltre a quelli appena definiti, che sono i più naturali, esistono molti altri invarianti topologici, quali la cellularità, il numero di Lindelöff, il peso di rete (network weight) al quale accenneremo brevemente tra poco (cfr. pag. 520), e la tightness (strettezza). Qui definiamo solo quest’ultima perché è interessante relativamente agli spazi sequenziali. Chi fosse interessato ad approfondire questi argomenti può consultare testi più specifici, come l’articolo di Tironi [77]. Definizione 10.46. Dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un suo punto 𝑥, indichiamo con 𝑡(𝑥, 𝑋) la tightness dello spazio 𝑋 nel punto 𝑥, ossia il minimo cardinale 𝛼 tale che, se 𝑥 ∈ cl 𝐸, per qualche sottoinsieme 𝐸 di 𝑋, allora esiste un sottoinsieme 𝐹 ⊆ 𝐸, con |𝐹 | ≤ 𝛼 tale che 𝑥 ∈ cl 𝐹 . Si chiama poi tightness dello spazio 𝑋 l’estremo superiore delle tightness dei suoi punti; è dunque 𝑡(𝑋) ∶= sup {𝑡(𝑥, 𝑋) ∶ 𝑥 ∈ 𝑋}. ◁
Seguendo l’impostazione di Engelking (cfr. [18]), sarà d’ora in avanti conveniente considerare come invarianti solo dei cardinali infiniti, considerando quindi una ridefinizione degli stessi in cui si assume come nuovo valore il massimo fra quello sopra definito e ℵ0 (∶= |ℕ|). Ciò permette, parlando di invariante numerabile, di non dover distinguere il caso finito da quello infinito. Facciamo riferimento allo stesso testo per osservare che le precedenti definizioni sono ben poste, coerentemente con la teoria dei cardinali. Noi affronteremo questo argomento nel secondo volume. Il termine “invariante” è dovuto al fatto che i numeri cardinali sopra definiti sono effettivamente invarianti per omeomorfismi. La loro introduzione è utile anche per generalizzare o semplificare alcuni risultati che abbiamo presentato in precedenza. Per esempio, abbiamo visto che ogni spazio topologico 𝐴2 è anche 𝐴1 e possiede un sottoinsieme numerabile denso (Teorema 1.73). Dal punto di vista degli invarianti cardinali, ciò significa affermare che, se è 𝑤(𝑋) = ℵ0 , allora anche 𝜒(𝑋) e 𝑑(𝑋) hanno valore uguale ad ℵ0 . Questo risultato si può a sua volta generalizzare (con la stessa dimostrazione dei risultati appena ricordati), con le seguenti diseguaglianze: Teorema 10.47. Per ogni spazio topologico (𝑋, 𝜏) si ha 𝜒(𝑋) ≤ 𝑤(𝑋) e 𝑑(𝑋) ≤ 𝑤(𝑋).
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
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Dimostrazione. La prima disuguaglianza è ovvia; verifichiamo la seconda. Sia ℬ una base di aperti per 𝜏 di cardinalità 𝑤(𝑋). Ad ogni aperto 𝐵 ∈ ℬ associamo un suo elemento 𝑥(𝐵) ∈ 𝑋 e poniamo 𝐸 ∶= {𝑥(𝐵) ∶ 𝐵 ∈ ℬ}. Per costruzione, 𝐸 è denso in 𝑋 ed ha cardinalità minore o uguale a quella di ℬ. Per ogni spazio topologico (𝑋, 𝜏) si ha banalmente 𝑑(𝑋) ≤ |𝑋| e 𝑡(𝑋) ≤ |𝑋|. In (ℝ, 𝜏𝑒 ) tutti quattro gli invarianti da noi considerati sono uguali ad ℵ0 . In questo caso, si ha perciò 𝑑(𝑋) < |𝑋| e 𝑡(𝑋) < |𝑋|. Consideriamo ancora la retta di Sorgenfrey (ℝ, 𝜏 + ). Essendo lo spazio 𝐴1 ma non 𝐴2 , si ha 𝜒(𝑋) < 𝑤(𝑋); essendo lo spazio separabile, si ha anche 𝑑(𝑋) < 𝑤(𝑋). Per un insieme non numerabile 𝑋 dotato della topologia discreta, si ha 𝜒(𝑋) = ℵ0 < 𝑑(𝑋) = |𝑋|. Per lo spazio topologico (𝑋, 𝜏) dell’Esempio 1.77, si ha 𝑑(𝑋) = ℵ0 < 𝜒(𝑋). Teorema 10.48. Per ogni spazio 𝑇0 (𝑋, 𝜏), si ha |𝑋| ≤ 2𝑤(𝑋) .
Dimostrazione. Sia ℬ una base di aperti per 𝜏 di cardinalità 𝑤(𝑋). Ad ogni punto 𝑥 ∈ 𝑋 associamo l’insieme ℬ(𝑥) costituito dagli elementi di ℬ che contengono 𝑥. Essendo lo spazio 𝑇0 , si è ottenuta un’applicazione iniettiva di 𝑋 nell’insieme delle parti di ℬ. Per quanto riguarda la tightness, il lettore verifichi che: In ogni spazio di Freéchet (𝑋, 𝜏), si ha 𝑡(𝑋) = ℵ0 . È naturale chiedersi se sussiste un analogo risultato per gli spazi sequenziali anche non di Fréchet (cfr. Esempio 2.56). Per poter rispondere a questa domanda, premettiamo il seguente risultato:
Lemma 10.49. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝔪 un numero cardinale infinito. Allora sono equivalenti le tre seguenti affermazioni: 1. Per ogni 𝐸 ⊆ 𝑋 e qualunque 𝑥 ∈ cl 𝐸, esiste 𝐹 ⊆ 𝐸 con |𝐹 | ≤ 𝔪 tale che 𝑥 ∈ cl 𝐹 . 2. Per ogni 𝐴 ⊆ 𝑋, si ha cl 𝐴 = ⋃𝐵⊆𝐴,|𝐵|≤𝔪 cl 𝐵. 3. Per ogni 𝐷 ⊆ 𝑋 non chiuso esistono un punto 𝑧 ∈ cl 𝐷 ⧵ 𝐷 e un insieme 𝐶 ⊆ 𝐷 con |𝐶| ≤ 𝔪 tali che 𝑧 ∈ cl 𝐶 ⧵ 𝐶. Dimostrazione. 1 ⇔ 2. Immediato. 1 ⇒ 3. Sia 𝐷 un sottoinsieme non chiuso di 𝑋. Esiste quindi almeno un punto 𝑧 ∈ cl 𝐷 ⧵ 𝐷. Essendo 𝑧 ∈ cl 𝐷, per la 1, esiste un sottoinsieme 𝐶 di 𝐷, con |𝐶| ≤ 𝔪 tale che 𝑧 ∈ cl 𝐶; ovviamente si ha anche 𝑧 ∉ 𝐶. 3 ⇒ 2. Si ha ovviamente che, 𝐸 ∶= ⋃𝐵⊆𝐴,|𝐵|≤𝔪 cl 𝐵 ⊆ cl 𝐴, per ogni sottoinsieme 𝐴 di 𝑋. Resta da provare l’inclusione opposta. Procediamo per assurdo, supponendo che esista 𝑤 ∈ cl 𝐴 ⧵ 𝐸. Poiché 𝐴 ⊆ 𝐸 ⊆ cl 𝐴, si ha anche cl 𝐸 = cl 𝐴; pertanto 𝐸 non è chiuso, visto che 𝑤 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Per la 3 applicata a 𝐷 ∶= 𝐸, esistono un punto 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸 e un insieme 𝐶 ⊆ 𝐸, con
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
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|𝐶| ≤ 𝔪 tali che 𝑧 ∈ cl 𝐶. Ogni elemento 𝑐 ∈ 𝐶(⊆ 𝐸), per definizione, deve appartenere alla chiusura di un insieme 𝐵𝑐 ⊆ 𝐴, con |𝐵𝑐 | ≤ 𝔪. Consideriamo ora l’insieme 𝐹 ∶= ⋃𝑐∈𝐶 𝐵𝑐 . L’insieme 𝐹 è un sottoinsieme di 𝐴 con |𝐹 | ≤ 𝔪. Per costruzione, si ha 𝑧 ∈ cl 𝐶 ⊆ cl
⋃
𝑐∈𝐶
cl 𝐵𝑐 ⊆ cl cl 𝐵 = cl(cl 𝐹 ) = cl 𝐹 ⊆ 𝐸. ⋃ 𝑐) ( 𝑐∈𝐶
Abbiamo così un assurdo, dato che è 𝑧 ∉ 𝐸.
Modificando il ragionamento dell’implicazione 3 ⇒ 2, il lettore dimostri per esercizio il seguente risultato:
Proposizione 10.50. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝔪 ≥ ℵ0 un numero cardinale. Dato un qualunque sottoinsieme 𝐸 di 𝑋, poniamo [𝐸]𝔪 ∶=
⋃
𝐵⊆𝐸,|𝐵|≤𝔪
cl 𝐵.
Allora l’operatore 𝜑 definito da 𝐸 ↦ [𝐸]𝔪 è un operatore che soddisfa agli assiomi di chiusura di Kuratowski (cfr. pag. 15). La topologia indotta da tale chiusura è più fine di 𝜏. Possiamo ora provare che
Teorema 10.51. Per ogni spazio sequenziale (𝑋, 𝜏), si ha 𝑡(𝑋) = ℵ0 .
Dimostrazione. Sia 𝐷 un sottoinsieme non chiuso di 𝑋; allora 𝐷 non è sequenzialmente chiuso. Esiste pertanto una successione (𝑥𝑛 )𝑛 di punti di 𝐷 convergente a un punto 𝑧 ∉ 𝐷. Posto 𝐶 ∶= {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}, si ha 𝑧 ∈ cl 𝐶 ⧵ 𝐶. Abbiamo così trovato un sottoinsieme numerabile 𝐶 e un punto 𝑧 ∈ cl 𝐶 ⧵ 𝐶. La tesi segue dal Lemma 10.49. Per verificare che non sussiste l’implicazione opposta, basta considerare la seconda variante dell’Esempio 2.46. Ricordiamo che lo spazio 𝑋 è del tipo 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ {𝑝}, con 𝑝 ∉ ℕ2 , in cui i punti di ℕ2 sono isolati e una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi {𝑝} ∪ {(𝑚, 𝑛) ∈ ℕ2 ∶ (𝑚 > 𝑘) ∧ (𝑛 > 𝑓 (𝑚))}, al variare di 𝑘 in ℕ e di 𝑓 ∶ ℕ → ℕ. In questa topologia ℕ2 è sequenzialmente chiuso ma non chiuso e si ha banalmente 𝑡(𝑋) = ℵ0 . Lemma 10.52. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio regolare infinito. Allora si ha 𝑤(𝑋) ≤ 2𝑑(𝑋) ≤ 2|𝑋| . Dimostrazione. Essendo lo spazio infinito e di Hausdorff, ogni sua base deve essere infinita (Esercizio!). Siano 𝐸 un sottoinsieme denso in 𝑋 con |𝐸| = 𝑑(𝑋)
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
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e ℬ ∶= {𝑈𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } una base di 𝜏. Essendo gli 𝑈𝛼 aperti ed 𝐸 denso in 𝑋, si ha, 𝑈𝛼 ⊆ int cl 𝑈𝛼 ⊆ cl 𝑈𝛼 , cl 𝑈𝛼 = cl(𝑈𝛼 ∩ 𝐸), ∀𝛼 ∈ 𝐽 . Posto, sempre per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , 𝑉𝛼 ∶= int cl(𝑈𝛼 ∩ 𝐸), si ha
𝑈𝛼 ⊆ int cl 𝑈𝛼 = int cl(𝑈𝛼 ∩ 𝐸) = 𝑉𝛼 , ∀𝛼 ∈ 𝐽 .
Posto, in fine ℬ ′ ∶= {𝑉𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 }, si ha che anche ℬ ′ è una base per 𝜏. Infatti, dati 𝑦 ∈ 𝐴 ∈ 𝜏, esiste un 𝛼 ∈ 𝐽 tale che 𝑦 ∈ 𝑈𝛼 ⊆ int cl 𝑈𝛼 = 𝑉𝛼 ⊆ cl 𝑈𝛼 ⊆ 𝐴.
Poiché per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 si ha 𝑈𝛼 ∩ 𝐸 ⊆ 𝐸, si ha |ℬ ′ | ≤ |𝒫 (𝐸)|, da cui 𝑤(𝑋) ≤ |ℬ ′ | ≤ |𝒫 (𝐸)| = 2|𝐸| = 2𝑑(𝑋) ≤ 2|𝑋| .
Teorema 10.53. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare e (𝑌 , 𝜎) una |𝑋| sua compattificazione. Allora si ha |𝑌 | ≤ 22 .
Dimostrazione. Se 𝑌 è finito, la tesi è immediata. Supponiamo dunque che 𝑌 sia infinito. Essendo 𝑋 denso in 𝑌 , si ha 𝑑(𝑌 ) ≤ |𝑋|. Per il lemma precedente, si ha 𝑤(𝑌 ) ≤ 2𝑑(𝑌 ) ≤ 2|𝑋| . Per il Teorema 10.48, si ha |𝑌 | ≤ 2𝑤(𝑌 ) e quindi 𝑑(𝑌 ) |𝑋| |𝑌 | ≤ 22 ≤ 22 . Da ciò si ottiene immediatamente il
Corollario 10.54. Si ha |𝛽ℕ| ≤ 2𝔠 .
Il risultato appena visto è un caso particolare di un teorema più generale che afferma che, per uno spazio di Hausdorff separabile, la cardinalità è maggiorata da 2𝔠 . Più precisamente, si ha Teorema 10.55. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico di Hausdorff. Allora si ha 𝑑(𝑋) |𝑋| ≤ 22 . In particolare, se lo spazio è anche separabile, si ha |𝑋| ≤ 2𝔠 .
Dimostrazione. Osserviamo che, se lo spazio è regolare (e possiamo supporlo, senza perdita di generalità, anche infinito), il risultato è un immediato corollario del Teorema 10.48 e del Lemma 10.52. Si tratta ora di dare una dimostrazione diretta sotto l’ipotesi meno restrittiva che lo spazio sia solo 𝑇2 . Sia 𝐷 un sottoinsieme denso in 𝑋, con |𝐷| = 𝑑(𝑋). Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, sia 𝒰(𝑥) la famiglia dei suoi intorni. Ad ogni 𝑥 ∈ 𝑋 associamo ora l’insieme 𝐷𝑥 ∶= {𝑈 ∩ 𝐷 ∶ 𝑈 ∈ 𝒰(𝑥)}. Si ha ovviamente 𝐷𝑥 ⊆ 𝒫 (𝐷). Osserviamo inoltre che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si ha cl 𝑉 = {𝑥}. ⋂ 𝑉 ∈𝐷𝑥
Infatti, per ogni 𝑦 ∈ 𝑋, con 𝑦 ≠ 𝑥, esistono due intorni aperti 𝑈𝑥 , 𝑈𝑦 , di 𝑥 e 𝑦 rispettivamente, tali che cl 𝑈𝑥 ∩ 𝑈𝑦 = ∅. Si ha poi cl(𝐷 ∩ 𝑈𝑥 ) ⊆ cl 𝑈𝑥 e
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quest’ultimo insieme non contiene 𝑦. Si conclude che, dati due punti distinti 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋, si ha 𝐷𝑥 ≠ 𝐷𝑦 . Abbiamo così ottenuto un’applicazione iniettiva di 𝑋 in 𝒫 (𝒫 (𝐷)), da cui la tesi. Per poter proseguire, abbiamo bisogno di un risultato sulla densità del prodotto di spazi separabili e di un lemma sul calcolo del peso.
Teorema 10.56. Sia 𝑋 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , dove, per ogni 𝑖, 𝑋𝑖 è uno spazio separabile. Allora, se |𝐽 | ≤ 𝔠, lo spazio 𝑋 è separabile. Dimostrazione. Questo risultato è stato già dimostrato in un caso particolare nella prima Proposizione dell’Esempio 6.38, dove studiavamo il caso 𝑋𝑖 ∶= ℕ con la topologia discreta. Per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , sia 𝐷𝑖 ∶= {𝑥𝑖𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} un sottoinsieme numerabile e denso in 𝑋𝑖 . Consideriamo inoltre una biiezione 𝜑 ∶ 𝐽 → 𝐼 ′ ∶= 𝜑(𝐽 ), con 𝐼 ′ sottoinsieme di 𝐼 ∶= [0, 1]. Per ogni intero 𝑘 ≥ 1, sia {𝐼1 , … , 𝐼𝑘 } una famiglia di sottointervalli chiusi di 𝐼 a due a due disgiunti e con estremi razionali. Sia, inoltre, (𝑛1 , … , 𝑛𝑘 ) una 𝑘-upla di numeri naturali. A partire da queste due 𝑘-uple, determiniamo il punto 𝑦 = 𝑦(𝐼1 , … , 𝐼𝑘 , 𝑛1 , … , 𝑛𝑘 ) ∶= (𝑦𝑖 )𝑖∈𝐽 ∈ 𝑋 come segue: 𝑦𝑖 ∶= 𝑥𝑖𝑛𝑙 se 𝜑(𝑖) ∈ 𝐼𝑙 , con 𝑙 ∈ {1, … , 𝑘}, e 𝑦𝑖 ∶= 𝑥𝑖0 , altrimenti. Indichiamo con 𝐷(⊆ 𝑋) l’insieme di tutti i punti 𝑦 così definiti. L’insieme 𝐷 è numerabile; proviamo che esso è denso in 𝑋. Sia 𝐴 un aperto non vuoto di base in 𝑋, con 𝐴 ≠ 𝑋. È dunque 𝐴 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝐴𝑖 , dove 𝐴𝑖 è un aperto di 𝑋𝑖 che coincide con 𝑋𝑖 a meno di un insieme finito di indici. A questo aperto resta associato un insieme finito (non vuoto) di indici 𝐽 ′ ∶= {𝑖1 , … , 𝑖ℎ }. Per ogni indice 𝑖𝑙 ∈ 𝐽 ′ , prendiamo 𝑖 un punto 𝑥𝑛𝑙𝑙 ∈ 𝐴𝑖𝑙 ∩𝐷𝑖𝑙 . Risulta così determinata una ℎ-upla di numeri naturali (𝑛1 , … , 𝑛ℎ ). L’insieme 𝜑(𝐽 ′ ) è formato da ℎ punti (distinti) dell’intervallo 𝐼. Possiamo ora scegliere ℎ intervalli 𝐼𝑖1 , … , 𝐼𝑖ℎ chiusi, a due a due disgiunti, con estremi razionali e contenuti in 𝐼, in modo tale che 𝜑(𝑖𝑙 ) ∈ 𝐼𝑖𝑙 , ∀𝑙 ∈ {1, 2, … , ℎ}. Per costruzione, il punto 𝑦 = 𝑦(𝐼𝑖1 , … , 𝐼𝑖ℎ , 𝑛1 , … , 𝑛ℎ ) appartiene ad 𝐴 ∩ 𝐷. In realtà, la Proposizione citata esprimeva una condizione necessaria e sufficiente; in questo caso, tuttavia il risultato non è migliorabile, dato che il fatto che lo spazio prodotto sia separabile non dà alcuna informazione sul “numero“ dei fattori (cfr. Osservazione 6.36). Il risultato precedente è un caso particolare del Teorema di Hewitt-Marczewski-Pondiczery che afferma il seguente fatto: Il prodotto di al più 2𝔪 spazi topologici di densità al più 𝔪 ha densità minore o uguale a 𝔪 (cfr. [18]). Il secondo risultato tecnico è un lemma che semplifica, nel caso compatto 𝑇2 il calcolo del peso, utilizzando al posto del concetto di base quello di network da noi già introdotto nella Definizione 8.20. Utilizzano i networks al posto delle basi di aperti, possiamo introdurre un peso “modificato” 𝑛𝑤(𝑋) (detto network weight, cfr. [18]) definito come la minima cardinalità (infinita) di un network in uno spazio topologico assegnato. Dalla definizione e dal fatto che ogni base
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di aperti è anche un network, risulta chiaro che: Per ogni spazio topologico (𝑋, 𝜏), si ha 𝑛𝑤(𝑋) ≤ 𝑤(𝑋).
Lemma 10.57. Per un qualunque spazio topologico compatto di Hausdorff (𝑋, 𝜏) si ha 𝑛𝑤(𝑋) = 𝑤(𝑋).
Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏) un compatto di Hausdorff e 𝒩 un suo network. Un network è finito se e solo se lo spazio è finito (perché di Hausdorff) e se e solo se ha una base finita di aperti (Esercizio!); in questo caso la topologia è quella discreta e il risultato è banale. Supponiamo dunque 𝒩 infinito. Consideriamo l’insieme delle coppie (𝑁1 , 𝑁2 ) di elementi di 𝒩 per cui esiste una coppia di 𝜏-aperti disgiunti (𝐴1 , 𝐴2 ) tali che 𝐴𝑖 ⊇ 𝑁𝑖 , 𝑖 = 1, 2. L’insieme di tutti gli aperti così ottenuti formano una sottobase di una topologia 𝜏 ′ su 𝑋 che, per costruzione, è meno fine di 𝜏. La cardinalità della base che genera 𝜏 ′ è minore o uguale di |𝒩 × 𝒩 |. Osserviamo che è |𝒩 × 𝒩 | = |𝒩 |, perché 𝒩 è infinito e vale l’identità 𝔫 × 𝔪 = 𝔫 per ogni cardinale 𝔪 con 0 < 𝔪 ≤ 𝔫, quando 𝔫 è infinito. La proprietà sui cardinali qui richiamata è un fatto tutt’altro che banale e si può trovare sul classico testo di Sierpiński [74, formula (2.1), pag. 417]. Invitiamo il lettore a darne una dimostrazione nel caso 𝔫 = ℵ0 e in quello 𝔫 = 𝔠. In conclusione, abbiamo provato che la cardinalità della base che genera 𝜏 ′ è minore o uguale a |𝒩 |. Poiché (𝑋, 𝜏) è di Hausdorff, è tale anche (𝑋, 𝜏 ′ ). Infatti, dati due punti distinti 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝑋, esistono due rispettivi intorni aperti e disgiunti 𝑈1 , 𝑈2 che li separano. Per la definizione di network, esistono due elementi 𝑁1 , 𝑁2 ∈ 𝒩 con 𝑥𝑖 ∈ 𝑁𝑖 ⊆ 𝑈𝑖 , 𝑖 = 1, 2. Per definizione, si ha 𝑈1 , 𝑈2 ∈ 𝜏 ′ . Consideriamo l’identità 𝑖 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋, 𝜏 ′ ). Essa è un’applicazione biiettiva e continua da uno spazio compatto in uno di Hausdorff e quindi è un omeomorfismo per il Teorema 7.36. Ne viene che (𝑋, 𝜏) e (𝑋, 𝜏 ′ ) hanno lo stesso peso. Tenendo conto di quanto sopra osservato sulle cardinalità, si conclude che è 𝑤(𝑋) ≤ 𝑛𝑤(𝑋) e quindi anche 𝑤(𝑋) = 𝑛𝑤(𝑋). Teorema 10.58. Si ha 𝑑(𝛽ℕ) = ℵ0 , |𝛽ℕ| = 2𝔠 e 𝑤(𝛽ℕ) = 𝔠.
Dimostrazione. La prima uguaglianza è ovvia, dato che ℕ è denso in 𝛽ℕ. Dai Teoremi 10.54 e 10.52 si ha subito |𝛽ℕ| ≤ 2𝔠 e 𝑤(𝛽ℕ) ≤ 𝔠. Considerato l’intervallo 𝐼 ∶= [0, 1] con la topologia euclidea, poniamo 𝑌 ∶= 𝐼 𝔠 , dotato della topologia prodotto. Per il Teorema di Tychonoff, 𝑌 è un compatto e si ha |𝑌 | = 𝔠𝔠 = 2ℵ0 ⋅𝔠 = 2𝔠 . Per il teorema precedente, si ha 𝑑(𝑌 ) = ℵ0 (usiamo il fatto ovvio che 𝐼 è separabile). Esiste quindi un sottoinsieme denso e numerabile 𝐷 ⊂ 𝑌 . Sia ora 𝑓 ∶ ℕ → 𝐷 una biiezione. Essa è anche un’applicazione continua da ℕ in 𝑌 . Ne viene che (𝑌 , 𝑓 ) è una compattificazione di ℕ. Per la proprietà universale (Teorema 10.30), 𝑓 si estende in modo continuo a una funzione 𝑓 ̂ ∶ 𝛽ℕ → 𝑌 che è anche suriettiva (cfr. Lemma 10.20). Si ottiene quindi |𝛽ℕ| ≥ |𝑌 | = 2𝔠 . Per il Teorema di Bernstein sulla cardinalità, si conclude che è |𝛽ℕ| = 2𝔠 .
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Per quanto riguarda il peso, osserviamo che 𝑤(𝐼 𝔠 ) = 𝔠. Infatti, dato che 𝐼 possiede una base numerabile, l’insieme di tutti gli elementi dello spazio prodotto in cui un fattore è un aperto di base di 𝐼 e gli altri coincidono con 𝐼 ha cardinalità del continuo; questo è un sistema di generatori dal quale si ottiene una base mediante le intersezioni finite. Nel passo precedente, abbiamo verificato che 𝑌 ∶= 𝐼 𝔠 è immagine continua di 𝛽ℕ tramite un’opportuna funzione ̂ 𝑓 .̂ Se ℬ è una base di aperti in 𝛽ℕ, allora l’insieme delle immagini 𝑓 (𝐵), con 𝐵 ∈ ℬ, è un network di 𝑌 . Si ha quindi 𝑤(𝛽ℕ) ≥ 𝑛𝑤(𝑌 ). D’altra parte, 𝑌 è un compatto di Hausdorff e, per il lemma precedente, si ha 𝑛𝑤(𝑌 ) = 𝑤(𝑌 ) = 𝔠. Abbiamo così verificato che è 𝑤(𝛽ℕ) ≥ 𝔠. La tesi segue ancora dal Teorema di Bernstein. Il teorema appena visto è interessante anche rispetto alla disuguaglianza |𝑋| ≤ 2𝔠 che vale per ogni spazio di Hausdorff separabile (cfr. Teorema 10.55). Infatti, esso fornisce un esempio di spazio in cui si ha |𝑋| = 2𝔠 , per cui la disuguaglianza, in generale, non è migliorabile. Il risultato sulla cardinalità di 𝛽ℕ permette di determinare anche quelle di 𝛽ℚ e 𝛽ℝ. Teorema 10.59. Si ha |𝛽ℕ| = |𝛽ℚ| = |𝛽ℝ| = 2𝔠 .
Dimostrazione. Poiché ℚ è numerabile e denso in 𝛽ℚ, abbiamo che 𝛽ℚ è separabile (e di Hausdorff) e quindi, |𝛽ℚ| ≤ 2𝔠 , per il Teorema 10.55. Per quanto riguarda ℝ, osserviamo che esso è separabile e denso in 𝛽ℝ. Pertanto anche quest’ultimo è separabile (Esercizio). Per lo stesso teorema, abbiamo anche che è |𝛽ℝ| ≤ 2𝔠 Per dimostrare le disuguaglianze opposte, non possiamo utilizzare in modo ingenuo il fatto che ℕ sia un sottoinsieme di ℚ e di ℝ e trasferire le analoghe inclusioni alle rispettive compattificazioni. Infatti, in generale, se uno spazio è sottospazio di un altro, non è detto che lo stesso valga per le relative compattificazioni di Stone-Čech. Tuttavia ℕ è un sottospazio chiuso sia di ℚ che di ℝ che sono spazi normali (addirittura metrici). Quindi, per il Teorema di Tietze 2.101 e commenti successivi, ℕ è 𝐶 ∗ -immerso sia in ℚ che in ℝ (cfr. Definizione 10.36). Da ciò segue che a ogni elemento di 𝐶(ℕ, 𝐼) si può far corrispondere almeno un elemento di 𝐶(ℚ, 𝐼) di cui esso è la restrizione; analogamente per 𝐶(ℝ, 𝐼), da cui |𝐶(ℕ, 𝐼)| ≤ |𝐶(ℚ, 𝐼)|, come pure |𝐶(ℕ, 𝐼)| ≤ |𝐶(ℝ, 𝐼)|. Identificando gli spazi 𝑋 = ℕ, ℚ, ℝ con le loro immagini in 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) tramite le corrispondenti funzioni di valutazione, si ha, passando alle chiusure, 2𝔠 = |𝛽ℕ| ≤ |𝛽ℚ| e, analogamente, 2𝔠 = |𝛽ℕ| ≤ |𝛽ℝ|. La tesi segue ancora dal Teorema di Bernstein. Osservazione 10.60. Osserviamo intanto che, dati uno spazio completamente regolare 𝑋 e la sua compattificazione di Stone-Čech 𝛽𝑋, l’applicazione 𝜑𝑋 ∶ 𝐶(𝑋, 𝐼) → 𝐶(𝛽𝑋, 𝐼) che ad una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝐼 associa il suo unico prolungamento 𝑓 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → 𝐼 è biiettiva. Inoltre, dati due spazi omeomorfi
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𝑋 e 𝑌 , questi possono essere identificati e quindi si possono identificare anche gli spazi 𝐶(𝑋, 𝐼) e 𝐶(𝑌 , 𝐼). Vogliamo ora verificare che i tre spazi topologici 𝛽ℕ, 𝛽ℚ e 𝛽ℝ, pur avendo tutti la stessa cardinalità, sono a due a due non omeomorfi. Supponiamo, per assurdo, che esista un omeomorfismo tra 𝛽ℕ e 𝛽ℚ. Funzioni continue diverse da 𝛽ℕ a 𝐼 hanno tracce diverse su ℕ. Ne viene che funzioni continue diverse da 𝛽ℚ a 𝐼 hanno tracce diverse su un sottoinsieme di 𝛽ℚ omeomorfo a ℕ. Accade lo stesso per le funzioni da ℚ ad 𝐼, ma questo è palesemente assurdo. Analogamente per gli spazi 𝛽ℕ e 𝛽ℝ. Supponiamo ora omeomorfi gli spazi 𝛽ℚ e 𝛽ℝ. Consideriamo la funzione continua 𝑓 ∶ ℚ → 𝐼 definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 0 per 𝑥 < 𝜋 e 𝑓 (𝑥) ∶= 1 per 𝑥 > 𝜋. Questa è univocamente prolungabile in una funzione 𝑓 ̂ ∶ 𝛽ℚ → 𝐼 e quindi, per quanto sopra osservato, in una funzione 𝑓 ̃ ∶ 𝛽ℝ → 𝐼. Ma allora la restrizione di 𝑓 ̃ a ℝ sarebbe un prolungamento continuo di 𝑓 a ℝ, il che è assurdo. Dal confronto di 𝛽ℚ e 𝛽ℝ possiamo anche verificare che, come detto sopra, se 𝑋 è un sottospazio di 𝑌 , non è detto che accada lo stesso per 𝛽𝑋 e 𝛽𝑌 . Infatti, ℚ è un sottospazio di ℝ, ma 𝛽ℚ non è un sottospazio di 𝛽ℝ, dato che la funzione 𝑓 ∶ ℚ → 𝐼 definita sopra, che è univocamente prolungabile in una funzione 𝑓 ̂ ∶ 𝛽ℚ → 𝐼 non appartiene a 𝛽ℝ, non avendo traccia continua su ℝ. ◁ Continuiamo l’esposizione delle proprietà di 𝛽ℕ. Dalla Proposizione 10.40.2, si ottiene immediatamente il Corollario 10.61. Lo spazio 𝛽ℕ è zero-dimensionale.
Teorema 10.62. Ogni chiuso infinito di 𝛽ℕ contiene un sottoinsieme omeomorfo a 𝛽ℕ.
Dimostrazione. Procediamo a tappe. Sia 𝐶 un sottoinsieme infinito e chiuso di 𝛽ℕ. Supponiamo come prima possibilità che 𝐶 ′ ∶= 𝐶 ∩ ℕ sia infinito. Vogliamo provare che la chiusura di 𝐶 ′ in 𝛽ℕ, che indicheremo con 𝐾, è omeomorfa a 𝛽ℕ. 𝐶 ′ è omeomorfo a ℕ. Per verificare che 𝐾 è omeomorfo a 𝛽ℕ, verifichiamo che 𝐾 è omeomorfo a 𝛽𝐶 ′ provando che 𝐾 soddisfa alla proprietà universale. Fissiamo un’arbitraria funzione (continua) 𝑓 ∶ 𝐶 ′ → 𝐼. Essa determina (in modo univoco) la funzione (continua) 𝑓1 ∶ ℕ → 𝐼 che coincide con 𝑓 su 𝐶 ′ e vale 0 altrove. La funzione 𝑓1 è univocamente prolungabile a una funzione 𝑓1̂ ∶ 𝛽ℕ → 𝐼. La restrizione di 𝑓1̂ a 𝐾 è una funzione continua da 𝐾 in 𝐼 che prolunga la 𝑓 di partenza. L’unicità del prolungamento segue dalla densità di 𝐶 ′ in 𝐾 (cfr. Teorema 2.94). Quindi 𝐾 è un compatto contenente 𝐶 ′ (come sottospazio denso) che gode della proprietà universale ed è quindi omeomorfo a 𝛽𝐶 ′ (a sua volta omeomorfo a 𝛽ℕ). In fine, poiché 𝐶 è chiuso per ipotesi, esso deve contenere 𝐾. Se 𝐶 ∩ ℕ non è infinito deve essere tale l’insieme 𝐶 ′ ∶= 𝐶 ∩ (𝛽ℕ ⧵ ℕ). A partire da 𝐶 ′ e procedendo induttivamente, si determina un sottoinsieme 𝐶 ″ ∶= {𝑐1 , 𝑐2 , … 𝑐𝑛 , … } che eredita la topologia discreta. Descriviamo in modo
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dettagliato il procedimento induttivo. Fissiamo due punti distinti 𝑎, 𝑏 ∈ 𝐶 ′ ; questi ammettono due intorni 𝑈𝑎 , 𝑈𝑏 clopen e disgiunti (cfr. Corollario 10.40). Non sarà restrittivo supporre che 𝑈𝑎 e 𝑈𝑏 siano fra loro complementari. Almeno uno di questi due clopen contiene infiniti punti di 𝐶 ′ . Sia esso 𝑈𝑏 che chiameremo 𝑈1 . Poniamo 𝑐1 ∶= 𝑎 e 𝐴1 ∶= 𝑈𝑎 , ricordando che 𝑈1 è il complementare di 𝐴1 ed è un clopen con infiniti punti di 𝐶 ′ . Operiamo in modo analogo sull’insieme infinito 𝑈1 ∩ 𝐶 ′ . In generale, al passo 𝑛-imo avremo ottenuto 𝑛 punti distinti 𝑐1 , 𝑐2 , … 𝑐𝑛 mutuamente separati da clopen 𝐴1 , 𝐴2 , … 𝐴𝑛 e un aperto 𝑈𝑛 disgiunto da ciascuno degli 𝐴𝑖 e tale che 𝑈𝑛 ∩ 𝐶 ′ è infinito. Procediamo ora analogamente al punto precedente, ottenendo 𝑐𝑛+1 , 𝐴𝑛+1 , 𝑈𝑛+1 . Ottenuto 𝐶 ″ , poniamo 𝐾 ∶= cl 𝐶 ″ (in 𝛽ℕ) e facciamo vedere che 𝐾 è omeomorfo a 𝛽𝐶 ″ (a sua volta omeomorfo a 𝛽ℕ) perché gode della proprietà universale. Fissiamo un’arbitraria funzione (continua) 𝑓 ∶ 𝐶 ″ → 𝐼. Essa determina (in modo univoco) la funzione (continua) 𝑓1 ∶ ℕ → 𝐼 definita come segue: 𝑓1 (𝑛) ∶= 𝑓 (𝑐𝑗 ) se 𝑛 ∈ 𝐴𝑗 ∩ ℕ, 𝑓1 (𝑛) ∶= 0 altrimenti. La funzione 𝑓1 è univocamente prolungabile a una funzione 𝑓1̂ ∶ 𝛽ℕ → 𝐼. Osserviamo che, dato che i punti 𝑐𝑖 appartengono alla chiusura di ℕ, gli insiemi 𝐴𝑖 ∩ ℕ sono tutti non vuoti; ne viene che, per costruzione, 𝑓1 è costantemente uguale a 𝑓 (𝑐𝑖 ) in tutti i punti di 𝐴𝑖 ∩ ℕ. Di conseguenza, 𝑓1̂ è costantemente uguale a 𝑓 (𝑐𝑖 ) in tutti i punti di cl(𝐴𝑖 ∩ℕ) = 𝐴𝑖 (Esercizio, usando il fatto che gli 𝐴𝑖 sono clopen), quindi anche 𝑓1̂ (𝑐𝑖 ) = 𝑓 (𝑐𝑖 ). Abbiamo così verificato che la restrizione di 𝑓1̂ a 𝐾 è una funzione continua da 𝐾 in 𝐼 che prolunga la 𝑓 di partenza. L’unicità del prolungamento segue dalla densità di 𝐶 ″ in 𝐾. Quindi 𝐾 è un compatto contenente 𝐶 ″ che gode della proprietà universale ed è quindi omeomorfo a 𝛽𝐶 ″ (a sua volta omeomorfo a 𝛽ℕ). In fine, poiché 𝐶 è chiuso per ipotesi, esso deve contenere 𝐾. Corollario 10.63. Le successioni convergenti in 𝛽ℕ sono tutte e sole quelle definitivamente costanti.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che esista una successione (𝑥𝑛 )𝑛 non definitivamente costante e convergente a un punto 𝑧. Non è restrittivo supporre che gli 𝑥𝑛 siano tutti distinti fra loro. Sia 𝐶 ∶= {𝑧} ∪ {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. 𝐶 è un insieme chiuso ed infinito e, inoltre, si ha 𝐶 = cl {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. Per il teorema precedente, 𝐶 dovrebbe contenere una copia di 𝛽ℕ e quindi dovrebbe avere cardinalità 2𝔠 , che è palesemente assurdo. Da un punto di vista storico, è interessante osservare che il problema di sapere se esistono spazi compatti 𝑇2 in cui convergono solo le successioni triviali era stato posto da Alexandrov e Urysohn nel 1929. In questo contesto, segnaliamo un altro problema noto come Problema di Efimov che chiede: È vero che ogni compatto infinito di Hausdorff, in cui le sole successioni convergenti sono
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quelle triviali, contiene una copia di 𝛽ℕ? Esistono dei controesempi che fanno però uso di assiomi aggiuntivi come, per esempio, l’ipotesi del continuo. 1 Corollario 10.64. 1. Lo spazio 𝛽ℕ non è sequenzialmente compatto. 2. Lo spazio 𝛽ℕ non è primo numerabile nei punti di 𝛽ℕ ⧵ ℕ. 3. Lo spazio 𝛽ℕ non è sequenziale (e quindi nemmeno di Fréchet).
Dimostrazione. 1. Segue immediatamente dal corollario precedente. 2. Ogni punto 𝑧 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ è aderente a ℕ. Se 𝛽ℕ fosse primo numerabile in 𝑧, esisterebbe una successione di elementi di ℕ convergente a 𝑧, ancora contro il precedente corollario. 3. Il sottoinsieme ℕ di 𝛽ℕ è sequenzialmente chiuso ma non chiuso. Esempio 10.65. Sia 𝑋 ∶= ℕ ∪ {𝑝}, con 𝑝 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ. Per il Corollario 10.63 𝑋 non è sequenziale, dato che ℕ è sequenzialmente chiuso ma non chiuso. Essendo lo spazio numerabile, si ha ovviamente 𝑡(𝑋) = ℵ0 . Si noti inoltre che lo spazio non è primo numerabile. ◁ Ci sarà utile anche il seguente risultato che esprime una proprietà di fattorizzazione. Teorema 10.66. Siano dati due spazi topologici compatti e di Hausdorff (𝑌 , 𝜎𝑌 ), (𝑍, 𝜎𝑍 ) e una funzione continua e suriettiva 𝑓 ∶ 𝑌 → 𝑍. Allora, per ogni funzione continua 𝑔 ∶ 𝛽ℕ → 𝑍, esiste una funzione continua ℎ ∶ 𝛽ℕ → 𝑌 tale che 𝑔 = ℎ ∘ 𝑓 . Dimostrazione. Definiamo intanto in modo opportuno una funzione ℎ sul sottoinsieme ℕ di 𝛽ℕ, scegliendo in corrispondenza ad ogni 𝑛 ∈ ℕ un elemento ℎ𝑛 ∈ 𝑓 −1 ({𝑔(𝑛)}). L’applicazione 𝑛 ↦ ℎ𝑛 è ovviamente continua. Per la proprietà universale della compattificazione di Stone-Čech, essa ammette un (unico) prolungamento continuo ℎ ∶ 𝛽ℕ → 𝑌 . Inoltre, per costruzione, si ha 𝑓 (ℎ(𝑛)) = 𝑔(𝑛), ∀𝑛 ∈ ℕ. Le due funzioni 𝑔 e 𝑓 ∘ ℎ sono entrambe definite e continue in 𝛽ℕ, a valori nello spazio di Hausdorff 𝑍 e coincidono sul sottospazio denso ℕ; esse coincidono per il Teorema di unicità del prolungamento 2.94.
Gleason ha definito in un lavoro del 1958 ([23]) con il termine proiettivo uno spazio topologico che soddisfa, come 𝛽ℕ, alla precedente proprietà. Osserviamo che il risultato del Teorema 10.66 è valido per ogni compattificazione 𝛽𝑋 di uno spazio discreto (anche non numerabile). Ci sono moltissime proprietà interessanti relative al concetto di compattificazione che non possiamo qui affrontare dati i fini di questo libro. In particolare, è naturale chiedersi come una data compattificazione si lega con il prodotto. 1 Per una trattazione con informazioni relative al problema di Efimov, il lettore interessato può fare riferimento all’articolo di K.P. Hart, “Efimov’s problem”, in: Open Problems in Topology II - Edited by E. Pearl, Elsevier, 2007, pp. 171–177.
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In questo contesto, l’insieme dei naturali fornisce già degli utili controesempi. Cominciamo con la compattificazione 𝛼 di Alexandrov per cui, come si è già visto nell’Esempio 10.24, si ha: Proposizione 10.67. Gli spazi 𝛼(ℕ × ℕ) e 𝛼ℕ × 𝛼ℕ non sono omeomorfi.
Dimostrazione. Un omeomorfismo deve mutare punti isolati [non isolati] in punti isolati [non isolati]. Ora 𝛼(ℕ × ℕ) ha un solo punto non isolato mentre 𝛼ℕ × 𝛼ℕ ne ha infiniti. Meno immediato è constatare che sussiste un’analogo risultato per la compattificazione 𝛽ℕ.
Definizione 10.68. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto estremamente sconnesso (in inglese extremally disconnected o extremely disconnected) se, per ogni aperto 𝐴 di 𝑋, si ha che la sua chiusura è un insieme aperto. ◁ Teorema 10.69 (di Gleason). Lo spazio 𝛽ℕ è estremamente sconnesso.
Dimostrazione. Sia 𝐴 un aperto non vuoto di 𝛽ℕ. Consideriamo lo spazio 𝑊 ∶= 𝛽ℕ × {0, 1} e sia 𝑝 ∶ 𝑊 → 𝛽ℕ la sua proiezione naturale; poniamo poi 𝑌 ∶= ((𝛽ℕ ⧵ 𝐴) × {0}) ∪ (cl 𝐴 × {1}).
𝑌 , come sottospazio chiuso del compatto di Hausdorff 𝑊 è anch’esso compatto 𝑇2 e si proietta, tramite 𝑝, suriettivamente su 𝛽ℕ. Chiamiamo 𝑓 la restrizione di 𝑝 a 𝑌 e 𝑔 l’identità di 𝛽ℕ. Per il Teorema 10.66, esiste un’applicazione continua ℎ ∶ 𝛽ℕ → 𝑌 tale che 𝑔 = 𝑓 ∘ ℎ. Si osservi che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐴, deve essere ℎ(𝑥) = (𝑥, 1) e quindi, per continuità, deve accadere lo stesso per ogni punto di cl 𝐴. Si vede analogamente che è ℎ(𝑥) = (𝑥, 0), ∀𝑥 ∉ cl 𝐴. Si conclude che è ℎ−1 (cl 𝐴 × {1}) = cl 𝐴. D’altra parte, per costruzione, cl 𝐴 × {1} è un clopen in 𝑌 e quindi la sua controimmagine tramite la funzione continua ℎ è un aperto di 𝛽ℕ. Per la dimostrazione, abbiamo utilizzato soltanto il fatto che 𝛽ℕ gode della proprietà “di proiettività” vista nel Teorema 10.66; pertanto, con lo stesso ragionamento, si può dimostrare che ogni spazio compatto di Hausdorff e proiettivo è estremamente sconnesso. Proposizione 10.70. Gli spazi 𝛽(ℕ × ℕ) e 𝛽ℕ × 𝛽ℕ non sono omeomorfi.
Dimostrazione. Osserviamo intanto che, ℕ e ℕ × ℕ sono omeomorfi in quanto entrambi discreti e numerabili. Sono dunque tali anche 𝛽ℕ e 𝛽(ℕ × ℕ). Per il Teorema 10.69, 𝛽(ℕ × ℕ) è estremamente sconnesso. D’altra parte, si vede che 𝛽ℕ × 𝛽ℕ non lo è. Per provare ciò, consideriamo l’aperto 𝐴 ∶= {(𝑛, 𝑛) ∶ 𝑛 ∈ ℕ} di 𝛽ℕ × 𝛽ℕ e mostriamo che la sua chiusura non è un insieme aperto.
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Intanto osserviamo che, siccome ℕ è denso nello spazio di Hausdorff 𝛽ℕ, per ogni intorno 𝑈 di un punto 𝑥 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ, l’insieme 𝑈 ∩ ℕ deve essere infinito. Inoltre, dato un qualunque spazio topologico (𝑋, 𝜏) una base di intorni di un punto (𝑥, 𝑥) ∈ 𝑋 2 è data dagli aperti del tipo 𝐵 2 , con 𝐵 intorno aperto di base di 𝑥 in 𝜏. Da ciò segue che ogni punto del tipo (𝑥, 𝑥), con 𝑥 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ, è aderente ad 𝐴 ed ogni suo intorno deve contenere un sottoinsieme 𝐶 2 , con 𝐶 sottoinsieme infinito di ℕ. Si vede poi che la chiusura di 𝐴 è contenuta in 𝐴 ∪ (𝛽ℕ ⧵ ℕ)2 e contiene la diagonale di (𝛽ℕ)2 . Per quanto precede, si conclude che l’insieme cl 𝐴 non può essere intorno dei suoi punti del tipo (𝑥, 𝑥), con 𝑥 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ. Avendo dimostrato che 𝛽ℕ è estremamente sconnesso, potremmo riottenere diversi risultati su di esso dalle proprietà degli spazi estremamente sconnessi. Sussiste, infatti, il seguente teorema:
Teorema 10.71. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio estremamente sconnesso e di Hausdorff. Allora: 1. Le successioni convergenti in 𝑋 sono tutte e sole quelle definitivamente costanti. 2. Se 𝑋 è 𝐴1 , allora è uno spazio discreto. 3. Se è regolare, è anche completamente regolare e zero-dimensionale.
Dimostrazione. 1. Supponiamo, per assurdo, che in 𝑋 esista una successione non definitivamente costante (𝑥𝑛 )𝑛 convergente a un punto 𝑝 ∈ 𝑋. Si costruiranno induttivamente una successione (𝐴𝑘 )𝑘 di aperti a due a due disgiunti di 𝑋 e una sottosuccessione (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 della successione data tali che 𝑥𝑛𝑘 ∈ 𝐴𝑘 , ∀𝑘. Fatto ciò, si consideri l’aperto 𝑉 ∶= ⋃𝑘 𝐴2𝑘 . Poiché la sottosuccessione di (𝑥𝑛2𝑗 )𝑗 converge a 𝑝, si ha 𝑝 ∈ cl 𝑉 . d’altra parte, cl 𝑉 è un aperto e, contenendo il punto limite 𝑝, deve contenere gli elementi 𝑥𝑛2ℎ+1 per ℎ sufficientemente grande. Fissiamo uno di questi: sia esso 𝑧 ∶= 𝑥𝑛2𝑙+1 e poniamo 𝑈 ∶= 𝐴2𝑙+1 . Siccome 𝑧 ∈ cl 𝑉 e 𝑈 è un suo intorno, si ha 𝑈 ∩ 𝑉 ≠ ∅, contro il modo con cui sono stati costruiti gli aperti 𝐴𝑘 . Veniamo alla definizione degli aperti 𝐴𝑘 . Sia 𝑛1 un indice per cui è 𝑥𝑛1 ≠ 𝑝 e prendiamo come 𝐴1 un aperto con 𝑥𝑛1 ∈ 𝐴1 e 𝑝 ∉ cl 𝐴1 (lo spazio è 𝑇2 ). Procedendo per induzione, supponiamo di aver determinato i primi 𝑘 termini della sottosuccessione e i corrispondenti aperti (a due a due disgiunti) in modo tale che 𝑝 non appartenga all’unione delle chiusure di questi aperti. Sia ora 𝑊 ∶= 𝑋 ⧵ (cl 𝐴1 ∪ ⋯ ∪ cl 𝐴𝑘 ). 𝑊 è un intorno aperto di 𝑝 e contiene quindi una coda della successione data. Esiste dunque un indice 𝑛𝑘+1 > 𝑛𝑘 tale che 𝑥𝑛𝑘+1 ∈ 𝑊 ⧵ {𝑝}. Sia 𝐵 un intorno aperto di 𝑥𝑛𝑘+1 tale che 𝑝 ∉ cl 𝐵. Poniamo ora 𝐴𝑘+1 ∶= 𝐵 ∩ 𝑊 . 2. Se la topologia non è quella discreta, esiste un punto 𝑧 ∈ 𝑋 non isolato. Usando gli assiomi 𝐴1 e 𝑇2 , si costruisce in 𝑋 una successione di punti distinti convergente a 𝑧, contro quanto visto al punto 1. 3. Supposto 𝑋 regolare, fissiamo un chiuso 𝐶 e un punto 𝑝 ∉ 𝐶. Esistono due aperti disgiunti 𝐴, 𝐵 con 𝑝 ∈ 𝐴 e 𝐶 ⊆ 𝐵. Poiché 𝑋 ⧵ 𝐵 è un chiuso contenente
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𝐴, si ha 𝐵 ∩cl 𝐴 = ∅. Inoltre, per ipotesi, cl 𝐴 è un aperto. Consideriamo ora la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 0 per 𝑥 ∈ cl 𝐴 e 𝑓 (𝑥) ∶= 1 altrove. Si vede immediatamente che 𝑓 è continua (basta studiare le controimmagini dei singoletti {0} e {1}). Ciò prova che 𝑋 è completamente regolare. Dati ora un aperto 𝐴 e un suo punto 𝑥, per il Teorema di caratterizzazione della regolarità 1.91, 𝐴 contiene la chiusura di un intorno aperto 𝑈 di 𝑥. Per ipotesi 𝑈 è aperto e quindi clopen. Ciò prova che 𝑋 ammette una base costituita da clopen. Lemma 10.72. Il prodotto di due spazi zero-dimensionali è zero-dimensio-nale. Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏𝑋 ), (𝑌 , 𝜏𝑌 ) due spazi zero-dimensionali e (𝑍, 𝜏) il loro prodotto. Fissiamo un aperto non vuoto 𝑊 ⊆ 𝑍 e un suo arbitrario punto 𝑝 =∶ (𝑎, 𝑏). 𝑊 contiene un aperto del tipo 𝐴 × 𝐵 con 𝑎 ∈ 𝐴 ∈ 𝜏𝑋 e 𝑏 ∈ 𝐵 ∈ 𝜏𝑌 . Per ipotesi, esistono due clopen 𝑈 , 𝑉 , con 𝑎 ∈ 𝑈 ⊆ 𝐴 e 𝑏 ∈ 𝑉 ⊆ 𝐵. L’insieme 𝑈 × 𝑉 è un intorno aperto di 𝑝 e contenuto in 𝑊 . Dal fatto che è 𝑈 = cl 𝑈 , 𝑉 = cl 𝑉 e cl(𝑈 ×𝑉 ) = cl 𝑈 ×cl 𝑉 (Esercizio!), si ottiene che anche 𝑈 ×𝑉 è clopen. Per l’arbitrarietà di 𝑝 e 𝑊 , si conclude che anche 𝑍 è zero-dimensionale.
Osservazione 10.73. Non sussiste l’implicazione opposta della 3 del Teorema 10.71. Sia 𝑋 ∶= 𝛽ℕ × 𝛽ℕ. Nella dimostrazione della Proposizione 10.70 abbiamo visto che 𝑋 non è estremamente sconnesso. Essendo un compatto di Hausdorff, 𝑋 è normale e quindi completamente regolare (cfr. Teorema 7.33 e Corollario 2.110); inoltre esso è zero-dimensionale per il Corollario 10.61 e il lemma precedente. Un altro esempio di spazio, addirittura metrico, zero-dimensionale ma non estremamente sconnesso è dato da ℝ2 con la cosiddetta distanza dell’ufficio postale. In ℝ2 si introduce la seguente distanza 𝑑 ′ : per ogni p, q ∈ ℝ2 , con p ≠ q, si pone 𝑑 ′ (p, q) ∶= 𝑑2 (p, 0) + 𝑑2 (0, q), con 𝑑 ′ (p, q) ∶= 0, se p = q. Che 𝑑 ′ sia una distanza è immediato. I punti di ℝ2 ⧵ {0} sono isolati; una base di intorni dell’origine è quella della topologia euclidea. Si vede subito che ogni punto ha una base di intorni che sono clopen e che quindi lo spazio è zero-dimensionale. Per verificare che lo spazio non è estremamente sconnesso, partiamo dall’aperto 𝐴 ∶= {(𝑥, 𝑥) ∶ 𝑥 > 0}; si ha cl 𝐴 = 𝐴 ∪ {0} che non è un aperto, in quanto non intorno dell’origine. Sempre per quanto riguarda la Proposizione 3 del del Teorema 10.71, osserviamo che l’ipotesi di regolarità è del tutto naturale, dato che si considerano spazi di Hausdorff e che tutti gli spazi zero-dimensionali sono 𝑇3 (Esercizio!).◁ L’insieme 𝛽ℕ è uno spazio topologico importante per costruire controesempi e anche un utile strumento per dimostrare interessanti risultati, Mostriamo qui un’applicazione piuttosto inattesa alla Teoria combinatoria degli insiemi. Il seguente teorema, ottenuto da Neil Hindman nel 1974 con una dimostrazione molto difficile e ingegnosa, fu successivamente ridimostrato da altri autori
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sfruttando le proprietà degli ultrafiltri e, in particolare, di 𝛽ℕ. La dimostrazione che proponiamo in questo testo, segue uno schema che diversi Autori chiamano di “F. Galvin e S. Glazer”. Sembra che Galvin e Glazer, pur senza aver pubblicato un articolo specifico su questo argomento (infatti non sono citati in modo specifico nelle bibliografie di riferimento), hanno proposto questa dimostrazione elegante ai colleghi i quali, a loro volta, poi l’hanno riportata nei loro articoli, libri o anche in alcuni siti che trattano dell’argomento, in modo più o meno sintetico e con più o meno dettagli lasciati al lettore. L’idea fondamentale della dimostrazione è di definite un’operazione in 𝛽ℕ e cercarne degli elementi idempotenti che saranno degli ultrafiltri i cui insiemi hanno le proprietà cercate. Questo si collega anche ai commenti successivi alla dimostrazione del teorema. 2
Teorema 10.74 (di Hindman). Comunque si ripartisca l’insieme ℕ in un numero finito di classi 𝐶1 , … , 𝐶𝑘 , esistono un indice 𝑖 e un sottoinsieme infinito 𝐷 di 𝐶𝑖 tale che tutte le somme finite di elementi distinti di 𝐷 appartengono ancora a 𝐶𝑖 . Dimostrazione. Cominciamo con l’introdurre una terminologia di comodo. Senza perdita di generalità, possiamo limitarci all’insieme ℕ+ . Dato un insieme 𝐷 ⊆ ℕ+ , indichiamo con 𝑆𝐹 (𝐷) l’insieme di tutti i numeri naturali che sono somme finite di elementi di 𝐷. Un insieme 𝐶 ⊆ ℕ+ si chiama insieme IP (IPset) se esiste 𝐷 ⊆ ℕ+ infinito tale che 𝐶 ⊇ 𝑆𝐹 (𝐷). La tesi del teorema dice che, data una partizione di ℕ in un numero finito di classi, almeno una di queste è un IP-set. Procediamo ora per tappe. 1. Per prima cosa, vogliamo definire un’operazione di addizione in 𝛽ℕ+ , ovvero un’operazione di addizione fra gli ultrafiltri di ℕ+ . Dati un sottoinsieme non vuoto 𝐴 ⊆ ℕ+ e un intero positivo 𝑘, poniamo 𝐴 − 𝑘 ∶= {𝑛 ∈ ℕ+ ∶ 𝑛 + 𝑘 ∈ 𝐴} = ℕ+ ∩ {𝑗 − 𝑘 ∶ 𝑗 ∈ 𝐴} .
Dati due ultrafiltri 𝔘, 𝔙, definiamo
𝔘 ⊕ 𝔙 ∶= {𝐴 ⊆ ℕ+ ∶ {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘} ∈ 𝔙} .
Mostriamo che questa “somma” di due ultrafiltri è ancora un ultrafiltro e quindi ⊕ è un’operazione in 𝛽ℕ+ . Poiché ∅ = ∅ − 𝑘, ∀𝑘, se fosse ∅ ∈ 𝔘 ⊕ 𝔙, si otterrebbe ∅ ∈ 𝔙, che è assurdo. È anche chiaro che 𝔘⊕𝔙 non è vuoto, perché contiene almeno ℕ+ (si noti infatti che ℕ+ − 𝑘 = ℕ+ , ∀𝑘). Dati 𝐴, 𝐵 ∈ 𝔘 ⊕ 𝔙, si ha anche 𝐴∩𝐵 ∈ 𝔘⊕𝔙; infatti, dato che è (𝐴∩𝐵)−𝑘 = (𝐴−𝑘)∩(𝐵−𝑘), se 𝑘 è tale che 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘 e 𝐵 − 𝑘 ∈ 𝔘, ne viene che anche (𝐴 ∩ 𝐵) − 𝑘 ∈ 𝔘. Per concludere la verifica che si tratta di un ultrafiltro, basta controllare che, per ogni 𝐴 ⊂ ℕ+ , da 𝐴 ∉ 𝔘 ⊕ 𝔙 segue 𝐴′ ∶= ℕ+ ⧵ 𝐴 ∈ 𝔘 ⊕ 𝔙. Osserviamo ora che, essendo 𝔘 un ultrafiltro, per ogni intero positivo 𝑘, 𝐴 − 𝑘 ∉ 𝔘 se e solo se 𝐴′ − 𝑘 ∈ 𝔘; infatti 2
Si veda anche l’articolo di W. W. Comfort, Ultrafilters: some old and new results, Bull. Amer. Math. Soc. 83 (1977), 418–455.
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𝐴 − 𝑘 e 𝐴′ − 𝑘 sono complementari in ℕ+ . Se 𝐴 ∉ 𝔘 ⊕ 𝔙, significa che l’insieme + {𝑘 ∈ ℕ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘} non appartiene a 𝔙. Deve pertanto appartenere a 𝔙 il suo complementare, ossia {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∉ 𝔘} = {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴′ − 𝑘 ∈ 𝔘}; si conclude che è 𝐴′ ∈ 𝔘 ⊕ 𝔙. È interessante osservare che questa operazione, ristretta a ℕ+ × ℕ+ coincide con la somma usuale (naturalmente identificando ogni naturale con l’ultrafiltro da esso generato). Fissiamo a tale scopo 𝑝, 𝑞 ∈ ℕ+ e indichiamo con 𝑝,̇ 𝑞 ̇ i corrispondenti ultrafiltri. È facile constatare che il singoletto 𝐴 ∶= {𝑝 + 𝑞} ∈ 𝑝 ̇ ⊕ 𝑞.̇ Infatti, per ogni intero positivo 𝑘, l’insieme 𝐴 − 𝑘 è un singoletto e questo appartiene a 𝑝 ̇ se e solo se è 𝑘 = 𝑞 ∈ {𝑞} ∈ 𝑞.̇ Si conclude che 𝑝 ̇ ⊕ 𝑞 ̇ coincide con l’ultrafiltro principale generato da 𝑝 + 𝑞. Proviamo che la somma ⊕ è associativa, ossia che 𝐴 ∈ 𝔘⊕(𝔙⊕𝔚) se e solo se 𝐴 ∈ (𝔘⊕𝔙)⊕𝔚. Si ha 𝐴 ∈ 𝔘⊕(𝔙⊕𝔚) se e solo se {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘} ∈ 𝔙 ⊕ 𝔚. Un insieme 𝐵 appartiene a 𝔙 ⊕ 𝔚 se e solo se {𝑙 ∈ ℕ+ ∶ 𝐵 − 𝑙 ∈ 𝔙} ∈ 𝔚. Abbiamo così che 𝐴 ∈ 𝔘 ⊕ (𝔙 ⊕ 𝔚) se e solo se + + {𝑙 ∈ ℕ ∶ {𝑘 ∈ ℕ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘} − 𝑙 ∈ 𝔙} ∈ 𝔚.
L’insieme {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘} si può anche scrivere come
(10.2)
′ + ′ ′ + ′ {𝑘 + 𝑙 ∈ ℕ ∶ 𝐴 − 𝑙 − 𝑘 ∈ 𝔘} = {𝑘 + 𝑙 ∈ ℕ ∶ 𝐶 − 𝑘 ∈ 𝔘}
dove abbiamo posto provvisoriamente 𝐶 ∶= 𝐴 − 𝑙. Ne segue che l’insieme “traslato” {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘} − 𝑙 coincide con {𝑘′ ∈ ℕ+ ∶ 𝐶 − 𝑘′ ∈ 𝔘}. Ne viene che la condizione {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘} − 𝑙 ∈ 𝔙 coincide con 𝐴 − 𝑙 = 𝐶 ∈ 𝔘 ⊕ 𝔙. Possiamo così concludere che l’insieme espresso dalla (10.2) coincide con + {𝑙 ∈ ℕ ∶ 𝐴 − 𝑙 ∈ 𝔘 ⊕ 𝔙} ∈ 𝔚,
che equivale a 𝐴 ∈ (𝔘 ⊕ 𝔙) ⊕ 𝔚. 2. Come passo successivo, proviamo che esiste un ultrafiltro 𝔘 idempotente, ossia tale che 𝔘 ⊕ 𝔘 = 𝔘. La dimostrazione di questa affermazione è piuttosto laboriosa e utilizzerà la compattezza di 𝛽ℕ e il Lemma di Zorn. Consideriamo la famiglia 𝒮 ∶= {𝑆 ⊆ 𝛽ℕ+ ∶ 𝑆 ⊕ 𝑆 ⊆ 𝑆, con 𝑆 chiuso e non vuoto} ,
dove si è posto 𝑆 ⊕ 𝑆 ∶= {𝔘 ⊕ 𝔙 ∶ 𝔘, 𝔙 ∈ 𝑆}. 𝒮 non è vuoto: basta prendere 𝑆 ∶= 𝛽ℕ+ . 2𝑎. Faremo vedere che 𝒮 ha almeno un elemento minimale rispetto all’inclusione. A tale scopo, sia {𝑆𝛼 }𝛼∈𝐽 una catena decrescente per inclusione di elementi di 𝒮 . Essendo totalmente ordinata, la famiglia gode della proprietà dell’intersezione finita e quindi, essendo 𝛽ℕ+ compatto, vale la proprietà forte di Cantor (cfr. Esercizio 7.9), per cui 𝑆 ∗ ∶= ⋂𝛼∈𝐽 𝑆𝛼 è chiuso e non vuoto. È inoltre immediato verificare che è 𝑆 ∗ ⊕ 𝑆 ∗ ⊆ 𝑆 ∗ . Abbiamo così che ogni catena di 𝒮 è minorata. Per il Lemma di Zorn, 𝒮 ha elementi minimali. Sia 𝑆 ̂ un elemento minimale di 𝒮 .
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
530
2𝑏. Verifichiamo che ogni elemento di 𝑆 ̂ è idempotente. Fissiamo pertanto un 𝔘 ∈ 𝑆 ̂ e consideriamo la famiglia 𝑆 ′ ∶= {𝔘 ⊕ 𝔙 ∶ 𝔙 ∈ 𝑆 ̂}. Chiaramente si ha 𝑆 ′ ⊆ 𝑆.̂ D’altra parte si ha 𝑆 ′ ⊕ 𝑆 ′ ⊆ 𝑆 ′ (Esercizio!, si tenga conto dell’associatività). Inoltre 𝑆 ′ è un chiuso, perché, come vedremo tra poco, la funzione 𝜑 ∶ 𝛽ℕ+ → 𝛽ℕ+ definita da 𝜑 ∶ 𝔙 ↦ 𝔘 ⊕ 𝔙 è continua e pertanto 𝑆 ′ = 𝜑(𝑆)̂ è un chiuso, in quanto immagine di un compatto in uno spazio di Hausdorff. Dobbiamo però ancora controllare la continuità di 𝜑. Fissiamo un aperto di base 𝐵 ′ ∶= ⟨𝐴⟩ in 𝛽ℕ (con (∅ ≠)𝐴 ⊆ ℕ, cfr. Definizione 10.38) e verifichiamo che 𝐵 ∶= 𝜑−1 (𝐵 ′ ) è un aperto. Chiaramente un ultrafiltro 𝔙 appartiene a 𝐵 se e solo se 𝔘 ⊕ 𝔙 ∈ ⟨𝐴⟩, ossia se e solo se 𝐴 ∈ 𝔘 ⊕ 𝔙 e ciò è possibile se e solo se 𝐶𝐴 ∶= {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘} ∈ 𝔙 e ciò accade se e solo se 𝔙 ∈ ⟨𝐶𝐴 ⟩. Abbiamo così che 𝐵 coincide con l’aperto ⟨𝐶𝐴 ⟩. Abbiamo dunque verificato che 𝑆 ′ ∈ 𝒮 , con 𝑆 ′ ⊆ 𝑆 ̂ e pertanto, per la minimalità di 𝑆,̂ si ha 𝑆 ′ = 𝑆.̂ Esiste quindi un 𝔙 ∈ 𝑆 ̂ tale che 𝔘 ⊕ 𝔙 = 𝔘. Fissato sempre 𝔘 ∈ 𝑆,̂ definiamo 𝑆 ″ ∶= {𝔙 ∈ 𝑆 ̂ ∶ 𝔘 ⊕ 𝔙 = 𝔘} ⊆ 𝑆.̂
Vogliamo provare che è 𝔘 ∈ 𝑆 ″ . Per fare ciò faremo vedere che è 𝑆 ″ = 𝑆 ̂ e questo, per la minimalità di 𝑆,̂ seguirà immediatamente se dimostriamo che 𝑆″ ∈ 𝒮 . 𝑆 ″ è non vuoto (si è infatti verificato poco sopra che esiste un 𝔙 ∈ 𝑆 ̂ tale che 𝔘 ⊕ 𝔙 = 𝔘); 𝑆 ″ è anche chiuso (in quanto controimmagine del singoletto {𝔘} tramite la funzione continua 𝜑). Inoltre, se 𝔙, 𝔚 ∈ 𝑆 ″ , anche la loro somma sta in 𝑆 ″ . Infatti, usando anche l’associatività, da 𝔙, 𝔚 ∈ 𝑆 ″ , si ha 𝔘 ⊕ (𝔙 ⊕ 𝔚) = (𝔘 ⊕ 𝔙) ⊕ 𝔚 = 𝔘 ⊕ 𝔚 = 𝔘,
per cui 𝔙 ⊕ 𝔚 ∈ 𝑆 ″ . Si è verificato così che 𝑆 ″ ⊕ 𝑆 ″ ⊆ 𝑆 ″ . Quindi anche 𝑆 ″ ∈ 𝒮 e, per la minimalità di 𝑆,̂ deve essere 𝑆 ″ = 𝑆.̂ Dal momento che 𝔘 ∈ 𝑆,̂ si ha 𝔘 ∈ 𝑆 ″ e quindi 𝔘⊕𝔘 = 𝔘. Per l’arbitrarietà di 𝔘 ∈ 𝑆,̂ abbiamo ottenuto che ogni elemento di 𝑆 ̂ è idempotente. Abbiamo così finalmente prodotto ultrafiltri idempotenti. Essi non possono essere di tipo principale perché nella nostra costruzione abbiamo intenzionalmente escluso lo zero. 3. Verifichiamo che ogni elemento 𝐴 di un ultrafiltro idempotente 𝔘 è un IP-set. È chiaro che 𝐴 dovrà essere infinito. Si tratta ora di costruire un sottoinsieme infinito (numerabile) 𝐷 ⊆ 𝐴 tale che l’insieme 𝑆𝐹 (𝐷) di tutte le somme finite di elementi di 𝐷 è contenuto in 𝐴. Introduciamo, per prima cosa, l’insieme 𝐴∗ ∶= {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴 − 𝑘 ∈ 𝔘} .
Dalla definizione di ⊕ e dal fatto che 𝐴 ∈ 𝔘 = 𝔘 ⊕ 𝔘, si ricava che anche 𝐴∗ ∈ 𝔘. Si ottiene che 𝐴 ∩ 𝐴∗ ∈ 𝔘 ed è quindi un insieme infinito. Iniziamo
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
531
ora un procedimento induttivo, ponendo: 𝐴0 ∶= 𝐴, 𝐴∗0 ∶= 𝐴∗ e fissando un intero positivo 𝑘0 ∈ 𝐴0 ∩ 𝐴∗0 . Poniamo quindi 𝐴1 ∶= (𝐴0 − 𝑘0 ) ∩ 𝐴0 ,
𝐴∗1 ∶= {𝑘 ∈ ℕ+ ∶ 𝐴1 − 𝑘 ∈ 𝔘} .
Per definizione di 𝐴∗ , 𝐴 − 𝑘0 ∈ 𝔘 e quindi si ha anche 𝐴1 , 𝐴∗1 ∈ 𝔘. L’insieme 𝐴1 ∩ 𝐴∗1 , appartenendo a 𝔘, è infinito; in esso esiste quindi un naturale 𝑘1 > 𝑘0 . In generale, avendo definito 𝐴𝑖 e 𝑘𝑖 ∈ 𝐴𝑖 ∩ 𝐴∗𝑖 , appartengono a 𝔘 gli insiemi 𝐴𝑖 − 𝑘𝑖 , 𝐴𝑖+1 ∶= (𝐴𝑖 − 𝑘𝑖 ) ∩ 𝐴𝑖 , 𝐴∗𝑖+1 e 𝐴𝑖+1 ∩ 𝐴∗𝑖+1 ; essendo quest’ultimo insieme infinito, in esso esiste un naturale 𝑘𝑖+1 > 𝑘𝑖 . Abbiamo così ottenuto una successione (𝐴𝑖 )𝑖 di sottoinsiemi di 𝐴 decrescente per inclusione e, sempre in 𝐴, una successione crescente di interi positivi (𝑘𝑖 )𝑖 . Vogliamo provare che il sottoinsieme 𝐷 ∶= {𝑘𝑖 ∶ 𝑖 ∈ ℕ} (⊆ 𝐴) è un IP-set. Siano dati 𝑘𝑛1 , 𝑘𝑛2 ∈ 𝐷, con 𝑛1 < 𝑛2 . Si ha 𝑘𝑛2 ∈ 𝐴𝑛2 ⊆ 𝐴𝑛1 +1 = (𝐴𝑛1 − 𝑘𝑛1 ) ∩ 𝐴𝑛1 = 𝐴𝑛1 ∩ {𝑙 ∈ ℕ+ ∶ 𝑙 + 𝑘𝑛1 ∈ 𝐴𝑛1 } .
da cui 𝑘𝑛1 + 𝑘𝑛2 ∈ 𝐴𝑛1 (⊆ 𝐴). In generale, ripetendo la stessa dimostrazione e procedendo per induzione, si vede che vale la proprietà che, sommando un numero finito di elementi strettamente crescenti 𝑘𝑛1 , … , 𝑘𝑛𝑗 di 𝐷 si ottiene un elemento che appartiene ad 𝐴𝑛1 , che è contenuto in 𝐴. 4. Siamo finalmente giunti alla parte conclusiva della dimostrazione. Sia ℕ = 𝐶1 ∪ 𝐶2 ∪ ⋯ ∪ 𝐶𝑘 , con i 𝐶𝑖 a due a due disgiunti. Sia poi 𝔘 un ultrafiltro idempotente in 𝛽ℕ+ . Almeno uno dei 𝐶𝑖 deve appartenere a 𝔘 e quindi è un IP-set per il punto precedente. Questo teorema può essere espresso col seguente enunciato suggestivo: Supponiamo di avere 𝑘 colori con cui coloriamo ℕ in modo che ad ogni numero naturale sia associato uno e un solo colore. Esistono allora un colore 𝑐 e un insieme infinito 𝐶 di numeri aventi il colore 𝑐 tali che tutte le somme finite di elementi distinti di 𝐶 hanno il colore 𝑐 . Nella dimostrazione del Teorema di Hindman, abbiamo introdotto in 𝛽ℕ una somma di ultrafiltri. In generale, dato un insieme infinito e discreto 𝑆 in cui sia definita un’operazione binaria ∘, questa può essere estesa in un unico modo ad un’operazione ∗ in 𝛽𝑆 in modo tale che, per ogni 𝑢 ∈ 𝛽𝑆, le funzioni 𝑣 ↦ 𝑢 ∗ 𝑣 e 𝑣 ↦ 𝑣 ∗ 𝑢 siano continue su 𝛽𝑆. Inoltre, se 𝑆 è un semigruppo, allora l’operazione ∗ è associativa in 𝛽𝑆 ed 𝑆 è contenuto nell’insieme degli elementi centrali di 𝛽𝑆. Nel caso di (ℕ, +), si ha che ℕ coincide con il centro di (𝛽ℕ, ⊕). Quindi, per ogni 𝔘 ∈ 𝛽ℕ⧵ℕ, esiste un 𝔙 ∈ 𝛽ℕ⧵ℕ tale che 𝔘⊕𝔙 ≠ 𝔙⊕𝔘. Una trattazione completa su questo argomento si può trovare nel libro di Hindman e Strauss [29, Cap. 4–6]. Osservazione 10.75 (Limite generalizzato di una successione limitata di numeri reali). Sia 𝜑 ∶ ℕ → ℝ, con 𝑥𝑛 ∶= 𝜑(𝑛), ∀𝑛, una successione (limitata) di numeri reali convergente a un punto 𝑙 ∈ ℝ. Sappiamo che questo equivale a dire che la funzione 𝜑 ammette un (unico) prolungamento continuo
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
532
𝜑 ∶ 𝛼ℕ(= ℕ) → ℝ ottenuto definendo 𝜑(∞) ∶= 𝑙. Conoscere 𝑙 è dunque equivalente a conoscere 𝜑. Posiamo pertanto esprimerci dicendo che 𝜑 è il limite di 𝜑. Questo approccio diventa più interessante quando consideriamo l’estensione 𝜑̂ di 𝜑 a 𝛽ℕ. Definizione. Data una successione limitata 𝜑, con 𝑥𝑛 ∶= 𝜑(𝑛), ∀𝑛, si chiama limite generalizzato di 𝜑 il suo unico prolungamento continuo 𝜑̂ ∶ 𝛽ℕ → ℝ. In sostanza, quello che si fa è aggiungere a 𝜑(ℕ) i valori di 𝜑(𝛽ℕ ̂ ⧵ ℕ). Si ha 𝜑(𝛽ℕ) ̂ = cl 𝜑(ℕ). Infatti: 𝜑(𝛽ℕ) ̂ è un compatto di uno spazio 𝑇2 ed è dunque un chiuso contenente 𝜑(ℕ) e quindi la sua chiusura; l’inclusione opposta segue direttamente dalla continuità di 𝜑̂ (cfr. Teorema 2.27). Supponiamo ancora che la successione limitata 𝜑 converga a 𝑙. Fissiamo ̂ un elemento 𝔚 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ e poniamo 𝑚 ∶= 𝜑(𝔚). Se fosse 𝑚 ≠ 𝑙, esisterebbero due rispettivi intorni aperti 𝑉𝑙 e 𝑉𝑚 fra loro disgiunti e, per la continuità di 𝜑,̂ un intorno di base ⟨𝑈 ⟩ di 𝔚 con 𝜑(⟨𝑈 ̂ ⟩) ⊆ 𝑉𝑚 . Siccome abbiamo identificato i numeri naturai con gli ultrafiltri principali e la restrizione di 𝜑̂ a ℕ coincide con 𝜑, si conclude che è 𝜑(𝑈 ) ⊆ 𝑉𝑚 . Ma 𝑈 deve contenere infiniti punti di ℕ e ciò va contro il fatto che i punti della successione stanno definitivamente in 𝑉𝑙 . Si conclude che la funzione 𝜑̂ deve assumere costantemente il valore 𝑙 in tutti i punti di 𝛽ℕ ⧵ ℕ. Ciò giustifica il nome di limite generalizzato. Supponiamo ora che la successione limitata 𝜑 non sia convergente. Per il Teorema di Bolzano-Weierstrass 3.102, 𝜑 ammette sottosuccessioni convergenti; sia 𝜑′ una di queste e diciamo 𝑙 il suo limite. La successione 𝜑′ è la restrizione di 𝜑 a un sottoinsieme infinito 𝐴 di ℕ. 𝐴 non può essere chiuso in 𝛽ℕ (cfr, Teorema 10.62). Esistono quindi elementi di 𝛽ℕ ⧵ ℕ aderenti ad 𝐴. Sia 𝔚 uno di essi. Ragionando come sopra, si ottiene ancora 𝜑(𝔚) ̂ = 𝑙. Dunque 𝜑̂ è costante in cl 𝐴 ⧵ 𝐴(⊆ 𝛽ℕ ⧵ ℕ). Viceversa, fissiamo un 𝔚 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ e poniamo 𝑦 ∶= 𝜑(𝔚). ̂ Per ogni 𝑘 ∈ ℕ+ , poniamo 𝑉𝑘 ∶= 𝐵(𝑦, 1/𝑘). Sempre per ogni 𝑘, esiste un intorno di base ⟨𝑈𝑘 ⟩ di 𝔚 tale che 𝜑(⟨𝑈 ̂ 𝑘 ⟩) ⊆ 𝑉𝑘 . Col ragionamento visto poco sopra, si ha 𝜑(𝑈𝑘 ) ⊆ 𝑉𝑘 . Al variare di 𝑘 e intersecando ogni intorno col precedente e togliendo, se necessario, i naturali da 0 a 𝑘, si ottiene 𝑈𝑘+1 ⊂ 𝑈𝑘 . Ogni 𝑈𝑘 deve contenere infiniti elementi di ℕ. Esiste una sottosuccessione (𝑛𝑘 )𝑘 con 𝑛𝑘 ∈ 𝑈𝑘 , da cui 𝜑(𝑛𝑘 ) ∈ 𝑉𝑘 . Si conclude che 𝑦 è limite di una sottosuccessione di 𝜑. Quindi 𝜑̂ associa ad ogni successione limitata 𝜑 i punti limite di tutte le sue sottosuccessioni. ◁ Vogliamo ora descrivere un ulteriore approccio alla compattificazione di Stone-Čech che, in qualche modo, generalizza quello di 𝛽ℕ mediante gli ultrafiltri; questo sarà ottenuto a partire dal concetto di z-ultrafiltro. Per far ciò, dobbiamo richiamare alcune nozioni di Algebra che applicheremo allo spazio 𝐶(𝑋) e al suo sottoanello 𝐶 ∗ (𝑋) ∶= 𝐶𝑏 (𝑋, ℝ)
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
533
delle funzioni continue e limitate di 𝑋 in ℝ. Seguiremo, tralasciando molti dettagli, l’approccio del libro di Gillman e Jerison [22], che è un classico dell’argomento. Sia 𝑋 uno spazio topologico completamente regolare (e quindi di Hausdorff). Ricordiamo che un insieme 𝐸 ⊆ 𝑋 è detto zero-insieme se è l’insieme 𝒵 (𝑓 ) degli zeri di una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ. Data una famiglia di funzioni ℱ ⊆ 𝐶(𝑋), denotiamo con 𝒵 [ℱ ] l’insieme di tutti gli zero-insiemi associati alle funzioni della famiglia ℱ , ovvero 𝒵 [ℱ ] ∶= {𝑓 −1 ({0}) ∶ 𝑓 ∈ ℱ } = {𝒵 (𝑓 ) ∶ 𝑓 ∈ ℱ } .
Nel caso in cui sia ℱ = 𝐶(𝑋), scriviamo semplicemente 𝒵 (𝑋), in luogo di 𝒵 [𝐶(𝑋)], coerentemente con la Definizione 9.11. Dualmente, data una famiglia 𝒜 ⊆ 𝒵 (𝑋) di zero-insiemi, poniamo 𝒵 ← [𝒜 ] ∶= {𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) ∶ 𝑓 −1 ({0}) ∈ 𝒜 } .
Esercizio 10.76. Il Lettore verifichi che sussistono le seguenti relazioni: 1. 𝒵 ← [𝒵 [𝒜 ]] ⊇ 𝒜 , ∀𝒜 ⊆ 𝐶(𝑋); 2. 𝒵 [𝒵 ← [𝒜 ]] = 𝒜 , ∀𝒜 ⊆ 𝒵 (𝑋); 3. 𝒜 ⊆ ℬ ⇒ 𝒵 [𝒜 ] ⊆ 𝒵 [ℬ], ∀𝒜 , ℬ ⊆ 𝐶(𝑋); 4. 𝒜 ⊆ 𝒜 ′ ⇒ 𝒵 ← [𝒜 ] ⊆ 𝒵 ← [𝒜 ′ ], ∀𝒜 , 𝒜 ′ ⊆ 𝒵 (𝑋). Si provi che, in generale, nella 1 non sussiste l’uguaglianza.
◁
Se ℐ ⊂ 𝐶(𝑋) è un ideale (proprio) tale che 𝒵 ← [𝒵 [ℐ ]] = ℐ , allora si dice che ℐ è uno 𝑧-ideale.
Definizione 10.77. Una famiglia ℱ di 𝒵 (𝑋) è detta 𝑧-filtro su 𝑋 se è un filtro, ma limitatamente agli insiemi di 𝒵 (𝑋). Uno z-filtro è detto 𝑧-ultrafiltro se è massimale, ossia non è contenuto propriamente in alcun altro z-filtro. ◁ Si osservi quindi che la condizione 𝐹 2 della Definizione 1.18 significa che, se 𝑈 ∈ ℱ e 𝑉 ⊇ 𝑈 , con 𝑉 ∈ 𝒵 (𝑋), allora è anche 𝑉 ∈ ℱ . Va altresì sottolineato che una sottofamiglia di 𝒵 (𝑋) con la proprietà dell’intersezione finita è uno z-ultrafiltro se e solo se è massimale rispetto a tale proprietà. (Si ricordi che l’intersezione di due zero-insiemi è ancora uno zero-insieme; cfr. Lemma 9.12.) Inoltre, è chiaro che data una qualunque sottofamiglia di 𝒵 (𝑋) con la proprietà dell’intersezione finita, esiste sempre uno 𝑧-ultrafiltro che la contiene.
Vedremo subito che gli z-filtri sono collegati agli ideali dell’anello 𝐶(𝑋). È chiaro che 𝐶(𝑋), con le operazioni di addizione e moltiplicazione fra funzioni, è un anello commutativo con unità. In un anello commutativo (𝐴, +, ⋅) un sottoanello 𝐼 è detto ideale se gode della proprietà che 𝑎 ⋅ 𝑏 ∈ 𝐼, ∀𝑎 ∈ 𝐴, ∀𝑏 ∈ 𝐼. Chiaramente 𝐴 è un suo ideale (improprio); noi considereremo sempre ideali propri, ossia diversi da 𝐴. Un ideale è detto massimale se non è contenuto propriamente in un ideale proprio. Un ideale è detto primo se da 𝑎 ⋅ 𝑏 ∈ 𝐼 segue che almeno uno dei due elementi appartiene a 𝐼. Ricordiamo anche che,
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
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in un anello commutativo con unità, ogni ideale massimale è primo (non vale, in generale, il viceversa) e ogni ideale è contenuto in uno massimale (Lemma di Krull). (Per questi concetti, si veda il classico testo di Lombardo-Radice [44].) Il seguente risultato esprime il legame tra z-filtri [z-ultrafiltri] e ideali [ideali massimali] che, come detto, sottintenderemo sempre propri. Teorema 10.78. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico completamente regolare. 1. Se ℐ è un ideale [ideale massimale] in 𝐶(𝑋), allora la famiglia 𝒵 [ℐ ] è uno z-filtro [z-ultrafiltro] su 𝑋. 2. Se ℱ è uno z-filtro [z-ultrafiltro] su 𝑋, allora la famiglia 𝒵 ← [ℱ ] è un ideale [ideale massimale] di 𝐶(𝑋).
Dimostrazione. 1. Sia ℐ un ideale di 𝐶(𝑋). Dato che ℐ è un anello, appartiene a ℐ anche la funzione nulla, da cui 𝑋 ∈ 𝒵 [ℐ ] e 𝒵 [ℐ ] ≠ ∅. Se fosse ∅ ∈ 𝒵 [ℐ ], esisterebbe 𝑓 ∈ ℐ con 𝑓 −1 ({0}) = ∅. Esisterebbe dunque in 𝐶(𝑋) la funzione 1/𝑓 , da cui 𝑓 ⋅1/𝑓 = 1 ∈ ℐ che quindi coinciderebbe con 𝐶(𝑋). Siano 𝐴, 𝐵 ∈ 𝒵 [ℐ ]. Esistono quindi 𝑓 , 𝑔 ∈ ℐ con 𝐴 = 𝑓 −1 ({0}) e 𝐵 = −1 𝑔 ({0}). Si ottiene 𝐴 ∩ 𝐵 = ℎ−1 ({0}), con ℎ ∶= 𝑓 2 + 𝑔 2 ∈ ℐ , sempre per il fatto che ℐ è un anello. Siano 𝐴 ∈ 𝒵 [ℐ ], 𝐵 ∈ 𝒵 (𝑋), con 𝐴 ⊆ 𝐵. Esistono ancora 𝑓 ∈ ℐ e 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋) con 𝐴 = 𝑓 −1 ({0}) e 𝐵 = 𝑔 −1 ({0}). Dall’ipotesi 𝐴 ⊆ 𝐵 si ottiene anche 𝐵 = ℎ−1 ({0}), con ℎ ∶= 𝑓 𝑔 ∈ ℐ . Abbiamo così verificato che 𝒵 [ℐ ] è uno z-filtro. Supponiamo ora che ℐ sia un ideale massimale e proviamo che 𝒵 [ℐ ] è uno z-ultrafiltro. Se esiste uno zfiltro ℱ ⊇ 𝒵 [ℐ ], allora si ha 𝒵 ← [𝒵 [ℐ ]] ⊆ 𝒵 ← [ℱ ]. Essendo ℐ ⊆ 𝒵 ← [𝒵 [ℐ ]], si ottiene ℐ ⊆ 𝒵 ← [ℱ ] e quindi, per la massimalità di ℐ , ℐ = 𝒵 ← [ℱ ], da cui 𝒵 [ℐ ] = 𝒵 [𝒵 ← [ℱ ]] = ℱ . Ciò prova che 𝒵 [ℐ ] è effettivamente uno z-ultrafiltro. 2. Sia ℱ uno z-filtro su 𝑋 e poniamo ℐ ∶= 𝒵 ← [ℱ ]. Vogliamo provare che ℐ è un ideale di 𝐶(𝑋). Siccome 𝑋 ∈ ℱ , si ha che la funzione identicamente nulla appartiene a ℐ . Analogamente, da ∅ ∉ ℱ si ottiene che la funzione costante 1 non sta in ℐ . Dato che, per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋), si ha 𝒵 (𝑓 ) = 𝒵 (−𝑓 ) = 𝒵 (|𝑓 |), si ha che da 𝑓 ∈ ℐ segue anche −𝑓 , |𝑓 | ∈ ℐ . Siano 𝑓 , 𝑔 ∈ ℐ e poniamo 𝐴 ∶= 𝒵 (𝑓 ), 𝐵 ∶= 𝒵 (𝑔). Essendo 𝒵 (𝑓 + 𝑔) ⊇ 𝐴 ∩ 𝐵, si ha anche 𝒵 (𝑓 + 𝑔) ∈ ℱ , da cui 𝑓 + 𝑔 ∈ ℐ . Fissiamo, in fine, 𝑓 ∈ ℐ e 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋). L’insieme (𝑓 𝑔)−1 ({0}) è uno zeroinsieme contenente 𝑓 −1 ({0}) ∈ ℱ . Si conclude che (𝑓 𝑔)−1 ({0}) ∈ ℱ , da cui 𝑓𝑔 ∈ ℐ . Supponiamo, in fine, che ℱ sia uno z-ultrafiltro e poniamo ancora ℐ ∶= 𝒵 ← [ℱ ]. L’ideale ℐ è contenuto in un ideale massimale ℐ ′ . Si ha ℱ = 𝒵 [ℐ ] ⊆ 𝒵 [ℐ ′ ]. Essendo per ipotesi ℱ un ultrafiltro, si ottiene ℱ = 𝒵 [ℐ ] = 𝒵 [ℐ ′ ]. Fissiamo ora 𝑓 ∈ ℐ ′ . Si ha 𝑓 −1 ({0}) ∈ 𝒵 [ℐ ′ ] = ℱ , da cui 𝑓 ∈ ℐ e quindi ℐ = ℐ ′.
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
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D’ora in avanti scriveremo ZUF in luogo di z-ultrafiltro. Dato che, come visto nel corso della precedente dimostrazione, le funzioni 𝒵 che ad ogni ideale ℐ di 𝐶(𝑋) associa lo z-filtro 𝒵 [ℐ ] e la duale 𝒵 ← preservano le inclusioni, si ottiene facilmente che 𝒵 fornisce una corrispondenza biunivoca fra la famiglia degli ideali massimali di 𝐶(𝑋) e quella degli ZUF di 𝑋. Lemma 10.79. 1. Siano ℱ uno ZUF su 𝑋 e 𝐶 ⊆ 𝑋 uno zero-insieme. Se 𝐶 ∩ 𝐹 ≠ ∅, ∀𝐹 ∈ ℱ , allora 𝐶 ∈ ℱ . 2. Siano ℳ un ideale massimale in 𝐶(𝑋) e 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋). Se 𝑓 −1 ({0}) ∩ 𝐹 ≠ ∅, ∀𝐹 ∈ 𝒵 [ℳ], allora 𝑓 ∈ ℳ.
Dimostrazione. 1. Supponiamo, per assurdo, 𝐶 ∉ ℱ . La famiglia ℱ ∪ {𝐶} ha la proprietà dell’intersezione finita e quindi genera uno ZUF ℱ ′ che contiene propriamente ℱ , contro la massimalità di questo. 2. Per la Proposizione 10.78.1, 𝒵 [ℳ] è uno ZUF. Dal punto 1, si ottiene 𝑓 −1 ({0}) ∈ 𝒵 [ℳ]. Per l’ipotesi su ℳ e le Proposizioni 10.78.2 e 10.76.1, si ha 𝑓 ∈ 𝒵 ← [𝒵 [ℳ]] = ℳ. Dualmente al concetto di ideale primo, si dà la definizione di 𝑧-filtro primo, brevemente ZFP.
Definizione 10.80. Uno z-filtro ℱ su uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto primo se, dati due qualunque zero-insiemi 𝐴, 𝐵 ⊆ 𝑋, da 𝐴 ∪ 𝐵 ∈ ℱ segue che 𝐴 o 𝐵 appartengono a ℱ . ◁ Analogamente al Teorema 10.78, sussiste il seguente risultato, la cui dimostrazione è lasciata per esercizio al Lettore.
Teorema 10.81. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico completamente regolare. 1. Se ℐ è un ideale primo in 𝐶(𝑋), allora la famiglia 𝒵 (ℐ ) è uno ZFP su 𝑋. 2. Se ℱ è uno ZFP su 𝑋, allora la famiglia 𝒵 ← [ℱ ] è uno 𝑧-ideale primo di 𝐶(𝑋).
Dal Lemma 10.79 segue immediatamente che: Ogni ZUF è primo. (Esercizio. Si segua la dimostrazione dell’implicazione 3 ⇒ 4 del Teorema 7.44.) Nel paragrafo 7.1 (cfr. pag. 339 e seg.), abbiamo introdotto il concetto di convergenza di un filtro ℱ ad un punto 𝑝 in uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). Ricordiamo che ℱ → 𝑝 se ℱ è più fine del filtro degli intorni di 𝑝, cioè se, per ogni intorno 𝑈 di 𝑝, esiste un elemento 𝐹 ∈ ℱ tale che 𝐹 ⊆ 𝑈 . Abbiamo inoltre visto che: • lo spazio è di Hausdorff se e solo se ogni filtro converge al più ad un elemento dello spazio; • lo spazio è compatto se e solo se ogni ultrafiltro è convergente. In analogia a quanto richiamato, si possono dare simili definizioni per gli z-ultrafiltri.
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
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Definizione 10.82. Si dice che uno z-filtro ℱ su uno spazio (𝑋, 𝜏) converge a un punto 𝑝 ∈ 𝑋 se, per ogni intorno 𝑈 di 𝑝, esiste un elemento 𝐹 ∈ ℱ tale che 𝐹 ⊆ 𝑈. Si dice che 𝑝 è un punto aderente allo z-filtro ℱ se ogni intorno di 𝑝 ha intersezione non vuota con tutti gli elementi di ℱ . ◁
Chiaramente, se uno z-filtro ℱ converge a un punto 𝑝, allora 𝑝 è aderente a ℱ . Si osservi inoltre che un punto che sia aderente a uno z-filtro, è aderente a ogni elemento del filtro e, poiché gli zero-insiemi sono chiusi, ne risulta che 𝑝 ∈ ⋂𝐹 ∈ℱ 𝐹 . Teorema 10.83. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare, 𝑝 ∈ 𝑋 e ℱ uno z-filtro primo. Sono allora equivalenti le seguenti affermazioni: 1. Il punto 𝑝 è aderente a ℱ . 2. ℱ converge a 𝑝. 3. L’insieme ⋂𝐹 ∈ℱ 𝐹 coincide col singoletto {𝑝}. Inoltre: 4. Se (𝑋, 𝜏) è compatto, ogni ZFP converge a uno e un solo punto.
Dimostrazione. Cominciamo con l’osservare che, se (𝑋, 𝜏) è completamente regolare, allora se un aperto 𝐴 contiene un punto 𝑧, 𝐴 contiene necessariamente un intorno chiuso 𝐶 di 𝑧 che è anche uno zero-insieme. Infatti, posto 𝐷 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐴, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] che vale 0 in 𝑧 e 1 in 𝐷. Sia ora 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1] definita da 𝑔(𝑥) ∶= (𝑓 (𝑥) − 1/2) ∨ 0. L’insieme 𝐶 ∶= 𝑔 −1 ({0}) = 𝑓 −1 ([0, 1/2]) è l’intorno chiuso di 𝑧 cercato. 1 ⇒ 2. Supponiamo 𝑝 aderente a ℱ e diciamo 𝐴 un intorno aperto di 𝑝. Esiste un intorno chiuso 𝐶 ⊆ 𝐴 di 𝑝 che è uno zero-insieme. 𝐶 contiene un intorno aperto 𝐴′ di 𝑝. Sempre per la completa regolarità di 𝑋, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] che vale 1 in 𝑝 e 0 in 𝐵 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐴′ . Posto 𝑊 ∶= 𝑓 −1 ({0}), esso è uno zero-insieme contenente 𝐵. Essendo 𝑋 = 𝐶 ∪ 𝑊 ∈ ℱ , per ipotesi, abbiamo che o 𝐶 o 𝑊 stanno in ℱ . Poiché ogni elemento di ℱ contiene 𝑝, in quanto ad esso aderente, si ha che 𝑊 ∉ ℱ . Si conclude che 𝐶 e quindi 𝐴 stanno in ℱ . 2 ⇒ 3. Fissiamo in 𝑋 un punto 𝑞 ≠ 𝑝. Esiste un aperto 𝐴 contenente 𝑝, ma non 𝑞. A sua volta 𝐴 contiene un elemento di ℱ . Si conclude che 𝑞 ∉ ⋂𝐹 ∈ℱ 𝐹 . Per l’arbitrarietà di 𝑞 si ha la tesi. 3 ⇒ 1. Ovvia. 4. Sia 𝑋 compatto e consideriamo uno ZFP 𝔘. Questo è contenuto in uno ZUF 𝔘′ , a sua volta contenuto in un ultrafiltro 𝔘″ . Per il Teorema 7.51, 𝔘″ converge ad un unico punto 𝑝. Pertanto, ogni intorno 𝑈 di 𝑝 appartiene a 𝔘″ . In particolare, si ha 𝑈 ∩ 𝑉 ≠ ∅, ∀𝑉 ∈ 𝔘. Ciò significa che 𝑝 è aderente a 𝔘 e che quindi 𝔘 converge a 𝑝. Dal fatto che gli ZUF sono primi segue che due ultrafiltri distinti non possono convergere a uno stesso limite o, equivalentemente, non possono avere punti aderenti in comune.
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
537
Una classe importante di ultrafiltri su un insieme 𝑋 è data da quelli principali; ricordiamo che un ultrafiltro principale 𝑝 ̇ è la famiglia di tutti gli insiemi contenenti 𝑝. Analogamente, fissato un punto 𝑝 ∈ 𝑋, denoteremo con 𝑝 ̆ la famiglia di tutti gli zero-insiemi contenenti 𝑝. Si verifica facilmente che 𝑝 ̆ è uno ZUF ed è l’unico convergente a 𝑝. Inoltre 𝑝 è aderente a uno z-filtro se e solo se quest’ultimo è contenuto in 𝑝.̆ La famiglia 𝑝 ̆ è detto ZUF generato da 𝑝. Per quanto appena detto, possiamo identificare 𝑋 con l’insieme degli ZUF generati dai suoi punti. Analogamente alla costruzione di 𝛽ℕ mediante gli ultrafiltri, faremo vedere che 𝛽𝑋 (inteso come compattificazione di Stone-Čech) è omeomorfo allo spazio di tutti gli ZUF su 𝑋 dotato di un’opportuna topologia. Nella definizione che segue, useremo nuovamente la notazione 𝛽𝑋 con un significato diverso dal precedente. Verificheremo che non c’‘e abuso di notazione dato che le due compattificazioni risulteranno equivalenti (cfr. Teorema 10.91).
Definizione 10.84. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare. Indichiamo con 𝛽𝑋 l’insieme degli ZUF definiti su 𝑋. Per ogni zero-insieme 𝐸 ⊆ 𝑋, indicheremo con ⟨𝐸⟩ l’insieme di tutti gli ZUF su 𝑋 contenenti 𝐸. ◁ Identificando ogni punto 𝑝 ∈ 𝑋 con lo ZUF 𝑝 ̆ da esso generato, possiamo dire che 𝑋 è un sottoinsieme di 𝛽𝑋. Si noti che l’ultima definizione coincide con la Definizione 10.38 quando 𝑋 sia dotato della topologia discreta.
Lemma 10.85. Dato uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏), l’applicazione 𝐸 ↦ ⟨𝐸⟩ sopra definita gode delle seguenti proprietà: 1. ⟨∅⟩ = ∅; ⟨𝑋⟩ = 𝛽𝑋. 2. (∀𝐴, 𝐵 ∈ 𝒵 (𝑋))(𝐴 ⊆ 𝐵 ⇒ ⟨𝐴⟩ ⊆ ⟨𝐵⟩); 3. (∀𝐴, 𝐵 ∈ 𝒵 (𝑋))(⟨𝐴 ∩ 𝐵⟩ = ⟨𝐴⟩ ∩ ⟨𝐵⟩); 4. (∀𝐴, 𝐵 ∈ 𝒵 (𝑋))(⟨𝐴 ∪ 𝐵⟩ = ⟨𝐴⟩ ∪ ⟨𝐵⟩); 5. l’applicazione 𝐴 ↦ ⟨𝐴⟩ è iniettiva. Dimostrazione. Le prime due affermazioni sono immediate. 3. Dalla 2 segue immediatamente che è ⟨𝐴 ∩ 𝐵⟩ ⊆ ⟨𝐴⟩ ∩ ⟨𝐵⟩. L’inclusione opposta segue dal fatto che l’intersezione di due zero-insiemi è ancora uno zero-insieme e dalla definizione di z-filtro. 4. Ancora dalla 2, si ha ⟨𝐴 ∪ 𝐵⟩ ⊇ ⟨𝐴⟩ ∪ ⟨𝐵⟩. L’inclusione opposta segue dalla massimalità di uno ZUF per cui, da 𝐴 ∪ 𝐵 ∈ 𝔘, con 𝔘 ZUF, si ha che uno dei due zero-insiemi vi appartiene. Infatti, da 𝐴 ∉ 𝔘 segue che esiste 𝐶 ∈ 𝔘 con 𝐶 ∩ 𝐴 = ∅ e da 𝐵 ∉ 𝔘 segue che esiste 𝐷 ∈ 𝔘 con 𝐷 ∩ 𝐵 = ∅; ne viene che per l’insieme 𝐸 ∶= 𝐶 ∩ 𝐷 ∈ 𝔘 si ha 𝐸 ∩ (𝐴 ∪ 𝐵) = ∅. (Questa non è altro che una verifica diretta del fatto che ogni ZUF è uno ZFP.) 5. Siano dati 𝐴, 𝐵 ∈ 𝔘, con 𝐴 ≠ 𝐵 ed esista, per esempio, 𝑧 ∈ 𝐴 ⧵ 𝐵. Si ha 𝐴 ∈ 𝑧,̆ ma 𝐵 ∉ 𝑧,̆ da cui ⟨𝐴⟩ ≠ ⟨𝐵⟩. È palese l’analogia fra questo e il Teorema 10.39. Si osservi che, in generale, il complementare di uno zero-insieme non è uno zero-insieme; ciò spiega perché nel nuovo contesto non figura una proprietà analoga alla Proposizione 10.39.5.
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
538
Definizione 10.86. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Una collezione 𝒞 di chiusi di 𝑋 è detta base di chiusi per 𝜏 se ogni chiuso di 𝑋 è intersezione di elementi di 𝒞 . In generale, data una famiglia 𝒞 con la proprietà di essere chiusa per unioni finite, diremo topologia generata da 𝒞 quella 𝜏 in cui si assumono come chiusi le intersezioni arbitrarie di elementi di 𝒞 , ossia quella per cui 𝒞 è una base di chiusi. ◁ Lemma 10.87. Uno spazio di Hausdorff (𝑋, 𝜏) è completamente regolare se e solo se la famiglia 𝒵 (𝑋) è una base di chiusi.
Dimostrazione. Nel Lemma 9.12 si è visto che, se 𝑋 è completamente regolare, ogni suo chiuso è intersezione di zero-insiemi; pertanto 𝒵 (𝑋) è una base di chiusi. Viceversa, supponiamo ora che 𝒵 (𝑋) sia una base di chiusi per 𝑋. Siano 𝐶 ⊂ 𝑋 un chiuso e 𝑝 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐶. Poiché 𝐶 è intersezione di zero-insiemi, esiste uno zero-insieme 𝐸 ∶= 𝑓 −1 ({0}), con 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ continua, tale che 𝐶 ⊆ 𝐸 e 𝑝 ∉ 𝐸. La funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑔(𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥)/𝑓 (𝑝), vale 0 in 𝐶 e 1 in 𝑝. La funzione continua ℎ ∶= (𝑔 ∧ 1) ∨ 0 assume i suoi valori in [0, 1] e separa il punto dal chiuso. Definizione 10.88. Nello spazio 𝛽𝑋 degli ZUF di 𝑋 definiamo la topologia 𝜎 ∶= 𝜏𝛽𝑋 in cui la famiglia degli insiemi del tipo ⟨𝐴⟩, al variare di 𝐴 ∈ 𝒵 (𝑋), costituisce una base per gli insiemi chiusi. ◁
Il passo successivo consisterà nel dimostrare il teorema fondamentale che, in sostanza, dice che lo spazio 𝛽𝑋 appena definito coincide (a meno di equivalenze) con la compattificazione di Stone-Čech della Definizione 10.28 e questo giustifica la scelta del simbolo usato. Premettiamo un semplice lemma tecnico. Lemma 10.89. Siano (𝑋, 𝜏) e (𝑌 , 𝜎) due spazi topologici completamente regolari e ℱ uno 𝑧-filtro su 𝑋. Sia, inoltre, 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 una funzione continua. Poniamo 𝑓 # (ℱ ) ∶= {𝐸 ∈ 𝒵 (𝑌 ) ∶ 𝑓 −1 (𝐸) ∈ ℱ } . Allora 𝑓 # (ℱ ) è uno 𝑧-filtro su 𝑌 ed è primo se è tale ℱ .
Dimostrazione. Sia ℱ uno 𝑧-filtro su 𝑋. Dati 𝐴, 𝐵 ∈ 𝑓 # (ℱ ), si ha che 𝑓 −1 (𝐴) e 𝑓 −1 (𝐵) sono zero-insiemi appartenenti a ℱ . Ne viene che anche lo zero-insieme 𝑓 −1 (𝐴 ∩ 𝐵) = 𝑓 −1 (𝐴) ∩ 𝑓 −1 (𝐵) sta in ℱ , da cui 𝐴 ∩ 𝐵 ∈ 𝑓 # (ℱ ). Dati poi 𝐴 ∈ 𝑓 # (ℱ ) e 𝐵, con 𝐴 ⊆ 𝐵 ∈ 𝒵 (𝑌 ), si ha 𝑓 −1 (𝐴) ∈ ℱ e 𝑓 −1 (𝐴) ⊆ 𝑓 −1 (𝐵) ∈ 𝒵 (𝑋), da cui 𝑓 −1 (𝐵) ∈ ℱ e, in fine, 𝐵 ∈ 𝑓 # (ℱ ). Supponiamo ora che ℱ sia primo e siano inoltre 𝐴, 𝐵 due zero-insiemi di 𝑌 tali che 𝐴 ∪ 𝐵 ∈ 𝑓 # (ℱ ). Ciò significa che 𝑓 −1 (𝐴 ∪ 𝐵) = 𝑓 −1 (𝐴) ∪ 𝑓 −1 (𝐵) ∈ ℱ . Essendo questo filtro primo per ipotesi, si ha che o 𝑓 −1 (𝐴) o 𝑓 −1 (𝐵) sta in ℱ e quindi o 𝐴 o 𝐵 sta in 𝑓 # (ℱ ). Ciò prova che anche 𝑓 # (ℱ ) è primo.
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
539
Osservazione 10.90. Osserviamo che: l’immagine di uno 𝑧-filtro tramite una funzione continue 𝑓 non è sempre uno 𝑧-filtro e che, se ℱ è uno ZUF, non è detto che sia tale 𝑓 # (ℱ ). Per constatarlo basta assumere come spazio di partenza l’intervallo 𝐼 ∶= [0, 1] con la topologia discreta 𝛿, come secondo spazio ancora 𝐼, ma con la topologia euclidea 𝜏𝑒 e come 𝑓 ∶ (𝐼, 𝛿) → (𝐼, 𝜏𝑒 ) la funzione identica. Partiamo da un ultrafiltro di (𝐼, 𝛿) che contenga l’insieme 𝐸 ∶= 𝐼 ∩ ℚ; questo è uno 𝑧-filtro in (𝐼, 𝛿), ma non in (𝐼, 𝜏𝑒 ); infatti 𝐸 non è uno zero-insieme per la topologia euclidea, dato che l’unica funzione di 𝐼 in sé che si annulla in tutti i punti di 𝐸 è quella identicamente nulla su 𝐼. Lo spazio (𝐼, 𝜏𝑒 ) è perfettamente normale (cfr. pag. 87 e seg.) e quindi ogni suo chiuso non vuoto è uno zero-insieme. Sia ora ℱ un ultrafiltro libero di (𝐼, 𝛿) che è anche uno ZUF. Esso non può contenere alcun singoletto. Si ha 𝑓 # (ℱ ) = {𝐶 ⊆ 𝐼 ∶ (𝐼 ⧵ 𝐶 ∈ 𝜏) ∧ (𝑓 −1 (𝐶) ∈ ℱ )} .
Sappiamo che 𝑓 # (ℱ ) è uno ZFP. Dato che (𝐼, 𝜏𝑒 ) è compatto, 𝑓 # (ℱ ) deve allora convergere a un (unico) punto 𝑝 ∈ 𝐼, da cui {𝑝} = ⋂𝐸∈𝑓 # (ℱ ) 𝐸 (cfr. Teorema 10.83). Il singoletto {𝑝} non può appartenere a ℱ , da cui {𝑝} ∉ 𝑓 # (ℱ ) e, pertanto, quest’ultimo 𝑧-filtro non è massimale (cfr. Proposizione 10.79). Abbiamo così l’esempio di uno z-filtro primo che non è uno ZUF. ◁ Teorema 10.91. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare. Lo spazio (𝛽𝑋, 𝜎) dato dalle Definizioni 10.84 e 10.88 gode delle seguenti proprietà: 1. 𝑋 è un sottospazio denso di 𝛽𝑋. 2. 𝛽𝑋 è un compatto di Hausdorff e quindi una compattificazione di 𝑋. 3. Ogni ZUF in 𝑋 converge a un unico elemento di 𝛽𝑋. 4. Ogni punto di 𝛽𝑋 è limite di un unico ZUF su 𝑋. 5. 𝑋 è 𝐶 ∗ -immerso in 𝛽𝑋. 6. 𝛽𝑋 è una compattificazione di 𝑋 equivalente a quella di Stone-Čech della Definizione 10.28.
Dimostrazione. Come già fatto in precedenza, identifichiamo gli elementi di 𝑋 con i corrispondenti ZUF principali. Quindi l’applicazione che a 𝑝 ∈ 𝑋 associa 𝑝 ̆ ∈ 𝛽𝑋 costituisce un’immersione di 𝑋 in 𝛽𝑋. 1. Per prima cosa verifichiamo che, se 𝐴 ⊆ 𝑋 è uno zero-insieme (in 𝑋), allora si ha ⟨𝐴⟩∩𝑋 = 𝐴. Infatti, 𝑝 ∈ ⟨𝐴⟩∩𝑋 se e solo se 𝐴 ∈ 𝑝 ̆ e quindi se e solo se 𝑝 ∈ 𝐴. Sia ora 𝐶 ⊆ 𝛽𝑋 un chiuso arbitrario. Per come è definita la topologia di 𝛽𝑋, 𝐶 è intersezione di insiemi del tipo ⟨𝐴𝛼 ⟩, con 𝐴𝛼 zero-insiemi di 𝑋. Per quanto appena dimostrato, avremo che 𝐶 ∩ 𝑋 è un’intersezione di zero-insiemi di 𝑋, ma questi sono tutti e soli i chiusi di 𝑋 (Lemma 10.87). Ciò comporta che, con la solita identificazione fra punti di 𝑋 e ZUF da essi generati, (𝑋, 𝜏) è un sottospazio di (𝛽𝑋, 𝜎). Verifichiamo inoltre che vale la seguente proprietà: Per ogni zero-insieme 𝐴 ⊆ 𝑋 , si ha cl𝛽𝑋 𝐴 = ⟨𝐴⟩. (10.3)
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
540
È chiaro che, da tale proprietà e dalla Proposizione 10.85.1 si ha la densità di 𝑋 in 𝛽𝑋. Per verificare la precedente uguaglianza, osserviamo che da 𝐴 ⊆ ⟨𝐴⟩ e dal fatto che ⟨𝐴⟩ è un chiuso (di base) di 𝛽𝑋, segue subito che è cl𝛽𝑋 𝐴 ⊆ ⟨𝐴⟩. Viceversa, sia ora ⟨𝐵⟩, con 𝐵 zero-insieme di 𝑋, un chiuso di base in 𝛽𝑋 con ⟨𝐵⟩ ⊇ 𝐴. Abbiamo 𝐵 = ⟨𝐵⟩ ∩ 𝑋 ⊇ 𝐴 ∩ 𝑋 = 𝐴. Pertanto ⟨𝐵⟩ ⊇ ⟨𝐴⟩ (cfr. Proposizione 10.85.2). Poiché la chiusura di 𝐴 in 𝛽𝑋 è ottenuta intersecando insiemi del tipo ⟨𝐵⟩ ⊇ 𝐴, si conclude che è cl𝛽𝑋 𝐴 ⊇ ⟨𝐴⟩. Val la pena di osservare che, come conseguenza della formula appena dimostrata, si ottiene che per ogni ZUF 𝔘 ∈ 𝛽𝑋 e ogni zero-insieme 𝐴 di 𝑋, si ha 𝔘 ∈ cl𝛽𝑋 𝐴 ⇔ 𝐴 ∈ 𝔘. (10.4)
2. Cominciamo con l’osservare che, dati una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ e un 𝑐 ∈ ℝ, gli insiemi {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) ≤ 𝑐} e {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) ≥ 𝑐} sono zeroinsiemi; la facile verifica di questo fatto è lasciata per esercizio al lettore. Siano ora 𝔘, 𝔘′ due punti distinti di 𝛽𝑋. Esiste quindi, uno zero-insieme 𝐴 che appartiene a uno solo dei due; sia, per esempio, 𝐴 ∈ 𝔘. Dal fatto che 𝐴 ∉ 𝔘′ segue che esiste uno zero-insieme 𝐵 ∈ 𝔘′ disgiunto da 𝐴 (cfr. Proposizione 10.79.1). Esistono due funzioni continue 𝑓 , 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1] che si annullano in 𝐴 e, rispettivamente, in 𝐵. La funzione continua ℎ ∶ 𝑋 → [0, 1] definita da ℎ ∶= |𝑓 |/(|𝑓 | + |𝑔|) si annulla in 𝐴 e vale 1 nei punti di 𝐵. Per l’osservazione iniziale, gli insiemi 𝐸 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) ≥ 1/2} e 𝐹 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) ≤ 1/2} sono due zero-insiemi; essi sono disgiunti, rispettivamente, da 𝐴 e 𝐵 e tali che 𝐸 ∪ 𝐹 = 𝑋. Per costruzione, 𝐸 ∉ 𝔘 e 𝐹 ∉ 𝔘′ . Ciò equivale a dire che 𝔘 ∉ cl𝛽𝑋 𝐸 e, rispettivamente, 𝔘′ ∉ cl𝛽𝑋 𝐹 . Per le proprietà della chiusura e la densità di 𝑋 in 𝛽𝑋, si ottiene cl𝛽𝑋 𝐸 ∪ cl𝛽𝑋 𝐹 = 𝛽𝑋. L’insieme 𝛽𝑋 ⧵ cl𝛽𝑋 𝐸 è un aperto contenente 𝔘 e, simmetricamente, 𝛽𝑋 ⧵ cl𝛽𝑋 𝐹 è un aperto contenente 𝔘′ ; applicando le leggi di De Morgan, si ottiene che questi due aperti sono fra loro disgiunti e che quindi lo spazio 𝛽𝑋 è di Hausdorff. Per verificare la compattezza di 𝛽𝑋, consideriamo una famiglia {𝒞𝛼 }𝛼∈𝐽 di chiusi di 𝛽𝑋 con la PIF. Siccome ogni 𝒞𝛼 è intersezione di chiusi di base, non è restrittivo supporre che ciascuno di essi sia del tipo ⟨𝐴𝛼 ⟩, con 𝐴𝛼 zero-insieme di 𝑋. Anche la famiglia dei chiusi 𝐴𝛼 (⊆ 𝑋) ha la proprietà dell’intersezione finita (si tengano presenti la (10.3) e il Lemma 10.85). Essendo tutti gli 𝐴𝛼 (⊆ 𝑋) degli zero-insiemi, esiste almeno uno ZUF 𝔘 al quale essi appartengono. Per la (10.4), 𝔘 ∈ cl𝛽𝑋 𝐴𝛼 = ⟨𝐴𝛼 ⟩, ∀𝛼 ∈ 𝐽 ; quindi l’intersezione di tutti gli elementi della famiglia di partenza non è vuota. 3. Sia 𝔘 ∶= {𝐴𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } uno ZUF su 𝑋. Pensando 𝔘 come un punto 𝑝 ∈ 𝛽𝑋, per la (10.4), abbiamo che 𝑝 ∈ cl𝛽𝑋 𝐴𝛼 , ∀𝛼 ∈ 𝐽 . Siccome 𝔘 è anche uno ZFP, per il Teorema 10.83, si ha che 𝔘 converge a 𝑝. L’unicità del limite segue dal fatto che 𝛽𝑋 è 𝑇2 (o, se si preferisce, ancora dal Teorema 10.83). 4. Fissiamo un 𝑝 ∈ 𝛽𝑋. Questo è uno ZUF su 𝑋 che converge a 𝑝 per il punto precedente. L’unicità di questo ZUF segue da quanto osservato subito dopo il Teorema 10.83.
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
541
5. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua e limitata. Non è restrittivo supporre che sia 𝑓 (𝑋) ⊆ 𝐼 ∶= [0, 1]. Fissato un qualunque punto 𝑝 ∈ 𝛽𝑋, con 𝑝 =∶ 𝔘, ZUF di 𝑋, consideriamo la famiglia 𝑓 # (𝔘) ∶= {𝐸 ∈ 𝒵 (𝐼) ∶ 𝑓 −1 (𝐸) ∈ 𝔘}
che è uno ZFP di 𝐼 (cfr. lemma precedente). Per la compattezza di 𝐼 (cfr. Proposizione 10.83.4), 𝑓 # (𝔘) ha un unico punto aderente in 𝐼 che è anche il ̂ suo limite. Chiamiamo tale punto 𝑓 (𝑝). Per costruzione, si ha ̂ {𝑓 (𝑝)} =
⋂
𝐸∈𝑓 # (𝔘)
𝐸.
Se è 𝑝 ∶= 𝑧,̆ con 𝑧 ∈ 𝑋, 𝑓 # (𝑧)̆ è la famiglia di tutti gli zero-insiemi 𝐸 di 𝐼 le cui controimmagini contengono 𝑧, ossia tali che 𝑓 (𝑧) ∈ 𝐸. Pertanto 𝑓 # (𝑧)̆ è la famiglia di tutti gli zero-insiemi di 𝐼 contenenti 𝑞 ∶= 𝑓 (𝑧) e quindi si ha ̂ 𝑓 # (𝑧)̆ = 𝑞.̆ Si conclude così che è 𝑓 (𝑝) = 𝑓 (𝑧) e si è quindi provato che 𝑓 ̂ ristretta a 𝑋 coincide con 𝑓 . Verifichiamo la continuità di 𝑓 .̂ Dato 𝑝 ∈ 𝛽𝑋, sia 𝐴 ⊆ 𝐼 un aperto ar̂ bitrario contenente il punto 𝑞 ∶= 𝑓 (𝑝). Per quanto osservato all’inizio della dimostrazione del Teorema 10.83, 𝐴 contiene un intorno chiuso 𝐶 di 𝑞 che è anche uno zero-insieme. Ci proponiamo di definire un opportuno intorno 𝑈 di ̂ ) ⊆ 𝐶(⊆ 𝐴). 𝑝 tale che 𝑓 (𝑈 Dato che 𝐶 è intorno di 𝑞, esiste un aperto 𝐵 tale che 𝑞 ∈ 𝐵 ⊂ 𝐶. L’insieme 𝐼 ⧵ 𝐵 è un chiuso che non contiene 𝑞; quindi esiste una funzione continua 𝑔 ∶ 𝐼 → 𝐼 tale che 𝑔(𝑞) = 1 e 𝑔(𝑡) = 0, ∀𝑡 ∈ 𝐼 ⧵ 𝐵. Posto, in fine, 𝐷 ∶= 𝑔 −1 ({0}), abbiamo che 𝐷 ⊆ 𝐼 è uno zero-insieme il cui complementare in 𝐼 è un intorno di 𝑞 e inoltre 𝐶 ∪ 𝐷 = 𝐼. I sottoinsiemi 𝐶0 ∶= 𝑓 −1 (𝐶) e 𝐷0 ∶= 𝑓 −1 (𝐷) sono zero-insiemi di 𝑋, con 𝐶0 ∪ 𝐷0 = 𝑋 e quindi cl𝛽𝑋 𝐶0 ∪ cl𝛽𝑋 𝐷0 = 𝛽𝑋, per le proprietà della chiusura e la densità di 𝑋 in 𝛽𝑋. A questo punto, proviamo che 𝑝 ∈ cl𝛽𝑋 𝐶0 e 𝑝 ∉ cl𝛽𝑋 𝐷0 . La prima affermazione è ovvia. Per verificare la seconda, basterà mostrare che 𝑝 ∈ cl𝛽𝑋 𝑓 −1 (𝐸) ̂ ∈ 𝐸, con 𝐸 arbitrario zero-insieme di 𝐼. Proviamo quest’ultima implica 𝑓 (𝑝) affermazione: per la (10.3), 𝑝 ∈ cl𝛽𝑋 𝑓 −1 (𝐸) equivale a 𝑝 ∈ ⟨𝑓 −1 (𝐸)⟩; ciò significa che 𝑓 −1 (𝐸) appartiene allo ZUF 𝔘 = 𝑝; per la definizione di 𝑓 # (𝔘), ciò ̂ ∈ 𝐸. Basta significa ancora che 𝐸 ∈ 𝑓 # (𝔘) che, a sua volta, significa 𝑞 = 𝑓 (𝑝) ora porre 𝐸 ∶= 𝐷 e ricordare che 𝑞 ∉ 𝐷. Da 𝑝 ∉ cl𝛽𝑋 𝐷0 segue che l’aperto di 𝛽𝑋 𝑈 ∶= 𝛽𝑋 ⧵ cl𝛽𝑋 𝐷0 contiene 𝑝 ed è contenuto in cl𝛽𝑋 𝐶0 . In fine, per ogni 𝑝′ ∈ 𝑈 , si ha 𝑝′ ∈ cl𝛽𝑋 𝐶0 = cl𝛽𝑋 𝑓 −1 (𝐶) ̂ ′ ) ∈ 𝐶. e quindi per la (10.4), 𝑓 −1 (𝐶) ∈ 𝔘′ ∶= 𝑝′ , da cui 𝐶 ∈ 𝑓 # (𝔘′ ) e perciò 𝑓 (𝑝 ̂ Si è così dimostrato che 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝐶. Abbiamo pertanto costruito, a partire da una funzione continua e limitata 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ, un prolungamento continuo e limitato 𝑓 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → ℝ. L’unicità di questo prolungamento segue dal Teorema 2.94. 6. Segue immediatamente dal Teorema 10.37.
10.2. Compattificazione di Stone-Čech
542
Osservazione 10.92. Se 𝑋 è uno spazio topologico discreto, allora tutti i suoi sottoinsiemi sono zero-insiemi e quindi ogni ultrafiltro su 𝑋 è uno ZUF. In questo caso la precedente costruzione di 𝛽𝑋 coincide con quella vista nelle pagine 512 e seguenti. ◁
11
Real-compattezza e Čech-completezza 11.1
Spazi real-compatti
In questa sezione sfrutteremo quanto si è fatto per definire la compattificazione di Stone-Čech per produrre vari risultati collaterali di un certo interesse. Il primo argomento sarà quello degli spazi real-compatti. Cominciamo col generalizzare il Teorema 7.108, che afferma che ogni spazio metrico compatto può essere immerso nel cubo di Hilbert 𝐼 ∞ , al caso degli spazi compatti di Hausdorff arbitrari. Per prima cosa, ricordiamo il Lemma di immersione (Embedding lemma 10.26) che, come conseguenza, assicura che ogni spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏) è omeomorfo a un sottospazio di 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) , dove l’omeomorfismo è la mappa di valutazione 𝑒 ∶ 𝑋 → 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) . Da questo risultato si ottiene il seguente teorema di immersione che caratterizza gli spazi completamente regolari. Teorema 11.1. Uno spazio (𝑋, 𝜏) è completamente regolare se e solo se è omeomorfo a un sottospazio di 𝐼 𝐽 , per un opportuno insieme di indici 𝐽 .
Dimostrazione. Come appena ricordato, il “solo se” segue dalla terza Proposizione dell’Embedding lemma 10.26. Infatti la famiglia di tutte le funzioni continue di 𝑋 in 𝐼 separa i punti dai chiusi e, per la detta proposizione, la mappa 𝑒 è un omeomorfismo tra 𝑋 ed 𝑒(𝑋). Proviamo il “se”. Sia dunque 𝑋 omeomorfo ad un sottospazio di 𝑌 ∶= 𝐼 𝐽 , per un opportuno insieme di indici 𝐽 . Pensiamo pure direttamente 𝑋 ⊆ 𝐼 𝐽 . Un modo per verificare la proprietà richiesta è di osservare che 𝐼 è completamente regolare addirittura normale e poi utilizzare la Proposizione 6.37.1 che ci garantisce che anche 𝐼 𝐽 è completamente regolare; in fine, basta richiamare la Proposizione 2.119.1. Presentiamo comunque una dimostrazione diretta. Siano 𝑝 ∈ 𝑋 e 𝐶 ⊂ 𝑋 un punto e un chiuso di 𝑋, con 𝑝 ∉ 𝐶 e poniamo 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵𝐶, per cui 𝑝 ∈ 𝐴, con 𝐴 aperto in 𝑋. Per come è definita la topologia prodotto, esisterà un aperto di base 𝑉 in 𝐼 𝐽 tale che 𝑝 ∈ 𝑉 ∩𝑋 ⊆ 𝐴. Questo aperto di base è del tipo ∏𝛼∈𝐽 𝑉𝛼 , dove 𝑉𝛼 è un aperto di 𝐼 = [0, 1] = 𝐼𝛼 , per un sottoinsieme finito 𝐽 ′ di 𝐽 , e 543
11.1. Spazi real-compatti
544
𝑉𝛼 = 𝐼 per tutti gli altri indici. Inoltre è 𝑝 = (𝑝𝛼 )𝛼∈𝐽 . Essendo 𝐼 completamente regolare, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 ′ , esiste una funzione continua 𝑓𝛼 ∶ 𝐼 → 𝐼, tale che 𝑓𝛼 (𝑝𝛼 ) = 1 e 𝑓𝛼 (𝑡) = 0, ∀𝑡 ∈ 𝐼 ⧵ 𝑉𝛼 . Sia poi 𝑔 ∶ 𝑌 → 𝐼 la funzione che a un generico 𝑦 ∶= (𝑦𝛼 )𝛼∈𝐽 associa il numero 𝑔(𝑦) ∶= 𝛼∈𝐽 ′ 𝑓𝛼 (𝑦𝛼 ) = 𝛼∈𝐽 ′ (𝑓𝛼 ∘ 𝜋𝛼 )(𝑦), dove 𝜋𝛼 è la proiezione 𝛼-ima di 𝑌 su 𝐼𝛼 . Per costruzione, 𝑔 è continua, con 𝑔(𝑝) = 1 e 𝑔(𝑦) = 0, per ogni 𝑦 ∉ 𝑉 . Infatti, se 𝑦 ∉ 𝑉 , si ha 𝑦𝛼 ∉ 𝑉𝛼 , per almeno un 𝛼 ∈ 𝐽 ′ e quindi 𝑓𝛼 (𝑦𝛼 ) = 0. Restringendo 𝑔 a 𝑋, abbiamo così separato il punto 𝑝 dal chiuso 𝐶. Dato che ogni compatto di Hausdorff è completamente regolare (cfr. Teoremi 7.33 e 2.110), si ottiene immediatamente il seguente Corollario 11.2. Uno spazio topologico è un compatto di Hausdorff se e solo se è omeomorfo a un sottospazio chiuso di 𝐼 𝐽 , per un opportuno insieme di indici 𝐽 .
Poiché 𝐼 𝐽 è un sottospazio compatto e quindi chiuso di ℝ𝐽 , si ottiene banalmente che: Ogni compatto di Hausdorff è omeomorfo a un sottoinsieme chiuso di ℝ𝐽 , per qualche insieme di indici 𝐽 . (Non vale ovviamente il viceversa.) Il risultato può essere interessante anche per lo studente di Analisi Matematica, immaginando ℝ𝐽 come una generalizzazione di ℝ𝑛 che è l’ambiente tradizionale dei Corsi di base di Analisi. La proprietà appena vista ha suggerito ad alcuni Autori di definire una speciale classe di spazi, che generalizza quella degli spazi compatti 𝑇2 , detti spazi real-compatti. Definizione 11.3. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto real-compatto se è omeomorfo a un sottoinsieme chiuso di ℝ𝐽 per un opportuno insieme di indici 𝐽. ◁
Si osservi che ℝ𝐽 è l’insieme di tutte le funzioni da 𝐽 in ℝ dotato della topologia della convergenza puntuale e che quindi ogni spazio real-compatto è, a tutti gli effetti, uno spazio di funzioni. Dalla definizione, si ha immediatamente che Corollario 11.4. Ogni spazio topologico compatto 𝑇2 è real-compatto.
Un banale esempio di spazio real-compatto ma non compatto è dato da ℝ stesso. Dalla definizione, segue poi immediatamente che Corollario 11.5. Ogni sottospazio chiuso di uno spazio real-compatto è realcompatto.
Teorema 11.6. Ogni spazio topologico real-compatto (𝑋, 𝜏) è completamente regolare.
11.1. Spazi real-compatti
545
Dimostrazione. Lo spazio (ℝ, 𝜏𝑒 ) è completamente regolare ed è quindi tale anche (ℝ𝐽 , 𝜏𝑒 ), qualunque sia l’insieme di indici 𝐽 (cfr. Teorema 6.37). La tesi segue ora dal Teorema 2.119. Trovare esempi di spazi completamente regolari non real-compatti non è banale. A tale scopo, premettiamo alcuni risultati che sono interessanti anche di per sé. Teorema 11.7. Uno spazio topologico di Hausdorff è compatto se e solo se è pseudo-compatto e real-compatto. Dimostrazione. È banale che ogni spazio compatto sia pseudo-compatto. Il Corollario 11.4 ci dice che ogni compatto 𝑇2 è real-compatto. Ciò prova il “solo se”. Proviamo il “se”. Sia dunque (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico pseudocompatto e real-compatto (e quindi di Hausdorff). Poiché 𝑋 è real-compatto, possiamo pensarlo come un sottoinsieme chiuso dello spazio prodotto ℝ𝐽 per un certo insieme di indici 𝐽 . Per ogni 𝑗 ∈ 𝐽 fissato, consideriamo la proiezione 𝑝𝑗 ∶ ℝ𝐽 → ℝ ristretta a 𝑋. Questa è una funzione continua di 𝑋 in ℝ ed è quindi limitata per la pseudo-compattezza. Esiste dunque un numero reale 𝑎𝑗 > 0 tale che 𝑝𝑗 (𝑋) ⊆ [−𝑎𝑗 , 𝑎𝑗 ]. Ne viene che 𝑋 è un sottoinsieme chiuso del prodotto ∏𝑗∈𝐽 [−𝑎𝑗 , 𝑎𝑗 ] che è compatto per il Teorema di Tychonoff. Si conclude che anche 𝑋 è compatto, in quanto chiuso di un compatto. In base a questo teorema, per trovare degli spazi completamente regolari e non real-compatti, basterà produrre uno spazio pseudo-compatto e non compatto nella classe degli spazi completamente regolari. Nell’Esempio 9.10 abbiamo costruito uno spazio pseudo-compatto di Hausdorff e non compatto (addirittura non numerabilmente compatto). Purtroppo questo esempio non può essere utilizzato in questo caso perché lo spazio in questione non è regolare. Un esempio di spazio con le proprietà richieste è dato da 𝑋 ∶= 𝛽ℕ ⧵ {𝑧}, con 𝑧 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ. Per verificare questo fatto, è utile premettere il seguente lemma relativo a 𝛽ℕ. Lemma 11.8. Sia 𝑓 ∶ 𝛽ℕ → ℝ una funzione continua che si annulla in un punto 𝑧 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ. Allora 𝑓 si annulla almeno in un altro punto.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che 𝑓 si annulli soltanto in 𝑧. Per la continuità di 𝑓 e la densità di ℕ in 𝛽ℕ, si ha che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , esiste un 𝑘𝑛 ∈ ℕ tale che |𝑓 (𝑘𝑛 )| < 1/𝑛. È lecito supporre che la successione (𝑘𝑛 )𝑛 sia strettamente crescente. Sia ora 𝑈 un arbitrario intorno aperto di 𝑧 in 𝛽ℕ e diverso da 𝛽ℕ. L’insieme 𝛽ℕ ⧵ 𝑈 è un compatto su cui la funzione |𝑓 | assume un minimo 𝛿 che deve essere strettamente positivo, dato che 𝑓 non si annulla in altri punti. Preso 𝑛∗ in modo che sia 1/𝑛∗ < 𝛿, per come è stata definita la successione (𝑘𝑛 )𝑛 , abbiamo che 𝑘𝑛 ∈ 𝑈 per ogni 𝑛 ≥ 𝑛∗ . Per l’arbitrarietà di 𝑈 ,
11.1. Spazi real-compatti
546
si ha che la successione (𝑘𝑛 )𝑛 converge a 𝑧. Si noti che è 𝑘𝑛 ≠ 𝑧, ∀𝑛, dato che 𝑘𝑛 ∈ ℕ e 𝑧 ∉ ℕ. Abbiamo così contraddetto il Corollario 10.63.
Esempio 11.9. Fissiamo un elemento 𝑧 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ e poniamo 𝑋 ∶= 𝛽ℕ ⧵ {𝑧} con la topologia indotta da quella di 𝛽ℕ. 𝑋 è completamente regolare (cfr. Teorema 2.119), ma non è compatto dato che è un sottoinsieme non chiuso di un compatto 𝑇2 . Proveremo ora che lo spazio 𝑋 è pseudo-compatto e che quindi, per il Teorema 11.7, non può essere real-compatto. Dobbiamo verificare che ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ è limitata. Assegnata 𝑓 , definiamo le funzioni 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1] e 𝑔0 ∶ ℕ → [0, 1], ponendo 𝑔(𝑥) ∶= 𝑒−|𝑓 (𝑥)| e 𝑔0 ∶= 𝑔|ℕ . La funzione 𝑔0 ammette un unico prolungamento continuo ℎ̂ a tutto 𝛽ℕ e a valori in [0, 1]. Chiamiamo, in fine, ℎ la restrizione di ℎ̂ a 𝑋. Le funzioni 𝑔 e ℎ prolungano entrambe 𝑔0 sullo spazio 𝑋 e devono coincidere per il Teorema 2.94, dato che ℕ è denso in 𝑋. Poiché è 𝑔(𝑥) = ̂ ℎ(𝑥) > 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋, deve essere ℎ(𝑧) > 0. Infatti se ℎ̂ si annullasse in 𝑧 dovrebbe annullarsi in almeno un punto di 𝑋 per il lemma precedente. Per il Teorema di Weierstrass, ℎ̂ ha un minimo 𝜂 su 𝛽ℕ ed esso deve essere strettamente positivo (con 𝜂 ≤ 1). Usando il fatto che 𝑔 e ℎ coincidono su 𝑋, otteniamo 𝑒−|𝑓 (𝑥)| ≥ 𝜂 e quindi |𝑓 (𝑥)| ≤ − log 𝜂, ∀𝑥 ∈ 𝑋. ◁ Abbiamo tratto i precedenti risultati dal recente libro di Groenewegen e van Rooij [25] che, assieme al più classico testo di Gillman e Jerison [22], suggeriamo al lettore interessato alle proprietà degli spazi di funzioni continue 𝐶(𝑋) e 𝐶 ∗ (𝑋). Si noti che il concetto di pseudo-compattezza può essere espresso equivalentemente con l’uguaglianza 𝐶(𝑋) = 𝐶 ∗ (𝑋). La proprietà di real-compattezza è collegata allo studio delle mappe di valutazione (evaluation maps). Abbiamo incontrato questo tipo di funzioni in una delle possibili costruzioni della compattificazione di Stone-Čech. Consideriamo di nuovo questo argomento per svilupparlo ulteriormente. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e considerato il corrispondente spazio 𝐶(𝑋), per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si può definire una funzione da 𝐶(𝑋) in ℝ che, ad ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) associa il numero reale 𝑓 (𝑥). Porremo: 𝛿 𝑥 ∶ 𝐶(𝑋) → ℝ,
𝛿 𝑥 (𝑓 ) ∶= 𝑓 (𝑥).
(11.1)
La 𝛿 𝑥 così definita corrisponde all’elemento 𝑒(𝑥) visto in occasione della compattificazione di Stone-Čech (cfr. pag. 505). L’unica differenza consiste nel fatto che ora 𝛿 𝑥 ∈ ℝ𝐶(𝑋) , mentre, precedentemente, 𝑒(𝑥) ∈ 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) . Di seguito, considereremo la restrizione di 𝛿 𝑥 allo spazio 𝐶 ∗ (𝑋) senza cambiare notazione. Inoltre, indichiamo con 𝟙 l’applicazione da 𝑋 a ℝ di valore costante 1. Prima di procedere, sarà utile accennare ad un ulteriore modo di introdurre la compattificazione di Stone-Čech.
Lemma 11.10. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare e 𝐶 ∗ (𝑋) l’insieme delle funzioni continue e limitate da 𝑋 in ℝ. Denotiamo inoltre con Φ l’insieme delle applicazioni lineari 𝜑 di 𝐶 ∗ (𝑋) ∗in ℝ tali che 𝜑(𝟙) = 1 e 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|. Φ è un sottospazio compatto di ℝ𝐶 (𝑋) .
11.1. Spazi real-compatti
547
Dimostrazione. Prima di tutto, notiamo che le condizioni sulle 𝜑 implicano che, se 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋) sono due funzioni tali che 𝑓 (𝑥) ≤ 𝑔(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋, brevemente 𝑓 ≤ 𝑔, allora 𝜑(𝑓 ) ≤ 𝜑(𝑔). Si ha, infatti, 0 ≤ |𝜑(𝑔 − 𝑓 )| = 𝜑(|𝑔 − 𝑓 |) = 𝜑(𝑔 − 𝑓 ) = 𝜑(𝑔) − 𝜑(𝑓 ). Osserviamo che 𝐶 ∗ (𝑋), con la norma lagrangiana ‖⋅‖∞ è uno spazio di Banach. Questo segue da osservazioni già viste dei Capitoli 3 e 4; in particolare, si veda l’Esempio 4.11 e il Teorema 3.55 (tenendo conto che le notazioni sono un po’ diverse). Come terzo punto, osserviamo che gli elementi di Φ, che sono a tutti gli effetti dei funzionali lineari definiti su 𝐶 ∗ (𝑋), sono anche continui. Infatti |𝜑(𝑓 )| = 𝜑(|𝑓 |) ≤ 𝜑(‖𝑓 ‖∞ ⋅ 𝟙) = ‖𝑓 ‖∞ 𝜑(𝟙) = 1 ⋅ ‖𝑓 ‖∞ . Ciò dimostra che 𝜑 è continua (cfr. Lemma 4.45) e quindi 𝜑 è un elemento dello spazio duale topologico ℒ (𝐶 ∗ (ℝ), ℝ), denotato anche con (𝐶 ∗ (𝑋))∗ (cfr. Definizione 4.56). (Il lettore tenga bene presente i diversi significati dei due asterischi.) Per la definizione di norma di un’applicazione lineare fra spazi normati, concludiamo che è ‖𝜑‖ ≤ 1, ∀𝜑 ∈ Φ, dove con ‖⋅‖ abbiamo indicato la norma dello spazio duale topologico. Per il Teorema di Banach-Alaoglu 7.129, si ha che la palla chiusa unitaria 𝐵 nello spazio duale topologico è un compatto rispetto alla ∗ topologia debole* che, nel nostro caso, è proprio quella dello spazio ℝ𝐶 (𝑋) ristretta allo spazio duale. Per concludere la dimostrazione sarà sufficiente verificare che Φ è un sottospazio chiuso di 𝐵, sempre nella topologia debole*. Abbiamo appena verificato che è Φ ⊆ 𝐵. Più precisamente, si ha che Φ è l’intersezione di 𝐵 con l’insieme ⋂ ∗
𝑓 ∈𝐶 (𝑋)
( {𝜑 ∈ ℝ
𝐶 ∗ (𝑋)
∶ 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|} ∩ {𝜑 ∈ ℝ𝐶
∗
(𝑋)
∶ 𝜑(𝟙) = 1} ).
Ciascuno degli insiemi coinvolti è un chiuso di ℝ𝐶 (𝑋) . Infatti: l’insieme ℝ𝐶 (𝑋) è l’insieme prodotto della famiglia di copie di ℝ indiciata in 𝐶 ∗ (𝑋) e ogni 𝜑 è un elemento di tale prodotto; in particolare, è tale anche 𝟙. La condizione 𝜑(𝟙) = 1 equivale a cercare tutti gli elementi del prodotto che valgono 1 nella componente di indice 𝛼 = 𝟙. Analogamente, la condizione 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )| equivale a fissare due indici 𝛼 = |𝑓 | e 𝛽 = 𝑓 e cercare tutti gli elementi del prodotto che proiettati sulla componente 𝛼 hanno come valore il modulo del valore proiettato sulla componente 𝛽. A questo punto, la tesi segue facilmente. ∗
∗
Come passo successivo, immergeremo 𝑋 in Φ. Questo viene fatto con la nappa di valutazione 𝑒 vista nel Paragrafo 10.2, cioè 𝑒 ∶ 𝑋 → Φ ⊂ ℝ𝐶
∗
(𝑋)
;
𝑒 ∶ 𝑥 ↦ 𝛿𝑥.
È banale verificare che 𝛿 𝑥 ∈ Φ, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Dal fatto che lo spazio 𝑋 è completamente regolare, segue che la famiglia 𝐹 ∶= 𝐶 ∗ (𝑋) separa i punti dai chiusi; per l’Embedding lemma (cfr. Lemma 10.26), concludiamo che 𝑒 è un omeomorfismo fra 𝑋 ed 𝑒(𝑋) ⊆ Φ. A questo punto, la chiusura di 𝑒(𝑋) in Φ fornisce una compattificazione di 𝑋. Raffineremo ulteriormente questo risultato mostrando che 𝑒(𝑋) è denso in Φ e che Φ è equivalente alla compattificazione di Stone-Čech.
11.1. Spazi real-compatti
548
Lemma 11.11. Fissiamo 𝜑 ∈ Φ. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ e per ogni famiglia finita di funzioni 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋), esiste un 𝑢 ∈ 𝑋 tale che 𝑛
∑ 𝑖=1
|𝜑(𝑓𝑖 ) − 𝑓𝑖 (𝑢)| =
𝑛
∑ 𝑖=1
|𝜑(𝑓𝑖 ) − 𝛿 𝑢 (𝑓𝑖 )| < 1.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che esistano 𝑛 ∈ ℕ+ e 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋) tali che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si abbia ∑𝑛𝑖=1 |𝜑(𝑓𝑖 ) − 𝑓𝑖 (𝑥)| ≥ 1. Ponendo 𝑐𝑖 ∶= 𝜑(𝑓𝑖 ), abbiamo equivalentemente che ∑𝑛𝑖=1 |𝑓𝑖 (𝑥) − 𝑐𝑖 𝟙(𝑥)| ≥ 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋 e quindi 𝟙 ≤ ∑𝑛𝑖=1 |𝑓𝑖 − 𝑐𝑖 𝟙|. Applicando ora la 𝜑 e utilizzando il fatto che essa preserva l’ordine, come visto nella dimostrazione del lemma precedente, si ha
=
𝑛
1 = 𝜑(𝟙) ≤ 𝜑(
∑ 𝑖=1
𝑛
∑ 𝑖=1
|𝜑(𝑓𝑖 − 𝑐𝑖 𝟙)| =
|𝑓𝑖 − 𝑐𝑖 𝟙|) =
𝑛
∑ 𝑖=1
𝑛
∑ 𝑖=1
𝜑(|𝑓𝑖 − 𝑐𝑖 𝟙|) =
|𝜑(𝑓𝑖 ) − 𝑐𝑖 𝜑(𝟙)| =
𝑛
∑ 𝑖=1
|𝑐𝑖 − 𝑐𝑖 | = 0.
Dalla contraddizione segue la tesi. Osservazione 11.12. Siccome nella precedente dimostrazione non si è mai sfruttato il fatto che le funzioni 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ sono limitate, il risultato del lemma continua a sussistere anche se si opera in 𝐶(𝑋) in luogo di 𝐶 ∗ (𝑋). ◁ Corollario 11.13. Con le notazioni del Lemma 11.10, si ha cl 𝑒(𝑋) = Φ.
Dimostrazione. Per la definizione di topologia dello spazio prodotto, è sufficiente verificare quanto segue. Fissata una qualunque 𝜑 ∈ Φ, per ogni 𝜀 > 0 e per ogni famiglia finita di funzioni 𝑔1 , … , 𝑔𝑛 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋), esiste una valutazione 𝛿 𝑥 tale che |𝜑(𝑔𝑖 ) − 𝛿 𝑥 (𝑔𝑖 )| < 𝜀, ∀𝑖 = 1, … , 𝑛. Assegnati quindi 𝜑, 𝜀, 𝑔1 , … , 𝑔𝑛 , applichiamo il lemma precedente alle funzioni 𝑓𝑖 ∶= 𝑔𝑖 /𝜀. Esso garantisce l’esistenza di un elemento 𝑢 ∈ 𝑋 per cui ∑𝑛𝑖=1 |𝜑(𝑓𝑖 ) − 𝛿 𝑢 (𝑓𝑖 )| < 1. Questa condizione diventa ∑𝑛𝑖=1 |𝜑(𝑔𝑖 ) − 𝛿 𝑢 (𝑔𝑖 )| < 𝜀, da cui la tesi.
Per verificare che lo spazio Φ è (equivalente a) la compattificazione di Stone-Čech di 𝑋, è sufficiente verificare che 𝑋 è 𝐶 ∗ -immerso in Φ, avendo al solito identificato 𝑋 con 𝑒(𝑋), cioè pensando ogni elemento 𝑥 ∈ 𝑋 come la corrispondente funzione di valutazione 𝛿 𝑥 (cfr. Definizione 10.36 e Teorema 10.37). Teorema 11.14 (Proprietà universale). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio completamen∗ te regolare e Φ ⊂ ℝ𝐶 (𝑋) lo spazio dei funzionali lineari 𝜑 di 𝐶 ∗ (𝑋) tali che 𝜑(𝟙) = 1, 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, per ogni 𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋). Ogni funzione continua e limitata 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ si può prolungare in un unico modo a una funzione continua e limitata 𝑓 ̂ ∶ Φ → ℝ.
11.1. Spazi real-compatti
549
Dimostrazione. Data una funzione 𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋), essa determina una funzione 𝑓 ̂ ∶ Φ → ℝ definita da ̂ 𝑓 (𝜑) ∶= 𝜑(𝑓 ), ∀𝜑 ∈ Φ. (11.2) Per costruzione, si ha, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋,
̂ ̂ 𝑥 ) = 𝛿 𝑥 (𝑓 ) = 𝑓 (𝑥). (𝑓 ̂ ∘ 𝑒)(𝑥) = 𝑓 (𝑒(𝑥)) = 𝑓 (𝛿
L’ultima uguaglianza prova che 𝑓 ̂ è univocamente determinata sul sottoinsieme denso 𝑒(𝑋) e quindi su tutto Φ, se vogliamo che essa sia continua. Resta da verificare che 𝑓 ̂ è effettivamente continua. Ciò segue dalla definizione e dalle proprietà degli spazi prodotto, seguendo un ragionamento simile a quanto già visto nella dimostrazione del Teorema 10.29. Più in dettaglio, fissata 𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋), la funzione 𝑓 ̂ ad ogni 𝜑 ∈ Φ associa il numero reale 𝜑(𝑓 ); questo si può pensare come la componente di indice 𝑓 dell’elemento 𝜑 dello spazio prodotto ∗ ℝ𝐶 (𝑋) . Quindi, a tutti gli effetti, 𝑓 ̂ è una proiezione (di indice 𝑓 ) ristretta al sottospazio Φ ed è quindi continua. Abbiamo così introdotto un terzo modo per definire la compattificazione di Stone-Čech. Prima di proseguire, vediamo come questo approccio si applica a 𝛽ℕ. In questo caso, lo spazio 𝐶 ∗ (ℕ) è lo spazio delle successioni limitate di numeri reali da noi già introdotto col simbolo 𝑙∞ (cfr. Definizione 4.78). Con questo approccio, si ha quindi 𝛽ℕ = Φ che è l’insieme dei funzionali lineari (e continui) 𝜑 definiti su 𝑙∞ tali che 𝜑(𝟙) = 1 e 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|. Quindi 𝛽ℕ risulta un sottospazio compatto dello spazio duale topologico (𝑙∞ )∗ . L’immersione di ℕ in 𝛽ℕ che, nell’interpretazione degli ultrafiltri consisteva nell’identificare il numero naturale 𝑛 con l’ultrafiltro principale 𝑛,̇ ora consiste nell’identificare 𝑛 con la funzione di valutazione 𝛿 𝑛 ∶ 𝑙∞ → ℝ che ad ogni successione limitata (𝑥𝑘 )𝑘 associa il suo termine 𝑛-imo 𝑥𝑛 . Questo terzo modo di introdurre la compattificazione di Stone-Čech ha anche un aspetto interessante relativamente alla teoria degli spazi di funzioni in virtù del seguente teorema.
Teorema 11.15. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare e Φ = 𝛽𝑋 la sua compattificazione di Stone-Čech. La corrispondenza 𝛽 data da 𝛽 ∶ 𝑓 ↦ 𝑓 ̂ è un’applicazione da 𝐶 ∗ (𝑋) in 𝐶(𝛽𝑋) che gode delle seguenti proprietà: 1. è lineare e iniettiva; 2. 𝛽(𝟙) = 𝟙; 3. conserva l’ordine; 4. 𝑓̂ ∨ 𝑔 = 𝑓 ̂ ∨ 𝑔;̂ 𝑓̂ ∧ 𝑔 = 𝑓 ̂ ∧ 𝑔;̂ ̂ ̂ 5. |𝑓 | = |𝑓 |; 6. ‖𝑓 ‖̂ ∞ = ‖𝑓 ‖∞ . Dimostrazione. Dalla definizione (11.2) e dal fatto che le funzioni 𝜑 ∈ Φ sono lineari segue la linearità di 𝛽. Una seconda proprietà di verifica immediata è il fatto che 𝛽(𝟙) = 𝟙, dato che 𝜑(𝟙) = 1, ∀𝜑 ∈ Φ. È altresì immediato che è
11.1. Spazi real-compatti
550
̂| = |𝑓 |,̂ ∀𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋), dato che si ha 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, ∀𝜑 ∈ Φ. Da quest’ultima |𝑓 proprietà e dalla linearità seguono immediatamente la preservazione dell’ordine (cfr. la dimostrazione del Lemma 11.10) e le proprietà relative a 𝑓 ∨ 𝑔 e 𝑓 ∧ 𝑔. Ricordando che, date due funzioni 𝑓1 , 𝑓2 a valori in ℝ, si ha 𝑓1 ∨ 𝑓2 = 12 [𝑓1 + 𝑓2 + |𝑓1 − 𝑓2 |],
𝑓1 ∧ 𝑓2 = 12 [𝑓1 + 𝑓2 − |𝑓1 − 𝑓2 |].
Proviamo la 6. Data 𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋), sia 𝑚𝑓 ∶= sup {|𝑓 (𝑥)| ∶ 𝑥 ∈ 𝑋}; si ha chiaramente 𝑚𝑓 ∈ ℝ, da cui 𝑚𝑓 = ‖𝑓 ‖∞ . Quindi la funzione di valore costante 𝑚𝑓 appartiene a 𝐶 ∗ (𝑋), è maggiore o uguale a |𝑓 | ed è la minima funzione costante con tale proprietà. Per la linearità di 𝛽 e le proprietà 2 e 3, si ottiene immediatamente che la funzione di valore costante 𝑚𝑓 è la minima funzione ̂|, per la 5. D’altra parte, Φ = 𝛽𝑋 è compatto costante che maggiora |𝑓 |̂ = |𝑓 e quindi ogni funzione reale e continua su tale insieme ha massimo, per cui ̂ 𝑚𝑓 = ‖𝑓 ‖∞ ≤ max {|𝑓 (𝜑)| ∶ 𝜑 ∈ Φ} = ‖𝑓 ‖̂ ∞ ≤ 𝑚𝑓 . Da quest’ultima proprietà segue che 𝛽, in quanto applicazione lineare tra spazi di Banach, è un’isometria (conserva le norme e quindi le distanze) ed è pertanto iniettiva. Corollario 11.16. Dato uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏), lo spazio associato 𝐶 ∗ (𝑋) delle funzioni continue e limitate a valori reali si immerge isometricamente nello spazio 𝐶(𝛽𝑋) delle funzioni continue a valori reali e definite sulla compattificazione di Stone-Čech di 𝑋.
Teorema 11.17. Per uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏) le seguenti condizioni sono fra loro equivalenti. 1. 𝑋 è compatto. 2. Ogni applicazione lineare 𝜑 ∶ 𝐶 ∗ (𝑋) → ℝ che soddisfa alle condizioni 𝜑(𝟙) = 1 e 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, ∀𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋), è una valutazione. Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Supponiamo, per assurdo, che esista un’applicazione lineare 𝜑 ∶ 𝐶 ∗ (𝑋) → ℝ che soddisfi alle condizioni 𝜑(𝟙) = 1, 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, ∀𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋) e che non sia una valutazione. Quindi, per ogni 𝑡 ∈ 𝑋, esiste una funzione 𝑓𝑡 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋) tale che 𝜑(𝑓𝑡 ) ≠ 𝑓𝑡 (𝑡). Definiamo ora la funzione 𝑓𝑡∗ ∶ 𝑋 → ℝ ponendo 𝑓𝑡∗ (𝑥) ∶= 2
𝑓𝑡 (𝑥) − 𝜑(𝑓𝑡 ) 𝑓 (𝑥) − 𝜑(𝑓𝑡 ) ⋅ 𝟙(𝑥) =2 𝑡 . 𝑓𝑡 (𝑡) − 𝜑(𝑓𝑡 ) 𝑓𝑡 (𝑡) − 𝜑(𝑓𝑡 )
Si verifica immediatamente che 𝑓𝑡∗ ∈ 𝐶 ∗ (𝑋). Inoltre, usando il fatto che 𝜑 è lineare e che 𝜑(𝟙) = 1, si ha 𝑓𝑡∗ (𝑡) = 2 e 𝜑(𝑓𝑡∗ ) = 0. Grazie alla presente costruzione, abbiamo che, per ogni 𝑡 ∈ 𝑋, esiste una funzione in 𝐶 ∗ (𝑋) che vale 2 in 𝑡 e tale che 𝜑 si annulla su di essa. Di conseguenza, gli aperti 𝐴𝑔 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑔(𝑥) > 1} al variare di 𝑔 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋), con 𝜑(𝑔) = 0 e che sono diversi da ∅, formano un ricoprimento dello spazio 𝑋. Per la compattezza di 𝑋, possiamo estrarre un sottoricoprimento finito e, pertanto, esiste un numero
11.1. Spazi real-compatti
551
finito di funzioni 𝑔1 , … , 𝑔𝑛 in 𝐶 ∗ (𝑋), con 𝜑(𝑔1 ) = ⋯ = 𝜑(𝑔𝑛 ) = 0, e tali che 𝑋 = ⋃𝑛𝑖=1 {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑔𝑖 (𝑥) > 1}. Poniamo, in fine, 𝑔 ∶= 𝑔1 ∨⋯∨𝑔𝑛 . Chiaramente 𝑔 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋). Ricordiamo ancora che, date due funzioni 𝑓1 , 𝑓2 a valori in ℝ, si ha 𝑓1 ∨ 𝑓2 = 12 [𝑓1 + 𝑓2 + |𝑓1 − 𝑓2 |]. Usando l’ipotesi 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, si verifica per induzione che è 𝜑(𝑔1 ∨ ⋯ ∨ 𝑔𝑛 ) = 𝜑(𝑔1 ) ∨ ⋯ ∨ 𝜑(𝑔𝑛 ).
Da ciò segue che è 𝜑(𝑔) = 0. D’altra parte, 𝑔(𝑥) > 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋, dato che è 𝑋 = ⋃𝑛𝑖=1 {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑔𝑖 (𝑥) > 1}. Abbiamo quindi |𝑔 − 𝟙| = 𝑔 − 𝟙, da cui 0 ≤ |𝜑(𝑔 − 𝟙)| = 𝜑(|𝑔 − 𝟙|) = 𝜑(𝑔 − 𝟙) = 𝜑(𝑔) − 1 = −1. Assurdo. 2 ⇒ 1. In questo caso, l’ipotesi implica che lo spazio Φ definito precedentemente coincide con l’insieme {𝛿 𝑥 ∶ 𝑥 ∈ 𝑋 } di tutte le valutazioni di 𝑋. In altri termini, 𝑒(𝑋) = Φ. Quindi 𝑋 è compatto essendo omeomorfo al compatto 𝑒(𝑋) = Φ. Per poter dimostrare il prossimo risultato, sarà utile introdurre un’ulteriore caratterizzazione dei funzionali appartenenti alla famiglia Φ, ovvero le 𝜑 ∶ 𝐶 ∗ (𝑋) → ℝ lineari e continue tali che 𝜑(𝟙) = 1, e 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, ∀𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋). Ciò verrà svolto utilizzando un concetto di convergenza per reti (nets) che verrà studiato nel capitolo sugli insiemi ordinati. Sia ℱ la famiglia dei sottoinsiemi finiti di 𝐶 ∗ (𝑋). Questo è un insieme parzialmente ordinato per inclusione. Lemma 11.18. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare. Un funzionale lineare 𝜑 ∶ 𝐶 ∗ (𝑋) → ℝ appartiene a Φ se e solo se, per ogni 𝐹 ∈ ℱ , esiste un elemento 𝑥𝐹 ∈ 𝑋 tale che la famiglia (𝑥𝐹 )𝐹 ∈ℱ soddisfa alla seguente proprietà: (∀𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋))(∀𝜀 > 0)(∃𝐹0 ∈ ℱ ) (∀𝐹 (∈ ℱ ) ⊇ 𝐹0 )(|𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| < 𝜀).
(11.3)
Dimostrazione. Supponiamo, intanto, 𝜑 ∈ Φ. Per il Lemma 11.11, fissato un qualunque insieme finito e non vuoto 𝐹 ⊆ 𝐶 ∗ (𝑋), gli associamo un elemento 𝑥𝐹 ∈ 𝑋 tale che ∑𝑔∈𝐹 |𝜑(𝑔)−𝑔(𝑥𝐹 )| < 1. Dati ora una funzione 𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋) e un 𝜀 > 0, prendiamo 𝐹0 ∶= {𝑓 /𝜀} e sia 𝐹 ⊇ 𝐹0 . La condizione ∑𝑔∈𝐹 |𝜑(𝑔)−𝑔(𝑥𝐹 )| < 1 implica ∑𝑔∈𝐹0 |𝜑(𝑔)−𝑔(𝑥𝐹 )| < 1 che equivale a |𝜑(𝑓 /𝜀)−𝑓 (𝑥𝐹 )/𝜀| < 1 e quindi |𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| < 𝜀. Viceversa, supponiamo assegnati una famiglia (𝑥𝐹 )𝐹 ∈ℱ che soddisfa alla (11.3) e un funzionale lineare 𝜑 ∶ 𝐶 ∗ (𝑋) → ℝ. Fissato 𝑓 ∶= 𝟙, per un 𝜀 > 0 arbitrario si ha che esiste un insieme finito 𝐹1 tale che, per ogni 𝐹 ⊇ 𝐹1 , si ha |𝜑(𝟙) − 𝟙(𝑥𝐹 )| = |𝜑(𝟙) − 1| < 𝜀. Per l’arbitrarietà di 𝜀, si conclude che è 𝜑(𝟙) = 1. Sia ora 𝑓 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋) arbitraria e fissiamo un 𝜀 > 0. Scrivendo la condizione (11.3) per la 𝑓 e poi per la |𝑓 |, si ottengono due insiemi 𝐹1 , 𝐹2 ∈ ℱ tali che |𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| < 𝜀, ∀𝐹 ⊇ 𝐹1 ,
|𝜑(|𝑓 |) − |𝑓 |(𝑥𝐹 )| < 𝜀, ∀𝐹 ⊇ 𝐹2 .
11.1. Spazi real-compatti
552
Ponendo 𝐹0 ∶= 𝐹1 ∪ 𝐹2 , per ogni 𝐹 ∈ ℱ , con 𝐹 ⊇ 𝐹0 , si ha
|𝜑(|𝑓 |) − |𝜑(𝑓 )|| ≤ |𝜑(|𝑓 |) − |𝑓 |(𝑥𝐹 )| + ||𝑓 |(𝑥𝐹 ) − |𝜑(𝑓 )|| ≤ ≤ |𝜑(|𝑓 |) − |𝑓 |(𝑥𝐹 )| + |𝑓 (𝑥𝐹 ) − 𝜑(𝑓 )| < 2𝜀.
Per l’arbitrarietà di 𝜀 si ottiene 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|.
Osservazione 11.19. È importante osservare che, analogamente al caso del Lemma 11.11, anche in questo caso non si è usato in alcun punto della precedente dimostrazione il fatto che le funzioni continue 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ siano limitate. Pertanto il lemma continua a valere anche in 𝐶(𝑋). ◁
Teorema 11.20. Per uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏) le seguenti condizioni sono fra loro equivalenti. 1. 𝑋 è real-compatto. 2. Ogni applicazione lineare 𝜑 ∶ 𝐶(𝑋) → ℝ che soddisfa alla condizione 𝜑(𝟙) = 1 e 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, ∀𝑓 ∈ 𝐶(𝑋), è una valutazione. Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Per l’ipotesi di real-compattezza, esiste un insieme di indici 𝐽 tale che 𝑋 è omeomorfo a un sottospazio chiuso di ℝ𝐽 . Anzi, penseremo direttamente 𝑋 come sottospazio di ℝ𝐽 e, pertanto, ogni elemento di 𝑋 come 𝑥 ∶= (𝑥𝛼 )𝛼∈𝐽 . Sia 𝜑 ∶ 𝐶(𝑋) → ℝ un’applicazione lineare soddisfacente alle ipotesi della 2. Per il Lemma 11.18 e l’Osservazione 11.19, in corrispondenza a 𝜑, esiste una famiglia (𝑥𝐹 )𝐹 ∈ℱ soddisfacente alla (11.3). Applicando tale proprietà alla 𝑓 ∶= 𝑝𝛼 (proiezione di indice 𝛼), si ha (∀𝜀 > 0)(∃𝐹0 ∈ ℱ )(∀𝐹 (∈ ℱ ) ⊇ 𝐹0 )(|𝜑(𝑝𝛼 ) − 𝑝𝛼 (𝑥𝐹 )| < 𝜀).
Consideriamo ora l’elemento 𝑤 ∶= (𝜑(𝑝𝛼 ))𝛼∈𝐽 ∈ ℝ𝐽 . Per quanto appena dimostrato, sappiamo che, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 e per ogni 𝜀 > 0, esiste un elemento 𝑧 ∶= 𝑥𝐹 ∈ 𝑋 tale che |𝑤𝛼 − 𝑧𝛼 | < 𝜀. Questo prova che 𝑤 ∈ clℝ𝐽 𝑋 = 𝑋 per la 1. Di conseguenza, la precedente condizione può essere riscritta nella forma: (∀𝜂 > 0)(∃𝐹𝛼 ∈ ℱ )(∀𝐹 (∈ ℱ ) ⊇ 𝐹𝛼 )(|𝑤𝛼 − 𝑝𝛼 (𝑥𝐹 )| < 𝜂).
(11.4)
(∀𝜀 > 0)(∃𝐹1 ∈ ℱ )(∀𝐹 (∈ ℱ ) ⊇ 𝐹1 )(|𝑓 (𝑤) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| < 𝜀).
(11.5)
Fissiamo ora 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) e dimostriamo che vale la seguente proprietà:
Infatti, dato 𝜀 > 0, per la continuità della funzione 𝑓 in 𝑤 ∈ 𝑋, esiste un intorno aperto 𝑈 di 𝑤 tale che |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (𝑤)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑈 . Per definizione di topologia prodotto, esiste un insieme finito di indici 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 e un 𝜀′ > 0 tali che 𝑈 ⊇ ∏𝛼∈𝐽 𝐴𝛼 , con 𝐴𝛼 ∶= ]𝑤𝛼 − 𝜀′ , 𝑤𝛼 + 𝜀′ [, ∀𝛼 ∈ 𝐽 ′ e 𝐴𝛼 ∶= ℝ altrimenti. Per la (11.4) applicata a 𝜂 ∶= 𝜀′ , determiniamo un insieme finito 𝐹1 ∶= ⋃𝛼∈𝐽 ′ 𝐹𝛼 tale che 𝑥𝐹 ∈ 𝑈 , ∀𝐹 ⊇ 𝐹1 , da cui segue la nostra affermazione. In fine, un confronto fra la (11.5) e la condizione (∀𝜀 > 0)(∃𝐹0 ∈ ℱ )(∀𝐹 (∈ ℱ ) ⊇ 𝐹0 )(|𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| < 𝜀),
11.1. Spazi real-compatti
553
che segue dalla (11.3), si ha, per 𝐹 ∶= 𝐹0 ∪ 𝐹1 ,
|𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑤)| ≤ |𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| + |𝑓 (𝑥𝐹 ) − 𝑓 (𝑤)| < 2𝜀.
Da cui, per l’arbitrarietà di 𝜀, si ha 𝜑(𝑓 ) = 𝑓 (𝑤). Ciò vale per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) e pertanto, per l’arbitrarietà di 𝑓 , concludiamo che 𝜑(𝑓 ) = 𝛿 𝑤 (𝑓 ), ∀𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) e che quindi 𝜑 è una valutazione. 2 ⇒ 1. Sia 𝑒 ∶ 𝑋 → ℝ𝐶(𝑋) la consueta mappa di valutazione definita da 𝑒(𝑥) ∶= 𝛿 𝑥 . Per il Lemma 10.26, abbiamo che 𝑒(𝑋), come sottospazio di ℝ𝐶(𝑋) , è omeomorfo a 𝑋. La chiusura di 𝑒(𝑋) in ℝ𝐶(𝑋) è costituita dai funzionali lineari di 𝐶(𝑋) tali che 𝜑(𝟙) = 1 e 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, ∀𝑓 ∈ 𝐶(𝑋). La verifica di questo fatto, che corrisponde al Corollario 11.13, segue dal Lemma 11.11, tenendo conto dell’Osservazione 11.12. Per la 2, tutti i funzionali di questo tipo sono valutazioni; si ha cioè cl 𝑒(𝑋) = 𝑒(𝑋). Abbiamo in definitiva dimostrato che 𝑋 è omeomorfo a un sottospazio chiuso dello spazio prodotto ℝ𝐶(𝑋) ed è quindi real-compatto. In conclusione, dei tre modi diversi utilizzati per introdurre la compattificazione di Stone-Čech di uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏), uno è basato su una variante del concetto di ultrafiltro (𝑧-ultrafiltro), e gli altri due utilizzano, rispettivamente, le funzioni continue da 𝑋 in [0, 1] e le funzioni continue e limitate da 𝑋 in ℝ. Considerare le funzioni continue da 𝑋 in [0, 1] ha il vantaggio di immergere 𝑋 nello spazio compatto 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) . D’altra parte, lo spazio 𝐶(𝑋, 𝐼) non è uno spazio vettoriale; quindi l’ultimo approccio visto ha il vantaggio di inquadrare la compattificazione di Stone-Čech nell’ambito della teoria degli spazi di funzioni. In questo caso, il passaggio cruciale per dimostrare che 𝑋 si immerge in uno spazio compatto è il Teorema di Banach-Alaoglu 7.129 che ci ha permesso di verificare la compattezza dell’insieme Φ. Questo passaggio cruciale viene a mancare se, al posto di 𝐶 ∗ (𝑋) si utilizza 𝐶(𝑋). Nella dimostrazione dell’ultimo teorema si è sfruttato il fatto che alcune proprietà dei funzionali lineari 𝜑 di 𝐶 ∗ (𝑋) continuano a valere in 𝐶(𝑋). Prima di procedere ulteriormente, conviene riassumere in un lemma una serie di proprietà fra loro equivalenti che riguardano i funzionali lineari di 𝐶(𝑋). Lemma 11.21. Per uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏) e un funzionale lineare 𝜑 ∶ 𝐶(𝑋) → ℝ, le seguenti affermazioni sono equivalenti: 1. 𝜑(𝟙) = 1 e 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, ∀𝑓 ∈ 𝐶(𝑋); 2. 𝜑 è non nullo e 𝜑(𝑓 ⋅ 𝑔) = 𝜑(𝑓 ) ⋅ 𝜑(𝑔), , ∀𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋); 3. se 𝑔 ∶ ℝ → ℝ è continua, allora 𝜑(𝑔 ∘ 𝑓 ) = 𝑔(𝜑(𝑓 )), ∀𝑓 ∈ 𝐶(𝑋); 4. per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ e per ogni famiglia finita di funzioni 𝑓1 , … , 𝑓𝑛 ∈ 𝐶(𝑋), esiste un 𝑢 ∈ 𝑋 tale che 𝑛
∑ 𝑖=1
|𝜑(𝑓𝑖 ) − 𝑓𝑖 (𝑢)| =
𝑛
∑ 𝑖=1
|𝜑(𝑓𝑖 ) − 𝛿 𝑢 (𝑓𝑖 )| < 1;
5. per ogni successione (𝑓𝑛 )𝑛 in 𝐶(𝑋), esiste un 𝑢 ∈ 𝑋 tale che 𝜑(𝑓𝑛 ) = 𝑓𝑛 (𝑢), ∀𝑛 ∈ ℕ;
11.1. Spazi real-compatti
554
6. per ogni 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋), esiste 𝑢 ∈ 𝑋 tale che 𝜑(𝑓 ) = 𝑓 (𝑢) e 𝜑(𝑔) = 𝑔(𝑢).
Dimostrazione. 1 ⇒ 4. È stata provata nel Lemma 11.11, tenuto conto dell’Osservazione 11.12. 4 ⇒ 1. Questa implicazione è stata, in sostanza, verificata nel corso della dimostrazione del Lemma 11.18 (cfr. Osservazione 11.19). Per completezza, vediamo di ripercorrere i passi principali. Per prima cosa, indicata ancora con ℱ la famiglia dei sottoinsiemi finiti di 𝐶(𝑋), dalla 4 si dimostra che, per ogni 𝐹 ∈ ℱ , esiste un elemento 𝑥𝐹 ∈ 𝑋 tale che la famiglia (𝑥𝐹 )𝐹 ∈ℱ soddisfa alla seguente proprietà: (∀𝑓 ∈ 𝐶(𝑋))(∀𝜀 > 0)(∃𝐹0 ∈ ℱ ) (∀𝐹 (∈ ℱ ) ⊇ 𝐹0 )(|𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| < 𝜀).
(11.6)
Successivamente, fissato 𝑓 ∶= 𝟙, per un 𝜀 > 0 arbitrario si ha che esiste un insieme finito 𝐹1 tale che, per ogni 𝐹 ⊇ 𝐹1 , si ha |𝜑(𝟙) − 𝟙(𝑥𝐹 )| = |𝜑(𝟙) − 1| < 𝜀. Per l’arbitrarietà di 𝜀, si conclude che è 𝜑(𝟙) = 1. In fine, dati 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) ed 𝜀 > 0 arbitrari, scriviamo la condizione (11.6) per la 𝑓 e poi per la |𝑓 |. Si ottengono due insiemi 𝐹1 , 𝐹2 ∈ ℱ tali che |𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| < 𝜀, ∀𝐹 (∈ ℱ ) ⊇ 𝐹1 ,
|𝜑(|𝑓 |) − |𝑓 |(𝑥𝐹 )| < 𝜀, ∀𝐹 (∈ ℱ ) ⊇ 𝐹2 .
Ponendo 𝐹0 ∶= 𝐹1 ∪ 𝐹2 , per ogni 𝐹 ∈ ℱ , con 𝐹 ⊇ 𝐹0 , si ha
|𝜑(|𝑓 |) − |𝜑(𝑓 )|| ≤ |𝜑(|𝑓 |) − |𝑓 |(𝑥𝐹 )| + ||𝑓 |(𝑥𝐹 ) − |𝜑(𝑓 )|| ≤ ≤ |𝜑(|𝑓 |) − |𝑓 |(𝑥𝐹 )| + |𝑓 (𝑥𝐹 ) − 𝜑(𝑓 )| < 2𝜀.
Per l’arbitrarietà di 𝜀 si ottiene 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|. 1 ⇒ 2. Dalla 𝜑(𝟙) = 1 si ha intanto banalmente che 𝜑 non è nulla. Dato che, come si è visto, la 1 è equivalente alla 4, sussiste anche la formula (11.6). Immaginiamo, fissato un 𝜀 ∈ ]0, 1[ arbitrario, di applicarla separatamente alle funzioni 𝑓 , 𝑔, 𝑓 𝑔, ottenendo, rispettivamente, tre insiemi finiti 𝐹1 , 𝐹2 , 𝐹3 . Prendendo 𝐹 ∶= 𝐹1 ∪ 𝐹2 ∪ 𝐹3 , si ha che per l’elemento 𝑥𝐹 valgono le diseguaglianze: |𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| < 𝜀;
|𝜑(𝑔) − 𝑔(𝑥𝐹 )| < 𝜀;
|𝜑(𝑓 𝑔) − 𝑓 (𝑥𝐹 )𝑔(𝑥𝐹 )| < 𝜀.
Si ottiene
|𝜑(𝑓 𝑔) − 𝜑(𝑓 )𝜑(𝑔)| ≤ |𝜑(𝑓 𝑔) − 𝑓 (𝑥𝐹 )𝜑(𝑔)| + |𝑓 (𝑥𝐹 )𝜑(𝑔) − 𝜑(𝑓 )𝜑(𝑔)| ≤ ≤ |𝜑(𝑓 𝑔) − 𝑓 (𝑥𝐹 )𝑔(𝑥𝐹 )| + |𝑓 (𝑥𝐹 )𝑔(𝑥𝐹 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )𝜑(𝑔)| + 𝜀|𝜑(𝑔)| < < 𝜀 + 𝜀|𝑓 (𝑥𝐹 )| + 𝜀|𝜑(𝑔)| ≤ 𝜀(2 + |𝜑(𝑓 )| + |𝜑(𝑔)|) = 𝐾𝜀.
Dall’arbitrarietà di 𝜀 segue la tesi. 2 ⇒ 1. Dalla 2 segue immediatamente che, per ogni funzione 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋), si ha 𝜑(𝑓 2 ) = (𝜑(𝑓 ))2 . Poiché ogni funzione non negativa si può scrivere come il
11.1. Spazi real-compatti
555
quadrato della sua radice quadrata, abbiamo che 𝜑(𝑔) ≥ 0, per ogni 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋) con 𝑔 ≥ 0. Da questa proprietà, si ottiene (𝜑(|𝑓 |))2 = 𝜑(|𝑓 |2 ) = 𝜑(𝑓 2 ) = (𝜑(𝑓 ))2 ; passando alla radice quadrata e osservando che è 𝜑(|𝑓 |) ≥ 0, si ha che 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|. Inoltre, dato che, per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋), si ha 𝑓 = 𝑓 ⋅ 𝟙, si ottiene 𝜑(𝑓 ) = 𝜑(𝑓 ⋅ 𝟙) = 𝜑(𝑓 ) ⋅ 𝜑(𝟙), da cui 𝜑(𝟙) = 1, dato che, per ipotesi, 𝜑 non è identicamente nulla. 1 ⇒ 3. Sia data una funzione continua 𝑔 ∶ ℝ → ℝ e fissiamo un 𝜀 ∈ ]0, 1[ arbitrario. Per la continuità di 𝑔 nel punto 𝜑(𝑓 ), esiste un 𝛿 > 0 per cui si ha |𝑔(𝑡) − 𝑔(𝜑(𝑓 ))| < 𝜀 per |𝑡 − 𝜑(𝑓 )| < 𝛿. Possiamo, come sopra, utilizzare la (11.6). Immaginiamo di applicarla una prima volta alla funzione 𝑔 ∘ 𝑓 (in corrispondenza a 𝜀) e, una seconda volta, alla funzione 𝑓 (in corrispondenza a 𝛿). Ciò fornisce due insiemi finiti 𝐹1 , 𝐹2 tali che, per 𝐹 ∶= 𝐹1 ∪ 𝐹2 , esiste un elemento 𝑥𝐹 per cui valgono le diseguaglianze: |𝜑(𝑔 ∘ 𝑓 ) − 𝑔(𝑓 (𝑥𝐹 ))| < 𝜀;
Si ottiene
|𝜑(𝑓 ) − 𝑓 (𝑥𝐹 )| < 𝛿;
|𝑔(𝜑(𝑓 )) − 𝑔(𝑓 (𝑥𝐹 ))| < 𝜀.
|𝜑(𝑔 ∘ 𝑓 ) − 𝑔(𝜑(𝑓 ))| ≤ |𝜑(𝑔 ∘ 𝑓 ) − 𝑔(𝑓 (𝑥𝐹 ))| + |𝑔(𝑓 (𝑥𝐹 )) − 𝑔(𝜑(𝑓 ))| < 2𝜀.
Dall’arbitrarietà di 𝜀 segue la tesi. 3 ⇒ 1. Basta prendere come 𝑔 la funzione di valore costante 1 e poi la funzione valore assoluto. 1 ⇒ 5. Preliminarmente, ricordiamo che, come già sottolineato, una 𝜑 che soddisfa alla 1 preserva l’ordine e inoltre 𝜑(𝑓 ∨ 𝑔) = 𝜑(𝑓 ) ∨ 𝜑(𝑔) e 𝜑(𝑓 ∧ 𝑔) = 𝜑(𝑓 ) ∧ 𝜑(𝑔), per ogni 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋) (cfr. Teorema 11.15). Un’altra proprietà che ci sarà utile è la seguente: se 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋) non si annulla mai, allora è 𝜑(𝑔) ≠ 0. Infatti, se 𝑔 non si annulla mai, 1/𝑔 ∈ 𝐶(𝑋) e 𝑔 ⋅ 1/𝑔 = 𝟙, per cui (utilizzando anche la 2 che è equivalente alla 1), si ha 1 = 𝜑(𝟙) = 𝜑(𝑔 ⋅ 1/𝑔) = 𝜑(𝑔)𝜑(1/𝑔), da cui 𝜑(𝑔) ≠ 0. Sia data la successione (𝑓𝑛 )𝑛 in 𝐶(𝑋) e, a partire da questa, definiamo una nuova successione (𝑔𝑛 )𝑛 ponendo 𝑔𝑛 (𝑥) ∶= min{|𝑓𝑛 (𝑥) − 𝜑(𝑓𝑛 )|, 2−𝑛 }.
Sia, inoltre, 𝑔(𝑥) ∶= ∑∞ 𝑛=0 𝑔𝑛 (𝑥). Per costruzione, le 𝑔𝑛 sono tutte continue. È immediato constatare che anche la 𝑔 è continua in quanto limite uniforme della successione delle somme parziali, che sono continue (cfr. Teoremi 2.12 e 9.29). Si ha 𝜑(𝑔𝑛 ) = min{|𝜑(𝑓𝑛 ) − 𝜑(𝑓𝑛 ) ⋅ 𝜑(𝟙)|, 2−𝑛 ⋅ 𝜑(𝟙)} e quindi 𝜑(𝑔𝑛 ) = 0, ∀𝑛 ∈ ℕ. Inoltre, si ha 0 ≤ 𝑔𝑛 ≤ 2−𝑛 ⋅ 𝟙, da cui, preso un 𝑘 ∈ ℕ+ , ∑
𝑛≥𝑘
Si ottiene quindi |𝜑(𝑔)| = 𝜑(𝑔) = 𝜑(
∑
𝑛∈ℕ
𝑔𝑛 ≤ 2−𝑘+1 ⋅ 𝟙.
𝑔𝑛 ) = 𝜑 (
𝑘
∑ 𝑛=1
𝑔𝑛 ) + 𝜑(
∑
𝑛≥𝑘
𝑔𝑛 ) ≤ 0 +
1 . 2𝑘−1
11.1. Spazi real-compatti
556
Dall’arbitrarietà di 𝑘, si ottiene 𝜑(𝑔) = 0. Per quanto visto all’inizio, la 𝑔 si annulla in almeno un punto. Sia esso 𝑢. Da 𝑔(𝑢) = 0 segue 𝑔𝑛 (𝑢) = 0, ∀𝑛 ∈ ℕ e quindi 𝑓𝑛 (𝑢) = 𝜑(𝑓𝑛 ), ∀𝑛 ∈ ℕ. 5 ⇒ 6. Ovvio. (Si prenda 𝑓0 ∶= 𝑓 e 𝑓𝑛 ∶= 𝑔, ∀𝑛 ∈ ℕ+ .) 6 ⇒ 1. Da 𝑓 = 𝑔 = 𝟙, esiste un elemento 𝑢 ∈ 𝑋 tale che 𝜑(𝟙) = 𝟙(𝑢) = 1. Prendendo poi le due funzioni 𝑓 e |𝑓 |, esiste un 𝑢 ∈ 𝑋 tale che 𝜑(𝑓 ) = 𝑓 (𝑢) e 𝜑(|𝑓 |) = |𝑓 (𝑢)| e quindi |𝜑(𝑓 )| = 𝜑(|𝑓 |). Da questo risultato segue il seguente teorema.
Teorema 11.22. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare che soddisfa alla seguente proprietà: esiste un sottoinsieme numerabile di funzioni ℱ ⊆ 𝐶(𝑋) che separa i punti di 𝑋 (cfr. Definizione 10.25). Allora 𝑋 è real-compatto.
Dimostrazione. Sia 𝜑 ∶ 𝐶(𝑋) → ℝ un funzionale lineare tale che 𝜑(𝟙) = 1 e 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, ∀𝑓 ∈ 𝐶(𝑋). Ci proponiamo di dimostrare che 𝜑 è una valutazione. La tesi seguirà dal Teorema 11.20. Sia ℱ =∶ (𝑓𝑛 )𝑛 , 𝑛 ∈ ℕ+ . Per il lemma precedente, esiste un elemento 𝑢 ∈ 𝑋 tale che 𝜑(𝑓𝑛 ) = 𝑓𝑛 (𝑢), ∀𝑛 ∈ ℕ+ . Scelta una funzione arbitraria 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋), consideriamo in 𝐶(𝑋) la nuova successione di funzioni ottenuta dalla precedente aggiungendo 𝑓0 ∶= 𝑓 . Riapplicando il lemma precedente alla nuova successione, abbiamo che esiste un elemento 𝑣 ∈ 𝑋 tale che 𝜑(𝑓𝑛 ) = 𝑓𝑛 (𝑣), ∀𝑛 ∈ ℕ; in particolare, è 𝜑(𝑓 ) = 𝑓 (𝑣). Abbiamo trovato inizialmente un punto 𝑢 dipendente da ℱ e, successivamente, un ulteriore punto 𝑣 dipendente da ℱ ∪ {𝑓 }. Confrontando le relazioni viste sopra, abbiamo che 𝑓𝑛 (𝑢) = 𝜑(𝑓𝑛 ) = 𝑓𝑛 (𝑣), ∀𝑛 ∈ ℕ+ . Siccome, per ipotesi, ℱ separa i punti, si conclude che è 𝑢 = 𝑣 e quindi 𝜑(𝑓 ) = 𝑓 (𝑢). In conclusione, abbiamo trovato un punto 𝑢 ∈ 𝑋 (dipendente da ℱ , ma non da 𝑓 ) tale che 𝜑(𝑓 ) = 𝑓 (𝑢), ∀𝑓 ∈ 𝐶(𝑋). Si ottiene che 𝜑 è la valutazione 𝛿 𝑢 . Corollario 11.23. Ogni spazio metrico separabile (𝑋, 𝑑) è real-compatto.
Dimostrazione. Sia 𝐸 ∶= {𝑧𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } un sottoinsieme numerabile e denso in 𝑋. Definiamo, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , la funzione 𝑓𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ ponendo 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 𝑑(𝑥, 𝑧𝑛 ). Le 𝑓𝑛 sono continue (cfr. Teorema 3.71). Verifichiamo che la famiglia ℱ ∶= {𝑓𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } separa i punti. Infatti, dati 𝑢, 𝑣 ∈ 𝑋, con 𝑢 ≠ 𝑣, e posto 𝛿 ∶= 𝑑(𝑢, 𝑣), per la densità di 𝐸 in 𝑋, esiste un elemento 𝑧 ∶= 𝑧𝑘 ∈ 𝐸 tale che 𝑑(𝑢, 𝑧) < 𝛿/2. Per la funzione 𝑓 ∶= 𝑓𝑘 ∈ ℱ , abbiamo 𝑓 (𝑢) = 𝑑(𝑢, 𝑧) < 𝛿/2;
𝑓 (𝑣) = 𝑑(𝑧, 𝑣) ≥ 𝑑(𝑢, 𝑣) − 𝑑(𝑢, 𝑧) > 𝛿/2.
Si conclude che è 𝑓 (𝑢) ≠ 𝑓 (𝑣). Per il teorema precedente, si ottiene che (𝑋, 𝑑), che ovviamente è uno spazio completamente regolare, è real-compatto. È ancora un problema aperto quello di stabilire se il precedente risultato sussiste anche senza l’ipotesi di separabilità. Sono stati costruiti dei controesempi di spazi metrici non real-compatti utilizzando ipotesi aggiuntive di teoria degli insiemi sui cardinali misurabili.
11.1. Spazi real-compatti
557
Teorema 11.24. Ogni spazio topologico (𝑋, 𝜏) di Lindelöf e completamente regolare è real-compatto.
Dimostrazione. Sia 𝜑 un funzionale lineare di 𝐶(𝑋) tale che 𝜑(𝟙) = 1 e 𝜑(|𝑓 |) = |𝜑(𝑓 )|, ∀𝑓 ∈ 𝐶(𝑋). Ci proponiamo, come nel Teorema 11.22, di dimostrare che 𝜑 è una valutazione. Per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋), introduciamo l’insieme 𝐶𝑓 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝜑(𝑓 ) = 𝑓 (𝑥)} e sia 𝐴𝑓 il suo complementare in 𝑋. Poiché 𝑓 è continua e 𝜑(𝑓 ) è un valore reale fissato (in dipendenza da 𝑓 ), abbiamo che, per ogni 𝑓 , 𝐶𝑓 è chiuso e quindi 𝐴𝑓 è aperto in 𝑋. Con queste notazioni, si ha che 𝜑 è una valutazione se e solo se l’intersezione di tutti i 𝐶𝑓 è non vuota (Esercizio!). Supponiamo, per assurdo, che 𝜑 non sia una valutazione. Allora ⋂𝑓 ∈𝐶(𝑋) 𝐶𝑓 = ∅ e, di conseguenza gli 𝐴𝑓 costituiscono un ricoprimento aperto dello spazio 𝑋. Essendo questo di Lindelöf, esiste un sottoricoprimento numerabile. ossia una successione di funzioni continue (𝑓𝑛 )𝑛 da 𝑋 a ℝ tale che ⋃𝑛∈ℕ 𝐴𝑓𝑛 = 𝑋 e quindi ⋂𝑛∈ℕ 𝐶𝑓𝑛 = ∅. D’altra parte, per il Lemma 11.21, esiste un 𝑢 ∈ 𝑋 tale che 𝜑(𝑓𝑛 ) = 𝑓𝑛 (𝑢), ∀𝑛 ∈ ℕ, per cui 𝑢 ∈ 𝐶𝑓𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ. Assurdo. Corollario 11.25. Lo spazio topologico (ℝ, 𝜏 + ) [(ℝ, 𝜏 − )] è real-compatto.
Dimostrazione. Sappiamo che la retta reale con la topologia destra [sinistra] di Sorgenfrey è uno spazio normale (Corollario 1.103) e di Lindelöf (Esempio 7.105). La tesi segue dal teorema precedente. Chiedere che lo spazio, oltre che di Lindelöf, sia anche completamente regolare non è ridondante. Infatti esistono spazi di Lindelöf non completamente regolari, pur essendo di Hausdorff. Lo spazio dell’inclinazione irrazionale (cfr. Esempio 1.90) è infatti uno spazio di Hausdorff non 𝑇3 e quindi nemmeno regolare. Tuttavia esso è 𝐴2 e pertanto di Lindelöf. Sappiamo che ogni spazio real-compatto è completamente regolare (cfr. Teorema 11.6). È naturale chiedersi se è anche normale. La risposta è negativa, come mostra l’esempio che segue. Esempio 11.26. Sia 𝑋 ∶= ℝℝ . Questo è chiaramente real-compatto. proviamo che non è normale. Per il Teorema 1.106 (cfr. anche Teorema 2.119) basta mostrare che esiste un suo sottoinsieme chiuso che non è normale. A tale scopo, consideriamo il sottospazio 𝑌 ∶= ℕℝ . Per quanto visto nell’Esempio 6.38, sappiamo che 𝑌 non è normale. Per concludere l’esempio, verifichiamo che 𝑌 è un sottospazio chiuso di 𝑋. Fissiamo 𝑧 ∶= (𝑧𝛼 )𝛼∈ℝ , con 𝑧 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑌 . Per definizione, esiste almeno un indice 𝑗 ∈ ℝ tale che 𝑧𝑗 ∉ ℕ. Sia quindi 𝜀 > 0 tale che ]𝑧𝑗 − 𝜀, 𝑧𝑗 + 𝜀[ ∩ ℕ = ∅. L’intorno aperto di 𝑧 dato da ∏𝛼∈ℝ 𝐴𝛼 , con 𝐴𝑗 ∶= ]𝑧𝑗 − 𝜀, 𝑧𝑗 + 𝜀[ e 𝐴𝛼 ∶= ℝ, per 𝛼 ≠ 𝑗 non contiene punti di 𝑌 e quindi 𝑧 non gli è aderente. (Cfr. Osservazione 6.8.) ◁ Esistono anche spazi normali che non sono real-compatti. Il relativo esempio verrà prodotto nel capitolo sugli ordinali.
11.1. Spazi real-compatti
558
Teorema 11.27. Il prodotto arbitrario di spazi real-compatti è real-compatto.
Dimostrazione. Sia 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐾 𝑋𝛼 , con 𝑋𝛼 real-compatto per ogni 𝛼 ∈ 𝐾. Per definizione, ogni 𝑋𝛼 è omeomorfo a un sottospazio chiuso di ℝ𝐽𝛼 , per un opportuno insieme di indici 𝐽𝛼 . Per comodità, pensiamo ogni 𝑋𝛼 come sottoinsieme chiuso di ℝ𝐽𝛼 . Senza perdita di generalità, possiamo supporre che gli insiemi di indici 𝐽𝛼 siano a due a due disgiunti. Di conseguenza, lo spazio 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐾 𝑋𝛼 è un sottospazio del prodotto ∏𝛼∈𝐾𝛽∈𝐽𝛼 ℝ𝛼𝛽 , con ℝ𝛼𝛽 ∶= ℝ, ∀𝛼, 𝛽. Posto 𝐽 ∶= ⋃ 𝐽𝛼 , identificheremo la spazio ∏𝛼∈𝐾𝛽∈𝐽𝛼 ℝ𝛼𝛽 con ℝ𝐽 ad esso omeomorfo (cfr. Teorema 6.16). Si tratta di verificare che 𝑋 è chiuso in ℝ𝐽 . Fissiamo un elemento 𝑧 ∶= (𝑧𝛼̂ )𝛼∈𝐾 ∈ ℝ𝐽 ⧵ 𝑋, con 𝑧𝛼̂ ∶= (𝑧𝛼𝛽 )𝛽∈𝐽𝛼 , ∀𝛼 ∈ 𝐾. Esiste almeno un indice 𝛼 ∗ ∈ 𝐾 tale che 𝑧𝛼̂ ∗ ∉ 𝑋𝛼∗ . Essendo, per ipotesi, 𝑋𝛼∗ chiuso in ℝ𝐽𝛼∗ , esiste un intorno aperto 𝑈𝛼∗ di 𝑧𝛼̂ ∗ disgiunto da 𝑋𝛼∗ . L’insieme 𝑊 ∶= ∏𝛼∈𝐾 𝐴𝛼 , con 𝐴𝛼∗ ∶= 𝑈𝛼∗ e 𝐴𝛼 ∶= ℝ𝐽𝛼 , per ogni 𝛼 ≠ 𝛼 ∗ , è un intorno aperto di 𝑧 disgiunto da 𝑋. (Si confronti anche l’Osservazione 6.8.) Non sussiste l’implicazione opposta del Teorema 11.24.
Esempio 11.28. Sia (𝑋, 𝜏) il prodotto dello spazio (ℝ, 𝜏 + ) per se stesso (piano di Sorgenfrey). Per il teorema precedente e il Corollario 11.25, (𝑋, 𝜏) è real-compatto. Sappiamo che esso non è di Lindelöf (Esempio 7.105); non è paracompatto (Esempio 8.13); non è normale (Esempio 6.40). ◁ Proseguendo nella lista di analogie fra compattezza e real-compattezza, introduciamo la seguente definizione.
Definizione 11.29. Siano (𝑊 , 𝜏) uno spazio topologico e 𝑋 un suo sottospazio. 𝑋 si dice 𝐶-immerso (𝐶-embedded) in 𝑊 se ogni applicazione continua da 𝑋 in ℝ si può prolungare a una funzione continua definita su tutto 𝑊 . (Si veda la Definizione 10.36.) ◁ Lemma 11.30. Siano (𝑊 , 𝜏) uno spazio topologico e 𝑋 un suo sottospazio denso e 𝐶-immerso in 𝑊 . Sia inoltre 𝑓 ∶ 𝑊 → ℝ una funzione continua che si annulla in un punto 𝑧 ∈ 𝑊 , allora 𝑓 si annulla in almeno un punto di 𝑋.
Dimostrazione. Ovviamente, possiamo pensare 𝑧 ∈ 𝑊 ⧵ 𝑋. Supponiamo, per assurdo, che 𝑓 non si annulli in 𝑋. Possiamo allora considerare la funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑔(𝑥) ∶= 1/|𝑓 (𝑥)|, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Poiché 𝑋 è 𝐶-immerso in 𝑊 , la funzione 𝑔 può essere prolungata per continuità a una funzione 𝑔 ̂ ∶ 𝑊 → ℝ. La funzione continua ℎ ∶ 𝑋 → ℝ definita da ℎ(𝑥) ∶= |𝑓 (𝑥)|𝑔(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋 vale costantemente 1 su tutto 𝑋; essa si prolunga in modo unico a tutto 𝑊 nella funzione |𝑓 (𝑥)|𝑔(𝑥) ̂ che quindi deve valere costantemente 1 su tutto 𝑊 , contro il fatto che 𝑓 si annulla in almeno un punto.
11.1. Spazi real-compatti
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Osservazione 11.31. Abbiamo visto un risultato apparentemente simile nel Lemma 11.8. Tuttavia, in quel risultato non si diceva nulla su dove si trovasse il secondo punto di annullamento della funzione. Infatti, il lemma appena visto non vale nell’ipotesi più debole che 𝑋 sia 𝐶 ∗ -immerso in 𝑊 . Per esempio, consideriamo la funzione 𝑓 ∶ ℕ → ℝ definita da 𝑓 (𝑛) ∶= 1/(𝑛 + 1). Questa funzione è chiaramente continua e limitata; ℕ è 𝐶 ∗ -immerso in 𝛽ℕ (cfr. Teorema 10.37) e la funzione 𝑓 si può estendere per continuità a una funzione ̂ 𝑓 ̂ ∶ 𝛽ℕ → ℝ ponendo 𝑓 (𝑥) ∶= 0, ∀𝑥 ∈ 𝛽ℕ ⧵ ℕ. Per la funzione 𝑓 ̂ non vale il risultato precedente. Osserviamo ancora che, se lo spazio 𝑊 del lemma precedente è completamente regolare, allora 𝑓 si annulla in infiniti punti di 𝑋. Per verificare questo fatto, si dimostra dapprima che 𝑓 si annulla in almeno due punti di 𝑋. Infatti, per assurdo, se oltre a 𝑧 ∈ 𝑊 ⧵ 𝑋, 𝑓 si annulla solo in un punto 𝑥1 ∈ 𝑋, si prende una funzione 𝑓1 ∶ 𝑊 → ℝ tale che 𝑓1 (𝑥1 ) ∶= 1 e 𝑓1 (𝑧) ∶= 0. A questo punto la funzione |𝑓 | + |𝑓1 | si annulla in 𝑧, ma non in 𝑋, contro il lemma precedente. A questo punto si procede per induzione (Esercizio!). ◁ Il Lemma 11.30 è utile nel dimostrare proprietà relative alla real-compattificazione, che ora introduciamo. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare. Data una funzione 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋), possiamo immaginarla come una funzione continua da 𝑋 nel compatto 𝛼ℝ = ℝ ∪ {∞}. Per la proprietà universale della compattificazione di Stone-Čech (cfr. Teorema 10.30), 𝑓 ammette un prolungamento continuo 𝑓 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → 𝛼ℝ. Naturalmente, in questa estensione ci possono essere dei punti di 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 in cui 𝑓 ̂ ha valore infinito, come pure punti in cui 𝑓 ̂ assume valori reali. Si denota con 𝜐𝑋 il sottoinsieme di 𝛽𝑋 costituito dai punti in cui tutte le funzioni del tipo 𝑓 ̂ assumono valori reali. Si ha ovviamente 𝑋 ⊆ 𝜐𝑋 ⊆ 𝛽𝑋, con 𝑋 denso in 𝜐𝑋. Per definizione, 𝑋 è 𝐶-immerso in 𝜐𝑋. Inoltre, se esiste un elemento 𝑧 ∈ 𝛽𝑋 ⧵ 𝜐𝑋, deve esistere una funzione 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) che si prolunga per continuità (in modo unico) ̂ = ∞. Ciò prova anche che 𝜐𝑋 è a una funzione 𝑓 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → 𝛼𝑋 tale che 𝑓 (𝑧) l’unico sottospazio di 𝛽𝑋 contenente 𝑋 in cui 𝑋 sia 𝐶-immerso. In conclusione, rispetto a 𝑋, lo spazio 𝜐𝑋 svolge per le 𝐶-immersioni un ruolo analogo a quello di 𝛽𝑋 per le 𝐶 ∗ -immersioni. Definizione 11.32. Dato uno spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏), si chiama sua real-compattificazione l’insieme 𝜐𝑋 sopra definito. ◁ Verrebbe spontaneo a questo punto definire “real-compatto” uno spazio completamente regolare che coincide con la sua real-compattificazione. Questa, per esempio, è strada seguita da alcuni autori (cfr. [81]). Il lettore che abbia la diligenza e la pazienza di ripetere passo passo il procedimento seguito per definire 𝛽𝑋 come chiusura dell’immersione di 𝑋 in 𝐼 𝐶(𝑋,𝐼) (o equivalentemente ∗ in ℝ𝐶 (𝑋) ) può a questo punto immergere 𝑋 in ℝ𝐶(𝑋) , mediante la solita mappa di valutazione e usando il Lemma 10.26, e verificare che 𝜐(𝑋) è omeomorfo alla chiusura di 𝑋 in ℝ𝐶(𝑋,𝐼) . Ciò prova il seguente fatto
11.2. Spazi Čech-completi
560
Teorema 11.33. Uno spazio completamente regolare è real-compatto secondo la Definizione 11.3 se e solo se coincide con la sua real-compattificazione. Si ottengono a questo punto due banali corollari:
Teorema 11.34. Sia (𝑋, 𝜏𝑋 ) uno spazio real-compatto e supponiamo che esso sia un sottospazio denso di uno spazio completamente regolare (𝑌 , 𝜏𝑌 ). Allora, se 𝑌 è diverso da 𝑋, esiste almeno una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ non prolungabile per continuità a tutto 𝑌 . Teorema 11.35. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare e 𝜐𝑋 la sua real-compattificazione. Ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝜐𝑋 → ℝ che si annulla in qualche punto di 𝜐𝑋 si annulla anche in qualche punto di 𝑋. (Si veda il Lemma 11.30.)
Si è visto che la classe degli spazi real-compatti ha delle proprietà di notevole interesse. Tuttavia non insistiamo ulteriormente su questo argomento dati gli scopi di questo libro. Osserviamo soltanto che, a differenza della compattezza, la real-compattezza non si preserva per funzioni continue. Un esempio di spazi 𝑋 e 𝑌 e di una funzione suriettiva e continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 tali che 𝑋 è realcompatto, mentre 𝑌 non lo è si può trovare, per esempio, in [78]. In esso il lettore interessato potrà trovare un’ampia rassegna di proprietà degli spazi realcompatti, soprattutto in relazione con lo spazio 𝐶(𝑋), dotato della topologia della convergenza puntuale.
11.2
Spazi Čech-completi
Affrontiamo ora la cosiddetta completezza secondo Čech. Il problema che si vuole studiare è quello di generalizzare il concetto di completezza visto nel contesto degli spazi metrici al caso di spazi topologici più generali, purché in essi si mantengano valide alcune proprietà che sappiamo vere per gli spazi metrici. In particolare, sappiamo che ogni spazio metrico compatto è completo e che ogni spazio metrico completo ha la proprietà di Baire (cfr. Definizione 9.34 e Teorema 3.62). Un concetto generale di completezza che si presta a tale scopo è quello introdotto da Eduard Čech in un lavoro del 1937, pubblicato su “Annals of Mathematics”, dal titolo On bicompact spaces (cfr. [10]). Čech introdusse questo concetto da lui chiamato “completezza topologica” negli spazi completamente regolari. La motivazione per questo tipo di studi è analoga a quella che porta a considerare il concetto di metrizzabilità. Ricordiamo che il fatto di essere uno spazio metrico, con specifiche proprietà dipendenti dalla distanza, non è una proprietà di tipo topologico nel senso che le proprietà metriche non si conservano necessariamente mediante omeomorfismi. In particolare, vi sono esempi di distanze equivalenti (cioè che inducono la stessa topologia) una sola delle quali rende lo spazio completo (basta prendere su ℝ la distanza euclidea e quella dell’arcotangente, Esempio 3.16). Quindi neanche la completezza (secondo Cauchy) è
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un concetto topologico. D’altra parte, come già osservato nel paragrafo 3.5, la metrizzabilità è invece un concetto topologico (cfr. Teorema 3.107). Vedremo che sarà topologico anche il concetto di completezza secondo Čech; infatti uno dei risultati principali di questa teoria è che, se lo spazio è metrizzabile, esso ha la proprietà di Čech se e solo se è omeomorfo a uno spazio metrico completo. Come sempre, vi possono essere diversi modi per introdurre un concetto. Noi seguiremo una via che è naturale, dopo aver visto la compattificazione di Stone-Čech. Questa è inoltre quella utilizzata dallo stesso Čech. Definizione 11.36. Uno spazio topologico completamente regolare (𝑋, 𝜏) è detto Čech-completo se è un 𝐺𝛿 del compatto 𝛽𝑋. ◁ Dati uno spazio topologico 𝑋 e una sua compattificazione (𝑌 , ℎ) (cfr. Definizione 10.3), identificheremo, per comodità, 𝑋 con la sua immagine omeomorfa ℎ(𝑋) densa in 𝑌 . Osserviamo preliminarmente che chiedere che 𝑋 sia un 𝐺𝛿 in 𝑌 equivale a chiedere che 𝑌 ⧵ 𝑋 sia un 𝐹𝜎 di 𝑌 .
Definizione 11.37. Siano (𝑌 , 𝜏) uno spazio topologico e 𝑋 un suo sottospazio. Se 𝑋 è denso in 𝑌 , si dice che 𝑌 è un’estensione di 𝑋. ◁ Il primo risultato svincola la definizione di Čech-completezza dalla compattificazione di Stone-Čech.
Teorema 11.38. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare. Sono fra loro equivalenti le seguenti condizioni: 1. 𝑋 è Čech-completo. 2. Esiste una compattificazione 𝑇2 di 𝑋 in cui 𝑋 è un 𝐺𝛿 . 3. 𝑋 è un 𝐺𝛿 in ogni sua compattificazione 𝑇2 . 4. Esiste un compatto 𝑇2 in cui 𝑋 è un 𝐺𝛿 . 5. 𝑋 è un 𝐺𝛿 in ogni sua estensione completamente regolare. Dimostrazione. Banalmente, 1 ⇒ 2; proviamo il viceversa. Sia (𝑌 , ℎ) una compattificazione 𝑇2 di 𝑋 in cui esso è un 𝐺𝛿 . Per la proprietà universale di 𝛽𝑋, l’immersione ℎ si può prolungare in una funzione continua ℎ̂ ∶ 𝛽𝑋 → 𝑌 . Per il ̂ ̂ Lemma 10.20, si ha ℎ(𝑋) = ℎ(𝑋) e ℎ(𝛽𝑋 ⧵ 𝑋) = 𝑌 ⧵ ℎ(𝑋). Di conseguenza, si −1 ̂ ottiene ℎ (𝑌 ⧵ ℎ(𝑋)) = 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋. Per ipotesi, 𝑌 ⧵ ℎ(𝑋) è un 𝐹𝜎 ed è quindi tale anche la sua controimmagine 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋. Anche l’implicazione 3 ⇒ 1 è ovvia; proviamo il viceversa. Sia dunque (𝑌 , ℎ) una qualunque compattificazione 𝑇2 di 𝑋. Per ipotesi, 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 è un 𝐹𝜎 e quindi esiste una successione (𝐶𝑛 )𝑛 di chiusi di 𝛽𝑋 tali che 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 = ⋃𝑛 𝐶𝑛 . Per la proprietà universale di 𝛽𝑋, l’immersione ℎ si può prolungare in una funzione ̂ continua ℎ̂ ∶ 𝛽𝑋 → 𝑌 e, sempre per il Lemma 10.20, si ha ℎ(𝑋) = ℎ(𝑋) e ̂ℎ(𝛽𝑋 ⧵ 𝑋) = 𝑌 ⧵ ℎ(𝑋). Quindi 𝑌 ⧵ ℎ(𝑋) = ℎ̂ (
⋃ 𝑛
𝐶𝑛 ) =
⋃ 𝑛
̂ 𝑛) = ℎ(𝐶
⋃ 𝑛
𝐶𝑛′ ;
̂ 𝑛 ), ∀𝑛. 𝐶𝑛′ ∶= ℎ(𝐶
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562
Gli insiemi 𝐶𝑛 sono chiusi di un compatto e sono quindi essi stessi compatti. I 𝐶𝑛′ sono perciò dei compatti dello spazio di Hausdorff 𝑌 e sono pertanto chiusi. Si è così dimostrato che 𝑌 ⧵ ℎ(𝑋) è un 𝐹𝜎 . Ancora banalmente, 1 ⇒ 4; proviamo che 4 ⇒ 2. Sia (𝑌 , 𝜎) un compatto 𝑇2 in cui 𝑋 è un 𝐺𝛿 . Poniamo 𝑍 ∶= cl𝑌 𝑋 e diciamo ℎ l’immersione di 𝑋 in 𝑍. Si ha che (𝑍, ℎ) è una compattificazione 𝑇2 di 𝑋. Per ipotesi, esiste una successione (𝐵𝑛 )𝑛 di aperti di 𝑌 tale che 𝑋 = ⋂𝑛 𝐵𝑛 . Posto, per ogni 𝑛, 𝐴𝑛 ∶= 𝐵𝑛 ∩𝑍, si ha che (𝐴𝑛 )𝑛 è una successione di aperti di 𝑍 la cui intersezione coincide con 𝑋. Si conclude che 𝑋 è un 𝐺𝛿 in 𝑍. Siccome ogni compattificazione 𝑇2 di 𝑋 è una sua estensione completamente regolare, si ha banalmente che 5 ⇒ 3. Proviamo il viceversa. Sia 𝑌 una qualunque estensione completamente regolare di 𝑋. Essendo 𝑋 denso in 𝑌 e 𝑌 denso in 𝛽𝑌 , si ha che 𝑋 è denso anche in 𝛽𝑌 e che quindi 𝛽𝑌 è una compattificazione 𝑇2 di 𝑋. Per ipotesi, 𝑋 è un 𝐺𝛿 di 𝛽𝑌 e, pertanto, anche di 𝑌 (Esercizio!). Corollario 11.39. Ogni spazio topologico di Hausdorff localmente compatto (in particolare compatto) è Čech-completo. Dimostrazione. Ricordiamo che per noi nella definizione di localmente compatto è richiesta la proprietà 𝑇2 (cfr. Definizione 9.59). Inoltre, uno spazio localmente compatto è completamente regolare (cfr. Teorema 9.62). Se 𝑋 è compatto, la tesi è immediata; infatti soddisfa banalmente alla condizione 4 del Teorema 11.38. In caso contrario, 𝑋 si immerge nella sua compattificazione di Alexandrov 𝛼𝑋 (cfr. Teorema 10.7). In questo caso, si ha 𝛼𝑋 ⧵ 𝑋 = {∞} che ovviamente è un chiuso e quindi un 𝐹𝜎 . Osservazione 11.40. Si osservi che uno spazio topologico Čech-completo (𝑋, 𝜏) non è necessariamente un 𝐺𝛿 in un qualunque compatto 𝑇2 che lo contenga. Per constatarlo basta considerare ancora lo spazio di Fort 𝑋 dell’Esempio 2.117, con 𝑋 non numerabile. Sappiamo che il chiuso 𝐶 ∶= {𝑝} non è un 𝐺𝛿 di 𝑋 e che questo è compatto (cfr. Esempio 7.104). Ovviamente 𝐶, essendo compatto, è Čech-completo. Si osservi altresì che per la Čech-completezza di 𝑋 non basta che esso sia un 𝐺𝛿 in una sua estensione completamente regolare. Infatti ogni spazio completamente regolare è un’estensione di se stesso, ma non tutti questi spazi sono Čech-completi; un esempio è dato dallo spazio (ℚ, 𝜏𝑒 ) (cfr. Corollario 11.46). ◁ Esempio 11.41. L’insieme dei reali irrazionali ℚ′ ∶= ℝ ⧵ ℚ con la topologia euclidea è Čech-completo. Infatti, si può compattificare aggiungendo tutti i razionali più un punto all’infinito. Questa compattificazione coincide con 𝛼ℝ. L’insieme 𝛼ℝ ⧵ ℚ′ è unione numerabile di singoletti che sono chiusi ed è quindi un 𝐹𝜎 . Osserviamo che ℚ′ non è localmente compatto (Esercizio!) e non è neanche completo come spazio metrico, se prendiamo l’usuale distanza 𝑑2 . Tuttavia, essendo il concetto di Čech-completezza basato sulla topologia,
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questo fatto non impedisce la possibilità che (ℚ′ , 𝜏𝑒 ) sia deducibile da una metrica completa (cfr. Osservazione 11.71). ◁
Definizione 11.42. Su uno spazio 𝑋 siano dati: un filtro ℱ e una famiglia numerabile (𝒜𝑛 )𝑛 di ricoprimenti aperti. Si dice che il filtro ℱ è dominato dalla famiglia dei ricoprimenti se, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esistono 𝐹𝑛 ∈ ℱ e 𝐴𝑛 ∈ 𝒜𝑛 tali che 𝐹𝑛 ⊆ 𝐴𝑛 . ◁ La stessa definizione si può dare nel caso che, al posto del filtro ℱ , si consideri una famiglia con la proprietà dell’intersezione finita (PIF).
Teorema 11.43. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare. 𝑋 è Čechcompleto se e solo se esiste una famiglia numerabile (𝒜𝑛 )𝑛 di suoi ricoprimenti aperti che soddisfa alla seguente proprietà: ogni famiglia ℱ di chiusi con la PIF, se è dominata dalla famiglia (𝒜𝑛 )𝑛 , ha intersezione non vuota. Dimostrazione. Per semplificare la terminologia, diremo che una famiglia numerabile (𝒜𝑛 )𝑛 di ricoprimenti aperti di 𝑋 che soddisfa alla proprietà in enunciato è completa. Supponiamo intanto che 𝑋 sia Čech-completo. Si ha 𝑋 = ⋂∞ 𝑛=1 𝐵𝑛 , dove i 𝐵𝑛 sono aperti di 𝛽𝑋. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝒜𝑛 l’insieme degli aperti 𝐴 di 𝑋 tali che cl𝛽𝑋 𝐴 ⊆ 𝐵𝑛 . Verifichiamo che, per ogni 𝑛 fissato, la famiglia 𝒜𝑛 è un ricoprimento aperto di 𝑋. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, osservando che 𝐵𝑛 è un aperto di 𝛽𝑋 che lo contiene, per la regolarità di 𝛽𝑋 esiste un aperto 𝑊𝑥 di 𝛽𝑋 tale che 𝑥 ∈ 𝑊𝑥 ⊆ cl𝛽𝑋 𝑊𝑥 ⊆ 𝐵𝑛 . In fine, l’insieme 𝐴𝑥 ∶= 𝑋 ∩ 𝑊𝑥 è un aperto di 𝑋 contenente 𝑥 e tale che la sua chiusura in 𝛽𝑋 è contenuta in 𝐵𝑛 . Abbiamo così ottenuto una famiglia numerabile di ricoprimenti aperti di 𝑋. Sia ora ℱ una famiglia di chiusi di 𝑋 dominata da (𝒜𝑛 )𝑛 e con la PIF. Poiché 𝛽𝑋 è compatto, esiste un elemento 𝑧 ∈ ⋂𝐹 ∈ℱ cl𝛽𝑋 𝐹 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esistono 𝐹 ∈ ℱ e 𝐴𝑛 ∈ 𝒜𝑛 tali che 𝐹𝑛 ⊆ 𝐴𝑛 ⊆ cl𝛽𝑋 𝐴𝑛 ⊆ 𝐵𝑛 , da cui
𝑧 ∈ cl𝛽𝑋 𝐹𝑛 ⊆ cl𝛽𝑋 𝐴𝑛 ⊆ 𝐵𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ.
Si conclude che è 𝑧 ∈ ⋂𝑛 𝐵𝑛 = 𝑋. Per la proposizione 1.57.3, si ha 𝑧 ∈ 𝑋 ∩ cl𝛽𝑋 𝐹𝑛 = cl𝑋 𝐹𝑛 = 𝐹𝑛 , ∀𝑛. Proviamo il viceversa. Supponiamo, per ipotesi, che esista una famiglia numerabile e completa (𝒜𝑛 )𝑛 di ricoprimenti aperti di 𝑋. Per ogni 𝑛, consideriamo la famiglia ℬ𝑛 formata dagli aperti 𝐵 di 𝛽𝑋 tali che 𝐵 ∩ 𝑋 ∈ 𝒜𝑛 . Sia poi 𝑊𝑛 ∶= ⋃𝐵∈ℬ𝑛 𝐵. È chiaro che, per ogni 𝑛, 𝑊𝑛 è un aperto di 𝛽𝑋 contenente 𝑋 e quindi si ha 𝑋 ⊆ 𝑊 ∶= ⋂ 𝑊𝑛 . Per raggiungere la tesi, dimostreremo che è 𝑋 = 𝑊 . Fissato un 𝑤 ∈ 𝑊 , sia ℱ la famiglia dei sottoinsiemi chiusi di 𝑋 che contengono un insieme del tipo 𝑋 ∩ 𝑈 , con 𝑈 intorno aperto di 𝑤 in 𝛽𝑋. Proviamo che ℱ è una famiglia (non vuota) di chiusi di 𝑋 con la PIF. Intanto si ha ovviamente 𝑋 ∈ ℱ ; inoltre, per la densità di 𝑋 in 𝛽𝑋, si ha 𝑈 ∩ 𝑋 ≠ ∅, per ogni aperto 𝑈 di 𝛽𝑋, da cui si ottiene che tutti gli elementi di
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ℱ sono non vuoti. Siano dati 𝐹1 , 𝐹2 ∈ ℱ . Per definizione, esistono in 𝛽𝑋 due intorni aperti 𝑈1 , 𝑈2 di 𝑤 tali che 𝐹1 ⊇ 𝑋 ∩ 𝑈1 e 𝐹2 ⊇ 𝑋 ∩ 𝑈2 . 𝑈1 ∩ 𝑈2 è ancora un intorno aperto di 𝑤 in 𝛽𝑋 e si ha (∅ ≠)𝑋 ∩ (𝑈1 ∩ 𝑈2 ) ⊆ 𝐹1 ∩ 𝐹2 . Procedendo per induzione, si ottiene l’asserto. Verifichiamo ora che la famiglia ℱ è dominata da (𝒜𝑛 )𝑛 . Fissiamo un 𝑛 ∈ ℕ. Si ha 𝑤 ∈ 𝑊𝑛 ; esiste perciò un 𝐵 ∈ ℬ𝑛 tale che 𝑤 ∈ 𝐵. Si ha poi 𝐴 ∶= 𝐵 ∩ 𝑋 ∈ 𝒜𝑛 . Dato che 𝐵 è un aperto di 𝛽𝑋 e 𝑤 è un suo punto, per la regolarità di 𝛽𝑋 esiste (cfr. Teorema 1.91) un intorno aperto 𝑉 di 𝑤 tale che 𝑤 ∈ 𝑉 ⊆ cl𝛽𝑋 𝑉 ⊆ 𝐵. L’insieme 𝐹 ∶= 𝑋 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉 è un chiuso di 𝑋 che contiene 𝑉 ∩ 𝑋, con 𝑉 aperto di 𝛽𝑋 contenente 𝑤. Pertanto si ha 𝐹 ∈ ℱ . Inoltre si ha 𝐹 = 𝑋 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉 ⊆ 𝑋 ∩ 𝐵 = 𝐴 ∈ 𝒜𝑛 . Per l’ipotesi, esiste 𝑦 ∈ ⋂𝐹 ∈ℱ 𝐹 e supponiamo, per assurdo, che sia 𝑦 ≠ 𝑤. Esisterà allora un intorno aperto 𝑈 di 𝑤 in 𝛽𝑋 tale che 𝑤 ∈ 𝑈 ⊆ cl𝛽𝑋 𝑈 ⊆ 𝛽𝑋 ⧵ {𝑦}. Per definizione, 𝐹 ∶= 𝑋 ∩ cl𝛽𝑋 𝑈 ∈ ℱ , ma, per costruzione, 𝑦 ∉ 𝐹 , contro l’assunzione 𝑦 ∈ ⋂𝐹 ∈ℱ 𝐹 . Abbiamo così dimostrato che l’unico elemento che può appartenere all’intersezione degli 𝐹 ∈ ℱ , che sappiamo essere non vuota, è 𝑤; si ha quindi ⋂𝐹 ∈ℱ 𝐹 = {𝑤}. Dal fatto che gli 𝐹 sono sottoinsiemi di 𝑋, si conclude che 𝑤 ∈ 𝑋. Dall’arbitrarietà di 𝑤 segue che è 𝑋 = 𝑊 e che 𝑋 è un 𝐺𝛿 di 𝛽𝑋. La precedente proprietà che caratterizza gli spazi Čech-completi è chiaramente di tipo topologico, ossia si preserva per omeomorfismi. Si ha quindi Corollario 11.44. La Čech-completezza è una proprietà topologica.
Osservazione 11.45. Siano 𝑋, 𝑌 , 𝑍 spazi topologici, con 𝑋 sottospazio di 𝑌 e 𝑌 sottospazio di 𝑍. Si vede subito che, se 𝑋 è un 𝐺𝛿 in 𝑍, allora è tale anche in 𝑌 . Non sussiste il viceversa. Infatti 𝐸0 ∶= ℚ∩ ]𝜋, +∞[ ed 𝐸1 ∶= ℚ∩ ] − ∞, 𝜋[ sono dei 𝐺𝛿 di ℚ che non è un 𝐺𝛿 di ℝ (cfr. Corollario 3.64). Se, per assurdo, 𝐸0 fosse un 𝐺𝛿 di ℝ, sarebbe tale anche 𝐸1 e quindi anche ℚ. La cura dei dettagli è lasciata per esercizio al lettore. Come conseguenza del Teorema 11.47, avremo che se 𝑋 è un 𝐺𝛿 di 𝑌 e 𝑌 è un 𝐺𝛿 di 𝑍, allora 𝑋 è un 𝐺𝛿 anche in 𝑍. ◁ Si ottiene, in particolare, il
Corollario 11.46. (ℚ, 𝜏𝑒 ) non è Čech-completo.
Dimostrazione. ℚ, non essendo un 𝐺𝛿 di ℝ (Corollario 3.64), non può essere un 𝐺𝛿 nemmeno nella sua compattificazione 𝛼ℝ (cfr. Osservazione precedente). La tesi segue dalla condizione 3 del Teorema 11.38. Teorema 11.47. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio Čech-completo ed 𝐸 un suo sottospazio. Se 𝐸 è un un 𝐺𝛿 , un aperto o un chiuso di 𝑋, allora anche (𝐸, 𝜏𝐸 ) è uno spazio Čech-completo.
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Dimostrazione. Essendo 𝑋 Čech-completo, si ha 𝑋 = ⋂𝑛 𝐴𝑛 , con gli 𝐴𝑛 aperti di 𝛽𝑋. Supponiamo che 𝐸 sia un 𝐺𝛿 (in particolare, un aperto) di 𝑋, da cui 𝐸 = ⋂𝑛 𝐵𝑛 , con i 𝐵𝑛 aperti di 𝑋. Per ogni 𝑛, esiste un aperto 𝐷𝑛 di 𝛽𝑋 tale che 𝐵𝑛 = 𝑋 ∩ 𝐷𝑛 . Si ha 𝐸=
⋂ 𝑛
=(
𝐵𝑛 =
⋂ 𝑛
(𝑋 ∩ 𝐷𝑛 ) = 𝑋 ∩ ( 𝐷 = ⋂ ⋂ 𝑛) 𝑛
𝐴𝑛 ) ∩ (
⋂ 𝑛
𝐷𝑛 ) =
𝑛
(𝐴 ∩ 𝐷𝑛 ), ⋂ 𝑛 𝑛
da cui la tesi dato che, per ogni 𝑛, 𝐴𝑛 ∩ 𝐷𝑛 è un aperto di 𝛽𝑋. Supponiamo, in fine, 𝐸 chiuso in 𝑋. Esiste un chiuso 𝐹 di 𝛽𝑋 tale che 𝐸 = 𝐹 ∩ 𝑋. 𝐹 è un compatto di 𝛽𝑋. Posto, per ogni 𝑛, 𝐷𝑛 ∶= 𝐴𝑛 ∩ 𝐹 , si ha che i 𝐷𝑛 formano una successione di aperti di 𝐹 la cui intersezione dà 𝑋 ∩𝐹 = 𝐸. Si conclude che 𝐸 è un 𝐺𝛿 nel compatto di Hausdorff 𝐹 ed è quindi Čech-completo per il Teorema 11.38, condizione 4. Corollario 11.48. Ogni aperto e ogni chiuso di (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) è Čech-completo.
Dimostrazione. Per prima cosa osserviamo che ℝ𝑛 è Čech-completo. Infatti esso è un aperto (e quindi 𝐺𝛿 ) nella sua compattificazione di Alexandrov. Alternativamente si può anche usare il fatto che ℝ𝑛 è localmente compatto e applicare il Corollario 11.39. A questo punto, la tesi segue dal teorema precedente. Il lettore noti la differenza tra il concetto di Čech-completezza e quello di completezza secondo Cauchy negli spazi metrici. In particolare, si noti che un sottoinsieme aperto di uno spazio metrico completo non è, in generale, completo. Ricordando la definizione di spazio di Baire 9.34, abbiamo il seguente risultato: Teorema 11.49. Ogni spazio Čech-completo è di Baire.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio Čech-completo e quindi completamente regolare. Per evitare casi banali, supporremo che esso sia non vuoto. Supponiamo, per assurdo, che esista una famiglia numerabile (𝐶𝑛 )𝑛 di chiusi di 𝑋, ciascuno con interno vuoto, con 𝑋 = ⋃𝑛 𝐶𝑛 . Per definizione, 𝑋 è un 𝐺𝛿 di 𝛽𝑋, da cui 𝑋 = ⋂𝑛 𝐴𝑛 , con gli 𝐴𝑛 aperti di 𝛽𝑋. È banale, ma utile notare che, se 𝑊 è un qualunque aperto non vuoto di 𝛽𝑋, allora 𝑊 ∩ 𝐴𝑛 è un aperto non vuoto. Osserviamo che, per ogni 𝑛, l’insieme 𝐷𝑛 ∶= cl𝛽𝑋 𝐶𝑛 ha interno vuoto. Infatti, se vi fosse un aperto non vuoto 𝑈𝑛 di 𝛽𝑋 con 𝑈𝑛 ⊆ 𝐷𝑛 , per la densità di 𝐶𝑛 in 𝐷𝑛 , avremmo che 𝑈𝑛′ ∶= 𝑈𝑛 ∩ 𝑋 = 𝑈𝑛 ∩ 𝐶𝑛 sarebbe un aperto non vuoto di 𝑋 contenuto in 𝐶𝑛 , contro l’ipotesi. Grazie a questa osservazione, possiamo
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prendere un punto 𝑥0 ∈ 𝐴0 ⧵ 𝐷0 e un intorno aperto 𝑉0 di 𝑥0 in 𝛽𝑋 tali che cl𝛽𝑋 𝑉0 ⊆ 𝐴0 e 𝐷0 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉0 = ∅. (Basta applicare il Teorema 1.91 al punto 𝑝 ∶= 𝑥0 e all’aperto 𝐴 ∶= 𝐴0 ⧵ 𝐷0 .) Usando lo stesso ragionamento, possiamo prendere un punto 𝑥1 ∈ 𝐴1 ∩ 𝑉0 ⧵ 𝐷1 e trovare un suo intorno aperto 𝑉1 tali che cl𝛽𝑋 𝑉1 ⊆ 𝐴1 ∩ 𝑉0 e 𝐷1 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉1 = ∅. Inoltre, per costruzione, si ha anche cl𝛽𝑋 𝑉1 ⊆ 𝐴0 e 𝐷0 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉1 = ∅. Procedendo in questo modo per induzione, si ottiene una successione decrescente (𝑉𝑛 )𝑛 di aperti di 𝛽𝑋 tali che cl𝛽𝑋 𝑉𝑛+1 ⊆ 𝑉𝑛 ∩ (𝐴0 ∩ ⋯ ∩ 𝐴𝑛+1 ), Essendo
cl𝛽𝑋 𝑉𝑛+1 ∩ (𝐷0 ∪ ⋯ 𝐷𝑛+1 ) = ∅.
(11.7)
𝑉0 ⊇ cl𝛽𝑋 𝑉1 ⊇ 𝑉1 ⊇ cl𝛽𝑋 𝑉2 ⊇ 𝑉2 ⊇ ⋯ ,
si ha 𝑊 ∶= ⋂𝑛 𝑉𝑛 = ⋂𝑛 cl𝛽𝑋 𝑉𝑛 . Per la compattezza di 𝛽𝑋, segue 𝑊 ≠ ∅. D’altra parte, per la prima delle (11.7), si ha 𝑊 ⊆ ⋂𝑛 𝐴𝑛 = 𝑋. Tuttavia, per la seconda delle (11.7), si ha 𝑊 ∩ ( ⋃𝑛 𝐷𝑛 ) = ∅ e quindi anche 𝑊 ∩ ( ⋃𝑛 𝐶𝑛 ) = ∅, da cui 𝑊 ∩ 𝑋 = ∅. Si ottiene così 𝑊 = ∅, contro quanto sopra affermato. Il teorema appena dimostrato è l’equivalente topologico del classico risultato che asserisce che ogni spazio metrico completo è di seconda categoria nel senso di Baire (cfr. Corollario 4.89). Osserviamo che, poiché ogni spazio localmente compatto è Čech-completo, dal teorema precedente si riottiene il fatto che: Ogni spazio localmente compatto è di Baire. (Cfr. Teorema 9.83.) Abbiamo visto che ogni sottoinsieme aperto di uno spazio di Baire è uno spazio di Baire (cfr. Lemma 9.36) e che ogni sottoinsieme aperto di uno spazio Čech-completo è ancora Čech-completo. Diversa è la situazione per i chiusi. Infatti, mentre ogni chiuso di uno spazio Čech-completo è ancora Čech-completo, esistono sottospazi chiusi di spazi di Baire che non sono di Baire. Ciò è provato dall’esempio che segue e che fornisce anche un esempio di spazio di Baire non Čech-completo. Per poter comprendere l’esempio, è necessario premettere un lemma. Lemma 11.50. Se uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) contiene un sottospazio 𝐸 che sia denso in 𝑋 e di Baire, allora è esso stesso di Baire.
Dimostrazione. Sia (𝐴𝑛 )𝑛 una famiglia numerabile di aperti di 𝑋 densi in 𝑋. Per ogni 𝑛, sia poi 𝐴′𝑛 ∶= 𝐴𝑛 ∩ 𝐸. Gli 𝐴′𝑛 sono aperti di 𝐸 e densi in esso. 1 Essendo 𝐸 di Baire, l’insieme 𝐴′∞ ∶= ⋂𝑛 𝐴′𝑛 è denso in 𝐸. Proviamo ora che l’insieme 𝐴∞ ∶= ⋂𝑛 𝐴𝑛 è denso in 𝑋. Infatti, siano 𝑥 ∈ 𝑋 un punto arbitrario e 𝑈 un suo intorno aperto. L’insieme 𝑈 ′ ∶= 𝑈 ∩ 𝐸 è un aperto non vuoto di 𝐸. Poiché 𝐴′∞ è denso in 𝐸, esiste un punto 𝑧 ∈ 𝑈 ′ ∩ 𝐴′∞ . Per definizione, 𝑧 ∈ 𝑈 ∩ 𝐴∞ ∩ 𝐸 ⊆ 𝑈 ∩ 𝐴∞ . Quindi 𝑈 ∩ 𝐴∞ è non vuoto. Dall’arbitrarietà di 𝑥 e di 𝑈 , si ha la tesi. Ogni aperto non vuoto di 𝐸 è del tipo 𝑈 ∩ 𝐸, con 𝑈 ∈ 𝜏. Per ogni 𝑛, si ha (𝑈 ∩ 𝐸) ∩ 𝐴′𝑛 = (𝑈 ∩ 𝐴𝑛 ) ∩ 𝐸 ≠ ∅, dato che è ∅ ≠ 𝑈 ∩ 𝐴𝑛 ∈ 𝜏 ed 𝐸 è denso in 𝑋. 1
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Esempio 11.51. Sia 𝑋 il piano cartesiano privato dei punti irrazionali dell’asse delle ascisse, ovvero 𝑋 ∶= ℝ ×(ℝ ⧵{0})∪ℚ×{0}, dotato della topologia euclidea. Consideriamo il sottospazio 𝐸 ∶= ℝ × (ℝ ⧵ {0}) e osserviamo che 𝐸 è uno spazio di Baire. Infatti esso è un sottospazio aperto di ℝ2 e quindi Čech-completo per il Corollario 11.48. Essendo Čech-completo, è anche di Baire per il Teorema 11.49. A questo punto si ha che anche 𝑋 è di Baire, dato che 𝐸 è denso in 𝑋 (lemma precedente). Il sottoinsieme 𝐶 ∶= ℚ × {0} è un chiuso di 𝑋. Esso è anche omeomorfo a (ℚ, 𝜏𝑒 ) che è di prima categoria e quindi non è di Baire (cfr. Lemma 9.37). In questo modo abbiamo prodotto uno spazio di Baire che possiede un sottospazio chiuso che non è di Baire. Chiaramente, lo spazio 𝑋 non può essere Čech-completo, dato che altrimenti sarebbe tale anche ogni suo sottospazio chiuso. ◁ Teorema 11.52. Ogni spazio topologico Čech-completo è un 𝑘-spazio.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio Čech-completo e quindi completamente regolare. Per definizione, 𝑋 è un 𝐺𝛿 di 𝛽𝑋, da cui 𝑋 = ⋂𝑛 𝐴𝑛 , con gli 𝐴𝑛 aperti di 𝛽𝑋. Supponiamo, per assurdo, che 𝑋 non sia un 𝑘-spazio e quindi supponiamo che esista un insieme non chiuso 𝐸 ⊂ 𝑋 tale che 𝐸 ∩ 𝐾 sia chiuso in 𝑋 per ogni sottoinsieme compatto 𝐾 di 𝑋. Per ipotesi, esiste un punto 𝑧 ∈ cl𝑋 𝐸 ⧵𝐸 = (𝑋 ∩cl𝛽𝑋 𝐸)⧵𝐸 = 𝑋 ∩(cl𝛽𝑋 𝐸 ⧵𝐸) (cfr. Proposizione 1.57.3). Sia 𝑈0 un intorno aperto fissato di 𝑧 in 𝛽𝑋. Per il Teorema 1.91, esiste un intorno aperto 𝑈1 di 𝑧 in 𝛽𝑋 con cl𝛽𝑋 𝑈1 ⊆ 𝑈0 ∩ 𝐴0 . Procedendo in questo modo e applicando ripetutamente il Teorema 1.91, determiniamo una successione decrescente di intorni aperti 𝑈𝑛 del punto 𝑧 tali che cl𝛽𝑋 𝑈𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑛 ∩ 𝐴𝑛 . Essendo 𝑈0 ⊇ cl𝛽𝑋 𝑈1 ⊇ 𝑈1 ⊇ cl𝛽𝑋 𝑈2 ⊇ 𝑈2 ⊇ ⋯ , si ha 𝑊 ∶= ⋂𝑛 𝑈𝑛 = ⋂𝑛 cl 𝑈𝑛 ⊆ ⋂𝑛 𝐴𝑛 = 𝑋. Per la compattezza di 𝛽𝑋, segue che 𝑊 è compatto in 𝛽𝑋 e non vuoto, in quanto chiuso ed è quindi anche un compatto di 𝑋 (cfr. Lemma 9.47). Di conseguenza, 𝐸 ∩ 𝑊 è chiuso in 𝑋. Il compatto 𝑊 soddisfa alla seguente proprietà
(∗) Se 𝑈 è un aperto di 𝛽𝑋 contenente 𝑊 , allora 𝑈 contiene almeno un 𝑈𝑛 . Per verificarlo, sia 𝐶 ∶= 𝛽𝑋 ⧵ 𝑈 . Per ipotesi, 𝑈 contiene l’intersezione degli insiemi cl𝛽𝑋 𝑈𝑛 e quindi 𝐶 ⊆ ⋃𝑛 (𝛽𝑋 ⧵ cl𝛽𝑋 𝑈𝑛 ). Abbiamo così un ricoprimento aperto del compatto 𝐶 da cui si può estrarre un sottoricoprimento finito e quindi, per la monotonia, esiste 𝑚 tale che 𝐶 ⊆ (𝛽𝑋 ⧵ cl𝛽𝑋 𝑈𝑚 ), da cui 𝑈 ⊇ cl𝛽𝑋 𝑈𝑚 ⊇ 𝑈𝑚 . Inoltre, per costruzione, 𝑧 ∈ 𝑊 , ma 𝑧 ∉ 𝑊 ∩ 𝐸 (che è un chiuso). Per la regolarità di 𝛽𝑋, esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑧 in 𝛽𝑋 tale che cl𝛽𝑋 𝑉 ∩ (𝐸 ∩ 𝑊 ) = ∅. Per ogni 𝑛, l’insieme 𝑉 ∩ 𝑈𝑛 è un intorno aperto del punto 𝑧 e quindi ha intersezione non vuota con l’insieme 𝐸. Sempre per ogni 𝑛 esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝐸 ∩ 𝑉 ∩ 𝑈𝑛 . Proviamo che l’insieme 𝐵 ∶= 𝑊 ∪ {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} è compatto in 𝛽𝑋 e quindi anche in 𝑋. Sia 𝒢 ∶= {𝐺𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐽 } un ricoprimento aperto di 𝐵 e poniamo
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𝐷 ∶= ⋃𝛼∈𝐽 𝐺𝛼 . 𝐷 è un aperto contenente 𝑊 e quindi esso contiene un 𝑈𝑚 che a sua volta contiene il compatto cl𝛽𝑋 𝑈𝑚+1 . Osserviamo che in cl𝛽𝑋 𝑈𝑚+1 è contenuto, oltre a 𝑊 , anche l’insieme {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 > 𝑚}. Siccome anche l’insieme cl𝛽𝑋 𝑈𝑚+1 ∪ {𝑥0 , … , 𝑥𝑚 } è un compatto contenente 𝐵 e contenuto in 𝐷, la tesi segue immediatamente. Per ipotesi, 𝐸 interseca in un chiuso/compatto un qualunque compatto di 𝛽𝑋 e quindi anche cl𝛽𝑋 𝑉 ∩𝐵 che è anche un compatto di 𝑋 (dato che è 𝐵 ⊆ 𝑋). Detta 𝐾 tale intersezione compatta, si ha 𝐾 ∶= 𝐸 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉 ∩ 𝐵 = 𝐸 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉 ∩ (𝑊 ∪ {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}) =
= (𝐸 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉 ∩ 𝑊 ) ∪ (𝐸 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉 ∩ {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}) = {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} .
Infatti, ricordiamo che è 𝐸 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉 ∩ 𝑊 = ∅ per come è stato scelto l’intorno 𝑉 di 𝑧, mentre, d’altra parte, 𝑥𝑛 ∈ 𝐸 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉 , ∀𝑛. Come si è appena detto, l’insieme 𝐾 è compatto. Inoltre esso è disgiunto da 𝑊 , dato che è costituito dai punti 𝑥𝑛 che appartengono a 𝐸 ∩ 𝑉 , mentre è 𝐸 ∩ cl𝛽𝑋 𝑉 ∩ 𝑊 = ∅. Di conseguenza, l’aperto 𝐹 ∶= 𝛽𝑋⧵𝐾 contiene 𝑊 . Per la proprietà (∗), 𝐹 contiene almeno un aperto 𝑈𝑚 il che equivale a dire che 𝐾 ∩ 𝑈𝑚 = ∅ e questo è assurdo perché l’elemento 𝑥𝑚 ∈ 𝐾 ∩ 𝑈𝑚 .
Per contro esistono 𝑘-spazi che non sono Čech-completi, come si vedrà fra poco (cfr. Esempio 11.68). Vediamo intanto come stanno le cose circa il prodotto di spazi Čech-completi. Ci sarà utile premettere due risultati sulla topologia prodotto e due nuovi concetti: quello di mappa perfetta e quello di spazio 𝜎-compatto. Teorema 11.53 (di Wallace). Sia {𝑋𝛼 }𝛼∈𝐽 una famiglia arbitraria di spazi topologici e poniamo 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 . Sia, inoltre, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , 𝐾𝛼 un sottospazio compatto di 𝑋𝛼 e poniamo ancora 𝐾 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝐾𝛼 . Per ogni aperto 𝐴 ⊆ 𝑋 contenente 𝐾, esiste un aperto di base 𝐵 tale che 𝐾 ⊆ 𝐵 ⊆ 𝐴. Dimostrazione. Supponiamo, intanto, che 𝐽 ∶= {1, 2, … , 𝑛} sia finito, con 𝑛 ≥ 2, e procediamo per induzione. Caso 𝑛 = 2. Sia 𝐴 un aperto di 𝑋1 ×𝑋2 contenente il compatto 𝐾 ∶= 𝐾1 ×𝐾2 . Fissiamo un punto 𝑥 ∈ 𝐾1 e, per ogni punto 𝑦 ∈ 𝐾2 , prendiamo un intorno del tipo 𝐴1 (𝑦) × 𝐴2 (𝑦) del punto (𝑥, 𝑦), con 𝐴1 (𝑦) intorno aperto di 𝑥 in 𝑋1 , 𝐴2 (𝑦) intorno aperto di 𝑦 in 𝑋2 e tali che 𝐴1 (𝑦) × 𝐴2 (𝑦) ⊆ 𝐴. Al variare di 𝑦 ∈ 𝐾2 , si ottiene un ricoprimento aperto del compatto {𝑥} × 𝐾2 , da cui possiamo estrarre un sottoricoprimento finito 𝐴1 (𝑦1 )×𝐴2 (𝑦1 ), 𝐴1 (𝑦2 )×𝐴2 (𝑦2 ), … , 𝐴1 (𝑦𝑘𝑥 )×𝐴2 (𝑦𝑘𝑥 ). Siano: 𝑈 (𝑥) ∶= 𝐴1 (𝑦1 ) ∩ 𝐴1 (𝑦2 ) ∩ ⋯ ∩ 𝐴1 (𝑦𝑘𝑥 ) e 𝑉 (𝑥) ∶= 𝐴2 (𝑦1 ) ∪ 𝐴2 (𝑦2 ) ∪ ⋯ ∪ 𝐴2 (𝑦𝑘𝑥 ). Per costruzione, l’insieme 𝑈 (𝑥)×𝑉 (𝑥) è un aperto di 𝑋 contenente {𝑥}× 𝐾2 e contenuto in 𝐴. Facendo variare 𝑥 ∈ 𝐾1 , si ottiene un ricoprimento aperto del compatto 𝐾, con aperti tutti contenuti in 𝐴. Da esso si può ancora estrarre un sottoricoprimento finito 𝑈 (𝑥1 )×𝑉 (𝑥1 ), 𝑈 (𝑥2 )×𝑉 (𝑥2 ), ⋯ , 𝑈 (𝑥𝑝 )×𝑉 (𝑥𝑝 ). Siano ora 𝑈 ∶= 𝑈 (𝑥1 ) ∪ 𝑈 (𝑥2 ) ∪ ⋯ ∪ 𝑈 (𝑥𝑝 ) e 𝑉 ∶= 𝑉 (𝑥1 ) ∩ 𝑉 (𝑥2 ) ∩ ⋯ ∩ 𝑉 (𝑥𝑝 ). L’insieme 𝑈 × 𝑉 è un aperto di base contenente 𝐾 e contenuto in 𝐴.
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Supponiamo vera la tesi per 𝑛 e proviamola per 𝑛 + 1. La cosa segue immediatamente dal passo precedente se si osserva che gli spazi 𝑋1 × ⋯ × 𝑋𝑛+1 e 𝐾1 × ⋯ × 𝐾𝑛+1 sono ordinatamente omeomorfi agli spazi (𝑋1 × ⋯ × 𝑋𝑛 ) × 𝑋𝑛+1 e (𝐾1 × ⋯ × 𝐾𝑛 ) × 𝐾𝑛+1 (cfr. Teorema 6.16). I dettagli sono lasciati per esercizio al lettore. Ciò prova la tesi nel caso che 𝐽 sia finito. Veniamo al caso generale. Siano: 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 , 𝐾 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝐾𝛼 e 𝐴 ⊆ 𝑋 un aperto contenente 𝐾. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾, sia 𝐴𝑥 un suo intorno di base contenuto in 𝐴. La famiglia degli 𝐴𝑥 , al variare di 𝑥 ∈ 𝐾, costituisce un ricoprimento aperto di 𝐾, da cui si può estrarre un sottoricoprimento finito 𝐴𝑥1 , … , 𝐴𝑥𝑝 . L’aperto 𝑊 ∶= 𝐴𝑥1 ∪ ⋯ ∪ 𝐴𝑥𝑝 contiene 𝐾 ed è contenuto in 𝐴. Inoltre, ogni 𝐴𝑥𝑙 , essendo di base, ha le componenti che coincidono con gli spazi 𝑋𝛼 , salvo al più un numero finito di indici. Si ha quindi che, per ogni 𝑙 ∈ {1, 2, … , 𝑝}, esiste un insieme finito di indici 𝐽𝑙 tale che 𝐴𝑥𝑙 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝐴′𝛼 (𝑥𝑙 ), con gli 𝐴′𝛼 (𝑥𝑙 ) aperti di 𝑋𝛼 che coincidono con 𝑋𝛼 per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽𝑙 . Sia 𝐽 ′ ∶= 𝐽1 ∪ ⋯ ∪ 𝐽𝑝 . Lo spazio 𝑋 è omeomorfo allo spazio 𝑋 ′ × 𝑋 ″ , con 𝑋 ′ = ∏𝛼∈𝐽 ′ 𝑋𝛼 e 𝑋 ″ = ∏𝛼∈𝐽 ⧵𝐽 ′ 𝑋𝛼 . Anche 𝑊 di può quindi identificare con un aperto del tipo 𝑊 ′ × 𝑊 ″ , con 𝑊 ′ aperto di 𝑋 ′ e 𝑊 ″ = 𝑋 ″ . Essendo 𝐾 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝐾𝛼 , esso è omeomorfo al prodotto 𝐾 ′ × 𝐾 ″ con 𝐾 ′ = ∏𝛼∈𝐽 ′ 𝐾𝛼 e 𝐾 ″ = ∏𝛼∈𝐽 ⧵𝐽 ′ 𝐾𝛼 . Siccome 𝑋 ′ è prodotto di un numero finito di fattori, esiste un aperto di base 𝐵 ′ tale che 𝐾 ′ ⊆ 𝐵 ′ ⊆ 𝑊 ′ . (Si usa il fatto che il teorema è già stato dimostrato per un numero finito di fattori.) Si conclude quindi che 𝐾 = 𝐾 ′ × 𝐾 ″ ⊆ 𝐵 ∶= 𝐵′ × 𝑋 ″ ⊆ 𝑊 ′ × 𝑊 ″ = 𝑊 ⊆ 𝐴
Lemma 11.54. Siano dati uno spazio topologico di Hausdorff 𝑍 e una famiglia {𝐸𝛼 }𝛼∈𝐽 di suoi sottospazi. Posto 𝑊 ∶= ⋂𝛼∈𝐽 𝐸𝛼 , si ha che 𝑊 si immerge come sottospazio chiuso in 𝐸 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝐸𝛼 . Dimostrazione. Per evitare casi banali, supponiamo 𝑊 ≠ ∅. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , sia 𝑝𝛼 ∶ 𝐸 → 𝐸𝛼 la proiezione 𝛼-ima. Ad ogni 𝑥 ∈ 𝑊 associamo l’elemento dello spazio prodotto 𝑓 (𝑥) ∶= (𝑦𝛼 )𝛼 , dove 𝑦𝛼 = 𝑝𝛼 (𝑓 (𝑥)) ∶= 𝑥 ∈ 𝐸𝛼 . (Ciò equivale ad associare ad ogni 𝑥 ∈ 𝑊 un elemento del prodotto che, su ogni componente, è lo stesso 𝑥, ma pensato come elemento di 𝐸𝛼 .) Si ha immediatamente che 𝑓 ∶ 𝑊 → 𝐸 è continua e iniettiva. Per verificare che 𝑓 è un omeomorfismo fra 𝑊 e la sua immagine, basta provare che l’applicazione 𝑔 ∶ 𝑓 (𝑊 ) → 𝑊 , inversa di 𝑓 , è continua. Ora 𝑦 ∶= (𝑦𝛼 )𝛼 ∈ 𝑓 (𝑊 ) se e solo se esiste 𝑥 ∈ 𝑊 tale che 𝑦𝛼 = 𝑥, ∀𝛼 ∈ 𝐽 e quindi 𝑔(𝑦) = 𝑥 = 𝑦𝛼 . Si conclude che 𝑔 è continua, stante la continuità delle proiezioni. Abbiamo così verificato che 𝑊 può venire immerso come sottospazio 𝑓 (𝑊 ) di 𝐸. Rimane da controllare che 𝑓 (𝑊 ) è chiuso. Dato 𝑧 ∶= (𝑧𝛼 )𝛼 ∈ 𝐸 ⧵ 𝑓 (𝑊 ), esistono almeno due indici 𝛽, 𝛾 ∈ 𝐽 tali che 𝑧𝛽 ≠ 𝑧𝛾 , altrimenti si avrebbe 𝑧𝛼 = 𝑧,̄ ∀𝛼 ∈ 𝐽 e quindi 𝑧̄ ∈ 𝑊 e 𝑧 ∈ 𝑓 (𝑊 ). Poiché lo spazio è 𝑇2 , esistono due aperti disgiunti 𝑈 , 𝑉 che sono rispettivamente intorni di 𝑧𝛽 e 𝑧𝛾 . Prendendo, in fine, 𝑈𝛽 ∶= 𝑈 ∩ 𝐸𝛽 e 𝑉𝛾 ∶= 𝑉 ∩ 𝐸𝛾 , si ha che l’aperto 𝐸 ′ ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝐸𝛼′ , con 𝐸𝛽′ ∶= 𝑈𝛽′ , 𝐸𝛾′ ∶= 𝑉𝛾′ e 𝐸𝛼′ = 𝐸𝛼 altrimenti, è un intorno di 𝑧 disgiunto da 𝑓 (𝑊 ).
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Infatti, se prendiamo un arbitrario elemento 𝑡 ∶= (𝑡𝛼 )𝛼 ∈ 𝐸 ′ , risulta 𝑡𝛽 ∈ 𝑈𝛽′ e 𝑡𝛾 ∈ 𝑉𝛾′ per cui 𝑡𝛽 ≠ 𝑡𝛾 e quindi 𝑡 ∉ 𝑓 (𝑊 ).
Definizione 11.55. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi topologici non vuoti. Un’applicazione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 è detta perfetta se è suriettiva, chiusa e, per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , la controimmagine 𝑓 −1 ({𝑦}) è un compatto di 𝑋. ◁
Si osservi che taluni autori, nella definizione di mappa perfetta, non richiedono la suriettività. Dal Teorema 6.54 si ha immediatamente che: Ogni funzione perfetta è una mappa quoziente. Per verificare che non vale il viceversa, basta considerare una proiezione di ℝ2 su ℝ, che non è una funzione chiusa. Sottolineiamo il fatto che una mappa perfetta non sempre è aperta. Basta prendere: 𝑋 ∶= [0, 1] ∪ [2, 3], 𝑌 ∶= [0, 2] e 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥, ∀𝑥 ∈ [0, 1] e 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥 − 1, ∀𝑥 ∈ [2, 3]. La verifica è lasciata per esercizio al lettore. Per una funzione, la proprietà di essere perfetta è meno restrittiva di quella di essere un omeomorfismo. Chiaramente: Un’applicazione perfetta è un omeomorfismo se e solo se è iniettiva. Per verificare concretamente che un’applicazione è perfetta, di solito il passo puù difficile è mostrare che è chiusa. A volte sarà utile il seguente risultato. Lemma 11.56. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi topologici e 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 una mappa suriettiva e continua. Allora 𝑓 è chiusa se e solo se soddisfa alla seguente proprietà: (⋆) Per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , e per ogni aperto 𝑈 di 𝑋 contenente 𝑓 −1 ({𝑦}), esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 tale che 𝑓 −1 (𝑉 ) ⊆ 𝑈 .
Dimostrazione. Supponiamo, intanto, che 𝑓 sia chiusa e prendiamo un 𝑦 ∈ 𝑌 e un aperto 𝑈 di 𝑋 contenente 𝑓 −1 ({𝑦}). Sia poi 𝐵 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈 . 𝐵 è un chiuso di 𝑋 disgiunto da 𝑓 −1 ({𝑦}). Ne viene che 𝑓 (𝐵) è un chiuso di 𝑌 che non contiene 𝑦. Esiste pertanto un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 disgiunto da 𝑓 (𝐵). Si conclude che è 𝑓 −1 ({𝑦}) ⊆ 𝑓 −1 (𝑉 ) ⊆ 𝑈 . Supponiamo ora che 𝑓 soddisfi alla (⋆). Fissiamo un chiuso 𝐶 di 𝑋 e proviamo che 𝑌 ⧵𝑓 (𝐶) è un aperto di 𝑌 . Dato un 𝑦 ∈ 𝑌 ⧵𝑓 (𝐶), si ha 𝑓 −1 ({𝑦}) ⊆ 𝑈 ∶= 𝑋⧵𝐶 che è un aperto di 𝑋. Per ipotesi, esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 tale che 𝑓 −1 ({𝑦}) ⊆ 𝑓 −1 (𝑉 ) ⊆ 𝑈 , da cui 𝑓 −1 (𝑉 ) ∩ 𝐶 = ∅ e quindi 𝑉 ∩ 𝑓 (𝐶) = ∅. Segnaliamo che alcune proprietà degli spazi topologici si conservano mediante applicazioni perfette. Ne elenchiamo alcune nei prossimi teoremi. Ci sarà utile il seguente lemma:
Lemma 11.57. Siano 𝑋, 𝑌 completamente regolari e 𝛽𝑋, 𝛽𝑌 le loro compattificazioni di Stone-Čech. Data 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 continua e suriettiva, sia 𝑓 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → 𝛽𝑌 il prolungamento continuo di 𝑓 pensata come mappa da 𝑋 a 𝛽𝑌 . Allora 𝑓 è ̂ perfetta se e solo se 𝑓 (𝛽𝑋 ⧵ 𝑋) = 𝛽𝑌 ⧵ 𝑌 .
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Dimostrazione. Supponiamo che 𝑓 sia perfetta. Osserviamo preliminarmente ̂ ̂ che si ha 𝑓 (𝛽𝑋) = 𝛽𝑌 . Infatti 𝑓 (𝛽𝑋) è un compatto contenente 𝑓 (𝑋) = 𝑌 e contenuto in 𝛽𝑌 , con 𝑌 denso in 𝛽𝑌 . Ciò prova la suriettività di 𝑓 .̂ Stante ciò, ̂ sarà sufficiente dimostrare che 𝑓 (𝛽𝑋⧵𝑋) ⊆ 𝛽𝑌 ⧵𝑌 , dato che l’inclusione opposta ̂ =∶ 𝑦 ∈ 𝑌 . è ovvia. Supponiamo per assurdo che esista 𝑧 ∈ 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 tale che 𝑓 (𝑧) Esisterà anche un 𝑥 ∈ 𝑋 con 𝑓 (𝑥) = 𝑦. Per ipotesi, l’insieme 𝐾 ∶= 𝑓 −1 ({𝑦}) è un compatto non vuoto di 𝑋 non contenente 𝑧. Per la normalità di 𝛽𝑋 esistono due aperti 𝐴, 𝐵 di 𝛽𝑋, contenenti rispettivamente 𝐾 e 𝑧, con le chiusure fra loro disgiunte (cfr. Teorema 1.104). Siano 𝐴1 ∶= 𝐴 ∩ 𝑋 e 𝐵1 ∶= 𝐵 ∩ 𝑋; per la densità di 𝑋 in 𝛽𝑋, anche 𝐵1 è non vuoto. Inoltre, per il Lemma 11.56 e dato che 𝑓 è chiusa in quanto perfetta, esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 in 𝑌 tale che 𝐾 ⊆ 𝑓 −1 (𝑉 ) ⊆ 𝐴1 . Da ciò segue che 𝑓 (𝐵1 ) ∩ 𝑉 = ∅ e quindi 𝑦 ∉ cl𝑌 𝑓 (𝐵1 ) = 𝑌 ∩ cl𝛽𝑌 𝑓 (𝐵1 ) (cfr. Proposizione 1.57.3). D’altra parte, per la densità di 𝑋 in 𝛽𝑋, si ha cl𝛽𝑋 𝐵 = cl𝛽𝑋 𝐵1 , per cui 𝑧 ∈ cl𝛽𝑋 𝐵1 . Per la continuità di 𝑓 ,̂ si ha (cfr. Proposizione 2.27.2): ̂ ∈ 𝑓 (cl ̂ 𝛽𝑋 𝐵1 ) ⊆ cl𝛽𝑌 𝑓 (𝐵 ̂ 1 ) = cl𝛽𝑌 𝑓 (𝐵1 ). 𝑦 = 𝑓 (𝑧)
Ne segue che 𝑦 ∈ 𝑌 ∩ cl𝛽𝑌 𝑓 (𝐵1 ), contro quanto sopra affermato. ̂ Proviamo il viceversa. Per ipotesi 𝑓 ̂ è suriettiva e si ha 𝑓 (𝛽𝑋 ⧵ 𝑋) = 𝛽𝑌 ⧵ 𝑌 . Ovviamente, 𝑓 è la restrizione di 𝑓 ̂ a 𝑋. Proviamo che 𝑓 è chiusa. Infatti, se 𝐶 è un chiuso di 𝑋, esiste un chiuso 𝐶 ′ di 𝛽𝑋 tale che 𝐶 = 𝐶 ′ ∩ 𝑋. 𝐶 ′ è ̂ ′ ) è un compatto (e quindi chiuso) di 𝛽𝑌 . Di un compatto di 𝛽𝑋 e quindi 𝑓 (𝐶 ′ ̂ conseguenza, 𝑓 (𝐶 ) ∩ 𝑌 è un chiuso di 𝑌 . D’altra parte, per l’ipotesi su 𝑓 ,̂ si ̂ ′ ) ∩ 𝑌 = 𝑓 (𝐶). Fissato, in fine, 𝑦 ∈ 𝑌 , poniamo 𝐾 ∶= 𝑓 −1 ̂ ({𝑦}); esso è ha 𝑓 (𝐶 ̂ un chiuso di 𝛽𝑋 e quindi un suo compatto. D’altra parte, poiché 𝑓 (𝛽𝑋 ⧵ 𝑋) = 𝛽𝑌 ⧵ 𝑌 , risulta 𝐾 ⊆ 𝑋. Si conclude che 𝐾 è un compatto di 𝑋 per il Lemma 9.47. È interessante confrontare questo risultato con quello del Lemma 10.20
Teorema 11.58. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi topologici e 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 una mappa perfetta. 1. Se 𝑋 è 𝑇1 , 𝑇2 , regolare, normale, allora è tale anche 𝑌 . 2. Se 𝑋 è 𝐴2 , allora è tale anche 𝑌 . Dimostrazione. 1. Supponiamo che 𝑋 sia 𝑇1 . Fissati due punti distinti 𝑦1 , 𝑦2 ∈ 𝑌 , siano 𝐾1 ∶= 𝑓 −1 ({𝑦1 }) e 𝐾2 ∶= 𝑓 −1 ({𝑦2 }). L’insieme 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐾2 è un aperto di 𝑋 contenente 𝐾1 e disgiunto da 𝐾2 . Per il Lemma 11.56, esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑦1 tale che 𝐾1 ⊆ 𝑓 −1 (𝑉 ) ⊆ 𝐴, da cui 𝑓 −1 (𝑉 ) ∩ 𝐾2 = ∅ e quindi 𝑦2 ∉ 𝑉 . Dall’arbitrarietà di 𝑦1 e 𝑦2 , segue che anche 𝑌 è 𝑇1 . Supponiamo che 𝑋 sia 𝑇2 e mostriamo che, se 𝐾1 , 𝐾2 sono due compatti di 𝑋 fra loro disgiunti, allora essi sono separati in 𝑋 da due aperti. Useremo un ragionamento simile a quanto visto nella dimostrazione del Teorema 7.33. Fissiamo un elemento 𝑧 ∈ 𝐾1 . Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾2 , esistono due aperti 𝑈𝑥′ , 𝑈𝑥″
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fra loro disgiunti che sono intorni, rispettivamente, di 𝑧 e di 𝑥. La famiglia {𝑈𝑥″ }𝑥∈𝐾2 è un ricoprimento aperto del compatto 𝐾2 ed ammette quindi un sottoricoprimento finito 𝑈𝑥″1 , … , 𝑈𝑥″𝑝 . L’insieme 𝐵𝑧″ ∶= 𝑈𝑥″1 ∪⋯∪𝑈𝑥″𝑝 è un aperto di 𝑋 contenente 𝐾2 e disgiunto dall’aperto 𝐵𝑧′ ∶= 𝑈𝑥′1 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑥′𝑝 che è ancora un intorno di 𝑧. La famiglia {𝐵𝑧′ }𝑧∈𝐾1 così definita è un ricoprimento aperto del compatto 𝐾1 ed ammette quindi un sottoricoprimento finito 𝐵𝑧′1 , … , 𝐵𝑧′𝑞 . L’insieme 𝑈 ′ ∶= 𝐵𝑧′1 ∪ ⋯ ∪ 𝐵𝑧′𝑞 è un aperto di 𝑋 contenente 𝐾1 e disgiunto dall’aperto 𝑈 ″ ∶= 𝐵𝑧″1 ∩ ⋯ ∩ 𝐵𝑧″𝑞 che contiene 𝐾2 . Fissati ora 𝑦1 , 𝑦2 ∈ 𝑌 , sappiamo che i compatti disgiunti 𝐾1 ∶= 𝑓 −1 ({𝑦1 }) e 𝐾2 ∶= 𝑓 −1 ({𝑦2 }) sono separati in 𝑋 da due aperti 𝑈 ′ e 𝑈 ″ . Per il Lemma 11.56, esistono due aperti 𝑉1 , 𝑉2 , intorni di 𝑦1 e 𝑦2 rispettivamente, tali che 𝐾1 ⊆ 𝑓 −1 (𝑉1 ) ⊆ 𝑈 ′ e 𝐾2 ⊆ 𝑓 −1 (𝑉2 ) ⊆ 𝑈 ″ . Si ha 𝑓 −1 (𝑉1 ) ∩ 𝑓 −1 (𝑉2 ) = ∅ e quindi 𝑉1 ∩ 𝑉2 = ∅. Supponiamo, in fine, che 𝑋 sia regolare, ossia 𝑇1 e 𝑇3 . Per quanto precede, basta provare che 𝑌 è 𝑇3 . Siano: 𝐶 ⊂ 𝑌 chiuso e 𝑦 ∈ 𝑌 ⧵ 𝐶, 𝐷 ∶= 𝑓 −1 (𝐶) e 𝐾 ∶= 𝑓 −1 ({𝑦}). Sappiamo che 𝐷 è chiuso e che 𝐾 è compatto. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾 esistono due aperti 𝑈𝑥′ , 𝑈𝑥″ fra loro disgiunti, con 𝑈𝑥′ intorno di 𝑥 e 𝑈𝑥″ ⊇ 𝐷. La famiglia {𝑈𝑥′ }𝑥∈𝐾 è un ricoprimento aperto del compatto 𝐾 ed ammette quindi un sottoricoprimento finito 𝑈𝑥′1 , … , 𝑈𝑥′𝑝 . Siano ora 𝑈 ′ ∶= 𝑈𝑥′1 ∪⋯∪𝑈𝑥′𝑝 e 𝑈 ″ ∶= 𝑈𝑥″1 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑥″𝑝 . 𝑈 ′ e 𝑈 ″ sono due aperti disgiunti contenenti rispettivamente
𝐾 e 𝐷. Esiste un intorno aperto 𝑉 ′ di 𝑦 con 𝐾 ⊆ 𝑓 −1 (𝑉 ′ ) ⊆ 𝑈 ′ . Per ogni 𝑧 ∈ 𝐶, si ha 𝑓 −1 ({𝑧}) ⊆ 𝐷 ⊆ 𝑈 ″ ; esiste quindi un intorno aperto 𝑉𝑧 di 𝑧 tale che 𝑓 −1 (𝑉𝑧 ) ⊆ 𝑈 ″ . L’insieme 𝑊 ∶= ⋃𝑧∈𝐶 𝑓 −1 (𝑉𝑧 ) è un aperto di 𝑋 contenuto in 𝑈 ″ e quindi disgiunto da 𝑈 ′ e tale che 𝐷 ⊆ 𝑊 ⊆ 𝑈 ″ . Gli insiemi 𝑉 ′ e 𝑉 ″ ∶= ⋃𝑧∈𝐶 𝑉𝑧 sono due aperti di 𝑌 che separano il punto 𝑦 e il chiuso 𝐶. Si noti che è 𝑓 −1 (𝑉 ″ ) = 𝑊 . Il fatto che la proprietà 𝑇4 e quindi la normalità si preservano si dimostra con un ragionamento analogo al precedente. (Esercizio!) 2. Supponiamo che 𝑋 sia 𝐴2 e siano 𝒜 ∶= (𝐴𝑛 )𝑛 una base numerabile di aperti di 𝑋 e 𝒰 la famiglia delle unioni finite di elementi di 𝒜 . Si osservi che anche 𝒰 è numerabile. Dato un 𝑦 ∈ 𝑌 , poniamo 𝐾𝑦 ∶= 𝑓 −1 ({𝑦}) e chiamiamo 𝐵𝑦 un arbitrario aperto di 𝑋 contenente 𝐾𝑦 . Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾𝑦 , fissiamo un intorno aperto di base 𝐴𝑛𝑥 di 𝑥 contenuto in 𝐵𝑦 . La famiglia degli 𝐴𝑛𝑥 , al variare di 𝑥 ∈ 𝐾𝑦 costituisce un ricoprimento aperto del compatto 𝐾𝑦 ed ammette quindi un sottoricoprimento finito 𝐴𝑛1 , … , 𝐴𝑛𝑝 . Si ha ovviamente 𝐴𝑛1 ∪⋯∪𝐴𝑛𝑝 ⊆ 𝐵𝑦 . Abbiamo così che, per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 e per ogni aperto 𝐵𝑦 contenente 𝐾𝑦 esiste un aperto 𝑈𝑦 ∈ 𝒰 tale che 𝐾𝑦 ⊆ 𝑈𝑦 ⊆ 𝐵𝑦 . Sempre per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , fissiamo un suo intorno 𝑉𝑦 tale che 𝑓 −1 (𝑉𝑦 ) ⊆ 𝑈𝑦 . Anche la famiglia 𝒱 dei 𝑉𝑦 è numerabile, essendo tale 𝒰. Proviamo che 𝒱 è una base per la topologia di 𝑌 . Fissiamo un 𝑦 ∈ 𝑌 e un suo intorno aperto 𝑊 ; poniamo poi 𝐵 ∶= 𝑓 −1 (𝑊 ). Esiste un aperto 𝑈𝑦 ∈ 𝒰 tale che 𝐾𝑦 ⊆ 𝑈𝑦 ⊆ 𝐵. Ne viene che esiste un intorno aperto 𝑉𝑦 di 𝑦 tale che 𝐾𝑦 ⊆ 𝑓 −1 (𝑉𝑦 ) ⊆ 𝑈𝑦 ⊆ 𝐵. Si conclude che è 𝑉𝑦 ∈ 𝒱 con 𝑦 ∈ 𝑉𝑦 ⊆ 𝑊 .
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Osservazione 11.59. Notiamo intanto che la semplice continuità di 𝑓 non basta per la validità delle implicazioni del precedente teorema. Per la 1 basta prendere la funzione identica 𝑖 ∶ (ℚ, 𝜏2 ) → (ℚ, 𝜏 ′ ), dove 𝜏 ′ è la topologia nulla. Veniamo al punto 2. Sia 𝑋 ∶= ℕ2 ∪ {𝑝}, con 𝑝 ∉ ℕ2 . In 𝑋, oltre a quella discreta 𝜏0 , introduciamo anche la seguente topologia 𝜏 (cfr. Esempio 1.77). I punti di ℕ2 sono isolati; una base di intorni di 𝑝 è data dagli insiemi del tipo 𝑈𝑓 ∶= {𝑝} ∪ {(𝑛, 𝑚) ∶ 𝑚 ≥ 𝑓 (𝑛)}, con 𝑓 ∶ ℕ → ℕ arbitraria. Sia poi 𝑖 ∶ (𝑋, 𝜏0 ) → (𝑋, 𝜏) la funzione identica. Chiaramente (𝑋, 𝜏0 ) è 𝐴2 , mentre (𝑋, 𝜏) non è nemmeno 𝐴1 . Osserviamo poi che, anche se 𝑓 è perfetta, non sussistono le implicazioni opposte di quelle del precedente teorema. Per il punto 1 basta prendere 𝑋 ∶= {𝑎, 𝑏} con la topologia nulla, 𝑌 ∶= {𝑦} e come 𝑓 l’unica applicazione possibile. Per la 2, basta prendere come 𝑋 uno spazio compatto e non 𝐴1 (per esempio 𝐼 𝐼 ) e ancora 𝑌 ∶= {𝑦}. ◁ Il risultato della Proposizione 11.58.2 può essere migliorato. Sussiste infatti il seguente teorema per la cui dimostrazione rimandiamo al libro di Engelking [18].
Teorema 11.60. Sino 𝑋, 𝑌 due spazi topologici e 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 una mappa perfetta. Allora si ha 𝑤(𝑌 ) ≤ 𝑤(𝑋) (cfr. Definizione 10.43). Consideriamo il seguente esempio banale. Siano 𝑋 ∶= ([0, 1], 𝜏𝑒 ), 𝑌 ∶= {0}, con l’unica topologia possibile ed 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 , la funzione costante. La mappa 𝑓 è chiaramente perfetta. Ovviamente, ogni base di 𝑋 è infinita (numerabile), mentre 𝑌 ha solo una base data da un solo elemento. Osserviamo poi che non sussiste un risultato analogo a quello della Proposizione 11.58.2 per la proprietà 𝐴1 , come mostra l’esempio che segue ancora tratto da [18].
Esempio 11.61. Siano dati gli spazi topologici (𝑋, 𝜏), (𝑌 , 𝜎) e la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 definiti come segue. (𝑋, 𝜏) è il cerchio doppio di Alexandrov dell’Esempio 7.57. Dunque 𝑋(⊂ ℝ2 ) è l’unione delle due circonferenze 𝐶1 e 𝐶2 di centro l’origine e raggi rispettivi 1 e 2. Si indica poi con 𝜑 ∶ 𝐶1 → 𝐶2 la proiezione radiale di 𝐶1 su 𝐶2 . I punti di 𝐶2 sono isolati. Un intorno di base di un punto 𝑧 ∈ 𝐶1 è un insieme del tipo 𝑈 ∪ 𝜑(𝑈 ⧵ {𝑧}), essendo 𝑈 un intorno euclideo di 𝑧 in 𝐶1 . 𝑌 ∶= 𝐶2 ∪ {0} dotato della topologia di Fort 𝜎 (cfr. Esempi 2.117 e 7.104): i punti di 𝐶2 sono isolati, gli intorni aperti di 0 sono gli insiemi cofiniti che lo contengono. In fine, la funzione 𝑓 è l’identità su 𝐶2 e porta tutti i punti di 𝐶1 in 0. Sappiamo che (𝑋, 𝜏) è compatto 𝐴1 , 𝑇2 , ma non 𝐴2 . Inoltre 𝐶1 è un chiuso del compatto 𝑋 ed è quindi compatto. Si è anche visto che (𝑌 , 𝜎) è un compatto 𝑇2 ; esso, chiaramente, non è 𝐴1 . Ci resta da mostrare che 𝑓 è perfetta. Essa è ovviamente suriettiva e, per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , 𝑓 −1 ({𝑦}) e compatto, dato che o è un punto o coincide con 𝐶1 . Quanto alla continuità, basta verificarla in un punto 𝑧 ∈ 𝐶1 . Sia dunque 𝑉 un intorno aperto di 0 = 𝑓 (𝑧); è quindi 𝑉 ∶= 𝑌 ⧵ 𝐷, con 𝐷 ∶= {𝑦1 , … , 𝑦𝑝 } ⊂ 𝐶2 ; preso ora un intorno 𝑈 di 𝑧 che escluda i punti
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𝜑−1 (𝑦𝑖 ), con 𝑦𝑖 ∈ 𝐷 ⧵ {𝜑(𝑧)}, si ha 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Fissiamo, in fine, un chiuso 𝐾 del compatto 𝑋; esso è quindi compatto; essendo 𝑓 continua, 𝑓 (𝐾) è un compatto di 𝑌 ed è pertanto chiuso, dato che 𝑌 è di Hausdorff. Abbiamo così ottenuto l’esempio di uno spazio 𝐴1 la cui immagine tramite una funzione perfetta non lo è. ◁
Teorema 11.62. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi topologici e 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 una mappa perfetta. 1. 𝑋 è compatto, di Lindelöf, se e solo se è tale 𝑌 . 2. Se 𝑋 è di Hausdorff, esso è localmente compatto, se e solo se è tale 𝑌 . 3. Se 𝑋 è regolare, esso è paracompatto, se e solo se è tale 𝑌 . 4. Se 𝑋 e 𝑌 sono completamente regolari, 𝑋 è Čech-completo se e solo se è tale 𝑌 .
Dimostrazione. 1. Compattezza. Basta ovviamente provare il “se”. Siano 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝑋 e ℬ la famiglia delle unioni finite di elementi di 𝒜 . Dato 𝑦 ∈ 𝑌 , l’insieme 𝐶𝑦 ∶= 𝑓 −1 ({𝑦}) è, per ipotesi, un compatto di 𝑋. Essendo 𝒜 un ricoprimento aperto di 𝐶𝑦 , esiste un aperto 𝐵 ∈ ℬ che lo contiene. Essendo 𝑓 chiusa, per il Lemma 11.56, esiste un intorno aperto 𝑉𝑦 (⊆ 𝑌 ) di 𝑦 tale che 𝐶𝑦 ⊆ 𝑓 −1 (𝑉𝑦 ) ⊆ 𝐵. Facendo variare 𝑦 ∈ 𝑌 , si ottiene un ricoprimento aperto 𝒱 ∶= {𝑉𝑦 }𝑦∈𝑌 di 𝑌 . Essendo 𝑌 compatto, 𝒱 ammette un sottoricoprimento finito 𝑉𝑦1 , … , 𝑉𝑦𝑝 . Le corrispondenti controimmagini sono un ricoprimento finito di 𝑋. La tesi segue dal fatto che ognuno di questi ultimi aperti è, a sua volta, contenuto nell’unione di un numero finito di elementi di 𝒜 . Lindelöf. Il “solo se” si prova come il Teorema di compattezza 7.35 e , in questo caso, la continuità di 𝑓 è sufficiente. Per il “se” si procede analogamente a quello appena visto per la compattezza. 2. Intanto, per il Teorema 11.58, sappiamo che anche 𝑌 è di Hausdorff. Proviamo il “solo se”. Sia 𝑋 localmente compatto. Fissiamo 𝑦 ∈ 𝑌 e proviamo che esso possiede un intorno a chiusura compatta; la tesi seguirà poi dalla Proposizione 9.56.3. Sia ancora 𝐾 ∶= 𝑓 −1 ({𝑦}). Ogni 𝑥 ∈ 𝐾 ammette un intorno aperto 𝑈𝑥 a chiusura compatta. La famiglia degli 𝑈𝑥 , al variare di 𝑥 ∈ 𝐾 costituisce un ricoprimento aperto del compatto 𝐾 ed ammette quindi un sottoricoprimento finito 𝑈𝑥1 , … , 𝑈𝑥𝑝 . Posto 𝑈 ∶= 𝑈𝑥1 ∪ ⋯ ∪ 𝑈𝑥𝑝 , si ha cl 𝑈 = cl(𝑈𝑥1 ∪⋯∪𝑈𝑥𝑝 ) = cl 𝑈𝑥1 ∪⋯∪cl 𝑈𝑥𝑝 che è un compatto. Da 𝐾 ⊆ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 si ottiene 𝑦 ∈ 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑓 (cl 𝑈 ) che è un compatto. Esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 con 𝑓 −1 (𝑉 ) ⊆ 𝑈 , da cui 𝑉 ⊆ 𝑓 (𝑈 ). Si conclude che cl 𝑉 è un sottoinsieme chiuso del compatto di Hausdorff 𝑓 (cl 𝑈 ) ed è quindi compatto. Proviamo il “se”. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑋 e poniamo 𝑦 ∶= 𝑓 (𝑥). Per ipotesi, 𝑦 ha un intorno aperto 𝑉 con 𝑉 ′ ∶= cl 𝑉 compatto. L’insieme 𝑈 ∶= 𝑓 −1 (𝑉 ) è un intorno aperto di 𝑥 contenuto nel chiuso 𝑈 ′ ∶= 𝑓 −1 (𝑉 ′ ). Sia ora 𝑔 ∶= 𝑓 |𝑈 ′ ∶ 𝑈 ′ → 𝑉 ′ . Se proviamo che 𝑔 è perfetta, allora 𝑈 ′ è compatto per il punto 1. La funzione 𝑔 è banalmente continua e suriettiva. Per ogni 𝑧 ∈ 𝑉 ′ , si ha 𝑔 −1 ({𝑧}) = 𝑓 −1 ({𝑧}) che è un compatto di 𝑋 contenuto in 𝑈 ′ . Dunque
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𝑔 −1 ({𝑧}) è un compatto di 𝑈 ′ . In fine, per ogni chiuso 𝐶 di 𝑈 ′ , si ha che 𝐶 è anche chiuso in 𝑋, dato che 𝑈 ′ è chiuso; si ottiene che 𝑔(𝐶) = 𝑓 (𝐶) ⊆ 𝑉 ′ è chiuso in 𝑌 ed è contenuto in 𝑉 ′ ; si conclude che 𝑔 è chiusa. 3. Ancora per il Teorema 11.58, sappiamo che anche 𝑌 è regolare. Proviamo il “solo se”. Sia 𝒜 ′ ∶= {𝐴′𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝑌 . La famiglia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 , con 𝐴𝛼 ∶= 𝑓 −1 (𝐴′𝛼 ), ∀𝛼 ∈ 𝐽 , è un ricoprimento aperto di 𝑋. Poiché 𝑋 è regolare, per il Lemma di Michael 8.10, esiste un raffinamento chiuso e localmente finito. Ragionando come nella dimostrazione del Lemma 8.6, potremo supporre che tale raffinamento sia anche preciso. Per verificare questa affermazione, sia ℰ ∶= {𝐸𝛽 }𝛽∈𝐽 ′ un raffinamento chiuso e localmente finito di 𝒜 . Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , consideriamo l’insieme 𝐽𝛼 (eventualmente vuoto) costituito dai 𝛽 ∈ 𝐽 ′ tali che 𝐸𝛽 ⊆ 𝐴𝛼 . Definiamo ora un nuovo ricoprimento ℬ ∶= {𝐵𝛼 }𝛼∈𝐽 , dove, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , è 𝐵𝛼 ∶= ⋃𝛽∈𝐽𝛼 𝐸𝛽 . La famiglia ℬ è un raffinamento preciso di 𝒜 . È localmente finito perché era tale ℰ . Inoltre, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , i 𝐵𝛼 sono chiusi, dato che per il Lemma 3.112, si ha cl 𝐵𝛼 = cl (
⋃
𝛽∈𝐽𝛼
𝐸𝛽 ) =
⋃
𝛽∈𝐽𝛼
cl 𝐸𝛽 =
⋃
𝛽∈𝐽𝛼
𝐸𝛽 = 𝐵𝛼 .
Abbiamo quindi ottenuto un ricoprimento localmente finito ℬ ∶= {𝐵𝛼 }𝛼∈𝐽 tale che, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , 𝐵𝛼 è un chiuso contenuto in 𝐴𝛼 . La famiglia ℬ ′ ∶= {𝑓 (𝐵𝛼 )}𝛼∈𝐽 è un ricoprimento chiuso di 𝑌 che è anche un raffinamento preciso di 𝒜 ′ . Rimane da dimostrare che ℬ ′ è localmente finita. Fissiamo un 𝑦 ∈ 𝑌 . L’insieme 𝑓 −1 ({𝑦}) è compatto. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑓 −1 ({𝑦}), esiste un suo intorno aperto 𝑈𝑥 tale che 𝑈𝑥 ha intersezione non vuota con al più un numero finito di elementi di ℬ. La famiglia degli 𝑈𝑥 , con 𝑥 ∈ 𝑓 −1 ({𝑦}) è un ricoprimento aperto di questo insieme. Per la sua compattezza, esiste un sottoricoprimento finito 𝑈𝑥1 , … , 𝑈𝑥𝑛 . Pertanto si ha 𝑓 −1 ({𝑦}) ⊆ 𝑈 ∶= 𝑈𝑥1 ∪ ⋯ ∪ 𝑈𝑥𝑛 . Per il Lemma 11.56, esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 tale che 𝑓 −1 (𝑉 ) ⊆ 𝑈 . Poiché 𝑈 ha intersezione non vuota con al più un numero finito di elementi di ℬ, accade lo stesso per 𝑓 −1 (𝑉 ) e quindi 𝑉 ha intersezione non vuota con al più un numero finito di elementi di ℬ ′ . Abbiamo verificato che nello spazio regolare 𝑌 ogni ricoprimento aperto ammette un raffinamento chiuso localmente finito; la tesi segue ancora dal Lemma di Michael 8.10. Proviamo il “se”. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝑋. Per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 l’insieme 𝑓 −1 ({𝑦}) è un compatto di 𝑋. Pertanto esiste una sottofamiglia finita 𝒜𝑦 di 𝒜 la cui riunione, che indicheremo con 𝑈𝑦 , contiene 𝑓 −1 ({𝑦}). Sempre per il Lemma 11.56, esiste un intorno aperto 𝑉𝑦 di 𝑦 tale che 𝑓 −1 ({𝑦}) ⊆ 𝑓 −1 (𝑉𝑦 ) ⊆ 𝑈𝑦 . La famiglia 𝒱 ∶= {𝑉𝑦 }𝑦∈𝑌 è un ricoprimento aperto di 𝑌 . Poiché 𝑌 è paracompatto, esiste un raffinamento aperto di 𝒱 localmente finito e preciso. Sia esso 𝒱 ′ ∶= {𝑉𝑦′ }𝑦∈𝑌 ; inoltre 𝑉𝑦′ ⊆ 𝑉𝑦 , ∀𝑦 ∈ 𝑌 . La famiglia ℬ ∶= {𝐵𝑦 }𝑦∈𝑌 , con 𝐵𝑦 ∶= 𝑓 −1 (𝑉𝑦′ ) è un ricoprimento di 𝑋, dato che 𝒱 ′ è un ricoprimento di 𝑌 . La famiglia ℬ è localmente finita. Infatti, fissato 𝑥 ∈ 𝑋, esiste un intorno aperto 𝑊 ′ di 𝑓 (𝑥) che interseca al più un numero finito di
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elementi di 𝒱 ′ . L’intorno aperto 𝑈 ′ di 𝑥 dato da 𝑈 ′ ∶= 𝑓 −1 (𝑊 ′ ) interseca al più un numero finito di elementi di ℬ. Costruiamo ora una nuova famiglia 𝒟 di sottoinsiemi di 𝑋 costituita dagli insiemi del tipo 𝐵𝑦 ∩ 𝐴, al variare di 𝐴 in 𝒜𝑦 . Gli elementi di 𝒟 sono chiaramente aperti, in quanto intersezioni finite di aperti. Si vede poi subito che anche 𝒟 è localmente finita. Essa è un ricoprimento di 𝑋. Infatti, per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , sussiste la seguente catena di inclusioni 𝐵𝑦 = 𝑓 −1 (𝑉𝑦′ ) ⊆ 𝑓 −1 (𝑉𝑦 ) ⊆ 𝑈𝑦 = 𝐴, ⋃ da cui
𝐵𝑦 = 𝐵 𝑦 ∩ 𝑈 𝑦 = 𝐵 𝑦 ∩ (
𝐴∈𝒜𝑦
⋃
𝐴∈𝒜𝑦
𝐴) = (𝐵 ∩ 𝐴). ⋃ 𝑦 𝐴∈𝒜𝑦
Pertanto ogni 𝐵𝑦 si può esprimere come unione finita di elementi di 𝒟 e quindi la riunione degli elementi di 𝒟 coincide con la riunione degli elementi di ℬ che dà 𝑋. In fine, 𝒟 è un raffinamento di 𝒜 . Infatti, se 𝐷 ∈ 𝒟 , esso è del tipo 𝐵𝑦 ∩ 𝐴 ⊆ 𝐴 ∈ 𝒜 . 4. Proviamo il “solo se”. Supponiamo che 𝑋 sia Čech-completo. Per definizione, 𝑋 è un 𝐺𝛿 in 𝛽𝑋 e, pertanto, 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 è un 𝐹𝜎 e quindi si ha 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 = ⋃𝑛 𝐶𝑛 , con i 𝐶𝑛 chiusi di 𝛽𝑋 (quindi compatti) e contenuti in 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋. ̂ ̂ 𝑛 ), con gli insiemi 𝑓 (𝐶 ̂ 𝑛 ) chiuPer il Lemma 11.57, 𝛽𝑌 ⧵𝑌 = 𝑓 (𝛽𝑋 ⧵𝑋) = ⋃𝑛 𝑓 (𝐶 si di 𝛽𝑌 in quanto compatti; inoltre essi sono contenuti in 𝛽𝑌 ⧵ 𝑌 che pertanto risulta essere un 𝐹𝜎 . Proviamo il “se”. Supponiamo che 𝑌 sia Čech-completo. Per definizione, 𝑌 è un 𝐺𝛿 in 𝛽𝑌 e, pertanto, 𝛽𝑌 ⧵ 𝑌 è un 𝐹𝜎 e quindi si ha 𝛽𝑌 ⧵ 𝑌 = ⋃𝑛 𝐶𝑛′ , con i 𝐶𝑛′ chiusi di 𝛽𝑌 e contenuti in 𝛽𝑌 ⧵ 𝑌 . Per il Lemma 11.57, 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 = ̂ (𝛽𝑌 ⧵ 𝑌 ) = ⋃ 𝑓 −1 ̂ (𝐶𝑛′ ), con gli insiemi 𝑓 −1 ̂ (𝐶𝑛′ ) chiusi di 𝛽𝑋; inoltre essi 𝑓 −1 𝑛 sono contenuti in 𝛽𝑋 ⧵ 𝑋 che pertanto risulta essere un 𝐹𝜎 . Osservazione 11.63. Sappiamo che immagini continue di spazi compatti (di Lindelöf) sono compatte (di Lindelöf). Mostriamo che per le altre proposizioni del precedente teorema la sola continuità di 𝑓 non è sufficiente. In ogni caso, per quanto riguarda il “se”, basta partire da uno spazio che non ha la proprietà in oggetto e prendere come 𝑌 uno spazio con un solo punto. Veniamo ai “solo se”. Punto 2. Sia 𝑖 ∶ (ℝ, 𝜏0 ) → (ℝ, 𝜏 + ) la funzione identica, dove 𝜏0 è la topologia discreta. Sappiamo che (ℝ, 𝜏0 ) è localmente compatto, mentre non lo è (ℝ, 𝜏 + ) (cfr. Esempio 9.60). L’Osservazione 8.9 mostra che l’immagine continua di uno spazio paracompatto non è sempre paracompatta. Punto 4. Il Corollario 11.70 ci dirà che ogni spazio con la topologia discreta è Čechcompleto. Basta dunque prendere la funzione identica 𝑖 ∶ (𝑋, 𝜏0 ) → (𝑋, 𝜏), con (𝑋, 𝜏) non Čech-completo. ◁ Definizione 11.64. Uno spazio topologico è detto 𝜎-compatto se è unione al più numerabile di spazi compatti. ◁
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Per esempio (ℝ, 𝜏𝑒 ), pur non essendo compatto, è 𝜎-compatto. Ovviamente, ogni spazio 𝜎-compatto è di Lindelöf, mentre non sussiste l’implicazione opposta (cfr. Esempio 11.68). Più in generale, si ha che:
Lemma 11.65. 1. L’unione al più numerabile di spazi 𝜎-compatti è 𝜎-compatta. 2. Il prodotto di un numero finito di spazi 𝜎-compatti è 𝜎-compatto. 3. Il prodotto al più numerabile di spazi 𝜎-compatti è di Lindelöf.
Dimostrazione. 1. Sia 𝑋 = ⋃𝑛∈ℕ 𝑋𝑛 , con gli 𝑋𝑛 spazi 𝜎-compatti. Dunque, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, si ha 𝑋𝑛 = ⋃𝑘∈ℕ 𝑋𝑛,𝑘 , con gli 𝑋𝑛,𝑘 compatti. Si ha pertanto 𝑋 = ⋃(𝑛,𝑘)∈ℕ2 𝑋𝑛,𝑘 , da cui la tesi, dato che ℕ2 è numerabile. 2. Sia 𝑋 = ∏𝑚 𝑖=1 𝑋𝑖 con gli 𝑋𝑖 spazi 𝜎-compatti. Dunque, per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑚}, si ha 𝑋𝑖 = ⋃𝑘∈ℕ 𝑋𝑖,𝑘 , con gli 𝑋𝑖,𝑘 compatti. Facciamo induzione su 𝑚. Il caso 𝑚 = 1 è ovvio. Sia 𝑚 = 2. Per 𝑛 = 2, si ha 𝑋 = ⋃(𝑝,𝑞)∈ℕ2 𝑋1,𝑝 × 𝑋2,𝑞 , da cui la tesi. Poi basta osservare che 𝑋1 × ⋯ × 𝑋𝑚+1 è omeomorfo a (𝑋1 × ⋯ × 𝑋𝑚 ) × 𝑋𝑚+1 e applicare il passo precedente tenendo conto dell’ipotesi induttiva. 3. Sia 𝑋 = ∏𝑛∈ℕ 𝑋𝑛 con gli 𝑋𝑛 spazi 𝜎-compatti. Dunque, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, si ha 𝑋𝑛 = ⋃𝑘∈ℕ 𝑋𝑛,𝑘 , con gli 𝑋𝑛,𝑘 compatti. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝑍𝑛 ∶= ∐𝑘 𝑋𝑛,𝑘 . Formalmente, è 𝑍𝑛 ∶= ⋃(𝑋𝑛,𝑘 × {𝑘}) (cfr. Definizione 6.47, dove si è usata la notazione (𝐴𝑖 , 𝑖) in luogo di 𝐴𝑖 × {𝑖}.) Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, 𝑍𝑛 si proietta suriettivamente e in modo continuo su 𝑋𝑛 (Esercizio!). Quindi lo spazio prodotto 𝑍 ∶= ∏𝑛∈ℕ 𝑍𝑛 si mappa suriettivamente e in modo continuo su 𝑋. Poiché 𝑋 è immagine continua di 𝑍, se dimostriamo che 𝑍 è Lindelöf, allora risulterà tale anche 𝑋 (Osservazione 11.63). In virtù di questa osservazione preliminare, possiamo d’ora in avanti focalizzare la nostra attenzione su 𝑍. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝑓𝑛 ∶ 𝑍𝑛 → ℕ la mappa definita da 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 𝑘, ∀𝑥 ∈ 𝑋𝑛,𝑘 × {𝑘}. È facile verificare che le mappe 𝑓𝑛 sono perfette (Esercizio!). Le applicazioni 𝑓𝑛 inducono in modo naturale un’applicazione 𝑔 ∶ 𝑍 → ℕℕ dotato della topologia prodotto. Per definizione, si ha 𝑔(𝑧) = 𝑔((𝑧𝑛 )𝑛 ) ∶= (𝑓𝑛 (𝑧𝑛 ))𝑛 . Proviamo che anche la mappa 𝑔 è perfetta. La verifica che 𝑔 sia suriettiva e continua è del tutto standard ed è lasciata come esercizio. Sia ora 𝑦 = (𝑦𝑛 )𝑛 ∈ ℕℕ un elemento fissato e mostriamo che 𝑔 −1 ({𝑦}) è compatto in 𝑍. Si osserva che 𝑥 = (𝑥𝑛 )𝑛 ∈ 𝑔 −1 ({𝑦}) se e solo se, per ogni 𝑛, 𝑓𝑛 (𝑥𝑛 ) = 𝑦𝑛 e quindi se e solo se 𝑥𝑛 ∈ 𝑋𝑛,𝑦𝑛 . Si ottiene che 𝑔 −1 ({𝑦}) coincide con il prodotto dei compatti 𝑋𝑛,𝑦𝑛 che è un insieme compatto per il Teorema di Tychonoff. Resta da provare che 𝑔 è chiusa. Sfrutteremo il Lemma 11.56. Sia ancora 𝑦 = (𝑦𝑛 )𝑛 ∈ ℕℕ un elemento fissato e sia 𝑈 un aperto di 𝑍 contenente il compatto 𝑔 −1 ({𝑦}). Per il Teorema di Wallace 11.53, esiste un aperto di base 𝐵 tale che 𝑔 −1 ({𝑦}) ⊆ 𝐵 ⊆ 𝑈 . Per definizione di aperto di base, si ha 𝐵 ∶= ∏𝑛∈ℕ 𝑍𝑛′ , dove 𝑍𝑛′ è un aperto di 𝑍𝑛 che coincide con 𝑍𝑛 salvo al più un insieme finito 𝐽 ′ di indici. Fissiamo 𝑚 ∈ 𝐽 ′ . L’aperto 𝑍𝑚′ contiene la controimmagine 𝐴′𝑚 ∶= 𝑓𝑚−1 ({𝑦𝑚 }) che è un aperto di 𝑍𝑛 . Prendendo quindi l’aperto 𝑉 ∶= ∏𝑛∈ℕ 𝑉𝑛′ , dove 𝑉𝑛′ = {𝑦𝑛 }, ∀𝑛 ∈ 𝐽 ′ e 𝑉𝑛′ = ℕ altrimenti, si ha che 𝑔 −1 (𝑉 ) è un
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aperto di 𝑍 contenente 𝑔 −1 ({𝑦}) e contenuto in 𝐵 (che, a sua volta, è contenuto in 𝑈 ). Abbiamo in questo modo dimostrato che 𝑔 ∶ 𝑍 → ℕℕ è perfetta. Lo spazio ℕ ℕ è 𝐴2 (Teorema 6.37) e quindi Lindelöf (Lemma 7.61). Per la Proposizione 11.62.1, si conclude che anche 𝑍 è Lindelöf e, per quanto sopra premesso, è tale anche 𝑋. A questo punto è naturale chiedersi sotto quali condizioni il prodotto di infiniti spazi 𝜎-compatti è ancora 𝜎-compatto. Ovviamente, una condizione sufficiente è che gli spazi fattore siano tutti compatti, tranne al più un numero finito. Ebbene questa condizione è anche necessaria. Sussiste infatti il seguente risultato: Teorema 11.66. Il prodotto infinito di spazi non compatti non è mai 𝜎compatto. In particolare, il prodotto di infiniti spazi 𝜎-compatti, ma non compatti, non è 𝜎-compatto.
Dimostrazione. Sia 𝑋 = ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 , con 𝐽 infinito e gli 𝑋𝛼 non compatti. Supponiamo, per assurdo che sia 𝑋 = ⋃𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 , con i 𝐶𝑛 compatti. 𝐽 contiene un sottoinsieme numerabile che possiamo identificare con ℕ. Fissiamo un punto 𝑤 ∶= (𝑤𝛼 )𝛼 ∈ 𝑋. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ sia 𝑝𝑛 la proiezione di indice 𝑛 di 𝑋. Siccome, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, 𝑋𝑛 non è compatto, si ha che il compatto 𝑝𝑛 (𝐶𝑛 ) è un suo sottoinsieme proprio; esiste quindi 𝑦𝑛 ∈ 𝑋𝑛 ⧵ 𝑝𝑛 (𝐶𝑛 ). Consideriamo, in fine, l’elemento 𝑧 ∶= (𝑧𝛼 )𝛼 definito da 𝑧𝑛 ∶= 𝑦𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ e 𝑧𝛽 ∶= 𝑤𝛽 , ∀𝛽 ∈ 𝐽 ⧵ ℕ. Per costruzione, si ha 𝑧 ∈ 𝑋 ⧵ ⋃𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 . Teorema 11.67. 1. Il prodotto al più numerabile di spazi Čech-completi è Čech-completo. 2. La somma diretta di una famiglia arbitraria di spazi Čech-completi è uno spazio Čech-completo. 3. Il prodotto al più numerabile di spazi Čech-completi e Lindelöf è Čechcompleto e Lindelöf.
Dimostrazione. 1. Sia 𝑋 ∶= ∏𝑘∈ℕ 𝑋𝑘 , dove gli 𝑋𝑘 sono spazi Čech-completi. Ogni 𝑋𝑘 è denso in 𝑌𝑘 ∶= 𝛽𝑋𝑘 . In virtù del Teorema 11.38, per arrivare alla tesi basterà mostrare che 𝑋 è un 𝐺𝛿 del compatto 𝑌 ∶= ∏𝑘∈ℕ 𝑌𝑘 . Passando ai complementari, verificheremo equivalentemente che 𝑌 ⧵ 𝑋 è un 𝐹𝜎 . Per ogni 𝑘 ∈ ℕ, 𝑌𝑘 ⧵ 𝑋𝑘 è un 𝐹𝜎 di 𝑌𝑘 . Pertanto, esiste una famiglia numerabile 𝒞𝑘 ∶= {𝐶𝑘,𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} di chiusi/compatti di 𝑌𝑘 la cui unione coincide con 𝑌𝑘 ⧵𝑋𝑘 . Sia 𝐷𝑘,𝑛 ∶= 𝑝−1 𝑘 (𝐶𝑘,𝑛 ), ∀𝑘, 𝑛, dove, per ogni 𝑘, 𝑝𝑘 è la proiezione di 𝑌 sul suo fattore 𝑘-imo. L’insieme 𝐷 ∶= ⋃𝑘,𝑛 𝐷𝑘,𝑛 è chiaramente un 𝐹𝜎 di 𝑌 e, per definizione, risulta 𝑋 = 𝑌 ⧵ 𝐷 (Esercizio!). 2. Sia 𝑋 ∶= ∐𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 , dove gli 𝑋𝛼 sono spazi Čech-completi che, convenzionalmente, supponiamo insiemisticamente a due a due disgiunti. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , consideriamo la compattificazione 𝑌𝛼 ∶= 𝛽𝑋𝛼 e sia 𝑌 ∶= ∐𝛼∈𝐽 𝑌𝛼 , dove
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anche gli 𝑌𝛼 si considerano a due a due disgiunti. Verifichiamo che 𝑋 è denso in 𝑌 . Siano 𝐴 un aperto non vuoto di 𝑌 e, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , 𝐴𝛼 la sua traccia in 𝑌𝛼 . Esiste almeno un 𝛼 ∈ 𝐽 con 𝐴𝛼 ≠ ∅; in questo 𝐴𝛼 cadono punti di 𝑋𝛼 e quindi di 𝑋. Sia ora 𝑍 ∶= 𝛽𝑌 . Essendo 𝑋 denso in 𝑌 e 𝑌 denso in 𝑍, anche 𝑋 è denso in 𝑍 che è quindi una compattificazione di 𝑋. Osserviamo che 𝑌 è aperto in 𝑍. Infatti, fissato un 𝑦 ∈ 𝑌 , esiste uno (e un solo) indice 𝛼 tale che 𝑦 ∈ 𝑌𝛼 . L’insieme 𝑈 ∶= 𝑌𝛼 è un intorno aperto di 𝑦 in 𝑌 . Per definizione di sottospazio, esiste un aperto 𝑉 di 𝑍 tale che 𝑈 = 𝑉 ∩ 𝑌 . 𝑈 è denso in 𝑉 (dato che 𝑌 è denso in 𝑍). D’altra parte, 𝑈 , essendo un compatto, è tale anche in 𝑍 (Lemma 9.47) e quindi si ha 𝑈 = 𝑉 . In conclusione, per ogni 𝑦 ∈ 𝑌 , esiste un aperto 𝑉 di 𝑍 con 𝑦 ∈ 𝑉 ⊆ 𝑌 . Inoltre, come conseguenza, ogni aperto di 𝑌𝛼 è aperto in 𝑌 e quindi in 𝑍. poiché, su ogni componente 𝑋𝛼 esiste una famiglia numerabile di aperti 𝐴𝑛𝛼 di 𝑌𝛼 tali che 𝑋𝛼 = ⋂𝑛 𝐴𝑛𝛼 , si ha 𝑋 = ⋂𝑛 𝐵𝑛 , essendo, per ogni 𝑛, 𝐵𝑛 ∶= ⋃𝛼∈𝐽 𝐴𝑛𝛼 ; inoltre i 𝐵𝑛 sono aperti in 𝑍 per quanto precedentemente osservato. Si conclude così che 𝑋 è un 𝐺𝛿 nella sua estensione compatta di Hausdorff 𝑍. 3. Sia 𝑋 ∶= ∏𝑘∈ℕ 𝑋𝑘 , dove gli 𝑋𝑘 sono spazi Čech-completi e di Lindelöf. Vogliamo provare che anche 𝑋, che sappiamo già essere Čech-completo, è ancora di Lindelöf. Procediamo per tappe. Per ogni 𝑘, esiste una famiglia numerabile 𝒜𝑘 ∶= (𝐴𝑘𝑛 )𝑛 di aperti di 𝑌𝑘 ∶= 𝛽𝑋𝑘 tali che ⋂𝑛 𝐴𝑘𝑛 = 𝑋𝑘 . Fissiamo un 𝑘. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋𝑘 e per ogni 𝑛, esiste un aperto 𝑉𝑥𝑛 di 𝑌𝑘 tale che 𝑥 ∈ 𝑉𝑥𝑛 ⊆ cl𝑌𝑘 𝑉𝑥𝑛 ⊆ 𝐴𝑘𝑛 . Fissato ora 𝑛, la famiglia {𝑉𝑥𝑛 ∶ 𝑥 ∈ 𝑋𝑘 } costituisce un ricoprimento aperto di 𝑋𝑘 di cui prenderemo un sottoricoprimento numerabile ℬ𝑛 che esiste dato che 𝑋𝑘 è di Lindelöf. Sempre fissati 𝑘 ed 𝑛, sia 𝑃𝑘𝑛 ∶= ⋃𝑉 ∈ℬ𝑛 cl𝑌𝑘 𝑉 . Il sottospazio 𝑃𝑘𝑛 di 𝑌𝑘 così introdotto è un 𝜎-compatto. Inoltre si ha 𝑋𝑘 ⊆ 𝑃𝑘𝑛 ⊆ 𝐴𝑘𝑛 . Si ottiene 𝑋𝑘 = ⋂𝑛 𝐴𝑘𝑛 = ⋂𝑛 𝑃𝑘𝑛 . Per il Lemma 11.54, lo spazio 𝑋𝑘 si immerge come sottospazio chiuso nello spazio 𝑃𝑘 ∶= ∏𝑛 𝑃𝑘𝑛 . Quindi 𝑋 = ∏𝑘 𝑋𝑘 si immerge come sottospazio chiuso dello spazio 𝑃 ∶= ∏𝑘 𝑃𝑘 . Infatti, pensando gli 𝑋𝑘 come sottoinsiemi chiusi dei 𝑃𝑘 , se 𝑤 ∶= (𝑤𝑘 )𝑘 ∈ 𝑃 ⧵ 𝑋, esiste almeno un indice ℎ tale che 𝑤ℎ ∈ 𝑃ℎ ⧵ 𝑋ℎ . Esiste quindi un intorno aperto 𝑈ℎ di 𝑤ℎ con 𝑈ℎ ⊆ 𝑃ℎ ⧵ 𝑋ℎ . L’aperto 𝑈 ∶= ∏𝑘 𝑈𝑘′ , con 𝑈ℎ′ ∶= 𝑈ℎ e 𝑈𝑘′ = 𝑃𝑘 altrimenti, è un intorno di 𝑤 disgiunto da 𝑋. Ogni spazio 𝑃𝑘 è un prodotto numerabile di spazi 𝜎-compatti ed è quindi tale anche lo spazio 𝑃 . Si conclude che 𝑃 è di Lindelöf per la Proposizione 11.65.3. Arrivati a questo punto, concludiamo che 𝑋, a meno di omeomorfismi, è un sottospazio chiuso di uno spazio di Lindelöf ed è quindi esso stesso di Lindelöf (Esercizio!, cfr. Proposizione 7.30.1). Esempio 11.68. Sappiamo che lo spazio di Sorgenfrey (ℝ, 𝜏 + ) è un 𝑘-spazio, è di Baire e non è localmente compatto (cfr. Esempio 9.71). Sappiamo altresì che esso è di Lindelöf, mentre non lo è il suo quadrato (cfr. Esempio 7.105).
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Mostriamo che (ℝ, 𝜏 + ) non è Čech-completo. Infatti, in caso contrario, il suo quadrato dovrebbe essere ancora Čech-completo e di Lindelöf per il teorema precedente. Ma ciò porterebbe a una contraddizione. Analogamente, se (ℝ, 𝜏 + ) fosse 𝜎-compatto, risulterebbe tale anche il suo quadrato che quindi sarebbe ancora di Lindelöf. ◁ Il prossimo risultato chiarisce il motivo per cui gli spazi in esame sono detti completi secondo Čech. Teorema 11.69. Uno spazio topologico metrizzabile è Čech-completo se e solo se la topologia è deducibile da una metrica completa.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio metrizzabile. 1. Supponiamo intanto che 𝜏 sia deducibile da una metrica completa 𝑑. Utilizzeremo il Teorema 11.43 esibendo una famiglia numerabile di ricoprimenti aperti che è “completa” (cfr. inizio della dimostrazione del teorema citato). Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝒜𝑛 ∶= {𝐴 ∈ 𝜏 ∶ diam 𝐴 < 1/(𝑛 + 1)} .
Osserviamo che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 la palla aperta 𝐵(𝑥, 𝑟), con 𝑟 < 1/(2𝑛+2) appartiene ad 𝒜𝑛 ; pertanto 𝒜𝑛 è un ricoprimento aperto di 𝑋. Il nostro scopo sarà di verificare che la famiglia numerabile (𝒜𝑛 )𝑛 di ricoprimenti aperti è completa. Sia quindi ℱ una famiglia di chiusi con la PIF dominata dalla famiglia (𝒜𝑛 )𝑛 . Ricordiamo che ciò significa che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, esistono 𝐹𝑛 ∈ ℱ e 𝐴𝑛 ∈ 𝒜𝑛 tali che 𝐹𝑛 ⊆ 𝐴𝑛 . In questa situazione, poniamo 𝐶𝑛 ∶= 𝐹0 ∩𝐹1 ∩⋯∩𝐹𝑛 . Per ogni 𝑛, 𝐶𝑛 è un chiuso non vuoto (per la PIF) contenuto in 𝐴𝑛 e quindi diam 𝐶𝑛 < 1/(𝑛+1). Inoltre, per costruzione, la successione dei 𝐶𝑛 è decrescente. Per il Teorema 3.61 (Lemma di Cantor per successioni evanescenti), esiste un (unico) elemento 𝑧 ∈ ⋂𝑛 𝐶𝑛 . Per concludere questa parte della dimostrazione, verifichiamo che 𝑧 ∈ 𝐹 , ∀𝐹 ∈ ℱ . Supponiamo, per assurdo, che esista 𝐹 ∗ ∈ ℱ tale che 𝑧 ∉ 𝐹 ∗ . Poiché 𝐹 ∗ è chiuso, esiste una palla aperta 𝐵 ∶= 𝐵(𝑧, 𝜀) tale che 𝐵 ∩ 𝐹 ∗ = ∅. Prendiamo inoltre 𝑚 ∈ ℕ sufficientemente grande affinché sia 1/(𝑚 + 1) < 𝜀. In corrispondenza a tale 𝑚, consideriamo l’insieme 𝐹𝑚 . Poiché la famiglia ℱ gode della PIF, esiste un punto 𝑦 ∈ 𝐹 ∗ ∩ 𝐹𝑚 . Dato che 𝑦 ∈ 𝐹 ∗ , si ha 𝑑(𝑦, 𝑧) ≥ 𝜀. D’altra parte, 𝑦, 𝑧 ∈ 𝐹𝑚 e quindi 𝑑(𝑦, 𝑧) ≤ diam 𝐹𝑚 ≤ diam 𝐴𝑚 ≤ 1/(𝑚 + 1) < 𝜀. 2. Supponiamo ora che (𝑋, 𝜏) sia Čech-completo e sia ancora 𝑑 una distanza che genera 𝜏. Per il Teorema 3.84, (𝑋, 𝑑) ammette un completamento (𝑋 ′ , 𝑑 ′ ) per cui, identificando 𝑋 con la sua immagine isometrica nel completamento, possiamo pensare 𝑋 come sottoinsieme denso di 𝑋 ′ . Poiché (𝑋, 𝜏) è Čechcompleto, 𝑋 è un 𝐺𝛿 in 𝑋 ′ che è una sua estensione completamente regolare (cfr. Teorema 11.38). Arrivati a questo punto, verificheremo che 𝑋 si può immergere in 𝑋 ′ × ℝℕ come sottospazio chiuso. Supposto, per un momento, di aver verificato ciò, osserviamo che ℝℕ si può dotare, in modo naturale, di una metrica che lo rende completo e, di conseguenza accade lo stesso anche per 𝑋 ′ × ℝℕ (cfr. Teorema 6.32). In conclusione, 𝑋 si può immergere in modo
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omeomorfo come un chiuso (e quindi completo) dello spazio metrico completo 𝑋 ′ × ℝℕ e, pertanto, la topologia 𝜏 di 𝑋 è deducibile da una metrica completa. Resta da provare il seguente risultato tecnico: (∗) Sia (𝑌 , 𝜌) uno spazio metrico arbitrario e sia 𝑋 un 𝐺𝛿 di 𝑌 ; allora 𝑋 si immerge in 𝑌 × ℝℕ come sottospazio chiuso. Poiché 𝑋 è un 𝐺𝛿 in 𝑌 , possiamo esprimere l’insieme 𝑌 ⧵ 𝑋 come unione numerabile di chiusi 𝐶𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ+ . Per evitare banalità in quello che segue, supporremo che tutti i 𝐶𝑛 siano non vuoti. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e 𝑛 ∈ ℕ, poniamo 𝜑𝑛 (𝑥) ∶= 1/𝜌(𝑥, 𝐶𝑛 ) = 1/ inf {𝜌(𝑥, 𝑦) ∶ 𝑦 ∈ 𝐶𝑛 }. Poiché 𝑥 ∉ 𝐶𝑛 , che a sua volta è un chiuso, si ha 𝜌(𝑥, 𝐶𝑛 ) > 0 e che la funzione 𝜑𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ è continua (cfr. Teorema 3.42). Ponendo 𝑌0 ∶= 𝑌 e 𝑌𝑛 ∶= ℝ, ∀𝑛 ∈ ℕ+ , risulta evidentemente + che lo spazio prodotto 𝑍 ∶= ∏𝑛∈ℕ 𝑌𝑛 è omeomorfo a 𝑌 × ℝℕ (che, a sua volta è omeomorfo a 𝑌 × ℝℕ ). Per ogni 𝑘 ∈ ℕ, sia inoltre 𝑝𝑘 ∶ 𝑍 → 𝑌𝑘 la proiezione naturale 𝑘-ima. Definiamo ora un’applicazione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑍, che sarà l’immersione cercata, ponendo 𝑓 (𝑥) ∶= (𝑓𝑛 (𝑥))𝑛 ;
con 𝑓0 (𝑥) ∶= 𝑥, 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 𝜑𝑛 (𝑥), ∀𝑛 ∈ ℕ+ .
Per quanto riguarda la funzione 𝑓0 , osserviamo che essa associa a un elemento 𝑥 ∈ 𝑋 lo stesso oggetto pensato come elemento di 𝑌 e quindi, a tutti gli effetti, è l’immersione naturale di 𝑋 in 𝑌 . Il fatto interessante in questa costruzione è che non è detto che 𝑋 sia immerso in 𝑌 come sottospazio chiuso, mentre vedremo che lo sarà in 𝑍. Procediamo con tappe successive. La funzione 𝑓 è continua. Per il Corollario 6.9, 𝑓 è continua se e solo se 𝑝𝑘 ∘ 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌𝑘 è continua per ogni 𝑘. Ma ciò è ovvio per la definizione di 𝑓 e la continuità delle 𝜑𝑛 . Essa, inoltre, è iniettiva essendo tale la sua prima componente. Posto 𝑊 ∶= 𝑓 (𝑋), 𝑓 è ovviamente biiettiva fra 𝑋 e 𝑊 e, inoltre, 𝑓 −1 ∶ 𝑊 → 𝑋 è continua. Infatti, l’applicazione 𝑓 −1 su 𝑊 opera associando ad ogni 𝑧 = (𝑥, 𝜑1 (𝑥), … , 𝜑𝑛 (𝑥), … ) l’elemento 𝑥 e quindi 𝑓 −1 coincide con la proiezione 𝑝0 ristretta a 𝑊 . Per concludere, verifichiamo che 𝑊 è chiuso in 𝑍. Sia 𝑧 ∶= (𝑧𝑛 )𝑛 ∈ 𝑍 ⧵ 𝑊 . Sono possibili due casi: 𝑧0 ∈ 𝑋 o 𝑧0 ∉ 𝑋. Consideriamo il primo caso. Poiché 𝑧0 ∈ 𝑋, ma 𝑧 ∉ 𝑊 , esiste un indice 𝑖 ∈ ℕ+ tale che 𝑧𝑖 ≠ 𝜑𝑖 (𝑧0 ). Prendiamo due intervalli aperti e disgiunti 𝑈 , 𝑉 di ℝ ∶= 𝑌𝑖 centrati rispettivamente in 𝑧𝑖 e 𝜑𝑖 (𝑧0 ). Pe la continuità della funzione 𝜑𝑖 esiste un intorno 𝑉 ′ di 𝑧0 in 𝑌 tale ′ −1 che 𝜑𝑖 (𝑉 ′ ∩ 𝑋) ⊆ 𝑉 . L’insieme 𝐴 ∶= 𝑝−1 0 (𝑉 ) ∩ 𝑝𝑖 (𝑈 ) è aperto in 𝑍. Inoltre, per costruzione, 𝑧 ∈ 𝐴. Vediamo che è 𝐴 ∩ 𝑊 = ∅. Infatti se, per assurdo, esistesse un elemento 𝑡 ∶= (𝑡𝑛 )𝑛 ∈ 𝐴 ∩ 𝑊 , allora si avrebbe 𝑡0 ∈ 𝑋 ∩ 𝑉 ′ e quindi, essendo 𝜑𝑖 (𝑉 ′ ∩ 𝑋) ⊆ 𝑉 , si avrebbe 𝑡𝑖 = 𝜑𝑖 (𝑡0 ) ∈ 𝑉 . D’altra parte, da 𝑡 ∈ 𝐴 seguirebbe 𝑡𝑖 ∈ 𝑈 , per cui avremmo 𝑡𝑖 ∈ 𝑈 ∩ 𝑉 , contro il fatto che 𝑈 e 𝑉 sono disgiunti. Supponiamo, in fine, che sia 𝑧0 ∉ 𝑋. Poiché 𝑌 ⧵𝑋 è la riunione dei 𝐶𝑛 , esiste un 𝑘 tale che 𝑧0 ∈ 𝐶𝑘 . In questo caso, prendiamo un 𝑟 > 0, sufficientemente piccolo, con 1/𝑟 > 𝑧𝑘 + 1 e consideriamo gli aperti 𝑈 ∶= 𝐵(𝑧0 , 𝑟) ⊆ 𝑌 = 𝑌0 e
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−1 𝑉 ∶= ] − ∞, 𝑧𝑘 + 1[ ⊂ ℝ =∶ 𝑌𝑘 . L’insieme 𝐴 ∶= 𝑝−1 0 (𝑈 ) ∩ 𝑝𝑘 (𝑉 ) è aperto in 𝑍. Inoltre, per costruzione, 𝑧 ∈ 𝐴. Vediamo che è 𝐴 ∩ 𝑊 = ∅. Infatti se, per assurdo, esistesse un elemento 𝑡 ∶= (𝑡𝑛 )𝑛 ∈ 𝐴 ∩ 𝑊 , allora si avrebbe 𝑡0 ∈ 𝑋 ∩ 𝑈 . Quindi 𝑡0 appartenendo alla palla di centro 𝑧0 e raggio 𝑟, disterebbe da 𝑧0 meno di 𝑟. D’altra parte, 𝑧0 ∈ 𝐶𝑘 e quindi 𝜌(𝑡0 , 𝐶𝑘 ) ≤ 𝜌(𝑡0 , 𝑧0 ) < 𝑟, per cui 𝜑𝑘 (𝑡0 ) > 1/𝑟 > 𝑧𝑘 + 1. Dalla condizione 𝑡 ∈ 𝑝−1 𝑘 (𝑉 ) otteniamo però che è 𝑡𝑘 ∈ 𝑉 , cioè 𝑡𝑘 < 𝑧𝑘 + 1 e questo, tenendo conto che 𝑡𝑘 = 𝜑𝑘 (𝑡0 ) (dato che 𝑡 ∈ 𝑊 ) porta a un’evidente contraddizione.
Corollario 11.70. Ogni spazio con la topologia discreta è Čech-completo. Osservazione 11.71. Dal Teorema 11.69, tenuto conto dell’Esempio 11.41, si ottiene che l’insieme 𝑄′ ∶= ℝ ⧵ ℚ con la topologia euclidea può essere dotato di una distanza 𝑑 ̂ che induca la medesima topologia e tale che (ℚ′ , 𝑑)̂ sia uno spazio metrico completo. Vediamo di descrivere questa distanza. L’insieme ℝ è un completamento di ℚ′ . L’insieme ℝ ⧵ ℚ′ (= ℚ) è unione di un’infinità numerabile di singoletti che sono insiemi chiusi. È dunque ℝ ⧵ ℚ′ = ⋃𝑘∈ℕ+ 𝐶𝑘 , con 𝐶𝑘 ∶= {𝑞𝑘 } e 𝑞𝑘 ∈ ℚ, ∀𝑘. Ne viene che ℚ′ è un 𝐺𝛿 dello spazio metrico completo (ℝ, 𝑑2 ). Come visto nella dimostrazione del Teorema 11.69, + ℚ′ è omeomorfo a un sottoinsieme chiuso di 𝑍 ∶= ℝ × ℝℕ ≃ ℝℕ . Ricordiamo ℕ che la distanza in 𝑍 è definita come segue. Dati 𝑝, 𝑞 ∈ ℝ , con 𝑝 ∶= (𝑝𝑘 )𝑘 e 𝑞 ∶= ∗ 𝑘 ∗ (𝑞𝑘 )𝑘 , è 𝑑(𝑝, 𝑞) ∶= |𝑝0 −𝑞0 |+∑+∞ 𝑘=1 𝑑 (𝑝𝑘 , 𝑞𝑘 )/2 , con 𝑑 (𝑝𝑘 , 𝑞𝑘 ) ∶= min{|𝑝𝑘 −𝑞𝑘 |, 1}. ′ Si è visto che la funzione che immerge ℚ in 𝑍 è data da 𝑥 ↦ (𝑥0 , 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 , … ) ∶=
(
𝑥,
1 1 ,…, ,… . ) |𝑥 − 𝑞1 | |𝑥 − 𝑞𝑘 |
In conclusione, la distanza 𝑑 ̂ di ℚ′ cercata si definisce come segue. Dati 𝑥, 𝑦 ∈ ℚ′ , si ha ̂ 𝑦) ∶= |𝑥 − 𝑦| + 𝑑(𝑥,
+∞
1 1 1 min 1, − . ∑ 2𝑘 { | |𝑥 − 𝑞𝑘 | |𝑦 − 𝑞𝑘 | |} 𝑘=1
Una tale distanza non esiste invece per lo spazio (ℚ, 𝜏𝑒 ), dato che il suo complementare in ℝ non è un 𝐹𝜎 (cfr. Corollario 11.46). ◁ Teorema 11.72. Uno spazio secondo numerabile è Čech-completo se e solo se si immerge in ℝℕ come sottospazio chiuso.
Dimostrazione. Dal Teorema 6.37 sappiamo che ℝℕ è uno spazio secondo numerabile e dal Teorema 11.67 sappiamo che esso è Čech-completo. In fine dal Teorema 11.47 sappiamo che ogni suo sottospazio chiuso è ancora Čechcompleto. Proviamo il viceversa. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝐴2 e Čech-completo. Fissiamo una base numerabile di aperti ℬ ∶= (𝐵𝑛 )𝑛 di 𝑋. Consideriamo quindi l’insieme 𝒜 delle coppie di aperti 𝛼 ∶= (𝑈 , 𝑉 ) ∈ ℬ × ℬ tali che esiste una funzione
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continua 𝑓 = 𝑓𝛼 ∶ 𝑋 → 𝐼 ∶= [0, 1] tale che 𝑓 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝑈 e 𝑓 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋⧵𝑉 . 𝒜 è non vuoto (vedi oltre) e al più numerabile. Fissato 𝑥 ∈ 𝑋, associamo ad esso l’elemento 𝜑(𝑥) ∈ ℝ𝒜 tale che 𝜑(𝑥) = (𝑦𝛼 )𝛼 ,
𝑦𝛼 ∶= 𝑓𝛼 (𝑥),
∀𝛼 ∶= (𝑈 , 𝑉 ) ∈ 𝒜 .
Si ottiene in questo modo un’applicazione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑌 ∶= 𝜑(𝑋) ⊆ ℝ𝒜 . Per prima cosa, verifichiamo che 𝜑 è continua. Basta constatare la continuità delle funzioni composte 𝑝𝛼 ∘ 𝜑, dove 𝑝𝛼 è la proiezione 𝛼-ima. Ciò segue banalmente dal fatto che, per costruzione, si ha 𝑝𝛼 ∘ 𝜑 = 𝑓𝛼 . Come secondo passo, si osserva che 𝜑 è iniettiva e quindi una biiezione tra 𝑋 e 𝑌 . Siano 𝑥1 , 𝑥2 due elementi distinti di 𝑋. Sia, inoltre, 𝑉 ∈ ℬ tale che 𝑥1 ∈ 𝑉 e 𝑥2 ∉ 𝑉 . Per la completa regolarità dello spazio, esiste una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝐼 tale che 𝑔(𝑥1 ) = 0 e 𝑔(𝑡) = 1, ∀𝑡 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑉 ; si ha, in particolare, 𝑔(𝑥2 ) = 1. Siano ora 𝑈 ∈ ℬ contenente 𝑥1 e contenuto nell’aperto 𝑔 −1 ([0, 1/2[) e 𝑟 ∶ 𝐼 → 𝐼 la funzione continua definita da 𝑟(𝑡) ∶= 0, ∀𝑡 ∈ [0, 1/2] e 𝑟(𝑡) ∶= 2𝑡 − 1, ∀𝑡 ∈ ]1/2, 1]. La funzione continua 𝑓 = 𝑓𝛼 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑓 ∶= 𝑟 ∘ 𝑔 vale 0 in 𝑈 e 1 in 𝑋 ⧵ 𝑉 . Si ha 𝛼 ∶= (𝑈 , 𝑉 ) ∈ 𝒜 , da cui 𝒜 ≠ ∅. Si ha poi 𝜑(𝑥1 ) ≠ 𝜑(𝑥2 ), essendo 𝑓𝛼 (𝑥1 ) ≠ 𝑓𝛼 (𝑥2 ). Il passo successivo è quello di mostrare che anche 𝜑−1 è continua. Siano 𝑦 ∶= (𝑦𝛼 )𝛼 ∈ 𝑌 e 𝑥 ∶= 𝜑−1 (𝑦). Dato un qualunque aperto 𝐴 contenente 𝑥, sia 𝑉 ∈ ℬ tale che 𝑥 ∈ 𝑉 ⊆ 𝐴. Sempre per la completa regolarità dello spazio, esiste una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑔(𝑥) = 0 e 𝑔(𝑡) = 1, ∀𝑡 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑉 . Come al passo precedente, prendiamo un aperto 𝑈 ∈ ℬ tale che 𝑥 ∈ 𝑈 e 𝑔(𝑡) < 1/2, ∀𝑡 ∈ 𝑈 . A questo punto consideriamo ancora la funzione 𝑓 ∶= 𝑟 ∘ 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1]. Ciò garantisce che la coppia 𝛽 ∶= (𝑈 , 𝑉 ) ∈ 𝒜 . Esiste quindi una funzione continua 𝑓𝛽 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓𝛽 (𝑡) = 0, ∀𝑡 ∈ 𝑈 e 𝑓𝛽 (𝑡) = 1, ∀𝑡 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑉 . (Si noti che non è detto che 𝑓𝛽 coincida con la funzione 𝑓 = 𝑟 ∘ 𝑔 sopra costruita.) La proiezione 𝑝𝛽 , con 𝛽 ∶= (𝑈 , 𝑉 ), di ℝ𝒜 permette di −1 ′ introdurre l’aperto 𝐴′ ∶= 𝑝−1 𝛽 (]−∞, 1[) = 𝑝𝛽 ([0, 1[). Per costruzione, 𝑦 ∈ 𝐴 ∩𝑌 . Proveremo ora che 𝜑−1 (𝑤) ∈ 𝑉 ⊆ 𝐴, ∀𝑤 ∈ 𝐴′ ∩ 𝑌 e questo mostrerà che 𝜑−1 è continua in 𝑦. Infatti, dato 𝑤 ∈ 𝐴′ ∩𝑌 , per definizione, si ha 𝑤𝛽 < 1, mentre se, per assurdo, fosse 𝑧 ∶= 𝜑−1 (𝑤) ∉ 𝑉 , cioè 𝑧 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑉 , si avrebbe 𝑓𝛽 (𝑧) = 𝑤𝛽 = 1. Abbiamo pertanto immerso 𝑋, identificato con 𝑌 , in ℝ𝒜 , che, a sua volta, o è omeomorfo a ℝℕ o si immerge banalmente in esso se 𝒜 è finito. Se consideriamo ora la chiusura di 𝑌 in ℝℕ , poiché 𝑋 = 𝑌 è Čech-completo, 𝑌 è un 𝐺𝛿 nella sua chiusura, dato che questa è un’estensione completamente regolare. L’insieme cl 𝑌 , essendo un chiuso nello spazio metrizzabile, e quindi perfettamente normale, ℝℕ è un suo 𝐺𝛿 (cfr. pag. 87). Per la proprietà (∗) vista nella dimostrazione del teorema precedente, si conclude che 𝑋 = 𝑌 si immerge come sottospazio chiuso di ℝℕ × ℝℕ che è omeomorfo a ℝℕ . Osservazione 11.73. Nella prima parte della precedente dimostrazione, abbiamo immerso uno spazio completamente regolare e secondo numerabile 𝑋 in
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ℝℕ . Questo prova che: Ogni spazio 𝐴2 e completamente regolare è metrizzabile. Si veda il Teorema 3.115 di metrizzabilità di Urysohn in cui la metrizzabilità per gli spazi 𝐴2 è garantita sotto l’ipotesi di regolarità. Inoltre, dallo stesso teorema segue che uno spazio secondo numerabile e Čech-completo è real-compatto. ◁ Nell’ambito della teoria degli Spazi Metrici, abbiamo visto che ogni spazio metrico completo è di seconda categoria e, pertanto, soddisfa alla proprietà di Baire. Questi concetti sono stati successivamente estesi in ambito puramente topologico introducendo gli spazi Čech-completi e gli spazi di Baire. Richiamiamo qui alcune proprietà già viste e mettendo in evidenza delle differenze significative. Ricordiamo (Definizione 9.34) che uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è di Baire se ogni famiglia numerabile di aperti e densi ha intersezione densa nello spazio o, equivalentemente (Lemma 9.38), se ogni suo sottoinsieme aperto e non vuoto è di seconda categoria. Abbiamo visto (Proposizione 11.67.1) che il prodotto numerabile di spazi Čech-completi è Čech-completo; sappiamo altresì (Teorema 11.49) che ogni spazio Čech-completo è di Baire. È naturale chiedersi se il prodotto di spazi di Baire è ancora di Baire. La risposta, in generale, è molto complicata e fa uso di strumenti che esulano dai limiti che ci siamo imposti. Oxtoby, sotto l’ipotesi del continuo, nel 1960 ha dato l’esempio di uno spazio di Baire (addirittura completamente regolare) il cui quadrato non lo è. 2 Poi nel 1976 Cohen ha dato un esempio senza l’ipotesi del continuo in cui si sfruttano in modo pesante proprietà di teoria degli insiemi. 3 Un esempio più semplice, che sfrutta gli ordinali transfiniti verrà dato più tardi nel capitolo a questi dedicato, seguendo l’approccio di Fleissner e Kunen. 4 Sussistono tuttavia i seguenti risultati: Teorema 11.74. Il prodotto di due spazi di Baire di cui almeno uno secondo numerabile è di Baire. Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏𝑋 ), (𝑌 , 𝜏𝑌 ) due spazi di Baire con il secondo 𝐴2 , e sia (𝑍, 𝜏𝑍 ) il loro prodotto. Sia data poi una famiglia (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti di 𝑍 e densi in esso. Proviamo, intanto, che l’intersezione di tutti gli 𝐴𝑛 è non vuota. Sia (𝑈𝑘 )𝑘 una base numerabile di aperti (non vuoti) di 𝑌 . Per ogni 𝑛, 𝑘 ∈ ℕ, sia 𝐴′𝑛𝑘 ∶= 𝐴𝑛 ∩ (𝑋 × 𝑈𝑘 ). Gli 𝐴′𝑛𝑘 sono chiaramente degli aperti di 𝑍. Ne viene che le loro proiezioni 𝑝1 (𝐴′𝑛𝑘 ) su 𝑋 sono degli aperti di 𝑋 (cfr. Proposizione 6.34.1). Inoltre, gli insiemi 𝑝1 (𝐴′𝑛𝑘 ) sono anche densi in 𝑋. Infatti, dato un aperto non vuoto 𝑉 di 𝑋, 𝑉 × 𝑌 è un aperto di 𝑍. Ora, per ogni 𝑛, 𝑘, si ha 2
(𝑉 × 𝑌 ) ∩ 𝐴′𝑛𝑘 = (𝑉 × 𝑌 ) ∩ (𝐴𝑛 ∩ (𝑋 × 𝑈𝑘 )) = 𝐴𝑛 ∩ (𝑉 × 𝑈𝑘 ) ≠ ∅,
cfr. J. C. Oxtoby, Cartesian products of Baire spaces, Fund. Math. 49, (1960–1961), 157–166. 3 cfr. P. E. Cohen, Products of Baire spaces, Proc. Amer. Math. Soc. 55, (1976), 119–124. 4 cfr. W. G. Fleissner, K. Kunen, Barely Baire spaces, Fund. Math. 101, (1978), 229–240.
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dato che 𝐴𝑛 è denso in 𝑍 e 𝑉 × 𝑈𝑘 è un aperto non vuoto di 𝑍. Esiste pertanto un elemento 𝑧 ̄ ∶= (𝑥,̄ 𝑦)̄ ∈ (𝑉 × 𝑌 ) ∩ 𝐴′𝑛𝑘 . Si ottiene che 𝑥̄ ∈ 𝑉 ∩ 𝑝1 (𝐴′𝑛𝑘 ), da cui la tesi per l’arbitrarietà di 𝑉 . Siccome 𝑋 è di Baire, l’intersezione di tutti gli aperti densi 𝑝1 (𝐴′𝑛𝑘 ) è non vuota (è anzi densa in 𝑋). Sia 𝑥0 un punto di tale intersezione. Per ogni 𝑛, è 𝑥0 ∈ 𝑝1 (𝐴′𝑛𝑘 ) ⊆ 𝑝1 (𝐴𝑛 ). Sempre per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia ora 𝑌𝑛 ∶= {𝑦 ∈ 𝑌 ∶ (𝑥0 , 𝑦) ∈ 𝐴𝑛 }. Mostriamo che gli 𝑌𝑛 sono aperti e densi in 𝑌 . Fissato 𝑛, sia 𝑤 ∈ 𝑌𝑛 . Ne segue che (𝑥0 , 𝑤) ∈ 𝐴𝑛 ; dato che quest’ultimo insieme è aperto in 𝑍, esistono un aperto 𝑉 di 𝑋 contenente 𝑥0 e un aperto 𝑊 di 𝑌 contenente 𝑤 tali che (𝑥0 , 𝑤) ∈ 𝑉 × 𝑊 ⊆ 𝐴𝑛 . Abbiamo così dimostrato che {𝑥0 } × 𝑊 ⊆ 𝐴𝑛 , da cui 𝑊 ⊆ 𝑌𝑛 . Pertanto 𝑌𝑛 è aperto. Per verificare che 𝑌𝑛 è denso in 𝑌 , basterà prendere un qualunque aperto di base 𝑈𝑘 in 𝑌 e constatare che 𝑌𝑛 ∩ 𝑈𝑘 ≠ ∅. Per ipotesi, 𝑥0 ∈ 𝑝1 (𝐴′𝑛𝑘 ); esiste quindi 𝑤 ∈ 𝑈𝑘 tale che (𝑥0 , 𝑤) ∈ 𝐴′𝑛𝑘 = 𝐴𝑛 ∩ (𝑋 × 𝑈𝑘 ), da cui 𝑤 ∈ 𝑌𝑛 ∩ 𝑈𝑘 . Poiché anche 𝑌 è di Baire, esiste un 𝑦0 ∈ 𝑌 che appartiene a tutti gli 𝑌𝑛 . Si conclude che l’elemento (𝑥0 , 𝑦0 ) ∈ ⋂𝑛 𝐴𝑛 . Resta da provare che l’intersezione di tutti gli 𝐴𝑛 è un sottoinsieme denso di 𝑍. Fissiamo un aperto 𝐺 di 𝑍 che possiamo assumere del tipo 𝐸 × 𝐹 , con 𝐸 aperto di 𝑋 e 𝐹 aperto di 𝑌 . Gli insiemi 𝐸, 𝐹 sono ancora spazi di Baire e 𝐹 è 𝐴2 . Poniamo, per ogni 𝑛, 𝐴′𝑛 ∶= 𝐴𝑛 ∩ 𝐺. Gli 𝐴′𝑛 sono aperti e densi in 𝐺. Siamo nelle ipotesi della parte del teorema già dimostrata. Si conclude che è ∅≠
⋂ 𝑛
𝐴′𝑛 = 𝐺 ∩ (
⋂ 𝑛
𝐴𝑛 )
e che quindi, per l’arbitrarietà di 𝐺, ⋂𝑛 𝐴𝑛 è un sottoinsieme denso di 𝑍. Per il prossimo risultato, sarà utile premettere il seguente
Lemma 11.75. Siano 𝑍 e 𝑌 due spazi topologici con 𝑌 secondo numerabile, 𝑋 il loro prodotto. Sia inoltre 𝒜 ∶= (𝐴𝑛 )𝑛 una successione di aperti e densi di 𝑋. Sia, in fine, 𝐻 ∶= {𝑧 ∈ 𝑍 ∶ ({𝑧} × 𝑌 ) ∩ 𝐴𝑛 è denso in {𝑧} × 𝑌 , ∀𝑛 ∈ ℕ} .
(11.8)
Allora 𝑍 ⧵ 𝐻 è di prima categoria. In particolare, 𝐻 ≠ ∅ se 𝑍 è di seconda categoria. Dimostrazione. Si ha 𝑧 ∈ 𝑍 ⧵𝐻 se e solo se esiste un 𝑛 ∈ ℕ tale che ({𝑧}×𝑌 )∩𝐴𝑛 non è denso in {𝑧} × 𝑌 . Poiché 𝑌 ha una base numerabile di aperti 𝒰 ∶= (𝑈𝑘 )𝑘 , ciò equivale al fatto che esiste 𝑘 ∈ ℕ per cui è ({𝑧} × 𝑈𝑘 ) ∩ 𝐴𝑛 = ∅. Premesso ciò, per ogni coppia (𝑘, 𝑛) di naturali, definiamo l’insieme 𝐶𝑘𝑛 ∶= {𝑧 ∈ 𝑍 ∶ ({𝑧} × 𝑈𝑘 ) ∩ 𝐴𝑛 = ∅}. Per definizione, si ha 𝑍 ⧵𝐻 =
⋃
𝑛,𝑘∈ℕ
𝐶𝑘𝑛 .
11.2. Spazi Čech-completi
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Basta ora provare che ogni 𝐶𝑘𝑛 è chiuso con interno vuoto. Per vedere che è chiuso, fissiamo un 𝑢 ∉ 𝐶𝑘𝑛 . Ciò implica che esiste un elemento 𝑣 ∈ 𝑈𝑘 tale che (𝑢, 𝑣) ∈ 𝐴𝑛 . Poiché 𝐴𝑛 è aperto, esistono un intorno aperto 𝑊 di 𝑢 e uno 𝑈ℎ di 𝑣, con 𝑈ℎ ⊆ 𝑈𝑘 , tali che (𝑢, 𝑣) ∈ 𝑊 × 𝑈ℎ ⊆ 𝐴𝑛 . Di conseguenza, 𝑢 ∈ 𝑊 e 𝑊 ∩ 𝐶𝑘𝑛 = ∅. Si è così verificato che i 𝐶𝑛𝑘 sono chiusi. Se, per assurdo, fosse 𝐷𝑘𝑛 ∶= int 𝐶𝑘𝑛 ≠ ∅, avremmo (𝐷𝑘𝑛 × 𝑈𝑘 ) ∩ 𝐴𝑛 = ∅, contro il fatto che 𝐴𝑛 è denso in 𝑋, e che 𝐷𝑘𝑛 × 𝑈𝑘 è un aperto non vuoto di 𝑋. Teorema 11.76. Il prodotto al più numerabile di spazi di Baire e 𝐴2 è di Baire.
Dimostrazione. Verifichiamo dapprima la tesi nel caso di un numero finito 𝑛 di fattori 𝑋𝑛 procedendo per induzione. Il caso 𝑛 = 2 è stato provato nel Teorema 11.74. Supposta vera la tesi per 𝑛, si ha che il prodotto 𝑋1 × ⋯ × 𝑋𝑛+1 è omeomorfo allo spazio (𝑋1 × ⋯ × 𝑋𝑛 ) × 𝑋𝑛+1 , per cui, usando l’ipotesi induttiva, ci si riconduce al caso di due spazi. Supponiamo di avere il prodotto di un’infinità numerabile (𝑋𝑛 )𝑛 di spazi di Baire e 𝐴2 ; sia poi 𝑋 il loro prodotto. Sia inoltre data una famiglia numerabile (𝐴𝑘 )𝑘 di aperti densi di 𝑋. Per dimostrare che l’intersezione degli 𝐴𝑘 è densa in 𝑋 è sufficiente verificare che la loro intersezione 𝐴∞ è non vuota. (Si veda la parte finale della dimostrazione del teorema precedente.) Per proseguire nella dimostrazione, sarà utile fare le seguenti posizioni: 𝑍𝑛 ∶=
𝑛
∏ 𝑖=0
𝑋𝑖 ;
𝑌𝑛 ∶=
∏ 𝑖>𝑛
𝑋𝑖 ;
∀𝑛 ∈ ℕ.
Sempre per ogni 𝑛, sia 𝜋𝑛 la proiezione di 𝑋 su 𝑍𝑛 ; inoltre, per ogni 𝑛 ≤ 𝑚 sia 𝜋𝑛𝑚 la proiezione di 𝑍𝑚 su 𝑍𝑛 . Procedendo in modo induttivo, costruiremo una successione crescente di indici (𝑗𝑖 )𝑖 e di punti 𝑤𝑖 ∈ 𝑍𝑗𝑖 con le seguenti proprietà:
1. se 𝑛 < 𝑚, allora 𝑤𝑚 estende 𝑤𝑛 , ossia 𝜋𝑗 𝑚 (𝑤𝑚 ) = 𝑤𝑛 ; 𝑛 2. per ogni 𝑛, se 𝑥 ∈ 𝑋 è tale che 𝜋𝑗𝑛 (𝑥) = 𝑤𝑛 , allora 𝑥 ∈ 𝐴𝑛 ; 3. per ogni 𝑛 e per ogni 𝑖 > 𝑛, ({𝑤𝑛 } × 𝑌𝑗𝑛 ) ∩ 𝐴𝑖 è denso in {𝑤𝑛 } × 𝑌𝑗𝑛 . Supponiamo, per un momento, di aver effettuato questa costruzione. La proprietà 1 permette di affermare che esiste un elemento 𝑤 ∈ 𝑋 tale che 𝜋𝑗𝑛 (𝑤) = 𝑤𝑛 , ∀𝑛. A questo punto, la proprietà 2 implica che 𝑤 ∈ 𝐴𝑛 , ∀𝑛, da cui 𝐴∞ ≠ ∅. Veniamo quindi alla costruzione. Esiste un indice 𝑗0 tale che 𝐴0 contiene l’aperto di base 𝑈0 ∶= 𝐵𝑗0 × 𝑌𝑗0 , dove 𝐵𝑗0 è un prodotto di aperti dei primi 𝑗0 fattori. Per quanto visto all’inizio, 𝐵𝑗0 è uno spazio di Baire, mentre 𝑌𝑗0 è uno spazio 𝐴2 (cfr. Proposizione 6.37.2). Gli insiemi 𝐴𝑖 ∩𝑈0 , per 𝑖 > 0, costituiscono una famiglia numerabile di aperti di 𝑈0 e densi in esso. Per il lemma precedente, applicato al caso 𝑍 ∶= 𝐵𝑗0 , 𝑌 ∶= 𝑌𝑗0 , si ha che il corrispondente di 𝐻 definito dalla (11.8) è dato, in questo contesto, da 𝑗
𝑊0 ∶= {𝑤 ∈ 𝐵𝑗0 ∶ ({𝑤} × 𝑌𝑗0 ) ∩ 𝐴𝑖 è denso in {𝑤} × 𝑌𝑗0 , ∀𝑖 > 0} .
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Questo insieme non è vuoto dato che 𝐵𝑗0 è di seconda categoria, essendo di Baire. Fissiamo quindi un 𝑤0 ∈ 𝑊0 . Per come è stato definito l’insieme 𝑊0 , la 3 è automaticamente soddisfatta. Inoltre, vale la 2 perché {𝑤0 }×𝑌𝑗0 ⊆ 𝑈0 ⊆ 𝐴0 . Supponiamo di aver determinato gli indici 𝑗0 < 𝑗1 < ⋯ < 𝑗𝑙 e i punti 𝑤0 , … , 𝑤𝑙 in modo da soddisfare alle tre condizioni richieste. Osservando che la proprietà 3 vale per ogni indice 𝑖 > 𝑙, abbiamo che l’intersezione 𝐴𝑙+1 ∩ ({𝑤𝑙 } × 𝑌𝑗𝑙 ) è un aperto non vuoto (e denso) di {𝑤𝑙 } × 𝑌𝑗𝑙 . Ripetendo quanto visto al passo precedente, si ha che esiste un indice 𝑗𝑙+1 > 𝑗𝑙 tale che 𝐴𝑙+1 contiene l’insieme 𝑈𝑙+1 ∶= {𝑤𝑙 } × 𝐵𝑗𝑙+1 × 𝑌𝑗𝑙+1 , dove 𝐵𝑗𝑙+1 è un prodotto di aperti dei fattori 𝑋𝑖 , con 𝑗𝑙 < 𝑖 < 𝑗𝑙+1 . Ponendo 𝐵𝑗′ ∶= {𝑤𝑙 } × 𝐵𝑗𝑙+1 , abbiamo 𝑙+1 espresso 𝑈𝑙+1 come prodotto di uno spazio di Baire 𝐵𝑗′ per uno spazio secondo 𝑙+1 numerabile. Applicando ancora il lemma, esiste un elemento 𝑤𝑙+1 ∈ 𝐵𝑗′ tale 𝑙+1 che ({𝑤𝑙+1 } × 𝑌𝑗𝑙+1 ) ∩ 𝐴𝑖 è denso in {𝑤𝑙+1 } × 𝑌𝑗𝑙+1 , per ogni 𝑖 > 𝑙 + 1. Ciò prova la 3. La 1 è verificata perché le prime 𝑗𝑙 coordinate di 𝑤𝑙+1 sono già fissate. In fine, vale la 2 per costruzione. Prima di esporre il prossimo risultato, presentiamo il seguente lemma che completa il Lemma 9.36 per cui ogni aperto di uno spazio di Baire è di Baire. Lemma 11.77. Ogni sottospazio 𝐺𝛿 denso di uno spazio di Baire è ancora di Baire.
Dimostrazione. Siano 𝑋 uno spazio di Baire ed 𝐸 ⊆ 𝑋 un suo 𝐺𝛿 denso. Esprimiamo quindi 𝐸 come 𝐸 = ⋂𝑛 𝐴𝑛 , con gli 𝐴𝑛 aperti di 𝑋. Ovviamente, anche gli 𝐴𝑛 sono densi in 𝑋. Sia (𝐵𝑛 )𝑛 una famiglia numerabile di aperti di 𝐸 e densi in esso. Per ogni 𝑛, esiste un aperto 𝐵𝑛′ di 𝑋 tale che 𝐵𝑛 = 𝐸 ∩ 𝐵𝑛′ . I 𝐵𝑛 sono densi anche in 𝑋 (sono densi in 𝐸 che è denso in 𝑋); ne viene che anche gli aperti 𝐵𝑛′ sono densi in 𝑋. Ora si ha 𝐹 ∶= =
⋂ 𝑛
𝐵𝑛 =
⋂ 𝑛
(𝐵𝑛′ ∩ 𝐸) = 𝐸 ∩ (
′ ( ⋂ 𝐵𝑛 ) ∩ ( ⋂ 𝐴𝑘 ) 𝑛 𝑘
=
(𝐵 ′ ⋂ 𝑛 𝑛,𝑘
⋂ 𝑛
𝐵𝑛′ ) =
∩ 𝐴𝑘 )(⊆ 𝐸).
Per ogni 𝑛, 𝑘, l’insieme 𝐵𝑛′ ∩ 𝐴𝑘 è un aperto di 𝑋 denso in esso. Essendo 𝑋 di Baire, l’insieme 𝐹 è denso in 𝑋; essendo però contenuto in 𝐸, è denso anche in 𝐸. Da questo risultato si riottiene immediatamente il fatto ben noto che ℚ non è un 𝐺𝛿 di ℝ (Esercizio). Teorema 11.78. Il prodotto di uno spazio di Baire 𝑇2 per uno spazio Čechcompleto è ancora di Baire.
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Dimostrazione. Siano (𝑋, 𝜏𝑋 ), (𝑌 , 𝜏𝑌 ) due spazi di Baire con il secondo Čechcompleto, e sia (𝑍, 𝜏𝑍 ) il loro prodotto. Sia data poi una famiglia (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti di 𝑍 e densi in esso, che non è restrittivo supporre decrescente per inclusione. Come già visto nella dimostrazione del Teorema 11.74, basta dimostrare che l’intersezione degli 𝐴𝑛 è non vuota. Per prima cosa, proveremo il teorema nel caso particolare che 𝑌 sia compatto. La dimostrazione è un po’ involuta e, pertanto, supponiamo per un momento di essere riusciti a costruire, per ogni indice 𝑛 ∈ ℕ, una famiglia di aperti ℬ𝑛 ∶= {𝑈𝑠 × 𝑉𝑠 ∶ 𝑠 ∈ 𝐽𝑛 } , 𝑈𝑠 ∈ 𝜏𝑋 , 𝑉𝑠 ∈ 𝜏𝑌 con le seguenti proprietà: 1. 𝑈𝑠 × 𝑉𝑠 ⊆ 𝐴𝑛 , ∀𝑠 ∈ 𝐽𝑛 ; 2. per ogni 𝑛, gli 𝑈𝑠 , con 𝑠 ∈ 𝐽𝑛 , sono a due a due disgiunti; 3. per ogni 𝑛, l’aperto 𝑈𝑛∗ ∶= ⋃𝑠∈𝐽𝑛 𝑈𝑠 è denso in 𝑋; 4. (∀𝑠 ∈ 𝐽𝑛+1 )(∃𝑡 ∈ 𝐽𝑛 )(𝑈𝑠 × cl 𝑉𝑠 ⊆ 𝑈𝑡 × 𝑉𝑡 ). A questo punto, poiché 𝑋 è di Baire e gli 𝑈𝑛∗ formano una successione di aperti densi di 𝑋, esiste un elemento 𝑧 ∈ ⋂𝑛 𝐵𝑛∗ . Per il punto 2, per ogni 𝑛, esiste un unico indice 𝑠𝑛 ∈ 𝐽𝑛 tale che 𝑧 ∈ 𝑈𝑠𝑛 . Applicando la 4 all’indice 𝑠𝑛+1 ∈ 𝐽𝑛+1 , si ottiene che esiste un 𝑡 ∈ 𝐽𝑛 tale che 𝑈𝑠𝑛+1 × cl 𝑉𝑠𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑡 × 𝑉𝑡 . Poiché ne risulta 𝑈𝑠𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑡 e quindi 𝑧 ∈ 𝑈𝑡 , deve necessariamente essere 𝑡 = 𝑠𝑛 , per cui l’inclusione di sopra diventa 𝑈𝑠𝑛+1 × cl 𝑉𝑠𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑠𝑛 × 𝑉𝑠𝑛 . Studiamo ora separatamente le due componenti. Sulla prima, risulta 𝑈𝑠0 ⊇ 𝑈𝑠1 ⊇ ⋯ ⊇ 𝑈𝑠𝑛 ⊇ ⋯ e quindi 𝑧 ∈ ⋂𝑛 𝑈𝑠𝑛 . Quanto alla seconda, si ha cl 𝑉𝑠0 ⊇ 𝑉𝑠0 ⊇ cl 𝑉𝑠1 ⊇ 𝑉𝑠1 ⊇ ⋯ ⊇ cl 𝑉𝑠𝑛 ⊇ 𝑉𝑠𝑛 ⊇ ⋯, da cui ⋂𝑛 𝑉𝑠𝑛 = ⋂𝑛 cl 𝑉𝑠𝑛 ≠ ∅ per la compattezza di 𝑌 . Esiste quindi un 𝑤 ∈ ⋂𝑛 𝑉𝑠𝑛 . Per il punto 1 e la decrescenza degli 𝐴𝑛 , si conclude che l’elemento (𝑧, 𝑤) ∈ 𝐴𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ. Il prossimo passo è quello di costruire, per ogni 𝑛, una famiglia di aperti ℬ𝑛 con le proprietà sopra richieste. Sia 𝑝0 ∈ 𝐴0 ; esistono 𝑈0 ∈ 𝜏𝑋 e 𝑉0 ∈ 𝜏𝑌 tali che 𝑝0 ∈ 𝑈0 × 𝑉0 ⊆ 𝐴0 . Preso un 𝑝1 ∈ (𝑈0 × 𝑉0 ) ∩ 𝐴1 , che è un aperto non vuoto, esistono 𝑈1 ∈ 𝜏𝑋 e 𝑉1 ∈ 𝜏𝑌 tali che 𝑝1 ∈ 𝑈1 ×𝑉1 ⊆ 𝑈1 ×cl 𝑉1 ⊆ (𝑈0 ×𝑉0 )∩𝐴1 ⊆ 𝐴1 . (Si è ovviamente sfruttata la regolarità di 𝑌 .) Così proseguendo, si costruiscono una successione (𝑈𝑛 )𝑛 di aperti di 𝑋 decrescente per inclusione e una successione (𝑉𝑛 )𝑛 di aperti di 𝑌 tale che 𝑉𝑛 ⊇ cl 𝑉𝑛+1 , ∀𝑛. Partendo nello stesso modo da un punto 𝑝′0 ∈ 𝐴0 , con la prima coordinata diversa da quella di 𝑝0 , e scegliendo aperti di base che li separano, si ottengono successioni decrescenti (𝑈𝑛 , 𝑉𝑛 )𝑛 e (𝑈𝑛′ , 𝑉𝑛′ )𝑛 , con 𝑈𝑛 × 𝑉𝑛 e 𝑈𝑛′ × 𝑉𝑛′ sottoinsiemi di 𝐴𝑛 , 𝑈𝑛 ∩ 𝑈𝑛′ = ∅, 𝑉𝑛 ⊇ cl 𝑉𝑛+1 , ′ 𝑉𝑛′ ⊇ cl 𝑉𝑛+1 per ogni 𝑛. Abbiamo così mostrato come definire, per ogni 𝑛, una famiglia ℬ𝑛′ di aperti di base dello spazio prodotto che soddisfa alle proprietà 1, 2, 4. La famiglia ℬ0′ verrà ora ampliata ad una famiglia massimale ℬ0 ∶= {𝑈𝑠 × 𝑉𝑠 ∶ 𝑠 ∈ 𝐽0 } che mantenga ancora le proprietà 1 e 2. Questo si può fare col Lemma di Zorn (Esercizio!). Osserviamo che la proprietà 4 che valeva per la successione di famiglie (ℬ𝑛′ )𝑛 continua a valere per la successione di famiglie ℬ0 , ℬ1′ , ℬ2′ , … Quindi, per la massimalità di ℬ0 , si ha che l’insieme 𝑈0∗ ∶= ⋃𝑠∈𝐽0 𝑈𝑠 è denso in 𝑋 (Esercizio!). Il passo successivo consiste nell’ampliare la
11.2. Spazi Čech-completi
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famiglia ℬ1′ ad una famiglia massimale ℬ1 ∶= {𝑈𝑠 × 𝑉𝑠 ∶ 𝑠 ∈ 𝐽1 } che mantenga ancora le proprietà 1, 2 e 4. Questo si può ancora fare col Lemma di Zorn. Sempre per la massimalità, si ottiene che l’insieme 𝑈1∗ ∶= ⋃𝑠∈𝐽1 𝑈𝑠 è denso in 𝑋 e, inoltre, la successione di famiglie ℬ0 , ℬ1 , ℬ2′ , … soddisfa ancora alla proprietà 4. Poi si procede per induzione. Il caso con 𝑌 compatto è così risolto. Veniamo, in fine, al caso generale. 𝑌 , essendo Čech-completo, risulta un 𝐺𝛿 denso di 𝛽𝑌 . Per la parte di teorema già dimostrata, 𝑋 × 𝛽𝑌 è di Baire. Quindi 𝑋 × 𝑌 è un 𝐺𝛿 denso di uno spazio di Baire ed è quindi anch’esso di Baire per il lemma precedente. Il lettore particolarmente attento può constatare che la dimostrazione della prima parte del teorema, con 𝑌 compatto, continua a valere se assumiamo 𝑌 regolare e numerabilmente compatto. La Proposizione 11.67.1 ci dice che il prodotto al più numerabile di spazi Čech-completi è Čech-completo. Questo risultato non è estendibile al caso di un prodotto non numerabile di fattori. Per constatarlo, ci sarà utile il seguente risultato: Teorema 11.79. Sia 𝑋 un insieme non numerabile. topologia prodotto, non è un 𝑘-spazio.
Allora ℝ𝑋 , con la
Dimostrazione. Seguiremo il suggerimento dato da Kelley in [34]. Gli elementi di ℝ𝑋 possono essere pensati sia come funzioni da 𝑋 in ℝ (continue se dotiamo 𝑋 della topologia discreta), oppure come famiglie (𝑥𝛼 )𝛼∈𝑋 . In ℝ𝑋 consideriamo l’insieme 𝐸 caratterizzato dalla seguente proprietà: un elemento 𝑤 ∶= (𝑥𝛼 )𝛼∈𝑋 appartiene a 𝐸 se e solo se esiste un naturale 𝑛 ∈ ℕ+ con 𝑥𝛼 = 𝑛 per tutti gli 𝛼 escluso al più 𝑛 indici in cui si ha 𝑥𝛼 = 0. Intanto si ha che l’insieme 𝐸 non è chiuso, dato che per la funzione nulla 0 si ha 0 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸. Infatti, per definizione di topologia prodotto, un intorno di base di 0 è dato da un insieme del tipo 𝐴𝜀 formato dalle funzioni che assumono valori in ] − 𝜀, 𝜀[ in un numero finito 𝛼1 , … , 𝛼𝑘 di indici. La funzione che vale 0 in questi indici e 𝑘 altrove appartiene ad 𝐴𝜀 ∩ 𝐸. Mostriamo che, ciò non ostante, l’intersezione di 𝐸 con un qualunque compatto 𝐾 di ℝ𝑋 è compatta (chiusa) in 𝐾. Per i Teoremi di compattezza e di Borel, per ogni 𝛼 ∈ 𝑋, la proiezione 𝛼-ima di 𝐾 è un insieme chiuso e limitato 𝐾𝛼 di ℝ. Ne viene che 𝐾 è contenuto nel compatto ∏𝛼∈𝑋 𝐾𝛼 . Per ogni 𝛼 ∈ 𝑋, le proiezioni di 𝐸 ∩ 𝐾 appartengono ad un insieme del tipo {0, 1, … , 𝑘𝛼 }. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝐵𝑛 ∶= {𝛼 ∈ 𝑋 ∶ 𝑘𝛼 ≤ 𝑛}. Si ha ovviamente 𝐵𝑛 ⊆ 𝐵𝑛+1 , ∀𝑛 ∈ ℕ+ . Deve inoltre essere ⋃𝑛∈ℕ+ 𝐵𝑛 = 𝑋. Ne viene che almeno uno dei 𝐵𝑛 è più che numerabile. Sia 𝑚 il minimo di tali 𝑛. Abbiamo così visto che un qualunque elemento 𝑤 di 𝐸 ∩ 𝐾 deve avere un’infinità più che numerabile di coordinate in [0, 𝑚]. Dovendo 𝑤 essere costante tranne eventualmente in un numero finito di punti, si ottiene che tutte le sue componenti appartengono a [0, 𝑚]. Si conclude che 𝐸 ∩ 𝐾 ⊆ {0, 1, … , 𝑚}𝑋 .
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Rimane da dimostrare che 𝐸 ∩ 𝐾 è chiuso nel compatto 𝐾. Sia 𝑓 ∈ ℝ𝑋 un elemento aderente a 𝐸 ∩ 𝐾. Per ogni 𝛼 ∈ 𝑋, 𝑓 (𝛼) ∈ 𝐶𝑚 ∶= {0, 1, … , 𝑚}. Infatti, se esistesse 𝛾 ∈ 𝑋 con 𝑓 (𝛾) ∉ 𝐶𝑚 , detto 𝛿 ∶= 𝑑(𝑓 (𝛾), 𝐶𝑚 ), l’intorno di 𝑓 dato da ∏𝛼∈𝑋 𝐴𝛼 , con 𝐴𝛾 ∶= ]𝑓 (𝛾) − 𝛿, 𝑓 (𝛾) + 𝛿[ e 𝐴𝛼 ∶= ℝ altrimenti, non conterrebbe alcun punto di 𝐸 ∩ 𝐾. Osserviamo poi che una tale 𝑓 non può assumere due valori distinti non nulli. Infatti, supposto che esistano 𝛾1 , 𝛾2 ∈ 𝑋 con 0, 𝑓 (𝛾1 ), 𝑓 (𝛾2 ) interi distinti, si consideri l’intorno di 𝑓 dato da ∏𝛼∈𝑋 𝐴′𝛼 , con 𝐴′𝛾1 ∶= ]𝑓 (𝛾1 ) − 1, 𝑓 (𝛾1 ) + 1[, 𝐴′𝛾2 ∶= ]𝑓 (𝛾2 ) − 1, 𝑓 (𝛾2 ) + 1[ e 𝐴′𝛼 ∶= ℝ altrimenti; in esso non vi possono essere elementi di 𝐸, dato che le funzioni di 𝐸 non assumono due valori distinti diversi da 0. Si conclude che la nostra 𝑓 può assumere solo il valore 0 e un valore intero positivo 𝑘 ≤ 𝑚. Intanto 𝑓 non può annullarsi in più di 𝑚 punti di 𝑋 (in particolare, non può essere identicamente nulla). Infatti, se prendiamo 𝑚 + 1 indici 𝛾1 , … , 𝛾𝑚+1 e l’intorno 𝑈 le cui componenti sono ] − 1, 1[ per 𝛼 ∈ {𝛾1 , … , 𝛾𝑚+1 } e ℝ altrimenti, in 𝑈 non possono cadere elementi di 𝐸 ∩ 𝐾 perché ora questi elementi non possono annullarsi in più di 𝑚 punti. Abbiamo così dimostrato che la funzione 𝑓 assume un valore intero costante positivo 𝑘 ≤ 𝑚 in tutti i punti di 𝑋 eccettuato al più un numero finito minore o uguale a 𝑚, dove assumerà il valore 0. Con un ragionamento analogo a quello fatto nel passo precedente, si verifica in fine che 𝑓 non può annullarsi in più di 𝑘 punti. Concludiamo così che 𝑓 ∈ 𝐸 ∩ 𝐾 e che quindi questo insieme è chiuso. Esempio 11.80. Sappiamo che (ℝ, 𝜏𝑒 ), essendo metrico completo, è Čechcompleto. Per il teorema precedente, il prodotto ℝ𝑋 , con 𝑋 non numerabile. non è un 𝑘-spazio. Ne viene che esso non può essere Čech-completo per il Teorema 11.52. ◁
In questo contesto, il risultato migliore che si possa ottenere è che: Il prodotto arbitrario di spazi Čech-completi è di Baire. (Cfr. Corollario 11.88.) Per arrivare alla dimostrazione di questo risultato è opportuno, seguendo il Tkachuk (cfr. [78]), introdurre un ulteriore concetto: quello di pseudocompletezza. L’idea è questa: mentre la compattezza si preserva per prodotti arbitrari, non accade lo stesso per la Čech-completezza (esempio precedente), né per la proprietà di Baire (cfr. pag. 584); si cerca quindi un’opportuna proprietà di tipo topologico intermedia che si conservi per prodotti arbitrari. Avendo di mira gli spazi Čech-completi, ci occuperemo di spazi completamente regolari. Ricordiamo che la completa regolarità si preserva per prodotti arbitrari (cfr. Teorema 6.37). Richiamiamo intanto una definizione già introdotta a pagina 493: Definizione 11.81. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), si chiama 𝜋-base (o anche pseudo-base) una famiglia ℬ di aperti non vuoti tale che, per ogni 𝐴 ∈ 𝜏, esiste 𝐵 ∈ ℬ tale che 𝐵 ⊆ 𝐴. ◁ sa.
Ovviamente, ogni base di aperti è una pseudo-base. Non sussiste il vicever-
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Esempio 11.82. In (ℝ, 𝜏𝑒 ), sia ℬ la famiglia di tutti gli intervalli aperti non contenenti 0. Questa non è una base di aperti, mentre è una 𝜋-base (cfr. pag. 493). ◁
Definizione 11.83. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto pseudo-completo se possiede una successione (ℬ𝑛 )𝑛 di 𝜋-basi tali che, ogni qual volta si ha una successione di aperti (𝐴𝑛 )𝑛 con 𝐴𝑛 ∈ ℬ𝑛 , ∀𝑛 e inoltre cl 𝐴𝑛+1 ⊆ 𝐴𝑛 , segue che l’intersezione di tutti gli 𝐴𝑛 è non vuota. In seguito, per comodità di espressione, chiameremo pseudo-completa una successione (ℬ𝑛 )𝑛 con la proprietà appena espressa. ◁ Il concetto di spazio pseudo-completo è stato introdotto da J. Oxtoby nel 1961 e successivamente sviluppato da J. Aarts e D.J. Lutzer nel 1973. Nei loro articoli, per dimostrare quasi tutti i teoremi, gli autori usano l’ipotesi tecnica che gli spazi considerati siano quasi-regolari, intendendo che uno spazio topologico è quasi-regolare se ogni aperto non vuoto contiene la chiusura di qualche aperto non vuoto. Chiaramente tutti gli spazi regolari sono anche quasi-regolari; non sussiste, in generale, il viceversa (cfr. Esempio 11.87). Noi useremo l’ipotesi di regolarità che è leggermente più forte. Teorema 11.84. 1. Ogni sottospazio aperto e non vuoto di uno spazio regolare pseudo-completo è pseudo-completo. 2. Ogni sottospazio 𝐺𝛿 denso di uno spazio numerabilmente compatto e regolare è pseudo-completo (e regolare). 3. Ogni spazio Čech-completo è pseudo-completo e regolare. 4. Ogni spazio pseudo-completo regolare è di Baire. Dimostrazione. 1. Sia 𝐸 un aperto non vuoto di uno spazio pseudo-completo regolare (𝑋, 𝜏). Sia (ℬ𝑛 )𝑛 una successione pseudo-completa di 𝜋-basi di 𝑋. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ e per ogni 𝐵 ∈ ℬ𝑛 , sia 𝐵 ′ ∶= 𝐵 ∩ 𝐸. Si ottiene così una successione (ℬ𝑛′ )𝑛 di famiglie di aperti di 𝐸. Si vede subito che ogni ℬ𝑛′ è una 𝜋-base (Esercizio!). Supponiamo che esista una successione (𝐴′𝑛 )𝑛 di aperti di 𝐸 tale che, per ogni 𝑛, sia 𝐴′𝑛 ∈ ℬ𝑛′ e cl𝐸 𝐴′𝑛+1 ⊆ 𝐴′𝑛 . Siccome 𝐸 è aperto, gli 𝐴′𝑛 sono aperti anche in 𝑋. Per definizione, 𝐴′0 = 𝐸 ∩ 𝐵0 , con 𝐵0 ∈ ℬ0 . 𝐴′1 è un aperto non vuoto di 𝑋. Per la regolarità di 𝑋, esiste un aperto non vuoto 𝐴″1 tale che 𝐴″1 ⊆ cl 𝐴″1 ⊆ 𝐴′1 . Anche 𝐴″1 è un aperto di 𝑋 e deve quindi contenere un elemento 𝐵1 ∈ ℬ1 . Per costruzione, si ha 𝐵1 ⊆ cl𝑋 𝐵1 ⊆ cl𝑋 𝐴″1 ⊆ 𝐴′1 ⊆ cl𝐸 𝐴′1 ⊆ 𝐴′0 ⊆ 𝐵0 .
Ripetendo lo stesso procedimento, si costruisce una successione (𝐵𝑛 )𝑛 di aperti non vuoti di 𝑋 tali che, per ogni 𝑛, 𝐵𝑛 ∈ ℬ𝑛 e cl𝑋 𝐵𝑛+1 ⊆ 𝐵𝑛 . Inoltre, sempre per costruzione, si ha 𝐵𝑛 ⊆ 𝐴′𝑛 , ∀𝑛 ≥ 1. Per la pseudo-completezza di 𝑋, l’intersezione dei 𝐵𝑛 è non vuota; è dunque tale anche l’intersezione degli 𝐴′𝑛 . 2. Sia (𝑋, 𝜏𝑋 ) un 𝐺𝛿 denso di uno spazio numerabilmente compatto (𝑌 , 𝜏𝑌 ). Per ipotesi, esiste una successione (𝑊𝑛 )𝑛 di aperti non vuoti in 𝑌 tali che 𝑋 = ⋂𝑛 𝑊𝑛 . Per ogni 𝑛, consideriamo la famiglia ℬ𝑛 costituita dagli aperti
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non vuoti di 𝑋 la cui chiusura in 𝑌 è contenuta in 𝑊𝑛 . Mostriamo che, per ogni 𝑛, ℬ𝑛 è una 𝜋-base di 𝑋. Sia 𝐴 un aperto non vuoto di 𝑋. Esiste un aperto 𝑉 di 𝑌 tale che 𝐴 = 𝑉 ∩ 𝑋. Prendiamo un elemento 𝑥 ∈ 𝐴. Siccome, per ogni 𝑛, 𝑥 ∈ 𝑉 ∩ 𝑊𝑛 , esiste, per la regolarità di 𝑌 , un aperto 𝐴𝑛 di 𝑌 tale che 𝑥 ∈ 𝐴𝑛 ⊆ cl𝑌 𝐴𝑛 ⊆ 𝑉 ∩ 𝑊𝑛 . In fine, si consideri l’aperto 𝐴′𝑛 ∶= 𝐴𝑛 ∩ 𝑋 di 𝑋. 𝐴′𝑛 non è vuoto perché contiene 𝑥. Inoltre, 𝐴′𝑛 ⊆ 𝐴 e cl𝑌 𝐴′𝑛 ⊆ cl𝑌 𝐴𝑛 ⊆ 𝑊𝑛 . Si conclude che, sempre per ogni 𝑛, 𝐴′𝑛 ∈ ℬ𝑛 . Il passo successivo consiste nel verificare che la successione (ℬ𝑛 )𝑛 è pseudocompleta. Si prenda, infatti, una successione (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti di 𝑋 tale che, per ogni 𝑛, sia 𝐴𝑛 ∈ ℬ𝑛 e cl𝑋 𝐴𝑛+1 ⊆ 𝐴𝑛 . Essendo la successione (𝐴𝑛 )𝑛 decrescente per inclusione, è tale anche la successione delle chiusure in 𝑌 degli 𝐴𝑛 . Per la numerabile compattezza di 𝑌 , si ha che esiste 𝑧 ∈ ⋂𝑛 cl𝑌 𝐴𝑛 . Per costruzione, si ha che, per ogni 𝑛, è cl𝑌 𝐴𝑛 ⊆ 𝑊𝑛 ; ne viene che 𝑧 ∈ ⋂𝑛 𝑊𝑛 = 𝑋. Abbiamo così trovato che, per ogni 𝑛, 𝑧 ∈ cl𝑌 𝐴𝑛 ∩ 𝑋 = cl𝑋 𝐴𝑛 (Proposizione 1.57.3). Siccome si ha ⋂𝑛 cl𝑋 𝐴𝑛 = ⋂𝑛 𝐴𝑛 , si conclude che l’intersezione degli 𝐴𝑛 è non vuota. 3. Segue banalmente dalla 2. 4. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio pseudo-completo regolare e supponiamo, per assurdo, che esso non sia di Baire. In base al Lemma 9.38, deve quindi esistere un aperto non vuoto 𝐴 di 𝑋 di prima categoria. È dunque 𝐴 ⊆ ⋃𝑛∈ℕ 𝐶𝑛 , con i 𝐶𝑛 chiusi in 𝑋 e con interno vuoto. Essendo 𝑋 pseudo-completo, esiste una successione pseudo-completa (ℬ𝑛 )𝑛 di 𝜋-basi. Costruiremo ora in modo induttivo una successione di aperti (𝑈𝑛 )𝑛 con le seguenti proprietà: a. 𝑈𝑛 ∈ ℬ𝑛 , ∀𝑛; b. cl 𝑈𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑛 ⊆ 𝐴, ∀𝑛 ∈ ℕ; c. 𝑈𝑛 ∩ 𝐶𝑛 = ∅, ∀𝑛. Per 𝑈0 , è sufficiente osservare che 𝐴 ⧵ 𝐶0 è un aperto non vuoto. Infatti, se così non fosse, si avrebbe 𝐴 ⊆ 𝐶0 , contro il fatto che 𝐶0 ha interno vuoto. Usando ora il fatto che ℬ0 è una 𝜋-base, si ha che esiste un aperto (non vuoto) 𝑈0 ∈ ℬ0 tale che 𝑈0 ⊆ 𝐴⧵𝐶0 . Determinato 𝑈0 , osserviamo che l’aperto 𝑈0 ⧵𝐶1 ⊆ 𝑈0 ⊆ 𝐴 è non vuoto, dato che 𝐶1 ha interno vuoto. Sia 𝑦 ∈ 𝑈0 ⧵ 𝐶1 e, per la regolarità dello spazio, possiamo prendere un aperto 𝑉 con 𝑦 ∈ 𝑉 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝑈0 ⧵ 𝐶1 . Ora, usando di nuovo il fatto che ℬ1 è una 𝜋-base, si ha che esiste un aperto (non vuoto) 𝑈1 ∈ ℬ1 tale che 𝑈1 ⊆ 𝑉 . Ne segue che cl 𝑈1 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝑈0 ⧵ 𝐶1 . La coppia (𝑈0 , 𝑈1 ) soddisfa alle condizioni richieste. Ripetendo il procedimento in modo induttivo, si può produrre la successione richiesta. Dalla definizione di spazio pseudo-completo si ottiene che esiste un elemento 𝑧 ∈ ⋂𝑛 𝑈𝑛 , da cui 𝑧 ∈ 𝐴. Per contro, in base alla costruzione, si ha che 𝑧 ∉ ⋃𝑛 𝐶𝑛 ⊇ 𝐴. Si ha così un assurdo. In virtù del teorema appena dimostrato, si ha che: Lo spazio ℚ′ ∶= ℝ ⧵ ℚ con la topologia euclidea è pseudo-completo e quindi di Baire. Dallo stesso risultato si ha che (ℚ, 𝜏𝑒 ) non è pseudo-completo, dato che non è di Baire.
Lemma 11.85. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio pseudo-completo regolare. Allora esiste una successione pseudo-completa (ℬ𝑛 )𝑛 di 𝜋-basi di 𝑋 con le seguenti proprietà:
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1. Per ogni 𝑛, si ha che: per ogni 𝑈 ∈ ℬ𝑛+1 , esiste 𝑉 ∈ ℬ𝑛 tale che cl 𝑈 ⊆ 𝑉 . 2. Per ogni 𝑚, se esiste una successione (𝑈𝑛 )𝑛 , con 𝑛 ≥ 𝑚 tale che 𝑈𝑛 ∈ ℬ𝑛 e cl 𝑈𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑛 (per ogni 𝑛 ≥ 𝑚), allora si ha ⋂𝑛≥𝑚 𝑈𝑛 ≠ ∅.
Dimostrazione. Sia (𝒟𝑛 )𝑛 una successione pseudo-completa di 𝜋-basi di 𝑋. Per prima cosa osserviamo che se, per ogni 𝑛, prendiamo una 𝜋-base 𝒟𝑛′ ⊆ 𝒟𝑛 , allora anche la successione delle 𝒟𝑛′ è pseudo-completa. Assegnata quindi la famiglia (𝒟𝑛 )𝑛 , definiamo induttivamente una successione (ℬ𝑛 )𝑛 nel seguente modo: ℬ0 ∶= 𝒟0 ;
ℬ𝑛 ∶= {𝐵 ∈ 𝒟𝑛 ∶ (∃𝐴 ∈ ℬ𝑛−1 )(cl 𝐵 ⊆ 𝐴)} ⊆ 𝒟𝑛 , ∀𝑛 ≥ 1.
Proviamo per induzione che ogni ℬ𝑛 è una 𝜋-base. Il caso 𝑛 = 0 è banale. Supponiamo vera la tesi per 𝑛 − 1(≥ 0) e proviamola per 𝑛. Fissiamo un aperto non vuoto 𝑈 di 𝑋. Esiste un aperto non vuoto 𝐴 ∈ ℬ𝑛−1 contenuto in 𝑈 . (Ipotesi induttiva.) Si prenda un elemento 𝑥 ∈ 𝐴; per la regolarità di 𝑋, esiste un aperto 𝑉 con 𝑥 ∈ 𝑉 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝐴. Poiché 𝒟𝑛 è una 𝜋-base, esiste un aperto non vuoto 𝐵 ∈ 𝒟𝑛 tale che 𝐵 ⊆ 𝑉 e quindi cl 𝐵 ⊆ cl 𝑉 ⊆ cl 𝐴. Per definizione, 𝐵 ∈ ℬ𝑛 . Inoltre, per quanto precede, abbiamo anche 𝐵 ⊆ 𝑈 . Per l’osservazione iniziale, la famiglia delle 𝜋-basi ℬ𝑛 è pseudo-completa. Inoltre, per costruzione, soddisfa alla prima proprietà. Per quanto riguarda la seconda proprietà, essa è ovvia se 𝑚 = 0. Se è 𝑚 = 1, esiste un aperto 𝑈0 ∈ ℬ0 tale che cl 𝑈1 ⊆ 𝑈0 e quindi, per la pseudocompletezza della successione (ℬ𝑛 )𝑛 , si ha ⋂𝑛≥1 𝑈𝑛 = ⋂𝑛≥0 𝑈𝑛 ≠ ∅. In generale, per un arbitrario 𝑚 ≥ 2, usando 𝑚 volte la prima proprietà, si trovano degli aperti 𝑈𝑖 ∈ ℬ𝑖 , 𝑖 ∈ {0, 1, … , 𝑚 − 1} tali che 𝑈0 ⊇ cl 𝑈1 ⊇ 𝑈1 ⊇ ⋯ ⊇ 𝑈𝑚−1 ⊇ cl 𝑈𝑚 ⊇ 𝑈𝑚 ,
in modo che ⋂𝑛≥𝑚 𝑈𝑛 = ⋂𝑛≥0 𝑈𝑛 ≠ ∅.
Teorema 11.86. Il prodotto arbitrario di spazi pseudo-completi e regolari è pseudo-completo (e regolare).
Dimostrazione. Data una famiglia {(𝑋𝛼 , 𝜏𝛼 )}𝛼∈𝐽 di spazi regolari pseudo-completi, sia (𝑋, 𝜏) il loro prodotto. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , sia (ℬ𝑛𝛼 )𝑛 una successione pseudo-completa di 𝜋-basi in 𝑋𝛼 che possiamo supporre soddisfino alle proprietà del lemma precedente. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝒟𝑛 la famiglia di aperti di 𝑋 che sono del tipo ∏𝛼∈𝐽 𝐴𝛼 dove 𝐴𝛼 ∈ ℬ𝑛𝛼 per un insieme finito di indici 𝐽 ′ ⊆ 𝐽 e 𝐴𝛼 ∶= 𝑋𝛼 per 𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽 ′ . Mostriamo che, per ogni 𝑛, 𝒟𝑛 è una 𝜋-base di 𝑋. Infatti, fissiamo un 𝑛 ∈ ℕ e un aperto di base 𝑈 di 𝑋, con 𝑈 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑈𝛼 dove 𝑈𝛼 (≠ ∅) ∈ 𝜏𝛼 per un insieme finito di indici 𝐾 ⊆ 𝐽 e 𝑈𝛼 ∶= 𝑋𝛼 per 𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐾. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐾, l’aperto 𝑈𝛼 di 𝑋𝛼 deve contenere un aperto 𝑉𝑛𝛼 ∈ ℬ𝑛𝛼 . Si conclude che 𝑈 contiene un elemento di 𝒟𝑛 .
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Mostriamo che la famiglia (𝒟𝑛 )𝑛 è pseudo-completa. Sia (𝑈𝑛 )𝑛 una successione di 𝜏-aperti di 𝑋 tale che, per ogni 𝑛, 𝑈𝑛 ∈ 𝒟𝑛 e cl 𝑈𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑛 . Per ogni 𝑛, esiste un insieme finito di indici 𝐽𝑛 tale che 𝑈𝑛 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑉𝑛𝛼 dove 𝑉𝑛𝛼 ∈ ℬ𝑛𝛼 , ∀𝛼 ∈ 𝐽𝑛 e 𝑉𝑛𝛼 ∶= 𝑋𝛼 , ∀𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽𝑛 . Se, dati 𝑛 ∈ ℕ e 𝛼 ∈ 𝐽 si ha 𝛼 𝑉𝑛+1 = 𝑋𝛼 , risulta anche 𝑉𝑛𝛼 = 𝑋𝛼 . Ne viene che la successione degli insiemi finiti 𝐽𝑛 è debolmente crescente. Poniamo 𝐿 ∶= ⋃𝑛 𝐽𝑛 . (Non è detto che 𝐿 sia finito.) 𝛽 Fissiamo ora un indice 𝛽 ∈ 𝐽 e mostriamo che è ⋂𝑛 𝑉𝑛 ≠ ∅. Se 𝛽 ∉ 𝐿, si 𝛽 ha 𝑉𝑛 = 𝑋𝛽 , ∀𝑛 e non c’è niente da dimostrare. Supponiamo dunque 𝛽 ∈ 𝐿. Sia 𝑚 = 𝑚𝛽 il minimo degli indici 𝑛 per cui 𝛽 ∈ 𝐽𝑛 . Da ciò segue che, per ogni 𝑘 < 𝑚 (se ce ne sono) è 𝑉𝑘 = 𝑋𝛽 . Per 𝑘 ≥ 𝑚, si ha 𝑉𝑘 ∈ ℬ𝑘 . Per ipotesi, per ogni 𝑘 ≥ 𝑚, si ha 𝛽
cl 𝑈𝑘+1 = cl
∏
𝛼∈𝐽
𝛽
𝛼 𝑉𝑘+1 =
∏
𝛼∈𝐽
𝛼 cl 𝑉𝑘+1 ⊆
∏
𝛼∈𝐽
𝛽
𝑉𝑘𝛼 = 𝑈𝑘 ,
𝛼 dato che si ha 𝑉𝑘+1 ≠ 𝑋𝛼 per al più un numero finito di indici (quelli di 𝐽𝑘+1 ).
Proiettando sulla componente di indice 𝛽, si ottiene cl 𝑉𝑘+1 ⊆ 𝑉𝑘 , con 𝑘 ≥ 𝑚. Per la proprietà 2 del lemma precedente, si ottiene 𝛽
𝐶𝛽 ∶=
⋂
𝑛∈ℕ
𝑉𝑛 = 𝛽
⋂
𝑛≥𝑚
𝛽
𝑉𝑛 ≠ ∅. 𝛽
Presi, per ogni 𝛽 ∈ 𝐿 un elemento 𝑐𝛽 ∈ 𝐶𝛽 , e, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐿 un arbitrario elemento 𝑐𝛼 ∈ 𝑋𝛼 , di ottiene che 𝑐 ∶= (𝑐𝛼 )𝛼∈𝐽 è un elemento che appartiene a tutti gli 𝑈𝑛 . Per ragioni di completezza, mostriamo con un esempio che esistono spazi quasi-regolari non regolari.
Esempio 11.87. In ℝ sia 𝜏 la topologia generata dagli aperti del tipo [𝑎, 𝑏[⧵𝐸, dove 𝐸 è un sottoinsieme numerabile di ]𝑎, 𝑏[ che non ha punti di accumulazione diversi da 𝑎. Si vede facilmente che gli insiemi così definiti costituiscono la base di una topologia 𝜏 strettamente più fine di quella destra di Sorgenfrey. Osserviamo che in 𝜏 la chiusura di un aperto di base del tipo [𝑎, 𝑏[⧵𝐸 coincide con [𝑎, 𝑏[ (Esercizio!). Sia 𝐴 ∶= [𝑎, 𝑏[⧵𝐸 un aperto di base in 𝜏. Poniamo 𝛽 ∶= sup 𝐸, con 𝛽 ∶= 𝑎 se 𝐸 è vuoto, e mostriamo che è 𝑎 ≤ 𝛽 < 𝑏. Infatti, se fosse 𝛽 = 𝑏, per le proprietà del sup, avremmo 𝑏 di accumulazione per 𝐸, contro l’ipotesi. Siano ora 𝑎′ ∶= (𝑏 + 𝛽)/2 e 𝑉 ∶= [𝑎′ , 𝑏[; si ha che 𝑉 è non vuoto, aperto e chiuso in 𝜏 e, inoltre, è contenuto in 𝐴. Quindi 𝑋 è quasi-regolare. Siano: 𝐴 ∶= [0, 2[⧵𝐸, con 𝐸 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }. Consideriamo un generico intorno aperto di base di 0 che sarà del tipo 𝑈 ∶= [0, 𝜀[⧵𝐷, con 𝜀 > 0 e 𝐷 avente le solite proprietà. Essendo cl 𝑈 = [0, 𝜀[, non può essere cl 𝑈 ⊆ 𝐴. Quindi 𝑋 non è regolare. ◁
11.2. Spazi Čech-completi
595
Corollario 11.88. Il prodotto arbitrario di spazi Čech-completi è di Baire. Dimostrazione. Il prodotto di spazi Čech-completi è un particolare prodotto di spazi pseudo-completi regolari ed è quindi uno spazio pseudo-completo (Teorema 11.85); esso è pertanto uno spazio di Baire (Proposizione 11.84.4). Riprendiamo in esame l’Esempio 11.68 e mostriamo che lo spazio (ℝ, 𝜏 + ) di Sorgenfrey è pseudo-completo, pur non essendo Čech-completo.
Esempio 11.89. Sappiamo che lo spazio di Sorgenfrey (ℝ, 𝜏 + ) è di Baire (cfr. Esempio 9.71), ma non Čech-completo (cfr. Esempio 9.74). Mostriamo che esso è pseudo-completo. Consideriamo la seguente successione (ℬ𝑛 )𝑛 di 𝜋-basi. Per ogni 𝑛, ℬ𝑛 è la famiglia dei 𝜏 + -aperti di base [𝑎, 𝑏[, con 𝑎, 𝑏 ∈ ℝ, 𝑎 ≠ 𝑏, di estremi razionali se 𝑛 è pari, di estremi irrazionali se 𝑛 è dispari. Che si tratti di 𝜋-basi segue dalla densità in ℝ di ℚ e di ℝ ⧵ℚ. Mostriamo che la successione è pseudo-completa. Sia (𝐴𝑛 )𝑛 , con 𝐴𝑛 ∶= [𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 [ una successione di aperti non vuoti tali che 𝐴𝑛 ∈ ℬ𝑛 e decrescente per inclusione. Dato che gli intervalli [𝑎, 𝑏[ sono dei clopen di 𝜏 + , si ha anche cl 𝐴𝑛+1 ⊆ 𝐴𝑛 . Proviamo che l’intersezione degli 𝐴𝑛 è non vuota. Per ogni 𝑛, sia 𝐵𝑛 ∶= [𝑎𝑛 , 𝑏𝑛 ] la chiusura euclidea di 𝐴𝑛 . Dunque i 𝐵𝑛 formano una successione decrescente di intervalli chiusi e limitati di ℝ. Per il teorema di Cantor, esiste 𝑧 ∈ ⋂𝑛 𝐵𝑛 . Si ha anche 𝑧 ∈ ⋂𝑛 𝐴𝑛 . Infatti, se così non fosse, si avrebbe definitivamente 𝑧 = 𝑏𝑛 , ma questo non può essere perché i 𝑏2𝑛 sono razionali, mentre i 𝑏2𝑛+1 sono irrazionali. ◁
Una ben nota proprietà degli spazi metrici è che in essi la compattezza implica la completezza (cfr. Corollario 7.20). Di questo risultato esiste una versione che lega i concetti di pseudo-compattezza e pseudo-completezza, ovviamente in spazi completamente regolari. Sussiste infatti il seguente Teorema 11.90. Ogni spazio completamente regolare e pseudo-compatto è pseudo-completo e quindi di Baire.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico pseudo-compatto e completamente regolare. Per ogni 𝑛, sia ℬ𝑛 la famiglia degli aperti non vuoti di 𝑋; essa è chiaramente una base per 𝜏. Sia ora (𝐴𝑛 )𝑛 una successione di aperti non vuoti, con cl 𝐴𝑛+1 ⊆ 𝐴𝑛 . Ovviamente 𝐴𝑛 ∈ ℬ𝑛 , ∀𝑛. Per il Teorema 9.9, si ha ⋂𝑛 cl 𝐴𝑛 ≠ ∅. D’altra parte, si ha ⋂𝑛 𝐴𝑛 = ⋂𝑛 cl 𝐴𝑛 . Ciò prova la pseudo-completezza. L’ultima parte della tesi segue dal Teorema 11.84. Il precedente risultato generalizza quello del Teorema 9.40.
Lemma 11.91. Se uno spazio topologico regolare (𝑋, 𝜏) ha un sottospazio denso che sia pseudo-completo, allora esso stesso è pseudo-completo.
11.2. Spazi Čech-completi
596
Dimostrazione. Sia 𝑌 un sottospazio pseudo-completo denso di uno spazio regolare (𝑋, 𝜏). Per ipotesi, esiste una successione pseudo-completa di 𝜋-basi (ℬ𝑛′ )𝑛 in 𝑌 . Poiché ogni aperto di 𝑌 è traccia su 𝑌 di un aperto di 𝑋, per ogni 𝑛 ∈ ℕ e per ogni 𝐵 ′ ∈ ℬ𝑛′ , esiste un 𝜏-aperto non vuoto 𝐵 tale che 𝐵 ′ = 𝐵 ∩ 𝑌 . Sempre per ogni 𝑛, indichiamo con ℬ𝑛 la famiglia dei 𝐵 così trovati. Mostriamo che ogni ℬ𝑛 è una 𝜋-base di 𝑋. Fissato 𝑛 e dato un aperto non vuoto 𝐴 di 𝑋, prendiamo un aperto non vuoto 𝑈 ∈ 𝜏 tale che cl 𝑈 ⊆ 𝐴. Deve esistere un 𝑉 ′ ∈ ℬ𝑛′ tale che 𝑉 ′ ⊆ 𝑈 ∩ 𝑌 . Per costruzione, esiste 𝑉 ∈ ℬ𝑛 tale che 𝑉 ∩ 𝑌 = 𝑉 ′ . Osserviamo che cl𝑋 𝑉 ′ = cl𝑋 𝑉 . Infatti, si ha banalmente cl𝑋 𝑉 ′ ⊆ cl𝑋 𝑉 . Viceversa, se 𝑧 ∈ cl𝑋 𝑉 , in ogni suo intorno aperto 𝑆 esiste qualche punto 𝑣 ∈ 𝑉 . 𝑆 e 𝑉 sono due intorni aperti di 𝑣 ed è quindi tale anche la loro intersezione. Per la densità di 𝑌 in 𝑋, esiste 𝑦 ∈ 𝑌 ∩ 𝑆 ∩ 𝑉 ; quindi 𝑦 ∈ 𝑆 ∩ 𝑉 ′ . Per l’arbitrarietà di 𝑆, si conclude che 𝑧 ∈ cl𝑋 𝑉 ′ . Si ottiene così la seguente catena di inclusioni: 𝑉 ⊆ cl𝑋 𝑉 = cl𝑋 𝑉 ′ ⊆ cl𝑋 (𝑈 ∩ 𝑌 ) ⊆ cl𝑋 𝑈 ⊆ 𝐴.
Resta da dimostrare che la successione (ℬ𝑛 )𝑛 è pseudo-completa. Sia (𝐴𝑛 )𝑛 una successione di 𝜏-aperti con 𝐴𝑛 ∈ ℬ𝑛 e cl𝑋 𝐴𝑛+1 ⊆ 𝐴𝑛 , per ogni 𝑛. Sempre per ogni 𝑛, sia 𝐴′𝑛 ∶= 𝐴𝑛 ∩ 𝑌 . Per definizione, 𝐴′𝑛 ∈ ℬ𝑛′ , ∀𝑛 e si ha, banalmente, 𝐴′𝑛+1 ⊆ 𝐴′𝑛 , ∀𝑛. Proviamo che si ha anche cl𝑌 𝐴′𝑛+1 ⊆ 𝐴′𝑛 . Infatti si ha cl𝑌 𝐴′𝑛+1 = 𝑌 ∩ cl𝑋 𝐴′𝑛+1 = 𝑌 ∩ cl𝑋 𝐴𝑛+1 ⊆ 𝑌 ∩ 𝐴𝑛 = 𝐴′𝑛 .
Dato che 𝑌 è pseudo-completo, per ipotesi, l’intersezione degli 𝐴′𝑛 è non vuota; è dunque tale anche quella degli 𝐴𝑛 . Teorema 11.92. Uno spazio metrizzabile è pseudo-completo se e solo se ha un sottospazio Čech-completo denso.
Dimostrazione. Se 𝑋 ha un sottospazio 𝑌 denso che sia Čech-completo, essendo 𝑌 anche pseudo-completo (cfr. Proposizione 11.84.3), si ha che anche 𝑋 è pseudo-completo per il lemma precedente. Supponiamo ora che 𝑋 sia metrizzabile e pseudo-completo. Esiste quindi una distanza 𝑑 da cui si deduce 𝜏. Prendiamo una successione pseudo-completa (ℬ𝑛 )𝑛 di 𝜋-basi. Per ogni 𝑛 fissato, consideriamo la famiglia ℬ𝑛′ ∶= {𝐴 ∈ ℬ𝑛 ∶ diam 𝐴 < 1/(𝑛 + 1)} .
Si verifica facilmente che anche (ℬ𝑛′ )𝑛 è una successione pseudo-completa di 𝜋-basi (Esercizio!). Stante questa osservazione, non sarà restrittivo supporre che, per ogni 𝑛, sia ℬ𝑛′ = ℬ𝑛 . Per ogni 𝑛, determineremo una sottofamiglia 𝒰𝑛 di ℬ𝑛 con le seguenti proprietà: 1. Per ogni 𝑛, 𝒰𝑛 è formata da aperti a due a due disgiunti la cui unione è densa in 𝑋. 2. Per ogni 𝑈 ∈ 𝒰𝑛+1 , esiste 𝑉 ∈ 𝒰𝑛 tale che cl 𝑈 ⊆ 𝑉 .
11.2. Spazi Čech-completi
597
3. La successione (𝒰𝑛 )𝑛 è pseudo-completa. Sia intanto 𝒰0 una sottofamiglia di ℬ0 fatta da aperti a due a due disgiunti e massimale rispetto a questa proprietà e mostriamo che 𝐷0 ∶= ⋃𝑈 ∈𝒰0 𝑈 è denso in 𝑋. Se così non fosse, esisterebbero uno 𝑧 ∈ 𝑋 e un suo intorno aperto 𝑊𝑧 tali che 𝑊𝑧 ∩ 𝐷0 = ∅. L’aperto 𝑊𝑧 deve contenere un elemento 𝑉0 ∈ ℬ0 . Per costruzione, 𝑉0 è disgiunto da tutti gli elementi di 𝒰0 contro la massimalità di questa famiglia. Fissato 𝑛 ≥ 1, supponiamo di aver definito, per ogni 𝑖 < 𝑛 una sottofamiglia 𝒰𝑖 di ℬ𝑖 in modo da soddisfare alle prime due proprietà e definiamo la famiglia 𝒰𝑛 . Per ogni 𝐴 ∈ 𝒰𝑛−1 , indichiamo con 𝒱𝑛𝐴 una sottofamiglia di aperti 𝐵 ∈ ℬ𝑛 con cl 𝐵 ⊆ 𝐴, a due a due disgiunti e con 𝒱𝑛𝐴 massimale rispetto a queste richieste. Analogamente al punto precedente, si vede che la riunione degli elementi di 𝒱𝑛𝐴 è densa in 𝐴. In fine, si pone 𝒰𝑛 ∶= ⋃𝐴∈𝒰𝑛−1 𝒱𝑛𝐴 . Si ha chiaramente che la riunione degli elementi di 𝒰𝑛 è densa in 𝑋. Inoltre, per costruzione, si vede che risulta soddisfatta anche la 2. Di conseguenza, col procedimento induttivo così descritto, si ottiene una successione (𝒰𝑛 )𝑛 che soddisfa alle proprietà 1 e 2. Siccome ogni 𝒰𝑛 è una sottofamiglia di ℬ𝑛 , e (ℬ𝑛 )𝑛 è una successione pseudo-completa di 𝜋-basi, la successione (𝒰𝑛 )𝑛 soddisfa anche alla 3. Fatto ciò e posto, per ogni 𝑛, 𝐷𝑛 ∶= ⋃𝑈 ∈𝒰𝑛 𝑈 , ci proponiamo di dimostrare che l’insieme 𝐷 ∶= ⋂𝑛 𝐷𝑛 è un sottoinsieme Čech-completo e denso in 𝑋. Fissiamo uno 𝑧 ∈ 𝑋 e una sua palla aperta 𝐵(𝑧, 𝑟). Prendiamo ora un 𝑛 con 1/𝑛 < 𝑟/2. Per la densità di 𝐷𝑛 in 𝑋, esiste 𝑈𝑛 ∈ 𝒰𝑛 tale che 𝑈𝑛 ∩ 𝐵(𝑧, 1/𝑛) ≠ ∅. Prendendo un 𝑥 ∈ 𝑈𝑛 e un 𝑦 ∈ 𝑈𝑛 ∩ 𝐵(𝑧, 1/𝑛), si ha 𝑑(𝑥, 𝑧) ≤ 𝑑(𝑥, 𝑦) + 𝑑(𝑦, 𝑧) ≤ diam 𝑈𝑛 +
Ciò prova che 𝑈𝑛 ⊆ 𝐵(𝑧, 2/𝑛) ⊆ 𝐵(𝑧, 𝑟), da cui
1 1 1 2 < + < < 𝑟. 𝑛 𝑛+1 𝑛 𝑛
𝑈𝑛 ⊆ cl 𝑈𝑛 ⊆ cl 𝐵(𝑧, 2/𝑛) ⊆ 𝐵[𝑧, 2/𝑛] ⊆ 𝐵(𝑧, 𝑟).
Al momento, abbiamo dimostrato che 𝐷𝑛 ⊇ 𝑈𝑛 , con cl 𝑈𝑛 ⊆ 𝐵(𝑧, 𝑟). Applicando per un numero finito di passi la proprietà 2, si ha che, per ogni 𝑖 ≤ 𝑛 esiste un 𝑈𝑖 ∈ 𝒰𝑖 tali che 𝑈0 ⊇ cl 𝑈1 ⊇ 𝑈1 ⊇ cl 𝑈2 ⊇ ⋯ ⊇ 𝑈𝑛−1 ⊇ cl 𝑈𝑛 ⊇ 𝑈𝑛 .
Per la densità di 𝐷𝑛+1 in 𝑋, esiste un 𝑈𝑛+1 ∈ 𝒰𝑛+1 tale che 𝑈𝑛+1 ∩ 𝑈𝑛 ≠ ∅. D’altra parte, per le proprietà 1 e 2, la chiusura di 𝑈𝑛+1 è contenuta in uno e un solo elemento della famiglia 𝒰𝑛 . Deve dunque essere cl 𝑈𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑛 . Procedendo induttivamente in questo modo, si ottiene che, per ogni 𝑖 ∶= 𝑛 + 𝑘, con 𝑘 > 0, esiste un 𝑈𝑖 ∈ 𝒰𝑖 per cui si ha 𝑈𝑛 ⊇ cl 𝑈𝑛+1 ⊇ 𝑈𝑛+1 ⊇ cl 𝑈𝑛+2 ⊇ ⋯ ⊇ 𝑈𝑛+𝑘 ⊇ cl 𝑈𝑛+𝑘+1 ⊇ 𝑈𝑛+𝑘+1 ⊇ ⋯
Dato che la successione (𝒰𝑛 )𝑛 è pseudo-completa, si ottiene che esiste un punto 𝑤 ∈ ⋂𝑛 𝑈𝑛 ⊆ ⋂𝑛 𝐷𝑛 . Inoltre, per costruzione, 𝑤 ∈ 𝐵(𝑧, 𝑟). Si conclude che 𝐷 è denso in 𝑋.
11.2. Spazi Čech-completi
598
Rimane da dimostrare che il sottospazio denso 𝐷 è Čech-completo. A tale scopo, utilizzeremo la caratterizzazione degli spazi Čech-completi data dal Teorema 11.43. Per ogni 𝑛, chiamiamo 𝒲𝑛 la famiglia degli insiemi dati dalle tracce su 𝐷 degli aperti appartenenti a 𝒰𝑛 . Ogni elemento di 𝒲𝑛 è cioè del tipo 𝑈 ∩ 𝐷, con 𝑈 ∈ 𝒰𝑛 . Poiché ⋃𝑈 ∈𝒰𝑛 𝑈 = 𝐷𝑛 ⊇ 𝐷, si conclude che la famiglia 𝒲𝑛 è un ricoprimento aperto di 𝐷. Sia ora ℱ una famiglia di chiusi in 𝐷 con la PIF dominata dalla successione (𝒲𝑛 )𝑛 . Ciò significa che, per ogni 𝑛, esistono 𝐹𝑛 ∈ ℱ e 𝐴𝑛 ∈ 𝒲𝑛 tali che 𝐹𝑛 ⊆ 𝐴𝑛 . Inoltre, sempre per ogni 𝑛, sia 𝑈𝑛 ∈ 𝒰𝑛 tale che 𝑈𝑛 ∩ 𝐷 = 𝐴𝑛 . Osserviamo che è 𝑈𝑛 ∩ 𝑈𝑛+1 ⊇ 𝐴𝑛 ∩ 𝐴𝑛+1 ⊇ 𝐹𝑛 ∩ 𝐹𝑛+1 ≠ ∅
per la PIF. Ancora per le proprietà 1 e 2, si ottiene che cl 𝑈𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑛 . Poiché la successione (𝒰𝑛 )𝑛 è pseudo-completa, si ottiene che ⋂𝑛 𝑈𝑛 ≠ ∅. Sia 𝑢 ∈ ⋂𝑛 𝑈𝑛 . Per costruzione, si ha 𝑢 ∈ 𝐷. Dimostreremo che è anche 𝑢 ∈ ⋂𝐹 ∈ℱ 𝐹 . Supponiamo, per assurdo, che esista 𝐹 ∈ ℱ con 𝑢 ∉ 𝐹 . Poiché 𝐹 è chiuso in 𝐷, esiste un 𝑟 > 0 tale che 𝐹 ∩ (𝐷 ∩ 𝐵(𝑢, 𝑟)) = ∅. Fissato un 𝑚 tale che 1/𝑚 < 𝑟, si ottiene che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑈𝑚 , si ha 𝑑(𝑥, 𝑢) ≤ diam 𝑈𝑚 < 1/(𝑚 + 1) < 𝑟, da cui 𝑈𝑚 ⊆ 𝐵(𝑢, 𝑟) e quindi (𝑈𝑚 ∩ 𝐷) ∩ 𝐹 = ∅. D’altra parte, poiché la famiglia ℱ è dominata dalla successione (𝒲𝑛 )𝑛 , sappiamo che esistono 𝐹𝑚 ∈ ℱ e 𝐴𝑚 ∈ 𝒲𝑚 tali che 𝐹𝑚 ⊆ 𝐴𝑚 = 𝑈𝑚 ∩ 𝐷; da ciò risulta 𝐹 ∩ 𝐹𝑚 = ∅ che è assurdo, dato che ℱ gode della PIF. Siano dati uno spazio regolare 𝑋 e un suo sottospazio denso 𝑌 . Il fatto che dall’essere 𝑌 Čech-completo segue la pseudo-completezza di 𝑋 è una proprietà generale che non richiede la metrizzabilità di 𝑋 (cfr. la parte del “se” del precedente teorema). L’ipotesi di metrizzabilità non si può invece togliere nell’implicazione opposta. Esistono infatti spazi pseudo-completi privi di sottospazi densi Čech-completi. Ne daremo un esempio nel prossimo capitolo (cfr. Esempio 12.27). Nello stesso capitolo daremo anche l’esempio di uno spazio di Baire non pseudo-completo (cfr. Corollario 12.15). In questo modo, mostreremo che le implicazioni
Čech-completo ⇒ pseudo-completo ⇒ Baire,
(cfr. Teorema 11.84) non sono invertibili. In realtà, che la prima implicazione non sia invertibile lo si deduce già dal fatto che, mentre il prodotto arbitrario di spazi pseudo-completi è ancora pseudo-completo, non accade lo stesso per gli spazi Čech-completi. Basta infatti considerare lo spazio ℝ𝑋 , con 𝑋 non numerabile, studiato nell’Esempio 11.80 e usare il Teorema 11.86. Per dare un esempio di spazio di Baire non pseudo-completo, si potrebbe utilizzare un esempio di spazio topologico 𝑋 di Baire tale che 𝑋 2 non lo sia. Abbiamo accennato all’esistenza di tali spazi prima del Teorema 11.74 senza darne una descrizione esplicita. Un esempio diretto di spazio di Baire non pseudo-completo è lo spazio 𝐶𝑝 (ℕ𝜉 ) che verrà trattato nel prossimo capitolo (cfr. Corollario 12.15).
11.2. Spazi Čech-completi
599
Gli spazi pseudo-completi, introdotti da Oxtoby, si rivelano quindi una classe di spazi utile per studiare la completezza anche in situazioni di non metrizzabilità. Sono infatti tutti spazi di Baire ma, a differenza di questi, la proprietà che li caratterizza si conserva per prodotti arbitrari.
12
Topologie in spazi di funzioni continue Nei capitoli precedenti si è vista a più riprese l’importanza degli spazi delle funzioni continue da uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) in ℝ o in un compatto 𝐼 (tipicamente 𝐼 ∶= [0, 1]). È dunque naturale affrontare uno studio un po’ più sistematico di questi spazi di funzioni. Dato che i nostri obiettivi sono rivolti alle applicazioni della Topologia all’Analisi Matematica, focalizzeremo la nostra esposizione allo studio delle due principali topologie che si considerano in questo spazio: la topologia delle convergenza puntuale e quella della convergenza uniforme. Tratteremo, in fine, anche la topologia della convergenza uniforme sui compatti.
12.1
La topologia della convergenza puntuale
Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico non vuoto e 𝐶(𝑋) l’insieme delle funzioni continue da (𝑋, 𝜏) a (ℝ, 𝜏𝑒 ). Lo spazio 𝐶(𝑋), munito della topologia della convergenza puntale, ossia della topologia prodotto di ℝ𝑋 , viene indicato con 𝐶𝑝 (𝑋, ℝ) o, più semplicemente, con 𝐶𝑝 (𝑋) (cfr. Osservazione 6.15). Lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋) possiede un sottospazio importante che è dato dalle funzioni limitate e che è indicato con 𝐶 ∗ (𝑋) (cfr. pag. 533); nel nostro caso, scriveremo 𝐶𝑝∗ (𝑋) per mettere in evidenza che anche la topologia di 𝐶 ∗ (𝑋) è quella della convergenza puntuale. Affinché lo spazio 𝐶(𝑋) abbia una struttura sufficientemente ricca e interessante, come già fatto in precedenza, si assume comunemente che lo spazio 𝑋 sia almeno completamente regolare e quindi Hausdorff. Pertanto, in tutto questo paragrafo sottintenderemo che 𝑋 goda di questa proprietà. Uno studio specifico e approfondito degli spazi 𝐶𝑝 (𝑋) si trova in alcuni ottimi testi; si vedano per esempio: [4, 8, 22, 25]. Noi seguiremo principalmente il testo di V. V. Tkachuk [78]. È banale osservare che, qualunque sia l’insieme 𝑋, ℝ𝑋 è uno spazio vettoriale. È altresì facile constatare che, se 𝑋 è uno spazio topologico arbitrario, 𝐶(𝑋) è anch’esso uno spazio vettoriale in quanto sottospazio di ℝ𝑋 .
600
12.1. La topologia della convergenza puntuale
601
Lemma 12.1. Dato un insieme non vuoto 𝑋, ℝ𝑋 è uno spazio vettoriale topologico localmente convesso (cfr. Definizione 5.20).
Dimostrazione. Essendo ℝ di Hausdorff, è tale anche ℝ𝑋 (cfr. Teorema 6.37). Proviamo che la somma di funzioni e il prodotto per una costante reale sono funzioni continue. Somma. Sia 𝜎 ∶ ℝ𝑋 × ℝ𝑋 → ℝ𝑋 l’applicazione che alle funzioni 𝑓 , 𝑔 ∈ ℝ𝑋 associa la funzione 𝑓 + 𝑔 ∈ ℝ𝑋 . Proviamo che 𝜎 è continua. Essendo il codominio un insieme prodotto dotato della topologia prodotto, basta provare che sono continue le funzioni 𝑝𝛼 ∘𝜎, dove 𝑝𝛼 è la proiezione 𝛼-ima (cfr. Corollario 6.9). Nel nostro caso, ciò si traduce nel dimostrare che, per ogni 𝑧 ∈ 𝑋 fissato, l’applicazione 𝜎𝑧 ∶ ℝ𝑋 × ℝ𝑋 → ℝ definita da 𝜎𝑧 (𝑓 , 𝑔) ∶= 𝑓 (𝑧) + 𝑔(𝑧) è continua. Fissiamo 𝑓0 , 𝑔0 ∈ ℝ𝑋 e l’intorno 𝑈 di 𝜎𝑧 (𝑓0 , 𝑔0 ) = 𝑓0 (𝑧) + 𝑔0 (𝑧) definito da 𝑈 ∶=](𝑓0 + 𝑔0 )(𝑧) − 𝜀, (𝑓0 + 𝑔0 )(𝑧) + 𝜀[.
Consideriamo i due insiemi
𝐴 ∶= {ℎ ∶ 𝑋 → ℝ ∶ 𝑓0 (𝑧) − 𝜀/2 < ℎ(𝑧) < 𝑓0 (𝑧) + 𝜀/2} ; 𝐵 ∶= {ℎ ∶ 𝑋 → ℝ ∶ 𝑔0 (𝑧) − 𝜀/2 < ℎ(𝑧) < 𝑔0 (𝑧) + 𝜀/2} .
𝐴 e 𝐵 sono due intorni aperti di 𝑓0 e 𝑔0 rispettivamente in ℝ𝑋 ; ne viene che 𝐴 × 𝐵 è un intorno aperto di (𝑓0 , 𝑔0 ) in ℝ𝑋 × ℝ𝑋 . Si vede subito che, per ogni 𝑓 ∈ 𝐴 e ogni 𝑔 ∈ 𝐵 si ha 𝑓 (𝑧) + 𝑔(𝑧) ∈ 𝑈 . Prodotto. Sia 𝜌 ∶ ℝ × ℝ𝑋 → ℝ𝑋 l’applicazione che al numero reale 𝑘 e alla funzione 𝑓 ∈ ℝ𝑋 associa la funzione 𝑘𝑓 ∈ ℝ𝑋 . La verifica della continuità di 𝜌 è analoga alla precedente ed è lasciata per esercizio. Resta da verificare che ogni punto di ℝ𝑋 ammette una base di intorni aperti e convessi. Come già osservato a pag. 215 è sufficiente occuparsi degli intorni dell’origine, ossia della funzione nulla. Fissato 𝑧 ∈ 𝑋, sia 𝑈𝑧 (𝜀) ∶= {ℎ ∶ 𝑋 → ℝ ∶ −𝜀 < ℎ(𝑧) < 𝜀} .
È immediato verificare che gli insiemi del tipo 𝑈𝑧 (𝜀) sono convessi in ℝ𝑋 . Siccome ogni intorno di base della funzione nulla è dato da un’intersezione finita di insiemi di questo tipo, la tesi segue dal Lemma 5.1. Corollario 12.2. Qualunque sia lo spazio topologico non vuoto (𝑋, 𝜏), lo spazio vettoriale 𝐶𝑝 (𝑋) è uno spazio vettoriale topologico localmente convesso.
Dimostrazione. 𝐶𝑝 (𝑋) è convesso in quanto sottospazio di uno spazio vettoriale. Essendo ℝ𝑋 uno SVT localmente convesso, è tale anche 𝐶𝑝 (𝑋). Infatti, data una base ℬ di intorni convessi della funzione nulla 0 in ℝ𝑋 , intersecando gli elementi di ℬ con 𝐶𝑝 (𝑋), si ottiene una base ℬ ′ di intorni convessi di 0 nel sottospazio 𝐶𝑝 (𝑋).
12.1. La topologia della convergenza puntuale
602
Nel Paragrafo 10.2, abbiamo introdotto alcuni invarianti cardinali, tra cui il peso 𝑤(⋅) di uno spazio topologico, ossia la minima cardinalità di una sua base di aperti, e il carattere 𝜒(⋅) che è l’estremo superiore, al variare di un punto 𝑥 nello spazio, della minima cardinalità di una base di intorni del punto. Per uno spazio topologico 𝑍, si ha chiaramente 𝑤(𝑍) = ℵ0 se e solo se lo spazio è 𝐴2 e 𝜒(𝑍) = ℵ0 se e solo se lo spazio è 𝐴1 . Ricordiamo che, per convenzione, tutti gli invarianti sono assunti infiniti (cfr. Pagine 514 e seg.). Ovviamente, per ogni spazio topologico 𝑍, si ha 𝜒(𝑍) ≤ 𝑤(𝑍). È facile costruire esempi di spazi per cui 𝜒(𝑍) < 𝑤(𝑍). Un fatto abbastanza sorprendente è invece che negli spazi 𝐶𝑝 (𝑋), con 𝑋 completamente regolare, questi invarianti coincidono. Vale infatti il seguente risultato: Teorema 12.3. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico completamente regolare e infinito. Allora si ha |𝑋| = 𝜒(𝐶𝑝 (𝑋)) = 𝑤(𝐶𝑝 (𝑋)).
Dimostrazione. Cominciamo col costruire una base di aperti di ℝ𝑋 , dove, per comodità, gli elementi di ℝ𝑋 sono pensati come funzioni da 𝑋 a ℝ. Si fissa un numero finito di punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 in 𝑋 e a ciascuno di essi si associa un intervallo aperto 𝐼𝑥𝑖 di estremi razionali. Resta individuato l’insieme 𝐵 = 𝐵(𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ; 𝐼𝑥1 , … , 𝐼𝑥𝑘 ) formato dalle funzioni 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tali che 𝑓 (𝑥𝑖 ) ∈ 𝐼𝑥𝑖 , 𝑖 = 1, … , 𝑘. Gli insiemi 𝐵 così definiti formano una base di aperti ℬ di ℝ𝑋 . Per ottenere una base ℬ ′ di aperti di 𝐶𝑝 (𝑋), basta intersecare i 𝐵 con 𝐶𝑝 (𝑋). Se 𝑋 è infinito, si ha chiaramente |ℬ| = |𝑋|, dato che a ogni 𝑥 ∈ 𝑋 si associa un insieme numerabile di aperti. Tenuto conto del Teorema 10.47, si ottiene 𝜒(𝐶𝑝 (𝑋)) ≤ 𝑤(𝐶𝑝 (𝑋)) ≤ 𝑤(ℝ𝑋 ) ≤ |ℬ| = |𝑋|.
(12.1)
Proviamo ora che è |𝑋| ≤ 𝜒(𝐶𝑝 (𝑋)). Per prima cosa, osserviamo che, essendo 𝐶𝑝 (𝑋) uno spazio vettoriale topologico, gli intorni di un qualunque punto sono i traslati di quelli dell’origine (funzione nulla 0); basta dunque confrontare 𝑋 con il carattere dello spazio 𝐶𝑝 (𝑋) in 0, ossia 𝜒(0, 𝐶𝑝 (𝑋)). Fissiamo una base 𝒜0 di intorni aperti di 0 in 𝐶𝑝 (𝑋) che sia di minima cardinalità. Ogni 𝐴 ∈ 𝒜0 deve contenere un aperto di tipo 𝐴(𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ; 𝜀) formato dalle funzioni continue 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tali che 𝑓 (𝑥𝑖 ) ∈ ] − 𝜀, 𝜀[, 𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}, 𝜀 ∈ ]0, 1[. Ovviamente 𝜀 dipende di volta in volta dai punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 . Senza perdita di generalità, possiamo direttamente supporre che ogni 𝐴 sia di questa forma. Dato 𝐴(𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ; 𝜀) ∈ 𝒜0 chiamiamo suo supporto l’insieme Supp 𝐴 ∶= {𝑥1 , … , 𝑥𝑘 } e mostriamo che si ha 𝐾 ∶= ⋃𝐴∈𝒜 Supp 𝐴 = 𝑋. Per assurdo, esista 𝑧 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐾. Prendiamo come intorno di 0 l’insieme 𝑊 ∶= 𝐴(𝑧; 1) formato dalle funzioni continue 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tali che |𝑓 (𝑧)| < 1. Per ipotesi, esiste un aperto di base 𝐴(𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ; 𝜀) ⊆ 𝑊 con 𝑧 ∉ {𝑥1 , … , 𝑥𝑘 }. Essendo 𝑋 completamente regolare e {𝑥1 , … , 𝑥𝑘 } chiuso, esiste una funzione continua 𝑓 ̂ ∶ 𝑋 → ℝ tale che ̂ 𝑖 ) ∶= 0, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘} e 𝑓 (𝑧) ̂ ∶= 1. Si ha 𝑓 ̂ ∈ 𝐴(𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ; 𝜀) ⧵ 𝑊 , contro il 𝑓 (𝑥 fatto che è 𝐴(𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ; 𝜀) ⊆ 𝑊 . Abbiamo così dimostrato che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, esiste 𝐴 ∈ 𝒜0 tale che 𝑥 ∈ Supp 𝐴. Sia 𝒳 ⊂ 𝒫 (𝑋) l’insieme di tutti i supporti associati agli elementi
12.1. La topologia della convergenza puntuale
603
𝐴 ∈ 𝒜0 . L’applicazione che ad 𝐴 ∈ 𝒜0 associa il suo supporto Supp 𝐴 ∈ 𝒳 è suriettiva per definizione e, pertanto, si ha 𝜒(𝐶𝑝 (𝑋)) = 𝜒(0, 𝐶𝑝 (𝑋)) = |𝒜0 | ≥ |𝒳 |.
Ad ogni 𝑥 ∈ 𝑋, associamo ora un elemento 𝜑(𝑥) ∈ 𝒳 , dove 𝜑(𝑥) è un supporto contenente 𝑥. L’applicazione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝜑(𝑋)(⊆ 𝒳 ) è suriettiva ed ha la proprietà che ogni elemento 𝑌 ∈ 𝜑(𝑋) ha controimmagine finita. Essendo 𝑋 infinito, gli insiemi 𝑋 e 𝜑(𝑋) hanno la stessa cardinalità. Si ha quindi |𝑋| = |𝜑(𝑋)| ≤ |𝒳 |,
da cui |𝑋| ≤ 𝜒(𝐶𝑝 (𝑋)). Tenuto conto della (12.1), si ha la tesi.
Teorema 12.4. Se lo spazio topologico 𝑋 è completamente regolare, allora 𝐶𝑝 (𝑋) è metrizzabile se e solo se 𝑋 è numerabile. Dimostrazione. Se 𝑋 è finito, 𝐶𝑝 (𝑋) è omeomorfo a un sottoinsieme di ℝ𝑛 ed è quindi metrizzabile. Non sarà restrittivo supporre 𝑋 infinito. Sia 𝑋 numerabile. Lo spazio ℝ𝑋 con la topologia prodotto è metrizzabile per il Teorema 6.23. Questo risultato dipende solo dalla cardinalità di 𝑋 ed è indipendente dalla sua topologia. Lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋) è un sottospazio di ℝ𝑋 ed è quindi metrizzabile. Dal teorema precedente, si sa che è |𝑋| = 𝜒(𝐶𝑝 (𝑋)). Se 𝐶𝑝 (𝑋) è metrizzabile, esso è primo-numerabile, da cui |𝑋| = 𝜒(𝐶𝑝 (𝑋)) = ℵ0 . A commento dell’ultimo passo della precedente dimostrazione, osserviamo che, essendo 𝐶𝑝 (𝑋) uno SVT, si ha che esso è metrizzabile se e solo se è primo-numerabile (cfr. Teorema 5.40). Dai Teoremi 5.40, 12.3 e 12.4 segue immediatamente il Corollario 12.5. Dato (𝑋, 𝜏) completamente regolare, sono equivalenti le seguenti affermazioni: 1. 𝑋 è numerabile. 2. 𝐶𝑝 (𝑋) è 𝐴1 . 3. 𝐶𝑝 (𝑋) è 𝐴2 . 4. 𝐶𝑝 (𝑋) è metrizzabile.
In virtù dei risultati appena visti, diventa particolarmente interessante studiare gli spazi 𝐶𝑝 (𝑋) quando 𝑋 sia numerabile. Chiaramente la struttura di 𝐶𝑝 (𝑋) potrà variare in modo molto sensibile a seconda della topologia di 𝑋. Una prima possibilità è di prendere su 𝑋 la topologia discreta. In tal caso tutte le funzioni sono continue e 𝐶𝑝 (𝑋) coincide con ℝ𝑋 che si potrà identificare con ℝℕ , dato che per noi 𝑋 è numerabile. Sappiamo che lo spazio ℝℕ , indicato anche con ℝ∞ o ℝ𝜔 , oltre a essere metrizzabile, può essere dotato di una distanza che lo rende completo (cfr. Esempio 6.33). Osserviamo che, se in
12.1. La topologia della convergenza puntuale
604
𝑋 si introduce la topologia nulla, risultano continue solo le funzioni costanti e 𝐶𝑝 (𝑋) coincide a tutti gli effetti con ℝ. Consideriamo ora la proprietà di Baire nel contesto degli spazi 𝐶𝑝 (𝑋). Sappiamo che ogni spazio di Baire è di seconda categoria (cfr. Lemma 9.37). Come già osservato dopo il lemma citato, non sussiste l’implicazione opposta (basta prendere la somma diretta di ℝ con ℚ). I due concetti risultano però equivalenti nell’ambito degli spazi 𝐶𝑝 (𝑋). Lemma 12.6. Uno spazio vettoriale topologico 𝐸 è di Baire se e solo se è di seconda categoria.
Dimostrazione. Per il Lemma 9.37, basta provare il “se”. Supponiamo pertanto 𝐸 di seconda categoria. Sia 𝑈 un intorno dell’origine che, per il Lemma 5.22, possiamo supporre chiuso e assorbente. Supponiamo, per assurdo, che 𝑈 sia di prima categoria. Si ha quindi 𝑈 = ⋃𝑛 𝐶𝑛 , con i 𝐶𝑛 chiusi con interno vuoto. Dal fatto che 𝑈 è assorbente, segue anche che è 𝐸 = ⋃∞ 𝑘=1 𝑘𝑈 . Ne viene che 𝐸 si può esprimere come unione numerabile di insiemi del tipo 𝑘𝐶𝑛 , che sono tutti chiusi. Essendo 𝐸 di seconda categoria, almeno uno degli insiemi 𝑘𝐶𝑛 ha interno non vuoto. Usando il fatto che l’applicazione che a 𝑥 associa 𝑘𝑥 (con 𝑘 > 0) è un omeomorfismo di 𝐸, concludiamo che anche almeno uno dei 𝐶𝑛 ha interno non vuoto, contro l’ipotesi. Se ora 𝑊 è un qualunque intorno aperto dell’origine, anche 𝑊 è di seconda categoria, dovendo contenere un insieme come il precedente 𝑈 . In fine, sia 𝐴 un qualunque aperto non vuoto di 𝐸. Fissato un elemento 𝑧 ∈ 𝐴, l’insieme 𝐴 − 𝑧 ∶= {𝑎 − 𝑧 ∶ 𝑎 ∈ 𝐴} è un intorno aperto dell’origine ed è quindi di seconda categoria. Concludiamo che anche 𝐴 è di seconda categoria essendo ad esso omeomorfo. La tesi segue dal Lemma 9.38 Dal precedente risultato e dal Lemma 12.1 si ha subito il
Corollario 12.7. Qualunque sia lo spazio topologico (𝑋, 𝜏), 𝐶𝑝 (𝑋) è di Baire se e solo se è di seconda categoria. Descriveremo ora su 𝑋 numerabile una topologia che risulta utile per vari controesempi.
Esempio 12.8 (Lo spazio 𝑋𝜉 ). Siano 𝑋 un insieme infinito arbitrario e 𝜉 un ̂ dove 𝜉 ̂ è l’ultrafiltro ultrafiltro libero su 𝑋. Denotiamo con 𝑋𝜉 l’insieme 𝑋 ∪{𝜉}, 𝜉 pensato come un unico punto. Definiamo in 𝑋𝜉 la seguente topologia. I punti di 𝑋 sono isolati. Gli intorni (aperti) di 𝜉 ̂ sono tutti e soli gli insiemi del tipo {𝜉}̂ ∪ 𝐴 tale che 𝐴 ⊆ 𝑋 con 𝐴 ∈ 𝜉. Lo spazio così definito è normale. Infatti, è ovvio che i singoli punti sono chiusi e che quindi lo spazio è 𝑇1 . Siano poi 𝐻, 𝐾 due chiusi disgiunti di 𝑋𝜉 . Almeno uno dei due chiusi non contiene 𝜉,̂ sia esso 𝐻. Ne viene che 𝑋 ⧵ 𝐻 ∈ 𝜉. Si ottiene che 𝐻 e 𝑋𝜉 ⧵ 𝐻 sono due aperti (clopen) che separano 𝐻 e 𝐾. ◁ Teorema 12.9. Lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋𝜉 ) è di Baire.
12.1. La topologia della convergenza puntuale
605
Dimostrazione. 1. Come primo passo, verifichiamo che in 𝑋𝜉 vale la seguente proprietà: Per ogni successione (ℱ𝑛 )𝑛 di famiglie infinite di sottoinsiemi finiti di 𝑋𝜉 a due a due disgiunti, si può prendere da ogni famiglia ℱ𝑛 un elemento 𝐹𝑛 in modo che l’insieme 𝐹 ∶= ⋃𝑛 𝐹𝑛 sia privo di punti di accumulazione. Osserviamo che l’unico punto che può essere di accumulazione per un sottoinsieme di 𝑋𝜉 è 𝜉.̂ La dimostrazione di questa proprietà procede per induzione. Siano 𝐴0 , 𝐵0 ∈ ℱ0 arbitrari, ma distinti (disgiunti). Supponiamo di aver preso 𝐴𝑖 , 𝐵𝑖 ∈ ℱ𝑖 , per ogni 𝑖 ≤ 𝑛, in modo che la famiglia {𝐴𝑖 , 𝐵𝑖 ∶ 𝑖 ≤ 𝑛} sia costituita da elementi a due a due disgiunti. Posto 𝐶𝑛 ∶= ⋃𝑛𝑖=0 (𝐴𝑖 ∪ 𝐵𝑖 ), si ha che 𝐶𝑛 è un insieme finito; essendo ℱ𝑛+1 costituita da infiniti sottoinsiemi (tutti finiti) di 𝑋𝜉 , ve ne sono infiniti che hanno intersezione vuota con 𝐶𝑛 . Ne prendiamo due distinti (disgiunti) e li chiamiamo 𝐴𝑛+1 e 𝐵𝑛+1 . Abbiamo così una doppia successione (𝐴𝑛 )𝑛 e (𝐵𝑛 )𝑛 di sottoinsiemi finiti a due a due disgiunti di 𝑋𝜉 , con 𝐴𝑛 , 𝐵𝑛 ∈ ℱ𝑛 , ∀𝑛 ∈ ℕ. Non sarà restrittivo supporre che, per ogni 𝑛, 𝐴𝑛 e 𝐵𝑛 siano sottoinsiemi di 𝑋. Poniamo 𝐴 ∶= ⋃𝑛 𝐴𝑛 e 𝐵 ∶= ⋃𝑛 𝐵𝑛 ; gli insiemi 𝐴 e 𝐵 sono disgiunti e non possono quindi appartenere entrambi a 𝜉. Supponiamo 𝐴 ∉ 𝜉. Ribattezziamo gli insiemi 𝐴𝑛 con 𝐹𝑛 e proviamo che 𝜉 ̂ non è di accumulazione per 𝐹 ∶= ⋃𝑛 𝐹𝑛 . Dato che 𝐹 ∉ 𝜉 esiste un elemento 𝑈 ∈ 𝜉 tale che 𝑈 ∩ 𝐹 = ∅. L’insieme 𝑈 ∪ {𝜉}̂ è un intorno di 𝜉 ̂ disgiunto da 𝐹 . 2. Supponiamo ora, per assurdo, che 𝐶𝑝 (𝑋𝜉 ) non sia uno spazio di Baire. Consideriamo la famiglia 𝒟 ∶= {(𝑆0 , 𝑆1 , … , 𝑆2𝑛 ) ∶ (𝑛 ∈ ℕ) ∧ (𝑆𝑖 ⊂ 𝑋𝜉 finito, ∀𝑖 ≤ 2𝑛)∧ ∧(𝑆𝑖 ∩ 𝑆𝑗 = ∅, ∀𝑖, 𝑗 ≤ 2𝑛, 𝑖 ≠ 𝑗)}.
Esiste un’applicazione 𝜎 definita su 𝒟 che ad ogni 𝐷 ∶= (𝑆0 , 𝑆1 , … , 𝑆2𝑛 ) associa un elemento 𝜎(𝐷) che è un sottoinsieme finito di 𝑋𝜉 , disgiunto da 𝑆0 ∪ ⋯ ∪ 𝑆2𝑛 che gode della seguente proprietà: (𝑃 ) Per ogni successione (𝑆𝑘 )𝑘 di sottoinsiemi finiti di 𝑋𝜉 a due a due disgiunti e tali che, per ogni 𝑙, 𝑆2𝑙+1 = 𝜎(𝑆0 , 𝑆1 , … , 𝑆2𝑙 ), si ha che 𝜉 ̂ è di accumulazione per l’unione degli insiemi con indice dispari. In [78], l’autore chiama strategia vincente un’applicazione 𝜎 con tale proprietà. Definire un’applicazione 𝜎 sull’insieme 𝒟 tale che 𝜎(𝐷) è disgiunto dagli elementi di 𝐷 è banale: basterebbe associare sempre l’insieme vuoto. Il problema (di notevole complessità) è quello di definire una funzione che sia una “strategia vincente”. 3. Supponiamo, per un momento, di aver provato l’esistenza di una “strategia vincente”. Definiamo induttivamente un’opportuna successione (𝑇 (𝑛))𝑛 di sottoinsiemi finiti di 𝑋 a due a due disgiunti. Poniamo, intanto, 𝑇 (0) ∶= ∅. Supposto di aver definito 𝑇 (0), … , 𝑇 (𝑛 − 1), poniamo 𝑇 (𝑛) ∶= 𝜎(𝑇 (0) ∪ ⋯ ∪ 𝑇 (𝑛 − 1)).
(12.2)
12.1. La topologia della convergenza puntuale
606
Come passo successivo, associamo ad ogni 𝑘-upla (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 ) di numeri naturali un sottoinsieme finito 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 ) di 𝑋 nel seguente modo. Per 𝑘 = 1, è stato fatto al passo precedente. Supposto di aver definito gli insiemi 𝑇 associati a 𝑘 indici, si pone intanto 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 , 0) ∶= ∅. Supponiamo poi assegnati gli insiemi 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 , 𝑗) per 0 ≤ 𝑗 < 𝑙. Introduciamo gli insiemi ausiliari: 𝑈0 ∶= 𝑇 (0) ∪ ⋯ ∪ 𝑇 (𝑖1 − 1),
𝑈2 ∶= 𝑇 (𝑖1 , 0) ∪ ⋯ ∪ 𝑇 (𝑖1 , 𝑖2 − 1),
𝑈1 ∶= 𝑇 (𝑖1 ),
𝑈3 ∶= 𝑇 (𝑖1 , 𝑖2 ), … ,
𝑈2𝑗 ∶= 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑗 , 0) ∪ ⋯ ∪ 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑗 , 𝑖𝑗+1 − 1), 𝑈2𝑗+1 ∶= 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑗 , 𝑖𝑗+1 ), …
Possiamo finalmente definire
𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 , 𝑙) ∶= 𝜎(𝑈0 , … 𝑈2𝑘−1 , 𝑊2𝑘 ), con 𝑊2𝑘 ∶= 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 , 0) ∪ ⋯ ∪ 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 , 𝑙 − 1).
(12.3)
Con questo procedimento induttivo, risultano definiti, per ogni 𝑘-upla di numeri naturali (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 ), gli insiemi 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 ). Definiamo ora una successione di famiglie ℱ𝑛 che soddisfano alle ipotesi di cui al punto 1. Partiamo dalle seguenti posizioni: ℱ (∅) ∶= {𝑇 (𝑗) ∶ 𝑗 ∈ ℕ} e, per ogni 𝑘-upla (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 ), ℱ (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 ) ∶= {𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 , 𝑗) ∶ 𝑗 ∈ ℕ} .
Ciascuna di queste famiglie è infinita ed è costituita da sottoinsiemi finiti di 𝑋 a due a due disgiunti (per costruzione). Per la proprietà vista al punto 1 della dimostrazione, è possibile prendere un elemento (sottoinsieme finito di 𝑋) da ciascuna famiglia in modo che l’unione 𝐹 di questi formi un sottoinsieme di 𝑋 privo di punti di accumulazione in 𝑋𝜉 . Per come sono state definite le famiglie ℱ , possiamo immaginare di avere scelto un 𝑇 (𝑚) ∈ ℱ (∅) e, per ogni 𝑘-upla (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 ), un insieme 𝑇 (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 , 𝑚(𝑖1 , … , 𝑖𝑘 )) ∈ ℱ (𝑖1 , … , 𝑖𝑘 ). Definiamo, in fine, una successione di indici (𝑗𝑝 )𝑝 ponendo 𝑗1 ∶= 𝑚, 𝑗2 ∶= 𝑚(𝑗1 ), …, 𝑗𝑝+1 ∶= 𝑚(𝑗1 , … , 𝑗𝑝 ) e consideriamo gli insiemi 𝑆0 ∶= 𝑇 (0) ∪ ⋯ ∪ 𝑇 (𝑗1 − 1),
𝑆2 ∶= 𝑇 (𝑗1 , 0) ∪ ⋯ ∪ 𝑇 (𝑗1 , 𝑗2 − 1),
𝑆1 ∶= 𝑇 (𝑗1 ),
𝑆3 ∶= 𝑇 (𝑗1 , 𝑗2 ), …
𝑆2𝑙 ∶= 𝑇 (𝑗1 , … , 𝑗𝑙 , 0) ∪ ⋯ ∪ 𝑇 (𝑗1 , … , 𝑗𝑙 , 𝑗𝑙+1 − 1), 𝑆2𝑙+1 ∶= 𝑇 (𝑗1 , … , 𝑗𝑙 , 𝑗𝑙+1 ), …
La successione di insiemi così definita è tale che 𝑆2𝑝+1 = 𝜎(𝑆0 , … , 𝑆2𝑝 ), per ogni 𝑝. Infatti, dalla (12.2) segue che 𝑆1 = 𝜎(𝑆0 ). Dalla (12.3) si ottiene: 𝑆3 = 𝑇 (𝑗1 , 𝑗2 ) = 𝑇 (𝑗1 , 𝑚(𝑗1 )) = 𝜎(𝑈0 , 𝑈1 , 𝑊2 ) =
= 𝜎(𝑈0 , 𝑈1 , 𝑇 (𝑗1 , 0) ∪ ⋯ ∪ 𝑇 (𝑗1 , 𝑚(𝑗1 ) − 1)) = 𝜎(𝑆0 , 𝑆1 , 𝑆2 ).
12.1. La topologia della convergenza puntuale
607
Per i dispari successivi si procede in modo analogo utilizzando sempre la (12.3) (Esercizio!). Essendo 𝜎 una strategia vincente, concludiamo che 𝜉 ̂ è di accumulazione per l’insieme 𝑆 ∶= ⋃𝑛 𝑆2𝑛+1 . Ciascuno degli insiemi 𝑆2𝑛+1 è del tipo 𝑇 (𝑗1 , … , 𝑗𝑙 , 𝑗𝑙+1 ) = 𝑇 (𝑗1 , … , 𝑗𝑙 , 𝑚(𝑗1 , … , 𝑗𝑙 ))
e, pertanto, coincide con l’elemento di ℱ (𝑗1 , … , 𝑗𝑙 ) scelto precedentemente per formare l’insieme 𝐹 . Possiamo così concludere che 𝑆 ⊆ 𝐹 , ottenendo un assurdo dato che 𝜉 ̂ non è di accumulazione per 𝐹 . 4. Ci resta da provare che, sotto l’ipotesi (assurda) che 𝐶𝑝 (𝑋𝜉 ) non sia di Baire, esiste effettivamente una strategia vincente. Per il Corollario 12.7, 𝐶𝑝 (𝑋𝜉 ) deve essere di prima categoria e quindi l’unione numerabile di chiusi ciascuno con interno vuoto. In modo equivalente, possiamo affermare che esiste una successione (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti densi in 𝐶𝑝 (𝑋𝜉 ) aventi intersezione vuota. Non è restrittivo supporre che la successione sia decrescente per inclusione. Veniamo alla definizione della mappa 𝜎. Premettiamo la seguente notazione: dati un insieme finito 𝑆 ⊂ 𝑋𝜉 , una funzione 𝑓 ∶ 𝑆 → ℝ e un numero reale 𝜀 > 0, definiamo l’aperto di base in 𝐶𝑝 (𝑋𝜉 ) 𝐴(𝑆, 𝑓 , 𝜀) ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋𝜉 ) ∶ |𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑆 }
Procedendo per induzione, cominciamo col definire 𝜎 per 𝑙 = 0 (cfr. la Proprietà (𝑃 ) di pag. 605). Dato un insieme finito 𝑆0 , il numero reale 𝜀0 ∶= 1 e la funzione 𝑓0 ∶ 𝑆0 → ℝ identicamente nulla, consideriamo l’aperto 𝐴(𝑆0 , 𝑓0 , 𝜀0 ). Esso ha intersezione non vuota con l’aperto denso 𝐴0 . Tale intersezione deve contenere un aperto di base in 𝐶𝑝 (𝑋𝜉 ). Pertanto esistono un insieme finito 𝑇1 ⊇ 𝑆0 , una funzione 𝑓1 ∶ 𝑇1 → ℝ e un numero reale 𝜀1 ∈ ]0, 1/2[ tali che 𝐴(𝑇1 , 𝑓1 , 2𝜀1 ) ⊆ 𝐴0 ∩ 𝐴(𝑆0 , 𝑓0 , 𝜀0 ).
Non sarà inoltre restrittivo prendere 𝜉 ̂ ∈ 𝑇1 . A questo punto, poniamo 𝑆1 = 𝜎(𝑆0 ) ∶= 𝑇1 ⧵ 𝑆0 . Consideriamo ora un insieme finito 𝑆2 disgiunto da 𝑆0 ∪ 𝑆1 = 𝑇1 . Poniamo 𝑇2 ∶= 𝑆0 ∪ 𝑆1 ∪ 𝑆2 = 𝑇1 ∪ 𝑆2 . Sull’insieme 𝑇2 definiamo una ̂ ∀𝑥 ∈ 𝑆2 . funzione reale 𝑓2 ponendo 𝑓2 (𝑥) ∶= 𝑓1 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑇1 e 𝑓2 (𝑥) ∶= 𝑓1 (𝜉), Sia poi 𝜀2 ∶= 𝜀1 /2. L’aperto 𝐴(𝑇2 , 𝑓2 , 𝜀2 ) interseca l’aperto denso 𝐴1 e quindi esistono un insieme finito 𝑇3 ⊇ 𝑇2 , una funzione 𝑓3 ∶ 𝑇3 → ℝ e un 𝜀3 ∈ ]0, 2−3 [ in modo tale che sia 𝐴(𝑇3 , 𝑓3 , 2𝜀3 ) ⊆ 𝐴1 ∩ 𝐴(𝑇2 , 𝑓2 , 𝜀2 ).
A questo punto, porremo 𝑆3 = 𝜎(𝑆0 , 𝑆1 , 𝑆2 ) ∶= 𝑇3 ⧵ 𝑇2 . Supponiamo ora che, per ogni sequenza (𝑆0 , 𝑆1 , … , 𝑆2𝑗 ), ∀𝑗 ∈ {0, … 𝑙 − 1}, siano stati definiti 𝑆2𝑗+1 ∶= 𝜎(𝑆0 , 𝑆1 , … , 𝑆2𝑗 ), assieme a delle funzioni reali 𝑓0 , 𝑓1 , … , 𝑓2𝑙−1 , e i numeri reali 𝜀0 , … , 𝜀2𝑙−1 in modo che siano rispettati i seguenti requisiti: a1. 𝑓𝑘 è definita su 𝑇𝑘 ∶= 𝑆0 ∪ 𝑆1 ∪ ⋯ ∪ 𝑆𝑘 , ∀𝑘 ∈ {0, … , 2𝑙 − 1};
12.1. La topologia della convergenza puntuale
608
̂ ∀𝑥 ∈ 𝑆2𝑗 , ∀𝑗 ∈ a2. 𝑓2𝑗 (𝑥) ∶= 𝑓2𝑗−1 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑇2𝑗−1 e 𝑓2𝑗 (𝑥) ∶= 𝑓2𝑗−1 (𝜉), {1, … , 𝑙 − 1}; a3. 𝜀𝑘 ∈ ]0, 2−𝑘 [, ∀𝑘 ∈ {0, … , 2𝑙 − 1}; a4. 𝐴(𝑇2𝑗+1 , 𝑓2𝑗+1 , 2𝜀2𝑗+1 ) ⊆ 𝐴𝑗 ∩ 𝐴(𝑇2𝑗 , 𝑓2𝑗 , 𝜀2𝑗 ), ∀𝑗 ∈ {1, … , 𝑙 − 1}. Fin qui, abbiamo degli insiemi finiti 𝑆0 , … , 𝑆2𝑙−1 a due a due disgiunti, con 𝑆2𝑗+1 = 𝜎(𝑆0 , … , 𝑆2𝑗 ). Consideriamo la (2𝑙 + 1)-upla (𝑆0 , 𝑆1 , … , 𝑆2𝑙−1 , 𝑆2𝑙 ), dove 𝑆2𝑙 è un nuovo insieme finito disgiunto dai precedenti. Seguendo lo stesso procedimento utilizzato per passare da (𝑆0 , 𝑆1 , 𝑆2 ) a 𝑆3 , poniamo 𝑇2𝑙 ∶= 𝑆0 ∪ ⋯ ∪ 𝑆2𝑙 = 𝑇2𝑙−1 ∪ 𝑆2𝑙 e definiamo una funzione 𝑓2𝑙 ∶ 𝑇2𝑙 → ℝ ponendo 𝑓2𝑙 (𝑥) ∶= ̂ ∀𝑥 ∈ 𝑆2𝑙 . Sia poi 𝜀2𝑙 ∶= 𝜀2𝑙−1 /2. 𝑓2𝑙−1 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑇2𝑙−1 e 𝑓2𝑙 (𝑥) ∶= 𝑓2𝑙−1 (𝜉), L’aperto 𝐴(𝑇2𝑙 , 𝑓2𝑙 , 𝜀2𝑙 ) interseca l’aperto denso 𝐴𝑙 e quindi esistono un insieme finito 𝑇2𝑙+1 ⊇ 𝑇2𝑙 , una funzione 𝑓2𝑙+1 ∶ 𝑇2𝑙+1 → ℝ e un 𝜀2𝑙+1 ∈ ]0, 2−2𝑙−1 [ in modo tale che sia 𝐴(𝑇2𝑙+1 , 𝑓2𝑙+1 , 2𝜀2𝑙+1 ) ⊆ 𝐴𝑙 ∩ 𝐴(𝑇2𝑙 , 𝑓2𝑙 , 𝜀2𝑙 ).
A questo punto, porremo 𝑆2𝑙+1 = 𝜎(𝑆0 , 𝑆1 , … , 𝑆2𝑙 ) ∶= 𝑇2𝑙+1 ⧵ 𝑇2𝑙 . La funzione 𝜎 è così ben definita su tutte le (2𝑝 + 1)-uple (𝑆0 , … , 𝑆2𝑝 ) tali che 𝑆2𝑗+1 = 𝜎(𝑆0 , 𝑆1 , … , 𝑆2𝑗 ), per ogni 𝑗 ∈ {0, … , 𝑝 − 1}. A tutte le altre (2𝑝 + 1)-uple associamo l’insieme vuoto. Inoltre, per costruzione, abbiamo ottenuto anche la successione delle funzioni 𝑓𝑘 e dei numeri reali positivi 𝜀𝑘 . Poniamo ora 𝑆 ̄ ∶= ⋃𝑛 𝑆𝑛 . Si ha ovviamente 𝜉 ̂ ∈ 𝑆;̄ si può inoltre verificare che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑆,̄ risulta definito 𝑓𝑘 (𝑥) per 𝑘 sufficientemente grande. Si tenga presente che, per 𝑘 dispari, 𝑓𝑘+1 è un prolungamento di 𝑓𝑘 , mentre, per 𝑘 pari si ha |𝑓𝑘+1 (𝑥) − 𝑓𝑘 (𝑥)| < 𝜀𝑘 < 2−𝑘−1 . Quindi, per ogni 𝑚 sufficientemente grande, si ha |𝑓𝑚+1 (𝑥) − 𝑓𝑚 (𝑥)| < 2−𝑚 . Ne viene che la successione degli 𝑓𝑚 (𝑥) (definita per 𝑚 sufficientemente grande) è di Cauchy e quindi converge a un numero reale che chiameremo 𝑓 (𝑥). Abbiamo così una funzione 𝑓 ∶ 𝑆 ̄ → ℝ. I punti di 𝑆 ̄ ⧵{𝜉}̂ sono isolati; ne viene che in essi 𝑓 è continua. Se 𝜉 ̂ non è di accumulazione per 𝑆,̄ allora 𝑓 è continua anche in 𝜉.̂ Vogliamo dimostrare che 𝑓 non è continua in 𝜉,̂ ottenendo così che 𝜉 ̂ è di accumulazione per 𝑆.̄ Ancora dal fatto che i punti di 𝑋𝜉 ⧵ 𝑆 ̄ sono isolati, otteniamo che 𝑆 ̄ è chiuso. Inoltre si è visto che 𝑋𝜉 è normale (cfr. Esempio 12.8). Per il Teorema di Tietze 2.101, se 𝑓 è continua, possiede un’estensione continua 𝑔 definita su tutto 𝑋𝜉 . Se 𝑥 ∈ 𝑇2𝑘+1 , è 𝑔(𝑥) = 𝑓 (𝑥) = lim𝑘→+∞ 𝑓2𝑘+1 (𝑥). Si ha, d’altra parte, 𝑓 (𝑥) ∈ [𝑓2𝑘+1 (𝑥) − 𝜀2𝑘+1 , 𝑓2𝑘+1 (𝑥) + 𝜀2𝑘+1 ] ⊂
⊂ ]𝑓2𝑘+1 (𝑥) − 2𝜀2𝑘+1 , 𝑓2𝑘+1 (𝑥) + 2𝜀2𝑘+1 [⊆ 𝐴𝑘 .
Si ottiene allora 𝑔 ∈ 𝐴(𝑇2𝑘+1 , 𝑓2𝑘+1 , 2𝜀2𝑘+1 ) ⊆ 𝐴𝑘 . Pertanto, risulta 𝑔 ∈ ⋂ 𝐴𝑘 . Ma ciò va contro l’ipotesi iniziale che sia ⋂ 𝐴𝑘 = ∅. In conclusione, si è visto che la funzione 𝑓 non è continua in 𝜉 ̂ e quindi, come già osservato, ciò implica che 𝜉 ̂ è di accumulazione per 𝑆.̄ Per quanto riguarda la completezza secondo Čech nel contesto degli spazi 𝐶𝑝 (𝑋), il risultato principale è dato dal Teorema 12.14 che vedremo fra un attimo. Ad esso premettiamo alcuni lemmi.
12.1. La topologia della convergenza puntuale
609
Lemma 12.10. Dati uno spazio (non vuoto) completamente regolare (𝑊 , 𝜏) e due suoi sottospazi 𝑌 , 𝑍 densi e Čech-completi, si ha 𝑌 ∩ 𝑍 ≠ ∅.
Dimostrazione. 𝑌 e 𝑍 sono densi in 𝑊 e quindi anche in 𝛽𝑊 . Per il Teorema 11.38, entrambi gli insiemi sono dei 𝐺𝛿 in 𝛽𝑊 . Esistono due famiglie numerabili (𝐴𝑛 )𝑛 e (𝐵𝑛 )𝑛 di aperti densi di 𝛽𝑊 tali che: 𝑌 = ⋂𝑛 𝐴𝑛 e 𝑍 = ⋂𝑛 𝐵𝑛 . Consideriamo la famiglia di aperti (𝐷𝑛 )𝑛 ottenuta alternando gli 𝐴𝑖 e i 𝐵𝑖 . Fissiamo ora un elemento 𝑥0 ∈ 𝐷0 . Per la regolarità di 𝛽𝑊 , esiste un intorno aperto 𝑈0 di 𝑥0 , con cl𝛽𝑊 𝑈0 ⊆ 𝐷0 . Poiché tutti i 𝐷𝑖 sono aperti densi in 𝛽𝑊 , esiste un elemento 𝑥1 ∈ 𝑈0 ∩ 𝐷1 . Sempre per la regolarità di 𝛽𝑊 , esiste un intorno aperto 𝑈1 di 𝑥1 con cl𝛽𝑊 𝑈1 ⊆ 𝑈0 ∩ 𝐷1 . Procedendo in questo modo per induzione, otteniamo una successione decrescente di aperti (𝑈𝑛 )𝑛 , non vuoti per costruzione, con 𝑈0 ⊇ cl𝛽𝑊 𝑈1 ⊇ 𝑈1 ⊇ ⋯ ⊇ 𝑈𝑛 ⊇ cl𝛽𝑊 𝑈𝑛+1 ⊇ 𝑈𝑛+1 ⊇ ⋯
e tali che 𝑈𝑛 ⊆ 𝐷𝑛 , ∀𝑛. In conclusione, si ha 𝑌 ∩𝑍 =
⋂ 𝑛
𝐷𝑛 ⊇
⋂ 𝑛
𝑈𝑛 =
⋂ 𝑛
cl𝛽𝑊 𝑈𝑛 .
L’ultima intersezione è diversa da vuoto per la compattezza di 𝛽𝑊 e quindi si ha anche 𝑌 ∩ 𝑍 ≠ ∅.
Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un suo sottoinsieme non vuoto 𝐾 (che nelle nostre applicazioni sarà un compatto). L’insieme degli aperti contenenti 𝐾 è base di un filtro 𝒰 i cui elementi sono detti intorni di 𝐾. Diremo che 𝐾 ha una base numerabile di intorni se 𝒰 ammette una base numerabile fatta da aperti. Lemma 12.11. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico regolare e 𝑌 un suo sottospazio denso. Se esiste un compatto 𝐾 contenuto in 𝑌 con base di intorni numerabile rispetto a 𝑌 , allora 𝐾 ha una base di intorni numerabile anche rispetto a 𝑋.
Dimostrazione. Sia 𝐾 un compatto che ammette in 𝑌 una base numerabile 𝒜 di intorni aperti di 𝐾. Per ogni 𝐴 ∈ 𝒜 , scegliamo un aperto 𝐴′ di 𝑋 con 𝐴′ ∩ 𝑌 = 𝐴. Ci proponiamo di dimostrare che la famiglia 𝒜 ′ degli aperti 𝐴′ di 𝑋 così ottenuta è una base (numerabile) di intorni aperti di 𝐾. Sia 𝑈 un aperto di 𝑋 contenente 𝐾. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾 esiste un 𝜏-aperto 𝑉𝑥 tale che 𝑥 ∈ 𝑉𝑥 ⊆ cl 𝑉𝑥 ⊆ 𝑈 . Usando la compattezza di 𝐾, possiamo prendere un numero finito di punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ∈ 𝐾 tali che 𝑉 ∶= ⋃𝑛𝑖=1 𝑉𝑥𝑖 ⊇ 𝐾. Inoltre, si ha 𝐾 ⊆ 𝑉 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝑈 . Poiché 𝒜 è una base di intorni aperti di 𝐾 in 𝑌 , esiste 𝐴 ∈ 𝒜 tale che 𝐾 ⊆ 𝐴 ⊆ 𝑉 ∩ 𝑌 . Dato il 𝜏-aperto 𝐴′ tale che 𝐴′ ∩ 𝑌 = 𝐴, dalla densità di 𝑌 in 𝑋 si ha cl𝑋 𝐴 = cl𝑋 𝐴′ . Si conclude che è 𝐾 ⊆ 𝐴 ⊆ 𝐴′ ⊆ cl𝑋 𝐴′ = cl𝑋 𝐴 ⊆ cl𝑋 𝑉 ⊆ 𝑈 .
12.1. La topologia della convergenza puntuale
610
Lemma 12.12. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico Čech-completo (e quindi completamente regolare) e 𝐾 un suo sottoinsieme compatto non vuoto. Allora esiste un compatto 𝐿 contenente 𝐾 con base di intorni numerabile. Ciò vale, in particolare, quando 𝐾 è un singoletto. Dimostrazione. Per ipotesi, 𝑋 è un 𝐺𝛿 di 𝛽𝑋. Esiste quindi una successione (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti di 𝛽𝑋 tale che 𝐾 = ⋂𝑛 𝐴𝑛 . Possiamo pensare la successione degli 𝐴𝑛 decrescente per inclusione; inoltre, quando non sia altrimenti specificato, tutte le chiusure si intendono in 𝛽𝑋. Costruiamo per induzione una nuova successione di aperti 𝑈𝑛 di 𝛽𝑋 con le seguenti proprietà: 𝐾 ⊆ 𝑈𝑛 ⊆ cl 𝑈𝑛 ⊆ 𝐴𝑛 ;
cl 𝑈𝑛+1 ⊆ 𝑈𝑛 ,
∀𝑛.
Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾, esiste una intorno aperto 𝑉𝑥 tale che 𝑥 ∈ 𝑉𝑥 ⊆ cl 𝑉𝑥 ⊆ 𝐴0 . Usando la compattezza di 𝐾, possiamo prendere un numero finito di punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ∈ 𝐾 tali che 𝑈0 ∶= ⋃𝑛𝑖=1 𝑉𝑥𝑖 ⊇ 𝐾. Si ha 𝐾 ⊆ 𝑈0 ⊆ cl 𝑈0 ⊆ 𝐴0 . Osserviamo anche che 𝐾 ⊆ 𝑈0 ∩ 𝐴1 . Procedendo esattamente come sopra, si ottiene un aperto 𝑈1 tale che 𝐾 ⊆ 𝑈1 ⊆ cl 𝑈1 ⊆ 𝑈0 ∩ 𝐴1 ⊆ 𝑈0 . Ripetendo ancora una volta lo stesso schema, a partire da 𝐾 ⊆ 𝑈1 ∩ 𝐴2 , si ottiene un aperto 𝑈2 tale che 𝐾 ⊆ 𝑈2 ⊆ cl 𝑈2 ⊆ 𝑈1 ∩ 𝐴2 ⊆ 𝑈1 . E così via. Sia ora 𝐿 ∶= ⋂𝑛 𝑈𝑛 = ⋂𝑛 cl 𝑈𝑛 ⊆ ⋂ 𝐴𝑛 = 𝑋. Chiaramente è 𝐾 ⊆ 𝐿. Inoltre, 𝐿 è compatto in quanto chiuso nel compatto 𝛽𝑋. Verifichiamo che la famiglia degli 𝑈𝑛 è una base (numerabile) di intorni aperti di 𝐿 in 𝛽𝑋. Prendiamo in 𝛽𝑋 un arbitrario aperto 𝑊 contenente 𝐿 e consideriamo il suo complementare 𝑍 ∶= 𝛽𝑋 ⧵ 𝑊 . Poniamo, inoltre, 𝑍𝑛 ∶= 𝑍 ∩ cl 𝑈𝑛 . La successione dei chiusi 𝑍𝑛 è decrescente per inclusione nel compatto 𝛽𝑋 e si ha ⋂𝑛 𝑍𝑛 = 𝑍 ∩ ( ⋂𝑛 cl 𝑈𝑛 ) = 𝑍 ∩ 𝐿 = ∅. Ne viene che esiste 𝑘 ∈ ℕ con 𝑍𝑘 = ∅, da cui 𝑈𝑘 ⊆ 𝑊 = 𝛽𝑋 ⧵ 𝑍. Ciò conclude la verifica. In fine, i 𝜏-aperti 𝑈𝑛 ∩ 𝑋 costituiscono chiaramente una base di intorni aperti di 𝐿 in 𝑋, dato che è 𝐿 ⊆ 𝑋. Lemma 12.13. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico completamente regolare. Se 𝐶𝑝 (𝑋) possiede un sottospazio compatto non vuoto 𝐾 con base di intorni numerabile, allora 𝑋 è numerabile.
Dimostrazione. Per prima cosa, ricordiamo che, per definizione, un aperto di base in ℝ𝑋 [in 𝐶𝑝 (𝑋)] è un insieme del tipo 𝐵 = 𝐵(𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ; 𝐼1 , … , 𝐼𝑘 ) formato dalle funzioni [dalle funzioni continue] 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tali che 𝑓 (𝑥𝑖 ) ∈ 𝐼𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}, dove gli insiemi 𝐼𝑖 sono intervalli aperti di ℝ con estremi razionali. Ricordiamo inoltre che l’insieme {𝑥1 , … , 𝑥𝑘 } è indicato con Supp 𝐵 ed è chiamato supporto di 𝐵. La dimostrazione segue uno schema molto simile a quello utilizzato per dimostrare la disuguaglianza |𝑋| ≤ 𝜒(𝐶𝑝 (𝑋)) nel Teorema 12.3. Sia (𝐴𝑛 )𝑛 una base di intorni aperti di 𝐾 in 𝐶𝑝 (𝑋). Fissato 𝑛, per ogni 𝑓 ∈ 𝐾, consideriamo un intorno di base 𝐵𝑓 tale che 𝑓 ∈ 𝐵𝑓 ⊆ 𝐴𝑛 . Usando la compattezza di 𝐾, possiamo prendere una famiglia finita 𝐵𝑓1 , … , 𝐵𝑓𝑝(𝑛) tale che, posto 𝑊𝑛 ∶= 𝐵𝑓1 ∪ ⋯ ∪ 𝐵𝑓𝑝(𝑛) , si abbia 𝐾 ⊆ 𝑊𝑛 ⊆ 𝐴𝑛 . Poniamo inoltre
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𝑆𝑛 ∶= ⋃𝑖=1 Supp 𝐵𝑓𝑖 . Sia, in fine, 𝑆 ∶= ⋃𝑛 𝑆𝑛 e proviamo che è 𝑆 = 𝑋, da cui seguirà immediatamente la tesi. Supponiamo, per assurdo, che esista 𝑧 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑆. Consideriamo la mappa 𝛿 𝑧 ∶= 𝐶𝑝 (𝑋) → ℝ definita da 𝛿 𝑧 (𝑓 ) ∶= 𝑓 (𝑧) (cfr. la (11.1)). Siccome 𝛿 𝑧 è a tutti gli effetti una proiezione, essa è continua; ne viene che 𝛿 𝑧 (𝐾) è un compatto di ℝ per cui esiste un razionale 𝑟 > 0 tale che |𝑓 (𝑧)| < 𝑟, ∀𝑓 ∈ 𝐾. L’aperto di base 𝐵̂ ∶= 𝐵(𝑧; ] − 𝑟, 𝑟[) è un intorno aperto di 𝐾. Per definizione di base di intorni di 𝐾, esiste un 𝑛 tale che 𝐾 ⊆ 𝐴𝑛 ⊆ 𝐵̂ e, di conseguenza, esiste anche un 𝑊𝑛 ∶= 𝐵𝑓1 ∪ ⋯ ∪ 𝐵𝑓𝑝 ⊆ 𝐴𝑛 ⊆ 𝐵.̂ In particolare, si ha 𝐵𝑓1 ⊆ 𝐵̂ e 𝑧 ∉ Supp 𝐵𝑓1 . Per la completa regolarità di 𝑋, non è difficile costruire (cfr. anche Lemma 12.17) una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ tale che 𝑔(𝑥) ∶= 𝑓1 (𝑥), ∀𝑥 ∈ Supp 𝐵𝑓1 e 𝑔(𝑧) ∶= 𝑟 + 1, si ha 𝑔 ∈ 𝐵𝑓1 ⧵ 𝐵,̂ contro il fatto che è 𝐵𝑓1 ⊆ 𝐵.̂ 𝑝(𝑛)
È interessante confrontare il risultato appena ottenuto con la condizione 2 del Corollario 12.5. Infatti, dire che 𝐶𝑝 (𝑋) è 𝐴1 equivale a chiedere che i singoletti abbiano basi di intorni numerabili. In realtà, poiché 𝐶𝑝 (𝑋) è uno SVT (Corollario 12.2), basta verificare la cosa per un suo punto. Questa condizione viene ora sostituita da una più debole, dato che i singoletti sono compatti.
Teorema 12.14. Per ogni spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏) sono equivalenti le seguenti condizioni: 1. Lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋) è Čech-completo. 2. 𝐶𝑝 (𝑋) ha un sottospazio denso Čech-completo. 3. 𝑋 è numerabile e discreto. Dimostrazione. 1 implica banalmente 2. 3 ⇒ 1. 𝑋 è omeomorfo a ℕ e quindi 𝐶𝑝 (𝑋) è omeomorfo a ℝℕ che è metrizzabile e completo e, quindi, anche Čech-completo. 2 ⇒ 3. Supponiamo che 𝐶𝑝 (𝑋) possieda un sottospazio 𝑌 denso e Čechcompleto. Poiché 𝑋 è completamente regolare, 𝐶𝑝 (𝑋) è denso in ℝ𝑋 , come vedremo nel Lemma 12.16; quindi 𝑌 è Čech-completo e denso in ℝ𝑋 . Dimostreremo, per prima cosa, che è 𝐶𝑝 (𝑋) = ℝ𝑋 . Se, per assurdo, esiste 𝑓 ∈ ℝ𝑋 ⧵𝐶𝑝 (𝑋), poniamo 𝑍 ∶= {𝑓 } + 𝑌 ∶= {𝑓 + 𝑔 ∶ 𝑔 ∈ 𝑌 } .
Lo spazio 𝑍 è un traslato di 𝑌 ed è quindi ad esso omeomorfo; pertanto anche 𝑍 è un sottospazio Čech-completo e denso in ℝ𝑋 . Per il lemma precedente, la loro intersezione è non vuota. Sia quindi ℎ ∈ 𝑌 ∩ 𝑍. Si ha ℎ = 𝑓 + 𝑔, con 𝑔 ∈ 𝑌 ⊆ 𝐶𝑝 (𝑋). D’altra parte, ℎ ∈ 𝑌 ⊆ 𝐶𝑝 (𝑋) e allora 𝑓 = ℎ − 𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋), contro l’assunto iniziale. Si conclude che, effettivamente, è 𝐶𝑝 (𝑋) = ℝ𝑋 . Vediamo ora che 𝑋 deve avere la topologia discreta. Fissiamo un punto 𝑧 ∈ 𝑋 e consideriamo la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ che vale 1 in 𝑧 e 0 altrove. Per quanto dimostrato, essa è continua. D’altra parte, il singoletto {𝑧} coincide con l’aperto 𝑓 −1 (]0, +∞[). Ne viene che i singoletti sono aperti e che lo spazio
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𝑋 è discreto. Poiché 𝑌 è Čech-completo, per il Lemma 12.12, ogni punto di 𝑌 è contenuto in un compatto di 𝑌 con base di intorni numerabile. Per il Lemma 12.11, 𝐶𝑝 (𝑋), che per ipotesi ha 𝑌 come sottospazio denso, possiede compatti con base di intorni numerabile. A questo punto, dal Lemma 12.13, otteniamo che 𝑋 è numerabile. Corollario 12.15. 𝐶𝑝 (ℕ𝜉 ) è uno spazio di Baire non pseudo-completo.
Dimostrazione. Per il Teorema 12.9, sappiamo che 𝐶𝑝 (ℕ𝜉 ) è uno spazio di Baire. Esso è anche metrizzabile, dato che ℕ𝜉 è numerabile (cfr. Corollario 12.5). Supponiamo, per assurdo, che 𝐶𝑝 (ℕ𝜉 ) sia pseudo-completo. In quanto pseudocompleto e metrizzabile, esso deve possedere un sottospazio Čech-completo denso (cfr. Teorema 11.92). Ma allora, per il teorema precedente, ℕ𝜉 deve avere la topologia discreta, ma ciò è assurdo. Alla fine del capitolo precedente, avevamo visto che, se uno spazio (completamente regolare) ammette un sottospazio denso Čech-completo, allora esso è pseudo-completo. Rimaneva da produrre un esempio di spazio pseudo-completo privo di sottospazi densi Čech-completi. In virtù del Teorema 11.90, sarà sufficiente dare un esempio di spazio pseudo-compatto privo di sottospazi densi Čech-completi. Per questo tipo di esempi, seguendo sempre [78], sarà conveniente considerare gli spazi 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) delle funzioni continue da 𝑋 in 𝐼 con la topologia della convergenza puntuale, dove, come di consueto, è 𝐼 ∶= [0, 1]. Come nel caso degli spazi 𝐶𝑝 (𝑋), supporremo sempre 𝑋 completamente regolare. All’inizio del capitolo si è visto che 𝐶𝑝 (𝑋) è un sottospazio di ℝ𝑋 . Analogamente lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è un sottospazio dello spazio compatto 𝐼 𝑋 , dato che la topologia prodotto coincide con quella della convergenza puntuale. Osserviamo inoltre che: Lemma 12.16. Sia 𝑋 completamente regolare. Allora 𝐶𝑝 (𝑋) è denso in ℝ𝑋 e 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è denso in 𝐼 𝑋 .
Dimostrazione. Caso 𝐶𝑝 (𝑋). Fissiamo 𝑓 ∈ ℝ𝑋 e sia 𝑈 un suo intorno aperto di base. Esistono quindi un 𝜀 > 0 e un numero finito di punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ∈ 𝑋 tali che 𝑈 contiene l’insieme 𝐴 ∶= {𝑔 ∈ ℝ𝑋 ∶ |𝑔(𝑥𝑖 ) − 𝑓 (𝑥𝑖 )| < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}} .
Costruiamo una funzione continua ℎ ∶ 𝑋 → ℝ che appartiene ad 𝐴. Per la completa regolarità di 𝑋, per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}, esiste una funzione continua ℎ𝑖 ∶ 𝑋 → ℝ tale che ℎ𝑖 (𝑥𝑖 ) ∶= 1 e ℎ𝑖 (𝑥𝑗 ) ∶= 0, ∀𝑗 ≠ 𝑖. Sia, in fine, ℎ ∶ 𝑋 → ℝ definita da ℎ ∶= ∑𝑘𝑖=1 𝑓 (𝑥𝑖 )ℎ𝑖 . Nel caso 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) si procede in modo analogo, salvo che ora la funzione ℎ ∶ 𝑋 → 𝐼 è definita da ℎ ∶= 1 ∧ ∑𝑘𝑖=1 𝑓 (𝑥𝑖 )ℎ𝑖 , con le ℎ𝑖 a valori in 𝐼.
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Con la stessa tecnica del lemma precedente, si può dimostrare il seguente risultato la cui verifica è lasciata per esercizio. Lemma 12.17. Sia 𝑋 completamente regolare. Fissati un numero finito di punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ∈ 𝑋 e una 𝑘-upla di numeri reali (𝑟1 , … , 𝑟𝑘 ), esiste una funzione 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) tale che 𝑓 (𝑥𝑖 ) = 𝑟𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}. Se Λ ⊆ ℝ è un intervallo e 𝑟𝑖 ∈ Λ, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}, si può prendere 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, Λ).
Nel corso di alcune dimostrazioni, sarà utile considerare degli spazi intermedi del tipo 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) (con ovvio significato del simbolo), dove 𝑌 sarà solitamente un intervallo di ℝ. A tale proposito vale il seguente risultato. Lemma 12.18. Siano 𝑋, 𝑌 ′ , 𝑌 ″ spazi topologici arbitrari. Se 𝑌 ′ e 𝑌 ″ sono omeomorfi, allora sono tali anche 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ′ ) e 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ″ ).
Dimostrazione. Sia 𝜑 ∶ 𝑌 ′ → 𝑌 ″ un omeomorfismo. Definiamo quindi l’applicazione 𝜓 ∶ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ′ ) → 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ″ ) ponendo 𝜓(𝑓 ) ∶= 𝜑 ∘ 𝑓 , ∀𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ′ ). È immediato verificare che 𝜓 è biiettiva, con inversa 𝜓 −1 ∶ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ″ ) → 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ′ ) definita da 𝜓 −1 (𝑔) ∶= 𝜑−1 ∘ 𝑔, ∀𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ″ ). Siano 𝑓0 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ′ ) e 𝑔0 ∶= 𝜓(𝑓0 ) = 𝜑 ∘ 𝑓0 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ″ ). Fissiamo un intorno aperto di base 𝑉 di 𝑔0 . Risultano quindi fissati 𝑘 punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ∈ 𝑋 e 𝑘 aperti di 𝑌 ″ 𝑊1 , … , 𝑊𝑘 con 𝑔0 (𝑥𝑖 ) ∈ 𝑊𝑖 , 𝑖 ∈ {1, … , 𝑘} e 𝑉 ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ″ ) ∶ 𝑔(𝑥𝑖 ) ∈ 𝑊𝑖 ,
𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}} .
𝑈 ∶= {𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ′ ) ∶ 𝑓 (𝑥𝑖 ) ∈ 𝑊𝑖′ ,
𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}} .
Per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}, sia 𝑊𝑖′ ∶= 𝜑−1 (𝑊𝑖 ). Definiamo ora
𝑈 è un intorno aperto di 𝑓0 tale che, per costruzione, si ha 𝜓(𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Ciò prova la continuità di 𝜓. Per la simmetria della situazione, ciò prova anche la continuità di 𝜓 −1 .
Corollario 12.19. Siano 𝑋 uno spazio completamente regolare e 𝑇 ⊆ ℝ un intervallo. Se 𝑇 è aperto, allora 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑇 ) è omeomorfo a 𝐶𝑝 (𝑋). Se 𝑇 è compatto, allora 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑇 ) è omeomorfo a 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼). Un problema che sorge in modo naturale è quello di sapere se per il Lemma 12.18 sussiste l’implicazione opposta. La risposta è negativa e un esempio in tal senso si può ricavare dall’argomentazione che utilizzeremo nell’Esempio 12.39. In tale esempio verificheremo che 𝐶𝑝 (𝑆) è omeomorfo al suo quadrato, dove si è posto 𝑆 ∶= (ℝ, 𝜏 + ). Ora, ogni elemento (𝑓1 , 𝑓2 ) ∈ 𝐶𝑝 (𝑆) × 𝐶𝑝 (𝑆) può essere pensato come un elemento di 𝐶𝑝 (𝑆, ℝ2 ). In realtà, sussiste il seguente lemma generale per la cui dimostrazione rimandiamo al testo di Tkachuk [78, S.113].
Lemma 12.20. Siano dati lo spazio topologico 𝑋 e la famiglia di spazi topologici (𝑌𝑖 )𝑖∈𝐽 . Allora 𝐶𝑝 (𝑋, ∏𝑖∈𝐽 𝑌𝑖 ) è omeomorfo al prodotto dei 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌𝑖 ).
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Per quanto detto, risulta quindi che 𝐶𝑝 (𝑆, ℝ) è omeomorfo a 𝐶𝑝 (𝑆, ℝ2 ). Tuttavia ℝ ed ℝ2 non sono omeomorfi (cfr. Corollario 13.70). Ci sarà utile anche il seguente concetto di numero di Souslin.
Definizione 12.21. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), si chiama suo numero di Souslin, e si indica con 𝑐(𝑋), l’estremo superiore delle cardinalità delle famiglie di aperti non vuoti disgiunti di 𝑋. Si dice che lo spazio 𝑋 ha la proprietà di Souslin se 𝑐(𝑋) è al più numerabile. ◁ Banalmente, se in 𝑋 è definita la topologia discreta, si ha 𝑐(𝑋) = |𝑋|. Il lettore interessato può facilmente verificare che si ha sempre 𝑐(𝑋) ≤ 𝑑(𝑋). Il risultato che ci serve è il seguente:
Teorema 12.22. Un qualunque prodotto di spazi separabili ha la proprietà si Souslin.
Dimostrazione. Dalla relazione 𝑐(𝑋) ≤ 𝑑(𝑋) si ha intanto che: Ogni spazio separabile ha la proprietà di Souslin. Sia ora 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 con gli 𝑋𝛼 spazi topologici separabili. Osserviamo che se è |𝐽 | ≤ 𝔠, allora anche 𝑋 è separabile (cfr. Teorema 10.56) e ha quindi la proprietà di Souslin. Supponiamo, per assurdo, che 𝐽 sia di cardinalità maggiore di 𝔠 e che 𝑋 non abbia la proprietà di Souslin. Esisterà quindi in 𝑋 una famiglia più che numerabile di aperti non vuoti e a due a due disgiunti. Non sarà inoltre restrittivo supporre che gli aperti siano di base. Da questa estraiamo una sottofamiglia {𝑈𝑘 }𝑘∈𝐾 più che numerabile di cardinalità minore o uguale a 𝔠. Per ogni 𝑘, l’aperto di base 𝑈𝑘 è della forma 𝑈𝑘 = ∏𝛼∈𝐽 𝐴𝑘𝛼 , dove gli 𝐴𝑘𝛼 sono aperti non vuoti di 𝑋𝛼 e diversi da 𝑋𝛼 per un numero finito di indici. Chiameremo supporto di 𝑈𝑘 l’insieme finito Supp 𝑈𝑘 di indici 𝛼 ∈ 𝐽 per cui è 𝐴𝑘𝛼 ≠ 𝑋𝛼 . Poniamo 𝐽 ′ ∶= ⋃𝑘∈𝐾 Supp 𝑈𝑘 . Sia, in fine 𝑋 ′ ∶= ∏𝛼∈𝐽 ′ 𝑋𝛼 e, per ogni 𝑘, 𝑈𝑘′ ∶= ∏𝛼∈𝐽 ′ 𝐴𝑘𝛼 . In altre parole, abbiamo trascurato tutti quegli indici 𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽 ′ che danno un contributo irrilevante nel prodotto in quanto i fattori della componente 𝛼-ima coincidono con tutto lo spazio 𝑋𝛼 e questo per tutti gli 𝑈𝑘 . Si noti che è |𝐽 ′ | = |𝐾| ≤ 𝔠; ne viene che 𝑋 ′ è separabile in quanto prodotto di una famiglia di cardinalità minore o uguale a 𝔠 di spazi separabili e ha quindi, come sopra ricordato, la proprietà di Souslin. Ora però {𝑈𝑘′ }𝑘∈𝐾 è una famiglia più che numerabile di aperti non vuoti a due a due disgiunti e quindi 𝑋 ′ non può essere separabile. Come immediato corollario abbiamo che ℝ𝑋 e 𝐼 𝑋 hanno la proprietà di Souslin. Osserviamo che la proprietà di Souslin non è, in generale, ereditata dai sottospazi. Basta definire su un insieme non numerabile 𝑋 la topologia del punto speciale (cfr. Esempio 1.113) e osservare che questa induce su 𝑋 ⧵ {𝑝} (con 𝑝 punto speciale) la topologia discreta. Tuttavia essa è ereditata dai sottospazi densi, come mostra il lemma che segue. Ne viene che anche 𝐶𝑝 (𝑋) e 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) godono di tale proprietà.
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Lemma 12.23. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝐷 un suo sottospazio denso in 𝑋. Allora si ha 𝑐(𝐷) = 𝑐(𝑋). Dimostrazione. Si ha immediatamente 𝑐(𝐷) ≥ 𝑐(𝑋). Proviamo la disuguaglianza opposta. Sia {𝐴′𝛼 }𝛼∈𝐽 una famiglia di aperti non vuoti di 𝐷 a due a due disgiunti. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , esiste un aperto 𝐴𝛼 di 𝑋 tale 𝐴′𝛼 = 𝐴𝛼 ∩ 𝐷. Se per due indici distinti 𝛼, 𝛽 ∈ 𝐽 fosse 𝐵 ∶= 𝐴𝛼 ∩ 𝐴𝛽 ≠ ∅, 𝐵 sarebbe un aperto non vuoto di 𝑋 disgiunto da 𝐷, contro la sua densità in 𝑋. Ne viene che anche gli 𝐴𝛼 sono a due a due disgiunti.
Ci si può aspettare che gli spazi 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) abbiano proprietà analoghe a quelle viste per gli spazi 𝐶𝑝 (𝑋). Tuttavia, non potendosi applicare il Corollario 12.19, srà necessario studiare la situazione di volta in volta. È, fra l’altro, evidente che, mentre 𝐶𝑝 (𝑋) è uno spazio vettoriale, 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) non lo è.
Lemma 12.24. Sia 𝑋 completamente regolare. Se 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) possiede un sottospazio denso Čech-completo, allora 𝑋 ha la topologia discreta.
Dimostrazione. Sia 𝐷 un sottospazio Čech-completo e denso di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼). Per il Lemma 12.16, 𝐷 è denso anche in 𝐼 𝑋 , che così risulta essere un’estensione compatta di 𝐷. Essendo 𝐷 Čech-completo, esso è un 𝐺𝛿 di 𝐼 𝑋 (cfr. Teorema 11.38). Esiste quindi una successione decrescente (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti di 𝐼 𝑋 la cui intersezione coincide con 𝐷. Per comodità di esposizione, introdurremo le seguenti notazioni. Analogamente a quanto fatto in precedenza, dato un aperto di base 𝑈 ∶= ∏𝑥∈𝑋 𝑈𝑥 in 𝐼 𝑋 , chiameremo suo supporto l’insieme finito Supp 𝑈 di indici 𝑥 ∈ 𝑋 per cui è 𝑈𝑥 ≠ 𝐼. Inoltre, se 𝐸 è un sottoinsieme di 𝑋, denoteremo con 𝜋𝐸 l’applicazione da 𝐼 𝑋 a 𝐼 𝐸 che a una funzione 𝑓 associa la sua restrizione a 𝐸. Diremo, in fine, che un insieme 𝐻 ⊆ 𝐼 𝑋 è E-saturo se è 𝜋𝐸−1 (𝜋𝐸 (𝐻)) = 𝐻. In altre parole, un insieme 𝐻 ⊆ 𝐼 𝑋 è 𝐸-saturo se, assieme a ogni sua funzione, contiene anche tutte quelle che hanno la stessa restrizione su 𝐸. Per ogni 𝑛, sia ℬ𝑛 una sottofamiglia massimale disgiunta della base di aperti di 𝐼 𝑋 tale che 𝑉𝑛 ∶= ⋃𝐵∈ℬ𝑛 𝐵 ⊆ 𝐴𝑛 . Poiché 𝐼 𝑋 ha la proprietà di Souslin, si ha che, per ogni 𝑛, la famiglia ℬ𝑛 è al più numerabile. Ne viene che anche l’insieme 𝐸 ∶= Supp 𝐵 ⋃ 𝐵∈ℬ𝑛 ,𝑛∈ℕ
è al più numerabile. Lo schema della dimostrazione sarà il seguente. Verificheremo che 𝑋 ⧵ 𝐸 è discreto. D’altra parte, proveremo anche che 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) possiede un sottospazio denso Čech-completo 𝑉 ″ , con 𝑉 ″ a tutti gli effetti sottospazio di 𝐶𝑝 (𝐸, ]0, 1[) ∼ 𝐶𝑝 (𝐸). Per cui 𝐸 risulterà essere discreto (Teorema 12.14) e quindi anche 𝑋. La verifica di questi due passi è piuttosto laboriosa, dato che richiede alcuni tecnicismi.
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Per costruzione, ogni insieme 𝑉𝑛 è un sottoinsieme aperto di 𝐴𝑛 ; per la massimalità di ℬ𝑛 , 𝑉𝑛 è denso in 𝐴𝑛 e quindi anche in 𝐼 𝑋 . Sia 𝑉 ∶= ⋂𝑛 𝑉𝑛 . Osserviamo che 𝑉 è denso in 𝐼 𝑋 . Infatti, lo spazio 𝐼 𝑋 è pseudo-completo (è prodotto di copie di 𝐼 che ovviamente è pseudo-completo, Teorema 11.86) e quindi di Baire (cfr. la fine del capitolo precedente). Inoltre 𝑉 è un 𝐺𝛿 della sua estensione compatta 𝐼 𝑋 ed è pertanto uno spazio Čech-completo. Inoltre, siccome è 𝑉𝑛 ⊆ 𝐴𝑛 , ∀𝑛, si ha anche 𝑉 ⊆ 𝐷 ⊆ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼). Verifichiamo che 𝑉 è 𝐸-saturo. Questo si ottiene osservando che ogni 𝐵 ∈ ℬ𝑛 è 𝐸-saturo. Infatti un tale 𝐵 è un aperto di base formato da tutte le funzioni da 𝑋 in 𝐼 che hanno il medesimo supporto Supp 𝐵 ⊆ 𝐸. È facile verificare (Esercizio!) che unioni e intersezioni di insiemi 𝐸-saturi sono ancora 𝐸-sature. Ne viene che sono 𝐸-saturi i 𝑉𝑛 e quindi 𝑉 . Seguendo lo schema dimostrativo già visto nel Teorema 12.22, poniamo ora 𝑉𝑛′ ∶= 𝜋𝐸 (𝑉𝑛 ), ∀𝑛,
𝑉 ′ ∶= 𝜋𝐸 (𝑉 ) =
⋂ 𝑛
𝑉𝑛′ .
L’ultima identità non è ovvia, ma si giustifica ricordando che gli insiemi 𝑉𝑛 sono 𝐸-saturi. Infatti, se una funzione 𝑔 ∈ 𝑉𝑛′ , ∀𝑛, significa che, per ogni 𝑛, esistono funzioni 𝑔𝑛̂ ∈ 𝑉𝑛 tali che, ristrette ad 𝐸, coincidono con 𝑔. Ricordando che un insieme è 𝐸-saturo se e solo se, ogni volta che contiene una funzione, contiene anche tutte quelle che hanno la medesima restrizione su 𝐸, ne viene che ogni 𝑔𝑛̂ sta anche negli altri 𝑉𝑘 . Quindi, per esempio, 𝑔1̂ ∈ 𝑉𝑘 , ∀𝑘, da cui 𝑔1̂ ∈ 𝑉 e, pertanto, 𝑔 ∈ 𝜋𝐸 (𝑉 ). L’altra inclusione è ovvia. I 𝑉𝑛′ sono aperti e densi in 𝐼 𝐸 . Quindi 𝑉 ′ è un 𝐺𝛿 del compatto 𝐼 𝐸 ed è pertanto un sottospazio Čech-completo denso di 𝐼 𝐸 . Inoltre, è 𝑉 ′ ⊆ 𝐶𝑝 (𝐸, 𝐼). Quindi 𝑉 ′ è un sottospazio Čech-completo denso di 𝐶𝑝 (𝐸, 𝐼). Verifichiamo ora che 𝐸 è clopen in 𝑋, con 𝑋 ⧵ 𝐸 discreto. Senza perdita di generalità, possiamo supporre 𝑋 ⧵ 𝐸 ≠ ∅. Fissiamo una funzione ℎ ∈ 𝑉 ′ e consideriamo l’insieme 𝜋𝐸−1 (ℎ) ∶= {𝑔 ∈ 𝐼 𝑋 ∶ 𝑔|𝐸 = ℎ} .
Dato che ℎ ∈ 𝑉 ′ , ℎ è la restrizione su 𝐸 di qualche funzione 𝑔 appartenente a 𝑉 . Poiché 𝑉 ⊆ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼), anche 𝑔 è continua. D’altra parte, poiché 𝑉 è 𝐸-saturo, esso contiene tutte le funzioni che hanno ℎ come restrizione ad 𝐸 e saranno pertanto tutte continue. Ne viene che 𝜋𝐸−1 (ℎ) ⊆ 𝑉 ⊆ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼).
In altre parole, una funzione da 𝑋 in 𝐼, che ristretta ad 𝐸 stia in 𝑉 ′ , deve essere continua su tutto 𝑋. L’insieme 𝐸 è clopen. Infatti, fissata una funzione ℎ ∈ 𝑉 ′ , ogni suo prolungamento a 𝑋, per quanto appena visto, deve essere continuo. Si considerino ora le due funzioni da 𝑋 in 𝐼: ℎ0 (𝑥) ∶= 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐸, ℎ1 (𝑥) ∶= 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐸 e ℎ0 (𝑥) = ℎ1 (𝑥) ∶= ℎ(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝐸. Anche la funzione 𝑓 ∶= ℎ1 − ℎ0 ∶ 𝑋 → 𝐼
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deve essere continua. Questa funzione vale 0 in 𝐸 e 1 in 𝑋 ⧵ 𝐸. Pertanto si ha 𝐸 = 𝑓 −1 ({0}) e 𝑋 ⧵ 𝐸 = 𝑓 −1 ({1}); quindi sia 𝐸 sia 𝑋 ⧵ 𝐸 sono chiusi. 𝑋 ⧵ 𝐸 è discreto. Fissiamo una funzione (continua) ℎ ∈ 𝑉 ′ e un’arbitraria funzione 𝑔 ∶ 𝑋⧵𝐸 → 𝐼. Sia poi 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝐼 la funzione ottenuta giustapponendo 𝑔 e ℎ. Per quanto visto, anche 𝑓 è continua e quindi deve esserlo anche 𝑔 in quanto sua restrizione. Per l’arbitrarietà di 𝑔, abbiamo che ogni funzione da 𝑋 ⧵ 𝐸 in 𝐼 è continua e che pertanto la topologia di questo spazio è quella discreta. Per concludere la dimostrazione, prendiamo, in fine, un arbitrario elemento 𝑒 ∈ 𝐸 e sia 𝑊𝑒 ∶= {𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝐸, 𝐼) ∶ 𝑓 (𝑒) ∈ ]0, 1[} . È evidente che 𝑊𝑒 è un aperto denso di 𝐶𝑝 (𝐸, 𝐼). Poniamo ora 𝑉 ″ ∶= 𝑉 ′ ∩
⋂
𝑒∈𝐸
𝑊𝑒 .
Si vede quindi che anche 𝑉 ″ è un sottospazio Čech-completo denso di 𝐶𝑝 (𝐸, 𝐼). Infatti, come si è visto sopra, 𝑉 ′ è un sottospazio Čech-completo denso di 𝐶𝑝 (𝐸, 𝐼); 𝑉 ″ è un 𝐺𝛿 di 𝑉 ′ (dato che 𝐸 è numerabile) e quindi è ancora Čechcompleto (cfr. Teorema 11.47). Inoltre, 𝑉 ′ è di Baire e, ricordando che i 𝑊𝑒 sono aperti densi in 𝐶𝑝 (𝐸, 𝐼), abbiamo che gli insiemi 𝑊𝑒 ∩ 𝑉 ′ sono aperti e densi in 𝑉 ′ . Quindi 𝑉 ″ è denso in 𝑉 ′ (proprietà di Baire, ricordando che 𝐸 è numerabile) e quindi in 𝐶𝑝 (𝐸, 𝐼), dato che lo è 𝑉 ′ . Tuttavia, per costruzione, 𝑉 ″ ⊆ 𝐶𝑝 (𝐸, ]0, 1[) e quest’ultimo spazio è omeomorfo a 𝐶𝑝 (𝐸, ℝ) = 𝐶𝑝 (𝐸) (Cfr. Corollario 12.19). Ne concludiamo che 𝐶𝑝 (𝐸) ha un sottospazio denso Čech-completo e quindi, per il Teorema 12.14 𝐸 deve avere la topologia discreta. Poiché sia 𝐸 che 𝑋 ⧵ 𝐸 sono discreti, si ha la tesi. Ci sarà utile premettere il seguente risultato tecnico.
Lemma 12.25. Sia 𝑀 un insieme arbitrario non vuoto. Un sottoinsieme 𝐸 di 𝐼 𝑀 è pseudo-compatto e denso in 𝐼 𝑀 se e solo se, per ogni sottoinsieme numerabile 𝐵 di 𝑀, si ha 𝜋𝐵 (𝐸) = 𝐼 𝐵 , dove 𝜋𝐵 è la proiezione (restrizione) su 𝐼𝐵. Dimostrazione. Ovviamente, tutti gli spazi qui coinvolti sono completamente regolari (cfr. Teoremi 6.37 e 2.119). Non sarà inoltre restrittivo supporre che 𝑀 e 𝐵 siano infiniti. Infatti, già per 𝑀 numerabile, si ha che 𝐼 𝑀 è metrizzabile e quindi 𝐸 è pseudo-compatto e denso se e solo se coincide con 𝐼 𝑀 (cfr. Corollario 9.4). Sia, intanto, 𝐸 pseudo-compatto e sia 𝐵 un sottoinsieme numerabile di 𝑀. Lo spazio 𝜋𝐵 (𝐸) è pseudo-compatto per il Teorema 9.5. Esso è anche 𝐴2 (Teoremi 6.37 e 1.106). Ogni spazio completamente regolare, pseudo-compatto
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618
e 𝐴2 è compatto. Infatti, per il Corollario 8.14, esso è paracompatto; a questo punto il risultato segue dal Corollario 9.8. Per il Teorema 2.27 e la densità di 𝐸 in 𝐼 𝑀 , abbiamo anche che 𝜋𝐵 (𝐸) = cl 𝜋𝐵 (𝐸) ⊇ 𝜋𝐵 (cl 𝐸) = 𝜋𝐵 (𝐼 𝑀 ) = 𝐼 𝐵 .
Veniamo al viceversa. Sia dunque 𝐸 ⊆ 𝐼 𝑀 tale che, per ogni sottoinsieme numerabile 𝐵 di 𝑀, si abbia 𝜋𝐵 (𝐸) = 𝐼 𝐵 . Assumiamo, per assurdo, che 𝐸 non sia pseudo-compatto. Per il Teorema 9.7, esiste una famiglia numerabile localmente finita 𝒜 ∶= (𝐴𝑛 )𝑛 di aperti di 𝐸 non vuoti a due a due distinti. Per ogni 𝑛, sia 𝑈𝑛 un aperto di base di 𝐼 𝑀 tale che ∅ ≠ 𝑈𝑛 ∩ 𝐸 ⊆ 𝐴𝑛 . Sia ora 𝐵 ∶= ⋃𝑛 Supp 𝑈𝑛 . Chiaramente 𝐵 è numerabile. Consideriamo ora lo spazio 𝐼 𝐵 e poniamo 𝑉𝑛 ∶= 𝜋𝐵 (𝑈𝑛 ). Si ha 𝜋𝐵−1 (𝑉𝑛 ) = 𝜋𝐵−1 (𝜋𝐵 (𝑈𝑛 )) = 𝑈𝑛 .
L’ultima uguaglianza segue dal fatto che gli 𝑈𝑛 sono aperti di base di 𝐼 𝑀 , con supporto contenuto in 𝐵. Essendo le proiezioni applicazioni aperte (cfr. Lemma 6.34), si ottiene che i 𝑉𝑛 sono aperti non vuoti di 𝐼 𝐵 . Essendo 𝐼 𝐵 compatto e quindi pseudo-compatto, la famiglia dei 𝑉𝑛 non può essere localmente finita in 𝐼 𝐵 . Pertanto esiste un punto 𝑦 ∈ 𝐼 𝐵 tale che ogni suo intorno interseca gli aperti 𝑉𝑛 per infiniti indici 𝑛. Siccome 𝜋𝐵 (𝐸) = 𝐼 𝐵 , per ogni 𝐵 numerabile, esiste un punto 𝑤 ∈ 𝐸 tale che 𝜋𝐵 (𝑤) = 𝑦. Vogliamo mostrare che un qualunque intorno aperto 𝑊 ′ di 𝑤 interseca infiniti 𝐴𝑛 . Non è restrittivo supporre che 𝑊 ′ sia l’intersezione con 𝐸 di un aperto di base 𝑊 di 𝐼 𝑀 . L’insieme 𝜋𝐵 (𝑊 ) è un aperto di base di 𝐼 𝐵 e pertanto interseca i 𝑉𝑛 per infiniti indici 𝑛. Sia 𝑘 uno di questi indici e prendiamo 𝑧 ∈ 𝜋𝐵 (𝑊 ) ∩ 𝑉𝑘 . Sia, inoltre, 𝑝 ∈ 𝑊 tale che 𝜋𝐵 (𝑝) = 𝑧. L’insieme 𝐵 ′ ∶= 𝐵∪Supp 𝑊 ⊆ 𝑀 è numerabile e quindi, per ipotesi, ′ 𝜋𝐵′ (𝐸) = 𝐼 𝐵 . Esiste allora un elemento 𝑝′ ∈ 𝐸 tale che 𝜋𝐵′ (𝑝′ ) = 𝜋𝐵′ (𝑝). ′ Poiché 𝐵 si ottiene da 𝐵 solo aggiungendo delle componenti e, inoltre, 𝑝′ e 𝑝 hanno la stessa immagine su 𝐵 ′ , avranno la stessa immagine anche su 𝐵, per cui 𝜋𝐵 (𝑝′ ) = 𝜋𝐵 (𝑝) = 𝑧. Da 𝜋𝐵 (𝑝′ ) = 𝑧 e ricordando che 𝑧 ∈ 𝑉𝑘 = 𝜋𝐵 (𝑈𝑘 ), si ottiene che 𝑝′ ∈ 𝜋𝐵−1 (𝜋𝐵 (𝑈𝑘 )) = 𝑈𝑘 . Abbiamo così dimostrato che 𝑝′ ∈ 𝑈𝑘 ∩ 𝐸 ⊆ 𝐴𝑘 . In fine, poiché 𝑊 è un aperto di base di 𝐼 𝑀 e 𝜋𝐵′ (𝑝′ ) = 𝜋𝐵′ (𝑝), con Supp 𝑊 ⊆ 𝐵 ′ , risulta anche 𝑝′ ∈ 𝑊 . In conclusione, si è dimostrato che 𝑊 ∩ 𝐸 ∩ 𝐴𝑘 ≠ ∅. Data l’arbitrarietà di 𝑊 come intorno di 𝑤 e di 𝑘 come uno degli infiniti indici 𝑛 per cui 𝜋𝐵 (𝑊 ) ∩ 𝑉𝑛 ≠ ∅, si ricava che 𝑊 interseca infiniti aperti di 𝐸 del tipo 𝐴𝑛 , contraddicendo così l’assunzione iniziale che la famiglia degli 𝐴𝑛 fosse localmente finita in 𝐸. La densità di 𝐸 in 𝐼 𝑀 è di facile verifica ed è lasciata per esercizio al lettore. Teorema 12.26. Esiste uno spazio infinito pseudo-compatto (𝑋, 𝜏) tale che 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è pseudo-compatto. Dimostrazione. Supponiamo intanto di aver dimostrato che esiste un sottospazio pseudo-compatto denso (quindi infinito) 𝑋 di 𝐼 𝔠 con le seguenti proprietà:
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1. Ogni sottospazio numerabile di 𝑋 è chiuso e discreto. 2. Per ogni sottoinsieme numerabile 𝐵 ⊆ 𝑋 e ogni 𝑓 ∶ 𝐵 → 𝐼, esiste 𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) tale che 𝑔|𝐵 = 𝑓 . Osserviamo che, per la prima proprietà, 𝑋 deve essere più che numerabile, dato che uno spazio infinito e pseudo-compatto non può essere discreto (cfr. Esempio 12.27). Notiamo, inoltre, che la seconda proprietà implica la prima. Per provare ciò, fissiamo un sottoinsieme numerabile 𝐵 ⊂ 𝑋; ogni funzione 𝑓 ∶ 𝐵 → 𝐼 è continua, in quanto restrizione di una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝐼 e quindi 𝐵 è discreto; se 𝐵 non fosse chiuso, esisterebbe 𝑧 ∈ cl 𝐵 ⧵ 𝐵 e quindi 𝐵 ∪ {𝑧} sarebbe un sottoinsieme numerabile di 𝑋 non discreto. Dato un tale 𝑋, consideriamo lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) che possiamo pensare come sottospazio di 𝐼 𝑋 . Esso è anche denso in 𝐼 𝑋 per il Lemma 12.16, dato che 𝑋 è completamente regolare. Se 𝐵 ⊂ 𝑋 è numerabile e 𝑓 ∈ 𝐼 𝐵 , per la seconda proprietà, esiste 𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) tale che 𝑔|𝐵 = 𝑓 . Ne segue che 𝜋𝐵 (𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼)) = 𝐼 𝐵 . Per il lemma precedente, concludiamo che 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è pseudo-compatto. Resta da verificare che un tale 𝑋 esiste. Dato un numero cardinale infinito 𝜅, esso può essere identificato con l’insieme ben ordinato di tutti gli ordinali minori di esso. La cosa verrà chiarita nel capitolo dedicato agli ordinali. Useremo quindi la notazione 𝜅 = {𝛼 ∶ 𝛼 < 𝜅}. In quel capitolo mostreremo anche che ogni insieme infinito 𝐴 ha la stessa cardinalità del suo quadrato. Fissiamo un cardinale infinito 𝜅 e sia 𝑀 un insieme di cardinalità 𝜅. Esiste un’applicazione suriettiva di 𝜅 su 𝑀 del tipo 𝛼 ↦ 𝑚𝛼 , che chiameremo numerazione 𝜅-ripetuta di 𝑀 tale che ogni elemento 𝑚 ∈ 𝑀 compare esattamente 𝜅 volte, cioè l’insieme degli 𝛼 < 𝜅 tali che 𝑚𝛼 = 𝑚 ha cardinalità 𝜅 per ogni 𝑚. (Basta prendere un’applicazione biiettiva da 𝜅 su 𝑀 2 e poi comporla con la proiezione di 𝑀 2 su 𝑀. Esercizio!) Diremo che una funzione 𝑓 ∈ 𝐼 𝔠 è quasi-nulla se l’insieme degli 𝛼 per cui è 𝑓 (𝛼) ≠ 0 è al più numerabile. Introduciamo i due insiemi 𝒢 e 𝒩 dati rispettivamente dalle funzioni quasi nulle di 𝐼 𝔠 e dai sottoinsiemi numerabili di 𝔠. Si verifica che entrambi gli insiemi hanno la cardinalità del continuo. Possiamo quindi fissare una numerazione 𝔠ripetuta (𝑔𝛼 )𝛼 sup 𝐷 tale che 𝑔𝛼 = 𝜑. Poiché 𝛼 > 𝛽, ∀𝛽 ∈ 𝐷, abbiamo che 𝑓𝛼 (𝛽) = 𝑔𝛼 (𝛽), ∀𝛽 ∈ 𝐷 e quindi 𝜋𝐷 (𝑓𝛼 ) = 𝜋𝐷 (𝑔𝛼 ) = 𝜋𝐷 (𝜑) = ℎ.
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Verifichiamo che il sottospazio pseudo-compatto e denso 𝑋 così trovato soddisfa alle due proprietà introdotte all’inizio. Prendiamo un qualunque sottoinsieme numerabile 𝐵 di 𝑋 e un arbitrario elemento 𝑓𝛾 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐵. Esiste un insieme numerabile di indici 𝐾 ⊂ 𝔠 tale che 𝐵 = {𝑓𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐾 }. Si ha 𝛾 ∈ 𝔠 ⧵ 𝐾. Prendiamo 𝛽 ∈ 𝔠, con 𝛽 > sup(𝐾 ∪ {𝛾}) e tale che 𝐵𝛽 = 𝐾. Osserviamo che 𝛾 ∉ 𝐵𝛽 . Per ogni 𝛼 ∈ 𝐾, poiché è 𝛼 < 𝛽, si ha 𝑓𝛼 (𝛽) = 1, per costruzione. Quindi 𝜋𝛽 (𝑓𝛼 ) = 1. D’altra parte, 𝛾 ∉ 𝐵𝛽 e quindi, sempre per costruzione, si ha 𝑓𝛾 (𝛽) = 𝜋𝛽 (𝑓𝛾 ) = 0 (qui il simbolo 𝜋𝛽 indica la coordinata di indice 𝛽). Poiché la proiezione 𝜋𝛽 ∶ 𝑋 → 𝐼 è continua, lo è anche la sua restrizione a cl𝑋 𝐵. Abbiamo appena visto che 𝜋𝛽 vale identicamente 1 su tutti gli elementi di 𝐵, mentre vale 0 in 𝑓𝛾 ; di conseguenza, si conclude che 𝑓𝛾 ∉ cl𝑋 𝐵 e che quindi 𝐵 è chiuso. Inoltre, 𝐵 è discreto; infatti se in 𝐵 esistesse un elemento 𝑧 non isolato, l’insieme 𝐵 ⧵ {𝑧} sarebbe un sottoinsieme numerabile non chiuso di 𝑋. Passiamo alla seconda proprietà. Fissiamo ancora un sottoinsieme numerabile 𝐵 ⊂ 𝑋 e chiamiamo 𝐻 la sua chiusura in 𝐼 𝔠 . 𝐻 è un’estensione compatta di 𝐵. Si può constatare che 𝐻 è omeomorfo a 𝛽𝐵. (Ne daremo la verifica tra un attimo.) Per la proprietà universale della compattificazione di StoneČech, ogni funzione (continua) 𝑓 ∶ 𝐵 → 𝐼 è prolungabile per continuità a una funzione ℎ ∶ 𝐻 → 𝐼. D’altra parte, 𝐻 è un sottospazio chiuso dello spazio compatto di Hausdorff (e quindi normale) 𝐼 𝔠 e, per il Teorema di Tietze 2.101, ℎ ammette un prolungamento continuo ℎ̂ su tutto 𝐼 𝔠 e a valori in 𝐼. (Il lettore può rivedere la prima parte della dimostrazione del Teorema di Tietze, in cui il codominio era un intervallo compatto.) Così anche la seconda proprietà è dimostrata, ponendo 𝑔 ∶= ℎ|̂ 𝑋 . Ci rimane da controllare che 𝐻 è effettivamente omeomorfo a 𝛽𝐵. Per il Teorema 10.32, basterà verificare che ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝐵 → [0, 1] è prolungabile per continuità (in modo unico) all’insieme 𝐻. Per il teorema di Taimanov 10.33, basterà dimostrare che vale la seguente proprietà: Per ogni 𝑓 ∶ 𝐵 → [0, 1] continua, si ha (∀𝐶1 , 𝐶2 ⊂ [0, 1])((𝐶1 = cl 𝐶1 ) ∧ (𝐶2 = cl 𝐶2 ) ∧ (𝐶1 ∩ 𝐶2 = ∅) ⇒ ⇒ cl𝐻 𝑓 −1 (𝐶1 ) ∩ cl𝐻 𝑓 −1 (𝐶2 ) = ∅).
Poiché ogni funzione da 𝐵 in 𝐼 è continua, sarà sufficiente controllare che vale la seguente proprietà apparentemente più generale: (∀𝐸1 , 𝐸2 ⊂ 𝐵)(𝐸1 ∩ 𝐸2 = ∅ ⇒ cl𝐻 𝐸1 ∩ cl𝐻 𝐸2 = ∅).
Per la verifica di quest’ultima proprietà, non sarà restrittivo supporre 𝐸1 infinito. Procediamo con la stessa tecnica usata in precedenza. Esistono due sottoinsiemi disgiunti 𝐹1 , 𝐹2 di 𝔠, con 𝐹1 numerabile, tali che 𝐸1 = {𝑓𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐹1 } e 𝐸2 = {𝑓𝛼 ∶ 𝛼 ∈ 𝐹2 }. Sia poi 𝛽 ∈ 𝔠 tale che 𝛽 > sup(𝐹1 ∪ 𝐹2 ). In corrispondenza a 𝛽, esiste anche un insieme 𝐵𝛽 tale che 𝐵𝛽 = 𝐹1 e 𝐵𝛽 disgiunto da 𝐹2 . Per come sono stati definiti gli elementi di 𝑋, si ha che 𝜋𝛽 (𝑓𝛼 ) = 1, ∀𝑓𝛼 ∈ 𝐸1 e 𝜋𝛽 (𝑓𝛼 ) = 0, ∀𝑓𝛼 ∈ 𝐸2 . Dalla continuità di 𝜋𝛽 ∶ 𝐼 𝔠 → 𝐼, si ottiene cl𝐻 𝐸1 ⊆
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cl 𝐸1 ⊆ 𝜋𝛽−1 ({1}) e cl𝐻 𝐸2 ⊆ cl 𝐸2 ⊆ 𝜋𝛽−1 ({0}), da cui segue immediatamente la tesi.
Esempio 12.27. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio infinito pseudo-compatto in cui 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) risulti pseudo-compatto. Osserviamo che 𝑋 non può avere la topologia discreta. Infatti, se così fosse, detto 𝑋0 ∶= {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} ⊆ 𝑋 un sottoinsieme numerabile e considerata la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ definita da 𝑓 (𝑥𝑛 ) ∶= 𝑛, ∀𝑛 ∈ ℕ e 𝑓 (𝑥) ∶= 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝑋0 , avremmo una funzione continua e non limitata definita su 𝑋. Per il Lemma 12.24, 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) non può possedere sottospazi densi Čechcompleti. D’altra parte, 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è anche pseudo-completo, essendo pseudocompatto. 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è quindi uno spazio pseudo-completo privo di sottospazi densi Čech-completi. Per completezza di esposizione, osserviamo che nella nostra definizione di pseudo-completezza abbiamo richiesto almeno la regolarità dello spazio, se non addirittura la completa regolarità per poter confrontare questa proprietà con altre. Nel nostro caso, 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è un sottospazio di 𝐼 𝑋 . Quest’ultimo è completamente regolare (cfr. Teorema 6.37) ed è quindi tale anche ogni suo sottospazio (cfr. Teorema 2.119). ◁ Abbiamo più volte ricordato che il prodotto di spazi di Baire non è necessariamente di Baire. Può essere tuttavia interessante osservare che, nel caso degli spazi 𝐶𝑝 (𝑋), la proprietà di Baire si conserva per prodotti arbitrari. Premetteremo un lemma tecnico per cui sarà utile introdurre anche un’opportuna notazione.
Definizione 12.28. Dati uno spazio topologico 𝑍 ed un suo sottospazio 𝑌 , poniamo 𝐶(𝑍|𝑌 ) ∶= 𝜋𝑌 (𝐶𝑝 (𝑍)),
dove, al solito, 𝜋𝑌 ∶ 𝐶𝑝 (𝑍) → 𝐶𝑝 (𝑌 ) è la proiezione/restrizione su 𝑌 . Ovviamente, la topologia di 𝐶(𝑍|𝑌 ) è quella indotta da quella di 𝐶𝑝 (𝑌 ) di cui 𝜋𝑌 (𝐶𝑝 (𝑍)) è sottospazio. ◁ Osserviamo che 𝜋𝑌 (𝐶𝑝 (𝑍)) può essere propriamente contenuto in 𝐶𝑝 (𝑌 ). Infatti, non è detto che ogni funzione continua da 𝑌 in ℝ possa essere prolungata per continuità a tutto 𝑍. È banale osservare che la proiezione 𝜋𝑌 è sempre continua.
Lemma 12.29. Sia 𝑋 uno spazio completamente regolare. Lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋) è di Baire se e solo se 𝜋𝐴 (𝐶𝑝 (𝑋)) è di Baire per ogni sottoinsieme numerabile 𝐴 di 𝑋. Dimostrazione. Proviamo il “solo se”. Fissiamo un sottoinsieme numerabile 𝐴 ⊆ 𝑋. Premettiamo alcune osservazioni. Data una qualunque funzione 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋), una base locale di suoi intorni aperti è data dagli insiemi del tipo 𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀) ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) ∶ |𝑔(𝑥) − 𝑓 (𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑃 } ,
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dove 𝑃 ⊆ 𝑋 è finito e 𝜀 > 0. Analogamente, data una funzione ℎ ∈ 𝐶(𝑋|𝐴), una base locale di suoi intorni aperti è data dagli insiemi del tipo 𝑉𝐴 (ℎ, 𝑄, 𝜀) ∶= {𝑔 ∈ 𝐶(𝑋|𝐴) ∶ |𝑔(𝑥) − ℎ(𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑄} ,
dove 𝑄 ⊆ 𝐴 è finito e 𝜀 > 0. Verifichiamo che valgono i seguenti fatti: 1. Per ogni 𝑃 ⊆ 𝑋 finito, per ogni 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋), e per ogni 𝜀 > 0, l’insieme 𝜋𝐴 (𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀)) è denso in 𝑉𝐴 (𝜋𝐴 (𝑓 ), 𝑃 ∩ 𝐴, 𝜀). 2. Per ogni 𝑃 ⊆ 𝐴 finito, per ogni 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋), e per ogni 𝜀 > 0, si ha 𝜋𝐴 (𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀)) = 𝑉𝐴 (𝜋𝐴 (𝑓 ), 𝑃 , 𝜀). Verifichiamo la prima. Il caso 𝑃1 ∶= 𝑃 ∩ 𝐴 = ∅ è banale. In ogni caso, si ha chiaramente 𝜋𝐴 (𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀)) ⊆ 𝑉𝐴 (𝜋𝐴 (𝑓 ), 𝑃1 , 𝜀). Dati 𝑓 e 𝐴 come sopra, poniamo per comodità 𝑓1 ∶= 𝜋𝐴 (𝑓 ). Dati una funzione 𝑔 ∈ 𝑉𝐴 (𝑓1 , 𝑃1 , 𝜀) e un suo arbitrario intorno aperto di base 𝑉𝐴 (𝑔, 𝑄, 𝛿), con 𝑄 sottoinsieme finito di 𝐴 e 𝛿 > 0, controlliamo che in questo intorno cadono punti di 𝜋𝐴 (𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀)). ̂ In virtù del Lemma 12.17, esiste una funzione 𝑓 ̂ ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) tale che 𝑓 (𝑥) ∶= ̂ ̂ 𝑔(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑄 e 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑃 ⧵ 𝑄. Ne viene che 𝑓 ∈ 𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀) e, inoltre, 𝜋𝐴 (𝑓 )̂ ∈ 𝑉𝐴 (𝑔, 𝑄, 𝛿) ∩ 𝜋𝐴 (𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀)). Venendo alla seconda, supponiamo 𝑃 ⊆ 𝐴, da cui 𝑃1 = 𝑃 . Per quanto visto sopra, si ha ovviamente 𝜋𝐴 (𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀)) ⊆ 𝑉𝐴 (𝜋𝐴 (𝑓 ), 𝑃 , 𝜀). Venendo al viceversa, fissiamo 𝑔 ∈ 𝑉𝐴 (𝜋𝐴 (𝑓 ), 𝑃 , 𝜀). Sempre per il Lemma 12.17, esiste 𝑔 ̂ ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) tale che 𝑔(𝑥) ̂ = 𝑔(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑃 . Poiché 𝑃 ⊆ 𝐴, anche 𝑔|̂ 𝐴 = 𝑔. Inoltre, 𝑔 ̂ ∈ 𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀). Ne segue che 𝑔 ∈ 𝜋𝐴 (𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀)). Verifichiamo ora che, se 𝐶𝑝 (𝑋) è di Baire, allora è tale anche 𝜋𝐴 (𝐶𝑝 (𝑋)) = 𝐶(𝑋|𝐴), per ogni sottoinsieme 𝐴 di 𝑋. A tal fine prendiamo una famiglia numerabile (𝑊𝑛′ )𝑛 di aperti densi di 𝐶(𝑋|𝐴) e consideriamo la famiglia (𝑊𝑛 )𝑛 in 𝐶𝑝 (𝑋), dove 𝑊𝑛 ∶= 𝜋𝐴−1 (𝑊𝑛′ ), ∀𝑛. Gli insiemi 𝑊𝑛 sono chiaramente aperti di 𝐶𝑝 (𝑋). Mostriamo che essi sono anche densi in tale spazio. Prendiamo una qualunque funzione 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) e un suo intorno aperto di base 𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀). Il caso 𝑃1 ∶= 𝑃 ∩ 𝐴 = ∅ è banale. Consideriamo l’intorno di base 𝑉𝐴 (𝜋𝐴 (𝑓 ), 𝑃1 , 𝜀) di 𝜋𝐴 (𝑓 ) ∈ 𝐶(𝑋|𝐴). Poiché, per ogni 𝑛, 𝑊𝑛′ è denso in 𝐶(𝑋|𝐴), ne viene che l’aperto 𝑊𝑛′ ∩ 𝑉𝐴 (𝜋𝐴 (𝑓 ), 𝑃1 , 𝜀) ≠ ∅. Poiché 𝜋𝐴 (𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀)) è denso in 𝑉𝐴 (𝜋𝐴 (𝑓 ), 𝑃 ∩ 𝐴, 𝜀), ne viene che 𝜋𝐴 (𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀)) ∩ 𝑊𝑛′ ≠ ∅. Passando alle controimmagini, è chiaro che si ha anche 𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀) ∩ 𝑊𝑛 ≠ ∅. Poiché, per ipotesi, 𝐶𝑝 (𝑋) è di Baire, si ha che 𝑊 ∶= ⋂𝑛 𝑊𝑛 è denso in 𝐶𝑝 (𝑋). Si ottiene che 𝜋𝐴 (𝑊 ) è denso in 𝐶(𝑋|𝐴). D’altra parte, 𝜋𝐴 (𝑊 ) ⊆ 𝑊 ′ ∶= ⋂𝑛 𝑊𝑛′ ; pertanto anche 𝑊 ′ è denso in 𝐶(𝑋|𝐴). Si conclude che anche 𝐶(𝑋|𝐴) è di Baire. Il lettore osservi che per questa parte della dimostrazione non si è supposto 𝐴 numerabile. Proviamo il “se”. Supponiamo che 𝐶(𝑋|𝐴) sia di Baire per ogni sottoinsieme numerabile 𝐴 ⊆ 𝑋 e assumiamo, per assurdo, che 𝐶𝑝 (𝑋) non sia di Baire. Per il Corollario 12.7, 𝐶𝑝 (𝑋) è di prima categoria. Esiste dunque una successione (𝑊𝑛 )𝑛 di aperti densi in 𝐶𝑝 (𝑋) con intersezione vuota. Sia ℬ la famiglia di tutti gli aperti di base 𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀), con 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋), 𝑃 ⊆ 𝑋 finito (non vuoto),
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𝜀 > 0. Per ogni 𝑛, sia ℬ𝑛 ⊆ ℬ una famiglia massimale disgiunta tale che 𝑍𝑛 ∶= ⋃𝑈 ∈ℬ𝑛 𝑈 ⊆ 𝑊𝑛 . Per la proprietà di Souslin di 𝐶𝑝 (𝑋) (cfr. Teorema 12.22 e Lemma 12.23), l’insieme 𝐴 ∶=
⋃
𝑈 ∈ℬ𝑛 ,𝑛∈ℕ
Supp 𝑈
è (al più) numerabile. Con ovvia notazione nel presente contesto, dato 𝑈 ∶= 𝑈 (𝑓 , 𝑃 , 𝜀), si ha Supp 𝑈 = 𝑃 . Per ipotesi, lo spazio 𝐶(𝑋|𝐴) è di Baire. D’altra parte, gli insiemi 𝑍𝑛 sono aperti e densi in 𝑊𝑛 e quindi anche aperti e densi in 𝐶𝑝 (𝑋). Per ogni 𝑈 ∈ ℬ𝑛 , abbiamo 𝑃 = Supp 𝑈 ⊆ 𝐴 e quindi, per la proprietà 2 vista all’inizio, 𝜋𝐴 (𝑈 ) è un aperto di base di una funzione 𝜋𝐴 (𝑓 ), con 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋). Quindi anche l’insieme 𝐺𝑛 ∶= ⋃𝑈 ∈ℬ𝑛 𝜋𝐴 (𝑈 ) è un aperto di 𝐶(𝑋|𝐴). Per la massimalità di ℬ𝑛 e la densità di 𝑍𝑛 , segue che 𝐺𝑛 è denso in 𝐶(𝑋|𝐴). Usando la proprietà di Baire su 𝐶(𝑋|𝐴), si ottiene che l’intersezione di tutti i 𝐺𝑛 è non vuota. Esiste pertanto una funzione ℎ̂ ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) tale che 𝜋𝐴 (ℎ)̂ ∈ 𝐺𝑛 , ∀𝑛. Per ogni 𝑛, esiste un aperto 𝑈𝑛 ∶= 𝑈 (𝑓𝑛 , 𝑃𝑛 , 𝜀𝑛 ) ∈ ℬ𝑛 tale che 𝜋𝐴 (ℎ)̂ ∈ 𝜋𝐴 (𝑈𝑛 ). Poiché 𝑃𝑛 ⊆ 𝐴, ancora per la proprietà 2, avremo che 𝜋𝐴 (𝑈𝑛 ) = 𝑉𝐴 (𝜋𝐴 (𝑓𝑛 , 𝑃𝑛 , 𝜀𝑛 )). In altri termini, ̂ ̂ |𝜋𝐴 (ℎ)(𝑥) − 𝜋𝐴 (𝑓𝑛 )(𝑥)| = |ℎ(𝑥) − 𝑓𝑛 (𝑥)| < 𝜀𝑛 ,
∀𝑥 ∈ 𝑃𝑛 .
Ciò significa che ℎ̂ ∈ 𝑈 (𝑓𝑛 , 𝑃𝑛 , 𝜀𝑛 ) = 𝑈𝑛 ∈ ℬ𝑛 e quindi ℎ̂ ∈ 𝑍𝑛 ⊆ 𝑊𝑛 , ∀𝑛, contro l’ipotesi che l’intersezione dei 𝑊𝑛 sia vuota. Osserviamo che il lemma precedente dice che sono equivalenti le affermazioni: (1) 𝐶𝑝 (𝑋) è di Baire; (2) 𝜋𝐴 (𝐶𝑝 (𝑋)) è di Baire per ogni 𝐴 ⊆ 𝑋; (3) 𝜋𝐴 (𝐶𝑝 (𝑋)) è di Baire per ogni 𝐴 ⊆ 𝑋 numerabile.
Teorema 12.30. Sia {𝑋𝑖 }𝑖∈𝐽 una famiglia di spazi topologici completamente regolari. Se, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , 𝐶𝑝 (𝑋𝑖 ) è di Baire, allora è di Baire anche il prodotto ∏𝑖∈𝐽 𝐶𝑝 (𝑋𝑖 ). Dimostrazione. Osserviamo per prima cosa che lo spazio ∏𝑖∈𝐽 𝐶𝑝 (𝑋𝑖 ) è omeomorfo allo spazio 𝐶𝑝 (𝑋), dove 𝑋 è dato dalla somma diretta degli 𝑋𝑖 (Esercizio!). Per la definizione di spazio somma diretta, ogni 𝑋𝑖 è un sottospazio clopen di 𝑋. L’idea è di utilizzare il lemma precedente per cui, fissato un arbitrario sottoinsieme numerabile 𝐴 di 𝑋, verificheremo che lo spazio 𝐶(𝑋|𝐴) ∶= 𝜋𝐴 (𝐶𝑝 (𝑋))
è di Baire. Posto, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , 𝐴𝑖 ∶= 𝐴∩𝑋𝑖 , sia 𝐽𝐴 ∶= {𝑖 ∈ 𝐽 ∶ 𝐴𝑖 ≠ ∅}. Dal fatto che 𝑋 è una somma diretta, segue che gli 𝐴𝑖 sono a due a due disgiunti e quindi l’insieme 𝐽𝐴 è (al più) numerabile. Si ha inoltre 𝐴 = ⋃𝑖∈𝐽𝐴 𝐴𝑖 . Ancora dal fatto che 𝑋 è una somma diretta, si ottiene che ogni funzione continua
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da un 𝑋𝑖 a ℝ può essere prolungata per continuità a tutto 𝑋. Si ha dunque 𝐶(𝑋|𝐴𝑖 ) = 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ). Da ciò, come vedremo tra poco, segue che 𝐶(𝑋|𝐴)
è omeomorfo a
∏
𝑖∈𝐽𝐴
𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ).
(12.4)
Ammettendo per un momento questo fatto, possiamo concludere la dimostrazione nel seguente modo. Poiché ogni 𝐶𝑝 (𝑋𝑖 ) è di Baire e tutti gli 𝐴𝑖 sono numerabili, per il lemma precedente, 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ) è di Baire per ogni 𝑖 ∈ 𝐽𝐴 . Ancora per ogni 𝑖, lo spazio 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ) è anche secondo numerabile. Infatti, 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ) è un sottospazio di 𝐶𝑝 (𝐴𝑖 ) il quale, a sua volta, è un sottospazio di ℝ𝐴𝑖 , che è 𝐴2 per il Teorema 6.37. Ora il Teorema 11.76 assicura che il prodotto numerabile ∏𝑖∈𝐽𝐴 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ) è di Baire. Per la (12.4), anche 𝐶(𝑋|𝐴) è di Baire. Abbiamo così dimostrato che, per ogni sottoinsieme numerabile 𝐴 di 𝑋, lo spazio 𝐶(𝑋|𝐴) = 𝜋𝐴 (𝐶𝑝 (𝑋)) è di Baire. Di nuovo dal lemma precedente, segue che 𝐶𝑝 (𝑋), omeomorfo a ∏𝑖∈𝐽 𝐶𝑝 (𝑋𝑖 ), è di Baire. Ci resta da verificare la (12.4). A tale scopo, introduciamo una funzione 𝜑 ∶ 𝐶(𝑋|𝐴) → ∏𝑖∈𝐽𝐴 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ) che verificheremo essere un omeomorfismo. Data 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋|𝐴), essa è, per definizione, la restrizione ad 𝐴 di una funzione 𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋). Sia, inoltre, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽𝐴 , 𝑓𝑖 ∶= 𝑔|𝐴𝑖 ∈ 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ). A questo punto, poniamo 𝜑(𝑓 ) ∶= (𝑓𝑖 )𝑖∈𝐽𝐴 ∈ ∏𝑖∈𝐽𝐴 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ). Si constata che 𝜑 risulta ben definita, dato che 𝜑(𝑓 ) non dipende dai valori di 𝑔 fuori di 𝐴. Si verifica immediatamente che 𝜑 è iniettiva. Infatti, se 𝑓 ′ , 𝑓 ″ ∈ 𝐶(𝑋|𝐴), con 𝑓 ′ ≠ 𝑓 ″ , esiste almeno un 𝐴𝑖 tale che 𝑓 ′ |𝐴𝑖 ≠ 𝑓 ″ |𝐴𝑖 . Quindi, con le notazioni appena introdotte, anche 𝑓𝑖′ ≠ 𝑓𝑖″ , da cui 𝜑(𝑓 ′ ) ≠ 𝜑(𝑓 ″ ). Per verificare che 𝜑 è suriettiva, sia assegnato un elemento ℎ ∶= (ℎ𝑖 )𝑖∈𝐽𝐴 , dove ℎ𝑖 ∈ 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ), ∀𝑖. Per definizione, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽𝐴 , esiste una funzione continua 𝑔𝑖 ∶ 𝑋𝑖 → ℝ tale che 𝑔𝑖 |𝐴𝑖 = ℎ𝑖 . Definiamo ora una funzione 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ ponendo 𝑔(𝑥) ∶= 𝑔𝑖 (𝑥) se 𝑥 ∈ 𝑋𝑖 , ∀𝑖 ∈ 𝐽𝐴 e 𝑔(𝑥) ∶= 0 altrimenti. Poiché gli 𝑋𝑖 sono clopen in 𝑋, 𝑔 è continua e quindi 𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋). Posto, in fine, 𝑓 ∶= 𝑔|𝐴 , si ha, per definizione, 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋|𝐴) e inoltre 𝜑(𝑓 ) = ℎ. Abbiamo quindi verificato che 𝜑 è biiettiva. Quanto alla continuità di 𝜑, sarà sufficiente verificare che, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽𝐴 , l’applicazione 𝑝𝑖 ∘ 𝜑 ∶ 𝐶(𝑋|𝐴) → 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ) è continua, dove 𝑝𝑖 è la proiezione dello spazio prodotto sull’𝑖-imo fattore. Ricordando che è 𝐶(𝑋|𝐴𝑖 ) = 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ), basterà verificare che, per ogni 𝑖, la funzione, da 𝐶(𝑋|𝐴) a 𝐶(𝑋|𝐴𝑖 ), che a una funzione 𝑓 associa la sua restrizione su 𝐴𝑖 è continua; ma questo è ovvio. Veniamo alla continuità dell’inversa. Osserviamo prima di tutto che, come già detto, 𝐶(𝑋|𝐴) è un sottospazio di 𝐶𝑝 (𝐴) che a sua volta è un sottospazio di ℝ𝐴 . Componendo quindi 𝜑−1 con l’immersione (continua) di 𝐶(𝑋|𝐴) in ℝ𝐴 , si ottiene una funzione 𝜓 ∶ ∏𝑖∈𝐽𝐴 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ) → ℝ𝐴 . In questo contesto, risulta che 𝜑−1 è continua se e solo se lo è la 𝜓. Basta ovviamente provare il “se”. Dato un punto 𝑧 ∈ ∏𝑖∈𝐽𝐴 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ) e un aperto 𝑈 ⊆ 𝐶(𝑋|𝐴) contenente 𝜑−1 (𝑧), si ha che 𝑈 è la traccia su 𝐶(𝑋|𝐴) di un aperto 𝑈 ′ di ℝ𝐴 . Per la continuità di 𝜓, abbiamo che 𝑉 ∶= 𝜓 −1 (𝑈 ′ ) è un aperto di ∏𝑖∈𝐽𝐴 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ); inoltre, 𝑧 ∈ 𝑉 .
12.1. La topologia della convergenza puntuale
625
Ora si ha 𝜑−1 (𝑉 ) ⊆ 𝑈 ′ ∩ 𝐶(𝑋|𝐴) = 𝑈 . Ci siamo così ricondotti al problema di verificare la continuità di 𝜓. Pertanto 𝜑−1 è continua in 𝑧. Sia 𝑝𝑎 la proiezione di ℝ𝐴 su ℝ pensato come fattore di indice 𝑎 ∈ 𝐴. Componendo 𝜓 con 𝑝𝑎 si ottiene la funzione che ad ℎ = (ℎ𝑖 )𝑖∈𝐽𝐴 ∈ ∏𝑖∈𝐽𝐴 𝐶(𝑋𝑖 |𝐴𝑖 ) associa 𝑓 (𝑎), dove 𝜑(𝑓 ) = ℎ. Per ogni 𝑎 ∈ 𝐴 fissato, esiste un indice 𝑗 ∈ 𝐽𝐴 tale che 𝑎 ∈ 𝐴𝑗 . Quindi l’applicazione considerata ad ℎ associa ℎ𝑗 (𝑎) che è continua in quanto composta di due proiezioni. Si osservi che, per verificare la (12.4), non si è utilizzata la numerabilità di 𝐴. Inoltre, se per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 , si pone 𝐴𝑖 ∶= 𝑋𝑖 , da cui 𝐽𝐴 = 𝐽 , quanto appena visto prova anche l’affermazione iniziale lasciata per esercizio. Abbiamo così verificato quanto promesso dopo l’Esempio 12.27.
Teorema 12.31. Se per uno spazio topologico 𝑋, 𝐶𝑝 (𝑋) è di Baire, allora è tale anche 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼). Dimostrazione. La verifica di questo fatto segue uno schema che abbiamo già visto alla fine della dimostrazione del Lemma 12.24. Poiché l’intervallo aperto ]0, 1[ è omeomorfo a ℝ, si ha che lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋) è omeomorfo a 𝐶𝑝 (𝑋, ]0, 1[) (Corollario 12.19) e quindi 𝐶𝑝 (𝑋, ]0, 1[) è di Baire. L’insieme 𝐶𝑝 (𝑋, ]0, 1[) è un sottospazio di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼). È banale verificare che il primo spazio è un aperto nel secondo. Esso è anche denso. Siano, infatti, 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) e 𝑉 un suo intorno di base, per cui risultano assegnati 𝑘 punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ∈ 𝑋 e un 𝜀 ∈ ]0, 1/2[ tali che 𝑉 ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) ∶ |𝑔(𝑥𝑖 ) − 𝑓 (𝑥𝑖 )| < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}} . Siano: 𝐽0 ∶= {𝑖 ∈ {1, … , 𝑘} ∶ 𝑓 (𝑥𝑖 ) = 0}, 𝐽1 ∶= {𝑖 ∈ {1, … , 𝑘} ∶ 𝑓 (𝑥𝑖 ) = 1} e 𝐽 ∶= {1, … , 𝑘} ⧵ (𝐽0 ∪ 𝐽1 ). Consideriamo ora l’aperto 𝑈 definito da 𝑈 ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, ]0, 1[) ∶ 𝑔(𝑥𝑖 ) ∈ 𝑈𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}} ,
dove 𝑈𝑖 ∶= ]𝑓 (𝑥𝑖 ) − 𝜀, 𝑓 (𝑥𝑖 ) + 𝜀[ se 𝑖 ∈ 𝐽 , 𝑈𝑖 ∶= ]0, 𝜀[ se 𝑖 ∈ 𝐽0 e 𝑈𝑖 ∶= ]1 − 𝜀, 1[ se 𝑖 ∈ 𝐽1 . Si vede subito che è 𝑈 ⊆ 𝑉 , con 𝑈 ≠ ∅. Per verificare l’ultima affermazione, basta applicare il Lemma 12.17 prendendo una funzione continua ℎ ∶ 𝑋 → ]0, 1[ tale che ℎ(𝑥𝑖 ) = 𝑓 (𝑥𝑖 ), ∀𝑖 ∈ 𝐽 , ℎ(𝑥𝑖 ) = 𝜀/2, ∀𝑖 ∈ 𝐽0 e ℎ(𝑥𝑖 ) = 1 − 𝜀/2, ∀𝑖 ∈ 𝐽1 ; chiaramente è ℎ ∈ 𝑈 . Per il Lemma 11.50, anche 𝐶𝑝 (𝐼) è di Baire, dato che ha un sottospazio denso di Baire. Non sussiste l’implicazione opposta dell’ultimo risultato, come mostra l’esempio che segue. Esempio 12.32. Riprendiamo quanto visto nell’Esempio 12.27 in cui, utilizzando il Teorema 12.26, avevamo considerato uno spazio (𝑋, 𝜏) infinito, pseudocompatto e tale che 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è pseudo-compatto. Per il Teorema 11.90, esso è
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626
pseudo-completo e quindi di Baire. D’altra parte, lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋) non è di Baire. Per verificare questo fatto, osserviamo che, poiché 𝑋 è pseudo-compatto, allora ogni funzione 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) è limitata. Ne viene che 𝐶𝑝 (𝑋) =
⋃
𝑛∈ℕ+
𝐾𝑛 ,
con
𝐾𝑛 ∶= {𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) ∶ 𝑓 (𝑋) ⊆ [−𝑛, 𝑛]} .
Come vedremo fra un attimo, i 𝐾𝑛 sono tutti chiusi. Essi costituiscono una successione la cui riunione dà tutto 𝐶𝑝 (𝑋). Supponiamo, per assurdo, che 𝐶𝑝 (𝑋) sia di Baire; esso è di seconda categoria (Lemma 9.37). Ne viene che esiste un indice 𝑚 tale che 𝐾𝑚 ha interno non vuoto. Prendiamo una funzione 𝑓 contenuta in 𝐾𝑚 assieme ad un suo intorno aperto di base 𝑈 , per cui risultano assegnati 𝑘 punti 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ∈ 𝑋 e un 𝜀 > 0 tali che 𝑈 ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) ∶ |𝑔(𝑥𝑖 ) − 𝑓 (𝑥𝑖 )| < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}} ⊆ 𝐾𝑚 .
Poiché 𝑋 è infinito, esiste un punto 𝑧 ∈ 𝑋 ⧵ {𝑥1 , … , 𝑥𝑘 }. Prendiamo ora una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → ℝ tale che 𝑔(𝑥𝑖 ) ∶= 𝑓 (𝑥𝑖 ), ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘} 𝑔(𝑧) ∶= 𝑚 + 1. L’esistenza di 𝑔 è garantita dal Lemma 12.17. Ora, per costruzione, 𝑔 ∈ 𝑈 , ma 𝑔 ∉ 𝐾𝑚 . Si ha così una contraddizione. Ci resta da verificare che, per ogni 𝑛, 𝐾𝑛 è chiuso, ossia che il suo complementare è aperto. Fissiamo un 𝑚 e una 𝑓 ∉ 𝐾𝑚 . Esiste pertanto uno 𝑧 ∈ 𝑋 tale che |𝑓 (𝑧)| > 𝑚. Sia, per esempio, 𝑓 (𝑧) > 𝑚. Preso 𝜀 > 0 con 𝜀 < 𝑓 (𝑧) − 𝑚, Consideriamo l’aperto di base 𝑈 ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) ∶ |𝑓 (𝑧) − 𝑔(𝑧)| < 𝜀} .
Si ha banalmente 𝑈 ∩ 𝐾𝑚 = ∅.
◁
Nell’esempio appena visto, per dimostrare che 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è di Baire, abbiamo preso come spazio 𝑋 uno spazio pseudo-compatto opportuno (quello del Teorema 12.26); mentre, per dimostrare che 𝐶𝑝 (𝑋) non è di Baire, abbiamo utilizzato solo la pseudo-compattezza di 𝑋, supposto infinito. Quindi, con la stessa tecnica si ottiene il seguente risultato:
Corollario 12.33. Se 𝑋 è pseudo-compatto e 𝐶𝑝 (𝑋) è di Baire, allora 𝑋 è necessariamente finito. Il prossimo argomento di studio riguarda questioni collegate alla normalità degli spazi 𝐶𝑝 . Sappiamo che ogni spazio topologico perfettamente normale è completamente normale (cfr. Teorema 2.115). Inoltre gli spazi completamente normali sono tutti e soli quelli ereditariamente normali ovvero normali assieme a tutti i loro sottospazi (cfr. Teorema 1.110). Esistono però spazi ereditariamente normali ma non perfettamente normali, come lo spazio di Fort (cfr. Esempio 2.117) o il quadrato [0, 1]2 con l’ordine lessicografico (cfr. Esempio 7.58). Nel caso degli spazi 𝐶𝑝 (𝑋) i concetti di perfetta normalità e di normalità ereditaria sono equivalenti. Premettiamo un lemma.
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Lemma 12.34. Se per uno spazio topologico 𝑌 , si ha che 𝑌 × 𝛼ℕ è ereditariamente normale, allora 𝑌 è perfettamente normale. Dimostrazione. Non sarà restrittivo identificare la compattificazione di Alexandrov 𝛼ℕ di ℕ con l’insieme 𝐸 ∶= {0}∪ {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } pensato come sottospazio di ℝ. Lo spazio 𝑌 si immerge naturalmente in 𝑌 × 𝐸. Quindi 𝑌 è normale in quanto omeomorfo ad un sottospazio di 𝑌 × 𝐸 che è ereditariamente normale per ipotesi. Fissiamo un chiuso non vuoto 𝐶 di 𝑌 e supponiamo, per assurdo, che esso non sia un 𝐺𝛿 di 𝑌 . Siano ora 𝐴 ∶= (𝑌 ⧵ 𝐶) × {0} e 𝐵 ∶= 𝐶 × (𝐸 ⧵ {0}). Nello spazio ambiente 𝑍 ∶= (𝑌 × 𝐸) ⧵ (𝐶 × {0}), gli insiemi 𝐴 e 𝐵 sopra definiti sono chiusi e disgiunti. Poiché 𝑌 ×𝐸 è ereditariamente normale, il suo sottospazio 𝑍 è normale e quindi esistono in 𝑍 due aperti disgiunti 𝑈 e 𝑉 contenenti rispettivamente 𝐴 e 𝐵. Essendo 𝑍 un aperto di 𝑌 × 𝐸, 𝑈 e 𝑉 sono aperti anche in quest’ultimo spazio. Essendo disgiunti, si ha anche cl 𝑈 ∩ 𝑉 = 𝑈 ∩ cl 𝑉 = ∅. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝑊𝑛′ ∶= 𝑉 ∩ (𝑌 × {1/𝑛}). 𝑊𝑛′ è un aperto di 𝑌 × 𝐸, dato che i singoletti {1/𝑛} sono aperti in 𝐸. Chiamando 𝑊𝑛 la proiezione su 𝑌 di 𝑊𝑛′ , sempre per ogni 𝑛, si ha che 𝑊𝑛 è aperto in 𝑌 (le proiezioni sono mappe aperte, Lemma 6.34). Per costruzione, tutti i 𝑊𝑛 contengono 𝐶. Quindi 𝐶 ⊆ 𝑊 ∶= ⋂𝑛∈ℕ+ 𝑊𝑛 . Poiché all’inizio si è assunto che 𝐶 non sia un 𝐺𝛿 , deve esistere un elemento 𝑤 ∈ 𝑊 ⧵ 𝐶. Sia, in fine, 𝑃 ∶= {𝑤} × (𝐸 ⧵ {0}). Per costruzione, si ha 𝑃 ⊆ 𝑉 . Il punto (𝑤, 0) ∈ cl 𝑉 (in 𝑌 × 𝐸). D’altra parte, si ha (𝑤, 0) ∈ 𝐴 ⊆ 𝑈 . Ne risulta 𝑤 ∈ 𝑈 ∩ cl 𝑉 , contro il fatto che tale intersezione deve essere vuota. Teorema 12.35. Quale che sia lo spazio completamente regolare (𝑋, 𝜏), lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋) è perfettamente normale se e solo se è ereditariamente normale.
Dimostrazione. Per il Teorema 2.115 basta provare il “se”. Sia dunque 𝐶𝑝 (𝑋) ereditariamente normale. Fissiamo un punto 𝑥0 ∈ 𝑋 e sia 𝑌 ∶= {𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) ∶ 𝑓 (𝑥0 ) = 0}. Lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋) è omeomorfo a 𝑌 × ℝ. Infatti, l’applicazione 𝜑 ∶ 𝐶𝑝 (𝑋) → 𝑌 × ℝ definita da 𝜑(𝑓 ) ∶= (𝑓 (⋅) − 𝑓 (𝑥0 ), 𝑓 (𝑥0 )) è chiaramente biiettiva ed ha come inversa la funzione che alla coppia (𝑔, 𝑘), con 𝑔 ∈ 𝑌 e 𝑘 ∈ ℝ, associa la funzione 𝑔(⋅) + 𝑘 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋). Controllare che 𝜑 sia un omeomorfismo è un po’ noioso, ma non difficile; lo lasciamo per esercizio al lettore. Sia ancora 𝐸 ∶= {0} ∪ {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }. Dall’omeomorfismo visto sopra, si ha che 𝑌 × ℝ è ereditariamente normale ed è quindi tale anche il suo sottospazio 𝑌 × 𝐸. Per il lemma precedente, si ha che 𝑌 è perfettamente normale. Per provare la tesi, ci resta da dimostrare che anche 𝑌 × ℝ è perfettamente normale. Poiché 𝑌 × ℝ è normale per ipotesi, basta verificare che ogni suo aperto è un 𝐹𝜎 . Fissiamo quindi un aperto 𝐴 ⊆ 𝑌 × ℝ. Sia ℬ ∶= {𝐵𝑛 }𝑛 una base di aperti di ℝ. Per ogni 𝑛, diciamo 𝐴𝑛 l’insieme dei punti 𝑦 ∈ 𝑌 tali che esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑦 per cui 𝑉 × 𝐵𝑛 ⊆ 𝐴. È immediato verificare che gli 𝐴𝑛 sono aperti in 𝑋 e, inoltre, 𝐴𝑛 × 𝐵𝑛 ⊆ 𝐴, ∀𝑛 ∈ ℕ.
12.1. La topologia della convergenza puntuale
628
Dimostreremo che è 𝐴 = ⋃𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 × 𝐵𝑛 . Ammesso ciò, siccome 𝑌 e ℝ sono perfettamente normali, ogni aperto 𝐴𝑛 e ogni aperto 𝐵𝑘 è unione numerabile di chiusi di 𝑋 e, rispettivamente, di ℝ. Ne segue allora anche che ogni 𝐴𝑛 × 𝐵𝑛 è una riunione numerabile di chiusi del prodotto (Esercizio!) ed è quindi tale anche 𝐴. Ci resta da controllare che è effettivamente 𝐴 = ⋃𝑛∈ℕ 𝐴𝑛 × 𝐵𝑛 . Fissiamo un (𝑦0 , 𝑟0 ) ∈ 𝐴. Esistono un intorno aperto 𝑊 di 𝑦0 e un aperto di base 𝐵𝑚 contenente 𝑟0 tali che 𝑊 × 𝐵𝑚 ⊆ 𝐴. Per definizione, si ha 𝑊 ⊆ 𝐴𝑚 , da cui (𝑦0 , 𝑟0 ) ∈ 𝐴𝑚 × 𝐵𝑚 . Leggendo la parte finale della dimostrazione, si vede che il ruolo di ℝ come secondo fattore del prodotto è del tutto marginale e quindi, al suo posto, si poteva prendere un qualunque spazio perfettamente normale e 𝐴2 . Il lettore interessato, seguendo il precedente schema dimostrativo, potrà provare il seguente risultato: Teorema 12.36. Il prodotto di due spazi topologici perfettamente normali, di cui uno 𝐴2 , è perfettamente normale.
Il solito controesempio della retta di Sorgenfrey, il cui quadrato non è normale (cfr. Esempio 6.40), assieme al Teorema 2.118 che garantisce che (ℝ, 𝜏 + ) è perfettamente normale, mostra che l’ipotesi 𝐴2 è cruciale. Inoltre, il precedente teorema fornisce anche una dimostrazione indiretta che (ℝ, 𝜏 + ) non è 𝐴2 . Per una dimostrazione diretta di questo fatto si veda l’Esempio 3.126.
Teorema 12.37. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico completamente regolare. Allora 𝐶𝑝 (𝑋) ha un network numerabile se e solo se ha questa proprietà lo spazio 𝑋. Dimostrazione. Proviamo il “se”. Sia 𝒩 un network numerabile di 𝑋. Per ogni intero positivo 𝑘, dati 𝑁1 , … , 𝑁𝑘 ∈ 𝒩 e 𝑘 intervalli aperti e limitati di ℝ con estremi razionali 𝐼1 , … , 𝐼𝑘 , indichiamo con 𝑀(𝑁1 , … , 𝑁𝑘 , 𝐼1 , … , 𝐼𝑘 ) l’insieme delle funzioni continue 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ tali che 𝑓 (𝑁𝑗 ) ⊆ 𝐼𝑗 , ∀𝑗 ∈ {1, … , 𝑘}. Sia, in fine, ℳ l’insieme degli 𝑀 così definiti. Chiaramente ℳ è una famiglia numerabile di sottoinsiemi di 𝐶𝑝 (𝑋). Proviamo che ℳ è un network. Siano 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) e 𝑈 un suo arbitrario intorno aperto di base. Ciò significa che sono stati fissati 𝑚 punti 𝑧1 , … , 𝑧𝑚 ∈ 𝑋 e un 𝜀 > 0 per cui 𝑈 ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) ∶ |𝑔(𝑧𝑖 ) − 𝑓 (𝑧𝑖 )| < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑚}} .
Per la continuità della funzione 𝑓 , per ogni 𝑖, esiste un intorno aperto 𝑊𝑖 di 𝑧𝑖 in 𝑋 tale che 𝑓 (𝑊𝑖 ) ⊆ ]𝑓 (𝑧𝑖 ) − 𝜀/2, 𝑓 (𝑧𝑖 ) + 𝜀/2[. In fine, prendendo un intervallo aperto 𝐼𝑖 di estremi razionali in modo che ]𝑓 (𝑧𝑖 ) − 𝜀/2, 𝑓 (𝑧𝑖 ) + 𝜀/2[ ⊆ 𝐼𝑖 ⊆ ]𝑓 (𝑧𝑖 ) − 𝜀, 𝑓 (𝑧𝑖 ) + 𝜀[, si ha che 𝑓 (𝑊𝑖 ) ⊆ 𝐼𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑚}. Siccome 𝒩 è un network di 𝑋, per ogni 𝑖, esiste un 𝑁𝑖 ∈ 𝒩 tale che 𝑧𝑖 ∈ 𝑁𝑖 ⊆ 𝑊𝑖 . Abbiamo così ottenuto 𝑀 ∶= 𝑀(𝑁1 , … , 𝑁𝑚 , 𝐼1 , … , 𝐼𝑚 ) ∈ ℳ tale che 𝑓 ∈ 𝑀 ⊆ 𝑈 .
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Proviamo il “solo se”. Cominciamo con il mostrare che 𝑋 si immerge in modo canonico in 𝐶𝑝 (𝐶𝑝 (𝑋)). A tale scopo, usiamo la mappa di valutazione 𝑒 che a un 𝑥 ∈ 𝑋 associa la funzione 𝛿 𝑥 ∶ 𝑓 ↦ 𝑓 (𝑥). Si sono già visti schemi analoghi, anche se non perfettamente identici, in diversi contesti (cfr. per es. pag. 505). Possiamo utilizzare l’Embedding-lemma 10.26; nel nostro caso prendiamo 𝑌𝑓 ∶= ℝ, ∀𝑓 ∈ 𝐹 , con 𝐹 ∶= 𝐶𝑝 (𝑋). Poiché 𝑋 è completamente regolare, 𝐶𝑝 (𝑋) separa i punti dai chiusi. Pertanto, la funzione di valutazione 𝑒 ∶ 𝑋 → 𝑌 ∶= ℝ𝐶𝑝 (𝑋) è continua, iniettiva e aperta da 𝑋 su 𝑒(𝑋). Resta da controllare che 𝑒(𝑋), che sappiamo essere contenuto in ℝ𝐶𝑝 (𝑋) , è in effetti contenuto in 𝐶𝑝 (𝐶𝑝 (𝑋)). A tale scopo basta verificare che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 fissato, la funzione 𝛿 𝑥 ∶ 𝐶𝑝 (𝑋) → ℝ è continua. Questo fatto è stato, in sostanza, già verificato nel caso dello spazio 𝐶 ∗ (𝑋) delle funzioni a valori reali continue e limitate (cfr. il paragrafo 11.1). Fissiamo uno 𝑧 ∈ 𝑋, una funzione 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) e un 𝜀 > 0. Sia 𝑈 ∶= 𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋) ∶ |𝑔(𝑧) − 𝑓 (𝑧)| < 𝜀}. Chiaramente 𝑈 è un intorno aperto di 𝑓 in { 𝐶𝑝 (𝑋) e, inoltre, 𝛿 𝑧 (𝑔) ∈ ]𝛿 𝑧 (𝑓 )−𝜀, 𝛿 𝑧 (𝑓 )+𝜀[, ∀𝑔 ∈ 𝑈 . Ciò prova che 𝛿 𝑧 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋). Con queste premesse, si ha che 𝑋 è omeomorfo a un sottospazio di 𝐶𝑝 (𝐶𝑝 (𝑋)). Per ipotesi, 𝐶𝑝 (𝑋) ha un network numerabile. Per la prima parte della dimostrazione, ha la stessa proprietà anche 𝐶𝑝 (𝐶𝑝 (𝑋)) e quindi anche 𝑋, dato che la proprietà di avere un network al più numerabile è ereditata dai sottospazi (cfr. Teorema 2.115). La stessa dimostrazione mostra che 𝑛𝑤(𝑋) = 𝑛𝑤(𝐶𝑝 (𝑋)), dove 𝑛𝑤 è il network weight definito a pag. 520.
Teorema 12.38. Se (𝑋, 𝜏) è uno spazio topologico completamente regolare dotato di network numerabile, in particolare se è metrico separabile, allora 𝐶𝑝 (𝑋) ha le seguenti proprietà: 1. è ereditariamente separabile; 2. è ereditariamente Lindelöff; 3. è ereditariamente normale; 4. è perfettamente normale. Dimostrazione. Per il teorema precedente, anche 𝐶𝑝 (𝑋) ha un network numerabile e quindi, per il Lemma 8.21, 𝐶𝑝 (𝑋) è ereditariamente separabile e ereditariamente Lindelöff. 𝐶𝑝 (𝑋) è chiaramente regolare, essendo un sottospazio di ℝ𝑋 . Per il Teorema 8.19, 𝐶𝑝 (𝑋) è perfettamente normale e quindi anche ereditariamente normale per il Teorema 2.115 (cfr. anche il Teorema 12.35). Nella dimostrazione del precedente teorema, si è utilizzato il fatto che ogni spazio dotato di network numerabile è ereditariamente separabile e ereditariamente Lindelöff (cfr. Lemma 8.21). Per produrre un esempio di uno spazio in cui valgono queste due proprietà ma non dotato di network numerabile, basta considerare la ‘solita’ retta di Sorgenfrey. Nel teorema precedente abbiamo
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anche visto il caso in cui 𝐶𝑝 (𝑋) sia ereditariamente normale. Vedremo ora che 𝐶𝑝 (𝑋) non è normale quando si prende come 𝑋 la retta di Sorgenfrey.
Esempio 12.39. Sia (ℝ, 𝜏 + ) la retta di Sorgenfrey. Abbiamo gà visto che questo spazio è ereditariamente separabile (cfr. Esempio 3.126) e anche ereditariamente Lindelöf (cfr. Esempio 7.105). Questo spazio è anche perfettamente normale (cfr. Teorema 2.118) e quindi ereditariamente normale (cfr. Teorema 2.115). Nel sopracitato Esempio 3.126 abbiamo già verificato che (ℝ, 𝜏 + ) non è 𝐴2 . Vedremo ora una proprietà più forte, ossia che non ha network numerabile. Anzi, addirittura, vale il seguente fatto: Gli unici sottospazi di (ℝ, 𝜏 + ) che ammettono network numerabili sono quelli numerabili. Supponiamo, per assurdo, che 𝐸 sia un sottospazio non numerabile dotato di un network 𝒩 ∶= {𝑁𝑘 }𝑘 numerabile. Poiché 𝒩 è un network, per ogni 𝑥 ∈ 𝐸, esiste un 𝑁 ∈ 𝒩 tale che 𝑥 ∈ 𝑁 ⊆ [𝑥, 𝑥 + 1[ ∩𝐸. Chiaramente un tale 𝑁 è limitato inferiormente da 𝑥. Consideriamo gli insiemi 𝑁𝑘 del network che sono limitati inferiormente e, per ciascuno di essi, poniamo 𝑝𝑘 ∶= inf 𝑁𝑘 . L’insieme dei 𝑝𝑘 è al più numerabile, quindi esiste un elemento 𝑒 ∈ 𝐸 tale che 𝑒 ≠ 𝑝𝑘 , ∀𝑘. Consideriamo ora l’intorno aperto [𝑒, 𝑒 + 1[ di 𝑒. Per definizione di network, deve esistere un 𝑁𝑚 ∈ 𝒩 tale che 𝑒 ∈ 𝑁𝑚 ⊆ [𝑒, 𝑒 + 1[ ∩𝐸, da cui 𝑒 = min 𝑁𝑚 . D’altra parte, per definizione, 𝑝𝑚 ∶= inf 𝑁𝑚 = 𝑒, contro il fatto che è 𝑒 ≠ 𝑝𝑘 , ∀𝑘. Ciò prova il “soli”; il “tutti” è ovvio. Proviamo ora che, per 𝑆 ∶= (ℝ, 𝜏 + ), 𝐶𝑝 (𝑆) non è normale. Sappiamo che in (ℝ, 𝜏𝑒 ) tutti gli intervalli aperti sono omeomorfi a ]0, 1[. In modo analogo, si vede (Esercizio!) che in (ℝ, 𝜏 + ) tutti gli intervalli del tipo [𝑎, 𝑏[, che sono clopen, sono omeomorfi a [0, 1[. Ora si ha ℝ=
⋃
[𝑘, 𝑘 + 1[.
𝑘∈ℤ
[0, 1[=
𝑛 𝑛+1 , . ⋃ [𝑛 + 1 𝑛 + 2[
𝑛∈ℕ
Ne viene che, in (ℝ, 𝜏 + ), ℝ è omeomorfo a [0, 1[, dato che i due insiemi risultano unioni numerabili di insiemi clopen a due a due disgiunti e sono quindi loro somme dirette. Scrivendo [0, 1[ come somma diretta di [0, 1/2[ e [1/2, 1[, si ha che 𝐶𝑝 ([0, 1[) è omeomorfo a 𝐶𝑝 ([0, 1/2[) × 𝐶𝑝 ([1/2, 1[) (cfr. pag. 623). Per le osservazioni fatte in precedenza, per cui tutti gli intervalli [𝑎, 𝑏[ sono fra loro omeomorfi (in (ℝ, 𝜏 + )) e anche omeomorfi a 𝑆, concludiamo che 𝐶𝑝 ([0, 1[) è omeomorfo a 𝐶𝑝 ([0, 1[) × 𝐶𝑝 ([0, 1[), come pure 𝐶𝑝 (𝑆) è omeomorfo a 𝐶𝑝 (𝑆) × 𝐶𝑝 (𝑆). Per ogni 𝑡 ∈ ]0, 1], sia 𝑓𝑡 ∶ [0, 1[ → ℝ la funzione così definita: 𝑓𝑡 (𝑥) ∶= 1, se 0 ≤ 𝑥 < 𝑡 e 𝑓𝑡 (𝑥) ∶= 0, se 𝑡 ≤ 𝑥 < 1. Le 𝑓𝑡 sono chiaramente continue nella topologia 𝜏 + . Ovviamente, con questa convenzione, 𝑓1 è la funzione di valore costante 1. Consideriamo ora in 𝐶𝑝 ([0, 1[) l’insieme di funzioni ℱ ∶= {𝑓𝑡 ∈ 𝐶𝑝 ([0, 1[) ∶ 𝑡 ∈ ]0, 1]} .
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Verificheremo che l’insieme ℱ è un chiuso di 𝐶𝑝 ([0, 1[) omeomorfo a [0, 1[. Analogamente, avremo che in 𝐶𝑝 (𝑆) esiste un chiuso ℱ ′ omeomorfo a 𝑆. Ammesso ciò, si conclude che 𝐶𝑝 (𝑆) × 𝐶𝑝 (𝑆) contiene un chiuso ℱ ′ × ℱ ′ omeomorfo a 𝑆 × 𝑆. Nell’Esempio 6.40, abbiamo visto che 𝑆 × 𝑆 non è normale. Di conseguenza,𝐶𝑝 (𝑆) × 𝐶𝑝 (𝑆) contiene un chiuso che non è normale. Poiché la normalità è ereditata dai sottospazi chiusi (cfr. Teorema 1.106), concludiamo che 𝐶𝑝 (𝑆) × 𝐶𝑝 (𝑆) non è normale e che non lo è nemmeno 𝐶𝑝 (𝑆) che è ad esse omeomorfo. Ci resta da controllare che ℱ è effettivamente un chiuso di 𝐶𝑝 ([0, 1[) omeomorfo a [0, 1[. Per verificare che ℱ è chiuso, fissiamo una funzione 𝑔 ∈ cl ℱ ⊆ 𝐶𝑝 ([0, 1[) e mostriamo che 𝑔 ∈ ℱ . La 𝑔 non può assumere un valore 𝑘 ∉ {0, 1} o essere la costante nulla; infatti, in tal caso, sarebbe banale definire un suo intorno privo di elementi di ℱ . Se 𝑔 è la costante 1, non c’è nulla da dimostrare. L’unico caso da studiare è quello in cui 𝑔 non è costante ed assume solo i valori 0 e 1. poiché 𝑔 ∈ cl ℱ , essa deve essere debolmente decrescente (Esercizio!). Deve esistere 𝑘 ∈ [0, 1[ tale che 𝑔(𝑥) = 1 per 𝑥 < 𝑘 e 𝑔(𝑥) = 0 per 𝑥 > 𝑘. Poiché 𝑔 è continua nella topologia 𝜏 + , non può essere 𝑔(𝑘) = 1, da cui 𝑔(𝑘) = 0 e, poiché 𝑔 non è identicamente nulla, si ha 0 < 𝑘 < 1 e 𝑔 = 𝑓𝑘 . Ciò prova che ℱ è chiuso. In fine, si considera l’applicazione 𝜑 ∶ [0, 1[ → ℱ ⊂ 𝐶𝑝 ([0, 1[) ⊂ ℝ[0,1[ definita da 𝜑(𝑠) = 𝑓1−𝑠 . La funzione 𝜑 è biiettiva. Essa è continua se e solo se lo è quando sia pensata come applicazione da [0, 1[ in ℝ[0,1[ . Per verificare la continuità di quest’ultima funzione, basta analizzare le composte 𝑝𝑖 ∘ 𝜑, con 𝑝𝑖 ∶ ℝ[0,1[ → [0, 1[ generica proiezione (cfr. Corollario 6.9). Per ogni 𝑖 ∈ [0, 1[, la funzione 𝜑𝑖 ∶= 𝑝𝑖 ∘ 𝜑 ∶ [0, 1[ → ℝ è così definita: 𝜑𝑖 (𝑠) = 1 se 𝑖 < 1 − 𝑠 e 𝜑𝑖 (𝑠) = 0 se 𝑖 ≥ 1 − 𝑠; dunque 𝜑𝑖 coincide con 𝑓1−𝑖 che è continua. Per verificare la continuità di 𝜑−1 , basta provare che 𝜑 è aperta. Sia 𝐴 ∶= [𝑎, 𝑏[ ⊆ [0, 1[ un aperto di base. Si ha 𝜑(𝐴) = {𝑓𝑡 ∶ 1 − 𝑏 < 𝑡 ≤ 1 − 𝑎}. Consideriamo l’aperto di base 𝑉 in 𝐶𝑝 ([0, 1[) costituito da tutte le funzioni continue 𝑔 tali che 1/2 < 𝑔(1 − 𝑏) < 3/2 e −1/2 < 𝑔(1 − 𝑎) < 1/2, quando è 𝑎 > 0. Si vede subito che 𝑉 ∩ ℱ coincide con 𝜑(𝐴). ◁
A questo punto, può essere opportuno fare una breve panoramica riassuntiva sulle relazioni che intercorrono fra i concetti di completezza e di spazio di Baire. Nel caso degli spazi metrici, è ben noto che la completezza (nel senso di Cauchy) implica che lo spazio sia di Baire. Un esempio di spazio metrico di Baire non completo è dato dall’insieme degli irrazionali di ℝ come pure da un qualunque aperto di ℝ𝑛 diverso da esso. Tali spazi, però, sono Čech-completi (cfr. Esempio 11.41 e Corollario 11.48). Poiché uno spazio metrizzabile è Čechcompleto se e solo se la sua topologia è deducibile da una metrica completa (cfr. Teorema 11.69), gli spazi suddetti non costituiscono dei controesempi ottimali perché potrebbero essere dotati di metriche che inducono la stessa topologia e li rendono completi. Pertanto, se vogliamo produrre un esempio significativo di spazio metrico di Baire non completo, dobbiamo andare alla ricerca di uno spazio metrizzabile di Baire che non sia Čech-completo. Uno spazio di questo
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tipo è dato dall’Esempio 11.51, in cui si è considerato il sottoinsieme 𝑋 di ℝ2 definito da 𝑋 ∶= (ℝ × (ℝ ⧵ {0})) ∪ (ℚ × {0}). Uscendo dalla classe degli spazi metrizzabili, per avere uno spazio di Baire non banale, basterà prendere un compatto 𝑇2 non metrizzabile, come ad esempio 𝐼 𝐼 . Tutti i compatti 𝑇2 sono però Čech-completi (cfr. Corollario 11.39). Quindi, se vogliamo fornire degli esempi di spazi di Baire non “completi”, dobbiamo uscire anche dalla classe degli spazi compatti. Ricordiamo che abbiamo già prodotto diversi esempi. Lo spazio di Sorgenfrey (ℝ, 𝜏 + ) che è di Baire ma non Čech-completo (cfr. Esempio 11.68) e non metrizzabile (cfr. Esempio 3.126). Un secondo esempio è dato dallo spazio prodotto (spazio di funzioni reali) ℝ𝑋 , con 𝑋 non numerabile e dotato della topologia discreta (cfr. Esempio 11.80). Entrambi questi spazi, però, sono pseudo-completi. Infatti ℝ𝑋 lo è per il Teorema 11.86, mentre per (ℝ, 𝜏 + ) si veda l’Esempio 11.89. In fine, abbiamo prodotto due ulteriori esempi. Il primo è dato dallo spazio 𝐶𝑝 (ℕ𝜉 ) che è di Baire e non pseudo-completo (cfr Corollario 12.15). Questo spazio è metrizzabile (Corollario 12.5) e, chiaramente, non è Čech-completo. Infatti, se fosse Čech-completo, sarebbe anche pseudo-completo (cfr. Teorema 11.84); inoltre, se fosse Čech-completo, lo spazio di base ℕ𝜉 , oltre che essere numerabile, dovrebbe anche essere discreto (cfr. Teorema 12.14). Il secondo esempio è dato dallo spazio 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼), con 𝑋 spazio infinito pseudo-compatto e tale che anche 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) sia pseudo-compatto (cfr. Esempio 12.27). La cardinalità di 𝑋 è più che numerabile (cfr. pag. 618), quindi lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) non è metrizzabile. Infatti, se 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) fosse metrizzabile, lo sarebbe pure il suo sottospazio 𝐶𝑝 (𝑋, ]0, 1[) che è omeomorfo a 𝐶𝑝 (𝑋) che non è metrizzabile poiché 𝑋 non è numerabile. Come si è visto, 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) non è Čech-completo, dato che 𝑋 non ha la topologia discreta (cfr. Lemma 12.24), tuttavia esso è di Baire in quanto pseudo-completo. Come osservato nel Corollario 12.33, è interessante notare che, per questo particolare spazio 𝑋 pseudo-compatto, mentre 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼) è di Baire, lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋) non lo è. Osserviamo ancora che, mentre per la Čech-completezza di 𝐶𝑝 (𝑋) c’è una caratterizzazione nel senso che essa equivale al fatto che 𝑋 sia numerabile e discreto, non abbiamo un risultato analogo per la proprietà di Baire. Infatti, nella dimostrazione del Teorema 12.30, si è visto che se è 𝑋 ∶= ⊕𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , allora 𝐶𝑝 (𝑋) è omeomorfo a ∏𝑖∈𝐽 𝐶𝑝 (𝑋𝑖 ); inoltre, lo stesso teorema afferma che, se i 𝐶𝑝 (𝑋𝑖 ) sono di Baire, allora è tale anche 𝐶𝑝 (𝑋). Quindi possiamo prendere un singolo spazio 𝑌 in modo che 𝐶𝑝 (𝑌 ) sia di Baire (ad esempio 𝑌 numerabile e discreto, oppure 𝑌 ∶= ℕ𝜉 ) e considerare come 𝑋 un’arbitraria somma diretta di sue copie. Concludiamo qui l’esposizione relativa agli spazi 𝐶𝑝 (𝑋) [e 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼)]. Come si è visto, essi possiedono diverse proprietà intermedie fra quelle di 𝑋 e di ℝ𝑋 [di 𝐼 𝑋 ]. Inoltre, permettono di produrre dei controesempi piuttosto complessi. Allo stato attuale, vi sono diverse linee di ricerca importanti che riguardano questi spazi. Una di queste, proposta da Arhangel’skiĭ, è quella di caratterizzare proprietà di 𝑋 mediante quelle di 𝐶𝑝 (𝑋); come ad esempio, trovare condizioni
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affinché dall’essere 𝐶𝑝 (𝑋) e 𝐶𝑝 (𝑌 ) omeomorfi, si possa dedurre che sono tali anche 𝑋 e 𝑌 . Il lettore interessato potrà trovare nei quattro libri di V. V. Tkachuk della serie “A 𝐶𝑝 -theory, problem book”, pubblicati fra il 2011 e il 2016, un compendio pressoché completo dello stato dell’arte in questo settore di ricerca. Accenniamo brevemente al problema di estendere il concetto di Topologia della convergenza puntuale agli spazi C(X,Y) delle funzioni continue fra gli spazi topologici 𝑋 e 𝑌 , anche con 𝑌 ≠ ℝ. Ricordiamo l’usuale notazione 𝑌 𝑋 per indicare l’insieme di tutte le funzioni da un insieme non vuoto 𝑋 in uno spazio topologico 𝑌 , identificato con lo spazio prodotto ∏𝑥∈𝑋 𝑌𝑥 , dove 𝑌𝑥 coincide con 𝑌 , per ogni 𝑥. La topologia prodotto di 𝑌 𝑋 viene detta topologia della convergenza puntuale (cfr. Esempio 6.12). Definizione 12.40. Dati due spazi topologici arbitrari 𝑋, 𝑌 , denotiamo con 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) il sottospazio di 𝑌 𝑋 costituito dalle funzioni continue da 𝑋 in 𝑌 dotato della topologia della convergenza puntuale (cfr. pag. 612). ◁ In base a questa definizione, notiamo che, data una funzione 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ), un suo intorno di base è del tipo: 𝑈 (𝑥1 , … , 𝑥𝑘 , 𝑉1 , … , 𝑉𝑘 ) ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) ∶ 𝑔(𝑥𝑖 ) ∈ 𝑉𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}}
con 𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ∈ 𝑋 e 𝑉𝑖 intorno aperto di 𝑓 (𝑥𝑖 ) in 𝑌 . Alcuni risultati visti in 𝐶𝑝 (𝑋) hanno una loro valenza anche nel caso in cui sia 𝑌 ≠ ℝ. Ne elenchiamo alcuni. Sappiamo che 𝐶𝑝 (𝑋) è sempre completamente regolare, mentre non è detto che sia normale (cfr. Esempio 12.39). In questo contesto più generale sussiste il seguente risultato: Teorema 12.41. Se 𝑌 è uno spazio topologico 𝑇𝑖 , con 𝑖 ≤ 3 12 , allora è tale anche 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ), quale che sia lo spazio topologico 𝑋.
Dimostrazione. Lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) è un sottospazio di 𝑌 𝑋 che è uno spazio prodotto di copie dello spazio 𝑌 . Se 𝑌 gode della proprietà 𝑇𝑖 , con 𝑖 ≤ 3 12 , allora gode di questa proprietà anche 𝑌 𝑋 (Teorema 6.37) e quindi anche il sottospazio 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) (Teorema 2.119). Il prossimo risultato generalizza un’affermazione vista nella dimostrazione del Teorema 12.30. Lasciamo per esercizio al lettore la relativa verifica.
Teorema 12.42. Dati una famiglia di spazi topologici (non vuoti) {𝑋𝑖 }𝑖∈𝐽 e uno spazio topologico 𝑌 , posto 𝑋 ∶= ⊕𝑖∈𝐽 𝑋𝑖 , risultano omeomorfi gli spazi 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) e ∏𝑖∈𝐽 𝐶𝑝 (𝑋𝑖 , 𝑌 ). Un risultato analogo è il seguente:
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Teorema 12.43. Dati una famiglia di spazi topologici (non vuoti) {𝑌𝑖 }𝑖∈𝐽 e uno spazio topologico 𝑋, posto 𝑌 ∶= ∏𝑖∈𝐽 𝑌𝑖 , risultano omeomorfi gli spazi 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) e ∏𝑖∈𝐽 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌𝑖 ).
Dimostrazione. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 e poniamo 𝑓𝑖 ∶= 𝑝𝑖 ∘ 𝑓 dove, come al solito, 𝑝𝑖 ∶ 𝑌 → 𝑌𝑖 è la proiezione 𝑖-ima. Per definizione, si ha 𝑓𝑖 ∶ 𝑋 → 𝑌𝑖 , ∀𝑖. Inoltre, 𝑓 è continua se e solo se sono tali le 𝑓𝑖 . Mostriamo ora che l’applicazione Φ ∶ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) → ∏𝑖∈𝐽 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌𝑖 ) che a 𝑓 associa (𝑓𝑖 )𝑖∈𝐽 è l’omeomorfismo cercato. Per definizione, Φ è iniettiva. Essa è anche suriettiva; infatti, data una famiglia (𝑔𝑖 )𝑖∈𝐽 con 𝑔𝑖 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌𝑖 ), ∀𝑖 ∈ 𝐽 e detta 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝑌 tale che 𝑔(𝑥) ∶= (𝑔𝑖 (𝑥))𝑖∈𝐽 , si ha 𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) e Φ(𝑔) = (𝑔𝑖 )𝑖∈𝐽 . Per verificare che Φ è continua, basta controllare che, per ogni 𝑖 ∈ 𝐽 fissato, è continua la funzione Φ𝑖 ∶ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) → 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌𝑖 ) definita da Φ𝑖 (𝑓 ) ∶= 𝑓𝑖 . A tale scopo, fissiamo un punto 𝑧 ∈ 𝑋 e un intorno aperto 𝑉𝑖 ⊆ 𝑌𝑖 di 𝑓𝑖 (𝑧). Consideriamo poi l’insieme 𝒱𝑖 ∶= {𝑔𝑖 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌𝑖 ) ∶ 𝑔𝑖 (𝑧) ∈ 𝑉𝑖 }. Questo è un aperto di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌𝑖 ) contenente 𝑓𝑖 . Ora, l’insieme 𝒱 ⊆ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ), costituito da tutte le funzioni (continue) ℎ ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) tali che ℎ𝑖 ∶= 𝑝𝑖 ∘ ℎ ∈ 𝒱𝑖 , è un aperto di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) contenente 𝑓 e, per costruzione, Φ𝑖 (𝒱 ) ⊆ 𝒱𝑖 . Poiché gli aperti di base in 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌𝑖 ) contenenti 𝑓𝑖 sono dati dalle intersezioni finite di insiemi del tipo 𝒱𝑖 , al variare del punto 𝑧 ∈ 𝑋, si raggiunge facilmente la tesi, tenendo conto del fatto che l’immagine (tramite Φ𝑖 ) di un’intersezione è contenuta nell’intersezione delle immagini. Lo stesso schema dimostrativo (con minime varianti) viene poi ripetuto per constatare la continuità di Φ−1 . Le proprietà enunciate nel Teorema 12.38 ammettono formulazioni più generali in questo contesto.
Lemma 12.44. Siano 𝑋 uno spazio topologico dotato di network numerabile e 𝑌 uno spazio topologico 𝐴2 . Allora anche 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) è dotato di network numerabile. Dimostrazione. Analogamente a quanto fatto nella dimostrazione del Teorema 12.37, introduciamo la seguente notazione. Dati un network 𝒩 numerabile di 𝑋 e una base numerabile di aperti ℬ di 𝑌 , indicheremo con 𝑀(𝑁1 , … , 𝑁𝑘 , 𝐵1 , … , 𝐵𝑘 ) ∶=
= {𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) ∶ 𝑓 (𝑁𝑗 ) ⊆ 𝐵𝑗 , ∀𝑗 ∈ {1, … , 𝑘}} ,
al variare di 𝑁1 , … , 𝑁𝑘 ∈ 𝒩 e 𝐵1 , … , 𝐵𝑘 ∈ ℬ. La totalità ℳ degli 𝑀 così definiti è numerabile e, come ora verificheremo, è un network di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ). Siano 𝑓 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) e 𝑊 un suo intorno aperto di base. Esistono quindi 𝑚 punti 𝑧1 , … , 𝑧𝑚 ∈ 𝑋 e 𝑚 aperti 𝑉1 , … , 𝑉𝑚 ⊆ 𝑌 tali che 𝑓 (𝑧𝑖 ) ∈ 𝑉𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑚} tali che 𝑊 ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) ∶ 𝑔(𝑧𝑖 ) ∈ 𝑉𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑚}} .
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Per ogni 𝑖, esiste un aperto di base 𝐵𝑖 ∈ ℬ tale che 𝑓 (𝑧𝑖 ) ∈ 𝐵𝑖 ⊆ 𝑉𝑖 . Per la continuità di 𝑓 , sempre per ogni 𝑖, esiste in 𝑋 un intorno aperto 𝑈𝑖 di 𝑧𝑖 tale che 𝑓 (𝑈𝑖 ) ⊆ 𝐵𝑖 . In fine, poiché 𝒩 è un network in 𝑋, esiste, ancora per ogni 𝑖, un elemento 𝑁𝑖 ∈ 𝒩 tale che 𝑧𝑖 ∈ 𝑁𝑖 ⊆ 𝑈𝑖 e quindi 𝑓 (𝑁𝑖 ) ⊆ 𝐵𝑖 . Poniamo, per semplicità di notazione, 𝑀(𝑓 ) ∶= 𝑀(𝑁1 , … , 𝑁𝑚 , 𝐵1 , … , 𝐵𝑚 ) ∈ ℳ.
Si conclude che, per costruzione, 𝑓 ∈ 𝑀(𝑓 ) e inoltre 𝑀(𝑓 ) ⊆ 𝑊 . Infatti, se 𝑔 ∈ 𝑀(𝑓 ), allora 𝑔(𝑧𝑖 ) ∈ 𝑔(𝑁𝑖 ) ⊆ 𝐵𝑖 ⊆ 𝑉𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑚} e quindi 𝑔 ∈ 𝑊 . Ciò prova che ℳ è effettivamente un network di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ).
Corollario 12.45. Se 𝑋 e 𝑌 sono spazi topologici 𝐴2 , allora 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) è ereditariamente separabile ed ereditariamente Lindelöff. Inoltre, se 𝑌 è regolare, 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) è perfettamente normale e quindi ereditariamente normale. In particolare, tutte queste proprietà sono soddisfatte se 𝑋 e 𝑌 sono spazi metrici separabili.
Dimostrazione. Per il lemma precedente, 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) ha un network numerabile e quindi per il Lemma 8.21 esso è ereditariamente separabile ed ereditariamente Lindelöff. Inoltre, se 𝑌 è regolare, per il Teorema 12.41, si ha che anche 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) è regolare. Il Teorema 8.19 ci assicura che 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) è perfettamente normale e quindi ereditariamente normale (Teorema 2.115). Trattare questi casi più astratti ha il merito di mettere in evidenza alcune proprietà “naturali” come ad esempio la seguente. Dati tre spazi topologici arbitrari (non vuoti) 𝑋, 𝑌 , 𝑍, possiamo considerare l’operazione di composizione fra una funzione continua da 𝑋 a 𝑌 e una continua da 𝑌 a 𝑍 come un’applicazione Φ ∶ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) × 𝐶(𝑌 , 𝑍) → 𝐶(𝑋, 𝑍) definita da Φ(𝑓 , 𝑔) ∶= 𝑔 ∘ 𝑓 . Può essere a questo punto interessante studiare la continuità di Φ rispetto a diverse topologie dei diversi spazi di funzioni. Qui ci limitiamo ad osservare che se i tre spazi sono dotati della topologia della convergenza puntuale, la continuità di Φ non è garantita (cfr. Esempio 12.50). Un altro aspetto riguarda la mappa di valutazione, ovvero quella che, fissato un 𝑥 ∈ 𝑋, a una funzione continua 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) associa 𝑓 (𝑥). Anche in questo caso si può definire un’applicazione Ψ ∶ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) × 𝑋 → 𝑌 definita da Ψ(𝑓 , 𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥). La questione è ancora quella di sapere se Ψ è continua. Anche in questo caso, se 𝐶(𝑋, 𝑌 ) ha la topologia della convergenza puntuale, non è garantita la continuità di Ψ (cfr. Esempio 12.49). Una topologia sullo spazio 𝐶(𝑋, 𝑌 ) che renda continua la mappa di valutazione è detta ammissibile (cfr. [18]). Una terza proprietà interessante riguarda la relazione tra (𝑌 𝑋 )𝑍 e 𝑌 𝑍×𝑋 . Data 𝑓 ∶ 𝑍 × 𝑋 → 𝑌 indichiamo con Λ(𝑓 ) l’applicazione da 𝑍 in 𝑌 𝑋 che a 𝑧 associa la funzione 𝑓 (𝑧, ⋅). Osserviamo che, se 𝑓 è continua, per ogni 𝑧 fissato, l’applicazione 𝑋 ∋ 𝑥 ↦ 𝑓 (𝑧, 𝑥) ∈ 𝑌 è continua. Infatti, essa è la composta
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dell’applicazione di immersione 𝑗𝑧 ∶ 𝑋 → 𝑍 × 𝑋 definita da 𝑗𝑧 (𝑥) ∶= (𝑧, 𝑥) che è continua (Esercizio!) con la 𝑓 . Quindi, per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑍 × 𝑋, 𝑌 ), si ha Λ(𝑓 ) ∶ 𝑍 → 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Questa corrispondenza viene chiamata mappa esponenziale. Una topologia sullo spazio 𝐶(𝑋, 𝑌 ) viene detta propria se, per ogni spazio 𝑍 e qualunque 𝑓 ∈ 𝐶(𝑍 × 𝑋, 𝑌 ), si ha che Λ(𝑓 ) ∈ 𝐶(𝑍, 𝐶(𝑋, 𝑌 )). Viceversa, sia data una funzione 𝑔 ∈ 𝐶(𝑍, 𝐶(𝑋, 𝑌 )). Ad ogni elemento 𝑧 ∈ 𝑍 rimane associata una funzione continua 𝑔𝑧 ∶ 𝑋 → 𝑌 . In tal caso, indicheremo con Λ−1 (𝑔) ∶ 𝑍 × 𝑋 → 𝑌 la funzione che alla coppia (𝑧, 𝑥) associa 𝑔𝑧 (𝑥) ∈ 𝑌 . Vale il seguente lemma:
Lemma 12.46. Una topologia 𝜏 in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è ammissibile se e solo se, per ogni spazio 𝑍 ed ogni funzione 𝑔 ∈ 𝐶(𝑍, 𝐶(𝑋, 𝑌 )), si ha che Λ−1 (𝑔) ∈ 𝐶(𝑍 × 𝑋, 𝑌 ). Dimostrazione. Dato uno spazio 𝑍 arbitrario, consideriamo una funzione 𝑔 ∈ 𝐶(𝑍, 𝐶(𝑋, 𝑌 )). Come sopra, poniamo 𝑔𝑧 ∶= 𝑔(𝑧) ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Per definizione, si ha Ψ(𝑔𝑧 , 𝑥) = 𝑔𝑧 (𝑥) = Λ−1 (𝑔)(𝑧, 𝑥). Quindi Ψ è continua se e solo se lo è Λ−1 (𝑔).
Teorema 12.47. Data una coppia qualunque (𝑋, 𝑌 ) di spazi topologici e due topologie 𝜏 e 𝜎 nello spazio 𝐶(𝑋, 𝑌 ), valgono le seguenti proprietà: 1. Se la topologia 𝜏 è propria e 𝜎 ⪯ 𝜏, allora anche 𝜎 è propria. 2. Se la topologia 𝜏 è ammissibile e 𝜏 ⪯ 𝜎, allora anche 𝜎 è ammissibile. 3. Se la topologia 𝜏 è propria e 𝜎 è ammissibile, allora 𝜏 ⪯ 𝜎. 4. Su 𝐶(𝑋, 𝑌 ) esiste al più una topologia che sia contemporaneamente propria e ammissibile.
Dimostrazione. 1. Ricordiamo che l’applicazione Λ è definita in 𝐶(𝑍 × 𝑋, 𝑌 ) e a valori in (𝐶(𝑋, 𝑌 ))𝑍 . A una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑍 × 𝑋 → 𝑌 essa associa Λ(𝑓 ) ∶ 𝑍 → 𝐶(𝑋, 𝑌 ), con Λ(𝑓 )(𝑧) ∶= 𝑓 (𝑧, ⋅). È chiaro che se, per una certa topologia 𝜏 su 𝐶(𝑋, 𝑌 ), le funzioni Λ(𝑓 ) sono continue, esse rimangono tali se indeboliamo la topologia 𝜏 (cfr. pag. 43). 2. Utilizzando il lemma precedente, consideriamo l’applicazione Λ−1 . Ricordiamo che l’applicazione Λ−1 è definita in 𝐶(𝑍, 𝐶(𝑋, 𝑌 )) ed ha valori in 𝑌 𝑍×𝑋 . A una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑍 → 𝐶(𝑋, 𝑌 ), essa associa la funzione Λ−1 (𝑔) ∶ 𝑍 × 𝑋 → 𝑌 , con Λ−1 (𝑔)(𝑧, 𝑥) ∶= 𝑔𝑧 (𝑥), dove 𝑔𝑧 ∶= 𝑔(𝑧). Supponiamo che una certa topologia 𝜏 sia ammissibile; ossia, per ogni 𝑔 ∶ 𝑍 → 𝐶(𝑋, 𝑌 ), Λ−1 (𝑔) è continua. Se ora è 𝜏 ⪯ 𝜎 e 𝑔 ∶ 𝑍 → 𝐶(𝑋, 𝑌 ), è continua rispetto alla topologia 𝜎 di 𝐶(𝑋, 𝑌 ), essa è anche continua rispetto alla topologia 𝜏 e quindi, per ipotesi, Λ−1 (𝑔) è ancora continua. 3. Siano 𝐶1 lo spazio delle funzioni continue da 𝑋 a 𝑌 dotato di una topologia propria 𝜏 e 𝐶2 lo spazio delle funzioni continue da 𝑋 a 𝑌 dotato di una topologia ammissibile 𝜎. Consideriamo come spazio 𝑍 lo spazio 𝐶2 . Poiché la topologia 𝜎 è ammissibile, per ogni 𝑔 ∶ 𝑍 = 𝐶2 → 𝐶2 , l’applicazione ℎ ∶= Λ−1 (𝑔) ∶ 𝐶2 × 𝑋 → 𝑌 è continua. Poiché la topologia 𝜏 è propria, ne segue che Λ(ℎ) ∶ 𝑍 = 𝐶2 → 𝐶1 è continua. Se ora prendiamo come 𝑔 l’identità
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in 𝐶(𝑋, 𝑌 ), si ha che Λ(Λ−1 (𝑔)) ∶ 𝐶2 → 𝐶1 è continua. La tesi è raggiunta se verifichiamo che quest’ultima funzione è l’identità. Infatti, per 𝑍 ∶= 𝐶2 e 𝑔 ∶ 𝐶2 → 𝐶2 l’identità, preso un arbitrario elemento 𝑧 = 𝜑 ∈ 𝐶2 = 𝑍, si ha 𝑔𝑧 = 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑌 , per cui 𝑔𝑧 (𝑥) = 𝜑(𝑥). Risulta che ℎ ∶= Λ−1 (𝑔) ∶ 𝐶2 × 𝑋 → 𝑌 è la mappa che alla coppia (𝜑, 𝑥) associa 𝜑(𝑥). Ora, ℎ ∶ 𝐶2 × 𝑋 → 𝑌 determina la funzione Λ(ℎ) ∶ 𝐶2 → 𝐶1 definita da 𝑘 ∶= Λ(ℎ)(𝜑) ∶ 𝑋 → 𝑌 è tale che 𝑘(𝑥) = 𝜑(𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝑋. Si conclude così che è Λ(ℎ)(𝜑) = 𝜑, ∀𝜑 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Abbiamo così dimostrato che Λ(Λ−1 (𝑔)) è l’identità. 4. Segue immediatamente dalla 3.
Vogliamo analizzare qual è la posizione di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) in questo contesto. Vedremo che essa è sempre propria ma non sempre ammissibile. Questo fatto è intuitivamente abbastanza ragionevole, alla luce del teorema precedente, dato che più una topologia è debole, più facilmente risulta propria e, di conseguenza, è meno probabile che sia ammissibile; notoriamente, quella della convergenza puntuale è una topologia debole. Cominciamo con la prima proprietà. Proposizione 12.48. Quali che siano gli spazi 𝑋 e 𝑌 , la topologia della convergenza puntuale di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è propria.
Dimostrazione. Dati tre spazi topologici non vuoti 𝑋, 𝑌 , 𝑍, dotiamo 𝐶(𝑋, 𝑌 ) della topologia della convergenza puntuale. Sia ancora 𝑓 ∶ 𝑍 × 𝑋 → 𝑌 una funzione continua arbitraria. Per definizione si ha Λ(𝑓 ) ∶ 𝑍 → 𝐶(𝑋, 𝑌 ) ⊆ 𝑌 𝑋 . Poiché 𝑌 𝑋 è uno spazio prodotto, risulta che Λ(𝑓 ) è continua se e solo se la sua composta con una qualunque proiezione 𝑝𝑥 ∶ 𝑌 𝑋 → 𝑌 è continua. Ma ciò è vero, dato che si ha 𝑝𝑥 ∘ Λ(𝑓 ) = 𝑓 (𝑧, 𝑥). Mostriamo con un esempio che la topologia della convergenza puntuale di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) non è sempre ammissibile.
Esempio 12.49. Siano 𝑋 = 𝑌 ∶= 𝐼 = [0, 1] con la topologia euclidea e consideriamo lo spazio 𝐶𝑝 (𝐼, 𝐼). Sia, come detto sopra, Ψ ∶ 𝐶𝑝 (𝐼, 𝐼) × 𝐼 → 𝐼 definita da Ψ(𝑓 , 𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥). Osserviamo che tale applicazione non è continua. A tale scopo, fissiamo come 𝑓0 la funzione nulla e sia 𝑥0 ∶= 0. Fissiamo, inoltre, l’aperto 𝑉 ∶= [0, 1/2[ che è un intorno di Ψ(𝑓0 , 0). Supponiamo, per assurdo, che nello spazio prodotto esista un intorno di base 𝑊 ∶= 𝑈 × [0, 𝛿[ di (𝑓0 , 0), con 𝑈 intorno di base di 𝑓0 , tale che Ψ(𝑊 ) ⊆ 𝑉 . Sono quindi dati un 𝜀 > 0 e un numero finito di punti 𝑧1 , … , 𝑧𝑘 ∈ 𝐼 tali che 𝑈 ∶= {𝑔 ∈ 𝐶𝑝 (𝐼, 𝐼) ∶ 𝑔(𝑧𝑖 ) < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑘}} .
Non sarà restrittivo, passando eventualmente a un intorno più piccolo, supporre 𝑧1 ∶= 0 e 𝑘 ≥ 2. Risulta quindi ben definito il punto 𝑧∗ ∶= min {𝑧𝑘 ∶ 𝑘 > 1}. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , consideriamo la funzione 𝑔𝑛 ∈ 𝐶𝑝 (𝐼, 𝐼) definita da 𝑔𝑛 (𝑥) ∶= 2𝑛𝑥/(1 + 𝑛2 𝑥2 ). Tutte queste funzioni si annullano in 0, valgono 1 in 1/𝑛 e sono strettamente decrescenti in [1/𝑛, 1]. Possiamo prendere 𝑛 sufficientemente
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grande in modo che risulti 1/𝑛 < 𝛿 e 2𝑛𝑧∗ /(1 + 𝑛2 𝑧2∗ ) < 𝜀. Per tali 𝑛, si ha (𝑔𝑛 , 1/𝑛) ∈ 𝑊 . D’altra parte, Ψ(𝑔𝑛 , 1/𝑛) = 1 ∉ 𝑉 , contro l’ipotesi Ψ(𝑊 ) ⊆ 𝑉 . ◁ Identificando uno spazio 𝑋 con quello delle funzioni continue da un singoletto a 𝑋, dall’esempio precedente, si ottiene il seguente che fornisce un caso in cui la mappa di composizione Φ non è continua.
Esempio 12.50. Siano 𝑋 ∶= {𝑢}, 𝑌 = 𝑍 ∶= 𝐼 = [0, 1], con la topologia euclidea e consideriamo gli spazi 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) omeomorfo a 𝐼 e 𝐶𝑝 (𝑌 , 𝑍) = 𝐶𝑝 (𝐼, 𝐼). La mappa di composizione Φ ∶ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) × 𝐶(𝑌 , 𝑍) → 𝐶(𝑋, 𝑍) definita da Φ(𝑓 , 𝑔) ∶= 𝑔 ∘ 𝑓 , nel nostro caso, si può identificare con l’applicazione che a una qualunque coppia (𝑦, 𝑔) ∈ 𝐼 × 𝐶𝑝 (𝐼, 𝐼) associa l’elemento 𝑔(𝑦) ∈ 𝐼; infatti 𝐼 è omeomorfo a 𝐶({𝑢}, 𝐼). A meno dell’inversione dei fattori del dominio, questa è la mappa Ψ considerata nell’esempio precedente che abbiamo visto non essere continua. ◁ Un risultato che garantisce la continuità della mappa di composizione è il seguente:
Teorema 12.51. Siano dati tre spazi topologici non vuoti 𝑋, 𝑌 , 𝑍. Se le topologie di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) e 𝐶(𝑌 , 𝑍) sono ammissibili e quella di 𝐶(𝑋, 𝑍) è propria, allora l’applicazione di composizione Φ è continua.
Dimostrazione. Per definizione, una topologia su 𝐶(𝐴, 𝐵) è ammissibile se la mappa di valutazione Ψ ∶ 𝐶(𝐴, 𝐵) × 𝐴 → 𝐵, definita da Ψ(ℎ, 𝑎) ∶= ℎ(𝑎) è continua. Nel nostro caso, prendendo 𝐴 ∶= 𝑌 e 𝐵 ∶= 𝑍, e usando il fatto che 𝐶(𝑌 , 𝑍) è ammissibile, otteniamo che l’applicazione che a una coppia (𝑔, 𝑦) associa 𝑔(𝑦) è continua. Analogamente, prendendo 𝐴 ∶= 𝑋 e 𝐵 ∶= 𝑌 , e usando il fatto che 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è ammissibile, otteniamo che l’applicazione che a una coppia (𝑓 , 𝑥) associa 𝑓 (𝑥) è continua. Ne viene che l’applicazione 𝜑0 che a una terna (𝑓 , 𝑔, 𝑥) ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) × 𝐶(𝑌 , 𝑍) × 𝑋 associa 𝑔(𝑓 (𝑥)) è continua. Ricordiamo ora il concetto di topologia propria. Dati due spazi 𝑈 , 𝑉 , si ha che la topologia di 𝐶(𝑈 , 𝑉 ) è propria se, per ogni spazio 𝑊 e ogni funzione 𝜑 ∈ 𝐶(𝑊 × 𝑈 , 𝑉 ), la mappa Λ(𝜑) ∶ 𝑊 → 𝐶(𝑈 , 𝑉 ) è continua, dove Λ(𝜑)(𝑤) ∶= 𝜑(𝑤, ⋅). A questo punto poniamo 𝑈 ∶= 𝑋, 𝑉 ∶= 𝑍 e usiamo l’ipotesi che 𝐶(𝑋, 𝑍) sia dotato di topologia propria. Prendendo come 𝑊 lo spazio 𝐶(𝑋, 𝑌 ) × 𝐶(𝑌 , 𝑍), e considerando la funzione 𝜑 ∶= 𝜑0 introdotta precedentemente e che sappiamo essere continua, concludiamo che Λ(𝜑0 ) ∶ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) × 𝐶(𝑌 , 𝑍) → 𝐶(𝑋, 𝑍)
è continua. Ora, per definizione, dato un elemento 𝑤 ∶= (𝑓 , 𝑔) ∈ 𝑊 , si ha Λ(𝜑0 )(𝑤) = 𝜑0 (𝑤, ⋅) = 𝑔(𝑓 (⋅)). Quindi Λ(𝜑0 ) ∶ (𝑓 , 𝑔) ↦ 𝑔 ∘ 𝑓 . Dalla continuità di Λ(𝜑0 ) segue la tesi.
12.2. La topologia della convergenza uniforme
639
12.2 La topologia della convergenza uniforme Concluso lo studio di alcune proprietà relative alla topologia della convergenza puntuale, passiamo ad esporre il caso della convergenza uniforme. Per definire sia la convergenza puntuale che quella uniforme, non è necessario supporre alcuna struttura per l’insieme dominio comune per le funzioni considerate. Sia quindi 𝑋 un qualunque insieme non vuoto e indichiamo con ℱ𝑏 (𝑋) l’insieme delle funzioni limitate di 𝑋 in ℝ (Cfr. Esempio 4.11). Come già visto, in ℱ𝑏 (𝑋) si può introdurre la norma lagrangiana ‖𝑓 ‖∞ ∶= sup {|𝑓 (𝑥)| ∶ 𝑥 ∈ 𝑋}
(12.5)
che induce la corrispondente distanza lagrangiana. Il Teorema 3.55 garantisce che lo spazio ℱ𝑏 (𝑋) con la norma suddetta è completo e quindi di Banach. Se poi anche 𝑋 è uno spazio topologico, possiamo considerare lo spazio 𝐶 ∗ (𝑋) = 𝐶𝑏 (𝑋) delle funzioni continue e limitate sempre da 𝑋 in ℝ. Questo è un sottospazio completo del precedente come dimostrato nella seconda parte dallo stesso teorema. Ovviamente, la norma lagrangiana induce su ℱ𝑏 (𝑋) e su 𝐶 ∗ (𝑋) la convergenza uniforme. È naturale chiedersi cosa succede se togliamo l’ipotesi che le funzioni siano limitate. In questo caso, la (12.5) non definisce più una norma, in quanto può “assumere valore infinito”. Ciononostante, si può ancora parlare di convergenza uniforme e definire un’opportuna topologia per lo spazio ℝ𝑋 (nel caso in cui 𝑋 sia un insieme arbitrario) o, rispettivamente, per lo spazio 𝐶(𝑋) (nel caso in cui 𝑋 sia uno spazio topologico). Definizione 12.52. Data 𝑓0 ∈ ℝ𝑋 definiamo, per ogni 𝜀 > 0,
𝑈 (𝑓0 , 𝜀) ∶= {𝑓 ∈ ℝ𝑋 ∶ |𝑓 (𝑥) − 𝑓0 (𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋 } .
◁
La famiglia degli 𝑈 (𝑓0 , 𝜀) costituisce una base locale di intorni (aperti) e resta così ben individuata una topologia detta della convergenza uniforme (cfr. Esempio 6.14). La verifica è lasciata per esercizio. Prendendo come 𝜀 i numeri del tipo 1/𝑛 con 𝑛 ∈ ℕ+ , si ottiene una base numerabile di intorni di 𝑓0 . Gli spazi di funzioni ℝ𝑋 e 𝐶(𝑋) sono quindi 𝐴1 e, pertanto, di Fréchet (Cfr. Teorema 2.57). In altri termini, 𝑔 ∈ cl 𝐴, con 𝐴 ⊂ ℝ𝑋 se e solo se esiste una successione (𝑔𝑛 )𝑛 , con 𝑔𝑛 ∈ 𝐴, ∀𝑛, convergente uniformemente a 𝑔. Dal Teorema 9.29 segue ora immediatamente che il sottospazio 𝐶(𝑋) è chiuso in ℝ𝑋 rispetto alla topologia della convergenza uniforme. Osservazione 12.53. Ci si può chiedere se anche per la topologia 𝜏𝑢 della convergenza uniforme valgono proprietà analoghe a quanto visto nel Lemma 12.1 e nel Corollario 12.2 riguardo alla topologia 𝜏𝑝 della convergenza puntuale. Il lettore può facilmente verificare che la topologia 𝜏𝑢 è di Hausdorff. Con dimostrazione analoga a quella del Lemma 12.1, si può altresì vedere che l’applicazione 𝜎 ∶ ℝ𝑋 × ℝ𝑋 → ℝ𝑋 che alle funzioni 𝑓 , 𝑔 ∈ ℝ𝑋 associa la funzione
12.2. La topologia della convergenza uniforme
640
𝑓 + 𝑔 ∈ ℝ𝑋 è continua rispetto a 𝜏𝑢 . Similmente, si verifica che anche l’applicazione 𝜌 ∶ ℝ × ℝ𝑋 → ℝ𝑋 che alla coppia (𝑘, 𝑓 ), con 𝑘 ∈ ℝ e 𝑓 ∈ ℝ𝑋 associa la funzione 𝑘𝑓 ∈ ℝ𝑋 è continua purché sia 𝑘 ≠ 0. Tuttavia l’applicazione 𝜌 non è, in generale, continua nel caso 𝑘 = 0, dato che in questi spazi ci possono essere funzioni illimitate. Quindi, in generale gli spazi vettoriali (ℝ𝑋 , 𝜏𝑢 ) e (𝐶(𝑋), 𝜏𝑢 ) non sono SVT. ◁ Sappiamo già dai Corsi elementari di Analisi che una successione di funzioni che sia uniformemente convergente è tale anche puntualmente mentre, in generale, non sussiste l’implicazione opposta. Ciò porta a dire che: La topologia della convergenza uniforme è sempre più fine di quella della convergenza puntuale. Il lettore verifichi questo fatto per ℝ𝑋 e 𝐶(𝑋) usando le definizioni di intorni per le due topologie. Osserviamo inoltre che, se 𝑋 è finito, le due topologie coincidono mentre, se 𝑋 è infinito, esse sono di regola diverse. Esempio 12.54. Sia 𝑋 un insieme infinito e indichiamo con 𝜏𝑝 e 𝜏𝑢 le topologie della convergenza puntuale e, rispettivamente, uniforme di ℝ𝑋 . Sia ℰ l’insieme delle funzioni di ℝ𝑋 la cui immagine è contenuta in {0, 1} e che assumono il valore 0 su un sottoinsieme finito di 𝑋. È chiaro che la funzione nulla appartiene alla chiusura di ℰ in 𝜏𝑝 , ma non in 𝜏𝑢 . ◁
In questo contesto, potrebbe essere utile ricordare anche la box topology introdotta nell’Osservazione 6.7 e discussa anche nell’Esempio 6.14. Se in ℝ𝑋 o in 𝐶(𝐸) si introduce questa topologia, essa risulta più fine di quella uniforme e, pur coincidendo con essa nel caso in cui 𝑋 sia finito, in generale è strettamente più fine (Cfr. pag. 276). Analogamente al caso della topologia della convergenza puntuale, una domanda naturale è se (𝐶(𝑋), 𝜏𝑢 ) gode di qualche forma di completezza. Vedremo che il nostro spazio è sempre metrizzabile e completo (e quindi Čech-completo). Si noti la sostanziale differenza con lo spazio (𝐶(𝑋), 𝜏𝑝 ) che risulta metrizzabile se e solo se 𝑋 è numerabile (cfr. Corollario 12.5). Il fatto che (𝐶(𝑋), 𝜏𝑢 ) sia metrizzabile seguirà come corollario di un fatto più generale che riguarda gli spazi del tipo 𝐶(𝑋, 𝑌 ) con 𝑌 spazio metrico. Siano 𝑋 un insieme non vuoto e (𝑌 , 𝑑) uno spazio metrico. Date 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝑌 𝑋 , ricordiamo che la distanza lagrangiana fra 𝑓 e 𝑔 è definita da 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) ∶= sup {𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑔(𝑥)) ∶ 𝑥 ∈ 𝑋} .
Come già osservato (cfr. pag. 111) tale estremo superiore potrebbe anche essere infinito e quindi 𝑑∞ non è una distanza. A suo tempo, avevamo considerato i sottospazi di 𝑌 𝑋 costituiti dalle funzioni limitate e, rispettivamente, dalle funzioni continue e limitate quando 𝑋 sia uno spazio topologico. Denotati questi sottospazi con ℱ𝑏 (𝑋, 𝑌 ) e 𝐶 ∗ (𝑋, 𝑌 ) = 𝐶𝑏 (𝑋, 𝑌 ), si è visto che in essi 𝑑∞ è una metrica che li rende completi quando (𝑌 , 𝑑) è completo (cfr. Teorema 3.56). Consideriamo ora funzioni anche non limitate e, seguendo la precedente Definizione 12.52, introduciamo una base locale di intorni in 𝑌 𝑋 , nel seguente modo.
12.2. La topologia della convergenza uniforme Definizione 12.55. Data 𝑓0 ∈ 𝑌 𝑋 definiamo, per ogni 𝜀 > 0,
𝑈 (𝑓0 , 𝜀) ∶= {𝑓 ∈ 𝑌 𝑋 ∶ 𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑓0 (𝑥)) < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋 } .
641
◁
Come nel caso (𝑌 , 𝑑) = (ℝ, 𝑑2 ), si ha ancora che gli insiemi del tipo 𝑈 (𝑓0 , 𝜀) costituiscono una base di intorni per una topologia che risulta di Hausdorff e 𝐴1 ; la chiameremo topologia della convergenza uniforme e la indicheremo ancora con 𝜏𝑢 . Gli insiemi ℱ𝑏 (𝑋, 𝑌 ) e 𝐶 ∗ (𝑋, 𝑌 ) sono, rispettivamente, sottoinsiemi di 𝑌 𝑋 e 𝐶(𝑋, 𝑌 ) ed ereditano quindi la topologia 𝜏𝑢 di questi spazi. Si vede subito che, su ciascuno dei due insiemi, la topologia così ereditata coincide con quella indotta dalla distanza 𝑑∞ . ∗ A questo punto, consideriamo l’applicazione 𝑑∞ ∶ 𝑌 𝑋 × 𝑌 𝑋 → ℝ definita dal troncamento ∗ 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) ∶= min{1, 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔)}. ∗ È immediato verificare (Esercizio!) che la 𝑑∞ è una distanza in 𝑌 𝑋 che genera ancora la topologia 𝜏𝑢 .
Teorema 12.56. 1. Siano 𝑋 un insieme non vuoto e (𝑌 , 𝑑) uno spazio ∗ metrico. Lo spazio metrico (𝑌 𝑋 , 𝑑∞ ) è completo se e solo se 𝑌 è completo. ∗ 2. Se 𝑋 è uno spazio topologico, (𝐶(𝑋, 𝑌 ), 𝑑∞ ) è un sottospazio chiuso di 𝑋 ∗ (𝑌 , 𝑑∞ ) e quindi e completo quando 𝑌 è completo. Dimostrazione. 1. Supponiamo intanto (𝑌 , 𝑑) completo. Sia (𝑓𝑛 )𝑛 una successione di Cauchy in 𝑌 𝑋 . Dunque, per ogni 𝜀 > 0 esiste un 𝑛 ̂ ∈ ℕ tale che, ∗ per ogni 𝑛, 𝑚 ∈ ℕ, da 𝑛 > 𝑛 ̂ e 𝑚 > 𝑛 ̂ segue 𝑑∞ (𝑓𝑛 , 𝑓𝑚 ) < 𝜀. Non è restrittivo prendere 𝜀 < 1, per cui 𝑑∞ (𝑓𝑛 , 𝑓𝑚 ) < 𝜀 e quindi 𝑑(𝑓𝑛 (𝑥), 𝑓𝑚 (𝑥)) < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Ciò comporta che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, la successione (𝑓𝑛 (𝑥))𝑛 è di Cauchy in 𝑌 . Per la completezza di 𝑌 , essa converge a un elemento 𝑔(𝑥) ∈ 𝑌 . Si ottiene così una funzione limite 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Resta da controllare che la convergenza delle 𝑓𝑛 a 𝑔 è uniforme. Per ipotesi, si ha che, per ogni 𝜀 ∈ ]0, 1], esiste un 𝑛 ̄ ∈ ℕ tale che, ∗ per ogni 𝑛, 𝑚 ∈ ℕ, da 𝑛 > 𝑛 ̄ e 𝑚 > 𝑛 ̄ segue 𝑑∞ (𝑓𝑛 , 𝑓𝑚 ) < 𝜀/2. Dall’essere, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝑑(𝑓𝑛 (𝑥), 𝑓𝑚 (𝑥)) < 𝜀/2, fissando 𝑛 e facendo tendere 𝑚 all’infinito, si ot∗ tiene 𝑑(𝑓𝑛 (𝑥), 𝑔(𝑥)) ≤ 𝜀/2 < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋 e quindi 𝑑∞ (𝑓𝑛 , 𝑔) = 𝑑∞ (𝑓𝑛 , 𝑔) ≤ 𝜀/2 < 𝜀. Si è così provato il carattere uniforme della convergenza. ∗ Viceversa, supponiamo che (𝑌 𝑋 , 𝑑∞ ) sia completo e fissiamo una successione di Cauchy (𝑦𝑛 )𝑛 in 𝑌 . Per ogni 𝑛, 𝑦𝑛 può essere pensato come una funzione costante 𝑦𝑛̂ . La successione (𝑦𝑛̂ )𝑛 è chiaramente di Cauchy in 𝑌 𝑋 e quindi convergente, per ipotesi, a una funzione 𝑔 ̂ ∶ 𝑋 → 𝑌 necessariamente costante. Posto 𝑦 ̂ ∶= 𝑔(𝑥), ̂ ∀𝑥 ∈ 𝑋, si ottiene subito che la successione di partenza converge a 𝑦.̂ 2. Basta dimostrare che 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è chiuso in 𝑌 𝑋 (cfr. Lemma 3.79). Poiché, come si è visto nel punto 1, nelle dimostrazioni ci si riduce a considerare la distanza 𝑑∞ (prendendo 𝜀 < 1), la dimostrazione diventa la stessa di quella dei Teoremi 3.55 e 3.56.
12.2. La topologia della convergenza uniforme
642
Corollario 12.57. Lo spazio 𝐶𝑢 (𝑋) ∶= (𝐶(𝑋), 𝜏𝑢 ) è metrizzabile con una distanza che lo rende completo ed è quindi perfettamente normale, Čech-completo e di Baire. La dimostrazione segue immediatamente dal teorema precedente e dai Teoremi 3.44, 11.69, 11.49. Dalla metrizzabilità di 𝐶𝑢 (𝑋) ritroviamo il fatto che esso è 𝐴1 . Sappiamo dal Teorema 7.21 che negli spazi metrici la separabilità equivale alla proprietà di Lindelöf e all’essere secondo numerabile. Ci si chiede se 𝐶𝑢 (𝑋) è 𝐴2 . La risposta è affermativa se 𝑋 è finito mentre, nel caso contrario è generalmente negativa. Se 𝑋 è finito, ℝ𝑋 coincide con ℱ𝑏 (𝑋) e, analogamente, 𝐶(𝑋) coincide con ∗ 𝐶 (𝑋). D’altra parte, ℱ𝑏 (𝑋) è equivalente (isomorfo e isometrico) a (ℝ𝑁 , ‖⋅‖∞ ), per un opportuno 𝑁 ∈ ℕ, che è 𝐴2 . A questo punto, 𝐶 ∗ (𝑋) risulta un sottospazio di (ℝ𝑁 , ‖⋅‖∞ ) ed è quindi anch’esso 𝐴2 . Lemma 12.58. Sia (𝐸, 𝜏) uno spazio topologico 𝐴2 . Ogni base di aperti in 𝐸 contiene un sottoinsieme numerabile che è ancora una base di aperti.
Dimostrazione. Sia ℬ ∶= {𝐵𝑛 }𝑛 una base numerabile di aperti di 𝐸 e fissiamo una qualunque base di aperti 𝒜 . Ogni 𝐵𝑘 ∈ ℬ contiene un 𝐴 ∈ 𝒜 che, a sua volta, contiene un 𝐵𝑚 . In tal caso, diremo che la coppia (𝑚, 𝑘) è ammissibile. Per ogni coppia ammissibile (𝑚, 𝑘), scegliamo un aperto 𝐴′ ∶= 𝐴𝑚,𝑘 tale che 𝐵𝑚 ⊆ 𝐴𝑚,𝑘 ⊆ 𝐵𝑘 . La famiglia 𝒜 ′ degli 𝐴𝑚,𝑘 così definita è chiaramente numerabile ed è una sottofamiglia di 𝒜 ; basterà verificare che essa è una base. Siano 𝑈 un aperto non vuoto di 𝐸 e 𝑥 ∈ 𝑈 . Esiste un 𝐵𝑘 ∈ ℬ tale che 𝑥 ∈ 𝐵𝑘 ⊆ 𝑈 . Esiste anche un 𝐴 ∈ 𝒜 tale che 𝑥 ∈ 𝐴 ⊆ 𝐵𝑘 . Iterando ancora il procedimento, si ha che esiste un 𝐵𝑚 ∈ ℬ tale che 𝑥 ∈ 𝐵𝑚 ⊆ 𝐴 ⊆ 𝐵𝑘 . Quindi la coppia (𝑚, 𝑘) è ammissibile e, per costruzione, esiste una 𝐴′ = 𝐴𝑚,𝑘 ∈ 𝒜 ′ tale che 𝑥 ∈ 𝐵𝑚 ⊆ 𝐴 ′ ⊆ 𝐵 𝑘 . Esempio 12.59. Lo spazio 𝐶𝑢 (ℕ), con ℕ dotato della topologia discreta, non è 𝐴2 . Supponiamo, per assurdo che 𝐶𝑢 (ℕ) sia secondo numerabile e indichiamo con ℬ ∶= {𝐵𝑛 }𝑛 una sua base numerabile. Osserviamo, d’altronde, che la famiglia 𝒰 ∶= {𝑈 (𝑓 , 1/𝑛) ∶ 𝑓 ∈ 𝐶(ℕ), 𝑛 ∈ ℕ+ } (cfr. Definizione 12.55) è anch’essa una base di aperti per la topologia 𝜏𝑢 . Per il lemma precedente, 𝒰 contiene una base numerabile 𝒰 ′ . Ciò equivale a prendere una successione (𝑓𝑘 )𝑘 di funzioni in 𝐶(ℕ) in modo che risulti 𝒰 ′ ⊆ 𝒰 ″ ∶= {𝑈 (𝑓𝑘 , 1/𝑛) ∶ 𝑘 ∈ ℕ, 𝑛 ∈ ℕ+ } .
Si noti che anche 𝒰 ″ è una base numerabile di aperti. Data la successione (𝑓𝑘 )𝑘 , consideriamo la seguente funzione 𝑔 ∶ ℕ → ℝ definita da 𝑔(𝑛) ∶= 𝑓𝑛 (𝑛) + 2. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, si ha, per costruzione, 𝑑∞ (𝑔, 𝑓𝑛 ) ≥ 2. Ciò comporta che nessun aperto di 𝒰 ″ è contenuto nell’intorno aperto di centro 𝑔 e raggio 1. Ovviamente la 𝑔 è continua, dato che in ℕ c’è la topologia discreta. ◁
12.2. La topologia della convergenza uniforme
643
Ricordiamo che una topologia sullo spazio 𝐶(𝑋, 𝑌 ), con 𝑋, 𝑌 spazi topologici arbitrari, è detta ammissibile se l’applicazione Ψ ∶ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) × 𝑋 → 𝑌 definita da Ψ(𝑓 , 𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥) è continua (cfr. pag. 635).
Proposizione 12.60. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e (𝑌 , 𝑑) uno spazio metrico. La topologia 𝜏𝑢 della convergenza uniforme su 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è ammissibile. Dimostrazione. Fissiamo 𝑓0 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), 𝑥0 ∈ 𝑋 e prendiamo un intorno 𝑉 di 𝑓0 (𝑥0 ) ∈ 𝑌 . Siccome 𝑌 è uno spazio metrico, possiamo prendere 𝑉 ∶= 𝐵(𝑓0 (𝑥0 ), 𝜀), con 𝜀 < 1. Sia ora 𝐴 l’intorno aperto di 𝑓0 in 𝐶𝑢 (𝑋, 𝑌 ) definito da 𝐴 ∶= {𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) ∶ 𝑑∞ (𝑓 , 𝑓0 ) < 𝜀/2}. Dunque, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, si ha 𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑓0 (𝑥)) < 𝜀/2. Siccome 𝑓0 è continua in 𝑥0 esiste un intorno aperto 𝐵 di 𝑥0 tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐵, si ha 𝑑(𝑓0 (𝑥), 𝑓0 (𝑥0 )) < 𝜀/2. Poniamo, in fine, 𝑈 ∶= 𝐴 × 𝐵 e proviamo che è Ψ(𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Infatti, per ogni (𝑓 , 𝑥) ∈ 𝑈 , si ha 𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑓0 (𝑥0 )) ≤ 𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑓0 (𝑥)) + 𝑑(𝑓0 (𝑥), 𝑓0 (𝑥0 )) < 2
𝜀 = 𝜀. 2
Ricordiamo anche che una topologia sullo spazio 𝐶(𝑋, 𝑌 ), con 𝑋, 𝑌 spazi topologici arbitrari, è detta propria se, per ogni spazio 𝑍 e qualunque 𝑓 ∈ 𝐶(𝑍 × 𝑋, 𝑌 ), si ha che Λ(𝑓 ) ∈ 𝐶(𝑍, 𝐶(𝑋, 𝑌 )), dove l’applicazione Λ a una funzione 𝑓 ∶ 𝑍 × 𝑋 → 𝑌 associa Λ(𝑓 ) ∶ 𝑍 → 𝑌 𝑋 che è la mappa che a un elemento 𝑧 ∈ 𝑍 associa la funzione 𝑓 (𝑧, ⋅) (cfr. pag. 635). Mostriamo con un esempio, che la topologia della convergenza uniforme di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) non è sempre propria. Esempio 12.61. Siano 𝑋 = 𝑌 = 𝑍 ∶= ℝ e prendiamo 𝑓 ∈ 𝐶(ℝ2 , ℝ) definita da 𝑓 (𝑧, 𝑥) ∶= 𝑧𝑥. La mappa Λ(𝑓 ) è quella che a 𝑧 ∈ ℝ associa la funzione 𝑓𝑧 ∶ 𝑋 → 𝑌 definita da 𝑓𝑧 (𝑥) ∶= 𝑧𝑥. Osserviamo che 𝑓0 è la funzione nulla. Se 𝐶(ℝ) è dotato della topologia 𝜏𝑢 , un intorno 𝑉 di 𝑓0 è dato da tutte le funzioni continue 𝑔 ∶ ℝ → ℝ tali che |𝑔(𝑥)| < 1, ∀𝑥 ∈ ℝ. Ora, fissato 𝑧 ∈ ℝ ⧵ {0}, la funzione 𝑓𝑧 ∶ ℝ → ℝ è illimitata e non può quindi appartenere a 𝑉 . ◁
Riassumendo, si ha che la topologia della convergenza puntuale in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è propria ma non sempre ammissibile (cfr. Proposizione 12.48 ed Esempio 12.49), mentre abbiamo appena visto che la topologia della convergenza uniforme su 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è ammissibile ma non sempre propria. Ciò è coerente con il Teorema 12.47, dato che 𝜏𝑢 è più fine di 𝜏𝑝 . Nell’esempio 12.50 si è mostrato che la mappa di composizione Φ ∶ 𝐶(𝑋, 𝑌 )×𝐶(𝑌 , 𝑍) → 𝐶(𝑋, 𝑍) definita da Φ(𝑓 , 𝑔) ∶= 𝑔 ∘ 𝑓 , non è sempre continua rispetto alla topologia della convergenza puntuale. Mostriamo ora con un esempio che accade lo stesso anche rispetto a quella della convergenza uniforme. Esempio 12.62. Siano 𝑋 = 𝑌 = 𝑍 ∶= ℝ e prendiamo 𝑓 ∈ 𝐶(ℝ, ℝ) definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥 e 𝑔 ∈ 𝐶(ℝ, ℝ) definita da 𝑔(𝑦) ∶= 𝑦2 . La funzione composta 𝑔 ∘ 𝑓 ∈ 𝐶(ℝ, ℝ) è ancora definita da (𝑔 ∘ 𝑓 )(𝑥) ∶= 𝑥2 . Poniamo 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 𝑥 + 1/𝑛 e 𝑔𝑛 (𝑦) ∶= 𝑦2 − 1/𝑛2 . Risulta 𝑓𝑛 → 𝑓 e 𝑔𝑛 → 𝑔 in 𝜏𝑢 , mentre si ha 𝑔𝑛 (𝑓𝑛 (𝑥)) = ∗ 𝑥2 + 2𝑥/𝑛, per cui 𝑑∞ (𝑔𝑛 ∘ 𝑓𝑛 , 𝑔 ∘ 𝑓 ) = 1. ◁
12.2. La topologia della convergenza uniforme
644
Il concetto di convergenza uniforme è di particolare importanza per le applicazioni all’Analisi Matematica. In questa direzione, due risultati di particolare interesse e di grande applicabilità nei contesti più disparati sono il Teorema di Approssimazione di Stone-Weierstrass e il Teorema di compattezza di AscoliArzelà. Il primo di questi due teoremi riguarda l’approssimabilità rispetto alla topologia della convergenza uniforme di tutte le funzioni continue a valori reali mediante funzioni di tipo speciale. La prima versione di questo teorema fu dimostrata da Karl Weierstrass nel 1885 nella seguente forma:
Proposizione 12.63. Sia 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏] un intervallo compatto di ℝ. Allora, per ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝐼 → ℝ, esiste una successione (𝑃𝑛 )𝑛 di polinomi che converge a 𝑓 uniformemente su 𝐼.
Tale risultato fu generalizzato da Marshall Stone nel 1937, nell’ambito degli spazi 𝐶𝑢 (𝑋), con 𝑋 compatto di Hausdorff. Ovviamente, data la generalità di 𝑋, non si potrà più parlare di polinomi e, pertanto, bisognerà trovare una classe di funzioni “speciali” in 𝐶𝑢 (𝑋) che in qualche modo sostituiscano quelle polinomiali. Il teorema generale che ne risulta è noto come Teorema di StoneWeierstrass Prima di pervenire a questo risultato, premettiamo un lemma di carattere tecnico. Esistono diverse dimostrazioni di questo lemma; noi presenteremo l’approccio di Engelking in [18]. Lemma 12.64. Sia 𝐼 ∶= [0, 1]. Esiste una successione (𝑃𝑛 )𝑛 di polinomi che converge uniformemente su 𝐼 alla funzione 𝑓 ∶ 𝐼 → ℝ, con 𝑓 (𝑥) ∶= √𝑥, ∀𝑥 ∈ 𝐼. Dimostrazione. L’idea della dimostrazione consiste nel vedere la funzione 𝑓 come il punto fisso di un operatore Φ ∶ 𝐶(𝐼) → 𝐶(𝐼) e, successivamente, in analogia al caso delle contrazioni, definire induttivamente mediante la relazione 𝑃𝑛+1 ∶= Φ(𝑃𝑛 )
(12.6)
una successione convergente al punto fisso nella metrica lagrangiana di 𝐶(𝐼) che è quella della convergenza uniforme. Per concludere, basterà partire da un opportuno polinomio 𝑃0 e verificare che, ad ogni passo, si ottiene ancora un polinomio. Sia dunque Φ ∶ 𝐶(𝐼) → 𝐶(𝐼) l’operatore che a una funzione 𝑢 di 𝐶(𝐼) associa la funzione 𝑣 ∈ 𝐶(𝐼) definita da 1 𝑣(𝑥) ∶= 𝑢(𝑥) + (𝑥 − 𝑢2 (𝑥)), 2
∀𝑥 ∈ 𝐼.
(12.7)
È immediato verificare che la funzione √𝑥 è un punto fisso per Φ ed è l’unico in 𝐶(𝐼). Se scegliamo come funzione di partenza 𝑃0 un polinomio, dalla (12.7) segue che lo schema (12.6) genera una successione di polinomi. Il passo successivo
12.2. La topologia della convergenza uniforme
645
consiste nel verificare che, se una funzione 𝑢 è tale che 0 ≤ 𝑢(𝑥) ≤ √𝑥, ∀𝑥 ∈ 𝐼, allora accade lo stesso per la corrispondente funzione 𝑣. Fissata 𝑢 e osservato che è sempre 𝑣(𝑥) ≥ 0, occupiamoci della seconda diseguaglianza, ovvero che, per ogni 𝑥 ∈ [0, 1], è 1 𝑢(𝑥) + (𝑥 − 𝑢2 (𝑥)) ≤ √𝑥. 2 Con passaggi elementari, si vede che ciò equivale a (√𝑥)2 − (𝑢(𝑥))2 ≤ 2(√𝑥 − 𝑢(𝑥));
√𝑥 + 𝑢(𝑥) ≤ 2.
L’ultima disequazione è certamente vera, dato che in 𝐼 si ha 0 ≤ 𝑢(𝑥) ≤ √𝑥 ≤ 1. A questo punto, dall’espressione (12.7) risulta anche che, se è 0 ≤ 𝑢(𝑥) ≤ √𝑥, allora è 𝑣(𝑥) ≥ 𝑢(𝑥). In conclusione, se partiamo da un qualunque polinomio 𝑃0 , con 0 ≤ 𝑃0 (𝑥) ≤ √𝑥, ∀𝑥 ∈ 𝐼, la successione ottenuta dalla (12.6), è monotona debolmente crescente e limitata superiormente da √𝑥. Come polinomio di partenza si può prendere, per esempio, quello nullo. Puntualmente, la successione (𝑃𝑛 )𝑛 converge a una funzione 𝑤 ∶ 𝐼 → ℝ tale che 0 ≤ 𝑤(𝑥) ≤ √𝑥, ∀𝑥 ∈ 𝐼. Passando al limite puntualmente in ambo i membri della (12.7), si ottiene che 1 𝑤(𝑥) = 𝑤(𝑥) + (𝑥 − 𝑤2 (𝑥)), 2
∀𝑥 ∈ 𝐼,
da cui 𝑤(𝑥) = √𝑥, ∀𝑥 ∈ 𝐼. Per il Teorema di Dini 9.32, abbiamo, in fine, che la convergenza della successione di polinomi (𝑃𝑛 )𝑛 a √𝑥 è uniforme su 𝐼. È immediato che, qualunque sia lo spazio topologico 𝑋, l’insieme 𝐶(𝑋) è un anello commutativo con unità rispetto alle usuali operazioni di somma e prodotto fra funzioni. L’importanza del risultato appena ottenuto, emerge chiaramente dal seguente lemma. Lemma 12.65. Siano 𝑋 uno spazio topologico arbitrario e 𝒜 ⊆ 𝐶(𝑋) un anello di funzioni limitate. Se l’anello 𝒜 contiene le costanti ed è chiuso rispetto alla convergenza uniforme, allora, date due qualunque funzioni 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝒜 , anche 𝑓 ∨ 𝑔 e 𝑓 ∧ 𝑓 stanno in 𝒜 .
Dimostrazione. Poiché 𝒜 è un anello di funzioni che contiene le costanti, se 𝑓 ∈ 𝒜 e 𝑐 ∈ ℝ, allora anche 𝑐𝑓 ∈ 𝒜 . In base alle note formule che esprimono il massimo e il minimo di due funzioni mediante il valore assoluto della differenza, per avere la tesi, basterà verificare che da 𝑓 ∈ 𝒜 segue |𝑓 | ∈ 𝒜 . Poiché tutte le funzioni di 𝒜 sono limitate, basterà verificare che la suddetta proprietà vale per le funzioni 𝑓 ∈ 𝒜 con ‖𝑓 ‖∞ ≤ 1. Sia quindi 𝑓 ∈ 𝒜 tale che |𝑓 (𝑥)| ≤ 1, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Dalla relazione |𝑓 (𝑥)| = √𝑓 2 (𝑥) e dal lemma precedente, si ottiene che |𝑓 (𝑥)| è limite uniforme di una successione di funzioni continue 𝑔𝑛 (𝑥) ∶= 𝑃𝑛 (𝑓 2 (𝑥)), dove 𝑃𝑛 (𝑡) converge uniformemente a √𝑡 su [0, 1]. Siccome, per ipotesi, 𝑓 ∈ 𝒜 , anche
12.2. La topologia della convergenza uniforme
646
𝑃𝑛 (𝑓 2 (⋅)) = 𝑔𝑛 ∈ 𝒜 . Si conclude che esiste una successione (𝑔𝑛 )𝑛 di elementi di 𝒜 che converge uniformemente a |𝑓 | e, poiché l’anello è chiuso rispetto alla convergenza uniforme, si ha che |𝑓 | ∈ 𝒜 . Osservazione 12.66. Analizzando la dimostrazione, si vede che, per ottenere il risultato del lemma precedente, sarebbe sufficiente dimostrare che la funzione valore assoluto è limite uniforme di polinomi sull’intervallo [−1, 1]. Per tale motivo, alcuni Autori sostituiscono il Lemma 12.64 con un analogo risultato del tipo: Sia 𝐼 ∶= [−1, 1]. Esiste una successione (𝑃𝑛 )𝑛 di polinomi che converge uniformemente su 𝐼 alla funzione 𝑓 ∶ 𝐼 → ℝ , con 𝑓 (𝑥) ∶= |𝑥|, ∀𝑥 ∈ 𝐼 . Per dimostrare questo risultato, in [22] e in [70], si usa (come risultato noto) il fatto che, per ogni 𝛼 reale strettamente positivo, la serie binomiale +∞
𝛼 𝑛 𝑡 ∑ (𝑛) 𝑛=0
converge uniformemente in [−1, 1] alla funzione (1 + 𝑡)𝛼 . Usando questo risultato (non banale), gli Autori considerano una successione (𝑄𝑛 )𝑛 di polinomi che converge uniformemente a √1 − 𝑡 sull’intervallo [0, 1]. A questo punto, sostituendo 𝑡 con 1 − 𝑥2 , per 𝑥 ∈ [−1, 1], si ottiene una successione di polinomi (𝑃𝑛 )𝑛 , con 𝑃𝑛 (𝑥) ∶= 𝑄𝑛 (1 − 𝑥2 ), che converge uniformemente a |𝑥| in [−1, 1]. In fine, segnaliamo un ulteriore approccio, ottenuto considerando una classe di polinomi, detti polinomi di Bernstein. Questi polinomi sono ottenuti come combinazione lineare di una base di polinomi elementari del tipo 𝑏𝑘,𝑛 (𝑥) ∶=
𝑛 𝑘 𝑥 (1 − 𝑥)𝑛−𝑘 . (𝑘 )
0 ≤ 𝑘 ≤ 𝑛.
Si può dimostrare che, data una qualunque funzione continua 𝑓 ∶ [0, 1] → ℝ e posto 𝐵𝑛,𝑓 (𝑥) ∶=
𝑛
∑
𝑘=0
𝑓 (𝑘/𝑛)𝑏𝑘,𝑛 (𝑥),
si ha che la successione di polinomi (𝐵𝑛,𝑓 )𝑛 converge uniformemente a 𝑓 su [0, 1]. ◁ Ricordiamo che un sottoinsieme ℱ ⊆ 𝐶(𝑋) separa i punti se, per ogni coppia di punti distinti 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝑋, esiste una funzione 𝑓 ∈ ℱ tale che 𝑓 (𝑥1 ) ≠ 𝑓 (𝑥2 ) (cfr. Definizione 10.25).
Teorema 12.67 (di Weierstrass-Stone). Siano 𝑋 uno spazio topologico compatto di Hausdorff e 𝒜 ⊆ 𝐶(𝑋) un anello che contiene le costanti e separa i punti. Allora 𝒜 è denso in 𝐶𝑢 (𝑋). In particolare, se 𝒜 è chiuso rispetto alla topologia della convergenza uniforme, allora esso coincide con 𝐶(𝑋).
12.2. La topologia della convergenza uniforme
647
Dimostrazione. Poiché 𝑋 è compatto, tutte le funzioni continue sono limitate. Sia ℬ ∶= cl 𝒜 . Lasciamo al lettore, per esercizio, di constatare che ℬ è ancora un anello che, ovviamente, contiene le costanti e separa i punti. Inoltre, essendo chiuso, contiene anche il massimo e il minimo di due sue funzioni qualunque (cfr. Lemma 12.65). Si osservi che ℬ, essendo un anello che contiene le costanti, contiene anche tutte le combinazioni lineari di suoi elementi. Quindi, se ℎ ∈ ℬ e 𝑃 è un qualunque polinomio reale, anche 𝑃 (ℎ) ∈ ℬ. Dimostreremo che, per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) e per ogni 𝜀 > 0, esiste una funzione 𝑓𝜀 ∈ ℬ tale che ‖𝑓 − 𝑓𝜀 ‖∞ < 𝜀. Da ciò seguirà immediatamente che cl ℬ = 𝐶(𝑋) e quindi la tesi, dato che è cl ℬ = cl cl 𝒜 = cl 𝒜 . Fissiamo quindi 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) ed 𝜀 > 0. Data una qualunque coppia di punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋, esiste una funzione 𝑔𝑝𝑞 ∈ ℬ tale che 𝑔𝑝𝑞 (𝑝) = 𝑓 (𝑝) e 𝑔𝑝𝑞 (𝑞) = 𝑓 (𝑞). Infatti, poiché ℬ separa i punti, esiste una funzione ℎ ∈ ℬ tale che ℎ(𝑝) ≠ ℎ(𝑞). Ponendo ora 𝑔𝑝𝑞 (𝑥) ∶= 𝑓 (𝑝) +
𝑓 (𝑞) − 𝑓 (𝑝) (ℎ(𝑥) − ℎ(𝑝)), ℎ(𝑞) − ℎ(𝑝)
si ha la funzione cercata, dato che 𝑔𝑝𝑞 è del tipo 𝑃 (ℎ). Fissiamo ora il punto 𝑞 e consideriamo le funzioni 𝑔𝑝𝑞 al variare di 𝑝 ∈ 𝑋. Osserviamo che, per ogni 𝑝, l’insieme 𝑈𝑝𝑞 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑔𝑝𝑞 (𝑥) < 𝑓 (𝑥) + 𝜀} è un aperto contenente 𝑝 e 𝑞. La famiglia degli insiemi 𝑈𝑝𝑞 , al variare di 𝑝 ∈ 𝑋 è un ricoprimento aperto di 𝑋. Essendo 𝑋 compatto, esisterà un sottoricoprimento finito 𝑈𝑝1 𝑞 , … , 𝑈𝑝𝑘 𝑞 . Si ottiene che, definendo la funzione 𝑔𝑞 ∶= 𝑔𝑝1 𝑞 ∧ ⋯ ∧ 𝑔𝑝𝑘 𝑞 ,
risulta 𝑔𝑞 ∈ ℬ (cfr. Lemma 12.65) e 𝑔𝑞 (𝑥) < 𝑓 (𝑥)+𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋 e con 𝑔𝑞 (𝑞) = 𝑓 (𝑞). Per ogni 𝑞 ∈ 𝑋, si ponga ora 𝑉𝑞 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑔𝑞 (𝑥) > 𝑓 (𝑥) − 𝜀} che risulta essere un intorno aperto di 𝑞. La famiglia degli insiemi 𝑉𝑞 , al variare di 𝑞 ∈ 𝑋 è un ricoprimento aperto di 𝑋. Essendo 𝑋 compatto, esisterà un sottoricoprimento finito 𝑉𝑞1 , … , 𝑉𝑞𝑙 . Si ottiene che, definendo la funzione 𝑓𝜀 ∶= 𝑔𝑞1 ∨ ⋯ ∨ 𝑔𝑞𝑙 ,
risulta 𝑓𝜀 ∈ ℬ (cfr. Lemma 12.65) e 𝑓𝜀 (𝑥) > 𝑓 (𝑥) − 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋, oltre che 𝑓𝜀 (𝑥) < 𝑓 (𝑥) + 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Alcuni Autori usano una terminologia leggermente diversa. Precisamente, la famiglia 𝒜 viene denominata come sotto-algebra di 𝐶(𝑋) contenente la costante 1. Ricordiamo che un sottoinsieme 𝒜 di 𝐶(𝑋) o 𝐶 ∗ (𝑋) viene detto sotto-algebra se, date 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝒜 e 𝛼, 𝛽 ∈ ℝ, ne segue che 𝛼𝑓 + 𝛽𝑔 ∈ 𝒜 e anche 𝑓 𝑔 ∈ 𝒜 . Se si chiede che 1 ∈ 𝒜 , allora 𝒜 è una sotto-algebra se e solo se 𝒜 è un sottoanello che contiene le costanti. In questo contesto, il precedente teorema viene enunciato anche nel seguente modo:
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Teorema 12.68 (di Weierstrass-Stone). Siano 𝑋 uno spazio topologico compatto di Hausdorff e 𝒜 ⊆ 𝐶(𝑋) una sotto-algebra che contiene l’unità e separa i punti. Allora 𝒜 è densa in 𝐶𝑢 (𝑋). In particolare, se 𝒜 è chiusa rispetto alla topologia della convergenza uniforme, allora essa coincide con 𝐶(𝑋).
Da questo risultato segue come immediato corollario il Teorema di Weierstrass 12.63, dato che i polinomi su 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏] costituiscono un anello che contiene le costanti e separa i punti. L’anello dei polinomi su un intervallo reale 𝐼 può essere visto anche come il sottospazio vettoriale di 𝐶(𝐼) generato da 1, 𝑥, 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 , …
Pertanto, il Teorema di Weierstrass può essere riformulato dicendo che le potenze considerate sopra generano un sottospazio denso di 𝐶𝑢 (𝐼). All’inizio del secolo scorso, divenne un problema di ricerca molto importante quello di caratterizzare le potenze della 𝑥, anche reali, che generano ancora sottospazi densi di 𝐶𝑢 (𝐼). Un classico risultato al riguardo è il Teorema di Müntz (1914) che ha la seguente formulazione particolarmente elegante. Per la relativa dimostrazione (Teorema di Müntz-Szasz) si veda [71]. Teorema 12.69 (di Müntz). Sia (𝜆𝑛 )𝑛 una successione crescente di numeri reali positivi. Il sottospazio vettoriale generato da 1, 𝑥𝜆1 , 𝑥𝜆2 , … , 𝑥𝜆𝑛 , …
è denso in 𝐶𝑢 (𝐼) se e solo se la serie ∑∞ 𝑖=1 1/𝜆𝑖 è divergente.
Esiste una versione del Teorema di Weierstrass-Stone per funzioni a valori complessi. Indicheremo con 𝐶(𝑋, ℂ) l’insieme delle funzioni continue da 𝑋 in ℂ. Anche questo spazio ha struttura di spazio vettoriale (a coefficienti in ℂ), nonché di algebra considerando il prodotto di due funzioni nel campo complesso. Il concetto di sotto-algebra (complessa) si definisce in modo naturale. Vale allora il seguente Teorema 12.70 (di Weierstrass-Stone complesso). Siano 𝑋 uno spazio topologico compatto di Hausdorff e 𝒜 ⊆ 𝐶(𝑋, ℂ) una sotto-algebra che contiene l’unità e separa i punti. Allora 𝒜 è densa in 𝐶𝑢 (𝑋, ℂ). In particolare, se 𝒜 è chiusa rispetto alla topologia della convergenza uniforme, allora essa coincide con 𝐶(𝑋, ℂ). Dimostrazione. Data una qualunque funzione 𝑓 ∈ 𝒜 , si esprime la parte reale e il coefficiente della parte immaginaria di 𝑓 usando le note formule che utilizzano 𝑓 e il suo coniugato. Indicata con 𝒜 (ℝ) la sotto-algebra di 𝒜 costituita dalle funzioni di 𝒜 a valori reali, si osservano i seguenti fatti: 𝒜 è l’insieme delle funzioni del tipo 𝑓 + 𝑖𝑔, con 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝒜 (ℝ) e, inoltre, 𝐶(𝑋, ℂ) si può identificare con 𝐶(𝑋) + 𝑖𝐶(𝑋). A questo punto, basta osservare che 𝒜 (ℝ) è una sottoalgebra con unità di 𝐶(𝑋) che separa i punti (Esercizio!) e applicare due volte il Teorema di Weierstrass-Stone 12.68.
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Il vantaggio del Teorema di Weierstrass-Stone rispetto a quello di Weierstrass 12.63 è che fornisce un metodo generale per provare la densità di sottoinsiemi di funzioni. Qui presenteremo alcuni esempi. Esempio 12.71. Sia 𝑇 > 0 un periodo fissato e indichiamo con 𝐶𝑇 (ℝ) l’insieme delle funzioni continue e 𝑇 -periodiche da ℝ in ℝ. Osserviamo che 𝐶𝑇 (ℝ) può essere identificato con il sottospazio di 𝐶([0, 𝑇 ], ℝ) costituito dalle funzioni 𝑓 di tale spazio per cui è 𝑓 (0) = 𝑓 (𝑇 ). Essendo 𝐶𝑇 (ℝ) un sottospazio chiuso di 𝐶([0, 𝑇 ], ℝ) con la norma lagrangiana, esso stesso è uno spazio di Banach. Posto 𝜔 ∶= 2𝜋/𝑇 , consideriamo l’insieme 𝒫 dei polinomi trigonometrici a coefficienti reali del tipo 𝑝𝑛 (𝑥) ∶= 𝑎0 +
𝑛
∑
(𝑎𝑘 cos(𝑘𝜔𝑥) + 𝑏𝑘 sin(𝑘𝜔𝑥)).
𝑘=1
Verifichiamo che 𝒫 è denso in 𝐶𝑇 (ℝ) rispetto alla norma lagrangiana. Svolgeremo la dimostrazione nel caso in cui sia 𝑇 = 2𝜋 e quindi 𝜔 = 1. Il caso generale è lasciato per esercizio. Per entrare nello schema del Teorema di WeierstrassStone, per prima cosa osserviamo che lo spazio 𝐶2𝜋 (ℝ) può essere identificato con lo spazio 𝐶(𝑆 1 ) che è lo spazio delle funzioni continue dalla circonferenza unitaria in ℝ. Consideriamo l’anello 𝒜 ⊆ 𝐶(𝑆 1 ) generato dalle costanti e dalle funzioni del tipo cos 𝑘𝑥 e sin 𝑘𝑥, al variare di 𝑘 in ℕ+ e proviamo che esso coincide con 𝒫 . Si ha banalmente 𝒫 ⊆ 𝒜 . Per il viceversa, basterà dimostrare che i prodotti del tipo cos 𝑘𝑥 cos 𝑚𝑥, cos 𝑘𝑥 sin 𝑚𝑥 e sin 𝑘𝑥 sin 𝑚𝑥 appartengono ancora a 𝒫 . Ciò segue immediatamente dalle formule di Werner: 1 (sin(𝛼 + 𝛽) + sin(𝛼 − 𝛽)); 2 1 cos 𝛼 cos 𝛽 = (cos(𝛼 + 𝛽) + cos(𝛼 − 𝛽)); 2 1 sin 𝛼 sin 𝛽 = (cos(𝛼 − 𝛽) − cos(𝛼 + 𝛽)). 2 sin 𝛼 cos 𝛽 =
Quindi 𝒫 è un anello che contiene, banalmente, le costanti; resta da verificare che separa i punti. Dati due punti distinti 𝑃 , 𝑄 ∈ 𝑆 1 , o la funzione seno o la funzione coseno assumono in essi valori diversi. Per il Teorema di Weierstrass-Stone, si ha cl 𝒫 = 𝐶2𝜋 (ℝ), dove la chiusura si intende rispetto alla topologia della convergenza uniforme. ◁ Il risultato appena dimostrato è interessante se confrontato con il Controesempio di DuBois-Reymond che prova l’esistenza di una funzione continua e 2𝜋-periodica la cui serie di Fourier non converge uniformemente in [0, 2𝜋], anzi diverge in un punto, per esempio in 0. La differenza consiste nel fatto che ora si accettano tutti i possibili polinomi trigonometrici e non solo quelli che hanno i coefficienti di Fourier (cfr. Paragrafo 5.2.2).
12.2. La topologia della convergenza uniforme
650
Esempio 12.72. Sia (𝑋, 𝜏) il prodotto di due spazi topologici compatti di Hausdorff 𝑋1 , 𝑋2 e consideriamo in 𝐶(𝑋) l’insieme 𝒜 delle funzioni del tipo 𝑛
∑ 𝑖=1
𝑔𝑖 (𝑥1 )ℎ𝑖 (𝑥2 ),
𝑔𝑖 ∈ 𝐶(𝑋1 ); ℎ𝑖 ∈ 𝐶(𝑋2 ).
Chiaramente 𝒜 è un anello che contiene le costanti. Verifichiamo che 𝒜 separa i punti. Fissiamo due punti diversi di 𝑋, 𝑧1 ∶= (𝑝1 , 𝑞1 ) e 𝑧2 ∶= (𝑝2 , 𝑞2 ) e sia, per esempio 𝑝1 ≠ 𝑝2 . Per il Teorema 7.33, 𝑋1 è normale; esiste dunque una funzione 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋1 ) che separa i punti 𝑝1 e 𝑝2 . Basta ora prendere come ℎ una funzione costante non nulla in 𝐶(𝑋2 ). Per il Teorema di Weierstrass-Stone, si ha cl 𝒜 = 𝐶(𝑋), dove la chiusura si intende rispetto alla topologia della convergenza uniforme. ◁ Osservazione 12.73. Il precedente risultato può essere generalizzato al prodotto di una famiglia arbitraria di spazi compatti 𝑇2 . Più precisamente: sia 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 , con gli 𝑋𝛼 compatti 𝑇2 e consideriamo le funzioni continue da 𝑋 e ℝ della forma 𝑔𝛽 (𝑥) ∶= 𝜑𝛽 (𝑝𝛽 (𝑥)), dove 𝑝𝛽 è la proiezione di indice 𝛽 e 𝜑𝛽 ∈ 𝐶(𝑋𝛽 ). Sia 𝒜 l’insieme di tutte le combinazioni lineari di prodotti finiti di funzioni di tipo 𝑔𝛽 . La famiglia 𝒜 è un anello che contiene le costanti e separa i punti (Esercizio!). Quindi per il Teorema di Weierstrass-Stone, si ha cl𝑢 𝒜 = 𝐶(𝑋). Questa osservazione ha la seguente conseguenza: Ogni funzione continua da 𝑋 in ℝ dipende da un’infinità al più numerabile di coordinate. Ciò significa che, data 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋), esistono un sottoinsieme numerabile 𝐽𝑓 ⊆ 𝐽 di indici e una funzione continua 𝜓 ∶ ∏𝛼∈𝐽𝑓 𝑋𝛼 → ℝ tali che 𝑓 (𝑥) = 𝜓(𝜋𝐽𝑓 (𝑥)), ∀𝑥 ∈ 𝑋,
dove 𝜋𝐵 ∶ 𝑋 → ∏𝛼∈𝐵 𝑋𝛼 indica la proiezione (restrizione) al sottospazio prodotto costituito dalle componenti con indice in 𝐵 (cfr. Lemma 12.25 per un’analoga notazione). Per dimostrare l’assunto, data una qualunque funzione 𝑔 ∈ 𝒜 , chiamiamo supporto di 𝑔 l’insieme finito degli indici associati alle funzioni 𝜑 che generano 𝑔. Data ora 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) = cl𝑢 𝒜 , esiste una successione (𝑔𝑛 )𝑛 in 𝒜 che converge uniformemente a 𝑓 su 𝑋. Sia quindi 𝐽𝑓 la riunione dei supporti delle 𝑔𝑛 . L’insieme 𝐽𝑓 è numerabile. Inoltre, ogni funzione 𝑔𝑛 , avendo il supporto contenuto in 𝐽𝑓 può essere pensata come una funzione del tipo 𝑔𝑛 = 𝜑𝑛 ∘ 𝜋𝐽𝑓 , con 𝜑𝑛 ∶ ∏𝛼∈𝐽𝑓 𝑋𝛼 → ℝ. Detto 𝜓 il limite uniforme delle 𝜑𝑛 sul loro dominio, si ha la tesi. Questo risultato non è, in generale, vero senza l’ipotesi di compattezza (cfr. [18]). ◁ Nell’Esempio 12.59, si è visto che gli spazi delle funzioni continue con la topologia della convergenza uniforme non sono, in generale, 𝐴2 . Con il Teorema di Weierstrass-Stone si può verificare che vale 𝐴2 sotto semplici ipotesi su 𝑋.
12.2. La topologia della convergenza uniforme
651
Teorema 12.74 (di Borsuk). Se (𝑋, 𝜏) è uno spazio compatto di Hausdorff, allora (𝐶(𝑋), 𝜏𝑢 ) è separabile (e quindi 𝐴2 ) se e solo se 𝑋 è metrizzabile.
Dimostrazione. 1. Proviamo il “se”. Definiamo in 𝑋 una distanza 𝑑 che generi 𝜏. Poiché (𝑋, 𝑑) è metrico e compatto, esso è 𝐴2 e anche separabile (cfr. Teorema 7.21). Sia quindi 𝐷 ∶= {𝑥𝑛 }𝑛 (⊆ 𝑋) un sottoinsieme denso e numerabile. Per ogni 𝑛, 𝑚 ∈ ℕ+ , sia 𝑓𝑛𝑚 ∶ 𝑋 → ℝ la funzione definita da 𝑓𝑛𝑚 (𝑥) ∶= min{1, max{0, 2 − 𝑚𝑑(𝑥, 𝑥𝑛 )}}.
Le 𝑓𝑛𝑚 sono funzioni continue con valori in [0, 1] che valgono 1 in 𝐵(𝑥𝑛 , 1/𝑚) e valgono 0 all’esterno della palla 𝐵(𝑥𝑛 , 2/𝑚). Mostriamo che l’insieme ℱ delle funzioni 𝑓𝑛𝑚 separa i punti di 𝑋. Infatti, dati 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋 e posto 𝛿 ∶= 𝑑(𝑥, 𝑦), si ha che nella palla 𝐵(𝑥, 1/𝑚) cade un elemento 𝑥𝑛 ∈ 𝐷. Per costruzione, 𝑥 ∈ 𝐵(𝑥𝑛 , 1/𝑚) e quindi 𝑓𝑛𝑚 (𝑥) = 1. D’altra parte, 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑦) ≥ 𝑑(𝑥, 𝑦) − 𝑑(𝑥, 𝑥𝑛 ) ≥ 𝛿 −1/𝑚. Se prendiamo 𝑚, all’inizio, in modo che sia 𝛿 −1/𝑚 > 2/𝑚, ossia 𝑚 > 3/𝛿, si ottiene che 𝑦 ∉ 𝐵(𝑥𝑛 , 2/𝑚) e quindi 𝑓𝑛𝑚 (𝑦) = 0. Sia ora 𝒜 l’anello generato da ℱ e dall’insieme delle funzioni costanti. Ovviamente anche 𝒜 separa i punti e quindi, sempre per il Teorema di Weierstrass-Stone, si ha cl𝑢 𝒜 = 𝐶(𝑋). 𝒜 non è numerabile. Esso è formato da polinomi a coefficienti reali nelle variabili 𝑓𝑛𝑚 . Più precisamente, ogni funzione in 𝒜 si può rappresentare nel seguente modo: 𝑎0 +
𝑘
∑ 𝑗=1
𝑎𝑗 𝜑𝑗 (𝑥),
𝑎0 , 𝑎1 , … , 𝑎𝑘 ∈ ℝ,
𝑞𝑗 𝜑𝑗 (𝑥),
𝑞0 , 𝑞1 , … , 𝑞𝑘 ∈ ℚ,
dove ogni singola 𝜑𝑗 è il prodotto di un numero finito di funzioni del tipo 𝑓𝑛𝑚 . Quindi anche ogni 𝜑𝑗 è a valori in [0, 1]. Se consideriamo ora le funzioni del tipo 𝑞0 +
𝑘
∑ 𝑗=1
otteniamo un sottoinsieme denso e numerabile di 𝒜 che è quindi anche denso in 𝐶𝑢 (𝑋). 2. Proviamo il “solo se”. Supponiamo che 𝐶𝑢 (𝑋) sia separabile e dimostriamo che 𝑋 è 𝐴2 . Fatto ciò, poiché ogni spazio compatto di Hausdorff è regolare (addirittura normale), la tesi segue dal Teorema di metrizzabilità di Urysohn 3.115. Sia 𝐹 ∶= {𝑓𝑛 }𝑛 un sottoinsieme numerabile e denso di 𝐶𝑢 (𝑋). Per ogni 𝑛, sia 𝑈𝑛 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓𝑛 (𝑥) > 1/2}. Gli 𝑈𝑛 formano una famiglia numerabile di aperti di 𝑋. Per prima cosa, osserviamo che l’unione degli (aperti) 𝑈𝑛 ricopre 𝑋. Infatti, dato 𝑧 ∈ 𝑋, si prenda una qualunque funzione 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) tale che 𝑓 (𝑧) = 1. Essendo 𝐹 denso in 𝐶(𝑋), esiste 𝑓𝑘 ∈ 𝐹 tale che ‖𝑓𝑘 − 𝑓 ‖∞ < 1/2, da cui 𝑧 ∈ 𝑈𝑘 . Fissiamo un 𝑤 ∈ 𝑋 e un suo intorno aperto 𝐴. Mostreremo che esiste 𝑛 ∈ ℕ tale che 𝑤 ∈ 𝑈𝑛 ⊆ 𝐴. Se è 𝐴 = 𝑋, la cosa è ovvia. Sia dunque 𝐴 ≠ 𝑋.
12.2. La topologia della convergenza uniforme
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Esiste un aperto 𝑉 tale che 𝑤 ∈ 𝑉 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝐴 (cfr. Teorema 1.91). Per il Lemma di Urysohn 2.100, esiste una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1] con 𝑔 = 1 in cl 𝑉 e 𝑔 = 0 in 𝑋 ⧵ 𝐴. Dato che 𝐹 è denso in 𝐶𝑢 (𝑋), esiste 𝑛 ∈ ℕ tale che ‖𝑔 − 𝑓𝑛 ‖∞ < 1/2. Si ottiene 𝑓𝑛 (𝑡) > 1/2, ∀𝑡 ∈ cl 𝑉 , da cui 𝑤 ∈ cl 𝑉 ⊆ 𝑈𝑛 . Inoltre si ha 𝑓𝑛 (𝑡) < 1/2, ∀𝑡 ∈ 𝑋 ⧵𝐴, da cui 𝑈𝑛 ⊆ 𝐴. L’insieme degli 𝑈𝑛 non vuoti costituisce dunque una base numerabile di intorni aperti di 𝑤. Dall’arbitrarietà di 𝑤 e 𝐴 si ha la tesi.
Dato un insieme ℱ ⊆ 𝐶 ∗ (𝑋), indichiamo con 𝒫 (ℱ ) l’insieme delle funzioni del tipo 𝑃 (𝑓1 , … , 𝑓𝑘 ), con 𝑃 (𝑥1 , … , 𝑥𝑘 ) polinomio a coefficienti reali e 𝑓1 , … , 𝑓𝑘 ∈ ℱ . È chiaro che 𝒫 (ℱ ) è il sottoanello (sotto-algebra) di 𝐶 ∗ (𝑋) generato da ℱ e dalle costanti reali; in particolare, 𝒫 (ℱ ) contiene le costanti. Un’ulteriore versione del Teorema di Weierstrass-Stone è la seguente: Teorema 12.75. Siano 𝑋 uno spazio completamente regolare e ℱ ⊆ 𝐶 ∗ (𝑋) un insieme non vuoto di funzioni. Se 𝑋 è compatto e ℱ separa i punti, allora 𝒫 (ℱ ) è 𝜏𝑢 -denso in 𝐶 ∗ (𝑋).
La dimostrazione è ovvia, una volta che si osservi che 𝐶 ∗ (𝑋) coincide con 𝐶(𝑋) quando 𝑋 è compatto e 𝒜 ∶= 𝒫 (ℱ ) è un anello che contiene le costanti e separa i punti. È interessante osservare che questo risultato non è migliorabile. Infatti, esso non è più vero se lo spazio 𝑋 non è compatto o se la famiglia ℱ non separa i punti. È facile verificare questo fatto nel caso che ℱ non separi i punti. Infatti, se esistono 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋, con 𝑝 ≠ 𝑞, tali che 𝑓 (𝑝) = 𝑓 (𝑞), ∀𝑓 ∈ ℱ , è immediato osservare che è anche 𝑔(𝑝) = 𝑔(𝑞), ∀𝑔 ∈ 𝒫 (ℱ ). Quindi, passando alla chiusura nella topologia della convergenza uniforme, ℎ(𝑝) = ℎ(𝑞), ∀ℎ ∈ cl 𝒫 (ℱ ). Per la completa regolarità di 𝑋, si ha però che esiste una funzione continua 𝜑 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝜑(𝑝) = 1 e 𝜑(𝑞) = 0. Quindi 𝜑 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋) ⧵ cl 𝒫 (ℱ ). Per produrre un esempio di spazio 𝑋 non compatto per cui non vale il nostro teorema, basta prendere 𝑋 ∶= ℝ e come ℱ l’insieme delle funzioni continue da ℝ in ℝ e tali che risultino costanti sulle semirette del tipo 𝑥 < 𝑎 e del tipo 𝑥 > 𝑏. È banale osservare che ℱ separa i punti. Ogni funzione dell’anello 𝒫 (ℱ ) è costante in un intorno di +∞ e in un intorno di −∞; ne viene che se ℎ ∈ cl 𝒫 (ℱ ), allora esistono finiti i suoi limiti per 𝑥 → +∞ e 𝑥 → −∞. Si conclude che è cl 𝒫 (ℱ ) ≠ 𝐶 ∗ (ℝ), dato che sin 𝑥 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋) ⧵ cl 𝒫 (ℱ ). Nell’esempio appena visto si è dimostrato che, se 𝑋 = ℝ, non vale il Teorema di Weierstrass-Stone. Più difficile è verificare che, se 𝑋 è un qualunque spazio completamente regolare non compatto, allora in esso non può valere il Teorema di Weierstrass-Stone. Questo risultato è noto anche come Teorema di Hewitt. Teorema 12.76 (di Hewitt). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare. Se in esso sussiste il Teorema di Weierstrass-Stone, allora 𝑋 è compatto.
12.2. La topologia della convergenza uniforme
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Dimostrazione. Seguendo la dimostrazione originale di Hewitt, 1 proveremo il teorema mostrando che: Se 𝑋 è completamente regolare ma non compatto, esiste un insieme ℱ ⊂ 𝐶 ∗ (𝑋) che separa i punti, ma tale che 𝒫 (ℱ ) non è denso in 𝐶 ∗ (𝑋). Per prima cosa osserviamo che uno spazio 𝑋 è compatto se e solo se lo è ogni sottoinsieme chiuso proprio. Per la Proposizione 7.30.1, basta verificare il “se”. Sia 𝒜 ∶= {𝐴𝛼 }𝛼∈𝐽 un ricoprimento aperto di 𝑋 e fissiamo un 𝛽 ∈ 𝐽 . Se è 𝐴𝛽 = 𝑋 abbiamo finito. In caso contrario, sia 𝐶 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐴𝛽 . 𝐶 è chiuso e quindi compatto per ipotesi. Essendo 𝒜 un ricoprimento di 𝐶, da esso possiamo estrarre un suo sottoricoprimento finito 𝒜 ′ . {𝐴𝛽 } ∪ 𝒜 ′ è quindi un sottoricoprimento finito di 𝑋. Sia 𝐶 ⊂ 𝑋 un sottoinsieme chiuso proprio e non compatto. Fissiamo un 𝑝 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐶. Sia poi 𝒜 un ricoprimento aperto di 𝐶 privo di sottoricoprimenti finiti. Per ogni punto 𝑞 ∈ 𝐶, esiste un 𝐴𝑞 ∈ 𝒜 tale che 𝑞 ∈ 𝐴𝑞 . Consideriamo la famiglia di tutti gli intorni aperti di base di 𝑞 contenuti in 𝐴𝑞 e disgiunti da 𝑝. Al variare di 𝑞 ∈ 𝐶, si ottiene una famiglia ℬ ∶= {𝐵𝛽 }𝛽∈𝐽 di aperti che ricopre 𝐶 e che è un raffinamento di 𝒜 . Inoltre, per ogni 𝑞 ∈ 𝐶, ℬ contiene una base di intorni del punto. Ovviamente, nemmeno ℬ ammette sottoricoprimenti finiti. Per ogni 𝑞 ′ ∈ 𝑊 ∶= 𝑋 ⧵ (𝐶 ∪ {𝑝}), consideriamo la famiglia dei suoi intorni aperti di base contenuti in 𝑊 . Sia poi ℬ ′ ∶= {𝐵𝛾′ }𝛾∈𝐽 ′ la famiglia di aperti così ottenuti. Ovviamente, tutto ciò ha senso se 𝑊 non è vuoto; in caso contrario, ignoriamo le funzioni 𝑓𝑞′ ,𝛾 successivamente introdotte. Sfruttando il fatto che lo spazio è completamente regolare, per ogni 𝑞 ∈ 𝐶 e per ogni indice 𝛽 ∈ 𝐽 , tale che 𝑞 ∈ 𝐵𝛽 , esiste una funzione continua 𝑓𝑞,𝛽 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓𝑞,𝛽 (𝑞) ∶= 1 e 𝑓𝑞,𝛽 (𝑥) ∶= 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐵𝛽 . In modo analogo, per ogni 𝑞 ′ ∈ 𝑊 e per ogni 𝛾 ∈ 𝐽 ′ , tale che 𝑞 ′ ∈ 𝐵𝛾′ , esiste una funzione continua 𝑓𝑞′ ,𝛾 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓𝑞′ ,𝛾 (𝑞 ′ ) ∶= 1 e 𝑓𝑞′ ,𝛾 (𝑥) ∶= 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐵𝛾′ . Sia ℱ la famiglia di tutte le funzioni così ottenute. Si ha banalmente ℱ ⊂ 𝐶 ∗ (𝑋), con 𝑓 (𝑝) = 0, ∀𝑓 ∈ ℱ . Inoltre, è chiaro che ℱ separa i punti. Consideriamo ora il sottoanello 𝒫 (ℱ ) di 𝐶 ∗ (𝑋) generato da ℱ e dalle costanti. Se fosse vero il Teorema di Weierstrass-Stone (nella versione del Teorema 12.75), dovremmo avere cl 𝒫 (ℱ ) = 𝐶 ∗ (𝑋). Faremo invece vedere che ciò non accade. Esiste 𝜑 ∈ 𝐶 ∗ (𝑋) che vale 1 in 𝐶 e 0 in 𝑝. Se. per assurdo, fosse 𝜑 ∈ cl 𝒫 (ℱ ), esisterebbe un polinomio reale 𝑃 di 𝑛 + 𝑚 variabili ed esisterebbero 𝑛 funzioni del tipo 𝑔1 , … , 𝑔𝑛 , con 𝑔𝑖 ∶= 𝑓𝑞𝑖 ,𝛽𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛} e 𝑚 funzioni del tipo ℎ1 , … , ℎ𝑚 , con ℎ𝑖 ∶= 𝑓𝑞′ ,𝛾𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑚} tali che, posto 𝑖
si ha
𝑝(𝑥) ̂ ∶= 𝑃 (𝑔1 (𝑥), … 𝑔𝑛 (𝑥), ℎ1 (𝑥), … ℎ𝑚 (𝑥)), |𝜑(𝑥) − 𝑝(𝑥)| ̂ < 1/2,
∀𝑥 ∈ 𝑋.
(12.8)
Date le funzioni 𝑔𝑖 ∶= 𝑓𝑞𝑖 ,𝛽𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}, indichiamo con 𝐵𝑞𝑖 ,𝛽𝑖 l’intorno aperto di base contenente 𝑞𝑖 e tale che 𝑓𝑞𝑖 ,𝛽𝑖 si annulla in 𝑋 ⧵ 𝐵𝑞𝑖 ,𝛽𝑖 . Indichiamo 1
Cfr. E. Hewitt, Certain generalizations of the Weierstrass approximation theorem, Duke Math. J., 14 (1947), 419–427.
12.2. La topologia della convergenza uniforme
654
inoltre con 𝑎 ∶= 𝑃 (0) il termine noto del polinomio 𝑃 . Siccome gli insiemi 𝑉𝑖 ∶= 𝐵𝑞𝑖 ,𝛽𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛} non sono sufficienti per ricoprire 𝐶, esiste 𝑧 ∈ 𝐶 ⧵ (𝑉1 ∪ ⋯ ∪ 𝑉𝑛 ). Per costruzione, sia le 𝑔𝑖 , sia le ℎ𝑖 si annullano in 𝑧, mentre si ha 𝜑(𝑧) = 1. Dalla (12.8) si ottiene |𝜑(𝑧) − 𝑝(𝑧)| ̂ = |1 − 𝑃 (0)| = |1 − 𝑎| < 1/2. D’altra parte, sempre per costruzione, le 𝑔𝑖 , le ℎ𝑖 e la 𝜑 si annullano in 𝑝; ancora dalla (12.8) si ottiene |𝜑(𝑝) − 𝑝(𝑝)| ̂ = |0 − 𝑎| < 1/2. Nella versione 12.75 del Teorema di Weierstrass-Stone siamo partiti da una famiglia ℱ di funzioni da un compatto 𝑋 a ℝ e abbiamo considerato la sottoalgebra 𝒫 (ℱ ) generata da ℱ e dalle costanti. Ci si può chiedere se è necessario che la sottoalgebra generata da ℱ contenga le funzioni costanti. (Si tenga presente che i numeri reali sono comunque ammessi come coefficienti dei polinomi.) Per dare una risposta a questa questione, premettiamo un’osservazione. Se si guarda con attenzione la dimostrazione del Lemma 12.64, si osserva che i polinomi della successione approssimante possono sempre essere scelti in modo da valere 0 in 0. Questo si vede anche con altri approcci (ad esempio con i polinomi di Bernstein considerati nell’Osservazione 12.66). Ciò permette di dire che, per ogni 𝜀 > 0, esiste un polinomio reale 𝑃 tale che 𝑃 (0) = 0 e ||𝑥| − 𝑃 (𝑥)| < 𝜀, ∀𝑥 ∈ [−1, −1]. Usando questa osservazione, si può dare un enunciato leggermente più generale del Lemma 12.65: Lemma 12.77. Siano 𝑋 uno spazio topologico arbitrario e 𝒜 ⊆ 𝐶(𝑋) un’algebra di funzioni limitate. Se l’algebra 𝒜 è chiusa rispetto alla convergenza uniforme, allora, date due qualunque funzioni 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝒜 , anche 𝑓 ∨ 𝑔 e 𝑓 ∧ 𝑓 stanno in 𝒜 .
Esaminando, in fine, la dimostrazione del Teorema 12.67, ci si accorge che l’unico punto in cui serve che la famiglia 𝒜 contenga le costanti è per definire le funzioni ausiliarie 𝑔𝑝𝑞 . Se assumiamo già come ipotesi l’esistenza di queste funzioni in 𝒜 e utilizziamo il Lemma 12.77 al posto del Lemma 12.65, abbiamo il seguente risultato Lemma 12.78. Siano 𝑋 uno spazio topologico compatto e 𝒜 ⊆ 𝐶(𝑋) un’algebra chiusa rispetto alla convergenza uniforme, allora vale la seguente proprietà: Se 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) è tale che, per ogni coppia di punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋, esiste una funzione 𝑔𝑝𝑞 ∈ 𝒜 tale che 𝑔𝑝𝑞 (𝑝) = 𝑓 (𝑝) e 𝑔𝑝𝑞 (𝑞) = 𝑓 (𝑞), allora 𝑓 ∈ 𝒜 .
Dimostrazione. Basta rifare la stessa dimostrazione del Lemma 12.65, osservando che, se 𝒜 è un’algebra, dati 𝑓 ∈ 𝒜 e 𝑐 ∈ ℝ, anche 𝑐𝑓 ∈ 𝒜 . Infatti, qui 𝑐𝑓 è considerato come prodotto di un coefficiente reale per un vettore e non come prodotto di due funzioni. Bisogna poi osservare che i polinomi coinvolti non contengono il termine costante perché sono tutti nulli in 0. Possiamo ora provare il seguente risultato.
12.3. Conpact-open topology
655
Teorema 12.79. Siano dati uno spazio compatto di Hausdorff (𝑋, 𝜏) e una famiglia ℱ di funzioni in 𝐶(𝑋) che separa i punti. Sia poi 𝒜 ∶= cl 𝒫 ′ (ℱ ) la sotto-algebra chiusa generata da ℱ . Allora le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. 𝒜 ⊂ 𝐶(𝑋). 2. 𝒜 non contiene le costanti. 3. Esiste un punto 𝑧 ∈ 𝑋 in cui si annullano tutte le funzioni di 𝒜 . Dimostrazione. Si vede subito che 3 ⇒ 1. Infatti, se tutte le funzioni di 𝒜 si annullano in un punto, la funzione costante 1 sta in 𝐶(𝑋) ⧵ 𝒜 . Inoltre, dal Teorema 12.67, si ha immediatamente che 1 ⇒ 2. Ci resta da provare che 2 ⇒ 3 o equivalentemente che, se non esiste un punto dove tutte le funzioni di 𝒜 si annullano, allora 𝒜 contiene le costanti. Supponiamo quindi che non vi sia alcun punto dove tutte le funzioni si annullano e verifichiamo che la funzione costante 1 appartiene ad 𝒜 . Usando il lemma precedente, basterà far vedere che, dati due punti qualunque distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋, esiste una funzione 𝑔𝑝𝑞 ∈ 𝒜 tale che 𝑔𝑝𝑞 (𝑝) = 𝑔𝑝𝑞 (𝑞) = 1. Dati due punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋, consideriamo l’applicazione Φ𝑝𝑞 ∶ 𝒜 → 2 ℝ che a una funzione 𝑓 ∈ 𝒜 associa la coppia (𝑓 (𝑝), 𝑓 (𝑞)) ∈ ℝ2 . Si vede facilmente che Φ𝑝𝑞 trasforma 𝒜 in una sotto-algebra di ℝ2 . Dovendo Φ𝑝𝑞 (𝒜 ) essere un sottospazio lineare di ℝ2 chiuso rispetto al prodotto componente per componente, si vede che le possibili sotto-algebre di ℝ2 sono: l’origine, ciascuno degli assi, la prima bisettrice e tutto lo spazio. Φ𝑝𝑞 (𝒜 ) non può essere {(0, 0)}, perché da ciò seguirebbe che tutte le funzioni di 𝒜 si annullano in 𝑝 e 𝑞. Per analoghe ragioni, si vede che Φ𝑝𝑞 (𝒜 ) non può coincidere con uno degli assi. Dal fatto che 𝒜 separa i punti, si ottiene poi che Φ𝑝𝑞 (𝒜 ) non può coincidere con la prima bisettrice. È dunque Φ𝑝𝑞 (𝒜 ) = ℝ2 . Esiste quindi una funzione 𝑔𝑝𝑞 ∈ 𝒜 che vale 1 in 𝑝 e 𝑞.
12.3
La topologia della convergenza uniforme sui compatti
In questo paragrafo presentiamo una topologia nello spazio di funzioni 𝐶(𝑋, 𝑌 ) che è meno fine della topologia della convergenza uniforme, ma più fine di quella della convergenza puntuale. Questa topologia intermedia preserva tuttavia alcune notevoli proprietà che valgono per la convergenza uniforme. In particolare, essa coincide con quella uniforme se il dominio è compatto e il codominio è uno spazio metrico (cfr. Teorema 12.85). Per introdurre questo argomento, vediamo un modo alternativo per definire gli aperti di base in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) nel caso della convergenza puntuale. Per comodità, introduciamo la seguente notazione in accordo con pag. 628. Dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏𝑋 ) e (𝑌 , 𝜏𝑌 ), e considerati un sottoinsieme 𝐴 di 𝑋 e un sottoinsieme aperto 𝐵 di 𝑌 , indicheremo con 𝑀(𝐴, 𝐵) l’insieme delle
12.3. Conpact-open topology
656
funzioni continue da 𝑋 in 𝑌 tali che 𝑓 (𝐴) ⊆ 𝐵. Ovviamente, si ha 𝑀(𝐴, 𝐵) ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 )(= 𝑀(𝑋, 𝑌 )). Scegliendo 𝐴 in opportune famiglie di sottoinsiemi di 𝑋, si ottengono sottobasi di diverse topologie per 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Per essere più precisi, immaginiamo di fissare una famiglia ℱ ⊆ 𝒫 (𝑋). Allora una base per una topologia in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) sarà costituita dalle intersezioni finite di insiemi del tipo 𝑀(𝐴, 𝐵), con 𝐴 ∈ ℱ e 𝐵 ∈ 𝜏𝑌 . Non sarà restrittivo prendere i 𝐵 in una base di aperti di 𝑌 . Di conseguenza, dato un elemento (funzione) 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), un suo intorno di base sarà del tipo 𝑈 (𝑓 , 𝐴1 , … , 𝐴𝑘 , 𝐵1 , … 𝐵𝑘 ) ∶= {𝑔 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) ∶ 𝑔(𝐴𝑖 ) ⊆ 𝐵𝑖 , 𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}} ,
con 𝐴𝑖 ∈ ℱ e 𝐵𝑖 ∈ 𝜏𝑌 tali che 𝑓 (𝐴𝑖 ) ⊆ 𝐵𝑖 . Richiamiamo intanto il caso già studiato della convergenza puntuale. Si parte, come sottobase, dalla famiglia di tutti gli 𝑀(𝐴, 𝐵), con 𝐴 sottoinsieme finito (in particolare, singoletto) di 𝑋 e 𝐵 sottoinsieme aperto di 𝑌 . Le intersezioni finite, ossia gli aperti di base, sono dati dalle funzioni che nei punti di un insieme finito di 𝑋 assumono valori in prefissati aperti di 𝑌 . Ne viene che gli intorni di base di una funzione 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) sono quelli della Definizione 12.40. Definizione 12.80. Dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏𝑋 ) e (𝑌 , 𝜏𝑌 ), si definisce compact-open topology la topologia 𝜏𝑘 di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) generata dalla sottobase degli insiemi del tipo 𝑀(𝐾, 𝑉 ), con 𝐾 compatto di 𝑋 e 𝑉 ∈ 𝜏𝑌 .
Nella definizione precedente, abbiamo quindi assunto come ℱ la famiglia di tutti i compatti di 𝑋. Partendo invece dalla famiglia ℱ ′ dei sottoinsiemi finiti di 𝑋 (che sono sempre compatti) si riottiene la topologia 𝜏𝑝 della convergenza puntuale in 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Ovviamente la compact-open topology 𝜏𝑘 è più fine di 𝜏𝑝 . Se 𝑋 è dotato della topologia discreta, in particolare se è finito, 𝜏𝑘 e 𝜏𝑝 coincidono. Mostriamo con un esempio che le due topologie possono essere diverse.
Esempio 12.81. Siano 𝑋 = 𝑌 = 𝐼 ∶= [0, 1] con la topologia euclidea. Verifichiamo che esistono successioni di elementi di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) convergenti alla funzione nulla in 𝜏𝑝 , ma non in 𝜏𝑘 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ sia 𝑓𝑛 ∶ 𝐼 → 𝐼 la funzione continua definita da 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 𝑛𝑥/(𝑛2 𝑥2 + 1). Si vede facilmente che, per ogni 𝑛, 𝑓𝑛 assume il valore massimo 1/2 nel punto 1/𝑛. La successione converge puntualmente alla funzione nulla, ma non nella topologia 𝜏𝑘 ; infatti, preso come 𝑉 l’intorno aperto di 0 in 𝐼 dato da 𝑉 ∶= [0, 1/2[, si ha che 𝑓𝑛 ∉ 𝑀(𝐼, 𝑉 ).∀𝑛. Abbiamo così trovato un intorno aperto della funzione nulla in cui la successione non finisce. ◁ La compact-open topology è stata introdotta da R. H. Fox in un articolo del 1945. Nel 1946 R. F. Arens ne ha studiato diffusamente le proprietà nell’ambito degli spazi localmente compatti. Successivamente J. R. Jackson ne ha sviluppato la teoria all’inizio degli anni ’50. Presenteremo alcuni risultati dovuti a Jackson negli Articoli Comparison of topologies on function spaces,
12.3. Conpact-open topology
657
Proc. Amer. Math. Soc. 3 (1952), 156-158 e Spaces of mappings on topological products with applications to Homotopy theory, Proc. Amer. Math. Soc. 3 (1952), 327-333. Per una trattazione più estesa, si veda anche il capitolo corrispondente nel libro di Engelking [18]. Teorema 12.82. Siano dati due spazi topologici (𝑋, 𝜏𝑋 ), (𝑌 , 𝜏𝑌 ), con 𝑋 di Hausdorff. Se 𝒮 è una sottobase di 𝜏𝑌 , allora gli insiemi del tipo 𝑀(𝐾, 𝑈 ), al variare di 𝐾 fra i compatti di 𝑋 e 𝑈 in 𝒮 , formano una sottobase di 𝜏𝑘 in 𝐶(𝑋, 𝑌 ).
Dimostrazione. Mostreremo che, fissati un qualunque compatto 𝐶 ⊆ 𝑋, un qualunque aperto 𝑉 ∈ 𝜏𝑌 e una qualunque funzione 𝑓 ∈ 𝑀(𝐶, 𝑉 ), esiste un’intersezione finita 𝑊 di insiemi del tipo 𝑀(𝐾𝑖 , 𝑈𝑖 ), con i 𝐾𝑖 compatti di 𝑋 e gli 𝑈𝑖 ∈ 𝒮 , tali che 𝑓 ∈ 𝑊 ⊆ 𝑀(𝐶, 𝑉 ). Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝐶, da cui 𝑓 (𝑥) ∈ 𝑉 . Per definizione di sottobase, esiste un numero finito di elementi di 𝒮 , 𝑉1𝑥 , … , 𝑉𝑛𝑥𝑥 , tali che 𝑓 (𝑥) ∈ 𝑉1𝑥 ∩ ⋯ ∩ 𝑉𝑛𝑥𝑥 ⊆ 𝑉 ,
𝑥 ∈ 𝐴𝑥 ∶= 𝑓 −1 (𝑉1𝑥 ) ∩ ⋯ ∩ 𝑓 −1 (𝑉𝑛𝑥𝑥 ).
da cui
Gli 𝐴𝑥 sono aperti di 𝑋 e, al variare di 𝑥 ∈ 𝐶, costituiscono un ricoprimento del compatto 𝐶. In quanto compatto 𝑇2 , 𝐶 è regolare. Quindi, per ogni 𝑥 ∈ 𝐶, esiste un aperto 𝐵𝑥 di 𝐶 tale che 𝑐 ∈ 𝐵𝑥 ⊆ cl𝐶 𝐵𝑥 ⊆ 𝐴𝑥 . Ogni 𝐵𝑥 è del tipo 𝐵𝑥′ ∩ 𝐶, con 𝐵𝑥′ ∈ 𝜏𝑋 . I 𝐵𝑥 formano un ricoprimento aperto di 𝐶 da cui, per la compattezza di 𝐶, si può estrarre un sottoricoprimento finito 𝐵𝑥1 , … , 𝐵𝑥𝑝 . Posto 𝐾𝑖 ∶= cl𝐶 𝐵𝑥𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑝}, si ha che 𝐾1 ∪ ⋯ ∪ 𝐾𝑝 = 𝐶,
Poniamo, in fine,
𝑊 ∶=
𝑝
𝑓 (𝐾𝑖 ) ⊆ 𝑉1 𝑖 ∩ ⋯ ∩ 𝑉𝑛𝑥𝑖 . 𝑥
𝑛𝑥𝑖
⋂(⋂ 𝑖=1
𝑗=1
𝑥
𝑖
𝑀(𝐾𝑖 , 𝑉𝑗 𝑖 )) 𝑥
Chiaramente, 𝑓 ∈ 𝑊 . Per concludere la dimostrazione, basta verificare che è 𝑊 ⊆ 𝑀(𝐶, 𝑉 ). Sia, pertanto 𝑔 ∈ 𝑊 e mostriamo che è 𝑔(𝐶) ⊆ 𝑉 . Infatti, dato 𝑥 ∈ 𝐶, esiste 𝑖 ∈ {1, … , 𝑝} tale che 𝑥 ∈ 𝐾𝑖 e quindi 𝑔(𝑥) ∈ 𝑔(𝐾𝑖 ) ⊆ 𝑉1 𝑖 ∩ ⋯ ∩ 𝑉𝑛𝑥𝑖 ⊆ 𝑉 ,
per cui, 𝑔(𝑥) ∈ 𝑉 , ∀𝑥 ∈ 𝐶.
𝑥
𝑥
𝑖
Esaminiamo ora il caso in cui 𝑌 è uno spazio metrico. In questo contesto, è naturale confrontare la topologia 𝜏𝑘 con quella 𝜏𝑢 della convergenza uniforme. Prendendo su 𝑌 una distanza finita che induca la stessa topologia, oppure ∗ considerando su 𝐶(𝑋, 𝑌 ) la distanza lagrangiana modificata 𝑑∞ (cfr. pag. 641), non sarà restrittivo supporre che per ogni 𝑓 , 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), sia 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) < +∞.
12.3. Conpact-open topology
658
Teorema 12.83 (di Jackson). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e (𝑌 , 𝑑) uno spazio metrico. Allora in 𝐶(𝑋, 𝑌 ), la topologia 𝜏𝑢 della convergenza uniforme è più fine quella compact-open 𝜏𝑘 .
Dimostrazione. Sia 𝐴 ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) un aperto non vuoto in 𝜏𝑘 . Proveremo che 𝐴 si può esprimere come riunione di aperti di 𝜏𝑢 . A tal fine, verificheremo che, fissata un’arbitraria funzione 𝑓 ∈ 𝐴, esiste un opportuno 𝜀 ∶= 𝜀𝑓 > 0 tale che 𝐵(𝑓 , 𝜀) ⊆ 𝐴. Dati 𝑓 e 𝐴 come sopra, prendiamo un aperto di base 𝑊 ∈ 𝜏𝑘 contenente 𝑓 e contenuto in 𝐴. Esistono quindi dei compatti 𝐾1 , … , 𝐾𝑛 in 𝑋 e degli aperti 𝑉1 , … , 𝑉𝑛 in 𝑌 tali che 𝑓 ∈ 𝑊 ∶=
𝑛
⋂ 𝑖=1
𝐵(𝐾𝑖 , 𝑉𝑖 ) ⊆ 𝐴.
Per il teorema di compattezza, per ogni 𝑖, 𝐾𝑖′ ∶= 𝑓 (𝐾𝑖 ) è un compatto di 𝑌 contenuto in 𝑉𝑖 . Ciò garantisce che esiste un 𝜀𝑖 > 0 tale che per la 𝜀espansione (cfr. pag. 357) 𝐾𝑖′ (𝜀) di 𝐾𝑖′ si ha 𝐾𝑖′ (𝜀) ⊆ 𝑉𝑖 per ogni 𝜀 < 𝜀𝑖 . Basta ora prendere un 𝜀 minore di tutti gli 𝜀𝑖 per avere che 𝐾𝑖′ (𝜀) ⊆ 𝑉𝑖 , per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}. Fissato un tale 𝜀, consideriamo un qualunque elemento 𝑔 ∈ 𝐵(𝑓 , 𝜀). Per definizione, si ha 𝑑(𝑔(𝑥), 𝑓 (𝑥)) < 𝜀, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Ciò accade, in particolare, se 𝑥 ∈ 𝐾𝑖 , da cui 𝑔(𝐾𝑖 ) ⊆ 𝐾𝑖′ (𝜀) e quindi, 𝑔(𝐾𝑖 ) ⊆ 𝑉𝑖 , ∀𝑖. Si conclude che anche 𝑔 ∈ 𝑊 . Mostriamo con un esempio, che le due topologie possono essere diverse.
Esempio 12.84. Sia 𝑋 = 𝑌 ∶= ℝ. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝑓𝑛 ∈ 𝐶(ℝ) definita da 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 𝑥/𝑛. È immediato che la successione (𝑓𝑛 )𝑛 converge puntualmente, ma non uniformemente, alla funzione nulla 0. Mostriamo che si ha 𝑓𝑛 → 0 anche in 𝜏𝑘 . Basta mostrare che, per ogni 𝜀, 𝑅 > 0, si ha 𝑓𝑛 ∈ 𝑀([−𝑅, 𝑅], ]− 𝜀, 𝜀[) per 𝑛 sufficientemente grande. Ciò è vero per 𝑛 > 𝑅/𝜀. ◁ Lasciamo per esercizio al lettore di dare esempi analoghi nel caso 𝑋 ∶= ℕ, o 𝑌 ∶= [0, 1].
Teorema 12.85. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio compatto e (𝑌 , 𝑑) uno spazio metrico. Allora in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) si ha 𝜏𝑘 = 𝜏𝑢 . Dimostrazione. Per il Teorema 12.83, basta mostrare che è 𝜏𝑢 ⪯ 𝜏𝑘 . Siano dati una 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) e un 𝜀 > 0. Resta dunque definita la palla aperta 𝐵(𝑓 , 𝜀) ∈ 𝜏𝑢 . Dobbiamo mostrare che esistono 𝑛 compatti 𝐾1 , … , 𝐾𝑛 di 𝑋 e 𝑛 aperti 𝑉1 , … , 𝑉𝑛 di 𝑌 tali che 𝑓 ∈ ⋂𝑛𝑖=1 𝑀(𝐾𝑖 , 𝑉𝑖 ) ⊆ 𝐵(𝑓 , 𝜀). Fissiamo un 𝛿 ∈ ]0, 𝜀/2[. Per ogni 𝑧 ∈ 𝑋 esiste un suo intorno aperto 𝐴𝑧 ⊆ 𝑋 tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐴𝑧 , si ha 𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑓 (𝑧)) < 𝛿. Al variare di 𝑧 ∈ 𝑋, gli 𝐴𝑧 costituiscono un ricoprimento aperto di 𝑋. Per la compattezza del dominio, si può estrarre
12.3. Conpact-open topology
659
un sottoricoprimento finito 𝐴𝑧1 , … , 𝐴𝑧𝑝 . Sia ora 𝐾𝑖 ∶= cl 𝐴𝑧𝑖 , con 𝑖 ∈ {1, … , 𝑝}. Per la continuità di 𝑓 , dalla Proposizione 2.27.2 si ottiene 𝑓 (𝐾𝑖 ) = 𝑓 (cl 𝐴𝑧𝑖 ) ⊆ cl 𝐵(𝑓 (𝑧𝑖 ), 𝛿) ⊆ 𝐵[𝑓 (𝑧𝑖 ), 𝛿] ⊆ 𝐵(𝑓 (𝑧𝑖 ), 𝜀/2) =∶ 𝑉𝑖 .
Ciò prova che 𝑓 ∈ ⋂𝑛𝑖=1 𝑀(𝐾𝑖 , 𝑉𝑖 ). Sia ora 𝑔 ∈ ⋂𝑛𝑖=1 𝑀(𝐾𝑖 , 𝑉𝑖 ) e valutiamo la distanza 𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑔(𝑥)), ∀𝑥 ∈ 𝑋. Dato 𝑥 ∈ 𝑋, esso appartiene ad un 𝐴𝑧𝑖 ⊆ 𝐾𝑖 . Per costruzione, si ha 𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑓 (𝑧𝑖 )) < 𝛿 < 𝜀/2. Inoltre, poiché 𝑔 ∈ 𝑀(𝐾𝑖 , 𝑉𝑖 ), si ha anche 𝑑(𝑔(𝑥), 𝑓 (𝑧𝑖 )) < 𝜀/2. Si ottiene che è 𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑔(𝑥)) < 𝜀. Per la compattezza di 𝑋, si ricava 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) < 𝜀. D’ora in avanti, in analogia con le notazioni 𝐶𝑝 e 𝐶𝑢 utilizzate per indicare le topologie della convergenza puntuale e della convergenza uniforme negli spazi delle funzioni continue, indicheremo con 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) lo spazio 𝐶(𝑋, 𝑌 ) dotato della topologia 𝜏𝑘 . Dal risultato appena visto, si ottiene immediatamente il
Corollario 12.86. Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e uno spazio metrico (𝑌 , 𝑑). Se una successione (𝑓𝑛 )𝑛 , con 𝑓𝑛 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), ∀𝑛, converge a una funzione 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) in 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ), allora, per ogni compatto 𝐾 ⊆ 𝑋, la successione converge a 𝑓 uniformemente su 𝐾. È interessante osservare che sussiste anche l’implicazione opposta.
Teorema 12.87. Siano dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), uno spazio metrico (𝑌 , 𝑑), una successione (𝑓𝑛 )𝑛 , con 𝑓𝑛 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), ∀𝑛 e una funzione 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Se, per ogni compatto 𝐾 ⊆ 𝑋, (𝑓𝑛 )𝑛 converge uniformemente a 𝑓 su 𝐾, allora (𝑓𝑛 )𝑛 converge a 𝑓 in 𝜏𝑘 . Dimostrazione. Sia 𝐴 ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) un intorno aperto di 𝑓 in 𝜏𝑘 . prendiamo un aperto di base 𝑊 ∈ 𝜏𝑘 contenente 𝑓 e contenuto in 𝐴. Esistono quindi dei compatti 𝐾1 , … , 𝐾𝑛 in 𝑋 e degli aperti 𝑉1 , … , 𝑉𝑛 in 𝑌 tali che 𝑓 ∈ 𝑊 ∶=
𝑛
⋂ 𝑖=1
𝑀(𝐾𝑖 , 𝑉𝑖 ) ⊆ 𝐴.
Sia ora 𝐾 ∶= ⋃𝑛𝑖=1 𝐾𝑖 che, ovviamente, è un compatto di 𝑋. Restringiamo tutte le funzioni a 𝐾. Per il Teorema di Jackson applicato a 𝐶(𝐾, 𝑌 ), esiste un 𝜀 > 0 tale che 𝑓 ∈ 𝐵 ∶= 𝐵(𝑓 , 𝜀) ⊆ 𝑊 , dove 𝐵 è la palla di centro 𝑓 e raggio 𝜀 in 𝐶(𝐾, 𝑌 ) con la distanza lagrangiana. Per ipotesi, (𝑓𝑛 )𝑛 converge uniformemente a 𝑓 su 𝐾 e quindi esiste un 𝑛∗ (𝜀, 𝐾) tale che 𝑓𝑛 ∈ 𝐵 ⊆ 𝑊 ⊆ 𝐴, per ogni 𝑛 > 𝑛∗ . Nel caso in cui 𝑌 sia uno spazio metrico, ha dunque senso parlare di convergenza uniforme sui compatti. Per concludere il confronto fra le topologie 𝜏𝑢 e 𝜏𝑘 , segnaliamo anche il seguente risultato.
12.3. Conpact-open topology
660
Teorema 12.88. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio completamente regolare. Allora nello spazio 𝐶(𝑋) si ha 𝜏𝑢 = 𝜏𝑘 se e solo se 𝑋 è compatto. Dimostrazione. In virtù del Teorema 12.85, basta provare il “solo se”. Fissiamo in 𝐶(𝑋) la funzione nulla 𝑓0 . Assegnato un 𝜀 ∈ ]0, 1[, consideriamo la palla aperta 𝐵 ∶= 𝐵(𝑓0 , 𝜀) in 𝜏𝑢 . Poiché, per ipotesi, le due topologie sono equivalenti, devono esistere 𝑛 sottoinsiemi compatti 𝐾1 , … , 𝐾𝑛 di 𝑋 ed 𝑛 aperti 𝐴1 , … , 𝐴𝑛 di ℝ (contenenti 0) tali che 𝑓0 (𝐾𝑖 ) ⊆ 𝐴𝑖 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛} e, inoltre ⋂𝑛𝑖=1 𝑀(𝐾𝑖 , 𝐴𝑖 ) ⊆ 𝐵. Se è 𝐾 ∶= ⋃𝑛𝑖=1 𝐾𝑖 = 𝑋, la tesi è raggiunta. Supponiamo quindi per assurdo che sia 𝐾 ≠ 𝑋 e fissiamo un elemento 𝑧 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐾. Poiché 𝐾 è chiuso, per la completa regolarità di 𝑋 esiste una funzione 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋) tale che 𝑔(𝑧) ∶= 1 e 𝑔(𝑥) ∶= 0, ∀𝑥 ∈ 𝐾. Per costruzione, si ha 𝑔(𝐾𝑖 ) = {0} ⊂ 𝐴𝑖 . Si ottiene che 𝑔 ∈ 𝐵 e quindi 𝑑∞ (𝑔, 𝑓0 ) < 𝜀. D’altra parte, si ha 𝑑∞ (𝑔, 𝑓0 ) ≥ 𝑑(𝑔(𝑧), 𝑓0 (𝑧)) = 1 > 𝜀. Una domanda naturale è quella di sapere se sussiste un analogo risultato in 𝐶(𝑋, 𝑌 ), con 𝑌 spazio metrico arbitrario. In generale, la risposta è negativa. Tuttavia si può provare, modificando la dimostrazione precedente, che la risposta diventa positiva se si aggiunge la seguente ipotesi su (𝑌 , 𝑑): (*) Esistono due punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑌 e una funzione continua 𝜑 ∶ [0, 1] → 𝑌 tale che 𝜑(0) ∶= 𝑝 e 𝜑(1) ∶= 𝑞 . La verifica di questo fatto è lasciata per esercizio. Come suggerimento, si può prendere come funzione 𝑓0 la funzione di valore costante 𝑝 e come palla aperta 𝐵 ∶= 𝐵(𝑓0 , 𝜀) ∈ 𝜏𝑢 una di raggio 𝜀 ∈ ]0, 𝛿[, con 𝛿 < 𝑑𝑌 (𝑝, 𝑞). Osserviamo che, senza la compattezza di 𝑋, e senza la condizione (*) nulla si può dire circa l’uguaglianza delle topologie 𝜏𝑢 e 𝜏𝑘 . Se prendiamo 𝑌 ∶= ℚ, la (*) non è verificata. Come primo esempio, consideriamo lo spazio 𝐶(ℝ, ℚ) e osserviamo che le uniche funzioni continue sono quelle costanti. Si ha immediatamente 𝜏𝑢 = 𝜏𝑘 , Invece, sia 𝜏𝑢 ≠ 𝜏𝑘 in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) se prendiamo 𝑋 ∶= ℝ ⧵ ℚ e ancora 𝑌 ∶= ℚ. Consideriamo, in questo caso, la successione di funzioni (𝑓𝑛 )𝑛 , con 𝑓𝑛 ∶ 𝑋 → ℚ definita da 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= ⌊𝑥⌋/𝑛, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ . Si ha 𝑓𝑛 → 0 in 𝜏𝑘 , ma non in 𝜏𝑢 (cfr. esempio 12.84). Gli esempi appena esposti si basano in verità sul concetto di spazio connesso sia per quanto riguarda il dominio che il codominio. Ritroveremo questi argomenti nel capitolo sulla connessione (cfr. l’Osservazione 13.82). Esempio 12.89. Consideriamo una leggera variante dell’Esempio 12.81. Siano 𝑌 = 𝐼 ∶= [0, 1], ma ora 𝑋 ∶= ]0, 1], sempre con la topologia euclidea. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ sia ancora 𝑓𝑛 ∶ 𝑋 → 𝑌 la funzione continua definita da 𝑓𝑛 (𝑥) ∶= 𝑛𝑥/(𝑛2 𝑥2 + 1). Si era già visto che in 𝐼 ∶= [0, 1], la successione converge puntualmente alla funzione nulla 𝑓0 , ma non nella topologia 𝜏𝑘 . Nella situazione attuale, la successione (𝑓𝑛 )𝑛 converge a 𝑓0 sia in 𝜏𝑝 , sia in 𝜏𝑘 , ma non in 𝜏𝑢 . ◁ L’utilità della compact-open topology appare da diversi risultati tecnici come i seguenti:
12.3. Conpact-open topology
661
Lemma 12.90. Siano (𝑋, 𝜏𝑋 ) e (𝑌 , 𝜏𝑌 ) due spazi topologici. Fissati un 𝐷 ⊆ 𝑋 e un chiuso 𝐶 ⊆ 𝑌 , entrambi non vuoti, allora 𝑀(𝐷, 𝐶) è un chiuso di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) e quindi anche di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ).
Dimostrazione. Basta osservare che si ha 𝑀(𝐷, 𝐶) = ⋂𝑑∈𝐷 𝑀({𝑑}, 𝐶) e verificare (Esercizio!) che, per ogni 𝑑 ∈ 𝐷, 𝑀({𝑑}, 𝐶) è chiuso.
Lemma 12.91. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico, 𝐾 ⊆ 𝑋 un compatto non vuoto e 𝐽 ⊆ ℝ un intervallo chiuso. Ad ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝐽 ) associamo il numero reale 𝜌(𝑓 ) ∈ 𝐽 definito da 𝜌(𝑓 ) ∶= max 𝑓 (𝐾). Allora la funzione 𝜌 ∶ 𝐶(𝑋, 𝐽 ) → 𝐽 così definita è continua rispetto alla compact-open topology di 𝐶(𝑋, 𝐽 ). Dimostrazione. Dato un intervallo aperto ]𝑎, 𝑏[ ⊂ ℝ, con ]𝑎, 𝑏[ ∩𝐽 ≠ ∅, definiamo i due seguenti sottoinsiemi di 𝐶(𝑋, 𝐽 ): 𝐶 ∶= {𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝐽 ) ∶ 𝑓 (𝑥) ≤ 𝑎, ∀𝑥 ∈ 𝐾} ; 𝐵 ∶= {𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝐽 ) ∶ 𝑓 (𝑥) < 𝑏, ∀𝑥 ∈ 𝐾} .
Poiché l’intervallo ] − ∞, 𝑎] ∩ 𝐽 è un chiuso di 𝐽 , l’insieme 𝐶 è un chiuso di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝐽 ) (lemma precedente). D’altra parte, si ha 𝜌(𝑓 ) > 𝑎 se e solo se 𝑓 ∉ 𝐶. Analogamente, 𝐵 è un aperto di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝐽 ) e si ha 𝜌(𝑓 ) < 𝑏 se e solo se 𝑓 ∈ 𝐵. Pertanto, si ha 𝜌−1 (𝐽 ∩ ]𝑎, 𝑏[) = 𝐵 ⧵ 𝐶, da cui si ottiene che 𝜌−1 (𝐽 ∩ ]𝑎, 𝑏[) è un aperto di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝐽 ).
L’applicazione 𝜌 definita nel lemma precedente rimane continua se in 𝐶(𝑋, 𝐼) prendiamo una topologia più fine di 𝜏𝑘 come, per esempio, 𝜏𝑢 . La cosa cambia se, invece, indeboliamo la topologia di 𝐶(𝑋, 𝐼). L’Esempio 12.81 mostra che, se in 𝐶(𝑋, 𝐼) prendiamo la topologia della convergenza puntuale, la funzione 𝜌 può non essere continua (Esercizio!). Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico arbitrario non vuoto. Sappiamo dal Corollario 12.2 che 𝐶𝑝 (𝑋) è uno spazio vettoriale topologico localmente convesso. Nell’Osservazione 12.53 abbiamo visto che invece 𝐶𝑢 (𝑋) può non esserlo. Venendo a 𝐶𝑘 (𝑋), stabiliamo il seguente risultato: Teorema 12.92. Qualunque sia lo spazio topologico non vuoto (𝑋, 𝜏), 𝐶𝑘 (𝑋) è uno spazio vettoriale topologico localmente convesso.
Dimostrazione. Sia {𝐾𝛼 }𝛼∈𝐽 la famiglia dei sottospazi compatti non vuoti di 𝑋. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 e per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋), sia 𝑝𝛼 (𝑓 ) ∶= sup {|𝑓 (𝑥)| ∶ 𝑥 ∈ 𝐾𝛼 }. Poiché ciascuna delle 𝑝𝛼 (𝑓 ) è la norma lagrangiana della restrizione di 𝑓 al compatto 𝐾𝛼 , è chiaro che le funzioni 𝑝𝛼 sono delle seminorme (cfr. Definizione 4.1). Posto 𝒫 ∶= {𝑝𝛼 }𝛼∈𝐽 , si vede che (𝐶(𝑋), 𝒫 ) è uno spazio seminormato (cfr. Definizione 5.15). Infatti, se 𝑝𝛼 (𝑓 ) = 0, ∀𝛼 ∈ 𝐽 , allora 𝑓 è la funzione identicamente nulla su 𝑋 (Esercizio!). Per il Teorema 5.28 sappiamo che (𝐶(𝑋), 𝒫 ) è uno SVT localmente convesso. Per concludere, rimane da controllare che la
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topologia 𝜏𝒫 indotta su 𝐶(𝑋) dalla famiglia di seminorme coincide con 𝜏𝑘 . A tale scopo, ricordiamo che, per la Definizione 5.18, un intorno di base della funzione nulla in 𝜏𝒫 è del tipo 𝑈 (0, 𝜀, 𝐽 ′ ) ∶= {𝑓 ∈ 𝐶(𝑋) ∶ 𝑝𝛼 (𝑓 ) < 𝜀, ∀𝛼 ∈ 𝐽 ′ } ,
con 𝐽 ′ (⊆ 𝐽 ) finito. Si ha 𝑈 (0, 𝜀, 𝐽 ′ ) = 𝑀(𝐾, 𝑉 ), con 𝐾 ∶= ⋃𝛼∈𝐽 ′ 𝐾𝛼 e 𝑉 ∶= ] − 𝜀, 𝜀[ (cfr. Definizione 12.80). Si conclude che gli intorni della funzione nulla nelle due topologie coincidono; ciò vale quindi anche per gli intorni di una qualunque 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋). Osservazione 12.93. Il Teorema 5.38 ci dice che uno SVT localmente convesso la cui topologia sia dedotta da una famiglia numerabile di seminorme è metrizzabile. Nella dimostrazione del teorema precedente abbiamo verificato che la 𝜏𝑘 in 𝐶(𝑋) può essere interpretata come una topologia dedotta da una famiglia 𝒫 di seminorme. Può essere interessante dare condizioni sulla topologia di 𝑋 in modo che 𝒫 possa essere sostituita da una famiglia numerabile. Supponiamo che esista una successione (𝐾𝑛 )𝑛 di compatti di 𝑋 con 𝑋 = ⋃𝑛 𝐾𝑛 e 𝐾𝑛 ⊆ 𝐾𝑛+1 . Se ogni compatto 𝐶 di 𝑋 è contenuto in uno di questi (hemi-compact spaces), la sostituzione di cui sopra è chiaramente possibile (Esercizio!). Si tratta ovviamente di casi particolari di spazi 𝜎-compatti. Una condizione sufficiente per la hemi-compattezza è quella di chiedere che, nella successione crescente dei compatti di cui sopra, ciascuno sia contenuto nell’interno del successivo e che la loro riunione dia ancora 𝑋. Da ciò segue immediatamente che 𝐶𝑘 (ℝ) è metrizzabile. Per avere un esempio di spazio 𝜎-compatto non hemi-compatto, basta prendere lo spazio (ℚ, 𝜏𝑒 ) (Esercizio!). ◁
Occupiamoci ora brevemente degli assiomi di separazione. Ricordiamo che, per quanto riguarda la topologia della convergenza puntuale, tutte le proprietà di separazione 𝑇𝑖 , con 𝑖 ≤ 3 12 , si trasferiscono da 𝑌 a 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) (cfr. Teorema 12.41). La normalità e la perfetta normalità sono invece molto più complesse da trattare (cfr. Esempio 12.39 e Corollario 12.45). Per quanto riguarda la topologia della convergenza uniforme, non ci sono problemi, dato che si tratta di uno spazio metrico. Teorema 12.94. Siano (𝑋, 𝜏𝑋 ) e (𝑌 , 𝜏𝑌 ) due spazi topologici. Se 𝑌 gode di uno degli assiomi 𝑇𝑖 , con 𝑖 ≤ 3 12 , è regolare, completamente regolare, allora gode della stessa proprietà anche 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Dimostrazione. Per gli assiomi da 𝑇0 a 𝑇2 , la cosa è ovvia. Basta ricordare che la 𝜏𝑘 è più fine della 𝜏𝑝 e applicare il Teorema 12.41. Passiamo all’assioma 𝑇3 . Siano 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) e 𝑈 ∈ 𝜏𝑘 tale che 𝑓 ∈ 𝑈 . Per il Teorema 1.91, basta verificare che esiste un 𝑉 ∈ 𝜏𝑘 tale che 𝑓 ∈ 𝑉 ⊆ cl 𝑉 ⊆ 𝑈 . Siano 𝐾 un compatto di 𝑋 e 𝐴 ∈ 𝜏𝑌 tali che 𝑓 ∈ 𝑀(𝐾, 𝐴) ⊆ 𝑈 . L’insieme 𝐾 ′ ∶= 𝑓 (𝐾) è compatto e, per definizione, si ha 𝐾 ′ ⊆ 𝐴. Dato che 𝑌 è 𝑇3 , per ogni 𝑘′ ∈ 𝐾 ′ esiste un aperto
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𝐵𝑘′ tale che 𝑘′ ∈ 𝐵𝑘′ ⊆ cl 𝐵𝑘′ ⊆ 𝐴. I 𝐵𝑘′ costituiscono un ricoprimento aperto del compatto 𝐾 ′ , da cui si può estrarre un sottoricoprimento finito. Sia 𝐵 la riunione di questi ultimi aperti. Si ottiene immediatamente 𝐾 ′ ⊆ 𝐵 ⊆ cl 𝐵 ⊆ 𝐴. Poiché 𝑓 (𝐾) ⊆ 𝐵, risulta 𝑓 ∈ 𝑀(𝐾, 𝐵) ⊆ cl 𝑀(𝐾, 𝐵) ⊆ 𝑀(𝐾, cl 𝐵) ⊆ 𝑀(𝐾, 𝐴) ⊆ 𝑈 .
Basta ora prendere 𝑉 ∶= 𝑀(𝐾, 𝐵). Ne viene che, se 𝑌 è regolare, è tale anche 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Veniamo all’assioma 𝑇 1 . Sarà sufficiente dimostrare che, dati 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) 3
2
e un suo intorno aperto di base 𝐴 ∶= 𝑀(𝐾, 𝑈 ) (con 𝐾 ⊆ 𝑋 compatto e 𝑈 ⊆ 𝑌 aperto), esiste una funzione continua 𝜑 ∶ 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) → 𝐼 ∶= [0, 1] tale che 𝜑(𝑓 ) ∶= 0 e 𝜑(𝑔) ∶= 1, ∀𝑔 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) ⧵ 𝐴. Consideriamo il compatto 𝑓 (𝐾) e il chiuso 𝑌 ⧵𝑈 che, per ipotesi, sono disgiunti. Poiché 𝑌 è 𝑇 1 , per la Proposizione 3
2
7.32.4, esiste una funzione continua ℎ ∶ 𝑌 → 𝐼 tale che ℎ(𝑓 (𝐾)) ⊆ {0} e ℎ(𝑦) = 1, ∀𝑦 ∈ 𝑌 ⧵ 𝑈 . Per ogni 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), consideriamo ℎ(𝑔(𝑥)), con 𝑥 ∈ 𝐾 e definiamo 𝜑(𝑔) ∶= sup {ℎ(𝑔(𝑥)) ∶ 𝑥 ∈ 𝐾} .
Abbiamo intanto una funzione da 𝐶(𝑋, 𝑌 ) in 𝐼. Per costruzione, si ha 𝜑(𝑓 ) = 0. Presa ora una funzione 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) ⧵ 𝐴, esiste un punto 𝑤 ∈ 𝐾 tale che 𝑔(𝑤) ∉ 𝑈 , da cui ℎ(𝑔(𝑤)) = 1 e quindi anche 𝜑(𝑔) = 1. Ci resta da provare che 𝜑 è continua. A tale scopo, verifichiamo che la controimmagine di un intervallo aperto ]𝑎, 𝑏[ ⊂ ℝ è un aperto di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Fissiamo una funzione 𝑔0 tale che 𝑎 < 𝜑(𝑔0 ) < 𝑏. Sia ℬ l’insieme delle funzioni 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) tali che ℎ(𝑔(𝑥)) < 𝑏, ∀𝑥 ∈ 𝐾. Per definizione, questo insieme è un aperto di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) contenente 𝑔0 . Analogamente, sia 𝒟 l’insieme delle funzioni 𝑔 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) tali che ℎ(𝑔(𝑥)) ≤ 𝑎, ∀𝑥 ∈ 𝐾. Esso è un chiuso di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) non contenente 𝑔0 (Esercizio!). L’insieme 𝒜 ∶= ℬ ⧵ 𝒟 è un aperto di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) contenente 𝑔0 e tale che 𝜑(𝒜 ) ⊆ ]𝑎, 𝑏[. In fine, si ha subito che, se 𝑌 è completamente regolare, è tale anche 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Per quanto riguarda la normalità, in generale essa non si trasferisce da 𝑌 a 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Per constatarlo, possiamo usare come spazio 𝑋 l’insieme {0, 1} con la topologia discreta e come 𝑌 la solita retta di Sorgenfrey. Come osservato all’inizio del paragrafo, in questo caso 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) coincide con 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ). Poiché 𝑋 consta di due elementi, 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) è a sua volta omeomorfo a 𝑌 × 𝑌 . A questo punto, per l’Esempio 6.40 sappiamo che 𝑌 è perfettamente normale, mentre 𝑌 2 non è neanche normale. Venendo agli assiomi di numerabilità, si è visto già nel caso di 𝐶𝑝 (𝑋) che essi si conservano solo in casi molto particolari e quindi non si può sperare in risultati di carattere molto generale. Ci limitiamo a presentare alcuni risultati parziali.
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Teorema 12.95. Se 𝑋 e 𝑌 sono 𝐴2 e inoltre 𝑋 è localmente compatto, allora 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) è 𝐴2 . Cuò vale, in particolare, per 𝐶𝑘 (𝐴), con 𝐴 aperto di ℝ𝑛 .
Dimostrazione. In base alla Definizione 9.59, 𝑋 è anche 𝑇2 . Dal fatto che 𝑋 sia 𝐴2 e localmente compatto, si ottiene che esiste una base numerabile di aperti 𝒜 ∶= {𝐴𝑛 }𝑛 tale che, per ogni 𝑛, cl 𝐴𝑛 è un compatto di 𝑋 (Esercizio! si tenga presente la Proposizione 9.56.3.). Non è inoltre restrittivo supporre che le riunioni finite di elementi di 𝒜 stiano ancora in 𝒜 . Analogamente, prenderemo in 𝑌 una base numerabile di aperti ℬ ∶= {𝐵𝑛 }𝑛 che supporremo ancora chiusa rispetto alle unioni finite. Consideriamo in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) la famiglia 𝒞 ∶= {𝑀(cl 𝐴𝑛 , 𝐵𝑘 ) ∶ 𝑛, 𝑘 ∈ ℕ}. 𝒞 è una famiglia numerabile di aperti in 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Poniamo, in fine, 𝒟 la famiglia (ancora numerabile) formata da tutte le intersezioni finite di elementi di 𝒞 . Mostriamo che 𝒟 è una base di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). A tale scopo, basterà verificare che, per ogni 𝐾 compatto di 𝑋, 𝑈 aperto di 𝑌 e 𝑓 ∈ 𝑀(𝐾, 𝑈 ), esiste 𝐷 ∈ 𝒟 , tale che 𝑓 ∈ 𝐷 ⊆ 𝑀(𝐾, 𝑈 ). Osserviamo che, per definizione, si ha 𝐾 ⊆ 𝑓 −1 (𝑈 ). Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾, si consideri l’immagine 𝑓 (𝑥) ∈ 𝑈 e sia 𝐵𝑥 ∈ ℬ tale che 𝑓 (𝑥) ∈ 𝐵𝑥 ⊆ 𝑈 . Sia poi 𝑉𝑥 un intorno aperto di 𝑥 tale che cl 𝑉𝑥 ⊆ 𝑓 −1 (𝐵𝑥 ). Un tale 𝑉𝑥 esiste perché 𝑋 è regolare (cfr. Corollario 10.16) e 𝑓 è continua in 𝑥. A sua volta, 𝑉𝑥 contiene un aperto 𝐴𝑥 ∈ 𝒜 ancora intorno di 𝑥. Al variare di 𝑥 ∈ 𝐾, gli 𝐴𝑥 costituiscono un ricoprimento aperto del compatto 𝐾. Da esso si estrae un sottoricoprimento finito 𝐴𝑥1 , … , 𝐴𝑥𝑝 la cui riunione è un aperto 𝐴∗ ∈ 𝒜 . Si ha, pertanto, 𝐾 ⊆ 𝐴∗ ⊆ cl 𝐴∗ ⊆ cl 𝑉𝑥1 ∪ ⋯ ∪ cl 𝑉𝑥𝑝 ⊆ 𝑓 −1 (𝐵𝑥1 ) ∪ ⋯ ∪ 𝑓 −1 (𝐵𝑥𝑝 ) ⊆ 𝑓 −1 (𝑈 ).
Ponendo, in fine, 𝐵 ∗ ∶= 𝐵𝑥1 ∪⋯∪𝐵𝑥𝑝 ∈ ℬ, dalla precedente catena di inclusioni si ha 𝐾 ⊆ 𝐴∗ e 𝑓 (cl 𝐴∗ ) ⊆ 𝐵 ∗ ⊆ 𝑈 , per cui 𝑓 ∈ 𝑀(cl 𝐴∗ , 𝐵 ∗ ) ⊆ 𝑀(𝐾, 𝑈 ), con 𝑀(cl 𝐴∗ , 𝐵 ∗ ) ∈ 𝒞 ⊆ 𝒟 . La stessa dimostrazione prova che, se il peso di 𝑋 e 𝑌 è minore o uguale a un cardinale 𝔪 ≥ ℵ0 , allora è anche 𝑤(𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 )) ≤ 𝔪. L’ipotesi di locale compattezza su 𝑋 non è artificiosa perché, in casi molto concreti, è anche condizione necessaria affinché 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) abbia determinate proprietà di cardinalità. Sussiste infatti il seguente risultato per 𝐶𝑘 (𝑋) ∶= 𝐶𝑘 (𝑋, ℝ).
Teorema 12.96. Sia 𝑋 uno spazio 𝐴1 completamente regolare. Se 𝐶𝑘 (𝑋) è primo numerabile, allora 𝑋 è localmente compatto.
Dimostrazione. Sia 𝑓0 ∶ 𝑋 → ℝ la funzione identicamente nulla. La famiglia degli insiemi 𝑀(𝐾, 𝐽 ), con 𝐾 compatto di 𝑋 e 𝐽 ⊂ ℝ intervallo aperto e limitato contenente 0, è una base di intorni aperti di 𝑓0 in 𝐶𝑘 (𝑋). Se un insieme del tipo 𝑀(𝐾1 , 𝐽1 ) è contenuto in 𝑀(𝐾, 𝐽 ), deve essere 𝐽1 ⊆ 𝐽 e 𝐾 ⊆ 𝐾1 . La prima inclusione è ovvia. Se, per assurdo, esiste 𝑧 ∈ 𝐾 ⧵𝐾1 , poiché 𝑋 è completamente regolare, e 𝐾1 è chiuso, esiste una funzione continua 𝑔 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑔(𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝐾1 e 𝑔(𝑧) = 1. Moltiplicando 𝑔 per un’opportuna costante 𝑚,
12.3. Conpact-open topology
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otteniamo una funzione 𝑔1 ∶ 𝑋 → ℝ tale che 𝑔1 (𝑧) ∉ 𝐽 . D’altra parte, si ha 𝑔1 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝐾1 . Quindi 𝑔1 ∈ 𝑀(𝐾1 , 𝐽1 ), ma 𝑔1 ∉ 𝑀(𝐾, 𝐽 ), contro l’ipotesi. Supponiamo ora che esista una base numerabile di intorni aperti di 𝑓0 ; ogni suo elemento conterrà un aperto del tipo 𝑀(𝐾𝑛 , 𝐽𝑛 ), con 𝑛 ∈ ℕ, che non sarà restrittivo supporre decrescente per inclusione. Per l’osservazione precedente, risulterà 𝐾𝑛 ⊆ 𝐾𝑛+1 e 𝐽𝑛 ⊇ 𝐽𝑛+1 , per ogni 𝑛. Poiché i singoletti sono insiemi compatti, per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, l’aperto 𝑀({𝑧}, ] − 1, 1[) deve contenere un aperto di base; ne viene che 𝑧 sta in qualche 𝐾𝑛 . Si conclude che è 𝑋 = ⋃+∞ 0 𝐾𝑛 . Dunque 𝑋 è uno spazio 𝜎-compatto (cfr. Definizione 11.64). Inoltre, con analogo ragionamento, si vede che ogni compatto 𝐾 di 𝑋 è contenuto in qualche 𝐾𝑛 . Rimane da provare che 𝑋 è localmente compatto. Fissiamo un 𝑤 ∈ 𝑋 e, usando il fatto che 𝑋 è 𝐴1 e anche 𝑇1 , prendiamo una sua base di intorni aperti (𝑈𝑛 )𝑛 decrescente per inclusione; per il Teorema 1.79, si ha ⋂𝑛 𝑈𝑛 = {𝑤}. Se esiste un 𝑛 per cui è 𝑈𝑛 ⊆ 𝐾𝑛 , abbiamo trovato un intorno di 𝑤 a chiusura compatta. Se così non fosse, per ogni 𝑛, esisterebbe un 𝑦𝑛 ∈ 𝑈𝑛 ⧵ 𝐾𝑛 . Per la decrescenza degli 𝑈𝑛 , si ha che la successione degli 𝑦𝑛 converge a 𝑤. Essendo 𝑋 di Hausdorff, l’insieme 𝐶 ∶= {𝑤} ∪ {𝑦𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} è chiuso e, come si vede immediatamente, è anche compatto. Per quanto osservato sopra, 𝐶 deve essere contenuto in qualche 𝐾𝑛 , contro il modo con cui è stato costruito 𝐶. Mel caso particolare che 𝑋 e 𝑌 siano spazi metrici, si ha un interessante risultato di tipo “diagonale”. Teorema 12.97. Dati due spazi metrici (𝑋, 𝑑𝑋 ), (𝑌 , 𝑑𝑌 ), siano 𝑓𝑛 , 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), 𝑛 ∈ ℕ. Allora 𝑓𝑛 → 𝑓 in 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) se e solo se vale la seguente proprietà: (∀(𝑥𝑛 )𝑛 ∈ 𝑋 ℕ )(∀𝑤 ∈ 𝑋)(𝑥𝑛 → 𝑤) ⇒ (𝑓𝑛 (𝑥𝑛 ) → 𝑓 (𝑤)).
(12.9)
Dimostrazione. Proviamo il “solo se”. Supponiamo pertanto che 𝑓𝑛 tenda a 𝑓 in 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Per il Corollario 12.86, per ogni compatto 𝐾 ⊆ 𝑋, 𝑓𝑛 converge uniformemente a 𝑓 su 𝐾. Data (𝑥𝑛 )𝑛 → 𝑤 ∈ 𝑋, poniamo 𝐾 ∶= {𝑤} ∪ {𝑥𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. Si vede subito che 𝐾 è compatto. Applicando a questo compatto 𝐾 la definizione di convergenza uniforme, si ottiene la tesi. Infatti, 𝑑𝑌 (𝑓𝑛 (𝑥𝑛 ), 𝑓 (𝑤)) ≤ 𝑑𝑌 (𝑓𝑛 (𝑥𝑛 ), 𝑓 (𝑥𝑛 )) + 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥𝑛 ), 𝑓 (𝑤)) ≤ ≤ sup {𝑑𝑌 (𝑓𝑛 (𝑦), 𝑓 (𝑦)) ∶ 𝑦 ∈ 𝐾 } + 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥𝑛 ), 𝑓 (𝑤)).
Nell’ultima somma, il primo addendo tende a 0 per l’uniforme convergenza su 𝐾, mentre il secondo tende a 0 per la (sequenziale) continuità di 𝑓 . Proviamo il “se”. Supponiamo, per assurdo, che esista un compatto 𝐾 ⊆ 𝑋 su cui la convergenza delle 𝑓𝑛 a 𝑓 non è uniforme. Cuò significa che esistono un 𝜀 > 0 e una sottosuccessione (𝑔𝑛 )𝑛 di (𝑓𝑛 )𝑛 , con 𝑔𝑛 ∶= 𝑓𝑘𝑛 tale che per la distanza 𝑑∞ su 𝐶(𝐾, 𝑌 ), che indicheremo con 𝑑𝐾,∞ , si ha 𝑑𝐾,∞ (𝑔𝑛 , 𝑓 ) ≥ 𝜀. Ciò comporta che, per ogni 𝑛, esiste un 𝑥𝑛 ∈ 𝐾 tale che 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑥𝑛 ), 𝑓 (𝑥𝑛 )) ≥ 𝜀. Per
12.3. Conpact-open topology
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la compattezza di 𝐾, la successione (𝑥𝑛 )𝑛 ammette una sottosuccessione (𝑥𝑙𝑛 )𝑛 convergente a un elemento 𝑧 ∈ 𝐾. Risulta 0 < 𝜀 ≤ 𝑑𝑌 (𝑔𝑙𝑛 (𝑥𝑙𝑛 ), 𝑓 (𝑥𝑙𝑛 )) ≤ 𝑑𝑌 (𝑔𝑙𝑛 (𝑥𝑙𝑛 ), 𝑓 (𝑧)) + 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑧), 𝑓 (𝑥𝑙𝑛 )).
Ora però il primo addendo dell’ultima somma tende a 0 per ipotesi, mentre il secondo tende a 0 per la (sequenziale) continuità di 𝑓 .
Nei paragrafi precedenti abbiamo visto che la topologia 𝜏𝑝 della convergenza puntuale in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è propria (cfr. Proposizione 12.48) ma non sempre ammissibile (cfr. Esempio 12.49), mentre, se 𝑌 è uno spazio metrico, quella 𝜏𝑢 della convergenza uniforme è ammissibile (cfr. Proposizione 12.60) ma non sempre propria (cfr. Esempio 12.61). È naturale ora esaminare questi aspetti relativamente alla topologia 𝜏𝑘 . La prima proprietà importante che incontreremo è la minimalità di 𝜏𝑘 fra le topologie ammissibili di 𝐶(𝑋, 𝑌 ), nel senso che essa è sempre meno fine di ogni topologia ammissibile e, in molti casi, ad esempio se il dominio è localmente compatto, è essa stessa ammissibile. Si osservi che in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) esistono sempre delle topologie ammissibili: basta prendere quella discreta, che è la più fine fra quelle possibili (Esercizio!). Teorema 12.98. Quali che siano gli spazi topologici 𝑋 e 𝑌 , la topologia 𝜏𝑘 è meno fine di tutte quelle ammissibili in 𝐶(𝑋, 𝑌 )
Dimostrazione. Siano 𝑀(𝐾, 𝑉 ) un elemento della sottobase di aperti per la 𝜏𝑘 -topologia in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) e 𝑓 ∈ 𝑀(𝐾, 𝑉 ) una funzione fissata. Ricordiamo che 𝐾 è un compatto di 𝑋 e 𝑉 è un aperto di 𝑌 . Sia inoltre 𝜏 una topologia ammissibile di 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Ricordiamo che, per definizione di ammissibilità, risulta che l’applicazione (mappa di valutazione) Ψ ∶ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) × 𝑋 → 𝑌 definita da Ψ(𝑔, 𝑡) ∶= 𝑔(𝑡) è continua se in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è definita la topologia 𝜏. In particolare, fissato 𝑔 ∶= 𝑓 e considerando un arbitrario 𝑥 ∈ 𝐾, poiché 𝑓 (𝑥) ∈ 𝑉 , esistono un 𝜏-intorno aperto 𝑈𝑓 ,𝑥 di 𝑓 in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) e un intorno aperto 𝑊𝑥 di 𝑥 in 𝑋 tali che 𝑔(𝑡) ∈ 𝑉 per ogni 𝑔 ∈ 𝑈𝑓 ,𝑥 e ogni 𝑡 ∈ 𝑊𝑥 . Gli aperti 𝑊𝑥 costituiscono un ricoprimento del compatto 𝐾. Da esso possiamo estrarre un sottoricoprimento finito 𝑊𝑥1 , … , 𝑊𝑥𝑝 . Sia poi 𝑈𝑓 ∶= 𝑈𝑓 ,𝑥1 ∩ ⋯ ∩ 𝑈𝑓 ,𝑥𝑝 . Chiaramente, 𝑈𝑓 è un 𝜏-intorno aperto di 𝑓 . Per ogni 𝑥 ∈ 𝐾, esiste un indice 𝑖 ∈ {1, … , 𝑝} tale che 𝑥 ∈ 𝑊𝑥𝑖 , da cui, se 𝑔 ∈ 𝑈𝑓 ⊆ 𝑈𝑓 ,𝑥𝑖 , si ha 𝑔(𝑥) ∈ 𝑉 . Per l’arbitrarietà di 𝑥 ∈ 𝐾, si ottiene che è 𝑔(𝐾) ⊆ 𝑉 , ∀𝑔 ∈ 𝑈𝑓 . Si conclude che è 𝑈𝑓 ⊆ 𝑀(𝐾, 𝑉 ) e che quindi 𝜏 è più fine di 𝜏𝑘 . Per ottenere l’effettiva minimalità di 𝜏𝑘 , ci resta da verificare che questa topologia è effettivamente ammissibile. Questo fatto è vero nel caso che il dominio sia localmente compatto. Teorema 12.99. Se lo spazio (𝑋, 𝜏𝑋 ) è localmente compatto, allora, quale che sia lo spazio (𝑌 , 𝜏𝑌 ), la topologia 𝜏𝑘 di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è ammissibile.
12.3. Conpact-open topology
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Dimostrazione. Consideriamo l’applicazione Ψ ∶ 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) × 𝑋 → 𝑌 e, fissati 𝑓0 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) e 𝑥0 ∈ 𝑋, verifichiamo la continuità di Ψ in (𝑓0 , 𝑥0 ). Sia 𝑉 un intorno aperto in 𝑌 del punto Ψ(𝑓0 , 𝑥0 ) = 𝑓0 (𝑥0 ). Per la continuità di 𝑓0 , esiste in 𝑋 un intorno aperto 𝑈 di 𝑥0 tale che 𝑓0 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Usando il fatto che 𝑋 è regolare (addirittura completamente regolare, cfr. Teorema 9.62), e che 𝑥0 possiede una base di intorni a chiusura compatta, si ottiene che esiste un intorno aperto 𝑊 di 𝑥0 con 𝑥0 ∈ 𝑊 ⊆ cl 𝑊 ⊆ 𝑈 , con 𝐾 ∶= cl 𝑊 compatto. È dunque 𝑓0 ∈ 𝑀(𝐾, 𝑉 ), che è un aperto di sottobase di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) e quindi un 𝜏𝑘 -intorno di 𝑓0 . A questo punto, basta osservare che, per ogni 𝑔 ∈ 𝑀(𝐾, 𝑉 ) e per ogni 𝑡 ∈ 𝑊 si ha che Ψ(𝑔, 𝑡) = 𝑔(𝑡) ∈ 𝑉 e ciò è garantito dal fatto che 𝑔 manda in 𝑉 tutti i punti di 𝐾 e quindi anche tutti i punti di 𝑊 . Alla luce di questo teorema, è naturale chiedersi se la locale compattezza di 𝑋 è solo una condizione tecnica o svolge un ruolo essenziale. Arens in [3] dimostra che, nel caso in cui sia 𝑌 ∶= [0, 1] e che 𝑋 sia completamente regolare, allora l’esistenza di una topologia ammissibile e minimale in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) implica che 𝑋 sia localmente compatto e, di conseguenza, grazie ai risultati precedenti, tale topologia minimale è proprio 𝜏𝑘 . Il passo successivo è quello di analizzare se la 𝜏𝑘 è una topologia propria. Teorema 12.100. Quali che siano gli spazi topologici 𝑋 e 𝑌 , la topologia 𝜏𝑘 in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è propria.
Dimostrazione. Fissati due arbitrari spazi topologici 𝑋, 𝑌 , si tratta di verificare che, per ogni spazio topologico 𝑍 e per ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝑍 × 𝑋 → 𝑌 , l’applicazione Λ(𝑓 ) ∶ 𝑍 → 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) è continua. Ricordiamo che è Λ(𝑓 )(𝑧) ∶= 𝑓 (𝑧, ⋅). Siano ora assegnati 𝑍 e 𝑓 ∈ 𝐶(𝑍 × 𝑋, 𝑌 ) e consideriamo la corrispondente applicazione Λ(𝑓 ). Verificheremo che la controimmagine tramite Λ(𝑓 ) di ogni aperto di sottobase di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) è un aperto di 𝑍. Sia dunque assegnato un aperto di sottobase 𝑀(𝐾, 𝑈 ) in 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ), dove 𝐾 è un compatto di 𝑋 e 𝑈 è un aperto di 𝑌 . Sia 𝑊 ∶= Λ(𝑓 )−1 (𝑀(𝐾, 𝑈 )). Un elemento 𝑧 ∈ 𝑍 appartiene a 𝑊 se e solo se Λ(𝑓 )(𝑧) ∈ 𝑀(𝐾, 𝑈 ). Ciò accade se e solo se, per ogni 𝑥 ∈ 𝐾, 𝑓 (𝑧, 𝑥) ∈ 𝑈 o, equivalentemente, 𝑓 ({𝑧} × 𝐾) ⊆ 𝑈 . Pertanto, si ha 𝑧 ∈ 𝑊 se e solo se {𝑧} × 𝐾 ⊆ 𝑓 −1 (𝑈 ). In altri termini, abbiamo dimostrato che 𝑊 = {𝑧 ∈ 𝑍 ∶ {𝑧} × 𝐾 ⊆ 𝑓 −1 (𝑈 )} .
Rimane da verificare che 𝑊 è aperto. Sia 𝑤 ∈ 𝑊 , da cui {𝑤} × 𝐾 ⊆ 𝑓 −1 (𝑈 ); quest’ultimo insieme è ovviamente aperto per la continuità di 𝑓 . Applicando il Teorema di Wallace 11.53 al prodotto 𝑍 × 𝑋, con {𝑤} compatto di 𝑍 e 𝐾 compatto di 𝑋, si ha che esistono due aperti 𝐴𝑤 ⊆ 𝑍 e 𝐵𝐾 ⊆ 𝑋, tali che {𝑤} × 𝐾 ⊆ 𝐴𝑤 × 𝐵𝐾 ⊆ 𝑓 −1 (𝑈 ).
Ne segue che è 𝐴𝑤 × 𝐾 ⊆ 𝑓 −1 (𝑈 ), da cui 𝐴𝑤 ⊆ 𝑊 . Si conclude che 𝑊 è intorno di ogni suo punto.
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
12.4
668
Il teorema di Ascoli-Arzelà
In tutto il paragrafo la topologia degli spazi 𝐶(𝑋, 𝑌 ) sarà la compact-open topology 𝜏𝑘 . Per comodità di notazione, scriveremo direttamente 𝐶(𝑋, 𝑌 ) in luogo di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Il Teorema di Ascoli-Arzelà è uno dei risultati più importanti in Analisi Matematica e in Analisi Funzionale ed è uno strumento tecnico essenziale in numerose dimostrazioni. Esso caratterizza i sottoinsiemi compatti (o relativamente compatti) in spazi di funzioni continue. Il teorema si basa sul concetto fondamentale di equicontinuità. In letteratura si trovano diverse versioni di questo risultato. Tutte queste varianti sono generalizzazioni delle prime versioni ottenute dai matematici italiani Giulio Ascoli nel 1883 e Cesare Arzelà nel 1895 per le funzioni reali di variabile reale. Un’importante generalizzazione fu ottenuta da M. Fréchet nel 1906 per funzioni a valori reali definite su uno spazio metrico compatto. Cominceremo presentando il risultato in una forma più semplice possibile, considerando lo spazio delle funzioni continue a valori reali e definite su un intervallo compatto 𝐾 ∶= [𝑎, 𝑏]. Ricordiamo che, quando il dominio è compatto e il codominio è uno spazio metrico, le topologie 𝜏𝑘 e 𝜏𝑢 coincidono (cfr. Teorema 12.83). Data una successione di funzioni continue (𝑓𝑛 )𝑛 da 𝐾 in ℝ, diremo che essa è equicontinua se, per ogni 𝜀 > 0, esiste 𝛿 ∶= 𝛿𝜀 > 0 tale che (∀𝑥′ , 𝑥″ ∈ 𝐾)(∀𝑛 ∈ ℕ)(|𝑥′ − 𝑥″ | < 𝛿 ⇒ |𝑓𝑛 (𝑥′ ) − 𝑓𝑛 (𝑥″ )| < 𝜀).
La successione è detta limitata (o equilimitata) se esiste una costante 𝑀 > 0 tale che |𝑓𝑛 (𝑥)| ≤ 𝑀, per ogni 𝑥 ∈ 𝐾 e ogni 𝑛 ∈ ℕ, ossia (cfr. Esempio 4.11) se (e solo se) ‖𝑓𝑛 ‖∞ ≤ 𝑀, ∀𝑛 ∈ ℕ.
Teorema 12.101 (di Ascoli-Arzelà). Una successione di funzioni continue (𝑓𝑛 )𝑛 da [𝑎, 𝑏] in ℝ ammette una sottosuccessione convergente uniformemente a una funzione continua 𝑔 ∶ [𝑎, 𝑏] → ℝ se (e solo se) è equicontinua e limitata. Questa prima versione del teorema si estende facilmente a una successione di funzioni continue da [𝑎, 𝑏] a ℝ𝑛 . La dimostrazione di questi enunciati si otterrà come immediato corollario di teoremi più generali che esporremo tra poco (cfr. Definizione 12.104, Teorema 12.108). Occupiamoci intanto di funzioni fra spazi metrici. Ricordiamo che, dati uno spazio topologico (non vuoto) 𝑋 e uno spazio metrico (𝑌 , 𝑑), la distanza lagrangiana fra due funzioni (continue) 𝑓 , 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝑌 è definita da 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) ∶= sup {𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑔(𝑥)) ∶ 𝑥 ∈ 𝑋} .
Essendo un estremo superiore, l’elemento 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) esiste sempre ed appartiene a ℝ∪{+∞}. Sappiamo che, se 𝑋 è compatto e 𝑓 , 𝑔 sono continue, si ha 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) ∈ ℝ e si ottiene effettivamente una distanza. Sottolineiamo esplicitamente che, come visto nel Paragrafo 12.2 e tenendo conto del Teorema 12.85, in tal caso la
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
669
convergenza in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è quella uniforme e che essa coincide con quella dedotta dalla compact-open topology. È interessante il caso in cui 𝑌 è uno spazio normato. Proposizione 12.102. Siano 𝑋 e 𝑌 due spazi metrici, con 𝑋 compatto. 1. Se 𝑌 è normato, è tale anche lo spazio 𝐶(𝑋, 𝑌 ). 2. Se 𝑌 è completo, è tale anche 𝐶(𝑋, 𝑌 ).
Dimostrazione. La 1 è immediata; basta infatti porre, per ogni 𝑓 ∈ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), ‖𝑓 ‖∞ ∶= sup {‖𝑓 (𝑥)‖𝑌 ∶ 𝑥 ∈ 𝑋 } e osservare che è 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) = ‖𝑓 − 𝑔‖∞ ,
stante il fatto che è 𝑑𝑌 (𝑦′ , 𝑦″ ) = ‖𝑦′ − 𝑦″ ‖𝑌 . Le relative verifiche sono lasciate per esercizio. La 2 segue dal Teorema 12.56. È importante ricordare che, salvo casi banali, un insieme chiuso e limitato di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) non è necessariamente compatto. Basta prendere in 𝐶([0, 1]) l’insieme delle funzioni 𝑥𝑛 . Sia ora 𝐹 ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), con 𝑋 spazio metrico compatto. Si cercano condizioni necessarie affinché 𝐹 risulti compatto, o almeno relativamente compatto (cfr. Definizione 7.72). Ovviamente, se 𝐹 è compatto, allora è necessariamente chiuso (e limitato). Teorema 12.103. Siano 𝑋, 𝑌 spazi metrici, con 𝑋 compatto, e 𝐹 un sottoinsieme di 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, sia 𝐹 (𝑥) ∶= {𝑓 (𝑥) ∶ 𝑓 ∈ 𝐹 }. Se 𝐹 è compatto [relativamente compatto], allora, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝐹 (𝑥) è compatto [relativamente compatto] in 𝑌 .
Dimostrazione. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑋 e una successione (𝑓𝑛 (𝑥))𝑛 di 𝐹 (𝑥). La successione (𝑓𝑛 )𝑛 ha una sottosuccessione (𝑓𝑛𝑘 )𝑘 convergente a un elemento 𝑓 ∈ 𝐹 [a un elemento 𝑓 ∈ cl 𝐹 ]. Ne viene che la sottosuccessione (𝑓𝑛𝑘 (𝑥))𝑘 della successione (𝑓𝑛 (𝑥))𝑛 converge all’elemento 𝑓 (𝑥) ∈ 𝐹 (𝑥) [a 𝑓 (𝑥) ∈ cl 𝐹 (𝑥)]. La tesi segue dal fatto che, negli spazi metrici, compattezza e compattezza sequenziale coincidono. Un altro modo di procedere è il seguente. L’insieme 𝐹 (𝑥) è l’immagine in 𝑌 dell’insieme 𝐹 mediante la proiezione / valutazione 𝛿 𝑥 ∶ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) → 𝑌 e che è continua rispetto alla topologia 𝜏𝑝 e quindi anche rispetta alla 𝜏𝑘 = 𝜏𝑢 che è di essa più fine. Sappiamo (cfr. Teorema 7.71 di Heine) che una funzione continua di uno spazio metrico compatto 𝐾 in uno spazio metrico 𝑌 è uniformemente continua. Diamo ora la seguente definizione.
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
670
Definizione 12.104. Siano dati due spazi metrici 𝑋, 𝑌 e un sottoinsieme 𝐹 di 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Si dice che 𝐹 è equicontinuo se (∀𝜀 > 0)(∃𝛿(𝜀) > 0)(∀𝑥′ ∈ 𝑋)(∀𝑥″ ∈ 𝑋)(∀𝑓 ∈ 𝐹 ) (𝑑𝑋 (𝑥′ , 𝑥″ ) < 𝛿(𝜀) ⇒ 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥′ ), 𝑓 (𝑥″ )) < 𝜀).
◁
Teorema 12.105. Siano 𝑋, 𝑌 spazi metrici, con 𝑋 compatto, e 𝐹 un sottoinsieme di 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Se 𝐹 è compatto (o almeno relativamente compatto) allora è equicontinuo. Dimostrazione. Essendo compatto o relativamente compatto, 𝐹 ha la proprietà delle 𝜀-reti (cfr. Corollario 7.20 e Teorema 7.73). Dunque, per ogni 𝜀 > 0, esiste un insieme finito di funzioni 𝐺 = {𝑔1 , 𝑔2 , … .𝑔𝑛 } ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) tale che, per ogni 𝑓 ∈ 𝐹 , esiste 𝑔𝑖 ∈ 𝐺 con 𝑓 ∈ 𝐵∞ (𝑔𝑖 , 𝜀). Per la compattezza di 𝑋, le 𝑔𝑖 sono applicazioni uniformemente continue di 𝑋 in 𝑌 ; dunque, (∀𝜀 > 0)(∀𝑖 ∈ {1, 2, … , 𝑛})(∃𝛿𝑖 (𝜀) > 0)(∀𝑥′ ∈ 𝑋)(∀𝑥″ ∈ 𝑋) (𝑑𝑋 (𝑥′ , 𝑥″ ) < 𝛿𝑖 (𝜀) ⇒ 𝑑𝑌 (𝑔𝑖 (𝑥′ ), 𝑔𝑖 (𝑥″ )) < 𝜀).
Sia ora 𝛿(𝜀) ∶= min {𝛿𝑖 (𝜀) ∶ 𝑖 ∈ {1, 2, … , 𝑛}}. Dati 𝑥′ , 𝑥″ ∈ 𝑋, con 𝑑𝑋 (𝑥′ , 𝑥″ ) < 𝛿(𝜀) e 𝑓 ∈ 𝐹 , scegliamo un 𝑖 tale che 𝑓 ∈ 𝐵∞ (𝑔𝑖 , 𝜀). Si ha: 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥′ ), 𝑓 (𝑥″ )) ≤ 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥′ ), 𝑔𝑖 (𝑥′ )) + 𝑑𝑌 (𝑔𝑖 (𝑥′ ), 𝑔𝑖 (𝑥″ )) + 𝑑𝑌 (𝑔𝑖 (𝑥″ ), 𝑓 (𝑥″ )),
da cui 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥′ ), 𝑓 (𝑥″ )) < 3𝜀.
Osservazione 12.106. Non sussistono le implicazioni opposte dei Teoremi 12.103 e 12.105. L’insieme delle funzioni costanti di [0, 1] in ℝ è chiaramente equicontinuo ma non relativamente compatto. Sempre con 𝑋 ∶= [0, 1] e 𝑌 ∶= ℝ, sia 𝐹 ∶= {𝑓𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }, con 𝑓𝑛 (𝑡) ∶= 𝑛 𝑡 . 𝐹 non è relativamente compatto, dato che la successione (𝑓𝑛 )𝑛 non ha sottosuccessioni convergenti. Per contro, quale che sia 𝑡 ∈ [0, 1], l’insieme 𝐹 (𝑡) è limitato in ℝ e quindi relativamente compatto. ◁
Riassumendo quanto sopra visto, possiamo dire che, se un sottoinsieme 𝐹 di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) (con 𝑋, 𝑌 spazi metrici e 𝑋 compatto) è relativamente compatto, allora è equicontinuo e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝐹 (𝑥) è relativamente compatto. Se poi 𝐹 è compatto, allora è chiuso, equicontinuo e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝐹 (𝑥) è compatto. Possiamo ora dimostrare l’importante risultato annunciato all’inizio del paragrafo che inverte queste implicazioni. Premettiamo un lemma di interesse generale. Lemma 12.107 (Lemma diagonale). Sia (𝑓𝑛 )𝑛 una successione di funzioni di un insieme numerabile 𝐷 in uno spazio metrico 𝑌 tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐷, l’insieme {𝑓𝑛 (𝑥) ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } è relativamente compatto in 𝑌 . Allora esistono una funzione 𝑓 ∶ 𝐷 → 𝑌 ed una sottosuccessione (𝑓𝑛𝑘 )𝑘 tale che (𝑓𝑛𝑘 (𝑥)) converge a 𝑓 (𝑥) per ogni 𝑥 ∈ 𝐷.
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
671
Dimostrazione. Sia 𝐷 = {𝑑𝑗 ∶ 𝑗 ∈ ℕ+ }. Consideriamo la successione in 𝑌 data da (𝑓𝑛 (𝑑1 ))𝑛 . L’insieme {𝑓𝑛 (𝑑1 ) ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } è relativamente compatto in 𝑌 . Esiste quindi una sottosuccessione (𝑓𝑛𝑘 (𝑑1 ))𝑘 convergente a un elemento 𝑦1 ∈ 𝑌 . Per comodità, poniamo (𝑓𝑛 )𝑛 ∶= (𝑓𝑛𝑘 )𝑘 . Anche la successione (𝑓𝑛 (𝑑2 ))𝑛 ha (1)
(1)
una sottosuccessione (𝑓𝑛 (𝑑2 ))𝑛 convergente a un elemento 𝑦2 ∈ 𝑌 . E co(ℎ) sì via: per ogni ℎ ∈ ℕ+ , la successione (𝑓𝑛 (𝑑ℎ+1 ))𝑛 ha una sottosuccessione (ℎ+1) (𝑓𝑛 (𝑑ℎ+1 ))𝑛 convergente a un elemento 𝑦ℎ+1 ∈ 𝑌 . (𝑘) Consideriamo ora la successione “diagonale” (𝑓𝑘 )𝑘 . Questa è chiaramente (2)
una sottosuccessione di (𝑓𝑛 )𝑛 . A parte eventualmente il primo termine, essa (2) è anche una sottosuccessione di (𝑓𝑛 )𝑛 . In generale, dato 𝑘 ∈ ℕ+ e a parte (𝑘) eventualmente i primi 𝑘 − 1 termini, è anche una sottosuccessione di (𝑓𝑛 )𝑛 . (𝑘) + Ne viene che, per ogni 𝑗 ∈ ℕ , (𝑓𝑘 (𝑑𝑗 ))𝑘 converge a 𝑦𝑗 ∈ 𝑌 . Sia, in fine, (1)
𝑓 ∶ 𝐷 → 𝑌 la funzione definita da 𝑓 (𝑑𝑗 ) ∶= 𝑦𝑗 . Si ha subito che (𝑓𝑘 )𝑘 converge puntualmente a 𝑓 in 𝐷. (𝑘)
Teorema 12.108 (di Ascoli-Arzelà). Siano 𝑋, 𝑌 spazi metrici, con 𝑋 compatto, e 𝐹 ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) equicontinuo e tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’insieme 𝐹 (𝑥) è relativamente compatto in 𝑌 . Allora 𝐹 è relativamente compatto in 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Dimostrazione. Essendo 𝑋 compatto, è separabile (cfr. Corollario 7.18); esiste cioè un sottoinsieme numerabile 𝐷 = {𝑑𝑗 ∶ 𝑗 ∈ ℕ+ } denso in 𝑋. Dato 𝐹 ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ), sia (𝑓𝑛 )𝑛 una successione di elementi di 𝐹 . Vogliamo dimostrare che esistono una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 e una sottosuccessione (𝑓𝑛𝑘 )𝑘 tali che (𝑓𝑛𝑘 )𝑘 converge uniformemente a 𝑓 su 𝑋. Questo proverà che 𝐹 è sequenzialmente relativamente compatto e quindi relativamente compatto. (𝑛) Per il Lemma diagonale, esistono una sottosuccessione (𝑔𝑛 )𝑛 ∶= (𝑓𝑛 )𝑛 di (𝑓𝑛 )𝑛 e una funzione 𝑓0 ∶ 𝐷 → 𝑌 tale che (𝑔𝑛 )𝑛 converge puntualmente a 𝑓0 in 𝐷. Fissiamo ora un arbitrario punto 𝑥 ∈ 𝑋. Ci proponiamo di dimostrare che la successione (𝑔𝑛 (𝑥))𝑛 è di Cauchy in 𝑌 . Per ogni 𝑛, 𝑚, 𝑗 ∈ ℕ+ , si ha 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑥), 𝑔𝑚 (𝑥)) ≤ 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑥), 𝑔𝑛 (𝑑𝑗 ))+
+ 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑑𝑗 ), 𝑔𝑚 (𝑑𝑗 )) + 𝑑𝑌 (𝑔𝑚 (𝑑𝑗 ), 𝑔𝑚 (𝑥)). (12.10)
Per la equicontinuità di 𝐹 , esiste un 𝛿 > 0 tale che da 𝑑𝑋 (𝑥′ , 𝑥″ ) < 𝛿 segue 𝑑𝑌 (𝑔𝑘 (𝑥′ ), 𝑔𝑘 (𝑥″ )) < 𝜀/3, per ogni 𝑘 ∈ ℕ+ . Per la densità di 𝐷 in 𝑋, possiamo prendere 𝑗 ∈ ℕ+ in modo che sia 𝑑𝑋 (𝑥, 𝑑𝑗 ) < 𝛿; ne viene che il primo e il terzo addendo del secondo membro della (12.10) sono minori di 𝜀/3. Fissato 𝑗, siccome la successione (𝑔𝑛 (𝑑𝑗 ))𝑛 è convergente a 𝑓0 (𝑑𝑗 ) e quindi di Cauchy, esiste un 𝑛 ̄ ∈ ℕ+ tale che, per ogni 𝑛, 𝑚(∈ ℕ+ ) maggiori di 𝑛,̄ si ha 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑑𝑗 ), 𝑔𝑚 (𝑑𝑗 )) < 𝜀/3. Ne viene che la successione (𝑔𝑛 (𝑥))𝑛 è effettivamente di Cauchy in 𝑌 , per ogni 𝑥 ∈ 𝑋.
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
672
Poiché, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, (𝑔𝑛 (𝑥))𝑛 è una successione di Cauchy del sottoinsieme compatto (e quindi completo) cl 𝐹 (𝑥) ⊆ 𝑌 , si ha che tale successione è convergente in 𝑌 . Poniamo dunque, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝑓 (𝑥) ∶= lim𝑛→+∞ 𝑔𝑛 (𝑥). Abbiamo così una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 che coincide con 𝑓0 in 𝐷 ed è limite puntuale della sottosuccessione (𝑔𝑛 )𝑛 di (𝑓𝑛 )𝑛 . Proviamo che 𝑓 è continua. Fissiamo perciò un 𝑥0 ∈ 𝑋 e un 𝜀 > 0. Per la equicontinuità di 𝐹 , esiste un 𝛿 > 0 tale che da 𝑑𝑋 (𝑥, 𝑥0 ) < 𝛿 segue 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑥), 𝑔𝑛 (𝑥0 )) < 𝜀/2, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ . Facendo tendere 𝑛 a +∞ e usando la continuità della distanza (Esercizio!), si ottiene che da 𝑑𝑋 (𝑥, 𝑥0 ) < 𝛿 segue 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥), 𝑓 (𝑥0 )) ≤ 𝜀/2 < 𝜀. Dunque 𝑓 è continua in 𝑋 e quindi uniformemente continua, dato che 𝑋 è compatto. Ci resta da verificare che la successione (𝑔𝑛 )𝑛 converge a 𝑓 uniformemente in 𝑋. Fissiamo un 𝜀 > 0. Quali che siano 𝑥, 𝑧 ∈ 𝑋, per l’uniforme continuità di 𝑓 , esiste intanto un 𝛿1 > 0 tale che da 𝑑𝑋 (𝑥, 𝑧) < 𝛿1 segue 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥), 𝑓 (𝑧)) < 𝜀/3. Inoltre si ha 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑥), 𝑓 (𝑥)) ≤ 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑥), 𝑔𝑛 (𝑧)) + 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑧), 𝑓 (𝑧)) + 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑧), 𝑓 (𝑥)).
(12.11)
Per la equicontinuità di 𝐹 , esiste un 𝛿2 > 0 tale che da 𝑑𝑋 (𝑥, 𝑧) < 𝛿2 segue 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑥), 𝑔𝑛 (𝑧)) < 𝜀/3, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ . Dunque, dato 𝜀 > 0, sia 𝛿 ∶= min(𝛿1 , 𝛿2 ). Essendo 𝑋 compatto, esiste una sua 𝛿-rete individuata dai punti {𝑧1 , 𝑧2 , … , 𝑧𝑝 }. Per ogni 𝑗 ∈ {1, 2, … , 𝑝}, la successione (𝑔𝑛 (𝑧𝑗 ))𝑛 converge a 𝑓 (𝑧𝑗 ) ed esiste quindi un 𝑛𝑗̄ ∈ ℕ+ tale che da 𝑛 > 𝑛𝑗̄ segue 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑧𝑗 ), 𝑓 (𝑧𝑗 )) < 𝜀/3. Si conclude che, per ogni 𝑛 > 𝑛 ̄ ∶= max {𝑛𝑗̄ ∶ 𝑗 ∈ {1, 2, … , 𝑝}} e per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, scegliendo di volta in volta come 𝑧 nella (12.11) un opportuno 𝑧𝑗 in modo che risulti 𝑑𝑋 (𝑥, 𝑧𝑗 ) < 𝛿, si ha 𝑑𝑌 (𝑔𝑛 (𝑥), 𝑓 (𝑥)) < 𝜀.
Corollario 12.109. Siano 𝑋, 𝑌 spazi metrici, 𝑋 compatto, e 𝐹 ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) chiuso, equicontinuo e tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’insieme 𝐹 (𝑥) è (relativamente) compatto in 𝑌 . Allora 𝐹 è compatto in 𝐶(𝑋, 𝑌 ).
Dimostrazione. Poiché 𝐹 è equicontinuo e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝐹 (𝑥) è relativamente compatto, per il teorema precedente, 𝐹 è relativamente compatto e quindi, essendo chiuso, compatto. Ma da 𝐹 compatto, segue per il Teorema 12.103 che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝐹 (𝑥) è compatto. Per questo abbiamo messo fra parentesi il ‘relativamente’. A questo punto, possiamo così riassumere i risultati dei Teoremi 12.103, 12.105, 12.108 e del Corollario 12.109:
Corollario 12.110. Siano 𝑋, 𝑌 spazi metrici, con 𝑋 compatto, e 𝐹 un sottoinsieme di 𝐶(𝑋, 𝑌 ). Inoltre, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, sia 𝐹 (𝑥) ∶= {𝑓 (𝑥) ∶ 𝑓 ∈ 𝐹 }. Allora: 1. 𝐹 è relativamente compatto in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) se e solo se è equicontinuo e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’insieme 𝐹 (𝑥) è relativamente compatto in 𝑌 .
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
673
2. 𝐹 è compatto in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) se e solo se è chiuso, equicontinuo e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’insieme 𝐹 (𝑥) è compatto in 𝑌 .
Il prossimo risultato contiene la versione semplificata del Teorema di AscoliArzelà 12.101 espressa all’inizio del paragrafo.
Corollario 12.111. Siano 𝑋 uno spazio metrico compatto e 𝐹 ⊆ 𝐶(𝑋, ℝ𝑛 ) con la norma del sup. Allora 𝐹 è relativamente compatto se e solo se è equicontinuo e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’insieme 𝐹 (𝑥) è limitato. In particolare, ogni successione (𝑓𝑘 )𝑘 , con 𝑓𝑘 ∶ 𝑋 → ℝ𝑛 , limitata ed equicontinua ha una sottosuccessione convergente. Dimostrazione. In virtù del Teorema di Borel 7.28, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’insieme 𝐹 (𝑥) è relativamente compatto se e solo se è limitato. Si può dunque applicare il Corollario 12.110.
La scelta della norma in ℝ𝑛 è inessenziale. Ricordiamo infatti che negli spazi lineari di dimensione finita tutte le norme sono fra loro equivalenti e rendono lo spazio completo (cfr. Teorema 4.43). Incidentalmente, notiamo anche che 𝐶(𝑋, ℝ𝑛 ) è completo (cfr. Proposizione 12.102). Sia 𝐹 ⊆ 𝐶(𝑋, ℝ𝑛 ), con 𝑋 compatto. Abbiamo visto che, per verificare che 𝐹 è relativamente compatto, (occorre e) basta controllare che: (1) per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝐹 (𝑥) è limitato; (2) 𝐹 è equicontinuo. La prima verifica è, di regola, abbastanza facile; anzi, invece di controllare che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, 𝐹 (𝑥) è limitato, usualmente si verifica che l’insieme 𝐹 è limitato in 𝐶(𝑋, ℝ𝑛 ), cioè che esiste un numero reale positivo 𝑀 tale che ‖𝑓 (𝑥)‖ℝ𝑛 ≤ 𝑀, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni 𝑓 ∈ 𝐹 . Più difficile è la verifica dell’equicontinuità di 𝐹 . Sarà perciò utile stabilire delle condizioni sufficienti a tale riguardo. Ricordiamo che una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 , con 𝑋, 𝑌 spazi metrici è detta lipschitziana di costante 𝐿(> 0) se (∀𝑥′ ∈ 𝑋)(∀𝑥″ ∈ 𝑋)(𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥′ ), 𝑓 (𝑥″ )) ≤ 𝐿𝑑𝑋 (𝑥′ , 𝑥″ )).
Sappiamo che ogni funzione lipschitziana 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 , con 𝑋, 𝑌 spazi metrici, è uniformemente continua in 𝑋 (cfr. Teorema 3.69). Definizione 12.112. Dati due spazi metrici 𝑋, 𝑌 , un insieme 𝐹 ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è detto equilipschitziano se esiste una costante 𝐿 > 0 tale che 𝐿 è costante di Lipschitz per ogni 𝑓 ∈ 𝐹 . ◁
Definizione 12.113. Dati due spazi metrici 𝑋, 𝑌 e un numero reale positivo 𝐿, l’insieme di tutte le funzioni lipschitziane di 𝑋 in 𝑌 con costante di Lipschitz 𝐿 sarà indicato con Lip𝐿 (𝑋, 𝑌 ). ◁ Si prova facilmente che
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
674
Teorema 12.114. Dati due spazi metrici 𝑋, 𝑌 , se un insieme 𝐹 ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è equilipschitziano, allora è anche equicontinuo. Teorema 12.115. Dati due spazi metrici 𝑋, 𝑌 e un numero reale positivo 𝐿, l’insieme Lip𝐿 (𝑋, 𝑌 ) è chiuso in 𝜏𝑢 .
Dimostrazione. Basta provare che, se è 𝑓 ∈ cl(Lip𝐿 (𝑋, 𝑌 )), allora è necessariamente 𝑓 ∈ Lip𝐿 (𝑋, 𝑌 ). Data 𝑓 ∈ cl(Lip𝐿 (𝑋, 𝑌 )) e fissato un 𝜀 > 0, esiste 𝑔 ∈ Lip𝐿 (𝑋, 𝑌 ) tale che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 è 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥), 𝑔(𝑥)) < 𝜀/2. Ora, quali che siano 𝑥′ , 𝑥″ ∈ 𝑋, si ha 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥′ ), 𝑓 (𝑥″ )) ≤ 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥′ ), 𝑔(𝑥′ ))+
+ 𝑑𝑌 (𝑔(𝑥′ ), 𝑔(𝑥″ )) + 𝑑𝑌 (𝑔(𝑥″ ), 𝑓 (𝑥″ )) < 𝜀 + 𝐿𝑑𝑋 (𝑥′ , 𝑥″ ).
Si ottiene dunque che
(∀𝑥′ ∈ 𝑋)(∀𝑥″ ∈ 𝑋)(𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥′ ), 𝑓 (𝑥″ )) ≤ 𝐿𝑑𝑋 (𝑥′ , 𝑥″ )).
Corollario 12.116. Sia 𝑋 uno spazio metrico compatto. Ogni sottoinsieme limitato [chiuso e limitato] di Lip𝐿 (𝑋, ℝ𝑛 ) è relativamente compatto [compatto]. Ritorniamo al caso particolare in cui 𝑋 è un intervallo compatto 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏] ⊂ ℝ. Ricordiamo che con 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ𝑛 ) si indica l’insieme delle funzioni di classe 𝐶 𝑘 di 𝐼 in ℝ𝑛 (𝐶 0 (𝐼, ℝ𝑛 ) = 𝐶(𝐼, ℝ𝑛 )). Definizione 12.117. Per ogni 𝑘 > 0, nell’insieme 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ𝑛 ) si definisce in modo canonico una norma ponendo, per ogni 𝑓 ∈ 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ𝑛 ), ‖𝑓 ‖∞,𝑘 ∶= ‖𝑓 ‖∞ +
𝑘
‖𝑓 (𝑖) ‖∞ . ∑ 𝑖=1
◁
Lasciamo per esercizio al lettore il compito di verificare che quella ora definita è effettivamente una norma (cft. Esempio 5.16).
Osservazione 12.118. Lo spazio 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ𝑛 ) con la norma ‖𝑓 ‖∞,𝑘 è di Banach. Infatti, data in 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ𝑛 ) una successione (𝑓𝑛 )𝑛 di Cauchy, si ha subito che, (𝑖) per ogni 𝑖, con 0 ≤ 𝑖 ≤ 𝑘, la successione (𝑓𝑛 )𝑛 converge uniformemente a una funzione continua 𝑔𝑖 ∶ 𝐼 → ℝ𝑛 . Per il teorema di derivazione delle successioni di funzioni, si ha poi che è 𝑔𝑖 = 𝑓 (𝑖) . Si constata inoltre (Esercizio) che la norma ‖𝑓 ‖∞,𝑘 è equivalente a quella definita da ‖𝑓 ‖ ∶= max{‖𝑓 ‖∞ , ‖𝑓 ′ ‖∞ , … , ‖𝑓 (𝑘) ‖∞ }. ◁ Corollario 12.119. Se un sottoinsieme 𝐹 ⊆ 𝐶 1 (𝐼, ℝ𝑛 ) è limitato rispetto alla norma ‖⋅‖∞,1 , allora esso è relativamente compatto in 𝐶 0 (𝐼, ℝ𝑛 ).
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
675
Dimostrazione. Chiaramente, se 𝐹 è limitato rispetto alla norma di 𝐶 1 , è tale anche rispetto a quella di 𝐶 0 . Proviamo che 𝐹 è equicontinuo. Sappiamo che esiste un 𝐿 ∈ ℝ+ tale che ‖𝑓 ′ ‖∞ ≤ 𝐿, ∀𝑓 ∈ 𝐹 . Ora, sempre per ogni 𝑓 ∈ 𝐹 e per ogni 𝑥′ , 𝑥″ ∈ 𝐼, si ha ‖𝑓 (𝑥′ ) − 𝑓 (𝑥″ )‖ =
𝑥″
‖∫ 𝑥′
𝑥″
𝑓 ′ (𝑡) 𝑑𝑡 ≤ ‖𝑓 ′ (𝑡)‖ 𝑑𝑡 ≤ 𝐿|𝑥′ − 𝑥″ |, ‖ |∫ | 𝑥′
dove la norma è quella euclidea di ℝ𝑛 . Poi si applica il Corollario 12.116. Più in generale, iterando il ragionamento precedente, si prova che: Se un sottoinsieme 𝐹 ⊆ 𝐶 𝑘+1 (𝐼, ℝ𝑛 ) è limitato rispetto alla norma di 𝐶 𝑘+1 (𝐼, ℝ𝑛 ), allora esso è relativamente compatto in 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ𝑛 ). Esempio 12.120. Sia 𝑍 ∶= 𝐶(𝐼, ℝ), con 𝐼 ∶= [0, 1]. Consideriamo il funzio1 nale ℱ ∶ 𝑍 → ℝ definito da ℱ (𝑢) ∶= ∫0 𝑢(𝑡) 𝑑𝑡. Esso è continuo rispetto alla norma lagrangiana. Sia poi 𝐸 ∶= {𝑢 ∈ 𝑍 ∶ (𝑢(0) = 𝑢(1) = 1) ∧ (𝑢(𝑡) ≥ 0, ∀𝑡 ∈ 𝐼)} .
Siamo interessati a discutere il problema di minimizzare il funzionale ℱ su 𝐸 o su opportuni sottoinsiemi di 𝐸. Si vede subito che è inf {ℱ (𝑢) ∶ 𝑢 ∈ 𝐸} = 0, ma che 0 non è minimo. 1. Consideriamo il sottoinsieme 𝐹𝐿 di 𝐸 formato dalle funzioni lipschitziane di costante 𝐿, con 𝐿 > 0 assegnato. L’insieme 𝐸 è ovviamente chiuso e sappiamo (Teorema 12.115) che è tale anche Lip𝐿 (𝐼, ℝ). Ne viene che è chiusa anche la loro intersezione 𝐸 ∩ Lip𝐿 (𝐼, ℝ) = 𝐹𝐿 . Proviamo che 𝐹𝐿 è anche limitato. Infatti, per ogni 𝑓 ∈ 𝐹𝐿 e per ogni 𝑥 ∈ 𝐼, si ha |𝑓 (𝑥) − 𝑓 (0)| ≤ 𝐿 ⋅ 𝑥 ≤ 𝐿, da cui |𝑓 (𝑥)| ≤ |𝑓 (0)| + 𝐿 = 𝐿 + 1. Dunque, per il Corollario 12.116, 𝐹𝐿 è compatto e quindi, per il Teorema di Weierstrass, ℱ ha in esso un minimo assoluto. Come possiamo trovarlo? L’idea è quella di ‘uscire’ da 0 e 1 con la massima pendenza possibile (in valore assoluto), ossia 𝐿. Le due situazioni possibili sono illustrate nella figura che segue. 1
0
1
1
0
1
2. Sia ora 𝐸𝐿 ⊆ 𝐶 1 (𝐼, ℝ) l’insieme delle funzioni 𝑓 ∶ 𝐼 → ℝ derivabili, con ‖𝑓 ‖∞ ≤ 𝐿. Per il Corollario 12.116, 𝐸𝐿 è relativamente compatto. Si vede però subito che non è compatto e che, in generale, non c’è minimo. ′
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
676
1
0
1
In figura si considera il caso 𝐿 = 2.
◁
Esempio 12.121. Sia F ∶ ℝ𝑚 → ℝ𝑚 un campo vettoriale continuo e limitato. Esiste dunque una costante 𝑀 > 0, tale che ‖F(x)‖ ≤ 𝑀, per ogni x ∈ ℝ𝑚 . Siccome in ℝ𝑚 tutte le norme sono fra loro equivalenti, non è restrittivo utilizzare quella euclidea. Consideriamo il seguente problema di Cauchy: x′ (𝑡) = { x(0) =
F(x(𝑡)), x0 .
(P)
Le ipotesi assunte garantiscono l’esistenza di soluzioni (ma non la loro unicità) e che tali soluzioni sono prolungabili su tutto ℝ (cfr. Teorema di Peano 15.96, si veda anche [13]). Restringendo 𝑡 all’intervallo compatto [0, 1], si ha che le curve soluzione sono rettificabili, dato che x(𝑡) è di classe 𝐶 1 . Inoltre, dal fatto che x(𝑡) è soluzione dell’equazione differenziale di (𝑃 ), si ottiene che la lunghezza è data da 𝑙(x(⋅)) ∶=
1
∫ 0
‖x′ (𝑡)‖ 𝑑𝑡 =
1
∫ 0
‖F(x(𝑡))‖ 𝑑𝑡.
Possiamo quindi definire il seguente funzionale (non lineare) di 𝐶([0, 1], ℝ𝑚 ) 𝒢 (x(⋅)) ∶=
∫ 0
1
‖F(x(𝑡))‖ 𝑑𝑡.
𝒢 è continuo, in quanto composizione di funzioni continue. Sia ora
𝐹 ∶= {x(⋅) ∶ x è soluzione di 𝑃 , con x(0) in un compatto 𝐾} .
Possiamo, per esempio, pensare che il compatto 𝐾 sia contenuto nella palla 𝐵[0, 𝑅] ⊂ ℝ𝑚 . Vogliamo provare che fra tutte le soluzioni del problema (𝑃 ), con x0 appartenente a un compatto 𝐾 di ℝ𝑚 ne esistono una di massima e una di minima lunghezza per 𝑡 ∈ [0, 1]. Per la continuità di 𝒢 , sarà sufficiente verificare che 𝐹 è compatto. 1. Proviamo che 𝐹 è relativamente compatto. Si sa che è 𝐹 ⊂ 𝐶([0, 1], ℝ𝑚 ). Per ogni x(⋅) ∈ 𝐹 , si ha x′ (𝑡) = F(x(𝑡)), da cui ‖x′ (𝑡)‖ = ‖F(x(𝑡))‖ ≤ 𝑀, per ogni 𝑡 ∈ [0, 1]. È dunque ‖x′ (⋅)‖∞ ≤ 𝑀. La tesi segue subito dal Corollario 12.116.
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
677
2. Proviamo che 𝐹 è chiuso. Dobbiamo verificare che, se una successione (u𝑛 )𝑛 di elementi di 𝐹 converge ad u, allora è anche u ∈ 𝐹 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , u𝑛 (0) ∈ 𝐾 e la successione (u𝑛 (0))𝑛 converge a u(0) che deve appartenere a 𝐾, dato che questo è chiuso. Dal fatto che u𝑛 converge uniformemente a u in [0, 1] e per la continuità di F, si ha che (F(u𝑛 ))𝑛 converge uniformemente a F(u). Essendo F(u𝑛 (𝑡)) = (u𝑛 )′ (𝑡), ∀𝑡 ∈ [0, 1], si ottiene che (u𝑛 )′ converge uniformemente in [0, 1] a F(u). Per il teorema di derivazione delle successioni di funzioni, si ottiene che u è derivabile e si ha u′ = F(u), ossia u ∈ 𝐹 . ◁ Un’importante applicazione del Teorema di Ascoli-Arzelà alla teoria delle equazioni differenziali è il seguente Teorema di dipendenza continua delle soluzioni dai dati iniziali. Per non appesantire le notazioni, ometteremo i segni di vettore.
Teorema 12.122 (di dipendenza continua delle soluzioni dai dati iniziali). Siano dati un aperto 𝒟 ⊆ ℝ × ℝ𝑚 , un campo vettoriale continuo F ∶ 𝒟 → ℝ𝑚 e un dato iniziale (𝑡0 , 𝑥0 ) ∈ 𝒟 . Inoltre, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ siano dati un campo vettoriale continuo F𝑛 ∶ 𝒟 → ℝ𝑚 e un punto iniziale (𝑡𝑛 , 𝑥𝑛 ) ∈ 𝒟 . Consideriamo i seguenti problemi di Cauchy: e, per ogni 𝑛,
𝑥′ (𝑡) = F(𝑡, 𝑥(𝑡)), { 𝑥(𝑡0 ) = 𝑥0
𝑥′ (𝑡) = F𝑛 (𝑡, 𝑥(𝑡)), { 𝑥(𝑡𝑛 ) = 𝑥𝑛 .
(𝑃 ) (𝑃𝑛 )
Supponiamo che: 1. Il problema (𝑃 ) ammetta un’unica soluzione 𝑥̃ definita su un intervallo compatto [𝑎, 𝑏] ∋ 𝑡0 . 2. Fn → F uniformemente sui compatti di 𝒟 e 𝑡𝑛 → 𝑡0 , 𝑥𝑛 → 𝑥0 . Allora: 1. Esiste un 𝑛 ∈ ℕ+ tale che, per ogni 𝑛 ≥ 𝑛, il problema (𝑃𝑛 ) ha almeno una soluzione definita su [𝑎, 𝑏]. 2. Se (per ogni 𝑛 ≥ 𝑛) 𝑥̃𝑛 è una soluzione di (𝑃𝑛 ) definita su [𝑎, 𝑏], allora 𝑥̃𝑛 → 𝑥̃ uniformemente su [𝑎, 𝑏]. Dimostrazione. Diamo per assodato che il lettore abbia familiarità con il Teorema di esistenza locale di Peano (cfr. Teorema 15.96, si vedano anche [26, Ch.1] e [83, §3.3]). Di tale teorema, utilizzeremo anche delle stime che figurano in tutte le dimostrazioni, inclusa la nostra (con notazioni leggermente diverse). Precisamente: dato un campo vettoriale continuo Z ∶ 𝒟 → ℝ𝑚 e un cilindro e posto
𝒞 (𝑠0 , 𝑧0 , 𝛼, 𝑅) ∶= [𝑠0 − 𝛼, 𝑠0 + 𝛼] × 𝐵[𝑧0 , 𝑅] ⊆ 𝒟
𝐾 = 𝐾(𝑠0 , 𝑧0 , 𝛼, 𝑅) ∶= sup {‖Z(𝑡, 𝑥)‖ ∶ (𝑡, 𝑥) ∈ 𝒞 (𝑠0 , 𝑧0 , 𝛼, 𝑅)} , 𝜀 ∶= min{𝛼, 𝑅/𝐾},
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
678
allora il problema di Cauchy
𝑥′ (𝑡) = Z(𝑡, 𝑥(𝑡)), { 𝑥(𝑠0 ) = 𝑧0
(𝑄)
ha almeno una soluzione definita in [𝑠0 − 𝜀, 𝑠0 + 𝜀]. Inoltre, ogni soluzione di questo problema definita in [𝑠0 − 𝜀, 𝑠0 + 𝜀] è a valori in 𝐵[𝑧0 , 𝑅]. Da questo risultato segue il seguente fatto di carattere generale, la cui dimostrazione è lasciata per esercizio al lettore:
(∗) Dati un compatto ℋ e un aperto 𝑈 a chiusura compatta tali che ℋ ⊆ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝒟 e data una costante 𝐿 > 0, esiste 𝛿 > 0 tale che, per ogni dato iniziale (𝑠0 , 𝑧0 ) ∈ ℋ e per ogni campo vettoriale continuo Z con ‖Z(𝑡, 𝑥)‖ ≤ 𝐿, ∀(𝑡, 𝑥) ∈ cl 𝑈 , il problema di Cauchy (𝑄) ha soluzione in [𝑠0 − 𝛿, 𝑠0 + 𝛿]. Inoltre, se 𝑥(⋅) è una soluzione di (𝑄) definita in [𝑠0 − 𝛿, 𝑠0 + 𝛿] e con dato iniziale (𝑠0 , 𝑧0 ) ∈ ℋ , allora (𝑡, 𝑥(𝑡)) ∈ cl 𝑈 , ∀𝑡 ∈ [𝑠0 − 𝛿, 𝑠0 + 𝛿]. Tenendo presente questi preliminari, consideriamo l’insieme, grafico della soluzione del Problema (𝑃 ), ℋ0 ∶= {(𝑡, 𝑥(𝑡)) ̃ ∶ 𝑡 ∈ [𝑎, 𝑏]}. Esiste un aperto 𝑈 a chiusura compatta contenuta in 𝒟 con ℋ0 ⊆ 𝑈 (Esercizio!). A sua volta, esiste un aperto 𝑉 tale che ℋ0 ⊆ 𝑉 ⊆ ℋ ∶= cl 𝑉 ⊆ 𝑈 ⊆ cl 𝑈 ⊆ 𝒟 .
Per dimostrare l’esistenza di 𝑉 , basta richiamare la Proposizione 7.32.3. Osserviamo anche che ℋ è compatto. Introduciamo a questo punto la costante 𝐿0 ∶= sup {‖F(𝑡, 𝑥)‖ ∶ (𝑡, 𝑥) ∈ cl 𝑈 }. Poiché F𝑛 → F uniformemente sui compatti di 𝒟 , applicando questo risultato a cl 𝑈 , abbiamo che esiste 𝑛1 tale che, per ogni 𝑛 ≥ 𝑛1 , si ha ‖F𝑛 (𝑡, 𝑥)‖ ≤ 𝐿 ∶= 𝐿0 + 1, per ogni (𝑡, 𝑥) ∈ cl 𝑈 . La successione (𝑡𝑛 , 𝑥𝑛 )𝑛 tende a (𝑡0 , 𝑥0 ) ∈ ℋ0 . Esiste quindi un 𝑛2 ≥ 𝑛1 tale che, per ogni 𝑛 ≥ 𝑛2 , si ha (𝑡𝑛 , 𝑥𝑛 ) ∈ 𝑉 ⊆ ℋ . Per la proprietà (∗), esiste una costante “assoluta” (cioè indipendente da 𝑛) 𝛿 > 0 tale che, per ogni 𝑛 ≥ 𝑛2 , il Problema (𝑃𝑛 ) ha almeno una soluzione definita in [𝑡𝑛 − 𝛿, 𝑡𝑛 + 𝛿]. Esiste poi un 𝑛3 ≥ 𝑛2 tale che, per ogni 𝑛 ≥ 𝑛3 , si ha [𝑡𝑛 − 𝛿, 𝑡𝑛 + 𝛿] ⊇ [𝑡0 − 𝛿/2, 𝑡0 + 𝛿/2]. Quindi, per ogni 𝑛 ≥ 𝑛3 , esistono soluzioni 𝑥̃𝑛 di (𝑃𝑛 ) e, assieme alla soluzione 𝑥̃ di (P), sono tutte definite almeno nell’intervallo 𝐼0 ∶= [𝑡0 − 𝛿/2, 𝑡0 + 𝛿/2] ∩ [𝑎, 𝑏].
Inoltre, per la seconda parte della Proprietà (∗), (𝑡, 𝑥̃𝑛 (𝑡)) ∈ cl 𝑈 , ∀𝑡 ∈ 𝐼0 . Di conseguenza, si ha poi ‖𝑥̃′𝑛 (𝑡)‖ ≤ 𝐿, ∀𝑡 ∈ 𝐼0 , ∀𝑛 ≥ 𝑛3 . Le funzioni 𝑥̃𝑛 sono definitivamente equilimitate ed equicontinue. Per il Teorema di Ascoli-Arzelà la successione (𝑥̃𝑛 )𝑛 ha una sottosuccessione uniformemente convergente su 𝐼0 a una funzione 𝑥̌ ∶ 𝐼0 → ℝ𝑚 , con (𝑡, 𝑥(𝑡)) ̌ ∈ cl 𝑈 , ∀𝑡 ∈ 𝐼0 ; anzi ciò accade per ogni sottosuccessione. Fissiamo ora una funzione 𝑥̂ limite uniforme su 𝐼0 di una sottosuccessione di (𝑥̃𝑛 )𝑛 . Scriviamo il sistema differenziale di (𝑃𝑛 ) in forma integrale per tale sottosuccessione ed evitando di rinominare gli indici, ossia
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
679
nella forma 𝑥̃𝑛 (𝑡) = 𝑥̃𝑛 (𝑡𝑛 ) + ∫𝑡 F𝑛 (𝑠, 𝑥̃𝑛 (𝑠)) 𝑑𝑠. Passando al limite (ed usando 𝑛 anche il Teorema 12.97), si ha 𝑡
𝑥(𝑡) ̂ = 𝑥(𝑡 ̂ 0) +
∫ 𝑡0
𝑡
F(𝑠, 𝑥(𝑠)) ̂ 𝑑𝑠,
per cui 𝑥̂ è una soluzione di (𝑃 ) nell’intervallo 𝐼0 . poiché questo problema ha un’unica soluzione, la funzione 𝑥̂ deve coincidere su 𝐼0 con 𝑥.̃ Ne viene che ogni sottosuccessione di (𝑥̃𝑛 )𝑛 ha una sottosuccessione convergente in 𝐼0 a 𝑥,̃ per cui è anche 𝑥̃𝑛 → 𝑥̃ per l’assioma di Urysohn 2.39. Abbiamo così dimostrato il teorema per l’intervallo 𝐼0 . Se 𝐼0 contiene [𝑎, 𝑏], abbiamo finito; in caso contrario, dovrà essere 𝑎 < 𝑡0 − 𝛿/2 o 𝑡0 + 𝛿/2 < 𝑏. Per fissare le idee, supponiamo di essere in questo secondo caso e poniamo 𝑠1 ∶= 𝑡0 + 𝛿/2. Osserviamo che 𝑥̃ è (l’unica) soluzione del problema 𝑥′ (𝑡) = { 𝑥(𝑠1 ) =
F(𝑡, 𝑥(𝑡)), 𝑥(𝑠 ̃ 1 ).
𝑥′ (𝑡) = { 𝑥(𝑠1 ) =
F𝑛 (𝑡, 𝑥(𝑡)), 𝑥̃𝑛 (𝑠1 ).
Accanto a questo problema di Cauchy, consideriamo i problemi “approssimanti” Osserviamo che, per 𝑛 ≥ 𝑛3 , le funzioni 𝑥̃𝑛 sono definite sull’intervallo 𝐼0 avente 𝑠1 come estremo destro. A questo punto, si ripete, per l’istante iniziale 𝑠1 , la dimostrazione fatta per 𝑡0 . Anzi, rispetto al caso precedente, ora la dimostrazione è semplificata dal fatto che tutti i problemi approssimanti coinvolgono il medesimo istante iniziale. Tutte le stime e le costanti trovate al passo precedente rimangono invariate. Pertanto, si trova ancora la medesima costante “assoluta” 𝛿 > 0. Per cui, tutti i problemi approssimanti hanno almeno una soluzione 𝑦𝑛̃ definita in [𝑠1 − 𝛿/2, 𝑠1 + 𝛿/2]. Tutto ciò per ogni 𝑛 sufficientemente grande, diciamo 𝑛 ≥ 𝑛4 ≥ 𝑛3 . Ponendo ora 𝑤𝑛 (𝑡) ∶=
𝑥̃𝑛 (𝑡), {𝑦𝑛̃ (𝑡),
per 𝑡 ∈ 𝐼0 , per 𝑠1 ≤ 𝑡 ≤ 𝑠1 + 𝛿/2,
si ottiene una successione di funzioni definite in
𝐼1 ∶= [𝑡0 − 𝛿/2, 𝑠1 + 𝛿/2] ∩ [𝑎, 𝑏] = [𝑡0 − 𝛿/2, 𝑡0 + 𝛿] ∩ [𝑎, 𝑏].
Chiaramente le 𝑤𝑛 sono soluzioni del problema (𝑃𝑛 ) definite su 𝐼1 . Ripetendo lo stesso ragionamento visto sopra per la successione (𝑥̃𝑛 )𝑛 su 𝐼0 , si vede parimenti che la successione (𝑤𝑛 )𝑛 converge uniformemente a 𝑥̃ su 𝐼1 . Se è 𝑡0 + 𝛿 ≥ 𝑏, abbiamo finito; altrimenti si ripente il ragionamento partendo dal punto 𝑠2 ∶= 𝑡0 + 𝛿, ottenendo funzioni definite in [𝑡0 − 𝛿/2, 𝑡0 + (3/2)𝛿] ∩ [𝑎, 𝑏]. Siccome ad ogni passo l’estremo destro dell’intervallo aumenta di 𝛿/2, è chiaro che dopo un numero finito di passi si ingloba il punto 𝑏.
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
680
Per il caso 𝑎 < 𝑡0 − 𝛿/2, si procede in modo simmetrico, allargando di volta in volta l’intervallo, ma ora verso sinistra. Abbiamo così dimostrato la 1. Inoltre, per costruzione, le soluzioni trovate costituiscono una successione che converge a 𝑥̃ uniformemente su [𝑎, 𝑏]. Ci resta da verificare la 2. Sia (𝑧𝑛̃ )𝑛 una successione arbitraria di soluzioni di (𝑃𝑛 ) definite in [𝑎, 𝑏]. Usando la proprietà (∗) e il fatto che 𝑧𝑛̃ (𝑡𝑛 ) = 𝑥𝑛 → 𝑥0 = 𝑥(𝑡 ̃ 0 ), si determina una costante “assoluta” 𝛿 tale che (𝑡, 𝑧𝑛̃ (𝑡)) ∈ cl 𝑈 per ogni 𝑛 sufficientemente grande e per ogni 𝑡 ∈ 𝐼0 . Applicando il Teorema di AscoliArzelà a questo nuovo contesto, si ottiene che la successione (𝑧𝑛̃ )𝑛 converge a 𝑥̃ uniformemente su 𝐼0 . Procedendo come sopra, con un numero finito di passi, si copre tutto l’intervallo [𝑎, 𝑏]. la dimostrazione del precedente teorema, anche se da un punto di vista tecnico è piuttosto complicata perché fa uso di diversi risultati relativi alle equazioni differenziali, da un punto di vista logico ripete uno schema che abbiamo già visto nel paragrafo 7.2, ovvero che l’unicità di soluzione più la compattezza implicano la dipendenza continua (cfr. Teorema 7.88). Volendo estendere il Teorema di Ascoli-Arzelà al caso di funzioni fra spazi topologici arbitrari, è necessario estendere al nuovo contesto la nozione di equicontinuità vista nel caso degli spazi metrici (cfr. Definizione 12.104).
Definizione 12.123. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi topologici e 𝐹 un arbitrario insieme di funzioni continue da 𝑋 in 𝑌 . Si dice che 𝐹 è equicontinuo se vale la seguente proprietà: (∀𝑥 ∈ 𝑋)(∀𝑦 ∈ 𝑌 )(∀𝑉 ∈ 𝒰(𝑦))(∃𝑊 ∈ 𝒰(𝑦))(∃𝑈 ∈ 𝒰(𝑥)) (∀𝑓 )((𝑓 ∈ 𝐹 ) ∧ (𝑓 (𝑥) ∈ 𝑊 )) ⇒ 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 ,
dove 𝒰(𝑧) indica l’insieme degli intorni di 𝑧 (cfr. Definizione 1.16). Naturalmente, potremmo limitarci agli intorni aperti. ◁
Osservazione 12.124. Supponiamo che 𝑋 e 𝑌 siano spazi metrici e consideriamo una famiglia 𝐹 di funzioni continue da 𝑋 a 𝑌 soddisfacenti alla definizione di equicontinuità 12.104. Allora 𝐹 soddisfa anche alla 12.123. Per verificarlo, fissiamo un 𝑥0 ∈ 𝑋, un 𝑦0 ∈ 𝑌 e un intorno aperto di base di quest’ultimo 𝑉 ∶= 𝐵(𝑦0 , 𝜀). Sia ora 𝑊 ∶= 𝐵(𝑦0 , 𝜀/2). Per ipotesi, esiste un 𝛿 > 0 tale che da 𝑑𝑋 (𝑥′ , 𝑥″ ) < 𝛿 segue 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥′ ), 𝑓 (𝑥″ )) < 𝜀/2, per ogni 𝑓 ∈ 𝐹 . In base a ciò, prendiamo 𝑈 ∶= 𝐵(𝑥0 , 𝛿). Sia ora 𝑓 ∈ 𝐹 tale che 𝑓 (𝑥0 ) ∈ 𝑊 e dimostriamo che è 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Infatti, se 𝑥 ∈ 𝑈 , allora si ha 𝑑𝑋 (𝑥, 𝑥0 ) < 𝛿 e quindi 𝑑𝑦 (𝑓 (𝑥), 𝑦0 ) ≤ 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥), 𝑓 (𝑥0 )) + 𝑑𝑌 (𝑓 (𝑥0 ), 𝑦0 ) < 𝜀.
Supponiamo che 𝐹 consti di una sola funzione 𝑓 . Si vede facilmente (Esercizio!) che viene soddisfatta la 12.123 se e solo se 𝑓 è continua. D’altra parte è immediato che la 12.104 è soddisfatta se e solo se 𝑓 è uniformemente continua. Ne viene che, nell’ambito degli spazi metrici, le due definizioni non sono
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
681
equivalenti, tanto è vero che in [18], nel caso della 12.123, si parla di evenly continuous, che si potrebbe tradurre come parimenti continuo. In questo contesto, vale la pena di sottolineare che il concetto di equicontinuità viene definito in modo leggermente diverso da vari autori. Ad esempio, in [70], nel caso in cui 𝑋 è uno spazio topologico arbitrario e 𝑌 uno spazio metrico, un sottoinsieme 𝐹 di funzioni continue da 𝑋 in 𝑌 si dice equicontinuo nel punto 𝑥 ∈ 𝑋 se, per ogni 𝜀 > 0 esiste un intorno 𝑈 di 𝑥 tale che 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝐵(𝑓 (𝑥), 𝜀) per ogni 𝑓 ∈ 𝐹 ; quindi 𝐹 si dice equicontinuo se è equicontinuo in ogni punto di 𝑋. Se adottassimo questa terminologia, dovremmo chiamare equi-uniformemente continuo un insieme 𝐹 di funzioni soddisfacente alla 12.104. ◁ Osservazione 12.125. Siano ancora 𝑋, 𝑌 spazi topologici. È immediato constatare che, se un insieme 𝐹 di funzioni da 𝑋 a 𝑌 è equicontinuo, allora è tale anche ogni suo sottoinsieme (non vuoto). In particolare, risultano equicontinui i sottoinsiemi formati da un unico elemento. Nell’osservazione precedente abbiamo visto che ciò implica la continuità delle singole funzioni. Quindi nella Definizione 12.123 avremmo potuto omettere l’ipotesi della continuità delle funzioni considerate. In altri termini, considerare 𝐹 come sottoinsieme di 𝑌 𝑋 equivale a considerarlo come sottoinsieme di 𝐶(𝑋, 𝑌 ). ◁ Per poter arrivare alla versione topologica del Teorema di Ascoli-Arzelà, è necessario premettere alcuni lemmi, il più importante dei quali è il seguente: Lemma 12.126. Siano 𝑋, 𝑌 spazi topologici, con 𝑌 regolare. Dato 𝐹 ⊆ 𝑌 𝑋 , si consideri la sua chiusura cl𝑝 𝐹 rispetto alla topologia della convergenza puntuale. Allora, se 𝐹 è equicontinuo, è tale anche cl𝑝 𝐹 .
Dimostrazione. In accordo con la definizione di equicontinuità, fissiamo un 𝑥0 ∈ 𝑋, un 𝑦0 ∈ 𝑌 e un intorno 𝑉 di 𝑦0 . Per la caratterizzazione della regolarità 1.91, esiste un aperto 𝑉 ′ con 𝑦0 ∈ 𝑉 ′ ⊆ cl 𝑉 ′ ⊆ 𝑉 . poiché la famiglia 𝐹 è equiicontinua, esistono un intorno 𝑈 di 𝑥0 e un intorno aperto 𝑊 di 𝑦0 , con 𝑊 ⊆ 𝑉 ′ tali che, per ogni 𝑓 ∈ 𝐹 con 𝑓 (𝑥0 ) ∈ 𝑊 , segue 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 ′ . Sia ora 𝐺 = 𝐺(𝑥0 , 𝑦0 , 𝑉 ) ⊆ 𝑌 𝑋 l’insieme di tutte le funzioni 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝑌 tali che, se 𝑔(𝑥0 ) ∈ 𝑊 , allora 𝑔(𝑈 ) ⊆ cl 𝑉 ′ . Nella definizione di 𝐺 abbiamo messo in evidenza la sua dipendenza da 𝑉 perché il 𝑉 ′ considerato dipende a sua volta da 𝑦0 e 𝑉 . Ovviamente, si ha 𝐹 ⊆ 𝐺. Per il significato di implicazione logica, si ha: −1 ′ 𝐺 = 𝑝−1 𝑥0 (𝑌 ⧵ 𝑊 ) ∪ ⋂ 𝑝𝑥 (cl 𝑉 ), 𝑥∈𝑈
dove, ovviamente, con 𝑝𝛼 si intende la proiezione di indice 𝛼 ∈ 𝑋, ovvero l’applicazione che a ℎ ∈ 𝑌 𝑋 associa il valore ℎ(𝛼). Gli insiemi 𝑌 ⧵𝑊 e cl 𝑉 ′ sono ovviamente chiusi; per la continuità delle proiezioni sono chiusi tutti gli insiemi che generano 𝐺 secondo la rappresentazione precedente. Si conclude che 𝐺 è un chiuso di 𝑌 𝑋 rispetto alla topologia prodotto. Dato che il chiuso 𝐺 contiene 𝐹 , si ha che 𝐺 contiene anche cl 𝐹 . Quindi cl 𝐹 è contenuto nell’intersezione di tutti gli insiemi del tipo 𝐺(𝑥0 , 𝑦0 , 𝑉 ), al variare di 𝑥0 in 𝑋, 𝑦0 in 𝑌 e 𝑉 in 𝒰(𝑦0 ).
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
682
Per l’arbitrarietà di 𝑥0 , 𝑦0 , 𝑉 . Si conclude che anche cl 𝐹 è equicontinuo. La continuità degli elementi di cl 𝐹 segue dall’Osservazione 12.125. Il prossimo lemma è di un certo interesse non solo in sé, ma anche rispetto al concetto di ammissibilità visto a pag. 635. Ricordiamo che una topologia di 𝐶(𝑋, 𝑌 ) è detta ammissibile se la mappa di valutazione Ψ ∶ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) × 𝑋 → 𝑌 , con Ψ(𝑓 , 𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥), è continua. Si è visto (cfr. Esempio 12.49) che 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) non è sempre ammissibile.
Lemma 12.127. Siano 𝑋, 𝑌 spazi topologici e 𝐹 ⊆ 𝐶(𝑋, 𝑌 ) un insieme equicontinuo. Allora la mappa di valutazione Ψ ristretta a 𝐹 ×𝑋 è continua rispetto alla topologia della convergenza puntuale. Dimostrazione. Siano dati 𝑓0 ∈ 𝐹 , 𝑥0 ∈ 𝑋 e un intorno 𝑉 di 𝑦0 ∶= 𝑓0 (𝑥0 ). Per la equicontinuità di 𝐹 , esistono un intorno aperto 𝑈 di 𝑥0 e un intorno aperto 𝑊 di 𝑦0 tali che da 𝑓 ∈ 𝐹 e 𝑓 (𝑥0 ) ∈ 𝑊 segue 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Sia ora 𝑀 ∶= 𝑀({𝑥0 }, 𝑊 ), ossia l’insieme delle funzioni continue da 𝑋 a 𝑌 per cui è 𝑓 (𝑥0 ) ∈ 𝑊 . Come visto all’inizio del Paragrafo 12.3, 𝑀 è un aperto di base di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ). La proprietà di equicontinuità di 𝐹 può essere espressa nella formula Ψ((𝐹 ∩ 𝑀) × 𝑈 ) ⊆ 𝑉 .
𝑈 è un aperto che contiene 𝑥0 ; 𝐹 ∩ 𝑀 è un aperto contenente 𝑓0 nella topologia della convergenza puntuale indotta su 𝐹 . Abbiamo così trovato un intorno aperto di (𝑓0 , 𝑥0 ) portato nell’intorno 𝑉 di 𝑦0 dalla funzione Ψ. Per l’arbitrarietà di 𝑥0 , 𝑓0 , 𝑉 si ha la continuità di Ψ. Il prossimo risultato mostra che, con un minimo di ipotesi aggiuntive, il precedente lemma può essere invertito.
Lemma 12.128. Siano 𝑋, 𝑌 spazi topologici e 𝐹 ⊆ 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ). Se 𝑌 è regolare, 𝐹 è compatto e la mappa di valutazione Ψ ristretta a 𝐹 × 𝑋 è continua, allora 𝐹 è equicontinuo. Dimostrazione. Fissiamo 𝑥0 ∈ 𝑋, 𝑦0 ∈ 𝑌 e un intorno aperto 𝑉 di 𝑦0 . Sia inoltre 𝑉 ′ un aperto di 𝑌 con 𝑦0 ∈ 𝑉 ′ ⊆ cl 𝑉 ′ ⊆ 𝑉 . Osserviamo che l’insieme 𝑀({𝑥0 }, cl 𝑉 ′ ) è un chiuso di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) (cfr. Lemma 12.90). Pertanto, l’insieme 𝐹0 ∶= 𝐹 ∩ 𝑀({𝑥0 }, cl 𝑉 ′ ) è un compatto. Per come è stato definito 𝐹0 , si ha che, per ogni 𝑓 ∈ 𝐹0 , è Ψ(𝑓 , {𝑥0 }) = 𝑓 (𝑥0 ) ∈ cl 𝑉 ′ ⊆ 𝑉 . Abbiamo così visto che è Ψ(𝐹0 × {𝑥0 }) ⊆ 𝑉 . Pertanto il compatto 𝐹0 × {𝑥0 } è contenuto nell’aperto −1 (Ψ|𝐹 ×𝑋 ) (𝑉 ). (Si ricordi che Ψ è continua, per ipotesi, su 𝐹 × 𝑋.) Utilizzando il tube-lemma 8.24, si ha che esiste un aperto 𝑈 di 𝑋, contenente 𝑥0 , tale che −1 𝐹0 × 𝑈 ⊆ (Ψ|𝐹 ×𝑋 ) (𝑉 ) e, pertanto, risulta Ψ(𝐹0 × 𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Prendiamo ora 𝑓 ∈ 𝐹 tale che 𝑓 (𝑥0 ) ∈ 𝑊 ∶= 𝑉 ′ e sia 𝑥 ∈ 𝑈 arbitrario. Si ha 𝑓 ∈ 𝐹 ∩𝑀({𝑥0 }, 𝑉 ′ ) ⊆ 𝐹0 e quindi (𝑓 , 𝑥) ∈ 𝐹0 ×𝑈 , da cui 𝑓 (𝑥) = Ψ(𝑓 , 𝑥) ∈ 𝑉 . Abbiamo così verificato che è 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 e che quindi 𝐹 è equicontinuo.
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
683
Possiamo finalmente produrre il seguente: Teorema 12.129 (di Ascoli-Arzelà, versione topologica). Siano dati due spazi topologici 𝑋, 𝑌 . Sia inoltre dato un chiuso 𝐹 ⊆ 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). 1. Se 𝐹 è equicontinuo e, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’insieme 𝐹 (𝑥) ha chiusura compatta in 𝑌 , allora 𝐹 è compatto in 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). 2. Se, inoltre, 𝑋 è un 𝑘-spazio e 𝑌 è regolare, sussiste anche l’implicazione opposta.
Dimostrazione. Proviamo la 1. Supponiamo dunque 𝐹 equicontinuo e 𝐾(𝑥) ∶= cl 𝐹 (𝑥) compatto, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋. Sia 𝐾 ∶= ∏𝑥∈𝑋 𝐾(𝑥) ⊆ 𝑌 𝑋 . Per il Teorema di Tychonoff, 𝐾 è compatto. Inoltre, per definizione, è 𝐹 ⊆ 𝐾, per cui è anche compatta cl𝑝 𝐹 ⊆ 𝐾 in 𝑌 𝑋 . Per il Lemma 12.126, il compatto cl𝑝 𝐹 è un sottoinsieme equicontinuo di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ). Per il Lemma 12.127 applicato a cl𝑝 𝐹 , si ha che la restrizione della mappa di valutazione Ψ a cl𝑝 𝐹 ×𝑋 è continua. Dal Lemma 12.100 sappiamo che la compact-open topology è propria. Ciò significa che, per ogni spazio topologico 𝑍 e ogni funzione continua 𝑔 ∶ 𝑍 × 𝑋 → 𝑌 , l’applicazione Λ(𝑔) ∶ 𝑍 → 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) definita da Λ(𝑔)(𝑧) ∶= 𝑔(𝑧, ⋅) è continua. Prendiamo ora come 𝑍 lo spazio cl𝑝 𝐹 e come 𝑔 la funzione Ψ|cl𝑝 𝐹 ×𝑋 . In questo caso, per 𝑧 ∶= 𝑓 ∈ cl𝑝 𝐹 , si ha Λ(𝑔)(𝑧) = Ψ(𝑓 , ⋅) = 𝑓 ∈ 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Abbiamo così ottenuto che su cl𝑝 𝐹 l’applicazione Λ(Ψ|cl𝑝 𝐹 ×𝑋 ) è continua a valori in 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) e coincide con l’identità. Da ciò risulta che su cl𝑝 𝐹 le topologie 𝜏𝑝 e 𝜏𝑘 coincidono e, inoltre, cl𝑝 𝐹 è un compatto anche di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Per finire, ricordiamo che, per ipotesi, 𝐹 è un chiuso di 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) contenuto nel 𝜏𝑘 -compatto cl𝑝 𝐹 ed è quindi esso stesso 𝜏𝑘 -compatto. Proviamo la 2. Assumiamo 𝐹 compatto in 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ). Dimostreremo che la restrizione della mappa di valutazione Ψ a 𝐹 ×𝑋 è continua. Osserviamo, prima di tutto che, essendo 𝑋 un 𝑘-spazio, e 𝐹 compatto (e quindi anche localmente compatto), anche 𝐹 × 𝑋 è un 𝑘-spazio (cfr. Teorema 9.75). Questo risultato ci sarà utile perché (cfr. Teorema 9.45) per verificare la continuità di una funzione definita su un 𝑘-spazio, è sufficiente verificare la continuità delle sue restrizioni ai sottospazi compatti. Poiché ogni sottospazio compatto di 𝐹 × 𝑋 è contenuto nel prodotto di 𝐹 per un compatto di 𝑋 (Esercizio!), possiamo limitarci ai compatti del tipo 𝐹 × 𝐾, con 𝐾 compatto di 𝑋. Fissiamo un tale 𝐾 (non vuoto) e consideriamo la restrizione Ψ0 di Ψ a 𝐹 × 𝐾. Per il Teorema 12.99 la mappa di valutazione Ψ𝐾 ∶ 𝐶𝑘 (𝐾, 𝑌 )×𝐾 → 𝑌 è continua. La tesi segue dal fatto che Ψ0 è praticamente una restrizione di Ψ𝐾 . In vero, data 𝑓 ∈ 𝐹 ⊆ 𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) e 𝑥 ∈ 𝐾, il valore Ψ(𝑓 , 𝑥) = 𝑓 (𝑥) coincide con Ψ𝐾 (𝑓 |𝐾 , 𝑥). Siccome la restrizione di 𝑓 a 𝐾 equivale a comporre l’immersione di 𝐾 in 𝑋 con 𝑓 , la Ψ0 può essere vista come una composizione di funzioni continue. Abbiamo così verificato che la restrizione della mappa di valutazione Ψ a 𝐹 × 𝐾 è continua. Essendo 𝑌 regolare, per il lemma precedente, si ha che 𝐹 è equicontinuo. Come ultimo passo, verifichiamo che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, l’insieme 𝐹 (𝑥) è relativamente compatto. Ciò è immediato, osservando che è 𝐹 (𝑥) = {𝑓 (𝑥) ∶ 𝑓 ∈ 𝐹 } = Ψ(𝐹 × {𝑥}) = Ψ|𝐹 ×𝑋 (𝐹 × {𝑥}).
12.4. Il teorema di Ascoli-Arzelà
684
Ora, 𝐹 × {𝑥} è compatto e Ψ|𝐹 ×𝑋 è continua per quanto sopra visto; quindi 𝐹 (𝑥) è addirittura compatto. Ulteriori esempi di applicazioni del Teorema di Ascoli-Arzelà verranno prodotti nel capitolo sui sistemi dinamici.
13
Connessione Accanto alla compattezza, la connessione ha un ruolo fondamentale nelle applicazioni della Topologia all’Analisi Matematica. Entrambi i concetti hanno le loro radici nei teoremi fondamentali che si incontrano fin dai corsi iniziali di Analisi: da una parte, i Teoremi di Bolzano-Weierstrass (sulle successioni) e di Weierstrass (sui massimi e minimi per funzioni continue) e, dall’altra, il Teorema di Bolzano (sui valori intermedi). Questo capitolo è dedicato ad analizzare la struttura topologica che riguarda quest’ultimo teorema e le sue generalizzazioni.
13.1
Spazi connessi
Esistono diverse definizioni di connessione, le più importanti delle quali sono quella di insieme connesso e quella di insieme connesso per archi o per cammini. Cominciamo dalla prima e, anzi, esprimeremo il concetto che ci interessa partendo dalla sua negazione.
Definizione 13.1. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto sconnesso se è possibile ripartirlo in due sottoinsiemi aperti (e non vuoti). In caso contrario si dice che lo spazio è connesso (per insiemi). Un sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋 è connesso se è tale rispetto alla topologia indotta. ◁ In altre parole, (𝑋, 𝜏) è connesso se non esiste una coppia (𝐴, 𝐵) di aperti non vuoti e disgiunti tale che 𝐴 ∪ 𝐵 = 𝑋. Secondo la definizione, il vuoto e i singoletti sono sempre connessi. Ogni insieme con almeno due punti e dotato della topologia discreta è sconnesso; se l’insieme ha solo due punti, vale anche il viceversa. In seguito, useremo spesso gli insiemi {0, 1} o {−1, 1} con la topologia discreta (o, equivalentemente, come sottoinsiemi di ℝ) come modelli di insiemi sconnessi. D’altra parte, si noti che {0, 1} con la topologia di Sierpinski (cfr. Esempio 1.4) è connesso. È anche banale che un qualunque spazio con la topologia nulla è connesso. Altri esempi meno banali di insiemi sconnessi sono dati dall’Insieme di Cantor, dalla retta dei razionali e dalla linea di Sorgenfrey. 685
13.1. Spazi connessi
686
Per quanto riguarda i sottoinsiemi/sottospazi, osserviamo che 𝐸 ⊆ 𝑋 è sconnesso se e solo se esistono due aperti 𝑈 , 𝑉 di 𝑋 con 𝑈 ∩ 𝐸 ≠ ∅, 𝑉 ∩ 𝐸 ≠ ∅ e tali che 𝑈 ∪ 𝑉 ⊇ 𝐸, 𝑈 ∩ 𝑉 ∩ 𝐸 = ∅.
In questo caso, la coppia (𝑈 ∩ 𝐸, 𝑉 ∩ 𝐸) è detta uno spezzamento di 𝐸. Il primo esempio fondamentale di insiemi connessi non triviali è dato dagli intervalli della retta reale. Ricordiamo che, dati 𝑎, 𝑏 ∈ ℝ con 𝑎 ≤ 𝑏, si chiamano intervalli limitati di estremi 𝑎 e 𝑏 gli insiemi: ]𝑎, 𝑏[ ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑎 < 𝑥 < 𝑏} ; ]𝑎, 𝑏] ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑎 < 𝑥 ≤ 𝑏} ;
[𝑎, 𝑏] ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑎 ≤ 𝑥 ≤ 𝑏} ; [𝑎, 𝑏[ ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑎 ≤ 𝑥 < 𝑏} .
] − ∞, 𝑎[ ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑥 < 𝑎} ; ]𝑎, +∞[ ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑥 > 𝑎} ;
] − ∞, 𝑎] ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑥 ≤ 𝑎} ; [𝑎, +∞[ ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑥 ≥ 𝑎} ,
Il primo intervallo si dice aperto, il secondo chiuso, il terzo aperto a sinistra e chiuso a destra e simmetricamente per il quarto. Ovviamente, se è 𝑎 = 𝑏, si ha [𝑎, 𝑏] = {𝑎}, mentre gli altri tre intervalli sono vuoti. Un intervallo che si riduce a un singoletto è detto degenere. Vi sono poi gli intervalli illimitati, che sono, oltre a ] − ∞, +∞[ ∶= ℝ gli insiemi:
con 𝑎 ∈ ℝ fissato. Il primo e il terzo intervallo si dicono aperti, il secondo e il quarto chiusi; ℝ è aperto e chiuso. Ovviamente, la terminologia è coerente con quella topologica. Lemma 13.2. Un sottoinsieme 𝐸 ⊆ ℝ è un intervallo se e solo se gode della seguente proprietà: (∀𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝐸)(𝑥1 < 𝑥2 ⇒ [𝑥1 , 𝑥2 ] ⊆ 𝐸).
Dimostrazione. Chiaramente, ciascuno dei nove insiemi che abbiamo chiamato intervallo gode della proprietà enunciata. Veniamo al viceversa, supponendo che 𝐸 abbia almeno due punti (altrimenti la cosa è ovvia). Siano 𝛼 ∶= inf 𝐸 e 𝛽 ∶= sup 𝐸. Osserviamo che è 𝛼 < 𝛽, dato che 𝐸 ha almeno due elementi. Dato 𝑥 ∈ ℝ con 𝛼 < 𝑥 < 𝛽, esistono 𝑢, 𝑣 ∈ 𝐸 tali che 𝛼 < 𝑢 < 𝑥 < 𝑣 < 𝛽, da cui 𝑥 ∈ [𝑢, 𝑣] ⊆ 𝐸. Abbiamo così verificato che è ]𝛼, 𝛽[ ⊆ 𝐸. La tesi si raggiunge facilmente distinguendo vari casi, a seconda che 𝛼, 𝛽 siano finiti o meno e appartengano o meno all”insieme 𝐸. (Esercizio!) Teorema 13.3. In (ℝ, 𝜏𝑒 ) sono connessi tutti e soli gli intervalli.
Dimostrazione. Se 𝐸 ⊆ ℝ non è un intervallo, esistono tre punti 𝑥1 < 𝑧 < 𝑥2 , con 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝐸 e 𝑧 ∉ 𝐸. Gli insiemi 𝐴 ∶= ] − ∞, 𝑧[ ∩𝐸 e 𝐵 ∶= ]𝑧, +∞[ ∩𝐸 formano uno spezzamento di 𝐸 che, pertanto, è sconnesso.
13.1. Spazi connessi
687
Sia ora 𝐸 un intervallo e supponiamo, per assurdo, che non sia connesso. Esistono quindi due aperti 𝐴, 𝐵 ⊂ ℝ tali che 𝐴′ ∶= 𝐴 ∩ 𝐸 e 𝐵 ′ ∶= 𝐵 ∩ 𝐸 formano uno spezzamento di 𝐸. Per ipotesi, esistono 𝑎 ∈ 𝐴′ e 𝑏 ∈ 𝐵 ′ . Non è restrittivo supporre 𝑎 < 𝑏. Osserviamo che, per il lemma precedente, si ha [𝑎, 𝑏] ⊆ 𝐸. Ponendo 𝐴∗ ∶= 𝐴 ∩ [𝑎, 𝑏] e 𝐵 ∗ ∶= 𝐵 ∩ [𝑎, 𝑏], risulta che la coppia (𝐴∗ , 𝐵 ∗ ) costituisce uno spezzamento dell’intervallo [𝑎, 𝑏] che sarebbe, pertanto, sconnesso. Introduciamo l’insieme 𝐺 ∶= {𝑥 ∈ [𝑎, 𝑏] ∶ [𝑎, 𝑥] ⊆ 𝐴∗ } ⊆ 𝐴. Osserviamo che, poiché 𝑏 ∉ 𝐴∗ , per ogni 𝑟 ∈ 𝐴∗ , esiste un 𝜀 > 0 tale che [𝑟, 𝑟+𝜀] ⊆ 𝐴∗ ; simmetricamente, poiché 𝑎 ∉ 𝐵 ∗ , per ogni 𝑟 ∈ 𝐵 ∗ , esiste un 𝜀 > 0 tale che [𝑟−𝜀, 𝑟] ⊆ 𝐵 ∗ . Sia or 𝜆 ∶= sup 𝐺. Per quanto appena detto, deve essere 𝑎 < 𝜆 < 𝑏. Notiamo inoltre che risulta [𝑎, 𝜆[ ⊆ 𝐴∗ . Si ha 𝜆 ∈ [𝑎, 𝑏] = 𝐴∗ ∪𝐵 ∗ . Se fosse 𝜆 ∈ 𝐴∗ , esisterebbe 𝜀 > 0 tale che [𝜆, 𝜆 + 𝜀] ⊆ 𝐴∗ e quindi [𝑎, 𝜆 + 𝜀] ⊆ 𝐴∗ , da cui 𝜆 + 𝜀 ∈ 𝐺, contro il fatto che 𝜆 è una limitazione superiore di 𝐺. Se fosse 𝜆 ∈ 𝐵 ∗ , esisterebbe 𝜀 > 0 tale che [𝜆 − 𝜀, 𝜆] ⊆ 𝐵 ∗ . D’altra parte, per la seconda proprietà dell’estremo superiore, deve esistere un elemento 𝑦 ∈ 𝐺 ⊆ 𝐴∗ con 𝑦 ∈ [𝜆 − 𝜀, 𝜆], da cui 𝑦 ∈ 𝐴∗ ∩ 𝐵 ∗ , che è assurdo. Il prossimo risultato caratterizza la connessione mediante proprietà equivalenti che taluni Autori utilizzano come definizione. Sarà utile ricordare che due sottoinsiemi di uno spazio topologico si dicono separati se nessuno dei due ha punti aderenti all’altro (cfr. Definizione 1.108). Teorema 13.4. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. 𝑋 è connesso. 2. 𝑋 non può essere espresso come unione di due chiusi non vuoti e disgiunti. 3. Gli unici clopen di 𝑋 sono 𝑋 e ∅. 4. 𝑋 non può essere espresso come unione di due sottoinsiemi non vuoti e separati. 5. Ogni sottoinsieme non vuoto e proprio di 𝑋 ha frontiera non vuota. 6. Ogni funzione continua da 𝑋 in {0, 1} è costante. 7. Ogni funzione continua da 𝑋 in uno spazio discreto è costante. 8. (Teorema di Bolzano.) Ogni funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ continua ha la proprietà dei valori intermedi. 9. Per ogni coppia (𝑝, 𝑞) di punti distinti di 𝑋, esiste un sottoinsieme connesso di 𝑋 che li contiene.
Dimostrazione. 1 ⇔ 2. Se 𝑋 è sconnesso, si ha 𝑋 = 𝐴 ∪ 𝐵, con 𝐴, 𝐵 aperti non vuoti e disgiunti. Ne viene che 𝐴 e 𝐵 sono l’uno il complementare dell’altro e, pertanto sono chiusi. Dunque 𝑋 è unione di due chiusi non vuoti e disgiunti. Il viceversa si prova in modo analogo. 1 ⇔ 3. Al punto precedente si è visto che, se 𝑋 è sconnesso, allora esso è unione di due clopen non vuoti e disgiunti. Dunque esistono clopen diversi da 𝑋 e ∅. Viceversa, se in 𝑋 esiste un clopen 𝐴 diverso da 𝑋 e ∅, è tale anche il suo complementare 𝐵. Ne viene che 𝑋 è unione di due aperti non vuoti e disgiunti ed è quindi sconnesso.
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1 ⇔ 4. Se 𝑋 è sconnesso, allora, per quanto visto al punto precedente, è unione di due clopen non vuoti e disgiunti che sono due insiemi separati. Viceversa, supponiamo che sia 𝑋 = 𝐴 ∪ 𝐵, con 𝐴, 𝐵 insiemi non vuoti e fra loro separati. Se è 𝑎 ∈ 𝐴, non può essere 𝑎 ∈ cl 𝐵; esiste quindi un intorno di 𝑎 contenuto in 𝐴: dunque 𝐴 è aperto. Analogamente per 𝐵. Ne viene che 𝑋 è unione di due aperti non vuoti e disgiunti ed è quindi sconnesso. 3 ⇔ 5. Questa equivalenza è stata provata nella Proposizione 1.40.6. 1 ⇒ 7. Sia 𝑌 uno spazio topologico discreto e supponiamo che esista una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 non costante. La funzione 𝑓 assume dunque almeno due valori 𝑧, 𝑤 ∈ 𝑌 . Gli insiemi 𝑍 ∶= {𝑧} e 𝑊 ∶= 𝑌 ⧵ 𝑍 sono due clopen di 𝑌 ; sono non vuoti, dato che è 𝑤 ∈ 𝑊 e la loro unione dà 𝑌 . Ne viene che le loro controimmagini in 𝑋 sono due clopen non vuoti e disgiunti la cui unione dà 𝑋 e che quindi 𝑋 non è connesso. 7 ⇒ 6. Ovvia. 6 ⇒ 1. Al solito, proviamo la contronominale e supponiamo che 𝑋 sia sconnesso. È dunque 𝑋 = 𝐴 ∪ 𝐵, con 𝐴, 𝐵 aperti, non vuoti e disgiunti. Sia ora 𝑓 ∶ 𝑋 → {0, 1} la funzione che vale 0 in 𝐴 e 1 in 𝐵. Si ottiene così una funzione continua non costante. 1 ⇒ 8. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione continua che assume i valori 𝑦1 e 𝑦2 , con 𝑦1 < 𝑦2 . Supponiamo, per assurdo, che esista uno 𝑧 ∈ [𝑦1 , 𝑦2 ] tale che 𝑓 (𝑥) ≠ 𝑧, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Poniamo allora 𝐴 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) < 𝑧} e 𝐵 ∶= {𝑥 ∈ 𝑋 ∶ 𝑓 (𝑥) > 𝑧}. 𝐴 e 𝐵 sono due aperti non vuoti e disgiunti, la cui unione dà tutto 𝑋. Ma ciò contraddice l’ipotesi che 𝑋 è connesso. 8 ⇒ 6. Sia 𝑗 l’immersione canonica di {0, 1} in (ℝ, 𝜏𝑒 ). Ovviamente 𝑗 è continua. Sia ora 𝑓 ∶ 𝑋 → {0, 1} continua. La composta 𝑔 ∶= 𝑗 ∘ 𝑓 è una funzione continua da 𝑋 a ℝ. Se 𝑓 non è costante, 𝑔 assume i valori 0 e 1 e quindi deve assumere, per ipotesi, tutti i valori intermedi, ma ciò è palesemente assurdo. 1 ⇒ 9. Ovvia. 9 ⇒ 6. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 → {0, 1} continua. Fissiamo un punto 𝑧 ∈ 𝑋 e supponiamo, per esempio, che sia 𝑓 (𝑧) = 0. Sia poi 𝑥 ∈ 𝑋 un punto arbitrario diverso da 𝑧. Per ipotesi, esiste un connesso 𝑊 ⊆ 𝑋 contenente 𝑧 e 𝑥. Se, per assurdo, fosse 𝑓 (𝑥) = 1, avremmo che gli aperti di 𝑊 𝐴 ∶= 𝑊 ∩ 𝑓 −1 {0} e 𝐵 ∶= 𝑊 ∩ 𝑓 −1 {1} formerebbero uno spezzamento di 𝑊 . Dall’assurdo, segue che è 𝑓 (𝑥) = 0, ∀𝑥 ∈ 𝑋. Dalla 2 segue immediatamente che: Ogni spazio 𝑇1 finito è sconnesso.
Teorema 13.5 (di connessione). Siano dati due spazi topologici 𝑋, 𝑌 e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 continua. Allora se 𝑋 è connesso, è tale anche lo spazio 𝑓 (𝑋)(⊆ 𝑌 ). Dimostrazione. Sia 𝑌 ′ ∶= 𝑓 (𝑋) il sottospazio di 𝑌 dotato della topologia indotta. Supponiamo, per assurdo, che 𝑌 ′ non sia connesso. Esistono allora due aperti non vuoti e disgiunti 𝐴′ , 𝐵 ′ di 𝑌 ′ con 𝐴′ ∪𝐵 ′ = 𝑌 ′ . Sia ora 𝐴 ∶= 𝑓 −1 (𝐴′ )
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e 𝐵 ∶= 𝑓 −1 (𝐵 ′ ). 𝐴, 𝐵 sono due aperti non vuoti e disgiunti di 𝑋 la cui unione dà tutto 𝑋. Ma ciò va contro l’ipotesi che 𝑋 è connesso. Dal precedente teorema si ottiene che quello di connessione è un concetto topologico; si ha infatti il seguente: Corollario 13.6. Se 𝑋, 𝑌 sono due spazi topologici omeomorfi, allora uno di essi è connesso se e solo se lo è l’altro.
Osservazione 13.7. Il Teorema 7.66 può essere così riformulato: Una funzione 𝑓 ∶ 𝐼(⊆ ℝ) → ℝ, con 𝐼 un intervallo, che muta compatti in compatti e connessi in connessi è continua. Sappiamo già (cfr. Osservazione 7.67) che l’ipotesi che 𝐼 sia un intervallo è essenziale. Ciò mostra, fra l’altro, che il risultato non si estende a spazi topologici arbitrari. ◁ A questo punto, è naturale chiedersi cosa succede della connessione se si indebolisce o si raffina la topologia dello spazio. Un’immediata conseguenza del Teorema di connessione è data dal seguente
Corollario 13.8. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico connesso e 𝜎 una topologia su 𝑋 meno fine di 𝜏. Allora anche (𝑋, 𝜎) è connesso. Dimostrazione. Si può dimostrare l’asserto usando direttamente la definizione (Esercizio!). Si può però anche osservare che l’identità 𝑗 ∶ (𝑋, 𝜏) → (𝑋, 𝜎) è continua e applicare il Teorema di connessione. Non sussiste un analogo risultato per le topologie più fini. Basta pensare alla topologia discreta, oppure confrontare (ℝ, 𝜏𝑒 ) (connesso) con (ℝ, 𝜏 + ) (non connesso). Come ovvia conseguenza del Corollario 13.6, si ha che: Ogni sottoinsieme di uno spazio topologico che sia omeomorfo a un intervallo della retta reale è connesso. Un’altra conseguenza del Teorema di connessione è data dal seguente Corollario 13.9. Ogni spazio topologico connesso e che separa i punti (in particolare, completamente regolare) se contiene almeno due punti ha cardinalità maggiore o uguale a quella del continuo. Dimostrazione. Siano 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋 due punti distinti. Per ipotesi, esiste una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] tale che 𝑓 (𝑝) = 0 e 𝑓 (𝑞) = 1. D’altra parte, per il Teorema di connessione, 𝑓 (𝑋) è un intervallo che deve coincidere con [0, 1]. Quindi 𝑓 è un’applicazione suriettiva con 𝑓 (𝑋) avente potenza del continuo; ne viene che 𝑋 non può avere cardinalità minore.
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Se si toglie l’ipotesi che lo spazio separi i punti, il risultato precedente può cadere in difetto, anche assumendo che lo spazio sia di Hausdorff. Un esempio di spazio di Hausdorff che non separa i punti è quello dell’inclinazione irrazionale (cfr. Esempi 1.90 e 2.105). Vediamo ora che questo tipo di spazi fornisce una classe di connessi numerabili. Questo esempio è particolarmente significativo perché gli spazi di Hausdorff finiti hanno la topologia discreta. Esempio 13.10. Sia (𝑋, 𝜏) il semipiano ℚ × (ℚ+ ∪ {0}) dotato della topologia dell’inclinazione irrazionale per un prefissato irrazionale 𝛼 > 0 (cfr. Esempio 1.90). Si è già visto che lo spazio è di Hausdorff ma non separa i punti. Ovviamente, 𝑋 è anche numerabile. Verifichiamo che è connesso. Supponiamo che esistano due clopen disgiunti 𝐶1 , 𝐶2 la cui unione dà 𝑋. Per prima cosa, osserviamo che nessuno dei due può essere un sottoinsieme dell’asse delle ascisse 𝑡. (Infatti, per assurdo: se fosse 𝐶1 ⊆ 𝑡, essendo aperto, 𝐶1 dovrebbe contenere un intervallo razionale non degenere; ma allora, nella sua chiusura, vi sarebbero anche punti di 𝑋 ⧵ 𝑡 e quindi non potrebbe essere chiuso.) Prendiamo a questo punto la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] che manda tutti i i punti di 𝐶1 in 0 e tutti i punti di 𝐶2 in 1. La funzione 𝑓 è ovviamente continua. Fissiamo, in fine, due punti 𝑝 ∈ 𝐶1 ⧵ 𝑡 e 𝑞 ∈ 𝐶2 ⧵ 𝑡. Abbiamo così una funzione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, 1] con 𝑓 (𝑝) = 0 e 𝑓 (𝑞) = 1; ovvero 𝑓 separa due punti del semipiano superiore. Ma ciò va contro quanto dimostrato nell’Esempio 2.105. ◁ Definizione 13.11. Ogni sottoinsieme di uno spazio topologico che sia omeomorfo a un intervallo compatto della retta reale è detto arco. ◁ In base alle definizioni e al teorema di compattezza, si ha che: Ogni arco è un insieme compatto e connesso.
Corollario 13.12. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico di Hausdorff e 𝛾 ∶ 𝐼 = [0, 1] → 𝑋 una funzione continua e iniettiva. Allora l’insieme Γ ∶= 𝛾(𝐼) è un arco.
Dimostrazione. L’applicazione 𝛾 ∶ 𝐼 → Γ è biiettiva e continua; per il Teorema di omeomorfismo 7.36, Γ è un arco.
Ovviamente, se un insieme 𝐸 è connesso in uno spazio topologico 𝑋, non è detto che siano tali i suoi sottoinsiemi o i suoi soprainsiemi. In generale, l’unione di due connessi non è connessa; basta prendere in ℝ due intervalli aperti (o chiusi) disgiunti. In ℝ l’intersezione di due connessi è ancora un connesso (eventualmente vuoto), dato che si tratta di intervalli. La cosa non è più vera già in ℝ2 . Basta prendere due semicirconferenze chiuse che si intersecano nei punti estremi; le semicirconferenze chiuse sono degli archi e quindi insiemi connessi. Presenteremo ora dei risultati che garantiscono la connessione di sottospazi ottenuti mediante unioni o intersezioni di insiemi connessi. Premettiamo il seguente lemma:
13.1. Spazi connessi
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Lemma 13.13. Sia 𝐸 un sottoinsieme non vuoto di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). Allora 𝐸 è connesso se e solo se vale la seguente proprietà: (∗) Per ogni coppia (𝐴, 𝐵) di sottoinsiemi separati di 𝑋 tale che 𝐸 ⊆ 𝐴 ∪ 𝐵, si ha (𝐸 ⊆ 𝐴) ∨ (𝐸 ⊆ 𝐵).
Dimostrazione. Proviamo il “se”, verificando la contronominale. Se 𝐸 non è connesso, esistono due chiusi 𝐶1 , 𝐶2 non vuoti di 𝐸 che producono un suo spezzamento, da cui 𝐸 ⊆ 𝐶1 ∪ 𝐶2 . Mostriamo che 𝐶1 e 𝐶2 sono separati in 𝑋. Se ciò non è, deve esistere un 𝑥 ∈ 𝑋 appartenente a uno dei due insiemi e aderente all’altro in 𝑋. Sia, per esempio, 𝑥 ∈ 𝐶1 ∩ cl𝑋 𝐶2 . Ricordiamo che è cl𝐸 𝐶2 = 𝐸 ∩ cl𝑋 𝐶2 (cfr. Proposizione 1.57.3). Siccome è 𝑥 ∈ 𝐶1 ⊆ 𝐸, si ha 𝑥 ∈ cl𝐸 𝐶2 = 𝐶2 , dato che 𝐶2 è chiuso in 𝐸. Abbiamo così ottenuto l’assurdo 𝐶1 ∩𝐶2 ≠ ∅. Abbiamo pertanto verificato che esistono due sottoinsiemi separati di 𝑋 la cui riunione contiene (coincide con) 𝐸, senza che 𝐸 sia contenuto in uno dei due. Proviamo il “solo se”. Supponiamo che 𝐸 sia connesso e che esista una coppia (𝐴, 𝐵) di sottoinsiemi separati di 𝑋 tale che 𝐸 ⊆ 𝐴 ∪ 𝐵. Poniamo 𝐴′ ∶= 𝐴 ∩ 𝐸 e 𝐵 ′ ∶= 𝐵 ∩ 𝐸. Risulta 𝐸 = 𝐴′ ∪ 𝐵 ′ , con 𝐴′ , 𝐵 ′ separati in 𝐸. Per il punto 4 del Teorema 13.4, 𝐸 non può essere espresso come unione di due suoi sottoinsiemi non vuoti e separati. Si conclude che uno dei due insiemi è vuoto (per esempio 𝐴′ ) e l’altro coincide con 𝐸, da cui 𝐸 ⊆ 𝐵. Per esercizio, si dimostri l’equivalenza degli enunciati 1 e 9 del Teorema 13.4 utilizzando il lemma precedente.
Teorema 13.14. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Se due sottoinsiemi 𝑆1 , 𝑆2 connessi di 𝑋 hanno intersezione non vuota, allora la loro unione è connessa. 2. Sia data una famiglia finita 𝑆1 , … , 𝑆𝑛 di sottoinsiemi connessi di 𝑋 che a due a due hanno intersezione non vuota. Allora la loro unione è connessa. 3. Sia data una famiglia finita 𝑆1 , … , 𝑆𝑛 di sottoinsiemi connessi di 𝑋 tali che 𝑆𝑖 ∩ 𝑆𝑖+1 ≠ ∅, ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛 − 1}. Allora la loro unione è connessa. 4. Sia data una famiglia numerabile 𝑆1 , … , 𝑆𝑛 , … di sottoinsiemi connessi di 𝑋 tali che 𝑆𝑖 ∩ 𝑆𝑖+1 ≠ ∅, ∀𝑖. Allora la loro unione è connessa. 5. Sia data una famiglia arbitraria (𝑆𝛼 )𝛼∈𝐽 di sottoinsiemi connessi di 𝑋 con intersezione non vuota. Allora la loro unione è connessa. 6. Sia data una famiglia arbitraria (𝑆𝛼 )𝛼∈𝐽 di sottoinsiemi connessi di 𝑋 tali che 𝑆𝛼 ∩ 𝑆𝛽 ≠ ∅, ∀𝛼, 𝛽 ∈ 𝐽 . Allora la loro unione è connessa. 7. Sia data una famiglia arbitraria (𝑆𝛼 )𝛼∈𝐽 di sottoinsiemi connessi di 𝑋 tali che esiste un 𝛽 ∈ 𝐽 con 𝑆𝛼 ∩ 𝑆𝛽 ≠ ∅, ∀𝛼 ∈ 𝐽 . Allora la loro unione è connessa. Dimostrazione. 1. Sia 𝑓 ∶ 𝑆1 ∪𝑆2 → {0, 1} continua. Per il punto 6 del Teorema 13.4, le restrizioni di 𝑓 a 𝑆1 e a 𝑆2 sono costanti. Fissato 𝑧 ∈ 𝑆1 ∩ 𝑆2 , abbiamo 𝑓 (𝑥) = 𝑓 (𝑧) per ogni 𝑥 ∈ 𝑆1 e per ogni 𝑥 ∈ 𝑆2 , per cui 𝑓 è costante su 𝑆1 ∪ 𝑆2 . da cui la tesi ancora per il Teorema 13.4.
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La 2 e la 3 si dimostrano per induzione a partire dalla 1 (Esercizio!). Si noti che la 2 segue banalmente dalla 3. 4. Sia 𝑆 ∶= ⋃𝑛 𝑆𝑛 . Presi due punti arbitrari distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑆, esistono 𝑛1 , 𝑛2 tali che 𝑝 ∈ 𝑆𝑛1 e 𝑞 ∈ 𝑆𝑛2 . Posto 𝑚∗ ∶= max{𝑛1 , 𝑛2 }, si ha 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑆1 ∪ ⋯ ∪ 𝑆𝑛∗ , che è connesso per il punto 3. La tesi segue dal punto 9 del Teorema 13.4 . 5. Siano 𝑆 ∶= ⋃𝛼∈𝐽 𝑆𝛼 e 𝑧 ∈ ⋂𝛼∈𝐽 𝑆𝛼 . Presi due punti arbitrari distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑆, esistono 𝛼1 , 𝛼2 ∈ 𝐽 tali che 𝑝 ∈ 𝑆𝛼1 e 𝑞 ∈ 𝑆𝛼2 . L’insieme 𝑆𝛼1 ∪ 𝑆𝛼2 è connesso per il punto 1 (il punto 𝑧 è comune ai due insiemi). Al solito, la tesi segue dal Teorema 13.4. 6. Siano 𝑆 ∶= ⋃𝛼∈𝐽 𝑆𝛼 . Presi due punti arbitrari distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑆, esistono 𝛼1 , 𝛼2 ∈ 𝐽 tali che 𝑝 ∈ 𝑆𝛼1 e 𝑞 ∈ 𝑆𝛼2 . L’insieme 𝑆𝛼1 ∪ 𝑆𝛼2 è connesso per il punto 1 (𝑆𝛼1 ∩ 𝑆𝛼2 è non vuoto per ipotesi). Di nuovo la tesi segue dal Teorema 13.4. 7. Siano 𝑆 ∶= ⋃𝛼∈𝐽 𝑆𝛼 . Presi due punti arbitrari distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑆, esistono 𝛼1 , 𝛼2 ∈ 𝐽 tali che 𝑝 ∈ 𝑆𝛼1 e 𝑞 ∈ 𝑆𝛼2 . L’insieme 𝑆𝛼1 ∪ 𝑆𝛽 ∪ 𝑆𝛼2 è connesso per il punto 3. La tesi segue sempre dal Teorema 13.4.
Teorema 13.15. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un suo sottoinsieme connesso (e non vuoto). Ogni sottoinsieme 𝑆 tale che 𝐸 ⊆ 𝑆 ⊆ cl 𝐸 è connesso.
Dimostrazione. Supponiamo che esista 𝑧 ∈ cl 𝐸 ⧵ 𝐸; in caso contrario, non c’è nulla da dimostrare. Poniamo 𝐸 ′ ∶= 𝐸 ∪ {𝑧}. Sia 𝑓 ∶ 𝐸 ′ → {0, 1} continua e supponiamo che sia 𝑓 (𝑧) = 0. L’insieme 𝑓 −1 ({0}) è un aperto di 𝐸 ′ contenente 𝑧 e quindi è del tipo 𝐴∩𝐸 ′ , con 𝐴 aperto di 𝑋. Siccome 𝑧 è aderente ad 𝐸, in 𝐴 c’è almeno un punto 𝑤 ∈ 𝐸 che, per ipotesi, è diverso da 𝑧. Si ottiene 𝑓 (𝑤) = 0. Poiché 𝑓 deve essere costante su 𝐸, si ottiene che essa è costante anche su 𝐸 ′ e che quindi questo insieme è connesso. Essendo 𝑆 = ⋃𝑧∈𝑆⧵𝐸 (𝐸 ∪ {𝑧}), la tesi segue dalla Proposizione 13.14.5. Dunque, in particolare, da 𝐸(⊂ (𝑋, 𝜏)) connesso segue cl 𝐸 connesso. Non sussiste chiaramente l’implicazione opposta: basta prendere, in ℝ, il sottoinsieme ℚ. Sottolineiamo ancora che, mentre la connessione si trasferisce da un insieme alla sua chiusura, non accade lo stesso passando da un insieme al suo interno. Consideriamo, per esempio, in (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) l’insieme 𝐸 ∶= 𝐵[(−1, 0), 1] ∪ 𝐵[(1, 0), 1]. È immediato (Esercizio!), ma lo vedremo fra poco come conseguenza di un fatto più generale (cfr. Corollario 13.65), che le palle di ℝ𝑛 , aperte o chiuse, sono insiemi connessi; ne viene che anche 𝐸 è connesso per la Proposizione 13.14.1. Ora però si ha int 𝐸 = 𝐵((−1, 0), 1) ∪ 𝐵((1, 0), 1) che ovviamente non è connesso. Un’applicazione all’Analisi Matematica dei teoremi appena visti è la seguente Proposizione 13.16. Sia 𝑓 ∶ 𝐽 → ℝ con 𝐽 intervallo reale. Se 𝑓 è continua, il suo grafico è connesso in ℝ2 .
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Dimostrazione. Consideriamo l’applicazione 𝜑 ∶ 𝐽 → ℝ2 definita da 𝜑(𝑥) ∶= (𝑥, 𝑓 (𝑥)). La funzione 𝜑 è continua essendo tali le sue componenti. Basta ora applicare il Teorema di connessione, osservando che 𝜑(𝐽 ) coincide con il grafico di 𝑓 . Mostriamo con un esempio che non sussiste l’implicazione opposta.
Esempio 13.17. Sia 𝑓 ∶ ℝ → ℝ la funzione definita da 𝑓 (0) ∶= 0 e 𝑓 (𝑥) ∶= sin(1/𝑥), ∀𝑥 ≠ 0. Il grafico 𝐺 di 𝑓 è la riunione del singoletto (0, 0) con i grafici 𝐺1 e 𝐺2 delle restrizioni di 𝑓 agli intervalli 𝐴 e 𝐵 degli 𝑥 > 0 e, rispettivamente, degli 𝑥 < 0. Questi due grafici sono dei connessi, dato che 𝑓 è continua su 𝐴 e su 𝐵. Il punto (0, 0) sta nella chiusura di entrambi i grafici 𝐺1 e 𝐺2 . Per il Teorema 13.15, gli insiemi 𝐺1 ∪ {(0, 0)} e 𝐺2 ∪ {(0, 0)} sono connessi. In fine anche 𝐺 è connesso in quanto unione di due connessi non disgiunti, ma ovviamente 𝑓 non è continua ◁ Teorema 13.18. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Se 𝑋 è connesso, è tale ogni sua compattificazione. 2. Se 𝑋 è completamente regolare, allora esso è connesso se e solo se è tale la sua compattificazione di Stone-Čech 𝛽𝑋.
Dimostrazione. La 1 segue immediatamente dal Teorema 13.15. Occupiamoci della 2. Supponiamo 𝑋 completamente regolare e 𝛽𝑋 connesso. Sia 𝑓 ∶ 𝑋 → {0, 1} continua. Per la Proprietà universale di estensione (Teorema 10.30) 𝑓 è prolungabile in un unico modo a una funzione continua 𝑓 ̂ ∶ 𝛽𝑋 → {0, 1}. Per la connessione di 𝛽𝑋, la funzione 𝑓 ̂ è costante ed è quindi tale anche la sua restrizione 𝑓 a 𝑋. Come al solito, abbiamo pensato 𝑋 come sottospazio di 𝛽𝑋. Il viceversa segue dalla 1. La 2 del precedente teorema non sussiste per una qualunque compattificazione.
Esempio 13.19. Sia 𝑋 ∶= [−1, 0[ ∪ ]0, 1] con la topologia euclidea. Chiaramente, 𝑋 non è connesso (cfr. Teorema 13.3). La sua compattificazione di Alexandrov si ottiene aggiungendo lo 0 come “punto all’infinito”, ottenendo il connesso [−1, 1]. ◁
Definizione 13.20. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝑧 un suo punto arbitrario. Si chiama componente connessa di 𝑧 (o anche semplicemente componente di 𝑧) la riunione di tutti i connessi contenenti 𝑧. ◁ Poiché il singoletto {𝑧} è connesso, la precedente definizione è consistente. Quindi, per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, la sua componente connessa 𝑆𝑧 esiste ed è un insieme connesso contenente 𝑧 (cfr. Proposizione 13.14.5). Inoltre si ha 𝑆𝑧 = 𝑋 se e solo se 𝑋 è connesso; in tal caso l’uguaglianza vale per ogni punto 𝑧.
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Teorema 13.21. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Quali che siano 𝑤, 𝑧 ∈ 𝑋, le relative componenti connesse 𝑆𝑤 , 𝑆𝑧 o coincidono o sono disgiunte. Ne viene che l’insieme delle componenti connesse distinte formano una partizione di 𝑋. Dimostrazione. Supponiamo che esita 𝑥 ∈ 𝑆𝑤 ∩𝑆𝑧 . Per la proposizione 13.14.1, l’insieme 𝑆𝑤 ∪ 𝑆𝑧 è connesso e contiene 𝑤. Per definizione, si ottiene 𝑆𝑤 ∪ 𝑆𝑧 ⊆ 𝑆𝑤 . Si conclude che è 𝑆𝑧 ⊆ 𝑆𝑤 . Per simmetria, si ha anche 𝑆𝑤 ⊆ 𝑆𝑧 e quindi 𝑆𝑧 = 𝑆𝑤 . L’ultima parte della tesi è ovvia. Alla luce di questo risultato, dal momento che le componenti connesse formano una partizione dello spazio, esiste una relazione di equivalenza di cui esse sono le classi. Tale relazione è così espressa: 𝑥 ∼ 𝑦 ⟺ ∃𝐶(⊆ 𝑋) connesso, con 𝑥, 𝑦 ∈ 𝐶.
(13.1)
Il lettore verifichi per esercizio che la relazione ∼ è di equivalenza e ha come classi le componenti connesse.
Teorema 13.22. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Ogni sua componente connessa è un chiuso (non necessariamente clopen) connesso e massimale (per inclusione) rispetto alla proprietà di essere connesso. Dimostrazione. Sia 𝑆 ∶= 𝑆𝑧 una componente connessa di 𝑋. Sappiamo che 𝑆 è un insieme connesso. Inoltre, se 𝑆 ′ è un connesso, con 𝑆 ′ ⊇ 𝑆, esso deve contenere 𝑧, da cui, per definizione, 𝑆 ′ ⊆ 𝑆 e quindi 𝑆 ′ = 𝑆. Inoltre cl 𝑆 ′ è un connesso contenente 𝑆 e quindi deve coincidere con 𝑆 per la massimalità di questo. Posto 𝐸 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ∪ {0} in (ℝ, 𝜏𝑒 ), si ha 𝑆0 = {0} che non è un aperto di 𝐸. A questo punto, possiamo chiamare componenti connesse di 𝑋 i sottoinsiemi di 𝑋 che siano connessi e massimali per inclusione rispetto a questa proprietà. Ovviamente, ogni componente connessa 𝑆 rispetto a questa definizione coincide con la componente connessa 𝑆𝑧 per ogni punto 𝑧 ∈ 𝑆. Può accadere che la componente connessa di un punto 𝑧 si riduca al singoletto {𝑧}. Ciò accade per esempio per i punti isolati. Non sussiste il viceversa. Si consideri ancora l’insieme 𝐸 ∶= {1/𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ } ∪ {0} in (ℝ, 𝜏𝑒 ). Il punto 0 non è isolato, ma, come già visto, la sua componente connessa si riduce al solo punto. Lo stesso accade per ogni punto dello spazio (ℚ, 𝜏𝑒 ). Definizione 13.23. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto totalmente sconnesso (per insiemi) se le sue componenti connesse si riducono tutte ai singoletti. ◁
In base a quanto precede, si ha che sono totalmente sconnessi gli spazi discreti, (ℚ, 𝜏𝑒 ), (ℝ ⧵ ℚ, 𝜏𝑒 ), l’insieme di Cantor 1.64. Ulteriori esempi interessanti sono i seguenti:
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Esempio 13.24. 1. La retta di Sorgenfrey (ℝ, 𝜏 + ). Osserviamo intanto che, dato 𝑧 ∈ ℝ, gli insiemi 𝐴 ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑥 < 𝑧} e 𝐵 ∶= {𝑥 ∈ ℝ ∶ 𝑥 ≥ 𝑧} formano uno spezzamento di (ℝ, 𝜏 + ). A questo punto, dati 𝑝, 𝑞 ∈ ℝ, basta prendere uno 𝑧 fra essi strettamente compreso per avere due aperti disgiunti contenenti uno 𝑝 e uno 𝑞. 2. Lo spazio topologico 𝐵(ℕ) = 𝐵(ℵ0 ) ∶= ℕℕ , che chiameremo cubo di Baire, dotato della topologia prodotto (della convergenza puntuale). Fissiamo due elementi distinti di ℕℕ : 𝛼 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 e 𝛽 ∶= (𝑏𝑛 )𝑛 . esiste almeno un 𝑘 ∈ ℕ tale che 𝑎𝑘 ≠ 𝑏𝑘 . Consideriamo ora i due aperti di base: 𝐴 formato dalle successioni di naturali (𝑥𝑛 )𝑛 con 𝑥𝑘 = 𝑎𝑘 , 𝐵 formato dalle successioni di naturali (𝑦𝑛 )𝑛 con 𝑦𝑘 ≠ 𝑎𝑘 . 𝐴 e 𝐵 sono due aperti di base che spezzano lo spazio, uno contenente 𝛼 e l’altro 𝛽. Questi insiemi spezzano anche ogni sottoinsieme di 𝐵(ℕ) che contenga 𝛼 e 𝛽. 3. L’esempio del cubo di Baire può essere così generalizzato. Sia 𝑋 uno spazio topologico discreto di cardinalità 𝔪. Lo spazio 𝑋 ℕ con la topologia prodotto viene indicato con 𝐵(𝔪) ed è chiamato spazio di Baire di peso 𝔪 (cfr. [18]). La stessa dimostrazione vista al punto 2 mostra che ogni 𝐵(𝔪) è totalmente sconnesso (ovviamente per 𝔪 ≥ 2). ◁ Nell’esempio precedente, per verificare che gli spazi erano totalmente sconnessi abbiamo constatato che ciascuno di essi godono della seguente proprietà: Per ogni coppia di punti distinti, esiste un clopen che contiene uno solo dei due.
Definizione 13.25. Uno spazio topologico 𝑋 è detto totalmente separato se, per ogni coppia di punti distinti, esiste un clopen che contiene uno solo dei due, ossia se, per ogni punto 𝑧 ∈ 𝑋, l’intersezione di tutti clopen contenenti 𝑧 si riduce al singoletto {𝑧}. ◁ Per chiarire il confronto fra le nozioni di spazio completamente sconnesso e completamente separato, segnaliamo la seguente definizione.
Definizione 13.26. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, indichiamo con 𝑆𝑥′ l’intersezione di tutti clopen di 𝑋 contenenti 𝑥. L’insieme 𝑆𝑥′ si chiama quasi-componente di 𝑥. ◁
Siccome 𝑋 è chiaramente un clopen, si ha che, per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, esiste e non è vuoto l’insieme 𝑆𝑧′ . La precedente definizione è quindi consistente. Confrontando le Definizioni 13.25 e 13.26, si ha che: Uno spazio 𝑋 è totalmente separato se e solo se, per ogni punto 𝑥 ∈ 𝑋 , la sua quasi-componente si riduce al singoletto {𝑥}. Per le quasi-componenti sussiste un risultato analogo a quello del Teorema 13.21. Inoltre, ogni quasi-componente è un chiuso (non necessariamente clopen). Inoltre si ha: Teorema 13.27. Dato uno spazio topologico (𝑋, 𝜏), sussistono le seguenti proprietà:
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1. Per ogni punto 𝑥 ∈ 𝑋, la componente connessa 𝑆𝑥 di 𝑥 è contenuta nella sua quasi-componente. 2. Ogni quasi-componente coincide con l’unione delle componenti connesse dei suoi punti. 3. Ogni componente connessa aperta è una quasi-componente.
Dimostrazione. 1. Per il Teorema 13.22, dato 𝑥 ∈ 𝑋, la sua componente connessa 𝑆𝑥 è un connesso chiuso contenente 𝑥. Inoltre, per definizione, 𝑥 ∈ 𝑆𝑥′ . Sia 𝑦 ∈ 𝑆𝑥 . Il caso 𝑦 = 𝑥 è banale. Sia dunque 𝑦 ≠ 𝑥 e verifichiamo che 𝑦 ∈ 𝑆𝑥′ . Se, per assurdo, fosse 𝑦 ∉ 𝑆𝑥′ , ricordando che 𝑆𝑥′ è l’intersezione dei clopen contenenti 𝑥, esisterebbe un clopen 𝐷 contenente 𝑥 ma non 𝑦. Posto 𝐶1 ∶= 𝑆𝑥 ∩ 𝐷 e 𝐶2 ∶= 𝑆𝑥 ⧵ 𝐷, si avrebbe che la coppia di chiusi non vuoti (𝐶1 , 𝐶2 ) genererebbe uno spezzamento del connesso 𝑆𝑥 . La 2 segue facilmente dalla 1 (Esercizio!). 3. Se 𝑆𝑥 è aperta, essa è un clopen contenente 𝑥 e quindi contenente anche 𝑆𝑥′ per la definizione di quest’ultima. La tesi segue dal punto 1. Da questo teorema si ricava immediatamente che: Ogni spazio topologico totalmente separato è totalmente sconnesso. Non sussiste l’implicazione opposta, come mostra l’esempio che segue.
Esempio 13.28. Sia 𝑋 ∶= ℚ ∪ {𝑝, 𝑞}, con 𝑝, 𝑞 ∉ ℚ e 𝑝 ≠ 𝑞. In 𝑋 definiamo la seguente topologia 𝜏. In ℚ la topologia è quella euclidea. Gli intorni di 𝑝 sono gli insiemi che, oltre a 𝑝, contengono quasi tutti gli intervalli razionali aperti ]𝑛, 𝑛 + 1[, con 𝑛 naturale pari. Gli intorni di 𝑞 sono gli insiemi che, oltre a 𝑞, contengono quasi tutti gli intervalli razionali aperti ]𝑛, 𝑛 + 1[, con 𝑛 naturale dispari. (Ovviamente, “quasi” significa: “salvo un numero finito di essi”.) Lo spazio 𝑋 è chiaramente 𝑇2 . Esso non è totalmente separato. Infatti, in caso contrario, dovrebbero esistere un intorno chiuso di 𝑝 e un intorno chiuso di 𝑞 fra loro disgiunti; ma ciò non è possibile dato che ogni intorno chiuso di 𝑝 [di 𝑞] deve contenere tutti i naturali da un certo punto in poi. Ci resta da mostrare che 𝑋 è totalmente sconnesso. Sia 𝐶 un sottoinsieme di 𝑋 contenente almeno due punti 𝑟, 𝑠. Primo caso: 𝑟, 𝑠 ∈ ℚ, con 𝑟 < 𝑠. Si considera un irrazionale 𝜉, con 𝑟 < 𝜉 < 𝑠. Gli insiemi 𝐴 ∶= {𝑥 ∈ ℚ ∶ 𝑥 < 𝜉} e 𝐵 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐴 sono due clopen di 𝑋 che generano uno spezzamento di 𝐶. Secondo caso: 𝑟 ∈ ℚ, 𝑠 ∈ {𝑝, 𝑞}. Si considera un irrazionale 𝜉, con 𝑟 < 𝜉. Gli insiemi 𝐴 e 𝐵 sopra definiti sono ancora due clopen di 𝑋 che generano uno spezzamento di 𝐶. Sia, in fine, {𝑟, 𝑠} = {𝑝, 𝑞}. Tenuto conto dei casi precedenti, non è restrittivo supporre che sia 𝐶 = {𝑝, 𝑞}. Ne viene che 𝐶 eredita la topologia discreta. In ciascuno dei tre casi, 𝐶 non può essere connesso. Come sono fatte le componenti e le quasi-componenti dei vari punti? Per ogni 𝑧 ∈ ℚ, si ha 𝑆𝑧 = 𝑆𝑧′ = {𝑧}. Si ha poi banalmente 𝑆𝑝 = {𝑝} e 𝑆𝑞 = {𝑞}. D’altra parte, ogni clopen 𝐷 contenente 𝑝 deve contenere degli intervalli razionali aperti ]𝑟𝑛 , 𝑠𝑛 [, con 𝑟𝑛 , 𝑠𝑛 irrazionali e tali che 𝑟𝑛 < 𝑛 < 𝑛 + 1 < 𝑠𝑛 , con 𝑛 pari sufficientemente grande. Un tale insieme ha intersezione non vuota con ogni intorno di 𝑞. Quindi anche 𝑞 ∈ 𝑆𝑝′ , da cui 𝑆𝑝′ = {𝑝, 𝑞} = 𝑆𝑞′ . ◁
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Abbiamo più sopra osservato che, già in ℝ2 , l’intersezione di due connessi non disgiunti può non essere connessa. È poi ovvio che, data una famiglia finita 𝑆1 , … , 𝑆𝑛 di sottoinsiemi connessi non vuoti di uno spazio topologico 𝑋 tali che 𝑆𝑖 ⊇ 𝑆𝑖+1 , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛 − 1}, la loro intersezione è connessa. Ci si può chiedere come stanno le cose quando si ha una successione di connessi decrescente per inclusione. Il seguente esempio mostra che l’intersezione può risultare non connessa. Esempio 13.29. In ℝ2 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝑓𝑛 ∶ [−1, 1] → ℝ la funzione il cui grafico è la spezzata che si ottiene congiungendo i punti . (−1, 1), (−1 + 1/𝑛, 1/𝑛), (1 − 1/𝑛, 1/𝑛), (1, 1).
Sempre per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia poi
𝐸𝑛 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ (−1 ≤ 𝑥 ≤ 1) ∧ (0 < 𝑦 ≤ 𝑓𝑛 (𝑥))} .
Gli 𝐸𝑛 sono connessi. Per provarlo, si fissano due punti di 𝐸𝑛 , si vede che c’è una spezzata contenuta in 𝐸𝑛 che li unisce e si osserva che le spezzate sono insiemi connessi (Corollario 13.12, Proposizione 13.4.9). I dettagli sono lasciati per esercizio al lettore. Si ha poi chiaramente 𝐸𝑛 ⊇ 𝐸𝑛+1 , ∀𝑛. Si constata poi facilmente (Esercizio!) che l’intersezione di tutti gli 𝐸𝑛 non è connessa, dato che è l’unione dei due insiemi separati {(−1, 𝑦) ∶ 0 < 𝑦 ≤ 1} e {(1, 𝑦) ∶ 0 < 𝑦 ≤ 1}. Osserviamo che, partendo invece dalla successione di compatti (chiusi) (𝐶𝑛 )𝑛 , con 𝐶𝑛 ∶= cl 𝐸𝑛 , ∀𝑛, si ottiene che l’intersezione dei 𝐶𝑛 è un connesso (la spezzata che unisce i punti (−1, 1), (−1, 0), (1, 0), (1, 1)). Prendiamo ora come spazio 𝑋 il semipiano delle 𝑦 > 0. Gli 𝐸𝑛 sopra definiti sono adesso connessi, chiusi, ma non compatti. L’intersezione degli 𝐸𝑛 è ancora non connessa. ◁ Al riguardo sussiste però il seguente risultato:
Teorema 13.30. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico di Hausdorff e (𝐶𝑛 )𝑛 una successione decrescente per inclusione di sottoinsiemi non vuoti, compatti e connessi. Allora anche l’intersezione 𝐶∞ dei 𝐶𝑛 è un insieme non vuoto, compatto e connesso.
Dimostrazione. Non è restrittivo supporre 𝑋 = 𝐶0 che è quindi un compatto 𝑇2 ed è pertanto normale (cfr. Teorema 7.33). I 𝐶𝑛 , essendo compatti di uno spazio 𝑇2 , sono chiusi. Per il Lemma di Cantor 7.10, 𝐶∞ è non vuoto. Essendo un chiuso del compatto 𝐶0 , 𝐶∞ è esso stesso compatto. Ci resta da dimostrare che è connesso. Supponiamo, per assurdo, che non lo sia. È dunque 𝐶∞ = 𝐶 ′ ∪ 𝐶 ″ , con 𝐶 ′ , 𝐶 ″ chiusi, e quindi compatti, non vuoti e disgiunti. Essendo 𝑋 normale, esistono due aperti disgiunti 𝐴′ , 𝐴″ tali che 𝐶 ′ ⊆ 𝐴′ e 𝐶 ″ ⊆ 𝐴″ . Per ogni 𝑛, 𝐶𝑛 è connesso, e quindi non può essere contenuto in 𝐴′ ∪ 𝐴″ ; infatti, in caso contrario, gli insiemi 𝐴′ ∩ 𝐶𝑛 (⊇ 𝐶 ′ ) e 𝐴″ ∩ 𝐶𝑛 (⊇ 𝐶 ′ )
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sarebbero due aperti non vuoti di 𝐶𝑛 che generano un suo spezzamento, dato che la loro unione dovrebbe coincidere con 𝐶𝑛 . Per ogni 𝑛, sia ora 𝐷𝑛 ∶= 𝐶𝑛 ⧵ (𝐴′ ∪ 𝐴″ ).
I 𝐷𝑛 sono ovviamente chiusi non vuoti e formano una successione decrescente per inclusione. Ancora per il Lemma di Cantor, il chiuso 𝐷∞ ∶= ⋂𝑛 𝐷𝑛 è non vuoto. Essendo, per ogni 𝑛, 𝐷𝑛 ⊆ 𝐶𝑛 , si ha anche 𝐷∞ ⊆ 𝐶∞ ⊆ 𝐴′ ∪ 𝐴″ . D’altra pare, per costruzione, si ha 𝐷𝑛 ∩ (𝐴′ ∪ 𝐴″ ) = ∅, ∀𝑛, da cui 𝐷∞ ∩ (𝐴′ ∪ 𝐴″ ) = ∅. Si ottiene così una contraddizione. Osserviamo che senza l’ipotesi che 𝑋 sia 𝑇2 il precedente teorema cade in difetto, come mostra il seguente esempio.
Esempio 13.31. Sia 𝑋 ∶= [0, 1[ ∪{1′ , 1″ }, con 1′ ≠ 1″ . In ciascuno dei due insiemi 𝑋 ′ ∶= [0, 1[ ∪{1′ } e 𝑋 ″ ∶= [0, 1[ ∪{1″ } la topologia è quella euclidea di [0, 1]. Chiaramente 𝑋 è 𝑇1 , ma non 𝑇2 (cfr. Osservazione 7.31). Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , l’insieme 𝐶𝑛 ∶= [1 − 1/𝑛, 1[ ∪{1′ , 1″ } è compatto, chiuso e connesso. La loro intersezione è data da 𝐶∞ ∶= {1′ , 1″ } che è un chiuso, compatto, ma non connesso. ◁ Teorema 13.32. Il prodotto 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 di spazi topologici non vuoti è connesso se e solo se è connesso ogni singolo fattore.
Dimostrazione. Se 𝑋 è connesso, è tale anche ogni 𝑋𝛼 in quanto immagine di 𝑋 tramite la proiezione 𝑝𝛼 che è una funzione continua. Proviamo il viceversa. Mostriamo, per prima cosa, che il prodotto di due spazi connessi è connesso. Sia dunque 𝑋 ∶= 𝑋1 × 𝑋2 , con 𝑋1 , 𝑋2 spazi non vuoti e connessi. Per ogni 𝑧2 ∈ 𝑋2 , l’insieme 𝑋1 ×{𝑧2 } è omeomorfo ad 𝑋1 ed è pertanto connesso. Analogamente, per ogni 𝑧1 ∈ 𝑋1 , è connesso l’insieme {𝑧1 } × 𝑋2 . Ora, quali che siano (𝑦1 , 𝑦2 ), (𝑧1 , 𝑧2 ) ∈ 𝑋, essi appartengono all’insieme 𝑋1 × {𝑧2 } ∪ {𝑦1 } × 𝑋2 , che è connesso per la Proposizione 13.14.1. Si conclude che 𝑋 è connesso per il Teorema 13.4. Procedendo per induzione, si vede poi subito che lo stesso risultato sussiste per il prodotto di un numero finito qualunque di insiemi connessi. Veniamo al caso generale. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , fissiamo un elemento 𝑧𝛼 ∈ 𝑋𝛼 . Per ogni sottoinsieme finito 𝐹 ⊆ 𝐽 , sia 𝑋𝐹 ∶= {𝑥 = (𝑥𝛼 )𝛼∈𝐽 ∶ 𝑥𝛼 = 𝑧𝛼 , ∀𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐹 } .
Ogni insieme 𝑋𝐹 è connesso perché omeomorfo al prodotto finito di spazi connessi ∏𝛼∈𝐹 𝑋𝛼 . Inoltre, ogni 𝑋𝐹 contiene il punto 𝑧 ∶= (𝑧𝛼 )𝛼∈𝐽 ; ne viene che, per la Proposizione 13.14.5, è connesso anche l’insieme 𝑊 ∶= ⋃ 𝑋𝐹 , con 𝐹 ⊆ 𝐽 finito. Come passo finale, mostriamo che è cl 𝑊 = 𝑋, da cui la tesi per il Teorema 13.15. Fissiamo un punto 𝑤 ∶= (𝑤𝛼 )𝛼∈𝐽 ∈ 𝑋 e un suo intorno 𝑈 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼′ , dove è 𝑋𝛼′ = 𝑋𝛼 salvo che per un insieme finito 𝐹 di indici. Consideriamo il punto 𝑝 ∶= (𝑝𝛼 )𝛼∈𝐽 con 𝑝𝛼 ∶= 𝑧𝛼 se 𝛼 ∉ 𝐹 e 𝑝𝛼 ∶= 𝑤𝛼 se 𝛼 ∈ 𝐹 . Si vede subito che, per costruzione, è 𝑝 ∈ 𝑈 ∩ 𝑋𝐹 ⊆ 𝑈 ∩ 𝑊 .
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Corollario 13.33. Lo spazio delle funzioni 𝑌 𝑋 dotato della topologia della convergenza puntuale è connesso se e solo se 𝑌 è connesso.
In particolare sono connessi ℝ𝑛 , ℝℕ , 𝐼 ℕ , 𝐼 𝐼 ; gli ultimi due sono anche compatti. Si osservi che, per contro, anche se entrambi gli spazi 𝑋, 𝑌 sono connessi, non è detto che sia tale lo spazio 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) (se 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) ⊂ 𝑌 𝑋 ). Affronteremo la questione più avanti nel capitolo sull’omotopia. Come per la compattezza si dà la nozione di compattezza locale, così anche in questo contesto si introduce la nozione di spazio localmente connesso. Definizione 13.34. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto localmente connesso se ogni suo punto possiede una base di intorni connessi. Un sottoinsieme 𝐸 ⊆ 𝑋 è detto localmente connesso se è tale rispetto alla topologia indotta. Per contrasto, diremo talvolta che uno spazio connesso è globalmente connesso (per insiemi). ◁ Mentre ogni spazio compatto è anche localmente compatto, i concetti di connessione globale e connessione locale sono fra loro indipendenti.
Esempio 13.35. Sia (𝑋, 𝜏) lo spazio dell’Esempio 13.10 con la topologia dell’inclinazione irrazionale. Si è già verificato che questo spazio è connesso. Per vedere che non è localmente connesso, basta osservare che i punti della retta 𝑡 non hanno intorni connessi. L’unione di due intervalli aperti e disgiunti di ℝ fornisce l’esempio di uno spazio localmente connesso ma non connesso. ◁ Teorema 13.36. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Le tre seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. X è localmente connesso. 2. Per ogni aperto 𝐴 di 𝑋 le componenti connesse di 𝐴 sono aperte in 𝑋. 3. Ogni punto 𝑧 ∈ 𝑋 ammette una base di intorni aperti e connessi.
Dimostrazione. 1 ⇒ 2. Siano dati un aperto 𝐴 ⊆ 𝑋 e un punto 𝑧 ∈ 𝐴; sia poi 𝑆𝑧 la componente connessa di 𝑧 in 𝐴. Fissiamo un punto 𝑥 ∈ 𝑆𝑧 ⊆ 𝐴. Poiché 𝐴 è aperto, per ipotesi esiste un intorno 𝑉 di 𝑥 in 𝑋 che è connesso e contenuto in 𝐴. Allora 𝑆𝑧 ∪ 𝑉 è un connesso (unione di connessi con 𝑥 in comune) e contenuto in 𝐴. Di conseguenza 𝑆𝑧 ∪ 𝑉 = 𝑆𝑧 e quindi 𝑉 ⊆ 𝑆𝑧 . Essendo 𝑆𝑧 intorno di ogni suo punto, si ha che 𝑆𝑧 è aperto in 𝑋. 2 ⇒ 3. Sia 𝑉 un intorno di un punto 𝑧. Allora 𝑧 ∈ int 𝑉 . Sia 𝑆𝑧 la componente connessa di 𝑧 nell’aperto int 𝑉 . Per ipotesi 𝑆𝑧 è aperto; dunque esso è l’intorno aperto connesso cercato. 3 ⇒ 1. Ovvia. Teorema 13.37. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico localmente connesso. Valgono allora le seguenti proprietà: 1. Ogni sottospazio aperto è ancora localmente connesso. 2. Ogni componente connessa è aperta e quindi clopen.
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3. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, la sua componente connessa 𝑆𝑥 coincide con la sua quasi-componente 𝑆𝑥′ .
Dimostrazione. 1. Fissiamo un aperto 𝐴 ⊆ 𝑋 e un punto 𝑧 ∈ 𝐴. Per il teorema precedente, 𝑧 possiede in 𝑋 una base ℬ di intorni aperti e connessi. Sia ℬ ′ la famiglia degli elementi di ℬ che sono contenuti in 𝐴. Essendo 𝐴 aperto, si ha ℬ ′ ≠ ∅. Verifichiamo che ℬ ′ è una base di intorni aperti e connessi di 𝑧 in 𝐴. Sia 𝑉 un intorno aperto di 𝑧 in 𝐴. Esso è tale anche in 𝑋, essendo 𝐴 aperto. Esiste 𝐵 ∈ ℬ tale che 𝐵 ⊆ 𝑉 . Dato che, per costruzione, è anche 𝐵 ∈ ℬ ′ , si ha la tesi. 2. Sia 𝑆 una componente connessa di 𝑋. Per il teorema precedente, ogni punto 𝑧 ∈ 𝑆 ammette una base ℬ𝑧 di intorni aperti e connessi. Fissiamo un 𝐵𝑧 ∈ ℬ𝑧 . Per definizione di componente connessa, si ha 𝐵𝑧 ⊆ 𝑆. Si conclude che è 𝑆 = ⋃𝑧∈𝑆 𝐵𝑧 , che è aperto in quanto unione di aperti. Che 𝑆 sia chiuso lo sappiamo dal Teorema 13.22. 3. Sappiamo dalla Proposizione 13.27.1 che, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, è 𝑆𝑥 ⊆ 𝑆𝑥′ . Per il punto precedente, 𝑆𝑥 è clopen e quindi, dato che contiene 𝑥, contiene anche 𝑆𝑥′ che è l’intersezione di tutti i clopen contenenti 𝑥. Un risultato analogo alla Proprietà 3 è il seguente:
Teorema 13.38. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio compatto e 𝑇2 . Allora, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, la sua componente connessa coincide con la sua quasi-componente.
Dimostrazione. Per la Proposizione 13.27.1, basta provare che è 𝑆𝑥′ ⊆ 𝑆𝑥 e quindi basta verificare che 𝑆𝑥′ è connesso. Supponiamo, per assurdo, che ciò non sia vero. 𝑆𝑥′ è quindi riunione di due sottoinsiemi non vuoti disgiunti 𝐶1 , 𝐶2 chiusi in 𝑆𝑥′ e quindi anche in 𝑋, dato che 𝑆𝑥′ è chiuso. Lo spazio 𝑋, essendo compatto 𝑇2 , è normale (cfr. Teorema 7.33). Esistono pertanto due aperti disgiunti 𝐴1 , 𝐴2 di 𝑋 contenenti rispettivamente 𝐶1 e 𝐶2 . Per la caratterizzazione di Tychonoff della normalità (cfr. Teorema 1.105), non è restrittivo supporre che sia anche cl 𝐴1 ∩ cl 𝐴2 = ∅. Per definizione, 𝑆𝑥′ = ⋂ 𝐵𝛼 , dove i 𝐵𝛼 sono tutti i clopen contenenti 𝑥. Anche gli insiemi del tipo 𝑋 ⧵𝐵𝛼 sono clopen e la loro riunione contiene il chiuso (e quindi compatto) 𝑋 ⧵ (𝐴1 ∪ 𝐴2 ). Esiste pertanto una sottofamiglia finita di clopen 𝑋 ⧵ 𝐵1 , … , 𝑋 ⧵ 𝐵𝑛 la cui riunione contiene 𝑋 ⧵ (𝐴1 ∪ 𝐴2 ). Passando ai complementari, si ha 𝑆𝑥′ ⊆ 𝐵 ∶= 𝐵1 ∩ ⋯ ∩ 𝐵𝑛 ⊆ 𝐴1 ∪ 𝐴2 . Supponiamo 𝑥 ∈ 𝐶1 ⊆ 𝐴1 e verifichiamo che 𝐴1 ∩ 𝐵 è un clopen di 𝑋. Che questo insieme sia aperto è ovvio. Inoltre si ha cl(𝐴1 ∩ 𝐵) ⊆ cl 𝐴1 ∩ 𝐵 = cl 𝐴1 ∩ ((𝐴1 ∪ 𝐴2 ) ∩ 𝐵) = = (cl 𝐴1 ∩ (𝐴1 ∪ 𝐴2 )) ∩ 𝐵 = 𝐴1 ∩ 𝐵.
Si conclude che il nostro insieme è anche chiuso. Poiché 𝐴1 ∩ 𝐵 è un clopen contenente 𝑥, esso deve contenere la quasi-componente 𝑆𝑥′ . Per costruzione, deve essere anche 𝐶2 ⊆ 𝐴1 ∩ 𝐵 ⊆ 𝐴1 ; ma ciò è assurdo, dato che è 𝐶2 ⊆ 𝐴2 e 𝐴1 ∩ 𝐴2 = ∅.
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Definizione 13.39. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico ed 𝐸 un suo sottoinsieme non vuoto. Si dice che 𝐸 è un continuo di 𝑋 se esso è compatto e connesso. Se anche 𝑋 è un continuo, diremo che 𝐸 è un subcontinuo o sotto-continuo di 𝑋. ◁
Il concetto di continuo si trova in diversi contesti. Alcuni Autori assumono nella definizione che lo spazio sia di Hausdorff. Altri si limitano a considerare questo concetto solo limitatamente agli spazi metrici. Altri ancora col concetto di continuo si riferiscono a sottospazi chiusi, connessi e localmente compatti. Noi accetteremo la definizione che richiede la compattezza dello spazio assumendo, di volta in volta, le ulteriori ipotesi necessarie. L’esempio più semplice, ma non banale, di continuo è quello di un intervallo compatto e non degenere della retta reale con la topologia euclidea. Si tenga presente che, secondo la nostra definizione, la retta reale con l’usuale topologia non è un continuo, mentre lo sarebbe se richiedessimo solo la locale compattezza. I singoletti sono sempre compatti e connessi in qualunque topologia; essi sono dei continui degeneri. Il concetto di continuo si incontra in diverse applicazioni della Topologia all’Analisi. Un tipico esempio si ha tentando di generalizzare il Teorema di Dini sulle funzioni implicite. Per fare un esempio, consideriamo dapprima la seguente situazione. Sia 𝑓 ∶ [𝑎, 𝑏] → ℝ una funzione continua. Il grafico di 𝑓 è un continuo di ℝ2 . Supponiamo ora di avere una funzione 𝑔 ∶ [𝑎, 𝑏] × [𝑐, 𝑑] → ℝ continua tale che 𝑔(𝑥, 𝑐) < 0, ∀𝑥 ∈ [𝑎, 𝑏] e 𝑔(𝑥, 𝑑) > 0, ∀𝑥 ∈ [𝑎, 𝑏]. Se supponiamo che, per ogni 𝑥 ∈ [𝑎, 𝑏], la funzione 𝑔(𝑥, ⋅) sia strettamente monotona (ovviamente crescente), allora, per ogni 𝑥 ∈ [𝑎, 𝑏], esiste un unico 𝑦 = 𝑦𝑥 ∈ ]𝑐, 𝑑[ tale che 𝑔(𝑥, 𝑦) = 0. In questo modo, l’insieme degli zeri di 𝑔 è il grafico della funzione 𝑓 che a 𝑥 associa 𝑦𝑥 . Per il Teorema 7.83, la funzione 𝑓 così definita è continua, perché il suo grafico coincide con l’insieme degli zeri di 𝑔 che è un chiuso. Per quanto precede, l’insieme degli zeri di 𝑔 è un continuo. Come stanno le cose se si toglie l’ipotesi di monotonia? Il problema verrà risolto più avanti (cfr. Teorema 15.34). Riesaminando quanto visto sui compatti e sui connessi, si ottengono immediatamente i seguenti risultati: Teorema 13.40. 1. L’immagine di un continuo mediante una funzione continua è un continuo (Teor. 7.35 e 13.5). 2. Gli archi sono dei continui (Def. 13.11 e Coroll. 13.12). 3. Se due continui hanno intersezione non vuota, allora la loro unione è un continuo (Prop. 13.14.1). 4. Sia data una famiglia finita di continui che a due a due hanno intersezione non vuota. Allora la loro unione è un continuo (Prop. 13.14.2). 5. Ogni compattificazione di uno spazio connesso è un continuo (Prop. 13.18.1). 6. Se in uno spazio 𝑇2 è data una successione decrescente per inclusione di continui, allora anche l’intersezione è un continuo (Teor. 13.30). 7. Il prodotto arbitrario di continui è ancora un continuo (Teor. 7.37 e 13.32).
13.1. Spazi connessi
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Chiudiamo il paragrafo con un breve sguardo al caso degli spazi metrici.
Definizione 13.41. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico. Due punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋 si dicono 𝜀-incatenati (in inglese 𝜀-chainable) se esiste un numero finito di punti 𝑝0 , 𝑝1 , … , 𝑝𝑛 ∈ 𝑋, con 𝑝0 = 𝑝 e 𝑝𝑛 = 𝑞, tali che 𝑑(𝑝𝑖 , 𝑝𝑖+1 ) < 𝜀, ∀𝑖 ∈ {0, 1, … , 𝑛 − 1}. L’insieme dei punti 𝑝0 , 𝑝1 , … , 𝑝𝑛 è detto 𝜀-catena che unisce 𝑝 e 𝑞. ◁
Teorema 13.42. Sia (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico. 1. Se 𝑋 è connesso, allora, per ogni coppia di punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋 e per ogni 𝜀 > 0, esiste una 𝜀-catena che li unisce. 2. Se 𝑋 è compatto, sussiste anche l’implicazione opposta.
Dimostrazione. 1. Supponiamo che lo spazio 𝑋 sia connesso e abbia almeno due punti, altrimenti il tutto è banale. Osserviamo prima di tutto che, per ogni 𝑧 ∈ 𝑋 e ogni 𝛿 > 0, si ha che la palla 𝐵(𝑧, 𝛿) contiene punti di 𝑋 diversi da 𝑧. (Altrimenti 𝐵[𝑧, 𝛿/2] sarebbe un clopen proprio e non vuoto.) Fissato 𝜀 > 0, sia ora 𝐴𝑝 = 𝐴𝑝 (𝜀) l’insieme dei punti di 𝑋 𝜀-incatenati con 𝑝. (Ovviamente, si pensa 𝑝 incatenato con se stesso.) Per quanto visto, 𝐴𝑝 contiene punti di 𝑋 diversi da 𝑝. Mostriamo che questo insieme è aperto. Sia 𝑦 ∈ 𝐴𝑝 e consideriamo la palla 𝐵(𝑦, 𝜀). Sia poi 𝑤 ∈ 𝐵(𝑦, 𝜀) ⧵ {𝑦}. Per ipotesi, esiste una 𝜀-catena che unisce 𝑝 con 𝑦; aggiungendo come punto finale 𝑤, si ottiene una 𝜀-catena che unisce 𝑝 con 𝑤. Quindi 𝑤 ∈ 𝐴𝑝 . Per l’arbitrarietà di 𝑤, si ha 𝐵(𝑦, 𝜀) ⊆ 𝐴𝑝 e che quindi 𝐴𝑝 è aperto. Sia ora 𝐵𝑝 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐴𝑝 ; mostriamo che anche 𝐵𝑝 è aperto. Sia 𝑦 ∈ 𝐵𝑝 e consideriamo la palla 𝐵(𝑦, 𝜀). Sia poi 𝑤 ∈ 𝐵(𝑦, 𝜀) ⧵ {𝑦}. Se, per assurdo, fosse 𝑤 ∈ 𝐴𝑝 , ragionando come sopra, si avrebbe anche 𝑦 ∈ 𝐴𝑝 , dato che è 𝑑(𝑦, 𝑤) < 𝜀. Quindi 𝑤 ∈ 𝐵𝑝 . Per l’arbitrarietà di 𝑤, si ha 𝐵(𝑦, 𝜀) ⊆ 𝐵𝑝 e che quindi 𝐵𝑝 è aperto. Se entrambi gli insiemi 𝐴𝑝 e 𝐵𝑝 fossero non vuoti, si otterrebbe uno spezzamento di 𝑋, contro l’ipotesi di connessione. Essendo 𝐴𝑝 ≠ ∅, si conclude che è 𝐵𝑝 = ∅, da cui 𝐴𝑝 = 𝑋. In particolare, si ha 𝑞 ∈ 𝐴𝑝 , per cui 𝑞 è 𝜀-incatenato con 𝑝. 2. Supponiamo, per assurdo, che lo spazio compatto 𝑋 non sia connesso. Esisteranno allora due chiusi (e quindi compatti) non vuoti e disgiunti 𝐶, 𝐷 che ripartiscono 𝑋. Sia 𝛿 ∶= 𝑑(𝐶, 𝐷) (cfr. Definizione 3.43). Osserviamo che è 𝛿 > 0. Infatti, si consideri la funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → [0, +∞[ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑑(𝑥, 𝐶). Per il Teorema 3.42, essa è continua e si annulla in tutti e soli i punti di 𝐶. È dunque 𝑓 (𝑥) > 0, ∀𝑥 ∈ 𝐷. Essendo 𝐷 compatto, 𝑓 assume in 𝐷 un valore minimo strettamente positivo che è proprio 𝛿. Se prendiamo un 𝜀 < 𝛿, vediamo che non può esistere una 𝜀-catena che unisce un punto di 𝐶 con uno di 𝐷. Mostriamo con un esempio che, senza l’ipotesi di compattezza, la 2 può cadere in difetto. Esempio 13.43. In ℝ2 consideriamo come spazio topologico 𝑋 la riunione dell’asse delle 𝑥 (insieme 𝐶1 ) con il grafico della funzione esponenziale 𝑦 ∶= 𝑒𝑥
13.2. Connessione per archi e per cammini
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(insieme 𝐶2 ). Gli insiemi 𝐶1 e 𝐶2 sono due chiusi (cfr. Teorema 7.76) disgiunti; quindi 𝑋 è sconnesso. Mostriamo che, ciononostante, per ogni 𝜀 > 0, due punti qualunque di 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋 sono 𝜀-incatenati. Siccome 𝐶1 e 𝐶2 sono connessi (cfr. Proposizione 13.16), basta occuparci del caso 𝑝 ∈ 𝐶1 e 𝑞 ∈ 𝐶2 . Fissiamo uno 𝑧 ∈ ℝ tale che 𝑒𝑧 < 𝜀. Il punto 𝑝 è 𝜀-incatenato con (𝑧, 0), mentre 𝑞 è 𝜀-incatenato con (𝑧, 𝑒𝑧 ). È ora immediato costruire una 𝜀-catena che lega 𝑝 con 𝑞. ◁
13.2 Connessione per archi e per cammini Veniamo alla seconda definizione di cui parlavamo all’inizio.
Definizione 13.44. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Si dice che 𝑋 è connesso per cammini se, per ogni coppia di punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋, esiste un’applicazione continua 𝛾 ∶ 𝐼 = [0, 1] → 𝑋, con 𝛾(0) = 𝑝 e 𝛾(1) = 𝑞. Si dice che 𝛾 è un cammino di 𝑋 che unisce i punti 𝑝 e 𝑞. 2. Si dice che 𝑋 è connesso per archi se, per ogni coppia di punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋, esiste un’applicazione continua e iniettiva 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑋, con 𝛾(0) = 𝑝 e 𝛾(1) = 𝑞. Si dice che 𝛾 è un arco di 𝑋 che unisce i punti 𝑝 e 𝑞. 3. Si dice che un sottoinsieme 𝐸 di 𝑋 è connesso per cammini [connesso per archi] se è tale come sottospazio. Per comodità, accetteremo che i singoletti siano insiemi connessi sia per cammini che per archi. ◁ Sia 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑋 continua, con 𝛾(0) = 𝑝 e 𝛾(1) = 𝑞. Se non c’è possibilità di equivoci, si dice talvolta che è 𝛾(𝐼) il cammino/arco che unisce 𝑝 a 𝑞. Se 𝑋 è 𝑇2 , la nozione di arco del punto 2 è in accordo con la Definizione 13.11. Infatti, grazie al Teorema di omeomorfismo 7.36, 𝛾(𝐼) è un sottoinsieme di 𝑋 omeomorfo ad 𝐼. Fra i cammini/archi, accetteremo anche il caso in cui punto iniziale e punto finale coincidono.
Definizione 13.45. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Sia data un’applicazione continua 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑋, con 𝛾(0) = 𝛾(1). Si dice allora che 𝛾 è un cammino chiuso di 𝑋 (in inglese loop). 2. Sia data un’applicazione continua 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑋, con 𝛾(0) = 𝛾(1). Se le restrizioni di 𝛾 a [0, 1[ e a ]0, 1] sono iniettive, si dice che 𝛾 è un arco chiuso di 𝑋. ◁ Osservazione 13.46. Si tenga presente che nella definizione di arco chiuso, non basta chiedere che 𝛾 sia iniettiva su ]0, 1[. Infatti, potrebbe anche esistere un punto 𝑡0 ∈ ]0, 1[ con 𝛾(0) = 𝛾(𝑡0 ) = 𝛾(1), pur essendo 𝛾 iniettiva su ]0, 1[. Si consideri, per esempio, il cammino illustrato in figura in cui è 𝑃 = 𝛾(0) = 𝛾(1/2) = 𝛾(1), con 𝛾 ∶ 𝐼 → ℝ2 definita da 𝛾(𝑡) ∶= (sin(2𝜋𝑡), (1/4) sin(4𝜋𝑡)). ◁
13.2. Connessione per archi e per cammini
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Teorema 13.47. 1. Ogni spazio topologico connesso per archi è connesso anche per cammini. 2. Ogni spazio topologico connesso per cammini è connesso anche per insiemi. Dimostrazione. La 1 è ovvia; proviamo la 2. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico connesso per cammini. Ripartiamo arbitrariamente 𝑋 in due insiemi 𝐴 e 𝐵; fissiamo poi un punto 𝑎 ∈ 𝐴 e un punto 𝑏 ∈ 𝐵. Per ipotesi, esiste un’applicazione continua 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑋 con 𝛾(0) = 𝑎 e 𝛾(1) = 𝑏. Sia poi 𝐸 ∶= {𝑡 ∈ [0, 1] ∶ 𝛾(𝑡) ∈ 𝐴}. L’insieme 𝐸 contiene almeno 0 e quindi non è vuoto. Sia, in fine 𝜉 ∶= sup 𝐸. Caso 1: 𝜉 ∈ 𝐸, da cui 𝜉 < 1. Si ha 𝛾(𝜉) ∈ 𝐴 e 𝛾(𝑡) ∈ 𝐵, ∀𝑡 > 𝜉. Per la continuità di 𝛾, si conclude che è 𝛾(𝜉) ∈ 𝐴 ∩ cl 𝐵. Caso 2: 𝜉 ∉ 𝐸, da cui 𝜉 > 0. Si ha 𝛾(𝜉) ∈ 𝐵; inoltre, per ogni 𝜀 > 0, esiste 𝑡 ∈ ]𝜉 − 𝜀, 𝜉[, con 𝑡 ∈ 𝐸, ossia 𝛾(𝑡) ∈ 𝐴. Si conclude che è 𝛾(𝜉) ∈ 𝐵 ∩ cl 𝐴. In ogni caso, gli insiemi 𝐴, 𝐵 non spezzano 𝑋. Dall’arbitrarietà della partizione, si ottiene che 𝑋 è connesso per insiemi. Una dimostrazione alternativa è la seguente. Dati due punti distinti arbitrari 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋, per ipotesi esiste un’applicazione continua 𝛾 ∶ 𝐼 = [0, 1] → 𝑋 con 𝛾(0) = 𝑝 e 𝛾(1) = 𝑞. L’insieme immagine 𝛾(𝐼) contiene i due punti ed è connesso per insiemi in virtù del Teorema di connessione 13.5. A questo punto basta applicare la Proposizione 13.4.9. In generale, le implicazioni del teorema precedente non sono invertibili come mostrano gli esempi che seguono. Esempio 13.48. Consideriamo ancora lo spazio dell’esempio 13.31. Sia dunque 𝑋 ∶= [0, 1[ ∪{1′ , 1″ }, con 1′ ≠ 1″ . In ciascuno dei due insiemi 𝑋 ′ ∶= [0, 1[ ∪{1′ } e 𝑋 ″ ∶= [0, 1[ ∪{1″ } la topologia è quella euclidea di [0, 1]. Chiaramente 𝑋 è 𝑇1 , ma non 𝑇2 . Mostriamo che 𝑋 è connesso per cammini, ossia che, fissati due punti di 𝑋 essi sono uniti da un cammino. L’unico caso non banale è quello in cui i due punti sono 1′ e 1″ . Consideriamo la funzione 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑋 così definita: 𝛾(0) ∶= 1′ ,
𝛾(1) ∶= 1″ ,
𝛾(𝑡) ∶=
Non è difficile verificare che 𝛾 è continua.
1 − 2𝑡, {−1 + 2𝑡,
per 0 < 𝑡 ≤ 1/2, per 1/2 ≤ 𝑡 < 1.
13.2. Connessione per archi e per cammini
705
Proviamo che 𝑋 non è connesso per archi, mostrando che non esistono archi di 𝑋 che uniscono 1′ e 1″ . Fissiamo dunque un’arbitraria applicazione continua 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑋 con 𝛾(0) ∶= 1′ e 𝛾(1) ∶= 1″ . Siccome l’insieme {1′ , 1″ } non è connesso per insiemi, non può essere 𝛾([0, 1]) = {1′ , 1″ }. Deve quindi esistere un 𝑡0 ∈ ]0, 1[ tale che 𝑠0 ∶= 𝛾(𝑡0 ) ∈ [0, 1[. Ne viene che la funzione 𝛾 deve assumere tutti i valori di ]𝑠0 , 1[ sia in ]0, 𝑡0 [ che in ]𝑡0 , 1[. Pertanto 𝛾 non può essere iniettiva. Osserviamo che ciascuno dei due insiemi 𝑋 ′ e 𝑋 ″ è connesso per archi, mentre non lo è la loro unione. ◁ Esempio 13.49. Consideriamo il seguente sottoinsieme 𝐸 di ℝ2 (seno del topologo). 𝐸 ∶= {(0, 𝑦) ∶ −1 ≤ 𝑦 ≤ 1} ∪ {(𝑥, 𝑦) ∶ (𝑥 ≠ 0) ∧ (𝑦 = sin(1/𝑥))} .
Mostriamo che 𝐸 è connesso per insiemi. Analogamente a quanto fatto nell’Esempio 13.17, esprimiamo 𝐸 come unione dei tre insiemi 𝐸1 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝐸 ∶ 𝑥 < 0} , 𝐸2 ∶= {(0, 𝑦) ∶ |𝑦| ≤ 1} , 𝐸3 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝐸 ∶ 𝑥 > 0} .
Sappiamo dalla Proposizione 13.16 che 𝐸1 ed 𝐸3 sono connessi. Inoltre si ha cl 𝐸1 = 𝐸1 ∪ 𝐸2 e cl 𝐸3 = 𝐸3 ∪ 𝐸2 . Per il Teorema 13.15 sono connessi anche cl 𝐸1 e cl 𝐸3 . Essendo cl 𝐸1 ∩ cl 𝐸3 ≠ ∅, è connessa anche la loro unione che coincide con 𝐸. Mostriamo che 𝐸 non è connesso per cammini. Supponiamo, per assurdo, che esista una funzione continua 𝛾 = (𝛾𝑥 , 𝛾𝑦 ) ∶ [0, 1] → 𝐸 con 𝛾(0) ∶= (−1/𝜋, 0) ∈ 𝐸 e 𝛾(1) ∶= (1/𝜋, 0) ∈ 𝐸. Deve esistere un 𝜏 ∈ ]0, 1[ tale che 𝛾(𝜏) ∈ 𝐸2 e 𝛾𝑥 (𝑡) > 0, ∀𝑡 > 𝜏. Verifichiamo che 𝛾 non può essere continua in 𝜏. Sia (0, 𝑦0 ) ∶= 𝛾(𝜏) e consideriamo l’intorno aperto 𝑉 di 𝑦0 , con 𝑉 ∶= ]𝑦0 − 1/2, 𝑦0 + 1/2[. Per ogni intorno destro 𝑈 di 𝜏, si ha 𝛾𝑦 (𝑈 ) = [−1, 1] ⊈ 𝑉 . ◁
È interessante osservare che nel caso degli spazi 𝑇2 i concetti di connessione per archi e connessione per cammini sono equivalenti. Questo risultato è tutt’altro che banale; infatti, in molti testi di Topologia viene dimostrato in modo indiretto come conseguenza del Teorema di Hahn-Mazurkiewicz. (Si veda, per esempio, il libro di Wilansky [81]; lo vedremo nel secondo Volume.) Qui intanto ne presentiamo una dimostrazione diretta. Premettiamo il seguente lemma. Lemma 13.50. In 𝐼 ∶= [0, 1], sia data una famiglia (𝐼𝑙 )𝑙∈𝐿 di sottointervalli propri chiusi e non degeneri a due a due disgiunti. Esiste allora una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐼 → 𝐼 debolmente crescente, suriettiva e tale che 𝑓 (𝑡1 ) = 𝑓 (𝑡2 ) se e solo se esiste 𝑙 ∈ 𝐿 con 𝑡1 , 𝑡2 ∈ 𝐼𝑙 =∶ [𝑎𝑙 , 𝑏𝑙 ]. Dimostrazione. Osserviamo intanto che 𝐿 è al più numerabile. Chiaramente, se una siffatta funzione 𝑓 esiste, deve risultare 𝑓 (0) ∶= 0 e 𝑓 (1) ∶= 1. Se
13.2. Connessione per archi e per cammini
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esiste 𝑙 ∈ 𝐿 con 0 ∈ 𝐼𝑙 , si pone 𝑓 (𝑡) ∶= 0, ∀𝑡 ∈ 𝐼𝑙 ; simmetricamente, se esiste 𝑙 ∈ 𝐿 con 1 ∈ 𝐼𝑙 , si pone 𝑓 (𝑡) ∶= 1, ∀𝑡 ∈ 𝐼𝑙 . Per ogni 𝑙 ∈ 𝐿, con 0, 1 ∉ 𝐼𝑙 , sia 𝑐𝑙 ∶= (𝑎𝑙 + 𝑏𝑙 )/2. Poniamo poi 𝑓 (𝑡) ∶= 𝑐𝑙 , ∀𝑡 ∈ 𝐼𝑙 . Resta da definire 𝑓 (𝑡) quando 𝑡 ∉ ⋃𝑙∈𝐿 𝐼𝑙 , con 0 < 𝑡 < 1. Fissato un tale 𝑡, facciamo alcune posizioni di comodo: 𝐿′𝑡 ∶= {𝑙 ∈ 𝐿 ∶ 𝑏𝑙 < 𝑡} , 𝐿″𝑡 ∶= {𝑙 ∈ 𝐿 ∶ 𝑎𝑙 > 𝑡} , 𝛼𝑡 ∶= sup {𝑏𝑙 ∶ 𝑙 ∈ 𝐿′𝑡 } , con 𝛼𝑡 ∶= 0, se 𝐿′𝑡 = ∅, 𝛽𝑡 ∶= inf {𝑎𝑙 ∶ 𝑙 ∈ 𝐿″𝑡 } , con 𝛽𝑡 ∶= 1, se 𝐿″𝑡 = ∅,
𝑐𝑡′ ∶= sup {𝑐𝑙 ∶ 𝑙 ∈ 𝐿′𝑡 } , con 𝑐𝑡′ ∶= 0, se 𝐿′𝑡 = ∅,
𝑐𝑡″ ∶= inf {𝑐𝑙 ∶ 𝑙 ∈ 𝐿″𝑡 } , con 𝑐𝑡″ ∶= 1, se 𝐿″𝑡 = ∅,
Si ha ovviamente 𝐿′𝑡 ∪ 𝐿″𝑡 = 𝐿 che è non vuoto per ipotesi. Inoltre si ha 𝑐𝑡′ ≤ 𝛼𝑡 ≤ 𝑡 ≤ 𝛽𝑡 ≤ 𝑐𝑡″ . Se è 𝛼𝑡 < 𝛽𝑡 da cui 𝑐𝑡′ < 𝑐𝑡″ e 𝑡 ∈ [𝛼𝑡 , 𝛽𝑡 ], si pone 𝑓 (𝑡) ∶= 𝑐𝑡′ +
𝑐𝑡″ − 𝑐𝑡′ (𝑡 − 𝛼𝑡 ). 𝛽𝑡 − 𝛼𝑡
Sia ora 𝛼𝑡 = 𝛽𝑡 = 𝑡. Siccome 𝑡 ∉ ⋃𝑙∈𝐿 𝐼𝑙 , se 𝐿′𝑡 non è vuoto, 𝛼𝑡 non può essere un massimo e, simmetricamente, se 𝐿″𝑡 non è vuoto, 𝛽𝑡 non può essere un minimo. Ne viene che, in questo caso, è anche 𝑐𝑡′ = 𝑐𝑡″ = 𝑡. Si pone quindi 𝑓 (𝑡) ∶= 𝑐𝑡′ = 𝑐𝑡″ = 𝑡. La funzione 𝑓 così definita è, per costruzione, debolmente crescente e si ha 𝑓 (𝑡1 ) = 𝑓 (𝑡2 ) se e solo se 𝑡1 e 𝑡2 appartengono ad un 𝐼𝑙 . Siccome per ogni 𝑡 ∈ 𝐼 si ha 𝑓 (𝑡) = sup {𝑓 (𝑠) ∶ 𝑠 < 𝑡} = inf {𝑓 (𝑠) ∶ 𝑠 > 𝑡}, si ottiene che 𝑓 è continua e che quindi è 𝑓 (𝐼) = 𝐼.
Teorema 13.51. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico di Hausdorff. Allora 𝑋 è connesso per archi se (e solo se) è connesso per cammini.
Dimostrazione. Siano dati due punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋 e un’applicazione continua 𝜓 ∶ 𝐼 = [0, 1] → 𝑋, con 𝜓(0) ∶= 𝑝 e 𝜓(1) ∶= 𝑞. Se 𝜓 è iniettiva, non c’è niente da dimostrare; supponiamo quindi che non lo sia. In 𝜓(𝐼) esistono pertanto punti multipli, dove per punto multiplo intendiamo un elemento 𝑦 ∈ 𝜓(𝐼) tale che 𝜓 −1 ({𝑦}) ha più di un elemento. Per ogni punto multiplo 𝑦, indichiamo con ℋ (𝑦) l’insieme di tutti i sottointervalli compatti [𝑎, 𝑏] ⊂ [0, 1] tali che 𝜓(𝑎) = 𝑦 = 𝜓(𝑏). Una famiglia 𝒞 di sottointervalli compatti di 𝐼 sarà detta ammissibile se è formata da intervalli a due a due disgiunti e ognuno di questi appartiene a qualche ℋ (𝑦), con 𝑦 punto multiplo. Nell’insieme ℱ di tutte le famiglie ammissibili introduciamo la seguente relazione d’ordine parziale. Diremo che 𝒞1 ⪯ 𝒞2 se ogni elemento di 𝒞1 è contenuto in qualche elemento di 𝒞2 . Osserviamo che, in questo caso, ogni intervallo [𝑎1 , 𝑏1 ] ∈ 𝒞1 è contenuto in un unico intervallo [𝑎2 , 𝑏2 ] ∈ 𝒞2 , dato che gli elementi di 𝒞2 sono a due a due disgiunti.
13.2. Connessione per archi e per cammini
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Questa relazione è chiaramente riflessiva e transitiva; mostriamo che è antisimmetrica. Supponiamo che sia 𝒞1 ⪯ 𝒞2 e 𝒞2 ⪯ 𝒞1 . Sia 𝐼1 ∶= [𝑎1 , 𝑏1 ] ∈ 𝒞1 , con 𝜓(𝑎1 ) = 𝑦1 = 𝜓(𝑏1 ). Per ipotesi, esiste un 𝐼2 ∶= [𝑎2 , 𝑏2 ] ∈ 𝒞2 , con 𝜓(𝑎2 ) = 𝑦2 = 𝜓(𝑏2 ) e tale che 𝐼1 ⊆ 𝐼2 . D’altra parte, esiste anche un 𝐼3 ∶= [𝑎3 , 𝑏3 ] ∈ 𝒞1 , con 𝜓(𝑎3 ) = 𝑦3 = 𝜓(𝑏3 ) e tale che 𝐼2 ⊆ 𝐼3 . Ne viene quindi 𝐼1 ⊆ 𝐼3 con entrambi gli intervalli in 𝒞1 . Siccome gli elementi di 𝒞1 sono a due a due disgiunti, deve essere 𝐼1 = 𝐼3 e quindi anche 𝑦1 = 𝑦3 . Dalla catena di inclusioni 𝐼1 ⊆ 𝐼2 ⊆ 𝐼3 = 𝐼1 , si ottiene 𝐼1 = 𝐼2 ∈ 𝒞2 . Dall’arbitrarietà di 𝐼1 ∈ 𝒞1 , segue 𝒞1 ⊆ 𝒞2 . Per simmetria, si ha anche 𝒞2 ⊆ 𝒞1 . Quindi le due famiglie coincidono. Come passo successivo, proviamo che l’insieme parzialmente ordinato (ℱ , ⪯) possiede elementi massimali, mostrando che si può applicare il Lemma di Zorn. Sia 𝒮 ∶= (𝒞𝛼 )𝛼∈𝐽 una catena di ℱ . Consideriamo i sottointervalli 𝐾 di 𝐼 definiti nel seguente modo: esistono 𝛼 ∈ 𝐽 e un intervallo 𝐾𝛼 ∶= [𝑎𝛼 , 𝑏𝛼 ] ∈ 𝒞𝛼 tali che 𝐾𝛼 ⊆ 𝐾 e 𝐾 ∶= cl ⋃ 𝐾𝛽 , con 𝐾𝛼 ⊆ 𝐾𝛽 e 𝐾𝛽 ∶= [𝑎𝛽 , 𝑏𝛽 ] ∈ 𝒞𝛽 ⪰ 𝒞𝛼 . Per costruzione, risulterà 𝐾 = [𝑎, 𝑏], con 𝑎 ∶= inf{𝑎𝛽 } e 𝑏 ∶= sup{𝑏𝛽 }, con 𝑎𝛽 e 𝑏𝛽 sopra definiti. Poiché, per ipotesi, si ha 𝜓(𝑎𝛽 ) = 𝜓(𝑏𝛽 ) ∈ 𝑋, che è 𝑇2 , dalla continuità di 𝜓 si ottiene 𝜓(𝑎) = 𝜓(𝑏) =∶ 𝑧 che è un punto multiplo e quindi 𝐾 ∈ ℋ (𝑧). Sia 𝒞∗ la famiglia degli intervalli 𝐾 così definiti. Due intervalli di 𝒞∗ non possono avere punti interni in comune, dato che un tal punto dovrebbe appartenere a due elementi di 𝒞𝛽 per qualche 𝛽 (Esercizio!). Può però ben accadere che due di essi abbiano un estremo in comune. Siano dunque dati 𝐾1 ∶= [𝑎, 𝑏] e 𝐾2 ∶= [𝑏, 𝑐] in 𝒞∗ . Deve essere 𝜓(𝑎) = 𝜓(𝑏) = 𝜓(𝑐) = 𝑤. È dunque [𝑎, 𝑐] ∈ ℋ (𝑤). Alla coppia di intervalli 𝐾1 , 𝐾2 sostituiamo l’intervallo 𝐾 ∶= [𝑎, 𝑐]. In generale, diremo che una sottofamiglia 𝒟 ∶= {𝐷𝑘 ∶= [𝑎𝑘 , 𝑏𝑘 ] ∶ 𝑘 ∈ 𝐽 ′ } di 𝒞∗ è incatenata se soddisfa alle seguenti proprietà: (1) esiste un punto multiplo 𝑦 tale che ogni elemento di 𝒟 appartiene a ℋ (𝑦); (2) fra due intervalli di 𝒟 non c’è alcun intervallo di ℋ (𝑧) per qualche 𝑧 diverso d 𝑦; (3) è massimale rispetto alle due proprietà precedenti. Ad ogni sottofamiglia incatenata sostituiamo l’intervallo 𝐷 ∶= [𝑎, 𝑏], con 𝑎 ∶= inf {𝑎𝑘 ∶ 𝑘 ∈ 𝐽 ′ } e 𝑏 ∶= sup {𝑏𝑘 ∶ 𝑘 ∈ 𝐽 ′ }. Ancora per 𝑇2 e la continuità di 𝜓, si ottiene 𝜓(𝑎) = 𝜓(𝑏) = 𝑦, da cui 𝐷 ∈ ℋ (𝑦), dove 𝑦 è il punto multiplo associato alla famiglia 𝒟 . Sia, in fine 𝒞 ∗ la famiglia ottenuta da 𝒞∗ sostituendo ad ogni famiglia incatenata 𝒟 il corrispondente 𝐷 appena definito. Ovviamente, se la famiglia incatenata si riduce a un solo intervallo, nulla cambia. Mostriamo che la famiglia 𝒞 ∗ è ammissibile. Supponiamo, per assurdo, che esistano due elementi distinti [𝑎, 𝑏], [𝑐, 𝑑] ∈ 𝒞 ∗ , con intersezione non vuota. Non sarà restrittivo ridursi a considerare il caso in cui 𝜓(𝑎) = 𝜓(𝑏) = 𝑦1 ≠ 𝑦2 = 𝜓(𝑐) = 𝜓(𝑑), con [𝑎, 𝑏] generato da una famiglia incatenata 𝒟 ′ e [𝑐, 𝑑] generato da una famiglia incatenata 𝒟 ″ . A meno di simmetrie, possiamo considerare le due possibilità: 𝑎 < 𝑐 < 𝑑 < 𝑏 oppure 𝑎 < 𝑐 < 𝑏 < 𝑑. Trattiamo il secondo caso; l’altro si affronta in modo analogo. Fissiamo un 𝜀 tale che 0 < 2𝜀 < min{𝑐 − 𝑎, 𝑏 − 𝑐, 𝑑 − 𝑏}. Esisteranno due intervalli [𝑎1 , 𝑏1 ], [𝑎2 , 𝑏2 ] ∈ 𝒟 ′ con 𝑎 ≤ 𝑎1 < 𝑎 + 𝜀 e 𝑏 − 𝜀 < 𝑏2 ≤ 𝑏. Simmetricamente, esisteranno due intervalli
13.2. Connessione per archi e per cammini
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[𝑐1 , 𝑑1 ], [𝑐2 , 𝑑2 ] ∈ 𝒟 ″ con 𝑐 ≤ 𝑐1 < 𝑐 + 𝜀 e 𝑑 − 𝜀 < 𝑑2 ≤ 𝑑. Per costruzione, si ha 𝑎1 < 𝑐1 < 𝑏2 < 𝑑2 . Se gli intervalli [𝑎1 , 𝑏1 ] e [𝑎2 , 𝑏2 ] [gli intervalli [𝑐1 , 𝑑1 ] e [𝑐2 , 𝑑2 ]] sono uno contenuto nell’altro si ha subito una contraddizione, in quanto essi sono elementi di 𝒞 e quindi devono avere interni disgiunti. Sempre per lo stesso motivo, ne viene che i quattro intervalli devono soddisfare alla condizione 𝑎1 < 𝑏1 < 𝑐1 < 𝑑1 < 𝑎2 < 𝑏2 < 𝑐2 < 𝑑2 .
(Si osservi che non può essere né 𝑏1 = 𝑐1 , né 𝑑1 = 𝑎2 , né 𝑏2 = 𝑐2 , perché nei punti di ciascuna di queste coppie la 𝜓 assume valori diversi.) Si contraddice così la proprietà (2) della definizione di famiglia incatenata. Per costruzione, si ha 𝒞𝛼 ⪯ 𝒞 ∗ , ∀𝛼 ∈ 𝐽 . Si conclude che 𝒮 è maggiorata. Per il Lemma di Zorn, in (ℱ , ⪯) esistono elementi massimali. Sia 𝒞 ∶= (𝐼𝑙 )𝑙∈𝐿 un elemento massimale di (ℱ , ⪯), con 𝐼𝑙 =∶ [𝑎𝑙 , 𝑏𝑙 ], ∀𝑙 ∈ 𝐿. Per costruzione, per ogni punto multiplo 𝑦, l’insieme ℋ (𝑦) contiene al più uno degli 𝐼𝑙 . Infatti, in caso contrario, esisterebbero un 𝐼𝑙 ∶= [𝑎𝑙 , 𝑏𝑙 ] e un 𝐼𝑚 ∶= [𝑎𝑚 , 𝑏𝑚 ] con 𝑦 = 𝜓(𝑎𝑙 ) = 𝜓(𝑏𝑙 ) = 𝜓(𝑎𝑚 ) = 𝜓(𝑏𝑚 ), per esempio con 𝑏𝑙 < 𝑎𝑚 . Sostituendo a 𝐼𝑙 e 𝐼𝑚 il nuovo intervallo [𝑎𝑙 , 𝑏𝑚 ] e togliendo da 𝒞 gli eventuali altri intervalli di 𝒞 contenuti in [𝑎𝑙 , 𝑏𝑚 ], si otterrebbe una nuova famiglia ammissibile 𝒞 ′ , con 𝒞 ≺ 𝒞 ′ , contro la massimalità di 𝒞 . Osserviamo inoltre che la famiglia 𝒞 è al più numerabile. Diciamo 𝜑 ∶ [0, 1] → 𝑋 la funzione definita come segue. Se 𝑡 ∈ 𝐼𝑙 ∶= [𝑎𝑙 , 𝑏𝑙 ] ∈ 𝒞 , si pone 𝜑(𝑡) ∶= 𝜓(𝑎𝑙 ) = 𝜓(𝑏𝑙 ); se 𝑡 non appartiene a nessuno degli 𝐼𝑙 , si pone 𝜑(𝑡) ∶= 𝜓(𝑡). Non è difficile verificare che 𝜑 è continua, con 𝜑(0) = 𝜓(0) = 𝑝 e 𝜑(1) = 𝜓(1) = 𝑞. Inoltre si ha 𝜑(𝐼) ⊆ 𝜓(𝐼). Per il lemma precedente, esiste una funzione 𝑓 ∶ 𝐼 → 𝐼 continua, suriettiva e debolmente crescente tale che 𝑓 (𝑡1 ) = 𝑓 (𝑡2 ) se e solo se esiste 𝑙 ∈ 𝐿 con 𝑡1 , 𝑡2 ∈ 𝐼𝑙 . Possiamo finalmente definire una funzione continua e iniettiva 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑋, con 𝛾(0) = 𝑝, 𝛾(1) = 𝑞 e 𝛾(𝐼) = 𝜑(𝐼) ⊆ 𝜓(𝐼); ciò garantisce che 𝑝 e 𝑞 sono uniti da un arco di 𝑋. Poniamo dunque 𝛾(𝑡) ∶= 𝜑(𝑠),
con 𝑠 ∈ 𝑓 −1 ({𝑡}).
Siccome 𝑓 −1 ({𝑡}) o è un punto o è uno degli intervalli 𝐼𝑙 dove la 𝜑 è costante, la precedente definizione è consistente. Si ha subito 𝛾(0) = 𝜑(0) = 𝑝 e 𝛾(1) = 𝜑(1) = 𝑞. Dato poi 𝑦 ∈ 𝜑(𝐼), si ha 𝑦 ∈ 𝛾(𝑓 (𝐼)) = 𝛾(𝐼), da cui 𝛾(𝐼) ⊆ 𝜑(𝐼); l’inclusione opposta segue banalmente dalla definizione di 𝛾. Sia ora 𝛾(𝑡1 ) = 𝛾(𝑡2 ). Esistono quindi 𝑠1 ∈ 𝑓 −1 ({𝑡1 }) e 𝑠2 ∈ 𝑓 −1 ({𝑡2 }) con 𝜑(𝑠1 ) = 𝜑(𝑠2 ); ne viene che 𝑠1 e 𝑠2 appartengono ad uno stesso 𝐼𝑙 ; ma allora è 𝑓 (𝑠1 ) = 𝑓 (𝑠2 ) e quindi 𝑡1 = 𝑡2 . Resta da provare che 𝛾 è continua. Fissiamo un 𝑡0 ∈ 𝐼 e un intorno 𝑉 di 𝑦0 ∶= 𝛾(𝑡0 ). Esiste dunque un 𝑠0 ∈ 𝐼 tale che 𝜑(𝑠0 ) = 𝑦0 e 𝑓 (𝑠0 ) = 𝑡0 . Per la continuità di 𝜑 in 𝑠0 , esiste un intorno 𝑈 di 𝑠0 tale che 𝜑(𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Se 𝑠0 ∉ ⋃𝑙∈𝐿 𝐼𝑙 , si può prendere 𝑈 ∶= ]𝑠0 − 𝛿, 𝑠0 + 𝛿[ ∩𝐼. Si ha che 𝑊 ∶= 𝑓 (𝑈 ) è un intorno di 𝑡0 con 𝛾(𝑊 ) ⊆ 𝑉 . Se esiste 𝑙 ∈ 𝐿 con 𝑠0 ∈ 𝐼𝑙 , per la continuità di
13.2. Connessione per archi e per cammini
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𝜑 in 𝑎𝑙 e 𝑏𝑙 , si può prendere 𝑈 ∶= ]𝑎𝑙 − 𝛿, 𝑏𝑙 + 𝛿[ ∩𝐼. Si ha che 𝑊 ∶= 𝑓 (𝑈 ) è un intorno di 𝑡0 con 𝛾(𝑊 ) ⊆ 𝑉 . Vogliamo ora riesaminare il paragrafo precedente per vedere quali risultati ivi stabiliti si estendono agli spazi connessi per cammini o per archi. Premettiamo un’osservazione. Dato che in ℝ tutti gli intervalli compatti e non degeneri sono fra loro omeomorfi, nella Definizione 13.44 non è essenziale che il dominio di 𝛾 sia proprio [0, 1], ma basta che sia un qualunque intervallo compatto [𝑎, 𝑏] purché non degenere. Sarà inoltre utile per il seguito introdurre un’operazione di incollamento di cammini. Siano 𝑋 uno spazio topologico arbitrario, 𝛾1 ∶ [𝑎, 𝑏] → 𝑋 e 𝛾2 ∶ [𝑏, 𝑐] → 𝑋 tali che 𝛾1 (𝑏) = 𝛾2 (𝑏). Resta individuata la funzione 𝛾 ∶ [𝑎, 𝑐] → 𝑋 le cui restrizioni agli intervalli [𝑎, 𝑏] e [𝑏, 𝑐] coincidono rispettivamente con 𝛾1 e 𝛾2 . Parleremo di giustapposizione o incollamento di 𝛾1 e 𝛾2 . Useremo anche la notazione 𝛾1 ♦𝛾2 . Se 𝛾1 e 𝛾2 sono continue è tale anche 𝛾1 ♦𝛾2 (cfr. Proposizione 2.15.2). Da tutto ciò segue che, dati 𝑝, 𝑞, 𝑟 in uno spazio topologico 𝑋, se esistono un cammino che unisce 𝑝 e 𝑞 e un cammino che unisce 𝑞 e 𝑟, esiste anche un cammino che unisce 𝑝 e 𝑟 (passando per 𝑞). Siano 𝑋 uno spazio topologico e 𝛾 ∶ [𝑎, 𝑏] → 𝑋 un’applicazione continua, con 𝛾(𝑎) = 𝑝 e 𝛾(𝑏) = 𝑞. Consideriamo l’applicazione continua 𝛾 − ∶ [𝑎, 𝑏] → 𝑋 definito da 𝛾 − (𝑡) ∶= 𝛾(𝑎+𝑏−𝑡), ∀𝑡 ∈ [𝑎, 𝑏]. Si ha ovviamente 𝛾([𝑎, 𝑏]) = 𝛾 − ([𝑎, 𝑏]), 𝛾 − (𝑎) = 𝑞 e 𝛾 − (𝑏) = 𝑝. Diremo che 𝛾 − è il cammino inverso di 𝛾. Si osservi che, mentre 𝛾 va da 𝑝 a 𝑞, 𝛾 − va da 𝑞 a 𝑝. Teorema 13.52. In ℝ sono connessi per cammini o per archi tutti e soli gli intervalli.
Dimostrazione. Tenuto conto dei Teoremi 13.3 e 13.47, basta mostrare che ogni intervallo di ℝ è connesso per archi. Siano 𝑝, 𝑞 due punti di un intervallo 𝐿 di ℝ, con 𝑝 < 𝑞. Per ottenere un arco che congiunge 𝑝 e 𝑞 in 𝐿 basta considerare come applicazione 𝛾 l’identità di [𝑝, 𝑞] in sé, tenendo presente che, per definizione di intervallo, è [𝑝, 𝑞] ⊆ 𝐿. Teorema 13.53 (di connessione). Siano dati due spazi topologici 𝑋, 𝑌 e una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 continua. 1. Se 𝑋 è connesso per cammini, è tale anche lo spazio 𝑓 (𝑋)(⊆ 𝑌 ). 2. Se 𝑓 è iniettiva e 𝑋 è connesso per archi, è tale anche lo spazio 𝑓 (𝑋).
Dimostrazione. 1. Siano 𝑝′ , 𝑞 ′ due punti distinti di 𝑓 (𝑋). Esistono dunque due punti distinti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑋 con 𝑓 (𝑝) = 𝑝′ e 𝑓 (𝑞) = 𝑞 ′ . Per ipotesi, esiste una funzione continua 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑋 tale che 𝛾(0) = 𝑝 e 𝛾(1) = 𝑞. La funzione 𝑓 ∘ 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑓 (𝑋) è continua e porta 0 in 𝑝′ e 1 in 𝑞 ′ . 2. Basta ripetere il ragionamento precedente, osservando che ora si può prendere 𝛾 iniettiva e che quindi è tale anche 𝑓 ∘ 𝛾.
13.2. Connessione per archi e per cammini
710
Osserviamo che senza l’ipotesi dell’iniettività di 𝑓 , la 2 può cadere in difetto. La funzione continua 𝛾 dell’Esempio 13.48 porta [0, 1] che è connesso per archi sull’insieme 𝑋 che non lo è. Per il Teorema 13.51 la tesi sussiste nel caso che 𝑌 sia di Hausdorff. I Corollari 13.6 e 13.8 continuano a sussistere anche per gli spazi connessi per cammini o per archi. Si ha poi immediatamente il Corollario 13.54. Ogni spazio topologico connesso per archi se contiene almeno due punti ha cardinalità maggiore o uguale a quella del continuo. Non sussiste un analogo risultato per gli spazi connessi per cammini. Basta prendere come 𝑋 un insieme di due soli punti con la topologia nulla. Quanto all’unione di insiemi connessi per cammini, ci limitiamo a segnalare che
Teorema 13.55. In uno spazio 𝑋 siano dati due sottoinsiemi 𝑆1 , 𝑆2 connessi per cammini. Se essi hanno intersezione non vuota, allora la loro unione è ancora connessa per cammini. Dimostrazione. Fissiamo due punti 𝑝1 ∈ 𝑆1 e 𝑝2 ∈ 𝑆2 e mostriamo che c’è un cammino che li unisce. Se uno dei due appartiene a 𝑆1 ∩ 𝑆2 , la cosa è ovvia. In caso contrario, esiste per ipotesi un terzo punto 𝑧 ∈ 𝑆1 ∩ 𝑆2 . Ancora per ipotesi, esistono due applicazioni continue 𝛾1 ∶ [0, 1] → 𝑆1 e 𝛾2 ∶ [1, 2] → 𝑆2 con 𝛾1 (0) = 𝑝1 , 𝛾1 (1) = 𝛾2 (1) = 𝑧 e 𝛾2 (2) = 𝑝2 . Basta ora considerare l’applicazione 𝛾1 ♦𝛾2 . Ancora l’esempio 13.48 mostra che l’unione di due connessi per archi con intersezione non vuota può non essere connessa per archi (ma solo per cammini). La Proposizione 13.16 diventa Proposizione 13.56. Sia 𝑓 ∶ 𝐽 → ℝ una funzione definita su un intervallo reale 𝐽 . Se 𝑓 è continua, il suo grafico è connesso per archi in ℝ2 .
Dimostrazione. Consideriamo ancora l’applicazione 𝜑 ∶ 𝐽 → ℝ2 definita da 𝜑(𝑥) ∶= (𝑥, 𝑓 (𝑥)). Sappiamo che la funzione 𝜑 è continua. Essa è sempre iniettiva essendo tale la prima componente. La tesi segue dalla Proposizione 13.53.2, osservando che 𝜑(𝐽 ) coincide con il grafico di 𝑓 . Il Teorema 13.15 perde validità nel caso della connessione per cammini o per archi, come prova l’esempio che segue.
Esempio 13.57. Consideriamo il sottoinsieme 𝐸1 dello spazio 𝑋 ∶= ℝ2 dell’Esempio 13.49. La proposizione precedente ci dice che 𝐸1 è connesso per archi. Sappiamo che è cl 𝐸1 = 𝐸1 ∪ 𝐸2 che non è connesso per cammini come si vede ragionando come nell’esempio sopracitato. ◁
13.2. Connessione per archi e per cammini
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Anche il Teorema 13.30 perde validità nel nuovo contesto:
Esempio 13.58. In ℝ2 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia
𝐶𝑛 ∶= [−1/𝑛, 1/𝑛] × [−1, 1]∪
∪ {(𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 ∶ (1/𝑛 ≤ |𝑥| ≤ 1) ∧ (𝑦 = sin(1/𝑥))} .
Chiaramente i 𝐶𝑛 sono chiusi e limitati, e quindi compatti; essi formano una successione decrescente per inclusione. Inoltre, per 𝑛 > 1, ogni 𝐶𝑛 è unione di un rettangolo con due tratti del grafico della funzione 𝑦 = sin(1/𝑥); ciascuno di questi tre sottoinsiemi e connesso per archi e interseca almeno uno degli altri due; 𝐶1 si riduce a un quadrato. Per il Teorema 13.55, si ha che, per ogni 𝑛, 𝐶𝑛 è connesso per archi. Ora, però, la loro intersezione 𝐶∞ coincide con 𝐶1 ∩ 𝐸, dove 𝐸 (seno del topologo) è l’insieme dell’esempio 13.49 e quindi non è connesso per cammini. ◁ Teorema 13.59. Il prodotto 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 di spazi topologici non vuoti è connesso per cammini se e solo se è tale ogni singolo fattore. Se tutti i fattori sono connessi per archi, è tale anche 𝑋.
Dimostrazione. Dal Teorema di connessione 13.53, si ha subito che, se 𝑋 è connesso per cammini, è tale ogni suo fattore, dato che le proiezioni sono funzioni continue. Venendo al viceversa, fissiamo in 𝑋 due punti distinti 𝑝 ∶= (𝑝𝛼 )𝛼∈𝐽 e 𝑞 ∶= (𝑞𝛼 )𝛼∈𝐽 . Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 , esiste una funzione continua 𝛾𝛼 ∶ [0, 1] → 𝑋𝛼 , con 𝛾𝛼 (0) = 𝑝𝛼 e 𝛾𝛼 (1) = 𝑞𝛼 . (Se per qualche 𝛼 è 𝑝𝛼 = 𝑞𝛼 , prenderemo 𝛾𝛼 costante; ma ci deve essere almeno un indice con 𝑝𝛼 ≠ 𝑞𝛼 .) Sia ora 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑋 la funzione definita da 𝛾(𝑡) ∶= (𝛾𝛼 (𝑡))𝛼∈𝐽 , ∀𝑡 ∈ [0, 1]. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 sia 𝜋𝛼 ∶ 𝑋 → 𝑋𝛼 la proiezione 𝛼-ima. Siccome, sempre per ogni 𝛼, si ha 𝜋𝛼 ∘ 𝛾 = 𝛾𝛼 che è una funzione continua, dal Corollario 6.9 si ottiene la continuità di 𝛾. Supponiamo tutti i fattore 𝑋𝛼 connessi per archi. Dati, come sopra, due punti distinti 𝑝 e 𝑞, esiste almeno un indice 𝛽 ∈ 𝐽 con 𝑝𝛽 ≠ 𝑞𝛽 . Poiché 𝑋𝛽 è connesso per archi, possiamo supporre 𝛾𝛽 iniettiva, da cui l’iniettività di 𝛾. Esempio 13.60. Può ben accadere che il prodotto di spazi topologici sia connesso per archi senza che lo siano tutti gli spazi fattore, come mostra l’esempio che segue. Siano 𝑋1 ∶= {0, 1} dotato della topologia di Sierpinski, con 0 punto isolato, e 𝑋2 ∶= ([0, 1], 𝜏𝑒 ); poniamo poi 𝑌 ∶= 𝑋1 × 𝑋2 dotato della topologia prodotto. 𝑋2 è connesso per archi, mentre 𝑋1 è connesso solo per cammini. Mostriamo che, ciononostante, anche 𝑌 è connesso per archi. Per constatarlo, fissiamo in 𝑌 due punti distinti 𝑦′ ∶= (𝑥′1 , 𝑥′2 ), 𝑦″ ∶= (𝑥″1 , 𝑥″2 ) e cerchiamo un’applicazione iniettiva 𝛾 = (𝛾1 , 𝛾2 )⊤ ∶ [0, 1] → 𝑌 , con 𝛾(0) = 𝑦′ e 𝛾(1) = 𝑦″ . Il caso 𝑥′1 = 𝑥″1 è immediato. Sia dunque 𝑥′1 = 0 e 𝑥″1 = 1. Poniamo intanto 𝛾1 (𝑡) ∶= 0 per 0 ≤ 𝑡 < 1/2 e 𝛾1 (𝑡) ∶= 1 per 1/2 ≤ 𝑡 ≤ 1. Chiaramente, 𝛾1 è continua. Per definire 𝛾2 , distinguiamo vari casi. Caso 𝑦′ ∶= (0, 0), 𝑦″ ∶= (1, 0). Si pone 𝛾2 (𝑡) ∶= 𝑡 per 0 ≤ 𝑡 < 1/2 e 𝛾2 (𝑡) ∶= 1 − 𝑡 per 1/2 ≤ 𝑡 ≤ 1.
13.2. Connessione per archi e per cammini
712
Caso 𝑦′ ∶= (0, ℎ), 𝑦″ ∶= (1, ℎ), con ℎ > 0. Si pone 𝛾2 (𝑡) ∶= ℎ(1 − 2𝑡) per 0 ≤ 𝑡 < 1/2 e 𝛾2 (𝑡) ∶= ℎ(2𝑡 − 1) per 1/2 ≤ 𝑡 ≤ 1. Caso 𝑦′ ∶= (0, ℎ), 𝑦″ ∶= (1, 𝑘), con ℎ ≠ 𝑘. Si pone 𝛾2 (𝑡) ∶= ℎ + (𝑘 − ℎ)𝑡. Si vede che, in ciascuno dei tre casi, 𝛾2 è continua e che le sue restrizioni agli intervalli [0, 1/2[ e [1/2, 1] sono iniettive. Ne viene che 𝛾 è iniettiva e continua. Si osservi che la proiezione di 𝑌 su 𝑋1 fornisce un ulteriore esempio di una funzione continua che non muta connessi per archi in connessi per archi. Si tenga presente che 𝑋1 non è di Hausdorff. ◁
La Proposizione 13.42.1 conserva ovviamente validità nel caso che 𝑋 sia connesso per archi/cammini. Non così la Proposizione 13.42.2. Infatti, se 𝑋 è compatto e gode della proprietà delle 𝜀-catene, si può dedurre solo che 𝑋 è connesso per insiemi (cfr. Esempio 13.49).
Ricordiamo che in uno spazio vettoriale 𝑉 , dati due punti distinti p, q, si definisce segmento che li unisce il sottoinsieme {p + 𝑡(q − p) ∶ 𝑡 ∈ [0, 1]}. Tale insieme è anche l’involucro convesso dei due punti. Indicheremo tale segmento con [p, q]. Accanto alla nozione di insieme convesso (cfr. Definizione 4.7) è utile introdurre anche quella di insieme stellato rispetto a un punto. Precisamente: Definizione 13.61. In uno spazio vettoriale 𝑉 siano dati un sottoinsieme 𝑆 e un punto z ∈ 𝑆. Si dice che 𝑆 è stellato rispetto a z se, per ogni p ∈ 𝑆, si ha [z, p] ⊆ 𝑆. ◁ Si prova facilmente la seguente
Proposizione 13.62. In uno spazio vettoriale 𝑉 , un insieme 𝐶 è convesso se e solo se è stellato rispetto ad ogni suo punto. Chiaramente non tutti gli insiemi stellati rispetto a un punto sono convessi. Basta prendere in ℝ2 il sottoinsieme 𝑆 formato dall’unione dei due assi cartesiani. I prossimi risultati riguardano gli spazi vettoriali topologici (cfr. Definizione 5.20), abbreviati anche con SVT. Ricordiamo che, per definizione, gli SVT sono spazi di Hausdorff e che ogni intorno di un punto è il traslato di un intorno dell’origine (cfr. pag. 215). Per prima cosa ricordiamo il seguente risultato, già visto in un contesto più generale (cfr. Teorema 5.28), e che qui ridimostriamo in modo più diretto per comodità del lettore: Teorema 13.63. Ogni spazio vettoriale normato è un SVT localmente convesso.
Dimostrazione. Si tratta di dimostrare che l’applicazione somma 𝑋 × 𝑋 → 𝑋 definita da (x, y) ↦ x+y e l’applicazione prodotto per una costante ℝ ×𝑋 → 𝑋 definita da (𝜆, x) ↦ 𝜆x sono continue. Siccome lo spazio 𝑋 è normato, la topologia prodotto si ottiene dalla norma somma definita dalla (4.30). Analogamente,
13.2. Connessione per archi e per cammini
713
la topologia di ℝ × 𝑋 si ottiene come somma del valore assoluto di ℝ con la norma di 𝑋. Continuità della somma. Fissiamo un punto (coppia) (u, v) ∈ 𝑋 × 𝑋 e un 𝜀 > 0. Per ogni (x, y) ∈ 𝑋 × 𝑋 si ha ‖(x + y) − (u + v)‖𝑋 = ‖(x − u) + (y − v)‖𝑋 ≤ ≤ ‖x − u‖𝑋 + ‖y − v‖𝑋 = ‖(x, y) − (u, v)‖𝑋 2 .
Il primo termine risulterà minore di 𝜀 se è tale l’ultimo. Continuità del prodotto. Fissiamo un punto (𝑘, u) ∈ ℝ × 𝑋 e un 𝜀 > 0. Per ogni (𝜆, x) ∈ ℝ × 𝑋, con |𝜆 − 𝑘| < 1, si ha ‖𝜆x − 𝑘u‖ = ‖𝜆x − 𝜆u + 𝜆u − 𝑘u‖ ≤ |𝜆|‖x − u‖ + |𝜆 − 𝑘|‖u‖ ≤ 𝐶‖x − u‖ + 𝐶|𝜆 − 𝑘| = 𝐶‖(𝜆, x) − (𝑘, u)‖,
per una fissata costante 𝐶 ≥ max{|𝑘| + 1, ‖u‖}. Il primo termine è minore di 𝜀 se l’ultima norma è minore di 𝜀/𝐶. La locale convessità deriva dal fatto che le palle aperte di uno spazio normato sono insiemi convessi (cfr. Teorema 4.8). Teorema 13.64. Sia 𝑉 uno spazio vettoriale topologico. Valgono allora le seguenti proprietà: 1. Ogni segmento non degenere è un arco. 2. Ogni sottoinsieme convesso è connesso per archi. 3. Ogni sottoinsieme stellato è connesso per archi. 4. Ogni punto di 𝑉 possiede una base di intorni (aperti) stellati e quindi connessi per archi.
Dimostrazione. 1. Dati due punti distinti p, q ∈ 𝑉 , si consideri la funzione 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑉 definita da 𝛾(𝑡) ∶= p + 𝑡(q − p). L’applicazione 𝛾 è chiaramente continua. Proviamo che essa è iniettiva. Supponiamo che sia p + 𝑡1 (q − p) = p + 𝑡2 (q − p). Si ricava (𝑡1 − 𝑡2 )(q − p) = 0, da cui, essendo q ≠ p, si ottiene 𝑡1 = 𝑡2 . La tesi segue dal fatto che si ha 𝛾([0, 1]) = [p, q]. 2. Sia 𝐶 un sottoinsieme convesso di 𝑉 . Per definizione di insieme convesso, si ha che, dati due punti distinti p, q ∈ 𝐶, il segmento [p, q] che li unisce è contenuto in 𝐶. Dunque per l’applicazione 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑉 definita da 𝛾(𝑡) ∶= p + 𝑡(q − p) è 𝛾(𝐼) = [p, q] ⊆ 𝐶. Si conclude che 𝛾 è un arco di 𝐶 che unisce i due punti. 3. Supponiamo che il sottoinsieme 𝑆 di 𝑉 sia stellato rispetto a un punto z e fissiamo due punti distinti p, q ∈ 𝑆. Se z coincide con uno dei due punti, non c’è niente da dimostrare. Supponiamo dunque z diverso da p e q. Sia intanto p ∈ [z, q] e sia 𝛾 ∶ [0, 1] → [z, q] definita da 𝛾(𝑡) ∶= z + 𝑡(q − z). Esiste un 𝑡0 ∈ ]0, 1[ tale che 𝛾(𝑡0 ) = p. La restrizione di 𝛾 a [𝑡0 , 1] è un arco di 𝑆 che unisce p a q. Analogamente nel caso che sia q ∈ [z, p]. Mettiamoci fuori di questi casi. Siano 𝛾1 , ∶ [0, 1] → 𝑆 e 𝛾2 , ∶ [1, 2] → 𝑆 definite da 𝛾1 (𝑡) ∶= p + 𝑡(z − p) e
13.2. Connessione per archi e per cammini
714
𝛾2 (𝑡) ∶= z + (𝑡 − 1)(q − z). Si ha che la funzione 𝛾1 ♦𝛾2 ∶ [0, 2] → 𝑆 è un cammino che unisce p con q passando per z. Verifichiamo che 𝛾 è iniettiva. Supponiamo per assurdo che non lo sia. Siccome 𝛾1 e 𝛾2 lo sono, devono esistere 𝑡1 ∈ ]0, 1[ e 𝑡2 ∈ ]1, 2[ tali che p + 𝑡1 (z − p) = z + (𝑡2 − 1)(q − z). Si ottiene (1 − 𝑡1 )(p − z) = (𝑡2 − 1)(q − z); 𝑡 −1 1 − 𝑡1 p=z+ 2 (q − z); q = z + (p − z). 1 − 𝑡1 𝑡2 − 1 𝑡 −1
1−𝑡
2 Siccome i due coefficienti 1−𝑡 e 𝑡 −11 sono positivi e fra loro reciproci, uno dei 1 2 due è minore di 1. Supponiamo che sia tale il primo. Si ottiene p ∈ [z, q], contro l’ipotesi. Analogamente nell’altro caso. 4. Per quanto sopra ricordato, basterà occuparci dell’origine. Per la Proposizione 5.22.5, l’origine possiede una base di intorni 𝐵 aperti e bilanciati, ossia tali che, se un punto p ∈ 𝐵, allora si ha anche 𝛼p ∈ 𝐵, ∀|𝛼| ≤ 1. In particolare il segmento [0, p] è contenuto in 𝐵. Ne viene che 𝐵 è stellato rispetto a 0. La tesi segue dal punto precedente.
Ancora dal Teorema 4.8 e dal teorema precedente si ha il Corollario 13.65. In uno spazio vettoriale normato le palle sono insiemi connessi per archi e quindi per insiemi.
Definizione 13.66. 1. Sia 𝑉 uno spazio vettoriale topologico. Fissati due punti p, q ∈ 𝑉 , si chiama poligonale congiungente p e q un insieme Γ del tipo Γ ∶=
𝑛
[p𝑖−1 , pi ], ⋃ 𝑖=1
(p0 ∶= p) ∧ (p𝑛 ∶= q).
2. Un sottoinsieme 𝑆 di uno spazio vettoriale topologico 𝑉 è detto connesso per poligonali se, per ogni coppia di punti p, q ∈ 𝑆, esiste una poligonale che li congiunge e che è contenuta in 𝑆. Si vede immediatamente che
Teorema 13.67. 1. Ogni insieme stellato è connesso per poligonali. 2. Ogni insieme connesso per poligonali è connesso per cammini/archi (lo spazio è 𝑇2 ).
Nessuna delle precedenti implicazioni è invertibile. Lasciamo al lettore la cura di produrre i relativi controesempi. Teorema 13.68. Sia 𝑉 uno spazio vettoriale topologico. Un sottoinsieme aperto 𝐴 di 𝑉 è connesso per insiemi (se e) solo se è connesso per poligonali.
13.2. Connessione per archi e per cammini
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Dimostrazione. Supponiamo che 𝐴 sia connesso per insiemi e fissiamo in 𝐴 due punti distinti p e q. Diciamo che un punto z ∈ 𝐴 è raggiungibile da un punto w ∈ 𝐴 se in 𝐴 esiste una poligonale che unisce z e w. Sia 𝐴′ il sottoinsieme di 𝐴 formato dai punti raggiungibili da p. Mostriamo che 𝐴′ è aperto. Fissiamo un punto z ∈ 𝐴′ . Esiste dunque una poligonale che unisce p con z. Essendo 𝐴 un intorno di z, esso contiene per la Proposizione 13.64.4 un intorno 𝑈 di z stellato rispetto a z. Quindi, ogni punto w ∈ 𝑈 è raggiungibile da z (con un segmento) e pertanto è raggiungibile anche da p. Si ottiene che è 𝑈 ⊆ 𝐴′ che dunque è aperto per l’arbitrarietà di z. Sia ora 𝐵 ′ ∶= 𝐴 ⧵ 𝐴′ e proviamo che anche 𝐵 ′ è aperto. Dato z ∈ 𝐵 ′ , si ha che 𝐴 è un suo intorno e quindi, ancora per la Proposizione 13.64.4, contiene un intorno 𝑉 di z stellato rispetto a z. Se un punto di 𝑉 fosse raggiungibile da p, sarebbe tale anche z. Dato che ciò non è, deve essere 𝑉 ⊆ 𝐵 ′ che pertanto è aperto. Se fosse 𝐵 ′ ≠ ∅, gli aperti 𝐴′ , 𝐵 ′ formerebbero uno spezzamento di 𝐴, contro il fatto che questo insieme è connesso per insiemi. Si conclude che è 𝐵 ′ = ∅ e 𝐴′ = 𝐴, da cui anche q ∈ 𝐴′ . L’ipotesi che 𝐴 sia aperto è essenziale per la validità dell’ultimo teorema. Per verificarlo basta considerare in ℝ2 il sottoinsieme 𝐸 dell’Esempio 13.49. In uno SVT, in particolare in ℝ𝑛 , per gli insiemi aperti i concetti di connessione per insiemi, cammini, archi, poligonali sono equivalenti.
Lemma 13.69. Siano 𝐴 un aperto connesso di ℝ𝑛 , con 𝑛 > 1, e 𝐴′ l’aperto ottenuto togliendo da 𝐴 un insieme finito 𝑀 di suoi punti. Allora anche 𝐴′ è connesso.
Dimostrazione. Basta provare la tesi quando si toglie da 𝐴 un solo punto z; poi si procede per induzione. Fissato z ∈ 𝐴. prendiamo due punti distinti a, b ∈ 𝐴 ⧵ {z}. Per ipotesi, esiste un cammino [una poligonale] 𝛾 ∶ [0, 1] → ℝ𝑛 con il sostegno Γ ⊂ 𝐴 che unisce i due punti. Se z ∉ Γ, siamo a posto. Sia dunque z ∈ Γ. Esiste una palla chiusa 𝐵 di centro z contenuta in 𝐴 e che non contiene a e b. Γ deve incontrare fr 𝐵 in almeno due punti p = 𝛾(𝑡1 ) e q = 𝛾(𝑡2 ), con 𝑡1 < 𝑡2 . Senza perdita di generalità, possiamo pensare che 𝑡1 e 𝑡2 siano, rispettivamente, il minimo e il massimo dei 𝑡 per cui ciò accade. Siano ora r ∈ fr 𝐵 tale che z ∉ [p, r] ∪ [r, q] e 𝛾 ′ ∶ [𝑡1 , 𝑡2 ] → 𝐵 la poligonale il cui sostegno è [p, r] ∪ [r, q]. Sostituendo la restrizione di 𝛾 a [𝑡1 , 𝑡2 ] con 𝛾 ′ si costruisce un cammino [una poligonale] di 𝐴 che unisce a con b e non incontra z. Ritorneremo su questo tipo di argomenti più avanti nel Capitolo 14 (cfr. Esempio 14.5). Corollario 13.70. Gli spazi topologici (ℝ, 𝜏𝑒 ) e (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) non sono omeomorfi.
Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che esista un omeomorfismo 𝜑 ∶ ℝ2 → ℝ. Dal lemma precedente sappiamo che l’aperto 𝐴 ∶= ℝ2 ⧵{0} è connesso per archi. Per il Teorema di Connessione 13.53, l’insieme 𝜑(𝐴) dovrebbe essere
13.2. Connessione per archi e per cammini
716
connesso, ma ciò non è, dato che 𝜑(𝐴) = ℝ ⧵ {𝜑(0)} non è un intervallo (cfr. Teorema 13.52). Nel caso della connessione per insiemi, abbiamo visto l’importanza che rivestono i concetti di componente connessa e di spazio topologico localmente connesso. È naturale vedere come queste nozioni possono essere adattate alla connessione per cammini. Per quanto riguarda la connessione per archi ci limiteremo ad alcune osservazioni.
Definizione 13.71. Siano dati uno spazio topologico 𝑋 e un suo punto 𝑧. Si chiama componente connessa per cammini di 𝑧 l’insieme 𝑃𝑧 formato da tutti i punti 𝑥 ∈ 𝑋 uniti a 𝑧 da un cammino di 𝑋. Se, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, la sua componente 𝑃𝑥 si riduce al singoletto {𝑥}, si dice che 𝑋 è totalmente sconnesso per cammini. ◁ Si prova immediatamente la seguente
Proposizione 13.72. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. 1. Per ogni punto 𝑧 ∈ 𝑋, la relativa componente connessa per cammini 𝑃𝑧 coincide con il massimo sottoinsieme connesso per cammini di 𝑋 contenente 𝑧. 2. Due componenti connesse per cammini di 𝑋 o coincidono o sono fra loro disgiunte. Il lettore verifichi che, in analogia con la (13.1), l’equivalenza corrispondente alla partizione delle componenti connesse per cammini è la seguente: 𝑥 ∼ 𝑦 ⟺ ∃𝐶 ⊆ 𝑋 connesso per cammini, con 𝑥, 𝑦 ∈ 𝐶.
(13.2)
L’Esempio 13.57 mostra che, a differenza di quanto accade per la connessione per insiemi, le componenti connesse per cammini non sono sempre insiemi chiusi. Basta prendere le componenti 𝐸1 ed 𝐸3 . Immaginiamo di introdurre un concetto di componente connessa per archi (per spazi non 𝑇2 , altrimenti non si avrebbe nulla di nuovo), in modo analogo a quanto fatto per la connessione per cammini. Se, per ogni punto 𝑧 ∈ 𝑋, indichiamo con 𝑃𝑧′ l’insieme che, oltre a 𝑧, contiene tutti i punti di 𝑋 raggiungibili da 𝑧 con un arco, si vede che gli insiemi così trovati possono risultare, al variare di 𝑧, diversi ma non disgiunti (cfr. Esempio 13.48). Se, invece, vogliamo introdurre una relazione come la (13.2), lo stesso esempio mostra che viene a cadere la transitività. Tutto ciò rende la cosa poco interessante. Analogamente alla Definizione 13.34, introduciamo la seguente
Definizione 13.73. Uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto localmente connesso per cammini [per archi] se ogni suo punto possiede una base di intorni aperti connessi per cammini [per archi]. Per contrasto, diremo talvolta che uno spazio connesso per cammini [per archi] è globalmente connesso per cammini [per archi]. ◁
13.2. Connessione per archi e per cammini
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Dal Teorema 13.64 e dal Corollario 13.65 segue immediatamente il Corollario 13.74. Ogni spazio vettoriale topologico e, in particolare, ogni spazio normato è globalmente e localmente connesso per archi. Autori diversi a volte utilizzano un’altra definizione rispetto a quella da noi considerata, ma ad essa equivalente. Il prossimo risultato mostra infatti l’equivalenza fra 4 possibili definizioni di insieme localmente connesso per cammini.
Teorema 13.75. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico. Le seguenti affermazioni sono fra loro equivalenti: 1. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni intorno 𝑉 di 𝑥, esiste un intorno aperto 𝑈 di 𝑥, con (𝑥 ∈)𝑈 ⊆ 𝑉 , connesso per cammini. 2. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni intorno 𝑉 di 𝑥, esiste un intorno 𝑈 di 𝑥, con (𝑥 ∈)𝑈 ⊆ 𝑉 , connesso per cammini. 3. Per ogni 𝑥 ∈ 𝑋 e per ogni intorno 𝑉 di 𝑥, esiste un intorno 𝑈 di 𝑥, con (𝑥 ∈)𝑈 ⊆ 𝑉 , tale che, per ogni 𝑦, 𝑧 ∈ 𝑈 , esiste un cammino di 𝑉 che unisce 𝑦 a 𝑧. 4. Per ogni aperto 𝐴 ⊆ 𝑋, le componenti connesse per cammini di 𝐴 sono aperte in 𝑋.
Dimostrazione. Esprimeremo la proprietà 3 dicendo che 𝑈 è connesso per cammini in 𝑉 . Si ha banalmente 1 ⇒ 2 ⇒ 3. Proviamo che 3 ⇒ 1. Assunta la 3, fissiamo un punto 𝑥0 ∈ 𝑋 e un suo intorno 𝑉 . Per ipotesi, esiste un intorno 𝑈0 di 𝑥0 connesso per cammini in 𝑉 . Sia 𝑈̃ 0 l’insieme dei punti di 𝑉 uniti a 𝑥0 mediante un cammino di 𝑉 . In altri termini, 𝑈̃ 0 è la componente connessa per cammini 𝑃𝑥0 rispetto al sottospazio 𝑉 . Si ha intanto che 𝑈̃ 0 contiene 𝑈 ed è quindi un intorno di 𝑥0 . Mostriamo che 𝑈̃ 0 è connesso per cammini. Per ogni 𝑦 ∈ 𝑈̃ 0 , esiste un cammino di 𝑉 che unisce 𝑥0 a 𝑦. Esiste cioè un’applicazione continua 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑉 con 𝛾(0) = 𝑥0 e 𝛾(1) = 𝑦. Prendiamo ora un punto 𝑤 ∶= 𝛾(𝑡),̂ con 0 < 𝑡 ̂ < 1. L’applicazione continua 𝜎 ∶ [0, 1] → 𝑉 definita da 𝜎(𝜆) ∶= 𝛾(𝜆𝑡)̂ costituisce un cammino di 𝑉 che unisce 𝑥0 a 𝑤. Quindi è anche 𝑤 ∈ 𝑈̃ 0 . Ne segue che, per ogni 𝑦 ∈ 𝑈̃ 0 , esiste un cammino di 𝑈̃ 0 che unisce 𝑥0 a 𝑦. Siano ora 𝑦, 𝑧 ∈ 𝑈̃ 0 . Esistono due funzioni continue 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑈̃ 0 e 𝛾 ′ ∶ [1, 2] → 𝑈̃ 0 , con 𝛾(0) = 𝑥0 = 𝛾 ′ (1), 𝛾(1) = 𝑦 e 𝛾 ′ (2) = 𝑧. Incollando le funzioni 𝛾 − e 𝛾 ′ , si ottiene la funzione continua 𝛾 − ♦𝛾 ′ ∶ [0, 2] → 𝑈̃ 0 che unisce 𝑦 a 𝑧. Proviamo che 𝑈̃ 0 è aperto. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑈̃ 0 ⊆ 𝑉 . Per la 3, esiste un intorno 𝑈𝑥 di 𝑥, con 𝑈𝑥 ⊆ 𝑉 , tale che due suoi punti qualunque sono connessi da un cammino di 𝑉 . Ripetendo per 𝑥 il ragionamento fatto per 𝑥0 , si definisce un 𝑈̃ 𝑥 , con 𝑥 ∈ 𝑈𝑥 ⊆ 𝑈̃ 𝑥 ⊆ 𝑉 , tale che due punti qualunque di 𝑈̃ 𝑥 sono connessi da un cammino di 𝑈̃ 𝑥 . Chiaramente 𝑈̃ 𝑥 è un intorno di 𝑥. Ogni punto 𝑝 ∈ 𝑈̃ 𝑥 si congiunge a 𝑥 con un cammino di 𝑉 . Siccome 𝑥 ∈ 𝑈̃ 0 , 𝑥 si congiunge a 𝑥0 ancora con un cammino di 𝑉 . Ancora con un processo di giustapposizione, si
13.2. Connessione per archi e per cammini
718
ottiene che anche 𝑝 si congiunge a 𝑥0 con un cammino di 𝑉 . Si conclude che 𝑝 ∈ 𝑈̃ 0 e, per l’arbitrarietà di 𝑝, che è 𝑈̃ 𝑥 ⊆ 𝑈̃ 0 . Pertanto, 𝑈̃ 0 è un intorno di 𝑥 ed è quindi aperto, per l’arbitrarietà di 𝑥. Si ha così che 𝑈̃ 0 è l’intorno aperto di 𝑥0 che stavamo cercando. 1 ⇒ 4. Siano: 𝐴 un aperto non vuoto, 𝑧 ∈ 𝐴 e 𝑃 (𝑧, 𝐴) la componente connessa per cammini di 𝑧 in 𝐴. Preso un 𝑤 ∈ 𝑃 (𝑧, 𝐴), esiste un intorno aperto 𝑈 di 𝑤 contenuto in 𝐴, con 𝑈 connesso per cammini. Dato ora 𝑥 ∈ 𝑈 , esiste un cammino che unisce 𝑥 a 𝑤 in 𝑈 ⊆ 𝐴; d’altra parte, esiste un cammino di 𝑃 (𝑧, 𝐴) ⊆ 𝐴 che unisce 𝑤 a 𝑧. Ne segue che esiste un cammino di 𝐴 che unisce 𝑥 a 𝑧; si ottiene che 𝑥 ∈ 𝑃 (𝑧, 𝐴) e quindi 𝑈 ⊆ 𝑃 (𝑧, 𝐴). Si conclude che 𝑃 (𝑧, 𝐴) è aperto in 𝐴 e che quindi è tale anche in 𝑋. 4 ⇒ 1. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑋 e un suo intorno 𝑉 che non è restrittivo supporre aperto. La componente connessa per cammini 𝑃 (𝑥, 𝑉 ) di 𝑥 in 𝑉 è un connesso per cammini ed è, per ipotesi, aperta in 𝑋. Quindi 𝑃 (𝑥, 𝑉 ) è un intorno aperto di 𝑥 connesso per cammini e contenuto in 𝑉 . Ovviamente, ogni insieme localmente connesso per archi è anche localmente connesso per cammini. Non sussiste l’implicazione opposta, come mostra il seguente esempio (cfr. [76]). Esempio 13.76. Riprendiamo l’Esempio 1.82 (topologia del punto escluso). Su un insieme 𝑋 con più di un punto fissiamo un elemento 𝑝 e dichiariamo aperti, oltre a 𝑋 stesso, tutti gli insiemi 𝐴 che non contengono 𝑝. Quindi i chiusi non vuoti sono i sottoinsiemi che contengono 𝑝. Se 𝑋 consta esattamente di due punti, si ottiene la topologia di Sierpinski. Qui ci interessa il caso in cui 𝑋 ha almeno tre punti. Questa topologia è sempre 𝑇0 . Si tenga presente che, per i punti diversi da 𝑝, i singoletti sono aperti e non chiusi. Lo spazio non è 𝑇1 e quindi non è nemmeno 𝑇2 . 1. Ogni punto di 𝑋 è connesso a 𝑝 con un cammino. Fissato 𝑧 ∈ 𝑋, con 𝑧 ≠ 𝑝, consideriamo la funzione 𝑓𝑧 ∶ 𝐼 = [0, 1] → 𝑋 definita da 𝑓𝑧 (𝑡) ∶= 𝑧, ∀𝑡 < 1 e 𝑓𝑧 (1) ∶= 𝑝. Mostriamo che 𝑓𝑧 è continua. Sia 𝑉 un aperto non vuoto di 𝑋. Se 𝑝 ∈ 𝑉 , si ha 𝑉 = 𝑋 e quindi 𝑓𝑧−1 (𝑉 ) = 𝐼; se 𝑝 ∉ 𝑉 e 𝑧 ∈ 𝑉 , si ha 𝑓𝑧−1 (𝑉 ) = 𝑓𝑧−1 ({𝑧}) = [0, 1[; se 𝑝, 𝑧 ∉ 𝑉 , si ha 𝑓𝑧−1 (𝑉 ) = ∅. In ogni caso 𝑓𝑧−1 (𝑉 ) è un aperto di 𝐼. 2. 𝑋 è connesso per cammini. Dati 𝑧, 𝑤 ∈ 𝑋, si può andare con un cammino da 𝑧 a 𝑝 e poi da 𝑝 a 𝑤. 3. 𝑋 è localmente connesso per cammini. L’unico intorno di 𝑝 è 𝑋 che è connesso per cammini. Per 𝑧 ≠ 𝑝, basta prendere come suo intorno il singoletto {𝑧}. 4. Una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐼 → 𝑋 non può essere iniettiva. È lecito supporre che 𝑓 assuma un valore 𝑧 ≠ 𝑝. Siccome il singoletto {𝑧} è un aperto di 𝑋, 𝑓 −1 ({𝑧}) deve essere un aperto di 𝐼 che non può quindi ridursi a un solo punto. Pertanto 𝑓 non è iniettiva. Ciò prova che 𝑋 non è connesso per archi. 𝑋 non è nemmeno localmente connesso per archi dato che l’unico intorno di 𝑝 è lo stesso 𝑋. ◁
13.2. Connessione per archi e per cammini
719
Chiaramente, ogni insieme localmente connesso per cammini è localmente connesso anche per insiemi, mentre non è detto il viceversa. Esistono addirittura spazi globalmente e localmente connessi per insiemi che non sono né globalmente né localmente connessi per cammini, come provato dal seguente esempio. Esempio 13.77. Consideriamo ancora lo spazio dell’Esempio 7.58. Sia dunque 𝑋 ∶= [0, 1]2 il quadrato unitario in ℝ2 in cui introduciamo una relazione d’ordine stretto ≺ definita da (𝑎, 𝑏) ≺ (𝑐, 𝑑) se 𝑎 < 𝑐, oppure (𝑎 = 𝑐) ∧ (𝑏 < 𝑑) (ordine lessicografico). Si noti che lo spazio (𝑋, ≺) è un insieme totalmente ordinato. Come già fatto a suo tempo, introduciamo in 𝑋 la topologia 𝜏 ottenuta a partire dalla sottobase delle “semirette”, ossia dagli insiemi (←, 𝑃 [ ∶= {𝑍 ∈ 𝑋 ∶ 𝑍 ≺ 𝑃 } e ]𝑄, →) ∶= {𝑍 ∈ 𝑋 ∶ 𝑍 ≻ 𝑄}, al variare di 𝑃 e 𝑄 in 𝑋. In questo modo, gli intervalli aperti ]𝑃 , 𝑄[ ∶= {𝑍 ∈ 𝑋 ∶ 𝑃 ≺ 𝑍 ≺ 𝑄} risultano aperti. Gli intorni di base dei singoli punti sono illustrati in figura. z3
(1, 1)
z2
(0, 0)
z1
Lo spazio (𝑋, 𝜏) è chiaramente 𝐴1 e 𝑇2 . Esso ha minimo e massimo: (0, 0) e (1, 1). Quindi ogni insieme non vuoto è inferiormente e superiormente limitato. Inoltre, l’ordine di 𝑋 subordina su ogni segmento parallelo agli assi quello naturale. Procediamo a tappe lasciando al lettore le verifiche dei singoli passaggi, che sono tutte standard. 1. Ogni sottoinsieme non vuoto 𝐸 ⊆ 𝑋 ha estremo superiore. Dato 𝐸, siano 𝐴 ∶= {𝑥 ∈ [0, 1] ∶ ∃𝑦 ∈ [0, 1] con (𝑥, 𝑦) ∈ 𝐸} e 𝑥 ∶= sup 𝐴. Sia poi 𝐵 ∶= {𝑦 ∈ [0, 1] ∶ (𝑥, 𝑦) ∈ 𝐸 }. Se è 𝐵 = ∅, si ha sup 𝐸 = (𝑥, 0). Altrimenti, sia 𝑦 ∶= sup 𝐵. In questo caso, si ha sup 𝐸 = (𝑥, 𝑦). 2. 𝑋 è globalmente e localmente connesso per insiemi. Ripartiamo 𝑋 in due sottoinsiemi 𝐴 e 𝐵 e fissiamo due punti 𝑃 ′ ∶= (𝑥′ , 𝑦′ ) ∈ 𝐴, 𝑃 ″ ∶= (𝑥″ , 𝑦″ ) ∈ 𝐵. Non è restrittivo supporre che sia 𝑃 ′ ≺ 𝑃 ″ . Sia poi 𝐸 ∶= ′ ″ ′ {𝑃 ∈ 𝑋 ∶ 𝑃 ⪯ 𝑃 ≺ 𝑃 }. 𝐸 non è vuoto, dato che contiene 𝑃 . Sia dunque ″ 𝑄 ∶= sup 𝐸. Se è 𝑄 ∈ 𝐴, è 𝑄 ≠ 𝑃 ; si ha 𝑄 ∈ 𝐴 ∩ cl 𝐵. Se è 𝑄 ∈ 𝐵, è 𝑄 ≠ 𝑃 ′ ; si ha 𝑄 ∈ 𝐵 ∩ cl 𝐴. Pertanto 𝑋 è connesso per insiemi. Veniamo alla proprietà locale. Sia dato un 𝑃0 ∶= (𝑥0 , 𝑦0 ). Nei casi 𝑃0 = (0, 0), 𝑃0 = (1, 1) o 0 < 𝑦0 < 1, una base di intorni di 𝑃0 è data da insiemi del tipo {𝑥0 } × 𝐽 , con 𝐽 intervallo reale; un tale insieme è omeomorfo a 𝐽 che è connesso per insiemi. In caso contrario, detto 𝑈 un intorno di base di 𝑃0 , si ha che 𝑈 è una
13.2. Connessione per archi e per cammini
720
“striscia” verticale con i bordi superiore ed inferiore e un segmento su uno dei bordi verticali (vedi figura). Ragionando come fatto su 𝑋 si vede che anche 𝑈 è connesso per insiemi. 3. Sia 𝑓 ∶ 𝐼 → 𝑋 continua, con 𝑓 (𝑡) = (𝑥(𝑡), 𝑦(𝑡)). Se 𝑓 assume i valori 𝑃1 e 𝑃2 , con 𝑃1 ≺ 𝑃2 , allora 𝑓 assume tutti i valori fra essi compresi. Fissiamo un 𝑄 strettamente compreso fra 𝑃1 e 𝑃2 . Siano 𝑡1 , 𝑡2 ∈ 𝐼 con 𝑓 (𝑡1 ) = 𝑃1 e 𝑓 (𝑡2 ) = 𝑃2 . Non è restrittivo supporre che sia 𝑡1 < 𝑡2 . Sia ora 𝐸 ∶= {𝑡 ∈ 𝐼 ∶ (𝑡1 ≤ 𝑡 < 𝑡2 ) ∧ (𝑓 (𝑡) ≺ 𝑄)}. Posto, in fine, 𝑡∗ ∶= sup 𝐸, si vede facilmente che è 𝑓 (𝑡∗ ) = 𝑄. 4. Sia 𝑓 ∶ 𝐼 → 𝑋 una funzione continua, con 𝑓 (𝑡) = (𝑥(𝑡), 𝑦(𝑡)). Fissiamo un 𝑡0 ∈ 𝐼 e sia 𝑉 un intorno di base di 𝑃0 ∶= 𝑓 (𝑡0 ). Per come è definita 𝜏 si ha che o 𝑉 ∩ [(0, 0), 𝑃0 ] o 𝑉 ∩ [𝑃0 , (1, 1)] (o tutti due) sono un segmento verticale. Deve esistere un intorno 𝑈 di 𝑃0 con 𝑓 (𝑈 ) ⊆ 𝑉 . Ne viene che o nella parte sinistra di 𝑈 o in quella destra la prima componente di 𝑓 è costante. Dunque: per ogni 𝑡 ∈ 𝐼 , esiste un intervallo 𝐼𝑡 ⊆ 𝐼 contenente 𝑡 in cui la prima componente di 𝑓 è costante. 5. Sia 𝑓 ∶ 𝐼 → 𝑋 , con 𝑓 (𝑡) = (𝑥(𝑡), 𝑦(𝑡)). Se 𝑓 è continua, allora la sua prima componente è costante. Supponiamo, per assurdo, che la prima componente di 𝑓 assuma due valori distinti 𝑥1 < 𝑥2 , con 𝑥1 ∶= 𝑥(𝑡1 ) e 𝑥2 ∶= 𝑥(𝑡2 ). Non è restrittivo supporre che sia 𝑡1 < 𝑡2 . Poniamo 𝑃1 ∶= 𝑓 (𝑡1 ) e 𝑃2 ∶= 𝑓 (𝑡2 ). Risulta 𝑃1 ≺ 𝑃2 . Per il punto 3, 𝑓 deve assumere tutti i valori del tipo 𝑄𝑥 ∶= (𝑥, 1/2), con 𝑥(𝑡1 ) < 𝑥 < 𝑥(𝑡2 ). Per il punto precedente, ad ogni 𝑄𝑥 possiamo associare un sottointervallo di 𝐼 in cui la prima componente di 𝑓 è costante. Questi intervalli devono essere a due a due disgiunti e formano un’infinità più che numerabile. Ma ciò è assurdo. 6. 𝑋 non è né globalmente né localmente connesso per cammini. La tesi segue banalmente dal punto precedente. Infatti punti di 𝑋 con ascisse diverse non possono essere uniti da cammini. ◁ Osservazione 13.78. Sia (𝑋, 𝜏) lo spazio topologico dell’esempio precedente. La sua topologia ha delle caratteristiche interessanti che mettiamo in evidenza analizzando alcuni sottospazi: 1. Su ogni segmento verticale la topologia indotta è quella euclidea. 2. Su ogni segmento orizzontale di “livello” 𝑦 ∈ ]0, 1[, la topologia indotta è quella discreta. 3. Sul segmento orizzontale di “livello” 𝑦 = 0, la topologia indotta è quella sinistra di Sorgenfrey. 4. Sul segmento orizzontale di “livello” 𝑦 = 1, la topologia indotta è quella destra di Sorgenfrey. ◁ Con un ragionamento analogo a quello del Teorema 13.68, proviamo poi il seguente risultato:
Teorema 13.79. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico connesso per insiemi. Allora, se 𝑋 è localmente connesso per cammini lo è anche globalmente.
13.2. Connessione per archi e per cammini
721
Dimostrazione. Supponiamo che 𝑋 sia connesso per insiemi e fissiamo in 𝑋 due punti distinti 𝑝 e 𝑞. Diciamo che un punto 𝑧 ∈ 𝑋 è raggiungibile da un punto 𝑤 ∈ 𝑋 se in 𝑋 esiste un cammino che unisce 𝑧 e 𝑤. Sia 𝐴 il sottoinsieme di 𝑋 formato dai punti raggiungibili da 𝑝. Mostriamo che 𝐴 è aperto. Fissiamo un punto 𝑧 ∈ 𝐴. Esiste dunque in 𝑋 un cammino che unisce 𝑝 con 𝑧. Essendo 𝑋 localmente connesso per cammini, esiste un intorno 𝑈 di 𝑧 connesso per cammini. Quindi, ogni punto 𝑤 ∈ 𝑈 è raggiungibile da 𝑧 e pertanto è raggiungibile anche da 𝑝. Si ottiene che è 𝑈 ⊆ 𝐴 che, dunque, è aperto per l’arbitrarietà di 𝑧. Sia ora 𝐵 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐴 e proviamo che anche 𝐵 è aperto. Dato 𝑧 ∈ 𝐵, si ha che anche 𝑧 ha un intorno 𝑉 connesso per cammini. Se un punto di 𝑉 fosse raggiungibile da 𝑝, sarebbe tale anche 𝑧. Dato che ciò non è, deve essere 𝑉 ⊆ 𝐵 che pertanto è aperto. Se fosse 𝐵 ≠ ∅, gli aperti 𝐴, 𝐵 formerebbero uno spezzamento di 𝑋, contro il fatto che esso è connesso per insiemi. Si conclude che è 𝐵 = ∅ e 𝐴 = 𝑋, da cui anche 𝑞 ∈ 𝐴. Dalle Definizioni 13.34, 13.73 e dalla Proposizione 13.47.2, si ottiene che: Per ogni punto 𝑧 di uno spazio 𝑋 , la sua componente connessa per cammini 𝑃𝑧 è contenuta nella componente connessa per insiemi 𝑆𝑧 . In generale, non sussiste il viceversa: basta prendere uno spazio che sia connesso per insiemi ma non per cammini. Dal teorema precedente si ottiene però un interessante risultato. Premettiamo un lemma. Lemma 13.80. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝐴 un suo sottoinsieme aperto non vuoto. Se 𝑋 è localmente connesso per insiemi/cammini, è tale anche 𝐴.
Dimostrazione. Supponiamo 𝑋 localmente connesso per insiemi e 𝐴 ⊂ 𝑋 aperto e non vuoto. Dato 𝑥 ∈ 𝐴, e considerato un suo intorno 𝑉 ⊆ 𝐴, si ha che 𝑉 è anche intorno di 𝑥 in 𝑋 (Proposizione 1.59.2); quindi, per definizione, esiste un aperto 𝑈 connesso per insiemi con 𝑥 ∈ 𝑈 ⊆ 𝑉 ⊆ 𝐴. Si procede in modo analogo per l’altro tipo di connessione locale.
Teorema 13.81. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico localmente connesso per cammini. Per ogni 𝑧 ∈ 𝑋, la sua componente connessa per cammini 𝑃𝑧 coincide con la componente connessa per insiemi 𝑆𝑧 . Inoltre un aperto di 𝑋 è connesso per insiemi se e solo se è connesso per cammini. Dimostrazione. Dato 𝑧 ∈ 𝑋, consideriamo la sua componente connessa per insiemi 𝑆𝑧 . Poiché 𝑋 è localmente connesso per cammini, è anche localmente connesso per insiemi. Per la Proposizione 13.37.2, 𝑆𝑧 è un aperto di 𝑋. Per il lemma precedente, 𝑆𝑧 , pensato come spazio a sé stante, è localmente connesso per cammini. Applicando il Teorema 13.79 allo spazio 𝑆𝑧 , risulta che questo è connesso per cammini ed è quindi contenuto in 𝑃𝑧 . Siccome è sempre 𝑃𝑧 ⊆ 𝑆𝑧 , si ottiene l’uguaglianza delle due componenti.
13.2. Connessione per archi e per cammini
722
Sia ora 𝐴 un aperto di 𝑋, con 𝐴 connesso per insiemi. Per il lemma precedente, 𝐴, pensato come spazio a sé stante, è localmente connesso per cammini. Sempre per il Teorema 13.79, 𝐴 è globalmente connesso per cammini. Il viceversa è ovvio.
Osservazione 13.82. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico totalmente sconnesso per insiemi e, quindi, con almeno due elementi. Dunque, per ogni 𝑥 ∈ 𝑋, la sua componente connessa per insiemi 𝑆𝑥 coincide col singoletto {𝑥}. Non ci sono perciò sottoinsiemi di 𝑋 con più di un elemento che siano connessi per insiemi. Un’immediata conseguenza del Teorema di connessione è che le uniche applicazioni continue da un qualunque spazio connesso (𝑍, 𝜏𝑍 ) in 𝑋 sono le costanti. In particolare, ciò accade se è 𝑋 ∶= ℚ o 𝑋 ∶= ℝ ⧵ ℚ, con la topologia euclidea. Questo chiarisce quanto discusso prima dell’Esempio 12.89. Da quanto appena detto segue anche che le uniche applicazioni continue da [0, 1] in 𝑋 sono le costanti. Questo fatto equivale a dire che: Non ci sono sottoinsiemi di 𝑋 con più di un elemento che siano connessi per cammini. Si conclude che 𝑋 è anche totalmente sconnesso per cammini. Non sussiste l’implicazione opposta: esistono addirittura spazi connessi per insiemi e totalmente sconnessi per cammini, come si vede dal seguente esempio tratto da [76]. ◁
Esempio 13.83. In ℝ definiamo la seguente topologia 𝜏. Gli aperti in 𝜏 sono tutti e soli gli aperti della topologia euclidea privati di un sottoinsieme al più numerabile di suoi punti. La topologia 𝜏 è quindi strettamente più fine di 𝜏𝑒 . Per esempio, l’insieme ℝ ⧵ ℚ è un 𝜏-aperto. Poiché 𝜏𝑒 ≺ 𝜏, si ha che (ℝ, 𝜏) è almeno 𝑇2 . Inoltre, 𝜏 separa i punti ed è quindi completamente Hausdorff (cfr. Lemma 2.103). Infatti dati due punti distinti 𝑝, 𝑞, esiste una funzione 𝜏𝑒 -continua 𝑓 ∶ ℝ → ℝ con 𝑓 (𝑝) = 0 e 𝑓 (𝑞) = 1. Poiché 𝜏 è più fine, 𝑓 è anche 𝜏-continua. Un’importante osservazione è la seguente: La chiusura in 𝜏 di un 𝜏 -aperto coincide con la sua chiusura nella topologia euclidea. Infatti, dato un 𝜏-aperto 𝐴, esso è del tipo 𝐴 = 𝑈 ⧵ 𝐷, con 𝑈 aperto in 𝜏𝑒 e 𝐷 al più numerabile. Quindi un 𝜏-chiuso 𝐶 che contiene 𝐴 è del tipo 𝐾 ∪ 𝑀, con 𝐾 ⊃ 𝑈 chiuso in 𝜏𝑒 e 𝑀 al più numerabile. Viceversa, ogni 𝜏𝑒 -chiuso 𝐾 ⊃ 𝑈 è anche un 𝜏-chiuso contenente 𝐴. Quindi la chiusura di 𝐴 in 𝜏, che è l’intersezione di tutti i 𝜏-chiusi 𝐶 contenenti 𝐴, coincide con l’intersezione di tutti i 𝜏𝑒 -chiusi 𝐾 contenenti 𝑈 . Pertanto, la 𝜏-chiusura di 𝐴 coincide con la 𝜏𝑒 -chiusura di 𝑈 che, a sua volta, coincide con cl𝜏𝑒 𝐴. Dall’osservazione appena fatta, segue immediatamente che (ℝ, 𝜏) non è regolare. Infatti, fissiamo un punto irrazionale 𝛼 e come suo intorno aperto 𝑉 ∶= ℝ ⧵ ℚ. Se, per assurdo, esistesse un aperto 𝐴 con 𝛼 ∈ 𝐴 ⊆ cl 𝐴 ⊆ 𝑉 , esisterebbe anche un intervallo chiuso non degenere 𝐵 con 𝛼 ∈ 𝐵 ⊆ cl 𝐴 ⊆ 𝑉 , ma questo è palesemente assurdo. Come prossimo passo, mostriamo che i compatti di (ℝ, 𝜏) sono (tutti e) soli gli insiemi finiti. Supponiamo, per assurdo che esista un compatto infinito 𝐾 che è chiuso perché lo spazio è 𝑇2 . In 𝐾 deve valere il Lemma di Cantor 7.10.
13.2. Connessione per archi e per cammini
723
D’altra parte, preso un sottoinsieme numerabile 𝐷 ∶= (𝑑𝑛 )𝑛∈ℕ+ di 𝐾, esso, per definizione, è un 𝜏-chiuso. Posto poi, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , 𝐷𝑛 ∶= 𝐷 ⧵{𝑑1 , … , 𝑑𝑛 }, si ottiene una successione di chiusi decrescente per inclusione la cui intersezione è vuota. Possiamo finalmente mostrare che (ℝ, 𝜏) è connesso per insiemi, ma totalmente sconnesso per cammini. Se, per assurdo, esistessero due aperti 𝐴, 𝐵 che ripartiscono ℝ, questi dovrebbero essere due clopen di 𝜏 e quindi dovrebbe essere 𝐴 = cl𝜏 𝐴 e 𝐵 = cl𝜏 𝐵. D’altra parte, per quanto sopra visto, cl𝜏 𝐴 e cl𝜏 𝐵 dovrebbero essere anche 𝜏𝑒 -chiusi, per cui otterremmo due 𝜏𝑒 -chiusi che ripartiscono ℝ, contro il fatto che (ℝ, 𝜏𝑒 ) è connesso. Sia ora data una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐼 → (ℝ, 𝜏), con 𝐼 ∶= [0, 1]. L’insieme 𝑓 (𝐼) deve essere un compatto, connesso di (ℝ, 𝜏). Essendo compatto, 𝑓 (𝐼) deve essere finito, ma i sottoinsiemi finiti con più di un elemento non possono essere connessi per insiemi, sempre per il fatto che è 𝜏𝑒 ≺ 𝜏. Concludiamo che 𝑓 è costante. Perciò, dati due punti distinti di 𝑋 non esiste un cammino che li unisce: Si ottiene che 𝑋 è totalmente sconnesso per cammini. ◁ Esempio 13.84. Una famiglia di spazi topologici utili nello studio della connessione è quella dei broom spaces (spazi scopa). Sono sottospazi del piano cartesiano dotati della topologia euclidea. Sono formati dall’unione di un’infinità numerabile di segmenti uscenti dall’origine a cui si possono eventualmente aggiungere punti dell’asse delle ascisse. A seconda di come si aggiungono questi punti, si ottengono diverse proprietà legate alla connessione. Si ha così una fonte di numerosi esempi e controesempi. 1. Partiamo dall’insieme 𝐸 ⊂ ℝ2 dato dall’unione dei segmenti che uniscono l’origine con i punti (1, 1/𝑛), con 𝑛 ∈ ℕ+ . Si vede facilmente che 𝐸 è globalmente e localmente connesso per insiemi e per archi.
1
1/2 1/3 1/4
0
1
2. Aggiungiamo ad 𝐸 il segmento [1/2, 1] × {0}.
13.2. Connessione per archi e per cammini
724
1
1/2 1/3 1/4
0
1/2
1
L’insieme 𝐸 ′ così ottenuto è connesso per insiemi, dato che si ha 𝐸 ⊂ 𝐸 ′ ⊂ cl 𝐸. Questo insieme non è connesso per cammini, dato che i punti (0, 0) e (1, 0) non sono uniti da un cammino di 𝐸 ′ . Esso non è localmente connesso né per insiemi né per archi. Basta guardare gli intorni del punto (1, 0). 3. Aggiungiamo ad 𝐸 il segmento [0, 1] × {0}.
1
1/2 1/3 1/4
0
1
L’insieme 𝐸 ″ così ottenuto è connesso per insiemi, dato che si ha 𝐸 ″ = cl 𝐸. Esso è ora connesso anche per archi, ma non è localmente connesso né per insiemi né per archi/cammini. Basta ancora guardare gli intorni del punto (1, 0). ◁
Limitandoci agli spazi 𝑇2 , in cui connessione per cammini e per archi coincidono, possiamo riassumere la situazione con la tabella che segue. L’insieme Cerchio lungo, cui si fa riferimento, è uno spazio ottenuto a partire dalla Linea lunga estesa che esporremo nel Capitolo sugli ordinali. Se rinunciamo alla proprietà 𝑇2 si può fornire un esempio più facile di spazio connesso per cammini e localmente connesso per insiemi che non sia localmente connesso per cammini (cfr. Esempio 13.87).
13.2. Connessione per archi e per cammini Connesso insiemi archi ∗ ∗ ∗ ∗ ∗ ∗ ∗ − ∗ − ∗ − − − − − − −
Loc. connesso insiemi archi ∗ ∗ ∗ − − − ∗ ∗ ∗ − − − ∗ ∗ ∗ − − −
725
Esempio (E), Teorema (T) Intervalli di ℝ, E. 13.84.1 Cerchio lungo E. 13.84.3 Impossibile: T. 13.79 E. 13.77 E. 13.84.2 [0, 1] ∪ [2, 3] ⊂ ℝ Un. disg. di 2 copie dell’E. 13.77 (ℝ, 𝜏 + ) (Ins. totalm. sconnessi)
È importante osservare che la locale connessione (per insiemi o cammini) non è conservata dalle funzioni continue. Siano 𝑋 un insieme con almeno due elementi dotato della topologia discreta e 𝑓 ∶ 𝑋 → ℝ una funzione non costante e tale che l’insieme immagine non sia un intervallo. Chiaramente 𝑋 è localmente connesso per insiemi e cammini, mentre non lo è 𝑓 (𝑋), pur essendo 𝑓 continua. Sussiste tuttavia il seguente risultato:
Teorema 13.85. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico localmente connesso per insiemi [per cammini] e 𝑞 ∶ 𝑋 → 𝑌 una mappa quoziente. Allora anche 𝑓 (𝑋) è localmente connesso peri insiemi [per cammini]. Dimostrazione. Occupiamoci intanto della connessione per insiemi. Fissiamo un aperto non vuoto 𝐴 ⊆ 𝑌 e un suo punto 𝑦; sia inoltre 𝐶 la sua componente connessa in 𝐴. Proviamo che 𝐷 ∶= 𝑞 −1 (𝐶) è unione di componenti connesse nell’aperto 𝑞 −1 (𝐴). A tal fine, fissiamo 𝑧 ∈ 𝐷 e diciamo 𝑆𝑧 la sua componente connessa in 𝑞 −1 (𝐴). Per il Teorema di connessione 13.5, 𝑞(𝑆𝑧 ) è un connesso di 𝐴 contenente 𝑞(𝑧) ∈ 𝐶; per la massimalità di 𝐶, si ha 𝑞(𝑆𝑧 ) ⊆ 𝐶. Dall’arbitrarietà di 𝑧 si ha la tesi. Essendo 𝑋 localmente connesso e 𝑞 −1 (𝐴) aperto, per il Teorema 13.36, si ha che 𝑆𝑧 è un aperto in 𝑋 ed è quindi tale anche 𝐷. Per definizione di mappa quoziente, si ha che 𝐶 è un aperto di 𝑌 e quindi di 𝐴. Per l’arbitrarietà di 𝐴, ancora per il Teorema 13.36 si conclude che anche 𝑌 è localmente connesso. Passiamo alla connessione per cammini. Fissiamo un aperto non vuoto 𝐴 ⊆ 𝑌 e un suo punto 𝑦; sia inoltre 𝐶 la sua componente connessa per cammini in 𝐴. Proviamo che 𝐷 ∶= 𝑞 −1 (𝐶) è unione di componenti connesse nell’aperto 𝑞 −1 (𝐴). A tal fine, fissiamo 𝑧 ∈ 𝐷 e diciamo 𝑃𝑧 la sua componente connessa (per cammini) in 𝑞 −1 (𝐴). Per il Teorema di connessione 13.53, 𝑞(𝑃𝑧 ) è un connesso di 𝐴 contenente 𝑞(𝑧) ∈ 𝐶; per la massimalità di 𝐶, si ha 𝑞(𝑃𝑧 ) ⊆ 𝐶. Dall’arbitrarietà di 𝑧 si ha la tesi. Essendo 𝑋 localmente connesso e 𝑞 −1 (𝐴) un suo sottoinsieme aperto, per il Lemma 13.80, anche 𝑞 −1 (𝐴) è localmente connesso per cammini. Per il Teorema 13.53, si ha che 𝑃𝑧 è un aperto in 𝑋 ed è quindi tale anche 𝐷. Per definizione di mappa quoziente, si ha che 𝐶 è un
13.2. Connessione per archi e per cammini
726
aperto di 𝑌 e quindi di 𝐴. Per l’arbitrarietà di 𝐴, ancora per il Teorema 13.53 si conclude che anche 𝑌 è localmente connesso. Ricordiamo che le applicazioni continue, suriettive che siano aperte o chiuse sono mappe quozienti (cfr. Teorema 6.66). Teorema 13.86. Siano {(𝑋𝛼 , 𝜏𝛼 )}𝛼∈𝐽 una famiglia di spazi topologici non vuoti localmente connessi per insiemi [per cammini] e 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 dotato della topologia prodotto. Allora 𝑋 è localmente connesso per insiemi [per cammini] se e solo se tutti gli 𝑋𝛼 , tranne al più un numero finito, sono connessi per insiemi [per cammini].
Dimostrazione. Occupiamoci della connessione per insiemi; quella per cammini si tratta in modo perfettamente analogo e viene lasciata per esercizio al lettore. Proviamo il “se”. Verifichiamo intanto che il prodotto 𝑋 ∶= ∏𝑛𝑖=1 𝑋𝑖 di un numero finito di spazi localmente connessi è localmente connesso. Fissiamo un punto (𝑧1 , … , 𝑧𝑛 ) ∈ 𝑋 e un suo intorno di base 𝐴 che è del tipo 𝐴 ∶= ∏𝑛𝑖=1 𝐴𝑖 , con 𝐴𝑖 intorno aperto di 𝑧𝑖 , per ogni 𝑖. Per ipotesi ogni 𝐴𝑖 contiene un intorno aperto 𝐵𝑖 di 𝑧𝑖 connesso. L’insieme 𝐵 ∶= ∏𝑛𝑖=1 𝐵𝑖 è un intorno aperto di 𝑧. Per il Teorema 13.32 anche 𝐵(⊆ 𝐴) è connesso. Veniamo al caso generale. Sia 𝐽0 il sottoinsieme finito di 𝐽 formato dagli indici relativi agli 𝑋𝛼 localmente connessi ma non connessi. Dato 𝑧 ∶= (𝑧𝛼 )𝛼∈𝐽 , un suo intorno di base 𝑈 è del tipo 𝑈 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑈𝛼 , con 𝑈𝛼 intorno aperto di 𝑧𝛼 e 𝑈𝛼 ∶= 𝑋𝛼 per 𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽1 , con 𝐽1 (⊆ 𝐽 ) finito. Sia, in fine, 𝐽2 ∶= 𝐽0 ∪ 𝐽1 . Anche 𝐽2 è finito. Per ogni 𝛼 ∈ 𝐽2 , 𝑈𝛼 deve contenere un intorno aperto 𝑉𝛼 di 𝑧𝛼 connesso. L’intorno 𝑈 contiene l’intorno aperto 𝑊 di 𝑧 dato da 𝑊 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑊𝛼 , con 𝑊𝛼 ∶= 𝑉𝛼 per 𝛼 ∈ 𝐽2 e 𝑊𝛼 ∶= 𝑋𝛼 per 𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽2 . Per il teorema sopra ricordato si ottiene che 𝑋 è connesso. Proviamo il “solo se”. Fissiamo 𝑧 ∶= (𝑧𝛼 )𝛼∈𝐽 ∈ 𝑋. Per ipotesi 𝑧 ha una base di intorni connessi. Sia 𝑈 uno di questi. È dunque 𝑈 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑈𝛼 , con 𝑈𝛼 = 𝑋𝛼 per 𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽1 , con 𝐽1 finito. Dunque, per ogni 𝛼 ∈ 𝐽 ⧵ 𝐽1 , si ha 𝑝𝛼 (𝑈 ) = 𝑋𝛼 che quindi risulta connesso ancora per il Teorema 13.32. Esempio 13.87. Partiamo dall’insieme ℝ dotato della topologia 𝜏 in cui sono aperti, oltre al vuoto, tutti e soli i sottoinsiemi co-numerabili di ℝ (cfr. Esempio 1.15). Lo spazio ℝ𝑐 ∶= (ℝ, 𝜏) è uno spazio 𝑇1 , ma non 𝑇2 . Siccome non esistono coppie di aperti non vuoti e disgiunti, si ha subito che ℝ𝑐 è connesso e localmente connesso per insiemi. I compatti di ℝ𝑐 sono tutti e soli gli insiemi finiti (Esercizio!). Sia ora 𝛾 ∶ [0, 1] → ℝ𝑐 una funzione continua. Ne viene che 𝐶 ∶= 𝑓 ([0, 1]) deve essere compatto e connesso. Essendo compatto, 𝐶 è finito; ma allora per essere connesso deve ridursi a un singoletto. Si conclude che 𝛾 è costante e che ℝ𝑐 non è né connesso né localmente connesso per cammini. Sia ora 𝑋 il cono su ℝ𝑐 illustrato nell’Esempio 6.63. Ricordiamo che 𝑋 è il quoziente dello spazio prodotto ℝ𝑐 × [0, 1] rispetto all’equivalenza che identifica fra loro tutti ii punti del tipo (𝑥, 1). Per i punti (𝑥, 𝑦) con 𝑦 < 1, le classi
13.2. Connessione per archi e per cammini
727
di equivalenza si riducono al punto stesso e le indicheremo ancora con (𝑥, 𝑦); indicheremo con Ω la classe di equivalenza dei punti (𝑥, 1). 𝑋 è ovviamente connesso per insiemi. Esso è anche localmente connesso per insiemi per i due teoremi precedenti. Proviamo che 𝑋 è connesso per cammini. Basterà mostrare che ogni punto (𝑥0 , 𝑦0 ), con 𝑦0 < 1, è connesso a Ω mediante un cammino. Ma ciò è immediato: sia 𝑓 ∶ [0, 1] → ℝ𝑐 ×[0, 1] definita da 𝑓 (𝑡) ∶= (𝑥0 , 𝑦0 +(1−𝑦0 )𝑡); sia, in fine 𝛾 ∶= 𝑞 ∘ 𝑓 , dove 𝑞 è la mappa quoziente. Rimane da verificare che 𝑋 non è localmente connesso per cammini. Fissiamo un punto (𝑥0 , 𝑦0 ) ∈ 𝑋 ⧵ {Ω} e un suo intorno aperto 𝑈 , con Ω ∉ 𝑈 . In 𝑈 ci devono essere punti (𝑥1 , 𝑦1 ), con 𝑥1 ≠ 𝑥0 e 𝑦1 < 1. Una qualunque funzione continua 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑈 deve avere la prima componente costante e quindi non può congiungere i due punti. ◁
14
Il Teorema della curva di Jordan e questioni collegate 14.1 Insiemi semplicemente connessi Nel capitolo precedente, usando il Teorema di omeomorfismo, si è visto che, in uno spazio 𝑇2 , il sostegno di una curva parametrica continua (cammino) è omeomorfo a un intervallo compatto e non degenere di ℝ, quando l’applicazione è iniettiva. Questo è il caso di un arco (cfr. Definizioni 13.11 e 13.44). Mostriamo intanto con un esempio che, se lo spazio non è di Hausdorff, la cosa non è più vera.
Esempio 14.1. Nell’intervallo 𝑋 ∶= [−1, 1], introduciamo la topologia 𝜏 ∗ dell’estensione aperta (cfr. Osservazione 1.85) di (𝑋 ⧵ {0}, 𝜏𝑒 ), con 0 punto speciale. Quindi gli intorni dei punti diversi da 0 sono quelli della topologia ordinaria, mentre l’unico intorno di 0 è lo stesso 𝑋. La topologia 𝜏 ∗ non è 𝑇2 ed è strettamente meno fine di 𝜏𝑒 , quindi l’applicazione identica da (𝑋, 𝜏𝑒 ) in (𝑋, 𝜏 ∗ ) è continua e biiettiva, ma con inversa non continua. ◁ Trattiamo ora il caso degli archi chiusi (cfr. Definizione 13.45). Il modello più semplice di arco chiuso è dato dalla circonferenza unitaria 𝑆 1 ⊂ ℝ2 . Basta infatti considerare la funzione continua 𝛾 ∶ [0, 2𝜋] → ℝ2 definita da 𝛾(𝑡) ∶= (cos 𝑡, sin 𝑡). Dimostriamo che, negli spazi 𝑇2 , 𝑆 1 è modello universale per gli archi chiusi. Teorema 14.2. Sia (𝑋, 𝜏) uno spazio 𝑇2 . Per ogni arco chiuso 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑋, il suo sostegno Γ ∶= 𝛾(𝐼) è omeomorfo a 𝑆 1 .
Dimostrazione. Dato 𝐼 ∶= [0, 1], consideriamo lo spazio quoziente 𝐼/{0, 1} con la topologia quoziente (cfr. pag. 303). (Abbiamo cioè identificato i punti 0 e 1.) Indichiamo poi con 𝑞 ∶ 𝐼 → 𝐼/{0, 1} l’applicazione quoziente associata. Fissata un’applicazione continua 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑋, con 𝑝 ∶= 𝛾(0) = 𝛾(1), risulta ben definita una funzione 𝑓 ∶ 𝐼/{0, 1} → 𝑋 ponendo 𝑓 (𝑡) ∶= 𝛾(𝑡), ∀𝑡 ∈ ]0, 1[ e 𝑓 (𝑒) ∶= 𝑝, dove 𝑒 rappresenta la classe di equivalenza {0, 1}. Resta così 728
14.1. Insiemi semplicemente connessi
729
individuata l’applicazione 𝑓 ̃ ∶ 𝐼 → 𝑋 definita da 𝑓 ̃ ∶= 𝑓 ∘ 𝑞. È immediato verificare che 𝑓 ̃ coincide con 𝛾. Per il Corollario 6.54, si ha che 𝑓 è continua dato che è tale 𝛾. Se inoltre 𝛾 è un arco chiuso, le sue restrizioni a [0, 1[ e ]0, 1] sono iniettive. Da ciò si ricava che anche 𝑓 è iniettiva. Si conclude che, se 𝛾 è un arco chiuso, il suo sostegno Γ è immagine iniettiva e continua dello spazio quoziente 𝐼/{0, 1}. Poiché 𝑋 è 𝑇2 , per il Teorema di omeomorfismo 7.36, Γ e 𝐼/{0, 1} sono fra loro omeomorfi. D’altra parte, nell’Esempio 6.55 si è dimostrato che 𝐼/{0, 1} è omeomorfo a 𝑆 1 . Procedendo analogamente a quanto fatto nell’Esempio 14.1 e lavorando su 𝑆 1 invece che su [−1, 1], si dà facilmente un esempio che mostra come il teorema precedente non è più vero se lo spazio 𝑋 non è 𝑇2 . Intuitivamente, il concetto di arco chiuso può apparire piuttosto semplice, dato che si tratta in sostanza di una “deformazione continua” di una circonferenza. In realtà, dimostrare dei teoremi anche solo nel piano o nello spazio euclidei può risultare parecchio complesso. Un esempio su tutti è dato dal famoso Teorema della curva di Jordan. Per curva di Jordan o curva piana chiusa e semplice s’intende il sostegno di un arco chiuso nel piano euclideo o, equivalentemente, un sottoinsieme di ℝ2 omeomorfo a 𝑆 1 . L’enunciato è il seguente: Teorema 14.3 (Di Jordan). Data una curva di Jordan 𝐽 ⊂ ℝ2 , l’insieme ℝ2 ⧵ 𝐽 è costituito esattamente da due insiemi aperti e connessi, uno dei quali limitato e l’altro illimitato, di cui 𝐽 è la frontiera comune.
Nel contesto del teorema precedente, detti 𝐴𝑖 e 𝐴𝑒 la componente connessa limitata e, rispettivamente, quella illimitata di ℝ2 ⧵ 𝐽 , la prima si chiama parte interna rispetto a 𝐽 , mentre la seconda si chiama parte esterna rispetto a 𝐽 . Notiamo che entrambe le componenti sono anche connesse per archi, dato che lo spazio normato ℝ2 è localmente connesso per archi (cfr. Teoremi 13.68 e 13.81). Dal Teorema di Jordan si ottiene subito il Corollario 14.4. Data una curva di Jordan 𝐽 e due punti, uno nella parte interna e uno nella parte esterna, ogni arco/cammino che li unisce incontra 𝐽 . Dimostrazione. Siano dati: un punto 𝑎 ∈ 𝐴𝑖 , un punto 𝑏 ∈ 𝐴𝑒 e un cammino Γ che li unisce. Supponiamo, per assurdo, che sia Γ ∩ 𝐽 = ∅, da cui Γ ⊂ 𝐴𝑖 ∪ 𝐴𝑒 . Siccome ogni 𝑥 ∈ 𝐴𝑖 è unito ad 𝑎 da un arco di 𝐴𝑖 e ogni 𝑦 ∈ 𝐴𝑒 è unito a 𝑏 da un arco di 𝐴𝑒 , si ottiene che tutti i punti di 𝐴𝑖 ∪ 𝐴𝑒 sono contenuti in un connesso. Per la Proposizione 13.4.9, si conclude che questo insieme è connesso. Ma ciò è assurdo.
Questo risultato rientra anche in un Principio Generale, noto come Passaggio della dogana. Questo afferma che: Dati due punti distinti 𝑃 , 𝑄 e un cammino continuo Γ che li congiunge, se 𝑃 ∈ 𝐸 e 𝑄 ∉ 𝐸 , allora Γ incontra
14.1. Insiemi semplicemente connessi
730
la frontiera di 𝐸 . Lasciamo al Lettore la cura di darne una dimostrazione elementare. Naturalmente, da questo fatto non segue il Teorema di Jordan che afferma molto di più. La dimostrazione del Teorema 14.3, piuttosto complessa, verrà presentata più avanti (Teorema 14.39). Un teorema collegato al precedente è dato dal fatto che, se in ℝ2 togliamo un arco (non chiuso), l’insieme ottenuto è ancora connesso per archi. In generale, dato un compatto 𝐾 ⊂ ℝ2 , non è banale stabilire se ℝ2 ⧵ 𝐾 è connesso. Un caso semplice, ma comunque interessante, è dato dal seguente Esempio 14.5. In ℝ2 , siano 𝐾 un insieme al più numerabile e 𝐴 il suo complementare. Mostriamo che 𝐴 è connesso per archi. Fissiamo due punti distinti 𝑧, 𝑤 ∈ 𝐴 e mostriamo che essi sono uniti da una poligonale di 𝐴. Se la retta per 𝑧 e 𝑤 non incontra 𝐾, basta prendere il segmento [𝑧, 𝑤]. In generale, la famiglia delle rette che congiungono 𝑧 con i punti di 𝐾 è al più numerabile. Siccome il fascio di rette con centro 𝑧 ha la potenza del continuo, deve esistere almeno una sua retta 𝑟 che non incontra 𝐾. Per un’analoga ragione, nel fascio di rette con centro 𝑤 ce ne devono essere almeno due che non incontrano 𝐾; almeno una di queste due non è parallela a 𝑟; sia essa 𝑠. Diciamo 𝑦 il punto di incontro tra 𝑟 e 𝑠. La poligonale formata dai segmenti [𝑧, 𝑦] e [𝑦, 𝑤] è quella cercata. Naturalmente, se 𝐾 è di tipo particolare, si può risolvere il problema in modo più diretto. Sia, per esempio, 𝐾 ∶= ℚ2 . Fissiamo in 𝐴 due punti 𝑧′ ∶= (𝑥′ , 𝑦′ ) e 𝑧″ ∶= (𝑥″ , 𝑦″ ). Almeno una delle coordinate dei due punti deve essere irrazionale. Distinguiamo vari casi. Siano 𝑥′ , 𝑥″ ∉ ℚ. Se è 𝑥′ = 𝑥″ , basta prendere il segmento [𝑧′ , 𝑧″ ]. In caso contrario, si considerano i punti 𝑤′ ∶= (𝑥′ , 𝜋) e 𝑤″ ∶= (𝑥″ , 𝜋). Una poligonale che fa al caso è quella che unisce nell’ordine i punti 𝑧′ , 𝑤′ , 𝑤″ , 𝑧″ . Nel caso che sia 𝑦′ , 𝑦″ ∉ ℚ, si procede in modo simmetrico. Siano 𝑥′ , 𝑦″ ∉ ℚ. Poniamo 𝑤 ∶= (𝑥′ , 𝑦″ ) ∉ ℚ2 . Una poligonale che fa al caso è quella che unisce nell’ordine i punti 𝑧′ , 𝑤, 𝑧″ . Nel caso che sia 𝑥″ , 𝑦′ ∉ ℚ, si procede in modo simmetrico. Naturalmente, se 𝐾 non è numerabile, nulla si può dire in generale. Basta prendere come 𝐾 un segmento o una retta: nel primo caso 𝐴 è connesso, nel secondo non lo è. Con analogo ragionamento, si constata che questo risultato sussiste anche in ℝ𝑛 per 𝑛 > 2: basterà restringersi ad un opportuno piano che passa per i due punti e non incontra 𝐾. (Esercizio!) ◁ Dato il suo carattere intuitivo, il risultato espresso dal Teorema di Jordan è sicuramente noto fino dall’antichità. Tuttavia un enunciato formale con dimostrazione è stato ottenuto solo nell’800. Il primo tentativo è dovuto a Bernard Bolzano; egli ha osservato che il teorema non era evidente e che era quindi necessaria una “vera” dimostrazione. Questa fu fornita dal matematico francese Camille Jordan nel suo Corso di Analisi pubblicato nel 1887. La dimostrazione di Jordan presenta dei passaggi dubbi dal punto di vista della matematica
14.1. Insiemi semplicemente connessi
731
moderna, per cui molti considerano che la prima dimostrazione rigorosa del nostro teorema sia stata fornita dal matematico statunitense Oswald Veblen nel 1905. Successivi Autori hanno continuato a discutere sulla priorità della dimostrazione corretta, per cui ancora oggi si possono trovare articoli con posizioni diverse a tale riguardo. Durante il ventesimo secolo e fino ai giorni nostri, sono apparse diverse dimostrazioni “elementari”; tutte comunque richiedono la dimostrazione di alcuni risultati preliminari non banali. Noi qui presentiamo un approccio misto che segue in parte il libro di Newman [64] e successivamente [27] e [72], che utilizzano un risultato noto come Lemma di Alexander, contenuto in un Articolo di J. W. Alexander del 1922, e, nella parte conclusiva, il lavoro di Maehara [46]. Teorema 14.6 (Lemma di Alexander). Siano: 𝑄 ∶= [0, 1]2 , 𝑃1 ∶= (0, 1/2), 𝑃2 ∶= (1, 1/2) e indichiamo con 𝑆 + il semiperimetro chiuso superiore da 𝑃1 a 𝑃2 e con 𝑆 − quello chiuso inferiore. Dati due sottoinsiemi non vuoti, chiusi e disgiunti di 𝑄, 𝐶1 e 𝐶2 , tali che 𝐶1 ∩ 𝑆 + = ∅,
𝐶2 ∩ 𝑆 − = ∅,
allora esiste in 𝑄 un cammino che unisce 𝑃1 e 𝑃2 e non interseca l’unione dei due chiusi.
Dimostrazione. Chiaramente, 𝑆 + e 𝑆 − sono due poligonali di 𝑄 che uniscono 𝑃1 e 𝑃2 e che non incontrano, rispettivamente, 𝐶1 e 𝐶2 . Poniamo poi 𝐾 ∶= 𝐶1 ∪𝑆 − . I sottoinsiemi 𝐾 e 𝐶2 sono due compatti disgiunti e hanno quindi distanza 𝛿 > 0 (cfr. Teorema 7.85). Mediante segmenti paralleli agli assi, suddividiamo 𝑄 in 𝑛2 quadratini di lato 1/𝑛, con (1/𝑛)√2 < 𝛿. Quindi nessuno di questi quadratini può incontrare sia 𝐾 che 𝐶2 . C2
P1
P2
P1
P2
C1 Indichiamo con 𝒦 l’insieme dei quadratini che intersecano 𝐾 (e quindi non 𝐶2 ) e con ℬ l’insieme dei lati (segmenti chiusi) di questi quadratini che appartengono a un solo elemento di 𝒦 .
14.1. Insiemi semplicemente connessi
P1
732
P2
Gli elementi di ℬ hanno la seguente proprietà: Solo un numero pari di essi (2 o 4) possono avere un estremo in comune. Vediamo di verificarlo. Fissiamo un 𝐵 ∈ ℬ e un suo vertice 𝑉 e diciamo 𝑝(𝑉 ) il numero dei lati di ℬ concorrenti in 𝑉 . Verifichiamo che 𝑝(𝑉 ) non può essere dispari, ossia 1 o 3. Supponiamo che sia 𝑝(𝑉 ) = 1. Sia 𝑞 il quadrato di cui 𝐵 e 𝑉 (∈ 𝐵) sono rispettivamente un lato e un vertice. Per fissare le idee, supponiamo che 𝐵 sia il lato superiore di 𝑞 e 𝑉 il vertice destro di 𝐵. (Gli altri casi si affrontano in modo analogo.) Il quadrato 𝑞0 superiore a 𝑞 non può appartenere a 𝒦 , dato che 𝐵 ∈ ℬ. Il lato verticale destro di 𝑞 non appartiene a ℬ; ne deriva che il quadrato 𝑞 ′ posto a destra di 𝑞 deve appartenere a 𝒦 . Il lato superiore di 𝑞 ′ , poiché è adiacente a 𝐵, non può appartenere a ℬ. Per lo stesso ragionamento di prima, il quadrato 𝑞 ″ posto sopra 𝑞 ′ deve ancora appartenere a 𝒦 . Ne viene che il lato verticale sinistro di 𝑞 ″ deve appartenere a ℬ, dato che 𝑞0 ∉ 𝒦 . Ne consegue che è 𝑝(𝑉 ) = 2: assurdo. Se è 𝑝(𝑉 ) = 3, due dei lati di ℬ che confluiscono in 𝑉 sono fra loro adiacenti (per esempio, i due orizzontali), mentre il terzo è ad essi ortogonale (per esempio, verticale verso il basso). Uno e uno solo dei due quadratini inferiori deve appartenere a 𝒦 ; diciamolo 𝑞; i due quadratini di vertice 𝑉 adiacenti a 𝑞 non possono appartenere a 𝒦 . Si ottiene che appartiene a 𝒦 il quadratino 𝑞 ′ opposto al vertice di 𝑞, da cui 𝑝(𝑉 ) = 4: assurdo. Chiamiamo ora ℬ ′ il sottoinsieme di ℬ ottenuto escludendo i lati di 𝑆 − . Da 𝑃1 e 𝑃2 uscivano due lati di ℬ; ora da ciascuno dei due punti esce un solo elemento di ℬ ′ . Per tutti gli altri vertici di ℬ ′ , nulla è cambiato. Vogliamo costruire una poligonale che unisce 𝑃1 a 𝑃2 utilizzando soltanto elementi di ℬ ′ e una volta sola. Partiamo da 𝑃1 nell’unico modo possibile. Ogni volta che arriviamo a un vertice 𝑉 con 𝑝(𝑉 ) = 2, procediamo utilizzando l’altro lato che esce da 𝑉 . Se arriviamo a un vertice 𝑉 con 𝑝(𝑉 ) = 4, scegliamo a caso uno degli altri tre lati possibili. Potrà capitare che un vertice di “peso” 4 venga raggiunto due volte. In tal caso, la seconda volta si esce da 𝑉 con l’unico lato ancora non utilizzato. Siccome il numero dei lati a disposizione è finito, il procedimento deve aver termine. L’ultimo lato non può che arrivare in 𝑃2 , dato che, tutti gli altri punti hanno “peso” pari. Resta così effettivamente definita una poligonale Γ che unisce 𝑃1 e 𝑃2 . Verifichiamo che Γ è disgiunto da 𝐶1 ∪ 𝐶2 . La famiglia 𝒦 è un ricoprimento di 𝐾 e quindi di 𝐶1 . Indichiamo con 𝐾 ∗ l’unione di tutti gli elementi di 𝒦 . Chiaramente, si ha Γ ⊆ 𝐾 ∗ , da cui Γ ∩ 𝐶2 = ∅. In fine supponiamo, per assurdo, che un lato 𝐵 di Γ incontri 𝐶1 . Per costruzione, non può essere 𝐵 ⊂ 𝑆 − . Non può
14.1. Insiemi semplicemente connessi
733
essere nemmeno 𝐵 ⊂ 𝑆 + , dato che per ipotesi è 𝐶1 ∩ 𝑆 + = ∅. Quindi 𝐵 può avere al più un solo vertice sul bordo di 𝑄. Poiché si è supposto che 𝐵 incontri 𝐶1 , si ottiene che ci sono due quadrati di 𝒦 , con 𝐵 in comune, che incontrano 𝐶1 , contro il fatto che è 𝐵 ∈ ℬ. Da questo risultato si ottiene un risultato di carattere più generale:
Teorema 14.7 (di addizione di Alexander). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝐷1 , 𝐷2 due suoi chiusi non vuoti. Siano poi 𝑄, 𝑆 + , 𝑆 − , 𝑃1 , 𝑃2 come nel teorema precedente. Sia, in fine, 𝐹 ∶ 𝑄 → 𝑋 ⧵(𝐷1 ∩𝐷2 ) continua e tale che 𝐹 (𝑆 + )∩𝐷1 = ∅ e 𝐹 (𝑆 − ) ∩ 𝐷2 = ∅. Allora esiste un cammino Γ ⊂ 𝑄 congiungente 𝑃1 e 𝑃2 tale che 𝐹 (Γ) ∩ (𝐷1 ∪ 𝐷2 ) = ∅.
Dimostrazione. Siano 𝐶1 ∶= 𝐹 −1 (𝐷1 ) e 𝐶2 ∶= 𝐹 −1 (𝐷2 ). Questi sono due chiusi disgiunti di 𝑄 con 𝐶1 ∩ 𝑆 + = ∅ e 𝐶2 ∩ 𝑆 − = ∅. Se uno dei due è vuoto, la tesi è ovvia. In caso contrario, essi soddisfano alle ipotesi del teorema precedente. Esiste pertanto un cammino Γ ⊂ 𝑄 da 𝑃1 a 𝑃2 che non incontra 𝐶1 ∪ 𝐶2 , da cui 𝐹 (Γ) ∩ (𝐷1 ∪ 𝐷2 ) = ∅. Si può dare una formulazione più generale del teorema appena visto utilizzando il concetto di spazio semplicemente connesso (cfr. Teorema 14.25). Questo concetto verrà trattato più dettagliatamente nel Capitolo sulle omotopie. Per introdurre il concetto di connessione semplice, riesaminiamo l’enunciato del teorema precedente. I cammini di 𝑋 definiti da 𝐹 (𝑆 + ) e 𝐹 (𝑆 − ) richiedono, in sostanza, di avere una funzione continua definita soltanto sulla frontiera del quadrato 𝑄; mentre il cammino risultante 𝐹 (Γ) esiste grazie al fatto che 𝐹 sia definita su tutto 𝑄. Si otterrebbe un enunciato più utile alle applicazioni se potessimo garantire sempre questa proprietà di estensione. Questo porta alla seguente definizione. Definizione 14.8. Sia (𝑌 , 𝜎) uno spazio topologico connesso per cammini. Diremo che 𝑌 è semplicemente connesso o 1-connesso se ogni applicazione continua 𝑓 ∶ 𝜕𝑄 → 𝑌 è prolungabile per continuità a tutto 𝑄. Un sottoinsieme di uno spazio topologico è detto semplicemente connesso se è tale come spazio a sé stante con la topologia indotta. ◁
Intuitivamente, ma per ora solo nel piano, si può immaginare uno spazio semplicemente connesso come uno spazio non solo connesso (per cammini), ma anche privo di “buchi”. Si tratta di controllare che questa intuizione è coerente con la nostra definizione. Sui vari testi si trovano diverse altre definizioni di spazio semplicemente connesso equivalenti a questa. Come già detto, ritorneremo più avanti su questo argomento. L’ipotesi che 𝑌 sia connesso per cammini, è inessenziale per la definizione, ma è utile per evitare esempi banali o poco interessanti. Per prima cosa, presentiamo esempi di spazi che sono o non sono semplicemente connessi. Per poter disporre di diversi esempi, sarà utile introdurre anche il concetto di retrazione.
14.1. Insiemi semplicemente connessi
734
Definizione 14.9. Siano (𝑌 , 𝜎) uno spazio topologico e 𝑍 un suo sottospazio non vuoto. Si dice che 𝑍 è un retratto di 𝑌 se esiste un’applicazione continua 𝑟 ∶ 𝑌 → 𝑍 tale che la sua restrizione a 𝑍 coincide con l’identità su 𝑍. L’applicazione 𝑟 è detta retrazione di 𝑌 su 𝑍. ◁
Un modo equivalente per definire il concetto di retratto è quello di dire che l’identità di 𝑍 in sé ammette un prolungamento continuo a tutto 𝑌 . Teorema 14.10. Se uno spazio topologico (𝑌 , 𝜎) è semplicemente connesso, sono tali ogni spazio ad esso omeomorfo e ogni suo retratto. Dimostrazione. Il caso degli spazi omeomorfi è del tutto standard e viene lasciato per esercizio. Occupiamoci dei retratti. Sia quindi 𝑍 ⊆ 𝑌 un retratto e 𝑟 ∶ 𝑌 → 𝑍 la relativa retrazione. Per prima cosa, osserviamo che, per il Teorema di connessione 13.53, 𝑍 è connesso per cammini. Sia poi 𝑓 ∶ 𝜕𝑄 → 𝑍 una funzione continua. Possiamo pensare 𝑓 come funzione da 𝜕𝑄 in 𝑌 . Per ipotesi, esiste 𝐹 ∶ 𝑄 → 𝑌 che prolunga per continuità 𝑓 . La funzione 𝑟 ∘ 𝐹 ∶ 𝑄 → 𝑍 è il prolungamento cercato di 𝑓 .
Lemma 14.11. In uno spazio vettoriale 𝑋 siano definite le due norme ‖⋅‖′ e ‖⋅‖″ fra loro equivalenti. Siano poi 𝐵 ′ = 𝐵 ′ [0, 1], e 𝐵 ″ = 𝐵 ″ [0, 1] le corrispondenti palle unitarie chiuse dell’origine. Esiste allora un omeomorfismo 𝜑 ∶ (𝑋, ‖⋅‖′ ) → (𝑋, ‖⋅‖″ ) che ne subordina uno tra 𝐵 ′ e 𝐵 ″ e che porta la frontiera di 𝐵 ′ su quella di 𝐵 ″ . Dimostrazione. Consideriamo la mappa canonica 𝜑 ∶ (𝑋, ‖⋅‖′ ) → (𝑋, ‖⋅‖″ ) definita da (‖x‖′ /‖x‖″ )x, per x ≠ 0, 𝜑(x) ∶= (14.1) per x = 0 {0,
e mostriamo che essa è un omeomorfismo. Per ogni x ≠ 0, 𝝃(x) ∶= x/‖x‖″ è il versore della semiretta di origine 0 contenente x nello spazio di arrivo. La funzione 𝜑 muta x in un punto 𝜑(x) che appartiene ancora alla semiretta di origine 0 e versore 𝝃(x), la cui norma nello spazio di arrivo ha lo stesso valore di quella che aveva x nello spazio di partenza. Dunque 𝜑 è iniettiva. Essa è poi banalmente suriettiva. Inoltre, 𝜑 porta punti di 𝐵 ′ in punti di 𝐵 ″ e punti di 𝜕𝐵 ′ in punti di 𝜕𝐵 ″ . Proviamo che 𝜑 è continua. Siccome le due norme sono equivalenti, hanno le stesse successioni convergenti. Sia dunque (x𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋 convergente a un punto z nella topologia di partenza. Ne viene che x𝑛 → z anche nello spazio di arrivo, Inoltre, per la continuità delle due norme, si ha anche ‖x𝑛 ‖′ → ‖z‖′ e ‖x𝑛 ‖″ → ‖z‖″ . Si conclude che la successione (𝜑(x𝑛 ))𝑛 converge a 𝜑(z). La continuità di 𝜑−1 si prova in modo perfettamente analogo.
14.1. Insiemi semplicemente connessi
735
Lemma 14.12. In ℝ𝑛 tutte le palle chiuse e i rettangoli chiusi (non degeneri) sono fra loro omeomorfi con omeomorfismi che mutano la frontiera nella frontiera. Dimostrazione. Che le palle chiuse di raggi e centri anche diversi siano fra loro omeomorfe è di facile verifica. Analogamente, usando il fatto che due intervalli compatti e non degeneri della retta reale sono fra loro omeomorfi, e ragionando componente per componente, si verifica che due qualunque rettangoli chiusi sono fra loro omeomorfi. Si vede poi che, in ciascuno dei due casi, le frontiere sono mutate nelle frontiere. A questo punto, basta verificare che la palla chiusa unitaria 𝐵 è omeomorfa al cubo 𝐼 𝑛 ∶= [−1, 1]𝑛 . Poiché 𝐵 è la palla unitaria per la norma euclidea e 𝐼 𝑛 è la palla unitaria rispetto alla norma lagrangiana e le due norme sono equivalenti, la tesi segue immediatamente dal lemma precedente. Applicando questo fatto al caso del piano, si ottiene che nella definizione di spazio semplicemente connesso, si può sostituire a 𝑄 e 𝜕𝑄 il disco chiuso unitario 𝐵 e, rispettivamente, la sua frontiera 𝑆 1 . Si ottiene quindi il Lemma 14.13. Uno spazio topologico connesso per cammini (𝑌 , 𝜎) è semplicemente connesso se e solo se ogni applicazione continua 𝑓 ∶ 𝑆 1 → 𝑌 ammette un prolungamento continuo definito su tutto 𝐵.
Lemma 14.14. 1. Fissiamo due punti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝑆 1 e il segmento (corda) [𝑝, 𝑞] che li unisce. Sia 𝐶 uno dei due archi di 𝑆 1 con estremi 𝑝, 𝑞. La corda e l’arco individuano un segmento circolare 𝑇 . Esso è omeomorfo al disco unitario 𝐵. 2. Assegnamo un insieme finito di punti 𝑝0 , 𝑝1 , … , 𝑝𝑛 ≡ 𝑝0 ∈ 𝑆 1 ordinati in uno dei due sensi (per esempio, quello antiorario). Indichiamo con 𝒫 la superficie limitata che ha per frontiera la poligonale “mista” che si ottiene congiungendo due punti consecutivi 𝑝𝑖 , 𝑝𝑖+1 o con l’arco (𝑝𝑖 , 𝑝𝑖+1 ) di 𝑆 1 o con la corda [𝑝𝑖 , 𝑝𝑖+1 ]. Esso è omeomorfo al disco unitario 𝐵.
Dimostrazione. 1. Siccome isometrie e similitudini sono chiaramente omeomorfismi, non è restrittivo supporre che la corda [𝑝, 𝑞] sia l’intersezione con 𝐵 della retta verticale di equazione 𝑥 = 𝑘, con 0 ≤ 𝑘 < 1. Esaminiamo intanto il caso in cui 𝑇 è alla destra di [𝑝, 𝑞]; quindi il segmento circolare è più piccolo di un mezzo disco, o al massimo uguale ad esso. Vogliamo mostrare che 𝑇 è omeomorfo all’insieme 𝑇 ′ che si ottiene raddoppiandolo per simmetria rispetto alla retta 𝑝𝑞. La retta di equazione 𝑥 = 𝑘 incontra 𝑆 1 nei punti (𝑘, ±√1 − 𝑘2 ). Le coordinate (𝑥, 𝑦) dei punti di 𝑇 sono soggette alle limitazioni |𝑦| ≤ √1 − 𝑘2 e 𝑘 ≤ 𝑥 ≤ √1 − 𝑦2 . Un omeomorfismo che fa al caso è espresso dalla trasformazione (𝑥, 𝑦) ↦ (𝑓 (𝑥, 𝑦), 𝑦), con 𝑓 (𝑥, 𝑦) ∶= √1 − 𝑦2 + 2(𝑥 − √1 − 𝑦2 ) = 2𝑥 − √1 − 𝑦2 .
(14.2)
14.1. Insiemi semplicemente connessi
736
Ora 𝑇 ′ è un compatto, convesso e simmetrico rispetto al punto (𝑘, 0). Con una semplice traslazione si ottiene un insieme 𝑇 ″ , omeomorfo a 𝑇 ′ , compatto, convesso e simmetrico rispetto all’origine. Si vede subito che 𝑇 ″ è anche regolarmente chiuso (Esercizio!). Per il Corollario 5.14, si ottiene che 𝑇 ″ è la palla chiusa unitaria rispetto a un’opportuna norma di ℝ2 . Siccome in ℝ2 tutte le norme sono equivalenti, si conclude per il Lemma 14.11 che 𝑇 ″ è effettivamente omeomorfo a 𝐵. Notiamo che, nel caso 𝐾 = 0, la (14.2) mostra immediatamente che in ℝ2 un disco chiuso è omeomorfo a una sua metà. Veniamo al caso in cui 𝑇 è alla sinistra di [𝑝, 𝑞]. Per quanto appena visto, possiamo limitarci al caso 𝑘 > 0. Mostriamo, per prima cosa, che il triangolo 𝐷 di vertici (0, 0), (𝑘, √1 − 𝑘2 ), (𝑘, −√1 − 𝑘2 ) è omeomorfo al settore circolare 𝐻 individuato dagli stessi punti e che lo contiene. Con la similitudine x ↦ x/𝑘 si porta omeomorficamente 𝐷 nel triangolo 𝐷′ i cui vertici sono (0, 0), (1, √1 − 𝑘2 /𝑘), (1, −√1 − 𝑘2 /𝑘). Basta poi applicare la mappa canonica (14.1). In conclusione, un omeomorfismo che fa al nostro caso è dato dalla funzione 𝑓 ∶ 𝐷 → 𝐻 definito da 𝑓 (x) ∶= 𝜑(x/𝑘) =
(‖x/𝑘‖∞ /‖x/𝑘‖2 ))(x/𝑘), per x ≠ 0, per x = 0. {0,
A questo punto, per mostrare che 𝑇 è omeomorfo a 𝐵 basta prendere la funzione 𝐹 ∶ 𝑇 → 𝐵 che coincide con 𝑓 su 𝐷 ed è l’identità su 𝑇 ⧵ 𝐷. 2. Unendo l’origine con ciascuno dei punti 𝑝𝑖 si suddivide 𝒫 in 𝑛 parti. Di queste, ℎ (con 0 ≤ ℎ ≤ 𝑛) sono triangoli 𝑇1 , … , 𝑇ℎ , mentre gli altri 𝑛 − 𝑘 sono settori circolari. Se è ℎ = 0, non c’è niente da dimostrare. sia dunque ℎ > 0. Sappiamo che, per ogni 𝑖 ∈ {1, … , ℎ}, esiste un omeomorfismo 𝑓𝑖 da 𝑇1 sul settore circolare 𝑆𝑖 da esso individuato. Sia ora 𝐹 ∶ 𝒫 → 𝐵 la funzione che coincide con 𝑓𝑖 su 𝑇𝑖 ed è l’identità su 𝒫 ⧵ (𝑇1 ∪ ⋯ ∪ 𝑇ℎ ). Si vede facilmente che 𝐹 è un omeomorfismo. Teorema 14.15. 𝑆 1 non è un retratto della palla unitaria (disco chiuso unitario).
Dimostrazione. Per il Lemma 14.12, basta dimostrare una tesi analoga per il quadrato unitario 𝑄. Siano 𝑃1 , 𝑃2 , 𝑆 + , 𝑆 − come nel Lemma di Alexander 14.6. Siano poi 𝐷1 il lato inferiore di 𝑄 e 𝐷2 il suo lato superiore. Supponiamo, per assurdo, che esista una retrazione 𝑟 ∶ 𝑄 → 𝜕𝑄 = 𝑆 + ∪ 𝑆 − . Siano ora 𝐶1 e 𝐶2 le controimmagini di 𝐷1 e 𝐷2 tramite 𝑟. Poiché 𝑟 subordina su 𝜕𝑄 l’identità, si ha 𝐷1 ⊆ 𝐶1 , 𝐶1 ∩ 𝑆 + = ∅ e simmetricamente 𝐷2 ⊆ 𝐶2 , 𝐶2 ∩ 𝑆 − = ∅. Inoltre, 𝐶1 , 𝐶2 sono chiusi disgiunti. Per il Lemma di Alexander, esiste un cammino 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑄, con 𝛾(0) = 𝑃1 , 𝛾(1) = 𝑃2 e 𝛾(𝑡) ∉ 𝐶1 ∪ 𝐶2 , ∀𝑡 ∈ [0, 1]. Consideriamo l’applicazione composta 𝑓 ∶= 𝑟 ∘ 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝜕𝑄. Per quanto precede, deve essere 𝑓 (0) = 𝑃1 , 𝑓 (1) = 𝑃2 e, per ogni 𝑡 ∈ [0, 1], 𝑓 (𝑡) = (𝑥, 𝑦),
14.1. Insiemi semplicemente connessi
737
con 𝑥 ∈ {0, 1} e 𝑦 ∈ ]0, 1[. Ne viene che 𝑓 ([0, 1]) non è connesso, pur essendo 𝑓 continua.
Corollario 14.16. 𝑆 1 (e quindi ogni insieme ad essa omeomorfo) non è semplicemente connessa.
Dimostrazione. Assunto come spazio topologico 𝑌 l’insieme 𝑆 1 con la topologia euclidea, consideriamo l’applicazione identica 𝑖 ∶ 𝑆 1 → 𝑆 1 . Se 𝑆 1 fosse semplicemente connessa, esisterebbe un prolungamento continuo 𝐹 di 𝑓 ∶= 𝑖 a tutto 𝐵. Ma allora 𝐹 sarebbe una retrazione di 𝐵 su 𝑆 1 , contro il risultato precedente. Osservazione 14.17. Il Teorema 14.15 dice che non ci sono applicazioni continue (e suriettive) di 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1] sulla sua frontiera 𝑆 1 che subordinino su di essa l’identità. Ci si può chiedere se esistono applicazioni continue di 𝐵 in 𝑆 1 che siano soltanto suriettive. La risposta è affermativa; vediamo di costruirne una. Diciamo 𝐶 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝑆 1 ∶ 𝑥 ≥ 0} e consideriamo la funzione 𝑔 ∶ 𝐵 → 𝐶 definita da 𝑔(𝑥, 𝑦) ∶= (√1 − 𝑦2 , 𝑦). Esprimendo il punto 𝑔(𝑥, 𝑦), in coordinate polari, si ha 𝑔(𝑥, 𝑦) =∶ [1, 𝜗(𝑦)], con 𝜗(𝑦) ∶= arcsin 𝑦 ∈ [−𝜋/2, 𝜋/2]. Risulta pertanto 𝑔(𝑥, 𝑦) = (cos 𝜗(𝑦), sin 𝜗(𝑦)). Sia poi 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝑆 1 la funzione definita da 𝜑(cos 𝜗, sin 𝜗) ∶= (cos 2𝜗, sin 2𝜗). Si vede subito che 𝜑 è continua e suriettiva. In fine, si considera la funzione continua e suriettiva 𝑓 ∶ 𝐵 → 𝑆 1 definita da 𝑓 ∶= 𝜑 ∘ 𝑔. Chiaramente il punto (1, 0) è fisso per 𝑓 . Gli altri punti fissi di 𝑓 devono appartenere a 𝑆 1 e devono quindi essere del tipo (cos 𝜗, sin 𝜗), con 𝜗 ∈ ] − 𝜋, 𝜋[ ⧵{0}. Affinché un tale punto sia fisso per 𝑓 , deve risultare sin 𝜗 = sin(𝜗/2). Posto 𝑢 ∶= 𝜗/2, deve essere 𝑢 ∈ ] − 𝜋/2, 𝜋/2[ ⧵{0}, e quindi sin 2𝑢 = sin 𝑢;
2 sin 𝑢 cos 𝑢 = sin 𝑢;
2 cos 𝑢 = 1;
𝑢 = ±𝜋/3.
Si conclude che deve essere 𝜗 = ±2𝜋/3. Si noti che un’applicazione suriettiva e continua 𝑓 ∶ 𝐵 → 𝑆 1 non può essere iniettiva. Infatti, se così fosse, 𝑓 sarebbe un omeomorfismo per il Teorema 7.36. Ma ciò è assurdo, dato che 𝐵 è semplicemente connesso, mentre 𝑆 1 non lo è. ◁ Teorema 14.18. Il prodotto 𝑋 ∶= ∏𝛼∈𝐽 𝑋𝛼 di spazi topologici non vuoti è semplicemente connesso se e solo se è tale ogni singolo fattore.
Dimostrazione. Per quanto riguarda la connessione per cammini, basta ricordare il Teorema 13.59. Supponiamo intanto 𝑋 semplicemente connesso. Fissiamo un 𝛼 ∈ 𝐽 e un’applicazione continua 𝑓𝛼 ∶ 𝜕𝑄 → 𝑋𝛼 . Per ogni 𝛽 ∈ 𝐽 ⧵ {𝛼}, fissiamo un 𝑦𝛽 ∈ 𝑋𝛽 e diciamo 𝑓𝛽 ∶ 𝜕𝑄 → 𝑋𝛽 la funzione di valore costante 𝑦𝛽 . Resta così individuata un’applicazione 𝑓 ∶ 𝜕𝑄 → 𝑋 definita da 𝑓 (𝑡) ∶= (𝑓𝛼 (𝑡))𝛼∈𝐽 , ∀𝑡 ∈ 𝜕𝑄. Essendo 𝑋 semplicemente connesso, 𝑓 è prolungabile per continuità a una funzione 𝐹 ∶ 𝑄 → 𝑋 con 𝐹 = (𝐹𝛼 )𝛼∈𝐽 . Le
14.1. Insiemi semplicemente connessi
738
𝐹𝛼 ∶ 𝑄 → 𝑋𝛼 sono prolungamenti continui delle 𝑓𝛼 a tutto 𝑄. Ciò vale, in particolare, per 𝛼; ne viene che anche 𝑋𝛼 è semplicemente connesso. Per provare il viceversa, si parte da una 𝑓 = (𝑓𝛼 )𝛼 ∶ 𝜕𝑄 → 𝑋; le 𝑓𝛼 ammettono dei prolungamenti continui 𝐹𝛼 a tutto 𝑄 che generano un prolungamento continuo 𝐹 di 𝑓 . Ovviamente, tutti i singoletti sono insiemi semplicemente connessi. Si ha poi il seguente Teorema 14.19. In ℝ𝑛 sono semplicemente connessi, oltre a ℝ𝑛 stesso, tutti i segmenti, tutti gli archi, tutti gli intervalli e le palle, tutti gli insiemi stellati, tutti gli insiemi convessi e tutti quelli omeomorfi ad uno di essi.
Dimostrazione. 1. Cominciamo col verificare che è semplicemente connesso il segmento (intervallo) [−1, 1] ⊂ ℝ. Sia 𝑓 ∶ 𝜕𝑄 → [−1, 1] continua. Per il Teorema di Tietze 2.101 (si vedano la prima parte della dimostrazione del Teorema e quanto osservato alla fine di essa), esiste un suo prolungamento 𝐹 definito su tutto 𝑄 e a valori in [−1, 1]. Per ogni 𝑛, tutti i segmenti chiusi e non degeneri di ℝ𝑛 sono omeomorfi a [−1, 1]. Ne viene che i segmenti chiusi di ℝ𝑛 sono tutti semplicemente connessi. Sono semplicemente connessi anche i segmenti non chiusi di ℝ𝑛 . Infatti, dati un segmento 𝐽 ⊂ ℝ𝑛 e una funzione continua 𝑓 ∶ 𝜕𝑄 → 𝐽 , l’immagine 𝑓 (𝜕𝑄) deve essere un compatto connesso e quindi un sotto-segmento chiuso di 𝐽 . (Nel caso che 𝑓 (𝜕𝑄) sia degenere e quindi 𝑓 costante, il prolungamento è banale.) Per quanto precede, 𝑓 è prolungabile per continuità a una funzione 𝐹 ∶ 𝑄 → 𝑓 (𝜕𝑄). Anche gli archi sono semplicemente connessi, in quanto omeomorfi a 𝐼. 2. Dal punto precedente, si ha intanto che ℝ è semplicemente connesso. Dal Teorema 14.18 si ha poi che sono semplicemente connessi ℝ𝑛 e tutti i suoi intervalli. Si vede poi subito che sono tali anche le palle di ℝ𝑛 , dato che sono omeomorfe agli intervalli 𝑛-dimensionali. 3. Siano 𝑋 ⊆ ℝ𝑛 un sottoinsieme stellato rispetto a un suo punto z e 𝑓 ∶ 𝑆 1 → 𝑋 una funzione continua. Consideriamo la palla 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1](⊂ ℝ2 ) espressa in coordinate polari 𝐵 ∶= {𝑤 = (𝜌, 𝜗) ∶ (𝜌 ∈ [0, 1]) ∧ (𝜗 ∈ [0, 2𝜋])}. Ovviamente è 𝑆 1 = 𝜕𝐵. Resta individuata la funzione 𝐹 ∶ 𝐵 → 𝑋 definita da 𝐹 (𝜌, 𝜗) ∶= (1 − 𝜌)𝑧 + 𝜌𝑓 (1, 𝜗). Si verifica che è 𝐹 (𝐵) ⊆ 𝑋 e che 𝐹 , ristretta a 𝑆 1 , coincide con 𝑓 . Resta da verificare che 𝐹 è (sequenzialmente) continua. Sia (𝑥𝑘 )𝑘 ∶= ((𝜌𝑘 , 𝜗𝑘 ))𝑘 una successione di elementi di 𝐵 convergente a un punto 𝑦 ∶= (𝑟, 𝜑). Per ogni 𝑘 si ha 𝐹 (𝑥𝑘 ) = (1 − 𝜌𝑘 )𝑧 + 𝜌𝑘 𝑓 (1, 𝜗𝑘 ). Per la continuità di 𝑓 , questa successione tende a (1 − 𝑟)𝑧 + 𝑟𝑓 (1, 𝜑) = 𝐹 (𝑟, 𝜑). 4. Dal punto 3 segue poi banalmente che gli insiemi convessi sono semplicemente connessi. Questo fornisce anche una dimostrazione del fatto che i segmenti sono insiemi semplicemente connessi in cui non si utilizza il Teorema di Tietze, dato che i segmenti sono ovviamente convessi.
14.1. Insiemi semplicemente connessi
739
Si tenga ben presente che, a differenza di quanto accade per la connessione per insiemi e per cammini (cfr. Teoremi di connessione 13.5 e 13.53), l’immagine continua di un insieme semplicemente connesso non gode necessariamente di questa proprietà. Basta osservare che 𝑆 1 è immagine continua di [0, 2𝜋] tramite la funzione (cos 𝑡, sin 𝑡). Ora sappiamo che [0, 2𝜋] è semplicemente connesso, mentre 𝑆 1 non lo è. Si ha poi che non è semplicemente connessa nemmeno la compattificazione di ℝ con un punto, dato che questa è ancora una volta omeomorfa a 𝑆 1 . Si osservi, inoltre, che il Teorema 14.10 non è invertibile per quanto riguarda i retratti. Basta prendere la frontiera del quadrato unitario e proiettarla su un suo lato.
Teorema 14.20. In ℝ2 non sono semplicemente connessi: il piano meno un punto, il piano meno un insieme limitato, le corone circolari. In ℝ3 non sono semplicemente connessi: le superfici laterali dei cilindri, i tori e le loro superfici. Dimostrazione. Tutte le verifiche si ottengono costruendo dei retratti dei singoli insiemi non semplicemente connessi e applicando il Teorema 14.10. Inoltre, provata la non semplice connessione per un dato insieme, la cosa vale per tutti quelli ad esso omeomorfi. 1. Sia 𝑓 ∶ ℝ2 ⧵ {0} → 𝑆 1 la funzione continua definita da 𝑓 (x) ∶= x/‖x‖2 . Si vede subito che 𝑓 è una retrazione. Naturalmente, sostituendo l’origine con un altro punto del piano, si ottiene un insieme omeomorfo a ℝ2 ⧵{0} che quindi non può essere semplicemente connesso. 2. Sia 𝐷 un sottoinsieme limitato di ℝ2 . Non è restrittivo supporre 0 ∈ 𝐷. Esiste una palla 𝐵(0, 𝑟) di raggio 𝑟 abbastanza grande da contenere 𝐷 (nel suo interno). Poniamo 𝑆 ∶= 𝜕𝐵. Sia poi 𝑓 ∶ ℝ2 ⧵ 𝐷 → 𝑆 la funzione continua definita da 𝑓 (x) ∶= 𝑟(x/‖x‖2 ). La funzione 𝑓 è una retrazione. Basta ora osservare che 𝑆 è omeomorfo a 𝑆 1 . 3. Sia 𝐶 la corona circolare definita da 𝐶 ∶= {x ∈ ℝ2 ∶ 𝑟 ≤ ‖x‖2 ≤ 𝑅}, con 0 < 𝑟 < 𝑅 e sia 𝑆 ∶= 𝑆(0, 𝑟) (omeomorfa ad 𝑆 1 ). Analogamente a quanto fatto in precedenza, sia 𝑓 ∶ 𝐶 → 𝑆 la funzione continua definita da 𝑓 (x) ∶= 𝑟(x/‖x‖2 ). Al solito, 𝑓 è una retrazione. La tesi segue poi dal fatto che tutte le corone circolari non degeneri sono fra loro omeomorfe (Esercizio!). 4. Siano 𝐷 la superficie cilindrica definita da 𝐷 ∶= {(𝑥, 𝑦, 𝑧) ∶ (𝑥2 + 𝑦2 = 𝑟2 ) ∧ (|𝑧| ≤ ℎ)}
ed 𝑆 la circonferenza data dalla proiezione di 𝐷 sul piano 𝑥𝑦 (omeomorfa a 𝑆 1 ). La proiezione di 𝐷 su 𝑆 è una retrazione. Lo stesso nel caso che sia |𝑧| < ℎ o 𝑧 ∈ ℝ. Un’altra possibile dimostrazione è quella di osservare che 𝐷 è omeomorfo al prodotto di 𝑆 1 per un intervallo reale (limitato o no) e applicare il Teorema 14.18. 5. Consideriamo ora il toro (solido) 𝑇 definito da 𝑇 ∶= {(𝑥, 𝑦, 𝑧) ∶ (√𝑥2 + 𝑦2 − 𝑅) + 𝑧2 ≤ 𝑟2 } 2
14.1. Insiemi semplicemente connessi
740
e diciamo 𝜕𝑇 la sua superficie (superficie toroidale, cfr. Esempio 6.58); è dunque 𝜕𝑇 ∶= {(𝑥, 𝑦, 𝑧) ∶ (√𝑥2 + 𝑦2 − 𝑅) + 𝑧2 = 𝑟2 } . 2
Indichiamo poi con 𝐶 la corona circolare definita da
𝐶 ∶= {(𝑥, 𝑦, 0) ∶ (𝑅 − 𝑟)2 ≤ 𝑥2 + 𝑦2 ≤ (𝑅 + 𝑟)2 } .
Consideriamo, in fine, le funzioni 𝑓 ∶ 𝑇 → 𝐶 definita da 𝑓 (𝑥, 𝑦, 𝑧) ∶= (𝑥, 𝑦, 0) e 𝑓0 ∶ 𝜕𝑇 → 𝐶 data dalla restrizione di 𝑓 a 𝜕𝑇 . Al solito, 𝑓 , 𝑓0 sono delle retrazioni. La tesi segue poi dal fatto che tutti i tori non degeneri sono fra loro omeomorfi. Un’altra possibile dimostrazione è quella di osservare che 𝑇 [che 𝜕𝑇 ] è omeomorfo al prodotto di 𝑆 1 per un disco chiuso [per 𝑆 1 ] e applicare il Teorema 14.18. Si osservi che, se 𝐷 non è limitato, non si può dire a priori se ℝ2 ⧵ 𝐷 è o non è semplicemente connesso. Basta prendere come 𝐷 una retta o un semipiano. Nel secondo caso ℝ2 ⧵ 𝐷 è semplicemente connesso, mentre nel primo non lo è, dato che non è nemmeno connesso per insiemi. Il prossimo passo è quello di dare condizioni sufficienti affinché l’unione di due insiemi semplicemente connessi goda ancora di questa proprietà. La prima condizione banalmente necessaria è che la loro intersezione sia non vuota. Questo fatto non è però sufficiente. Consideriamo, per esempio la frontiera 𝜕𝑄 del quadrato unitario. Sappiamo che essa non è semplicemente connessa. D’alta parte, con le notazioni del Lemma di Alexander, si ha 𝜕𝑄 = 𝑆 + ∪ 𝑆 − con 𝑆 + ∩ 𝑆 − = {𝑃1 , 𝑃2 }. Chiaramente, 𝑆 + e 𝑆 − sono semplicemente connessi, essendo ciascuno di essi omeomorfo a un segmento. Sussiste al riguardo il seguente
Teorema 14.21. Siano (𝑌 , 𝜎) uno spazio topologico, 𝐴1 , 𝐴2 due suoi aperti semplicemente connessi. Se l’insieme 𝐴1 ∩ 𝐴2 è non vuoto e connesso per cammini, allora 𝐴1 ∪ 𝐴2 è semplicemente connesso. Dimostrazione. Identifichiamo 𝑆 1 con il quoziente [0, 2𝜋]/{0, 2𝜋}. Sia 𝑓 ∶ 𝑆 1 → 𝑌 continua, con 𝑓 (𝑆 1 ) ⊆ 𝐴1 ∪ 𝐴2 . Non è restrittivo supporre che sia 𝑓 (0) = 𝑓 (2𝜋) ∈ 𝐴1 . Se è 𝑓 (𝑆 1 ) ⊆ 𝐴1 , non c’è niente da dimostrare. Supponiamo dunque che esista un 𝑡 ̃ ∈ 𝑆 1 con 𝑓 (𝑡)̃ ∈ 𝐴2 ⧵ 𝐴1 . L’insieme 𝑓 −1 (𝐴1 ) ⊆ 𝑆1 è un aperto la cui componente connessa che contiene 0 ≡ 2𝜋 è un insieme del tipo [0, 𝑡1 [ ∪ ]𝑡2 , 2𝜋]. Ne viene che è 𝑡1 < 𝑡2 e 𝑡 ̃ ∈ [𝑡1 , 𝑡2 ]. Fissiamo 𝑡 ∈ [𝑡1 , 𝑡2 ]. Se è 𝑓 (𝑡) ∈ 𝐴1 , sia 𝐼𝑡1 l’intervallo aperto massimale contenente 𝑡 per cui è 𝑓 (𝑠) ∈ 𝐴1 , ∀𝑠 ∈ 𝐼𝑡1 ; se è 𝑓 (𝑡) ∈ 𝐴2 ⧵𝐴1 , sia 𝐼𝑡2 l’intervallo aperto massimale contenente 𝑡 1,2 per cui è 𝑓 (𝑠) ∈ 𝐴2 , ∀𝑠 ∈ 𝐼𝑡2 . La famiglia (𝐼𝑡 )𝑡∈[𝑡1 ,𝑡2 ] costituisce un ricoprimento aperto del compatto [𝑡1 , 𝑡2 ], da cui si può estrarre un sottoricoprimento finito del tipo ]𝑠21 , 𝑠22 [, ]𝑠11 , 𝑠12 [, ]𝑠23 , 𝑠24 [, ]𝑠13 , 𝑠14 [, … , ]𝑠2𝑛 , 𝑠2𝑛+1 [.
14.1. Insiemi semplicemente connessi Si ha:
741
0 < 𝑠21 < 𝑡1 < 𝑠11 < 𝑠22 < 𝑠21 < 𝑠23 < ⋯ < 𝑠2𝑛 < 𝑠1𝑛−1 < 𝑡2 < 𝑠2𝑛+1 < 2𝜋.
Inoltre, per definizione, si ha
𝑓 (𝑠) ∈ 𝐴1 , ∀𝑠 ∈ ]𝑠1𝑙 , 𝑠1𝑙+1 [ =∶ 𝐼𝑙1 ;
𝑓 (𝑠) ∈ 𝐴2 , ∀𝑠 ∈ ]𝑠2𝑙 , 𝑠2𝑙+1 [ =∶ 𝐼𝑙2 .
Per costruzione e per la proprietà di massimalità, ogni intervallo 𝐼𝑙2 è aperto e contiene punti di due intervalli 𝐼ℎ1 e 𝐼ℎ1 . Quindi i punti degli aperti 𝐼𝑙2 ∩ 𝐼ℎ1 e
𝐼𝑙2 ∩ 𝐼ℎ1 vengono portati dalla 𝑓 in 𝐴1 ∩ 𝐴2 . In ciascuna di queste intersezioni 1
2
1
fissiamo un punto. Su 𝑆 1 abbiamo così individuato un numero finito di punti 𝑝1 , … , 𝑝2𝑛 che la dividono in altrettanti archi che vengono portati dalla 𝑓 alternativamente in 𝐴1 e 𝐴2 . Possiamo pensare 0 ≡ 2𝜋 appartenente all’arco di estremi 𝑝2𝑛 e 𝑝1 . Su 𝑆 1 fissiamo due punti 𝑝2𝑙−1 e 𝑝2𝑙 che individuano un arco 𝐶𝑙 che viene portato da 𝑓 in 𝐴2 . Siccome 𝑝2𝑙−1 e 𝑝2𝑙 vengono portati da 𝑓 in 𝐴1 ∩𝐴2 e questo insieme è connesso per cammini, esiste una funzione continua 𝛾𝑙 ∶ [𝑝2𝑙−1 , 𝑝2𝑙 ](⊂ 𝐵 ∶= 𝐵[(0, 0), 1]) → 𝐴1 ∩ 𝐴2 . Sia 𝑇𝑙 ⊂ 𝐵 il segmento circolare la cui frontiera è formata dall’arco 𝐶𝑙 e dalla corda [𝑝2𝑙−1 , 𝑝2𝑙 ]. Diciamo poi 𝑔𝑙 ∶ 𝜕𝑇𝑙 → 𝐴2 la funzione continua che coincide con 𝛾𝑙 su [𝑝2𝑙−1 , 𝑝2𝑙 ] e con 𝑓 su 𝐶𝑙 . Essendo 𝑇𝑙 omeomorfo a 𝐵 (cfr. Proposizione 14.14.1) e 𝐴2 semplicemente connesso, 𝑔𝑙 è prolungabile per continuità a tutto 𝑇𝑙 . Ripetiamo questo procedimento su ogni arco portato da 𝑓 in 𝐴2 . Abbiamo così ottenuto una funzione continua 𝐺 a valori in 𝐴1 ∪𝐴2 definita su tutte le lunule di tipo 𝑇𝑙 sopra considerate. Rimane da studiare un “poligono” 𝐻 il cui bordo è formato da corde e archi di 𝐵. Sia 𝑓 ̂ ∶ 𝜕𝐻 → 𝑌 la funzione che coincide con 𝑓 sugli archi di 𝑆 1 che sono contenuti in 𝜕𝐻 e con 𝛾𝑙 su [𝑝2𝑙−1 , 𝑝2𝑙 ]. In realtà, 𝑓 ̂ assume i suoi valori in 𝐴1 (eventualmente in 𝐴1 ∩𝐴2 ). Anche 𝐻 è omeomorfo a 𝐵 (cfr. Proposizione 14.14.2). Essendo 𝐴1 semplicemente connesso, la funzione continua 𝑓 ̂ è prolungabile per continuità a una funzione 𝐺′ ∶ 𝐻 → 𝐴1 . Per ottenere un prolungamento di 𝑓 a tutta 𝐵 basta in fine considerare la funzione 𝐹 ∶ 𝐵 → 𝐴1 ∪ 𝐴2 che coincide con 𝐺′ su 𝐻 e con 𝐺 altrove. Non è difficile mostrare che 𝐹 è continua (Esercizio!). 2
Lemma 14.22. Siano 𝐴1 , 𝐴2 due aperti non vuoti e connessi per cammini di uno spazio (𝑌 , 𝜎). Allora, se 𝐴1 ∪ 𝐴2 è semplicemente connesso, 𝐴1 ∩ 𝐴2 è non vuoto e connesso per cammini.
Dimostrazione. Sia (𝑋, 𝜏) il sottospazio di (𝑌 , 𝜎) in cui è 𝑋 ∶= 𝐴1 ∪ 𝐴2 e 𝜏 è la topologia indotta da 𝜎. Se fosse 𝐴1 ∩ 𝐴2 = ∅, 𝑋 sarebbe sconnesso. Se 𝐴1 ∩ 𝐴2 si riduce a un singoletto, non c’è niente da dimostrare. Lo stesso se uno dei due insiemi è contenuto nell’altro. Mettiamoci fuori di queste ipotesi. Gli insiemi 𝐷1 ∶= 𝐴1 ⧵ 𝐴2 e 𝐷2 ∶= 𝐴2 ⧵ 𝐴1 sono due chiusi, non vuoti e disgiunti di 𝑋. Fissiamo due punti 𝑝, 𝑞 ∈ 𝐴1 ∩ 𝐴2 . Per ipotesi, esistono: un cammino
14.1. Insiemi semplicemente connessi
742
𝛾1 ∶ 𝑆 − → 𝑋 che unisce 𝑝 e 𝑞 (contenuto in 𝐴1 ) e non incontra 𝐷2 , un cammino 𝛾2 ∶ 𝑆 + → 𝑋 che unisce 𝑝 e 𝑞 (contenuto in 𝐴2 ) e non incontra 𝐷1 . (𝑆 + e 𝑆 − sono definiti nel Teorema 14.6.) Si ha così una funzione continua 𝑓 ∶ 𝜕𝑄 → 𝑋. Siccome 𝑋 è semplicemente connesso, 𝑓 si può prolungare in una funzione continua 𝐹 ∶ 𝑄 → 𝑋. Siano ora 𝐶1 ∶= 𝐹 −1 (𝐷1 ) e 𝐶2 ∶= 𝐹 −1 (𝐷2 ). 𝐶1 e 𝐶2 sono due chiusi disgiunti di 𝑄, con 𝐶1 disgiunto da 𝑆 + e 𝐶2 disgiunto da 𝑆 − . Per il Lemma di Alexander, esiste un cammino 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑄 che unisce 𝑃1 ∶= (0, 1/2) a 𝑃2 ∶= (1, 1/2) e non incontra 𝐶1 ∪ 𝐶2 . Quindi 𝐹 ∘ 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑋 è un cammino di 𝑋 da 𝑝 a 𝑞 che non incontra 𝐷1 ∪ 𝐷2 ed è quindi un cammino di 𝐴1 ∩ 𝐴2 .
Lemma 14.23. La sfera unitaria 𝑆 𝑛 ⊂ ℝ𝑛+1 privata di un punto è omeomorfa a ℝ𝑛 . Dimostrazione. Abbiamo già accennato a questa proprietà nell’Esempio 3.87 (nel caso 𝑛 = 1) e nell’Esempio 10.2 (nel caso 𝑛 = 2). Veniamo ora al caso generale. Sarà comodo sostituire 𝑆 𝑛 con la sfera 𝑆 ∶= 𝑆((0, … , 0, 1), 1) ad essa omeomorfa e privarla del punto 𝑉 ∶= (0, … , 0, 2) (polo nord). Sia 𝑓 ∶ 𝑆⧵{𝑉 } → ℝ𝑛 la proiezione stereografica che a un punto 𝑃 ∶= (𝑝1 , … , 𝑝𝑛 , 𝑝𝑛+1 ) ∈ 𝑆 ⧵ {𝑉 } associa il punto definito da 𝑓 (𝑃 ) ∶= (𝑝1 , … , 𝑝𝑛 )
2 ∈ ℝ𝑛 . 2 − 𝑝𝑛+1
Questa applicazione è continua e biiettiva (basta pensare all’interpretazione geometrica). La sua inversa 𝑓 −1 ∶ ℝ𝑛 → 𝑆 ⧵ {𝑉 } associa ad ogni 𝑋 ∶= (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ) ∈ ℝ𝑛 il punto definito da 𝑓 −1 (𝑋) ∶=
2 (2𝑥1 , … , 2𝑥𝑛 , ‖𝑋‖2 ) ∈ 𝑆 ⧵ {𝑉 }. 4 + ‖𝑋‖2
Anch’essa è chiaramente continua.
Teorema 14.24. La sfera unitaria 𝑆 𝑛 ⊂ ℝ𝑛+1 è semplicemente connessa per ogni 𝑛 ≥ 2.
Dimostrazione. Data 𝑆 𝑛 , con 𝑛 ≥ 2, fissiamo in essa due punti, per esempio i due poli 𝑉1 e 𝑉2 . Consideriamo gli aperti 𝐴1 ∶= 𝑆 𝑛 ⧵ {𝑉1 } e 𝐴2 ∶= 𝑆 𝑛 ⧵ {𝑉2 }. Per il lemma precedente, essi sono omeomorfi a ℝ𝑛 e quindi semplicemente connessi. Inoltre, 𝐴1 ∩ 𝐴2 è omeomorfo a ℝ𝑛 meno un punto ed è quindi connesso per cammini (cfr. Esempio 14.5). A questo punto basta applicare il Teorema 14.21. La stessa costruzione usata nella dimostrazione, se applicata al caso 𝑛 = 1, mostra che nel Teorema 14.21 l’ipotesi che 𝐴1 ∩ 𝐴2 sia connesso per archi non può essere soppressa.
14.1. Insiemi semplicemente connessi
743
Grazie al concetto di connessione semplice, possiamo proporre un’ulteriore versione del Lemma di Alexander anche nel caso in cui i due chiusi non siano disgiunti.
Teorema 14.25 (di Alexander). Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico e 𝐷1 , 𝐷2 due suoi chiusi non vuoti tali che 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵ (𝐷1 ∩ 𝐷2 ) è semplicemente connesso. Siano inoltre 𝑧1 , 𝑧2 due punti distinti di 𝐴. Se esistono due cammini 𝛾1 , 𝛾2 di 𝑋 da 𝑧1 a 𝑧2 che rispettivamente non incontrano 𝐷1 e 𝐷2 , allora esiste un cammino 𝛾 di 𝑋 congiungente 𝑧1 e 𝑧2 che non incontra 𝐷1 ∪ 𝐷2 . Dimostrazione. Non sarà restrittivo assumere come dominio di 𝛾1 il lato superiore del quadrato unitario 𝑄 e come dominio di 𝛾2 il lato inferiore dello stesso quadrato. Introduciamo una funzione continua 𝑓 ∶ 𝜕𝑄 → 𝑋 definita da 𝑓 (0, 𝑦) ∶= 𝑧1 , ∀𝑦 ∈ [0, 1], 𝑓 (1, 𝑦) ∶= 𝑧2 , ∀𝑦 ∈ [0, 1], 𝑓 (𝑥, 0) ∶= 𝛾2 (𝑥), ∀𝑥 ∈ [0, 1] e 𝑓 (𝑥, 1) ∶= 𝛾1 (𝑥), ∀𝑥 ∈ [0, 1]. È immediato verificare che 𝑓 è continua e assume i suoi valori in 𝐴. Poiché 𝐴 è semplicemente connesso, 𝑓 è prolungabile per continuità a una funzione 𝐹 ∶ 𝑄 → 𝐴. Siamo nelle ipotesi del Teorema di addizione di Alexander 14.7. Esiste pertanto un cammino 𝜎 in 𝑄 congiungente 𝑃1 e 𝑃2 tale che 𝛾 ∶= 𝐹 ∘ 𝜎 non incontra 𝐷1 ∪ 𝐷2 . Inoltre, per costruzione, 𝛾 unisce 𝑧1 a 𝑧2 .
Si tenga presente che, senza l’ipotesi che 𝑋 ⧵ (𝐷1 ∩ 𝐷2 ) sia semplicemente connesso, il risultato non è sempre vero. A tale scopo consideriamo ancora come spazio 𝑋 il quadrato unitario 𝑄, e prendiamo 𝐷1 ∶= {1/2} × [0, 1/2] e 𝐷2 ∶= {1/2} × [1/2, 1]. Con le notazioni già più volte usate, 𝑆 + e 𝑆 − sono cammini da 𝑃1 a 𝑃2 in 𝑋 che evitano 𝐷1 e 𝐷2 rispettivamente. D’altra parte, non esistono in 𝑋 cammini da 𝑃1 a 𝑃2 che evitano 𝐷1 ∪ 𝐷2 = {1/2} × [0, 1]. Si osservi che 𝑋 ⧵ (𝐷1 ∩ 𝐷2 ) = 𝑄 ⧵ {(1/2, 1/2)} non è semplicemente connesso.
Esempio 14.26. Nella definizione di insieme semplicemente connesso abbiamo chiesto che l’insieme sia connesso per cammini. Non è però richiesto che lo spazio sia localmente connesso. Diamo un esempio di spazio semplicemente connesso, ma non localmente connesso. Consideriamo l’insieme 𝐸 ″ ⊂ (ℝ2 , 𝜏𝑒 ) dell’Esempio 13.84.3. Sappiamo che esso è globalmente ma non localmente connesso per insiemi e per cammini. L’insieme è stellato rispetto all’origine ed è quindi anche semplicemente connesso (cfr. Teorema 14.19). ◁ Sia 𝑉 ∶= (0, … , 0, 1) ∈ ℝ𝑛+1 il “polo nord” di 𝑆 𝑛 (con 𝑛 ≥ 2). Per ogni punto 𝑃 ∈ 𝑆 𝑛 ⧵ {𝑉 }, la semiretta 𝑉𝑃 incontra l’iperpiano di equazione 𝑥𝑛+1 = 0 in un punto 𝑃 ′ . L’applicazione 𝑓 ∶ 𝑆 𝑛 ⧵ {𝑉 } → ℝ𝑛 che a 𝑃 associa il punto 𝑃 ′ così definito è detta ancora proiezione stereografica di 𝑆 𝑛 su ℝ𝑛 (cfr. Esempio 10.2 e Lemma 14.23). 𝑆 𝑛 ∩ℝ𝑛 è data dalla sfera 𝑆 𝑛−1 ⊂ ℝ𝑛 . I punti della calotta superiore di 𝑆 𝑛 (𝑥𝑛+1 > 0) vengono portati in punti esterni a 𝑆 𝑛−1 , quelli della calotta inferiore (𝑥𝑛+1 < 0) vengono portati in punti interni, mentre i punti di 𝑆 𝑛−1 sono fissi.
14.1. Insiemi semplicemente connessi
744
Lemma 14.27. Siano 𝑉 ∶= (0, … , 0, 1) ∈ ℝ𝑛+1 il “polo nord” di 𝑆 𝑛 (con 𝑛 ≥ 2) e 𝑓 ∶ 𝑆 𝑛 ⧵ {𝑉 } → ℝ𝑛 la relativa proiezione stereografica. Siano poi 𝐾 ⊂ ℝ𝑛 un compatto e 𝐾 ′ (⊂ 𝑆 𝑛 ⧵ {𝑉 }) ∶= 𝑓 −1 (𝐾). Allora ℝ𝑛 ⧵ 𝐾 è connesso per cammini se e solo se è tale 𝑆 𝑛 ⧵ 𝐾 ′ . Dimostrazione. Esiste un 𝑟 > 0 abbastanza grande affinché risulti 𝐾 ⊂ 𝐵 ∶= 𝐵[0, 𝑟](⊂ ℝ𝑛 ). Per prima cosa, mostriamo che 𝐸 ∶= ℝ𝑛 ⧵𝐵 è connesso per cammini. Fissiamo due punti z′ , z″ ∈ 𝐸. Se i punti 0, z′ , z″ sono allineati, con z′ o z″ compreso fra gli altri due, allora si può unire z′ e z″ con un segmento contenuto in 𝐸. Se i tre punti non sono allineati, essi individuano un piano 𝜋 che non è restrittivo identificare con ℝ2 . Esprimiamo gli elementi di ℝ2 in coordinate polari. Nel piano 𝜋, z′ corrisponde a 𝑧′ ∶= (𝜌′ , 𝜗′ ) e z″ corrisponde a 𝑧″ ∶= (𝜌″ , 𝜗″ ). Non è restrittivo supporre (𝑟 0 tale che ℎ(𝑡) ∈ 𝑉 , ∀𝑡 ∈ 𝐼 ∩ [𝑟 − 𝛿, 𝑟 + 𝛿]. Ne viene che ℎ(𝐼 ∩ [𝑟 − 𝛿, 𝑟 + 𝛿]) non separa i punti 𝑃 e 𝑃 ′ . 2. Indichiamo con 𝐸 l’insieme degli 𝑟 ∈ 𝐼 tali che ℎ([0, 𝑟]) non separa 𝑃 e 𝑃 ′ . 𝐸 non è vuoto, dato che {ℎ(0)} non separa i due punti. Anzi, esiste un intervallo [0, 𝛿] ⊆ 𝐸. Sia poi 𝑠 ∶= sup 𝐸. Ne viene che è 0 < 𝑠 ≤ 1. Inoltre, per definizione, è [0, 𝑠[ ⊆ 𝐸. Per il punto 1, esistono 𝑟, 𝑡 ∈ 𝐼, con 𝑟 < 𝑠 ≤ 𝑡 tale che 𝐶1 ∶= ℎ([𝑟, 𝑡]) non separa 𝑃 e 𝑃 ′ . Poiché 𝑟 ∈ 𝐸 si ha ovviamente che 𝐶2 ∶= ℎ([0, 𝑟]) non separa 𝑃 e 𝑃 ′ . 3. Esistono dunque due cammini 𝛾1 , 𝛾2 di 𝑆 𝑛 da 𝑃 a 𝑃 ′ che non incontrano, rispettivamente, 𝐶1 e 𝐶2 . Ora si ha 𝐶1 ∩ 𝐶2 = {ℎ(𝑟)}. Sappiamo che 𝑆 𝑛 ⧵ {ℎ(𝑟)}
14.1. Insiemi semplicemente connessi
745
è semplicemente connesso. Possiamo quindi applicare il Teorema di Alexander 14.25. Esiste pertanto in 𝑆 𝑛 un cammino 𝛾 da 𝑃 a 𝑃 ′ che non incontra 𝐶1 ∪ 𝐶2 . Ciò significa che ℎ([0, 𝑡]) non separa i due punti e che è 𝑡 ∈ 𝐸. Se fosse 𝑠 < 1, si avrebbe 𝑠 < 𝑡, contro il fatto che è 𝑠 = sup 𝐸. Deve perciò essere 𝑠 = 1. Si ottiene che ℎ(𝐼) non separa i due punti. Per l’arbitrarietà di questi, si conclude che 𝐴 è connesso per cammini.
Teorema 14.29 (di Alexander). Sia 𝛾 ∶ 𝐼 = [0, 1] → ℝ2 un omeomorfismo fra 𝐼 e Γ ∶= 𝛾(𝐼). Allora 𝐴 ∶= ℝ2 ⧵ Γ è connesso per cammini. Dimostrazione. Sia ℎ ∶ 𝐼 → 𝑆 2 la funzione continua definita da ℎ ∶= 𝑓 −1 ∘ 𝛾, dove 𝑓 è la proiezione stereografica di 𝑆 2 su ℝ2 . La funzione ℎ è un omeomorfismo fra 𝐼 e 𝐻 ∶= ℎ(𝐼). Dal teorema precedente sappiamo che 𝑆 2 ⧵𝐻 è connesso per cammini. Dal Lemma 14.27 otteniamo poi che, essendo Γ compatto, anche ℝ2 ⧵ Γ è connesso per cammini. Taluni Autori danno a quest’ultimo risultato il nome di Teorema di dualità di Alexander. Il suo significato geometrico è che nessun arco (compatto) non chiuso (che non è un loop) può sconnettere il piano.
Esempio 14.30. Ogni insieme 𝐸0 ⊆ ℝ2 è in modo naturale omeomorfo all’insieme 𝐸 ⊂ ℝ3 definito da 𝐸 ∶= {(𝑥, 𝑦, 0) ∈ ℝ3 ∶ (𝑥, 𝑦) ∈ 𝐸0 }. Possiamo quindi identificare 𝐸0 con 𝐸. La questione è quella di confrontare il carattere di connessione semplice di ℝ3 ⧵ 𝐸 con quello di ℝ2 ⧵ 𝐸0 . Per esempio, sappiamo che ℝ2 ⧵ {(0, 0)} non è semplicemente connesso, ma vedremo che invece lo è ℝ3 ⧵ {(0, 0, 0)}. Sussiste il seguente risultato: Siano dati 𝐸0 ⊆ ℝ2 e il corrispondente sottoinsieme 𝐸 di ℝ3 . Allora ℝ3 ⧵ 𝐸 è semplicemente connesso se e solo se ℝ2 ⧵ 𝐸0 è connesso per cammini. Consideriamo i sottoinsiemi di ℝ3 : 𝐹 + ∶= {(𝑥, 𝑦, 𝑧) ∈ ℝ3 ∶ 𝑧 ≥ 0} ⧵ 𝐸;
𝐹 − ∶= {(𝑥, 𝑦, 𝑧) ∈ ℝ3 ∶ 𝑧 ≤ 0} ⧵ 𝐸.
L’insieme 𝐹 + è stellato rispetto al punto (0, 0, 1) e l’insieme 𝐹 − è stellato rispetto al punto (0, 0, −1). Essi sono quindi semplicemente connessi (cfr. Teorema 14.19). Inoltre si ha 𝐹 + ∩ 𝐹 − = {(𝑥, 𝑦, 0) ∶ (𝑥, 𝑦) ∈ ℝ} ⧵ 𝐸0 che è omeomorfo a ℝ2 ⧵ 𝐸0 . Dal Teorema 14.21 otteniamo che, se ℝ2 ⧵ 𝐸0 è connesso per cammini, allora 𝐹 + ∪ 𝐹 − = ℝ3 ⧵ 𝐸 è semplicemente connesso. Il viceversa segue dal Lemma 14.22. Da questo risultato si ottiene che ℝ3 ⧵𝐸 è semplicemente connesso se 𝐸0 è al più numerabile (cfr. Esempio 14.5), se 𝐸0 è un compatto convesso (Esercizio!), se 𝐸0 è il sostegno di un arco di curva semplice (cfr. Teorema 14.29). Dal Teorema di Jordan abbiamo che invece ℝ3 ⧵ 𝐸 non è semplicemente connesso se 𝐸0 è una curva di Jordan, dato che ℝ2 ⧵ 𝐸0 non è connesso. ◁
Lemma 14.31. Siano 𝑈1 , 𝑈2 due aperti non vuoti di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏). Supponiamo inoltre che 𝑈1 ∪𝑈2 sia semplicemente connesso e localmente
14.1. Insiemi semplicemente connessi
746
connesso per cammini. Allora le componenti connesse di 𝑈1 ∩ 𝑈2 sono tutte e sole le intersezioni non vuote di una componente connessa di 𝑈1 con una di 𝑈2 . In particolare, se 𝑈2 è connesso, allora il numero delle componenti connesse di 𝑈1 ∩ 𝑈2 è uguale a quello delle componenti connesse di 𝑈1 . Dimostrazione. Per il Teorema 13.79 e il Lemma 13.80, ogni sottoinsieme aperto non vuoto di 𝑈1 ∪ 𝑈2 è connesso per cammini se e solo se è tale per insiemi. Proviamo il “tutte”. Fissiamo un 𝑥 ∈ 𝑈1 ∩ 𝑈2 e diciamo 𝐾 la componente connessa di questo sottospazio contenente 𝑥. Chiamiamo poi 𝐾1 [𝐾2 ] le componenti connesse di 𝑈1 [di 𝑈2 ] contenenti 𝑥. Vogliamo provare che è 𝐾 = 𝐾 1 ∩ 𝐾2 . Fissiamo 𝑦 ∈ 𝐾. Esiste un cammino 𝛾 di 𝐾 che unisce 𝑥 a 𝑦. Essendo 𝐾 ⊆ 𝑈1 ∩ 𝑈2 , 𝛾 è anche un cammino di 𝐾1 e di 𝐾2 . Si ottiene che 𝑦 ∈ 𝐾1 ∩ 𝐾2 . Veniamo al viceversa e fissiamo un 𝑦 ∈ 𝐾1 ∩ 𝐾2 . Esistono due cammini 𝛾1 , 𝛾2 da 𝑥 a 𝑦, con 𝛾1 in 𝐾1 ⊆ 𝑈1 e 𝛾2 in 𝐾2 ⊆ 𝑈2 . Dunque 𝛾1 non incontra il chiuso 𝐶1 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈1 e 𝛾2 non incontra il chiuso 𝐶2 ∶= 𝑋 ⧵ 𝑈2 . Per ipotesi, 𝑋 ⧵ (𝐶1 ∩ 𝐶2 ) = 𝑈1 ∪ 𝑈2 è semplicemente connesso. Per il Teorema di Alexander 14.25, esiste un cammino 𝛾 di 𝑋 che unisce 𝑥 a 𝑦 che non incontra 𝐶1 ∪ 𝐶2 . Dunque 𝛾 è un cammino di 𝑈1 ∩ 𝑈2 . Ne viene che 𝑦, sta nella componente di 𝑈1 ∩ 𝑈2 che contiene 𝑥, ossia in 𝐾. Proviamo il “sole”. Siano 𝐾𝑖 una componente connessa di 𝑈𝑖 , con 𝑖 ∈ {1, 2}, e 𝑥 ∈ 𝐾1 ∩ 𝐾2 . Diciamo poi 𝐾 la componente di 𝑥 in 𝑈1 ∩ 𝑈2 . Ci si riconduce così alla situazione precedente. È dunque 𝐾1 ∩ 𝐾2 = 𝐾.
Dati uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) e un suo sottoinsieme aperto 𝑈 , indichiamo con 𝑘(𝑈 ) il numero delle componenti connesse per cammini di 𝑈 .
Teorema 14.32. Siano 𝑈1 , 𝑈2 due aperti di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) con 𝑈1 ∪ 𝑈2 semplicemente connesso e localmente connesso per cammini. Sussiste allora la relazione 𝑘(𝑈1 ) + 𝑘(𝑈2 ) = 𝑘(𝑈1 ∪ 𝑈2 ) + 𝑘(𝑈1 ∩ 𝑈2 ).
(14.3)
Dimostrazione. Per prima cosa, osserviamo che, siccome 𝑈1 ∪ 𝑈2 è connesso per cammini, deve essere 𝑘(𝑈1 ∪ 𝑈2 ) = 1. Notiamo poi che, se uno degli insiemi (per esempio 𝑈1 ) ha infinite componenti, allora, per il lemma precedente, devono essere infinite anche quelle di 𝑈1 ∩ 𝑈2 . La (14.3) si legge allora ∞ = ∞. Supponiamo dunque che 𝑈1 , 𝑈2 , e quindi anche 𝑈1 ∩ 𝑈2 , abbiano ciascuno un numero finito di componenti connesse. In terzo luogo, osserviamo che, affinché sussista la (14.3), ogni insieme 𝐴 che sia una componente connessa sia di 𝑈1 che di 𝑈2 deve essere contata due volte. Come caso limite, ci si ponga nella situazione 𝑈1 = 𝑈2 ∶= 𝑋, con 𝑋 semplicemente e localmente connesso. Ciascuno dei quattro addendi è uguale a 1. D’ora in avanti, parlando di componenti connesse, sottintenderemo che siano tali per cammini.
14.1. Insiemi semplicemente connessi
747
Siano 𝐴1 , … , 𝐴ℎ le componenti connesse di 𝑈1 e 𝐵1 , … , 𝐵𝑙 quelle di 𝑈2 . Non è restrittivo supporre 𝑙 ≤ ℎ. Si ha dunque 𝑘(𝑈1 ) + 𝑘(𝑈2 ) = ℎ + 𝑙. la tesi diventa 𝑘(𝑈1 ∩ 𝑈2 ) = ℎ + 𝑙 − 1.
(14.4)
Per il lemma precedente, le componenti connesse di 𝑈1 ∩ 𝑈2 sono tutte e sole le intersezioni non vuote di un 𝐴𝑖 con un 𝐵𝑗 . Caso 𝑙 = 1. Affinché 𝑈1 ∪ 𝑈2 sia connesso, 𝐵1 deve intersecare ogni 𝐴𝑖 e queste intersezioni sono insiemi connessi. Si ha dunque 𝑘(𝑈1 ∩ 𝑈2 ) = ℎ = ℎ + 1 − 1.
Caso 𝑙 = 2, da cui ℎ ≥ 2. Ogni 𝐵𝑗 deve incontrare almeno un 𝐴𝑖 , anzi almeno un 𝐵𝑗 deve incontrarne almeno 2, altrimenti 𝑈1 ∪𝑈2 non potrebbe essere connesso. Non è restrittivo supporre che 𝐵1 incontri i primi 𝑠 degli 𝐴𝑖 e che 𝐵2 intersechi gli 𝐴𝑖 con 𝑟 ≤ 𝑖 ≤ ℎ; sempre per il fatto che 𝑈1 ∪ 𝑈2 è connesso, si ha 𝑟 ≤ 𝑠. Ne viene che gli 𝐴𝑖 , con 𝑟 ≤ 𝑖 ≤ 𝑠, incontrano sia 𝐵1 che 𝐵2 . Vogliamo provare che deve essere 𝑟 = 𝑠. Poniamo ora 𝐷1 ∶= 𝐴1 ∪ ⋯ ∪ 𝐴𝑠 ∪ 𝐵1 e 𝐷2 ∶= 𝐴𝑟 ∪ ⋯ ∪ 𝐴ℎ ∪ 𝐵2 . Si ha 𝐷1 ∪ 𝐷2 = 𝑈1 ∪ 𝑈2 che è semplicemente connesso. Per il Lemma 14.22, 𝐷1 ∩ 𝐷2 deve essere connesso. Dunque 𝐵2 non può intersecare più di un 𝐴𝑖 , con 𝑖 ≤ 𝑠, perché altrimenti 𝐷1 ∩ 𝐷2 avrebbe almeno due componenti connesse. Si ha dunque 𝑟 = 𝑠 e 𝑘(𝑈1 ∩ 𝑈2 ) = ℎ + 1 = (ℎ + 2) − 1.
Veniamo al caso generale, sempre con ℎ, 𝑙 > 1. Per ogni 𝑗 ≤ 𝑙, sia 𝐶𝑗 l’unione di 𝐵𝑗 con tutti gli 𝐴𝑖 che lo intersecano. I 𝐶𝑗 sono aperti non vuoti e connessi, la cui unione dà 𝑈1 ∪ 𝑈2 . Si ha 𝐶𝑚 ∩ 𝐶𝑛 ≠ ∅ se e solo se esiste un 𝑖 ≤ ℎ tale che 𝐴𝑖 ⊆ 𝐶𝑚 ∩ 𝐶𝑛 . Per descrivere la situazione, consideriamo un grafo 𝒢 i cui vertici sono i 𝐶𝑚 , con 1 ≤ 𝑚 ≤ 𝑙. Due vertici 𝐶𝑚 e 𝐶𝑛 sono uniti da tanti lati quanti sono gli 𝐴𝑖 contenuti nella loro intersezione. Quindi due vertici non sono uniti da lati se e solo se indicano insiemi disgiunti. Inoltre, gli 𝐴𝑖 che sono contenuti in un solo 𝐶𝑗 non figurano nel grafo. Chiaramente, 𝒢 è connesso. Vogliamo provare che in 𝒢 non ci sono loops e, in particolare, che due vertici non sono mai uniti da più di un lato. Supponiamo che esista un loop ℒ ⊆ 𝒢 e fissiamo due suoi vertici 𝐶𝑚 , 𝐶𝑝 . Togliendo da 𝒢 il vertice 𝐶𝑚 e tutti i lati che escono da esso, si ottiene un sottografo 𝒢 ′ . Se 𝒢 ′ è connesso, poniamo 𝐷1 ∶= 𝐶𝑚 e 𝐷2 ∶= ⋃𝑗≠𝑚 𝐶𝑗 . In caso contrario, si chiama 𝐷2 la componente connessa di 𝒢 ′ che contiene 𝐶𝑝 e 𝐷1 l’aperto dato dall’unione di tutti gli altri 𝐶𝑛 . Dunque 𝐶𝑚 ⊂ 𝐷1 . Inoltre anche 𝐷1 è connesso. Infatti se un 𝐶𝑛 , con 𝑛 ≠ 𝑚, non è collegato con 𝐶𝑝 , dato che 𝒢 è connesso, deve essere collegato con 𝐶𝑚 . In ogni caso, si ha 𝐷1 ∪ 𝐷2 = 𝑈1 ∪ 𝑈2 . Inoltre, 𝐷1 ∩ 𝐷2 = 𝐶𝑚 ∩ 𝐷2 ed è dato dalle intersezioni di 𝐶𝑚 con uno o più 𝐶𝑛 di 𝐷2 . Se questi 𝐶𝑛 sono più di uno, 𝐷1 ∩ 𝐷2 incontra almeno due 𝐴𝑖 . Se 𝐶𝑚 incontra un solo 𝐶𝑛 di 𝐷2 , dato che 𝐶𝑚 fa parte di un loop, significa che
14.1. Insiemi semplicemente connessi
748
ci sono almeno due lati di 𝒢 che li uniscono e quindi ancora almeno due 𝐴𝑖 in comune. In ogni caso, 𝐷1 ∩ 𝐷2 non è connesso, dato che è l’unione di almeno due 𝐴1 , contro il Lemma 14.22. Quindi 𝒢 è un albero connesso di 𝑙 vertici. Esso ha 𝑙 − 1 lati, come si vede facilmente per induzione. Ci sono perciò 𝑙 − 1 intersezioni fra due 𝐶𝑚 distinti. Da ciò si ricava, in particolare, che, dati 𝐵𝑚 e 𝐵𝑛 , non ci può essere più di un 𝐴𝑖 che li interseca tutti due. Diciamo 𝑠 il numero degli 𝐴𝑖 che incontrano più di un 𝐵𝑗 . Non è restrittivo supporre che questi siano 𝐴1 , … , 𝐴𝑠 . Vogliamo verificare che questi 𝐴𝑖 danno luogo a 𝑠 + 𝑙 − 1 intersezioni. Se è 𝑠 = 1, ogni 𝐵𝑗 interseca 𝐴1 ; le intersezioni sono quindi 𝑙 = 1 + 𝑙 − 1. Sia ora 𝑠 > 1. Riordiniamo gli 𝐴𝑖 , con 𝑖 ≤ 𝑠. Sia 𝐴′1 ∶= 𝐴1 . Per almeno uno degli altri 𝐴𝑖 esiste un 𝐵𝑗 (e uno solo) che interseca sia lui che 𝐴1 ; chiamiamolo 𝐴′2 . Supponiamo di aver definito 𝐴′1 , … , 𝐴′𝑝 . Fra gli 𝐴𝑖 rimasti, con 𝑖 ≤ 𝑠, se ce ne sono, ce n’è almeno uno che incontra un 𝐵𝑗 che, a sua volta, interseca uno, e uno solo, degli 𝐴′𝑖 precedenti; lo chiameremo 𝐴′𝑝+1 , e così via, fino ad 𝐴′𝑠 . Nel riordino appena fatto, abbiamo coinvolto 𝑠 − 1 dei 𝐵𝑗 , ciascuno dei quali incontra esattamente due degli 𝐴′𝑖 . Tutti gli altri 𝐵𝑗 , che sono 𝑙 − (𝑠 − 1), incontrano un solo 𝐴′𝑖 . Le intersezioni dei 𝐵𝑗 con gli 𝐴′𝑖 sono dunque in numero di 2(𝑠 − 1) + (𝑙 − 𝑠 + 1) = 2𝑠 − 2 + 𝑙 − 𝑠 + 1 = 𝑠 + 𝑙 − 1.
Inoltre ci sono ℎ−𝑠 intersezioni dovute agli 𝐴𝑖 che incontrano un solo 𝐵𝑗 . In tutto, le intersezioni degli 𝐴𝑖 con i 𝐵𝑗 , ossia le componenti connesse di 𝑈1 ∩ 𝑈2 , sono quindi (ℎ − 𝑠) + (𝑠 + 𝑙 − 1) = ℎ + 𝑙 − 1.
Osservazione 14.33. Osserviamo che, senza l’ipotesi che 𝑈1 ∪ 𝑈2 sia semplicemente connesso, l’ultimo teorema può cadere in difetto. Per esempio, in (ℝ2 , 𝜏𝑒 ), consideriamo gli aperti: 𝑈1 dato da ℝ2 meno l’asse delle ascisse e 𝑈2 dato da ℝ2 meno l’asse delle ordinate. Si ha immediatamente 𝑘(𝑈1 ) = 𝑘(𝑈2 ) = 2, 𝑘(𝑈1 ∪ 𝑈2 ) = 𝑘(ℝ2 ⧵ {(0, 0)}) = 1 e, in fine, 𝑘(𝑈1 ∩ 𝑈2 ) = 4. Si tenga presente che, comunque, le componenti connesse di 𝑈1 ∩ 𝑈2 sono ancora date dalle intersezioni di componenti connesse di 𝑈1 con componenti connesse di 𝑈2 . Ma c’è di peggio. Sempre in ℝ2 consideriamo gli aperti 𝑈1 ∶= ℝ× ] − 1/4, 1/4[
e
𝑈2 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∶ |𝑦 − sin 𝑥| < 1/4} .
I due insiemi sono addirittura semplicemente connessi; si ha quindi 𝑘(𝑈1 ) = 𝑘(𝑈2 ) = 1. L’insieme 𝑈1 ∪ 𝑈2 è connesso, ma non semplicemente connesso, dato che è pieno di “buchi”; si ha quindi 𝑘(𝑈1 ∪𝑈2 ) = 1. Per contro, l’insieme 𝑈1 ∩𝑈2 è sconnesso; anzi è formato da infinite componenti date da particolari intorni dei punti (𝑘𝜋, 0) dall’aspetto di parallelogrammi deformati. ◁
14.2. I Teoremi di Jordan e di Schoenflies
749
14.2 I Teoremi di Jordan e di Schoenflies Dopo questa lunga digressione riguardante gli insiemi semplicemente connessi, riprendiamo il cammino che ci porterà al Teorema della curva di Jordan. Abbiamo però bisogno ancora di qualche premessa. Diremo che in un sottoinsieme 𝐸 di uno spazio topologico 𝑋 sussiste la proprietà di punto fisso o proprietà di Brouwer se ogni funzione continua di 𝐸 in 𝐸 ha almeno un punto fisso. Diremo poi che in 𝐸 sussiste la proprietà di non retrazione se non esistono retrazioni di 𝐸 su 𝜕𝐸. Sussiste il seguente risultato:
Teorema 14.34. Sia 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1] ⊂ ℝ𝑛 , con 𝑛 ≥ 2. 𝐵 gode della proprietà di Brouwer se e solo se gode di quella di non retrazione. Dimostrazione. Proviamo il “solo se”. Supponiamo pertanto vera la proprietà di Brouwer e che, per assurdo, esista una retrazione 𝑟 ∶ 𝐵 → 𝜕𝐵. Consideriamo la funzione continua 𝜑 ∶ 𝐵 → 𝜕𝐵 ⊂ 𝐵 definita da 𝜑(x) ∶= −𝑟(x). Un eventuale punto fisso x̂ di 𝜑 deve essere tale che 𝜑(x)̂ = x;̂ ma 𝜑(x)̂ ∈ 𝜕𝐵 e su 𝜕𝐵 la 𝑟 è l’identità. Si ottiene 𝜑(x)̂ = x;̂
−x̂ = x;̂
x̂ = 0.
Ma ciò è impossibile, dato che 0 ∉ 𝜕𝐵. Proviamo il “se”. Supponiamo pertanto vera la proprietà di non retrazione e fissiamo un’applicazione continua 𝜑 ∶ 𝐵 → 𝐵. Vogliamo provare che 𝜑 ha almeno un punto fisso. Supponiamo, per assurdo, che sia 𝜑(x) ≠ x, ∀x ∈ 𝐵. Per ogni x ∈ 𝐵, resta così definita la semiretta 𝑆 uscente da x e vettore x − 𝜑(x). Si ha dunque 𝑆 ∶= {x + 𝑡(x − 𝜑(x)) ∶ 𝑡 ≥ 0}. La semiretta 𝑆 incontra 𝜕𝐵 in un unico punto che si ottiene imponendo che il punto x + 𝑡(x − 𝜑(x)), con 𝑡 ≥ 0, abbia norma 1. Si tenga presente che 𝜑(x) ∉ 𝑆. ‖x + 𝑡(x − 𝜑(x))‖2 = 1, con 𝑡 ≥ 0;
𝑡=
−1 + ‖x‖2 + 2𝑡⟨x, x − 𝜑(x)⟩ + 𝑡2 ‖x − 𝜑(x)‖2 = 0;
−⟨x, x − 𝜑(x)⟩ ± √⟨x, x − 𝜑(x)⟩2 + ‖x − 𝜑(x)‖2 (1 − ‖x‖2 ) ‖x − 𝜑(x)‖2
.
Diciamo 𝐴(x) l’espressione che, nell’ultima uguaglianza, compare sotto radice. Si ha 𝐴(x) ≥ ⟨x, x − 𝜑(x)⟩2 , da cui √𝐴(x) ≥ |⟨x, x − 𝜑(x)⟩|. Siccome noi cerchiamo soluzioni non negative, nell’ultima equazione dobbiamo prendere il segno “+”. Si ha così 𝑡 ∶= 𝑡(x). L’applicazione 𝐵 → [0, +∞[ data da x ↦ 𝑡(x) è continua. Quindi resta definita la funzione continua 𝑟 ∶ 𝐵 → 𝐵 espressa da 𝑟(x) ∶= x + 𝑡(x)(x − 𝜑(x)).
Ora 𝑡(x) è stato costruito in modo che risulti 𝑟(x) ∈ 𝜕𝐵; quindi si ha 𝑟 ∶ 𝐵 → 𝜕𝐵. Inoltre, da x ∈ 𝜕𝐵 e quindi ‖x‖ = 1, si ottiene 𝑡(x) = 0. Infatti, in questo caso,
14.2. I Teoremi di Jordan e di Schoenflies si ha:
750
⟨x, x − 𝜑(x)⟩ = ‖x‖2 − ⟨x, 𝜑(x)⟩ ≥ 1 − 1 ⋅ ‖𝜑(x)‖ ≥ 0.
da cui √𝐴(x) = ⟨x, x − 𝜑(x)⟩ e, appunto, 𝑡(x) = 0. Si ottiene che, in questo caso, è 𝑟(x) = x. In conclusione, 𝑟 è una retrazione, contro l’ipotesi.
Osserviamo che il precedente teorema sussiste anche per 𝑛 = 1. In effetti, sappiamo già dai Corsi elementari che ogni funzione continua 𝑓 di un intervallo [𝑎, 𝑏] in sé ha almeno un punto fisso; basta osservare che è 𝑓 (𝑎) ≥ 𝑎, 𝑓 (𝑏) ≤ 𝑏 e applicare il Teorema degli zeri alla funzione 𝑔 definita da 𝑔(𝑥) ∶= 𝑓 (𝑥) − 𝑥. D’altra parte, ogni applicazione continua di [𝑎, 𝑏] nella sua frontiera {𝑎, 𝑏}, che non è connessa, deve essere costante e non può quindi essere una retrazione. Teorema 14.35 (di punto fisso di Brouwer in ℝ2 ). Ogni funzione continua 𝑓 ∶ 𝐵 → 𝐵, con 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1] ⊂ ℝ2 , ha almeno un punto fisso. Lo stesso per le funzioni 𝑓 ∶ 𝐷 → 𝐷, con 𝐷 sottoinsieme di ℝ2 omeomorfo a 𝐵. Dimostrazione. Sappiamo dal Teorema 14.15 che 𝑆 1 = 𝜕𝐵 ⊂ ℝ2 non è un retratto di 𝐵 e quindi, per il teorema precedente, in 𝐵[0, 1] vale la proprietà di Brouwer. Siano ora 𝐷 ⊂ ℝ2 omeomorfo a 𝐵 e 𝜑 ∶ 𝐵 → 𝐷 un omeomorfismo. L’applicazione continua 𝜑−1 ∘ 𝑓 ∘ 𝜑 ∶ 𝐵 → 𝐵 è continua e, per quanto appena visto, deve ammettere un punto fisso z. Si ha dunque 𝜑−1 (𝑓 (𝜑(z))) = z, da cui 𝑓 (𝜑(z)) = 𝜑(z). Il punto 𝜑(z) ∈ 𝐷 è fisso per 𝑓 . Il teorema precedente sussiste anche per 𝑛 > 2; ne vedremo la dimostrazione più avanti (Teorema 15.7). Come corollario del Teorema di Brouwer otteniamo il seguente
Teorema 14.36 (di Poincaré-Miranda in ℝ2 ). Sia 𝑅 ∶= [−𝑎1 , 𝑎1 ] × [−𝑎2 , 𝑎2 ] ⊂ ℝ2 ; indichiamo con 𝐼1− e 𝐼1+ il lato verticale sinistro e, rispettivamente, destro di 𝑅; analogamente, indichiamo con 𝐼2− e 𝐼2+ il lato orizzontale inferiore e, rispettivamente, superiore di 𝑅. Sia poi 𝑔 ∶ 𝑅 → ℝ2 un campo vettoriale continuo, con 𝑔 = (𝑔1 , 𝑔2 )⊤ tale, per ogni 𝑘 ∈ {1, 2}, si ha oppure
𝑔𝑘 (𝐼𝑘− ) ≤ 0,
𝑔𝑘 (𝐼𝑘− ) ≥ 0,
𝑔𝑘 (𝐼𝑘+ ) ≥ 0
𝑔𝑘 (𝐼𝑘+ ) ≤ 0.
Allora 𝑔 si annulla in almeno un punto di 𝑅.
Dimostrazione. Per fissare le idee, supponiamo che sia 𝑔1 (−𝑎1 , 𝑦) ≤ 0, ∀𝑦 ∈ [−𝑎2 , 𝑎2 ];
𝑔2 (𝑥, −𝑎2 ) ≤ 0, ∀𝑥 ∈ [−𝑎1 , 𝑎1 ].
14.2. I Teoremi di Jordan e di Schoenflies
751
Sia 𝑝 = (𝑝1 , 𝑝2 )⊤ ∶ ℝ2 → ℝ2 l’applicazione continua definita da ⎧−𝑎𝑖 , se 𝑥𝑖 < −𝑎𝑖 , ⎪ 𝑝𝑖 (𝑥, 𝑦) ∶= ⎨𝑥𝑖 , se |𝑥𝑖 | ≤ 𝑎𝑖 , ⎪𝑎 , se 𝑥𝑖 > 𝑎𝑖 , ⎩ 𝑖
con 𝑖 ∈ {1, 2}.
Per costruzione, si ha 𝑝(𝑥, 𝑦) ∈ 𝑅, ∀(𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 . Inoltre 𝑝 ristretta a 𝑅 coincide con l’identità. Sia ora 𝑓 ∶ ℝ2 → ℝ2 la funzione continua definita da 𝑓 ∶= 𝑝 − 𝑔 ∘ 𝑝. Per ogni z ∶= (𝑥, 𝑦) ∈ ℝ2 , si ha ‖𝑓 (z)‖2 ≤ ‖𝑝(z)‖2 + ‖𝑔(𝑝(z))‖2 ≤ √𝑎21 + 𝑎22 + max {‖𝑔(z)‖2 ∶ z ∈ 𝑅} =∶ 𝑘.
Dunque si ha 𝑓 (z) ∈ 𝐵 ∶= 𝐵[0, 𝑘], ∀z ∈ ℝ2 e, in particolare, per ogni z ∈ 𝐵. Per il Teorema di Brouwer, 𝑓 deve avere almeno un punto fisso ẑ ∈ 𝐵. Si ha quindi ẑ = 𝑝(z)̂ − 𝑔(𝑝(z)). ̂ (14.5)
Se ẑ =∶ (𝑥,̂ 𝑦)̂ ∉ 𝑅, deve essere o |𝑥|̂ > 𝑎1 o |𝑦|̂ > 𝑎2 . Supponiamo che sia 𝑥̂ < −𝑎1 . Risulta allora 𝑝1 (z)̂ = −𝑎1 , da cui 𝑔1 (𝑝1 (z)) ̂ ≤ 0. Si ricava −𝑎1 > 𝑥̂ = 𝑝1 (z)̂ − 𝑔1 (𝑝1 (z)) ̂ = −𝑎1 − 𝑔1 (𝑝1 (z)) ̂ ≥ −𝑎1 .
Si ottiene così un assurdo. Analogamente per gli altri casi. Deve dunque essere ẑ ∈ 𝑅, da cui 𝑝(z)̂ = z.̂ Per la (14.5), si conclude che è ẑ = ẑ − 𝑔(z)̂ e quindi 𝑔(z)̂ = 0.
Lemma 14.37. Siano 𝐽 ⊂ ℝ2 una curva di Jordan e 𝐴 ∶= ℝ2 ⧵ 𝐽 . Se 𝐴 non è connesso, ogni sua componente connessa ha 𝐽 come frontiera. Dimostrazione. Facciamo due osservazioni preliminari. (𝑎) Dal Teorema 13.68 si ottiene che ogni componente connessa di 𝐴 è connessa anche per cammini. (𝑏) 𝐴 ha esattamente una componente connessa illimitata. Infatti, dato che 𝐽 è compatto e quindi limitato, esiste un disco 𝐵 ∶= 𝐵[0, 𝑟] che lo contiene. Si ha immediatamente che ℝ2 ⧵ 𝐵 è connesso per cammini. (Si veda la dimostrazione del Lemma 14.27.) Quindi la componente connessa che contiene ℝ2 ⧵ 𝐵 è illimitata. Tutte le altre, se ce ne sono, devono essere contenute in 𝐵 e sono quindi limitate. Per ipotesi, 𝐴 ha almeno due componenti connesse, di cui esattamente una illimitata. Diciamo 𝑈 una di queste componenti. Poiché ogni altra componente 𝑊 è aperta e disgiunta da 𝑈 , 𝑊 non ha punti di cl 𝑈 e quindi nemmeno di fr 𝑈 . Ne consegue che è fr 𝑈 ⊆ 𝐽 . Supponiamo, per assurdo, che sia fr 𝑈 ≠ 𝐽 . Esiste quindi 𝑤 ∈ 𝐽 ⧵ fr 𝑈 . Siccome è 𝐽 = 𝛾(𝑆 1 ), per un’opportuna funzione continua 𝛾 ∶ 𝑆 1 → ℝ2 , esiste 𝑡0 ∈ 𝑆 1 per cui è 𝛾(𝑡0 ) = 𝑤. Esiste un intorno aperto 𝑉 di 𝑤 disgiunto da fr 𝑈 , dato che questo insieme è chiuso. Per la continuità
14.2. I Teoremi di Jordan e di Schoenflies
752
di 𝛾, esiste un intorno aperto 𝑉0 di 𝑡0 in 𝑆 1 con 𝛾(𝑉0 ) ⊆ 𝑉 . Si conclude che è fr 𝑈 ⊆ 𝛾(𝑆 1 ⧵𝑉0 ). Ne viene che fr 𝑈 è contenuta in un arco 𝐶 ⊂ 𝐽 . Sia 𝑝 un punto di una componente limitata di 𝐴. Se 𝑈 è limitata, prendiamo 𝑝 ∈ 𝑈 . Sia 𝐷 un disco di centro 𝑝 abbastanza grande da contenere 𝐽 nel suo interno. Si ottiene che la frontiera 𝑆 di 𝐷 è contenuta nella componente illimitata di 𝐴. Siccome l’arco 𝐶 è omeomorfo all’intervallo 𝐼 ∶= [0, 1], l’identità di 𝐶 ammette, per il Teorema di Tietze 2.101, un prolungamento continuo 𝑓 ∶ 𝐷 → 𝐶. Definiamo ora una funzione continua ℎ ∶ 𝐷 → 𝐷 ⧵ {𝑝}, distinguendo i casi in cui 𝑈 è limitata o illimitata. ℎ(𝑧) ∶=
𝑓 (𝑧), se 𝑧 ∈ cl 𝑈 , se 𝑧 ∉ 𝑈 , {𝑧, (se 𝑈 è limitata)
;
ℎ(𝑧) ∶=
𝑧, se 𝑧 ∈ cl 𝑈 , {𝑓 (𝑧), se 𝑧 ∉ 𝑈 , (se 𝑈 è illimitata).
Siccome è fr 𝑈 ⊆ 𝐶 dove la funzione 𝑓 è l’identità, la precedente definizione è coerente e la funzione ℎ è continua. Inoltre, per costruzione, è 𝑓 (𝑧) ≠ 𝑝, ∀𝑧 ∈ 𝐷 e 𝑓 (𝑧) = 𝑧, ∀𝑧 ∈ 𝑆. Siano, in fine, 𝑔 ∶ 𝐷 ⧵ {𝑝} → 𝑆 la proiezione radiale e 𝜑 ∶ 𝑆 → 𝑆 la mappa antipodale. Si conclude che la funzione continua composta 𝜑 ∘ 𝑔 ∘ ℎ ∶ 𝐷 → 𝑆(⊂ 𝐷) non ha punti fissi. Ma ciò va contro il Teorema di Brouwer. Lemma 14.38. Siano ℎ, 𝑘 ∶ [−1, 1] → 𝑅 due cammini di 𝑅 ∶= [−1, 1]2 , con ℎ(𝑡) ∶= (ℎ1 (𝑡), ℎ2 (𝑡))⊤ , ∀𝑡 ∈ [−1, 1] e 𝑘(𝑠) ∶= (𝑘1 (𝑠), 𝑘2 (𝑠))⊤ , ∀𝑠 ∈ [−1, 1]. Si supponga inoltre che sia ℎ1 (−1) = −1,
ℎ1 (1) = 1,
𝑘2 (−1) = −1,
𝑘2 (1) = 1.
(14.6)
Allora i due cammini si incontrano. Esistono cioè 𝑡,̂ 𝑠 ̂ ∈ [−1, 1] tali che ℎ(𝑡)̂ = 𝑘(𝑠). ̂ Dimostrazione. Consideriamo la funzione continua 𝑓 ∶ 𝑅 → ℝ2 , con 𝑓 = (𝑓1 , 𝑓2 )⊤ definita da 𝑓1 (𝑡, 𝑠) ∶= ℎ1 (𝑡) − 𝑘1 (𝑠);
Per ogni 𝑡, 𝑠 ∈ [−1, 1], si ha
𝑓1 (−1, 𝑠) ∶= −1 − 𝑘1 (𝑠) ≤ 0;
𝑓2 (𝑡, −1) ∶= −1 − ℎ2 (𝑡) ≤ 0;
𝑓2 (𝑡, 𝑠) ∶= 𝑘2 (𝑠) − ℎ2 (𝑡).
𝑓1 (1, 𝑠) ∶= 1 − 𝑘1 (𝑠) ≥ 0; 𝑓2 (𝑡, 1) ∶= 1 − ℎ2 (𝑡) ≥ 0.
Per il Teorema di Poincaré-Miranda, esiste un punto ẑ =∶ (𝑡,̂ 𝑠)̂ tale che 𝑓 (z)̂ = 0, da cui ℎ(𝑡)̂ = 𝑘(𝑠). ̂ Possiamo finalmente dimostrare il noto Teorema sulla curva di Jordan.
Teorema 14.39 (di Jordan). Data una curva di Jordan 𝐽 ⊂ ℝ2 , l’insieme 𝐴 ∶= ℝ2 ⧵ 𝐽 è costituito esattamente da due insiemi aperti e connessi, uno dei quali limitato e l’altro illimitato, di cui 𝐽 è la frontiera comune.
14.2. I Teoremi di Jordan e di Schoenflies
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Dimostrazione. Abbiamo visto nella dimostrazione del Lemma 14.37 che 𝐴 ha esattamente una componente connessa illimitata. Ci basta quindi mostrare che 𝐴 ha esattamente una componente connessa limitata. Poiché 𝐽 è un insieme compatto, esistono 𝑎, 𝑏 ∈ 𝐽 tali che 𝑑(𝑎, 𝑏) = diam 𝐽 . Usando similitudini e isometrie del piano, si vede che non è restrittivo supporre che sia 𝑎 ∶= (−1, 0) e 𝑏 ∶= (1, 0). Ne viene che esiste 𝑘 > 0 tale che 𝐽 ⊂ 𝑅 ∶= [−1, 1] × [−𝑘, 𝑘] e tale che 𝑆 ∶= 𝜕𝑅 incontri 𝐽 solo in 𝑎 e 𝑏. n l Jn
a
b Js
m
z0 p
w q s
Siano poi 𝑛 ∶= (0, 𝑘) e 𝑠 ∶= (0, −𝑘). I punti 𝑎 e 𝑏 dividono 𝐽 in due archi; ciascuno di essi e quindi anche 𝐽 , interseca il segmento [𝑛, 𝑠], per il Lemma 14.38. Fra i punti di intersezione di 𝐽 con [𝑛, 𝑠] ce ne deve essere uno di ordinata massima; sia esso 𝑙. Indichiamo con 𝐽𝑛 l’arco individuato su 𝐽 dai punti 𝑎 e 𝑏 che contiene il punto 𝑙; l’altro sarà detto 𝐽𝑠 . Sia poi 𝑚 il punto di [𝑛, 𝑠] ∩ 𝐽𝑛 con ordinata minima; può anche essere 𝑚 = 𝑙. Anche il segmento [𝑚, 𝑠] deve intersecare 𝐽𝑠 . Infatti, in caso contrario, il cammino [𝑛, 𝑙] + (𝑙, 𝑚) + [𝑚, 𝑠] (dove (𝑙, 𝑚) indica il sottoarco di 𝐽𝑛 che unisce 𝑙 a 𝑚 e il segno + indica l’incollamento) non incontrerebbe 𝐽𝑠 , contro il Lemma 14.38. Siano 𝑝 e 𝑞 i punti di [𝑚, 𝑠] ∩ 𝐽𝑠 di massima e, rispettivamente, minima ordinata. Si ha 𝑞 ≤ 𝑝 < 𝑚. Sia, in fine, 𝑧0 il punto medio del segmento [𝑚, 𝑝]. Come passo successivo, mostriamo che la componente connessa 𝑈 di 𝐴 che contiene 𝑧0 è limitata. Supponiamo, per assurdo, che 𝑈 sia illimitata. Poiché 𝑈 è connesso per cammini, esiste un cammino 𝛾 ∶ 𝐼 → 𝑈 che unisce 𝑧0 con un punto 𝑧1 esterno a 𝑅. Esso deve incontrare 𝑆. Sia 𝑡0 il minimo dei 𝑡 ∈ 𝐼 per cui è 𝛾(𝑡) ∈ 𝑆 e poniamo 𝑤 ∶= 𝛾(𝑡0 ). Sia 𝛾 ′ la restrizione di 𝛾 a [0, 𝑡0 ]. Se 𝑤 sta nella parte inferiore di 𝑆 (rispetto ai punti 𝑎 e 𝑏), si può andare da 𝑤 a 𝑠 con un cammino 𝑤𝑠 di 𝑆 senza toccare né 𝑎 né 𝑏. Consideriamo ora il cammino [𝑛, 𝑙] + (𝑙, 𝑚) + [𝑚, 𝑧0 ] + 𝛾 ′ + 𝑤𝑠 . Questo cammino non incontra 𝐽𝑠 , ma ciò va contro il Lemma 14.38. Similmente, se 𝑤 sta nella metà superiore di 𝑆, si considera il cammino [𝑠, 𝑧0 ] + 𝛾 ′ + 𝑤𝑛 , dove 𝑤𝑛 è il cammino di 𝑆 che va da 𝑤 a 𝑛 senza incontrare né 𝑎 né 𝑏. Si ottiene così un cammino di 𝑅 da 𝑠 a 𝑛 che
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non interseca 𝐽𝑛 , contraddicendo il Lemma 14.38. La contraddizione mostra che 𝑈 è limitata. Supponiamo, in fine, che ci sia un’altra componente connessa limitata 𝑊 di 𝐴. Chiaramente, è 𝑊 ⊂ 𝑅. Indichiamo con 𝛽 il cammino [𝑛, 𝑙] + (𝑙, 𝑚) + [𝑚, 𝑝] + (𝑝, 𝑞) + [𝑞, 𝑠], dove (𝑝, 𝑞) è il sottoarco di 𝐽𝑠 che unisce 𝑝 a 𝑞. Si può vedere che 𝛽 non ha punti di 𝑊 . Infatti: i punti di [𝑛, 𝑙[ e di ]𝑞, 𝑠] appartengono alla componente illimitata di 𝐴; i punti di ]𝑚, 𝑝[ appartengono a 𝑈 ; gli altri punti appartengono a 𝐽 . Siccome 𝑎, 𝑏 ∉ 𝛽, esistono un intorno aperto 𝑉𝑎 di 𝑎 e uno 𝑉𝑏 di 𝑏 disgiunti da 𝛽. Per il Lemma 14.37, 𝑎, 𝑏 ∈ cl 𝑊 . Esistono perciò un 𝑎′ ∈ 𝑉𝑎 ∩ 𝑊 e un 𝑏′ ∈ 𝑉𝑏 ∩ 𝑊 . Sia (𝑎′ , 𝑏′ ) un cammino di 𝑊 che unisce 𝑎′ e 𝑏′ . Si conclude che il cammino [𝑎, 𝑎′ ] + (𝑎′ , 𝑏′ ) + [𝑏′ , 𝑏] unisce 𝑎 e 𝑏, ma non incontra 𝛽, ancora una volta contro il Lemma 14.38. L’assurdo così ottenuto completa la dimostrazione. Osservazione 14.40. Guardando il risultato del Lemma 14.37, si potrebbe pensare di poter concludere direttamente che le componenti connesse di 𝐴 ∶= ℝ2 ⧵ 𝐽 siano esattamente 2. Ebbene, le cose possono essere ben più complicate.
Infatti, si può dare un esempio di 3 aperti connessi di ℝ2 a due a due disgiunti con la frontiera in comune. Se chiamiamo 𝐽 la frontiera comune, ℝ2 ⧵ 𝐽 è sconnesso e formato da tre componenti connesse di cui una illimitata e le altre due limitate. Sono i cosiddetti Laghi di Wada. Essi furono introdotti dal matematico giapponese Kunizo Yoneyama nel 1917 attribuendone la scoperta al suo maestro Takeo Wada. In figura riportiamo il suo disegno originario. Illustriamo brevemente la costruzione originale espressa, come si vede, in termini “poetici”. Supponiamo di avere un’isola, con al suo interno un lago di acqua dolce. Si vogliono costruire dei canali in modo che in prossimità di ogni punto dell’isola si trovi sia dell’acqua salata sia dell’acqua dolce. Si seguirà in modo induttivo il seguente schema. Sia (𝑟𝑛 )𝑛 una successione di numeri reali positivi strettamente decrescente e infinitesima. Il primo giorno, si costruirà un canale a partire dal lago in modo tale che non incontri mai il mare e che la distanza dai singoli punti dell’isola, e quindi anche dalla costa, sia minore di 𝑟1 ; il punto finale di questo canale è chiamato 𝐿1 . Il secondo giorno, si costruirà un canale a partire dal mare in modo tale che non incontri mai il lago e il canale esistente e la distanza dai singoli punti dell’isola sia minore di 𝑟2 ; il punto finale di questo canale è chiamato 𝑆2 . Il terzo giorno, si prolungherà il primo canale
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a partire da 𝐿1 , senza mai incontrare il lago, il mare e i canali già esistenti, e in modo che la distanza dai singoli punti dell’isola sia minore di 𝑟3 ; il punto finale di questo canale è chiamato 𝐿3 . E così via… Questo procedimento può essere generalizzato al caso in cui sull’isola ci siano due laghi, uno di acqua calda e uno di acqua fredda.
Adesso, il primo canale parte dal mare, il secondo dal lago di acqua calda e il terzo da quello di acqua fredda; poi si ricomincia… Con questo procedimento si ottengono tre aperti connessi, di cui uno solo illimitato, che hanno tutti la medesima frontiera (è ciò che resta dell’isola!). Una simile costruzione era stata proposta anche da L. E. J. Brouwer nel 1910. Questi esempi sono stati considerati poco più di semplici curiosità per diversi anni; dal 1990 in poi sono stati rivalutati nell’ambito della Teoria del Caos ([35]). Con gli strumenti di calcolo degli attuali computers sono stati prodotti esempi numerici di equazioni differenziali dove sono presenti queste strutture topologiche. ◁ Sappiamo che una curva di Jordan 𝐽 è omeomorfa ad 𝑆 1 e che la componente 𝐴𝑖 è un insieme aperto e connesso come la parte interna rispetto a 𝑆 1 che è 𝐵(0, 1). È naturale chiedersi se anche 𝐵(0, 1) e la componente interna di ℝ2 ⧵ 𝐽 sono fra loro omeomorfe. La risposta è affermativa ed è fornita dal Teorema di Schoenflies 14.57, ma per arrivare a dimostrarlo c’è bisogno di diversi risultati preliminari.
Definizione 14.41. Dato un arco 𝐿 ⊂ ℝ2 , indicheremo con 𝐿0 il corrispondente arco aperto, ossia privato degli estremi. Sia 𝑈 un aperto connesso del piano. Diremo taglio di 𝑈 ogni arco 𝐿 che unisce due punti di fr 𝑈 , con 𝐿0 ⊂ 𝑈 . Un punto 𝑧 ∈ fr 𝑈 è detto accessibile da 𝑈 se esiste un arco 𝐿 che unisce 𝑧 a un punto di 𝑈 con 𝐿 ⧵ {𝑧} ⊂ 𝑈 . Data una curva di Jordan 𝐽 , indicheremo con int 𝐽 ed ext 𝐽 la componente limitata (interna) e, rispettivamente, illimitata (esterna) di ℝ2 ⧵ 𝐽 . ◁ Definizione 14.42. L’unione Γ𝑛 ∶= 𝐿0 ∪ 𝐿1 ∪ ⋯ ∪ 𝐿𝑛 di 𝑛 + 1(≥ 2) archi (non loops) del piano è detta una rete di archi se sono soddisfatte le tre seguenti condizioni: 1. 𝐿0 ∪ 𝐿1 è una curva di Jordan 𝐽 . 2. Per ogni 𝑘 > 0, 𝐿𝑘 ∩ (𝐿0 ∪ 𝐿1 ∪ ⋯ ∪ 𝐿𝑘−1 ) coincide con l’insieme formato dai due estremi di 𝐿𝑘 . (In particolare, gli archi 𝐿0 e 𝐿1 hanno solo gli estremi in comune.) 3. Per ogni 𝑘 > 1, è 𝐿0𝑘 ⊂ int 𝐽 .
14.2. I Teoremi di Jordan e di Schoenflies Se è 𝑛 < 𝑚, diremo che Γ𝑚 estende Γ𝑛 e scriveremo Γ𝑛 ≺ Γ𝑚 .
756 ◁
Definizione 14.43. Siano 𝐽 ∶= 𝐿0 ∪ 𝐿1 una curva di Jordan, 𝐷 ∶= int 𝐽 e Γ una rete di archi contenuti in cl 𝐷 = 𝐷 ∪ 𝐽 che estende 𝐽 . 𝐷 ⧵ Γ resta diviso in una famiglia di componenti connesse 𝐷𝑘 , con 𝑘 ∈ 𝐾. (Risulta cl 𝐷 = ⋃𝑘 cl 𝐷𝑘 .) Il numero 𝑚(Γ) ∶= sup {diam 𝐷𝑘 ∶ 𝑘 ∈ 𝐾 } è detto mesh di Γ.
◁
Lemma 14.44. Sia 𝐽 una curva di Jordan, con 𝐽 ∶= 𝛾(𝑆 1 ) e fissiamo un 𝜀 > 0. Esiste allora un 𝛿 > 0 tale che, dati 𝑥, 𝑦 ∈ 𝐽 con 𝑑(𝑥, 𝑦) < 𝛿, segue che almeno uno dei due archi di 𝐽 da essi individuati ha diametro minore di 𝜀.
Dimostrazione. Osserviamo intanto che, essendo 𝛾 uniformemente continua, dato 𝜌 > 0, esiste un 𝜎 ∶= 𝜎(𝜌) > 0 tale che, per ogni 𝑧 ∈ 𝑆 1 , si ottiene 𝛾(𝑆 1 ∩ 𝐵(𝑧, 𝜎)) ⊆ 𝐵(𝛾(𝑧), 𝜌/2), da cui diam 𝛾(𝑆 1 ∩ 𝐵(𝑧, 𝜎)) < 𝜌. Supponiamo ora, per assurdo, che esista 𝜀 > 0 tale che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ esistano due punti 𝑥𝑛 , 𝑦𝑛 ∈ 𝐽 con 𝑑(𝑥𝑛 , 𝑦𝑛 ) < 1/𝑛 e tali che entrambi gli archi di 𝐽 da essi individuati abbiano diametro maggiore di 𝜀. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , esistono esattamente due punti 𝑧𝑛 , 𝑤𝑛 ∈ 𝑆 1 tali che 𝛾(𝑧𝑛 ) = 𝑥𝑛 e 𝛾(𝑤𝑛 ) = 𝑦𝑛 . Inoltre, per quanto visto all’inizio, deve essere 𝑑(𝑧𝑛 , 𝑤𝑛 ) ≥ 𝜎(𝜀), ∀𝑛. Con un ragionamento standard si vede che esiste una successione crescente (𝑛𝑘 )𝑘 di numeri naturali tali che la sottosuccessione (𝑧𝑛𝑘 )𝑘 di (𝑧𝑛 )𝑛 converge a un punto 𝑧 ∈ 𝑆 1 e la sottosuccessione (𝑤𝑛𝑘 )𝑘 di (𝑤𝑛 )𝑛 converge a un punto 𝑤 ∈ 𝑆 1 . Da 𝑑(𝑧𝑛𝑘 , 𝑤𝑛𝑘 ) ≥ 𝜎(𝜀), ∀𝑘, si ottiene 𝑧 ≠ 𝑤. D’altra parte, per la continuità di 𝛾, si ha (𝛾(𝑧𝑛𝑘 ))𝑘 = (𝑥𝑛𝑘 )𝑘 → 𝛾(𝑧) e (𝛾(𝑤𝑛𝑘 ))𝑘 = (𝑦𝑛𝑘 )𝑘 → 𝛾(𝑤); essendo 𝑑(𝑥𝑛𝑘 , 𝑦𝑛𝑘 ) < 1/𝑛𝑘 → 0, si conclude che è 𝛾(𝑧) = 𝛾(𝑤). Ma ciò va contro l’iniettività di 𝛾. Lemma 14.45. Siano 𝐽 ∶= 𝐿0 ∪𝐿1 una curva di Jordan, 𝐷 ∶= int 𝐽 e fissiamo un 𝜂 > 0. Esiste allora una suddivisione di 𝐷 generata da una rete di archi Γ con mesh minore di 𝜂.
Dimostrazione. Prendiamo 𝜀 ∶= 𝜂/3. Sia 𝒱 la famiglia delle rette verticali 𝑉𝑘 di equazione 𝑥 = 𝑘𝜀/2, con 𝑘 ∈ ℤ. Siccome 𝐷 è limitato, esso interseca solo un numero finito di queste rette. L’intersezione 𝑉𝑘 ∩ 𝐷, se non è vuota, è data dall’unione al più numerabile di intervalli 𝐼𝑛𝑘 aperti a due a due disgiunti. Per il lemma precedente, esiste un 𝛿 > 0 tale che, per ogni coppia di punti distinti di 𝐽 che distano meno di 𝛿, almeno uno degli archi da essi individuati ha diametro minore di 𝜀/4. Esiste al più un numero finito di 𝐼𝑛𝑘 con diam 𝐼𝑛𝑘 ≥ 𝛿. Indichiamoli con 𝐿02 , … , 𝐿0𝑝 . Sia poi Γ1 ∶= 𝐽 ∪ 𝐿2 ∪ ⋯ ∪ 𝐿𝑝 , dove, per ogni 𝑖, 𝐿𝑖 è l’arco 𝐿0𝑖 con aggiunti gli estremi (appartenenti a 𝐽 ). Vogliamo mostrare che ogni componente connessa e limitata di 𝐷1 ∶= ℝ2 ⧵ Γ1 incontra al più 3 strisce verticali consecutive. Supponiamo che esista una
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componente limitata 𝑈 di 𝐷1 che ne incontra 4. Ne viene che 𝑈 interseca tre rette del tipo 𝑉𝑘−1 , 𝑉𝑘 , 𝑉𝑘+1 . Fissiamo un 𝑎 ∈ 𝑈 ∩ 𝑉𝑘−1 e un 𝑏 ∈ 𝑈 ∩ 𝑉𝑘+1 . Deve esistere un arco Σ ⊂ 𝑈 che unisce 𝑎 con 𝑏. È dunque Σ = 𝜎(𝐼), con 𝜎(0) ∶= 𝑎 e 𝜎(1) ∶= 𝑏. Possiamo inoltre supporre che Σ non contenga segmenti verticali. L’arco Σ deve incontrare 𝑉𝑘 . Sia 𝑡0 ∶= sup {𝑡 ∈ 𝐼 ∶ 𝜎(𝑡) ∈ 𝑉𝑘 }. Per la continuità di 𝜎, deve essere 𝜎(𝑡0 ) ∈ 𝑉𝑘 . Esiste 𝑚 ∈ ℕ tale che 𝜎(𝑡0 ) ∈ 𝐼𝑘𝑚 . Se fosse diam 𝐼𝑘𝑚 < 𝛿, gli estremi di questo intervallo genererebbero due archi 𝐿′ , 𝐿″ di 𝐽 almeno uno dei quali con diametro minore di 𝜀/4. Unendo 𝐼𝑘𝑚 con 𝐿′ e con 𝐿″ , si costruirebbero due curve di Jordan che dovrebbero contenere al loro interno ciascuna uno dei due punti 𝑎, 𝑏. Ma nessuno di questi due punti può appartenere a un insieme di diametro minore di 𝜀/4, dato che è 𝑑(𝑎, 𝑉𝑘 ) = 𝑑(𝑏, 𝑉𝑘 ) = 𝜀/2. Poi si fa la stessa costruzione con la famiglia ℋ delle rette orizzontali 𝐻𝑘 di equazioni 𝑦 = 𝑘𝜀/2, con 𝑘 ∈ ℤ. Si estende così 𝐽 ad una rete di archi Γ2 ∶= 𝐽 ∪ 𝐿′2 ∪ ⋯ ∪ 𝐿𝑞′ in modo che ogni componente connessa e limitata di 𝐷2 ∶= ℝ2 ⧵ Γ2 incontra al più 3 strisce orizzontali consecutive. Se un 𝐿′𝑟 interseca qualche 𝐿𝑠 ⊂ Γ1 lo possiamo pensare come unione di un numero finito di segmenti orizzontali ognuno dei quali incontra Γ1 solo negli estremi. Con questo accorgimento, si ha che Γ ∶= 𝐽 ∪ 𝐿2 ∪ ⋯ ∪ 𝐿𝑝 ∪ 𝐿′2 ∪ ⋯ ∪ 𝐿′𝑞 è una rete di archi che estende Γ1 . Ora si ha che ogni componente connessa 𝑈 di ℝ2 ⧵ Γ è contenuta in un quadrato di lato 3𝜀/2, da cui diam 𝑈 ≤ 3𝜀√2/2 < 3𝜀 = 𝜂.
Lemma 14.46. Siano (𝑋, 𝜏) uno spazio topologico localmente connesso e 𝐶 un suo sottoinsieme chiuso, proprio e non vuoto. Allora, per ogni componente connessa 𝑈 di 𝑋 ⧵ 𝐶, si ha fr 𝑈 ⊆ 𝐶. Dimostrazione. Sia 𝑈 una componente connessa di 𝑋 ⧵ 𝐶 e supponiamo, per assurdo, che esista 𝑧 ∈ fr 𝑈 ⧵ 𝐶. Diciamo 𝐴𝑧 la componente connessa di 𝑋 ⧵ 𝐶 contenente 𝑧. Essendo 𝑈 aperto, è 𝑧 ∉ 𝑈 . Dato che 𝑋 è localmente connesso, dal Teorema 13.37 si ha che anche 𝐴𝑧 è un aperto (contenente 𝑧). Si ottiene che è 𝑈 ∩ 𝐴𝑧 = ∅. Pertanto, nell’intorno 𝐴𝑧 di 𝑧 non ci sono punti di 𝑈 , contro l’ipotesi 𝑧 ∈ fr 𝑈 . Lemma 14.47. Su una curva di Jordan 𝐽 fissiamo due punti 𝑎, 𝑏 in modo che per il segmento 𝐿 che li unisce si abbia 𝐿0 ⊂ 𝐴 ∶= int 𝐽 . Allora 𝐿 divide 𝐴 esattamente in due componenti aperte e connesse 𝐴′ , 𝐴″ . Se indichiamo con 𝐿′ , 𝐿″ gli archi in cui 𝐽 è diviso dai punti 𝑎, 𝑏, allora le frontiere di 𝐴′ , 𝐴″ sono date da 𝐿 ∪ 𝐿′ e, rispettivamente, 𝐿 ∪ 𝐿″ . Dimostrazione. Poniamo 𝐽 ′ ∶= 𝐿 ∪ 𝐿′ e 𝐽 ″ ∶= 𝐿 ∪ 𝐿″ . 𝐽 ′ e 𝐽 ″ sono ancora due curve di Jordan; poniamo quindi 𝐴′ ∶= int 𝐽 ′ e 𝐴″ ∶= int 𝐽 ″ . Essendo 𝐽 ′ ≠ 𝐽 ″ , si ha, ovviamente, 𝐴′ ≠ 𝐴″ . Mostriamo che è 𝐴′ ∩ 𝐴″ = ∅. Fissiamo un elemento 𝑧0 ∈ 𝐿″ ⧵ 𝐿. Ovviamente 𝑧0 ∉ 𝐽 ′ ; non è nemmeno 𝑧0 ∈ 𝐴′ ⊆ 𝐴;
14.2. I Teoremi di Jordan e di Schoenflies
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è dunque 𝑧0 ∈ ext 𝐽 ′ . Esiste un intorno 𝑈 di 𝑧0 con 𝑈 ⊂ ext 𝐽 ′ . Esiste 𝑧1 ∈ 𝑈 ∩ 𝐴″ . Ne viene che la componente connessa di 𝐴 ⧵ 𝐿 che contiene 𝑧1 è contenuta in ext 𝐽 ′ ; ciò vale quindi anche per 𝐴″ che è perciò disgiunto da 𝐴′ . A questo punto, possiamo affermare che che 𝐴′ e 𝐴″ sono aperti connessi e disgiunti in 𝐴⧵𝐿. Essi sono anche componenti connesse, perché, per il Teorema di Jordan, si ha cl 𝐴′ = 𝐴′ ∪ 𝐽 ′ e cl 𝐴″ = 𝐴″ ∪ 𝐽 ″ . Rimane da dimostrare che non vi sono altre componenti connesse di 𝐴 ⧵ 𝐿. Sia 𝑤 un punto di 𝐿0 . Esiste una palla 𝐵 ∶= 𝐵[𝑤, 𝑟] ⊂ 𝐴. Poniamo 𝑀 ∶= 𝐿 ∩ 𝐵 e 𝑀 ⊥ il diametro di 𝐵 ortogonale a 𝑀; diciamo poi 𝑞 ′ , 𝑞 ″ gli estremi di 𝑀 ⊥ . Non è restrittivo supporre che sia 𝑤 ∶= (0, 𝑘) e che 𝑞 ′ e 𝑞 ″ siano, rispettivamente, i punti (−𝑟, 𝑘) e (𝑟, 𝑘). Possiamo inoltre supporre 𝑞 ′ ∈ 𝐴′ . Per il Teorema di Jordan, si ha 𝐿 ⊂ fr 𝐴′ ∩ fr 𝐴″ . Quindi in 𝐵 cadono, oltre a punti di 𝐴′ , anche punti di 𝐴″ e di ext 𝐽 ′ . Tutti i punti di 𝐵 con ascissa minore di 0 stanno in 𝐴′ , perché uniti a 𝑞 ′ da un segmento di 𝐵 ⧵ 𝐿. Ne viene che i punti di 𝐵 che non stanno in 𝐴′ devono avere ascissa maggiore di 0. Sia 𝑧 uno di questi. Tutti i punti di 𝐵 con ascissa maggiore di 0 sono uniti a 𝑧 mediante un segmento contenuto in 𝐵 ⧵ 𝐿 e devono pertanto appartenere a una medesima componente connessa disgiunta da 𝐴′ . Siccome in 𝐵 ci devono essere punti di 𝐴″ , si conclude tutti i punti di 𝐵 con ascissa maggiore di 0, in particolare 𝑞 ″ , stanno in 𝐴″ . Abbiamo così che ogni punto 𝑧 ∈ 𝐿0 ha un intorno 𝐵𝑧 tale che 𝐵𝑧 ⊆ 𝐴;
𝐵 𝑧 ⧵ 𝐿0 ⊆ 𝐴 ′ ∪ 𝐴″ .
(14.7)
Sappiamo che 𝐴′ e 𝐴″ sono due componenti connesse di 𝐴 ⧵ 𝐿0 . Sia, per assurdo, 𝑈 un’ulteriore componente connessa di 𝐴⧵𝐿0 . 𝑈 deve essere disgiunta da 𝐴′ e 𝐴″ . Applicando però il lemma precedente allo spazio topologico 𝐴 che è localmente connesso, si ottiene fr 𝑈 ⊂ 𝐿0 , contro il fatto che ogni punto 𝑧 ∈ 𝐿0 ha, per quanto precede, un intorno soddisfacente alla (14.7). Definizione 14.48. Uno spazio metrico (𝑋, 𝑑) è detto uniformemente localmente connesso (per insiemi) se, per ogni 𝜀 > 0 esiste un 𝛿 > 0 tale che ogni coppia di punti 𝑥, 𝑦 ∈ 𝑋 che distano meno di 𝛿 appartengono a un sottoinsieme connesso (per insiemi) di 𝑋 con diametro minore di 𝜀. (Ovviamente è 𝛿 ≤ 𝜀.)◁ Osservazione 14.49. Si ha facilmente che Ogni spazio metrico uniformemente localmente connesso è localmente connesso. Per constatarlo, fissiamo un 𝜀 > 0 e un punto 𝑧 ∈ 𝑋 e mostriamo che ogni sua palla 𝐵 ∶= 𝐵(𝑧, 𝜌), con 2𝜌 ≤ 𝛿 ∶= 𝛿(𝜀) è connessa. Dati due punti in 𝐵 essi distano meno di 𝛿 ed esiste quindi, per ipotesi, un connesso che li contiene. La tesi segue ora dalla Proposizione 13.4.9 applicata a 𝐵. Non sussiste l’implicazione opposta. In ℝ consideriamo l’insieme 𝑋 ∶=
1 1 , . ⋃+ ] 2𝑛 2𝑛 − 1 [
𝑛∈ℕ
Per avere un esempio di spazio uniformemente localmente connesso ma non connesso, basta prendere 𝑋 ∶= [0, 1] ∪ [2, 3](⊂ ℝ) e 𝛿 = 𝜀 < 1.
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In fine, un esempio di spazio connesso ma non uniformemente localmente connesso è dato dall’insieme “scopa” dell’Esempio 13.84.3. ◁ Teorema 14.50. L’interno 𝐷 di una curva di Jordan 𝐽 è uniformemente localmente connesso. Anzi: per ogni 𝜀 > 0, esiste un 𝛿 > 0 tale che, dati 𝑎, 𝑏 ∈ 𝐷 con 𝑑(𝑎, 𝑏) < 𝛿, esiste un aperto connesso per archi 𝑈 ⊂ 𝐷 che li contiene, con diam 𝑈 < 𝜀.
Dimostrazione. Siano 𝐽 una curva di Jordan e 𝐷 ∶= int 𝐽 . Fissiamo un 𝜀 > 0. Non è restrittivo supporre che sia 2𝜀 < diam 𝐽 . Per il Lemma 14.45, esiste una rete di archi Γ di mesh minore di 𝜀/5 che suddivide 𝐷. Per costruzione, Γ si può pensare ottenuto da 𝐽 con un numero finito di passi in ciascuno dei quali si aggiunge un segmento (orizzontale o verticale); ad ogni passo si divide l’interno di una curva di Jordan e, per il Lemma 14.47, il numero delle componenti connesse aumenta esattamente di uno. In conclusione, le componenti connesse di int 𝐽 ⧵ Γ sono in numero finito. Poiché è 2𝜀 < diam 𝐽 , esistono due componenti connesse limitate 𝑈𝑖 , 𝑈𝑗 di 2 ℝ ⧵ Γ tali che cl 𝑈𝑖 ∩ cl 𝑈𝑗 = ∅. Poniamo 𝛿 ∶= min {𝑑(cl 𝑈𝑖 , cl 𝑈𝑗 ) ∶ cl 𝑈𝑖 ∩ cl 𝑈𝑗 = ∅} .
Prendiamo ora due punti 𝑎, 𝑏 ∈ 𝐷 con 𝑑(𝑎, 𝑏) < 𝛿. Se i due punti appartengono ad un medesimo 𝑈𝑖 , essi sono contenuti in un connesso di diametro minore di 𝜀. In caso contrario, si ha 𝑎 ∈ 𝑈𝑖 e 𝑏 ∈ 𝑈𝑗 con cl 𝑈𝑖 ∩cl 𝑈𝑗 ≠ ∅. Questa intersezione può essere o un segmento 𝑆 o un punto 𝑐, eventualmente appartenente a 𝐽 . Nel primo caso, aggiungendo 𝑆 0 a 𝑈𝑖 ∪𝑈𝑗 , si ottiene un aperto connesso di diametro minore o uguale a 2𝜀/5 < 𝜀. Nel secondo caso, il punto 𝑐 può appartenere al massimo alla chiusura di altre due componenti. La frontiera di una di esse (𝑈𝑘 ) deve avere un segmento in comune con fr 𝑈𝑖 e una (𝑈𝑙 ), non necessariamente diversa, deve avere un segmento in comune con fr 𝑈𝑗 . Unendo tutte queste componenti e aggiungendo i segmenti aperti comuni a due di esse, si ottiene un aperto connesso di diametro minore o uguale a 4𝜀/5 < 𝜀. Teorema 14.51. Ogni punto di una curva di Jordan è accessibile da ciascuna delle due componenti connesse di ℝ2 ⧵ 𝐽 .
Dimostrazione. Cominciamo col dimostrare che ogni punto di 𝐽 è accessibile da 𝐷 ∶= int 𝐽 (cfr. Definizione 14.41). Fissiamo un punto 𝑎 ∈ 𝐽 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia 𝛿𝑛 > 0 tale che ogni coppia di punti di 𝐵(𝑎, 𝛿𝑛 ) ∩ 𝐷 possano essere uniti da un arco di 𝐵(𝑎, 1/𝑛) ∩ 𝐷 (cfr. teorema precedente). Non è restrittivo supporre che sia 𝛿𝑛+1 < 𝛿𝑛 ≤ 1/𝑛. Fissiamo 𝑥1 ∈ 𝐵(𝑎, 𝛿1 ). Prendiamo poi un 𝑥2 ∈ 𝐵(𝑎, 𝛿2 ) e diciamo 𝑠1 un arco di 𝐵(𝑎, 1) ∩ 𝐷 che unisce 𝑥1 e 𝑥2 . Possiamo supporlo parametrizzato in [0, 1/2]. Preso un 𝑥3 ∈ 𝐵(𝑎, 𝛿3 ), esiste un arco 𝑠2 di 𝐵(𝑎, 1/2) ∩ 𝐷 che unisce 𝑥2 a 𝑥3 . Possiamo supporlo parametrizzato in [1/2, 3/4]. Supponiamo di aver definito 𝑥𝑘
14.2. I Teoremi di Jordan e di Schoenflies
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per ogni 𝑘 ≤ 𝑛 e 𝑠𝑘 per ogni 𝑘 ≤ 𝑛 − 1. Prendiamo ora un 𝑥𝑛+1 ∈ 𝐵(𝑎, 𝛿𝑛+1 ) ∩ 𝐷 e diciamo 𝑠𝑛 un arco di 𝐵(𝑎, 1/𝑛) ∩ 𝐷 che unisce 𝑥𝑛 e 𝑥𝑛+1 . Possiamo supporlo parametrizzato in [1 − 2−(𝑛−1) , 1 − 2−𝑛 ]. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , 𝛾𝑛 ∶= 𝑠1 ∪ ⋯ ∪ 𝑠𝑛 è un cammino di 𝐷 che unisce 𝑥1 a 𝑥𝑛+1 ed è parametrizzato in [0, 1 − 2−𝑛 ]. Per costruzione, si ha lim𝑛→+∞ 𝑥𝑛 = 𝑎. Vogliamo costruire un cammino 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝐷 ∪ 𝐽 che unisce 𝑥1 ad 𝑎 e con 𝛾(1) = 𝑎 e 𝛾(𝑡) ∈ 𝐷, ∀𝑡 < 1. Poniamo dunque 𝛾(𝑡) ∶=
𝑠𝑛 (𝑡), {𝑎,
per 𝑡 ∈ [2−(𝑛−1) , 2−𝑛 ], per 𝑡 = 1.
Per il Teorema 13.51 𝛾(([0, 1])) contiene un arco 𝐿 che unisce 𝑥1 ad 𝑎 e con 𝐿 ⧵ {𝑎} ⊂ 𝐷. Passiamo alla componente illimitata 𝐷′ ∶= ext 𝐽 . Non è restrittivo supporre che sia 0 ∈ int 𝐽 . Essendo 𝐽 limitato, esiste 𝑟 > 0 tale che 𝐽 ⊂ 𝐵(0, 𝑟). Sia ℎ ∶ ℝ2 ⧵ {0} → ℝ2 ⧵ {0} l’inversione circolare rispetto alla circonferenza 𝑆(0, 𝑟) definita da 𝑟2 𝑦 𝑟2 𝑥 ℎ(𝑥, 𝑦) ∶= , . ( 𝑥2 + 𝑦2 𝑥2 + 𝑦2 )
Essa è un omeomorfismo e quindi ℎ(𝐽 ) ⧵ {0} è ancora una curva di Jordan. Ora ℎ muta ext 𝐽 in int ℎ(𝐽 ). A questo punto, la tesi è immediata.
Data una curva di Jordan 𝐽 e su di essa due punti 𝑎, 𝑏 distinti, è sempre possibile costruire un arco Γ che li unisce, con Γ 0 contenuto in una prefissata componente connessa 𝑈 di ℝ2 ⧵𝐽 . Infatti, per il lemma precedente, si può unire 𝑎 ad un punto 𝑎1 ∈ 𝑈 con un arco Γ1 tale che Γ1 ⧵ {𝑎} ⊂ 𝑈 ; analogamente, si può unire 𝑏 ad un punto 𝑏1 ∈ 𝑈 con un arco Γ3 tale che Γ3 ⧵ {𝑏} ⊂ 𝑈 ; in fine 𝑎1 e 𝑏1 sono uniti da un arco Γ2 di 𝑈 . Unendo i tre archi, si ottiene un cammino Γ che unisce 𝑎 e 𝑏 con Γ 0 ⊂ 𝑈 . Da questo cammino si può poi estrarre un arco con le stesse proprietà. Il seguente risultato generalizza quello del Lemma 14.47.
Lemma 14.52 (Lemma della 𝜃-curva). Siano 𝐽 una curva di Jordan, 𝑎, 𝑏 ∈ 𝐽 due punti distinti e 𝐿 un arco con 𝐿0 ⊂ int 𝐽 che unisce 𝑎 e 𝑏. Allora 𝐿 divide int 𝐽 esattamente in due componenti aperte e connesse 𝐴′ , 𝐴″ . Se indichiamo con 𝐿′ , 𝐿″ gli archi in cui 𝐽 è diviso dai punti 𝑎, 𝑏, allora le frontiere di 𝐴′ , 𝐴″ sono date da 𝐿 ∪ 𝐿′ e 𝐿 ∪ 𝐿″ .
Dimostrazione. Per non appesantire le notazioni, indicheremo con 𝐿0 , anziché 𝐿0 , l’arco 𝐿 privato degli estremi. Analogamente per gli altri archi. Le curve 𝐽 ′ ∶= 𝐿 ∪ 𝐿′ e 𝐽 ″ ∶= 𝐿 ∪ 𝐿″ sono ancora due curve di Jordan. Indichiamo con 𝑋 uno degli insiemi ext 𝐽 , int(𝐿 ∪ 𝐿′ ), int(𝐿 ∪ 𝐿″ ). Dato che risulta fr 𝑋 ⊂ 𝐽 ∪ 𝐿, si ha cl 𝑋 ∩ (ℝ2 ⧵ (𝐽 ∪ 𝐿)) = 𝑋 ∩ (ℝ2 ⧵ (𝐽 ∪ 𝐿)).
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Ne viene che 𝑋 è un clopen di ℝ2 ⧵ (𝐽 ∪ 𝐿) ed è quindi una sua componente connessa. Vogliamo mostrare che si ha ℝ2 ⧵ (𝐽 ∪ 𝐿) = ext 𝐽 ∪ int(𝐿 ∪ 𝐿′ ) ∪ int(𝐿 ∪ 𝐿″ ).
Supponiamo, per assurdo, che ℝ2 ⧵ (𝐽 ∪ 𝐿) abbia una quarta componente connessa 𝑈 che deve, necessariamente, essere limitata, come si vede ragionando analogamente a quanto fatto nella dimostrazione del Lemma 14.37, Osservazione (𝑏). L’insieme fr 𝑈 deve incontrare ciascuno degli archi aperti 𝐿0 , 𝐿′0 , 𝐿″0 . Infatti, se fosse fr 𝑈 ∩𝐿0 = ∅, si avrebbe fr 𝑈 ⊆ 𝐽 e cl 𝑈 ∩(ℝ2 ⧵𝐽 ) = 𝑈 ∩(ℝ2 ⧵𝐽 ). Quindi 𝑈 sarebbe un clopen di ℝ2 ⧵ 𝐽 e quindi, essendo limitato, coinciderebbe con int 𝐽 ⊇ 𝐿0 . Assurdo. In modo simile si procede per gli altri due casi. Per il lemma precedente, possiamo costruire un cammino Γ, con Γ0 ⊂ 𝑈 , che unisce un punto 𝑢″ ∈ 𝐿″ con un punto 𝑢′ ∈ 𝐿′ e un cammino Σ, con Σ0 ⊂ ext 𝐽 che unisce due punti 𝑣′ , 𝑣″ che stanno in due archi aperti non adiacenti di 𝐽 ⧵ {𝑎, 𝑏, 𝑢′ , 𝑢″ }. Sia Ω la curva di Jordan definita da Ω ∶= Γ + (𝑢′ 𝑣′ ) + Σ + (𝑣″ 𝑢″ ),
⌃ a u00 L00
L
L0
v 00
v0 u0 b
dove (𝑢′ 𝑣′ ) è un sottoarco di 𝐿′ e (𝑣″ 𝑢″ ) è un sottoarco di 𝐿″ (vedi figura). Siccome è Γ ⊂ 𝑈 ∪ {𝑢′ , 𝑢″ } ⊂ ℝ2 ⧵ 𝐿, si ha Ω ∩ 𝐿 = ∅. Sussistono inoltre le seguenti proprietà: 1. Ogni componente connessa di ℝ2 ⧵ Ω interseca int 𝐽 , ext 𝐽 e anche 𝐽 . Intanto, per il Teorema di Jordan, le componenti di ℝ2 ⧵ Ω sono due: int Ω e ext Ω. Fissiamo un punto 𝑤 ∈ Γ0 . Essendo 𝑤 ∈ int 𝐽 , quest’ultimo insieme è un suo intorno aperto; per definizione di frontiera, in esso ci sono punti di int Ω e di ext Ω. Si conclude che i due insiemi int Ω ∩ int 𝐽 , ext Ω ∩ int 𝐽 sono non vuoti. Analogamente, partendo da un punto 𝑧 ∈ Σ0 , si vede che sono non vuoti gli insiemi int Ω ∩ ext 𝐽 , ext Ω ∩ ext 𝐽 . Fissiamo un punto 𝑤1 ∈ int Ω ∩ int 𝐽 e un punto 𝑧1 ∈ int Ω ∩ ext 𝐽 . Essendo int Ω connesso per archi, esiste in esso un cammino 𝐻 che unisce 𝑤 con 𝑧1 . Per il Corollario 14.4, 𝐻 deve incontrare 𝐽 ; è dunque anche int Ω ∩ 𝐽 ≠ ∅. In modo perfettamente analogo si prova che è ext Ω ∩ 𝐽 ≠ ∅.
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2. I due archi di 𝐽 ⧵Ω sono connessi da 𝐿 e stanno quindi in una componente connessa 𝐵 di ℝ2 ⧵ Ω. 3. fr 𝐵 = Ω ⊃ (𝑢′ 𝑣′ ) ∪ (𝑣″ 𝑢″ ) (per il Lemma 14.37 e la costruzione di Ω). Dai punti 2 e 3 si ottiene che è 𝐽 ⊂ cl 𝐵. Detta ora 𝐶 l’altra componente connessa di ℝ2 ⧵ Ω, si ha 𝐶 ∩ 𝐽 = ∅, contro la 1. Corollario 14.53. Siano 𝐽 ∶= 𝐿0 ∪ 𝐿1 una curva di Jordan, 𝐷1 ∶= int 𝐽 e Γ𝑛 ∶= 𝐿0 ∪ 𝐿1 ∪ ⋯ ∪ 𝐿𝑛 una rete di archi contenuti in cl 𝐷1 = 𝐷1 ∪ 𝐽 . Allora l’insieme 𝐷𝑛 ∶= cl 𝐷1 ⧵ Γ𝑛 ha esattamente 𝑛 componenti connesse.
Dimostrazione. Per 𝑛 = 1, la tesi segue dal Teorema di Jordan; per 𝑛 = 2, essa è data dal Lemma della 𝜃-curva. Supponiamo vera la tesi per 𝑛 ≥ 2 e proviamola per 𝑛 + 1. Siano 𝑈1 , … , 𝑈𝑛 le componenti connesse di 𝐷𝑛 ; è dunque 𝐷𝑛 = 𝑈1 ∪⋯∪𝑈𝑛 . Sia poi 𝐿𝑛+1 un arco tale che 𝐿𝑛+1 ∩(𝐿0 ∪𝐿1 ∪⋯∪𝐿𝑛 ) = 𝜕𝐿𝑛+1 . Senza perdita di generalità, possiamo supporre che sia 𝐿0𝑛+1 ⊂ 𝑈𝑛 . Ancora dal lemma precedente sappiamo che 𝐿𝑛+1 divide 𝑈𝑛 esattamente in due aperti connessi 𝑈𝑛+ e 𝑈𝑛− con fr 𝑈𝑛− ∪ fr 𝑈𝑛+ = fr 𝑈𝑛 ∪ 𝐿𝑛+1 . Il numero delle componenti connesse aumenta quindi di uno.
Sappiamo dal Teorema 14.29 che un arco non chiuso Γ non separa il piano. Ragionando come nel Teorema 14.51, si ottiene che ogni punto di Γ è accessibile da ℝ2 ⧵Γ. Da ciò si ricava poi facilmente (Esercizio!) che: Ogni arco non chiuso del piano è contenuto in una curva di Jordan. Definizione 14.54. Siano Γ𝑛 e Γ𝑛∗ due reti di archi e ℎ ∶ Γ𝑛 → Γ𝑛∗ un omeomorfismo. Diremo che ℎ è regolare se è possibile ordinare le componenti connesse limitate 𝑈1 , … , 𝑈𝑛 di ℝ2 ⧵ Γ𝑛 e le componenti connesse limitate 𝑈1∗ , … , 𝑈𝑛∗ di ℝ2 ⧵ Γ𝑛∗ in modo che si abbia ℎ(fr 𝑈𝑖 ) = fr 𝑈𝑖∗ ,
𝑖 = 1, … , 𝑛.
◁
Ovviamente: Se l’omeomorfismo ℎ ∶ Γ𝑛 → Γ𝑛∗ è regolare, è tale anche il suo inverso ℎ−1 .
Osservazione 14.55. Chiaramente l’identità di Γ𝑛 è un omeomorfismo regolare. Vediamo un esempio meno banale. Siano: 𝐿0 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝑆 1 ∶ 𝑥 ≤ 0} ; 𝐿1 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝑆 1 ∶ 𝑥 ≥ 0} ; 𝐿2 ∶= {(0, 𝑦) ∶ |𝑦| ≤ 1} ; Γ2 = Γ2∗ ∶= 𝐿0 ∪ 𝐿1 ∪ 𝐿2 .
Si vede subito che l’applicazione ℎ definita da ℎ1 (𝑥, 𝑦) ∶= (𝑥, −𝑦) è un omeomorfismo regolare. Sia ora ℎ2 ∶ Γ2 → Γ2∗ definita come segue: se 𝑥 < 0; ⎧(𝑥, 𝑦), ⎪ 2 ℎ2 (𝑥, 𝑦) ∶= ⎨(√1 − 𝑦 , 𝑦), se 𝑥 = 0; ⎪(0, 𝑦), se 𝑥 > 0. ⎩
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In conclusione, ℎ2 è l’identità su 𝐿0 e scambia fra loro gli altri due archi. Chiaramente ℎ2 è un omeomorfismo. Le componenti connesse limitate individuate da Γ2 sono 𝑈1 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝐵(0, 1) ∶ 𝑥 < 0} ;
𝑈2 ∶= {(𝑥, 𝑦) ∈ 𝐵(0, 1) ∶ 𝑥 > 0} .
Queste sono anche le componenti connesse limitate individuate da Γ2∗ , ma è ℎ(fr 𝑈1 ) = 𝑆 1 che è diverso sia da fr 𝑈1 che da fr 𝑈2 . Quindi ℎ2 non è regolare.◁
Lemma 14.56. Siano Γ𝑛 , Γ𝑚 , con 𝑛 < 𝑚, due reti di archi tali che Γ𝑚 estende Γ𝑛 . Ogni omeomorfismo regolare ℎ di Γ𝑛 su una rete di archi Γ𝑛∗ può essere prolungato a un omeomorfismo regolare ℎ′ di Γ𝑚 su un’opportuna rete di archi Γ𝑚∗ che estende Γ𝑛∗ . Inoltre, per ogni componente connessa limitata 𝑈𝑖 generata da Γ𝑛 , si ha ℎ′ (Γ𝑚 ∩ cl 𝑈𝑖 ) ⊆ cl 𝑈𝑖∗ .
Dimostrazione. È sufficiente provare la tesi nel caso che sia 𝑚 = 𝑛 + 1, ossia Γ𝑚 = Γ𝑛 ∪ 𝐿𝑛+1 , con 𝐿0𝑛+1 ⊂ int(𝐿0 ∪ 𝐿1 ). Se 𝑎, 𝑏 sono gli estremi di 𝐿𝑛+1 , si ha 𝐿𝑛+1 ∩ Γ𝑛 = {𝑎, 𝑏}. Al solito, poniamo 𝐷 ∶= int(𝐿0 ∪ 𝐿1 ) e chiamiamo 𝑈1 , … , 𝑈𝑛 le componenti connesse di cl 𝐷⧵Γ𝑛 . Analogamente, poniamo 𝐷∗ ∶= int(𝐿∗0 ∪𝐿∗1 ) e chiamiamo 𝑈1∗ , … , 𝑈𝑛∗ le corrispondenti componenti connesse di cl 𝐷∗ ⧵ Γ𝑛∗ (si tenga presente che ℎ è regolare). Non è restrittivo supporre che sia 𝐿0𝑛+1 ⊂ 𝑈𝑛 . Sempre per la regolarità di ℎ, si ha ℎ(𝑎), ℎ(𝑏) ∈ fr 𝑈𝑛∗ . Per il Teorema 14.51, possiamo costruire un taglio 𝐿∗𝑛+1 di 𝑈𝑛∗ che unisce i punti ℎ(𝑎) e ℎ(𝑏). Possiamo dunque estendere ℎ a Γ𝑛+1 ponendo ℎ′ (𝐿𝑛+1 ) ∶= 𝐿∗𝑛+1 . Ora, per il Lemma 14.52, 𝐿𝑛+1 divide 𝑈𝑛 in due aperti connessi che possiamo chiamare 𝑉𝑛 e 𝑉𝑛+1 . Analogamente, 𝐿∗𝑛+1 divide 𝑈𝑛∗ in due aperti connessi che possiamo chiamare ∗ 𝑉𝑛∗ e 𝑉𝑛+1 e indiciati in modo che risulti ℎ′ (fr 𝑉𝑖 ) = fr 𝑉𝑖∗ , con 𝑖 ∈ {𝑛, 𝑛 + 1}. Veniamo all’ultima parte della tesi, sempre con 𝑚 = 𝑛 + 1. Per 1 ≤ 𝑖 < 𝑛 si ha Γ𝑛+1 ∩ cl 𝑈𝑖 = Γ𝑛 ∩ cl 𝑈𝑖 = fr 𝑈𝑖 e ℎ′ (fr 𝑈𝑖 ) = ℎ(fr 𝑈𝑖 ) = fr 𝑈𝑖∗ . Si ha poi Γ𝑛+1 ∩ cl 𝑈𝑛 = fr 𝑈𝑛 ∪ 𝐿𝑛+1 , da cui ℎ′ (Γ𝑛+1 ∩ cl 𝑈𝑛 ) = ℎ′ (fr 𝑈𝑛 ) ∪ ℎ′ (𝐿𝑛+1 ) = = ℎ(fr 𝑈𝑛 ) ∪ 𝐿∗𝑛+1 ⊂ cl 𝑈𝑛∗ .
Teorema 14.57 (di Schoenflies). Sia 𝐽 una curva di Jordan. Ogni omeomorfismo ℎ ∶ 𝑆 1 → 𝐽 può essere esteso ad un omeomorfismo ℎ ∶ 𝐵 = 𝐵[0, 1] → 𝐽 ∪ int 𝐽 . Dimostrazione. Poniamo 𝐷 ∶= int 𝐽 , da cui cl 𝐷 = 𝐷 ∪ 𝐽 . Costruiremo due successioni di reti di archi (Γ𝑛 )𝑛 in 𝐵, [(Γ𝑛∗ )𝑛 in cl 𝐷], con Γ𝑛 ≺ Γ𝑛+1 , ∀𝑛, [con ∗ Γ𝑛∗ ≺ Γ𝑛+1 , ∀𝑛]. Costruiremo inoltre due successioni di omeomorfismi regolari (ℎ𝑛 )𝑛 , [(ℎ∗𝑛 )𝑛 ], con ℎ𝑛 ∶ Γ𝑛 → ℎ𝑛 (Γ𝑛 ) ⊂ cl 𝐷, ∀𝑛, [con ℎ∗𝑛 ∶ Γ𝑛∗ → ℎ∗𝑛 (Γ𝑛∗ ) ⊂ 𝐵, ∀𝑛] tali che 𝑚(Γ𝑛 ) < 1/𝑛, ∀𝑛 ∈ ℕ+ , [𝑚(Γ𝑛∗ ) < 1/𝑛, ∀𝑛 ∈ ℕ+ ] e in modo che, per ogni 𝑛 > 0, ℎ𝑛 prolunga ℎ𝑛−1 , [ℎ∗𝑛 prolunga ℎ∗𝑛−1 ]. Il simbolo 𝑚(Γ) indica la mesh della rete di archi Γ (cfr. Definizione 14.43). Si tenga ben presente che ora
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l’indice 𝑛 associato a Γ𝑛 e a Γ𝑛∗ dà solo il posto nella successione e nulla ci dice sul numero degli archi coinvolti. Iniziamo ponendo: Γ0 ∶= 𝑆 1 , ℎ0 ∶= ℎ, Γ0∗ ∶= 𝐽 , ℎ∗0 ∶= ℎ−1 . Ovviamente ℎ0 e ℎ∗0 sono omeomorfismi regolari. Descriviamo i primi passi dell’induzione. In cl 𝐷, estendiamo ℎ0 (Γ0 )(= 𝐽 ) ad una rete di archi Γ1∗ con 𝑚(Γ1∗ ) < 1 (Lemma ∗ ∗ ∗ ∗ 14.45); prolunghiamo ℎ−1 0 ad un omeomorfismo regolare ℎ1 ∶ Γ1 → ℎ1 (Γ1 ) ⊂ 𝐵 ∗ ∗ (Lemma 14.56). Poi estendiamo ℎ1 (Γ1 ), che estende Γ0 in 𝐵, ad una rete di archi Γ1 con 𝑚(Γ1 ) < 1; prolunghiamo (ℎ∗1 )−1 , che prolunga ℎ0 , ad un omeomorfismo regolare ℎ1 ∶ Γ1 → ℎ1 (Γ1 ) ⊂ cl 𝐷. A partire da Γ0 , ℎ0 , Γ0∗ , ℎ∗0 , abbiamo così definito Γ1 , ℎ1 , Γ1∗ , ℎ∗1 . Supponiamo di aver definito Γ𝑛 , Γ𝑛∗ , ℎ𝑛 , ℎ∗𝑛 e costruiamo il passo successivo dell’induzione, tenendo sempre presenti i Lemmi 14.45 e 14.56. Costruiamo in ∗ ∗ cl 𝐷 una rete di archi Γ𝑛+1 che estende ℎ𝑛 (Γ𝑛 )(≻ Γ𝑛∗ ), in modo che sia 𝑚(Γ𝑛+1 )< −1 ∗ 1/(𝑛 + 1); prolunghiamo ℎ𝑛 , che prolunga ℎ𝑛 , ad un omeomorfismo regolare ∗ ∗ ∗ ℎ∗𝑛+1 ∶ Γ𝑛+1 → ℎ∗𝑛+1 (Γ𝑛+1 ) ⊂ 𝐵. Poi estendiamo ℎ∗𝑛+1 (Γ𝑛+1 ), che estende Γ𝑛 , ad una rete di archi Γ𝑛+1 , con 𝑚(Γ𝑛+1 ) < 1/(𝑛 + 1) e prolunghiamo (ℎ∗𝑛 )−1 , che prolunga ℎ𝑛 , ad un omeomorfismo regolare ℎ𝑛+1 ∶ Γ𝑛+1 → ℎ𝑛+1 (Γ𝑛+1 ) ⊂ cl 𝐷. ∗ Abbiamo così definito Γ𝑛+1 , ℎ𝑛+1 , Γ𝑛+1 , ℎ∗𝑛+1 . ∗ Poniamo Γ ∶= ⋃𝑛 Γ𝑛 , Γ ∶= ⋃𝑛 Γ𝑛∗ . (Ovviamente, Γ e Γ ∗ non sono più ̂ reti di archi!) Definiamo poi ℎ̂ ∶ Γ → Γ ∗ ponendo ℎ(𝑥) ∶= ℎ𝑛 (𝑥) se 𝑥 ∈ Γ𝑛 e, simmetricamente, definiamo ℎ̂ ∗ ∶ Γ ∗ → Γ ponendo ℎ̂ ∗ (𝑦) ∶= ℎ∗𝑛 (𝑦) se 𝑦 ∈ Γ𝑛∗ . La definizione di ℎ̂ e ℎ̂ ∗ è coerente. Infatti, se 𝑥 ∈ Γ𝑛 , si ha anche 𝑥 ∈ Γ𝑚 , ∀𝑚 > 𝑛 e ℎ𝑚 (𝑥) = ℎ𝑛 (𝑥), dato che ℎ𝑚 è un prolungamento di ℎ𝑛 ; inoltre, si ha ℎ𝑛 (Γ𝑛 ) ⊆ ∗ Γ𝑛+1 ⊆ Γ ∗ . Analogamente per ℎ̂ ∗ . Proviamo che ℎ̂ è uniformemente continua. Dato 𝜀 > 0, fissiamo un 𝑛 tale che 1/(𝑛 − 1) < 𝜀/3. Sia poi 𝑚 ∈ ℕ+ abbastanza grande affinché in 𝐵 ⧵ Γ𝑚 esistano componenti connesse 𝑈𝑖 , 𝑈𝑗 con cl 𝑈𝑖 ∩ cl 𝑈𝑗 = ∅. Fissiamo un 𝑘 > max{𝑛, 𝑚}. Si ottiene 𝑚(Γ𝑘 ) < 1/𝑘 e 𝑚(ℎ𝑘 (Γ𝑘 )) ≤ 1/(𝑘 − 1) < 1/(𝑛 − 1) < 𝜀/3. Dette 𝑈1 , … , 𝑈𝑝𝑘 le componenti connesse di 𝐵 ⧵ Γ𝑘 e 𝑈1∗ , … , 𝑈𝑝∗𝑘 le componenti connesse di cl 𝐷 ⧵ ℎ𝑘 (Γ𝑘 ), poniamo 𝛿𝑘 ∶= min {𝑑(cl 𝑈𝑖 , cl 𝑈𝑗 ) ∶ cl 𝑈𝑖 ∩ cl 𝑈𝑗 = ∅} .
Prendiamo come 𝛿 ∶= 𝛿𝜀 un numero positivo minore di 𝛿𝑘 . Per ogni 𝑛 > 𝑘 e ̂ 𝑛 ∩ cl 𝑈𝑖 ) ⊆ cl 𝑈 ∗ , da cui ℎ(Γ ̂ ∩ cl 𝑈𝑖 ) ⊆ Γ ∗ ∩ cl 𝑈 ∗ . per ogni 𝑖 ≤ 𝑝𝑘 , si ha ℎ(Γ 𝑖 𝑖 Dati comunque due punti 𝑥, 𝑦 ∈ Γ con 𝑑(𝑥, 𝑦) < 𝛿𝜀 , questi devono appartenere o alla chiusura di un 𝑈𝑖 all’unione cl 𝑈𝑖 ∪ cl 𝑈𝑗 , con cl 𝑈𝑖 ∩ cl 𝑈𝑗 ≠ ∅, da cui ̂ ̂ 𝑑(ℎ(𝑥), ℎ(𝑦)) < 2𝜀/3 < 𝜀. Per simmetria, anche ℎ̂ ∗ ∶ Γ ∗ → Γ è uniformemente continua. Gli insiemi Γ e Γ ∗ sono densi in 𝐵 e, rispettivamente, in cl 𝐷, che sono insiemi compatti. Per il Teorema di prolungabilità delle funzioni uniformemente continue 3.73, la funzione ℎ̂ può essere prolungata in modo unico ad una funzione uniformemente continua ℎ ∶ 𝐵 → cl 𝐷. Simmetricamente, anche la funzione ℎ̂ ∗ può essere prolungata in modo unico ad una funzione uniformemente conti∗ nua ℎ ∶ cl 𝐷 → 𝐵. Per costruzione, si ha che la funzione ℎ̂ ∗ ∘ ℎ̂ è l’identità su
14.2. I Teoremi di Jordan e di Schoenflies
765
Γ e che la funzione ℎ̂ ∘ ℎ̂ ∗ è l’identità su Γ ∗ . Per l’unicità dei prolungamenti di ∗ ∗ queste funzioni, si ha che le composte ℎ ∘ ℎ e ℎ ∘ ℎ devono essere le identità di 𝐵 e, rispettivamente, di cl 𝐷. Si conclude che ℎ è un omeomorfismo di 𝐵 su cl 𝐷 che ristretto a 𝑆 1 coincide con ℎ. Corollario 14.58. Data una curva di Jordan 𝐽 , l’insieme 𝐽 ∪ int 𝐽 è semplicemente connesso e in esso sussiste la proprietà di punto fisso.
La nozione di curva di Jordan si estende in modo naturale a 𝑆 2 . Per curva di Jordan in 𝑆 2 s’intende dunque il sostegno ℎ(𝑆 1 ) di un omeomorfismo ℎ ∶ 𝑆 1 → ℎ(𝑆 1 )(⊂ 𝑆 2 ).
Teorema 14.59 (di Jordan-Schoenflies). Data una curva di Jordan 𝐽 ⊂ 𝑆 2 (⊂ ℝ3 ), l’insieme 𝐴 ∶= 𝑆 2 ⧵ 𝐽 è costituito esattamente da due componenti aperte e connesse 𝐴1 , 𝐴2 di cui 𝐽 è la frontiera comune. Inoltre, ognuna di esse ha la chiusura omeomorfa a 𝐵[0, 1] ⊂ ℝ2 .
Dimostrazione. Per prima cosa osserviamo che non può essere 𝐽 ∶= ℎ(𝑆 1 ) = 𝑆 2 . Infatti 𝑆 2 è semplicemente connessa (Teorema 14.24), mentre l’insieme ℎ(𝑆 1 ), omeomorfo a 𝑆 1 , non lo è. Fissiamo un punto 𝑤 ∈ 𝑆 2 ⧵ 𝐽 . Non è restrittivo supporre che 𝑤 sia il polo nord di 𝑆 2 . L’insieme 𝑆 2 ⧵{𝑤} è omeomorfo a ℝ2 mediante la proiezione stereografica 𝑝 di polo 𝑤. Sia 𝐽 ′ ∶= 𝑝(𝐽 ). Anche 𝐽 ′ è omeomorfo a 𝑆 1 (cfr. Lemma 14.23) ed è quindi una curva di Jordan del piano. Siano 𝐴′1 e 𝐴′2 le componenti connesse di ℝ2 ⧵ 𝐽 ′ e supponiamo che 𝐴′1 sia quella illimitata. Le loro immagini tramite la funzione continua 𝑝−1 sono due aperti connessi e disgiunti di 𝑆 2 ; diciamoli 𝐴∗1 e 𝐴2 . Esiste una palla 𝐵 ∶= 𝐵[0, 𝑟] ⊂ ℝ2 che contiene 𝐴′2 . Si ha 𝑤 ∉ 𝑝−1 (𝐵) ⊃ cl 𝐴2 . Quindi è 𝑤 ∈ cl 𝐴∗1 . Si vede subito che 𝐴1 ∶= 𝐴∗1 ∪ {𝑤} è ancora un aperto connesso disgiunto da 𝐴2 . Gli aperti 𝐴1 e 𝐴2 sono quindi due componenti aperte e connesse di 𝑆 2 ⧵ 𝐽 . Se esistesse una terza componente connessa 𝑈 di 𝑆 2 ⧵ 𝐽 , la sua immagine 𝑝(𝑈 ) sarebbe un’ulteriore componente connessa di ℝ2 ⧵ 𝐽 ′ , ma ciò è impossibile. La stessa proiezione stereografica 𝑝 stabilisce un omeomorfismo fra 𝐽 ∪ 𝐴2 e 𝐽 ′ ∪ int 𝐽 ′ che, a sua volta, è omeomorfo a 𝐵[0, 1] ⊂ ℝ2 . Fissiamo poi 𝑧′ ∈ 𝐴′2 . Operando, con una nuova proiezione stereografica di polo 𝑧 ∶= 𝑝(𝑧′ ) , si ottiene che anche 𝐴1 ∪ 𝐽 è omeomorfo a 𝐵[0, 1] ⊂ ℝ2 .
15
Teoremi di punto fisso 15.1 Connessione e punti fissi in dimensione superiore Il primo risultato che vogliamo conseguire è quello di generalizzare il Teorema di punto fisso di Brouwer al caso ℝ𝑛 . Cominciamo con alcune considerazioni sull’insieme dei polinomi. Dato un polinomio 𝑃 in 𝑛(≥ 1) variabili, associando a ogni x ∈ ℝ𝑛 il numero reale 𝑃 (x), si ottiene una funzione polinomiale o razionale intera 𝐹𝑝 ∶ ℝ𝑛 → ℝ. Per convenzione, ogni polinomio in cui figurano esplicitamente 𝑛 variabili può essere pensato come polinomio in 𝑚 ≥ 𝑛 variabili, in cui sono nulli i coefficienti relativi ai monomi in cui figurano le 𝑚 − 𝑛 variabili rimanenti. Ciò vale, in particolare, per i polinomi costanti. Com’è ben noto, sussiste il Teorema 15.1 (Principio d’identità dei polinomi). Polinomi diversi danno luogo a funzioni polinomiali diverse.
Dimostrazione. Basta provare che un polinomio 𝑃 diverso dal polinomio nullo non può rappresentare la funzione nulla 0(x). Se 𝑃 è una costante (non nulla), non c’è niente da dimostrare. In caso contrario, facciamo induzione sul numero 𝑛 delle variabili che compaiono effettivamente. Caso 𝑛 = 1. È dunque 𝑃 = 𝑃 (𝑥) =∶ ∑𝑘𝑖=0 𝑎𝑖 𝑥𝑖 . Siccome, per ipotesi, 𝑃 non è una costante, è 𝑘 > 0. Sappiamo che esso ha al più 𝑘 radici, ossia al più 𝑘 valori di 𝑥 per cui è 𝑃 (𝑥) = 0. Caso 𝑛 = 2. Si ha 𝑃 = 𝑃 (𝑥, 𝑦). Per quanto precede, possiamo restringerci al caso in cui compaiono esplicitamente entrambe le variabili. È dunque 𝑃 = 𝑃 (𝑥, 𝑦) =∶ 𝐴𝑘 (𝑥)𝑦𝑘 + ⋯ + 𝐴1 (𝑥)𝑦 + 𝐴0 (𝑥),
con 𝑘 > 0,
𝐴𝑖 (𝑥) polinomio in 𝑥, ∀𝑖 ≤ 𝑘,
𝐴𝑘 (𝑥) ≠ 0(𝑥).
Il polinomio 𝐴𝑘 (𝑥) ha un numero finito di radici; possiamo quindi scegliere un 𝑡 ∈ ℝ per cui è 𝐴𝑘 (𝑡) ≠ 0. Si ottiene così un polinomio in 𝑦 con coefficiente direttivo diverso da 0 e che, per il punto precedente, non può identicamente annullarsi. 766
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767
Passo dell’induzione. Supponiamo vera la tesi per 𝑛 e proviamola per 𝑛 + 1. Si ha 𝑃 = 𝑃 (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 , 𝑦). Analogamente a prima, possiamo restringerci al caso in cui compaiono esplicitamente tutte le variabili. È dunque 𝑃 = 𝑃 (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 , 𝑦) =∶ 𝐴𝑘 (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 )𝑦𝑘 + ⋯ + 𝐴0 (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ), con 𝑘 > 0,
𝐴𝑖 (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ) polinomio ∀𝑖 ≤ 𝑘,
𝐴𝑘 (x) ≠ 0(x).
Siccome il polinomio 𝐴𝑘 (x) non è il polinomio nullo e in esso non figurano più di 𝑛 variabili, non genera la funzione identicamente nulla, possiamo scegliere 𝑛 valori 𝑡1 , … , 𝑡𝑛 ∈ ℝ per cui è 𝐴𝑘 (𝑡1 , … , 𝑡𝑛 ) ≠ 0. Si ottiene così un polinomio in 𝑦 con coefficiente direttivo diverso da 0 e che, per quanto precede, non può identicamente annullarsi. Possiamo quindi identificare i polinomi con le funzioni polinomiali (razionali intere) che essi rappresentano. Sappiamo poi che l’insieme 𝒫 ∶= 𝒫𝑛 dei polinomi in 𝑛 variabili costituisce un anello commutativo con unità (il polinomio costante 1) che contiene ℝ (funzioni polinomiali costanti) come sottoanello. Inoltre 𝒫 separa i punti. Infatti, dati in ℝ𝑛 due elementi distinti z ∶= (𝑧1 , … , 𝑧𝑛 ) e y ∶= (𝑦1 , … , 𝑦𝑛 ). esiste almeno un indice 𝑖 ≤ 𝑛 per cui è 𝑧𝑖 ≠ 𝑦𝑖 . Basta ora considerare il polinomio 𝑃 (x) ∶= 𝑥𝑖 per avere 𝑃 (z) ≠ 𝑃 (y). Dal Teorema di Weierstrass-Stone 12.67, si ottiene quindi il seguente
Corollario 15.2. Siano 𝐵 ∶= 𝐵[x, 𝑟](⊂ ℝ𝑚 , 𝜏𝑒 ) (che è uno spazio topologico compatto di Hausdorff) e 𝒫 l’anello dei polinomi (che contiene le costanti e separa i punti). Allora 𝒫 , ristretto a 𝐵, è denso in 𝐶(𝐵). Estenderemo ora questo corollario alle funzioni a valori in ℝ𝑚 , con 𝑚 > 1.
Teorema 15.3. Sia 𝒫 (𝑛, 𝑚) ⊂ 𝐶(𝐾, ℝ𝑚 ), dotato della norma lagrangiana, l’insieme delle funzioni 𝑃 ∶= (𝑃1 , … , 𝑃𝑚 )⊤ , con 𝑃𝑖 polinomio in 𝑛 variabili, per ogni 𝑖 ≤ 𝑚. Allora, per ogni compatto (non vuoto) 𝐾 ⊂ (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ), 𝒫 (𝑛, 𝑚), ristretto a 𝐾, è denso in 𝐶(𝐾, ℝ𝑚 ). Dimostrazione. Data 𝑓 = (𝑓1 , … , 𝑓𝑚 )⊤ ∈ 𝐶(𝐾, ℝ𝑚 ) e fissato un 𝜀 > 0, per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑚}, per il corollario precedente, applicato a una palla chiusa contenente 𝐾, esiste un polinomio 𝑃𝑖 , tale che |𝑓𝑖 (x) − 𝑃𝑖 (x)| < 𝜀/√𝑚, ∀x ∈ 𝐾.
Posto ora 𝑃 ∶= (𝑃1 , … , 𝑃𝑚 )⊤ ∈ 𝒫 (𝑛, 𝑚), si ha ‖𝑃 (x) − 𝑓 (x)‖2 < 𝜀, ∀x ∈ 𝐾. Siccome 𝐾 è un compatto, dalla precedente disuguaglianza otteniamo in fine ‖𝑃 − 𝑓 ‖∞ < 𝜀. I prossimi due lemmi seguono un’idea di N. Dunford e J.T. Schwartz (cfr. [17]). Le due dimostrazioni usano tecniche analitiche che si discostano un po’ dalla linea prevalente di questo libro. Questa fu anche una critica rivolta agli
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Autori, tant’è vero che il loro articolo del 1954 in cui proponevano questa dimostrazione fu rifiutato da una Rivista alla quale l’avevano sottoposto. D’altra parte, questo approccio permette di arrivare facilmente alla dimostrazione del Teorema di Brouwer in ℝ𝑛 , mentre dimostrazioni puramente topologiche richiedono strumenti che non abbiamo ancora sviluppato, quali quelli di omologia e omotopia. Lemma 15.4. Sia 𝑔 ∶ Ω(⊆ ℝ𝑛+1 ) → ℝ𝑛 una funzione di classe 𝐶 2 definita sull’aperto (non vuoto) Ω. Indichiamo con (𝑥0 , 𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ) un generico punto del dominio e con 𝑔𝑥𝑘 la 𝑘-ma colonna della matrice jacobiana di 𝑔. Sia 𝐷𝑖 il determinante della matrice 𝑛 × 𝑛 ottenuta cancellando la colonna 𝑖-ma della suddetta matrice jacobiana. Sussiste allora la seguente relazione 𝑛
∑ 𝑖=0
(−1)𝑖
𝜕𝐷𝑖 (x) = 0, 𝜕𝑥𝑖
∀x ∈ Ω.
(15.1)
Osservazione 15.5. Sottolineiamo che questo risultato non appare banale nemmeno per 𝑛 = 2. Infatti, se poniamo 𝑥0 = 𝑥, 𝑥1 = 𝑦; 𝑥2 = 𝑧; 𝑔(𝑥, 𝑦, 𝑧) = (𝑋(𝑥, 𝑦, 𝑧), 𝑌 (𝑥, 𝑦, 𝑧))⊤ ,
la matrice jacobiana prende la forma 𝑋𝑥 ( 𝑌𝑥
𝑋𝑦 𝑌𝑦
𝑋𝑧 . 𝑌𝑧 )
La relazione (15.1) si legge come
𝜕 𝜕 𝜕 (𝑋 𝑌 − 𝑌𝑦 𝑋𝑧 ) − (𝑋 𝑌 − 𝑌𝑥 𝑋𝑧 ) + (𝑋 𝑌 − 𝑌𝑥 𝑋𝑦 ) = 0. 𝜕𝑥 𝑦 𝑧 𝜕𝑦 𝑥 𝑧 𝜕𝑧 𝑥 𝑦
Il Lettore lo verifichi applicando il Teorema di Schwarz sull’identità delle derivate seconde miste. ◁ Dimostrazione. Osserviamo preliminarmente che la derivata rispetto a una certa variabile del determinante di una matrice di ordine 𝑛, i cui coefficienti siano delle funzioni, si può esprimere come la somma di 𝑛 determinanti ciascuno dei quali è ottenuto derivando (di volta in volta) una delle colonne della matrice di partenza. Ciò si ottiene dalla regola di derivazione di un prodotto e dalla definizione di determinante. Per semplicità di notazione, vogliamo che la colonna in cui compare la derivata sia sempre la prima. Ciò si ottiene “spostando” la colonna in questione al primo posto e moltiplicando il determinante corrispondente per 1 o −1 a seconda che la posizione della colonna nella matrice che si sta considerando sia dispari o pari. Con questa avvertenza, indichiamo con 𝐶𝑗𝑖 , per 𝑗 ≠ 𝑖, il determinante della matrice che ha come prima colonna il vettore 𝑔𝑥𝑗 𝑥𝑖 e come
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colonne rimanenti le 𝑔𝑥0 , … , 𝑔𝑥𝑛 , ordinate in ordine crescente di indice e dove vengono omesse la 𝑔𝑥𝑖 e la 𝑔𝑥𝑗 . A questo punto, otteniamo 𝜕𝐷𝑖 = (−1)𝑗 𝐶𝑗𝑖 + (−1)𝑗−1 𝐶𝑗𝑖 . ∑ ∑ 𝜕𝑥𝑖 𝑗𝑖
(15.2)
Per esprimere in forma più compatta la relazione appena ottenuta, introduciamo il seguente coefficiente: ⎧1, ⎪ 𝜎(𝑗, 𝑖) ∶= ⎨0, ⎪−1, ⎩
e osserviamo che
se 𝑗 < 𝑖, se 𝑗 = 𝑖, se 𝑗 > 𝑖,
𝜎(𝑗, 𝑖) = −𝜎(𝑖, 𝑗), ∀𝑖, 𝑗.
(15.3)
𝜕𝐷𝑖 = (−1)𝑗 𝐶𝑗𝑖 𝜎(𝑗, 𝑖), ∑ 𝜕𝑥𝑖 𝑗=0
(15.4)
Ne viene che la (15.2) può essere così riscritta: 𝑛
dove poniamo convenzionalmente 𝐶𝑖𝑖 ∶= 0. 𝜕𝐷 Dalla (15.4) si ha immediatamente (−1)𝑖 𝜕𝑥 𝑖 = ∑𝑛𝑗=0 (−1)𝑖+𝑗 𝐶𝑗𝑖 𝜎(𝑗, 𝑖) e quindi 𝑛
∑ 𝑖=0
(−1)𝑖
𝑖
𝜕𝐷𝑖 = (−1)𝑖+𝑗 𝐶𝑗𝑖 𝜎(𝑗, 𝑖) = (−1)𝑖+𝑗 𝐶𝑗𝑖 𝜎(𝑗, 𝑖). ∑ ∑ 𝜕𝑥𝑖 𝑖,𝑗=0 𝑖,𝑗=0 𝑛
𝑛
(15.5)
𝑖≠𝑗
Dall’uguaglianza (15.3) e dal fatto che è 𝐶𝑖𝑗 = 𝐶𝑗𝑖 , per ogni 𝑖 ≠ 𝑗 (Teorema di Schwarz sulle derivate miste), si ha che gli addendi non nulli della (15.5) sono a due a due opposti.
Lemma 15.6. Siano 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1], 𝑓 ∶ ℝ𝑛 → ℝ𝑛 di classe 𝐶 2 e tale che 𝑓 (𝐵) ⊆ 𝐵. Allora 𝑓 ha almeno un punto fisso in 𝐵. Ciò vale, in particolare, se 𝑓 è una funzione polinomiale. Dimostrazione. Supponiamo, per assurdo, che sia 𝑓 (x) ≠ x, ∀x ∈ 𝐵. Come nel Lemma 14.34, consideriamo la semiretta 𝑆 di equazione x(𝑡) ∶= x + 𝑡(x − 𝑓 (x)), 𝑡 ≥ 0.
Diciamo 𝑡(x) l’unico 𝑡 ≥ 0 per cui è ‖𝑥(𝑡)‖ = 1. Essendo 𝑡(x) ∶=
−⟨x, x − 𝑓 (x)⟩ + √⟨x, x − 𝑓 (x)⟩2 + ‖x − 𝑓 (x)‖2 (1 − ‖x‖2 ) ‖x − 𝑓 (x)‖2
,
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770
la funzione 𝑡 è definita e di classe 𝐶 2 su un opportuno aperto Ω ⊃ 𝐵. Per constatarlo, basta mostrare che il valore 𝐴(x) sotto radice non si annulla in 𝐵 e quindi in un suo intorno aperto. Infatti, si ha 𝐴(x) = 0 se e solo se è ‖x‖ = 1
e
⟨x, x − 𝑓 (x)⟩ = ‖x‖2 − ⟨x, 𝑓 (x)⟩ = 1 − ⟨x, 𝑓 (x)⟩ = 0.
Dalla condizione ⟨x, 𝑓 (x)⟩ = 1, per la disuguaglianza di Cauchy-Schwartz si ottiene 1 = ⟨x, 𝑓 (x)⟩ ≤ 1 ⋅ ‖𝑓 (x)‖ ≤ 1; ora il prodotto scalare di due versori è 1 se e solo se essi coincidono, ma ciò va contro l’ipotesi. Definiamo ora la funzione 𝑔 ∶ ℝ × Ω(⊂ ℝ𝑛+1 ) → ℝ𝑛 ponendo 𝑔(𝑠, x) ∶= x + 𝑠 ⋅ 𝑡(x)(x − 𝑓 (x)).
Anche la funzione 𝑔 è di classe 𝐶 2 e, inoltre, soddisfa alle seguenti proprietà: 1. 𝑔(0, x) = x, per ogni x ∈ Ω; 2. ‖𝑔(1, x)‖2 = 1, per ogni x ∈ Ω; 3. 𝑔(𝑠, x) = x, per ogni (𝑠, x) ∈ ℝ × fr 𝐵 (per x ∈ fr 𝐵 è 𝑡(x) = 0); 4. 𝜕𝜕𝑠𝑔 (𝑠, x) = 0, per ogni (𝑠, x) ∈ ℝ × fr 𝐵. Indichiamo con 𝐷𝑖 il determinante della matrice 𝑛×𝑛 ottenuta cancellando la colonna 𝑖-ma della matrice jacobiana di 𝑔. Pertanto, 𝐷0 (𝑠, x) è il determinante 𝜕𝑔 della matrice che ha come colonne le 𝜕𝑥 (𝑠, x), per 𝑖 = 1, … , 𝑛. 𝑖 Definiamo, in fine, la funzione derivabile 𝑉 ∶ ℝ → ℝ come: 𝑉 (𝑠) ∶=
∫ 𝐵
𝐷0 (𝑠, x) 𝑑𝑥1 ⋯ 𝑑𝑥𝑛 .
Chiaramente, 𝑉 (0) > 0, perché fornisce il volume della palla 𝐵 (cfr. la 1). Inoltre, 𝑉 (1) = 0. Infatti, scritta la 2 nella forma ∑𝑛𝑖=1 ⟨𝑔𝑖 (1, x), 𝑔𝑖 (1, x)⟩ = 1 e considerando le derivate parziali rispetto a una variabile 𝑥𝑗 , si ottiene ∑𝑛𝑖=1 2𝑔𝑖 (1, x) ⋅
𝜕 𝑔𝑖 𝜕𝑥𝑗
(1, x) = 0 e quindi che le colonne della matrice 𝐷0 (1, x) sono
linearmente dipendenti, con coefficienti 𝑔1 (1, x), 𝑔2 (1, x), … , 𝑔𝑛 (1, x) non tutti nulli (ancora per la 2). L’idea chiave della dimostrazione consiste nell’osservare che 𝑉 ′ (𝑠) = 0 per ogni 𝑠 ∈ [0, 1] e ottenendo così una contraddizione, dato che è 𝑉 (0) ≠ 𝑉 (1). Derivando sotto segno di integrale, si ha 𝑉 ′ (𝑠) ∶=
𝜕𝐷0 (𝑠, x) 𝑑𝑥1 ⋯ 𝑑𝑥𝑛 . ∫ 𝐵 𝜕𝑠
Ora, per il lemma precedente, con 𝑥0 ∶= 𝑠, si ha che
𝜕 𝐷0 (𝑠, x) 𝜕𝑠
si può esprimere
come una combinazione (con coefficienti 1 e −1) dei termini 𝜕𝑥 𝑖 (𝑠, x), con 𝑖 𝑖 = 1, … , 𝑛. Ciascuno di questi addendi è il determinante della matrice 𝑛 × 𝑛 le cui colonne sono 𝜕𝐷
𝜕𝑔 𝜕𝑔 𝜕𝑔 𝜕𝑔 𝜕𝑔 (𝑠, x), (𝑠, x), … , (𝑠, x), (𝑠, x), … , (𝑠, x). 𝜕𝑠 𝜕𝑥1 𝜕𝑥𝑖−1 𝜕𝑥𝑖+1 𝜕𝑥𝑛
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Pertanto, 𝑉 ′ (𝑠) è una combinazione lineare di integrali del tipo 𝜕𝐷𝑖 (𝑠, x) 𝑑𝑥1 ⋯ 𝑑𝑥𝑛 ∫ 𝐵 𝜕𝑥𝑖
𝑖 = 1, … , 𝑛.
Rimane da verificare che tali integrali sono tutti nulli. Per semplicità, proveremo che è 𝜕𝐷𝑛 (𝑠, x) 𝑑𝑥1 ⋯ 𝑑𝑥𝑛 = 0. (15.6) ∫ 𝐵 𝜕𝑥𝑛 Gli altri casi si provano in modo analogo. Per il calcolo dell’integrale, usiamo la formula di riduzione sui domini normali. Pertanto esprimiamo i punti di 𝐵 imponendo che (𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 ) appartenga alla palla unitaria 𝐵 ′ in ℝ𝑛−1 e sia −𝛼(𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 ) ≤ 𝑥𝑛 ≤ 𝛼(𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 ),
con Di conseguenza, si ha
=
∫ 𝐵′
𝛼(𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 ) ∶= √1 − (𝑥21 + ⋯ + 𝑥2𝑛−1 ).
𝛼 𝜕𝐷 𝜕𝐷𝑛 𝑛 (𝑠, x) 𝑑𝑥1 ⋯ 𝑑𝑥𝑛 = (𝑠, x) 𝑑𝑥𝑛 ) 𝑑𝑥1 ⋯ 𝑑𝑥𝑛−1 = ( ∫ ∫ 𝐵 𝜕𝑥𝑛 𝐵′ ∫ −𝛼 𝜕𝑥𝑛
𝐷𝑛 (𝑠, 𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 , 𝛼(𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 ))+ −
∫ 𝐵′
𝐷𝑛 (𝑠, 𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 , −𝛼(𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 )) = 0.
Per comprendere l’ultimo passaggio, basta tener presente che per ogni elemento (𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 ) ∈ 𝐵 ′ , i vettori (𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 , ±𝛼(𝑥1 , … , 𝑥𝑛−1 ) appartengono a fr 𝐵; quindi la prima colonna della matrice 𝐷𝑛 è nulla (cfr. la 4). Teorema 15.7 (di punto fisso di Brouwer). Sia 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1] ⊂ ℝ𝑛 la palla chiusa unitaria e sia 𝑓 ∶ 𝐵 → 𝐵 un’applicazione continua. Allora 𝑓 possiede almeno un punto fisso in 𝐵. Dimostrazione. Consideriamo la proiezione radiale 𝜋 di tutto ℝ𝑛 su 𝐵 e sia ̃ 𝑓 (x) ∶= 𝑓 (𝜋(x)), ∀x ∈ ℝ𝑛 . Quindi 𝑓 ̃ ∶ ℝ𝑛 → 𝐵 è continua. Dal Teorema 15.3 applicato alle componenti di 𝑓 ̃ si ottiene l’esistenza di una successione (𝑃𝑘̃ )𝑘 di funzioni polinomiali da ℝ𝑛 in sé tale che 𝑃𝑘̃ → 𝑓 ̃ uniformemente sui compatti di ℝ𝑛 (e, in particolare, su 𝐵). Poniamo 𝑀𝑘 ∶= 1 ∨ max‖𝑃𝑘̃ (x)‖. x∈𝐵
̃ Essendo ‖𝑓 ‖̃ ≤ 1 e ‖𝑃𝑘̃ (x)‖ → ‖𝑓 (x)‖ uniformemente in 𝐵, si vede che 𝑀𝑘 → 1. Ponendo, in fine, 1 ̃ 𝑃𝑘 (x) ∶= 𝑃 (x), ∀x ∈ ℝ𝑛 , 𝑀𝑘 𝑘
15.1. Punti fissi in dimensione superiore
772
otteniamo, per ogni 𝑘, una funzione polinomiale 𝑃𝑘 con 𝑃𝑘 (𝐵) ⊆ 𝐵 e con 𝑃𝑘 → 𝑓 uniformemente su 𝐵. Dal lemma precedente, si ha che, per ogni 𝑘, 𝑃𝑘 ha in 𝐵 un punto fisso w𝑘 . Essendo 𝐵 compatto, la successione (w𝑘 )𝑘 ammette una sottosuccessione (w𝑗𝑘 )𝑘 convergente a un punto w∗ ∈ 𝐵. Proviamo che w∗ è punto fisso per 𝑓 . Ciò si vede facilmente scrivendo 𝑓 (w∗ ) − w∗ =
= (𝑓 (w ) − 𝑓 (w𝑗𝑘 )) + (𝑓 (w𝑗𝑘 ) − 𝑃𝑗𝑘 (w𝑗𝑘 )) + (𝑃𝑗𝑘 (w𝑗𝑘 ) − w𝑗𝑘 ) + (w𝑗𝑘 − w∗ ) ∗
e facendo tendere 𝑘 all’infinito. Infatti, dei quattro addendi sopra messi in evidenza, il terzo è nullo, il quarto tende a zero per definizione, il secondo tende a zero per la convergenza uniforme di 𝑃𝑗𝑘 a 𝑓 e il primo tende a zero per la continuità di 𝑓 . Dall’ultimo teorema e dal Teorema 14.34 si ha il
Corollario 15.8. Per ogni 𝑛 ≥ 1, la sfera 𝑆 𝑛 non è un retratto della palla chiusa unitaria di ℝ𝑛+1 .
Osserviamo che, una volta stabilito il Teorema di Brouwer nel caso della palla unitaria, è possibile estenderlo a dei domini molto più generali. A tale proposito, sarà utile richiamare la seguente definizione (cfr. pag. 749).
Definizione 15.9. Sia 𝑋 uno spazio topologico. Diciamo che 𝑋 ha la Proprietà di Punto Fisso (PPF) se ogni applicazione continua 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑋 ha almeno un punto fisso in 𝑋. ◁ In virtù del Teorema del punto fisso di Brouwer, potremo quindi affermare che: La palla chiusa unitaria di ℝ𝑛 ha la PPF. Il prossimo lemma afferma che la PPF è invariante per omeomorfismi e si preserva per retrazioni. Alcuni esempi al riguardo si sono già visti nel capitolo precedente.
Lemma 15.10. 1. Siano 𝑋 e 𝑌 spazi topologici fra loro omeomorfi. Allora 𝑋 ha la PPF se e solo se 𝑌 ha la PPF. 2. Siano 𝑋 e 𝑍 spazi topologici, con 𝑍 retratto di 𝑋. Allora, se 𝑋 ha la PPF, anche 𝑍 ha la PPF. Dimostrazione. 1. Siano ℎ ∶ 𝑋 → 𝑌 un omeomorfismo e 𝑓 un’applicazione continua di 𝑌 in sé. La funzione ℎ−1 ∘ 𝑓 ∘ ℎ è un’applicazione continua di 𝑋 in sé e deve quindi avere, per ipotesi, almeno un punto fisso 𝑥0 ∈ 𝑋. È dunque ℎ−1 (𝑓 (ℎ(𝑥0 ))) = 𝑥0 , da cui 𝑓 (ℎ(𝑥0 )) = ℎ(𝑥0 ). 2. Siano 𝑟 ∶ 𝑋 → 𝑍 una retrazione e 𝑓 un’applicazione continua di 𝑍 in sé. La funzione 𝑗 ∘ 𝑓 ∘ 𝑟 ∶ 𝑋 → 𝑋 (con 𝑗 immersione di 𝑍 in 𝑋) è continua e ha quindi, per ipotesi, un punto fisso 𝑥0 ∈ 𝑋. Essendo 𝑓 ∘ 𝑟(𝑥0 ) = 𝑥0 , si ha 𝑥0 ∈ 𝑍, da cui 𝑟(𝑥0 ) = 𝑥0 e, in fine, 𝑓 (𝑥0 ) = 𝑥0 .
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La seconda affermazione non è invertibile.
Esempio 15.11. Siano 𝑋 ∶= [−2, 2]2 ⧵ ] − 1, 1[2 con la distanza euclidea e 𝑍 ∶= {(𝑥, −2) ∶ −2 ≤ 𝑥 ≤ 2} ⊂ 𝑋. 𝑍 è chiaramente un retratto di 𝑋; inoltre, essendo omeomorfo ad un intervallo chiuso e limitato, 𝑍 ha la PPF. Per contro, 𝑋 non gode di questa proprietà. Infatti, per esempio, la simmetria rispetto all’origine è un’applicazione continua che porta 𝑋 in sé e che è priva di punti ◁ fissi. Corollario 15.12. 1. Ogni palla chiusa di ℝ𝑛 ha la PPF. 2. Ogni compatto e convesso (non vuoto) di ℝ𝑛 ha la PPF. 3. Ogni compatto e convesso (non vuoto) di uno spazio normato di dimensione finita ha la PPF.
Dimostrazione. 1, Basta osservare che, per ogni z ∈ ℝ𝑛 e per ogni 𝑟 > 0, l’applicazione ℎ ∶ ℝ𝑛 → ℝ𝑛 definita da ℎ(x) ∶= z + 𝑟x, ∀x, è un omeomorfismo tra 𝐵[0, 1] e 𝐵[z, 𝑟]. 2. Sia 𝐾 un compatto e convesso di ℝ𝑛 . Scegliamo in ℝ𝑛 la norma euclidea che lo rende spazio di Hilbert. Per il Teorema della proiezione negli spazi di Hilbert 5.41 risulta definita la proiezione di minima distanza 𝑃𝐾 ∶ ℝ𝑛 → 𝐾. Sia ora 𝐵[0, 𝑟] una palla chiusa contenente 𝐾. La restrizione di 𝑃𝐾 a 𝐵[0, 𝑟] è una retrazione di 𝐵[0, 𝑟] su 𝐾. Pertanto anche 𝐾 ha la PPF per la Proposizione 15.10.2. 3. Sia 𝐶 un compatto e convesso di 𝑋, con 𝑋 spazio normato di dimensione 𝑛. Sia {u1 , … , u𝑛 } una base di 𝑋. Dato x ∈ 𝑋, con x = ∑𝑛𝑖=1 𝑥𝑖 u𝑖 , gli associamo l’elemento ℎ(x) ∶= (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ) ∈ ℝ𝑛 . L’applicazione lineare ℎ è un omeomorfismo di 𝑋 su ℝ𝑛 con la norma euclidea (cfr. Teorema 4.61). Inoltre, ℎ(𝐶) è un convesso per la linearità di ℎ. La tesi segue dal punto 2 e dalla Proposizione 15.10.1. Nell’ottica di considerare il Teorema del punto fisso di Brouwer come un risultato “centrale” per quanto riguarda lo studio dei punti fissi degli spazi di dimensione finita, presentiamo ora alcuni risultati formalmente più generali che però si possono far discendere dal Teorema di Brouwer, risultando quindi ad esso equivalenti. Per prima cosa, consideriamo il seguente Teorema 15.13 (del punto fisso di Rothe). Sia 𝐵 ∶= 𝐵[x0 , 𝑟] ⊂ ℝ𝑛 e sia 𝑓 ∶ 𝐵 → ℝ𝑛 un’applicazione continua tale che 𝑓 (fr 𝐵) ⊆ 𝐵. Allora 𝑓 possiede punto fisso in 𝐵. Dimostrazione. Per semplicità di esposizione, ci limiteremo a considerare il caso in cui è 𝐵 = 𝐵[0, 𝑟]. II lettore potrà facilmente estendere la dimostrazione al caso generale. Sia 𝑃𝑟 la proiezione radiale di ℝ𝑛 su 𝐵. Abbiamo dunque 𝑃𝑟 (x) = x, ∀x ∈ 𝐵 𝑟x e 𝑃𝑟 (x) = ‖x‖ per ‖x‖ > 𝑟. La 𝑃𝑟 è chiaramente una funzione ben definita e continua. Consideriamo ora la funzione continua 𝜑 definita da 𝜑(x) ∶=
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𝑃𝑟 (𝑓 (x)), ∀x ∈ 𝐵. Per costruzione, è 𝜑 ∶ 𝐵 → 𝐵 e allora, per il Teorema di Brouwer, esiste un punto fisso per 𝜑 in 𝐵. Sia quindi z ∈ 𝐵 tale che z = 𝜑(z) = 𝑃𝑟 (𝑓 (z)).
Se 𝑓 (z) ∈ 𝐵, leggiamo z = 𝑓 (z), e quindi z è punto fisso per 𝑓 in 𝐵. Basterà perciò mostrare che non può essere 𝑓 (z) ∉ 𝐵. Infatti se, per assurdo, fosse 𝑓 (z) ∉ 𝐵, avremmo 𝑟𝑓 (z) z= ∈ fr 𝐵. (15.7) ‖𝑓 (z)‖ Dall’ipotesi del teorema, sappiamo però che da z ∈ fr 𝐵 segue 𝑓 (z) ∈ 𝐵.
Ovviamente, ogni funzione che soddisfa alle ipotesi del Teorema di Brouwer soddisfa anche a quelle del Teorema di Rothe. Non sussiste l’implicazione opposta; basta prendere la funzione 𝑓 ∶ [−1, 1] → ℝ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 2(1 − 𝑥2 ). Il teorema appena visto è anche noto come Teorema di Birkhoff-Kellogg per un articolo di questi autori del 1922. Per una rassegna su questi teoremi con interessanti riferimenti storici, si veda l’articolo di Mawhin [50]. Con un’argomentazione analoga a quella precedente, si ottiene il Teorema 15.14 (del punto fisso di Bohl). Sia 𝐵 ∶= 𝐵[x0 , 𝑟] ⊂ ℝ𝑛 e sia 𝑓 ∶ 𝐵 → ℝ𝑛 un’applicazione continua tale che 𝑓 (x) ≠ x0 + 𝜇(x − x0 ),
Allora 𝑓 ha almeno un punto fisso in 𝐵.
∀x ∈ fr 𝐵, ∀𝜇 > 1.
Dimostrazione. Come nella dimostrazione del teorema precedente, ci limitiamo al caso x0 = 0, per cui la condizione del teorema diventa 𝑓 (x) ≠ 𝜇x,
∀x ∶ ‖x‖ = 𝑟, ∀𝜇 > 1.
Definiamo ancora 𝜑(x) ∶= 𝑃𝑟 (𝑓 (x)), ∀x ∈ 𝐵 e seguiamo esattamente la stessa dimostrazione del Teorema di Rothe, fino ad ottenere la (15.7) nel caso in cui fosse 𝑓 (z) ∉ 𝐵. Da questa, con un semplice passaggio algebrico, si ottiene
con
‖𝑓 (z)‖ 𝑟
𝑓 (z) =
‖𝑓 (z)‖ z, 𝑟
> 1. Ma ciò contraddice l’ipotesi.
z ∈ fr 𝐵,
Osservazione 15.15. Dati x0 , x ∈ ℝ, con x ≠ x0 , l’insieme dei punti 𝐿(x, x0 ) = {x0 + 𝜇(x − x0 ) ∶ 𝜇 > 1}
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775
rappresenta la semiretta di origine x contenuta nella retta passante per x0 e x e non contenente il punto x0 . Essendo 𝜇 > 1, la semiretta è aperta, cioé privata della sua origine. Il Teorema di Bohl (noto anche come Teorema di PoincaréBohl) garantisce l’esistenza di almeno un punto fisso per una 𝑓 continua che non mandi mai un punto x della frontiera di 𝐵 sulla semiretta 𝐿(x, x0 ). ◁ Ovviamente, ogni funzione che soddisfa alle ipotesi del Teorema di Rothe soddisfa anche a quelle del Teorema di Bohl. Non sussiste l’implicazione opposta; basta prendere la funzione 𝑓 ∶ 𝐵[0, 1](⊂ ℝ2 ) → ℝ2 espressa, in coordinate polari, da 𝑓 (𝜌, 𝜗) = (2𝜌, 𝜗 + 𝜋/4). L’esempio di una funzione continua 𝑓 di un intervallo compatto [𝑎, 𝑏] in sé presenta un caso banale in cui proviamo l’esistenza di punti fissi utilizzando risultati relativi all’esistenza di zeri. Ci proponiamo ora di ottenere dei teoremi di esistenza di zeri per campi vettoriali usando teoremi di punto fisso. Cominciamo generalizzando il Teorema di Poincaré-Miranda 14.36 al caso ℝ𝑛 , con 𝑛 ≥ 1 arbitrario.
Teorema 15.16 (di Poincaré-Miranda). Sia ℛ ∶= ∏𝑛𝑘=1 [𝑎𝑘 , 𝑏𝑘 ] un rettangolo 𝑛-dimensionale di cui indichiamo con 𝐼𝑘− ∶= {x ∈ ℛ ∶ 𝑥𝑘 = 𝑎𝑘 }
e
𝐼𝑘+ ∶= {x ∈ ℛ ∶ 𝑥𝑘 = 𝑏𝑘 }
Ie sue 𝑘-me facce. Sia poi 𝑔 = (𝑔1 , … , 𝑔𝑛 )⊤ ∶ ℛ → ℝ𝑛 un campo vettoriale continuo tale che, per ogni 𝑘 ∈ {1, … , 𝑛}, sussiste una delle seguenti possibilità: oppure
𝑔𝑘 (x) ≤ 0, ∀x ∈ 𝐼𝑘− , 𝑔𝑘 (x) ≥ 0, ∀x ∈ 𝐼𝑘− ,
Allora esiste z ∈ ℛ tale che 𝑔(z) = 0.
𝑔𝑘 (x) ≥ 0, ∀x ∈ 𝐼𝑘+ , 𝑔𝑘 (x) ≤ 0, ∀x ∈ 𝐼𝑘+ .
Dimostrazione. Cambiando eventualmente il segno di qualche componente, ci si riduce al caso in cui, per ogni 𝑘, si ha 𝑔𝑘 (x) ≤ 0, ∀x ∈ 𝑙𝑘− , e 𝑔𝑘 (x) ≥ 0, ∀x ∈ 𝑙𝑘+ . Sia poi 𝑃 = (𝑃1 , … , 𝑃𝑛 )⊤ ∶ ℝ𝑛 → ℛ la funzione che lascia invariati i punti di ℛ e proietta quelli esterni sulla frontiera di ℛ secondo la legge 𝑃𝑘 (x) ∶= min{𝑏𝑘 , max{𝑥𝑘 , 𝑎𝑘 }}.
Consideriamo ora la funzione continua 𝐹 ∶ ℛ → ℛ definita da 𝐹 (x) ∶= 𝑃 (x − 𝑔(x)).
Essendo compatto e convesso, ℛ ha la PPF (Proposizione 15.12.2); esiste dunque z ∈ ℛ tale che z = 𝑃 (z − 𝑔(z)). (15.8) Se z−𝑔(z) ∈ ℛ, la (15.8) diventa z = z−𝑔(z), da cui 𝑔(z) = 0. Basterà quindi mostrare che non può essere z − 𝑔(z) ∉ ℛ. Infatti, se così fosse, esisterebbe un
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indice 𝑘 con 𝑧𝑘 − 𝑔𝑘 (z) > 𝑏𝑘 o 𝑧𝑘 − 𝑔𝑘 (z) < 𝑎𝑘 ; mettiamoci nel primo caso, il secondo si tratta in modo analogo. Dalla (15.8) si ottiene 𝑧𝑘 = 𝑃𝑘 (𝑧𝑘 − 𝑔𝑘 (z)) = 𝑏𝑘 ;
ma, essendo 𝑧𝑘 = 𝑏𝑘 , si ha z ∈ a una contraddizione.
𝐼𝑘+ ,
𝑏𝑘 − 𝑔𝑘 (z) > 𝑏𝑘 ;
𝑔𝑘 (z) < 0,
da cui, per ipotesi, 𝑔𝑘 (z) ≥ 0. Si giunge così
Osservazione 15.17. In dimensione 1, il Teorema di Poincaré-Miranda non è altro che il Teorema degli zeri di Bolzano. Questo si può enunciare dicendo che una funzione continua 𝑔 ∶ [𝑎, 𝑏] → ℝ, con 𝑔(𝑎) ⋅ 𝑔(𝑏) ≤ 0, si annulla in almeno un punto di [𝑎, 𝑏]. Se poi è 𝑔(𝑎) ⋅ 𝑔(𝑏) < 0, si ottiene che 𝑔 si annulla in almeno un punto interno di [𝑎, 𝑏]. Generalizziamo questo modo di esprimersi al caso ℝ𝑛 . Fissato 𝑘 ∈ {1, … , 𝑛}, diciamo che due punti x′𝑘 ∈ 𝐼𝑘− , e x″𝑘 ∈ 𝐼𝑘+ sono corrispondenti se hanno uguali tutte le coordinate diverse dalla 𝑘-ima. Si può esprimere la condizione 𝑔(𝑎) ⋅ 𝑔(𝑏) ≤ 0 richiedendo che, per ogni 𝑘 ∈ {1, … , 𝑛}, risulti 𝑔𝑘 (x′𝑘 ) ⋅ 𝑔𝑘 (x″𝑘 ) ≤ 0, per ogni coppia di punti corrispondenti (x′𝑘 , x″𝑘 ). Ma questa condizione non è sufficiente per assicurare l’esistenza di uno zero per 𝑔 già in ℝ2 . Basta considerare la funzione 𝑔 = (𝑔1 , 𝑔2 )⊤ ∶ [−1, 1]2 → ℝ2 definita da 𝑔1 (𝑥, 𝑦) ∶= 1 − (𝑦 − 𝑥)2 ;
𝑔2 (𝑥, 𝑦) ∶= 𝑦 − 𝑥.
Diversa è la situazione se si richiede che, per ogni 𝑘 ∈ {1, … , 𝑛}, risulti 𝑔𝑘 (x′𝑘 ) ⋅ 𝑔𝑘 (x″𝑘 ) < 0, per ogni coppia di punti corrispondenti (x′𝑘 , x″𝑘 ). Infatti, da questa condizione si ottiene che, per ogni 𝑘 ∈ {1, … , 𝑛}, la funzione 𝑔𝑘 non si annulla in 𝐼𝑘− , e deve avere quindi su di esso segno costante, dato che questo insieme è connesso. Si conclude che 𝑔𝑘 è positiva in 𝐼𝑘− e negativa in 𝐼𝑘+ , o viceversa. Valendo ciò per ogni 𝑘, siamo nelle ipotesi del Teorema di PoincaréMiranda. Naturalmente, in questo caso, gli zeri di 𝑔 sono punti interni del dominio. ◁ Il Teorema 15.16 fu ottenuto per la prima volta da Poincaré negli anni 1883-84 e utilizzato nello studio delle orbite periodiche in alcuni problemi di meccanica celeste. Fu successivamente “riscoperto” da vari autori. II nome di Miranda è associato a questo teorema perché nel 1940 ne dimostrò l’equivalenza con il Teorema di Brouwer (cfr. [56], [48], [49] e [40]). Osservazione 15.18. Dal Teorema di Poincaré-Miranda si può facilmente ottenere il Teorema del punto fisso di Brouwer per l’ipercubo 𝑛-dimensionale ℛ ∶= [−1, 1]𝑛 . Infatti, se 𝑓 ∶ ℛ → ℛ è una funzione continua, allora la funzione ausiliaria 𝑔 = (𝑔1 , … , 𝑔𝑛 )⊤ ∶ ℛ → ℝ𝑛 definita da 𝑔(x) ∶= x−𝑓 (x), ∀x ∈ ℛ ha le componenti 𝑔𝑘 che sono non positive su 𝐼𝑘− e non negative su 𝐼𝑘+ . Per il teorema precedente esiste uno zero per 𝑔 in ℛ e quindi un punto fisso per 𝑓 . Per la proposizione 15.10.1, si ottiene il Teorema del punto fisso di Brouwer per la palla unitaria. Naturalmente per dimostrare il teorema degli zeri noi abbiamo utilizzato quello di Brouwer; esistono comunque dimostrazioni indipendenti del Teorema di Poincaré-Miranda. ◁
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777
In realtà, dal Teorema di Poincaré-Miranda si ottiene una versione più generale del Teorema di Brouwer sui rettangoli 𝑛-dimensionali.
Teorema 15.19. Sia ℛ ∶= ∏𝑛𝑘=1 [𝑎𝑘 , 𝑏𝑘 ] un rettangolo 𝑛-dimensionale di cui indichiamo con 𝐼𝑘− ∶= {x ∈ ℛ ∶ 𝑥𝑘 = 𝑎𝑘 } e 𝐼𝑘+ ∶= {x ∈ ℛ ∶ 𝑥𝑘 = 𝑏𝑘 } Ie facce 𝑘-me. Sia poi 𝑓 = (𝑓1 , … , 𝑓𝑛 )⊤ ∶ ℛ → ℝ𝑛 un campo vettoriale continuo tale che, per ogni 𝑘 ∈ {1, … , 𝑛}, sussiste una delle seguenti possibilità: oppure
𝑓𝑘 (x) ≥ 𝑎𝑘 , ∀x ∈ 𝐼𝑘− , 𝑓𝑘 (x) ≤ 𝑎𝑘 , ∀x ∈ 𝐼𝑘− ,
𝑓𝑘 (x) ≤ 𝑏𝑘 , ∀x ∈ 𝐼𝑘+ , 𝑓𝑘 (x) ≥ 𝑏𝑘 , ∀x ∈ 𝐼𝑘+ .
Allora 𝑓 ha almeno un punto fisso in ℛ.
Dimostrazione. Sia 𝑔 = (𝑔1 , … , 𝑔𝑛 )⊤ ∶ ℛ → ℝ𝑛 il campo vettoriale continuo definito da 𝑔(x) ∶= x − 𝑓 (x), ∀x ∈ ℛ. Si vede subito che 𝑔 soddisfa alle ipotesi del Teorema di Poincaré-Miranda. Esiste quindi un x̂ ∈ ℛ tale che 𝑔(x)̂ = 0, da cui 𝑓 (x)̂ = x.̂ Di questo risultato non è facile attribuire la paternità, dato che è stato “riscoperto” anche in anni recenti da diversi autori. Esempio 15.20. Partiamo dal caso di una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐼 = [𝑎, 𝑏] → ℝ. La funzione 𝑓 ha punti fissi in ciascuno dei seguenti casi: 1. (𝑓 (𝑎) ≥ 𝑎) ∧ (𝑓 (𝑏) ≤ 𝑏)); 2. (𝑓 (𝑎) ≤ 𝑎) ∧ (𝑓 (𝑏) ≥ 𝑏)); 3. 𝑓 (𝐼) ⊆ 𝐼; 4. 𝑓 (𝐼) ⊇ 𝐼.
Infatti, nei primi due casi, siamo nella situazione unidimensionale del teorema precedente; il terzo caso segue banalmente dal Teorema di Brouwer. Veniamo al quarto caso. Siccome è 𝑓 (𝐼) ⊇ 𝐼, esistono 𝑥1 , 𝑥2 ∈ 𝐼 con 𝑓 (𝑥1 ) = 𝑎 e 𝑓 (𝑥2 ) = 𝑏; detto 𝐼 ′ ∶= [𝑎′ , 𝑏′ ] l’intervallo individuato da questi due punti, si ha 𝑎 ≤ 𝑎′ < 𝑏′ ≤ 𝑏. Se è 𝑓 (𝑎′ ) = 𝑎 e 𝑓 (𝑏′ ) = 𝑏, siamo nel caso 2, relativamente ad 𝐼 ′ ; se è 𝑓 (𝑎′ ) = 𝑏 e 𝑓 (𝑏′ ) = 𝑎, siamo nel caso 1, sempre relativamente ad 𝐼 ′ . Vediamo due esempi nel piano. Guardiamo la prima figura.
F
R0
R
R
15.1. Punti fissi in dimensione superiore
778
Il rettangolo 𝑅 è chiaramente omeomorfo al “ferro di cavallo” 𝐹 . Sia 𝑓 ∶ 𝑅 → ℝ2 una funzione continua che muti i lati di 𝑅 in quelli di 𝐹 nel modo illustrato in figura. Per 𝑘 ∈ {1, 2}, si ha dunque 𝑓𝑘 (x) ≥ 𝑎𝑘 , ∀x ∈ 𝐼𝑘− ,
𝑓𝑘 (x) ≤ 𝑏𝑘 , ∀x ∈ 𝐼𝑘+ .
𝑓1 (x) ≤ 𝑎1 , ∀x ∈ 𝐼1− ,
𝑓1 (x) ≥ 𝑏1 , ∀x ∈ 𝐼1+ ;
Sono verificate le ipotesi del teorema precedente. Si conclude che 𝑓 ha almeno un punto fisso. Una modifica di questo esempio è illustrata nella figura in copertina. Veniamo alla seconda figura. Sia 𝑓 ∶ 𝑅 → 𝑅′ una funzione continua che muti i lati di 𝑅 in quelli di 𝑅′ nel modo illustrato in figura. Si ha 𝑓2 (x) ≥ 𝑎2 , ∀x ∈ 𝐼2− ,
𝑓2 (x) ≤ 𝑏2 , ∀x ∈ 𝐼2+ .
Sono verificate le ipotesi del teorema precedente. Si conclude che 𝑓 ha almeno un punto fisso in ℛ. ◁
Il risultato dell’ultimo esempio sussiste anche se il rettangolo 𝑅 viene espanso in modo che la sua frontiera copra in modo ordinato quella di un rettangolo 𝑅′ che lo contiene. Più precisamente, sia 𝑓 ∶ 𝑅 → ℝ2 una funzione continua che muti i lati di 𝑅 in quelli di 𝑅′ nel modo illustrato in figura. Si ha 𝑓1 (x) ≤ 𝑎1 , ∀x ∈ 𝐼1− ,
𝑓1 (x) ≥ 𝑏1 , ∀x ∈ 𝐼1+ ;
𝑓2 (x) ≤ 𝑎2 , ∀x ∈ 𝐼2− ,
𝑓2 (x) ≥ 𝑏2 , ∀x ∈ 𝐼2+ .
Sono ancora verificate le ipotesi del Teorema 15.19. Si conclude che 𝑓 ha almeno un punto fisso.
S R
0
S0
Un analogo risultato si ottiene se si parte da una funzione continua 𝑓 ∶ 𝐵 = 𝐵[0, 𝑟] → ℝ2 che muti radialmente la frontiera di 𝐵 in una circonferenza concentrica e con raggio 𝑟′ > 𝑟, come mostrerà un’immediata conseguenza del Teorema di Hadamard (cfr. Corollario 15.23). Mostriamo intanto con un esempio, tratto da [63], che il risultato non sussiste per un’arbitraria funzione continua 𝑓 ∶ 𝐵 → ℝ2 che muti arbitrariamente la frontiera di 𝐵 in una circonferenza concentrica e raggio 𝑟′ > 𝑟. R
Esempio 15.21 (di Nadler). Siano 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1/2], 𝐵 ′ ∶= 𝐵[0, 1], 𝑆 ∶= fr 𝐵 e 𝑆 ′ ∶= fr 𝐵 ′ . Fissiamo poi i punti p ∶= (−1/2, 0) e p′ ∶= (−1, 0). Dati due punti z e w, indichiamo con [z, w] il segmento che li unisce. Data una
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779
qualunque funzione continua e suriettiva 𝑔 ∶ 𝑆 → 𝑆 ′ , con 𝑔(p) ∶= p′ , resta individuata la funzione 𝑓 ∶ 𝐵 → 𝐵 ′ definita come segue: ogni punto z di 𝐵 diverso da p appartiene ad un unico segmento [p, w], con w ∈ 𝑆 e z è univocamente determinato da un parametro 𝜆 ∈ ]0, 1] mediante l’espressione z = 𝜆w + (1 − 𝜆)p. Si pone poi 𝑓 (z) ∶= 𝜆𝑔(w) + (1 − 𝜆)p′ ,
𝑓 (p) ∶= p′ .
Chiaramente 𝑓 ∶ 𝐵 → 𝐵 ′ è continua e suriettiva, ma non necessariamente iniettiva. Definiamo ora 𝑔 in modo opportuno. Ogni punto di 𝑆 [di 𝑆 ′ ] si esprime in coordinate polari nella forma (1/2)𝑒𝑖𝜗 [nella forma 𝑒𝑖𝜗 ], con 𝜗 ∈ [0, 2𝜋]. Poniamo dunque: 𝑖(2𝜗+𝜋) , per 0 ≤ 𝜗 ≤ 𝜋/2, ⎧𝑒 ⎪ 𝑖(−2𝜗+3𝜋) 𝑔(𝜗) ∶= ⎨𝑒 , per 𝜋/2 ≤ 𝜗 ≤ 3𝜋/2, ⎪𝑒𝑖(2𝜗−3𝜋) , per 3𝜋/2 ≤ 𝜗 ≤ 2𝜋. ⎩
Si vede subito che 𝑔 è ben definita, continua e suriettiva. Per la corrispondente 𝑓 , si constata poi facilmente che, quando il segmento [p, z] spazza la palla 𝐵, il corrispondente segmento[p′ , 𝑔(z)] spazza due volte la palla 𝐵 ′ . Inoltre, i segmenti [p, z] e [p′ , 𝑔(z)] si intersecano solo nel caso in cui è 𝑔(z) = (1, 0); ciò si verifica se e solo se è z = 𝑒𝑖𝜗 , con 𝜗 = 𝜋/2 o 𝜗 = 3𝜋/2. Ma, in questi casi, la loro intersezione coincide col singoletto {𝑝} che non è un punto fisso. Si conclude che 𝑓 non ha punti fissi. ◁ Nel suo Articolo [15] Dolcher ha dato delle condizioni sufficienti riguardo all’esistenza di punti fissi per applicazioni continue da una palla 𝐵 di ℝ2 in una 𝐵 ′ che la contiene. Veniamo al preannunciato Teorema di Hadamard.
Teorema 15.22 (di Hadamard). Siano 𝐵 ∶= 𝐵[0, 𝑅] ⊂ ℝ𝑛 e 𝑔 ∶ 𝐵 → ℝ𝑛 un campo vettoriale continuo. Se, per ogni x ∈ fr 𝐵 si ha ⟨𝑔(x), x⟩ ≥ 0, allora 𝑔 si annulla in almeno un punto di 𝐵. Dimostrazione. Osserviamo intanto che, per il Teorema di Compattezza, 𝑔(𝐵) è un insieme (chiuso e) limitato ed è quindi contenuto in una palla 𝐵[0, 𝑀]. Sia poi 𝑟 la retrazione di ℝ𝑛 su 𝐵 definita da 𝑟(x) ∶=
𝑅x/‖x‖, {x,
se ‖x‖ > 𝑅, se ‖x‖ ≤ 𝑅.
Sia, in fine, 𝑓 ∶ ℝ𝑛 → ℝ𝑛 il campo vettoriale continuo definito da 𝑓 ∶= 𝑟 − 𝑔 ∘ 𝑟. Si ha ‖𝑓 (x)‖ ≤ ‖𝑟(x)‖ + ‖𝑔(𝑟(x))‖ ≤ 𝑅 + 𝑀 =∶ 𝑅′ , ∀x ∈ ℝ𝑛 .
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Si ottiene che è 𝑓 ∶ ℝ𝑛 → 𝐵 ′ ∶= 𝐵[0, 𝑅′ ]. Si ha, in particolare, 𝑓 (𝐵 ′ ) ⊆ 𝐵 ′ . Per il Teorema di Brouwer, 𝑓 ammette un punto fisso x̂ ∈ 𝐵 ′ . È dunque x̂ = 𝑟(x)̂ − 𝑔(𝑟(x)). ̂
(15.9)
Supponiamo, per assurdo, che sia x̂ ∉ 𝐵, da cui ‖x‖ ̂ > 𝑅. Poniamo inoltre u ∶= 𝑟(x)̂ = 𝑅x/‖ ̂ x‖ ̂ ∈ fr 𝐵. Si ottiene: ‖x‖ ̂ 2 = ⟨x,̂ x⟩̂ = ⟨𝑓 (x), ̂ x⟩̂ = ⟨𝑟(x), ̂ x⟩̂ − ⟨𝑔(𝑟(x)), ̂ x⟩̂ = = ⟨𝑅x/‖ ̂ x‖, ̂ x⟩̂ − ⟨𝑔(u), x⟩̂ =
= 𝑅‖x‖ ̂ − (‖x‖/𝑅)⟨𝑔(u), ̂ u⟩ ≤ 𝑅‖x‖ ̂ < ‖x‖ ̂ 2.
Deve pertanto essere x̂ ∈ 𝐵. Dalla (15.9) si ottiene x̂ = x̂ − 𝑔(x), ̂ da cui 𝑔(x)̂ = 0.
Corollario 15.23. Sia 𝑓 ∶ 𝐵 = 𝐵[0, 𝑅] → ℝ2 un campo vettoriale continuo che muta radialmente la frontiera di 𝐵 in una circonferenza concentrica e con raggio 𝑟′ > 𝑟. Allora 𝑓 ha un punto fisso in 𝐵. Dimostrazione. Sia 𝑔 ∶ 𝐵 → ℝ2 il campo vettoriale continuo definito da 𝑔(x) ∶= 𝑓 (x) − x, ∀x ∈ 𝐵. Per ogni x ∈ fr 𝐵, si ha che x è interno al segmento [0, 𝑓 (x)]. Ne viene che i vettori non nulli x e 𝑔(x) = 𝑓 (x) − x sono paralleli ed equiversi, da cui ⟨𝑔(x), x⟩ > 0. Per il teorema precedente, 𝑔 ha uno zero x̂ ∈ 𝐵 che è un punto fisso per 𝑓 . Osservando la definizione di 𝑓 nell’Esempio 15.21, si vede che, posto z ∶= (1/2, 0), si ha 𝑓 (z) = (−1, 0), da cui ⟨𝑓 (z) − z, z⟩ = −3/4 < 0.
Come già detto, il Teorema di Poincaré-Miranda estende il Teorema di Bolzano sugli zeri delle funzioni continue definite su un intervallo e a valori in ℝ. Il prossimo risultato ne fornisce un’ulteriore generalizzazione. Indichiamo con 𝜑 una funzione biiettiva di {1, … , 𝑛} in sé, ossia una permutazione di questo insieme. Sia poi 𝐴 ∶= (𝑎𝑖𝑗 ) una matrice quadrata di ordine 𝑛 in cui è 𝑎𝑖𝜑(𝑖) ∶= 1 e 𝑎𝑖𝑗 ∶= 0 per 𝑗 ≠ 𝜑(𝑖). Si constata immediatamente che è | det 𝐴| = 1. Diremo che 𝐴 è la matrice unitaria di permutazione associata a 𝜑.
Teorema 15.24 (di Bolzano generalizzato). Sia ℛ ∶= ∏𝑛𝑘=1 [𝑎𝑘 , 𝑏𝑘 ] un rettangolo 𝑛-dimensionale di cui indichiamo con 𝐼𝑘− ∶= {x ∈ ℛ ∶ 𝑥𝑘 = 𝑎𝑘 } e 𝐼𝑘+ ∶= {x ∈ ℛ ∶ 𝑥𝑘 = 𝑏𝑘 } le sue 𝑘-me facce. Siano poi 𝜑 una permutazione di {1, … , 𝑛} e 𝑔 = (𝑔1 , … , 𝑔𝑛 )⊤ ∶ ℛ → ℝ𝑛 un campo vettoriale continuo. Supponiamo inoltre che, ∀𝑘 ∈ {1, … , 𝑛}, sussista una delle seguenti possibilità: oppure
− 𝑓𝑘 (x) ≥ 0, ∀x ∈ 𝐼𝜑(𝑘) , − 𝑓𝑘 (x) ≤ 0, ∀x ∈ 𝐼𝜑(𝑘) ,
Allora esiste z ∈ ℛ tale che 𝑔(z) = 0.
+ 𝑓𝑘 (x) ≤ 0, ∀x ∈ 𝐼𝜑(𝑘) , + 𝑓𝑘 (x) ≥ 0, ∀x ∈ 𝐼𝜑(𝑘) .
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Dimostrazione. Sia 𝐴 la matrice unitaria associata a 𝜑 e consideriamo il campo vettoriale continuo 𝑔 ′ = (𝑔1′ , … , 𝑔𝑛′ )⊤ ∶ ℛ → ℝ𝑛 definito da 𝑔 ′ ∶= 𝐴𝑔. È dunque 𝑔 ′ = (𝑔𝜑(1) , … , 𝑔𝜑(𝑛) )⊤ . Ne viene che il campo 𝑔 ′ soddisfa alle ipotesi del Teorema di Poincaré-Miranda. Esiste quindi un punto z ∈ ℛ in cui 𝑔 ′ si annulla: Ma allora è anche 𝑔(z) = 0. In modo analogo si generalizza facilmente il Teorema di Hadamard nella seguente forma:
Teorema 15.25 (di Hadamard generalizzato). Siano 𝐵 = 𝐵[0, 𝑅] ⊂ ℝ𝑛 , 𝑔 ∶ 𝐵 → ℝ𝑛 un campo vettoriale continuo e 𝐴 una matrice quadrata di ordine 𝑛 non singolare. Se, per ogni x ∈ fr 𝐵 si ha ⟨𝑔(x), 𝐴x⟩ ≥ 0, allora 𝑔 si annulla in almeno un punto di 𝐵. Dimostrazione. Basta osservare che è
⟨𝑔(x), 𝐴x⟩ = (𝐴x)⊤ ⋅ 𝑔(x) = (x⊤ ⋅ 𝐴⊤ ) ⋅ 𝑔(x) = x⊤ ⋅ (𝐴⊤ 𝑔(x)) = ⟨𝐴⊤ 𝑔(x), x⟩.
Per il Teorema di Hadamard 15.22, il campo vettoriale 𝐴⊤ 𝑔 si annulla in 𝐵. Siccome è det 𝐴 ≠ 0, si conclude che anche 𝑔 si annulla in 𝐵. I Teoremi di Poincaré-Miranda e Hadamard fornivano risultati di esistenza di zeri per campi vettoriali rispettivamente sugli ipercubi e sulle palle chiuse. Concludiamo questo argomento con il prossimo risultato che riguarda l’esistenza di zeri per campi vettoriali su corpi convessi. È un teorema che ha importanti applicazioni in teoria del controllo e in economia matematica, ad esempio è un lemma preparatorio al celebre Teorema dell’equilibrio di Nash (cfr. [55]). Ricordiamo il concetto di vettore normale esterno (cfr. Definizione 7.87). Definizione 15.26. Sia ∅ ≠ 𝐶 ⊂ ℝ𝑛 un chiuso convesso. Dati z ∈ fr 𝐶 e 𝝂 ∈ ℝ𝑛 ⧵ {0}, diciamo che 𝝂 è un vettore normale esterno a 𝐶 in 𝑧 se (∀c ∈ 𝐶)(⟨c − z, 𝜈⟩ ≤ 0).
◁
Osserviamo che dalla proprietà 5.41.1 segue che, se w ∉ 𝐶 e z ∈ fr 𝐶 è il punto di 𝐶 che realizza la minima distanza da w, allora w − z è un vettore normale esterno a 𝐶 in z. Teorema 15.27. Siano ∅ ≠ 𝐾 ⊂ ℝ𝑛 un compatto convesso e 𝑔 ∶ 𝐾 → ℝ𝑛 un campo vettoriale continuo. Se, per ogni z ∈ fr 𝐾, 𝑔(z) non è vettore normale esterno a 𝐾 in z, allora esiste almeno un punto w ∈ 𝐾 tale che 𝑔(w) = 0.
15.1. Punti fissi in dimensione superiore
782
Dimostrazione. Sia 𝑃𝐾 ∶ ℝ𝑛 → 𝐾 la proiezione di minima distanza garantita del Teorema 5.41 della proiezione negli spazi di Hilbert. Definiamo quindi la funzione continua 𝑓 (x) ∶= 𝑃𝐾 (x + 𝑔(x)). Per costruzione è 𝑓 ∶ 𝐾 → 𝐾. Per la proposizione 15.12.2, 𝑓 ha almeno un punto fisso w ∈ 𝐾. Consideriamo ora l’elemento w + 𝑔(w). Se w + 𝑔(w) ∈ 𝐾, si ottiene 𝑔(w) = 0. Basterà quindi far vedere che non può essere w + 𝑔(w) ∉ 𝐾. Infatti, se così fosse, posto z ∶= 𝑃𝐾 (w+𝑔(w)) ∈ fr 𝐾, il vettore w+𝑔(w)−z, sempre per il Teorema 5.41, sarebbe normale esterno a 𝐾 in z. D’altra parte, si ha w = 𝑓 (w) = 𝑃𝐾 (w + 𝑔(w)) = z e quindi 𝑔(w) risulterebbe essere un vettore normale esterno a 𝐾 in z, contro l’ipotesi. Esiste un corollario di questo risultato che ha un particolare significato geometrico. Premettiamo un’altra definizione.
Definizione 15.28. Siano ∅ ≠ 𝐶 ⊂ ℝ𝑛 un chiuso convesso e z ∈ fr 𝐶. Si chiama cono normale a 𝐶 in z l’insieme 𝑁𝐶 (𝑧) dei vettori normali esterni a 𝐶 in z. Si chiama poi cono tangente o sottotangente (in inglese subtangential) a 𝐶 in z, l’insieme 𝑇𝐶 (𝑧) ∶= {v ∈ ℝ𝑛 ∶ ⟨v, 𝝂⟩ ≤ 0, ∀𝝂 ∈ 𝑁𝐶 (z)} .
◁
Questi insiemi si chiamano coni perché se contengono un vettore v, contengono anche 𝜆v, per ogni 𝜆 > 0. Ovviamente, dato z ∈ fr 𝐶, si ha, per ogni c ∈ 𝐶, c − z ∈ 𝑇𝐶 (z).
Corollario 15.29. Siano ∅ ≠ 𝐾 ⊂ ℝ𝑛 un compatto convesso e 𝑔 ∶ 𝐾 → ℝ𝑛 un campo vettoriale continuo. Se 𝑔(z) ∈ 𝑇𝐾 (z), ∀z ∈ fr 𝐾,
allora esiste almeno un punto w ∈ 𝐾 tale che 𝑔(w) = 0.
Dimostrazione. Verifichiamo che, per ogni z ∈ fr 𝐾, 𝑔(z) non è un vettore normale esterno a 𝐾 in z. Se così fosse, dall’essere contemporaneamente 𝑔(z) ∈ 𝑇𝐾 (z) e 𝑔(z) ∈ 𝑁𝐾 (z), si avrebbe ‖𝑔(z)‖2 = ⟨𝑔(z), 𝑔(z)⟩ ≤ 0 e quindi 𝑔(z) = 0, mentre ogni vettore normale è non nullo.
Osservazione 15.30. Siano 𝐶 ⊂ ℝ𝑛 un chiuso convesso non vuoto e z ∈ fr 𝐶 un suo punto fissato. Nei risultati appena visti, abbiamo considerato il cono normale 𝑁𝐶 (z) e quello tangente 𝑇𝐶 (z). Si ha banalmente 𝑇𝐶 (z) ≠ ∅, dato che contiene 0. Mostriamo che è anche 𝑁𝐶 (z) ≠ ∅. La verifica di questo fatto non è immediata. Ne proponiamo due possibili dimostrazioni. Non è restrittivo supporre che 𝐶 non sia un singoletto (in caso contrario ogni vettore non nullo è normale esterno). Un primo approccio consiste nell’osservare che, se l’interno di 𝐶 è non vuoto, possiamo applicare al convesso 𝐴 ∶= int 𝐶 e al punto z ∈ ℝ𝑛 ⧵𝐴 il Teorema 7.119
15.1. Punti fissi in dimensione superiore
783
sull’esistenza dell’iperpiano di supporto. Questo teorema garantisce l’esistenza di un’applicazione lineare (continua) 𝑓 ∶ ℝ𝑛 → ℝ tale che 𝑓 (x) < 𝑓 (z), ∀x ∈ 𝐴. Essendo 𝑓 (x) = ⟨x, 𝝂⟩, per un opportuno 𝝂 ≠ 0, si ottiene ⟨x, 𝝂⟩ < ⟨z, 𝝂⟩, ∀x ∈ 𝐴, da cui ⟨x − z, 𝝂⟩ < 0, ∀x ∈ 𝐴 e quindi ⟨x − z, 𝝂⟩ ≤ 0, ∀x ∈ cl 𝐴 = 𝐶 (cfr. Proposizione 5.24.5). Si conclude che 𝝂 è un vettore normale esterno a 𝐶 in z. Se invece si ha int 𝐶 = ∅, 𝐶 è contenuto in un iperpiano di equazione ⟨x, 𝝂⟩ = 0, per un opportuno vettore non nullo 𝝂. Si ottiene ⟨x − z, 𝝂⟩ = 0, ∀x ∈ 𝐶. Si ha ancora che 𝝂 è un vettore normale esterno a 𝐶 in z. Veniamo alla seconda dimostrazione. Essendo z ∈ fr 𝐶, esiste una successione (x𝑛 )𝑛 in ℝ𝑛 ⧵ 𝐶 convergente a z. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia w𝑛 ∈ 𝐶 il punto di minima distanza di x𝑛 da 𝐶 (cfr. Teorema 5.41). Dallo stesso teorema sappiamo che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, si ha ⟨y − w𝑛 , x𝑛 − w𝑛 ⟩ ≤ 0, ∀y ∈ 𝐶. Ancora per ogni 𝑛 ∈ ℕ, poniamo v𝑛 ∶= (x𝑛 − w𝑛 )/‖x𝑛 − w𝑛 ‖ ∈ 𝑆 𝑛−1 . Per la compattezza di 𝑆 𝑛−1 , 𝑛 esiste una sottosuccessione (v 𝑘 )𝑘 di (v𝑛 )𝑛 convergente a un punto v ∈ 𝑆 𝑛−1 . Si ottiene che, per ogni y ∈ 𝐶 fissato, è ⟨y − w 𝑘 , v 𝑘 ⟩ = 𝑛
𝑛
‖x
𝑛𝑘
1
−w ‖ 𝑛𝑘
⟨y − w 𝑘 , x 𝑛
𝑛𝑘
− w 𝑘 ⟩ ≤ 0, 𝑛
∀𝑘 ∈ ℕ.
Ancora dal Teorema 5.41 (punto 2) sappiamo che, per ogni 𝑛, è ‖w𝑛 − z‖ ≤ ‖x𝑛 − z‖,
dato che z coincide con la sua proiezione su 𝐶. Ne viene che anche w𝑛 converge 𝑛 𝑛 a z. Siccome w 𝑘 → z e v 𝑘 → v, si ottiene ⟨y − z, v⟩ ≤ 0, ∀y ∈ 𝐶. Si conclude che v è un vettore normale esterno a 𝐶 in z. ◁ Tipicamente i teoremi di punto fisso riguardano applicazioni non lineari, visto che per quelle lineari in dimensione finita l’equazione di punto fisso 𝑓 (x) = x ha sempre un sottospazio, eventualmente nullo, di soluzioni. C’è comunque un’applicazione ‘interessante’ del Teorema di punto fisso di Brouwer alle matrici, che ora presentiamo. Teorema 15.31 (di Perron-Frobenius). Sia 𝐴 ∶= (𝑎𝑖𝑗 ) una matrice quadrata di ordine 𝑛 a coefficienti reali non negativi. Allora 𝐴 possiede almeno un autovalore reale 𝜆 ≥ 0 a cui corrisponde un autovettore a componenti tutte non negative. Dimostrazione. Sia Σ ∶= Σ𝑛−1 il simplesso (𝑛 − 1)-dimensionale definito da Σ ∶= {x = (𝑥1 , … , 𝑥𝑛 )⊤ ∈ ℝ𝑛 ∶ (𝑥𝑖 ≥ 0, ∀𝑖) ∧ (∑𝑛𝑖=1 𝑥𝑖 = 1)} .
Se esiste z ∈ Σ tale che 𝐴z = 0 = 0z, abbiamo raggiunto la tesi, trovando l’autovalore nullo e l’autovettore z. Quindi, senza perdita di generalità, possiamo supporre d’ora in avanti che sia 𝐴x ≠ 0,
∀x ∈ Σ.
15.1. Punti fissi in dimensione superiore
784
In tal caso risulta definita la seguente funzione𝑓 ∶ Σ → ℝ𝑛 , con 𝑓 = (𝑓1 , … , 𝑓𝑛 )⊤ espressa da (𝐴x)𝑖 𝑓𝑖 (x) ∶= 𝑛 . ∑𝑘=1 (𝐴x)𝑘
Essendo, per ogni 𝑖 e per ogni 𝑗, 𝑥𝑖 ≥ 0, 𝑎𝑖𝑗 ≥ 0 e gli (𝐴x)𝑘 ≥ 0 e non tutti nulli, si ottiene che la definizione data è coerente. Si vede immediatamente anche che 𝑓 è continua e manda Σ in sé. Per la Proposizione 15.12.3, esiste almeno un x̂ ∈ Σ tale che 𝑓 (x)̂ = x.̂ Posto ∑𝑛𝑘=1 (𝐴x)̂ 𝑘 =∶ 𝜆 > 0, si ottiene 𝐴x̂ = 𝜆x.̂ Abbiamo così trovato un autovalore positivo 𝜆 e un autovettore x̂ a componenti non negative. Un ulteriore risultato che si può ottenere è un teorema di suriettività per applicazioni continue di ℝ𝑛 in sé che generalizza un ben noto risultato delle funzioni reali di variabile reale. Teorema 15.32. Sia 𝑔 ∶ ℝ𝑛 → ℝ𝑛 continua. Se è allora 𝑔 è suriettiva.
‖x‖→∞
lim
⟨𝑔(x), x⟩ = +∞, ‖x‖
[= −∞],
(15.10)
Dimostrazione. Supponiamo che il limite nella (15.10) sia +∞; l’altro caso si ottiene con un ragionamento simile. Fissiamo y ∈ ℝ𝑛 . Vogliamo dimostrare che l’equazione 𝑔(x) = y ammette soluzioni. Ciò equivale a dire che il campo vettoriale continuo 𝑓 ∶ ℝ𝑛 → ℝ𝑛 definito da 𝑓 (x) ∶= 𝑔(x) − y si annulla in ℝ𝑛 . Per il Teorema di Hadamard 15.22, è sufficiente mostrare che esiste un 𝑟 abbastanza grande affinché risulti ⟨𝑓 (x), x⟩ > 0, ∀x ∈ fr 𝐵[0, 𝑟]. Ora si ha ⟨𝑓 (x), x⟩ = ⟨𝑔(x), x⟩ − ⟨y, x⟩ ≥ ⟨𝑔(x), x⟩ − ‖y‖ ⋅ ‖x‖ = = ‖x‖(⟨𝑔(x), x⟩/‖x‖ − ‖y‖),
che tende a +∞ per ‖x‖ → ∞. Esiste quindi un 𝑠 > 0 tale che, per ‖x‖ > 𝑠, è ⟨𝑓 (x), x⟩ > 0. Basta, in fine, prendere un 𝑟 ≥ 𝑠. Prima di proporre ulteriori risultati, ritorniamo brevemente sul Teorema di Poincaré-Miranda di cui proporremo, in dimensione 2, una dimostrazione di tipo elementare da un punto di vista geometrico. A tale scopo, premettiamo un risultato tecnico che è un lemma fondamentale utilizzato in diverse aree dell’Analisi Funzionale non lineare, in particolare nella Teoria della Biforcazione. Lemma 15.33 (di Kuratowski-Whyburn). Siano 𝑋 uno spazio topologico compatto di Hausdorff e 𝐶1 , 𝐶2 due suoi sottoinsiemi chiusi non vuoti e fra loro disgiunti. Sussiste allora una delle seguenti eventualità: ∗ esiste un connesso 𝐷 ⊆ 𝑋 che interseca 𝐶1 e 𝐶2 ;
15.1. Punti fissi in dimensione superiore
785
∗ si può ripartire 𝑋 in due clopen contenenti rispettivamente 𝐶1 e 𝐶2 .
Dimostrazione. Supponiamo che non esista un connesso che interseca 𝐶1 e 𝐶2 . Quindi 𝑋 non è connesso ed esistono clopen propriamente contenuti in esso. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐶1 , la famiglia 𝒰𝑥 di tutti i clopen di 𝑋 che non contengono 𝑥 ricopre 𝐶2 . Infatti, per ogni 𝑦 ∈ 𝐶2 , sia 𝑆𝑦′ la sua quasi-componente (cfr. Definizione 13.26); per il Teorema 13.38 𝑆𝑦′ coincide con la componente connessa 𝑆𝑦 ed è quindi un connesso che, in base all’ipotesi, non può contenere 𝑥. D’altra parte, 𝑆𝑦′ è l’intersezione di tutti i clopen contenenti 𝑦. Pertanto, esiste almeno un ′ clopen 𝑈𝑥𝑦 contenente 𝑦, ma non 𝑥. Poiché 𝐶2 è compatto, ed è contenuto ′ nell’unione dei clopen 𝑈𝑥𝑦 , al variare di 𝑦 ∈ 𝐶2 , per ogni 𝑥 ∈ 𝐶1 fissato, esiste ′ ′ ′ ′ un numero finito di clopen 𝑈𝑥𝑦 , … , 𝑈𝑥𝑦 tale che 𝐶2 ⊆ 𝐷𝑥 ∶= 𝑈𝑥𝑦 ∪ ⋯ ∪ 𝑈𝑥𝑦 . 1 𝑘 1 𝑘 𝐷𝑥 è ancora un clopen che non contiene 𝑥. Abbiamo così verificato che, per ogni 𝑥 ∈ 𝐶1 , esiste un clopen 𝐷𝑥 che contiene 𝐶2 , ma non 𝑥. Quindi, il complementare 𝐵𝑥 di 𝐷𝑥 è un clopen contiene 𝑥 e disgiunto d 𝐶2 . Siccome il compatto 𝐶1 è contenuto nell’unione di questi 𝐵𝑥 , esso è contenuto nell’unione 𝐵 di un numero finito di essi. Anche 𝐵 e il suo complementare 𝐷 sono clopen, contengono rispettivamente 𝐶1 e 𝐶2 e ripartiscono 𝑋. Teorema 15.34. Siano 𝑅 ∶= [𝑎, 𝑏] × [𝑐, 𝑑] e 𝑔 ∶ 𝑅 → ℝ una funzione continua tale che 𝑔(𝑥, 𝑐) < 0, ∀𝑥 ∈ [𝑎, 𝑏] e 𝑔(𝑥, 𝑑) > 0, ∀𝑥 ∈ [𝑎, 𝑏]. Allora l’insieme 𝐻 degli zeri di 𝑔 contiene un continuo che interseca i lati {𝑎} × [𝑐, 𝑑] e {𝑏} × [𝑐, 𝑑].
Dimostrazione. Chiaramente 𝐻 è chiuso e limitato e quindi compatto. Per ogni 𝑥 ∈ [𝑎, 𝑏], esiste almeno un 𝑦 ∈ [𝑐, 𝑑] tale che 𝑔(𝑥, 𝑦) = 0. Anzi, si ha che per ogni cammino 𝛾 ∶ [0, 1] → 𝑅, con 𝛾(0) ∈ [𝑎, 𝑏] × {𝑐} e 𝛾(1) ∈ [𝑎, 𝑏] × {𝑑}, esiste 𝜏 ∈ ]0, 1[ tale che 𝑔(𝛾(𝜏)) = 0, ossia 𝛾(𝜏) ∈ 𝐻. Consideriamo ora i due chiusi disgiunti 𝐶1 ∶= {(𝑎, 𝑦) ∈ 𝑅 ∶ 𝑔(𝑎, 𝑦) = 0} ;
𝐶2 ∶= {(𝑏, 𝑦) ∈ 𝑅 ∶ 𝑔(𝑏, 𝑦) = 0} .
𝐶1 e 𝐶2 sono due sottoinsiemi chiusi, non vuoti e disgiunti di 𝐻 che è un compatto 𝑇2 . Per il lemma precedente, o esiste un connesso 𝐷 ⊂ 𝐻 che li interseca o si può ripartire 𝐻 in due clopen che contengono rispettivamente 𝐶1 e 𝐶2 . Nel primo caso, basta considerare l’insieme 𝐷′ = cl 𝐷. Per il Teorema 13.15, anche 𝐷′ è connesso; inoltre 𝐷′ è ovviamente compatto ed è contenuto in 𝐻. Proviamo che il secondo caso è impossibile. Sia dunque, per assurdo, 𝐻 = 𝐻1 ∪ 𝐻2 , con 𝐻1 , 𝐻2 clopen di 𝐻 disgiunti e contenenti rispettivamente 𝐶1 e 𝐶2 . Chiaramente, 𝐻1 non interseca il lato destro di 𝑅 e 𝐻2 non interseca quello sinistro. Inoltre nessuno dei due interseca né il lato inferiore né quello superiore di 𝑅. Siano ora 𝑃1 ∶= ((𝑎+𝑏)/2, 𝑐) e 𝑃2 ∶= ((𝑎+𝑏)/2, 𝑑). I semiperimetri sinistro e destro, di estremi 𝑃1 e 𝑃2 , sono due archi di 𝑅 che non incontrano rispettivamente 𝐻2 e 𝐻1 . Ai chiusi 𝐻1 , 𝐻2 , pensati come sottoinsiemi di 𝑅, possiamo applicare il Lemma di Alexander 14.6. Esiste quindi un cammino che
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unisce 𝑃1 a 𝑃2 senza incontrare 𝐻1 ∪ 𝐻2 ; ma ciò va contro quanto osservato in precedenza. Si è così ottenuta una risposta a una domanda posta prima del Teorema 13.40. Osservazione 15.35. Il risultato del precedente teorema permette anche di dare una dimostrazione alternativa del Teorema 14.36 di Poincaré-Miranda in dimensione 2. Infatti, siano 𝑓 , 𝑔 le componenti di un campo vettoriale continuo definito su un rettangolo 𝑅 ∶= [𝑎, 𝑏] × [𝑐, 𝑑], con 𝑓 (𝑎, 𝑦)𝑓 (𝑏, 𝑦) < 0, ∀𝑦 ∈ [𝑐, 𝑑],
𝑔(𝑥, 𝑐)𝑔(𝑥, 𝑑) < 0, ∀𝑥 ∈ [𝑎, 𝑏].
Infatti, il sottoinsieme di 𝑅 dove 𝑔 si annulla contiene un continuo 𝐻 che connette il lato 𝑥 = 𝑎 col lato 𝑥 = 𝑏. Poiché la funzione 𝑓 sul lato 𝑥 = 𝑎 ha segno opposto rispetto a quello che ha sul lato 𝑥 = 𝑏, essa, per il Teorema di connessione, deve annullarsi in qualche punto di 𝐻; quindi in esso si annulla il campo vettoriale. Notiamo che, per quanto detto nell’Osservazione 15.17, le condizioni che abbiamo dato su 𝑓 e 𝑔 equivalgono a quelle del Teorema di Poincaré-Miranda con le diseguaglianze strette. ◁ Osservazione 15.36. Sempre il Teorema 15.34 permette di dare un’ulteriore dimostrazione alternativa del Teorema di Poincaré-Miranda in dimensione 2, giustificando rigorosamente l’idea intuitiva espressa da Poincaré stesso nel suo articolo del 1884 sul “Bulletin Astronomique” (cfr. [48]). In tale articolo, Poincaré enuncia un Teorema degli zeri per un campo vettoriale continuo definito su un ipercubo ∏𝑛𝑖=1 [−𝑎𝑖 , 𝑎𝑖 ] e tale che la componente 𝑖-ma del campo sia sempre positiva per 𝑥𝑖 = 𝑎𝑖 e sempre negativa per 𝑥𝑖 = −𝑎𝑖 . Successivamente, “per far comprendere” come uno potrebbe dimostrare il teorema, egli propone una versione semplificata in due variabili. Riportiamo, con le nostre notazioni, l’idea di Poincaré. Egli immagina di avere un campo vettoriale continuo di componenti 𝑓 , 𝑔 definito su un rettangolo 𝐴𝐵𝐶𝐷 descritto dalle relazioni: 𝐴𝐵 ∶ 𝑥 = −𝑎;
𝐶𝐷 ∶ 𝑥 = 𝑎;
𝐵𝐶 ∶ 𝑦 = −𝑏;
𝐷𝐴 ∶ 𝑦 = 𝑏.
Poincaré afferma: “La curva 𝑔 = 0 parte da un punto del lato 𝐴𝐵 per finire a un punto di 𝐶𝐷; nello stesso modo, la curva 𝑓 = 0 parte da un punto di 𝐵𝐶 per finire ad un punto di 𝐷𝐴, per cui necessariamente incontrerà la curva precedente nell’interno del rettangolo”. Se sostituiamo l’idea intuitiva di “curva” con quella di continuo, possiamo effettivamente fornire una nuova dimostrazione del suddetto teorema, come ora vedremo. ◁ Il risultato di partenza è dato dal seguente lemma (cfr. [60]) che generalizza il Lemma 14.38. Muldowney e Willett hanno utilizzato questo lemma anche per dimostrare l’esistenza di soluzioni particolari per alcuni sistemi di equazioni differenziali nel piano.
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Lemma 15.37. Siano dati: un rettangolo 𝑅 ∶= [𝑎, 𝑏] × [𝑐, 𝑑] ⊂ ℝ2 , 𝐶 ′ , 𝐶 ″ ⊆ 𝑅 due continui, con 𝐶 ′ che interseca i lati 𝑥 = 𝑎 e 𝑥 = 𝑏, 𝐶 ″ che interseca i lati 𝑦 = 𝑐 e 𝑦 = 𝑑. Allora si ha 𝐶 ′ ∩ 𝐶 ″ ≠ ∅.
Dimostrazione. Fissiamo un 𝜀 > 0 e, per ogni z ∈ 𝐶 ′ , sia 𝐵z ∶= 𝐵(z, 𝜀)∩𝑅. I 𝐵z sono aperti relativamente a 𝑅 e connessi per insiemi in quanto convessi. Si ha 𝐶 ′ ⊆ 𝐴′𝜀 ∶= ⋃z∈𝐶 ′ 𝐵z . Per la Proposizione 13.14.7, l’insieme 𝐴′𝜀 = 𝐴′𝜀 ∪𝐶 ′ (⊆ 𝑅) è un aperto relativamente a 𝑅 e connesso (per insiemi). Siccome 𝑅 è localmente connesso per cammini, per il Teorema 13.81, si ha che 𝐴′𝜀 è connesso anche per cammini. Dunque, dati in 𝐶 ′ due punti p′ ∶= (𝑎, 𝑦′ ) e p″ ∶= (𝑏, 𝑦″ ), esiste un cammino 𝛾𝜀′ di 𝐴′𝜀 che li unisce. In modo perfettamente analogo, si ottiene che 𝐶 ″ è contenuto in un aperto connesso 𝐴″𝜀 ⊆ 𝑅 che a sua volta contiene un cammino 𝛾𝜀″ che unisce due punti del tipo q′ ∶= (𝑥′ , 𝑐) e q″ ∶= (𝑥″ , 𝑑). Per il Lemma 14.38, esiste un w𝜀 ∈ 𝛾𝜀′ ∩ 𝛾𝜀″ . Prendiamo 𝜀 ∶= 1/𝑛, con 𝑛 ∈ ℕ+ . Si ottengono intanto due successioni (𝐴′𝑛 )𝑛 e (𝐴″𝑛 )𝑛 di aperti (relativamente a 𝑅) decrescenti per inclusione che contengono, rispettivamente, 𝐶 ′ e 𝐶 ″ . Si ottiene inoltre una successione (w𝑛 )𝑛 di 𝑅, con w𝑛 ∈ 𝐴′𝑛 ∩ 𝐴″𝑛 , ∀𝑛. Essendo limitata, questa ammette una sottosuccessione 𝑛 (w 𝑘 )𝑘 convergente a un punto w ∈ 𝑅. Proviamo che è w ∈ 𝐶 ′ ∩ 𝐶 ″ . Supponiamo, per assurdo, che sia w ∉ 𝐶 ′ . Essendo 𝐶 ′ compatto, si ha 𝑑(w, 𝐶 ′ ) > 0. Sia 𝑑(w, 𝐶 ′ ) =∶ 3𝛿 > 0. Si ha immediatamente 𝐵[w, 𝛿] ∩ 𝐴′𝛿 = ∅. Ora però 𝑛 la successione (w 𝑘 )𝑘 deve finire in 𝐴𝛿 e non può quindi convergere a w. È dunque w ∈ 𝐶 ′ . Analogamente, si vede che è w ∈ 𝐶 ″ . A questo punto, dal Teorema 15.34 abbiamo che i punti dove si annullano le componenti 𝑓 , 𝑔 di cui parla il Teorema di Poincaré-Miranda contengono due continui che soddisfano alle ipotesi del lemma precedente. Si conclude che esistono punti in cui questi continui si intersecano e in cui, di conseguenza, si annullano 𝑓 e 𝑔. A commento del Lemma 15.37, ci si può chiedere se le ipotesi che 𝐶 ′ e ″ 𝐶 siano connessi e compatti sono essenziali. È immediato produrre un controesempio nel caso in cui uno dei due non sia connesso. In 𝑅 ∶= [−1, 1]2 , siano: 𝐶 ′ ∶= {(𝑥, 1/2) ∶ −1 ≤ 𝑥 ≤ 1/2} ∪ {(𝑥, −1/2) ∶ −1/2 ≤ 𝑥 ≤ 1} ; 𝐶 ″ ∶= {(𝑥, 𝑥3 ) ∶ 𝑥 ∈ [−1, 1]} .
Più complicato è il caso in cui 𝐶 ′ e 𝐶 ″ sono connessi ma con almeno uno dei due non chiuso. L’esempio che segue, tratto con modifiche, dal libro [21], mostra che se 𝐶 ′ e 𝐶 ″ sono entrambi non chiusi, può essere 𝐶 ′ ∩ 𝐶 ″ = ∅.
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Esempio 15.38 (di Gelbaum-Olmsted). In 𝑅 ∶= [−1, 1] × [−2, 2], consideriamo i sottoinsiemi 𝐶 ′ , 𝐶 ″ così definiti
e
1 𝐶 ′ ∶= {(𝑥, − ) ∶ −1 ≤ 𝑥 ≤ 0} ∪ 2 1 1 2 3 2 {(𝑥, 2 + sin 𝑥 ) ∶ 0 < 𝑥 ≤ 𝜋 } ∪ {(𝑥, 2 ) ∶ 𝜋 ≤ 𝑥 ≤ 1}
5 4 𝐶 ″ ∶= {(𝑥, − 𝑥) ∶ − ≤ 𝑥 ≤ 0} ∪ 2 5 1 1 2 2 1 {(𝑥, − 2 + sin 𝑥 ) ∶ 0 < 𝑥 ≤ 𝜋 } ∪ {( 𝜋 , 𝑦) ∶ −2 ≤ 𝑦 ≤ 2 } .
(Per ragioni di rappresentazione, in figura non è rispettata la scala.) Chiaramente 𝐶 ′ e 𝐶 ″ non sono chiusi. Essi sono però connessi per insiemi (ma non per cammini), come si constata facilmente. Inoltre, per costruzione, si ha 𝐶 ′ ∩ 𝐶 ″ = ∅. ◁ Veniamo al caso in cui 𝐶 ′ e 𝐶 ″ sono connessi (per insiemi), ma uno solo dei due è chiuso. Il teorema che segue utilizza nella dimostrazione una tecnica tratta da [66] e generalizza il risultato di Muldowney-Willett.
Teorema 15.39. Siano dati: un rettangolo 𝑅 ∶= [𝑎, 𝑏]×[𝑐, 𝑑] ⊂ ℝ2 , 𝐶 ′ , 𝐶 ″ ⊆ 𝑅 due sottoinsiemi connessi (per insiemi), con 𝐶 ′ che interseca i lati 𝑥 = 𝑎 e 𝑥 = 𝑏, 𝐶 ″ che interseca i lati 𝑦 = 𝑐 e 𝑦 = 𝑑. Allora, se almeno uno dei due è chiuso, si ha 𝐶 ′ ∩ 𝐶 ″ ≠ ∅.
Dimostrazione. Supponiamo 𝐶 ′ chiuso. Per comodità consideriamo il rettangolo 𝑅′ ∶= [𝑎, 𝑏] × [𝑐 ′ , 𝑑 ′ ] con 𝑐 ′ ∶= 𝑐 − ℎ e 𝑑 ′ ∶= 𝑑 + ℎ, per un fissato ℎ > 0. È dunque 𝑅 ⊂ 𝑅′ e 𝐶 ′ non incontra i lati 𝑦 = 𝑐 ′ e 𝑦 = 𝑑 ′ .
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Sia ora 𝐴 ∶= 𝑅′ ⧵ 𝐶 ′ , che è un aperto relativamente a 𝑅′ , dato che 𝐶 ′ è chiuso. Supponiamo, per assurdo, che 𝐴 sia connesso. Siccome 𝑅′ è localmente connesso per cammini, per il Teorema 13.81, si ha che 𝐴 è connesso anche per cammini. Dunque, dati in 𝑅′ due punti p′ ∶= (𝑥′ , 𝑐 ′ ) e p″ ∶= (𝑥″ , 𝑑 ′ ), esiste un cammino 𝛾 di 𝐴 che li unisce. Il sostegno di 𝛾 è un continuo che unisce i lati 𝑦 = 𝑐 ′ e 𝑦 = 𝑑 ′ e quindi, per il Lemma 15.37 deve intersecare 𝐶 ′ , contro il fatto che è 𝐶 ′ ∩ 𝐴 = ∅. È dunque 𝐴 = 𝐴′ ∪ 𝐴″ , con 𝐴′ , 𝐴″ aperti relativamente a 𝑅′ , fra loro disgiunti, e contenenti rispettivamente i lati 𝑦 = 𝑐 ′ e 𝑦 = 𝑑 ′ . Non è detto che 𝐴′ e 𝐴″ siano connessi, ma si ha fr 𝐴′ ∪ fr 𝐴″ ⊆ 𝐶 ′ . Consideriamo le seguenti funzioni 𝑓 , 𝑔 ∶ 𝑅′ → ℝ definite da ⎧−1, ⎪ 𝑔(x) ∶= ⎨0, ⎪1, ⎩
se x ∈ 𝐴′ se x ∈ 𝐶 ′ ; se x ∈ 𝐴″
𝑓 (x) ∶= 𝑑(x, 𝐶 ′ ) ⋅ 𝑔(x).
Proviamo che la funzione 𝑓 è continua, pur non essendolo 𝑔. Posto 𝐵 ′ ∶= 𝐴 ∪ 𝐶 ′ e 𝐵 ″ ∶= 𝐴″ ∪ 𝐶 ′ , si ha 𝑅′ = 𝐵 ′ ∪ 𝐵 ″ . Su 𝐵 ′ si ha 𝑓 (x) = −𝑑(x, 𝐶 ′ ), mentre su 𝐵 ″ è 𝑓 (x) = 𝑑(x, 𝐶 ′ ). Quindi 𝑓 è continua su 𝐵 ′ e su 𝐵 ″ (cfr. Proposizione 3.42.4); siccome 𝐵 ′ e 𝐵 ″ sono chiusi relativamente a 𝑅′ , per la Proposizione 2.15.2 si conclude che 𝑓 è continua su tutto 𝑅′ . Inoltre la 𝑓 è negativa in 𝐴′ positiva in 𝐴″ e nulla in tutti e soli i punti di 𝐶 ′ . Veniamo, in fine, a 𝐶 ″ . in esso c’è, per ipotesi, almeno un punto q′ ∶= (𝑥′ , 𝑐) e un punto q″ ∶= (𝑥″ , 𝑑). Siano ora p′ ∶= (𝑥′ , 𝑐 ′ ) e p″ ∶= (𝑥″ , 𝑑 ′ ). Si ponga poi 𝜎 ′ ∶= [p′ , q′ ] e 𝜎 ″ ∶= [q″ , p″ ]. L’insieme 𝐷 ∶= 𝜎 ′ ∪ 𝐶 ″ ∪ 𝜎 ″ è un connesso di 𝑅′ che unisce il lato 𝑦 = 𝑐 ′ col lato 𝑦 = 𝑑 ′ . Essendo 𝑓 (q′ ) < 0 e 𝑓 (q″ ) > 0, per il teorema di connessione, 𝑓 deve annullarsi in un punto di 𝐷. Ma 𝑓 si annulla solo in 𝐶 ′ . Si conclude che è 𝐷 ∩ 𝐶 ′ ≠ ∅, da cui si ottiene subito anche 𝐶 ″ ∩ 𝐶 ′ ≠ ∅. ′
Il precedente teorema è collegato con un risultato di Teoria dei Giochi noto come Teorema dell’Hex. Il gioco da tavolo chiamato comunemente Hex fu inventato dal matematico danese Piet Hein nel 1942 e reinventato indipendentemente dal famoso matematico e futuro premio Nobel per l’economia John Nash nel 1948, mentre era uno studente di Matematica all’Università di Princeton. Il gioco viene effettuato su una scacchiera con caselle esagonali; ciascuno dei due giocatori ha pedine di un proprio colore; ognuno di essi occupa, alternativamente, una casella con una sua pedina; vince il giocatore che per primo riesce a connettere i due lati opposti della scacchiera, di sua pertinenza, con un cammino continuo. Il teorema a cui si fa riferimento afferma che il gioco non può finire in parità. David Gale, in un articolo del 1979 ([20]), ha dimostrato l’equivalenza fra il Teorema dell’Hex e il Teorema di punto fisso di Brouwer in dimensione 2. Per ulteriori approfondimenti su questo tipo di risultati si veda anche l’articolo [66] che riprende quello di Gale con alcuni ulteriori sviluppi.
15.1. Punti fissi in dimensione superiore
790
La prima delle due figure (tratta da [67]) mette in evidenza il fatto che, se non esiste un cammino continuo di un colore (quello blu), esiste allora una connessione dell’altro colore, quando tutte le caselle siano state occupate. La figura di destra, tratta da Wikipedia, mostra una scacchiera reale con una posizione vincente da parte del bianco.
Rimane il problema di estendere i Teoremi di Jordan e di Schoenflies a ℝ𝑛 con 𝑛 ≥ 3. Più precisamente, sia 𝑆 𝑛−1 ⊂ ℝ𝑛 la sfera unitaria (𝑛−1)-dimensionale e sia ℳ ⊂ ℝ𝑛 un insieme omeomorfo a 𝑆 𝑛−1 . Il Teorema di Jordan può essere effettivamente esteso in dimensione arbitraria. Il corrispondente risultato afferma che ℝ𝑛 ⧵ ℳ è formato esattamente da due componenti aperte e connesse, di cui una limitata, aventi ℳ come frontiera comune. Questo risultato va sotto il nome di Teorema di separazione di Jordan-Brouwer e fu dimostrato da Brouwer nel 1912. Tuttavia la dimostrazione è più complessa e richiede prerequisiti che non abbiamo ancora sviluppato. Riprenderemo l’argomento nel capitolo sull’omotopia. Per quanto riguarda il Teorema di Schoenflies, questo non può essere generalizzato al caso 𝑛 ≥ 3 senza ulteriori ipotesi. Un controesempio famoso fu ottenuto da Alexander nel 1924 (cfr. [1]) e va sotto il nome di sfera cornuta di Alexander. Vediamo di dare almeno un’idea della costruzione di questo esempio. Esempio 15.40. (Sfera cornuta di Alexxander). Si parte dalla sfera 𝑆 2 . Da essa si fanno uscire due “corna” che si avvicinano (vedi prima figura).
Ciascuna di esse si divide poi in due rami che tendono ad agganciarsi (seconda figura, tratta dall’Articolo originale di Alexander).
15.1. Punti fissi in dimensione superiore
791
1 Si itera quindi questo procedimento. Si può dimostrare che l’oggetto limite 𝑆 è omeomorfo a 𝑆 2 . Per il teorema di Jordan-Brouwer, ℝ3 ⧵ 𝑆 consta di due componenti aperte e connesse, di cui una limitata 𝐴𝑖 e una illimitata 𝐴𝑒 . Si può dimostrare addirittura che 𝐴𝑖 ∪ 𝑆 è omeomorfo alla palla chiusa unitaria di ℝ3 . La componente illimitata 𝐴𝑒 non è semplicemente connessa. Per constatarlo, fissiamo un piano Σ che taglia uno dei due corni (che indichiamo con 𝐶) e 𝐿 una circonferenza di Σ ∩ 𝐴𝑒 che circonda 𝐷 ∶= Σ ∩ 𝐶 (terza figura). Chiaramente, 𝐿 è omeomorfo a 𝑆 1 . Sia poi 𝑓 l’immersione di 𝐿 in 𝐴𝑒 . La funzione 𝑓 non può essere prolungata per continuità a una funzione definita su tutto il disco di Σ che ha 𝐿 come frontiera e con la funzione a valori in 𝐴𝑒 . Quindi, per il Lemma 14.13, l’esterno 𝐴𝑒 non è semplicemente connesso e, ovviamente, nemmeno 𝐴𝑒 ∪ {∞}.
Senza perdita di generalità, possiamo supporre che l’origine appartenga ad 𝐴𝑖 . Sia 𝐵[0, 𝑅] una palla chiusa contenente 𝑆. Sia 𝜑 ∶ ℝ3 ∪ {∞} → ℝ3 ∪ {∞} l’inversione rispetto a fr 𝐵[0, 𝑅] definita da 𝜑(0) ∶= ∞;
𝜑(∞) ∶= 0;
𝜑(x) ∶= 𝑅2
x , ∀x ∈ ℝ3 ⧵ {0}. ‖x‖2
Poniamo 𝑆 ′ ∶= 𝜑(𝑆) e osserviamo che anche 𝑆 ′ è omeomorfa a 𝑆 2 . Anche ℝ3 ⧵ 𝑆 ′ ha quindi due componenti aperte e connesse, di cui una limitata 𝐴′𝑖 e una illimitata 𝐴′𝑒 . L’omeomorfismo 𝜑 (che scambia fra loro 0 e ∞) scambia necessariamente 𝐴𝑖 (che contiene 0) con la componente connessa di (ℝ3 ∪{∞})⧵ 𝑆 ′ che contiene ∞ = 𝜑(0), ossia 𝐴′𝑒 ∪ {∞}; scambia poi anche 𝐴𝑒 ∪ {∞} con 𝐴′𝑖 .
15.2. Punti fissi in spazi normati
792
Ora abbiamo detto che 𝐴𝑒 ∪ {∞} non è semplicemente connessa. Si conclude che nemmeno 𝐴′𝑖 è semplicemente connessa e non è quindi omeomorfa alla palla aperta unitaria 𝐵0 di ℝ3 , mentre si è visto che 𝑆 ′ è omeomorfo a 𝑆 2 = fr 𝐵. In conclusione, abbiamo che l’omeomorfismo da 𝑆 2 a 𝑆 ′ non può essere prolungato a un omeomorfismo della palla chiusa unitaria 𝐵 su 𝐴′𝑖 ∪ 𝑆 ′ e quindi il Teorema di Schoenflies non vale in ℝ3 . ◁
15.2
Punti fissi in spazi normati
Fino qui abbiamo visto varie applicazioni del Teorema del punto fisso di Brouwer negli spazi normati di dimensione finita. Passiamo ora ad esaminare delle possibili estensioni di questo teorema a spazi normati arbitrari. Il punto di partenza sarà dato dalla Proposizione 15.12.3 che qui rienunciamo.
Teorema 15.41. Siano 𝑌 uno spazio normato di dimensione finita e 𝐾 ⊂ 𝑌 un suo sottoinsieme compatto, convesso e non vuoto. Ogni applicazione continua 𝑓 ∶ 𝐾 → 𝐾 ha almeno un punto fisso. Premettiamo inoltre la seguente
Definizione 15.42. Siano 𝑋 e 𝑌 spazi topologici e consideriamo un’applicazione 𝜑 ∶ 𝐷(⊆ 𝑋) → 𝑌 . L’applicazione 𝜑 si dice compatta in 𝐷 se è continua e 𝜑(𝐷) è relativamente compatto in 𝑌 (cfr. Definizione 7.72).
È chiaro che ogni funzione continua è compatta se ristretta ad un sottoinsieme compatto del suo dominio. Per avere un esempio di funzione compatta non definita su un compatto basta considerare la funzione arcotangente. Per avere un esempio di funzione continua non compatta, basta prendere una funzione 𝑓 ∶ ℝ → ℝ che sia illimitata. Nelle applicazioni dell’Analisi Funzionale, spesso interessa dimostrare che un’applicazione sia compatta su una palla chiusa. Se il dominio è contenuto in uno spazio normato di dimensione finita, la continuità sarà sufficiente. Esempi di applicazioni compatte in spazi di dimensione infinita si trovano, fra l’altro, nello studio di equazioni differenziali o integrali. Nel corso della dimostrazione del Teorema di Peano 15.96 incontreremo un esempio famoso. Per il momento ci limitiamo ad osservare che, nel caso degli spazi di funzioni continue, l’ipotesi che l’insieme immagine sia relativamente compatto verrà verificata mediante l’uso del Teorema di Ascoli-Arzelà 12.101. Possiamo ora dimostrare il seguente Teorema 15.43 (del punto fisso di Schauder). Sia 𝐶 un sottoinsieme chiuso, convesso e non vuoto di uno spazio normato 𝑋. Ogni applicazione compatta 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝐶 possiede punto fisso. Dimostrazione. La dimostrazione consiste nell’approssimare 𝜑 con funzioni a immagine finito-dimensionale per le quali si possa applicare il teorema precedente. Si ottengono così dei punti fissi per tali funzioni approssimanti e, in
15.2. Punti fissi in spazi normati
793
fine, con un procedimento di compattezza si ricava l’esistenza di un punto fisso per 𝜑. Sia 𝜀 > 0 e consideriamo in 𝐶 una 𝜀-rete per l’insieme compatto cl 𝜑(𝐶) ⊆ 𝐶 (cfr. Definizione 7.13 e Corollario 7.20). In altri termini, esistono dei 𝑝 punti z1 , … , z ∈ 𝐶 tali che ℬ = ℬ 𝜀 ∶=
𝑝
⋃ 𝑖=1
𝐵(z𝑖 , 𝜀) ⊇ cl 𝜑(𝐶).
Definiamo anche l’insieme
𝐾 = 𝐾 𝜀 ∶= conv(z1 , … , z ), 𝑝
cioè l’inviluppo convesso generato dai punti z1 , … , z . È utile ricordare che 𝐾 𝑝 è costituito da tutte le combinazioni convesse dei punti z1 , … , z , ossia dagli elementi del tipo 𝑝
∑ 𝑖=1
𝛼 𝑖 z𝑖 ,
con
𝛼𝑖 ≥ 0,
𝑝
∑ 𝑖=1
𝑝
𝛼𝑖 = 1.
Osserviamo che 𝐾 è chiuso e limitato, 1 convesso non vuoto contenuto nel 𝑝 sottospazio di dimensione finita di 𝑋 generato da z1 , … , z e quindi è compatto. Inoltre, 𝐾 ⊆ 𝐶, dato che 𝐶 è convesso. Definiamo ora un’opportuna proiezione di ℬ su 𝐾. A tale scopo, introduciamo le seguenti funzioni: 𝛿𝑖 (x) = 𝛿𝑖𝜀 (x) ∶= max{0, 𝜀 − ‖x − z𝑖 ‖}, 𝜓(x) = 𝜓 𝜀 (x) ∶=
𝑝
𝛽𝑖 (x) = 𝛽𝑖𝜀 (x) ∶=
∑ 𝑖=1
𝛽𝑖 (x)z𝑖 .
𝛿𝑖 (x)
∑𝑗=1 𝛿𝑗 (x) 𝑝
,
Per ogni x ∈ ℬ, esiste almeno un indice 𝑗 tale che x ∈ 𝐵(z , 𝜀), da cui 𝛿𝑗 (x) > 0; pertanto 𝛽𝑖 (x) è definito per ogni indice 𝑖. Osservando che 𝛽𝑖 (x) ≥ 0 𝑝 e ∑𝑖=1 𝛽𝑖 (x) = 1, per ogni x ∈ ℬ, concludiamo che 𝑗
𝜓 ∶ ℬ → 𝐾 ⊆ 𝐶.
1 È facile vedere che 𝐾 è limitato; verifichiamo che è chiuso. Sia w ∈ cl 𝐾. Esiste una 𝑝 𝑝 (𝑖) (𝑖) successione (x𝑛 )𝑛 di 𝐾 convergente a w. Sia, per ogni 𝑛, x𝑛 = ∑𝑖=1 𝛼𝑛 z𝑖 , con ∑𝑖=1 𝛼𝑛 = 1.
La successione (𝛼𝑛 )𝑛 , essendo limitata, ha una sottosuccessione convergente (𝛼𝑛𝑘 )𝑘 . Anche (1)
(2) (𝛼𝑛𝑘 )𝑘
(1)
la successione è limitata ed ha perciò una sottosuccessione convergente. Così proseguendo, si ottiene che esiste una sottosuccessione crescente (𝑚𝑛 )𝑛 di indici tale che, per ogni 𝑝 𝑝 (𝑖) (𝑖) 𝑖, (𝛼𝑚𝑛 )𝑛 converge ad un 𝛼𝑖 ≥ 0. Essendo, per ogni 𝑛, ∑𝑖=1 𝛼𝑚𝑛 = 1, è anche ∑𝑖=1 𝛼𝑖 = 1. La 𝑚𝑛 𝑝 𝑖 successione (x )𝑛 deve convergere, da un lato a w, dall’altro a ∑𝑖=1 𝛼𝑖 z . Si conclude che è 𝑝 w = ∑𝑖=1 𝛼𝑖 z𝑖 ∈ 𝐾.
15.2. Punti fissi in spazi normati
794
La funzione 𝜓 è continua (perché sono tali le 𝛿𝑖 e quindi le 𝛽𝑖 ) e gode della seguente proprietà: ‖𝜓(y) − y‖ < 𝜀, ∀𝑦 ∈ ℬ. (15.11) Infatti, per y ∈ ℬ, si ha: 𝜓(y) − y =
𝑝
∑ 𝑖=1
𝛽𝑖 (y)z𝑖 −
𝑝
∑ 𝑖=1
𝛽𝑖 (y)y =
𝑝
∑ 𝑖=1
𝛽𝑖 (y)(z𝑖 − y) =
∑ 𝑖∈𝐽
𝛽𝑖 (y)(z𝑖 − y)
dove 𝐽 è l’insieme degli indici 𝑗 ∈ {1, … , 𝑝} tali che y ∈ 𝐵(z𝑖 , 𝜀). Passando alla norma, si ottiene ‖𝜓(y) − y‖ ≤
∑ 𝑖∈𝐽
𝛽𝑖 (y)‖z𝑖 − y‖ < 𝜀
∑ 𝑖∈𝐽
𝛽𝑖 (y) = 𝜀
𝑝
∑ 𝑖=1
𝛽𝑖 (y) = 𝜀.
A questo punto possiamo definire la funzione 𝑓 ∶ 𝐾 → 𝐾 data da 𝑓 = 𝑓 𝜀 ∶= 𝜓 ∘ (𝜑|𝐾 ).
Poiché, come si è già visto, 𝐾 ⊆ 𝐶, 𝜑(𝐶) ⊆ ℬ e 𝜓(ℬ) ⊆ 𝐾, risulta che 𝑓 ∶ 𝐾 → 𝐾 è ben definita. Inoltre è continua, in quanto composta di funzioni continue. Per il Teorema 15.41, esiste un punto fisso x̂ = x̂ 𝜀 ∈ 𝐾 tale che 𝑓 (x)̂ = x.̂ La relazione di punto fisso può essere scritta anche come 𝜓(𝜑(x)) ̂ = x,̂ con x̂ ∈ 𝐾 ⊆ 𝐶. Dalla (15.11) sappiamo anche che ‖𝜓(𝜑(x)) ̂ − 𝜑(x)‖ ̂ = ‖x̂ − 𝜑(x)‖ ̂ < 𝜀.
Ponendo 𝜀 = 1𝑛 , possiamo dire che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , esiste x̂ 𝑛 ∈ 𝐶 tale che ‖𝜑(x̂ 𝑛 ) − x̂ 𝑛 ‖
0 tale che 𝜆x x ∈ 𝐾 ⊆ 𝑊 . Essendo 𝑊 un sottospazio, si conclude che è anche x ∈ 𝑊 , da cui 𝑊 = 𝑋 per l’arbitrarietà di x. Pertanto 𝑋 ha dimensione finita. ∗
L’ultimo risultato può sembrare in contraddizione con il Teorema di BanachAlaoglu 7.129. In realtà ciò non accade perché, come si è visto nella dimostrazione della Proposizione 7.115.2, negli spazi di dimensione infinita gli intorni
15.2. Punti fissi in spazi normati
801
dell’origine rispetto alle topologie deboli non sono limitati. Ne viene che in questi spazi la palla unitaria non è un intorno dell’origine rispetto alle topologie deboli. È naturale chiedersi se nel Teorema di Schauder 15.43 si possono attenuare alcune delle ipotesi. È immediato constatare che le due ipotesi sul dominio non possono essere rimosse. Per la chiusura, basta considerare la funzione 𝑓 ∶ ]0, 1[ → ]0, 1[ definita da 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥2 . Quanto alla convessità, basta considerare la funzione 𝑓 ∶ {0, 1} → {0, 1} che scambia i due punti; se si vuole un dominio connesso, basta prendere la funzione di 𝑆 1 in sé definita dalla rotazione di un angolo 𝛼, con 0 < 𝛼 < 2𝜋. Più interessante è vedere se l’ipotesi che 𝜑 sia compatta possa essere sostituita dalla semplice continuità. Si vede subito che la risposta è negativa già nel caso ℝ → ℝ. (Basta considerare la funzione esponenziale 𝑒𝑥 .) Naturalmente se l’insieme 𝐶 è anche limitato e la dimensione di 𝑋 è finita, la risposta diventa affermativa, dato che in tal caso ogni applicazione continua risulta compatta. Per contro, per gli spazi di dimensione infinita la risposta rimane negativa, come provato dagli esempi seguenti.
Esempio 15.50 (di Kakutani). Sia 𝑋 ∶= 𝑙2 l’insieme delle successioni reali a quadrato sommabile. Ciò significa, come è ben noto, che, se è 𝜉 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 , la 2 serie ∑+∞ 𝑛=1 𝑥𝑛 è convergente. In 𝑋 è definito il seguente prodotto scalare: dati 𝜉 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 e 𝜂 ∶= (𝑦𝑛 )𝑛 è ⟨𝜉, 𝜂⟩ ∶= ∑𝑛∈ℕ+ 𝑥𝑛 𝑦𝑛 . La verifica delle proprietà del prodotto scalare è lasciata per esercizio al lettore. In vero essa non presenta nessuna difficoltà, una volta che si sia verificato che la definizione è ben posta, ossia che la serie ∑𝑛∈ℕ+ 𝑥𝑛 𝑦𝑛 è convergente (si veda anche il Paragrafo 5.2). È noto infatti che, per la disuguaglianza di Cauchy-Schwarz in ℝ𝑛 , per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , si ha √ 𝑛 √ 𝑛 𝑛 √ √ 2√ √ |𝑥 𝑦 | ≤ 𝑥 𝑦2 . ∑ 𝑖 𝑖 ∑ 𝑖 ∑ 𝑖 𝑖=1 ⎷ 𝑖=1 ⎷ 𝑖=1 Passando al limite per 𝑛 → +∞, si ottiene la convergenza assoluta della serie e quindi il prodotto scalare è ben definito. Si noti che con questo procedimento abbiamo già ottenuto la disuguaglianza di Cauchy-Schwarz in 𝑙2 : |⟨𝜉, 𝜂⟩| ≤ ‖𝜉‖ ⋅ ‖𝜂‖.
Sia ora 𝜑 ∶ 𝐵[0, 1] → 𝑋 la funzione definita come segue. Dato 𝜉 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 ∈ 𝑋 e posto 𝜑(𝜉) = 𝜂 ∶= (𝑦𝑛 )𝑛 , si ha: 𝑦1 = √1 − ‖𝜉‖2 ;
Essendo
𝑦𝑛 = 𝑥𝑛−1 , ∀𝑛 > 1.
𝜑(𝜉) = (√1 − ‖𝜉‖2 , 0, 0, … )⊤ + (0, 𝑥1 , 𝑥2 , … )⊤ ,
si ottiene facilmente che 𝜑 è continua. Osserviamo che, per costruzione, è ‖𝜑(𝜉)‖ = 1. Proviamo che 𝜑 non ha punti fissi in 𝐵. Supponiamo, per assurdo,
15.2. Punti fissi in spazi normati
802
che esista uno 𝜉 ̂ ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 con 𝜑(𝜉)̂ = 𝜉.̂ Per quanto detto sopra, è ‖𝜉‖̂ = 1. ̂ si ottiene: D’altra parte, essendo 𝜉 ̂ = 𝜑(𝜉), 𝑥1 = √1 − ‖𝜉‖̂ 2 = 0, 𝑥2 = 𝑥1 , 𝑥3 = 𝑥2 , … , 𝑥𝑛+1 = 𝑥𝑛 , …
Dunque 𝜉 ̂ è la successione costantemente nulla, ma allora il vettore 𝜉 ̂ non può avere norma 1. ◁ Quello precedente è anche un esempio di palla in uno spazio di Hilbert 5 priva della proprietà di punto fisso. L’esempio che segue riguarda lo stesso problema nel caso di uno spazio non riflessivo. Esempio 15.51 (di Leray). Sia
𝑋 ∶= {𝑓 ∈ 𝐶 0 ([0, 1]) ∶ 𝑓 (0) = 0}
con la norma del sup. Essendo 𝑋 un sottoinsieme chiuso di uno spazio di Banach, è anch’esso uno spazio di Banach. Come visto nell’Osservazione 5.46, questi spazi non sono riflessivi Sia ora 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 definita come segue. Data 𝑓 ∈ 𝑋, si pone 𝑔(𝑡) = 𝜑(𝑓 )(𝑡) ∶=
𝑓 (2𝑡), {𝑓 (1) + (1 − 𝑓 (1))(2𝑡 − 1),
se 0 ≤ 𝑡 ≤ 1/2, se 1/2 ≤ 𝑡 ≤ 1.
Dunque per 𝑡 ∈ [1/2, 1], 𝑔(𝑡) rappresenta il segmento che unisce i punti (1/2, 𝑓 (1)) e (1, 1). Per costruzione, 𝑔 è continua, con 𝑔(0) = 0. È dunque effettivamente 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋. Si vede poi subito che 𝜑 manda la palla 𝐵[0, 1] in sé. Inoltre 𝜑 è continua. Infatti si prova facilmente che se (𝑓𝑛 )𝑛 è uniformemente convergente in 𝑋 a una funzione 𝑓 , allora la successione (𝜑(𝑓𝑛 ))𝑛 converge uniformemente a 𝜑(𝑓 ). La verifica è lasciata per esercizio al lettore. Proviamo che 𝜑 non ha punti fissi. Supponiamo per assurdo che esista 𝑓 ̂ ∈ 𝑋 con 𝜑(𝑓 )̂ = 𝑓 .̂ Si ottiene: 𝑛 ̂ = 1, 𝑓 (1/2) ̂ ̂ ̂ 𝑓 (1) = 1, 𝑓 (1/4) = 1, … , 𝑓 (1/2 ) = 1, … ,
𝑛 ̂ contro il fatto che deve essere lim𝑛→+∞ 𝑓 (1/2 ) = 0.
◁
Osservazione 15.52. Ci si può chiedere a questo punto se esistono esempi di spazi normati con dimensione infinita nei quali la continuità sia effettivamente sufficiente per garantire l’esistenza di punti fissi. La risposta è negativa. Dugundji (1951) ha dimostrato che in ogni spazio vettoriale normato 𝑋 di dimensione infinita esiste una retrazione continua 𝑟 ∶ 𝐵 = 𝐵[0, 1] → fr 𝐵 della palla chiusa unitaria sulla sua frontiera. Seguendo lo stesso ragionamento visto nella prima parte della dimostrazione del Teorema 14.34, si può definire una funzione continua 𝜑 ∶ 𝐵 → 𝐵 priva di punti fissi. Infatti, basta prendere la funzione 𝜑 definita da 𝜑(x) = −𝑟(x). Si tratta di una funzione continua, 5
Infatti lo spazio 𝑙2 è anche completo (cfr. Teorema 4.79).
15.2. Punti fissi in spazi normati
803
in quanto composta di due funzioni continue. Proviamo che 𝜑 non ha punti fissi. Supponiamo, per assurdo, che esista x ∈ 𝐵 con x = −𝑟(x). Ne viene che è x ∈ fr 𝐵. Ma su fr 𝐵, 𝑟 è l’identità. Deve perciò essere x = −x, da cui x = 0 ∉ fr 𝐵. ◁
Per poter verificare l’affermazione di Dugundji, è essenziale introdurre il concetto di omeomorfismo di cancellazione (in inglese deleting Homeomorphism). Seguiremo l’impostazione utilizzata in [24]. Definizione 15.53. Un sottoinsieme 𝐸 di uno spazio topologico (𝑋, 𝜏) è detto cancellabile se 𝑋 ⧵ 𝐸 è omeomorfo a 𝑋. L’omeomorfismo fra 𝑋 ⧵ 𝐸 e 𝑋 è detto omeomorfismo di cancellazione. ◁
Un esempio banale si ottiene partendo da un qualunque insieme infinito con la topologia discreta e togliendo un suo sottoinsieme finito. O ancora, in (ℝ, 𝜏𝑒 ) sono cancellabili le semirette chiuse e i complementari degli intervalli aperti. Il prossimo risultato fornisce un esempio molto più interessante di insiemi cancellabili. Premettiamo un lemma sugli omeomorfismi negli spazi di Banach. Questo risultato utilizza il Teorema di Banach-Caccioppoli sulle contrazioni che consideriamo come noto dai Corsi di base di Analisi. Ci sarà inoltre utile un risultato sulla compattezza negli spazi 𝑙𝑝 . Teorema 15.54 (di omeomorfismo negli spazi di Banach). Siano (𝑊 , ‖⋅‖) uno spazio vettoriale di Banach (normato e completo) e 𝑓 ∶ 𝑊 → 𝑊 una contrazione. Allora l’applicazione ℎ ∶ 𝑊 → 𝑊 definita da ℎ(x) ∶= x − 𝑓 (x) è un omeomorfismo.
Dimostrazione. Proviamo che ℎ è biiettiva. Ciò equivale a dimostrare che, per ogni w ∈ 𝑊 esiste uno e un solo x ∈ 𝑊 con ℎ(x) = w. L’equazione suddetta ̂ è equivalente alla x = 𝑓 (x) + w =∶ 𝑓 (x). La nostra tesi equivale al fatto che la funzione 𝑓 ̂ ha un unico punto fisso. Ma ciò è immediato dato che anche 𝑓 ̂ è una contrazione. La funzione ℎ è lipschitziana e quindi continua. Resta da verificare che anche ℎ−1 è continua. A tale scopo, mostriamo che, se 𝑓 è lipschitziana di costante 𝑙 ∈ [0, 1[, allora ℎ−1 è lipschitziana di costante 1/(1 − 𝑙). Dati w′ , w″ ∈ 𝑊 , siano x′ ∶= ℎ−1 (w′ ) e x″ ∶= ℎ−1 (w″ ). Per quanto detto prima, si ha x′ = 𝑓 (x′ ) + w′ e x″ = 𝑓 (x″ ) + w″ . Sottraendo membro a membro e passando alle norme, si ha ‖x′ − x″ ‖ ≤ ‖𝑓 (x′ ) − 𝑓 (x″ )‖ + ‖w′ − w″ ‖ ≤ 𝑙 ⋅ ‖x′ − x″ ‖ + ‖w′ − w″ ‖,
da cui (1 − 𝑙)‖x′ − x″ ‖ ≤ ‖w′ − w″ ‖ e quindi la tesi.
Ricordiamo che, per ogni 𝑝 ∈ [1, +∞[, si indica con 𝑙𝑝 l’insieme di tutte le successioni (𝑎𝑛 )𝑛 a valori reali (o complessi) tali che risulti convergente la serie 𝑝 ∑+∞ 𝑛=0 |𝑎𝑛 | (cfr: Definizione 4.78).
15.2. Punti fissi in spazi normati
804
Lemma 15.55. Per ogni 𝑝 ∈ [1, +∞[, un sottoinsieme 𝐸 di (𝑙𝑝 , ‖⋅‖𝑝 ) è relativamente compatto [compatto] se e solo se verifica le due seguenti condizioni: 1. 𝐸 è limitato [chiuso e limitato]. 2. Per ogni 𝜀 > 0, esiste un 𝑚 ∶= 𝑚𝜀 tale che, per ogni 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ 𝐸, si ha ∑𝑘>𝑚 |𝑎𝑘 |𝑝 < 𝜀𝑝 . Dimostrazione. Occupiamoci della compattezza. L’altro caso segue banalmente. Supponiamo, intanto, che 𝐸 sia compatto e quindi chiuso e totalmente limitato (cfr. Definizione 7.13 e Corollario 7.20). Per ogni 𝜀 > 0, esiste in 𝐸 un 𝑗 numero finito di elementi Σ1 , … , Σ𝑙 , con 𝑙 ∶= 𝑙(𝜀) e Σ𝑗 ∶= (𝑧𝑛 )𝑛 , ∀𝑗 ∈ {1, … , 𝑙}, tali che 𝐸 ⊆ ⋃𝑙𝑗=1 𝐵(Σ𝑗 , 𝜀/2). Esiste un 𝑚 ∈ ℕ+ tale che, per ogni 𝑗 ∈ {1, … , 𝑙},
è ( ∑𝑘>𝑚 |𝑧𝑘 |𝑝 ) < 𝜀/2. Sia ora 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ 𝐸; esiste 𝑗 ∈ {1, … , 𝑙} tale che 𝑗 𝑝 1/𝑝 𝑆 ∈ 𝐵(Σ𝑗 , 𝜀/2), ossia ( ∑+∞ < 𝜀/2. Se una successione appartiene a 𝑘=1 |𝑎𝑘 −𝑧𝑘 | ) 𝑝 𝑙 , accade lo stesso per ogni sua coda. Usando la disuguaglianza di Minkowski, si ottiene 𝑗
1/𝑝
( ∑ |𝑎𝑘 | ) 𝑘>𝑚
𝑝
1/𝑝
≤(
∑
𝑘>𝑚
1/𝑝
|𝑎𝑘 − 𝑧𝑘 |𝑝 ) 𝑗
+(
∑
𝑘>𝑚
1/𝑝
|𝑧𝑘 |𝑝 ) 𝑗
0 e sia 𝑚 ∶= 𝑚𝜀 l’indice che si ottiene dalla seconda ipotesi. Per ogni 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ 𝐸, l’𝑚-pla 𝑆[𝑚] ∶= (𝑎1 , … , 𝑎𝑚 ) può essere pensata come un elemento di (ℝ𝑚 , ‖⋅‖𝑝 ). Al variare di 𝑆 ∈ 𝐸, si ottiene un sottoinsieme 𝐹 ⊂ (ℝ𝑚 , ‖⋅‖𝑝 ). Essendo 𝐸 limitato, 𝐹 è totalmente limitato dato che la sua chiusura è un compatto. Quindi, dato 𝜀 > 0, esiste in 𝐸 un numero 𝑗 finito di elementi Σ1 , … , Σ𝑙 , con 𝑙 ∶= 𝑙(𝜀) e Σ𝑗 ∶= (𝑧𝑛 )𝑛 , ∀𝑗 ∈ {1, … , 𝑙}, tali che 𝑙 𝐹 ⊆ ⋃𝑗=1 𝐵(Σ𝑗 [𝑚], 𝜀); quindi, per ogni 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ 𝐸, esiste 𝑗 ∈ {1, … , 𝑙} tale 𝑝 che ( ∑𝑚 < 𝜀. Per ogni 𝑆 ∶= (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ 𝐸, si ha 𝑆 = 𝑆 ′ [𝑚] + 𝑆 ″ [𝑚], 𝑘=1 |𝑎𝑘 − 𝑧𝑘 | ) ′ dove 𝑆 [𝑚] è la successione che si ottiene da 𝑆 sostituendo con 0 ogni 𝑎𝑛 per 𝑛 > 𝑚, mentre e 𝑆 ″ [𝑚] è la successione che si ottiene da 𝑆 sostituendo con 0 ogni 𝑎𝑛 per 𝑛 ≤ 𝑚. Da quanto precede, si ottiene 𝑗
1/𝑝
‖𝑆 − Σ𝑗 ‖𝑝 = ‖𝑆 ′ [𝑚] − Σ′𝑗 [𝑚] + 𝑆 ″ [𝑚] − Σ″𝑗 [𝑚]‖𝑝 ≤ ≤ ‖𝑆 ′ [𝑚] − Σ′𝑗 [𝑚]‖𝑝 + ‖𝑆 ″ [𝑚] − Σ″𝑗 [𝑚]‖𝑝 ≤
≤ ‖𝑆 ′ [𝑚] − Σ′𝑗 [𝑚]‖𝑝 + ‖𝑆 ″ [𝑚]‖𝑝 + ‖Σ″𝑗 [𝑚]‖𝑝 < 3𝜀.
In conclusione 𝐸 è totalmente limitato; inoltre esso è completo, essendo un chiuso di (𝑙𝑝 , ‖⋅‖𝑝 ) che è completo. Per il Corollario 7.20, 𝐸 è compatto. Teorema 15.56. Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio vettoriale normato non completo (e quindi di dimensione infinita) e 𝐶 un suo sottoinsieme non vuoto e completo (e quindi chiuso). Allora esiste un omeomorfismo ℎ ∶ 𝑋 ⧵ 𝐶 → 𝑋 di cancellazione tale che ℎ(x) = x per ogni x con 𝑑(x, 𝐶) ≥ 1.
15.2. Punti fissi in spazi normati
805
Dimostrazione. Sia 𝑋 ′ il completamento di 𝑋 (cfr. Teorema 4.71). Senza perdita di generalità, penseremo 𝑋 come sottospazio di 𝑋 ′ e indicheremo ancora con ‖⋅‖ la norma di 𝑋 ′ . Sia 𝑆 ∶= (x𝑛 )𝑛 una successione di Cauchy in 𝑋 convergente a un elemento y ∈ 𝑋 ′ ⧵ 𝑋. Da 𝑆 possiamo estrarre una sottosuccessione ′ ′ 𝑆 ′ ∶= (x′𝑛 )𝑛 tale che ‖x′1 ‖ + ∑∞ 𝑛=1 ‖x𝑛+1 − x𝑛 ‖ < +∞. Per constatarlo, si pro′ cede per induzione come segue: si pone x1 ∶= x𝑘1 , con 𝑘1 minimo 𝑘 per cui è x𝑘 ∈ 𝐵(y, 1/2); per ogni 𝑛 > 1, si pone x′𝑛+1 ∶= x𝑘𝑛+1 , con 𝑘𝑛+1 minimo 𝑘 > 𝑘𝑛 per cui è x𝑘 ∈ 𝐵(y, 1/2𝑛+1 ). Si ottiene ‖x′1 ‖ +
∞
∞
∞
1 1 ‖x′ − x′𝑛 ‖ < ‖x′1 ‖ + 2 ⋅ 𝑛 = ‖x′1 ‖ + = ‖x′1 ‖ + 2. ∑ 𝑛+1 ∑ ∑ 2𝑛 2 𝑛=1 𝑛=1 𝑛=0
Moltiplicando tutti i termini di 𝑆 ′ per un opportuno coefficiente positivo, si può ottenere una successione di Cauchy 𝑆 ″ ∶= (x″𝑛 )𝑛 in 𝑋 convergente a un ″ ″ elemento y0 ∈ 𝑋 ′ ⧵ 𝑋 e tale che ‖x″1 ‖ + ∑∞ 𝑛=1 ‖x𝑛+1 − x𝑛 ‖ = 1/2. Possiamo ∞ quindi supporre che sia già ‖x1 ‖ + ∑𝑛=1 ‖x𝑛+1 − x𝑛 ‖ = 1/2 e y0 ∶= y. Siano ora x0 ∶= 0 e 𝐿 ⊂ 𝑋 la spezzata definita da 𝐿 ∶= [x0 , x1 ] ∪ [x1 , x2 ] ∪ ⋯ ∪ [x𝑛 , x𝑛+1 ] ∪ ⋯. Costruiamo poi la funzione lineare a tratti 𝜑 ∶ [0, 1] → 𝐿 ∪ {y0 } come segue. Si parte intanto dalle posizioni 𝑡0 ∶= 0 e, per ogni 𝑛 > 0, 𝑡𝑛 ∶= ∑𝑛𝑖=1 ‖x𝑖 − x𝑖−1 ‖ ∈ [0, 1/2]. Per ogni 𝑛 ≥ 0, si mappa poi linearmente l’intervallo [2𝑡𝑛 , 2𝑡𝑛+1 ] sul segmento [x𝑛 , x𝑛+1 ] e si assume 𝜑(1) ∶= y0 . È immediato constatare che, per ogni 𝑡′ , 𝑡″ ∈ [2𝑡𝑛 , 2𝑡𝑛+1 ], si ha ‖𝜑(𝑡″ ) − 𝜑(𝑡′ )‖ ≤ (1/2)|𝑡″ − 𝑡′ |. Usando la disuguaglianza di Minkowski, si ottiene poi che, per ogni coppia di punti 𝑡′ , 𝑡″ ∈ [0, 1], è ‖𝜑(𝑡″ )−𝜑(𝑡′ )‖ ≤ (1/2)|𝑡″ −𝑡′ |. Estendiamo quindi 𝜑 a ] − ∞, 1] ponendo 𝜑(𝑡) ∶= 0, ∀𝑡 < 0. Si constata immediatamente che la precedente diseguaglianza continua a sussistere per 𝑡′ , 𝑡″ ∈ ] − ∞, 1]. Sia ora 𝐻 ∶ 𝑋 ′ → 𝑋 ′ la funzione definita da 𝐻(x) ∶= 𝜑(1 − 𝑑(x, 𝐶)). La funzione 𝐻 è lipschitziana di costante 1/2. Infatti si ha: ‖𝜑(1 − 𝑑(x′ , 𝐶)) − 𝜑(1 − 𝑑(x″ , 𝐶))‖ ≤
1 1 |𝑑(x′ , 𝐶) − 𝑑(x″ , 𝐶)| ≤ ‖x′ − x″ ‖. 2 2
La seconda disuguaglianza segue dalla Proposizione 3.42.3; constatiamo la prima. Se è 𝑑(x′ , 𝐶) ≥ 1 e 𝑑(x″ , 𝐶) ≥ 1, la tesi è ovvia; in generale, posto 𝑡′ ∶= 1 − 𝑑(x′ , 𝐶) e 𝑡″ ∶= 1 − 𝑑(x″ , 𝐶), si ha 𝑡′ , 𝑡″ ∈ ] − ∞, 1] e quindi, per quanto precede, si ottiene ‖𝜑(1 − 𝑑(x′ , 𝐶)) − 𝜑(1 − 𝑑(x″ , 𝐶))‖ = ‖𝜑(𝑡′ ) − 𝜑(𝑡″ )‖ ≤ =
1 ′ ″ |𝑡 − 𝑡 | = 2
1 1 |1 − 𝑑(x′ , 𝐶) − 1 + 𝑑(x″ , 𝐶)| = |𝑑(x″ , 𝐶) − 𝑑(x′ , 𝐶)|. 2 2
Consideriamo, in fine, la funzione ℎ ∶ 𝑋 ′ → 𝑋 ′ definita da ℎ(x) ∶= x − 𝐻(x) = x − 𝜑(1 − 𝑑(x, 𝐶)).
15.2. Punti fissi in spazi normati
806
Per il Teorema 15.54, ℎ è un omeomorfismo di 𝑋 ′ in sé. Proviamo che è ℎ(𝑋 ⧵ 𝐶) = 𝑋. Se è x ∈ 𝑋 ⧵ 𝐶, si ha 𝑑(x, 𝐶) > 0 (𝐶 è chiuso), da cui 1 − 𝑑(x, 𝐶) < 1 e 𝜑(1 − 𝑑(x, 𝐶)) = 𝐻(x) ∈ 𝑋 e, in fine, ℎ(x) ∈ 𝑋. Viceversa, se x ∉ 𝑋 ⧵ 𝐶, si ha x ∈ (𝑋 ′ ⧵ 𝑋) ∪ 𝐶. Se x ∈ 𝑋 ′ ⧵ 𝑋, è ancora 𝑑(x, 𝐶) > 0 (𝐶 è completo e pertanto chiuso anche in 𝑋 ′ ) e quindi 𝐻(x) ∈ 𝑋; se x ∈ 𝐶, è x ∈ 𝑋 e 𝑑(x, 𝐶)) = 0, da cui 𝐻(x) = y0 ∉ 𝑋. Pertanto, esattamente uno degli elementi x e 𝐻(x) appartiene a 𝑋; si conclude che ℎ(x) ∉ 𝑋. In fine, se è 𝑑(x, 𝐶) ≥ 1, di ha 𝐻(x) = 0, da cui ℎ(x) = x. Possiamo così concludere che ℎ ristretta a 𝑋 ⧵ 𝐶 è l’omeomorfismo cercato. Lemma 15.57. Ogni spazio di Banach (𝑋, ‖⋅‖), ammette una norma non completa |‖⋅‖|, con |‖x‖| ≤ ‖x‖, ∀x ∈ 𝑋.
Dimostrazione. Supponiamo, intanto, che lo spazio 𝑋 sia separabile e diciamo 𝐷 un suo sottoinsieme numerabile denso in 𝑋. Per ogni coppia (u, v) ∈ 𝐷2 , con u ≠ v, per il Corollario 4.65 del Teorema di Hahn-Banach, esiste un funzionale lineare continuo 𝑓𝑢,𝑣 ∶ 𝑋 → ℝ tale che ‖𝑓𝑢,𝑣 ‖ = 1 e 𝑓𝑢,𝑣 (u − v) = ‖u − v‖. Sia ℱ la famiglia dei funzionali lineari di questo tipo al variare di u, v ∈ 𝐷, sempre con u ≠ v (uno per ogni coppia di punti). La famiglia ℱ è chiaramente numerabile essendo tale 𝐷. Vogliamo dimostrare che essa separa i punti di 𝑋, ovvero che, per ogni x ≠ y in 𝑋, esiste 𝑓 ∈ ℱ tale che 𝑓 (x) ≠ 𝑓 (y). Supponiamo, per assurdo, che esistano due punti distinti x0 , y0 ∈ 𝑋 tali che, per ogni 𝑓 ∈ ℱ , risulti 𝑓 (x0 ) = 𝑓 (y0 ). Per la densità di 𝐷 in 𝑋, esistono in 𝐷 due successioni (u𝑛 )𝑛 e (v𝑛 )𝑛 convergenti, rispettivamente, a x0 e a y0 . Non sarà restrittivo supporre che sia definitivamente u𝑛 ≠ v𝑛 . Inoltre, per ogni 𝑛 ∈ ℕ, sia 𝑔𝑛 ∈ ℱ tale che ‖𝑔𝑛 ‖ = 1 e 𝑔𝑛 (u𝑛 − v𝑛 ) = ‖u𝑛 − v𝑛 ‖. Tenuto conto della (4.19), abbiamo quindi ‖u𝑛 − v𝑛 ‖ = 𝑔𝑛 (u𝑛 − v𝑛 ) = 𝑔𝑛 (u𝑛 ) − 𝑔𝑛 (v𝑛 ) = = 𝑔𝑛 (u𝑛 ) ∓ 𝑔𝑛 (x0 ) ∓ 𝑔𝑛 (y0 ) − 𝑔𝑛 (v𝑛 ) = = 𝑔𝑛 (u𝑛 ) − 𝑔𝑛 (x0 ) + 𝑔𝑛 (y0 ) − 𝑔𝑛 (v𝑛 ) ≤
≤ ‖𝑔𝑛 ‖ ⋅ ‖un − x0 ‖ + ‖𝑔𝑛 ‖ ⋅ ‖vn − y0 ‖ = ‖un − x0 ‖ + ‖vn − y0 ‖.
Facendo tendere 𝑛 a +∞, dalla precedente catena di relazioni si ha ‖x0 −y0 ‖ ≤ 0, che è assurdo. Riordinando gli elementi di ℱ , possiamo scrivere ℱ = {𝑓𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ+ }. Riscalando le 𝑓𝑛 , possiamo inoltre supporre che, per ogni 𝑛, sia |𝑓𝑛 (x)| ≤ (1/𝑛)‖x‖, ∀x ∈ 𝑋; anche con questa condizione, la famiglia ℱ continua a separare i punti. Consideriamo ora l’operatore 𝑇 ∶ 𝑋 → 𝑙2 definito da 𝑇 (x) ∶= (𝑓𝑛 (x))𝑛 , ∀x ∈ 𝑋. 𝑇 è lineare; è anche continuo (si veda la (15.14)); inoltre è biiettivo fra 𝑋 e 𝑇 (𝑋), dato che ℱ separa i punti. Proviamo che l’insieme 𝐸 ∶= cl 𝑇 (𝐵), con 𝐵 ∶= 𝐵[0, 1], è un compatto di 𝑙2 ; mostreremo che sono soddisfatte le
15.2. Punti fissi in spazi normati
807
condizioni del Lemma 15.55. Posto 𝐾 ∶= 𝜋/√6, per ogni x ∈ 𝐵, si ha +∞
‖𝑇 (x)‖2 = ( |𝑓 (x)| ) ∑ 𝑛 2
𝑛=1
1/2
≤ ‖x‖(
+∞
∑ 𝑛=1
(1/𝑛2 )
1/2
≤ 𝐾.
(15.14)
Si ottiene che 𝑇 (𝐵) è limitato ed è quindi tale anche la sua chiusura. Inol2 2 tre, fissato 𝜀 ∈ ]0, 1[, esiste un 𝑚 ∈ ℕ+ tale che ∑+∞ 𝑘=𝑚 (1/𝑘) < 𝜀 /4, da +∞ cui ∑𝑘=𝑚 |𝑓𝑘 (x)|2 < 𝜀2 /4, ∀x ∈ 𝐵. Fissati un elemento (𝑎𝑛 )𝑛 ∈ cl 𝑇 (𝐵) e un 2 2 𝜂 ∈ ]0, 𝜀/2[, esiste un elemento (𝑏𝑛 )𝑛 ∈ 𝑇 (𝐵) con ∑+∞ 𝑛=1 (𝑎𝑛 − 𝑏𝑛 ) < 𝜂 . Si ottiene +∞
(∑
𝑘=𝑚
𝑎2𝑘 )
1/2
≤(
+∞
∑
𝑘=𝑚
1/2
(𝑎𝑘 − 𝑏𝑘 )2 )
+(
+∞
∑
𝑘=𝑚
1/2
𝑏2𝑘 )
0 tale che per la palla 𝐵(0, 𝜀) ∈ 𝜏 si ha 𝐵(0, 𝜀)∩𝑋0 ⊆ 𝐵 0 (0, 1). A questo punto, poniamo 𝑊 ∶= 𝐵(0, 𝜀) ∪ 𝐵 0 (0, 1) e 𝐴 ∶= conv 𝑊 il suo inviluppo convesso (cfr. Definizione 5.2). Si prova facilmente (Esercizio!) che 𝐴 è un insieme convesso, bilanciato e assorbente (cfr. Definizioni 5.6 e 5.8). Si vede immediatamente che 𝐴, non contenendo rette, non contiene alcun sottospazio non triviale. Possiamo quindi applicare il Corollario 5.11 che ci assicura che
15.2. Punti fissi in spazi normati
808
il funzionale di Minkowski (gauge) associato ad 𝐴 (cfr. Definizione 5.9) è una norma di 𝑋. Indichiamo con 𝜏𝐴 la relativa topologia. Ricordiamo che la gauge 𝑞𝐴 di 𝐴 è definita da 𝑞𝐴 (x) ∶= inf {𝜆 > 0 ∶ x/𝜆 ∈ 𝐴} , ∀x ∈ 𝑋. Poiché 𝐴 ∩ 𝑋0 coincide con 𝐵 0 (0, 1), si ha 𝑞𝐴 (x) = ‖x‖0 , ∀x ∈ 𝑋0 . Se indichiamo con 𝐵𝐴 (0, 1) la palla aperta unitaria di centro 0 in 𝜏𝐴 e con 𝐵𝐴 [0, 1] la corrispondente palla chiusa, per la Proposizione 5.10.2, vale la relazione 𝐵𝐴 (0, 1) ⊆ 𝐴 ⊆ 𝐵𝐴 [0, 1].
(15.15)
Di conseguenza, dalla definizione di 𝐴, si ottiene 𝐵(0, 𝜀) ⊆ 𝐴 ⊆ 𝐵𝐴 [0, 1]. Verifichiamo, intanto, che 𝑋0 è chiuso anche nella topologia 𝜏𝐴 . Sia z ∈ 𝑋⧵𝑋0 . Poiché 𝑋0 è chiuso in 𝜏, esiste un 𝛿 ∈ ]0, 1[ tale che z+𝛿𝐵(0, 𝜀) = 𝐵(z, 𝛿𝜀) è disgiunta da 𝑋0 . Per la definizione di 𝐴, segue che anche z + 𝛿𝐴 è disgiunto da 𝑋0 . Supponiamo infatti, per assurdo, che esista w ∈ 𝑋0 ∩ (z + 𝛿𝐴). Ne seguirebbe che esistono u ∈ 𝑋0 e v ∈ 𝐵(0, 𝜀) tali che z + 𝛿((1 − 𝛼)u + 𝛼v) = w, per un opportuno coefficiente 𝛼 ∈ [0, 1]. Avremmo così z+𝛿𝛼v = w−𝛿(1−𝛼)u ∈ 𝑋0 . D’altra parte, z + 𝛿𝛼v ∈ 𝐵(z, 𝛿𝜀), contro il fatto che quest’ultima palla è disgiunta da 𝑋0 . Avendo verificato ciò, dalla prima inclusione della (15.15) si ottiene 𝐵𝐴 (z, 𝛿) ∩ 𝑋0 = ∅. Ciò prova che 𝑋0 è effettivamente chiuso anche in 𝜏𝐴 . Mostriamo ora che la norma originaria dello spazio 𝑋 è più fine della nuova norma 𝑞𝐴 . Infatti, se 𝑈 è un qualunque intorno dell’origine rispetto alla topologia 𝜏𝐴 , esso conterrà una palla aperta 𝐵𝐴 (0, 2𝑟); questa, a sua volta, contiene la palla chiusa 𝐵𝐴 [0, 𝑟]. In fine, la palla 𝐵𝐴 [0, 𝑟] conterrà la palla 𝐵(0, 𝑟𝜀). Per la Proposizione 4.38.1, esiste una costante 𝐾 > 0, tale che 𝑞𝐴 (x) ≤ 𝐾‖x‖, ∀x ∈ 𝑋. Resta da verificare che lo spazio (𝑋, 𝑞𝐴 ) non è completo. Infatti, in caso contrario, sarebbe completo anche il sottospazio chiuso (𝑋0 , 𝑞𝐴 ) = (𝑋0 , ‖⋅‖0 ). Concludendo, la norma non completa su 𝑋 cercata sarà definita da |‖x‖| ∶= (1/𝐾)𝑞𝐴 (x). Il Lettore confronti l’enunciato del lemma appena visto con il Corollario 4.96, e con i commenti che seguono l’Esempio 4.97, nonché la Tabella di pag. 203. Utilizzando i due risultati precedenti, possiamo ottenere il seguente Teorema 15.58 (di Klee). Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio vettoriale normato di dimensione infinita e 𝐶 un suo sottoinsieme (non vuoto) compatto. Allora 𝐶 è cancellabile, ossia esiste un omeomorfismo di cancellazione ℎ ∶ 𝑋 ⧵ 𝐶 → 𝑋.
Dimostrazione. 𝐶, essendo compatto, è anche chiuso e completo in 𝑋. Se 𝑋 è non completo, il risultato segue dal Teorema 15.56. Supponiamo dunque che 𝑋 sia di Banach. Per il lemma precedente, esiste una norma incompleta |‖⋅‖| tale che |‖x‖| ≤ ‖x‖, ∀x ∈ 𝑋. Per semplificare le notazioni, porremo d’ora in avanti 𝑋 ∶= (𝑋, ‖⋅‖) e 𝑋̂ ∶= (𝑋, |‖⋅‖|). Sia 𝑗 ∶ 𝑋 → 𝑋̂ l’applicazione identica che risulta continua. L’insieme 𝐶 ̂ ∶= 𝑗(𝐶) è ancora compatto e quindi chiuso
15.2. Punti fissi in spazi normati
809
e completo in 𝑋.̂ Sempre per il Teorema 15.56, esiste un omeomorfismo di cancellazione ℎ̂ ∶ 𝑋̂ ⧵ 𝐶 ̂ → 𝑋.̂ La funzione ℎ̂ è del tipo ̂ ∀x̂ ∈ 𝑋,̂ ℎ(̂ x)̂ ∶= x̂ − 𝜑(1 ̂ − 𝑑(̂ x,̂ 𝐶)),
dove 𝑑 ̂ è la distanza indotta dalla norma di 𝑋̂ e 𝜑̂ ∶ ] − ∞, 1[ → 𝑋̂ è la funzione lineare a tratti definita analogamente a quanto fatto nel Teorema 15.56. Si noti che ora abbiamo escluso 1 dal dominio della funzione lineare a tratti e quindi non ci preoccupiamo esplicitamente del completamento di 𝑋.̂ Per definizione, 𝜑̂ è lineare a tratti; ognuno di questi è la restrizione ad un intervallo di una funzione lineare definita su ℝ. Possiamo applicare la Proposizione 4.46.1; ne viene che la continuità di 𝜑̂ è indipendente dalla topologia ̂ − ∞, 1[). Così, riguardandola come una fundefinita sull’insieme immagine ℎ(] zione 𝜑 ∶ ] − ∞, 1[ → 𝑋, si ha che 𝜑 è continua e risulta 𝑗 ∘ 𝜑 = 𝜑.̂ Definiamo ora ℎ ∶ 𝑋 ⧵ 𝐶 → 𝑋 ponendo ̂ ̂ ∀x ∈ 𝑋. ℎ(x) ∶= x − 𝜑(1 − 𝑑(𝑗(x), 𝐶)),
Questa applicazione è chiaramente continua e rende commutativo il diagramma 𝑋⧵𝐶 𝑗
𝑋̂ ⧵ 𝐶 ̂
ℎ ℎ̂
𝑋
𝑗
𝑋̂
Si definisce, in fine, la funzione 𝑔 ∶ 𝑋 → 𝑋 ⧵ 𝐶 ponendo
̂ ∀x ∈ 𝑋. 𝑔(x) ∶= x + 𝜑(1 − 𝑑(̂ ℎ̂ −1 (𝑗(x)), 𝐶)),
Chiaramente, anche la 𝑔 è continua. Inoltre, per ogni x ∈ 𝑋 ⧵ 𝐶, si ha: ̂ = 𝑔(ℎ(x)) = ℎ(x) + 𝜑(1 − 𝑑(̂ ℎ̂ −1 (𝑗(ℎ(x))), 𝐶)) ̂ ̂ ̂ + 𝜑(1 − 𝑑(̂ ℎ̂ −1 (ℎ(𝑗(x))), ̂ = x. = x − 𝜑(1 − 𝑑(𝑗(x), 𝐶)) 𝐶))
Analogamente, si vede che, per ogni x ∈ 𝑋, si ha ℎ(𝑔(x)) = x. Si conclude che 𝑔 è l’inversa di ℎ e che questa è un omeomorfismo. Un’ulteriore proprietà di interesse generale, che va al di là della teoria dei punti fissi, è il Teorema di estensione che, nell’ambito degli spazi metrici, generalizza il Teorema di Tietze 2.101.
Teorema 15.59 (di estensione di Dugundji). Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico, 𝐶(≠ ∅) un suo sottoinsieme chiuso e 𝑌 uno spazio vettoriale topologico localmente convesso. Una qualunque funzione continua 𝑓 ∶ 𝐶 → 𝑌 ammette almeno un’estensione continua 𝐹 ∶ 𝑋 → 𝑌 con 𝐹 (𝑋) ⊆ conv 𝑓 (𝐶).
Dimostrazione. Per ogni 𝑥 ∈ 𝐴 ∶= 𝑋 ⧵ 𝐶, consideriamo la palla aperta 𝐵(𝑥, 𝑟𝑥 ), con 𝑟𝑥 ∶= 𝑑(𝑥, 𝐶)/2. Per il Teorema si Stone 3.121, applicato ad 𝐴, il suo ricoprimento formato dalle palle aperte sopra definite ammette un raffinamento
15.2. Punti fissi in spazi normati
810
aperto localmente finito 𝒱 ∶= {𝑉𝑗 }𝑗∈𝐽 . Per ciascuno degli insiemi 𝑉𝑗 , prendiamo una palla 𝐵(𝑥𝑗 , 𝑟𝑗 ) ⊇ 𝑉𝑗 , con 𝑟𝑗 ∶= 𝑟𝑥𝑗 . Inoltre, sempre per ogni 𝑗 ∈ 𝐽 prendiamo un elemento 𝑦𝑗 ∈ 𝐶 tale che sia 𝑑(𝑥𝑗 , 𝑦𝑗 ) ≤ 2𝑑(𝑥𝑗 , 𝐶). Ci saranno utili le seguenti stime sulla distanza. Fissato 𝑗 ∈ 𝐽 , si ha: (𝑖) 𝑑(𝑥𝑗 , 𝐶) ≤ 2𝑑(𝑣, 𝐶), ∀𝑣 ∈ 𝑉𝑗 ; (𝑖𝑖) 𝑑(𝑦, 𝑦𝑗 ) ≤ 6𝑑(𝑦, 𝑣), ∀𝑦 ∈ 𝐶, ∀𝑣 ∈ 𝑉𝑗 . Per verificare la prima disuguaglianza, osserviamo che, se è 𝑣 ∈ 𝑉𝑗 , allora si ha 𝑑(𝑥𝑗 , 𝑣) < 𝑟𝑗 = 𝑑(𝑥𝑗 , 𝐶)/2, per cui si ottiene 𝑑(𝑥𝑗 , 𝐶) ≤ 𝑑(𝑥𝑗 , 𝑣) + 𝑑(𝑣, 𝐶) ≤
1 𝑑(𝑥𝑗 , 𝐶) + 𝑑(𝑣, 𝐶). 2
Confrontando il primo e l’ultimo termine, si ottiene subito la tesi. Passiamo alla seconda. Presi ad arbitrio 𝑦 ∈ 𝐶 e 𝑣 ∈ 𝑉𝑗 , si ha
𝑑(𝑦, 𝑦𝑗 ) ≤ 𝑑(𝑦, 𝑣) + 𝑑(𝑣, 𝑥𝑗 ) + 𝑑(𝑥𝑗 , 𝑦𝑗 ) ≤ 1 5 ≤ 𝑑(𝑦, 𝑣) + 𝑑(𝑥𝑗 , 𝐶) + 2𝑑(𝑥𝑗 , 𝐶) = 𝑑(𝑦, 𝑣) + 𝑑(𝑥𝑗 , 𝐶) ≤ 2 2 ≤ 𝑑(𝑦, 𝑣) + 5𝑑(𝑣, 𝐶) ≤ 𝑑(𝑦, 𝑣) + 5𝑑(𝑦, 𝑣) = 6𝑑(𝑦, 𝑣).
(Naturalmente in uno dei precedenti passaggi si è utilizzata la (𝑖).) Poiché, per il teorema di Stone 8.4, ogni spazio metrico è paracompatto (e di Hausdorff), possiamo applicare il Teorema 8.37 che assicura l’esistenza di una partizione dell’unità subordinata al raffinamento 𝒱 . Ciò significa che esiste una famiglia di funzioni continue, da 𝐴 in [0, 1], 𝒢 ∶= {𝑔𝑗 }𝑗∈𝐽 , con Supp 𝑔𝑗 ⊆ 𝑉𝑗 , ∀𝑗 ∈ 𝐽 e ∑𝑗∈𝐽 𝑔𝑗 (𝑥) = 1, ∀𝑥 ∈ 𝐴. Ricordiamo inoltre che ogni punto di 𝐴 possiede un intorno dove soltanto un numero finito di 𝑔𝑗 ha un valore non nullo. Introduciamo, in fine, la funzione 𝐹 ∶ 𝑋 → 𝑌 ponendo 𝐹 (𝑥) ∶=
𝑓 (𝑥), {∑𝑗∈𝐽 𝑔𝑗 (𝑥)𝑓 (𝑦𝑗 ),
per 𝑥 ∈ 𝐶, per 𝑥 ∈ 𝑋 ⧵ 𝐶.
La funzione 𝐹 è ovviamente un prolungamento di 𝑓 e assume i suoi valori in conv 𝑓 (𝐶), dato che essi sono combinazioni convesse di suoi elementi, essendo 𝑓 (𝑦𝑗 ) ∈ 𝑓 (𝐶), ∀𝑗 ∈ 𝐽 . Siccome 𝐴 è aperto, ed 𝐹 |𝐴 è continua, si ha che 𝐹 è continua in 𝐴. Ci manca di verificare la continuità di 𝐹 in 𝐶. Fissiamo un punto 𝑧 ∈ 𝐶 e sia 𝑊 ⊆ 𝑌 un intorno aperto di 𝐹 (𝑧) = 𝑓 (𝑧). Poiché 𝑌 è localmente convesso, e 𝑓 è continua in 𝐶, esistono un 𝑊 ′ convesso in 𝑌 e un raggio 𝛿 > 0 tali che 𝑓 (𝐶 ∩ 𝐵(𝑧, 𝛿)) ⊆ 𝑊 ′ ⊆ 𝑊 . Vogliamo dimostrare che, per un opportuno 𝜀 > 0, si ha anche 𝐹 (𝐵(𝑧, 𝜀)) ⊆ 𝑊 ′ ⊆ 𝑊 . Ciò proverà la continuità di 𝐹 in 𝑧 e, per l’arbitrarietà di 𝑧, in tutto 𝐶. Pur di prendere 𝜀 abbastanza piccolo, si ha che 𝐵(𝑧, 𝜀) ∩ 𝐴 incontra un numero finito di aperti 𝑉1′ , … , 𝑉𝑛′ del raffinamento 𝒱 . Indicheremo con 𝑦′1 , … , 𝑦′𝑛 i corrispondenti elementi di 𝐶 per i quali vale la condizione (𝑖𝑖). Prendiamo un 𝑥 ∈ 𝐵(𝑧, 𝜀) e sia 𝑉𝑘′ uno degli aperti 𝑉𝑖′ che lo contiene. Applicando la disuguaglianza (𝑖𝑖), con 𝑦 ∶= 𝑧 e 𝑣 ∶= 𝑥, si ha 𝑑(𝑧, 𝑦′𝑘 ) ≤ 6𝑑(𝑧, 𝑥) < 6𝜀.
15.2. Punti fissi in spazi normati
811
Viceversa, per ogni 𝑙 ∈ {1, … , 𝑛}, esiste 𝑥 ∈ 𝑉𝑙′ ∩ 𝐵(𝑧, 𝜀); per il ragionamento appena visto, si ha ancora 𝑑(𝑧, 𝑦′𝑙 ) < 6𝜀. Quindi tutti gli elementi 𝑦′1 , … , 𝑦′𝑛 appartengono a 𝐶 ∩ 𝐵(𝑧, 𝛿) pur di prendere 𝜀 ≤ 𝛿/6. Sappiamo che è 𝑓 (𝐶 ∩ 𝐵(𝑧, 𝛿)) ⊆ 𝑊 ′ ⊆ 𝑊 , da cui 𝑓 (𝑦′𝑖 ) ∈ 𝑊 ′ , ∀𝑖 ∈ {1, … , 𝑛}. Si conclude che è 𝐹 (𝑥) ∈ 𝑊 ′ ⊆ 𝑊 , ∀𝑥 ∈ 𝐵(𝑧, 𝜀), dato che 𝐹 (𝑥) è una combinazione convessa degli elementi 𝑓 (𝑦′𝑖 ) e 𝑊 ′ è convesso.
Chiaramente, per 𝑌 = (ℝ, 𝜏𝑒 ), si riottiene il Teorema di Tietze. Si tenga però presente che, mentre per il Teorema di Tietze è sufficiente assumere che 𝑋 sia uno spazio normale, per quello di Dugundji si richiede che il dominio sia uno spazio metrico. Il teorema di estensione che abbiamo appena visto suggerisce di introdurre il seguente concetto. Definizione 15.60. Uno spazio metrizzabile 𝑌 è detto retratto assoluto (in inglese absolute retract) o semplicemente 𝐴𝑅 se ha la seguente proprietà. Per ogni terna (𝑋, 𝐶, 𝑓 ), con 𝑋 spazio metrico, 𝐶 chiuso non vuoto contenuto in 𝑋, 𝑓 ∶ 𝐶 → 𝑌 continua, esiste almeno un prolungamento continuo 𝐹 ∶ 𝑋 → 𝑌 di 𝑓 . ◁ Il seguente lemma riassume alcune delle principali proprietà degli spazi AR.
Lemma 15.61. 1. Ogni spazio normato è un AR. 2. Ogni sottoinsieme convesso di uno spazio normato è un AR. 3. La proprietà di essere un AR è invariante per omeomorfismi. 4. Ogni retratto di un AR è ancora un AR. 5. Sia 𝑌 un sottospazio chiuso di uno spazio metrico 𝑋. Se 𝑌 è un un AR, allora esso è un retratto di 𝑋.
Dimostrazione. La 1 seguirà banalmente dalla 2, dato che ogni spazio normato è convesso. 2. Sia 𝑌 uno spazio normato e 𝐾 un suo sottoinsieme convesso (non vuoto). Consideriamo una terna arbitraria (𝑋, 𝐶, 𝑓 ), con 𝑋 spazio metrico, 𝐶 chiuso non vuoto contenuto in 𝑋, 𝑓 ∶ 𝐶 → 𝐾 continua. La funzione 𝑓 è anche a valori in 𝑌 . Poiché ogni spazio normato è uno SVT localmente convesso, per il Teorema di estensione di Dugundji esiste un’estensione continua 𝐹 ∶ 𝑋 → 𝑌 di 𝑓 . Sappiamo inoltre che è 𝐹 (𝑋) ⊆ conv 𝑓 (𝐶) ⊆ 𝐾, dato che che 𝐾 è convesso e si ha 𝑓 (𝐶) ⊆ 𝐾 per ipotesi. Si conclude che 𝐹 prolunga 𝑓 con valori in 𝐾. 3. Siano 𝑌 un AR e 𝑍 uno spazio topologico ad esso omeomorfo mediante un omeomorfismo ℎ ∶ 𝑍 → 𝑌 . Per ipotesi, 𝑌 è metrizzabile ed è quindi tale anche 𝑍 (cfr. Proposizione 3.107.2). Consideriamo una terna arbitraria (𝑋, 𝐶, 𝑓 ), con 𝑋 spazio metrico, 𝐶 chiuso non vuoto contenuto in 𝑋, 𝑓 ∶ 𝐶 → 𝑍 continua. L’applicazione continua 𝑔 ∶= ℎ ∘ 𝑓 da 𝐶 in 𝑌 ammette per ipotesi un prolungamento continuo 𝐺 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Posto, in fine, 𝐹 ∶= ℎ−1 ∘ 𝐺, si ottiene un prolungamento continuo di 𝑓 da 𝑋 in 𝑍.
15.2. Punti fissi in spazi normati
812
4. Siano 𝑌 un AR e 𝑍 un suo retratto mediante una retrazione 𝑟 ∶ 𝑌 → 𝑍. Indichiamo con 𝑗 ∶ 𝑍 → 𝑌 l’immersione canonica di 𝑍 in 𝑌 . Per ipotesi, 𝑌 è metrizzabile ed è quindi tale anche il suo sottospazio 𝑍 (cfr. Proposizione 3.107.1). Consideriamo una terna arbitraria (𝑋, 𝐶, 𝑓 ), con 𝑋 spazio metrico, 𝐶 chiuso non vuoto contenuto in 𝑋, 𝑓 ∶ 𝐶 → 𝑍 continua. L’applicazione continua 𝑔 ∶= 𝑗 ∘ 𝑓 da 𝐶 in 𝑌 ammette per ipotesi un prolungamento continuo 𝐺 ∶ 𝑋 → 𝑌 . Posto, in fine, 𝐹 ∶= 𝑟 ∘ 𝐺, si ottiene un prolungamento continuo di 𝑓 da 𝑋 in 𝑍. 5. Siano 𝑋 uno spazio metrico e 𝑌 un suo sottospazio chiuso (non vuoto) che supponiamo essere un AR. Consideriamo la terna (𝑋, 𝐶, 𝑓 ), con 𝐶 ∶= 𝑌 e 𝑓 ∶= 𝑖 l’identità di 𝑌 . Per ipotesi, 𝑌 è un AR, quindi l’applicazione 𝑖 ∶ 𝑌 → 𝑌 si prolunga per continuità ad un’applicazione 𝐹 ∶ 𝑋 → 𝑌 , che è la retrazione cercata. La proprietà 5 dell’ultimo lemma giustifica la scelta del termine “retratto assoluto”. Infatti, uno spazio AR è un retratto di un qualunque spazio metrico in cui si possa immergere come insieme chiuso. Possiamo finalmente stabilire il risultato di Dugundji sull’esistenza di retrazioni delle palle in dimensione infinita.
Teorema 15.62 (di Dugundji, 1951). Sia (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio vettoriale normato di dimensione infinita. Esiste una retrazione 𝑟 ∶ 𝐵 = 𝐵[0, 1] → fr 𝐵 della palla chiusa unitaria sulla sua frontiera. Quindi 𝐵 non ha la PPF.
Dimostrazione. Siccome il singoletto {0} è un sottoinsieme compatto di 𝑋, per il teorema di Klee 15.58 è cancellabile. Esiste quindi un omeomorfismo ℎ ∶ 𝑋 ⧵ {0} → 𝑋. Sia poi 𝑔 ∶ 𝑋 ⧵ {0} → fr 𝐵 la proiezione radiale definita da 𝑔(x) ∶= x/‖x‖. Anche 𝑔 è continua ed è una retrazione di 𝑋 ⧵ {0} su fr 𝐵. Per la Proposizione 15.61.1, 𝑋 è un AR ed è quindi tale anche 𝑋 ⧵ {0} per la Proposizione 15.61.3. Per la Proposizione 15.61.4, è un AR anche fr 𝐵. D’altra parte, fr 𝐵 è un sottospazio chiuso di 𝐵 e quindi, per la Proposizione 15.61.5, esiste una retrazione 𝑟 ∶ 𝐵 → fr 𝐵. Ricordando l’Osservazione 15.52, si conclude che 𝐵 non ha la PPF. Un’altra conseguenza del Lemma 15.61, che si ottiene utilizzando i punti 2 e 5, è che: Ogni sottoinsieme (non vuoto) chiuso e convesso di uno spazio normato è un suo retratto. Il Teorema della proiezione negli spazi di Hilbert 5.41 ci dice che in uno spazio di Hilbert ogni sottoinsieme (non vuoto) chiuso e convesso è un retratto dello spazio. In questo caso, la retrazione è la proiezione di minima distanza e possiede ulteriori proprietà. Il presente risultato è meno fine, ma si applica a una classe più ampia di spazi. Un’ulteriore conseguenza dello stesso lemma è il seguente teorema di punto fisso.
15.2. Punti fissi in spazi normati
813
Teorema 15.63. Siano 𝐾 un AR (non vuoto) chiuso e limitato di uno spazio normato 𝑋 e 𝑓 ∶ 𝐾 → 𝐾 un’applicazione compatta. Allora 𝑓 ammette punto fisso in 𝐾. Dimostrazione. Sia 𝐵 ⊂ 𝑋 una palla chiusa contenente 𝐾. Per la Proposizione 15.61.5, esiste una retrazione 𝑟 ∶ 𝐵 → 𝐾. Consideriamo la funzione 𝜑 ∶ 𝐵 → 𝐵 definita da 𝜑(x) ∶= 𝑓 (𝑟(x)), ∀x ∈ 𝐵. La 𝜑 è chiaramente continua e si ha 𝜑(𝐵) = 𝑓 (𝐾) che è relativamente compatto per ipotesi. Si ottiene che anche 𝜑 è compatta. Per il Corollario 15.44 𝜑 ha un punto fisso z ∈ 𝐵. D’altra parte, z ∈ 𝑓 (𝐾) ⊆ 𝐾, per cui 𝑟(z) = z e quindi anche 𝑓 (z) = z. Vediamo ora alcune conseguenze del Teorema di Schauder che riguardano operatori definiti su tutto lo spazio. Premettiamo una definizione. Definizione 15.64. Siano 𝑋 e 𝑌 spazi normati e consideriamo un’applicazione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑌 . L’applicazione 𝜑 si dice completamente continua se è continua e 𝑓 (𝐵) è relativamente compatto in 𝑌 , per ogni sottoinsieme limitato 𝐵 di 𝑋.
Chiaramente ci si può restringere al caso in cui 𝐵 = 𝐵[0, 𝑟] sia una palla di raggio arbitrario. Infatti ogni limitato è contenuto un un insieme di questo tipo. Un altro modo ancora consiste nel dire che 𝜑 è completamente continua quando è compatta su tutti i limitati. Avvertiamo che, nel caso particolare in cui 𝜑 = 𝐿 ∶ 𝑋 → 𝑌 sia un’applicazione lineare, si usa dire, con un abuso di linguaggio, che 𝐿 è compatta quando è completamente continua (cfr. Definizione 15.42). Ricordando che una funzione è detta compatta se l’immagine del suo dominio è relativamente compatta, ne verrebbe che le uniche possibili applicazioni lineari “compatte” sono quelle nulle. L’usanza di adottare questa terminologia deriva dal fatto che, poiché le applicazioni lineari sono determinate dai valori che assumono sulla sfera unitaria, si sottintende di restringere 𝐿 alla palla unitaria. Osserviamo inoltre che, ogni applicazione continua 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑌 , con 𝑋 di dimensione finita, è completamente continua. Infatti, dato 𝐵 ∶= 𝐵[0, 𝑟] ⊂ 𝑋, risulta che 𝐵 è compatto in 𝑋 (visto che ha dimensione finita) e quindi 𝜑(𝐵) è compatto in 𝑌 . Se invece 𝑋 ha dimensione infinita, l’identità di 𝑋 è continua ma non completamente continua, dato che la palla chiusa unitaria non è compatta (cfr. Corollario 9.86). Va altresì tenuto presente che una combinazione lineare di funzioni completamente continue è ancora completamente continua. Lo stesso vale per la composta di una funzione completamente continua con una continua. Non così se si inverte l’ordine della composizione. Per poter chiarire questo punto, premettiamo alcune osservazioni. Lasciamo al lettore la verifica del seguente risultato: Siano 𝑍, 𝑋, 𝑌 spazi normati, 𝜓 ∶ 𝑍 → 𝑋 una funzione continua che trasforma limitati in limitati e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑌 una funzione completamente continua. Allora la composta 𝜑 ∘ 𝜓 ∶ 𝑍 → 𝑌 è completamente continua. Da Lemma 4.45 si ha immediatamente che un’applicazione lineare tra spazi normati è continua se e solo se trasforma limitati in limitati. Inoltre, si ha che
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814
le funzioni lipschitziane, oltre a essere continue, trasformano anche limitati in limitati. Da tutto ciò appare chiaro che, se si vuole trovare un esempio per cui, componendo un’applicazione continua con una completamente continua, la composta non sia completamente continua, sarà necessario andare alla ricerca di applicazioni (non lineari) che siano continue ma non trasformino limitati in limitati. In generale, esibire esempi di tali applicazioni non è banale. Questo perché chiediamo alle applicazioni di essere definite su tutto uno spazio normato. Un possibile esempio è il seguente tratto dal sito [86].
Esempio 15.65. Sia 𝑋 uno spazio di Hilbert separabile di dimensione infinita e in esso fissiamo una base (di Hilbert) ortonormale (e𝑛 )𝑛 (cfr Definizione 5.61 e Teorema 5.63). Per avere un esempio concreto, si può pensare allo spazio 𝑙2 e, per ogni 𝑛, prendere come e𝑛 il versore che ha 1 all’𝑛-imo posto e 0 altrove (cfr. Definizione 4.78, pag. 191 e Teorema 4.79). Osserviamo intanto che, per 𝑗 𝑗 𝑖 ≠ 𝑗, si ha ‖e𝑖 − e ‖ = √2. Ne viene che è 𝑑(𝐵[e𝑖 , 1/2]), 𝐵[e , 1/2]) = √2 − 1. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , sia ora 𝑔𝑛 ∶ 𝑋 → ℝ la funzione definita da 𝑔𝑛 (x) ∶= 0 ∨ 𝑛(1 − 2‖x − e𝑛 ‖),
∀x ∈ 𝑋.
Osserviamo che, fissato 𝑛 ∈ ℕ+ , si ha 𝑔𝑛 (x) > 0 se e solo se è ‖x − e𝑛 ‖ < 1/2. Mostriamo che, per ogni x ∈ 𝑋, esiste al più un 𝑛 ∈ ℕ+ per cui è 𝑔𝑛 (x) > 0. Supponiamo, per assurdo, che esistano due indici distinti 𝑖, 𝑗 ∈ ℕ+ e un elemento z ∈ 𝑋 con 𝑔𝑖 (z) > 0 e 𝑔𝑗 (z) > 0. Si ottiene ‖e𝑖 − e ‖ ≤ ‖e𝑖 − z‖ + ‖z − e ‖ ≤ 2(1/2) = 1, 𝑗
𝑗
contro quanto si è visto in precedenza. Anzi, sempre in base a quanto sopra visto, si ha che per ogni x ∈ 𝑋, esistono un 𝛿 > 0 e al più un 𝑛 ∈ ℕ+ tali che 𝐵(x, 𝛿) ∩ 𝐵(e𝑛 , 1/2) ≠ ∅. Alla luce di quanto precede, risulta quindi ben definita la funzione ℎ ∶ 𝑋 → ℝ espressa da ℎ(x) ∶= ∑+∞ 𝑛=1 𝑔𝑛 (x), ∀x ∈ 𝑋. Inoltre, ℎ è continua, dato che sono tali le 𝑔𝑛 . Chiaramente, ℎ non è lineare e non muta limitati in limitati. Infatti l’immagine della palla chiusa unitaria è illimitata, dato che è ℎ(e𝑛 ) = 𝑛. In fine, componendo ℎ con l’identità di ℝ che, ovviamente, è completamente continua, si ha il controesempio cercato. ◁ Un classico esempio di operatore completamente continuo di uno spazio di Banach in sé è dato dal cosiddetto operatore integrale di Volterra (in onore del matematico italiano Vito Volterra, 1860-1940).
Esempio 15.66. Siano 𝐼 ∶= [𝑎, 𝑏] un intervallo compatto della retta reale e F = F(𝑡, x) ∶ 𝐼 × ℝ𝑚 → ℝ𝑚 un campo vettoriale continuo. Introduciamo inoltre lo spazio 𝑋 ∶= 𝐶(𝐼, ℝ𝑚 ) con la norma lagrangiana. Ricordiamo che, per ogni u(⋅) ∈ 𝑋, si ha ‖u(⋅)‖𝑋 = ‖u(⋅)‖∞ ∶= sup {‖u(𝑡)‖ ∶ 𝑡 ∈ 𝐼}, dove ‖⋅‖ è una qualunque norma di ℝ𝑚 , per esempio quella euclidea. Per introdurre
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815
l’operatore di Volterra, fissiamo un 𝑡0 ∈ 𝐼 e un punto x0 ∈ ℝ𝑚 e definiamo l’operatore 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 ponendo: 𝜑(u)(𝑡) ∶= x0 +
𝑡
∫ 𝑡0
F(𝑠, u(𝑠)) 𝑑𝑠, ∀u ∈ 𝑋.
(15.16)
Visto che la costante x0 è inessenziale, per verificare che 𝜑 è completamente continuo, basta osservare che esso è la composizione di due operatori di cui il primo u(⋅) ↦ F(⋅, u(⋅)) [noto anche come operatore di Niemytzki] è continuo e trasforma limitati in limitati (Esercizio!); mentre il secondo operatore 𝑡 𝐿(v)(𝑡) ∶= ∫𝑡 v(𝑠) 𝑑𝑠 è lineare continuo e trasforma limitati in relativamente 0 compatti (cfr. Corollario 12.119) ed è quindi completamente continuo. La tesi segue da quanto osservato in precedenza. ◁ Nel 1934 Leray e Schauder hanno sviluppato la teoria del grado topologico6 nel caso degli operatori del tipo 𝐼 − 𝜑 con 𝜑 completamente continua. Tale teoria permette in particolare di dimostrare l’esistenza di zeri per l’operatore e, quindi, l’esistenza di punti fissi per 𝜑. Presentiamo ora alcune conseguenze famose della teoria di Leray-Schauder che hanno trovato ampie applicazioni allo studio delle equazioni differenziali e che possiamo dimostrare utilizzando i risultati precedentemente esposti.
Teorema 15.67 (di continuazione di Leray-Schauder). Siano 𝑋 uno spazio normato e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 un’applicazione completamente continua. Supponiamo che esista 𝑟 > 0 tale che, per ogni 𝜆 ∈ ]0, 1[, l’equazione x − 𝜆𝜑(x) = 0,
(15.17)
non abbia soluzioni x con ‖x‖ = 𝑟. Allora 𝜑 ha almeno un punto fisso x̂ nella palla chiusa 𝐵[0, 𝑟].
Dimostrazione. La dimostrazione è immediata riscrivendo la (15.17) nella forma 𝜑(x) = 𝜇x, con 𝜇 ∶= 1/𝜆 > 1. Si rientra così nella versione generalizzata del Teorema di Bohl (cfr. pag. 795) relativamente all’applicazione compatta 𝜑 ristretta alla palla 𝐵[0, 𝑟]. Un corollario di questo teorema è il seguente: 6 Il grado topologico è un’estensione del concetto di rotazione di un campo vettoriale o indice di avvolgimento che viene definito per un campo vettoriale piano rispetto a una curva chiusa e che si incontra tipicamente in Analisi Complessa. Un’estensione di questo concetto ai campi vettoriali in ℝ𝑛 fu dapprima sviluppata da Kronecker e successivamente da Brouwer ed è nota come grado topologico di Brouwer. Successivamente questo concetto fu esteso agli spazi di dimensione infinita da Leray e Schauder. Svilupperemo questo concetto più avanti.
15.2. Punti fissi in spazi normati
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Corollario 15.68 (Lemma delle maggiorazioni a priori). Siano 𝑋 uno spazio normato e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 un’applicazione completamente continua. Supponiamo che esista 𝑅 > 0 tale che ogni possibile soluzione x ∈ 𝑋 dell’equazione x − 𝜆𝜑(x) = 0,
è tale che ‖x‖ ≤ 𝑅. Allora l’equazione
con 𝜆 ∈ ]0, 1[,
x − 𝜑(x) = 0
ha almeno una soluzione in 𝐵[0, 𝑅].
Dimostrazione. Per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , applichiamo il teorema precedente alla palla 𝐵[0, 𝑟], con 𝑟 ∶= 𝑅 + 1/𝑛. Di conseguenza, per ogni 𝑛, esiste almeno un punto fisso x𝑛 per 𝜑 tale che ‖x𝑛 ‖ ≤ 𝑅 + 1/𝑛. Dalla compattezza di 𝜑 ristretta a 𝐵[0, 𝑅 + 1], si ottiene che la successione (x𝑛 )𝑛 ha una sottosuccessione convergente a un punto y ∈ 𝐵[0, 𝑅]. Leggendo la relazione x𝑛 = 𝜑(x𝑛 ) lungo la sottosuccessione e passando al limite, si ottiene y = 𝜑(y), per la continuità di 𝜑.
In un certo senso, questo teorema è abbastanza sorprendente; infatti dice che, se sappiamo trovare una maggiorazione a priori (cioè 𝑅 deve essere indipendente da x e da 𝜆) per le (ipotetiche) soluzioni dell’equazione (15.17), allora esistono effettivamente soluzioni per l’equazione x − 𝜑(x) = 0. Un risultato chiaramente equivalente a quello appena visto viene presentato sotto forma di un’alternativa ed è noto anche come Teorema di Schaefer. Teorema 15.69 (di Schaefer). Siano 𝑋 uno spazio normato e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 un’applicazione completamente continua. Sussiste allora una (e una sola) delle seguenti alternative: 1. L’equazione x − 𝜆𝜑(x) = 0 ha almeno una soluzione in 𝑋 per 𝜆 = 1. 2. L’insieme delle soluzioni dell’equazione x − 𝜆𝜑(x) = 0, al variare di 𝜆 ∈ ]0, 1[ è illimitato. Per poter presentare un’applicazione di questi risultati, sono necessarie alcune premesse. Definizione 15.70. Dato uno spazio normato 𝑋, diremo che un’applicazione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 è quasi limitata se è ‖𝜑(x)‖ < +∞. ‖x‖→+∞ ‖x‖
𝜑 ∶= lim sup
◁
Lemma 15.71. Dato uno spazio normato 𝑋, un’applicazione 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 è quasi limitata se e solo se esistono due costanti non negative 𝐴, 𝐵 e un 𝛿 > 0 tali che ‖𝜑(x)‖ ≤ 𝐴‖x‖ + 𝐵, ∀x ∈ 𝑋 con ‖x‖ > 𝛿. (15.18)
15.2. Punti fissi in spazi normati
817
Dimostrazione. Sia intanto 𝜑 = 𝜆 < +∞. Fissato un 𝜀 > 0, esiste un 𝛿 > 0 tale che per ogni x ∈ 𝑋 con ‖x‖ > 𝛿 è ‖𝜑(x)‖/‖x‖ < 𝜆 + 𝜀. Basta quindi prendere 𝐴 ∶= 𝜆 + 𝜀 e 𝐵 ∶= 0. Viceversa, supposta vera la (15.18), per ‖x‖ > 𝛿, si ha ‖𝜑(x)‖/‖x‖ ≤ 𝐴 + 𝐵/‖x‖ → 𝐴 < +∞, per ‖x‖ → +∞.
La (15.18) si esprime dicendo che 𝜑 è definitivamente sottolineare. Facciamo ancora un paio di osservazioni. Dalla precedente dimostrazione, si vede subito che, se è 𝜑 < 1, nella (15.18) si può prendere anche 𝐴 < 1. Se 𝜑 = 𝐿 è lineare, essa è continua se e solo se è quasi limitata e 𝜑 coincide con la norma delle applicazioni lineari. Se 𝜑 è lipschitziana di costante 𝑘, allora essa è quasi limitata e si ha 𝜑 ≤ 𝑘. Infatti, per ogni x ≠ 0, si ha ‖𝜑(x)‖ ≤ ‖𝜑(x) − 𝜑(0)‖ + ‖𝜑(0)‖ ≤ 𝑘‖x‖ + ‖𝜑(0)‖,
da cui
‖𝜑(x)‖ ‖𝜑(0)‖ ≤𝑘+ −−−−−−−→ 𝑘, ‖x‖ ‖x‖ ‖x‖→+∞
da cui si ottiene facilmente 𝜑 ≤ 𝑘. Si tenga inoltre presente che, se 𝜑 trasforma limitati in limitati, allora la (15.18) sussiste per ogni x ∈ 𝑋, prendendo 𝐵 ∶= sup {‖𝜑(x)‖ ∶ ‖x‖ ≤ 𝛿}. Sappiamo dal teorema sulle contrazioni che, se 𝜑 è una contrazione in uno spazio di Banach 𝑋, allora essa ha esattamente un punto fisso. Quanto alle funzioni quasi limitate, sussiste il seguente risultato: Teorema 15.72. Siano 𝑋 uno spazio normato e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 una funzione completamente continua e quasi limitata, con 𝜑 < 1. Allora: 1. La funzione 𝜑 ha almeno un punto fisso. 2. Per ogni y ∈ 𝑋, l’equazione x − 𝜑(x) = y ha almeno una soluzione. 3. La funzione 𝐼 ± 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 è suriettiva.
Dimostrazione. 1. Per il lemma precedente, abbiamo che esistono due costanti 𝐴 ∈ [0, 1[ e 𝐵 ≥ 0 tali che, per ogni x ∈ 𝑋 è ‖𝜑(x)‖ ≤ 𝐴‖x‖ + 𝐵. (Si ricordi che una funzione completamente continua muta limitati in relativamente compatti e quindi limitati.) Consideriamo l’equazione x = 𝜆𝜑(x),
Si ottiene:
𝜆 ∈ [0, 1].
‖x‖ = ‖𝜆𝜑(x)‖ = 𝜆‖𝜑(x)‖ ≤ 𝜆𝐴‖x‖ + 𝜆𝐵 ≤ 𝐴‖x‖ + 𝐵; (1 − 𝐴)‖x‖ ≤ 𝐵;
‖x‖ ≤ 𝑅 ∶= 𝐵/(1 − 𝐴).
(15.19)
15.2. Punti fissi in spazi normati
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Dunque 𝑅 è una maggiorazione a priori delle eventuali soluzioni della (15.19) al variare di 𝜆 ∈ [0, 1]. Per il Corollario 15.68, l’equazione x = 𝜑(x) ha almeno una soluzione in 𝐵[0, 𝑅]. 2. Basta osservare che la funzione 𝜓 ∶ 𝑋 → 𝑋 definita da 𝜓(x) ∶= 𝜑(x) + y è ancora completamente continua e quasi limitata con 𝜓 < 1 e che, quindi, per il punto 1, la 𝜓 ha almeno un punto fisso. 3. Segue immediatamente dalla 2 applicata a ±𝜑. Può essere interessante confrontare l’ultimo risultato con quello del Teorema 15.54. A tale scopo premettiamo una definizione e alcuni lemmi. Definizione 15.73. Una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 fra due spazi topologici è detta propria se la controimmagine di un compatto di 𝑌 è un compatto di 𝑋. ◁
Per una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 fra spazi topologici, la proprietà di essere propria è indipendente dalla sua continuità. 7 Una funzione costante da ℝ in ℝ è continua ma non propria. Per avere un esempio di una funzione propria non continua, basta considerare la funzione 𝑓 ∶ [0, 1] → [0, 1[ definita da 𝑓 (1) ∶= 0 e 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥, per 𝑥 < 1. Lemma 15.74. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi topologici, con 𝑌 𝑘-spazio. Una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 che sia continua e propria è chiusa (cfr. Definizione 2.18).
Dimostrazione. Dobbiamo verificare che, se 𝐶 è un chiuso di 𝑋, allora 𝐶 ′ ∶= 𝑓 (𝐶) è chiuso in 𝑌 . Essendo 𝑌 un 𝑘-spazio, basta mostrare che, per ogni compatto 𝐾 ′ di 𝑌 , 𝐶 ′ ∩ 𝐾 ′ è chiuso in 𝐾 ′ . Se 𝐾 ′ è un compatto di 𝑌 è tale anche 𝑓 (𝑓 −1 (𝐾 ′ )) ⊆ 𝑓 (𝑋). Nella nostra verifica, possiamo quindi supporre che sia già 𝐾 ′ ⊆ 𝑓 (𝑋) o, equivalentemente, che 𝑓 sia suriettiva. Fissato un compatto 𝐾 ′ in 𝑌 , esso è chiuso perché 𝑌 è 𝑇2 . Ne viene che 𝐾 ∶= 𝑓 −1 (𝐾 ′ ) è un compatto chiuso di 𝑋. Pertanto 𝐶 ∩𝐾 è un sottoinsieme chiuso del compatto 𝐾 ed è quindi esso stesso compatto. Si ottiene che 𝑓 (𝐶 ∩ 𝐾) è un compatto di 𝑌 e quindi anche chiuso. Ora si ha 𝑓 (𝐶 ∩ 𝐾) = 𝑓 (𝑓 −1 (𝐶 ′ ) ∩ 𝑓 −1 (𝐾 ′ )) = 𝑓 (𝑓 −1 (𝐶 ′ ∩ 𝐾 ′ )) = 𝐶 ′ ∩ 𝐾 ′ .
Nel caso dei 𝑘-spazi, si ottiene il seguente risultato che segue immediatamente dal lemma precedente e dalla Proposizione 2.19.2:
Teorema 15.75 (di omeomorfismo per i 𝑘-spazi). Siano 𝑋, 𝑌 due spazi topologici, con 𝑌 𝑘-spazio. Una funzione 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 che sia continua, propria e biiettiva è un omeomorfismo e quindi anche 𝑋 è un 𝑘-spazio. 7 Non si confonda la nozione di funzione propria con quello di topologia propria introdotta a pagina 635.
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In generale, non è facile verificare se una funzione è propria. Il prossimo risultato caratterizza le funzioni proprie e continue nel caso degli spazi metrici. Ricordiamo che per gli spazi metrici i concetti di compattezza, chiusura e continuità si possono esprimere in termini sequenziali e che essi sono 𝑘-spazi (cfr. Teorema 9.52). Lemma 15.76. Siano 𝑋, 𝑌 due spazi metrici e 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 . 1. Se 𝑓 è propria, allora soddisfa alla seguente proprietà: (∗) Ogni successione (𝑥𝑛 )𝑛 in 𝑋, tale che la successione (𝑓 (𝑥𝑛 ))𝑛 converge in 𝑌 , possiede una sottosuccessione convergente (in 𝑋). 2. Se inoltre 𝑓 è continua, sussiste anche l’implicazione opposta.
Dimostrazione. 1. Supponiamo che 𝑓 sia propria e fissiamo in 𝑋 una successione (𝑥𝑛 )𝑛 tale che la successione (𝑦𝑛 )𝑛 , con 𝑦𝑛 ∶= 𝑓 (𝑥𝑛 ), ∀𝑛, sia convergente in 𝑌 a un elemento 𝑦. Poniamo 𝐾 ′ ∶= {𝑦𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} ∪ {𝑦}. Chiaramente, 𝐾 ′ è un compatto di 𝑌 . Essendo 𝑓 propria, l’insieme 𝐾 ∶= 𝑓 −1 (𝐾 ′ ) è un compatto di 𝑋. Ne viene che (𝑥𝑛 )𝑛 è una successione di elementi di un compatto ed ha quindi una sottosuccessione convergente. 2. Supponiamo che sia soddisfatta la (∗) e che 𝑓 sia continua. Fissiamo un compatto 𝐾 ′ ⊆ 𝑌 e poniamo 𝐾 ∶= 𝑓 −1 (𝐾 ′ ). Vogliamo provare che 𝐾 è sequenzialmente compatto. Sia dunque 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 una successione in 𝐾 e diciamo 𝑆 ′ ∶= (𝑦𝑛 )𝑛 la successione di 𝐾 ′ definita da 𝑦𝑛 ∶= 𝑓 (𝑥𝑛 ), ∀𝑛. 𝑆 ′ è una successione di 𝐾 ′ ed ha quindi, per la compattezza di 𝐾 ′ , una sottosuccessione 𝑆1′ convergente a un elemento 𝑦 ∈ 𝐾 ′ . 𝑆1′ è l’immagine di una sottosuccessione 𝑆1 di 𝑆. Per la (∗), 𝑆1 ha una sottosuccessione 𝑆2 convergente a un elemento 𝑥 ∈ 𝑋. La successione 𝑆2′ ∶= 𝑓 (𝑆2 ) è una sottosuccessione di 𝑆1′ e converge quindi a 𝑦. Per la continuità di 𝑓 , deve però essere anche 𝑆2′ → 𝑓 (𝑥), da cui 𝑦 = 𝑓 (𝑥) e, in fine, 𝑥 ∈ 𝐾 che, pertanto, è compatto. Osservazione 15.77. Mostriamo, con un controesempio, che nella 2 del precedente lemma, l’ipotesi della continuità di 𝑓 è essenziale. Siano 𝑋 = 𝑌 ∶= [0, 1] con la distanza euclidea. Sia poi 𝑓 ∶ 𝑋 → 𝑌 definita da 𝑓 (1) ∶= 0 e 𝑓 (𝑥) ∶= 𝑥, ∀𝑥 < 1. Questa è una funzione non continua e non propria, dato che la controimmagine del compatto 𝑌 non è compatta. Ora però ogni successione 𝑆 in 𝑋 ha sottosuccessioni convergenti, dato che 𝑋 è compatto ed è quindi soddisfatta la (∗). ◁
Possiamo finalmente proporre un risultato di omeomorfismo analogo a quello del Teorema 15.54, che avevamo ottenuto usando il Teorema delle contrazioni, ma da esso indipendente. Si tenga presente il Teorema 15.72. Teorema 15.78 (di omeomorfismo). Siano 𝑋 uno spazio normato e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 una funzione completamente continua e quasi limitata, con 𝜑 < 1. Se inoltre 𝐼 − 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 è iniettiva, allora essa è un omeomorfismo.
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Dimostrazione. Per la proposizione 15.72.3, sappiamo che ℎ ∶ 𝑋 → 𝑋 definita da ℎ(x) ∶= x − 𝜑(x) è biiettiva ed è ovviamente continua. Per verificare che anche la sua inversa è continua, mostriamo che ℎ è propria (cfr. Teorema 15.75) utilizzando la condizione (∗) del Lemma 15.76. Sia dunque (x𝑛 )𝑛 una successione in 𝑋 tale che la successione (y𝑛 )𝑛 , con y𝑛 ∶= ℎ(x𝑛 ), ∀𝑛, converga a un elemento y∗ ∈ 𝑋. Si ha x𝑛 = 𝜑(x𝑛 ) + y𝑛 , ∀𝑛. Essendo 𝜑 quasi limitata, per il Lemma 15.71 e l’osservazione successiva, esistono due costanti 𝐴 ∈ [0, 1[ e 𝐵 ≥ 0 tali che, per ogni x ∈ 𝑋 è ‖𝜑(x)‖ ≤ 𝐴‖x‖ + 𝐵. Si ottiene ‖x𝑛 ‖ ≤ ‖𝜑(x𝑛 )‖ + ‖y𝑛 ‖ ≤ 𝐴‖x𝑛 ‖ + 𝐵 + ‖y𝑛 ‖ ≤ 𝐴‖x𝑛 ‖ + 𝐶,
con 𝐶 un’opportuna costante che maggiora 𝐵 + ‖y𝑛 ‖, ∀𝑛. (La successione (y𝑛 )𝑛 , essendo convergente, è limitata.) È dunque (1 − 𝐴)‖x𝑛 ‖ ≤ 𝐶;
‖x𝑛 ‖ ≤ 𝐶/(1 − 𝐴).
Quindi la successione (x𝑛 )𝑛 è limitata. Essendo 𝜑 completamente continua, l’insieme immagine {𝜑(x𝑛 ) ∶ 𝑛 ∈ ℕ} è precompatto. Esiste pertanto una sottosuccessione (𝜑(x 𝑛 ))𝑛 di (𝜑(x𝑛 ))𝑛 convergente a un elemento z ∈ 𝑋. Si conclude 𝑘 che la sottosuccessione (x 𝑛 )𝑛 di (x𝑛 )𝑛 converge a z + y∗ . 𝑘
Rispetto al Teorema di omeomorfismo 15.54 che riguarda le “perturbazioni contrattive” dell’identità, il teorema appena visto ha il vantaggio che, se applicato agli spazi di dimensione finita, richiede soltanto la continuità della funzione perturbante. Questo risultato si può inquadrare in una classe più vasta di teoremi di omeomorfismo che estendono a spazi più generali il classico risultato di Analisi elementare per cui ogni funzione reale di variabile reale definita su un intervallo aperto che sia iniettiva e continua ha inversa continua. Fra le estensioni agli spazi “euclidei” (ovvero ℝ𝑛 ) una particolarmente importante è data dal seguente teorema, di cui daremo la dimostrazione nel capitolo sulla dimensione. Su tali argomenti, si vedano anche i libri [19], [30] e [31]. Teorema 15.79 (di Brouwer sull’invarianza del dominio). Siano 𝑈 un aperto di ℝ𝑛 e 𝑓 ∶ 𝑈 → ℝ𝑛 una funzione continua e iniettiva. Allora l’insieme immagine 𝑓 (𝑈 ) è aperto, ossia 𝑓 è aperta. Dunque 𝑓 è un omeomorfismo fra 𝑈 e 𝑓 (𝑈 ).
Questo teorema, dimostrato da Brouwer nel 1912, è infatti di fondamentale importanza per definire un concetto di dimensione per gli spazi topologici. Elementari considerazioni di tipo algebrico mostrano che gli spazi vettoriali ℝ𝑛 e ℝ𝑚 sono linearmente isomorfi se e solo se è 𝑛 = 𝑚. Grazie al Teorema di invarianza del dominio, si può dimostrare un analogo risultato per gli stessi spazi, pensati ora come spazi topologici con la topologia euclidea (dedotta dalla norma). Sussiste infatti il seguente Corollario 15.80. Gli spazi (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) e (ℝ𝑚 , 𝜏𝑒 ) sono omeomorfi se e solo se è 𝑛 = 𝑚.
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Dimostrazione. Basterà verificare che, per 𝑛 ≠ 𝑚, ℝ𝑛 e ℝ𝑚 non possono essere omeomorfi. Supponiamo, per assurdo, che esistano 𝑛, 𝑚, con 𝑚 < 𝑛, ed un omeomorfismo ℎ ∶ ℝ𝑛 → ℝ𝑚 . Componendo ora ℎ con l’immersione canonica 𝑗 ∶ ℝ𝑚 → ℝ𝑛 , si ottiene un’applicazione continua e iniettiva ℎ̂ ∶ ℝ𝑛 → ℝ𝑛 e ̂ 𝑛 ) = ℝ𝑚 dovrebbe essere un aperto non quindi, per il teorema precedente, ℎ(ℝ 𝑛 vuoto di ℝ . Ma questo è assurdo, dato che ℝ𝑚 dovrebbe essere un clopen non vuoto di ℝ𝑛 e quindi coincidere con esso. Il Teorema 15.79 fu successivamente esteso da Schauder (1929) e Leray (1935) a spazi di Banach per applicazioni della forma 𝐼 − 𝜑, con 𝜑 completamente continua. Da ciò seguirà immediatamente la seguente versione del Teorema di omeomorfismo 15.78: Teorema 15.81 (di omeomorfismo). Siano 𝑋 uno spazio normato e 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 una funzione completamente continua. Se inoltre 𝐼 − 𝜑 ∶ 𝑋 → 𝑋 è biiettiva, allora essa è un omeomorfismo.
Nell’ambito degli spazi di Banach, dato un chiuso non vuoto 𝐶, abbiamo da un lato il Teorema delle contrazioni che assicura che ogni funzione contrattiva di 𝐶 in sé ha (esattamente) un punto fisso, dall’altro il Teorema di Schauder che garantisce che, se 𝐶 è anche convesso, ogni applicazione compatta da 𝐶 in sé ha (almeno) un punto fisso. Il prossimo passo sarebbe quello di studiare dei risultati che si propongano di unificare questi due importanti teoremi di punto fisso. Questo tema di ricerca è ancora attuale e produce diversi risultati interessanti. Noi ci limitiamo a presentare due teoremi di punto fisso sviluppati negli anni ’50 del secolo scorso che sono diventati dei “classici” di questo argomento: i Teoremi di Krasnosel’skii e di Darbo. Teorema 15.82 (di Krasnosel’skii). Siano 𝐶 un chiuso e convesso di uno spazio di Banach 𝑋 e 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝐶 un’applicazione della forma 𝜑(x) = 𝑓 (x) + 𝑔(x),
con 𝑓 , 𝑔 ∶ 𝐶 → 𝑋, 𝑓 contrazione e 𝑔 compatta. Supponiamo, inoltre, che 𝑓 (x) + 𝑔(y) ∈ 𝐶, ∀x, y ∈ 𝐶. Allora 𝜑 ha almeno un punto fisso in 𝐶.
Dimostrazione. Fissato un arbitrario y ∈ 𝐶, consideriamo l’applicazione che a x ∈ 𝐶 associa 𝑓 (x) + 𝑔(y). Questa applicazione manda 𝐶 in sé per ipotesi. Essa, inoltre, è ancora una contrazione che ha la stessa costante 𝐿 di 𝑓 ed ha quindi un unico punto fisso (in 𝐶). Abbiamo così verificato che, per ogni y ∈ 𝐶, esiste un unico elemento x(y) ∈ 𝐶 tale che x(y) = 𝑓 (x(y)) + 𝑔(y), ossia x(y) − 𝑓 (x(y)) = 𝑔(y). L’applicazione ℎ ∶ 𝐶 → 𝐶 definita da ℎ(y) ∶= x(y) è compatta. Infatti x(y) può essere visto come (𝐼 − 𝑓 )−1 (𝑔(y)). Inoltre, con la stessa dimostrazione del Teorema 15.54, abbiamo che (𝐼 − 𝑓 )−1 nel suo dominio (che, per ipotesi, contiene 𝑔(𝐶)) è lipschitziana di costante 1/(1 − 𝐿) ed è quindi continua. Essendo continua anche 𝑔 si ottiene la continuità della
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composta ℎ = (𝐼 − 𝑓 )−1 ∘ 𝑔. Come passo successivo, dobbiamo dimostrare che ℎ(𝐶) è a chiusura compatta. Per il Teorema di prolungabilità delle funzioni uniformemente continue 3.73, la funzione (𝐼 − 𝑓 )−1 ∶ 𝑔(𝐶) → 𝐶 è prolungabile per continuità ad una funzione 𝜓 ∶ cl 𝑔(𝐶) → 𝐶 che è ancora lipschitziana. Siccome, per ipotesi, cl 𝑔(𝐶) è un compatto, è tale anche 𝐾 ∶= 𝜓(cl 𝑔(𝐶)) ⊆ 𝐶. Essendo ℎ(𝐶) = (𝐼 − 𝑓 )−1 (𝑔(𝐶)) ⊆ 𝐾, si conclude che anche cl ℎ(𝐶) è un compatto e che quindi la funzione ℎ ∶ 𝐶 → 𝐶 è compatta, con 𝐶 chiuso e convesso per ipotesi. Per il Teorema di Schauder 15.43, ℎ ha almeno un punto fisso y∗ ∈ 𝐶. Si ha dunque y∗ = x(y∗ ). Ricordando la definizione di x(y), ne viene che è y∗ = 𝑓 (y∗ ) + 𝑔(y∗ ) e che quindi y∗ è punto fisso per 𝜑. Per il prossimo risultato abbiamo bisogno di alcuni preliminari. Introduciamo il seguente concetto di misura di non compattezza che può essere definito in due modi diversi fra loro “quasi” equivalenti.
Definizione 15.83. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico ed 𝐸 un suo sottoinsieme limitato. I seguenti numeri 𝛼(𝐸), 𝛽(𝐸) prendono il nome di misura di non compattezza di 𝐸, rispettivamente di Hausdorff e di Kuratowski. • 𝛼(𝐸) è l’estremo inferiore degli 𝜀 > 0 per cui 𝐸 è contenuto nell’unione di un numero finito di palle aperte di raggio minore o uguale a 𝜀. • 𝛽(𝐸) è l’estremo inferiore degli 𝜀 > 0 per cui 𝐸 è contenuto nell’unione di un numero finito di insiemi di diametro minore o uguale a 𝜀. Per comodità, indichiamo poi con 𝛾(𝐸) uno dei due numeri 𝛼(𝐸), 𝛽(𝐸). ◁ Lemma 15.84. Siano (𝑋, 𝑑) uno spazio metrico ed 𝐸, 𝐹 suoi sottoinsiemi limitati. Sussistono le seguenti proprietà: 1. 𝛼(𝐸) ≤ 𝛽(𝐸) ≤ 2𝛼(𝐸). 2. Si ha 𝛾(𝐸) = 0 se e solo se 𝐸 è totalmente limitato (Definizione 7.13). 3. Da 𝐸 ⊆ 𝐹 segue 𝛾(𝐸) ≤ 𝛾(𝐹 ). 4. 𝐸 è compatto se e solo se è completo e si ha 𝛾(𝐸) = 0. 5. 𝛾(cl 𝐸) = 𝛾(𝐸). 6. 𝛾(𝐸 ∪ 𝐹 ) = max{𝛾(𝐸), 𝛾(𝐹 )}.
Dimostrazione. Chiaramente, se 𝐸 è contenuto nell’unione di un numero finito di palle aperte di raggio [di diametro] minore o uguale a 𝜀, accade lo stesso per ogni 𝜀1 > 𝜀. Inoltre, si ha 𝛽(𝐸) ≤ diam 𝐸. 1. Fissiamo 𝛿, 𝜀 con 𝛽(𝐸) < 𝛿 < 𝜀. Esistono quindi 𝑛 sottoinsiemi 𝐵1 , … , 𝐵𝑛 ⊆ 𝑋 tali che 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐵𝑖 , con diam 𝐵𝑖 ≤ 𝛿, ∀𝑖. In ogni 𝐵𝑖 , prendiamo un elemento 𝑥𝑖 . Per ogni 𝑥 ∈ 𝐵𝑖 , si ha 𝑑(𝑥, 𝑥𝑖 ) ≤ diam 𝐵𝑖 ≤ 𝛿. Quindi 𝐵𝑖 ⊆ 𝐵[𝑥𝑖 , 𝛿] ⊆ 𝐵(𝑥𝑖 , 𝜀) e si ha 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐵(𝑥𝑖 , 𝜀). Si conclude che è 𝛼(𝐸) ≤ 𝛽(𝐸). Analogamente, fissato un 𝜀 > 𝛼(𝐸), esistono 𝑥𝑖 … , 𝑥𝑛 ∈ 𝑋 tali che 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐵(𝑥𝑖 , 𝜀). Siccome si ha diam 𝐵(𝑥𝑖 , 𝜀) ≤ 2𝜀, (cfr. nota a pagina 112), ne viene che è 𝛽(𝐸) ≤ 2𝛼(𝐸). 2. Dalla 1 si ha subito che è 𝛼(𝐸) = 0 se e solo se è 𝛽(𝐸) = 0. La tesi segue ora immediatamente dalla Definizione 7.13.
15.2. Punti fissi in spazi normati
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3. Segue immediatamente dal fatto che ogni ricoprimento di 𝐹 è anche un ricoprimento di 𝐸. 4. Segue immediatamente dalla 2 e dal Teorema 7.20. 5. Dalla 3 si ha intanto 𝛾(𝐸) ≤ 𝛾(cl 𝐸). Supponiamo, per assurdo, che sia 𝛼(𝐸) < 𝛼(cl 𝐸) e fissiamo 𝛿, 𝜀 con 𝛼(𝐸) < 𝛿 < 𝜀 < 𝛼(cl 𝐸). Esistono 𝑥1 , … , 𝑥𝑛 ∈ 𝑋 tali che 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐵(𝑥𝑖 , 𝛿). Essendo 𝛿 < 𝛼(cl 𝐸), deve esistere 𝑧 ∈ cl 𝐸 con 𝑧 ∉ ⋃𝑛𝑖=1 𝐵(𝑥𝑖 , 𝛿). D’altra parte, è 𝑧 ∈ ⋃𝑛𝑖=1 cl 𝐵(𝑥𝑖 , 𝛿). Esiste quindi un 𝑘𝑧 ∈ {1, … , 𝑛} per cui è 𝑧 ∈ cl 𝐵(𝑥𝑘𝑧 , 𝛿) ⊆ 𝐵[𝑥𝑘𝑧 , 𝛿] ⊆ 𝐵(𝑥𝑘𝑧 , 𝜀). Dall’arbitrarietà di 𝑧, si ottiene che è cl 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐵(𝑥𝑖 , 𝜀), contro il fatto che è 𝜀 < 𝛼(cl 𝐸). In conclusione, deve essere 𝛼(𝐸) = 𝛼(cl 𝐸). Supponiamo che sia 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐵𝑖 , con diam 𝐵𝑖 ≤ 𝜀, ∀𝑖. Si ottiene cl 𝐸 ⊆ 𝑛 ⋃𝑖=1 cl 𝐵𝑖 . La tesi segue ora immediatamente dal fatto che, per ogni 𝑖, è diam 𝐵𝑖 = diam cl 𝐵𝑖 (Esercizio!). 6. Dalla 3 si ha immediatamente max{𝛽(𝐸), 𝛽(𝐹 )} ≤ 𝛽(𝐸 ∪𝐹 ). Supponiamo, per assurdo, che sia max{𝛽(𝐸), 𝛽(𝐹 )} < 𝛽(𝐸 ∪ 𝐹 ) e fissiamo un 𝛿 strettamente compreso fra di essi. Esistono un ricoprimento finito di 𝐸 e un ricoprimento finito di 𝐹 fatti da insiemi di diametro minore o uguale a 𝛿; la riunione di questi dà un ricoprimento finito di 𝐸 ∪ 𝐹 sempre fatto da insiemi di diametro minore o uguale a 𝛿, contro il fatto che è 𝛿 < 𝛽(𝐸 ∪ 𝐹 ). Dall’assurdo, si ottiene la tesi. In modo analogo si verifica che è max{𝛼(𝐸), 𝛼(𝐹 )} = 𝛼(𝐸 ∪ 𝐹 ).
Sia 𝑋 un insieme infinito con la distanza discreta. Si ha 𝛼(𝑋) = 1 = 𝛽(𝑋) < 2𝛼(𝑋). Se 𝐸(⊂ 𝑋) è compatto (ossia finito), si ha 𝛾(𝐸) = 0 < 1 = 𝛾(𝑋). Per 𝐸 ∶= ℚ ∩ [0, 1], si ha 𝛼(𝐸) = 0 = 𝛽(𝐸), pur non essendo 𝐸 compatto, dato che non è completo. In uno spazio di Banach di dimensione infinita, si ha 𝛾(𝐵[0, 1]) > 0; infatti, dal Corollario 9.86 si ottiene che non esistono ricoprimenti finiti di 𝐵 ottenuti con insiemi di diametro minore o uguale a 1/3 o con palle di raggio minore o uguale a 1/6. Sia 𝐸 ∶= (e𝑖 )𝑖 una successione di versori distinti ortonormali di uno spazio di Hilbert (e quindi di Banach) 𝑋. Essendo 𝐸 ⊆ 𝐵(0, 1 + 𝜀), ∀𝜀 > 0, si ha 0 < 𝛼(𝐸) ≤ 1. Inoltre, per 𝑖 ≠ 𝑗, si 𝑗 𝑗 ha 𝑑(e𝑖 , e ) = ‖e𝑖 − e ‖ = √2, da cui 𝛽(𝐸) = √2, dato che ogni insieme con diametro 𝑑 < √2 contiene al più un elemento di 𝐸 e che risulta diam 𝐸 = √2. Si ottiene inoltre che una palla aperta di raggio 𝑟 < 1 contiene al più un e𝑖 e che quindi è 𝛼(𝐸) = 1. In realtà, c’è un risultato molto più generale. Esso afferma che, in un qualunque spazio di Banach di dimensione infinita, per la palla unitaria chiusa 𝐵 si ha 𝛽(𝐵) = 𝛽(𝜕𝐵) = 2 = diam 𝐵. Questo segue da un teorema sulle sfere dovuto a Lusternik-Schnirelman-Borsuk di cui vedremo la dimostrazione nel capitolo sull’omotopia. (Si veda anche quanto osservato dopo il Lemma di Darbo 15.87.) È inoltre noto che è sempre 𝛼(𝐵) = 1. Osservazione 15.85. Sia 𝐸 un sottoinsieme non vuoto e limitato di uno spazio metrico (𝑋, 𝑑). Supponiamo che sia 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐷𝑖 , con diam 𝐷𝑖 ≤ 𝜀. Si ha anche 𝐸 = ⋃𝑛𝑖=1 𝐷𝑖′ , con 𝐷𝑖′ ∶= 𝐷𝑖 ∩ 𝐸, ∀𝑖. Ovviamente, è diam 𝐷𝑖′ ≤ 𝜀, ∀𝑖. Dunque nella definizione di 𝛽(𝐸) (cfr. Definizione 15.83) avremmo potuto sostituire
15.2. Punti fissi in spazi normati
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il segno “⊆” col segno “=”. Si sarebbe però persa così la simmetria fra le definizioni di 𝛼(𝐸) e di 𝛽(𝐸). ◁ Lemma 15.86. Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato ed 𝐸, 𝐹 suoi sottoinsiemi limitati. Sussistono le seguenti proprietà: 1. Per ogni 𝑘 ∈ ℝ, si ha 𝛾(𝑘𝐸) = |𝑘|𝛾(𝐸). 2. 𝛾(𝐸 + 𝐹 ) ≤ 𝛾(𝐸) + 𝛾(𝐹 ). 3. diam 𝐸 = diam conv 𝐸.
Dimostrazione. 1. Segue immediatamente dal fatto che è 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐵𝑖 se e solo se è 𝑘𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝑘𝐵𝑖 . 2. Fissiamo un 𝛿 > 𝛽(𝐸) e 𝜎 > 𝛽(𝐹 ). Si ha: 𝐸 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐷𝑖 , con diam 𝐷𝑖 ≤ 𝛿, ∀𝑖; 𝐹 ⊆ ⋃𝑚 𝑗=1 𝑆𝑗 , con diam 𝑆𝑗 ≤ 𝜎, ∀𝑗. Si ottiene 𝐸 + 𝐹 ⊆ 𝐻 ∶= ⋃(𝐷𝑖 + 𝑆𝑗 ), con 𝑖 ∈ {1, … , 𝑛} e 𝑗 ∈ {1, … , 𝑚}. Ora, dati 𝑥𝑖 + 𝑦𝑗 e 𝑥′𝑖 + 𝑦′𝑗 , con 𝑥𝑖 , 𝑥′𝑖 ∈ 𝐷𝑖 e 𝑦𝑗 , 𝑦′𝑗 ∈ 𝑆𝑗 , si ha ‖(𝑥𝑖 + 𝑦𝑗 ) − (𝑥′𝑖 + 𝑦′𝑗 )‖ ≤ ‖𝑥𝑖 − 𝑥′𝑖 ‖ + ‖𝑦𝑗 − 𝑦′𝑗 ‖ ≤ 𝛿 + 𝜎,
da cui 𝛽(𝐸 + 𝐹 ) ≤ 𝛽(𝐸) + 𝛽(𝐹 ). In modo simile si prova che è 𝛼(𝐸 + 𝐹 ) ≤ 𝛼(𝐸) + 𝛼(𝐹 ). 3. Basta ovviamente provare che è diam conv 𝐸 ≤ 𝛿 ∶= diam 𝐸. Mostriamo, intanto, che da u ∈ conv 𝐸 e v ∈ 𝐸 segue 𝑑(u, v) ≤ 𝛿. Il vettore u è combinazione convessa di elementi di 𝐸. Si ha dunque u = ∑𝑛𝑖=1 𝑎𝑖 x𝑖 , con x𝑖 ∈ 𝐸, ∀𝑖. Si ottiene ‖u − v‖ =
𝑛
𝑛
𝑛
𝑛
𝑎𝑖 x𝑖 − v = 𝑎 x𝑖 − 𝑎v ≤ 𝑎 ‖x𝑖 − v‖ ≤ 𝛿. ∑ 𝑖 ∑ 𝑖 ‖ ∑ 𝑖 ‖∑ ‖ ‖ 𝑖=1 𝑖=1 𝑖=1 𝑖=1
Fissiamo un arbitrario elemento z ∈ conv 𝐸 e consideriamo la palla 𝐵 ∶= 𝐵[z, 𝛿]. Da quanto precede, si ha 𝐸 ⊆ 𝐵. Dunque 𝐵 è un convesso che contiene 𝐸 e deve, pertanto, contenere conv 𝐸. Ne viene che tutti gli elementi di conv 𝐸 non distano da z più di 𝛿. Dall’arbitrarietà di z, segue che è diam conv 𝐸 ≤ 𝛿. Consideriamo la proposizione 2 del precedente lemma. Chiaramente, se 𝐸 e 𝐹 sono compatti, è tale anche 𝐸 + 𝐹 , per la continuità della somma; si ottiene 𝛾(𝐸) = 𝛾(𝐹 ) = 𝛾(𝐸 + 𝐹 ) = 0. Diamo un esempio in cui valgono le disuguaglianze strette. Siano 𝑋 ∶= 𝑙2 ed (e𝑛 )𝑛 la sua base canonica; dunque, per ogni 𝑛, e𝑛 è la successione che ha 1 al posto 𝑛-imo e 0 altrove. Diciamo poi 𝐸 ∶= {e2𝑛 ∶ 𝑛 ∈ ℕ} e 𝐹 ∶= {e2𝑛+1 ∶ 𝑛 ∈ ℕ}. Per quanto osservato dopo
il Lemma 15.84, si ha 𝛼(𝐸) = 𝛼(𝐹 ) = 1 e 𝛽(𝐸) = 𝛽(𝐹 ) = √2. Siano ora 2𝑝 2𝑞+1 e +e ed e2ℎ + e2𝑙+1 due arbitrari e distinti elementi di 𝐸 + 𝐹 . Si vede 2𝑝 2𝑞+1 ) − (e2ℎ + e2𝑙+1 )‖ = 2, da cui 𝛽(𝐸 + 𝐹 ) = 2, dato che subito che è ‖(e + e ogni insieme con diametro 𝑑 < 2 contiene al più un elemento di 𝐸 + 𝐹 e che risulta diam(𝐸 + 𝐹 ) = 2. È dunque 2 = 𝛽(𝐸 + 𝐹 ) < 2√2 = 𝛽(𝐸) + 𝛽(𝐹 ). Si
15.2. Punti fissi in spazi normati
825
ottiene inoltre che è 𝛼(𝐸 + 𝐹 ) ≤ √2, dato che è 𝐸 + 𝐹 ⊂ 𝐵(0, √2 + 𝜀), ∀𝜀 > 0. È quindi anche 𝛼(𝐸 + 𝐹 ) ≤ √2 < 2 = 𝛼(𝐸) + 𝛼(𝐹 ). Il seguente lemma, come il successivo Teorema 15.91, sono tratti dall’Articolo di G. Darbo [11]. Lemma 15.87 (di Darbo). Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato ed 𝐸 un suo sottoinsieme non vuoto e limitato. Si ha 𝛽(conv 𝐸) = 𝛽(𝐸).
Dimostrazione. Per comodità, per ogni 𝐴, poniamo 𝐴∗ ∶= conv 𝐴 e 𝛿(𝐴) ∶= diam 𝐴. Basta ovviamente mostrare che è 𝛽(𝐸 ∗ ) ≤ 𝛽(𝐸). Fissiamo 𝜀, 𝜀′ con 𝛽(𝐸) < 𝜀′ < 𝜀. Si ha 𝐸 = ⋃𝑛𝑖=1 𝐷𝑖 , con 𝛿𝑖 ∶= diam 𝐷𝑖 ≤ 𝜀′ , ∀𝑖 (cfr. Osservazione 15.85). Per il lemma precedente, sia ha diam 𝐷𝑖∗ = 𝛿𝑖 ≤ 𝜀′ , ∀𝑖. Sia ora 𝑇 ∶= {𝜆 ∶ 𝜆 = (𝜆1 , … , 𝜆𝑛 )} ,
Per ogni 𝜆 ∈ 𝑇 , sia poi
𝑌 (𝜆) ∶= {x =
𝑛
∑𝑖=1
con 𝜆𝑖 ≥ 0, ∀𝑖,
𝑛
∑𝑖=1
𝜆𝑖 = 1.
𝜆𝑖 x𝑖 ∶ x𝑖 ∈ 𝐷𝑖∗ , ∀𝑖} .
Per ogni 𝜆 ∈ 𝑇 , si ha diam 𝑌 (𝜆) ≤ 𝜀′ . Infatti, dati x, y ∈ 𝑌 (𝜆), con x ∶= ∑𝑛𝑖=1 𝜆𝑖 x𝑖 e y ∶= ∑𝑛𝑖=1 𝜆𝑖 y𝑖 , x𝑖 , y𝑖 ∈ 𝐷𝑖∗ , ∀𝑖, si ha ‖x − y‖ =
𝑛
𝑛
𝑛
𝜆𝑖 (xi − y𝑖 ) ≤ 𝜆 ‖xi − y𝑖 ‖ ≤ 𝜀′ 𝜆 = 𝜀′ . ∑ 𝑖 ∑ 𝑖 ‖∑ ‖ 𝑖=1 𝑖=1 𝑖=1
Ogni x ∈ 𝐸 appartiene a qualche 𝑌 (𝜆). Infatti, dato x ∈ 𝐸, esiste un 𝑖 ∈ 𝑗 {1, … , 𝑛} con x ∈ 𝐷𝑖 ⊆ 𝐷𝑖∗ . Basta quindi prendere: x𝑖 ∶= x, x ∈ 𝐷𝑗 arbitrario per 𝑗 ≠ 𝑖, 𝜆𝑖 ∶= 1 e 𝜆𝑗 ∶= 0, ∀𝑗 ≠ 𝑖. Sia ora 𝑌 (𝑇 ) ∶= ⋃𝜆∈𝑇 𝑌 (𝜆). Vogliamo provare che è 𝑌 (𝑇 ) = 𝐸 ∗ . Per quanto appena visto, si ha 𝐸 ⊆ 𝑌 (𝑇 ). Proviamo che 𝑌 (𝑇 ) è convesso. Dobbiamo mostrare che, fissati due elementi x, y ∈ 𝑌 (𝑇 ) e un elemento z ∈ [x, y], si ha anche z ∈ 𝑌 (𝑇 ). Sia dunque x = ∑𝑛𝑖=1 𝜆𝑖 x𝑖 , y = ∑𝑛𝑖=1 𝜇𝑖 y𝑖 , con x𝑖 , y𝑖 ∈ 𝐷𝑖∗ , ∀𝑖, 𝜆 ∶= (𝜆1 , … , 𝜆𝑛 ), 𝜇 = (𝜇1 , … , 𝜇𝑛 ) ∈ 𝑇 . Sia poi z = ℎx + 𝑘y, con ℎ, 𝑘 ∈ [0, 1] e ℎ + 𝑘 = 1. Per ℎ = 0 o 𝑘 = 0 non c’è niente da dimostrare. Sia dunque 0 < ℎ, 𝑘 < 1. Si ottiene z=
𝑛
∑ 𝑖=1
ℎ𝜆𝑖 x + 𝑖
𝑛
∑ 𝑖=1
𝑘𝜇𝑖 y = 𝑖
𝑛
(ℎ𝜆 x𝑖 + 𝑘𝜇𝑖 y𝑖 ). ∑ 𝑖 𝑖=1
Per ogni 𝑖, poniamo 𝜗𝑖 ∶= ℎ𝜆𝑖 + 𝑘𝜇𝑖 . Se è 𝜗𝑖 ∶= 0, sia z𝑖 un arbitrario elemento di 𝐷𝑖∗ ; in caso contrario si ponga z𝑖 ∶=
ℎ𝜆𝑖 𝑖 𝑘𝜇𝑖 𝑖 x + y ∈ 𝐷𝑖∗ , 𝜗𝑖 𝜗𝑖
15.2. Punti fissi in spazi normati
826
dato che z𝑖 risulta combinazione convessa di due suoi elementi. Si conclude che è z = ∑𝑛𝑖=1 𝜗𝑖 z𝑖 , con z𝑖 ∈ 𝐷𝑖∗ , ∀𝑖, 𝜗𝑖 ≥ 0, ∀𝑖 e ∑𝑛𝑖=1 𝜗𝑖 = 1. È dunque z ∈ 𝑌 (𝜗), con 𝜗 ∶= (𝜗1 , … , 𝜗𝑛 ) ∈ 𝑇 . Ciò prova che 𝑌 (𝑇 ) è convesso. Essendo 𝐷𝑖 ⊆ 𝐸, ∀𝑖, si ha 𝐷𝑖∗ ⊆ 𝐸 ∗ , ∀𝑖. Per definizione, 𝑌 (𝑇 ) è dunque ottenuto da combinazioni convesse di elementi di 𝐸 ∗ ed è quindi contenuto nell’insieme di tutte le combinazioni convesse di elementi di 𝐸 ∗ che coincide con 𝐸 ∗ . Si ottiene che è 𝐸 ⊆ 𝑌 (𝑇 ) ⊆ 𝐸 ∗ . Siccome abbiamo dimostrato che 𝑌 (𝑇 ) è convesso, si conclude che è 𝑌 (𝑇 ) = 𝐸 ∗ . Per ogni sottoinsieme 𝐴 ⊆ 𝐸 ∗ e per ogni 𝜂 > 0, poniamo [𝐴]𝜂 ∶= {x ∈ 𝐸 ∗ ∶ 𝑑(x, 𝐴) < 𝜂 } .
Vogliamo provare che l’applicazione che a ogni 𝜆 ∈ 𝑇 associa l’insieme 𝑌 (𝜆) ⊆ 𝐸 ∗ soddisfa alla seguente proprietà: Per ogni 𝜂 > 0 e per ogni 𝜆 ∈ 𝑇 , esiste un intorno aperto 𝑈𝜆 di 𝜆 in 𝑇 (⊂ ℝ𝑛 ) tale che, posto 𝑌 (𝑈𝜆 ) ∶= ⋃𝜇∈𝑈𝜆 𝑌 (𝜇), si ha 𝑌 (𝑈𝜆 ) ⊆ [𝑌 (𝜆)]𝜂 . 8 Supponiamo, per assurdo, che ciò non sia. Esistono quindi un 𝜂 > 0, un punto 𝜆 ̂ = (𝜆1̂ , … , 𝜆𝑛̂ ) ∈ 𝑇 e una successione (𝜆𝑘 )𝑘 , con 𝜆𝑘 = (𝜆𝑘1 , … , 𝜆𝑘𝑛 ) ∈ 𝑇 , ̂ 𝜂 , ∀𝑘. Quest’ultima relazione significa convergente a 𝜆 ̂ e tale che 𝑌 (𝜆𝑘 ) ⊈ [𝑌 (𝜆)] 𝑘 che, per ogni 𝑘, esite un punto x = ∑𝑛𝑖=1 𝜆𝑘𝑖 x𝑖𝑘 ∈ 𝑌 (𝜆𝑘 ), con x𝑖𝑘 ∈ 𝐷𝑖∗ , ∀𝑖, tale ̂ ≥ 𝜂. Per ogni 𝑘, poniamo y𝑘 ∶= ∑𝑛 𝜆𝑖̂ x𝑖 ∈ 𝑌 (𝜆). ̂ Ora si ha che 𝑑(x𝑘 , 𝑌 (𝜆)) 𝑘 𝑖=1 ̂ ≤ ‖x𝑘 − y𝑘 ‖ = 0 < 𝜂 ≤ 𝑑(x𝑘 , 𝑌 (𝜆)) ‖ ≤
𝑛
∑𝑖=1
𝑛
∑𝑖=1
(𝜆𝑘𝑖 − 𝜆𝑖̂ )x𝑖𝑘 ‖ ≤
(|𝜆𝑘𝑖 − 𝜆𝑖̂ | ⋅ ‖x𝑖𝑘 ‖) ≤ ‖𝜆𝑘 − 𝜆‖̂ 1 𝑅,
dove 𝑅 è il raggio di una palla che contiene 𝐸 ∗ . Siccome ‖𝜆𝑘 − 𝜆‖̂ 1 𝑅 → 0, esso è definitivamente minore di 𝜂, ma ciò genera una contraddizione. Al variare di 𝜆 ∈ 𝑇 gli 𝑈𝜆 di cui sopra formano un ricoprimento aperto di 𝑇 da cui, per la compattezza di 𝑇 (è un chiuso e limitato di ℝ𝑛 ) si può estrarre un sottoricoprimento finito 𝑈𝜆1 , … , 𝑈𝜆𝑝 . Si ottiene 𝑌 (𝑈𝜆1 ) ∪ ⋯ ∪ 𝑌 (𝑈𝜆𝑝 ) = 𝐸 ∗ . (Si ricordi che è 𝐸 ∗ = 𝑌 (𝑇 ).) Prendiamo ora 𝜂 ∶= (𝜀 − 𝜀′ )/3. Per ogni x ∈ [𝑌 (𝜆𝑖 )]𝜂 esiste x′ ∈ 𝑌 (𝜆𝑖 ) con 𝑑(x, x′ ) < 𝜂. Per quanto precede si ha che, per ogni 𝑖 ∈ {1, … , 𝑝}, risulta 𝛿(𝑌 (𝑈𝜆𝑖 )) ≤ 𝛿([𝑌 (𝜆𝑖 )]𝜂 ) ≤ 𝛿(𝑌 (𝜆𝑖 )) + 2𝜂 ≤ 𝜀′ + 2𝜂 < 𝜀.
Si è così provato che anche 𝐸 ∗ è contenuto nell’unione di un numero finito di insiemi di diametro minore o uguale a 𝜀, da cui, per l’arbitrarietà di 𝜀 > 𝛽(𝐸), si ottiene 𝛽(𝐸 ∗ ) ≤ 𝛽(𝐸). Osserviamo che, come conseguenza del Lemma di Darbo, in un qualunque spazio normato si ha 𝛽(𝐵) = 𝛽(𝜕𝐵) per ogni palla chiusa 𝐵; inoltre, dalla Proposizione 15.84.5 si ha 𝛽(𝐵) = 𝛽(int 𝐵), sempre per ogni palla 𝐵. 8 Questa proprietà ricorda la semicontinuità superiore (cfr. Definizione 8.39). In realtà è un po’ meno restrittiva di questa, dato che, in generale, ci sono aperti contenenti 𝐴 che non contengono alcun [𝐴]𝜂 .
15.2. Punti fissi in spazi normati
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Lemma 15.88 (di Kuratowski). In uno spazio metrico completo (𝑋, 𝑑) sia data una successione di chiusi, limitati e non vuoti (𝐶𝑛 )𝑛 decrescente per inclusione. Se lim𝑛→∞ 𝛾(𝐶𝑛 ) = 0, allora l’insieme 𝐾 ∶= ⋂𝑛 𝐶𝑛 è un compatto non vuoto.
Dimostrazione. Osserviamo intanto che dalla Proposizione 15.84.1 si ottiene che 𝛼(𝐶𝑛 ) → 0 se e solo se 𝛽(𝐶𝑛 ) → 0. Possiamo quindi soffermarci sulla misura 𝛽. Inoltre, siccome ogni ricoprimento di un 𝐶𝑛 è anche un ricoprimento di 𝐾, per la Proposizione 15.84.4 si ottiene che 𝐾 è compatto. Resta da verificare che è 𝐾 ≠ ∅. Dalla Proposizione 15.84.3 si ha che le successioni (𝛼(𝐶𝑛 ))𝑛 e (𝛽(𝐶𝑛 ))𝑛 sono debolmente decrescenti. Se esiste un 𝑛 con 𝛽(𝐶𝑛 ) = 0, 𝐶𝑛 , essendo completo, è compatto per la Proposizione 15.84.4, da cui 𝐾 ≠ ∅ (cfr. Esercizio 7.9). Supponiamo dunque che sia 𝛽(𝐶𝑛 ) ≠ 0, ∀𝑛. Per ogni 𝑛, fissiamo un 𝛿𝑛 tale che 𝛽(𝐶𝑛 ) < 𝛿𝑛 < 2𝛽(𝐶𝑛 ), da cui 𝛿𝑛 → 0. Per ogni 𝑛, si ha 𝐶𝑛 ⊆ ⋃𝑖∈𝐽𝑛 𝐷𝑖𝑛 , con 𝐽𝑛 finito e diam 𝐷𝑖𝑛 ≤ 𝛿𝑛 , ∀𝑖 ∈ 𝐽𝑛 . Per ogni 𝑛 ∈ ℕ, fissiamo un 𝑥𝑛 ∈ 𝐶𝑛 e proviamo che la successione 𝑆 ∶= (𝑥𝑛 )𝑛 ha una sottosuccessione di Cauchy. Se 𝑆 ha una sottosuccessione costante, siamo a posto. Supponiamo che ciò non sia. Possiamo quindi supporre gli 𝑥𝑛 tutti distinti fra loro. Tutti gli 𝑥𝑛 stanno in 𝐶0 ⊆ ⋃𝑖∈𝐽0 𝐷𝑖0 . Deve quindi esistere un indice 𝑖0 ∈ 𝐽0 tale che 𝐷𝑖0 contiene infiniti 𝑥𝑛 che formano una 0 sottosuccessione 𝑆0 di 𝑆. Sia 𝑘0 il minimo indice con 𝑘0 > 0 e 𝑥𝑘0 ∈ 𝑆0 . Tutti i termini di 𝑆0 appartengono a 𝐶𝑘0 ⊆ ⋃𝑖∈𝐽𝑘 𝐷𝑖 0 . Deve esistere un 0
𝑘
indice 𝑖𝑘0 ∈ 𝐽𝑘0 tale che 𝐷𝑖 0 contiene infiniti termini di 𝑆0 che formano una 𝑘0 sottosuccessione 𝑆1 di 𝑆0 e quindi di 𝑆. Sia 𝑘1 il minimo indice con 𝑘1 > 𝑘0 e 𝑥𝑘1 ∈ 𝑆1 . Supponiamo di aver definito la sottosuccessione 𝑆𝑚 di 𝑆 e l’elemento 𝑘
𝑥𝑘𝑚 . Tutti i termini di 𝑆𝑚 , appartengono a 𝐶𝑘𝑚 ⊆ ⋃𝑖∈𝐽𝑘 𝐷𝑖 𝑚 . Deve esistere 𝑚
𝑘
un indice 𝑖𝑘𝑚 ∈ 𝐽𝑘𝑚 tale che 𝐷𝑖 𝑚 contiene infiniti termini di 𝑆𝑚 che formano 𝑘𝑚 una sottosuccessione 𝑆𝑚+1 di 𝑆𝑚 e quindi di 𝑆. Sia poi 𝑘𝑚+1 il minimo indice con 𝑘𝑚+1 > 𝑘𝑚 e 𝑥𝑘𝑚+1 ∈ 𝑆𝑚+1 . Si è così ottenuta una sottosuccessione 𝑆 ∗ ∶= (𝑥𝑘𝑚 )𝑚 di 𝑆 tale che, per ogni 𝑝, 𝑞, con 𝑞 ≥ 𝑝, si ha che 𝑥𝑘𝑝 e 𝑥𝑘𝑞 appartengono ad un insieme di diametro minore o uguale 𝛿𝑘𝑝 che tende a 0. Ciò prova che 𝑆 ∗ è una successione di Cauchy. Siccome 𝑋 è completo, 𝑆 ∗ converge a un elemento 𝑧 ∈ cl 𝐾 = 𝐾, dato che 𝑆 ∗ finisce in ogni 𝐶𝑛 . Ciò prova che è 𝐾 ≠ ∅. 𝑘
Focalizziamo la nostra attenzione sulla misura 𝛽. Premettiamo la seguente definizione: Definizione 15.89. Siano 𝑋 uno spazio metrico, 𝐶 un suo sottoinsieme e 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝑋 un’applicazione continua. Si dice che 𝜑 è una contrazione di insieme (set-contraction) di 𝐶 se esiste una costante 𝑘 ∈ [0, 1[ tale che 𝛽(𝜑(𝐴)) ≤ 𝑘𝛽(𝐴), ∀𝐴 ⊆ 𝐶, con 𝐴 limitato. ◁ Lemma 15.90. Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio normato e 𝐶 ⊆ 𝑋.
15.2. Punti fissi in spazi normati
828
1. Ogni contrazione di 𝐶 in 𝑋 è anche una sua contrazione d’insieme. 2. Ogni applicazione compatta/completamente continua di 𝐶 in 𝑋 è una contrazione d’insieme di 𝐶. 3. Ogni applicazione 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝑋 del tipo 𝜑 = 𝑓 + 𝑔, con 𝑓 , 𝑔 ∶ 𝐶 → 𝑋, 𝑓 contrazione di costante 𝑘 e 𝑔 compatta/completamente continua è una contrazione d’insieme.
Dimostrazione. 1. Siano 𝑓 ∶ 𝐶 → 𝑋 una contrazione di costante 𝑘 e 𝐴 un sottoinsieme limitato di 𝐶. Per ogni 𝛿 > 𝛽(𝐴), si ha 𝐴 ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝐷𝑖 con diam 𝐷𝑖 ≤ 𝛿, ∀𝑖. È dunque 𝑓 (𝐴) ⊆ ⋃𝑛𝑖=1 𝑓 (𝐷𝑖 ). Ora, dati 𝑥, 𝑦 ∈ 𝐷𝑗 , si ha 𝑑(𝑓 (𝑥), 𝑓 (𝑦)) ≤ 𝑘𝑑(𝑥, 𝑦) ≤ 𝑘𝛿, da cui diam 𝑓 (𝐷𝑗 ) ≤ 𝑘𝛿. Si conclude che è 𝛽(𝑓 (𝐴)) ≤ 𝑘𝛽(𝐴). 2. Sia 𝑓 ∶ 𝐶 → 𝑋 compatta. Dunque 𝐾 ∶= cl 𝑓 (𝐶) è un compatto di 𝑋. Per ogni sottoinsieme limitato 𝐴 di 𝐶, l’insieme cl 𝑓 (𝐴) è un compatto di 𝐾. Per le Proposizioni 4 e 5 del Lemma 15.84 si ha 0 = 𝛽(cl 𝑓 (𝐴)) = 𝛽(𝑓 (𝐴)) = 0 ⋅ 𝛽(𝐴). Dunque 𝑓 è una contrazione d’insieme in 𝐶, con 𝑘 = 0. Similmente si affronta il caso in cui 𝑓 è completamente continua. 3. Fissiamo un sottoinsieme limitato 𝐴 di 𝐶. Dal punto 1 e dalle proposizioni 15.86.2 e 15.84.4, si ottiene 𝛽(𝑓 (𝐴) + 𝑔(𝐴)) ≤ 𝛽(𝑓 (𝐴)) + 𝛽(𝑔(𝐴)) = 𝛽(𝑓 (𝐴)) + 0 ≤ 𝑘𝛽(𝐴).
Dall’arbitrarietà di 𝐴, segue che 𝑓 + 𝑔 è una contrazione d’insieme con la medesima costante 𝑘 di 𝑓 .
Teorema 15.91 (di punto fisso di Darbo). Siano 𝐶 un chiuso, non vuoto, convesso e limitato di uno spazio di Banach 𝑋 e 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝐶 una contrazione d’insieme. Allora 𝜑 ha almeno un punto fisso in 𝐶. Dimostrazione. Definiamo induttivamente una successione decrescente di chiusi, non vuoti, limitati e convessi (𝐶𝑛 )𝑛 ponendo: 𝐶0 ∶= 𝐶,
𝐶1 ∶= cl(conv 𝜑(𝐶0 )),
…,
𝐶𝑛+1 ∶= cl(conv 𝜑(𝐶𝑛 )),
⋯
Chiaramente i 𝐶𝑛 sono chiusi e non vuoti. Mostriamo che i 𝐶𝑛 sono convessi; basta verificare che, se 𝐸 è convesso, è tale anche cl 𝐸, ossia che, dati x, y ∈ cl 𝐸, si ha anche 𝑎x+(1−𝑎)y ∈ cl 𝐸, ∀𝑎 ∈ [0, 1]. Fissiamo dunque x, y ∈ cl 𝐸; esistono in 𝐸 due successioni (x𝑛 )𝑛 , (y𝑛 )𝑛 con x𝑛 → x e y𝑛 → y. Per ogni 𝑎 ∈ [0, 1] e per ogni 𝑛 ∈ ℕ, si ha z𝑛 ∶= 𝑎x𝑛 +(1−𝑎)y𝑛 ∈ 𝐸; si ottiene z𝑛 → z ∶= 𝑎x+(1−𝑎)y, da cui z ∈ cl 𝐸. Per comodità del lettore, abbiamo mostrato una verifica diretta di questo fatto; in realtà, esso segue da una proprietà degli spazi vettoriali topologici (cfr. Lemma 5.23). Proviamo che la successione (𝐶𝑛 )𝑛 è decrescente mostrando, per induzione, che è 𝐶𝑛+1 ⊆ 𝐶𝑛 , ∀𝑛. Si ha, intanto, 𝜑(𝐶0 ) ⊆ 𝐶0 , da cui conv 𝜑(𝐶0 ) ⊆ conv 𝐶0 = 𝐶0 , dato che 𝐶0 è convesso, e 𝐶1 ⊆ cl 𝐶0 = 𝐶0 , dato che 𝐶0 è chiuso. Supponiamo che sia 𝐶𝑛 ⊆ 𝐶𝑛−1 . Si ottiene cl(conv 𝜑(𝐶𝑛 )) ⊆ cl(conv 𝜑(𝐶𝑛−1 )), ossia 𝐶𝑛+1 ⊆ 𝐶𝑛 .
15.2. Punti fissi in spazi normati
829
Per ipotesi, esiste 𝑘 ∈ [0, 1[ tale che 𝛽(𝜑(𝐴)) ≤ 𝑘𝛽(𝐴), per ogni 𝐴 ⊆ 𝐶. (𝐶 è limitato per ipotesi.) Ora, tenuto conto della Proposizione 15.84.5 e del Lemma 15.87, si ottiene 𝛽(𝐶𝑛+1 ) = 𝛽(cl(conv 𝜑(𝐶𝑛 ))) =
= 𝛽(conv 𝜑(𝐶𝑛 )) = 𝛽(𝜑(𝐶𝑛 )) ≤ 𝑘𝛽(𝐶𝑛 ),
da cui si ottiene, per induzione, 𝛽(𝐶𝑛 ) ≤ 𝑘𝑛 𝛽(𝐶0 ) e quindi 𝛽(𝐶𝑛 ) → 0, per 𝑛 → ∞. Poniamo ora 𝐾 ∶= ⋂𝑛 𝐶𝑛 . Per il Lemma 15.88, 𝐾 è un compatto non vuoto. Inoltre, è anche convesso perché intersezione di convessi. In fine, siccome per ogni 𝑛 si ha 𝜑(𝐶𝑛 ) ⊆ 𝐶𝑛 , si ottiene 𝜑(𝐾) ⊆ 𝐾. Per il Teorema di Schauder nella versione del Corollario 15.45, 𝜑 ammette un punto fisso in 𝐾 e quindi in 𝐶. Sottolineiamo che, nel teorema di punto fisso appena visto, l’ipotesi che l’insieme 𝐶 sia limitato non può essere rimossa. Infatti, siccome in ℝ ogni insieme limitato è totalmente limitato, ogni funzione continua 𝑓 ∶ ℝ → ℝ è una contrazione d’insieme con costante 0. Per le altre ipotesi, i controesempi sono ancora più banali e già visti. Un risultato collegato a quello di Darbo è dato dal Teorema di punto fisso di Sadovskii (1967). Premettiamo la seguente Definizione 15.92. Siano 𝑋 uno spazio metrico, 𝐶 un suo sottoinsieme e 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝑋 un’applicazione continua. Si dice che 𝜑 è condensante (condensing) in 𝐶 se è 𝛽(𝜑(𝐴)) < 𝛽(𝐴), ∀𝐴 ⊆ 𝐶, con 𝐴 limitato e con 𝛽(𝐴) > 0. ◁
Si vede immediatamente che ogni contrazione d’insieme è una funzione condensante. Non sussiste l’implicazione opposta come provato dal seguente esempio dovuto a Nussbaum nel 1971 (cfr. [65]). Esempio 15.93 (di Nussbaum). Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio di Banach di dimensione infinita e 𝐵 la sua palla unitaria chiusa. Sia, inoltre, 𝜌 ∶ [0, 1] → ]0, 1] una funzione continua e strettamente decrescente tale che 𝜌(0) ∶= 1. Consideriamo ora la seguente funzione 𝜑 ∶ 𝐵 → 𝑋 definita da 𝜑(x) ∶= 𝜌(‖x‖)x. Si ha quindi 𝜑(𝐵) ⊆ 𝐵. Si è già osservato subito dopo il Lemma 15.87 che si ha 𝛽(𝐵) > 0. Proviamo che, per ogni 𝑟 ∈ ]0, 1], si ha 𝜑(𝑟𝐵) ⊇ 𝜌(𝑟)𝑟𝐵. Intanto, dal fatto che è 𝜑(−x) = −𝜑(x) si ottiene che 𝜑(𝑟𝐵) è un insieme bilanciato. Inoltre, da x ∈ 𝐵 si ha ‖𝜌(𝑟)𝑟x‖ = 𝜌(𝑟)𝑟‖x‖ ≤ 𝜌(𝑟‖x‖)𝑟‖x‖ = ‖𝜑(𝑟x)‖,
da cui 𝜌(𝑟)𝑟x ∈ [0, 𝜑(𝑟x)] e, in fine, 𝜌(𝑟)𝑟x ∈ 𝜑(𝑟𝐵). Dai Lemmi 15.84 e 15.86 si ottiene 𝛽(𝜑(𝑟𝐵)) ≥ 𝛽(𝜌(𝑟)𝑟𝐵) = 𝑟𝜌(𝑟)𝛽(𝐵) > 0.
D’altra parte, si ha 𝛽(𝑟𝐵) = 𝑟𝛽(𝐵). Se, per assurdo, 𝜑 fosse una contrazione d’insieme di costante 𝑘 < 1, si dovrebbe avere 𝛽(𝜑(𝑟𝐵)) ≤ 𝑘𝛽(𝑟𝐵) = 𝑘𝑟𝛽(𝐵). Si otterrebbe quindi 𝑟𝜌(𝑟)𝛽(𝐵) ≤ 𝛽(𝜑(𝑟𝐵)) ≤ 𝑘𝑟𝛽(𝐵),
15.2. Punti fissi in spazi normati
830
da cui, sempre ricordando che è 𝛽(𝐵) > 0, si avrebbe 𝜌(𝑟) ≤ 𝑘, ∀𝑟, contro il fatto che 𝜌(𝑟) tende a 1 per 𝑟 → 0. Quindi 𝜑 non è una contrazione d’insieme. Proviamo che, per contro, 𝜑 è condensante. Sia 𝐴 un qualunque sottoinsieme non vuoto di 𝐵, con 𝛿 ∶= 𝛽(𝐴) > 0. Essendo 𝜑(𝐴) ⊆ conv(𝐴 ∪ {0}), si ha 𝛽(𝜑(𝐴)) ≤ 𝛽(conv(𝐴∪{0})) = 𝛽(𝐴∪{0}) = 𝛽(𝐴). Fissiamo un 𝑟 con 0 < 𝑟 < 𝛿/2 e poniamo 𝐴1 ∶= {x ∈ 𝐴 ∶ ‖x‖ < 𝑟} e 𝐴2 ∶= 𝐴 ⧵ 𝐴1 . Si ha 𝜑(𝐴) = 𝜑(𝐴1 ) ∪ 𝜑(𝐴2 ), da cui 𝛽(𝜑(𝐴)) = max{𝛽(𝜑(𝐴1 )), 𝛽(𝜑(𝐴2 ))}, con 𝛽(∅) ∶= 0. Essendo 𝐴1 ⊆ 𝑟𝐵, si ha 𝛽(𝐴1 ) ≤ 𝛽(𝑟𝐵) ≤ diam(𝑟𝐵) ≤ 2𝑟 < 𝛿 = 𝛽(𝐴). Se è x ∈ 𝐴2 , è ‖x‖ ≥ 𝑟, da cui 𝜌(‖x‖) ≤ 𝜌(𝑟). Si ha da cui
𝜑(𝐴2 ) ⊆ {𝑎x ∶ (x ∈ 𝐴2 ) ∧ (𝑎 ∈ [0, 𝜌(𝑟)])} ⊆ conv(𝜌(𝑟)𝐴2 ∪ {0}),
𝛽(𝜑(𝐴2 )) ≤ 𝛽(conv(𝜌(𝑟)𝐴2 ∪ {0})) = 𝛽((𝜌(𝑟)𝐴2 ) = 𝜌(𝑟)𝛽(𝐴2 ) < 𝛽(𝐴).
Si conclude che è 𝛽(𝜑(𝐴)) < 𝛽(𝐴) e che quindi 𝜑 è condensante.
◁
Lemma 15.94. Siano (𝑋, ‖⋅‖) uno spazio di Banach, 𝐶 ⊆ 𝑋 chiuso, non vuoto e limitato e 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝑋 un’applicazione (continua e) condensante. Allora 𝜓 = 𝐼 − 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝑋 è propria.
Dimostrazione. Siano 𝐾 ⊆ 𝑋 un compatto e 𝐻 ∶= 𝜓 −1 (𝐾) ⊆ 𝐶. Lasciamo per esercizio al lettore di verificare che è 𝐻 ⊆ 𝜑(𝐻) + 𝐾. Per il Lemma 15.86 si ha 𝛾(𝐻) ≤ 𝛾(𝜑(𝐻) + 𝐾) ≤ 𝛾(𝜑(𝐻)) + 𝛾(𝐾) = 𝛾(𝜑(𝐻)), dato che 𝐾 è compatto. Se fosse 𝛾(𝐻) > 0, essendo 𝜑 condensante, avremmo 𝛾(𝐻) ≤ 𝛾(𝜑(𝐻)) < 𝛾(𝐻), ma ciò è assurdo. È dunque 𝛾(𝐻) = 0 e quindi 𝐻 è totalmente limitato (Proposizione 15.84.2); esso è completo essendo un chiuso di 𝑋 che è completo. Si conclude che 𝐻 è compatto e che 𝜓 è propria.
Teorema 15.95 (di punto fisso di Sadovskii). Siano 𝐶 un chiuso, convesso e limitato di uno spazio di Banach 𝑋 e 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝐶 una funzione condensante. Allora 𝜑 ha almeno un punto fisso in 𝐶.
Dimostrazione. Fissiamo uno z ∈ 𝐶 e poniamo 𝐶0 ∶= 𝐶 − {z}. Supponiamo di aver dimostrato che ogni funzione condensante 𝜓 ∶ 𝐶0 → 𝐶0 ha punto fisso. Data una funzione condensante 𝜑 ∶ 𝐶 → 𝐶, sia 𝜓 ∶ 𝐶0 → 𝐶0 definita da 𝜓(x) ∶= 𝜑(x+z)−z. Siccome l’applicazione 𝜌 ∶ 𝑋 → 𝑋 definita da 𝜌(x) ∶= x−z è un omeomorfismo isometrico, si ha che anche 𝜓 è condensante (Esercizio!) ed ha quindi un punto fisso w. Da w = 𝜓(w), si ottiene w + z = 𝜑(w + z). Possiamo dunque supporre che sia già 0 ∈ 𝐶. Essendo 𝐶 convesso, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ , resta definita la funzione 𝜑𝑛 ∶ 𝐶 → 𝐶 data da 𝜑𝑛 (x) ∶= (1 − 1/𝑛)𝜑(x). Tenuto conto della Proposizione 15.86.1, si
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831
ottiene che, per ogni 𝑛 ∈ ℕ+ e ogni sottoinsieme limitato 𝐴 ⊆ 𝐶, con 𝛾(𝐴) > 0, si ha 𝛽(𝜑𝑛 (𝐴)) = 𝛽((1 − 1/𝑛)𝜑(𝐴)) = (1 − 1/𝑛)𝛽(𝜑(𝐴)) < (1 − 1/𝑛)𝛽(𝐴).
Se è 𝛽(𝐴) = 0 = 𝛽(cl 𝐴), cl 𝐴 è totalmente limitato e completo (𝑋 è di Banach); dunque cl 𝐴 è un compatto (Proposizione 15.84.4) ed è quindi tale anche 𝜑(cl 𝐴), da cui 0 ≤ 𝛽(𝜑𝑛 (𝐴)) ≤ 𝛽(𝜑𝑛 (cl 𝐴)) = 0. Si ha ancora 𝛽(𝜑𝑛 (𝐴)) ≤ (1 − 1/𝑛)𝛽(𝐴). Dunque, per ogni 𝑛, 𝜑𝑛 è una contrazione d’insieme di 𝐶 ed ha, per il Teorema di Darbo 15.91 un punto fisso z𝑛 ∈ 𝐶. Poniamo w𝑛 ∶= z𝑛 − 𝜑(z𝑛 ). Si ha ‖w𝑛 ‖ = ‖z𝑛 − 𝜑(z𝑛 )‖ = ‖𝜑𝑛 (z𝑛 ) − 𝜑(z𝑛 )‖ = (1/𝑛)‖𝜑(z𝑛 )‖ ≤ 𝑀/𝑛, con 𝑀 ∶= sup {‖x‖ ∶ x ∈ 𝐶}. Si ha w𝑛 → 0 e w𝑛 = (𝐼 − 𝜑)(z𝑛 ). Per il lemma precedente, la funzione 𝐼 − 𝜑 è propria. Possiamo quindi applicare la Proposizione 15.76.1 e concludere che la successione (z𝑛 )𝑛 possiede una sottosuccessione 𝑛 (z 𝑘 )𝑘 convergente a un elemento z∗ ∈ 𝐶, dato che 𝐶 è chiuso. Dall’uguaglianza z
𝑛𝑘
= 𝜑(z 𝑘 ) + w 𝑘 , 𝑛
𝑛
passando al limite per 𝑛 → ∞, e tenuto conto della continuità di 𝜑, si conclude z∗ è punto fisso per 𝜑 in 𝐶. Come conseguenza del Teorema di Ascoli-Arzelà 12.108 e di quello del punto fisso di Schauder 15.43, diamo una dimostrazione del Teorema di Peano sull’esistenza di soluzioni locali per il problema di Cauchy. Sia F ∶ 𝐷(⊆ ℝ ×ℝ𝑛 ) → ℝ𝑛 un campo vettoriale dipendente da un parametro reale 𝑡 e sia (𝑡0 , x0 ) ∈ 𝐷. Studiamo il problema di Cauchy: x′ (𝑡) = { x(𝑡0 ) =
F(𝑡, x(𝑡)), x0 .
(𝑃 )
Per soluzione di (𝑃 ) in “senso classico” intenderemo una funzione u ∶ 𝐼 → ℝ𝑛 , con 𝐼 intervallo non degenere contenente 𝑡0 tale che, per ogni 𝑡 ∈ 𝐼, (𝑡, u(𝑡)) ∈ 𝐷, u(𝑡) è derivabile in 𝐼, u(𝑡0 ) = x0 e, per ogni 𝑡 ∈ 𝐼, u′ (𝑡) = F(𝑡, u(𝑡)). Teorema 15.96 (di Peano, 1886). Se il campo vettoriale F è continuo e (𝑡0 , x0 ) ∈ int 𝐷, allora il problema (𝑃 ) ha almeno una soluzione “locale”. Esiste cioè un 𝜀 > 0 tale che il problema (𝑃 ) possiede almeno una soluzione definita in 𝐼𝜀 ∶= [𝑡0 − 𝜀, 𝑡0 + 𝜀].
Dimostrazione. Poiché (𝑡0 , x0 ) ∈ int 𝐷, esistono 𝛼 > 0 e 𝑅 > 0 tali che il compatto 𝐾 ∶= [𝑡0 −𝛼, 𝑡0 +𝛼]×𝐵[x0 , 𝑅] è contenuto in 𝐷. Fissiamo un 𝜀 ∈ ]0, 𝛼]. Si constata facilmente (Esercizio!) che una funzione u ∶ 𝐼𝜀 → ℝ𝑛 e tale che
15.2. Punti fissi in spazi normati
832
u(𝑡) ∈ 𝐵[x0 , 𝑅], ∀𝑡 ∈ 𝐼𝜀 è soluzione di (𝑃 ) se e solo se è continua e verifica l’equazione integrale di Volterra x(𝑡) = x0 +
𝑡
∫ 𝑡0
F(𝑠, x(𝑠)) 𝑑𝑠.
(15.20)
L’equazione (15.20) suggerisce di definire il seguente operatore Φ(u)(𝑡) ∶= x0 +
∫ 𝑡0
𝑡
F(𝑠, u(𝑠)) 𝑑𝑠.
Si tenga presente che, per il momento, non abbiamo discusso per quali u l’operatore è definito. Dato 𝜀 ∈ ]0, 𝛼], consideriamo lo spazio di Banach 𝑋𝜀 definito da 𝑋𝜀 ∶= 𝐶(𝐼𝜀 , ℝ𝑛 ) con la norma dell’estremo superiore e in esso definiamo la palla ℬ𝜀 = ℬ𝜀 [x0 , 𝑅] ∶= {u ∈ 𝑋𝜀 ∶ ‖u(⋅) − x0 ‖∞ ≤ 𝑅} = = {u ∈ 𝑋𝜀 ∶ ‖u(𝑡) − x0 ‖ ≤ 𝑅, ∀𝑡 ∈ 𝐼𝜀 } ,
dove ‖⋅‖ indica la norma euclidea di ℝ𝑛 . Osserviamo che, se u ∈ ℬ𝜀 , allora (𝑡, u(𝑡)) ∈ 𝐼𝜀 × 𝐵[x0 , 𝑅] ⊆ 𝐾 ⊆ 𝐷. Sono perciò definite e risultano continue le funzioni, da 𝐼𝜀 in ℝ𝑛 , 𝑡 ↦ F(𝑡, u(𝑡)) e 𝑡 ↦ Φ(u)(𝑡). Dunque Φ ∶ ℬ𝜀 → 𝑋𝜀 . Verifichiamo ora che l’operatore Φ è compatto, ossia che è continuo e che Φ(ℬ𝜀 ) è relativamente compatto. 𝑗 La continuità di Φ è immediata. Infatti, se la successione (u )𝑗 di ℬ𝜀 converge uniformemente a una funzione u su 𝐼𝜀 , la successione (v )𝑗 , con 𝑗
v ∶= F(⋅, u ) converge uniformemente a v ∶= F(⋅, u) e la successione ( ∫𝑡 v𝑗 )𝑗 0 ⋅ converge uniformemente a ∫𝑡 v. 0 Proviamo la relativa compattezza di Φ(ℬ𝜀 ). Essendo F continua e 𝐾 compatto, esiste 𝑀 ∶= max {‖F(𝑠, z)‖ ∶ (𝑠, z) ∈ 𝐾} . (15.21) 𝑗
𝑗
⋅
Sia ora v ∈ Φ(ℬ𝜀 ). Per il Teorema fondamentale del Calcolo, v è di classe 𝐶 1 , con v′ (𝑡) = F(𝑡, u(𝑡)), per qualche u ∈ ℬ𝜀 . Quindi, per ogni 𝑡 ∈ 𝐼𝜀 è ‖v′ (𝑡)‖ ≤ 𝑀, da cui ‖v′ ‖∞ ≤ 𝑀. Poiché v(𝑡0 ) = x0 , si ottiene anche ‖v‖∞ ≤ ‖x0 ‖ + ‖v′ ‖∞ ⋅ 𝜀 ≤ ‖x0 ‖ + 𝑀𝛼 =∶ 𝑀1 .
Dunque Φ(ℬ𝜀 ) è un sottoinsieme limitato di 𝐶 1 (𝐼𝜀 , ℝ𝑛 ) rispetto alla norma ‖⋅‖∞,1 di 𝐶 1 (cfr. Definizione 12.117). Per il Corollario 12.119, si ha che in effetti Φ(ℬ𝜀 ) è relativamente compatto. Dimostriamo ora che, pur di prendere 𝜀 sufficientemente piccolo, si ha Φ(ℬ𝜀 ) ⊆ ℬ𝜀 . Dati u ∈ ℬ𝜀 e v ∶= Φ(u), si ha v(𝑡) − x0 =
∫ 𝑡0
𝑡
F(𝑡, u(𝑡)) 𝑑𝑡
15.2. Punti fissi in spazi normati
833
e quindi ‖v(𝑡) − x0 ‖ ≤ 𝑀|𝑡 − 𝑡0 | ≤ 𝑀𝜀. Si ottiene ‖v(⋅) − x0 ‖∞ ≤ 𝑀𝜀. Quindi ‖v(⋅) − x0 ‖∞ ≤ 𝑅 se 𝜀 ≤ 𝛿 ∶= 𝑅/𝑀. Quando sia 𝑀 = 0 e quindi F identicamente nullo su 𝐾, non abbiamo bisogno di imporre condizioni. Altrimenti prendiamo un 𝜀 ≤ min{𝛼, 𝛿}. Con tale limitazione, abbiamo Φ(ℬ𝜀 ) ⊆ ℬ𝜀 , con Φ operatore compatto e definito sull’insieme chiuso e convesso ℬ𝜀 . Per il Teorema del punto fisso di Schauder, esiste almeno una soluzione di (15.20) e quindi di (𝑃 ).
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Glossario 𝐴1 , 𝐴2 𝐴(𝜀) AD 𝐴𝑅 ⪰ ⪯
≫ ≪
𝛼𝑋 ℵ0 𝛼(𝐸), 𝛽(𝐸) 𝑎⊤𝑏 𝑎⊥𝑏 ⊤(𝐴) ⊥(𝐴) (𝑎𝑛 )𝑛 (𝑎)𝑛 , 𝑎 ̂ (𝑎𝑛𝑘 )𝑘 𝐵(𝑃0 , 𝑟) 𝐵[𝑃0 , 𝑟] ℬ𝜀 ℬ(𝑥) ℬ(𝑋)
Assiomi di numerabilità 25 𝜀-espansione dell’insieme 𝐴 358 Famiglia di insiemi Almost Disjoint 455 Spazio metrico retratto assoluto 812 Segue, in una relazione d’odine: per esempio, ordine per finezza fra topologie 2 Precede, in una relazione d’odine: per esempio, ordine per finezza fra topologie 2 Fortemente maggiore nell’ordine componente per componente 4 Fortemente minore nell’ordine componente per componente 4, 126 Compattificazione di 𝑋 con un punto 501 Cardinalità dell’insieme ℕ 518 Misura di non compattezza di un insieme 823 Minimo seguente comune di due elementi 5 Massimo precedente comune di due elementi 5 Minimo seguente comune di un insieme 5 Massimo precedente comune di un insieme 5 Successione di termine generale 𝑎𝑛 54 Successione di termine costante 𝑎 54 Sottosuccessione della successione (𝑎𝑛 )𝑛 55 Palla aperta di centro 𝑃0 e raggio 𝑟 5 Palla chiusa di centro 𝑃0 e raggio 𝑟 5 Palla chiusa di centro 𝑥0 e raggio 𝜀 nello spazio 𝐶(𝐼𝜀 , ℝ𝑛 ) 833 Base di intorni del punto 𝑥 9 Unione, al variare di 𝑥 ∈ 𝑋, delle basi di intorni 9 839
840 𝛽𝑋 𝐶(𝐼, ℝ), 𝐶 0 (𝐼, ℝ) 𝐶(𝑋, 𝐼) C(X,Y) 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ) 𝐶 ∞ (𝐼)
𝐶𝑏 (𝐸) = 𝐶 ∗ (𝐸)
𝐶𝑏 (𝐸, 𝑌 ) = 𝐶 ∗ (𝐸, 𝑌 ) 𝐶𝑢 (𝐸)
𝐶𝑝 (𝐸)
𝐶! (𝐸) 𝐶𝑐 (𝑋)
𝐶𝑝∗ (𝑋) 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ) 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼)
𝐶𝑘 (𝑋, 𝑌 ) 𝒞𝐻 (𝑋)
𝔠 𝜒(𝑋) 𝜒(𝑥, 𝑋) 𝑐0
𝑐(𝑋) cl 𝑊 conv 𝐸 𝒟𝜔 𝐸 𝒟𝐸
Compattificazione di Stone–Čech dello spazio 𝑋 509
Insieme delle funzioni continue di 𝐼 in ℝ 98 Insieme delle funzioni continue di 𝑋 in 𝐼 508 Insieme delle funzioni continue da 𝑋 a 𝑌 635 Insieme delle funzioni 𝑘 volte derivabili con continuità sull’intervallo 𝐼 e a valori in ℝ 170 Insieme delle funzioni dell’intervallo 𝐼 in ℝ infinite volte derivabili 214 Insieme dalle funzioni continue e limitate da 𝐸 in ℝ dotato della distanza lagrangiana 110 Insieme dalle funzioni continue e limitate da 𝐸 in 𝑌 dotato della distanza lagrangiana 111 Insieme delle funzioni continue di 𝐸 in ℝ con la topologia della convergenza uniforme 278 Insieme delle funzioni continue di 𝐸 in ℝ con la topologia della convergenza puntuale 278 Insieme delle funzioni continue di 𝐸 in ℝ con la box topology 278 Insieme delle funzioni continue di 𝑋 in ℝ a supporto compatto 488 Insieme delle funzioni continue e limitate da 𝑋 in ℝ con la topologia della convergenza puntuale 602 Insieme delle funzioni continue di 𝑋 in 𝑌 con la topologia della convergenza puntuale 615 Insieme delle funzioni continue di 𝑋 in 𝐼 con la topologia della convergenza puntuale 614 Insieme delle funzioni continue da 𝑋 in 𝑌 dotato della compact–open topology 661 Insieme delle compattificazioni di Hausdorff dello spazio 𝑋 503 Cardinalità dell’insieme ℝ 33 Carattere di uno spazio topologico 𝑋 517 Carattere di uno spazio topologico 𝑋 nel punto 𝑥 517 Spazio normato delle successioni infinitesime 188 Numero di Souslin 616 Chiusura di 𝑊 11 Inviluppo o involucro convesso di 𝐸 208 𝜔-derivato di 𝐸 18 Derivato di 𝐸 18
841 𝒟 𝑐 (𝐸) 𝑑𝑝 (𝑥, 𝑦) 𝑑∞ (𝑥, 𝑦) 𝑑∞ (𝑓 , 𝑔) 𝑑𝑝 (𝑓 , 𝑔) 𝑑(𝑥, 𝐸) 𝑑(𝐴, 𝐵) dim 𝑋 𝑑𝐻 (𝐴, 𝐵) 𝑑(𝑋) diam 𝐸
Insieme dei punti di condensazione di 𝐸 34 Distanza 𝑝-ima in ℝ𝑛 , con 1 ≤ 𝑝 < +∞ 95 Distanza lagrangiana in ℝ𝑛 96 Distanza lagrangiana in 𝐶 0 (𝐼) 98 Distanza 𝑝-ima in 𝐶 0 (𝐼), con 1 ≤ 𝑝 < +∞ 100 Distanza di un punto da un insieme 106 Distanza fra insiemi 106 Dimensione dello spazio vettoriale 𝑉 173 Distanza di Hausdorff 358 Densità dello spazio topologico 𝑋 517 Diametro dell’insieme 𝐸 112
ℱ𝑏 (𝐸) = ℱ𝑏 (𝐸, ℝ) ℱ𝑏 (𝐸, 𝑌 ) 𝐹 ∶𝑋⊸𝑌 fr 𝑊 , 𝜕𝑊 𝑓 ∧𝑔 𝑓 ∨𝑔 ⟨𝑓 , 𝑥⟩ [𝑓 = 𝛼] 𝑓 # (ℱ )
Insieme dato dall’unione numerabile di chiusi 86 Insieme delle funzioni limitate di 𝐸 in ℝ 110 Insieme delle funzioni limitate di 𝐸 in 𝑌 111 Funzione multivoca o multifunzione 405 Frontiera di 𝑊 11 Minimo di due funzioni 45 Massimo di due funzioni 45 Prodotto scalare di dualià 176 Iperpiano di equazione 𝑓 (𝑥) = 𝛼 375 Famiglia degli zero-insiemi le cui controimmagini stanno nello 𝑧-filtro ℱ 541
𝐹𝜎
𝐺𝛿
𝛾1 ♦𝛾2 𝛾−
ℋ (𝑋) int 𝑊 𝐼𝜀
𝐽 ∶ 𝑋 → 𝑋 ∗∗ 𝒦 (𝑋) ker 𝐿 𝐿(𝑆)
Insieme dato dall’intersezione numerabile di aperti 86 Giustapposizione o incollamento di cammini 711 Cammino inverso 711 Insieme dei sottoinsiemi non vuoti, chiusi e limitati dello spazio metrico (𝑋, 𝑑) 359 Interno di 𝑊 11 Intervallo chiuso di centro 𝑡0 e raggio 𝜀 833 Immersione canonica 177 Insieme dei sottoinsiemi non vuoti e compatti dello spazio metrico (𝑋, 𝑑) 360 Nucleo dell’applicazione lineare 𝐿 170 Insieme dei punti limite di una successione 57
842 𝐿(𝑓 , 𝑧) ℒ (𝑋, 𝑌 ) 𝐿𝑝 (𝐼) 𝐿22𝜋 Li Ls
Lip𝐿 (𝑋, 𝑌 ) 𝑙𝑝
𝑙∞ 𝑙2 (𝐽 )
lim inf𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) lim sup𝑥→𝑧 𝑓 (𝑥) lin(𝑉 , 𝑊 ) 𝑀⊥ MAD
𝑀(𝑁1 , … , 𝑁𝑘 , 𝐼1 , … , 𝐼𝑘 ) 𝑀(𝐴, 𝐵) ℕ 𝑁𝐶 (𝑧) ‖𝑓 ‖∞ ‖𝑓 ‖𝑝 ‖𝑓 ‖∞,𝑘 ‖𝐿‖ ‖𝑢‖𝑘 ‖𝑥‖∞ ‖𝑥‖𝑝 𝑛𝑤(𝑋) 𝒫 (𝑋) Per+ 2
Insieme dei limiti della funzione 𝑓 per 𝑥 → 𝑧 70 Insieme delle applicazioni lineari continue di 𝑋 in 𝑌 173 Completamento di (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑝 ) 186 Insieme delle funzioni di 𝐿2 2𝜋-periodiche quasi ovunque 252 Limite inferiore topologico di una successione di insiemi 411 Limite superiore topologico di una successione di insiemi 411 Insieme delle applicazioni lipschitziane di 𝑋 in 𝑌 con costante 𝐿 675 Spazio normato delle successioni 𝑝-sommabili 188 Spazio normato delle successioni limitate 188 Insieme delle successioni generalizzate a quadrato sommabile 269 Minimo limite 74 Massimo limite 74 Insieme delle applicazioni lineari da 𝑉 in 𝑊 167
Sottospazio ortogonale a 𝑀 244 Famiglia di insiemi Maximal Almost Disjoint 455 Insieme delle funzioni in 𝐶(𝑋) tali che 𝑓 (𝑁𝑗 ) ⊆ 𝐼𝑗 , ∀𝑗 630 Insieme delle funzioni in 𝐶(𝑋, 𝑌 ) tali che 𝑓 (𝐴) ⊆ 𝐵 657 ℕ ∪ {∞}, con ∞ ∉ ℕ 57 Cono normale a 𝐶 in 𝑧 784 Norma lagrangiana di 𝑓 in ℱ𝑏 (𝐸) 151 Norma 𝑝-ima in 𝐶 0 (𝐼, ℝ), con 1 ≤ 𝑝 < +∞ 155 Norma di 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ𝑛 ) 676 Norma di un’applicazione lineare continua 173 Norma 𝑘-ima in 𝐶 ∞ (𝐼, ℝ), con 𝑘 ∈ ℕ 214 Norma lagrangiana di 𝑥 in ℝ𝑛 152 Norma 𝑝-ima in ℝ𝑛 , con 1 ≤ 𝑝 < +∞ 152 Network weight dello spazio 𝑋 522
Insieme dei sottoinsiemi di 𝑋 1 Spazio delle sequenze periodiche su due simboli 283
843 Per2
ℙ2 , ℙ2 (ℝ) PIF PPF ⟨𝑥, 𝑦⟩2 ⟨⋅, ⋅⟩ ⟨𝑥, 𝑦⟩𝑀 ℝ ℝ𝐸
𝑆⇻𝑧
̸ 𝑆 →𝑧 𝑆(𝑥0 , 𝑟) Σ+ 2 Σ2 SVT Supp 𝜑 Σ𝑛−1 seqcl 𝐸 sp(𝐸) 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ) 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋 ∗∗ ) 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋)
𝜏− 𝜏+ 𝜏(ℬ(𝑋)), 𝜏(𝒰(𝑋)) 𝜏𝐸 𝑇0 , 𝑇1 , 𝑇2 , 𝑇3 , 𝑇4 𝑇 1 2
2
𝑇5 𝑇 1 3
2
𝜏𝑑 𝜏/∼ 𝕋1 𝕋2
Spazio delle sequenze periodiche su due simboli bi-infinite, ossia indiciate in ℤ 283 Spazio reale proiettivo di dimensione 2 308 Proprietà dell’intersezione finita 336 Proprietà di punto fisso 774 Prodotto scalare euclideo 153 Prodotto scalare 158 Prodotto scalare di ℝ𝑛 ottenuto da quello euclideo mediante la matrice 𝑀 161 Retta ampliata data da ℝ ∪ {−∞, +∞} 77 Insieme delle applicazioni di 𝐸 in ℝ 276
Successione totalmente divergente da un punto 57 Successione divergente da un punto 57 Sfera di centro 𝑥0 e raggio 𝑟 94 Spazio delle sequenze di due simboli 282 Spazio delle sequenze di due simboli bi-infinite, ossia indiciate in ℤ 282 Spazio vettoriale topologico 216 Supporto della funzione 𝑓 403 Simplesso (𝑛 − 1)-dimensionale 785 Chiusura sequenziale di 𝐸 60 Sottospazio generato da 𝐸 148 Topologia debole su 𝑋 373 Topologia debole su 𝑋 ∗ 379 Topologia debole∗ su 𝑋 ∗ 380 Topologie sinistra di Sorgenfrey su ℝ 4 Topologie destra di Sorgenfrey su ℝ 4 Topologia in cui gli intorni sono gli elementi di ℬ(𝑋) o di 𝒰(𝑋) 9 Topologia indotta da 𝜏 sul sottoinsieme 𝐸 19 Assiomi di separazione 26 Assioma di separazione 33 Assioma di separazione 38 Assioma di separazione 86
Topologia ottenuta dalla distanza 𝑑 103 Topologia quoziente di 𝜏 rispetto all’equivalenza ∼ 304 Toro unidimensionale 306 Toro bidimensionale 307
844 𝑇𝐶 (𝑧) 𝜏𝑢 𝜏𝑝 𝜏𝑘 𝜏(𝒜 ) 𝜏𝑒 𝜏𝒫
𝑡(𝑋) 𝑡(𝑥, 𝑋)
𝑈𝑝′ 𝑈 ⊕𝑉 𝑈 (𝑥, 𝜀, 𝐽 ) 𝒰(𝑥0 ) 𝒰(𝑋) 𝜐𝑋
𝑤(𝑋)
(𝑋, 𝜏) (𝑋, 𝑑) 𝑉 ′ = lin(𝑉 , ℝ) 𝑋 ∗ = ℒ (𝑋, ℝ) (𝑋, 𝒫 ) 𝑋 ⨿ 𝑌,𝑋 ⊕ 𝑌 𝑋/∼
𝑋/𝐸
𝑋 ⨿𝑓 𝑋 ′ , 𝑋 ∪ 𝑓 𝑋 ′ 𝑋 ∪𝐴 𝑋 ′ 𝑋 ×𝑍 𝑌 𝑋 ⨿𝑍 𝑌 𝑋 ∗∗ ⌊𝑥⌋ ]𝑥, 𝑦[ [𝑥, 𝑦] 𝑥𝑛 ⇀ 𝑥
Cono tangente (o sottotangente) a 𝐶 in 𝑧 784 Topologia della convergenza uniforme 641 Topologia della convergenza puntuale 641 Compact-open topology 658 Topologia generata dalla famiglia 𝒜 di sottoinsiemi 3 Topologia euclidea 4 Topologia indotta da una famiglia di seminorme 215 Tightness di uno spazio 𝑋 518 Tightness di uno spazio 𝑋 in un punto 𝑥 518
Intorno di 𝑝 privato del punto 18 Somma diretta di due sottospazi vettoriali 198 Base di intorni di 𝑥 in uno spazio seminormato 215 Famiglia degli intorni del punto 𝑥0 7 Unione, al variare di 𝑥 ∈ 𝑋, dei filtri degli intorni 9 Real-compattificazione dello spazio 𝑋 561 Peso dello spazio topologico 𝑋 517
Spazio 𝑋 dotato della topologia 𝜏 1 Spazio 𝑋 dotato della distanza 𝑑 93 Spazio duale algebrico 168 Spazio duale topologico 173 Spazio con una famiglia di seminorme 214 Unione disgiunta o coprodotto di due insiemi 302 Insieme quoziente di 𝑋 rispetto all’equivalenza ∼ 304 Spazio quoziente di 𝑋 ottenuto identificando gli elementi di 𝐸 305 Incollamento di 𝑋 e 𝑌 tramite 𝑓 314 Incollamento di 𝑋 e 𝑌 tramite la funzione 𝑖𝐴 314 Pullback degli spazi topologici 𝑋 e 𝑌 315 Pushout degli spazi topologici 𝑋 e 𝑌 316 Spazio biduale 176 Parte intera del numero reale 𝑥 51 Intervallo aperto di ℝ𝑛 126 Intervallo chiuso di ℝ𝑛 126 𝑥𝑛 converge debolmente a 𝑥 371
845 𝒵 (𝑋) 𝒵 (𝑓 ) 𝒵 [ℱ ]
𝒵 ← [𝒜 ] ZUF ZFP 𝑧̇
Famiglia degli zero-insiemi di 𝑋 450 Zero-insieme della funzione 𝑓 450 Insieme degli zero-insiemi della famiglia ℱ di funzioni continue a valori reali 535 Famiglia delle funzioni continue a valori reali i cui zeri formano insiemi della famiglia 𝒜 535 z-ultrafiltro 537 z-filtro primo 537 Ultrafiltro principale generato da 𝑧 337
Indice analitico
Alexander, 731, 733, 743, 745, 790 Alexandrov, 342, 344, 345, 498, 503, 525, 573 e Hopf, vedi Separazione Aperto, 1, 102 Applicazione, vedi funzione Approssimabilità coi polinomi trigonometrici, 649 con funzioni localmente lipschitziane, 426 di √𝑥 mediante polinomi, 644 per funzioni di due variabili, 649 uniforme, 426 Arco, 690, 703 chiuso, 703 Arens (quadrato di), 84 Arens-Dugundji (teorema di), 492 Arhangel’skiĭ (teorema di), 140, 144 Ascoli-Arzelà (teorema di), 668, 671, 683 Assorbente, 209
categorie di, 193–194, 461–462, 585, 604 cubo di, 695 non Čech-completo, 579 Banach, 149, 177, 194, 200, 369–381, 430, 431, 433, 436–440, 803, 806, 828, 830 Banach-Alaoglu (teorema di), 379 Banach-Steinhaus (teorema di), 204 Barbălat (lemma di), 118 Base di chiusi, 538 di intorni, 9, 103–104 di una topologia, 3 regolare di una topologia, 139 Bessel (disuguaglianza di), 243, 265 𝛽ℕ, 514–517, 520–532, 545 Biduale topologico, 176 Bilanciato, 209 Bing (teorema di), 143 Bohl (teorema di), 774 Bolzano (teorema di), 687, 780 Bolzano-Weierstrass, 128, 130, 175, 324, 326 non sequenzialmente compatto, 330 Borel (teorema di), 331 Borsuk (teorema di), 651
Baire, 113, 193, 194, 461–463, 479, 487, 565–567, 584–589, 591, 595, 598, 604–608, 612, 621–626, 631–633, 642 846
Indice analitico Box topology, 273, 275, 284, 340, 640 Brouwer, 749–750, 771, 820 Buon ordinamento, bene ordinato, 141
𝐶-immersione, 558 𝐶 ∗ -immersione, 511–512 Cammino, 703 chiuso, 703 inverso, 709 Cancellabile, 803 Cantor, 112, 127, 324, 325, 329 insieme di, 22, 24, 367–369 Cantor-Bendixson, 23, 35 Carattere di un punto e di uno spazio, 515 Cauchy, 111, 116, 169, 677 successione di, 108–109, 116, 130 Cauchy-Schwarz (disuguaglianza di), 92, 154, 158 Čech-completezza di 𝐶𝑝 (𝑋), 611 di 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼), 615 Čech-completo, 560–564, 567, 584, 596 implica 𝑘-spazio, 567 implica Baire, 565 in spazi metrici, 580 non 𝐺𝛿 , 562 sottospazi di, 564 Chebyshev (polinomi di), 260 Chiuso, 6, 103 Chiusura, 11–16, 19–21, 61, 103 debole e forte dei convessi, 378 in famiglie localmente finite, 135 sequenziale, 60–61, 66–67, 103 Clopen, 7, 14, 21, 128, 451, 513, 687, 695, 699, 784 Coda di una successione, 55 Cofinito, 6, 10 Combinazione convessa, 207
847 Compact-open topology, 656, 658 Compattezza con gli ultrafiltri, 339 dei sottospazi, 467 del prodotto, 335 in spazi completam. regolari, 550 metrici, 329 normati, 489 sequenziale, 324, 326 teorema di, 334 Compattificazione, 497 con un punto, 16, 498, 502–504 di Alexandrov, vedi compattificazione con un punto di Stone-Čech, 506–542, 546–549 con gli z-ultrafiltri, 532–542 con gli ultrafiltri, 513 per spazi discreti, 512–514 Compattificazioni confronto di, 499–500 equivalenti, 497 omeomorfe non equiv., 497 Compatto, 325 𝐴1 , non metrizzabile, 342–345 implica localmente compatto, 473 non separabile, 342–344 non sequenzialmente compatto, 330 𝑇2 (caratterizzazione), 544 𝑇2 implica Baire, 462 𝑇2 implica normale, 333 𝑇2 non 𝑇5 , 295, 345 𝑇2 non completamente normale, 335 𝑇2 separabile, non metrizzabile, 342 Completa normalità di (ℝ, 𝜏𝑒 ), 38 Completamente Hausdorff, 32, 41, 84, 104 che non separa i punti, 84
Indice analitico non 𝑇3 , 84 Completamente normale, 38, 88–89, 107, 289–293 non perfettamente norm., 89, 342–344 Completamente regolare, 86, 289–293, 444–447, 450, 451, 463, 501, 543 con 𝐶𝑝 (𝑋) non normale, 630 non normale, 451, 455 non real-compatto, 546 Completamento di uno spazio metrico, 119–122 normato, 183 Completezza degli spazi di successioni, 188 dei sottospazi, 118 del prodotto, 287 ∗ ∗ di (𝑌 𝑋 , 𝑑∞ ) e (𝑌 𝑋 , 𝑑∞ ), 641 ∗ di ℱ𝑏 (𝐸) e di 𝐶 (𝐸), 110 di ℝ𝑛 , 130 di ℝ, 109 di (ℝ∞ , 𝑑), 288 Componente connessa, 693 per cammini, 716 Componenti (teorema sulle), 745–748 Connessione (teorema di), 688, 709 Connesso per archi, 703, 709 per cammini, 703, 709, 717 ma non per archi, 704 per insiemi, 685–693, 697–698 ma non per cammini, 705 non localmente conn., 699 per poligonali, 714 Cono, 308 normale, 782 tangente o sottotangente, 782 Continuità dei funzionali lineari, 171 della composta, 45, 117 della distanza, 115 della norma, 157 della restrizione, 47–48
848 delle applicazioni lineari, 168 delle componenti, 129 e chiusura del grafico, 352–355 Continuo, 701 Contrazione, 803, 821 d’insieme, 827 Controimmagine di aperti e chiusi, 43–45 Conumerabile, 6 Convergenza assoluta (teorema di), 186–187 debole, 370 localmente uniforme, 457 puntuale, 253, 274 uniforme, 275, 457, 639 Convesso, 150, 207 Coprodotto, vedi unione disgiunta Darbo, 825, 828 Debolmente compatto in spazi riflessivi, 381 Densità di uno spazio, 515 Denso in 𝑋, 24 Denso in sé, 22–24 Derivato e 𝜔-derivato, 18–19, 22–24 Diametro, 112 Dieudonné (teorema di), 383, 394 Dini (teorema di), 460 Dipendenza continua dai dati iniziali, 677 Disperso, 23 Distanza, 93 composta, 101 𝑑1 , 95, 99 𝑑∞ , 96, 98 𝑑𝑝 , 95, 100 deducibile da una norma, 149 dilatata, 101 discreta, 94 euclidea, 5, 92, 126 fra insiemi, 106, 357 indotta, 105 integrale, 99 lagrangiana, 98, 110
Indice analitico normalizzata, 101 pettine, 97, 129 piano puntato, 98 punto insieme, 106, 115 somma, 100 trasferita per isometria, 97, 119, 123 Distanze confronto di, 105, 124 equivalenti, 105, 127 strettamente equivalenti, 166 Disuguaglianza triangolare, 92 Dowker (teorema di), 422, 425 Duale algebrico, 168 Duale topologico, 173 Dugundji, 492, 809, 812 Eberlein-Smulian (teorema di), 439 Elemento di minima distanza in spazi riflessivi, 430 di minima norma, 234–237 quasi ortogonale, 488 Embedding lemma, 506 𝜀-catena, 702 𝜀-espansione, 357 𝜀-reti, 326 Equivalenza (criterio di), 510 Ereditariamente ....., vedi ..... Esponente coniugato, 152 Estensione di uno spazio topologico, 561 Estremamente sconnesso, 525–527 Estremo superiore, inferiore, 125 Evaluation map, vedi Funzione di valutazione 𝐹𝜎 , 86 Famiglia discreta, 133 localmente finita, 133, 382 (Maximal) Almost Disjoint, 452–455 𝜎-localmente finita, 𝜎-discreta, 133
849 Famiglia di funzioni che separa i punti…, 505 Equicontinue, 670, 680 Equilipschitziane, 673 puntualmente limitata, 204 Fibra di un elemento, 303 Filtro, 8, 338 base o sottobase di, 336 convergente, 339 di Fréchet, 336 dominato da…, 563 libero, 336 Fort (topologia di), 89, 365, 562 Fourier, 237, 243–245, 247, 250, 253 Fréchet, 8, 61–64, 66–68, 103, 229 con unicità del limite non 𝑇2 , 62–64 e assioma 𝐴1 , 62–63 non primo numerabile, 63 Fréchet-𝑇1 (spazio di), 26 Frontiera, 11–15, 19–21, 128 Funzionale debolmente sequenzialm. semicontinuo inferiormente, 440 di Minkowski, vedi gauge lineare, 168 di 𝐶(𝑋), 553 Funzione aperta, 49–51, 54, 194, 289, 301, 309, 349–350 aperta e chiusa, 349–350 aperta non continua, 50 chiusa, 49–51, 54, 301, 309, 349–350 coerciva, 308, 431, 499 compatta, 792, 813, 821 completamente continua, 813 con grafico chiuso, 352–355 condensante, 829 non contrattiva d’insieme, 829 continua, 42–54 con grafico non chiuso, 353
Indice analitico definita su un 𝑘-spazio, 466 definita su un intervallo, 348 di selezione, 413 di valutazione, 505–507, 546–553 non continua, 637 essenzialmente limitata, 177 limitata, 108 lineare continua, 168 lineare non continua, 169 con nucleo chiuso, 170 lipschitziana, 114–115, 117, 157, 424 localmente lipschitziana, 424–427 misurabile, 177 multivoca, vedi Mulltifunzione perfetta, 570–576 propria, 818 quasi limitata, 816 sequenzialmente continua, 64–66 sequenzialmente superiormente [inferiormente] semicontinua, 419 superiormente [inferiormente] semicontinua, 412, 419–431 uniformemente continua, 114–118, 157
𝐺𝛿 , 86 Gauge, 210–212, 223, 374 Gelbaum-Olmsted (esempio di), 787 Giustapposizione, vedi incollamento Gleason (teorema di), 525 Globalmente connesso per cammini/archi, 716 per insiemi, 699 ma non per cammini, 719 Grafico chiuso (teorema del), 197
850 Gram-Schmidt (costruzione di), 236, 255 Haar (ondine di), 262 Hadamard (teorema di), 779, 781 Hahn-Banach (teorema di), 178, 375–376 Hamel (base di), 169, 242, 246 Hausdorff, 26, 28, 57–58, 62, 71, 214, 218, 311, 339, 353, 400, 822 che non separa i punti, 84 distanza di, 357–360, 498 non 𝑘-spazio, 468 Heine (teorema di), 350, 669 Helly (lemma di), 376 Hermite (polinomi di), 257 Hewitt (teorema di), 449, 652 Hilbert, 159, 232–269, 814 base di, 169, 268, 269 cubo di, 277–279, 288, 330, 342, 368, 502 non separabile, 268 separabile, 243–247 Hindman (teorema di), 528 Hjalmar Ekdal (topologia di), 29, 54, 479 Hölder (disuguaglianza di), 153, 155, 177 Identità del parallelogramma, 159 Immersione canonica, 177, 239 nel coprodotto, 301 densa, 497 di uno spazio fattore nel prodotto, 277 di uno spazio metrico in uno normato, 157 Incollamento di cammini, 709 di spazi, 312 Incompletezza di (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑝 ), 185 di (𝑙𝑝 , ‖⋅‖𝑞 ), 191 Interno, 11–13
Indice analitico Intersezione finita (proprietà della), 324, 336–337, 445, 449, 533 Intervallo in ℝ𝑛 , 4, 126 Intorno di un insieme, 28 di un punto, 7–9 privato del punto, 18 Invarianti cardinali, 514–522, 602, 614 Invarianza del dominio (teorema della), 820 Inviluppo convesso, 207–209, 793 Involucro convesso, vedi Inviluppo convesso Iperpiano affine, 374 Isometria, 119, 162 Jackson, 658 Jauge, vedi Gauge Jordan, 729, 751–765 curva di, 729, 765 Jordan-Schoenflies (teorema di), 765
𝑘-spazio, 465–471, 589 è quoziente di localmente compatti, 476 non regolare, 471 sottospazi di, 468 𝑘-spazio non Čech-completo, 579 Kakutani, 437, 801 Klee (teorema di), 808 Klein (bottiglia di), 306 Kolmogorov (spazio di), 26 Krasnosel’skii (teorema di), 821 Kuratowski, 15, 16, 66, 822, 827 Kuratowski-Whyburn (lemma di), 784 𝐿(𝑆) è chiuso, 57 𝐿(𝑓 , 𝑧) è chiuso, 71 Li e Ls negli spazi metrici, 410 sono chiusi, 410
851 Legendre (polinomi di), 256 Lemma diagonale, 68, 670 Leray, 802, 815 Leray-Schauder (teorema di), 815 lim inf, lim sup, vedi Massimo e minimo limite Limitato, 94, 127 in uno SVT, 222 Limite generalizzato di una successione, 532 superiore [inferiore] topologico di una successione di insiemi, 409 Limiti della composta, 72 della restrizione, 72, 73 di una funzione, 70–74, 111 di una successione, 55 in spazi metrici, 356 Lindelöf, 325, 328, 329, 365, 366 completamente regolare è real-compatto, 557 non 𝜎-completo, 579 non 𝐴1 , 365 regolare implica normale, 364, 389 paracompatto, 387 Lipschitz, 114, 173 Localmente compatto, 471 𝐴2 implica paracompatto, 484 denso implica aperto, 478 immagine aperta di, 475 immagine continua non localmente compatta di, 476 implica 𝑘-spazio, 473 implica Baire, 487 implica completamente regolare, 474 in spazi normati, 487 non 𝑇2 , 479 non normale, 474, 475 non paracompatto, 474, 475 sottospazi di, 477
Indice analitico Localmente connesso per archi, 716 per cammini, 716 ma non per archi, 718 per insiemi, 699 ma non per cammini, 719 Maggiorazioni a priori (lemma delle), 815 Magro, 193 Mappa aperta (teorema della), 194 di composizione, 643 esponenziale, 636 Massimo e minimo limite, 74–77, 206, 370, 408–409, 412, 419, 440 Matrice definita positiva, 161 ortogonale, 162 McAuley (topologia di), 146, 393 Mesh, 756 Metacompatto, 490–495 Metrica, vedi distanza Metrico, 93 𝐴𝑅 o retratto assoluto, 811 compatto, 328, 331 è immagine continua dell’insieme di Cantor, 368 è sottoinsieme chiuso di 𝐼 ∞ , 368 completo, 109 è di seconda categoria, 194 non è numerabile, 113 di prima categoria, 193 implica topologico, 102 separabile, 328 implica real-compatto, 556 sequenzialmente compatto, 327, 328 totalmente limitato, 326 uniformemente localmente connesso, 758
852 Metrizzabile, 132–147, 282–286, 293 Metrizzabilità, 226, 229, 279, 433 dei compatti 𝑇2 , 341, 463 dei sequenzialmente compatti, 347 di 𝐶𝑝 (𝑋), 603 Michael, 297, 384, 386, 394, 413–419 Minkowski (disuguaglianza di), 93, 148, 154, 156, 223 Misura di non compattezza, 822 Möbius, 304 Mrówka (topologia di), 451, 465 Muldowney-Willett (lemma di), 787 Mulltifunzione, 403 propria, 403 stretta, 403 superiormente [inferiormente] semicontinua, 404–408, 411 Müntz (teorema di), 648 Nadler (esempio di), 778 Nagata-Smirnov (teorema di), 136, 143 Network, 392–393, 519, 628–630, 634 weight, 519–520 Niemytzki, 33, 37, 39, 455 Non normale meno fine di uno normale, 41 più fine di uno normale, 33, 40 Non regolare che separa i punti, 85 meno fine di uno regolare, 41 più fine di uno regolare, 41 Non sequenziale con 𝑡(𝑋) = ℵ0 , 524 Norma, 148 completa, 149 dedotta da un prodotto scalare, 158–161 degli operatori, 173–175
Indice analitico del grafico, 170 dello spazio prodotto, 196 di 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ𝑛 ), 674 di un’applicazione lineare continua, vedi norma degli operatori dilatata, 152 euclidea, 148 𝑘-ima in 𝐶 ∞ (𝐼, ℝ), 213 lagrangiana, 151, 161 𝑝-ima in 𝐶(𝐼, ℝ), 155, 190 𝑝-ima in ℝ𝑛 , 152, 161 𝑝-ima in 𝑙𝑝 , 190 somma, 152 Normale, 31, 35–36, 38, 40–41, 80–84, 87, 396, 630 è completam. regolare, 86 non paracompatto, 384 Normalità del prodotto di spazi metrici, 396 di (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ) e (ℝ, 𝜏 + ), 36 di 𝐶𝑝 (𝑋), 398 Normato, 148 è localmente convesso, 712 implica metrico, 148 Norme confrontabili, 164 con solo una completa, 202 non equivalenti, 172 equivalenti, 164–167 inconfrontabili, 172 complete, 200–202 con solo una completa, 202 non complete, 193 Nucleo di un funzionale lineare, 171 di un’applicazione lineare, 170 Numerabilità (assiomi di), 25, 663 Numerabilmente compatto, 325–326 𝐴1 , 𝑇2 implica regolare, 333 implica pseudo-compatto, 442 metacompatto implica compatto, 492
853 paracompatto implica compatto, 493 Nussbaum (esempio di), 829 Omeomorfismo, 49–50 di cancellazione, 803 e immagini continue, 51 fra 𝑆 1 e archi chiusi, 728 teorema di, 334, 803, 818, 819, 821 Ondine, 262 Operatore aggiunto, 164 di Kuratowski, vedi Kuratowski (assiomi di) di Niemytzki, 815 Ordinamento di ℝ2 , 4 di ℝ𝑛 , 125 Ortogonale (sottospazio), 242 Ortonormale, 236–237, 241–246, 269, 814 Ovunque non denso, 24, 193 Palla aperta, 5, 94, 210 aperta non regolarmente aperta, 103, 124 chiusa, 5, 94, 210 chiusa non regolarmente chiusa, 103 in spazi normati, 150–151 in spazi seminormati, 210 Paracompattezza è ereditata dagli 𝐹𝜎 , 390 e partizioni dell’unità, 400 ereditarietà, 391 in spazi regolari, 386, 390 Paracompatto, 382–399 pseudocompatto, completam. regolare è compatto, 445 𝑇1 non normale, 402 𝑇1 senza partizioni dell’unità, 402 𝑇2 implica normale, 383
Indice analitico Parseval (identità di), 244, 265 Partizione dell’unità, 399–419 esistenza, 401, 486 localmente lipschitziana, 424 subordinata a un ricoprimento, 400 Peano (teorema di), 831 Perfetta normalità degli spazi metrici, 107 di (ℝ, 𝜏 + ) ed (ℝ, 𝜏 − ), 89 di (ℝ, 𝜏𝑒 ), 88 Perfettamente normale, 87–90, 135, 289, 296, 391, 392 è completamente normale, 88 ereditarietà, 88 non metrizzabile, 144, 146 Perfetto, 22–24, 35 Perron-Frobenius (teorema di), 783 Peso (weight) di uno spazio, 514 Phillips (teorema di), 454 Piano di ....., vedi ..... (topologia di) 𝜋-base, 493, 590 Pitagora (teorema di), 236 Poincaré-Miranda (teorema di), 750, 775 Poligonale, 714 Price (teorema di), 360 Primo numerabile, 25, 62–63 Prodotto di Čech-completi, 578, 590, 595 compatti, 335 completamente normali, 295 completi, 287 connessi, 698, 711 𝑘-spazi, 483 localmente compatti, 480 metacompatti, 490 normali, 294 paracompatti, 387 perfettamente normali, 628 pseudo-completi, 593 real-compatti, 558 semplicemente connessi, 737
854 separabili, 293, 519, 614 sequenzialm. compatti, 363 𝜎-compatti, 577 spazi di Baire, 584–589 un compatto con un metacompatto, 491 paracompatto, 394 pseudo-compatto, 456 un localmente compatto con un 𝑘-spazio, 481 un metrizzabile con un completam. normale, 297 paracompatto, 394 un paracompatto perfettam. norm. con un metrico, 395 un sequenzialm. compatto con un numerab. compatto, 364 uno pseudo-compatto, 456 Prodotto scalare, 157 di dualità, 176 euclideo, 153 in ℝ𝑛 dedotto da quello euclideo, 161 in 𝐶(𝐼, ℝ) e in 𝑙𝑝 , 190 Proiettivo, 307, 524 Proiezione è funzione aperta, 289 in spazi di Banach, 199, 454 negli spazi di Hilbert, 232–236 ortogonale, 236–237 stereografica, 123 Prolungamento dei funzionali lineari continui, 180 delle funzioni continue, 77–83, 507–510 uniformem. continue, 116 delle isometrie, 119 non continuo di 𝑓 , con 𝑥 ∈ 𝐿(𝑓 , 𝑥), ∀𝑥 ∈ 𝐸 ′ ⧵ 𝐸, 78–80 per continuità in un punto, 78 Proprietà universale del completamento, 119
Indice analitico della topologia debole, 271 della topologia finale, 300 di estensione, 507 in 𝐶 ∗ (𝑋), 548 Pseudo-base, vedi 𝜋-base Pseudo-compatto, 441–465, 618 completamente regolare, 449 ereditarietà, 450 implica pseudo-completo, 595 in spazi completam. regolari, 444, 445 metacompatto Tychonoff è compatto, 494 non compatto, 451, 546 non numerabilmente compatto, 446 real-compatto è compatto, 545 Pseudo-completo, 591, 596, 612 non Čech-completo, 595, 621 Pseudodistanza, 94 Pseudometrica, vedi pseudodistanza Pullback, 314 Punto aderente, 11 di accumulazione, di 𝜔-accu-mulazione, 18 di condensazione, 34 di frontiera, 11 esterno, 11 fisso, 749–750, 765, 769, 771–775, 777–780, 792–798, 828, 830 interno, 11 isolato, 9 Pushout, 315 ℚ non è Čech-completo, 564 ℚ non è un 𝐺𝛿 , 113 Quasi-componente, 695 Quasi-regolare, 591 non regolare, 594 Quoziente di 𝑘-spazi, 467 di spazi normali, 311
855 funzione, 302, 308–309 in SVT, 319 in spazi di Banach, 316–318 in spazi di Hilbert, 318–319 in spazi metrici, 319–322 topologia, 302, 311–312 Raffinamento di un ricoprimento, 139, 382 localmente finito, 382 di ricoprimenti 𝜎 localmente finito, 389 preciso, 382 puntualmente finito, 490 Real-compattificazione, 559 Real-compatto, 544, 556–557 in spazi completamente regolari, 552 non Lindelöf, 558 non normale, 557, 558 non paracompatto, 558 Regolare, 31–32, 35, 40–41, 104, 135, 391, 392 𝐴2 implica normale, 35 𝐴2 implica paracompatto, 388 che non separa i punti dai chiusi, 85 Lindelöf è normale, 389 è paracompatto, 387 Regolarità degli spazi metrici, 104 di (ℝ𝑛 , 𝜏𝑒 ), 32 Regolarmente aperto, 17, 103, 124, 127, 150 Regolarmente chiuso, 17, 103, 127, 150, 450 Relativamente compatto, 351, 669 sequenzialm. compatto, 351 Rete di archi, 755 Reticolo delle topologie, 5 Retratto, 734, 736 assoluto, 811 Retrazione, 369, 734
Indice analitico Ricoprimento, 139, 325 irriducibile, 492 Riemann-Lebesgue (lemma di), 254 Riesz (teorema di), 238, 488 Riesz-Fischer (teorema di), 251 Riflessivo, 177, 239, 381, 430, 437–440 Rodrigues (formula di), 257 Rothe (teorema di), 773
𝑆 1 non è un retratto, 736 Sadovskii (teorema di), 830 Schaefer (teorema di), 816 Schauder, 792, 796, 798, 801, 815 Schauder-Tychonoff (teorema di), 796, 798 Schoenflies (teorema di), 763 Schrödinger (equazione di), 259 Secondo numerabile, 25–26, 34–36 implica Lindelöf, 346 implica separabile, 25 𝑇1 implica card 𝑋 ≤ 𝔠, 34 Segmento e retta per due punti, 150 Semicompatto, 495 Semimetrica, 146 Seminorma, 148, 210 Seminormato, 213, 214 implica topologico localmente convesso, 219 non normato, 228 Semplicemente connesso, 733–748 Separabile, 24, 25, 34, 90, 139, 144, 145, 289–293, 328, 329, 436–437 non Lindelöf, 330 Separare i chiusi, 83 i punti, 83–86 i punti dai chiusi, 83 Separati, 37 Separazione assiomi di, 26–41, 86, 662 e unicità del limite, 57–59, 62
856 Sequenze su 2 simboli, 280, 367 Sequenziale, 61–64, 67 ha tightness ℵ0 , 517 non Fréchet, 61 sottospazio, 67 𝑇2 implica 𝑘-spazio, 469 Sequenzialmente aperto, 67 Sequenzialmente chiuso, 60 Sequenzialmente compatto, 324, 327 𝐴2 implica compatto, 346 Serie convergente assolutamente, 186 incondizionatamente, 264 Serie trigonometrica, 247 Sfera, 94 Shannon (ondine di), 262 Sierpinski, 2, 24, 26, 29, 57, 78 𝜎-compatto, 576 Similitudine, 164 Simmetria circolare (insieme a), 209 Simplesso, 783 Sistema di generatori di una topologia, vedi Sottobase Sistemi ortogonali completi, 266 Somma diretta di spazi topologici, vedi unione disgiunta diretta di spazi vettoriali, 198 wedge, 313 Sorgenfrey, 4, 6, 7, 32, 36, 56, 89, 144, 215, 296, 312, 366, 387, 479, 490, 516, 557–558, 579, 595, 630, 663, 695 Sospensione, 308 Sotto-algebra di funzioni, 647 Sottobase di una topologia, 3 Sottoricoprimento, 139, 325 Sottospazio, 37 compatto, 332 non chiuso, 332 metrico, 105 non 𝑇4 di uno spazio 𝑇4 , 37
Indice analitico non normale di uno normale, 502 non separabile di uno separabile, 91 topologico, 19, 90 Sottosuccessione, 55 Souslin (numero di), 614 Spazio (𝐶(𝑋), 𝜏𝑢 ), 651 (𝐶 0 (𝐼), ‖⋅‖𝑝 ), 185 𝐶 𝑘 (𝐼, ℝ𝑛 ), 674 𝐶𝑝 (𝑋), 398, 601–612, 621, 625–629 𝐶𝑝 (𝑋, 𝐼), 612–621, 625 𝐶𝑝 (𝑋, 𝑌 ), 633–635, 637 𝐶𝑝 (𝑋𝜉 ), 604 𝐶𝑢 (𝑋, 𝑌 ), 643 𝑐0 , 187 (𝑙𝑝 , ‖⋅‖𝑞 ), 191 𝐼 𝐼 , 295, 335 𝐼 𝑀 , 617 𝐿𝑝 (𝐼), 177, 186 𝑙∞ , 187 𝑙𝑝 , 187, 190–192, 220 𝑋𝜉 , 604 Spazio metrico, vedi Metrico Spazio normato, vedi Normato Spazio seminormato, vedi Seminormato Spazio topologico, vedi Topologia Spazio vettoriale topologico, vedi vettoriale topologico Spezzamento, 685 Stellato rispetto a un punto, 712 Stone, 141, 294, 383, 396, 513 Stone-Čech, vedi Compattificazione di… Successione, 54 assiomi per la convergenza, 56–57 assolutamente divergente da un punto, 57 convergente, 55, 108 divergente da un punto, 57
857 evanescente di Cantor, 112 generalizzata, 267 limitata, 108 minimizzante, 432 non continua (esempio di), 54 permutazione di, 69 Successioni (incastro di), 55 Supporto di una funzione, 401, 484 Taimanov (teorema di), 509 𝜃-curva (lemma della), 760 Thomas (topologia di), 475 Tietze (teorema di), 82 Tightness, 515, 524 Topologia, 1 ammissibile, 666 di 𝐶(𝑋, 𝑌 ), 635 banale o nulla, 2 debole, 270–299 debole 𝜎(𝑋, 𝑋 ∗ ), 372–373, 381, 431, 437–439 debole 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋 ∗∗ ), 378 debole* 𝜎(𝑋 ∗ , 𝑋), 378–380, 432–436 definita mediante (basi di) intorni, 8–10 del punto escluso, 29, 89, 718 del punto speciale, 39, 91, 441 del semicerchio, 41 dell’estensione aperta, 30, 37 chiusa, 30, 39 conumerabile, 722 discreta, 298 irrazionale discreta, 297, 394 dell’inclinazione irrazionale, 31, 32, 79, 84, 136, 690 dell’intervallo annidato, 39 dell’ordine, 4, 21, 126, 343 delle successioni razionali, 474 di Tychonoff, vedi completamente regolare discreta, 2 euclidea, 4, 5, 10, 25, 32, 36
Indice analitico finale, 270, 299, 300, 302 generata da…, 2–3 indotta da una distanza, 102 indotta da una norma, 149 indotta su un sottoinsieme, vedi topologia subordinata induttiva, vedi topologia finale iniziale, vedi topologia debole proiettiva, vedi topologia debole propria, 667 di 𝐶(𝑋, 𝑌 ), 636 subordinata, 19–22, 37, 90 Topologia prodotto, 129, 196, 214, 272–279, 282–284, 287–298, 335, 339, 363, 394–398, 456–457, 480, 481, 483, 490–492, 519, 527, 558, 568–570, 577–579, 584, 586, 593, 600, 614, 623, 628, 698, 711, 737 Topologie confronto di, 2, 40–41, 43, 105 inconfrontabili, 2 Toro, 304–305 Totalmente sconnesso non totalmente separato, 696 per cammini, 716 per insiemi, 694 Totalmente separato, 695 Tube-lemma, 393 Tychonoff, 31, 86, 335, 339, 340, 364, 474, 795, 796, 798 Ultrafiltro, 336–340, 513, 532–542
858 principale, 336 Unicità del limite, 71 Uniforme limitatezza (principio di), 204 Unione disgiunta, 300–302, 312 Urysohn, 56, 80, 84, 86, 138, 279, 485 Urysohn-𝑇4 (spazio di), 26 Varietà affine, 234 Vedenissoff (teorema di), 88 Versore normale esterno, 356 Vettore normale esterno, 781 Vettori ortogonali, 236 Vettoriale topologico, 214, 215, 229 di dimensione 𝑛, 795 localmente convesso, 214, 221, 226, 600–602, 639, 661 non seminormato, 220 normato, 225 Vietoris (spazio di), 26 Wallace (teorema di), 568 Weierstrass, 46, 130, 175, 187, 335, 420–421, 644 Weierstrass-Stone (teorema di), 646–649, 652–654 Whitehead (lemma di), 481, 483 Young (disuguaglianza di), 152
𝑧-filtro, 533–542 convergente, 536 primo, 535 𝑧-ideale, 533, 535 𝑧-ultrafiltro, 533–542 Zero-dimensionale, 451, 526–527 Zero-insieme, 87, 447, 533