La relatività da Faraday a Einstein 8820122944, 9788820122942


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La relatività da Faraday a Einstein
 8820122944, 9788820122942

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La teoria della relatività viene spesso presentata come il frutto di una crisi della scienza classica. In questo libro invece si sostiene (e si dimostra) che la teoria della rela­ tività è uno sviluppo molto generale delle teorie classiche sui fenomeni elettrici e magnetici. La rivoluzione relati­ vistica, quindi, anziché costituire una frattura rispetto alla fisica classica, è una rivoluzione che inizia nelTOttocento e che ha profonde radici nei mutamenti prodottisi — appunto nell’ottocento — nelle teorie classiche del campo elettromagnetico e nelle geometrie non euclidee. In secondo luogo, si tiene presente che le prime ricerche di Einstein furono rese possibili dagli studi di scienziati come Lorentz e Poincaré sull’elettrodinamica e sui nuovi problemi sollevati dalla necessità di costruire teorie potenti sul moto degli elettroni. La profonda revisione dei concetti fondamentali di spazio, tempo e materia implicata dalla nascita della relatività e la conseguente ristrutturazione delle leggi della meccanica newtoniana sono quindi interpretate come una crescita dell’elettro­ magnetismo classico, e non come una crisi dei fonda­ menti della meccanica di Newton. Enrico Bellone è nato a Tortona nel 1938. Dal 1971 è docente di Storia della Fisica nella facoltà di Scienze dell’università di Genova. Tra le sue opere: / modelli e la concezione del mondo (Milano 1974); Il mondo di carta (Milano 1976); // sogno di Galileo. Oggetti e immagini della ragione (Bologna (~ * "1980). ; ”Fa parte del Comitato di direzione di "Intersezioni. Rivista di storia delle idee".

STORIA DELLA SCIENZA Collana diretta da Paolo Rossi Le teorie scientifiche viste sia nella loro autonomia sia nel rapporto con le metafisiche, con le visioni del mondo, con le "immagini della scienza" presenti in situazioni storico-sociali determinate: una storia della scienza che non si risolve in una pura epistemologia, né si dissolve in una sociologia delle isti­ tuzioni scientifiche. ultimi volumi pubblicati: J. Agrimi - C. Crisciani Malato, medico e medicina nel medioevo F. Abbri Elementi, principi e particelle W. Bernardi Filosofia e scienze della vita

P. Manuli Medicina e antropologia nella tradizione antica M. Parodi Tempo e spazio nel medioevo

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Storia della scienza collana diretta da Paolo Rossi

Enrico Bellone

La relatività da Faraday a Einstein

C btllo fk'fpo ilacrin,vit a potenziarla suggerendole una maggiore flessibilità. Quel dibattito contribuì indubbiamente al diffondersi di idee generali che si rivelarono, sia pure gradualmen­ te, capaci di fornire nuove indicazioni di ricerca. In modo particolare, va qui citata la riflessione sull’azione a distanza e l’azione per contatto, che rappresentò un momento di elevata tensione per la scienza della prima metà dell’ottocento e per la formulazione sempre più precisa della nozione di campo. Nozione, questa, che è fondamentale, sia per capire la necessità di uscire dai programmi codificati entro il modello della Meccanica Celeste, sia per individuare le direttrici teoriche che, molti decenni più tardi, troveranno la loro prima sintesi nella relatività del 1905.

4. — L’azione a distanza stava infatti alla base della soluzione enunciata da Newton (e perfezionata durante il Settecento) a proposito del problema della gravitazio­ ne. Le interazioni fra le masse che ruotavano nell’Universo erano state ricondotte ad azioni che si propagava­ no in uno spazio vuoto, su linee rette e con velocità infinita. Già in Laplace era sorto, come nodo teorico, il problema che consisteva nella possibilità che l’azione gravitazionale percorresse lo spazio con velocità finita. Ma solo dopo il 1820 — e cioè dopo le esperienze di Oersted sui fenomeni elettromagnetici — l’alternativa al modello d’azione a distanza cominciò ad essere for­ mulabile in termini suscettibili di controllo e di misura. Le azioni elettromagnetiche, osservabili in laboratorio, apparivano infatti tali da suggerire modelli alternativi a quello rigidamente newtoniano: esse sembravano pro­ pagarsi nello spazio non lungo linee rette, ma secondo linee variamente incurvate, e non a distanza, ma per contatto.

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Nasceva, proprio per rispondere ai quesiti sollevati dal nuovo campo di fenomeni, una nuova area fisico matematica: l’elettrodinamica. Spettava ad André-Marie Ampère il compito di avviare questo settore di indagini e di formulare considerazioni metodologiche atte a pre­ sentarlo come uno sviluppo lineare della fisica newto­ niana. Nello stesso tempo, tuttavia, l’elettrodinamica si reg­ geva su congetture che la generosità metodologica di Ampère non poteva ricondurre alla tradizione della fisi­ ca settecentesca. L’ipotesi che l’intero settore dei feno­ meni magnetici fosse una conseguenza dell’elettricità si scontrava infatti con le rigide separazioni che in quegli anni ancora esistevano fra teoria dell’elettricità e teoria del magnetismo. Sulla base delle leggi di Coulomb, enunciate sul finire del Settecento, quelle due teorie ve­ nivano infatti intese e sviluppate come dottrine distinte i cui oggetti erano fluidi (elettrici e magnetici) incapaci di interagire fra loro. Ciò spiega, allo storico, il diffuso scetticismo che circondava l’opera di Ampère. E ciò spie­ ga, anche, lo sconcerto che cominciò a circolare nelle comunità scientifiche quando Michael Faraday, portan­ do alle estreme conseguenze alcuni aspetti della teoria di Ampère, attaccò a fondo l’intera fisica dell’azione a distanza. 5. - Faraday, in alcuni decenni di ricerche sperimen­ tali, aveva analizzato una vasta gamma di possibili inte­ razioni tra ‘forze’ o ‘poteri’ di natura diversa: intera­ zioni che erano, almeno in parte, osservabili grazie alla sperimentazione su ‘eventi’ ottici, elettrici, magnetici, termici, chimici, e che andavano a confluire in nuove discipline come 1’elettrochimica o la magnetoottica. Ma il programma faradayano non puntava alla proliferazio­ ne di discipline separate. Al contrario, esso puntava ad una teoria unificata, al cui interno i diversi settori appa-

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rissero come rami distinti di una sola spiegazione gene­ rale. Secondo Faraday, infatti, l’intero Universo era go­ vernato da un solo insieme di leggi fisiche ed era la sede unitaria di processi naturali i quali interagivano inces­ santemente fra loro. Non a caso il grande sperimentato­ re aveva invano tentato di misurare in qualche modo l’interazione tra elettricità e gravitazione, e non a caso l’insuccesso di tali tentativi non gli aveva fatto abban­ donare l’idea che quelle interazioni dovessero comunque esistere. L’Universo faradayano era completamente intercon­ nesso. Lo spazio e il tempo cessavano, in Faraday, di essere i teatri immobili sulle cui scene la natura delle cose si ripeteva, sempre eguale a se stessa, secondo i cicli eterni e immutabili che avevano la loro immagine intuitiva nell’idea che il mondo fosse modellato come un gigantesco orologio cosmico. Lo spazio diventava un innervarsi di linee di forza: diventava uno spazio fisico, ricco di determinazioni, e strutturato da geometrie più intricate di quelle codificate nella fisica dell’azione a di­ stanza e sancite dal pensiero di Immanuel Kant. In que­ sto nuovo spazio fisico dominava la fisica delle intera­ zioni e prendeva forma l’idea generale di campo. E tut­ to ciò, si badi, non riguardava unicamente l’elettroma­ gnetismo, ma investiva il problema stesso della gravita­ zione e i concetti base della teoria del modo. La gravita­ zione, affermava Faraday nel 1857, non poteva più re­ stare ancorata alla tradizionale visione dell’azione a di­ stanza con velocità infinita, ma doveva essere reinter­ pretata sulla base dell’azione trasmessa per contatto, del-­ entro lo spazio fisico, e propagantesi con la velocità del la luce. Si producevano in tal modo nuovi quadri concettuali che coinvolgevano la stessa nozione di tempo. Le misure di tempo, osservava Faraday sempre nel 1857, erano

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fondamentali per capire il significato della gravitazione in rapporto agli altri fenomeni fisici: « L’indagare sul tempo durante il quale si esercitano la forza gravitazio­ nale, quella magnetica o quella elettrica, non è più me­ tafisico che il segnare i tempi indicati dalle lancette di un orologio nel loro movimento ». Nell'accettare di valutare così i rapporti tra fenomeni gravitazionali e fenomeni di campo elettromagnetico si accettava anche di formulare quesiti innovatori. Quali rapporti esistono fra il principio di conservazione del­ l’energia e la gravitazione? Ha senso parlare di gravita­ zione nel caso di una singola massa isolata nell'Univer­ so? È ragionevole cercare la causa della gravitazione in « una qualche condizione ignota dei corpi »? Forse che tale causa risiede nello spazio che circonda le diverse masse? Quali correlazioni esistono tra gravità e inerzia? 6. - I quesiti faradayani sullo spazio fisico erano accompagnati, in altre zone del sapere ottocentesco, dal­ la nascita di nuovi problemi nella geometria. Negli stes­ si anni in cui Ampère creava l’elettrodinamica, Janos Bolyai annunciava la creazione di un nuovo universo a partire da riflessioni sulla geometria euclidea. Negli stessi anni durante i quali William Hamilton rivoluzio­ nava la meccanica analitica dandole una nuova struttura matematica, Nikolaj Lobacevskij sosteneva la tesi di una stretta dipendenza tra leggi della fisica e teoremi della geometria. Nello stesso periodo in cui Faraday par­ lava dei problemi trattati nel precedente paragrafo, Ber­ nhard Riemann discuteva le questioni connesse alle « re­ lazioni metriche dello spazio » e analizzava i rapporti tra conoscenza di connessioni causali tra i fenomeni fisi­ ci e geometria degli spazi dove quei fenomeni erano osservabili e misurabili. E, pochi anni più tardi, Her­ mann von Helmholtz sosteneva, nel 1868, che ogni mi­ sura fatta dall’uomo su oggetti collocati nello spazio

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implicava, oltre alla geometria, anche degli insiemi di considerazioni centrati sulla fisica del movimento. La misura, secondo Helmholtz, non era una pura e sempli­ ce tecnica, ma coinvolgeva insieme fisica e geometria. Poiché gli assiomi della geometria parlano di grandezze, essi non parlano solamente di una « pura teoria dello spazio », ma parlano di operazioni che si reggono su un rapporto strettissimo tra assiomi geometrici e « compor­ tamento meccanico dei corpi rigidi in moto ». La natura di ciò che indichiamo come spazio fisico dovrà allora essere indagata tenendo conto dei progressi nelle geometrie non euclidee. « Immaginiamo — scrive Helmholtz — che esistano esseri dotati di ragione, bi­ dimensionali, viventi e muoventisi sulla superficie d’uno dei nostri corpi solidi. Ammettiamo che essi non possa­ no percepire alcunché fuori di questa superficie, ma che possano percepire in modo simile al nostro entro l’am­ bito della superficie su cui si muovono. Se tali esseri costruissero la loro geometria, attribuirebbero natural­ mente al loro spazio due sole dimensioni ». Ecco, dun­ que, che le nostre rappresentazioni dello spazio cessano di apparire ovviamente vere, per diventare oggetti di riflessione secondo le norme della razionalità. Gli esseri ipotetici di cui parla Helmholtz e che cominciano ad affollare gli scritti di scienziati, filosofi e divulgatori non sono chimere: sono esempi concettuali che debbono aiutare a capire il nesso che esiste tra metrica dello spazio e leggi della fisica, poiché sta cadendo il mito secolare secondo cui la geometria d’Euclide non ha al­ ternative, mentre si profila il nodo teoretico delle con­ nessioni tra spazio, geometria e fisica. « Tutte le misure spaziali — scrive Helmholtz — e perciò, in generale, tutti i concetti di grandezze applicati allo spazio, pre­ suppongono la possibilità del moto di enti spaziali, la cui forma e le cui dimensioni possano essere considerate immutabili nonostante il movimento ».

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Qualora lo spazio ‘reale’ in cui si realizzano i feno­ meni non fosse rigorosamente euclideo, ma fosse sede di mutamenti strutturali rispetto allo spazio di cui parla­ vano Galileo o Newton o Eulero, allora « saremmo co­ stretti [...] a cambiare del tutto il sistema dei nostri principi! meccanici ». Le risposte che la cultura ottocentesca forniva a simi­ li valutazioni non erano omogenee. Diffidenze e perples­ sità si mescolavano a rifiuti e a dure polemiche, poiché l’intera immagine del cosmo veniva messa in dubbio da speculazioni addidate come oziose o eccessivamente astratte, troppo lontane dal mondo dell’esperienza o ad­ dirittura offensive nei confronti della tradizione filoso­ fica. Già nel 1829 un matematico come Gauss aveva scritto al collega Bessel una lettera in cui si faceva cen­ no ai problemi della geometria e dove lo stesso Gauss confessava di non voler pubblicare certi risultati « per­ ché temerei le grida dei Beoti qualora volessi esprimere compiutamente le mie idee ». E nel 1881 Johann Stallo scriveva parole durissime contro i sostenitori delle nuo­ ve geometrie, indicandoli come i seguaci di una setta che voleva abbattere le più salde conoscenze umane. Nelle pagine di Stallo il grandissimo Riemann diventava una persona rozza e ignorante in filosofia, poiché aveva avuto l’ardire di sottoporre all’analisi geometrica le cre­ denze che nessuno, dopo Kant, avrebbe dovuto mettere in dubbio. Né Stallo era solo: scienziati e filosofi che da tempo seguivano le indicazioni dell’empirismo e che non ammettevano una scienza sempre più lontana dai linguaggi quotidiani o dalle intuizioni comuni scendeva­ no numerosi e battaglieri in campo. Lo stesso Ernst Mach doveva accomunare atomi, molecole e spazi pluri­ dimensionali sotto il termine di enti metafisici. Lo spa­ zio ‘reale’ è, per Mach, quello della vista e del tatto. Esso ha tre dimensioni, e « non è ancora esistito un ostetrico che abbia provocato un parto attraverso la

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quarta dimensione ». E, nel 1913, il giudizio machiano avrebbe assunto forme ancor più nette. « Vedo dalle pubblicazioni che mi giungono, e in particolar modo dalla corrispondenza, che mi si considera sempre più il precursore della relatività », osservava Mach. E così pre­ cisava: « Respingo l’attuale teoria della relatività, che a mio avviso sta diventando sempre più dogmatica ». 7. - Ma torniamo a Faraday e al suo programma di unificazione delle scienze fisiche. Nel 1857 James Clerk Maxwell scriveva una lettera a Faraday sui problemi della gravitazione, e ammetteva l’esistenza di gravi diffi­ coltà a proposito della riunificazione dei fenomeni gravi­ tazionali ed elettromagnetici. Pochi anni più tardi, a conclusione di una lunga memoria sulle equazioni del campo elettromagnetico, Maxwell riassumeva le linee lungo le quali si era mosso al fine di ricondurre l’intera­ zione tra le masse ad una analisi delle « linee di forza gravitante nei pressi di due corpi densi ». Come Fara­ day aveva ottenuto un fallimento nella ricerca di intera­ zioni tra elettricità e gravitazione, così Maxwell ammet­ teva la proria incapacità a risolvere il problema di uncampo generale alle cui leggi matematiche obbedissero le masse e le cariche elettriche. Si trattava di una inca­ pacità peculiare. Se infatti si impostava il problema, si incontrava un inammissibile paradosso relativo all’ener­ gia, e Maxwell così scriveva: « non posso proseguire, in questa direzione, nella ricerca della causa della gravita­ zione ». Ma le equazioni di Maxwell erano comunque riuscite a fondere in un solo apparato matematico tutti i feno­ meni dell’ottica e dell’elettromagnetismo. Anche se l’originale programma faradayano veniva ridimensiona­ to, lo sviluppo del sapere scientifico aveva compiuto una svolta irreversibile. Come avrebbe scritto Einstein alcuni decenni più tardi, la teoria maxwelliana del cam-

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po elettromagnetico era una vera e propria rivoluzione nel sapere dell’uomo sul mondo. Si trattava di una rivoluzione che era stata obbligata a lasciare in disparte le questioni gravitazionali a causa di difficoltà che si presentavano come paradossi. Ma, nello stesso tempo, quella rivoluzione, il cui monumen­ to era il trattato sull’elettricità e il magnetismo pubbli­ cato da Maxwell nel 1873, permetteva di porre con maggior chiarezza un quesito fondamentale: quali rap­ porti esistono tra la visione dell’universo codificata dalla meccanica analitica e l’immagine che è invece enunciata dalla teoria di campo elettromagnetico? D’altra parte un simile quesito, proprio in quanto era riferito alla forma generale delle leggi fisiche, non era separato dall’altro quesito che si era andato imponendo con le ricerche in geometria. Nel 1876 il fisico e mate­ matico inglese Peter G. Tait dichiarava la possibilità che il sistema solare, nella sua marcia attraverso lo spa­ zio, penetrasse in zone « dove lo spazio stesso non ha esattamente le stesse proprietà che troviamo qui »: re­ gioni dell’Universo in cui lo spazio « potrebbe avere, nelle tre dimensioni, un qualcosa di analogo alla curva­ tura di uno spazio a due dimensioni — un qualcosa, in effetti, che implichi necessariamente una variazione qua­ dridimensionale di forma in porzioni della materia affin­ ché queste ultime possano adattarsi alla loro nuova col­ locazione ». Ebbene, quale forma dovevano allora avere le leggi della fisica? Rispondeva William K. Clifford, ricordando che gli schemi geometrici usuali, di cui facciamo uso nel descrivere le porzioni a noi note dello spazio, sono sorti da esperienze limitate a piccole regioni dell’Universo. Le leggi della fisica sono legate a questa limitazione, ma non possono rimanere basate sul pregiudizio secondo cui lo schema geometrico euclideo è ovviamente appli­ cabile a tutto lo spazio. Dobbiamo pertanto essere di-

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sposti, secondo Clifford, a valutare scientificamente la possibilità che i fenomeni fisici, solitamente attribuiti a cause fisiche come la luce, il magnetismo o il calore, siano invece gli effetti osservabili di variazioni nella cur­ vatura dello spazio: è dunque lecita l’ipotesi secondo cui ciò che noi chiamiamo ‘moto della materia’ sia una variazione della curvatura dello spazio reale. 8. - L’intricata situazione teorica che si stava gra­ dualmente formando nelle scienze fisiche e nelle raffigu­ razioni del cosmo contribuiva a porre sempre più in primo piano l’importanza delle misure della velocità del­ la luce. La velocità della luce era un parametro basilare per la teoria di campo, mentre non svolgeva un ruolo preciso nella teoria del moto. Nella voce « Etere » dell’Enciclopedia Britannica la questione era così impostata da Maxwell: « Se fosse possibile misurare la velocità della luce osservando il tempo che essa impiega per viag­ giare tra due stazioni sulla superficie della Terra, allora potremmo, confrontando le velocità osservate in dire­ zioni opposte, determinare la velocità dell’etere rispetto a queste stazioni terrestri ». Quali ostacoli dovevano essere superati per realizzare una simile misurazione, che sembrava concettualmente così semplice? In una lettera a un collega — lettera che venne pubblicata sulla rivista « Nature » nel 1880 (e cioè l’anno successivo alla morte di Maxwell e alla na­ scita di Einstein) — Maxwell sottolineava che l’effetto da misurare dipendeva dal quadrato del rapporto tra la velocità della Terra e la velocità della luce: « un valore troppo piccolo per poter essere osservato », commen­ tava il nostro autore. Eppure, malgrado l’effetto fosse veramente così pic­ colo da sfuggire ai metodi sperimentali usuali, esisteva la possibilità di misurarlo. Fu questa la conclusione a cui giunse immediatamente Albert Abraham Michelson,

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uno specialista di dispositivi ottici nato in Europa ed emigrato con la famiglia negli Stati Uniti. Pochi mesi dopo la pubblicazione della lettera di Maxwell, Michelson dava alle stampe una comunicazione dove si descri­ veva un apparato interferometrico capace di osservare l’effetto maxwelliano, si elaborava una semplice argo­ mentazione matematica su quell’effetto e si presentava­ no i risultati dell’esperimento. Il lato sconcertante dell’intera vicenda era il seguen­ te: la teoria permetteva di prevedere il valore da osser­ vare, l’apparato sperimentale era in grado di renderlo osservabile, ma l’esperimento era negativo. Quali conclusioni si potevano trarre da tutto ciò, una volta eseguiti i controlli che erano necessari al fine di eliminare eventuali errori d’osservazione? La conclusione suggerita da Michelson era netta: il risultato negativo dell’esperimento era contraddittorio rispetto all’ipotesi « che la Terra si muova attraverso l’etere e che quest’ultimo rimanga in quiete ». Questa semplice proposizione apriva il varco a nuove anomalie, poiché il suo significato rinviava direttamente allo sviluppo di conoscenze fisiche sull’etere e alla cre­ dibilità eli alcune ipotesi generalissime. 9. - Per capire la portata dell’esperimento di Michelson occorre tornare al Settecento e ricostruire, sia pure per cenni, la mappa dei fatti, delle ipotesi e delle teorie aventi come oggetto il movimento della luce nello spazio e attraverso i corpi. Nei primi decenni del Sette­ cento l’ottica si reggeva sulle teorie di Newton o di Huyghens e doveva risolvere il problema, apparente­ mente semplice, costituito dal fatto che la luce si propa­ ga nello spazio con velocità finita e che anche ogni os­ servatore terrestre si muove nello spazio con velocità finita. Quel problema assumeva un rilievo particolare nel campo delle osservazioni astronomiche. Di ciò era

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consapevole James Bradley, professore di astronomia a Oxford e buon seguace della fisica newtoniana. Egli die­ de rilievo ad una questione che era direttamente legata alla sua attività di astronomo: si trattava, in poche pa­ role, di trovare una corretta angolazione per i telescopi con cui osservare le stelle. Bradley prestò molta attenzione alle difficoltà che sor­ gevano in quell’operazione e tentò di individuarne le cause. Dopo aver messo alla prova diverse congetture, egli giunse alla conclusione secondo cui quelle difficoltà, al cui complesso si dà il nome di ‘aberrazione astrono­ mica’, erano provocate da una combinazione tra il moto della luce proveniente dalle stelle osservate e il moto della Terra attorno al Sole. La spiegazione dell’aberrazione e di altri fenomeni ottici complessi richiedeva a sua volta una teoria, e quest’ultima implicava l’esistenza di un mezzo al cui inter­ no le onde luminose potessero propagarsi. Tale mezzo, noto come etere luminifero, doveva godere di proprietà molto peculiari, in quanto consentiva la propagazione della luce a velocità elevatissima e poteva essere attra­ versato da grandi masse planetarie e stellari senza es­ serne lacerato o comunque perturbato gravemente. Nel 1804 lo scienziato Thomas Young così parlava di que­ sto mezzo: « Sono incline a credere che l’etere lumini­ fero pervade la sostanza di tutti i corpi materiali, attra­ verso i quali passa con resistenza minima o nulla, con la stessa libertà con cui, forse, il vento passa attraverso una foresta d’alberi ». Non si deve credere che simili descrizioni dell’etere fossero sufficienti a fondare una corretta teoria ondula­ toria della luce. Questa teoria presentava problemi la cui soluzione implicava una sofisticata elaborazione ma­ tematica dell’etere. E quest’ultima aveva, come base, congetture relative al comportamento dell’etere stesso attraversato dalla Terra nel suo moto attorno al Sole.

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Due ipotesi principali erano state enunciate. Nel 1818 Fresnel aveva suggerito che l’etere fosse in grado di passare liberamente attraverso la massa terrestre, e che quest’ultima gli comunicasse solo una minima frazione della velocità orbitale. Nel 1845, George Gabriel Stokes aveva invece sostenuto la congettura secondo cui « la Terra e i pianeti trasportano con sé una porzione d’etere, di modo che l’etere stesso, vicino alla loro su­ perficie, sia in quiete relativamente a quest’ultima ». Ad una certa distanza dai pianeti, sosteneva Stokes, l’etere era in quiete assoluta nello spazio. Ci si rende ora conto dell’importanza della conclusio­ ne negativa dell’esperimento eseguito nel 1881 da Michelson. Esso sollevava dubbi legittimi sulla possibilità che l’etere fosse in quiete rispetto al moto della Terra. Qual’era, allora, la velocità della Terra rispetto al mezzo che permetteva la propagazione della luce e, quindi, del­ le onde elettromagnetiche in generale? La domanda, così formulata, appartiene al passato. Essa infatti cessa di essere significativa se si elimina il postulato dell’esistenza dell’etere. Ma lo svanire di quel postulato poteva realizzarsi solo a condizione di ristrut­ turare tutta la fisica: e furono necessari molti anni pri­ ma che si giungesse ad una conclusione di tale portata.

10. — La vicenda complessiva della fisica pre-relativistica è esemplare, poiché essa ci mostra come sia lento nel tempo il muoversi dei disegni della ragione e come siano intricate le fasi di maturazione di processi che terminano poi in svolte rivoluzionarie. Essa ci mostra anche che le svolte non sono eventi rapidi di frattura del processo storico, ma conclusioni inevitabili, anche se ricche di aspetti non attesi, di quello stesso processo. S’è visto, sino ad ora, come su vari fronti accadessero mutamenti: possiamo giudicarne la portata e prepararci ad esaminarne le tappe successive, e cioè le tappe attra-

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verso cui quei mutamenti andranno a confluire in un disegno unico.

11. - La prima edizione della fondamentale opera di Mach intitolata La meccanica nel suo sviluppo stori­ co-critico appare nel 1883, poco dopo il primo esperi­ mento di Michelson. L’intento di Mach è quello di eli­ minare dalla scienza fisica le « oscurità metafisiche » che rendono oramai incerte le fondazioni della meccanica. Un intento che era comune a molti studiosi ottocente­ schi, sin dai tempi in cui Lazare Carnot, nei Principes fondamentaux de l’équilibre et du mouvement del 1803, aveva denunciato l’oscura nozione metafisica di forza. Nel 1876 le celebri Lezioni di meccanica di Gu­ stav Kirchhoff avevano programmato la riduzione della teoria del moto a descrizione di fenomeni, ed avevano respinto la tesi secondo cui la meccanica doveva essere una spiegazione delle cause del movimento. Ma la vi­ sione di Kirchhoff, fondata sui concetti di spazio, tempo e materia, accettava che la nozione di massa fosse intui­ tivamente data. Mach, nel 1883, prese le distanze da tale visione. Secondo Mach era necessario formulare il significato di ‘massa* sulla sola base dell’esperienza, ab­ bandonando ogni immagine intuitiva che legasse il ter­ mine ‘massa’ alla nozione vaga di ‘quantità di materia’. Con Mach la massa di un corpo diventa un numero, e cioè un ben definito rapporto tra accelerazioni. « Il no­ stro concetto di massa — scrive Mach — non deriva da alcuna teoria. Esso contiene soltanto la precisa determi­ nazione, designazione e definizione di un fatto ». E il terreno dei cosiddetti ‘fatti’ è quello che Mach indica al fine di ridefinire l’intero apparato concettuale della fisica del moto. Così, « se si resta sul terreno dei fatti non si conosce altro che spazi e moti relativi ». Dopo aver criticato i concetti assoluti su cui si regge l’immagine newtoniana del mondo, Mach invita gli

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scienziati a cercare di conoscere « le relazioni immedia­ te, cioè i rapporti tra le masse dell’universo ». In parti­ colare lo scienziato dovrà lavorare per enunciare « un principio dal quale derivino insieme i moti accelerati e i moti inerziali ». È questa la catena di ragionamenti che ha fatto so­ stenere, da più parti, la tesi secondo cui Mach fu un precursore della relatività. Ebbene, è fuori discussione il peso che l’argomentazione machiana esercitò tra la fine dell’ottocento e i primi anni del Novecento. Ma è al­ trettanto degno di interesse il fatto che Mach respinse, come già ho ricordato, la teoria di Einstein, giudicando­ la dogmatica e concedendole unicamente il pregio di portare a risultati interessanti dal punto di vista mate­ matico. Da un lato Einstein scrisse, nel 1918, che si doveva parlare, in relatività, di un principio di Mach generalizzato « secondo il quale l’inerzia è riducibile a interazione fra i corpi ». Dall’altro lato, tuttavia, lo stes­ so Einstein sottopose a critiche molto severe la filosofia machiana. I dati che occorre tenere presenti per avviare una prima analisi del tortuoso rapporto tra Mach ed Ein­ stein sono almeno due. In primo luogo, Mach giudicava dogmatica la teoria di Einstein poiché essa, mentre ac­ cettava di eliminare i concetti assoluti di spazio e di tempo, introduceva il riferimento spazio-temporale co­ me un nuovo assoluto. In secondo luogo, Einstein so­ steneva che lo schema matematico del campo gravita­ zionale non nasceva affatto da dati empirici, ma da svi­ luppi teorici: e, in questo senso, la fisica relativistica era lontana da quel « terreno dei fatti » a cui faceva costante appello la filosofia machiana, che vedeva nel­ l’esperienza la fonte privilegiata del sapere. Tenendo conto di questi dati è possibile individuare il contesto della divergenze tra la meccanica di Mach e la fisica di Einstein: secondo Mach la matematizzazione

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derla fisica ha valore in quanto economizza il sapere permettendo di semplificare la descrizione dei fatti em­ pirici, secondo Einstein la matematizzazione della fisica riflette in sé le effettive strutture del reale; nel primo caso, « la matematica può essere definita come una eco­ nomia del contare », mentre, nel secondo caso, l’astra­ zione matematizzante è conoscenza piena. Forse, per chiarire questo aspetto, è opportuno rifarci ad ima dichiarazione di Einstein: Mach « non mise nel­ la giusta luce la natura essenzialmente costruttiva e spe­ culativa del pensiero, e più particolarmente del pensiero scientifico; condannò quindi la teoria proprio in quei punti in cui il suo carattere costruttivo-speculativo ap­ pare manifesto ». E questa, si noti, è una affermazione che permette altresì di cogliere un altro aspetto della relatività sul quale lo stesso Einstein insisteva. Da que­ sto punto di vista, infatti, non ha un senso molto preci­ so contrapporre la fisica del xx secolo alla fisica cosid­ detta ‘classica*: a tutti gli effetti la relatività è la figlia legittima della fisica di Maxwell e di Lorentz.

12. - L’esperimento di Michelson del 1881 aveva messo in discussione, come si è visto, l’ipotesi sull’etere stazionario, e non il postulato generale sull’esistenza del­ l’etere. L’attendibilità dei dati sperimentali di Michel­ son era tuttavia stata scossa da una critica teorica for­ mulata da Lorentz, al quale non era sfuggito un errore nella trattazione formale presente nell’articolo del 1881. In una seconda memoria, pubblicata nel 1887, Michel­ son, insieme a Edward Williams Morley, rispondeva al­ le critiche di Lorentz superandole da due punti di vista. Da un lato, accettando la parte matematica della critica, e, dall’altro lato, utilizzando apparati sperimentali mol­ to più sensibili e precisi di quello utilizzato nel primo esperimento, Michelson e Morley scrivevano: « Si è de­ ciso di ripetere l’esperimento con modifiche tali da assi­

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curare un risultato teorico il cui valore numerico sia talmente elevato da non poter essere mascherato da er­ rori sperimentali ». Anche il secondo esperimento, tuttavia, forniva risul­ tati fortemente problematici. L’interpretazione offerta da Michelson e Morley puntava su tre argomenti. Pri­ mo: « se esiste un qualche moto relativo fra la Terra e l’etere lumifero, allora esso deve essere molto piccolo; talmente piccolo da farci rifiutare la spiegazione dell’a­ berrazione data da Fresnel ». Secondo: l’esito sperimen­ tale è tale da confutare la variante suggerita nel 1845 da Stokes. Terzo: va altresì respinta l’ipotesi alternativa propugnata da Lorentz, nella quale si cerca di far coe­ sistere una parte delle idee di Fresnel e una parte di quelle di Stokes. Nessuna ipotesi, insomma, è utile al fine di capire per quali ragioni un effetto piccolo ma osservabile sfugge sistematicamente alla pratica speri­ mentale. 13. - Sembrava esistere una sola via d’uscita, e cioè quella di ricorrere a congetture del tutto straordinarie. In una lettera del 1889 alla rivista « Science » — lette­ ra che comunque non sollevò interessi — George Fran­ cis Fitzgerald propose di riconciliare teoria ed esperien­ za supponendo « che la lunghezza dei corpi materiali varia, mentre essi si muovono nell’etere, per una quan­ tità che dipende dal quadrato del rapporto tra la loro velocità e quella della luce ». Indipendentemente da Fit­ zgerald, una ipotesi analoga veniva enunciata da Lorentz. Lo stesso Lorentz, riprendendo l’argomen­ to nel 1895, definiva quell’ipotesi come « sorprenden­ te » a prima vista, ma ne difendeva il contenuto sostan­ ziale e ne ribadiva i termini: « il moto di un corpo solido attraverso l’etere in quiete esercita sulle dimen­ sioni di quel corpo una influenza che varia in funzione

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dell’orientamento del corpo stesso rispetto alla direzio­ ne del moto ». 14. - L’ipotesi della contrazione dei corpi salvava i fenomeni. Ma aveva conseguenze fortissime sull’intero tessuto della teoria elettrodinamica, nel senso che quest’ultima non poteva accogliere la nuova congettura sen­ za subire profonde revisioni. Consapevole di questi rivolgimenti, Kelvin, nel 1890, già aveva osservato che « la triplice alleanza fra l’etere, l’elettricità e la materia ponderabile è un risultato della nostra mancanza di conoscenze e di capacità ad immagi­ nare quanto è contenuto al di là dell’attuale e limitato orizzonte delle scienze fisiche, piuttosto che una realtà della natura ». E, nel 1895, Henri Poincaré richiamava la comunità scientifica a tenere ben presente « la folla di fatti » che da più parti, ormai, premeva contro i confini di ima scienza che ancora tentava di reggersi sull’ipotesi di un moto assoluto della materia nell’etere. La nuova elettrodinamica dei corpi in moto, capolavoro di Lo­ rentz, risolveva molti problemi, ma ne creava in numero ancor maggiore: e questi ultimi erano tali da investire tutta la scienza fisica.

15. — La « triplice alleanza » denunciata da Kelvin nel 1890 risultava ancor più debole nel 1900. Lo stesso Kelvin, che la comunità scientifica onorava ormai come ‘un secondo Newton’, indicava (proprio nel 1900) le due fonti da cui, a suo avviso, emergevano le nubi che oscu­ ravano le scienze fisiche: le teorie di Maxwell e Boltzmann sul moto molecolare e le difficoltà sorte in rap­ porto alle ipotesi di Young e Fresnel sull’etere. Il « bril­ lante suggerimento » di Fitzgerald e di Lorentz a propo­ sito della contrazione degli oggetti in moto non appari­ va, secondo Kelvin, sufficiente a risolvere il dilemma provocato dagli esperimenti di Michelson e Morley.

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16. - L’elettrodinamica dei corpi in moto sembrava comunque essere il programma da seguire per allontana­ re le nubi kelviniane. I lavori di Larmor, Lorentz e Poincaré davano risultati positivi, partendo dalle equa­ zioni di Maxwell e Hertz per il campo elettromagnetico e saldandole alla dinamica della nuova particella scoper­ ta da J. J. Thomson nel 1897: l’elettrone, o atomo di elettricità, che appariva come il costituente fondamenta­ le e ultimo della struttura della materia. Va subito detto, in proposito, che la teoria dell’elet­ trone e dell’interazione classica tra etere e materia por­ tò, nel volgere di pochi anni, a grandi conquiste: l’enun­ ciato di un primo principio di relatività, l’elaborazione di strutture matematiche essenziali per la relatività di Einstein, l’individuazione di nodi teorici non solubili se non grazie a svolte di tipo radicale, la riflessione sul ruolo della velocità della luce nella regolamentazione del problema della simultaneità, la connessione intima tra leggi della meccanica e leggi di campo elettromagne­ tico in rapporto al movimento di particelle elettricamen­ te cariche, l’opportunità — come scriveva Poincaré — di « modificare profondamente tutte le nostre idee sul­ l’elettrodinamica », la nozione di ‘tempo locale’ svilup­ pata da Lorentz, la necessità — ribadita da Poincaré — di non cedere alla tentazione di salvare il salvabile me­ diante la proliferazione di ipotesi ad hoc. Un notevole passo fu compiuto nel 1904 da Lorentz. Egli, accettando molti suggerimenti di Poincaré, genera­ lizzò ulteriormente l’elettrodinamica dei corpi in moto, in modo tale che le azioni elettromagnetiche fossero « del tutto indipendenti dal moto del sistema ». La base di tale generalizzazione era fornita dalle equazioni di Maxwell: ma come dovevano essere scritte quelle equa­ zioni in rapporto a sistemi di riferimento in moto? Lorentz rispondeva a questa domanda prendendo in considerazione un particolare mutamento delle coordi-

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nate spaziali e temporali che doveva consentire di ren­ dere le equazioni maxwelliane indipendenti dal moto del sistema. Come osservava Poincaré, in un articolo pressoché contemporaneo alla celebre memoria einsteniana nel 1905, le trasformazioni di Lorentz erano le sole che permettevano di conciliare la teoria dell’elet­ trone con « il postulato della completa impossibilità di determinare il moto assoluto ». Poincaré insisteva giustamente sulla generalità della nuova teoria di Lorentz. In essa, scriveva Poincaré, si ottiene finalmente « che tutte le forze, quale ne sia l’origine, si comportino, nel caso di traslazioni, nella stessa maniera che caratterizza le forze elettromagneti­ che ». Il che riconduceva alla ragione quella « folla di fatti » che da anni resisteva tenacemente, e apriva la possibilità di affrontare su nuove basi l’ormai antico pro­ blema generale della propagazione dell’azione grativazionale con velocità finita. Qualche anno più tardi, quando ormai le prime me­ morie di Einstein erano state pubblicate, Poincaré rias­ sumeva la situazione scrivendo quanto segue: « I prin­ cipi generali della dinamica, che dopo Newton sono serviti come fondamento della scienza fisica e che appa­ rivano come incrollabili, sono forse sul punto di essere abbandonati o, per lo meno, di essere profondamente modificati? Ecco la domanda che, da alcuni anni, molte persone si pongono ». Ma la risposta era già stata data. Nello stesso anno 1908 in cui Poincaré poneva il quesi­ to, H. Minkowski leggeva, di fronte all’assemblea degli scienziati tedeschi riunita a Colonia, il testo di una sua conferenza dedicata ai primi lavori di Einstein. « Lo spazio di per se stesso e il tempo di per se stesso — diceva Minkowski — sono condannati a svanire come pure ombre, e solo una specie di unione dei due conti­ nuerà a mantenere una realtà indipendente ».

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17. - Le trame lente e pazienti della ragione si era­ no ormai riannodate, dopo cent’anni di travagli, e programma di Faraday era giunto in porto, anche se la teoria unificata che cominciava a delinearsi con Einstein e Minkoswski era tanto lontana dai progetti di Mossotti o di Faraday o di Hamilton. Le ricerche di Larmor, Lorentz e Poincaré erano sfociate al di là di quanto fosse sospettabile: l’intera concezione del mondo fisico stava ormai rapidamente e profondamente mutando, spinta dalle necessità della matematica e della geome­ tria. Per recuperare completamente la teoria di campo elettromagnetico, Einstein aveva dovuto rivisitare la meccanica e piegarla a nuovi vincoli formali. I concetti secolari di spazio e di tempo saltavano: la ragione clas­ sica dell’ottocento, dopo una lunga gestazione, aveva dato alla luce una rivoluzione copernicana. Ancora una volta il senso comune e le intuizioni quotidiane, unite ai dogmi dell’empirismo più ingenuo o radicale, erano stati sconfitti da teorie audaci e coerenti, sorrette da un pen­ siero matematico e fisico che — come già pensava Gali­ leo — si muove violando ‘il senso’ e cogliendo ‘il reale’ dietro le apparenze. Naturalmente ‘il reale’ che usciva dal lavoro di Einstein era diverso da quello che Galileo aveva intravisto nel libro della natura: le trame lente e pazienti che si erano snodate nei decenni della scienza ‘classica’ andavano a costituire delle forme di spiegazio­ ne ben più complesse di quelle galileiane, rivelando un cosmo la cui immagine, per poter essere descritta, ri­ chiedeva livelli profondissimi di astrazione. In tale situazione, le raffigurazioni della scienza che erano state tracciate in libri famosi apparivano, di col­ po, insufficienti e lacunose. Le pretese normative della filosofia diventavano unilaterali, mentre cadevano le im­ magini dell’impresa scientifica che un certo positivismo aveva strutturato nella seconda metà dell’ottocento. Sorgeva nuovamente la tentazione di regolare i conti

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con il nuovo che irrompeva, e di regolarli negando a ciò che era nuovo i segni della ragione: nel 1913 Ernst Mach accusava la relatività di ‘dogmatismo’ e, nel 1914, Pierre Duhem definiva la nuova fisica « una corsa sfre­ nata e disordinata » che « ha sbaragliato il campo delle teorie fisiche e ne ha fatto un vero caos, dove la logica non ha più voce in capitolo e il buon senso sfugge spa­ ventato ».

18. — È impossibile, nel rileggere oggi la memoria di Einstein del 1905 sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, sfuggire alla sensazione di trovarsi di fronte a pagine classiche per la vicenda del sapere. Con un linguaggio di grande semplicità, Albert Einstein porta il lettore a ricostruire un groviglio di problemi e a ritesse­ re la trama delle difficoltà createsi in decenni di ricerca. Il nodo della questione sta, scrive Einstein, nella « in­ sufficiente considerazione » prestata ad alcune circostan­ ze di fondo. In primo luogo non ci si è sufficientemente interroga­ ti a proposito di determinate mancanze di simmetria che sono presenti non appena si applica la teoria di Max­ well a fenomeni elettromagnetici elementari, quali quel­ li che sono basati sul moto relativo tra un magnete e un conduttore. Queste asimmetrie, unite ai risultati negati­ vi delle esperienze eseguite per misurare il moto della Terra rispetto all’etere, « suggeriscono — scrive Ein­ stein — che i fenomeni dell’elettrodinamica e quelli del­ la meccanica non possiedano alcuna proprietà corrispon­ dente alla nozione di quiete assoluta ». Si tratta di un suggerimento che può tradursi immediatamente in un postulato — il principio di relatività — il quale afferma che « le stesse leggi dell’elettrodinamica e dell’ottica do­ vranno essere valide per tutti quei sistemi di riferimen­ to per i quali valgono le equazioni della meccanica ». In secondo luogo va affrontato alla radice il problema

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della velocità della luce. Einstein propone di risolverlo mediante un secondo postulato: « la luce si propaga sempre nello spazio vuoto con una velocità definita c che è indipendente dallo stato di moto del corpo che la emette ». Questi due postulati, come scrive Einstein, possono anche apparire come reciprocamente incompatibili. Ma la loro unione consente di giungere « ad una teoria sem­ plice e consistente dell’elettrodinamica dei corpi in mo­ to basata sulla teoria di Maxwell per i corpi stazio­ nari ».

19. - La scelta è fatta: la teoria ‘classica’ maxwelliana è la base della nuova fisica. Ma questo implica, secondo la direttrice di ricerca contenuta nel principio di relatività, che si intervenga anche sulla meccanica. Qui l’intervento prende le mosse dalle nozioni elemen­ tari della cinematica del corpo rigido, quel corpo rigido che già aveva occupato un posto critico nelle riflessioni sulle geometrie non euclidee e nella considerazione dei possibili rapporti tra metrica dello spazio e misure fisi­ che. Scrive Einstein: « La teoria da sviluppare si basa — come ogni forma di elettrodinamica — sulla cinema­ tica del corpo rigido, poiché le asserzioni di ogni teoria del genere hanno a che fare con le relazioni tra corpi rigidi (sistemi di coordinate), orologi e processi elettro­ magnetici ». Ed è proprio questo il luogo ove crescono le difficoltà che da anni, ormai, ostacolano la crescita della fisica: il luogo al quale, come già ho ricordato, Einstein dice che si è dedicata una « insufficiente considerazione ». L’in­ dagine fisica, nell’attaccare quel luogo, deve rimettere in discussione la nozione stessa di movimento di un punto materiale, inteso come moto dove i valori delle coordi­ nate spaziali sono funzioni del tempo. Ebbene, qual è il significato della parola ‘tempo’?

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L’individuazione di tale significato, scrive Einstein, di­ pende nella sostanza da ciò: che « dobbiamo tener con­ to del fatto che tutti i nostri giudizi in cui il tempo gioca un ruolo sono sempre giudizi su eventi simulta­ nei ». Ciò significa che nulla vi è di naturale o di ovvio nelle operazioni che solitamente compiano quando vo­ gliamo « connettere nel tempo delle serie di eventi che accadano in luoghi diversi fra loro » — oppure, il che è lo stesso, « quando dobbiamo valutare i tempi di eventi che accadono in luoghi lontani rispetto all’orologio » di cui disponiamo. Il problema della simultaneità è centrale per ogni ri­ flessione rivolta alla definizione di ‘tempo’. Raccoglien­ do osservazioni, perplessità e dubbi che da alcuni anni ormai popolavano gli scritti di studiosi come Poincaré o Lorentz, Einstein suggerisce la soluzione del problema attraverso la trattazione fisica delle operazioni necessa­ rie a sincronizzare orologi mediante l’invio di segnali luminosi, nell’ipotesi generale che la velocità della luce sia una costante, indipendente dallo stato di moto del corpo che emette la luce stessa. Ma quale rapporto esiste tra la nuova definizione di simultaneità — e quindi di tempo — e la nozione di corpo rigido? Il rapporto, secondo Einstein, consiste nel fatto che per misurare la lunghezza di un corpo rigido è necessario un osservatore il quale accerti « in quali punti del sistema stazionario siano situate, ad un tempo definito, le due estremità della sbarra da misura­ re ». Ma quale accertamento dovrà essere fatto nel caso che il corpo rigido sotto esame faccia parte di un siste­ ma in moto rispetto all’osservatore? Si tratta di domande che hanno legittimità in quanto si parte da una nuova definizione di simultaneità, e non è più accettabile — di conseguenza — il fatto che « la cinematica usuale assume tacitamente che le lunghezze determinate » nei due casi « siano esattamente eguali ».

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20. — Si è preso l’avvio dalla scelta di fondare una nuova teoria sulla base della teoria di Maxwell, di un principio di relatività che punta alla riunificazione delle leggi dell’elettrodinamica e delle equazioni della mecca­ nica, nonché di un postulato sulla velocità della luce. Si è così giunti ad una nuova definizione di simultaneità lisi delle proposizioni ‘usuali’ sulle lunghezze: dopo il tempo, insomma, lo spazio. I ragionamenti einsteniani, in queste prime pagine della memoria del 1905, sono estremamente semplici. Non è invero un cedimento alla retorica il paragonare gli « esperimenti fisici immaginari » di cui Einstein si serve per illustrare la nuova definizione di simultaneità e il nuovo punto di vista sulla relatività delle lunghezze e dei tempi ad alcune pagine memorabili dei Dialoghi di Galilei.

21. - Non si deve però pensare che la nuova teoria consista unicamente delle riflessioni appena esposte, an­ che se queste ultime, nelle cronache del nostro secolo, rappresentano la parte più famosa e più appariscente dell’opera einsteniana. Esse, infatti, sembrano collocarsi — per quanto riguarda le nozioni di tempo e di spazio — nel solco di una lunga tradizione speculativa, in quanto toccano temi generalissimi della filosofia. Indub­ biamente la riflessione nel nostro secolo è stata profon­ damente segnata dalla rivoluzione einsteniana, come in­ dicano i dibattiti e le considerazioni relative ai lavori filosofici di Moritz Schlick, di Hans Reichenbach, di Ernst Cassirer o di Gaston Bachelard. Sarebbe tuttavia erroneo non tenere presente che la rivoluzione einsteniana a proposito delle nozioni di spa­ zio e di tempo è una conseguenza di una più vasta ri­ strutturazione dell’elettrodinamica, e non la base filoso­ fica di una nuova scienza alternativa rispetto alla scienza

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cosiddetta classica. Detto in altre parole: gli schemi di razionalità operanti nella fisica di Einstein sono un ri­ sultato di matematizzazioni aventi come oggetto i feno­ meni provocati dal movimento di corpi dotati di carica elettrica, e non la conseguenza di una o più violazioni di un metodo scientifico già indebolito da critiche episte­ mologiche. 22. - La memoria del 1905, reinterpretata da Minkowski nel 1908, è la radice di un quadro teorico che si è soliti indicare come ‘teoria della relatività ristretta’. Lo stesso Einstein, tuttavia, lavorò per decenni con lo scopo di risolvere il problema della gravitazione nell’am­ bito di ima formalizzazione ancor più ampia —, chiama­ ta ‘teoria della relatività generale’, e riferita ad una esigenza così riassumibile: « le leggi della fisica debbo­ no essere di natura tale che esse si possano applicare a sistemi di riferimento comunque in moto ». Le funzioni che rappresentano il campo gravitazionale e che nello stesso tempo determinano le proprietà metriche dello spazio quadridimensionale portano l’indagine razionale sull’universo ad affrontare nuove difficoltà matematiche, mentre l’astronomia contemporanea individua nuovi og­ getti sorprendenti e la cosmologia affronta questioni non più descrivibili se non con linguaggi di grande po­ tenza deduttiva. Volendo concludere questa nota introduttiva con un riferimento ai mutamenti che si sviluppano nel rapporto tra scienza e cultura, è particolarmente utile ricordare alcune considerazioni di Einstein sull’evoluzione del con­ cetto di realtà, scritte nel 1934. Secondo Einstein, « il cambiamento più profondo e più fecondo » nella visione della realtà che si sia ve­ rificato dopo Newton è quello che, più di cent’anni or sono, fu causato dalla teoria di campo maxwelliana. Ba­ sta questa semplice osservazione per rendersi conto del-

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la arretratezza che ancora caratterizza le immagini del sapere e della natura largamente diffuse nella nostra cul­ tura. Troppe volte, invero, i più accesi dibattiti sullo stato della ragione umana hanno questo di caratteristi­ co: essi si nutrono di immagini della scienza che già erano tardive, rispetto alla scienza stessa, nel 1879, e cioè nell’anno in cui moriva James Clerk Maxwell e nasceva Albert Einstein.

AVVERTENZA La prima sezione comprende brani tratti da: A. Fresnel, let­ tera a F. Arago, in « Annales de Chimie », voi. IX, 1818, p. 57; G. G. Stokes, On thè Aberration of Light, in « Philosophical Magazine », voi. 27, 1845, p. 9; O. F. Mossotti, Sur les forces qui régissent la constitution intérieure des corpi, 1836, in Scritti di O.F. Mossotti, Pisa, Domus Galilaeana, 1951, voi. II, pp. 161-63, 181-82; W. R. Hamilton, On a General Method in Dynamics, in « Philosophical Transactions », parte II, 1834; Taylor ed., pp. 247-49; Kelvin, Una rappresentazione meccanica delle forze elettriche, magnetiche e galvaniche, in « Cambridge and Dublin Mathematica! Journal», voi. Il, 1847 (trad. it. in Opere di Kelvin, a cura di E. Bellone, Torino, Utet, 1971, pp. 351-53); H. von Hehnholtz, Uber die Wechselwirkung der Naturkràfte und die darauf bezuglichen neuesten Ermittelungen der Physik, Kónigsberg 1854 (trad. it. a cura di V. Cappelletti, in Opere di Helmholtz, Torino, Utet, 1967, pp. 252-36). La seconda sezione comprende brani tratti da: N. I. Lobaèevskij, Novye natala geometrij s polnoj teoriej parallel’nyh, 1835-38 (trad. it. di Lombardo Radice, Torino, Boringhieri, 1974, p. 66); B. Riemann, Ueber die Hypothesen, welche der Geome­ trie zu Grunde liegen, 1854, 1867 (trad. it. in A. Einstein, Re­ latività: esposizione divulgativa, e scritti classici su Spazio Geo­ metria e Fisica, a cura di B. Cermignani, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 219-20); H. von Helmholtz, Ueber den Ursprung und die Bedeutung der geometrischen Axiome (trad. it. in Opere di Helmholtz cit., pp. 504-7, 507-13, 529-31); J. B. Stallo, The Concepts and Theories of Modern Physics, New York, D. A. Appleton, 1881, e Cambridge, Harvard University Press, 1960, pp. 224-25, 259. La terza sezione comprende brani tratti da: M. Faraday, On thè Conservation of Force, in « Philosophical Magazine », s. 4, 13, 1857, pp. 226, 228-29, 229-30, 231-32, 232-33, 237-38;

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J. C. Maxwell, lettera a M. Faraday, 9 novembre 1857, in L. Campbell e W. Garnett, The Life of J. C. Maxwell, London, 1882-84, ristampa del 1969 a cura di R. H. Kargon, Johnson Reprint Corporation, pp. xv-xvii; J. C. Maxwell, A Dynamical Theory of thè Electromagnetic Field, in « Phil. Trans. Royal So­ ciety », voi. 155, 1865, pp. 492-93; J. C. Maxwell, Matter and Motion, London 1877 (trad. it. di L. Rota Rossi e Giovanni Can­ toni, Milano, Dumolard, 1881, p. 9); P. G. Tait, Lectures on Some Recent Advances in Physical Science, London, MacMillan and Co., 1876, p. 5; W. K. Clifford, The Common Sense of Exact Sciences, 1885 (trad. it. Milano, Dumolard, 1886, pp. 174-75, 255-58, 264-66, 267-69, 269-70, 320-22); J. C. Maxwell, A treatise on Electricity and Magne tism, Oxford 1873 (trad. it. a cura di E. Agazzi, Torino, Utet, 1973, voi. II, pp. 293-95, 295-96, 306-7, 576-80). La quarta sezione comprende brani tratti da: J. C. Maxwell, lettera a D. P. Todd, in « Nature », 21, 1880, p. 315; J. C. Max­ well, Ether, in Encyclopaedia Britannica, 9* ed., Vili, p. 572, 1893; A. A. Michelson, The Relative Motion of thè Earth and thè Luminiferous Ether, in « American Journal of Science », 3* serie, 22, 1881, pp. 120-29; A. A. Michelson, lettera a A. G. Bell, 17 aprile 1881, citata da Loyd S. Swenson jr, The Ethereal Ether, Austin-London, University of Texas Press, 1972, pp. 69-70; A. A. Michelson e E. W. Morley, On thè Relative Motion of thè Earth and thè Luminiferous Ether, in « American Jour­ nal of Science », 3* serie, 34, 1887, pp. 333-45, e « Philosophical Magazine », 5* serie, 24, 1887, pp. 449-63; H. A. Lorentz, Versuch einer Theorie der elektrischen und optischen Erscheinungen in bewegten Korpern, Leiden 1895, §§ 89, 90, 91 (trad. inglese in The Principle of Relativity, Dover Pub., 1923, pp. 3-6); Kelvin, Moto di un liquido viscoso..., in « Mathematica! and Physical Papers », voi. Ili, 1890, art. XCIX, pp. 436-65 (trad. it. in Opere di Kelvin cit., pp. 782-83); H. Poincaré, A propos de la théorie de M. Larmor, in « L’Eclairage électrique », t. 5,5 ottobre 1895, p. 5 (da CEuvres cit., t. IX, p. 412). La quinta sezione è interamente dedicata all’opera di E. Mach, Die Mechanik in ihrer Entwickelung historisch-kritisch dargestellt (1883), e i brani sono tratti dalla traduzione italiana di A. D’Elia, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Torino, Boringhieri, 1968, pp. 235-37, 239, 244-45, 245-46, 257-58, 470, 473-74, 478. La sesta sezione comprende brani tratti da: Kelvin, Nubi del diciannovesimo secolo sulla teoria dinamica del calore e della luce, allocuzione alla Royal Institution, 27 aprile 1900 (trad. it.

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di E. Bellone, in Opere di Kelvin cit., pp. 784-88, 792-95); J. Larmor, Aether and Mailer, Cambridge University Press, 1900, cap. X, p. 248; H. A. Lorentz, Electromagnetic Phenomena in a System Moving with any Velocity less than that of Light, in « Proc. Academy of Science of Amsterdam », voi. VI, 1904, e in The Principle of Relativity cit., pp. 12-13, 13-15; H. Poin­ caré, Sur la dynamique de l’electron, in « Comptes Rendus de l’Academie des Sciences », t. 140, 1905, e in CEuvres cit., t. IX, pp. 489-90, 491-93; H. Poincaré, La dynamique de l’électron, in « Revue générale des Sciences pures et appliqueés », t. 19, 1908, e in (Euvres cit., t. IX, pp. 563-67. La settima sezione comprende brani tratti da scritti in Albert Einstein: Zur Elektrodynamik bewegter Kórper, in « Annalen der Physik », 17, 1905 (trad. inglese in The Principle of Rela­ tivity cit., pp. 37-38, 38-40, 41-43); Ist die Tràgheit eines Kòrpers von seinem Energiegehalt abhàngig?, in « Annalen der Phy­ sik », 17, 1905 (trad. inglese cit., pp. 69-71); Vier Vorlesungen iiber Relativitàtstheorie, Braunschweig, F. Viemeg & Sohn, 1922 (trad. it. di L. Radicati di Bròzolo, Il significato della relatività, Torino, Boringhieri, 1959, pp. 3-5, 9-11); tJber die spezielle und allgemeine Relativitàtstheorie, gemeinverstàndlich, Braunschweig, Vieweg & Sohn, 1917 (trad. it. di V. Geymonat, A. Einstein, Relatività, esposizione divulgativa, Torino, Boringhieri, 1964, pp. 33-34, 35-38, 42-44, 50-51). Anche l’ottava sezione è dedicata all’opera di Albert Einstein. In essa figurano brani tratti da: Die Grundlagen der allgemeinen Relativitàtstheorie, in « Annalen der Physik », 4, 1919 (trad. it. di A. Fratelli, Einstein, I fondamenti della relatività, Roma, Newton Compton, 1976, pp. 13-14, 14-15, 15-18, 18-22, 22-24); The World as I see it, New York, Covici-Friede, 1934 (ed. it. a cura di R. Valori, Come io vedo il mondo, Milano, Giachini, 1966, pp. 111-19); Autobiografia scientifica, Torino, Boringhieri, 1979, pp. 217, 223-24, 227-28.

NOTA BIBLIOGRAFICA

La stesura dell’introduzione si basa sui seguenti testi: Lapla­ ce, Traité de Mécanique Céleste, Paris 1799-1825, 5 voli.; A. M. Ampère, Opere, a cura di M. Bettolini, Torino, Utet, 1969; M. Faraday, On thè Conservation of Force in « Proc. Roy. Soc », 2, 1857; B. Riemann, Ueber die Hypothesen, welche der Geo­ metrie zu Grunde liegen, 1854, 1867, in Paolo Pattini, Fisica e Geometria dall’Ottocento a oggi, Torino, Loescher, 1979; C. F. Gauss, lettera a Bessel del 27 gennaio 1829, ibidem; H. von Helmholtz, Opere, a cura di V. Cappelletti, Torino, Utet, 1967; J. Stallo, The Concepts and Theories of Modern Physics, New York, D. A. Appleton and Co., 1881; E. Mach, Die Mechanik in ihrer Entwickelung historisch-kritisch dergestellt, 1883 (trad. it. Torino, Boringhieri, 1968); E. Mach, The Principles of Physical Optics, 1913, Dover Publications 1968; J. C. Maxwell, let­ tera a Faraday del 9 novembre 1857, in L. Campbell - A. Garnett, The Life of ]. C. Maxwell, London 1882, 1884, Johnson Reprint Corporation 1969; J. C. Maxwell, A Dynamical Theory of thè Electromagnetic Field in « Phil. Trans. Roy. Soc. », 155, 1865; P. G. Tait, Lectures on some recent Advances in Physical Science, London 1876; W. F. Clifford, The Common Sense of thè Exact Science, 1885 (trad. it. Milano, Dumolard, 1886); J. C. Maxwell, Ether, in Encyclopaedia Britannica, 9‘ ed., Vili, p. 572, 1893; J. C. Maxwell, lettera a D. P. Todd in « Nature », 1880; A. A. Michelson, The Relative Motion of thè Earth and thè Luminiferous Ether, in « American Journal of Science», 3* serie, 22, 1881; G. G. Stokes, On thè Aberration of Light, in « Philosophical Magazine », 3, 27, 1845; A. Einstein, Philosopher-Scientist, a cura di P. A. Schilpp, Evanston, 111., The Library of Living Philosophers, 1949 (trad. it. Torino, Bo­ ringhieri, 1958); A. A. Michelson - E. W. Morley, On thè Re­ lative Motion of thè Earth and thè Luminiferous Ether, in « Ame­ rican Journal of Science », 3* serie, 34, 1887; G. F. Fitz - Gerald,

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NOTA BIBLIOGRAFICA

The Ether and thè Earth’s Atmosphere, in « Science », 13, 1889; H. Lorentz, Versuch einer Theorie der elektrischen und optischen Erscheinungen in bewegten Kórpern, Leiden 1895; William Thomson (Lord Kelvin), Opere, a cura di Enrico Bello­ ne, Torino, Utet, 1971; H. Poincaré, A propos de la théorie de M. Larmpr, in « L’Eclairage électrique », t. 5, 5 ottobre 1895, e in CEuvres, t. IX, p. 412; H. Lorentz, Electromagnetic Phenomena in a System Moving with any Velocity less than that of Light, in « Proceedings of thè Academy of ociences of Amster­ dam », 6, 1904; H. Poincaré, Sur la dynamique de l'electron, in « Comptes rendus de l’Academie des Sciences », t. 140, 1905; H. Poincaré, La dynamique de l'électron, in « Revue générale des Sciences pures et appliquées », t. 19, 1908; H. Minkowski, Space and Time, conferenza del 21 settembre 1908, in The Prin­ cipe of Relativity, Dover Ed., 1923; P. Duhem, La théorie physique: son object et sa structure, 2* ed., Paris, Marcel Rivière, 1914 (trad. it. Bologna, Il Mulino, 1978); A. Einstein, Zur Elektrodynamik bewegter Kórper, in « Annalen der Physik », 17, 1905; A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeine Relativitàtstheorie, in « Annalen der Physik », 4, 1919, 4, 1919 (trad. it. Roma, Newton Compton, 1976).

1/ CONGETTURE E PROGRAMMI

L’insieme delle teorie fisiche, durante i primi decenni dell’ottocento, è in rapido movimento. Le congetture di Fresnel e di Stokes sull’etere luminifero sono punti di rife­ rimento per la possibilità di sviluppare una teoria ondulato­ ria della luce che sia esente da paradossi. Ma le congetture sull’etere sono sempre meno intuitive, poiché l’etere, per avere le proprietà fisiche che sono necessarie al fine di permettere i moti celesti al suo interno, sembra essere una struttura materiale particolarmente strana: da una parte es­ so è il mezzo in cui si propagano le onde luminose; dal­ l’altra parte esso è il fluido universale che permea ogni cosa e che ogni cosa, muovendosi, percorre: come debbono esse­ re i rapporti fisici tra etere e materia, affinché i fenomeni ottici siano come sono? Ma non solo l’ottica è sede di interrogativi. La stessa teoria del moto deve affrontare questioni nuove, come mo­ strano le pagine di Mossotti. Le molecole che si muovono incessantemente nell’etere interagiscono con le particelle — o atomi — di quest’ultimo. Ebbene, quali condizioni d’equi­ librio della meccanica molecolare ci possono condurre a una teoria unificata dei fenomeni naturali, da quelli elettrici a quelli gravitazionali? È possibile ricavare la gravitazione come effetto residuo di una sola trattazione formale al cui interno discutere gli eventi elettrici o termici? Il program­ ma di Mossotti vuole appunto approdare alla « possibilità di abbracciare, sotto un solo punto di vista, l’insieme dei fenomeni fisici ». Michael Faraday avrà presente, ancora molti anni dopo la pubblicazione di questo saggio mossottiano (avvenuta nel 1836), la tematica che quel saggio il­ lustra e che si sta diffondendo nella cultura scientifica euro­ pea. Si tratta di una tematica che si alimenta a fonti diver­ se. Nel 1834 William Rowan Hamilton, uno dei maggiori

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matematici dell’ottocento, espone un metodo generale in dinamica la cui potenza è tale da far sperare in una unifica­ zione della meccanica e dell’ottica, superando le capacità degli schemi matematici costruiti nella seconda metà del Settecento. Nel 1847 William Thomson, più tardi noto come Lord Kelvin, parte dalle ricerche di Faraday e dalla matematica di Stokes per ricondurre i fenomeni elettroma­ gnetici ad « un problema della teoria dei solidi elastici », potenziando la formalizzazione del modello di etere al fine di trovare un quadro unitario per le varie classi di eventi fisici studiate da Faraday e dagli altri sperimentatori sul­ l’elettricità e il magnetismo. E, pochi anni più tardi, Helmholtz, in una famosa conferenza sulle forze agenti nella natura, traccia un bilancio energetico del sistema planetario mettendo in rilievo la fondamentalità della questione gravi­ tazionale in rapporto alle nuove conoscenze ottenute con la termodinamica.

1. Fresnel: lettera ad Arago sull’influenza del moto terrestre sui fenomeni ottici.

Mio caro amico, con i vostri splendidi esperimenti sulla luce prove­ niente dalle stelle avete mostrato che il moto del globo terrestre non esercita alcuna influenza percettibile sulla rifrazione dei raggi emessi da tali stelle. Come voi stes­ so avete sottolineato, all’interno della teoria corpuscola­ re questo notevole risultato può solo essere spiegato supponendo che i corpi luminosi trasmettano alle particelle della luce un numero infinito di differenti velocità, e che queste particelle esercitino un effetto sull’organo della vista solo quando viaggiano ad una di tali velocità, o, per lo meno, solo quando viaggiano con velocità com­ prese entro i limiti di un intervallo molto stretto, così

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che la crescita o la diminuzione di una decimillesima parte è più che sufficiente a prevenire la loro osservabilità. La necessità di una simile ipotesi non costituisce la difficoltà minore in rapporto alla teoria corpuscolare. In effetti, da che cosa dipende la visione? Dall’impatto del­ le particelle di luce sul nervo ottico? In questo caso un simile impatto non dovrebbe esser reso impercettibile da un aumento di velocità. Dal modo in cui le particelle sono rifratte entro la pupilla? Ma le particelle rosse, ad esempio, la cui velocità sia stata diminuita anche di una cinquantesima parte, sarebbero ancora meno rifratte che i raggi violetti, e non lascerebbero lo spettro che defini­ sce i limiti della visione. Mi avete stimolato ad esaminare se il risultato di tali osservazioni possa esser riconciliato più facilmente con la teoria nella quale la luce è considerata in termini di vibrazioni di un fluido universale. È del tutto necessario trovare una spiegazione all’interno di questa teoria, poiché essa si applica ad oggetti terrestri; in effetti la velocità della propagazione delle onde è indipendente dal moto del corpo da cui le onde sono emesse. Qualora si dovesse ammettere che la nostra Terra trasferisce il proprio movimento all’etere che la circon­ da, sarebbe allora facile vedere il motivo per cui un medesimo prisma dovrebbe sempre rinfrangere la luce nello stesso modo, quale che sia la direzione di prove­ nienza della luce stessa. Ma sembra impossibile spiegare l’aberrazione delle stelle mediante questa ipotesi: io so­ no stato incapace, almeno sino ad ora, di capire con chiarezza questo fenomeno, se non supponendo che l’ete­ re passi liberamente attraverso il globo terrestre, e che la velocità comunicata a questo fluido sottile sia solo

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una piccola parte della velocità della Terra, non maggio­ re, ad esempio, di una centesima parte. Per quanto straordinaria una simile ipotesi possa ap­ parire a prima vista, essa non mi sembra incompatibile con l’idea dell’estrema porosità dei corpi, idea alla quale sono giunti i maggiori tra i fisici. [...] L’opacità della Terra non è una ragione sufficiente per negare l’esisten­ za di una corrente d’etere fra le molecole della Terra stessa, e si può supporre che quest’ultima sia sufficien­ temente porosa da comunicare a quel fluido solo una piccola parte del suo movimento. (A. Fresnel, lettera a F. Arago, in « Ann. de Chimie », voi. IX, 1818, p. 57)

2. Stokes: ipotesi sul trasporto dell’etere da parte dei pianeti. Quando esaminiamo la causa del fenomeno [del­ l’aberrazione] più da vicino, ci accorgiamo che esso è ben più lontano dall’esser semplice di quanto appaia a prima vista. Nella teoria dell’emissione, effettivamente, non si hanno grandi difficoltà [...] La teoria ondulatoria della luce, tuttavia, spiega in modo così semplice e così affascinante i fenomeni più complicati, che siamo natu­ ralmente condotti a considerare l’aberrazione come un fenomeno che essa non spiega ma che con essa non è incompatibile. Lo scopo della presente comunicazione consiste nel tentativo di spiegare la causa dell’aberrazione in con­ formità alla teoria ondulatoria. Farò l’ipotesi che la Ter­ ra e i pianeti trasportino con sé una porzione d’etere, di modo che l’etere vicino alla loro superficie sia in quiete rispetto alla superficie stessa, mentre la sua velocità cam-

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bia man mano che ci allontaniamo dalla medesima su­ perficie, sino a che l’etere si trovi, per distanze non grandi, in quiete nello spazio. (G. G. Stokes, On thè Aberration of Light, in « Phil. Mag. », voi. 27, 1845, p. 9)

3. Mossotti: gravitazione, elettricità e meccanica mole­ colare. La gravitazione universale può discendere, come una deduzione, dai principi che regolano le forze elettriche. In effetti è sufficiente supporre che, a parità di masse, la repulsione delle molecole della materia sia di poco infe­ riore alla loro attrazione per gli atomi dell’etere, oppure alla repulsione reciproca tra questi ultimi, per lasciar sussistere un eccesso d’attrazione: e questa, essendo di­ rettamente proporzionale al prodotto delle masse e in­ versamente proporzionale al quadrato della distanza, potrebbe giustamente rappresentare l’attrazione univer­ sale. [...] Ho supposto che un numero qualsiasi di molecole materiali sia immerso entro un etere indefinito, e che tra le molecole materiali e gli atomi dell’etere esistano proprio quelle forze che sono richieste dalla teoria di Epino; ed ho cercato le condizioni di equilibrio fra l’etere e le molecole. Considerando l’etere come una massa continua e le molecole come corpi isolati, ho tro­ vato che, se queste ultime sono sferiche, esse allora si circondano di una atmosfera la cui densità decresce se­ condo una funzione della distanza che contiene un fat­ tore esponenziale. L’equazione differenziale che deter­ mina la densità è lineare, ed è pertanto soddisfatta da una somma qualsiasi di funzioni corrispondenti ad un

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numero qualsiasi di molecole: ne segue che le atmosfere molecolari si possono sovrapporre, o penetrare le une nelle altre, senza che l’equilibrio dell’etere sia perturba­ to. Passando poi alle condizioni di equilibrio delle mo­ lecole, ho trovato che, in una prima approssimazione che si può considerare come sufficiente in quasi tutti i casi, l’azione reciproca tra due molecole e le atmosfere che le circondano è indipendente dalla presenza delle altre e gode di tutte lescaratteristiche d’una azione mo­ lecolare. Essa è, all’inizio, repulsiva, e contiene un fat­ tore esponenziale che la può far decrescere molto rapi­ damente; rapidamente essa diventa nulla e, a tale di­ stanza, due molecole opporranno una resistenza sia che le si voglia avvicinare, sia che le si voglia allontanare l’una dall’altra, di modo che esse rimarranno in uno stato di equilibrio stabile; col crescere della distanza le molecole si attireranno tra di loro, e la loro reciproca attrazione aumenterà con la distanza sino ad un certo punto, dove essa raggiungerà un massimo-, oltre tale distanza essa diminuirà, e ad una distanza sensibile essa decrescerà in modo direttamente proporzionale al pro­ dotto delle masse molecolari e inversamente proporzio­ nale al quadrato della distanza. Questa azione, che gode di tutte le caratteristiche pre­ sumibilmente attribuibili all’azione molecolare, è d’altra parte notevolissima in quanto è dedotta dalle sole forze la cui esistenza è già stata ammessa dai fisici e la cui legge è tanto semplice. [...] L’applicazione, ai fenomeni relativi alla costituzione interna dei corpi, delle formule che abbiamo trovato al fine di rappresentare l’azione molecolare, richiede dei procedimenti di calcolo che non sono ancora stati svi­ luppati e che debbono sempre più complicarsi non ap-

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pena si prendano in considerazione la distribuzione del­ le molecole, la loro forma e la loro densità. Ho creduto nel contempo di non ritardare la pubblicazione di que­ sto modo di considerare l’azione molecolare, dato che abili geometri potranno intervenire in proposito. Si trat­ ta di un argomento che a mio avviso merita molto inte­ resse, in quanto la scoperta delle leggi dell’azione mole­ colare deve condurre i geometri a costruire su un solo principio la meccanica molecolare, così come la scoperta della legge di attrazione universale li ha condotti a fon­ dare su una sola base il maggior monumento dell’intel­ ligenza umana: la meccanica celeste. (O. F. Mossotti, Sur les forces qui régissent la constitution intérieure des corps, 1836, in Scritti, voi. II, tomo I, pp. 161-63)

4. Mossotti: verso una teoria unificata dei fenomeni fisici.

Consideriamo moltissime molecole materiali che si respingono reciprocamente, immerse entro un fluido eelastico i cui atomi pure si respingono reciprocamente pur essendo attirati da parte delle molecole materiali; tutte queste forze d’attrazione e di repulsione siano pro­ porzionali alle masse e inversamente proporzionali al quadrato della distanza; vediamo se le azioni risultanti tra le molecole materiali possono condurre queste ulti­ me verso uno stato di equilibrio stabile e ivi trattenerle. Lo scopo di questa ricerca è quello di completare le deduzioni dall’ipotesi di Franklin e di Epino. Già sap­ piamo che tale ipotesi fornisce le condizioni di equili­ brio per i problemi di elettricità statica, e che tali condi­ zioni sono conformi ai fenomeni; resta da constatare se le azioni molecolari alle quali essa dà luogo sono altret-

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tanto conformi a quelle che reggono la costituzione in­ terna dei corpi. Un simile accordo fornirebbe alla realtà dell’ipotesi in questione il peso di una grande probabili­ tà, e farebbe intravedere la possibilità di abbracciare, sotto un solo punto di vista, l’insieme dei fenomeni fisici. (O. F. Mossotti, Sur les forces qui régissent la constitution intérieure des corps cit., p. 164)

5. Hamilton: la matematica e la rivoluzione in fisica. Lo sviluppo teorico delle leggi del movimento dei corpi è un problema di tale interesse e tale importanza, da avere attirato l’attenzione di tutti i più eminenti ma­ tematici, sin da quando si ebbe l’invenzione della dina­ mica come scienza matematica da parte di Galileo, e, più in particolare, sin da quando si verificò la meravi­ gliosa estensione di quella scienza che fu dovuta a New­ ton. Tra i successori di quegli uomini illustri, Lagrange è forse colui che più di ogni altro analista ha operato per dare estensione e armonia a tali ricerche deduttive, mostrando che da una sola formula si possono deri­ vare le più varie conseguenze relative ai moti di si­ stemi di corpi: e la bellezza del metodo era così con­ forme alla dignità dei risultati da trasformare la sua grande opera in una sorta di poema scientifico. Ma la scienza della forza, o della potenza che agisce secondo leggi nello spazio e nel tempo, ha già incontrato una seconda rivoluzione ed è già diventata più dinamica, avendo pressoché abbandonato del tutto le nozioni di solidità e coesione e quegli altri vincoli materiali o quel­ le plausibili condizioni geometriche attorno a cui Lagran­ ge così felicemente aveva lavorato, e tendendo sempre

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più a risolvere tutte le connessioni e tutte le azioni fra corpi in attrazioni o repulsioni fra punti: e mentre la scienza sta così avanzando in una direzione grazie al miglioramento delle concezioni fisiche, essa può anche avanzare lungo un’altra direzione grazie alla creazione di metodi matematici. (W. R. Hamilton, On a General Method in Dynamics, in « Phil. Trans. », parte II, 1834)

6. Hamilton: la matematica, l’ottica e la dinamica.

Nei metodi comunemente impiegati, la determinazio­ ne del moto di un punto libero nello spazio, sotto l’in­ fluenza esercitata da forze accelerattici, dipende dall’in­ tegrazione di tre equazioni differenziali di secondo gra­ do; e la determinazione dei moti di un sistema di punti liberi, che si attraggono o si respingono reciprocamente, dipende dall’integrazione di un sistema di tali equazioni, il cui numero è tre volte quello dei punti che si attrag­ gono o si respingono, a meno che noi non riduciamo quest’ultimo numero grazie alla considerazione dei soli moti relativi. Così, nel sistema solare, quando conside­ riamo solamente le mutue attrazioni fra il sole e i dieci pianeti noti, la determinazione dei movimenti di questi ultimi attorno al primo si riduce, mediante i metodi usuali, all’integrazione di un sistema di trenta equazioni differenziali di secondo grado nelle coordinate e nel tem­ po; oppure, grazie ad una trasformazione di Lagrange, all’integrazione di sessanta equazioni differenziali di pri­ mo grado nel tempo e negli elementi ellittici: e, in tali integrazioni, le trenta coordinate variabili o i sessanta elementi ellittici sono da considerare come funzioni del tempo. Nel metodo esposto nel presente saggio questo

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problema si riduce alla ricerca ed alla differenziazione di una sola funzione, la quale soddisfa due equazioni diffe­ renziali alle derivate parziali [...] ed ogni altro proble­ ma dinamico, relativo ai moti di un sistema qualsiasi e costituito da un numero qualsiasi di punti che si attragogno o si respingono (anche se supponiamo che tali punti siano vincolati da condizioni qualsiasi di connessione consistente con la legge delle forze vive), si riduce, in modo analogo, allo studio di una funzione centrale, al cui forma contrassegna e caratterizza le proprietà del sistema in movimento, e deve essere determinata da una coppia di equazioni differenziali alle derivate parziali del primo ordine, insieme a poche altre semplici considerazioni. La difficoltà, pertanto, è almeno trasferita dall’integrazione di molte equazioni di una certa classe all’integrazione di due equazioni di un’altra classe; ed anche se si dovesse pensare che non si acquisti alcuna facilitazione pratica, pure si può avere il risultato di un certo piacere intel­ lettuale nel ridurre quella che è probabilmente la più complessa fra tutte le ricerche sulle forze e sui moti dei corpi allo studio di una sola funzione caratteri­ stica. Il presente saggio non mira a trattare completamente un argomento così vasto — un compito che può richie­ dere le fatiche di molti anni e di molte menti; ma solo a suggerire la concezione di esso ed a proporre ad altri il cammino. Pertanto, anche se il metodo può essere usato nelle più varie ricerche dinamiche, esso è qui applicato solamente nelle orbite e alle perturbazioni di un sistema retto da leggi qualsiasi di attrazione o repulsione e dota­ to di una massa predominante o centro di energia pre­ dominante; e lo stesso metodo viene esteso, in questa ricerca, solo al punto che si ritiene sia sufficiente per

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una piena comprensione del suo principio. Va detto che questo principio dinamico è solo una forma diversa di quell’idea che già è stata applicata all’ottica nella Theory of Systems of rays,1 e che, nel momento di pubblicare quella teoria, si era annunciata l’intenzione di applicarla ai movimenti dei sistemi di corpi. Oltre all’idea stessa, va detto che anche le modalità del calcolo, che sono state così esemplificate nelle scienze dell’ottica e della dinamica, non sembrano essere confinate a queste due scienze ma appaiono suscettibili di altre applicazioni; e la combinazione peculiare, che esse implicano, dei prin­ cipi variazionali e di quelli della differenziazione parzia­ le in vista della determinazione e dell’uso di una classe importante di integrali, può costituire, una volta matu­ rata grazie alle future indagini dei matematici, un set­ tore separato dell’analisi. (W. R. Hamilton, On a General Method in Dynamics dt., pp. 247-49)

7. Kelvin: la teoria matematica dei solidi elastici e i fenomeni elettrici e magnetici. Faraday ha esposto una teoria dell’induzione Elettro­ statica in cui si suggerisce l’idea che ad ogni problema connesso alla distribuzione dell’elettricità nei conduttori e alle forze di attrazione e repulsione esercitate da corpi elettrizzati corrisponda un problema della teoria dei so­ lidi elastici. La chiave di una simile rappresentazione delle forze magnetiche e galvaniche è fornita dalla re1 « Transactions of thè Royal Irish Academy », voi. xv, p. 80. Noti­ zia di questo principio dinamico è stata data anche in un articolo inti­ tolato On a generai Method of expressing thè Paths of Light and of thè Planets, pubblicato in « Dublin University Review », ottobre 1833.

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cente scoperta di Mr Faraday relativa all’effetto prodotto da forze magnetiche o elettromagnetiche sulla luce pola­ rizzata nei solidi trasparenti. Sono stato così sollecitato a trovare tre distinte soluzioni particolari delle equazio­ ni concernenti l’equilibrio di un solido elastico: una so­ luzione esprime uno stato di distorsione tale che lo spo­ stamento assoluto di una particella in una zona qualsiasi del solido rappresenta l’attrazione risultante prodotta in quel punto da un corpo elettrizzato; una seconda solu­ zione fornisce uno stato del solido in cui ciascun ele­ mento ha un certo spostamento angolare risultante il quale rappresenta, sia per quanto riguarda l’intensità, sia per quanto riguarda la direzione, la forza prodotta in quel punto da un corpo magnetico; la terza, infine, rap­ presenta in modo analogo la forza prodotta da una parte qualsiasi di un filo galvanico; in quest’ultimo caso le direzioni delle forze sono date dagli assi delle rotazioni risultanti impresse agli elementi del solido. (Kelvin, Una rappresentazione meccanica delle forze elettriche, magnetiche e galvaniche, in « Cambridge and Dublin Mathema­ tica! Journal », voi. II, 1847, trad. it. di Enrico Bellone, in Opere, Torino, Utet, 1971, pp. 351-53)

8. Helmoltz: il bilancio energetico nel sistema plane­ tario.

Quando io considero valide anche per altri corpi ce­ lesti delle leggi, che sono ottenute in primo luogo sol­ tanto dai processi fisici che si verificano tra i corpi cele­ sti, ciò faccio ricordando che la stessa forza, cui sulla terra diamo il nome di peso, agisce negli spazi cosmici come gravitazione, che essa dev’essere riconosciuta atti­ va anche nei movimenti delle stelle doppie infinitamen-

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te lontane, e sottoposta colà alle stesse leggi, che sussi­ stono tra la Terra e la Luna; che luce e calore dei corpi terrestri non differiscono sostanzialmente in nessun aspetto da quelli del Sole e delle stelle fisse più remote; che i meteoriti, i quali cadono sulla Terra degli spazi cosmici, contengono gli stessi elementi chimici che si trovano nei corpi terrestri. Non esiteremo, perciò, a con­ siderare valide anche per altri corpi cosmici quelle leggi generali, cui siano sottoposti tutti i processi naturali che si svolgono sulla terra. Muniti di siffatte leggi, ci sob­ barcheremo al compito di riflettere alquanto sul bilancio dell’universo, in relazione ai contenuti di forza attiva. Molte sorprendenti caratteristiche nella struttura del nostro sistema planetario indicano che un tempo dovet­ te esserci una massa compatta con un moto rotatorio circolare. Senza una tale ipotesi non si spiegherebbe af­ fatto perché tutti i pianeti si muovano intorno al Sole nello stesso senso, perché nello stesso senso ruotino in­ torno al proprio asse, perché i piani delle loro orbite, e quelli dei loro satelliti e anelli quasi coincidano, perché tutte le loro traiettorie differiscano poco da circoli, e anche molte altre cose. Da queste tracce residue di una situazione precedente gli astronomi hanno costruito un’ipotesi sull’origine del nostro sistema planetario che, pur rimanendo sempre un’ipotesi per la natura stessa delle cose, tuttavia nei singoli suoi aspetti è così suffra­ gata da analogie, da meritare la nostra attenzione; tanto più in quanto questa teoria sorse sul suolo della nostra patria, dentro le mura di questa città. Fu Kant che, preso da molto interesse per la descrizione fisica della Terra e della struttura dell’universo, si era sottoposto allo studio faticoso delle opere di Newton, e, a testimo­ nianza dell'essersi inoltrato profondamente nelle sue

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idee fondamentali, formulò il pensiero geniale, che la stessa forza attrattiva di tutta la materia ponderabile, la quale ora sostiene il movimento dei pianeti, dovette al­ tresì essere stata in grado di costruire un tempo il si­ stema planetario da materia rarefatta, distribuita nello spazio cosmico. Più tardi anche Laplace, il grande auto­ re della Mécanique Celeste y trovò indipendentemente da Kant, le stesse idee e acquisì loro cittadinanza nel­ l’astronomia. Noi dobbiamo rappresentarci l’inizio del nostro siste­ ma planetario con il suo Sole come un’immensa nebulo­ sa, la quale riempiva quella parte di spazio cosmico, dove ora si trova il nostro sistema planetario, fin oltre i confini dell’orbita del pianeta estremo, Nettuno. Anche ora noi vediamo nelle parti lontane del firmamento delle nebulose, la cui luce, come mostra l’analisi spettrale, è la luce di gas incandescenti, nel cui spettro appariscono soprattutto qualle linee chiare, che rivelano idrogeno incandescente e azoto incandescente. Anche dentro allo spazio del nostro sistema solare, le comete, gli scia­ mi delle stelle cadenti e il chiarore zodiacale mostrano chiare tracce di una sostanza distribuita in forma di pol­ veri, che tuttavia si muove secondo la legge di gravità e, almeno in parte, è trattenuta e incorporata dai corpi più grandi. Quest’ultimo caso si verifica per le stelle cadenti e per le masse meteoriche, che cadono nell’atmosfera del nostro pianeta. Se si calcola la densità della massa del nostro sistema planetario, secondo l’ipotesi prima fatta, per il tempo in cui esso era una nebulosa, che giungeva fino alle traiet­ torie dei pianeti più esterni, si trova che molti milioni di miglia cubiche contenevano inizialmente un grano di materia ponderabile.

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La forza generale di attrazione, che ogni materia eser­ cita sull’altra, doveva tuttavia sollecitare queste masse ad avvicinarsi e ad ispessirsi, così che la nebulosa andò vieppiù rimpicciolendosi. In tal modo, secondo le leggi meccaniche, un movimento rotatorio lento all’origine, di cui bisogna presupporre l’esistenza, diventò sempre più veloce. Attraverso la forza centrifuga, che dovette agire con la massima intensità vicino all’equatore della nebu­ losa, di tanto in tanto poterono essere distaccate delle masse, che poi, separate da tutto, proseguirono la loro traiettoria, e si trasformarono in singoli pianeti o, simili a un pallone, in pane ti con satelliti e con anelli, fino a che la massa principale si consolidò formando il Sole. Tali vedute non ci permettono di giungere ad alcuna conclusione sull’origine del calore e della luce. Quando quella nebulosa si separò dalla massa di altre stelle fisse, non soltanto doveva contenere tutti i tipi di materia, dei quali sarebbe stato composto il futuro si­ stema planetario ma, secondo le nuove leggi da noi co­ nosciute, anche tutta la provvista di forza lavorativa, che avrebbe poi dispiegato in esso la ricchezza dei pro­ pri effetti. E infatti alla nebulosa fu assegnata, da que­ sto punto di vista, una dotazione straordinariamente grande, anche a considerare soltanto la forza attrattiva che tutte le sue parti esercitano reciprocamente. Questa forza, che si estrinseca sulla Terra come forza di gravità, negli spazi cosmici è chiamata, in relazione ai suoi effet­ ti, la gravità celeste ovvero la gravitazione. Come la gravità terrestre, quando fa scendere un peso a terra, compie un lavoro e genera forza viva, così fa la gravità celeste, quando conduce l’una verso l’altra due piccole masse da parti distanti dello spazio cosmico. Anche le forze chimiche dovevano essere già presenti,

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pronte ad agire; ma poiché queste forze possono essere attive solo nel contatto intimo delle diverse masse, do­ vette sopravvenire il fenomeno dell’ispessimento prima che potesse cominciare il loro giuoco. Se ci fosse ancora un altro deposito di forza, ai pri­ mordi, in forma di calore, noi non sappiamo. In ogni caso, con l’ausilio della legge di equivalenza tra calore e lavoro troviamo una così ricca sorgente di calore e di luce nelle forze meccaniche dello stadio primitivo, che non abbiamo ragione di fare ricorso a un’altra fonte originaria. E cioè, quando nell’ispessimento delle masse le particelle urtarono l’una contro l’altra e aderirono reciprocamente, la forza viva del loro movimento si an­ nientò e dovette trasformarsi in calore. Già nelle teorie antiche si era calcolato che la collisione di masse cosmi­ che dovesse generare calore, ma si era ben lontani dal valutare anche solo con approssimazione fino a quale valore potesse giungere questo calore. Oggi siamo in grado di dare con certezza alcuni valori numerici. Se ci riferiamo, dunque, al presupposto che all’inizio la densità della materia suddivisa in forma di nebulosa sia stata trascurabilmente piccola rispetto alla densità attuale del Sole e dei pianeti, possiamo calcolare quanto lavoro è stato compiuto nel processo di addensamento; possiamo inoltre calcolare quale parte di questo lavoro esista ancora nella forma di forza meccanica, come at­ trazione dei pianeti sul Sole e come forza viva del loro movimento, trovando così, di conseguenza, quale parte di lavoro è stata trasformata in calore. Il risultato di questo calcolo è che soltanto la 443ma parte, all’incirca, della forza meccanica originaria esiste come tale, e che il resto, trasformato in calore, basta per scaldare di non meno di 28 milioni di gradi C° una

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massa d’acqua, grande come la massa del Sole e dei pianeti presi insieme. Come termine di confronto cito qui che la più alta temperatura, che ci sia dato di pro­ durre in un’atmosfera di ossigeno — una temperatura, alla quale persino il platino fonde ed evapora, e soltanto pochissimi elementi conosciuti rimangono solidi — si valuta intorno ai 2000 gradi. Non siamo in grado di farci alcuna idea degli effetti, che devono essere attri­ buiti a una temperatura di 28 milioni di gradi. Se la massa di tutto il sistema solare fosse costituita di puro carbone, e il tutto fosse bruciato, si genererebbe forse la 3500ma parte della quantità di calore suddetta. È chia­ ro che un così grande sviluppo di calore dev’essere stato l’ostacolo maggiore al rapido unificarsi delle masse, e che forse la maggior parte di questo calore dovette per­ dersi verso l’esterno, nello spazio cosmico, mediante ir­ radiazione, prima che le masse potessero formare corpi tanto densi, quanto lo sono oggi i pianeti e il Sole. Quando tali masse si formarono, le loro parti costituti­ ve poterono essere soltanto dei fluidi infuocati, quel che, del resto, è confermato nel caso della Terra da fenomeni geologici, mentre la forma di sfera appiattita, che è la forma di equilibrio di una massa fluida rotante, anche nel caso di tutti gli altri corpi del nostro sistema rinvia ad uno stato fluido originario. Quando io ammet­ to che nel nostro sistema sia andata perduta, senza esse­ re surrogata da altro, una straordinaria quantità di calo­ re, non contraddico al principio di conservazione della forza. Tale quantità è, sì, andata perduta per il nostro sistema planetario, ma non per l’universo. Essa ha pro­ gredito e progredisce ancora giornalmente nello spazio infinito, e noi non sappiamo se il mezzo, che trasmette le vibrazioni luminose e termiche, abbia un confine, do-

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ve i raggi debbano tornare indietro, o se i raggi prose­ guano per sempre all’infinito il loro cammino in avanti. (H. von Helmholtz, ’Ober die 'Wechselwirkung der Naturkràfte und die darauf bezùglichen neuesten Ermittelungen der Physik, Kònigsberg 1854; trad. it. a cura di V. Cappelletti, in Opere, Torino, Utet, 1967, pp. 232-36J

II/ PROBLEMI: GEOMETRIE, SPAZIO E FILOSOFIA

Altri problemi emergono a proposito del significato della parola ‘spazio’. Se le nuove geometrie mettono in discus­ sione il primato della struttura euclidea, come si dovrà ana­ lizzare lo spazio fisico, sede di tutti i fenomeni? Quali rap­ porti esistono tra le nostre esperienze quotidiane, da secoli inquadrate in uno spazio euclideo tridimensionale, le leggi del moto, ritenute valide in uno spazio newtoniano inerte rispetto ai fenomeni, e gli assiomi geometrici? Lobadevskji comincia a chiedersi in che modo la gravitazione è connessa alla nozione di distanza, e Riemann analizza le tesi sul carattere empirico della geometria e sulla natura dello spa­ zio, ponendo quesiti che riguardano il rapporto tra geome­ tria e « dominio delle percezioni reali ». Ciò riguarda le grandi porzioni astronomiche dello spazio, ma, scrive Rie­ mann, « i problemi relativi alle relazioni metriche nell’incommensurabilmente piccolo non sono problemi oziosi ». La nuova filosofia dello spazio si deve basare sulle rela­ zioni metriche: ma qui, nuovamente, si tocca la fisica. Scri­ ve Riemann: « o gli enti reali che sono alla base di uno spazio debbono costituire una varietà discreta, oppure il fondamento delle relazioni metriche deve essere cercato al­ trove, nelle forze che agiscono su di essi tenendoli as­ sieme ». Secondo Helmholtz l’insieme delle questioni geometriche sullo spazio permette di meglio capire la situazione conosci­ tiva delle leggi della meccanica. Queste ultime hanno bi­ sogno della nozione di corpo rigido, e gli assiomi della geometria parlano appunto « del comportamento meccanico dei corpi affatto rigidi durante il moto ». Negli stessi anni molti fisici, a partire da Faraday, si interrogano sullo spazio fisico in base alle nuove conce­ zioni secondo cui il cosmo non si regge sull’azione a distan-

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LA RELATIVITÀ

za ma sull’azione per contatto; come già si è detto nell’Iwtreduzione, la dinamica di tali temi è vivace, e gli immagi­ nari esseri bidimensionali che viaggiano su superfici varia­ mente incurvate, costruendo geometrie diverse da quelle ‘usuali’, si diffondono nella pubblicistica scientifica, oltre che nelle memorie degli scienziati. Una parte della filosofia reagisce negando il problema, criticandone l’enunciabilità, cercando nel passato le norme che possano garantire la cer­ tezza di categorie spaziali ormai travolte dal crescere di teoremi e corollari. Stallo, nel 1881, condanna i nuovi geo­ metri definendoli dei settari i quali si permettono di semi­ nare dubbi illeciti sui fondamenti della conoscenza umana.

1. Lobacevskij: geometria e fisica.

Di una cosa tuttavia non è permesso dubitare: che le cose da sole generano tutto: movimento, velocità, tem­ po, massa, perfino distanze ed angoli. Con le forze, tut­ to si trova in stretto legame: non riuscendo a cogliere l’essenza di tale legame, non possiamo affermare se nelle relazioni di grandezze eterogenee tra di loro deb­ bono intervenire soltanto i loro rapporti. Ammettendo la dipendenza dal rapporto, perché non supporre anche la dipendenza senz’altro? Alcuni casi parlano già a favo­ re di questa opinione: la grandezza della forza di attra­ zione, ad esempio, si esprime con la massa, divisa per il quadrato della distanza. Per distanza uguale a zero, que­ sta espressione, propriamente, non rappresenta nulla. È necessario cominciare con una distanza purchessia, grande o piccola, ma sempre effettiva, e solo allora la forza compare. Ora si chiede: la distanza come mai ge­ nera questa forza? come mai sussiste nella natura que­ sto legame tra oggetti così eterogenei? Non riusciremo probabilmente mai a pervenire a ciò; ma quando è vero

PROBLEMI: GEOMETRIE, SPAZIO E FILOSOFIA

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che le forze dipendono dalle distanze, allora i segmenti possono del pari essere dipendenti dagli angoli. Nei due casi la eterogeneità è parlomeno equivalente: la loro differenza non è racchiusa a proprio dire nel concetto, ma soltanto nel fatto che noi conosciamo la prima di­ pendenza dalle esperienze, mentre, per le imperfezioni delle osservazioni, dobbiamo supporre mentalmente la seconda, o al di là dei confini del mondo visibile, o nell’angusta sfera delle attrazioni molecolari. (N. I. Lobacevskij, Nuovi principi della geometria con una teo­ ria completa delle parallele, 1835-38, trad. it. di L. Lombardo Radice, Torino, Boringhieri, 1974, p. 66)

2. Riemann: il carattere empirico della geometria. È noto come la geometria presupponga come qual­ cosa di dato non solo il concetto di spazio ma anche i primi concetti fondamentali per effettuare delle costru­ zioni spaziali. Di questi concetti essa fornisce solo defini­ zioni nominali, mentre le determinazioni essenziali in­ tervengono sotto forma di assiomi. Il rapporto esistente tra questi presupposti viene lasciato in ombra; non si vede se esso è necessario e fino a che punto e neppure se è a priori possibile. Da Euclide fino a Legendre, per nominare solo il più famoso dei moderni edificatori della geometria, que­ sto aspetto oscuro del problema non è stato chiarito né dai matematici, né dai filosofi, che attorno a esso si sono affaticati. [....] Di qui nasce il problema di scoprire i fatti più semplici con cui si possono determinare le rela­ zioni metriche dello spazio, problema di per sé non in­ teramente determinato; si possono infatti stabilire di­ versi sistemi di fatti semplici, sufficienti a determinare

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LA RELATIVITÀ

le relazioni metriche dello spazio; per gli scopi attuali il più importante è quello preso come base da Euclide. Questi fatti, come tutti i fatti, non sono di per sé neces­ sari, ma hanno una certezza soltanto empirica, sono ipo­ tesi; si può quindi studiarne la probabilità, che entro i limiti dell’osservazione è estremamente elevata, e deci­ dere poi se è lecito estenderli al di là dei limiti del­ l’osservazione, sia verso l’incommensurabilmente grande che verso l’incommensurabilmente piccolo. (B. Riemann, Ueber die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen, 1854, 1867, traci, it. in A. Einstein, Relatività: esposizione divulgativa, e scritti classici su Spazio, Geometria Fisica, a cura di B. Carmignani, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 204-5)

3. Riemann: la natura dello spazio. Sembra che i concetti empirici su cui sono basate le misurazioni spaziali, in particolare i concetti di corpo so­ lido e di raggio luminoso, cessino di valere nell'infinitàmente piccolo; di conseguenza si può benissimo conce­ pire che nell’infinitamente piccolo le relazioni metriche dello spazio non siano in accordo con i postulati della geometria, e di fatto si sarebbe costretti a fare questa ammissione non appena essa permettesse una più sem­ plice spiegazione dei fenomeni. Il problema della validità dei postulati della geome­ tria nell’infinitamente piccolo è connesso col problema del fondamento interno delle relazioni metriche dello spazio. In questo problema, che si può a ragione consi­ derare proprio della filosofia dello spazio, trova applica­ zione l’osservazione precedente, che mentre in una varie­ tà discreta il principio delle relazioni metriche è implici­ to nella nozione di questa varietà, nel caso di una

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varietà continua deve venire da qualche altra parte. Quindi, o gli enti reali che sono alla base di uno spazio debbono costituire una varietà discreta, oppure il fon­ damento delle relazioni metriche deve essere cercato al­ trove, nelle forze che agiscono su di essi tenendoli assieme. Possiamo arrivare a una soluzione di questi problemi solo partendo dall’organizzazione dei fenomeni, della quale Newton pose le basi, che è stata finora conferma­ ta dall’esperienza, e modificandola gradualmente sotto la spinta di fatti che essa non può spiegare. Ricerche che come la presente partono da nozioni generali, pos­ sono solo aiutare a che questo compito non sia reso più difficile da concezioni anguste, e che i pregiudizi della tradizione non impediscano il progresso nella conoscen­ za della connessione [...] delle cose. Questo ci conduce nel campo di un’altra scienza, quel­ lo della fisica, nel quale la natura del presente lavoro non ci consente di addentrarci. (B. Rieman, Ueber die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen, trad. it. cit., pp. 219-20)

4. Helmholtz: gli ipotetici esseri bidimensionali e le questioni geometriche sullo spazio.

Immaginiamo — ciò non è logicamente impossibile — che esistano esseri dotati di ragione, bidimensionali, viventi e moventisi sulla superficie d’uno dei nostri cor­ pi solidi. Ammettiamo che essi non possano percepire alcunché fuori di questa superficie, ma che possano per­ cepire in modo simile al nostro entro l’àmbito della su­ perficie su cui si muovono. Se tali esseri costruissero la loro geometria, attribuirebbero naturalmente al loro spa-

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LA RELATIVITÀ

zio due sole dimensioni. Essi determinerebbero che un punto in movimento descrive una linea e che una linea in movimento descrive una superficie: ciò costituirebbe la più completa struttura spaziale da loro conosciuta. Ma esseri bidimensionali riuscirebbero tanto poco a rap­ presentarsi un’ulteriore struttura dello spazio, che po­ trebbe formarsi se una superficie si muovesse uscendo fuori dal proprio spazio superficiale, quanto riusciremmo noi a rappresentarci una struttura formantesi per il mo­ vimento d’un corpo fuori dello spazio che ci è noto. Con l’espressione molto abusata « rappresentarsi », o con l’altra « poter immaginare che cosa accadrebbe » intendo dire — e non vedo come si possa intendere alcunché di diverso, a meno di togliere alle parole ogni significato — che una persona riesca a raffigurarsi la serie delle impressioni sensibili, che avrebbe se gli si presentasse un caso siffatto. Ma non essendo conosciuto alcun dato sensoriale, che si riferisca a un fenomeno mai osservato, com’è per noi il movimento in una quarta dimensione, e per esseri bidimensionali il movimento nella terza dimensione dello spazio, a noi ben nota, il su detto « rappresentarsi » sarebbe impossibile, come lo è per un cieco nato « rappresentarsi » i colori, quand’an­ che altri possa dargliene una descrizione teorica. Gli esseri bidimensionali, inoltre, potrebbero anche tracciare linee brevissime nel loro spazio superficiale. Non si tratterebbe necessariamente di linee rette nel nostro senso, ma di quel che noi, con la terminologia geometrica, chiameremmo linee geodetiche della superfi­ cie, dove quegli esseri si troverebbero a vivere; linee, come quelle che descrive un filo teso, posto sulla su­ perficie in tale modo che nulla gl'impedisca di scorrere su di essa. In seguito mi permetterò di chiamarle linee

problemi: geometrie, spazio e filosofia

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rettissime della supeidìcie considerata (relativamente a un dato spazio), per porre in rilievo l’analogia tra esse e le linee rette del piano. Spero che quest’espressione av­ vicini il concetto all’intuito dei non matematici senza confondere le idee. Se esseri cosiffatti vivessero poi su un piano infinito, essi formulerebbero una geometria identica alle nostre teorie pianimetriche. Essi sosterrebbero che tra due pun­ ti è possibile soltanto una linea retta; che per un terzo punto fuori di essa può essere tracciata una parallela soltanto alla retta data; che le altre rette possono essere prolungate all’infinito senza incrociarsi una seconda vol­ ta, e così via. Lo spazio degli esseri da noi ipotizzati potrebbe estendersi all’infinito, ma quand’anche questi esseri urtassero contro un limite alla loro possibilità di muoversi e di percepire, nulla vieterebbe loro di rappre­ sentarsi in modo intuitivo un prolungamento oltre tale limite. Così lo spazio finirebbe con il sembrar loro in­ finito, proprio come accade a noi rispetto al nostro spa­ zio, sebbene anche noi possiamo abbandonare fisicamen­ te la Terra, e il nostro sguardo arrivi soltanto fino a dove vi sono stelle fisse visibili. Esseri intelligenti cosiffatti potrebbero, però, vivere anche sulla superficie d’una sfera. Le loro linee brevis­ sime ovvero rettissime tra due punti sarebbero allora un arco del circolo massimo, che si può far passare attra­ verso i punti considerati. Ogni circolo massimo, che pas­ sa attraverso due punti dati, si divide, pertanto, in due parti. Se queste sono di diversa lunghezza, la parte più breve è senza dubbio l’unica linea brevissima sulla sfera, che passi tra i due punti dati. Ma anche l’altro arco, il maggiore, dello stesso circolo massimo, è una linea geo­ detica ossia Tetrissima, ovvero ogni suo segmento è una

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linea brevissima tra le proprie estremità. Data questa circostanza, non possiamo senz’altro identificare il con­ cetto della linea geodetica o rottissima con quello della linea brevissima. Se, poi, i due punti dati rappresentano le estremità di uno stesso diametro, tutti i piani passan­ ti per questo diametro individuano sulla superficie della sfera semicerchi, i quali tutti sono linee brevissime tra le estremità. In tal caso vi sono, dunque, infinite linee brevissime, uguali l’una all’altra, fra i due punti dati. L’assioma, secondo cui c’è soltanto una linea brevissima tra due punti, non potrebbe perciò valere senza un certo margine d’eccezione per gli esseri abitanti sulla sfera. Questi esseri viventi su una sfera non conoscerebbero linee parallele. Essi sosterrebbero che due linee Lettis­ sime qualsiasi, opportunamente prolungate, finiscono con l’intersercarsi non in uno, ma in due punti. La som­ ma degli angoli d’un triangglo sarebbe sempre maggiore di due retti, tanto più quanto più grande è la superficie del triangolo. Proprio per questo a tali esseri manche­ rebbe anche il concetto della somiglianza di forma geo­ metrica tra le figure più e meno grandi dello stesso tipo. Il triangolo maggiore avrebbe, infatti, di necessità ango­ li diversi dal minore. Quanto allo spazio, per esseri viventi su una sfera esso sarebbe certamente illimitato, ma si troverebbe ad avere un’estensione finita, o almeno si dovrebbe rappresentarlo così. È chiaro, dunque, che esseri viventi su una sfera, pur essendo dotati delle medesime facoltà logiche, for­ mulerebbero un, sistema di assiomi geometrici affatto diverso da quello che potrebbero formulare gli esseri viventi sul piano e noi stessi, che viviamo invece in uno spazio a tre dimensioni. Già questi esempi mostrano che, secondo il tipo dello spazio ambientale, esseri dota-

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ti di capacità intellettive affatto corrispondenti alle no­ stre formulerebbero assiomi geometrici diversi. (H. von Helmholtz, Ueber den Ursprung und die Bedeutung der geometrischen Axiome, conferenza all’Unione dei docenti di Heidelberg, 1870, trad. it. in Opere di Helmholtz dt., pp. 504-7)

5. Helmholtz: superfici pseudosferiche e rappresenta­ zione dello spazio. Ma andiamo avanti. Immaginiamo che esistano esseri dotati di ragione alla superficie d’un corpo a forma di uovo. Fra tre punti d’una superficie cosiffatta sarebbe possibile tracciare linee brevissime, e costruire così un triangolo. Ove si cercasse, però, di costruire triangoli congruenti in diverse aree di tale superficie, si trovereb­ be che due triangoli aventi uguali i lati più lunghi avrebbero angoli disuguali. Disegnando il triangolo al­ l’estremità aguzza dell’uovo, la somma dei suoi angoli sarebbe diversa da due retti più di quanto lo sarebbe la somma degli angoli d’un triangolo disegnato sull’estre­ mità ottusa; ne risulta che su una superficie cosiffatta neppure una struttura spaziale semplice come un trian­ golo può essere spostata da un punto all’altro senza subire modificazioni di forma. Parimente si vedrebbe che, disegnando sulla superficie d’un uovo cerchi di ugual raggio (la lunghezza dei raggi misurata dalle linee bravissime a decorso superficiale), la loro parte periferi­ ca sarebbe maggiore nel caso dei cerchi disegnati sul­ l’estremità ottusa. Ne segue che la possibilità di spostare figure giacenti su una superficie senza modificazioni delle linee e degli angoli — misurati le une e egli altri lungo la superficie

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— è una particolare proprietà geometrica della super­ ficie medesima, onde questo non accadrà in ogni caso. Già Gauss aveva dimostrato, nel suo famoso lavoro sul­ la curvatura delle superfici, quale fosse la condizione a ciò necessaria. La condizione consiste nel fatto che « il grado di curvatura » — così Gauss chiama il valore reciproco del prodotto dei due principali raggi di curva­ tura — abbia sempre lo stesso valore per tutta l’esten­ sione della superficie. Gauss ha dimostrato simultaneamente che questo gra­ do della curvatura non si modifica se la superficie è piegata senza con ciò subire una dilatazione o una con­ trazione in una parte qualsiasi. Noi possiamo arrotolare un foglio di carta piana e farne un cilindro o un cono senza che mutino le dimensioni, misurate sulla super­ ficie del foglio, delle figure disegnate su di esso. E così pure possiamo dare una forma affusolata alle metà se­ micircolari chiuse d’una vescica di maiale senza che cam­ bino i risultati delle misure superficiali. Anche la geo­ metria sarà, dunque, la stessa su un piano e su una superficie cilindrica. In quest’ultimo caso dobbiamo pen­ sare soltanto che innumerevoli strati di questa superficie giacciono l’uno sull’altro, come nel caso d’un foglio di carta piegato su se stesso, e che dopo un giro completo intorno al cilindro si passa su uno strato diverso dal precedente. Queste osservazioni sono necessarie per poter dare un’idea di un tipo di superficie, la cui geometria è affatto simile a quella piana, e per la quale però non sussiste l’assioma delle linee parallele. Trattasi d’un tipo di su­ perficie curva, che dal punto di vista geometrico si com­ porta come l’opposto d’una sfera, e che perciò è stata chiamata « superficie pseudosferica » dall’insigne mate-

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matico italiano E. Beltrami, che ne ha studiato le pro­ prietà. È, questa, una superficie a forma di sella, di cui solo aree o strisce limitate possono essere coerentemen­ te rappresentate nel nostro spazio, ma che può immagi­ narsi prolungata all’infinito in tutte le direzioni, in quan­ to si può pensare che le parti marginali della superficie costruita si ripieghino verso il centro e si prolunghino. Il tratto della superficie ripiegato deve pertanto modifi­ care il suo incurvamento, ma non le sue dimensioni, proprio come si può tirare in qua e in là un foglio di carta in un cono formatosi per ravvolgimento d’una su­ perficie piana in forma di cartoccio. Il foglio di carta si adatta dovunque alla superficie conica, ma esso dev’es­ sere più fortemente piegato in prossimità della punta

A

a

a

b-

b

B Fig. 1

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LA RELATIVITÀ

del cono, e non è possibile manovrarlo in modo tale, che esso continui ad aderire al cono dato e al suo pro­ lungamento ideale di là dalla punta. Come il piano e la sfera, le superfici pseudosferiche hanno una curvatura costante, cosicché ogni parte di esse può stare su qualsiasi altra aderendovi perfettamen­ te, e perciò tutte le figure costruite in una data area della superficie possono essere trasportate in qualsiasi altra, in forma perfettamente congruente e con ugua­ glianza perfetta di tutte le dimensioni giacenti sulla su­ perficie. Il grado di curvatura secondo Gauss, che è po­ sitivo per la sfera ed è uguale a zero per il piano, avrebbe un valore costante negativo per le superfici pseudosferiche, poiché le due curvature principali d’una superficie a forma di sella avrebbero la concavità da parti opposte. Una striscia d’una superficie pseudosferica può esse­ re, ad esempio, rappresentata come superficie di un anel­ lo. Si pensi a una superficie aabb, come nella fig. 1, incurvata intorno all’asse di simmetria AB: allora i due archi ab descriverebbero una tal superficie anulare pseu­ dosferica. I due margini della superficie: il superiore aa e l’inferiore bb si piegherebbero verso l’esterno con curvatura vieppiù accentuata finché la superficie verreb­ be a disporsi perpendicolarmente all’asse, con una cur­ vatura infinita dell’orlo. La metà d’una superficie pseu­ dosferica potrebbe anche essere avvolta in modo tale da formare una bottiglia di champagne con un collo prolungantesi all’infinito e sempre più sottile, come nella fig. 2. Ma da una parte essa è delimitata di necessità da uno spigolo netto, oltre il quale non è possibile prolun­ gare direttamente la superficie. Supponendo, però, che ogni segmento del margine sia tagliato e spostato lungo

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la superficie dell’anello o della bottiglia di vetro, si può dargli una diversa curvatura in punti donde sia poi pos­ sibile prolungare il tratto di superficie pseudosferica. In tal modo si possono anche prolungare all’infinito le linee rettissime della superficie pseudosferica. Esse non tornano su se stesse come le linee tracciate su un cilindro, ma, come nel caso del piano, tra due punti dati c’è sempre una sola linea più breve di tutte le altre. L’assioma delle parallele, però, non vale. Se è data sulla superficie una linea rettissima e un punto fuori di essa, attraverso il punto passa un intero fascio di linee rettis­ sime, le quali tutte non intersecano la linea data quan-

Fig. 2

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d’anche siano prolungate all’infinito. Esse giacciono tra due linee rettissime, che delimitano il fascio. L’una di queste, prolungata all’infinito, incontra all’infinito la li­ nea data se prolungata da una parte, l’altra l’incontra se prolungata dall’altra parte. Tale geometria, che rinunzia all’assioma delle paralle­ le, è stata, del resto, completamente elaborata già nel 1829 dal matematico N. J. Lobacevskij di Kazan’, se­ condo il metodo sintetico di Euclide. Si vide che il si­ stema di questa geometria poteva essere svolto, come quello euclideo, in modo conseguente e non contraddit­ torio. Esso coincide con il sistema geometrico delle superfici pseudosferiche, quale è venuto costruendo il Beltrami in tempi recenti. Nella geometria bidimensionale, dunque, il presuppo­ sto che ogni figura possa essere spostata ovunque con­ servando immutate le dimensioni giacenti sulla super­ ficie, caratterizza la superficie considerata come piano o come sfera o come superficie pseudosferica. L’assioma, che tra due punti c’è sempre una sola linea più breve di tutte le altre, distingue il piano e la superficie pseudo­ sferica dalla sfera, mentre l’assioma delle parallele di­ stingue il piano dalla pseudosfera. Questi tre assiomi sono, dunque, necessari e sufficienti a caratterizzare co­ me superficie piana quella superficie, cui si riferisce la planimetria euclidea, in opposizione a tutte le altre strut­ ture spaziali bidimensionali. La differenza tra la geometria del piano e la geome­ tria della superficie sferica è stata per lungo tempo chia­ ra e intuitiva, ma il senso dell’assioma delle parallele potè essere compreso solo quando Gauss ebbe svolto il concetto delle superfici incurvabili senza dilatazione, e dimostrato la possibilità di prolungare all’infinito le

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superfici pseudosferiche. Come abitatori d’uno spazio a tre dimensioni, dotati altresì di strumenti sensoriali idonei a parcepirle tutte, possiamo senza dubbio rap­ presentarci in modo intuitivo le diverse circostanze in cui esseri appiattiti si troverebbero a dover intuire il proprio spazio, poiché a tal fine ci basta di riferire le nostre intuizioni a un àmbito più ristretto. È facile immaginarsi intuizioni, come quelle che si sono avute, ma è molto difficile rappresentarsi sensibilmente intui­ zioni, per le quali non si disponga di alcuna analogia. Perciò, quando andiamo oltre lo spazio a tre dimensio­ ni, la nostra facoltà rappresentativa è ostacolata dalla struttura dei nostri organi e da quelle esperienze ad essa collegate, che convengono soltanto allo spazio in cui vi­ viamo. (H. von Helmholtz, Ueber den Usprung, trad. it. cit., pp. 507-13)

6. Helmholtz: geometria e movimento.

Infine vorrei ancora rilevare che gli assiomi geometri­ ci non sono proposizioni, che appartengano soltanto alla pura teoria dello spazio. Come ho già ricordato, essi parlano di grandezze. Si può parlare di grandezze quan­ do si conosca e si abbia in mente un procedimento, con il quale si possano confrontare tali grandezze, dividerle in parti e misurarle. Tutte le misure spaziali, e perciò, in generale, tutti i concetti di grandezze applicati allo spa­ zio, presuppongono la possibilità del moto di enti spa­ ziali, la cui forma e le cui dimensioni possano essere considerate immutabili nonostante il movimento. Nella geometria si è soliti designare queste forme spaziali solo come corpi geometrici, superfici, angoli, linee, poiché si

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fa astrazione da tutte le altre differenze di tipo fisico e chimico tra gli stessi corpi; ma se ne conserva una pro­ prietà fisica, la rigidità. Quanto alla rigidità dei corpi e delle strutture spaziali, tuttavia, non abbiamo altro con­ trassegno di essa se non che gli uni e le altre, congiunti reciprocamente in qualsiasi istante e luogo, e dopo ogni rotazione, mostrano sempre le medesime congruenze di prima. Ma non possiamo decidere con mezzi puramente geometrici, senza far ricorso a considerazioni meccani­ che, se i corpi congiunti tra loro non si siano trasforma­ ti entrambi nello stesso senso. Se trovassimo utile ciò a qualche fine, potremmo con­ siderare, in modo affatto logico, lo spazio nel quale vi­ viamo come lo spazio apparente dietro a uno specchio convesso, il cui fondo sia abbreviato e contratto; oppu­ re potremmo considerare una sfera limitata del nostro spazio, oltre il cui limite non riuscissimo più a percepire nulla, come lo spazio infinito pseudosferico. In tal caso saremmo costretti ad attribuire ai corpi che ci appari­ scono rigidi, e al nostro stesso corpo, le corrispondenti simultanee dilatazioni e abbreviazioni, e a cambiare del tutto il sistema dei nostri principi meccanici. Già la legge, secondo la quale ogni punto in movimento, non soggetto a forze, si muove in linea retta con velocità immutata, non conviene più all’immagine, che raffigura­ va il mondo in uno specchio pseudosferico. La traietto­ ria sarebbe ancora rettilinea, ma la velocità dipendereb­ be dal luogo. Gli assiomi geometrici, dunque, parlano non soltanto di rapporti spaziali, ma nello stesso tempo anche del comportamento meccanico dei corpi affatto rigidi duran­ te il moto. Senza dubbio, il concetto dell’entità geome­ trica rigida potrebb’essere considerato come un concetto

problemi: geometrie, spazio e filosofia

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trascendentale, che si costituirebbe indipendentemente dalle esperienze reali, e al quale queste non dovrebbero di necessità corrispondere, tanto più che, in effetti, i corpi naturali non corrispondono del tutto neppure ai concetti che si siano ottenuti da essi per via induttiva. Ammettendo un tal concetto, ideale, della ragidità, un seguace rigoroso di Kant potrebbe indubbiamente con­ siderare gli assiomi geometrici come proporzioni date a priori attraverso l’intuizione trascendentale, le quali non sarebbero passibili né d’una conferma né d’una smentita empirica, poiché proprio in base ad esse si dovrebbe decidere se un corpo naturale è o non è un corpo rigido. Allora, però saremmo tenuti a sostenere che, secondo questo modo di vedere le cose, gli assiomi geometrici non sono proposizioni sintetiche nel senso di Kant. Essi affermerebbero alcunché derivante per via analitica dal concetto delle entità geometriche rigide necessarie alla misura, poiché potrebbero essere riconosciute come ri­ gide solo le entità, che soddisfano a quegli assiomi. Ma se aggiungiamo gli assiomi geometrici delle pro­ posizioni riferentesi alle proprietà meccaniche dei corpi naturali — anche se si tratta del solo principio d’iner­ zia, o del principio secondo cui le proprietà meccaniche e fisiche dei corpi a parità di altre condizioni non pos­ sono dipendere dal luogo dove i corpi stessi si trovano —, allora un tale sistema assiomatico possiede un con­ tenuto reale, che può essere confermato o confutato dal­ l’esperienza, ma proprio perciò acquisito, anche, con l’esperienza. Non intendo, com’è ovvio, sostenere che l’umanità abbia acquisito intuizioni dello spazio corrispondenti agli assiomi euclidei soprattutto attraverso sistemi accu­ ratamente elaborati di precise misure geometriche. An-

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zi, una serie di esperienze quotidiane, e soprattutto l’in­ tuizione di quell’affinità geometrica tra corpi più o me­ no grandi, che è possibile soltanto nello spazio piano, dovette far sì che fosse respinta come impossibile ogni intuizione geometrica contraddittoria a tale circostanza. Per questo non si richiedeva alcuna conoscenza del nes­ so concettuale tra il dato di fatto dell’affinità geometrica e gli assiomi, ma solo la conoscenza intuitiva di un com­ portamento tipico, acquisita attraverso numerose e pre­ cise osservazioni dei rapporti spaziali: come quella che l’artista possiede degli oggetti che deve raffigurare, e per mezzo della quale decide con sicurezza e con finezza d’intelletto se una nuova combinazione di effetti natura­ li corrisponda o no all’oggetto da raffigurarsi. « Intui­ zione » è, appunto, la parola che indica nel nostro lin­ guaggio ima conoscenza come quella prima descritta; ma trattasi d’una conoscenza empirica, che la nostra memo­ ria acquisisce mediante accumulo e rafforzamento di suc­ cessive impressioni omogenee: non d’una forma trascen­ dentale dell’intuizione, che sia data prima d’ogni espe­ rienza. Né debbo soffermarmi qui più a lungo sul fatto che tali intuizioni di un comportamento tipico, regolare, ottenute per via empirica e non ancora portare alla chia­ ra determinatezza del concetto, si siano abbastanza spes­ so imposte ai metafisici come princìpi dati a priori. (H. von Helmholtz, Ueber den Ursprung, trad. it. cit., pp. 529-31)

7. Stallo: contro le nuove geometrie e le loro connes­ sioni con lo spazio fisico.

I punti essenziali della nuova fede geometrica sono indubbiamente sorprendenti. Fra essi troviamo proposi-

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zioni quali le seguenti: il nostro spazio ordinario, Eucli­ deo, tridimensionale e « omaloidale » (piatto) è solo una delle diverse forme possibili dello spazio; il preva­ lere di questo spazio Euclideo sulle altre forme spaziali si può mantenere unicamente su terreni empirici, e, dal punto di vista delle credenze logiche e psicologiche della scuola sensazionalista, dipende soltanto dagli accidenti dell’associazione delle nozioni, il che può essere rove­ sciato (e, nell’opinione di alcuni entusiasti difensori del­ le nuove dottrine, ciò è già accaduto) dalla scoperta che l’esistenza di dimensioni addizionali è un’inferenza ne­ cessaria da certi fatti dell’esperienza che non può essere spiegata in altro modo — e così si dice che la terza dimensione dello spazio non è direttamente percepita, ma è semplicemente inferita da fatti familiari dell’espe­ rienza visiva o tattile, per la cui spiegazione la terza dimensione è un postulato indispensabile; lo spazio ve­ ro e reale, quindi, ha, o almeno potrebbe avere in base a quanto è noto, non tre, ma quattro o ancor più dimen­ sioni; lo spazio in cui viviamo è o può essere non oma­ loidale o piatto, ma essenzialmente non omaloidale, cur­ vo, sferico o pseudo sferico, di modo che ogni linea che sino ad oggi abbiamo considerato come retta possa, se prolungata a sufficienza, dimostrarsi come curva chiusa; a causa della curvatura inerente ed essenziale dello spazio, l’universo, pur essendo illimitato, può essere, e probabilmente è, non infinito ma finito; nell’ipotesi del carattere pseudo sferico dello spazio, un intero fascio di « linee più brevi » può essere tracciato attraverso un medesimo punto, essendo tali linee tutte parallele ad un’altra « linea più breve » nel senso che esse, per quan­ to vengano prolungate, non si incontreranno mai con quest’ultima; non solo la misura della curvatura dello

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spazio, ma anche il numero delle sue dimensioni, può essere, e probabilmente è, differente in regioni spaziali differenti, così che non si può trarre, a partire dalle nostre esperienze in regioni dove ci capiti di soggiorna­ re, alcuna inferenza valida a proposito della curvatura o delle dimensioni dello spazio incommensurabilmente lon­ tano o incommensurabilmente piccolo; in ogni regione data sia la curvatura dello spazio, sia il numero delle sue dimensioni, possono essere soggette, e probabilmen­ te lo sono, a graduali trasformazioni; e così via. (J. B. Stallo, The Concepts and Theories of Modern Physics, New York, D. A. Appleton and Co., 1881, e Cambridge, Har­ vard University Press, 1960, pp. 224-25)

8. Stallo: contro Riemann e la sua non conoscenza del­ le vere discussioni sulla natura dello spazio.

Il saggio di B. Riemann, Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, deve la sua grande celebrità al fatto che egli era un analista di primo ordine, uno degli allievi prediletti di Gauss, sotto la cui ispirazione, se non per suo suggerimento, il saggio fu scritto — e da Gauss infatti, poco prima della sua morte, il saggio ven­ ne presentato, nel 1854, alla facoltà di filosofia di Got­ tinga, in una situazione in cui lo stesso Gauss avallava le principali proposizioni riemanniane indicandole come una esposizione delle sue opinioni speculative. Ogni let­ tore intelligente di questo saggio sarà d’accordo con me, penso, sul fatto che il merito intrinseco del saggio in questione non è affatto paragonabile all’attenzione con cui è stato accolto e all’interesse che ancora lo circonda. Non solo le sue asserzioni, sia per quanto riguarda il problema generale, sia per quanto riguarda i metodi di

PROBLEMI: GEOMETRIE, SPAZIO E FILOSOFIA

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soluzioni proposti, sono rozze e confuse, ma va anche detto che esse sono contrassegnate dalla estremamente imperfetta familiarità di Riemann con la natura dei pro­ cessi logici e, addirittura, con il significato dei termini logici. È chiaro, sulla base dell’intero saggio, che il suo autore era del tutto estraneo alle discussioni sulla natu­ ra dello spazio che con tanto vigore si sono sviluppate grazie ai migliori pensatori del nostro tempo sin dai tempi di Kant, e che egli aveva così scarsa conoscenza della storia della logica da non possedere il più debole sospetto a proposito della molteplice ambiguità di ter­ mini come « concetto » e « quantità », nonché a propo­ sito della necessità di definirli esattamente prima ancora di avviare una ricerca sui fondamenti del sapere umano. (J. B. Stallo, The Concepì and Theories of Modem Physics cit., P- 259)

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« Ho a lungo avuto dubbi, nella mia mente, a proposito delle considerazioni che sto per fare: forse esse sono più metafisiche che fisiche? ». Questo chiede Faraday nel 1857. I dati empirici che egli può raccogliere per parlare a favore della nozione di campo sono molti. Ma alcuni di essi con­ trastano con le linee generali che reggono quella nozione, nel significato assai vasto che lo stesso Faraday vuole at­ tribuirle. La tesi di Mossotti, secondo cui gli eventi gravi­ tazionali obbediscono ad una sola legge generale che com­ prende in sé la spiegazione di ogni altro fenomeno, può certamente confluire nell’idea che l’Universo intero sia rego­ lato dalle norme che presiedono all’azione per contatto. Ma, nello stesso tempo, mancano — o sono negativi — gli esperimenti che diano una conferma all’esistenza di intera­ zioni osservabili tra fatti gravitazionali e fatti elettromagne­ tici. Eppure, insiste Faraday, tali interazioni debbono esistere, e gli eventi gravitazionali debbono propagarsi nello spazio con velocità finita secondo linee di forza, analogamente a quando accade per gli eventi elettromagnetici. La ricerca sperimentale sulle modalità di tale propagazione implica la misurazione di intervalli di tempo, e ciò « non è più me­ tafisico che il segnare i tempi indicati dalle lancette di un orologio nel loro movimento ». Lo stesso vale per gli altri numerosi quesiti di Faraday. L’indagine sulle masse, sull’i­ nerzia e sul moto dei corpi non può limitarsi alla ripetizio­ ne della formula newtoniana: lo stesso Newton, scrive Fa­ raday, criticherebbe aspramente coloro i quali si rifugiano dietro le definizioni e ostacolano la ricerca delle cause più profonde dei fenomeni. È assurdo, continua il nostro auto­ re, « dire che dovrebbe esserci una potenza della gravità esistente di per se stessa, senza alcuna relazione con altre

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potenze naturali ». È invece necessario capire che « tutti i fenomeni della natura ci portano a credere che è unica la grande legge che tutto governa », e impegnarsi in ricerche più audaci. Maxwell concorda con Faraday. Ma l’impresa si scontra, non appena collocata nel contesto della matematizzazione, in paradossi. Mentre si può ricondurre il complesso elet­ tromagnetico all’azione di un mezzo — l’etere —, « l’ipote­ si che la gravitazione sorga dall’azione del mezzo circostan­ te [i corpi densi] conduce alla conclusione secondo cui ogni parte di quel mezzo possiede, quando non è perturba­ ta, una energia intrinseca enorme, mentre la presenza di corpi densi influenza il mezzo in modo tale da far diminuire questa energia ovunque esista una attrazione risultante ». Ebbene, scrive Maxwell, « io sono incapace di capire in qual modo un mezzo possa possedere tali proprietà »: e la ricerca si chiude. Ciò non significa, in alcun modo, il rifiuto di critiche all’ideologia edificata sulla fisica di Newton a proposito di spazi e tempi assoluti. Maxwell non ha dubbi: « ogni no­ stra conoscenza, sia essa di tempo che di spazio, è essen­ zialmente relativa ». E Tait insiste, comunque, che la de­ scrizione delle proprietà dello spazio non può in alcun mo­ do prescindere dalle analisi di Riemann o di Helmholtz. Nel 1885 Clifford parte dalla proposizione secondo cui « ogni posizione è relativa » e tenta di individuarne il si­ gnificato in rapporto alle nuove conoscenze sugli spazi cur­ vi. Ancora una volta ritorna il tema del rapporto tra « cau­ se fisiche » e « metrica »: in fin dei conti non vi sono ragioni, scrive Clifford, per non lavorare attorno all’ipotesi che il moto della materia altro non sia, « realmente », che una variazione nella curvatura dello spazio. La necessaria riduzione che Maxwell aveva dovuto ap­ portare, per ragioni matematiche, al programma di campo elaborato da Faraday, non si era frattanto limitata ad essere una ‘traduzione in formule’ dei dati empirici esistenti sul­ l’elettromagnetismo. Le equazioni maxwelliane del campo elettromagnetico avevano effettivamente unificato l’elettrici­ tà, il magnetismo e l’ottica, anche se molti fisici erano scet-

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tici di fronte a quella che Kelvin chiamava « una teoria di carta »: brillante ed elegante sul piano formale, ma non collegabile con la fisica del moto, la fisica maxwelliana, al pari di quella faradayana, faticava a penetrare nelle comuni­ tà scientifiche. Le ragioni di tale fatto, che può oggi appari­ re sorprendente, erano molteplici. L’eccessiva difficoltà delle procedure matematiche costituiva un ostacolo, in anni du­ rante i quali, ad esempio, molti studiosi di fisica nutrivano perplessità sull’utilità dei metodi matematici basati sul cal­ colo vettoriale e preferivano lunghissime operazioni formali ancorate a quello che veniva definito il più rassicurante e agevole metodo cartesiano. I vettori del campo elettroma­ gnetico, inoltre, non sembravano rispecchiare precise realtà dinamiche: da questo punto di vista, come osservavano in molti, la fisica di Maxwell era oscura, poiché non fondava i vettori su un significato fisico preciso. La nuova teoria, d’altra parte, metteva sul tappeto numerosi problemi, so­ prattutto nell’ottica, mentre le onde elettromagnetiche — nozione base dell’intera teoria — non si prestavano facil­ mente all’osservazione. Solo dopo i memorabili esperimenti di Hertz la nozione di onda elettromagnetica doveva assu­ mere una dignità empirica: ma anche dopo quelle esperien­ ze, lo scetticismo rimaneva, come risulta ad esempio dalle prefazioni o dalle note a piè di pagina delle prime tradu­ zioni del trattato maxwelliano, o dalle comunicazioni scien­ tifiche di scienziati come Helmholtz, che pure contribuirono a diffondere e a far gradualmente capire la nuova fisica del campo. Alla base delle perplessità stava il fatto che non era semplice capire quale realtà fisica fosse descritta dalle equa­ zioni del campo. Già Hertz aveva tentato di superare un simile ostacolo sostenendo che le equazioni di Maxwell non erano altro che le equazioni di Maxwell, e che non era legittimo cercare alle loro spalle una realtà descrivibile di­ versamente, un complesso di entità nascoste dietro i feno­ meni descritti compiutamente da quelle equazioni. In realtà la fisica del campo, con Faraday e con Maxwell, stava rivoluzionando l’intera immagine della natura. Come doveva affermare, molti decenni più tardi, Albert Einstein,

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Faraday e Maxwell avevano introdotto nella scienza un mu­ tamento di portata pari a quello di cui era stato artefice Isaac Newton. Le pagine del Trattato maxwelliano riporta­ te in questa sezione forniscono alcune indicazioni a proposi­ to di come quel mutamento coinvolgeva le nozioni di ‘mo­ dello’, di verità meccanica, di rapporto fra teoria empirica e metodo matematico.

1. Faraday: il tempo e le azioni della materia.

Ho a lungo avuto dubbi, nella mia mente, a proposi­ to delle considerazioni che sto per fare: forse esse sono più metafisiche che fisiche? Sono incapace di definire ciò che è metafisico nella scienza fisica; e sono del tutto contrario all’ammissione, facile e non retta da conside­ razioni, di una ipotesi sull’altra, essendo queste ultime spesso suggerite da induzioni assai imperfette a partire da un piccolo numero di fatti, o dall’osservazione assai imperfetta dei fatti stessi; ma, d’altra parte, penso che il filosofo possa essere audace nella sua applicazione di principi che sono stati sviluppati per mezzo di ricerche stringenti, che si sono stabiliti attraverso molte indagini e che crescono sempre più di forza. Per esempio, il tem­ po cresce di giorno in giorno d’importanza in quanto elemento nell’esercizio della forza. La terra si muove lungo la sua orbita nel tempo; la crosta terrestre si muo­ ve nel tempo; la luce si muove nel tempo; un elettro­ magnete richiede tempo per essere caricato da una cor­ rente elettrica: pertanto non vi è nulla di metafisico nell’indagare se la potenza, agendo a distanze sensibili, agisce o non agisce sempre nel tempo-, se essa agisce nel tempo e attraverso lo spazio, esse deve allora agire me­ diante linee di forza; e la nostra concezione della natura

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della forza può essere estremamente influenzata da con­ clusioni che possono essere fornite da esperimenti e da osservazioni sul tempo, essendo essa, forse, totalmente determinabile solo da tali esperimenti ed osservazioni. L’indagare sul tempo possibile durante il quale si eserci­ tano la forza gravitazionale, quella magnetica o quella elettrica, non è più metafisico che il segnare i tempi indicati dalle lancette di un orologio nel loro movi­ mento. (M. Faraday, On thè Conservalion of Force, in « Phil. Mag. », 4, 13, 1857, p. 226)

2. Faraday: l’azione gravitazionale e il principio di conservazione. Tenterò di illustrare alcuni punti che sono divenuti pressanti in rapporto al caso di una potenza che ha a lungo esercitato una grande attrazione su di me, a causa della sua estrema semplicità, la sua promettente natura, la sua universale presenza e la sua invariabilità in cir­ costanze analoghe; a proposito della quale, anche se già io ho fatto esperimenti che pure sono falliti, penso che la sperimentazione debba essere bene accetta: intendo parlare della forza di gravitazione. Credo di rappresen­ tare nel modo giusto l’idea comune di forza gravitazio­ nale dicendo che essa è una semplice forza attrattiva che 1 Faraday, basandosi sull’ipotesi di conversione tra diverse forze, aveva eseguito esperimenti il cui fine era quello di osservare intera­ zioni e conversioni tra elettricità e gravitazione. Tali esperimenti ave­ vano avuto esito negativo, ma Faraday non aveva rinunciato all’idea di una possibile osservazione di rapporti tra fenomeni elettrici e gravitazio­ nali. Egli, d’altra parte, aveva seguito una strategia analoga di fronte ai fenomeni osservabili nel settore della magnetoottica ed a quelli, allora non osservabili, nel settore dell’elettroottica. [N.d.C.]

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si esercita tra ogni coppia o fra tutte le particelle o le masse della materia, ad ogni distanza sensibile, ma con una intensità che varia inversamente con il quadrato della distanza. L’idea usuale di forza implica l’azione diretta a distanza; e tale concezione sembra presentare ben poche difficoltà, eccezion fatta per Newton e per poche altre persone, tra le quali figuro io stesso, che in proposito possono pensarla come lo stesso Newton. L’idea della gravità mi sembra ignorare completamen­ te il principio di conservazione della forza; ed essere in diretta opposizione a tale principio, se si assumono in senso assoluto i termini della sua stessa definizione, là dove si dice che « varia inversamente con il quadrato della distanza »; diventa quindi un mio dovere, ora, in­ dicare dove una simile contraddizione si realizzi, ed usarla nell’illustrare il principio di conservazione. Siano date, nello spazio libero, due particelle A e B di mate­ ria; vi sia nell’ima di esse o in entrambe una forza grazie alla quale esse gravitano l’una verso l’altra, es­ sendo tale forza inalterabile per distanze che non muta­ no ma variabile con l’inverso del quadrato della distan­ za stessa quando quest’ultima muta. Allora, ad una di­ stanza 10, si può valutare che la forza sia 1; mentre, per una distanza pari ad 1, e cioè un decimo della preceden­ te, la forza sarà 100; se immaginiamo di inserire fra le due particelle una molla elastica per misurare la forza attrattiva, la potenza che la comprime sarà, nel secondo caso, cento volte superiore a quella che si ha nel primo. Orbene, di dove mai può venire questa enorme crescita della potenza? Se diciamo che ciò è caratteristico di questa forza e ci accontentiamo di tale risposta giudi­ candola sufficiente, allora mi pare che ammettiamo una creazione di potenza per un ammontare enorme [...];

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perderemmo in tal modo la maggior legge della scienza fisica che le nostre facoltà ci permettono di conoscere, e cioè la conservazione della forza. (M. Faraday, On thè Conservation of Force cit., pp. 228-29)

3. Faraday: ha senso il rapporto tra la gravitazione ed una sola particella materiale isolata? È giusto considerare la gravitazione sotto ogni for­ ma che la sua definizione o i suoi effetti possano sugge­ rire alla nostra mente; abbiamo il privilegio di compor­ tarci così con ogni forza della natura; ed è solo così facendo che abbiamo raccolto ampi successi nel correla­ re fra loro le varie forme della potenza, derivandole l’una dall’altra e ottenendo di conseguenza un’evidenza probante per il grande principio della conservazione del­ la forza. Prendiamo quindi in esame due particelle A e B, che reciprocamente si attraggono grazie alla forza di gravità, sotto un diverso punto di vista. In base alla definizione, la forza dipende da entrambe le particelle; e se una di esse fosse da sola non potrebbe gravitare, e cioè non potrebbe esercitare alcuna attrazione, alcuna forza di gravità. Supponiamo che A esista in tale stato isolato e che non si abbia forza gravitante, e che poi B sia messa in relazione con essa: la gravitazione diventa presente, come si suppone, per entrambe. Orbene, senza tentare di immaginare come sia possibile che B, che non aveva forza gravitante, riesca a far sorgere una forza gravitante in A, e come Ay egualmente priva di forza nello stato originale, possa farla emergere in B: ebbene, l’immagine che ciò sia semplicemente un fatto dato, coincide con l’ammettere una creazione di forza in en-

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trambe le particelle e giungere in tal modo alle conse­ guenze assurde di cui già abbiamo parlato. Si potrebbe affermare che non possiamo farci alcuna idea di una particella lasciata sola con se stessa: in tale caso il nostro ragionamento sarebbe fallace. Per quanto mi riguarda, invece, io riesco a capire una particella lasciata sola con se stessa, così come capisco facilmente il caso di molte particelle; e, sebbene io non riesca a concepire il rapporto tra una particella da sola e la gra­ vitazione, in base alla concezione limitata che si ha oggi a proposito di tale forza, posso comunque concepire la sua relazione rispetto ad un qualcosa che sia la causa della gravitazione, sia che la particella sia da sola, sia che si tratti di una particella entro un universo di altre particelle. Ma il ragionamento su una sola particella non fallisce; invero, poiché le particelle possono essere sepa­ rate, riusciamo facilmente a concepire il caso che B sia spostata ad una distanza infinita rispetto ad A, e che quindi la potenza in A sia infinitamente diminuita. Que­ sto spostamento di B comporta in certo qual modo una specie di annichilamento di B rispetto ad A, e la forza in A sarà annichilata nello stesso tempo; e così il caso di una particella da sola e il caso in cui si considerano solamente delle distanze tra loro diverse diventano un solo caso, poiché entrambi sono fra loro identici per quanto concerne le loro conseguenze. (M. Faraday, On thè Conservation of Force cit., pp. 229-30)

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4. Faraday: la causa della gravità è nella materia e nello spazio.

Quando esaminiamo gli equivalenti delle varie forme della forza, così come essi ci sono conosciuti, le loro differenze ci sembrano molto grandi [...] Si può d’altra parte supporre che una grandissima parte della forza che causa i fenomeni di gravitazione sia equivalente ad una modificazione molto piccola in qualche condizione che ci è ignota dei corpi la cui attrazione è variabile con la distanza. Per quanto mi riguarda, molte considerazio­ ni premono nella mia mente spingendola all’idea di una causa della gravità che non risieda semplicemente nelle particelle della materia, ma che sia costantemente in esse e in tutto lo spazio. (M. Faraday, On thè Conservation of Force cit., pp. 231-32)

5. Faraday: difficoltà nei rapporti tra gravitazione e inerzia. Esiste una meravigliosa condizione della materia — forse la sua unica vera indicazione — e cioè V inerzia-, ma, per quanto riguarda l’usuale definizione della gravi­ tà, ciò aggiunge semplicemente delle difficoltà a quelle che già abbiamo. Infatti, se consideriamo due particelle di materia separate da una certa distanza, attraentesi re­ ciprocamente sotto la potenza della gravità e libere di avvicinarsi l’una all’altra, allora esse si avvicineranno davvero; e quando solo metà della distanza sarà stata superata, ciascuna di esse avrà accumulato, grazie alla sua inerzia, una certa quantità di forza meccanica. Ciò è dovuto alla forza esercitata; e, se il principio di conser-

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vazione è vero, si deve esser consumata una proporzione equivalente della causa dell’attrazione; e ancora, secon­ do la definizione di gravità, la forza attrattiva non è affatto diminuita ma è invece cresciuta di quattro volte, in una situazione in cui la forza cresce in se stessa tanto più rapidamente quanto più essa è impegnata nel pro­ durre altra forza. D’altra parte, se si usa della forza meccanica esterna per separare le particelle facendo rad­ doppiare la loro distanza, questa forza non si accumula in quantità di moto o per inerzia, ma scompare [...] Come può accadere ima cosa simile? Noi non conosciamo la condizione fisica o l’azione da cui risulta Vinerzia\ eppure l’inerzia è sempre un caso puro della conservazione della forza. Essa è in stretto rapporto con la gravità, come risulta dalla quantità pro­ porzionale di forza che la gravità può comunicare al corpo inerte; ma risulta anche che essa ha lo stesso stretto rapporto con altre forze che agiscono a distanza, come quelle del magnetismo o dell’elettricità [...]. Non si deve pensare, neppure per un solo istante, che io sia contrario a ciò che si può chiamare la legge dell’azione gravitazionale, e cioè alla legge da cui sono retti tutti i fenomeni noti della gravità; ciò che invece io prendo in esame è la definizione della forza di gravità. Io credo ed ammetto che il risultato di una esercitazione di potenza possa variare con l’inverso del quadrato della distanza; e so che ciò accade nel caso della gravità, e che ciò è stato verificato entro limiti che ben difficilmente avreb­ bero potuto esser presenti alla stessa concezione di un Newton, e cioè di chi enunciò la legge in questione; ma io non credo che la totalità di una forza possa essere impiegata secondo quella legge, sia in rapporto alla gra­ vitazione, all’elettricità o al magnetismo, sia in rapporto

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ad una qualsiasi altra forma di potenza che si possa immaginare. (M. Faraday, On thè Conservation of Force cit., pp. 232-33)

6. Faraday: la legge che governa tutti i fenomeni è unica. Dire che dovrebbe esserci una potenza della gravità esistente di per se stessa, senza alcuna relazione con altre potenze naturali e senza alcun rapporto con la leg­ ge di conservazione della forza, è altrettanto poco cre­ dibile che affermare l’esistenza di un principio di legge­ rezza accanto a quello di gravità. La gravità può ridursi ad una semplice parte residua delle altre forze naturali, come Mossotti ha tentato di dimostrare;1 ma non pos­ siamo dire che essa dovrebbe collocarsi fuori della legge di tutte le altre forze, o fuori da ogni tentativo di rag­ giungerla con ulteriori esperimenti o conclusioni filosofiche. Dobbiamo pertanto lottare per imparare più cose a proposito di questa potenza immane, e impegnarci per evitare ogni sua definizione che sia incompatibile, in generale, con i principi della forza; infatti tutti i feno­ meni della natura ci portano a credere che è unica la grande legge che tutto governa. (M. Faraday, On thè Conservation of Force cit., pp. 237-38)

1 Le tesi di Mossotti sono in parte riportate nei brani pubblicati nel presente volume, p. 53 e segg. [N.d.C.]

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7. Maxwell: lettera a Faraday sulla gravitazione.

Per quanto mi consta, lei è la prima persona nella cui mente sia sorta l’idea secondo cui i corpi agiscono a distanza gettando il mezzo circostante in uno stato di tensione [...] Lei ha anche visto che il grande mistero non consiste nel come i corpi simili si respingono tra loro e nel come i corpi dissimili si attraggono, ma bensì nel come i corpi simili si attraggono fra loro (per gravi­ tazione). E se si può superare questa difficoltà, sia ren­ dendo la gravità un effetto residuo delle due elettricità, sia semplicemente accettandola, allora le nostre linee di forza possono « gettare un ponte attraverso il cielo », e condurre le stelle nel loro cammino senza alcuna con­ nessione necessariamente immediata con gli oggetti del­ la loro attrazione. Le linee di forza che emergono dal Sole si estendono allargandosi fuori di esso, e, quando giungono nei pressi di un pianeta, si incurvano esternamente allontanandosi da quest'ultimo, così che ciascun pianeta fa divergere un certo numero di linee di forza dal loro corso in funzione della propria massa: per così dire, sostituisce ad esse un sistema di linee sue proprie, di modo che diventerebbe in certo senso una cometa, se le linee di forza fossero visibili.

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Le linee del pianeta sono separate da quelle del Sole grazie alla linea tratteggiata. Se ora pensiamo che cia­ scuna di tali linee (che non interferiscono mai fra loro ma che procedono dal Sole e dal pianeta verso l’infinito) sia dotata di una forza premente invece che di una forza tirante, allora il sole e il pianeta saranno premuti l’un verso l’altro con una forza che vien fuori come dovreb­ be, e cioè proporzionale al prodotto fra le masse e in­ versamente proporzionale al quadrato della distan­ za. [...] Ma quando affrontiamo i grandi problemi sulla gra­ vitazione — Richiede essa un certo tempo [di propaga­ zione]? È essa polare rispetto all’« esterno dell’univer­ so » o a qualsiasi cosa? È essa in rapporto con l’elet­ tricità? È essa poggiata sul fondamento reale della ma­ teria, la massa o l’inerzia? — allora abbiamo bisogno di controlli e prove, vuoi per mezzo di comete o nebulose, vuoi per mezzo di esperimenti di laboratorio, vuoi per mezzo di questioni audaci che riguardano la verità delle opinioni comunemente accettate. [...] Esistono que­ stioni relative alla connessione tra la magneto-elettricità e determinati effetti meccanici che, a mio avviso, sem­ bra possano aprire una via del tutto nuova verso la fondazione dei principi dell’elettricità, e una conforma­ zione possibile della natura fisica delle linee di forza magnetica. (J. C. Maxwell, lettera a M. Faraday, datata 9 novembre 1857, in L. Campbell e W. Garnett, The Life of J. C. Maxwell, Lon­ don 1882-84, ristampa del 1969 a cura di R. H. Kargon, John­ son Rep. Corp., pp. xv-xvn)

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8. Maxwell: il campo gravitazionale e il campo genetale. Dopo aver ricondotto all’azione del mezzo circostante sia le attrazioni e le repulsioni magnetiche, sia quelle elettriche, e dopo aver trovato che esse dipendono dal­ l’inverso del quadrato della distanza, siamo naturalmen­ te spinti a ricercare se l’attrazione gravitazionale — che segue la medesima legge rispetto alla distanza — sia anch’essa riconducibile all’azione di un mezzo circo­ stante. La gravitazione differisce dal magnetismo e dall’elet­ tricità in questo: i corpi presi in esame sono tutti dello stesso tipo, invece di essere di segni opposti fra loro come accade per i poli magnetici e per i corpi elettrizza-, ti, e la forza tra questi corpi è un’attrazione e non una repulsione, come accade invece tra corpi elettrizzati e magnetizzati dello stesso tipo. Le linee di forza gravitante nei pressi di due corpi densi sono esattamente della stessa forma che si ha nel caso delle linee di forza magnetica nei pressi di due poli dello stesso nome; ma mentre i poli si respingono fra loro, i corpi sono fra loro attirati. Sia E l’energia intrin­ seca del campo che circonda due corpi gravitanti Mi e Mi, sia E' l’energia intrinseca del campo che circonda due poli magnetici mi e mi, eguali in valore numerico a Àfi ed a Mi, sia X la forza gravitante che agisce durante lo spostamento 8% e X' la forza magnetica:

X8x = SE;

X'8x = SE';

ora X e X' sono eguali come valore numerico, ma sono di segno opposto; ragion per cui: SE = - SE',

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ovvero:

E = C - E' =

= c-EZ

__ 1_ 8K

(a2 + 32 +Y2W,

dove a, P, y sono le componenti dell’intensità magnetica. Se R è la forza gravitante risultante, ed R' la forza magnetica risultante in una parte corrispondente del campo, R = — R',

a2 + 02 + y2 = R2 = R'2. Quindi: E = C - EZ

1 8 Ti

R2dV.

L’energia intrinseca del campo gravitazionale deve per­ tanto essere minore ovunque esista una forza gravitante risultante. Poiché l’energia è essenzialmente positiva, è impossi­ bile che una qualsiasi parte del campo possieda un’ener­ gia intrinseca negativa. Di conseguenza, quelle parti del­ lo spazio in cui non esiste alcuna forza risultante, come ad esempio i punti di equilibrio nello spazio tra i diver­ si corpi di un dato sistema, e all’interno della sostanza di ciascun corpo, debbono possedere un’energia intrin­ seca per unità di volume maggiore di:

-à-R2’ dove R è il maggior valore possibile dell’intensità della forza gravitante in qualsiasi parte dell’universo.

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LA RELATIVITÀ

Pertanto l’ipotesi che la gravitazione sorga dall’azione del mezzo circostante conduce alla conclusione secondo cui ogni parte di quel mezzo possiede, quando non è perturbata, una energia intrinseca enorme, mentre la presenza di corpi densi influenza il mezzo di modo tale da far diminuire questa energia ovunque esista una attra­ zione risultante. Poiché io sono incapace di capire in qual modo un mezzo possa possedere tali proprietà, non posso prose­ guire, in questa direzione, nella ricerca della causa della gravitazione. (J. C. Maxwell, A Dynamical Theory of thè Electromagnetic Field, in « Phil. Trans. Roy. Soc. », voi. 155, 1865, pp. 492-93)

9. Maxwell: conoscenza assoluta e conoscenza relativa di spazio e di tempo. Lo spazio assoluto vien concepito come serbantesi sempre simile a se stesso ed inamovibile. La disposizio­ ne delle parti dello spazio non può menomamente esse­ re alterata, più di quello che lo possa l’ordine delle porzioni del tempo. Concepire che esse si muovano dal loro posto, vai quanto concepire che un luogo si tra­ sporti altrove da se stesso. Ma, come in niun modo possiam distinguere una por­ zione di tempo da un’altra, fuorché per diversi eventi che in esse ebber luogo, così nulla v’ha per distinguere una parte di spazio da un’altra, se non riferendola al luogo di corpi materiali. Né possiamo descrivere il tem­ po di un evento fuorché riferendolo ad un altro evento, od il luogo di un corpo se non col riferirlo a qualche altro corpo.

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Ogni nostra conoscenza, sia di tempo che di spazio, è essenzialmente relativa. Allorché si è acquistata l’abitudine di accozzare in­ sieme delle parole, senza poi preoccuparsi di formare i concetti, ai quali si ritiene che corrispondano, torna fa­ cile il costrutte un’antitesi fra questa cognizione relativa e una così detta cognizione assoluta, e mostrare l’igno­ ranza nostra della posizione assoluta di un punto, come un esempio della limitazione delle nostre facoltà. Ed invero chiunque volesse affaticarsi ad immaginare lo stato di una mente capace di conoscere la posizione as­ soluta di un punto, finirebbe coll'acquetarsi d’una co­ gnizione relativa. (J. C. Maxwell, Matter and Molion, London 1877; trad. it. di L. Rota Rossi e Giovanni Cantoni, Milano, Dumolard, 1881, p. 9)

10. Tait: possibilità di variazioni nelle proprietà dello spazio entro l’Universo. Le proprietà dello spazio che implicano (non sappia­ mo perché) l’elemento essenziale delle tre dimensioni sono state recentemente analizzate con accuratezza da matematici della massima levatura, quali Riemann ed Helmholtz; e il risultato delle loro indagini non permet­ te ancora di decidere se lo spazio ha o non ha esatta­ mente le stesse proprietà attraverso l’intero universo. Per avere un’idea di ciò che si intende con questa affer­ mazione, consideriamo il fatto seguente: nello spiegaz­ zare un foglio di carta, che si può assumere per rappre­ sentare lo spazio a due dimensioni, possiamo aver la­ sciato alcune parti piane, mentre altre parti sono più o meno incurvate in modo cilindrico o conico. Un abitan-

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te di tale superficie, pur vivendo in uno spazio con due sole dimensioni ed essendo quindi, per così dire, inca­ pace di apprezzare la terza dimensione, proverebbe cer­ tamente una qualche differenza nelle proprie sensazioni passando da zone del suo spazio meno curve ad altre zone più curve. Analogamente è possibile che, nella ra­ pida marcia del sistema solare attraverso lo spazio, ci accada di passare gradualmente in regioni dove lo spazio non ha esattamente le stesse proprietà che troviamo qui — dove esso potrebbe avere, nelle tre dimensioni, un qualcosa di analogo alla curvatura di uno spazio a due dimensioni — un qualcosa, in effetti, che implichi ne­ cessariamente una variazione quadridimensionale di for­ ma in porzioni della materia affinché queste ultime pos­ sano adattarsi alla loro nuova localizzazione. (P. G. Tait, Lectures on Some Recent Advances in Physical Science, London, MacMillan and Co., 1876, p. 5)

11. Clifford: posizione e uniformità dello spazio.

Noi non possiamo indicare il dove di un luogo, o di un oggetto, se non indicando come vi si può arrivare, partendo da un luogo, o da un oggetto, determinato. Il suo dove si determina per rispetto ad un qui. Ciò si esprime, in poche parole, dicendo che « Ogni posizione è relativa ». Nello stesso modo che la posizione dell’Albergo Mi­ lano è puramente relativa agli altri fabbricati della città, e quella della città stessa, ad altre città, la posizione di un corpo qualunque dello spazio non è che relativa agli altri corpi. Discorrere della posizione della terra, nello spazio, non ha senso, a meno che non si pensi, in pari

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tempo, a quella del sole, o di Giove, o di una stella, o, insomma, a quella di qualche altro corpo celeste. Questa proprietà si chiama talvolta l’« uniformità dello spazio. » Tale espressione significa puramente che nello spazio non vi è nulla, che i nostri sensi possano percepire, che valga a determinare la posizione. Un gran foglio di carta bianca, sul quale siano disposti tanti og­ getti, ci fornisce un’immagine dello spazio; e fissare la posizione di un corpo nello spazio è un’operazione in certo qual modo simile a distinguere un oggetto su que­ sto foglio: operazione, che suppone la coesistenza di almeno due oggetti: e, riducendosi a determinare un questo e un quello, un qui e un Zà, implica il concetto di posizione relativa. (W. K. Clifford, The Common Seme of Exact Sciences, 1885, trad. it., Il senso comune delle scienze esatte, Milano, Dumolard, 1886, pp. 174-75)

12. Clifford: la relatività della posizione e lo spazio a curvatura costante. Fatta l’ipotesi che ogni posizione è relativa, ne viene che essa non si potrà definire altrimenti che per mezzo di passi. La relatività della posizione è un postulato, a cui siamo giunti, considerando i metodi che servono abitualmente per determinare la posizione: i quali non danno mai altro che posizione relativa. Così, la relativi­ tà della posizione è un postulato dedotto dall'esperien­ za. Il rimpianto prof. Clerk Maxwell ne esprimeva l’im­ portanza colle seguenti parole: « Noi non abbiamo, così dello spazio come del tempo, che cognizioni relative. Tornerà facile a chi si sia fatto l’abitudine di mettere insieme delle parole, senza darsi la pena di formare i

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concetti corrispondenti, fabbricare un’antitesi fra questa cognizione relativa e la così detta cognizione assoluta, e citare la nostra ignoranza della posizione assoluta di un punto come esempio della limitazione delle nostre facol­ tà. Ma chiunque si provi ad immaginare le condizioni di una mente, che avesse la coscienza di conoscere la posi­ zione assoluta di un punto, finirà per appagarsi della nostra cognizione relativa »? È tanto importante di riconoscere fin dove noi pos­ siamo essere sicuri della verità dei nostri postulati, che io invito il lettore a ritornare sul concetto di posizione, per considerarlo da un diverso punto di vista; anzi vo­ glio perfino invitarlo a provarsi a prendere in esame le condizioni di quella mente, a cui accenna il prof. Clerk Maxwell nell’ultima proposizione del brano citato. Supponiamo d’avere un tubo sottilissimo, piegato in forma di circolo, nel cui vano si trovi un verme di lun-

Fig. 1

1 Si veda a p. 109 nel presente volume, dove compare una diversa traduzione del. passo di Maxwell qui citato da Clifford. [N.J.C.]

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ghezza A B (fig. 1). Nel caso estremo che il vano del tubo e il verme si suppongano infinitamente sottili, fissa­ to un punto C, nel tubo, la lunghezza dell’arco CA ba­ sterà per determinare la posizione del verme; e perciò lo spazio considerato si ridurrà ad una dimensione. Sup­ posto che il verme sia incapace di percepire checchessia fuori dal proprio spazio tubulare, esso esso potrebbe però venire a qualche conclusione intorno alla natura di questo spazio, quando avesse la facoltà di distinguere sulla parete del tubo un segno C. Così, ritrovando que­ sto segno, riconoscerebbe di ritornare al punto C; e allora, dalla circostanza, che camminando continuamen­ te nel tubo, ritroverebbe di tanto in tanto il segno me­ desimo, dedurrebbe, senza esitazione, il postulato che il proprio spazio è finito. Inoltre, poiché il circolo ha dap­ pertutto la stessa forma, il verme avrebbe sempre lo stesso grado di flessione, e perciò supporrebbe senz’al­ tro che il suo spazio è uniforme, ossia che possiede le stesse proprietà in ogni punto. Noi facciamo un’ipotesi affatto simile, quando, estendendo a tutto lo spazio i postulati della geometria euclidea, che, per quanto c’in­ segna l’esperienza, si verificano sensibilmente nello spa­ zio che immediatamente ne circonda, ammettiamo che il nostro spazio a tre dimensioni è uniforme. Se non che il verme farebbe quel postulato con maggior ragione, per­ ché del proprio spazio ad una dimensione avrebbe esplo­ rato ogni parte. Finalmente, il verme asserirebbe che la posizione è relativa, e determinerebbe la propria, per mezzo dell’arco compreso fra C ed A. Ora, modifichiamo alquanto le nostre ipotesi, e sup­ poniamo che il verme sia incapace di fare, o di distin­ guere, un segno sul tubo. In tal caso ci persuaderemo facilmente ch’esso non potrebbe riconoscere se il suo

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spazio fosse limitato o no. Difatti, da una parte, non potrebbe mai accorgersi d’aver compiuto un giro; dal­ l’altra, siccome possederebbe sempre uno stesso grado di flessione, ne spiegherebbe la sensazione con una con­ dizione naturale del proprio organismo, anzi che attri­ buirla ad un'influenza esercitata dallo spazio: e per con­ seguenza non saprebbe distinguere il moto in uno spazio di curvatura costante (un circolo) dal moto in uno spa­ zio di curvatura nulla, altrimenti chiamato omaloidale (una linea retta). Quindi avrebbe le migliori ragioni per supporre che il suo spazio fosse infinito, e per credere di camminare in un tubo infinitamente lungo; che, se fosse improvvisamente trasportato da uno spazio all’al­ tro, attribuirebbe la sensazione prodotta dalla diversa flessione a qualche alterazione del proprio organismo. Per conseguenza, in uno spazio ad una dimensione, di curvatura costante, la posizione è essenzialmente relati­ va e un essere, che non potesse percepire nulla fuori di esso, vi farebbe il postulato ch’esso è finito, oppure che è infinito, secondo che potesse, o non potesse, fissarvi un punto.1 (W. K. Clifford, Il senso comune dt., pp. 255-58)

13. Clifford: spazi tridimensionali a curvatura costante. Quale insegnamento si può ricavare, per analogia, da quanto precede, intorno allo spazio a tre dimensioni a cui noi apparteniamo? In primo luogo, noi ammettiamo che tutto il nostro spazio sia perfetamente uniforme, ossia che le figure solide non cambiino di forma nel 1 Ciò suppone che lo spazio ad una dimensione di curvatura co­ stante giaccia in un piano; la stessa conclusione non si applica ad uno spazio come quello dell’elica, il quale ha una curvatura, e pure non è finito.

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passare, in seno ad esso, da una posizione all’altra. Noi fondiamo questo postulato dell’uniformità sui risultati che fornisce l’osservazione, in quella porzione limitata di spazio della quale noi siamo esperti.1 Ora, ammesso pure che le nostre osservazioni siano esatte, dal fatto che quella porzione di spazio è sensibilmente uniforme, non segue per nulla che tutto lo spazio egualmente lo sia.2 Tale supposizione è una pura estensione dogmatica al­ l’ignoto di un postulato, che ha l’apparenza di esser conforme al vero in quella parte di spazio, che noi pos­ siamo assoggettare all’esperienza. Ora, il fare delle asser­ zioni dogmatiche sull’ignoto è piuttosto da teologi del medio evo che da moderni scienziati. Sulla stessa base è fondata la supposizione ulteriore che il nostro spazio sia omaloidale. Quando asseriamo che il nostro spazio è uniforme, supponiamo che esso abbia una curvatura co­ stante (come il circolo fra gli spazi ad una dimensione, e la sfera fra quelli a due); quando supponiamo inoltre che sia omaloidale, ammettiamo che questa curvatura sia nulla (come quella della retta, fra gli spazi ad una 1 Qualcuno potrà pensare che il postulato della uniformità del no­ stro spazio sia fondato sul fatto che nessuno è mai riuscito finora a farsi un concetto geometrico qualsiasi della curvatura d’uno spazio. Pre­ scindendo anche dal fatto che l’uomo è abituato ad ammettere molte cose, delle quali non può formarsi un concetto geometrico (i matema­ tici ammettono i punti circolari all’infinito, i teologi, la transustanzia­ zione), osserverò che noi non possiamo aspettarci che qualcuno riesca a farsi un concetto geometrico del proprio spazio, finché non lo possa vedere da uno spazio ad un numero maggiore di dimensioni, ciò che significa che non vi riuscirà mai. 2 Bisogna però osservare che dal fatto che pare che una figura solida mantenga sempre la stessa forma, mentre si sposta nella parte di spa­ zio da noi conosciuta, non segue che la figura la mantenga realmente. I cambiamenti di forma relativi agli spostamenti, che noi possiamo ese­ guire, potrebbero essere così piccoli da sfuggire ai nostri sensi; e, supposto anche che avessero luogo, potrebbe darsi che fossero da noi attribuiti a « cause fisiche » — al calore, alla luce, al magnetismo — che sono forse semplici nomi, sotto i quali si celano altrettante varia­ zioni della curvatura dello spazio.

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dimensione, e quella del piano, fra gli spazi a due). Questa supposizione figura nell’ordinaria geometria sot­ to la forma che due piani paralleli, e, in un medesimo piano, due rette parallele — vale a dire piani, e rette poste in uno stesso piano, che, per quanto si prolunghi­ no, non s’incontrano mai — hanno, nel nostro spazio, una reale esistenza. Questa esistenza, che noi non pos­ siamo evidentemente constatare, si ammette come un risultato fondato sull’esperienza di ciò che accade in una porzione limitata di spazio. Ora, se noi possiamo am­ mettere che quella parte di spazio della quale siamo esperti è sensibilmente omaloidale, non abbiamo per questo il diritto di estendere dogmaticamente questo po­ stulato a tutto lo spazio. Una curvatura costante, imper­ cettibile in quella parte di spazio che noi possiamo as­ soggettare all’esperienza, ed anche una curvatura che variasse in modo quasi insensibile col tempo, potrebbe egualmente soddisfare a quanto l’esperienza c’insegna che si verifica nello spazio da noi abitato. (K. F. Clifford, Il senso comune cit., pp. 264-66)

14. Clifford: le cause fisiche e le geometrie dello spazio. Domandiamoci, se non potrebbe darsi che, in modo simile, noi considerassimo come variazioni fisiche degli effetti realmente dovuti a cambiamenti della curvatura del nostro spazio; in altre parole, se alcune delle cause, che noi chiamiamo fisiche, e forse tutte, non fossero per avventura dovute alla costruzione geometrica del nostro spazio. 1) Il nostro spazio possiede forse effettivamente una

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certa curvatura, diversa da punto a punto, che noi non sappiamo apprezzare, perché troppo limitata è la regio­ ne dello spazio da noi conosciuto, o perché confondiamo quelle piccole variazioni con alterazioni delle nostre con­ dizioni fisiche, che non colleglliamo coi nostri sposta­ menti. Un essere, che potesse riconoscere quella curva­ tura variabile, dovrebbe avere il concetto della posizio­ ne assoluta di un punto; e per esso il postulato che la posizione è relativa perderebbe ogni significato. Perciò non sembra tanto difficile di concepire una mente capa­ ce del concetto di posizione assoluta, come ci lasciereb­ be credere Clerk Maxwell; tale sarebbe la mente di un essere che sapesse distinguere quei cambiamenti così det­ ti fisici, che sono effettivamente geometrici, e cioè dovu­ ti ad uno spostamento nello spazio. 2) Forse il nostro spazio è realmente uniforme (di curvatura costante), ma la grandezza della sua curvatu­ ra, pur mantenendosi sempre eguale in tutti i punti, va continuamente cambiando. In questo caso la nostra geo­ metria, fondata sull’ipotesi dell’uniformità, si appliche­ rebbe sempre a qualunque regione dello spazio; ma il cambiamento continuo della curvatura produrrebbe una successione di apparenti fenomeni fisici. 3) Finalmente si può immaginare che il nostro spazio abbia dappertutto una curvatura quasi uniforme, la qua­ le varii da punto a punto, e, nei singoli punti, col de­ correre del tempo. Le variazioni nel tempo produrreb­ bero effetti, che noi abbastanza naturalmente attribui­ remmo a cause fisiche indipendenti dalla geometria del­ lo spazio. Anzi, possiamo forse spingerci fino a supporre che si fatta variazione della curvatura dello spazio fosse per avventura « ciò che realmente succede in quel feno­ meno, che noi chiamiamo il moto della materia ». (W. K. Clifford, Il senso comune cit., pp. 267-69)

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15. Clifford: le ipotesi sulla geometria e la fisica.

Queste considerazioni sulla natura dello spazio sono specialmente destinate a fornire al lettore una giusta idea del carattere dei postulati, che noi poniamo per base delle scienze esatte. Questi postulati non sono, come troppo spesso si crede, verità necesarie ed univer­ sali; essi non sono che assiomi, fondati sull’esperienza di una certa regione limitata di spazio. Nel modo stesso che, per fabbricare la teoria di un ramo di fisica, par­ tiamo dall’esperienza, e fondiamo sui nostri esperimenti un certo numero di assiomi, che ne formano in tal modo la base, così gli assiomi, che prendiamo per fondamento della geometria, per quanto meno palesemente, sono realmente un risultato dell’esperienza. Il pericolo a cui ci esponiamo, asserendo dogmaticamente che un assio­ ma, dedotto dall’esperienza di una regione limitata di spazio, sia universalmente vero, è oramai abbastanza evi­ dente. Questa credenza potrebbe sottrarci una possibile interpretazione dei fenomeni fisici, o indurci a respin­ gerla, tosto che ci si presentasse alla mente. Difatti qua­ lunque possa essere la parte, che, nella fisica dell’avve­ nire, sono destinate a sostenere le ipotesi che lo spazio non sia omaloidale, e che la sua natura geometrica varii col decorrere del tempo, non si può sicuramente rifiu­ tarsi dal considerarle come spiegazioni possibili dei fe­ nomeni fisici, pel fatto che sono in opposizione colla credenza volgare che certi assiomi geometrici siano uni­ versalmente veri, credenza nata da secoli di culto cieco del genio di Euclide. (W. K. Clifford, Il senso comune cit., pp. 269-70)

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16. Clifford: oscurità nell’uso dei concetti di « mate­ ria » e di « forza ». Immaginiamo di prendere un certo corpo P, del qua­ le converremo di valerci come termine di confronto, ed un altro corpo qualsiasi Q, e di determinare il rapporto delle accelerazioni, che ciascuno di essi produce nell’al­ tro, nulla più semplice circostanza in cui può esercitarsi la loro reciproca influenza. Rappresenti m il rapporto così determinato, per mezzo di opportuni esperimenti: e precisamente, m esprima il rapporto dell’accelerazione del corpo campione P a quella del secondo corpo Q. Questa quantità si chiama la massa del corpo Q. Ora sia m' il rapporto dell’accelerazione che riceve il corpo P a quella che riceve un terzo corpo R, in virtù della loro mutua influenza. La nostra legge, nei termini in cui fu enunciata, ci permette di asserire che questi rapporti avranno sempre lo stesso valore, qualunque siano le cir­ costanze in cui P e Q, e P ed R esercitano la loro scambievole influenza; ma non ci dice nulla intorno al rapporto delle accelerazioni, che Q ed R produrranno l’uno nell’altro. Ora, anche in questo caso, l’esperienza ci toglie d’imbarazzo, e c’insegna che, nelle ipotesi pre­ cedenti, ogni qualvolta Q ed R agiscono l’uno sull’altro, il rapporto dell’accelerazione di Q a quella di R sarà Yinverso del rapporto di m ad m . Quindi, posta eguale all’unità la massa del corpo preso come campione, po­ tremo enunciare la proposizione generale che le accele­ razioni, che ricevono due corpi per la loro scambievole influenza, sono inversamente proporzionali alle masse. Segue da ciò che, una volta determinate le masse dei corpi, dato un certo sistema di circostanze, si potrà va­ lersi dell’effetto ch’esse producono sopra un corpo, per

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calcolare quello che avranno la facoltà di produrre sopra qualunque altro. Il lettore osserverà che la massa, come l’abbiamo te­ sté definita, è un rapporto di accelerazioni: e cioè una pura costante numerica, che si potrà determinare col­ l’esperienza, per ogni coppia di corpi. Ora si trova, col­ l’esperienza, che le masse di due corpi composti della stessa sostanza, quando questa è uniformemente distri­ buita, sono proporzionali ai loro volumi. Questa rela­ zione fra la massa e il volume ha dato origine a una quantità d’idee vaghe ed oscure. Essa è stata l’occasione perché si associasse ai corpi qualcosa d’indefinibile, a cui si è attribuito il nome di materia. Secondo questo modo di vedere, la materia, che s’immagina distribuita nello spazio, è qualcosa che compone i corpi; e, con­ formemente a ciò, la massa di un corpo si definisce come la quantità di materia da esso contenuta. Al con­ cetto di materia si è accoppiato quello di ciò che si chia­ ma forza-, e che, in un modo non mai chiarito, si suppo­ ne risiedere nella materia. La forza, che un corpo P esercita sopra un corpo Q di massa m, è una quantità proporzionale alla massa m di Q, e all’accelerazione, che la presenza di P produce nel moto di Q. Il lettore non durerà fatica a riconoscere che questo concetto di forza non spiega perché la presenza di P tende ad alterare la velocità di Q, più che il concetto di materia non valga a spiegare perché le accelerazioni, che ricevono due corpi per la loro scambievole influenza, sono inversamente proporzionali alle masse. L’uso di fondare i concetti at­ tinenti al moto dei corpi sui termini di « materia », e di « forza » è stato troppo spesso causa d’oscurità, non solo in matematica, ma anche in filosofia. Noi non sap­ piamo perché la presenza di un corpo tende a cambiare

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la velocità di un altro; dicendo che cagione di ciò è la forza posseduta dal primo corpo, la quale agisce sulla materia del secondo, non facciamo altro che mascherare con un giro di parole la nostra ignoranza. Tutto ciò che noi sappiamo è che la presenza di un corpo tende a modificare la velocità di un altro: e che, ogniqualvolta ciò avvenga, questa modificazione si può esattamente determinare coll’esperienza, ed obbedisce alle leggi pre­ cedentemente enunciate. (W. K. Clifford, Il senso comune cit., pp. 320-22)

17. Maxwell: le equazioni del moto e i fenomeni elet­ trici. Nella quarta sezione della seconda parte della sua Meccanica analitica, Lagrange ha fornito un metodo per ridurre le usuali equazioni dinamiche del moto delle parti di un sistema vincolato ad un numero uguale a quello dei grandi di libertà del sistema. Le equazioni di moto di un sistema vincolato sono state date in forma diversa da Hamilton, ed hanno por­ tato ad un grande ampliamento della parte superiore della dinamica pura. Poiché sarà necesario, nel nostro sforzo di portare i fenomeni elettrici entro il campo della dinamica, dispor­ re delle nostre idee dinamiche in uno stato adatto ad un’applicazione diretta a questioni fisiche, dedicheremo questo capitolo ad un’esposizione di queste idee dina­ miche da un punto di vista fisico.

Lo scopo di Lagrange era quello di portare la dinami­ ca entro Lambito del calcolo infinitesimale. Egli comin­ ciò con l’esprimere le relazioni dinamiche elementari in

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termini delle corrispondenti relazioni tra quantità pu­ ramente algebriche e dalle equazioni così ottenute de­ dusse le sue equazioni finali per mezzo di un procedi­ mento puramente algebrico. Certe quantità (esprimenti le reazioni che si istituiscono tra le parti del sistema in forza dei suoi vincoli fisici) appaiono nelle equazioni di moto delle parti componenti il sistema: la ricerca di Lagrange, vista da un punto di vista matematico, è un metodo per eliminare queste quantità dalle equazioni finali. Nel seguire i passaggi di questa eliminazione, la men­ te si applica ai calcoli e dovrebbe perciò mantenersi sgombra dall’intrusione di idee dinamiche. Il nostro sco­ po, invece, è quello di coltivare le nostre idee dinami­ che. Noi ci serviamo perciò delle fatiche dei matematici, e ritraduciamo i loro risultati dal linguaggio del calcolo nel linguaggio della dinamica, in modo che le nostre parole possano evocare rimmagine mentale non già di certi procedimenti algebrici, ma di qualche proprietà dei corpi in movimento. Ho applicato questo metodo in modo da evitare l’esplicita considerazione del moto di una qualunque par­ te del sistema ad eccezione delle coordinate, o variabili, da cui dipende il moto del tutto. È senza dubbio im­ portante che lo studioso sia in grado di tracciare la con­ nessione esistente tra il moto di ogni parte del sistema e quello delle variabili, ma non è per nullla necessario compiere ciò durante il procedimento per ottenere le equazioni finali, che sono indipendenti dalla forma par­ ticolare di queste connessioni. (J. C. Maxwell, A Treatise on Electricity and Magnetism, Ox­ ford 1873, trad. it. a cura di E. Agazzi, Trattato di elettricità e magnetismo, Torino, Utet, 1973, voi. II, pp. 293-95)

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18. Maxwell: i modelli meccanici e i sistemi fisici. Il numero dei gradi di libertà di un sistema è il nu­ mero dei dati che devono essere forniti per determinare completamente la sua posizione. Tali dati possono rice­ vere forme diverse, ma il loro numero dipende dalla natura del sistema stesso e non può essere alterato. Per fissare le idee, si può pensare che i vincoli del sistema siano realizzati, per mezzo di un meccanismo adatto, con un certo numero di pezzi mobili, ciascuno in grado di muoversi lungo una linea retta, ma non in altro modo. Il meccanismo immaginario che vincola cia­ scuno di questi pezzi con il sistema deve essere pensato libero da ogni attrito, privo di inerzia e non soggetto a deformazioni in seguito all’azione delle forze applicate. Lo scopo di questo meccanismo è semplicemente quello di assistere l’immaginazione nell’attribuire posizione, ve­ locità e momento a quelle che appaiono, nella ricerca di Lagrange, come quantità puramente algebriche. Si indichi con q la posizione di uno dei pezzi mobili, definita come la distanza che lo separa da un punto fisso sulla sua linea di movimento. Distingueremo i valori di q corrispondenti ai diversi pezzi con i suffissi i, 2, ecc. Quando avremo a che fare con un gruppo di quantità che appartengono ad un pezzo solo si potrà omettere il suffisso. Quando i valori di tutte le variabili {q} sono dati, sarà nota la posizione di ogni pezzo mobile e, in virtù del meccanismo immaginario, sarà determinata anche la configurazione dell’intero sistema. (J. C. Maxwell, Trattato dt., pp. 295-96)

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19. Maxwell: verità dinamiche e metodi matematici.

In questo profilo dei principi fondamentali della di­ namica di un sistema vincolato, non abbiamo considera­ to il meccanismo per mezzo del quale le parti del siste­ ma sono vincolate. Non abbiamo nemmeno scritto una serie di equazioni per indicare come il moto di una parte del sistema dipenda dalla variazione delle variabi­ li. Abbiamo limitato la nostra attenzione alle variabili, alle loro velocità e momenti e alle forze che agiscono sui pezzi che rappresentano le variabili. Le sole nostre ipo­ tesi sono: che i vincoli del sistema siano tali che il tempo non compaia esplicitamente nelle equazioni vincolari, e che il principio della conservazione dell’energia sia applicabile al sistema. Una tale descrizione dei metodi della dinamica pura non è inutile, in quanto Lagrange e la maggior parte dei suoi successori, a cui dobbiamo questi metodi, si sono in genere limitati a dare per essi una dimostrazione e, per poter dedicare la loro attenzione ai simboli, hanno cercato di bandire tutte le idee che non fossero quelle di pure quantità, in modo da far a meno non solo di dia­ grammi, ma anche delle idee di velocità, di momento e di energia, una volta che erano state sostituite dai sim­ boli nelle equazioni originarie una volta per tutte. E per poter fare riferimento ai risultati di questa analisi entro il normale linguaggio della dinamica, abbiamo cercato di ritradurre le equazioni principali di questo metodo in un linguaggio che può essere intelligibile anche senza l’uso di simboli. Poiché lo sviluppo delle idee e dei metodi della ma­ tematica pura ha reso possibile, creando una teoria ma­ tematica della dinamica, portare alla luce molte verità

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che senza una preparazione matematica non si sarebbero potute scoprire, così, se dobbiamo costruire delle teorie dinamiche di altre scienze, è necessario che le nostre menti siano imbevute di queste verità dinamiche non meno che dei metodi matematici. Nella formazione delle idee e del linguaggio relativi ad una scienza che, come l’elettrologia, si occupa di for­ ze e dei loro effetti, bisogna tener costantemente pre­ senti le idee proprie della scienza fondamentale della dinamica, in modo da poter evitare, durante i primi sviluppi della scienza, delle incoerenze con ciò che è già stato stabilito, e in modo che, una volta che le nostre idee siano diventate più chiare, il linguaggio che abbia­ mo adottato ci possa essere di aiuto e non debba crearci invece delle difficoltà. (J. C. Maxwell, Trattato cit., pp. 306-7)

20. Maxwell: la luce e l’elettromagnetismo. In parecchie parti di questo trattato si è tentato di spiegare i fenomeni elettromagnetici ricorrendo all’azio­ ne meccanica trasmessa da un corpo all’altro tramite un mezzo che occupi lo spazio tra loro interposto. La teoria ondulatoria della luce ipotizza pure l’esistenza di un mezzo. Dobbiamo ora dimostrare che le proprietà del mezzo elettromagnetico sono identiche a quelle del mez­ zo in cui si propaga la luce. Riempire tutto lo spazio con un nuovo mezzo ogni volta che si debba spiegare un nuovo fenomeno non è certo cosa degna di una seria filosofia, ma se lo studio di due diverse branche della scienza ha suggerito in modo indipendente l’idea di un mezzo, e se le proprietà che si

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devono attribuire al mezzo per spiegare i fenomeni elet­ tromagnetici sono identiche a quelle che si attribuiscono al mezzo luminifero per spiegare i fenomeni luminosi, si rafforzerà notevolmente il complesso di prove a favore dell’esistenza fisica del mezzo. Ma le proprietà dei corpi si possono misurare quanti­ tativamente. Noi otteniamo così il valore numerico di alarne proprietà del mezzo, come la velocità con cui si propaga in esso una perturbazione, che si può calcolare a partire da esperimenti elettromagnetici e che, nel caso della luce, si può osservare direttamente. Se si dovesse trovare che la velocità di propagazione delle perturba­ zioni elettromagnetiche è la stessa della velocità della luce, e questo non solo nell’aria, ma anche in altri mezzi trasparenti, si avrebbero delle valide ragioni per credere che la luce sia un fenomeno elettromagnetico, e la com­ binazione delle prove ottiche e di quelle elettriche pro­ durrebbe una convinzione circa l’effettiva realtà del mez­ zo, simile a quella che si ottiene, nel caso di altri tipi di oggetti, dalle verifiche combinate fornite dai sensi. Nell’emettere luce, il corpo luminoso eroga una certa quantità di energia e, se un altro corpo assorbe questa luce, esso si riscalda, dimostrando che ha ricevuto ener­ gia dall’esterno. Durante l’intervallo di tempo dopo che la luce ha lasciato il primo corpo e prima che raggiunga il secondo, essa deve essere esistita come energia nello spazio fra loro interposto. Secondo la teoria dell’emissione, la trasmissione di energia si effettua grazie all’effettivo trasferimento di corpuscoli di luce dal corpo luminoso a quello illumina­ to, i quali portano con sé la loro energia cinetica, insie-

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me ad ogni altro tipo di energia di cui possano essere ricettori. Secondo la teoria dell’ondulazione, c’è un mezzo ma­ teriale che riempie lo spazio tra i due corpi ed è per l’azione di parti contigue di questo mezzo che l’energia si trasferisce da una porzione alla successiva, finché rag­ giunge il corpo illuminato. Perciò il mezzo luminifero, quando la luce lo attra­ versa, è un ricettacolo di energia. Nella teoria ondulato­ ria, come è stata sviluppata da Huygens, Fresnel, Young, Green, ecc., si suppone che questa energia sia in parte potenziale e in parte cinetica. Si suppone che l’energia potenziale sia dovuta alla deformazione delle porzioni elementari del mezzo. Si deve perciò considera­ re il mezzo come elastico. Si suppone che l’energia cine­ tica sia dovuta al movimento vibratorio del mezzo. Si deve perciò considerare il mezzo come dotato di una densità finita. Nella teoria dell’elettricità e del magnetismo sostenu­ ta in questo trattato si riconoscono due forme di ener­ gia, l’elettrostatica e l’elettrocinetica, e si suppone che esse abbiano sede non solo nei corpi elettrizzati o ma­ gnetizzati, ma in ogni parte dello spazio circostante, in cui si osservi l’azione della forza elettrica o magnetica. Perciò la nostra teoria concorda con la teoria ondulato­ ria nel supporre l’esistenza di un mezzo che è in grado di diventare ricettacolo di due forme di energia. (J. C. Maxwell, Trattato cit., pp. 576-80)

IV/ GLI EFFETTI DEL SECONDO ORDINE, L’ESPERIMENTO E L’IPOTESI DELLA CONTRAZIONE

La velocità della luce gioca un ruolo differente nelle due principali teorie fisiche della seconda metà dell'Ottocento. Nelle equazioni del campo elettromagnetico essa compare con uno status di privilegio, mentre ciò non accade nelle equazioni del moto. Come si muove la luce nell'etere, e come si rapporta tale movimento al moto della Terra nello spazio? Ad una simile domanda si può rispondere solo con l’esperimento. Ma l’esperimento è irrealizzabile, poiché nes­ suna macchina costruita dall’uomo è in grado di misurare l’effetto del secondo ordine che pure è teoricamente preve­ dibile. Questa è la situazione secondo Maxwell. L’effetto del secondo ordine è una quantità piccolissima, legata al quadrato del rapporto tra la velocità della Terra e la veloci­ tà della luce: non può trattarsi che di una quantità non osservabile, dell’ordine di 1/100.000.000. Ma la strumentazione ottica che gli sviluppi della tecno­ logia di laboratorio rende disponibile consente di affrontare una misura così delicata, sostiene Michelson. E nel 1881 l’« American Journal of Science » pubblica la prima memo­ ria in cui Michelson descrive un interferometro in grado di misurare l’effetto di Maxwell: ma la conclusione dell’espe­ rimento è sconcertante, poiché l’effetto non viene osservato. Il fallimento non può ritorcersi, evidentemente, sul di­ spositivo sperimentale: nasce pertanto il problema di trova­ re le ragioni dell’anomalia, cercando nelle teorie che a quel­ l’anomalia hanno portato. Si apre la discussione sull’ipotesi stessa che la Terra si muova nell’etere e che quest’ultimo rimanga in quiete. L’esperimento del 1881, eseguito con maggior cura e con apparati sperimentali più raffinati nel 1887, fornisce nuo­ vamente un risultato negativo.

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A questo punto sono in gioco decenni di elaborazione teorica. L’unica via d’uscita che sembra aprirsi è quella indicata da Fitzgerald e da Lorentz: accettare l’ipotesi in­ credibile secondo la quale i corpi in moto si contraggono lungo la direzione del loro movimento e in funzione del quadrato del rapporto tra la loro velocità e quella della luce. Ma se si accetta una simile congettura, occorre altresì renderla compatibile con l’elettrodinamica, se non si vuole costruire la fisica accumulando ipotesi ad hoc. Se le azioni elettromagnetiche si trasmettono attraverso l’etere, allora si debbono studiare le influenze che i moti di traslazione eser­ citano sulle interazioni molecolari. « Poiché la forma e le dimensioni di un corpo solido sono in ultima istanza condi­ zionate dall’intensità delle azioni molecolari — scrive Lo­ rentz nel 1895 — non può mancare il prodursi di una variazione di dimensioni ». L’ipotesi della contrazione è strana alla luce dei concetti usuali, ma cessa di essere strana qualora il suo significato sia cercato nelle interazioni tra molecole, atomi e particelle cariche. Ma, a sua volta, ciò implica che si debbano mettere le mani su classi di problemi inaspettati e su difficoltà ma­ tematiche impreviste. Lo stato di tensione culturale pertan­ to si fa sempre più vivo: la ‘triplice alleanza’ fra l’etere, la materia e l’elettricità si sta incrinando, come scrive effica­ cemente Kelvin nel 1890. E, nel 1895, Henri Poincaré si fa portavoce di una consapevolezza ormai diffusa: contro le teorie esistenti preme ormai « una folla di fatti » inesplica­ bili, e questa pressione si sta concentrando su un punto — « è impossibile rendere manifesto il moto assoluto della materia ».

1. Maxwell: la velocità della luce e gli effetti del se­ condo ordine.

Se fosse possibile misurare la velocità della luce in un solo senso fra due stazioni terrestri in ciascuno dei due casi [nel primo caso la Terra si muove nello stesso sen-

GLI EFFETTI DEL SECONDO ORDINE, LA CONTRAZIONE

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so della luce, nel secondo caso in senso contrario], la differenza tra i due tempi di transito dovrebbe dipende­ re in modo lineare dal rapporto tra la velocità v della Terra e la velocità c della luce rispetto all’etere. Si trat­ terebbe quindi di un effetto del primo ordine [...] Ma, nei metodi terrestri per la determinazione della velocità della luce, la luce stessa torna indietro sempre lungo la stessa traiettoria, così che la velocità della Terra rispet­ to all’etere dovrebbe alterare il tempo necessario per il doppio passaggio di una quantità che dipende dal qua­ drato del rapporto tra la velocità della Terra e quella della luce: il che è un valore troppo piccolo per poter essere osservato. (J. C. Maxwell, lettera a D. P. Todd, in « Nature », 21, 1880, P. 315)

2. Maxwell: sulla possibilità di misurare la velocità della luce con esperimenti sulla Terra.

Se fosse possibile misurare la velocità della luce os­ servando il tempo che essa impiega per viaggiare tra due stazioni sulla superficie della Terra, allora potrem­ mo, confrontando la velocità osservate in direzioni op­ poste, determinare la velocità dell’etere rispetto a que­ ste stazioni terrestri. Tutti i metodi grazie ai quali è realizzabile la determinazione della velocità della luce sulla base di esperimenti terrestri sono tuttavia dipen­ denti dalla misurazione del tempo che è necessario per il doppio viaggio d’andata e ritorno fra le due stazioni: l’aumento di questo tempo, dovuto ad una velocità rela­ tiva dall’etere eguale a quella della Terra nella sua orbi­ ta, sarebbe pari solamente ad una centomilionesima par­

134

LA RELATIVITÀ

te del tempo totale di trasmissione, e sarebbe quindi del tutto non osservabile. (J. C. Maxwell, Ether, in Encyclopaedia Britannica, 9* ed., Vili, p. 572, 1893)

3. Michelson: il moto relativo della Terra e l’etere luminifero.

La teoria ondulatoria della luce ipotizza l’esistenza di un mezzo chiamato etere, le cui vibrazioni producono i fenomeni del calore e della luce e che si suppone riem­ pia tutto lo spazio. Secondo Fresnel, l’etere che è rac­ chiuso nei mezzi ottici condivide il moto di questi ulti­ mi in una misura che dipende dai loro indici di rifrazio­ ne. [...] Supponendo quindi che l’etere sia in quiete e che la Terra si muova in esso, il tempo necessario alla luce per passare da un punto all’altro della superficie terrestre dovrebbe dipendere dalla direzione lungo la quale essa si muove. Sia V la velocità della luce; v la velocità della Terra rispetto all’etere; D la distanza fra i due punti; d la distanza percorsa dalla Terra mentre la luce si muove da un punto all’altro; di la distanza percorsa dalla Terra mentre la luce viaggia nella direzione opposta. Supponiamo che la direzione della linea che congiun­ ge i due punti coincida con la direzione del moto ter­ restre, e sia T il tempo necessario alla luce per andare da un punto all’altro, mentre Ti è il tempo necessario per viaggiare nella direzione contraria. Sia inoltre To il tempo necessario per percorrere il cammino qualora la Terra fosse in quiete.

GLI EFFETTI DEL SECONDO ORDINE, LA CONTRAZIONE

135

Allora: T= D +d V

J “

Ti =

v

D-d V

A v

Da queste relazioni troviamo che: d= D

V

Ji = D

V- v

V

V+v ’

da cui:

T=

D V ~v

Ti =

D V+v ;

e approssimativamente’. T - Ti = 2 To

V

V

v= V

T 2Tq



Se ora fosse possibile misurare T—Ti essendo noti V e To, allora potremmo trovare la velocità v del moto della Terra attraverso Tetere. In una lettera, pubblicata su « Nature »r poco dopo la morte, Clerk Maxwell sottolineò che T—Ti avrebbe potuto essere calcolato misurando la velocità della luce per mezzo delle eclissi dei satelliti di Giove in periodi durante i quali il pianeta si trovava in differenti dire­ zioni rispetto alla Terra; ma che, per ottenere questo fine, le osservazioni di tali eclissi avrebbero dovuto es­ sere straordinariamente più accurate di quelle che sino ad ora si sono realizzate. Nella stessa lettera si stabiliva inoltre che la ragione per cui tali misure non potevano essere realizzate sulla superficie terrestre consisteva nel fatto che sino ad ora non abbiamo metodi per misurare la velocità della luce i quali non implichino la necessità 1 Si veda il brano qui pubblicato a p. 132. [N.d.C.J

136

LA RELATIVITÀ

del ritorno della luce stessa lungo il medesimo percor­ so: ciò che si guadagnava nell’andata andava quasi del tutto perduto durante il ritorno. Secondo Maxwell la differenza dipendeva dal quadrato del rapporto fra le due velocità, ed era quindi troppo piccola per poter essere misurata. In quanto segue si intende dimostrare che, con una lunghezza d’onda di luce gialla come campione di rife­ rimento, tale quantità — se pure esiste — è facilmente misurabile. Usando lè stesse notazioni già introdotte abbiamo:

T=

D V- v

e T, =

D V+ v '

Il tempo totale necessario per l’andata e il ritorno è:

T + Ti = 2D

V V2 — t? *

Se, tuttavia, la luce ha viaggiato in una direzione ad angolo retto rispetto al moto della Terra, non sarà sog­ getta ad effetti dovuti a quest’ultimo e il tempo totale di andata e ritorno sarà, di conseguenza:1

2-£- = 2T0. La differenza fra i tempi T + Ti e 2 To è:

t = 2DV

1 _ 1 V2 - v2 V2

= 2 DV

v2 V2 (V2 - i?)



o, approssimativamente, 1 Michelson commette un errore che sarà corretto da Lorentz e che viene eliminato da Michelson e Morley nel 1887: si veda il presente volume a p. 140. [N.

T Ti 1

D V+ v *

=

Il tempo totale impiegato tra andata e ritorno è: T 4- Ti = 2 D

D V2 - t? ’

e la distanza percorsa in questo tempo è: 2D



V2

V2 — t?

t?

— 2D 2 D-------------= V2

trascurando i termini del quarto ordine. La lunghezza dell’altro cammino è evidentemente:

2D

v;

1 + V2

GLI EFFETTI DEL SECONDO ORDINE, LA CONTRAZIONE

143

ovvero, con la stessa approssimazione del caso prece­ dente: 2D ( 11 + +

2 V2

) •

La differenza è quindi pari a: D

v2 V2

'

Se ora l’intero apparato viene ruotato di 90*, la dif­ ferenza si avrà nella direzione opposta e, conseguente­ mente, lo spostamento delle frange di interferenza do­ vrebbe essere pari a:

Tenendo conto solamente della velocità orbitale della Terra, si avrà un valore pari a 2 D. IO-8. Se, come accadeva nel primo esperimento, si ha D = 2. IO6 onde di luce gialla, lo spostamento prevedibile dovrebbe es---- 005A

à^Q-00

---- 005'-^

N S

X.-005A W

Fig. 3

N

144

LA RELATIVITÀ

sere pari ad una frazione della distanza fra le frange di interferenza numericamente eguale a 0,04. [...] I risultati delle osservazioni sono espressi graficamen­ te nella figura 3. [Le linee continue riguardano le osser­ vazioni]. Le curve tratteggiate rappresentano un ottavo dello spostamento teorico. Appare facile concludere, a partire dalla figura, che se esiste un qualche spostamen­ to dovuto al moto relativo fra la Terra e l’etere lumini­ fero, allora esso non può essere molto maggiore di 1 centesimo della distanza tra le frange di interferenza. Prendendo in considerazione solamente il moto orbi­ tale della terra, questo spostamento dovrebbe essere

2D

V2

= 2D. IO"8.

La distanza D era di circa 11 metri, ovvero 2. IO7 lunghezze d’onda di luce gialla; quindi lo spostamento prevedibile era di 0,4 frange. Lo spostamento reale era certamente inferiore alla ventesima parte di tale spostamento previsto, e probabilmente inferiore alla sua quarantesima parte. E poiché lo spostamento è propor­ zionale al quadrato della velocità, la velocità relativa fra la Terra e l’etere è probabilmente inferiore ad un sesto della velocità orbitale terrestre e certamente in­ feriore ad un quarto di quest’ultima. [...] Da tutto quanto precede sembra ragionevolmente cer­ to che, se esiste un qualche moto relativo fra la Terra e l’etere luminifero, allora esso deve essere molto piccolo; talmente piccolo da farci rifiutare la spiegazione del­ l’aberrazione data da Fresnel. Stokes ha elaborato una teoria dell’aberrazione nella quale si ipotizza che l’etere alla superficie della Terra sia in quiete rispetto a que­ st’ultima: in tale teoria si richiede solamente, inoltre,

GLI EFFETTI DEL SECONDO ORDINE, LA CONTRAZIONE

145

che la velocità relativa abbia un potenziale; ma Lorentz ha dimostrato che queste condizioni sono fra loro in­ compatibili. Lorentz ha quindi proposto una variante nella quale si combinano alcune idee di Stokes e di Fresnel, e si assume l’esistenza di un potenziale insieme al coefficiente di Fresnel. Se, sulla base del presente lavoro, fosse lecito concludere che l’etere è in quiete per quanto riguarda la superficie della Terra, allora, secondo Lorentz, non potrebbe esistere un potenziale della velo­ cità: e, in tal caso, la teoria dello stesso Lorentz fal­ lisce. (A. A. Michelson e E. W. Morley, On thè Relative Motion of thè Earth and thè Luminiferous Ether, in « American Journal of Science », 3‘ serie, 34, 1887, pp. 331-45; « Phil. Mag. », 5* serie, 24, 1887, pp. 449-63)

6. Lorentz: l’ipotesi della contrazione.

1) Come Maxwell per primo fece notare e come se­ gue da un calcolo semplicissimo, il tempo impiegato da un raggio di luce per viaggiare da un punto A ad un punto B per poi tornare ad A deve variare quando i due punti eseguono assieme uno spostamento senza trasci­ nare l’etere. La differenza è certamente una grandezza del secondo ordine; ma essa è sufficientemente grande da poter essere colta mediante un metodo interferometrico sensibile. L’esperimento fu eseguito nel 1881 da Michelson1 [... ma] nessun effetto fu scoperto, e lo stesso Michel­ son, conseguentemente, ritenne forse giusto concludere 1 Si veda, nel presente volume, il brano a p. 134 e segg. [N.d.C.]

146

LA RELATIVITÀ

che, mentre la Terra è in moto, l’etere non rimane in quiete. [...] Successivamente Michelson, in collabora­ zione con Morley, riprese la ricerca facendo crescere la delicatezza dell’esperimento1 [...] Ciò nonostante, la ro­ tazione [dell’apparato] produsse spostamenti che non superavano i due centesimi della distanza [prevista, che era pari a 0,4 frange di interferenza]: tali spostamenti potevano benissimo essere attribuiti ad errori di osser­ vazione. Orbene, forse che questo risultato ci autorizza ad as­ sumere che l’etere prende parte al moto della Terra, e che, quindi, la teoria dell’aberrazione fornita da Stokes è giusta? A mio parere le difficoltà che questa teoria incontra nello spiegare l’aberrazione sono troppo grandi per poter condividere l’opinione che la stessa teoria sia giusta: preferisco piuttosto tentare di rimuovere la con­ traddizione fra la teoria di Fresnel e il risultato di Mi­ chelson. Ciò è possibile grazie ad una ipotesi che io stesso ho esposto qualche tempo fa e che, come ho suc­ cessivamente appreso, era anche stata presente a Fitzgerald. Nel prossimo paragrafo quell’ipotesi verrà enun­ ciata. 2) Al fine di semplificare il problema supporremo di lavorare con il dispositivo impiegato nel primo espe­ rimento, e che in una delle posizioni principali il braccio P [dell’interferometro] giaccia esattamente nella dire­ zione del moto della Terra. Sia v la velocità di questo moto, L la lunghezza di entrambi i bracci, e, quindi 2 L il cammino percorso dai raggi di luce. Secondo la teoria, la rotazione dell’apparato per un angolo di 90° fa sì che il tempo durante il quale un raggio viaggia in andata e ritorno lungo P sia maggiore del tempo impiegato dal1 Si veda, nel presente volume, il brano a p. 140 e segg. [N.J.C.]

GLI EFFETTI DEL SECONDO ORDINE, LA CONTRAZIONE

147

l’altro raggio per completare il proprio cammino; la dif­ ferenza è pari a:

L r2 ?

'

La stessa differenza si avrebbe se la traslazione non eser­ citasse alcuna influenza e il braccio P fosse più lungo del braccio Q per una quantità pari a:

1 2

LL L

Lo stesso vale per la seconda posizione principale. Vediamo quindi che le differenze di fase previste dal­ la teoria potrebbero anche sorgere qualora, durante la rotazione dell’apparato, prima un braccio e poi l’altro fossero rispettivamente il braccio più lungo. Ne segue che le differenze di fase possono essere compensate da variazioni contrarie delle dimensioni. Se ipotizziamo che il braccio giacente nella direzione del moto della Terra è più corto dell’altro per una quan­ tità 2

L

à

1

L ILL

e che, nello stesso tempo, la traslazione abbia l’effetto previsto dalla teoria di Fresnel, allora il risultato del­ l’esperimento di Michelson è completamente spiegato. Pertanto si dovrebbe immaginare che il moto di un corpo solido [...] attraverso l’etere in quiete eserciti sulle dimensioni di quel corpo una influenza che varia in funzione dell’orientamento del corpo stesso rispetto alla direzione del moto. [...] 3) Per soprendente che possa sembrare tale ipotesi a prima vista, pure dobbiamo ammettere che essa non è

148

LA RELATIVITÀ

affatto artificiosa qualora si assuma che anche le forze molecolari vengono trasmesse attraverso l’etere, analo­ gamente a quanto accade per le forze elettriche e ma­ gnetiche a proposito delle quali siamo attualmente in grado di accettare definitivamente tale assunzione. Se esse sono trasmesse in questo modo, la traslazione sarà molto probabilmente capace di influenzare l’azione tra due molecole o atomi in modo analogo a ciò che si ha nell’attrazione o nella repulsione tra particelle cariche. Ora, poiché la forma e le dimensioni di un corpo solido sono in ultima istanza condizionate dall’intensità delle azioni molecolari, non può mancare il prodursi di una variazione di dimensioni. (H. A. Lorentz, Versuch einer Theorie der elektrischen und optischen Erscheinungen in bewegten Korpen, Leiden 1895, §§ 89, 90, 91)

7. Kelvin: la nostra mancanza di conoscenze. Per avere un qualcosa di simile ad una soddisfacente realizzazione materiale della teoria elettro-magnetica del­ la luce dovuta a Maxwell, è necessario [...] mostrare come mai accada che la velocità della luce nell’etere sia eguale al (o come meglio, forse, dovremmo dire, sia il) numero di unità elettrostatiche diviso per l’unità elet­ tromagnetica della quantità elettrica. Tutto ciò implica essenzialmente la considerazione della materia ponderabile permeata dall’etere, oppure immersa in esso, e di un tertium quid che possiamo chiamare ‘elettricità’, inteso come un fluido intermedia­ rio che serve per trasmettere la forza tra la materia pon­ derabile e l’etere e per produrre, con il suo stesso fluire,

GLI EFFETTI DEL SECONDO ORDINE, LA CONTRAZIONE

149

quei moti molecolari della materia ponderabile cui dia­ mo il nome di calore. Non riesco a vedere alcun modo di suggerire le pro­ prietà della materia, dell’elettricità o dell’etere grazie alle quali si possa ottenere tutto ciò, oppure un qualco­ sa in più di un debole approccio a tutto ciò, e penso che si debba, tutti noi, sentire oggi che la triplice alleanza fra l’etere, l’elettricità e la materia ponderabile è un risultato della nostra mancanza di conoscenze e di capa­ cità ad immaginare quanto è contenuto al di là dell’at­ tuale e limitato orizzonte delle scienze, piuttosto che una realtà della natura. (Kelvin, Moto di un liquido viscoso [...], in « Mathematica! and Physical Papers », voi. Ili, 1890, art. XCIX, pp. 436-65, trad. it. in Opere cit., pp. 782-83)

8. Poincaré: una folla di fatti contro il moto assoluto.

L’esperienza ha rivelato una folla di fatti che si pos­ sono riassumere nella seguente formulazione: è impos­ sibile rendere manifesto il moto assoluto della materia, o, meglio ancora, il moto relativo della materia ponde­ rabile rispetto all’etere; tutto ciò che si può mettere in evidenza è il movimento della materia ponderabile ri­ spetto alla materia ponderabile. (H. Poincaré, A propos de la théorie de M. Larmor, in « L’Eclairage électrique », t. 5, 5 ottobre 1895, p. 5; da (Euvres, t. IX, p. 412)

N/ MACH: FISICA E FILOSOFIA

Lo scienziato e filosofo Ernst Mach è una delle figure dominanti nella cultura di fine Ottocento. Le sue riflessioni sulla scienza, sorte in un periodo di trasformazioni sempre più rapide della fisica e della matematica, nonché delle altre scienze empiriche e della logica, hanno esercitato un peso grandissimo anche nel nostro secolo. Questa sezione è inte­ ramente dedicata ad una delle sue opere più note, la Mec­ canica del 1883. In essa, come già si è detto nell’introdu­ zione, Mach analizza alcune nozioni di base della fisica del suo tempo: spazio, tempo, massa. È caratteristico dell’ap­ proccio machiano il riferimento dell’analisi metodologica ai dati forniti dalla ricostruzione storica della scienza. In que­ sto senso, pagine mirabili sono dedicate alla critica del clas­ sico esperimento newtoniano del secchio ruotante, una cri­ tica che si estende a settori importantissimi dell’intera fisica post newtoniana. L’analisi del concetto di massa, che si muove in Mach secondo le indicazioni di una filosofia della fisica strettamente legata al « terreno dei fatti », solleva dubbi ragione­ voli sul principio di azione e reazione. Con la medesima sottigliezza Mach affronta le nozioni assolute di tempo e di spazio, mostrandone la fallacia e correlando il problema dello spazio a quello del moto mediante la già citata inda­ gine sul secchio rotante. « Proprio le leggi meccaniche apparentemente più sem­ plici sono le più complicate »: ecco la necessità di mante­ nere vivo lo spirito critico, sostiene Mach, basandolo su un costante riferimento all’esperienza. Di qui Mach ricava la norma che forse costituisce, per quanto riguarda la scienza fisica, il punto più importante della Meccanica: il principio regolatore secondo cui lo scien­ ziato deve « conoscere le relazioni immediate, cioè i rappor­ ti fra le masse dell’Universo », formulando « un principio

154

LA RELATIVITÀ

dal quale derivino insieme i moti accelerati e i moti inerzia­ li ». La sezione comprende altresì alcuni brani in cui Mach tratteggia una visione dell’impresa scientifica come impresa economica-. « Tutta la scienza ha lo scopo di sostituire, ossia di economizzare esperienze mediante la riproduzione e visione riduce la l’anticipazione di fatti nel pensiero ». Tale ~ funzione delle teorie: queste ultime sono schemi di regole « per la riproduzione di un grande numero di fatti » in modo conciso e sintetico, e non spiegazioni. Pertanto la matematica è importante per le scienze empiriche, ma solo in quanto « la matematica può essere definita una economia del contare ». Da questo punto di vista la fisica utilizza nozioni che si rivelano come enti metafisici: atomi, molecole e spazi non euclidei sono strumenti concettuali o modelli matematici per la riproduzione dei fatti. In quanto tali, essi sono so­ lamente degli « enti mentali », ed è completamente priva di senso la questione se ad essi « corrispondano esistenze at­ tuali ». È rilevante il fatto seguente: Mach si propone di co­ struire una filosofia che garantisca il libero progresso della scienza, ma condanna la fisica di Boltzmann poiché basata su atomi e molecole, e giudicherà « dogmatica » la relativi­ tà. Ciò è sintomatico. La cultura di fine Ottocento cerca di scandagliare il mutamento che si sta realizzando nelle scien­ ze naturali e matematiche, ma, nello stesso tempo, si illude di poter chiarire la forma di quel mutamento racchiudendo­ lo all’interno di una metodologia normativa: così, per favo­ rire la crescita del sapere, gli si impongono regole così strette da ostacolare il libero sviluppo delle direttrici più avanzate del sapere stesso.

1. Mach: analisi del concetto di massa. Prima di tutto neghiamo che nell’espressione « quan­ tità di materia » corrisponda una rappresentazione atta

MACH: FISICA E FILOSOFIA

155

a rendere più limpido e a spiegare il concetto di massa, dato che essa stessa manca di chiarezza. Né d’altra parte superiamo questa oscurità se, sull’esempio di alcuni autori, procediamo alla numerazione di ipotetici atomi. Nei due casi non facciamo altro che ricorrere a rappre­ sentazioni che a loro volta hanno bisogno di essere giu­ stificate. Nel caso di corpi uguali chimicamente omoge­ nei, possiamo associare alla « quantità di materia » una rappresentazione chiara, e anche riconoscere che la re­ sistenza dei corpi al movimento cresce con il crescere di questa quantità. Se però astraiamo dall’omogeneità chi­ mica, l’ipotesi che in corpi diversi sussista un quid mi­ surabile con la stessa unità di misura che è appunto ciò che chiamiamo « quantità di materia », tale ipotesi dun­ que, corrisponde indubbiamente a effettive esperienze meccaniche, ma ha bisogno di un’ulteriore giustificazio­ ne. Quando a proposito della pressione esercitata dal peso supponiamo con Newton che p = mg, p' — mg, e di conseguenza poniamo p/p' = m/m’, abbiamo già ac­ cettato l’ipotesi che deve essere provata, cioè che corpi non omogenei possano essere misurati con la stessa unità. Potremmo anche porre arbitrariamente m/m = p/p'', cioè definire il rapporto delle masse come rapporto dei paesi, quando g conservi lo stesso valore. Rimarebbe però sempre da fondare l’uso di questo concetto di mas­ sa nel principio di azione e reazione e in altri casi. Se due corpi perfettamente identici sotto tutti gli aspetti sono posti l’uno di fronte all’altro, ci aspettiamo in base al principio di simmetria a noi già noto che essi si comunichino accelerazioni uguali e opposte secondo la direzione della linea di congiunzione. Se però questi cor­ pi differiscono in qualche modo per forma, per proprie-

156

LA RELATIVITÀ

tà chimica o per altri aspetti, non possiamo più ricorre­ re al principio di simmetria, a meno che non supponia­ mo o sappiamo a priori che la sua validità non dipende dall’uguaglianza della forma e delle proprietà chimiche. Dato però che esperienze meccaniche ci informano dell’esistenza nei corpi di una particolare caratteristica che determina l’accelerazione, niente impedisce di for­ mulare in via ipotetica la seguente definizione: Diciamo corpi di massa uguale quelli che, agendo l’uno sull’altro, si comunicano accelerazioni uguali e opposte. Con ciò non facciamo altro che designare una relazione fattuale. Analogamente procederemo nel caso più generale. I cor­ pi A e B figg. 1 a, b nella loro interazione si comuni-

------ A -99

B

+9>

Fig. 1 a, b

cano reciprocamente le accelerazioni — cp, + B sul treno in moto. Proprio quando si verificano i bagliori del fulmine, que­ sto punto M' coincide naturalmente con il punto Àf, ma esso si muove verso la destra del diagramma con la velocità v del treno. Se un osservatore seduto in treno nella posizione M' non possedesse questa velocità, allo­ ra egli rimarrebbe permanentemente in M e i raggi di luce emessi dai bagliori del fulmine A e B lo raggiunge­ rebbero simultaneamente, vale a dire si incontrerebbero proprio dove egli è situato. Tuttavia nella realtà (consi­ derata con riferimento alla banchina ferroviaria), egli si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che proviene da A. Pertanto l’osservatore vedrà il raggio di luce emes­ so da B prima di vedere quello emesso da A. Gli osser­ vatori che assumono il treno come loro corpo di riferi­ mento debbono perciò giungere alla conclusione che il lampo di luce B ha avuto luogo prima del lampo di luce

214

LA RELATIVITÀ

A. Perveniamo così al seguente importante risultato: Gli eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto al treno e viceversa (rela­ tività della simultaneità). Ogni corpo di riferimento (si­ stema di coordinate) ha il suo proprio tempo particola­ re; una attribuzione di tempo è fornita di significato solo quando ci venga detto a quale corpo di riferimento tale attribuzione si riferisce. Orbene, prima dell’avvento della teoria della relativi­ tà, nella fisica si era sempre tacitamente ammesso che le attribuzioni di tempo avessero un significato assoluto, cioè fossero indipendenti dallo stato di moto del corpo di riferimento. Abbiamo però visto or ora che tale ipo­ tesi risulta incompatibile con la più naturale definizione di simultaneità; se abbandoniamo quest’ipotesi, scompa­ re il conflitto fra la legge di propagazione della luce nel vuoto e il principio di relatività. (A. Einstein, Relatività, esposizione divulgativa cit., pp. 42-44)

10. Einstein: la trasformazione di Lorentz.

Ovviamente il nostro problema può venir formulato con esattezza nel modo seguente. Quanto valgono le x', y > zt t'’, di un evento rispetto a K', quando sono date le grandezze x, yt z, /, dello stesso evento rispetto a K? Le relazioni debbono essere scelte in modo che la legge di propagazione della luce nel vuoto risulti soddisfatta per un medesimo raggio di luce (e naturalmente per ogni raggio) sia rispetto K che a K'. Quando i sistemi di coordinate sono orientati nello spazio come indicato nel­ la figura 2, tale

UN NUOVO MONDO

215

z'

z

V

: (zzo

yj

y

V

v/y/y / K’

x’ X

x’

"V"

Fig. 2

problema viene risolto mediante le equazioni seguenti: x' =

x — V t__

V

1 -

c*

/=y z' = z v2

Questo sistema di equazioni è noto col nome di « tra­ sformazione di Lorentz ».

216

LA RELATIVITÀ

Se, anziché la legge di propagazione della luce, aves­ simo preso come base le tacite ammissioni della vecchia meccanica circa il carattere assoluto dei tempi e delle lunghezze, avremmo ottenuto, invece delle precedenti, le equazioni seguenti: x' = x — v t

y=y z =z

e =t Questo sistema di equazioni viene spesso indicato co­ me « trasformazione di Galileo ». La trasformazione di Galileo può venir ricavata dalla trasformazione di Lorentz ponendo in quest’ultima un valore infinitamente grande in luogo della velocità c della luce. (A. Einstein, Relatività, esposizione divulgativa cit., pp. 47-51)

Vili/ LA RELATIVITÀ GENERALE E LA FILOSOFIA DI EINSTEIN

Il primo decennio del nostro secolo vede la nascita della relatività ristretta. Il secondo decennio vede il sorgere di un programma di ricerca che, per usare le parole di Ein­ stein, punta alla « massima generalizzazione che si possa immaginare della teoria » relativistica. Come osserva Ein­ stein, la generalizzazione è stata facilitata dall’opera di Minkowski (« il matematico che per primo ha compreso chia­ ramente l’equivalenza formale tra le coordinate spaziali e la coordinata temporale ») e dispone di algoritmi formali quali il calcolo differenziale assoluto, grazie alle ricerche di Gauss, Riemann, Christoffel, Ricci e Levi-Civita. I fondamenti del­ la teoria della relatività generale sono così posti: se la relatività ristretta ha modificato la concezione dello spazio e del tempo, essa ha anche portato ad una « interpretazione fisica » di spazio e tempo che ora deve essere superata. Già Mach aveva compreso, scrive Einstein, che nella meccanica classica esiste « un innato difetto epistemologico ». Ebbene, questo difetto si riflette anche sulla relatività ristretta. Per eliminarlo occorre affrontare da principio il problema stesso della causalità alla luce del problema delle masse. « Di tutti gli spazi immaginabili Ri, R2, , ecc., comunque in moto relati­ vo gli uni rispetto agli altri, non ve ne è nessuno che si possa considerare come privilegiato a priori »: la soluzione generale sta dunque, secondo Einstein, nel farci guidare dal principio secondo cui « le leggi della fisica debbono essere di natura tale che esse si possano applicare a sistemi di riferi­ mento comunque in moto ». In tal modo si può finalmente affrontare l’enigma della gravitazione, e si enuncia, nello stesso tempo, il prodursi di nuove zone di problemi. Nel 1919 Einstein scrive: « In base alla teoria della relatività generale, la gravitazione oc­ cupa così una posizione eccezionale nei confronti delle ri-

220

LA RELATIVITÀ

manenti forze, e soprattutto delle forze elettromagnetiche, in quanto le 10 funzioni gpv che rappresentano il campo gravitazionale determinano contemporaneamente le proprie­ tà metriche dello spazio quadridimensionale ». Un programma ambizioso e oltremodo complesso, al qua­ le Einstein lavorò sino alla morte e che oggi, malgrado alcuni diffusi scetticismi, rappresenta una delle più stimo­ lanti avventure del pensiero umano: quel pensiero a cui Einstein rivolgeva tanta cura, non rifuggendo al dibattito filosofico serio ma schivando attentamente, come risulta da­ gli ultimi brani della sezione, ogni polemica che non fosse basata su argomentazioni controllabili alla luce della ragio­ ne. 1. Einstein: introduzione alla relatività generale.

La teoria della quale tratto nella presente Nota, rap­ presenta la massima generalizzazione che si possa imma­ ginare della teoria che oggi prende ordinariamente il nome di « teoria della relatività »; nel seguito chiamo quest’ultima, per distinguerla da quella che ora espon­ go, « teoria della relatività ristretta », e suppongo che sia conosciuta. La generalizzazione della teoria della re­ latività è stata molto facilitata dalla forma data alla teo­ ri della relatività ristretta da Minkowski, il matematico che per primo ha compreso chiaramente l’equivalenza formale tra le coordinate spaziali e la coordinata tempo­ rale, rendendola applicabile alla teoria. I mezzi matema­ tici necessari per la teoria della relatività generale erano già pronti nel « calcolo differenziale assoluto », il quale si basa sulle ricerche di Gauss, Riemann e Christoffel sulle varietà non euclidee, ed è stato eretto a sistema da Ricci e Levi-Civita e da essi applicato a problemi della fisica teorica. Nella parte B della presente Nota esporrò tutti i pro­

RELATIVITÀ GENERALE E FILOSOFIA DI EINSTEIN

221

cedimenti matematici che ci è necessario aver sotto gli occhi, e che non si può presupporre sian noti al fisico, cercando di sviluppare lo strumento matematico nella maniera il più possibile semplice e trasparente, in modo che non sia necessario uno studio della letteratura ma­ tematica per comprendere le pagine che seguono. Da ultimo debbo essere grato al mio amico M. Grossmann, che con la sua assistenza di matematico non so­ lo mi ha risparmiato quella parte di studio che attiene alla letteratura matematica sull’argomento, ma mi ha altresì aiutato nella ricerca delle equazioni del campo gravitazionale. (A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitàtstheorie, in « Annaien der Physik », 4, 1919, pp. 769-822, trad. it. di A. Fratelli, Einstein, I fondamenti della relatività, Roma, Newton Compton, 1976, pp. 13-14)

2. Einstein: osservazioni sulla teoria della relatività ristretta.

La teoria della relatività ristretta è fondata sul se­ guente postulato, al quale soddisfa anche la meccanica di Galileo e di Newton: se un sistema di coordinate è scelto in modo tale che le leggi fisiche siano soddisfatte nella loro forma più semplice, le stesse leggi debbono essere soddisfatte se riferite ad ogni altro sistema di coordinate K', che si muova di moto traslatorio rettili­ neo uniforme rispetto al sistema K. A questo postulato diamo il nome di « principio della relatività ristretta ». La parola « ristretta » è usata per significare che il prin­ cipio vale nel caso in cui il sistema K' si muove di moto traslatorio rettilineo uniforme rispetto al sistema K,

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LA RELATIVITÀ

mentre l’equivalenza tra K' e K non si estende al caso di moto non uniforme di K' rispetto a K. Cosicché la teoria della relatività ristretta si differen­ zia dalla meccanica classica non a causa del postulato della relatività, ma a motivo del postulato secondo cui è costante la velocità della luce nel vuoto. Da quest’ulti­ mo postulato, oltre che dal postulato della relatività ri­ stretta, seguono, nel modo ben noto, la relatività della simultaneità, la trasformazione di Lorentz, e le leggi connesse sul comportamento dei corpi rigidi e degli oro­ logi in movimento. La modificazione alla quale la teoria della relatività ristretta ha assoggettato la concezione dello spazio e del tempo è invero di vasta portata, ma un punto importan­ te non è ancora stato sviscerato. Infatti le leggi della geometria, anche secondo la teoria della relatività ristret­ ta, debbono venir interpretate direttamente come leggi che si riferiscono alle possibili posizioni relative dei cor­ pi rigidi a riposo, e, più in generale, le leggi della cine­ matica debbono venir interpretate come leggi che de­ scrivono le relazioni tra i campioni di lunghezza e gli orologi. A due prefissati punti materiali di un corpo rigido fisso corrisponde sempre una distanza che ha un valore ben definito, valore che non dipende dal luogo in cui si trova il corpo né dall’orientamento e che non dipende nemmeno dal tempo. Vedremo tra poco che la teoria della relatività gene­ rale non può rimaner fedele a questa semplice interpre­ tazione fisica dello spazio e del tempo. (A. Einstein, I fondamenti della relatività cit., pp. 14-15)

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3. Einstein: ragioni che esigono un’estensione del po­ stulato della relatività.

Nella meccanica classica vi è un innato difetto epi­ stemologico, che fu chiaramente precisato (forse per la prima volta) da E. Mach, e che si ripercuote anche nella teoria della relatività ristretta. Lo illustreremo col se­ guente esempio. Supponiamo che due corpi fluidi, Si ed S2, della stessa grandezza e della stessa natura fisica, stiano volteggiando liberamente nello spazio a distanza così grande l’uno dall’altro e da tutte le altre masse, che le sole forze gravitazionali di cui abbia significato tener conto siano quelle che sorgono dall’interazione delle dif­ ferenti parti dello stesso corpo. Supponiamo che la di­ stanza tra le due masse fluide sia invariabile, ed in nes­ suna delle due masse abbia luogo qualche movimento relativo di una parte rispetto a un’altra. Ma ogni massa, rispetto a un osservatore solidale con l’altra massa, ruo­ ti con velocità angolare costante attorno alla retta che congiunge le masse. Questo è un moto relativo control­ labile dei due corpi. Ora immaginiamo che ciascuno dei due corpi sia stato misurato a mezzo di campioni di lunghezza fissi rispetto al corpo stesso, e supponiamo che la superficie di Si sia una sfera, e quella di Si un ellissoide di rivoluzione. In seguito a ciò formuliamo il quesito: quale è la ragione di tale diversità tra i due corpi? Nessuna ragio­ ne può venir accettata come epistemologicamente sod­ disfacente1 tranne quella che asserisca che la ragione data come causa sia un fatto sperimentale ed osservabile. 1 Ovviamente una risposta può essere soddisfacente dal punto di vista epistemologico, e tuttavia falsa dal punto di vista fisico, se è in contraddizione con altre esperienze.

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La legge di causalità ha il significato di una affermazione aderente al mondo dell’esperienza solo quando fatti os­ servabili appaiono alla fine come causa ed effetto. La Meccanica newtoniana non dà una risposta soddi­ sfacente a questa domanda. Essa afferma che le leggi della meccanica si applicano allo spazio Ri, rispetto al quale il corpo Si è a riposo, ma non allo spazio R2, rispetto al quale è a riposo il corpo S2. Senonché lo spazio privilegiato Ri di Galileo, così introdotto, è una causa puramente fittizia, e non un fatto osservabile. È quindi chiaro che la Meccanica di Newton non soddisfa realmente l’esigenza della causalità nel caso in esame, ma solo apparentemente, in quanto rende la causa fittizia Ri responsabile del diverso comportamento dei corpi 5i ed S2, che può venir constatato mediante l’osserva­ zione. La sola risposta soddisfacente alla domanda formula­ ta sopra non può avere che la forma seguente: il siste­ ma fisico costituito da 5i ed S2 non rivela in se stesso nessuna causa immaginabile, alla quale possa farsi risa­ lire il diverso comportamento di 5i ed S2. La causa deve quindi risiedere al di fuori di questo sistema. Si arriva a supporre che le leggi generali del moto, che in partico­ lare determinano le forme di 5i ed 5?, debbano essere tali che il comportamento meccanico di 5i ed S2 sia de­ terminato, in modo del tutto essenziale, da masse di­ stanti che noi non abbiamo incluso nel sistema conside­ rato. Queste masse distanti (e i loro movimenti relativa­ mente ad 5i ed 5z) debbono allora venir riguardate come la causa principale, osservabile, del diverso com­ portamento dei nostri due corpi 5i ed 52; esse assumo­ no il ruolo della causa fittizia Ri. Di tutti gli spazi

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immaginabili Ri, Rz, ecc., comunque in moto relativo gli uni rispetto agli altri, non ve ne è nessuno che si possa considerare come privilegiato a priori senza far risorgere l’obiezione epistemologica sopra citata. Le leggi della fisica debbono essere di natura tale che esse si possano applicare a sistemi di riferimento comunque in moto. Seguendo questa via giungiamo a una generalizzazione della teoria della relatività. In aggiunta a questo argomento, di notevole peso, per la teoria della conoscenza, vi è un ben noto fatto fisico che favorisce la generalizzazione della teoria della relatività. Sia R un sistema di riferimento galileiano, vale a dire un sistema rispetto al quale (almeno nella regione quadridimensionale in esame) una massa, suffi­ cientemente distante dalle altre masse, si muova di mo­ to rettilineo uniforme. Sia R' un secondo sistema di riferimento che si muove, rispetto a R, di moto relativo traslatorio uniformemente accelerato. Allora, relativa­ mente a R', una massa sufficientemente distante dalle altre masse avrà un moto accelerato tale che la sua acce­ lerazione e la direzione di questa siano indipendenti dal­ la natura materiale e dallo stato fisico della massa. Un osservatore a riposo rispetto a K' può concludere che egli si trova su un sistema di riferimento « realmente » accelerato? La risposta è negativa; infatti la relazione sopracitata delle masse liberamente mobili rispetto a K' può essere interpretata egualmente bene nel seguente modo. Il sistema di riferimento K' non è accelerato, ma la regione spazio-temporale in questione subisce l’in­ fluenza di un campo gravitazionale, il quale genera il moto accelerato dei corpi rispetto a K'. Questo punto di vista ci è reso possibile in quanto l’esperienza ci insegna che esiste un campo di forza, il

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campo gravitazionale, il quale gode della notevole pro­ prietà di imprimere la medesima accelerazione a tutti i corpi.2 Il comportamento meccanico dei corpi rispetto a K' è lo stesso di quello che si osserva in presenza di sistemi che siamo soliti considerare « a riposo » oppure « privilegiati ». Quindi, dal punto di vista fisico, l’ipo­ tesi suggerisce prontamente essa stessa che i sistemi K e K' possono entrambi con egual diritto essere considerati « a riposo », vale a dire essi hanno egual diritto di venir scelti quali sistemi di riferimento per la descrizione dei fenomeni fisici. Si vede da queste considerazioni che nell'istituire la teoria della relatività generale saremo condotti a una teoria della gravitazione, in quanto siano capaci di « pro­ durre » un campo gravitazionale semplicemente cambian­ do il sistema delle coordinate. Si vede altresì che il prin­ cipio della costanza della velocità della luce nel vuoto deve venir modificato, in quanto si constata facilmente che la traiettoria di un raggio di luce rispetto a K' deve essere in generale curvilinea, se rispetto a K la luce si propaga lungo una linea retta con determinata velocità costante. (A. Einstein, I fondamenti della relatività cit., pp. 15-18)

4. Einstein: il continuo spazio-temporale.

Nella Meccanica classica, come nella teoria della rela­ tività ristretta, le coordinate spaziale e temporale hanno un significato fisico immediato. Dicendo che un punto (rappresentante un evento) ha la coordinata xi sull’asse 2 Eotvós ha mostrato sperimentalmente che il campo gravitazionale gode di questa proprietà con grande esattezza.

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Xi, si intende dire che la proiezione del punto dello spa­ zio-tempo sull’asse Xi, determinata da segmenti rigidi e in accordo con le regole della geometria euclidea, è ot­ tenuta riportando un segmento assegnato (il campione di lunghezza unitario) xi volte a partire dall’origine delle coordinate nella direzione positiva dell’asse Xi. Dicendo che un punto dello spazio-tempo ha la coordinata x< = t sull’asse X4, si intende dire che un orologio campione, costruito per misurare il tempo con assegnato periodo unitario, che è in quiete rispetto al sistema di coordinate e coincide (praticamente) nello spazio col punto rappre­ sentante l’evento, ha segnato x\ = t periodi all’istante in cui il punto-evento si è verificato.1 Questa concezione dello spazio e del tempo è sempre stata presente alla mente dei fisici, anche se per la mag­ gior parte in maniera inconscia, come risulta chiaro dal­ l’ufficio che questi concetti svolgono nelle misure fisi­ che. [...] Senonché ora mostreremo che è necessario abbandonarla, e sostituirla con una concezione più ge­ nerale, onde enunciare chiaramente il postulato della relatività generale, supponendo che la teoria della rela­ tività ristretta si applichi al caso limite in cui sia assente il campo gravitazionale. In uno spazio privo di campi gravitazionali introdu­ ciamo un riferimento galileiano K (x, yy z, t) ed inoltre un sistema di coordinate K' (xz, y, z y t') in moto rotato­ rio uniforme rispetto a K. Supponiamo che siano coinci­ denti le origini di entrambi i sistemi, e l’asse z coincida sempre con z . Mostreremo che per una misura dello spazio-tempo riferita al sistema K' la concezione, sopra 1 Supponiamo sia possibile verificare la « simultaneità » di eventi molto prossimi nello spazio, o, per parlare più precisamente, la immediata prossimità nello spazio-tempo (coincidenza), senza dover dare qui una definizione di questo concetto fondamentale.

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richiamata, del significato fisico delle lunghezze e dei tempi non può venir mantenuta. Per ragioni di simme­ tria è chiaro che una circonferenza giacente sul piano XY di H e con il centro nell’origine, può contempora­ neamente venir considerata come circonferenza sul pia­ no X' Y' di Kf. Supponiamo che la circonferenza e il diametro della stessa siano stati misurati con un’unità di misura (infinitamente piccola rispetto al raggio), e calco­ liamo il rapporto delle due misure. Qualora si assuma come unità di misura un campione di lunghezza a riposo rispetto al sistema galileiano K, il rapporto che ne risul­ ta sarà Qualora si assuma invece come unità di misura un campione di lunghezza a riposo rispetto a K', il ri­ sultato sarebbe maggiore di -re. Ciò si comprende imme­ diatamente se si riflette sull’intero processo di misura­ zione del sistema stazionario K, e si considera che l’unità di misura riportata sulla periferia subisce una contrazione lorentziana, mentre quella riportata lungo il raggio no. Da cui segue che la geometria euclidea non vale per K'; la nozione di coordinata sopra ricordata, che presuppone la validità della geometria euclidea, ca­ de in riferimento al sistema K'. In modo analogo, inol­ tre, siamo incapaci di introdurre in K' un tempo che obbedisca alle esigenze fisiche, il quale sia indicato da orologi normali in riposo relativamente a K'. Per con­ vincersi di questa impossibilità, immaginiamo che due orologi di identica costruzione siano posti uno nell’ori­ gine delle coordinate, e l’altro sulla circonferenza, ed entrambi siano osservati dal sistema « stazionario » K. In conseguenza di un risultato ben noto nella teoria della relatività ristretta, l’orologio sulla circonferenza, osservato da K, va più adagio dell’altro, perché il primo è in moto e il secondo sta fermo. Un osservatore posto

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nell’origine delle coordinate, in grado di osservare l’oro­ logio sulla circonferenza mediante la luce, constaterà quindi che questo è più lento dell’orologio che gli sta accanto. E poiché tale osservatore non può pensare che la velocità della luce lungo la traiettoria in questione dipenda esplicitamente dal tempo, egli interpreterà le proprie osservazioni concludendo che l’orologio sulla cir­ conferenza « realmente » va più adagio dell’orologio nel­ l’origine. Egli sarà dunque obbligato a definire il tempo in modo tale che la velocità angolare delle lancette di un orologio dipende dal luogo in cui l’orologio stesso si trova. Cosicché perveniamo al seguente risultato: nella teo­ ria della relatività generale, lo spazio e il tempo non possono venir definiti in modo tale che le differenze tra le coordinate spaziali possano venir direttamente misu­ rate mediante il campione di lunghezza scelto come uni­ tà di misura, e le differenze tra le coordinate temporali possano venir direttamente misurate da un orologio cam­ pione. Il metodo fin qui usato per fissare nel continuo spa­ zio-temporale delle coordinate prescelte, non regge nel caso presente, e sembra che non ci sia alcun altro modo che ci permetta di adattare sistemi di coordinate all’u­ niverso quadridimensionale così da poterci aspettare dal­ la loro applicazione una formulazione particolarmente semplice delle leggi della natura.2 Cosicché non rimane altro da fare che riguardare tutti gli immaginabili si­ stemi di coordinate, per principio, come egualmente idonei per la descrizione della natura. Ciò porta a esige­ re che: 2 Trascuriamo di parlare qui di certe restrizioni corrispondenti al postulato del coordinamento univoco e a quello della continuità.

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Le leggi generali della natura debbono potersi espri­ mere mediante equazioni che valgono per tutti i sistemi di coordinate, cioè che siano covarianti rispetto a qua­ lunque sostituzione (covarianti in modo generale). È chiaro che una teoria fisica la quale soddisfa a que­ sto postulato soddisfa anche al postulato della relatività generale. Infatti la somma di tutte le sostituzioni inclu­ de in ogni caso quelle che corrispondono a tutti i mo­ vimenti relativi dei sistemi tridimensionali di coordina­ te. Che questo bisogno di covarianza in modo generale, che porta via dallo spazio e dal tempo l’ultimo avanzo di obbiettività fisica, sia una necessità naturale, si vedrà dalla seguente riflessione. Tutte le nostre verifiche spa­ zio-temporali si riducono invariabilmente a una deter­ minazione di coincidenze spazio-temporali. Se, ad esem­ pio, i fenomeni naturali consistono esclusivamente del moto di punti materiali, allora in definitiva nulla si po­ trà osservare tranne l’incontro di due o più di questi punti. Inoltre i risultati delle nostre misurazioni non sono nient'altro che verifiche di certi incontri di punti materiali di nostri strumenti di misura con altri punti materiali, o coincidenze tra le lancette di un orologio e punti sul quadrante dell’orologio, e punti-eventi osser­ vati che cadono nello stesso posto e nel medesimo istante. L’introduzione di un sistema di riferimento non serve ad altro scopo che a facilitare la descrizione della totali­ tà di tali coincidenze. Si distribuiscono ordinatamente sull’universo quattro variabili spazio-temporali x1, x2, x3, x4, in modo tale che per ogni punto rappresentan­ te un evento vi sia un sistema corrispondente di valori delle variabili x1, ..., x4. Se due punti (rappresentanti due eventi) coincidono, ad essi corrisponde un unico sistema

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di valori delle coordinate x1, ..., x4, vale a dire la coinci­ denza è caratterizzata dall’identità delle coordinate. Se, al posto delle variabili x1, x4, introduciamo quattro funzioni delle stesse, x'1, x'2, x'3, x'4, come nuovo sistema di coordinate, in modo che tra i due sistemi vi sia corri­ spondenza biunivoca senza ambiguità, l’eguaglianza di tutte le quattro coordinate servirà anch’essa come espressione della coincidenza di due punti-eventi nello spazio-tempo. E poiché tutta la nostra esperienza fisica può in definitiva ridursi a tali coincidenze, non vi è alcuna ragione immediata per preferire certi sistemi di coordinate ad altri, vale a dire giungiamo al postulato della covarianza generale. (A. Einstein, I fondamenti della relatività, cit., pp. 18-22)

5. Einstein: espressione analitica per il campo gravita­ zionale.

In questa Nota non è mia intenzione presentare la teoria della relatività generale come un sistema logico assai semplice, basato sul minimo di assiomi. Il mio scopo principale è quello di sviluppare questa teoria in modo tale che il lettore si renda conto che la via su cui ci siamo messi è psicologicamente l’unica naturale, e le ipotesi fatte van d’accordo il più possibile con l’espe­ rienza. In vista di tale scopo formuliamo l’ipotesi: Per regioni quadridimensionali infinitamente piccole, se le coordinate sono scelte convenientemente, rimane valida la teoria della relatività ristretta. A tal fine dobbiamo scegliere l’accelerazione del si­ stema di coordinate infinitamente piccolo (« locale ») in modo tale che non vi sia alcun campo gravitazionale: il

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che è possibile per una regione infinitamente piccola. Siamo X1, X2, X3, le coordinate spaziali, X4 la corrispon­ dente coordinata temporale, misurata nell’unità appro­ priata.1 Se si immagina che un campione rigido sia scel­ to come unità di misura delle lunghezze, e sia assegnata l’orientazione del sistema delle coordinate, le coordinate hanno un significato fisico immediato nel senso della teoria della relatività ristretta. L’espressione

(1)

ds1 = - dXi2 - dX22 - dX2 + dX