La regola e l'arbitrio. Finanza pubblica e finanza privata in Italia 8815018131


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La regola e l'arbitrio. Finanza pubblica e finanza privata in Italia
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Filippo Cavazzuti

LA REGOLA E L’ARBITRIO Finanza pubblica e finanza privata in Italia

il Mulino/Contemporanea 27

CONTEMPORANEA / 27

FILIPPO CAVAZZUTI

LA REGOLA

E L’ARBITRIO

Finanza pubblica e finanza privata in Italia

SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO

ISBN 88-15-01813-1

Copyright © 1988 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

Indice

Introduzione

Il sistema finanziario pubblico Introduzione Il rischio di un «neo-statalismo». Dare «voce» agli utenti La congiuntura economica e il processo di bilancio Il problema del debito pubblico La combinazione delle politiche monetarie e fiscali (fino all’azzeramento del disavanzo corrente)

Per una politica dei redditi La riforma fiscale per l’equità, la semplicità e l’efficienza del prelievo

II. Il sistema finanziario privato Introduzione I mercati lavorano sempre al meglio? I conflitti di interessi Un breve «giro» nel passato. Tutti fanno tutto Il segmento creditizio, quello mobiliare e gli operatori polifunzionali Nuove regole per riportare un poco d’ordine a fronte dei nuovi rischi Nuove regole tributarie a favore della neutralità

96 106 111

Introduzione

Le pagine che seguono sono state scritte (in diverse occasioni) e rielaborate pensando non solo agli specialisti, ma anche a quella più vasta opinione pubblica che, culturalmente e politicamente motivata, ancora ritiene (pare banale doverlo

ricordare) che in una prospettiva di piena attuazione della Comunità economica europea il grado di realizzazione di obiettivi socialmente rilevanti quali sono la «piena occupazione»,

la «solidarietà»,

l’«eguaglianza»,

l’«efficienza»,

la

«trasparenza», la «concorrenza», la prevenzione dei «conflitti di interessi», ecc., non dipende solo dalle qualità degli uomini o dal funzionamento di una qualche entità che, nel ragionamento, viene assunta in modo quasi metafisico (il «mercato concorrenziale», ad esempio, e la sua retorica che

non consente di cogliere tutto ciò che «concorrenza» proprio non è) o dallo «spontaneismo» individuale o d’impresa, ma

anche e soprattutto dal sistema delle «regole» e dall’azione «discrezionale» esercitata tramite politiche economiche ed istituzionali che vogliono consapevolmente governare i sistemi economici per il raggiungimento di quegli obiettivi socialmente rilevanti. Concordiamo dunque con chi non ha mai smesso di ricordare che «l’assillo per il miglioramento sociale non sia separabile da un responsabile controllo pubblico del complesso modo di operare degli odierni sistemi economi. ci» !.

Nelle pagine che seguono discuteremo alcuni problemi che non ci paiono ancora affrontati con sufficiente decisione in due campi apparentemente assai distanti tra di loro: il siPaolo Bosi, Marco Cammelli, Silvia Giannini, Massimo Matteuzzi han-

no letto precedenti stesure di questo lavoro. A loro va la mia gratitudine peri preziosi suggerimenti ricevuti.

stema finanziario pubblico e il sistema finanziario privato. Il primo richiama alla mente il luogo comune degli uffici polverosi e della grande inefficienza, il secondo, invece, farebbe intravvedere (altro luogo comune) eleganti salottini e rapidità d’azione. La scelta dell’intermediario pubblico e di quello privato non è tuttavia casuale. Nel panorama dell’economia italiana essi, infatti, costituiscono i due operatori per cui più urgente e più significativa appare la necessità di un intervento pubblico: per «deregolamentare» l’azione del primo (fino alla «delegificazione» del rapporto di lavoro del pubblico impiego) e per «regolamentare» quella del secondo (fino ad una normativa che prevenga il sorgere del «conflitto di interes-

si»). In questo modo di agire — che potrebbe essere esteso anche ad altri settori —, ed avendo abbandonato la secca

contrapposizione del «pubblico» al «privato», potrebbe realizzarsi un migliore equilibrio tra ciò che da sempre è il simbolo del «pubblico» e ciò che è simbolo del «privato», ovvero, più in generale, tra la libertà dei singoli individui o dei gruppi e l’autorità dei poteri pubblici. Nella prospettiva indicata diviene assolutamente importante una riflessione sia sul ruolo e sulla trasparenza del sistema finanziario pubblico (inteso come un insieme di operatori e di bilanci che svolgono funzioni allocative, compensatrici e ridistributive), sia sulla regolazione dei sistemi finanziari privati (intesi come un insieme di intermediari e di mercati presenti nel sistema economico), sia, infine, sulle di-

verse modalità con cui tali attività vengono esercitate e sulle interrelazioni che (per la rilevanza dei fabbisogni pubblici e dei riflessi che questi esercitano sui mercati finanziari e per il ruolo esercitato dai tributi nelle scelte finanziarie) sono

poste tra finanza pubblica e sistemi finanziari privati. Diviene importante anche ogni ragionamento tendente ad evitare i rischi di uno sciagurato «neo-statalismo». Questo, infatti, potrebbe tentare chi, in luogo della riforma delle regole e degli interventi «consapevoli» di politica economica ed istituzionale (in particolare tramite la finanza pubblica), volesse affidare alla sola ed opprimente attività amministrativa dello «Stato» così come lo abbiamo ereditato dall’altro secolo, e con tutte le degenerazioni ed opacità burocratiche che lo contraddistinguono, o solamente all’azione regolamentatrice esercitata dalla banca centrale in via amministra8

tiva, il compito di raggiungere certi obiettivi (ad esempio l’equità fiscale o l’efficienza dei servizi pubblici o dei mercati finanziari o la prevenzione dei conflitti di interessi tra intermediari finanziari e la parte contraente più debole) «forzando» entro schemi inadatti (in quanto «pensati» per lo svolgimento di attività assai diverse da quelle che in concreto svolgono oggi — in un contesto economico e sociale assi mutato

— il settore pubblico ed il sistema finanziario privato) una realtà che, giustamente, rifiuta di farsi comprimere entro tali ambiti. D'altra parte, a fronte di sviluppi disciplinari per larghissima parte tesi alla ricerca di coerenze per lo più solo formali, atemporali ed assai astratte, pare che sia stato dimenticato, ad esempio, quanto meno l’insegnamento di J. Schumpeter quando (1918) ricorda che «a Goldsheid resterà sempre il

merito di essere stato il primo... a diffondere la verità che il bilancio “è lo scheletro dello stato spogliato di tutte le fallaci ideologie”... Anzitutto la storia fiscale di un popolo è una parte essenziale della sua storia generale» ?; o quello di A. De Viti De Marco quando sottolinea che il bilancio «è fattore di primissima importanza nelle vicende storiche dei popoli; senza comprenderlo o tenerne conto, si può fare la storia descrittiva e drammatica delle guerre e delle rivoluzioni, ma non se ne dà la spiegazione... non si comprenderebbe la guerra d’indipendenza degli Stati Uniti, dichiarata al grido: No taxation without representation»?; o, infine, quello di

Menichella quando osservava per la gestione del credito che «apparirà del tutto inutile a chi vorrebbe trovare in ben ordinati manualetti i precetti della buona gestione del credito,

mentre questa è soltanto la somma delle difficoltà che con paziente e quotidiana applicazione si riescono a superare, se

pure tra ostacoli ambientali, diversi da paese a paese, i quali fanno sempre sì che i risultati siano ben lontani dai propositi» 4.

‘Ma vi è anche un altro motivo che ha spinto alla stesura di queste pagine: sul lato del sistema finanziario pubblico è la profonda insoddisfazione che l’autore sente per lo stato del dibattito che su questi temi si svolge fra chi mostra inte-

resse a rendere più eque ed anche più efficienti le modalità del governo dell’economia italiana. Ad esempio, è sensazione assai diffusa che molte espressioni di giudizio fortemente 9

critico sullo stato della finanza pubblica (quale è quella che tutti e sempre pronunciamo: il risanamento della finanza pubblica) si compiacciano troppo sovente della pura e semplice enunciazione verbale, arrestandosi di fronte alla complessità di problemi che possono coinvolgere gli interessi degli utenti, da un lato, e la pubblica amministrazione dall’altro. Troppo spesso pare a noi di rilevare, soprattutto nelle proposizioni dei più accesi «congiunturalisti», una inaccetta-

bile sottovalutazione della complessità della macchina amministrativa ed istituzionale: quasi che nella realtà non esistesse, tra la decisione politica (parlamentare o governativa) e la manifestazione dei suoi effetti economici, tutto ciò che è

rappresentato dalla organizzazione burocratica della amministrazione pubblica che deve tradurre in atto le decisioni di politica economica e che di norma introduce (in un contesto di quasi totale carenza di «trasparenza») attriti e ritardi nel processo della gestione della finanza pubblica. Ma, purtroppo, è anche vero che tra i «gradualisti» vive e si moltiplica un certo cinismo politico che spinge alla paralisi di fronte alla gravità dei problemi presenti nell’assetto della nostra finanza pubblica. Così come appare con sempre maggiore evidenza che molte proposte di «risanamento» della finanza pubblica non tengono adeguatamente conto sia degli effetti che tali proposte potrebbero esercitare sul numero degli occupati coinvolti (data la caratteristica di settore labour intensive),

sia dell'ostacolo che viene posto dalla particolare normativa che regola i rapporti di lavoro-nel settore pubblico. Invece, la lucida consapevolezza degli effetti sulla occupazione e della necessità di abbandonare la «doppia» tutela che circonda i dipendenti pubblici (quella contrattuale e quella della legge che recepisce gli accordi sindacali) è requisito sia per vincere la paralisi di alcuni, sia per consentire l'adozione di altri interventi (come la mobilità degli occupati, ad esempio) che consentano sia quella riallocazione degli occupati (sul territorio così come tra amministrazioni e professionalità), sia quel certo grado di «meritocrazia» che appaiono indispensabili per dare efficienza, equità e trasparenza al nostro «stato del benessere»; in altre parole per dare concreta tutela ai diritti dei cittadini-utenti. Sul lato del sistema finanziario privato, invece, il conflit-

to di potere strisciante che contrappone la nostra banca cen10

trale (nella sua funzione di ente regolatore la concorrenza sul

mercato creditizio e di garante della stabilità del sistema) a

chi intenda operare sui mercati finanziari nei due segmenti

(mobiliare ed assicurativo) in concorrenza al sistema banca-

rio non appare mai in modo palese. Da un lato assistiamo infatti ad una riforma del sistema finanziario condotta princi-

palmente dalla banca centrale che, sfruttando i propri poteri amministrativi’, cerca di estendere l’operatività del sistema bancario anche ai segmenti mobiliari ed assicurativi del mercato finanziario e, dall’altro lato, ad un «depotenziamento» della Consob e della concorrenza degli intermediari finan-

ziari di origine non bancaria. Sia chiaro, non vi è una qualche «teoria», né una qualche «prassi» che spieghino come debba articolarsi il sistema finanziario e, dunque, la banca

centrale non fa altro che esercitare i poteri che l'autonomia di cui è dotata (legge bancaria del 1936) le riconosce. Rimane però il fatto che — anche in previsione delle scelte che l’Italia potrebbe essere chiamata a fare per l’attuazione del «mercato unico» del 1992 — orientare il sistema finanziario verso schemi del tipo tedesco (la banca mista che opera su tutti e tre i segmenti del mercato finanziario o, nella dizione della Banca d’Italia, «il gruppo creditizio polifunzionale») invece che verso altri schemi ove più accentuata è la concorrenza tra intermediari bancari e non bancari ed ove non esiste un «super-controllore» (la banca centrale), non è scelta che possa essere sottratta ad un dibattito che coinvolga oltre che parlamento e governo anche una più ampia categoria di operatori e di studiosi. La rilevanza degli interessi coinvolti in tale «rifondazione» del sistema finanziario richiede, infat-

ti, sia l'adozione di alcune scelte «strategiche» — anche, come detto, in previsione della piena costituzione del mercato unico europeo nel 1992 — sia che parlamento e governo non ritardino oltre nel loro compito di fissare quel sistema di «regole minime» orientate al fine di prevenire il sorgere delle situazioni di conflitto d’interesse, di frode e di instabilità dell'intermediario finanziario, tipiche, fra l’altro, delle situazioni ove dominano «gruppi d’impresa» non regolamentati

dalla legge nazionale. Vi è poi anche la percezione che assai spesso il dibattito a cui facciamo riferimento (per quanto riguarda questa volta sia la finanza pubblica sia quella privata) sia condotto in moHi

do troppo distaccato da un qualche schema generale di rife-

rimento o da quelle esperienze (e tentativi di soluzione) condotte all’estero (ed in particolare in altri paesi della Cee) che

possono offrire una utile guida alla individuazione di alcune soluzioni di molti problemi che affliggono l’Italia. In questo paese pare a noi di osservare, infatti, un modo di procedere «a tentoni» ‘ ed anche assai «frammentato», che troppo spesso dimentica di riportare ad un qualche ordine di priorità e ad una qualche coerenza di sistema le più diverse, e spesso contraddittorie, proposte di soluzione dei problemi di efficienza e di equità connessi al prelievo delle imposte ed alla erogazione della spesa pubblica, o di quelli di efficienza e trasparenza dei mercati finanziari. Per questi ultimi, si continua a procedere nel tentativo di regolamentare alcuni soggetti (fondi comuni, fondi chiusi, ecc.) o alcuni prodotti finanziari in assenza di una normativa più generale (analoga alla legge bancaria) che fissi le «travi portanti» (la concentrazione degli affari sui mercati mobiliari ufficiali, la prevenzione dell’insider trading, un sistema di «divieti» teso a prevenire i conflitti di interessi) che dovrebbero reggere i comportamenti ed i controlli degli intermediari finanziari non bancari, anche (e soprattutto) al fine di prevenire il sorgere di acute situazioni di conflitti di interessi tra la parte contraente più forte e quella più debole. Infine, con specifico riferimento ai tributi, vale la pena

di ricordare che, forse, per alcune forze sociali che non si vogliono confinare nella sterile predica, ma che, invece, sono assai interessate a «come» raggiungere in concreto obiettivi

di «equità ed efficienza» nel campo della finanza pubblica, rischia di operare ancora quella sottile sofferenza da frustrazione che Carlo Marx indicava proprio per l’attività di riforma delle imposte e che ancora oggi può portare molti alla rinuncia propositiva ed alla paralisi nell’azione. Scriveva, infatti, Carlo Marx (recensendo un’opera di Emile de Girardin dal tema «Le socialisme et l’impot», pubblicata nel 1850) che «la fonte del bilancio è l’imposta. La fonte del suffragio universale sul bilancio deve quindi essere la sua influenza sull’imposta. E mediante questa influenza sull’imposta, si realizza il socialismo “buono”... La riforma dell’imposta è l’idea fissa di ogni borghese radicale, l'elemento specifico d’ogni riformatore borghese economista... La riforma delle 12

imposte ha lo scopo o d’abolire imposte tradizionalmente tramandate che intralciano la strada dell’industria o d’ottenere un’amministrazione meno costosa, o una distribuzione

più uniforme. Il borghese insegue l’ideale chimerico della distribuzione uniforme delle imposte con zelo tanto maggiore, quanto più tale distribuzione gli sfugge in pratica dalle mani... S'egli ha per un momento fatto astrazione dalle condizioni della società borghese, è stato soltanto per ritornare ad esse per una via traversa». A mio avviso si tratta di vincere

tale sottile sofferenza nella profonda convinzione che l’equità del sistema tributario altro non è che l’altra faccia della democrazia e che, dunque, non si giunge a pieno compimento di questa se non si garantisce l'equità, la semplicità e la trasparenza fiscale. Note all’introduzione 1 F. Caffè, Ir difesa del «welfare state». Saggi di politica economica, Torino, Rosenberg e Sellier, 1986. ? JT.A. Schumpeter, Die Krise des Steuerstaats, trad. it. in Stato ed inflazione, Torino, Boringhieri, 1983, pp. 130-180. 3} A. De Viti De Marco, Principi di economia finanziaria, Torino, Boringhieri, 1953, p. 31. 4 D. Menichella, I/ concorso delle banche nella realizzazione dell’equilibrio monetario e della stabilità economica. Le esperienze italiane, in La moneta e l'economia. Il ruolo delle banche centrali, a cura di P. Ciocca, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 122. ? G. Minervini, Recenti tendenze in materia di concorrenza bancaria, in «Rassegna Economica», 1984, pp. 719-725. 6 Invero, tale rilievo vale anche per il sistema finanziario Usa di nor-

ma considerato tra i più evoluti del mondo. Cfr. E.G. Corrigan, La struttura del mercato finanziario. Un approccio di lungo periodo, Documenti, Centro Alberto Beneduce, Roma, 1988, p. 39 (titolo originale: Financial Market Structure: A Longer View, Federal Reserve Bank of New York, gennaio 1987). 7 Questa recensione deve a F. Volpi la sua diffusione in Italia. Essa, infatti, figura come Appendice. L’ideale borghese della giusta tassazione, in Teorie della finanza pubblica, a cura di F. Volpi, Milano, Angeli, 1975, pp. 278-281. Di recente, A. Pedone ha opportunamente ripreso tale recensione in un dibattito sulla riforma dei sistemi tributari che si è svolto su «Micromega», n. 2, 1986.

13

I. Il sistema finanziario pubblico

Introduzione

Per entrare nei temi del sistema finanziario pubblico (inteso come un insieme di operatori e di bilanci pubblici) ci pare opportuno iniziare richiamando l’attenzione sul fatto che! «per una interpretazione significativa, la teoria della finanza pubblica deve essere ricondotta ai compiti che, nei diversi contesti storici ed istituzionali, la visione del

funzionamento del sistema economico e il clima culturale in senso lato attribuiscono all'operatore pubblico» e che «è inoltre rimasto irrisolto il problema di una definizione delle regole da seguire nelle politiche ridistributive: la letteratura più recente ha dimostrato quanto fosse illusorio il tentativo della nuova economia del benessere di evitare l’introduzione in questo ambito di giudizi di valore impegnativi sul pia-

no sociale e storico». E, infatti, un patrimonio teorico e scientifico ormai ac-

quisito ? che le impostazioni normative sul ruolo dello stato nell’economia oscillano tra l'ammissione di giudizi di valore

molto blandi che giustificano uno «stato minimale» e concezioni che poggiano su giudizi di valore via via sempre più restrittivi e cogenti che spiegano il nascere delle «economie socialiste pianificate». Ma anche restando nel contesto di economie che ammettono e sollecitano l’iniziativa di intrapresa economica individuale, si tratta di ammettere giudizi di valore che portano al passaggio da uno «Stato» ove i pubblici poteri consistevano prevalentemente in «funzioni pubbliche» (ad esempio la giustizia) ad altro «Stato» ove i pubblici poteri sono divenuti «servizi pubblici». Per gli aspetti che qui interessano, vogliamo ricordare‘ che il caso limite dello stato minimale non contempla alcu15)

na attività redistributiva tra gli individui e le classi sociali e che l’unica attività consentita al bilancio pubblico è quella di produrre un particolarissimo bene pubblico: quello della protezione contro la violenza, la frode ed il furto in un quadro di quasi completa inesistenza della consapevolezza dei diritti altrui. In tale contesto, l’unica attività di prelievo è quella strettamente connessa al finanziamento del servizio pubblico della protezione, ed è anche evidente che tale teoria minimale dello stato si basa su giudizi di valore che ammettono la libertà individuale di intraprendere attività economiche. È poi noto che all’estremo opposto si collocano le economie socialiste perfettamente pianificate ove lo stato esercita un forte controllo (centralizzato o decentralizzato che sia) non

ammettendosi

(nei giudizi di valore dominanti)

concezioni individualistiche, ma tutto dipendendo dalle decisioni del pianificatore che dispone di sufficienti basi informative per adottare le sue decisioni. Ma proprio la difficoltà di dotarsi di sufficienti basi informative (in assenza dei «segnali» che vengono dal mercato che dovrebbero riflettere le preferenze dei consumatori) ed il prevalere di una gestione «amministrativa»

costituiscono

due dei più

acuti problemi che i sistemi pianificati dal centro non sono ancora riusciti a risolvere. Poiché noi intendiamo ragionare con realismo e convinzione all’interno di sistemi economici ove i giudizi di valore dominanti ammettono e sollecitano non solo la libertà di intrapresa individuale da esercitare sui diversi mercati, ma anche un «certo grado» di azione di redistribuzione del reddito e dei patrimoni (ove lo «stato» oltre alle funzioni più tradizionali gestisce anche diversi servizi pubblici), gli impianti teorici a cui fare riferimento in parte «scricchiolano», pur restando una impertante «bussola» per il policymaker in quanto spesso il solo «buon senso» (sovente derivato da una ideologia politica) trae in inganno a fronte della soluzione di problemi complessi. Invero, impossibilitati a raggiungere situazioni di first dest, ove gli obiettivi di efficienza degli operatori e di redistribuzione dei redditi possono essere perseguiti separatamente gli uni dagli altri (in omaggio al poco «realismo» di molte ipotesi che sottostanno la possibilità di raggiungere posizioni di first best), i go16

verni devono ricercare realistiche soluzioni di second best. E, come da ultimo ci ricorda con efficacia ancora Petretto ? «i problemi del second best possono essere considerati come problemi del “controllo indiretto” dell’attività degli agenti economici. Il governo, infatti, allo scopo di raggiungere i propri fini, potrebbe desiderare di controllare direttamente, ad esempio, i livelli di consumo e di offerta di lavoro di ciascun individuo, ma non può essere in grado, per carenza di informazioni, di imporre il comportamento individuale. Deve quindi ricorrere ad una serie di strumenti che influenzano solo indirettamente il comportamento degli agenti». Ma, «in un contesto di second best... gli obiettivi di efficienza e redistribuzione sono assolutamente interdipendenti... i due obiettivi non possono essere perseguiti separatamente... ciò introduce un elemento di grande indeterminatezza nell’analisi di second best data l’enorme varietà di vincoli che è possibile contemplare nella realtà delle economie industrializzate»‘. Se, dunque, anche le soluzioni di second best potrebbero essere raggiunte solo a condizione di un opprimente «stato amministrativo» che, vittima di un grave delirio di onnipotenza, imponesse certi comportamenti individuali (ad esempio nel consumo) ai propri cittadini, vale la pena di rinunciare a ciò e ricercare, invece, altre soluzioni di

controllo indiretto. Pur nella consapevolezza che anche queste hanno spesso un contenuto normativo e concreto assai limitato per la ristrettezza (o eroicità) delle ipotesi sot-

tostanti (ad esempio quella di «consumatore rappresentati-

vo» che viene introdotta per significare che si assume che tutti gli individui hanno le medesime preferenze individuali ed i medesimi redditi) e per la generale carenza di informazione di cui sono vittima gli operatori economici. Vi è poi da considerare, infine, che da quando la politica economica ha trovato una vasta attenzione al di fuori delle sedi tradizionali (università, partiti, parlamento e governo), ha dovuto diventare anche, fatalmente, «spettaco-

lo» (0, forse, «commedia») e dunque indulgere nella coltivazione del proprio vasto pubblico. Se da un lato ciò non può che rallegrare i cultori di questa disciplina (che così diviene meno «triste» secondo una nota definizione in vigore nell’altro secolo), dall'altro lato costringe a misurarsi éof inLy

terlocutori che adottano sovente un linguaggio sovrasemplificato rispetto alla realtà da indagare. Nel campo del «controllo e governo» del sistema finanziario pubblico tutto ciò appare ancora più evidente. Troppo spesso infatti la complessità di tale sistema pubblico viene sovrasemplificata nell'immagine che si ricava dal suo ruolo nei modelli macroeconomici

(didattici) di domanda

per la determinazione del reddito: tutto viene ridotto ad una indistinta spesa pubblica e ad un altrettanto indistinto aggregato che rappresenta le entrate. Ma nel fare ciò, ad esempio, scompare ogni analisi degli effetti sulla domanda aggregata derivanti dalla «composizione» delle entrate e delle spese pubbliche e che, invece, a parità degli aggregati complessivi possono risultare assai diversi”. Scompaiono altresì gli effetti microeconomici dei singoli «bilanci» che costituiscono il settore pubblico (sanità, istruzione, ecc.) gui-

dati da agenti economici che possono reagire in diversi modi alle politiche di bilancio immaginate e condotte dal centro. Infatti, per ognuno di questi «segmenti» del bilancio pubblico esiste un «mercato» su cui si confrontano domanda ed offerta e che non può essere riassunto e «normalizzato» nella dominante analisi macroeconomica dei bilanci pubblici8. Quando si ragiona su «controllo e governo» del sistema finanziario pubblico, conviene dunque ricordare almeno la tripartizione operata da Musgrave sul finire degli anni cinquanta quando sistematizzò diversi «spezzoni» di teoria e di uniformità empiriche osservate?. Questo studioso, è no-

to, assegnò al sistema finanziario pubblico tre funzioni: allocativa, redistributiva, compensatrice. Ovvero, la funzio-

ne di tale sistema pubblico non è unica, ma comprende almeno le tre sottofunzioni: 4) quella per l’offerta dei beni pubblici. La dimensione del settore pubblico dipende allora anche dalla frazione di prodotto destinata alla soddisfazione dei bisogni pubblici che, a loro volta, non possono che essere definiti dal sistema dei giudizi di valori dominante in un dato momento storico; 2) il governo della redistribuzione del reddito che si vuole realizzare in ogni data società e che dipende dalla «passione per l’eguaglianza» presente nei diversi contesti sociali (l’espressione «passione per l’eguaglianza» !°, si noti, non è dovuta ad un tardo sessantot18

tardo ma appartiene ad Erik Lundberg: economista famoso, banchiere ed anche onesto conservatore); c) il manteni-

mento di una stabile crescita economica da attuarsi anche con provvedimenti di bilancio per la stabilizzazione della domanda aggregata (ma, come vedremo, sulla rilevanza di quest’ultima funzione vi sono opinioni diverse). La necessità di scomporre il ruolo del sistema finanziario pubblico almeno nelle «sottofunzioni» ricordate, non è poi altro che la conseguenza della abituale osservazione per cui non ha molto senso ragionare su di una unica pubblica amministrazione, ma che occorre ragionare su di una pluralità di pubbliche amministrazioni che svolgono compiti diversi, spesso non coordinati, ma contrapposti se non con-

flittuali, dotate di propri bilanci che solo le convenzioni classificatorie elaborate dall’Istat (per la costruzione dei conti economici nazionali) e dalla Ragioneria Generale del-

lo Stato (per la costruzione dei quadri consolidati del settore statale e del settore pubblico allargato) riescono a ridurre ad un unico bilancio. Fatto questo che induce tuttavia a ragionare su di un indistinto settore pubblico ove scompaiono le differenze istituzionali, storiche, gestionali e via di-

cendo che, invece, caratterizzano ogni singolo ente ivi compreso. Prima di discorrere di controllo e gestione del sistema finanziario pubblico parrebbe, dunque, opportuno ragionare preliminarmente sulla conoscenza che si ha del settore pubblico. In altre parole, sarebbe opportuno riflettere sulle caratteristiche «fisiche» del settore pubblico: su che cosa fa e su che cosa non fa; con quali tempi svolge i suoi compiti; su quanti sono coloro (e a che titolo) che hanno rapporti di lavoro con questo settore e con quale sistema vengono reclutati; quale rispetto si ha degli utenti; come si aiutano gli utenti ad usufruire dei servizi pubblici e come si ascolta la loro «voce»; come circolano le informazioni tra amministrazioni ed utenti; quale trasparenza circonda le diverse fasi del processo di produzione e di offerta dei beni pubblici, ECC. In realtà il settore pubblico non conosce se stesso; e così, si è parlato di «povertà delle statistiche amministrative relative alle unità di amministrazione e di governo. Lo stesso può dirsi per quelle relative al personale, ai beni, alla fi19

nanza e all’attività dei poteri pubblici»!!. Solo di recente ‘ (con l’istituzione dell’«Osservatorio del pubblico impiego» nel 1984-1985)

si è cominciato,

tuttavia, a realizzare un

supporto informativo adeguato nel settore del personale e dei relativi oneri finanziari per l’intero settore pubblico. Anche per la maggiore (in senso comparato con altri settori della pubblica amministrazione) quantità di dati sul

fenomeno finanziario, diviene assai più semplice afferrare i problemi del sistema finanziario pubblico quasi esclusivamente per gli aspetti del bilancio. Ma ciò costituisce la via più diretta per porre le premesse per l’analisi della sola funzione compensatrice, a scapito dell’analisi delle altre due sottofunzioni. In questo senso, il ricorso quasi esclusivo a quel grossolano indicatore del bilancio pubblico che è dato dal «saldo di bilancio» consente di descrivere (se osservato nello svolgersi del tempo) solamente lo svilupparsi della funzione compensatrice (o destabilizzante) esercitato dal bilancio pubblico sull'andamento ciclico dell'economia di un paese. Contribuisce a non uscire dall’ottica del «bilancio ridotto al solo fabbisogno» il prevalere, nelle pubbliche amministrazioni, di una cultura prevalentemente giuridico-formale, tutta orientata all’esercizio di controlli formali, abituata

quasi esclusivamente all’esecuzione puntuale delle leggi, poco incline ad assumere responsabilità gestionali che si misurino con le diverse difficoltà che sorgono nel raggiungimento di certi obiettivi e per nulla disposta a rendere evidenti all’esterno le modalità del proprio lavoro !2. Così, i sistemi informativi di cui si è dotata la pubblica amministrazione vengono in prevalenza utilizzati per fare «le somme e le sottrazioni» dei mandati di spesa e delle diverse entrate (nella «cultura» della esecuzione

puntuale delle norme

di

contabilità) invece che per elaborare indicatori che aiutino allo svolgimento di attività per obiettivi e, dunque, a meglio comprendere cosa stia avvenendo in quella macchina così complessa che è data dal sistema delle pubbliche amministrazioni. Così, a livello centrale, per sorreggere nelle decisioni di bilancio diviene pressoché inutile il sistema informativo della Ragioneria Generale dello Stato. Questo, infatti, è stato concepito per eseguire la gestione contabile del bilancio pubblico e non per assistere nelle decisioni 20

strategiche. Sarebbe come se un’impresa si servisse solo della propria contabilità generale per valutare le diverse strategie di crescita con cui deve confrontarsi: sarebbe garantito il suo fallimento (e, infatti, le strategie impostate da molti «piani» di finanza pubblica hanno regolarmente mancato ogni obiettivo!).

Il rischio di un «neo-statalismo». Dare «voce» agli utenti

Le questioni sollevate nelle pagine precedenti possono costituire un «tranello» per chi ha sempre affidato un ruolo assai importante all’intervento dello stato nell'economia. Il «tranello» da evitare è che a fronte delle indubbie difficoltà a muoversi nella strada indicata, si cada, come abbiamo già ricordato, nella tentazione di un «nuovo statalismo». Infatti, a fronte delle critiche e dei tentativi di ridurre

l'estensione della copertura dello stato del benessere, in molti si sono spesso trovati a difendere in modo aprioristico uno «stato» (inteso nel concreto delle sue inefficienze, opacità e delle sue fonti di ineguaglianze) che non merita molto una difesa così generalizzata. Così, la discussione invece di imboccare la via del distinguo tra ciò che deve restare sotto il dominio del «pubblico» (secondo modalità operative e di presenza che, a mio avviso, dovrebbero essere alquanto molteplici e che, comunque, non possono essere ridotte ad identificarsi con l’amministrazione pubblica) e

ciò che deve restare nell’assoluto dominio del «privato», ha preso l’altra via di ciò che deve restare a far parte dell’assetto «amministrativo» dello stato e ciò che, invece, deve

essere «deregolamentato» per essere abbandonato all’arbitrio dei singoli. Con il che è andato perso proprio ciò che dovrebbe essere centrale in una discussione sulle condizioni di uno stato del benessere: l’«efficienza», l’«equità» e la «trasparenza» di tale stato, da un lato, e come si può giungere alla «misura» ed al «controllo» di questi primi concetti su cui si basa proprio lo stato del benessere. Non è questa l’occasione per entrare in dettaglio in tali problematiche se non per ricordare che il concetto di «equità» non può che misurarsi con le condizioni concrete della ZI

produzione e della distribuzione del reddito e dei patrimoni «prima e dopo il pagamento delle imposte», ma anche «prima e dopo» aver ricevuto i benefici della spesa e della «organizzazione» pubblica (ma su questo ritorneremo quando discuteremo di politica dei redditi). Per quanto riguarda l'aspetto delle imposte, può infatti avvenire che il sistema tributario e contributivo operi una «ridistribuzione perversa» nel senso di accentuare le distanze tra i cittadini, soprattutto quando la legislazione tributaria considera i cittadini non esclusivamente in base al reddito ed il patrimonio posseduto, ma in base a «presunzioni» di reddito che derivano dalla appartenenza a «categorie» o ad «associazioni» (lavoratori dipendenti, pensionati, artigiani, commercianti, imprenditori, ecc.); categorie ed associa-

zioni che la legislazione assume in blocco «come se» i loro aderenti fossero tutti in condizioni di reddito e di patrimonio assai simili e, dunque, idonei a godere dello stesso trattamento fiscale e contributivo (di norma, agevolativo). In-

vece, è caratteristica di un'economia quale è quella italiana l'appartenenza in modo certo di molti cittadini-contribuenti ad «una categoria», ma con il contemporaneo godimento di altri redditi. Non si tratta solo, come è noto, del reddito

proveniente dalla casa di abitazione propria (situazione questa comune ad oltre il 60% delle famiglie italiane), ma anche di quello proveniente dal capitale finanziario risparmiato (spesso per effetto di esenzione fiscale), o da attività tipiche di una «piccola imprenditoria», sovente inefficiente per il sistema economico nel suo complesso, ma produttrice di redditi non trascurabili per i percettori. E un segnale di ciò, ad esempio, il fatto che la Banca d’Italia abbia rinunciato a raccogliere i dati sulla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane per la ritrosia delle medesime a fornire informazioni attendibili. Ma ciò che si nasconde, di norma, non è quantitativamente irrilevante! Invero, se nel ragionare per «categorie» o «associazioni»

minore cautela deve essere adottata per molte fasce di percettori di reddito da lavoro dipendente (per la standardizzazione retributiva che caratterizza questa categoria) e per i

lavoratori dipendenti in pensione, ben maggiore cautela occorre per le categorie dei percettori degli altri redditi. Inve-

ce, proprio con riferimento a queste ultime categorie, avDa

viene sovente di assistere ad una normativa a loro diretta che può sboccare in una «ridistribuzione perversa» a danno del lavoro dipendente. Ad esempio, è questo il caso che si verifica ogni volta che gli «incentivi fiscali od i trattamenti tributari di favore» si trasformano da «iniziali e provvisori» in «definitivi». Ovvero quando la classe politica dopo aver riconosciuto la necessità di intervenire per il sostegno di certi «segmenti della popolazione o della produzione» non ha più il «coraggio politico» di rivedere tale decisione anche quando si ha evidenza che tali incentivi hanno funzionato. La «forza politica» dei percettori è infatti tale da far temere la perdita del loro consenso politico. Ma ciò paralizza ogni azione riformatrice in quanto: 4)

spinge nella direzione della ricerca di «piccoli aggiustamenti» tributari tendenti a ripristinare una «equità» che, nei confronti di altri contribuenti, si suppone sia stata lesa, ma che saranno immediatamente seguiti da altri provvedimenti tesi a ripristinare «le distanze». In questo contesto, i gruppi di pressione riescono ad ottenere vantaggi partico-

lari che trasformano il sistema fiscale e contributivo in un complesso di norme talmente intrigato da non consentire più di rintracciare il filo dell’equità; 4) incentiva l’attesa

dei «tempi migliori» quando la maggior crescita economica renderà «politicamente» indolore ogni azione di governo tendente alla «ridistribuzione dei redditi e dei patrimoni». Ma in questo modo, si tende ad intervenire solo sulle variazioni marginali consentite dalla maggiore crescita e si rinuncia a correggere le distorsioni accumulate nel passato. In tale contesto, il tipo di intervento «statalistico» che si corre il rischio di adottare è quello che si sostanzia nel tentativo di presumere che tramite il puro e semplice potenziamento della amministrazione statale (quella finanziaria, nel caso specifico, o quella «locale» nel caso di autonomia impositiva) si possa «amministrare l'equità» aumentan-

do i poteri di verifica, di controllo, e di ogni altro intervento consentito alla «burocrazia», in un contesto legislativo e procedurale che, proprio per la mancanza di «neutralità» dei tributi oggi previsti dalla legislazione, consente arbitrio e ineguaglianze di trattamento. Ma così facendo, alle diseguaglianze dovute alla legislazione si aggiungono 25,

. quelle determinate dai comportamenti quotidiani della pubblica amministrazione. Un'altra osservazione riguarda il fatto che la difesa dell’attuale livello (non della composizione, né della qualità) della spesa pubblica al netto degli interessi passivi (al fine di una efficace realizzazione di un moderno stato del benessere) e del «controllo pubblico» di una funzione o di una

attività che comporti erogazione di spesa pubblica (ad esclusione dei puri e semplici trasferimenti monetari di bilancio) non significa necessariamente che tale realizzazione, o funzione o attività debbano tutte essere svolte in modo «statale», nel senso di dover rispettare tutte le norme dell'ordinamento amministrativo dello stato. Invero, da quando l’intervento pubblico nell'economia ha raggiunto dimensioni così rilevanti (come mostrano i dati di bilancio per l’Italia) è apparsa anche evidente la inadeguatezza dell'apparato amministrativo dello stato a gestire le nuove funzioni che richiedono «flessibilità» e capacità di adattarsi a situazioni assai mutevoli nel tempo e nello spazio. Infatti, il passaggio da uno Stato «autoritativo» ad uno stato che gestisce in prima persona molti servizi (sanità,

istruzione, previdenza, ecc.) ha anche, purtroppo, mantenuto l’impianto amministrativo introdotto in Italia nel corso dell’altro secolo con le prime leggi di unificazione amministrativa dello stato. Dunque uno «Stato» concepito per svolgere ben poche funzioni (un poco di esercito, un poco di giustizia e di scuole, ecc.) si è trovato negli ultimi decenni a «gestire» con le stesse regole amministrative (tra cui quelle della assenza di «responsabilità» dei dirigenti e di «trasparenza» delle procedure) funzioni a cui non è assolu-

tamente preparato. In tale situazione, il «burocrate» (ovvero colui che si interpone tra i cittadini-elettori-contribuenti ed i loro rappresentanti politici) ha assunto un peso assai rilevante, nel senso che è in grado di far prevalere il proprio orientamento (senza assumerne le relative responsabilità in modo del tutto evidente come avverrebbe, ad esempio, qualora dovesse apporre la propria «firma» su atti di rilevanza esterna all’amministrazione a cui appartiene) e spesso

anche i suoi stessi interessi in quanto dispone, tra l’altro, di maggiori informazioni sia rispetto ai centri che dovrebbero indirizzarlo, sia rispetto agli utenti che dovrebbero essere 24

messi in grado di potere controllare la sua azione. Ma, in questi casi, anche per l’assenza di trasparenza, i fini di efficienza e di equità dello stato del benessere possono venir disattesi (e di norma lo sono), oltre a venir meno la possibi-

lità di «misurare» e «controllare» l’azione pubblica. Ne esce, comunque e nel migliore dei casi, una presenza dell'intervento statale assai uniforme, spersonalizzato, del tutto burocratico ed opaco, la cui «equità» non sempre è del tutto evidente. Ma si tratta anche di domandarci se tutto ciò non abbia condotto a privilegiare gli «interessi degli organizzatori» rispetto agli «interessi degli organizzati», a determinare uno Stato poco «rispettoso» ! della società civile e ad accrescere le occasioni in cui possono sorgere acute condizioni di inefficienza dell'intervento pubblico quali quelle: 4) produttive, nel senso che i fattori della produzione non vengono combinati in modo razionale; 2) gestionali, nel senso che non vige come regola costante la continua ricerca della minimizzazione dei costi; c) qualitative, nel senso della scarsa quali-

tà del servizio offerto alla utenza !#. Ciò dovrebbe portare, tuttavia, ad introdurre forme di controllo settoriale di effi-

cienza e di efficacia, scomponendo l’attività pubblica nei suoi settori allocativi ed elaborando forme ad boc di misura dell’efficienza e dell'efficacia che non si riducano alla manipolazione dei dati pubblicati nei bilanci pubblici. Questi problemi, che sono tutti tecnicamente affrontabili, cozzano

tuttavia contro una cultura dominante nella pubblica amministrazione che tende a non percepirli e, comunque, che non possiede tutte quelle sensibilità «gestionali» indispensabili per la loro soluzione, che non vuole assumere l’opinione degli utenti come indicatore di efficienza. Sanità e scuola mi paiono i due settori ove maggiormente si fanno sentire tutti i difetti della opprimente ed uniforme (verso i livelli minimi di efficienza) presenza burocrati-

ca dello stato: qui, purtroppo, pubblico coincide sovente con assetto burocratico ed uniforme dell'intervento dello stato, invece che con modelli organizzativi che destinino le

risorse pubbliche secondo i bisogni dei cittadini e che, per necessità, non possono che essere differenziati a seconda delle caratteristiche peculiari della zona e della popolazione 25

che ivi risiede. In altre parole, si ha una opprimente presenza uniforme e rigida dello «stato amministrativo», invece che una presenza «flessibile» dell’intervento pubblico che ragioni per «obiettivi» e non esclusivamente sui dati della contabilità generale. Ciò che è avvenuto per l’Università italiana è esemplificativo di quanto detto. La rilevanza di questo settore per la crescita complessiva di una società induce a soffermarci, in via esemplificativa, un po’ a lungo sul tema. Infatti, benché

nella nostra Costituzione

(art. 33) si

legga che «università ed accademie hanno il diritto di darsi ordinamenti

autonomi»,

è noto che di tale autonomia le

Università non hanno mai goduto. Ma tale mancanza di autonomia è alla base delle gravi condizioni di inefficienza dell'ordinamento universitario in Italia. Invero, se la ricerca di autonomia ha sempre accompagnato la vita (ormai quasi millenaria) delle università, di-

versi sono stati i poteri nei cui riguardi tale autonomia è stata ricercata: la ricerca di autonomia, che si contrappone ai tentativi di normalizzazione da parte di qualche potere è infatti una circostanza che ha sempre accompagnato la vita delle università in quanto fonti, spesso, di un sapere critico. Ma se università del passato hanno cercato autonomia dal potere della chiesa o da quello dei sovrani (si veda però il caso dell’Università «statale» di Napoli creata appositamente da Federico II di Svevia per la «produzione» di funzionari indispensabili all'impero), quelle di oggi (in Italia) l'autonomia devono riconquistarla nei confronti de-

gli ordinamenti burocratici e degli apparati delle amministrazioni statali. Infatti, con riferimento alla storia d’Ita-

lia, quando il 18 febbraio del 1861 si riunì a Torino il primo Parlamento italiano, il destino (in senso antiautonomi-

stico) delle università era già segnato. Invero, quindici mesi prima, in regime di «pieni poteri», Vittorio Emanuele II aveva ordinato (il 13 novembre del 1859, su proposta del Ministro della pubblica istruzione, Casati) che le «libere» università fossero «normalizzate» all’interno dell’ordinamento amministrativo del nascente stato italiano, facendo-

le divenire una organizzazione periferica del Ministero della pubblica istruzione. Sottratta, dunque, al dibattito parlamentare, la legge Casati venne via via applicata alle di26

verse università, mano a mano che si compiva l’unità (amministrativa) dell’Italia.

Con riferimento ai problemi di oggi, vi è da domandarsi se, dopo quasi centotrenta anni di promulgazione della legge Casati, e dopo quarant’anni di Costituzione repubblicana, le leggi dello stato entro le quali le università esercitano Îa propria autonomia debbano continuare ad essere quelle che regolano l’apparato amministrativo dello Stato (come volle il Casati). La realtà di oggi pare infatti il risultato di quel particolare processo politico e culturale per cui «la Costituzione passa sugli apparati amministrativi senza

toccarli» 5; ma così facendo si rende di fatto impossibile il raggiungimento, da parte delle università, di quei nuovi obiettivi che la società civile e politica ha voluto che venissero

codificati

nella Costituzione

medesima.

Invece,

ciò

che si fa o che si dovrebbe fare nelle università non è per nulla «normalizzabile» e, dunque, ciò di cui ha bisogno l’università per il raggiungimento dei suoi fini istituzionali è una molteplicità di modelli organizzativi, decisionali, contabili, procedurali, didattici, di ricerca, ecc., difficilmente

immaginabili una volte per tutte (nel tempo e nello spazio) e codificabili nell'ordinamento amministrativo della amministrazione dello stato centrale. Anche il diritto allo studio,

in questo contesto, corre il grave rischio di risultare svuotato nel merito e nei contenuti, per trasformarsi nel misero riconoscimento formale dell'avvenuta percorrenza di un tragitto burocratico entro una istituzione fortemente burocratizzata.

La flessibilità e la mobilità che l’università richiede paiono, tuttavia, non raggiungibili per l’operare del vincolo che «naturalmente» discende dall’appartenenza delle università alla organizzazione amministrativa dello Stato. E da qui che nascono i penetranti poteri di ingerenza del Ministro, ed è qui che viene troncato alla radice ogni presupposto di autonomia. Infatti, l'autonomia statutaria viene limi-

tata dall’ordinamento amministrativo generale, quella didattica dall'ordinamento didattico generale, quella finanziaria e contabile dalle leggi del bilancio dello Stato e dai regolamenti emanati dal Ministero del tesoro, quella di insegnamento e di ricerca dalle rigide piante organiche stabilite dal Ministero che presuppongono un'attività sempre Qi

eguale a se stessa e dunque incapace di cogliere tempestiva-

mente sia i momenti di grande mutamento, ma anche le quotidiane e più piccole occasioni di dibattito e di verifica dello stato di avanzamento della ricerca scientifica. In conclusione, pare a noi che per dare slancio e vitalità alle università italiane occorre che queste diventino effettivamente autonome uscendo dall’apparato amministrativo dello Stato (non dal settore pubblico!); si trasformino, cioè,

da «università dello Stato» in «università pubbliche» in cui non valgono le rigide regole amministrative proprie di tale ordinamento. In altre parole si tratta di costituire una nuova università che continui a svolgere una rilevante funzione pubblica, ma che cessi di svolgere la funzione statale minutamente regolata dalle circolari ministeriali. Cessando quest’ultima funzione, viene meno la ragione della paralizzante e paternalistica competenza del Ministro in materia di istruzione universitaria, scompare la ratio dei controlli formali da esercitare puntualmente sugli «atti amministrativi», cadono i motivi di ingerenza contabile del Ministero del tesoro. In questo nuovo contesto, le università, che dovreb-

bero assumere la natura giuridica di enti pubblici per la ricerca e l'insegnamento universitario, potrebbero sperimentare le potenzialità della loro autonomia entro alcune (poche!) «travi portanti» fissate delle leggi dello stato. Nella opprimente ed opaca presenza dello «stato amministrativo» sta anche una delle radici di quella «uniformità» dei trattamenti economici riservati ai dipendenti pubblici che tante responsabilità ha nel degrado di molti servizi. D'altronde, come è possibile che un intervento dello Stato, immaginato al centro (di norma in un «incontro» tra i rap-

presentanti dell’amministrazione e quelli sindacali, anche autonomi) anche nei più secondari dettagli, ma in base alla logica della «amministrazione centrale» e della «centrale sindacale» a cui nulla può sfuggire, possa tenere in conto della inclassificabile complessità di una economia quale è quella italiana? Come è possibile «personalizzate» alcuni aspetti dei servizi collettivi quando i contratti di lavoro dei dipendenti pubblici sono immaginati quasi totalmente «al centro» e non lasciano che spazi del tutto irrilevanti ad integrazioni, modifiche, articolazioni territoriali e di settore? 28

A livello nazionale non ci si dovrebbe accontentare di una «normativa cornice» (contrattualmente definita e senza il «sigillo» della sua legificazione), lasciando alle «periferie» il compito di disegnare «la tela»? Infatti, «i contratti stipulati finora prevedono solo di rado trattamenti differenziati per categorie o uffici, preferendo, invece, differenziazioni per gradi (con tendenza, però, a diminuire anche queste)» !‘.

Ma, soprattutto, nei settori ove è prevalente l’attività di «gestione» dei servizi pubblici rispetto a quella puramente «autoritativa» ciò che si dovrebbe introdurre è la «delegificazione» del contratto di lavoro per il pubblico impiego (nel senso che il contratto collettivo non verrebbe più recepito in atto legislativo così come oggi avviene), con conseguente abolizione della possibilità di ricorrere ai Tribunali amministrativi regionali che, divenuti «piuttosto-1 difensori dei diritti dei dipendenti che i tutori delle prerogative della pubblica amministrazione» !’, contribuiscono a ridurre quella flessibilità richiesta da ogni tipo di gestione per obiettivi oltre che (non essendo sottoposti ad alcun vincolo di copertura finanziaria delle loro decisioni) a dilatare con-

tinuamente la spesa pubblica per la remunerazione dei dipendenti. In altre parole, per il pubblico impiego si dovrebbe rinunciare alla «doppia protezione» (quella data dal contratto e quella assicurata dalla legge spesso reinterpretata in modo estensivo — e sempre sui livelli di spesa più elevati — dalla Corte costituzionale e dalla giustizia amministrativa) per mantenere

solo quella offerta dalla contrattazione

collettiva, per andare alla ricerca di quella flessibilità che l’attività legislativa del Parlamento ha contribuito a far perdere, per arrestare quel micidiale marchingegno per cui è sufficiente essere riconosciuto «precario» (di norma perché assunto senza il superamento di alcuna prova o concorso) per poter maturare il diritto ad una occupazione ed uno stipendio stabile. In questa prospettiva il Parlamento dovrebbe smettere di legiferare (sovente in omaggio agli interessi più corporativi dei partiti) in materia che appartiene alla libera contrattazione tra le parti, mentre la Corte costituzionale ed i Tar cesserebbero di «produrre le tanto auspicate ed attese sanatorie». Questi problemi conducono ai temi dell'autonomia dei diversi «corpi» dentro il pubblico: autonomia degli enti lo29

cali (che non può prescindere dall’autonomia impositiva al fine di affiancare — nei calcoli degli amministratori — ai «vantaggi» della spesa anche i «costi» del prelievo), autonomia delle Università (come abbiamo già esemplificato), autonomia di molte articolazioni territoriali della istruzione superiore, autonomia di molte funzioni svolte all’interno del Servizio sanitario nazionale (si pensi all'autonomia degli ospedali dalle burocrazie amministrative e politiche, non come «corpo separato» dal Servizio sanitario pubblico), tanto per esemplificare alcune situazioni a tutti note. In questo contesto di accentuata

autonomia, la «pro-

grammazione» operata dal centro in quanto esigenza di una azione collettiva che non si vuole abbandonare allo «spontaneismo» del mercato od a quello del «volontariato», assume il suo vero significato di indicatore degli «obiettivi» (e degli strumenti e delle modalità per verificare il grado di raggiungimento dei diversi obiettivi) e cessa di essere l’artifizio (come avviene oggi) per «amministrare» giorno dopo giorno l’intervento pubblico (si veda il caso emblematico

dell’Università, ove la programmazione triennale delle esigenze e dello sviluppo delle accademie è il paravento per l’amministrazione quotidiana della distribuzione delle cattedre svolta da un centro opprimente insieme ad una periferia ove non mancano anche i professori universitari ministero-dipendenti).

D'altronde un intervento pubblico non incardinato nell'ordinamento amministrativo dello stato e che consenta occasioni di «partecipazione e controllo» dei cittadini al governo della «cosa pubblica» potrebbe essere proprio l’elemento esaltante l’autogoverno di molti segmenti dello stato del benessere. Purché, con le espressioni «partecipazione, controllo, autogoverno» non si intenda, di nuovo, ripercorrere la sciagurata esperienza della sanità pubblica ove tutto

ciò venne imperativamente mediato dalla presenza dei partiti politici, saldando, come è noto, partiti politici ed ammi-

nistrazione pubblica. D'altronde, mentre nei «regimi di mercato» è l’ «uscita» dal mercato stesso (ed il rivolgersi alla concorrenza) ciò che fornisce un segnale importantissimo a coloro che «governano», nel settore pubblico analoga «uscita» verso il «privato», da un lato, lascia del tutto indifferenti i «corpi buro30

cratici» le cui «carriere e remunerazioni» non dipendono dalla «domanda» soddisfatta degli utenti, mentre dall’altro riduce l’intervento pubblico a favore di quei soli cittadini che non hanno i redditi per «uscire» dal pubblico. Come ci ricorda Hirschman, «i consumatori che recedono quando la qualità scade non sono necessariamente i consumatori mar-

ginali, che recederebbero se il prezzo aumentasse, ma possono essere i consumatori intramarginali con una notevole rendita di consumatore; o, in termini più semplici, il consu-

matore che è abbastanza indifferente agli aumenti di prezzo è spesso ipersensibile agli scadimenti di qualità» !8. Il settore pubblico diviene così «settore residuale», di fatto frequentato e «domandato» dai soli «poveri». Ma un settore pubblico «domandato» dai soli «poveri» costituisce la più evidente testimonianza del fallimento di ogni «solidarietà». Detto con estrema chiarezza, il settore pubblico deve,

allora, organizzare i propri servizi ad un livello qualitativo e di efficienza tale per cui le classi più agiate non siano indotte ad «uscire» dal settore pubblico e rivolgersi al «privato». E poiché tale «uscita» non si può vietare per legge (questo sarebbe un altro eccesso di statalismo), anche tramite il divieto di attività concorrenti, la soluzione da ricer-

care è quella di organizzare la presenza pubblica in modo tale per cui ai cittadini venga data (come chiede Hirsch-

man) la «voce»: ovvero la possibilità di «protestare», di «farsi sentire» direttamente ogni volta appaia che la «burocrazia» (che dovrebbe essere dotata delle opportune responsabilità di cui deve rispondere) ha preso il sopravvento sugli interessi dei cittadini. Non si tratta, si noti, di aumenta-

re il contenzioso «burocratico» tra cittadini ed amministrazione (per sua natura per nulla flessibile ed assai costoso),

bensì di creare delle istituzioni dotate di procedure assai trasparentie pronte a raccogliere la «voce» e la protesta degli utenti. È la percezione di questi «segnali» e la reazione a questi la via che può conseritire alle strutture pubbliche di «rivedere» le combinazioni produttive ed organizzative (in particolare di organizzazione del lavoro, dato il carattere di settore prevalentemente labour intensive) che presiedono alla erogazione dei loro servizi, onde mantenersi su quei livelli di qualità e di efficienza che non incentivano l’uscita dei ceti con reddito più elevato. In assenza di meccanismi 31

di «mercato», nel settore pubblico sono dunque i meccanismi che risiedono nel campo della organizzazione della «voce» degli utenti quelli che devono essere costruiti per potere misurare e controllare l'equità e l'efficienza dello stato del benessere. Tutto ciò renderebbe poi più difficile (non impossibile, ovviamente!) la «compenetrazione» dei partiti e dei sinda-

cati nelle strutture amministrative pubbliche a fini di gestione del quotidiano, oltre che a contribuire a mettere la pubblica amministrazione al servizio dei cittadini.

La congiuntura economica e il processo di bilancio

Come abbiamo ricordato in precedenza, da tempo il bilancio pubblico è considerato uno degli strumenti della politica di stabilizzazione congiunturale del sistema economico. Sebbene questo ruolo non vada eccessivamente enfatizzato (come meglio si vedrà in seguito, è una politica dei redditi «alla Meade» ciò che potrebbe meglio consentire il controllo della domanda aggregata), è però vero che i problemi che l'andamento dell’economia nel breve periodo pone alla gestione del bilancio pubblico non possono essere trascurati. E però anche vero che per molti la discussione (in chiave congiunturale) dei temi della finanza pubblica costituisce un luogo pieno di pericoli e di insidie per la propria immagine politica complessiva. Infatti, a fronte delle analisi di tipo congiunturale è frequente ritrovare un variegato mondo di forze politiche che assume comportamenti assai impacciati, tendenti a rifiutare

di misurarsi sul terreno congiunturale ed a ritirarsi nel campo di non mai ben precisate riforme di struttura. In questa fase della discussione è dunque facile trovare il ricorso a formule di fuga verbale del tipo: il problema è ben altro; oppure: il problema sta a monte! Invero, mentre tali forze sono quasi sempre pronte a sostenere il ruolo espansivo del bilancio pubblico, appaiono assai più restie nel farsi coinvolgere in manovre di contenimento congiunturale della domanda interna: quasi che il ruolo compensativo delle politiche di bilancio possa essere abbandonato

32

a fronte delle difficoltà politiche (in termini

di immediato consenso) che la sua gestione potrebbe comportare. Invece, si tratta di rispondere ogni volta alla seguente domanda: data la congiuntura economica internazionale «attesa» nel prossimo periodo (elemento questo che deve essere assunto come un vincolo esogeno), la politica di bilancio interna (insieme alla politica dei redditi) da impostare «oggi» (dunque, con tutti i rischi connessi ad una previsione!), deve assumere un segno di tipo restrittivo (o

espansivo) rispetto alla politica ‘di bilancio sperimentata nel periodo immediatamente precedente? Sono, infatti, le variazioni di «segno» rispetto al passato ciò che segnala agli operatori economici (influenzandone le aspettative) la volontà del governo e le modalità operative con cui questo intende intervenire sull'andamento congiunturale dell’economia.

In questo modo di ragionare non figura la tutela puntuale degli interessi che dilagano nei bilanci pubblici. Infatti, obiettivo del governo della finanza pubblica (in questa fase di discussione congiunturale) dovrebbe essere quello di

collaborare con le altre linee di politica economica al fine di ottenere il massimo di crescita possibile, compatibilmente con l'andamento delle altre economie con cui l’economia italiana è maggiormente integrata dal punto di vista del movimento dei capitali e delle merci. I risultati di questa politica si misurano dunque in termini della sua equità redistributrice e per il contributo che può dare alla occupazione della forza lavoro e «non sono immediatamente legati (e politicamente spendibili)» alle decisioni prese, ma vengono mediati dagli effetti che nel tempo questa politica di bilancio ha sull'andamento dell’occupazione. La proposta di manovra della finanza pubblica deve dunque ogni volta risultare credibile presso l’opinione pubblica, nel senso di risultare convincente (anche per i suoi contenuti di equità) sul fatto che essa riuscirebbe a

sfruttare tutte le possibilità e gli spazi aperti agli interventi di politica economica congiunturale per mantenere sempre il più alto possibile il livello dell’occupazione. Altra «insidia» in cui le forze politiche rischiano di incappare nel corso delle discussioni sulla finanza pubblica è quella riguardante il loro grado di coinvolgimento in ciò che ormai da molti anni si chiama il «risanamento della fi33

nanza pubblica». È bensì vero che da sempre viene invocato tale risanamento; tuttavia non appare con assoluta evidenza se, a fronte della montagna del debito pubblico, i comportamenti tenuti in concreto facciano militare le diverse forze politiche nel partito dei «guastatori», invece che in quello dei «gradualisti» od in quello degli «indifferenti». Su questi aspetti del debito pubblico torneremo più avanti. La chiarezza dell’azione politica (ed in particolare i rapporti tra maggioranza ed opposizione) in materia di finanza pubblica richiede che anche gli strumenti istituzionali, con cui la finanza pubblica viene governata, consentano quella necessaria differenziazione dei ruoli e delle proposte che preludono alle alternanze dei governi. Poiché uno degli strumenti dotati di maggiore «visibilità» politica, oltre che di capacità di incidenza sugli andamenti della finanza pubblica, è quello costituito dalla «legge finanziaria», può essere di vantaggio per maggioranza ed opposizione che questa venga riformata anche al fine di risultare più trasparente all'opinione pubblica. Invero, le lunghe vicende che hanno caratterizzato il «cammino» della legge finanziaria nelle aule parlamentari hanno anche messo in luce almeno i seguenti problemi su cui occorre cominciare a riflettere per giungere alla riforma della legge finanziaria medesima: a) i contenuti microeconomici tendono ormai a prevalere drasticamente su quelli macroeconomici. Anche se fortemente drammatizzati, così come in qualche occasione è avvenuto, i dati della situazione congiunturale tendono ad essere espulsi dal dibattito sui documenti di bilancio per il prevalere delle preoccupazioni più squisitamente microeconomiche che possono essere immediatamente risolte con

apposito emendamento

da introdurre

all’articolato della

legge finanziaria; b) nessun interesse viene più mostrato per i documenti

del bilancio dello stato e sulla ripartizione della spesa pubblica tra i diversi ministeri. La discussione che in tale modo si concentra sulla legge finanziaria perde completamente di vista gli aspetti più propriamente allocativi dell’azione di governo. Basti dire che le variazioni al bilancio introdotte 34

con legge finanziaria tendono a non superare il 10% del bi-

lancio medesimo; c) i «tempi» tendono a dilatarsi oltre misura e così il

Parlamento discute per quattro o cinque mesi su di un documento che resta in vigore appena dieci-dodici mesi. Tra l’altro, questa eccessiva dilatazione dei tempi in presenza di condizioni economiche internazionali assai instabili, facilita

il ricorso a nuove dilatazioni dei tempi per tenere in adeguato conto gli effetti derivanti dalle mutate condizioni internazionali. Le successive riscritture della legge finanziaria, invece di fare chiarezza sulla politica di bilancio del governo, possono dunque indurre a grandi confusioni che tendono a trasferirsi sulla formazione delle aspettative degli operatori; d) il grande e pressante interesse ad introdurre nella legge finanziaria una qualche disposizione (di spesa, di norma) al fine di averne l’approvazione in tempi sufficientemente rapidi, dilata oltre ogni misura accettabile il campo coperto dalla finanziaria medesima. E così, da legge «omnibus», come era stata in precedenza chiamata, per le leggi finanziarie di più recente approvazione sono stati uditi giudizi come «legge giostra» su cui tutti possono tentare di salire ed anche come «legge casa di tolleranza» il cui significato non pare che richieda ampi commenti, se non per sottolineare che tali definizioni sono venute da alcuni settori della maggioranza!

In questo contesto scompare totalmente la funzione di controllo che il Parlamento dovrebbe esercitare sugli atti del governo in materia di bilanci pubblici.Tale funzione finisce invece per essere sostituita da una sorta di «co-governo» di alcuni segmenti della finanza pubblica; ma ciò, di norma, consiste solamente nell’aggiungere qualcosa alle previsioni di spesa fatte proprie dal governo. Ma anche le forze di opposizione non vengono avvantaggiate da siffatta situazione. Invero, nel frammentarsi delle richieste corporative e settoriali anche l'opposizione non riesce a trovare il «bandolo della matassa» che tiene insieme la maggioranza ed a cui contrapporre altro «bandolo». Sia chiaro, il bilancio dello stato e la legge finanziaria sono affari talmente complicati (per il fatto che al loro interno riflettono l’intera storia del paese) che è difficile imDO

maginare un loro repentino e brusco capovolgimento operato dalla opposizione. In questo senso si può dire che il bilancio pubblico appartiene in parte anche alle forze di opposizione: nella misura in cui esse (al centro o in periferia) sono state capaci di incidere sugli assetti della finanza pubblica ed a farlo recepire negli ordinamenti che guidano le entrate e le spese pubbliche. Ma l’opposizione ogni volta dovrebbe essere messa in grado di potersi confrontare sulle scelte «portanti» adottate dal governo onde potere suggerire quelle correzioni di rotta che precostituiscono le condizioni per l'alternanza dei governi. Invece, oggi, nel grande stagno della legge finanziaria tutti possono partecipare alla grande pesca, anche se non è detto che tutti abbiano successo. Ne risulta, tuttavia, assai compromessa anche l’immagine della opposizione a cui non si consente di misurarsi su quei tre o quattro prov-

vedimenti importanti che potrebbero dare il segnale dell’inizio di una inversione nella gestione della finanza pubblica. La via più diretta e meno equivoca per evitare gli inconvenienti appena detti consiste,allora, nella riformulazione della legge (n. 468) che nel 1978 introdusse la legge finanziaria (art. 11), nel senso di non consentire più che quest’ultima costituisca (nella parte costituita dall’articolato, ma ad esclusione di un unico articolo ove viene fissato il saldo netto da finanziare) autorizzazione immediata di spe-

sa. Solo per quanto riguarda le entrate si potrebbe mantenere la possibilità della variazione delle aliquote dei tributi esistenti. Si tratta, dunque, di togliere quello strumento legislativo che, oggi, consente a governo e parlamento di percorrere la via facile delle spese senza adeguata copertura e senza adeguato dibattito sulla «cornice» entro cui collocare tali decisioni di bilancio. L'esempio più grave di questo devastante modo di procedere è costituito dalla spesa sanitaria: a fronte del rifiuto dei diversi ministri della sanità di produrre il piano sanitario nazionale, la legge finanziaria quantifica ogni anno le risorse da destinare a tale settore in assenza di ogni legislazione che affronti il riordino di alcuni settori del Servizio sanitario nazionale. Per riportare il controllo della legislazione di bilancio sotto il potere del Parlamento (ove, maggioranza ed opposi36

zione possono confrontarsi limpidamente) occorre dunque che la legge finanziaria venga «declassata» a solo strumento di individuazione degli spazi finanziari e dei provvedimenti di copertura delle maggiori spese e delle minori entrate. La possibilità di procedere ad accantonamenti di segno positivo e negativo nelle tabelle allegate all’articolo che quantifica il saldo netto da finanziare, rende questo strumento particolarmente adatto per impegnare maggioranza ed opposizione nella direzione della politica di bilancio. Una volta approvata la legge finanziaria così «declassata» saranno i singoli provvedimenti a dover essere discussi ed approvati dal Parlamento (in apposite «sessioni») al fine di dare contenuto operativo alle poste finanziarie individuate dalla legge finanziaria. In questo modo, la legge finanziaria torna ad essere strumento per raccordare la politica economica che si attua con il bilancio con le altre politiche economiche che riguardano i redditi, la moneta, i tassi d’interesse, i cambi, ecc. Il

bilancio dello stato può allora tornare ad essere il luogo ove attuare alcune delle non più eludibili riforme che consentano di garantire un moderno stato del benessere. Questa piccola riforma istituzionale avrebbe infine il grande pregio di rendere più trasparente all'opinione pubblica il processo con cui il parlamento ed il governo chiedono le imposte ed i contributi ai cittadini per il finanziamento della spesa pubblica.

Il problema del debito pubblico

Considerata la grande incertezza teorica che circonda il tema degli effetti dei debiti pubblici e date anche le molteplici esperienze storiche, conviene «ancorarsi» ad una lunga citazione di Keynes per trovare qualche spunto di riflessione su di una materia così controversa. Ha scritto Keynes (nella Riforma monetaria del 1923) in anni in cui il debito

pubblico inglese superava il prodotto nazionale lordo del paese che «l'inflazione aiuta un governo a far fronte agli impegni: essa riduce l’onere delle sue passività preesistenti in quanto siano fissate in termini di moneta. Queste passività consistono principalmente in debiti interni; ogni passo DI

avanti nel deprezzamento significa, evidentemente, una riduzione dei crediti reali che i portatori di rendita hanno verso lo Stato... Vi è però... un sostituto della devalutazione, purché gli oppositori della devalutazione siano disposti ad affrontarlo in tempo, come generalmente non sono: l'imposta sul capitale. Lo scopo di questa sezione — continua Keynes — è di mettere in evidenza il carattere alternativo di questi due metodi per limitare i diritti dei renziers, quando gli obblighi contrattuali dello Stato, fissati in termini di moneta, assor-

bano una proporzione esorbitante del reddito nazionale» !?. E ovvio che dal tempo di Keynes molte cose sono cambiate; i diversi sistemi economici hanno raggiunto un grado di integrazione ben maggiore di allora riducendo in parte la sovranità dei governi nei tentativi di raggiungere la «sviluppo in un solo paese»; i bilanci pubblici hanno assunto dimensioni allora impensate (ma pet questo è forse più agevo-

le riconoscere nelle esperienze concrete di oggi il momento in cui si possa dire con sicurezza che gli obblighi contrattuali dello stato hanno assorbito «una proporzione esorbitante del reddito nazionale»); soprattutto, oltre a non essere stato un evento bellico la causa che ha determinato una tantum l'esplosione dei fabbisogni pubblici, i bilanci mostrano elevate sensibilità al variare dei sistemi economici,

mentre i recenti fenomeni di innovazione finanziaria hanno introdotto tassi variabili al variare dell’inflazione. Ciò, in-

sieme all’accorciamento delle scadenze, fa sì che sia sempre più difficile per i governi espropriare con l’inflazione i detentori dei titoli del debito pubblico. E ciò aggiunge ulteriore difficoltà alla soluzione dei problemi a questo connessi: in particolare come prevenire il rischio di instabilità finanziaria connesso al peso sempre maggiore che i mezzi di copertura dei disavanzi pubblici hanno sul complesso delle attività finanziarie possedute dalle famiglie. Infatti, mentre tali mezzi di copertura posseduti dalle famiglie erano nel 1975 circa il 12% della ricchezza finanziaria delle famiglie stesse, hanno raggiunto quasi il 39% di questa a fine 1987.

A differenza del passato, dunque, la recente crescita 38

dello stock del debito pubblico è da imputare, principalmente, a più di una causa ed in particolare: a) alla «sfasatura», nella seconda metà degli anni settanta, tra andamento delle entrate e delle spese pubbliche. Infatti, mentre le prime risentivano negativamente delle difficoltà della attuazione della riforma tributaria entrata in vigore nel 1973-74, le seconde risentivano immediatamente di una legislazione di spesa (ad esempio nel settore delle pensioni e, più tardi, in quello della spesa sanitaria) che estendeva il grado di copertura dello stato del benessere in Italia (assegnando, in particolare, ai cittadini alcuni «dirit-

ti» che, quando esercitati, determinano automatici effetti sui conti pubblici). Pur prescindendo, in questa sede, da ogni giudizio di merito sulla equità del prelievo e sulla equità ed efficacia della spesa pubblica (al netto degli interessi passivi), rimane il fatto che per effetto di queste due diverse «velocità» degli effetti della legislazione di entrata e di quelli della legislazione di spesa, hanno cominciato a formarsi fabbisogni pubblici assai rilevanti a cui si trovò copertura anche con emissione di titoli pubblici portatori di interessi prima negativi, poi positivi e crescenti in termini reali;

6) alle reazioni dell'economia italiana ai due shock petroliferi ed alle politiche monetarie e del cambio che hanno cercato di «misurarsi» con detti shock. Queste e quelle, infatti, hanno fatto assumere al settore pubblico il ruolo di «settore residuale» ove potessero trovare compensazione molti degli effetti indotti dall’estero e dalle citate politiche. In tale periodo, dunque, hanno dominato gli effetti che dall'economia vanno verso il bilancio pubblico: ristrutturazioni aziendali, politiche di rivalutazione del cambio tramite il mantenimento su livelli assai alti dei tassi d’interesse reali, spostamenti della occupazione dal lavoro dipendente a quello indipendente sono, infatti, tutti avvenimenti che hanno per effetto sia la riduzione delle entrate pubbliche, sia quello di aumento della spesa pubblica; c) alla volontà delle nostre autorità monetarie di indurre le famiglie e le imprese (in luogo delle banche) a detenere i titoli del debito pubblico (come si è già detto il peso dei titoli pubblici è assai cresciuto all’interno della ricchezza finanziaria posseduta dalle famiglie). A tal fine, le auto-

39

rità di governo hanno utilizzato come principale strumento per convincere tali soggetti a finanziare il bilancio pubblico quello del livello dei tassi d’interesse associato a fenomeni di innovazione finanziaria (come i Cct indicizzati ai titoli a

più breve scadenza) e quello del mantenimento (fino al 1986) della esenzione fiscale di tali redditi. Anche per effetto di ciò, molte imprese hanno preferito ricercare «profitti» nel settore finanziario invece che in quello della produzione, ma ciò può avere ulteriormente contribuito a ridurre (o a far crescere di meno) le basi imponibili che for-

niscono stabilmente gettito al bilancio dello stato; d) alle maggiori difficoltà di gestione di un debito pubblico assai diffuso tra molti risparmiatori ed alla regolamentazione del tutto insufficiente dei mercati finanziari, in generale, e di quello secondario dei titoli pubblici che, investito da una tale mole di titoli, anche di recente, nell’opinione di un autorevole esponente della Banca d’Italia ha ancora bisogno di essere «più trasparente, più continuo, più liquido». Tale carenza può non consentire allo stato di incamerare (sotto forma di minori interessi da corrispondere sui titoli del debito pubblico) la rendita del risparmiatore finale ed obbliga le autorità monetarie a fissare i livelli di rendimento dei titoli sottostando al potere di un mercato

oligopolistico, poco efficiente, non trasparente e non ancora regolato per quanto riguarda almeno i conflitti di interesse, le frodi e le condizioni di stabilità (su questi temi

torneremo appositamente nel capitolo che segue); e) alle procedure di approvazione delle leggi di spesa (anche quando hanno forma di decreti del governo) che non vincolano al reperimento di adeguate coperture pluriennali, come abbiamo già accennato nel precedente paragrafo. Fatti e carenze istituzionali, politiche economiche e sociali discrezionali, innovazioni finanziarie, ma anche importanti effetti automatici di retroazione sul bilancio pubblico sono dunque alcuni degli elementi che concorrono a dare una spiegazione della crescita del debito pubblico in Italia. Gli stessi elementi dovranno pertanto «fare gioco» in ogni

politica di rientro del debito pubblico che non voglia confinarsi sterilmente alla sola politica delle entrate e delle spese di bilancio. A mio avviso, infatti, data la dimensione assun-

40

ta dagli aggregati più rilevanti, la sola politica di bilancio non è più in grado di arrestare la formazione di uno stock di debito pubblico crescente in percentuale del prodotto e del totale delle attività finanziarie possedute dalle famiglie.

E noto, infatti, che in conseguenza di quanto succintamente descritto, la spesa per interessi passivi registrata nel bilancio delle pubbliche amministrazioni è oggi di dimensioni tali da superare largamente il disavanzo di parte corrente delle medesime amministrazioni (detto con altre parole, al netto della spesa per interessi passivi il bilancio pubblico presenta un notevole «avanzo» di parte corrente e non un «disavanzo» come molti continuano a credere ed a confondere). E poi anche noto, almeno dai tempi di Domar ?° (che scrisse nel 1944), che se i tassi di interesse reali

superano il tasso di crescita reale dell'economia (così come sta avvenendo in Italia dall’inizio degli anni ottanta) viene data vita ad una condizione tale per cui lo stock del debito pubblico tende a crescere continuamente in percentuale del prodotto interno lordo, a meno che anche la pressione tributaria cresca continuamente al crescere dell’onere del debito pubblico. E però vero, dall’esperienza storica, che una situazione siffatta che si protragga per un lungo periodo di tempo (quanto lungo, onestamente,

non

sappiamo)

e che non

sbocchi in una stabilizzazione (prima) ed in un rientro gra-

duale (poi) dello stock del debito pubblico in percentuale del Pil (è l’esperienza inglese iniziata nel dopo-prima-guerra mondiale e quella danese di questi anni ottanta) o, meglio,

nell’arresto della crescita del peso percentuale dei titoli pubblici nei portafogli delle famiglie, può essere fonte: 4) del ripudio del debito da parte delle autorità di governo o della sua conversione forzata in altri titoli a lunghissima scadenza (è, quest’ultimo, il caso dell’Italia, ad esempio, quando nel novembre del 1926 — dopo il «discorso di Pesaro» e «quota novanta» — tutto il debito pubblico a breve termine fu convertito forzosamente in obbligazioni a lungo termine del Littorio); 4) della monetizzazione,

nel senso

che le autorità di governo incontrando un limite nell’assorbimento dei titoli del debito pubblico nei portafogli dei risparmiatori sono costrette a finanziare esclusivamente (o 41

anche solo prevalentemente) con moneta i nuovi fabbisogni. In questo senso il finanziamento con moneta del disavanzo pubblico diviene «endogeno» al sistema stesso, non più controllabile e fonte di futura inflazione (è il caso di

Francia e Germania negli anni venti. Anche se per la Francia vale la pena di ricordare che venne tentato un aumento delle imposte, ma che — data l’iniquità del sistema di allora — tale aumento accentuò l’evasione tanto che l’imposta sui redditi divenne allora nota come /’impot des poîres, «l’imposta degli sciocchi», nella convinzione che le riparazioni sarebbero state pagate dal «crucco»: le boche paiera); c) del prelievo improvviso di una ingente quantità di imposte commisurate al patrimonio onde ridurre una tanturz lo stock del debito pubblico, così come suggerito da Keynes ?!. Tutto ciò premesso, mi pare che rimanga vero che la lunga citazione di Keynes riportata all’inizio metta ancora assai ben in luce i «punti difficili» del dibattito di oggi in tema di debito pubblico in Italia: come «risanare» la finanza pubblica, arrestare la crescita dei titoli pubblici nei portafogli delle famiglie, evitare l’inflazione, ridurre il fabbiso-

gno annuo (non necessariamente con l’imposta sul capitale, ma anche con altre imposte o riducendo la spesa), ma limitare anche i diritti dei rertiers se questi assorbono una quota esorbitante del reddito nazionale; purché il tutto sia affrontato in tempo, come raccomandava Keynes e come di . norma non avviene. Questa rapida (e alquanto sommaria) elencazione indu-

ce a formulare l’augurio che nulla di tutto ciò accada e che,

dunque, parlamento e governo non si astengano dall’affrontare direttamente tali problemi: anche se per onestà intellettuale dobbiamo ammettere che non sappiamo «quando» tali fenomeni possano accadere. Ad esempio, l'Inghilterra ha vissuto tra il 1915 ed il 1965 con un debito pubblico costantemente superiore al cento per cento del Pil senza che si verificasse ciò che abbiamo sommariamente descritto. L’Italia, dal canto suo, mostra un debito pubblico che le autorità monetarie obbligano ad occupare un peso sempre maggiore nelle scelte finanziarie delle famiglie e che, in

percentuale del Pil, è sempre crescente dalla metà degli anni settanta e con la maggiore accelerazione a partire dal 1980. Poiché lungo l’arco di questi anni l’economia italiana 42

ha mostrato sia periodi di elevata crescita dei prezzi associata alla stagnazione economica, sia periodi di moderata crescita dell'economia reale associata a fasi di decelerazione dei prezzi, non pare semplice ed agevole riscontrare una relazione diretta ed univoca tra la formazione di uno stock crescente di debito pubblico (in % del Pil) e l'andamento

delle grandezze reali (occupazione e crescita) e dei prezzi. Pare invece più sicuro riscontrare sia la formazione di un vasto strato di rertiers (diffusi tra tutte le classi sociali) che

potrebbero identificarsi con la parte meno dinamica della popolazione, sia un comportamento delle imprese teso a realizzare ampi profitti stando nel «salotto buono» del rextier, invece che affrontare le difficoltà e le durezze della

concorrenza tipiche del «mercato». Ma è, infine, da segnalare con forza il fatto per cui l’esistenza di un elevato stock di debito pubblico introduce un rilevante grado di rigidità nella gestione della politica di bilancio e, dunque, un elemento di «non governo» della finanza pubblica. La tabella 1 illustra quanto appena sostenuto con riferimento al conto consolidato delle Amministrazioni pubbliche in Italia. Si noti, in questa tabella, come la spesa per interessi passivi sopravanzi largamente (in valore assoluto) il risparmio pubblico (di segno negativo) ed anche come l’aumento della spesa totale in percento del Pil (oltre 8 punti percentuali tra il 1980 ed il 1987) sia per un terzo imputabile alla spesa per interessi passivi, per un altro terzo alle prestazioni sociali e per un sesto ai consumi collettivi. Si noti anche che la pressione tributaria è aumentata di oltre cinque punti in percentuale del Pil. Con riferimento alla pressione tributaria (al lordo dei contributi sociali figurativi) vale la pena di osservare (cfr. tab. 2) che sebbene l’Italia sia il paese che, tra il 1980 ed il 1985, mostra la più accentuata crescita di tale indicatore nel confronto con altri paesi ad economia simile a quella italiana, è anche vero che il livello assoluto di tale indicatore rimane largamente al di sotto di quello prevalente negli stessi paesi. Nel confronto con gli altri paesi, dunque, il maggior peso dei disavanzi pubblici può essere imputato anche al minore prelievo obbligatorio che le nostre pubbliche amministrazioni riescono a raccogliere tra la selva di norme che favoriscono l’elusione dell’imposta, l'erosione 43

Ta8. 1. Conto consolidato delle Amministrazioni pubbliche (migliaia di miliardi di lire correnti ed in % del Pil)

1980 1983 AA RITORNA LIA, MEO Entrate correnti

1987 DA

130,1 3595

241,8 38,1

390,5 SIT,

379

78,3

130,4

8,6

12,4

132

imposte indirette

3305)

58,1

92,9

8,6

977

9,4

contributi sociali

49,7

89,1

136,6

D27: 147,6

14,1 285,2

1.359) 445,8

37,8 STATI 14,8 54,9

45,2 104,5 16,5 109,7

45,3 165,6 16,8 166,9

14,1 2061 5,4

17,4 47,9 7,6

16,9 80,1 8,1

—17,6 -4,5

— 43,4 — 6,9

— Go} — 5,6

16,7

3251:

50,3

di cui: imposte dirette

Uscite correnti

di cui: consumi coll. prestazioni sociali interessi passivi

Risparmio pubblico Uscite in conto capitale Totale uscite Indebitamento netto

Uscite totali al netto int. pass.

4,3

oi

Sl

164,3

317,4

496,1

42,1

50,3

50,4

33,2

67,7

102,9

8,5

10,7

10,5

143,2

269,5

416,1

SI

42,7

42,3

Indebitamento al netto int. pass.

E251.

19,8

22,8

SII

3%]

BZ

Pressione tributaria

30,8

BOL

36,6

390,4

631,6

982,6

Prodotto interno lordo

Fonte: Elaborazione su dati Istat (nuovi conti nazionali).

della base imponibile, l'evasione dagli obblighi tributari. Rimane comunque il fatto che, nei confronti internazionali, l’Italia mostra un ammontare di debito pubblico che, in percentuale del Pil, non trova somiglianza in altri paesi (cfr. tab. 3). Nella tabella 4 abbiamo riassunto alcuni dei più abituali indicatori dei bilanci pubblici. In questa vale la pena di osservare l'andamento del costo reale del debito pubblico onde poter riflettere sul ruolo degli interessi passivi nella formazione dei disavanzi pubblici. Infatti, mentre tale costo reale è stato fortemente negativo all’inizio degli anni ottan-

44

Tag. 2. Prelievo complessivo in % del Pil Paesi

1970

1975

1980

1985

30,4

30,3

31,8

19,8 SEZ

32,1

2257 41,8

25,6 43,7

Francia Regno Unito

36,1 34,3

39,2 35,6

44,5 35,4

Italia*

29,4

Canada

SULZA

30,4

30,8

28,1 43,6 47,3 SAC) SEIT

Austria Belgio

39,4 34,3

41,5 40,1

44,6 42,2

45,9 > 45,2

Stati Uniti Giappone Germania

;

30,5

32,1

32,6

Danimarca

43,8

43,5

48,1

DIS

Olanda Norvegia

5905 41,2

46,6 47,2

46,1 50,7

45,2 50,0

Spagna

20,9

23,0

28,5

3257

Svezia

44,4

47,4

51,4

5676)

i;* Per gli anni 1980 e 1985 si è utilizzata la nuova serie di contabilità nazionale. Fonte: Ocse, Economic Performance and Structural Adjustment. Technical Report, Paris, gennaio 1987.

Tag. 3. Il debito pubblico in alcuni paesi (in % del Pil) 1980

1983

1986

Stati Uniti

STAT

44,1

50,5

Giappone

52,1

66,9

691

Germania Francia Regno Unito

DZI9) ZONE >il

40,9 29,8 54,1

42,3 36,3 DIS

Italia* Canada

58,4 44,7

(200 54,5

88,6 67,4

* Nuovi conti nazionali.

Fonte: Ocse, Economic Performance, cit.

ta pur in presenza di fabbisogni pubblici già assai elevati (in quanto gli interessi passivi allora corrisposti ai detentori dei titoli pubblici risentivano ancora in modo assai massiccio dei tassi d’interesse reali negativi) esso diviene invece

positivo e superiore al tasso di crescita reale dell'economia nella metà degli anni ottanta, pure in presenza di fabbisogni pubblici che, al netto degli interessi passivi, sono co45

TaB. 4. Indicatori del bilancio pubblico 1980

Indebitamento netto in % del Pil Debito pubblico in % del Pil

Interessi passivi in % del Pil Costo reale del debito pubblico* Fabbisogno statale in % del Pil

1983

1987

8,5

10,7

10,5

58,4

VIZIO

9200

5,4 —8,1 9,4

7,6 —3,1 1339

8,1 4,6 11,6

* Rapporto tra gli interessi pagati dalle A.P. e il valore medio annuo del debito fruttifero e non, depurato del tasso di crescita dei prezzi al consumo.

stanti se non leggermente decrescenti in percentuale del Pil. In questi anni, dunque, è principalmente il livello degli interessi reali a trascinare la crescita dei fabbisogni e del debito pubblico. Invero, è solo con l’anno 1981 che, ad esempio, il tasso nominale sui Bot a sei mesi ha iniziato ad essere sistematicamente superiore al tasso d’inflazione, mentre, sempre da allora, quello reale ha ampiamente superato il tasso di crescita reale dell'economia ?. Un rapido confronto con quanto avviene in alcune delle economie dei paesi appartenenti alla Cee (tab. 5) mostra che l’Italia non presenta un eccesso di spesa pubblica al netto dei pagamenti

per interessi passivi.

Sono, invece,

questi ultimi ad innalzare il peso della spesa pubblica complessiva al sopra della media Cee. Nei confronti internazionali è dunque il modesto livello della pressione tributaria e contributiva che, insieme al livello della spesa per interessi passivi, porta l’Italia a mostrare la formazione di fabbisogni annui ben più elevati di quelli mediamente riscontrabili in paesi ad economia simile a quella italiana. Se poniamo verso la metà degli anni ottanta il momento in cui venne enunciato in Italia il «piano di rientro» comportante l’azzeramento (entro un congruo numero di anni) del fabbisogno primario possiamo anche osservare che tra il 1983 ed il 1988 è avvenuto (con riferimento alle Amministrazioni pubbliche di contabilità nazionale) almeno quanto segue: a) le entrate correnti sono aumentate dal 38,1% del Pil al 39,5% (la pressione fiscale effettiva — al netto cioè dei contributi sociali figurativi — dal 34% al 36% circa);

46

b) la spesa totale è rimasta pressoché costante su di un valore compreso nell’intorno del 50-51% del Pil; c) l'indebitamento al netto dei pagamenti per interessi passivi è sceso dal 3,1% al 2,2% del Pil; il fabbisogno del settore statale al netto degli interessi passivi è sceso a sua volta dal 6,5% del Pil nel 1983 al 3,5% (anche nell’ipotesi di un fabbisogno di 122 mila miliardi di lire e di un pagamento di interessi passivi di 87.500 miliardi, così come si prevede nella Relazione di cassa per l’intero 1988); d) il costo reale del debito pubblico (inteso come il rapporto tra gli interessi pagati dalle Amministrazioni pubbliche ed il valore medio annuo del debito depurato del tasso di crescita dei prezzi al consumo) passa da un valore negativo (- 3,1%) ad uno alquanto positivo (4,6%), di gran lunga superiore (circa il doppio) del tasso di crescita reale del-

l'economia. Possiamo allora osservare che mentre il «piano di rientro» (inteso come azzeramento del fabbisogno primario) sta

lentamente procedendo, il peso dei pagamenti per interessi passivi mostra un leggero incremento in % del Pil (dal 7,6% nel 1983 al 8,3% quest’anno). Dopo quattro o cinque anni, dunque, non assistiamo ancora ad alcun effetto della riduzione del fabbisogno primario né sull'andamento dei rendimenti reali dei titoli del debito pubblico (crescenti

dall'inizio degli anni ottanta), né sul totale dei pagamenti per interessi passivi. L'ipotesi dunque che si debbano attendere solo dall’azzeramento del fabbisogno primario (quindi solo dalla politica di bilancio) gli effetti positivi sulla spesa per interessi passivi non trova un grande conforto nella storia più recente del nostro paese. Ancorché ogni volta smentita, pare dunque di assistere ad una nuova edizione della «politica dei due tempi» che in questo caso recita: prima si azzeri il fabbisogno primario e... poi si vedrà. Ma, poiché la politica del debito pubblico non offre alcun contributo alla riduzione della spesa per interessi passivi il «secondo tempo» di tale politica pare a me che sia quello ove, per dirla di nuovo con le parole di Keynes, si è reso «il contribuente schiavo del portatore di titoli». Perché poi, come sotteso in alcune enunciazioni, i mercati finanziari debbano avere aspettative diverse, ed il Tesoro soggiacere a minori difficoltà nel caso in cui il medesi-

47

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mo indebitamento (in % del Pil) sia a fronte del pagamento

di interessi passivi invece che, ad esempio, al pagamento degli stipendi degli insegnanti è ipotesi che non riesco a ben comprendere pienamente. Poiché il consolidamento forzoso (va ribadito con forza onde dissipare ogni equivoco sulle proposte di «gestione attiva» del debito pubblico) non appare tra le soluzioni «politicamente» fattibili o auspicabili (come farebbe infatti, il «giorno dopo» il governo a finanziare con titoli di nuova emissione il fabbisogno pubblico — ancorché dato dalla sola spesa per interessi passivi — che continua a presentarsi assai elevato? E, ancora, come sarebbe possibile consolidare il debito pubblico italiano detenuto all’estero?), ci si de-

ve rassegnare al fatto che sia prima o poi l’instabilità finanziaria e la monetizzazione del debito (e l’inflazione che se-

guirebbe) a far quadrare quei conti che governo e parlamento non riescono a compiere? Invero,

una

situazione

così sommariamente

descritta

può indurre ad imboccare due strade diverse tendenti a ridurre il peso del debito pubblico sull’economia italiana, anche se entrambe escludono il ricorso a «rimedi» quali il ripudio, l'inflazione,

la conversione

forzosa

o il prelievo

straordinario. Ma entrambe le strade rischiano di non raggiungere alcuna meta se non si tiene adeguatamente in conto l’osservazione che «nel campo supremo della fantasia è possibile immaginare una pelitica fiscale perfettamente razionale ove il ministro del bilancio, schiacciando gli appositi bottoni, produce gli effetti marginali desiderati sul reddito, sulla domanda, sui prezzi e crea e mantiene un equilibrio economico perfetto. Costruzioni formali elaborate lungo queste linee sono indubbiamente possibili anche se della loro utilità beneficia principalmente il costruttore stesso. La formulazione di una politica economica non riguarda tanto i sogni matematici degli effetti aggregati quanto più strettamente la volontà politica di avere specifici risultatip22! La prima strada suggerisce di concentrare in un arco di

tempo assai breve una forte azione che abbia per effetto una immediata e rilevante riduzione dei fabbisogni annui. Poiché, nel breve periodo, è assai difficile ottenere una for50

te caduta dei tassi d’interesse (che prelude ad una rilevante riduzione della spesa pubblica per interessi passivi) che non porti anche alla monetizzazione del debito pubblico ed allo squilibrio dei movimenti di capitali della bilancia dei pagamenti, chi indica questa soluzione tende dunque a suggerire che sia la riduzione della estensione dello stato del benessere, un minore tasso di crescita della spesa per investimenti pubblici, l'alienazione del patrimonio pubblico (si tace, tuttavia, sulle procedure che devono garantire trasparenza e par condicio di tutti gli interessati) ciò che si deve perseguire per dare la «spallata» alla montagna del debito pubblico (pare di sentire l’eco delle proposte fatte in Francia nella metà degli anni venti quando si accarezzò anche l’idea di vendere una grossa quantità di rame immagazzinata presso

l’arsenale di Bourges, del valore di 500 milioni di franchi di allora 24).

A parte ogni considerazione assai rilevante di tipo equitativo e redistributivo (a chi riduciamo la «mappa dei diritti» per finanziare i portatori di titoli?), ci pare di poter osservare che, in rapporto ai brevissimi tempi proposti, il

principale ostacolo che si oppone all’accoglimento di tale proposta è di natura squisitamente conoscitiva e quantitativa.

Infatti, pur prescindendo dagli effetti indotti sull’economia da una tale manovra di bilancio concentrata in un così breve arco di tempo, ciò che si vuole mettere in dubbio è la «fattibilità» di tale provvedimento (per non parlare della «fattibilità politica»). Infatti, ciò che tale suggerimento sottovaluta in modo inammissibile è la «complessità» (per altro largamente ignota alla stessa pubblica amministrazione) del bilancio pubblico che non consente «imme-

diate e repentine» variazioni di direzioni. Anche perché, oltre l’immagine contabile di un bilancio pubblico vi è il mondo assai complesso dei percettori finali della spesa pubblica e di coloro che pagano le imposte e tutti questi richiedono e impongono «tempi di reazione» e di «adattamento» assai lenti. Infine, neppure lo stato largamente precario della pubblica amministrazione consente di immaginare «repentine ed enormi» azioni di bilancio. L’esempio del «condono edilizio» è di fronte a tutti noi nel testimoniare quanti anni sono risultati necessari per raccogliere ciò che alcuni DA

proponenti suggerivano che sarebbe stato raccolto in pochi mesi!

Ma vi è di più. Una siffatta repentina manovra di finanza pubblica richiede una amministrazione pubblica che conosca se stessa e sappia affrontare gli innumerevoli problemi (conoscitivi e gestionali) che, in un breve arco di tempo, dovrebbe prima riconoscere a poi risolvere. Ma, invece, ancora oggi vale quanto osservato alcuni anni fa e cioè che «considerato lo stato delle casse dello Stato, sarebbe suicidio tenere i conti delle spese nelle stesse condizioni

in cui si tiene il conto dei dipendenti o dei beni. Tuttavia, anche per i dati finanziari, bisogna dire che i perfezionamenti continui apportati in questi ultimi anni non hanno affrontato il consolidamento dei conti del settore pubblico allargato» ?3. Vale, infatti, la pena di ricordare che il processo di quasi totale accentramento della funzione di reperimento delle risorse per il finanziamento della spesa pubblica (imposte, titoli, moneta) combinato con un forte decentramento (non

autonomia!) della funzione di erogazione della spesa pubblica rende assai difficile ogni manipolazione congiunturale del bilancio pubblico italiano: in particolare quando l’aggregato che si vuole controllare è il fabbisogno di cassa del settore statale o del settore pubblico allargato *. Invero, l’elevato numero di enti convenzionalmente compreso nella dizione «settore pubblico» (Stato, tesoreria dello stato, aziende autonome, enti di previdenza, enti locali, enti di assi-

stenza, ecc.) e la complessità delle relazioni finanziarie intercorrenti tra gli enti medesimi (trasferimenti a carico del bilancio dello stato, entrate autonome, rapporti di conto corrente con la tesoreria dello stato, ecc.), impongono che molte delle proposte di politica di bilancio per il controllo della formazione dei fabbisogni pubblici, non possano prescindere da una vasta presa di contatto con il dato istituzionale e con il sistema informativo che deve guidare ogni decisione e verificarne gli effetti contabili. E ovvio, tuttavia, che se tutte le relazioni finanziarie tra gli enti avvenissero in ogni momento con la certezza che la contabilità misura ex post, non nascerebbero particolari problemi. La costruzione, anche se difficoltosa, di un conto consolidato di tutti gli enti potrebbe costituire la grandezza su cui rifletteDZ

re ex ante nella ragionevole certezza che la sua dimensione ex post sia quella che si desidera realizzare intervenendo sugli strumenti. Ma nei fatti è difficile che ciò possa avvenire, sia per le carenze informative, sia per i «comportamen-

ti» degli enti che potrebbero svolgere un ruolo perverso rispetto alla politica economica immaginata e guidata dal centro. Costituiscono un segnale di queste difficoltà conoscitive le «revisioni» che ogni anno vengono operate sui consuntivi della finanza pubblica per gli anni passati. Ad esempio ?”, con riferimento al 1984, mentre il primo consuntivo (reso noto nel 1985) indicava in 3.747 miliardi l'apporto al fabbisogno statale delle «operazioni di tesoreria», nel 1987 tale apporto venne successivamente valutato in 4.894 miliardi di lire. Analogamente, con riferimento al disavanzo di parte corrente delle amministrazioni locali, si può rilevare che mentre il primo consuntivo per il 1984 veniva cifrato in 4.871 miliardi, la revisione successivamente

eseguita lo faceva crescere a 7.012 miliardi di lire. Come si vede, la dimensione delle correzioni dei «consuntivi» è pari a quella di molte «stangate»! Avremo occasione di ritornare più avanti sui problemi che sorgono da una amministrazione pubblica che non conosce se stessa, e che, invece, a livello centrale pretende di

guidare gli altri enti pubblici decentrati. Per ora ci limitiamo a segnalare come tali carenze informative possano limitare gravemente una efficace gestione ed una politica del debito pubblico che assuma un troppo breve arco di tempo per riportare a valori meno inusitati la dimensione dello stock del debito pubblico in Italia (in percentuale del Pil).

Se scartiamo, dunque, ogni politica di bilancio che, nell'assunzione di un proprio orizzonte temporale, non faccia i conti con tutti gli attriti e le vischiosità delle procedure che governano i «corpi» che dovrebbero tradurre in atti le «leggi» emanate dal Parlamento, rimane da adottare una politica di bilancio che assuma un orizzonte più adeguato per giungere a meno inusitate dimensioni dello stock del debito pubblico in percentuale del Pil ed all’arresto della crescita dei titoli pubblici nei portafogli delle famiglie. L’assunzione di un orizzonte così ampio consente poi di

fare i conti anche con tutte quelle «strozzature», «inefficienze», «vischiosità», ecc. che se nel breve periodo devono

DO

essere assunte come «vincoli» (ad esempio l’iniquità del sistema tributario che non consente di ricercare, sic et sirzpli-

citer, un ulteriore aumento della pressione tributaria) nel «medio periodo» possono essere viste come «problemi» a cui trovare adeguata soluzione. Qui, però, può stare anche il tallone di Achille di ogni

proposta «gradualista». Infatti, stabilità delle istituzioni parlamentari e dei governi, possibilità «politica» di programmare nel medio periodo, ecc. sono tutte condizioni che devono precedere ogni politica di bilancio tendente a realizzare i suoi obiettivi su di un arco di tempo di medio periodo. Detto con altre parole, occorre una classe politica che, sentendosi legittimata dall’opinione pubblica, sappia «governare», su di un periodo non breve, tutti i conflitti

che sorgono da politiche di bilancio che tendano a decelera-. re il tasso di crescita della spesa pubblica ed accelerare quello delle entrate in rapporto a quello di crescita del prodotto nazionale.

La combinazione delle politiche monetarie e fiscali (fino all’azzeramento del disavanzo corrente)

Di fronte alla dimensione dello stock del debito pubblico, il problema da risolvere è quello di come combinare su di un arco di tempo di medio periodo (al di fuori dunque di un'ottica congiunturale) la politica di bilancio con quella monetaria onde ottenere la stabilizzazione nel tempo del rapporto tra lo stock del debito ed il prodotto nazionale e tra titoli pubblici e ricchezza finanziaria delle famiglie. A questo proposito si deve operare affinché (condizioni internazionali permettendo) la politica monetaria eserciti effetti meno restrittivi che nel passato tramite una progressiva riduzione dei tassi reali dell’interesse (e per questa via dare il proprio contributo alla riduzione della spesa per interessi passivi). Ma l'aspetto che in questa prospettiva è assolutamente cruciale è che tale riduzione venga percepita dai risparmiatori al pari di una riduzione di lunga durata onde evitare che, nel caso in cui essa venisse percepita come temporanea e di breve periodo, gli stessi risparmiatori si astengano dal finanziare il settore pubblico. Ciò indur54

rebbe un finanziamento monetario del fabbisogno pubblico di tale dimensione da innescare un processo di monetizzazione del debito pubblico il cui sbocco non potrebbe essere altro che una violenta vampata inflazionistica. E tuttavia condizione necessaria per il successo dell’operazione che le autorità di governo siano credibili nel garantire la stabilità (o la decelerazione) dei prezzi interni.

Qualora infatti gli operatori mantenessero aspettative di ripresa dei prezzi interni non potrebbe che risultare annullata l’altra aspettativa di riduzione dei tassi nominali d’interesse decrescenti: i tassi reali infatti dovrebbero subire un tale «taglio» da non rendere credibile che ciò possa avvenire. Ma una politica dei redditi, come si vedrà tra breve, può contribuire con efficacia a mantenere sotto controllo l'andamento del reddito nazionale monetario. Nel caso dell’Italia si deve temere sia che le autorità di governo si limitino, passivamente ed esclusivamente, ad at-

tendere che la riduzione dei tassi d’interesse sui mercati internazionali si trasferisca sul mercato interno italiano, sia che si voglia assegnare al bilancio pubblico un forte ruolo espansivo. Infatti, nelle aspettative degli operatori, l’atteggiamento di pura e semplice attesa da parte del governo di beneficiare di avvenimenti internazionali non rende credibile nessuna promessa di tassi d’interesse decrescenti, così

come non la renderebbe credibile una politica di bilancio.

che spingesse per aumentare il fabbisogno pubblico ancorché per finalità espansive. Una corretta combinazione di politica di bilancio restrittiva (fino all’azzeramento del disavanzo di parte corrente comprensivo dei pagamenti per interessi passivi che,

nel corso di questi anni è di ammontare pari circa al 5,56% del Pil e, dunque, di dimensione circa doppia del fabbisogno primario) e di politica monetaria espansiva pare la ricetta da raccomandare alle nostre autorità di governo tra la fine degli anni ottanta ed i primi anni novanta, anche in previsione del completamento del mercato unico europeo entro il 1992. Si tratta dunque di accompagnare una politica di bilancio che riduca il valore assoluto dei fabbisogni pubblici attesi per i prossimi anni con una politica monetaria che riduca i tassi dell’interesse. Ma poiché i tassi delDI

l'interesse non si possono ridurre con legge del parlamento o con decreto del governo (anche se molto si potrebbe fare sul lato del funzionamento dei mercati finanziari italiani ove si tende ad allineare il livello del tasso dell’interesse agli appetiti dei maggiori oligopolisti operanti su tali mercati, rinunciando in tal modo lo stato a far sua la «rendita del risparmiatore»), occorre che sia la politica economica a ren-

dere credibile e duratura tale operazione. Qualora, infatti, il governo annunciasse di non volere ridurre i fabbisogni attesi per i prossimi anni non potrebbe che rafforzare aspettative di tassi elevati (e, comunque,

non in discesa)

per le difficoltà che — ceteris paribus — il governo medesimo incontrerebbe nel collocamento dei titoli del debito pubblico. Abbiamo già detto che larga parte del fabbisogno annuo del settore pubblico italiano è dato dalla spesa per il pagamento degli interessi passivi sullo stock di debito accumulato. E anche noto che, per le dimensioni assunte dal debito pubblico (quest’ultimo equivale al reddito nazionale a prezzi correnti), la riduzione di un punto degli interessi sul debito equivale all'aumento di un punto percentuale di pressione tributaria. Date le dimensioni relative di questi aggregati si tratta di evitare l'adozione di due comportamenti entrambi sbagliati. Il primo si basa sul convincimento che la spesa per interessi passivi è da considerarsi quasi al pari di una variabile indipendente (in quanto «variabile indipendente» sarebbe il tasso d’interesse reale) e che dunque l’attenzione

deve esser concentrata sulla spesa pubblica al netto degli interessi passivi e sulla pressione tributaria. Se la politica economica è l’arte di trovare soluzioni non conflittuali e di ricercare comportamenti cooperativi a questa posizione oc-

corre negare la qualifica di politica economica. Essa è la resa di fronte alle difficoltà di una «gestione attiva del debito pubblico» ed anche la mitizzazione delle forze di mercato, quasi che queste non fossero, più semplicemente, la manifestazione di appetiti assai terreni a cui l’azione collettiva che si sintetizza nella politica economica deve mettere delle regole. Il livello spropositato dei tassi d’interesse reali e delle rendite che per tale via vengono create quasi dal nulla 56

sono la manifestazione più evidente del fallimento di ogni politica economica che si arrende di fronte agli impegni di ridistribuzione del reddito e della ricchezza. Ma anche chi mitizza le capacità espansive dei disavanzi di bilancio imbocca la strada dell’abbandono della politica economica. Infatti, al fondo di questa strada non può che esservi la monetizzazione del finanziamento del fabbisogno e la ripresa di un forte processo inflazionistico. Poco male se, come si sottintende in qualche manualistica, a seguito del processo inflazionistico non mutassero i prezzi relativi: tutti si troverebbero nella medesima situazione di prima e nulla sarebbe cambiato se non la misura del metro monetario. Ma è una osservazione che viene dalla esperienza che di fronte all’inflazione non vale la legge dell’eguaglianza: oltre a mutare i rapporti sociali l'inflazione induce alla ricerca di comportamenti individuali, frantuma la solidarietà sociale, muta le posizioni relative di reddito e di ricchezza. Ma ciò invece di essere guidato dall’azione collettiva della politica economica avviene in base al grado di monopolio (per dirla con Kalecki) che ogni singolo operatore riesce ad esercitare sul proprio mercato. Una forza politica che non vuole rinunciare a correggere consapevolmente la distribuzione del reddito e della ricchezza deve dunque temere assai l’inflazione: questa le scombina le carte in tavola e le rende sempre più difficile tenere insieme l’immagine della equità e della solidarietà sociale che vuole perseguire con i provvedimenti di politica di bilancio che intende suggerire.

Per una politica dei redditi

Di fronte alla dimensione dello stock del debito pubblico ed alla necessità di dover combinare su di un arco di tempo di medio periodo la politica di bilancio di segno restrittivo con quella monetaria di segno espansivo il problema più stimolante da risolvere è quello di come inserire tutto ciò all’interno di una politica economica più generale che sia funzionale anche al risanamento della finanza pubblica in un contesto non inflazionistico e non recessivo.

Una corretta combinazione di politica dei redditi (alla DI

Meade) per il controllo del reddito monetario e del livello dell'occupazione 2, del cambio per evitare di importare inflazione, di politica di bilancio restrittiva anche per operare ogni opportuna redistribuzione, di politica monetaria espansiva anche per operare uno spostamento dai consumi

agli investimenti, di incentivi fiscali all’allungamento delle scadenze dei prodotti finanziari, di moltiplicazione e di omogeneizzazione dei prodotti finanziari, di riordino tributario dello stock esistente pare la ricetta da raccomandare alle nostre autorità di governo. Muoversi nella direzione indicata da un ordine del giorno approvato dal Senato nel corso della discussione sulla legge finanziaria per il 1988 può essere il primo e più facile passo da muovere 2. Tale ordine del giorno, infatti, impegna il governo ad adottare provvedimenti fiscali che incentivino l’allungamento delle scadenze per i titoli di nuova emissione, onde indurre maggiore stabilità sui mercati finanziari. Anche il «riordino tributario» dello stock esistente (oggi segmentato in tre blocchi: quello esente da imposte, quello soggetto alla ritenuta del 6,25% e quello soggetto alla ritenuta del 12,5%) potrebbe contribuire a dare tra-

sparenza e liquidità al mercato. Operare infatti per giungere a tale maggiore uniformità (tramite una libera conversione dei titoli esistenti in altra specie di titoli con identico rendimento netto d’imposta) potrebbe essere un altro primo e modesto passo verso quel mercato secondario più liquido, più trasparente, più efficiente. Ma la uniformità tributaria dello stock esistente dei titoli e la maggiore (in termini relativi) imposizione sui titoli (di nuova emissione) a breve termine rispetto a quelli di più lunga durata possono non esercitare alcun effetto positivo se un ulteriore contenuto di trasparenza non viene introdotto su questi mercati. Per poter incamerare la rendita del risparmiatore il Tesoro ha bisogno della collaborazione degli intermediari finanziari. Questi possono fare molto. Ad esempio (è un piccolo esempio), al pari di quanto avviene in paesi più evoluti, questi potrebbero esporre al pubblico

in modo assai evidente i rendimenti lordi e netti d’imposta di tutti i prodotti finanziari da essi commerciati. Così, le informazioni potrebbero dilagare su tutti i mercati e lo strumento fiscale potrebbe giocare il suo ruolo di incentivo 58

alla composizione dei portafogli verso le più lunghe scadenze e ad un uso più razionale della liquidità. Le autorità monetarie acquisterebbero così anche più libertà nella manovra dei tassi a breve per il controllo dei capitali speculativi. Una politica dei redditi (intesa alla Meade) pare a me, tuttavia, l’asse portante di una linea di politica economica che abbia tra i propri obiettivi anche quello della stabilizzazione monetaria in funzione della riduzione dei tassi d’interesse reali. In questa impostazione, la politica dei redditi non è funzionale al raggiungimento di certi obiettivi di distribuzione del reddito tra salari e profitti bensì al controllo del livello dell’occupazione ed alla crescita «stabile ma moderata» del reddito nazionale monetario, mentre alla politica fiscale viene assegnato l’obiettivo della redistribuzione dei redditi e dei patrimoni. Salari e profitti monetari vanno dunque considerati non come elementi di una politica di redistribuzione, ma come componenti di costo che si trasferiscono sui prezzi: il loro contenimento entro certe «regole» liberamente accettate dalle parti sociali (ad esem-

pio una ripartizione fifty-fifty degli incrementi della produt-

tività), per evitare la «classica» rincorsa salari o profittiprezzi, può infatti consentire di raggiungere la stabilizzazione monetaria, la crescita desiderata e stabile dell’occupazione e del reddito nazionale monetario ed evitare la redistribuzione perversa affidata all’inflazione. Ha scritto Meade al riguardo: «temo che su questo punto si richieda una rivoluzione negli atteggiamenti oggi prevalenti. Un sistema decentralizzato di determinazione dei saggi salariali in ciascun settore dell'economia, finalizzato a promuovere la produzione e l’occupazione in quel particolare settore implica che la determinazione del salario non può essere usata quale principale strumento per raggiungere una distribuzione del reddito più equilibrata e giusta. La cosa tremendamente difficile è persuadere la gente a concepire il salario monetario non come strumento per ottenere una desiderabile distribuzione del reddito tra salari e profitti così come tra differenti tipi di lavoro, ma soprattutto come strumento per promuovere il pieno ed efficiente impiego del lavoro. Ciò non significa che dobbiamo disinteressarci dei problemi distributivi; significa piuttosto che in un modo o nell’alDI

tro bisogna spostare l’accento su altre misure — quali servizi sociali, sussidi e manovra fiscale — per raggiungere un’accettabile distribuzione del reddito e della proprietà» ?0. Più di recente, anche Kahn ha rilanciato con vigore la politica dei redditi, ribadendo di nuovo che «la lezione da imparare è quella sulla quale ho continuato a insistere: che il livello e l'andamento nel tempo dei salari reali non dipendono da quelli dei salari monetari. I capi e i membri delle Trade Unions devono accettare il semplice fatto che finché non hanno imparato questa lezione non c’è alternativa al metodo della signora Thatcher per tenere il tasso di aumento dei prezzi a un livello accettabilmente basso, cioè un alto livello di disoccupazione» ?!. Non voglio addentrarmi in un campo che, per il caso italiano ed in questa nuova prospettiva, è forse ancora tutto da esplorare e percepisco anche la diffidenza di molti verso tale proposta. Invero, nel passato, la politica dei redditi a cui si è tentato di fare ricorso in Italia ha avuto più le sembianze di una soluzione, a danno del contraente più debole, del «conflitto redistributivo», che non quelle di un controllo e di una stabilizzazione efficace degli aggregati monetari. Rispetto a tali tentativi si tratta, invece, di riconoscere che, poiché va diffondendosi la figura del «cittadino contribuente

multi-reddito», il conflitto redistributivo

potrebbe oggi risiedere non tanto in una secca contrapposizione tra «capitalisti e lavoratori» (intesi come due separate

categorie ognuna delle queli percepisce esclusivamente o profitto o salario, ma allora chi percepisce i redditi da capitale?) quanto nella contrapposizione tra chi «percepisce molti tipi di reddito» (anche sotto forma di servizi pubblici efficienti) alcuni dei quali in sostanziale esenzione fiscale (ad esempio, redditi di lavoro dipendente che si sommano a redditi di lavoro autonomo, a redditi di capitale effettivi e figurativi) e chi percepisce un solo reddito integralmente tassato (e servizi pubblici inefficienti). Se così fosse (come, per alcuni aspetti, l’analisi delle dichiarazioni dei redditi sembra suggerire), la funzione di redistribuzione dei redditi (in omaggio al principio solidaristico) dovrebbe essere affidata alla politica di bilancio (entra-

te e spese pubbliche) ed assai meno alle tradizionali politiche salariali. La funzione del sistema tributario e contribu60

tivo (e la loro riforma) e quello della spesa pubblica devono dunque venire alquanto esaltate all’interno di ogni politica dei redditi per la stabilizzazione monetaria e non tanto per la loro funzione congiunturale di controllo della domanda interna o di riduzione dei fabbisogni pubblici. Se la stabilità monetaria è una condizione per il risanamento della finanza pubblica, l'aumento della pressione tributaria è un’altra condizione, più che la riduzione della spesa pubblica al netto degli interessi che, opportunamente modificata nella composizione, deve contribuire a realizzare quel grado di redistribuzione e di solidarietà che può e deve restare obiettivo dell’azione collettiva. A proposito dell'aumento della pressione tributaria si deve osservare che l’esame rivolto al passato mostra che oltre al prelievo sui redditi e sulle ricchezze, esplicito e contabilizzato nei quadri di contabilità nazionale, ha esercitato i suoi effetti anche l’imposta da inflazione. In periodi di inflazione, infatti, la «tradizionale pressione tributaria» (misurata dal rapporto tra prelievo complessivo e prodotto interno lordo) risulta in parte inidonea a descrivere gli effetti reali della presenza di un settore pubblico con elevato debito pubblico. Infatti i detentori del debito pubblico ottengono una remunerazione, ma pagano anche una imposta «occulta»: la tassa da inflazione la quale misura la perdita di potere di acquisto del debito pubblico nominale. L’onere reale del debito pubblico è quindi costituito dalla spesa per interessi meno l’imposta da inflazione. Entrambe le grandezze sono commisurate alla dimensione del debito, la prima dipende inoltre dai tassi d’interesse nominali, mentre la seconda dal tasso d’inflazione.

Alla abituale pressione tributaria occorre dunque affiancare un’altra misura di «fiscalità globale»: questa oltre a comprendere il prelievo obbligatorio complessivo comprende anche la tassa da inflazione al netto della spesa per interessi passivi. Per costruzione di questi indicatori, si può os-

servare che quando la «fiscalità globale» è superiore alla pressione tributaria lo Stato gode di una riduzione del proprio debito reale di un ammontare superiore degli interessi pagati. In questo caso si può dire che i detentori dei titoli del debito pubblico hanno «finanziato» (subendo una perdi61

ta reale) alcune spese pubbliche diverse da quelle per interessi passivi.

Per il futuro, in un contesto di maggiore stabilità monetaria, si tratta dunque di sostituire l’imposta da inflazione (che c'è, ma non si «vede» nei conti della finanza pub-

blica su cui ragionano le autorità di governo) con un aumento «visibile» del prelievo tributario, orientato anche al fine di realizzare quel certo grado di redistribuzione dei redditi e delle ricchezze non affidato all’inflazione e non perseguito con la politica dei redditi. Da ciò, potrebbero uscire ulteriormente demotivate le aspettative di inflazione e di rischio di cambio. Politica dei redditi, aumento della pressione tributaria nel senso indicato, insieme ad una politica del cambio che eviti di «importare» l'inflazione possono consentite — agendo massicciamente sulle aspettative degli operatori — quella contestuale riduzione dei tassi di rendimento dei titoli pubblici tale per cui, dall’insieme della politica economica, la formazione dei fabbisogni pubblici annui subirebbe una drastica riduzione ed il debito pubblico (in percentuale del Pil) tenderebbe a stabilizzarsi prima ed a ridursi

poi. Tra l’altro, in condizioni di «tenuta del cambio» fino

quasi alla regola dei «cambi fissi» nei confronti delle altre valute europee (anche per facilitare la costituzione del mercato unico dei capitali), ciò che dovrebbe rilevare nei calcoli degli operatori sono i tassi di rendimento nominale e non tanto quelli reali, mentre viene meno l’aspettativa di lucrare i vantaggi in conto capitale connessi alle svalutazioni. I tassi nominali italiani, in tale prospettiva, potrebbero dunque scendere di alcuni punti per avvicinarsi a quelli comunitari. Il rischio che il sostanziale regime di cambi fissi che qui si propone possa esercitare effetti di segno negativo sulla competitività delle nostre imprese può essere affrontato e risolto tramite una forte fiscalizzazione degli oneri sociali. E noto infatti che gli effetti di tale fiscalizzazione sono del tutto equivalenti a quelli della svalutazione, senza avere gli stessi effetti inflazionistici. Urge dunque il problema della riforma tributaria per dare allo strumento fiscale quel ruolo di redistribuzione da affiancare alla politi62

ca dei redditi e quello di accrescere la competitività delle imprese.

“a riforma fiscale per l'equità, la semplicità e l’efficienza del preievo

Sul lato della politica di bilancio è opinione di molti, ed anche nostra come abbiamo appena sostenuto, che lo sforzo maggiore debba dunque essere concentrato sul lato delle entrate, ma che ciò trovi un poderoso ostacolo sia nella pessima qualità dei servizi, sia nel grado di iniquità presente nell’attuale sistema del prelievo fiscale e contributivo. La proposta di una politica dei redditi insieme a quella di bilancio di segno restrittivo, che accompagni, nel medio periodo, la riduzione del costo del lavoro e quella dei tassi d’interesse, non può allora prescindere dal proporre anche che si cominci a rimuovere alcuni dei più evidenti difetti ?? del nostro sistema di prelievo obbligatorio (iniquità, vasta erosione di base imponibile, mancanza di neutralità verso le combinazioni produttive e di finanziamento, eccesso di complessità e di progressività solo su alcune fonti di reddito, ecc.). Infatti, in assenza di una profonda revisione del

nostro sistema fiscale e contributivo (della qualità della spesa abbiamo già ragionato) è impensabile di potere proporre un aumento della pressione fiscale, così come non potrebbe attuarsi quella certa azione di redistribuzione che non viene perseguita dalla politica dei redditi. Per iniziare una riflessione al riguardo con riferimento alla realtà italiana, ma che tenga anche conto di quanto si sta discutendo in sede Cee per la costituzione del mercato unico del 1992 #, conviene aderire all’idea che l’antica massima che recita che «una vecchia imposta è una buona im-

posta» può non valere nel caso in cui i sistemi economici subiscano profonde trasformazioni. Anche perché, una «vecchia» imposta, che operi in un contesto assai diverso da quello per cui era stata «pensata», può rivelarsi dotata di potenti effetti di sostituzione, nel senso che può incentivare a muoversi tra diverse attività che risultano tassate con diverse aliquote effettive d’imposta. Ma se ciò dovesse durare all’infinito, per effetto di tale «vecchia imposta», tutte

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le attività si trasferirebbero nelle zone non tassate (o tassate di meno) con effetti rilevanti sul gettito tributario e,

dunque, sul finanziamento della spesa pubblica. Le modalità con cui si è sviluppata l'economia italiana negli ultimi quindici anni possono, dunque, indurre con ragione al convincimento che il sistema tributario uscito (già vecchio) dalla riforma del 1973 non è un buon sistema tri-

butario. Detto con altre parole, «il giudizio ormai unanime degli studiosi del sistema tributario italiano è che la riforma del 1973-74 non possa essere valutata in modo pienamente positivo e che sia necessario iniziare una nuova opera di rifondazione di dimensioni culturali ed operative non minori di quella affrontata dalla Commissione presieduta dal prof. Cosciani nel 1963». Basti ricordare che quando i «padri» dell’attuale riforma tributaria immaginarono il nuovo sistema tributario, avevano avanti a loro un’economia in cui quasi il 50% dell'occupazione dipendente trovava collocazione nel settore dell’industria e poco più del 20% nel settore dei servizi destinabili alla vendita. Al contrario, una previsione di Prometeia valuta che verso la metà del prossimo decennio gli occupati dipendenti nell’industria tenderanno ad uguagliare il peso degli occupati dipendenti nei servizi destinabili alla vendita (ognuno dei due settori dovrebbe occupare il 36/ 37% degli occupati dipendenti). Ma tali spostamenti nella occupazione settoriale della occupazione si accompagnano anche, di norma, al passaggio degli occupati dalla grande industria ad industrie di più piccole dimensioni, così come dimostra l’esperienza del passato per cui gli occupati nella grande industria si sono ridotti di oltre il 25% nel corso degli ultimi dieci anni. Si pone dunque il problema di come riformare un sistema tributario immaginato per un’economia ove avrebbe dovuto dominare la grande industria ed il reddito da lavoro dipendente e che, invece, si è sviluppata in un tessuto di piccole e medie industrie (gestite anche in forma cooperativa) e con importanza crescente dei redditi di lavoro autonomo. L’imposta sul reddito delle persone giuridiche e l’imposta personale sul reddito delle persone fisiche con relativa 64

ritenuta d’acconto sul reddito di lavoro dipendente non so-

no, infatti, altro che la traduzione nel sistema tributario di

quella immagine di sviluppo dell’economia italiana. Ma la realtà ha preso in contropiede il legislatore. Ad esempio, gli occupati dipendenti nell’industria si sono ridotti di circa un milione di unità standard a partire dal 1980, ma di una cifra analoga sono aumentati gli occupati indipendenti nel settore dei servizi destinabili alla vendita (esclusa quindi la pubblica amministrazione). E però noto che, a parità di occupati, il passaggio dalla condizione di occupato dipendente a quella di occupato indipendente non è senza effetto sul gettito tributario e contributivo. Infatti, la «dote» che una unità di lavoro dipendente porta complessivamente alle casse dello Stato è superiore a quella apportata da una unità di lavoro indipendente, anche a prescindere dalle maggiori difficoltà di accertamento dei redditi autonomi rispetto a quelli di lavoro dipendente. Con il rafforzarsi, negli anni novanta, del lavoro indipendente si porrà dunque sempre più pressante il problema di come modificare la struttura del sistema fiscale e contributivo onde fare crescere la pressione fiscale complessiva, da un lato, ma anche ridurre il livello e la progressività delle aliquote legali ed allargare la base imponibile dall’altro lato. Vale dunque la pena di ragionare su di un sistema tributario che non c’è, ma che potrebbe esserci anche in previsione del mercato unico europeo che dovrebbe avere piena attuazione a partire dal 1992:

Come è noto, la progressività del prelievo ci viene imposta dalla carta costituzionale là ove afferma che (art. 53)

«tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Si ha qui una chiara manifestazione di volontà da parte del costituente per cui, come in tutte le democrazie moderne, il limite al prelievo è dato dall’ammontare della spesa pubblica. Vale tuttavia la pena di sottolineare come l’accento vada messo sulla parola «sistema», onde evitare di ritenere che la progressività si possa (o si debba) ricercare solo tramite un’imposta con aliquote progressive. Invece, in tutti questi anni il legislatore italiano ha sempre ritenuto (a mio avviso erroneamente) che la progressività dipendesse 65

strettamente dal fatto di avere introdotto un’imposta le cui aliquote sono crescenti al crescere del reddito tralasciando, pertanto, la possibilità di ricercare una progressività effettiva tramite un «effetto di sistema».

Le conseguenze di tale impostazione sono assai note, ma vale ancora la pena di richiamarle per sommi capi: 4) l’attenzione dei cittadini e del legislatore risulta con ossessione concentrata sull’unica imposta progressiva di un qualche rilievo (Irpef). Questa forte visibilità sociale dell’Irpef concorre a mettere in ombra il «fiscal drag alla rovescia» che opera nel campo delle imposte indirette e dei contributi sociali per la forte presenza in questi due comparti di forme di prelievo in somma fissa il cui valore reale va riducendosi con il crescere dei prezzi. Ma da ciò non può che seguire un sistema tributario e contributivo in cui la posizione relativa di ogni singolo cittadino-contribuente, rispetto a quella di altro cittadino, non può che essere sostanzial| mente casuale. Viene così leso il principio per cui (nelle democrazie moderne) a parità di capacità contributiva deve corrispondere un eguale obbligo fiscale (equità orizzontale); b) dovendo affidare alle sole aliquote legali progressive il compito di realizzare la progressività, le aliquote legali finiscono necessariamente per assumere valori intollerabili. Invero, quando, nel 1894, in Inghilterra, venne introdotta

per la prima volta negli stati moderni l’imposta progressiva, si pensava anche che tutti i redditi di un individuo dovessero subire la progressività delle aliquote. In tal modo verrebbe infatti garantita l’osservanza dell’altro principio che deve governare i sistemi tributari: a redditi di diverso ammontare deve corrispondere un carico tributario diverso (equità verticale).

Ma è noto, invece, che la base imponibile dell’Irpef non comprende tutti i redditi delle persone fisiche e che ampie deduzioni sono ammesse sia dall’imponibile che dall'imposta (circa il 45% della base imponibile potenziale sfugge all’imposta progressiva). Per questa via, la realizza. zione della progressività viene tutta affidata ad un’imposta con base imponibile assai ristretta e con aliquote legali assai elevate. Sono questi i temi della comzprebensive income taxation che hanno dato corpo alle più interessanti ipotesi di rifor-

66

ma della tassazione del reddito delle persone fisiche. È noto che alla base di quest’ultima impostazione vi è una definizione (dovuta a Henry Simons verso la fine degli anni trenta) «economica» di reddito imponibile tale per cui è da considerarsi reddito la somma di tutto ciò che l’individuo ha consumato in un dato periodo di tempo e della variazione netta della sua ricchezza. < Molti paesi (ad eccezione dell’Italia) si sono esercitati da tempo in riflessioni «ufficiali» o «semi-ufficiali» che portassero all'allargamento delle basi imponibili ed alla riduzione dei fenomeni di erosione. Si pensi alla magistrale analisi contenuta nel Carter Report del Governo Canadese edito nel 1966 o al più recente Rapporto al Presidente redatto dal Dipartimento del Tesoro Usa, per non parlare del famosissimo Meade Report”. Sebbene questi rapporti giungano a proporre soluzioni anche assai diverse (vi è chi sostiene, per le persone fisiche, l’imposta sulla spesa e chi, invece, quella sul reddito personale), è tratto caratterizzante delle loro proposte di rifor-

ma:

quello di sostenere con fondate dimostrazioni la ne-

cessità di giungere ad un sistema di tassazione sostanzial-

mente più «equo», «neutrale» e «semplice» rispetto a quelli oggi osservati.

Per quanto riguarda, in particolare, la tassazione del reddito delle persone fisiche molti studiosi indicano l’opportunità di giungere ad un sistema di tassazione personale ove operi un vasto allargamento della base imponibile (con tendenziale riduzione a zero di tutte le forme di erosione della base imponibile), ove tutti i tipi di reddito (compresi

quelli di capitale ed anche il capita! gain depurato dalla variazione dei prezzi) siano sottoposti alla medesima imposta con aliquote tendenzialmente proporzionali. In questo modo, gli individui con un medesimo livello di reddito complessivo verrebbero trattati nello stesso modo indipendentemente da «come» ottengono i diversi redditi e dalle «categorie» ed «associazioni» a cui appartengono. Per tale via,

inoltre, si eviterebbe lo spreco di risorse tese a convertire una specie di reddito in altra specie ove verrebbe tassato in modo diverso. In aggiunta a ciò, si potrebbe giungere ad una riduzione delle aliquote legali dato che la corzprebensive income tax potrebbe godere di una ben più vasta mole di 67

imponibile rispetto alla tassazione del reddito così come oggi è configurata dalle leggi esistenti ??. La semplicità del sistema tributario che deriverebbe dalla adozione di tale riforma consentirebbe, tra l’altro, di evitare anche da noi ciò

che è considerato insopportabile, ad esempio, negli Usa. . Come si legge nel Rapporto al Presidente, «un sistema fiscale più semplice non dovrebbe richiedere che il 41% dei contribuenti necessiti di assistenza professionale per la preparazione della propria dichiarazione dei redditi». La semplificazione del sistema tributario deve essere dunque un obiettivo di ogni ipotesi di riforma dello stesso. Ma se aliquote delle imposte sui redditi tendono ad assumere valori tendenzialmente proporzionali, come realizzare la progressività richiesta dalla nostra carta costituzionale? È per rispondere a questa domanda che da molte parti si propone di introdurre (accanto alle imposte sui redditi) un'imposta sulla ricchezza mobiliare ed immobiliare posseduta (generale, senza alcuna esenzione e con aliquota assi modesta nell’ordine del 5 per mille). In questo modo, l’effetto combinato delle imposte sui redditi con l’imposta sulla ricchezza consente di realizzare quella «progressività di sistema» richiesta dalla nostra costituzione. Infatti, come hanno messo in risalto molti studiosi italiani (fin dall’inizio di questo secolo), poiché la ricchezza (intesa come stock) è molto più concentrata dei redditi (intesi come flusso), e

‘ poiché l’imposta sulla ricchezza si paga con il reddito, il soggetto passivo che dispone sia di un reddito sia di uno stock di ricchezza paga (a parità di reddito complessivo) proporzionalmente di più di chi dispone del solo reddito diverso da quello proveniente dal possesso della ricchezza. Questi temi sono stati ripresi di recente.in Inghilterra (in particolare nel Meade Report) con sottolineature che vale la pena di segnalare: a) il possesso della ricchezza conferisce benefici al proprietario (nel senso che il reddito ricavato non si riduce con l’età del proprietario, né deve essere ottenuto a spese dell’ozio), così come conferisce indipendenza, sicurezza ed influenza che costituiscono elementi di

capacità contributiva; 2) l'imposta sul possesso della ricchezza promuove una più equa distribuzione della ricchezza medesima, ostacolando l'accumulo di enormi fortune; c) 68

consente di gravare di più sulla ricchezza ereditata rispetto a quella accumulata con i propri sforzi, nel senso che il cittadino che con i propri sforzi e la propria capacità di iniziativa si è costruita una fortuna merita un trattamento fiscale più vantaggioso di chi, per il solo fatto della nascita, possiede un eguale stock di ricchezza. Pare di leggere un manifesto rivoluzionario della «Francia dei lumi», ed invece siamo nella liberale Inghilterra degli anni settanta! Da ultimo, si consideri la semplificazione degli accertamenti che verrebbe realizzata con l’introduzione di un’imposta sulla ricchezza. Invero, è tipico delle società moderne che i redditi non immediatamente destinati al consumo siano detenuti sotto forma di stock reali o monetari e finanziari presso il sistema degli intermediari finanziari, non essendo più di moda fare ricorso al «tesoreggiamento». Sono questi stock che poi si tramutano o in altri beni reali o in altri titoli mobiliari e che si accrescono per l’afflusso di nuovo reddito non consumato. Ma, per loro natura, questi stock mostrano una stabilità molto più accentuata dei redditi e, dunque, molto più arduo diviene il tentativo di sot-

trarli all’imposta. Per questa via, l'ampliamento della base imponibile consentito dall’imposizione sulla ricchezza consentirebbe anche la riduzione delle aliquote legali delle imposte sui redditi guadagnati ed anche il mantenimento (o l’aumento) del gettito per il finanziamento della spesa pubblica. Nel caso dell’Italia, tale imposta sulla ricchezza dovrebbe però accompagnarsi alla soppressione dell’Ilor e dell’Invim, oltre che alla revisione dell’imposta di registro ‘0. Se dal reddito degli individui passiamo a considerare quello delle imprese (rinviando al prossimo capitolo ogni considerazione più specifica e contingente sul regime fiscale dei redditi di capitale), possiamo affrontare altri quesiti assai stimolanti. Tra tutti: quale deve essere la base imponibile di una imposta sulle società? Qui, è noto, due scuole di pensiero si contrappongono. La prima intende sottoporre a

tassazione il «vero» profitto d’impresa, la seconda propone di adottare la metodologia del «flusso dei fondi». E anche noto che il legislatore italiano ha adottato i suggerimenti della prima scuola (l’imponibile è il profitto) e che il siste-

69

ma non funziona proprio per le difficoltà di definire che cosa sia il «vero» profitto d’impresa. Ricordo qui almeno quanto segue: 4) i tassi di ammortamento

tesi a distribuire

il costo dell'impianto sull’intero arco della sua vita economica si applicano, in base alla nostra legislazione, al costo storico. Ma, poiché quest’ultimo non viene rivalutato an-

nualmente con un fattore che tenga conto del costo di rimpiazzo dei beni capitali — corretto per tener conto di eventuali perdite o guadagni in conto capitale dovuti ad un diverso andamento dei prezzi relativi dei beni medesimi 4 — o dell’inflazione media (infatti, come è noto, la nostra legi-

slazione consente soltanto una tantum la rivalutazione dei cespiti d’impresa) le quote di ammortamento deducibili non riflettono il «vero» deprezzamento economico dei beni capitali così come sarebbe richiesto da una imposta sul «vero» profitto; 2) la deducibilità degli interessi passivi al loro valore nominale dovrebbe accompagnarsi (e, invece, non si accompagna) all’inserimento nella base imponibile della riduzione in termini reali dello stock di debito su cui si pagano gli interessi passivi medesimi. Tralascio, invece, tutti i problemi connessi alla integrazione della tassazione in testa alla società con la tassazione in testa agli azionisti (per alcuni aspetti questi temi saranno trattati nel capitolo che segue, anche con riferimento alla armonizzazione Cee). Qui domina il tema della doppia tassazione insieme a quello del regime fiscale dei profitti non distribuiti. Questi, come aicuno suggerisce, vanno imputati pro-quota ad ogni azionista ed inclusi nella base imponibile dell’imposta personale? Vi è invece un aspetto che deve essere sottolineato con particolare forza: l’attuale sistema di tassazione del reddito d’impresa risulta fortemente incentivante al mantenimento dell’esistente, piuttosto che stimolare le innovazioni, la na-

scita delle nuove imprese, la ricerca scientifica. Per chi, come chi scrive, aderisce ad una impostazione schumpeteriana del ruolo dell’imprenditore che, assumendo i rischi d’impresa, innova (seno parole di Schumpeter : «nel suo vero significato la funzione dell’imprenditore si rivela quindi non nella mera conduzione di un’impresa, ma solo nella sua creazione») occorre dunque modificare profondamente l’attuale sistema di prelievo sulle imprese. 70

Infatti, come rileva anche un recente rapporto dell’Ocse * la possibilità riconosciuta alle imprese di procedere ad ammortamenti fiscali anticipati ed anche alla totale detrazione degli interessi passivi: 4) riduce la produttività degli investimenti orientando questi verso utilizzi «favoriti dalle tasse» piuttosto che verso quelli che hanno il più elevato tasso di rendimento; £) può rafforzare le rigidità esistenti e favorire la formazione di nuove rigidità che rendono a loro volta sempre più difficile l'adattamento del sistema produttivo alle mutevoli condizioni imposte dall’estero; c) nasconde i segnali che vengono dal mercato e che indurrebbero ad investire nelle nuove industrie più profittevoli ed a ritirarsi dalle imprese già sulla via del declino: ma è il «velo tributario» che non rende visibili tali segnali. Vale poi la pena di ricordare che — come insegna la teoria — in un mondo senza imposte, il valore di mercato

di un’impresa non dipende dalla sua struttura di finanziamento, ovvero dal fatto che gli investimenti siano stati finanziati prevalentemente con capitale di rischio o, invece,

con capitale preso a prestito con l’indebitamento. Il valore di mercato delle imprese dipende dunque dalla loro redditività rapportata al rischio d’impresa. In questo contesto il sistema tributario dovrebbe essere assolutamente neutrale rispetto alle decisioni di finanziamento degli investimenti. Nel caso in cui, invece (come nel caso italiano), oltre alla completa deducibilità degli interessi passivi si consente anche l’ammortamento in eccesso a quello economico, l'imposta rischia di trasformarsi in un sussidio che incentiva l'investimento, anche ove non sareb-

be economicamente conveniente, e induce a scegliere l’indebitamento per il finanziamento degli investimenti. E, come è stato sottolineato anche di recente #, non si può evitare, ai fini di una corretta e completa analisi degli effetti indotti dal sistema tributario sulle decisioni di investimento delle imprese, di tenere conto congiuntamente sia del regime di ammortamento concesso ai fini fiscali, sia di quello previsto per la tassazione delle attività finanziarie emesse dalle imprese per le proprie necessità di finanziamento. È l'insieme di questi aspetti del sistema tributario che determina gli effetti incentivanti o disincentivanti ad investire. Infatti, un sistema tributario che preveda sia ammor71

tamenti liberi, sia la completa deducibilità degli interessi passivi, sia, infine, la tassazione di questi ultimi presso i percettori con un’aliquota inferiore a quella che grava sugli utili di impresa, rende conveniente, per condizioni esclusivamente fiscali, che il risparmio venga indirizzato verso progetti di investimento non convenienti da un punto di vista economico. Ad esempio, nel caso di un’aliquota d’imposta sulle società del 50% e di quella personale del 30%, il sussidio concesso dallo stato sarebbe pari al 40% del rendimento lordo se viene anche concesso l’ammortamento al 100% dell’investimento e la deduzione totale degli interessi passivi. In questo caso, sarebbe sufficiente per l'impresa ottenere su di un progetto di investimento un rendimento del 3,6% per potere garantire al risparmiatore finale che le ha fornito i mezzi finanziari una remunerazione netta pari al 5% del capitale da questi investito. A questo riguardo si deve ancora notare come ciò possa avvenire in modo del tutto casuale ed in modo assai difforme da impresa ad impresa, al di fuori dunque di ogni regola di «generalità» delle norme; ciò infatti dipende dalla storia di ogni singola impresa. Pare, tuttavia, che le imprese che maggiormente traggono profitto da tale normativa siano quelle «grandi», con forte indebitamento, con bassi tassi di rendimento, con grossa sproporzione tra capitale e reddito: proprio come si immaginava il legislatore! Gli enti pubblici economici, le società delle partecipazioni statali ed i grandi gruppi di imprese paiono dunque i soggetti maggiormente interessati al mantenimento dell’attuale imposta sul reddito d’impresa. Ma ciò che più preoccupa è, come detto, il forte incentivo fiscale ad adottare il canale dell’indebitamento. Viene così agevolato il formarsi di un monopolio bancario nel «governo» delle risorse da destinare agli investimenti oltre che il consolidarsi di un sistema di imprese banca-dipendente. Ma è un dato di esperienza che il binomio banca-innovazione imprenditoriale presenta spesso una situazione di conflitto al proprio interno, per la necessaria e doverosa prudenza che il banchiere deve esercitare nell’impegnare i fondi della raccolta. L’innovazione ed il dinamismo imprenditoriale sono spesso associati al capitale di rischio invece che al capitale di debito; ma ciò, anche per motivi fiLZ

scali, pare concesso quasi esclusivamente al sistema delle grandi imprese. Alle piccole e medie imprese tocca dunque sa vane: l’ingrato compito di navigare contro corrente. Come uscirne? Dobbiamo rivolgerci alla seconda scuola di pensiero. A quella scuola cioè che indica non nel profitto, ma nello schema basato sul flusso netto di cassa la via

per determinare la base imponibile dell'imposta sulle imprese ‘ e che propone anche che tale metodo costituisca la base per la riformulazione, a livello comunitario, dell’imposta sulle società. Nella sua formulazione più semplice (quella di tipo «reale» che non riguarda la gestione finanziaria), la base imponibile dell’imposta è data dalla differenza tra il flusso degli incassi totali (a fronte della vendita dei beni e dei servi-

zi) ed il flusso dei pagamenti totali (per acquisto di beni e servizi) indipendentemente dal fatto che tali transazioni riguardino la parte corrente o quella in conto capitale dell’impresa. E ovvio che con l’applicazione di tale imposta non sorge il problema della misurazione del profitto economico.

Per quanto a noi interessa qui rilevare, in base ad un tale schema di calcolo della base imponibile: 4) diviene ne-

cessaria la totale deducibilità delle spese per investimento nel momento in cui esse vengono effettuate (siano esse di tipo mobiliare o immobiliare); 4) occorre abolire la deducibilità dei pagamenti per interessi passivi dall’imponibile ed esentare dall'imposta gli incassi netti di interessi attivi. In conclusione, si deve notare come questo tipo d’imposta presenti il grande pregio della semplificazione della misurazione dell'imponibile, non è distorsiva nei riguardi dell'inflazione, è neutrale rispetto alle diverse scelte produttive e d’investimento, è indifferente rispetto alla durata dell’investimento, fa cadere l'incentivo (o la «trappola») a restare impresa banca-dipendente. Si noti, infine, che qualora in sede di tassazione perso-

nale ci si muovesse verso una tassazione del tipo comzprebensive income tax così come prima sommariamente tratteg-

giato, l’effetto combinato di quest’ultima imposta con quella sulle società di tipo «flusso dei fondi» eviterebbe che si formasse ogni divergenza tra il rendimento per il risparmiaFÉ,

tore e quello dell’investimento, a meno di quella divergen‘ za determinata dalla aliquota marginale dell'imposta personale. Invero, mentre è noto da tempo che il sistema di tassazione delle società basato sul flusso dei fondi, congiuntamente ad un sistema di tassazione personale che adotti come imponibile un concetto di reddito-consumo (noto come «imposta sulla spesa»), non determina effetti distorsivi sulle

decisioni reali e finanziarie delle imprese (tanto da far definire la cash flow tax una «compagna ideale» dell’«imposta sulla spesa» #9), più di recente è stato mostrato che analoghi effetti non distorsivi si ottengono anche affiancando la cash-Hlow-tax ad una imposta personale di tipo comzprebensive. Affinché ciò si verifichi occorre che il sistema di tassazione adottato per le società di capitali sia del tipo denominato «classico» (ovvero preveda la tassazione separata della società e degli azionisti e, dunque, l’assenza del «credito d’imposta»). L'adozione di un sistema «classico», insie-

me alla non deducibilità degli interessi passivi in testa alla società così come richiesto dalla cash-flow, determina un medesimo «cuneo» d’imposta tra il rendimento lordo sull'investimento marginale e quello netto sul risparmio, indipendentemente dalla diversificazione dei finanziamenti dell’impresa ‘8. La recente sentenza della Corte costituzionale, avente

per oggetto i contributi di malattia e la connessa «tassa sulla salute» introdotta con l’art. 31 della legge finanziaria per il 1986, impone uno sforzo di fantasia per trovare una nuova forma di prelievo che sostituisca ciò che la Corte ha minacciato di dichiarare incostituzionale. Scorciatoie non mi pare che possano essere imboccate in questo delicato settore, anche per la rilevanza del gettito da sostituire. Spesso, infatti, si dimentica che l'ammontare

dei contributi di malattia da trasferire nella c.d. «fiscalità ordinaria» ha superato, nel 1977, i 18 mila miliardi di lire

(circa il 2% del prodotto interno lordo). La dimensione del provvedimento dovrebbe indurre a valutare del tutto impossibile la ricerca di una copertura a carico delle imposte oggi esistenti. Pare a me, infatti, che nessuna delle imposte oggi in vigore sia in grado di fornire un gettito aggiuntivo di misura pari a quello indicato senza fare ricorso ad insop74

portabili inasprimenti delle aliquote legali che, per altro, spingerebbero all'adozione di mille comportamenti tesi ad evitare gli aggravi d’imposta. Mi pare, dunque, che sia nella realtà delle cose valutare che la completa fiscalizzazione dei contributi di malattia non possa che effettuarsi tramite l’introduzione di un nuovo tributo che sostituisca il precedente, ma senza presentare tutti i difetti di quest’ultimo (iniquità,

regressività,

discriminazione

contro

il lavoro,

ecc.). La fiscalizzazione dei contributi di malattia dovrebbe, dunque, essere concepita come un importante passaggio verso la «razionalizzazione» del nostro sistema tributario e contributivo oltre che per mantenere la competitività delle imprese italiane nei confronti dei partner comunitari. Spinge, infatti, in questa direzione anche la circostanza, più volte ricordata, che l’Italia abbia ratificato con legge 23 dicembre 1986 n. 909 l’Atto unico europeo del 17 febbraio 1986. Come è noto tale atto all’art. 8A dispone che la «Comunità adotta le misure destinate all’instaurazione progressiva del mercato interno nel corso di un periodo che scade il 31 dicembre 1992... il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei

servizi e dei capitali secondo le disposizioni del presente trattato». A sua volta l’art. 99 del Trattato dispone che «il Consiglio... adotta le disposizioni che riguardano l’armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra d’affari, alle imposte di consumo ed altre imposte indirette, nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno entro il termine previsto dall’art. 8A». È ovvio dunque che a partire dalla fine del 1992 il nostro paese (al pari degli altri) perderà larga parte del proprio potere discrezionale di legiferare sul proprio sistema tributario. Buon senso e capacità di prefigurare il futuro dovrebbero, dunque, spingere ad adottare entro il 1992 tutti quei provvedimenti di razionalizzazione tributaria e contributiva che possano avvicinare il nostro paese alla «media» degli altri paesi comunitari. Poiché, in Italia, i contributi sociali costituiscono larga parte del costo del lavoro (in alcuni settori fino al 50% del salario contrattuale, a differenza di quanto avviene in altri paesi comunitari) e 75

rendono meno competitive le nostre imprese sui mercati in-

ternazionali, sarebbe manifestazione di buon senso e di capacità previsiva presentare l’economia italiana alla data del 1992 con una struttura del costo del lavoro più simile a quella degli altri paesi comunitari. In questo senso può aiutare il sistema tributario se si riprende la proposta avanzata nel Meade Report e, da ultimo e con autorevoli argomentazioni, anche da altri per il caso dell’Italia. Tale proposta intende sostituire parte dei contributi sociali (potrebbe essere quella parte data dai contributi di malattia e dalla «tassa sulla salute») con il gettito proveniente da un tributo commisurato al valore aggiunto lordo d’impresa (dato dalla somma dei profitti, dei salari, degli stipendi, delle rendite e degli interessi) ‘. Per effetto dell’introduzione di tale tributo assisteremmo ad una ridistribuzione (pur in presenza di aliquote legali assai ridotte rispetto a quelle di oggi) su tutto ilvalore aggiunto prodotto nell'economia ciò che oggi è commisurato solo a quella parte di valore aggiunto che è data dal monte salari. Dal punto di vista congiunturale risulterebbero avvantaggiate le imprese industriali con alta intensità di lavoro, a scapito dei servizi (anche finanziari). Ma poiché sono le industrie quelle che concorrono a determinare il maggior flusso di esportazioni, ne risulterebbe avvantaggiato il grado di competitività della nostra economia sui mercati esteri con effetti positivi sul saldo della nostra bilancia dei pagamenti. A regime, è ovvio, il mondo delle imprese si troverebbe in una condizione di completa neutralità nei riguardi dell'imposta ed il fattore lavoro cesserebbe di essere discriminato negativamente. Vale la pena di sottolineare, in conclusione, come tale imposta sul valore aggiunto lordo d’impresa non determini alcuna distorsione nelle scelte produttive ed in quella delle fonti di finanziamento delle imprese qualora, come ho suggerito in precedenza, essa dovesse integrarsi con un sistema di comprehensive income taxation, per quanto riguarda le persone fisiche, e con un’imposta sulle società determinata in base al sistema del flusso dei fondi.

Nell’agosto del 1987 la Commissione delle Comunità europee ha formulato la sua ultima proposta di direttiva del Consiglio che completa il sistema comune di imposta sul 76

valore aggiunto e che la Commissione medesima propone di applicare a decorrere dal 31 dicembre 1992. Di ciò occorre tenere conto sin da ora in sede di riflessione sul ricorso all’Iva per compensare eventuali minori gettiti derivanti dalle riduzioni dei contributi sociali, ed anche per non incorrere nelle inevitabili «rigidità» che si opporranno a variazioni dell’Iva una volta che la direttiva sia stata accolta nella legislazione nazionale. Ed infatti, la Commissione propone fin da ora che gli stati membri si astengano dal modificare il numero ed il livello delle aliquote da essi applicati se non per convergere verso il numero ed il livello delle aliquote proposte. Per ora, tuttavia, ci limitiamo ad osservare che tale proposta di direttiva solleva tre problemi di non semplice soluzione nei diversi stati membri: quello del numero delle aliquote, quello del livello delle medesime ed, infine,

quello della ripartizione dei diversi prodotti secondo le aliquote. Per quanto riguarda il numero delle aliquote ed il li-

vello delle medesime la Commissione propone le cosiddette «forcelle»: una per l'aliquota normale (da comprendere tra il 14 ed il 20%), ed una per l’aliquota ridotta (tra il 4 ed il 9%). L’Italia, ad esempio, dovrebbe dunque rinunciare sia all’aliquota ridotta del 2%, sia a quella maggiorata del

38%, mentre Regno Unito ed Irlanda dovrebbero rinunciare all’aliquota zero su di alcuni beni di prima necessità.

Note al capitolo primo 1 R. Artoni, Finanza pubblica, in Dizionario di economia politica, vol. IV, Torino, Boringhieri, 1982. Ma si veda anche il «commento» a tale «voce» di A. Petretto, Osservazioni sulla voce «finanza pubblica» del Dizionario di economia politica, in «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», giugno 1983, pp. 185-212. 2 A. Petretto, Manuale di economia pubblica, Bologna, Il Mulino, 1987, cap. I. 3 M.S. Giannini, I/ pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna, Il Mulino, 1986. 4 Per l'impostazione di questi temi generali si fa rinvio a A. Petretto, Manuale di economia pubblica, cit.

? Ibidem, p. 49.

to

6 Ibidem, p. 52. 7 F. Cavazzuti, I/ nodo della finanza pubblica, Milano, Feltrinelli, 1978.

8 Su questi temi si rinvia a A. Petretto, I/ problema dell'efficienza nella prestazione dei servizi pubblici locali, Studi e Informazioni, Banca Toscana, n. 3, 1981.

? R.A. Musgrave, The Theory of Public Finance, New York, McGraw-Hill, 1959. 10 E. Lundberg, The Rise and Fall of the Swedish Model, in «Journal of Economic Literature», marzo, n. 1, 1985. 11 S. Cassese, Presentazione a Statistiche sulla pubblica Amministrazione, Roma, Istat, 1982, p. VI.

12 Formez, «Archivio dei corsi di formazione», Napoli, 1984, n. 12,

1/6.

13 M. Crozier, Etat modeste, Etat moderne. Stratégie pour un autre changement, Paris, Fayard, 1987, p. 65.

14 A. Petretto, Introduzione, in Efficienza e produttività nella pubblica amministrazione. Concetti teorici ed analisi empiriche, in «Problemi di amministrazione pubblica. Quaderni della Rivista», n. 10, Formez, 1985; e Analisi della produzione e offerta dei servizi pubblici locali: Aspetti metodologici, in Produttività e costi dei servizi pubblici in Toscana, Firenze, Irpet, 1983. 15 S. Cassese, I/ sistemza amministrativo italiano, Bologna, Il Mulino,

1983, p. 58.

16 Ibidem, p. 127. 1? Ibidem, p. 128. 18 A.O. Hirschman, Lealtà, Defezione, Protesta, Milano, Bompiani,

1982, p. 46.

1° J.M. Keynes, La riforma monetaria, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 53 (A Tract on Monetary Reform, London, 1923). 20 E.D. Domar, The «Burden of the Debt» and the National Income, in Readings in Fiscal Policy, The American Economic Association, London, Allen and Unwin, 1955, pp. 479-501. Questi temi sono stati recentemente ripresi da L. Spaventa, L’indebitamento pubblico in Italia: Evoluzione, prospettive, problemi, Rapporto alla V Commissione, Camera dei Deputati, Servizio studi, Roma, 1984; da F. Cavazzuti, Debito pubblico, ricchezza privata, Bologna, Il Mulino, 1986; da A. Graziani (a cura di), La spirale del debito pubblico, Bologna, Il Mulino, 1988. 21 Su queste esperienze si veda C.P. Kindleberger, Storia della finanza nell'Europa occidentale, Cariplo-Laterza, 1987.

22 Cfr. F. Cavazzuti, Debito pubblico, ricchezza privata, cit., cap. IL 23 E. Lundberg, Business Cycles and Economic Policy, London, Allen and Unwin, 1957, p. 221. 24 Citato da C.P. Kindleberger, Storia della finanza, cit., p. 473.

78

°° S. Cassese, Presentazione a Statistiche sulla pubblica Amministra-

zione, cit. p. VIE ze F. Cavazzuti, Il settore pubblico: struttura dei flussi finanziari e strumenti di finanziamento del fabbisogno, in La gestione della tesoreria nel bilancio del settore pubblico, «Quaderni regionali», n. 41, Formez, 1984. 2! Gli esempi che sono riportati nel testo sono stati desunti dai dati contenuti nelle Relazioni annuali della Banca d’Italia.

MCT Meade, Un nuovo approccio keynesiano al pieno impiego, in «La Rivista trimestrale», n. 1/85. Questo saggio è apparso nella originaria lingua inglese in «Lloyd's Bank Review», ottobre 1983; e Le poli tiche dei redditi. Introduzione a un dibattito, a cura di A. Roncaglia, Banca Popolare dell'Etruria, Studi e Ricerche, 1986.

2° Senato della Repubblica. Ordine del giorno approvato nella seduta del 9 marzo 1988: «Il Senato in relazione al disegno di legge finanziaria per il 1988 impegna il Governo a procedere al riordino del regime fiscale dei redditi di Sa in base al principio di incentivare fiscalmente l’allungamento delle scadenze delle attività finanziarie», Cavazzuti. 2° J.E. Meade, Ur nuovo approccio keynesiano, cit., p. 93. 31 R.F. Kahn, Ur discepolo di Keynes, a cura di M.C. Marcuzzo, Milano, Garzanti, 1988, p. 119. 32 Per un esame del sistema tributario italiano si veda P. Bosi, I tributi nell'economia italiana, Bologna, Il Mulino, 19882.

33 Cfr. Efficienza, stabilità ed equità. Una strategia per l'evoluzione del sistema economico della Comunità europea. Un rapporto di T. PadoaSchioppa, Bologna, Il Mulino, 1987. 34 P. Bosi, I tributi nell'economia italiana, cit., p. 15. 35 Report of the Royal Commission on Taxation (Carter Commission), Ottawa, Queen's Printer, 1966. 36 Tax Reform for Fairness, Simplicity, and Economic

Growth, The

Treasury Department Report to the President, Office of the Secretary, Department of the Treasury, Washington, novembre 1984. 37 The Structure and Reform of Direct Taxation, Report of a Committee chaired by Prof. J.E. Meade, IFS, London, Allen and Unwin, 1978.

38 Si vedano su queste i commenti del Syrposium on Tax Reform, in «The Journal of Economic Perspectives», vol. I, n. 1, pp. 7-119. 39 Stime condotte per gli Usa indicano che il minor gettito dell’Income Tax dovuto ad erosione della base imponibile equivale al gettito della stessa imposta. L’allargamento della base imponibile consentirebbe dunque una potenziale riduzione del 50% delle aliquote pur mantenendo invariato il gettito. Cfr. R.A. Musgrave in Syrposium on Tax Reform, cit., p. 62. 40 Per questi temi si fa rinvio a V. Visco, L'imposta sul patrimonio în una nuova struttura dell'imposizione diretta in Italia, in L'imposta patrimoniale, a cura di G. Muraro, Padova, Cedam, 1987, pp. 111-134. 41 M. King, Public Policy and the Corporation, London, Chapman and Hall, 1977.

Te)

4 T.A. Schumpeter, Antologia di scritti, a cura di M. Messori, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 125-126. 5 Ocse, Economic Performance and Structural Adjustment. Technical Report, Paris, gennaio 1987; The Financial System and the Financing of Industry (cap. 4); e Financing the Public Sector (cap. 10). 44 S. Giannini, Strategie di finanziamento delle imprese, decisioni di risparmio e ruolo del sistema tributario, Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Bologna, ciclostilato, febbraio 1986, e Neutralità e riforma del regime di tassazione dei redditi da capitale, in «Politica economica», DEEZBIOSSÌ

4 Si veda il saggio di M. King in Efficienza, stabilità ed equità. Una strategia per l'evoluzione del sistema economico della Comunità europea. Un rapporto di T. Padoa-Schioppa, cit. 4° T.E. Meade, The Structure and Reform of Direct Taxation, cit., p. STO,

47 J.S. Edwards, On the Case for a Flow of Funds Corporation Tax, in IFS Working Paper, n. 35, agosto 1982. i 48 Per una dimostrazione e per un esame più dettagliato si rinvia a S. Giannini, Neutralità e riforma del regime di tassazione, cit., e alla bibliografia ivi citata. 4° A. Di Majo, Struttura tributaria e struttura economica: il prelievo sulle imprese; in Il sistema tributario oggi e domani, a cura di E. Gerelli, Milano, Angeli, 1986, pp. 25-86.

80

Il. Il sistema finanziario privato

Introduzione

Gli ampi disavanzi pubblici sperimentati da molti sistemi economici negli anni più recenti e la conseguente necessità di dover collocare sui mercati finanziari una notevole massa di titoli del debito pubblico (sia per il rinnovo dei vecchi titoli in scadenza, sia per le necessità di nuove

emissioni di titoli) hanno contribuito

ad orientare

l’azione dei governi verso una «rivisitazione» dei sistemi finanziari

(intesi come

un

insieme

di intermediari

e di

mercati) !. Tale azione è consistita in parte nell’adattare le «regole» alle nuove tecnologie e nel cambiare le modalità della concorrenza tra gli intermediari sui mercati finanziari, anche per consentire a questi e a quelli di operare con più efficienza e con maggiore aderenza alle nuove necessità di finanziamento delle economie (e dei settori pubblici). D'altronde, l’irrompere sulla scena di prenditori di

fondi disposti a corrispondere tassi d’interesse più elevati a fronte di grandi emissioni di titoli (è il caso del normale operare del settore pubblico) ha incrementato le opportunità per le attività di intermediazione finanziaria condotte su vasta scala e con tecniche assai sofisticate. Infine, il

diffondersi tra i risparmiatori di orientamenti favorevoli ad una maggiore diversificazione delle loro scelte di risparmio (con particolare riguardo alle scelte finanziarie, si vedano le tabelle 6 e 7 per il caso italiano) ha indotto il legislatore di molti paesi a dare maggiore attenzione (ovviamente

in termini

relativi)

alla «tutela

del mercato»

piuttosto che alla tutela dei prenditori di fondi, mediante la predisposizione di norme e di alcune «regole minime» che tentino di prevenire i fenomeni di insider trading ed il 81

sorgere dei conflitti di interessi. Gli esempi che seguono attestano tale vivace attenzione. In Inghilterra, nel corso del 1986, sono venute a compimento le ultime fasi di una riforma (si tratta del famoso «Big Bang») iniziata nel 1982? tendente a modificare radicalmente la struttura esistente che si basava sulle commissioni minime e sulla single capacity, ovvero sulla distinzione tra puro intermediario (broker) ed operatore in proprio (jobber o dealer). In questo nuovo contesto, si deve segnalare in particolare il Financial Services Act del 1986 che mira a proteggere l’investitore-contraente più debole contro i rischi di possibili frodi e scorrettezze messe in atto dall’intermediario.

In Francia, nel luglio del 1978, il ministro delle Finanze di allora, Monory, ottenne una legge (nota come «loi Monory») che ricorrendo ad alcuni incentivi fiscali tentava di orientare il risparmio verso il mercato mobiliare. Sempre Monory, nel 1979, incaricò una commissione di formulare

proposte per la modernizzazione del mercato mobiliare francese?. Anche grazie al lavoro di tale commissione, nel 1983, con la «loi Delors» del gennaio dello stesso anno,

TAB. 6. Composizione della ricchezza delle famiglie (valori percentuali) 1975

Attività reali Abitazioni Terreni agricoli

Beni di consumo durevoli Attività finanziarie Attività monetarie

TI) 58,4 Qi

6,6

1980

Tre DIM 6,8

15)

1985

65,4 54,4 3,6

7,4

30,4

28,1

36,7

18,9

16,9

16,8

Titoli pubblici

1,0

Zad

9,9

Azioni e partecipazioni Ris. tecn. e fondi quiescenza Altre attività

2,0 6,0 235

202 4,3 0,9

4,7 4,3 sl

Passività finanziarie

2,6

2,0

DI

Passività a lunga

2,0

(5)

1,4

Altre passività

0,6

0,6

0,7

100,0

100,0

100,0

4,4

4,6

4,4

Ricchezza

Ricchezza/Reddito disponibile

Fonte: Banca d’Italia, Bollettino economico, n. 7, ottobre 1986, pid.

82

TaB. 7. Attività e passività finanziarie delle famiglie (miliardi di lire e composizione %)

-

tie

e

Biglietti e monete Depositi bancari n ; Depositi postali BOT

Depositi e buoni frutt. ICS EG

BTP e altri titoli di Stato

le LAOIZO

A

NIReh1 Den 1986

1987

37.362 3,4 334.821 30,0 61.265

40.802 3.5) 360.825 29,6 73.364

DID

6,0

119.548 SORTA

148.612 1252:

BI

26.432

2,1 126.572 11,4

232 159.103 13,0

36.116

48.865

332

4,0

Altri titoli a m/l termine

27.101 2,4

25%

Quote fondi comuni italiani

65.079

59.448

5,8

Azioni e partecipazioni

151.625 13,6

Attività sull’estero

110773 ng

Altre attività finanziarie

119.931 10,8

Totale attività

1.114.946

33.354 4,9

119.365 9,8

12.535 1,0

138.212 10065)

1.220.447

100,0

100,0

Debiti con aziende di credito

38.002

43.051

Debiti con ICS

DITO. 20.971 30,6

54,3 26.011 32,8

9552

10.254

Altre passività finanziarie È

Totale passività

1539

68.525 100,0

12,9

ODA 100,0

Fonte: Elaborazioni su dati Banca d’Italia, Relazione Annuale per il 1987.

vennero poste le condizioni per una profonda riforma del mercato mobiliare francese. E poiché quest’ultima legge forniva il quadro legale di riferimento per nuove tecniche finanziarie e per nuovi prodotti, venivano anche poste le basi per ridurre la dipendenza delle imprese francesi dal sistema bancario4. Più di recente (primavera 1988) la Commissione per le operazioni di Borsa (Cob) ha predisposto un voluminoso «rapporto» sulla deontologia professionale per 83

le attività finanziarie quasi tutto teso alla prevenzione dei

conflitti d'interesse ed alla tutela del contraente più debole e meno informato. Per quanto riguarda gli Usa, va ricordato che è nel 1984 che il vicepresidente G. Bush ha consegnato al Presidente il rapporto di un Task Group contenente le proposte per una nuova regolazione dei servizi finanziari?. Anche sulla base di queste proposte il mercato finanziario nordamericano ha subìto profonde modificazioni su cui torneremo più avanti.

Nel caso dell’Italia, vi è da registrare il manifestarsi di diffusi interessi per una regolamentazione del mercato mobiliare. Sono un segnale di ciò sia le indagini conoscitive condotte al riguardo dalle Commissioni Finanze e Tesoro della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica nel corso della nona legislatura, sia le proposte avanzate sul tema dalla Commissione nazionale per le Società e la Borsa-Consob‘, sia, infine, quelle suggerite da una apposita Commissione incaricata a tal fine dal Ministro del Tesoro”. Un primo passo in questa direzione si è avuto nelle disposizioni di fine 1987 e febbraio 1988 che, modificando una

legge del 1913 sulle Borse-valori, tentano di regolamentare il cosiddetto mercato secondario dei titoli di stato. Il fine di tale regolamentazione, come si legge nella relazione di accompagnamento al provvedimento, è non solo quello di «garantire la trasparenza, l'efficienza e la. rapidità negli scambi», ma anche quello di contribuire al «graduale risanamento della finanza pubblica» e di favorire «la conduzione della politica monetaria con strumenti indiretti, in un contesto di innovazionee di integrazione finanziaria». Nel contesto più generale della Cee, deve essere ricordato che l’adozione dell'Atto Unico europeo (già richiamato anche nel precedente capitolo) prevede, entro il 1992, la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali che, pertanto, dovrebbe essere accompagnata da nuove legislazioni nazionali nel campo degli intermediari finanziari e creditizi. Infatti, abbandonando la precedente impostazione che mirava ad introdurre una medesima legislazione in tutti i paesi della Cee, il nuovo orientamento si basa sul rispetto di tre principi: l’«armonizzazione minima», tesa a

garantire la stabilità degli intermediari; il «mutuo riconosci84

mento» delle norme nazionali per gli altri aspetti; il «controllo del paese di origine» che si esercita sugli intermediari bancari operanti al di fuori del territorio nazionale. In questa nuova concezione pluralistica (che sostituisce una con-

cezione monolitica del processo di integrazione europea), il valore del principio del riconoscimento reciproco consiste nell’introdurre all’interno della Cee una «concorrenza tra le norme», oltre che tra gli operatori economici. Nel lungo periodo dovrebbe dunque affermarsi quel complesso di norme che meglio riesce a coniugare l’efficienza dei mercati con gli equilibri politici e sociali dei paesi aderenti alla Comunità europea. Poiché, con riferimento al caso italiano, il dibattito su

di una regolamentazione dei mercati finanziari e degli intermediari finanziari non bancari pare a noi sufficientemente avviato (anche se — a differenza di altre nazioni — non ancora compiutamente tradotto in nuove normative di fonte legislativa, amministrativa o regolamentare che affianchino la legge bancaria del 1936, e con molto ritardo rispetto agli adempimenti richiesti dalle direttive comunitarie), in questo capitolo intendiamo dare un certo ordine al materiale esistente con riferimento sia alla «regolamentazione minima» che dovrebbe essere introdotta, sia alle connessioni che questi temi hanno con la politica economica,

sia, infine, agli inscindibili problemi di natura tributaria che ci appaiono non ancora risolti nel campo del regime fiscale dei redditi da capitale e delle transazioni sui titoli. Senza pretendere di riassumere tutte le motivazioni che stanno alla base delle azioni intraprese in tante nazioni così diverse, si può tuttavia concordare con chi? osserva che tale preminente interesse dipende anche dal fatto che il sistema finanziario svolge un ruolo essenziale nel determinare la misura dei rischi che un’economia deve affrontare. E benché sia nell’assunzione del rischio che un sistema economico può crescere (così come

ci ricorda Schumpeter che «in

genere non è il proprietario delle diligenze a costruire le ferrovie» 19) è anche vero che se la misura

del rischio è

«troppo alta» essa può costituire disincentivo alla crescita ed allo sviluppo di un’economia. È stato anche osservato che, tradizionalmente, gli operatori valutano le prospettive future di un sistema economi. 85

co impegnandosi nella valutazione del «rischio reale» e del «rischio tecnologico» !!. Con il primo s'intende «la possibilità che il capitale produttivo non riesca a soddisfare in futuro le condizioni di redditività che ne avevano motivato l'acquisizione e ciò a causa di eventi riconducibili non tanto a comportamenti individuali, quanto ad elementi macroeconomici (condizioni generali di domanda, relazioni industriali, politiche economiche, ecc.)». Con il secondo s°in-

tende il fatto che «nelle attuali condizioni, le imprese non possono fare affidamento su un assetto tecnologico (di medio periodo) sufficientemente definito».

In tali condizioni di incertezza, si è sempre ritenuto che il compito dei sistemi finanziari fosse quello di garantire l’assorbimento più efficace dell'impatto che i prevedibili shock esterni possono avere sul ritmo di accumulazione *?. Tale funzione, è noto, il sistema finanziario la svolge allocando il risparmio tra diversi e concorrenti usi ed utilizzatori e fornendo «segnali» agli operatori quando devono adottare decisioni di investimento !. Ma ciò che si vuole segnalare è che, per gli sviluppi che i sistemi finanziari hanno avuto negli anni più recenti, sono questi stessi sistemi finanziari che possono influenzare il «grado di rischio» contenuto in un sistema economico e «indirettamente possono persino far aumentare il rischio sistemico» !; e ciò in almeno due modi: tramite la struttura dello stesso sistema finanziario (ad esempio il rischio di in-

stabilità finanziaria dipende anche dal grado di separazione delle competenze degli intermediari finanziari sui diversi mercati creditizi, mobiliari ed assicurativi) e tramite il tipo di regolamentazione entro cui opera lo stesso sistema (ad

esempio il rischio di conflitto di interessi dipende anche dal complesso dei «divieti» posti all’operare degli intermediari, dal grado di coercizione e dalla estensione dei controlli di trasparenza e degli obblighi di comunicazione delle informazioni rilevanti). E poi anche vero che lo stesso sistema finanziario può offrire modi di assicurarsi contro i rischi (ridistribuendoli) dei movimenti dei tassi di cambio e d’in-

teresse organizzando i mercati dei futures e quelli a termine. La ricerca, dunque, di una combinazione ottimale tra competizione ed efficienza dei mercati, protezione dei pre86

statori di fondi, sicurezza e garanzia dei contratti, prevenzione dei conflitti di interesse e della eccessiva concentrazione, così come della concorrenza sleale pare dunque il compito che molti policy-makers si sono dati in diversi paesi ove si sono già sviluppati i mercati finanziari od ove si vorrebbe che si sviluppassero ulteriormente. Anche se, nell’opinione di un autorevole banchiere, «il dibattito su come meglio adattare l’attuale quadro giuridico e amministrativo connesso al sistema finanziario... troppo spesso (esso) sembra innescato da considerazioni interessate su chi vada spennato e chi possa invece arricchirsi a seguito delle modi-

fiche di cui si auspica l'introduzione» !.

E poi noto, infine, che l’esistenza di «mercati finanziari efficienti» costituisce un prerequisito al funzionamento ed alla trasmissione degli effetti delle politiche monetarie che i governi adottano nelle diverse fasi dell'andamento dell’economia. Anche per questo aspetto si spiega, dunque, l’interesse delle autorità di governo ad intervenire per definire struttura e regole di funzionamento dei mercati finanziari.

| mercati lavorano sempre al meglio? | conflitti di interessi

Dal punto di vista della riflessione teorica, è noto, l’at-

tività di regolamentazione dei mercati finanziari, dato il venir meno delle condizioni di efficienza, si colloca in quell’ampia zona delle politiche pubbliche tendenti a raggiungere posizioni di second best; ovvero tendenti a condizionare indirettamente il comportamento degli operatori economici.

Su questo tema, è risaputo, la letteratura è di dimensioni sconfinate. Ci limiteremo, pertanto, a pochi, ma signifi-

cativi riferimenti. Ad esempio, James Tobin, nel maggio del 1984, iniziava la Fred Hirsch Memorial Lecture! ricor-

dando che «Fred Hirsch... non era disposto ad accettare sulla base della sola fede o dei principii che i “mercati” lavorino sempre per il meglio, o a criticare le distorsioni presenti solo negli interventi e nelle regolazioni dei governi. Non aveva, tuttavia, neppure l’illusione che anche i legislatori e le burocrazie lavorino per il meglio». Nella stessa occasione e con lo stesso spirito di Fred Hirsch, J. Tobin illu87

strava anche la sua visione assai scettica sulla efficienza delle istituzioni e dei mercati finanziari. In particolare, a proposito di ciò che chiamava la efficienza funzionale (ovvero, l'efficienza con cui le istituzioni finanziarie producono i servizi finanziari per l’intera economia)

osservava

che «i

nostri intermediari finanziari sono decentralizzati e tra di loro concorrenti. Ma essi difficilmente corrispondono al modello della pura concorrenza dei libri di testo, ove molte imprese troppo piccole per influenzare i prezzi di vendita gareggiano tra di loro nell’offerta di prodotti omogenei. Il modello applicabile è quello fornito cinquant’anni orsono da Edward Chamberlin, quello della concorrenza monopolistica» (p. 13). E poi vero, osservava infine, che «il processo di deregolamentazione non dovrebbe essere considerato né come applicazione di routine della filosofia del libero mercato, né come accordo tra interessi settoriali tra loro in conflitto. Esso dovrebbe, invece, venire guidato da una

equilibrata e pragmatica considerazione di ciò che si può ragionevolmente attendere dal sistema finanziario ed a quali costi sociali... Io temo, come aveva già visto Keynes ai suoi tempi, che i vantaggi della liquidità e della negoziabilità degli strumenti finanziari si ottengono a costo di facilitare\una speculazione a tutto campo che è miope ed inefficiente» (pp. 14-15).

Anche i recenti sviluppi dell'economia dell’informazione hanno offerto una nuova ottica con cui giudicare l’efficienza dei mercati finanziari. Infatti, «un’altra causa di fal-

limento del mercato è riconducibile alle difficoltà logiche connesse alla estensione della teoria dell’equilibrio economico generale ad un contesto in cui le decisioni sono prese in condizioni di incertezza. Il fallimento del mercato, da

questo punto di vista, è originato dal fatto che nel mondo reale non esiste un insieme completo di mercati futuri — cioè mercati in cui si possono acquistare, pagando oggi, beni che verranno ad esistenza in tempi futuri — e di mercati “contingenti” — cioè mercati in cui al pagamento istantaneo fa riscontro la consegna eventuale di beni, eventuale

perché subordinata al verificarsi di un determinato eventop ti

Paiono,

invero, queste le caratteristiche

tipiche dei

mercati finanziari soprattutto per il fatto che tali mercati 88

sono dominati dalla presenza e dagli effetti del fenomeno dell’uso esclusivo di informazioni che dovrebbero essere di

pubblico

dominio

(insider trading)

e delle «informazioni

asimmetriche»: nel senso che i prestatori di fondi che accedono ai mercati finanziari dispongono, di norma, di una quantità di informazioni assai minore di quella posseduta, ad esempio, da chi lancia un’offerta pubblica di acquisto in borsa delle azioni di una data «società obiettivo» !8 o dall’intermediario

finanziario !. In quest’ultimo caso l’in-

termediario può sfruttare questo vantaggio nel momento in cui tratta con il prestatore di fondi e dare vita, in tal modo, alla nota situazione del «conflitto di interessi» tra se stesso ed il prestatore. Come ha ricordato di recente anche J.E. Stiglitz, si tratta di quei casi in cui un individuo tenta di indurre un altro individuo a comportarsi nel proprio interesse (sono questi i temi noti come il «problema del principal-agent»). L’intermediario (agente) può dunque sfruttare questo vantaggio nel momento in cui tratta con il prestatore di fondi (principale).

Il funzionamento dei mercati finanziari, quale nel concreto possiamo osservare, può dunque non garantire che le informazioni significative fluiscano, tutte, tra gli operatori.

In particolare, da quando gli intermediari hanno cessato di essere «puri intermediari» per conto della clientela (broker)

ed hanno assunto la veste di operatori in proprio che gestiscono un proprio portafoglio titoli (jobber o dealer) la volontà di massimizzazione dei loro profitti e del valore capitale del loro portafoglio può comportare il sorgere delle classiche situazioni di conflitto di interessi che, di norma,

la parte più debole del contratto non percepisce, ma subisce. Ma se tale conflitto ha come risultato (come di norma ha) che il prestatore di fondi riceve (su qualche componente del proprio portafoglio) un rendimento inferiore a quello atteso (o a quello che avrebbe altrimenti avuto in presenza di un intermediario «puro») è come se tale rendimento fosse gravato da un’imposta speciale, oppure è come se il prestatore di fondi soffrisse di «illusione fiscale». Ma nell’un caso, come nell’altro, viene meno la condizione

dell’eguaglianza dei rendimenti netti delle diverse attività 89

finanziarie. Si avranno, dunque, ulteriori variazioni nelle scelte allocative del risparmio finanziario. La presenza, poi, di un intermediario che operi con un proprio portafoglio pone anche il problema di quale soluzione dare al riassorbimento delle perdite qualora le decisioni di accumulazione reale (di cui gli intermediari hanno

ricercato il finanziamento) risultino errate. Infatti, tale onere deve essere posto a carico esclusivamente dei presta-

tori dei fondi, oppure delle imprese che hanno ricevuto il finanziamento, oppure dello Stato (qualora sia indotto ad intervenire) o anche a carico dell’intermediario che abbia

fatto sorgere il conflitto d’interessi? Invero, leggere per il caso inglese: «gli “investment “unit trusts” sono di solito amministrati da house”, che può avere la tentazione di usare

come si può trusts” e gli una “issuing il “trust” co-

me “pattumiera”. Le “clearing banks”, che forniscono servizi di consulenza e di gestione all’attività di investimento e nello stesso tempo curano la sottoscrizione di nuove emissioni; sono esposte al sospetto di fornire consigli non imparziali... Neppure le società di brokeraggio sono immuni dal sospetto di conflitto d’interessi»?!. Detto con altre parole, «vi è il sottile pericolo che gli sviluppi di cui siamo testimoni... vengano rinforzati dal credere... che abbiamo un sistema finanziario in cui anche solo pochi partecipanti sembrano ritenere che i comportamenti standard cominciano con la massimizzazione dei profitti e finiscono con la socializzazione delle perdite» ?2. Infine, si deve ricordare che le istituzioni finanziarie

che dispongono di ampi portafogli costituiti da titoli collocabili immediatamente sul mercato possono manovrare questi ultimi in grandi quantità al fine di massimizzare continuamente il valore di mercato dei loro portafogli. Ma ciò può portare ad ampie fluttuazioni nei prezzi di tali attivi finanziari, più grandi di quelle che sarebbero giustificate dall'andamento dei fattori economici di base che sostengono l’andamento reale di tali titoli. Ma fluttuazioni di questo tipo distorcono le informazioni e fanno sorgere tipi di rischio non previsti da investitori e da debitori. Inoltre, la massimizzazione immediata del valore di merca-

to del portafoglio titoli di tali istituzioni può portare alla indisponibilità a finanziare le imprese più rischiose ed i 90

progetti di investimento di tipo strutturale e di lungo periodo ?.. Il venir meno, dunque, sui mercati finanziari delle condizioni di efficienza, spiega l’intervento pubblico come forma di correzione delle distorsioni che provengono dai mer-

cati stessi. Infatti, «nel mercato mobiliare l’incertezza verte

principalmente sul contenuto del “bene” scambiato, e questo spiega perché l’abbondanza e la controllabilità delle informazioni sugli enti (che nel caso dei titoli azionari determinano il contenuto dei valori) non costituisca un’istanza di ordine moralistico, ma il pre-requisito del funzionamento del mercato tanto da caratterizzare l’evoluzione storica della security economy» ?4. Nel caso specifico è l’attività di regolamentazione dei mercati finanziari prodotta dai pubblici poteri quella che tenta di supplire a ciò che i «mercati» non offrono spontaneamente. E così, ad esempio, che il già ricordato Task Group? incaricato di rivedere il sistema federale di regolamentazione dei servizi finanziari, dopo avere ribadito che «il mercato finanziario americano è il sistema nervoso centrale dell'economia», formula alcune racco-

mandazioni al fine di migliorare la sicurezza e la equità del funzionamento

del mercato, di accrescere la tutela dei ri-

sparmiatori, di meglio sviluppare l’efficienza e la concorrenza tra gli operatori finanziari.

Per quanto riguarda, in particolare, la difesa del prestatore di fondi (o del «consumatore» di prodotti finanziari) il

citato Task Group osserva che tale difesa «è particolarmente importante nei mercati meno regolati per il fatto che vi è su di questi una più grande varietà di prodotti finanziari disponibili per il consumatore di quanto non accada in condizioni di più rigida regolamentazione. In assenza di una azione governativa tesa alla “standardizzazione” dei prodotti finanziari od a porre limiti ai livelli dei tassi d’interesse, la piena ed accurata trasparenza dei prezzi e delle condizioni specifiche dei diversi prodotti finanziari diviene ancora più importante in un mercato meno

regolamentato di

quanto non sia richiesto per un mercato più regolato dalle leggi. Il mantenimento della stabilità finanziaria è, natural. mente, la forma più importante di difesa del consumatore. Ma anche il rafforzamento dei contratti e la prevenzione della frode costituiscono tradizionali obiettivi della regolaDi

mentazione pubblica. La richiesta della piena trasparenza deve consentire al consumatore di avere tutte le informazioni di cui ha bisogno per adottare delle appropriate decisioni finanziarie e, per questa via, si rafforza anche il meccanismo di mercato» °°.

Un breve «giro» nel passato. Tutti fanno tutto

Purtroppo, quando ci si muove nel campo della regolamentazione dei mercati finanziari, non si può dimenticare che i requisiti indispensabili dei sistemi finanziari (la stabilità finanziaria, l’efficienza operativa e l’efficienza allocativa), affinché questi possano svolgere adeguatamente le proprie funzioni, non appartengono ad una ed una sola struttura istituzionale e finanziaria”. Invero, «sarebbe assai uti-

le per le ricerche empiriche così come per se gli studiosi di teoria bancaria fossero in care un insieme generale di criteri in base l'efficienza di un sistema. Sfortunatamente

la classe politica grado di specifiai quali valutare essi non lo han-

no ancora fatto; forse essi non possono farlo perché è probabile che economie che si trovano in differenti stadi di sviluppo — o diverse sotto altri aspetti — impongano vin-

coli differenti sui loro sistemi bancari, ed abbiano quindi diversi criteri di efficienza» 28. Infatti, il confronto tra esperienze condotte in paesi diversi mostra come a scelte che hanno concentrato in mano alle banche oltre che la funzione creditizia anche l’intermediazione mobiliare (è il caso della Germania ove si è istituzionalizzato il ruolo della cosiddetta banca mista), sono state contrapposte altre scelte (è il caso degli Usa e del Giappone) che sanciscono la separazione della competenza sia sui singoli mercati (mobiliari e creditizi), sia per gli obiettivi da perseguire ??. Analogamente, mentre in alcuni paesi (è il caso della Gran Bretagna) la tutela dell’investitore dipende da un sistema fondato sull’autodisciplina dei professionisti e sull’autogoverno degli operatori che agiscono entro uno schema legale, in altri paesi (è il caso degli Usa) si è preferito fare più affidamento ad una pluralità di autorità di vigilanza con competenze se92

parate in ragione dei singoli mercati (mobiliare, creditizio, assicurativo). Per quanto riguarda l’Italia, è noto che manca una legislazione che regolamenti il mercato mobiliare così come la legge bancaria del 1936 regolamenta il mercato creditizio. E anche noto che la Banca d’Italia sostiene con determinazione il proprio orientamento a favore di una evoluzione dei mercati

finanziari

verso

uno

schema

(definito come

«gruppo creditizio polifunzionale») molto simile a quello della «banca mista» che opera su tutti e tre i segmenti del mercato finanziario 5, Ma prima di procedere all’esame di ciò che si potrebbe (per usare l’espressione di Tobin) «ragionevolmente attendere» dai nostri policy-makers, in mancanza, come detto, di una stretta correlazione tra i requisiti dei mercati finanziari e la struttura istituzionale, diviene assai rilevante il preliminare riconoscimento di ciò che è avvenuto nella realtà dei mercati finanziari italiani proprio negli anni in cui si è maggiormente sviluppato il cosiddetto processo di «innovazione finanziaria». Così come la crisi della banca mista in Italia aprì un vuoto nel meccanismo di finanziamento delle imprese e «produsse» la legge bancaria del 1936 e la creazione degli istituti di credito speciale, appositamente orientati verso l’intermediazione oltre il breve termine, così la lunga fase di instabilità economica iniziata negli anni settanta ha determinato un vasto processo di innovazione finanziaria. Questo, infatti, va interpretato come la risposta della «finanza»

all’inflazione,

alle crisi petrolifere, alle mutazioni

dei prezzi relativi e nei terms of trade, alle oscillazioni dei cambi, ai debiti esteri, alle innovazioni tecnologiche ed alle

mutate condizioni della distribuzione del reddito ?. La combinazione di tutto ciò ha accresciuto i rischi per gli operatori ed introdotto «nuovi rischi» di cambio (altamente variabile), di tassi d’interesse (variabili ed elevati) e di di-

sponibilità di credito bancario (limiti agli impieghi per il governo della politica monetaria). Per effetto delle innovazioni finanziarie tese ad affrontare i nuovi rischi, la quota della intermediazione bancaria (misurata dalla consistenza dei depositi rispetto alla ricchezza finanziaria complessiva, escluse le azioni) che alla fine del passato decennio si aggiDo

rava sul 67%, tra il 1982 ed il 1987 essa si è ridotta (nelle

stime della Banca d’Italia) al 56,5 ed al 42% rispettivamente. Insieme a ciò, sono emersi e si sono affermati nuovi

intermediari e nuovi prodotti finanziari che offrono «combinazioni di rischi diverse da quelle tradizionalmente riunite in un’unica attività finanziaria... Gran parte delle recenti innovazioni dell’industria finanziaria può essere identificata nel suddetto processo di scomposizione e/o ricomposizione dei rischi, che sono immanenti al trasposto della ricchezza nel tempo. Esse hanno lo scopo di produrre strumenti finanziari ed attività di intermediazione adatti a soddisfare al meglio i gusti di componenti o segmenti del mercato» ?7.

Ma anche per effetto di tutto ciò, come si vedrà meglio in seguito, i mercati finanziari devono oggi affrontare ulteriori nuovi rischi associati alla presenza di intermediari finanziari che, non più intermediari puri, operano per estrarre il massimo di profitto dalla gestione di un proprio portafoglio titoli: il rischio di frode e quello del conflitto d’interessi paiono fattispecie di rischio su cui la riflessione collettiva non sembra, tuttavia, ancora sufficientemente avviata.

Per meglio comprendere ciò che è avvenuto in Italia negli ultimi anni, si adotta qui l’ottica dei mercati per tentare di individuare come gli intermediari (vecchi e nuovi) agiscano sui medesimi (mercato mobiliare, creditizio ed assicu-

rativo). Ciò, tra l’altro, consente di osservare meglio il risparmiatore che, muovendosi secondo una logica di diversificazione delle proprie scelte finanziarie, tende sempre più ad operare su tutti e tre i mercati appena indicati. Da parte loro, poi, molti intermediari agiscono come «intermediari

polifunzionali» operando anch’essi costantemente

e con-

temporaneamente sui tre mercati.

Le tabelle 6 e 7 precedentemente richiamate mostrano sia (tab. 6) come le famiglie italiane abbiano sostituito e/o affiancato alla tradizionale ricchezza reale (l’abitazione)

scelte di tipo finanziario, sia come tra queste ultime svolgano un ruolo assai importante i titoli emessi dal settore pubblico per la copertura dei propri fabbisogni, oltre che la sottoscrizione delle quote di partecipazione ai fondi comuni e l'acquisto di azioni. 94

Se la permeabilità dei diversi mercati (all’interno del più generale mercato finanziario) tende via via ad aumentare con l’evolversi delle tecnologie e con l’invenzione di «prodotti di confine» (di prodotti finanziari, cioè, che han-

no le caratteristiche di più prodotti negoziati su diversi mercati), determinando in tal modo una maggiore mobilità del risparmiatore e dei capitali, è anche vero che tale fenomeno aumenta sia il rischio di instabilità complessiva del sistema (tanto che vi è chi ha proposto di mettere dei «granelli di sabbia»? negli ingranaggi dei mercati), sia quello (nelle valutazioni degli intermediari) di perdere rapidamente quote di mercato. Così, al fine del mantenimento o dell’allargamento delle quote di mercato e per il raggiungimento di possibili economie di scala, gli intermediari finanziari «tendono di fatto ad eludere le tradizionali regole di vigilanza basate sulla specializzazione funzionale e sul divieto dunque ad effettuare determinate attività negoziali e ad occupare terreni limitrofi. Si assiste così al sorgere di attività che sono al limite fra il settore creditizio e quello mobiliare, fra quello mobiliare e quello assicurativo e fra quest’ultimo e quello creditizio» *. In questo contesto è da registrare, tuttavia, il tentativo degli intermediari finanziari di ridurre la concorrenza tra di loro onde non pregiudicare le proprie quote di mercato. Di norma, ciò viene perseguito tramite la richiesta di una regolamentazione (legislativa o amministrativa) che conferisca ad una data figura di intermediario «una sorta di monopolio con riferimento alla passività che è autorizzato ad emettere e/o all’attività finanziaria che è abilitato a svolgere... (ma) se diversi tipi di intermediari finanziari emettono

passività o esercitano attività tra le quali esiste scarsa sostituibilità, la concorrenza potrà essere assicurata soltanto all’interno di ciascun segmento di mercato, definito con riferimento alla passività o all’attività, dalla presenza di un certo numero di intermediari; ciò comporta, con ogni probabilità, una sovracapacità per il sistema finanziario nel suo complesso» ??. Un esempio di quanto appena detto si ritrova nella vicenda relativa all’introduzione delle rzerchant banks nell’ordinamento italiano. La richiesta del Tesoro di regolamentare con legge questo settore (in presenza di analoghe atti95

vità svolte da lungo tempo oltre che da società di emanazione di istituti di credito speciale, anche da parte di privati imprenditori che rischiano solo dei mezzi propri) aveva il sapore di un tentativo di «delegittimare» l’esistente per consacrare tale attività nelle mani delle future società di emanazione bancaria. Opportunamente, invece, la scelta della via della regolamentazione amministrativa (con delibera del Cicr del 6 febbraio 1987) che può riguardare solo

le società di emanazione bancaria, non lede un diritto ad

esercitare (in questo settore) la concorrenza verso le banche da parte di privati imprenditori che intendano assumere i relativi rischi. Ma così, forse, si è generato un eccesso di offerta”. Preoccupazioni analoghe nascono con riferimento alla nuova normativa che regola il «mercato secondario» dei titoli di stato. Infatti, come si legge nella relazione di accompagnamento al provvedimento, «giova inoltre precisare che il mercato secondario in questione si deve intendere, sia nella prima fase, sia in quella definitiva, come mercato all’ingrosso aperto a un numero circoscritto di partecipanti».

Con il che è facile prevedere la formazione di un oligopolio (costituito dai primzary dealers che, aderendo ad apposita convenzione, si impegnano a formulare in via continuativa offerte di acquisto e di vendita per almeno cinque specie di titoli di stato) protetto dalla legge, assistito finanziariamente dalla Banca d’Italia (che potrebbe concedere finanziamenti ai prirzary dealers per esigenze di liquidità) ed autogestito dal sistema bancario ed assicurativo. La ricerca di una

maggiore concorrenza tra gli operatori viene dunque di nuovo rinviata ad altra occasione!

Il segmento nali

creditizio, quello mobiliare e gli operatori polifunzio-

Operano sul «mercato creditizio» oltre agli istituti di credito (aziende di credito ordinario ed istituti di credito

speciale) anche le società di leasing, di factoring e di credito al consumo. Operano dunque società che assumono la veste di intermediari creditizi bancari e non bancari, ma 96

mentre i primi sono regolati dalla legge bancaria del 1936, per i secondi non esiste alcuna forma di regolamentazione. In via generale si può osservare che gli intermediari creditizi non bancari effettuano la loro provvista sul mercato del denaro e trasformano i fondi così raccolti in operazioni di finanziamento. Essi si differenziano dunque dalle banche sia perché non effettuano la raccolta del risparmio fra il pubblico (infatti, il loro principale fornitore è il sistema bancario), sia per le tecniche di finanziamento utilizzate (leasing, factoring, credito al consumo). Secondo le stime della Banca d’Italia, l’attività di lea-

sing ha continuato a svilupparsi ad un tasso assai elevato raggiungendo nel 1987 l'ammontare di 10.600 miliardi di lire. Tale attività viene svolta in Italia da alcune centinaia di società di cui solo poche decine (54 nel 1986) sono ema-

nazione di grandi banche e/o primari gruppi finanziari e industriali e fanno parte dell’Associazione bancaria italiana (Abi). Fino ad oggi, in assenza di una normativa civilistica

dello strumento di finanziamento, il settore si basa su di

una sentenza della Corte di Cassazione (n. 3023 dell’8 maggio 1986) che definisce il complesso dei rapporti società di leasing/utente sulla base della prassi che si è realizzata a tutt'oggi. Vi è anche da ricordare che, fino all’entrata in vigore del nuovo Testo Unico delle imposte dirette (1° gennaio 1988), vi è stato un forte incentivo fiscale alla operatività delle società di leasing. Infatti, è solo con la nuova normativa che si consente la deduzione dei canoni solo a condizione che la durata del contratto non sia inferiore alla metà del periodo di ammortamento corrispondente al coefficiente stabilito con decreto del Ministro della finanze (art. 50, comma 2). In base a queste nuove disposizioni molti contratti di leasing mobiliare hanno presumibilmente cessato di godere dell’incentivo fiscale.

Sul finire del 1987 l'ammontare di finanziamenti erogati dalle società di factoring, secondo le stime della Banca

d’Italia, ammontavano a circa 14.300 miliardi. Esistono sul

mercato italiano quasi 60 società di factoring (di cui non meno di quaranta risultano regolarmente operanti) all’infuori di un insieme di regole e di controlli (la legge sul factoring giace alla Camera nel testo approvato dal Senato). 9

Poiché leasing e factoring sono attività largamente sostitutive e integrative di operazioni proprie degli istituti mobiliari e delle aziende di credito ordinario, si comprende la preoccupazione della Banca d’Italia quando afferma che «sino a quando la loro attività sarà finanziata da enti creditizi, il controllo degli equilibri generali dei flussi finanziari può venire indirettamente dai controlli a monte degli enti erogatori. Ma, con il raggiungimento di dimensioni complessive rilevanti delle attività in questione, si pone evidentemente il problema, indipendentemente dalla natura delle operazioni, dell’impossibilità di eseguire in questo comparto le stesse verifiche effettuate nel comparto bancario, con la conseguente impossibilità di assicurare la stabilità complessiva del sistema»;

Si scorge qui l’abituale preoccupazione della Banca d’Italia per il controllo delle «quantità» dei flussi finanziari. Invero, in questi settori, i maggiori problemi sembrano, in prospettiva, riguardare principalmente: 1) la possibilità di accedere a canali di finanziamento diversi da quelli bancari (ad esempio emettendo obbligazioni per un multiplo del capitale sociale in-deroga, dunque, alle norme oggi vigenti); 2) i rapporti di gruppo che potrebbero sorgere tra società di emanazione non bancaria nel caso in cui queste potessero operare la raccolta tra il pubblico per finanziare la società «capo gruppo». Mentre nel secondo caso potrebbero sorgere notevoli rischi di conflitto d’interesse tra intermediario e cliente, il primo caso pare più un problema di insorgenza di rischio di instabilità finanziaria dell’intermediario medesimo. A fine del 1987 il credito al consumo concesso al settore delle famiglie da organismi (società finanziarie) diversi dalle

banche è stato stimato nell’ordine di 5.300 miliardi, prevalentemente a fronte di vendite a rate di beni di consumo durevoli. A loro volta, le aziende di credito mostrano di avere

erogato credito al consumo per un ammontare di quasi 11.400 miliardi. La dimensione assai modesta del fenomeno non pare rilevante ai fini della stabilità finanziaria. Problemi squisitamente microeconomici possono invece sorgere con

riferimento alla «trasparenza» ed al rischio di frode delle operazioni poste in essere soprattutto per quanto riguarda le condizioni e le garanzie richieste ai soggetti che prendono a prestito. 98

Operano sul «mercato mobiliare» una molteplicità di intermediari (di origine bancaria e non bancaria) che costituiscono un insieme vastissimo e di non sempre facile classificazione. Infatti, mentre per lunghi tempi in Italia la funzione di intermediario mobiliare è stata svolta quasi esclusivamente dalle banche (con l’eccezione degli agenti di cambio), da alcuni anni sono sorti ed operano intermediari mobiliari di origine non bancaria che svolgono compiti assai simili a quelli svolti sui mercati anglosassoni da analoghi operatori. Il sistema bancario continua, tuttavia, a svolgere (direttamente o tramite intermediari ad esso strettamente collegati) un ruolo assolutamente dominante nel campo della intermediazione mobiliare. Infatti, secondo le stime della

Banca d’Italia, se si tiene conto, oltre che della raccolta di

mezzi fiduciari, dell’attività di negoziazione e custodia di titoli, la quota di risparmio gestita direttamente o indirettamente dal sistema bancario risulta, negli ultimi anni, stabile intorno al 90%. Anche per effetto di ciò, i profitti che il sistema bancario perde a fronte della disintermediazione vengono compensati nel settore della negoziazione dei titoli. Per ragionare correttamente sul mercato mobiliare si deve ricordare che, a differenza di quanto accade sui mercati creditizi (in cui gli intermediari trasformano i fondi della raccolta in impieghi propri ed hanno l’obbligo di rimborsare il valore nominale della raccolta stessa), nel merca-

to mobiliare il risparmiatore deve confrontarsi con i rischi di un rapporto che si instaura sia con le imprese di cui vuole acquistare i titoli, sia con gli intermediari per via dei loro comportamenti nei suoi confronti, sia con le strutture organizzative di funzionamento per le modalità operative che gli vengono offerte. E da condividere dunque la preoccupazione per cui la compresenza di questi tre confronti genera per il risparmiatore rischi particolari che possono richiedere una apposita tutela e, dunque, legittimano un intervento pubblico. In particolare, l’esperienza maturata da più lungo tempo nei mercati mobiliari di altri paesi individua soprattutto il sorgere di nuovi rischi nei rapporti con gli intermediari; e cioè in quelli della loro instabilità patrimoniale, del

conflitto d’interesse fra intermediario e cliente, della frode

degli intermediari a danno degli investitori/clienti”.

DO

Come è stato acutamente osservato, lo sviluppo di intermediari polifunzionali «non accompagnato dalla formazione di specifiche regole di comportamento, ha esso pure concorso

a creare un distacco tra previsione normativa e

realtà del mercato e ad alimentare le occasioni di potenziale conflitto di interessi tra intermediario e cliente e le zone di opacità del mercato mobiliare nel suo complesso» ‘°. Ciò premesso si osserva che l’esame delle disposizioni di legge che definiscono l’attuale ordinamento del mercato mobiliare italiano consente di individuare le seguenti categorie di intermediari mobiliari: 1) gli agenti di cambio; 2) altri operatori ammessi nei locali di borsa (banche e commissionarie); 3) i fondi comuni di investimento; 4) le reti

commerciali di vendita. Ma accanto a queste categorie di intermediari opera una estesa gamma di società che, volta per volta, ricoprono

tutti i ruoli possibili di una attività di intermediazione in titoli e che non sono assoggettate dalla legge ad alcuna regolamentazione. Fra queste assumono una rilevanza del tutto particolare quelle società che svolgono l’attività di «gestione dei patrimoni». Anche per l’analisi del mercato mobiliare può essere utile prendere le mosse dalla presenza delle banche su tale mercato. Queste, infatti, negli ultimi anni hanno iniziato a

sviluppare, sistematicamente, l’attività di gestione fiduciaria avente per oggetto titoli pubblici e privati, anche azioni, estendendola ad ampie fasce della clientela. Nel corso di tale attività le aziende di credito svolgono sia attività di negoziazione — come puri mediatori (brokers) o in proprio sul mercato secondario (dealers) e su quello primario (underwriters) — sia attività di gestione per l'esecuzione di ordini e per l’effettuazione di scelte d’investimento: Anche per le aziende di credito, dunque, si ha «compresenza, nello stesso intermediario o nelle unità che compongono un “conglomerato” finanziario, delle funzioni di capofila o undenvriter in consorzi di collocamento, di gestore di fondi comuni o di mandatario di gestioni collettive di patrimoni mobiliari, di consulente finanziario e di esecutore di ordini di compravendita di titoli quotati. Tra queste funzioni sussistono linee di confine o di demarcazione abbastanza chiaramente identificabili sul piano logico; nella realtà pratica, e soprat100

tutto in situazioni tecniche o di mercato difficili, esse ten-

dono però a diventare piuttosto esili e rischiano quindi di essere varcate a danno del contraente più debole, che in genere non è neppure pienamente a conoscenza della polifunzionalità dell’intermediario e dei rischi che gliene possono eventualmente derivare» 4!. Per quanto riguarda in particolare l’attività di negoziazione dei titoli, occorre ricordare come la maggior quota di essa (circa il 70%) avvenga al di fuori della borsa ufficiale (che è il solo segmento regolato del mercato mobiliare) in quanto avviene nei cosiddetti «borsini» delle aziende di credito. Poiché queste si limitano a comunicare al mercato ufficiale il «saldo» delle operazioni della giornata e non gli ammontari effettivamente negoziati, al mercato stesso (ed ai risparmiatori in genere) viene sottratto un importante

flusso di informazioni. Da ciò discende la «questione assai dibattuta... della significatività economica dei prezzi spuntati in borsa, quando, come nel nostro paese, sono così rile-

vanti gli scambi al di fuori di essa... Gli inconvenienti di un tale assetto sono evidenti: quanto minore è la quantità dei titoli che passa attraverso la borsa, tanto più agevole diviene condizionarne i corsi con l’impiego di mezzi ridotti. Il danno che ne può risultare è particolarmente grave, considerato il ruolo “ufficiale” e dunque la rilevanza esterna dei prezzi determinati in borsa» ‘. Ma un mercato azionario di piccole dimensioni genera la cosiddetta «trappola dimensionale» per cui tende a mantenersi in equilibrio attorno a quella dimensione assai piccola. Come è stato mostrato ‘, ciò avviene per il fatto che: 4) i prezzi generati su questi mercati sono assai volatili in quanto risentono dell’impatto di singole operazioni di acquisto o di vendita. Ciò genera rischi addizionali per gli investitori e può scoraggiare i potenziali «entranti» dall’entrare nel mercato, contribuendo in tal modo a mantenere il mercato nella «trappola» di un equilibrio caratterizzato da un piccolo volume di scambi e da una alta volatilità dei

prezzi; 4) la capacità di assorbimento di un mercato di pic-

cole dimensioni è assai modesta. Ciò può spingere molti investitori di grande dimensione a disertare il mercato ed a cercare altre opportunità di compra-vendita al di fuori del mercato stesso. Ma se i grandi operatori disertano il merca101

to a causa della supposizione che la sua capacità di assorbimento è troppo modesta, contribuiscono per questa via a ridurre il volume degli scambi ed a convalidare l'iniziale supposizione. In tal modo il mercato rimane rinchiuso nella trappola dei pochi scambi e della esigua capacitàdi assorbimento; c) il contenuto

di informazioni che si genera sui

mercati di piccole dimensioni è assai modesto nel senso che i prezzi delle azioni trattate non sono indicativi dei dividendi futuri. Così al rischio della variabilità dei dividendi si deve aggiungere l’altro rischio legato alla non affidabilità dei prezzi correnti quali indicatori dei dividendi futuri. Nel caso specifico dell’Italia, contribuisce a mantenere assai modesto il volume degli scambi effettuati in borsa anche il fatto che, come abbiamo già ricordato, non vi sia l'obbligo (né la consuetudine) della concentrazione degli scambi in borsa, ma che questi possano avvenire nei «borsini» delle aziende di credito. Ciò non può che accentuare i rischi di cui abbiamo appena fatto menzione anche per il fatto che-mentre la legge prescrive per gli agenti di cambio che l’attività di negoziazione in borsa sia da loro svolta in qualità di puri intermediari (vi è il divieto, sancito per legge —

ma in realtà non sappiamo quanto rispettato —, di

svolgere una attività in proprio), nel caso dell’attività di negoziazione svolta dalle aziende di credito tale divieto non esiste in quanto tale attività non è regolamentata da alcuna norma. Esse, dunque, possono acquistare in proprio per ri-

vendere ai propri clienti (solo la loro attività di partecipazione ai sindacati di controllo e garanzia è controllata dalla Banca d’Italia).

Tale vuoto legislativo può avere incentivato le aziende di credito a svolgere l’attività di gestione fiduciaria di patrimoni mobiliari che, secondo le stime della Banca d’Ita-

lia, a fine 1986 amministravano circa 43 mila miliardi (su di un totale di 47 mila miliardi di risparmio affluito a questo settore) e circa 52 mila miliardi alla fine del primo tri-

mestre del 1988. ticolarmente alta amministrato, va supera l’impegno

Sebbene la quota delle azioni non sia par(circa 1'11-12%) sul totale del patrimonio comunque notato che la sua dimensione che le istituzioni creditizie hanno assunto

nel 1986 a garanzia del collocamento di azioni (circa 3.800 miliardi). E poiché le aziende di credito hanno prestato cir-

102

ca il 60% del totale delle garanzie concesse dalle istituzioni creditizie appare evidente come queste ultime abbiano con

decisione assunto il ruolo di intermediario polifunzionale svolgendo funzioni sia di dealer, sia di undenwriter, sia di gestore di patrimoni. Ma allora, «occorrono regole che prevengano o, se ciò non sia possibile, rendano esplicite situazioni di conflitto di interesse: così, ad esempio, quando una banca esegue l’ordine del cliente vendendogli i titoli che trae dal proprio portafoglio; così ancora quando collochi nelle gestioni patrimoniali titoli di cui essa stessa cura il piazzamento» ‘5.

Operano poi a fianco delle aziende di credito molti soggetti non bancari. Alcuni di questi intermediari hanno optato, avendo assunto la veste giuridica di «società fiduciarie», per una scelta che li ha assoggettati ad una forma di controllo fondata su di una legislazione assai antica (legge 23 novembre 1938, n. 1966 e R.D. del 22 aprile 1940, n. 531) che le sottopone, singolarmente, alla vigilanza del Ministero dell’Industria invece che a quella del Ministero del Tesoro a cui dovrebbero, invece, essere immediatamente ri-

portate. Uno degli intrecci più inquietanti ai fini del sorgere dei rischi di instabilità,

insolvenza

e conflitti d’interesse

è

quello che può instaurarsi tra società fiduciarie e commissionarie di borsa. Queste ultime sono intermediari mobilia-

ri in quanto eseguono gli ordini di acquisto e di vendita di valori mobiliari provenienti dai risparmiatori. Ad esse, tuttavia, non è consentito partecipare alla contrattazione in borsa che è riservata agli agenti di cambio. E però vero che, come è stato autorevolmente osservato, «l’inadeguatezza del sistema normativo risulta in particolar modo avvertita per i commissionari di borsa, i soggetti, cioè, ammessi ad operare in appositi spazi riservati nei locali delle borse valori, la cui importanza è andata nel tempo ad accrescersi progressivamente,

al punto da rappresentare ormai

una delle principali componenti che concorrono alla intermediazione in valori mobiliari» ‘. Poiché il commissionario può operare in proprio (e, quindi, può eseguire gli ordini del cliente sia passando l’ordine al proprio agente di cambio, oppure comprando e vendendo i valori richiesti o offerti attraverso il proprio porta103

foglio) si può verificare una grave situazione di conflitto quando l’interesse dell’intermediario alla «redditività» del proprio portafoglio prevale sull’interesse del cliente a vedere eseguito il proprio ordine nel miglior modo possibile. E poiché i commissionari di borsa possono partecipare alla creazione di società fiduciarie, può aggravarsi il rischio di conflitto d’interesse: da un lato il commissionario ha il soggetto che gli permette di gestire i beni conferiti dai clienti (la società fiduciaria) e, dall’altro, la società fiduciaria ha il proprio soggetto negoziatore attraverso cui passare gli ordini (la commissionaria di borsa).

I «fondi comuni di investimento mobiliare», che rappresentano il mutamento più importante subìto dal sistema finanziario italiano a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, sono, come è noto, l’unico segmento del mercato

mobiliare regolato da apposita legge (n. 77 del 1983). E infatti questa la prima disciplina organica di intermediazione mobiliare istituzionalmente diversa da quella bancaria. È anche noto che tali fondi vengono prevalentemente gestiti direttamente o indirettamente dal sistema bancario (a fine 1986, la maggior parte dei 59 fondi comuni aveva una matrice bancaria: delle 38 società che li gestivano, infatti, 25 facevano capo ad un’azienda o ad un istituto di credito) ‘”. Non

è dunque irrealistico temere,

ad esempio,

che una

banca, non riuscendo a collocare senza perdite una emissione di azioni di una società cliente da essa curata, la collochi presso un fondo comune coilegato, determinando così una classica situazione di conflitto d’interessi. Infine, sul mercato mobiliare, opera una molteplicità di

«società finanziarie», ossia «delle società che raccolgono risparmio presso il pubblico attraverso l'emissione di azioni, ordinarie o di risparmio, ed obbligazioni, ordinarie e convertibili, e lo impiegano prevalentemente nella assunzione di partecipazioni sia in società quotate, sia in società non

quotate. L’esperienza ha individuato una molteplicità di contenuti all’interno di questa generale e generica categoria, ma i confini fra le varie sottospecie sono estremamente labili» ‘. Può quindi avvenire che attività di intermediazione ed attività di investimento non siano mantenute strettamente separate all’interno dello stesso gruppo finanziario e che, dunque, vengano meno i requisiti di autonomia gestio104

nale e di solidità patrimoniale che concorrono a ridurre i rischi per il risparmiatore. Così, per garantire che una società | esercente gestione fiduciaria goda della più totale indipendenza di azione rispetto al gruppo finanziario di cui eventualmente fa parte, è stato autorevolmente proposto ‘? che vi sia un obbligo di sottoscrivere un «protocollo di autono. mia». Analoga richiesta è stata fatta con riguardo alle società di assicurazione in quanto «il pericolo da evitare è quello del controllo della impresa di assicurazione da parte di un soggetto che ha attività e finalità diverse da quella di una gestione assicurativa (in quanto) non ci si può nascondere

che può esservi il pericolo di una utilizzazione delle risorse finanziarie dell’impresa di assicurazioni per finalità diverse da quelle di una corretta gestione delle risorse stesse» 70. La vicenda riguardante la regolamentazione del mercato secondario dei titoli di stato costituisce, purtroppo, una recente indicazione di quanto poco interessate siano le nostre autorità al fine di evitare il sorgere di nuove situazioni di conflitto d’interessi. Infatti, benché tale regolamentazione nascesse dalla constatazione che «per quanto riguarda, in particolare, il mercato secondario dei titoli di Stato esso risulta — per la componente quantitativamente prevalente che non passa attraverso la borsa — poco trasparente, in quanto mancano informazioni esaurienti sui prezzi praticati, e quindi anche poco competitivo», si deve constatare co-

me non si preveda alcuna innovazione per quanto riguarda il fatto che i prizzary dealers che gestiscono il mercato all’ingrosso dei titoli di stato sono «anche» intermediari per conto della clientela. Infatti, l’unica indicazione che viene for-

mulata in uno studio introduttivo (a cura di R.S. Masera e G. Vaciago) è quella che, dopo la fase di sperimentazione (prevista da metà maggio a fine settembre 1988) «i prizzary dealers attuino, fin dall’inizio della seconda fase, la distinzione contabile tra portafoglio di proprietà e portafoglio per intermediazione, al fine di consentire gli opportuni controlli». Siamo qui assai lontani da quel minimo di norme che sui mercati anglosassoni cercano di prevenire il sor-

gere delle situazioni di conflitto d’interessi. Ad esempio, è tradizione su questi mercati erigere, nel caso di intermediari polifunzionali, le «Chinese Walls» (barriere divisorie). Queste «sono già largamente usate dalle banche per separa105

re, mediante una diversa localizzazione o costituendo di-

stinte società le gestioni di patrimoni, le attività d’investimento e i finanziamenti all’industria; ma sono divenute più necessarie ora che banche e brokers operano in valori mobiliari»5. Si prevedono, poi, supervisioni interne, possibilità di denuncia da parte dei clienti, pubblicizzazione di tutti i dati utili ai clienti, applicazioni di norme tali per cui l’intermediario polifunzionale può attingere al proprio portafoglio, per vendere al cliente, solo nel caso in cui può dimostrare che il prezzo da lui praticato è il migliore che si può ottenere sul mercato, ecc.

Anche nel caso dei mercati finanziari francesi le autorità di quel paese si stanno muovendo con decisione nella direzione della prevenzione del sorgere di situazioni di conflitto di interessi. Preso atto, infatti, che lo sviluppo delle gestioni fiduciarie e l’esercizio simultaneo di più funzioni da parte degli intermediari finanziari (sia per conto dei clienti, sia per conto proprio) creano inevitabilmente il sorgere di situazioni di conflitto d’interessi la Commission des Opérations de Bourse (Cob), al fine di redigere un «codice

di deontologia professionale», ha incaricato un gruppo di lavoro di «esaminare i principi generali di deontologia applicabili a chi esercita attività finanziaria, imodi e le regole di condotta professionale necessari per prevenire e risolvere i conflitti d'interesse all’interno delle imprese che esercitano la funzione di intermediario finanziario, in particolare quando questi conflitti d’interessi attengono alle gestioni fiduciarie, così come le misure necessarie per precisare... il controllo delle operazioni personali effettuate dai collaboratori di tali imprese» ??.

Nuove rischi

regole per riportare un poco d’ordine a fronte dei nuovi

Le osservazioni precedentemente svolte possono essere riassunte come segue:

a) il settore delle aziende e degli istituti di credito, regolato dalla legge bancaria del 1936 per quanto riguarda l’attività creditizia, ha iniziato (a partire dalla metà degli 106

anni settanta) un profondo processo di diversificazione della propria attività offrendo nuovi servizi finanziari (anche creditizi)

e nuovi prodotti (in particolare sul mercato mobi-

liare). Tale diversificazione di attività (meglio, tale «polifunzionalità» di fatto), tuttavia, non si è accompagnata ad una regolamentazione (anche solo predisposta per via di codici di autodisciplina) che tenda a garantire la prevenzione del sorgere dei più tradizionali conflitti di interesse tra intermediario e parte contraente meno tutelata. Di recente, la Banca d’Italia ha ribadito il proprio orientamento verso uno schema di «banca mista», indicato al pari di un «gruppo creditizio polifunzionale», che oltre ad operare sul mercato mobiliare si espanda anche su quello assicurativo. In questo senso la nostra Banca centrale ha proposto di rivedere la normativa che regola la partecipazione (in misura rilevante) di banche in società di assicurazioni e che oggi è esclusa da una delibera del Cicr del 1981;

b) a fianco di soggetti controllati direttamente o indirettamente dal settore bancario si è avuto il proliferare di una miriade di soggetti che esercitano sia attività di gestione del risparmio, sia attività di negoziazione, sia, in alcuni casi, attività creditizia. Tali soggetti, con poche esclusioni,

non sono regolamentati da alcuna norma, né da codici di autodisciplina in un qualche modo rilevanti e vincolanti; c) sono state poste in essere nuove tecniche di collocamento di valori mobiliari che, tramite il sistema delle reti

di vendita cosiddetta «porta a porta», fanno concorrenza alla rete capillare degli sportelli bancari; d) sul mercato mobiliare, in particolare, l’unica nuova forma di intermediazione regolamentata è quella attuata tramite i fondi comuni d’investimento mobiliare. Di recente (febbraio

1987) sono

state regolate le attività di mer-

chant banking gestite da società di emanazione bancaria; e) tra fine ’87 e inizio ’88 le autorità di governo hanno voluto regolamentare il «mercato secondario» dei titoli di stato con prevalenti finalità di efficienza e di trasmissione degli indirizzi della politica monetaria. Quasi nessuna cura, invece, è stata posta al fine di prevenire il sorgere di situazioni di conflitto d’interessi (tra la banca che opera come dealer ed i suoi clienti) e per evitare il consolidarsi di un forte oligopolio su tale mercato. 107

Da quanto detto emerge anche che l’Italia ha cominciato a muoversi verso un assetto della propria economia che è «fortemente orientata verso il mercato mobiliare». In questa fase, le istituzioni finanziarie commerciano con propri portafogli e i rischi finanziari che circondano i diversi intermediari

e i diversi mercati

giocano un ruolo

sempre più rilevante nelle decisioni delle scelte allocative di portafoglio dei prestatori di fondi. È nella fase appena ricordata che assai rilevanti diventano le norme che regolano i diversi segmenti del mercato finanziario; nel senso che queste concorrono a determinare la distribuzione dei rischi tra chi vuole assumere il rischio (purché opportunamente informato) e chi, invece, desidera evitarlo. In questo senso il sistema delle norme che regola

i mercati finanziari può determinare rischi eccessivamente elevati o, al contrario, eccessivamente ridotti. E opportuno dunque che il «sistema delle regole» determini una situazione di rischio per il prestatore di fondi «mediana» o «normale». Infatti, se da un lato non pare opportuno aderire ad una visione che, considerando il prestatore di fondi ed il prenditore degni di particolare tutela, si muova al fine di determinare una situazione ove è quasi annullata la componente di rischio, dall’altro lato pare opportuno richiamare alcune caratteristiche del sistema italiano che paiono introdurre sui mercati finanziari un «eccesso di rischio». Dall'esame condotto in precedenza pare dunque di poter rilevare almeno che: 1) le informazioni di cui dispone l’investitore per operare scelte efficienti di portafoglio paiono alquanto limitate e, di norma, asimmetriche a danno del prestatore di fondi (i flussi informativi che vengono, ad esempio, dalla borsa valori paiono alquanto carenti); 2) la elevata probabilità del nascere di situazioni di conflitto d’interessi tra intermediario e cliente (non chiara-

mente esplicitate, né prevenute mediante un ben preciso elenco di divieti a cui l'intermediario deve sottoporsi) na-

scondono al mercato l’esistenza di rischi elevati, ma pure presenti; 3) il rischio di instabilità dell’intermediario (non preve-

nuta da appositi regolamenti) viene di norma nascosto al 108

prestatore di fondi che, pertanto, è indotto a non muoversi al fine di rendere minimo tale rischio (ad esempio, diversificando ulteriormente il proprio portafoglio); 4) la presenza di forti componenti oligopolistiche operanti sui mercati italiani fa cadere l’ipotesi di concorrenza perfetta in cui ogni intermediario è troppo piccolo per in-

fluenzare il sistema dei prezzi. Ciò mantiene, quanto meno, una eccessiva segmentazione dei mercati che soffoca l’efficienza complessiva del sistema. Qualche conclusione può essere tratta dalle osservazioni precedenti. In primo luogo che i mercati finanziari italiani soffrono ancora della mancanza della diffusione immediata

e tempestiva delle informazioni sui prezzi e sulle quantità e, ancora prima, sui «prezzi offerti» da ciascun intermediario (indipendentemente dal fatto che a tale prezzo venga concluso il contratto), sulla sua natura e funzione. Ma ciò

genera una mancanza di efficienza funzionale e di trasparenza operativa. Ne segue che i mercati finanziari abbisognano ancora di una «regolazione minima» che fissi le regole cui gli operatori devono muoversi in questa fase di sviluppo che, come detto, appare fortemente orientata verso il mercato mobiliare. Peraltro, dalla osservazione più volte espressa circa il fatto che molti prodotti e servizi offerti dal settore bancario e da quello degli intermediari non bancari sono tra di loro assai simili potrebbe nascere la tentazione che «attraverso la catena dei sostituti quasi perfetti di altri sostituti anch’essi quasi perfetti si allarghi la regolamentazione bancaria a tutto il sistema finanziario; ciò non è af-

fatto richiesto dalla politica monetaria che già oggi e sempre più in futuro dovrà fare assegnamento sulla base monetaria e sul tasso d’interesse e/o di cambio, e non sul con-

trollo quantitativo del flusso dei fondi di alcuni o, al limite, di tutti gli intermediari» ?. E però vero, così come insegnano alcune esperienze osservabili all’estero, che gli intermediari che operano sui mercati mobiliari possono offrire alla loro clientela «servizi finanziari» tramite «prodotti» che assomigliano molto (per grado di liquidabilità) ai depositi e conti correnti bancari detenuti dalla clientela per scopi di transazione (ma senza l’obbligo, per l’intermediario, di formare una riserva obbligatoria). Ciò — ai fini della stabilità complessiva del sistema finanziario — non dovrebbe essere 109

consentito dalla banca centrale che dovrebbe pertanto mantenere una qualche forma di controllo sui «prodotti» offerti dagli intermediari mobiliari onde evitare che questi svolgano di fatto le attività tipiche del settore bancario.

Se si esclude quindi l’ipotesi di estendere a tutto il settore finanziario le regole ed i controlli (di legittimità e di merito) oggi vigenti per il settore bancario e creditizio (con la banca centrale in posizione di «super-controllore»), si deve anche riconoscere che la documentata evoluzione verso la polifunzionalità di fatto degli intermediari impone una «rivisitazione» di tutta l’area della raccolta e dell’offerta del risparmio che dovrebbe fare apparire superato un controllo con criterio di specializzazione

funzionale

(come è

noto, per tale superamento si è pronunciata la Consob) per fare aderire alla proposta di controllo per segmenti di mercato e per affrontare i problemi del coordinamento dell’attività di controllo esercitata dai diversi enti a ciò deputati (Banca d’Italia, Consob, Isvap). Invece, anche a questo riguardo, la recente normativa riguardante il mercato secondario dei titoli di stato continua ad assegnare alla Banca d’Italia il controllo di legittimità e di stabilità ed alla Consob quello di trasparenza. Si continua dunque a ragionare «per funzioni» (come vorrebbe la Banca d’Italia insieme al

Ministero del Tesoro) invece che «per mercati» (come vorrebbe la Consob) ed il problema del coordinamento (che a noi appare il più rilevante) non appare affrontato. Nel contesto caratterizzato dalla presenza dell’intermediario polifunzionale di fatto ci pare di dover concordare con chi” propone che si debba giungere alla disciplina di un operatore astratto in grado di svolgere qualsiasi funzione (ad esclusione, ovviamente, di quella creditizia ed assi-

curativa). In questo caso, le nuove regole dovrebbero riguardare principalmente la solidità patrimoniale ed il conflitto d’interessi. Nel primo caso si interviene con l’imposizione di vincoli di bilancio (capitale minimo, rapporto fra patrimonio e volume e/o grado di rischio delle attività). Nel secondo caso conviene pretendere non solo la trasparenza del ruolo attraverso l’informazione della controparte, evidenziando la natura dell’attività svolta, obbligando a mantenerla nel corso del rapporto, nonché specificando il tipo di remunerazione in relazione alla effettiva funzione svolta, 110

ma anche la predisposizione di ben specificati «divieti» a cui devono sottostare i comportamenti degli intermediari (ad esempio — prendendo lo spunto dalle Stock Exchange Rules di Londra — quello che non consente che coloro che sono preposti alla gestione del portafoglio mobiliare della società abbiano alcuna responsabilità nella gestione dei portafogli per conto dei clienti; o quello per cui, nello svolgi-

mento delle diverse attività, le informazioni conosciute da

chi opera in una attività non possano diventare note direttamente o indirettamente a chi opera in altra attività).

Nuove regole tributarie a favore della neutralità

La conclusione esposta nel paragrafo precedente non è senza effetti su di un aspetto di grande rilievo per il funzionamento dei mercati finanziari: quello del regime tributario dei redditi da capitali, anche in previsione della liberalizzazione dei movimenti di capitali, voluta per effetto della revisione della legislazione valutaria, e della costituzione del mercato unico dei capitali all’interno della Cee. E noto che il regime tributario dei redditi da capitale ha subìto, in Italia, continue modificazioni a partire dalla riforma tributaria del 1973-74 e che oggi si caratterizza per

una grande varietà di regimi”, oltre che a discriminare tra redditi prodotti all’interno e quelli di provenienza estera. Ma, come è stato ampiamente documentato, questo sistema

di tassazione introduce una «doppia non neutralità», nel senso che esso discrimina non solo tra i diversi tipi di finanziamento degli investimenti disponibili per l'impresa (indebitamento bancario, azioni di risparmio, azioni ordi-

narie, autofinanziamento, obbligazioni ordinarie e convertibili), ma anche in funzione della particolare natura (perso-

na fisica o giuridica) del titolare delle attività finanziarie emesse dall'impresa, nonché dalla presenza o meno di un

fondo comune, nel caso in cui questo operi come intermediario fra le decisioni di risparmio e quelle d’investimento. Infatti, la molteplicità dei regimi fiscali (d’acconto per le persone giuridiche, definitiva per le persone fisiche — ma non nel caso dei dividendi azionari distribuiti che scontano 111

una ritenuta d’acconto del 10% — ed imposta patrimoniale sostitutiva in testa al fondo comune d’investimento mobiliare), e delle aliquote (12,5% per le obbligazioni — 30% se di provenienza estera — ed i titoli di stato, 18% per i titoli atipici, 15% sugli altri redditi — ad esempio le accettazioni bancarie —, 30% per i depositi bancari, i buoni fruttiferi ed i certificati di deposito di durata inferiore a 18 mesi, ecc.) hanno contribuito a «segmentare» i mercati fi-

nanziari generando una situazione di mancanza totale di «trasparenza» e neutralità tributaria 9°. Ma a questo proposito, come abbiamo già avuto modo di rilevare, non può che essere fortemente criticata «l'anomalia di una situazione in cui lo strumento fiscale viene deliberatamente utiliz-

zato per discriminare maliziosamente tra i diversi redditi da capitale, abbandonando sempre di più la strada della neutralità del prelievo rispetto ai diversi emittenti»®!. Per quanto riguarda poi la tassazione dei capital gains va ricordato che mentre essi sono totalmente tassati se realizzati da una persona giuridica (e le perdite in conto capitale possono essere trasferite «in avanti» per compensare even-

tuali altri imponibili) non costituiscono invece materia imponibile se realizzati da una persona fisica. Solo nel caso in cui vi sia «intento speculativo» (così come si presume che vi

sia in pochi casi fissati per legge e che fanno riferimento alla dimensione dei pacchetti azionari ceduti: art. 81 del Testo Unico delle imposte sui redditi) le plusvalenze realizza-

te da persone fisiche diventano materia imponibile ai fini dell'imposta personale sui redditi. Questa norma, si può ben dire che abbia costituito uno dei più forti incentivi ad operare sul mercato mobiliare da parte delle persone fisiche ed in particolare a ricorrere alle «gestioni patrimoniali» affidate ai più diversi intermediari finanziari. Infatti, la sostanziale esenzione fiscale delle plusvalenze realizzate da tali gestioni (a meno dell’intento speculativo) induceva (nel-

la «gestione in monte» che molti intermediari effettuavano) a non corrispondere «interessi», ma solo a registrare l’aumento del valore del capitale conferito per la gestione patrimoniale. Esiste, infine, una molteplicità di imposte indirette che colpiscono gli scambi finanziari (mobiliari in particolare). La tassa sui contratti di borsa (inversamente proporzionale dz

alla durata dell’investimento), l’imposta di bollo in misura

proporzionale o in misura fissa (che rende più vantaggiosa la ricevuta bancaria rispetto alla cambiale), l'imposta sostitutiva (delle imposte di registro, bollo ipotecaria, catastale, e di concessione governativa) per il credito a medio e a lungo termine (che sfavorisce gli istituti di credito speciale a vantaggio delle banche) sono esempi di una imposizione indiretta che mantiene «trattamenti che discriminano tra i diversi strumenti finanziari» ®. Pare a noi che non ci si può muovere verso un «intermediario polifunzionale», che dovrebbe reagire sempre più alla politica dei tassi d’interesse e del cambio e sempre meno al controllo quantitativo del flusso dei fondi, se non si affronta con decisione la riforma del regime fiscale dei mercati finanziari che, oggi, spinge a ricercare sempre «nuovi prodotti» al fine di eludere l’imposta . Ma tale «fantasia» indotta dal sistema tributario, alterando la struttura dei

tassi d’interesse lordi e netti d’imposta, rende alquanto incerte le risposte alle politiche monetarie e contribuisce a inventare prodotti che sfuggono ai controlli quantitativi dei flussi finanziari. La «neutralità» del sistema tributario (sia

nei confronti degli intermediari e degli enti emittenti le passività finanziarie, sia nei confronti dei diversi «prodotti finanziari») è dunque un obiettivo da raggiungere insieme a quello della nuove regole di governo del sistema finanziasio

Invero, se la proposta di giungere alla regolamentazione di un operatore «astratto» capace di continuare il processo di innovazione finanziaria e, dunque, non definibile 4 priori

sulla base delle proprie specifiche caratteristiche, nasce anche dalla necessità di non «segmentare» il mercato

(asse-

gnando un potere di oligopolio agli intermediari «legittimati» ad operare su quel particolare segmento del mercato), lo stesso vale per la proposta di giungere ad una eguale ed uniforme tassazione dei redditi da capitale, discriminata esclusivamente in ordine alla lunghezza delle scadenze così come in precedenza abbiamo suggerito. Infatti, qualora ciò non avvenisse (ma si continuasse a dare specifiche normati-

ve tributarie tenendo in conto la natura dell’intermediario e la «natura» del reddito corrisposto) la normativa tributaria diverrebbe il principale stimolo ad una incessante proi)

duzione di «innovazioni finanziarie» al solo fine di non ricadere nella frastagliata normativa tributaria. Solo, dunque, una norma di carattere generale che assuma come «sostituto d’imposta» l’intermediario astratto e che applichi una unica aliquota su tutte le rendite finanziarie è in grado di produrre un sistema «chiuso», ovvero in grado di comprendere tutti i casi limite e tutte le possibili innovazioni negli strumenti finanziari, senza clausole che consentano l’elusione dell’imposta e l’erosione della base imponibile. In questa direzione si muovevano anche le proposte avanzate, fin dal 1981, da un’apposita Commissione di studio % nominata dal ministro delle Finanze di allora per la tassazione dei redditi delle attività finanziarie, ma che per molti aspetti sono rimaste lettera morta (anzi, il recente aumento

della ritenuta sugli interessi dei depositi bancari si muove esattamente nel senso opposto a quello auspicato). Verrebbe, invece, superata la preoccupazione della Commissione di dover inserire «una clausola di salvaguardia e di chiusura del sistema che elimini la possibilità di erosione legale della base imponibile attraverso attività finanziarie aventi caratteristiche tali da non poter essere facilmente sottoposte a ritenuta». Il Testo Unico delle imposte sui redditi entrato in vigore all’inizio del 1988 agevola il muoversi nella direzione indicata anche per quanto riguarda la tassazione delle plusvalenze. Infatti, all’art. 41 (lettera g) si sancisce che costitui-

scono «redditi da capitale» sia gli «utili corrisposti ai mandanti o fiducianti», sia «la differenza tra l'ammontare rice-

vuto alla scadenza e quello affidato in gestione». Si scorge, qui, una possibile via da seguire ulteriormente e da potenziare. Ovvero, mentre lo stesso Testo Unico riduce la possibilità di tassare in sede di tassazione progressiva personale i capital gains in base all'intento speculativo, nello stesso tempo allarga le possibilità di tassare dette plusvalenze in quanto redditi di capitale (per esempio, oltre al caso citato, quando assimila agli interessi delle obbligazioni — art. 41 lettera b — «la differenza fra la somma percepita alla scadenza ed il prezzo di emissione», o quando — art. 42 comma 4 — stabilisce che per i capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita il reddito di capitale è costituito dalla differenza tra l'ammontare del capita114

le corrisposto e quello dei premi riscossi). Si dovrebbe,

dunque, giungere (almeno in una prima fase di sperimentazione) ad una norma di carattere generale che, assimilando le plusvalenze agli interessi corrisposti dall’intermediario, rinuncia alla progressività del prelievo (non includendo tali redditi nell’imponibile ai fini dell'Irpef), ed assoggetta questi e quelle alla medesima ritenuta d’imposta (operata dal sostituto con obbligo di rivalsa) nel caso in cui il percettore sia una persona fisica. Il sistema di prelievo risulterebbe effettivamente «chiuso» e non consentirebbe altre norme tese ad eludere le imposte o ad erodere le basi imponibili. Ogni soluzione, tuttavia, che venga immaginata oggi non può che essere considerata provvisoria in quanto l’auspicato mercato unico dei capitali tra i paesi della Cee imporrà anche una unica soluzione per il regime fiscale di tali redditi. Qui ci limitiamo a riflettere su di un paio di problemi. Nell’ipotesi infatti che si superi la fase attuale degli «accordi bilaterali» e prevalga, invece, un regime fiscale che sottopone a ritenuta d’acconto anche i redditi percepiti dalle persone fisiche (così come previsto in quasi tutti gli stati membri che, pertanto, si sono già mossi verso una tassazione personale di tipo «comprehensive»), l’Italia deve rinunciare alla consolidata tradizione dell’anonimato per molti tipi di reddito compresi in questo comparto. D'altra parte, l’adozione della cedolare secca farebbe incassare agli Stati che dispongono delle «piazze finanziarie» più ambite larga parte delle imposte commisurate a tali redditi: a meno di complicate contabilizzazioni e restituzioni da operare tra gli Stati medesimi. È poi vero che il regime fiscale dei dividendi è strettamente connesso al regime di tassazione delle società ed alla soluzione del problema della «doppia imposizione» che nasce dall’esistenza o meno del «credito d’imposta». Si tratta, infatti, di scegliere tra il «sistema classico» che considera la società ed il suo azionista come due soggetti completamente autonomi dal punto di vista della loro capacità contributiva e, dunque, da assoggettare a tributi del tutto separati, ed il sistema che prevede invece la correzione della «doppia

imposizione» assegnando all’azionista un «credito d’imposta» che può giungere sino al 100%, come nel caso dell’Italia per i dividendi prodotti all’interno (nel caso di dividen-

115

di di provenienza estera non si ha il godimento del credito d’imposta). Su questi temila Comunità non si è ancora pronunciata definitivamente e, dunque, vi è larga incertezza sul futuro, a meno di non affrontare il problema alla radice introducendo, come abbiamo suggerito nel precedente capitolo, l'imposta commisurata al flusso dei fondi (che dovrebbe naturalmente accompagnarsi ad un sistema di tipo «classico»). Invero, una «proposta» della Commissione (presentata nel 1975) che prevede sia l’armonizzazione dell’aliquota dell'imposta sulle società in un intervallo compreso tra il 45% ed il 55%, sia un sistema comune di credito d’imposta in una percentuale compresa anch'essa tra il 45% ed il 55%, sia una ritenuta d’acconto operata alla fonte nella misura del 25% del dividendo pagato non riesce a trovare l’accordo degli stati membri data la grande diversità delle condizioni di partenza (anche per la diversità nella definizione delle basi imponibili con particolare riguardo agli ammortamenti, alle scorte ed alle plusvalenze). Ad esempio, e con riferimento alle sole aliquote, se tale proposta dovesse trovare applicazione in Italia, risulterebbe aggravata sia l’aliquota dell’Irpeg oggi in vigore (36%), sia penalizzato il credito d'imposta (oggi al 100%). Non sarebbe allora da escludere che si dovesse procedere (a fini di compensazione dell’onere) all’abolizione dell’Ilor che oggi grava sul reddito delle società con aliquota del 16,2% senza alcun credito d’imposta. Per quanto riguarda, invece, il sistema delle imposte indirette che gravano sugli scambi di titoli, ancora una volta non si può dimenticare l'Atto unico europeo del 17 febbraio 1986 che prevede che la libera circolazione dei capitali venga ottenuta, tra l’altro, anche tramite l’armonizzazione delle imposte indirette. Ma, a questo riguardo, la Commissione ha presentato al Consiglio delle Comunità europee (in data 14 aprile 1987) una proposta di modifica della direttiva ove, dopo aver considerato che i movimenti di capitali possono essere ostacolati dall’esistenza, negli stati membri, di disposizioni divergenti in materia di imposte indirette sulle transazioni su titoli che provocano spesso doppie imposizioni e discriminazioni, ha anche considerato che, in luogo della armonizzazione (praticamente impossibi116

le da realizzare), «la soluzione migliore» è quella costituita dalla «soppressione delle imposte in oggetto». In questo caso, ci pare dunque di dover concordare con la Commissione e che, nel medio periodo, l’unica strada da percorrere sia pertanto quella della progressiva eliminazione delle imposte indirette che attualmente gravano sulle transazioni su titoli.

Note al capitolo secondo ! Ocse, Economic Performance and Structural Adjustment. Technical Report, Parigi, gennaio 1987; The Financial System and the Financing of Industry (cap. 4) e Financing the Public Sector (cap. 10). 2 M.J.B. Hall, La riforma della Borsa di Londra. I problemi prudenziali, in «Moneta e Credito», n. 158, 1987, pp. 203-217. ? M. Perouse, La modernisation des méthodes de cotation, d’échange et de conservation du marché des valeurs mobilières. Rapport par la Commission présidée par Maurice Perouse, Paris, La Documentation Frangaise, 1980. 4 J. Metais, Equity Finance in France after the Monory and Delors Reforms, in «The Banker», aprile 1985, pp. 97-105; e Innovazioni finanziarie e nuovi modelli di finanziamento in Francia, in «Banca Impresa Socie-

tà», n. 3, 1986, pp. 403-425.

© Usa Government, Blueprint for Reform: The Report of the Task Group on Regulation of Financial Services, Washington, D.C., 2 luglio 1984.

6 Consob, Relazione sull'attività svolta nell’anno 1985, Roma, 1986.

? Ministero del Tesoro, Ricchezza finanziaria, debito pubblico e politica monetaria, Rapporto della Commissione di studio nominata dal Ministro del Tesoro, Roma, 1987. 8 Cfr. Efficienza, stabilità ed equità. Una strategia per l'evoluzione del sistema economico della Comunità europea. Un rapporto di T. PadoaSchioppa, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 111. ? T.M. Rybezynsky, Financial Systems, Risk and Public Policy, in «The Royal Bank of Scotland Review», n. 184, dicembre 1985, pp. 35- . 45. 10 J.A. Schumpeter, Antologia di scritti, a cura di M. Messori, Bolo| gna, Il Mulino, 1984, p. 22.

11 C. Gnesutta, Sisterza finanziario: mercato e intermediari in una fase di transizione, in Oltre la crisi, a cura dell’Ente Luigi Einaudi, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 457-496, qui p. 470.

LZ

1? Ibidem, p. 474; A. Niccoli, Credito e sviluppo economico, Nis, Romag .1985%

i

13 J.E. Stiglitz, Credit Markets and the Control of Capital, in «Journal of Money, Credit, and Banking», vol. 17,.n. 2, maggio 1985, pp. 1331524

14 E.G. Corrigan, La struttura del mercato finanziario. Un approccio di lungo periodo, Documenti, Centro Alberto Beneduce, Roma, 1988, p. 13 (titolo originale: Financial Market Structure: A Longer View, in «Federal Reserve Bank of New York Quarterly Review», gennaio 1987).

D 16 Bank 17

Ibidem, p. 9. J. Tobin, Or the Efficiency of the Financial Systera, in «Lloyds Review», n. 153, luglio 1984, pp. 1-15. A. Petretto, Manuale di economia pubblica, Bologna, Il Mulino,

1987, p. 47.

18 M. King e A. Roell, Insider Trading, in «Economic Policy», n. 6, aprile 1988, pp. 165-193. 1? A. Niccoli, Credito e sviluppo economico, cit., pp. 233 ss. 20 J.E. Stiglitz, Credit Markets, cit., p. 134. 21 M,J.B. Hall, La riforma della Borsa di Londra, cit., pp. 209-210. 22 E.G. Corrigan, A Framework for Reform of the Financial System, Audizione di E.G. Corrigan, Presidente della Federal Reserve Bank of New York, alla United States Senate Committee on Banking, Housing, and Urban Affairs, giugno 1987, in «Federal Reserve Bank of New York Quarterly Review», n. 2, 1987, pp. 1-8, qui p. 2.

2 24 logna, 2 26

J. Tobin, On the Efficiency of the Financial System, cit. G. Rossi, La scalata del mercato. La borsa e i valori mobiliari, BoIl Mulino, 1986, p. 19. Usa Government, Blueprint for Reform, cit. Ibidem, p. 37.

2? P. Ciocca, Interesse e profitto. Saggi sul sistema creditizio, Bologna, Il Mulino, 1982; G. Nardozzi, Tre sistemi creditizi: banche ed economia in Francia, Germania e Italia, Bologna, Il Mulino, 1983. 28 R. Cameron, Le banche e lo sviluppo del sistema industriale, Bologna, Il Mulino, 1975, p. 11.

2 M.C. Cumming e L.M. Sweet, Financial Structure of the G-10 Countries: How Does the United States Compare?, in «Federal Reserve Bank of New York Quarterly Review», n. 4, 1988, pp. 14-25. 20 C.A. Ciampi, Indagine conoscitiva sulla internazionalizzazione delle imprese e le concentrazioni industriali, Senato della Repubblica, Commissione Industria, Commercio

e Turismo, dattiloscritto, Roma,

10 feb-

braio 1988. ?! Audizione del Governatore della Banca d’Italia, dott. C.A. Ciampi, alla Commissione Finanze e Tesoro della Camera dei Deputati, dattiloscritto, Roma, 28 novembre 1986.

118

i

SER qa, 1 Ministero del Tesoro, Ricchezza finanziaria , debito pubblico e poli-

tica monetaria, cit., p. 30.

3 J. Tobin, A Proposal for International Monetary Reform, in «Eastern Economic Journal», 1978, n. 3-4; G. Basevi e F. Cavazzuti, Rego-

le del gioco o discrezionalità amministrativa? Il caso della libertà di movi-

mento di capitali in Italia, in «Politica Economica», n. 1, aprile 1985.

Consob, Linee di progetto per una riforma del mercato borsistico, Bollettino, edizione speciale, Milano, 30 aprile 1987. * Audizione del Direttore generale del Tesoro, dott. M. Sarcinelli, alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, dattiloscritto, Roma, 18 novembre 1986.

3° R. Costi, Una legge per le Merchant Banks?, in «Banca Impresa Società», n. 3, 1985, pp. 407-423.

?? Audizione del Presidente del Mediocredito Centrale, dott. R. Banfi, alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, dattiloscritto,

Roma, 15 gennaio 1987; Audizione dell’ Amministratore delegato della Euromobiliare, dott. G.R. Vitale, alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, Resoconto delle Commissioni, Senato della Repubblica, Ro1987.

ma, 11 marzo

38 Audizione del Vice Direttore Generale della Banca d’Italia, dott. A. Fazio, alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, dattiloscritto, Roma, 13 novembre 1986; A. Fazio, Controllo dell'attività bancaria e dell’intermediazione finanziaria, Relazione alla Commissione di studio ministeriale coordinata dal Sottosegretario al Tesoro on.le Carlo Fracanzani, dattiloscritto, Roma, 23 settembre 1986. 3? Consob, Relazione sull'attività svolta nell’anno 1985, cit.

40 F. Cesarini, Aspetti economico-tecnici del mercato di borsa, in «Banca Impresa Società», n. 2, 1987, pp. 211-216, qui p. 212.

41 Ibidem, pp. 212-213. 4. Ministero del Tesoro, Ricchezza finanziaria, debito pubblico e politica monetaria, cit., p. 78.

4. G. Nardozzi, Il mercato azionario: quale modello per l'economia italiana?, in Oltre la crisi, a cura dell'Ente Luigi Einaudi, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 527.

44 Cfr., di M. Pagano, Trading Volume and Asset Liquidity, Cepr Di-

scussion Paper, n. 142; Market Size, The Informational Content of Stock

Prices and Risk: A Multiasset Model and Some Evidence, Cepr Discussion Paper, n. 144; Endogenous Market Thinness and Stock Price Volatility, Cepr Discussion Paper, n. 146; tutti e tre editi nel 1986. 4 Audizione del Presidente della Consob, dott. F. Piga, alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, dattiloscritto, Roma, 18 novembre 1986. 4 Consob, Regolamento per l'ammissione di società commissionarie negli antirecinti alle grida delle borse valori, Bollettino, edizione speciale, Roma, marzo 1988.

II)

4 M, Sarcinelli, Deterzinanti e direttrici della politica finanziaria italiana, in «Moneta e Credito», n. 157, 1987, p. 37.

48 Audizione del prof. R. Costi alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, dattiloscritto, Roma, 8 aprile 1987, p. 20.

4 Audizione del Governatore della Banca d’Italia, dott. C.A. Ciampi, alla Commissione Finanze e Tesoro della Camera dei Deputati, Cit

50 Audizione del Presidente dell’Isvap, dott. D. Marchetti, alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, dattiloscritto, Roma, 2 dicembre 1986.

21 52 Cob, pe de

M,J.B. Hall, La riforma della Borsa di Londra, cit., p. 211. Tale rapporto è stato terminato nella primavera del 1988. Cfr. Commission des Opérations de Bourse, Rapport Général du GrouDéontologie des activités financières, supplemento a «Bullettin Men-

suel», n. 212, marzo

1988.

93 C.A. Ciampi, Indagine conoscitiva sulla internazionalizzazione delle imprese e le concentrazioni industriali, cit., pp. 14 ss.

24 T.M. Rybezynsky, Financial Systems, cit. ? Audizione del Direttore generale del Tesoro, dott. M. Sarcinelli, alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, cit., p. 9.

26 G. Minervini, Le “due filosofie” nella disciplina della raccolta del pubblico risparmio, in «Rassegna Economica», 1986, pp. 691-696. 2? Consob, Linee di progetto per una riforma del mercato borsistico, cit., e Relazione alla Commissione di studio ministeriale coordinata dal Sottosegretario al Tesoro on.le Carlo Fracanzani, dattiloscritto, Roma, 1987; Audizione del Direttore generale del Tesoro, dott. M. Sarcinelli, alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, cit.; G. Zadra, Strutture e regolamentazione del mercato mobiliare, Università L. Bocconi, Milano, Giuffrè, 1988.

98 S. Giannini, Strategie di finanziamento delle imprese, decisioni di risparmio e ruolo del sistema tributario, Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Bologna, ciclostilato, febbraio 1986; S. Giannini, The Incentive Effects of the Taxation of Income from Capital in the Italian Corporate Sector, paper presentato alla International Conference on the Cost of Capital, Harvard University, novembre 1987; trad. it. in «Note di Economia e Finanza», Euromobiliare, Milano, 1988; G. Ancidoni, B. Bianchi, V. Ceriani, P. Coraggio, A. Di Majo, R. Marcelli, N. Pietrafesa, La tassazione e î mercati finanziari, Banca d’Italia, Temi di discussione, n. 94, agosto 1987.

° S. Giannini, Strategie di finanziamento delle imprese, cit., pp. 134155.

5 M.C.

Guerra, Imposte e mercati finanziari, Dissertazione finale,

Dottorato di ricerca in Economia Politica, Università di Bologna, Dipartimento di scienze economiche, e IX.

120

ciclostilato, a.a.

1985-86,

capi EV

1 F. Cavazzuti, Debito pubblico, ricchezza privata, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 50.

© G. Ancidoni, B. Bianchi, V. Ceriani, P. Coraggio, A. Di Majo R. Marcelli, N. Pietrafesa, La tassazione e i mercati finanziari, cit.

3

6 V. Visco, Un prelievo equo, ragionevole, efficace, in «Micromega», n. 2, 1986, pp. 246-270.

64 A. Pedone, Aspetti economici e fiscali, Relazione introduttiva, in Nuove forme di impiego del risparmio e di finanziamento delle imprese: disciplina civile e fiscale, a cura di G. De Nova, E. Gerelli, G. Tremonti e G. Visentini, Milano, Angeli, 1984. 6 Ibidem, pp. 21 ss.

di

Finito di stampare nel settembre 1988 dalle Grafiche Galeati di Imola

CONTEMPORANEA Fatti, idee, cultura, costume, nel mondo degli Anni Ottanta

. Giuliano Amato, Derzocrazia e redistribuzione. Un sondaggio nel Welfare statunitense

. Pino Arlacchi, La mafia imprenditrice. L'etica mafiosa e lo spirito del capitalismo . Arrigo Levi, Ipotesi sull'Italia. Undici diagnosi per una crisi

. Lev Timofeev, L'arte del contadino di far la fame. Ovvero la tecnica del mercato nero in Russia

5. Michael Mandelbaum, I/ futuro nucleare

6. Michel Albert, Una sfida per l'Europa

. Brigitte Berger e Peter L. Berger, In difesa della famiglia borghese

. Pier Luigi Cervellati, La città post-industriale . David Holloway, L'Unione Sovietica e la corsa agli armamenti

. Nick Bosanquet, La rivincita del mercato . Il lavoro e il suo doppio. Seconda occupazione e politiche del lavoro in Italia, a cura di Luciano Gallino

. Filippo Cavazzuti, Debito pubblico, ricchezza privata - W.D. Rubinstein, La sinistra, la destra e gli ebrei

. Giulio Tremonti e Giuseppe Vitaletti, Le cento tasse degli italiani

LIO

Norberto Bottani, La ricreazione è finita. Dibattito sulla qualità dell'istruzione

16. Aris Accornero e Fabrizio Carmignani, I paradossi della disoccupazione

do Stefano Balassone e Angelo Guglielmi, Corsari e nobi-

luomini. La pubblicità in Italia 18. Michael S. Teitelbaum e Jay M. Winter, La paura del declino demografico . Renato Mannheimer e Giacomo Sani, Il mercato elettorale. Identikit dell’elettore italiano

. Robert Dahl, Derzocrazia o tecnocrazia? Il controllo delle armi nucleari

. David Lamb, I/ confine della vita. Morte cerebrale ed etica dei trapianti. . Luciano Cavalli, I/ Presidente americano. Ruolo e sele-

zione del leader USA nell’era degli imperi mondiali. . Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, Dalla parte dell’inquisito. L'avvocato e le «nuove ingiustizie» del processo penale. . Franco Cazzola, Della corruzione. Fisiologia e patologia

di un sistema politico. . Domenico Parisi, Non solo tecnologia. Scienza e proble-

mi di «policy».

. Alessandro Cavalli e Antonio De Lillo, Giovani anni 80. Secondo rapporto Iurd sulla condizione giovanile in Italia.

Piena occupazione, solidarietà, eguaglianza, efficienza, trasparenza, concorrenza, sono obiettivi socialmente

rilevanti che non possono essere affidati alla retorica del mercato concorrenziale o allo «spontaneismo» individuale. Il miglioramento sociale non è separabile da un controllo pubblico del modo di operare dei sistemi economici capitalistici (non dalla proprietà pubblica dei mezzi di produzione). Finanza pubblica e finanza privata sono due dei settori ove più di sovente i diritti del cittadino non vengono difesi. Nel primo caso sia per l’opprimente presenza di uno «stato amministrativo» ove gli interessi dei burocrati tendono a prevalere su quelli dei cittadini, sia per la mancanza di equità e di semplicità del fisco, sia per la gestione dei servizi pubblici che si accompagna a una spesa pubblica | spesso inefficiente. Nel secondo caso, per la mancanza di una «regolamentazione» minima che avrebbe dovuto accompagnare la crescita tumultuosa della «fimanziarizzazione» dell’economia italiana. Così, la parte

contraente più debole (di norma il risparmiatore) non gode di quella tutela, che, in altri paesi, si concretizza nel diritto all’informazione e nelle norme relative alla prevenzione del conflitto di interessi e del rischio di frode e di instabilità dell’intermediario finanziario. «Deregolamentare» l’azione dello stato amministrativo e

«regolamentare» i mercati finanziari privati paiono az’ da dover intraprendere per consentire un migliore equilibrio tra «pubblico» e «privato», ovvero tra libert singoli e autorità dei poteri pubblici, che si esprime & politiche di bilancio, dei redditi, monetarie e istituzi 99 LI

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Filippo Cavazzuti, Professore di Scienza delle finanze e Diritto © finanziario nella Facoltà di Economia e commercio di Bologna, c-

membro del Comitato scientifico di «Prometeia» e Senatore de N Repubblica per il gruppo della Sinistra indipendente. Tra le sui > pubblicazioni: «Il nodo della finanza pubblica» (1978), «La rifori malata» (1982), «Debito pubblico ricchezza privata» (1986). ISBN

L. 10.000

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