La poesia friulana del Novecento 8875731454


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La poesia friulana del Novecento
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Walter Belardi - Giorgio Faggin

5

la

LA POESIA FRIULANA.

DEL NOVECENTO |

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In questi ultimi tempi la cultura in lingua friulana dimostra un dinamismo interno che potrebbe produrre nuovi sorprendenti risultati in questo scorcio di secolo. Ma già ora quanto è stato conseguito nei primi ottantacinque anni nel Novecento merita di essere riepilogato, esaminato e apprezzato. I generi del romanzo e del teatro si sono già attestati

con successo nel Friuli (basti qui il nome di Sgorlon), ma la lirica soprattutto, che vanta

precedenti di molti secoli, ha raggiunto nel Novecento vette elevate attraverso percorsi originali, ad opera di Cescutti, Carletti, de Gironcoli, Pasolini, Castellani, Naldini, Cantarutti, Angeli, Virgili, Valentinis, Pittana, Buiese, Giacomini, Bartolini, Vallerugo, Vit e molti altri, nomi già prestigiosi alcuni, pur nelle lettere italiane, destinati a diventare tali altri. Il volume presente è sia un regesto critico (specie per le pagine scritte da Giorgio Faggin) sia un ampio corpus documentario selezionato. La traduzione in lingua italiana, opera di Walter Belardi, si accompagna costantemente agli originali nel duplice intento di offrire una esegesi accurata, fino ad oggi mancante, e un ‘‘equivalente”’ poetico nei limiti delle possibilità intrinseche e delle capacità soggettive, tale da consentire al lettore non friulano di cogliere gli alti pregi della scrittura friulana moderna.

In copertina:

Carnia, Valle del Tagliamento (foto di Elio Ciol)

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ROSARIO: Collana di testi e studi diretta da Aulo Greco

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Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/lapoesiafriulana0000unse

DIPARTIMENTO DI STUDI GLOTTOANTROPOLOGICI UNIVERSITA DI ROMA «LA SAPIENZA »

Walter Belardi

Giorgio Faggin

LA POESIA FRIULANA DEL NOVECENTO

BONAGGCI

EDITORE

ROMA

©

1987, Bonacci Editore - Roma

ISBN 88-7573-145-4

AVVERTENZA

Sono di Walter Belardi le traduzioni in italiano, la Presentazione,

le note in calce ai testi, la responsabilità della selezione di questi e l’impianto generale dell’Antologia*. Sono di Giorgio Faggin il panorama sulla Poesia friulana del Novecento, le schede biobibliografiche e l’ordinamento cronologico degli autori. Sono di entrambi la cura dei testi friulani e l’indicazione della fonte data per ogni testo. Si ringraziano gli autori e gli editori che hanno concesso gentilmente il loro benestare per la pubblicazione degli originali qui selezionati, e ci si scusa per eventuali errori di attribuzione o per omissioni. Nelle annotazioni le indicazioni « Pirona », « Nuovo Pirona » e « Faggin » indicano rispettivamente:

J. Pirona, Vocabolario friulano (pubblicato a cura di G. A. Pirona), Venezia 1871, ristampa anastatica Udine 1985; G. A. Pirona, E. Carletti, G. B. Corgnali, Il Nuovo Pirona: cabolario friulano, Udine 1935;

vo-

G. Faggin, Vocabolario della lingua friulana, 2 voll, Udine 1985 (non potuto utilizzare da W. Belardi se non in fase di revisione definitiva del ms. della presente Antologia). x

1 L’edizione di questa Antologia è stata realizzata grazie a un finanziamento erogato dal Ministero della Pubblica Istruzione attraverso il Dipartimento di studi glottoantropologici dell’Università di Roma « La Sapienza ». A motivo di tale contributo per le spese di stampa, resta esclusa ogni forma di lucro per i due autori.

Per ciò che concerne la grafia, i testi friulani sono stati riprodotti nella forma offerta nelle edizioni citate. Gli errori di stampa ovvi sono stati corretti. Poiché non esiste una segnatura normalizzata degli accenti, si sono conservati, di massima, i segni apposti dagli autori. Costoro, nella segnatura, talvolta ne fanno uso oltre misura, talaltra invece sono trascurati, con il risultato frequente di un’incoerenza che può disturbare chi legge. Per alleggerire la composizione, si è di norma eliminato il segno dell’accento nel caso di parola piana terminante in vocale o in -s di plurale e avente in penultima sede sillabica è, è? o è non precedute o seguite da altre lettere « vocaliche », purché l’ultima sillaba non sia un’enclitica; d’altra parte sono state introdotte alcune segnature d’accento là dove il lettore non friulano potrebbe incontrare qualche difficoltà. Di norma si adopera il segno di accento grave, salvo l’acuto su é ed 6, in quanto siano lettere per vocali di timbro chiuso. Il fatto che certi vocaboli appaiano presso un autore con il circonflesso (indice di quantità lunga della vocale tonica) e presso un altro invece con l’acuto o il grave dipende, per lo più, da differenza dialettale e non da imprecisione.

PRESENTAZIONE di WALTER

BELARDI

Varie le ragioni che giustificano la presente Antologia; due sostanzialmente le occasioni che hanno favorito il mio lavoro. La prima occasione è stata il dono di un manoscritto già pronto per la stampa, Poeti friulani del Novecento, opera di Giorgio (Tommaso) Faggin: questi, rinunziando a pubblicare in proprio quanto aveva già preparato, volle liberalmente affidarmi il manoscritto, petché costituisse per me la base di partenza di un’antologia nuova. Il manoscritto

conteneva dieci poeti e novanta componimenti,

con in

calce ciascuno una versione in prosa, in parte già approntata dagli autori, in parte eseguita dall’antologista. La seconda era l’imminenza del ricorrere del cosiddetto bimillenario della ladinità linguistica. La ferma volontà politico-culturale dei Ladini aveva deciso di celebrarlo calcolandolo a partite dalla pax romana introdotta da Augusto dopo la guerra del 15 a.C. contro i Reti e altre tribù alpine, che risolse ogni stato di tensione in queste zone per molti secoli. A festeggiare tale bimillenario si sono prontamente associati anche i Friulani per motivi politici e linguistici ben giustificabili, anche se la precisione storica ne ha sofferto !, dato che la latinizzazione del Friuli era cominciata oltre 160 anni prima. Distribuiti e programmati i tempi di lavorazione, ritenevo di poter rendere pubblici per il 1985 — e così è stato — il volume dell’Antologia della lirica ladina dolomitica — edito da Giorgio 1 Cf. R. Barzan, I doimîl agns de Ladinie, in « Gnovis pagjinis furlanis », 1985, 3, p. 19: «[...] cun plene rason si pò sustignî ch’a son doimîl agns ch’al è inviàt il proces di formazion de lenghe ladine, tes sòs varietàz rumantscha, dolomitiche e furlane ».

Bonacci in Roma — e l’altro sui Poeti ladini contemporanei — finanziato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche — oltre a vari altri saggi letterari e glottologici di mole minore (apparsi in « Ladinia », « Mondo ladino », « Archivio per l'Alto Adige », « Archivio glottologico italiano », etc.). Non

sembrava

possibile,

invece,

non

dico

pubblicare per la stessa scadenza ma nemmeno portare molto avanti lo studio sul friulano. Ma la dilazione nel tempo è stata di giovamento: grazie allo stesso Faggin, soprattutto, e ad altri autori ho potuto riunire e vagliare ulteriore materiale, testuale e critico, e così ampliare notevolmente l’orizzonte del primo programma, e pervenire — cosa

ancora

più importante



a una

più accurata

e personale

penetrazione nello stile e nella poesia degli autori qui selezionati (solo ragioni di spazio hanno impedito una più ricca presentazione di prove). G. Faggin mi ha validamente aiutato oltre che nel controllo dell’esattezza della mia versione anche nella scelta del materiale. Ma nella scelta ho ritenuto opportuno che fosse soltanto mia la decisione ultima e la responsabilità conseguente, dacché scelta e sintonia interpretativa devono di necessità ben combinarsi insieme. Ma le ragioni e i motivi che sono alla base del presente lavoro sono assai più profondi e più importanti delle occasioni suddette. La cultura europea — l’italiana compresa — non conosce o non conosce abbastanza l’apporto degli scrittori in friulano di questo secolo ?. Per le aree di lingua tedesca molto ed egregiamente han fatto Giorgio Faggin e Michael Zielonka con il loro volume Friaulische Lyrik im zwanzigsten Jabrbundert. Eine Anthologie, pubblicato a San Daniele del Friuli nel 1975. Esso contiene quindici poeti con quarantanove poesie complessivamente, nell’originale e in traduzione tede? Per l’Italia un certo valore indiziario di disinformazione corrente si può riconoscere da ciò che scrive la penna brillante di Alberto Arbasino: il Friuli « nella geografia letteraria italiana è terra di cresime e santini e dialetto poetico e ‘atti impuri’ infantili sulle rive del Tagliamento, secondo i testi di Pasolini e della (« La Repubblica », 10 luglio 1986, p. 23). È probabile che Arbasino

sua scuola » abbia avuto

fra le mani l’interessante libro di D. Naldini, Nei campi del Friuli, Milano 1984, e l’altro di T. Spagnol, La Cresima (vedi qui p. 246 e sgg.). Il primo ci fa conoscere di P.P. Pasolini il diario-romanzo Atti impuri (in italiano), che ha pagine pregevoli, il secondo è un'edizione affrettata di un’opera non particolarmente rappresentativa, che

nemmeno

10

Pasolini si decise mai a pubblicare.

sca, per un totale di 162 pp. Nonostante gli indubbi meriti, tale volume tuttavia non può dirsi rappresentativo in modo perfettamente adeguato dell'importanza, dell’eccellenza e della fitta presenza degli scrittori friulani. Da qui la ragione della nuova impresa di G. Faggin, che si sarebbe presentata sì con cinque autori in meno ma con quarantuno composizioni in più (e poi era anche tempo di pensare al pubblico italiano). Oggi ho la fortuna di poter disporre di un panorama più vasto, aggiornato al 1985, di giudizi critici meglio centrati e più solidi, di un più vantaggioso lungo arco di tempo, e, quel che più conta, di un tirocinio personale di traduttore-interprete, esercitato per anni nella affine area ladina dolomitica, anche se quest’ultima non ha una storia letteraria così antica e complessa come quella friulana, bensì giovane e semplice. Per l'impegno del tradurre, ad ogni modo, la poesia dolomitica è assai più difficile della friulana, sia a causa del tessuto linguistico, il quale nella scrittura friulana è decisamente più omogeneo, malgrado il recente emergere di preferenze « dialettali » rispetto al friulano standard (nella letteratura dolomitica, invece, si contano ben sei varietà idiomatiche, con sei grammatiche parzialmente diverse, oltre a sottovarietà), sia a causa della quasi completa assenza di traduzioni in altra lingua. C'è, invece, nel Friuli

il costume, sempre più affermatosi col tempo, di accompagnare i testi originali con traduzioni letterali in italiano. Ma proprio a proposito

di tali versioni in italiano ci sarebbero da fare considerazioni circostanziate.

Dirò subito — per sottolineare la gravità del caso — che tali versioni, invece di agevolare il lettore non friulano, provocano in lui

una sincera repulsione che torna a danno dell’originale, se debbo e se posso giudicare dalla sindrome che ho notato in me stesso. Tali versioni, infatti, quando non contengono veri e propri errori che storcono il senso, sono scritte in un italiano a dir poco alieno e alienante: per la sintassi che dà un intenso senso di oppressione quando non è decisamente impossibile, e per il lessico spesso improbabile

a sua volta. Qualche

autore

preferisce,

invece, ricorrere

a

sporadiche glosse piuttosto che alla versione continuata; ma anche la glossa fallisce sovente. Passati i primi mesi di lavoro, gli originali friulani cominciarono a funzionare per me come aiuto potente per decifrare il preteso corrispondente italiano apposto in calce o a lato dol

in corpo minore, comunque

sempre

in posizione

tipograficamente

subordinata. Siffatta disposizione tipografica nel bianco del foglio stampato e la trascuratezza abituale e inavvertita — ma bene avvertibile — del testo subalterno sono due fatti concomitanti che si confermano a vicenda in qualità di prova non certo di una generale incapacità a scrivere — ché abbiamo a che fare spesso con nomi prestigiosi anche nelle lettere italiane — bensì di una generalizzata e inconsaputa disposizione psicologica, per noi ben comprensibile, che colloca giustamente l’originale sul fastigio, e la versione (o la glossa) ingiustamente in cantina, nella cassetta non pulita degli attrezzi. I quali, poi, alla prova, non risultano adatti al compito. Dopo molti anni di esperienza con testi letterari ladini dolomitici, mi permetterei di raccomandare vivamente agli scrittori friulani di lasciare il loro linguaggio solitario nel suo nitore e nella sua forza — come ha fatto ultimamente il De Apollonia — oppure di impegnarsi, ma sul serio, nel glossare, a meno che essi non posseggano anche l’abilità e la maestria del traduttore, il quale, lungi dall’avere — o dal pretendere di avere — capacità creative o ri-creative, deve, per tal tipo di compito, ottenere il meglio dalle sue attitudini a interpretare e a trasporre. Quando nelle piccole patrie si avverte l’angoscia causata dal numero esiguo dei lettori effettivi o potenziali, e la voce vorrebbe invece per sé spazi privi di confini, può succedere che si tenti l’avventura in aree alloglotte, predisponendo testi bilingui. Ma se poi i testi risultano bilingui nell’intenzione soltanto, e nella realtà invece sono vistosamente claudicanti a partibus alterius linguae vel infidelium, tanto vale restare chiusi nelle proprie case, nell’attesa chissà se esaudibile che ospiti di passaggio si fermino ad ascoltare, con orecchio e cuore attenti. Chi, impaziente, cerca più numerosa udienza, non si

perita neppure di affrontare, in questa Italia dalle tante parlate, concorsi di poesia dialettale. Non pochi degli autori che figurano in questa Antologia hanno ambìto a questa specie di surrogato della fama, che di fatto finisce per deprimere la lingua friulana. Hanno così affrontato in più di un caso commissioni giudicatrici che — a vederne la composizione — erano formate da personalità illustri nella cultura e nelle lettere, prive soltanto di informazioni sulla lingua friulana, 12

pronte comunque a giudicare sulla base di versioni soffocate. Non poche volte, malgrado ciò, i nostri autori hanno conseguito successi lusinghieri: prova definitiva dell’eccellenza di certi originali che resistono in parte perfino a questo genere di traduzioni. Che la traduzione in qualche modo tradisca è un fatto risaputo, ma si vorrebbe che tradisse almeno con un po’ di gusto. Nel caso di scrittori friulani che partecipano a concorsi dialettali, se una denunzia deve essere fatta a voce alta circa il rapporto inaccettabile tra giudicato e giudicanti che comprendono poco il giudicato, se ne deve fare anche un’altra: non è giusto declassare il friulano a dialetto dell’italiano. Si prenda debita nota del discrimine ambiguo che passa tra l’asserire che i/ friulano è un dialetto italiano, ossia dell’Italia come nozione geografica e storica, e l’asserire che il friulano è un dialetto dell'italiano, cioè di quella lingua letteraria costruita sulla base del toscano. Intorno a tale discrimine verbalmente sottile e assai poco appariscente, di fatto deciso e profondo, si è giocato e si gioca molto, per interessi di vario genere. Se la prima definizione è incontestabile

(e in essa « dialetto » funziona con il

significato di idioma o parlata), la seconda è assurda e punta sull’equivoco. I concorsi (e le antologie!) di poesia dialettale solo illegittimamente possono comprendere produzioni friulane; altrimenti cambino denominazione, e si dicano di « poesia regionale ». Queste osservazioni hanno tanto più valore da quando sulle orme soprattutto di P.P. Pasolini (ma si veda già E. Carletti nella prefazione al « Nuovo

Pirona » del 1935, p. ix) si è cercato

nel

Friuli un mezzo espressivo che non coincidesse con il friulano classico o « standard », ritenuto, magari a torto, troppo logoro a causa di trascorsi letterari leggeri e fatui. Questa ricerca espressiva, ripresa più volte da altri — c'è perfino chi ha scritto in più varietà del friulano — ha generato nel Friuli una situazione linguistica assai complessa, con un friulano « lingua » contornato da dialetti friulani, o almeno venato di dialettismi. Pertanto, nel Friuli oggi i dialetti sono in sottordine rispetto a un friulano letterario, a un friulano scritto « sopradialettale » (arealmente centrale, si potrebbe dire), non

facendo certo capo all’italiano né quelli né questo; e possono quelli prestarsi, a loro volta, a prove letterarie. 13

Ma torniamo all’imprecisione, direi quasi alla negligenza, di certe glosse e soprattutto di molte traduzioni. Quando, per esempio, il de Gironcoli si autoglossa offrendo così in italiano l’incipit « E c'è rimasta un’ombra sulla luce dello specchio », con ombra rifà certo il suono al friulano élre, il quale però con l’« ombra » non ha niente a che vedere, significando « traccia, orma, segno ». Poi, con luce dello specchio calca letteralmente il friulano /s dal spieli, che è un modo di dire per indicare invece il « cristallo dello specchio ». Sull’« élme » del de Gironcoli poco tempo dopo incede P.P. Pasolini critico (in « Libertà », Udine 14 aprile 1946) scrivendo (ma

guarda su che cosa si può costruire una critica letteraria!): « In E 7 è restade un’6lme — certamente una delle cose migliori a cui si sia prestato il friulano dopo l’isolata poesia del Colloredo — il particolare (che, se non riassume come in Pascoli e non salva come in Montale, non è tuttavia una semplice beauté de detail) è l’ombra

nella luce dello specchio ». Se qualcuno, per difendere Pasolini, volesse difendere la bellezza estetica di quella « Is », prenda prima atto che Spiegelschein, che figura in una poesia di J. Weinheber, è stato tradotto dal de Gironcoli con lusér dal spieli. Dunque, è del tutto fuori luogo il compiacimento entusiastico del critico di fronte a quella « lùs »: il termine /#s, nel passo in questione, non appartiene al regno della poesia ma a quello delle formule idiomatiche del linguaggio corrente. O si accetta questo punto di vista obiettivo, oppure

si esclami pieni di compiacimento anche di fronte a quest'altra « Its »: Son dîs di prime viarte, | scomenze un ciart cialdut, / e ta la'lis de

puarte | la mari s’cialde il frut (de Gironcoli, « Ajar di primevere », terza strofe).

Purtroppo, buona parte della critica è pronta a gridare al miracolo espressivo o perfino lirico di fronte a semplici fonemi, morfemi, o lessemi friulani, portando all’esagerazione premesse poste dall’entusiasmo alquanto ingenuo del Pasolini giovanissimo per i suoni del casarsese materno È. 3 Oh! —- dovremmo allora esclamare, appropriandoci di frasi impressionanti scritte

da Maria Corti, fine presentatrice di Fuejs di un an di A. Giacomini, Genova 1984 oh «l’indiavolato estro fonologico » del friulano, con i suoi « corposi dittonghi »,

14

Ma c’è di peggio, se si considera che ombra semanticamente è pur sempre un parente lontano del generico segro. Nel primo verso di « Là in am6r», la locuzione in paisse è glossata con « in viaggio » invece che « in agguato, alla posta » (cf.

badiotto paissa « esca », venez. paissa « selvaggina », etc., di origine alto-tedesca; REW e REW-Faré 1020). Ma è inutile continuare. Una

cosa è certa: al de Gironcoli siffatte glosse non stavano affatto a cuore; sembra quasi che le abbia apposte in un momento di distrazione e controvoglia, costretto da una necessità a lui sostanzialmente

estranea. Certo il de Gironcoli non avrà mai pensato che l’apprezzamento della sua poesia sarebbe poi passato attraverso il filtro non pulito di quelle noticine a piè di pagina. Non manca — a dire il vero — qualche autore che cura con sufficiente attenzione la versione letterale delle sue poesie, ma i più si comportano diversamente, anche quando sono convinti di impegnarsi a fondo (si veda ad esempio la citazione addotta nella nota 13). La casistica delle imperfezioni riguarda più di un settore della lingua: lessico, semantica e sintassi sono i settori più colpiti, ma nemmeno la morfologia e l’ortografia si salvano 4. La sintassi soffre « dono del cielo o della storia »! Oh «la seducentissima confraternita di sibilanti finali che pare assorbire tutto il fruscio delle foglie d’autunno »! Ma gli addetti ai lavori sanno bene che dittonghi e sibilanti sono sordo materiale linguistico e basta. Siffatto materiale, in quanto costitutivo di una struttura sopraindividuale non ha per sé stesso niente di seducente e di bello, e non genera niente di poetico automaticamente. 4 Qualche esempio: calliginosa in T. Colùs, ammagliata (per ammaliata) in F. de Gironcoli. Quanto al lessico e alla semantica, E. Bartolini propone al lettore italiano un improbabile incartesimato (per incantato), tratto di peso dal friulano; N. Cantarutti fa spalancare le rose, T. Colùs musicare i violini (altro friulanismo), G. Vit ritiene che la polivalenza di storzit friulano (« stomaco » e « petto, cuore ») sia anche dell'italiano stomaco; che plens detto di crocifissi « ricoperti » di polvere possa essere reso con coli; R. Castellani fa emettere ai grilli un gridolìo, e rende smarìnt con

dileguandosi

invece

che con

sbiadendo

(e qui ricorderò

anche

il famoso

vento

smarrito e gentile di D. Naldini); E. Bartolini traduce ’4 sclisava con schiacciava invece che con schizzava, confondendo scliéà «schizzare » con schic4 « schiacciare » (ma anche « schizzare », quale italianismo; per un esempio di questa confusione vedi P.P. Pasolini che, in «Ur rap di da», dice Jo i la sclissi cui dinc’ invece di... schissi ...); per A. Giacomini il remzdl diventa un generico quadrupede invece di ri manere uno specifico bovino (e ne risente il senso della lirica), e szdvit una volta si trasforma in smarrito invece di volgersi in sorto o pallido; per P. P. Pasolini i cops blancs di neif di una stalla diventano «i tetti bianchi di neve », e 1°« aspetto» (forma) della stalla è forza anche in italiano, così che il lettore resta nel dubbio

Lo

in modo particolare, e con questo suo soffrire diventa un buon deterrente contro i tentativi di lettura e interpretazione da parte di non friulani 5. E non parliamo della trascuratezza nella punteggiatura‘. È ovvio che una traduzione verbatim dal friulano — concepibile solo in forza del presupposto erroneo che il friulano sia un dialetto poco discosto dall’italiano — non può dare che risultati di tale fatta”. Aggiungi approssimazione e disattenzione e avrai l’insieme delle caratteristiche negative delle traduzioni che accompagnano edizioni di lirica friulana nella lingua originale. Il mio insistere non sembri pedanteria. Era doveroso sottolineare con energia questo malvezzo che dura da circa mezzo secolo, e che torna a grave danno delle lettere friulane, le quali di certo non lo meritano. Esiste, dunque, un ben fondato motivo tecnico — per così dire —

che giustifica l’impresa presente, volta a offrire finalmente ai non friulani uno strumento adeguato e controllato (almeno secondo il circa la forma geometrica della stessa; ancora peggio l’orizzontale in cjaf da li rojs selestis si trasforma nel verticale in fondo alle rogge celesti; secondo A. Pittana aghe frescje per me, graziosa qualifica metaforica di « lei », sarebbe in italiano « acqua fresca per me », non tenuto conto del valore sovente svilito di acqua fresca in italiano; C. Sgorlon traduce spacéd (in E. Buiese) con spaccare invece che con squassare, scuotere, in conformità a un errore di lingua ormai frequente purtroppo in friulano; e si potrebbe continuare a lungo. Vedi anche nota 16. 5 Campeggia l’uso del gerundio concordato anche con un complemento. Ciò in conformità a regole specifiche del friulano e del ladino in genere; ma l’italiano non è il friulano e viceversa. Perfino Carlo Sgorlon — è dire tutto! -— traducendo Elsa Buiese fa un «gran sbrisson » sul gerundio: « Lo aveva trovato piccolo e striminzito / trascinandosi in un bosco di parole », dovendo dire invece « che si trascinava ». 6 Qualche esempio: Pasolini scrive: «Dio, apre la porta, butta già la scure, sbatte i piedi per terra, entra in cucina stanco [...] Dio, sbatte la porta, si chiude in cucina»; e sarebbe bastato un punto esclamativo dopo Dio (nell’originale è la versificazione che disambigua il contesto) per assicurare il lettore italiano che non è Dio ma Stefano che fa tutte quelle cose. La chiusa di « Essi e véi» di S. Angeli, priva come è del punto di domanda in italiano, resterebbe un enigma oscuro se ... non ci fosse il testo friulano: « A credere o no che sia — così, che torto o vanto — mi viene, se sicuro — di non averla venduta — io non mi sento più da tanto ». Gli errori di stampa — e siamo a un livello di importanza minima ma non trascurabile — rari negli originali, di solito ben cutati, giocano tiri ribaldi nelle traduzioni: «[...] nei ritocchi soffocati della sera » (C. Sgorlon traduttore di E. Buiese); «[...] per i piani che si vanno stringendo nell’immobile argento di pace e di saggezza » (R. Castellani), etc. 7 S. Angeli, per rimanere fedele parola per parola al testo friulano, scrive: «questo — com'è, più povero — anche, com°era », lasciando i suoi lettori nelle peste.

16

nostro buon proposito) per penetrare nel contesto originale di questa produzione artistica. A differenza delle traduzioni presentate nella precedente antologia dolomitica, queste sono meno letterali. Non ci sarebbe stata ragione per rimanere al livello di un tradurre pedissequo. Senza toglier nulla all'autonomia strutturale e alla individualità della lingua friulana, mi pare si possa ammettere concordemente che essa riesce

meno difficile degli idiomi dolomitici a chi conosce la lingua italiana. Oltre a ciò, rispetto alle sei grammatiche funzionanti nell’area dolomitica, qui la grammatica è sostanzialmente una, e la sintassi è meno

distante dalla italiana, in confronto alla dolomitica che ha peculiarità accentuate.

Ciò ammesso,

il lettore accetterà forse volentieri le mie

traduzioni che aspirano a riprodurre soprattutto lo spirito e le valenze degli originali. Ho cercato anche, nei limiti del possibile, di non allontanarmi dai valori ritmico-fonici. Purtroppo la diversa struttura tra le parole friulane e le corrispettive italiane in quanto a numero di sillabe mi ha costretto — quando nel metro l’isosillabismo meritava

di essere

salvato — a sacrificare in certi casi, tacendolo,

qualche elemento più o meno importante del fraseggio friulano. Le note a piè di pagina rimediano, informando il lettore, quando questi da solo potrebbe incontrare qualche difficoltà a riconoscere e comprendere tutti gli elementi della frase friulana di cui propongo una versione. Il lettore potrà prendere atto che in un paio di casi, però, dovendo io scegliere tra il vantaggio di conservare l’isosillabismo e quello di mantenere parti sostanziali del discorso originale, ho optato per la seconda soluzione. Ho anche mirato, dove l'italiano lo consentiva, o meglio lo consentivano le mie capacità, a riprodurre la medesima distribuzione del numero delle sillabe toniche nei versi più rappresentativi. Questo è il motivo per il quale in corrispondenza di cjalant tal flum la lune di M. De Apollonia si troverà il mio nel riguardar la luna, con il recupero di tal flum in un verso successivo. A volte sorge conflitto tra ritmi e semantica: nel rendere il già citato E ’/ è restade un’6lme, un eventuale Ed è rimasto un segno avrebbe rispettato la cadenza ma non il senso, centrato su una traccia vaga e non su un segno concreto. Nelle intenzioni, dunque, e spero anche nei fatti, la versione {7

questa volta aspira ad essere ancor più rispettosa dei valori artistici dei modelli *. Perché questo è il punto: quanto qui raccolto è quasi sempre vera arte, alta poesia. Ragioni allotrie — pur validissime in un esame culturale complesso — di rappresentatività ad esempio di forme linguistiche, di aree ideologiche, di momenti cronologici, di « presenze » in un quadro di politica culturale unitaria, non avevano motivo di farsi valere in maniera consistente in questa mia selezione friulana. A guidarmi è stato — quasi esclusivamente — l’interesse per l’arte, fatte salve — a mio parere — alcune cose del Minut e di certe avanguardie recentissime ?. 8 Resta fermo che non ho dimesso il costume di essere rispettoso anche dei valori semantici letterali, salvi casi rari nei quali il corrispondente italiano si rifiuta di entrare nello schema metrico dell’originale; si veda, ad esempio, il termine scaccia pensieri non disponibile per i « dimetri giambici » di una poesia del Carletti. A questo proposito qualcuno potrà rimanere stupito nel vedere che in varie occasioni mi sono scostato da indicazioni semantiche offerteci dagli autori stessi. A parte gli svarioni veri e propri commessi dai poeti-traduttoti, mi sono domandato cette volte se una data valenza semantica quale risulta dalla traduzione dell’autore, non convalidata però dalla restante friulanità antica e moderna, non sia giustificata come specifica dell’idioletto di quel particolare autore. Ma vuoi per il livello generale riconosciuto non buono nei nostri poeti traduttori di loro stessi, vuoi per il fatto che un testo reso pubblico è disponibile ad essere interpretato e reinterpretato alla luce di quello che comunemente (nonché filologicamente) si sa intorno alla lingua in cui è scritto, l’autotraduzione non può pretendere di rimanere una sentenza senza appello; resta una sentenza degna della massima attenzione e dello studio più scrupoloso, ma resta anche un fatto privato e soggettivo, senza alcun carisma di oggettività assoluta e di intangibilità. In altri termini, è sempre possibile intendere meglio o almeno in modo diverso. Ciò vale altrettanto — lo so bene — per le mie versioni. ? Nella mia precedente Antologia dolomitica, oltre il modo del tradurre anche il criterio della selezione è stato parzialmente diverso. Non esisteva antecedente di sorta; ed era necessario culturalmente e politicamente che tutte e sei le valli dolomitiche (ossia le sei parlate) fossero rappresentate e lo fossero in misura consistente. Da ciò è derivato che accanto a grandi prove di liricità si trovi nell’Artologia dolomitica anche qualche prova meno riuscita. La soglia che segna l’accesso alla grande poesia richiede, per essere varcata, il superamento di ogni scoria naturalistica e di ogni immediatezza. E nella precedente Antologia qualche traccia di naturalismo è innegabile. È pur vero che la presenza del sentimento « naturale » è sovente, pet molti, il segno di una poesia riuscita, il segno di una schiettezza non inquinata da artificio e da scuola (e qualcuno potrebbe credere che l’apparizione recente e improvvisa della poesia dolomitica dimostri l'inesistenza di scuole, laddove la parte migliore di questa poesia si innesta in tradizioni letterarie europee). « Non è la poesia delle corti e delle accademie, delle scuole di umanità e delle classiche rimembranze — scriveva il Tommaseo nel 1830 — che noi ne’ canti popolari cerchiamo: è l’espressione, più o meno felice, di sentimenti naturali o sulla natura ». Nel nostro secolo questa ideologia di impronta romantica e popolaristica si è trasformata — come è ben noto — in un cri-

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Indubbiamente, nel Minut che affronta temi sociali ed etici la voglia se non la velleità del persuadere, cioè la retorica, è prevaricante. Un poco ciò avviene anche in Celso Macor, dall’oratoria travolgente, ma certo in misura assai più equilibrata: attraverso l’incastellatura predisposta passa un potente impeto lirico di accoramento. La poesia politica di uno Zanier — per fare un altro esempio — si eleva di solito in spazi diversi da quelli propriamente artistici. Perciò essa ha riscosso un lusinghiero apprezzamento presso organi ufficiali di partito e presso critici partecipi della stessa ideologia; e io lascio giudicare a chi di queste cose ben si intende. Tuttavia lo Zanier ha anche altri pregi, più importanti secondo la nostra prospettiva, pur se forse non egualmente gratificanti. Dell’avanguardismo ho dato soltanto qualche saggio, scegliendo fra quelli più simpatici e originali e, perché no, meno incomprensibili. Ciò premesso, resta la grande stagione della lirica friulana del Novecento.

Essa sembrerebbe articolarsi in tre epoche nettamente distinte: la prepasoliniana, la pasoliniana e la postpasoliniana. Con lo scegliere l’ingresso di Pasolini a momento discriminante, rendo omaggio alla critica tradizionale, nonché alla convinzione vulgata che la grande

terio di giudizio negativo invece che positivo, e spesso finisce per creare impedimento ad apprezzare anche la poesia di buon livello medio. Comunque, in entrambe le mie antologie, la dolomitica e la presente friulana, non è stata e non è la poesia popolare l’oggetto del mio interessamento. E se qualche lettore dovesse anche qui avvertire scorie « naturali », ebbene rifletta che in ogni letteratura, anche in quelle di grande lustro, scorie e faville coesistono di necessità. Mi è capitato, in questi ultimi decenni, di percorrere nell’area ladina un tipo di cammino già esperito da altri in altri contesti: da interessi linguistici, filologici, storici e culturali in genere, quelli dei miei inizi insomma, all’interesse terminale estetico. Analogo cammino percorse, ad esempio, come Alberto M. Cirese ha mostrato recentemente, proprio il sunnominato Tommaseo. Questi dalle sue prime note e recensioni erudite sui canti popolari (1830 e sgg.) giunse ai Canti toscani del 1841, dove si legge che durante un sopralluogo sulle montagne del pistoiese gli fu dato di scoprite per la prima volta in tali canti valori poetici, « onde la Lima » gli divenne « più memotanda dell’Arno ». Se mi si chiedesse, a chiarimento, di continuare in questo impiego metaforico e simbolico di nomi di fiumi e di torrenti, ebbene io dovrei dichiarare l’eccellenza del Tagliamento e di tanti altri fiumi del Friuli, ma dovrei anche aggiungere che nel mio caso ogni confronto con l’Arno è oggettivamente e storicamente indisponibile, dacché la friulana è una letteratura a sé stante, per quanto l'influenza della italiana sia stata già nel passato notevole.

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poesia friulana del Novecento sia figlia di Pasolini. Ma vorrei subito precisare che il quadro friulano si deforma e si impoverisce se si insiste troppo su una periodizzazione di questo tipo !°. Pasolini ha svolto una parte di importanza notevole, e ha creato una moda e un gusto. Ma in questo Novecento friulano c’è anche dell’altro, di valore non minore, anzi forse maggiore, prima e dopo Pasolini. Lo stesso Pasolini critico aveva iniziato la discoverta di tale « altro » precedente. E poi sono da aggiungere questi ultimi decenni, con indirizzi diversi e indipendenti. La prima metà del secolo si apre con la poesia programmaticamente umile e risultativamente cosmica di Celso Cescutti. Nel suo chiudersi terragno, agreste (lui stesso si nominò « Agreste », ma non appropriata parmi la qualifica di « poeta-contadino » datagli dalla critica), il Cescutti (rivalutato da Pasolini) in ritmi ora seccamente

scanditi ora a volute avvolgenti, con riprese a spirale slargantesi, riesce a raggiungere un livello di contemplazione universale dell’assoluta limitatezza dell’essere umano, sospinto misteriosamente dalle forze immense del cosmo, nel quale l’individuo è destinato ad essere cancellato. « Ix te stale » è la poesia della fede in crisi. La vita contadina d’inverno nel chiuso caldo della stalla, l'immenso freddo

spazio celeste notturno, il momento del Natale evocato dalle campane, mentre

i ricordi, come

i secoli, si perdono

nell’immensità,

e

infine Sirio che pulsa come il cuore del Mondo, sono le tappe del progressivo poetico espandersi del sentimento dell’uomo nell’universo, movendo dal piccolo cerchio della vita rustica: la Famiglia, la Religione, la Natura, dal microtopos al topos cosmico. Ma nella chiusa anche il cuore del Mondo sembra tacere: non è più capace di parlare al poeta il linguaggio della vita. Nel canto del « Vespro », rassegnazione e ironia amata si dànno la mano, la prima come rimedio contro l’indifferenza del futuro nei riguardi dei cosiddetti valori della vita, la seconda quale correttivo 1 10 L’esempio più recente, a me noto, dell’insistere su tale deformazione prospettica, inventata da P. P. Pasolini stesso per potersi meglio affermare, è quello che si legge IT G. ELLERO, Piccola antologia friulana, in « Distell» p. 42.

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(Bolzano), sett.-dic. 1985.

indispensabile per ridimensionare quella importanza e quella persistenza nel tempo che si è portati a riconoscere a cerimonie, codici di comportamento, sensi d’amore, spettacoli della natura. Sovente il Cescutti prende le mosse proprio da spunti paesaggistici o stagionali, in quanto, come « Agreste », vive lo scherzo drammatico del vivere trovandosi fisicamente collocato per sorte in un milieu minimamente artificiale o sovrastrutturato, e massimamente pervaso invece dall’impulso vitalistico irrazionale. Le movenze iniziali di questa lirica del Cescutti mi richiamano nel sentimento così poco controllabile del ricordo letterario un verso di Turoldo: l’inizio dell’XI lassa della « Chanson

de Roland », dels fut li vespres

e li soleils fut cler,

avrebbe potuto trovarsi perfettamente a posto nel cominciamento di « A Gespui », anch’esso volto a riproporre l’immagine di un giorno indeterminato di gaudio sereno e incosciente. Poi, nel giro di pochi versi, la fantasia volge al peggio, si piega a un pessimismo lucido. E si potrebbe riassumere anche questa concezione — per concludere il gioco della memoria avviato — con un altro verso di Turoldo che fa da contrappunto al precedente: Hom £:i la vait repairer ne s’en poet (lassa XXIII).

Della forte, virile, pensosa poesia del Carletti non molto abbiamo: quanto basta però a farci apprezzare con la poesia anche un’abile versificazione e un’attenta ricerca di ritmi. « Su l’albe », « Gnot di

vint », « Di grinte » sono liriche piene di impegno umano e, insieme, di superiore distacco, voltando in esse il poeta le spalle alla passione e al tormento col perdersi ora in una voglia di sonno o di vino e di canto, ora in « Grot di vint » ascoltando attento «il passo del tempo ». In queste liriche la letteratura non va in cerca di pretesti; sembra anzi che la lavorazione verbale sia un posterius, assai poco appariscente per giunta, quanto più efficace essa risulta. Il fatto psicologico così balza di volta in volta in primo piano, e vi permane e ci avvince. Ancora non si avverte alidore di accademia; non si vede

ordito di esercizio: l’insistente ritmo sdrucciolo di « Di grinte » parrebbe — è vero — testimoniarlo, laddove è il ritmo ternario della danza — la « stàjare » — che si è fatto parola grazie a quel processo miracoloso del linguaggio per cui il ritmo del discorso talvolta diventa segno diretto di un’esperienza di vita. Se maniera vi è, è maniera integralmente umana. 21

Cescutti e Carletti sono le voci nuove del Friuli che gradualmente ma in modo definitivo rompono con lo stile tradizionale della canzonetta pseudoarcadica o pesante in fatto di gusto. Con loro il friulano diventa veste linguistica di un sentire intenso e profondo, non più riportabile nei limiti di una certa friulanità di costume. Con il grande de Gironcoli si conchiude la prima fase. La poesia comincia a farsi più contenuta, quasi riservata (« L4 în am:0r » è un

caso eccezionale di estroversione), e in questa riservatezza coltiva il rapporto delicato e fragile tra l'io e l’eternità, che è quanto dire il nulla. La contemplazione degli aspetti gradevoli dell’esistere fa sentire più acuta la passione del fatale perdersi: ogni ciosse smarîs parie cu’ l’ombre; / po lu credt, tal scàr cal ven parsore / dut al sprafonde. Il linguaggio della lirica col de Gironcoli si affina. Sembra quasi che non abbia legami di continuità con le esperienze dei predecessori. È stato definito « reinventato »; certo è un fatto di cultura, non contaminato però da alcuna memoria letteraria che non sia di arcaismi linguistici del friulano scritto. A volte, però, questo linguaggio rischia il lezioso, specie quando l’Autore gioca troppo scopertamente su riprese chiastiche di parole-suoni. Ciò sposta il poetico verso il lato puramente formale. Ma ormai siamo appunto in una atmosfera che darà respiro quasi contemporaneamente anche all’arte di Pasolini, venuta

presto

a maturazione

attraverso

un

rapido

apprendistato

culturale, svolto in una cornice assai ampia di influenze ed esperienze letterarie, tra le quali risultarono determinanti quelle pascoliane, della stagione ermetica e delle contemporanee correnti filologico-critiche. Su Pasolini friulano e sul friulano di Pasolini è bene che io mi guardi dall’insistere: tanto è stato pubblicato sul tema che un paio di pagine in proposito sarebbero qui un non senso se con esse volessi fare il punto. Raramente una produzione così circoscritta nelle sue parti pienamente valide ha richiamato tanto inchiostro della critica, come quella friulana del Pasolini. Il trucco della lingua « diversa » ha funzionato a dovere in un momento forse di ristagno delle energie poetiche in lingua italiana (allora si viveva per sopravvivere, e al pubblico si doveva offrire, in italiano, solo retorica), anche se tale lingua diversa

è stata intelligentemente strumentalizzata più che internamente sof22

ferta per il bisogno puro di obiettivare un contenuto di coscienza copioso, che in realtà mancava. Argomenti non eccezionali, imbastiti però di un sentimento cristiano captante nel suo carattere elementare e quasi ancestrale, di trepidi affetti materni e filiali, di un eros particolare antico quanto il mondo e ben collaudato in letteratura, di antevisioni di morte, di

ritorni dal regno dei trapassati, di sospese aure di incanto e di ricordi abilmente poi non dichiarati, di diatesi psicologiche e di sinestesie extra ordinem hanno trovato un rivestimento formale di eccezionale tenuità e finezza, ricco di elaborati giochi di capovolgimenti e incastri tematici, e perfino di « disegni » tipografici. In quegli anni, durante i quali l’umanità in tanti continenti era oppressa dal peso di una guerra incredibilmente tragica, è un vero miracolo che « a Casarsa »,

pur scossa da lotte partigiane, fiorisse, quasi fuori del tempo e del mondo, un ludus poetico non-sentimentale, votato al solo sentimento squisito del « letterario » ad ogni costo. In « Carsion » — è vero — c'è dramma e pena profondamente patiti e liricamente espressi: il dramma della caduta di una fede terrena e di un amore per una gente, e la pena del distacco, psicologico oltre che fisico, da quel Friuli poetico e sapientemente fittizio che Pasolini si era creato mediante culti strumenti letterari. Ma, appunto in quanto svolta eccezionale e irripetibile,

« Carsion » è un episodio a sé, nettamente

distinto per il suo alto valore da tutto il prima e da tutto il dopo. Il dopo, infatti, è assolutamente altra cosa: niente di strano se, passati gli anni, un sopravvenuto impegno di militanza politico-sociale spingerà l’Autore a rivedere il già fatto, e a tentare un controcanto in chiave di autocritica e spesso di dubbio gusto: dl è finit il mond. Si sin trovàs .J ta un nouf mond, e tu / i ti sos ledàn par i siuns « finito è il mondo. Ritrovati / ci siamo in un mondo nuovo, / e tu per i sogni sei letame » !!; analogamente, il nome del Cristo, Jesus, già invocato trepidamente a diciannove anni, assume dopo i cinquanta nuove sorprendenti valenze, vista la possibilità di riferirlo a una

11 « David », prima variante; esempio di tale vena nuova.

vedi anche, appresso,

« Ploja four di dut»

quale

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marca, allora in voga, di un capo di abbigliamento:

« forse si tratta

degli omonimi blue-jeans » insinua in nota l’Autore, ricorrendo all’espediente retorico di mescolare in modo vago sacro e profano, come si conviene a chi è ormai scettico, e compiacendosi probabilmente di tanto ampliarsi di orizzonti. Presso colleghi che vivono quotidianamente — per professione e vocazione — nella dimensione della pura letterarietà ho potuto costatare — parlandone — quanta forza di presa abbia ancor oggi la prima poesia friulana del Pasolini, capace di trarre dalle movenze fonologiche e verbali del friulano, « inconsuete » per un orecchio non friulano, stati magici di suggestione poetica. Il primo Pasolini resta indubbiamente uno dei non rari fenomeni estremizzati di letteratura letterata e accademica. Per cui l’originalità di atmosfere poetiche come la provenzale antica 0, poniamo, l’andalusa moderna rischia di diventare spesso un ricordo ingombrante nel momento in cui si vuole che divenga oggetto di un richiamo culturale con funzione di riscatto per una intera « sottocultura » sbattuta sul banco degli imputati. Tuttavia sopravviverà — credo — del Pasolini « a Casarsa », prima maniera, il valore indiscusso di quell’incanto di un mondo innocente attraversato da incolpevole ma assai caldo peccato, innaturale per giunta, di quella magia medianica di dolenti stati di morte vissuta spezzanti le cadenze obbligate del tempo, di quel piacere sottile di mescolare l'odore e il colore del disfacimento al profumo luminoso del vivere, di quella malinconia sognante propria di una vita senza distìn / puartada via cu ’l cuarp, di quel legame insistito, infine, con molti segni del paesaggio friulano, trasformati letterariamente in simboli di un paradiso pericolante, godibile a pena nella dimensione dell’arte. A ciò allude quel dichiarato e famoso « regresso da una lingua a un’altra, anteriore e infinitamente più pura ». Una grande illusione quest’ultima qualifica, ma nel giovane Pasolini non sempre il critico e il poeta convivevano

separati.

La friulanità dell’esperienza casarsese di Pasolini — pur dopo la critica apprezzativa di un Contini — è stata in più di una occasione sottoposta a discussione. In particolare Riccardo Castellani mosse dal di dentro garbate ma severe accuse di frode « geniale e scaltra ». Sembra difficile dare torto in tutto al Castellani, il quale cominciò a 24

poetare nello stesso anno, il 1942, in cui a Bologna uscivano le Poesie a Casarsa di Pasolini (che utilizzava alla meno peggio il casarsese

materno)

o, forse più precisamente,

nell’anno

successivo,

quando Pasolini si trasferì a Casarsa della Delizia, dove R. Castellani già risiedeva. Castellani, dunque, poté osservare direttamente il procedere di Pasolini,

e ne fu certo influenzato, anche se ben presto se

ne distaccò. E poté scoprire facilmente il marchingegno che si celava e ancor si cela dietro la giustapposizione della traduzione italiana al testo friulano. Scriveva Castellani (in « Il risveglio delle lettere, della cultura e dell’istruzione », Udine, febbraio 1962, p. 9): «I testi italiani pre-

sentati come traduzioni, offerti soli e per sé soltanto, annegherebbero forse senz’altro nel mare vasto dell’odierna produzione letteraria [...]. Mentre invece, essi possono acquisire degli aspetti di preziosità se riferiti a versi stesi in una lingua quasi indecifrabile ai più, ad un mondo in cui non si penetra che a stento e di straforo, e che pertanto esercita un fascinoso ascendente. Il prestigio dei componimenti così presentati è corroborato anche dalle asserzioni degli Autori [il Castellani si riferisce ai membri dell’ “Academiuta” fondata da Pasolini] circa una intraducibilità dell’intima sostanza poetica dei testi friulani, asserzioni queste atte a far presumere la presenza in essi di elementi fortemente pregnanti, di valori diluiti e dissipati nella traduzione italiana ». Non credo, però, che sia giusto seguire sino in fondo la tesi del Castellani. Questi, in risposta a gratuite autodifese della friulanità della propria poetica da parte dei Piccoli Accademici di Casarsa, obiettava che le traduzioni erano sicuramente il prius e i testi friulani il posterius: questi secondi sarebbero il risultato di un vero e proprio forzato trapianto nell’humus linguistica friulana di elementi e spunti letterari elaborati prima in italiano. Sicuramente le non molte difficoltà che il friulano di Pasolini offre sono un indizio chiaro dell’esistenza di una interferenza linguistica di fondo tra friulano e italiano nella mente di Pasolini. Tuttavia, proprio il valore letterario assai scarso delle sue traduzioni (valore non di rado del tutto assente), i

frequenti slittamenti nel prosastico brutto e banale (si rilegga, pet esempio, « pei prati con freschi piedi saltano i fanciulli leggeri negli 2)

scarpetti »), e soprattutto i friulanismi presenti nelle traduzioni * mi i inducono a respingere la tesi polemica del Castellani !. accadimento un Il piccolo libro delle Poesie 4 Casarsa non restò isolato. Il trasferimento fisico dell’Autore sul posto significò l’avvento in Friuli di uno spirito di forte attivismo culturale e di rinnovamento. P.P. Pasolini fece scuola: Naldini, Spagnol (qui accolti), O. Colussi e molti altri ancora dettero vita a un genere di lirica, che, fatti salvi alcuni valori poetici individuali, appare alla distanza un poco affetta da maniera, che, per ben distinguerla dallo « zoruttismo » di un tempo, potremmo chiamare, con termine nuovo,

« ca-

sarsismo ».

Agli ismi di tale specie spetta il compito non lieve di non inventare niente, per non correre il rischio di perdere di vista il modello. In compenso, tali ismi sono produttori di tradizione, cioè di continuità storica. Pertanto, la società si ritrova agevolmente in essi e

per un poco si acquieta mentre, inconsapevole, è in attesa del nuovo. Orbene, la cultura letteraria friulana alle soglie del Novecento era sostanzialmente statica perché tradizionalista, e non sapeva proporsi all’attenzione di lettori non friulani, né appariva alla maggioranza dei Friulani stessi una cosa molto impegnativa !. Si aggiunga la politica di unità linguistica imposta dal regime fino alla seconda guerra 1? Anche al Pasolini sfugge abitualmente il solito balcone quale traduzione italiana del friulano balcon o barcon, che significa, invece, « finestra », semplicemente (così già nel trecentesco Biello dumlo di valor; per un particolare impiego del termine da parte di D. Naldini sulle orme del Leopardi vedi p. 244); o ancora « tagliare il loglio dal grano » in corrispondenza di tajà il voul da la blava; scarpetto invece di scarpetta, scarpuccia © scarpino, etc. 13 Come semplice curiosità è da ricordare la fiducia che il Pasolini riponeva nella bontà delle sue traduzioni, oltre che, di conseguenza, nella loro funzione — diciamo così — salvifica. Scriveva nel 1954: « Vorrei aggiungere, infine, che se le versioni in italiano a piè di pagina sostituiscono un glossario, e con molti svantaggi rispetto a un glossario, fanno parte insieme, e qualche volta parte integrante, del testo poetico; le ho perciò stese con cura e quasi, idealmente, contemporaneamente al friulano, pensando che piuttosto che non essere letto fosse preferibile essere letto soltanto in esse ». 14 Purtroppo, già con le poesie del conte Ermes di Colloredo (Di sudd sére i libris par avé / fame di leteràt, no vuéi pensai: / [...] / Ce ocòr a ld cercjant altre scriture / cun stente, cun sudòr e cun impaz?) si era da tempo diffuso nel Friuli «il supposto, tuttora comune, che la poesia friulana non possa essere se non un passatempo d’indole burlesca o sarcastica, condito magari di malizie, di doppi sensi e di franca trivialità » (G. Marchetti).

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mondiale e si riuscirà a capire perché è venuta a mancare ogni capacità di incidenza sulla società friulana da parte di Cescutti, Carletti, Minut, de Gironcoli ed altri. Il poco che veniva stampato rimaneva pur sempre tra quattro muri, quando non mancava la voglia di arrivare in tipografia e le opere osavano uscire dai cassetti. Bisognava

scuotere

questo

Friuli apparentemente

pago

di restare

ancorato a un modo secolare e ormai stanco di scrivere. Un giovane di nome Pasolini ci riuscì. La letteratura nel mondo antico nacque come forma di spettacolo. Dopo secoli fu scoperta la dimensione privata se non intima del letterario. Il mondo moderno è tornato ad apprezzare la letteraturaspettacolo da quando il fatto sociale ha preso aggio sull’individuale, pur se la lirica soprattutto sembra abbia in genere scarso bisogno di un pubblico. Negli anni Quaranta Pasolini fu tra i primi a scoprire il valore dell’idea che la letteratura, in un paese tanto regionalizzato come il nostro, è uno strumento potente di politica sociale da gestire in modo spettacolare, se si vuole che la continuità storica non si trasformi in immobilismo. Lo scopo della battaglia che lui poi vinse era proprio quello di sregionalizzare una cultura ripiegatasi da troppo tempo in sé, di riallacciare vie vitali di comunicazione tra il Friuli e l'Europa medievale e moderna. Non fosse altro che per questo, Pasolini e il casarsismo

furono

un bene. Pasolini, maturatosi

nel

momento giusto, quando l’impianto del potere statale oscurantista cominciava a cedere, mise in movimento il Friuli, lo portò arditamente alla ribalta, riempì la platea di spettatori italiani riservando il loggione ai friulani, e recitò pubblicamente la sua lezione a voce alta. Gli effetti di questa lezione ancora permangono. L’uso del friulano come linguaggio letterario è ormai suggerito non più da voglia di gioco o di scherzo ma da necessità sentita di espressione, e da orgogliosa affermazione della propria storicità linguistico-culturale. Il casarsismo con la sua opzione per il registro dialettale sembrò per qualche decennio aver messo in crisi le possibilità di affermazione di un friulano comune, che in buona parte era ancora da codificare. Di fatto, per la lingua scritta la plurivocità — per altro già esistente — tra dialetti, parlate e lingua non pare sia stata dannosa. Sono convinto che certi poeti friulani perderebbero il loro smalto se la forma da loro eletta fosse convertita nella forma della 27

koinè, pur ammesso che tutto sia convertibile nella koinè, alla quale spetta essenzialmente il diverso e non meno importante compito di essere il veicolo prosastico della cultura friulana comune. Tra coloro che furono scossi dall’audace e intelligente rivoluzione casarsese Novella Cantarutti in special modo ha cose di grande valore (si vedano « Tre cjasi’ » e « Stradi’ da la me val »), ma è soprattutto il fondo inquieto e patetico — in senso positivo — della sua ispirazione, così bene analizzata nella sua genesi e nelle sue pieghe da Carlo Sgorlon, che le ha consentito un tipo di messaggio inconsueto tra gli epigoni di Pasolini: le sue liriche trasmettono una sofferenza vissuta attraverso la magia di una musicalità inconfondibile, e con la chiarezza ferma propria dell’intuizione verbale ci parlano di un patito chiudersi, a tutela, entro il chiaroscuro di una spiritualità ipersensibi-

le, nel quale l’esperienza dell’oggi funziona per lo più come creatrice di simboli inquietanti che evocano struggentemente un passato perduto (’Na rosa ’a si disflora / sul cjantonal. / E ‘a mi sovén / ’na ora soreglada, / ’na gjonda di pitbur / sun tela antiga, / ’na disclarida / vena di cjant ...) o annunciano un preoccupante avvenire (Tal céil sblancjt / da l’alba, / j ai pbura di un’dtra dì da vivi). Le « strade »,

le « case », gli «steli delle margherite », un « fiore che perde i petali », la « polvere di un tarlo » e tante altre cose che la circondano, altrimenti neutre, si fanno nella Cantarutti simboli di un pathos che solo talvolta troviamo « acquietato » nell’« ombra delle ore morte ».

Messe da parte queste eccezioni, dobbiamo volgerci al Castellani per trovare una nuova grande pagina della lirica friulana; ma la chiameremo stagione, avendo il Castellani potuto fortunatamente poetare a lungo, seppure in modo intermittente, fino al 1975, due

anni prima della sua scomparsa a sessantasette anni. Basterebbero poesie come « Ad our dal mont » del 1948, « Not di setembri » del 1958, e, in colzese, « Larìn cui dis» del 1952 e « Lontana » del 1953 per consacrare poeta uno scrittore. Qui non è

più questione di semplice abilità verbale, di calcolati effetti tonali, cromatici, evocativi, allusivi, ritmici, di sapore quasi esotico, spesso ieratico o misteriosofico, come nel caso dei Piccoli Accademici; qui abbiamo un grandissimo poeta che prima è un essere di copiosa sensibilità. Movendo da questa, egli crea situazioni e immagini di 28

passione vissuta liricamente in visioni distaccate, quasi algide — come le dichiarò una volta G. Faggin — entro un ampio orizzonte di panteistica partecipazione alla vita delle cose e degli esseri. La sua veglia sospesa nel tempo al margine del mondo che dorme, la sua veglia sui lunghi stelli ondulanti dell’erba che s’incurva sopra un’onda liscia e profonda, la sua veglia sullo strido dei grilli, mentre l’ora notturna si perde nel buio del futuro, è una intuizione poetica eccelsa che non sa di scuola e che non teme imitazione o concorrenza. Con alcuni più giovani poeti, come il Valentinis, la Buiese, il Vit

e la Vallerugo, dei quali ora brevemente dirò, il Castellani è per me tra i più grandi poeti del Novecento friulano, dal cui novero, certo, non si possono escludere, per i loro alti meriti, il Cescutti, il Carletti

e il de Gironcoli e, allargata pure la rosa per non pretendere troppo, lo stesso Pasolini, così ricco di estro cattivante, oltre, ovviamente,

alla Cantarutti e a Naldini. Anche con il Valentinis, infatti, non c’è più spazio per la poesia quale gioco letterario squisito; per di più con lui l’ipoteca pascoliana — accesa da tempo sul Friuli — è decisamente cancellata. L’opera del Valentinis

può essere

considerata

come

una

sequenza

senza

termine di canti — senza titolo — facenti tutti parte di un unico grande poema sull’amara condanna del vivere. L'amore è appena un sogno del sangue, vissuto dagli altri con modi di desiderio dolceamaro, che macchiano i corpi. Il poeta, votatosi al gusto amaro del perdersi — perché questo è ciò che impone il destino — si cinge, a modo di corona, il capo con la sua « cupa leggenda » !; non più le luci celesti e gli splendori e gli ori della Piccola Accademia: « ciò che di pena resta è già bagliore ». L’esperienza della felicità e dell’amore, depositata sul fondo, gli appare ormai come una febbre aliena, come fiamma di una meraviglia antica, spentasi da tempo nello strame del malessere. La vita? Un suono cupo di pozzo murato, un miraggio di guadi impediti. E lo spirito si spegne, stanco di veglie. A una prima 15 Qui il nostro ricordo risale, per consonanze latenti, a una strofe della poesia « An den Knaben Elis » di Georg Trakl: « Lass, wenn deine Stirne leise blutet / uralte Legenden / und dunkle Deutung des Vogelflugs ». E si riveda anche il volo dei passeri in « Par inviàmi tal sium » (ma a questo proposito si rimemori pure il verso carducciano di « Nevicata », in Nuove odi barbare: « picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati »).

DS

impressione si può credere di trovarsi di fronte a una poesia nichilista, di rinuncia assoluta. Poi ci si accorge che nel fondo giace oppressa una coscienza forte, capace ancora di slanci di ribellione, slanci inutili, e per questo tanto più etici. Che resta? « Iniecta monstris Terra dolet suis ». Gianfranco Contini ebbe una volta l’occasione di celiare su chi tentasse di categorizzare in autonomia un genere lirico specificamente femminile. Un genere, certo no! ma un individuum lirico di esaltata sensibilità femminile è nel raggio degli accadimenti possibili, come già la storia antica lo prova; e la poesia risultante si pone a sé, con caratteri suoi propri, inconfondibilmente. Nella più recente poesia friulana Elsa Buiese ne è un esempio eccellente. I momenti felici e infelici di un cuore di donna giovane, esposto in modo vulnerabile agli aspetti complessi, rischiosi, del gioco dei sentimenti e dei sensi della vita e dell'amore, si ritrovano, nei suoi versi, calati in un’onda

di continuata musicalità, cantata quasi, con ritmi delicati e sonori, abitati da immagini nuove, molteplici, che sorprendono e conquistano la nostra possibilità di rispondenza — ecco la forza suasoria pura della poesia, additata da Walter Binni come virtù indispensabile a legare autore e lettore. Ci sorprende ancora la Buiese con quel suo immaginoso e sofferto transfert dentro la psiche alterata di Tea, la giovane misteriosa che un male oscuro separò dal comune vivere, e che pure cercò di inviare dal suo luogo di pena messaggi di aiuto invocato con i suoi eccezionali Quaderni, resi pubblici postumi. Avvenuto quel miracolo della conquistata sintonia sulla giusta lunghezza dell’onda che vaga nell’universo del dolore e dello smarrimento senza che altra antenna sappia captarla, non sai più se è Tea che è simpateticamente ascoltata da Elsa o se è Elsa che interpreta direttamente il ruolo di Tea, in un sottile affascinante gioco tragico di scambio o di fusione di personalità, nel breve tratto di quella « caduta » (Lapsus, 1983) che travolge senza speranza di riscatto. Tra i poeti apparsi in questi ultimissimi anni un posto a parte spetta a Ida Vallerugo, già autrice molto apprezzata in lingua italiana fin dal 1968. Sono ancora poche le poesie in friulano a me note. Esse, ad ogni modo, confermano tanto la visione del mondo quanto lo stile della produzione in italiano. 30

La Poetessa, anche se si augura « che non venga domani il nuovo giorno senza di noi », anche se sospetta che la realtà forc’ ‘4 na è / soul un sum ch'a si pos tocjà, tuttavia non nutre la speranza di progettare un domani: « a noi non è dato di fare progetti » « nella

illusoria realtà / di questi tempi disumani ». Per altro, la bruttura dell’oggi fu preceduta dalla « tristezza infinita / dei primordi ». Cosa resta per noi? forse il tempo post mortem? Ma anche « la morte è un’aperta stagione / di nuovi oscuri inquietanti semi ». Queste sono le matrici ideologiche che generano un discorso portato insistentemente sulle fasi oniriche del vivere; da esse emerge l’importanza della fede nella poesia come rifugio, che trova la sua collocazione soprattutto nella sfera degli affetti familiari rivolti indietro verso un punto dell’ascendenza matrilineare. Infatti, l’affetto più importante, quello che la risarcisce in normalità, in forza, in concretezza altrimen-

ti disparse, è quello profondo, esistenziale, per l’ava, la ripensata immagine della quale è come il cardine della tematica della Vallerugo. Diventa emblema, simbolo, la Madre, la Grande Madre, la Maa,

andina o tibetana, comunque trasposta a valenza universale; oppure si fa oggetto-simbolo: ora « mais », in quanto nutrimento essenziale — dell'America precolombiana quanto del Friuli moderno — o aurec’, nome locale del fascio di tralci carichi di uva, che si appende a un trave del soffitto, a conservare più dolci i grappoli, in un ap-

passire amaro. La musica della poesia di I. Vallerugo è più interna che esteriore o fonica; è ritmo di concetti, di simboli, di percezioni surreali; è l'armonia interna di una filosofia vissuta e sentita con forte coerenza. Come si conviene a una mentalità lirica, tale filosofia

è una radicale convinzione indotta da esperienze di vita, piuttosto che un approdo raggiunto dopo un argomentare obiettivo e spassionato; tuttavia l’impulso razionalizzante si avverte in modo chiaro, sicché il sogno o la surrealtà acquistano in questo contesto la sembianza interessante di stati metaforici, quasi allegorici, i quali perciò vanno intesi come forme di espressione aggiuntive più che primarie. Occasionalmente, nella prevalente elegia del passato perduto irrompono istanti di attualità atemporale, di presente confortato dal sorriso e perciò inevitabilmente totale, assoluto, e dal futuro improbabile; oppure sbocciano sentimentali blandimenti del simbolo: « tralcio mio dolce [...] i grappoli più maturi e vellutati », « quel 5

passero

[...] viene ogni giorno alla tua mano », « mais mio

ad-

dormentato ». Ma sono attimi: resta il dramma fondamentale del divorzio senza rimedio tra i cammini umani e la ragione: par blancj stradi ch'a si disfin / bandonadi da la rason. In tale esprimersi della Vallerugo sulla doppia tastiera in italiano

e in friulano, se si apprezza un poetare nuovo, originale, forte, spesso difficile e colto, scevro di compromessi con ogni retorica accattivante,

mi pare si debba anche prendere atto, però, che il mezzo espressivo friulano perde sovente in schiettezza a causa degli abbondanti prelievi lessicali e sintattici dall’italiano. In sostanza, il cambiamento

di

lingua non sembra che sia stato dettato alla Vallerugo da una ragione profonda di necessità nuove. Ciò è comprovato dal suo tradurre in italiano i suoi originali friulani. In realtà, i ritocchi da me apportati alle sue traduzioni sono quantitativamente esigui !. I testi friulani e le traduzioni sono usciti dalla penna della Vallerugo come viaggianti su binari allineati perfettamente. Le parole friulane e le italiane — nelle rispettive stesure — si succedono in genere con un parallelismo tanto perfetto da destare qualche preoccupazione sull’autonomia futura del friulano presso gli scrittori di domani. Se la sintassi e il lessico friulano continuassero negli anni a venire a mostrare un grado tanto alto di permeabilità da parte dell’italiano letterario, le ragioni di una esistenza separata della scrittura friulana sarebbero destinate a cadere. In queste pagine di introduzione mi piacerebbe soffermarmi ancora per parlare dell’impeto esclamativo e travolgente di Appi; 16 Le traduzioni che la Vallerugo ha offerto delle sue poesie friulane godono di molta stima. Non mancano tuttavia imperfezioni anche in questa valente scrittrice. In « Neif », ad esempio, crodi encja, unmò è reso con un impossibile « credere anche, ancora », eppure ercja unmò altro non è che una variante — più intensa, se vogliamo — di ancjemò del friulano standard, che significa « ancora». In «Il sum» l’Autrice rende il quartultimo e il terzultimo verso con « Da quella finestra il ponte / è a una sola arcata ». Tale modo di esprimersi farebbe supporre che il ponte, guardato da una altra finestra, potrebbe essere a due o più arcate. Il termine friulano vare indica propriamente il « passo » in quanto distanza tra un piede e l’altro nel camminare, ma indica anche il « salto » che possono fare bestie veloci come il cane o la lepre. L’immagine poetica dell’originale scade, nella traduzione con «arcata», al livello di una descrizione tecnica in un contesto che risulterebbe per altro assurdo. Questi difetti, comunque, ci assicurano che i testi friulani di I. Vallerugo — al pari di quelli di P.P. Pasolini — non sono retroversioni dall’italiano.

32

della religiosità lirica dello Zannier; dei versi duri e petrosi come i monti carnici di Angeli, poeta di un meditare intenso, ruvido e austero; della catartica contemplazione del proprio male e del proprio isolamento del De Apollonia; della nuova vena lirica del Pittana, la quale attraversa con il suo carisma salvifico lo spazio inquietante che si distende tra il freddo della tecnica e della scienza e gli slanci del cuore appassionato; e di tante altre esperienze poetiche. Ma lo spazio, purtroppo, è tiranno, e penso che per il lettore sarà più vantaggioso leggere l'ampio disegno storico-critico di G. Faggin che essere informato sui gusti e sulle preferenze mie personali. Tuttavia non vorrei concludere

senza accennare

al mondo,

abitato da ombre

e

spiriti quasi danteschi, di Giacomo Vit, poeta originale della tragedia dell’uomo.

I suoi morti, i suoi impiccati, i suoi ammalati

senza

speranza, la decadenza triste della vecchiaia che si spenge nel vino e nel dolore della patita emigrazione, costituiscono uno scenario che ha molte quinte colorate con il nero dell’Averno. Solo davanti al falò dell’Epifania il ricordo della tradizione degli affetti umani, ragione della vita, strappa al Vit accorate parole di solidarietà, difesa ultima e quasi inutile di fronte al male subìto dalla carne e dall’anima, astrette in un attentato continuo.

Eccole, dunque, le ragioni essenziali che giustificano sullo scorcio di questo secolo una rilettura attenta della lirica friulana del Novecento, e un riesame documentato del percorso acclive di una bella scrittura emergente, e che motivano a sufficienza il mio impegno nel tradurre, indirizzato a un vasto pubblico fuori dei confini del Friuli. L’impegno è stato gravoso — pur se gratificante nell’intimo — e irto di difficoltà probabilmente non tutte superate, sono il primo ad ammetterlo. Ma era giunto il tempo di tentare.

La sistemazione del materiale nell’Anztologia mi ha posto seri problemi, che poi G. Faggin è riuscito a superare. Tre potevano essere i criteri di ordinamento: uno quello alfabetico seguendo il cognome degli autori (come nell’« Antologia » di Faggin e Zielonka); un secondo quello anagrafico conformemente alla data di nascita. Del tutto allotrio il primo; il secondo maschera sia i tempi

di accesso all’arte, sia le priorità e le dipendenze. Un terzo poteva

33

essere quello in base alla data di inizio dell’attività lirica di ciascun poeta. Il criterio preferibile mi è sembrato il terzo. Purtroppo, l'accertamento di date sovente non dichiarate o dichiarate in modo inesatto, oppure talvolta onestamente dimenticate, e il fatto che non è sempre facile riconoscere l’epoca della nascita dell’ispirazione iniziale mi creavano grosse difficoltà, non superabili se non si dispone di una esauriente raccolta di prime edizioni e di ragguagli ottenibili solo sul posto e attraverso testimonianze dirette. Con filologica pazienza G. Faggin è riuscito a ricostruire una cronologia che non dovrebbe fare torto a nessuno, e che è altamente illuminante.

Se si confronta la cronologia della poesia ladina del Friuli con quella delle Dolomiti, si costata la presenza di un silenzio lirico in entrambe in corrispondenza del ventennio famoso, compreso tra le due guerre mondiali (a quell’epoca in Val Gardena il giovane Max Tosi scriveva per sé stesso, e le poche cose apparse nel Friuli possono essere messe da parte tranquillamente). Questi sono due effetti analoghi e paralleli di una stessa politica statale centrale che aspirava con l’imperio più che con la cultura a dare una lingua italiana a tutti gli « Italiani », anche a quelli di nomina nuova”. Sono cose note (ma a quanti?), che andavano tuttavia ricordate se si

pretende poi di interpretare in modo secondo me non corretto lo iato che separa le Rizzis furlanis di G. Minut del 1921 e le Poesie a Casarsa di P.P. Pasolini del 1942. Il 1942 segna certamente l’inizio di un modo diverso di fare poesia in friulano, ma segna anche la ripresa della cultura locale, messa a tacere in tempi di mancata libertà, e quindi impedita nel suo legittimo crescere. Roma,

novembre

1985.

ì L’operosità continua e meritoria della Società filologica friulana tu il frutto abile e diplomatica gestione.

di un’assai

34

LA POESIA

Cenni

FRIULANA

DEL NOVECENTO

di Giorgio

FAGGIN

introduttivi

« L’originalità del Friuli non è mai stata negata attraverso i secoli. Col suo milione di abitanti questo è un luogo d’incontro di tre civiltà, latina, slovena e germanica, e di tre razze in armonia. Vi si parla una lingua, non un dialetto italico; né italiano né veneto; ma

la variante più cospicua della lingua ladina ». Così scriveva, nel suo incomparabile Viaggio in Italia (1957), il vicentino Guido Piovene. La genesi della lingua friulana resta misteriosa. Nessun dubbio che la regione sia stata latinizzata da Aquileia e che il latino aquileiese stia alla base del processo etnogenetico. Ma se poniamo mente al precoce declino di Aquilea e al fatto che il dialetto della vicina Grado è di tipo paleoveneto, è difficile ammettere che la grande città romana sia stata la matrice esclusiva della parlata friulana. In realtà, per la formazione della nuova lingua romanza ebbero importanza fondamentale due nuovi elementi: la colonizzazione dei longobardi (568-776) e il ruolo di capitale svolto dalla città

di Forum Iulii, che diede il nome all’intera regione e al tempo dei franchi sarebbe stata ribattezzata Civitas Austriae (da cui discende il

nome friulano di Cividaàt e quello italiano di Cividale). La lingua friulana, che già aveva preso corpo durante i secoli delle dominazioni longobarda e franca, poté consolidarsi durante il lungo periodo del patriarcato di Aquileia (1077-1422). Dipendente dal mondo germanico, isolato dal resto dell’Italia, il Friuli poté conservare

in questi

secoli la sua lingua originale. Ippolito Nievo definì il Friuli « un piccolo compendio dell’universo », perché esso comprende una zona alpina, un’ampia fascia DA

collinare, una vasta pianura, brughiere, lagune, il mare. La varietà del paesaggio trova riscontro nella ricchezza dei dialetti friulani. Dal punto di vista fonetico, i linguaggi carnici sono i più conservatori; mantengono infatti alcuni fonemi che in pianura sono andati perduti. Il fiume Tagliamento, con il suo ampio greto, divide verticalmente la regione in due metà: il Friuli occidentale e il Friuli orientale. I dialetti friulani occidentali, specie quelli della pianura, hanno risenti-

to in maniera più o meno accentuata gli influssi della vicina, prestigiosa parlata veneta. Il friulano che si parla nel Friuli orientale è invece più puro e sta alla base della cosiddetta koinè, cioè della lingua letteraria. Essa sorse durante il secolo XVI e da allora è stata coltivata da un numeroso stuolo di poeti e di narratori, senza peraltro compromettere la vitalità delle singole varietà dialettali. Il fiume Isonzo rappresenta a est il confine linguistico. L’importante città friulana di Gorizia sorge però sull’altra sponda del fiume. Va inoltre ricordato che Trieste, ora capitale della regione autonoma, parlava fino agli inizi dell'Ottocento una varietà di friulano, il tergestino.

I friulani non hanno mai dimostrato una coscienza etnico-linguistica particolarmente forte e combattiva. È vero che il ceto dei contadini e degli artigiani (e anche una parte del clero e della nobiltà) è rimasto fedele nei secoli alla parlata ladina; d’altro canto,

però, la borghesia delle città e gli intellettuali sono stati attirati entro l’orbita del dialetto veneziano e della lingua italiana. A Udine l’italiano e il veneto si scontrano ancora oggi con il friulano. È doveroso riconoscere, tuttavia, che la coscienza della friulanità, anche

sul piano linguistico, ha fatto notevoli progressi. I friulani (ivi compresi gli uomini della politica) cominciano a reclamare con fermezza il riconoscimento statale della lingua, senza il quale essa è destinata a una rapida fine. Dal canto suo il governo della Repubblica si sta apprestando a riconoscere i diritti linguistici del popolo friulano, come vuole l’articolo 6 della Costituzione.

Il 27 febbraio

1985 la Commissione Affari Costituzionali ha approvato una legge per la difesa delle minoranze linguistiche d’Italia. Il primo articolo di tale legge recita: « La Repubblica tutela la lingua e la cultura delle

popolazioni di origine albanese, catalana, germanica, greca, slava e

zingara e di quelle parlanti il ladino, il franco provenzale e l’occitano. 36

La Repubblica tutela altresì la lingua e la cultura delle popolazioni friulane e sarde ». Dopo l’approvazione di questa legge da parte del Parlamento, la lingua friulana potrà godere di vari benefici, come l’insegnamento nelle scuole e i finanziamenti pubblici. Al giorno d’oggi la lingua e la cultura friulana restano appannaggio di una ristretta élite. Pochissimi sono i friulani che leggono i loro poeti. Fortunatamente l’Università di Trieste (nel 1983) e quella di Udine

(nel 1985) hanno provveduto a istituire ciascuna una cattedra di « Lingua e letteratura friulana ». La letteratura friulana d’espressione ladina è stata assai poco studiata. Esistono, è vero, alcune buone antologie, ma manca ancora

una Storia della letteratura friulana, degna di questo nome. Il volumetto La letteratura ladina del Friuli di Bindo Chiurlo è un ottimo manuale (eccellente la bibliografia ragionata), ma risale al lontano 1922! Quando io stesso, nell’arco degli anni 1971-1974, mi

diedi a un sistematico lavoro di recupero riesumando autori e opere dimenticate, sia dell’area udinese che di quella goriziana, sentivo di essere (e in realtà lo ero) il solo studioso che dedicasse il suo tempo

a tessere le fila della storia letteraria friulana. Oggi fortunatamente è venuto a darmi il cambio uno studioso preparatissimo e sagace. Alludo a Rienzo Pellegrini, il cui eccellente volume Aspetti e problemi della letteratura in friulano nel secondo dopoguerra (1981) ci fa desiderare una sua completa trattazione della storia letteraria friulana. La poesia sembra connaturata all’animo del popolo friulano. Giustamente ammirato per le sue doti manuali, per la sua quadratura mentale, oggi anche per la sua tecnologia, esso non è meno privilegiato nell’estrinsecare liricamente i suoi sentimenti. Il genio poetico dei friulani ha prodotto quel fiore di poesia popolare che sono le villotte: componimenti di quattro versi ottonari, che venivano accompagnati dal canto, e allietavano il faticoso lavoro dei campi. Sono il prodotto più alto che ci abbia dato la letteratura friulana. Le villotte manifestano il carattere profondo della stirpe: un carattere portato alla malinconia, alieno da accenti epici o mistici. Molte delle più belle villotte d’amore sono state create da donne. Purtroppo la produzione spontanea delle villotte si è inaridita da lungo tempo. Gli inizi della letteratura friulana « colta » sono stati lenti e 37

faticosi. Il Medioevo ci ha lasciato soltanto le due note ballate Pirue gno dog inculurit (1380) e Biello dumlo di valor (1416-1417); ma è

più che certo che altri documenti letterari (non sappiamo di quale valore) sono andati perduti. Nel Cinquecento operano alcuni poeti che pongono le basi di una vera e propria letteratura regionale. Se ne sta occupando R. Pellegrini, che ha già pubblicato, tra l’altro, l'edizione critica di un corpus di versi risalente agli inizi del secolo !. Il Seicento vanta due poeti significativi: Eusebio Stella, verseggiatore erotico di grande freschezza, ed Ermes di Colloredo, maggiormente legato al gusto e alle convenzioni barocche. Peccato che per molto tempo la poesia in friulano fosse ritenuta indegna dell’onore della stampa. Solo nel 1742 apparve la prima pubblicazione in friulano (fu un modesto almanacco). Le poesie del Colloredo verranno pubblicate postume nel 1785, quelle dello Stella addirittura nel 1973. L’Ottocento fu un secolo buono. Anzi, il cattedratico uruguaiano Guido Zannier lo ha definito « el siglo de oro » della letteratura friulana ©. E ha senz’altro ragione, purché si prescinda, naturalmente, dal secolo presente. Durante l’Ottocento la lingua e la cultura friulana vengono finalmente studiate con serietà scientifica. Nel 1871 Giulio Andrea Pirona dà alle stampe il Vocabolario friulano dello zio Jacopo Pirona. Due anni dopo, il sommo glottologo di Gorizia, Graziadio Isaia Ascoli, pubblica i suoi Saggi ladini. Sullo scorcio del secolo l’etnografo di Gemona, Valentino Ostermann, scrive le sue opere fondamentali sulle villotte, i proverbi, il folclore friulano. La poesia è dominata dal prolifico, popolarissimo Pietro Zorutti che nell’almanacco Il Strolic furlan (1821-1867) andò pubblicando quasi tutta la sua produzione. Verseggiatore di facile vena, fu sostanzialmente un epigono dell’Arcadia. Ma accanto ai versi sentimentali e naturalistici, ci lasciò anche poesie giocose e comiche, che oggi hanno perso quasi tutto il loro smalto. La lingua dello Zorutti è la koinè sorta nel Cinquecento e perfezionata poi dal Colloredo. Rimpinguandola con sostanziosi apporti lessicali, egli ne fece un modello che trovò _ 1 R. PELLEGRINI, Un «Canzoniere » friulano del primo Cinquecento, Società Filologica Friulana, Udine 1984. ? G. ZANNIER, E! Friulano, Universidad de Montevideo, 1972, p. 143; II ediz.,

1983, p. 103.

38

numerosi imitatori in tutto il Friuli. Un contemporaneo dello Zorutti, l’udinese Toni Broili, ci sembra artisticamente più valido: ma la sua poesia sovente farraginosa, le sue arditezze stilistiche e la sua lingua difficile non gli conciliarono le simpatie dei contemporanei. Lo Zorutti e il Broili sono i più importanti poeti del secolo, se non altro per l'abbondanza della loro produzione; ma accanto ad essi è doveroso segnalare almeno due altre presenze: Nicolò de Steffàneo, armonioso poeta galante, e Federico de Comelli, autore del più bello degli almanacchi ottocenteschi *. Né si può passare sotto silenzio l’umile sacerdote Giovanni Battista Gallerio, che cantò le lodi della Vergine entro una cornice di fiori e di uccelli. Le sue poesie popolareggianti ma fini si avvalgono di una lingua purissima e musicale. Sullo stesso piano si collocano le dodici deliziose poesie che compongono la Descrizion di ogni més, opera di un altro sacerdote, Giovanni Buttazzoni, di San Daniele*. Durante l’Ottocento nacque anche la prosa friulana, per merito di Caterina Percoto (che scrisse in koinè),

del citato Comelli e di Giovanni Luigi Filli (che scrissero entrambi

in friulano goriziano). Verso la metà del secolo mosse inoltre i primi, timidi passi, anche il teatro in friulano. Gli inizi del Novecento

« Zorutti, molto ricordato e poco letto, è più ammirato per le sue barzellette, per le sue più volgari corbellerie, che per le sue cose migliori. Non del tutto a torto è stato accusato di aver corrotto il buon gusto dei friulani: Essi sono da tanto tempo abituati a leggere nel loro

dialetto

poesiette

facili,

scorrevoli,

frivole,

satiriche

ed

umoristiche, che non domandano di meglio ai loro poeti ». Così affermava nel 1905 l’udinese Domenico Del Bianco?. In effetti lo 3 F. pe ComELLI, I/ me pais. Strenna popolar pal 1855. Cfr. G. FaGGIN, Prose friulane del Goriziano, La Nuova Base, Udine 1973, pp. 14-17, G. Nazzi MA-

TtALON, I lunaris dal ‘800 dal Friîl Oriental, in « Ladinia» VIII, 1984, pp. 129-137. 4 Compaiono nel suo Il Furlan. Almanac dell’an 1877. Cfr. G. FaGGIN, Il poeta friulano Pre Josèf Butaton e le sue Descrizioni dei Mesi (1876), in « Ladinia », III, 1979, pp. 242-260 (con riedizione dei testi). 5 D. DeL Branco, in « Pagine Friulane » XVI (recte: XVII), 1905-1906, p. 85. Sulla paternità di questo scritto (non firmato), cfr. Chiurlo 1927, p. 378.

SJ)

« zoruttismo » mortificava le possibilità espressive della poesia friulana, confinandola

entro

l’ambito

di un

facile sentimentalismo

e

descrittivismo, o ponendola al servizio di una dozzinale comicità.

Una reazione contro questa deleteria pratica poetica venne promossa verso la fine del secolo da Piero Bonini (1844-1905), il quale

si sforzò di conferire al friulano un certo prestigio letterario. Tradusse, tra l’altro, dalla Divina Commedia. Il Carducci fu per lui modello

di stile e di vita. Spirito risorgimentale e laico, il Bonini compose alcuni dignitosi sonetti ai quali non sembra adeguato attribuire la qualifica di « dialettali », anche se il loro autore non era ancora perfettamente conscio dell’intrinseca qualità di lingua del friulano. Vivendo a Udine, in un ambiente che manteneva

le distanze dalla

parlata indigena, il Bonini si trovò a polemizzare contro i detrattori del friulano: Mi Che Ur Lu

ven la smare cuintri cierts di lor nassuds in Frîùl, furlans di pari, semèe, ma chalait! brutt e ordenari dialett nestri, che non d’è di miòr*.

Quali fossero le risorse del dialet furlan riuscì a dimostrarlo bene Pieri Corvatt (Pietro Michelini;

gradevoli

sonetti

che compongono

1863-1933)

il poemetto

con la serie dei

E/ Quarantevott

(1903). Volevano essere una celebrazione storica, ma non sono molto

più di una gustosa galleria di bozzetti e di macchiette, giacché il ’48 udinese non si prestava propriamente al tono epico ”. Di valore non caduco è la famosa poesia L’orloi dai nonos, nota purtroppo nella forma abbreviata in cui la divulgò Bindo Chiurlo. Chi vuole goderla per intero deve andare a cercarsela nell’opuscoletto Carzoretis e vilotis (1911).

Il poeta carnico Enrico Fruch (1873-1932) proveniva da Ludaria 6 « Mi viene la stizza contro certuni / che, nati in Friuli, friulani di padre, / ritengono (guardate un po’! ) brutto e ordinario / il dialetto nostro, di cui non ve n’è di migliori ». P. Bonini, Versi friulani, Del Bianco, Udine 1898, p. 30. ? Toni Broili, che fu testimonio oculare del ’48 udinese, ne fece una feroce capa T. BroILIi, La metamorfosi udinese da j 17 marz a j 24 avril 1848, Udine

9

40

(Rigolato) nell’alta Val Degano, dove sopravvive un linguaggio estremamente arcaico, che conserva importanti elementi dell’antico friulano cividalese (i femminili escono in -0, come nel provenzale: la fèmino, « la donna » e las fèminos, « le donne »; gli articoli maschili sono lu e ju: lu puem, « il ragazzo », ju puems, « i ragazzi »). Tuttavia il Fruch abbandonò in giovane età il villaggio natale e scrisse i suoi versi nella koinè letteraria, che seppe usare magistralmente. Delicato poeta tardoromantico, descrisse la natura con tocco leggero e cantò l’amore in toni di una blanda musicalità. Più ricco di umori fu Antonio Bauzon (1879-1952). Pur essendo originario del Friuli goriziano, scrisse anch’egli in una koinè impeccabile. I suoi quadretti di natura o di vita popolare denotano un gusto pittoresco e sono pervasi da una vena di gagliardo umorismo, dietro alla quale sta sempre in agguato il vecchio Zorutti. Il Bauzon ha lasciato un segno anche come pittore e grafico, seguace dello Jugendstil; a Monaco di Baviera, dove viveva, collaborò al famoso Simplizissimus. Un altro poeta proveniente dal Friuli asburgico fu Giovanni Lorenzoni (1884-1950).

Come

il Bauzon,

usò in modo

ineccepibile

la koinè

« udinese ». Fu un poeta diligentissimo, ma piuttosto epidermico. Il poemetto vagamente pascoliano, La polente (1911), fu il suo capolavoro. Grazie ai suoi studi di filologia romanza compiuti all’Università di Innsbruck (1910-1914), il Lorenzoni fu anche valentissimo glotto-

logo. Su un piano decisamente più alto dobbiamo collocare la produzione lirica di Vittorio Cadèl (1884-1917). È scritta quasi completamente nella parlata del paese di Fanna, situato sulle propaggini delle Alpi Carniche, nel Friuli occidentale. Anche il Cadèl fu pittore e decoratore. Cantò con freschezza e calore giovanili le gioie e le pene dell'amore, nella cornice di un paesaggio soffice e rigoglioso; cantò anche gli affetti domestici e la nostalgia del focolare. Nella sua poesia ricorrono stilemi liberty, ma l’estetismo non è un atteggiamento di fondo. Potremmo piuttosto accostarlo a Salvatore di Giacomo, con il quale ha in comune l’estroversa disponibilità al canto e il prezioso senso musicale della parola. Se i poeti che abbiamo testé esaminato si possono considerare tutti e cinque, chi più e chi meno, dei « vernacolari », difficilmente si deve ritenere come tale l’udinese Ercole Carletti (1877-1946) (pp.

41

112-125). Studioso della parlata materna *, volle portare un contributo all’emancipazione della poesia friulana, ancora troppo legata alle convenzioni della poesia dialettale. Gli venne in aiuto la letteratura francese, di cui fu buon conoscitore. Il Carletti fu un poeta introverso e malinconico. Con lui la poesia friulana si arricchisce di una raccolta nota psicologica, di un autobiografismo macerato. I contemporanei avvertirono la carica innovatrice della poesia del Carletti, ma non sempre approvarono il suo sforzo di uscire dai binari zoruttiani. Scrisse il Chiurlo (1922, p. 71, 72-73) che Ercole Carletti « non

rinunzia ai soggetti che presentano difficoltà espressive; né lascia il friulano per l’italiano, quando il contenuto, di carattere largamente umano, non sembra promettere particolare di rilievo se trattato in dialetto. [...] la parte per sé migliore delle sue poesie, è quella, naturalmente, dove il Carletti ha stretto più da vicino la musa popolare o i temi tradizionali della letteratura dialettale ». È chiaro che per il Chiurlo la poesia dialettale (e per lui anche quella friulana è tale) non deve atrogarsi la pretesa di esprimere concetti e sentimenti elevati. Così la pensavano quasi tutti in Friuli, prima che comparisse sulla scena la geniale personalità di Pier Paolo Pasolini. Questi fece in tempo a conoscere il vecchio Carletti; e scrivendo su di lui, ebbe ad affermare: « [il Carletti] aveva sempre presente nel cantare il Friuli (perché “cantarlo” era il romantico assunto della sua generazione) che esso va amato come “collettiva terra natale”, non come

patria

personale



mentre

proprio

un

canto

intimistico,

magari lievemente morboso, era quello della sua natura. Il “cursus pascolianus” che lo ha suggestionato non è dunque più quello dei Poemetti, ma quello più delicato, nordico, tra la Tessitrice e l'Ora di

Barga:

ivi compresi i suoi modelli europei, e una sottile vena di

simbolismo » (Pasolini 1952, pp. CXIII-CXIV). Celso

Cescutti

(Argeo)

« Argeo » e « Settimio Agreste di Vilebuine » furono

pseudonimi, .

di sapore

georgico,

dietro

ai quali

Celso

3 Il Carletti collaborò con un altro udinese, il dott. Corgnali, alla seconda edi- G. B.

zione del Vocabolario friulano dei Pirona: G. A. Prrona - E. CARLETTI Corgnati, Il Nuovo Pirona. Vocabolario friulano, Bosetti, Udine 1935.

42

i due Cescutti

(1877-1966) (pp. 84-111) nascose la sua identità. Possiamo chiamarlo « poeta contadino », ma non dobbiamo dimenticare che in realtà il

Cescutti era proprietario terriero, aveva il diploma di perito agrimensore e si occupava di compravendita di terreni. Il suo mondo vero era il paese natale di Flaibano con la vastissima campagna circostante, ricca allora di un’abbondante vegetazione spontanea e di fauna campestre. Scrisse le sue poesie migliori negli anni 1905-1912, raccogliendole in quattro volumetti dedicati ciascuno a una stagione: cominciò con Prizzevere (1911) e terminò con Név e fantastis, realtàt

e poestis (1929). Poi abbandonò quasi del tutto la poesia per applicarsi a studi di ogni genere, dalla filosofia alla metafisica, dall'astronomia alla musica. Celso Cescutti non ha ancora conseguito la notorietà a cui avrebbe diritto. Che sia uno dei lirici più grandi che abbia il Friuli, lo fece capire il Pasolini quando lo incluse (insieme con il Carletti) nella sua Poesia

dialettale

del Novecento

(1952).

Prima

di

allora v’era stato soltanto il cauto apprezzamento del Chiurlo, il quale purtroppo si permise di manomettere alcuni testi allorché li ripubblicò nella sua Artologia (1927). Recensendo

Primevere, Gio-

vanni Lorenzoni aveva invece stimmatizzato la disinvoltura metrica di « Argeo »: « In generale qui un piede di più, là uno di meno, qui un iato, là una brutta dieresi; poi accoppiamenti di settenari, senari ed endecasillabi in una strofe, che producono delle stonature quali produce un piano quando ci si monti coi piè sulla tastiera. Di ciò c’è un uomo solo che potrebbe compiacersi: F.T. Marinetti, il re dei futuristi » ?. « Poeta contadino », s'è detto, nel senso che il Cescutti vive in

profonda sintonia con il mondo della campagna, in tutte le sue stagioni, con tutte le vicende biologiche che riguardano uomini, piante e animali. Dallo Zorutti si appropriò dei mezzi formali con cui descrivere le apparenze fenomeniche; ma l’attitudine meditativa e filosofeggiante di « Argeo » lo portava a trascendere gli aspetti naturali per comunicare con il Gran Podè, con lo Spirit Persisient che regge l’universo. Ma l’ansia di conoscenza resta inappagata e delusa, perché il mistero del mondo non si lascia sondare. La religiosità del 9 G. LorENZONI,

in «Forum

Iuli » (Gorizia), III, 1912-1913, pp. 182-184.

43

Cescutti, fatta di umiltà e di rassegnazione, non sfocia tuttavia nella

trascendenza cristiana, perché per il Poeta la nostra terra rappresenta il confine ultimo. Vi sono tratti della poesia cescuttiana che possono

rammentare il Leopardi (che era il lirico italiano da lui più amato):

ma « Argeo » non si ribella contro l’ordine naturale, anzi prova fierezza nel sentirsi una particella dell’universo immenso e incomprensibile. C'è nel Cescutti anche qualcosa che fa pensare a Schopenhauer: ad esempio nella conclusione di Chiant di griis avostans, dove il Poeta si rivolge al grillo: Tu tu ses part de gran biele Nature,

Cussì vul jè e tu tu fas cussì. Ma il stess Volè svolzinsi in te nature Pur sore me al decid la sorte scure:

Iò pur cun te pe’ tiere dispierdud o viv e o voi incuintri al scognossud °.

La forza del Cescutti consiste nella commossa immediatezza con cui egli ha saputo tradurre in linguaggio lirico il suo agreste panteismo: «in Argeo lingua e parlante sono una cosa sola: non c’è la possibilità di un distacco, di una riflessione: come in un semplice contadino; sì che il Friuli vi compare scorciato in particolari magici, irreali appunto perché carichi di realtà: non affiora alla luce della coscienza » (Pasolini 1952, p. CXVIII). Il Cescutti usò la koinè zoruttiana, con una sola eccezione: la poesia Nardo, in cui adottò la parlata di Flaibano (plurali femminili in -es anziché in -is; anche il titolo del volumetto Ròses di pradarìe, Poesies di Argeo, presenta la stessa caratteristica) !!.

Il mondo contadino di Celso Cescutti ci appare oggi inesorabilmente proiettato nel passato, sia a causa dei mutamenti antropologici

verificatisi negli ultimi decenni, sia perché lo stesso ambiente paesistico che sta al centro delle sue meditazioni poetiche è stato letteral0 «Tu sei parte della bella, grande Natura, / così essa vuole e così fai tu. / Ma lo stesso Volere, svolgendosi nella natura, / pure su di me decide la sorte oscura: / io pure con te per la terra disperso / vivo e vado incontro all’ignoto ». C. CescuttI, Roses di pradarie, Del Bianco, Udine 1921, i, Sil 1! Cfr. G. FaccIN, La koinè friulana, in Das Romanische in den Ostalpen, herausgegeben v. D. Messner, Oesterr. Akad. der Wiss., Vienna 1984, pp. 161-174.

44

mente cancellato dai bulldozer, che hanno spianato la campagna per migliaia di ettari, riducendo il lussureggiante paesaggio agricolo di un tempo a una sterminata landa deserta !?. Il periodo tra le due guerre

Alla conclusione della prima guerra mondiale tutto il Friuli si trovò riunito entro i confini del Regno d’Italia: il fiume Iudrio non divideva più il Friuli veneto dal Friuli asburgico. In quell’occasione i friulani non poterono conseguire l'autonomia amministrativa che era nelle aspirazioni di molti; essi dovettero accontentarsi di una apolitica associazione di studiosi, la Società Filologica Friulana, che sorse a

Gorizia nel 1919. La fondò il glottologo e letterato goriziano Ugo Pellis, validamente aiutato dall’udinese Bindo Chiurlo e da numerosi

altri intellettuali di tutto il Friuli !*. Il primo articolo dello Statuto, redatto dallo stesso Pellis, recita: « La Società Filologica Friulana “G.I. Ascoli” è costituita al fine di studiare e coltivare la parlata friulana e le sue manifestazioni letterarie [...] » 14. « Parlata friula-

na », dunque, non « lingua ». Per di più la Società, benché intitolata

all'Ascoli, si guardò sempre dal prendere aperta posizione in favore della teoria ascoliana della ladinità del friulano. Questo spiega come allora si levassero anche voci di perplessità e di dissenso. Nello stesso 1919, l’udinese Achille Tellini (1866-1938)

così ammoniva:

« Un

filologo può proporsi di studiare un linguaggio con la stessa freddezza del naturalista che studia una mummia o dell’anatomista che seziona un cadavere; o all’opposto con quell’amore trepidante e con quella sollecitudine che il medico esperto impiega per ridonare il vigore a un organismo che non ha tenuto conto della salute; oppure 12 Questa sistematica distruzione della natura viene chiamata «riordino fondiario ». Essa viene effettuata con lo scopo di ricavare il maggior profitto possibile dalla coltura esclusiva ed estensiva del mais. Per il prossimo futuro il «riordino » prevede la desertificazione della pianura friulana per altri 51.000 ettari (cfr. « Mes-

saggero Veneto » Udine, 10.11.1985). | ‘ i 13 Ugo Pellis « nel 1919 promosse la fondazione della Società Filologica Friulana e ne fu per tre anni da Trieste appassionato presidente (1921-23) » (B. Chiurlo 1927, p. 443). DE 14 Cfr. Gorizia, Numero Unico per il Congresso della $S.F.F. a Gorizia, 1969, pies2!

45

può mettere tutta la pazienza, la costanza, la genialità con la quale il coltivatore e l’allevatore con l’incrocio e la selezione riescono ad ottenere negli animali domestici e nei vegetali coltivati risultati nuovi non sperati e imprevisti. Ci lusinghiamo che la Società che sta per inaugurarsi batta questa seconda strada e che non si accontenti di dare un po’ di sonnifero o un calmante a quel malato cronico che per trascuratezza è il “linguaggio friulano”, perché possa crepare senza tante grida » !. Il Tellini era un nazionalista ladino, e per diffondere le sue idee fondò un periodico, La Patrje Ladine, che cominciò ad apparire nel 1921. A differenza della « Filologica », scriveva sistematicamente in friulano !°. Altro dissidente fu V. G. Blanch (Luigi Rodaro, di Martignacco; 1859-1932), che nel suo libro Linguaggio friulano (1929) scese in polemica con la « Filologica » soprattutto sul terreno della grafia. Infatti, il Pellis, basandosi su discutibili slogan (« scrivere il friulano

da italiani », « ognuno scriva nella parlata del suo luogo natio »), aveva imposto una grafia completamente tributaria di quella italiana, segnando un regresso rispetto agli sforzi sagaci compiuti cinquant’anni prima da Jacopo Pirona !. Il Rodaro fu anche poeta: le sue due liriche Su/ dì (che arieggia il Cescutti) e A un don amì sono pregevoli per il loro classico lindore. Notevoli le versioni dalla lirica catalana, sulle quali ha recentemente richiamato l’attenzione il VirgiIse Che la « Filologica » venisse assumendo atteggiamenti filofascisti non meraviglia troppo (si trattava in fondo di salvare la Società da una temuta soppressione in quanto ente regionalista); meno scusabili sono invece le posizioni a favore dell’ignobile politica fascista intesa

5 A. TELLINI, Il tesaur de lenge furlane, 1919, pp. 275-276. Il testo originale è in friulano (scritto con la grafia dell’esperanto).

16 La grande figura del Tellini attende tanto G. VIsINTAINER,

ancora

ta Cattolica », 31.1.1981, 7.2.1981, 14.2.1981. 7 Cfr. G. Fagcin, La grafia del friulano:

1980, pp. 303-306.

di venire

studiata.

appunti

storici, in «Ladinia»

18 D. VirciLI, Un debit di realdî a Luîs Rodàr, in AA.VV., Chiandetti, Reana del Roiale 1980, pp. 75-78.

46

Cfr. per in-

La nazione ladina nel pensiero di Achille Tellini, in «La

Vi-

IV,

Risultive Trenteun,

a snazionalizzare le popolazioni slovene e croate della Venezia GiuLai: Naturalmente anche il Friuli ebbe i suoi oppositori al fascismo, anche se tra i letterati costoro furono pochissimi. Uomo d’azione e poeta fu Giovanni Minut (Visco, 1896 - Montevideo, 1967) (pp. 126-133), proveniente dal Friuli austriaco. Socialista, poi comunista,

egli organizzò impavidamente i braccianti agricoli nelle « leghe rosse » e svolse un’accesa battaglia giornalistica, fino a che il fascismo non lo costrinse a espatriare. Nel 1921 il Minut aveva dato alle stampe a Gorizia il libriccino Rirzis furlanis. Per i benpensanti fu uno scandalo. Il Nostro infatti aveva posto la poesia al servizio di un apostolato umanitario e rivoluzionario, condannava tutte le guerre, denunciava gli sfruttamenti e le ingiustizie sociali. Per di più non mancava un inno alle bandiere rosse: Us saludi, ciaris bandieris,

o bandieris di pàs e di amòr o biei simbui di fede e cussienze espression di riscat e di ardor [...]

Recensendo le composizioni del Minut, il Chiurlo, attestato su posizioni conservatrici e accademiche, si dichiarava costretto a diagnosticare « nel modo più aperto che questi versi, tranne qualche breve tratto qua e là, sono completamente fuori dall’arte » °. C'è in effetti un abisso tra la poesia ancora zoruttiana dei primi del secolo, imperante anche nel Goriziano °!, e le rudi, aspre e concitate poesie del Minut:

il quale, però, non è solamente un tribuno, ma ha scritto

anche poesie che hanno il sapore della terra e degli affetti più profondi (Misèrie infàme, Brusade dal soreli). 19 Cfr. il riprovevole

articolo

di U. PeLLIS,

Politica

di confine,

in « Rivista

della Società Filologica Friulana » V, 1924, pp. 51-59. 20 B. CHiurto, in «Rivista della Società Filologica

Friulana» II, 1921-1922, pp. 156-158. Fui 21 Valgano come esempio i tre poeti di Cormòns, Ermete Zardini, Alfonso Deperis e Giuseppe Collorig (poi Collodi), recentemente studiati da Eraldo Sgubin (Pinsîrs e peraulis. Antologia friulana cormonese, Comune di Cormòns, 1982). Estraneo allo zoruttismo fu invece Ugo Pellis, valente letterato oltre che glottologo. Imbevuto di cultura germanica, contagiato da Nietzsche, ci lasciò alcune interessanti poesie e splendide prose poetiche. Cfr. G. Faccin, Prose friulane del Goriziano cit.,

pp. 26-29, 113-151.

47

Un anticonformismo molto più cauto fu quello di un sacerdote dell'Udinese che, al pari del Minut, si rivolgeva direttamente agli « umili » e venne ignorato dagli ambienti borghesi (il Chiurlo giunse ad escluderlo dalla sua Antologia). Ci riferiamo a Giovanni Schiff (Porpetto, 1872 - Percoto, 1947). Con il nomignolodi Zaneto scrisse

lunghe, gustose poesie per il popolo, che vennero pubblicate nei vari settimanali cattolici che si susseguirono a Udine. Le frecciate al fascismo irritarono il prefetto di Udine, che nel 1933 proibì a « La Vita Cattolica » di accogliere i versi di Zaneto, il quale perciò dovette tacere per dieci anni. Il friulano di Zaneto, che ha fatto tesoro della lezione dello Zorutti, è quello genuino delle popolazioni rurali, ricco di saporose locuzioni idiomatiche ??. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, sembrava che la poesia in friulano fosse giunta al lumicino. Lo stesso nome di Friuli era stato cancellato dalla carta geografica. La rivista di Chino Ermacora, La Panarie, che era nata

a Udine come Rivista friulana d’arte e di

cultura, venne poi chiamata Rivista illustrata d’arte e di cultura, e più tardi addirittura Rivista d’arte e di cultura della Venezia Giulia. Franco

de Gironcoli

Fu durante la seconda guerra mondiale che i friulani riacquistarono coscienza della loro identità e della loro cultura. Si posero allora le basi per il riconoscimento,

da parte

dello

Stato

democratico,

dell'autonomia della Regione. Il nome del Friuli poté riapparire, sia pure appaiato a quello fantomatico della « Venezia Giulia ». La Regione autonoma a statuto speciale nacque nel 1947, ma comincerà

a funzionare soltanto nel 1964. Durante gli anni della guerra ebbe inizio il fenomeno del rinnovamento della poesia friulana. L’illustre medico Franco de Gironcoli (Gorizia, 1892 - Vienna, 1979) (pp. 134-161), fondatore della

scienza urologica in Italia, si trovava allora a Conegliano, non lontano dal Friuli; e in quel periodo carico di incertezze e di 2 Altro sacerdote oppositore del regime fu Siòr Barbe (Giuseppe Driulini; Fraelacco, Tricesimo, 1854 - ivi 1949). Una scelta dei suoi versi satirici è stata pubblicata nel 1955 da La Panarie di Udine, a cura di Ch. Ermacora.

48

precarietà, risentì il richiamo delle sue radici, la Gorizia friulana, e cominciò a scrivere le prime poesie. Nel 1944 e nel 1945 dava alle stampe due minuscole plaquettes. Nel 1951 raccoglieva i suoi versi nel volumetto Elegie in friulano. Conteneva soltanto 18 composizioni, per lo più brevissime, ma nonostante ciò la piccola silloge fu subito notata e apprezzata da molti dei maggiori critici italiani. Uno degli ammiratori del de Gironcoli fu il giovane Pier Paolo Pasolini, che così scrisse:

« C'è tanta asciuttezza nei suoi ritmi elementari,

nelle sue piccole si direbbe, ma solito intorbida pur senza una

quartine perdute in mezzo alla pagina, nate a stento intere, tutte d’un pezzo, che quanto di volgare di i testi in Volgare — rispetto alla koinè letteraria — sua apparente poetica viene tutto depositato nel

fondo; ne risulta un libretto onesto e delizioso, impacciato e squisito.

Che già il friulano non sia un dialetto dell'italiano (e per di più questo di de Gironcoli è una varietà ai margini del dominio), è molto: nel senso che permette un immediato distacco dai colorismi plebei del vernacolo; ha già potenzialmente una sua pronuncia finemente letteraria. Tanto più per il de Gironcoli, che dà alla sua varietà goriziana una tinta arcaica, presa dal friulano del ’600 usato dai barocchi dialettali e in specie dal Colloredo » (Pasolini 1952, pp. CXIV-CXV). Nel 1977 la città natale del Poeta pubblicava tutte le sue Poesie in friulano: 35 composizioni originali, alcune traduzioni dall’italiano (La pioggia nel pineto), dal tedesco, dallo sloveno, e la versione in friulano arcaico del Cantico dei Cantici. La spinta innovatrice del de Gironcoli venne ad affiancarsi con discrezione alla « operazione poetica », ben più radicale e clamorosa, di Pier Paolo

Pasolini:

le cui Poesie

4a Casarsa

sono

del

1942,

precedono dunque di due anni la prima plaquette del de Gironcoli. Accomunati dalla loro modernità di stile, i due poeti sono tuttavia sostanzialmente

diversi.

Il Pasolini

era

italiano,

il de Gironcoli

austriaco. Ciò implica una formazione culturale e spirituale divergente. Il de Gironcoli aveva fatto i suoi studi superiori in tedesco, prima nel K.K. Staatsgymnasium di Gorizia, poi all’Università di Vienna. Conosceva a fondo la letteratura tedesca, aveva trascorso la giovinez-

za nel clima civilizzatissimo e geniale della firis Austriae. Il Pasolini era invece italiano fino al midollo. Il mondo germanico gli fu sempre estraneo. Un’altra grande differenza tra i due lirici consiste nel 49

diverso approccio alla realtà friulana, sia umana che linguistica. Mentre il Pasolini visse la sua esperienza friulana « da italiano », ripudiando quanto aveva dato la tradizione indigena del Friuli, il de Gironcoli cercò invece di entrare nel cuore della poesia friulana, sia popolare che colta, che non gli sembrava in assoluta antitesi con la modernità. Nel Pasolini la soluzione di continuità con il passato è assoluta, nel de Gironcoli molto più sfumata. Pier Paolo si sarebbe guardato bene dal prendere qualcosa dallo Zorutti (da lui impietosamente stroncato); il de Gironcoli invece lo fece. Alcuni versi de La plovisine: In-te'l miezz di chell sfuejatt Jè la Razze cu’l Razzat; ’E ghacarin, si svuatarin ”

sono infatti riecheggiati in Ajar di Primevere del de Gironcoli: "Ne fres’cie aghe clàre gote t’un fossalat, e dentri gi svuatàre la razze cul razzat ”*.

L’impasto linguistico del de Gironcoli ha qualcosa di unico, e può ricordare le alchimie del Montale, il quale insaporisce l’italiano comune con preziosità della lingua poetica, specialmente antica, e con apporti dell’italiano regionale e dei dialetti. Analogamente il de Gironcoli innesta sul tronco della koinè friulana vocaboli arcaici e desueti (per esempio l’avverbio #45, non più usato fin dal Settecento), nonché voci e soluzioni morfologiche proprie della sua Gorizia, ma non tanto della città quanto piuttosto del contado. La scelta e la combinazione di questo materiale espressivo obbedisce, come nel Montale, a una privata esigenza di ritmo e di musicalità. La lirica del de Gironcoli è sostanzialmente elegiaca, ma non mancano venature di dolcezza a temperare l’amarezza e la mestizia. La visione di fondo è costituita da un umanesimo di stampo goethiano, che rende giustizia 23 P. ZoruttI,

Lit)

Poesie

friulane,

a cura

di B. Chiurlo,

Bosetti, Udine

‘4 F. DE GironcoLI, Poesie in friulano, Gorizia 1977, p. 48.

50

1911, p.

alla materia e allo spirito, al mondo fisico e a quello psichico, insomma alla vita nella sua organica completezza. Pier Paolo

Pasolini

e l’« Academiuta »

Parlando di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 - Ostia, 1975) (pp. 162-199) è difficile presumere di dire cose che non siano già state dette, e in modo egregio. È stato soprattutto per merito suo se

il Friuli è conosciuto in Italia e fuori come un paese poetico, come una terra che genera poesia. Pier Paolo, com'è noto, era friulano solo

per metà: il padre, ufficiale dell’esercito, era di origine romagnola. Friulana, casarsese, era la madre Susanna, insegnante elementare, alla quale Pier Paolo fu sempre legatissimo. Durante i suoi studi all’Università di Bologna il giovane Pasolini maturò la sua cultura e la sua sensibilità, inserendosi nel vivo della problematica letteraria del tempo. Erano gli anni della reboante retorica fascista e, per contrasto, dell’umbratile poesia ermetica. Nel 1942 egli pubblicava a sue spese a Bologna l’elegante volumetto Poesie a Casarsa: le aveva scritte in friulano, un friulano imparaticcio e imperfetto, perché consisteva in un’ibrida mistura di dialetto casarsese imparato interrogando la mamma (per il Pasolini il friulano non fu « lingua materna», ma « lingua della madre ») e della koinè friulana appresa sul Nuovo Pirona; e non mancavano stridenti intrusioni di parole italiane. Tuttavia, pur con questo difetto linguistico che in seguito il Pasolini correggerà, era rivoluzionaria la portata della piccola silloge poetica, nella quale la poesia « dialettale » rompeva decisamente con

la tradizione, cercando di porsi sullo stesso piano dell’ermetismo e delle grandi letterature moderne, al di fuori per così dire del dialetto. Tutto ciò non sfuggì a Gianfranco Contini che ne scrisse un’importante recensione. Non la poté pubblicare in Italia perché le disposizioni del regime fascista vietavano ai giornali e alle riviste di occuparsi dei dialetti °°; la pubblicò invece in Svizzera, nel « Corriere del Ticino » (24 aprile

1943).

Il Contini

faceva

tra l’altro una

distinzione tra i dialetti italiani e il friulano (« È la vera nobiltà di una lingua minore, come il rumeno o il catalano, nella charezza del 25 Un decreto del 1941 intimava: «I quotidiani, i periodici e le riviste non devono più occuparsi in modo assoluto del dialetto » (Cfr. R. PELLEGRINI 1981, p. 20).

DI

contorno e nella stessa apparenza fonica ... »). La recensione del Contini riempì il Pasolini di gioia e di orgoglio, ed egli decise di trasferirsi a Casarsa per sviluppare la sua « operazione poetica » a contatto diretto con la terra e la gente friulana. Dal 1943 al 1949 visse prevalentemente nel paese materno, insegnando nelle scuole medie della zona e iniziando alla sua poetica e alla tecnica della poesia i suoi giovani amici, compresi i suoi studenti. Pubblicò alcune rivistine: quattro opuscoli dal titolo Stroligut (aprile 1944 - aprile 1946)

e un

Quaderno

romanzo

(1947).

Il 18 febbraio

1945

a

Versuta, presso Casarsa, fondò l’« Academiuta di lenga furlana ». Il manifesto programmatico, pubblicato nello Stroligut dell’agosto 1945, afferma tra l’altro: « Il Friuli si unisce, con la sua sterile storia, e il suo innocente, trepido desiderio di poesia, alla Provenza, alla Cata-

logna, ai Grigioni, alla Rumenia, e a tutte le altre Piccole Patrie di lingua romanza [...]. La nostra lingua poetica è il Friulano occidentale, finora unicamente parlato [...]. Nel nostro Friulano noi troviamo una vivezza, e una nudità, e una cristianità che possono riscattarlo

dalla sua sconfortante preistoria poetica. Alle nostre fantasie letterarie è tuttavia necessaria una tradizione non unicamente orale. E questa non potrà essere la tradizione friulana, che, se ha qualche discreto poeta, è poi tutta vernacola, soprattutto nell'Ottocento con la borghese “muse matarane” [Musa scherzosa - N.d.C.] di Zorut. La nostra vera tradizione, dunque, andremo a cercarla là dove la storia sconsolante del Friuli l’ha disseccata, cioè il Trecento. Quivi troveremo poco friulano, ma tutta una tradizione romanza, donde doveva nascere quella friulana, e che invece è rimasta sterile. Infine, la tradizione che naturalmente dovremo proseguire si trova nell’odierna letteratura francese ed italiana, che pare giunta ad un punto di estrema consumazione di quelle lingue; mentre la nostra può ancora contare

su tutta

la sua

rustica

e cristiana

purezza

\[i.1»:

I frutti poetici dell'« Academiuta » furono cospicui. Il caposcuola dimostrò una vera vocazione pedagogica, fatta di genialità, generosità ed entusiasmo. Casarsa divenne così un paese di poeti. Tra l’altro egli seppe destare il genio poetico di un giovane che conobbe sul posto, Riccardo Castellani (n. nel 1910), il quale a sua volta intro-

dusse il Pasolini nelle sottigliezze della parlata casarsese.

Inoltre

attirò a sé un coetaneo ricco di talento, Cesare Bortotto (n. a Casarsa

32

nel 1923); e fu il maestro di numerosi ragazzi che rivelarono vere doti poetiche, come Domenico Naldini (n. a Casarsa nel 1929), Ovidio Colussi (n. a Casarsa nel 1927), Antonio (« Tonuti ») Spagnol (n. a Versuta, Casarsa, nel 1930), etc.

Finita la guerra, il Pasolini aderì all'Associazione per l’autonomia friulana, da cui qualche anno dopo si staccò, motivando la sua decisione in una lettera pubblicata da « Il Mattino del Popolo » del 28 febbraio 1948 °°. Nel frattempo aveva aderito al partito comunista. Nell’ottobre 1949 scoppiò lo scandalo dovuto all’omosessualità del Poeta. Questi allora abbandonò Casarsa e si trasferì con la madre a Roma.

Pasolini ha parlato molto di sé e della sua poetica. Oltre al manifesto programmatico dell’« Academiuta », è di grande interesse la Lettera dal Friuli che inviò a « La Fiera Letteraria » (29 agosto 1946). A proposito del linguaggio usato da lui stesso e dagli amici dell’« Academiuta », affermava: « poeticamente questa lingua non è il dialetto degli zoruttiani, e nemmeno il dialetto, così suggestivo, parlato dal popolo, ma una favella inventata, da innestarsi sul tronco della tradizione italiana e non già di quella friulana: da usarsi con la delicatezza di un’ininterrotta, assoluta metafora ». Alla vigilia di lasciare il Friuli, il Pasolini pubblicò nella rivista udinese La Panarie, diretta da Chino Ermacora, l’importante saggio Poesia d’oggi (maggio-dicembre 1949), in cui tracciava il bilancio della sua esperienza friulana. Perfettamente consapevole della portata innovatrice della sua opera, analizzava la poesia dei giovani della cerchia casarsese e rivendicava il suo influsso anche sull’ambiente udinese (dove peraltro, come vedremo, l’influenza dell’« Academiuta » trovava notevoli resistenze nella forte tradizione locale). Una volta a Roma, rifletten-

do sui suoi anni friulani e sul significato della sua scelta idiomatica, il Pasolini scriveva di se stesso (1952, pp. CXVIII-CXIX): «egli si trovava in presenza di una lingua da cui era distinto: una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, torbidamente e candidamente: il suo regresso da

una lingua a un’altra — anteriore e infinitamente più pura — era un 26 È stata ripubblicata recentemente da GIanFRANco ELLERO, Storia dei friulani, Arti grafiche friulane, Udine 1977 (III ediz.), pp. 186-189.

53

regresso lungo i gradi dell’essere ». Nell'ambito della poesia dialettale italiana, il Pasolini aveva perseguito questi due obiettivi: « il dialetto usato come un genere letterario, “atto a ottenere una poesia diversa”; e nello stesso tempo l’attuazione, in questo dialetto, di certi motivi novecenteschi rimasti un po’ latenti in italiano e vivi in altre letterature (la spagnola, specialmente, ma anche l’ultima provenzale). I félibri casarsesi non hanno comunque nessun legame, nemmeno per sfumatura (come avviene per Pacot, Pezzani, Firpo e gli stessi Dell’Arco e Guerra) con le forme per definizione dialettali: il loro apprentissage poetico si compie tutto al di fuori del dialetto, benché coincida strettamente con una educazione

sentimentale condizionata

quasi morbosamente dall’amore-nostalgia per il loro dialetto e la loro [Si 602

La poesia friulana del Pasolini non è di immediata fruizione. Essa ci pone davanti a continue bipolarità, che creano una tensione drammatica. Ricorrono spesso i binomi amore-morte,

innocenza-pec-

cato, presente-passato. Eppure, malgrado tutto, la poesia del Casarsese è sostanzialmente luminosa: vibrano in essa la luce e il respiro della campagna di Casarsa, vi palpitano la figura amatissima della madre, i fanciulli vagheggiati da un eros trepidante, le ieratiche figure dei contadini per cui il Poeta sente un filiale attaccamento. Il vasto mondo rurale con la sua antica e semplice fede, le sue fatiche, i gesti lenti e rituali, è visto come fuori del tempo e della storia. Formidabili le risorse culturali del Poeta. Egli aveva assimilato gli antichi provenzali (da cui mutua in parte la sapientissima metrica) ed era lettore e studioso assiduo dei maggiori lirici moderni, soprattutto italiani, francesi e spagnoli. Quando nel 1954 raccolse per l’editore Sansoni le migliori poesie friulane (fu il volume La meglio gioventà), il Pasolini poneva come sigillo del suo « canzoniere » una lunga Carsion e un breve, amarissimo Conzeît, con i quali sembrava voler mettere una pietra sul suo passato di poeta « dialettale », considerando finito per sempre il suo tribolato, ma anche felice, rapporto col Friuli. Eppure, vent’anni più tardi, si fece perentorio in lui il desiderio di riprendere a scrivere versi friulani; e l’anno stesso della morte dava alle stampe La nuova gioventù, su cui ci soffermeremo più avanti. Alla partenza del Pasolini dal Friuli, 1°« Academiuta di jenga 54

furlana » non poteva che sciogliersi. Tra i suoi poeti, colui che raggiunse i risultati esteticamente più validi fu Domenico (Nico) Naldini (pp. 230-245). Cugino del Pasolini, che lo iniziò precocemente alle letture poetiche, alle problematiche letterarie e alle tecniche compositive, scrisse la sua prima poesia a quindici anni e da allora collaborò alle rivistine del suo Maestro. La capacità di assimilazione del Naldini fu sorprendente. Nel 1949 il Pasolini stendeva questa « scheda critica » sul suo allievo: « Domenico Naldini, lettore

degli spagnoli da Ruben Darfo a Lorca, oltre che dei francesi e degli italiani contemporanei e di un Leopardi divenuto modello di poesia. Inoltre il Montale gli ha insegnato a caricare d’ignoto e d’allusione l'oggetto, che in Naldini è quasi sempre in movimento (rondini che volano, giovinetti che passano per le strade in bicicletta, voci che cantano) piegando la lingua a immagini estremamente rarefatte e nel tempo stesso, per quella carica di contenuto alluso, consistenti » ?”. Benché la lezione di Pier Paolo sia innegabile, i versi del Naldini hanno una loro peculiare fisionomia. Pasolini è muscoloso, drammatico, macerato; Naldini è sereno, lieve, gioioso. Mentre in Pasolini c’è

un senso di colpa per il suo erotismo condannato dalla morale cattolica, il Naldini lo accetta senza complessi e senza tormenti. I suoi vetsi sono leggeri e suadenti; e la natura vi compare sorridente, trasparente,

incorporea.

La limitata produzione poetica del Naldini venne pubblicata nel 1948 dall’« Academiuta » nel volumetto Seriîs par un frut, che sarà ristampato dieci anni più tardi, con qualche aggiunta, dallo Scheiwiller. Dopo il 1949 anche il Naldini, trasferitosi a Milano, abbandonò la poesia friulana. Tuttavia, a distanza di molti anni, il ricordo dei

due grandi amici scomparsi, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Comisso, gli ispirò ancora una lirica in casarsese ‘*. Annuncio di un prossimo ritorno al friulano? È quanto speriamo. Analogo voto vorremmo esprimere anche nei riguardi dell’altro adolescente di Casarsa, Tonuti Spagnol (pp. 246-255), i cui versi

sono più elementari, meno raffinati e colti di quelli del Naldini; ma non privi, negli esiti migliori, di una sorgiva e luminosa grazia. 2î P. P. PasoLINI, Poesia d'oggi, cit., p. 134. 28 Nico

Natpini,

Nei

campi

del Friuli.

La giovinezza

în: di Pasolini,

Scheiwiller,

Milano 1984, p. 7.

DO:

Riccardo

Castellani

Quando nel 1942 il Pasolini pubblicava le sue Poesie 4 Casarsa,

Riccardo Castellani (pp. 200-229) aveva già 32 anni e viveva a Casarsa da lungo tempo. Egli però non era casarsese. Aveva visto la luce a Bodensdorf, in Carinzia, figlio di madre austriaca del Salisbur-

ghese e di padre carnico, di Colza (Enemonzo). In Carnia trascorse gran parte della fanciullezza, raccogliendo quelle impressioni e quelle esperienze che sarebbero divenute componente essenziale della sua sensibilità e della sua Weltanschauung. Nel 1943 il Pasolini andò ad abitare a Casarsa. Egli allora, come abbiamo accennato, « scoprì » il Castellani, e tra i due ebbe inizio un proficuo rapporto di esperienze. Il Castellani — che già era stato colpito dal volumetto pasoliniano del 1942, ma non aveva ancora sentito in sé la voce

del dèmone

poetico — entrò nel mondo culturale e tecnico-espressivo del Pasolini, cominciando a poetare in casarsese; da parte sua, il Pasolini trovò

nel Castellani una preziosa fonte d’informazioni per quanto concerneva il dialetto locale. Il Castellani cominciò a pubblicare sugli Stroligut e divenne un elemento di spicco nella cerchia del Pasolini. Ma sia per la differenza d’età, sia soprattutto per la differenza di temperamento,

il Castellani, spirito timido e raccolto, si trovava

a

disagio di fronte all’esuberanza e agli atteggiamenti esibizionistici e provocatori del Pasolini. Quando venne fondata 1’« Academiuta » non vi prese parte; e da allora l’estraniamento reciproco dei due poeti si fece sempre più profondo. Ebbi un incontro con Riccardo Castellani a Casarsa nel 1975. Egli mi disse che l’« Academiuta di lenga furlana » non era tale, e che per questo non vi partecipò; non vi si faceva niente di friulano; Pasolini leggeva Shakespeare; all’inaugurazione dell’« Academiuta » vennero invitate le autorità e il Castellani non voleva farsi vedere in mezzo a loro, etc. Pier Paolo, mi confidò ancora il Castellani, soleva

dire: « Benché Castellani sia più vecchio di me, io sono suo padre! ». Malgrado la sopravvenuta freddezza dei rapporti, il Pasolini ebbe tuttavia la lealtà di riconoscere nel Castellani « un’autenticità di vocazione davvero notevole » e, pur facendo delle riserve sulle sue prime liriche, uscì in questa significativa affermazione: « Quando lo scrivente avrà del tutto partita vinta sul parlante, e il compromesso 56

con la poesia dialettale della tradizione sarà abbandonato, Castellani

potrà dare al Friuli uno dei più bei canzonieri del ’900 » ?. Questo canzoniere,

intitolato Ad dur dal mont,

sarebbe

arrivato

solo nel

1976, un anno prima della morte del Poeta: e avrebbe rappresentato effettivamente, come il Pasolini aveva presagito, un vertice della poesia friulana del nostro secolo. La produzione lirica del Castellani è alquanto ridotta. Oltre che nel dialetto di Casarsa egli poetò anche nella parlata carnica di Colza. Componeva con lentezza, ma la sua vena friulana continuò a scorrere limpida fino alla morte. La lirica del Nostro porta le stimmate di uno spirito contemplativo, solitario, introverso: uno spirito, ribadiamo, antitetico al vitalismo e all’enfasi del Pasolini. L’amore è sentito

dal Castellani come nostalgia e rimpianto, non come sensualità e possesso. Il suo senso della natura è acutissimo, ma essa non è per lui uno spettacolo esaltante, egli vuole cogliere in essa i lati più reconditi, vuole trascendere le apparenze fenomeniche. C’è nel Castellani, come già nel Cescutti, un fondo di panteismo. Un panteismo non inebriante, ma pervaso da un senso di sgomento di fronte al silenzio e al mistero della natura. Il Poeta sembra voler auscultare il travaglio celato, la pena insita nelle cose: nel ruscello, nell’abete, nel falco alpino. Nascono così poesie che sembrano incise col bulino e hanno i colori freddi di un Caspar David Friedrich. Questo senso nordico della forma può essere posto in relazione con l’ascendenza del Poeta, per metà tedesco e per metà carnico. Al mondo carnico il Castellani ha dedicato alcune liriche attentamente

cesellate, ma che

non hanno nulla da spartire con il descrittivismo e il bozzettismo dei poeti della vecchia generazione (come il Fruch, pure carnico, i cui sonetti ispirati alla natura alpestre sono tuttavia pregevoli). Insieme con il de Gironcoli, con la Cantarutti e pochi altri, il

Castellani è un ricerca formale fedeltà assoluta Poeta non ha

« classico » della poesia friulana: sia per l’inesausta da cui sono nate composizioni perfette, sia per la a una poesia friulana di lingua e di spirito, da cui il

mai derogato.

29 P. P. PasoLINI, Poesia d’oggi, cit., p. 133.

DI

Novella

Cantarutti

« A casa ho trovato la lettera di un ragazzo — Pasolini — che mi chiede poesie ... ». Così annotava nel suo diario Novella Cantarutti (pp. 284-309) il giorno 13 dicembre 1945 *. Aveva allora 25 anni e nello Strolic della « Filologica » aveva appena pubblicato tre sue liriche. Il Pasolini, com’è evidente, apprezzò le composizioni dell’esordiente poetessa e cercò subito di attirarla nella cerchia della sua « Academiuta ». Nel Quaderno romanzo (1947) ospitò una poesia della Cantarutti. La consuetudine con il Pasolini e l’« Academiuta » agì certamente in senso positivo nell’evoluzione della Poetessa. Lo afferma senza ambagi il Pasolini stesso nell’importante articolo del 1949 (p. 138): « La sutura tra la prima e la seconda poesia della Cantarutti, o per dir meglio, tra la sua non-poesia e la sua presenza poetica, è costituita appunto da un travaglio in direzione di una libertà tecnica e di motivi che, in Friuli, io credo solo l’Academiuta

le poteva indicare »; aggiunge poi che essa ha ormai raggiunto una pienezza espressiva ammirevole: « le sue brevissime liriche — che si potrebbero paragonare, non so, a tanca giapponensi, a frammenti di lirici greci o a cose del genere — vibrano di una trasparenza linguistica di prim’ordine, con immagini essenzialissime e cariche ». Nel 1952 le raffinate « Edizioni di Treviso », curate da Gino Scarpa, pubblicavano le Pwisiis di Novella Cantarutti;

una seconda silloge,

Scais, sarebbe apparsa nel 1968 a Udine, presso Tarantola-Tavoschi. Novella Cantarutti è nata a Spilimbergo, ma ha vissuto la sua fanciullezza nel paese materno di Navarons (Meduno) ai piedi delle Preal-

pi Carniche, dove il fiume Meduna sbuca dalle montagne e comincia il suo viaggio verso la pianura. Il linguaggio materno si è inciso nella memoria e nella psiche della Poetessa, che non ha mai voluto abbandonarlo a vantaggio della koinè. Si tratta in effetti di una varietà friulana ben caratterizzata, abbastanza simile alla parlata della non lontana Fanna, che fu il veicolo espressivo di Vittorio Cadèl. La Cantarutti maneggia con estrema cura e perizia il suo « navaronti-

no », tanto che i suoi testi lirici sono anche documenti linguistici 30 Cfr. N. CANTARUTTI, Non più terrene latitudini, in AA.VV., Pasolini in Friuli, 1943-1949, Udine 1976, p. 34.

58

attendibilissimi. Per essa la poesia in friulano è stata un’esperienza totale, un impegno costante. Il legame con il suo paese e la sua gente è profondo e specifico, ma non ha niente di folcloristico; e ciò non avviene neppure nei racconti (La femina di Marasint,

1964) e nelle

prose d’arte (Pagjni” seradi’, 1976). Il suo travaglio poetico si è svolto con esemplare serietà e onestà, al di fuori delle mode e di ogni sciatteria.

La personalità della Poetessa di Navarons è stata messa a fuoco, con la consueta capacità di penetrazione, da Carlo Sgorlon: « Alla luce dell’esistenza piena, che può ulcerare e bruciare, la Cantarutti oppone molti schermi, in maniera che essa le giunga attenuata, e non getti lo scompiglio dentro il recinto della sua eccessiva sensibilità. Da ciò il senso di continua smorzatura che si riporta dalla lettura dei suoi versi; il suo bisogno di emarginarsi, di vivere negli angoli delle cose, nelle frange della vita, in un ritiro che è doloroso e sterile, ma

non privo di remote dolcezze, di echi di cose svanite. E ciò appunto perché gli echi non sono direttamente le cose, ma soltanto la loro ombra, la loro memoria, e devono attraversare una vasta barriera di

tempo per arrivare fino a lei [...]. La poesia della Cantarutti non è mai specchio dei tempi; si svolge in un’atmosfera dove la vita ha perduto ogni preciso attributo cronologico e si è rappresa in forme attenuate

e immobili

[...]. Il suo

luogo ideale è a mezza

via tra

l’essere e il non essere, in una zona neutra, nella quale sia possibile librarsi sopra le cose, ma senza aderire profondamente ad esse: come una farfalla che non si posa mai, o un gabbiano che voli sul pelo dell’acqua » *. I poeti di « Risultive » « In Friuli ho avuto, ch'io sappia, un solo lettore: Don Marchetti». Così scriveva il Pasolini nel 1949 (p. 137); e intendeva com’è ovvio: un solo lettore attento, non prevenuto.

dire,

Il sacerdote gemonese Giuseppe Marchetti (1902-1966) ha avuto un posto centralissimo nel movimento di rinascita culturale ed etnica 31 C. ScorLon, L’opera di Novella Cantarutti, Ediz. della Bibl. Civ., Comune Pordenone, 1971, pp. 14, 20, 21.

di

59

del Friuli *. Negli anni Trenta si era dato a studi severi di linguistica friulana, indagando soprattutto le origini della parlata. Appena cessata la guerra, fu uno dei principali ideologi dell’autonomismo friulano;

nel 1946 fondava a Udine il settimanale « Patrie dal Friùl », scritto

interamente in friulano. Il Marchetti s’era proposto l’arduo obiettivo di perfezionare la koinè friulana, di farne lo strumento linguistico valido per tutto il Friuli. Nel numero 16 di « Patrie dal Friùl » (19 maggio 1946) egli diede la notizia della fondazione dell’« Academiuta » di Casarsa, esternando una stima sincera per il giovane Pasolini. Scriveva infatti: « No dovaressin stentà a intindisi tra di nò: ancje se in plui di un pont no si sintìn vizins, ancje se forsit no si scontrarìn e no si cjatarìn mai a pàr, ancje s’o vivìn tu adalt e nò

abàs, almancul l’afiet disperàt pe lenghe dal nestri paîs, la brame di dai une vite indipendent, la passion di lavorà intòr di jé e cun jè ‘e son simpri leamps che nus strènzin in tun sfuarz senze cunfin, che nus unissin in tune libertàt disleade da ogni prejudizi, che nus dàn flàt in tune imprese ch’o sin i prins a frontà [...]. Une imprese intrigade la t6 par masse altezze e sutilitàt, la nestre par masse largjezze e vastitàt » #. Il Marchetti, che vagheggiava un rilancio e un rinnovamento delle lettere friulane, capì dunque che l’opera del Pasolini poteva rappresentare un fermento anche per il « centro » del Friuli. Per questo egli organizzò tra l’altro, in una sala di Udine, una presentazione pubblica del poeta casarsese *. Nell’invitare il Pasolini a Udine, il Marchetti dava prova di una coraggiosa apertura mentale; gli orizzonti culturali dell’erudito sacerdote gemonese erano infatti assai lontani da quelli del rivoluzionario poeta di Casarsa. Verseggia3 D. VircILI, Giuseppe Marchetti:

un uomo,

una cultura, in « Atti dell’Accad.

di S., L. ed A. di Udine », Triennio 1970-1972, Udine 1973, pp. 25-87. 33 « Non dovremmo faticare a intenderci tra noi: anche se in più di un punto non ci sentiamo vicini, anche se forse non ci incontreremo né ci troveremo mai affiancati,

anche se viviamo tu in alto e noi in basso, almeno l’affetto disperato per la lingua del nostro paese, la brama di darle una vita indipendente, la passione di lavorare intorno ad essa e con essa, sono sempre legami che ci stringono in uno sforzo sconfinato, ci uniscono in una libertà svincolata da ogni pregiudizio, ci danno fiato in un’impresa che siamo i primi ad affrontare [...] Impresa ardua la tua per troppa altezza e sottigliezza, la nostra per troppa larghezza e vastità ». % Essa ebbe luogo il 27 novembre 1947. Il testo dell’impegnata presentazione del Marchetti è stato recentemente ritrovato e pubblicato in AA.VV., Risultive Trenteun, Chiandetti, Reana del Roiale 1980, pp. 9-20.

60

tore tradizionalista, il Marchetti era piuttosto vicino alle posizioni del vecchio Giovanni Lorenzoni, che fu appunto ospite di riguardo sulle colonne di « Patrie dal Friùl » *°. Con tutto ciò egli avvertiva, come sè detto, l’esigenza di un aggiornamento; e anch’egli, come il Pasolini, sentiva in sé la vocazione pedagogica, il carisma del « caposcuola ». Il primo scopritore del talento della Cantarutti fu proprio il Marchetti, che invitò la giovane scrittrice a collaborare a « Patrie dal Friùl » (essa inviava voltava in koinè).

i suoi

testi in navarontino

e il Marchetti

li

Nel 1949 i tempi erano ormai maturi per la nascita di un sodalizio poetico in quel di Udine. « Risultive » nacque appunto nel 1949 e la sua prima pubblicazione apparve nel 1950. Fu un quaderno

(Riseltive),

che conteneva

liriche di Novella

Cantarutti

(nella

lingua originale, questa volta!) e di altri due giovani, Dino Virgili e Aurelio Cantoni. Prefatore: Giuseppe Marchetti. Esordiva così un cenacolo letterario che col tempo sarebbe molto cresciuto, svolgendo un notevole lavoro per la divulgazione della poesia friulana (ma anche della prosa, del teatro, ecc.), organizzando serate di friulanità,

trasmissioni radiofoniche, e dando in luce numerose pubblicazioni. Il manifesto di « Risultive » è meno ambizioso di quello dell’« Academiuta »; sul piano ideologico si mantiene in termini generici, ponendo comunque l’accento sullo « specifico friulano »: « Risultive non impone limiti o programmi di scuola: invita soltanto a riascoltare, in continuità evolutiva, le suggestioni della terra e dell’anima friulana, risorgenti dalla poetica [sic] e narrativa popolare, e a ricrearle, in innocenza e purezza, nella temperie della lirica e della prosa moderna e nella luce di una chiara coscienza e di un puntuale aggiornamento critico della cultura. Risultive, perciò, vuol essere un preciso richiamo alla natività poetica del friulano, in una proiezione estetica dei dati psicologici ed ambientali, per una letteratura tipicamente friulana » 3°. Benché i lirici di « Risultive » non sempre abbiano ricono35 I versi di Giuseppe Marchetti sono stati raccolti dopo la sua morte dal fratello don Gelindo: I lunaris di pre Bepo, Arti grafiche friulane, Udine 1976. 36 Da D. VircILI, Risultive: 25 anni, in « La Panarie », N.S. n. 25, giugno 1974,

p. 41. Un bilancio del lavoro trentennale di « Risultive » si può trovare nel volume di AA.VV., Risultive Trentagn, Chiandetti, Reana del Roiale 1979.

61

sciuto di buon grado il loro debito verso Pasolini, tale rapporto viene asserito senza esitazione dal poeta casarsese: « Prodotto diretto della Academiuta casarsese sono invece i giovani (il sensibile D. Virgili, A. Cantoni, N. A. Cantarutti) della “Risultive”, movimento poetico che,

spostato dall’orlo areale verso la Filologica udinese e il vecchio ambiente, cerca di conciliare l’anti-provincialismo “marginale” con un provincialismo “centrale” non privo di qualche suggestione, stavolta non puramente di campanile; ma acuita da una sensiblerie vagamente “moderna”, con un Montale, uno Jahier etc., letti di seconda mano attraverso l’Academiuta » (Pasolini 1952, p. CXV).

La poesia di Dino Virgili (Ceresetto, Martignacco, 1925 - Udine, 1983) (pp. 310-313), ricca di immagini,

sensuale e narcisistica, ha

stretti legami col Pasolini. Esprime gioia di vivere e vitalismo giovanili, l’amore per la donna e l’affetto per il ridente paese con le sue colline. Quando non affastella troppi elementi e sa disciplinare i nuclei costitutivi delle sue composizioni, il Virgili raggiunge una forza persuasiva che lo avvicina ai migliori prodotti dell’« Academiuta ». Fedele discepolo del Marchetti, scrive in una koinè molto accurata. Del resto il friulano del suo borgo coincide per gran parte con la lingua letteraria tradizionale. Anche Aurelio Cantoni o Lelo Cjanton (n. a Udine nel 1922) (pp. 314-317) si è sforzato e si sforza di usare la koinè con proprietà e correttezza; ma, essendo udinese, il suo friulano è più « neutro », meno caratterizzato di quello del Virgili. È stato ammaliato solo moderatamente dal Pasolini e non ha mai ostentato l’esuberanza della giovinezza. Anzi, la sua poesia ha un tono dolente e crepuscolare, perché per lui il mondo non è un eden, ma un limbo; ed egli anela alla luce, alla bontà, alla fratellanza. Poeta d’istinto, la

musicalità di molti suoi versi possiede un’innegabile suggestione. Rimane talvolta in lui il pericolo della forma incontrollata e il rischio della retorica dei sentimenti. « Risultive », del resto, non

essendo

vincolata

da una

precisa

poetica, conta anche autori tradizionali. Uno di questi è Meni Ucel (Otmar Muzzolini;

n. a Billerio, Magnano

in Riviera, nel 1908),

poeta solitamente faceto, molto attento al gioco delle rime, continuatore dello Zorutti e del Bauzon. Notevole la sua acribia linguistica e la sua valentia di traduttore (i Vangeli, poesie italiane e straniere). 62

Altrettanto ammirevole, ma priva di pedantismi, è la sostanza idiomatica di Alan Brusini (n. a Tricesimo nel 1923), che ha fatto tesoro delle risorse lessicali della sua zona, che aveva dato i natali ai vecchi

Gallerio e Corvatt. Il fascino della poesia del Brusini consiste nella spontaneità del suo stile colloquiale, feriale, legato appunto al parlato. Egli è uno dei poeti friulani che hanno cantato con più delicatezza il tema dell’infanzia. Un notevole contributo a « Risultive » è stato apportato da una schiera di poetesse. Di Novella Cantarutti si è già parlato. Dobbiamo ora ricordare Maria Forte, di Buia (1899-1979), che si dedicò alla

poesia in età matura, e che ha segnato una pietra miliare nel campo della narrativa;

Paola Baldissera

(n. a Gemona

nel 1934), che ha

cantato con immagini fresche e felici i suoi sogni di adolescente; Renza

Snaidero

(n. negli Stati Uniti, da genitori di Maiano,

nel

1920), con una poesia d’amore tormentata e intensa, dagli esiti abbastanza personali; Jolanda Mazzon (n. a Gorizia nel 1934), autrice anche di racconti e romanzi di solido impianto psicologico. Tutti

i poeti di « Risultive »

che

abbiamo

finora

incontrato

provengono (tranne la Cantarutti) dalla Sinistra Tagliamento, e scrivono perciò, quasi inevitabilmente, in koinè. Della Destra Tagliamento è invece Eddy Bortolussi (n. a Val d’Arzino, da genitori di San

Vito al Tagliamento, nel 1943). La sua parlata è molto simile a quella dei Casarsesi, ai quali l’apparenta anche la limpidità del canto, la luminosità

del dettato, il candore e l'abbandono.

In conclusione, possiamo dire che « Risultive » ha raccolto l’eredità del Pasolini, l’ha innestata nella tradizione friulana, e si è proposta come un punto di riferimento, soprattutto nell’area udinese. Se la poesia dei Casarsesi poteva apparire troppo ardua, « Risultive » proponeva un’alternativa di minore rarefazione intellettuale, più accessibile da parte di un pubblico di media cultura. Altri poeti del rinnovamento postbellico Prima ancora che nascesse « Risultive », operavano sul solco della tradizione due onesti lirici di buona tempra, che si sarebbero affermati in seguito come due delle voci più significative della poesia friulana: Enrica Cragnolini e Mario Argante, dai quali — scriveva il 63

Pasolini nel 1949 (p. 139) — « io attendo una specie di conversione già da qualche anno; verrà? ». In effetti una conversione al « moderno » sarebbe venuta, ma sarebbe azzardato parlare di una adesione pura e semplice alla poetica e alla prassi dell’« Academiuta ». I due poeti maturarono lentamente come per un inevitabile processo interiore.

Enrica Cragnolini, nata e vissuta ad Artegna (1904-1973) (pp. 256-265) non poté vedere il volumetto, intitolato E/ pujerài, che raccoglieva il meglio della sua produzione e apparve qualche mese dopo la sua morte. La sua lirica evoca gli aspetti della natura con la levità, l’essenzialità e la sobrietà di tanta poesia cinese e giapponese, di cui essa era lettrice. Si potrebbe parlare di panteismo, perché l’anima della Poetessa anela a sciogliersi nel cosmo, a immedesimarsi con esso. Ma forse è più corretto parlare di simbolismo, come ha fatto Sgorlon nella sua presentazione di E! pujeràt: un simbolismo non programmatico o razionale, ma trepido e discretamente alluso. Apparentemente semplice ed elementare, la poesia della Cragnolini ha invece un sottofondo filosofico e metafisico che non sempre si coglie al primo incontro. Si direbbe che per essa la natura è come un velo che si frappone tra noi e l’assoluto: che è leggerezza, biancore, altezza, lontananza.

Mario Argante (n. nel 1909) (pp. 266-277) ha scritto parlata di Tauriano (Spilimbergo) paese nel quale passò la giovinezza; ma usa anche la koinè, poiché da parecchi Udine. È stato per lungo tempo un poeta bifronte: con zione in italiano, volutamente

molto nella l’infanzia e anni vive a una produ-

moderna, legata al tardo futurismo

degli anni ’30; e una produzione in friulano, completamente tradizionale (settenari ed endecasillabi diligentemente rimati; contenuti più o meno paesani e folcloristici). Il Pasolini lo incitò a modernizzarsi, ad accostarsi all’« Academiuta »: « abbandoni, la prego, i bina-

ri, all'ingrosso, zoruttiani; deragli. In lei ci sono possibilità di disegni poetici nuovi, una gamma sottile e nitida di immagini; se si metterà a detestare

(innocentemente)

la tradizione

dialettale

friulana,

vedrà che si libererà meglio dentro di lei un’ispirazione originale » ?”. 37 Lettera di P. P. Pasolini a M. Argante, 16 ottobre 1945. Cfr. G. ELLERO, presentazione a M. ARGANTE, Erbe che mir, Udine 1975, p. 8.

64

Il « deragliamento » avvenne solo negli anni ’60, e da allora il Poeta ci ha dato le sue cose migliori. Mario Argante vede la vita come grigiore, squallore, nullità. Maestro della metafora, egli riesce nei suoi esiti espressivi più alti a gettare un bagliore sulle vacuità della vita e del tempo. Altro poeta significativo, che aveva già esordito prima del 1949 (ma i versi che scrisse durante la guerra sono andati quasi completamente perduti), è Renato Appi, di Cordenons (n. nel 1923) (pp. 318-329). Cordenons è un popoloso paese situato subito a nord di Pordenone, il grosso centro industriale che nel 1968 si staccò da Udine divenendo una provincia a sé. Mentre a Pordenone il friulano si è estinto durante il secolo scorso, esso invece resiste ancora (sia

pure contaminato dal veneto) nel paese di Appi, il quale ne ha fatto la sua lingua letteraria. Possiamo considerarlo un espressionista, poiché si esprime in modo elementare, veemente, drammatico. La stessa interpunzione, ricca di punti esclamativi, interrogativi, di sospensione, rivela la concitazione del Poeta. Egli si ispira non soltanto alla natura, ma anche agli eterni sentimenti umani, all’ansia

della madre per le sue creature, alla vita degli emigranti. Scrive lo Sgorlon che nella poesia dell’Appi « v’è una sete fresca e impetuosa di vivere la vita delle cose, di vedere il mare, di correre per i prati,

di godere il sole, il vento, l’azzurro del cielo. Ma, come in Lorca e in Pasolini, questa felicità elementare è minacciata dalla morte ». E a proposito dell’Appi « paesaggista »: « Per lui le cose di natura sono ancora suggestive; come sempre, la luna si attarda ancora tra i rami, e la rugiada cala come sole; il cielo, le nuvole suggeriscono immensi tà e grandezza, e sete di infinito [...] Al poeta piace dilatare epicamente le cose » *. La poesia moderna

dell’« Academiuta », di « Risultive » e di

singoli autori indipendenti finì per influenzare anche alcuni poeti anziani che cercarono di rinnovare il loro stile, abbandonando i metri e

le rime tradizionali in favore del verso libero. Si tratta principalmente di Pietro Someda de Marco, di Mereto di Tomba (1891-1970); di

Maria Gioitti del Monaco, che visse a Cormòns e scrisse in quella

none

38 C. ScorLon, presentaz. a R. Appi, Chel fantassut descòls, nuova ediz., Porde1975, pp. 7, ll.

65

parlata (1890-1973); di Lea D’Orlandi, udinese (1890-1965). Merita un ricordo particolare Francesca Barnaba (in Marini; Maiano, 1877 — Udine, 1960), che cominciò a poetare a 72 anni. I suoi versi,

ispirati per lo più al ricordo della giovinezza e all’attesa della morte, posseggono una bella scioltezza e comunicatività. Il suo friulano è di una purezza incantevole. Umberto

Valentinis

Nel 1967 apparve una grossa antologia di liriche friulane: La Cjarande. Era compilata da Mario Argante, Domenico Zannier e Galliano Zof, e conteneva poesie di ventidue autori giovani e meno giovani. « La media dei testi antologizzati non esprime doti di particolare freschezza e non possiede nozioni culturali particolarmente aggiornate » (R. Pellegrini

1981, p. 99). Vi sono

però alcune

eccezioni. La più vistosa è quella di Umberto Valentinis (n. ad Artegna nel 1938) (pp. 368-395). La forza poetica di questo esordiente venne messa in evidenza da Carlo Sgorlon nel saggio esegetico premesso alla seconda edizione di La Cjarande: « Ultimo poeta della serie è Umberto Valentinis. Ne parlo per ultimo perché mi sembra il poeta più completo, più maturo, più certo dei suoi mezzi, più nuovo, più sorprendente e anche più suggestivo. Credo sarà una rivelazione per molti, dato che si tratta di un poeta inedito, a quanto risulta dalla laconica scheda bibliografica che lo riguarda. Io non saprei formulare a suo riguardo che queste due ipotesi: o la sua poesia presuppone un lungo tirocinio, una lunga produzione di cose che non ha mai stampato, oppure è dotato di una sorprendente capacità di assimilazione di quello che è il linguaggio della poesia moderna, dagli ermetici fino ai nostri giorni [...] Ingenuità non mancano negli altri poeti, anche se si tratta di ingenuità sempre fresche e simpatiche. In Valentinis non ne ho trovata nessuna ». Nel 1968 il Valentinis pubblicava 30 nuove liriche in un volumetto edito dalla « Filologica »: Salustri. Caratteristico vocabolo che significa: schiarita, chiarore passeggero (in un cielo annuvolato); e anche: momento di lucidità (in un moribondo), miglioramento passeggero (in un malato), momento

di tregua (in chi soffre). Salustri venne

accolto

con favore dagli amatori della poesia friulana, perché costituiva una 66,

voce

senso

nuova,

nordico

lontana

e non

dai manierismi

mediterraneo

pasoliniani,

(idealmente

anzi orientata

in

vicina, quindi,

al

mondo del Castellani). Il Valentinis possiede una cultura di prima mano, bene assimilata. È un conoscitore profondo della poesia e della musica tedesca. Appassionato per le arti figurative, è egli stesso miniaturista e incisore. A questo proposito, si potrebbe notare, in certi scabri paesaggi evocati dai suoi versi, un carattere pittorico e

friulano, che può far pensare agli aspri viluppi di radici e di sterpi del pittore conterraneo Giuseppe Zigaina. Uno degli estimatori immediati della lirica del Valentinis è stato il critico Amedeo Giacomini, che dettò questo giudizio calzante: « È una

poesia, quella del Valentinis,

aristocratica

e matura,

marcata

da un estetismo di fondo, che ha radici neoermetiche soprattutto e leopardiane, con qualche residuo espressionistico che gli viene dalla familiarità con la poesia lirica tedesca, da Rilke a Benn, passando pet Stephan George e Trakl, con un occhio magari rivolto all’Héolderlin prima maniera e ai suoi sogni di una patria dell’anima ». Sostanziano questa poesia « contenuti reazionari, dal punto di vista ideologico, aristocratici, appunto, privi di ogni impegno che non sia quello di dare nome e suono ai sentimenti, di far poesia. Ne esce allora e s’accampa sullo sfondo di un paesaggio nevroticamente compromesso, un essere tutto arroccato in sé medesimo, triste, saturnino.

Il colore

fondamentale di queste liriche è, di conseguenza e a dispetto di una ‘langue’ da miniatore medievale, il grigio: la tinta neutra, parrebbe, dell’accidia del solitario decadente. E i ‘topoi’ sono il vento, le stoppie, le siepi e gli orti intisichiti dal gelo e dalla brina, il malessere del sole, la pioggia: adunati a comporre una ‘stimmung’ settembrina largamente goduta, assaporata come un infuso di erbe rare e preziose » (Giacomini

1970, p. 33).

Quanto alla lingua del Valentinis, si tratta di un friulano sceltissimo, che il Poeta assimilò sulle labbra della nonna paterna e rielaborò con coscienza filologica. Egli scrive sostanzialmente in koinè, ma adotta qualche caratteristica della parlata di Artegna, non però l’artegnese vero e proprio, il cosidetto pignòc, la cui peculiarità principale consiste nel trasformare in [è] le 4 toniche (gno pèri e mé mèri; vîno di stè 0 vìîno di lè?, anziché gno pari e mé mari; vìno di stà o vìno di l4?). Dall’artegnese il Valentinis assume il tipo morfo67

logico las fèmines, che si contrappone a lis fèminis della koinè udinese e coincide invece con la parlata di tutto il cuore geografico del Friuli (ivi compreso il prestigioso dialetto di San Daniele). Anche Enrica Cragnolini, compaesana del Valentinis, aveva inserito nella sua koinè qualche particolarità di Artegna, soprattutto l’articolo el in luogo del tradizionale allontana).

i! (dal quale

invece

il Valentinis

non

si

Poeti impegnati, sperimentali e naif

È risaputo che, per trasfondersi in poesia, l'impegno civile, sociale, politico deve nascere da una necessità intrinseca e trovare un’adeguata forma poetica. La poesia friulana ha avuto in passato assai pochi poeti « impegnati ». L'eccezione più clamorosa è quella di Giovanni Minut. Ma a partire dagli anni ’60 nasce anche in Friuli un filone di poesia sociale e civile, che raggiunge risultati più o meno validi sul piano artistico. Sono senz’altro intense le prime, sferzanti poesie di protesta del carnico Leonardo Zanier (n. a Maranzanis, Comeglians, nel 1935) (pp. 348-361), che in un breve periodo di fervida attività compose, nella parlata del suo paese, i testi che andarono a formare il volumetto Libers... di scugnî là. La prima edizione apparve a Ovaro nel 1964, la quarta a Udine nel 1972, la quinta a Milano, presso Garzanti, nel 1977. Figlio e nipote di emigranti, lo stesso Leonardo fu costretto ad espatriare. Lavorò dapprima in Marocco, poi (per lunghi anni) in Svizzera. Lo Zanier canta la vita dell’emigrante, ma non con gli accenti di caldo lirismo propri di un Appi. I suoi versi brevi, affannosi, scanditi con forza, esprimono più che altro dolore e rabbia, sono un atto di accusa, una requisitoria contro i politicanti inetti e disonesti. Si tratta di una poesia che rischierebbe l’oratoria se, oltre al risentimento, non espri-

messe anche un amore elegiaco per l’avara terra di Carnia. Quando lo Zanier scrisse i suoi versi (1960-1962) il problema dell’emigrazione era ancora scottante. Dieci anni dopo non lo era già più. La tra-

dizionale figura del friulano che emigra per sopravvivere appartiene al passato. Ecco perché lo Zanier si è rivolto ora ad altre tematiche,

esercitando

il suo

sarcasmo

contro

il militarismo,

le

sperequazioni sociali, ecc. Assai curiosi per la loro mistura di versi e 68

di prosa, di appunti storici, divagazioni teoriche, fotografie, ecc., sono i due recenti volumi Sboradura e sanc (1981).

Che

Diaz...

us

al meriti

(1976)

e

Qualche affinità con Leonardo Zanier presenta Renato Jacumin (n. nel 1941), che scrive nel vernacolo di Aquileia, ma con parecchi

italianismi provenienti dal moderno linguaggio tecnico, politico e sindacale °°. Al Poeta evidentemente non interessa troppo il purismo linguistico (che era stato invece una preoccupazione fondamentale per Ugo Pellis, conterraneo dello Jacumin). Ciò che gli sta a cuore è il messaggio, umano e politico. Mentre lo Zanier parlava a nome degli emigranti, Jacumin è il portavoce dei contadini poveri. E a differenza del poeta carnico, spirito laico e beffardo, il Jacumin vela la sua requisitoria di una pietas cristiana (ancorata alla spiritualità dell’antica Aquileia). Poeta della terra e del mondo contadino, in chiave realistica e sociale, è anche Galliano Zof (n. a Santa Maria La Longa nel 1933)

(pp. 362-367). I suoi versi sono pervasi da sensualismo e da uno spirito rapsodico che sfiora talvolta l’oleografia. La sua denuncia di un’oppressione di tipo feudale si proietta evidentemente nel passato, non può avere validità per il tempo presente (G. D’Aronco 1982, p. 390). Non mancano di suggestione i versi ispirati all'amore per la donna, la cui fecondità è vista per così dire in simbiosi con la fertilità della madre-terra. Altri poeti attenti ai problemi sociali e politici sono Enos Costantini (n. a Osoppo nel 1949), che ha scritto anche

vivaci poesie autobiografiche, Luigi Cicuttin (n. a Latisanotta, Latisana, nel 1939), i cui versi hanno un piglio popolaresco, e Pieri Cecut (Pietro Grillo; n. ad Ampezzo nel 1929) che, oltre a brevi

composizioni di una risentita sentenziosità, ci ha dato anche qualche bella poesia d’amore. Impegno civile e senso etico non comuni nella poesia friulana d’oggi contrassegnano le 13 composizioni (alcune assai lunghe) che costituiscono il volume Impid peraulis di Celso Macor (n. a Versa, Romans d’Isonzo, nel 1925) (pp. 486-497). Il Macor usa la varietà goriziana del borgo natale, ma con qualche innesto proveniente da 39 Un italianismo

dei più vistosi è la locuzione

braciànt

agricul, che in buon

friulano si deve dire bracent, sotan, cossan, zornalîr, lavorent, vore, ecc.

69

Lucinico, il paese alle porte di Gorizia (e al di qua dell’Isonzo) in cui vive. Nella sua poesia commossa

e drammatica convivono numerosi

motivi. La rievocazione dell’infanzia e del mondo contadino di ieri si intreccia con il ricordo delle sofferenze inflitte alle popolazioni goriziane dalle due guerre e dal bestiale odio razziale. Il Macor sente con intensità bruciante la tragedia storica che si è abbattuta su un sereno, patriarcale, buono, abituato

mondo

alla fatica e consolato

dalla fede. Come giustamente ha scritto R. Pellegrini: « Macor, per virtù di lingua e di stile, per forza di ritmo e nitidezza lessicale, sa rendere umanamente e letterariamente vero quel mondo contadino di cui troppo e troppo male si scrive » (« Corriere del Ticino », 10.11. 1984). Di ispirazione prevalentemente religiosa sono le liriche di Pieri Santon (Pietro Biasatti; n. a Beano, Codroipo, nel 1940). Si tratta di meditazioni sulla trascendenza, sulla vita e sulla morte. Il

tono è dimesso, ma ricco di umori genuini. Non esiste certamente una corrente di poeti friulani dediti alle sperimentazioni stilistiche a cui ci hanno abituato le grandi letterature nazionali. Con il termine « sperimentalismo » intendiamo pertanto il manierismo espressivo, la poesia rifatta sulla poesia. Nella lirica di Nadia Pauluzzo (n. nel 1931) (pp. 330-335), per esempio, sono condizionanti i riferimenti culturali (N. Cantarutti, D. Virgili, ecc.).

Come ha rilevato R. Pellegrini (1982, p. 64) si tratta di una poesia a cui può nuocere l’eccesso di effusività sentimentale, la ridondanza espressiva. Quando la Poetessa riesce a disciplinarsi, nascono liriche

di buona tenuta. In qualche modo « manierista » è anche Eugenio Marcuzzi

(n. nel

1920).

È una

voce

certamente

interessante

per

l’inesausta ricerca di una piattaforma ontologica; ma i suoi impasti verbali sono privi sovente di una vera giustificazione, e la lingua friulana viene usata talvolta in modo troppo personale. Riserve analoghe vorremmo avanzare per alcune liriche di Giovanni Maria Basso

(n. a Orsaria, Premariacco,

nel 1933), il quale, dopo aver

esordito con composizioni tradizionali nel metro e nei temi, è passato a una poesia trapunta di metafore, che sfrutta sistematicamente le risorse della parlata più rustica. Non mancano i momenti di grazia e allora il Basso sa darci degli squarci lirici apprezzabilissimi. Più controllato, stilisticamente più scaltrito,

è Mario De Apollonia (n. a

Romans, Varmo, nel 1940) (pp. 498-503), che scava nel passato per 70

rivivere con amarezza

le illusioni fallaci e riportarle al doloroso

presente. La sua tecnica versificatoria e una certa iconologia possono

ricordare il Valentinis; ma nel De Apollonia l’autobiografismo è più scoperto. Una considerazione particolare merita Domenico Zannier (n. a Pontebba nel 1930) (pp. 336-347), che detiene un posto di rilievo

nella storia della cultura ladina del Friuli. Propugnatore di una lingua friulana ricca e pura, riformatore della grafia, fondatore della « Scuele Libare Furlane », prosatore e saggista, ha inoltre al proprio attivo una copiosa produzione poetica. « La poesia di Domenico Zannier ha un timbro inconfondibile, che la distingue da quella di ogni altro della piccola ‘Pleiade’ dei ladini. Tendenzialmente è un metafisico. Sembra anzi legato per qualche verso da una lontana fratellanza spirituale con quei poeti inglesi e tedeschi del ’600 che furono detti, appunto, poeti metafisici, non ‘solo nei contenuti, ma anche in

quella sete inesausta di accumulare metafore che è una delle sue caratteristiche.

conquista

I suoi

temi

sono

l’amore,

dell’Essere pieno, a colmare

la ricerca

la carenza

di Dio,

di essere

la

che

riscontra in sé. Zannier sente l’uomo (e soprattutto se stesso), come

creatura precaria, grumo d’aria, onda di vento, che però si gonfia di sentimenti che lo proiettano sulle direttrici dell’infinito, della vastità della natura, dell'amore sterminato, dell’Essere senza confini » (C. Sgorlon, « La Vita Cattolica », 20.7.1969). Oltre ad alcune sillogi di

liriche sciolte, Domenico Zannier ha composto il poemetto Fevelade a Diu (1979), che rappresenta il suo più alto raggiungimento nel campo della poesia religiosa. Egli ha scritto inoltre quattro poemi: nel 1953-1955 Les culines palides, nel 1956-1963 Furlanìe di cîl, tra il 1967 e il 1970 L’àncure te Natisse, infine I dumblis patriarcài (1973-1974). Si tratta di un complesso di oltre 28.000 versi. Qual-

cuno non ha mancato di ironizzare su tale tipo di produzione letteraria, considerandola anacronistica. Sta di fatto che almeno Les culines

palides, per l’unità compositiva e la freschezza del dettato poetico, appare destinato, se non sono cattivo profeta, a sfidare il tempo. Un altro poeta « anomalo », ma in tutt’altra direzione, è Toni Colùs (Antonio Colussi; nato a Ospedaletto, Gemona, nel 1951) (pp. 396-403). Già nel libriccino Reguie par un om (1971) si trovavano,

nella seconda parte, audacie inaudite: accostamenti verbali privi di sa

nessi sintattici, polivalenze semantiche, mancanza totale di punteggiatura. Ma lo schiaffo ai benpensanti venne soprattutto dal successivo volume, Auzopsie, edito in elegante veste da Alfeo Mizzau, per i tipi de La Nuova Base di Udine (1974). I critici più qualificati non hanno mancato tuttavia di salutare con interesse questo sorprendente frutto della poesia friulana degli anni ’70. Rienzo Pellegrini (1981, p. 113-114) s’è espresso con la consueta perspicacia:

« La neoavanguar-

dia in Colùs si riduce a pura tecnica retorica (comunque dotata di formidabili capacità estranianti). Ma ha senso estrapolare da Sanguineti, Balestrini, ecc. una tecnica e riciclarla in un contesto socio-eco-

nomico e, meglio ancora, in una lingua (il friulano è sottoposto a ben altri logoramenti, a ben altri problemi) che oggettivamente non manifesta i disagi che hanno determinato la nascita della neoavanguardia? Le perplessità sono legittime e fondate. Eppure i testi di Colùs non sono privi di fascino, proprio perché densi di ambiguità, spesso enigmatici: choc salutare nel quadro letterario friulano, dove ancora resiste e persiste la moda del descrittivismo facile e inerte, dove ancora si perpetua il ricatto dei buoni sentimenti, dei versi dedicati alla mamma e al paesello ». Ancora più consentito è stato il giudizio di Luciano Morandini (1980, p. 22): « Il giovane Colussi [...] ha fatto filtrare nella lingua friulana l’avanguardia europea, con la volontà di rompere “il muro della parola”, procedendo, sulle spinte di una sensibilità che si mescola e si rimescola nella cultura, alla costruzione di un tessuto

poetico fatto di rotture e di collage, che nulla ha del vuoto cerebrale e tutto, invece, dell’invenzione capace di dar forma a spasimi esistenziali, a rabbie contemporanee, a dissonanti temi d’amore, che risuonano sottilmente nei lettori friulani meno attardati ».

Dobbiamo ora soffermarci su alcuni verseggiatori carnici, ai quali vorremmo attribuire la qualifica di waîf, pur sapendo come tale termine possa prestarsi ad equivoci. Giso Fior (Chiaulis, Verzegnis, 1916 — Udine, 1978) è stato uno dei più significativi poeti che ci abbia dato la Carnia. La sua produzione, abbondante e sparsa, è stata

raccolta in volume dopo la sua morte ‘°. Adottando con puntigliosa 4 G. Fior, Udine 1985.

72

La mé

Cjargna,

a cura

di A. Ciceri,

Società

Filologica

Friulana,

precisione la parlata del suo villaggio, il Fior ci ha lasciato un corpus poetico che comprende anche componimenti d’occasione di valore caduco, ma che nel suo complesso rappresenta un piccolo poema al mondo carnico, con i suoi pastori, le malghe, i ruscelli, gli animaletti

del bosco, ecc. Il candore e la sincerità del poeta sono disarmanti. Forse per questo molti testi sono documenti umani, talvolta anche sociologici, più che vera arte. Eppure, per quante riserve si vogliano fare sulle ingenuità e i pedantismi di Giso Fior, egli resta un poeta delizioso, vorremmo dire fragrante. Si esprimono nelle rispettive parlate carniche anche le due poetesse Elda Gottardis (n. nel 1931), che ritrae con schietta immediatezza la vita della sua gente, e Gina Marpillero (n. nel 1912), nitida

evocatrice di ambienti e persone del lontano passato ‘'. Naif autentico è Scquek (scritto anche Scuec: Donato Vergendo, n. a Sezza, Zuglio Carnico, nel 1917). Con i poeti del popolo ha in comune la caratteristica di allungare o accorciare i versi secondo l’esigenza delle rime. Benché dilettante, Scuec ha saputo mettere in versi alcune storie d’amore che, per la forza del sentimento e la penetrazione del cuore femminile, stanno alla pari di molte delle più intense villotte popolari ‘. Il « grande ritorno » degli anni ‘70 Durante gli anni ’70 si verifica un fenomeno di notevole rilevanza. Molti scrittori del Friuli che già si erano fatti un nome nel campo delle lettere italiane, si convertono alla poesia ladina. Le cause principali di questo fenomeno vanno ricercate, secondo noi, in questi tre accadimenti:

1) Agli inizi degli anni ’70 si riaccende in tutta Europa il dibattito sulle minoranze etniche, che coinvolge ora vasti strati dell'opinione pubblica. Il fiorentino Sergio Salvi pubblica i suoi fondamentali libri: nel 1973, presso Vallecchi, Le mazioni proibite 4 Su queste due verseggiatrici carniche, cfr. A. CIcERI, 1984. 4 A Donato Vergendo ho dedicato lo studio Un poeta carnico naif: Scuec, che è apparso nel 1986 negli Studi ladini in onore di Luigi Heilmann, a cura dell’Istitut Cultural Ladin di Vigo di Fassa (= « Mondo Ladino » 10, pp. 431-442).

v6)

(Guida a dieci colonie « interne » dell'Europa occidentale); nel 1975,

presso Rizzoli, Le lingue tagliate (Storia delle minoranze linguistiche in Italia). Questa seconda opera riscuote un tale successo di pubblico che si esaurisce in poche settimane. Il Friuli viene così conosciuto in tutta la Penisola nella sua specificità etnico-linguistica. 2) Pier Paolo Pasolini, dapprima timidamente, poi con foga giovanile, si riaccosta al friulano. Nonostante avesse dichiarato alla fine del 1973: « non scrivo in dialetto perché, come ho detto, il dialetto e il suo mondo sono scomparsi » #, proprio in quegli stessi giorni faceva conoscere al pubblico nazionale una poesia scritta per più di metà in friulano e per il resto in italiano *. Scrisse allora altre poesie friulane-italiane, come

se non

si sentisse ancora

abbastanza

pronto a rituffarsi completamente nella « lingua della madre » *. Ma una volta superata questa fase di « rodaggio », si fece pressante in Pier Paolo il desiderio di rivisitare il paradiso friulano della sua giovinezza, quasi presentisse di essere giunto alla conclusione della sua parabola esistenziale. Ma ormai il Poeta, sazio di gloria, di sesso, di attivismo, era giunto a un pessimismo nero: il mito dell’innocente mondo contadino era crollato, la giovinezza inesorabilmente passata, le motivazioni

della vita recise. Nacque così la sconsolata,

funerea seconda forma di La meglio gioventà, che si salda con le luminose liriche antiche nel canzoniere

La nuova

gioventù.

Venne

pubblicato da Einaudi nel 1975, pochi mesi prima della scomparsa del Poeta. 3) Il sisma del 1976 porta il Friuli alla ribalta della cronaca e dell'attenzione generali. Gli stessi friulani acquisiscono in quella tragica contingenza una maggiore consapevolezza della loro identità di popolo. Molti di essi cessarono di provare un senso di vergogna per la loro « diversità », perché finalmente venivano accettati e apprezzati proprio grazie ad essa. 4 P. P. Pasolini, intervista a « La Stampa» (Torino), 29 dicembre 1973. 4 P. P. PasoLINI, Ai studens grecs ta un flat, in «La Stampa » (Torino), 16 dicembre 1973. 4 Queste poesie mistilingui andranno a costituire la sezione Tetro entusiasmio in P. P. PasoLINI, La nuova gioventù, Einaudi, Torino 1975, pp: 231 SEE.

74

Il « ritorno al friulano » degli anni ’70 non ha mancato di dare buoni frutti poetici, almeno nei casi in cui esso ha obbedito a un'esigenza sentita, più che a una moda del momento. Non è dipeso certo dalla « moda » il graduale recupero della parlata materna da parte di Siro Angeli (n. a Cesclans, Cavazzo Carnico, nel 1913) (pp. 278-283), che nelle lettere italiane è apprezzato drammaturgo oltre che poeta. Già nel 1946 aveva scritto una lirica in friulano, assai bella ‘°. Poi la musa ladina aveva taciuto a lungo. Ma piano piano l’urgenza di poetare in madrelingua divenne sempre più viva. Il volumetto L’aga dal Tajament, edito nel 1976, contiene 22 liriche;

un numero doppio ne avrà la seconda edizione, in corso di stampa. Durante un suo recente passaggio per Udine, il Poeta mi ha confidato di essere ormai ritornato completamente alle radici; determinante in questo senso è stata la sua collaborazione al film Maria Zef, di cui scrisse la sceneggiatura friulana ‘’. Poetando nel linguaggio del borgo natio, Siro Angeli intende riannodare i legami con la sua terra, per riappropriarsi in qualche modo di un mondo e di una gente che stanno alla base della sua identità spirituale. Come in quasi tutti i carnici, la sua sincerità si può definire trasparente. Il dettato poetico è lucido ed essenziale. Un altro carnico che ha un buon nome come commediografo in lingua italiana è Luigi Candoni, di Arta Terme (1921-1974).

Ritornato in Friuli alla fine degli anni ’60, scrisse in

friulano non solo il dramma Strissant vie pe gnot, ma anche una serie di poesie che, con il titolo Lontan dai voi, apparvero nella rivista La Panarie

(N. S., n. 4, 1970).

Abbiamo già ricordato Amedeo Giacomini (n. a Varmo nel 1940) (pp. 426-431) nella sua veste di critico sagace e forbito. La sua poesia friulana è invece volutamente plebea, anche per la scelta di un dialetto « basso », contaminato dalla corruzione fonetica denominata

sica #. Il plebeismo del Giacomini sembra nascere più che altro dalla 46 S. ANGELI, Il gno paîs, in « Strolic furlan pal 1947 », Società Filologica Friulana, Udine 1946, p. 36. Nella stessa pagina una seconda poesia: L’agnul dal cis’cièl. 47 Questo bellissimo film, diretto dal regista Vittorio Cottafavi, è stato realizzato nel 1981 dalla Rai (Sede regionale per il Friuli-Venezia Giulia), che gli ha anche dedicato uno dei suoi Quaderni. i | l

48 Il cosiddetto sicé, presente anche nell’attuale dialetto friulano di Udine, conse, parsè, semzit, sil, anzichè ce, parcè, cemtit, cil (e lo stesso avviene per le corrispondenti consonanti sonore).

siste nell’assibilare le palatali:

(PD)

aspirazione a essere un « dialettale » a oltranza. La sua poesia « si presta all’equivoco dell’autobiografismo spavaldamente esibito, del realismo spinto fino ai limiti della volgarità. Meglio tornano i conti, se consideriamo questa poesia come oggetto squisitamente letterario, inserito con piena coscienza in un genere codificato e di lunga tradizione (sia pure con scarsa fortuna in territorio friulano). Quel genere che prevede tematicamente, accanto alla donna non angelicata, accanto al sesso, l’osteria, l’invettiva che arriva alla be-

stemmia » (R. Pellegrini 1981, p. 107). La prima raccolta di versi friulani del Giacomini è stata Tiare pesante (1977); l’ultima Fuejs di un an (1983), che contiene una bellissima presentazione di Maria

Corti, in cui viene posto in rilievo l’intellettualismo del poeta e il suo gusto per il divertissement verbale. Più o meno nella stessa varietà friulana, che può essere chiamata grosso modo « codroipese », scrive anche Elio Bartolini (n. nel 1922)

(pp. 432-437). Egli è un noto romanziere in lingua italiana, legato in un primo tempo al neorealismo, poi passato ad una narrativa più psicologica e fantastica. Ritornato in Friuli, il Bartolini ha pubblicato nel 1977 i suoi primi versi « dialettali ». Egli si riallaccia al Pasolini di La meglio gioventù, ma soprattutto a La nuova gioventù: e vede pertanto con disgusto la trasformazione antropologica del mondo contadino, che anch’egli come il Pasolini (i due scrittori sono perfettamente

coetanei)

aveva

conosciuto

in anni ormai

molto

lontani,

quando i contadini vivevano paghi della loro antica cultura e rassegnati alla loro povertà. Ora le comodità moderne (telefono, televisione, elettrodomestici, ecc.) sono arrivate anche nei paesini di campagna, e ciò piace poco al Bartolini. Su questa tematica verte una parte dei suoi versi friulani. Il richiamo al Pasolini è evidente anche nelle non molte poesie friulane di Luciano Morandini (n. a San Giorgio di Nogaro nel 1928), noto poeta in italiano e buon critico letterario. Si accostò al friulano più o meno contemporaneamente al Bartolini, intorno al 1977. Un maggiore impegno e una dedizione più appassionata alla causa della poesia friulana ha dimostrato la consorte del Morandini: Elsa Buiese (n. a Ceresetto, Martignacco, nel 1926) (pp. 438-461). Tra il 1961 e il 1973 essa compose le sue liriche in italiano, pubblicate nel 1974 dal Rebellato con il titolo Incerte sono le parole. 76

In una sorvegliata koinè friulana (evidente prova di come la Poetessa abbia sempre seguito attentamente la produzione ladina e i problemi ad essa inerenti) ha poi scritto i versi raccolti in Tasint peraulis smenteadis (1978) e Lapsus (1983). Sono liriche che eviden-

ziano una lunga maturazione interiore. Più che con il Pasolini, la Buiese mostra qualche legame con il Valentinis (studiata complessità lessicale, soppressione dei titoli delle composizioni) e con il Colùs (tessuto poetico a brandelli logici, a sussulti emotivi, con conseguente eliminazione della punteggiatura). Con tutto ciò essa possiede una personalità tutta sua, nutrita da una vasta cultura. La Buiese, infatti,

nei suoi soggiorni in Francia ne ha assimilato la grande poesia moderna, dalla quale forse ha mutuato quel suo fraseggio melodico, « impressionistico », quasi alla Debussy. Il contrasto campagna-città, il terremoto, ma soprattutto l’amore come presenza e lontananza, gioia e tormento, sono tra i principali temi della sua poesia. La natura fa da contrappunto ai sentimenti. Presente e passato, abbandono e nostalgia, radici paesane e realtà metropolitana, si intrecciano in un

continuum

lirico, carico

di brividi,

di luci e di ombre.

Suggestiva è la parte del secondo « canzoniere » dedicata a Tea, una giovane donna ricoverata in un ospedale psichiatrico e morta a 34 anni dopo tre giorni di febbri violentissime, lasciando un toccante diario (I quaderni

di Tea, Casa Editrice

Astrolabio,

1975).

Elsa

Buiese rimase molto colpita da questo diario e nacque in lei il desiderio di instaurare un colloquio postumo con Tea, per condividerne momenti di vita, illusioni e angosce; e dedicò alla infelice donna una serie di liriche tenere e trepidanti, calate in una forma di calibrata misura. Un importante letterato friulano che, dopo una lunga militanza nel campo delle lettere italiane, è ritornato verso il 1976 alle radici

linguistiche,

è Tosco Nonini (n. nel 1919). Di lui abbiamo letto

poche ma intense poesie friulane, che si collocano su un elevato piano

letterario ‘°. A differenza di tutti i poeti di cui ci siamo occupati in questa sezione, Agnul di Spere (Angelo Pittana, n. a Sedegliano nel 49 T. NonInI, in « Sot la Nape», 1982, n. 1, pp. 89-91, e in «Corriere del Friuli », ottobre 1983, p. 3. Belle anche le traduzioni da Rilke (Die Worte des Engels) e da Trakl (Der Schwermut), in « Int Furlane », marzo 1978 e maggio 1979.

VA)

il

1930) (pp. 404-425) non è un letterato affermatosi in italiano e poi passato alla lingua friulana. Si tratta di un ingegnere trapiantato in Svizzera, che agli inizi degli anni ’70 ha riscoperto la sua friulanità, soprattutto sul piano etnico-linguistico. Ma poi, da buon friulano, si dedicò anche alla poesia. Nel 1975 pubblicò Serzantiche dal flaut, nel 1980 Ur istéàt (con una stimolante prefazione di A. Giacomini). Agnul di Spere detiene oggi una posizione singolare e, si vorrebbe dire, eccentrica. Da un lato egli è uno spericolato sperimentatore lessicale, assillato dal problema dei neologismi, impaziente di vedere il friulano assurto alla categoria delle lingue di cultura (processo che richiede invece tempi lunghi e, in primo luogo, l’opera concorde di tutta la « nazione » friulana); dall’altro lato egli carica una lingua ancora così bambina qual è quella friulana, di termini e concetti propri della moderna civiltà tecnologica. Velleitarismi, forse. Ma nella poesia del Pittana v’è anche un afflato lirico, che si estrinseca soprattuto in un mazzetto di poesie d’amore, giustamente elogiate dal Giacomini. Rigoglio poetico nella Destra Tagliamento

Abbiamo già rilevato che il Tagliamento divide il Friuli non solo amministrativamente (ma solo dal 1968!), ma anche per quanto riguarda la mappa dialettale. La Destra Tagliamento costituisce un vero mosaico di parlate friulane. Nella sua parte montuosa queste conservano bene le caratteristiche ladine; nella pianura invece, man

mano che ci si allontana dal Tagliamento, la penetrazione veneta diviene sempre più forte, finché si arriva a una fascia di transizione (o amfizona) friulano-veneta, in cui il friulano cede gradualmente al

veneto stesso. Prima degli anni ’40 il contributo poetico della Destra Tagliamento è stato piuttosto scarso. Rammentiamo nel 600 Eusebio Stella, che usò in modo

superbo la varietà di Spilimbergo;

e nel

nostro secolo Vittorio Cadèl, che si è espresso nella dolce parlata di Fanna. E potremmo ricordare anche Giuseppe Malattia (1875-1948), verseggiatore popolareggiante nel suggestivo idioma di Barcis. Ma è solo a partire dagli anni 40 che la Destra Tagliamento ha arrecato alla comune poesia friulana una massa di apporti fondamentali, provenienti da località diverse e distanziate tra loro, e quindi da 78

divergenti varietà dialettali. È inoltre interessante notare qualche determinato paese i poeti siano più di uno, quando ra non formano una vera e propria Scuola (basti pensare demiuta » di Casarsa). Ecco, in un quadro d’insieme, i nomi centri del Pordenonese e dei rispettivi poeti:

come in addirittuall’« Acadi alcuni

Casarsa: P. P. Pasolini, R. Castellani, D. Naldini, O. Colussi, ecc. Navarons-Meduno: N. Cantarutti, I. Vallerugo Cordenons: R. Appi Montereale:

R. Paroni, A. De Biasio, B. Fignon, ecc.

Bagnarola: L. Fioretti, G. Vit S. Michele al Tagliamento: N. Tracanelli

Dopo la partenza del Pasolini da Casarsa, anche altri membri dell’« Academiuta » lasciarono il paese. Naldini si trasferì a Milano, Spagnol a Como, Bortotto a Udine. A Casarsa rimase il Castellani, che in realtà non aveva fatto parte dell’« Academiuta », e poetava nel suo umbratile isolamento. Oggi a Casarsa vive Ovidio Colussi, che a 18 anni fu uno dei fondatori dell’« Academiuta ». Dopo un lungo silenzio ha ripreso a scrivere, conservando la freschezza espressiva dei suoi anni verdi °°, Parlando di Novella Cantarutti, abbiamo sottolineato con quanta passione e filologica perizia essa abbia fatto della parlata di Navarons una lingua poetica squisita. Ora essa ha avuto una degna continuatrice in Ida Vallerugo, del vicino paese di Meduno

(n. nel 1946) (pp.

504-517). Essa si era già fatta notare con le poesie italiane delle sillogi La porta dipinta (ed. Pan, Milano 1968) e Interrogatorio (ed. Collettivo

R, Firenze

1972).

Poi, dopo

un

intervallo

di silenzio

alquanto lungo, ha riaffermato la sua presenza con le felicissime liriche friulane pubblicate nel volume antologico Scrittrici contemporanee in Friuli (1984). Queste liriche presentate da Andreina Ciceri,

costituiscono un apporto d’eccezione alla poesia friulana d’oggi per quella abbacinante sostanza espressiva che sembra fatta di impalpabile materia onirica. In effetti la Vallerugo è tra i poeti friulani quella che 50 Le poesie vecchie e nuove

di O. Corussi

nella silloge Li” Posselvis,

grafiche friulane, Udine 1980. Egli è anche prosatore (Pds e wera, Ribis, Udine Il paron, Società Filologica Friulana, Udine 1985).

Arti 1983;

79

più si avvicina al surrealismo. Il suo pessimismo è assoluto, tragico, beckettiano. La salva una cara immagine, la mitica nonna Regina, con

la quale essa intesse un colloquio postumo che garantisce alla Poetessa un ubi consistam, una ragione di vita. Di questa figura femminile,

che si carica di simboli, Ida ci dà questo ritratto: « Era una donna forte, dura e dolce, e coraggiosa: portatrice di carbone, ancora bambina, nelle sue montagne; serva a Venezia; contadina a Meduno.

Emigrata poi nel 1921 in Australia con i figli ed il marito che la chiamava Onda. A Sydney andava sul ponte “a cjapà l’aria fina” (a respirare l’aria “fine”). Durante una grave malattia da parto, all’ospedale, fu data per morta e portata all’obitorio. E si risvegliò fra i morti. Il marito si accorse in tempo ... ». Tutte queste notizie sono

preziose per poter comprendere poesie come Il sum, Di là dal timp e altre. Il colloquiare di Ida con le ombre dell’Aldilà mi ha fatto ricordare l’olandese Gerrit Achterberg (1905-1962), perennemente

e

perdutamente dedito all’operazione magica di ridonare la vita, per virtù della parola poetica, alla donna amata. Nella Vallerugo la figura di nonna Regina assume un valore ontologico e religioso, rappresenta il principio vitale contrapposto al nulla metafisico. Nel paese di Montereale Valcellina sono germinati numerosi poeti, almeno tre dei quali non possiamo passare sotto silenzio. Rosanna Paroni (n. nel 1940) ci ha dato in Claps e perdulis (1980)

liriche di un autobiografismo saggio e delicato, tradotto in raffinati ritmi poetici. Ostentatamente up-to-date è Beno Fignon (n. nel 1940), emigrato a 16 anni a Milano, dove abita. Il suo libro L? castelanis (Biblioteca Civica, Montereale Valcellina 1984) è qualcosa

di inconsueto nel panorama letterario friulano. L’originalità della « confezione » può far pensare agli eccentrici volumi di Leonardo Zanier; il linguaggio poetico più o meno « neoavanguardistico » può

ricordare invece gli sperimentalismi di Toni Colùs 5. Ugualmente « moderno », ma con un maggior senso di misura, è Antonio De

Biasio (n. nel 1955), nelle cui brevi liriche gioca un ruolo fondamen-

tale la strana e suggestiva parlata di Montereale, con il femminile in 31 Li’ castelanis di B. FINON è stato recensito da A. Ciceri, in «Sot la Nape », 1984, n. 4, p. 84.

80

-o, come nell’alta Val Degano (la luzo, « la luna »), con il dileguo delle r finali (colou, « colore »), etc.

Nel cuore della Bassa friulana sorge il paese agricolo di Bagnarola, compreso nel comune di Sesto al Reghena, famosa per la sua Abbazia. A Bagnarola vivono due poeti significativi: il Fioretti e il Vit. Lionello Fioretti (n. nel 1945) ha coltivato la lirica friulana

come un gioco intelligente ed estroso. La sua poesia, che vorremmo definire « figurativa », si rivolge talvolta ad animali, oppure a oggetti comuni o preziosi, ai quali presta una vita propria, facendoli muovere in un mondo arcano. Del resto il Fioretti è anche pittore, scultore e soprattutto sensibile grafico. Ultimamente si è indirizzato piuttosto alla lingua italiana, nella quale trova forse maggiori risorse pet il suo aristocratico lirismo. Giacomo Vit (n. nel 1952) (pp. 462-485) rivol-

ge la sua attenzione, più che alle cose, all’essere umano, con tutto il suo bagaglio di sofferenze e di destino. Ancora poco noto in Friuli, il Vit ha conseguito molti riconoscimenti in concorsi italiani di poesia dialettale, e ciò non stupisce affatto, perché egli è fornito di una personalità lirica veramente robusta, di una vena poetica sicura, di una delicatezza d’espressione che sa toccare il fondo dei sentimenti e il mistero della condizione umana. Le sue prime poesie si presentavano come una specie di piccola epica del mondo contadino, da lui visto come emblematico:

ricco di valori, legato quasi simbioticamente alla

terra, non corrotto dalla civiltà. La bellissima Fogbera fu la sua prima poesia friulana. Più tardi il Vit ha ampliato il suo orizzonte: nella silloge Miel strassada (1984) si avvicenda una serie di temi, che vanno dalle Vous di fioi muars, pa ’na storia dal Friul, alla sezione Dal zemd di un ospedal, alle Letaris dal ricovero, alla sezione finale intitolata Vita. Dunque infanzia, vecchiaia, malattia e ... vita

(malattia suprema). Il Poeta ricorre volentieri a metafore corpose e a volte ardite, ma mai cervellotiche; anzi, le sue immagini hanno spesso

un sapore di spontaneità popolare. La poesia del Vit è molto curata, costruita con un paziente lavoro di intarsio; ma il calore umano non si lascia raffreddare dall’elaborazione letteraria. Si tratta di una lirica di notevole spessore, che costituisce un’ulteriore prova dell’intrinseca

poeticità del genio friulano. Udine, dicembre

1985

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ANTOLOGIA DI TESTI POETICI FRIULANI DEL NOVECENTO

con traduzione

in italiano e note

a cura di

WALTER

BELARDI

Celso Cescutti

NANDO

L’ere sott sere — e imò al sudave ta sofegace — cu ’1 so falcett; l’erbe a colave; — Nando al pensave sél tal so prad: Fenoi, basili, — e mente e chine,

réses ch’ a nolin — che al cognosceve, che in dì dal Corpus — lui al spandeve quand l’ ere un frutt: Culì tal prad — insieme a e’ none che rischielave, — lui se gioldeve: si sovignì — ne’ dì ch’ al veve chiatad il nid: Po’ i agns passarin, — forin fadiis, chel an, chest altri, — po’ une disgracie

po’ une sperance: di gnuv soreli:

— Mie, e chei diis

L’ere a san ’Zuan; — la vee incontrade;

jè a tajà siale, — lui seave il fen, bel compagnanle, — jè a è confessade: Sì, ti vuei ben.

Ce tantes seres — che il vint puartave d’un paeis vizin — l’Ave Marie; chel sun diseve: — la sint pur Mie: Moment insieme!

Doi t’un penseit — s’intraviodevin: doi cours insieme, — i voi tai voi,

84

NANDO Era di sera — e ancor sudava nel caldo afoso — con il falcetto; l’erba cadeva; — Nando pensava,

solo nel prato ... Finocchio e menta, — china e basilico, fiori odorosi — che conosceva,

che il dì del Corpus — lui li spargeva, quand’era bimbo ... Nel prato, qui, — con la sua nonna che rastrellava — lui s’allegrava: si ricordò — un dì che aveva trovato il nido ... Gli anni passarono, — furon fatiche, quell’anno e l’altro, — poi una disgrazia, poi una speranza: di sole nuovo!

— Mia! e quei giorni

Di San Giovanni — l’avea incontrata: lei alla segàla, — lui a fare il fieno; accompagnandola — le confessò: « Sì, io ti amo! ».

Per quante sere — portava il vento lì, da un paese, — l’Ave Maria. Quel suon diceva: — « Mia pur mi sente! »

Uniti un attimo!

Due in un pensiero — si contemplavano: due cuori insieme, — gli occhi negli occhi;

traviers i spazis, — un sol in doi: Dolce preere. Chiares sperances! — tan’ che al sfalzave te vos, cui voi, — jè a i comparive:

paree chialalu: — lui i chiacarave: Nando? ... al sparive. E quand ta sere, — sul fa dal scour, a ghiase, a jett, — content vignive strach e sfadiad, — s’indurmidive

cun Mie tal cour. Un dì di criure — par chì al passà: l’ere dutt blanch — ta neveade; lui si smaniave: — a ere malade; rett l’oll sostà.

Cussì al seave — tal prad dal Bè Nando. E Nandin, — dulà esel lad?

di lui ce restie? — l’è il mond cambiad? e Mie jè che’?

Sì, al mond persist — simpri un penseir, ruede d’afietz — d’un timp passad: Chì imò ’zuein frutz, — tornin come

‘eir

réses tal prad. 24 giugno 1909 (unica poesia del Cescutti scritta nella varietà di Flaibano)

(ArcEO [pseudon. di C. C.], Roses di pradarìe, Udine 1921, p. 17 e sg.; ristampata in grafia modernizzata da G. Fagcin nel volume: Argeo, Griîs di Jugn, Udine 1972, p. 50 e sg.; qui è data nella grafia originale).

86

via per gli spazi — sol uno in due; dolce preghiera! Care speranze! — Mentre falciava, e voce ed occhi, — lei gli appariva: parea guardarlo, — lui le parlava; Nando? ... spariva.

E quando a sera — sul far del buio, a casa, a letto — lieto tornava, stanco e sfinito — s’addormentava con Mia nel cuore.

Un dì di gelo — di là passò. Tutto era bianco — sotto la neve.

Lui si penava: Ristette

— era malata.

all’olmo ...!.

Così mieteva — di Bè nel prato Nando. Nandino! — dove sei andato? Di lui che resta? — Mutato è il mondo? E Mia è lì?

Sì, sempre dura — pensiero al mondo: ruota d’amore — d’un tempo andato. Giocano

bimbi; — come

ieri tornano

fiori sul prato. 24 giugno 1909

1 Iniziati con la seconda strofa, qui terminano i pensieri e i ricordi di Nando, espressi dall’Autore in terza persona. 2 La metrica di questo componimento riprende uno degli schemi ritmici usati per le antiche canzoni che si accompagnavano alle « danzis » friulane. Cf. la canzoncina per la « ziguzaine »: mé agne Jàcume /’e veve un dindi / par falu rindi / metè a clucî etc.

87

Celso Cescutti

A GESPUI

...@ a jere Sagre e l’organo al sunave, Chiantavin zà i cantors

in cantorie,

Te antighe glesie la jint prest s’ingrumave: Jù al bosch l’ere di ucei ’ne sinfonie.

Gian gian i veghios clereads ientravin, I zovenotz brauros, cui flors su’ orele

Spietavin lis fantatis ch’a passavin Vistudis a colors de viest plui biele. A planch, mutt, mutt, al leve jù il soreli,

De int jere sintade in tel Segrat, Il flum jù in fonz l’inceave come un spieli, E il predi a ur predichiave sul pechiat. E al jere anchie un dindi ch’al beccave A planch a planch sul teren bandonad, E fra li urtiis cirive e al ricerchiave ...

Come se lì al chiatass ne’ antighitad ...

Il soreli fedel al saludave Imò une volte chel mur da tang agn, Ma ’1 paesan, puarett, a no ’1 badave: Chest dì al passà smentead cence niun lagn. E sott i pîs crescevin lis urtiis Fra i uess dei nonos che han tant lavorat,

I quai zà strachs che forin des fadiis, Si stufin chì di vé tant riposat.

88

AGTVESPRO

..ed era Sagra, e l’organo suonava; cantavan già i cantori in cantoria. In chiesa, in fretta, gente s’affollava. Di uccelli, nel bosco, una sinfonia.

Vecchi chiercuti a lento passo entravano. Giovani baldi, sull’orecchio un fiore,

le ragazze attendevan che passavano d’abito bello adorne e di colore. Calmo, in silenzio, tramontava

il sole.

C’era gente seduta sul sagrato. Splendeva il fiume, in basso, come specchio, e il prete predicava sul peccato. C'era anche un tacchino che beccava con calma sul terreno incoltivato. Fra le ortiche cercava e ricercava come se lì ci fosser cose antiche ... Fedele il sol tornava a salutare da tanti! anni quel muro un’altra volta; non se ne accorse il povero paesano,

e il dì senza compianto fu scordato. Sotto i piedi crescevano le ortiche

fra ossa d’avi, gran lavoratori, i quali benché stanchi di fatiche, avean fastidio di sì lunga quiete.

89

Sturnids fra ’1 sium stevin sintint lis storiis

Che ur conte in uè chel lor veghio plevan, Dur l’è il lavor, strachis son lis memoriis, Smenteads di lor, altre int sarà doman. Avost

1909

(koinè)

(ArcEo, op. cit., p. 34 e sg.; ristampata presso G. FacGIN, op. cif., p. 66 e Sg.)

90

Assonnati ascoltavano le storie che il vecchio pievano oggi gli contava. Duro è il lavoro, e la memoria

è stanca;

altri doman più non saprà di loro. Agosto 1909

! Nella grafia antiquata del Cescutti, tag equivale a tane’ o tanéh (nella pronun-

cia: [tank']), plurale maschile di zare.

DI

Celso Cescutti

IN TE STALE

Mi visi di ches gnots de l’invernade passadis ta la stale in tal chialdutt insieme a la fameje chi tirade, cun Tite, Lino, Sandri e Mariutt. A Is dal ueli chiett l’ombre de rochie cu ’1 fus, in tal cidin, fiss ch’al pirlave,

°’ne vachie ogni qual tratt rumiant sfladave, e nò, contents, zuià di trie e di ochie. E quand che si iessive in te criure, chialavin chel misteri de gnott scure, ches stelis ch’a fodravin dutt il mond tel spazio incomprensibil, cence fond. Te Clochie di S. Zuan, ce ch’a lusivin!

lis stelis dai Tre Rés a comparivin: ievavin maestosis tal cidin visant che il Sant Nadal l’ere vizin ...

... Ne sere a l’improvise, in ta la gnott si sveavin lis chiampanis dutt t’un bott ... O secui che i zirais te imensitat,

ricuards che van murind tal timp passat! Ogni an spietavi Sirio e lu fissavi e te l’imèns lontan ’o i chiacaravi, e Sirio come il cur dal Mond ch’al batt

mi trimulave a fuart a ogni qual tratt.

92

NELLA

STALLA

Ricordo quelle notti dell’inverno passate nella stalla, al bel calduccio,

assieme alla famiglia lì raccolta, con Tita, Lino, Sandro e Mariuccio. Con la lucerna l’ombra della rocca; e il fuso, nel silenzio, che prillava; una vacca fiatava ruminando,

e il gioco era a filetto oppure all’oca. E poi quando si usciva in mezzo al freddo, miravamo il mistero della notte, le stelle foderanti l’universo

nell’inscrutabil spazio, senza fondo. Splendevano in ciel le Gallinelle !; dei Tre Magi ? le stelle comparivano: si levavan maestose nel silenzio nunziando che il Natale era vicino ...

... E infine, improvvise, nella notte

si svegliavan d’un tratto le campane ... O secoli vaganti nell’immenso! Ricordi che si spengon nel passato!

Sirio aspettavo ogni anno e lo fissavo, e gli parlavo nella lontananza. Sirio, che batte come il cuor del Mondo,

di tanto in tanto tremolava intenso.

95

Cumò

no mi rispuind, l’hai smentead,

no l’è plui chel, mi par, dal timp passad. 20-2-1910

(koinè)

(S.[ETTIMI0] A.[creste] p.[1] V.[1LEBUINE], Spilimbergo s.d. [ma 1929], p. 20; ristampata

94

Név e fantasiis, realtàt e poesiis, presso G. FagGIN, op. cif., p. 101)

Ma adesso tace, e l’ho dimenticato;

non è più quello, mi par, del tempo andato.

! Letteralmente: « nelle Gallinelle di S. Giovanni, come splendevano (le stelle)! ». Le Gallinelle di S. Giovanni indicano qui, probabilmente, le stelle dell'Orsa minore. 2 Lis stelis dai Tre di Orione.

Rés (i Re Magi)

sono

le stelle è, e e © della costellazione

90

Celso Cescutti

TORNAND

DAI BAGNS

DI LIGNAN

(istantanee)

Il vaporett, sbrissant come sul ueli, sott sere, pe’ lagune vie al filave;

al si platave in mar planch il soreli mandant un fug di rais ch’al inceave; Un tignive intant batud

Maranès, buffon, fra e’ signorie dute in ridi e’ compagnie, che planch Maran si avizinave, da l’ultin rai ch’a lu indorave.

Lontan, sul fonz dal cil, dutt lus e clar

spicave une figure dute in neri: l’è un predi che tornand dal cimiteri gian gian zirave e’ strade in miezz al mar!. Chialand viers no’ ogni tant lee solitari fermansi a tratz a lei sul so breviari... e intant che slontanand al scomparive, la sere, in te cuiete, a si scurive. 31 luj 1910 (koinè)

(Arceo, Roses cit., p. 27)

! Isole dal Cimiteri di Maran unide a tiere cun-t-une lunge lenghe di tiere.

96

TORNANDO

DAI BAGNI

DI LIGNANO

(istantanea)

Come su olio filando, il vaporetto di sera la laguna attraversava; in mare, lento, s’immergeva il sole,

con un fuoco di raggi che abbagliava. Un Maranese, buffo, tra i signori

la compagnia teneva tutta allegra, mentre piano Maran

si avvicinava

sotto l’ultimo raggio che indorava. Lontano, contro il cielo, lustro e chiaro,

spiccava una figura tutta in nero: un prete era che dal cimitero ritornava per strada in mezzo al mare!. Guardandoci ogni tanto, solo andava,

fermandosi per legger nel breviario, e mentre allontanandosi spariva, la sera, nel silenzio, si scuriva. 31 luglio 1910

1 Isola del cimitero di Marano, terra (nota dell’Autore).

unita alla terra ferma da una lunga lingua di

zP,

Celso Cescutti

GNOTT

VAGANT

Cimut chì ciatad Tel fiss de gnott scure Cimut razirad?

L’è un lug bandonad L’è un sit sconfinad,

Bessol, di paure: Un gri spaventad Un nùl misterios, Un mond cence vos.

Tel spazi lontan AI rive dal plan Un zigo smuartid; Un’altre zuite Rispuind a l’invit Plan planch dal so sit.

L’è un lug trapassad, Un timp cence vite,

Un mond mai spietad. In fin un

Un marmo, Un’ombre

rezint

un blancor, un

lusor.

L’è un zitt mai sintud L’è un mond mai vivud Restad cence int.

98

NOTTE SPERDUTA Come qui mi ritrovo in fitta notte buia?

Per quale raggiro !?

È un luogo abbandonato, un posto sconfinato, solitario, pauroso.

Un grillo spaventato, una nube di mistero, un mondo senza voce.

Nello spazio lontano arriva dal piano un grido soffocato. Un'altra civetta

risponde all’invito, lenta dal suo

sito.

È un luogo trapassato, un tempo

senza vita,

un mondo mai atteso. E poi un recinto, un marmo, un biancore, un’ombra, un lucore. Un sussurro mai udito, un mondo mai vissuto, rimasto senza gente.

162

p.

FANCIULLO

MORTO

Diafana! sera! si gonfia l’acqua nel fosso; cammina pregna una donna sul campo. Ti ricordo ?, Narciso!

avevi

della sera il colore, quando campane suonano a morto.

! Pasolini: « luminosa ». Il Nuovo Pirona (e già il Pirona): imbarlumà o imberlî « allucinare, abbagliare, far travedere, ammaliare », rifl. «inebriarsi»; cf. F. DE GironcoLI, Poesie in friulano, Gorizia 1977, p. 66 e sg.: imbarlumide (detto di giornata serena) « ammaliata »; ma cf. Faggin, p. 566: inzbarlumît « 1) rapito, assorto, estasiato, estatico; 2) alticcio, brillo; 3) tralucente », con quest’ultimo senso detto della notte (O. Secco) e dell’alba (A. Brusini). La nozione di visione fuggevole, non nitida, è propria già dell’etimo: cf. Diz. etim. stor. friul. (a cura di A. Zamboni ed altri), Udine 1984, s.v. barlum. 2 Variante del 1975: Jo fi recuardi, certamente una svista.

163

Pier Paolo Pasolini

PLOJA TAI CUNFINS Fantassùt, a plòuf tai spolèrs dal to tal to vis di rosa pluvisìn al nas il

il Sèil paîìs, e mèil mèis.

Il soreli scur di fun sot li ramis dai moràrs al ti brusa e sui cunfìns tu i ti ciantis, sòul, i muàrs.

Fantassùt, al rit il Sèil

tai barcòns dal to paîìs, tal to vis di sanc e fèil serenàt al mòur il mèis. (casarsese)

(M. DeLL’Arco e P.P. PASOLINI, op. cit., p. 347 e sg.; già in P. P. PasoLINI, Poesie 4a Casarsa, cit., p. 11)

164

in diversa veste linguistica,

PIOGGIA

AI CONFINI

Ragazzo! Piove il Cielo sui fuochi! del tuo paese; sul tuo viso di rosa e miele umido nasce il mese.

Scuro di fumo, il Sole sotto i rami ? dei mori

ti brucia; e tu ai confini i morti canti da solo.

Ragazzo! Ride il Cielo alle finestre? del tuo paese. Sul tuo viso di sangue e fiele‘ limpido muore il mese.

1 Pasolini: « focolari »; spolèr (o spolèrt) è propriamente il nome di quell’apparecchio con fornelli che si chiamava in italiano cuciza economica (cf. ted. Sparberd,

oggi disusato; cf. livinallese sporèrt); nel tradurre ho usato fuoco con la semantica che nel passato il termine aveva in documenti dell’Italia nord-orientale: « casa, singolo gruppo familiare », per sineddoche. 2 Nel 1975 branchis. 3 Pasolini: «balconi »; ma barcon (/balcon) significa in ladino « finestra, davanzale ». 4 Nella prima edizione fèi/, in rima con sèil «cielo »;

direi che fiè! del 1975

è

una svista, tanto più che nel « controcanto » « Ploja four di dut » ritorna fèil. 5 Vedi oltre, a p. 198, il rifacimento, di questa poesia.

165

Pier Paolo Pasolini

LI LETÀNIS

DAL

BEL FI

I La siala a clama l’unvièr

— quant ch’a cianta la siala dut tal mont

a è clar e fer.

Lajù il sèil l’è dut serèn — s' ti vens cajù se ciàtitu? Ploja, nul, un plant d’infier.

II

Jo i soj un biel fì, i plans dut il dì, ti prej, Jesus me, no fami murì. Jesus, Jesus, Jesus.

Jo i soj un biel fì, i rit dut il dì, ti preJj, Jesus me, ah fami murì. Jesus, Jesus, Jesus.

III Vuei a è Domenia

doman

a si mòur,

vuei mi vistìs

di seda e di amòur.

166

LE CANTILENE

DEL BEL GIOVANE

I La cicala chiama

l’inverno.

— Quando la cicala canta, il mondo è chiaro e fermo.

Laggiù il cielo è sereno. — Ma se vieni qui cosa trovi?

Pioggia, nube, pianto d’inferno. II

;

Un bel ragazzo io sono. Piango l’intero giorno. Ti prego, o mio Gesù, non farmi morire! Gesù, Gesù, Gesù!

Un bel ragazzo io sono. Rido l’intero giorno. Ti prego, o mio Gesù, oh, fammi

morire!

Gesù, Gesù, Gesù!

III

Oggi è domenica, domani

si muore.

Oggi mi vesto di seta e d’amore. 167

Vuei a è Domenia,

pai pras cun frescs piès a saltin frutìns lizèirs tai scarpès. Ciantànt al me spieli ciantànt mi petèni.

AI rit tal me vuli il Diàul peciadòur. Sunàit, mes ciampanis, paràilu indavòur! « Sunàn, ma se i vuàrditu ciantant tal to pras? » I vuardi il soreli di muartis estàs,

i vuardi la ploja Lu

I vuardi il me cuàrp di quant ch'i eri frut, li tristis Domeniis,

il vivi pierdùt. « Vuei

ti vistìssin

la seda e l’amòdur, vuei a è Domenia domàn a si mòur ». (casarsese)

(P. Ri PASOLINI, La meglio gioventù, Firenze 1954, pp. 20-23; linguistica, già in P.P. PASOLINI, Poesie a Casarsa, cit., pp. 16-19)

168

in

diversa

veste

Oggi è domenica; con freschi piedi sui prati saltano bimbi leggeri nei sandali !. Cantando, al mio specchio, cantando mi pettino. Nell’occhio mi ride Diavolo peccatore. Sonate campane! Cacciatelo indietro! « Soniamo; ma tu cosa guardi nei prati, cantando? »

Il sole io guardo delle morte

estati;

guardo la pioggia, le foglie, i grilli.

Guardo il mio corpo di quando ero bimbo, le tristi domeniche,

la vita perduta. « Oggi ti vestono la seta e l’amore;

oggi è domenica, domani si muore ».

1 scarpès « scarpe di panno » (caratteristiche del Friuli e della Carnia). L'autore traduce « scarpetti ». Per il ritmo ho preferito « sandali » (in friulano supiéj).

169

Pier Paolo Pasolini

ARBA

PAI CUNINS

Mi vegni via pai ciamps di Sièst cu ’l miò sac ta li spalis duris tra li fuòjs schej di arzènt e seda. Dut il mond al è arzènt e seda,

mi sòdul i soj di arbis duris fì di na femina di Siest.

A son tris’c i sotàns di Sièst!

s'a mi viòdin robàighi la seda da l’arba, alsin li siòs mans duris. I vuòlti vièrs l’ombrèna di Sièst. (varietà di Cordovado)

(M. DeLL’Arco e P.P. PASOLINI, op. cit., p. 349; Dov'è la mia patria, Casarsa 1949, p. 14)

170

già pubblicata in P.P. PASOLINI,

ERBA

PERSI

CONIGEI

Vado per i campi di Sesto col mio sacco sulle spalle dure; tra le foglie soldi di argento e seta. Il mondo

tutto è argento e seta.

Solo io sono di erbe dure, nato da donna di Sesto. I contadini cattivi di Sesto! Se mi vedono rubare la seta

dell’erba, alzano mani dure.

Mi volgo verso l’ombra di Sesto.

IVA.

Pier Paolo Pasolini

CIANTS

DI UN MUART È

La neif a cujèrs la Vignuta, e la roja selesta a spiegla la Ciargna soreglada. Jo i torni da l’ombrena dai muars, vuei XIII Zenar MCMXLIV

e i sint i frus a sigà. LI: Cui vìvia enciamò par la strada di San Zuan davòur di chej murs pierdus ta l’aria inglassada? A bat na ciampana. I soj muart.

TI.

O forma dal stali cui cops blancs di neif e la paja cuntra il nul selest, murs di claps cujèrs da li cianis secis ... O fil di lus tal codolàt sot la tetoja ...

IV. E jo i resti four ta la nèif. 172

...

CANTI

DI UN MORTO

I La neve copre la Piccola Vigna, e la roggia celeste riflette la Carnia assolata. Io torno dall’ombra dei morti, oggi XIII gennaio MCMXLIV ... e sento ragazzi gridare. II

Chi vive ancora per la strada di San Giovanni, dietro quei muri perduti nell’aria ghiacciata? Una campana batte. Io sono morto.

III

O aspetto della stalla! coi coppi bianchi di neve, e la paglia contro la nube celeste, muri di pietre coperti da canne’ secche ... O filo di luce sul ciottolato sotto la tettoia! ...

IV E io resto fuori in mezzo alla neve.

175

Drenti Stiefin al governa li vacis, drenti Stièfin vif,

drenti Stièfin al taja li cianis tal soc,

drenti Stièfin cialt e strac,

al taja li cianis drenti Stièfin, vif, al pdin un zenoli tal fen!

Vi Sint, Stièfin, sint zà sentenàrs

di dins o zà un moment

JORIMerMi nta: Drenti, e no fòur, pognèt tal zenoli i sentevi il zenoli, i nasavi il fen.

Vuei i soj uculì. Fòur, e no drenti i no sint il zenoli

nè il cialt dal me cuarp. Vuei al era un dì ch’i vevi di no essi.

AS Diu,

al viers la puarta al buta ju il massànc al sbat i piès al entra in ciasa stanc. La nèif a lus bessola sot il nui selest.

174

Dentro

Stefano

governa le vacche; dentro Stefano, vivo,

dentro Stefano taglia le canne sul ceppo; dentro Stefano, caldo e stanco,

taglia le canne; dentro Stefano, vivo,

pone un ginocchio sul fieno! Vv Senti, Stefano, senti! da centinana

di anni o da un attimo io ero in te. Dentro e non fuori,

inginocchiato sentivo il ginocchio, odoravo il fieno. Oggi son qui. Fuori, e non

dentro,

non sento il ginocchio né il caldo del corpo. Oggi era un giorno in cui dovevo non essere.

VI Dio!

Apre la porta, depone il pennato, batte i piedi, entra

in cucina

stanco.

La neve splende sola sotto la nube celeste.

175

VII. Diu,

al sbat la puarta al si siera in ciasa. O cuarp di Stièfin se i fatu là drenti? Un altri puc di vita passàt. I lu dis parsè... che i jot vuett il stali, il massànc par ciera,

il fen pestàt dal zenoli ... là che tu i no ti sos pì. VIII. Dig; cui ciàntia?

Na fantassuta bessola un moment, e po’ nuja. La so vòus a resta ta la neif di un ort stralumida.

IX. E doman si jodarà doma un fil di nèif a slusignà pai rivaj. Si jodaràn Versuta, Ciasarsa, San Zuan,

in ciaf dai ciamps vuòis, in ciaf da li rojs selestis, sot il soreli lizèir. (casarsese)

(M. DeLL’Arco e P.P. PASOLINI, op. cit., pp. 350-353)

176

VII Dio!

Sbatte la porta, si chiude in cucina. O corpo di Stefano! che fai là dentro? Un altro poco di vita passato. Lo dico perché ... lo stavolo vuoto vedo, il pennato per terra,

il fieno dal ginocchio pressato ... là dove tu non sei più. VIII Dio!

Chi canta? Una fanciulla sola un momento, e poi niente. La sua voce resta nella neve cieca di un orto.

IX E domani si vedrà solo un filo di neve luccicare lungo le prode. Si vedranno

Versuta, Casarsa, San Giovanni,

all'estremità dei campi vuoti, all'estremità delle rogge celesti, sotto il sole leggero.

107

Pier Paolo Pasolini

LENGAS

DAI

FRUS

DI SERA

« Na greva viola viva a savarièa

(No, tas, sin a Ciasarsa:

vuèi Vìnars ... »

jot li ciasis e i tìnars

lens ch’a trìmin tal rìul). « Na viola a savarièa ... »

(Se i sìntiu? a son li sèis; un aunàr al si plea sot na vampa di aria). « Na viola a vif bessola ... » Na viola: la me muàrt? Sintànsi cà parsora di na sofa e pensàn. « Na viola, abi, a cianta ... »

Chej sìgus di sinisa i sint sot chista planta strinzìinmi cuntra

il stomi massa

vif il vistìt.

« Dispedda la viola par dut il mond a rit... » A è ora ch'i recuardi chej sìgus ch’a revòchin da l’orizont azùr c’'un sunsùr ch’al mi inciòca.

« L’azùr ...» peràula crota, bessola tal silensi dal sèil. Sin a Ciasarsa, a son sèis bos, m’inpensi ... (casarsese)

(M. DeLL’Arco

178

e P.P. PASOLINI, op. cit., p. 353 e sg.).

PAROLE

DI RAGAZZI

DI SERA

«Una viola grave, viva, oggi venerdì vagella ... » (No, taci! siamo a Casarsa; guarda le case e i teneri alberi vibranti sul fosso!). « Una viola vagella ... » (Che sento?

sotto

Sono

la vampa

le sei. Un ontano

del vento).

« Una

s’incurva

viola,

solitaria,

vive ...

»

Una viola: la morte? Sediamoci qui! sopra una zolla, e pensiamo! « Una viola, abi!, canta ... » Gridi di cenere sotto questa pianta io sento,

stringendomi sul petto, troppo vivo, il vestito. « Libera la viola per tutto il mondo ride ... » È tempo ch'io ricordi quei gridi che echeggiano dall’orizzonte azzurro con suono che inebria.

« L’azzurro ... », parola nuda, sola, nel silenzio del cielo. Siamo a Casarsa. Sono le sei. Ricordo ...

179

Pier Paolo Pasolini

MISTERI I àusi zirà in alt i vuj su li pichis secis dai lens, no jot il Signdur, ma il so lun ch’al brila sempri imèns. Di tantis robis ch’i sai i ’n sint tal còur doma una, i soj zòvin, vif, ’bandunàt,

cu’l cuàrp ch’al si cunsuma. I stai un momènt ta l’erba dal rivàl, tra i lens nus, po’ i ciamini, e i vai sot il nul, e i vif cu la me zoventàùt. (casarsese)

vali o e sg.

180

nr. 1», agosto 1945, p. 7; M. DeLL’Arco

e P. P. PASOLINI, ODECITAIDE

MISTERO

In alto gli occhi oso volgere sulle cime secche degli alberi; non Dio vedo ma la sua luce,

che brilla immensa

sempre.

Di tante cose che io so ne sento nel cuore sol una: sono giovane, vivo e solo, col corpo che si consuma.

Sull’erba della riva un attimo resto, in mezzo agli alberi nudi, poi m’avvio sotto le nuvole e vivo con la mia gioventù.

181

Pier Paolo Pasolini

IL DÌ DA LA ME MUART Ta na sitàt, Triest o Udin,

ju par un vial di tèjs di vierta quand ch’a mudin il colòur li fuèis,

i colaràj muart sot il soreli ch’al art biondu e alt

e i sierarài li sèjs, lassant ch’al lusi il sèil.

Sot di un tèj clìpid di vert i colaràj tal neri da la me muàrt ch’a dispièrt i tèjs e il soreli. I biej zovinùs a coraràn ta chè lus ch’i ài pena pierdùt svualànt four da li scuelis cui ris tal sorneli. Jo i sarai ’ciamò zòvin

cu na blusa clara cui dols ciavièj ch’a plòvin tal pòlvar amàr. Sarài ’ciamò cialt e un frut curìnt pal sfalt clipid dal vial mi pojarà na man

tal grin di cristàl. (casarsese)

(M. DeLL’Arco

182

e P.P. PASOLINI, op. cit., p. 355)

IL GIORNO

DELLA

MIA

MORTE

In una città, Trieste o Udine,

in un viale di tigli, a primavera, quando cambiano colore le foglie, io cadrò morto sotto il cielo che brucia biondo

e alto,

e chiuderò le ciglia, lasciando che splenda il cielo. Sotto un tiglio tiepido di verde io cadrò nel buio della mia morte, che abbandona

i tigli e il sole. Dei ragazzi belli correranno in quella luce che ho appena perduta, sbucando dalle scuole coi riccioli sulla fronte.

Sarò giovane ancora, con una blusa chiara,

coi cari capelli pioventi nella polvere amara. Sarò caldo ancora,

e un bimbo, correndo sul tiepido asfalto del viale, mi poserà una mano

sul grembo di cristallo.

183

Pier Paolo Pasolini

SUSPIR DI ME MARI

TA NA ROSA

Ti ciati tal ninsòul blanc, rosa blancia,

fanghi il jet a me fì ti ciati tal ninsòul. Rosuta di me fì, dulà ti àia ciolta,

parsè ti dia ciolta, la man di me fì? I ti tas tu, salvadia, coma lui che a sta ora cui sa dulà ch’al è

cu la so pas salvadia!

Coma tal grin dal sèil ti tas tal so ninsòul e chel me zòvin còur al tas sòul sot il sèil. Dutis dos dismintiadis, la mari e la rosa! Zint cui sà dulà al ni è dismintiadis. (casarsese)

(M. DeLL’Arco

184

e P.P. PASOLINI, op. cit., p. 356 e sg.)

LAMENTO

DI MIA MADRE

SU UNA

ROSA

Ti trovo sul lenzuolo bianco, rosa bianca,

facendo il letto a mio figlio, ti trovo

sul lenzuolo.

Rosellina di mio figlio, dove ti ha raccolta, perché ti ha raccolta la mano di mio figlio? Tu taci, selvatica,

come lui, che a quest'ora chissà dove si trova,

con la sua pace selvatica! Come nel grembo del cielo tu taci nel suo lenzuolo,

e quel mio giovane cuore tace, da solo, sotto il cielo. Entrambe dimenticate la madre e la rosa! Andato, chissà dove, lui ci ha dimenticate.

185

Pier Paolo Pasolini DAI

«LIEDER>»

I Colàt dal còur dal sèil il còur di un zovinùt al trimava vistùt di un ciant massa lizèir. Cu la ciamesa vierta

al coreva pal troi dal dì selest cui poj ch’a nasavin di fiesta.

Oh ciant, oh ciant lizèir, tra il còur e il còur dal sèil,

se tu i ti tas li sèjs da la vita a si sièrin.

II A lusin ta li ombris

dal zovinùt pleàt li lus di un timp svualàt cu’l svual da li colombis.

Ta la so gola a nas na ombra di peràulis

platadis coma fràulis nenfra li fuèjs dai pras. E al siga, li peràulis, ai so cunpàins tra i poj:

186

DAI « LIEDER

»

I Dal cuor del ciel caduto,

il cuor di un giovinetto trepidava vestito di un canto troppo lieve. Con la camicia aperta sul sentiero correva

del dì celeste, e i pioppi odoravan di festa.

Canto, oh canto leggero! Tra il cuore

e il cuor del cielo,

si chiudono le ciglia della vita, se taci.

II Lucono nelle ombre

del giovinetto prono luci di tempo andato col volo di colombe.

Nella sua gola nasce un’ombra di parole, nascoste come fragole tra le foglie dei prati.

E grida le parole ai compagni tra i pioppi: 187

li colombis sul troi a svualin par bussòilis. (casarsese)

(M. DeLL’Arco e P.P. PASOLINI, op. cit., p. 357 e sg.)

188

volano le colombe sul sentiero a baciarle.

189

Pier Paolo Pasolini

CANSION Lassàt in tal recuàrt a fruvati, e in ta la lontanansa

a lusì, sensa dòul jo i m’inpensi di te, sensa speransa. (Al ven sempri pì sidìn e alt il mar dai àins, e i to pras plens di timp romai èàrsit, i to puòrs vencs ros di muarta padima, a son ta l’or di chel mar: pierdùs e no planzùs). Lassàs là scunussùs ta ciamps fores-c dopu che tant intòr di lòur di spasemàt di amòur par capìju, par capì il puòr lusìnt e pens so essi, a si àn sieràt, cun te i to òmis sot di un sèil nulàt. Jo i ài crodùt in te,

sigùr di podèi crodi ta la vita dal Mond (jo che sempri frut, no pos in ta la me rimita gionda gioldi di chel ch’a no è in me) four di me, fer, scunìt, devànt dai tos

ciamps e borcs ch’inciamò no cognòs, e dai to òmis insembràs cu’l soreli, tìinar tal capìti, dur tal amàti ta barlùns e fumatis che sempri a mi platavin il to veri beàt, lontàn esisti.

Sclaf dai prins dis, da li primis seris dal me distìn di frut sensa nè Crist nè Mond, ti amavi e i doventavi trist.

190

CANZONE Lasciato nel ricordo a consumarti,

e nella lontananza

a splendere, senza pena mi sovvengo di te, senza speranza. (Si fa sempre più alto e silenzioso

degli anni il mare; ed i tuoi prati pieni di tempo oramai arso, e i tuoi poveri vinchi rossi di morta pace son sull’orlo di quel mare: perduti e non più pianti). Abbandonati e oscuri in terre estranee, dopo che intorno ad essi tanto ho penato d’amore, per capirli, per capire il povero, lucente, duro lor essere, i tuoi uomini si son Ra

con te sotto un cielo annuvolato.

Io ho creduto

in te,

sicuro di poter creder nella vita del Mondo

(io che, eterno fanciullo,

non posso, nella mia gioia privata, gioire di ciò che non è in me), fuori di me, fermo, sfinito, davanti ai tuoi

campi e borghi che ancora non conosco, e agli uomini tuoi che si fondono col sole; tenero nel capirti, nell’amarti duro, entro bagliori e nebbie, che sempre mi celavano il tuo vero beato lontano esistere. Schiavo dei primi giorni, delle prime sere, del mio destino di ragazzo senza Cristo, senza Mondo,

ti amavo

e diventavo

tristo.

191

Ma tu, se i àtu fat,

ciera cristiana, par distudà chel fòuc ch'i ti às impijàt ta la me ciar quan ch’i crodevi un zduc amati?

Nuja, tu i ti sos restàt

ta chej ch’a no zujavin, tal so mal massa scur e veciu pal me còur clar e zòvin, tal so ben massa sigùr pal me còur scaturìt. Tu sensa dòul ti às tajàt il vòul

da la to blava: un inossènt e pur amòur ch’al ti sveava. No ti pos perdonàighi, tu, Friùl cristiàn, a un che la to lenga sclava ta un còur cialt di peciàt al dispeava. Cansiòn, svuala lajù dulà che dut a è fer. No disi nuja, no ài àgrimis pì a recuardàmi di che rudis ciampagnis co na passiòn pì ruda a mi li suja. Ti sos l’ultin suspìr in ta un lengàs colàt da nòuf ta còurs dismintiàs. (casarsese)

(M. DeLL’Arco

192

e P.P. PASOLINI, op. cit., pp. 358-360)

Ma tu, Friuli, che hai fatto, terra cristiana, per spegner questo fuoco che nella mia carne hai acceso,

quando io credevo fosse un gioco l’amarti? Nulla! Sei rimasto in quelli che non giocavano, in quel loro male troppo buio e antico pel mio cuore giovane e chiaro, nel bene loro troppo sicuro pel mio cuore turbato. Senza pena via tu hai tolto il loglio dal tuo frumento: un innocente e puro amore che ti svegliava. Non puoi, Friuli cristiano, perdonare a uno che la tua lingua schiava in un cuore caldo di peccato dislegava. Canzone, vola laggiù dove immobile è tutto! E non dir niente! Lagrime non ho più per ricordarmi di quelle pure campagne, quando un dolor più puro me le asciuga !. Sei l’ultimo sospiro in un linguaggio in cuori dimenticati ridisceso.

1 Variante del 1975: li suia.

[...] di ches vivis ciampagnis, / co na passiòn pì viva a mi

193

Pier Paolo Pasolini

A#*NACERULA Lontàn, cu la to piè! sblanciada da li rosis, i ti sos una rosa

ch’a vif e a no fevela.

Ma quant che drenti al sen ti nassarà na vòus,

ti puartaràs sidina encia tu la me cròus. Sidina tal sulisu dal solàr, ta li s-cialis, ta la ciera dal ott,

tal pulvìin da li stalis ... Sidina ta la ciasa cu li peràulis strentis tal còur romai pierdùt par un troi di silensi. (casarsese)

(P.P. PasoLini, Tal cour di un frut, Tricesimo

194

1953, p. 15)

A UNA

BAMBINA

Lontan!, con la tua pelle sbiancata dalle rose! Una

rosa tu sei,

che vive e che non parla.

Ma quando dentro il petto ti nascerà

una

voce,

silente porterai anche tu la mia croce.

Silente sul piantito del palco, sulle scale, sulla terra dell’orto,

sul trito ? delle stalle ... Silente nella casa,

con le parole strette nel cuore ormai perduto per un sentiero muto.

1 Pasolini: « Lontana ». 2 Pasolini: «nella polvere delle stalle »; pulvîn vale « polvere, polverio », ma nelle stalle e nei fienili indica il tritume o fiorume del fieno che si deposita sul pavimento (cf. ancora di Pasolini un pulvìn di fen in «Lunis» I, 5; e Faggin, p. 1051).

195

Pier Paolo Pasolini

IL PRIN

SVUAL

DAL LUJAR

Tal codolàt blanc imbarlumìt dai nuj i jot dal me pajdul il prin svuàl dal lùjar. I còurs dai frus ta n’aria di vecis primaveris e son coma

li violis

novis sora li gleris. Paìs, i vai sotciera

par un troi sensa violis e i lassi ai còurs dai frus

li primaveris novis. 1949 (casarsese)

(P.P. PasoLINI, Poesie dimenticate, Udine

196

1965, p. 36)

IL PRIMO

VOLO

DEL LUCHERINO

Sul ciottolato bianco abbagliato dai nuvoli guardo dal mio poggiolo un lucherino al suo primo volo. I cuori dei bimbi, nell’aria

di primavere antiche, sono come viole nuove sopra le ghiaie !. Paese!

io vado sotterra

per strade senza viole, e lascio ai cuori dei bimbi

le primavere nuove.

1 Variante del 1975:

sora la glera.

12)

Pier Paolo Pasolini

PLOJARFOUR&DIEDU Spirt di frut, a plòuf il Sèil tai spolers di un muàrt paìs, tal to vis di merda e mèil pluvisìin a nas un mèis. Il soreli blanc e lustri sora asfàlt e ciasis novis al ti introna, e fòur di dut no i ti às pì amòur pai muàrs.

Spirt di frut, al rit il Sèil ta un paìs sensa pì fun, tal to vis di pis e fèil, mai nassùt, al mòur un mèis. (casarsese)

(P.P. PasoLINnI, La nuova

198

gioventà, Torino

1975, PARLo9-

ris

MOSTRO)

PIOGGIA

FUORI

DA TUTTO

Ombra di giovane! piove il Cielo sui fuochi di un morto paese, sul tuo viso di merda e miele umido nasce un mese.

Il sole bianco e lustro sopra asfalto e case nuove ti introna e, fuori da tutto,

pei morti non hai più amore.

Ombra di giovane! ride il Cielo su un paese senza più fumo; sul tuo viso di piscio e fiele muore non nato un mese.

199

Riccardo Castellani

AUTUN

1943

Un sunsùr di càmions cargus su pal stradòn cu’ so trimà mi taja l’anima. Ma quan’che un quatri breis di pin saràn la nustra puòra ciasa no vin pi brìa di scundi ch’ i no sin pi nuja al mond. Un bar di erbis scundarà la ciera ch’ a ni cujèrs e ches dos gotis blancis di sèra coladis tal silensiu sul svanì di una prejera. Sul me ort ch’al duar ta l’aga grisa, su li fuèis impetadis par ciera e neris

di glìs e di muart, su li ramis ch’a disgòtin sensa speransa un freit sudour di malincunìa,

bàs, lajù, davour di un blanc di perla, il soreli grand si viers un moment e al rispira. Quan’ch’i torni a vierzi i vui,

il blanc di perla, lajù, a nol è pì. Forsi al si à disfat, 200

AUTUNNO

1943

Un frastuono di autocarri carichi lungo la strada maestra col suo vibrare mi trincia l’anima. Ma quando quattro tavole di pino saranno la nostra casa misera, non dovremo più nascondere che non siamo niente al mondo !. Un cespo d’erbe nasconderà la terra che ci ricopre e le due gocce bianche di cera,

cadute nel silenzio sul finire di una preghiera. Sul mio orto che dorme nell’acqua grigia, sulle foglie appiccicate al suolo e nere di ghiaccio e morte, sui rami che stillano senza speranza un sudore freddo di melanconia,

giù in basso, dietro un bianco di perla, il sole grande si apre un momento, e respira. Quand’io torno

a riaprire gli occhi, quel bianco di perla laggiù è scomparso. Si è, forse, disfatto, 201

smarìnt cu’l sun tal gris da la me anima. (casarsese)

(« i Ce fastu? », i 19 [1944],1], p. p. 231; ; ristam p. R. CASTELLANI, Ad ) oca cer e carniche di Colza, 1942-1975, a cura di G. IMM LNTA e sg. i

202

iri, me das

sbiadendo ? col sonno

nel grigio della mia anima.

1 Nel titolo del volume figura la grafia 720nf con il grafema «t». Ma in questa e nelle altre liriche figura molte volte ,0nd, e analogamente ciald, grand etc. Ho, pertanto, conservato la grafia degli originali, ricontrollata da G. Faggin. 2 L’autore traduce « dileguandosi », ma il senso proprio di smarî è « scolorire » (cf. Faggin, p. 1307).

203

Riccardo Castellani

AUTUN

DI UERA

AI è tornat, cun chei so’ vui

duciu plens di séil di avrìl. Al è sera, viers l’ora dai penséirs; e a mìns i vuardi enc’jò cun lui un alc che nu i savìn di vei pierdùt par sempri dal nustri ben di vita. Atòr da li pupilis ghi trima un ros di nulis. Lontan, davour dai mons, stanc il soreli al mour,

e un mal tant grand di àgrimis al mi prem tal cour. (casarsese)

seSN

204

», aprile 1944, p. 9; ristamp. in R. CASTELLANI, Ad dur dal mont, cit., p.

AUTUNNO

DI GUERRA

È ritornato, con quegli occhi pieni del cielo dell’aprile. È sera; circa l’ora dei pensieri. Nella mente vedo, assieme a lui, un nostro certo bene della vita che sappiamo di avere

perso per sempre. Attorno alle sue pupille trema un rosso di nuvole. Lontano, dietro i monti, il sole stanco muore,

e un male di lacrime assai grande mi preme sul cuore.

205

Riccardo Castellani

GHEPESSPINGELAE:SEN (vilotis)

Rosis blancis ta li sìsis, nulis blancis inta’l séil,

ma par me son robis grìsis e cujertis di un puor véil. Ta la not sensa rosada s' ti sìns a planzi il vint, pensa al tant ch’i ti di vuardada ognu dì il me mal scundìnt. Tantis voltis son nassudis li violutis tai rivai, tantis stelis son coladis tal serèn dal séil di mai.

E ognu volta i prometevi di giavà chel spinc dal sen, ma i sintivi ch'i morevi s'i no vès pi vut chel ben. (casarsese)

(« Stroligut », aprile 1944, p. 12; R. CASTELLANI, Ad 6ur dal mont, cit., p. 22).

206

QUELLA SPINA NEL CUORE (villotte)

Fiori bianchi nelle siepi, bianche nuvole nel cielo, ma per me son cose grigie,

avvolte da un triste velo.

Nella notte se senti pensa a ogni dì,

senza rugiada piangere il vento, quanto ti ho guardata il mio mal celando.

Tante volte sono nate

le viole sulle prode, tante stelle son cadute

nel sereno ciel di maggio.

E ogni volta mi dicevo di tor via dal cuor la spina, ma

sentivo di morire,

se quel ben perduto avessi.

207

Riccardo Castellani

ELI

FPOJAVISSCIZERS

Ti ti pojavis lizera Lizera Cu’ na spala tal balcon, E cu’ na timpla ti provavis A sìnti il freit dai veris.

Adès al è tant polvar Ulì, ta chel balcon. Ma a voltis

I vai dongia cu’ la front, E di scundiòn I provi a sìnti Su chei veris Il freit dal dì ch’al mour. (casarsese)

(«Il Strolic furlan », 1946, p. 32; R. CASTELLANI, Ad 6ur dal mont

208

cit., i, 20)

LEGGERA

TI APPOGGIAVI

Leggera ti appoggiavi, leggera, alla finestra con una spalla, e il freddo dei vetri cercavi di sentire con la tua tempia. Quella finestra adesso

di polvere è coperta !. Ma talvolta con la fronte mi accosto, e di nascosto ° provo a sentire sopra quei vetri il freddo del dì che muore.

1 Letteralmente: « Adesso c'è tanta polvere 2 scundion sic! (nella koinè: scuindon).

/ lì, su

quella

finestra ».

209

Riccardo Castellani

AD OUR DAL MOND A duàrmin i cristians, intant che l’ora a va scorìnt tal scur

da l’avignì. Ed in friguis a còlin sidinis stelis muartis intal’1 fons da l’univiers.

Nissùn li sint colà. Tal scur dai pòi a passa musulita e fonda l’aga, e un bar di vidissòn al la saluda biel nissànt, plan plànc planzìnt su l’onda. Ad our dal mond ch’ al duàr

jo i vegli il nissulà dal vidissòn. I vegli ad our dal criulà dai gris, e intant a si sparnìssin, soi al mond, i me’ penseirs. (casarsese)

(«Ce

210

fastu?», 1948, p. 37;

R. CAstELLANI,

Ad

6ur dal mont,

cit., p. 30)

AL MARGINE

DEL MONDO

Dormono gli uomini, mentre l’ora va scorrendo dell’avvenire.

nel buio

Ed in frammenti! cadono silenti stelle morte dentro il fondo dell’universo.

Cader nessun le sente. Tra il buio dei pioppi passa liscia e fonda l’acqua, e un cespo d’erba lunga ° la saluta oscillando, sommesso

piangendo sull’onda. AI margine del mondo che dorme veglio sull’ondulìo dei lunghi steli. Al margine io veglio

dello stridìo dei grilli, mentre, al mondo i miei pensieri.

soli, si disperdono

! Nell’autografo: frigdis; cf. nel Nuovo Pirona frè(g)ulis. 2 vidissòn (o vidizzon; Faggin, p. 1562: vidicon) vale in senso proprio « tralcio

di vite che si tirerà a frutto l’anno successivo» l’autore stesso — vale « erba a lunghi steli ». 3 Notevole

somiglianza

(probabilmente

(Nuovo

Pirona);

qui —

secondo

casuale) nell’intuizione di fondo e affinità

di immagini si notano tra questa lirica e quella di Mihai Eminescu (1850-1889) il cui primo verso suona « Mai am un singur dor », e continua con «în linistea serii / sà mà làsati sà mor / la marginea màrii [...]. Pe cînd cu zgomot cad / isvoarele ’ntr-una, / alunece luna / prin vîrfuri lungi de brad [...]. / M-ot troieni cu drag / aduceri aminte [...] / in singuràtate-mi ». In entrambi i poeti la « morte/veglia » al margine del « mare/mondo » e il perdersi nei « ricordi/pensieri » servono per astratsi dal corso del tempo dell’uomo e per raggiungere uno stato atarassico di suprema impassibilità che sola rende possibile una suprema compattecipazione con l’essere della Natura.

21

Riccardo Castellani

TILIMINT

I pesi cu’l me flanc sui claps frovàs inta’l misteri trasparìnt dal timp. E i scolti l’ansia lungia da to aga, chel zì pal to distìn, e sensa pas. Biel lìibar Tilimìnt, par sei e cius ta inmensa soledàt ti l’anima to ingropada ta un ch’i no ti ciatis, par brassà

pi soul slargis penséir il to doul.

Un doul di ufierta granda sensa nòn. Cussì sui blancs gravòns, sensa peràulis bessoul ti vas nudrìnt la to passion. Vuéi i sai chel to rispìr, biel Tilimìnt. Lu sint sembràsi inta’l rosàt di fràulis dal alt tramont, cu’un ciant inmens tal vint. (casarsese)

(«Sot la nape », 1952, nr. 3-4, p. 4; R. CAstELLANI, Ad dur dal mont, cit., p. 40)

212

TAGLIAMENTO Peso col fianco sui sassi consunti

nel trasparente mistero del tempo, e della tua corrente

ascolto l’ansia

lunga verso un destino senza pace !. Per essere più solo e impenetrabile, libero e bel Tagliamento, l’anima, attorta in pensiero assurdo di pena, allarghi nell’immensa solitudine ?. Pena di offerta grande, senza nome. Così, senza parole, sopra i ciottoli bianchi, nutri la tua passione, solo.

Oggi so il tuo respiro, o Tagliamento. Ed unirsi lo sento al rosso fragola del tramonto *, canto immenso

1 Letteralm. «e ascolto l’ansia destino, e senza pace ». ] i

2 Letteralm.

nel vento.

lunga

della tua :

acqua,

quell’andare ;

per il tuo .

« tu allarghi l’anima tua attorta in un pensiero che non trovi, per

abbracciare il tuo duolo ». 3 « dell’alto tramonto ».

213

Riccardo

Castellani

PARINEGUIEDIÎS

Larìn in ta che concja granda e vuejda como una val di màrs vissìn dal cîl. Lassù né i slargjarìn il to mantîl dut quadri e blanc e larc ta jerba frejda. I metarìn chel biel pinsîr di avrîl tal miec, dut clar e fer. E dut cidina sarà la lùs in fra di nou, e buina;

sentàs si cjalarìn tal pràt di mil. I tornarìn pa riba una matina di gran zulugna, a fuèas di oràr, ch’a san di îr e di doman. E una frutina cui luncs cjavei di àur, incuintri al plan nus stjerni un troi di cruda seda fina. E nou i larìn cui dîs ch’a nus daràn. (carnico di Colza)

(« Il Strolic furlan », 1952, p. 29; R. CASTELLANI, Ad dur dal mont cit., p. 56)

214

COI GIORNI

ANDREMO

Andremo in quella conca grande e vuota, d’arido pascolo !, ch'è al ciel vicina. Lassù apriremo quadra, bianca e grande la tua tovaglia sopra l’erba fredda.

Quel bel « pensier d’aprile » ° metteremo al centro, chiaro e fermo. E silenziosa e buona sarà fra noi la luce; assisi

ci guarderemo in quel prato di miele. Torneremo per il pendio un mattino di grande brina, con l’allor che odora di ieri e di domani. E una bambina

dai lunghi aurei capelli, al piano, la via ci coprirà di seta fina. E coi giorni, che ci daranno, andremo.

1 Nella Carnia, 7745 indica un pascolo magro. 2 Qui nel senso di « pratolina, margheritina » (secondo un’informazione poeta a G. Faggin).

data dal

215

Riccardo

Castellani

LONTANA Anìn par man, sul troi pal clàr dal nestri sang, T’un plan cenga peràulas la mens dai flòrs antîcs

ch’al volta cjald pa jerba buina sù ad alt, nus sei vissina.

Anìn, la lùs dai nestris voi nudrìnt

in fons di un cîl slargjànt vualiîf momèns di eternitàt t’un vél d’arìnt. E un mond dut fer nus brùsi odérs di ulîf.

Il timp daùr di nou ’1 larà tjessìnt la jerba da memoria, sunt un fîl di fùc intàt, nassùt su l’òr resìnt

di un’ora cunsumada. E l’arc zintîl da vita al trimarà di un dl prisìnt, se un dì i tornìn, tal ben di un cjant umîl. (carnico di Colza)

(« Il Strolic furlan », 1953, p. 23; R. CASTELLANI, Ad dur dal mont cit., p. 58)

206

LONTANA Per mano andiamo ! sul sentiero caldo

nella luce del sangue, e l’erba buona! Lassù su un piano a noi, senza parole, vicina sia dei fior la mente

antica.

Andiamo! a pascolar gli occhi in un cielo che in un velo d’argento ci dischiude momenti di eternità, eguale. E un mondo tutto fermo bruci olivo! Dietro di noi il tempo andrà tessendo l’erba della memoria, lungo un filo di fuoco intatto, all’orlo nuovo

nato

di un’ora morta. E l’arco della vita,

gentile, tremerà di un duol presente, se torneremo ° un dì, con umil canto.

1 1 1 anìn, imperativo, « andiamo! ». 2 Nell’ediz. 1976 i tornarìn futuro, che renderebbe ipermetro il verso; l’Autore stesso, a p. 77, traduce « se un giorno ritorniamo », ma il valore temporale richiesto è quello del futuro.

2017

Riccardo

Castellani

SCJARSÒ BIEL RIÙ Tal scùr das lungjas gnòs ti sint cisà lontan daùr dai agn, biel fuart riù,

ta mens bessola e ferma. Tal lent gotà dal timp i t’jout a nasci cu’l freit da neif tal cùr, biel fi salvadi

di un grim di màri dura.

Un blec di cîl ad alt, un lung scivîl di cràt blausìn, biel fi dai Coladòrs, a trìmin ta to dga.

E i conti drenti chel trimà di vita. Nascenga dura e garba tun cùr di frut cjamò cenca speranca.

E i conti chel butàti jù pai crets, chel muardi pas ruvîs. Lu ten a mens

tas oras di pinsîrs. Biel riù colòr dai crets. Cirìnt tu vàs tal fons dal to distìn. E il lung suspîr tu spands ad alt pas ropas.

Cenca paussà tu vàs. E il scùr dai pégs ti scolta. Ombrenas di fajars 218

SCHIARSOÒ, BEL TORRENTE Mormorare ti sento, nel buio delle notti lunghe,

lontano, indietro negli anni, bel torrente forte, nella mente sola e ferma.

Nel lento gocciolio del tempo nascere ti vedo col freddo della neve nel cuore,

bel figlio selvaggio di un grembo di madre dura. Uno squarcio di cielo in alto, un lungo fischio di crudo falco, bel figlio dei Coladòrs !,

tremano nella tua acqua. E vo contando quei fremiti di vita. Nascenza dura e acerba in un cuor di fanciullo ancor senza speranza.

E conto il tuo gettarti dalle rocce, quel mordere le frane. Questo rivolgo in mente nelle ore dei pensieri. Bel torrente, colore delle rocce! nel fondo del tuo destino. E un lungo sospiro

In cerca vai

spandi su per le rupi. Senza fermarti vai. E degli abeti il buio ti ascolta. Ombre di faggi D4O

e di saléns a ti saludin buinas.

In jenfra i claps, ta la to spluma blancja, ti disbredéi una frascja verda di al. Mandi riù, biel frut.

Lajù i ti pensi, ta planura granda ferma e cidina, in pàs. Lajùi: ti cir,

tun màr di lùs ch'a mùr. (carnico di Colza)

(« Il Strolic furlan », 1956, p. 91; R. CASTELLANI, Ad dur dal mont, cit., p. 59 e sg.)

220

e di avotni ti salutano buone.

Tra i macigni, nella tua schiuma bianca, ti districo una frasca verde di ontano. Vita a te?, bel giovane!

Laggiù ti penso, nella pianura grande, ferma e silente, in pace. Laggiù ti cerco

di luce in un mar che muore.

1 coladér

«imbuto;

canalone

roccioso imbutiforme », qui personificato.

2 mandi riù « addio torrente! »; mandi è la comune

formula di saluto, un po

affettuosa.

221

Riccardo Castellani

NOT

DI SETEMBRI

Molà, ’na volta, lassàmi

disfà dut quant in anima. Slargiàmi via cu’l flat di chista not blancia di luna. E messedàmi inta’l penseir sidìn ch’al vegla sora il mond, lassàn’mi pierdi via bel planc pai plans ch'a van

smarìnt

tal fer arzent di pas e di sapiensia.

Lassà menami via da l’onda lungia dal pinsiròus griulà dai avostàns. E doventà dut ùn cu’l zì dal timp. Cussì vagà veglànt sensa peràulis. Sglissà, sensa spaurìlu, sora il silensiu vif scundut devòur di ’stu ciantà dai gris, devour di chel spetà da li ombrenis in miés dal blanc di luna. E zì, sensa un dulà, sensa pi peis, e doma cu’ savour pi da li robis. °Na volta sola molà la smuarsa, e zì a lunc, lassànt disfàmi dut in anima. (casarsese)

(« Quaderni del Tesaur», mont, cit., p. 43)

224

3 [dicembre

1958],

p. 4; R. CASTELLANI,

Ad

dur dal

NOTTE

DI SETTEMBRE

Lasciar tutto, una volta;

sciogliermi tutto quanto in spirito.

Aprirmi via col fiato di questa notte bianca di luna. Confondermi con il pensiero quieto che veglia sopra il mondo; perdermi lentamente per i piani che si vanno stingendo nell’immobile argento di pace e di saggezza. Farmi portar via dall’onda lunga del pensoso stridere dei grilli. E immedesimarmi col trascorrer del tempo.

Vagar così !, vegliando, senza più parole. Scorrere, senza intimorirlo,

sopra il silenzio vivo che sta dietro questo canto dei grilli, dietro questo attendere d’ombre in mezzo al bianco della luna.

E andare, senza un dove, senza peso, solo col sapore delle cose. Una volta almeno allentare la morsa, e andare

a lungo, e tutto sciogliermi in ispirito.

1 Nell’ediz. 1976 vagà è sostituito con zì via.

229

Riccardo Castellani

FUBIS Sé soju jo, fra miés sti’ fueis ch’a colin par chistu troi tal vint. O quanti’ fueis, cun chel tant ros e zal, ch'a par ch’a volin ridint a fuart straviàvi. E no ’i crodéis. Chel zal, chel ros pai ciamps za indurmidìs, chel clar, chel ciald di biel soreli al voul

a plan jentràvi in drenti. Veir ch'i dìs la nustra veretàt ... O sèns di doul. O fueis nudridis drenti uchì, ta tanciu dìs

lungs di caligu, in miés di tant flurì di vita e di sperà. E adès, strussìs,

sidìns, sé sinu ucà tal timp. Di pì dal cridulà dai nustris pas smuartìs. Dal nustri bassilà, dal nustri zì ... (casarsese)

(« Quaderni del Tesaur », 4 [1959], p. 5; R. CASTELLANI, Ad dur dal mont, CItUp: 44; una prima redazione era apparsa nell’Antologia del sonetto vernacolo contemporaneo, a cura di M. GastaLpI, Milano-Roma 1948)

224

FOGLIE

Che sono io, tra queste foglie cadenti sul vialetto, nel vento?

Quante foglie,

col loro rosso e giallo! Par che vogliano distrar, ridendo forte. Diffidate!

Quel giallo e rosso, pei campi assopiti, e del sole la luce e il caldo dentro piano vogliono entrarvi. In vero dico la nostra verità ... Segni di duolo! Foglie nutrite in noi, in tanti giorni lunghi di nebbia, tra un fiorire grande di vita, di speranza. E adesso, affranti, in silenzio, che siamo nel tempo? Oltre lo scricchiolio dei nostri passi spenti, il nostro vaneggiar, l’andare nostro ...?

225

Riccardo Castellani

VIERTA

Ciera di unvièr, chel freit to lung durmì s’cierneta e grama

cul to penseir pierdùt sot li radìs dai lencs e da li sopis, sot li cujèris duris incrudidis, i lu crodevi pi ’mbramìt e greif e stanc par sempri.

Cun che to schena rampia ferma e plomba di doul e di criura,

ti mi parevis pi ledrosa e puòra, sensa pi voja

di enciamò contà la lungia fiaba di nossis e nassensis, di un ben di zovintùt ch’a no’l è fin,

di un mai sflurì di rivis. Ma i ti sos stada stanca dal durmì sensa un suspiru.

I ti às sintut il vuejt passà dal timp sul doul di chel penseir tignut scunìt e strent ta li to venis cu’l grand antic segret dal nassi e dal murì. E al prin soreli alt, al prin clamà zintìl e legri e ciald da la marzada ti sos voltada buna inviers dal seil,

e n’altra volta ti às tu viert rizinta e fres’cia il grin 220

PRIMAVERA

Terra d'inverno! quel freddo tuo lungo dormire, prosternata e grama, col tuo pensiero perso sotto le radici d’alberi e zolle,

sotto le porche rincrudite e dure, lo credevo più intorpidito e greve, e stanco per sempre. Con il tuo dorso brullo, fermo e intriso!

di tristezza e di gelo, mi sembravi più ritrosa e misera, senza più voglia di raccontar di nuovo la lunga favola di nozze e figliolanze, di un bene di gioventù che non ha fine, di un mai sfiorire di declivi. Ma ti stancasti di dormire senza un sospiro.

Sentisti il vuoto passar del tempo sulla pena di quel pensiero tenuto inane e astretto nelle vene col grande segreto antico del nascere e morire.

E al primo sole alto, al primo invito gentile e allegro e caldo d’un rovescio di marzo, ti sei girata buona verso il cielo, e un’altra volta hai aperto, rinnovata e fresca, il grembo 227

al fuart e sclet sperà par nù di vita nova. (casarsese)

(« Sot la nape », 1971, nr. 4, p. 11; R. CastELLANI,

228

Ad dur dal mont, cit., p. 41)

al forte e sano sperare per noi di vita nuova.

1 plomp

«impregnato,

detto di neve);

raro, ma

intriso, pieno » (cf. gardenese

cf. P.P. PasoLINnI, La nuova

plome

« pesante,

gioventù, Torino

umido »,

1975, p. 86,

v. 3, un rap verdulìn e plomp «un grappolo verdolino e fradicio ».

229

Domenico

QUALCHI

Naldini

CIAR

Qualchi ciar al cor par la strada qualchi vòus lontana a savariéa.

La luna i podarès clamàla ta la barcugnela inluminada: vissina e clara a è tai claps e lusinta ta li fuejs dal figàr. Ta la me ciambra a còlin li lus da la luna,

e jo i jot la me ombrèna pojada tal blanc mur. Qualchi ciarta, blancia e inluminada, a cola da la tàula ta li brèis dal sulisu. I sieri il barcòn: tai murs blancs di cialsina li sfesis enciamò a lùsin. 1945 (casarsese)

(«Il Stroligut n. 2», Casarsa, aprile 1946, p. 9 e sg.; ripubblicata in D. NALDINI, Seris par un frut, Casarsa 1948, p. 11; e in D. NALDINI, Ur vento smarrito e gentile, Milano 1958, p. 19)

230

QUALCHE

CARRO

Qualche carro va per la strada, qualche voce lontana vagella. La luna potrei invocare alla finestrella illuminata: vicina e chiara è sulle pietre e lucente sulle foglie del fico. Cadono nella mia stanza i raggi della luna, e vedo la mia ombra posata sul muro bianco. Qualche carta

bianca e illuminata cade dal tavolo sulle assi del pavimento. Chiudo la finestra: nei muri bianchi di calcina le fessure lucono ancora.

231

Domenico

Naldini

TRE DISEINS I La ciera a è secia,

a sbisièin i mos’ciòns e li èspis, pai murs si intorgolèin li sbìssis. Lungis ombrènis a pàssin, i zirasoj a pòjn il ciaf. II

Da la vas’cia a sbrissa la fres’cia aga tal riulùt e a cor via. E la fontanela vualiva a barbotèa ta la so vas’cia.

III Di not a si leva un scur vint,

il siàl da li stelis s’inturgulìs tal sèil. L’amàr aunàr

al si plea a la scura vòus dal vint. (casarsese)

(« Quaderno Romanzo n. 3 », Casarsa 1947, p. 50; ripubblicata in D. NALDINI, Seris, cit., p. 9, e in D. NALDINI, Ur vento, cit., p. 16)

3063)

TRE DISEGNI I La terra è arsa; ronzano mosconi

e vespe;

lucertole sui muri si contorcono. Lunghe ombre passano; girasoli piegano il capo. LI

L’acqua fresca dalla vasca scorre nel rivolo, e fugge. E la cannella continua a gorgogliare dentro la sua vasca.

LEE Si alza nella notte un vento nero; si offusca in cielo lo scialle delle stelle. L’ontano amaro si piega alla nera voce del vento.

239

Domenico

I FANTAÀS

Naldini

A CIANTIN

I fantàs a ciàntin pai borcs insulìs da la luna. Ta la me ciambra i sint — diàul mindìc — sfueànt un libri chel flat d’arzìnt vint di sanc e rosis.

Na margarita tal me sen a si disdifa. Na colomba a svuala e a no torna. Le pena e l’amdur a si dan la man e la muàrt a mi ven dongia. 1947 (casarsese)

(D. NaLpinI,

234

Seris, cit., p. 15;

ripubblicata

in D. NALDINI,

Un

vento,

cit., Po 25)

ADOLESCENTI CANTANO Adolescenti cantano per le contrade insonnolite dalla luna.

Sfogliando un libro, nella mia stanza io sento — diavolo meschino — quell’alito argenteo:

vento di sangue e rose.

Sul mio petto una margherita vizza diventa. Via una colomba vola, e non torna. Pena e amore si accordano, e la morte mi viene vicina.

255

Domenico

Naldini

SENT CIAMPANIS

DI ORU

Sent ciampanis di oru a son pa’ l’aria, a insembràssi cu l’alba. Tal veri inglassàt il sèil al era un flòur di insèns. San Zuàn, Dursinìns, Valvasòn,

sent ciampanis di oru a son pa’ l’aria. 1948 (casarsese)

(D. NaLpinI,

236

Seris, cit., p. 14;

ripubblicata

in D. NaLpINI,

Un

vento,

CILSMp,e2%)

CENTO

CAMPANE

D’ORO

Cento campane d’oro son nell’aria a fondersi con l’alba.

Sul vetro gelato il cielo era un fiore d’incenso. San Giovanni, Orcenico, Valvasone, cento campane d’oro son nell’aria.

PA

Domenico Naldini

CHISTU

ME AMOUR

Ciaviej neris — i dizevi sensa respiru — vuj sensa colòurs, la lus di chei vuj sensa colòur. Dal sèil al mi ven, tal sèil al torna

chistu me amòur sensa distìn. La luna dai cujèrts di Dàrzin a mi fa la fuàita. O luna sensa muart, doloròus vuli,

stàighi tu dongia. Luna:

Un cujèt raj i ài pojàt ta la so front, i jot chej ciaviej neris sparnissàs ta l’intimela, i sint respirà un anzul.

Vàighi pì dongia, luna, forsi al è poura di na not tant planzuda. Luna:

Un anzul al pàusa ... 1948 (casarsese)

(D. NaLpinI, Seris, cit., p. 16;

238

ripubblicata

in D. NALDINI,

Ur

vento,

cit., p. 26)

QUESTO

MIO

AMORE

Capelli neri — dicevo, privo di respiro — occhi senza colori;

la luce di quegli occhi senza colore. Dal cielo mi scende e al cielo torna questo mio amore senza destino.

Dai tetti di Arzene la luna mi scruta. O luna senza morte, occhio doglioso, stagli tu vicina! Luna:

Un raggio quieto gli ho posato sulla fronte. Guardo i capelli neri sparsi sul cuscino. Sento respirare un angelo. Vagli più vicina, luna! Lui forse ha paura di una notte tanto pianta. Luna:

Un angelo riposa ...

259

Domenico

Naldini

UN FIL DI VINT Un fil di vint al cor tra i moràrs insulìs sofli di na istàt ch’a ni cunsuma.

E apena un sun di fuèjs rovanis ta chè aria greva, tra i ciasaj blancs, ta chel sèil sensa anima. Ma coma nassùs da l’erba a van soranèj sensa cuarp cu’l fldbur da l’istàt in man. 1948 (casarsese)

(D. NaLpinI,

240

Seris, cit., p. 17;

ripubblicata

in D. NALDINI,

Un

vento,

cit., p. 28)

UN FILO DI VENTO

Un filo di vento si affretta tra i gelsi insonnoliti: respiro di un’estate che ci strugge. Un suono di arse foglie appena in quell’aria pesante, tra i casolari bianchi,

in quel cielo senz’anima. . Ma, come nati dall’erba,

bimbi! incorporei vanno con in mano

il fiore dell’estate.

1 soranel vale propriamente bino, contadinello ».

« sopranno », detto di bestiame;

per traslato « bam-

241

Domenico

Naldini

TRASIESSEILNEZIZALCIERA Ta un flat rosa a si cunsuma tai orts la sera.

L’aga verda da l’erba di cujèra in cujèra a ven ta la sera dal mar pì scur da li montagnis. Ta chista ora di suns, di sìgus tra il sèil e la cera. (casarsese)

(« Il Strolic furlan », 1950, p. 59; ripubblicata in D. NALDINI, Un vento, cit., p. 37)

242

RARIDRGCIELOFENTCA

TERRA

In un alito rosa si consuma

negli orti la sera. L’acqua verde dell’erba di solco in solco viene nella sera

dal mare più scuro dei monti. In quest’ora di suoni, di gridi tra il cielo e la terra.

243

Domenico N aldini

DOMENIA

DI NOT

Clara a è la not e sensa vint,

e su li ciasis e sui ciamps cujeta a lus la dolsa luna; lontanis li montagnis claris a si svelin. Na impalidida lus a inluminèa i e i e

barcons da la me ciamara deserta, tu, frut, lontan ta la to ciasa ti durmis contènt cu’l sun da la to vita, i no ti sas, i no ti pensis,

e i no ti sas di me, e i no ti pensis a la to vita. Jo cun me bessòul, i ven fòur a discori cun chista luna e lontan in font al borc i sint il strac famèj ch’al torna ciantànt: e uchì jo i pensi a chej lavris, e la vòus dal me còur a mi tas in tal sen scujerzùt. Eco la Domenia a è passada, e doman n’altri dì al tornarà, e n’altri enciamò.

Dut a è pas e silensi e dut a duàr spierdùt cu’l borc e cu la muàrt.

(« 1)Stroligut » 1 [agosto 1945], pp. 15-16; p.

244

ripubblicata in D. NALDINI, Seris, CIùù

DOMENICA,

DI NOTTE

Chiara è la notte e senza vento,

e sulle case e sui campi risplende quieta la luna; lontani stanno i monti sereni. Una luce rischiara impallidita i balconi! della mia camera vuota, e tu, bimbo, lontano nella tua casa,

dormi contento, della vita tua nel sonno, e tu non

sai, tu non

pensi... e

di me tu non sai e alla tua vita non pensi. Solo, io, con me stesso esco a parlare con questa luna, e lontano sento, all’estremo del borgo, il canto del servo stanco che torna;

e, qui, a quelle labbra penso, e del mio cuore la voce mi tace nel petto scoperto. Domenica

ecco è passata,

e un altro dì domani verrà, e poi un altro. Tutto è pace e silenzio, tutto dorme perso col borgo e con la morte”.

1 Lascio balconi, dato il modello leopardiano. 2 Non traduzione, né conversione, né adattamento in friulano della Sera del dì di festa, ma personalizzazione di stilemi immaginativi leopardiani, con dispersione del ritmo endecasillabico — forma nuova di una forma antica — per delineare il profilo sottile di un’anima presa da notturna passione per un bambino lontano, innocente, passione pallida come la luna e la morte, e leggera come leggero è il canto (per usare un aggettivo-chiave della lirica di Casarsa), nella notte insonne che segue al giorno festivo.

245

Tonuti Spagnol LA CRESIMA A è ferma lì la baraca inciamò d’in chè volta.

A son dèis èàins ma no par straca,

parsè chel dì lu jot vuòi.

No soj pì jo ch'i vif ta chè aria ruda

in ta chel grun di ligrìa. A è la me anima blancia e nuda che sora dai pensèirs a brila e a scolta l’Ave Maria inciamò d’in chè volta. 12 luglio 1947 (varietà di Versuta)

(T. Spagnol, La Cresima e Timp piardut. Tutte le poesie friulane, a cura di A. Giacomini, Pordenone 1985, p. 89; già apparsa presso D. Virgili, La fl6r. Letteratura ladina del Friuli, II, Udine 1968, p. 209)

246

LA CRESIMA! Da allora il chiosco è lì immobile ancora. Son dieci anni ma non sembra stanco.

Quel giorno io lo vedo, oggi. Non sono più io che vivo in quell’aria pura in quel mucchio di allegria. È la mia anima bianca e nuda

che al di sopra dei pensieri brilla e ascolta ancora l’Ave Maria di allora ?.

1 Usualmente il titolo di questa poesia viene reso così. Nel friulano comune crèsime vale 1. « quaresima » (per sviluppo fonetico popolare del vocabolo), 2. « cresima ».

2 Circa la grafia dei testi di T. Spagnol riporto una notizia di A. Giacomini, il curatore della recente edizione: «La trascrizione dei manoscritti [...] è zeppa di incertezze. [...] abbiamo rispettato anche certi errori imputabili senz’altro alla dattilografa ». Pertanto, in qualche caso, sono intervenuto, soprattutto per. semplificare.

247

Tonuti Spagnol ALTRI

LUNIS

Altri lunis a’ àn lusît °n tal seil; altri nos

a’ àn ingulusàt la cera, a’ àn soflàt altri vins, altri usiei a’ àn cjantàt

tai bars di spins, altri vitis

sin àn pleat su la cera. La nustra a è ’na stagjòn

che a primavera a nàs, a crés, a ména

ai suns da l’Avemaria,

e a l’utun a scomparìs coma li fuejs che, dopo sena, il vint al parta via. Ottobre

1949

(varietà di Versuta)

(T. Spagnol, op. cit., p. 186)

248

ALERE

LUNE

Altre lune han brillato nel cielo; altre notti hanno avvolto la terra; han soffiato altri venti;

altri uccelli han cantato tra i rovi;

altre vite si sono piegate sopra la terra. La nostra è una stagione che a primavera, nasce, cresce, germoglia al suono dell’Avemaria,

e d’autunno scompare come la foglia che, dopo cena,

il vento porta via.

249

Tonuti Spagnol

PREJERIS "Na bava di alba a si meséda cu l’aria scura e a dis’cjòj un pùc li cjasis sidinis e a trapàna i funs bàs dai rivaj e li s’gjavìnis. JO sòj tornàt visìn al me recuàrs.

Simiteris di memorijs ch’a restin stampàdis ta l’aria. Di lontan l’aj sempri jodàda la me plasa cu li domenijs: mudi novis,

cjaviej lecàs, vuj lusìns di fiòj ch’a zùjin, dîs plens di soréli, cu la baréta nova e la cjamésa clara, ànzuj ch’a cjàntin prejèris.

A pluvizignèa, al è un scùr s’bampìt, ma jò j'’èj ’n tal cour tancju tramòns, tancju éspuj, 250

PREGHIERE Una bava d’alba si confonde con l’aria buia e smuove un poco le case silenziose, penetra le nebbie basse dei fossi e delle prode. Ai miei ricordi mi sono

riaccostato.

Cimiteri di memorie che restano nell’aria impresse.

L’ho sempre vista la mia piazza, da lontano, e le domeniche sue: vestiti nuovi,

capelli pettinati, occhi lucenti di ragazzi che giocano, giorni di sole, con il berretto nuovo e la camicia bianca,

angeli che cantano preghiere. Piove fino fino. Il buio si scolora. Ma nel cuore ho tanti tramonti e tanti vespri,

251

tanti ligrìjs ch’a si cunsùmin cu’l soréli nasìnt; tancju rosarijs ch’a restin cu la flama,

il soc e ’1 fogolàr e la luna ’mbramida taj moràrs.

L’aria a è ùmida e j soj in plasa cu li avemarijs daj nustri muàrs, cjampana s’fladada, di mil albis, sempri nòvis,

ch’a clama a mésa prima: e di s’cjapinéla a tòrnin i nustri muàrs.

Ombreni ’ngrisignidis vistidis di neri a cjamìnin lizeris, a cjamìnin coma partàdis da chej sùns; altri ombrenis orladis di blanc, li munis in fila,

il predi ingrumiàt un pùc pì gréif cu i matutins E di J cu

in man.

cun ‘sti filis zent, pensi ’ngropàt, i lavris ch’a trìmin:

252

tante allegrie che si consumano con il sole che nasce, tanti rosari

che restano col fuoco, il ciocco, il focolare, e la luna intirizzita

sui gelsi. L’aria è umida e sto in piazza con le avemarie dei nostri morti,

campana sgolata di mille albe sempre nuove, che invita alla messa:

in punta di piedi tornano i nostri morti.

Ombre aggricciate vestite di nero camminano leggere come da quei suoni portate; altre ombre orlate di bianco, suore in fila,

il prete ricurvo, alquanto attempato, con il breviario in mano.

Con queste accolte di gente, penso

sgomento

e tremano le labbra: 253

« Il mont

al è

na lungia pursisiòn ch'a ni mena sot cjéra a plan planin, di s’cjapinéla cu li ombrenis daj murs ». Arisina d’arzent,

arisina ’ntenzùda di soréli e di tramòns, azìn a partàmi

chej odòus inosèns di chej dîs di primavera, ch’a restin encjamò, cu s’cju recuàrs.

J soj chel d’in che volta cu la baréta nova e la cjamésa clara. Novembre

1949

(varietà di Versuta)

(« Sot la nape» 10.4 (1958), p. 50, e G. D’Aronco, Nuova antologia della letteratura da ice 1960, pp. 555-557; ripubblicata in T. Spagnol, op. cit., pp.

254

« Il mondo è una lunga processione che ci porta sotterra piano piano

in sordina con le ombre dei morti ». Brezza d’argento, brezza intessuta di sole e tramonti, portami, ti prego,

quei profumi innocenti di quei dì di primavera che restano

ancora

con questi ricordi! Son quello di allora con il berretto nuovo e la camicia bianca.

20»

Enrica Cragnolini MI DISMENTEI

DI ME

Gusèlis di soréli e’ tièssin el serèn, vél turchìn, sence pés. Jò, sence pés ’o sbi: sfantade ta chel vél, mi dismentèi di me.

E nol è pui ricuàrt, di me, su la tière. 8-11-1953

(Koinè)

(E. CracnoLINI,

256

E/ pujerùt, Udine

1973, p. 28)

OBLIO ME STESSA Aghi di sole tessono il sereno:

velo turchino, lieve. Io, lieve sono:

disciolta in quel velo, oblio me stessa.

E non c'è più ricordo di me, sulla terra.

204

Enrica Cragnolini

GJONDE CUJÈTE DI CUEI Gjònde cujète di cuéi tal cil limpit. Odulis tal cîl si rimpìnin: a vòngulis ’e mòntin tal serèn d’avrîl. °E sbrisse la lisièrte cjalde, sul clap. Tiere di vièrte, vèrde,

cun pinsîrs di cîl. A vòngulis ’e mònte tal serèn, cjalde. Odulis tal cîl si rimpìnin. (koinè)

(«Sot la nape », 1954, nr. 3, p. 9; ripubblicata in E. CRAGNOLINI, op. cit., p. 57)

258

GIOIA

CALMA

DI COLLI

Gioia calma di colli

nel cielo limpido. Allodole nel cielo s’alzano: a onde salgono nel sereno d’aprile.

La lucertola guizza calda, sul sasso. Terra di primavera, verde,

con pensieri di cielo. A onde sale nel sereno, calda. Allodole nel cielo s’alzano.

239

Enrica Cragnolini FIRMAMENZ

DI LUSOR

Téis di avrîl, alz, in tal soréli alt, firmamènz di lusòr: àur vert, trasparìnt,

cantesemat lassù, tal cidinòr. Di che lusòr, di chel colòr el miò sanc,

vîf, trasparìnt. Oh, mr antîc tor di me, dentri di me, sanc vert, tènaris alghis, alghis, firmamènz antìcs, firmamènz! 12-6-1968

(Koinè)

(E. CRAGNOLINI,

260

op. cîif., p. 38)

FIRMAMENTI

DI LUCE

Tigli d’aprile, alti nel sole alto, firmamenti di luce: oro verde, ialino, incantato lassù, dentro il silenzio.

Di quella luce e quel colore il mio sangue, vivo, ialino. Oh, mare antico attorno

a me,

dentro di me, oh, sangue verde, alghe tenere, alghe, firmamenti antichi, oh firmamenti!

261

Enrica Cragnolini UNE DI Une dì, muarte, cu l’ànime imò zòvine, ’o saràl:

sul jèt, là ch'e murì mé màri, là che jò ’o nassèi.

’Svòlin lizèris, blancjis, in compagnìe, e muàrt e vite: altis, lontanis,

là che al nas el timp, là che al finìs. 26-6-1968 (koinè)

(E. CRAGNOLINI, op. cit., p. 40)

262

UN GIORNO Un giorno, morta,

con l’anima giovane ancora, Sarò: sul letto, dove mia madre è morta, dove son nata.

Volano leggere, candide, insieme,

la morte, la vita: alte, lontane,

dove il tempo nasce, dove finisce.

263

Enrica Cragnolini

EL PUJERÙT Jù pe rive des Pozzolatis, te frèscje ombrène di agàc’, in sarèt.

La còde félte e un pujerùt che al danze dute gnèrf e

de cjavale lustre lizér une sutile danze tremòr:

a flanc de mari, grande, tìvide, délce. Jò, sul sarèt, pìzzule,

di cert, dòngje miò pari. El miò cùr tune danze sutile, za fuàrt. Jò, pujerùt bessòl. 29-1-1971 (koinè)

(E. CRAGNOLINI,

264

op. cit., p. 43)

IL PULEDRINO Per la discesa delle Pozzolate, nell’ombra fresca delle acacie, in calesse. La coda folta della cavalla nitida

e un puledrino leggero, che danza una danza tenue tutta nervo

e tremito;

al fianco della madre,

grande, tiepida, dolce. Io, sul calesse, piccola, certo col babbo accanto. Il mio cuore in una danza tenue,

già forte. Io, puledrino solo.

265

Mario Argante CJAMPANIS

TAL VINT

Cjampanis tal vint e lancùr di linsòi dentri il voli dal toblat.

Un toc di gorne a pendolòn de stale al sune l’agunie dal istàt.

Tal polvaròn de strade al passe di buride un funeràl di fuéîs. (Koinè)

(M. Argante, Erbe che mur, Udine

266

1975, p. 71)

CAMPANE

NEL VENTO

Campane nel vento e rancura di bucato dentro l’occhio del fienile !.

Un pezzo di grondaia della stalla, oscillante,

suona l’agonia dell’estate.

Nel polverone della strada passa in fretta un funerale di foglie.

1 Lenzuola e biancheria lavate, messe ad asciugare dentro il fienile, ed intravviste candide attraverso l’apertura frontale, senza imposte.

267

Mario Argante

IL MONT Il mònt al mi è robat il soreli e mitùt sot i pîs

pantàn di palùt. Tes mans no ài memorie di nissune contentece.

— Ombre

te ombre —

’o mi sint

un sbrèndul di vite picjat

sul fîl dal timp. (Koinè)

(M. Argante, Stagjons, Ed. dalla Pro Spilimbergo, 1981, p. 44)

268

IL MONDO

Il mondo mi ha rubato il sole e messo sotto i piedi melma di palude. Nelle mani non ho memoria di nessuna letizia.

— Ombra

nell’ombra —

io mi sento

cencio di vita appeso

al filo del tempo.

269

Mario Argante

MARCJAT Place ingriside di vint cui tendons dal marcjat ch’a sbàtin une primevere tardive. Pas svèlz simpri plui ràrs sui marcepîs bagnaz. Grìvie ’e sune une cjampane dentri un misdì di néf. (koinè)

(M. ARGANTE, op. cit., p. 45)

270

MERCATO Piazza

ravida di vento, coi tendoni del mercato che sbattono

una primavera tardiva. Passi svelti sempre più rari

sui marciapiedi bagnati. Grave una campana

suona

dentro un mezzogiorno di neve.

ZA

Mario Argante

L’ORE SCURE A no l’è gnot e no jè l’albe: in miec’ al passe il fil da la me pene. °Ne disperade pàs di fieste muarte ‘e cighe vie pai pràs. L’unvièr al sofle dentri l’ore scure

dal gno destin. (koinè)

(M. ARGANTE, op. cit., p. 46)

va

L’ORA

BUIA

Non è più notte e non è l’alba. Frammezzo

passa

il filo della mia pena. Una pace disperata di festa estinta grida via pei prati. L’inverno soffia dentro l’ora buia del mio destino.

215,

Mario Argante SERE

Fres’cje di cîl la sere ‘e s’cjampane tal cùr. L’omp

al torne dai cjamps cu la fadìe stampade su la schene. Il vint al puarte vie cu ’1 nùl ancje la ploe restade impisulide sui ramàz. (koinè)

(M. ARGANTE, op. cit., p. 49)

274

SERA Fresca di cielo la sera rintocca nel cuore.

L’uomo torna dai campi con la fatica impressa sulla schiena. Il vento porta via col nuvolo anche la pioggia rimasta appisolata sulle fronde.

273

Mario Argante CALME

DI PLOE

Calme di ploe e sbròcs di soreli tra grispis d’ombrentùi. L’arie a è maglade di cjampanis a muàart. Suturno su une

’o cjamini strisce di memòris ...

Dal flér d’une nìule blancje al mi è nassît un pinsîr. (koinè)

(M. ARGANTE, op. cit., p. 57)

276

CALMA

DI PIOGGIA

Calma di pioggia e sfoghi di sole tra rughe di ombre folte !. L’aria è macchiata di campane a morto. Triste io cammino su una striscia di memorie ...

Un pensiero m'è nato dal fiore d’una nuvola bianca.

1 ombrentl indica propriamente ombra di alberi, rezzo, frescura (Faggin, p. 879).

Dn)

Siro Angeli ESSI E VEI Îr e doman in vuòèi cemùt che jò ’i vorès no èntrin. L’important al è che éssi e véi ’a stan tra ciàr e vuès

unîz, par là indavant. « Ancia l’anima ’a muda como la vita, ’a mùr cu la vita ». JÒ, cui lu varà scrit e quant no mi recuàrdi plui. A crodi o no ch’a séi cussì, ce tuart o vant

mi vègnial, se sigùr di no véila venduda jò no mi sint da tant? 1976 (varietà carnica di Cesclans)

(S. AncELI, L’aga dal Tajament, Tolmezzo

278

1976, p. 29)

ESSERE

E AVERE

L’ieri e il doman nell’oggi nel modo ch’io vorrei non entrano. Importante è che l’avere e l’essere stanno tra carne ed ossa uniti, a andare avanti. « Anche l’anima cambia come la vita, e assieme muore alla vita ». Io

non mi ricordo più chi l’avrà scritto e quando. A credere o no che sia così, qual torto o vanto mi viene, se da tanto di non averla venduta sicur più non mi sento?

29.

Siro Angeli TAL COR DA CIARGNA Propri culì, stentàt a alzasci su di mr in mùr framièc’ un grîs di cret e un vert di pràt cun malta e cun clap dùr tal cùr da Ciargna, chest como ch’al è, plui pòr ancia, como

ch’al era,

chi al sarès il paîs ch’i varès scièlt par me se ’a mi vès il Signòr scièlgi lassàt il puòst dulà nasci. Jò ’i dîs che nol è pièis nè miòr di tanc’, ma nol samèa a nissùn su la tiera; e in ta so aria neta

°î ài respiràt l’idèa dal mont cemdt ch’al è in ben e in ml, di dut

quant, in tal timp che vîs infin al pél mujàrt °î sin, al prova un frut e al val pa vita intera: fam, scuèla, zùc, odéòr

di brusàt da polenta spandùt ta prima sera, veà pa vacia, muàrt

ch’a passa lant atòr simpri e no à creanza,

Pasca e Nedal ch’al spieta cul viestît gnùf ch’al screa; 280

è)

NEL

CUORE

DELLA

CARNIA

Proprio costì, stentato a alzarsi su, di muro in muro, in mezzo a un grigio

di pietra e in mezzo

al verde,

con malta e sasso duro, nel cuore della Carnia, così com'è, più povero

anche di quel che fu, qui sarebbe il paese che avrei scelto per me, se il Signore mi avesse dato di poter scegliere dove nascere. Io dico: peggio non è né meglio d’altri, ma non somiglia a nessun altro in terra.

Nella sua aria netta l’idea io ho respirata del mondo com'è nel bene e nel mal; ... l’idea di tutto quanto un ragazzo tenta, nel tempo che siam vivi fino alla prima barba, e val già una vita intera: fame, scuola, gioco e all’imbrunire odore bruciato di polenta; vegliare per la vacca; morte che passa in torno sempre e non ha creanza; Pasqua e Natal che aspetta per rinnovar la veste; 281

di dut ce ch’al inventa tai sièi pinsîrs e al cùs cul fil da so speranza ch’a va a travèrs i dîs e las gnoz senza lùs, par mètilu da part dopo ogni an ch’al mùr como il bocòn ch’al vanza: siùm, realtàt, recuàrt. 1976 (varietà carnica di Cesclans)

(S. ANGELI, op. cit., p. 30 e sg.)

282

... l’idea di quel che inventa nei suoi pensieri e cuce

col fil della speranza che va attraverso giorni e notti senza luce,

per metterlo ad ogni anno come boccon sogno, realtà,

da parte che muore che avanza: ricordo.

283

Novella Cantarutti

"NA ROSA

’A SI DISFLORA

°Na rosa ’a si disflòra sul cjantonAl. E ’a mi sovén °na ora soreglada, °na gjonda di pitéur sun tela antiga, na disclarida vena di cjant. Na rosa

’a si disflòra

sul cjantonAl. (varietà di Navarons)

(N. CantARUTTI, Puistis, Treviso 1952, p. 69)

284

UN FIORE

APPASSISCE

Un fiore appassisce nell’angoliera. E mi sovviene di un’ora assolata, di un tripudio di artista su una tela antica, di una schiarita vena di canto.

Un fiore appassisce nell’angoliera.

205

Novella Cantarutti

CAROUL

Al grìa un cardul ulà’ù. Tun armar?

Tun pié di cjadrèa? Tal gno cjaf? AI cioncja fili’ di len, al lìsima grops di pinséirs, al lassa un grumùt di pòlvara grisa. (varietà di Navarons)

(N. CANTARUTTI, op. cit., p. 71)

286

ILCFARLO C’è un tarlo, dentro, che rode. Nel cassettone?

Nel piede di una sedia? Nella testa mia?

Tronca vene del legno, intacca nodi di pensieri, lascia un mucchietto

di polvere grigia.

287

Novella Cantarutti

J° AI CJATAT JO ài cjatàt la mé ànima sul plan. Tal miec’ dai cjàmps di célcia e di furmìnt,

sot un céil ingusît di nuvalàz, ta ’na maa sutila di fii di ploa ‘a era la mé ànima. (varietà di Navarons)

(N. CANTARUTTI, op. cit., p. 81)

288

HO TROVATO Nella pianura ho trovato il mio spirito. In mezzo ai campi di colza e di frumento,

sotto un cielo sopraffatto da nuvole, dentro una maglia sottile di fili di pioggia c’era il mio spirito.

289

Novella Cantarutti

TRE CJASI Cjasa muarta

Cjasa cujéta cui siò’ muarz in vègla! Li’ mans di un’ava sutila tal arc di una lum distudada,

un von cul ciarnéli inclapît, tal vuéit dal larìn. Cjasa di una gent muarta! A’ na ’nd’è rosi’ e vàs di mezorana sui balcéns. Ombri’ di viti’ disfati’ a’ si spanìssin

tal vert dai spéglis e i caròi a’ sl pàssin tai armàrs.

Cjasa dismintiada

Cjasa blancja! In tal cjantén dal ott, là pai ramàz, ‘a sghirlava d’am6ur la cerpignòla, e i canàis

a’ butàvin un ridi larc intòr di vita frescja. Cjasa blancja! I dîs a’ cujètin la ls in ta li’ rami’ alti’ dai balcéns e a’ distìrin li’ noz 290

TRETCASE Casa morta

Casa silente coi suoi morti in veglia! Le mani di un’ava sottile sull’ansa di una lucerna spenta; un avo con la fronte impietrita, nel vuoto del focolare. Casa di gente morta! Alla finestra non ci sono fiori né d’amàraco vasi. Ombre di vite sfatte si sfogliano nel verde degli specchi, e i tarli si saziano nei cassettoni. Casa dimenticata

Casa bianca!

Nell’angolo dell’orto, là, tra le fronde, d’amore zirlava

la cinciallegra, ed i bambini,

gettavano all’intorno un riso franco di vita fresca. Casa bianca!

I giorni estinguono la luce nelle roste alte

delle finestre, e le notti distendono

DOT

arìnt e scr.

In tal cjantén da l’ort al tàs clupàt il sgrisul da la cerpignòla. Cjasa insumiada Cjasa poàda tun sum sul colm di un cuél. °A svampìs l’ora e jo j céir la t6 strada. °Na gida di ròndai alta sul ciprés, un nît sot il puàrti e ’na cultrina viva drìu un balcén. Tal nasabén d’istàt, la vita vièrta come un pràt in vizìlia di rosada. (varietà di Navarons)

(N. CANTARUTTI,

202

op. cit., pp. 113-116)

argento e buio. Nell’angolo dell’otto tace assonnato! il brivido della cinciallegra. Casa sognata

Casa posta nel sogno in cima a un colle! L’ora avvampa,

e cerco la tua strada. Una corona di rondini alta sopra il cipresso, un nido sotto il portico, ed un tendaggio mosso dietro a una finestra. Nel profumo dell’estate, la vita aperta come un prato che attende la rugiada.

1 clupét è tradotto dall’Autrice con « soffocato »; secondo il Pirona e il Nuovo Pirona, clupà vale « sonnecchiare » (cf. Faggin, p. 181 2).

293

Novella Cantarutti

CUJÈTA Mari, tu mi conòs

da un timp antîc, quant ch’ eri rosa tal cjo pinséir. Po’ j' mi sei fata céur di cjàr e ala duta trìmula di svuàl. A’ mi àn sbatuda i agn come sisila, tal varc di un mîr,

ma al mi nudrìs il cjalt da la t6 vègla. Al si cujèta, ta li’ plèis strachi’ da la mé musa, il cjo sum antîc. (varietà di Navarons)

(N. CANTARUTTI,

294

Scais, Udine

1968, p. 39)

QUIETE Madre, tu mi conosci da un tempo antico, quando ero fiore nel tuo pensiero. Poi mi son fatta cuore di carne e ala tremula di volo. Mi hanno abbattuta gli anni, come rondine nel varcare un mare, ma della tua veglia mi nutre il tepore. Nelle pieghe stanche del mio volto il tuo sogno antico si acquieta.

5)

Novella Cantarutti

PASSONS

DI STELI”

Adés j° na sai pi passéns di stèli’ pal tréi dai casseàrs sul Tilimìnt. AI era il mani da li’ margariti” induvinadi’ a scùr ta l’erba mòla,

e i déic” intrimulîz a domanda.

J° sint l’aga laù ch’a si disnimbra, e ’a mi puarta cun sé come ’na fufa. (varietà di Navatrons)

(N. CANTARUTTI, op. cit., p. 47)

296

PASCOLI

DI STELLE

Più non so, ora, pascoli di stelle,

pel sentiero d’acacie, al Tagliamento. C'era lo stelo delle margherite nell’erba molle indovinate

al buio,

e le dita tremanti a interrogare. Sento l’acqua laggiù ch’esce dal suolo e mi porta con sé come una foglia.

207]

Novella Cantarutti

A GJANTIN

PASLI

STRADE

A’ cjàntin pa li’ stradi’, da lontan, e al ven odéur di cassia, odéur di téi, disfata in me e tal céil la primavera.

A’ vìvin pa li’ stradi’, da lontan. E un cròt

al si recama il gno pensà tuna disfluridura grécja. (varietà di Navarons)

(N. CANTARUTTI, op. cit., p. 49)

298

CANTANO:

PER LE STRADE

Cantano pet le strade, lontano; arriva odor di acacia,

odor di tiglio. Languida in me e nel cielo la primavera. Vivono per le strade, lontano. E una rana

si ricama il mio pensiero in una sfioritura fioca.

295

Novella Cantarutti

STRADI’ DA LA ME VAL Strada da li Clàusini°

Ta ‘sti’ lavini’” il céur al è nassùt tra il vert avàr e la Miduna sglénfa, vivi’ li’ èti’ tal siò f6nz rimìt

come il timp inclapît in ta la cròda. Strada batuda, lunc via li’ lavini’, dal pas di un’ava vignuda nuvìcia da un botc secrét in poura sora i fluncs. J vuei il siò ridi e ’na viesta da noci”! Tra il vert avàr e la Miduna sglònfa. Strada di Dinglagna Il vìdul in tal céil inmatuît e la blancjura arsida da li’ crodi’. JO sei sun tuna cengla ’tor Dinglagna brusada come il clap e come il céil. L’amour al è ’stu arc lontan di aciàl tal bòli induliàt dal gran misdì. A’ si devuelgiaràn nùvali’ strachi’, ’a colarà grisura su li’ crodi’ e il vìdul strac al plombarà sul nît. Jo j’ m’inviarài còlma di ombra: il troi al si disbassa viers Dinglagna. (varietà di Navarons)

(N. CANTARUTTI, op. cit., pp. 75-79)

300

STRADE

DELLA

MIA VALLE

Strada delle Clàusine

Tra questi smottamenti il cuore è nato, tra il verde avaro e la Meduna gonfia; vive le età nel suo fondo romito come il tempo impietrito nella croda. Strada percorsa, lungo le lavine, da un passo d’ava qui venuta sposa da un borgo ascoso, in cima a precipizi !. Voglio il suo riso e una veste da sposa! Tra il verde avaro e la Meduna gonfia. Strada di Inglagna Nell’immobile e muto ? cielo il falco,

e il riarso biancore delle crode. Sto sopra una cengia presso Inglagna, bruciata come roccia e come cielo. Amore è quel* lontano arco d’acciaio nel fervore dolente del meriggio. Si sbroglieranno le nuvole stanche, e calerà grigiore sulle crode, e il falco stanco piomberà sul nido. Io m’incamminerò colma di ombra. Il sentiero discende verso Inglagna.

1 Letteralm. «in paura sopra le voragini ». 2 inmatuît (0 inmatunît) « intorpidito, attonito ». 3 Nell’originale « questo ».

301

Novella Cantarutti

CH'J MI CJATAI Ch’ mi cjatài, un’alba, flurida il céur di te, tun mént di scrèa, dissameàt. Dome la conca arsida

dai cjo’ voi e jo a spégli. (varietà di Navatons)

(N. CANTARUTTI,

302

op. cit., p. 131)

CHÉ

MI TROVAI

Ché mi trovai,

un’alba, fiorita il cuor di te, in un mondo nuovissimo,

trasfigurato. Solo l’urna riarsa

degli occhi tuoi. E io in essa a specchiatmi.

303

Novella Cantarutti

CJADENA

DI OMBRA

Pas

compagnàt cul gno gint dulinvìa. Poura

di dut il gno timp. Sigîl su la vita inmutida di mé mama. Cjadena di ombra chi tu mi pò. E j’ na sei buna da distorteàti. (varietà di Navarons)

(da «Sot la nape », 1974, n. 2, p. 21)

304

CATENA

D’OMBRA

Passo

che s’accompagna al mio lungo la strada. Paura di tutto il tempo mio. Sigillo sulla vita spenta della madre mia. Catena d’ombra che mi tieni legata. E non riesco

a scioglierti.

305

Novella Cantarutti

BEL CH'A BRUIS LA CJERA Bel ch’a bruìs la cjera e a’ lumulèa inmò dì sul motu da li’ fuéis, li° mans a’ cérin

la jéca stracada, par sbroà via

ce che di gram a nas. Ch’a resti nèta denant ch’a si dislèin li? rosi fermi’ dal scùr. (varietà di Navarons)

(da « La Battana », Fiume/Rijeka,

306

nr. 56, settembre

1980, p. 20)

MENTRE

LA TERRA

Mentre la terra e fa luce ancora sul muoversi di le mani in cerca

MORMORA

mormora il giorno foglie, vanno

dell’aiola stanca, per strappare via

ciò che di gramo nasce. Affinché resti netta,

prima che si sciolgano i fiori immobili del buio.

307

Novella Cantarutti

MASERA

J'ai ingropàt il gno pas rasu la cengla denant il sclòp da la lavina granda. Si tenti inmò da brinc4 pieri’ fermi’, a è maséra. E ‘a na supa tanta muart. (varietà di Navarons)

no

308

Parlata friulana di Navarons nella Val Meduna, Libretti mal’aria, Pisa

ROVINA S'è annodato il mio passo sull’orlo della cengia prima dello schianto della slavina grande. Se tento ancora d’afferrar rocce salde, ecco è rovina.

E pur non risucchia tanta morte.

309

Dino Virgili LUSSBESGUR Slambris di lune flape di scuindon ineàz te gnot lontane dai cjasài ... Tù, e chel blanc de lòbie tal curtîl. La lune si umidive sula muse: tu vevis lùs e scr tai vòi d’amòr.

La lòbie ’e polse imò sul vuèit sotèt e lis colonis pàlidis si piàrdin ta ché fasse di scùr e d’antiùl cul soreli dai Sanz za muart par entri... Bessòl, chel blanc di lòbie tal curtîl ... (koinè)

(N.

310

CanrarUTTI,

D.

VirciLi,

A.

CanToNI,

Risultive,

Udine

1950,



CHIAROSCURO

Squarci di nella notte Tu, e quel La luna si negli occhi

luna languida, furtivi, lontana dei casali ...! bianco di loggia nel cortile! bagnava sul tuo volto: avevi chiaroscur d’amore.

La loggia posa ancor sul vuoto ostello, e le colonne pallide si perdono in quel tratto di ombra e di guaìme, con dentro il sole d’Ognissanti spento ... Solo il bianco di loggia nel cortile!

1 Nell’originale:

« annegati nella notte etc. ».

Shi

Dino Virgili FRUT

DI VIARIE

Cjasal dal gno paîs cul Bròili e il zuc daùr, e il moràr grant, lis vîz, e il Ronc e il cîl difùr...

Cui sùnial su la puarte cul sivilot di scuarz?

Soi jo, tornàt di viarte cul vert in tal bearz...

Tornàt cui sups e i grîs di frut; par duc’ i cîi ué al sune il gno paîs di glons e di sivîi.

Cjamps di forment lusinz, ogni falzèt un lamp; la tiare crèe tai sfrins,

e l’aghe ’e je di ramp. Dismòviti cul gjal, cjàliti tal riùz: al lîs dut il rivàl, musute di milùz. (koinè)

(D. VireiLi, Furlanis, « Risultive », Udine 1964, p. 12 e sg.)

2

RAGAZZO

DI PRIMAVERA

Casal del mio paese, col Brolo e, dietro, il colle,

il gelso grande, e viti, la Costa! e, sopra, il cielo ...!

Chi suona sulla porta con zufolo di scorza ?? Io, a pascor tornato col verde nel verziere ...

Son qui coi succi? e i grilli di bimbo; per i cieli suona oggi il paese di rintocchi e di fischi. Campi di grano lustro! Ogni falcetto un lampo! La terra intatta ai bordi‘, e di rame è l’acqua! Ridestati col gallo! Contemplati nel rivo! Splende la sponda tutta, oh musetto di mela! 1 rònc

«terrazzo,

costiera»

di un

terreno

coltivabile

in pendio,

sistemato

a

gradoni (per es. vir di ronc « vino di costa »). 2 Si chiama Sivilot di scuarè (0 più comunemente di scusse) lo zufolo fatto con un rametto cui sia stata tolta la «scorza» o corteccia; donde il nome. 3 Uso questo termine conferendogli significato insolito, per rendere il friulano zup «pezzo di canna di sorgoturco fresca che i ragazzi tagliano per succhiare » (Nuovo Pirona).

4 Propriamente gli sfrizts (o sfrunts o frunts) sono le parti estreme dei solchi, dove si trova la terra del campo non toccata dal vomere (detta sgjavìn « proda »).

Sb

Aurelio

Cantoni

IL SEGLAR

CIDIN

Il seglàr al è cidìn: no còr l’aghe, no còr ... Pegre “e ven-jù la ploe là difùir ... Cui messedave i plaz e cui cjantave dapràf di chel disgot? Cumò ’e je gnot, mi par: ’e je une pegre gnot di malincùr. Il ram di chel seglot al pàr ch’al vebi inmò soreli dulintòr ... Cui cjaminave achì cui siei muloz? Cui va cumò ta l’aghe dal seglàr? Lis làmpidis de strade là difàr e’ àn un lusòr flap: cumò ’e je gnot, cumò nol è plui dì! ... Mari, ’o soi chi,

daprùf dal to seglàr e dal disgot. (koinè)

(A. CantONI, Passant, Udine 1958, p. 63)

314

ACQUAIO

MUTO

L’acquaio è muto: l’acqua non scorre, non scorre ... Lenta vien giù, fuori, la pioggia ... Chi lavava quei piatti, e chi cantava presso quel gocciolio? Ora, mi sembra, è notte: è una notte lenta, di melanconia. Il rame di quel catino sembra avere ancora tutt’intorno il sole. Chi si moveva qui coi suoi zoccoli? Chi tocca l’acqua ora dell’acquaio? Le lampade di fuori nella strada dànno una luce smorta: adesso è notte, non c’è più giorno, adesso! 13

Madre, io sono qui,

accanto all’acquaio tuo, alla tua acqua.

DD

Aurelio Cantoni

CUMÒ

LA GNOT

La dì ’e je finide: cumò la gnot e tanc’ pinsîrs e il cùr. Dislontanàt il grant sunsùr dal vivi, i amîs e il vin, ’e reste une cusine, une cjadrèe, la miserie di dut ce ch’al è stat, la miserie di dut ce ch’al sarà.

Doman un’altre dì e un’altre gnot: un omp, une cusine, une cjadrèe sot de làmpide flape. (koinè)

(A. CANTONI, op. cit., p. 102)

316

FASNOTTE,

ADESSO

Finito è il giorno: la notte, adesso, tanti pensieri, e il cuore.

Distanti il brusio grande del vivere, gli amici e il vino; resta una cucina, ed una sedia: la miseria di tutto ciò che è stato,

la miseria di quello che sarà.

Domani un altro giorno e un’altra notte: un uomo,

una sedia, una cucina,

sotto una lampada smorta.

5A;

Renato Appi INDULA

ÈELU?

Oh, suoi ben iò

chel fantassùt descòls ch’ al ziva in grava a fà pendcius! Penàcius blancs, penàcius ros, coldur del sièl, verts, Zali,

penàcius viola. Mari,

indulà èlu mai chel fantassùt descòls ch’ al ziva in grava

a fà penàcius? ... La vita ’”a mel’ à tuòlt! °A me l’ à tuòlt la vita! Là, sul truòi, ’na dì.

Agrimis, sanc! ... Sunàt ciampànis. Un gorc a’ me l’ à tuòlt! Fòuc e sinisa! .. La sò sidòn ’a èis sot la napa grisa e tal siò lièt, fat-sù, la forma ’a se desguòita a un sussùr tal padul, o su par l’impirada. Delùnc al borc intrunìt

’a rilusèva la piera. 318

DOV'È? Oh, son ben io

quel ragazzetto scalzo che nella grava andava a cogliere pennacchi! Bianchi pennacchi, pennacchi rossi, colore del cielo,

verdi, gialli, pennacchi viola. Madre! dov'è mai quel ragazzetto scalzo che nella grava andava a cogliere pennacchi? ... La vita me l’ha tolto! Me l’ha tolto la vita! Là, sul sentiero, un dì. Lacrime, sangue! Campane sonate! Un gorgo me l’ha tolto. Fuoco

e cenere!

Il suo cucchiaio giace! sotto il camino grigio, e nel suo letto, rifatto, la sua forma si svuota a un suono sul balcone o sulla scala.

Per tutto il borgo attonito,

riluceva la pietra. 319

Àgrimis, sanc! ... Sunàt ciampànis delùnc al borc,

da chel dì, la me pàs carulida. (varietà di Cordenons)

(R. ApPI, Chel fantassùt descòls, nuova ediz. Pordenone 1975, p. 15 e Sg.)

320

Lacrime, sangue! ... Sonate campane! per tutto il borgo,

da quel dì, la mia pace abbrumata.

1 Cf. l’idiotismo /assé la sidòn « morire » (letteralm. « lasciare il cucchiaio »); cf. Faggin, p. 1238 s.v. sedon.

321

Renato Appi

°NA DI "Na dì iò sarai iò!

E sarai sòul par sempri. Chel « sirilìn »

che ognun al se sint dentra planzi o ridi liegri in sguòl serèn, ninìn coldur de rosa,

in me nol sarà pì, °na dì. Sòul par sempri, iò sarai iò! ... E varai tanta pòura. (varietà di Cordenons)

(R. APPI, op. cit., p. 27; già pubblicata in « Sot la nape », 1958, nr. 2, p. 10)

522

UN GIORNO Un giorno io sarò io!

E solo sarò per sempre. Quel « fanciullino »

che ciascun dentro si sente piangere

o ridere gioioso, in un volo sereno,

piccola creatura color di rosa, in me non sarà più, un giorno.

Solo per sempre, io sarò io! EÉ avrò tanta

paura.

323

Renato Appi

AL PUSTÌN SU PAL TRUOI Jésus, al pustìn su pal truòi! ... Su pal trudi! Jésus Crist! Al pustìn su pal truòi e no pòus fà la strada! Al era iust da Nadìl,

da Nadàl... Jésus Crist! Al era iust da Nadàl che no vevi ’sta gràssia.

AI pustìn su pal truòi! ... Tal'portel... Eco, adès... Oh, tu, còur, no fà al mat, no fà al mat s’ al me clama!....

Eco, al è tal curtìf! ... Tal curtìf... Jésus Crist! ... Adès còur tenti strent s’ al se fà in su la puarta. Oh, te prei! ... Jésus Crist! Al pustìn su la puarta! (varietà di Cordenons)

(R. APPI, op. cit., p. 39)

324

IL POSTINO

STA ARRIVANDO!

Gesù,

il postino sta arrivando! Sta arrivando ... Gesù Cristo! Il postino sta arrivando e non posso andargli incontro ?. Era giusto da Natale, da Natale. Gesù Cristo! Era giusto da Natale che non avevo questa grazia. Il postino sta arrivando. È al cancello ... Ecco, adesso ... Oh, cuore, non impazzire,

non impazzire, se mi chiama! Ecco è nel cortile! ... Nel cortile ... Gesù Cristo! Adesso, cuore, tienti forte,

se si fa sulla porta! Oh, ti prego! ... Gesù Cristo! Il postino è alla porta!

1 Letteralm.

2 Letteralm.

«è sul sentiero, sullo stradello ».

«e non posso fare la strada ».

323

Renato Appi

IN PUOSTA

Ridi instupidìt de luna,

tra rama e rama, su la nuòt ch’a no duàr. Respiru de ombris, ingordu lusòur de uoi tra fudia e fuòis,

Silensiu font.

Sguòl temedus

de crècula

sul spièli d’aga. Un colpu ... doi! D’ala °na furia indemoniada. Un tonf! Baà furiòdus.

Tra fudia e fuòdis °na sercia angossada. Sul grèt, da l’altra banda,

un’ansia desperada, muta! In sièl

326

NELASPOSTA Sorriso allocchito della luna tra ramo e ramo, sulla notte che non dorme.

Respiro d’ombre, avido lucore d’occhi

tra foglia e foglia. Silenzio fondo. Volo spaurito di marzaiola

sullo specchio dell’acqua. Un colpo ... due! D’ala una furia ossessa. Un tonfo! Guattìo furioso.

Tra foglia e foglia ricerca indiavolata. Sul greto, dall’altra sponda, un’ansia disperata, muta! In cielo

OZII,

’a cor ’na nula in sercia de la luna; ’a la cuiàrs! (varietà di Cordenons)

(R. APPI, op. cit., p. 57 e sg.; già pubblicata in « Il Strolic furlan » del 1954, p. 38)

328

una nuvola corre in cerca della luna; e la ricopre!

329

Nadia Pauluzzo

TU MUERIS Mi àn dite che tu mueris e no tu sàs. Cui voi aviarz

doman tu cialaràs li’ ombris e tu li’ savaràs a menz par simpri par simpri. Ma ué te suase dal soreli, il rose-blanc de vierte

al ven par te su li’ vîs scunidis e sot,

tal soreàl ch’al svampe, il talpinà di un giat o l’inciusside conte

de gialine che si piert, che si piert. Tu lu sàs (imò une volte) il troi ch'al mene, tai revòcs

des ciampanis, pai ors indurmidîz

intant che l’aghe °e ciante. Tu durmaràs adasi.

330

TU MUORI M’han detto che muori, e non

sai.

Cogli occhi aperti le ombre domani guarderai, e le conoscerai per sempre per sempre. Ma oggi, nella cornice del sole, il biancorosa della primavera giunge per te

sopra viti sfinite, e sotto, sul secciaio adusto,

lo zampettio di un gatto o il verso stordito della gallina, che si perde si perde. Lo riconosci

— una volta ancora — lo stradello che passa, nel suono lontano delle campane, in mezzo agli orti insonnoliti, mentre l’acqua canta. Prenderai sonno adagio.

551

Ce isal mai murî se no

si sa?

(koinè)

(N. PauLuzzo, Un fil di vite, Udine 1959, p. 27 e sg.)

DOL

Che è mai morire quando non si sa?

393

Nadia Pauluzzo

WAIPSPRAREDISCI/ASEEME

Ce ìsal stàt di ché strisse lungje di vert che s’inrose la sere tal vignî dal scùr? Né soreli né lune la segnin. Nome il lamp di une Iùs impiade a cjase mé lajù lajù di une man di famèe. Un lusorùt e vonde. Ch’al sflandore di estàz scaturidis di madìns clìps dentrivìe di un lunc berlà, vosà, tasé, vaî, dibànt.

Ce ìsal stàt di ché strisse lungje di vert? Di me? Dal miò madìns? (koinè)

(N. PauLuzzo, Cjantà furlan, Udine s.d. [ma 1983], p. 112)

334

NEL'PRATO

DI CASA

MIA

Che è stato di quella lista lunga di verde che di sera è rosa quando l’ombra si avanza? Non sole non luna la segna. Solo di luce un bagliore, accesa laggiù in casa mia da una mano della famiglia. Una luce piccola e basta. Che riluce di estati smarrite,

di mattutini! tiepidi al chiuso, di un lungo chiamare, gridare, tacere,

piangere, inutilmente. Che è stato di quella lista lunga di verde? Di me?

Del mio mattutino??

1 madins s.m.pl. « messa della notte di Natale, messa i del Natale » (Faggin, p. 731). 2 Qui il plurale tantum è accordato al singolare.

di mezzanotte,

mattutino

335

Domenico

Zannier

JO DOMAN

NO SARAI

Se tu mi ciris tun gjoldi di Iùs, jo doman no sarai. °O soi onde ch’e screin mrs di gnoz e dolòr, ale di fumate che si splume tai déz dal soréli a buinore,

jerbe riscjelade sot sere che il dì no s’inacuaré de sò muart. No sta clamAmi tun gjoldi di lùs: jo no soi àur di albe, jo no sai di doman. (friulano centrale)

(La cjarande, a cuta di M. ArcANTE, D. ZANNIER, G. Zor, Udine

336

1967, p. 258)

DOMANI

IO NON

SARÒ

Se mi cerchi in un gaudio di luce, domani io non sarò. Sono onda che incignano mari di notti e di dolore, ala di nebbia che si disfa tra le dita del sole al mattino, erba rastrellata alla sera, della cui morte il giorno non s’accorge. Non invocarmi in un gaudio di luce: oro di alba non sono, io non so del domani.

61]

Domenico

Zannier

NO POS PIERDITI,

SIGNOR

No pos pierditi, laîsà che tu vivis tal cùr des roses di lontans rivài,

vé l’ombre de muse in fontanes che no viòt. Cjamine, Signòr, pal pràt de mé vite, semenant il to cîl. No pos pierditi, lassà che ti scjaldin fogolàrs di foresc’ che tu veis pan di tris. Se un cjavedàl e ’ne lum inmò ’o ài tal gno cùr, par rusinîz ch’e sedin, ven e impie. (friulano centrale)

(La cjarande, cit., p. 263)

338

NON

POSSO

PERDERTI,

DIO!

Non posso perderti e lasciare che tu viva nel cuore dei fiori

di prode lontane, e che il tuo volto riflettano fontane che non vedo. Incedi, Dio,

sul prato della mia vita seminando

il tuo cielo!

Non posso perderti, e lasciare che ti scaldino focolari stranieri,

e che tu abbia pane d’altri. Se lucerna e alare ancora ho nel cuore, per quanto arrugginiti, vieni ed accendi!

SEL;

Domenico

Zannier

CJANAL DI CUNE No savevin ch’al fos un paîs cence gjài

par saludà il soréli ni cjampanes

a dîj mandi sul amont. I barcons véi cu la pipine gjavade, lavris les puartes, sujàz di sanc, piùi e scjalins, déz sesolàz des mans,

mùrs di cjalcine che si scrostin, piel di om, scotade di avost. Une vierte di fruz no bale intòr des fontanes, no ti bute i braz al cuel

une cjalade di frute. Plantes e besties ’e son dute la vite. (friulano centrale)

(La cjarande, cit., p. 279)

340

CANAL

DI CUNA

Non sapevamo che potesse esistere un paese privo di galli a salutare il sole,

e di campane a dire addio al tramonto. Le finestre occhi con la pupilla scavata; labbra esangui le porte; poggioli e gradini dita falciate via dalle mani;

muri di calcina scrostata pelle d’uomo bruciata d’agosto. Primavera di bimbi non

danza intorno

alle fontane;

non ti getta le braccia al collo sguardo di fanciulla. Piante e bestie sono l’unica vita.

341

Domenico

ARBUI

Zannier

DI VIENE

Arbui di Viene,

che impen di vint ’e àn musiche di Haydn a fàur trimà la fuée. Vòngules de Donau ch’e àn par curint i pas di bal di Strauss e ’ne pìCule musiche di gnot légre di Mozart. Roses vienéses,

flors di un imperi muart, ch’o cidinais tai cjalis l’Eroiche e la Patetiche,

l’incjant al è passat. I siérs no àn plui ni violes e ni otons cuintri malincunìe.

O musiche di Viene,

belece di angonie, i àrbui a’ ti riclàmin cun réz di amòr e fuée: i àrbui di Viene. 16-7-1965

(friulano centrale)

(« Ladinia », 2 [1978], p. 190)

342

ALBERI

DI VIENNA

Alberi di Vienna! che invece del vento hanno musica di Haydn

ad agitar la foglia. Onde del Danubio! che per flusso hanno i passi di ballo di Strauss e « una piccola musica notturna » gioiosa di Mozart. Fiori viennesi,

fiori di un impero morto! che estinguete nei calici l’Eroica e la Patetica: l'incanto è finito. I nobili più non hanno viole od ottoni contro malinconia.

Oh, musica di Vienna,

bellezza di agonia! gli alberi ti chiamano, reti di amore e foglia: gli alberi di Vienna.

343

Domenico

Zannier

AGUNT I mulignéi dal temporàl ’e lampàvin sore la Drau. La plane sierade, ma largje dapît dai cimons di cjalìn ‘e strengeve lens e paîs. Al inagave, al svintave,

pleàz i cùrs come èàrbui. Oh cujet Pas di Stali! Oh Mude, cjare ai fornasîrs miéi vons: puarte des Gjermanies! °O vevis soréli e cjanz di lùS, monz grisulines e piùi cun roses tanche di culine e l’àur verdulin, clàr, dal làris.

Oh pàssares di gorne, ch’o cjalais la linde furlane a dà jù sul mar di Aquile! I nùi di cjarbon soresere ‘e leàvin les Alps, ’e Zontàvin i boscs e les naves. Cemàt mai che tal neri ’e lusì dissepulide la vile di Agunt? Le tajave l’asfalt, ma nò, férs, a vé véi sél par jé. L’aquidot e les mures, les maseries dai templis, dai sîz di famèe, i simiteris! Agunt, ultime lùsigne dal Nòric,

cùr de Ladìnie muarte ai prins assalz, tu ds fevelàt roman prime ch’o féssin nassùz.

344

AGUNTO ! I turbini del temporale lampeggiavano sulla Drava. La piana chiusa ma ampia, ai piedi delle caliginose cime, paesi stringeva e boschi. Diluviava, ventava,

piegati i cuori come alberi. Oh, cheto Passo di Stali! Oh, Muta! cara ai miei antenati

fornaciai: porta della Germania! Avevate

sole e canti di luce,

monti grigi e balconi con fiori come di collina, e del larice l’oro verde, chiaro.

Oh, passere di gronda che guardate il tetto del Friuli declinare sul mare di Aquileia! Nuvole di carbone alla sera legavano le Alpi, univano boschi e pendii. Come brillò, nel nero,

dissepolta la città di Agunto? La tagliava l’asfalto, ma noi, fermi, solo essa a guardare.

L’acquedotto, e le mura, e i resti dei templi, dei luoghi familiari, i cimiteri! Agunto, del Norico ultima favilla,

cuore della Ladinia morta ai primi assalti! tu parlavi romano prima che noi nascessimo. 345

Les tòs olmes ’e vevin respîr, i tiei clas ’e vivevin! °O ài rot ’ne paradane di sècui par vé il to popul a vivi cun me. °E podèvin gotà dutes les ploes, sfulminà duc’ i burlàz che il cîl si ere fat un salustri,

il muscli al vilutave la piere, Jo cui paris antîcs

’o vevi il cùr serenàt. 20-8-1965 (friulano centrale)

(« Ladinia », 2 [1978], p. 192)

346

Respiravano le tue tracce, le tue pietre vivevano! Una parete di secoli ho rotto per far vivere con me il tuo popolo. Potevano cadere piogge, temporali tuonare: il cielo si era fatto chiarìa,

il muschio vellutava la pietra: io con i padri antichi avevo rasserenato il cuore.

1 Aguntum era il nome di un antico insediamento illirico, poi celtizzato e infine romanizzato, nell’attuale Austria, presso Lienz.

347

Leonardo

Zanier

AI PEZ pec’

plantàt da un disocupàt o dal vint ca e là dulà che i baraz e i trois no

s’incròsin

pec’ ch’al crés arbul di Nedal pec’ grant viola ch’al trima nome

insom

e al trima apena pec’ ombrena bosc scovul vert lontan

ch’al sbrega i nùi e e il e

sot i foncs las moras muscli las més corsas

e il scjampà das gazias un mont cussì grant las vòs e il sanc cuintra i baraz

pec’ ch’al crés sul gno e sul to unic valòr sigàr iIMÒ

ta chesta cjera 348

ALERRCGI Peccio!

piantato da un disoccupato o dal vento in un punto dove rovi e sentieri non

si intrecciano.

Peccio crescente,

albero di Natale,

peccio grande, viola,

che trema solo in cima e trema appena, peccio ombra, bosco, scopa verde distante, che squarcia nuvole. E, sotto, funghi e mirtilli,

il muschio e le mie corse,

e fughe di scoiattoli, un mondo tanto grande, le voci,

e il sangue sopra i rovi. Peccio crescente

sul mio, sul tuo unico valor sicuro ancora su questa tetra,

349

dulà che dut va e si mòf ch’al crés sot i vòi

come la speranza e al è speranza se il vint e las lavinas

lu sparàgnin

pec’ madùr ch’a bolin e si plea sot il seon e nol samea muart nencja parcjera

taja nuda ch’a cor vÒs sapins pecias

odòr di pés squarcia parcjera

fina di denti e lissa come piel bagnada di un sanc cence colòr come il sudòr dai oms tronc

neri di soreli e di ploja ch’a nol è che un vaî blanc di sitic’ cuintra la siea

ch’a j entra e lu divìt breas e sfilas morài

e scuarz

tassas di blanc e di béz

maris dal peton 350

dove instabile è tutto,

crescente sotto gli occhi come la speranza, ed è speranza se vento e frane

ben lo risparmiano. Peccio

maturo,

che vien marchiato,

e si piega al segone, e morto non sembra neppure a terra. Tronco nudo scivolante a valle, voci,

zappini, fronde, di resina odore, corteccia per tetra, fine di dentro e liscia,

come fosse pelle, umida di un sangue senza colore,

come sudore di gente. Tronco,

nero di sole e pioggia, che ha solo un pianto bianco di segatura, contro la sega che entra e divide. Tavole e stecche, morali e sciaveri,

cataste di bianco e di quattrini, assi per il cemento 351

das digas e di grandas fortunas e di mèscui taulîrs armàrs

Jez tràs tez

cassas di muart pec’ (varietà carnica di Maranzanis)

(L. ZANIER, Libers ... di scugnî ld (poesie 1960-1962), Milano 1977, pp. 35-37; sono precedute e seguite da vari scritti di viva militanza politica)

poesie

392

le

delle dighe e di grandi fortune, per mestoli, spianatoie, cassettoni,

letti, travi, tetti, casse da morto, peccio!

339:

Leonardo

Zanier

UN JET A MIL CHILOMETROS DA CJASA la sump ch’a mi ven

ta chest cagnàs come

gès

ch’al fas présa mi indurìs dal difour e al resta nome il sum tra il sudòr dai mùscui lontans

crez cence jerba e arvuedas (varietà carnica

di treno di Maranzanis)

(L. ZANIER, op. cif., p. 53)

354

BNECERFOFASMIELETCHILOMETRINDATCASA Il sonno che mi viene

in questa branda, come

gesso

che fa presa, mi irrigidisce esternamente, e resta

solo il sogno in mezzo al sudore dei muscoli, lontani: rocce senza erba ruote di treno.

355,

Leonardo

Zanier

SPERANZA... ...la speranza no à vòi par vaî ma mans par fà e tantas mans fuartas come las vuestas ch’a conòscin

il presi e il sudòr da vita ... Ma Vuè

ancja las vuestas làgrimas son sudòr sudòr dal cour sudòr di ogni dì parcè che il vuesti cour °l è un muscul strac "tar un cuarp strac

ch’a nol pòs scielgi ... achì la speranza l’àn ridota a làgrimas da secui (varietà carnica di Maranzanis)

(L. ZANIER, op. cit., p. 81 e sg.)

356

SPERANZA...

... la speranza non ha occhi per piangere ma mani per fare e tante, mani forti come le vostre che conoscono

il prezzo e il sudore della vita. .. ma oggi anche le vostre lacrime sono sudore, sudore del cuore,

sudore di ogni giorno, ché il vostro cuore è un muscolo stanco

dentro un corpo stanco, che non può scegliere. =.qui

la speranza l'hanno ridotta a lacrime da secoli.

300

Leonardo

Zanier

A MAGRIN

DA UN FRUT

ce ése il vivi la guera par un frut il vivi ’ta guera par un frut ch’al giua ai partigjans cui aitis fruz pai boscs

ce ése par un frut la muart se non un vècju ingringinît

elzal denti una cassa ch’a inclaudin e la int ator ch’a vai come

s’a no capiss

ch’a l’era massa vècju ce ése la guera par un frut se non il giòc plui biel che i grane’ — come dut — fascin cence gust né misura ce ése la scuvierta da muart

par un frut la muart

di un om

nò di un vecju iodùt tantas voltas a passà — o crodtt di iòdilu — cul sten e il fazzolet ròss

par un frut ch’al rit cjantant cui cosacs

358

A MAGRINI!

DA UN RAGAZZO

Cos'è vivere la guerra per un ragazzo, vivere nella guerra per un ragazzo che gioca « ai partigiani » con altri ragazzi, pei boschi? Cos'è per un ragazzo la morte

se non un vecchio incartapecorito e giallo, dentro una

cassa che inchiodano,

e la gente intorno che piange, come se non comprendesse che quello era troppo vecchio?

Cos'è la guerra per un ragazzo se non il gioco più bello, che i grandi — come

ogni cosa —

fanno senza gusto né misura?

Cos’è la scoperta della morte per un ragazzo, la morte di un uomo — non quella d’un vecchio — visto tante volte passare — o creduto di vederlo — con il mitra e il fazzoletto rosso?

per un ragazzo che ride cantando coi cosacchi ° 89},

las lòr cjanzons ch’a ur domanda curiòs ce volel dî: dobra e mamalika e somaliot e fikifiki? e a ur frea las cartatucjas forsit no son nuia

ma parcé alora che voia di stà e di cori di vaî e di vosà apena sintùt

da doi partigjans saltàz iù dai parafangos di una balila in corsa: « Aulo l’è muart »? (varietà carnica

di Maranzanis)

(L. ZANIER, Che Diaz ... us al meriti, 2° ediz. Aiello del Friuli 1979 i, 107 ©)

360

[12 ediz. 1976],

le loro canzoni, che chiede loro curioso

cosa vogliano dire dobra e mamalika

e fikifiki*,

e somaliot

e frega loro le cartucce? Probabilmente niente. Ma perché allora quell’impulso di arrestarsi e correre, di piangere e gridare, appena

si sente

da due partigiani saltati giù dai parafanghi di una balilla in corsa: « Aulo è morto! » ‘?

1 Aulo Magrini di Luint (Ovaro), « medico dei poveri », partigiano comandante della brigata « Carnia », motto in combattimento a Noiaris di Sutrio il 15 luglio del 1944. 2 Truppe naziste, formate da cosacchi e cirtcassi, stazionavano in caserme a Chialina, a Ovaro e altrove, conducendo una vita difficile e violenta. Tragiche vicende di gente friulana si intrecciano con il tema funesto di queste popolazioni cosacche, illusoriamente trapiantate nella Carnia, nel romanzo fortemente drammatico di C. ScorLon, L'armata dei fiumi perduti, Milano 1985. 3 Vocaboli della lingua russa (propriamente dobrò, mamalyga, samolét; l’ultimo è una espressione volgare), che significano rispettivamente « bene », « polenta », « aeroplano », « fottere ». 4 Alcuni cambiamenti di grafia, rispetto alle edizioni a stampa, mi sono stati comunicati direttamente dall’Autore, che ringrazio.

361

Galliano

Zof

LOS PaEbsestBEIS

Pari, quanche ti ai cugnussùt, tu aris pòc plui che un frut: i toi vòi mi cjalavin cun dune tenerece infinide. Par àins e àins tu sés stàt cjaradòr te T©r, ogni matine, a l’albe,

tu e le’ stelis. Dome

un Crist di len,

grant, picjàt sul mùr de stale, al à fat compagnie a le tò vite,

ràmpide e sole. Cumò tu sés Za rivàt insomp de tè cumierie ... (friulano centrale)

(La cjarande, cit., p. 279)

362

['USEsLESSTELEE Padre,

quando ti ho conosciuto, eri poco più che un ragazzo: i tuoi occhi mi guardavano con tenerezza infinita. Per anni e anni hai fatto il carrettiere nella Torre !, ogni mattino, all’alba, tu e le stelle.

Solo un Cristo di legno grande, appeso al muro della stalla, ha tenuto compagnia alla tua vita semplice e solitaria. Adesso sei giunto alla fine della tua porca’...

1 Nome di torrente (in italiano adattato solitamente al maschile), da cui si estrae ghiaia, la quale veniva trasportata con carretti. 2 Cioè all’estremità della striscia di terra rialzata dal vomere, tra un solco e l’altro.

363

Galliano Zof

GRAZIES

DISTES, MARI

Chesta mé vita, planta cenéa roses e cenda fuejes

e cun radîs ch’as stenta a là ’ù in ta cjera suta e gropolosa, chesta mé vita,

ch’a è conossùt nomo fumata e ploja, j° voi tignîla cussì, ormai,

como ch'a é e grazies distés, mari, dal to regal ch’j tu mi èàs fat di còur in tuna biela zornada di avost. (varietà carnica di Ravascletto)

(La cjarande, cit., p. 300)

364

GRAZIE

LO STESSO, MADRE!

Questa mia vita,

pianta senza fiori e senza foglie, e con radici che stentano a scendere nella terra secca e ronchiuta, questa mia vita,

che ha conosciuto solo nebbia e pioggia, voglio tenermela così, oramai, com'è;

e grazie lo stesso, madre, del tuo dono che mi facesti di cuore un giorno bello d’agosto.

365

Galliano Zof

PARI, J' NO CJ AI MAI JODUT A RIDI Tu as la musa colòr da cjera pa l’aria, pa ploja, pal saréli. Tu vas atòr pa braida fruvàt e strac e i vòi

un grum di voltes tu ju Sieres, forsi tu cj insùmies tai cjei agns ... No cj ài mai jodùt a ridi, nomo

una volta,

quant che las cjampanes as disleava un cjant nòuf pa pas nova.

Ormai tu sés como un flun ch’al spieta di butàsi tal mr. (varietà carnica di Ravascletto)

(La cjarande, cit., p. 304)

366

PADRE,

NON

TI HO

MAI

VISTO

SORRIDERE

Hai la faccia colore della terra,

per per per Ti

il vento, la pioggia, il sole. aggiri nel podere,

disfatto e stanco,

e gli occhi spesso li chiudi; risogni forse i tuoi anni... Mai ti ho visto sorridere. Solo una volta: quando le campane sciolsero un canto nuovo per la pace nuova. Ormai sei come un fiume sul punto di gettarsi nel mare.

367

Umberto

Valentinis

Te gnot che s’incjante sul 6r des aghes in polse, cuarps si svulucin come

roses

a pandi il sium dal sanc cun andes di voe dolce-mare. E vie pai trois dal saùt ‘e coraran a lùsignes e, strafonz di rosade, ‘e colaran incolaCaz a fons dentri dal sanc a insavorîsi i lavris di bussades,

a macolàsi il cuarp tal da sot dal

Zùc antîc passion gherbe dal alt cidinér cîl stelat.

(friulano centrale)

(La cjiarande, Udine 1967, pp. 233)

368

Nella notte presa da malia, sul bordo di acque chete, si distrigano corpi, come fiori, rivelando il sogno del sangue con modi di voglia dolce-amara. E lungo i sentieri del sambuco correranno a lucciole, e, madidi di rugiada,

spiralmente cadranno in fondo, dentro il sangue, le labbra a insaporirsi di baci,

a macolarsi il corpo nel gioco antico della passione acerba, sotto il silenzio alto del cielo stellato.

369

Umberto

Valentinis

No orès cjalàti mai quant che si studin las peraules e il vueit ti jemple i cussì rimite

in scolte di liendes che s’ingredein tal sanc ingrisignît. E vie pai trois

dulà che tu t’inviis di bessole, ch’e menin tal scùr,

podessistu almancul puartàti daùr il gno cùr a fati los. (friulano centrale)

(La cjarande, cit., p. 245)

370

Non vorrei guardarti mai, quando si spengon le parole, e il vuoto ti riempie gli occhi: così lontana ad ascoltare storie che s’intrecciano nel sangue raggricciato. E pei cammini verso i quali ti avvii, da sola, che conducono al buio, potessi tu almeno

portarti dietro il mio cuore a farti luce!.

1 Il Poeta si rivolge alla nonna.

STI

Umberto

Valentinis

Par inviàmi tal sium

pujéris di ombre e’ levin a galop senze sunsùr

puartant la fie dal re traviers des contes che tu cjessevis ràmpide in senton dapît dal jet; e dopo al jere un fevelà sturnît a dai levan al scùr. Al reste

il scagn sfondat, las pàssares sborfades ch’e svolètin cuintri i véris fuscàz;

al è fevràr, la malusérie dal soreli ràncit: il spirt nol gambìe mude, magne umbride ch’e sglicìe a platàsi tal sieràt. E cumò al torne prin dal sium a sirucà chel sunsùr di pujéris, las sièles vuèides, si strissìnin parcjere

i finimenz ... 372

Per conciliarmi il sonno,

puledri d’ombra passavano senza fremiti al galoppo, portando la figlia del re, attraverso favole che tu intessevi con semplicità seduta appiè del letto; e dopo era un mormorio confuso a dare lievito al buio. Resta

la panchetta rotta; passeri bagnati che svolazzano contro

vetri non

tersi;

è febbraio: lo squallore di un sole irrancidito; lo spirito non muta veste, colubro spaurito che scivola a nascondersi nel chiuso.

E adesso, prima del sonno, torna indietro quel fremere di puledri. Vuote le selle. Per terra si trascinano i finimenti ...

373

la fie dal re cuissà mai quant

pierdude. (friulano centrale)

(U. VALENTINIS, Salustri, con presentazione di Andreina Ciceri, Udine 1968, p. 13)

374

La figlia del re chissà mai quando perduta.

51)

Umberto

Valentinis

Sustà di mieze lùs

parentri il scùr ch’al riscjele pal cîl svui incjocaz. Vueit di vòs,

di figures, nome

il trìbul

de cjere che s’infonde tes sòs lidrîs t'incolme l’ore.

Se si sclapàs ché piere di sepulcri grive a stropàti il varc, sarèssiel fac di buere a sementi

tal grim dal timp, scuindùt vuluz d’inzirli?

Fàssiti ’tor dai timplis la t6 liende suturne, lasse che il scùr al stengi las ufiertes ch’e ingjànin, avòditi al to gust amar di pièrdisi: 376

Sussulto di luce fosca dentro il buio che rastrella

pel cielo voli ubriachi. Vuoto di voci,

di figure. Solo il travaglio della terra che s’infossa nelle sue radici

ti fa piena Vora. Se si spezzasse

questa pietra tombale, greve a occluderti il varco,

sarebbe fuoco di bora a seminarti

nel grembo del tempo, segreto viluppo di vertigini?

Avvolgiti sulle tempie la tua leggenda cupa!

lascia che il buio stinga le offerte ingannatrici!

vétati al tuo gusto amaro del perdersi! EV;

ce che di dùl al reste al è za incei. (friulano centrale)

(U. VALENTINIS,

378

op. cif., p. 15 e sg.)

Ciò che di pena resta è già bagliore.

39

Umberto

Valentinis

S’invelènin i pràz te ploe ch'e imbombe il sanc dai cidivocs d’autun;

ta l’aer frait colàz parcjere i berlis dai ucei soresere cu las vignes, e il sgarfà dal salvadi tal fueam al compagne il coròt.

Jèviti almancul tù cul burlà di une bampe ch’e scancele ancje il pés de sò ombre; slèimi tal scùr i grops, induvine une polse: ch’e dùrin las peraules une volte senze là a fonz, che s’incjedeni il vivi net e clar come s’al fos za conte, pes més ores ch’e còlin in dismèntie, par nò stranîz straviàz

impaltanàz di muart. (friulano centrale)

(U. VALENTINIS,

380

op. cit., p. 21 e sg.)

Si avvelenano i prati nella pioggia che infracida il sangue dei colchici d’autunno ‘. Nell’aria marcia cadono a terra i gridi degli uccelli al crepuscolo con le vigne; e il raspare della selvaggina tra le foglie accompagna il compianto.

Alzati almeno tu! con il rùgghio di vampa che cancelli anche il peso della sua ombra! Scioglimi nel buio i nodi! Trova una sosta! Che durino le parole, una volta,

senza andare a picco! Che s’incateni il vivere, netto e chiaro, come se già fosse racconto,

per le mie ore che cadono dimenticate, per noi stranieri, traviati,

infangati di morte!

1 Il Colchicum

autumnale

è un fiore velenoso.

381

Umberto

Valentinis

Epùr tu sàs

che ti tocje fissalu chest dùl di dîs spalancàz tal vueit senze cjantons in ombre par recudisi,

a visàsi di sè a segnà cunfins: tal sut dai vòi frujaàlu fin ch'al sfanti, e distacasi in svàl senze revoc. (friulano centrale)

(U. VALENTINIS,

382

op. cît., p. 27)

Eppure tu sai che ti tocca guardarla questa pena di giorni spalancati nel vuoto, senza angoli in ombra dove raccogliersi, a ricordarsi di sé,

a segnare confini: nell’asciutto degli occhi consumarla

fin che svanisca,

e distaccarsi in volo senza alcun’eco.

383

Umberto

Valentinis

Ch’al dal il cùr a impensàsi

di ché fiére foreste di voes frujade tai linzài, cjastiade senze savei tal scùr di confessioni — ma sul viert dai sagràz si scrèe la lune e i flancs e’ fòlin vie pai trois la gnot. Al jere rùt lusòr di Sense pajane scuindùt tal cjant dal sanc sturnît ... e’ àrdin cumò bessòi te ancone vueide de gnot chei vòi di sanz malapajàz che s’indèin a dineà tal spieli di Atris vòi la bampe di ché antighe marivèe. (friulano centrale)

(U. VALENTINIS,

384

op. cit., p. 31)

Ché fa male al cuore ricordare quella aliena febbre di brame,

logorata tra lenzuola, castigata, senza coscienza,

nella penombra di confessionali. Ma sull’aprirsi dei sagrati torna nuova

la luna,

e i fianchi premono la notte lungo i sentieri. Era pura luce di Ascensione pagana, nascosta nel canto del sangue stordito ... Ardono adesso abbandonati nella nicchia vuota della notte gli occhi dei santi mortificati che si ostinano a denegare, nello specchio di altri occhi, la fiamma di quella meraviglia antica.

385

Umberto

Valentinis

I dîs inruzinîz i pas da l’aer vie pai toblaàz sdrumAz: stagjons disfates tun sgjernum

di peraules. Nome il zito dai muarz al imbarìs a stropà i varcs

dal sanc ch’al dl madressi. Olsà di jéssi vîs e slacà jù a ’studasi come cìdules tal magredi di cùrs che ti refùdin. (friulano centrale)

(U. VALENTINIS,

386

op. cif., p. 33)

I giorni arrtugginiti, i passi del vento tra i fienili cadenti: stagioni disfatte in arruffio di parole. Solo il silenzio dei morti si addensa ad intasare i varchi del sangue che vuol maturare. Osare di essere vivi, e precipitare a spengersi, come le cìdule !,

nella gleba arida ? di cuori che oppongono il rifiuto.

1 Ruzzole di legno, che in certe occasioni festive vengono fatte rotolare, infuocate, velocemente lungo pendii sovrastanti il paese. A ogni lancio si accompagna ad alta voce una « dedica », onorifica o amorosa. Questa seconda può trovare buona accoglienza oppure rifiuto. 4 ag ‘ | ; _ 2 magredi (o magrét) nome dato in Friuli a un tipo di terreno alluvionale assai permeabile e perciò arido e privo di vegetazione.

337

Umberto

Valentinis

Cidinòr di cîl soteràt al dolore;

tal cisà de gilugne suturno s’intarde il to pas parmìs di mùrs sdrumAz; il voli viert si bute incuintri a l’aer ch’al puarte a sledrosàsi frait di muscli il svàl dai genevrons; lidrîs sglonfe di ’màr si stuarz la sere,

s’impilote di scùr la cjere t'un boli spasemàt di farcadizzes. In fonz s’ingrume stran di malusérie,

là ch’o colìn disfaz a morestàsi

in gjostres stralumides di sepulcri, a scoltà vòs che no savìn pui gjoldi: zòndar di poz inmuràt. (friulano centrale)

(U. VALENTINIS, op. cit., p. 49)

388

Silenzio di cielo sepolto dolora. Nel sordo sgrigiolio della brina il tuo passo rallenta presso muri crollati. Lo sguardo aperto si slancia incontro al vento che fa rovesciare, umido di musco,

il volo delle tordele. Radice gonfia d’amaro si torce la sera. Si penetra di buio la terra,

in un affannoso ribollir di talpai. Al fondo s’aggruma strame di malessere, su cui cadiamo disfatti, a maturarci

in giostre stravolte e sepolcrali, a udire voci che godere più non sappiamo. Suono cupo! di pozzo murato.

1 zòndar (Condar; Faggin, p. 307) in quanto aggettivo vale « cavo, cavernoso »; sostantivato, « cavità »; cf. zondarà « scavare; rendere un suono cupo di corpo cavo » (Nuovo Pirona);

l'Autore traduce

« suono cavernoso ».

389

Umberto

Valentinis

E pùr torne ti prei

a impensAti di me, quant che il stelàt s’impìe sul fìs dai lens, che s’insumìe di te

ancje il scùr biel che senze visati i vòi ti rìdin e al pàr che tu ti pleis come une frascje ‘e buere dal to sanc lisér di sium. Jùdimi di lontan che no ti fuschi

il dùl dal gno vivi malcujet che nol cjate peraules paròrdin a scuvierzi da gnùf il mont; compàgnimi come l’aer tal cîl

ch’al disfe il nùl e il clàr di lune al torne a pàndisi bessdl. (friulano centrale)

(U. VALENTINIS,

390

op. cit., p. 63)

E torna ancora, ti prego,

a ricordatti di me, quando il cielo stellato s’accende sopra il fitto del bosco! ché sogna di te anche l’ombra mentre,

senza che tu l’avverta,

gli occhi ti ridono, e par che tu ti fletta siccome ramo

al soffio del tuo sangue leggero di sogno. Aiutami, lontana!

che non ti offuschi il duolo del mio vivere inquieto, che non trova parole adatte per riscoprire il mondo. Accompagnami! come nel cielo il vento che disfa il nuvolo,

e il chiaro di luna torna ad apparire, solo.

391

Umberto

Valentinis

Còntimi aer che tu tornis di lùcs là che no ai pui distin, s’al plùf soresere sui fens tajaz

e l’ombre ’e nùl a fuart fin su las puartes viertes tal lum di cusines cujetes ... Còntimi s’e sgarmètin tal saùt i ucei di simpri dongje de murae, co i vidulaz e’ pòlsin font il scùr,

e flîcs di sterps e’ slàmpin vie pai cjamps

a tizinà panoles crèes crevades tun ridi blanc deine I miei amîs al è di un toc ch'e tàsin tal fonz de memorie;

s’o s’intivìn, ’o scjampìn come laris ... Cu la cinise ’mare di chei fàcs si è impastàt un timp grîf, dismenteàz i nons scuindîz de cjere, las peraules ch’e puàrtin las stagjons a slusorà sul èr dal cùr, bonanlu.

Incei di vàz stropàz s’impàr la vite, quant che si ’stude il spirt stracàt di vuaites. (friulano centrale) (U. VALENTINIS,

Da?

op. cit., p. 67 e sg.)

Raccontami, vento, che torni

da luoghi ove non ho più futuro, se a sera piove

sopra il fieno falciato, e se l'ombra odora forte fin sulle porte aperte nella luce di cucine tranquille ... Raccontami se nel sambuco saltano gli uccelli di sempre, presso le mura, quando nel buio fondo campanule riposano, e fuochi di sterpi avvampano per le campagne ad abbrustiare vergini pannocchie, spezzate in un bianco ridere di denti...

Gli amici miei tacciono da tempo, nel fondo del ricordo;

se ci incontriamo, fuggiamo come ladri. Con la cenere amara di quei fuochi s'è impastato un tempo greve, si sono obliati i nomi ascosi della terra,

le parole che portan le stagioni sull’orlo del cuore a splendere, acquietandolo. La vita par miraggio di impediti guadi, quando lo spirito si spenge, stanco di veglie.

393

Umberto

Valentinis

e la lune ofegade ch’e distude l’autun tal scùr dai ultins raps maglaàz di ruzin, lami passon di gjespes imbramides; tai sucriz de murae

scus di lacais;

s’intorgòlin plumes di ucei tai rusclis co ’e busine soresere la buere vie pes cises.

La cjere no sa nuje di te, jei ch'e moreste avuàl i siums dal cîl e da l’aghe tai lèmiz de so gnot, ch’e disfe il svàùl, la piere, il cuarp avull... Ancje il to vivi lu muart tes lidrîs, e tel torne tal sium palomp di scùr, lustri e forest a dispièrdilu in buere di peraules cunfundudes come par pràz sotaghe movi di jerbes ... e tù scuindùt tun fiîc di gjonde siorde ... (friulano centrale)

(U. VALENTINIS,

394

op. cit., p. 69)

... e la luna velata, che incupisce l’autunno all’ombra dei residui graspi chiazzati di rubigine, sciapo cibo di vespe intirizzite. Nelle fessure gusci di lumaca. S’avvolgono piume d’uccelli sopra il pungitopo, quando di sera sibila tra le siepi la bora. La terra non

sa niente di te, lei che

eguali matura e del cielo i sogni e dell’acqua, nelle gore della notte, che sfa il volo, la pietra, il corpo, eguali ... La tua vita la morde alle radici,

e te la ridà nel sogno, ghezza di buio, lucida, straniera per disperderla in vento di parole, confuse come muoversi d’erbe per sommersi prati ... E tu nascosto dentro la fiamma di una gioia sorda ...

$55)

Antonio

Colussi

SONIA Ancje par te a’ vegnarà la muart: i tiei voi

no lusaràn plui. °A jemplavin il miò cùr ogni dì, Sonia, di une strane, dolce tristete;

plui nuje a mi disaran. Devant dal to cuarp ormai sflorît a lunc ’o vajarai. Sot vòs, par no sveàti,

ti disarai: « Mandi amîr! » e dute mé tu restaràs! (Koinè)

(T. Corùs, Reguie par un om, Ospedaletto

396

[Gemona]

1971, p. 5)

SONIA

Anche per te la morte arriverà: quegli occhi tuoi non splenderanno più. Mi riempivano il cuore, Sonia, ogni dì, di strana, dolce tristezza.

Nulla più mi diranno. Davanti al tuo corpo ormai sfiorito a lungo io piangerò. A bassa voce,

per non destarti, io ti dirò:

« Amore, ciao! » e tutta mia tu rimarrai!

DAT

Antonio

Colussi

SVEASI Sveàsi vie pa gnot prime da l’ore dai siums distudà ogni gust di jessi cirî lontan mai dî ée che tu sés taséè

par cjarià lis peraulis di tais lusìns fra ceis e voi e musica di violins pescjà il nuie e contà i dîs simpri compagns su pensîrs di late su véris ’panàs di respîrs il popul lu mande vie e lì, scjalìin, al reste

pierdisi tal cîl sieràt di neri (koinè)

((WAGOLUSWo

398

4/96 P035)

SVEGLIARSI

Svegliarsi nella notte, prima che sia l’ora dei sogni. Spengere ogni gusto d’essere. Cercar lontano. Mai dire ciò che sei. Tacere,

per caricare le parole di tagli lucenti. Fra ciglia e occhi e suono di violini pescare il nulla, e contare i giorni sempre uguali su pensieri di latta, su vetri appannati da respiri. La folla lo caccia, e lì, scalino, resta

perdersi nel chiuso nero del cielo.

595

Antonio

Colussi

impastànt sociologìe semàntiche psicologìe erotisim ricognòssin [dignitàt artìstiche duc’ i recuisîz nuje di mal sonez sinfonîs nùz marmui fissàz i vòi su la gnece frem il ricuart dal cjét che la colpe jè sò stracàt masse adore superant il nivel di vuardie cussì il mecanisim da lògiche material si ferme tentazions cun colòrs fuarz scherz di nature (Koinè)

(T. Corùs, Autopsie, Udine 1974, p. 9)

400

Impastando

sociologia

semantica

psicologia

erotismo,

riconoscono

[dignità artistica. Tutti i requisiti! Niente male:

sonetti sinfonie nudi marmi. Fissati gli occhi sulla nipote, freme il ricordo del porcile. Ché la colpa è sua. Stancato troppo presto, superato il livello di [guardia. Così il meccanismo della logica materiale si ferma. Tentazioni con colori forti,

scherzi di natura.

401

Antonio

Colussi

son rivàz ch’a la finìsin cun chèe ande di fatalisc’ che s’a lu féssin sarés l’inizi

invessit stan smontant parcéche il non sens devente abitudin parcéche il primum al é simpri il prin struc di un sutîl resonament di une inteligjence che nol covente viodaz i risultàz ch’al torni a vaî lis cavernis (Koinè)

(T. Corùs, Awtopsie, cit., p. 56)

402

Sono arrivati. La finiscano con quell’aria da fatalisti! Ché, se lo fossero, sarebbe l’inizio. Stanno invece sbaraccando, perché il non

senso diventa abitudine,

perché il « primum » è sempre il primo: succo di un sottile ragionamento di una intelligenza, che non occorre — visti i risultati — che rimpianga caverne.

403

Angelo Pittana

RISTRET DES IDUS DI AVRIL Un omp ch’al sune tune sunete flèvare la serenade opare cinquante di un Ludwig muart, un sfueut di fumate te matine su la strade di ciment lustràt parmîs di ries dretes di pòi, par vot ores dispiardude vòre cun tal mieè une bire doi toasts un struc di armelins un café, sotsere trente biei litros di bensine difarents di cheiAtris, un soreli ch’al inrosse néf, bessole une sperance, tes mans, tai vòi, tes oreles rivocs: di chei, mîl. avril 1976

(friulano

centrale)

(AcnuL

pi SperRE

404

[A.M.

PirrANA],

Un

istét.

Poesiis,

Udine

1979,

p. 20)

RIASSUNTO Un uomo

DELLE

IDI DI APRILE

che suona con un’armonica fievole

la serenata opera cinquanta di un morto Ludwig. Un velo di nebbia nel mattino sulla strada di cemento lustro

lungo filari diritti di pioppi. Lavoro scombinato di otto ore con in mezzo una birra, due toasts, un succo di albicocca, un caffè. Verso sera, trenta bei litri di benzina,

diversi dagli altri. Un sole che arrossa la neve,

una sola speranza, nelle mani, negli occhi, negli orecchi echi: di quegli echi mille. aprile 1976

405

Angelo Pittana

DONGJE Dongje di une cîse, es tre, tu vegnis far dal nuje dai dîs spietanti, inalores i cròt e tu sés bùtul tal soréli, no plui dome siump,

siben che siump imò. T’al domandi si tu sés cjaàrn e i sai che ancje sì, tu disis che l’aghe dal flum a jè turchine te lùs e verde te ombrene,

e i cjali turchin e vert te valade che tu colorissis vivint, Sdi eCrot:

I cròt tes robes che tu disis, tu das, i cròt tes tòs palpieres siarades intant che l’ombrene a cres spanintsi dai profîi des monts. I cròt tal ros dai tiei lavris, viodùt a lunc pensanti, font cumò bussanti, i cròt tes linies tarondes tant che narances ch’a vivin,

e tai braz ch’a strengin, e tal tesaur ch’al florìs, e i cròt tal incjant barbar ch’al nus vuluce in véi. I cròt te vòs

406

VICINO Vicino a una siepe, alle tre, tu vieni fuori dal nulla dei giorni, mentre ti attendo. Allora credo, e tu sei bocciolo nel sole,

non più solo sogno, pur se ancora un sogno. Ti chiedo se sei carne, e so che sei anche carne. Tu dici che l’acqua del fiume è cilestra alla luce e verde nell’ombra. Io guardo cilestro e verde nella valle, che tu colorisci vivendo, e credo. Credo nelle cose che dici, che dai; credo nelle tue palpebre chiuse, mentre l’ombra cresce sbocciando dai profili dei monti. Credo, pensandoti, nel rosso

delle tue labbra, guardato a lungo, profondo ora, mentre ti bacio. Credo nelle linee rotonde come

arance

viventi,

e nelle braccia che stringono, e nel tesoro che fiorisce,

e credo nell’incanto barbaro

che ci avviluppa in veli. Credo, accarezzandoti, 407

ch’a nas di te cjaredanti, cjant cence timp, cjant cence pés,

cjant dome cjant, i cròt tal sglimuda-si de tension che te sere nus paronave sdanéant. I cròt tal tucà unissun dai sancs,

tai cjavei ch’a si confondin sudats in perles, tes mans ch’a mudin cuarp. Tcròt*ifcerot

tai respîrs ch’a nus rivin

te gnot.

avrîl 1976

(friulano

(AGNUL

408

centrale)

DI SPERE, op. cit., p. 21 e sg.)

nella voce che da te nasce: un canto senza tempo, un canto senza peso, canto, solo canto. Credo, vibrando,

nello sciogliersi della tensione che, nella sera, ci possedeva. Credo nel pulsare unisono del tuo e del mio sangue; nei capelli che si confondono sudati in perle; nelle mani che cambiano corpo. Credo, credo

nei respiri che arrivano a noi nella notte. aprile 1976

409

Angelo Pittana TAI AINS Un ajar cjalt al petène arbui su cuelines verdes dulà ch’i pensi sot nùi incurints ae t6 blancje piel e al penz dai dîs che nus spartissin.

Simpri che tu che tu puème,

di plui, puème, il sun de vòs mi às dat al vivarà tal còur spietaris ains. Tai ains, i vinéarai ché teme amanti.

mai 1977 (friulano

centrale)

(AGNUL DI SPERE, op. cit., p. 26)

410

NEGLI

ANNI

Un vento caldo pettina alberi sopra colline verdi, dove io penso, sotto nubi veloci, alla tua bianca pelle e al fitto dei giorni che ci separano. Sempre che mi che hai ragazza,

di più, ragazza, il suono della voce hai dato vivrà nel cuore, atteso per anni. Negli anni, vincerò questa paura, amandoti.

maggio 1977

411

Angelo Pittana

PREJERE No sta a dami Signòr une chìmiche muart di viàrs fraidîts, no sta a lassàmi te gnot bessòl e mone cori tun auto simpri plui sburît cence fin par strades dretes cence nons ni lùs ni peraules. Quant ch’al sarà

Signòr fami murî in vivòr sintint tucà il so còur, ducjidoi clamanTi e danTi roses. mai 1977 (friulano

centrale)

(AGNUL DI SPERE,

412

op. cit., p. 27)

PREGHIERA Non darmi, Signore, una morte chimica da vermi marci! Non lasciarmi nella notte, solo e sciocco,

correre con un’auto sempre più veloce, senza fine, pet strade diritte, senza nome,

senza luce, senza parole! Quando

sarà,

Signore,

fammi morire nel rigoglio pieno, mentre sento pulsare il suo cuore, entrambi chiamandoTi e donandoTi fiori! maggio

1977

413

Angelo Pittana FOTOGRAFIES

DI UN COLM

DI LUNE

AI fo iarlàtri. La lune al dismévimi di arint a piturave il disèn dal to cuarp, e a samenave roses te mé felicitàt, jentrant in me traviars com di une lastre. D’arint al jere il bosc di laris d’arint la val e il so respîr e d’aur l’amér ch’i vevin ch'i varìn.

(Nel jere dome pal incjant de gnot, ancje te dì a mi fevele l’arie che tu movis poant il to cjàf su la mé spale intant che las ruedes kilometros a glotin di strades furlanes. Tu mi das pal cumò ricuarts sutîi com i tiei cjavéi vîfs com i véi cjalts com il to sen creis com il disen che tu sés.)

AI fo iarlatri. La lune cun duc’ i peits umans ch’a la talpetin a sa ancjemò indarintà une puème tal so colòr antîc, e jo i sai lei chel to disèn, lu robi,

i lu stampi tal nitràt d’arint dal gno còur di singar, e i lu lei cumò visantmi tal soreli,

lu lei tal polvar de sò lùs

414

FOTOGRAFIE

IN PIENA

LUNA

Fu ieri l’altro. La luna,

al mio svegliarmi, dipingeva di argento il disegno del tuo corpo, e seminava fiori nella mia felicità, entrando

in me come attraverso una lastra. D'argento era il bosco dei larici, d’argento la valle e il suo respiro, e d’oro l’amore che avevamo e avremo. (Non era solo per l’incanto della notte;

anche di giorno mi parla l’aura che muovi poggiando il capo sulla mia spalla, mentre le ruote inghiottono chilometri di strade friulane. Tu mi dai per l’oggi ricordi sottili come i tuoi capelli, vivi come i tuoi occhi, caldi come il tuo seno,

intatti come il disegno che sei.) Fu ieri l’altro. La luna,

malgrado piedi umani la calpestino, sa ancora inargentare una ragazza col suo colore antico; ed io so leggere quel tuo disegno, lo rubo e lo stampo nel nitrato d’argento del mio cuore di zingaro; e lo leggo ora — ricordando — nel sole, lo leggo nella polvere della sua luce, 415

ch’al jentre di un barcon lontan, jdi ce lontan di te. lui 1977 (friulano

centrale)

(AGNUL DI SPERE, op. cif., p. 30 e sg.)

416

che entra da una finestra, lontana,

ahimè, quanto lontana da te! luglio 1977

417

Angelo Pittana GE SESTU, SETEMBAR?

Setembar, %a las montagnes a fevelin tal alt dal unviar,

te val, ce impuartie dulà? dai prats il vert al è smalt, i pài de lùs fers cidins, tantche pài de lùs te matine, te vàl, ce impuartie dulà? ch’i sint tal còbur dome sét di jé aghe frescje par me. Setembar, a s’imparin te arie cuviarts des cjases rossons che mai i’nd’ viodei inaltrò, il flum al traviarse te Iùs

il cjamp fotografic dai véi al va dut lassant cussì fér,

cussì fér tal respîr di dîs vivàts di lunc di une brame.

Fuèes d’ajaresse rosses, fasan che tu coris te jarbe, avons ch’i giminais su chel baraé là in bande,

diseitmi, capiraio il struc mai di un setembar? setembar

1977

(friulano

centrale)

(AGNUL

418

DI SPERE, op. cif., p. 34 e sg.)

GHERSEI

SETTEMBRE?

Settembre!

già i monti

parlano, in alto, dell’inverno;

nella valle — che importa dove? — il verde dei prati è smalto, i pali della luce fermi, in silenzio,

come pali della luce nel mattino, nella valle — che importa dove? — in cui sento nel cuore solo sete

di lei, fresca acqua per me. Settembre!

appaiono nell’aria

tetti di case color rosso vivo, mai veduti altrove;

il fiume attraversa nella luce

il campo fotografico degli occhi; scorre lasciando tutto immobile,

immobile nel respiro dei giorni vissuti lungo un desiderio. Foglie d’acero rosse! fagiano che corri tra l’erba! calabroni che brulicate là sul cespuglio! ditemi!: capirò mai il senso di un settembre? settembre

1977

419

Angelo Pittana TAFSERESATSASDUIT Dutes las lùs de citàt a jerin colades tes aghes dal lat intant che jo las cjalavi, e i lèi cjaminant tes poces lusintes vistàt di jé e dal pinsîr di une sere. Muses di int tun ristorant de citàt viere — risotto risotto alla lago maggiore — biel che fòur al ploveve tes Its tal làt, e i viodevi il grîs de fassade de pueste centràl traviars des vitrines che l’aghe a lustrave, e il so ritrat pituràt parsore dai arcs.

Cui sajal parcè che il so ritrat al jere pituràt su le fassade de pueste centràl, e cui sajal s’al jere? La sere lu sa, la sere che dut a sa dal amòr. La sere las lùs il so ritrat sul ciment,

la int tai sotpuartis parmîs des vitrines, un batel ch’al tajave las ls tal lat... E la sere a girà toratòr de mé sere spanintsi te gnot, e la gnot a rivà plene di jé te spiete. Dal barcon vueit de mé cjase cence vòs scure, dutes las Is de citàt drenti tal lat. dicembar

1977

(friulano

centrale)

(AGNUL

420

DI SPERE, op. cif., p. 40 e sg.)

FAÒSERÀ

SA TUTTO

Tutte le luci della città eran cadute nelle acque del lago mentre le guardavo: e andai camminando nelle pozze lucenti vestito di lei e del pensiero di una sera. Volti di gente in un ristorante della città vecchia — « risotto, risotto alla Lago Maggiore » — mentre fuori pioveva sulle luci nel lago, e vedevo il grigio della facciata della posta centrale attraverso le vetrine che la pioggia lustrava, e la sua immagine disegnata al di sopra degli archi. Chissà perché la sua immagine era disegnata sulla facciata della posta centrale? E chissà se lo era. La sera lo sa,

la sera che tutto sa dell’amore. La sera, le luci, la sua immagine

sul cemento.

la gente sotto i portici, vicino alle vetrine, un battello che tagliava le luci nel lago ... E la sera girò intorno alla mia sera sfiorendo nella notte, e la notte arrivò

piena di lei, nell’attesa. Dalla finestra vuota della mia casa senza voci, scura,

tutte le luci della città nel lago. dicembre

1977

421

Angelo Pittana SPANIDURE

I cirivi cjalant tal vueit di lei tes trajetories di pùlsars e quàsars leptons e nadrons, e i restavi lìul di cheste bande des buses neres,

frét e lìul: daspò i m’indai des monts des linies des monts dai cuarps des monts, e quantch’al sunà mieZdì il cidìn si spanì si viargè tal larc des tavièles e al passà un trop di fruts e al passà il vivi in colòr dai fruts, e daspò il cidin al tornà scjaldàt, e i savei che quantche une poesie a finìs no finìs la poesie a’nd’cîr unatre e unître imò,

t'unàtri cjalt cidìn. genar

1978

(friulano

(AGNUL

422

centrale)

DI SPERE, op. cit., p. 62 e sg.)

FIORITURA Cercavo, guardando nel vuoto,

di leggere nelle traiettorie di pulsar e quasar, leptoni e natroni, e rimanevo sfinito davanti a quei buchi neri, freddo e sfinito. Dopo mi accorsi dei monti, dei profili dei monti, dei corpi dei monti;

e quando suonò mezzogiorno il silenzio sbocciò, si aprì sull’ampiezza dei prati; e passò un gruppo di bimbi, e passò il vivere colorato dei bimbi; e poi il silenzio tornò caldo allora, e capii che, quando una poesia finisce, non finisce la poesia: ne cerca un’altra e un’altra ancora,

in un altro silenzio caldo. gennaio 1978

423

Angelo Pittana UNE TABELE

I ta e I

DI NONS

DI ARBUI

sintivi la cjase unviarnàl te matine di ploe, cheste matine di ploe, il puestìn al puartà doi gjornài. mangjai un miluè, cjalant

la strade cul so asfalt neri,

il trenut al passà sot dai arbui (parsore nol jere nissun) l’arie sclapant, e i tocs dal cidìn a lerin sfantansi sul lat. Pai barcons a jentravin figures di griîs. I èi fat ta cheste matine di ploe une tabele lungje di nons di arbui e leìntju ju viodevi denant, il vert smàvit dai èlis,

il blanc dai pedài dai bedois e l’àtri vert dai muédui,

il ros des fuées d’ajaresse, i ZAi dai boscs dal Mont As parsore dai paîs sdrumts. Daspò,

il lapis fér te mé man. Dut chest tune cjase cjase unviarnàl ch’a no jè la mé cjase, mai varàio une cjase? genaàr 1979 (friulano

(AGNUL

424

centrale)

DI SPERE, op. ciîf., p. 46 e sg.)

UN ELENCO

DI NOMI

DI ALBERI

Sentivo invernale la casa nel mattino di pioggia, in quel mattino di pioggia; e il postino portò due giornali. Mangiai una mela, guardando la strada col suo asfalto nero;

passò il treno tra gli alberi (sul treno non c’era nessuno)

spaccando l’aria, e i pezzi del silenzio andarono a perdersi nel lago. Attraverso le finestre entravano figure grigie.

Compilai in quel mattino di pioggia un elenco lungo di nomi di alberi,

e leggendoli li vedevo davanti: il verde pallido dei lecci il bianco dei tronchi di betulla e il diverso verde dei certi,

il rosso delle foglie dell’acero riccio, i toni gialli dei boschi dell’Asio al di sopra dei paesi distrutti. Dopo,

la matita ferma nella mano. Tutto questo in una casa, invernale casa, che non è la mia casa. Potrò mai avere una casa? gennaio 1979

425

Amedeo

Giacomini

UNVIAR °A € d’unviaàr la lune un cussìn inglassàt, sudòrs e suspîrs e voltà-si e revoltà-si tal jet, asme e voe di fèmine ch’ ’a è frét, e voe, d’unviàr, Signòr,

di robà a la vite ’ne àgrime, un singlùs, un alc ch'al tegni, e meti-si donge di une stue e sintî-si lì cjàr ch’ ’a serce un’ànime, che jessi ’a voul altri di sè.... D’unviàr ... (varietà di Varmo)

(A. Giacomini, 22)

426

Fuejs di un an, con presentazione

di Maria

Corti, Genova

1984, p.

INVERNO È la luna, d’inverno, un cuscino gelato, sudori e sospiri, voltarsi e rivoltarsi nel letto,

ansia e voglia di donna infreddolita, e voglia, d’inverno, o Signore!, di rubare una lacrima alla vita,

un singhiozzo, qualcosa che duri, e mettersi vicino a una stufa, e lì sentirsi carne che cerca un’anima, carne che altro da sé vuol essere ... D'inverno ...

427

Amedeo

Giacomini

J VORÉS

LA CLARÈESSE

DAL

NEMAL...

J vorés la clarèsse dal nemAl, li? sò’ vois rimadis da la fan e piàrdimi tal profîl blu di un pràt,

in tal vint, te sò agre soledt... Vorés il dolsòr piardùt dal vigjelut che di matine al sossede tai vòj di ’ne mAri dute di mél e al reclame di stàj dongje (severe j’ fin a stà mal!) prime ch’al jessi vendùt, ma dopo... J® vorés, Signòr, omp o nemAl, no jessi mai nàt... (varietà

di Varmo)

(A. GIACOMINI,

428

op. cit., p. 39)

VORREL[LASLIMPIDEZZA

DEL BOVINO...

Vottei la limpidezza del bovino, le sue voglie rimate dalla fame, e errare nel profilo blu d’un prato, in acre solitudine, nel vento ...

La dolcezza perduta io vorrei del vitello che sbadiglia al mattino negli occhi di una madre che è di miele, e pretende di starle vicino (lei severa a soffrirne!), prima d’esser venduto, ma poi...

o Signore, io vorrei — uomo

o bovino —

non essere mai nato ...

429

Amedeo

Giacomini

ULTIN

DAL

AN

.. Des òris grisis ch’ ’i ài passadis in tun scjampà di gjambar furbo e pessotàr; dal sidinòs soréli, vualive Its

e mare su un vivi pluj che mr; dal cjant, crude midisine,

dopo chel dal gjàl di matine, pe strade strete dai rimuars; dal ultin sigjîl di viarzi smàvis cul sanc ch’ al trime devant dai muars;

dal vin che pluj nol tapone l’afan des pàusis garbis dal cour,

Esial di chist il cont ch’ ’i voleis, o Signòur, Vué, grivie gnot dal ùltin dal an? . (varietà di Varmo)

(A. GIACOMINI, op. cit., p. 57)

430

ULTIMO

DELL’ANNO

... delle ore grigie che ho trascorse in un fuggir da gambero tra furbizia e stracci !; ... del sole silenzioso, luce amara

e diffusa su un viver più che amaro; ... del canto, medicina cruda,

dopo quello del gallo alla mattina, per la strada angusta dei rimorsi; ... del sigillo ultimo da aprire pallidi, col tremito nel sangue, davanti ai morti;

... del vino che più non tacita l’affanno degli arresti acri del cuore ... ... di ciò è il conto che oggi vuoi, o Signore, notte greve dell’ultimo dell’anno?

1 Letteralmente « furbo e straccivendolo » (l’autore rende pezzotàr con « straccione », che invece si dice pezzotés/pecotos, il quale vale anche « pezzente »). Raccogli tore di stracci (pezzoz) e di rottami metallici (feraze) è Eliseo il « pezzotàr », personaggio del romanzo Prime di sere (1971; Il vento nel vigneto, 1973) di C. ScorLoNn.

431

Elio Bartolini

BLUE

FURLAN

Soi chi — e fòssial di ciòc. Soi chi cu i ains poiàs in gròp, un fassut, un gredèi, masse, Friùl, soi chi come un nemdl che di libar, murint, ’a j reste

fér incantesemAt, neri di pre il voli. Soi chi

— simpri pi grivie la rode e sense smîr

jé che prime ’a sclissave i clas saltant su li’ busis dai trois corint tal mies viarte e montagnis incuìntre rindudis. (varietà codroipese)

(E. BarTOLINI, Carsonetutis, Udine

432

1980, p. 18)

BLUE

FRIULANO

Son qui — e da ubriaco fosse!

Son qui con gli anni — troppi — disposti in mucchio, un fascio, un inviluppo. Friuli, son qui come un bovino che, morendo, di libero gli resta, fermo, incantato, nero di paura, l’occhio.

Son qui — ruota sempre più greve

e senza grasso, lei che un tempo faceva schizzar sassi, saltando sulle buche, correndo nel mezzo delle strade, verso pianure e monti umiliati.

433

Elio Bartolini

BEVINT Come

un vint seneòs

des voltis o flap o lisér ch’al spiri tun glon di cjampane un numar vin.

un colòr ’ne véòs lontane,

"Ne bugade des voltis sclipignes bufulutis spumesine t'un taront d’ogni bande un zero denant davour in bande pì in bande ancjemò, e vin. Come

’ne veretàt mai dite

ma i siei glos pitost, alore come ’ne falsetàt ma lizere une bausie ma dite ridint un faic ma dal font dal cour ardint sense

sinise.

(varietà codtroipese)

(E. BARTOLINI,

434

op. cif., p. 22)

BEVENDO Come un vento ansioso

a volte, o svogliato o leggero, che spiri in un rintocco di campana, un numero,

un colore, una voce lontana,

vino. Una folata a volte,

spruzzi, bollicine, un po’ di schiuma in un cerchio all’intorno,

uno zero, davanti, dietro, a lato, più a lato ancora, e vino. Come

una

verità mai detta

— ma i suoi sorsi piuttosto !! — come

una falsità allora

— ma leggera! — una bugia — ma detta ridendo! — un fuoco — ma dal fondo del cuore che brucia

senza produrre cenere.

1 Cioè:

«o piuttosto sorsi di verità » conosciuti con i sorsi del vino.

435

Elio Bartolini

°A SI JEVE LA MÈ MAN L’amour al sarés joditi tun spieli e jodimi dentri cun te che si tu jevis la man t6 ancje la mé precise ’a si jevarés

tal stès moment a fa la stèsse robe: — Ce tant ch'al sarés biel, ridint tu disis.

Eat

jevetlai me*man

tal stès moment cun te precise

crodint di joditi compagne dome che tu li’ tòs bausiis di Avrîl disint tu ridis a mi lassanmi di cjatati in fal come ombrene che, sense, no ’nd’ è lùz. (varietà codroipese)

(E. BARTOLINI, Amour e dîs di vore, Edizioni del Leone, redazione in Cansonetutis tiersis, Passariano 1982)

436

1985, p. 21;

precedente

E LA MIA

MANO

S’ALZA

Amor sarebbe guardarti in un specchio e guardarmici dentro assieme a te; ché se la man tu alzassi anche la mia precisa si alzerebbe nello stesso momento a far la stessa cosa. « Sarebbe bello! » dici in un sorriso. E la mia mano s’alza nello stesso momento della tua precisa,

convinta di vederti eguale; solo che tu,

fra le bugie che nell’april mi dici, ridi, a me lasciando di trovarti in fallo, come ombra

che, assente, è senza luce !.

1 sense (= cence) « senza »; vale a dire: come ombra senza la quale non esiste nemmeno la luce (nella redazione precedente: come luz / che, sense, no ’nd’ è ombrene). a

5)

437

Elsa Buiese

AI vai usgnòt dut il gno cuarp tes tòs mans

mi duelin lis cjarezzis mi pesin i tiei vòi piardùz in tune viarte

dulà che jo no jeri rose nè sisile ma vòs dismenteade o voi par une strade che no sai cercàndule d’amòr fantàsime di un timp che usgnòt tu strenzis in tai braz (koinè)

(E. Buiese, Tasint peraulis smenteadis, Udine

438

1978, p. 7)

Tutto il mio corpo stanotte piange nelle tue mani; mi tormentano le carezze,

mi pesano i tuoi occhi persi in una primavera,

dove io non ero rondine, non rosa, ma voce dimenticata. Vado per una strada sconosciuta, mendicante

d’amore, ombra di un tempo,

che stringi stanotte tra le braccia.

439

Elsa Buiese

E dopo cheste ùltime stagjon d’amòr regaàl vivàt tai tiei vòi di gjat salvadi al vignarà l’unviàr a glazzà il sanc e mi cjataral a scrivi

ancjemò di te e di nò di quant ch’o fevelavin te lùs dal tei il mont ’a nus pareve un mar di cjaminà discolz parsòre e tal soreli al slusive un ridi di tiare apene semenade (koinè)

(E. BuIESE, op. cit., p. 9)

440

E dopo quest’ultima stagione d’amor vissuto in dono nei tuoi occhi di gatto selvaggio arriverà l’inverno a raffreddare il sangue, e mi sorprenderò ancora a scrivere di te,

di noi, di quando nella luce del tiglio parlavamo. Il mondo ci pareva un mare da camminarci sopra a piedi nudi, e nel sole brillava un sorriso

di terra appena seminata.

441

Elsa Buiese

Tasìnt peraulis smenteadis che dibant e’ àn cirùt di fasi flòrs di salèt d’arint su 6rs di aghis risultivis si ’nacuarzìin di no vé metàt lidrîs cumò che lis nestris stradis e’ parevin vignîsi incuìntri

sot sorei tajàz di falcùz in svual su la tiare sgrisulade che di sere simpri ’e spiete la rosade par imbarî atris lidrîs (koinè)

(E. BuIESE, op. cit., p. 12)

442

Tacendo parole immemorate, che invano hanno cercato d’esser fiori di gattici d’argento su rive d’acque di sorgente, ci accorgiamo di non aver messo radici, ora che le nostre strade sembravano incontrarsi, sotto soli da voli di falco tagliati, sulla terra abbrividita, che di sera aspetta sempre la rugiada per infittire altre radici.

1 salèt propriam. «saliceto, boschetto », lungo un fiume; ma ho seguito l’interpretazione di C. Sgorlon: gattice, albogatto, pioppo bianco (in friulano: pow! blanc).

443

Elsa Buiese

Mancjànt la speranze dome fruzzons di vite ’e inglutive tormentansi no lu capive creà l’ambient l’intimitàt tun cisicà di cemit stàtu vué ogni dì cjalàsi un pòc tai véi fà finte di nuje ancjemò doman ma intant murive dopo tanc’ àins di fedeltàt stelade come s’al volès dî alc chel predicjà dibant Jessìnt tun’àtre maniere

inlidrisade dentri sintimenz disfueàz (koinè)

(E. BuiESE,

444

op. cif., p. 28)

Mancando la speranza, solo di briciole di vita si nutriva. Tormentandosi non lo capiva. Creare l’ambiente, l’intimità,

in un bisbiglio di « come ti senti oggi? ». Ogni giorno guardarsi un po’ negli occhi. Far finta di niente anche domani. Ma intanto moriva, dopo tanti anni di fedeltà specchiata. Come se significasse quel predicare invano! essendo in altro modo radicata in sentimenti senza più una foglia.

445

Elsa Buiese

Ma ce crodèvitu di finile cussì che un colp di rivoltele al fos avonde no tu èàs cjalàt daùr di te je bessole l6r bessoi lassù al jere miér lA cence dî nie come cetantis voltis lassade dopo ’e jere jentrade a distudà la sét cussì brusade dentri di no savé vaî nè ce fa di chel sbrèndul di vite che j restave (koinè)

(E. BuIESE,

446

op. cit., p. 33)

Ma che credevi! di finirla così? che un colpo di pistola fosse sufficiente? non hai guardato indietro? lei sola, essi soli, lassù!

Fra meglio andarsene senza dire niente. Abbandonata come tante volte! Era poi entrata a spengere la sete, così bruciata dentro da non sapere piangere, né cosa fare di quel brandello di vita che le rimaneva.

447

Elsa Buiese

Lu veve cjatàt pìzzul e strassanît strissinansi tun bosc di peraulis ma intòr j sflurive «la syntaxe arborescente » pleàle come un venc cetante pazienzie cuissà fintremai testart a tornà lì a scunîsi torment di ogni dì parce ch’al veve fate devant-uardie par tre gjenerazions (koinè)

(E. BurESE, op. cit., p. 34)

448

Lo aveva

trovato piccolo e striminzito

che si trascinava in una selva di parole, ma addosso gli fioriva « sintassi arborescente ». Piegarla come un giunco! Quanta pazienza, chissà fino a quando! Caparbio nel tornare lì ad affaticarsi, tormento quotidiano, perché aveva fatto l’avanguardia per tre generazioni!

449

Elsa Buiese

Tu mi sés jentràt in tai pinsîrs ploe dal més di marz clipe e lizere su lis fueis di ornàrs sflurîs ma no tu sàs che i miei pinsîrs ’e son clàs e pieris puartadis vie dal Tiliment cui rudinaz di paîs sapulîz tun vél di aghe che busse a planc i arcs che jerin puartis e balcons di Itis vuè tal scùr e’ muerin i ricuarz e si vîf ogni dì savìnt che no puèdin nassi rosis sul trois impantanaz

dai miei borcs strenzàs di aghis muartis (koinè)

(E. BuIESE,

450

op. cit., p. 47)

Mi sei penetrato nei pensieri — pioggia di marzo tiepida e leggera sulle foglie degli ontani fioriti — ma tu non sai che i miei pensieri sono ciottoli e pietre portate via dal Tagliamento con macerie di paesi sepolti sotto un velo d’acqua che bacia dolce gli archi che eran porte e finestre di luce. Oggi nel buio muoiono i ricordi, e si vive ogni dì sapendo che non possono nascere fiori sui sentieri fangosi dei miei borghi stretti da acque morte.

451

Elsa Buiese

Usgnot che il temporàl al spache il cîl tun ricam di arbui e di violàrs di lùs i tiei vòi mi tornin di lontan in tun sium dai nestris dîs vivùz

sul òr di un’aghe cence plui cunfins tu balavis il let-kiss te Is de lune

e jo ’o scrivevi par te Milly di sole la vita cresce nei tuoi occhi verdi nella tua corsa scalza verso il mare (koinè)

(E. BuIESE, op. cît., p. 59)

452

Stanotte il temporale squassa‘! il cielo in un ricamo di piante luminose ‘; e i tuoi occhi mi tornan da lontano in un sogno dei nostri dì vissuti sulla riva d’un’acqua sconfinata. Tu ballavi il « let-kiss » sotto la luna,

e io scrivevo per te « Milly di sole, la vita cresce nei tuoi occhi verdi,

nella tua corsa scalza verso il mare ».

1 C. Sgorlon, che ha approntato la traduzione in italiano apposta in calce a ogni poesia nell’edizione del 1978, rende spache con spacca. È l’ennesimo esempio di interferenza friulano-italiana tra spacd e spaccare (cf. Faggin, p. xiv). L’Autrice, interpellata da G. Faggin, ha confermato il senso schietto friulano di « scuotere, agitare, scrollare, squassare ». 2 Letteralmente «di alberi e di violaciocche di luce ». Nell’originale la prima proposizione è subordinata.

453

Elsa Buiese

Ti viòt in tun vistît d’astàt a rosis

jentrà dentri un misdì di cui cjavei di ma il to pas

altis cisis di noglàrs lui a cjarezzà la lùs sede su lis spalis al pesave in trois malàz

che nissun nol dìsimi Tea savevistu bielzà che tu varessis sielzude la ore bramade ls di

à savùt vuarî

ta chel misdì une dì d’astàt de tò muart oris vuarbis

(koinè)

(E. Burese, Lapsus (prime part), Udine

454

1983, p. 23)

Ti vedo in un vestito estivo a fiori entrare in alte siepi di noccioli un dì di luglio a carezzar la luce coi capelli di seta sulle spalle. Ma il tuo passo pesava sopra vie malate che nessuno sa guarire. Parlami, Tea !! Sapevi già quel dì che avresti in un giorno dell’estate decisa l’ora della morte tua, bramata luce delle ore cieche?

1 Tea è l’autrice di I quaderni di Tea (a cura di A. Petiziol e C. Fenoglio), Roma 1975. I Quaderni, opera di una giovane donna ricoverata in un ospedale psichiatrico, e morta a trentaquattro anni, dopo tre giorni di febbre violentissima — apparentemente inspiegabile — giungono tra le mani di Elsa Buiese, che « instaura un dialogo postumo e impossibile » (R. Pellegrini) con essi.

455

Elsa Buiese

« Friùl vòs che no ài podît scoltà incjadenade a un nereòs misteri rét di memoris su lis stradis e trois cujèz te ombrene des culinis ricams di miluzzars in flér sul vilàt dal mar lamparis e olandinis te gnot sbasìde dal astàt che mi à stravualzùt venis e pinsîrs in oris stramidis tal riquadri di un balcon fereàt di manicomio a rispirà àlbaris ch’e tremin sunsùrs svampîz che mi deventin vòs di lontan rivadis a puartàmi tun mont di rispîrs glazzàz » (koinè)

(E. BuIESE, op. cit., p. 35)

456

Friuli! voce che non potei ascoltare, incatenata ad un mistero oscuro,

rete di memorie per le strade, sentieri quieti all'ombra di colline, ricami d’alberi di meli in fiore,

lampare sopra mare vellutato e ragne in notte pallida d’estate! che mi ha attorto le vene ed i pensieri in ore atterrite nel riquadro di un’inferriata qui nel manicomio a respirare albi pioppi tremanti, sussurri svaniti che mi diventano voci da lontano giunte, a portarmi in un mondo di respiri freddi.

457

Elsa Buiese

Falzèt avostan tal vilùt de gnot cjanz di ziàlis e’ àn sturnît la sere agunìe di zarfois su sfueis d’arìnt salgaàrs pleàz a dîti landis lontanis dulà che i pas no lassaran olmis di te frute dome un librut al restarà dopo che tre dîs la fiere ti à brusàt i arbui zilestrins des venis che no varan zermois nè flòrs di viarte cumò che un mantîl di neri sui lavris di corai che si smavissin al fas nassi butui di pàs dentri di te (koinè)

(E. ButEsE,

458

op. cit., p. 40)

Falce d’agosto in notte di velluto! Sera stordita in canti di cicale! Trifogli in agonia su argentei stagni! Salici curvi a dir terre lontane,

dove i passi saranno senza orme! Ragazza! resterà solo un libretto dopo tre dì di febbre che han bruciato gli alberi cilestrini delle vene, che non avran germogli a primavera !, adesso che un mantello nero su labbra di corallo che scolorano fa nascere in te gemme di pace.

1 Letteralm. « germogli e fiori ».

459

Elsa Buiese

Rose di rosade tal més des rosis lidrîs inlidrisade tal scor di me a sflurî mistereòs maruscli di macs indarintàz ex-votos puartàz su la montagne impromitude là che ti spieti a piturà tal ajar il to profîl ch’al si disfuèe ai cunfins tra la piel e il nuje in cheste ore di prin dì dal mont ’o deventi nît puiùl e cjase viarte sul nassi des peraulis (Koinè)

(E. Burese, Lapsus (seconde part), cit., p. 47)

460

Rosa rorida il mese delle rose!! Radice radicata nel mio buio per dare fiori ad un ligustro oscuro! Fasci inargentati di ex-voto ?! portati sulla montagna promessa, dove ti aspetto a disegnar nel vento il tuo profilo mentre si disfoglia ai confini tra la pelle e il nulla. In quest'ora di primo dì del mondo divento nido, poggiolo e casa aperta al nascer di parole.

1 In friulano rose vale in primo luogo « fiore » in genere, « più in senso estetico che funzionale » — dice il Nuovo Pirona — ma non è escluso il senso specifico di «rosa ». Questo è più spesso reso con garoful e più propriamente con garoful di spine; laddove « garofano », oltre che con garoful, quale tecnicismo, viene espresso usualmente mediante sclopòr (che, se rosso, vien detto anche rose di cdr). 2 Letteralmente « ex-voto (fatti) di fasci, mazzi, inargentati ».

461

Giacomo

Vit

LA FOGHERA

I sin uchì, davant da la foghera, cui nustri’” vui di omis ch’a no san la brosa ch’a slùsigna tan altris ciamps e li’ vacis di n’altri colour. La foghera ’a brusa sclopetant e li’ falis’cis a’ tocin il sufìt dal Signour ah! ... che grisulon ch’a sintin li’ fèminis quant che Toni al cianta la canson dai ains zus .. I vècius a’ trimin di vin,

i fioi a’ zoin a ciapassi tal scur, me pari e me mari a’ si strenzin la man adès ch’a son nès e no pussin pì da ledan... I vorès ch’a no finìs mai la foghera, e chi restassin duciu’ cussì, fers ta la sgiavina, tasìnt un grisu di muart, e strenzisi vissìn vissìn. (varietà di Bagnarola)

(« Ladinia », 7 [1983], p. 246)

462

IL FALO

DELL’EPIFANIA

Eccoci qui, di fronte a questo fuoco, coi nostri occhi di gente che ignora la brina che riluce in altri campi e le vacche di un altro colore. Il gran fuoco brucia scoppiettando, e le scintille toccano il soffitto del Signore. AH! ... che brivido avvertono le donne quando Toni canta la canzone antica ... I vecchi tremano pel vino, e i bimbi si rincorrono nel buio;

i miei genitori si stringon la mano or che si son lavati e non puzzan di letame ... Vorrei che il fuoco mai non finisse, e tutti

restassimo così, sul ciglio non arato fermi, di morte un brivido tacendo, gli uni agli altri

stretti.

463

Giacomo

Vit

IL TESTAMINT

DAL CONTADIN

Sparnissait i me vuòs di lenc tal furmìnt in flamis,

e ta la funsion dal tramont a’ si queti il sigu da la ciadena rota. La blava ch’a lavori ’na piera par la me puòra vita. °A mi ciaparà indriu la tiara che cuma ’na mari ’a mi è scopiat — ros scarabìs di vint — ta li’? bavis di un albour. Quant che l’anzul al sbregarà, dal libri da li’ storiis di ’sta tiara,

la pàgina cul me non, i scuminsiarai di nouf a vendemà

ma ta li’ vignis plenis di lus... (varietà di Bagnarola)

(« Ladinia », 7 [1983], p. 248)

464

IL TESTAMENTO

DEL CONTADINO

Sparpagliate le mie ossa legnose nel frumento in fiamme! e, al rito del tramonto,

taccia

il grido della catena infranta! Il granturco una lapide incida per la mia povera vita! Mi riavrà indietro la terra che come una madre mi ha espresso — rosso schizzo di vento — nelle bave di un’alba. Quando l’angelo straccerà dal libro delle storie della terra la pagina col mio nome, comincerò di nuovo

a vendemmiare,

tra le vigne, però, piene di luce ...

465

Giacomo

Vit

PAR TONI

CH’A SI A IMPICIAT

I mi domandi, Toni (e il cour a’ si sint un forest tal vistìt di ciar avilida) chi chi ti sos adès, adès, tan chistu slavasson di secui

ch’a ti cuiarzin par sempri ... Mi domandi ancia se ch’al era il to patì, la to arnia sempri plena di malincunìa, intant che dal traf a’ ven zù il polvar dai toi ains verds ... E nualtris, Toni, chi sinu?

Nualtris chi nu sin mai vignùs abàs dal nissu-nassu dal nustri stà ben

par slungiàti ’na man? Nualtris chi nu sin mai rivàs a viodi pi in là dal ort di ciasa nustra? Tu, adès, i ti la sas duta la veretat,

ma ti stas sito, par da driu dai toi vui indurmidìs ... Ma cuant chi ti coraràs, cuma un levri

ch’a nol à pi poùra dai ciassadours, tai pras da l’eternitat, impènsiti, Toni, di nualtris cazù, ombrenis ciochis in man dai vints salvadis,

ciapa sù un puc di amour e màndinilu zù cui prins colours da la primavera ... (varietà di Bagnatola)

(« Ladinia », 7 [1983], p. 249)

466

PER ANTONIO

CHE

SI È IMPICCATO

Mi domando, Antonio (e il cuore si sente straniero dentro la veste di carne avvilita), chi tu sia adesso,

adesso sotto questa frana di secoli che per sempre ti coprono ... Mi domando anche cos’era il tuo patire, la tua arnia piena sempre di malinconia, mentre dal trave cade la polvere dei tuoi anni verdi ... E noi, Antonio, chi siamo? Noi che non siamo mai discesi

dalla giostra del nostro benessere per tenderti una mano? Noi che non

siamo mai riusciti a vedere

più in là dell’orto di casa nostra? Tu, ora, sai tutta la verità, ma taci, dietro i tuoi occhi addormentati ...

Ma quando nei prati dell’eternità correrai, come lepre che dei cacciatori più non ha paura, pensa, Antonio, a noi quaggiù, ombre ubriache in balia di venti bradi! Raccogli un po’ d’amore, e mandacelo con i primi coloti della primavera! ...

467

Giacomo

Vit

PIERPAULI I lu sai, Pierpauli, chi chi ti eris

in chel moment, quant che i to ciaviei a’ doventavin sanc, quant che ’1 to sassìn a’ ti rabaltava intor il so Diu dai bes e il so zemà di miseria: ti eris « Narcìs », « vistit di fiesta », che dut content

al sgualava « pai ciamps tinars » e a’ nol podeva voleighi mal a chè nula che di colp ‘a si è mituda cuntra il soreli.... Ti eris « Stiefin », « cialt e strac », passut dal disein

dal so cuarp, cioc di essi. E un cour di paia al è doma peraulis bunis di frut ... Ti eris un veir fi dal Crist: ch’al plans insiemit a chi ch’al è l’ombrena ch’a ghi cor ta li’ venis... (varietà di Bagnarola)

(« Ladinia », 7 [1983], p. 250)

468

PIERPAOLO Lo so, Pierpaolo, chi eri

nel momento in cui i capelli ti diventavano sangue, in cui l’assassino ti rovesciava addosso il suo Dio del denaro! e il gemito della sua miseria: tu eri « Narciso » ?, « vestito a festa », che felice

volava « per i campi teneri », e non poteva odiare la nuvola che d’improvviso si era messa contro il sole ... Tu eri « Stefano », « caldo e stanco », sazio del disegno del suo corpo, ebbro di essere. E un cuore di paglia ha solo parole buone di bimbo. Eri un vero figliolo di Cristo, che piange insieme con colui che ha l’ombra che gli scorre nelle vene ...

1 bes (Nuovo

Pirona

« bezzo », antica moneta

béz invariabile; veneziana;

Faggin,

p. 68:

déé, plur. béîs [bé:z])

in senso traslato « denaro ».

2 L’Autore rimemora qui parole e immagini che segnarono la prima produzione lirica friulana di P.P. Pasolini.

469

Giacomo

Vit

PIERUTI, MUART

A VOT

AINS, TAL

1944

I zoiàvi a còrighi drìu ai ràis dal soròli ch’a si scundèvin ta li’ urtìis e li’ flàuris,

quant chi colà cuma « sciàmpa i todèscs!

ài sintùt ’na vòus ’na saèta: Pierùti, sciàmpa tal bosc ... ... »

I corèvi, i corèvi

e i èri glimùs di poùra, pavèa sguàrba, slùsigna in plen dì... I soi finìt ta li’ palùs... Il fun da li’ ciasis in bora i no lu viodèvi pì... Il dì drìu, intànt chi mangiavi mòris pognèt ta l’arba, i di sintùt bisigassi ta li’ fudis.... "Na tonada, e, in miès al muciùt di plumis

ch’a colàvin plan plan, i èri iò,

petaròs da la Storia ... (varietà di Bagnarola)

(G. Vir, Miel strassada, Roma

470

1985, p. 8)

PIERINO,

MORTO

A OTTO

ANNI, NEL

1944

Giocavo a correre dietro

ai raggi del sole che si nascondevano tra ortiche e fragole, quando sentii una voce abbattersi come un fulmine: « Scappa, Pierino, scappa nel bosco ... i tedeschi! ... » Cortrevo, cotrevo,

ed ero gomitolo di paura, farfalla cieca,

lucciola in pieno giorno ... Finii nelle paludi ... Il fumo delle case carbonizzate non lo vedevo più ... Il giorno dopo, mentre mangiavo more, steso sull’erba, sentii un fruscio tra le foglie ... Uno sparo, e in mezzo al mucchietto di piume che cadevano lente c'ero io,

pettirosso della Storia ...

471

Giacomo

Vit

LUSSIA, MUARTA

A UN AN, TAL

I èri nassuda ta ’na cuna di silinghis ... Compàins mes ’a èrin un vint sciafoiàt e il cialìin da la zent par ben ch’a segnava cul dèit i drogàs ... I soi muàrta di fan intant che me pari a ghi corèva drìu ai nòtui ch’a ghi sgualàvin ta li’ vènis e a me mari ‘a ghi tonava ta li’ mans l’arcobaleno ... (varietà di Bagnarola)

(GAVINO

472

E p12)

1983

LUCIA, MORTA

A UN ANNO,

NEL

1983

Nacqui in una culla di siringhe ... Compagni mi erano un’aria affogata e la fuliggine della gente per bene che indicava col dito i drogati ... Sono morta di fame mentre mio padre correva dietro alle nottole che gli volavano dentro le vene, e a mia madre scoppiava tra le mani l’arcobaleno ...

473

Giacomo

REPART

Vit

DAI TUMOURS

La stagiòn a è che darada dal scur... Flums di ràbia, glèra mata che tal font ‘al ibcòca dit pesto On, siòr da la to misèria,

giàviti d’intòr la mantilina di favri ch’a ti fèva stuàrzi i clàus dal distìn! ... (varietà di Bagnarola)

(G. VIT, op. cit., p. 18)

474

REPARTO

TUMORI

La stagione

è quella arata dal buio ... Fiumi di rabbia, ghiaia falsa che sul fondo fa impazzire i pesci. Uomo, padrone della tua miseria, togliti di dosso il mantello da fabbro, che ti faceva

torcere i chiodi del destino! ...!

1 Questa e la poesia successiva fanno parte di un «capitolo» poetico di sei composizioni, intitolato « Dal zemà di un ospedal » (Dal gemere di un ospedale).

475

Giacomo

Vit

L’INFERMEIR

DI NOT

Miezanòt: il falsèt da la luna ’a s’impìa tal sièl infurmiàt ... L’ospedàl al duàr quèt, cun ta la pansa speransis, avilimìns ... Ta li’ ciàmaris ’a ciàntin sotvòus li’ gòtis strachis dai flèbos ... (Prin, un ’a si è piciàt tal me cuòl cun flat ch’al savèva di sanc scancelàt ...)

(N’àltri i l’ài vidùt sparî ta un gorc di silinghis ...) Il me pensèir al trima quant chi viòdi la muàrt zì pai curidòurs e cà e là ròmpi un respiru ... (La vita? ... flamuta roseàda dai dinc dal vint....) Li’ sèis: l’albdur al bruza i vùi,

il mont al sgulussèa i so’ colòurs ... (Tal còur i conti ’na grispa in pì...) (varietà di Bagnarola)

(G. VIT, op. cit., p. 24)

476

INFERMIERE

DI NOTTE

Mezzanotte: la falce della luna s’accende nel cielo informichito ...

L’ospedale dorme, silenzioso, con dentro il ventre speranze, abbattimenti ... Nelle camere cantano a bassa voce le gocce stanche delle flebo ... (Prima, uno

mi si è aggrappato

al collo con un fiato che sapeva di sangue cancellato ...) (Un altro l’ho visto scomparire dentro un vortice di siringhe ...) Il mio pensiero trema quando vedo la morte aggirarsi per le corsie, e qua e là rompere un respiro. (La vita? ... fiammella rosicchiata dai denti del vento ...)

Le sei: l’alba brucia gli occhi, il mondo dischiude i suoi colori. (Nel cuore conto ancora un’altra ruga ...)

477

Giacomo

Vit

LA VUOIA Vèi ’na vudia di caressà qualchidùn, qualchiciùssa ... Ma cun mans sguàrbis ciapà doma ròbis duris, ch’a tàin,

a ponta... (Alièir un ’a si à butàt dal barcòn cun alis di sanc ...)

Vèi ’na vudia di caressà la vita... ma trovà doma li’ so’ talpadis: °a è zà passada di cà... (varietà di Bagnarola)

(GAVirton

478

tap

832)

LA VOGLIA

Avere una voglia di accarezzare qualcuno, qualcosa ... Ma con mani cieche pigliare solo cose dure, che tagliano,

a punta ...

(Ieri uno si è gettato

dalla finestra con ali di sangue ...) Avere una voglia di accarezzare Jasevita ma trovare solo le sue orme: di qua è già passata...

479

Giacomo

Vit

INCONTRI

CUN VECIU

COMPAIN

DI SCUOLA

Vint ch’al mastièa, sotvòus, li’ fuòis.

Not in duà che la luna ’a è ’na musa li? peràulis ’a sbrìssin dai nustris dèis I recuàrs ’a si dismòlin da la gorlèta lamps tai nustris musus mò di vècius «I nu èi ziràt il mont,

di di dal mò

muàrta: « grane’ » .. timp zut: di frus ...

sàtu»....

« Ancia iò i sinti sèmprit un grop da disfà » ... Un sanc svampìt ’a ni cor tai bras: quàncius àins i vinu spocàt fòur dal tròi da la speransa a colps di comedòn? Vuòi i sin uchì cu ’na grispa avilida in pì...

Vint ch’al siga cuma ’na La luna ’a è un pùin di Dal còur ’a no è pì nùia il zogàtul ’a si è rot ta li’ mans ignorantis dal (varietà di Bagnarola)

(G. Vir, op. cit., p. 36)

480

strìa. siniza. da tirà fòur: frut ...

INCONTRO

CON UN VECCHIO

COMPAGNO

DI SCUOLA

Vento che, a mezza voce, mastica le foglie. Notte in cui la luna ha la faccia di una morta. Dalle dita di noi « grandi » scivolano parole ... Si dipanano i ricordi dall’arcolaio del passato: bagliori sui nostri volti, ora di vecchi ora di bambini ... «Io non ho girato il mondo, sai ... » « Sempre anch’io sento un nodo da sciogliere ... » Svanito ci scorre il sangue nelle braccia: quanti anni abbiamo allontanati dalla via della speranza a gomitate? Oggi siam qui, con una ruga in più, delusa ... Vento che urla come strega. Un pugno di cenere è la luna. Nel cuore niente c’è più da tirar fuori: il giocattolo si è rotto nelle mani del bimbo, mani che non sanno ...

481

Giacomo

Vit

CORU' DI VECIUS“TA'N’OSTARIA*DA'

LATGIARNEA

Valìs ’a nissulèin tal vint da la ràbia.

Sbrindulès di soreli forèst pai nustris fidi: zìrus di bal dal diàul. A la Ciàrnia ’a ghi dòul il ciàf e il stòmit. A trìmin li’ mans a strènzi il got ch’al tàia li’ alis a li° nos plòmbis di odòurs di ciàsis zudis di mal. L’ostarìa ’a è ’na pansa plèna di vansadissis di stòriis, mòscis, tabac, flàs di vin ch’a sbùrtin fbur il sanc da li’ vènis.

I vifs ’a son muàrs gumitàs da la tiàra passuda. E ’a scòta la bòra dai cuàrps da li’ fèminis

bandonadis ...

Il sièl ’a si è tiràt lontàn, i crists ’a son plens di pòlvar, e nuàltris, malàs di NUIA, i spetìn doma il sgrìzul dal falsèt ... (varietà di Bagnarola)

(GRVIitO

482

Dici

38)

CORO

DI VECCHI

IN UN’OSTERIA

DELLA

CARNIA

Valigie oscillano nel vento della rabbia. Brandelli di sole altrui pei nostri figli: giri di danza del demonio. Alla Carnia dolgono il capo e il cuore. Tremano le mani nello stringere il bicchiere che taglia le ali alle notti intrise di odori di case malandate.

È un ventre pieno d’avanzi l’osteria, di storie, tabacco, mosche, aliti di vino,

che caccian fuori il sangue dalle vene. I vivi sono morti che la terra sazia vomita.

E arde la bracia dei corpi delle donne abbandonate ... Il cielo se ne è andato; coperti i crocefissi di polvere; ammalati di NULLA, solo il brivido della falce aspettiamo ...

483

Giacomo

Vit

LA VITA

Un fidu sporc, un vèciu, un disgrassiàt ta un imbrunî di vint di colp ’a mi fan: «tu, tu chi ti as studiàt, se ch’a è la vita? ».

I vègni abàs dai me’ libris e i sèrci di liezi pì in là da la sachèta in duà ch’al va ’a pògnisi ogni sera Il#sorclita «I no ti lu sàs... i no ti lu sàs» a mi minciònin chei tre lì. I vorès rispundi ch’a è ’na roba granda ... faliscia da l’essi, ben sensa valòur ... ma i viòdi li? cuòstis di fan dal fidu la pièl in cròstis dal vèciu, la giamba sciafoiada di chelaltri e li’ peràulis ’a mi sbrìssin dai lavris, da li’ mans, e ’a còlin

par tiàra in mil tucùs... °A van via sensa dizi pì nùia, contèns da la me bòcia suta ... I iù viòdi fàssi inglutî dal scur che romài al ven zù a plènis mans, e ch’a nol sparègna nància il me còur... (varietà di Bagnarola)

(G. Vir, op. cit., p. 44)

484

LA VITÀ Un bimbo sporco, un vecchio, uno storpio, in un imbrunire di vento, d’un tratto mi fanno: « Tu, tu che hai studiato, che cosa è la vita? ».

Vengo giù dai miei libri e cerco di leggere più in là della tasca dove a porsi ogni sera va.il. sole... « Tu non lo sai, non lo sai »

quei tre mi berteggiano. Rispondere vorrei che è una cosa grande ... favilla dell’essere, inestimabile bene ... ma scorgo le coste affamate del bimbo,

la pelle crostosa del vecchio, la gamba sbilenca del terzo, e le parole mi sguisciano dalle labbra, dalle mani, e cadono

in mille pezzi a terra... Quelli senza dir niente vanno

via,

paghi della mia bocca secca ... Li vedo lasciarsi inghiottire dal buio che ormai vien giù a piene mani, e che non risparmia neppure il mio cuore ...

485

Celso Macor

NO

STÉT COPAÀ

(Vonda, Caìn!)

Tan’che un vigiel ’pena fùr di sò mari ch’el zîr di jevà in pins e ’1 ciala al mont,

al mont di una stala tai vòi griîs, cussì tu, sclizzàt dal cret da mont

mil gotis ch’a’ si stranfin tu sbusis la néf, tu cialis i toi vòi di aga si colorin e tu tachis al viaz fin tal

Dnina,

pai clas di lat, li’ Juliis e i pins e ‘1 zîl, di zelest e di vert mar.

Tu tu tetis, Lusinz, là ch’al mir al Todesc,

tu lenzis al jet font da val da Sclavanìa e passat Gurizza tu ti fasis flun, tu coris pai ciamps ch’and’àn sét e li’ sclapiduris a’ ti clàmin e li’ ladriis a’ ciùcin come matis e si sglònfin. Una strada di secui e secui, senza cunfins.

AI to sunsùr al tapona ogni lengàz. E i éns ti uélin ben seont al comand di Diu. Ma ’na dì la t6 valada zidina a’nd’à tacAt a sberlà tal mont intîr: dodis batàis di sanc, zentenàrs

di miàrs di muarz

a’ si son ingrumAz tai zimiteris blancs inzîr. E la int no crodeva ai soi véi, sacraboltant,

che la biela flaba, e la pàs, foss finida par simpri. Jo ’a eri ’ciamò frut ch’a’ vignivin, i Sclàs, dal Cuei e da valadis dal Natison

a partà miluz ta nestri’ ciasis, e ciastinis par blava in ta chel orési ben sclet ch’al nasseva fra pùrs. Epùr la mè generazion a’nd’àè viudàt ‘zornadi’ gnovis cussì brutis

486

NON

AMMAZZATE!

(Basta, Caino!)

Come vitello appena fuori dalla madre, che tenta di sollevarsi in piedi e guarda il mondo, il mondo di una stalla in occhi grigi, così tu, schizzato dalla roccia della Dnina,

gocce a mille versate su ciottoli di latte, fori la neve, guardi le Giulie e i pini e il cielo; i tuoi occhi d’acqua prendon di celeste e verde, e cominci il viaggio fino al mare. Tu succhi, Isonzo, là dove il Tedesco muore, lambi della valle slovena il letto fondo, e, passata Gorizia, ti fai fiume, corri per i campi che hanno sete, fessure ti chiamano, e radici furiose ti succiano e si gonfiano.

Secoli di percorso; non confini. Tutte le lingue il tuo sussurro copre. E la gente t'ama secondo l’ordine di Dio. Ma un giorno la tua vallata quieta a gridare cominciò nel mondo intero: di sangue dodici battaglie, a migliaia i morti si son riuniti nei cimiteri bianchi intorno. La gente non credeva alla vista, sacramentando che la favola bella, la pace, finita fosse, per sempre. Quand'ero ragazzo ancora, venivano gli Slavi dalle valli del Natisone e dal Collio a portare mele nelle nostre case e castagne, in cambio di granturco, in quel volersi bene schietto che nasceva fra poveri. Eppure la mia generazione ha visto giorni nuovi così brutti 487

che gi à paràt di plombà tun salt anoruns e anoruns indaùr, ta gnot da invasions. Noàtris no cognossevin Caìn, no savevin di ciamesi’ neris, i nestris vistîs erin di regadin imblecàs mil voltis, un sbrendul di tiracia e zocui cu li’ brucis, pùrs e libars e spauròs come fasans ch’a’ clàmin e ciàntin ta cumiera da blava. Al mont

si à savoltàt di bot,

si àn sparnizzàt pardut e ’nd’an scomenzàt befei e presòns, °nd’an tacàt a scancelà n6ns e lengàz ciapà possess di paîs che no erin soi, molà sgarnofs, di parons, a discrotà ’cia l’anima,

Diu, ancia lui, ta glesiis al doveva capî nome talian.

O OSSA»

No stét là, fradis foresc’, no stét fà vaî, no stét copà: tornét ta uestra storia, lontan di nò.

Lassét che da montagnis i nestris fradis végnin ju cun miluz e ciastinis che li’ caretis a’ tornin ciariadis di blava, pa polenta, pa vacis,

ta stotia dai pùrs. Tuessin e tuessin, simpri plui penz: si à fat uera. E ’nd’an scomenzàt a sbarà pai boscs, e no era plui lez se no ché da gnot.

Fradis mei da « Decima » ch’a lés a murî jentra i fajàrs di Tarnova tornét indaùr, a’ son là che us spiétin tal platàt, sés ’ciamò fruz: vinc’ ains’ ’a je la miòr stagion par inzopedasi, par fà falopis. No stét copà i miei fradis, uàtris ch’a sés in spieta tal scùr: a’ son fruz, cagòns in sbisia, no’nd’an capît nuja, no >

488

san:

che le è parso di ricadere d’un salto in anni e anni indietro, nella notte delle invasioni. Non conoscevamo Caino, non sapevamo di camicie nere, vestivamo di rigatino, sempre rattoppato, per bretella uno sbrendolo, e zoccoli coi chiodi, poveri, liberi, spauriti, come fagiani che chiamano e cantano tra i solchi del granturco.

Il mondo si è capovolto di colpo, si son diffusi ovunque e han preso avvio ordini e incarcerazioni; si son dati a cancellare nomi e lingue,

a impossessarsi di paesi altrui, a rifilare sberle, da padroni, a far nuda anche l’anima, e Dio perfino, nelle chiese, intendere doveva solo italiano.

Stranieri fratelli, non venite, non portate pianto e morte! tornate nella storia vostra, da noi distanti!

Lasciate che i fratelli nostri scendano dai monti con le castagne e le mele, che le carrette tornino col mais,

per la polenta e per le bestie, nella storia dei poveri. Veleno e veleno, sempre più denso: si è fatta guerra. E han preso a sparare pei boschi, e legge più non c’era se non quella della notte. Fratelli miei della « Decima », che a morire andate

in mezzo ai faggi di Tarnova, tornate indietro! son là che vi aspettano appiattati! Siete ancora ragazzi; vent’anni, la miglior stagione per inciampare, per i grossi errori. Non uccidete i miei fratelli, voi

che state nell’agguato al buio: son ragazzi, spacconi in fregola, niente han capito, non sanno: 489

brinchéju, sfolmenéju, ma no stét copà i mei fradis! Dio, ze s’ciarneta di muarz ta rét da gnot! Dinsi la man, fradis antics vés dit di jessi uàtris tornàz chenti dopo ’1 vot di setembar dal quarantatré. E invezzit sés làz di gnot pa ciasis a robà fradis, fradis ch’a’ vevin al tuart

di ricuardà la Pasca dai vons tornàz dal Egit, di fà al dizun dal Kippur. Je restada ueida, la sinagoga, di sabida, si à disdrumàt bandonada e ’l simiteri al è sapulît ta arbatis. Ju vés partàz a murî lontan ta fraja dal copà, tal platàt dai uestris boscs neris: l6r i mei fradis, la mé storia, uàtris la violenza ta mé tiara, utris

che a ras’celà ribèi a brusà paîs mandés altris fradis mei, contadins dal Tirol che vaìnt di rimuars a’ partin li’ sclopis cul cur lontan, ai pràz, ai boscs, ai vielis, a la morosa ta ciasutis di len, cialdis, sot dai crez

ch’a’ si rimpìnin pal zîl. Lòr ch’a’ erin nassùz par vé li’ mans sglonfis di cai, par balà cu li’ armonighis ta fiesti’ verdis dal amor. No stét copà i mei fradis dal Friul, uAtris, cians rabiòs da caserma di Palma: i mei fradis sbeleàz, i mei fradis cròs ta cialzina viva,

tal ploc” di miarda e di pissòc, piciàz sui spizzòs par ’zornadis di vergogna, brusàz cu li’ cichis ta tetis e ta balis,

i mei fradis fàs s’ciampà come quais viars la libertàt e finîs a bala buna sot da murais dai simiteris. Uatris no sés la mé storia, besteatis 490

prendeteli, sperdeteli, ma non uccideteli, i miei fratelli! Dio! che seminìo di morte nelle maglie della notte! Diamoci

la mano!

Fratelli antichi avete

detto d’essere,

voi qui tornati dopo l’otto settembre del quarantatre. E invece siete andati di notte nelle case a rubare fratelli, fratelli che avevano il torto

di ricordare la Pasqua degli avi tornati dall’Egitto, di praticare il digiuno del Kippur. Vuota è rimasta la sinagoga, il sabato; abbandonata, essa è crollata,

e il cimitero è sepolto nelle erbacce. Li avete portati lontano a morire nella baldoria del massacro, nella tana dei vostri boschi neri: loro, i miei fratelli, la mia storia, voi la violenza nella mia tetra, voi che a rastrellar ribelli, a bruciar paesi mandate altri fratelli, dal Tirolo,

che piangendo di rimorso portan fucili col cuore rimasto ai prati, ai boschi, ai vecchi, alla amorosa in casette di legno, calde, sotto rupi

che s’arrampicano in cielo. Loro, che eran nati per avere mani gonfie di calli, per ballare al suono dell’armonica nelle feste verdi dell’amore. Non ammazzate i miei fratelli del Friuli, voi, cani rabbiosi della caserma di Palma !: i miei fratelli scherniti, i miei fratelli nudi nella calce viva,

nella melma di merda con il piscio, appesi a pali per giorni di vergogna, bruciati con cicche sul petto e nei coglioni, i miei fratelli come quaglie verso la libertà fatti scappare, e finiti a palla buona dietro muri di cimiteri. Voi non

siete la mia storia, bestie,

491

ch’a s’ciampavis dal fuc che vevis impiàt cu li’ uestri’ mans. E uîtris sì, uAtris che dopo dut chist ta granda dì dal svindìc vés disnezzàt altri’ gnoz par là pa ciasis ognidun cul so pinsîr fiss, tun suturno tornà di sanc. Ancia ta agonia di Crist una sugna di asét a’nd’àè viart un sclip di pietàt: roti’ li’ filis, disledrosadi’ li’ bieli’ peraulis, tal sprafun dolz da gàrtulis vés ciapàt la granda cioca dal copà. Tròs, fradis, tròs seso las via ta lungia gnot, leàz cul filistrin, a gruns, su pai trois da monz a murî senza prozess, un sburt ta vissaris dal Ciars? E vés discrotàt, fradis, i mei fradis ch’a’ sberlavin, ch’a’ vaivin,

e dut a’nd’à taponàt al tramà da fueis dai fajars, al businà dal Lusinz e ’l font da gnot di Caîìn. Fradis, fradis, jo no sai plui dulà cialà ta vergognis da storia. No stét plui copà: jo no’nd’ai plui vòs e us clami. Còr, Lusinz, còr tai toi secui par simpri, dismentéa.

La mé vita je stada un lamp. Al burlàz, par cumò, al è passat. Je di gnéf fiesta. Còr e tapona, tapona al vaî ch’al rivòca cul to sunsàùr, fati dà dal zîl e dai boscs dut al colòr e partigilu ai vòi dai fruz: ch’a gi resti par simpri! 1977

(varietà di Versa)

(C. Macor, Impià peraulis, Gorizia

492

1980, pp. 59-69)

che fuggivate dal fuoco che avevate acceso con le mani vostre. E voi pure, voi che dopo tutto questo, nel grande dì della vendetta, avete inaugurato altre notti per andare nelle case ognuno col suo pensiero fisso, in un cupo ritornar di sangue. Anche nell’agonia del Cristo un cencio di aceto aprì un stilla di pietà: rotte le file, rovesciate le parole belle,

nel profumo dolce di rose avete preso la grande sbornia dell’uccidere. In quanti, fratelli, in quanti partiste nella lunga notte, legati a fil di ferro, in mucchi, su per le vie dei monti,

a morire senza processo, una spinta nelle viscere del Carso? E avete denudato, fratelli, i miei fratelli,

in grida, in pianti, e tutto ha ricoperto il tremar delle foglie dei faggi, dell’Isonzo il sussurro,

e il fondo della notte di Caino. Fratelli, fratelli, non

so più dove guardare nelle vergogne

della [storia.

Non ammazzate più!: voce non ho più, e vi chiamo. Corri, Isonzo, corti nei tuoi secoli per sempre, e scorda!

La mia vita un lampo. Passata per ora è la tempesta. Di nuovo è festa. Corri e ricopri! ricopri il pianto che si risente con il tuo sussurro! Prenditi tutto il colore del cielo e il colore dei boschi,

e portalo agli occhi dei bimbi: che vi resti per sempre!

1 Ufficialmente Palmanova.

493

Celso Macor

FRUT, AUÉ Ta criura dal unviàr, indurmidîsi cul bati dal marcel ta zoculis:

doi colps ’na brucia, brucis in fila un ricam di fiàr sul len blanc

gnòf par ch’a no si frui. Seris di frut: zoculis in fila e marceladis dal tata me

e benedizions cul pinsîr par duc’: zoculis cu li’ brucis

pa strada grevia da vita. °Na strada dreta ch’a lava tun dulà.

Ma tu, frut, aué

ta strada scura, plena di baraz, daùr no si sa, no paris, no vòs di vielis, no bandieris,

Diu muart tal cur dai ns e gnéf tonà lontan di uera, dut disfantàt, cianz e amòr, dulà vatu, frut, aué?

Dulà vatu cu lis scarpis di corean gnovis

par trois plens di sterps tun ajar ch’al tuessin a’nd’è fat grevi dis’ciadenant

494

RAGAZZO,

OGGI

Nel gelo dell’inverno addormirsi al batter del martello su zoccoli: due colpi una bulletta, bullette in fila,

un ricamo di ferro sopra il bianco del legno nuovo, perché non si consumi. Sere di ragazzo: zoccoli in fila e colpi di martello dati dal babbo,

e, col pensiero, a tutti benedizioni,

zoccoli imbullettati per la strada greve della vita. Strada diritta,

che andava ad una meta. Ma tu, oggi, ragazzo, sulla strada scura con i rovi, dietro a non so chi, non a padri, non a voci di vecchi, né a bandiere

— nel cuore della gente un morto Dio, e nuovo tonar lontano di guerra, | tutto svanito, e canti e amore — dove vai, oggi, ragazzo? Dove vai, con scarpe di vacchetta nuove, per sterposi sentieri,

in un’aria che il veleno ha appesantito, cacciando

495

fur dai boscs li’ besti’ ferozzis? Dulà vatu tun mont che no’nd’è dùl plui da vita tan’che di ché dai mus’cins zirucàt tal barbar di anoruns lontans, dismenteàs?

Zoculis cu li’ brucis °na pladina di lidric °na scugela di lat prejeris vignudis dai vons bandieris di man in man: ancia nò ’a lavin a fasi sfracajà in ueris ch’a’ no erin nestris

ch’and’àn ingomeat la storia: lavin vaint, lavin a sarvî parons trisc’ cu la rabia drenti. Ma uatris, fruz, cu li’ bandieris sbregadis senza paris

tun mont forest e disuedàt savareso

’ciamò vaî

o la disperazion us varà sujàt i vòi? Ch’à sclòpin i grops da storia ma ch’a’ sein gnovi’ màns a partà veci’ bandieris par gambià ’l mont: isa una blastema o un forsit di speranza? 1980 (varietà di Versa)

(C. MAcoR, op. cit., pp. 97-101)

496

bestie selvagge dalle selve? Dove, in un mondo che pietà non ha pel vivere più che per quello di zanzare, arretrato in barbarie di lontani anni obliati? Zoccoli imbullettati, un bacile di radicchio, di latte una scodella, preghiere venute giù dagli avi, bandiere tramandate: anche noi finivamo schiacciati in guerre che non eran nostre, e di cui la storia ha nausea: andavamo piangendo, andavamo a servir padroni tristi, con in corpo la rabbia. Ma voi, ragazzi, con bandiere stracciate,

senza padri, in un mondo estraneo e vuoto, saprete ancora piangere,

o il disperare vi avrà asciugato gli occhi? Che scòppino i nodi della storia! ma siano mani nuove

a portare le bandiere antiche, per convertire il mondo! È questa una bestemmia, Sue di speranza un voto?

497

Mario De Apollonia COME

IL SCRIZ

Ta l’ombrene dal moràr al pìule a planc il scriz pal mal da l’ale crevade, si soven da la sò voe no mai dismenteade lampant lis sbissis sui clas in plen soreli. Senze invidie al pìule visansi svéi tal ajar, e nissun nol abade al lament di ché vòs,

pal so sintîsi in cròs no jè rispueste dade. (E pùr ché piulade ’e jentre par destin tal coro dai ucei in fieste di nature). Come chel scriz jo ’o cjanti tal bosc di piere frede nassut da la memorie, piulant il gno flat tal rumòr dal mont vîf. Ancje jo come il scriz o vai il mal dal vivi e la spiete tradide tal sflamà dal misdì. No par invidie ’o vai, no par che il mAl si sfanti. °O cjanti vaìnt lis graziis di sei vignùt tal mont a zercjà cheste vite, 498

COME

LO SCRICCIOLO

Nell’ombra

del moraiolo,

pel male dell’ala rotta canta piano lo scricciolo; ricorda desideri non mai dimenticati,

mentre intravvede bisce sui ciottoli in pieno sole. Senza invidia lui canta sognando voli nell’aria, ma nessun se ne accorge: al pianto di quella voce per il sentirsi in croce non è data risposta. (Eppure quel pigolare rientra per destino nel coro degli uccelli in festa di natura.)

Come lo scricciolo canto

nel bosco pietrificato nato dalla memoria, emettendo il mio fiato nel suono

del mondo

vivo.

Anch'io come lo scricciolo piango il male del vivere e l’attesa tradita al fiorir del meriggio. Non per invidia io canto, non perché il mal dilegui. Canto piangendo la grazia d’esser venuto al mondo ad assaggiar la vita, 499

chest slambri di lusòr tal scùr font di dòs gnoz. Ma, diferent dal scriz,

o dîs ancje la rabie sterpe di une vite brusade ta l’ombrene,

ta chest pulvìîn di bule che l’ajar al dispiart rabiòs cui sa nuje indulì ... (Koinè)

(M.

500

De

Apottonia,

Cjalant

tal

flum

la lune,

Pordenone

I9S4-Mp

25)

questo squarcio di luce nel buio di due notti. Ma, a differenza, io dico anche la rabbia sterile di vita arsa nell’ombra,

in questa polve di pula che il vento rabbioso sperde chi lo sa mai dove...

501

Mario De Apollonia SOTSORE Nossere,

cjalant tal flum la lune che trimant si spielave ribaltade,

di colp ’o ài rivivùt il gno ridi di gust, lassàt di bunoris tai vòi di un miedi che mi contave cun peraulis fredis il mal ch’al savoltave la mé zoventùt denantdadr,

come piel di cunìn disladrosade in tun moment, par simpri. Al scomenzave par me

l’infiàr da la speranze in fun e il timp lunc par capî ch’al è di just vivi ancje i siums che il càs al à vulùt sotsore,

par capî che la sò barcje no la comande l’omp, e par viodi ancjemò ch’al è dome vivint ogni destin che si dàj il sens dret a ogni ombre di vite. Nossere,

come ché lune savoltade e pùr lusìnt, mi à parùt di tornà a cjatà no il gno ridi di voe (che nol è plui chel timp)

ma ben la voe di ridi. (Koinè) (M. DE APOLLONIA,

502

op. cit, p. 29)

SOTTOSOPRA Tersera,

nel riguardar la luna che capolvolta si specchiava tremolando

nel fiume,

d’un tratto ho rivissuto il mio rider di gusto, assai presto perduto negli occhi di un dottore che mi diceva con parole fredde il male che stravolgeva la mia giovane età, come pelle di coniglio rovesciata in un attimo, per sempre. Cominciava per me

l’inferno della speranza in fumo, e il tempo lungo per capire che è giusto vivere anche i sogni che il caso ha rigirato, per capire che la sua barca non la comanda l’uomo, e per vedere ancora

che è solo vivendo ogni destino che si dà il giusto senso a ogni parvenza di vita. Iersera,

come la luna capovolta e pur lucente, mi è parso di ritrovare non il mio rider di gusto (ché non è più quel tempo) ma sì il gusto del ridere.

503

Ida Vallerugo EA CENA

A’ son giùs via ducjus i cenàn unmò

insièmit ’snot.

Nissun orloi da tirà sù ne sul scabèl ne ta la Storia ch’a passa par cas di four, sul punt, direta in Centro dopu avé fat i dus sui scjalins di Redipuglia, a si para via dal vistît, infastidida, i rudinàs, la pòlvara. Midùn, una scjala di cigus cujetàs. E il cjò ciarneli lìs che unmò di pì ’a si splana... Chei voi neris tibetans

plens di pichis nùvulis e aghi e felès e font blu la lour màndurla dolcia severa — la mé fuarcia — ch’a mi rît da sot la muàrt. No stami lassà. Forc’ la realtàt ’a na dura

un pòc di pì dal sum, force’ ’a na è soul un sum ch’a si pos tocja. Domàn

a’ ti puartin via.

Domàn a’ sarà una ’sornada perfeta coma un ouf. Coma l’ouf

504

LÀ GENA Tutti sono andati via. Stasera ceniamo

ancora

insieme.

Non ci sono orologi da ricaricare né sul comodino né nella Storia che passa per caso di fuori, sul ponte, diretta al Centro ', dopo avere fatto le uova sui gradini di Redipuglia. E si scuote dalle vesti, annoiata, i calcinacci, la polvere?.

Meduno, una scala di gridi acquietati. E la tua fronte liscia, che ancora di più si spiana... Quegli occhi neri, tibetani,

pieni di cime, nuvole e acque ® e felci e blu * intenso, la loro mandorla? dolce, severa — la mia forza — che mi sorride da sotto la morte! Non te ne andare! Forse il reale non dura

un poco più del sogno, forse non è solo un sogno che si possa toccare. Domani

ti portano

via.

Domani sarà una giornata perfetta al pari di un uovo. Al pari dell’uovo

205.

che speli fra li mans, plan par no disturbà la tò clara trasfigurassion cul rumour da li’ speli ch’a si distachin. (varietà di Meduno)

(Scrittrici contemporanee in Friuli, a cura di M. Tore BARBINA e A. Nico Torre di Mosto 1984, p. 440) vv pae”

506

che sguscio tra le mani, piano per non turbare la trasfigurazione tua chiara col rumore del guscio che si stacca ‘.

1 n centro è un italianismo, in verità già registrato dal Nuovo Pirona (ma non dal Faggin). 2 polvara è un altro italianismo: in friulano, al femminile, dovrebbe essere limitato alla terminologia farmaceutica, altrimenti i pòlvar. 3 Nell’edizione provvisoria citata, non sempre la caduta di -s del plurale (aghis) è segnata da apostrofo. 4 Per quanto usato anche da altri Autori (qui, per es., da A. Giacomini) blu è un italianismo (in italiano è dal francese moderno), che ancora non figura nei lessici friulani (l’azzurro chiaro si diceva 2léf — cf. in italiano biavo — oggi celest; l’azzurro cupo si dice tradizionalmente turchin). S Altro italianismo; in friulano wdndule. Questo gruppetto di osservazioni lessicali — più avanti non insisto — vuole solo segnalare un sintomo linguistico. 6 « È la sera che precede

l’ultimo

rito di morte;

domani

ci saranno

i funerali

della nonna; i familiari sono riuniti come nell’Ultima Cena, ma questo mangiare insieme, da comunione dei viventi, assume il sapore di comunione con la Morte; il tempo si è fermato, e la Storia, che il terremoto ha costretto a passare di qui, se ne va oltre, dopo aver deposto le sue uova di morte sulle gradinate di Redipuglia (e queste uova stanno, significativamente, in pendant con l’uovo sgusciato silenziosamente per la cena)» (Andreina Ciceri).

507

Ida Vallerugo DITLA

DAL:TIME

Rigjna andina, par te ‘a na svuala pì in larchis cAlmus gîrs il condor séra Cuzco Maciu Piciu rispîr di piera, sflantour di ruvina. Ma chel passer ch’al ciga tal siò ceil di véri a Romaour grîsi ruvini’ sipilidi’ da la neif al ven ogni dì ta la tò man mais gno indurmidît Mais Maa. E four ’a nevéa, par simpri. (varietà di Meduno)

(op. cit., p. 434)

508

AL DILA’ DEL TEMPO

Regina andina, per te non vola più in larghi calmi giri il condor sopra Cuzco Maciu Piciu

— alito petroso, splendore guasto —. Ma quel passero che grida nel suo cielo di vetro a Romaor — grigie rovine sepolte dalla neve — viene ogni giorno alla tua mano, mais mio addormentato, Mais Maa!!

E di fuori nevica sempre.

1 Maa

e Regina sono nomi espressivi (come mais e altrove aurec’), invocativi

e

rievocativi, dati dall’Autrice alla nonna materna, defunta nonagenatia. Ma4 mi sembra «capace

di evocare M&, nome di un’antica divinità femminile microasiatica, venerata soprattutto nella Cappadocia, ma usato anche come nome di donna. Maa è in grado, quindi, di creare il senso di un profondo spessore temporale indeterminato. Altro effetto di slargamento ma nello spazio è prodotto da aggettivi come « andina », « tibetana » o da nomi di località amerindiane e australiane. Cogliamo all’opera un’abile tecnica retorica — in senso positivo — che attraverso continue trascendenze metafisiche del paese di Meduno (dal cui interno put sempre l’Autrice pensa il mondo) conquista spazi e tempi lirici senza confini. La cultura friulana, con i suoi scrittori recentissimi, è ormai intensamente impegnata ad appropriarsi delle dimensioni del mondo, ivi incluse le coordinate cronotopiche. Della sua ava la Vallerugo scrive alcuni righi indispensabili alla comprensione letterale di alcune sue poesie: « Era una donna forte, dura e dolce, e coraggiosa, portatrice di carbone, ancora bambina, nelle sue

montagne;

serva

a Venezia;

contadina

a Meduno;

emigrata

poi nel

1921

in

Australia con i figli e il marito che la chiamava Orda [vedi qui p. 510]. A_ Sydney andava sul ponte ‘a cjapà l’aria fina’. Durante una grave malattia da parto, all'ospedale, fu data pet morta e portata all’obitorio. E si risvegliò tra i morti ».

509

Ida Vallerugo IL SUM

Forc’ four la neif è già sipilît la cjera bor suturnu di Hiroshima. Forc' al è già stàt il sclop e nò j sin la memoria di né, l’ultima prima da sparî tal silos universàl. E tu, lotadora indurmindida, j tu sumiei. Sul punt di Sydney il vint ’a ti alcia i cjavei néris scjampàs ai fermos. Onda! ’a ti clama lui Mari ’a ti clamin i fìs soravissùs. A’ pàssin lents i bastimìns, sunant a’ cjapin il larc, a’ son già sparîs. A’ passa ta l’aga fonda tò mari pinsiròsa « Mari, unmò

viva a’ mi àn mitàt fra i muars! »

Ridint j tu segni lajù tra li’ cjasi’ dal puart la fignestra di cjasa vissìn al Macel Cumundl °dulà i becjers a’ regàlin retàis di cjaàr ai candis taliàns grecos spagnoi. Da ché fignestra il punt al è un soul varc, un

svual ...

La buera ’a na ti svea. Denant di te mé Rigjna ’a ferma la sé corsa. ’A cola. (varietà di Meduno)

(op. cit., p. 438)

510

IL SOGNO Forse fuori la neve ha già sepolto la terra, borgo cupo di Hiroshima. Forse già c'è stato lo schianto, e noi siamo il ricordo di noi, l’ultimo

prima di scomparire nel silo universale. E tu, lottatrice addormentata,

stai sognando.

Sul ponte di Sydney il vento ti alza i capelli neri sfuggiti alle forcine. « Onda! » lui ti chiama;

« madre! » ti chiamano i figli sopravvissuti. Passano lente le navi; sonando

prendono il largo, e sono già sparite. Passa nell’acqua fonda tua madre assorta: « Madre! mi hanno messa ancor viva tra i morti! ». Sorridendo additi laggiù tra le case del porto la finestra! di casa presso il mattatoio, dove i beccai regalano ritagli di carne ai ragazzi italiani, greci, spagnoli. Da quella finestra il ponte è un solo salto, un volo ...

Il vento non ti desta. Davanti a te, mia Regina, arresta la sua corsa. Cade.

! Il termine figrestre, ancorché già usato da autori del passato (Strassoldo, nel Cinquecento, in omeoteleuto con yzigrestre « minestra »), oggi è raro (Faggin, p. 439), dicendosi al suo posto balcon, e trova sostegno nell’italiano firestra.

pull

Ida Vallerugo PAR I VERIS Citàs. Stradi’. Andis. Orlois indenant o indavour.

Soul cun te i soi entrada in una stansia cjalda il timp da rìdisi in un present totàl e saludasi.

Adés j torni erabonda eretica par citàs stradi’ àndis supant i tochis dal specju frantumàt cun la mé ùltima imagjne. J torni a vuardà par i véris da li’ fignestri’ iluminadi’ la biela grîsa vita di ogni dì lontana da me coma da la tomba li’ stagjons. (varietà di Meduno)

(op. cit., p. 436)

DZ

ATTRAVERSO

I VETRI

Città. Strade. Ambulactri. Orologi in avanti o in dietro. Solo con te sono entrata in una stanza calda,

il tempo di sorridersi in un presente totale e salutarsi.

Adesso torno eretica errabonda per città strade ambulacri, succhiando i pezzi dello specchio rotto con la mia ultima immagine. Torno a guardare attraverso i vetri delle finestre illuminate la bella grigia vita quotidiana, lontana da me come dalla tomba le stagioni.

SI

Ida Vallerugo IRAUREGI

Aurec’ gno dolc’, amar meil picjàt d’unvier i rapis pì madùrs e viludàs i ài leàt in un mac pesànt e i lu puarti e i ti puarti fia mé in ta la muàrt par blancj stradi ch’a si disfin bandonadi da la rasòn. Esse “chet pit patttso al è tant di pì che il vivi

fra i vîs indafaràs ch’a mi tuelin il rispîr ché pàs ch’a ocòr par essi danàs a la mé manera. Essi cun te simpri grignèl par grignèl aurec’ gno picjàt al gno tràf sutîl in chesta stansia da la puarta par gî four piturada indulà che un canai plen di fan ‘a nal è tacàt il siò rap stret fra li mans parcè 1 grignei a’ son contàs... (varietà di Meduno)

(op. cit., p. 430)

514

beh SCIOLDISITRALGI Fascio mio dolce di tralci, amaro

miele appeso d’inverno !! I racemi più vellutati e maturi li ho legati in un mazzo pesante, e lo porto, e ti porto, figlia mia, nella morte,

per bianche strade che si disfanno, trascurate dalla ragione. Stare con te che più non sei è tanto di più che vivere fra i vivi indaffarati che tolgono il respiro e quella pace che occorre per essere dannati al modo mio. Stare con te sempre, acino su acino, mio fascio di tralci appeso al mio trave sottile, in questa stanza che ha l’uscita dipinta, e dove un bimbo affamato non ha cominciato

il racemo,

stretto fra le mani,

perché gli acini sono contati ...

1 L’aurec' (« mazzo di rami di vite » che viene appeso assunto come simbolo della nonna defunta.

ai travi del soffitto) è qui

DID

Ida Vallerugo NEIF

Cujèt dormitori vissìn al nuia. Un louc, il mont

a sirvìssin èncja par lassàiu. Ma tu, muarta,

i tu mi custrinc’

a cuntinuà a rompi l’infièr cun una sapa di véri e una tromba baroca e lostès cròdi, cròdi cròdi èncja, unmò, in ché ròba

sipilida ch’a si clama puisia. Par te i torni a scrivi in mai

una puisia su la neif ch’a splanarà prést i liniamìns di Midùn, dal mont la lour memoria dòlcia selvadia. Scòlta, ’a cumincia cussi

la neif i siò vuès di lùs la fòrma perfeta, la sò fuarcia splendour la neif è soul i nèstri voi par védisi (varietà di Meduno)

(op. cit., p. 432)

516

NEVE

Dormitorio quieto, prossimo al nulla. Un luogo, il mondo, servono anche per essere lasciati. Ma tu, morta, mi costringi

a rompere l’inferno di continuo con una zappa di vetro e una tromba barocca, e tuttavia a credere, credere,

credere ancora una volta in quella cosa sepolta che si chiama poesia. Per te io torno

a scrivere, di maggio,

una poesia sulla neve, che presto spianerà il profilo di Meduno,

del mondo,

e il loro ricordo dolce, selvaggio. Ascolta! Comincia così: La neve, le sue ossa di luce,

la forma perfetta, la sua forza splendore; la neve per vedersi ha solo gli occhi nostri

517

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PROFILI

BIO-BIBLIOGRAFICI

a cura di G. FaggIN

I « medaglioni » che seguono presentano succintamente i dati più significativi intorno alla vita e alle opere dei 29 poeti antologizzati. Altre notizie e considerazioni sui singoli Autori si possono trovare in entrambi i saggi introduttivi. La bibliografia è volutamente stringata: tiene in consi-

derazione soprattutto le Antologie friulane, alcuni fondamentali saggi di storia e critica letteraria, un limitato numero di autorevoli recensioni. Sono sta-

te utilizzate le abbreviazioni seguenti: S.F.F. = Società Filologica Friulana; GO = Gorizia; PN = Pordenone; UD = Udine. ANGELI, Siro — È nato a Cesclans (Cavazzo Carnico) nel 1913. Dopo

la laurea alla Normale di Pisa, si trasferì a Roma, dove vive. La sua attività nel campo della letteratura italiana è stata multiforme. Come poeta esordì con I/ fiuzze va (1937), dandoci poi altre raccolte, fino alla recente Da brace a cenere (P. Lacaita, Manduria [Taranto], 1985). Numerosi i suoi drammi, da La casa (1937) a Grado zero (1978). È stato

anche critico drammatico, redattore dell’Enciclopedia dello Spettacolo, e ha collaborato alla sceneggiatura di una quindicina di film. Dal 1955 al 1977 ha lavorato alla RAI, dapprima come vicedirettore del Terzo Programma, poi come condirettore dei Servizi Prosa Radiofonici. La sua prima poesia in friulano (I/ gro paîs) apparve in « Il Strolic furlan pal 1947 ». 22 liriche sono riunite nel volumetto L’aga dal Tajament, pubblicato nel 1976 dalle Edizioni « Aquileia » di Tolmezzo. Ne è in corso di stampa una seconda edizione molto ampliata, presso La Nuova Base di Udine. Ha scritto la sceneggiatura in friulano del film Maria Zef (1981). Usa la parlata carnica di Cesclans. Bibl:

A. Ciceri 1975, pp. 646-649, —A. Giceri, in « Sot la nape», 197/, n. 1, pp. 131-132 (recensione di L’Aga dal Tajament). —- D. Virgili 1978, II, pp. 179-181.

- R. Pellegrini 1981, pp. 105-106. — G. D’Aronco 1982, III/1, pp. 137-141. DUO

AppI, Renato — È nato nel 1923 a Cordenons, dove vive. Da molti

anni è vicepresidente (per il Pordenonese) della Società Filologica Friulana. Durante la prigionia a Trier (Treviri), tra il 1943 e il 1944, scrisse le prime poesie in friulano, di cui si sono salvate soltanto due. Dal 1953

le sue liriche cominciarono a figurare nelle pubblicazioni della S.F.F. La raccolta poetica Chel fantassùt descòls (Centro Culturale A. Zanussi, PN 1969) ha avuto una nuova edizione nel 1975 (Centro Iniziative Culturali, PN). Il recente volume di versi Come dal Purgatoriu (G. A. Benvenuto,

Udine 1984) è illustrato dal pittore friulano Anzil. È uno dei più importanti drammaturghi friulani del secondo dopoguerra: L’ultin perdon (1957), Jò e Te (1963), De cà e de là (1966), Storîs dal gno paîs (1966). Altri lavori teatrali sono in italiano. Ha scritto

anche racconti friulani, pubblicati in gran parte dalla rivista « Sot la nape ». Insieme con la moglie Elvia Moro e altri collaboratori, ha pubblicato per la S.F.F. una serie di volumi di Racconti popolari friulani, raccolti a Cordenons e ‘in altri paesi friulanofoni della Provincia di Pordenone. Tutta la produzione di Renato Appi (ad eccezione di Storîs dal gno paîs) è scritta nella parlata di Cordenons. Bibl.:

A. Ciceri 1975, pp. 650-665. — D. Virgili 1978, II, pp. 313-322. Pellegrini 1981, pp. 95-96. — D’Aronco 1982, III/1, pp. 245-254.



R.

ARGANTE, Mario — È nato a Venezia, da genitori friulani, nel 1909. Trascorse l’infanzia e la giovinezza a Tauriano (Spilimbergo). Insegnante elementare. Vive a Udine. I suoi versi più antichi risalgno al 1928. A partire dal 1936 ha pubblicato numerose liriche nei periodici della S.F.F. La fase moderna della sua produzione poetica è affidata alle raccolte Sargloz di oris (La Nuova Base, UD 1968), Alis di cinise (Arti Grafiche Friulane, UD 1969), Erbe che mur (Arti Grafiche Friulane, UD 1975), Stagjors (Ed. dalla Pro Spilimbergo, 1981). Versi inediti recenti in « Ce fastu? », LX, n. 2 (1984), pp. 287-289.

Ha pubblicato anche due volumi di versi in lingua italiana. Scrive nella parlata di Tauriano e nella koinè. Il suo cognome friulano: Argant.

in

Bibl.: A. Ciceri 1975, pp. 543-546. — A. Ciceri, in « Sot la nape » 1976, n. 1, p. 101 (recensione di Erbe che mir). — D. Virgili 1978, II, pp. 159-162. — A. Ciceri, in «Sot la nape» 1982, n. 2, p. 90 (recensione di Sfagjons). — G. D’Aronco 1982, III/1, pp. 110-116. — A. Lucchitta, La vicenda poetica di Mario Argante, in « Quaderni della FACE », n. 62 (1983), pp. 15-21.

520

BaRTOLINI, Elio — È nato a Codroipo nel 1922. Dopo avere insegnato nella Scuola media di Codroipo, si trasferì a Roma, dove lavorò come sceneggiatore cinematografico, collaborando con il regista Antonioni. Ritornato in Friuli, vive a Santa Marìzza (Varmo). Romanziere in lingua italiana esordì con Icaro e Petronio (1950) e scrisse poi altri romanzi, pubblicati da Mondadori, Einaudi, Rusconi, ecc. Il più recente è I/ palazzo di Tauride (1982).

Ha iniziato a scrivere versi friulani nel 1977, pubblicandoli via via in una serie di piccole raccolte: De feriis in terra aliena (Spilimbergo 1977), Cansonetutis (Ribis, UD 1980), Carsonetutis e altris cansonetutis (Galleria Falaschi, Passariano 1981), Poesie protestanti (Scheiwiller, Milano

1982; sono però le prime poesie, del 1977-1978), Cansonetis tiersis (Galleria Falaschi, Passariano ne 1985);

1982), Amzour e dîs di vore (Edizioni del Leo-

Usa la varietà « codroipese », assai vicina alla koinè. Bibl.:

L. Morandini 1980, pp. 6-12. — A. Ciceri, in « Sot la nape » 1981, n. 4, p. 98 di Carsonetutis e altris cansonetutis). — G. D’Aronco 1982, III/1, PP ae2 15220) ANIMA Cicero Nane< Sola na pe 1983.002537 App L61117 (recensione di Poesiis protestantis). — M. Chiesa e G. Tesio 1984, pp. 295-302. (recensione

Burese, Elsa — È nata a Ceresetto (Martignacco) nel 1926. Insegna francese in un Liceo di Udine. Vive a Udine. Si dedicò dapprima alla poesia in italiano: il volume Ircerte sono le parole (Rebellato, Cittadella 1974) raccoglie versi composti fin dal 1961. Le liriche friulane sono raccolte nelle due sillogi pubblicate dalla S.F.F. di Udine:

Tasint peraulis smenteadis (1979) e Lapsus (1983).

Ultimamente ha pubblicato altri versi in italiano: Antielegie per Tea (1984).

Scrive nella koinè letteraria. Bibl.: R. Pellegrini 1981, pp. 114-119. — G. D’Aronco 1982, III/1, pp. 290-295. — A. Ciceri 1984, pp. 235-239 (cfr. anche la prima parte del volume).

CAnTARUTTI, Novella — È nata a Spilimbergo nel 1920. Trascorse parte dell'infanzia e dell’adolescenza nella casa materna di Navarons (Meduno), paese di cui assunse la parlata e che costituisce la sua « patria » sentimentale. Ha insegnato Lettere a Spilimbergo e, per molti anni, a Udine. Vive a Udine. Pubblicò le sue prime liriche in « Il Strolic furlan » del 1946 e nel « Quaderno romanzo » di Pasolini (1947). Collaborò inoltre, fin dalla sua

Dal

fondazione (1946), al settimanale « Patrie dal Friùl » di Giuseppe Marchetti. Dal 1950 è presente nelle pubblicazioni di « Risultive ». Due, fino ad ora, le sue sillogi poetiche: Pwistîs (Edizioni di Treviso, Treviso 1952) e Scais (Tarantola-Tavoschi, UD 1968). È anche importante narratrice. Ha raccolto i suoi racconti in La femina di Marasint (S.F.F., UD 1964) e le sue prose d’arte in Pagjri’ serad#

(S.E.E. UD

1976):

Si dedica inoltre allo studio scientifico delle tradizioni popolari friulane. In questo campo ha collaborato anche con L. D’Orlandi. Notevoli, tra gli altri, il saggio sul folclore del paese carnico di Illegio (Tolmezzo), pubblicato a quattro riprese sul « Ce fastu? », e quelli sugli Esseri mitici e sulla Narrativa popolare, apparsi nella « Enciclopedia monografica del Friuli-Venezia

Giulia » III/3

(1980).

Il suo nome nel friulano comune: Bibl:

Novele Cantarute.

P. P. Pasolini 1949, pp. 137-138. — P. P. Pasolini 1952, pp. CXV-CXVI. — PD. P. Pasolini, Appunto su Novella A. Cantarutti, in « Il Belli », III, n. 1 (marzo 1954), pp. 3-4. — A. Ciceri 1956, p. 42. — C. Sgorlon, nel «Messaggero del Lunedì » (UD), 10.6.1968 (recensione di Scais). — C. Sgorlon, L’opera di Novella Cantarutti, Ed. della Bibl. Civ. di Pordenone, 1971 (pp. 36). — A. Ciceri 1975, pp.

547-569.

18-21.





R.

D.

Virgili

Pellegrini

1978,

1981,

II, pp.

pp.

83-88.

162-177 — A. Ciceri 1984, pp. 207-212.

221-230.



G.



L. Morandini

D’Aronco

1982,

1980,

pp.

IlI/1,

pp.

CANTONI, Aurelio — È nato nel 1922 a Udine, dove risiede. Ha collaborato assiduamente, con prose e versi, al settimanale « Patrie dal Friùl » fin dalla sua fondazione (1946); dal 1948 al 1953 ne è stato direttore responsabile. È stato uno dei fondatori di « Risultive » (1949).

« Il Strolic furlan » del 1949 pubblicava già alcune sue poesie. Quattro le raccolte poetiche: Passat (Risultive, UD 1958), La furtune (Risultive, UD 1969), Satarutis (Fossalta di Piave 1982) e L’ajar (Risultive e S.E.EX UD

1986).

Ha scritto anche alcuni lavori teatrali, esordendo con I/ soreli (1965) e

con I/ mont (S.F.F., UD 1969). Al suo attivo ha inoltre una produzione di racconti, apparsi in vari periodici

e non ancora raccolti in volume.

Nel 1972 ha fondato « Arc », periodico culturale delle genti dell’arco alpino, che uscì fino al 1978. debai firma Lelo Cjanton e usa la koinè letteraria con la grafia della Reda Bibl.:

P. P. Pasolini

1949, pp.

137-138.

— A. Ciceri

1956, pp. 43-44.

— A. Ciceri

1975, pp. 709-720. — D. Virgili 1978, II, pp. 241-250. — R. Pellegrini

79-81. — G. D’Aronco

D22

1982, III/1, pp. 220-229.

1981, pp.

CARLETTI, Ercole — Udine, 1877 - Udine, 1946. Laureato in Scienze

economiche, nel 1903 fu nominato ragioniere capo del Comune di Udine. Fu tra i fondatori della Società Filologica Friulana (1919), di cui fu vicepresidente (1920-1023), presidente (1924) e segretario (1925-1945).

Le sue prime prove poetiche (dopo una traduzione da F. Villon del 1901) risalgono al 1911. Si firmava spesso « Ginorio ». Le sue Poesie friulane apparvero nel 1920 (Stabilimento Tipografico Friulano, UD). La seconda edizione, con aggiunta di altre liriche fino al 1942, era stata allestita dallo stesso Carletti, ma vide la luce solo dopo la sua morte (Poesie friulane, S.F.F., UD 1947). La stessa S.F.F. ha pubblicato nel 1978 Lis vòs dai miei dîs piardiiz (Poesie e teatro. Scelta a cura di N. Cantarutti). Fu anche

drammaturgo

(Mariute,

Il zoc,

L’amòr

vieri), curatore

di

importanti raccolte di canti popolari friulani, e lessicografo. Insieme con G. B. Corgnali redasse Il Nuovo Pirona. Vocabolario Friulano (Bosetti, UD"1935),

Usò la koinè letteraria. Bibl.:

Il suo cognome

in friulano:

Carlet.

B. Chiurlo 1922, pp. 71-75. — B. Chiurlo 1927, pp. 437-443. — G. Lorenzoni, Ercole Carletti, in « Ce fastu? » XXII (1946), pp. 1-9. — P. P. Pasolini 1949, p. (52 MEP MPa 052 IEONIVAZZED A ronco Mi960 pp 19535! — D. Virgili 1978, II, pp. 56-66.

CASTELLANI, Riccardo — Nacque nel 1910 a Bodensdorf (Carinzia) da padre carnico e da madre austriaca. Trascorse parte dell’infanzia nel paese carnico di Colza (Enemonzo). Dal 1922 visse a Casarsa. Morì a Barcis nel

1977. Professore di tedesco. I suoi primi versi friulani risalgono al 1942-1943 e vennero pubblicati da « Il setaccio » (Bologna), aprile-maggio 1943, e nel « Ce fastu? » XIX (1943), pp. 230-232. La sua non ampia produzione (29 liriche nella parlata di Casarsa e 8 in quella di Colza) è raccolta nel volume Ad dur dal mont (S.F.F., UD-1976). Fu anche prosatore. 14 suoi racconti

(7 in casarsese

e 7 in colzese)

sono stati raccolti a cura di G. D’Aronco nel volume I/ bati dal timp (S.F.F., UD 1978). Si dedicò anche alla raccolta di fiabe e leggende friulane

(cfr. G. D’Aronco,

Riccardo

Castellani

e la narrativa

popolare

friulana, Del Bianco, UD 1979). Le sue ricerche sulle parlate friulane del Pordenonese sono state riunite nel volume I/ friulano occidentale (Del Bianco, UD

1980).

Scrisse, come già s’è accennato, nel dialetto di Casarsa e in quello del villaggio carnico di Colza.

D20

Bibl:

P. P. Pasolini 1949, pp. 132-133. — P. P. Pasolini 1952, p. CXVI. — A. Ciceri 1975, pp. 614-627. — D. Virgili 1978, II, pp. 176-178. - G. D’Aronco 1982, III/1, pp. 117-132. — G. Faggin, Ricordo di Riccardo Castellani, in « Sot la nape » 1982, n. 4, pp. 71-74.

CEscutTI, Celso — Nacque e morì a Flaibano (1877-1966). Trascorse la sua vita tra questo paese e Udine. Era geometra, ma non esercitò la professione. Si occupava di compravendita di terreni. Il periodo felice della creatività lirica risale agli anni 1905-1912. Dal 1911 al 1929 pubblicò con pseudonimi le sue quattro raccolte di versi: Primevere (da lis stagions), Poesiis in argoment di Settimio Agreste di Vilebuine (Cengarle, Codroipo 1911); Ròses di Pradarìe, Poesies di Argeo (Del Bianco, UD 1921); Inzalidis d’autun lis fueis a colin, Poesiis di Settimio (Menini, Spilimbergo s.a., ma 1926); Név e fantasiis, realtàt e poesiis, di S.A.d.V. (Menini, Spilimbergo s.a., ma 1929). Nel 1972 G.

Faggin curò la scelta antologica Gris di Jugn, edita dalla S.F.F., che contiene anche alcune poesie inedite. Cessato il fervore poetico della giovinezza, si dedicò a studi astronomici e variamente

esoterici.

Scriveva nella koinè letteraria (eccezionalmente nella parlata di Flaibano). Il suo cognome in friulano: Cescut. Bibl:

B. Chiurlo

1922;

p. 75. =

1952, pp. CXVII-CXVIII. 1978, II, pp. 28-30.



B

Chiurlo

1927;

G. D’Aronco

pp.

1960,

430-437

pp.



371-375.

PP

—-

Pasolini

D.

Virgili

CoLussI, Antonio — È nato a Ospedaletto (Gemona) nel 1951. Si è laureato in pedagogia a Trieste e ha frequentato il Conservatorio Statale di Musica « J. Tomadini » di Udine. Insegna nella Scuola Elementare di Montenars. Dirige cori folcloristici. Dopo il volumetto di versi Requie par un om (autoedizione, Ospedaletto 1971), che già conteneva

alcune liriche non tradizionali (dedicate al

poeta udinese Gian Giacomo Menon), pubblicò l’ampia silloge Autopsie (La Nuova Base, UD

vanguardiste ». Scrive il suo letteraria. Bibl.;

1974), costituita da 80 composizioni

nome

(Toni

Colùs);

impiega

la koinè

A. Ciceri 1975, pp. 873-875. — D. Virgili 1978, Il, pp. 361302010 Morandini 1980, pp. 22-24. — R. Pellegrini 1981, pp. 111-114. — G. D’Aronco 1982, III/2, pp. 507-508.

524

alla friulana

tutte « neoa-

CragnoLINI, Enrica — Artegna, 1904 - Udine, 1973. Visse nel paese natale, dov’è sepolta. Benché laureata in filosofia al Magistero di Roma, si dedicò all’insegnamento elementare, che svolse ad Artegna. È presente con tre liriche nel « Ce fastu? » XX, 1944. Nello stesso « Ce fastu? », in « Il Strolic furlan » e in « Sot la nape » venne via via pubblicando il resto della sua produzione poetica. 15 composizioni edite e 28 liriche inedite sono state raccolte nel volumetto postumo E/ pujerdé

(S.F.F.. UD 1973). Scriveva nella koinè letteraria con qualche particolarità artegnese. Il suo nome alla friulana: Riche Cragnuline.

Bibl.:

P. P. Pasolini 1949, p. 139. — P. P. Pasolini 1952, p. CXIV. - A. Ciceri 1975, pp. 634-639. — D. Virgili 1978, II, pp. 169-170 —- G. D’Aronco 1982, III/1, pp. 87-91.

DE ApoLLoNIA, Mario — È nato nel 1940 a Romans (Varmo), dove vive. Studi classici. Diciotto sue poesie sono raccolte nella silloge Cjalant tal Hum la lune (Grafiche Editoriali Artistiche Pordenonesi, PN 1984). Ha scritto il romanzo I/ tip par ledrés (1982; II edizione, Ribis, UD 1985). Una serie di raccontini, dal titolo Drin e Delaide, in « La Vita Cattolica » (1978-1980). Ha collaborato alle radio locali. Scrive in koinè. Bibl.: G. D’Aronco, in « Il Gazzettino », 26 febbraio 1985.

pe GironcoLI, Franco — Gorizia, 1892 - Vienna, 1979. Compì gli studi liceali nel K. K. Staatsgymnasium di Gorizia. Si laureò in medicina, e si specializzò quindi in urologia, all’Università di Vienna. È stato il fondatore della moderna scienza urologica in Italia. Visse a Venezia, Conegliano, Treviso, Trieste e Firenze; dal 1970 a Vienna, insieme con la moglie Helma Brock, scrittrice in lingua italiana, che gli sopravvisse di due anni. Scrisse le sue prime poesie friulane a Conegliano nel 1943. Pubblicate dapprima in due edizioncine fuori commercio (Vò? poestis, 1944, e Altris poesiis, 1945), vennero raccolte nel volumetto Elegie in friulano (Edizioni di Treviso, Treviso 1951). Alcune nuove liriche vennero inserite nella nuova edizione di Elegie in friulano, edita dallo Scheiwiller (Milano 1968). Nove altre poesie nella « plaquette » La plòe ta pinède (Edizioni di Int Furlane, UD 1972). L’opera omnia del Poeta (35 composizioni

originali e 10 traduzioni dall’italiano, dal tedesco e dallo sloveno, nonché

D25

la versione del biblico Cantico dei Cantici) è riunita nel volume Poesie 2 friulano edito dal Comune di Gorizia nel 1977.

A Vienna fondò nel 1972 il « Fogolàr a partire dallo stesso anno un « Boletin l’Austrie », di cui uscirono 27 numeri. Scriveva nella koinè, ma con elementi Il suo nome in friulano: Franzil dai

Furlan de l’Austrie » e pubblicò d’Informazions del Fogolàr de goriziani e termini arcaici. Gironcui.

Bibl.: P. P. Pasolini 1952, pp. CXIV-CXV. — A. Ciceri 1975, pp. 640-645. — D. Virgili 1978, II, pp. 174-175. — C. Macor, Franco de Gironcoli, in «Studi Goriziani » IL (gennaio-giugno 1979), pp. 7-13. — G. Faggin, Franco de Gironcoli,

in « Iniziativa

Isontina » n.

72

(1980),

pp.

47-48.



1982, III/1, pp. 46-50. - M. Chiesa e G. Tesio 1984, II, pp. Faggin, L’Erlkonig in friulano, in Ars Maieutica (Studi in onore Faggin), a cura di F. Volpi, Vicenza 1985, pp. 59-69.

G.

D’Aronco

17-21. — G. di Giuseppe

GracomINnI, Amedeo — Nato a Varmo nel 1940. Vive a Codroipo. Dal 1985 insegna Lingua e letteratura friulana all’Università di Udine. Ha pubblicato in italiano due romanzi: Marovre (Rizzoli, Milano 1968) e Andrea in tre giorni (Rebellato, Padova 1981), nonché due volumi di poesie: La vita artificiale (Rebellato, Padova 1968) e Incostanza di Narciso (Scheiwiller, Milano 1973). Autore di saggi critici e di studi filologici, tra cui la prima edizione completa delle poese friulane del secentesco Eusebio Stella (S.F.F., UD 1974).

La prima raccolta in friulano, Tiare pesante (Benvenuto, UD

1977), è

stata riproposta in Vér (Scheiwiller, Milano 1978). Presso lo stesso editore è apparsa la successiva silloge, Sfuejs (1981). Le liriche con cui ha vinto il premio Firpo di Genova sono state edite con il titolo Fuejs di un an dalle Edizioni S. Marco dei Giustiniani

(Genova s.a., ma

1984).

Scrive nella parlata di Varmo, molto vicina alla koinè. Bibl.: A. Ciceri, in «Sot la nape» 1976, n. 4, pp. 97-98 (recensione di Tiare pesante). - A. Ciceri, in « Sot la nape» 1978, n. 3-4, p. 141 (recensione di Var). —- D. Virgili 1978, II, pp. 379-380. — L. Morandini 1980, pp. 25-29. — R. Pellegrini 1981, pp. 107-108. — A. Ciceri, in « Sot la nape» 1982, n. 1, p. 93 (recensione di Sfuejs). - G. D’Aronco 1982, III/2, pp. 461-465. — M. Chiesa e G. Tesio 1984, pp. 285-294. — A. Ciceri, in « Sot la nape » 1984, n. 2-3, p. 90 (recensione di Fuejs di un an).

Macor, Celso — È nato a Versa (Romans d’Isonzo) nel 1925. Risiede

a Lucinico (Gorizia). Titolare dell’Ufficio Stampa e Pubbliche Relazioni del Comune di Gorizia. Dirige le riviste « Iniziativa Isontina » e « Alpi-

526

nismo Goriziano »; scrive anche su « Voce Isontina », di cui è vicediretto-

re.

Ha pubblicato diversi saggi corografici relativi al Goriziano e dedicati in particolare alla montagna e alla storia dell’alpinismo. Ricordiamo Julius Kugy, lo scopritore delle Alpi Giulie (Iniziativa Isontina, GO 1966; CAI 1977)

e Duecento

anni

di alpinismo

sul Tricorno

Il volume Impid peraulis (S.F.F., GO zione poetica in friulano

(CAI

1978).

1980) contiene la sua produ-

(13 poemetti).

In I vòi dal petaròs (Clape Culturàl Aquilee e Voce Isontina, UD 1986) sono raccolte le sue prove nel campo della narrativa. Scrive nella parlata di Versa, con qualche innesto proveniente dall’area di Lucinico. Bibl.: G. Faggin, in «Studi goriziani » LI-LII (1980), pp. 105-106 (recensione Impià peraulis). - G. D’Aronco 1982, III/2, pp. 275-279. — R. Pellegrini, « Corriere del Ticino », 10 novembre 1984 (recensione di Impid peraulis).

MinuTr,

Giovanni



Visco,

1895

- Montevideo,

1967.

di in

Agitatore

socialista (poi comunista), fu il leggendario protagonista delle lotte contadine nel Friuli ex austriaco. Con l’avvento del fascismo dovette esulare in America Latina. In Uruguay diresse un’azienda zootecnica e scrisse in spagnolo importanti opere sull’industria casearia. Renato Jacumin ha dedicato al Minut una monumentale ricerca storica, Le lJotte contadine nel Friuli orientale 1891-1923 (Doretti Editore, UD 1974). Il suo volumetto Rirzis furlanis, apparso a Gorizia presso la Tipografia Sociale nel 1921, contiene 22 poesie. Stroncato dalla stampa dell’epoca,

ignorato dalle antologie friulane, è stato riscoperto da Giorgio Faggin nel 1972 (articolo su « Friuli d’oggi » del 17 aprile 1972) e opportunamente ristampato in edizione anastatica dagli editori Ribis di Udine nel 1977. Scriveva nel friulano della Bassa, non lontano dalla koinè letteraria. Bibl.:

G. Placereani, Giovanni Minut poeta bocciato?, in settembre 1977, pp. 49-53. — C. Macor, Giovanni Minut.

«Quaderni friulani », Agitatore contadino e

poeta, in « Iniziativa Isontina », n. 69 (marzo 1978), pp. 66-67.

NaLpiNnI, Domenico (Nico) — È nato a Casarsa nel 1929. Cugino di Pier Paolo Pasolini, da parte di madre (Colussi). Vive a Treviso.

Iniziato alla poesia friulana dal Pasolini, scrisse le sue prime liriche a 14 anni, fu segretario dell’« Academiuta di lenga furlana » e collaborò a tutte le rivistine friulane del Pasolini (i quattro « Stroligut », 1944-1946, e il « Quaderno Romanzo » del 1947).

DZ

Le sue liriche friulane vennero raccolte nel volumetto Seris par un frut (Edizioni dell’Academiuta, Casarsa 1948), ripubblicato con l’aggiunta di poesie friulane, chioggiotte e italiane in Un vento smarrito e gentile (Scheiwiller, Milano 1958). Laureatosi in Lettere all’Università di Trieste, si trasferì a Milano, dove fu redattore e quindi dirigente della Casa editrice Longanesi. Lavorò poi per il cinema, quale dirigente della Pea di Roma. Nel 1974 realizzò il film Fascista. Ha scritto sul Leopardi (La vita e le lettere di Giacomo Leopardi, Garzanti, Milano 1982) e sul Comisso (Vita di Giovanni Comisso, Einaudi, Torino 1985). Al Pasolini ha dedicato tra l’altro il volumetto Nei campi del Friuli (La giovinezza di Pasolini) (Scheiwiller, Milano 1984), e ne sta curando attualmente il vasto epistolario [pubbl. nel dic. del 1986]. Bibl.: P. P. Pasolini 1949, pp. 133-134. — P. P. Pasolini 1951, pp. CKVI-CXVII. — P. P. Pasolini, in « Il Belli», II, n. 2, maggio 1953, p. 46. — A. Ciceri 1956, p. 39. — A. Ciceri 1975, pp. 608-613. — D. Virgili 1978, II, pp. 202-205.

PasoLINI, Pier Paolo — Bologna,

1922 - Ostia, 1975. Dalla madre,

Susanna Colussi, apprese i primi rudimenti di friulano. Dal 1943 al 1949 visse prevalentemente a Casarsa, dove nel 1945, insieme con nove giovani amici, fondò 1’« Academiuta di lenga furlana ». A Casarsa pubblicò cinque rivistine letterarie: Stroligut di cà da l’aga (aprile 1944, agosto 1944), Il Stroligut n. 1 (agosto 1945), Il Stroligut n. 2 (aprile 1946), Quaderno

romanzo n. 3 (1947). Esse sono state ripubblicate dal Circolo filologico linguistico padovano

(Padova

1983).

Esordì, in un ibrido friulano, col volumetto Poesie a Casarsa (Libreria Antiquaria Mario Landi, Bologna 1942). La silloge successiva fu Dov'è la mia patria (Edizioni dell’Academiuta, Casarsa 1949), che contiene, oltre

a poesie in casarsese, altre liriche scritte nella parlata di diversi paesi del basso Pordenonese. Altri versi friulani in una edizioncina pubblicata a Tricesimo nel 1953: Tal còur di un frut. Una scelta dalle suddette raccolte, arricchita da nuove poesie, costituisce La meglio gioventà (Sansoni, Firenze 1954). Altre liriche del decennio 1943-1953 nel volumetto Poesie dimenticate

La nuova

(S.F.F., UD

1965; ristampato nel 1976).

gioventù è apparsa

a Torino, presso

(ristampata nel 1981). È costituita da due sezioni:

Einaudi, nel 1975 dalla ristampa di La

meglio gioventà (con l’aggiunta di alcune liriche allora non pubblicate) e dalla « Seconda forma de La meglio gioventù » (1974), seguita da « Tetro entusiasmo » (1973-1974).

Un lavoretto teatrale, I Turcs tal Friùl, risalente agli anni di Casarsa,

528

è stato ritrovato dopo la morte Doretti di Udine (1976). Nel periodo casarsese

del Poeta e stampato dalla Tipografia

il Pasolini scrisse anche numerose liriche in a costituire la raccolta L’usignolo della Chiesa

italiano, che andarono cattolica (1958).

Riteniamo fuori luogo occuparci qui della multiforme attività del Pasolini sul versante della cultura italiana, in qualità di poeta, narratore, saggista e regista cinematografico. Rimandiamo a una recente enciclopedia o storia letteraria. Pasolini usò prevalentemente il linguaggio di Casarsa, ma ai suoi esordi (1942) era ancora incerto tra la koinè e la parlata locale. In La meglio gioventà (1954) ripubblicò i suoi primi versi dando loro una corretta veste casarsese. Bibl.: È impossibile in questa sede elencare le numerossime voci bibliografiche relative al Pasolini poeta. Si invia pertanto alla Nota bibliografica di M. Chiesa e G. Tesio 1984, pp. 7-8. Segnaliamo due opere uscite posteriormente: Pier Paolo Pasolini. L’opera e il suo tempo, a cura di Guido Santato (Cleup Editore, Padova 1983) e AA.VV., Pier Paolo Pasolini. «Una vita futura» (Garzanti, Milano 1985). Quanto alla bibliografia friulana, oltre alle solite Antologie (A. Ciceri 1975, pp. 576-607; D. Virgili 1978, II, pp. 191-201; D’Aronco 1982, III/1, pp. 234-245), ricordiamo l’eccellente analisi storico-critica di R. Pellegrini (1981, pp. 5-55).

PauLuzzo, Nadia — È nata nel 1931 a Udine, dove risiede e dove è preside di una Scuola media. Moglie dello studioso Gianfranco D’Aronco. Tre sillogi poetiche: Ur fîl di vite (Il Tesaur, UD 1959), Cjant di x

vene (Il Tesaur, UD

1983). Ha

1965), Cjantà furlan (La Nuova Base, UD

scritto anche due romanzi, pubblicati entrambi I/ bintar (1974) e Prapavèris (1977).

Udine:

s.a., ma

dalla S.F.F.

di

È autrice di racconti ed elzeviri in italiano. Si è occupata inoltre dei due maggiori poeti friulani del ‘600, Ciro di Pers (Ciro di Pers poeta barocco?, S.F.F., UD 1968) ed Ermes di Colloredo (Edizione critica dei sonetti del Colloredo, S.F.F., UD 1971). Scrive nella koinè. Il suo nome alla friulana: Nadie Pauluce. Bibl.:

A.

Ciceri

1975,

pp.

764-772.



D.

Virgili

1978,

II, pp.

307-312.

Pellegrini 1981, pp. 63-65. — G. D’Aronco 1982, III/2, pp. 361-379. Ciceri 1984, pp. 218-221 (cfr. anche la prima parte del volume).

=i Ri —

A.

PirtaNA, Angelo — Angelo Maria Pittana, o Agnul di Spere, è nato a Sedegliano nel 1930. Vive a Locarno. Ingegnere civile, lavora nel settore

DR9

della progettazione autostradale, alle dipendenze dell’amministrazione del Canton Ticino. È presidente della Union Scritòrs Furlans, sorta nel 1982 a Udine. Ha pubblicato due raccolte di versi: Semzanziche dal flaut (Clape

Culturàl R. di Valvason, PN 1975) e Ur Istét (Ribis, UD 1983). Il volume I/ sît di Diu (Ribis, UD 1983) contiene 26 racconti. Si è cimentato anche nel difficilissimo campo della traduzione in friulano di classici stranieri, traducendo alcuni racconti di Hemingway, un dramma di Tennessee Williams, liriche di Nazim Hikmet e di poeti

romanci contemporanei. Per converso ha curato edizioni di poesie trasposte in altre lingue. Attivo pubblicista, si sforza di dare dignità e varietà al magro del giornalismo in friulano. Collabora a « La Vita Cattolica » e periodici. Scrive nella koinè letteraria, sperimentando innovazioni lessicali ardite. Bibl.:

friulane settore ad altri

a volte

A. Ciceri, in « Sot la nape» 1980, n. 3-4, p. 151 (recensione di Ur Istdt). — G. D’Aronco 1982, III/2, pp. 320-327.

SPAGNOL, Antonio — Meglio noto con il vezzeggiativo di Tonuti, è nato a Versa (Casarsa) nel 1930. S'è diplomato maestro. È funzionario di una Compagnia di Assicurazioni. Vive a Verona. Fu uno dei discepoli prediletti di Pasolini. Esordì con due pagine di prosa, in dialetto casarsese, in I/ Stroligut n. 1 (agosto 1945) e Il Stroligut n. 2 (aprile 1946). Il Quaderno romanzo n. 3 (1947) pubblicò la sua prima lirica. Quando, nel 1948, lasciò Casarsa, affidò a Pasolini un quadernetto di versi (La Cresizza), che rimase a lungo inedito.

Nel dicembre 1985 le Edizioni Concordia Sette di Pordenone hanno pubblicato i versi di La Cresizza, unitamente ad altri risalenti agli anni 1944-1950, nel volume La Cresimza e Timp piardut (Tutte le poesie friulane). Il curatore della silloge, che comprende 58 testi lirici di Tonuti, è Amedeo Giacomini, il cui ampio saggio introduttivo (dal titolo Pasolini a Casarsa: quasi un racconto) costituisce un apporto fondamentale alla già ricchissima bibliografia sull’argomento. Bibl:

530

P..P. Pasolini ‘1949 p"134=TP; PPasolihi VISA p TV Pasolini, in « Fiera letteraria », 6 giugno 1954. — A. Ciceri 1975, pp. 632-633. — D. Virgili 1978, II, pp. 209-210. — G. D’Aronco 1982, III/2, pp. 335-341. — N. Naldini, Nei campi del Friuli (La giovinezza di Pasolini), Milano 1984, passim. — A. Ciceri, in «Sot la nape» 1986, n. 1, p. 83 (recensione di La Cresizza e Timp piardut).

VALENTINIS, Umberto — È nato ad Artegna nel 1938. Vive a Udine. Farmacista presso l'Ospedale Civile di Udine, dove tiene anche corsi di farmacologia. Nel 1967 collaborò con 25 liriche al volume antologico La Cjarande, edito da La Nuova Base di Udine. 30 nuove poesie sono raccolte nel volumetto Salustri (S.F.F., UD

1968). Altri versi più recenti sono

stati

pubblicati in « Sot la nape » 1975, n. 3, pp. 5-10. Pregevole la sua attività di miniaturista e soprattutto di incisore; ma essa è nota, purtroppo, solo a pochi intimi. Scrive nella koinè letteraria, con concessioni al friulano parlato nell’area artegnese. Bibl:

A. Giacomini, La poesia di Umberto Valentinis, in « La Panarie» n. 4 (marzo 1969), pp. 14-17. — A. Ciceri 1975, pp. 862-870. — D. Virgili 1978, II, pp. 346-349. — R. Pellegrini 1981, pp. 108-111. — G. D’Aronco 1982, III/2, pp. 448-453.

VaLLERUGO,

Ida — È nata nel 1946 a Meduno, dove vive. Insegnante

nel suo paese. I suoi versi in italiano, raccolti nelle due sillogi La porta dipinta (Ed. Pan, Milano 1968) e Interrogatorio (Ed. Collettivo R, Firenze 1972), sono stati notati dalla più attenta critica nazionale. È anche autrice di testi teatrali. Dopo un silenzio di molti anni, si è ripresentata come poetessa in friulano. Il periodico udinese « Il punto » 1983, n. 6, ospitò alcune sue liriche. Due di queste, insieme con cinque composizioni inedite, sono state

pubblicate nel volume Scrittrici contemporanee

in Friuli, a cura di M.

Tore Barbina e di A. Nicoloso Ciceri (Rebellato, Torre di Mosto

1984).

Scrive nella parlata di Meduno. Bibl.:

A. Ciceri 1984, pp. 240-244. (cfr. anche la prima parte del volume).

VireiLI, Dino — Ceresetto (Martignacco), 1925 - Udine, 1983. Insegnò in una scuola elementare di Udine. Nel 1949 fu tra i fondatori del movimento « Risultive », che ebbe in

lui uno degli esponenti più attivi e di maggiore spicco. Affidò i suoi versi alle pubblicazioni collettive di « Risultive » (dal 1950) e alle riviste della S.F.F. (dal 1949). Raccolse una trentina di poesie nel volumetto

Furlaris (« Risultive », UD

1968).

È autore del primo romanzo in friulano, L’aghe dapît la cleve, che cominciò a uscire a puntate nel 1951 e fu raccolto in volume nel 1957

531

(ripubblicato da Chiandetti, Reana del Roiale 1979). I suoi racconti e prose liriche sono stati riuniti nella silloge Paisaris (« Risultive », UD 1984).

Compilò l'antologia della letteratura friulana La flor (2 volumi, S.F.F, UD 1968; II ediz., 2 volumi, S.F.F., UD 1978). Scrisse inoltre libri per ragazzi e vari saggi di storia e critica letteraria. Usò la koinè letteraria. Bibl.: P. P. Pasolini pp. 692-708. — 81-83, 88-90. — Virgili. Una vita

1949, pp. 137-139. — A. Ciceri 1956, p. 45. — A. Ciceri 1975, D. Virgili 1978, II, pp. 231-240. — R. Pellegrini 1981, pp. G. D’Aronco, 1982, III/2, pp. 280-290. — E. Sgubin, Dizo per il Friuli, in « Studi Goriziani », LIX (gennaio-giugno 1984),

pp. 91-112.

Vir, Giacomo — È nato nel 1952 a S. Vito al Tagliamento, ma è sempre vissuto (e vive) a Bagnarola (Sesto al Reghena), il paese paterno.

Operaio e autodidatta, ha conseguito privatamente il diploma magistrale nel 1980, e nel 1985 ha iniziato nel paese di Varmo la sua carriera di insegnante. Studia pedagogia all’Università di Trieste. Le sue prime poesie friulane, composte nella parlata di Bagnarola, risalgono al 1976-1977. Da allora il Vit ha partecipato a numerosi concorsi di poesia dialettale sia triveneti che nazionali, ottenendo importanti riconoscimenti; talché, paradossalmente, è più noto fuori del Friuli che non nella sua Regione. Ha collaborato ai « Quaderni della FACE » (n.

55 [1979], pp. 11-15; n. 61 [1982], pp. 69-75; n. 64 [1984], pp.

13-16). La sua prima pubblicazione organica è la silloge di 21 liriche Miel strassada (Roma 1985), con cui conseguì nel 1984 il premio « Michele Cima » di Riccia (Campobasso).

Una racconto

promettente

primizia nel campo

Addestramento

[1984], pp. 23-26).

alla morte

della narrativa

(« Quaderni

italiana

della FACE », n.

è il 63

Scrive nel friulano di Bagnarola. Bibl:

G. D’Aronco

1982,

friulano, in « Ladinia»

III/2, VII

pp.

543-544.



G. Faggin,

Giacomo

Vit,

poeta

(1983), pp. 243-251.

ZANIER, Leonardo — È nato a Maranzanis (Comeglians) nel 1935. Come il padre e il nonno, emigrò all’estero, esercitando diversi mestieri. Dopo un anno di Marocco (1954-1955), passò in Svizzera, dove visse dieci anni, occupandosi attivamente dei problemi sociali e professionali degli

592

emigrati. Trasferitosi a Roma, vi dirige l'Ufficio studi formazione e ricerche dell’ECAP-CGIL. Nel 1960-1962 compose le poesie che andarono a formare la raccolta Libers ... di squignit laa (Edito a cura del Circolo ricreativo culturale « Val Degano », Ovaro 1964), che venne ripubblicato più volte in Friuli (1969, 1971,

1972)

e, qualche

tempo

dopo, anche

da un

importante

editore

nazionale (Libers .. di scugnî là, Garzanti, Milano 1977). Le pubblicazioni successive, con poesie e prose di vario contenuto, sono Che Diaz... us al meriti (Circolo culturale Colavini, Aiello 1976; II ediz., Centro editoriale friulano, Aiello 1979) e Sboradura e sanc (Nuova Guaraldi, Firenze 1981). Ha curato inoltre il volume La lingua degli emigrati (Guaraldi, Firenze 1977), nonché altre pubblicazioni relative alla formazione professionale dei giovani emigranti.

Bibl: A. Ciceri 1975, pp. 820-832. — D. Virgili 1978, II, pp. 326-328. — A. Ciceti, in « Sot la nape » 1979, n. 2-3, p. 125 (recensione di Che Diaz... us al meriti). — L. Morandini 1980, pp. 34-40. — A. Ciceri, in « Sot la nape» 1981, n. 1, p. 67 (recensione di Sboradura e sanc). — R. Pellegrini 1981, pp. 102-105. — G. D’Aronco 1982, III/2, pp. 428-437.

ZANNIER, Domenico — È nato nel 1930 a Pontebba, ma si trasferì presto con la famiglia a Casasola (Maiano), dove vive. Sacerdote, esercitò il suo ministero a Noiariis (Sutrio), Pradamano, Castions di Strada e Lusevera. Laureatosi successivamente in lettere all’Università di Trieste, in-

segna da numerosi anni nella scuola media di Buia. Ha

scritto

(1953-1955)

quattro

e Furlanìe

poemi:

Les

culines

di cîl pure in sesta rima

palides

in

sesta

(1956-1963),

rima

che sono

stati pubblicati assieme con il titolo I dîs dai ciclamìns (Editrice Laurenziana, Buia 1976); L’àncure te Natisse in endecasillabi sciolti (1967-1970) (La Nuova Base, UD 1972); I dumblis patriarcài pure in endecasillabi sciolti (1973-1974) (Editrice Graphik Studio, UD 1982). È presente con 25 liriche nel volume antologico La cjarande (La Nuova Base, UD 1967). Ha pubblicato successivamente le raccolte Tal gore dal soreli (La Nuova Base, UD 1968) e De bande de vite (Arti grafiche friulane, UD 1969). Notevole il poemetto mistico Fevelade a Diu (Ribis, UD 1979).

Sul periodico « Patrie dal Friùl » pubblicò a puntate, tra il 1959 e il 1962, La crete che no vai, secondo romanzo della letteratura friulana, nel

quale sperimentò per la prima volta i segni diacritici (pipe). È uscito in volume presso Ribis (UD) nel 1977. Nel 1952 fondò a Casasola la Scuele Libare Furlane, associazione di

DDS

maestri che si impegnavano a insegnare il friulano ai ragazzi in età scolare. Organo del sodalizio fu il periodico Scune Furlane, di cui tra il 1958 e il 1965 apparvero dodici numeri. Per la sua fervida militanza letteraria e culturale a favore del popolo friulano, è stato segnalato nel 1986 al Comitato del Premio Nobel (Oslo), dai professori Hans Goebl, Rudolf Baehr e Dieter Messner (tutti dell’Uni-

versità di Salisburgo) e Zoran

Konstantinovié

(dell’Università

di Inns-

bruck). Scrive nel friulano centrale e nella koinè letteraria. Bibl.: C. Sgorlon, in « La Vita Cattolica », 20 luglio 1969 (recensione di De bande de vite).



G.

Faggin,

in

«Messaggero

del

Lunedì»

(UD),

26

marzo

1973

(recensione di L’àncure te Natisse). — A. Ciceri 1975, pp. 780-787. — D. Virgili 1978, II/, pp. 337-340. — R. Pellegrini 1981, pp. 100-101.

Zor, Galliano — È nato nel 1933

a Santa Maria La Longa, dove ri-

siede. Si è laureato in lettere a Trieste e in filosofia a Urbino. È preside di Scuola media. Ha collaborato, rispettivamente con 15 e con 25 testi lirici, ai volumi antologici Un carantan di puisie (Arti grafiche friulane, UD 1966) e La cjarande (La Nuova Base, UD 1967). Di questa seconda opera fu anche curatore, insieme con Mario Argante e Domenico Zannier. Pubblicò in seguito una serie di sillogi e di « plaquettes », tra cui vanno ricordati: Lidrîs di tuessin (La Nuova Base, UD 1968), Par cence levan (UD 1969), De bande dai siérs (Ed. Cartolnova, UD 1976; II ed., La Nuova Base, UD 1977), Contadinance (Ribis, UD 1977). Il volumetto F/érs (La Nuova

Base, UD 1981) raccoglie una scelta di liriche degli anni 1961-1980. Scrive nel friulano centrale. Bibl:

534

F. Amato, La poetica di Galliano Zof, in « La Panarie », n. 18-19 (1972), pp. 50-54. — A. Ciceri 1975, pp. 810-814. — D. Virgili 1978, II, pp. 341-343. — R. Pellegrini 1981, p. 100. — G. D’Aronco 1982, III/2, pp. 390-400.

BIBLIOGRAFIA

ESSENZIALE

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sono

P. P. Pasolini,

Franco

de Gironcoli,

Lelo

Cjanton,

A. Giacomini

e E.

Bartolini).

Binpo ChiurLo, La letteratura ladina del Friuli, IV ediz. aggiornata, Libreria Carducci, Udine 1922 (pp. 112). —, Antologia della letteratura friulana, Libreria Editrice Udinese, Udine 1927 (pp. 512); ristampa anastatica (con ampio aggiornamento di A. Ciceri), Edizioni « Aquileia », Tolmezzo 1975. AnpREINA Ciceri, I Friulani, in « Il Belli » n. 3, Roma 1956, pp. 35-46. —, I contemporanei

(1940-1975),

in appendice

alla ristampa

anastatica di B. Chiurlo,

Antologia della letteratura friulana, Edizioni « Aquileia », Tolmezzo

1975, pp. VI, 513-928. —, (Andreina Nicoloso Ciceri), Scrittrici friulane contemporanee in lingua friulana, in AA.VV., Scrittrici contemporanee in Friuli, Rebellato, Torre di Mosto 1984, pp. 175-246 (alle pp. 247-444 un’Antologia con liriche di 20 autrici). Mario

DeLL’Arco, vedi P. P. Pasolini. GranFRANco D’Aronco, Nuova antologia della letteratura friulana, Libreria editrice Aquileia, Udine-Tolmezzo 1960 (pp. 844); II ediz. in 4 tomi, Ribis, Udine 1982 (i tomi III/1 e III/2, dedicati al secondo Novecento e di complessive pp. 574, sono inediti; i primi due sono una ristampa dalla I ediz.). Grorcio Faccin, La letteratura ladina del Friuli negli ultimi trent'anni, in «La Panarie », n. 15 (1971), pp. 3-34.

—, (con Michael Zielonka), Friaulische Lyrik. Eine Anthologie, Editrice Grillo, San Daniele 1975 (pp. 164; 49 liriche di 15 poeti, in traduzione tedesca con testo originale a fronte).

-, Letteratura

ladina del Friuli, in «Enciclopedia monografica del Friuli-Venezia Giulia », III/2 (1979), pp. 1243-1263. Amepro Giacomini, Poeti dialettali friulani del secondo dopoguerra, in Pubblicazioni della Facoltà di lingue, Miscellanea I, a cura di M. Cortelazzo, 151-163. (Già in « Majano Nuova », I semestre 1970).

Udine

1971, pp.

Luciano MoranpINI, Antologia minima dell’attuale poesia in friulano, in «La Battana » (Fiume/Rijeka), n. 56 (1980), pp. 5-40. Pier PaoLo PasotLini, Poesia d'oggi, in « La Panarie », maggio-dicembre 1949, pp. 131-139. - (con Mario Dell’Arco), Poesia dialettale del Novecento, Guanda, Parma 1952 (sui Friulani a pp. CX-CXIX e 339-373).

295

Rienzo

PELLEGRINI,

Aspetti

e problemi

dopoguerra, Editrice Grillo, Udine Giovanni Tesro, vedi M. Chiesa. Dino

VirciLI,

Friulana,

La Flér.

Udine

Friulana, Udine

1968 1978

della

letteratura

in friulano

del

secondo

1981 (pp. 128).

Letteratura

ladina

(pp. 332

e 386);

del Friuli,

volumi

2, Società

Filologica

II ediz., volumi

2, Società

Filologica

(pp. 332 e 408).

DomeENICO ZANNIER, La letteratura friulana moderna, in U. Bernardi, Le mille culture, Coines Edizioni, Roma 1976, pp. 212-234. MicHAEL ZIELONKA, vedi G. Faggin.

536

INDICE

DEGLI

AUTORI

CITATI

Questo Indice non registra i nomi compresi nella Bibliografia Essenziale né quelli che compaiono nelle noticine poste in calce a ciascuno dei ventinove profili bio-bibliografici. Sono scritti in maiuscoletto i nomi dei poeti che figurano nell’Antologia, e in neretto le cifre che rimandano alle pagine della stessa.

Achterberg G., 80

Burese

Agreste (Settimio A. di Vilebuine), vedi Cescutti €. ANGERNESSO 0,09 25075102/8-283 510, Anzil, 520 NP.PINRS32M 65 6807971318329 4520 Arbasino A., 10

ArcanTE M., 520, 534

63-65,

Argeo, vedi Cescutti SCO

Gale

66,

266-277,

C.

Baehr R., 534 Baldissera P., 63 Balestrini N., 72 Balzan R., 9 Barbe, Siòr, vedi Driulini G. Barnaba F., 66 BartoLINI E., 15, 76, 432-437, Basso G.M., 70 Bauzon A., 41, 62 Benn G., 67 Biasatti P., 70 Binni W., 30

BorLoti0

NGN 29INN0

Brock 1525 Broili T., 39, 40 Brusini A., 63, 163

438-461,

Butaton J., vedi Buttazzoni Buttazzoni G., 39

G.

Cadèl V., 41, 58, 78 Candoni L., 75 CGNTRUIII NS

EDI

GII62, 63/70,_79. 284309” 310,521 DZZOZI

8, 45

Blanch V.G., vedi Rodaro Bonini P., 40 Bortolussi E., 63

336,

E., 16, 29, 30, 76-77,

DL

L.

CANTONI A., 61, 62, 310, 314-317, 522 Carducci G., 29, 40 CARCETTTA 7138212280229) 41-42

43-112-125)

Csi

Ro

ROMS

25 69

525

ei

2

SRO

250 95 VE NZ200-229

0525:

524. Cecut

521

P., vedi Grillo P.

(Cestqunia (06 202: 46, 57, 84-111, 524

276



Chiuno Bb. 637 39) 40) 420043, 48, 50 Giceri CA. 725 73, 179, (80,81, DOES

eZ),

4508475 374,506

Gieutim Il, 69 Cirese A.M., 19 Cjanton L., vedi Cantoni A.

Collodi Colloredo

G., vedi Collorig G. E. di, 14, 26, 38, 49, 529

Collorig G., 47 Colùs T., vedi Colussi

A.

537

CoLussi A., 15, 71-72, 77, 80, 396-403, 524 GolissitO 26853079 Comelli F. de, vedi de Comelli F. Comisso G., 55, 528 (Contini GRi24 850051652 Corgnali G.B., 7, 42, 523 Corti M., 14, 76, 426 Corvatt P., vedi Michelini P. Costantini E., 69 Cottafavi V., 75 CraGNoLINI E., 63-64, 68, 256-265, 525 Darfo R., 55 D’Aronco G., 69, 254, 523, 529 De ApoLronia M., 12; 17 33,

498-503, 525

70-71,

dll

al, 22

27

20

Del Bianco D., 39 DelArto NIN 2I8864AMIONM705 SEO RISATA ARI SN:

Deperis A., 47 de 'Steffàneo N., 39 Di Giacomo S., 41 Di Spere A., vedi Pittana Donato G. B., 153 D’Orlandi L., 66, 522 Driulini G., 48

Ellero G., 20, 53, 64 Eminescu M., 211 Ermacora

Faré

Ch., 48, 53

P.A., 15, 139

Fignon B., 79, 80

Filli G.L., 39 Fior G., 72-73 Fioretti L., 79, 81

Firpo E., 54 Forte M., 63 Friedrich C.D., 57

Fruch E., 40-41, 57 Gallerio G. B., 39, 63 Garcia Lorca F., 55, 65

Gastaldi

238

M., 224

Goebl H., 534 Gottardis E., 73 Grillo. P., 69 Guerra A., 54 Hemingway E., 530 Hikmet N., 530 Hoélderlin F., 67 R., 69, 527

Jahier P., 62 Konstantinovit

48-51, 57, 134-161, 525-526

A. M.

78,

Ginorio, vedi Carletti E. Gioitti del Monaco M., 65

Jacumin

De Biasio A., 79, 80

Debussy A., 77 de Comelli F., 39 ina (Grove pa

George S., 67 Giacomini A., 14, 15, 67, 75-76, 246, 247, 426-431, 507, 526, 530

Z., 534

Leopardi G., 26, 44, 55, 67, 245, 528 G., 41, 43, 61

Lorenzoni

Macor C., 19, 69-70, 486-497, Malattia G., 78 Marchetti G. (Gelindo), 61

Marchetti 522

G. (Giuseppe),

526-527

26, 59-61, 62,

Marcuzzi E., 70 Marinetti F. T., 43 Marini Barnaba F., vedi Barnaba Marpillero G., 73 Mazzon J., 63 Menon G.G., 524 Messner D., 44, 534 Meyer-Liibke W., 15

Michelini P., 40, 63 Minur G., 18, 19, 27

126-133, 527

F.

34, 47004872681

Mizzau À., 72 Montale E., 14, 50, 55, 62 Morandini L., 72, 76 Moro E., 520 Muzzolini O., 62 INALDINED

ANSE ONMI5

20829853551

79, 230-245, 527-528 Nazzi Matalon G., 39 Nicoloso Ciceri A., vedi Ciceri A. Nietzsche F., 47 Nievo I., 35 Nonini T., 77

Ostermann

V., 38

SPagnoL A.(T.), 10, 26, 53; 55, 79, 246-

255, 530

Pacòt P., 54 Paroni R., 79, 80 Pascoli 141022 29741042 PASORINE RIPARO so 19) 20022-21,028) 29.032; 54, 42, 431 44, ASS 05557 DITTE 62063, (64,165, 74 16,021), 195 162199, 229; 469, 521, 527, 528-529, 530 PauLuzzo N., 70, 330-335, 529 Pellegrini R., 37, 38, 51, 66, 70, 72, 76,

455

Steffaneo N. de, vedi de Steffaneo N. Stella E., 38, 78, 526

Strassoldo G., 511 Tea, 30, 77 Tellini A., 45-46 Tommaseo N., 18, 19 Tore Barbina M., 506, 531 Tosi M., 34 Tracanelli N., 79 Maid Go COLA

Pellis U., 45, 46, 47, 69

Percoto C., 39 Pers C. di, 529 Pezzani R., 54 Piovene G., 35 Pirona G.A., 7, 38, 42 Pirona J., 7, 38, 46 PrrtAanA A.M., 16, 33, 77-78,

Ucel M., vedi Muzzolini

O.

VALENTINIS

66-68,

U.,

29-30,

368-395, 531 VaLLeRUGO I., 29, 30-32, Dl 404-425,

529-530

Rilke R.M., 67, 77 Rodaro L., 46 Salvi S., 73 Sanguineti E., 72 Santon P., vedi Biasatti P. Scarpa G., 58 Schiff G., 48 Schopenhauer A., 44 Scquek, vedi Vergendo D. Scuec, vedi Vergendo D. Secco O., 163 Sporflon_G., 16, 28; 39, 64, 65, 66, /1, 361, 431, 443, 453 Sgubin E., 47 Shakespeare W., 56 Siér Barbe, vedi Driulini G. Snaidero R., 63 Someda de Marco P., 65

79,

71,

77,

504-517,

Vergendo D., 73 Villon F., 523 VIRGILI D., 46, 60, 61, 62, 70, 246, 310-

3159531932 Visintainer

G., 46

Vir G., 15, 29, 33, 79, 81, 462-485, 532 Weinheber Williams

J., 14 T., 530

Zamboni A., 163 Zaneto, vedi Schiff G. ZANIER L., 19, 68-69, 80, 348-361, 533 ZANNIER

D.,

33, 66,

70, 336-347,

532533-

534 Zannier G., 38 Zardini E., 47 Zielonka

M., 10, 33

Zigaina G., 67 Zor G., 66, 69, 336, 362-367, 534 AOL

AT NA2A34507

52062

DIS

INDICE

Avvertenza

Presentazione

(di W.

Belardi)

La poesia friulana del Novecento (di G. Faggin) Cenni introduttivi Gli inizi del Novecento . Celso Cescutti (Argeo) Il periodo tra le due guerre . Franco de Gironcoli . PiarPaolo Pasolini e lì Acadefmiuta» Riccardo Castellani . Novella Cantarutti I poeti di « Risultive » . . Altri poeti del rinnovamento postbellco Umberto Valentinis . Poeti impegnati, ii oa Il grande « ritorno » degli anni Settanta . Rigoglio poetico nella Destra Tagliamento . Antologia (a cura di W. Belardi) .

»

Celso Cescutti

Nando

dalia

A gespui - Al vespro

»

93

» . In te stale - Nella stalla . Tornand dai bagns di Lignan - Torgundo dai gi due Lt0nano 0! DE. eta cali RIA a Gnott vagant - Notte neri NSA PI Moment autunal - Momento autunnale Sierade - Ultimi d’autunno . . .

A'è.ca‘i6>iLes è arriva)g!: ba

mie

.

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4 i

» »

EI

96 98 102 104

OO

Ercole Carletti

Sall'albe=2Salbforcdell'aba Soa RARO Di grinte - Per dispetto . . A 2 Matine di crésime - Mattino di quaresima sal 1) Got divini. *Nolie di. Vento IAP: Andante vibrato PI RIO Giovanni Minut Umanitàt - Umanità 3 RI Miserie infame - Miseria UE ci e Lùzie confusionarie - Lucia confusionaria

E .

PM Man {.

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LI NOEL en 20 Me > -

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IR i

.

»

130

Franco de Gironcoli Piardisi tal màr dai siùns - Perdersi nel mar dei sogni Tristizie dissavide - Tristezza insciapidita . . .

» »

134 136

Cuintriciani*- Canto“a' risconitog: >. pina) MI. Jè culì primevere -_Begui: primavera è > (0140 Vint lizîr e seneòs - Vento leggero e ansioso . . » 142 °L è.come un fic - È come un fuoco... i.e 1144 E lè restade un’6lme -E una traccia è rimasta. . >» 146 bessolS= fol (2 aria in & «Soto BRL3O Stis vòs d’eternitàt - Queste: voci n; STRO timo: tao Findd'istài-. Fiueld'estate SOM ne, de Dut scomparîs - Tutto scompare . SM aura ® 156 La tn anor-- Calotte IST e i

Pier Paolo Pasolini Il'nint9muari.- Fanciullo ‘morto

TAR

Ploja fal“cunfins - Piapgia: ai conti 542

TOIZA)

MRI

0)

064

Li letànis dal bel fì -Le cantilene del bel giovane Arba pai cunìns - Erba per i conigli . Ciants di un muart -Canti di un morto Lengàs dai frus di sera - Parole di Ce di sera Misteri - Mistero Il dì da la me muart - Il giorno della mia morte . Suspir di me mari ta na rosa -Lamento di mia madre su una rosa Dai « Lieder » Cansion -Canzone A na fruta -A una bambina Il prin svual dal lujar- Il primo volo AeAberino Ploja fòur di dut - Pioggia fuori da tutto . Riccardo Castellani

Autun 1943 - Autunno 1943 . Autun di uèra - Autunno di guerra Chel spinc tal sen - Quella spina nel cuore . Ti ti pojavis lizera- Leggera ti appoggiavi . Ad bur dal mond - AI margine del mondo . Tilimint - Tagliamento Larìn cui dîs -Coi giorni andremo. Lontana Scjarsò biel riù- Schiarsò, ‘bel torrente. Not di setembri - Notte di settembre . Fueis - Foglie Vierta - Primavera Domenico

Naldini

Qualchi ciar - Qualche carro . Tre diseins - Tre disegni . I fantàs a ciantin - Adolescenti vantano

Sent ciampanis di oru - Cento campane d’oro . Chistu me amour - Questo mio amore i Un fil di vint - Un filo di vento .

Tra il sèil e la ciera - Tra il cielo e la terra . Domenia di not - Domenica, di notte .

Tonuti Spagnol 246 248 250

PANINO AA Altri lunis - Altre lune .

Prejèris - Preghiere .

Enrica Cragnolini Mi dismentèi di me - Oblio me stessa Gjonde cujète di cuéi - Gioia calma di colli . Firmamenz di lus6r - Firmamenti di luce Une dì - Un giorno . EI pujerùt - Il puledrino . Mario Argante Cjampanis tal vint - Campane Il mont - Il mondo . Marcjàt - Mercato L’ore scure - L’ora buia . Sereni n Scra@Ma.

nel vento

256 258 260 262 264 .

Î Calme di ploe - Calma di pioggia i

266 268 270 22 274 276

Siro Angeli Essi e véi - Essere e avere

.

Tal cir da Ciargna - Nel cuore della Carnia

278 280

Novella Cantarutti

°Na rosa ‘a si disflora - Un fiore appassisce . Cardul - Il tarlo Jai cjatàt - Ho trovato . Tre cjasi’ -Tre case . Cujèta - Quiete. . Passons di steli’ - Pascoli di stelle . A’ cjantin pa li’ stradi’ - Cantano per le strade . Stradi° da la me val - Strade della mia valle . Ch'j mi cjatài - Ché mi trovai Cjadena di ombra - Catena d’ombra Bel ch'a bruìs la cjera - Mentre la terra mormora . Masera

544

- Rovina

284 286 288 290 294 296 298 300 302 304 306 308

Dino Virgili Lis e scr - Chiaroscuro MO Frut di viarte - Ragazzo di primavera .

310 DZ

Aurelio Cantoni

Il seglàr cidin - Acquaio muto Cumò la gnot - La notte adesso . Renato Appi Indulà èlu? °Na dì - Un AI pustìn su In puosta -

- Dov'è? giorno . pal troi - Il E, Alla posta .

sta arrivando |

Nadia Pauluzzo

Tu mueris - Tu muori Tal prat di cjase me -Nel braro Licasa mia . Domenico

Zannier

Jo doman

no sarai - Domani

io non sarò .

No pos pierditi, Signòr - Non posso HE Cjanal di Cune - Canal di Cuna .

ME

Dio!

Arbui di Viene -Alberi di Vienna. Agunt -Agunto.

Leonardo Zanier Ai pèz - Ai pecci Un jet a mil chilometros da cjasa -Un letto a mille chilometri da casa Speranza.. A Magrin da un frut SA Magrini da un ragazzo Galliano Zof 1 Tau e le’ stelis - Tu e le stelle . Grazies distés, mari - Grazie lo stesso, madre! .

Pari, j no cj ai mai jodit a ridi - Padre, non ti ho mai visto sorridere

545

Umberto

Valentinis

Te gnot che s'incjante - Nella notte presa da malia . No orès cjalàti mai - Non vorrei guardarti mai . Par inviami tal sium - Per conciliarmi il sonno . Sustà di mieze lis - Sussulto di luce fosca . S'invelènin i pràz - Si avvelenano i ci Epiùr tu sés - Eppure Des diana Ch'al dil il cir - Ché fa male al cuore I dîs inruzinîz - I giorni arrugginiti ”

Cidinòr di cil soterdt - Silenzio di cielo sepolto . E pur torne ti prei - E torna ancora, ti prego! . Còntimi aer che tu tornis - Raccontami, vento, che

Vornino, #4 a a . e la lune ofegade ch'e distude =»... e.la luna velata, che incupisce Antonio

Colussi

Sonia Svedsi - Svegliarsi angd:> ce P o ETRE Impastànt sociologie ... - Impastando sociologia ... . Son rivàz - Sono arrivati .

Angelo Pittana Ristret des idus di avril - Riassunto delle idi di aprile . Dongje - Vicino Tai ains - Negli anni Prejere - Preghiera . . eta an Fotografies di un colm di lune Fotografie in piena luna e MR Ce sestu, FERIE è Che tal settembre?

.

La sere a sa dut - La sera sa tutto . Spanidure - Fioritura pre per do. debgio 3 / Une tabele di nons di arbui - Un elenco di nomi di alberi Amedeo

Giacomini

Unviar

- Inverno

J vorés la clarèsse dal nemdl ... - Vorrei la limpi-

dezza del bovino... . SER ER, Ultin dal an - Ultimo dellATENEO,

PE,

SINO. Mg, RAI

SORA

428 430)

Elio Bartolini Bluelturian® "Blue" {riulalto" SG Marani, ni: PE Bevint - Bevendo . . . E "A si jeve la mé man - E la mia mano salza Ra

age

432 1434 TELO

»

438

»

440

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442 444

. è. »

‘446

Elsa Buiese

Al vai usgnot ... - Tutto il mio corpo... . E dopo cheste ultime stagjon - E dopo questa ultima

stagione

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Tasìnt peraulis smenteadis - Tacendo Sarole immemorale, — + VE cento Soy Mancjànt la speranze - Massi la speranza. .

Ma ce :crodèvitu... - Ma che credevi.

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Repart dai tumours - Reparto tumori. . ._ . L'infermeir di not - Infermiere di notte . . . La vuoia - La voglia os: Incontri cun veciu compain di scuola - Incontro con

un vecchio compagno

di scuola

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Coru di vecius ta n’ostaria da la Ciarnia - Coro di vecchi in un’osteria della Carnia . . . . La vita RR o e

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Celso Macor No stét copà (Vonda, Caìn!) - Non ammazzate! (BaFaN Cano

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Mario De Apollonia Gomme i'scriz= Come: lo\senteciolo a Sotsore «Sottosopra:

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Ilosun-Ib sogno. MERE Par i veris - Attraverso i vetri. . | Lage Ilescio di trai O e Need Mr dra 0 ghe ru

Profili bio-bibliografici (a cura di G. Faggin)

Bibliosralia Ve:sehatal Indice"desli fautori” citati

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IR LPPoGRIERO . PAoLo

12. GIOVANNI

CORTESI

DE HOMINIBUS DOCTIS DIALOGUS Testo, traduzione e commento a cura di Maria Teresa Graziosi . MARIO

SCOTTI

FOSCOLO FRA ERUDIZIONE . Mario

152 Pietro ARETINO LE VITE DEI SANTI ‘Testo con introduzione e commento di Flavia Santin

E POESIA

14. IJacoPo BoNFADIO LE LETTERE E UNA SCRITTURA BURLESCA

FuBINI

GCRULICATETPOESTA . ArNALDO

Testo con introduzione di Aulo Greco

DI BENEDETTO

STILE E LINGUAGGIO I

. GAETANO

MARIANI

Romano

LA SCUOLA . SALVATORE

CERVONE

CLASSICA

Edizione

SENZA LUPA sul D’Annunzio

studi

10. CarLo MUSCETTA LEOPARDI Ji. GiorGIo PETROCCHI L’ULTIMA DEA

critica con

introduzione

e commento a cura di Maria Teresa Graziosi

ACCARDO

CAPITOLI DANTESCHI ROMA

16. GIOVANNI GUIDICCIONI PERE RISI

ESTENSE

. EuriALo DE MICHELIS

Nuovi

SAGGI FOSCOLIANI e altri studi Con una presentazione di Mario Fubini

ULIVI

MANZONI STORIA E PROVVIDENZA . A. TERESA

e commento

Jo GIOVANNI GAMBARIN

TRILUSSA STORIA DI UN POETA . FERRUCCIO

GETTO

NEL MONDO DELLA « GERUSALEMME »

7

UmBERTO

CARPI

GIORNALI

VOCIANI

18. CarLo MUSCETTA STUDI SUL DE SANCTIS e altri

IO); MARIO

scritti

di storia

della

Puppo

POETICA E POESTA DI NICCOLÒ TOMMASEO

critica

20. RiccARDO SCRIVANO LA NORMA E LO SCARTO

Proposte per il Cinquecento letterario italiano

ZI Grorcio DE RIENZO L’AVVENTURA DELLA PAROLA NEI « PROMESSI SPOSI » 27: UmBERTO Bosco TITANISMO E PIETÀ IN GIACOMO LEOPARDI e altri studi leopardiani 25: CarLo

MUSCETTA

24. ANTONIO IACOPETTA GIORGIO CAPRONI Miti e poesia

FAVRETTI

DI UMBERTO SABA Dai racconti giovanili a « Ernesto »

ZII GAETANO MARIANI DEL Leonardo Sinisgalli

Mito e Poesia

32. CorIiNNE LUCAS DE L’HORREUR AU « LIETO FINE » Le contròle du discours tragique dans le théatre de Giraldi Cinzio

Saba

34. ANTONIO IACOPETTA

PROSA

L'OROLOGIO

Sl Maria TERESA ACQUARO GRAZIOSI POLIFEMO E GALATEA

da Alfonso Gatto a Umberto

25 ErTorE Bonora LE METAFORE DEL VERO Saggi sulle « Occasioni » di Eugenio Montale LA

IACOPETTA

SANDRO PENNA Il fanciullo con lo specchio

351 CARLO MUSCETTA PACE E GUERRA NELLA POESIA CONTEMPORANEA

CULTURA E POESIA DISGGRBEIERI

26. ELVIRA

30. ANTONIO

PINCIO

tra certezza e illusione

28. DAMIANO

ABENI RAFFAELLA BERTAZZOLI CEsaRE G. DE MICHELIS Piero GIBELLINI

BELLI

OLTRE FRONTIERA La fortuna di G.G. Belli nei saggi e nelle versioni di autori stranieri

291 ROSANNA ALHAIQUE PETTINELLI L'IMMAGINARIO CAVALLERESCO NEL RINASCIMENTO FERRARESE

ATTIRIONBERITOLUECEI Lo specchio e la perdita

DD AuLo GrECO LA MEMORIA DELEBIEERIERE . WALTER BELARDI

ANTOLOGIA DELLA LIRICA LADINA DOLOMITICA STI EMERICO

GIACHERY

METAMORFOSI

DELL’ORTO

e altri scriti montaliani

38. GIUSEPPE

SAVOCA

TRA TESTO E FANTASMA Analisi di poesia da Gozzano a Montale

SEI WALTER BELARDI, GrorcIo FAGGIN LA POESIA FRIULANA DEL NOVECENTO

40. SERGIO CAMPAILLA MAL

DI LUNA

E D’ALTRO

(OMGES SEE Rab

. RENZO

RESP PO GRIFO

. POETI

FRATTAROLO

STUDI DI BIBLIOGRAFIA STORICA

A ROMA

1945-1980

a cura di A. FRATTINI e M. UFFREDUZZI

ed altri saggi

. DANTE NELLA LETTERATURA ITALIANA DEL NOVECENTO Atti del Convegno di Studi Casa di Dante Roma, 6-7 maggio 1977 . Wanpa

SAGGI

DI SCIPIONE

PITTORE ROMANO . Vincenzo

. Giorgio

BREZZI

DI STORIA

L’AVVENTURA

De

Tomasso

PANORAMA DELLA LETTERATURA ISPANOAMERICANA

RupPoLo

IL LINGUAGGIO DELL’IMMAGINE Saggi di letteratura francese contemporanea 4. PAoLO

. RaouL MARIA DE ANGELIS

MEDIEVALE

. AMLETO DI MARCANTONIO

BOTTAI TRA CAPITALE E LAVORO

TAFFON

LE PAROLE DI SBARBARO Studio sul lessico poetico di Camillo Sbarbaro con le concordanze di Resine, Primizie e poesie sparse

Finito di stampare nel mese di gennaio del 1987 dalla TIBERGRAPH s.r.l.

WALTER BELARDI, professore di Glottologia dal 1950, insegna attualmente nella Università di Roma “La Sapienza”; è stato anche docente di Lingua e letteratura armena, Filologia germanica, Fonetica sperimentale e Storia comparata delle lingue classiche. Si è occupato di linguistica teorica, generale, e storica,

trattando di lingue indoeuropee, occidentali e orientali, di lingue romanze e semitiche e del sostrato indomediterraneo. Ha scritto oltre centocinquanta articoli e saggi e i volumi seguenti: Introduzione alla fonologia 1952; Profilo linguistico dell’Eurasia 1962; Dizionario di fonologia (con N. Minissi) 1962; Linee di storia lina

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guistica dell’Europa (con A. Pagliaro) 1963; Capitoli di grammatica dell’alto-tedesco antico 1968; L'opposizione privativa 1970; Il linguaggio nella filosofia di Aristotele 1975; Aspetti linguistici della viticoltura insubre (con D. Poli)

1975; Superstitio 1976; Studi mithraici e mazdei 1977; The Pahlavi Book of the Righteous

Viraz 1979; Dal latino alle lingue romanze: il vocalismo 1979; Studi latini e romanzi (con P.

Cipriano, P. Di Giovine, M. Mancini) 1984; Filosofia, retorica, grammatica nel pensiero an-

tico 1985; Antologia della lirica ladina dolomitica 1985; Poeti ladini contemporanei 1985. Sono in preparazione l'edizione postuma del Latium vetus di L. Ceci; Casus interrogandi e la dottrina linguistica stoica di Nigidio Figulo (con

I

P. Cipriano); un volume di Studi iranici (con P. Cipriano e M. Mancini) e I/ sentimento del

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tempo (sulla teoria della critica letteraria).

7

Giorgio FacgIn s’è dedicato a studi storicoartistici e filologico-letterari. Libero docente in Storia dell’arte fiamminga e olandese, ha pubblicato, tra gli altri, i volumi L’opera completa di Memling (1969) e La pittura ad Anver-

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sa nel Cinquecento (1969).

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Specializzatosi in filologia ladina presso l’Università di Innsbruck, ha scritto alcuni saggi

di storia della letteratura friulana e ha compilato un grande Vocabolario della lingua friulana (1985). Ha tradotto dall’olandese l’opera Architettura urbanistica estetica di H. P. Berlage (1985). Attualmente insegna lingua olandese alla Scuola superiore di lingue moderne dell’Università di Trieste.

L. 45.000 ISBN 88-7573-145-4

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Toronto

Public Library - Toronto

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Reference

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Library

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