La paura e l'arroganza [First ed.] 884206713X

Indice Introduzione Nowhere: now-here, no-where di Franco Cardini Avvertenza Voci dall’Italia Introduzione Padroni del m

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Italian Pages 260 Year 2002

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La paura e l'arroganza [First ed.]
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a cura

di Franco

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Cardini

di

copertina:

Marco

Callegari/FABRICA

i Robinson / Letture

BAL]

© 2002, Gius. Laterza & Figli per la lingua italiana

Per il saggio di Mahmood Mamdani, © 2002, American Anthropological Association. Reprinted from «American Anthropologist», with che permission of the American Anthropological Association

L'Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sui testi qui riprodotti, qualora non si fosse riusciti a reperirli per chiedere la debita autorizzazione. Prima edizione 2002

Questo volume è stato realizzato grazie alla collaborazione con Dia-Légein (Francesco Bacci, Ugo Barlozzetti, Alessandro Bedini,

Daniela Bolognesi Piani, Stelio Giannini)

(Centro internazionale di dialogo interculturale ed interreligioso) Firenze

Sezione Ufficio Studi Enec (Europe - Near East Center) Bari

La paura e l'arroganza a cura di Franco Cardini

Jamil Barakat Ugo Barlozzetti Alessandro Bedini Alain de Benoist Noam Chomsky Michel Chossudovsky Massimo Fini Eric J. Hobsbawm Mahmood Mamdani Michael Mandel Giannozzo Pucci V.K. Shashikumar Marco Tarchi Tariq Ali

©

Z4iriLaterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel luglio 2002 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-6713-7 ISBN 88-420-6713-X

Introduzione

Nowhere: now-here, no-where di Franco Cardini

Dedicato ai silenzi della Storia. A tutte le Vittime senza nome, senza

numero, senza volto, senza voce; a tutti i Caduti dei quali non si è serbata memoria; a tutti i Morti che è inutile, scandaloso | e politicamente scorretto ricordare.

Questo libro non è una testimonianza «di parte»: ma— pur senza voler sostenere alcuna tesi preconcetta— esprime molti dubbi e, al di là di essi, un forte disagio. L'hanno ideato e messo insieme, sfruttando il loro piccolo archivio e le loro limitate risorse, i componenti dell’associazione Dia-Légein, nata attorno a un progetto di dialogo interculturale e interreligioso nella Firenze di La Pira, di Balducci e di Mordini. Un piccolo e per molti versi appartato gruppo di studiosi e d’insegnanti di varia origine e collocazione politica (ma libero da condizionamenti politici di sorta), ciascuno dei quali ha alle spalle un curriculum alquanto differente da quello di tutti gli altri. Un piccolo gruppo eterogeneo, che si è tuttavia formato sulla base di alcune comuni convinzioni: che il tempo attuale necessiti, per esser compreso nella sua straordinaria complessità, di un’attenzione vigile e continua; che il regime di sovrinformazione che ci bombarda di continuo rischi in realtà di coincidere con uno stato di disinformazione continua, che

ingenera confusione e disorientamento nell’opinione pubblica; e che tuttavia oggi, meno che mai, il «non-sapevamo-non-

credevamo-non-capivamo» possa essere addotto a scusante né individuale, né collettiva. Che, infine, nel momento stesso

in cui informatica e telematica sembrano aver azzerato — almeno per chi può permettersi di liberamente fruirne — gli ostacoli spazio-temporali, ciascuno di noi abbia il dovere di sentirsi corresponsabile, al suo rispettivo livello, di quanto avviene non solo nel cerchio più o meno ristretto del suo ambiente e della società cui appartiene, bensì in tutto il mondo. Non vogliamo provocare nessuno, non siamo contro nessuno. Ma facciamo nostra una riflessione di Tiziano Terzani: «E

il momento di uscire allo scoperto, è il momento d’impegnarsi per i valori in cui si crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale più che con nuove armi»). Nel primo pomeriggio di quel martedì 11 settembre del 2001 - l’autore di queste righe si prende qui la libertà di un breve ricordo personale — stavo serenamente lavorando al mio vecchio computer da tavolo. Era una delle rare giornate in cui potevo star comodo a casa, con un vecchio paio di calzoni e una vecchia camicia indosso: mi accompagnavano le belle note della K 239 di Wolfgang Amadeus Mozart e, se il mio vecchio gatto che m'ha lasciato quattro anni fa mi avesse fatto ancora compagnia, acciambellato sulle mie carte, quella sarebbe stata perfetta letizia. Invece, a un tratto — e non intendo dare a questo pur inquietante particolare alcun arcano significato —, il display cominciò a fare i capricci. Provai ad armeggiare un po’, ma a livello informatico sono una frana. Misi allora in atto l’unica contromisura tecnologica di cui, in questi casi, dispongo: spensi il computer e scesi in cucina a

prepararmi un caffè; confidando che, se avessi riacceso l’ordigno con calma, una ventina di minuti più tardi, tutto sa-

rebbe tornato a posto da solo. Di solito funziona (detto fra

parentesi: anche quella volta andò così). ! T. Terzani, Lettere contro la guerra, Longanesi, Milano 2002, p. 181.

VI

Sistemata la moka sul fuoco accesi, come si fa di solito in

questi casi, la televisione: e mi apprestai a godermi un istante di relax rivedendo qualche tragicomica sequenza d’uno di quei vecchi filmacci americani del filone catastrofico, tipo L'inferno di cristallo. Difatti il piccolo schermo stava mandando in onda una raccapricciante immagine d’esplosione delle Twin Towers del World Trade Center di Manhattan,

New York (quelle su cui si rifugia il King Kong innamorato di Jessica Lange, nel rerzake del celebre film del 1933 proposto nel 76 da John Guillermin). Solo che, dopo una manciata di secondi nei quali restai del tutto disorientato, mi resi conto che non era un film. Nel turbinare di pensieri che mi passarono per la mente, mi sorpresi a constatare come, fino a quel momento, non avevo mai troppo creduto sul serio neppure nell’esistenza di Osama bin Laden: di tanto in tanto aveva fatto fuggevole comparsa sui teleschermi come il «nemico pubblico numero uno» degli Stati Uniti d’America, ma di lui nulla di serio l’opinione pubblica sapeva. E proprio Osama bin Laden quasi immediatamente fu indicato, sia pure con alcuni dubbi iniziali, come il possibile anzi probabile mandante dell’attentato: appena apparve chiaro che non d’incidente s'era trattato. Riflettei, allora, sul fatto che quest’inizio del XXI secolo e del III millennio si annunzia davvero come un tempo storicamente parlando molto interessante: e mi ricordai del vecchio proverbio cinese, che augura di non trovarsi mai a vivere tempi interessanti. D'altro canto, da cultore di storia, non potei esimermi dal richiamare anche il fatto che chi abbia la sventura di viverli è doppiamente disgraziato se poi — come troppo spesso capita — subisce anche la condanna di non saperli comprendere: come diceva anni fa Enzo Jannacci dedicando una sua canzone, Prete Liprando, a tutti coloro—e sono tanti— che,

trovandosi nella loro vita ad attraversare momenti ed eventi fondamentali nella storia del genere umano, nemmeno se ne accorgono. E, forse, accorgersene ma avere al tempo stesso la precisa sensazione di essere condannato a non riuscire a valuVII

tarli adeguatamente, è — almeno per uno che faccia di mestiere il cultore e l’insegnante di storia — ancora peggio. Fu la mia sensazione di allora, resta in larga misura la mia di adesso. E temo, anzi so bene, d’essere in numerosa com-

pagnia. Posso comunque affermare di avere la coscienza a posto. Da allora, ho fatto di tutto — per quel che i miei mezzi mi consentivano — per cercar di mettere ordine alle mie idee e alle mie cognizioni. Mi sono sforzato: e la quantità di cose che non mi convincevano e che non mi convincono, che non tor-

navano e non tornano, mi ha spaventato e continua a spaventarmi.

Dopo il duplice attentato dell’ 11 settembre, al World Trade Center di New York e al Pentagono di Washington (ma si disse che avrebbe dovuto trattarsi di un attentato in realtà triplice), il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Lo si disse e lo si ripeté in mille modi: con accenti di monito, di minaccia,

forse anche di speranza. Ad alcuni mesi da quel giorno terribile, non saprei giudicare se davvero le cose stiano così; o se in realtà le cose fossero già cambiate da molto tempo, o se non stiano cambiando di continuo, sotto i nostri occhi, com'è

del resto storicamente logico. Vero è d’altronde che, dinanzi al continuum nel quale sembra immersa la nostra memoria, la storia è il regno della discontinuità, delle piccole e insignificanti come delle grandi e drammatiche fratture. E talvolta è vero che in un certo periodo le cose cambiano rapidamente: magari, però, per ragioni e in seguito a fatti che restano a lungo o per sempre in penombra, inavvertiti e sconosciuti. Chi ricorda più, ad esempio, che trentadue giorni dopo quell’attentato dal quale il mondo non riesce ancora a riaversi, il 13 ottobre del 2001, nei laboratori della società Advanced Cell

Technology di Worcester, Massachusetts, sono state clonate con successo alcune cellule umane? Chi ci dà la certezza che fra cento o duecento anni, o magari solo fra dieci, nessuno si

ricorderà più del September, Eleventh, e nella memoria collettiva e sui libri o su altri materiali di scuola del mondo campeggerà, solitario, l’October, Thirteenth? VII

Come tutte le date, i fatti tanto diversi tra loro dell’11 set-

tembre e del 13 ottobre 2001 possono entrambi essere ben considerati punti di partenza di una nuova era e di una nuova storia; ma, in quanto tali, sono anche punti d’arrivo di vec-

chie ere, di vecchie storie precedenti che magari l'esplosione dell'emergenza determinata dal loro accadere obbligherà a ripensare e a riscrivere; e sono, al tempo stesso, momenti di

passaggio di qualcosa iniziato tempo addietro e sintomi di una rottura, di una svolta, di un cambio d’indirizzo del processo storico che sta delineandosi. Ma proprio questo ci mantiene o dovrebbe mantenerci tutti in allarme; proprio questo dovrebbe tenerci lontani dall’accettare quelle «certezze» che siamo spesso troppo pronti ad abbracciare, se non altro perché di certezze la natura umana ha bisogno (mentre la storia ne è per sua natura avarissima). La verità è che siamo tutti o quasi, chi più chi meno, nelle condizioni dei buoni lombardi dell’XI secolo de-

scritti nel Prete Liprando di Jannacci: 0, se preferite, all’inizio dell’Urfaust di Goethe. «Ohimè, ho studiato a fondo... ed eccomi qua che ne so quanto prima!... e scopro che non riusci-

remo mai a saper nulla». Proprio questo m’inquieta, mentre sto scrivendo. A non troppi giorni dal primo anniversario della tragedia delle Twin Towers: e accettando non senza preoccupazione l’alea che di qui a fra poco, quando queste pagine usciranno, gli scenari del mondo saranno del tutto cambiati. Potrebbe accadere: e accetto con umiltà la scommessa. Ma, se accadesse, ciò sa-

rebbe una prova di più della tragicità del corto circuito che sempre s’innesta tra la necessità di comprendere quel che ci accade nel momento in cui ci sta accadendo (e, per qualche incauto, dell’imperativo di doverlo anche giudicare) e la realtà del fatto che il presente è di solito cattivo consigliere. Esiste, al riguardo, una parola-chiave inglese la struttura sillabica della quale svela un’ironia profonda e agghiacciante: credo involontaria, ma appunto per questo ancor più rivelatrice. Nowhere: ora e qui, l’hic et nunc dei latini. Quando, stuIX

dente universitario un po’ bastian contrario, discutevo con mio padre di cose come il fascismo, l’antifascismo e la secon-

da guerra mondiale, lui — persona d’intelligenza e d’equilibrio molto rari, ma che non aveva studi alle spalle — si trovava talvolta a mal partito dinanzi alla mia sia pur un po’ ingenua spocchia di allievo di Sestan e di Cantimori. E allora sfoderava l’extremza ratio della prèsa diretta: ma che mi vieni a insegnare tu, a me che c'ero, che queste cose l'ho viste con i miei occhi. Ohimè, lo sappiamo bene: quale cattiva, quale sviante consigliera è l’esperienza diretta! Quanta brava e onesta gente, fra Cinque e Seicento, ha davvero visto — e lo ha in

buona fede testimoniato — volare una strega! Fra mio padre — ch'era tanto migliore di me, ch’era tutto giustizia e buon senso, ma che certe cose le aveva viste e interpretate dalla prospettiva del giovanissimo artigiano d’Oltrarno e poi del caporalmaggiore d’artiglieria —, e me, che certe cose non le avevo vissute e che ero meno intelligente e credo anche molto meno in buona fede di lui, ma che avevo letto Taylor e De Felice, forse io avevo non certo ragione, ma probabilmente molte più ragioni — storicamente parlando — di quante egli ne avesse. Ecco, anche alla luce di queste considerazioni la parola nowhere mi affascina e m’inquieta. Perché dinanzi al row e allo here nei quali siamo chiamati a 0, comunque, ci sentiamo tentati di prender posizione su quanto avviene intorno a noi, nel nostro tempo, si erge lo spettro del r0-wbere. Trovarsi qui e ora, con tutte le limitazioni e le distorsioni d’informazione e di giudizio che ciò comporta, può equivalere a trovarsi r0where: a non essere da nessuna parte. Cioè a non riuscire sul serio a comprendere,

ad orientarsi. E a restare, di conse-

guenza, vittime di tutte le trappole dell’apparenza della disinformazione. D'altronde, se è vero che non possiamo comprendere (non del tutto, almeno), è non meno vero che dobbiamo sforzatci

di farlo. Non ne abbiamo né gli strumenti, né forse la capacità: ma ne avvertiamo, quelli sì, il bisogno e l'obbligo morale.

All'indomani dell’11 settembre, era molto difficile per tutti, negli States e nel cosiddetto «Occidente», mantenere la tranquillità necessaria a organizzare gli elementi per orientarsi con chiarezza a proposito di quel ch’era accaduto a New York, a Washington enei cieli della Pennsylvania, dove, a quel che si riuSCì a sapere, era stato sventato quel terzo attacco aereo che avrebbe dovuto avere come obiettivo la stessa Casa Bianca. Le notizie si susseguivano, anzi si accatastavano bombardandoci: dalle emittenti radiotelevisive, dai giornali, dal web. Come sem-

pre in casi analoghi, la cosa più difficile era districarsi nella massa di particolari futili e inutili e riuscire a raggiungere le informazioni che sarebbero state necessarie per fare un po’ d’ordine. Sul numero stesso delle vittime del World Trade Center — computato in un primo momento a circa 12.000, sceso poi alla metà

e infine, per fortuna, ridimensionato alla pur spaventosa cifra di circa 2800 — per settimane regnarono incertezza e confusione?.

Sulle prime, pervennero anche dagli Usa informazioni alquanto allarmate e allarmanti su incidenti verificatisi immediatamente dopo la divulgazione delle notizie riguardanti la catena del triplice attentato: qualcosa che ricordava fatti accaduti in tempi recenti, quali il black-out di New York o il terremoto di Los Angeles. Negozi saccheggiati, distributori di benzina presi d’assalto, alcuni linciaggi a carico di musulmani o supposti tali (ad esempio alcuni sikh, scambiati per musulmani a causa dei loro turbanti), dal momento che quasi immediatamente dilagò la notizia che i responsabili dell’attentato — mandanti ed esecutori — fossero fondamentalisti islamici: e subito si fece il nome dello sceicco Osama bin Laden. Fu come se, quell’11 settembre, convergessero sugli States gli esiti remoti e recenti di angosce che per molto tempo si erano espresse nei film del «genere catastrofico». 2 Secondo il dispaccio della Associated cio ufficiale delle vittime sarebbe di 2843; un calcolo un po’ più ottimista, segnalando 11 septembre 2001. L’effroyable imposture,

XI

Press del 9 febbraio 2002, il bilanma l'agenzia dal canto suo faceva 2799 morti certi (cfr. T. Meyssan, Carnot, Paris 2002, p. 36).

I disordini causati da questo disorientamento collettivo durarono poco e furono immediatamente repressi e superati dall'atmosfera di solidarietà e di orgoglio che parve invadere l’intera opinione pubblica statunitense e che tanto commossi e ammirati lasciò gli occidentali. Ma la ventata di fierezza, che il presidente George W. Bush jr. seppe cogliere e interpretare con tempestività, non bastò a fugare le ombre e a far tacere le troppe domande senza risposta. Come si dovevano intendere e, senza lontanamente giustificarle, cercar di com-

prendere dal loro interno le scene di gioia che in parecchie parti del mondo, specie (ma non solo) arabo-musulmano, si erano verificate allorché le reti televisive avevano diffuso le drammatiche notizie riguardanti New York? Com'era possibile che un paese l’autoimmagine del quale, profondamente condivisa da gran parte dell’opinione pubblica occidentale, era quella della patria della libertà, del guardiano della pace, del liberatore del mondo dalle tirannie, del soccorritore generoso dei popoli in miseria e in difficoltà, potesse al contrario essere oggetto di tanto rancore? Bastava il fanatismo politico-religioso a giustificare simili aberrazioni? E i misteri s’infittivano, per quanto un sistema massme-

diale rigorosamente e abilmente gestito fosse pronto a diradarli o a nasconderli. Si diffuse presto, anche via Internet,

l’infame leggenda metropolitana secondo cui quell’11 settembre numerosi ebrei — funzionari, impiegati, visitatori — non si erano recati, con i più vari pretesti, al loro posto di lavoro nelle Twin Towers o che se n’erano allontanati prima dell'impatto dei due aerei. Una vergognosa, gratuita calunnia, diffusa a quanto pare da un commentatore di al-Jazeera (che l'emittente avrebbe poi licenziato): ma che, come sovente accade in casi del genere, non nasceva dal nulla. In effetti Micha Macover, direttore dell’impresa Odigo, leader nel campo telematico, confermò il 26 settembre al quotidiano israeliano «Ha Aretz» di aver ricevuto anonimi messaggi d’allarme riguardanti l’attentato di New York due ore prima ch’esso fosse perpetrato. L’informazione fu ripresa da Daniel XII

Sieberg per la Cnn e, quindi, da Brian McWilliams su «Newsbytes» del 27 settembre successivo. Del resto, notizie d’un possibile prossimo grave attacco terroristico erano filtrate da tempo, e rimbalzavano tra i servizi d’intelligence di vari paesi: giornali e organi radiotelevisivi ne parlarono solo qualche giorno dopo l’attentato, citando comunque fonti attendibili. Più enigmatica ancora la faccenda delle indicazioni della Borsa: nel corso delle tre settimane precedenti gli attentati, l’indice Dow Jones precipitò perdendo 900 punti, e tra 6 e 7 settembre le azioni delle United Air Lines, la compagnia titolare dei due aerei schiantatisi contro le torri, registrarono 4744 opzioni di vendita contro sole 396 d’acquisto: era cioè in atto una forte speculazione sulla previsione d’un calo di valore. Una coincidenza?* Altri elementi del «giallo» relativo all’attentato e ai suoi inquietanti dintorni riguardano la meccanica dell’impatto dei due aerei e dei crolli delle due torri e di altri edifici adiacenti? nonché l’episodio che ebbe come oggetto il Pentagono e che venne rapidamente messo da parte nel vorticoso giro di notizie successive. In un primo tempo si ritenne chele reticenze re-

lative ad esso — addirittura il sostanziale silenzio sul numero e sull’entità delle vittime — nascessero dal comprensibile imbarazzo delle autorità statunitensi dinanzi al fatto che fosse stato violato e colpito con tanta apparente facilità il cuore della massima potenza militare del mondo. Affiorarono più tardi i dubbi, relativi addirittura al fatto che davvero l’edificio dell’Alto

Comando Usa fosse stato colpito dal Boeing 757-200 del volo 77 dell’ American Airlines, dirottato dalla linea Dallas-Los An-

geles: dal momento che di quel volo si sono perdute le tracce, ma che sul suolo, nelle adiacenze del Pentagono, non sono mai stati trovati rottami per qualità e quantità ad esso sicuramente

xii) post 4I

dati sono tratti da D. Prédali, Ce Ben Laden, quelle aubaine!, ALiAS

etc..., Paris 2002, pp. 66-69. >Meyssan, 11 septembre cit., pp. 30-35.

XII

riconducibili. E perché si era abbuiata quasi immediatamente la notizia diffusa da Abc dell’immagine in diretta di un incendio sviluppatosi alle 9,42 dell’11 settembre in un annesso della Casa Bianca, l’Old Executive Building?” Perplessità ulteriori nacquero in seguito all’analisi della personalità e dei curricula dei militanti fondamentalisti arrestati negli States nei giorni successivi e alle ipotizzate conzec-

tions emerse tra alcuni di loro e i servizi d’intelligence; e alle successive dichiarazioni per più versi contraddittorie e incoerenti, specie del vicepresidente Dick Cheney, del segretario generale della Casa Bianca Karl Rove e del portavoce della residenza presidenziale Ari Fleischer. Qualche interrogativo è sorto anche a proposito del tempo passato dal presidente Bush, nel giorno dell’attentato, a bordo dell’ Air Force

One. Ancora più fitti quelli riguardo al fatto che, almeno al livello delle informazioni diffuse, ben poco si è saputo sul possibile collegamento tra questo attentato al World Trade Center e quello di circa otto anni fa, avvenuto il 26 febbraio 1993, che era costato sei morti e un migliaio di feriti: il collegamento è stato proposto da un autorevole commento del «New York Times», che si è chiesto se all’interno del Wtc

non fosse ospitata in qualche modo una centrale d’interesse militare o un centro informativo mascherato della Cia?. Quel che è più volte affiorato insomma a proposito di un attentato del quale poco si continua a sapere — ma sul quale senza dubbio, occultamente, le indagini continuano —, consi-

ste in un groviglio di reticenze e di contraddizioni dal quale emergono sospetti di rivalità tra le organizzazioni statunitensi cui è affidata l’intelligence, di possibili attività di organiz© Ivi, pp. 11-26. ? Ivi, p.47.

8 Ivi, pp. 42-45. ? J. Risen, Secret C.LA. Site in New York Was Destroyed on Sept. 11, «The New York Times», 4 novembre 2001. In seguito, una dura polemica è nata

tra la Cia e il presidente Bush a proposito di un allarme lanciato dall’intelligence immediatamente prima dell’attentato e sottovalutato dalla presidenza.

XIV

zazioni politiche o paramilitari diffuse nel paese, di troppo sicura e precipitosa attribuzione di responsabilità. Ma tale groviglio si è lasciato dietro il sospetto persistente di dipendere da un disegno in tutto o in parte preordinato o di voler allontanare l’ipotesi di interferenze derivanti da tensioni interne o internazionali di tipo diverso da quelle collegate alle persone e agli ambienti indicati come gli organizzatori dell’attentato. Rispetto ai quali anche la fretta di esibire prove definitive di colpevolezza, sempre ribadite come esistenti e mai effettivamente prodotte, ha talora condotto a risultati maldestri, come la videocassetta «fortunosamente rinvenuta» a Jalalabad ai primi del dicembre del 2001: avrebbe dovuto dimostrare senz’ombra di residui dubbi la colpevolezza di Osama bin Laden, ma era un falso così evidentemente grossolano che — nonostante Bush si fosse ostinato, nei giorni immediatamente successivi, a fieramente difenderne l’autenticità —

scomparve quasi subito nel nulla!°. 10 Il che naturalmente non significa affatto che Bin Laden non sia effettivamente il responsabile dell’attentato dell’11 settembre: noi intendiamo soltanto sottolineare che prove definitive o sue chiare ammissioni al riguardo mancano tuttora. Se l'attentato è davvero opera sua, e se non vi sono altri motivi che lo hanno causato, esso sembra esser determinato da un disegno terroristico «classico»: obbligare l'Occidente a una repressione violenta contro il mondo islamico, e quindi questo a scendere in lotta con quello. Un teorema non diverso da quelli con nessun successo seguiti in Palestina da formazioni come Hamas e Jihad. Un teorema da «scontro di civiltà»: ipotesi alla quale, oltre a Samuel P. Huntington, i fondamentalisti — o alcuni di essi — sembrano credere. Ma nel caso di Osama, la sua volontà di provocare uno scontro frontale e generale potrebbe essere stata anzitutto finalizzata a un problema politico interno all’Arabia Saudita e alla sua leadership. A un effettivo disegno fondamentalista ispirato alla ricerca dello scontro di civiltà sembra credere Angelo Panebianco, nella intervista da lui rilasciata alla rivista «Palomar» e pubblicata nel n. 4, 2001, Globalizzazione e guerra. Come

cambia il mondo, p. 72. Dal canto mio, il ruolo di Bin Laden, come fra poco dirò, mi sembra tuttavia alquanto più complesso: il «fanatico» radicale islamico appare, in realtà, talmente implicato in complesse questioni di finanza, d’affari e di petrolio da indurci a porre il problema se la sua azione sia stata davvero semplicemente ispirata a un disegno folle certo, comunque soltanto «puro e duro». Non ho dubbi sul carattere della fede musulmana di Bin XV

Di queste incoerenze, di queste troppo numerose sma-

gliature nella ricostruzione dei fatti dell’11 settembre e nel loro immediato accoglimento da parte dell’opinione pubblica, possiamo forse parlare con qualche serenità oggi: tuttavia una loro fedele e convincente ricostruzione non c’è mai stata e,

ora che la versione «vulgata» si è definitivamente decantata al loro riguardo, esse hanno cessato di far notizia. Riemergeranno, forse, magari tra qualche anno: e con loro le patetiche recriminazioni di chi allora dirà che lui l’aveva detto, che in

fondo era chiaro fin dall'inizio eccetera. Invece no. Sul momento, niente era chiaro. Prevalsero al-

lora le emozioni, lo sdegno, quel che più tardi Oriana Fallaci ha definito, in un fortunato best seller, la Rabbia e l’Orgoglio. Solo che, albinomio che la celebre giornalista fiorentina ha reso quasi proverbiale, forse un altro sostantivo andrebbe aggiunto: la Paura. Dopo 111 settembre gli Stati Uniti, e con essi tutto l'Occidente, si sono sentiti esposti e vulnerabili. Ma quella sensazione, che nel resto del mondo era in fondo lontana ma familiare, negli States era tanto più sconvolgente perché inedita. Dai tempi della formulazione da parte del presidente James Monroe del messaggio al Congresso del 2 dicembre 1823 — in realtà elaborato dal segretario di Stato J.Q. Adams —, cioè a partire dalla formulazione della celebre «dottrina

Monroe», ai primi del XX secolo perfezionata dalla dottrina del big stick del presidente Teddy Roosevelt, nessuno aveva mai violato il territorio dell’«America agli americani». Esso, anzi, si era dilatato in seguito a successive riformulazioni che in pratica, se da un lato consentivano agli Usa d’intervenire in Laden, e credo nel suo sincero scandalo dinanzi allo spettacolo della «terrasanta» araba profanata dagli infedeli. Tuttavia i mistici sanno essere sovente degli astuti calcolatori. Che poi il piano che partiva dall'evento epocale delle Twin Towers fosse sul serio ben calcolato, è un altro discorso. Sulla con-

testualizzazione dell’attentato dell’11 settembre in un quadro che cerca di dare un senso generale alla variegata storia del terrorismo nel mondo arabomusulmano dell'ultimo trentennio, cfr. C. Moniquet, La guerre sans visage, Lafon, Neuilly-sur-Seine 2002.

qualunque parte del mondo essi sentissero minacciati la loro libertà o i loro interessi, dall’altro non solo e non tanto impedivano, quanto piuttosto facevano ormai universalmente avvertire come impensabile che il loro territorio potesse in qualche modo essere colpito e le loro pertinenze messe in discussione. Il ruolo svolto dagli Usa dal loro ingresso nella seconda guerra mondiale in poi, attraverso la «guerra fredda», quella di Corea, quella del Vietnam e la progressiva egemonizzazione non solo politica e militare, ma anche economica, produttiva e perfino della vita quotidiana sull’Occidente e indirettamente su tutto il mondo — un’egemonizzazione alla quale potentemente ha contribuito la diffusione del «modello americano» attraverso il cinema e la musica —, ha reso potente e (in apparenza almeno) irreversibile il prestigio legato all’immagine di un'America protettrice della libertà e dispensatrice di sicurezza e di ricchezza. Gli attentatori dell’ 11 settembre ne avevano ferito, colpendo il World Trade Center, l’immagine economica; colpendo il Pentagono, quella militare; ne avevano messo in discussione l’invulnerabilità, l’intangibilità; e, con es-

se, il senso di sicurezza dei governi e delle società che, all’ombra dell’egemonia della superpotenza, si sentivano sicuri sia nella loro vita politica, sia nel loro sviluppo economico-finanziario protetto dall’area del dollaro. Fu per questo che, con gli Usa, tutto l'Occidente si sentì attaccato ed esposto; e non mancò neppure chi propose un rapporto d’identità tra l’Occidente d téte américaine e la civiltà cristiana, attaccati entrambi dal fanatismo musulmano che del re-

sto identifica l’uno nell’altra. In quell'occasione, furono molti a proclamare orgogliosamente o a spiegare pacatamente il loro «perché non possiamo non dirci americani». Siamo tutti americani, si affermò. «I am American», esclamarono anche

alcuni politici e opinion makers, magari in uno slancio anglofono apprezzabile per quanto più o meno improvvisato. Modello autorevole di questi sentimenti e di quest’atteggiamento fu l'editoriale pubblicato il 12 settembre dal direttore di «Le Monde», Jean-Marie Colombani: «Siamo tutti ameriXVII

cani»!!. Non fu, quello, un effetto dappoco. Nel breve spazio di quei giorni, mentre il mondo intero — 0, almeno, quello che alcuni editorialisti definivano «civile», in opposizione a un altro che non era stimato tale — si commoveva dinanzi alle dichiarazioni di Bush e di Giuliani, mai tanto popolari come allora, e nelle sere d’autunno nelle piazze non solo americane brillavano le fiammelle di migliaia di accendini e si scandiva «Tù-Es-Ei», e il vessillo Stars and Stripes pareva diventato la bandiera di tutti, sembrò di capire quanto l’America, il Gigante Buono, ci fosse entrata a fondo sotto la pelle, fino al cuoree alle viscere. Eppure, altempo stesso, nulla più di quei giorni chiarì quanto questo vasto e profondo coinvolgimento poggiasse su fragili e superficiali radici. Quaùto fortemente fosse sentito e magari vissuto: ma quanto debolmente consapevole fosse, sotto il profilo della comprensione meditata ed effettiva d’una civiltà tanto vicina a quella del resto dell'Occidente, tanto normalmente assunta a modello, eppure per tanti versi ancora scarsamente conosciuta e capita.

È stato detto che la più grande astuzia del diavolo, nei tempi moderni, è stata quella di riuscire a far quasi universalmente credere nella sua non esistenza. Se l'ignoranza delle cose statunitensi in Europa fosse frutto intenzionale di ambienti politici o massmediali, del Grande Paese, si potrebbe pensare di esso qualcosa di analogo: in effetti, è straordinario come in Occidente l'America sia al centro dell’attenzione universale e come, al tempo stesso, poco se ne sappia e poco se ne comprenda!?. Diciamo di più, per quanto possa sem!! La palinodia rispetto a quell’articolo è presentata nel denso libretto di J.-M. Colombani, Tous Américains? Le monde après le 11 septembre 2001, Fayard, Paris 2002: in questo piccolo, interessantissimo saggio, l’autore spiega come e perché i suoi sentimenti si siano in seguito andati modificando. 1? Ciò, naturalmente, nonostante la presenza ormai in tutta Europa, e da parecchi decenni, di una valorosissima americanistica: per la valutazione della quale, in rapporto specifico alle tendenze della storiografia statunitense, e a puro titolo esemplificativo, si rinvia a E. Fano (a cura di), Una e divisibile, Ponte alle Grazie, Firenze 1991.

XVII

brar paradossale (e proprio in quanto lo è): è straordinario fino a che punto la si sottovaluti. Che quello appena trascorso sia stato il «secolo americano», e che il nostro possa continuare a esserlo (il Novecento è stato — secondo Hobsbawm un «secolo breve»: lo sarà anche il successivo?), lo abbiamo

detto in molti. Eppure, si ha tutto sommato l’impressione che gli europei stentino ancora a credere ciò che nel ‘18 non poteva esser chiaro e che nel ’45 era stato compreso ma si aveva difficoltà ad ammettere: che cioè già nel primo terzo del XX secolo si era consumato il trasferimento d’egemonia dall'Europa agli Stati Uniti, e che essi erano ormai divenuti il centro del mondo. Il che, per quanto tutti o quasi ci affrettiamo ad ammettere sia ovvio, sembra essere rimasto una ve-

rità avvertita ancora soltanto superficialmente!?, Nella cultura e nell’esperienza esistenziale europea di tutti igiorni si riesce al tempo stesso a «pensare americano» e a

trovarsi sovente immersi nella più allarmante americodipendenza, mentre, d’altra parte, ci si trova provvisti di poche o di nessuna nozione sulla storia e sul pensiero degli States. Si vive e si pensa, insomma,

come

se non fosse mai esistito

Alexis de Tocqueville: molto meno noto e studiato, in effetti, di quanto non potrebbe sembrare a giudicare dalle citazioni frequentissime che gli si riservano. È l’esito grottesco e allarmante d’un vecchio pregiudizio europeo, divenuto ormai una strisciante illusione, un raramente contestato tragico errore di prospettiva: che la giovane America sia, rispetto alla vecchia Europa, una specie di grande bambina viziata, cresciuta incredibilmente in ricchezza e potenza ma restata, culturalmente parlando, allo stadio della puerizia. Il che, forse,

è vero per quel che riguarda l’America standardizzata, quella del vivere e del pensare conformistico, la middle America; 13 Cfr. per questo G. Alvi, I/ secolo americano, Adelphi, Milano 1996; ma anche A.G.A. Valladao, I/ secolo XXI sarà americano, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1994, e O. Zunz, Perché il secolo americano?, trad. it., Il Mulino, Bo-

logna 2002. XIX

ma non certo per le élites, che sono ben più distanti dalla media economica e culturale della cittadinanza americana di quanto le élites europee non lo siano da quelle dei loro rispettivi paesi. Un giornalista sensibile e intelligente, ch’è anche un ottimo scrittore, presenta in questo modo gli esiti di un suo viaggio negli States durante l’estate del 1995: Tornai da quel viaggio scioccato, con un'impressione spavento-

sa. Avevo visto un'America arrogante, ottusa, tutta concentrata su se stessa, tronfia del suo potere, della sua ricchezza, senza alcuna

comprensione o curiosità per il resto del mondo. Ero stato colpito dal diffuso senso di superiorità, dalla convinzione di essere unici e forti, di credersi la civiltà definitiva. Il tutto senza alcuna autoironia

[...]. Gli americani mi parevano [...] vittime di un qualche lavaggio del cervello: tutti dicono le stesse cose, tutti pensano allo stesso modo [...] essi credono di farlo liberamente e non si rendono conto che quel loro conformismo è frutto di tutto quel che vedono, bevono, sentono e mangiano. L'America mi aveva fatto paura!4.

Non è un caso che la frase finale di questa citazione — da me proposta invero in una forma abbastanza rapsodica — riecheggi il titolo di un libro di Edward Behr, il noto reporter di «Newsweek», che mostra peraltro il rovescio della medaglia, se non addirittura il dark side di quell’orgogliosa ottusità rilevata da Tiziano Terzani e che tuttavia appare alquanto lontana dall’intelligenza e dalla raffinatezza di buona parte degli esponenti del top intellettuale e perfino politico statunitense. Il Behr, con l’appoggio di una schiacciante quantità di dati e d’illuminanti riferimenti aneddotici, si chiede dove stia andando quell’America della quale regolarmente politologi e sociologi predicono il più o meno prossimo declino: l’America della degradazione dei centri urbani, del complicarsi e del brutalizzarsi dei rapporti interetnici, del montare della criminalità, dell’arbitrio crescente nell’amministrazione della giu14 Terzani, Lettere cit., pp. 16-17.

stizia, del previsto raddoppiarsi della sua popolazione carceraria entro il primo decennio del nostro nuovo secolo, dell’accelerato destrutturarsi del suo tessuto sociale sottoposto a continue frammentazioni!?.

Quest’ America lacerata tra

la sicurezza fideistica — che a noi della vecchia Europa appare talvolta tronfia e urtante — nella forza, nell’intrinseca bontà obiettiva, nel carattere universale dei valori in cui crede e del-

la «buona causa» che li ispira e della quale essi sono sostanza, da una parte, e la fedeltà ossessiva alle sue chimere dall’al-

tra: la fobia della violenza sessuale, le mode psicoterapeutiche, l’assurda deriva della political correctness divenuta un vero e proprio maccartismo di sinistra, la minacciante tirannia etica e mentale delle minoranze razziali, sessuali e culturali

che invadono la vita quotidiana con la loro martellante guerriglia ideologica!. Due ganasce di una tenaglia che, in ultima !5 E. Behr, Une Amérique qui fait peur, Plon, Paris 1995. Significativo che questo saggio sia uscito originariamente in versione francese, perché lo stimolo alla sua redazione è dipeso principalmente dal bisogno del Behr di con-

frontarsi — circa un trentennio dopo — con il famoso libro di Jean-Jacques Servan-Schreiber, Le défi americain, nel quale si coglieva per così dire «sul nascere» — ma oggi sappiamo che, quando il Servan-Schreiber lo rivelava, il processo era già in corso da almeno mezzo secolo — il fenomeno del cedimento delle strutture economiche, politiche e mentali dell'Europa, e insomma del suo fallimento storico, di fronte alla spinta statunitense: una guerra —

appunto rilevava Servan-Schreiber — combattuta non già a colpi di dollari, di petrolio, d’acciaio, ma anzitutto «a coups d’imagination créatrice et de talent d’organisation». 16 Sul pericolo del nuovo «totalitarismo intellettuale» derivante dall’ossessione del politically correct e dal fondamentalismo etico-politico di parte della società americana, che ha condotto a quel che Robert Hugues ha definito La cultura del piagnisteo (trad. it., Adelphi, Milano 1994) e che costituisce anche la base morale della convinzione diffusa negli States sulla necessità della funzione di «gendarme internazionale» assunta dagli Usa nel mondo, e fondata sulla scelta di mantenere la tensione della guerra fredda in un mondo nel quale essa non esiste più (il che implica l'individuazione di un nuovo «nemico», di un nuovo «impero del Male» da combattere: poiché un popolo giusto, se fa delle guerre, non può per definizione che farne di giuste), sono differenti per qualità e per metodo, ma convergenti, le osservazioni di G. Vidal, La fine della libertà, trad. it., Fazi, Roma 2001 — per il quale la trage-

XXI

analisi, è intrinseca alla convinzione storica della 724dle Ame-

rica di costituire un «popolo eletto». Essa si propone come la versione, difficile dire fino a che punto laicizzata, della Wel-

tanschauung fondatrice dei Pilgrim Fathers, radicata nella certezza di costituire il Nuovo Israele!?: il che, paradossalmente, ha nutrito l'antisemitismo di molti christian Ameri

cans del deep South, ma si configura al tempo stesso come una componente del filoebraismo di buona parte della società statunitense, che si esprime anche attraverso pratiche in apparenza solo igienico-sanitarie, come la circoncisione!8. Lo spirito di guerra santa, evidentemente intesa come guerra ispirata al fanatismo religioso, si addebita oggi di solito al fondamentalismo islamico e a un jihad del quale è divenuto corrente fraintendere il carattere!?. Qualcuno, all’inizio della spedizione militare degli Stati Uniti e dei loro alleati in Afghanistan, ha notato com’essa sia stata avviata il 7 ottobre 2001, quattrocentotrentesimo anniversario della battaglia di Lepanto; e ha rivendicato orgogliosamente questa coincidenza e la sua (mai dichiarata) intenzionalità. Ma a dire il vero,

nello spirito di guerra santa — comunque laicizzato in guerra giusta — che spirava forte nelle dichiarazioni del presidente Bush a proposito della spedizione afghana e del relativo «Ocon-noi-o-contro-di-noi», prontamente ripreso anche in Eudia dell'11 settembre 2001 ha accelerato una tendenza già in atto nella società americana, e che rischia di limitare ed emarginare sempre più le libertà garantite dalla sua Costituzione — e di C. Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano, trad. it., Garzanti, Milano 2001, impietosa requisitoria contro l’«imperialismo mascherato» americano che per molti versi conferma au-

torevolmente quelli che, fino ad oggi, erano da molti considerati i vaneggiamenti provocatori della libellistica alla John Kleeves. 1? Una Weltanschauung radicata in quello che dev'esser definito — in senso storicamente e filologicamente proprio — il modello dei cosiddetti fondamentalismi: cfr. E. Pace, R. Guolo, I fondamentalismi, Laterza, Roma-Bari "T1998ì

18 Cfr. per questo W. Buhlmann, God's Chosen Peoples, trad. ingl., Orbis Books, Maryknoll (New York) 1982. 19 Su ciò A. Rashid, Nel cuore dell'Islam. Geopolitica e movimenti estremisti in Asia centrale, trad. it., Feltrinelli, Milano 2002, pp. 17-18.

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ropa da giornalisti e da politici solleciti nell’affermare che ogni dubbio e ogni perplessità equivalevano a un obiettivo appoggio fornito al terrorismo, vibrava semmai l’esito di convincimenti di differente radice: quelli propri del fondamentalismo effettivo, nel vero e originario senso del termine,

quello costruito sulla certezza puritana di contribuire all’edificazione del Regno di Dio attraverso l’esaudimento della sua volontà?0. L’azione militare promossa dal governo statunitense contro Afghanistan nell’autunno 2001, giustificata dal rifiuto del governo talebano di consegnare Osama bin Laden?!, e della quale si è poi più volte minacciata l’estensione ad altri paesi — Iraq, Sudan, Iran, Somalia, oltre all’invio di un contingente

nelle Filippine —, è stata e continua ad essere giustificata dall’esigenza di eliminare le basi dell’organizzazione terroristica al-Quaeda?2. La cattura di Osama bin Laden e del mul-

lah Omar, in un primo momento proclamata come elemento fondamentale tra gli scopi della spedizione, è rapidamente passata in seconda linea ed è andata perdendosi forse in seguito al fallimento dei tentativi in tal senso, forse perché in realtà mai era stata ritenuta così importante com'era stato sostenuto per motivi propagandistici. Ma appunto in ordine a es20 Sulle differenti accezioni e sulle varie forme di fondamentalismo, cfr. K. Armstrong, Ir nome di Dio, trad. it., Il Saggiatore, Milano 2002. 21 Sul movimento talebano, per brevità, rinviamo ad A. Rashid, Ta/ebani: Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale, trad. it., Feltrinelli, Mi-

lano 2001. Da notare che le perentorie richieste di estradizione di Osama non furono mai accompagnate, nonostante le continue richieste da parte talebana, dall’esibizione di prove esaurienti della colpevolezza dello sceicco saudita: anzi, il governo statunitense, pur dichiarandosi in possesso di tali prove (mai esibite), mostrò di considerare pretestuosa e provocatoria la richiesta talebana. Sui passati stretti rapporti d'amicizia tra statunitensi e talebani e sul codice d’onore pashtun che obbliga a considerare sacri gli ospiti e che quindi impediva in mancanza di prove effettive la consegna di Bin Laden agli statunitensi, cfr. Terzani, Lettere cit., pp. 45, 106, 153-595 e passim.

22 Sulla prima fase di questa guerra, cfr. G. Kepel, Chronique d’une guerre d’Orient, Gallimard, Paris 2002.

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sa si sono evidenziate le prime crepe profonde all’interno dell'opinione pubblica occidentale e in particolar modo europea. Si è andata creando, al riguardo, una situazione paradossale: da un lato i governi e i mass media, tutti schierati, sia pure con accenti e sfumature di differente tipo, sul fronte della convinzione che quel tipo di ricorso alle armi fosse necessario; dall’altro un’opinione pubblica in realtà molto più trasversale di quanto non si potesse sulle prime pensare, e nella quale le critiche all'intervento crescevano d’intensità e di qualità al punto che i mass media hanno finito con il «calmierarla» ricorrendo a un vecchio trucco, il crescente silenzio, il diradar-

si prima e lo scomparire poi delle notizie relative al conflitto, ai bombardamenti, alle vittime civili (magari frettolosamente dichiarate tutte «terroristi»), ai co/lateral damages.

Il punto massmediale di non ritorno è stato il 5 febbraio del 2002: le immagini, forse trasmesse per sbaglio, forse non tempestivamente stoppate, di decine e decine di prigionieri talebani o ritenuti tali di varia origine (non tutti afghani o arabi: qualche europeo, qualche americano...) stivati in gabbie, incatenati, trasportati nella base militare di Guantanamo, non si sa se per sottrarli al contatto col territorio metropolitano statunitense o per sfidare e intimidire lo «Stato-canaglia» di Cuba. Erano i prigionieri di un raid militare che Bush si era sempre ostinato a voler definire «guerra» ma ai quali veniva poi negato, con atto di arrogante contraddizione, lo status di prigionieri di guerra e a proposito dei quali un pur reticente ufficiale statunitense dichiarava che, in fondo, non

era poi possibile garantire nei loro confronti il rispetto di un testo «vecchio di cinquantaquattro anni». Quel vecchio, evidentemente trascurabile testo, era la Convenzione di Ginevra, violata in quel caso — e deliberatamente: un avvertimento per chi in futuro osi sfidare ancora il Gigante... — insieme con lo stesso diritto interno degli Stati Uniti??. D'altro canto, 23 Colombani, Tous Américains? cit., pp. 7-8.

XXIV

ormai negli Usa si sta discutendo a livello parlamentare non meno che a quello massmediale sulla possibilità di rendere lecito il ricorso alla tortura quando si stimi che ciò possa condurre a conseguire informazioni in grado di salvare vite americane?4. Non si deve credere che un vento di follia stia attraversando il nostro mondo e lo stia spingendo fino a rinnegare i presupposti sui quali la moderna società civile si fondava: fino a regredire a livelli inferiori a quelli a suo tempo denunziati da Cesare Beccaria. La questione sta propriamente

nello sviluppo delle democrazie moderne — se si vuole, nel loro evolversi in post-democrazie —, riassunto in una drammatica espressione di Marcel Gauchet: «Quand les droits de l'homme deviennent una politique»??. L’opinione pubblica statunitense e occidentale, comunque, non è grazie a Dio ancora matura per questo balzo in avanti del «progresso» etico-politico. A causa della precisa coscienza di ciò, dopo l’inverno fra 2001 e 2002, il cinico buon-

senso delle autorità statunitensi ha prevalso. Forte dell’esperienza vietnamita — allorché la sconfitta cominciò da casa, dal-

la reazione dell’opinione pubblica alle notizie relative sia alle perdite militari sia alle atrocità commesse — il governo di Washington ha attuato e addirittura teorizzato una sistematica campagna di disinformazione: fondata sul diradarsi progressivo delle notizie relative al fronte di guerra e ai bombardamenti da una parte, sulla promulgazione di una normativa sempre più limitante della libertà d’informazione e di espressione dall’altra. A partire da metà dicembre del 2001, Bush ha pronunziato una nuova parola d’ordine prontamente ripresa da molti governi occidentali: vi sono momenti nei quali la sicurezza deve prevalere sulla libertà individuale. Sono ben note le reazioni d’intellettuali come Gore Vidal e Noam Chomsky a dik24 Terzani, Lettere cit.,p. 115. 25 M. Gauchet, La démocratie contre elle-méme, Gallimard, Paris 2002, pi 326:

tat di questo tipo, che forse nella loro realtà sostanziale corrispondono a un zrend intrinseco in qualche modo ai sistemi post-democratici verso i quali sembriamo avviarci, ma che esplicitamente non erano stati finora dichiarati — se non proprio ancora teorizzati — con tanto brutale chiarezza?9. Rivelatrice, in modo particolare, la strenua battaglia del Chomsky contro il comportamento \arrogante di una superpotenza pronta a condannare come «Stati-canaglia» quelli che non si uniformano alla sua volontà politica (o alle risoluzioni Onu da essa ispirate), ma che poi a sua volta si rifiuta di considerarsi in qualche modo impegnata da scelte internazionali che non appaiono convenienti rispetto ai suoi interessi. Del resto,

la definizione di «Stati-canaglia» fa da pendant a quella di «governi moderati» con la quale si gratificano quei governi del mondo arabo e islamico che, nella lotta contro fonda-

mentalismo e terrorismo, stanno dalla parte dell'Occidente. Che esso abbia costantemente appoggiato i leaders moderati e democratici, nell’area musulmana come in altre parti del mondo - si pensi all’ America Latina —, è opinione massmediale diffusa e Lertrotiv costante. Nulla di più falso. Gli occidentali — si pensi alla politica inglese prima, statunitense poi, nel Vicino Oriente — hanno costantemente appoggiato regimi

autocratici e tirannici, oppure dittatoriali (infatti si schierarono con Saddam Hussein al tempo della «guerra dimenticata» contro l'Iran), sulla base dell’unica considerazione della di-

sponibilità di questi ad appoggiare la loro politica. Anzi, in molti casi proprio le forze più moderate e illuminate sono state lasciate da parte o decisamente avversate, nel timore che la loro politica prendesse prima o poi vie scomode per lo sfruttamento delle risorse locali da parte statunitense o europea. Sono eloquenti i casi dell’insediamento dei sauditi in Arabia alla fine della prima guerra mondiale al posto del moderato 26 Vidal, La fine cit.; N. Chomsky, Rogue States, South End Press, Cam-

bridge (Mass.) 2000.

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sceriffo hashemita della Mecca, o dell'appoggio fornito nel 1953 a Mohamed Reza Pahlavi contro Mossadegq (giustificato peraltro anche dalla guerra fredda)?”. Secondo l’analisi di molti osservatori, la politica statunitense e occidentale del XX secolo nei confronti del resto del mondo, soprattutto dalla guerra del Golfo a oggi, è stata caratterizzata non solo da interventi militari ma anche da scelte come l’embargo all'Iraq, con tutto il suo bagaglio di vittime innocenti e di abusi contro i quali hanno protestato, dimettendosi, anche due Alti Commissari dell'Onu. Di conseguenza, essa ha alimentatole riserve di simpatia e di complicità nei confronti dei movimenti estremistici di tutto il mondo: e soprattutto di quelli islamici cosiddetti fondamentalisti, tra i quali si è sviluppata con particolare virulenza la malapianta del terrorismo fino agli ultimi, sconvolgenti episodi che hanno avuto a protagonisti kamikaze suicidi-omicidi?8. Vozci le temps des assassins, senza dubbio. Nei confronti del terrorismo, non pos-

sono esserci forme d’indulgenza: per quanto vada riconosciuto che, in certi periodi della storia recente (si pensi all Algeria e al Sudafrica), l'atteggiamento dell’opinione pubblica occidentale sia stato più comprensivo e si sia notato come in fondo il terrorismo altro non è se non la risorsa di chi, dovendo

combattere una guerra, ha coscienza della propria schiacciante inferiorità militare nei confronti del nemico. Ma i due punti su cui la polemica si accanisce sono: 1. se il pugno d’acciaio dei bombardamenti e delle incursioni militari compiute in stato di assoluta superiorità sia il modo migliore per battere il terrorismo??, o se non alimenti invece le simpatie per le troppe vittime (molte delle quali in2? Cfr. gli esempi addotti da R. Cristiano, La speranza svanita, Editori Riuniti, Roma 2002. 28 Cfr. F. Cardini, G. Lerner, Martiri e assassini: il nostro medioevo con-

temporaneo, Rizzoli, Milano 2001. 29 Questo vale anche per la situazione israelo-palestinese: cfr. B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, trad. it., Rizzoli, Milano 2001.

XXVII

nocenti) e non rischi di determinare l’endemicizzarsi e il dilagare a macchia d’olio di una «guerra asimmetrica» fra gli Usa e i loro alleati da una parte, un'armata occulta nei suoi centri e nei suoi effettivi dall’altra; 2. se il terrorismo nasca dal fanatismo (che, nel caso dell’attuale situazione all’interno dell’Islam, è un fanatismo

di tipo in apparenza squisitamente religioso) o se non sia una risposta a uno stato di cose percepito come profondamente, inaccettabilmente ingiusto. Quanto al primo punto, una pluridecennale esperienza dimostra che rappresaglie e rastrellamenti non battono, anzi spesso rafforzano i movimenti terroristici, i quali compiono azioni sanguinose appunto per provocare tali reazioni nel ne-

mico e per costringere pertanto l’opinione pubblica delle aree nelle quali agiscono a passare dalla loro parte, o quanto meno a simpatizzare con loro. Comunque lo si voglia moralmente giudicare, un movimento terroristico persegue un di-

segno politico: quello di costituirsi una base di massa; e non viene colpito con sufficiente efficacia decimandone i veri o supposti complici o sostenitori, bensì soltanto eliminandone i centri propulsori e organizzatori. Ne consegue che le due armi antiterroristiche più efficaci sono da una parte l’intelligence (e quella statunitense, nei confronti dello sceicco bin Laden, non sembra aver brillato), dall’altra le misure politi-

che e sociali volte a risolvere quei problemi che, lasciati insoluti, alimentano il malcontento sul quale s'impiantano poi estremismo e terrorismo. Senza dubbio alcuno, una soluzio-

ne positiva del conflitto israelo-palestinese, o la fine dell’embargo all’Iraq — che però si è trasformato nel tempo, fra l’altro, in un formidabile business per produttori e mercanti d’armi: la stragrande maggioranza occidentali, beninteso —, 0 lo sgombero delle forze di presidio occidentali dal Golfo Persico e in special modo dall’Arabia Saudita, o un intervento

dell’Onu che ponesse termine alle violenze contro le minoranze musulmane (sbrigativamente considerate tutte di terroristi) nei territori della ex Urss e della Cina, strapperebbe XXVIII

ai gruppi fondamentalisti?0 e alle organizzazioni terroristiche molti simpatizzanti; laddove le repressioni violente, al contrario, gliene apportano. Il secondo punto è stato affrontato con limpida chiarezza ed esemplare fermezza, nelle sue premesse profonde, da Jean Baudrillardin un lungo articolo dal titolo L’esprit du terrorisme pubblicato su «Le Monde» il 3 novembre del 2001, quando il Nous sommes tous américains! del direttore del prestigioso quotidiano parigino, Jean-Marie Colombani, corrispondeva a una certezza che cominciava ormai a vacillare?! Sconvolge la forza di penetrazione di quelle non molte righe — si tratta pur sempre di un articolo di giornale —; fa pensare la loro coraggiosa «provocazione». Il presidente Bush ha accusato i terroristi di viltà: si può definire «vile» chi immola la propria vita? Forse: nella misura in cui colpisce proditoriamente quella altrui. Ma allora, come definire ibombardamenti durante la guerra del Golfo e quelli, più recenti, in Afghanistan, effettuati da piloti che avevano la matematica sicurezza che le armi difensive del nemico non erano in grado di colpirli, l’assoluta certezza di poter uccidere senza essere uccisi? Dov'è il coraggio di chi si sa invulnerabile? La provocazione di Baudrillard — «la tattica del modello terroristico consiste nel provocare un eccesso di realtà e nel far crollare il sistema sotto tale eccesso»? — sembra saldarsi con quella, altrettanto impietosa nella sua ineccepibile adesione al verbo della nonviolenza, di Tiziano Terzani. Che gli 30 Sulla natura politica anziché religiosa, e sul carattere modernizzante e ideologizzante anziché tradizionalista delle varie componenti del cosiddetto «fondamentalismo», nonché sulla crisi che esso sta attraversando e che suggerisce a molti capi fondamentalisti l'adozione di misure sempre più dure atte a risolverla con una sorta di shock, cfr.: G. Kepel, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, trad. it., Carocci, Roma 2001; B. Etienne, L’islamismo radicale, trad. it., Rizzoli, Milano 20012; Le spade dell’Islara, in «Limes»,

quaderno speciale, supplemento al n. 4, 2001; Armstrong, Ly norze di Dio cit.; R. Guolo, I/fondamentalismo islamico, Laterza, Roma-Bari 2002. 31]. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, trad. it., Cortina, Milano 2002.

22 Tui pe25.

XXIX

atti di guerra scatenati e condotti dal gendarme statunitense per mantenere nel mondo una pace funzionale agli interessi delle multinazionali — gestite o controllate dai nordamericani, o ad esse complementari — abbiano creato e alimentato malessere, è un dato di fatto ormai ben noto?3. Dopo il crollo della superpotenza sovietica, gli Usa si sono sentiti liberi da condizionamenti: e l’hanno dimostrato subito, nel dicembre del 1989, con l’azione a Panama che ha loro assicurato il

controllo del canale (per aver tentato un’azione simile, Saddam Hussein ha subìto un attacco militare dell'Onu e un più che decennale embargo)?4. Ma non ci sono solo gli atti di guerra: e non sono essi, necessariamente, né quelli che procurano sempre il più alto numero di vittime né quelli che provocano il più intenso tasso di rancore. Terzani ricorda difatti — e la sottoscrive — la sfida di Arundhati Roy agli americani: «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate». L'esplosione di una fabbrica chimica gestita dalla Union Carbide a Bhopal, in India, nel 1984, fece 16.000 morti. Sono in parecchi a considerare aberrante un paragone del genere. In fondo, la fabbrica chimica era lì per nobili e positivi scopi, lo sviluppo, il progresso; quanta gente morireb3 Nulla di più falso, beninteso, ci sarebbe tuttavia dell’attribuire a que-

sta politica l’intera responsabilità del tragico groviglio di violenza e di miseria nel quale i quattro quinti dell’umanità contemporanea si dibattono: e del quale alcuni governi, alcuni gruppi fondamentalisti e alcuni padroni della ricchezza mondiale di religione musulmana hanno le loro pesanti responsabilità. Si considerino i dati richiamati da A. Socci, I nuovi perseguitati, Piemme, Casale Monferrato 2002, a proposito dei milioni di cristiani morti in seguito a feroci persecuzioni nel corso del XX secolo, tra i quali molti vittime dell’intolleranza islamica. D'altronde, le contraddizioni del processo di globalizzazione non sono estranee, naturalmente, neppure a queste tragedie. Sulla molteplicità dei volti dell'Islam, cfr. A. Lamchichi (a cura di), Islarz et Occident. La confrontation?, L’Harmattan, Paris 2001; K. Fouad Allam, L'Islam globale, trad. it., Rizzoli, Milano 2002. ?4 P. Latour, M. Cury, Y. Vargas, Irak. Guerre, embargo, mensonges et vidéo, le Temps des Cérises, Paris 1999. 3> Terzani, Lettere cit., p. 52.

be di fame e di sete, più di quanto già non accade, se non si costruissero fabbriche chimiche? E l’esplosione non fu certo intenzionale; non più di quanto non lo sia stata quella di Chernobyl. E a quanti indiani l’Union Carbide dava lavoro? Repliche ragionevoli: che tuttavia astraggono da un dato, riguardo al quale nessuno di noialtri occidentali può chiamarsi fuori, nessuno dirsi non responsabile. Fabbriche del genere non si possono costruire dalle nostre parti: noi ne rivendichiamo gran parte dei vantaggi e dei profitti, ma ne addossiamo, oltre che il lavoro, i rischi agli altri. Il mondo è pieno di queste situazioni: e ora che gli oltre quattro miliardi di non privilegiati che vivono al di sotto della gestione e del godimento del 20% delle risorse e delle ricchezze del pianeta sanno quanto è profondo il divario del loro livello di vita rispetto al nostro — perché tra le merci che abbiamo venduto loro a caro prezzo c’era anche l’informazione; e perché molti di loro vengono tra noi a lavorare, e della loro forza-lavoro abbiamo bisogno —, non c’è da illudersi che possano accettare di buon grado questa realtà, che fra l’altro è in patente contraddizione con i princìpi universali dei Diritti dell'Uomo dei quali noi occidentali ci siamo fatti araldi proprio nei loro confronti. Ma qualche specifico riferimento all’imbroglio afghano, che sa più — a mio e non solo a mio avviso — di petrolio che di jihad e di crociata, sarà a questo punto opportuno. L’interessamento statunitense alla regione afghana, com'è noto, risale alla fine degli anni Settanta. L’ex direttore della Cia Robert Gates ha scritto nelle sue memorie che l’aiuto prestato ai mujahiddin che avversavano il regime di Najibullah ebbe inizio alcuni mesi prima dell’invasione sovietica?©: un’affermazione confermata dall’allora consigliere alla Sicurezza nazionale per l’amministrazione Carter, Zbigniew Brzezinski. Al suo in-

terno si formarono così élites di combattenti sostenuti nel tempo dagli Stati Uniti con l'appoggio dell’Arabia Saudita e del 36 R. Gates, Frorz the Shadows, Touchstone Books, New York 2000.

XXXI

Pakistan: molti fra icombattenti giunti in aiuto dei mujahiddin provenivano da quei paesi?”. Ed è storia nota a tutti che negli anni a venire quei medesimi combattenti si sarebbero impegnati in regioni più o meno lontane, quali la Cecenia o la Bosnia, in guerre per l’indipendenza di territori in larga parte musulmani. Con la sconfitta dell’Unione Sovietica nell’89, dopo un conflitto di smisurata ferocia che ha costretto milioni di persone a un esodo verso i paesi confinanti, l'Afghanistan è nel caos. I mujahiddin, uniti contro l’invasore, sono presto in guerra fra loro. Le fazioni non rispecchiano tanto e solo le divisioni etniche interne — da sempre esistenti nella società afghana — quanto piuttosto i differenti interessi che si addensano sulla regione, ricca di riserve petrolifere in larga parte intatte. Interessi che riguardano gli Stati confinanti, ovviamente, come pure molte multinazionali. Nel 1996 una delle fazioni in lotta conquista Kabul: sono i talebani, un gruppo rigorista che unisce al suo interno i pashtun—le cui giovani generazioni hanno studiato e si sono addestrate all’ombra delle madrasa (le scuole coraniche) finanziate dai sauditi —, cioè l’etnia maggioritaria del paese, insediata fra l'Afghanistan orientale e il Pakistan, e le milizie straniere che già avevano combattuto contro i sovietici. Fra que-

sti uomini vi è anche Osama bin Laden. Ancora prima della presa di Kabul, i gruppi d’affari sono in movimento. Fra 1994 e 1995 la Unocal (Union Oil of California Corporations), che raccoglie un consorzio di società ame37 Ma già all'indomani della conclusione della guerra, molti osservatori

indipendenti, che pure si erano battuti in Occidente per la causa afghana, si mostravano critici verso le scelte statunitensi: «Gli Usa sono responsabili di aver permesso che i loro aiuti fossero convogliati nei partiti più rigidi e dichiaratamente antiafghani e antioccidentali; gli Usa furono incapaci, o forse disinteressati, a percepire le diverse dimensioni culturali dei gruppi e le potenzialità della base sociale. Chi poteva aiutare l'emergere di forze moderate e rappresentative del vero Afghanistan ha invece offerto degli spazi innaturali agli estremismi che paradossalmente dichiara di temere in Afghanistan» (G. Bruckman, A. Amirian, Afghanistan: per saperne dipiù, Comitato Italiano Helsinki, Roma 1991, pp. 72-73).

XXXII

ricane del settore petrolifero, comincia a interessarsi attivamente alla possibilità di sfruttare i giacimenti di petrolio e di gas del Turkmenistan. Si arriva presto a un accordo — che vede come mediatori Henry Kissinger e un vecchio ambasciatore degli Stati Uniti in Pakistan, Robert Oakley —, che coinvolge, oltre alla Unocal, la saudita Delta Oil, la russa Gazprom e

una compagnia turkmena (la Turkmenrosgas). Per raggiungere il mare, la strada più breve per gasdotti e oleodotti sarebbe passata attraverso l'Iran; ma l’inimicizia fra

Stati Uniti e l'Iran post-rivoluzionario imponeva un’altra strada, più lunga, che passava attraverso l’Afghanistan e il Pakistan. E per questo che il profilarsi di un trionfatore nel conflitto afghano era auspicabile. Difatti, all'indomani dell'ingresso a Kabul, una delegazione di talebani fu invitata a Huston, in Texas, dai dirigenti della Unocal. Successivamente, nel dicembre del 1997, una riunione di più alto profilo ebbe luogo a Washington: vi partecipavano membri della Unocal, il sottosegretario di Stato di Clinton, Karl Indeforth, e alcuni

esponenti del neonato governo talebano. Nel frattempo, tutte le altre compagnie petrolifere si assicuravano diritti su altri giacimenti della regione: per esempio quelli del Kazakhstan. Nel 1998 Dick Cheney, attuale vicepresidente degli Stati Uniti ma allora dirigente della Halliburton Corp., una delle compagnie mondiali leader nel settore delle costruzioni di oleodotti (incarico che deteneva dal 1995,

dopo esser stato segretario della Difesa sotto la presidenza di Bush sr., e dunque durante la campagna nel Golfo), affermava: «Non riesco a pensare a un tempo in cui una regione è

emersa così improvvisamente per divenire altrettanto strategicamente importante com'è quella del Caspio»88. 38 Recentemente, la Halliburton ha stipulato un contratto della durata di dodici anni con la compagnia petrolifera di Stato dell’ Azerbaigian (la Socar) per supportare le proprie attività nell’area del Caspio e del Caucaso: cfr. http://www.halliburton.com/esg/esgnws/esgnws_051501.asp. Molti sono i membri del governo Bush personalmente interessati alle transazioni in campo petrolifero. XXXII

Ma, nonostante tali premesse, gli accordi non hanno buon esito: da una parte, i talebani sembrano non essere in grado di pacificare completamente il paese; sfugge loro proprio la regione del Nord-Ovest, strategicamente essenziale, che confina con il Turkmenistan e l'Iran: quella da cui alla fine del 2001 sarebbe partita la riscossa della cosiddetta Alleanza del Nord. A questo dato si aggiunge il fatto che, nel mondo, il regime talebano non è ben visto per la rigidità con la quale viene applicata la sharia, per la condizione delle donne e per altri temi in materia di diritti civili. Il 5 dicembre del 1998 il «New York Times» annuncia la sospensione del progetto Unocal per la costruzione dell’oleodotto. I rapporti fra gli Stati Uniti e il regime di Kabul, nel corso dello stesso anno, si sono rapidamente deteriorati: in seguito ai sanguinosi attentati che colpiscono due ambasciate americane in Africa, la ritorsione colpisce l Afghanistan e il Sudan, provocando la morte di centinaia di persone e la distruzione di quella che le autorità sudanesi affermano essere la principale industria di medicinali nel paese; e che gli Stati Uniti accusano invece di aver prodotto armi chimiche. Le prove relative alla tesi americana non verranno mai sottoposte all’opinione pubblica, e gli Stati Uniti bloccheranno un’inchiesta dell'Onu che mirava a far luce su quegli avvenimenti??. È in quei giorni che si affaccia per la prima volta con continuità la notizia circa l’esistenza di una rete terroristica internazionale, al-Quaeda, guidata dal miliardario saudita Osama bin Laden, eroe della resistenza afghana contro i sovietici e da allora legatosi a quel paese. Ma Osama non è un personaggio qualunque°. Com'è no-

to, egli èmembro di una numerosa famiglia che gestisce un immenso patrimonio e un’estesa rete di imprese finanziarie e pe39 Terzani, Lettere cit., p. 28. 40 Sulla sua storia, della quale molto si è scritto recentemente, rimane essenziale il libro di P.-L. Bergen, Holy war, inc.: Osama bin Laden e la multinazionale del terrore, trad. it., Mondadori, Milano 2001.

XXXIV

trolifere. Altrettanto noti sono i rapporti con la famiglia Bush, che datano agli anni 1978-79, quando la Arbusto Energy ottenne un finanziamento da James Bath, uno hustoniano strettamente legato alla famiglia che ha dato i due presidenti degli Stati Uniti. A quel tempo Bath agiva come unico rappresentante negli Stati Uniti di Salem bin Laden, uno dei fratelli di Osama. Quando Salem morì, nel 1988, i suoi interessi furono rilevati da un banchiere saudita, Khalid bin Mahfouz, che negli anni precedenti aveva figurato come uno dei dirigenti del-

la Bcci (Bank of Commerce and Credit International): un istituto bancario coinvolto in una frode perl’ammontare di 10 miliardi di dollari ai danni dei risparmiatori, finendo coinvolto anche nello scandalo Iran-Contra come uno dei principali canali attraverso cui passavano i soldi da «riciclare». Nel 1986 la Arbusto prende il nome di Harken Energy Corporation, gestita da George W. Bush jr.; quando l’anno successivo la compagnia deve affrontare alcuni guai finanziari, lo sceicco saudita Abdullah Taha Bakhsh ne acquista il 17,6 per cento, servendosi quali tramiti di Bin Mahfouz e di

altri personaggi implicati nello scandalo della Bcci. Interrogato a tale proposito dal «Wall Street Journal», Bush negò di essere a conoscenza che la Bcci fosse coinvolta nell’affare. In ogni caso, nel 1992 Bath fu indagato dall’Fbi, il quale sospettava che i finanziamenti sauditi servissero a influenzare la

presidenza di Bush sr.!. 4! Infatti, all’indomani degli attentati contro le Twin Towers, quando la Cia e l’Fbi erano sotto pressione per l’incapacità di prevedere e intercettare gli attacchi, numerose furono le voci che si rincorsero sugli interventi delle presidenze Clinton e Bush per bloccare inchieste circa i possibili coinvolgimenti sauditi in attività terroristiche. E anche successivamente, nonostante la provenienza arabo-saudita o egiziana degli attentatori, non si è poi dato un serio seguito ai propositi inizialmente dichiarati di voler bloccare le centrali finanziarie che, in un modo o nell’altro, possono supportare i terroristi: a questo tema sono stati rivolti diversi interventi del «Guardian» e della Bbc. Bush sr., con l'ex segretario di Stato James Baker (insieme ad altri membri delle amministrazioni Reagan e Bush, nonché dell’ex primo ministro inglese John Major e a ex dirigenti di alcune fra le più grandi imprese europee), è XXXV

Nel frattempo, Bin Mahfouz manteneva il suo ruolo rappresentativo rispetto alla famiglia Bin Laden, e con lo stesso Osama, al quale ancora cercava di trasferire direttamente ricchi finanziamenti nel 1999: data in cui egli era già considerato uno — se non il principale — dei «nemici pubblici» degli Stati Uniti. Fra l’altro, con una testimonianza al Senato, nel 1998

l’ex direttore della Cia James Woolsey rivelò che una sorella di Bin Mahfouz era sposata con Osama bin Laden*?. Tornando alla situazione afghana successiva al ’98, si può dire che i legami con gli Stati Uniti entrarono da allora in una fase di stallo, ma non di completa rottura. Da una parte continuavano i colloqui informali per ricucire gli strappi, dall’altra però si disponevano truppe specializzate nei paesi confinanti, pensando già a un possibile scenario post-talebani. Questi ultimi, d’altro canto, prestavano ormai il loro aiuto a

cause che risultavano scomode per tutti. Con la Cina quale partner commerciale — forse scomodo ma irrinunciabile per l'Occidente —, la causa dei ribelli uiguri, musulmani turcofo-

ni delle regioni occidentali sottoposti al duro giogo cinese al pari dei tibetani (ma certo meno presenti di questi alle molte iniziative internazionali per i diritti umani e dei popoli) e aiutati anche militarmente dai talebani, non poteva incontrare le simpatie occidentali. I ribelli ceceni — vittime di un genocidio che negli anni precedenti aveva condotto molti a chiedere per il presidente russo Putin lo stesso trattamento oggi riservato anche rappresentante della Carlyle, divenuta progressivamente, a partire dall’indomani della guerra del Golfo, una delle principali imprese statunitensi, con attività soprattutto nel settore della difesa; il fondo pensioni degli insegnanti del Texas ha investito nell’impresa, quando George W. Bush jr. era governatore di quello Stato, 100 milioni di dollari. La Carlyle, inoltre, è il consigliere finanziario del governo saudita; la stessa famiglia Bin Laden ha investito ampiamente in questa impresa, che all'indomani degli attentati contro le Twin Towers finirà nel mirino di quanti investigano sulle fonti economiche di Osama. 4 Per ulteriori, dettagliate informazioni, si vedano tutti i riferimenti nelle pagine del sito http://www.bushwatch.com (0 bushnews.com).

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dalla comunità internazionale a Milo$evié —, pure aiutati dai talebani, non si potevano preferire al nuovo alleato russo. Soltanto in Bosnia, il loro intervento militare è stato tollerato e anzi, sembra di poter dire, incentivato, dal momento che in

quella regione gli Stati Uniti (con l'appoggio o comunque il benestare dell’Unione Europea) avevano scelto i musulmani come elemento destabilizzante rispetto al nemico serbo. Il rifiuto della comunità internazionale di riconoscere il governo talebano quale unico legittimo in Afghanistan ha condotto nel 2000 alla spettacolare ritorsione contro i Buddha di Bamyan. Le vicende della guerra scatenatasi dopo l’11 settembre sono note a tutti: almeno relativamente, visto che sino

ad oggi non si è avuta alcuna stima ufficiale dei morti causati dai bombardamenti fra i civili. In questi mesi, un nuovo governo regge il paese, o almeno quella parte di esso (non è dato sapere esattamente quale) in cui non spadroneggiano bande e fazioni che agiscono in modo indipendente, così com'era già

avvenuto all’indomani della ritirata sovietica. Molte ombre si addensano sull’establishment afghano, se molti fra i leader dell’ Alleanza del Nord che oggi si contendono il potere in un equilibrio precario sono stati accusati dalle associazioni umanitarie di crimini di guerra e brutalità contro la popolazione civile. Lo stesso primo ministro Hamid Karzai, che tanto è piaciuto all'opinione pubblica internazionale, finendo anche su qualche pagina dedicata alla moda maschile, è stato accusato di esser stato al soldo della Unocal#. L’Afghanistan, qualche mese dopo l’avvio dell’operazione Enduring Freedom, sembra rientrato nel golfo silenzioso delle «guerre dimenticate»; in realtà, è forse tornato al suo vecchio equilibrio tribale fatto di frammentazione del potere, di coltivazione del papavero oppiaceo e di scontri antichi quanto la sua antica civiltà. Sta cominciando, nel frattempo, il Gran Ballo miliardario della «ricostruzione», e ci si avvia a far 4 «Le Monde», 25 dicembre 2001.

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giocare a quella terra, che un tempo era la chiave delle carovaniere della Via della Seta, quel ruolo di area di transito degli oleodotti e dei metanodotti che consentiranno alla superpotenza statunitense e alle subpotenze russa e cinese di aprire un nuovo capitolo del Great Gazze di ottocentesca memoria, mentre permetteranno di escludere dal nuovo gioco della commercializzazione delle risorse petrolifere lo «Stato-canaglia» iraniano, sul quale perdura la scomunica di Washington. Da questo gioco l'Europa è assente come potenza politica, dal momento

che una linea politica non riesce a

esprimere: anche se gli europei in esso sono ben presenti con i loro capitali, le loro imprese, la loro tecnologia, secondo il gioco mondiale delle parti che accorda alla compagine europea un ampio ruolo economico, finanziario, tecnologico, ma gliene nega uno politico. Questo libro non nasce da intenti polemici: non è un «libro-contro». Esso raccoglie voci note e meno note, tutte accomunate dal desiderio di passare «al di là dello specchio» dei luoghi comuni, della propaganda, d’un certo semplicismo ottimistico che fa credere che tutto quel che viene dal nostro Occidente sia buono e che tutto quel ch’è buono sia occidentale. Non ci siamo curati di raccogliere opinioni univoche: non abbiamo alcun «teotema» da dimostrare; non amia-

mo né l’unanimismo, né la dietrologia. Anzi, alcune tesi propugnate da questo o quello dei nostri autori contrastano con quelle di altri. Abbiamo comunque scelto voci che in un modo o nell’altro esprimono — e suscitano — dubbi riguardo all'opinione «vulgata»: che sia cioè in corso una guerra tra le forze del Bene e l’Asse del Male, e che le une e l’altro siano

ben distinguibili e coerentemente opposti fra loro. Ci è sembrato che le guerre scatenate per il predominio su certe aree asiatiche o per il controllo delle loro risorse si debbano chia44 Cfr. R. Debray, L'Europa sonnambula. Le guerre americane dall'Iraq al Kossovo, trad. it., Asefiu, Milano 1999.

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mare col loro nome: non ammantarle dietro buone, giuste o addirittura sante Cause. Ci è parso che il far vendetta e chiamarla giustizia, il far deserto e chiamarlo pace, il far duramente i propri interessi e chiamarlo libertà siano altrettante mistificazioni dalle quali dobbiamo liberarci se vogliamo capire il mondo qual esso è; e se vogliamo cercar di comprendere quale e quanto grande sia, nei molti aspetti che in esso risultano ingiusti e intollerabili, la nostra parte di responsabilità. Per capire le cose; e, se è possibile, per migliorarle. Questo è tutto.

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La paura e l'arroganza

The year is 2032. A father and his son are walking through NYC. As they pass through Southern Manhattan, the little boy looks at his father and says: «Dad, what are the Twin Towers?».

The father replies: «The Twin Towers were two buildings that the Arabs destroyed 30 years ago». The boy thinks about this for a while and finally asks: «Dad, what are Arabs?».

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Avvertenza

Tanto le Introduzioni alle singole sezioni che costituiscono questo libro, quanto la Postfazione sono a cura del gruppo Dia-Légein. Quando i singoli saggi qui stampati non rechino differente indicazione, si deve intendere ch’essi sono stati redatti appositamente per questo libro.

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Voci dall'Italia

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Introduzione

Gli articoli che qui seguono sono stati scelti non soltanto perché rappresentano punti di vista critici nei confronti di una reazione dominata prevalentemente dall’emotività e da un conformismo culturale spesso sconcertante; atteggiamenti, questi, che pochissimo spazio hanno lasciato a una riflessione sugli eventi drammatici dell’11 settembre e sulle altrettanto drammatiche conseguenze che essi hanno scatenato, coinvolgendo dolorosamente l’intero pianeta. Più sono drammatici gli eventi, più le loro conseguenze sono vaste e profonde, più è necessario che l'informazione sia accompagnata e sostenuta, in primo luogo, da un’articolata e lucida capacità di analisi e da una costante volontà di comprendere. Nel panorama della stampa italiana, tranne poche e significative eccezioni, ha prevalso, come in gran parte dei paesi occidentali, quell’atteggiamento mentale che porta a decontestualizzare i fatti, per leggerli e interpretarli nella puntualità del loro darsi, evidenziando, così, come l’informazione scrit-

ta si sia completamente adeguata ai criteri dell’informazione mediante immagine (televisiva o fotografica), che sembra mostrare tutto in modo incontrovertibile, ma che, in realtà,

mostra solo un isolato frammento di realtà, magari straordinariamente coinvolgente nella sua potente drammaticità, ma pur sempre avulso dalla complessa trama di fatti, di cause e concause che l’hanno generato. E sono queste ultime che ci consentono di comprendere e giudicare la realtà e non il riprodurre all’infinito uno choc capace solo di generare un «clima di emergenza psicologica» in cui la retorica ha buon gio-

co nell’omologare, nell’uniformare contenuti e stili espressivi, emozioni e modi di comprensione. Gli autori che qui proponiamo rifiutano questa modalità interpretativa, operando una re-versione che ha il preciso scopo di ricondurre ifatt nella trama complessa della realtà: r:contestualizzano là dove si è tagliato ogni legame, ogni riferimento ad avvenimenti e processi culturali, economici e sociali che pur hanno segnato gli ultimi decenni. Così, essi tracciano un percorso analitico che consente di leggere i fatti dell’11 settembre in un orizzonte di ampio respiro, in cui, senza nessun atteggiamento giustificatorio, è possibile una corzprensione profonda e articolata, scevra da ogni intento retorico o propagandistico. Essa, e solo essa, può permetterci di non soccombere né emotivamente, né intellettualmente alla

tragicità degli eventi e alle loro non meno tragiche conseguenze.

Padroni del mondo e dittatori del pensiero di Marco Tarchi

Le guerre, nuove prove di egemonia culturale Un certo numero di esponenti dell’intellettualità italiana — Marcello Pera, Angelo Panebianco, Pierluigi Battista, Ferdinando Adornato, Dino Cofrancesco, Raimondo Cubeddu,

solo per ricordare i primi che ci vengono alla mente — accolse con repliche infastidite, sarcastiche o indignate, nell’estate del 1996, un articolo in cui esprimevamo il timore che in Italia si andassero accumulando le premesse di una nuova egemonia culturale, di segno diverso da quella marxista che l’aveva preceduta, ma non meno pericolosa per quella libertà di espressione che è l’irrinunciabile presupposto di una democrazia. Sembrava assurdo a costoro paventare il rischio di una dittatura del pensiero in democrazia e, per giunta, di una dittatura di segno ideologico liberale, messa in atto cioè da quanti fanno dei diritti di Libertà la loro bandiera. E poi in Occidente, che di quei diritti è patria, terra promessa, culla,

simbolo. La piccola tempesta giornalistica seguita a quella denuncia si risolse quindi in un’archiviazione senza indagini, accompagnata da una messa in guardia per i calunniatori: chi dice male del liberalismo non può che farlo per inconfessabili nostalgie dei Gulag o dei Lager — così, più o meno testualmente, il «moderato» Pera — e va dunque messo all’indice. Come, di fatto, è avvenuto per chi si era lasciato andare a

così impertinenti ipotesi.

Lasciamo giudicare chi ci legge se i fatti abbiano confermato o meno quella diagnosi sullo stato di salute della libertà

di espressione in Italia e, più in generale, nell'Europa che smania per sentirsi parte di un «Occidente». Ovvero se le prove che gli intellettuali e gli operatori dei media hanno dato di sé negli ultimi cinque anni abbiano rassicurato circa la tenuta di quei due requisiti — il pluralismo delle opinioni e il policentrismo delle informazioni — che assicurano l’effettivo godimento dei diritti di libertà. Va da sé che noi abbiamo seri dubbi in proposito e seguiamo con apprensione crescente l’ampliarsi della censura dei circuiti comunicativi di massa (in primo luogo quelli televisivi, di gran lunga oggi i più efficaci, ma non solo) verso qualunque manifestazione di dissenso dai valori e dai giudizi che la vulgata politico-culturale ufficiale consacra e legittima come fondati e giùsti. La constatazione che Aleksandr SolZenycin fece nel discorso tenuto ad Harvard poco dopo l’inizio del suo esilio americano — in Urss per privare della voce i dissidenti è necessario incarcerarli, in Occidente basta privarli di un microfono — ha ormai verifiche quotidiane. Ma il processo non si è stabilizzato; tende semmai a inasprirsi, a configurarsi come un’opera di rimozione

preventiva dei germi del malpensare dalle menti degli individui, a farsi pianificazione di un’educazione civica che è allevamento al culto di princìpi unici, obbligatori e inevitabili perché, per una sorta di legge naturale non scritta, universalmente migliori e dunque non rifiutabili se non da animi perversi e bisognosi di cura o punizione. Intendiamoci. Chi conosce un po’ la storia del mondo e del pensiero e coltiva la virtù del realismo non trova grandi novità in questo fenomeno. Ogni epoca ha prodotto le proprie vocazioni all’egemonia politica e gli strumenti intellettuali per cercare di imporle dissimulandole. Quel che appare inedito nell’odierno scenario è il prefigurarsi di una sola egemonia e, nel contempo, la capacità degli apparati culturali di porre da soli fuori gioco le potenziali insidie al suo dispiegarsi, senza che vi sia bisogno di ricorrere, se non in casi ec-

cezionali, all’impiego di mezzi coercitivi basati sulla forza fi-

sica. Il sogno di un dominio perfetto basato sull’adesione co10

stante e convinta dei governati alle decisioni dei governanti, coltivato con accanimento ma senza gli esiti sperati dai regimi totalitari, si approssima alla realtà. Perché possa fare ulteriori progressi sono necessarie però altre sperimentazioni; la

fine della storia preconizzata da Fukuyama non è ancora dietro l'angolo e un certo numero di fattori di resistenza sono tuttora attivi. In epoca di globalizzazione delle comunicazioni e di contatti in tempo reale in ogni angolo della terra, l’autentica egemonia non può che essere planetaria; le mentalità collettive devono essere influenzate ovunque dai medesimi paradigmi. È questa la filosofia su cui si fonda la predicazione dei «diritti dell’uomo»: un’unica specie, un unico modo di pensare e di comportarsi, un’unica religione civile senza una ben individuabile divinità, ma con Tavole della Legge la cui infrazione destina ai più atroci castighi. Il clima psicologico dell'emergenza è il terreno ideale per sperimentare le nuove capacità di espansione del progetto di occidentalizzazione del mondo, che dell’egemonia ideologica liberale è il veicolo; si spiega così perché dal 1989 in poi si siano moltiplicate le avventure belliche giustificate in nome dei valori occidentali e condotte con grandi sforzi di contenimento delle opinioni dissenzienti. Il crollo dell'impero sovietico, che per decenni aveva svolto egregiamente una funzione di legittimazione a contrario delle pretese di superiorità del modello di società liberale, rischiava di sciogliere le opinioni pubbliche dei paesi «occidentali» dai vincoli imposti dalla minaccia del Nemico e di indurle a chiedere conto ai rispettivi regimi delle insufficienze, delle scelte errate, delle promesse tradite. C’era perciò bisogno di altre emozioni che ricompattassero e sviassero l’attenzione e nulla meglio di una guerra può assolvere a questo scopo. Da quando, in epoca moderna, si sono affacciati interrogativi sulla moralità dei conflitti bellici, le classi politiche che intendevano servirsene hanno sempre trovato validi argomenti per giustificarli, richiamando sempre in qualche maniera quell’idea di bene comune o di interesse nazionale che in politica interna ormai lasi0I

tita. Così è stato con le guerre del Golfo e del Kosovo, en-

trambe camuffate da operazioni di polizia internazionale per meglio assegnare all'avversario il ruolo del criminale e a se stessi quello dello sceriffo e organizzate in modo da rafforzare vecchie alleanze, promuoverne di nuove e ribadire al di là

di ogni dubbio le gerarchie già stabilite in tempo di guerra fredda. In ambedue i casi, alle azioni militari — è difficile de-

finirle scontri sul terreno, perché l’asettico diluvio aereo di bombe e missili evita la sgradevole sensazione di contatto fisico con le Forze del Male — si sono accompagnate massicce campagne di propaganda interna che hanno riproposto il compito dell’intellettuale come fiancheggiatore della politica, propalatore del Verbo e manipolatore delle coscienze.

Temi e registri della propaganda Gli eventi scatenati dagli attacchi al World Trade Center e al Pentagono hanno proposto, con connotati ancor più marcati,

lo stesso scenario. Sebbene in questo caso la guerra comunicativa non potesse essere predisposta in anticipo, la ben oliata macchina dell’informazione orientata al servizio degli interessi egemonici dell’unica superpotenza esistente ha funzionato, da subito, alla perfezione. Nessuna delle sconcertanti carenze messe in mostra da servizi segreti e apparati di sicurezza militare in occasione dei dirottamenti si è verificata in questo settore. Il nuovo episodio bellico è stato preparato, giustificato e gestito con competenza dai media dei paesi «occidentali», che hanno dimostrato di avere ormai interiorizzato e automatizzato i codici che caratterizzano la propaganda atlantista: convergenza di temi e toni, sincronia nell’uso delle immagini a effetto

disponibili, insistenza martellante su alcune parole d’ordine. Il tutto, ovviamente, senza bisogno di direttive specifiche, il che fa capire quanto in profondità sia ormai giunta l’omologazione di contenuti e stili espressivi della stampa e dei circuiti audiovisivi di questa area del mondo: salvo debite, preventivate e tut12

to sommato utili eccezioni — che possono essere sbandierate per rivendicare il pluralismo dell’uno per cento contro il novantanove e dare maggiore forza all’effetto-plebiscito che impressiona il pubblico — i commentatori sospettabili di eterodossia erano stati preventivamente estirpati dalla scena pubblica e le «personalità» da invitare ai t4/k shows erano state già selezionate, così come gli inviati nei luoghi caldi dell’attualità. Questa efficienza degli strumenti deputati a orientare e controllare l'opinione del pubblico, capaci di offrire un’immagine di compattezza che alimenta l’autocensura di chi pure coltiva dentro di sé qualche dubbio, ha tuttavia un risvolto che contrasta con le intenzioni di chi la assicura: producendo comportamenti seriali, ne consente facilmente l’individuazione e la catalogazione. Se ci fossero dosi sufficienti di anticonformismo in giro, esso permetterebbe critiche dei meccanismi di manipolazione delle coscienze attivi in contesti democratici ben più documentate e serie di quelle condotte in altre occasioni da sociologi e giornalisti d’inchiesta. Anche se c’è da dubitare che questa occasione verrà colta, una ricognizione degli argomenti impiegati dall’11 settembre in poi dai mezzi di comunicazione di massa per inquadrare gli eventi nella cornice gradita ai custodi dell’ideologia oggi egemone, accompagnata da una simmetrica confutazione di ciascuno di essi, può almeno aiutare a sgombrare il campo dagli equivoci e a mantenere in vita una prospettiva antagonista

nei confronti di chi gestisce gli apparati di propaganda oggi dominanti e di chi riscuote i frutti della loro azione. È dunque a quest'opera di individuazione e discussione che qui ci dedicheremo. La psicosi

Era inevitabile che gli attacchi sanguinosi dell’11 settembre sollevassero un’ondata di forti emozioni, estese dall’orrore al-

la pietà. Questi spontanei e ovvi stati d'animo sono stati però da subito indirizzati verso una psicosi collettiva da estrapola13

zioni e giudizi privi di fondamento oggettivo. Il primo Leztmotiv usato a tale scopo è stato quello del «nulla sarà mai più come prima». Le cose non stanno ovviamente così: il duro colpo psicologico subìto dagli Usa, mai prima di allora seriamente attaccati sul proprio territorio e perciò convinti di es-

sere destinati al dominio anche perché invulnerabili, non ha cambiato il mondo, così come non l'hanno stravolto gli innumerevoli precedenti di stragi, attentati e genocidi — incluso il colossale massacro della popolazione autoctona compiuto dai coloni immigrati negli odierni States. Ma è opportuno regolare sui toni più alti il registro dell’indignazione. Ecco allora l’enfasi sulle proporzioni della perdita di vite umane dovuta alla distruzione delle Twin Towers: nei primi giorni si avanzano cifre valutabili in decine di migliaia, poi ci si stabilizza sulle 6-7000 e il bilancio più realistico del «New York Times» che le dimezza è riportato con la minima evidenza dagli organi di stampa. Ecco le pagine dei giornali riempirsi, ogni giorno, di fotografie a colori delle vittime e dei soccorritori — privilegio mai toccato in passato alle vittime dell’odio e del terrore di cui le cronache abbondano. Ecco i continui interventi di psicologi e psichiatri per mettere in guardia sui traumi che potrebbero scuotere i bambini alla ripetuta visione dell’impatto degli aerei con le Torri (che invece è da molti di loro percepito come una bizzarra scena da videogame). Ed ecco soprattutto l'insistenza su una presunta — e falsa — debolezza del paese «sotto attacco», l’incitamento ad aiutare il gigante ferito, quasi che non fosse il paese più potente della terra da ogni punto di vista, la sottolineatura di una sua fantasmatica debolezza volta a celebrarne qualche giorno dopo la «miracolosa» resurrezione, frutto non già, come è nei fatti, dell'enorme disponibilità di risorse d’ogni genere, praticamente inattaccate dagli aerei omicidi, ma di una

ineguagliabile granitica forza d’animo, inarrivabile per i comuni mortali che abitano le flaccide periferie dell'Occidente. Nell’operazione massmediale hanno naturalmente un ruolo di primo piano le vittime. Tante, non c’è dubbio. Ma, 14

orwellianamente, «più uguali» delle moltissime altre che guerre e attentati seminano in altri paesi: sono, in questo caso, «bambini, mamme, lavoratori, casalinghe» (Gianni Riotta, in «Corriere della Sera», 13 settembre 2001), non «pale-

stinesi» o «iracheni» o «cingalesi» e «tamil» come d’abitudine. Chi non si commuove a sufficienza davanti alla loro morte e non ne trae pubblicamente le dovute conseguenze politiche è fustigato dai conduttori dei programmi televisivi con parole di fuoco; ma è uno spettacolo ipocrita. Gli addolorati intellettuali del fronte occidentale non provano eguale tristezza per i morti altrui e fanno passare per vittime del bellicismo del dittatore di Baghdad i bambini uccisi in Iraq dall’embargo statunitense o le decine e decine di migliaia di caduti, spesso civili, prodotti dai raid aerei Usa nei più disparati angoli del mondo (Grenada, Panama, Iraq, Jugoslavia, Somalia, Sudan...). Meglio, allora, il cinismo di chi ammette senza tanti fronzoli che le vittime fatte in nome delle cause Giuste sono tutt'altra cosa rispetto alle altre, scrivendo che: «Durante la seconda guerra mondiale le città di Germania e Italia furono colpite per giorni, mesi, anni: l’obiettivo era di sconfiggere i regimi di Mussolini e Hitler. Il prezzo sono state centinaia di migliaia di vittime civili. Ma i dittatori sono caduti e le ferite si sono rimarginate grazie alla democrazia». Questo sì è un bel parlare da liberali: a obiettivi e ruoli invertiti, non c'è dubbio che Hitler e Sta-

lin avrebbero sottoscritto il ragionamento. Del resto, per giungere allo scopo non ci si possono fare troppi casi di coscienza. Si può sostenere, come fa Paolo Mieli nelle sue risposte ai lettori del «Corriere della Sera», che è illecito condannare lo sterminio di civili di Dresda, perché ha prodotto salutari effetti bellico-politici, o stravolgere il senso della misura come fa Giovanni Sartori, che giudica lo schianto delle Twin Towers «Hiroshima due; ancora un inedito,

e un inedito ancora più terrorizzante di Hiroshima». E sono, si badi, le voci di due intellettuali liberali solitamente

equilibrati... 15

Il travisamento delle cause e la manipolazione degli effetti La decontestualizzazione dei tragici eventi dell’11 settembre ha un ruolo essenziale nella strategia dei media acquisiti alla causa dell’«Occidente». I piloti degli aerei del terrore non vengono dal nulla. I loro non sono gesti terroristici, ma azioni di guerra. Di una guerra non convenzionale, che comporta costi elevati fra i civili, come sanno molto bene gli inventori dell’espressione «danni collaterali» applicata a iosa in Iraq e in Kosovo. Dell’unico tipo di guerra — disumanizzata - che è possibile condurre contro paesi la cui potenza tecnologica militare è sproporzionata rispetto alle possibilità degli avversari. Gli attentati e le congiure hanno sempre fatto parte delle guerre di liberazione e di indipendenza, e un paese che celebra nelle cerimonie pubbliche e sui libri di testo la Carboneria e il Risorgimento non dovrebbe dimenticarlo troppo in fretta. Nel caso di cui ci occupiamo, la causa dell’esplosione di violenza «terrorista» è il ruolo che gli Stati Uniti svolgono da decenni in Medio Oriente a difesa non della libertà (il Kuwait è uno dei paesi meno democratici al mondo, privo di libere elezioni e di istituzioni rappresentative), ma dei propri interessi politici ed economici, senza riguardo per le aspirazioni alla giustizia e all'indipendenza dei popoli della zona, palestinesi in testa. Sono in pochissimi a ricordarlo, nel clima di oscuramento

massmediale delle opinioni controcorrente, ma le loro parole sono davvero pietre. «Le azioni di questi uomini sono atroci, ma non sono gratuite, sono atti di guerra, una guerra che da tempo non è più quella cavalleresca», scrive Tiziano Terzani, aggiungendo: Da tempo ormai si combattono

con mezzi e metodi nuovi

guerre non dichiarate, lontano dagli occhi del mondo che si illude oggi di vedere e capire tutto solo perché assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle. Dal 1983 gli Stati Uniti hanno bombardato a più riprese nel Medio Oriente paesi come il Libano, la 16

Libia, l'Iran e l'Iraq. Dal 1991 l'embargo imposto dagli Stati Uniti all'Iraq di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo milione di morti, molti dei

quali bambini a causa della malnutrizione. Cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera in Iraq e in chi si identifica con l'Iraq una rabbia simile a quella che l’ecatombe di New York ha generato nell'America e di conseguenza anche in Europa. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste un legame.

Sì, sarebbe importante capirlo. Ma gli intellettuali liberali non lo capiscono perché non lo vogliono capire, e i mezzi di comunicazione da loro influenzati propongono, spesso con toni da cinegiornali Luce, tutt'altro scenario. Ha un bello scrivere, l’islamista Bruno Etienne, che «gli americani hanno prodotto nel mondo un notevole capitale di odio da quando sono soli, cioè dopo la fine della bipolarizzazione» e che «quest'odio si è sviluppato soprattutto — ma non solo — nel mondo arabo-musulmano» giacché gli statunitensi sono «aborriti e detestati a causa del loro appoggio a Israele e della loro presenza nei luoghi dell’Islam dopo la guerra nel Golfo». Nessuno, nelle redazioni giornalistiche, lo ascolta. Sulle prime

pagine dei quotidiani di più paesi, con spettacolare simmetria, domina il titolo «Siamo tutti americani», che dà il la a un

monocorde concerto propagandistico di proporzioni senza precedenti. Ogni argomento, ma anche ogni sotterfugio, è buono per cancellare il rapporto causa-effetto esistente tra la sanguinosa oppressione dei palestinesi e l’altrettanto cruento 11 settembre (un altro «settembre nero»). Si specula sulle «inqualificabili manifestazioni di giubilo» nelle strade di Ramallah, senza che sia mai stata profferita una parola sull’entusiasmo da yankee stadium con cui negli Usa vennero accolte nel 1991 le immagini televisive dell’ecatombe provocata dai good guys con le bombe scaricate a tonnellate sul corteo di soldati e civili iracheni in ritirata sull’autostrada 17

per Bassora. I Lerner che fremono di sdegno nel pensare ai profughi disperati che gioiscono per il danno inflitto al po-

tente protettore del loro nemico si guardano bene dal commentare con gli stessi toni le parole dell’«esperto di sicurezza» israeliano che pubblicamente si pente «di non aver ucciso Arafat» o quelle del pilota di aereo che confessa di sentirsi, quando sgancia il suo carico di ordigni mortali, «come un giocatore di football durante la finale del Superbowl». Questi sono sfoghi di amici, di alleati. Da biasimare sono gli altri, quelli che per il solo fatto di ricordare le colpe di cui gli Usa si sono macchiati agli occhi delle popolazioni arabe entusiaste di Bin Laden vengono accusati di mettere terroristi e vittime sullo stesso piano. Fa parte della medesima strategia l’ossessivo concentrarsi dei media sull’attacco alle Twin Towers piuttosto che su quello, simbolicamente non meno rilevante, al Pentagono. La ferita inferta al centro simbolico del loro strapotere militare brucia molto di più agli States perché è la sferzante prova di un’impreparazione militare insospettabile, e va richiusa in fretta, tanto più che l'opinione pubblica internazionale non appare propensa a esprimere la medesima simpatia provata per i morti «innocenti» dei due grattacieli verso chi è rimasto ucciso nella Mecca dei «falchi» di Washington, indefessi pianificatori di operazioni belliche. L’occultamento delle reali motivazioni dell’attacco serve tuttavia soprattutto a un altro scopo: far circolare l’idea che esso non sia un atto ostile specificamente diretto — per ben individuabili ragioni — contro gli Stati Uniti d'America, che ovviamente sono legittimati a rispondergli con contromisure adeguate senza però aver titolo a coinvolgere nella loro guerra paesi terzi, bensì una dichiarazione di guerra a un aggregato più vasto di cui gli Usa sarebbero la punta avanzata ed emergente. Dalla distorsione dello scenario in cui gli attentati sono avvenuti si passa quindi alla manipolazione dei loro effetti. 18

Dagli Usa all'Occidente È un «non addetto ai lavori», il cantautore Franco Battiato, a

indicare con maggiore chiarezza i contorni di questa operazione fuorviante. «Vedo un’equivoca rincorsa a disinformare», dichiara in un’intervista. Lo fanno i talebani e lo fanno gli Usa, con l'efficienza dei loro uffici-stampa, per cui è passata la tesi di un attacco all’Occidente. No, questo è stato un attacco all'America. Che doveva aspettarselo [...]. Tutti i morti ci riguardano, purché non si usi il criterio dei due pesi e due misure [...]. Vorrei che le vittime innocenti degli attentati di New York valessero quanto le innocenti vittime irachene di un embargo ormai insensato. [...] Perché [c'è] lAmerica nel mirino? Chi ha fatto crescere a proprio vantaggio le immense riserve di miseria e odio etnico o pseudoreligioso, che sono esplose l11 settembre?

Battiato ha ragione, ma i bambini iracheni uccisi non possono valere, per la cultura liberale, quanto quelli statunitensi. Iprimi possono essere presentati dal direttore del più venduto quotidiano italiano, con disprezzo della verità, come «affamati sì, ma per colpa di Bagdhad e del suo tiranno» a una platea condizionata da lustri di educazione al pregiudizio filoamericano. I secondi diventano strumento della strategia che sta a cuore alle classi dirigenti atlantiste: lo sfruttamento degli eventi per un ennesimo giro di vite nel rapporto di sudditanza che l'Europa ha nei confronti della potenza d'oltreoceano. Date le premesse politiche e culturali di questa dipendenza, cementate da anni, la traduzione in una linea di commen-

to comune all'immediato indomani dell’11 settembre non richiede sforzi particolari: è il frutto di un riflesso condizionato. Lo spartito è quello della solidarietà incondizionata. Dimenticato l'imbarazzo che non più di due giorni prima aveva colto il Parlamento e la Commissione dell’Unione Europea alle prese con la rete spionistica Echelon, dimostrazione lampante di come gli Usa siano consapevoli di avere interessi in [be

prospettiva divergenti da quelli del Vecchio Continente e non esitino a utilizzare qualunque metodo pur di nuocere ai potenziali rivali, editorialisti e conduttori televisivi fanno a gara per convincere chi li legge o li ascolta che il «siamo tutti americani» va inteso nel senso più letterale: spetta a noi combattere anche le loro guerre e farci carico dei problemi da loro sollevati. Il complesso di colpa tenacemente coltivato da decenni («sono stati gli americani a salvarci dallo spettro delle dittature nere e rosse») trova libero sfogo e la retorica del «mondo libero», smentita da una lunga tradizione statunitense di sostegno a tutti i tiranni compiacenti sparsi nel globo, torna ad avere ampio corso.

L’offensiva è immediata. Già il 12 settembre si legge che «nel mirino di menti diaboliche siamo anche noi con i nostri valori». Ancora non si sa chi abbia dirottato e lanciato sui bersagli gli aerei; rivendicazioni non ce ne sono state e il sospetto di larghe complicità interne è perlomeno plausibile, ma si parla senza cenni di dubbio di «un attacco a tutto l'Occidente», spingendosi a sostenere addirittura che «non è retorico George W. Bush quando parla di ‘guerra alla libertà’». Si taccia il «nuovo nemico dell'Occidente» di nichilismo e si afferma che il suo «unico obiettivo» è «la nientificazione di una civiltà da cui si sente umiliato e che gli sta davanti, con la forza della ‘sua ricchezza, del suo progresso tecnico, economico, politico». «Vogliono indebolire quella

comunità etica e politica chiamata Occidente», scrive un editorialista che da subito ha tirato fuori le tesi di Huntington per interpretare lo scenario che si è appena delineato. Sono le avvisaglie del tema della «superiorità occidentale», che non serve tanto a umiliare gli arabi o il Terzo mondo quanto a tenere in riga gli europei e a farli sentire infinitamente piccoli di fronte ai grandiosi States e dunque obbligati a seguirli per trarre esempi e benefici dal loro orgoglio, riscattandosi almeno in parte dal peccato di non averne saputo seguire degnamente le orme. Argomentazione espressa efficacemente sul registro nevrotico dell’invettiva viscerale 20

da Oriana Fallaci e su quello furbesco del «dico e non dico» da Berlusconi, secondo le rispettive inclinazioni caratteriali dei due personaggi. Per perseguire il risultato, anche in questo ambito non si risparmia sulle esagerazioni. Sono passate poche ore dagli attacchi ma già l’«esperto antiterrorismo» di Fbi e Cia paventa attacchi all'Europa diretti contro il Colosseo o la Tour Eiffel e parla di armi chimiche o batteriologiche. Nei giorni successivi, con il sostegno della potenza suggestiva dell'immagine, l’idea di un’inevitabile fusione dei destini europei e nordamericani viene diffusa a ritmi martellanti. L’alzabandiera dei pompieri davanti alle macerie del Wtc si trasforma nella replica aggiornata della classica icona dell’invincibilità americana, la plastica infissione della bandiera a stelle e strisce nel suolo di Iwojima. La sindrome alla Giuliano Ferrara del trapianto in un patriottismo altrui per dimenticare l’incapacità di coltivarne uno proprio — che comporterebbe per forza di cose almeno un senso di alterità, se non di contrapposizione, rispetto agli Usa — affonda qui le sue radici. L’isolazionismo americano, che dovrebbe esse-

re auspicato di tutto cuore da cittadini europei che abbiano a cuore il proprio futuro di indipendenza e benessere in tempi in cui non esiste più traccia di guerra fredda e la Russia si profila sempre più come un potenziale alleato e non certo come un nemico, viene agitato come uno spauracchio.

L’insopportabile infantile retorica di cui sono tradizionalmente infarciti i discorsi dei presidenti americani nelle occasioni solenni è spacciata per virile attestato di forza e saggez-

za. I cori «Usa! Usa!» che risuonano di continuo attorno a una qualunque arena sportiva in cui un azzerican boy attronta i rappresentanti del resto del mondo vengono trasfigurati in prove di uno stato d’animo indomito e — chissà poi perché — solidale con i fratelli sperduti sull’altra costa dell’ Atlantico. E sullo sfondo si profilano, infami e minacciosi, i volti dei nuovi Barbari. 21

Scontro di civiltà?

A chi ne avesse mai dubitato, l’atteggiamento dei media «occidentali» dopo l'11 settembre offre la riprova che per i liberali, né più né meno che per gli adepti delle ideologie concorrenti alla loro, la politica, quando viene presa nella sua essenza, si riduce alla contrapposizione tra Amico e Nemico. Poche volte si è sentito parlare di inimicizie assolute risolubili solo con la forza, di forze del Bene in lotta contro quelle del Male, di civiltà minacciata dalla barbarie come è avvenu-

to dopo gli eventi di Washington e New York. Ad onta delle prescrizioni dei manuali di scienza politica, la democrazia statunitense, spalleggiata dagli alleati, ha scelto di parlare il linguaggio tipico dei regimi totalitari: propaganda a cascata, autoincensamento e designazione di un nemico sempre meno specifico e sempre più oggettivo, mobilitazione dall’alto delle masse, denigrazione degli antipatriottici seminatori di dubbi, istigazione a moltiplicare i controlli degli atti della vita privata. Il segretario alla Difesa Rumsfeld non si è fatto scrupolo di richiamare in più occasioni l'ipotesi dell’uso della bomba atomica. Contando sullo spartito dello «scontro tra le civiltà» fornitole anni fa da Samuel P. Huntington — politologo acuto ma da sempre portato ad accordare le proprie riflessioni con gli interessi dei tentri di potere strategico statunitensi, al punto da farsi difensore alcuni decenni orsono dei regimi comunisti del Terzo mondo in quanto elementi di stabilizzazione di un quadro internazionale in cui gli Usa potevano meglio coltivare i propri interessi — la fanfara della superiorità occidentale ha suonato a pieno ritmo. Politici e intellettuali si sono spartiti i compiti. Ai primi è toccato di saldare una coalizione che avallasse la tesi della minaccia terroristica planetaria grazie soprattutto al sostegno dei paesi musulmani — alcuni dei quali sono stati di colpo promossi al ruolo di «moderati», in un gioco di vorticosi travestimenti in cui golpisti alla Musharraf diventavano governanti oculatie raccomandabili e all’ Alleanza del Nord afghana si tagliava22

no i panni dell’esercito pacificatore. I secondi hanno spianato il terreno all’accettazione della guerra da parte dell’opinione pubblica dei rispettivi paesi proseguendo sulla falsariga della demonizzazione degli avversari che già aveva dato ottimi frutti con Saddam Hussein e MiloSevié. Osama bin Laden e i talebani hanno dunque preso posto accanto alle altre figure di spicco della galleria degli orrori antioccidentale e l’epiteto «barbaro» ha cominciato di nuovo a risuonare. L'operazione si svolge su più livelli. Per impressionare la massa dei disinteressati alle vicende politiche si punta su argomenti a effetto, come la responsabilità dei governanti afghani nella coltivazione e nel commercio dell’oppio, dimenticando di dire che queste lucrose occupazioni esistevano ben prima che i talebani prendessero il potere, che non vi è alcuna prova che al-Qaeda ne tragga finanziamenti e che a consumare le droghe derivate dai papaveri sono milioni di giovani che vivono nella paradisiaca società occidentale, prodiga di libertà, diritti, tecnologia e benessere, e non dovrebbero dunque avere motivo alcuno per abbrutirsi con gli stupefacenti diffusi dai nuovi barbari per i loro perfidi scopi. Per i più impegnati ci sono spiegazioni un po’ più raffinate. Una rimane sul piano complottistico e spiega il «terrorismo globale» come manifestazione di un progetto politico destabilizzante che ha menti e braccia negli «Stati-canaglia» tanto invisi all’amministrazione di Washington. Fin dall’inizio, gli uomini legati ai servizi segreti americani hanno spinto verso questa lettura dei fatti, senza nasconderne più di tanto le finalità. «Se saltasse fuori che [negli attentati] è coinvolto uno Stato, tutto diverrebbe più semplice», ha dichiarato Marvin Cetron, autore per conto di Fbi e Cia del rapporto Terror:smo 2000. Il nome più citato come Grande Vecchio è ovviamente quello di Saddam Hussein, con cui da tempo i nordamericani vorrebbero fare i conti. Già il 13 settembre l’europarlamentare Jas Gawronski, che degli ambienti politici e finanziari legati all’amministrazione statunitense è un frequentatore di lunga data, dà il proprio contributo alla causa scri23

vendo che «è possibile pensare che Saddam abbia compattato e usato le forze antiUsa per lanciare un Jihad mondiale». Molti, di qua e di là dall’oceano, lo seguiranno: in caso di scarso successo in Afghanistan, il puntamento delle accuse e poi del mirino dei bombardieri sull’Iraq consentirebbe di evitare una brutta figura militare, acquietare i furori dell’uomo della strada e trovare un capro espiatorio 44 hoc. Altre figure minori, da Gheddafi in giù, potrebbero in seguito servire a completare l’opera. La parte del leone in questa strategia la svolge però il tema del conflitto di civiltà, attraverso il quale tutte le pulsioni

xenofobe o semplicemente le diffidenze verso l Altro delle popolazioni toccate dall’immigrazionedi massa dal Terzo mondo, per anni censurate in pubblico e coltivate silenziosamente in privato, scaricate, al massimo, in momenti di parti-

colare tensione, nel voto per i partiti populisti, sono libere di prendere corpo e di saldarsi con le più colte lezioni degli accademici al servizio permanente, remunerato o gratuito, del-

la causa atlantista. I ragionamenti dei pochi studiosi del mondo islamico disposti a prendere la parola malgrado la dichiarata disapprovazione della «società dei colti» per sostenere che l’islamismo radicale è una reazione all’aggressiva occidentalizzazione dei paesi arabo-musulmani e che sarebbe bene smettere di contrapporre Occidente e Islam perché «gli arabi sono occidentali» e «l'Oriente comincia con l'India», o

per denunciare che gli americani «parlano come Bin Laden» quando sostengono che «Dio è con noi, poiché noi sappiamo

quello che è giusto e buono e lottiamo contro il Male. In God we trust», restano isolati. La vulgata degli «uomini di idee» recita altri copioni e mira a un bersaglio molto ampio. Distingue sì i fondamentalisti dagli altri seguaci dell’Islam, ma insiste sulla possibilità che i primi contaminino i secondi dando avvio a un processo che di fatto insidierebbe l’«Occidente» dall’esterno e dall’interno. La convinzione che la civiltà dell'Occidente sia superiore a tutte le altre, e in particolare a quella islamica, è sottaciuta 24

dall’ala progressista dello schieramento intellettuale filoamericano, ma trova sfogo sul versante conservatore. La esprime,

ad esempio, Giovanni Sartori quando sottolinea che quella occidentale «è la civiltà che ha conseguito più di ogni altra la ‘buona città’, la città politica più umana, più vivibile, più libera, più aperta di ogni altra» (ovviamente, assumendo come parametri di umanità, vivibilità, libertà, apertura i valori

dell’Occidente: il che crea una perfetta tautologia: «buona» è, per l’occidentale, la propria civiltà, né più né meno di quello che pensano, con riferimento alle loro, coloro che sono na-

ti e cresciuti in contesti culturali diversi). Ma se ne fa portavoce soprattutto chi, come Angelo Panebianco, definisce la convinzione che non esistano metri unici in base ai quali stabilire gerarchie fra le civiltà — e cioè il relativismo culturale — «il principale alleato di Bin Laden e Soci in Occidente, la loro più preziosa quinta colonna, un malanno di cui l’Occidente soffre da decenni». Il ragionamento che sta dietro a una simile affermazione è nitido: se le persone hanno pari dignità (negarlo sarebbe negare uno dei princìpi formalmente sacri al liberalismo), non così è per le culture, le religioni e le civiltà, cioè per le anime degli aggregati umani. L’ostilità dei seguaci dell'ideologia liberale per tutto ciò che esula dalle coordinate dell’antropologia individualistica è aperta: «l’errore logico consiste nel pensare che quanto vale per gli individui debba necessariamente valere anche per gli aggregati culturali. Il relativismo culturale è una degenerazione del principio di tolleranza inscritto nella democrazia liberale», un principio che evidentemente autorizza a tollerare soltanto i comportamenti previsti e/o prescritti dalla superiore cultura che lo esprime, creando di fatto discriminazioni fra individui di diversa categoria (da trattare diversamente, proibendo loro — se è il caso — di conservare tradizioni e abitudini non gradite ai custodi della civiltà «superiore»). E, nel contempo, come vedremo se lo stato di tensione e di guerra si protrarrà, normalizzando l’intolleranza verso chi osa attingere alle ricchezze dei paesi «occidentali» trasferendovi domicilio e forza-la25

voro ma non è disposto a spogliarsi, in cambio, dell’identità che nascita ed educazione gli hanno trasmesso. Come imporre la guerra degli Usa

Il rifiuto di riconoscere pari dignità alle culture diverse da quella americanomorfa ormai dominante in Europa e i ritorni di fiamma di un orgoglio tardocolonialista hanno una ben precisa finalità: convincere che uno scontro di civiltà è di fatto già in atto e che chi appartiene al mondo che si autodefinisce civile «non può oggi proclamarsi neutrale senza diventare complice della barbarie». E, dunque, fare della guerra che gli Usa combattono, legittimamente, per la difesa della propria sicurezza e dei propri interessi, il conflitto tra il sedicente «mondo libero» e i suoi nemici. Per ottenere questo risultato, le truppe dell’intendenza intellettuale devono imprimere nella mente del pubblico alcune idee schematiche: a) gli Stati Uniti d'America sono il paese in cui meglio sono coltivati e difesi i valori del Bene e della Giustizia; b) quei valori sono, o dovrebbero essere, anche

i nostri valori: degli europei, dei giapponesi, degli australiani, dei latinoamericani, domani — chissà — anche dei cinesi con-

vertiti da Wall Street; c) la civiltà superiore guidata dagli Usa è incompatibile con quella islamica, che dal suo seno ha partorito la grave minaccia fondamentalista; d) tale minaccia è ormai in grado di attentare alla sicurezza di tutti i paesi dell’ecumene occidentale e dunque va estirpata immediatamente. Almeno tre di queste proposizioni sono, oltre che false, difficili da diffondere universalmente. Molti hanno sotto gli occhi le ingiustizie che caratterizzano la società americana, l’egoismo, il materialismo, l’incosciente e distruttivo consumismo che ne innervano lo stile di vita medio, l'arroganza e il disprezzo per gli interessi e i valori altrui a cui gli Usa ispirano la loro politica estera, e non desiderano che i propri paesi diventino, con un ulteriore atto di sudditanza, dei cloni de26

gli States. Sanno, inoltre, che l’ostilità degli islamisti radicali si è rivolta, sino all’11 settembre e oltre, contro la politica nordamericana e non contro altri soggetti. Solo con una insistente campagna di suggestione che configuri nell’Islam il potenziale nemico assoluto dell'Occidente gli altri messaggi connessi possono passare, e soprattutto può essere deviata

l’attenzione dal nodo centrale della questione: l'assoluta inesistenza di un’identità comune — di valori e di interessi—fra Europa e Usa.

Ciò non significa, ovviamente, che non vengano spesi argomenti anche sugli altri fronti dell’offensiva filoamericana; ma sono armi di scarso impatto, che gli intellettuali della destra conservatrice, nerbo della campagna in difesa degli interessi americani, seminano giusto per accrescere il clamore

dell'avanzata. Sergio Romano può scrivere che il «semplice eroismo dei poliziotti e dei pompieri» rende impossibile «parlare, a proposito dell'America, di materialismo, egoismo, edo-

nismo». Galli della Loggia può spingersi persino oltre affermando che «gli Usa sono l’unico Paese cristiano dell’Occidente. L'unico che può rispondere alla guerra santa con una guerra santa [...]. Quando in questi giorni mi capita di accendere la tv e seguire i servizi dagli Stati Uniti vedo folle che pregano con la mano sul cuore e gli occhi bassi». Ma, se non bastassero le prove offerte quotidianamente da decenni dall’osservazione dell’azione statunitense nel mondo, sarebbe suffi-

ciente una sola frase pronunciata da George W. Bush durante la crisi- «Non lancerò un missile da due milioni di dollari contro una tenda da dieci dollari nel deserto per colpire solo la gobba di un cammello» — per smentire tutte queste fole interessate sul vero «animo» della società nordamericana. Quel che conta, quindi, per vincere la partita dell’opinione pubblica europea è la creazione di nemici ben identificabili contro cui appuntare l'indignazione e la voglia di reazione dell’uomo comune. Il Nemico esterno è l'Islam. Ufficialmente non tutto, solo

la sua componente integralista, perché il sostegno o la bene24

vola neutralità di regimi islamici sono indispensabili alla buona riuscita della guerra degli Usa. Ma sotto l’apparenza è al bersaglio grosso che si mira, allo sfruttamento dei plurisecolari e non del tutto infondati motivi di diffidenza verso gli Stati mediorientali e le loro popolazioni per convincere che, se scelta ha da essere perché il mondo altrimenti andrà a fuoco, è più sensato stare dalla parte degli ipervitaminizzati e prevalentemente, almeno per ora, bianchi americani che da quella

degli arabi brutti, sporchi, infidi e cattivi. Buttare la questione in disputa storico-teologico-culturale, come stanno facendo i pochi difensori che l'Islam ha trovato in Europa, serve a poco o nulla per arginare questa campagna, perché l’immagine che la sorregge non è quella di Avicenna, di Averroè, dei dotti sufi o del Saladino, di cui gli habitués del telecomando nulla sanno, ma quella dello spacciatore di droga maghrebino oppure quella ascetico-fanatica di Bin Laden, capace di indurre persino un Massimo Cacciari a farsi sostenitore dell’adesione italiana alla guerra Stars and Stripes. La questione che conta, e che va messa in evidenza per svelarne l’incongruenza con l’interesse dell'Europa, è quella che, ancora una volta, è rivelata con l’abituale cinica franchezza da Huntington. Il politologo non si fa scrupolo di sostenere che a muovere Bin Laden e i suoi*èil risentimento contro i governi arabi in carica e gli Stati Uniti, in cui gli Stati europei non sono minimamente coinvolti. Ammette anche che nelle loro guerre gli Usa hanno sempre di mira i loro interessi materiali («Nella Guerra del Golfo non potevamo consentire all’Iraq di prendere il controllo esclusivo della maggior parte delle riserve mondiali di petrolio»). Ma poi dà una lettura della situazione che rende trasparente l’uso che la superpotenza intende farne: Prima dell’ 11 settembre, l'Europa e l America si muovevano separatamente su una serie di questioni, dai cibi transgenici alla difesa missilistica, all’esercito europeo. Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno cambiato totalmente questo stato di cose. Dopo gli 28

attacchi terroristici alcuni quotidiani europei hanno titolato «Siamo tutti americani». In questo senso, davvero Osama bin Laden ha restituito all'Occidente un'identità comune.

Su questa base, il processo di egemonia deve raggiungere altre tappe: «Gli Stati Uniti devono incoraggiare l’‘occidentalizzazione’ dell'America Latina e contenere la lenta deriva del Giappone che si allontana dall’Occidente e tende a un avvicinamento con la Cina [...]. L’Occidente deve mantenere la propria superiorità tecnologica e militare sulle altre civiltà». La riuscita della strategia dell’occidentalizzazione forzata comporta il ricorso alla guerra contro il nemico esterno ma anche la «ripulitura delle retrovie» con l’annientamento del nemico interno: il dissenso. Bersaglio che può essere meglio colpito se gli si incolla un’etichetta negativa: antiamericanismo. Mai serenamente tollerate dagli intellettuali liberali, le critiche alle scelte politiche degli Stati Uniti, al loro modello di società o ai princìpi che ne definiscono la mentalità collettiva sono diventate negli ultimi tempi una sorta di reato di opinione meritevole dei più severi castighi. «Troppo larga è stata la tolleranza verso un anti-americanismo ideologico che nulla ha in comune con il diritto di critica», scrive un edito-

rialista del «Corriere della Sera» all'indomani dell’attacco al Pentagono e alle Torri Gemelle. Che questo «nulla in comune» lo stabilisca in esclusiva il giornalista autore della fatwa pare pacifico. Non è una novità: già il borgomastro antisemita della Vienna d’inizio secolo dichiarava «ebreo è chi dico io»; i suoi eredi liberali applicano il medesimo canone ad altri soggetti: essere (o essere giudicati) antiamericani non è una questione di opinioni, è un reato. Perché? Ce lo spiega Barbara Spinelli: l’antiamericanismo è «l’humus che alimenta i violenti». Un’idea sovversiva, come quelle messe fuorilegge nei paesi autoritari e totalitari. Peggio: per Panebianco è, come abbiamo visto, la più preziosa quinta colonna di Bin Laden, che «bisognerà attrezzarsi per neutralizzare», natu-

ralmente «con la parola, con la persuasione». O non piutto29

sto con la regazione del diritto alla parola? Questa ipotesi è più probabile, dal momento che, essendo i «sentimenti di rivincita contro gli americani, contro l'Occidente ricco e democratico» estesi ma «covalti] sotto la cenere delle parole», «passioni inconfessabili [che] si tacciono in pubblico, ma si coltivano in privato», il processo alle intenzioni e l’attribuzione alle affermazioni dei sospetti di significati occulti non diventa tanto lecito quanto piuttosto doveroso. Il maccartismo è sempre in ottima salute. Di qui alla negazione del diritto di critica c'è molto meno di un passo. Che negli Usa è già stato fatto. Ne è stato vittima Bill Maher, animatore di un #4/k show sulla rete Abc, messo al bando per «aver sostenuto che non è ‘codardo’ chi si butta con un aereo contro un grattacielo ma chi sgancia un missile Cruise da duemila metri. [...] Come primo risultato, gli sponsor hanno ritirato i contratti pubblicitari e i ripetitori locali hanno oscurato la trasmissione». Ari Fleischer, portavoce di Bush, com-

mentando il caso, ha avvisato «tutti gli americani: attenti a quello che dite e a quello che fate, non è il momento per sortite del genere». Colpiscine uno per educarne cento, scrivevano sui volantini le Brigate Rosse vent'anni orsono. Il paese-faro dei liberali di tutto il pianeta ne ha recepito la lezione. Tanto più che l’accusa di antiamericanismo diventa il pretesto per criticare, in versione conservatrice, l’intero movimento anti-

globalizzazione (che si è difatti subito azzittito) e, in versione progressista, gli «stili di vita reazionari» di chi non coltiva con la dovuta intensità l’arzerican dream.

La pura e semplice mistificazione Naturalmente, l'esibizione di argomenti, per fallaci che siano, ha preso di mira solo i possibili oppositori provvisti di un retroterra culturale. Al grande pubblico, gli apparati della comunicazione hanno riservato lo spettacolo, il grand-guignol, che ha del resto occupato gran parte della programmazione in argomento. È difficile contare tutte le false piste—le «infor30

mazioni» di pura fantasia, le illazioni, le controverità — che sono state seminate nella mente della gente comune: una quantità impressionante. Si è cominciato subito con il «complotto svelato», gli arresti di sospetti arabi trovati in possesso di divise da pilota d’aereo a Boston: tutte notizie rivelatesi infondate. Si è continuato con le veline allarmistiche dei servizi segreti su imminenti e mai verificatisi attacchi ai «centri religlosi» europei. Poi sono venute le piste finanziarie, le quotidiane scoperte di casseforti di Alì Babà bin Laden sparse per ogni dove, ogni volta discretamente smentite. Quindi si è passati alla previsione di guerre chimico-batteriologiche planetarie con «attacchi chimici dal cielo su Usa ed Europa», avveratasi molto parzialmente negli Usa con la vicenda sconcertante delle lettere all’antrace, così poco efficaci e così tanto probabilmente provenienti da laboratori americani da non poter essere neppure attribuite al nemico pubblico numero uno. Per accreditare la psicosi tatticamente indispensabile dell’attentato islamico in Europa si è persino cercato di sfruttare l'esplosione di una fabbrica di prodotti chimici a Tolosa — ennesimo esempio dei benefici effetti del capitalismo avanzato sull’ambiente e sul benessere dei cittadini — e si sono fatti passare per aspiranti bombaroli muniti di sofisticate piante topografiche cinque immigrati afghani che passeggiavano ad alcune centinaia di metri dal Vaticano, fermati per alcune ore, citati in tutti i telegiornali e le prime pagine dei quotidiani a riprova dell’incombente pericolo fondamentalista islamico e quasi subito rilasciati con tante scuse. In attesa dei bombardamenti, si è passati ai diversivi edificanti, con il grafologo che sulla base dell’analisi delle rispettive firme giudica Bush «deciso» e Osama «depresso» e una torma di medici disposti a stilare diagnosi di gravi malattie dopo aver visto il video di Bin Laden nella caverna. A ostilità iniziate, si sono lette e ascoltate menzogne di tutti i colori: dagli scontri delle Sas britanniche con il nemico allo sfaldamento dell’armata talebana a suon di 50.000 defezioni al giorno, dai commando intenti a «setacciare» il territorio 31

dell’ Afghanistan al mullah Omar che sfugge «per un cavillo burocratico» alla morte che gli eroici GI’s stanno per comminargli, dal tradimento del ministro degli Esteri Muttawakil a Kandahar «polverizzata». Il tutto offerto da giornali che un giorno sparano titoli come «Per gli uomini di Omar è l’inferno» e il giorno successivo paventano lo stallo dell'operazione militare angloamericana. Col che anche un altro dei (dubbi) requisiti su cui le società liberali fondano le proprie pretese di superiorità — la trasparenza informativa — si accomiata dalla scena.

Resistere alla dittatura del pensiero In quello che rimane a tutt'oggi uno degli interventi più sensati e coraggiosi sugli eventi in corso, Tiziano Terzani ha scritto che «anche qui da noi, specie nel mondo ‘ufficiale’ della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l'America ci mettesse già paura». Le cose stanno ancora peggio: l'America ci mette in riga

non perché ci intimidisca, ma perché può contare sul diffuso senso di inferiorità che affligge il ceto intellettuale di tutta Europa da quando il nostro continente, scosso da due terribili guerre intestine e dalle loro avvilenti conseguenze, ha cessato

di credere alle proprie potenzialità e capacità. Le classi politiche dei vari Stati europei si sono oggi volontariamente abbassate al rango di attendenti della superpotenza americana, delegandole il compito di dar loro un destino. Non c’è da stupirsi se uno dei capifila del fronte intellettuale che mira a rendere irrevocabile questa situazione scrive che «l’autorità morale e la credibilità necessarie» per una forza politica che intenda intervenire su questioni di politica estera in Italia dipendono da «una condivisione totale delle scelte di politica estera in situazione di emergenza». Siamo tornati ai tempi dell’immediato dopoguerra, al paese vinto e straccione che attendeva di essere beneficiato dal piano Marshall: è a Washington che si imse

partisce il crisma agli amministratori delle colonie. Non c’è bisogno di aver paura dell’ America per obbedire. Basta continuare a soffrire del complesso di impotenza che ha attanagliato l'Europa, con la relativa eccezione britannica, dal 1945 in poi; basta sentirsi eternamente in debito con il Grande Fratello d’oltreoceano e, per questo, scambiare i suoi atti interessati

per gesti di magnanima benevolenza. Eppure, per liberarsi da questi condizionamenti basterebbe trovare il coraggio di riflettere in autonomia di pensiero. Gli argomenti fondati da prendere in considerazione, anche in questo opaco clima di autocensura diffusa, non mancano. Alcuni ce li fornisce ancora Tiziano Terzani. Leggiamoli: L’attacco alle Torri Gemelle [...] non è l’atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia [...]. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la sem-

plicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di antiamericanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui [...] si tratterebbe di un ennesimo contraccolpo al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuta intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo

per organizzare «imbrogli, complotti, colpi di Stato, persecuzioni, assassinii e interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti» in America Latina, Asia, Africa, Medio Oriente.

Prosegue Terzani: con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’ Afghanistan, pochissimi hanno fatto notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi condo

duttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, lIndia e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran [...]. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.

Così stanno le cose. Ma per impedire all’opinione pubblica di rendersene conto i mezzi di informazione e gli intellettuali liberali che se ne servono la bombardano a tappeto con argomenti senza diritto di replica, notizie false, commenti unilaterali. È una strategia manipolativa indiscutibilmente efficace, che fa passare agli occhi di molti la guerra vigliacca dei bombardieri che massacrano la popolazione civile per un conflitto difensivo e mirato a estirpare il Male dalla terra; tace 0 travisa i motivi di una delle parti in causa creando scandalo, se un sondaggio dice che il 30% degli italiani li comprendono (non «li approvano», si badi!); amplifica e loda ogni mossa americana in Afghanistan per mettere la sordina al calvario che Israele impone ai palestinesi nelle loro terre in una cinica escalation di violenza e fa passare per vili terroristi quanti lì si battono con ogni mezzo di fortuna disponibile per difendere il diritto ad avere una patria contro uno Stato che li opprime mediante un’armata ricca di tecnologia militare di prim'ordine e a servizi di sicurezza con licenza illimitata di uccidere spalleggiati apertamente dagli Stati Uniti. Cosa si può fare contro una simile opera di intossicazione? Sul piano della risposta politica, ben poco. I meccanismi di condizionamento al servizio dell’egemonia liberale monopolizzano risorse e spazi di espressione accessibili alle masse, ottenendo, senza bisogno di ricorrere a strumenti coercitivi, un controllo delle mentalità collettive che non ha nulla da invidiare ai regimi totalitari di un tempo. Sul piano morale, molto. Si può e si deve resistere mostrando che esiste ancora 34

qualche voce che non intende piegarsi alla legge del conformismo. La diffamazione e un isolamento se possibile ancora maggiore vanno messi in conto, ma è indispensabile tenere in vita un’oasi dove non alligni il pregiudizio filoamericano, dove si combattano i dittatori del pensiero, dove si osi dire «signornò» alla chiamata alla guerra che i padroni del mondo fanno ai loro collaboratori. Nella caricaturalizzazione degli avversari «antiamericani», gli intellettuali atlantisti addebitano loro il vizio di imputare agli Usa tutti i mali del mondo e di farlo per scopi inconfessabili. L'accusa è, nella maggior parte dei casi, infondata, ed

è mossa per evitare che agli Stati Uniti d'America vengano addebitati i (molti) mali che, nella loro storia e nei comportamenti attuali, hanno provocato e si ostinano a provocare. Non vi è alcun bisogno di essere nostalgici delle dittature del passato per muovere una critica di questo genere: è sufficiente il desiderio di affermare la propria identità di europei in un mondo plurale basato sui diritti dei popoli e sul rispetto della persona, insofferente di qualunque egemonia.

Per un nuovo ordine internazionale di Giannozzo Pucci

Prima della caduta del Muro di Berlino l'equilibrio internazionale si reggeva su due blocchi contrapposti. Quando gli Usa erano schierati da una parte, l’altra tendeva a cercare appoggi in Urss e viceversa, ma ambedue le superpotenze si muovevano con circospezione, per non provocare reazioni

che avvantaggiassero l’avversario. A quell’epoca, che l America parteggiasse per Israele, che desse la precedenza ai propri interessi nazionali, di cui tutti i paesi occidentali si senti-

vano partecipi, era ovvio, e l’Urss faceva altrettanto.

Dopo il 1989 gli Usa sono rimasti la sola superpotenza, ma la scomparsa dell’Urss ha lasciato un vuoto di potere che l'America non ha ancora colmato. Il ruolo guida di uno solo, infatti, ècompletamente diverso: mentre prima bastava la bandiera della libertà, della democrazia rappresentativa, del benessere, adesso le possibilità e i traguardi sono più ampi e complessi. Un solo capo, per esser tale, deve esserlo di tutti, deve interagire con il mondo, inteso come comunità di popoli; dovrebbe comportarsi un po’ come un buon padre di famiglia, con un occhio di riguardo ai figli più sfavoriti. Soprattutto, un capo dovrebbe avere la capacità di comprendere che i vari popoli hanno il diritto di seguire percorsi diversi, rispetto a quello cui egli appartiene; percorsi che conducono a processi non perfettamente coincidenti con quelli dell’industrializzazione e del progresso all’occidentale. Quando l’unica superpotenza non riesce a mettere a fuoco la nuova era di ordine pacifico finalmente possibile, coniugando la 36

libertà e il benessere con la giustizia e un uso costruttivo del pianeta, allora il vuoto di potere aumenta, al vecchio equilibrio bipolare, fondato sulla minaccia atomica, non se ne sostituisce un

altro e nella storia può aprirsi un’ansa di violenze anarchiche, che rischia di diffondere un disastro di civiltà a livello planetario. L'America ha raggiunto grandi traguardi in molti campi, ma bisogna guardare ora a quei limiti che le rendono difficile assolvere al meglio il compito di caput mundi: è essenziale infatti rendere più autorevole e solida possibilela guida del mondo, così necessaria, e ciò non si può fare solo annuendo alle scelte dell’amministrazione Usa. La storia americana è legata strettamente all'Europa, anche se il paese è stato costruito soprattutto sull’etica protestante e sulle utopie illuministe, le quali rappresentano la rottura con le radici della tradizione europea classica ed ebraico-cristiana. Proprio questa rottura, sia fisica che culturale, dei padri pellegrini con il continente d’origine ha aperto una

delle due bocche perennemente affamate dell’ America: quella per le sue radici tagliate, per le opere dell’arte, dell’architettura, della filosofia europea, per il Rinascimento. L’altra bocca affamata dell'America è quella per la Frontiera e la conquista. È impossibile ignorare la somiglianza fra la storia della Terra Promessa del popolo d’Israele e il movimento verso ovest della frontiera americana. Nella terra di Canaàn come in America i conquistatori agirono con la concezione più am-

pia possibile di idolatria e con l’idea più ottusa di giustizia, conquistando con la stessa ferocia e volontà genocida, ma con un'importante differenza. Là dove la cupidigia e violenza della frontiera americana ha prodotto un'etica dell’avidità che ha giustificato l’industrializzazione, la ferocia della conquista di Canaàn fu accompagnata fin dall’inizio dall’elaborazione di un sistema morale antitetico a essa, il quale si fonda sull’idea della terra come dono non meritato, vincolato a rigorose condizioni. Gli uomini non devono assumere un'autorità divina 37

e usare il mondo come se lo avessero creato loro, altrimenti li aspettano terribili conseguenze.

In buona parte la modernità si è costruita sul rifiuto di quelle condizioni, sulla libertà individuale illuminista e sull’assunzione, come modello, del successo e della felicità individuali.

La guida americana ha posto al vertice dell'Occidente la retorica patriottica dei conquistadores, con quel misto di cupidigia e utopia che ha accompagnato il movimento di invasione di terre straniere verso ovest in cerca dell’oro, fino alla conquista del petrolio, dell'atomo, della luna, del Dna. La stessa potenza

occidentale si basa da almeno sessant'anni su un’economia di consumo esasperato, cioè di distruzione, cioè di guerra.

La teoria keynesiana che è stata il detonatore del sogno americano sostiene che quando la gente compra più beni di consumo, aumenta i profitti e fa espandere le imprese. L'espansione industriale fa crescere l'occupazione e la circolazione della moneta aumenta il potere d’acquisto della gente, il che provoca un'ulteriore espansione dei profitti, degli investimenti, dei posti dilavoro e avanti così. All’uomo della strada questa teoria dei benefici del consumismo sembra solida, ma per chi ha un po’ di studi di economia essa nasconde tre principali debolezze. La prima debolezza è che in un mondo limitato l’espansione dei consumi e della crescita non può durare all’infinito: a un certo punto i bisogni umani dovranno piegarsi al rispetto dei limiti delle risorse, alla stabilità economica, alla pace, e

prima lo faranno, meglio sarà per tutti. La seconda è che in un libero mercato la crescita continua aumenta la concentrazione dei capitali, cioè la distanza fra ricchi e poveri. La terza è che le concentrazioni finanziarie diventano così potenti (la globalizzazione) da superare la capacità di governo degli Stati e perciò tendono a far saltare i benefici dell'economia keynesiana che si esplicano al meglio in presenza di frontiere nazionali, con l’intervento dello Stato e per fronteggiare le necessità di una ricostruzione post-bellica o del passaggio da un ordine economico a un altro. 38

La Grande Depressione del ’29, provocata dalla prima economia di guerra mondiale, in realtà non è mai finita, è sta-

ta sommersa dalla seconda guerra mondiale che creò nuovi posti di lavoro e una nuova espansione della produttività industriale, e successivamente da un'immensa utopia pubblicitaria: il nuovo stile di vita americano fondato sulle vendite a rate, sul consumismo, sull’espansione continua.

Ciò ha posto le basi di una forma più virulenta della vecchia Depressione che rischia di trascinare l’intero Occidente in una spirale il cui trionfo coincide con la sua catastrofe. Il Nuovo Mondo è stato fin dalle origini un mercato in continua espansione, cioè in guerra di conquista, per mezzo

della quale è riuscito a invadere e aggregare a se stesso il sistema industriale europeo e a estendere lo sfruttamento tecnologico della natura al di là di sempre nuove frontiere materiali. Ciò ha determinato in Occidente cambiamenti così veloci da impedire che la cultura li adeguasse ai suoi valori. E ogni corruzione culturale provoca crolli morali, di integrità comunitaria e di personalità. Lo sviluppo ha prodotto una società in cui la crescita del benessere materiale e dell’innovazione tecnologica ha travolto qualsiasi agire morale. Alla fine della seconda guerra mondiale, nella popolazione italiana, cresciuta, anche negli strati più ricchi, con l’etica

della parsimonia, lo spettacolo degli americani dediti a manifestazioni di abbondanza materiale (un esempio fra mille: mandare le fortezze volanti B29 in alta quota per raffreddare la birra per gli ufficiali), assolutamente inconcepibili in un'economia di rispetto delle risorse limitate della terra, ha prodotto un generale inginocchiamento adorante verso simile sovrabbondanza e una perdita di identità che non ha avuto eguali in nessuna invasione precedente.

Da prima di Annibale fino a dopo Napoleone, ogni popolo invasore è stato sempre o più povero di noi o come noi, anche se più forte militarmente. Gli americani per primi hanno portato una disponibilità materiale e uno stile di spreco di cui l’unico precedente erano le fiabe medioevali sul paese di cuc39

cagna. L’invasione è stata più economico-culturale che militare, e il romanticismo materialista dei film e delle musiche

d'oltreoceano accompagnato dall’instaurarsi della società dei consumi ha, in pochi decenni, fatto piazza pulita di millenarie virtù personali e comunitarie, da sempre salvaguardate e difese dalla Chiesa cattolica. Anche la laicissima Fallaci, nella sua rappresentazione dell'identità italiana, girando e rigirando fra Omero e la minigonna alla ricerca del punto chiave, non può fare a meno di posarsi lì: il paesaggio di chiese, il suono delle nostre campane, i santi, le madonne, i monasteri, i conventi, le nostre cattedrali,

il «puzzo dell’incenso», la minuscola cappella. E la parte commovente del suo articolo, in cui sembra di percepire l’eco lontana delle parole dell’ispirato sindaco di Firenze Giorgio La Pira: «La rivelazione cristiana e la teologia cristiana hanno avuto in Firenze la trascrizione urbanistica, culturale e storica

in certo modo più alta, più omogenea e più ordinata». «Ma l’Italia di oggi, godereccia, furbetta e volgare», «senz'anima», «vigliacca», non è anche quello che ne resta dopo l’invasione consumista, dopo l'invasione laicista, dopo il suo identificarsi

con una provincia dell’ America? Non c'era proprio altro modo per eliminare la fame e la miseria nel nostro paese? Quattro giorni prima dell’attentato alle Torri Gemelle di New York i giornali riportavano le dichiarazioni del primate cattolico d'Inghilterra, il cardinale Murphy-O’Connor, secondo cui «nei paesi occidentali il cristianesimo, inteso come una sorta di fondale alla vita e alle decisioni morali della gente, nonché al governo e alla società, è stato quasi sconfitto». Questa sconfitta non è dovuta a una sorta di ubriacatura

tecnologica di libertà individuali, a un’orgia collettiva di benessere e di libero mercato che ha fatto perdere ogni legame con la civiltà europea e ci ha resi concause della fame nel mondo e della devastazione ecologica del pianeta? Un popolo italiano grasso, che non fa più figli perché «costano troppo», che ha abbandonato l’intelligenza, le virtù e le abilità dei mestieri artigiani e contadini da cui sono usciti buo40

na parte dei più grandi geni di cui andiamo fieri, che sa solo sentirsi indietro rispetto all'impero americano, come fa a esprimersi con onore davanti all’invasione dei diseredati, come fa a tessere adeguatamente il disegno di civiltà che gli compete e a non diventare razzista, avendo perso il senso della propria identità, avendo sviluppato il complesso d’inferiorità rispetto ai potenti della terra? Ricorderò sempre il caso, raro ma emblematico, di quel padre di famiglia albanese che, venuto in Italia a cercare lavoro, davanti alla degradazione morale incontrata nella nostra società, preferì tornarsene a‘casa.

Eppure mai come ora l'Occidente, alla ricerca di un nuovo ordine, ha bisogno di ritrovare le radici della tradizione europea che ha nel Rinascimento il suo apogeo. E a questo proposito non si può solo sciorinare, come guide turistiche, i nomi di Giotto, Masaccio, Botticelli, Leonardo o Michelangelo, bi-

sogna arrivare all’essenza della ricerca che li ha animati. Il De bominis dignitate di Pico della Mirandola è considerato unanimemente il manifesto del Rinascimento, perché in esso ha trovato l’espressione più alta l’idea vertice dell’identità occidentale: che la dignità umana non sta nel dominio del cosmo, né in una libertà indifferenziata, ma consiste in un compito che, dall’assenza di identità, passa attraverso la contemplazione di molte immagini per arrivare alla identità con Colui che sta al di là di ogni cosa creata. Questo itinerario giustifica l’asserzione su cui convergono sia la tradizione ellenistica sia quella arabo-islamica: «grande miracolo è l’uomo». La libertà umana non è licenza indifferenziata, ma cresce se orientata al divino. Tale visione sfociò a

Firenze nella profezia di Savonarola e nella ricerca di un ordine socio-politico orientato, attraverso la bellezza e il servizio ai più deboli, alla contemplazione delle verità ultraterrene. La morte del «profeta disarmato di Firenze» è la rappresentazione del rifiuto a riformare la società e la Chiesa secondo l’architettura etica del Rinascimento, rifiuto che ha poi prodotto la separazione protestante e la moderna società materialista.

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L’attentato di New York interroga l'Occidente in profondità su tutti i piani: religioso, culturale, politico, economico, militare, e lo sollecita a tornare a meditare sui propri errori e sulle radici represse della sua storia, in particolare sulla profezia del Rinascimento. È ovvio che bisogna rispondere al terrorismo, come alla delinquenza, ma rispondere al terrorismo politico con la guerra tecnologica, al di là dell’apparente dimostrazione di potenza, è un atto di debolezza che mette a repentaglio la cultura e i valori fondanti dell’Occidente. Militarmente è come contrapporre a David con la fionda, Golia con la spada. Senza contare che l'Occidente, e in particolare l'America, avendo favorito al massimo le libertà in-

dividuali contro quelle comunitarie, sono pieni anche di altre tendenze terroristiche, di altre follie individuali, e dipenden-

ti da grandi protesi tecnologiche che rendono il sistema tanto più fragile quanto più centralizzato. La caduta delle Torri Gemelle di New York potrebbe rappresentare per il liberismo occidentale quello che la caduta del Muro di Berlino ha rappresentato per il marxismo dell’Est. Essa sta dimostrando a tutto il mondo l’impraticabilità delle concezioni liberiste fondate esclusivamente sul dominio tecnologico e l’importanza del ruolo tradizionale di governo per la tutela dei più deboli, cioè del bene comune. Al terrorismo che mira a diffondere il terrore, si dovrebbe rispondere diffondendo sicurezza in tutto il mondo, anche se per farlo occorre rivoluzionare il sistema. Perciò credo sarebbe necessario convocare in ogni campo (dall’energia, all’agricoltura, all'edilizia, ai trasporti, all'inquinamento ecc.) i responsabili delle esperienze più avanzate del pianeta per affrettare il più possibile la trasformazione. Quanto ad assicurare alla giustizia la rete dei colpevoli dell’attentato specifico e di altri che potranno avvenire, vista l’amplissima solidarietà dimostratasi fra tanti paesi, non dovrebbe essere impossibile mettere in piedi una rete mondiale di provvedimenti finanziari e di intelligence che possa arriva-

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re a dei risultati, prendendosi il tempo necessario, mentre contribuire consistentemente all’ Alleanza del Nord dell’Afghanistan ha un senso diverso dai bombardamenti dei mesi scorsi che di intelligente rischiano di avere solo il nome. La fretta di trovare un colpevole ed eliminarlo potrebbe essere nutrita dall’illusione che, una volta raggiunto l’obiettiVo, tutto possa tornare come prima... Caduti i fascismi, il marxismo, il liberismo, a che cosa possiamo ispirarci per costruire un nuovo ordine politico-socia-

le che avvii a soluzione il problema della fame con il rispetto della sovranità alimentare e culturale delle popolazioni, che sostituisca lo sviluppo e la crescita con un’economia della stabilità, che ponga fine alla guerra contro la natura e le sue risorse e orienti la ricerca scientifica alle grandi trasformazioni che questi nuovi obiettivi comportano? Le radici del futuro sono sempre nel passato: l’etica delle arti medievali e rinascimentali offre indicazioni importanti per la modernizzazione di una società fondata sulla rinascita del lavoro indipendente, non proletarizzato, ma con limiti di mercato che armonizzino i bisogni con le risorse rinnovabili. Giorgio La Pira, in un’intervista a «La Stampa» nel gennaio 1959, diceva: «Come si può pensare di risolvere la questione di Israele e dei popoli arabi con le piccole tattiche del petrolio? I problemi umani sono assai più vasti. Vent'anni fa gli arabi non avevano peso: è bastata la creazione dello Stato di Israele per risvegliare il nazionalismo arabo e spostare l'equilibrio del mondo». Oggi al problema della Palestina si è aggiunto quello dei soldati americani in terra araba e della popolazione innocente dell’Iraq. Avviare a soluzione questi problemi può essere più difficile, ma anche infinitamente più efficace contro il continuo rinascere del terrorismo islamico degli inutili e tragici bombardamenti sull’ Afghanistan. Nella stessa intervista La Pira diceva ancora: «I popoli affacciati sul Mediterraneo possono trovare la via dell'accordo incontrandosi su un punto di comune credenza religiosa e gli 43

arabi avranno un peso determinante nell’equilibrio del mondo perché sanno ancora pregare e non si può ignorare l’efficacia della preghiera». Questa affermazione suona da monito per l'Occidente di oggi a ritrovare la via della sua coscienza spirituale.

La menzogna € l'arroganza di Ugo Barlozzetti

Alla crescita della massa dei poveri anche nell’«Occidente» (o Usa e i suoi più stretti alleati, o paesi definiti a capitalismo «avanzato»), corrisponde la politica delle privatizzazioni e della martellante informazione sulla Borsa. Sono le «ricette» del Fondo monetario internazionale, che traducono la finan-

ziarizzazione dell’economia in asse portante di quel fenomeno che si definiva «unificazione del mercato mondiale» e che 0ggi si preferisce chiamare «globalizzazione» o mondializzazione, forse per le implicazioni antropologiche che sottende. Gli alti e bassi della Borsa non sembrano riflettere un’adeguata espansione della produzione di beni durevoli, mentre la produzione nell’unità ditempo, grazie agli sviluppi tecnologici, risulta sempre più forte. L'analisi della produzione, lo sviluppo del terziario e l’asimmetria salariale e occupazionale in questo mercato unificato possono mostrare fenomeni aberranti dal punto di vista razionale. Emerge infatti una sovrapproduzione di capitale che ingenera il primato della speculazione prescindendo da qualsiasi «legge» della domanda e dell’offerta, che si muove con masse monetarie enormi, superiori a quelle di quasi tuttele banche centrali. Questo capitale è in realtà «fittizio» perché non corrisponde più alla produzione ed è stato formato nel corso degli ultimi vent'anni del secolo scorso, avvalendosi della convergenza, anzitutto, tra Usa, alleati europei

e Giappone. La crisi dell’Urss e dei suoi alleati non ha visto l’inizio di quell’era di pace preconizzata con il crollo del Muro di Berlino; al contrario, si sono accelerate guerre e impove-

rimento, distruzioni dal punto di vista ambientale e sostanzia45

le crescita di autoritarismo, ora mascherato da democrazia

rappresentativa e «libero mercato». Le esigenze di reazione alla caduta tendenziale del saggio di profitto hanno ritrovato nella potenza militare Usa un punto di riferimento, cosicché

da tutto il pianeta il tasso di interesse e la stabilità del dollaro hanno fatto confluire investimenti finanziari anche a prezzo di pesanti crisi da parte di alcuni Stati: le borghesie delle cosiddette «tigri asiatiche» e quella messicana prima e quella argentina poi hanno esemplarmente dimostrato cosa potesse significare affidarsi alle derive speculative dollarocentriche. Del resto in questi vent'anni l’enorme — e crescente — deficit nella bilancia dei pagamenti Usa richiedeva un riequilibrio che non poteva essere garantito dai petrodollari soprattutto sauditi o delle monarchie del golfo (che pur essendo assolute sono considerate «moderate») o dalle sottoscrizioni nipponiche al debito pubblico Usa. L’egemonia Usa si è rivelata funzionale a un meccanismo di dominio che, attraverso sempre più forti dislivelli sociali macroscopici nei paesi produttori di materie prime (o sottosvi-

luppati, o terzo e quarto mondo, o Sud del mondo), ma evidenti anche negli Usa stessi o in Canada, in Europa occidentale e nell’area nipponica, crea sempre più violenti conflitti. Tutto ciò ha portato da‘una parte alla crisi di tanti aspetti della democrazia rappresentativa — come ad esempio elezioni con sistemi che deprimono la partecipazione al voto, riduzione dei poteri assembleari, sistemi giudiziari controllati dai governi e restrizioni delle stesse garanzie affermate nelle Costituzioni... —, dall'altra alla ricerca del consenso e della disponibilità ad accettare situazioni socialmente sempre più precarie. La manipolazione dell’opinione pubblica si è sviluppata a tal punto da rendere il controllo dei mezzi di comunicazione di massa decisivo per la stabilità dei gruppi dominanti e dirigenti. Gli atteggiamenti critici nei confronti dei governi e della nuova cultura dominante («il Pensiero Unico») sono indubbiamente ritenuti i più pericolosi. La repressione dei sovietici contro il «dissenso», che aveva trovato nel maccartismo

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l'interfaccia occidentale, aveva già riproposto nel secondo dopoguerra lo schema tragicamente sperimentato dall’umanità nel primo, quando i fascismi e lo stalinismo si confrontarono, sconfitte le rivoluzioni che avevano reagito ai massacri della prima guerra mondiale e al sistema che l’aveva originata. Né va dimenticato quanto l’abile macchina propagandistica staliniana fosse riuscita a far passare la pretesa difesa del «mondo libero» da parte degli Usa come sostegno — cosa che spesso avveniva — dato a regimi dittatoriali, finendo così per far apparire che le lotte sostenute dall’Urss erano di liberazione; tali, per ironia della storia, poterono addirit-

tura divenire grazie proprio alle contraddizioni aperte dalla contrapposizione tra due sistemi di alleanze. All’opera di condizionamento dell’informazione e quindi dell’opinione pubblica, si è affiancata quella di demolizione del sistema di acculturazione socializzata, la scuola, mentre

tutti i valori venivano fatti coincidere con quelli mercificabili. La stessa nuova concezione della sanità rivela come il neoliberismo abbia creato una visione della realtà che rifonda la percezione stessa dell’uomo e della salute. L'uomo bianco, che afferma il proprio successo nel raggiungimento di un’alta tecnologia e ricerca medica, in realtà è succube di una cultura dominante che sta consentendo di materializzare i peggiori incubi partoriti dalla fantasia di scrittori e registi porror. L’intercambiabilità degli organi, per chi se la può permettere, ha creato un’ulteriore disuguaglianza, feroce fino alla disumanizzazione. In molti paesi poverissimi, alcuni esseri umani subiscono espianti e vengono uccisi, mentre nel paesi ricchi si commerciano gli organi così ottenuti, grazie a vaste

e sommerse reti di complicità. L’impatto, pesantissimo, di un’ideologia ancorata sostanzialmente a quell’edonismo e a quel consumismo che Pier Paolo Pasolini aveva denunciato in tempi non sospetti, non poteva non trovare nelmondo della criminalità un elemento in grado di recuperare ai propri fini gli aspetti più negativi da essa prodotti: dal traffico degli stupefacenti alla prostituzione,

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all’usura, al commercio di organi umani, alle truffe e ai furti

contro singoli e controla collettività, tutto quello che vediamo diffondersi, insomma, attraverso le attività che la delinquenza

più o meno organizzata favorisce e sfrutta. Il riciclaggio di denaro sporco, l'evasione fiscale, la corruzione sono fenomeni

che fanno parte della logica di un sistema che ha come valore assoluto — ma anche unica garanzia di sopravvivenza — il profitto. Profitto sempre più alto per un sempre minor numero di soggetti. È difficile mantenere alti iconsumi in società con dinamiche conflittuali crescenti, dal piano individuale e familiare sino a quello statuale, mentre in modo martellante si inneggia allo «stare sul mercato», grazie alla «competitività». Significativamente vi è un’espressione linguistica rivelatrice: il «competitore» di successo, chi sa «stare sul mercato», viene

definito come «uno che ha grinta». Però la grinta appartiene al muso, ossia si riferisce a una faccia animalesca, mentre l’es-

sere umano è connotato dal vo/to. Evidentemente il subconscio, con questa metafora, mette in chiaro la profonda disumanizzazione a cui tende la nuova mitologia. La competizione non conosce solidarietà né fratellanza, né uguaglianza e, in realtà, nemmeno la libertà. Così i sistemi pensionistici, orga-

nizzati e creati proprio per dare sicurezza, si ritiene corretto affidarli alla «managerialità» di imprenditori (i capitalisti infatti si vergognano di essere chiamati con il loro nome) che giocano in Borsa, attenti a ritagliarsi profitti con speculazioni. Il

caso Enron risulta peraltro esemplare, con una dirigenza profondamente legata alle istituzioni e ai massimi esponenti di governo, che lucra sulla vendita anticipata dei propri pacchetti azionari, ingannando gli stessi dipendenti. Gli Usa e l'Europa (la Comunità Europea) hanno deciso, nell’ambito dei criteri di direzione economica, di tornare in-

dietro nei tempi e siamo ormai a quelli dell'inizio della rivoluzione industriale allametà del XVIII secolo, ai princìpi di Adam Smith, ma non è escluso che si possa tornare, come sistema di produzione, a quello «feudale» se non a quello schiavistico. L'importante pare che sia non disturbare i manovratori. 48

La certezza della potenza Usa deve essere confermata, secondo tale logica, oggi più di ieri, perché la nuova moneta, l’euro, potrebbe essere «competitiva» e rivelare allora come l’alleanza tra capitalisti possa esistere solo quando si tratti di combattere contro chi non lo è. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa riesce a far sapere fin nella brousse del Burkina Faso che in Europa (e nel «Nord del mondo») si pubblicizza il cibo per cani e per gatti, che vi sono donne affascinanti e discinte e perfino l’acqua in tutte le case... Ma una volta rimpinzati di simili amenità, nasce il problema di come controllare questa moltitudine di esseri umani, sino a oggi considerati solo «esercito salariale di riserva», che bussano con sempre più insistenza alle porte del «Paradiso»; come fare perché non decidano di abbattere i propri tiranni o, una volta entrati in «Paradiso», non trovino solidarietà, aiuto e magari si alleino con coloro che possono aiutarli a scoprire

lo sfruttamento senza fine a cui sono costantemente sottoposti? Come fare se non agitandolo spettro del razzismo, dell’incomunicabilità culturale, anzi quello dello scontro tra civiltà? I fondamentalismi, pertanto, risultano preziosi per questo disegno e vi viene recuperata la solidarietà a identità fittizie, funzionali a un potere che deve costruirsi il consenso attraverso la contrapposizione. Il nemico diviene così, paradossalmente, l’alleato decisivo. Una volta c’era la contrapposizione fra Est e Ovest, determinante per salvaguardare la stabilità del potere dei gruppi rispettivamente dominanti, finché la discrepanza tra i valori proclamati a giustificare quelli dei paesi del «socialismo reale» e la realtà effettuale li fece travolgere, grazie anche all’attesa di consumismo che i padroni dell'Ovest avevano potuto coltivare e astutamente saziare, per fasce sufficientemente ampie in Usa, Canada, Europa occidentale, Giappone, Australia e poco di più. Il bastone e la carota sono stati accortamente distribuiti, fino alla fine dell’Urss, all’Ovest: l'Occidente o (come viene definito ora dalla contestazione no global) Nord del mondo, a 49

differenza del resto, definito a sua volta Terzo o Quarto mondo o Sud del mondo. Ormai, infatti, è cancellato il ricordo che

iltermine «Terzo mondo», in realtà, per molti anni — dalla conferenza di Bandung, nel 1955, fino al 1967 0 poco dopo - fu utilizzato per quegli Stati che, adottando la politica del non allineamento, dettero un contributo decisivo per la fine del colonialismo, almeno nella forma sviluppata nel corso del XIX secolo. Le vicende che hanno concluso l’esistenza di alcuni dei protagonisti di quella stagione (Sukarno, Nasser, Tito, Nehru, Ciu-en-lai, Lumumba, Nkrumah, Ben Bella...) o la sconfitta

che ha travolto il loro disegno politico meriterebbero un serio approfondimento, con una ricerca anche su personaggi quasi totalmente dimenticati come i brasiliani Vargas e Quadros. Il fondamentalismo islamico, o meglio il suo recupero politico, riapparve proprio nel 1965, con il colpo di Stato contro il governo indonesiano di Sukarno, l’uomo della conferenza di Bandung, e fu importante per coagulare nella Bosnia di Izetbegovic combattenti e identità nazionali. Ma riportandoci all’Ovest, al beato Nord del mondo, è apparso evidente,

nel corso degli ultimi dieci anni, che, cessata la contrapposizione con l'Est, i detentori del potere economico non avevano più bisogno di cedere sul piano della distribuzione, tanto più che le ragioni della solidarietà antisovietica erano venute meno e la «competizione» si allargava a un «libero mercato» planetario. Un nemico però doveva essere individuato per tenere divise le moltitudini prive di potere, per controllarle e dominarle, soprattutto quella parte di esse alla quale i detentori del potere politico ed economico si apprestavano a negare quanto era stato concesso o era stato conquistato fino ad allora nello stesso Nord del mondo. Così, scomparsa la minaccia del comunismo, ancora esi-

stente solo per un fortunato uomo di affari italiano, si è andata configurando quella del «folle» Saddam Hussein. In realtà, nel mirino dei mass media occidentali c’era stato prima un altro capo di Stato arabo, il colonnello Gheddafi, anche lui indicato co-

me pazzo sanguinario, produttore di armi chimiche e batterio50

logiche, di sterminio di massa ed è esemplare la lezione di nuovo diritto internazionale che gli Usa gli hanno dato, bombardandone la capitale e cercando di assassinarlo. Naturalmente solo alcuni governi occidentali, incluso Israele, sembrano autorizzati a interpretare «correttamente» questo «nuovo» dirit-

ti internazionale. Comunque è quanto meno singolare che i capi di Stato che si sono opposti ai governi statunitensi siano stati tacciati di follia, accusati di genocidio, di terrorismo, mentre

sarebbe opportuno ricordare che proprio gli Usa sono stati protagonisti di un atroce genocidio, quello dei nativi americani, così come, in quanto a terrorismo, ibombardamenti delle

città durante la seconda guerra mondiale e le stesse armi atomiche hanno prodotto massacri terribili. Né va dimenticato, fra tante tragiche memorie, l’atteggiamento tenuto nei confronti del governo turco, che non solo non intende prendere in considerazione il primo genocidio del XX secolo, quello degli armeni, ma che viene sostenuto nella repressione dei tentativi di indipendenza e di autonomia del popolo curdo proprio da quell’alleanza Nato, che non ha esitato ad aggredire militarmente uno Stato sovrano per rendere indipendente il Kosovo e garantirvi la supremazia della componente islamica albanese. Considerare «folle» l'avversario significa eliminare o inficiare qualsiasi altra analisi razionale delle motivazioni del contrasto. Anche per questo è molto significativo il continuo riferimento, per quanto riguarda Hitler, ad aspetti magici «paranormali», o, come è di moda dire, «esoterici», giacché in questa maniera si viene a negare un’analisi razionale, in-

troducendo appunto una semplificazione approssimativa nel sostanziale rifiuto di indagini scientificamente fondate dal punto di vista storico. A proposito di Hitler, è interessante ricordare come questo dittatore eletto da un popolo subissato da propaganda e violenza si sia impegnato in un colossale programma di riarmo e di lavori pubblici indebitandosi all’estero per poi dichiarare guerra ai propri creditori. La crisi della ragione sembra però più un fine che un risultato. L’uso della metafora, inflazionato dai giornalisti, è 51

stato recuperato e soprattutto «rifunzionalizzato» non solo dal mondo dei politici ma anche da quello degli analisti economici. Così l’asservimento dell’economia degli Stati alla logica della speculazione della globalizzazione finanziaria è mascherato con un giustificazionismo a posteriori che riduce, in questa fase, a un ruolo meramente descrittivo, quando non

spudoratamente apologetico, l’attività degli analisti e di gran parte dello stesso apparato accademico. La «fiducia», termine abusato, ben difficilmente risulta analizzabile secondo un

criterio scientificamente e disciplinarmente fondato. La stessa formula di «libero mercato» è paradossale, come quella della «legge della domanda e dell’offerta»; ma questi aspetti, anche se emblematicamente macroscopici e tali da poter mostrare quanto sia «nudo» il re, non trovano questa come sede per approfondire i problemi afferenti la crisi del pensiero economico nel sistema di produzione capitalistico. Non si può però non riflettere sull’incidenza di approcci sociologici e statistici, quindi descrittivi e quantitativi, che investono tanti campi, come quelli stessi della valutazione della formazione culturale e della creatività, riducendo a fattori marginali quelli relativi alla qualità. La situazione nell’ambito dell’arte contemporanea è esemplare proprio per l'incidenza del cosiddetto «sistema dell’arte» imposto, non a caso, dagli affari-

sti statunitensi fin dagli anni Settanta del secolo scorso. Lo scenario determinato con gli attentati dell’11 settembre 2001 ha accelerato tendenze che erano già in atto e recuperato aspetti e problemi, anche di origine lontana nel tempo, facendo loro assumere una nuova funzione, consona alle

esigenze di un ordine a rischio sia dal punto di vista di una crisi di consenso, inteso anche come modello di comportamento nei consumi, sia per le contraddizioni generate dalla necessità di reagire alla caduta tendenziale del saggio di profitto da parte dei detentori del capitale. La propaganda sviluppata durante le guerre mondiali ha formato metodi e strumenti che si sono straordinariamente raffinati, ma che possono essere battuti attraverso una concreta capacità di conDe

fronto. Rivelare che «il re è nudo» significa ribaltare il potere. Poche esperienze debbono aver terrorizzato chi aveva il potere come quei giorni del 1917, quando soldati russi e tedeschi cessarono di massacrarsi e fraternizzarono. Ormai lo Stato di diritto è un ostacolo, anzi un pericolo,

per questa marcia a ritroso, verso lo Stato patrimoniale. L’autoritarismo deve ancora giustificarsi con l’esistenza di un nemico, che si è andato identificando, nonostante qualche palese incongruenza, con l’Islam o comunque con chi non sia disposto ad accettare quei «valori» sinteticamente rappresentati nell'immaginario collettivo dalle scelte del governo degli Usa e dei suoi alleati e/o sudditi. La contrapposizione tra Islam e cristianesimo rischia però di indebolirsi per quanto dichiara sempre più frequentemente il pontefice e per la questione palestinese. Gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno permesso di collegare il terrorismo di una frangia del fondamentalismo islamico — peraltro proprio quella che era stata la più efficace alleata della politica Usa pochi anni prima — tanto con l'Islam nel suo insieme, quanto con le forme di resistenza nei confronti di occupanti dotati di enorme superiorità. L'impegno dei governi degli Usa nell’ambito delle tecnologie di impiego militare ne ha reso schiacciante la preponderanza, ma in verità questa è rimasta la loro unica superiorità, fattore certamente fondamentale per attrarre capitali nonostante la condizione di Stato più indebitato del pianeta, anzi con il debito superiore alla somma di quello di tutti gli altri. Così gli Stati Uniti d'America, grazie all’esclusiva forza delle armi, sono il garante politico di un sistema che la finanziarizzazione ha condotto alla produzione di un capitale fittizio che però continua a incombere in modo sempre più instabile sulla sopravvivenza degli attuali gruppi dominanti. A ben vedere, l’inaspettata «virata» parakeynesiana dell’amministrazione Bush è un sintomo dei rischi progressivamente evidenti all’interno del colosso.

Considerazioni su «Una guerra empia» di Alessandro Bedini

Affrontare la crisi internazionale venutasi a creare dopo 1’11 settembre attraverso un’analisi attenta e documentata dei passaggi che hanno contribuito a determinarla è il modo più giusto per fare chiarezza e spazzare il.campo da equivoci e semplificazioni di diverso segno. In quest’ottica non sono stati molti gli scritti che hanno centrato l’obiettivo: la maggior parte degli interventi si sono limitati infatti a una condanna sic et simpliciter del terrorismo, hanno puntato il dito contro i cosiddetti «Stati-canaglia», 0, nel migliore dei casi, si sono

limitati a denunciare alcune ingiustizie che possono aver fatto da brodo di coltura per lo sviluppo di organizzazioni terroristiche. Occorre invece andare in profondità, cercare di capire qualisiano, sotto il profilo politico, storico e anche militare, le cau-

se che hanno portato agli avvenimenti culminati con gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono. Ura guerra empia, il libro di John K. Cooley (Elèuthera, Milano 2000), si propone esattamente questo scopo: ricostruire il contesto nel quale si è potuto affermare il fenomeno del cosiddetto fondamentalismo, termine peraltro assai improprio, e i passaggi che hanno portato alla destabilizzazione di un’area assai vasta che va dal Vicino Oriente all’ Asia del Sud. Una testimonianza importante dunque che proviene dal cuore dell’impero, gli Stati Uniti d'America, e in particolare da un personaggio che l’impero e la sua politica estera li conosce bene per averli continuamente frequentati. Insieme con un altro «irregolare», Noam Chomsky, da sempre critico nei confronti della politica statunitense, 54

Cooley rappresenta e descrive un'America profonda, quella che non si riconosce nella strategia della destabilizzazione di intere aree del mondo in ossequio a precisi interessi economici, dei bombardamenti facili, delle strategie di corto respiro come è accaduto per l Afghanistan e prima ancora in Nicaragua, Sudan, Panama, Iraq.

John K. Cooley, già noto al pubblico italiano per un testo dedicato alla rivoluzione in Libia — Mubamzar Gheddafi e la rivoluzione libica —, è stato corrispondente dal Medio Oriente e dall Africa del Nord per quarant’anni e attualmente lavora ad Atene per la rete televisiva Abc News. Testimone di primo piano degli avvenimenti dipanatisi in un’area cruciale del mondo durante e dopo la guerra fredda, Cooley nel suo libro enuncia due princìpi fondamentali: il primo è che il fondamentalismo islamico ha la sua radice nella spartizione del Vicino Oriente operata dagli occidentali all’indomani della prima guerra mondiale, che ha finito per provocare la nascita dei movimenti nazionalisti antioccidentali dai quali hanno preso vita le più importanti organizzazioni integraliste islamiche; il secondo è che la diffusione a macchia d’olio del fondamentalismo islamico inizia con la guerra in Afghanistan e in particolare con l’appoggio economico, politico e militare che gli Stati Uniti e i loro alleati nel Sud dell'Asia, Pakistan in testa,

hanno fornito ai mujahiddin durante l’invasione sovietica del paese. L’autore sottolinea anche come la fine dell’Unione Sovietica dipenda quasi esclusivamente dal disastro afghano che ha messo in ginocchio l'economia e interrotto il flusso di aiuti ai paesi alleati nel Terzo mondo, provocando così contraccolpi imprevisti. Sebbene il testo dello scrittore e giornalista americano presenti non pochi motivi d’interesse, il taglio è, a nostro avviso, eccessivamente fondato sull’analisi minuziosa dei rapporti tra servizi segreti, sui passaggi più nascosti nelle pieghe della politica internazionale e inoltre appare riduttivo quando attribuisce alla sola disfatta afghana il collasso dell’Unione Sovietica. Tuttavia i pregi sono indubbi, primo fra tutti 55

quello di essere riuscito ad affrontare un tema scottante come le responsabilità dell'Occidente nello sviluppo del cosiddetto fondamentalismo senza tirare in ballo guerre di religione, scontri tra civiltà e simili annessi e connessi che vanno

molto di moda in questo periodo. Cooley riesce insomma a presentare un quadro realistico dei rapporti e degli interessi internazionali che mettono ben in evidenza come il controllo delle fonti energetiche nell’area caspico-caucasica e in particolare i giacimenti petroliferi e i gasdotti in costruzione siano tra gli elementi scatenanti dei conflitti del dopo guerra fredda alla ricerca di un’egemonia economica, politica e militare

che ir primis gli Stati Uniti d'America intendono mantenere e espandere a ogni costo. La destabilizzazione dell’intera area sud-asiatica deve essere ricondotta a un conflitto per il controllo di zone strategiche e a quello relativo alle fonti di energia; è per questo che la Cia e il Pakistan, nel favorire l'ascesa del regime dei talebani in Afghanistan hanno trovato come alleato la Cina, già dalla parte dell'Occidente al tempo dell’invasione sovietica, che intende dire la sua nella futura spartizione delle commesse per la costruzione dei due gasdotti, un'operazione da 4000 miliardi di dollari, che dovrebbero passare appunto dall’ Afghanistan. Il libro di Cooley documenta inoltre come il jihad afghano abbia favorito l’incremento della produzione di droghe: «quantità tanto massicce di marijuana, di oppio, di semilavorati del papavero e di eroina non avevano mai raggiunto gli spacciatori, i drogati adulti, ibambini e le popolazioni dell’Occidente come alla fine degli anni Novanta. E questa è in gran parte una conseguenza diretta della ‘guerra santa’ condotta dalla Cia tra il 1979 e il 1989». Questa situazione ha nociuto gravemente non solo all'Occidente, ma anche a paesi confinanti con l’Afghanistan, come l'Iran, che ha patito una vera

invasione di droghe, oltre al conflitto permanente con il regime dei talebani. Un ruolo di primo piano nello svolgimento delle recenti vicende afghane lo ha svolto l'Arabia Saudita, grande alleato 56

degli Stati Uniti, preoccupata per l’ascesa della potenza iraniana e dalla presenza di minoranze sciite all’interno del suo territorio, in particolare nella regione petrolifera a oriente del paese. La concessione di basi militari agli Usa durante la guerra del Golfo contro l'Iraq di Saddam Hussein ha di fatto messo l'Arabia Saudita sullo stesso piano dei paesi occidentali e rinfocolato i gruppi integralisti che vedono nella presenza di truppe straniere sul sacro suolo saudita — lì si trovano infatti La Mecca e Medina — un’inaccettabile profanazione permessa dal regime corrotto di re Fahd. In sostanza Cooley attribuisce alla miopia politica statunitense la proliferazione dei gruppi integralisti armati e foraggiati a suon di dollari nel tentativo di limitare il ruolo dell’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda e di averli utilizzati in seguito per scopi correlati alla politica imperialista perseguita dagli americani. Ben presto questa politica di corto respiro, associata

all’incondizionato appoggio fornito dagli Usa a Israele nel cinquantennale conflitto con i paesi arabi, si rivelerà un boomerang di cui l’attentato dell’11 settembre non è altro che il risultato. Zbigniew Brzezinski, consigliere per la Politica estera al tempo della presidenza Carter, ammette di aver fatto di tutto per attirare l’Urss nella trappola afghana appoggiando i mujahiddin anticomunisti fino dalla metà degli anni Settanta: «Finalmente possiamo regalare all’Urss un suo Vietnam», scriveva il 23 dicembre 1979 al presidente Carter; e quanto alla scelta di armare i gruppi fondamentalisti lo stesso Brzezinski affermava testualmente: «Abbiamo preso quanto occorre per fare la guerra, l'abbiamo messo in mano di gente che sa farla, per scopi che ci trovano consenzienti». Tutto ciò mostra con assoluta evidenza che le varie amministrazioni americane non hanno dato alcun peso alle possibili, nefaste conseguenze dell’alleanza in chiave anticomunista con gli islamisti afghani, e cioè la crescita di un nuovo movimento terrorista internazionale e la mondializzazione del traffico di droga dall’ Asia meridionale. Del resto — osserva Cooley — lo Di

stesso consigliere di Carter considerava del tutto secondario il fatto che l’internazionale della jihad sostenesse regimi integralisti nei diversi paesi arabi: Dal 1989 gli Stati Uniti, dopo aver osservato con occhi benevoli (se non favorito) l’ascesa dei talebani appoggiati dal Pakistan, guardavano con un misto di simpatia e di apprensione al tentativo della Unocal, una compagnia petrolifera americana, di ottenere dai talebani stessi il beneplacito per la realizzazione di oleodotti che dalla repubblica ex sovietica del Turkmenistan attraversassero l Afghanistan e il Pakistan.

La politica di corto respiro che ha caratterizzato le scelte statunitensi è ben testimoniata da quanto accadde in Afghanistan all’indomani del ritiro dei sovietici: alcuni dei gruppi vittoriosi cominciarono a massacrarsi a vicenda mettendo pa-

rallelamente in piedi dei veri e propri cartelli della droga non secondi a quelli dei narcos colombiani. Le enormi ricchezze ricavate dal traffico di stupefacenti assolvevano a una duplice funzione: contribuivano a finanziare la guerriglia e le azioni terroristiche in Algeria, Egitto, Bosnia, Kosovo, Kashmir,

Filippine e altri paesi, e in secondo luogo garantivano a un pugno di leader del terrorismo mondiale profitti da favola. Si apre a questo punto un capitolo dedicato a Osama bin Laden, alla sua famiglia e ai rapporti che l'Occidente e gli Stati Uniti in particolare hanno intrattenuto per anni col miliardario saudita che aveva fino a non molto tempo fa un contratto miliardario con la Walt Disney per la trasmissione dei cartoni animati su alcune televisioni arabe da lui controllate. Si tratta del fenomeno che va sotto il nome di «privatizzazione strisciante della Jihad», come la definisce l’autore di Una guerra empia, e che consiste nella sostituzione alla guida della «guerra santa» di alcuni tra gli Stati promotori con una serie di facoltosi personaggi legati ai servizi segreti di alcuni paesi arabi cosiddetti moderati, i prizzis Arabia Saudita e Pakistan, oltre agli onnipresenti Usa. «I responsabili di gran parte del 58

terrorismo politico post-bellico in Occidente non sono tanto governi criminali quanto magnati privati — frutto dell’alleanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita», afferma Cooley. Una guerra empia, pur con i limiti sottolineati in apertura, rappresenta comunque un utile vademecum per orientarsi

all’interno del complicatissimo mosaico costituito dai paesi mediorientali e sud-asiatici, e per meglio rendersi conto di cosa stia dietro alla «guerra empia» che si sta combattendo in Afghanistan con la solita miserabile scusa della salvaguardia della civiltà, della libertà, dei diritti umani e simili cianfrusa-

glie buone solo come specchietti per le allodole. La guerra del Kosovo non ha insegnato nulla, se non che il diritto internazionale può essere calpestato a piacimento e che i diritti di popoli come quello curdo, palestinese o tibetano possono essere tranquillamente ignorati perché non ci sono in ballo «interessi vitali» per l'Occidente. Quella che stiamo vivendo non è una guerra di religione né tantomeno uno scontro tra civiltà, ma un altro, tragico capitolo dell’affermarsi su scala planetaria dell’unica superpotenza rimasta sulla scena mondiale che fonda la sua politica sull’ideologia del profitto e sullo sfruttamento dei paesi del Terzo e del Quarto mondo. È contro questa egemonia, foriera solo di odio e distruzione, che oggi più che mai occorre battersi con le armi della politica, dell’intelligenza, delle idee, dell’analisi e della riflessione con i pochi strumenti che restano, certi che questa battaglia valga la pena di essere combattuta fino in fondo.

Islam e Occidente, l’eterno conflitto di Massimo Fini *

Sul «Corriere della Sera» il professor Angelo Panebianco scrive che «il principale alleato di Bin Laden in Occidente è [...] il relativismo culturale». Poiché, per una volta, non fotocopia i testi di Adam Smith (il concetto di «relativismo

culturale» non esisteva ai tempi di questo grande pensatore liberale), il professore in questa occasione non si limita a sciorinare le solite ovvietà ma dice delle autentiche sciocchezze. Afferma infatti che il «relativismo culturale» si basa su un errore logico: credere che la pari dignità di ogni individuo, riconosciuta, almeno in Occidente, a partire dall’Il-

luminismo, si estenda anche alle varie culture che popolano il mondo. Culture diverse. Il «relativismo culturale», il cui principale divulgatore è l’antropologo strutturalista francese LéviStrauss, non è affatto questo. Esso sostiene innanzi tutto che ogni cultura è un «insieme» e che non può essere valutata enucleando questo e quell’elemento, magari aberrante agli occhi di una cultura diversa, senza collegarlo a tutti gli altri che lo compensano e lo giustificano. Su questa base LéviStrauss afferma che è un assurdo fare scale gerarchiche fra le culture, perché ognuna trova le proprie compensazioni al suo interno, e che quindi tutte hanno pari validità. Il «relativismo culturale» non discende quindi affatto dal concetto illuminista delle pari dignità degli individui come scrive il professor Panebianco, tanto che riconosce la validità anche di culture * Da «La Nazione», 10 ottobre 2001.

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dove questa pari dignità non esiste, come, tanto per fare un esempio, quella castale indiana. Questo è il «relativismo culturale», uno dei migliori frutti

del pensiero europeo. Ma altre culture, come la buddista o quelle animiste dell’Africa nera non hanno avuto bisogno di un Lévi-Strauss per essere «relativiste», lo sono antropologicamente, lo sono «in sé» senza doverci stare a pensare troppo su. La concezione del «relativismo culturale» nasce in Occidente (comprendendo in questo concetto anche il bacino del Mediterraneo) proprio per cercare di limitarne la straordinaria aggressività dovuta alla convinzione di essere portatore di una «cultura superiore». Quando una cultura crede di essere «superiore» siamo infatti già nell’ambito del razzismo. Ma questo è il meno, se uno il razzismo lo agisce solo a casa

sua e nella propria testa. Il problema è che nessuna cultura che si ritenga «superiore» resiste all'impulso di esportarla, di portare la «buona novella» anche agli altri, spesso anche con intenzioni generose che però sono come quei favori non richiesti che ti cadono in testa come una tegola. Perché è un dato storico che quasi tutti i più atroci e sanguinari conflitti

dell’umanità sono venuti da queste culture che si ritengono «superiori» e spesso «uniche» e che non concepiscono che ne possano esistere anche altre con pari dignità. Cristianesimo, musulmanesimo, ebraismo, le religioni del «dio unico», han-

no avuto e hanno una lunga storia di sangue per le guerre che hanno combattuto fra di loro (guerre feroci, guerre ideologiche, molto più spietate delle oneste guerre di conquista territoriale) o contro culture «altre». I monoteismi. Ma ben presto al monoteismo religioso se n'è affiancato uno laico che ha partorito l’eurocentrismo, il colonialismo (bisognava portare la civiltà al «buon selvaggio»), l’internazionalismo comunista (bisognava liberare il mondo intero, la «rivoluzione permanente» di Trotzki), il nazismo e adesso il modello di sviluppo occidentale che è il più pervasivo di tutti, che è il totalitarismo che, a differenza di

quello cristiano o musulmano o nazista o comunista, si è più 61

compiutamente realizzato e che è tanto più pericoloso perché non sa di essere tale e si crede liberale e democratico. Ed è questa aggressività, basata sulla convinzione di essere una cultura «superiore», che evoca e eccita quella altrui, in particolare di una cultura, come l’islamica, anch'essa convinta

della propria «unicità» e «superiorità». Quello in atto è lo scontro fra due integralismi che si specchiano l’un l’altro senza vedersi.

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Introduzione

Abbiamo già detto che comprendere non equivale a legittimare, e ancor meno ad approvare. E se questo è stato il filo rosso seguito nella compilazione generale di questa rassegna di scritti, negli articoli di Alain de Benoist e di Eric J. Hobsbawm questa volontà di comprensione si precisa come analisi e riflessione più propriamente storica. La storia diviene qui assoluta padrona del campo, dimostrando a tutti noi che, per fortuna, la sua fine è stata decretata con eccessiva fretta e su-

perficialità, sull’onda dell’entusiasmo per lo sfaldarsi e la definitiva morte, per implosione, dell’Urss. La storia continua e continua, purtroppo, a non essere 774gistra vitae.

Fra le tante colpe che hanno decretato il crollo dell’Unione Sovietica, non ultima è quella di aver continuato a coltivare per anni l’illusione di poter sopravvivere trincerandosi dietro una ideologia e un apparato, che non era più in grado di leggere la complessità di una realtà politica e culturale che presentava fermenti e situazioni non facilmente riducibili ai vecchi schemi, ormai irrimediabilmente obsoleti. E le illusio-

ni possono creare catastrofi immani: «non dobbiamo dimenticare che per la gente che vive nella zona che va dalla Polonia all'Oceano Pacifico, il crollo dell’Unione Sovietica è sta-

to un disastro incredibile» (Hobsbawm). Oggi un’altra illusione rischia di creare catastrofi altrettanto grandi, di cui quella dell’11 settembre potrebbe essere solo un tragico anticipo. Quella dell'unica superpotenza planetaria, che in nome del suo reale dominio tecnologico, mili65

tare e non, di grandi ideali, più proclamati che attuati, di una economia avanzata, ma che rappresenta pur sempre una «piccola porzione dell'economia mondiale, vuole imporre il suo dominio sul resto del mondo, costruendo un sistema mo-

nopolare che rischia di scatenare conflitti a catena. «Non si può controllare e proteggere il mondo da soli, senza l’aiuto di nessuno. Nella storia non è mai successo. Credo che nessuna potenza da sola possa fare niente del genere» (Hobsbawm).

11 settembre 2001 di Alain de Benoist*

La destra e la sinistra hanno reagito agli avvenimenti dell’ 11 settembre 2001 secondo le abituali idiosincrasie: la prima esigendo nuove misure di sicurezza e moltiplicando le speculazioni ossessive sul «pericolo islamico», la seconda criticando, spesso a giusto titolo, gli errori della politica americana, trascurando però di interrogarsi sulla natura del nuovo terrorismo globale, il che ha potuto dare l’impressione che essa giustificasse implicitamente gli attentati o che condannasse le vittime. Nessuno di questi due atteggiamenti è in grado di misurare appieno ciò che è accaduto. 1. Avevamo già visto New York distrutta dieci volte nei film del filone catastrofico prodotti a Hollywood. L’11 settembre non si trattava di cinema, eppure gli assomigliava: è una prova del fatto che la realtà ormai imita la virtualità, o che il simulacro anticipa la realtà. Il passaggio a ciclo continuo su tutte le televisioni del mondo delle Torri del World Trade Center al momento del crollo creava in effetti un corto circuito con tutto un sistema di rappresentazione

basato sugli effetti speciali e nel contempo ne costituiva l’apogeo. Lo spettacolo del terrorismo si sostituiva al terrorismo dello spettacolo. Gli attentati di New York e Washington sono un evento di prima grandezza — un «evento puro», ha scritto Jean Baudrillard —, non per il numero di morti che hanno causato (nella storia c’è stato di peggio), ma in ragione del contesto e del * Pubblicato su «Diorama letterario», 249, dicembre 2001. Traduzione di Federica Matteoni.

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bersaglio. Mai, dal 1812 in poi, gli Stati Uniti avevano dovuto subire un attacco sul proprio territorio nazionale. L’obiettivo dei terroristi, che non si preoccupavano né della propria vita né di quella degli altri, era prima di tutto un obiettivo simbolico: umiliare l America mostrandole che il suo territorio non era più al riparo e colpendo in maniera spettacolare gli emblemi più rappresentativi della sua potenza. Un obiettivo che è stato evidentemente raggiunto. Le conseguenze si esplicheranno a lungo termine. L’11 settembre segna la fine del periodo di transizione aperto dalla caduta del Muro di Berlino e l’ingresso definitivo nella post-modernità. L’America è entrata nel XXI secolo l11 settembre 2001. Non c’è, beninteso, alcun bisogno di «sentirsi americani» per condannare questi attentati. Non è solo un problema di «morale» o di compassione verso le vittime. Qualunque opinione si abbia degli Stati Uniti, quali che siano i sentimenti che si sono potuti provare alla vista del crollo delle Torri — orrore o segreto giubilo —, ci sono almeno tre buone ragioni politiche per considerare inaccettabile questo atto terroristico. Il fanatismo politico o religioso è inaccettabile. La guerra concepita come un mezzo non solo per battere un avversario, ma anche per sterminare un nemico identificato con un'immagine del Male, è inaccettabile. Il massacro di migliaia di non belligeranti solo in ragione della loro nazionalità o all’unico fine di terrorizzare un’intera popolazione è inaccettabile. Nessuno «merita» di morire in simili condizioni. Nessuna causa giustifica il fatto che la si serva con qualunque mezzo. 2. Gli Stati Uniti hanno conosciuto l°11 settembre una vera tragedia umana. Questa tragedia umana è indissociabile da un contesto politico, l’unico elemento che consente di spiegarla. La prima domanda che ci si deve porre non è dunque «come è potuto accadere?», bensì «perché è accaduto?». Le risposte date dal presidente George W. Bush — che, contrariamente al sindaco di New York, Rudolph Giuliani, non si è mostrato particolarmente brillante all'indomani degli attentati — sono state in linea con il personaggio. 68

Trattare da «vigliacchi» (cowards) uomini pronti a sacrificare la propria vita per la causa che ritengono giusta era già più che inappropriato. I terroristi sono dei mostruosi crimi-

nali, certamente non dei vigliacchi. (C'è meno «vigliaccheria» nel far schiantare volontariamente l’aereo che si pilota di quanto non ce ne sia nello sganciare dall’alto del cielo bombe sui civili.) Affermare che gli Stati Uniti sono stati colpiti perché sono il paese della libertà e della democrazia (Arzericans are asking: Why do they hate us? They hate us because these criminals and insane people hate our western values of freedom and democracy) è stato non meno ridicolo. Si può credere davvero che dei terroristi si siano detti un giorno: «Gli americani sono veramente troppo liberi, puniamoli»? I terroristi non hanno colpito la Statua della Libertà, ma i simboli della potenza americana. Quanto all’incredibile ultimatum lanciato dal presidente americano al resto del mondo affinché si schierasse con la sua «crociata» a meno di non volersi assumere il rischio della propria distruzione (Jozz us ir our crusade or face the certain prospect of death and destruction), è stato semplicemente insopportabile. «Chi non è con me è contro di me» (If you are not with us, you are against us) è uno slogan totalitario, e per giunta assurdo. Centinaia di milioni di uomini e donne nel mondo non hanno alcuna simpatia per George W. Bush senza per questo approvare Bin La-

den. Personalità molto diverse come papa Giovanni Paolo II, il Dalai Lama o il primo ministro spagnolo José Marfa Aznar, che hanno condannato le rappresaglie decise da Bush o rifiutato di associarvisi non sono certamente simpatizzanti del terrorismo islamico. Il dato più grave è che George W. Bush ha immediatamente scelto di presentare la guerra contro il terrorismo come una «lotta tra il Bene e il Male» (Good and Evil rarely manifest themselves as clearly). Egli non si è reso conto di utilizzare, nella circostanza, lo stesso linguaggio di Bin Laden. Quando il presidente americano chiama alla «crociata», il capo terrorista chiama al «Jihad». Quest'ultimo presenta l’Oc69

cidente come l’incarnazione di Satana e grida «Allah uakbar», l’altro denuncia il terrorismo come il Diavolo ripeten-

do God bless America. Poiché si tratta in linea di principio dello stesso Dio, sarebbe umoristico se non fosse anche tra-

gico. Con invocazioni del genere, in cui il discorso del Bene e la realtà del Male si rafforzano a vicenda, si esce chiara-

mente dal campo della politica per cadere nella più 2772polztca delle guerre religiose. Più esattamente, si ritorna alla peggiore delle guerre, la «guerra giusta», in cui il nemico, essendo posto al di fuori dell’umanità, può e deve essere annientato con qualunque mezzo. 3. «Non capisco come delle persone possano detestarci [...]. Io sono come la maggior parte degli americani, non posso crederlo, perché so quanto siamo buoni», ha dichiarato George W. Bush l’11 ottobre durante una conferenza stampa alla Casa Bianca. Il sincero stupore degli americani di fronte all’odio (o anche semplicemente alle critiche) di cui possono essere oggetto rivela in loro una straordinaria capacità di ‘zrocenza. Molti di loro non conoscono quasi niente del mondo esterno (la maggior parte, ancora un anno fa, avrebbe facilmente creduto che l Afghanistan fosse un'isola del Pacifico). Pensano che il loro modo di vita sia il migliore che si può immaginare, o addirittura l’unico possibile, e che

chi la pensa diversamente sia un ignorante, un perverso o un folle. L’idea che si possa rimproverare agli Stati Uniti di non essere il «paese della libertà e della democrazia», ma di avere, al contrario, costantemente sostenuto delle dittature (Noriega, Marcos, Pinochet, Mobutu, Suharto, ecc.) e di offrire

essi stessi solo una caricatura della democrazia è loro letteralmente incomprensibile. Per questo fanno una grande fatica a stabilire un legame fra gli avvenimenti dell’11 settembre e la politica internazionale condotta da decenni dai dirigenti che si sono susseguiti alla testa del loro paese. Dopo il crollo del sistema sovietico, gli Stati Uniti sono diventati l’unica grande potenza mondiale, ruolo che già non è facile da assumere: le superpotenze non hanno mai avuto il 70

favore dei popoli. Essi hanno inoltre deliberatamente scelto di svolgere il ruolo del gendarme planetario («Globocop»). Hanno così preso l’abitudine di ritenere di avere un diritto naturale a dispiegare le proprie truppe e di fare la guerra in qualsiasi regione del mondo per difendervi i loro «interessi legittimi». Per ragioni buone o cattive — non è questa la sede per giudicarle — hanno successivamente bombardato la Somalia, il Nicaragua, Haiti, il Salvador, la Repubblica Dominicana, Panama, la Libia, ilSudan, l'Afghanistan, l'Iraq, la Julana La retorica dei editti dell uomo» ha accompagnato la maggior parte di questi interventi, che hanno nondimeno causato la morte di numerosi «civili innocenti». SI stima in un 5% la quota della popolazione civile irachena che ha trovato la morte dopo la guerra del Golfo, o sotto i bombardamenti «occidentali», o a causa del blocco imposto per iniziativa degli Stati Uniti. Trasposta sulla scala della popolazione americana, tale cifra rappresenta 14 milioni di persone. In un dibattito pubblico condotto da Lesley Stahl («60 minutes», 12 maggio 1996), l’ex segretario di Stato Madeleine Albright si era vista chiedere che necessità ci fosse di far perire in quel modo 500.000 bambini iracheni (We have heard that half a million children have died in Iraq. I mean that's more children than died in Hiroshima. Is the price worth ?). La sua risposta era stata che, dal punto di vista americano, «ne valeva la pena» (We think that the price is worth tt). Gli Stati Uniti si sono del resto imposti da decenni come gli alleati quasi incondizionati dello Stato di Israele, la cui presenza in Medio Oriente è chiaramente percepita in tutto il mondo arabo-musulmano come un fenomeno neocoloniale e come una mostruosa ingiustizia commessa ai danni del popolo palestinese. Lo Stato ebraico riceve oggi da Washington 5 miliardi di dollari all’anno in aiuti economici e militari. Ha ricevuto più di 85 miliardi di dollari dal 1949 in poi. Sono cifre senza precedenti. Ci si può davvero stupire, in simili condizioni, che un certo numero di musulmani (o di non musulmani) non siano inch!

sensibili agli argomenti dei sostenitori di Bin Laden e scivolino in taluni casi nel terrorismo sotto l'influenza dei fanatici religiosi? Che l’immagine che si fanno degli Stati Uniti sia fondata o che corrisponda solo a una parte della realtà è, nella fattispecie, un dato privo di importanza. La politica estera americana ha prodotto nel mondo abbastanza disgrazie e miserie, abbastanza amarezza, collera e risentimento da essere facilmente sfruttata dall’islamismo radicale. Quest'ultimo si

nutre, come ieri accadeva al comunismo, di aspirazioni legittime che strumentalizza ai propri fini. È in questo senso che gli attentati di New York e di Washington possono essere considerati come un «contraccolpo». Dirlo non significa fornire scuse al terrorismo, ma solamente cercare di individuar-

ne le cause. Comprendere non equivale a legittimare, e ancor meno ad approvare. Rinunciare a spiegare il terrorismo porta a renderlo incomprensibile e a limitarsi a esprimere atteggiamenti emotivi e mere condanne morali. 4. Rispetto alle forme di belligeranza precedenti, la seconda guerra mondiale aveva già introdotto almeno due elementi essenziali di discontinuità. Il primo è consistito nella cancellazione della distinzione tra civili e militari, combattenti e

non combattenti. La comparsa dell'aviazione aveva già fatto scomparire il concetto di «fronte»: l'aereo va dove vuole e non si lascia più fermare dalla linea di contatto fra gli eserciti. Con il bombardamento a grande altezza ilfuoco sostituisce lo scontro. Tutto ciò che è suscettibile di essere colpito è ormai alla portata degli aerei. Nel contempo, i bersagli hanno cessato di essere esclusivamente militari: anche le infrastrutture civili hanno un valore strategico. Il carattere eminentemente ideologico dell’ultima guerra ha del resto determinato la scomparsa dell'idea — che si era riusciti a conservare fino all'alba del XX secolo — che la lotta armata possa continuare a essere compatibile con il rispetto (se non con la stima) del nemico. Si è così progressivamente imposta la convinzione

secondo cui era ormai legittimo, per difendere la buona causa, prendersela con le popolazioni civili. Le città tedesche fu72

rono trasformate in tappeti di bombe incendiarie e l’attacco di Pearl Harbor del dicembre 1941, che aveva causato 2400 morti, venne saldato con un conto cento volte superiore con

le bombe atomiche lanciate sulle popolazioni civili del Giappone. A ciò si aggiunsero, al di fuori dei paesi dell'Asse, i «danni collaterali» dovuti all’imprecisione degli attacchi: nella sola Francia occupata, 67.000 civili perirono sotto le bombe inglesi e americane. Oltre ai bombardamenti a scopo terrorizzante vi furono anche progetti di guerra batteriologica. L'Inghilterra, a partire dal 1942, fabbricò 5 milioni di razioni alimentari infetta-

te con l’antrace, che avrebbero dovuto essere paracadutate sulla Germania nel 1944 con lo scopo di contaminare in un primo momento il bestiame e poi la popolazione tedesca. L’operazione venne abbandonata a causa dello sbarco del giugno 1944. Solo nel 1990 è stato possibile decontaminare l’isola di Gruinard, dove i prodotti infettati erano stati sperimentati.

Il secondo elemento di rottura (che si collega al primo) fu la comparsa, in tutta l'Europa occupata, di movimenti di resistenza ai quali le autorità dell’epoca rivolsero regolarmente l’accusa di «terrorismo». Alla guerra esterna si affiancò in tal modo una guerra civile. Fu allora che la figura del partigiano, cioè del combattente irregolare, che non porta l'uniforme, inaugurata al tempo dell'occupazione napoleonica della Prussia e della Spagna, acquisì i suoi titoli di nobiltà. Dopo il 1945, e in particolare all’epoca delle lotte anticoloniali, innumerevoli minoranze armate, movimenti di «liberazione» o guerriglie si presentarono a loro volta come organizzazioni di resistenza contro apparati statali che li consideravano gruppi «sovversivi» e terroristici. Igruppi sionisti in Palestina, l Afri-

can National Congress di Nelson Mandela in Sudafrica, il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, solo per citarne alcuni, hanno fatto ricorso in misura diversa al terrorismo.

Quando le loro lotte sono giunte allo scopo ed essi hanno ottenuto un riconoscimento internazionale, i metodi che han15)

no impiegato sono apparsi, retrospettivamente, giustificati. Si

è perciò accreditata l’idea che in certi casi il terrorismo poteva essere legittimo. Beninteso, si affermava pure che il terrorismo non può essere giustificato là dove le rivendicazioni politiche e sociali possono esprimersi per altre vie. Ma sui criteri che consentono di separare il terrorismo «buono» da quello «cattivo» le opinioni non potevano non divergere. La valutazione del carattere morale o immortale del terrorismo era pertanto destinata a dipendere, a poco a poco, dalla propaganda oppure dalla semplice soggettività. 5.Il termine «terrorismo» continua a essere ambiguo. Coloro che fanno ricorso alla violenza armata nell’Irlanda del Nord, in Corsica o nel Paese Basco vengono attaccati come

«terroristi» dai governi inglese, francese o spagnolo, ma si considerano resistenti. I «partigiani» degli uni sono i «terroristi» degli altri. L’uso del termine è instabile, e addirittura reversibile. Gli stessi talebani, che venivano definiti «combat-

tenti della libertà» ({reedorz fighters) all’epoca dell’invasione dell'Afghanistan da parte dell’Armata rossa, sono immediatamente diventati «terroristi» quando hanno cominciato a utilizzare gli stessi metodi contro gli alleati di un tempo. I militanti dell’Uck, presentati come «resistenti» quando le forze della Nato bombardavano la Serbia e il Kosovo, sono diven-

tati «terroristi» quando se Îa sono presa con la Macedonia, alleata della Nato e degli Usa. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. E le cose si complicano ulteriormente per il fatto che il terrorismo, tradizionalmente presentato come l’arma dei deboli, è stato utilizzato anche dai più forti: nel recente passato, il terrorismo statale non è stato il meno sanguinoso. Quel terrorismo resta tuttavia molto diverso da quello che abbiamo visto all’opera 111 settembre. Nell’epoca moderna, gli atti di violenza terroristica avevano obiettivi chiaramente identificabili: porre fine a un’occupazione straniera, lottare contro una dittatura, imporre l’indipendenza di una colonia, rendere possibile una rivoluzione. I terroristi agivano clandestinamente, ma non nascondevano né l’identità politica né 74

gli scopi. Le loro operazioni si svolgevano su un territorio (0 in relazione a un territorio) ben circoscritto. Nulla a che vedere con gli aerei che si sono schiantati sul Pentagono e sul Wtc. L’atto non è stato oggetto di alcuna rivendicazione. Coloro che lo hanno commesso non hanno espresso alcuna richiesta in materia di potere. Non appartenevano a un paese chiaramente identificabile e il loro campo di azione si estende, in linea di principio, a tutti i paesi. Nell’epoca post-moderna, che è quella della fine delle logiche territoriali, la figura del Partigiano, alla quale Carl Schmitt attribuiva ancora un carattere eminentemente «tellurico», si deterritorializza a sua

volta. Diventa planetaria. Per definire gli autori degli attentati di New York e di Washington bisogna parlare di terrorismo globale o di «iperterrorismo» globale. A causa del suo stesso carattere «spettacolare», questo iperterrorismo segna la sconfitta dell'ideologia della comunicazione e, di conseguenza, dell’egemonia della rappresentazione americana nei media. 6. Osama bin Laden, il miliardario saudita dal profilo cristico, ossessionava i servizi di sicurezza americani già ben pri-

ma dell’11 settembre. Sin dalle prime ore successive è stato accusato di essere l’ispiratore degli attentati. Benché le prove formali della sua implicazione non siano state portate a conoscenza del grande pubblico, non è irragionevole pensare che i terroristi del Wtc fossero più o meno in contatto con la sua organizzazione. Che sia stato o no coinvolto è un dato che resta comunque privo di importanza. Bisogna essere ingenui

per credere che il terrorismo globale dipenda da un uomo, da un’organizzazione o da un paese. La sua principale caratteristica risiede nel non dipendere da niente. Oggi esistono al mondo varie centinaia di organizzazioni terroristiche sotto forma di reti: strutture fluide, decentrate,

non gerarchiche, spesso su base di clan o familiare. Il modo in cui funzionano fa sì che la loro efficacia dipenda solo in minima parte dall’esistenza di ciascuna singola cellula. Credere che l’eliminazione di questo o quello dei loro dirigenti, per 75

quanto ricco e potente possa essere, metterebbe fine all’esistenza delle reti è un grande errore; una tale convinzione mo-

stra semplicemente sino a che punto ci si stia sbagliando nella comprensione della natura del terrorismo globale. Le reti sono formate da piccoli gruppi che svolgono operazioni senza un comando centrale; la morte o la cattura di uno dei loro

responsabili non ha un’incidenza fondamentale sulle loro capacità di nocumento o di sopravvivenza. Bin Laden esercita le sue funzioni di capo in un sistema che non ha bisogno di capi. Gli Usa sono stati colpiti da un nemico invisibile e senza nome: sono stati attaccati da reti.

Il mondo è entrato nell’era delle reti. Le nuove organizzazioni terroristiche rappresentano solamente una specie reticolare fra le tante esistenti: reti bancarie e finanziarie, industriali, di informazione e di comunicazione, criminali, ecc. Le reti funzionano in maniera discontinua, fluida, informale e al

loro interno tutto è una questione di flussi (monetari, di simboli, di immagini, di programmi), di velocità, di connessioni. Collegano fra loro individui o gruppi che hanno affinità o interessi comuni indipendentemente da qualunque base territoriale. La distanza che le separa, lungi dall’indebolirle, ne rafforza la potenza. Nel mondo delle reti, tutto funziona in «tempo zero», alla velocità dei segnali elettronici. Ogni evento si produce simultaneamente dappertutto, abolendo nel contempo lo spazio e il tempo. Le stesse tecnologie sono utilizzate dai mercati finanziari così come dalle mafie internazionali. Le reti sono contraddistinte dal carattere «liquido» o fluttuante, pegno della loro opacità, e dal fatto di non possedere né un centro né una periferia, il che significa che ciascun punto della rete è al tempo stesso centrale e periferico. Esse creano un nuovo tipo «frattale» di relazioni sociali. Stabilendo un legame immediato fra individui che vivono a grande distanza gli uni dagli altri, creano nuove identità sovranazionali. In questo senso, sono parte dell’irreversibile declino degli Stati nazionali. L’assetto dello Stato non può che cambiare quan76

do, come tutte le attività criminali, il commercio, la comuni-

cazione, gli scambi finanziari e commerciali si svolgono al di fuori del suo controllo. Il concetto di sovranità nazionale, le-

gato a un determinato territorio, si svuota di senso. Il passaggio dalla modernità alla post-modernità è corrisposto al passaggio dal mondo degli Stati nazionali, delle frontiere nazionali e dei territori relativamente chiusi al mondo dei continenti, delle comunità e delle reti.

La modalità di propagazione delle reti è quella virale. Il virus elettronico, trasmesso da hackers, che infetta le une dopo

le altre le reti di computer, il virus che opera nella diffusione delle malattie di cui oggi più si parla (Aids, febbre da afta, malattia della mucca pazza), il virus dell’antrace usato come arma batteriologica, l'informazione che comporta la destabilizzazione a catena dei mercati finanziari mondiali, la predica infiammata che fa il giro del mondo trasmettendosi su Internet, si ricollegano a questo stesso modello paradigmatico. È significativo che alla vigilia dell’11 settembre gli Stati Uniti, opponendosi all'ipotesi di vedere ispezionati i propri siti, abbiano rifiutato di firmare il protocollo di verifica e controllo della Convenzione internazionale che mette al bando le armi biologiche. } L’iperterrorismo è un prodotto della globalizzazione. È privo di nazionalità al pari delle imprese multinazionali, delle organizzazioni non governative o dei cartelli di narcotrafficanti. Utilizza le «zone grigie» del pianeta, sprovviste di qualunque struttura politico-giuridica, dove nessuno controlla più alcunché. Quando i terroristi hanno dei problemi in un paese, fanno come la General Motors, la Nike o la Pepsi: se ne

vanno altrove. Il sistema occidentale del libero scambio e della libera circolazione si rivolta così contro se stesso. 7. Gli attentati di New York e Washington sono stati definiti giustamente «atti di guerra». Si tratta però di una guerra di tipo nuovo. In quelle di tipo tradizionale, l’obiettivo principale è in genere l’occupazione, la difesa o la conquista di un territorio. Adesso non è più così, dato che non esiste un 77

fronte. Le guerre classiche mettono l’uno di fronte all’altro degli Stati, o quantomeno delle entità politiche chiaramente identificabili. Ma gli attentati dell’ 11 settembre non sono stati rivendicati. Il paragone fatto con l'attacco di Pearl Harbor è inesatto: resta ancora da stabilire chi svolga in questo caso il ruolo dei giapponesi. Perciò, piuttosto che a Pearl Harbor, sarebbe meglio comparare gli avvenimenti dell11 settembre all’attentato di Sarajevo, che aveva aperto un’era di belligeranza di tipo nuovo. La fine della guerra fredda non ha segnato la fine dei conflitti (e meno che mai la «fine della storia»), bensì la loro metamorfosi. La guerra contro il terrorismo oppone alcuni Stati non a organizzazioni armate private, come a volte si dice, ma a entità politiche non statali, nemici

senza volto e senza nome. E una guerra globale, una «guerra delle reti» (zerwar), per riprendere l’espressione coniata già nel 1993 da David Ronfeldt e John Arquilla. Se durante la guerra del Golfo il 90% dei mezzi impiegati erano ancora mezzi militari classici, in una guerra di questo genere le risposte convenzionali sono inoperanti e la dissuasione nucleare non funziona più. Gli attentati hanno già dimostrato l’inutilità del progetto di scudo antimissili di cui gli Usa avevano annunciato la messa a punto rischiando di rilanciare la corsa agli armamenti. Inoltre hanno segnato la scomparsa di quell’ideale' di una «guerra a zero morti» che, grazie a campagne massicce di bombardamenti ad alta quota, consentiva di ridurre al minimo le perdite statunitensi e offriva come contropartita l’idea che il nemico poteva essere ucciso a piacimento.

Nelle guerre di un tempo, si andava alla ricerca dell’equilibrio delle forze (o del terrore). Oggi, ormai, il concetto chiave è quello di asimmetria. Questa asimmetria (e non dissimmetria, che segnala soltanto una diseguaglianza di ordine quantitativo tra le forze in campo) fra le strutture pesanti e le logiche fluide si può constatare in ogni ambito. Asimmetria degli attori: da una parte gli Stati, dall’altra gruppi transnazionali. Asimmetria degli obiettivi: i terroristi sanno dove col78

pire, i loro avversari non sanno dove rispondere. Asimmetria dei mezzi: l'11 settembre, nell’arco di qualche minuto, le na-

vi da guerra, le bombe atomiche, gli F-16 e i missili da crociera sono diventati obsoleti di fronte ad alcune decine di fanatici muniti di coltelli e di temperini. Gli attentati di New York e Washington, messi in atto con mezzi di infimo ordine, hanno fatto vacillare gli Stati Uniti d’America e causato, direttamente o indirettamente, danni stimati in oltre 60 mi-

liardi di dollari. (La stessa asimmetria la ritroviamo nell’intifada palestinese: sassi contro carri armati.) Ma la principale asimmetria è di natura psicologica: un immenso fossato separa uomini per i quali molte cose sono peggiori della morte da un mondo in cui la vita individuale, puro dato di immanenza, è vista come un bene che niente potrebbe sorpassare. Quando gli uni pensano al paradiso, gli altri pensano alla pensione. Per i terroristi, la morte è una ricompensa. Dinan-

zi a questo desiderio di morte eretto ad arma assoluta, l’Occidente è per forza di cose disarmato. La guerra contro il terrorismo è la prima guerra post-moderna e «furtiva», la prima guerra della globalizzazione. Non conosce più limiti, non solo territoriali ma anche relativi alla scelta dei mezzi. Il dato dominante della globalizzazione è che non può essere assoggettata, controllata o regolata da un potere che le sia superiore. Essa instaura, per la prima volta nella storia, un mondo senza spazi esterni. Nell’epoca della globalizzazione non esistono più «santuari» o paesi-rifugio. Non avendo più il mondo alcuno spazio esterno, il campo di battaglia si confonde con l’intero pianeta. Gli aerei dirottati l'11 settembre dai terroristi erano aerei americani dell’ American Airlines e dell'United Airlines che effettuavano, quel giorno, voli interni. I loro piloti si erano addestrati sullo stesso suolo degli Stati Uniti, ove avevano vissuto forse da vari anni. Niente rende meglio l’idea della cancellazione della frontiera tra l'interno e l’esterno della crescente confusione tra i compiti della polizia e quelli dell'esercito. Dinanzi al terrorismo, i poliziotti sono sempre più costretti a ricorrere a 19

mezzi militari, mentre gli interventi armati sono ormai presentati come «operazioni internazionali di polizia». La coppia classica amico-nemico non funziona più, perché non si sa più bene chi sia l’amico e chi il nemico, chi sia «dentro» e chi «fuori». Uno che sembra essere un «amico» può essere anche il contrario. In un mondo globalizzato, al limite, non esistono più guerre estere ma solo guerre civili.

Dopo che molte altre distinzioni tradizionali (tra civili e militari, fronte e retrovie, ecc.) avevano fatto il loro tempo,

scompare anche l’ultima distinzione tra la guerra e la pace. Alla «guerra fredda» succede la «pace calda». Siamo alla generalizzazione dello stato di eccezione: l'eccezione diventa la regola, mentre la violenza (statale o transnazionale, istituzio-

nale o selvaggia) diventa il 720dus vivendi di un numero crescente di individui e gruppi. Le guerre cominciano senza essere state dichiarate. Inversamente, quando le armi tacciono, la pace si trasforma in un ulteriore strumento per proseguire

le ostilità (si vedano le sanzioni contro l'Iraq e il processo a Milosevic all’Aja). E il rovesciamento della frase di Clausewitz: la politica e la pace prolungano la guerra con altri mezzi. La guerra globale è tendenzialmente interminabile. Non è dichiarata e non si conclude mai. 8. Si è per forza i nemici di coloro che ci designano come tali. Il crollo della «fortezza America» dimostra che nessun paese è più al riparo dall’iperterrorismo. Ogni paese, inoltre, ha il dovere di garantire la sicurezza dei suoi abitanti. Per questo motivo bisogna combattere il terrorismo globale. Ma bisogna farlo con gli strumenti appropriati. Si poteva pensare che gli Stati Uniti avrebbero fatto tesoro delle precedenti operazioni di «rappresaglia» — Eagle Claw in Iran (1980), Urgent Fury a Grenada (1983), Just Cause a Panama (1990), Restore Hope in Somalia (1993), senza di-

menticare la distruzione di un’industria farmaceutica in Sudan nel 1998 —, che si sono quasi tutte concluse in modo pietoso. Ma le cose non sono andate così. Evidentemente il presidente Bush ha voluto reagire in modo spettacolare per da80

re soddisfazione a un’opinione pubblica che desiderava una vendetta rapida e brutale (secondo un’inchiesta del «New York Times», il 60% degli americani era favorevole a una guerra «anche se migliaia di civili innocenti devono essere uccisi») e voleva che le si indicasse con chiarezza un colpevole. Il complesso militare-industriale, dal canto suo, aveva biso-

gno di ritrovare un nemico globale assimilabile all’«Impero del Male», che gli era necessario per ribadire la propria potenza e continuare a produrre armamenti. Quando il nemico non ha volto, bisogna dargliene uno, cioè costruirlo. È toccato a Bin Laden e, dietro di lui, ai Ullcn Avrebbe potuto

essere un comportamento saggio, all’indomani degli attentati, non nominare Bin Laden ed eliminarlo senza far rumore.

Spingendolo sul palcoscenico, foss’anche per votarlo alla vendetta mondiale, se ne è fatto un eroe, e forse un martire.

La guerra contro l'Afghanistan provocherà forse la caduta del regime dei talebani, ma non per questo ristabilirà la democrazia, parola che in quella regione del mondo non ha davvero alcun senso: semplicemente, una fazione islamica ne sostituirà un’altra e il paese ripiomberà ancora una volta nella guerra civile. Soprattutto, la guerra non farà scomparire il terrorismo ma creerà le condizioni più propizie alla sua diffusione. Più la guerra sarà lunga, più le sue finalità appariranno dubbie agli occhi dell’opinione pubblica, dando l’impressione che il suo unico obiettivo fosse quello di schiacciare un paese musulmano e assumerne il controllo. Il fossato che separa le masse popolari arabe dai loro governi, più o meno obbligati per ragioni politiche ed economiche a piegarsi alle esigenze americane, non potrà perciò non allargarsi. Ibombardamenti massicci destabilizzeranno quei governi arabi, con l’unico effetto di rendere le loro opinioni pubbliche più ricettive agli argomenti di Bin Laden. In ogni caso, le reti terroristiche non saranno indebolite ma rafforzate. Invece di lottare contro il terrorismo, si sarà creato un

nuovo vivaio al cui interno esso non dovrà far altro che attingere nuove reclute. 81

Un mese dopo l’inizio delle operazioni militari si contavano già 4 milioni di rifugiati in fuga dalle bombe americane. Ogni giorno civili erano uccisi da attacchi che di «chirurgico» avevano solo il nome. All’avvicinarsi dell’inverno, da 7 a

8 milioni di uomini e donne senza alcun legame con le reti terroristiche erano minacciati di morte per malattia (malaria, colera, dissenteria) o per fame. Bin Laden era sempre introvabile. Il peggiore degli scenari era (e resta) quello di un colpo di Stato che porti gli estremisti islamici al potere in Pakistan, ormai potenza nucleare. Una simile eventualità sarebbe un grave fattore di destabilizzazione, sia nel subcontinente indiano (ove il conflitto indo-pakistano ha già provocato quattro guerre in cinquant'anni) sia in tuttoilMedio Oriente. Nel dicembre del 1979 i russi avevano invaso l’Afghanistan con la fermissima intenzione di usare ogni mezzo per venire a capo della resistenza. Sei anni dopo rifacevano i bagagli e se ne tornavano a casa. Ogni volta che si è tentato di invaderlo, l Afghanistan si è rivelato una palude piena di sabbie mobili. 9. L’Afghanistan, peraltro, è un paese la cui importanza geopolitica non può essere sottovalutata. Attraverso il suo territorio, infatti, devono passare gli oleodotti e i gasdotti destinati a trasportare verso il Mare Arabico e l'Oceano Indiano le enormi riserve di idrocarburi situate in Asia centrale e nella regione del Mar Caspio. Si valutano in 15 miliardi di barili le riserve di petrolio attualmente esistenti nelle ex repubbliche sovietiche del Kazakhstan, dell’ Azerbaigian, del Turkmenistan e dell'Uzbekistan. La Cina è grande importatrice di petrolio dal 1993 e il suo consumo raggiungerà presto quello degli Stati Uniti. In tali condizioni, per questi ultimi è essenziale controllare le risorse situate fra la zona del Caspio e il Golfo Persico e avviarle verso le coste del Pakistan sfuggendo al cartello dei produttori della zona del Golfo. Un oleodotto è stato già aperto fra Baku e il porto di Novorossiysk nell’ottobre 2001. Quelli che la ditta americana Unocal, con sede in California, sta costruendo dal 1998, devono attraversare l Afghanistan per una lunghezza di milleduecento chilo82

metri per collegare Dauletabad, in Turkmenistan, a Multan,

in Pakistan (costo previsto: un miliardo e 900.000 dollari). Dopo l’ascesa al potere dei talebani, la politica di Washington verso il nuovo regime è apparsa principalmente determinata dagli interessi dell’Unocal. Vari capi talebani sono stati invitati a Huston, dove hanno ricevuto un’accoglienza regale. È difficile non prendere in considerazione questo aspetto quando si sa che l’attuale governo americano è dominato da ex responsabili dell’industria petrolifera, a cominciare dal vicepresidente Dick Cheney. L’Afghanistan èl’unico paese al mondo vicino a para diverse potenze atomiche: l’India, il Pakistan, la Cina e la Rus-

sia; ha frontiere comuni con l'Iran e con le ex repubbliche sovietiche dell’ Asia centrale. La guerra può permettere agli Stati Uniti di effettuarvi una penetrazione strategica. L’installazione di basi americane in Afghanistan, o di un regime strettamente controllato da Washington, consentirebbe inoltre alle forze della Nato di proibire definitivamente ai russi, già minacciati dalle basi esistenti nei paesi baltici, in Turchia e nei Balcani, di accedere ai «mari caldi» dell'emisfero Sud.

Nell’immediato, tuttavia, si assiste a una cooperazione russo-americana, ed è una grande ironia della storia vedere oggi gli Usa fare la guerra in Afghanistan per combattere il terrorismo islamico in collaborazione con la Russia, quando ci si ricorda che essi avevano armato e finanziato quello stesso terrorismo vent'anni fa per indebolire la potenza sovietica. La dittatura del generale-presidente pakistano Musharraf, che era stato il principale sostenitore dei talebani contro l Alleanza del Nord (e che continua a sostenere i terroristi del Kashmir) viene adesso coperta di regali e ha già ottenuto l’annullamento delle sanzioni economiche che le erano state inflitte a causa dei test nucleari. Di fatto, è l’intero sistema delle re-

lazioni internazionali a rischiare di trovarsi sconvolto dalla promozione al rango di priorità della lotta contro il terrorismo globale. Per gli Stati Uniti, questa lotta implica la formazione di un’alleanza provvisoria con paesi (India, Cina, 83

Russia) che sino a ora non erano i suoi migliori alleati. Storicamente, infatti, il Pakistan si era appoggiato alla Cina e agli Stati Uniti, mentre l’India si riavvicinava alla Russia e all'Iran.

Un riavvicinamento fra gli Usa e gli Iran è ormai possibile. Un’alleanza del genere, in vista dell’instaurazione o del mantenimento di un ordine internazionale, non ha precedenti dalla metà del XIX secolo in poi. Nel lungo periodo, tuttavia, gli Stati Uniti dovranno continuare a far fronte alle crescenti ambizioni sia della Cina che della Russia nella regione. La nuova situazione che si è creata dall’11 settembre consentirà altresì alla Russia, con il pretesto della lotta contro il terrorismo o l’«integralismo islamico», di proseguire la sua guerra coloniale in Cecenia, alla sanguinosa giunta militare algerina di continuare lo «sradicamento» degli oppositori, alla Cina di accelerare la repressione delle minoranze di uiguri nella provincia musulmana del Xinjiang (ex Turkestan orientale) e al governo israeliano di intensificare la politica di «omicidi mirati» di militanti palestinesi. 10. Nessuno rimpiangerà l’abominevole regime dei talebani, questi fanatici che avevano spinto sino al parossismo la misoginia e l’iconoclasma caratteristici del monoteismo. Le tare di questo regime tuttavia non tolgono niente al fatto che la guerra condotta dagli Stati Uniti contro l Afghanistan è chiaramente illegale dal purito di vista del diritto internazionale. L'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite autorizza infatti l’autodifesa, non le rappresaglie; consente a uno Stato di rispondere con la forza a un attacco del quale è oggetto, non di mettere in atto misure di rappresaglia quando tale attacco è terminato o è stato bloccato. L'indifferenza degli Stati Uniti nei riguardi del diritto internazionale e del regolamento interno dell’Onu si era già manifestata in occasione della guerra del Golfo e poi dell’attacco contro il Kosovo, ma non è mai stata più evidente che

nel momento in cui l’amministrazione Reagan aveva attaccato il Nicaragua, minato le sue installazioni portuali e sostenuto finanziariamente i terroristi Contras all’epoca in lotta 84

contro il governo sandinista (nazionalista di sinistra). Quella offensiva aveva provocato la morte di circa 30.000 civili. Il Nicaragua decise allora di portare la questione dinanzi alla Corte internazionale, che, dopo aver esaminato il dossier,

condannò gli Stati Uniti per «uso illegale della forza» e ordinò loro di ritirarsi dal paese dopo aver pagato al suo governo sostanziose indennità. La sola risposta degli Stati Uniti consistette nel respingere il verdetto della Corte, annun-

ciare che essi da allora in poi non ne avrebbero più riconosciuto la giurisdizione e intensificare il sostegno’ ai Contras. Poco dopo, il governo statunitense oppose il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva a tutti gli Stati membri dell'Onu di rispettare il diritto internazionale. John Negroponte, il nuovo ambasciatore americano oggi incaricato della «lotta contro il terrorismo» presso le Nazioni Unite, è la stessa persona che, in qualità di ambasciatore degli Usa in Honduras, aveva negli anni Ottanta compiti di supervisione degli attacchi contro il Nicaragua. Si può ritenere che la lotta contro l’iperterrorismo esiga una rifondazione del diritto internazionale (o che la legalità internazionale diverga ormai troppo nettamente dalla legittimità delle azioni da intraprendere). Tuttavia, gli Stati Uniti sono per il momento l’unico paese al mondo ad avere deciso, in maniera quasi ufficiale, di considerare tale diritto inesi-

stente. Il governo nordamericano finanzia il Tribunale penale internazionale dell'Aja, ma ha fatto sapere che non accetterebbe mai di veder processato uno dei suoi abitanti da quell’istituzione. Gli Usa non riconoscono l'autorità superiore di nessuna giurisdizione internazionale, pur esigendo nel contempo che i loro alleati vi si assoggettino. Se la più grande potenza mondiale ritiene che la legalità internazionale non la riguardi, è difficile stupirsi del fatto che altri paesi o altre forze vi facciano a loro volta poco caso. 11. L'obiettivo deve consistere nel cercare di ridurre il livello del terrorismo globale, non nell’offrirgli nuove possibilità di estendersi. Non ci si può dunque accontentare di at85

taccare i terroristi nei loro presunti «rifugi» o di mettere a punto rappresaglie dopo gli attentati. Bisogna anche intervenire a monte. Contro il terrorismo, la prima arma è l’infiltrazione, la raccolta e il controllo di informazioni; i mezzi con-

venzionali non sono adeguati a questo compito. Al contagio «virale» bisogna opporre una strategia, anch’essa «virale», di manipolazione delle comunicazioni e delle connessioni. Soltanto delle reti possono combattere efficacemente altre reti. Non è facile riuscirvi. La struttura opaca delle reti le rende poco permeabili a un’infiltrazione. Il controllo delle loro risorse finanziarie si scontra con la logica della globalizzazione, la quale fa sì che centinaia di banche siano pronte, nei paradisi fiscali, a riciclare qualunque somma di denaro sporco. Quanto alla raccolta di informazioni, essa implica misure di sorveglianza che non possono non comportare severe restrizioni delle libertà pubbliche. Quando nessuno può dire in anticipo chi sia l’amico e chi il nemico, quando dappertutto possono essere presenti gruppi terroristici, il comportamen-

to più «razionale» consiste nel considerare sospetto chiunque. Sono dunque probabili nuove limitazioni della libertà di espressione e di comunicazione, che saranno tanto più facilmente accettate dall’opinione pubblica quanto più le si presenterà come altrettante misure necessarie a garantire una

maggiore «sicurezza». Da un'lato la lotta al terrorismo accelererà il declino dello Stato nazionale, giacché obbliga a considerare le frontiere nazionali alla stregua di qualcosa di poco conto; dall’altro finirà con il rafforzare i poteri di controllo degli apparati statali e favorirà la crescita di una società di sorveglianza globale, il Panopticon mondiale. La maniera migliore per lottare contro il terrorismo mondiale implica in realtà un intervento non sulle sue conseguenze, bensì sulle sue cause. Combattere il terrorismo senza chiedersi che cosa lo produca condanna all’impotenza. Occorre isolare i terroristi dalle masse dal cui seno traggono le proprie reclute, e dunque disseccare il serbatoio di collera, risentimento, rivolta, umiliazione e disperazione al quale at86

tingono. Le cause del terrorismo devono essere sradicate tenendo conto dei motivi di risentimento di ciascuno, non so-

lo degli interessi o del punto di vista dei più forti. 12. Ciò implica la necessità per gli Stati Uniti di avere, nei confronti del mondo arabo-musulmano, una considerazione per l’appunto più globale e soprattutto una politica più coerente. Nel corso degli ultimi decenni, gli Usa non hanno mai smesso di distinguere i «buoni» terroristi da quelli «cattivi» a seconda che costoro servissero oppure no i loro interessi. Durante la guerra fredda, hanno sistematicamente sostenuto i movimenti islamisti, nei quali vedevano una diga contro i regimi laici sospetti di filosovietismo, come l’Egitto, l’Irag, la Siria. Quando nel 1979 l'Armata rossa ha invaso l’Afghanistan hanno reclutato, armato e finanziato in collaborazione

con i servizi segreti del Pakistan (al-Istakhbara al-‘Ama) quasi 100.000 mujahiddin provenienti da quaranta paesi diversi. Dieci anni dopo, il raccolto di oppio alla frontiera afghanopakistana superava le 800 tonnellate all’anno. In totale, la resistenza afghana ha ricevuto da Washington quasi 6 miliardi di dollari in armamenti. Nel settembre 1996, la presa di Kabul da parte dei talebani venne definita dalla sottosegretaria di Stato statunitense per l'Asia del Sud «una tappa positiva». Parallelamente, la compagnia californiana Unilocal annunciava la firma di un accordo con i talebani per la costruzione di un gasdotto che collegasse il Turkmenistan al Pakistan. Solo a partire dall'autunno del 1997 le relazioni fra gli Usa e i talebani hanno iniziato a deteriorarsi. Tuttavia i contatti non sono stati interrotti prima del maggio 2001. Oggi gli Stati Uniti fanno guerra a un regime che hanno creato. Nel frattempo è intervenuta la guerra del Golfo. Saddam Hussein, considerato da Washington un alleato oggettivo fintanto che si batteva contro l'Iran, è diventato improvvisamente un demonio quando ha cercato di riprendersi il territorio del Kuwait, che i britannici in precedenza avevano confiscato al suo paese. Si è rimproverato al presidente iracheno di aver brutalmente represso le sue minoranze curde negli an87

ni Ottanta. Tuttavia nello stesso periodo, fra il 1984 e il 1989, la Turchia aveva a sua volta lanciato una serie di campagne militari contro la propria popolazione curda, distruggendo più di 3500 villaggi, uccidendo varie decine di migliaia di persone e costringendo all’esilio 2 milioni e mezzo di civili. Invece di cercare di impedirlo, Washington facilitò quei massacri armando potentemente l’esercito turco, alleato nella Nato. La guerra contro l’Irag, unico paese laico della regione, avrebbe fatto anch’essa decine di migliaia di morti. Essa si è prolungata con l’instaurazione di un embargo e bombardamenti che tuttora proseguono. Le truppe statunitensi ne hanno approfittato per insediarsi in pianta stabile in Arabia Saudita, nelle vicinanze della Mecca, provocando il furore e l’indignazione degli islamisti più radicali. Dopo la vittoria dei talebani, i mujahiddin addestrati in Afghanistan dalla Cia si sono affrettati a prendere parte a tutti i conflitti nei quali si trovavano implicati dei musulmani. Si sono visti «afghani» in Algeria, in Kashmir, in Bosnia, in Cecenia, nella Cina occidentale, nelle Filippine, in Indonesia. In Egitto, gli stessi estremisti avevano assassinato il presidente Sadat. Nel conflitto balcanico, gli Stati Uniti hanno appoggiato musulmani bosniaci e poi i terroristi albanofoni del Kosovo. In Macedonia alla fine sono stati costretti a cercare di disarmare l’Uck, che in précedenza avevano armato perché lottasse contro i serbi. A parte il regime dei talebani, lo Stato arabo più favorevole al fondamentalismo islamico è sempre stato l'Arabia Saudita. Varie reti terroriste sono state finanziate da Riad. Lo stesso gruppo di Bin Laden è notoriamente legato alla corrente wahhabita puritana alla quale aderisce ufficialmente la dinastia saudita. Ciononostante, gli Stati Uniti hanno sempre lasciato l Arabia Saudita agire a suo piacimento, per essere sicuri di continuare a ottenerne il petrolio. Gli unici tre paesi che hanno riconosciuto il regime dei talebani — l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Pakistan — erano tre fedeli alleati e clienti degli Usa. 88

Nessuna lotta contro il terrorismo islamico può essere presa in considerazione se il governo statunitense continua ad avere, nei confronti del mondo arabo-musulmano, una poli-

tica così incoerente. Né si può ipotizzare alcun calo di intensità del terrorismo se gli Stati Uniti non adottano un punto di vista meno unilaterale nel conflitto israelo-palestinese. Quando si viene a sapere che il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, ha rifiutato un assegno di 10 milioni di dollari de-

stinato alle famiglie dei soccorritori rimasti uccisi nel crollo delle due Torri del Wtc per l’unico motivo che il donatore, un principe arabo, aveva suggerito un «riequilibrio» della politica statunitense in questo conflitto, si ha tuttavia qualche ragione per essere pessimisti.

13. L'Islam (un miliardo e 300 milioni di fedeli) è una religione dinamica, certamente l’unica che oggi guadagna terreno. Contrariamente al cristianesimo storico, ma come il pa-

ganesimo, esso non separa il politico dal sacro, il temporale dallo spirituale. Come religione, si basa su un certo numero di credenze che non sono né più né meno assurde o ridicole di quelle delle altre religioni monoteiste. Le sue relazioni storiche con l'Europa sono state molto più complesse e contrastate di quanto affermano i sostenitori di una storiografia di origine ecclesiastica (a partire dal VII secolo, come aveva già dimostrato Henri Pirenne, sono state le conquiste arabo-islamiche a permettere l’ascesa della potenza della Francia e della Germania carolinge). Non c'è motivo per assumere nei suoi confronti atteggiamenti irenistici o per lasciarsi prendere da ossessioni demonizzanti. Esiste nell'Islam una componente guerriera (che spiega l'ammirazione che gli tributava Nietzsche), ma essa è lungi dal riassumerne lo spirito o dall’essere sua caratteristica esclusiva. Dai massacri di Giosuè fino alle crociate, anche le altre fedi monoteiste, pur presentandosi come religioni di «amore» o di «pace», non hanno mai disdegnato di far appello alla violenza e di giustificarla con parole tratte dai loro «libri santi» (cfr. Deuteronomio 7, 23-24 e 20, 13-14; Matteo 10, 34). Nell’arco 89

di quattordici secoli, l’Islam è stato, come il cristianesimo, a

volte pacifico e a volte guerriero. Ha inoltre ospitato (e continua a ospitare) una moltitudine di tendenze che hanno senza posa proposto le interpretazioni più contraddittorie o le letture più opposte del Corano. Come tutti imonoteismi, infine, ha conosciuto nel corso della sua storia eccessi emotivi o mistici,

correnti estremiste o letteraliste che cercavano di epurare la fede per operare un «ritorno alle origini». Dall’epoca delle crociate alla crisi di Suez passando per il periodo napoleonico, la maggior parte di queste correnti estremiste hanno preso cor-

po e si sono sviluppate in reazione a imprese di conquista o di dominio occidentali. Il terrorismo islamista è la più recente di queste correnti.

Non è possibile dissociare le dinamiche culturali e religiose dal loro contesto politico-economico senza cadere nell’essenzialismo. La presa in considerazione di tale contesto dimostra che l’islamismo radicale non esprime assolutamente un rifiuto della modernità (della quale utilizza viceversa tutti gli strumenti), bensì una volontà di darne una versione diversa da quella che prevale in Occidente. (René Girard non ha torto, da questo punto di vista, quando parla di «rivalità mimetica su scala planetaria».) Essa dimostra inoltre, e soprattutto, che le ragioni della diffusione dell’islamismo radicale non sono fondamentalmente religiose, bensì politiche e sociali. Gli islamisti utilizzano una retorica religiosa, ma le loro rivendicazioni sono essenzialmente di ordine politico, identitario e culturale. Lo stesso conflitto in Afghanistan non è tanto un conflitto religioso quanto piuttosto un conflitto etnico tra una maggioranza di tribù pashtun, unite dalla interpretazione wahhabita dell'Islam (Tariqga Muhammadiya), e le etnie minoritarie oggi raggruppate nell’ Alleanza del Nord: tagiki, uzbeki, sciiti hazari ecc. Lungi dal segnare un assai ipotetico «ritorno della religione», l’islamismo rappresenta innanzi tutto una riforma della vecchia dinamica nazionalista e antimperialista araba. Quel che ci si deve chiedere è perché la protesta sociale e l'opposizione ai regimi esistenti, un tem90

po incarnate dal nazionalismo laico (nasserismo, baathismo),

abbiano oggi assunto la forma di una contestazione a fondamento religioso — perché la religione abbia rimpiazzato il nazionalismo classico come modo di rispondere a un sentimento di umiliazione o di declassamento oppure di sublimarlo. La ragion d’essere più profonda dell’islamismo è il vicolo cieco nel quale si sono rinchiuse le relazioni fra i paesi occidentali — a cominciare dagli Usa — e i paesi musulmani. Il mondo arabo-musulmano intrattiene inoltre un rapporto difficile con il suo passato. Il fatto di essere l'erede di una civiltà che ha eguagliato, e talvolta superato, la civiltà europea gioca un ruolo considerevole nel suo immaginario. Esso misura il fossato esistente tra l’epoca in cui la civiltà islamica era una delle più brillanti del mondo e la sua situazione presente. Dopo essersi iscritto, a partire dalla fine del XVIII secolo, alla scuola della modernità occidentale, constata di non averne

ricavato ciò che sperava. Questa sensazione lo spinge a coltivare l'ideale di un impossibile ritorno alla «pura» tradizione musulmana. Il fallimento politico della maggior parte dei regimi musulmani, tutti uno più corrotto dell’altro, la loro incapacità di rispondere alle spinte islamiste se non con la repressione brutale e la presenza in quegli stessi paesi di una massa popolare essenzialmente composta di declassati sociali fanno il resto. L'Islam offre ai più poveri nel contempo una compensazione, un sentimento di appartenenza e un sistema

di valori. Per questo motivo l’elemento religioso e quello sociale tendono a fondersi. Non è indifferente, infine, osservare che il terrorismo isla-

mista si sviluppa nello stesso momento in cui, nella maggior parte del mondo arabo-musulmano, l’islamismo politico continua da vari anni ad accumulare (temporaneamente?) fallimenti, come in Algeria, in Turchia, in Egitto, in Tunisia e per-

sino in Iran.

14.Inunarticolo pubblicato nel 1993, e poi in un libro uscito tre anni dopo, Samuel P. Huntington aveva esposto la tesi, oggi ben nota, di uno «scontro delle civiltà». Respingendo DI

ogni visione unipolare del mondo, quella tesi aveva almeno il merito di sottolineare, dopo Spengler e Toynbee, la perennità delle grandi entità culturali e delle diverse aree di civiltà. Evocandola possibilità di uno scontro fra tali culture, Huntington richiamavala necessità dimettere a punto nuovi equilibri adatti a un mondo multipolare. Numerosi commentatori, meno misurati di lui, si sono in seguito appoggiati alla sua tesi per annunciare, soprattutto alla luce degli ultimi avvenimenti, uno

scontro frontale tra l'Islam e l'Occidente. In un mondo globalizzato, nel quale gli Stati nazionali perdono ogni giorno un altro po’ di importanza, è ovviamente possibile che le culture e le civiltà acquistino un peso politico nuovo. Supponendo che poli di appartenenza così concepiti possano trasformarsi in attori delle relazioni internazionali (cosa tutt'altro che scontata), uno «scontro» tra alcune di

queste culture è altrettanto possibile. Una cosa tuttavia è ipotizzare tale eventualità, un’altra rallegrarsene e fare di tutto per affrettarla. L'atteggiamento responsabile consiste, in genere, nell’evitare gli «scontri» piuttosto che nell’andarne alla ricerca.

«Quando si parla dell’Islam, si eliminano più o meno automaticamente lo spazio e il tempo», ha fatto osservare Edward W. Said. Il rischio maggiore, quando si adotta l’atteggiamento di Huntington, è infatti quello di cadere nell’astoricismo, e soprattutto in una visione o in una rappresentazione erronea-

mente unitaria delle culture delle quali si parla. Huntington tende effettivamente, da un lato, a cancellare ogni divergenza tra l'Europa e gli Stati Uniti e, dall’altro, a fare dell'Islam un insieme monolitico, equivalente moderno degli eserciti ottomani che marciavano su Vienna. Questa rappresentazione

non corrisponde affatto alla realtà. Politicamente e geopoliticamente, l’«Islam» non esiste così come non esiste 1'«Occi-

dente». Né l’uno né l’altro sono blocchi unitari e omogenei, né fasci di forze necessariamente convergenti. Al di là della loro dinamica ideologica comune, tutte le correnti islamiche sono

segnate da forti specificità locali e nazionali. Il mondo musul92

mano comprende decine di società e di paesi, con problematiche ed esperienze assolutamente distinte. Costituisce un universo oggi più diviso che mai, nel quale si affrontano correnti e tendenze, sette e tribù, militari e mullah, ecc.

Quanto all’islamismo radicale, non bisogna dimenticare che i suoi nemici più accaniti — e le sue vittime più numerose — si trovano nei paesi musulmani. Che si tratti dell’ Algeria, dell'Egitto o della Tunisia, è con governi musulmani, con istituzioni e forze islamiche che se la prendono principalmente i terroristi islamisti. L’avversario numero uno dei talebani, il

comandante tagiko Ahmed Massud, era lui pure un pio musulmano, così come gli altri dirigenti dell’Alleanza del Nord (il cui nome esatto è del resto Fronte nazionale islamico unificato). Anche la Repubblica islamica dell’Iran ha sempre condannato i talebani. Fatti di questo genere dimostrano, da soli, quanto sia ridicola la commistione fra l'«Islam» e il terrorismo islamista. La questione islamista è prima di tutto un problema del mondo musulmano, non l’espressione di un conflitto di civiltà. Demonizzare il miliardo di musulmani che esistono nel mondo significherebbe cadere nella trappola tesa da Bin Laden e fare esattamente ciò che vogliono i terroristi. Incitare i paesi a dichiararsi indistintamente ostili all’«Islam» farebbe uscir fuori migliaia di nuovi Bin Laden. Come George W. Bush assicura di parlare «in nome della civiltà», così Bin Laden pretende di parlare «in nome dell’Islam». Prenderlo in parola significa aderire allo schema bipolare, riduttivo, che egli sogna di imporre. Lottare contro Bin Laden e i suoi emuli impone viceversa di dimostrare la falsità di tale pretesa. Gli ambienti che sottoscrivono la tesi dello «scontro delle civiltà» sono proprio i migliori alleati dell’estremismo islamico: chi aderisce allo schema «Islam contro Occidente» parla il linguaggio di Bin Laden. Chi parla di «crociate» fa peggio che agitare chimere: sbaglia epoca e fa il gioco del nemico. La demonizzazione dell’Islam, però, è già cominciata. Nei paesi europei, agenti provocatori più o meno abili, presentan93

dosi nella circostanza come «esperti» di islamologia, si sforzano di strumentalizzare il legittimo risentimento suscitato nella pubblica opinione dalle patologie sociali nate da un’immigrazione massiccia e incontrollata per incitare all’odio e delegittimare le rivendicazioni delle masse popolari arabe in altre parti del mondo. Nel contempo vediamo ritornare alla luce, in un Berlusconi o in altri personaggi, discorsi penosi, di un genere che si pensava scomparso, in cui si confondono l’espressione di una preferenza e l'affermazione di una superiorità. Questi discorsi sulla «superiorità naturale dell'Occidente», mescolati con appelli a ricolonizzare il pianeta, creano un clima detestabile, favorendo tutte le psicosi collettive e tutte le rappresentazioni ossessive e complottiste. La paura di essere intossicati (ad esempio da lettere avvelenate all’antrace) nutre a sua volta l’intossicazione (massmediale). La cultura della paura è una consigliera altrettanto cattiva della paura stessa. C'è da scommettere, purtroppo, che questo genere di discorsi siano solo all’inizio. Dopo i «crucchi», i «rossi», i «viet» e via

dicendo, ci vorrà poco perché lo spettro del terrorismo islamico venga strumentalizzato da coloro che sognano di venire alle mani o che pensano di avere tutto l’interesse a scatenare uno «scontro di civiltà». L’antislamismo rischia di condurre alle stesse sciocchezze che avevamo visto accumularsi ai tempi della difesa del «mondo libero» contro il comunismo. Andiamo verso un nuovo maccartismo, fondato sugli stessi deliri interpretativi.

15. Sarebbe un grave errore ritenere che i paesi occidentali siano al riparo da qualunque forma di «fondamentalismo». Così come Bin Laden vuole convertire o far scomparire tutti inon musulmani del pianeta, certi occidentali sognano di sradicare tutti i sistemi sociali, tutte le entità politicoculturali che non sono conformi alle loro. L'idea secondo cui il mondo liberoscambista globalizzato costituirebbe per tutte le culture del mondo l’unico orizzonte possibile, e dunque auspicabile, non è meno «fondamentalista» di quella in base alla quale la sharia dovrebbe essere instaurata dappertutto.

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La verità è che l'Occidente non la finisce più di voler dominare il mondo imponendo idee, tecniche, prodotti o com-

portamenti che presenta invariabilmente come «universali» e quindi intrinsecamente buoni per tutti, con la conseguenza ineluttabile di far apparire «arcaici» o inferiori tutti gli altri modi di vita, tutti gli altri sistemi di valori. In passato, imprese di dominio di questo tipo sono state condotte in nome della «vera fede», della «civiltà», del «progresso» o dello «sviluppo». Oggi la globalizzazione occidental-liberale diffonde come modello una filosofia della vita che assegna la priorità assoluta al piacere materiale, alla logica del profitto e alla legge del denaro. Il suo punto d’arrivo è la trasformazione del mondo in parco di attrazioni, in supermercato del divertimento; la sua parola d’ordine, vivere, significa consumare.

Hannah Arendt aveva giustamente osservato che ogni regime totalitario ha bisogno di inventarsi un «nemico metafisico». Lo schema «Occidente contro ciò che non è Occidente» (o si rivela non occidentalizzabile) è una semplice riformulazione della retorica della guerra fredda. Parlare in termini di nemici quando si ha a che fare con culture o popoli significa già entrare nella logica della crociata neocoloniale. Dietro l’abuso che viene fatto attualmente del concetto di «scontro delle civiltà», non si fatica a leggere un programma di egemonia occidentale a malapena camuffato. La diffusione dell’identitarismo convulsivo e della violenza terroristica non è tanto il prodotto di una particolare cultura quanto piuttosto il risultato della dissoluzione (o di una minaccia di dissoluzione) di tutte le culture. Il mezzo più sicuro per arginare l’iperterrorismo sarebbe fare in modo che la globalizzazione cessi di essere quel che attualmente appare, cioè l’imposizione unilaterale di un modo di vita particolare, di un modello allogeno e unico di «civiltà» o di «sviluppo» che contraddice le identità culturali del resto del mondo. Jacques Chirac, che in genere non è così ben ispirato, da questo punto di vista non ha avuto torto quando ha affermato all’Unesco, il 15 ottobre 2001, che l'Occidente deve smette95

re di imporre a tutto il mondo la sua cultura «essenzialmente materialista» e «vissuta come aggressiva».

Una sola potenza non può pretendere di gestire da sola l’intero pianeta. Da molto tempo l'Occidente non è più un concetto che indica una civiltà — è ormai solo un indicatore economico — e spetta più che mai agli europei che, all’indomani dell’11 settembre, hanno ancora una volta dimostrato la

loro assenza totale di volontà politica indipendente, non solo di non lasciarsi trascinare in guerre di cui non controllano né le modalità né gli obiettivi, ma anche di dir chiaramente che il modello «occidentale» di civiltà non è necessariamente il loro modello, e in ogni caso non ne esclude altri. Spetta a loro darsi da fare per creare una nuova multipolarizzazione dei rapporti internazionali e non lasciarsi rinchiudere nell’alternativa «Jihad o McWorld», ovvero rifiutare la guerra santa senza per questo diventare gli strumenti del McMondo. Circola oggi un discorso detestabile consistente nel far credere che, chi contesta il modello occidentale, non possa

che avere una mente retrograda o essere un pazzo pericoloso, di cui il fanatico Bin Laden, arrivato al punto giusto per offrire una dimostrazione al ragionamento, sarebbe in un cer-

to senso la figura archetipa. Questo discorso si serve del terrorismo islamista come di un comodo spauracchio, allo sco-

po di rilegittimare agli occhi dell’opinione pubblica un sistema che genera diseguaglianze, frustrazioni e disperazione. Il nemico principale è oggi più che mai rappresentato dallo scatenamento planetario della logica del capitale e dalla mercantilizzazione integrale dei rapporti sociali.

L'impero senza ombra di Eric J. Hobsbawm*

Professor Hobsbawrn, in che modo il crollo dell'Unione Sovietica potrà influenzare, nel bene e nel male, il resto del mondo?

Il crollo dell’Unione Sovietica ha un vantaggio: nessuno in futuro cercherà di ricreare un sistema di quel genere. Si trattava di un sistema inefficiente e poco dinamico, che non ha avuto molto successo dal punto di vista economico e si è dimostrato intollerabile sul versante politico. A quest’unico vantaggio, però, corrispondono molti aspetti negativi. La fine dell’Unione Sovietica ha significato una vera e propria catastrofe per gran parte del mondo, probabilmente il maggior disastro in tempi di pace del Ventesimo secolo. Forse non siamo del tutto consapevoli di quanto sta succedendo nell’ex Unione Sovietica. Negli ultimi dieci anni il Pil di questo paese si è dimezzato: la regione ha perso la metà della sua ricchezza. La speranza di vita media dei russi è diminuita di dieci anni. Una parte di quella che prima era una vera e propria economia industriale, anche se non troppo efficiente, è regredita allo stadio di economia di sussistenza: nelle città molta gente si nutre con le patate che coltiva nel giardino dietro casa. Le repubbliche dell'ex Unione Sovietica si sono disintegrate completamente — è il caso dell'Asia centrale e del Cau* Intervista di Claudia Martfnez, da «Internazionale», 14 dicembre 2001. Traduzione a cura della rivista.

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caso — o sono diventate molto deboli. Per questo le conseguenze della fine dell’Unione Sovietica dal punto di vista economico, sociale e perfino politico sono disastrose.

I{ libero mercato è l’unico responsabile di questa disfatta? In realtà dopo il 1990 si è cercato di imporre un modello di libero mercato al cento per cento, senza considerare i problemi legati al passaggio da un tipo di società a un altro. Non dobbiamo dimenticare che per la gente che vive nella zona che va dalla Polonia all'Oceano Pacifico il crollo dell’Unione Sovietica è stato un disastro incredibile. E probabile, per esempio, che l’agricoltura russa abbia sofferto più in questi ultimi dieci anni che non ai tempi del collettivismo di Stalin. Sotto il regime staliniano si era imposta una forma estrema di socialismo dittatoriale centralizzato,

ma dopo il 1991 si è affermata una forma altrettanto estrema di ultracapitalismo. Un modello esasperato di capitalismo che non esiste in nessun altro paese. Alcune persone ritengono che il capitalismo, come modello economico ma anche come sistema politico e ideologico, si sia rivelato devastante in molte regioni del mondo. Quale potrebbe essere secondo lei un’alternativa a questo sistema? Il modello che viene proposto non è quello del capitalismo in quanto tale, ma di un mercato che sfugge a ogni controllo, come non è mai esistito in passato. Il tentativo di imporre questo modello nell'ex Unione Sovietica ha portato alla catastrofe. i Il capitalismo è stata l’unica parola d’ordine di chi prendeva le decisioni negli Stati Uniti e negli organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale. Non credo che questa tendenza possa durare a lungo, e sinceramente spero proprio che finisca, perché senza dubbio i risultati sono stati disastrosi. Non solo sono aumentate vertiginosamente le diseguaglianze nel mondo, ma è anche cresciuta l’insta-

bilità economica. 98

I paesi che fino a oggi hanno resistito alla depressione economica sono quelli che non si sono legati totalmente al sistema internazionale del libero mercato. Paesi come la Cina, la Russia e, in misura minore, l’India. Quanto maggiore è stata

l’integrazione dei paesi nel sistema monetario internazionale basato sul dollaro, tanto maggiori sono state le fluttuazioni e più drammatiche le conseguenze. Come è successo in America Latina? L'America Latina è un ottimo esempio. Oggi c’è una diffe-

renza fondamentale fra la politica diretta al mondo sviluppato, quello industriale del Nord, e la politica che si propone al cosiddetto mondo in via di sviluppo. La politica per il mondo in via di sviluppo è fatta di restrizioni. Nel mondo sviluppato, negli Stati Uniti e in Europa, è esattamente l’opposto. Ma il problema non è scegliere tra un libero mercato senza restrizioni e un’economia totalmente centralizzata. I due estremi si sono dimostrati difficilmente applicabili e hanno avuto molte conseguenze negative. Il problema è trovare la giusta combinazione fra intervento pubblico e mercato. In America Latina, così come in altre parti del mondo, è proprio questa la sfida da affrontare in futuro. Ma il libero mercato, o per meglio dire quello che potremmo definire il fondamentalismo del libero mercato, deve sparire. Per essere sincero spero proprio che la depressione economica attua-

le e la paura del terrorismo internazionale servano a indebolire questa forma di fondamentalismo. È ottimista sulla possibilità per l’America Latina di superare la Crisi?

Le mie speranze si basano sul fatto che depressioni di questo tipo sono già state superate in passato. Ma non posso certo

dichiararmi del tutto ottimista: temo che sarà una depressione difficile e lunga. Credo anche che avrà molti effetti negativi in campo politico in diverse regioni del mondo, fra cui l’America Latina. 99

Gli Stati Uniti peccano di ingenuità quando si considerano l’unica superpotenza capace di controllare e proteggere il mondo? Non credo che gli Stati Uniti siano ingenui quando pensano di essere l’unica superpotenza, visto che con il crollo dell'Unione Sovietica è scomparsa l’altra superpotenza che esisteva nel mondo. Credo piuttosto che siano ingenui quando pensano di poter controllare e proteggere il mondo da soli, senza l’aiuto di nessuno. Nella storia non è mai successo. Credo che nessuna potenza da sola possa fare niente del genere. Gli Stati Uniti, però, non sembrano essersene convinti.

Credono di potercela fare perché hanno adisposizione un arsenale tecnologico avanzatissimo. Allo stesso tempo gli Stati Uniti, rispetto al resto del mondo, sono relativamente piccoli: trecento milioni di persone su un totale di sei miliardi. Vale a dire solo il 5 per cento. Rispetto ad altri periodi della storia, oggi gli Stati Uniti rappresentano una piccola porzione dell'economia mondiale. In queste circostanze è difficile credere che possano dominare il mondo da soli, anche se il loro potere politico, militare ed economico è di gran lunga superiore a quello degli altri paesi. Credo che gli Stati Uniti debbano semplicemente abituarsi all'idea di vivere in un mondo formato da molti paesi differenti.

Di fronte al sistema unipolare difeso dagli Stati Uniti, altri paesi come l'India, la Cina, l'Iran e a volte anche la Russia tendo-

no a imporre un mondo multipolare. Quali sarebbero secondo lei le conseguenze? Non è tanto una questione di un mondo multipolare, ma di un mondo in cui si prendono in considerazione il potere e gli interessi degli altri paesi che — se presi singolarmente — non sono forti come gli Stati Uniti. E fatale sottovalutare gli altri: questa è la lezione più importante che gli Stati Uniti devono apprendere. 100

Forse le regole del gioco sono cambiate perché oggi, al contrario di quanto accadeva nella guerra fredda, non bisogna più lottare contro degli Stati ma contro fenomeni come il terrorismo internazionale, il narcotraffico, il riciclaggio di denaro sporco... Negli ultimi trenta o quarant'anni abbiamo assistito a un fenomeno importante. Sempre più spesso i conflitti nascono a

causa di problemi interni — disintegrazione di Stati, rivoluzioni, movimenti nazionalistici e addirittura il collasso del potere statale — e in questi conflitti intervengono potenze straniere, con gli Stati Uniti in testa.

?

È un fatto nuovo? Non credo che sia un fenomeno completamente nuovo, ma dopo la fine dell’Unione Sovietica è sempre più evidente che questa sarà la caratteristica predominante dei conflitti del Ventunesimo secolo. L'esistenza dell’Unione Sovietica e l’equilibrio tra le due superpotenze erano riusciti a contenere questa disintegrazione e a mantenere stabile la situazione internazionale.

Quali sono gli scenari che confermano la rottura definitiva di quella pace? Gli effetti del collasso dell’Unione Sovietica sono chiari in Africa centrale, dove attualmente è in corso una guerra nella Repubblica democratica del Congo. È un conflitto che rientra a perfezione tra quelli che ho appena descritto: sei o sette Stati africani hanno inviato i loro eserciti e stanno combattendo gli uni contro gli altri. Le Nazioni Unite stanno negoziando per porre fine al conflitto, ma non è affatto certo che ce la faranno. In ogni caso, non significa che l'egemonia di una sola potenza sia del tutto impossibile. Ma è più complicata, perché in genere le grandi potenze sono attrezzate per combattere contro altre grandi potenze, e non per fronteggiare rischi di altra natura. 101

È il problema che si trovano ad affrontare gli Stati Uniti dopo l'attacco alle Torri Gemelle dell11 settembre. Esattamente. Gli Stati Uniti non sono attrezzati per lottare contro dei nemici che non si possono definire, che non hanno un territorio.

Secondo lei, dopo l'11 settembre si è definito un nuovo assetto del mondo? Gli alleati e i nemici storici hanno cambiato di posto? In effetti c'è un nuovo assetto. Ma la vera differenza che sta venendo alla luce è quella tra un mondo in cui gli Stati, i paesi e i governi funzionano, e un mondo in cui questo non accade. Ci sono grandi regioni del mondo come l’Africa o l Afghanistan e persino una parte dei Balcani in cui, di fatto, non c’è un sistema di governo funzionante. È uno scenario nuovo: da una parte i paesi in cui esiste un

governo che più o meno riesce a controllare quanto accade nei propri confini, dall’altra le zone in cui non si può parlare di governo: aree dove regna o potrebbe regnare il caos. Molti degli Stati nati in quest’ultimo periodo in realtà non sono dei veri e propri Stati. Se per esempio analizziamo la situazione delle repubbliche dell’ex Unione Sovietica, ci sono zone come l'Ucraina, la Georgia o lArmenia che sono incapaci di gestire l'economia e gli affari in modo efficiente. Sono solo bande di gangster, leader tribali, gruppi che lottano fra loro per qualcosa che ha sì dei limiti chiari su una cartina, ma che non corrisponde a uno Stato vero e proprio, a differenza della Francia, dell'Argentina o del Messico. In America Latina forse possiamo trovare una situazione di questo genere in Colombia. Era possibile prevedere la globalizzazione del crimine come conseguenza logica del crollo del comunismo? Potevamo prevedere il crimine globalizzato. Non è solo il risultato del crollo del comunismo, ma è innanzi tutto l’effetto

dell'enorme quantità di armi a poco prezzo che si è riversata nel mondo. Armi che sono in un certo senso l’eredità della 102

guerra fredda, come si vede oggi in Afghanistan. Per quarant’anni i paesi più potenti hanno agito come se potesse

scoppiare una guerra mondiale da un momento all’altro. Ma dato che questo non accadeva, hanno cominciato a vendere le armi di minor valore a chiunque le volesse comprare. Oggi tutti possono avere delle armi molto potenti. Questo è un primo motivo. Il secondo motivo è la globalizzazione dell'economia, la nozione idealizzata di un libero

mercato che aiuta chiunque voglia operare a livello internazionale. Tranne, sfortunatamente, per quelli che vogliono emigrare: non c’è posto per loro nel libero mercato. Il terzo motivo è che l’esistenza dell’Unione Sovietica assicurava il controllo del crimine internazionale almeno all’interno della regione. Le grandi potenze, se vogliono, riescono a farlo bene. Al contrario i piccoli Stati latinoamericani o caraibici possono essere comprati senza alcun problema da bande internazionali private, fra cui quelle dei narcotrafficanti. Da questo punto di vista la globalizzazione del crimine non è che la conseguenza logica di una situazione che si è andata creando nell’ambito della struttura economica globale, e non è necessariamente imputabile al comunismo. L’11 settembre ha segnato l’inizio o la fine dell’impossibilità per la superpotenza statunitense di controllare e governare il mondo? No, al contrario. Gli attentati contro le Torri Gemelle hanno

permesso agli Stati Uniti di adottare importanti misure per rafforzare la loro egemonia. L’11 settembre, però, ha anche dimostrato che gli Stati Uniti non possono agire senza la collaborazione e l’aiuto di altri Stati, per quanto piccoli. Per esempio i bombardamenti in Afghanistan sono stati relativamente limitati, e questo lo si deve in primo luogo al fatto che i paesi vicini — tranne poche eccezioni — hanno rifiutato agli Stati Uniti l’uso delle piste di atterraggio. Da qui il bisogno degli Stati Uniti di confermare la loro potenza schiacciante servendosi dell’appoggio degli alleati. 103

In seguito al crollo dell’Unione Sovietica, le società asiatiche e musulmane (e non solo quelle) hanno aumentato il loro potere. È un processo più evidente dopo l’11 settembre? Credo che la civiltà occidentale continui a dominare il mondo sul versante della tecnologia. Tuttavia non si può dire lo stesso delle istituzioni politiche occidentali. Quando Francis Fukuyama parlava di «fine della storia» pensava che il capitalismo occidentale sul modello statunitense e la democrazia liberale si sarebbero affermati nel futuro come la forma prevalente di governo. Credo che Fukuyama avesse torto, anche se molto probabilmente in tutti i paesi democratici continueranno a svolgersi delle elezioni. Il problema del fondamentalismo islamico o di qualsiasi altro tipo di fondamentalismo è un altro, più specifico. E un problema drammatico, se pensiamo all’efficienza di un’organizzazione internazionale come al-Qaeda, ma deve essere trattato come caso singolo e non come problema della civiltà islamica in generale. Penso che ci sarà una forte reazione contro ivalori del liberalismo e del razionalismo. Lo stiamo vedendo in Occidente e anche in Asia. E questo a mio parere è un grave pericolo. È il peri. colo che corrono paesi come l'India, in cui per cinquant’anni i padri dell’indipendenza nazionale hanno compiuto un grande sforzo per arrivare a una società secolarizzata, razionale e tollerante in cui potessero convivetfe religioni e popoli diversi. In questo momento la società indiana è minata da una forma di nazionalismo indù. Ed esistono movimenti simili in molti altri paesi. Si tratta di un attacco ai valori della ragione piuttosto che di una forma specifica di fondamentalismo religioso. E credo che questo oggi sia un problema con cui deve fare i conti tutto il mondo. La situazione attuale in Afghanistan, dove le varie fazioni tribali lottano per il potere, dimostra che gli Stati Uniti non possono imporsi in un mondo a loro sconosciuto? È difficile sapere cosa accadrà in Afghanistan. Sappiamo bene, però, cosa è successo più volte in passato. L’Afghani104

stan fa parte di una regione molto studiata dagli etnografi e dagli antropologi, e la sua caratteristica principale è di essere refrattaria a qualsiasi tipo di governo. È quella che gli antropologi definiscono una società acefala: una società senza governanti, basata sulla divisione tribale o su clan autonomi,

Gli afghani si sono sempre opposti a qualsiasi forma di governo centrale, sia che fosse espressione di poteri locali sia che fosse imposto dall’esterno. Per questo l'Afghanistan è da sempre una zona contesa tra l'Iran, l'Unione Sovietica, l’im-

pero britannico — e in seguito il Pakistan — che è stata abbandonata a se stessa. Pensare che possa diventare una fiorente società occidentalizzata è un’utopia.

Il punto è sapere semplicemente se è possibile o meno stabilire un qualche tipo di governo moderatamente federale. Qualcosa di simile ad alcuni governi latinoamericani del Diciannovesimo secolo e che sostituisca i clan, le tribù e i gruppi familiari. In altre parole bisognerebbe vedere chi uscirà vincitore dal lungo conflitto che tormenta l’Afghanistan ormai da vent'anni: le persone che vogliono una modernizzazione graduale della società, anche nell’atteggiamento verso le donne, o quelli che non vogliono abbandonare le tradizioni. È ancora convinto del fatto che la risposta militare in Afghanistan non sia stata efficace? Credo semplicemente che sia stata una decisione irrilevante.

È senza dubbio un bene che i talebani non siano più al governo in Afghanistan. Ma se il problema è quello di liquidare o almeno controllare il tipo di organizzazione terroristica internazionale responsabile degli attacchi dell'11 settembre, allora si tratta di un lavoro più a lungo termine, di certo non paragonabile a una guerra tra Stati nazionali. La guerra contro il terrorismo non è una guerra nel senso in cui la intendevamo nel Ventesimo secolo. 105

Sono in molti a credere che 11 settembre sia da considerarsi il vero inizio del Ventunesimo secolo. Lei è d'accordo? Credo che gli storici cercheranno sempre delle date, come il 1914, per ricordare con maggiore facilità l’inizio e la fine di un periodo. Probabilmente l 11 settembre è davvero da considerarsi come l’inizio del Ventunesimo secolo, ma non per-

ché ciò che è successo sia stato particolarmente importante. E vero, molte persone sono morte a New York e a Washington, ma questo non ha inciso sulla situazione strategica internazionale. In ogni caso ha dimostrato che il mondo è cambiato dai tempi della guerra fredda. È un po’ presto per dirlo con sicurezza, ma l'11 settembre potrebbe essere una buona data di inizio secolo.

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Introduzione

All’indomani degli attentati, negli Stati Uniti stampa e televisione, intellettuali e i cittadini tutti furono cortesemente invi-

tati (nessuna direttiva specifica, ovviamente) a collaborare con l Amministrazione nella lunga e difficile guerra contro il terrorismo, «il cancro diffuso dai barbari», chiedendo, in buona

sostanza, di sospendere qualsiasi atteggiamento critico nei confronti dei mirabolanti successi di Fbi e Cia nell’identificare i colpevoli degli attentati dopo poche ore e sulla necessità di indire una «crociata» contro l'Impero del Male, più tardi declassato ad Axzs of Evil. In questo clima, hanno un particolare valore, non solo intellettuale ma anche morale, quelle voci che si sono alzate contro la sconcertante uniformità di tutti imezzi d'informazione, che mirava a costruire un consenso di so-

vietica memoria e a fomentare un patriottismo che sconfina e si colora ogni giorno di più di puro sciovinismo. Noam Chomsky ci ricorda che il fervore con cui gli Usa chiamano alla guerra contro il terrorismo era molto meno ardente nel 1987, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione contro il terrorismo che ebbe il voto contrario, oltre che di Israele, proprio degli stessi Stati Uniti, il

cui rifiuto era giustificato dalla presenza di un paragrafo, in cui si precisava che, con tale risoluzione, «non si intendeva rimet-

tere in discussione il diritto dei popoli a lottare contro un regime colonialista o contro una occupazione militare». Gli altri autori ci spiegano come il diritto internazionale, negli ultimi decenni, sia stato vilipeso o semplicemente ignorato, a seconda degli interessi in gioco, e soprattutto a coloro 109

che conducono il gioco. E non dovremmo essere molto lontani dal vero, affermando che il centro e l'elemento primo degli interessi degli Stati Uniti sia stato e sia tuttora il petrolio e il controllo dei maggiori giacimenti. Più che una guerra di religione o per la «civiltà», quella afghana sembra essere una santa guerra per il petrolio, dato che il controllo di quel nodo strategico che è l Afghanistan può permettere la creazione di un nuovo equilibrio e di nuovi rapporti sia con l'Arabia Saudita, sia con le ex repubbliche sovietiche. La normalizzazione di tutta l’aria dell'Asia centrale è un elemento fondamentale perché si possa portare a compimento il progetto di grandi oleodotti, ideati sin dai primi anni Novanta, in cui la com-

pagnia statunitense Unocal ebbe un ruolo di primo piano, insieme alla saudita Delta Oil e alla russa Gazprom. In questo scenario chiedersi «chi è Osama bin Laden?» può essere davvero utile per una comprensione non superficiale del fenomeno terrorismo e della guerra che vorrebbe estirparlo.

Terrorismo, l’arma dei potenti di Noam Chomsky*

Dobbiamo partire da due postulati. Primo, che gli avvenimenti dell’11 settembre costituiscono una atrocità spaventosa, probabilmente la maggiore perdita simultanea di vite umane della storia, guerre escluse. Il secondo postulato è che dovremmo porci l’obiettivo di ridurre il rischio che possano ripetersi tali attentati, siano essi rivolti contro di noi o contro altri. Se non accettate questi due punti di partenza, tutto quello che segue non vi riguarda; se invece li accettate, si pongono molti altri problemi. Cominciamo dalla situazione in Afghanistan. In tale paese vi sarebbero milioni di persone minacciate dalla carestia. Questo era già vero prima degli attentati: sopravvivevano soprattutto grazie all’aiuto internazionale. Ma, il 16 settembre, gli Stati Uniti hanno imposto al Pakistan di sospendere iconvogli di automezzi che portavano cibo e altri generi di prima necessità alla popolazione afghana. Tale decisione non ha provocato alcuna reazione in Occidente e il ritiro di personale umanitario ha reso ancora più problematica l’assistenza della popolazione. Una settimana dopol’inizio dei bombardamenti, le Nazioni Unite ritenevano che

l’avvicinarsi dell'inverno avrebbe reso impossibile l'invio di cibo, già ridotto al lumicino dai raid dell’aviazione americana. Quando alcune organizzazioni umanitarie civili o religiose e lo stesso portavoce della Fao hanno chiesto una sospen* Questo testo è tratto da una conferenza svoltasi al Mit il 18 ottobre

2001; è stato pubblicato su «Le monde diplomatique»/«Il Manifesto», dicembre 2001; traduzione a cura della rivista. 111

sione dei bombardamenti, tale notizia non è stata neppure riferita dal «New York Times»; il «Boston Globe» se l'è cava-

ta con appena una riga, ma all’interno di un articolo dedicato a un altro argomento, cioè alla situazione nel Kashmir. Nell’ottobre scorso, la civiltà occidentale si era rassegnata al rischio di veder morire centinaia di migliaia di afghani. Nello stesso momento, il leader di tale civiltà faceva sapere che

non si sarebbe degnato di rispondere alle proposte afghane di negoziare sulla questione della consegna di Osama bin Laden, né sulla richiesta di una prova su cui fondare una possibile decisione di estradizione. Avrebbe accettato soltanto una capitolazione senza condizioni. : Ma torniamo all’ 11 settembre. Nessun crimine, nulla ha fatto più morti nella storia — o soltanto su tempi molto più lunghi. Peraltro, questa volta le armi hanno puntato su un bersaglio insolito: gli Stati Uniti. L’analogia così spesso evocata con Pearl Harbor non è appropriata. Nel 1941 l’aviazio-

ne nipponica ha bombardato alcune basi militari in una colonia di cui gli Stati Uniti si erano impadroniti in condizioni poco raccomandabili; i giapponesi non avevano attaccato direttamente il territorio americano.

In questi ultimi due secoli, noi americani abbiamo scacciato o sterminato popolaziorri di indios — milioni di persone —, conquistato la metà del Messico, saccheggiato le regioni dei Caraibi e dell’America centrale, invaso Haiti e le Filippine, uccidendo in quest’ultima occasione anche 100.000 filippini. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo esteso il nostro dominio sul mondo nella maniera ben nota. Ma quasi sempre eravamo noi a uccidere e il combattimento avveniva al di fuori del nostro territorio nazionale. Ma, come si ha modo di constatare quando ci fanno domande, ad esempio, sull’Ira e sul terrorismo, le domande dei

giornalisti sono molto diverse, a seconda che riguardino una sponda o l’altra del mare d'Irlanda. In generale, il pianeta appare sotto tutt’altra luce a seconda che si impugni da molto 112

tempo la frusta o che si sia abituati a subirne i colpi nel corso dei secoli. Forse è per questo, in fondo, che il resto del mondo, pur dimostrando un orrore senza eccezioni di fronte

alla sorte delle vittime dell’11 settembre, non ha reagito come abbiamo reagito noi agli attentati di New York e di Washington. Per comprendere gli avvenimenti dell’11 settembre, oc-

corre operare una distinzione fra gli esecutori del crimine e l’area diffusa di comprensione di cui ha goduto tale crimine, anche fra i suoi oppositori. Gli esecutori? Supponendo che si tratti della rete di Bin Laden, nessuno conosce la genesi di questo gruppo fondamentalista meglio della Cia e dei suoi accoliti, che ne hanno tanto incoraggiato la nascita. Zbigniew Brzezinski, segretario alla Sicurezza nazionale dell’amministrazione Carter, si è ad-

dirittura felicitato della «trappola» tesa ai sovietici nel 1978, manovrando gli attacchi dei mujahiddin (organizzati, armati e addestrati dalla Cia) contro il regime di Kabul: una manovra che ha spinto alla fine dell’anno successivo i sovietici a invadere il territorio afghano. Solo dopo il 1990 e dopo l’installazione di basi americane permanenti in Arabia Saudita,

su una terra sacra all’Islam, questi combattenti sono diventati nemici degli Stati Uniti. Adesso, se si vuole spiegare la simpatia diffusa di cui godono le reti di Bin Laden, anche fra le classi dominanti dei

paesi del Sud del mondo, occorre considerare innanzi tutto la collera che suscita l'appoggio degli Stati Uniti a regimi autoritari o dittatoriali di ogni sorta; occorre ricordarsi della politica americana che ha distrutto la società irachena consolidando nel contempo il regime di Saddam Hussein; occorre non dimenticare l'appoggio costante di Washington all’occupazione israeliana dei territori palestinesi dal 1967 a oggi. Nel momento in cui gli editoriali del «New York Times» lasciano intendere che «loro» ci detestano perché noi difendiamo il capitalismo, la democrazia, i diritti umani, la sepa-

razione fra Stato e Chiesa, il «Wall Street Journal», meglio 113

informato, dopo aver parlato con banchieri e alti dirigenti non occidentali ci spiega che «ci» detestano perché abbiamo ostacolato la democrazia e lo sviluppo economico — e appoggiato regimi brutali, o addirittura terroristici. Fra le alte sfere dell'Occidente, la guerra contro il terrorismo è stata equiparata a una «lotta contro un cancro diffuso dai barbari». Ma queste parole e questa priorità sono tutt'altro che nuove; ne parlavano già vent'anni fa il presidente Ronald Reagan e il suo segretario di Stato Alexander Haig. E per combattere i nemici depravati della civiltà, all’epoca il governo americano organizzò una rete terroristica internazionale di dimensioni senza precedenti. E, se tale rete commise atrocità innumerevoli da un capo all’altro del pianeta, il massimo impegno venne dedicato all’ America Latina. Il diritto internazionale è debole. Un caso, quello del Nicaragua, è incontestabile: e infatti è stato risolto dalla Corte

internazionale di giustizia dell'Aja Chiedetevi pure quante volte questo le di un’azione terroristica a cui uno to rispondere con i mezzi del diritto

e dalle Nazioni Unite. precedente indiscutibiStato di diritto ha volusia stato richiamato dai

commentatori più in voga. Eppure, si trattava di un prece-

dente ancora più estremo degli attentati dell’11 settembre: la guerra dell’amministrazione Reagan contro il Nicaragua ha provocato 57.000 vittime, fra cui 29.000 morti (gli altri sono

feriti o mutilati), e la rovina di un intero paese, forse in maniera irreversibile. All'epoca, il Nicaragua aveva reagito. Non facendo esplodere bombe a Washington, bensì appellandosi alla Corte internazionale di giustizia. E la Corte decise, il 27 giugno 1986, dando ragione alle autorità di Managua. Condannò «l’uso illegale della forza» da parte degli Stati Uniti (che avevano minato i porti del Nicaragua) e ingiunse a Washington di porre fine al crimine, senza dimenticare di pagare danni e interessi rilevanti. Gli Stati Uniti replicarono che non si sarebbero piegati a tale giudizio 114

e che non avrebbero più riconosciuto la giurisdizione della Gorte!

Allora il Nicaragua chiese al Consiglio di Sicurezza dell’Onu l'adozione di una risoluzione secondo cui tutti gli Stati erano tenuti a rispettare il diritto internazionale. Non si citava nessuno Stato in particolare, ma il messaggio era evidente. Gli Stati Uniti esercitarono il loro diritto di veto contro questa risoluzione. A tutt'oggi sono quindi l’unico Stato condannato dalla Corte internazionale di giustizia che nel contempo si sia opposto a una risoluzione che chiedeva il rispetto del diritto internazionale. Dopo di che, il Nicaragua si rivolse all’Assemblea generale dell'Onu. La risoluzione proposta ottenne soltanto tre voti negativi: quelli degli Stati Uniti, di Israele e del Salvador. L’anno successivo il Nicaragua chiese nuovamente di votare sulla stessa risoluzione. Stavolta, soltanto Israele appoggiò la causa dell’amministrazione Reagan. Arrivato a questo punto, il Nicaragua aveva esaurito tutti i mezzi giuridici a sua disposizione, e tutti erano falliti,

in un mondo dominato dalla forza. Questo precedente non lascia adito a dubbi. Quante volte se n’è parlato, all’università, sui giornali? Si tratta di una vicenda per molti aspetti rivelatrice. Innanzi tutto rivela che il terrorismo funziona. E anche la violenza. In secondo luogo che ci si sbaglia a considerare il terrorismo uno strumento dei deboli. Come la maggior parte delle armi di morte, il terrorismo è soprattutto l’arma dei potenti; quando si sostiene il contrario, ciò avviene unicamente

perché i potenti controllano anche gli apparati ideologici e culturali che consentono di far passare il terrore per qualcosa di diverso. Uno dei mezzi più correnti di cui dispongono per ottenere tale risultato consiste nel far scomparire la memoria degli avvenimenti di disturbo; in tal modo, nessuno se ne ricorda. Del resto, la potenza della propaganda e delle dottrine americane è talmente grande da imporsi alle sue stesse vittime. Andate in Argentina, e vedrete che dovrete essere voi a 115

rievocare certi fatti. Allora vi diranno: «Ah, sì, ma lo avevamo dimenticato!». Nicaragua, Haiti e Guatemala sono i tre paesi più poveri

dell'America Latina. Figurano anche tra i paesi in cui gli Stati Uniti sono intervenuti ran reslitari, il che non è necessariamente una coincidenza fortuita.

Tutto ciò avvenne in un clima ideologico contrassegnato dai proclami entusiasti degli intellettuali occidentali. Qualche anno fa, l’autocompiacimento faceva furore: fine della storia, nuovo ordine mondiale, Stato di diritto, ingerenza

umanitaria e via dicendo. Era moneta corrente, proprio mentre lasciavamo che si commettessero atrocità innumerevoli.

Anzi, peggio, davamo un nostro contributo attivo. Ma chi ne parlava? Una delle più grandi conquiste della civiltà occidentale consiste forse nel rendere possibile questo tipo di incongruenza in una società libera. Uno Stato totalitario è privo di questo dono. Che cosa è il terrorismo? Nei manuali militari americani,

si definisce terrore l’uso calcolato a fini politici o religiosi della violenza, della minaccia di violenza, dell’intimidazione,

della coercizione o della paura. Il problema di una simile definizione è che essa coincide abbastanza precisamente con quello che gli Stati Uniti hanno definito guerra di bassa intensità, rivendicando questo genere di attività. D'altronde, nel dicembre 1987, allorché l'Assemblea ge-

nerale dell’Onu ha adottato una risoluzione contro il terrorismo, c'è stata una sola astensione, quella dell'Honduras, e

due voti contrari, quelli di Israele e degli Stati Uniti. Perché lo hanno fatto? A causa di un paragrafo della risoluzione che precisava che non si intendeva rimettere in discussione il diritto dei popoli a lottare contro un regime colonialista o contro una occupazione militare. Orbene, all’epoca il Sudafrica era alleato degli Stati Uniti. Oltre agli attacchi contro i paesi limitrofi (Namibia, Angola, ecc.) che hanno provocato centinaia di migliaia di morti e 116

causato danni nell’ordine di 60 miliardi di dollari, il regime dell'apartheid di Pretoria doveva affrontare all’interno del paese una forza definita «terrorista»: lAfrican National Congress (Anc). Quanto a Israele, occupava illegalmente alcuni territori palestinesi fin dal 1967, altri in Libano fin dal 1978,

guerreggiando nel Sud del Libano contro una forza che Israele stesso e gli Stati Uniti tacciavano di «terrorismo»: gli Hezbollah. Nelle analisi abituali del terrorismo, questo tipo di informazione o di richiamo non è frequente; affinché le analisi e gli articoli dei giornali siano ritenuti rispettabili, conviene in realtà schierarsi dalla parte giusta, ossia dalla parte di chi dispone delle armi più potenti. Gli inglesi non distruggono Boston. Negli anni Novanta i peggiori attacchi contro i diritti umani sono stati riscontrati in Colombia. Tale paese è stato il principale destinatario dell’aiuto militare americano, a eccezione di Israele e dell'Egitto, che costituiscono due casi a sé. Fino al 1999, il primo posto spettava alla Turchia, a cui gli Stati Uniti hanno consegnato una quantità crescente di armi fin dal 1984. Perché proprio quell’anno? Non perché questo paese, membro della Nato, dovesse affrontarel’Unione Sovietica, già allora in fase di disfacimento, ma af-

finché potesse portare avanti la guerra terroristica che aveva iniziato contro i curdi. Nel 1997, l’aiuto militare americano al-

la Turchia ha superato quello che il paese aveva ottenuto negli anni dal 1950 al 1983, cioè il periodo della guerra fredda. Risultato delle operazioni militari: da 2 a 3 milioni di rifugiati, decine di migliaia di vittime, 350 città e villaggi distrutti. Man mano che la repressione si intensificava, gli Stati Uniti continuavano a fornire quasi l'80% delle armi utilizzate dai militari turchi, accelerando addirittura il ritmo delle consegne. La tendenza si è ribaltata nel 1999, allorché il terrore mi-

litare — naturalmente denominato «controterrorismo» dalle autorità di Ankara — aveva conseguito i suoi obiettivi. Succede quasi sempre così quando il terrore è gestito dai suoi principali utilizzatori, cioè dalle forze al potere. 117

Nel caso della Turchia, gli Stati Uniti hanno trovato un paesetutt’altro che ingrato. Washington le aveva dato gli F-16 per bombardare la sua popolazione e la Turchia li ha utilizzati nel 1999 per bombardare la Serbia. Poi, pochi giorni dopo l'11 settembre, il primo ministro turco Bulent Ecevit ha fatto sapere che il suo paese avrebbe partecipato con entusiasmo alla coalizione americana contro la rete di Bin Laden. In tale occasione, il primo ministro spiegò che la Turchia aveva un debito di gratitudine nei confronti degli Stati Uniti, che risaliva alla sua «guerra contro il terrorismo» e all’appoggio incondizionato che era stato assicurato da Washington. Certo, anche altri paesi avevano sostenuto la guerra di Ankara contro i curdi, ma nessuno con zelo ed efficacia pa-

ragonabili a quelli degli Stati Uniti. L’appoggio dei turchi ha goduto del silenzio, e forse è più giusto dire del servilismo,

degli ambienti colti americani, che non potevano certo ignorare le vicende in corso. Gli Stati Uniti dopo tutto sono un paese libero e i rapporti delle organizzazioni umanitarie sulla situazione in Kurdistan erano di dominio pubblico. All’epoca, quindi, abbiamo deciso di dare il nostro contributo alle atrocità. La nostra coalizione contro il terrorismo comprende altre reclute di prima scelta. Il «Christian Science Monitor», probabilmente uno dei migliori giornali di attualità internazionale, ha rivelato che alcuni popoli che non amavano affatto gli Stati Uniti cominciavano a rispettarli di più, particolarmente felici di vederli alla testa di una guerra contro il terrorismo. Il giornalista, che peraltro era uno specialista dell’ Africa, citava come esempio simbolo di questa svolta il caso deli’ Algeria. Eppure, doveva sapere che l’Algeria conduce una guerra terroristica contro il suo stesso popolo. Altri due paesi che hanno abbracciato la causa americana sono la Russia, che porta avanti una guerra terroristica in Cecenia, e la Cina, autrice di una serie di atrocità contro quelli che definisce i secessionisti musulmani. E sia: ma che fare nella situazione attuale? Un radicale estremista come il papa suggerisce di ricercare i colpevoli del 118

crimine dell’11 settembre per sottoporli a giudizio. Ma gli Stati Uniti non desiderano ricorrere alle forme giudiziarie normali, preferiscono non dover addurre alcuna prova, e si oppongono all'esistenza di una giurisdizione internazionale. Anzi, quando Haiti chiede l’estradizione di Emmanuel Constant, giudicato responsabile della morte di migliaia di persone dopo il colpo di Stato che ha rovesciato il presidente Jean-Bertrand Aristide il 30 settembre 1991, e presenta pro-

ve della sua colpevolezza, la richiesta non sortisce alcun effetto a Washington, e non suscita alcun dibattito. ‘ Per lottare contro il terrorismo è necessario ridurre il livello del terrore,

e non aumentarlo. Allorché l’esercito re-

pubblicano irlandese (Ira) commette un attentato a Londra, gli inglesi non distruggono né Boston, città in cui l’Ira conta numerosi sostenitori, né Belfast.

Cercano i colpevoli, e poi li giudicano. Un mezzo per ridurre il livello del terrore consisterebbe nel cessare di contribuirvi noi stessi. Per poi riflettere sugli orientamenti politici che hanno creato un’area diffusa di appoggio, di cui hanno poi approfittato i mandanti dell’attentato. In queste ultime settimane, la presa di coscienza dell’opinione pubblica americana sulle realtà internazionali di ogni sorta, di cui prima solo le élites sospettavano l’esistenza, costituisce forse un passo avanti in questa direzione.

Dite quel che vi pare, ma questa guerra è illegale di Michael Mandel*

Uno dei tanti segreti della guerra angloamericana in Afghanistan è che si tratta di un conflitto palesemente illegale, in quanto trasgredisce le norme del diritto internazionale e i termini della Carta delle Nazioni Unite. Nonostante l’insistente riferimento .al diritto di autodifesa, sancito dall’articolo 51, la Carta non è applicabile in questa circostanza. L'articolo 51 riconosce a una nazione, come

misura temporanea, il diritto di respingere un attacco imminente o in corso fino a che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu non prenda i provvedimenti necessari a ristabilire la pace e la sicurezza internazionali.

Il Consiglio di Sicurezza ha già approvato due risoluzioni che condannano gli attentati dell11 settembre e ha annunciato una serie di misure per la lotta al terrorismo. Esse includono provvedimenti destinati alla soppressione legale del terrorismo e di chi lo sovvenziona, nonché misure per la cooperazione tra Stati in materia di sicurezza, intelligence, inda-

gini penali, e norme legate al terrorismo. Il Consiglio ha istituito una commissione di controllo sulla messa in atto dei provvedimenti, assegnando ai diversi paesi 90 giorni di tempo per riferire sulle misure adottate. Nessuna delle due risoluzioni accenna lontanamente all’uso della forza militare. E vero che entrambe «stabiliscono», nella prefazione, un intrinseco diritto all’autodifesa, ma

«in conformità con la Carta». Non affermano che l’interven* Edito in «Globe and Mail», 9 ottobre 2001. Traduzione di Federica Matteoni.

120

to militare contro l’Afghanistan sia da considerarsi un atto di legittima difesa, non potrebbero affermarlo, perché il diritto all’autodifesa unilaterale non contempla la reazione dopo che un attacco si sia concluso. La legittima difesa in diritto internazionale ha lo stesso valore che possiede per le nostre legislazioni: riconosce il diritto a difendersi in assenza della legge, ma non autorizza a sostituirsi a essa.

Poiché gli Stati Uniti e l'Inghilterra hanno lanciato un’offensiva senza alcuna esplicita autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, i morti che essa provocherà saranno vittime di un crimine contro l’umanità, esattamente come i morti degli attentati dell'11 settembre. Persino al Consiglio di Sicurezza è consentito l’uso della forza solo quando essa «sia necessaria a mantenere e ripristinare

la pace ela sicurezza internazionali». Dev’essere chiaro chel’intervento militare contro l'Afghanistan non ha niente a che fare con la prevenzione del terrorismo, e anzi è molto più probabile che tale azione lo fomenti. Anche l’amministrazione Bush riconosce che, per combattere realmente il terrorismo, si dovranno elaborare soluzioni alungo termine, che prevedano una fusione tra maggiori misure di sicurezza, lavoro d’intelligence e ripensamento delle alleanze internazionali americane. Gli oppositori di Bush sostengono che una lotta effettiva al terrorismo deve partire da una rivalutazione del modo in cui Washington gestisce le proprie relazioni internazionali. Per esempio il modo in cui ha favorito la violenza per il proprio immediato vantaggio, appoggiando i talebani in Afghanistan dieci anni fa, oppure in Iraq, dove ha sostenuto Saddam Hussein control’Iran e prima ancora in Iran, quando appoggiava lo Scià. L’azione contro l’Afghanistan è un atto di vendetta, compiuto per dimostrare che gli americani sono i veri duri. Sta mettendo in ginocchio un popolo che ha molto meno controllo sul proprio governo di quanto non ne avessero le povere vittime dell’11 settembre. Il risultato sarà la morte di molti civili,

sia peribombardamenti sia per l'interruzione degli aiuti, in un za

paese dove milioni sono già le persone a rischio. Le 37.000 razioni lanciate domenica [18 novembre 2001] sono state pura propaganda, così come i presunti attacchi di precisione «chirurgica» e le smentite sulla morte di civili. Questi attacchi li abbiamo già visti in Kosovo, dove furono seguiti dalle tiepide scuse per gli incidenti che avevano ucciso degli innocenti. Si è parlato molto dei cambiamenti avvenuti dall’11 settembre, ma una cosa non è cambiata: l’inosservanza america-

na delle norme di diritto internazionale. Sia ibombardamenti sull’Iraq, durati un decennio, sia quelli del ’99 sulla Jugoslavia erano atti illegali. Gli Stati Uniti non riconoscono nemmeno l’autorità della Corte internazionale, da cui si ritiraro-

no nel 1986, quando il tribunale condannò Washington per aver attaccato il Nicaragua, minato i suoi porti e finanziato i contras. In quell’occasione il tribunale rifiutò l’obiezione secondo cui gli Stati Uniti avrebbero agito, avvalendosi dell’articolo 51, in difesa dei paesi vicini al Nicaragua. Per parte sua il Canada non può, in questa totale assenza di legalità, sottrarsi alla complicità appellandosi alla clausola di «solidarietà» della Nato, poiché tale clausola è esplicitamen-

te subordinata alla Carta delle Nazioni Unite. Vi chiederete se la questione della legalità sia così importante in casi come questo. Potete scommetterci. Senza legge non c'è limite alla violenza internazionale, c’è solo la forza, la

spietatezza e l’astuzia degli usurpatori. Senza la legittimità internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ipopoli del mondo sono tagliati fuori da questioni di interesse vitale. Quanto succederà in futuro potrebbe mettere in pericolo tutti noi. Bisogna insistere affinché Washington risponda della necessità, della razionalità e delle dimensioni di questa guerra davanti alla comunità internazionale. I bombardamenti sull’ Afghanistan sono l'equivalente morale di quanto gli americani hanno subìto 1 11 settembre. Potremmo arrivare a dover ricordare quel giorno non per la tragedia umana che ha significato, ma per l’inizio della caduta libera in un mondo violento e senza più legge. 122

Chi è Osama bin Laden? di Michel Chossudovsky*

Alcune ore dopo gli attentati dell’11 settembre al World Trade Center e al Pentagono l’amministrazione Bush stabilisce, senza prove alla mano, che Osama bin Laden e la sua organizzazione, al-Qaeda, siano i sospetti più probabili. Il capo della Cia, George Tenet, dichiara che Bin Laden «è in grado di pianificare diversi attacchi senza preavviso». Il segretario di Stato Colin Powell definisce gli attentati a Washington e New York una «dichiarazione di guerra», giudizio che Bush conferma la sera stessa nel suo discorso alla nazione, affermando

che «non si farà alcuna distinzione tra i terroristi che hanno compiuto tale atto e chi li ha spalleggiati». James Woolse, ex capo della Cia, ipotizza la complicità di uno o più governi stranieri, mentre l'ex consigliere per la Sicurezza nazionale, Lawrence Eagleberger, dichiara in un'intervista televisiva: «Dopo un attacco del genere, il nostro castigo sarà terribile e spietato» (we are terrible in our strength and in our retribution). In seguito alle dichiarazioni ufficiali, i mass media occidentali (senza prove alla mano) non tardano ad apprezzare lo scatenarsi di interventi punitivi contro bersagli civili in Medio Oriente e in Asia centrale. Scrive a tale proposito William Saffire sul «New York Times»: «Quando avremo localizzato

le basi e i campi dei nostri attentatori dovremo annientarli, minimizzando i rischi di danni collaterali, ma comunque pronti ad accettarne qualcuno. Dovremo compiere operazio* Edito in «L’Aut’journal», Montreal, ottobre 2001. Traduzione di Federica Matteoni.

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ni militari dirette, ma anche agire tramite i nostri servizi segreti, al fine di destabilizzare gli Stati che ospitano il terrore». Il testo che segue si propone di analizzare la storia di Bin Laden e dei legami tra il jihad islamico e la politica estera degli Stati Uniti dopo la guerra fredda. I primi sospetti per gli attentati di New York e Washington sono ricaduti sul saudita Osama bin Laden, già indicato dall’Fbi come «terrorista internazionale» per il suo presunto ruolo nei bombardamenti alle ambasciate americane in Africa. Ironia della sorte, Bin Laden fu reclutato dalla

Cia per combattere i sovietici durante la guerra afghana contro l’Urss!. Nel 1979 fu lanciata la «più grande operazione segreta della storia della Cia», in risposta all’invasione dell’ Afghanistan da parte dei sovietici a sostegno del governo filo-comunista di Barak Kamal?. Su viva sollecitazione della Cia e dei servizi segreti pakistani, intenzionati a trasformare il jihad afghano in una grande guerra contro l’Urss, estesa a tutti i paesi musulmani, circa 35.000 integralisti musulmani provenienti da 40 paesi islamici si unirono alla lotta in Afghanistan tra il 1982 e il 1992, mentre altre decine di migliaia andarono a studiare nelle madrasa pakistane. In seguito, più di 100.000 integralisti musulmani subirono direttamente l’influenza del jihad afghano?. Il jihad islamico, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’ Arabia Saudita, era finanziato in gran parte dal traffico di droga nella mezzaluna fertile. Nel marzo del 1985, il presidente Reagan firmò il decreto numero

166 sulla sicurezza nazionale, che contemplava

! H. Davies, International: «Informers» Point the Finger at Bin Laden;

Washington on Alert for Suicide Bombers, in «The Daily Telegraph», 24 agosto 1998.

2 Cfr. F. Halliday, The Un-great Game: The Country that Lost the Cold War, Afghanistan, in «New Republic», 25 marzo 1996. } A. Rashid, The Taliban: Exporting Extremism, in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 1999. 124

un sostegno militare segreto ai mujahiddin. Tale iniziativa dimostra come lo scopo della guerra occulta condotta in Afghanistan fosse combattere le truppe sovietiche. Il contributo degli Stati Uniti consisteva in un incremento della fornitura annuale di armi (65.000 tonnellate nel 1987); nel-

la presenza continua di specialisti della Cia e del Pentagono presso il quartier generale dei servizi segreti pakistani, sulla rotta principale, nelle vicinanze di Rawalpindi, in Pakistan*. Mediante i servizi segreti pakistani, la Cia assunse un ruolo chiave nell’addestramento dei mujahiddin. A sua volta, la guerriglia spalleggiata dalla Cia fu integrata da una concezione dell'Islam fortemente ideologizzata, strategicamente centrata sull'idea che le truppe sovietiche dei miscredenti avevano profanato il sacro Islam e che il popolo afghano doveva riaffermare la propria indipendenza liberandosi del regime socialista afghano appoggiato da Mosca?.

La rete dei servizi segreti pakistani I servizi segreti pakistani (Inter Service Intelligence, Isi) furono utilizzati dalla Cia come «intermediari» per sostenere il jihad: la Cia non intervenne direttamente a sostegno dei mujahiddin. In altre parole, al fine di garantire il successo delle operazioni occulte, Washington ebbe l'accortezza di non svelare quale fosse il vero obiettivo del jihad, che consisteva nel distruggere l'Unione Sovietica. Secondo Milton Beardman della Cia, l'agenzia «non ha istruito gli arabi» a diventare tali. Tuttavia, secondo Abdel Monam Saidali, del Centro di Studi Strategici Al-Aram del Cairo, Bin Laden e «gli arabi afghani» avrebbero ricevuto per 4 S. Coll, in «Washington Post», 19 luglio 1992. > D. Hiro, Fallout from the Afghan Jihad, in «Inter Press Services», 21 novembre 1995.

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mezzo della Cia «un addestramento militare molto avanzato e specializzato in diversi campi d’applicazione»?. Beardman conferma però che Osama bin Laden non era consapevole del ruolo che egli ricopriva per Washington: «Né io [Bin Laden], né i miei fratelli avremmo potuto accettare un qualunque sostegno proveniente dall’ America». Spinti dal nazionalismo e dal fervore religioso, i combattenti islamici erano del tutto inconsapevoli di battersi contro l'Unione Sovietica per conto dello «zio Sam». Al momento in cui furono strette le alleanze con i più alti gradi dei servizi segreti, icomandanti islamici ribelli sul territorio non avevano alcun legame diretto con Washington o con la Cia. «Con il sostegno della Cia e l’aiuto militare americano, VIsi pakistana si trasformò rapidamente in una struttura parallela che aveva un potere enorme su tutti gli aspetti del governo»?8. Il personale dell’Isi era composto da militari, agenti segreti, burocrati, spie, informatori, per un totale di 150.000 persone?.

Nel frattempo le operazioni della Cia si rivolgevano anche a consolidare il regime militare del generale Zia ul-Haq in Pakistan. I rapporti tra la Cia e i servizi segreti pakistani migliorarono in seguito al colpo di Stato del generale Zia contro Bhutto, e all’instaurazione del regime militare. Durante gran parte della guerra in Afghanistan, il Pakistan fu ancor più antisovietico degli Stati Uniti. Poco dopo l'invasione dell’ Afghanistan da parte dei militari sovietici nel 1980, Zia dette ordine al capo della Isi di condurre azioni segrete che destabilizzassero le repubbliche sovietiche dell'Asia centrale. La Cia approvò il piano solo nel 1984, dimostrandosi ancor più pru© E. Weiner, T. Clark, in «Weekend Sunday (NPR)», 16 agosto 1998. 7 Ibid. 8 D. Banerjee, Possible Connection of ISI with Drug Industry, in «India Abroad», 2 dicembre 1994.

° Ibid.

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dente del Pakistan. Entrambi i paesi scelsero la doppiezza nel condurre azioni diplomatiche di facciata, mentre i servizi segreti (Cia e Isi) già concordavano sul fatto che l’escalation militare sarebbe stata la soluzione migliore!0.

La mezzaluna d’oro della droga La storia del traffico di droga in Asia centrale è intimamente legata alle attività della Cia. Prima del conflitto tra Urss e Afghanistan, la produzione locale di eroina era pressoché nulla!!. Uno studio di Alfred McCoy conferma a tale proposito che durante i primi anni delle operazioni della Cia in Afghanistan «dalla regione del confine afghano-pakistano proveniva gran parte dell’eroina destinata al mercato mondiale, e a coprire il 60% del consumo di eroina negli Stati Uniti. Il numero di eroinomani in Pakistan passò da quasi zero nel 1979 a 1,2 milioni nel 1985, un incremento enorme rispetto a quello conosciuto da ogni altro paese»!?. La Cia controllava indirettamente il traffico di eroina. Quando i mujahiddin ottennero il controllo di una parte del territorio afghano, la coltivazione dell’oppio fu imposta alla popolazione come tassa rivoluzionaria. Oltre confine, in Pakistan, i leader afghani e i gruppi d’affari locali coperti dai servizi segreti (Isi), misero in piedi centinaia di laboratori per la produzione dell’eroina. Durante questo decennio di libero traffico della droga, la US Drug Enforcement Agency a Islamabad non è stata in grado di effettuare arresti o sequestri di nessun genere. Le autorità statunitensi si sono rifiutate di in10 Cfr. D. Cordovez, S. Harrison, Out ofAfghanistan: The Inside Story of the Soviet Withdrawal, Oxford University Press, New York 1995. Cfr. anche il commento di Cordovez e Harrison, in «International Press Services», 22

agosto 1995. 11 A, McCoy, Drug Fallout: The CIA's Forty Year Complicity in the Narcotics Trade, in «The Progressive», 1° agosto 1997. 12 Ibid.

127

dagare sui loro alleati afghani accusati di implicazioni nel traffico, «poiché gli Stati Uniti subordinavano la lotta al narcotraffico in Afghanistan alla guerra contro l'Unione Sovietica». Nel 1995 Charles Cogan, capo delle operazioni della Cia in Afghanistan, riconobbe che la Cia stava sacrificando la lotta alla droga per dedicarsi alla guerra fredda. «La nostra missione principale era infliggere ai sovietici il maggior danno possibile. Non avevamo né il tempo né le risorse necessarie per indagare sul traffico di droga [...]. Non ci dobbiamo giustificare per questo. Ogni situazione ha i suoi inconvenienti. [...] Certo, c’è stato l'inconveniente del narcotraffico, ma ab-

biamo raggiunto il nostro obiettivo: i sovietici hanno lasciato lAfghanistan»!?.

Dopo la guerra fredda All'indomani della guerra fredda l’Asia centrale non è divenuta strategica solo per le sue riserve di petrolio: da lì provengono i tre quarti della produzione mondiale di oppio, un giro d’affari di diversi miliardi di dollari per migliaia di affaristi e istituzioni finanziarie e bancarie coinvolte nel riciclaggio di denaro sporco, per le agenzie di servizi segreti e il crimine organizzato. Il traffico-di droga nella mezzaluna d’oro frutta in un anno tra i 100 e i 200 miliardi di dollari, circa un

terzo del giro d’affari annuale del traffico mondiale della droga (eroina, cocaina ecc.), stimato dalle Nazioni Unite in circa

500 miliardi di dollari l’anno (senza tenere conto delle sue ripercussioni su altri settori di attività)!4.

: Tbrd. 14 D. Keh, Drug Money in a Changing World, Technical Document n° 4, UNcpd Wien 1998, p. 4; Report of the International Narcotics Control Board for 1999, E/INCB/!/1, United Nations Publication, Wien 1999, pp. 49-51; e Richard Lapper, UN Fears Growth of Heroine Trade, in «Financial

Times», 24 febbraio 2000.

128

Con la dissoluzione dell’Urss la produzione di oppio subì un incremento notevole. Secondo le stime delle Nazioni Unite la produzione in Afghanistan nel 1998-99 raggiunse il livello record di 4600 metri cubi, dati che coincidono con

l'evolversi dell’insurrezione armata nelle ex repubbliche sovietiche!?, I potenti gruppi d’affari dell’ex Unione Sovietica legati alla criminalità organizzata cominciarono a concorrere per il controllo strategico delle «vie dell'eroina». La vasta rete militare dei servizi segreti pakistani non fu smantellata all'indomani della guerra fredda. La Cia continuò anzi ad appoggiare il jihad islamico servendosi del Pakistan. Furono lanciate nuove operazioni segrete in Asia cen-

trale, nel Caucaso e nei Balcani. Sia l'apparato militare, sia i servizi segreti pakistani hanno assunto la funzione di «catalizzatori per la dissoluzione dell’Urss e la nascita di sei repubbliche musulmane in Asia centrale»!°. Parallelamente alle azioni sottobanco della Cia, alcuni

missionari islamici della setta Wahhabi dell’ Arabia Saudita si insediarono in queste repubbliche e all’interno della federazione russa, impadronendosi delle istituzioni e assoggettando la società civile. A dispetto del loro atteggiamento contro gli Emirati Arabi Uniti, le azioni del fondamentalismo islamico

hanno favorito gli interessi strategici di Washington nell'ex Unione Sovietica... La guerra civile afghana non cessò dopo il ritiro delle

truppe sovietiche nel 1989. I talebani erano fiancheggiati dai Deobandis pakistani e dal loro partito politico, il Jamiat ul Ulema e Islam (Jui), che nel 1993 entrò nella coalizione del primo ministro Benazir Bhutto e strinse alleanze con l’esercito e con i servizi segreti. Nel 1995, con la caduta del

governo Hzeb i Islami di Hekmatyar a Kabul, i talebani instaurarono un governo integralista islamico e «affidarono il 5 Report of the International Narcotics Control Board for 1999, E/INCB/!/1 cit., pp. 49-51; cfr. Lapper, UN Fears cit. té «International Press Services», 22 agosto 1995. IDRO

controllo dei campi d’addestramento afghani a frazioni del aa,

Il Jui, spalleggiato dal movimento Wahhabi, svolse un ruolo importante nel reclutare i mujahiddin per i Balcani e dentro l’ex Urss. Jane Defense Weekly conferma a tale proposito che «la metà degli uomini e dell’equipaggiamento dei talebani proviene dai servizi segreti pakistani»!8. Sembra infatti che, in seguito alla ritirata delle truppe sovietiche, i diversi gruppi armati della guerra civile atghana abbiano continuato a ricevere sovvenzioni sottobanco dalla Cia,

con la mediazione dei servizi segreti pakistani!?. In altre parole, la nazione islamica dei talebani, sostenuta

dall’Isi pakistana, a sua volta controllata dalla Cia, ha favorito in pieno gli interessi geopolitici di Washington. Il traffico di droga nella mezzaluna fertile ha inoltre finanziato ed equipaggiato sia l’esercito musulmano bosniaco, sia il fronte di liberazione del Kosovo (Uck) dall’inizio degli anni Novanta. Durante gli ultimi mesi mujahiddin mercenari hanno combattuto tra i ranghi terroristi dell’Uck nella guerra civile in Macedonia. E accertato che l’Uck non solo si appoggiava alla Nato, ma è anche in parte finanziata dalla missione delle Nazioni Unite in Kosovo. Questo spiega, senza ombra di equivoci, perché Washington abbia chiuso gli occhi sul regime di terrore imposto dai talebani, sulla loro violazione dei diritti delle donne, la chiu-

sura delle scuole femminili, il licenziamento delle impiegate dalla funzione pubblica e sull’imposizione della «legge penale della sharia»?0.

1? Rashid, The Taliban: Exporting Extremism cit., p. 22. !$ In «Christian Science Monitor», 3 settembre 1998. !9 T. McGirk, Kabul Learns to Live with Its Bearded Conquerors, in «The

Independent», 6 novembre 1996. 20 Cfr. Subrahmanyam, Pakistan is Pursuing Asian Goals, in «India Abroad», 3 novembre 1995.

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La guerra in Cecenia La formazione ideologica e militare dei capi ribelli ceceni, Shamil Basayev e Al Khattab, è avvenuta nei campi d’addestramento afghani e pakistani finanziati dalla Cia. Secondo Yossef Bodansky, capo della US Congress’ Task Force on Afghanistan and Unconventional Warfare, il conflitto ceceno fu pianificato durante un incontro segreto tenuto da Hib Allah nel 1996 a Mogadiscio, in Somalia?!, All’incontro parteciparono numerosi ufficiali dei servizi segreti iraniani‘e pakistani, era presente anche Osama bin Laden. Nella guerra civile in Cecenia l’Isi pakistana «ha fatto molto più che fornire armi ed esperti ai ceceni: i servizi segreti pakistani e i loro mandatari islamici fondamentalisti sono in realtà quelli che conducono questa guerra»??,

Il principale oleodotto russo attraversa la Cecenia e il Daghestan. Al di là della condanna formale del terrorismo islamico da parte di Washington, i beneficiari indiretti di questa guerra sono i colossi petroliferi angloamericani, che lottano per il controllo delle risorse e degli oleodotti del bacino del Mar Caspio. I due principali eserciti ribelli ceceni, guidati rispettivamente dal comandante Shamil Basayev e dall’emiro Al-Khattab e composti da circa 35.000 uomini, furono finanziati dai servizi segreti pakistani. L’Isi ha inoltre ricoperto un ruolo chiave nell’organizzazione e nell’addestramento dell'esercito ribelle ceceno: Nel 1994 i servizi segreti pakistani organizzarono per Basayev e per i suoi luogotenenti di fiducia un indottrinamento islamico intensivo e un addestramento alla guerriglia nella provincia di Khost, in Afghanistan. Esso si tenne presso il campo di Amir Muawia, istituito all’inizio degli anni Ottanta 21 L. Sevunts, Who's Calling the Shots? Chechen Conflict Finds Islamic Roots in Afghanistan and Pakistan, in «the Gazette», 26 ottobre 1999.

22. 131

dalla Cia e dai servizi segreti pakistani e diretto dal celebre signore della guerra, l’afghano Gulbuddin Hekmatyar. «Laureatosi» nel luglio del ’94 con Amir Muawia, Basayev fu trasferito al campo di Markaz i Dawar, in Pakistan, per intraprendere un addestramento in tattica avanzata di guerriglia. In Pakistan, Basayev conobbe i più alti ufficiali dell'esercito e dei servizi segreti: il ministro della Difesa, generale Aftab Shahban Mirani, il ministro dell’Interno, generale Naserullah

Babar, il capo dei servizi segreti, responsabile del sostegno dell’Isi alla causa islamica, generale Javed Asharaf (ora in pensione). Tali conoscenze eccellenti risultarono presto utili a Basayev??.

Dopo l’addestramento e l’indottrinamento, Basayev fu incaricato di condurre una campagna militare contro le truppe federali russe all’epoca della prima guerra cecena nel 1995. La sua organizzazione si era anche legata alla criminalità moscovita, al crimine organizzato albanese e all’Uck. Nel 19971998, secondo i servizi russi di sicurezza federale «i signori ceceni della guerra cominciarono a investire nel campo immobiliare in Kosovo [...] tramite la mediazione di diverse aziende immobiliari registrate in Jugoslavia per copertura»?4. L'organizzazione di Basayev fu inoltre implicata in un gran numero di traffici: in particolare, droga, sfruttamento illegale e sabotaggio dell’oleodotto russo, sequestri, prostituzione, traffico di dollari falsi e contrabbando di materiale nucleare?5. Con il riciclaggio del denaro della droga, i profitti di tali attività criminali furono utilizzati inoltre per finanziare il reclutamento di mercenari e l’acquisto di armi. Durante il suo addestramento in Afghanistan, Shamil Basayev conobbe il comandante veterano saudita mujahiddin Al-Khattab, che aveva 23 Ibid. 24 Cfr. V. Romanov, V. Yaduka, Chechen Front Moves to Kosovo Segodnia, Mosca, 23 febbraio 2000.

2 «The European», 13 febbraio 1997. Cfr. «Itar-Tass», 4-5 gennaio 2000.

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combattuto in Afghanistan. Alcuni mesi dopo il ritorno di Basayev a Grozny, all’inizio del 1995, Khattab fu invitato a formare un esercito stanziato in Cecenia per l’addestramento dei combattenti mujahiddin. Secondo la Bbc, il viaggio di Khattab in Cecenia fu «pianificato con l'appoggio della Islamic Relief Organization (Iro) saudita, che aveva mandato fondi alla Cecenia. L’Iro era finanziata sia dalle moschee che da ricchi personaggi [legati agli ambienti d’affari sauditi]»?%.

Conclusioni Dopo l'era della guerra fredda Washington ha deliberatamente sostenuto Osama bin Laden, inserendolo però nella lista delle «persone più ricercate dall’Fbi». Mentre i mujahiddin vengono coinvolti in insurrezioni armate per conto degli Stati Uniti nei Balcani e nell’ex Urss, Fbi ha portato gli Stati Uniti a condurre una guerra al terrorismo. Si tratta, in tutta evidenza, non solo di azioni contraddittorie

ma di una politica della menzogna nei confronti dei cittadini, poiché la Cia, dopo la guerra in Afghanistan, ha spalleggiato il terrorismo internazionale tramite operazioni occulte.

Ironia della sorte, lo stesso jihad islamico che il presidente Bush ha definito «una minaccia per l America», responsabile degli attentati al Wtc e al Pentagono, è stato uno strumento chiave delle operazioni strategiche di Washington nei Balcani e nell’ex Urss. Alla luce degli attentati di New York e Washington la verità sui legami tra il governo americano e il terrorismo internazionale deve essere svelata all'opinione pubblica, per impedire che l’amministrazione Bush si lanci, insieme ai suoi

partner della Nato, in un’avventura militare che minaccia l'avvenire dell’umanità. 26 Bbc, 29 settembre 1999.

ie)

Lo sporco segreto afghano dell'America: è unaera del petrolio V.K. Shashikumar*

Due esperti d’intelligence francesi hanno pubblicato un libro che certo metterà in imbarazzo il presidente George W. Bush e la sua amministrazione. Bir Laden, la verité interdite, uscito

il 6 febbraio 2002 per i tipi di Denoel, afferma che il vicedirettore dell’Fbi John O’Neill si è dimesso a luglio a causa dell’ostruzionismo esercitato da Bush nei confronti di un’indagine sulle attività terroristiche dei talebani. Gli autori, Brisard e Dasquié, sostengono inoltre che Bush ha insabbiato l’inchiesta sotto l'influsso delle compagnie petrolifere americane. Bush ostacolò le indagini dei servizi segreti sul terrorismo anche mentre erano in corso i negoziati sulla consegna di Osama bin Laden in cambio di riconoscimento politico e sostegno economico al regime dei talebani. «Gli interessi dei colossi americani del petrolio e il ruolo dell’Arabia Saudita sono stati gli ostacoli maggiori alle indagini sul terrorismo islamico», ha dichiarato O°Neill agli autori del libro. Secondo Brisard e Dasquié il primo obiettivo del governo americano in Afghanistan prima del martedì nero era consolidare il regime dei talebani, per poter accedere alle riserve di idrocarburi dell'Asia centrale. Prima dell’11 settembre il governo americano era estremamente ben disposto nei con-

fronti del regime dei talebani, percepito come «un fattore di stabilità necessario per la costruzione di un oleodotto in Asia centrale» che, partendo dai ricchi giacimenti di Turkmeni* Edito in «Tehelka. News and Views», New Delhi, 21 novembre 2001. Traduzione di Federica Matteoni.

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stan, Uzbekistan e Kazakhstan, e passando per Afghanistan e Pakistan, arrivasse fino all'Oceano Indiano. Questo avrebbe garantito agli Stati Uniti un altro enorme satellite e un’altra fonte di approvvigionamento delle risorse. «I giacimenti di gas e petrolio dell'Asia centrale sono controllati dalla Russia, il governo Bush ha voluto cambiare la situazione [...] le ragioni della sicurezza energetica si sono trasformate in ragio-

ne militare», sostengono gli autori. «A un tratto, durante i negoziati, gli americani hanno detto ai talebani: o accettate la nostra offerta di un tappeto d’oro o vi seppelliamo sotto un mare di bombe», rivela Brisard in un'intervista. I rappresentanti dell’ Alleanza del Nord (Na), i consiglieri dell'ex re Zair Shah e forse leader pashtun antitalebani si sono incontrati a Berlino sotto l’egida della coalizione guidata dagli Stati Uniti per discutere di un governo allargato in Afghanistan. Potrebbe non essere una mera coincidenza che i rappresentanti diplomatici americani e talebani si siano incontrati, sempre a Berlino, all’inizio di quest'anno.

L’amministrazione Bush, precisa il libro, aveva dato il via a una serie di negoziati con i talebani all’inizio del 2001; Washington e Islamabad sono state sedi di alcuni incontri. Prima degli attentati dell'11 settembre, precisamente il 2 agosto 2001, Christina Rocca, responsabile presso il Dipartimento di Stato americano per le Relazioni con lAsia, incontrò a Islamabad Abdul Salam Zaeef, ambasciatore dei taleba-

ni in Pakistan. Rocca è un’esperta di interventi americani in Afghanistan: si occupò per la Cia dei contatti con i gruppi della guerriglia islamica e diresse negli anni Ottanta la consegna di missili Stinger ai mujahiddin afghani in guerra contro l’esercito sovietico. Brisard e Dasquié rivelano inoltre che la condotta diplomatica dei talebani attenuò i suoi tratti più ortodossi grazie alla consulenza di un’esperta americana di pubbliche relazioni, incaricata dal regime di organizzare una campagna d’immagine negli Stati Uniti. Non è dato sapere se il Pakistan abbia aiutato i talebani ad assicurarsi i servizi di una professio195

nista dell’immagine. Il libro svela comunque che Laila Helms, professionista di pubbliche relazioni, nonché autorevole esperta di servizi segreti americani, ottenne dai talebani l’incarico di portare gli Stati Uniti a riconoscere il loro regime, che prima dell’11 settembre era riconosciuto solo da Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Non stupisce che Helms si sentisse a casa sua nei servizi segreti americani:

è infatti la nipote di Richard Helms, ex direttore della Cia ed ex ambasciatore americano a Teheran. Helms è descritta come la Mata Hari dei negoziati tra gli Stati Uniti e i talebani. Gli autori del libro rivelano che fu lei a invitare Sayed Rahmatullah Hashimi, consigliere del mullah Omar, per cinque giorni a Washington nel marzo 2001, dopo che i talebani avevano distrutto iBuddha di Bamyan. In quell’occasione Hashimi visitò la sede centrale della Cia e l'Agenzia di intelligence e ricerca del Dipartimento di Stato (Bureau of Intelligence and Research). I due francesi hanno certamente scritto un libro controverso, senza dubbio scottante per i particolari che svela. La loro analisi su questioni di intelligence è impressionante; per questo forse a Parigi, come in altre capitali europee, del loro libro si parla con cautela. Brisard ha condotto le indagini economiche e strategiche per la compagnia francese Vivendi fino alla fine degli anni Novanta. Ha inòltre lavorato per i servizi segreti francesi (Dst), scrivendo perloro conto un rapporto sull’ormai famosa rete di al-Qaeda, guidata da Bin Laden. Dasquié è un giornalista brillante che pubblica «Intelligence Online», stimata newsletter di diplomazia, analisi economica e strategia. In un articolo apparso sull’«Irish Times» il 19 novembre 2001 si legge che «O'Neill aveva indagato sulle esplosioni al Wtc nel 1999, su una base americana in Arabia Saudita nel 1996, sulle ambasciate americane a Nairobi e Dar-es-Salaam

nel 1998 e l’anno scorso sulla nave da guerra Uss Cole». «Jean Claude Brisard, coautore di Vérité interdite e autore di un'inchiesta per la Dst sui fondi di Bin Laden, ha incontrato O’Neill diverse volte l’estate scorsa. O'Neill ha ri136

conosciuto con amarezza che il Dipartimento di Stato americano e tutto l’entourage del presidente Bush, costituito da lobby del petrolio, hanno bloccato i tentativi di dimostrare la colpevolezza di Bin Laden.» «L’ambasciatore americano in Yemen, Barbara Bodine,

arrivò a far espellere dallo Yemen O’Neill e il suo gruppo di ‘Rambo’, così li chiamavano le autorità locali. Nell'agosto del 2001 O’Neill, deluso, si era dimesso e aveva accettato un nuovo incarico come capo della sicurezza al Wtc. È morto nell’attentato dell’11 settembre.» O’Neill, americano di origine irlandese, aveva ic in un'intervista a Brisard che tutte le risposte e tutto quanto poteva smantellare al-Qaeda e Bin Laden erano da cercarsi in Arabia Saudita. Temendo il risentimento della famiglia reale saudita, i diplomatici americani si affrettarono a seppellire nel silenzio queste tesi. Si arrivò al punto che, persino quando l’Fbi volle interrogare le persone sospettate per il bombardamento della base militare americana a Dhahran in cui,

nel giugno 1996, morirono 19 soldati, il Dipartimento di Stato americano rifiutò di sollevare un polverone sulla vicenda. Gli ufficiali sauditi interrogarono comunque i sospetti, che furono condannati e giustiziati. O'Neill era andato realmente in Arabia con i suoi collaboratori, ma secondo l’articolo

dell’«Irish Times» che cita Brisard «essi furono ridotti al ruolo di periti legali che raccoglievano prove materiali sul sito del bombardamento». Gli Stati Uniti hanno insabbiato le indagini sulle attività terroristiche dei talebani e sui loro legami con Bin Laden nella convinzione che si potesse giungere a un accordo di scambio con i talebani: petrolio in cambio di un riconoscimento diplomatico internazionale. Va da sé che la tutela degli interessi petroliferi americani nella regione è un movente decisivo dell’operazione Enduring Freedom: non ci sarà da stupirsi se presto si riparlerà del progetto di oleodotto. Basta un rapido sguardo al potenziale energetico dell'Asia centrale per capire gli interessi americani sulla regione. Il bacino del Mar 137

Caspio comprende paesi come l’Azerbaigian, il Kazakhstan, il Turkmenistan e l’Uzbekistan che si ritengono in possesso di 200 miliardi di barili di petrolio, circa un terzo dei giacimenti del Golfo Persico. La più vasta area del Golfo Persico, che comprende Iran, Iraq, Kuwait, Oman, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e

altri paesi adiacenti, è da sempre al centro della politica internazionale. Inizialmente furono gli inglesi a lottare per il controllo della ricchezza petrolifera della regione, seguiti poi dai francesi. Lo scenario del secondo dopoguerra vide però emergere nella regione la superpotenza americana, la cui sicurezza

energetica

e prosperità

economica

dipendevano

dall’afflusso continuo di petrolio da questi paesi. Nel marzo del 1945 il presidente Roosevelt e il re Abd al-Aziz ibn Saud firmarono un accordo segreto che definiva un’alleanza strategica a lungo termine. Sebbene i particolari di tale accordo siano tuttora ignoti, esso garantiva agli Stati Uniti un accesso

privilegiato al petrolio saudita in cambio di protezione per la famiglia reale da minacce interne ed esterne. Che gli Stati Uniti dipendano dal petrolio mediorientale non è un segreto. Il piano nazionale d’azione energetica, reso noto dall’amministrazione Bush all’inizio del 2001, specifica

che «sul Golfo convergerà la politica energetica internazionale degli Stati Uniti». Secondo Michael T. Klare, professore di studi sulla pace e sulla sicurezza mondiale all’Hampshire College di Amherst e autore di Resource Wars: The New Landscape of Global Conflict («Guerre per le risorse. Il nuovo scenario del conflitto globale»), con l'operazione Enduring Freedom gli Stati Uniti mirano a raggiungere due tipi di obiettivi: «Il primo è catturare e punire i responsabili degli attentati dell’11 settembre e prevenire ulteriori atti terroristici, il secondo è consolidare il proprio potere sul Golfo Persico e sul Mar Caspio, assicurandosi così una afflusso continuo di petrolio. Sebbene il secondo obiettivo non attiri tutta l’attenzione pubblica del primo, esso non è meno importante». Molti membri autorevoli dell’amministrazione Bush sono 138

legati ai grandi interessi petroliferi; non è dunque un caso che gli Stati Uniti abbiano intrapreso una guerra in Afghanistan. Il vicepresidente Dick Cheney è stato fino alla fine dell’anno 2000 presidente della Halliburton, una compagnia che fornisce servizi per l’industria petrolifera. Il consigliere alla Sicurezza degli Stati Uniti, Condoleeza Rice, è stato manager della Chevron tra il 1991 e il 2000, i sottosegretari al Commercio e all'Energia Donald Evans e Stanley Abraham hanno lavorato per Tom Brown, altro colosso del petrolio. Dietro alla guerra al terrorismo c'è dunque molto più di quanto l’amministrazione Bush sia pronta ad ammettere. L'operazione Enduring Freedom persegue quindi i seguenti obiettivi:

— distruggere i talebani e al-Qaeda; — contrastare e distruggere la minaccia del fondamentalismo islamico, sovvenzionato da Bin Laden e dai talebani, in Asia centrale. Gli americani hanno condotto esercitazioni militari congiunte con forze di alcuni paesi dell'Asia centrale e prima di cominciare le operazioni militari in Afghanistan hanno firmato accordi di cooperazione con Uzbekistan, Tagikistan e Kirgizistan; — impedire che i talebani e al-Qaeda sostituiscano gli attuali governi dell'Asia centrale con regimi islamici militanti. Il raggiungimento di questi obiettivi per mezzo dell’operazione Enduring Freedom tutelerà anche gli interessi petroliferi statunitensi sul Mar Caspio.

Buon musulmano, cattivo musulmano: una prospettiva politica sulla cultura e il terrorismo di Mahmood Mamdani*

L'interesse dei media nei confronti dell'Islam è esploso nei mesi che sono seguiti all’11 settembre. Molti si sono chiesti: qual è la connessione tra l’Islam e il terrorismo? Questo interrogativo ha alimentato tutto un nuovo ciclo di «dibattiti culturali»: la propensione a definire le culture in base alle loro presunte caratteristiche «essenziali», soprattutto per quanto riguarda la politica. Un precedente ciclo di discussioni simili, connesse con l’ampiamente citato ma sempre

più screditato Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (ed or. 1996, trad. it. 1997) di Samuel P. Huntington, demonizzava l’Islam nella sua totalità. Il suo posto è stato preso da una linea di argomenti un po’ modificata, e cioè che la connessione del terrorismo non sia con tutto l'Islam,

bensì con una sua interpretazione troppo letterale, quale si trova nell’Islam wahhabita®. Proposta per la prima volta da Stephen Schwartz in un editoriale del settimanale britannico «The Spectator» (2001), questa posizione giungeva addirittura alla ridicola affermazione che tutti i kamikaze (quelli che si fanno scoppiare con le bombe e i dirottatori di aerei) sono wahhabiti, e avvertiva che questa versione dell'Islam, storicamente predominante in Arabia Saudita, era stata esportata sia in Afghanistan sia negli Stati Uniti negli

Da «American Anthropologist». Traduzione di Anita De Rosa. ! Wahhabi è una setta sunnita di stretta ortodossia, predominante in Arabia Saudita.

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ultimi decenni. La discussione ebbe larga eco in molti ambienti, compreso quello del «New York Times»?. Il dibattito sulle culture ha fatto diventare l’esperienza religiosa una categoria politica. Cos’è che non ha funzionato nella civiltà musulmana?, si chiede Bernard Lewis in un editoria-

le di «The Atlantic Monthly» (2002). La democrazia avanzatroppo a rilento nel mondo musulmano, conclude uno studio di Freedom House sui sistemi politici nel mondo non occidentale?. Il problema è ben più vasto dell'Islam, afferma Aryeh Neier (2001), già presidente dello Human Rights Watch e ora capo della Open Society Foundation fondata da Soros: riguarda anche i tribalisti e i fondamentalisti, equivalenti contemporanei dei nazisti, i quali hanno identificato la modernità come il loro nemico. Perfino i capi politici dell’alleanza antiterroristica, vale a dire Tony Blair e George W. Bush, parlano della necessità di distinguere i «buoni musulmani» dai «cattivi musulmani». L’implicazione è evidente: che si tratti dell’Afghanistan, della Palestina o del Pakistan,

l’Islam dev'essere messo in quarantena e il diavolo dev'essere esorcizzato mediante una guerra civile tra musulmani buoni e musulmani cattivi. Vorrei suggerire invece di abbandonare l’idea della quarantena come strumento analitico, e di capovolgere la teoria culturale della politica. Questo, a mio avviso, risulterebbe uti-

le per l’esame del nostro problema sotto due aspetti almeno. In primoluogo, ha il vantaggio di decostruire non soltanto uno dei protagonisti del contesto contemporaneo — l'Islam — ma anche l’altro, l'Occidente. La mia posizione va al di là di un semplice ma radicale richiamo al fatto che, se ci sono Buoni e 2 Per un resoconto sui cattivi musulmani, cfr. Harden 2001; per un ritratto dei buoni musulmani, cfr. Goodstein 2001.

3 «Mentre più di tre quarti di 145 nazioni non-musulmane presenti nel mondo sono ora democrazie, buona parte dei paesi a maggioranza islamica continuano a sfidare la tendenza, secondo un rilevamento fatto da Freedom House, un analista indipendente dei diritti politici e delle libertà civili con

sede a New York» (Crossette 2001, p. 4).

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Cattivi Musulmani, devono esserci anche Buoni e Cattivi Oc-

cidentali. Io intendo contestare la tendenza stessa a interpretare la politica islamista come un effetto della civiltà islamica — buona o cattiva che sia — e la potenza occidentale come un effetto della civiltà occidentale. Voglio affermare, inoltre, che sia

quella politica sia quella potenza sono nate da un incontro, e che non è possibile comprendere né l’una né l’altra isolatamente, al di fuori della storia di tale incontro.

In secondo luogo, spero di riuscire a mettere in dubbio la premessa stessa del dibattito sulle culture, cioè la tendenza a pensare la cultura in termini politici, e quindi territoriali. Le unità politiche (gli Stati) sono territoriali; la cultura non lo è. L’Islam attuale è una civiltà mondiale: in Medio Oriente ci sono meno musulmani che in Africa o nell’ Asia meridionale e sud-orientale. Se riusciamo a pensare al cristianesimo e al giudaismo come a religioni mondiali — con origini mediorientali ma un flusso storico e una costellazione contemporanea che non possono essere spiegati in termini di confini di Stato —, perché non provare a comprendere anche l’Islam in termini storici ed extra-territoriali?* Ha davvero senso scrivere storie politiche dell’Islam che suonano come storie politiche di luoghi geografici come il Medio Oriente, e storie politiche degli Stati mediorientali come se non fossero altro che la storia politica dell'Islam nel Medio Oriente? La mia personale ricerca (1996) mi induce a riportare le radici moderne del dibattito sulle culture al progetto colo4 Amartya Sen ha messo in luce l’altro aspetto di questa argomentazione in un interessante articolo sulla civiltà indiana: considerare l’India una civiltà indù vuol dire ignorare le molteplici fonti dalle quali l’India storica ha tratto le sue risorse culturali. Viceversa, cercare di sistemare le civiltà in scom-

parti separati — civiltà indù, musulmana, cristiana, buddista — significa indulgere a una comprensione a-storica e unidimensionale delle complesse civiltà contemporanee. Aggiungerei a questo una terza asserzione: considerare anche questi «scomparti separati» di civiltà come entità territoriali è im-

brigliare le risorse culturali per un progetto politico molto specifico (Sen 2001a, 2001b).

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niale noto come «governo indiretto», e a contestare l’affermazione che la resistenza politica anticoloniale esprima realmente un ritardo culturale e andrebbe intesa come una resistenza culturale della tradizione contro la modernità. Questa asserzione minimizza l’incontro cruciale con il potere coloniale, fatto che io ritengo centrale per la disputa analitica del periodo successivo all’11 settembre da me descritta so-

pra. Io trovo che il dibattito sulle culture sia problematico per due ragioni. Da un lato, le spiegazioni culturali degli esiti politici tendono a evitare /a storia e i problemi.’Stabilendo un'equazione fra tendenze politiche e intere comunità definite in termini culturali non storici, tali spiegazioni incoraggiano la disciplina e la punizione collettiva, una pratica tipica degli incontri coloniali. Questo modo di ragionare equipara terroristi e musulmani, giustifica una guerra puni-

tiva contro un intero paese (l'Afghanistan), e ignora la storia recente che ha dato forma sia all’attuale contesto afghano sia all'emergere dell'Islam politico. Dall'altro lato, il dibattito sulle culture tende a pensare gli individui (provenienti dalle culture «tradizionali») in termini autentici e originali, quasi che le loro identità fossero formate interamente dalla presunta cultura immutabile nell’ambito della quale sono nati. Così facendo, esso destoricizza la costruzione delle identità politiche. Invece di considerare la politica islamica contemporanea come il risultato di una cultura arcaica, propongo di non considerare arcaiche né la cultura né la politica, ma entrambe come esiti fortemente attuali di altrettanto attuali condizioni,

relazioni e conflitti. Invece di liquidare la storia e la politica, come fa il dibattito sulle culture, propongo di inserire le discussioni culturali nei loro contesti storici e politici. Il terrorismo non è dovuto al residuo di una cultura premoderna nella politica moderna. Esso è piuttosto una costruzione moderna. Anche quando ingloba questo o quell’aspetto della tradizione e della cultura, il risultato è un insieme moderno

al servizio di un progetto moderno. 143

Il dibattito sulle culture Il nostro mondo si divide davvero in moderno e premoderno,

con il primo che fa cultura e il secondo che è prigioniero della cultura? Questa dicotomia prevale sempre di più nelle discussioni occidentali sui rapporti con i paesi a maggioranza musulmana. Essa presuppone che in una parte del mondo, quella chiamata rz0derna, la cultura significhi creatività, ciò che è più tipico dell’essere uomo, mentre nell’altra parte, etichettata come prerzoderna, la cultura significhi consuetudine, una

sorta di attività istintiva, le cui regole sono scritte in antichi testi fondativi, di solito religiosi, e mummificate in antichi prodotti. Quando leggo dell’Islam in giornali e riviste di questo periodo, ho spesso la sensazione di leggere di persone «museizzate», persone di cui viene detto che non farro cultura, sal-

vo che all’inizio della creazione, con una specie di straordinario atto profetico. Dopo di questo, pare che tali persone — noi musulmani — si limitino a conforzzarsi alla cultura. La nostra cultura sembra non avere storia, politica, dibattiti; sembra es-

sersi pietrificata in una consuetudine senza vita. Di più, queste persone sembrano incapaci di trasformare la loro cultura, così come sembrano incapaci di produrre il cibo per sfamarsi. Ne segue che la loro salvezza sta, come sempre in filantropia, nell'essere salvati dall’esterno. E se ai popoli premoderni si imputa la mancanza di capacità creativa, si accredita loro, viceversa, un’elevata capacità di deiioe È questo certamente il motivo per cui il dibattito sulle culture èdiventato materia di nuove storie da prima pagina; e, in fin dei conti, il motivo per cui ci viene

detto di prestare grande attenzione alla cultura. Ci si dice che la cultura è ora una questione di vita o di morte. A uno che in ambito accademico si è occupato recentemente dell'eredità istituzionale del colonialismo, questo modo di porre le cose riporta subito alla mente alcuni tratti della storia della colonizzazione moderna. Questa storia presume che il comportamento pubblico degli individui, in particolare il

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loro comportamento politico, possa essere desunto dalla loro religione. Ma è davvero possibile che una persona che prende alla lettera la sua religione sia un potenziale terrorista? E che soltanto chi interpreta un testo religioso in modo non letterale, ma metaforico o allegorico, sia più idoneo alla vita civile e alla tolleranza che essa richiede? In che modo — ci si potrebbe domandare — l’interpretazione letterale dei testi sacri si traduce in dirottamenti aerei, assassinio e terrorismo?

Qualcuno potrebbe obiettare che io presento qui una caricatura di quanto leggiamo sulla stampa. In fin dei conti, non è forse vero che non si parla tanto dello scontro fra civiltà quanto dello scontro all’interno della civiltà islamica? Non è questo il punto nodale degli articoli cui ho fatto riferimento in precedenza? Alla fine, ci viene detto ora di distinguere tra buoni musulmani e cattivi musulmani. Attenzione: non tra brave persone e cattive persone, né tra crimi-

nali e buoni cittadini, che magari fanno parte sia gli uni che gli altri dei musulmani, ma tra buoni musulmani e cattivi musulmani. Ci viene detto che esiste una linea divisoria che attraversa l’Islam, una linea che divide quello moderato, definito vero Islam, da quello politico estremista. I terroristi dell’11 settembre, ci viene detto, non si sono limitati a dirottare aerei; hanno dirottato anche l'Islam, intendendo con

questo il «vero» Islam. Mi piacerebbe offrire un’altra versione dell’argomentazione che il conflitto è all’interno delle civiltà, e non #ra le civiltà. La sintesi è mia, ma nessuno dei suoi elementi è inven-

tato. Ritengo invece che questa sintesi sia una versione illuminata, perché non parla soltanto dell’«altro», ma anche di se stessi. Non ha praticamente traccia di etnocentrismo. Le cose stanno in questo modo: Islam e cristianesimo hanno in comune un orientamento profondamente messianico, il senso della missione di civilizzare il mondo. Ciascuno di essi è convinto di possedere l’unica verità, e che il mondo che sta fuori dal suo mondo sia un mare di ignoranza che ha bisogno 145

di essere redento?. In epoca moderna, questo genere di convinzione scavalca l’ambito della religione per investire quello secolare, scavalca il campo della dottrina per investire quello della politica. Ma anche quelle che apparentemente sono nozioni coloniali secolari, come quella di «una missione civilizzatrice» — oppure la sua versione più razziale, del «Fardello dell’Uomo Bianco» —, o l’ottocentesca convinzione americana di un «evidente destino», hanno profonde radici religiose.

Come ogni tradizione vivente, né l'Islam né il cristianesimo sono monolitici. Entrambi accolgono, e anzi sono spinti da tendenze diverse e contraddittorie. In entrambi, la nozio-

ne di giustizia è stata al centro di lunghi dibattiti: anche se sostieni di sapere che cosa è bene per l'umanità, come procedi? Con la persuasione o con la forza? Convinci gli altri della validità della tua verità o la imponi loro? La religione è un fatto di convinzione o di legislazione? La prima scelta produce la ragione e l’evangelismo; la seconda, le crociate e il jihad. Prendiamo l’esempio dell’Islam, e la nozione di jihad, termine che tradotto in modo approssimativo significa «lotta». Gli studiosi distinguono tra due grandi tradizioni di jihad: iljjbad akbar (il jihad maggiore) e il jbad asgar (il jihad minore). Il jihad akbar, si dice, è una lotta contro le proprie debolezze; riguarda come vivere e raggiungere la pietà in un mondo corrotto. Il jihad asgar riguarda, invece, l’autoconservazione e l’autodifesa, che, se è diretta più verso l’esterno, è all’origine

delle nozioni islamiche di quella che i cristiani chiamano la «guerra giusta» (Noor 2001). Gli studiosi dell’Islam si sono dati gran pena, dopo 111 settembre, per spiegare al pubblico dei lettori non musulmani che l'Islam possiede regole perfino per la conduzione del” Si pensi, ad esempio, alla parola araba a/-jahaliya che ho sempre saputo voler dire «dominio dell’ignoranza». Si consideri anche la distinzione legale tra dar-ul-islam (il dominio dell'Islam) e dar-ul-harab (il dominio della guerra), secondo la quale la regola della legge concerne soltanto il dominio dell'Islam.

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la guerra: ad esempio, Talal Asad (2001) fa notare che la scuola giuridica di Hanbali seguita dagli islamici wahhabiti dell’ Arabia Saudita proibisce l’uccisione degli innocenti in guerra. Gli storici dell’Islam hanno messo in guardia dal ricavare con troppa disinvoltura la pratica islamica dalla dottrina islamica: dopo tutto, la coesistenza e la tolleranza sono state la norma, piuttosto che l’eccezione, nella storia politica dell'Islam. Per restare più al nostro argomento: non soltanto i credo religiosi come l'Islam e il cristianesimo, ma anche le dottrine laiche, quali il liberalismo e il marxismo, hanno do-

vuto affrontare l'eterna contraddizione tra la spinta verso l’universalismo e le rispettive tradizioni di tolleranza e di coesistenza pacifica. La spinta all’universalità conferisce agli Stati Uniti un orientamento fondamentalista nella dottrina, esat-

tamente come la tradizione di tolleranza vi assicura il pluralismo nella pratica e nella dottrina. Tendenze dottrinali a parte, io resto profondamente scettico circa la pretesa che si possa ricavare il comportamento politico delle persone dalla loro religione o dalla loro cultura. Si può dare per vero che un musulmano ortodosso sia un potenziale terrorista? O, ciò che è lo stesso, che un ebreo o un cristiano ortodosso siano i potenziali terroristi e che soltanto un ebreo riformato o un cristiano convertito alla teoria evoluzionistica di Darwin siano capaci di essere tolleranti nei confronti di coloro che non condividono le loro convinzioni?

Mi rendo conto che questo non esaurisce la questione di cultura e politica. Come interpretare una politica che scientemente veste il mantello della religione? Prendiamo ad esempio la politica di Osama bin Laden e di al-Qaeda: entrambi affermano di combattere un jihad, una guerra giusta contro i nemici dell'Islam. Per cercare di comprendere questa scomoda relazione tra politica e religione, trovo che sia necessario non soltanto spostare il centro dell’attenzione dall’Islam dottrinale a quello storico, dalla dottrina e dalla cultura alla storia e alla politica, ma anche allargare l’obiettivo al di là dell'Islam, 147

per includere incontri storici più grandi, dei quali Bin Laden e al-Qaeda sono stati solo uno dei risultati.

La guerra fredda dopo l’Indocina Egbal Ahmad richiama l’attenzione sull'immagine televisiva del 1985 in cui Ronald Reagan invitava un gruppo di uomini in turbante, tutti afghani, tutti capi dei mujahiddin, sul prato della Casa Bianca per una presentazione ai media. «Questi signori sono gli equivalenti morali dei padri fondatori dell'America», disse Reagan (Ahmad 2001). Fu questo il momento in cui l'America ufficiale cercò di coinvolgere una versione dell’Islam in una lotta contro l'Unione Sovietica. Prima di esaminarne la politica, mi sia consentito di tratteggiare lo sfondo storico di quel momento. Nel 1975 ero un giovane assistente universitario all’Università di Dar-es-Salaam in Tanzania. Fu un anno importan-

te nella decolonizzazione del mondo quale lo conoscevamo: il 1975 fu l’anno della sconfitta americana in Indocina, e an-

che l’anno del crollo dell’ultimo impero europeo in Africa. Retrospettivamente, sappiamo che fu anche l’anno in cui il baricentro della guerra fredda si spostò dall'Asia sud-orientale all’Africa meridionale. La domanda strategica era questa: chi avrebbe raccolto i pezzi dell'impero portoghese in Africa, gli Stati Uniti o l'Unione Sovietica? Cambiato il punto fo-

cale della guerra fredda, ci fu un corrispondente mutamento nella strategia degli Stati Uniti, basato su due influenze chiave. In primo luogo, gli ultimi anni della guerra del Vietnam videro il formarsi di una dottrina Nixon, la quale sosteneva

che «i ragazzi asiatici dovevano combattere guerre asiatiche». Tale dottrina fu una lezione che l'America trasse dal disastro del Vietnam. Anche se ormai era tardi per applicarla in Indocina, la dottrina Nixon guidò le iniziative statunitensi nell’Africa meridionale. Nel dopo-Vietnam, gli Stati Uniti cominciarono a cercare qualcosa di più che mandatari locali; 148

avevano bisogno di potenze regionali come soci di supporto. Nell’Africa meridionale, tale ruolo venne svolto dal Sudafri-

ca dell’apartheid. Di fronte alla possibilità di una decisiva vittoria dell'Mpla° in Angola, gli Stati Uniti incoraggiarono il Sudafrica a intervenire militarmente. Il risultato fu un disastro politico, secondo soltanto all’invasione della Baia dei Porci di un decennio prima: quale che fosse la sua forza militare e la sua importanza geopolitica, il Sudafrica dell’apartheid era chiaramente un fardello politico per gli Stati Uniti. In secondo luogo, il fiasco dell’Angola rafforzò la resistenza pubblica all’interno degli Stati Uniti verso ulteriori coinvolgimenti all’estero, analoghi a quello del Vietnam. Il segnale più chiaro che le pressioni popolari stavano trovando espressione tra i legislatori fu l’ezzendamento Clark del 1975, che dichiarò il-

legale l’appoggio segreto ai combattenti nella guerra civile in corso in Angola. L'emendamento Clark fu abrogato all’inizio del secondo mandato di Reagan nel 1985. La sua permanenza in vigore di un decennio non riuscì a bloccare i sostenitori della guerra fredda, che cercavano il modo per aggirare le restrizioni legislative sulla libertà di azione esecutiva. Il capo della Cia William Casey prese il comando nell’orchestrare gli aiuti ai movimenti terroristici e proto-terroristici in tutto il mondo — dai contras in Nicaragua ai mujahiddin in Afghanistan, alla Renamo” in Mozambico e all’Unita® in Angola — attraverso terze e quarte parti politiche. In parole povere, dopo la sconfitta in Vietnam e lo scandalo Watergate, l’America ufficiale decise di incanalare, e perfino di coltivare, il terrorismo nella

lotta contro regimi che essa considerava favorevoli ai sovieti6 Il Movimento popolare per la liberazione dell’ Angola, che in seguito divenne un gruppo di dissidenti appoggiato dall'Unione Sovietica e da Cuba. ? La Resistenza nazionale del Mozambico, un’organizzazione di guerriglieri formata nel 1976 da ufficiali rhodesiani bianchi per rovesciare il governo del Mozambico da poco indipendente. 8 L’Unione nazionale per la totale indipendenza dell'Angola, il principale rivale dell’Mpla per il potere dopo l'indipendenza dal Portogallo nel 1975.

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ci. Il momento culminante dell’abbraccio al terrorismo da parte degli Stati Uniti arrivò con i contras. Non furono soltanto tollerati e protetti, ma furono attivamente promossi e direttamente assistiti da Washington. Ma poiché la storia dei contras è molto nota, mi concentrerò, per dimostrare la mia

tesi, sulla vicenda quasi dimenticata dell’appoggio dato dagli Stati Uniti al terrorismo in Africa meridionale. Il Sudafrica divenne il partner preferito del governo Reagan per un «impegno costruttivo», espressione coniata dal vicemi-

nistro degli Esteri di Reagan per l Africa, Chester Crocker. Lo scopo dell’«impegno costruttivo» era di far uscire il Sudafrica dal suo isolamento politico e di sfruttare il suo potenziale militare nella guerra contro il nazionalismo militante (filosovietico)?. L'effetto sortito dall’«impegno costruttivo» fu di portare nella politica territoriale sudafricana la sofisticazione di una miscela di operazioni segrete e operazioni manifeste: in Mozambico, ad esempio, il Sudafrica combinò un accordo di

pace ufficiale (l’accordo Nkomati del 1984) con ininterrotti aiuti materiali clandestini per il terrorismo della Renamo!°, Il tragico è che gli Stati Uniti entrarono nell’era dell’«impegno costruttivo» proprio quando l’esercito sudafricano serrò la sua presa sul governo e mutò la sua politica territoriale da distensione ad «attacco assoluto». Non intendo spiegare la tragedia dell'Angola e del Mozambico come il risultato di macchinazioni da parte di una ? Gli Stati Uniti esercitarono il loro potere su una quantità di istituzioni multilaterali per raggiungere questo obiettivo. Fecero pressioni sul Fmi perché assicurasse al Sudafrica un credito di 1,1 miliardi di dollari nel novem-

bre del 1982, una somma che — per coincidenza o volutamente — equivaleva all'aumento della spesa militare del Sudafrica tra il 1980 e il 1982 (Minter

1994, p. 149).

1° In meno di un anno dopo Nkomati, le forze armate del Mozambico entrarono in possesso di una serie di diari appartenenti a un membro della leadership della Renamo. I diari di Vaz del 1985 esponevano minuziosamente l'appoggio ininterrotto dato alla Renamo dal South African Defense Force (Vines 1991, p. 24).

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singola superpotenza. La guerra fredda fu combattuta da due superpotenze, ed entrambe subordinarono gli interessi e le conseguenze locali a considerazioni strategiche mondiali. Che fosse in Angola o in Mozambico, la guerra fredda fu connessa con una guerra civile interna. Un’intera generazione di studiosi africani ha cercato di comprendere la relazione tra fattori esterni e interni nel formarsi dell’Africa contemporanea e, in tale contesto, la dinamica tra la guerra fredda e la

guerra civile in ciascuno dei casi. Il mio intento non è di partecipare a questo dibattito più ampio. Qui, il mio scopo è più modesto. Mi occupo non della guerra civile, ma solo della guerra fredda e, inoltre, non di entrambi gli antagonisti della guerra fredda, ma soltanto degli Stati Uniti. Il mio limitato scopo è di fare luce sul contesto in cui l'America ufficiale abbracciò il terrorismo mentre si preparava a portare a termine

la guerra fredda. La partnership tra l'America ufficiale e il Sudafrica dell’apartheid sostenne due movimenti chiave che utilizzavano il terrore senza alcuna remora: Renamo in Mozambico e Unita in Angola!!. La Renamo era un gruppo terrorista crea-

to dall’esercito rhodesiano agli inizi degli anni Settanta, e protetto dalle truppe di difesa sudafricane. L’Unita era più un movimento prozo-terrorista con una base locale, benché non abbastanza forte da sopravvivere alla breve prova della guerra civile nel 1975 senza un valido aiuto esterno. L’Unita era un contendente per il potere, anche se per un debole potere, mentre la Renamo no — per questo gli Usa non avrebbero mai potuto appoggiare apertamente questa «creatura»

dell’intelligence e del personale militare rhodesiani e sudafricani. Poiché il disastro del 1975 in Angola mostrò che il Sudafrica non poteva essere usato come un nodo di collegamento diretto nell’assistenza degli Stati Uniti, e l’erzenda1! Sull’Angola e il Mozambico, cfr. Minter 1994, pp. 2-5, 142-49, 152-62; Vines 1991, pp. 24, 39; Brittain 1988, p. 63.

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mento Clark impediva gli aiuti segreti degli Usa in Angola, la Cia prese l’iniziativa di trovare quarte parti politiche — come il Marocco — attraverso le quali addestrare e sostenere l’Unita. Testimonianze rese davanti al Congresso documentarono almeno un caso di pagamento di 15 milioni di dollari all’Unita mediante il Marocco nel 1983. Savimbi, il capo dell’Unita,

riconobbe l’inefficacia dell'emendamento Clark quando dichiarò ai giornalisti: «Una grande nazione come gli Stati Uniti ha altri canali [...] l’erzendamzento Clark non significa nulla» (citato in Minter 1994, p. 152).

A conti fatti, il costo del terrorismo in Africa meridio-

nale fu elevato. Un consulente del Dipartimento di Stato che intervistava i profughi e i rifugiati politici concluse che la Renamo era responsabile del 95% dei casi di abuso su civili nella guerra del Mozambico, tra cui l’uccisione di qualcosa come 100.000 persone. Uno studio delle Nazioni Unite del 1989 stimò che il Mozambico subì un danno economico di circa 15 miliardi di dollari tra il 1980 e il 1988, una

cifra che era cinque volte e mezzo il suo Pil del 1988 (Minter 1994). Ricercatori di Africa Watch documentarono che le strategie dell’Unita miravano a far morire di fame i civili nelle aree difese dallo Stato, mediante una combinazione di

attacchi diretti, rapimenti e posizionamento di mine di terra su sentieri usati dai contadini. Il largo uso di mine di terra fece entrare l’Angola nella lista dei paesi più minati del mondo (accanto all Afghanistan e alla Cambogia), con un numero di persone costrette ad amputazioni stimato intorno a 15.000. L’Unicef calcolò che 331.000 persone morirono per cause direttamente o indirettamente legate alla guerra. E le Nazioni Unite stimarono il danno complessivo subìto dall'economia dell'Angola tra il 1980 e il 1988 intorno ai 30 miliardi di dollari, sei volte il Pil del 1988 (Minter 1994,

pp. 4-5). La Cia e il Pentagono chiamarono il terrorismo con un altro nome: «conflitto a bassa intensità». Quale che fosse il nome assegnatogli, il terrore politico portò un tipo di guer152

ra che l'Africa non aveva mai conosciuto prima. Il marchio distintivo del terrore era di avere come obiettivo la vita civile: facendo saltare in aria infrastrutture quali ponti e centrali elettriche, distruggendo centri sanitari e scuole, minando

sentieri e campi. Il terrorismo si distingueva dalla guerriglia nel fare dei civili il suo bersaglio preferito. Se i guerriglieri della sinistra asserivano di essere come pesci nell’acqua, i terroristi della destra erano determinati a prosciugare l’acqua — incuranti di quale sarebbe stato il costo per la vita civile — in modo da isolare i pesci. Quello che adesso viene chiamato «danno collaterale» non fu uno spiacevole sottoprodotto della guerra: fu il vero e proprio scopo precipuo del terrorismo. In seguito all’abrogazione dell’emzendamzento Clark all’inizio del secondo mandato Reagan, gli Stati Uniti fornirono 13 milioni di dollari di «aiuti umanitari» all’Unita; poi 15 milioni di dollari di «aiuti militari». Pure quando l’assistenza del Sudafrica all’Unita si esaurì in seguito all’assestamento interno dell’Angola nel maggio del 1991, gli Stati Uniti aumentarono gli aiuti in suo favore nonostante la guerra fredda fosse conclusa. Si nutriva la speranza che il terrorismo riportasse una vittoria politica in Angola, così come aveva fatto in Nicaragua. La logica era semplice: la gente avrebbe sicuramente eletto i terroristi al potere se il livello di danno collaterale fosse stato reso assolutamente inaccettabile. Anche dopo la guerra fredda, la tolleranza degli Stati Uniti nei confronti del terrore rimase elevata, sia in Africa che al-

trove. L’insensibilità della reazione dell’Occidente al genocidio del 1994 in Ruanda non fu un’eccezione. O consideriamo il periodo immediatamente successivo al 6 gennaio del 1999, quando i terroristi del Fronte unito rivoluzionario (Fur) si aprirono la strada per Freetown, la capitale della Sierra Leone, mutilando e violentando la gente, uccidendo più di 5000 civili al giorno. La reazione britannica e americana fu di fare pressioni sul governo per prendere parte al potere con i ribelli del Fur. 153

L’Afghanistan: il momento clou della guerra fredda Lo spostamento del baricentro della guerra fredda fu il principale contesto in cui fu inquadrata la politica in Afghanistan, ma la rivoluzione iraniana del 1979 fu anch'essa un fattore decisivo. L’ayatollah Khomeini consacrò l'America come il «Grande Satana», e i paesi islamici favorevoli all’ America co-

me «l'Islam americano». Piuttosto che affrontare precise cause di risentimento iraniano contro gli Stati Uniti, l’amministrazione Reagan decise di ampliare la lobby islamica favorevole all’ America per isolare l'Iran. La strategia si suddivideva in due rami. In primo luogo, riguardo all’Afghanistan, si sperava di unire un miliardo di musulmani in tutto il mondo attorno a una guerra santa, una crociata, contro l'Unione So-

vietica. Uso la parola «crociata», e non «jihad», perché soltanto la nozione di crociata può rendere adeguatamente lo stato d’animo in cui questa iniziativa fu presa. In secondo luogo, l’amministrazione Reagan sperava di trasformare una divergenza dottrinale all’interno dell'Islam tra la minoranza sciita e la maggioranza sunnita in una scissione politica. Confidava perciò di contenere l’influenza della rivoluzione iraniana come un affare della minoranza sciita. Il piano decollò velocemente nel 1986, quando il capo della Cia William Casey adottò tre misure importanti (Rashid 2000, pp. 129-30). La prima fu di convincere il Congresso a incrementare la guerra antisovietica in Afghanistan fornendo ai mujahiddin consiglieri americani e missili antiaerei Stinger di costruzione americana per abbattere la flotta aerea sovietica. La seconda misura fu di estendere la guerriglia islamica dall’ Afghanistan alle repubbliche sovietiche di Tagikistan e Uzbekistan, decisione che fu ribaltata quando l’Unione Sovietica minacciò di attaccare il Pakistan come ritorsione. La terza fu di reclutare musulmani radicali di ogni parte del mondo che andassero ad addestrarsi in Pakistan e a combattere con i mujahiddin afghani. Erano secoli che il mondo islamico non 154

assisteva a un jihad armato. Ma ora la Cia era determinata a crearne una, a porre una versione della tradizione al servizio della politica. Così, la tradizione del jihad — di una guerra giusta con una autorizzazione religiosa, inesistente negli ultimi quattrocento anni — fu ripristinata con l'appoggio dell’America negli anni Ottanta. In un’intervista radiofonica del 1990,

Eqbal Ahmad spiegava come «gli agenti della Cia cominciarono a recarsi in tutto il mondo musulmano a reclutare gente per combattere»!2. Pervez Hoodbhoy (2001) ricordava: Con Zia ul-Haq del Pakistan quale principale alleato dell’ America, la Cia ricercò sul mercato, e reclutò apertamente, guerrieri

islamici per la guerra santa in Egitto, in Arabia Saudita, in Sudan e in Algeria. L’islam radicale pervenne alla sua massima potenza quando la superpotenza, sua alleata e mentore, incanalò gli aiuti ai mujahiddin, e Ronald Reagan li festeggiò sul prato della Casa Bianca, profondendosi in elogi ai «coraggiosi combattenti per la libertà che sfidavano l'Impero del Male».

Questo è il contesto in cui si creò un’alleanza tra America,

Arabia Saudita e Pakistan, e in cui le madrasa religiose vennero trasformate in scuole politiche per addestrare le cellule. La Cia non si limitò a finanziare il jihad: essa svolse anche «un ruolo chiave nell’addestramento dei mujahiddin» (Chossudovsky 2001). L’intento era di integrare l’addestramento alla guerriglia con gli insegnamenti dell'Islam, e creare così dei «guerriglieri islamici». Il giornalista indiano Dilip Hiro (1995) spiegò che i temi predominanti erano «una concezione dell’Islam fortemente ideologizzata, strategicamente centrata sull’idea che le truppe sovietiche dei miscredenti avevano profanato il sacro Islam e che il popolo afghano doveva riaffermare la propria indipendenza liberandosi del regime socialista afghano appoggiato da Mosca» (come citato in Chossudovsky 2001). 12 http://www.bitsonline.net/eqbal

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La Cia cercò, ma non riuscì a trovare, un principe saudita

che guidasse questa crociata. Si accontentò della soluzione più prossima a questa, cioè del figlio di una famiglia illustre strettamente connessa con la casa reale saudita. Va ricordato che Osama bin Laden non proveniva da una famiglia arretrata intrisa di premodernità, ma da una famiglia cosmopolita. La famiglia Bin Laden è patrona della cultura, e sostiene programmi di università come Harvard e Yale. Bin Laden venne reclutato con la piena approvazione degli Stati Uniti dal principe Turki al-Faisal, poi capo dei servizi segreti sauditi (Blackburn 2001, p.3). Questo è il contesto in cui Osama bin Laden servì a costruire, nel 1986, il complesso del tunnel Khost, in profon-

dità sotto le montagne vicine al confine pakistano, un complesso che la Cia finanziò come importante deposito di armi, come struttura di addestramento, e come centro medico peri mujahiddin. È anche il contesto nel quale Bin Laden istituì, nel 1989, al-Qaeda, o base militare, come centro servizi per gli ara-

bi afghani e le loro famiglie (Rashid 2000, p. 132). L’idea di una guerra mondiale islamica non fu un’invenzione di Bin Laden; la Cia e l’Inter Services Intelligence (Isi) del Pakistan speravano di trasformare il jihad afghano in una guerra mondiale mossa dagli Stati musulmani contro l'Unione Sovietica. Le reti di al-Qaeda si diffusero ben oltre l Afghanistan: fino in Cecenia e in Kosovo*(Blackburn 2001, p. 7), in Algeria e in Egitto, arrivando perfino in Indonesia. Il numero di persone coinvolte era assolutamente impressionante. Scrivendo su

«Foreign Affairs», Ahmad Rashid calcolò che 35.000 radicali musulmani provenienti da 40 paesi islamici si unirono alla lotta dell'Afghanistan nel decennio compreso tra il 1982 e il 1992. E aggiunse che «altre decine di migliaia vennero a studiare nelle madrasa pakistane. Alla fine, più di 100.000 radicali musulmani stranieri subirono la diretta influenza della jihad afghana» (Rashid 1999). Le reclute non afghane erano conosciute come gli arabi afghani o, più specificatamente, come gli algerini afghani o gli indonesiani afghani. Gli arabi afghani costituivano un gruppo di élite e ricevevano l’addestramento più so156

fisticato (Chossudovsky 2001). I combattenti della «brigata internazionale» musulmana che avrebbe base nella città di Peshawar, percepivano lo stipendio piuttosto alto di circa 1500 dollari al mese (Stone 1997, p. 183). Tranne che ai massimi livelli di comando, i combattenti non avevano contatto diretto

con Washington; la maggior parte delle comunicazioni avveniva mediante i servizi segreti del Pakistan (Chossudovsky 2001). Il jihad afghano fu la più grande operazione segreta nella storia della Cia. Secondo una stima, nel solo anno fiscale 1987

gli aiuti militari americani clandestini ai mujahiddin ammontarono a 660 milioni di dollari — «più del totale degli aiuti dati dagli americani ai contras in Nicaragua» (Ahmad, Barnet 1988, p. 44). A parte il diretto finanziamento dell’America, la Cia finanziò la guerra mediante il commercio di droga, esattamente come in Nicaragua. L'effetto sull’Afghanistan e sul Pakistan fu devastante. Prima del jihad afghano, in Pakistan e in Afghanistan non esisteva alcuna produzione locale di eroina; la produzione di oppio (una droga ben diversa dall’eroina) era diretta a piccoli mercati locali. Michel Chossudovsky, professore di Economia all’Università di Ottawa, stima che, nel giro di soli due anni dall’entrata della Cia nel jihad afghano, «dalla regione del confine afghano-pakistano proveniva gran parte dell’eroina destinata al mercato mondiale, e a coprire il 60% del consumo di eroina negli Stati Uniti» (2001, p. 4). La leva per espandere il commercio della droga era semplice: quando il jihad si propagò in Afghanistan, i mujahiddin pretesero che i contadini pagassero una tassa sull’oppio. Invece di muovere guerra contro la droga, la Cia fece del commercio della droga un modo per finanziare la guerra fredda. Al termine del jihad antisovietico, la regione dell'Asia centrale produceva il 75% dell’oppio di tutto il mondo, del valore di numerosi miliardi di dollari (McCoy 1997)!3, 13 Chossudovsky ha pure sintetizzato alcune informazioni disponibili riguardo alla crescita del commercio di droga.

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Le conseguenze sul Pakistan, alleato chiave dell'America nel muovere la guerra fredda in Asia centrale, furono rovinose. In primo luogo, l'aumento di produzione dell’oppio corrispose a un aumento di consumo locale; connessione, questa,

difficilmente fortuita: il Programma di controllo sulla droga delle Nazioni Unite stimò che la popolazione dedita all’eroina in Pakistan salì da quasi zero nel 1979 a 1,2 milioni nel 1985,

«un incremento enorme rispetto a quello conosciuto da ogni altro paese» (McCoy 1997: citato in Chossudovsky 2001). Vi furono altri due modi in cui il jihad afghano colpì il Pakistan. Il primo di essi fu il suo impatto sull’esercito e sui servizi segreti, i quali risultarono di importanza fondamentale per conferire alla Cia un effettivo potere in Afghanistan e, più in generale, nell'Asia centrale sovietica. Più il jihad antisovietico si

espandeva, più i servizi segreti, in particolare l’Isi, si spostavano verso il centro del potere governativo in Pakistan. L’islamizzazione della lotta antisovietica si ispirò al processo di islamizzazione dello Stato pakistano sotto Zia e allo stesso tempo lo rafforzò (Hoodbhoy 2001, p. 7). Il secondo fu che, più il jihad afghano acquistava velocità, più alimentava una propaggine regionale, il jihad del Kashmir (Hoodbhoy 2001, p. 7). Le organizzazioni del jihad erano di così cruciale importanza nel funzionamento dello Stato pakistano all’epoca in cui Zia lasciò l’incarico, che la tendenza all’islamizzazione dello Stato proseguì con i governi successivi a Zia. Le Ordinanze Hudud!4 ele leggi sulla bestemmia rimasero in vigore. L’Islam di Jameet-eUlema, un partito chiave in quell’alleanza che era il jihad afghano, diventò una parte del governo di coalizione di Benazir Bhutto nel 1993 (Chossudovsky 2001). A questo punto, dovrebbe essere chiaro che la Cia fu fondamentale per creare il legame tra Islam e terrore in Asia centrale. I gruppi che essa addestrava e sponsorizzava avevano in 14 L’Ordinanza Hudud del 1979 dichiarava illecita ogni attività sessuale al di fuori del matrimonio. Autorizzava inoltre la fustigazione delle donne accusate di adulterio.

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comune tre caratteristiche: la tattica del terrore, l’aver sposato la causa della guerra santa, e l’impiego di combattenti provenienti da fuori dei confini nazionali (gli arabi afghani). Le conseguenze furono evidenti in paesi tanto diversi e lontani come l'Indonesia e l'Algeria. Oggi, il jihad di Laskar in Indonesia è guidato, a quanto pare, da una dozzina di comandanti che combatterono nel jihad afghano (Solomon 2001, p. 9). In Algeria, quando al Fronte islamico di salvezza (Fis) venne impedito di prendere il potere da parte dell’esercito algerino, allorché apparve chiaro che avrebbe vinto lé elezioni del 1991, quelli della leadership politica del Fis che avevano aperto la strada parlamentare furono eclissati dai sostenitori di un jihad armato. Gli algerini afghani «ebbero un ruolo importante nella formazione dei gruppi estremisti islamici della crisi post-Chadli». Sebbene il loro numero preciso sia ignoto, Martin Stone riporta che «la sola ambasciata pakistana di Algeri rilasciò 2800 visti ai volontari algerini intorno alla metà degli anni Ottanta». Uno dei più importanti leader degli algerini afghani, Kamerredin Kherbane, continuò a prestare servizio nel consiglio esecutivo del Fis mentre era in esilio (Stone 1997, p. 183). La guerra fredda creò uno scisma politico nell'Islam. In contrasto con i movimenti sociali islamisti radicali come il Fis del prima-elezioni in Algeria, o i primi rivoluzionari in Iran, la guerra fredda ha dato agli Stati Uniti una versione conservatrice a guida statale dell'Islam politico in paesi come il Pakistan e l'Afghanistan. In un saggio sull’11 settembre, Olivier Roy ha messo efficacemente in contrasto queste tendenze: l’Islam politico radicale contro il «neofondamentalismo» conservatore. I movimenti sociali islamisti ebbero origine nel XX secolo di fronte all’occupazione imperiale: essi miravano a ringiovanire l'Islam, non soltanto come «una mera religione», ma come «un’ideologia politica che dovrebbe essere integrata in tutti gli aspetti della società (politica, diritto, economia, giustizia sociale, politica estera ecc.)» (Roy 2001). Benché avesse cominciato col chiedere l’edificazione di una 159

comunità musulmana sopranazionale (v72724), l’islamismo radicale si adattò allo Stato-nazione e fece germogliare differenti versioni nazionali dell’islamismo. Questo cambiamento è stato fortemente drammatico in movimenti quali il libanese Hezbollah, che ha rinunciato all’idea di uno Stato islamico ed è entrato a far parte del processo elettorale, e Hamas,

la cui critica rivolta all’Olp è che essa ha tradito non l'Islam, ma la nazione palestinese. Dove viene loro consentito, questi movimenti operano nell’ambito di strutture legali. Sebbene non necessariamente democratici, essi consolidano le condi-

zioni per la democrazia estendendo la partecipazione al processo politico. Al contrario, imovimenti neofondamentalisti a guida statale hanno in comune un ordine del giorno conservatore. Sul piano politico, il loro obiettivo si limita alla realizzazione della sbarza (la legge islamica). Sul piano sociale, hanno in comune un conservatorismo evidenziato dall’opposizione alla presenza femminile nella vita pubblica e da un violento settarismo (anti-shz4). Pur traendo origine dagli sforzi fatti da regimi impopolari per legittimare il potere, la storia dei movimenti neo-fondamentalisti mostra che questi sforzi hanno sortito in realtà l’effetto contrario. Invece di sviluppare le radici nazionali, il neofondamentalismo è diventato sopranazionale; sradicati, isuoi membri hanno rotto con i legami familiari e con il paese d'origine. Secondo Roy, «mentre gli islamisti si adattano allo Stato-nazione, i neofondamentalisti incarnano la crisi dello Stato-nazione [...]. Questo nuovo marchio di fondamentalismo sopranazionale è più un prodotto dell’attuale globalizzazione che del passato islamico» (Roy 2001). Se i mujahiddin e al-Qaeda furono prodotti neofondamentalisti della guerra fredda — addestrati, armati e finanziati dalla Cia e dai suoi alleati locali —, i talebani ebbero origine dall’agonia e dalle ceneri della guerra contro l'Unione Sovietica. Quello talebano fu un movimento nato al di là del confine in Pakistan al tempo in cui l’intera popolazione era stata soppiantata non una ma numerose volte, e quando nel paese 160

non era rimasta nessuna classe colta che contasse. Il ta/id era uno studente e il movimento studentesco, il Taliban, era na-

to da uno stato di guerra protrattosi per decenni, da bambini nati in campi-profughi di confine; da orfani privi di qualsiasi cameratismo, se non quello dei compagni di studio di sesso maschile nelle madrasa; da madrasa che all’inizio forni-

rono reclute tra gli studenti per difendere la popolazione — per ironia della sorte, donne e bambini — dalla lussuria e dal saccheggio dei guerriglieri mujahiddin. Nato da una società abbrutita, il movimento dei talebani era tragicamente destinato ad abbrutirla ulteriormente. Un vecchio in una moschea di Kandahar, una rovina architettonica, che un tempo fu

un'antica città piena di giardini, fontane e palazzi, disse a Eqbal Ahmad: «Sono cresciuti al buio in mezzo alla morte. Sono pieni di rabbia e ignoranti, e odiano tutto ciò che reca gioia alla vita» (1999). Sia coloro che considerano quello dei talebani un movimento islamico, sia coloro che lo reputano un movimento tribale (pashtun), lo vedono come un residuo premoderno in un mondo moderno. Ma sfugge loro il punto cruciale riguardo ai talebani: anche se evoca l’era premoderna per il suo particolare linguaggio e le sue pratiche peculiari, il movimento dei talebani è il risultato dell’incontro di un popolo premoderno con un potere imperialista moderno. Dato il tipo di vita decentralizzato e localizzato, il popolo afghano è stato soggetto a due progetti di Stato fortemente centralizzati negli ultimi decenni: prima il marxismo, sostenuto dai sovietici, poi l’isla-

mizzazione appoggiata dalla Cia!5. Quando ho chiesto a due colleghi, uno afghano e l’altro studente americano dell’Afghanistan, come un movimento iniziato in difesa delle donne e dei giovani potesse arrivare a rivoltarsi contro le une e gli 15 «Le ideologie in contrasto — marxismo e fondamentalismo — sono estranee alla cultura afghana. L’Afghanistan è una società varia e pluralistica; gli ordini del giorno accentratori e unitari non possono fare appello ad esso» (Ahmad 1991).

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altri!6, mi hanno risposto che questo sviluppo va inquadrato in un triplice contesto: il passaggio dalla forzata uguaglianza sessuale dei comunisti alla forzata misoginia dei talebani, la combinazione del tradizionale isolamento maschile delle madrasa con il militarismo dell’addestramento al jihad, e infine,

la paura dei capi dei talebani che i loro membri potessero abbandonarsi agli stupri, una pratica per la quale i mujahiddin erano tristemente famosi!”. È vero, la Cia non ha creato i ta-

lebani. Ma fu la Cia a creare i mujahiddin e a sposare la causa sia di Bin Laden sia dei talebani quali alternative al nazionalismo secolare. Allo stesso modo in cui, in un altro contesto, i servizi segreti israeliani consentirono all’organizzazione

Hamas di operare indisturbata durante la prima intifada — permettendole di aprire una università e conti bancari, e forse perfino aiutandola con finanziamenti, nella speranza di metterla su contro l’Olp — e poi raccolsero tempesta nella seconda intifada!8. Quello che voglio affermare è semplicemente questo: l’attuale «fondamentalismo» è un progetto politico moderno, non un residuo culturale della tradizione. Senza dubbio, mol-

ti degli elementi dell’attuale progetto «fondamentalista» — co16 Ahmad Rashid (1995) spiega che i talebani non soltanto bandirono le donne dalla vita pubblica, ma proibirono anche numerose attività svolte dagli uomini, come tutti i giochi con la palla e la musica (a eccezione della batteria), per paura che queste cose seducessero le masse (cfr. anche Ahmad 1995). !7 J. Rubin e Ashraf Ghani, conversazione con l’autore, 16 novembre 2001.

18 Quello che un tempo era stato un comandante militare della Striscia di Gaza venne così citato nel 1986: «Estendiamo qualche aiuto economico ai gruppi islamici attraverso le moschee e le scuole religiose allo scopo di aiutare a creare una forza che possa opporsi alle forze di sinistra che appoggiano l’Olp» (citato in Usher 1993, p. 19). Gli esperti israeliani della politica della difesa, Ze’ev Schiff e Ehud Ya'ari, forniscono un breve resoconto della politica israeliana nei confronti di Hamas per quanto concerne i bonifici bancari e altri margini di manovra (cfr. Schiff, Ya'ari 1991, pp. 233-34). Infine, Khaled Hroub ammette che gli israeliani usarono Hamas e l’Olp l’uno

contro l’altra, ma smentisce qualsiasi intenzionale partecipazione di Israele nell’appoggio a Hamas (cfr. Hroub 2000, pp. 200-203).

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me la produzione di oppio, le madrasa e la nozione stessa di jihad akbar — si possono far risalire all'era precedente alla colonizzazione moderna, così come si possono identificare forme di schiavitù precedenti all’era del capitalismo mercantile. E così come la schiavitù transatlantica prese una istituzione premoderna e la utilizzò per fini di accumulazione capitalista — estendendonela scala e la brutalità ben oltre la pratica o l’immaginazione precapitalista —, allo stesso modo i sostenitori della guerra fredda piegarono istituzioni tradizionali quali il jibad akbarele madrasa, ei tradizionali eccitanti come l’oppio, a fini politici moderni su una scala prima di allora mai concepita, con conseguenze devastanti. L’oppio, le madrasa, iljihad akbar: a tutte queste cose venne data nuova forma nel momento stesso in cui furono messe al servizio di una campagna americana mondiale contro «l'Impero del Male». Quando l’Unione Sovietica venne sconfitta in Afghanistan, questo nuovo terrore fu contro il popolo afghano in nome della liberazione. Eqbal Ahmad osservò che la ritirata sovietica risultò essere, per imujahiddin, un momento di verità,

piuttosto che la vittoria (Ahmad 1992a). Quando diverse fazioni dei mujahiddin si divisero secondo criteri regionali (Nord contro Sud), linguistici (parsi contro pashtun), dottrinali (sciiti contro sunniti) e perfino esterni (filoiraniani contro filosauditi), e si combatterono l’un l’altra, esse bombar-

darono e distrussero le /oro città con l’artiglieria. Proprio quando erano pronti a impadronirsi del potere, i mujahiddin persero la battaglia per conquistare i cuori e le menti della gente (Ahmad 1989, 1992a, 1992b).

La questione della responsabilità Chi è responsabile dell’attuale situazione? Per comprendere questa domanda, sarà utile mettere a confronto due momenti, quello successivo alla seconda guerra mondiale e quello successivo alla guerra fredda, e vedere come la que163

stione della responsabilità venne intesa e trattata nei due diversi contesti.

Nonostante Pearl Harbor, la seconda guerra mondiale fu combattuta in Europa e in Asia, non negli Stati Uniti. Fu l’Europa, e non gli Stati Uniti, a trovarsi di fronte alla distru-

zione fisica e civile alla fine della guerra. La questione della responsabilità per la ricostruzione post-bellica fu posta come questione politica piuttosto che come questione morale. La

sua urgenza fu sottolineata dal mutare della situazione politica in Jugoslavia, in Albania, e soprattutto in Grecia. Questo

è il contesto nel quale gli Stati Uniti accettarono la responsabilità di ristabilire le condizioni per una decente vita civile nell'Europa non comunista. L’iniziativa che ne derivò fu il piano Marshall. La guerra fredda non venne combattuta in Europa, ma nell’Asia sud-orientale, nell'Africa meridionale e nell’America centrale e meridionale. Possiamo noi, gente comune, arro-

garci il diritto di ritenere gli Stati Uniti responsabili delle loro azioni durante la guerra fredda? Si dovrebbe ritenere l’America ufficiale responsabile del bombardamento al napalm e dell’irrorazione di Agent Orange in Vietnam? O responsabile di coltivare movimenti terroristi in Africa meridionale, in Africa centrale e in Asia centrale? L'abbraccio al

terrorismo da parte dell’ America ufficiale non si è concluso con la guerra fredda. Proprio fino al 10 settembre 2001, gli Stati Uniti e il Regno Unito costrinsero i paesi africani a riconciliarsi con i movimenti terroristici. Ai governi veniva ri-

chiesto di condividere il potere con organizzazioni terroriste in nome della riconciliazione, in Mozambico, Sierra Leone e

Angola. «Riconciliazione» diventò il nome in codice per l’impunità, che mascherava una strategia per minare l’indipendenza degli Stati conquistata con tanta fatica. Se il terrorismo fu una miscela prodotta dalla guerra fredda, dopo la guerra fredda essa si trasformò in una miscela locale per l’Angola, il Mozambico o la Sierra Leone. Chi fu responsabile di questo? Come l’Afghanistan, questi paesi ospitano il terrori164

smo, 0 sono essi stessi ostaggi del terrorismo? Io credo siano vere entrambe le cose. Nessun’altra società, forse, ha pagato un prezzo più alto per la sconfitta dell’Unione Sovietica di quello pagato dall’ Afghanistan. Su una popolazione di circa 20 milioni di abitanti, un milione morirono, un altro milione e mezzo rimasero mutilati e altri 5 milioni divennero rifugiati. I rappresentanti delle Nazioni Unite stimano che circa un milione e mezzo di persone sono impazzite in conseguenza di decenni di guerra continua. I superstiti hanno vissuto nel paese più disseminato di mine di tutto il mondo!?. L’Afghanistan era una società brutalizzata ancor prima che l’attuale guerra iniziasse. L'America ufficiale ha l’abitudine di non assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Piuttosto, di solito cerca un nobile pretesto morale per l’inazione. Mi trovavo a Durban per il Congresso mondiale contro il razzismo del 2001, quando gli Stati Uniti l’abbandonarono per protesta. Il congresso riguardava i più gravi crimini del passato, quali il razzismo e la xenofobia. Quando tornai da Durban a New York, sentii i discorsi di Condeleeza Rice sulla necessità di dimenticare la schiavitù perché, diceva, la ricerca della vita civilizzata esige che dimentichiamo il passato. È vero che, se non impariamo a dimenticare, la vita si trasforma in una ricerca di vendetta.

Ognuno negli Stati Uniti non avrà altro da alimentare se non un catalogo di torti inflitti a una lunga schiera di antenati. Ma la civiltà non può essere fondata soltanto sull’oblio. Dobbiamo non soltanto imparare a dimenticare, dobbiamo anche non dimenticare di imparare. Dobbiamo anche commemorare, specialmente i crimini monumentali. L'America venne edificata su due crimini monumentali: il genocidio degli indiani d'America e l’asservimento degli americani africani. Gli Stati Uniti tendono a commemorare i crimini commessi dagli 19 Programma di Azione-Mine dell'Onu per l'Afghanistan (citato in Flanders 2001).

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altri paesi ma a dimenticare i propri, a cercare un nobile terreno morale quale pretesto per ignorare i problemi reali.

Che fare Molti di coloro che hanno criticato il bombardamento americano dell'Afghanistan hanno sostenuto che il terrorismo dovrebbe essere trattato come qualsiasi altro atto criminale. Ma se il terrorismo fosse semplicemente un crimine individuale, non sarebbe un problema politico. La differenza fra terrore politico e crimine è che il primo rivendica apertamente un appoggio. Diversamente che per il criminale, per il terrorista politico la punizione non costituisce un deterrente. Qualunque cosa possiamo pensare dei loro metodi, i terroristi hanno una causa, e hanno bisogno di essere ascoltati. Nonostante l’affermazione di Rushdie (2001), secondo cui i ter-

roristi sono dei nichilisti che si fanno prendere totalmente dagli obiettivi, ma non ne hanno nessuno, e quindi dobbiamo attaccarli senza rimorsi, bisogna riconoscere che non c’è una

soluzione militare al terrorismo. Ecco perché è più probabile che la campagna di bombardamento in Afghanistan da parte delle forze militari statunitensi venga ricordata come un misto di vendetta di sangue»e di esorcismo di tipo medievale, piuttosto che come la ricerca di una soluzione al terrorismo. La forza di Bin Laden non sta nel suo messaggio religioso, ma nel suo messaggio politico. Perfino chi è completamente estraneo alla politica conosce la risposta all’incredula domanda di Bush: «Perché ci odiano?». Quando si parla di Medio Oriente, tutti sappiamo che gli Stati Uniti rappresentano il petrolio a buon mercato, e non la libertà di parola. Il solo modo per isolare i singoli terroristi è di farlo a livello politico, affrontando i problemi dai quali i terroristi «si fanno assorbire totalmente». Se non si affrontano i problemi, non c'è alcun modo per spostare il terreno del conflitto da quello militare a quello politico, e di esaurire gli aiuti al 166

terrore politico. Se focalizziamo la nostra attenzione sui problemi, dovrebbe apparire evidente che 1’11 settembre non si sarebbe verificato se gli Stati Uniti avessero concluso la guerra fredda con la smilitarizzazione e con un atto di pace. Gli Stati Uniti, invece, non smantellarono l'apparato mondiale dell'impero al termine della guerra fredda, ma puntarono tutto sull’assicurarsi che gli Stati ostili — che furono bollati come Stati-canaglia — non si munissero di armi di distruzione di massa. In modo analogo, gli Usa non si assunsero la responsabilità della militarizzazione della vita civile e statale in zone in cui la guerra fredda fu intrapresa con conseguenze rovinose, quali l Asia sud-orientale, l'Africa meridionale, l’America centrale e l'Asia centrale; e si limitarono

invece ad andarsene. Nelle prime settimane dopo 111 settembre, i leader degli Stati Uniti e della Gran Bretagna si diedero tanta pena per confermare a gran voce che la loro era una guerra non contro l'Islam, e neppure soltanto contro il terrore islamico, ma contro il terrorismo. Per essere convincenti, tutta-

via, essi dovranno affrontare il problema del nesso tra le loro linee politiche e il terrorismo attuale. Un utile punto di partenza sarebbe di riconoscere il fallimento della politica irachena degli Stati Uniti, di rinunciare a un odio implacabile che rifiuta di distinguere tra governo iracheno e popolo iracheno, e di fare pressioni su Israele perché revochi la sua occupazione dei territori palestinesi, in atto dal 1967. È il rifiuto di affrontare i problemi che deve essere considerato come il prizzo grande ostacolo alla nostra ricerca di pace. Dal canto loro, i musulmani devono liberarsi di quella camicia di forza che è il punto di vista della vittima. Anche questo richiede una coscienza storica, per almeno due buone ragioni. Una è che soltanto una coscienza storica può aprire gli occhi ai musulmani sul fatto che l'Islam è oggi il vessillo per progetti politici diversi e contraddittori. Non sono soltanto i movimenti islamisti antimperialisti a porta167

re la bandiera dell’Islam, ma anche i progetti imperialisti; non solo le richieste di estendere la partecipazione alla vita pubblica, ma anche le agende politiche dittatoriali. Il presupposto minimo per l’azione politica, oggi, dev'essere la capacità di ammettere l’una cosa e l’altra. Il secondo presupposto è di riconoscere che così come l'Islam è cambiato ed è divenuto più complesso, allo stesso modo lo è diventata anche la configurazione della società moderna. Sempre più musulmani vivono in società a maggioranza non mu-

sulmana. E come le società a maggioranza non musulmana sono invitate a realizzare una cittadinanza uguale per tutti — senza tener conto delle differenze culturali e religiose —, così pure le società a maggioranza musulmana si trovano di fronte alla sfida di creare un’unica cittadinanza nel contesto della diversità religiosa. In materia di religione, dice il Corano, non deve esserci alcuna costrizione. L'Islam può essere più di una mera religione — in effetti, uno stile di vita —, ma lo stile di vita non deve essere una costrizione. Le

organizzazioni islamiste dovranno valutare seriamente la separazione dello Stato dalla religione, in particolare come Hezbollah ha fatto in Libano. Invece di creare un Islam politico nazionale per ogni Stato a maggioranza musulmana, la vera sfida cui i musulmani si trovano di fronte è di liberarsi della nozione stessa di Stato nazionale. Quali che siano i termini dello Stato nazionale — territoriali, culturali, lai-

ci o religiosi —, questa forma politica esportata dall’Occidente moderno al resto del mondo è una parte della modernità occidentale che ha bisogno di essere riconsiderata. L’esame decisivo della democrazia nelle società multireligiose e multiculturali non è soltanto ottenere l'appoggio della maggioranza, la nazione, ma di farlo senza perdere la fiducia della minoranza, di modo che entrambe possano appartenere a una sola comunità politica che vive secondo un solo insieme di regole.

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