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Italian Pages 124 Year 2016
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Federico Croci a cura di
La logica non è tutto Rileggendo Giovanni Gentile
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Collana diretta da: Francesco Valagussa
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Vincenzo Vitiello, Massimo Donà, Francesco Valagussa, Alfredo Gatto, Federico Croci.
La logica non è tutto Rileggendo Giovanni Gentile
a cura di Federico Croci
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© 2016, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 3 - settembre 2016 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694341 ISBN – E-book: 9788898694693 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Two businessmen standing under lightbulb as a symbol… © jozefmicic - Fotolia.com
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Nota del curatore
Il presente volume raccoglie alcuni degli interventi presentati in occasione della seconda sezione della Summer School Internazionale di Alta Formazione Filosofica svoltasi nella sede del Centro di Documentazione e Ricerca Mud’A’ – Mulino di Aglientu nei giorni 2-4 luglio 2015, sotto il Patrocinio del Senato della Repubblica Italiana. L’evento è stato organizzato dall’Associazione Culturale Inschibboleth e dalla Sezione Universitaria di Sassari della Società Filosofica Italiana, in collaborazione con il Dipartimento di Storia Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università degli Studi di Sassari e il Centro di Ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano (DIAPOREIN). Il convegno, dal titolo L’attualismo e Giovanni Gentile, ha voluto essere un’occasione di studio e riflessione all’indomani de settant’anni dall’uccisione del filosofo siciliano, caduta nell’anno 2014. Si è deciso di raccogliere in questo libro i contributi che si sono concentrati sui tre temi più problematici (e, proprio per questo, più vivi) dell’attualismo: il rapporto tra il concreto e l’astratto, la questione dell’arte e del sentimento, l’aporetica del passato.
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Non s’intende qui riassumere gli interventi, né tantomeno presentare i loro autori: preme solo sottolineare come in ciascuno dei saggi si articoli un dialogo serrato, accorato, talvolta anche spasmodico con Gentile; dialogo (in alcuni casi decennale), che rende la profondità, l’ascosità, finanche l’oscurità di un pensiero spesso trascurato e negletto, se non ridicolizzato nell’impeto dell’astio politico; dialogo che dà la misura della grandezza del pensatore, davvero tra i vertici della filosofia del ‘900, rispetto a cui tutta la filosofia italiana successiva, in sviluppo o in antitesi, ha dovuto misurarsi. La facilità della prosa gentiliana è tutta esteriore, per non dire apparente: se ci si immerge nella logica dei problemi che solleva, il groviglio aporetico si infittisce vieppiù, tanto che se ne può disperare la soluzione. Il tormento del filosofo Gentile (a cui si accompagnò, negli ultimi, cupi anni della sua biografia, il dramma dell’uomo Gentile) dà la misura di come egli stesso, vinti gli slanci giovanili di un ottimismo condotto dalla polemica anti-positivistica, iniziasse a dubitare della possibilità di una chiarificazione dei dilemmi strutturali dell’attualismo. L’atto è eterno problema, che è eterna soluzione. L’adagio dell’indimenticato maestro, Bertrando Spaventa, segna l’alba e il tramonto della parabola di una vita: non, però, dell’attualismo, che si mostra “sistema” di pensiero (pensante) più vivo che mai, capace di coinvolgere sempre d’accapo il lettore, di inquietarlo e di pungolarlo a pensare con la propria testa. Se vi era qualcosa che soleva indispettire Gentile, erano i pappagalli, specie se costoro presumevano essere allievi: il pensare in proprio, che è sempre pensare con e contro i propri maestri (nel caso dei grandi, pensare anche oltre, cioè a più fondo, il medesimo problema), fu per tutta la sua vita lo scopo della pedagogia attualistica o, meglio, dell’attualismo come pedagogia. Il “tradimento” dei discepoli più fidati, tra cui Spirito e Calogero, fu forse la prova più evidente di quanto Gentile pre-
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tendesse indipendenza da loro, anche a costo di provocare sofferenza o rottura nei rapporti personali: esso segna anche la cifra più forte della libertà di pensiero di un filosofo che ha consegnato alla storia il sentimento della filosofia come di ciò che è sempre nuovo e sempre più alto, proprio perché inclassificabile e incontenibile negli schemi e nei sistemi che, di volta in volta, si pensano e si costruiscono.
Federico Croci
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Ut pictura in tabula
Concreto e astratto nella Logica di Giovanni Gentile Vincenzo Vitiello
1. Il panorama filosofico-culturale, nel quale Giovanni Gentile si formò, era quello tipico dell’Europa della fine del secolo XIX e dei primi anni del XX, sorto sulle ceneri del “vecchio” positivismo. Tema ricorrente in quasi tutti gli indirizzi filosofici del tempo – darwinismo, pragmatismo, intuizionismo, irrazionalismo, nichilismo ecc. – era quello della concretezza ed individualità della vita e del divenire storico che sfuggono alle astrazioni ed agli schemi generalizzanti delle scienze. Ma, dove le filosofie dell’intuizione e dell’immediatezza vitale miravano ad una conoscenza pre-categoriale o post-categoriale capace di immettere direttamente nel mondo vario della storia e della vita, respingendo così parimenti l’astrazione ed il pensiero concettuale, Gentile per contro, pur animato dalla medesima ansia di concretezza e di vita, non si affidava all’esoterismo dell’intuizione immediata ed incomunicabile, arazionale quando non irrazionale, ma cercava ancora nel pensiero – nel pensiero universale, perché di tutti e di ciascuno, e capace di dare ragione (lógon didónai) – la via per giungere a cogliere la vita nel suo movimento originario. In questa prospettiva il riferimento a Hegel, ed in particolare alla Scienza della logica, rappresentava un passaggio obbligato. Hegel infatti ave-
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va elaborato una nuova logica, fondata sulla contraddizione e non sulla astratta identità, proprio al fine di cogliere il divenire, della storia e della natura, nel suo farsi. Tuttavia, secondo Gentile, Hegel non era stato all’altezza del compito, in quanto aveva fatto del divenire un “oggetto” di analisi, anziché pensarlo come concetto vivente, come lo stesso pensiero pensante. Contemplato dall’esterno, posto dinanzi al pensiero come qualcosa “che è”, puro “oggetto” fissato nella sua autoidentità, il divenire non è più divenire: è un divenuto, il precipitato di un processo non più in atto1. Alla categoria-“oggetto” di Hegel, al concetto pensato, Gentile oppone la categoria-“soggetto” o categoria-funzione di Kant: il concetto pensante che ha il mondo, l’universo intero, ad oggetto. Ma non come “oggetto presupposto”, “materia” pre-esistente, bensì in quanto “oggetto posto”, “materia” creata dalla forma stessa. L’idealismo gentiliano è un formalismo assoluto: il pensiero – conceptus, non conceptum! – pone se stesso e l’altro da sé, e questo uno actu. Da Hegel a Kant, quindi, e da Kant a Fichte, per schematizzare un itinerario di pensiero che ha nella Teoria generale dello spirito come atto puro, la sua prima sistemazione teorica. 2. Il libro si apre con una citazione da Berkeley: esse est percipi. Di nessun oggetto è possibile affermare l’essere, se non in relazione al pensiero che lo pensa. Ma Berkeley ha concepito il pensiero come cosa accanto ad altre cose, e cioè dall’esterno, laddove il pensiero, per il quale vale l’esse est percipi, non è “cosa”; è bensì l’interiore principio universale che dà vita e senso ad ogni cosa, a tutti gli enti. Il pensiero pensante, che Gentile descrive nella Teoria generale dello spirito, non osserva il mondo da “fuori”, perché è il mondo stesso, colto
1. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana (1913), Sansoni, Firenze 19543, parte I, spec. pp. 15-22.
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nella sua originante origine. È pensiero in quanto vita. Vita pensante che crea se stessa, autoctisi, ponendo insieme l’altro da sé. Quale altro – se il pensiero è tutto? Il mondo stesso, il pensiero, la vita, il volere – ma in quanto divenuti “oggetto”, in quanto posti innanzi al pensiero come puri pensati. La dialettica hegeliana – che non attraversa mai una sfera dell’essere e della coscienza, sia essa la natura o la storia, il mondo dell’arte, o della religione, o del diritto, o del pensiero puro, senza assumere la “forma” dell’oggetto che volta a volta indaga, e solo così assimilandolo e realizzandolo – è in Gentile ripresa nel suo vertice sommo: nell’actus purus, nella enérgheia teleía, nel pensiero che pensa sé stesso, noéseos nóesis. È un’enorme semplificazione concettuale, che certo impoverisce la dialettica hegeliana, ma anche la essenzializza. Fermiamoci ora sulle categorie fondamentali di questo pensiero. Anzitutto quella di “individuo”. Che questa categoria giuochi un ruolo centrale è abbastanza ovvio, basti ricordare qual è il problema intorno a cui ruota il dibattito filosofico tra la fine dell’800 e l’inizio del 900: il rapporto tra la “materia” della vita e le “forme”, in cui essa si espone o è esposta, la storia. Gentile affronta il tema muovendo dalle radici, Platone e Aristotele, per giungere, passando per la disputa medievale sugli universali, alla filosofia moderna. L’esito di questa excursus storico-filosofico – che conserva il carattere di un Corso universitario – è che fin quando universale ed individuale vengono presi come “oggetti” del pensiero, ogni tentativo di determinarli risulta vano. Un universale “oggetto” è una contradictio in adjecto, dal momento che fuor d’esso resta proprio il pensiero che lo pensa. D’altra parte il singolo non potrà mai esser colto in quanto “oggetto”, dissolvendosi esso in una rete infinita di relazioni che non consentono al pensiero di uscire mai dall’astrazione generalizzante. Solo il pensiero moderno giunge a porre il problema nella forma in cui è possibile dare ad esso soluzione. Nel cogito, infatti, la totalità delle relazioni
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costitutive dell’individualità dell’individuo si raccoglie in un punto che è insieme il centro dal quale quelle si irradiano. Il cogito, trascendentalmente pensato, realizza così la sintesi concreta della individualità reale e della vera universalità, ché in esso è presente e viva l’intera ricchezza del mondo, ma colta, per così dire, alla fonte, là donde tutto nasce e tutto si dispiega. E qui Gentile si rifà a Vico: l’individualità del cogito, del pensiero pensante non è l’individualità statica di una sostanza, è l’individualità universale di un processo, di un fieri. Verum ipsum factum – aveva detto Vico; Gentile precisa: quatenus fit. Non sostanza, ma processo: Vico contra Descartes, contro, cioè, l’interpretazione sostanzialistica del cogito, e più in generale dell’attività spirituale. Epperò Vico contra Leibniz. Già, perché non si tratta di criticare solo la riduzione dell’attività pensante a res, ma anche la sua moltiplicazione in infiniti centri, in infinite monadi, l’una esterna all’altra. Per quanto ciascuna monade rifletta in sé l’universo intero delle altre monadi tutte, queste restano pur sempre l’una esterna all’altra, ciascuna “oggetto” e “limite” delle altre, e pertanto nessuna veramente libera. Se il pensiero è qualcosa – dice Gentile – deve essere libero, e se è libero non può essere condizionato da nulla. Pertanto il pensiero o è tutto, o semplicemente non è. La critica a Leibniz, è chiaro, colpisce parimenti la “filosofia dei distinti” di Croce, che si difese attaccando. L’attualismo – sostenne – negando ogni distinzione nell’unità del pensiero conclude di necessità nel misticismo e nell’irrazionalismo. La controreplica gentiliana – la filosofia dell’atto non respinge alcuna distinzione, al contrario le accetta tutte, ma come empiriche e non trascendentali – è ineccepibile, ma solo all’apparenza. Perché il problema non si risolve affermando semplicemente l’unità dell’uno e dei molti. Non l’unità è in questione, ma il modo di concepirla. E in Gentile due ed opposte concezioni si alternano. Per un verso l’unità è data dal pensiero pensante
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inteso come la verità che si fa, che si svolge nel tempo, come la filosofia che coincide di tutto punto con la storia della filosofia; per l’altro l’unità dell’uno e del molteplice è concepita come l’eterna attualità del pensiero pensante in cui tutti i pensieri di tutte le età si raccolgono, come la philosophia perennis che è “storia ideal eterna” in quanto ha in sé l’intera storia che si svolge nel tempo. Pensiero pensante e pensiero pensato entrano in conflitto. Ché il pensiero pensante, se si pensa come storia, come la storia che “corre in tempo”, da infinito decade a finito, si temporalizza, e partecipando delle vicende della storia e del mondo è, come tutte le cose, come tutti gli enti, distinto e distinguibile, definito e definibile – ma così cancella ogni e qualsiasi differenza tra sé ed il pensiero pensato; se invece si pone come l’eterno presente che ha in sé come il tempo e lo spazio così la storia, ma non è né storia, né tempo, né spazio, allora da nessuna distinzione potrà essere affètto, né definito, appartenendo tutte le distinzioni al pensiero pensato, all’“oggetto”, al “fatto” – epperò in quanto pensiero pensante, in quanto “atto in atto”, risulterà impensabile ed ineffabile. La Teoria generale dello spirito era in aporia. Nella presentazione della seconda edizione del libro, Gentile, annunciando l’apparizione del primo volume del suo Sistema di logica, scrive: «Chi legge […] questa Teoria e non ne rimane del tutto soddisfatto, sa già che non se ne appaga né anche l’autore, e che bisognerà leggere il seguito».2 Prima di leggere il “seguito” è necessario tornare sulla critica di Gentile a Hegel, e proprio al fine di capire il “seguito”.
2. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro (1926), Sansoni, Firenze 19446, p. VI.
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3. Da quanto s’è detto poco sopra sulla Riforma della dialettica hegeliana appare in tutta evidenza la fondamentale estraneità di Gentile al pensiero di Hegel, ma va subito aggiunto che proprio questa “estraneità” – qui la rilevanza filosofica dell’interpretazione di Gentile – fa emergere il problema che inquieta la filosofia fin dalla sua origine. Quale problema? Quello della relazione tra gli enti, della symploké, senza la quale, come avvertiva Platone3, non si dà lógos, ma che, tuttavia, è quanto il lógos sembra incapace di ‘cogliere’, come Platone stesso ha per primo “mostrato”. Ma procediamo con ordine, perché diversi sono i nodi da sciogliere e non tutti di pari complessità. Anzitutto appare affatto incongrua l’obiezione gentiliana, secondo cui Hegel avrebbe “analizzato” e non “realizzato” il divenire4. Obiezione valida solo all’interno della posizione del critico, che distingue e oppone pensante e pensato, ovvero soggetto a oggetto, ma che alla luce della Fenomenologia dello spirito, il cui compito era di portare l’“esperienza della coscienza” – in termini gentiliani: il pensiero pensante – a “coscienza dell’esperienza”, ovvero a concetto, ad oggetto pensato, senza che in questo si perdesse il movimento del pensare (il pensiero pensante). Lo spirito assoluto, con cui termina l’opera hegeliana è appunto questa identità, conquistata attraverso un lungo cammino, ove il “pensante”, il soggetto, è operante sin dall’inizio, ma in latenza, per rivelarsi alla fine come l’“assoluto” che, in quanto concetto che conosce se stesso come concetto, ha “tolto” l’opposizione soggetto/oggetto nella Verità di entrambi5. Con ciò non si vuol dire affatto che Hegel 3. Platone, Soph., 259e 4-6. 4. G. Gentile, La Riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 22. 5. Cfr. G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Meier, Hamburg 19526, VIII, “Das absolute Wissen”, pp. 548-564. Peraltro l’esigenza di “togliere” (aufheben) l’opposizione soggetto/oggetto è già presente nello scritto sulla Differenz des Fichteschen und Schelligschen Systems der Philosophie, il
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sia riuscito nell’intento: il problema di “pareggiare” esperienza della coscienza e coscienza dell’esperienza (nella terminologia di Gentile: pensante e pensato, concreto e astratto) ha tormentato Hegel dalla Fenomenologia6 alla Scienza della logica7 sino all’ultima edizione dell’Enciclopedia8. Ma la “difficoltà” dell’impresa, e le aporie in cui lo stesso Hegel cadde, non consentono di mettere da parte il problema. Torniamo dunque alla Riforma e a quell’affermazione già citata e criticata: Hegel ha analizzato, non realizzato il divenire. Critica prossima all’obiezione di Trendelenburg alla dialettica hegeliana, secondo la quale l’identità di essere e non-essere, affermata nell’“analisi” delle prime categorie della Logica, negava all’origine la possibilità stessa della dialettica. Mancando la “contraddizione” tra i due primi termini, Hegel per dare origine al movimento dialettico che doveva portare al divenire, aveva fatto ricorso ad un concetto, che appartiene non al pensiero puro, come Hegel pretendeva, ma alla sfera dell’estetica, alla sensibilità: il movimento, appunto. Trendelenburg aveva scoperto il “trucco” della dialettica hegeliana. Non ritengo necessario in questa sede ripetere quanto ho detto altrove ampiamente, discutendo anche delle repliche di Karl Werder e Kuno Fischer alle critiche di Trendelenburg e la primo scritto pubblicato Hegel nel 1801, ove già allora il “Soggetto-Oggetto” fichtiano veniva criticato come ancora “soggettivo”. Cfr. G. W. F. Hegel, Werke in zwanzig Bände, 2, Jenaer Schriften 1801-1807, Suhrkamp, Frankfurt/M 1970, pp. 9-138. Sul tema rinvio a V. Vitiello, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Guerini e Associati, Milano 2003, parte I, cap. I, “Del giudizio e del sillogismo”, pp. 75-115. 6. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Vorrede, pp. 48-55, sulla “proposizione speculativa”. 7. Cfr. G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, Werke, cit., B.de 5-6, 1969, II, spec. pp. 562-566. 8. G. W. F. Hegel, Enziklopädie der philosophischen Wisenschaften, Werke, cit., B.de 8-10 (1970), III, §§ 574-577, sui tre sillogismi finali.
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controreplica di quest’ultimo. Mi limito a ricordare l’obiezione principale che muovevo a Trendelenburg, e che colpivano insieme i suoi due oppositori9. Se si legge con maggiore attenzione il testo hegeliano – dicevo – ci si accorge che non c’è in Hegel “passaggio” da essere e nulla al divenire. Essere e nulla non sono “opposti” prima del divenire, ma nel divenire e solo nel divenire. E infatti Hegel dice che l’essere non passa nel nulla, né il nulla nell’essere, ma entrambi sono “passati” (übergangen) l’uno nell’altro e l’altro nell’uno10. “Prima” del divenire, essere e nulla sono separati solo nella Meinung, nell’opinione. Sono, cioè, separati solo per l’intelletto astratto, Verstand. Nella ragione e per la ragione essere e non-essere sono sempre distinti-uniti nel divenire. Esemplificavo, poi, citando la koinonía tôn ghenôn del Sofista: come l’identico è identico in quanto diverso dal diverso, e questo, il diverso, è diverso perché identico a sé, così l’essere e il nulla della prima triade della Logica sono essere e nulla solo nella relazione del divenire. Che è quanto Hegel esprime dicendo che il Terzo – il divenire – è il vero Primo: il concetto a partire dal quale essere e non-essere sono pensabili nella loro verità e realtà, ossia: nella relazione che li costituisce. Concludevo richiamandomi ai paragrafi 80-82 dell’Enciclopedia, nei quali Hegel spiega la relazione intelletto-ragione, Verstand-Vernunft, ove non a caso il Verstand è posto “prima” della Vernunft, volendo indicare non una successione temporale, ma logica, o meglio ancora: “topologica”: il “prima” dice cioè che l’intelletto è momento della ragione. Estendevo queste critiche a Gentile, confortato dal fatto che il rapporto Intelletto/Ragione era da Gentile letteralmente capovolto nel rapporto pensiero pensante/pensiero pensato, ov-
9. Cfr. V. Vitiello, Hegel in Italia, cit., pp. 193-201 e 230-248. 10. G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 83
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vero: concreto/astratto. La vita anziché contenere in sé l’astrazione, era essa a porre l’astratto. Anzi: se stessa come “astratto”. L’astrazione che Gentile voleva espungere dalla vita, come il “negativo” da negare, aveva proprio nella vita – nella vita della ragione – la sua radice. Come spiegare questa aporia? L’aporia della vita che nega se stessa nel porsi, e per porsi? E ciò in una filosofia che vuole celebrare la positiva identità di pensiero e vita. Non stiamo qui davanti alla contraddizione sopra rilevata tra due opposte posizioni: l’atto come coscienza dal raggio infinito che ha in sé l’intero cammino della storia, il futuro non meno del passato11, e l’atto che è nella storia tra passato e futuro. No, qui stiamo davanti ad un’aporia ben più grave: il pensiero in quanto positivo porre se stesso, pone sé come negazione di sé. E non vale dire che si pone come negazione di sé, per porsi in ulteriore posizione, perché anche questa, come tutte le successive posizioni sono negative. E non si dica neppure che tutte queste posizioni sono nella loro successione negativa il vero ed unico positivo. Perché proprio il positivo manca. È un incessante cadere, e neppure sempre più in basso, che sarebbe comunque un diverso porsi nella negativa autoposizione; no, è sempre e solo la stessa negatività che si ripete. Il concreto mai si coglie come vita pensante, ma sempre solo nel e come “oggetto pensato”. Resta da ultimo una sola domanda: come la distinzione pensante/pensato, concreto/astratto, soggetto/oggetto? L’enormità dell’aporia impone all’interprete di ritornare sui propri passi. Forse la critica di Gentile a Hegel non è assimilabile a quella del Trendelenburg. Gentile paragona il divenire 11. Ne “Il superamento del tempo nella storia”, Gentile cita Manzoni: «E degli anni ancor non nati / Daniel si ricordò». Cfr. G. Gentile, Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Sansoni, Firenze 1936, pp. 303321 (i versi citati sono a p. 313); rist. in G. Gentile, Frammenti di Estetica e di teoria della storia, voll. 2, Le Lettere, Firenze 1992, vol. II, pp. 3-20.
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di Hegel ad un fuoco dipinto (ut pictura in tabula), che né riscalda né si muove. Ma cosa è più immobile del “pensato”? Cosa del pensiero pensante resta come vita e divenire nella pictura del pensiero pensato? Non è ammissibile che Gentile non sia reso conto di questa interna aporia del suo pensiero. La sua insoddisfazione per i risultati conseguiti nella Teoria prova il contrario. Ma perché tornare sull’interpretazione di Hegel e non passare direttamente al Sistema di logica, a cui Gentile fa esplicito riferimento, quando dichiara la sua insoddisfazione per la Teoria? Alla luce di quanto detto sulla Riforma della dialettica hegeliana c’è poco da sperare che si possano trovare proprio in essa lumi per intendere meglio nei Sistemi. Ma forse quella luce era troppo fioca. Perché se si è giudicata “estranea” allo spirito dell’hegelismo la posizione gentiliana, non è poi meno estranea allo Standpunkt della filosofia dell’atto la critica mossa all’interpretazione gentiliana di Hegel. La Riforma non va valutata solo per la sua congruenza alla filosofia che intendeva riformare; va considerata anche come opera a sé. Che la critica di Gentile sia “esterna” all’autore criticato non è dubbio, ma qual era il “fine” di quella critica? Di cosa era in cerca Gentile? 4. Di un pensiero capace di dare ragione di sé come vita, ove la ragione di sé è la vita stessa. E la logica di Hegel non risponde a tal fine, in quanto muove dalla separazione della logica dalla vita. E non vale obiettare che in Hegel v’è una logica “naturale o inconscia” che intesse «tutte le rappresentazioni, tutti gli scopi, tutti gli interessi e tutte le azioni»12, della quale la teoria logica, ovvero: la logica cosciente di sé, è ragionata es-plicazione. Non vale, perché proprio questa scissione tra logica inconscia e teoria logica è, dal punto di vista di Gentile, 12. G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 26.
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la negazione dell’unità-identità di pensiero e vita, vita e pensiero. La logica inconscia è un “presupposto”, come la natura, il mondo, Dio stesso, che il pensiero pensante deve respingere, perché limita la sua libertà. La vita o è il pensiero stesso, o non è vita, vita vivente, così come il pensiero o è la vita stessa, o non è pensiero, pensiero pensante, pensiero “in atto”, en érgo13. Solo questa assoluta identità di vita e pensiero permette di superare l’irrazionalismo che si cela in ogni intuizionismo, vitalismo, prammatismo, esistenzialismo, in ogni filosofia che presupponga qualcosa al pensiero. Fosse pure il pensiero stesso, come in Hegel la logica naturale e inconscia. Il pensiero-vita di Gentile – questo è un punto al quale bisogna dedicare massima attenzione – non è dunque mera “coscienza di sé”: è ragione di sé. Qui l’estrema distanza da Hegel, che spiega l’affermazione che si è sopra citata e criticata, secondo cui Hegel “analizza” e “non realizza il divenire”. Alla quale ora non si può obiettare, come sopra s’è fatto, che Gentile non comprende che proprio analizzando il divenire Hegel lo realizza. Perché in Hegel tra l’analisi e la realizzazione del divenire v’è un salto. L’analisi ci dice che essere e non-essere sono identici, la realizzazione che né l’essere “passa” nel nulla, né il nulla nell’essere, ma che entrambi “sono passati” l’uno nell’altro. Sono passati – solo questo dice Hegel. Un’affermazione, una narrazione. L’esposizione di un fatto, di un semplice fatto: manca la “ragione”, il lógon didónai. E qui dobbiamo uscire da Gentile e pur da Hegel, perché il problema è ben più antico di entrambi – come pur si è accennato – e solo se l’affrontiamo come s’è originariamente presentato possiamo intenderlo in tutta la sua abissale problematicità.
13. Sul tema cfr. B. de Giovanni, “Giovanni Gentile”, in Aa. Vv., Il contributo italiano alla storia del pensiero. Filosofia, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2001, pp. 604-615.
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Torniamo alla koinonía tôn ghenôn ed all’esempio sopra fatto dei due generi sommi, identico e diverso. S’è detto che l’identico “è” tale, perché diverso dal diverso, così come il diverso “ è” tale, perché identico a sé. Abbiamo messo la è tra virgolette, per sottolineare che l’identico non diviene identico per la relazione al diverso, né il diverso diviene diverso per la relazione all’identico, ma, perché è identico, l’identico è diverso dal diverso, e perché è diverso, il diverso è identico a sé. L’identità dell’identico è il “per sé” (kath’hautó) dell’identico, ciò per cui l’identico è in relazione al diverso, e lo stesso va detto per il diverso. E cioè: la relazione tra essenti non implica affatto il “divenire”. Il divenire è un tipo di relazione ‘differente’ da quella che lega identico e diverso. La koinonía tôn ghenôn è una comunanza di eterni, in cui ciascuno rapportandosi agli altri resta quello che “è”. La relazione non lo muta; anzi lo fissa – non ora, ma da sempre – nel suo essere. Pertanto non basta affermare la relazionalità di essere e non-essere (prescindo qui totalmente dalla vexata quaestio del nulla) per dire che l’uno non passa ma è passato nell’altro e l’altro nell’uno. Il divenire è certo relazione, ma non ogni relazione è divenire. Pertanto la spiegazione hegeliana del Werden non dà ragione di ciò che ‘racconta’. Ma non possiamo fermarci a questo rilievo. Dobbiamo anche dire perché non dà ragione di quanto semplicemente narra. Perché il divenire è quella ‘relazione’ di cui non si può dare ragione. È di questo che ora si deve dar ragione. 5. La “ragione” di questa impossibilità di “dare ragione” è esposta in forma di dialogo nel Parmenide platonico. Il vecchio sophós, non senza sottile e profonda ironia mutato da Platone in philó-sophos, ha già esaminato, le prime due ipotesi, quella dell’“Uno (che è) Uno”, dell’Uno senza rapporto alcuno al molteplice, e l’altra dell’“Uno che è”, dell’Uno in rapporto
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al molteplice, giungendo alla conclusione che del primo Uno nulla si può dire, né pensare, né sentire, mentre del secondo si può dire-pensare tutto ed il contrario di tutto.14 È il momento di affrontare la terza ipotesi (tò tríton)15, strettamente legata alla seconda, ma non riducibile a sua appendice, perché se il tema – la relazione Uno-molti – è lo stesso, diversa è però la prospettiva da cui è condotta l’analisi. Non ai termini della relazione Parmenide volge ora la sua “ricerca”, ma alla relazione stessa, ed ai suoi termini solo in quanto in essa compresi. Prendendo ad esempio due “idee” opposte, Quiete e Movimento, tra loro legate da un rapporto più complesso che non quello tra identico e diverso, Parmenide chiede se il passaggio della quiete in movimento e del movimento in quiete sia un mutamento di stato. Il suo giovanissimo interlocutore non può che rispondere assentendo. Ma qui il chalepón: se il passaggio della quiete a movimento è un mutamento di stato, allora la quiete muta di stato prima di mutare di stato! Come dire: la quiete si muove “prima” di muoversi! Quanto al passaggio inverso dal movimento alla quiete, essendo il movimento di per sé un continuo mutamento di stato, nel passare alla quiete il movimento “resta” movimento. In breve, il termine medio tra i due estremi della relazione, e cioè la relazione tra i due estremi non si riesce a cogliere, perché in entrambi i “passaggi” non c’è: la quiete non passa in movimento ma è già passata; il movimento passa in quiete restando movimento. Il chalepón, però, non riguarda solo la relazione del divenire, il passaggio dalla quiete al movimento e dal movimento alla quiete; riguarda anche la relazione tra identità e diversità. Almeno così pare. Infatti l’identico è tale, perché diverso dal diverso, e il diverso è diverso perché identico a sé, pertanto nel primo caso il termine medio che costituisce la relazione 14. Platone, Parmenide, 137c 4 – 155e 3. 15. Ivi, 155e 4.
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è il “diverso”, nel secondo l’“identico”. Giusto: sempre nella relazione identico/diverso è uno dei termini che funge da medio: il diverso, quando si tratta dell’identità dell’identico, l’identico quando si tratta della diversità del diverso. Non per questo, però, la relazione viene meno. Come invece accade col divenire. Nella relazione identico/diverso non ha nessun ruolo il tempo, il “prima” e il “dopo” del tempo, e pertanto la diversità dell’identico dal diverso, e l’identità con sé del diverso, non sottraggono all’identico l’identità e al diverso la diversità; per contro nella relazione che è propria del divenire l’esser la quiete già movimento nel passare a movimento, e il persistere del movimento in sé nel passare in quiete, tolgono proprio il ‘medio’ – la differenza tra il “prima” e il “dopo” – che costituisce il divenire, e cioè: il passaggio, il mutamento di stato. Pareggiare la relazione Quiete/Movimento alla relazione Identità/Diversità significa affermare che da sempre la Quiete è Movimento e il Movimento Quiete. Terribile appare ora l’affermazione di Hegel che l’esser non passa nel nulla, il nulla non passa nell’essere, ma entrambi sono passati l’uno nell’altro, l’altro nell’uno. Passati già da sempre: “tautà aeí”, per ripetere Aristotele16. Le stesse cose – sempre. Ma Platone non dice affatto questo. Non nega affatto il divenire, il “mutamento di stato”. Afferma, invece, l’incapacità del pensiero di darne ragione. In qual tempo la quiete passa in movimento e il movimento in quiete? In qual tempo accade il “mutamento di stato”? En chróno oudení. In nessun tempo accade. Accade nell’exaíphnes, nel non-tempo dell’istante, del repentino, dell’improvviso, nell’atopico frammezzo (átopon metaxú), di un inafferrabile ‘medio’17, che nomini solo
16. Aristotele, Metaphysica, XII, 6, 1072a 8. 17. Platone, Parmenide, 156c 7 – 157b 5e 6. «Kaì tò hèn […] hóte metabállei, en oudenì chróno hàn eíe, oudè kinoît’ hàn tóte, oud’ hàn staíe» (156e 3-7).
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togliendogli il nome, che dici solo disdicendo il detto. Pura contraddizione. Assurdo pretendere di “leggere” nell’affermazione di Gentile “Hegel analizza e non realizza il divenire” quanto ora si è detto. Non assurdo, ma poco “comprensiva” è però quell’ermeneutica che, fermandosi al testo, non s’interroga sull’orizzonte problematico al quale il “testo” appartiene. Ed è quanto s’è cercato di fare risalendo da Gentile a Hegel, e quindi all’origine del pensiero filosofico, a Platone. Chiaro che in questa “estensione” dell’orizzonte storico-problematico in questione è insieme con Gentile la “crisi della ragione” che si è espressa in forme e modi diversi già alla fine del XIX secolo e poi nel XX, a cui s’è fatto cenno nel presentare il clima culturale e filosofico in cui si è formato Gentile. Crisi della ragione, nella quale Gentile s’immerse totalmente, con rigore estremo, per poter contrastarla dall’interno. Era convinto che non è sufficiente al filosofo mettersi a camminare per dimostrare il movimento18. Era necessaria la Logica. 6. Nel Sistema di logica come teoria del conoscere non mancò di disorientare gli “allievi” di Gentile. Ma come, dopo tanto parlare dei limiti della ragione sistematica – del pensiero pensato, del concetto logico che si astrae dalla vita – si torna alla logica come “sistema” e come “teoria”? e come teoria del conoscere, di ciò che non è “oggetto”, ma “soggetto” della teoria, della conoscenza? Non si chiude in tal modo la libertà del pensante nella gabbia del pensato? Questi ‘allievi’ di Gentile – e mi riferisco in particolare a Guido Calogero e a Ugo Spirito, le intelligenze più vivaci dell’at-
18. Cfr. G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, 2. voll., Sansoni, Firenze, I (1917) 19554, II (1921) 19423, p. 102.
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tualismo – non esitarono a criticare il loro Maestro19. Gentile si sentì solo. Il suo problema non era stato compreso da quegli stessi che gli erano stati più vicino20. Il suo problema: la necessità dell’astratto, del concetto, della teoria – del pensiero pensato –, privato del quale il pensiero pensante viene meno, neppure è pensiero, ma solo cieca immediatezza. Gentile qui lotta contro la conclusione scettica e nichilistica del Parmenide, conseguenza “necessaria” dell’atopon metaxú della terza ipotesi21. Il suo primo compito è allora quello di mostrare la non estraneità del pensato al pensante, dell’astratto al concreto, ma ciò non a partire dal concreto, dal pensante, ma dall’astratto, dal pensato. La necessità del loro rapporto si mostra se si riesce a provare che nella logica del pensato opera il pensante, che nell’astratto è già il concreto. L’argomentazione di Gentile si muove coerentemente entro la logica dell’astratto, del contenuto, dell’“oggetto” del conoscere. Le scienze particolari sono tali perché ciascuna ha il suo campo d’indagine determinato. È quella che è, non essendo le altre. Il “non”, l’esclusione dal proprio campo, è insieme la relazione che ciascuna ha con le altre. Il sapere filosofico, che non ha un 19. La critica di Calogero, già implicita nella tesi di laurea I fondamenti della logica aristotelica, discussa proprio con Gentile, nel 1925, e pubblicata due anni dopo da Le Monnier di Firenze, venne resa esplicita in due saggi “teoretici”, Coscienza e volontà del 1925 e Gnoseologia e idealismo del 1929, ripresi entrambi ne La conclusione della filosofia del conosere, edita sempre da Le Monnier nel 1938, nella Collana diretta proprio da Gentile, che pur aveva definito “feroce” il titolo del libro: cfr. G. Gentile, Epistolario XIII, Carteggio Gentile-Calogero (1926-1942), a cura di C. Farsetti, Le Lettere, Firenze 1998, Lettera del 29/7/1935. Quanto a Spirito, cfr. Scienza e filosofia (1933), Sansoni, Firenze 19502, e La vita come ricerca (1937), Sansoni, Firenze 19483. In merito rinvio al già citato Hegel in Italia, pp. 154-164. 20. Fu deluso in particolare da Spirito, il più “fedele” dei suoi allievi, al quale, nella replica alle critiche, rivolse uno stupito, ma anche ironico: “tu quoque!” (cfr. La vita come ricerca, cit., appendice, p. 305). 21. Platone, Parmenide, 166c 2-5.
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campo predeterminato, non soltanto deve porsi in rapporto con le altre, per definire il proprio, essendo così una “scienza” tra molte; deve al contempo sapere di sé che, distinguendo le varie scienze, e da esse distinguendosi, si pone come il Tutto delle singole parti. Se non sapesse di sé come Tutto, non potrebbe distinguersi dalle altre. Il pensante è nel pensato, opera nel pensato. Chiaro che il “sé” della filosofia – la conoscenza del Tutto che con-tiene (tiene insieme e dentro di sé) le parti – non è soltanto della filosofia: è di ogni forma di conoscenza – di ogni scienza – che in tanto può definire il suo campo d’azione, in quanto, come s’è detto, esclude da sé gli altri campi, e così, nel rapportarsi ad essi, è il Tutto. Non diversamente dalla filosofia. Muovendo dal pensato, Gentile ha mostrato la presenza del pensiero pensante in esso. Ma non come il “negativo” che nega la sua stessa opera nel realizzarla. Anzi come il positivo che riconosce se stesso nella sua realizzazione. All’opposizione semplice pensiero pensante/pensiero pensato della Teoria generale dello spirito il Sistema di logica sostituiscono la ben più complessa correlazione tra concreto e astratto. Astratto non è il pensato, ma il pensato preso separatamente dal pensante; concreto non è il pensante, ma il pensante preso unitamente al pensato. Ma è possibile l’“astratto”? L’immanenza del pensante nel pensato non toglie la loro distinzione? Perché e come l’astratto? Questa la risposta di Gentile: Il pensiero vive abbracciandosi alla colonna adamantina del vero: e ha bisogno di essa come di sostegno affatto indispensabile. Eterno inquieto, non turbina nel suo astratto movimento (che non sarebbe tale, anzi l’opposto), ma fluisce e s’incorpora in una quiete eterna. Eterno insoddisfatto, vagheggia sempre la sua creatura che è perfezione intera e interamente appagante.22
22. Cfr. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., vol. II, p. 26.
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L’astratto mèta mai raggiunta del concreto. La grande illusione è dunque questa? Il pensiero pensato? 7. La logica dell’astratto è la “ripetizione” (Wiederholung), dal punto di vista della filosofia dell’atto, della logica antica, classica, “aristotelica”.23 In questa ripetizione i “tre” principi: di identità, di non contraddizione, del terzo escluso, si configurano come “momenti” di un unico principio. “A è A” comporta infatti con la negazione dell’opposto, “A non è non-A”, la loro reciproca esclusione, “A o è A, o è non-A”. Ma la successione logica non è quale immediatamente appare: dall’identità alla non contraddizione all’esclusione del terzo; è l’inversa: il terzo principio esplica il secondo e il primo. «L’andare innanzi è un retrocedere nel fondamento»24. La citazione hegeliana serve ad indicare che pur nella logica dell’astratto v’è movimento, sviluppo, divenire. La colonna adamantina del vero, l’eterno, trema. E non per l’intervento del pensante che da dentro s’agita e l’agita. No, trema di suo tremore, si muove di suo movimento. E questo appare ancor più nell’analisi delle forme logiche. Limitiamoci qui a considerare il Giudizio. Prendiamo la formula più semplice, quella del giudizio d’identità: A è A. La copula afferma l’identità di due, ossia di differenti. Questo significa che prima della relazione predicativa non v’è identità, ovvero: il singolo “A” non è identico a sé, non è “A”. Il singolo “A” è un non-pensato, non un ente, bensì un ni-ente, un non-ente. “A”, l’essere di “A” nasce col giudizio, la prima cellula del pensiero, prima della quale non c’è pensie-
23. II Parte del Sistema: I, pp. 167-273. Sull’importanza che Gentile attribuiva al suo “concetto della logica classica” cfr. la Prefazione alla I ed. del II volume dei Sistemi: ivi, p. VII. 24. G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 70.
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ro, né essente. Ex nihilo cogitatio25. Sin nel giudizio dunque s’esprime il movimento dal nulla all’essere. Ma cos’altro è la dialettica del pensiero pensante se non il movimento dal nulla all’essere? Certo il giudizio in quanto forma del pensiero pensato non può essere senza movimento, posto che in esso è immanente il pensiero pensante; ma il movimento che ora abbiamo visto nel giudizio è proprio del giudizio e non del sapere di sé (di sé come coscienza del Tutto in cui sono le parti) che è immanente nel giudizio. È il movimento della parte, non del tutto. E cioè: nel giudizio “A è A” viene considerato solo l’ente “A” nella sua identità con sé (nel suo essere “A = A”), e non il contesto (la totalità) in cui “A” è posto; ed appartiene a questo giudizio particolare il movimento, la dialettica, di cui ora si discute. D’altronde, se si nega la dialettica propria del pensato, come si può poi distinguere la logica gentiliana dell’astratto da quella “aristotelica”? Ma se esistono due dialettiche, quella del concreto e l’altra dell’astratto, in che la loro distinzione?26 In che l’“Io = Io” si differenzia dall’“A = A”? Ove si rispondesse che l’identità dell’Io (l’“Io = Io”) meglio si esprime con la formula oppositiva: “Io = non-Io”, non si potrebbe non replicare che anche “A = A” può esprimersi con la forma dell’opposizione, “non-A = A”, dal momento che “A” prima di “A = A” non è “A”. Invero, a voler fermarsi alle formule, si deve osservare che il “non-Io” del giudizio: “Io = non-Io”, è sol esso il vero “Io”, che certo non è prima di porsi – ragion per cui la formula “non-A = A”, che esprime l’identità di “A”, s’attaglia non meno bene all’“Io” che all’“A”, e certo è da preferirsi all’altra
25. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., parte II, I, cap. IV, § 6, p. 219. 26. L’aporia dei Sistemi non è, come polemicamente affermava Croce, la presenza di due “logiche”, l’una divina, a cui «basta l’abbraccio», l’altra umana «con la quale si concepisce e si ragiona» (B. Croce, Conversazioni critiche, Serie IV, Laterza Bari, 19512, pp. 297-304), ma giusto l’opposto: l’impossibilità di distinguerle.
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che dicendo “Io = non-Io” sembra anteporre la realtà dell’Io al movimento dialettico dell’autoposizione (autoctisi). Talora Gentile, per differenziare le due dialettiche, sostiene che la logica dell’astratto giunge sì ad affermare l’identità dei differenti (dei due “A” di “A = A”), ma non a spiegare dove e come sorga la loro differenza; a ciò giunge invece il pensiero pensante, la cui dialettica mostra in atto il sorgere della dualità dall’unità del pensiero27. L’argomento non convince: da quanto abbiamo appreso dalla logica dell’astratto, il giudizio sorge ex nihilo, epperò è esso, il Giudizio, e non altro a porre con l’identità la differenza dei termini. Come dire: nel giudizio, nella dialettica del giudizio, è già tutto il pensiero pensante. Di ciò sembra esser convinto Gentile stesso se alla fine l’unica distinzione tra pensante e pensato è data da un prefisso: “auto”, con cui accompagna ogni determinazione del pensiero pensante. Per cui se si nomina “giudizio” la forma logica dell’astratto, “autogiudizio” sarà il nome di quella del concreto; e se è sintesi il pensiero pensato, auto-sintesi è il pensiero pensante, se noema l’uno, auto-noema l’altro. Cosa concludere? Che tutt’al più la logica del concreto o del pensiero pensante è un grado ulteriore di esplicitazione del contenuto di pensiero già presente nel pensato, al modo stesso in cui il principio di non-contraddizione è un’ulteriore esplicitazione del principio di identità, e quello del terzo escluso del principio di non-contraddizione. Ma la dialettica è la stessa. È la dialettica del divenire che si guarda allo specchio, e dapprima non si riconosce. Poi dice: son Io! Io = Io, come A = A. E non c’è altro Io. 8. L’astratto ha prevalso sul concreto. Nonché mèta sempre vagheggiata, l’eterna quiete, “perfezione intera e interamente appagante”, è il luogo stesso del divenire, che, muovendosi,
27. Cfr. ivi, II, parte III, cap. V, pp. 56-73, ma cfr. anche i capp. VI (“L’autosintesi”), VII (“Le categorie e la categoria”), VIII (“L’autococetto”).
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permane se stesso, e, per continuare a divenire, è. Più rispettoso della logica dell’essere, Aristotele aveva usato l’imperfetto: tò tí ên eînai. Ma presente o imperfetto che si usi, l’essenziale da comprendere è che si tratta in entrambi i casi di un “aoristo”. Un tempo senza tempo, átopon metaxú. Giovanni Gentile, negli anni successivi alla pubblicazione del II volume tornò sui suoi passi. Spinse lo sguardo verso quel nihil dal quale emerge il cogito. E non vide che l’ombra, che il cogito proietta dietro di sé. Non vide che il “non-A”, e il “nonIo” che il pensiero nel Giudizio porta ad A, e ad Io. Non vide altro: sentì “altro”. L’“altro” che nel Giudizio muore. L’ombra che la luce cancella – non produce. Sentì altro: sentì il proprio limite nell’esperienza del pensiero, nell’atto stesso del giudizio. Ma questa è altra “storia”28. Era d’obbligo accennarvi, ad evitare che il Sistema di logica come teoria del conoscere – già il titolo è estremamente problematico – venga ancora considerato il “luogo” in cui si conclude, non nel tempo, ovviamente, ma nella storia, il cammino di pensiero di Gentile. La vera “svolta” di questo cammino doveva ancora accadere. Accadde “dopo”. Dopo i Sistemi. Ma questa, ripeto, è altra storia.
28. L’ho “narrata” qualche anno fa in V. Vitiello, Grammatiche del pensiero, ETS, Pisa 2009, parte I, cap. II, “Dall’Io penso all’Io sento. Giovanni Gentile”, pp. 33-52.
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Sapersi non sapendo
Gentile e Socrate: di una sorprendente continuità Massimo Donà
«Socrate: “La verità è davanti a noi e noi non comprendiamo più”». Paul Valery, Eupalinos o l’architetto1
Se oggetto della filosofia di Gentile è la non oggettualità dello spirito “in quanto atto” – in quanto “atto” che mai può riconoscersi nelle forme oggettivate e morte che pur tuttavia gli vengono incontro, ogni volta che si sia esplicato, appunto, come pensiero in atto2 –, da dove potrà mai essere sorta la convinzione secondo cui il pensiero giudicante e determinante sarebbe impossibilitato a “conoscersi”? 1. Paul Valery, Eupalinos o l’architetto, in Paul Valery, Tre dialoghi, trad. it. di V. Sereni, SE, Milano 2012, p. 51. 2. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 23-24: «Lo spirito si sottrae, nella sua attualità, a ogni legge prestabilita, e non può essere definito come essere stretto a una natura determinata, in cui si esaurisca e conchiuda il processo della sua vita, senza perdere il suo proprio carattere di realtà spirituale, e confondersi con tutte le altre cose, alle quali egli deve invece contrapporsi; e in quanto spirito, infatti, si contrappone […]. Perciò tutto quello che si è inteso, è nulla rispetto a quel che si vuole intendere e non s’è ancora inteso».
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Certo, per Gentile, «lo spirito [che per lui è pensiero in atto] è una realtà che par si ribelli di continuo ad ogni definizione, arrestandosi e fissandosi come realtà realizzata, oggetto del pensiero»3. E dunque, sempre per il nostro, diventa un autentico problema definirne la verità. D’altro canto, «ogni verità, in quanto oggetto, posizione di un atto spirituale concreto, come concepirla, se non per mezzo di un concetto fisso e chiuso in sé, esaurito nel suo processo formativo, irriformabile e incapace di svolgimento?»4. Gentile sa bene che «il concetto dello spirito come processo è un concetto difficile»5. Non a caso, contro di esso operano continuamente le astrazioni fissate tanto dal pensiero comune quanto dalla scienza. Ma la questione rimane aperta: se l’unità dello spirito dice la sua stessa infinità (ché nulla può limitarne il raggio d’azione), e dunque «lo spirito non può ritenere la propria realtà limitata da altre realtà»6, ossia non può mai uscire da sé («lo spirito non può staccare niente da sé nel suo proprio seno»)7, e dunque se, per ciò stesso, le forme molteplici e oggettive vengono «tutte raccolte nell’unità della coscienza, nell’unità della sintesi»8 (sì che Gentile possa affermare che «la molteplicità delle cose non sta accanto all’unità dell’Io; quest’ultima, infatti, appartiene alle cose in quanto queste sono oggetto dell’Io»9), perché mai il pensiero pensante non potrebbe/saprebbe riconoscersi
3. Ivi, p. 28. 4. Ibidem. 5. Ivi, p. 29. 6. Ivi, p. 31. 7. Ivi, p. 33. 8. Ivi, p. 35. 9. Ibidem.
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nelle forme oggettivate con cui ha sempre e comunque a che fare? Certo, se lo spirito è processo e svolgimento, merita anche ricordare (è lo stesso Gentile, d’altro canto, a sottolinearlo) che «chi dice svolgimento dice non solo unità, ma anche molteplicità»10. Insomma, per il filosofo di Castelvetrano – in conformità ad un principio che si sarebbe rivelato di straordinaria rilevanza per tutto l’attualismo – «il pensiero è dialettico perché non è mai identico a se stesso»11. Cioè, non è mai identico a quel che il medesimo si ritrova peraltro ogni volta ad essere – potremmo aggiungere – nelle forme oggettivate e sempre molteplici in cui, solamente, la sua identità può manifestarsi, non essendo mai quel che verrà ogni volta ad essere, ossia, quel che ognuna di tali forme riuscirà a dire, in positivo, del medesimo. In questo contesto diventa perfettamente chiara, dunque, la distinzione, operata sempre dal nostro filosofo, tra “pensiero pensato” (forma oggettivata del pensiero) e “pensiero pensante” (l’atto pensante che ogni pensiero pensato chiama in causa, per il semplice fatto di apparire appunto come “pensato”). E si spiega anche il fatto che il nostro possa rilevare come il principio di non contraddizione valga solo a livello del pensiero pensato («per quest’ultimo il principio di non contraddizione ha un senso»12, mentre al pensiero pensante in quanto atto dell’Io trascendentale, «il principio di non contraddizione non può applicarsi»13). 10. Ivi, p. 39. 11. Ivi, p. 44. 12. Ivi, p. 45. 13. Ibidem.
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Secondo l’attualismo gentiliano, cioè, un vero e proprio paradosso sarebbe custodito nel cuore di qualsivoglia filosofia, sempre che quest’ultima voglia essere davvero all’altezza del proprio compito: un paradosso connesso al fatto che compito del pensiero sarebbe quello di mettere a tema il senso di questo suo stesso mettere a tema. Proprio questo è infatti il compito del pensiero, per il filosofo siciliano. Al pensiero spetterebbe cioè riconoscere che ciò di cui il pensare è testimonianza, nell’atto stesso del suo costituirsi come pensiero di qualcosa, dice che il “suo” qualcosa (là dove qualcosa venga appunto pensato) altri non è che il pensare che “crede” di “pensare qualcosa” – ma in verità pensa sempre e solamente “il pensarlo” (questo qualcosa). Questo comporta, ad esempio, il fatto che «l’oggetto sia una realtà spirituale […] e dunque che il medesimo debba risolversi del soggetto»14. Fino al punto che anche «quello che noi consideriamo come attività di altri, debba essere la nostra stessa attività»15 Ma è proprio un tale riconoscimento a comportare che, proprio in quanto pensante, il pensare non possa mai pensarsi come tale; se è vero che, pensandosi – in qualsivoglia pensiero si palesi come semplice pensiero di un questo o un quello –, il pensiero finirà per pensare ogni volta un “oggetto” relazionato ad un “soggetto”. Ad un soggetto, appunto, che non sarà mai quello che si contrappone all’oggetto ed a quest’ultimo si relaziona, appunto, ab origine. Ma sempre e solamente un’oggettualità – o meglio, un soggetto risolto comunque in mera datità oggettuale – che potrà solo “rappresentare” il soggetto che il medesimo dice appunto di essere.
14. Ivi, p. 26. 15. Ibidem.
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Potremmo anche dire che il pensiero non riesce a pensarsi proprio in quanto “si pensa”; ossia, proprio in quanto destinato a pensare sempre e comunque se medesimo: in quanto, cioè, pensa sempre e solamente se stesso, ovunque pensi a qualcosa; quel se stesso che “in ogni pensato” viene a concretizzarsi come tale, già per il fatto di pensarsi in ogni caso come “un qualcosa”, e cioè come “oggetto” del proprio pensare, appunto. Gentile sa bene che «affinché si possa conoscere l’essenza dell’attività trascendentale dello spirito, bisogna non considerare mai, esso stesso, come oggetto della nostra esperienza»16; sa bene, cioè, che «in quanto oggetto di coscienza, la coscienza non è più coscienza»17. Che, in quanto fatta oggetto di pensiero, essa non è già più soggetto, ma oggetto. Ma il nostro sa anche che la coscienza è “atto puro”, o atto in atto, che «non si può assolutamente trascendere, né in alcun modo oggettivare»18. Insomma, il nostro sa molto bene che «la vera attività pensante non è quella che definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce»19. Ossia, una sorta di «processo costruttivo» (così lo definisce Gentile, rifacendosi a Vico). Come per Vico, dunque, anche per lui «vero è quel che si fa»; ma allora, più che verum et factum convertuntur, bisognerà dire che verum et fieri convertuntur. Proprio per questo, mai, dello spirito, si potrà dire che “è” – rileva acutamente Gentile. Ad essere, sono infatti sempre e solamente determinazioni come la pietra, la pianta. Ma, così concepite, queste ultime ap16. Ivi, p. 8. 17. Ibidem. 18. Ibidem. 19. Ibidem.
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paiono appunto come processi di realtà «logicamente esauriti, quantunque non ancora del tutto attuati nel tempo”20; mentre lo spirito si trova solo nella ricerca del medesimo. Per Gentile, addirittura, «essere e spirito sono termini contraddittori, e uno spirito, pel fatto stesso di essere, non sarebbe spirito»21. Insomma, «per trovare la realtà spirituale bisogna cercarla: e cercarla significa non averla dinanzi a sé, ma lavorare per trovarla»22; ma se, per trovarla, bisogna cercarla, e trovarla significa cercarla, «noi non l’avremo mai trovata, e l’avremo trovata sempre»23. Perciò, «quando si è cessato di cercare e si dice d’aver trovato, non si è trovato nulla, non si ha più niente!»24. Ma tutto questo comporta che, se da un lato il soggetto è destinato ad incontrare sempre e solamente oggetti, pensieri pensati – anche quando crederà di aver finalmente incontrato se medesimo –, dall’altro, e nello stesso tempo, quando incontrerà il molteplice oggettuale dell’esperienza, si accorgerà di aver incontrato ancora una volta se stesso. Perché, se è vero che «è sempre l’oggetto che si contrappone al soggetto»25, e che l’oggetto così contrapponentesi è sempre in qualche modo estraneo alla vita «ond’è animato il soggetto, giacché questo è attività, ricerca, movimento verso l’oggetto […] mentre quest’ultimo è inerte e sta»26, è anche vero che la molteplicità oggettuale («l’infinita molteplicità dei punti costi-
20. Ivi, p. 23. 21. Ibidem. 22. Ivi, p. 27. 23. Ibidem. 24. Ibidem. 25. Ivi, p. 34. 26. Ibidem.
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tuenti la sfera dei suoi oggetti»27 – suoi, dello spirito concepito come sfera «il cui raggio è infinito»28) «per essere quella molteplicità che costituisce di fatto ogni oggetto della coscienza, necessita della risoluzione di quella stessa molteplicità; implica cioè l’unificazione di questa nel centro a cui tutti i raggi infiniti della sfera convergono»29. Insomma, Gentile non avrebbe potuto essere più chiaro: «Gli oggetti dell’esperienza non possono avere tra sé anche il soggetto, perché sono tutti esso»30. Perciò, ogni volta che pensa un oggetto, il soggetto pensa sempre e innanzitutto se stesso. Ma pensandosi, ancora una volta, il soggetto si fa “oggetto” a se medesimo. Sì, proprio pensandosi (sempre e comunque, anche là dove potrebbe sembrare intento a pensare una datità naturale od oggettiva), il pensiero “si oggettiva” (non per altro si ritrova sempre come “soggetto” contrapposto ad un “oggetto”, ossia, come pensiero che mai potrà sentirsi adeguatamente pensato in quel che di fatto si verrà ogni volta a pensare), sì da non riuscire mai davvero a pensarsi come “pensiero pensante in atto”. Sapendo di non essere mai risolvibile nei “pensati” che di volta in verrà ad istituire, perché costituentesi come puro ed autentico “pensiero pensante”, il pensiero non si saprà mai come tale; sapendosi, cioè, non saprà mai qualcosa di cui si possa dire che “è”. «Che sia si può dire infatti solo di quel che lo spirito oppone a sé come termine della propria attività trascendentale»31; di esso si potrà quindi dire solo che non è. E che, proprio per questo, sapendosi, non si saprà – sapendo
27. Ibidem. 28. Ivi, p. 32. 29. Ivi, p. 35. 30. Ibidem. 31. Ivi, p. 23.
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sempre qualcosa che, in quanto spirito, non sarà mai quel che, del medesimo, si sarà comunque riusciti a dire. Anzi, proprio perché consapevole di non esser mai riducibile ad ‘oggetto’, lo spirito o pensiero pensante non si saprà mai; risolvendosi sempre nella posizione di un “pensato” (anche là dove, ad esser posto, sia appunto il “pensiero pensante”), in relazione al quale, il suo ritrovarsi e pensarsi non saranno mai un ritrovarsi come quel ‘pensiero-pensante’ che il medesimo pur sa di (non) essere32.
32. Interessantissimo, a questo proposito, il rilievo operato da Gentile nel suo Sistema di logica, là dove viene radicalmente criticata la posizione hegeliana, per il semplice fatto che in essa l’astratto sembra potersi definitivamente risolvere nel concreto o (che è lo stesso) vivere come già da sempre risolto in esso. Un tale astratto, infatti, non è assolutamente astratto; astratto si rivelerebbe piuttosto il concreto medesimo, in quanto destinato a rendere radicalmente impossibile il costituirsi stesso dell’astratto – ché quest’ultimo, in quanto da sempre compreso nel concreto, in quanto costituentesi cioè come concetto concreto dell’astratto, non riesce neppure a distinguersi da un supposto concetto astratto dell’astratto. Perciò l’unità deve vivere sempre e comunque in una molteplicità reale, a partire dalla quale, solamente, il concreto possa incontrarsi e riconoscersi come “non” di questa stessa molteplicità. Sperimentando così l’impossibilità di conoscersi “come tale” (come pensiero in atto o pensiero pensante). Secondo Gentile, insomma, se la verità non è né dell’astratto soggetto, né dell’astratto oggetto, né della loro astratta opposizione – perché il conoscere è il superamento di tutte queste astrattezze –, è anche vero che tale conoscenza non potrà mai ragguagliarsi al conoscere (come invece parve a Hegel). Sempre che «questo conoscere s’intenda come risoluzione definitiva (tutta positiva, e che abbia esaurito il proprio processo) di tutte le astrattezze. Perché ogni astrattezza consiste nell’immediatezza e nel sottrarsi alla dialettica del processo; sicché, se lo stesso processo esaurisce il suo compito, e ci dà il conoscere come una concretezza, la quale abbia avuto una buona volta ragione di tutti gli astratti; ecco che il concreto stesso diventa un astratto, e la concretezza, in cui consiste la vita in atto del pensiero, riesce un fallace miraggio, e una verità ancor più irraggiungibile che non sia, alla natura e all’uomo che ne partecipa, l’idea platonica. Insomma, affinché si attui la concretezza del pensiero, che è negazione dell’immediatezza di ogni posizione astratta, è necessario
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Ma già qui emerge la necessità di interrogare la paradossale enigmaticità di una posizione come quella di Gentile; dalla quale siamo indotti a porre la seguente domanda: da dove il suo (del pensiero) “sapere” di costituirsi come “pensiero pensante”, se, per l’appunto, come pensiero pensante non potrà mai incontrarsi (potendosi incontrare, per dir così, solo come pensiero pensato)? Vale a dire: quale sapere ci autorizzerebbe ad affermare con forza (che è quanto fa Gentile) di non poterci mai sapere come pensieri pensanti? O meglio ancora: da dove la semplicissima nozione di qualcosa come un “pensiero-pensante”, quella che qualsivoglia forma di pensiero-pensato sembra destinata a tradire, in rapporto al suo senso? Anche perché, per poter dire che si tratta di un tradimento (a proposito di quello che offre al pensiero sempre e solamente l’oggettualità di un “pensato”), si dovrà pur sapere cosa sia ciò rispetto a cui il tradimento verrebbe a costituirsi appunto come un tradimento. Insomma: da dove questo sapere (che, solo, ribadiamo, può consentirci di dire che mai nessun oggetto di pensiero potrà restituire al pensiero pensante il suo più autentico “esser pensante”), se il sapere è in quanto tale un oggettivare determinante? Da dove, cioè, la possibilità di riconoscere l’erroneità di quel che non riuscirebbe mai a farsi pensiero pensante? Se, a co-
che l’astrattezza sia non solo negata ma anche affermata; a quel modo stesso che a mantenere acceso il fuoco che distrugge il combustibile, occorre e che ci sia sempre del combustibile, e che questo non sia sottratto alle fiamme divoratrici, ma sia effettivamente combusto» (G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, vol. I, Laterza, Bari 1922, pp. 129-130).
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stituirsi come impossibile, sempre per Gentile, è proprio la conoscenza del pensiero pensante “in quanto pensante”. Da dove, se impossibile sembra essere appunto la verità, rispetto alla quale, solamente, sembra poter venire riconosciuta l’erroneità dell’errore? Gentile – come abbiamo già ricordato – è ben consapevole della difficoltà del problema qui chiamato in causa. Non a caso sa bene che le astrazioni del pensiero comune e quelle della scienza si affollano nel nostro intelletto e lo traggono di qua e di là, e non gli lasciano mantenere «senza un’aspra fatica l’esatta intuizione della vita spirituale»33. Ma il nostro filosofo sembra anche ritenere possibile una sorta di intuizione della vita spirituale. «Quella intuizione da cui pure si attinge, in tutti i momenti più vivaci di essa, norma e ispirazione verso la scienza e la virtù»34. Certo, il soggetto – aveva scritto Gentile – è quello che, nell’autocoscienza, «oppone sé come oggetto a sé come soggetto […], sì che l’oggetto suo, nella stessa autocoscienza, gli si opponga come negazione della coscienza, ossia come realtà inconsapevole»35; eppure sembra qui miracolosamente profilarsi la possibilità di una stranissima “intuizione”. Che non dice astratta oggettivazione. E che, proprio per questo, sembra consentirci di guardare “più a fondo”, «alla radice di cotesta realtà, dove l’oggetto è la vita del soggetto, la cui sintesi è perciò assolutamente reale»36.
33. G. Gentile, Teoria generale, cit., p. 29. 34. Ibidem. 35. Ivi, p. 34. 36. Ivi, p. 191.
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Gentile la chiama anche “intendimento” – quando dice, ad esempio, che «prima di giudicare bisogna intendere; e la verità è che quando s’intende e non ancora si giudica, non si giudica per riprovare, ma si giudica intanto, provvisoriamente, per consentire»37. Intuizione-intendimento, dunque; che non guarda alla realtà spirituale come ad un oggetto della ricerca. «Comunemente, infatti, si dice che ogni volta che dobbiamo intendere qualche cosa che abbia valore spirituale e che si possa dire un fatto spirituale, abbiamo bisogno di guardare a un siffatto oggetto della nostra ricerca non come a qualche cosa di opposto a noi che cerchiamo di intenderlo, anzi come a tal cosa che s’immedesimi con la nostra attività spirituale»38. D’altronde, il punto di vista trascendentale, fatto proprio da Gentile, è quello che si coglie nella realtà del nostro pensiero «quando il pensiero si consideri non come atto compiuto, ma, per così dire, quasi atto in atto»39. Ecco perché questa realtà, sempre per Gentile, non si può cogliere; ossia, non la si afferra come un oggetto qualsiasi. Tale atto, infatti, «non si può mai e in nessun modo oggettivare»40. Questo, il “nuovo” punto di vista guadagnato dalla riflessione del nostro filosofo. Quello per cui «non è possibile mai che si concepisca l’Io come oggetto di se medesimo»41. Insomma, il pensare sembra a Gentile destinato a fallire; perché «nel definire come oggetto determinato di un nostro pensiero la nostra stessa attività pensante, dobbiamo sempre 37. Ivi, p. 9. 38. Ibidem. 39. Ivi, p. 8. 40. Ibidem. 41. Ibidem.
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ricordare che la definizione è resa possibile dal rimanere la nostra attività pensante, non come oggetto, ma come soggetto della nostra stessa definizione»42. Ecco perché la vera attività pensante non sarà mai quella che definiamo – sempre secondo l’attualista siciliano. Ed ecco perché l’intuizione-intendimento a cui il nostro da ultimo si riferisce – come abbiamo appena rilevato – non è un “concepire”. E neppure un “determinare”, un ridurre ad oggetto; che è quanto fa il pensare in quanto tale (che proprio per questo non sarà mai quel che, del medesimo, potremmo anche esser riusciti ad oggettivare). Perciò, quando ci riferiamo (come fa il nostro) a «noi che pensiamo quello che pensiamo»43, non ci riferiamo a quello che anche Gentile, parafrasando Kant, riconosce come semplice “io empirico”. E a cosa ci riferiamo, allora? A ciò che non sarà mai in quel che saremo comunque riusciti a pensare! Che non lo sarà mai, appunto perché, in quanto tale, ‘inaccessibile’. Ma, non ci si potrà non chiedere, a questo punto: da dove il riconoscimento della strutturale inaccessibilità (dal punto di vista conoscitivo) del pensiero pensante? Da dove, cioè, un assunto che a Gentile appare appunto essenziale e massimamente “evidente”, nonché paradigmatico? Può cioè quella che, anche ai suoi occhi, sembra configurarsi come semplice (ma in vero del tutto indeterminata) intuizione-intendimento, determinare qualcosa per il pensiero? Ossia, tradursi in “conoscenza”? Se non altro in quella conoscenza in virtù della quale, ad esser saputo, sarà il semplice non poter
42. Ibidem. 43. Ivi, p. 7.
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venire oggettivato, da parte dell’atto puro o pensiero pensante (o “Io trascendentale”). Domande che rimangono senz’altro aperte, ma che non ci impediscono affatto di riconoscere come le sue carte, Gentile, le giochi davvero bene – anche questo va detto, in verità. Il nostro, cioè, si mostra lucidissimamente consapevole almeno di una cosa: ossia, del fatto che, se a nulla sembra poter essere attributo lo statuto di “altro dal pensiero” (quale presupposto che il pensiero, cioè, si troverebbe costretto a riconoscere come “dato”, e non come “posto da lui stesso”), allora ogni volta il medesimo pensiero, proprio pensando i pensati che di volta in volta si troverà a pensare (qualsiasi pensato, non ha alcuna importanza quale), penserà necessariamente “il proprio stesso pensare”; certo, almeno in quanto consapevole del fatto che questo o quell’oggetto (qualsiasi oggetto si trovi a pensare, da soggetto qual è) si costituiranno tutti come “risultati” del suo stesso porre o pensare (ragion per cui si ritroveranno inscritti nell’orizzonte trascendentale all’interno del quale tutto quel che è, è in quanto posto dall’Io – per dirla con Fichte); ossia, di quel porre e pensare che, riconoscendosi come ponenti quel che riconoscono appunto come posto da loro stessi, riconosceranno il loro stesso “porre” quale ragione essenziale dell’esserci di tutto quel che c’è; ma riconosceranno questo, riconoscendo (dovendo riconoscere!) nello stesso tempo che quel porre che funge da condizione di possibilità di ogni posto, nell’atto stesso del suo venire riconosciuto e dunque oggettivato, non sarà mai (e non potrà mai essere) quella ragione o condizione di possibilità che in ogni caso esso sarà venuto ad essere. Lo riconosceranno, appunto, riconoscendo in-uno il suo non essere mai quel che, della medesima, saremo ogni volta riusciti a pensare.
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Certo, qui Gentile mostra di saperne uscire davvero bene. La questione che gli avevamo posto, domandandogli come si fa a sapere che il pensiero pensante è inaccessibile – ossia, che non è mai quel che si potrà esser riusciti a pensare del medesimo (pensando di fatto sempre qualcosa, ossia una qualche oggettualità, la quale sarà appunto quel che il pensiero pensante, propriamente, non-è) – è infatti costitutivamente ambigua. Infatti, suppone almeno questo: che il pensiero pensante viva come realtà esterna (al modo della realtà esterna al pensiero concepita dalla metafisica antica) a quanto si sarà in qualche modo riusciti a pensare. Come ulteriorità concepibile come tale solo in virtù di un realismo ingenuo che di sicuro non può esser attribuito a Gentile. Il fatto è che non si tratta di qualcosa d’altro! Ecco il punto (che poi, se fosse semplicemente un “altro”, non sarebbe neppure fuori dell’orizzonte del pensabile e del pensato, ma sarebbe qualcosa di semplicemente diverso da quel che ci si trovasse a pensare, e dunque, come tale, tutt’altro che eccedente l’orizzonte intrascendibile dove tutto esiste sempre come “un pensato”). Cioè, non è inafferrabile perché, ad essere afferrato, sarebbe appunto qualcosa di diverso da esso. Nulla viene infatti sostituito al medesimo – quasi si trattasse di due determinatezze sostanzialmente analoghe. No, esso non viene afferrato proprio nel lasciarsi comunque afferrare da parte di quel che verrà in ogni caso afferrato. Ossia, esso (non) viene afferrato nel semplice non venire afferrato da parte di quel che verrà comunque afferrato. Che appunto non sarà mai quel che si sarebbe voluto afferrare (ossia, il pensiero pensante). Ma non lo sarà mai proprio nel suo venire sempre e comunque afferrato: afferrato nella forma appunto del suo non venire afferrato. Infatti, se riconosciuto quale espressione della vita e della processualità in cui consiste il pensiero in atto, esso
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non sarà mai stato afferrato; ché, in esso, a venire afferrato sarà sempre e solamente la vita del pensiero che lo pone, ossia il processo di un pensare che potrà riconoscersi, dunque, solo nel negarsi da parte di quel che sempre dal medesimo verrà comunque posto. Forse, dunque, l’intuizione-intendimento cui ci si riferiva prima ha proprio a che fare con la capacità di porsi in relazione all’oggettualità di volta in questione, ponendosi in relazione innanzitutto con il suo non esser quel che la medesima sembrerà ogni volta essere. Ecco perché quello con cui il pensiero “si conosce” (conoscendo-si, di fatto, ogni volta che conosce qualcosa) è un conoscere del tutto particolare (che in certi casi Gentile definisce appunto intuizione-intendimento) – che non ci consente di dire “cosa sia” quel che per esso viene propriamente conosciuto: ma piuttosto cosa esso “non-sia”. Ad una condizione però: che non si intenda questo non-sapere cosa sia (coincidente con il sapere piuttosto cosa non-sia quel che verrà in ogni caso saputo), come astratta esclusione di qualcosa a favore di qualcos’altro, cioè come sottrazione di qualcosa che verrebbe escluso “in quanto oggetto di conoscenza”. Al cui posto dovremmo quindi essere in grado di indicare cosa occuperebbe il posto lasciato vuoto dalla semplice consapevolezza del fatto che “non si tratta” di quello che pur si sta indicando e ponendo. Perché, se per un verso qui il “non-conoscere” “non è” e “non può” esser altro dal “conoscere” (stante che, come stiamo vedendo, a venire realmente conosciuto non è mai quel che si potrà esser comunque riusciti a conoscere), per un altro verso tutto questo lo si può dire solo in quanto lo si conosca e lo si sappia. Ché, ad esser saputo, in questo caso, sarà almeno questo: che il saputo medesimo non è mai quel che il medesimo
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sarà comunque riuscito a dire, di sé – almeno, dal punto di vista della sua definizione in positivo. Il fatto è che lo si sa, quindi, come il “non” del saputo; e per ciò stesso come il “non-saputo”. Solo questo, infatti – “che non è saputo” –, si sa, di esso… là dove si sappia il suo non essere il saputo che si sarà comunque riusciti a determinare. E lo si saprà nella forma di una ‘intuizione’ – concetto che a questo punto starebbe ad indicare il semplice non esser quel che di esso si sarà comunque riusciti a sapere, da parte del conosciuto. Ovvero, il suo costituirsi come non-conosciuto. Per questo esso non verrà mai propriamente “conosciuto”; ma, più, semplicemente “intuito” o “inteso”. Questo lo si saprà, appunto, per il tramite di una semplice “intuizione”; in virtù della quale, ad esser saputo non può esser che il non esser mai, da parte del conosciuto, quel che, sapendolo, saremo comunque riusciti a dire, del medesimo, in positivo, cioè secondo questa o quella determinazione sue proprie. Sapere “cosa” il saputo non sia non significa dunque trovarsi costretti a dire cosa, invece, esso sarebbe, al posto di quel che, del medesimo, saremo comunque riusciti a sapere; cosa sarebbe, cioè, più propriamente, quel saputo (qualcosa di diverso, dunque, da quel che del medesimo saremo riusciti a sapere). Altrimenti ci troveremmo costretti ad indicare un’altra determinatezza, della quale si dovrà in ogni caso ripetere il non essere, neppure essa, quel che, della medesima, si sarà in qualche modo riusciti a sapere. Nel senso determinato che spetta al sapere in quanto definitorio e oggettivante. Appunto perché, di ogni significato, il pensare dice quel che, nel pensato (qualunque esso sia), non sarà stato affatto pensa-
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to. Dicendo però non tanto quel che sfuggirebbe al pensare medesimo (per aver confuso qualcosa con qualcos’altro). Non quel che si nasconderebbe al pensare, e che il pensare “non riuscirebbe a determinare”, determinando al suo posto sempre qualcos’altro; ma sempre e solamente quel che questo o quel pensato “non sarebbero mai stati”. O meglio il loro non essere mai quel che sono. Gentile, in buona sostanza, ci sta dicendo e mostrando che il “pensare” non è mai riducibile ad “oggetto”, a “determinatezza”, a “cosa”, proprio in quanto non è altro che il non esser cosa che, in quella cosa, sempre mi si mostrerà, là dove mi si mostri almeno il suo esser un “pensato”. Fermo restando che, se c’è un pensato, deve sempre esservi anche il pensare; ossia, l’azione che viene riflessa, sia pur in forma rovesciata, dall’oggetto in quanto patito: in quanto manifesto, cioè, nel suo semplice esser-pensato – nel suo apparire, cioè, in relazione ad un pensare che non sarà mai qualcos’altro, in ogni caso, dal pensato, ma che nel pensato apparirà sempre nella forma del suo (di quell’oggetto) semplice non esser “un pensato”. Da cui la necessità di tematizzare un “non essere” che non sia più riducibile alla forma dell’alterità; che non si lasci cioè catturare dalla riduzione operata da Platone nel Sofista – là dove veniva sancito che il “non essere” può venire predicato solo quale indicazione generica di una qualche alterità, che dovrebbe poter essere in ogni caso determinata. Ed è proprio in questa prospettiva che ci si profila – in ciò l’obiettivo centrale di questo lavoro – la possibilità di reinterpretare la famosa massima socratica, di cui Gentile sarebbe stato, da questo punto di vista, il vero e unico rigorizzatore. In grado di esplicitare quella massima, e di restituire, alla medesima, il suo più autentico significato; mostrandocene l’eversiva portata teoretica, che ha davvero ben poco a che fare con la modestia
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scettica di un filosofo convinto di non possedere la verità, ma di essere un semplice “ricercatore”; sempre instancabilmente a caccia di una verità che solo Platone sarebbe stato in grado di formalizzare e condurre a sistema. Consapevole di amarla, quella verità (in quanto filo-sofo), ma di amarla in quanto sempre in cammino verso il suo riconoscimento, e mai presuntuosamente persuaso di averla in pugno, ossia, di averla trovata44. Un’immagine, questa, che è stata indiscutibilmente dominante nel corso della storia della filosofia; nel corso della quale ci si è spesso impegnati a sottolineare il contrasto tra Socrate, e la sua umile attitudine di semplice “ricercatore”, da un lato, e la presunzione di Platone, dall’altro; il discepolo che quella verità, invece, si sarebbe convinto di poter definire, tanto da costruire addirittura un sistema dialettico volto a disegnarne quantomeno i tratti essenziali. Solo Gentile, quindi, ci consentirebbe di intendere davvero Socrate e il suo “sapere di non sapere”. Quale filosofo impegnato a ricercare (per parafrasare un passo di Gentile citato poco sopra) una verità che non troverà mai, avendola in verità trovata sempre. Il fatto è che la massima socratica non va letta concependo il “sapere” e il “non sapere” come due contrari. Dove l’uno (il sapere) sarebbe altro dall’altro (il non-sapere). In tale massima non si opera infatti la semplice identificazione di due diversi. Perciò Socrate non teme le solite confutazioni, volte a rilevare come perlomeno questo egli sappia: appunto, di “non-sapere”. 44. In ciò, precisa ancora una volta Jaeger, la vera differenza tra Socrate e Platone: «La mancanza di una via d’uscita, che per Socrate era stata condizione permanente, per Platone vale come incitamento e pungolo a liberarsene, a sciogliere questa “aporia”» (W. Jaeger, Paideia, vol. II, trad.it. di L. Emery e A. Setti, La Nuova Italia, Firenze 1987, p. 151).
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Di norma, infatti, si tende a rilevare come Socrate si troverebbe di fatto a smentire il supposto “non-sapere” di cui vorrebbe farsi testimone. Se Socrate sa questo – si dice, anzi, si è detto fin troppo spesso –, sa fin troppo; e dunque non è affatto vero che non sappia. Se sa, ma soprattutto se il sapere venisse concepito come altro dal non-sapere, allora certo: il non sapere, in quanto fatto oggetto di un sapere, ci autorizzerebbe a rilevare il suo stesso non esser affatto un non-sapere. Ci autorizzerebbe, cioè, a rilevare l’ingannevolezza e l’autocontraddittorietà della massima socratica – destinata a subire le stesse sorti del mentitore e del paradosso al medesimo connesso45. Se sapere e non sapere fossero davvero altri l’uno dall’altro, il sapere scalzerebbe via il non sapere, e lo escluderebbe in virtù del suo semplice esser saputo. Ma, proprio seguendo Gentile, possiamo in verità mettere radicalmente in questione tutta questa tradizione ermeneutica. Ed affermare che, forse, Socrate aveva perfettamente capito
45. Si tratta di un notissimo paradosso attribuito ad Epimenide di Creta (VI secolo a.C.) – ma citato anche in una lettera paolina –, il quale avrebbe affermato, da cretese, che tutti i cretesi sono bugiardi. Affermazione che, se fosse vera, risulterebbe immediatamente falsa (ché almeno Epimenide non sarebbe bugiardo), e se fosse falsa, e dunque non fosse vero che i cretesi sono tutti bugiardi, finirebbe per negare il proprio contenuto, ed Epimenide, proprio ritrovandosi a dire il falso, metterebbe in luce la verità del proprio enunciato. Insomma, se è vera è falsa, e se è falsa è vera. Un simile paradosso lo avremo poi ritrovato anche nella versione che, sempre del medesimo paradosso, Diogene Laerzio attribuisce invece a Eubulide di Mileto (IV secolo a.C.); qui il paradosso si sarebbe presentato con il volto della seguente affermazione: «io sto mentendo». Ancora una volta, se la proposizione fosse vera, sarebbe falsa (cioè il soggetto della frase non starebbe affatto mentendo, e dunque si tratterebbe di una proposizione falsa), mentre, se fosse falsa, il contenuto della proposizione risulterebbe vero e il soggetto della frase non starebbe affatto mentendo.
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proprio questo, in verità: che, ad esser saputo è sempre e comunque qualcosa che “non sarà mai” quel che di esso si sarà comunque riusciti a sapere. E che dunque il “saputo” non sarà mai saputo. O meglio, che esso sarà saputo sempre e solamente come il “non-saputo”. Perciò Platone avrebbe radicalmente tradito Socrate, nel volerci mostrare che qualcosa in verità si può sapere; e soprattutto che la posizione scettica o dubitante sarebbe propria solo del neofita, di chi si stesse avviando alla ricerca, ma che la medesima potrà venire senz’altro superata da un risultato (della ricerca medesima) in grado di farci finalmente sapere quel che all’inizio, appunto, non si sarebbe ancora saputo (sapendo, di esso, all’inizio, solo che non lo si sapeva). Ma potremmo altresì mostrare (intorno a ciò, comunque, non diremo nulla, in questa occasione) come neppure in Cartesio il “dubbio” svolga una funzione semplicemente propedeutica, che lo renderebbe necessario solo quale “punto di partenza” non contaminato da pregiudizi o da astratti presupposti; che rimarrebbero inevitabilmente ingiustificati. Il fatto è che neppure il ritrovamento di Dio avrebbe consentito a Cartesio di superare un dubbio iniziale che sarebbe stato, dunque, solo apparentemente propedeutico: ché quello di Dio si sarebbe costituito piuttosto come ri-trovamento di una verità sorprendentemente valevole quale vera e propria ipostatizzazione dello stesso “dubbio” di partenza. D’altro canto, che questa sia la direzione in cui vada interpretata la posizione di Socrate risulta evidente anche in virtù del fatto che, a fargli prendere coscienza dell’altissimo valore del suo “non-sapere”, sarebbe stata addirittura una divinità. È infatti il dio a dirgli che, proprio in quanto “consapevole di non sapere”, egli, Socrate, sarebbe il più sapiente di tutti.
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In questo senso l’Apologia di Socrate è chiarissima: «Udita la risposta dell’oracolo46, riflettei in questo modo: “Che cosa mai vuol dire il dio? Che cosa nasconde sotto l’enigma? Io, infatti, certo ho coscienza di essere sapiente né molto né poco; cosa dunque dice il dio affermando che io sono il più sapiente? Certamente egli non mente; non gli è consentito, infatti”. E per lungo tempo rimasi in questa incertezza, vagavo con la mente, ignorando cosa mai volesse dire il dio» (Apologia di Socrate, 21 b). Socrate, dunque, non capisce bene; o sembra non capire bene. Neppure lui, cioè, sembra capire subito cosa faccia, del suo “non-sapere”, la forma più alta di sapienza. Secondo quando attestato dal dio, per bocca di Pizia. In ogni caso, a dirlo (che si tratta della forma più alta di sapienza) è un dio. È evidente, dunque: quel “non” che anche a Socrate, inizialmente, sembra indice di mera penìa, ossia, di mancanza o povertà, non può significare quello che Platone ci avrebbe costretto ad intendere, per lo meno a partire dal Sofista. Sì, perché, se il “non” indicasse semplice privazione, ossia qualcosa d’altro rispetto alla pienezza, non servirebbe certo l’intervento di una parola divina per farcene intendere il significato. E soprattutto non sarebbe in alcun modo possibile definire tale indigenza come somma sapienza (che è quando fa il dio attraverso le parole della Pizia). Al nostro intelletto, infatti, il “non” appare come semplice esclusione, o anche, come indicazione di qualcosa d’altro; sì 46. Cherofonte, amico di Socrate fin dalla giovinezza, si era recato a Delfi per interpellare la Pizia, l’oracolo di Delfi (sacerdotessa di Apollo Pitico a Delfi), e chiederle se vi fosse qualcuno più sapiente di Socrate. La sacerdotessa rispose che «più sapiente di Socrate non c’era nessuno» (Platone, Apologia di Socrate, 21A).
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che ciò che non è “sedia”, non possa che essere “tavolo”, o “finestra” oppure qualcos’altro. La “non-sedia”, insomma, indica per noi sempre qualcosa di diverso rispetto a un’altra esistenza; indica sempre qualcosa di diverso dalla sedia di cui il “non” dice appunto la semplice negazione escludente. Questo finirebbe per intendere un intelletto i cui ragionamenti sono inevitabilmente fondati sul principio della distinzione (o “principio di non contraddizione”). Ma qui, a parlare è appunto un dio. Che invita Socrate a porsi da un altro (altro?) punto di vista. Provocando un profondo sconcerto nel maestro di Platone. Indicandogli per ciò stesso una prospettiva che neppure Socrate riesce bene a decifrare; e che, proprio per questo, provoca in lui autentica “meraviglia” – un misto, cioè, di terrore e sorpresa, un vero e proprio entusiasmo angosciato. D’altronde, proprio di questa indicazione Socrate avrebbe fatto il vessillo del proprio pensiero; capendo in verità alla perfezione che proprio in tale enigma (e un dio non avrebbe potuto parlargli se non in modo enigmatico) doveva riposare, “non visto”, il segreto della conoscenza. Di quella conoscenza che egli tanto amava (da cui il suo definirsi filo-sofo), e che pur tuttavia lo avrebbe reso capace solo di far emergere aporie, senza consentirgli mai di offrire conoscenze o soluzioni “positive” ai propri interlocutori47.
47. Lo dice bene, ancora una volta, Werner Jaeger, là dove si premura di precisare che, stando ai primi dialoghi platonici (cosiddetti ‘socratici’), a dover essere riconosciuto è il fatto che, agli occhi Socrate, nessuna delle risposte dei suoi interlocutori appare soddisfacente. Perché nessuna si adegua al proprio oggetto. Insomma, «in tutti questi dialoghi minori, manca la soluzione aspettata, e la domanda si ripropone intatta alla fine, mettendo il
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Dunque, il dio manifesta a Socrate un senso inaudito del “sapere”, che, proprio in quanto divino, non potrà che “negare” quello che per gli umani significa propriamente sapere. Sì da negare finanche che “sapere” significhi acquisizione di un numero sempre maggiore di conoscenze positive. E farci prendere coscienza del fatto che, proprio quel che sappiamo, in verità, “non lo sappiamo” affatto. Suggerendoci, peraltro, e proprio in questo modo, che la verità (il senso divino delle cose) di quel che sappiamo è custodita da un “non” che, in quanto espressione del divino in quanto tale, non può certo indicare semplice diminutio. D’altro canto, Socrate era quello stesso che, sempre in accordo con l’oracolo di Delfi, ci avrebbe spiegato che “conoscere” significa innanzitutto conoscere se stessi. Ogni volta che conosciamo qualcosa, insomma, di fatto e in verità conosciamo sempre e solamente noi stessi. Ma il noi stessi che si tratta ogni volta di conoscere (anche là dove ci si ritenga impegnati a conoscere questo o quello, ossia, là dove ci si trovi impegnati a conoscere un qualche oggetto) – come sapeva bene già Eraclito48, e in conformità a quanto sarebbe stato ribadito anche da Gentile49 – non è alcunché di “de-terminato”. Se è vero che la nostra anima è come una terra senza confini o, anche, una sorta di cerchio a raggio infinito. Perciò, quando conosciamo qualcosa, conoscendo in verità
lettore in uno stato di tensione filosofica, che ha la più alta efficacia educativa» (W. Jaeger, Paideia, cit., p. 149). 48. «Per quanto tu cammini, ed anche percorrendo ogni strada, mai potrai raggiungere i confini dell’anima: tanto profonda è la sua vera essenza» (Eraclito, Frammenti, 55 [45]). 49. «La coscienza non si pone se non come una sfera il cui raggio è infinito» (G. Gentile, Teoria generale, cit., p. 32).
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sempre e solamente noi stessi, conosciamo qualcosa che non sarà mai la determinatezza che saremo in ogni caso riusciti a conoscere. Insomma, Gentile capisce alla perfezione il messaggio di Socrate; chiarendo, di sicuro in forma più rigorosa e stringente, che “conoscersi” (quel conoscersi in cui ogni conoscere può esser di fatto risolto) significa sempre capire di non aver affatto conosciuto quel che “oggettivamente” saremo comunque riusciti a conoscere. Il “soggetto”, infatti, non sarà mai quel che, di sé, sarà in ogni caso riuscito a conoscere nella forma oggettiva propria di qualsivoglia conoscenza astrattamente positiva. Ma attenzione: non perché manchi, ancora una volta, di qualcosa (ossia, di un determinato numero di conoscenze che, sole, riuscirebbero a rendere finalmente “compiuta” una conoscenza solo di fatto, cioè provvisoriamente, “parziale”, e che quel soggetto potrebbe sempre proporsi di completare).
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L’inquietudine del pensare Gentile e Pessoa
Francesco Valagussa
1. Di qua dal pensare «La forma dell’arte non è la stessa forma del pensare, perché l’arte, come abbiamo veduto, non è pensiero, ma di qua dal pensiero»1. L’arte viene considerata da Gentile come l’anima del pensiero, non il corpo: non il corpo determinato in cui il pensiero vive effettivamente e realmente, bensì il principio che anima il corpo; una forma “tutta speciale”. L’arte viene subito definita «inattuale e pur presente principio della vita di ogni opera dello spirito»2. Se non si comprende il valore di questa “anima in sé”, potremo girare attorno alla porta dell’arte, senza mai riuscire ad aprirla. Inattuale e pur presente. Sul senso di questa “presenza inattuale” si costruisce l’intera questione del rapporto tra arte e pensiero. L’incipit della prima parte de La filosofia dell’arte recita: «Il punto d’appoggio del pensiero, e perciò di ogni pro-
1. G. Gentile, La filosofia dell’arte, Firenze 20032, p. 124. Cfr. R. Assunto, Su alcune difficoltà dell’estetica gentiliana, in Aa.Vv., Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Firenze 1951, vol. V, pp. 1-51. 2. Ibidem.
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blema o ricerca, è l’esistente»3. Il secondo paragrafo di questa prima parte, dal titolo “l’arte come esistente”, chiarisce subito come l’arte costituisca quanto meno un caso notevole di tale “esistenza” su cui poggia il pensiero. Lo statuto ontologico di tale “esistenza” somiglia molto a quel che viene riportato in un passo della Scienza della logica hegeliana: «La cosa è prima che esista»4. Hegel precisa che la cosa è come incondizionata e soltanto in secondo luogo ha un “esserci” e dunque si determina. L’esistere immediato è quell’essere-privo-di-fondamento che va a fondo e così diviene fondamento: «Quando si son verificate tutte le condizioni della cosa esse si tolgono come immediato esistere e presupposizione. […] L’uscire nell’esistenza è quindi talmente immediato che è mediato soltanto dallo sparire della mediazione»5. L’arte esce nell’esistenza facendosi pensare: è il divenire del pensiero, il pensare come movimento che toglie l’immediatezza e istituisce la determinatezza del pensato. «L’arte pura – si legge alcune pagine più avanti – è inattuale, e perciò, nella sua purezza, inafferrabile. Il che non significa che non esista. Soltanto che non si può separare, qual essa è e per quel che essa è propriamente, dal resto dell’atto spirituale»6. 3. Ivi, p. 77. 4. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Werke, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Frankfurt am Main 1971, vol. VI, p. 122 (tr. it. Scienza della logica, a cura di A. Moni, Roma-Bari 20048, vol. II, p. 534). Si tratta soltanto di accordare i termini: Hegel chiama essere quel che Gentile chiama presenza o esistenza, mentre chiamerà esistenza o realtà quel che Gentile chiama l’attuale. 5. Ibidem. Si veda il fondamentale commento di B. Spaventa, Logica e metafisica, in B. Spaventa, Opere, a cura di F. Valagussa, Milano 2009, pp. 2077-2084. 6. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., pp. 117-118. Si veda S. Banchelli, Profilo dell’estetica gentiliana, in «Giornale di metafisica», n. 16, 1961, pp. 738-756.
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L’esistente è presentato dapprincipio come punto d’appoggio del pensare, ma al termine del processo il pensare stesso si presenta come «il vero e unico punto d’appoggio di se stesso»7. Gentile non corregge il calibro a distanza di una sola pagina: nel movimento di pensiero il presente inattuale va a fondo. Pensare è questo correggersi, questa attualizzazione. Sussiste dunque una distanza tra noi che leggiamo e il poeta che scrisse: la distanza tra la cosa che entra nell’esistenza attuale e le sue condizioni come presente inattuale. «Durante la lettura, la distanza è sparita: e il passato si fa presente»8. La fruizione dell’opera è l’attualizzarsi che letteralmente verifica tutte le condizioni nel senso che le rende-vere. «Distinguiamo pure la Divina Commedia – così si legge nella Teoria generale dello spirito come atto puro – da Dante che la scrisse e da noi che la leggiamo; ma avvertiamo poi che questa Divina Commedia che così distinguiamo da noi, è da noi e in noi, dentro la nostra mente, pensata come distinta da noi»9. Anzi, il fatto di distinguere la poesia da noi che la leggiamo è già un atto del pensiero. L’arte è un fatto10; la fruizione dell’opera è l’atto nel quale appare astrattamente l’esser fatto dell’arte in quanto tale. 2. L’arte come inattuale L’inattualità costituisce il carattere essenziale dell’arte: l’arte 7. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 78. 8. Ivi, p. 87. 9. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, in G. Gentile, Opere, a cura di E. Garin, Milano 1990, p. 469. Sull’interpretazione gentiliana di Dante cfr. G. Savarese, Gli studi danteschi di G. Gentile, in «La rassegna della letteratura italiana», n. 70, 1966, pp. 113-119. Inoltre A. Vallone, Gli studi danteschi di Giovanni Gentile, Firenze 1966. 10. Cfr. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 138.
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pura risulta inattuale in quanto «non è attuale vita dello spirito, ma entra nell’attualità spirituale»11; ciò non significa che non esista, è “pur presente”, ma non attuale, poiché non è pensiero. La stessa fantasia artistica arriva a designare soltanto «l’inattuale forma subiettiva dell’attività spirituale»12. Così Gentile traduce e trasferisce nel sistema dell’attualismo l’anatema hegeliano secondo cui «l’arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi qualcosa di passato»13. A questo proposito si deve ricordare un passo della Fenomenologia dello spirito: Le opere d’arte sono ora quelle che sono per noi, – bei frutti staccati dall’albero: un destino amico ce li porse come una fanciulla suol presentarli; non c’è la vita effettuale della loro esistenza, non l’albero che li produsse, non la terra né gli elementi che costituirono la loro sostanza, né il clima che costituì la loro determinatezza, né l’avvicendarsi delle stagioni che dominarono il processo del loro divenire.14
L’albero, la terra, il clima, le stagioni sono le “condizioni della cosa” non ancora uscita nella vita effettuale dell’esistenza: l’opera raccoglie tali condizioni che convergono nella determinatezza attuale; così è posta la realizzazione della cosa che è a un tempo il loro toglimento. Alle opere della musa – aveva scritto Hegel prima di intro11. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 110. Cfr. N. Petruzzellis, L’attualismo e il problema dell’arte, in N. Petruzzellis, L’estetica dell’idealismo, Padova 1942, pp. 289-318. 12. Ivi, p. 120. 13. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, in Werke, cit., vol. XIII, p. 25 (tr. it. Estetica, a cura di N. Merker e N. Vaccaro, Torino 1997, vol. I, p. 16). 14. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Werke, cit., vol. III, pp. 547-548 (tr. it. Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, Firenze 19886, p. 256).
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durre l’immagine della fanciulla – manca la forza dello spirito, le statue sono cadaveri cui è sfuggita l’anima vivificatrice: la fanciulla che deterge e porge i frutti «sintetizza tutto ciò più altamente nel raggiare dell’occhio autocosciente»15. L’autocoscienza fa da centro e raccoglie tutte le condizioni. La “inattualità dell’arte” riprende l’hegeliana “morte dell’arte” in chiave gentiliana. Spiegando l’autosillogismo nella logica del concreto, Gentile afferma che la pietra dice “Io sono” è già prima di parlare e di definirsi16. Ora, «la logicità della pietra non si appoggia, come fantastica il realismo volgare e quello scientifico o filosofico, sulla presunta realtà naturale immediata, più facile ad immaginare che a pensare, ma ben piuttosto sulla realtà dell’Io»17. Non la pietra, ma la sua logicità si appoggia all’atto dell’io; e tuttavia prescindendo da questo principio infinito la pietra non solo non si definisce, ma nemmeno sussiste. Il pensiero, come realtà assoluta, viene concepito da Gentile come «l’eterno Atlante che regge il mondo»18, e proprio perciò come un eterno insonne19, che continuamente sottrae all’inattualità e fa-essere. Anche Pessoa, negli stessi anni di Gentile, parlerà dell’inattualità dell’arte nei medesimi termini, e tuttavia scrivendoli per così dire a rovescio: «Se l’uomo avesse veri sentimenti non ci sarebbe civiltà. L’arte serve come fuga per la sensibilità che l’azione ha dovuto dimenticare. L’arte è la Cenerentola che è
15. Ivi, p. 257. 16. Cfr. G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, Firenze 2003, vol. II, p. 100. 17. Ibidem. 18. Ivi, p. 66. 19. Cfr. ivi, p. 164.
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rimasta a casa perché doveva essere così»20 – dove la pronta replica dell’attualismo si concentrerebbe sui “veri” sentimenti, precisando che non ci sono altri sentimenti se non quelli della civiltà. Pessoa verosimilmente preciserebbe che ad appoggiarsi sul pensiero non è la pietra, ma appunto la logicità della pietra. E che fine ha fatto la pietra? 3. Attorno alle origini del termine “attualismo” Nel suo commento alla Scienza della logica, che Gentile stesso saluterà come «un ripensamento profondo che l’autore fece della logica di Hegel, […] un’esposizione magistrale»21, Spaventa opera diverse variazioni rispetto al linguaggio hegeliano. Una delle più lampanti, e forse la più significativa, riguarda la sezione finale della dottrina della scienza, dedicata alla realtà: il titolo del capo terzo di Spaventa sarà invece “L’attualità”. E dove Hegel parlerà di possibilità, nelle pagine spaventiane si troverà “L’attualità interna (la possibilità)”, il caso sarà “L’attualità esterna” e così via. La necessità viene resa con “attualità assoluta”, «in quanto risolve in sé (nega) ogni esistenza o fenomeno»22. Tale necessità è l’essenza, presentata come assoluta in quanto nega ogni fenomeno: si tratta dell’unità negativa di tutte le esistenze23. È vero che tale essenza coincide secondo Spaven-
20. F. Pessoa, Libro do desassossego por Bernardo Soares, Lisboa 1982, 2 voll. (tr. it. Il libro dell’inquietudine, a cura di M.J. de Lancastre, Feltrinelli, Milano 19875, p. 270). Cfr. A. Brandalise, L’aristocrazia difficile, in A. Brandalise, Oltranze. Simboli e concetti in letteratura, Padova 2002, pp. 51-57. 21. G. Gentile, Avvertenza a “Logica e metafisica”, in G. Gentile, Opere, a cura di G. Gentile, Sansoni, Firenze 1972, vol. III, p. 6. 22. Ivi, p. 2085. 23. Ibidem.
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ta con la sostanza, ma è altrettanto chiaro che tutta la logica soggettiva, a partire dal concetto, non sarà che un approfondimento delle dinamiche relative all’unità negativa, ossia la mediazione. Se l’essere è immediatezza semplice, la sostanza è semplice mediazione, dunque è già riflessione come negazione dell’immediato, che troverà compimento nel concetto come mediazione con se stesso. Rimane essenziale la sostituzione di realtà con attualità. Avvalendoci di questa “traduzione” la celebre espressione hegeliana presente nella Prefazione dei Lineamenti di filosofia del diritto24 suonerebbe: “tutto ciò che è razionale è attuale, tutto ciò che è attuale è razionale”. Il nucleo più intimo dell’attualismo gentiliano si condensa in questo isomorfismo di razionalità e attualità: solo ove è già in gioco la riflessione dell’Io qualcosa emerge ad attualità, e tale attualità non può che essere espressa nei termini della razionalità della riflessione ponente. Alla luce dell’attualità come esistenza divenuta autocosciente si chiarisce ulteriormente il nesso tra razionalità e realtà: «Nessuno dei due c’è senza l’altro, e quel che c’è davvero è il loro rapporto»25. Tale medesimezza è già l’attività del giudizio come mediazione in sé del concetto: «Il giudizio negativo – prosegue infatti Gentile – non si pensa senza l’affermativo, di cui è negazione; ma questo neppure si pensa senza il negativo che esso nega»26. Il giudizio è già sillogismo disgiuntivo. Perciò l’immediato si risolve nella mediazione della sintesi: «Ebbene questa media-
24. G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, in Werke, cit., vol. VII, p. 24 (tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Milano 1998, p. 59). 25. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., vol, I, p. 250. 26. Ibidem.
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zione è la vita dell’immediato»27. La concreta immediatezza della forma artistica non esclude la mediazione, anzi coincide con essa: «Differente, ma insieme identica»28. Il pensare è l’istituirsi dell’identità, come nella lettura attuale sparisce la differenza tra noi e il poeta: ma come può esservi anche solo traccia della differenza tra l’arte inattuale e pur presente29 e la sua concreta immediatezza attuale? Se il pensare tiene alla loro identificazione, la loro differenza è un puro sentire. La loro identità è solo pensata, la loro differenza solo sentita: «Sento l’amarezza essenziale di questa vita estranea alla vita umana: vita in cui niente succede se non nella sua stessa coscienza»30. 4. Tenebra già fugata In diretta polemica con l’incipit giovanneo31 in cui le tenebre non accolgono la luce che viene nel mondo, il carattere dialettico della forma estetica «non è un’oscurità che aspetti il lampo rischiaratore. È la tenebra che è già fugata dalla luce del sole nascente»32. L’immediato è negato e questa negazione è
27. F. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 140. 28. Ibidem. 29. Su questo tema cfr. A. Negri, L’estetica di Giovanni Gentile. Esistenza ed inesistenza dell’arte, Palermo 1994. 30. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 159. 31. Per un’analisi rigorosa del problema religioso in Giovanni Gentile cfr. U. Spirito, La religione di Giovanni Gentile, in «Giornale critico della filosofia italiana», 33, 1954. Inoltre A. Caracciolo, La religione nel pensiero di Giovanni Gentile, in Aa.Vv., Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Firenze 1967, XII, pp. 5-42. 32. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 137.
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la vita dell’immediato, il suo mediarsi33. La dialettica contiene dunque l’arte e non viceversa: astratta immediatezza è il nescio quid34 dell’opera d’arte che commuove ed esalta l’animo umano. «Il critico, armato dei suoi concetti, sopraggiunge e interviene nell’analisi dell’opera d’arte come una specie di esploratore che s’avanzi nelle foreste vergini della natura inconsapevole, o a mo’ di un chimico che scruta ne’ suoi alambicchi le sintesi inconsce degli elementi materiali»35. Il critico-esploratore, il critico-chimico come immagini del pensare che risulta dal negarsi, dall’andare a fondo dell’immediato. L’opera letteralmente non c’è, non esiste, se non nella suo essere-attualmente-esplorata, ossia mediata. «I veri paesaggi – scrive Pessoa – sono quelli che noi stessi creiamo, perché così, essendo i loro Dei, noi li vediamo come essi sono veramente, cioè come sono stati creati»36. Il critico esploratore ritorna in Pessoa: «Nessuna delle sette parti del mondo è quella che mi interessa e quella che posso vedere veramente; è l’ottava parte quella che io percorro, 33. Da qui trae origine il dispositivo severiniano mediante cui trova risoluzione l’aporia del nulla all’interno del quarto capitolo de La struttura originaria, dove il nulla momento è attuale soltanto in quanto già in sintesi con il suo positivo significare. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, Milano 20043, pp. 215-223. Lo statuto medesimo del nulla come momento astratto si trova in chiara analogia con le nozioni di “fatto” e di “immediatezza” presenti nei tesi gentiliani. Cfr. E. Maggioni, La logica gentiliana e il problema del nulla, in Aa.Vv., Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Firenze 1954, VII, pp. 187-231. Un recente confronto tra pensiero severiniano e gentiliano si trova in B. De Giovanni, Disputa sul divenire. Gentile e Severino, Napoli 2013. Cfr. anche E. Severino, Attualismo e storia dell’occidente, introduzione a G. Gentile, L’attualismo, a cura di E. Severino, Milano 2015, pp. 7-69. 34. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 139. 35. Ibidem. 36. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 160.
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ed essa è mia»37. Dunque, anche chi abbia attraversato tutti i mari, ha varcato soltanto la monotonia di se stesso. La tenebra già fugata è l’Io che nulla sa della tenebra, ma soltanto la vince: «La ragione vince sempre se stessa. Anzi è un’eterna vittoria su se stessa»38. 5. La logica dell’astratto L’arte è “differente, ma insieme identica” al pensiero. Identità pensata, ma differenza soltanto percepita. Se si vuol conoscere Dante si deve leggere per intendere e così cancellare la distanza. «Ma intende, vede subito, dalla prima pagina, dalla prima terzina, dalla prima parola? Evidentemente no»39, perché il significato di ogni singola parte risiede nel tutto e radicalizzando la questione si arriverà a dire che «non c’è modo neppur di capire, e cioè di leggere (con l’accento che le si confaccia) una sola parola»40. Né vale la pena di presentare il problema del circolo ermeneutico: se la prima parola non è intesa sino a quando non si sarà letto l’intero poema, o l’intero romanzo, quando si potrà mai cominciare a intelligere, nel senso vichiano dell’interlegere? La risposta di Gentile è chiara: siamo da sempre nel movimento dell’intelligere: perciò viene criticato lo stesso innatismo platonico41 che pretende di entrare nel circolo del pensiero, spezzando così il cerchio. 37. Ibidem. 38. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., vol. II, p. 114. 39. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 84. 40. Ivi, p. 85. Sulla Divina commedia, oltre agli Studi danteschi si veda inoltre G. Gentile, L’esperienza pura e la realtà storica, in G. Gentile, Opere, cit., p. 420, dove si mostra il senso dell’attualità all’interno del poema dantesco. 41. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., vol. II, p. 25.
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A, irrelato, è la singola parola non ancora connessa al poema, «A astrattamente pensato, nome senza verbo»42, ma «questa innominabilità dell’innominabile non può essere pensata come nome (A), ma soltanto come nome del verbo (A=A)»43. A=A è il togliersi di A: la lettura della prima parola di un poema è il togliersi del suo essere semplice, del suo essere-irrelato, ed è un mediarsi, un entrare in relazione. Nucleo della logica è l’unità di nome e verbo, dove il nome A non è l’impensabile proprio perché viene pensato mediante il verbo (=A)44. Qui non si chiede come si passi da A ad A=A, bensì da dove si avrebbe notizia dell’astratto A se si fosse già da sempre in A=A: donde l’idea dell’irrelato in un mondo che è solo mediazione? Heidegger traduceva lo “Io penso” kantiano in “io collego”, e in particolare in “io posso”45: l’irrelato è l’impensato nel senso dell’impensabile/impossibile, quel che l’Io letteralmente non può. Il pensare può approcciare l’irrelato solo nella forma, appunto, dell’approccio, che ha già smarrito l’irrelato e ad esso si relazione nella forma di una logicità dell’irrelato. «Contemplare le cose come se io fossi il viaggiatore adulto arrivato oggi alla superficie della vita! Non aver imparato fino dalla nascita a attribuire significati usati a tutte queste cose; poter separare
42. Ivi, vol. I, p. 186. Sul rapporto tra unità e distinzione e dunque sul nesso tra logica dell’astratto e logica del concreto cfr. in particolare L. Scaravelli, La logica gentiliana dell’astratto, a cura di V. Stella, Soveria Mannelli 1999. Inoltre V. Vitiello, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Milano 2003, pp. 136-149. 43. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., vol. I, p. 224. 44. Cfr. ivi, p. 177. 45. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretation von Kants Kritik der reinen Vernunft, Frankfurt am Main 1977, p. 382 (tr. it. Interpretazione fenomenologica della Critica della ragione pura, a cura di A. Marini, Milano 2002, p. 224).
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l’immagine che le cose hanno in sé dall’immagine che è stata loro imposta»46. Poter separare la cosa dall’immagine loro imposta, questo è l’impossibile: il pensiero è solo relazione. «Capire tutto per la prima volta, come una fioritura della Realtà»47 si attaglia ancora perfettamente all’attualismo gentiliano: ma qui si tratta di “poter saper sentire”48. Saper sentire è l’im-possibilità di distinguere l’irrelato senza farne un relato. Gentile vi si avvicina massimamente quando afferma che «l’io trascendentale è pensiero puro o trascendentale; ma il sentimento, il soggetto non è pensiero bensì condizione dello stesso pensiero trascendentale»49. 6. Il sentimento come condizione del trascendentale Il sentimento viene definito come condizione del pensiero trascendentale perché non viene superato una volta per tutte nel giudizio già da sempre avvenuto A=A che toglie l’astrattezza di A come immediato. Tale immediatezza torna sempre a visitarci: non solo non si capisce la prima pagina di un libro senza aver letto l’ultima, ma quando si è letto e si crede di aver capito un libro, se ne legge un altro e ci si trova costretti a confessare che non si era ben capito il primo libro50. Se il pensiero ha fatto sparire la distanza tra ciò che si pensava di aver capito e quel che il secondo libro ci fa conoscere è già tolta dal pensiero, perché sentiamo ancora quella differenza? 46. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 51. 47. Ibidem. 48. Ivi, p. 33. 49. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 161. Cfr. M.L. Proto Pisani, Il sentimento nella filosofia di Giovanni Gentile, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 42, 1953, pp. 329-339. 50. L’esempio è di Gentile. Cfr. G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, cit., vol. II, p. 190.
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Affinché il pensiero abbia materiale su cui operare, l’astratto dev’essere a un tempo negato e anche affermato, «a quel modo stesso che a mantenere acceso il fuoco che distrugge il combustibile, occorre che ci sia sempre del combustibile, e che questo non sia sottratto alle fiamme divoratrici, ma sia effettivamente combusto»51. Gentile qui sta ipotizzando proprio quell’unità indissolubile tra logica dell’astratto e logica del concreto che però in effetti renderebbe impossibile pensare effettivamente l’astratto in quanto tale, ossia prescindendo dal concreto. «Non si fa il fuoco con niente»52, scrive Gentile: ma il fuoco sembra alimentarsi proprio a partire da quel niente in cui consiste l’immediato. L’astratto è sempre bruciato, ma rimane anche sempre da bruciare: non si consegue mai una vittoria definitiva sull’astratto. In tal senso il pensare vince sempre e soltanto su se stesso e l’immediato torna a riaffacciarsi di continuo, nel suo essere inattuale, e pur presente. In tal senso possono essere intese le accuse di misticismo rivolte da Croce verso l’attualismo gentiliano53. Il parallelo tra fuoco e combustibile torna significativamente, infatti, anche in Giovanni della Croce: il fuoco intacca il legno sino ad appropriarsene, trasformandolo in se stesso. «Il legno ormai non ha più alcun elemento che possa essere intaccato dal fuoco. […] Ora infatti anche il legno è secco ed essicca;
51. Ivi, vol. I, p. 150. 52. Cfr. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 295: «È necessario che ci sia il combustibile perché ci sia la fiamma, in cui esso s’accende e si consuma. Non si fa il fuoco con niente». 53. Cfr. B. Croce, Intorno all’idealismo attuale, «La Voce», V, n. 46, 13 novembre 1913: «Ma allorché poi soggiungete: “idealismo attuale”, nasce il dissenso».
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è caldo e riscalda; è luminoso e rischiara»54. Se il legno si è fatto-fuoco, la separazione tra i due si rivela inconcepibile. Il mistico spagnolo ammette la problematicità del passaggio: «È come se qualcuno, sospendendo il lavoro, estraesse il ferro dalla fornace per controllare a che punto è l’opera»55. “En alguna manera” scrive Giovanni della Croce: tale “maniera” tuttavia nasconde l’autentica impossibilità logica, ovverosia la separabilità di astratto e concreto. 7. L’inquietudine del pensare Il pensiero è ciò che, nel suo svolgimento, produce e insieme nega l’astratto: in diversi luoghi del suo Sistema di logica Gentile parla letteralmente dell’inquieto pensare56, ma in generale tale inquietudine traspare ad ogni passo: nelle notti insonni dello spirito57; nell’«Io che non sono ma mi fo»58, che pensa vuole e lavora; nell’eterno problema che è eterna soluzione59. Pensare è trovarsi nell’inquietudine, pensare è essere-turbato. E ricondurre questo turbamento sotto l’egida di un solo prin-
54. G. Della Croce, Notte oscura, in G. Della Croce, Opere, a cura di P.L. Boracco, Milano 2014, p. 2137. 55. Ivi, p. 2141. 56. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., vol. II, pp. 26 e 104. Di qui dipende anche l’esigenza gentiliana di una riforma della dialettica hegeliana. Cfr. G. Gentile, Teoria generale dello spirito, cit., p. 503: «Hegel, tornato a rappresentarsi questa dialettica come legge archetipa del pensiero in atto, non potè non fissarla egli pure in concetti astratti e quindi immobili». Si veda il saggio di A. Negri, L’inquietudine del divenire, Firenze 1992. 57. Cfr. ivi, vol. II, pp. 164 e 314. Il Libro dell’inquietudine può essere definito “una poetica dell’insonnia”. Cfr. A. Tabucchi, Bernardo Soares, uomo inquieto e insonne, in F. Pessoa, Il Libro dell’inquietudine, cit., p. 12. 58. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., vol. I, p. 61. 59. Cfr. ivi, vol. II, p. 305.
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cipio, l’Io infinito, assoluto: nella Teoria generale dello spirito come atto puro Gentile si sofferma sull’impossibilità di una molteplicità pura60, e vi torna a più riprese: «qual è la parola che suoni un istante nel segreto dell’anima nostra, o quale il granello di sabbia che giaccia sepolto nel fondo dell’Oceano, o quale l’astro immaginabile al di là di ogni nostra attuale o possibile osservazione celeste che non occorra e non s’incentri in quell’Uno, in rapporto al quale tutto è pensabile?».61
“Uno” che è il pensiero, la sfera a raggio infinito62 che tutto illumina, che tutto unifica perché tutto nega. Pessoa interpreta diversamente questa “tragedia della negazione”: «Dio sposò la Notte Eterna quando essa restò vedova del Caos che ci ha creati»63. La mente corre al libro “Lambda” della Metafisica di Aristotele: «Pertanto non ci furono per un tempo infinito Caos e Notte, ma ci furono sempre le medesime cose, o ciclicamente o in qualche altro modo, se veramente l’atto è anteriore alla potenza»64. Sempre le medesime cose che si attualizzano: il pensiero rende attuale l’essenza (ciò che
60. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., pp. 550551. 61. Ivi, pp. 581-582. 62. Ivi, p. 483. Espressione analoga, in rapporto alla costituzione dell’oggetto si trova in E. Husserl, Formale und transzendentale Logik, in Husserliana, a cura di P. Jannsen, Den Haag 1974, p. 65 (tr. it. Logica formale e trascendentale, a cura di G.D. Neri, Bari 1966 p. 73): «Ciò che nell’evidenza si è costituito come in un’azione politetica, diviene poi afferrabile “monoteticamente” in un solo raggio afferrante, la formazione politetica diventa un oggetto». 63. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 126. 64. Aristotele, Metaph., Λ, 1072 a 9 (tr. it. Metafisica, a cura di G. Reale, Milano 20023, p. 561).
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era essere secondo Aristotele) facendola uscire all’esistenza65. Nulla sappiamo di quel Caos, prima che la Notte si sposasse con Dio: nulla sappiamo della vita dell’immediato prima che la sua vita fosse mediazione, tutta riflessa nel raggio dell’occhio autocosciente. Nulla possiamo sull’inattuale: Mi ricordo all’improvviso di quando ero bambino e vedevo, come non posso vedere oggi, il mattino che sfavillava sulla città. Essa allora non sfavillava per me, ma per la vita, perché io allora, non essendo cosciente, ero la vita. Vedevo il mattino e sentivo allegria; oggi vedo il mattino e sento allegria e divento triste. Il bambino è rimasto, ma è ammutolito. Vedo come vedevo, ma dietro agli occhi mi vedo mentre mi vedo; e questo basta a oscurarmi il sole e a far diventare vecchio il verde degli alberi.66
Vedevo in passato come non posso vedere oggi: oggi mi vedo mentre mi vedo, dietro agli occhi. Non posso vedere come quando vedevo soltanto. “Vedersi dietro agli occhi” significa che il verde degli alberi, e lo sfavillare del sole è e rimane per noi qualcosa di passato. Rispetto all’albero verde – di Pessoa, dello stesso Goethe67 – la filosofia dipinge il suo grigio su grigio68. “Sentire allegria e diventare triste”: la dialettica piacere-dolore impostata da Gentile69 come reciproca esclusione di un senti65. Cfr. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., vol. II, p. 27: «Sottraete il logo astratto al suo nesso col logo concreto e avrete l’antica logica dell’essere, che non è spirito». 66. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 45. 67. W. Goethe, Faust, vv. 2038-2039, in Werke. Hamburger Ausgabe, a cura di E. Trunz, München 2000, vol. III, p. 66 (tr. it. Faust, a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 1994, vol. I, p. 155): «Grigia, caro amico, è ogni teoria, e verde l’aureo albero della vita». 68. G.W.F. Hegel, Grundlinien cit., p. 28 (tr. p. 65). 69. Cfr. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., pp. 155-160.
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mento rispetto all’altro prevede che l’uno sia assoluta negazione dell’altro; il sentire allegria diventa tristezza nella riflessione. Tale dialettica non esclude, ma nemmeno può includere il “puro sentire allegria” avvertito in passato dal bambino. L’allegria diventa tristezza, e la tristezza della riflessione dimentica la pura allegria che era pur presente prima che intervenisse la riflessione stessa: dialetticamente «nessuno dei due c’è senza l’altro, e quel che c’è davvero è il loro rapporto»70. Il puro essere-allegro è il sentimento irrelato, che non può essere incluso nella dialettica se non nella forma di una relazione, dunque di una logicità dell’essere allegro, così come a dirsi non è la pietra, ma la logicità della pietra. La suprema legge dialettica, così come si trova formulata nella Teoria generale dello spirito come atto puro – «questo fuori è sempre dentro»71 – costituisce la forma di tutto ciò che il pensare può portare alla luce. Il vedere del bambino oggi appare come parte di un rapporto mentre in passato era l’intero: in virtù di quel rapporto il fuori costituito dal “vedere del bambino” è sempre dentro al “vedere dietro agli occhi”. La A irrelata e muta di Gentile è rimasta in Pessoa, ammutolita: né fuori, né dentro. 8. Barbarie della riflessione «Bisogna svestire lo spirito della sua determinata forma attuale, che è pensiero, riflessione, giudizio, per raggiungere idealmente il nucleo vero e proprio dell’arte pura»72. Operare per astrazione, tuttavia, ha un limite: non si può astrarre
70. G. Gentile, Sistemi di logica, cit., vol. I, p. 250. 71. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 483. 72. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 112.
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dall’astrarre. L’indeterminato sarà sempre determinato come indeterminato, l’ignoto sarà sempre noto come ignoto. Questo enorme potere dell’astrarre – ossia del negare, del pensare – non è forse anche suo limite intrinseco? Incapacità di mantenere un presupposto se non negandolo, ponendolo come presupposto. Una lampada fa luce alla finestra: «Un filo invisibile mi lega al proprietario anonimo della lampada» – scrive Pessoa – «non c’è reale reciprocità dato che io ho la luce spenta e, stando io al buio della finestra, egli non potrebbe mai vedermi»73. È una sensazione di isolamento, «che sceglie quella lampada come punto di appoggio perché è l’unico punto di appoggio esistente»74. Si potrebbe trovare qualcosa di analogo nella Critica della ragione pura: «È oltremodo degno di nota il fatto che, quando si presuppone che un qualcosa esiste, non si può sfuggire alla conclusione che un qualcos’altro esista altresì necessariamente»75. Per adoperare un linguaggio gentiliano, tutto questo quadro presuppone però il pittore76. «Nello scrivere – risponde indirettamente Pessoa nel 1931 – io sono inferiore a me stesso»77. Dieci anni prima, in una lettera datata 6 dicembre 1921, Kafka
73. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 278. 74. Ibidem. 75. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 644 / A 616, in Werke, a cura di W. Weischedel, Darmstadt 1983, vol. IV, p. 545 (tr. it. Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 20013, p. 636). Il passo viene citato in F.W.J. Schelling, Philosophie der Offenbarung, in Sämtliche Werke, a cura di F.K.A. Schelling, Stuttgart-Ausburg 1856-1861, Abt. II, vol. III [1858], p. 166 (tr. it. Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Milano 2002, p. 275): «La critica di un concetto pone in questione la possibilità del suo oggetto». 76. G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, cit., vol. I, p. 148. 77. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 151.
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scrive: «Soltanto lo scrivere è inerme (hilflos), non risiede in se stesso, è spasso e disperazione»78. Agli inizi del Novecento, Valéry scriveva nei suoi quaderni: «Ottimo segno non trovare la parola giusta – ciò può provare che stiamo considerando un fatto mentale, non un’ombra del dizionario»79. Si potrebbe dire che stiamo elaborando un sentimento, non un pensiero. Esprimersi non è la mediazione che dà vita all’immediato in quanto lo fa apparire, «esprimersi è sempre sbagliare»80. Si sbaglia sempre non perché vi sia una regola che venga costantemente trasgredita: lo sbaglio non è mai pensiero determinato; si nutre piuttosto la sensazione che il dire non sia vivere ma sopravvivere81, soltanto sopravvivere. «La Decadenza è la perdita totale dell’incoscienza; perché l’incoscienza è il fondamento della vita»82. La dialettica dell’attualismo, incapace come tale di recuperare l’incoscienza se non nella forma dell’incoscienza, è la perdita realizzata, effettuale della vita in funzione della sopravvivenza, la perdita dell’essere in vista del concetto. Una barbarie della riflessione direbbe Vico: «Io sono la grande disfatta dell’ultimo esercito che difendeva l’ultimo impero. In me c’è il sapore del crollo di una civiltà antica e dominatrice»83. Il sapore del crollo, non il sapere del crollo!
78. F. Kafka, Tagebücher 1914-1923, in Gesammelte Werke, a cura di H.-G. Koch, Frankfurt am Main 1994, vol. III, p. 197 (tr. it. Diari (1910-1923), a cura di M. Brod, Milano 1964, vol. II, p. 202). 79. P. Valéry, Quaderni, a cura di J. Robinson-Valéry, Milano 2002, p. 9. 80. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 257. 81. Ivi, p. 276. 82. Ivi, p. 227. 83. Ivi, p. 210.
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Giovanni Gentile e il dramma della modernità Percorsi storico-critici nell’attualismo Alfredo Gatto
1. Introduzione: modernità e teodicea La riflessione di Giovanni Gentile può essere considerata come uno dei tentativi più radicali di fare criticamente fronte a un insieme di nodi problematici posti dall’emergere del paradigma moderno. Quando parliamo di “modernità”, non ci riferiamo né al palco di un soggetto sovrano che ha superato, calzando hegelianamente gli stivali delle sette leghe, la speculazione che l’ha preceduto giungendo a piena maturità1, né all’ennesima variabile secolarizzante di un’identica costante storica sorta dopo l’abbandono del cosmo greco2. Al contrario, stiamo qui alludendo ad un costrutto teorico che ha posto al centro del suo interesse e nel cuore dei suoi regimi di sapere il problema e il dramma della libertà divina.
1. Sulla modernità come auto-affermazione, il riferimento è naturalmente H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, tr. it. di C. Marelli, Marietti, Genova 1992. 2. Cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, tr. it. di F. T. Negri, intr. di P. Rossi, Il Saggiatore, Milano 2004. Si tenga presente anche l’analisi di E. Voegelin, La nuova scienza politica, tr. it. di R. Pavetto, Borla, Torino 1968.
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Il riferimento è a René Descartes e alla sua teoria sulla libera creazione delle verità eterne. Ora, senza indagare le implicazioni di questa dottrina3, possiamo limitarci a sottolineare come una delle sue conseguenze, subito chiara tanto al filosofo francese quanto ai suoi corrispondenti, fosse legata all’impossibilità di rendere ragione delle decisioni divine, in particolare alla luce dell’incomprensibilità e indifferenza dell’essentia Dei. Posto di fronte ad un Dio che può tutto – ma realmente tutto, in ciò incarnando una consapevole accelerazione rispetto alle precedenti formulazioni, soprattutto tardo-scolastiche4 –, il pensiero non può conchiudersi, se non trovando in altro le ragioni della sua legittimità. Dinanzi a questo Dio, nessuna alternativa può dirsi esclusa, nemmeno la più estrema, neppure quella che potrebbe restituire al silenzio la totalità dell’ordito logico intessuto sinora. La modernità, pertanto, ripropone, o forse per la prima volta concretamente pone, il problema di accordare l’apparente necessità del proprio bagaglio conoscitivo con la piena consapevolezza di una fragilità epistemica connaturata al suo stesso esserci. Di fronte a questa ferita, inscritta nella carne del pen-
3. La letteratura sul tema è molto vasta. Per una prima disamina, si vedano gli studi, in reciproco contrasto, di H. Frankfurt, Descartes on the Creation of the Eternal Truths, in «The Philosophical Review», n. 1, LXXV (1977), pp. 36-57, e di E. Curley, Descartes on the Creation of the Eternal Truths, in «The Philosophical Review», n. 4, XCIII (1984), pp. 569-597. 4. Con l’espressione “tardo-scolastica” ci riferiamo alla Seconda Scolastica, o Scolastica Barocca. Per una presentazione dei suoi più importanti rappresentanti, si vedano gli studi di C. Giacon, La seconda scolastica (III Voll.): I grandi commentatori di san Tommaso (Vol. I), Fratelli Bocca Editore, Milano 1944; C. Giacon, Precedenze teoretiche ai problemi etico-giuridici. Toledo, Pereira, Fonseca, Molina, Suárez (Vol. II), Fratelli Bocca Editore, Milano 1947; C. Giacon, I problemi giuridico-politici (Vol. III), Fratelli Bocca Editore, Milano 1950. I tre volumi sono ora disponibili nella nuova edizione di Nino Aragno, Torino 2001.
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siero, le strategie saranno diverse: vi sarà chi, come Descartes, preferirà obliarla, instaurando, secondo i classici stilemi barocchi fondati sui chiaroscuri della dissimulatio, una dialettica interna alla sua riflessione5, e chi invece, come ad esempio Leibniz e Malebranche, si impegnerà ad introdurre un criterio di mediazione per garantire all’iter conoscitivo dell’uomo un solido ancoraggio nei meandri dell’essenza divina. È in relazione a questo preciso plesso concettuale che possiamo interpretare la modernità come un progetto – fallito – di teodicea. Il progetto è destinato di necessità a fallire perché i differenti tentativi che si affacceranno sul palco della modernità, con l’obiettivo di trovare un rimedio alla contingenza del loro fondamento, finiranno per presupporre e per non mettere in questione precisamente quella distinzione fra pensiero ed essere – quella separazione fra il dominio epistemico tracciato dall’enérgeia della ratio umana e le condizioni della sua legittimità – che aveva schiuso lo sguardo della ragione sul suo possibile abisso. La modernità come progetto di teodicea non può adempiere alla propria funzione, e non vi può neppure corrispondere, continuando a presupporre una differenza ed un inizio fondanti le modalità con cui il pensiero si rapporta al suo stesso esserci: un Dio inteso come potenza infinita. La potentia Dei, in altri termini, continua ad incarnare l’antecedente logico di quel pensiero che in tanto pensa in quanto esiste e sussiste come res cogitans cogitata6, come attività che trova in altro e da altro le parole per potersi esprimere, dando voce a nient’altro che alla propria gratitudine.
5. A questo proposito, ci permettiamo di rinviare a A. Gatto, René Descartes e il teatro della modernità, Inschibboleth, Roma 2015. 6. Alcune interessanti osservazioni sulla “datità” del pensiero, in particolar modo nella riflessione cartesiana, sono state formulate da J.-L. Marion, L’alterità originaria dell’ego, in J.-L. Marion, Questioni cartesiane sull’io e su Dio, tr. it. di I. Agostini, Le Monnier-Mondadori, Milano 2010, pp. 3-30.
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2. Attualismo e “rioccupazione” Ricondotta in questo contesto, la posizione di Gentile rappresenta una risposta, oltremodo radicale, ad un problema nella sostanza “moderno”, connesso alle condizioni di possibilità del pensiero. A dispetto della discontinuità fra uomo e Dio che ha retto le differenti testimonianze affacciatesi sulla scena, il filosofo italiano si propone di eliminare alla radice quello scarto – inaugurato dalla teoria cartesiana – che pone il pensiero al cospetto della possibilità della sua catastrofe; o meglio: che pone il pensiero di fronte alla possibilità di non poter escludere la propria stessa catastrofe. In questa sede, non interrogheremo i presupposti che hanno guidato la speculazione del filosofo, indagando la liceità delle premesse che ne hanno sorretto l’architrave, ma ci limiteremo a collocare Gentile all’apice di un lungo percorso, con l’intento di metterne in risalto l’originalità e la radicalità. A questo proposito, ciò che vediamo all’opera nell’attualismo gentiliano è precisamente un processo di progressiva riappropriazione delle prerogative divine; nella fattispecie, quelle proprietà che ponevano il pensiero, per l’appunto, pensato, di fronte ad una discrasia attestante la sua astrattezza e unilateralità. Naturalmente, non stiamo qui sostenendo che il dialettismo poietico descritto da Gentile, e collocato in mente subiecti, corrisponda, sic et simpliciter, alla rioccupazione delle dinamiche tradizionali che hanno luogo in mente Dei; si tratta, invece, di comprendere come esso rappresenti un tentativo di fare fronte alle difficoltà implicate dallo scarto fra la soggettività dell’Io empirico e la condizione della sua possibilità, fra lo spazio già da sempre dischiuso della rappresentazione e le premesse del suo poter perdurare, una volta posta l’onnipotenza divina come cifra di intelligibilità del reale. Insomma, se quello tratteggiato da Gentile non è un processo di mera sovrapposizione, siamo comunque di fronte ad una risposta
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– magari implicita, cioè non pienamente cosciente della sua connessione storica – ad una precisa questione teoretica, alla più radicale frattura fra essere e pensiero introdotta nella e dalla modernità. 3. La filosofia moderna e la prosecuzione del cristianesimo Come abbiamo appena rilevato, l’idealismo attuale può essere considerato come una reazione ad un problema introdotto dalla teoria di Descartes sulla natura creata delle verità eterne. E ciò, è bene precisarlo, a dispetto dell’interpretazione della riflessione cartesiana fornita da Gentile7. Secondo la ricostruzione offerta nel primo volume del Sistema di logica come teoria del conoscere8, una delle caratteristiche della filosofia moderna risiede nel «tentativo di non sopprimere né la trascendenza del logo né l’energia dello spirito per cui il logo vale9». La prima tappa del percorso portato a termine dalla modernità è figlia della mediazione storica del cristianesimo, in cui la realtà, da fatto compiuto e oggettivato, da dato inerte e ozioso si trasforma in una realtà – una volontà («fiat voluntas tua», Mt, 6,10) – ancora da farsi. In questo contesto, laddove il concetto dello spirito come realtà trappassa nel concetto della realtà come spirito, la filosofia moderna porta a compimento l’anima vivificante che l’ha preceduta, eliminando l’intellettualismo ancora operante nella sintesi (greco)scolastica, già scossa alla radice dal Rinascimento. Ad ogni modo, come rileva Gentile, la parziale immanentizzazione introdotta da Descartes non abbandona alcuni dei
7. A questo proposito, si veda il capitolo 4. 8. G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, 2 voll., Le Lettere, Firenze 20033, vol. I. 9. Ivi, p. 67.
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presupposti precedenti. La trascendenza del logo, infatti, permane, sebbene venga posta una maggiore enfasi sull’energia dello spirito per cui il logo stesso vien fatto valere. In altri termini, «il dato, per proteste che si facciano di non volerlo trascendere […], per industria che si ponga a immedesimarlo con lo stesso intelletto, rimane sempre un dato, che suppone il dante, un’attività esterna al soggetto»10. La verità non è qui concepita come immanente all’atto del conoscere, ma è collocata nell’astrazione del logo trascendente. E se qui il cogito può giungere alla verità, non la fa comunque propria nell’unità sintetica del processo, ma nell’apprensione di un’idea il cui contenuto non è a sua disposizione. La cogitatio, insomma, lungi dal porre le condizioni del proprio esserci, è sospesa alla trascendenza di un essere che non si risolve nello statuto finito della rappresentazione. 4. Il volontarismo della verità e il suo intelletto Questo è il rapido quadro tratteggiato da Gentile sul valore e il limite dell’impresa cartesiana. A questo punto, possiamo addentrarci più a fondo nella disamina gentiliana, e affrontare il primo dei nodi in questione: la volontà e le sue connessioni con l’intelletto. Mentre descrive lo sviluppo che ha condotto il soggetto, come posizione di sé, ad ottenere una maggiore «intimità del vero», Gentile formula alcune considerazioni sul ruolo svolto dalla teoria volontaristica nel percorso che ha accompagnato la graduale immanentizzazione della verità11. Dopo aver ben colto la relazione che lega Descartes a Scoto, Gentile mette in risalto le aporie connesse al volontarismo scotista e cartesiano.
10. Ivi, p. 69. 11. Cfr. ivi, pp. 76-96.
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Per quanto concerne il filosofo francese, Gentile non si concentra sulla dialettica fra le due facoltà divine, oggetto dell’interesse prima di Scoto e poi del più avveduto Descartes, bensì sulla differenziazione, discussa nelle Meditationes12 e nelle risposte fornite alle obiezioni di Marin Mersenne13, fra le proprietà dell’intelletto e della volontà a livello del cogito. Nel pensiero cartesiano, in effetti, l’intelletto e la volontà vengono posti come distinti nella dinamica conoscitiva della sola cogitatio umana – ed è qui che sorge, come è noto, la possibilità dell’errore –, pur rimanendo, tuttavia, formalmente indistinguibili nella cogitatio Dei. Benché Gentile non si soffermi su questo aspetto, coglie però un aspetto essenziale del problema, rilevando come la speculazione di Descartes rimanga, alla luce della differenza astratta dei due strumenti del percorso conoscitivo, un pensiero che continua a supporre la trascendenza del logo come condizione indispensabile per il libero esercizio della ratio immanente al soggetto che conosce14.
12. Cfr. R. Descartes, Opere 1637-1649, trad. it. di G. Belgioioso, con la coll. di I. Agostini, F. Marrone, M. Savini, Bompiani, Milano 2009, pp. 751-763 [IV Medit., AT, VII, pp. 52-62]. 13. Cfr. ivi, p. 1205 [VI Object., n. 6, AT, VII, pp. 416-417]. 14. «Senza ripetere qui quello che fu detto già della difficoltà che permane circa il rapporto tra l’intelletto e la verità, termine esterno e presupposto dell’intuito intellettuale, qui ci troviamo innanzi a nuove difficoltà, derivanti dalla nuova opposizione tra intelletto e volontà. La quale è invocata a celebrare un atto di libertà, per cui la verità riesca tutta cosa del soggetto, valore della sua personalità; ma è messa in condizione di non potere esercitare nessuna libertà, e perché, come facoltà distinta dall’intelletto, si potrà forse pensare che agisca, ma non potrà mai prendere cognizione di quel che è già conosciuto dall’intelletto; e potrà quindi spiegare un’azione ragguagliabile a un puro fatto naturale, ma non un giudizio, quale dovrebbe essere l’adesione o scelta; e perché, presupponendo, ancorché astratta e non sua, una verità, quando pur la vedesse, non potrebbe essere condizionata da essa, e per essa quindi privata della propria libertà […] La volontà, com’è intesa per cotesto volontarismo, non crea, né può creare, ma dee aver innanzi a sé
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Il volontarismo cartesiano accentua dunque la soggettività del vero e attribuisce spiritualità al valore – spingendo addirittura Gentile a definire Descartes «il fondatore del concetto filosofico del soggetto come autoctisi»15 –, ma non risolve lo iato che assicura la circolarità della rappresentazione16. Il cogito rimane allora, come ha messo in luce Ferdinand Alquié, «debordato dall’essere da ogni parte»17. Il dualismo fra intelletto e volontà, pensiero ed essere va perciò totalmente riconfigurato e superato: la certezza non dovrà più essere intesa come «l’integrazione d’una verità preesistente, ma come quell’unità del pensiero con l’essere che consiste nell’autoctisi propria del pensiero in atto, che, pensando, pone il suo essere»18.
la verità per appropriarsela». G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, cit., vol. I, pp. 80-81 (il corsivo è nel testo). 15. Ivi, p. 83. 16. Benché una «concezione antintellettualistica» come quella cartesiana, nel tentativo di «correggere l’astrattezza intellettualistica», abbia certamente «il merito di affermare una certa soggettività del vero», essa finisce tuttavia per ricadere «nella stessa astrattezza, poiché non abbandona quello che è il fondamento stesso dell’intellettualismo, il presupposto dell’assoluta oggettività». G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 2003, p. 260. Ecco perché «l’intellettualismo può esser vinto soltanto se non gli si volta le spalle, ma gli si va incontro, e si concepisce il conoscere nel solo modo in cui è possibile formarsene un’idea adeguata: che è quello, adottato da noi, di non supporgli come logico antecedente il reale che ne è oggetto»; «Il vero antintellettualismo», pertanto, «è il vero intellettualismo, o meglio: l’intellettualismo vero, che non ha fuori di sé il volontarismo: non è più un solo dei due vecchi termini antagonistici, ma l’unità d’entrambi. E tale è il nostro idealismo, che, vincendo ogni residuo di trascendenza rispetto all’attualità dello spirito, potrebbe anche ritenersi la concezione più radicale, logica, sincera del Cristianesimo», Ivi, p. 262. 17. F. Alquié, Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, tr. it. di T. Cavallo, ETS, Pisa 2006, p. 173. 18. G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, cit., vol. I, p. 95.
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Gentile colloca nell’attualità dell’atto precisamente quell’indistinguibilità fra le facoltà divine che Descartes aveva situato in mente Dei. In una risposta a Mersenne, Descartes precisa che la volontà del soggetto è la potenziale causa dell’errore in quanto travalica il dominio delimitato dall’intelletto, spingendo la cogitatio ad esercitarsi in territori inesplorati. Ciò che rappresenta un limite nell’ambito dell’ordo cognoscendi dell’uomo è però il chiaro segno della maestà della natura divina, totalmente indifferente a quel sistema di ripartizioni che regola il quadro epistemico delle sue creature19. Ecco perché in Dio «volere, intendere e creare sono una stessa cosa, senza che l’una preceda l’altra, nemmeno di ragione [ne quidem ratione]»20. Se vogliamo tentare di rapportarci realmente all’essentia Dei, precisa Descartes, non possiamo decidere delle facoltà e delle prerogative divine alla luce dell’unico quadro di riferimento che ci è lasciato in dote, poiché non siamo affatto legittimati a ritrovare nel nostro ordine conoscitivo le coordinate di una supposta gerarchia operante in mente Dei. In questo senso, al netto dell’enfasi posta dal filosofo francese sul valore operativo dell’onnipotenza, è comunque sconveniente fare riferimento ad un “volontarismo” cartesiano, poiché, così facendo, si continuerebbe a presupporre una differenziazione fra voluntas e intellectus che ha ragione di esistere solo nell’orizzonte della comprensione umana. Se la differenza fra le due facoltà è il sigillo che inchioda l’uomo alla sua creaturalità e finitezza, la loro positiva indistinguibilità è invece uno dei presupposti per
19. Cfr. R. Descartes, Opere. 1637-1649, cit., pp. 1225-1227 [VI Resp., AT, VII, pp. 431-433]. 20. R. Descartes, Tutte le lettere: 1619-1650, tr. it. di G. Belgioioso, con la coll. di I. Agostini, F. Marrone, F. A. Meschini, M. Savini, Bompiani, Milano 2005, p. 153 (AT, I, p. 153).
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continuare a poter pensare, concretamente, la natura del Creatore. Ora, è certamente vero che la trascendenza dell’essere finisce per fissare, o quantomeno limitare, la riflessione ad un presupposto sottratto ad ogni riserva critica; Descartes e tutta la filosofia successiva, ad ogni modo, non hanno alcuna necessità di superare e collocare nell’immanenza del pensiero tale fondamento, perché muovono proprio dalla piena assunzione di questo scarto. Ed è a partire da tali premesse che tanto la riflessione del filosofo francese quanto quella dei suoi epigoni e critici – tenuta ferma la comune convinzione di un Dio inteso come causa ultima – esporranno il pensiero e la totalità che esso riflette alla loro necessaria contingenza. Il pensiero, proprio perché pensato, esperisce l’esserci di un’alterità che, dopo avergli donato la parola, potrebbe sempre decidere di sottrargliela. Detto altrimenti: la passività del pensiero, non disponendo delle condizioni della sua possibilità, non può, per l’appunto, escludere alcuna possibilità. L’astrattezza della distinzione, tuttavia, non è qui un divario che deve essere sanato affinché l’uomo giunga alla piena consapevolezza della propria signoria creatrice, ma è il dato di partenza per rendere ragione delle sue lacune. Alla luce di queste premesse, si tratterà, “semplicemente”, di sanare tale frattura, e di consentire all’Io di rispecchiarsi, senza ombre e riserve, in Dio, deducendone ogni possibile proprietà. 5. Il passato – attuale – di una volontà Possiamo trovare un esempio a conferma del quadro che stiamo delineando nella trattazione gentiliana del passato21. Fac21. Per una prima, radicale, disamina di questo plesso, rinviamo a E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, in part. pp. 77-118, e alle bat-
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tum infectum fieri nequit: questa è la legge che ha sorretto – con la sola, notevole, eccezione di Pier Damiani22, cui faremo cenno a breve – la pre-comprensione medievale della temporalità. La convinzione che ciò che è accaduto non possa non essere accaduto è un dato che si impone sia alla comprensione umana, sia al quadro operativo disponibile alla potenza divina. Neppure Dio, infatti, potrebbe far sì che ciò è passato non sia, propriamente, passato. Se può intervenire nell’orizzonte del creato, modificandone l’attuale configurazione, Dio non può tuttavia fare in modo che il dato soggetto ad una nuova modifica non sia stato quel dato che era prima della sua futura trasfigurazione. La necessità che ciò che è accaduto sia accaduto – pena la violazione del principio di non contraddizione – governa l’intelligibilità della creazione, almeno a partire da Agostino. Nel Contro Fausto manicheo, ad esempio, il Vescovo è chiaro a riguardo: sostenere che l’onnipotenza divina possa fare sì che le cose fatte non siano state fatte è come dire «“Se Dio è onnipotente, faccia in modo che le cose che sono vere, in virtù di ciò che le rende vere, siano false”»23. Non è difficile trovare innumerevoli altre conferme. Nell’articolo di una quaestio in cui riecheggia lo spettro di Damiani, anche la risposta di Tommaso d’Aquino non lascia adito ad alcun dubbio. Secondo l’Aquinate, l’idea che le cose passate non siano avvenute
tute conclusive de L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999. Per una più ampia analisi, sempre sulla scia dell’impostazione severiniana, cfr. inoltre E. Lago, La volontà e il passato. Nietzsche e Gentile, Bompiani, Milano 2005. 22. Cfr. Pier Damiani, De Divina Omnipotentia. L’onnipotenza divina, intr. e trad. it di A. Gatto, con un saggio di A. Tagliapietra, ll Prato, Padova 2013. Per un’introduzione al testo di Damiani, si veda I. M. Resnick, Divine Power & Possibility in St. Peter Damian’s De Divina Omnipotentia, Brill, Leiden-New York-Boston 1992. 23. Aurelius Augustinus, Contra Faustum Manichaeum, XXVI, 5.
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implica un’immediata contraddizione, come se si volesse sostenere che il Socrate che vedemmo seduto non fosse, sub eodem, quel Socrate che stette seduto. Ora, poiché la potentia Dei può tutto fuorché la contraddizione, Tommaso conclude affermando che la possibilità in esame sfugge al dominio di quella ratio entis disponibile alla divina potenza24. Quelli presentati sono solo due esempi, fra i moltissimi che avremmo potuto citare. Ad essere importante è il comune presupposto su cui fanno leva gli autori medievali. Non vi è qui alcuna differenza ontologica: il dado è tratto tanto per l’uomo quanto per Dio, fatta salva l’intrinseca necessità del principio. In questo contesto, la posizione assunta da Gentile rappresenta una decisiva radicalizzazione delle precedenti premesse, e tocca in profondità le linee guida della sua stessa proposta teoretica25. Rispetto all’idealismo attuale, l’esser definitivamente passato del passato – il «così fu (es war)» di nietzschiana memoria, quel «digrignar di denti della volontà» che ne configura «la mestizia più solitaria»26 – rappresenta un presupposto realistico di cui è necessario appropriarsi affinché il pensiero
24. «Nell’onnipotenza di Dio non rientra ciò che implica contraddizione. Ora, che le cose passate non siano avvenute, implica contraddizione. Ed invero: come è contraddittorio il dire che Socrate siede e che non siede, così è contraddittorio dire che stette seduto e che non stette seduto […] Dunque che le cose passate non siano state, sfugge alla divina potenza». Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica (Voll. I-II), trad. it. di P. A. Balducci, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984-1992, p. 302. 25. Su questo tema, oltre ai riferimenti gentiliani sparsi nei due volumi dei Sistemi di logica come teoria del conoscere, cfr. anche G. Gentile, Il superamento del tempo nella storia (1935), in G. Gentile, Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Sansoni, Firenze 1936. 26. Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in F. Nietzsche, Opere di F. Nietzsche, tr. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1979 (Vol. VI, t. 1), p. 169.
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si faccia realmente pensante, risolvendo nella trascendentalità del processo ogni elemento all’apparenza estrinseco. Come ha sottolineato Emanuele Lago, il nodo relativo all’attualità del passato «mostra che la dimensione dell’immutabile da negare per salvaguardare il divenire è più ampia rispetto a quella costituita dagli immutabili della metafisica naturalistica (le leggi immodificabili della natura) e da quelli della metafisica teistica (il pensiero eterno di Dio)». Questo decisivo ampliamento concerne allora «proprio la nozione del passato, in ordine al concreto compimento del tempo»27. Portare a termine il dramma della metafisica implica dunque la negazione della presunta immodificabilità del passato. D’altra parte, pensando il passato come una sequenza di eventi sottratti all’attualità del pensiero pensante, si giunge ad affermare, al di là di ogni esplicita consapevolezza, un residuo naturalistico che limita la sfera dell’attività del soggetto, innalzando un argine invalicabile al suo dinamismo28. Tener ferma la storicità del fatto compiuto, pertanto, significa per Gentile supporre una verità di fatto e di ragione indipendente dall’attività dell’Io trascendentale – un dato che il pensiero deve patire e testimoniare, patire per poter testimoniare. Il passato, considerato come un’astrazione immutabile, finisce per aprire una voragine che precede il pensiero, vincolandone l’epifania. Porre in crisi simili premesse è la condizione indispensabile per superare ogni presupposto realistico e, con esso, il divario aperto dalla modernità. Da qui deriva l’assoluta 27. E. Lago, La volontà e il passato. Nietzsche e Gentile, cit., p. 214. 28. Ecco perché pensare un dato che «non sia più attuosità, o atto in fieri dello spirito» significa dare vita ad «una specie di Lucifero, di angelo decaduto. Il quale è un’astrazione: è il passato che lo spirito stacca da sé, facendo astrazione da se medesimo, mentre la stessa astrazione è atto affermativo di sé, e quasi un abbraccio onde lo spirito stringe a sé Lucifero». G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 199.
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identità tra le res gestae (la storia) e l’historia rerum gestarum (la storiografia) affermata a più riprese da Gentile29. Non esiste infatti una realtà storica preesistente la storiografia, se non rimanendo confinati nella più cieca astrazione. Del resto, pensare che sussista una differenza tra la positività del dato storico e la sua ricostruzione attuale significa re-introdurre un residuo oggettivo destinato a minare alla radice l’intero processo. È perciò solo nel presente eterno del pensiero attuale che esiste, in concreto, la totalità di ciò che esiste. Ecco che superare, nella logica dell’auto-concetto, la logica dell’astratto, non implica la negazione tout court del “passato”, ma la negazione della sua passata unilateralità, riaffermando così l’attualità dell’eterno presente. L’idealismo gentiliano risale, nella sostanza, in mente Dei, e giunge ad amplificare lo spettro della divina potenza posto a tema dalle indagini medievali. Con questo affondo, Gentile recupera – in modo implicito ma non meno efficace – alcune delle prerogative proprie dell’omnipotentia Dei indagata da Pier Damiani, la cui posizione ha rappresentato, non a caso, un unicum nel panorama del Medioevo30. Al pari del Dio del monaco ravennate, in grado, in ogni momento, di cambiare le fattezze della città eterna, sottraendo al ricordo la sua stessa originaria fondazione, anche la storia ricreata ad ogni istante dal pensiero «c’informa sì di Roma; ma di Roma quale la ricrea e rappresenta lo storico, in funzione della propria personalità»31. In tal modo, la historia rerum diviene una hi-
29. Cfr., a titolo di esempio, G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, cit., vol. II, in part. pp. 279-306; G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., in part. pp. 192-209. 30. A questo proposito, cfr. A. Gatto, Pier Damiani. Una teologia dell’onnipotenza, Aracne, Roma 2013. 31. G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, cit., vol. II, p. 284.
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storia sui ipsius, riconfigurata secondo l’auto-riflessione del soggetto che pensa, e che, pensando, si pone come la condizione necessaria e sufficiente della totalità dell’accadere. Al contempo, le premesse della posizione gentiliana escludono di principio alcune delle conseguenze, messe in luce da Damiani, circa la contingenza radicale del bagaglio epistemico lasciato in dote all’uomo. In effetti, mentre nel quadro tracciato dal monaco la ratio umana, vista la possibilità concreta di un’eventuale de-creatio, non poteva mai rivendicare una stabilità universalmente assicurata, in Gentile questo spettro è scacciato alla radice, non potendo neppure presentarsi. L’attualità del pensiero pensante, infatti, può pensare al suo poteressere altrimenti nella sua ormai perfecta inattualità, ossia nel suo farsi positiva attestazione della compiuta presenza a sé del soggetto che pensa: un Io che, riflettendo di se stesso in se stesso, assume già su di sé l’eterno passato delle sue possibili negazioni. 6. Libertà, indifferenza, non contraddizione Come abbiamo in precedenza rilevato, in ambito medievale si riteneva che Dio fosse impotente nei confronti del suo aver agito, vista l’impossibilità di trasgredire i dettami del principium firmissimum. Se l’immediata contraddittorietà dell’ipotesi impediva alla potenza divina di riconsiderare i frutti della sua creazione, collocando l’esser accaduto dell’evento in un eterno passato, Gentile elimina anche questo vincolo, e libera la dynamis del soggetto da ogni struttura pregressa che non faccio capo all’attività poietica dell’Io trascendentale. Rendere “operativa” una tale possibilità, però, significa, ipso facto, sottrarre ogni intrinseca necessità alle leggi che hanno finora regolato un’apprensione astratta dell’episteme.
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Nel far ciò, Gentile non è solo. Oltre a quella monade medievale che ha assunto il nome di Damiani, l’altro autore è certamente Descartes. Pur collocando solo nel cuore della divina potenza questa estrema eventualità, il filosofo francese spezza ogni continuità con la tradizione che l’ha preceduto, sospingendo le possibilità divine verso territori fino ad allora inesplorati. In Descartes, non solo le leggi della logica – ivi compreso il più saldo dei principi –, ma ogni paradigma metafisico e morale altro non è che il risultato arbitrario di un Dio indifferente. L’indifferenza divina è qui un argomento a sostegno della sua onnipotenza, e all’uomo, nel cono d’ombra in cui si trova confinato, non resta altra possibilità che accettare la fragilità del suo status creaturale, in un quadro epistemico contingente e mai garantito. È da questa consapevolezza che prende le mosse l’avventura della modernità come progetto di teodicea – un tentativo, fallito, di accordare le esigenze dell’uomo con la chiara e al contempo distinta trascendenza divina. Giovanni Gentile ribalta questa prospettiva, senza alcun bisogno di trovare un plesso che salvaguardi l’armonia fra cielo e terra. Nella filosofia precedente, del resto, Dio era «la condizione che rende[va] possibile pensare il pensiero dell’uomo»32. L’uomo, per pensarsi, doveva presupporre il proprio esser stato pensato. Ecco che per superare questa impasse è necessario non supporre il reale – in questo caso, l’omnipotentia Dei – come antecedente logico del pensiero. E per far questo, non vi è altro mezzo che inverare l’astrattezza del logo e il presupposto a sostegno di tale impostazione: il principium firmissimum. È lo stesso Gentile ad esplicitare «il profondo divario tra il concetto di pensiero pensato, per cui il principio di non contraddizione ha un senso, e quello di pensiero pensante, atto dell’Io trascendentale; al quale il principio di non
32. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 5.
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contraddizione non può applicarsi, senza che esso, da pensiero pensante, che è attività, discenda a pensiero pensato, che è termine, in sé astratto, dell’attività»33. Il quadro è chiaro: come il Dio cartesiano sfuggiva al principio di non contraddizione, essendone la ragione di possibilità – il principium potendosi applicare solamente nell’orizzonte pensato-e-voluto (nessuna distinzione, ne quidem ratione, fra i due) da Dio –, parimenti l’atto dell’Io trascendentale non può essere commisurato o proporzionato ai dettami del più saldo dei principi: l’attività del pensiero pensante, infatti, in virtù della sua absoluta enérgeia creatrice, non dev’essere affatto ricondotta alle leggi che ha reso possibili, risolvendosi in un pensiero sola-mente pensato. L’Io dell’idealismo attuale parla con parole proprie, e anziché rispecchiare le leggi di una logica che ne precede la riflessione, le pone, affermando al contempo se stesso in ogni positivo determinato. Solo a questa condizione l’atto può farsi norma e causa sui: posizione di sé nella propria identità e differenza, ex se oritur, identico e differente in se stesso: «Il suo essere non è né semplice identità, né semplice differenza, né semplice unità di identità e di differenza; ma questa unità in quanto creativa di sé: autoctisi»34. È solo così che la sua prassi poietica, come auto-prassi, può incarnare «quel medesimo pensiero divino, che la teologia cristiana ben vide coincidere con la divina attività creatrice»35. Il pensiero che giunge a concepire se stesso, concependo tutto, è il Tutto, la realtà stessa, senza resto o residui di sorta. Nell’attualità del pensiero pensante Gentile “ritrova” la con-
33. Ivi, p. 45. 34. G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, cit., vol. II, p. 81. 35. Ivi, pp. 243-244.
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dizione di quell’incondizionato che il logo astratto collocava al di fuori della circolarità dell’Io trascendentale, come sua origine e ratio giustificante: «La realtà del pensiero concreto si pone come condizione dell’incondizionato, che si chiarisce perciò condizionato: quindi si pone, nell’assolutezza di questa posizione, come Incondizionato che, essendo necessario, è libero»36. La libertà è qui assoluta, assolta da ogni vincolo e presupposto, e riaffiora ancora una volta quando Gentile introduce un concetto di libertà inteso come arbitrium indifferentiae, in cui la libertà del soggetto di fronte alla necessità dell’oggetto viene risolta nell’unità originaria dell’auto-coscienza37. Non diversamente dal Dio cartesiano, anche Gentile è persuaso che la «logica dei motivi» non sia antecedente, ma «conseguente all’atto»; tuttavia, lo stesso filosofo si spinge ben oltre – quasi riecheggiando quel Dio letteralmente scatenato descritto da Schelling, la cui potenza non risparmia neppure la propria divinità –, precisando che «chi dice libertà o arbitrio, dice scelta. Ma la scelta reale dell’arbitrio non è tra un modo o un altro di essere (tra essere ed essere), ma tra essere e non essere: tra il proprio essere, che tuttavia non è, e deve divenire, e il proprio non essere. Scelta, la quale si fa mediante l’atto auto creativo, in cui il porsi del soggetto consiste»38. 7. «Tutto in noi: tutto, cioè, noi»39 Gentile porta a compimento l’appropriazione delle prerogative divine, risolvendo nell’attualità dell’atto la frattura fra esse-
36. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 187. 37. Cfr. G. Gentile, Sistemi di logica come teoria del conoscere, cit., vol. I, pp. 117-118. 38. Ivi, p. 118 (il corsivo è nel testo). 39. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 122.
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re e pensiero introdotta da Descartes. Una conferma indiretta di tale lettura ci è fornita da Ugo Spirito, che sottolinea come nessuna «concezione del mondo» sia giunta ad un simile «riconoscimento dell’onnipotenza dello Spirito» e abbia avuto «la possibilità di dare maggiore fede all’opera dell’uomo»40. Ecco che in mente subiecti si realizza, con una radicalità inaudita, la riconversione di tutte quelle dinamiche e proprietà che il pensiero pensato collocava, per potersi pensare e giustificare, in mente Dei. L’idealismo gentiliano ritrova – si legga: pone in sé – il governo delle possibilità divine, facendo davvero del mondo quella teogonia eterna che «si adempie nell’intimo del nostro essere»41. L’atto dell’Io illumina ogni angolo della creazione, superando quella distinzione fra l’ascosità del divino e il chiarore del mondo umano posta a fondamento della modernità. Certo, l’affondo di Gentile non è, come avrebbe inteso il filosofo, la più coerente conclusione di una dinamica dischiusa dalla riflessione moderna, bensì il suo essenziale inveramento. L’età moderna non è tale perché ha inaugurato la dynamis dello spirito come attività trascendentale che produce ogni oggetto d’esperienza, pur avendo posto le basi per spezzare, almeno a livello delle proprietà divine, il legame necessario fra l’azione creatrice e il dominio della non contraddizione. Il vincolo – è bene precisarlo ancora una volta – non è infranto dalla modernità, e dunque da Descartes, in quanto novello fondatore
40. U. Spirito, Scienza e filosofia, Sansoni, Firenze 1933, cap. VII, sez. III (il corsivo è nostro). 41. Riportiamo il passo completo: l’idealismo «ha ritrovato Dio, e ad esso volgesi, ma non ha bisogno di rifiutare nessuna delle cose finite; chè, anzi, senza di esse riperderebbe Dio. Soltanto, le traduce dal linguaggio dell’empirismo in quello della filosofia, per cui la cosa finita è sempre la realtà stessa di Dio e sublima così davvero il mondo in una teogonia eterna, che si adempie nell’intimo del nostro essere». G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 265.
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del concetto di autoctisi, ma in conseguenza della radicalizzazione dei presupposti operanti nella precedente speculazione – presupposti che facevano capo al solo dominio epistemico tracciato dalla potentia Dei, in rapporto a cui si strutturava la cogitatio umana. È allora solo riappropriandosi, nella concretezza del pensiero pensante, di queste divine prerogative che Gentile può ricucire realmente lo strappo che la modernità si è tanto impegnata a rammendare invano. Non siamo qui di fronte ad un pensiero che tocca il confine della sua auto-riflessione indicando in altro la condizione che potrebbe restituire al silenzio l’esercizio del suo pensare, ma ad una riflessione che si appropria anche di questa possibilità-limite, accogliendola. Il pensiero giunge così a produrre la sua stessa ombra, ponendo le condizioni per farsi piena luce.
Grant 2015/17758-9, São Paulo Research Foundation (Fapesp) – Usp (Universidade de São Paulo)
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Ruere mole sua
Note sul problema del passato Federico Croci
Quid est quod est et non est? Nihil. Alcuinus, Disputatio Pippini cum Albino1
1. Autoctisi e autoproblema Il problema della filosofia, scrive in anni giovanili Gustavo Bontadini, è il problema della vita, poiché nasce dalla più intima esigenza umana: la filosofia illumina l’esistenza, cioè parte dalla vita e a essa ritorna, donandole consapevolezza. Il senso della vita è non solo il problema della vita, a cui la filosofia deve rispondere: la filosofia si mostra essa stessa problema del problema, problema a se medesima, autoproblema. In primo luogo, si può domandare se uno scopo dell’esistenza vi sia; indebita, pertanto, ogni impostazione della domanda fi1. Alcuinus, Disputatio Pippini cum Albino, in PL 101, 980a.
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losofica che presupponga concetti come quello di principio, di causa, di essere, i quali sono tutti contenuti derivati, presupponenti la validità dell’indagine filosofica2. La filosofia, infatti, inizia come pura problematicità circa l’ammissione di qualsiasi postulato. Essa può essere filosofia dell’immanenza (identità di esperienza e Assoluto) o filosofia della trascendenza (distinzione, ma non necessariamente separazione, di esperienza e Assoluto). In questi anni giovanili, nonostante la lucidità nel delineare l’aporia in tutta la sua radicalità, Bontadini si muove nella persuasione, profondamente antitetica a quanto scriveva in quegli anni Heidegger in Sein und Zeit, che la vita abbia un senso, una razionalità intrinseca che la strutturi. Emergono echi di fichtismo: è nel campo prefilosofico della prassi morale che il singolo, mosso dal desiderio e dalla fede, decide esistenzialmente di sé, postulando (in un certo senso, inevitabilmente) un senso dell’intero, per poter uscire dallo stallo del problematicismo situazionale Bontadini è lapidario: «Vivendo si attua una metafisica, cioè si pone un fine ultimo»3. Divorato dallo slancio del sentimento, il singolo decide verso il senso, piega a sé la ragione e la impiega nel rintracciare le condizioni necessarie che permettano di asserire la razionalità del reale: vi è un movimento circolare che va dal postulato della razionalità alle condizioni di trascendentalità di essa, o, in altri termini, dalla fede nel valore della vita all’affermazione dell’Assoluto capace di garantirlo4. Il fideismo trascendentale che innerva queste prime riflessioni, benché ben presto accantonato, condizionerà implici2. G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 19953, pp. 5-7. 3. Ivi, p. 11. 4. Ivi, p. 52.
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tamente l’intero percorso filosofico di Bontadini. L’obbiettivo tenacemente perseguito è quello di una rifondazione della filosofia classica partendo dai risultati raggiunti dalla modernità e dall’idealismo. L’attualismo, in particolare, segna per Bontadini la conclusione della parabola gnoseologistica, in cui veniva presupposta un’astratta separazione tra il pensare e l’essere: essa portava, immancabilmente, alla necessità di trovare un medio a fondamento della relazione tra i due termini. A parere del filosofo milanese, ancora in Hegel opererebbe un residuo gnoseologistico, giacché la Phänomenologie des Geistes si configura come il percorso attraverso cui viene risolta la distinzione tra soggetto e oggetto: Hegel presupporrebbe la separazione tra soggetto e oggetto, per poi offrire una narrazione storica del suo progressivo toglimento nello sviluppo delle figure del sapere. Vengono recuperati, pertanto, tre elementi centrali dell’attualismo: la trascendentalità e intrascendibilità dell’atto del pensare, la nozione di unità dell’esperienza (d’ora in avanti, UdE) e il dato fenomenologico che il contenuto dell’atto del pensare sia un incremento. L’UdE, come forma e relazione di tutto ciò che appare, precede la distinzione di soggetto e oggetto, che ne incarnano i poli5. Pensare la trascendenza non implica pensare qualcosa 5. G. Bontadini, La funzione metodologica dell’Unità dell’Esperienza, in G. Bontadini, Conversazioni di metafisica, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano 19952, vol. I, pp. 52-60. Le parole sono immediatamente convalidate solo qualora il loro significato sia garantito dall’esperienza: da ciò l’istanza di una permanente rifusione, rifondazione e ricostruzione del sapere, strutturato sulla circolarità tra esperienza e linguaggio. In ciò consiste l’intenzionalità come rapporto tra il linguaggio e il contenuto significato: essa è un circolo che si costituisce in quanto si esprime ciò che è presente per mezzo di una sintassi conosciuta, la quale, pertanto, è essa stessa presente, cioè contenu-
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che sia impensabile: tale trascendenza è solo astratta, giacché, come rilevava giustamente Gentile, pensare qualcosa come impensabile è già pensarlo, cioè ricatturarlo nell’immanenza dello sviluppo del pensare. L’UdE è una struttura intenzionale, dove il pensare ha sempre come contenuto l’essere e dove ogni contenuto posto, in quanto intenzionato, è pensato. Tuttavia, rileva Bontadini, il contenuto dell’UdE non appare come qualcosa di creato dall’UdE: il contenuto, fenomenologicamente, appare come un fatto, che non dice nulla sulla propria origine. Pertanto, la soluzione immanentistica dell’attualismo, presentata da Gentile, sarebbe infondata. Nello sguardo dell’apparire, ciò che appare può essere aperto tanto alla trascendenza, quanto all’immanenza: il fenomeno è, al contempo, dato e problema. L’aporia sta tutta nel dilemma kantiano: il limite del pensare è autoimposto o imposto da qualcosa d’altro? Bontadini ha già qui maturato la conclusione che l’attualismo immanentista non assicura alcun senso stabile della realtà al di là del suo puro divenire: Gentile intende l’atto in atto come continua innovazione, come creazione infinita di contenuti condannati alla caducità e alla relatività, schiavi dell’inappagabile appetito del pensare che si svolge secondo un instancabile incremento. L’immanentismo lascia solo due soluzioni: o
to della presenza; l’intenzionalità è presenza della presenza, forma dell’esperienza. Senza il riferimento all’esperienza, cioè a un contenuto a cui si riferisce intenzionalmente, il linguaggio è insignificante, mera grafia e mero suono. In sostanza, vi è una parte del contenuto che appare, data dai significati, che media l’accesso all’intero contenuto apparente. Il linguaggio e il contenuto dell’UdE si rideterminano continuamente. Cfr. G. Bontadini., La parabola dello gnoseologismo nella storia della filosofia moderna, in G. Bontadini, Appunti di filosofia, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 102: «Intorno a un giudizio o asserto si può discutere; ma per il significato sembra che non ci sia altro che apprenderlo o non apprenderlo».
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la creazione di senso, che implica l’assenza e la precarietà di ogni senso (problematicismo), o la presupposizione di senso (fideismo). Solo la metafisica, per mezzo dell’inferenza metempirica, può pretendere di trovare un senso intrinseco alla realtà, fondato sull’orizzonte immutabile che la trascende e da cui essa deriva. Pensare la trascendenza implica un movimento ex negativo, incardinato sulla dimostrazione della non autosufficienza dell’UdE. L’incremento dell’UdE, precisa Bontadini, è un processo di sviluppo: in particolare, è un divenire. Essendo l’Assoluto il fondamento del reale, l’ipotesi che non vi sia alcun fine supremo si mostra contraddittoria6. Come si è accennato, in un primo tempo Bontadini ammette solo ipoteticamente l’Assoluto come garanzia della razionalità del reale: l’intero discorso pertanto restava appeso alla necessità che questo postulato ipotecava. Abbandonata l’ipotesi di un affidamento fideistico, in un secondo momento Bontadini fa leva sulla necessità che la contraddizione non sia l’ultima parola sul reale: l’incontraddittorio deve mostrarsi l’ultima parola di Dio su di sé e sul mondo. 2. Incontraddittorietà del logo e incontraddittorietà del dato L’UdE è il dato originario7: non si configura immediatamente come ricezione (Kant) o costruzione (Gentile), ma come pura presenzialità del contenuto apparente. L’aporia circa il contenuto dell’UdE è già rilevata dal problematicismo di Spirito: il problematicismo, come verità dell’attualismo, non sta tanto nell’imputazione, per Bontadini erronea, che Gentile non avrebbe dialettizzato la dialettica, giacché dialettizzare il dia-
6. G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell’esperienza, cit., p. 22. 7. Ivi, pp. 137-138.
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lettizzare è ancora dialettizzare, così come, rilevava già Hegel, astrarre dall’astrarre è ancora astrarre. Il problematicismo è una metodologia, un momento di passaggio, una situazione: il problema ha una soluzione, cioè l’immanenza o la trascendenza8 del contenuto dell’atto del pensare. Se si vuole come trascendentale, come accade in Banfi e Abbagnano, il problematicismo si risolve il dogmatismo, mostrando la propria incoerenza. L’inferenza metempirica non si costruisce sulla base di qualcosa che appare, in quanto si deve mostrare la necessità di qualcosa che non appare, trascendente l’UdE. La struttura dell’argomentazione, pertanto, sarà apagogico-elenchica, fondata sul cespite logico dell’UdE (d’ora in avanti, CL): se il contenuto immediatamente apparente è il cespite fenomenologico (d’ora in avanti, CF), appare, sempre immediatamente, che esso è immediatamente strutturato dal principio di contraddizione (d’ora in avanti, PdC). Sia il CF che il CL sono innegabili: il CF in quanto evidente, il CL in quanto la sua negazione è necessariamente autonegantesi. L’esperienza del divenire è un unico atto, in cui si esperiscono il prima e il poi: se fossero due atti, il prima non sarebbe esperito come prima e il poi come poi; l’esperienza sarebbe puramente puntuale, indiveniente. Per Bontadini è materia di psicologia se tale unico atto sia sintesi di più atti o immediata unità, così come è materia di psicologia il concorso della memoria a dare esperienza del prima come prima: in ogni caso, attualisticamente, il passato è esperito nel presente come passato del presente e, dunque, come presente. 8. Tale trascendenza potrebbe essere costitutivamente duplice: trascendenza di un apparire infinito e trascendenza di altri apparire finiti, cioè di altre UdE non attuali. A fianco della trascendenza teologica si pone quel particolare tipo di trascendenza che è la dimensione intersoggettiva. Tuttavia, Bontadini non approfondì mai questo secondo punto.
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In particolare, rileva Bontadini, la soluzione immanentistica è contraddittoria: poiché il CL richiede l’incontraddittorietà del contenuto apparente, tale contenuto è necessario. Qui si gioca lo scarto di Bontadini rispetto a Kant: l’UdE, come sintesi a priori, non è sintesi tra due contenuti apparenti, bensì tra una determinazione apparente e una determinazione non apparente. In particolare, la determinazione apparente che sta alla base dell’inferenza metempirica è la totalità dell’esperienza, cioè l’UdE considerata come sintesi a priori di CF e CL: essa, per sé considerata, è contraddittoria, in quanto secondo il CF si rileva l’incremento del contenuto apparente, cioè il divenire; divenire che, inteso come identificazione di essere e nonessere9, implica la negazione del CL. 9. Legato al presupposto della significatività del linguaggio è l’assunto che i termini “essere” e “non-essere” si semantizzino reciprocamente: senza il non-essere, risulta impossibile pensare l’essere, il quale si semantizza secondo la negazione della negazione; pertanto, il primato ontologico dell’essere si fonda sul primato gnoseologico del non-essere. La semantizzazione ha anch’essa struttura elenchica: la semantizzazione “positiva” del termine “essere”, infatti, è impossibile, poiché implicherebbe la definizione del termine stesso. La definizione è intesa, aristotelicamente, come l’esibizione del nesso che il termine ha con il genere prossimo (il quale è più generale del termine) e della differenza specifica: essendo l’essere l’universalissimo e venendo predicato di ogni differenza, richiederne la definizione è un nonsenso. Non a caso, già gli scolastici sottolineavano come gli enti, intesi come le differenze in cui si articola l’essere, sono formalmente essere (differentiae entis sunt formaliter ens). Gioca qui una semantizzazione univoca dell’essere, che Bontadini deriva da Masnovo e dagli influssi scotisti e suareziani su tale pensatore: l’essere è inteso come il termine più astratto e universale, che precede ogni dicotomia e articolazione semantica, compresa quella tra Ente infinito ed ente finito. Non vi è semantizzazione dell’essere prima di quella del nulla e viceversa: la priorità logica non sta in uno dei termini, ma nella loro correlazione-opposizione originaria. L’esperienza nulla dice intorno alla semantizzazione dei termini “essere” e “nulla” (ma, pure, dei termini “causa”, “sostanza”, “conoscenza”). È il dato del divenire a offrire la risposta, poiché esso è la sintesi di essere e non-essere: è la realtà del divenire a mostrare la correlazione ontologica, logica e semantica di essere
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La peculiarità di tale aporia è che non costituisce, propriamente parlando, una contraddizione, bensì un’antinomia10: una contraddizione viene risolta eleminando uno dei due contraddittori, laddove nel caso presente è l’UdE a essere contraddittoria e a implicare l’impossibilità dell’eliminazione di uno dei contraddittori, essendo essi i cespiti dell’originario. Il CF mostra l’evidenza innegabile del divenire; il CL pretende innegabilmente l’impossibilità del divenire di qualsivoglia contenuto11. Il fondamento della richiesta di fondamento è la rimozione della contraddizione. Si esige tale rimozione sulla base del principio di contraddizione e dell’apparire della contraddizione. Se la contraddizione non apparisse, non se ne potrebbe esigere la rimozione e non apparirebbe l’incontraddittorio12. Per Bontadini la contraddizione del divenire è reale:
e non-essere. La soluzione, intuita già da Duns Scoto e ripresa da Bontadini, riposa nella definizione tautologica dell’essere come ciò che non è non-essere: definizione negativa, che mostra come, per la semantizzazione del termine “essere”, sia fondamentale il riferimento al “non”, al negativo. A nostro parere, tuttavia, la tautologia non risolve l’aporetica, poiché, come aveva già colto Aristotele, al posto del termine “essere” si potrebbe porre un significante insignificante (“blitri”, o, al limite, il termine “nulla”, dallo Stagirita identificato con la parola vuota di ogni contenuto e referente intenzionale): in conclusione, la tautologia non dice nulla sulla significanza e semantizzazione dei termini che contiene (sul “perché” della significanza). 10. Date due proposizioni contraddittorie dedotte autonomamente (e non, come in matematica, da una stessa proposizione), si deve cercare un X che le sintetizzi a priori. Nel caso in esame le due proposizioni antinomiche sono i due cespiti dell’implesso originario: l’esperienza (che attesta il divenire come creazione e annullamento dell’ente) e il principio di contraddizione (che attesta l’eternità di ogni ente in quanto ente). 11. Il divenire, in verità, esprime la contraddizione tra il dato fenomenologico della contraddizione semantica di essere e non essere e il dato logico dell’identità apofantica di essere e non essere. 12. G. Bontadini, Risposta a Pietro Faggiotto e ad altri amici, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», n. 1, 1982, p. 121. Il conoscere, che è l’apparire
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se non si ammettesse un medio, il divenire assoluto si configurerebbe come assoluta contraddizione13. Va ricercata, pertanto, una determinazione che medii l’antinomia: essa consiste nel teorema della creazione (d’ora in avanti, TdC), il quale va introdotto come determinazione richiesta, sebbene non apparente. Propriamente, il TdC è indeducibile, ma è implicato come condizione dal principio di ragion sufficiente, il quale è una determinazione del PdC secondo cui, attestata una realtà diveniente, va inferita una causa del suo divenire che tolga la contraddizione del divenire stesso. In sintesi, va pensato un apparire trascendente l’UdE che sia Creatore dell’UdE stessa, la quale, di per sé considerata, è strutturalmente antinomica. La soluzione immanentistica conduce all’antinomia, in cui non ci si può fermare, giacché il CL esige il toglimento di essa: l’affermazione della trascendenza, pertanto, è metempiricamente inferita. Nell’atto creatore in cui inside, il contenuto, che per il CF appare come diveniente, è eternamente “salvato” dalla contraddizione dell’identificazione al nulla. Qui, tuttavia, contro le intenzioni di Bontadini, l’antinomia viene radicalizzata e non risolta: se la contraddizione attestata dal CF è apparente, allora il divenire è solo astrattamente interpretato come idendell’ente, ha la stessa semantizzazione dell’essere: come apparire dell’ente esso non è un ente, non ha una definizione. 13. Tuttavia, perché si deve ammettere il medio? Per risolvere la contraddizione? Il logo non contiene in sé la necessità del medio. Questa non è, di nuovo, che una scelta: scelta per la postulazione della razionalità del reale; il medio è introdotto perché si ha fede nella razionalità del reale. Si potrebbe sostenere che nulla spinge a dover salvare l’UdE dalla contraddizione, inferendo un Dio creatore. La posizione trascendentista è fondata su una libera scelta di togliere l’antinomia dei cespiti dell’originario, la quale, peraltro, presuppone la significatività della realtà e la sua incontraddittorietà. Se non si concede a Bontadini la significatività semantica, l’intero suo discorso appare arbitrario.
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tificazione di essere e non-essere, cioè è tale solo se il CF non è inteso alla luce del CL (questa la posizione di Severino ne La struttura originaria), e non vi è alcuna “molla” per l’inferenza metempirica; se il divenire è una contraddizione reale, invece, in quanto elemento del CF, cioè quale contenuto immediatamente apparente, è innegabile. Questa seconda soluzione mostra che il contenuto che appare diveniente nell’UdE e tale contenuto come eternamente insidente e “salvato” dal TdC non sono lo stesso contenuto: infatti, qualora fossero lo stesso contenuto (come sostiene Bontadini), o la contraddizione è, di nuovo, solo apparente, oppure si deve concludere che sub eodem il contenuto sia realmente diveniente e realmente indiveniente. Non è sufficiente dire che tale contenuto sia diveniente dal punto di vista del finito (dell’UdE) ed eterno da quello dell’infinito (di Dio). L’ente in Dio non è l’ente nel tempo: se fossero lo stesso ente, si dovrebbe ammettere che l’ente sia eterno e diveniente al contempo e la contraddizione non solo risulterebbe ribadita, ma verrebbe portata a un livello più alto; al contempo, essendo due enti, la contraddizione del divenire non è tolta. Quale è il modo della realtà della contraddizione? Non è reale come l’esperienza, che è innegabile, né come il PdC, che è inviolabile. Se è reale nel senso di posta come tolta, si deve concludere che è solo apparente, cioè si comporta come l’astratto nei confronti del concreto. In un primo tempo, Bontadini sostenne che il divenire sia contraddittorio solo se inteso come assoluto, cioè slegato dal TdC: in un secondo momento, spinto dalla diatriba con Severino, affermò la contraddittorietà del divenire simpliciter (fermo restando, contro Severino, che il divenire “nichilistico” verrà sempre inteso come un contenuto evidente, attestato, preciserà Bontadini, anche dal CL). L’aporetica della contraddittorietà del divenire, come si è detto, richiede di precisare se tale contraddittorietà sia reale o ipo-
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tetica: paradossalmente, si deve concludere che è entrambe, poiché senza contraddizione reale del divenire non vi sarebbe reale superamento – essa è la contraddizione esistenziale, l’unica che sia possibile “toccare con mano”, necessaria per porre l’inferenza metempirica all’atto creatore, che è, insieme, toglimento della contraddizione e dimostrazione dell’esistenza di Dio –, ma, al contempo, è solo ipotetica, nel senso di reale dal punto di vista dell’UdE non considerata nella sua relazione all’atto creatore – poiché, intesa come insidente in tale atto, la contraddizione si mostra apparente14. La realtà quoad nos della contraddizione non coincide né con l’ineliminabilità dell’esperienza né con l’inviolabilità del principio di contraddizione, bensì con il proprio “dover essere tolta”: essa è il concetto dell’astratto proprio di Hegel, che Bontadini applica al divenire astrattamente concepito nella sua irrelatività all’Assoluto che lo salva e lo redime dal nonessere; è, perciò, ciò che è reale se inteso come assoluto. La contraddizione deve essere reale dal punto di vista del finito, in quanto è la “molla” che conduce a porre l’atto del Creatore come soluzione dell’antinomia tra i cespiti dell’originario: Bontadini insistette a più riprese nel difendere la tesi che il
14. P. Pagani, La dimostrazione dialettica secondo Gustavo Bontadini, in Aa. Vv., Bontadini e la metafisica, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 160-170. Pagani rileva un problema ulteriore, già fichtiano: la creazione è ipotesi di sintesi che non può escludere altre ipotesi; ciò perché la dialettica è antinomica, non apagogica, e la sintesi non è determinata semanticamente dalla tesi; nell’antinomia il toglimento della contraddizione è un compito che non è prefigurato nel compimento. Essendo i contraddittori i due cespiti dell’implesso originario, applicare il procedimento apagogico avrebbe implicato sancire la contraddittorietà irredimibile e, dunque, l’irrealtà di uno dei due (nel caso, l’esperienza, essendo l’apagogia derivata dal cespite logico e non potendo essa negare il proprio fondamento). L’esperienza, però, è innegabile nella sua realtà, essendo evidenza immediata: l’apagogia, pertanto, si mostra inapplicabile.
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divenire non sia frutto di un’errata interpretazione dell’apparire, come vorrebbe Severino, pena il venir meno della spinta a trascendere l’orizzonte di ciò che appare (il venir meno della possibilità dell’inferenza metempirica come soluzione dell’antinomia); nemmeno, tuttavia, il divenire è reale in assoluto, pena il crollare di ogni istanza epistemica. Si potrebbe dire che la contraddizione del divenire è eternamente posta, tolta e conservata nell’eternità dell’atto creatore divino, attraverso cui sorge il finito: essa è la contraddizione che va posta necessariamente per porre il finito e il tempo. Il presupposto della creazione salva il divenire dalla contraddizione non nel senso che ne neghi la realtà, bensì in quanto ciò che nell’esperienza sorge e si annulla è, al contempo, eternamente salvato nell’atto creatore che lo crea o lo annulla (è eternamente salvato come sorto e annichilito, è eternamente immobile come mobile). È negata così non la realtà del negativo, ma la sua originarietà, in virtù della primalità del principio di contraddizione, il quale si rivela l’istanza insuperabile di concordia tra i due momenti dell’immediato (tra sé e l’esperienza). Si rende evidente, a questo punto, come il logico sopravanzi l’ontologico. Bontadini oscillò continuamente tra l’intendimento della contraddizione come un vitandum e come un tollendum, come un’ipotesi e come una realtà (la realtà dell’astratto astrattamente concepito): il divenire deve essere sia falso che vero, sia apparente che reale, sia meramente problematico che contraddittorio – certo secondo punti di vista diversi (il finito e l’infinito, l’umano e il divino, l’astratto e il concreto), ma tutti eterni. Per il filosofo milanese la realtà assoluta del divenire implicherebbe dover ammettere l’assurdità costituita dall’identità di essere e non-essere. Essi, però, sono termini che si semantizzano assumendone l’oppositività trascendentale: la loro iden-
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tità non comporterebbe contraddizione, in quanto, se fosse originaria, i due termini nemmeno si costituirebbero; la loro semantizzazione per opposizione non precede, ma coincide, con la loro identificazione; allora a nulla vale precisare, come fa Bontadini, che l’opposizione appartiene al piano semantico e l’identificazione a quello apofantico15. L’aporia, radicalizzata in antinomia, riesplode in tutta la sua forza. 3. Fieri e factum La critica di Bontadini a Gentile, che si è brevemente riassunta e discussa nei suoi esiti aporetici, si fonda su un implicito esiziale: il presupposto che non appaia che il contenuto dell’atto del pensare sia un prodotto dell’atto del pensare stes15. Cfr. Intervista a Gustavo Bontadini, in Aa. Vv., Bontadini e la metafisica, cit., p. 326: «Il divenire si presenta come una realtà contraddittoria. In che cosa consiste la contraddittorietà del divenire? Ho detto: si presenta come realtà contraddittoria; però devo subito avvertire, che io so già in partenza che il divenire non è contraddittorio, perché è reale. Siccome il reale non è contraddittorio, e il divenire è reale, il divenire non può essere contraddittorio. Però si presenta contraddittorio. Allora, so che non è contradittorio e si presenta contraddittorio». Tutto sta in che cosa significa questo “si presenta”: non è la presenza dell’esperienza, la quale è evidenza innegabile, ma non è neppure una presenza “illusoria”, una contraddizione apparente. Bontadini precisa che l’annullarsi che empiricamente si constata è reale: solo che, vedendo il divenire nell’atto creatore, l’annullarsi dell’ente è “colmato” dalla positività dell’atto che lo annulla e che in sé conserva la positività che annulla; come se l’atto creatore, che è identico all’infinita sostanza divina, togliesse e insieme ponesse ciò che toglie, poiché contiene tanta realtà quanta ne toglie. La contraddizione non è apparente, poiché l’ente è realmente annullato: semmai, essa è tolta, nel senso che quel tanto di realtà che è tolta è, parimenti, contenuta nell’atto che la toglie. Non a caso, il panteismo va rifiutato perché fa inerire il negativo, che è proprio del limitato, a Dio. Il TdC fonda il principio di causa: un ente non può annullarsi da solo, ma necessita di una causa annullante, pena la contraddizione e l’assurdo.
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so. Da un punto di vista fenomenologico, giusta l’osservazione di Bontadini, la questione è irrisolvibile. Tuttavia, se si pone attenzione a come Gentile struttura il problema del passato, ci si avvede che esso, pensato come l’inattuale che mai è, è già da sempre contenuto nell’atto del pensare (giacché tutto ciò che è pensato, anche l’inattuale, è attuale, cioè è presente). La questione sta tutta nel comprendere che cosa significhi l’espressione “è contenuto”. Se si sta alla lettera del discorso gentiliano, si deve concludere che l’atto è infinito in senso duplice e ambiguo: come negazione di ogni definizione e, al contempo, come assoluta libertà. La prima definizione comporta il riproporsi della critica hegeliana a Fichte, per cui il soggetto non potrà mai pensarsi compiutamente; la seconda implica che il presente del pensiero trascendentale ponga il passato e il futuro esaurendoli in sé e faccia del pensiero pensante l’infinita totalità attuale, aliena da ogni mutamento, la cui sola libertà sarebbe l’assenza di eterodeterminazione. Il pensiero pensante si mostra avvolto dall’antinomia: è sia l’infinitamente diveniente (che è creazione e novità), sia l’infinita totalità attuale dell’infinitamente diveniente che, perciò, è essere e stasi; dal punto di vista del finito è divenire (fieri), dal punto di vista dell’infinito è essere (factum)16. In primo luogo, va precisato che Gentile non nega la verità, ma la fissità della verità17. Passato e futuro non esistono per sé, ma solo come dimensioni interne all’atto puro, qualora lo si fissi astrattamente: esse sono determinazioni del logo astrat-
16. V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, ETS, Pisa 2009, I, 2. 17. D. Spanio, Il precipizio del divenire. Mondo e creazione nel «Sistema di logica» gentiliano, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», gennaioaprile 2015, pp. 63-76.
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to. Il presente non ha il passato dietro di sé, ma dentro di sé, come proprio prodotto: se il presente stesse in mezzo tra passato e futuro, i tre termini sarebbero condannati alla relatività, poiché ciò che si pensa come futuro rispetto a questo presente sarebbe a sua volta un presente rispetto ad altre coordinate e così all’infinito; non esisterebbero in senso proprio né un passato, né un presente, né un futuro18. Che cosa significa che tutto è presente? Significa che, propriamente, ogni contenuto non può che darsi nell’orizzonte del pensare. È errato dire che l’atto sia l’eterno presente come totalità di contenuti fissati e determinati: non esistono passato e futuro, poiché non esiste né esisterà nulla che precede o seguirà ciò che appare. Tutto ciò che è e appare lo fa all’interno dell’atto: “prima” e “dopo” il fenomeno non è stato e non sarà, poiché nulla trascende l’orizzonte presente dell’apparire. Il passato è sempre è solo il passato-presente: passato che non passa, bensì resta, eternamente conservato nell’attualità. Il passato e il fatto, allora, non devono mai essere stati, in quanto, in caso contrario, essi si porrebbero come la dimensione irrevocabile che limiterebbe l’onnipotenza creatrice dell’atto. È, perciò, improprio chiedere che cosa era l’ente e che cosa sarà l’ente prima e dopo il suo essere attuale: improprio, in quanto prima e dopo esso è nulla, non è (né pre-contenuto in un orizzonte altro dal pensare, né eternamente assicurato una volta che si sia fissato). Per uscire dall’aporia, è necessario radicalizzare il discorso gentiliano: il passato, propriamente parlando, non è ciò che non è, bensì ciò che non è mai stato. Lo sforzo è quello di parlare di ciò che non può essere intenzionato, cioè di pensare il passato non come momento del presente, bensì come termine 18. G. Gentile, Avvertimenti, in G. Gentile, Introduzione alla filosofia, Sansoni, Firenze 19522, p. 233.
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“negativo” già da sempre tolto. Il passato non è la constatazione che prima la lampada era accesa, mentre ora è spenta: un tale passato è un momento dell’eterno presente, che si sviluppa diacronicamente da un punto di vista empirico. L’onnipotenza dell’atto è la potenza di decreare il passato come contenuto dell’atto stesso: ciò che eviene come contenuto non può che evenire dall’atto quale forma trascendentale di ogni accadimento. Mediatamente, pertanto, si mostra che il contenuto dell’atto del pensare è un prodotto dell’atto stesso, poiché non può venire da un orizzonte che preceda l’atto del pensare. L’onnipotenza si rivela essere la possibilità di togliere una determinatezza dalla sua fissità e stabilità. Gentile si offre come il volto di un giano bifronte, di cui l’altro viso è Pier Damiani19: Gentile teso a pensare l’onnipotenza come potenza di creare la contraddizione per mostrare l’assoluta immanenza dell’atto, Pier Damiani deciso a rivendicare l’assoluta trascendenza di Dio. In entrambi, ciò che non è più pensato è ciò che non è mai stato pensato. Nulla esclude che ciò che è pensato, quando non sia più pensato, divenga qualcosa che non è mai stato pensato20: il linguaggio frana, poiché parla in termini di pensato, tentando di spiegare come ciò che non appare più, in realtà, coincide con ciò che non è mai apparso né mai è stato pensato; la morte, maschera necessaria alla vita del pensare, si configura come
19. Su Pier Damiani rimandiamo al contributo, contenuto in questo stesso volume, di Alfredo Gatto, nonché alla bibliografia in esso indicata. 20. G. Gentile, Storicismo e storicismo, in G. Gentile, Introduzione alla filosofia, cit., p. 268, nota 1. Gentile afferma che il passato, inteso come astratto dal presente dell’atto, è irrevocabile: tuttavia, con questo aggettivo Gentile vuole sottolineare che ciò che non è più pensato né pensabile è giudicato come ricacciato in un presunto passato irrevocabile, astratto dal presente dell’atto: giudizio che è proprio del logo astratto, in quanto tale passato, propriamente, non sussiste mai.
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la decreazione radicale del passato21. Ciò che non è pensato, quando è pensato come impensato, già appare, cioè già è; è impossibile pensare ciò che non è più pensato, in quanto, a rigore, esso non è mai stato pensato. 21. G. Sasso, Gentile: le due logiche e il loro rapporto, in G. Sasso, Filosofia e idealismo, 6 voll., Bibliopolis, Napoli 1994-2012, vol. VI, pp. 301-304. Diviene qui chiara la distanza della nostra interpretazione da quella di Sasso: l’atto puro non è l’atto inteso alla maniera di Aristotele o dei Megarici, cioè come totalità perfetta e compiuta, bensì è la pura δύναμις, potenza infinita di creazione. Tra l’atto come forma e l’atto come contenuto, cioè tra l’unità trascendentale e la molteplicità empirica, non si dà contraddizione, poiché sempre e di nuovo l’atto ha uno e un solo contenuto, essendo quello “precedente” passato nel senso di mai stato, totalmente decreato. Il linguaggio mostra tutta la sua inadeguatezza, in passi che richiamano per vigore il Parmenide di Platone: si parla secondo tre tempi, quando, in verità, uno solo è il tempo, cioè l’eterno presente dell’atto. Giusta l’osservazione di Sasso, tra genitore e genitura (tra infinita potenza creatrice e creato) non si dà alcuna distinzione: tuttavia, ciò non porta l’atto a costituirsi come identità pura, come fissa e immobile, perché perfetta, immediatezza. A essa va aggiunta l’altra osservazione che Sasso fa subito dopo, senza approfondirla: è l’atto a essere signore del tempo, non il tempo dominus dell’atto. Pertanto, il tempo non va inteso né come indefinitività, né come successione, né come frammentazione in segmenti, né come unificazione: non va così pensato, perché così non è inteso da Gentile, al di là delle ambiguità dei suoi scritti. Un conto è la radicalità della filosofia attualistica, un altro conto è quanto Gentile riuscì a mantenersi fedele interprete di questa radicalità. Proprio in quanto l’atto è il signore del tempo, tra eternità e tempo, come poli della struttura dell’atto, non c’è contraddizione, come non c’è alcuna anteriorità della forma unificante dell’atto sul contenuto unificato, vale a dire della potenza generativa sul contenuto generato: altrimenti, davvero si introdurrebbe una concezione lineare e successiva del tempo, che precipiterebbe il discorso nell’astratta opposizione di eterno e tempo e di concreto e astratto e che condurrebbe alla necessità di pensare un’assurda serie infinita di atti che si ripetono con contenuti sempre nuovi. Proprio per questo, è errato pensare le categorie come il movimento di un contenuto che continuamente si ridetermina secondo una dialettica di apparizione e scomparsa di elementi (p. 309), così come lo è (p. 314) il pensare l’atto come una totalità immutabile, perfetta e immobile, da dialettizzarsi (critica che, fatto salvo le ovvie differenze, accomuna Sasso a Spirito).
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L’atto puro si mostra come creazione del proprio contenuto: essendo tutto presente, ciò che sorge è una novità assoluta e imprevedibile, che non viene da nulla che preceda né va in qualcosa che segua. Apparendo, ciò che appare non può che provenire dall’atto puro come un creato determinato dalla potenza indeterminata. Si mostra in tutta la sua chiarezza il diverso intendimento del rapporto tra pensare ed essere di Bontadini e Gentile: se l’atto puro fosse, come vuole Bontadini, una struttura intenzionale e non pratica, ciò che appare dovrebbe sorgere da una dimensione trascendente (Dio) che preceda l’atto e dovrebbe essere conservato, sempre in essa, una volta scomparso; ma nulla precede o segue l’atto, nessun passato e nessun futuro sono. Gentile delinea i tratti di un presente senza passato, in cui si assiste a un continuo morire del presente in un sempre più vivo presente22. «Non dimentichiamo niente perché non ricordiamo niente»23. L’atto puro è il tutto non nel senso che sia una totalità in sé compiuta (la contraddizione, già rilevata, tra l’atto come eterno e compiuto e l’atto come temporale e diveniente creazione), bensì in quanto è la potenza indeterminata che suscita ogni contenuto determinato: esso è il tutto perché nulla è pensabile che non provenga da esso e insida in esso. Si può dire, al massimo, che l’atto puro è totalità che, essendo puro divenire, eternamente pone e decrea se stessa come contenuto pensato, determinato, fissato24. Si ripetono le parole del Parmeni22. G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 2 voll., Le Lettere, Firenze 20035, vol. II, p. 33. 23. Ivi, vol. I, p. 55. 24. La formula “decreazione del passato” può dar adito a fraintendimenti, in quanto erroneamente suggerisce che il passato si costituisca come un orizzonte esistente e positivo che, poi, sia annullato. In realtà, il passato è decreato in quanto non si costituisce mai una dimensione passata rispetto
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de di Platone: il linguaggio ci tradisce e obbliga a parlare di un “era”, di un “è” e di un “sarà”, fissando astrattamente gli aspetti simultanei del Presente intrascendibile. Il linguaggio, aveva sottolineato Gentile, è immancabilmente grammatica e, dunque, funzione del logo astratto. Il rimando a Platone non è casuale. Anche pensando il passato in questo modo, infatti, lo si intenziona come ciò che è innominabile, impensabile, indicibile: si viene riportati al Sofista e alla trattazione del nulla assoluto. Del passato non si ha immagine né parola, eppure se ne discorre e lo si pensa. L’aporia è quella di pensare la relazione con ciò che è pensato e intenzioal presente dell’atto: il passato è decreato nel senso che è un concetto autoannullantesi, che si nega nel momento in cui si pone. Passato è sinonimo di puro nulla: vi è sempre e solo il presente del contenuto dell’atto. Ciò non implica che il divenire del contenuto dell’atto vada pensato come il sorgere dal passato-nulla dell’essere presente o il ritornarvi, bensì come la creazione, in ogni istante, della totalità del contenuto dell’atto: il divenire non è il passaggio del contenuto dell’atto da una dimensione di inesistenza a una di esistenza (altrimenti, ciò che ora esiste avrebbe avuto un tempo passato in cui non esisteva e un tempo futuro in cui non esisterà), ma l’istantaneo apparire di ciò che appare. Il contenuto dell’atto è sempre tutto in ogni istante: tutto ciò che appare non sorge da qualcosa che lo precede né viene meno in seguito, ma è presente eternamente ed eternamente nuovo; la determinazione che si pensa come precedente quella attuale è, in realtà, parte di essa, dunque presente. Si provi a dire che pochi minuti fa non si leggevano queste pagine: si dovrà concludere che, nell’atto di dir così, quei minuti “passati” sono presenti e, dunque, sono “passati” solo dal punto di vista empirico. È impossibile che vi sia un passato, poiché esso non è intenzionabile: tutto ciò che viene intenzionato, immancabilmente è presente come contenuto dell’atto. Il passato non è mai perché è impensabile: se pensato, il passato è presente. Questo indica chiaramente che il presente non è un tempo accanto al passato o al futuro, né la sua legge è quella empirica del succedersi diacronico: il presente non sorge da una dimensione precedente né tramonta in una successiva, bensì è eternamente stante. A divenire è il suo contenuto, ma anch’esso non proviene dal passato né va nel futuro, bensì si conserva tutto, incrementandosi ed espandendosi infinitamente: ciò che è detto passato è creato nel presente come passato.
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nato come l’assolutamente irrelato: pensare la tenebra come tenebra, e non come ascosità già da sempre vinta dalla luce25. L’atto del pensare è δύναμις, cioè potenza inesauribile e creativa, il cui prodotto non è altro da essa e da cui, tuttavia, essa si distingue, eccedendo ogni configurazione determinata26. 25. L. Scaravelli, La logica gentiliana dell’astratto, a cura di V. Stella, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, p. 45: «Supponendo per ipotesi un nuovo atto, questo non si può immaginare che rielabori o trasformi le categorie precedenti, perché non riuscirebbe mai a trovarle: esse infatti, cessato quel determinato atto che le faceva essere, scompaiono come la luce cessato il fuoco che la irradia. Il nuovo atto le crea ex sese totalmente nuove. […] A rigore si deve dire che non si può nemmeno avere il sospetto della loro esistenza, e che quindi non si può parlare di una successione di atti, o di posizioni, ma di atto unico o puro, come continua creazione nella quale esiste sì il passato, ma che è tale in virtù dell’atto attuale che proprio è attuale e determinantesi perché pone in sé tra le categorie questa del passato. […] Le categorie sono nel loro concreto sorgere l’atto stesso distinguente del pensare, ed eternamente neganti nel loro farsi concreto le distinzioni già fissate. Parlare di categorie come già fissate è parlare di ciò che l’atto spirituale nega ed annulla assolutamente – ossia svela per noi mai esistito – ogni volta che si prova a pensarle. [...] Esse sono reali nel loro farsi, nella dialettica del pensiero, e sono non mai le stesse, ma sempre create nuovamente, sempre altre: le passate non rimangono incluse nelle nuove, perché le passate sono sempre nuove e create ad una con le nuove: create ora come passate. Le così dette passate svaniscono perché mai esistite». 26. V. Vitiello, Hèn kaì hèn-pánta. Gentile neoplatonico?, in «Annuario Filosofico», n. 20, 2004, pp. 55-74. Vitiello rimanda il discorso gentiliano all’aporetica plotiniana della relazione tra l’Uno e il Nous: Plotino sottolinea che, se l’Uno non avesse in sé la potenza di generare il Nous, allora questo sarebbe il terzo, non il secondo; tuttavia, possedendola come il proprio momento effusivo-irraggiante, l’Uno diviene una dualità di atti, cioè la manenza e la processione, poiché la potenza di generare che l’Uno ha fa dell’Uno molti (pollà epoíese tèn mían, Enneadi VI, 7, 15) – anche se, si potrebbe obiettare a Vitiello, Plotino non dice che l’Uno ha la potenza, ma che è la Potenza (VI, 8). Vitiello coglie con esattezza, tuttavia, il punto che porterà Proclo a definire il Nous come l’autopostosi e a pensare la potenza di generare, da lui definita vita, come una seconda ipostasi dopo l’Uno, la quale costituisce la sommità delle ipostasi in cui si articola il Nous. Proclo, però, non toglie
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L’aporetica è la stessa che si instaura tra il Werden e il Daseyn nella logica hegeliana. Non corrisponde, tuttavia, questa conclusione, alla «satanica soddisfazione di veder cadere la dialettica sotto il proprio peso, e ruere mole sua»27, che Gentile aborriva come la più esiziale? Tale conclusione non esige, forse, che l’onnipotenza dell’atto, che tutto crea e decrea, sia applicabile anche a sé come struttura del divenire? Se l’atto in atto è possibilità pura, non si deve concludere che l’atto in atto sia la possibilità del toglimento di sé, del divenire del divenire, del venir meno del tempo nel tempo?
l’ambiguità del medio neoplatonico, che è non essendo: sarà Agostino, sulla scia di Porfirio, a fare dell’Uno un Uno-Molti, la relazione che non nega i molti, ma ne è l’identità-unità. Vitiello (p. 65) sottolinea come l’intento gentiliano, squisitamente neoplatonico, sia quello di filosofare prima della filosofia, cioè cogliere l’atto del pensare prima del suo cadere in termini, morte astrazioni, connessioni di pensati: Gentile ribalta Hegel, in quanto vuole un metodo senza sistema. L’impensabile è pensato nel pensiero come impensabile, senza per questo divenire un concetto: puro Uno, puro movimento inoggettivabile e incatturabile; eppure, al contempo, sia Plotino sia Gentile ne esibiscono un nome, sia esso Potenza o Sentimento. Il sentimento è la traccia (termine neoplatonico) del passato del pensiero nel pensare, la consapevolezza di non essere l’originario. 27. G. Gentile, La filosofia dell’arte, Firenze, Le Lettere 20033, p. 294.
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Indice
Nota del curatore
p. 9
Vincenzo Vitiello, Ut pictura in tabula. Concreto e astratto nella Logica di Giovanni Gentile
p. 13
Massimo Donà, Sapersi non sapendo. Gentile e Socrate: di una sorprendente continuità
p. 35
Francesco Valagussa, L’inquietudine del pensare. Gentile e Pessoa
p. 59
Alfredo Gatto, Giovanni Gentile e il dramma della modernità. Percorsi storico-critici nell’attualismo
p. 79
Federico Croci, Ruere mole sua. Note sul problema del passato
p. 99
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Gulliver - 3
Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati
ISBN E-book 9788898694693
Il volume raccoglie cinque studi, che indagano tre delle tematiche più fruttuose, perché problematiche, dell’attualismo gentiliano: il rapporto tra il concreto e l’astratto, la questione dell’arte e del sentimento, l’aporetica del passato. Da ogni contributo emerge, parafrasando il titolo del libro, che la logica non è tutto: vale a dire che la logica, nonostante gli sforzi di sistematizzazione di Gentile, non riesce a costituirsi come la totalità, l’orizzonte di tutto ciò che è. Una ri-lettura di Gentile, quella che si offre, che attualizza sempre di nuovo Gentile stesso, secondo il dettame del pensiero pensante: e lo fa ri-scoprendone le aporetiche più profonde. In ciò omaggia quanto di più vero l’attualismo costudisce dentro di sé. Ogni verbo e parola, ogni giudizio, ogni sistema, proprio in quanto fissato in una forma, è sempre uno sguardo, finito e perfettibile, narrante l’incatturabilità dell’atto del pensare, che è tutto in ogni pensato, pur non esaurendosi in nessuno. Si può concludere, allora, che l’attualismo gentiliano è autenticamente se stesso, proprio in quanto, nel dialogo che gli interpreti intessono con esso, si rivela essere sempre oltre se stesso.
con saggi di Vincenzo Vitiello, Massimo Donà, Francesco Valagussa, Alfredo Gatto, Federico Croci.
€ 7,00