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Italian Pages 205 [205] [205] Year 2015
Gennaro Sasso
La lingua, la Bibbia, la storia
Su De vulgari eloquentia I
viella
I libri di Viella 195
Gennaro Sasso
La lingua, la Bibbia, la storia Su De vulgari eloquentia I
viella
Copyright © 2015 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione digitale: giugno 2015 ISBN 978-88-6728-475-7 (pdf)
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libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
Indice
Prefazione
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Premessa
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1. Il latino e il volgare fra Convivio e De vulgari
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2. «Nobilior est vulgaris»
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3. La lingua di Adamo e la lingua naturale
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4. La Torre di Babele e la confusio linguarum
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5. Naturalità delle lingue e volgare illustre
127
6. Primiloquium adamitico e lingua naturale
135
7. Implicazioni politiche
149
8. La ricerca del volgare illustre
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9. Altre questioni e implicazioni
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10. La venatio filosofica
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Indice dei nomi
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Prefazione
Il saggio che presento agli studiosi era stato concepito all’inizio come un piccolo contributo all’interpretazione del sedicesimo capitolo del primo libro del trattato linguistico di Dante. Mi proponevo di studiare con più stretta aderenza ai testi, al suo e a quello di Aristotele, l’uso che egli vi aveva fatto di alcuni passi della Metafisica. Ma mi riuscì impossibile contenerlo in quei limiti. Di questione in questione, non potei infatti evitare di risalire alle premesse del suo ragionamento, e di involgermi via via nelle difficoltà che la sua indagine proponeva. Se sia riuscito a risolverle o vi sia rimasto impigliato, non spetta a me di dire. Ma certo è che, nelle parti in cui si divide e si articola, il primo libro di questo incompiuto trattato latino presenta questioni assai meno semplici di quanto la nettezza delle formulazioni non lascerebbe, a prima vita, supporre. Basti, in primo luogo, pensare alle pagine in cui Dante si mise in relazione con il racconto della Genesi e appoggiò a esso la sua interpretazione, non solo del primiloquium adamitico, ma anche della natura dell’uomo che ne fu autore. Basti, in secondo luogo, pensare alla tentazione, a cui con difficoltà ci si sottrae, non solo, e non tanto, di dare un senso alle omissioni di cui il testo del De vulgari si rese responsabile, ma di andare, oltre la lettera, alla ricerca di significati più complessi: come avviene, per fare un solo esempio, quando, a misura che l’analisi compie i suoi passi, ci si trova costretti a rendere esplicito il nesso problematico sussistente fra la perdita dell’innocenza e la natura della lingua che Adamo e i suoi parlarono fino al momento in cui la sua unità si infranse nel dramma della Torre e lingue molteplici si sostituirono a quella che fino ad allora era stata l’unica. Che la lingua parlata dall’umanità dal momento della caduta fino a quello di Babele si conservasse una, è detto dalla Genesi e ripetuto da Dante. Ma la caduta aveva significato la
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La lingua, la Bibbia, la storia
perdita dell’innocenza e, con l’acquisto della conoscenza, l’entrata nella dimensione del tempo storico e della morte. Se è così, come poteva ritenersi che l’ydioma di coloro che, a partire dall’Adamo caduto, erano diventati uomini, avesse conservato il carattere che aveva prima che questo evento, per eccellenza traumatico, si determinasse, e, anche nella nuova dimensione, potesse perciò esser detto sacratum? Certo non sarebbe stato possibile, se l’occhio e la mente si fossero diretti verso i significati più schietti. Ma quel che l’occhio e la mente vedono non sempre e necessariamente è quel che, nella loro letteralità, i testi dicono. Ne derivano due conseguenze che si pongono l’una in contrasto con l’altra. Per un verso, il limite dev’essere oltrepassato perché il senso meno ovvio non sfugga, e quel che sta sotto la superficie delle parole dette non sia sacrificato al rispetto bigotto di queste. Per un altro, non deve esserlo se alla lettera s’intenda recare l’omaggio che merita. Il che, in parole semplici, significa che, nell’atto in cui si ubbidisce ai due diversi criteri della trasgressione, da una parte, e, da un’altra, della conformità al testo, non solo deve cercarsi di non perdere il difficile equilibrio richiesto dalla consapevolezza che entrambi sono irrinunziabili, ma anche si deve essere disposti ad attribuire alla coscienza di Dante qualcosa di più di quel che la sua parola esplicita avesse dichiarato. Quando a oggetto del proprio discorso si abbia Dante che legge un testo che, come quello della Genesi, per un verso richiedeva l’assoluto rispetto dovuto a ciò che è sacro, ma, per un altro, non poteva non costringere all’esegesi, alla rivelazione dei sensi meno ovvi e dei significati impliciti, e, in una parola, all’oltrepassamento della lettera, è difficile pensare che il secondo momento non dovesse avere la sua piena libertà di espressione, e che questa libertà non debba, in una certa misura, essere ereditata da colui che interpreta. Certo, lavorando sul filo di questo rasoio, non sempre si può esser certi di non esagerare, sia quando si «toglie» sia quando si «aggiunge». Proprio il contrario, infatti, è vero: nessuna certezza, in una materia come questa, è conseguibile, tranquilli non si può essere in nessun caso, e la sensazione che si riceve dall’esegesi dedicata al non detto, tanto meno, tutto considerato, è piacevole quanto più appaia inevitabile. Interpretare un testo che, per una sua notevole parte, consiste nell’interpretazione di un altro, è impresa rischiosa perché implica un doppio lavoro; e tanto più quando il secondo testo sia la parte iniziale della Genesi. Questo, fra le altre cose, spiega perché, avendo più di una volta ritenuto che questo scritto fosse giunto al traguardo, altrettante ho dovuto riaprirlo per condurlo a un più soddisfacente livello, ogni volta avendo
Prefazione
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dovuto constatare che, senza dubbio, in alcune sue parti, l’opera di Dante offriva difficoltà superiori a quelle affrontate; sì che occorreva di nuovo mettersele di fronte e considerarle nella loro particolarissima insidiosità. Negli ultimi tempi, il De vulgari eloquentia ha ricevuto contributi notevoli anche, e forse soprattutto, nella sua prima parte; che è quella alla quale la presente esegesi si rivolge. Dei due commenti recentemente usciti, di Mirko Tavoni e di Enrico Fenzi, e anche di quello di Irène Rosier-Catach, ho potuto tener conto quando il lavoro era già vicino a una delle sue conclusioni. Ma ho potuto farlo, tuttavia, con una certa larghezza, sebbene abbia evitato di tenere sempre aperto il conto dei consensi e dei dissensi che la lettura di questi contributi via via suscitava in me. Dei primi ho dato conto soltanto quando tacerne sarebbe stato disonesto; dei secondi quando la mancata menzione avrebbe procurato al lettore un supplemento di fatica. Del resto, di come abbia tenuto conto della letteratura, di ieri e di oggi, sull’argomento, il lettore si renderà conto leggendo. Ma ora che è sul punto di oltrepassare la soglia e di entrare in medias res, desidero avvertirlo che, sebbene abbia cercato di non farmi sfuggire le cose importanti, a esser citate sono state soprattutto quelle che, nel consenso o nel dissenso, attrassero in particolar modo la mia attenzione e resero più acuto il mio interesse. Un libro dedicato a Dante rischierebbe di trasformarsi in un’enciclopedia di titoli se a tutto si facesse spazio. Ma un libro dedicato a Dante non è, non può e non deve essere, un’enciclopedia di titoli. g.s.
Premessa
Al centro di questo saggio sta il modo in cui, nel sedicesimo capitolo del primo libro del de vulgari eloquentia, Dante riprese la definizione aristotelica del genere e, all’interno di questa, quella dell’unità, ossia di ciò che costituisce il suo esser uno. È lì, in quel capitolo cruciale, che la sua trattazione del volgare illustre tocca non solo, come si sa, il suo culmine, ma anche il punto della sua più profonda problematicità. Per arrivare nei suoi pressi, è tuttavia indispensabile, anche a costo di ripetere cose già dette in precedenti occasioni, riprendere questioni sulle quali molto si è discusso da parte dei critici di quest’opera. Riprenderle partendo dall’inizio, e affrontandole di nuovo in relazione al primiloquium adamitico, alla sua (problematica) conservazione fino al tempo in cui ebbe luogo la costruzione della Torre detta di Babele, e poi delle lingue nate dalla confusione che la vendetta divina produsse in quella. Questioni, malgrado il molto studio di cui sono state oggetto, che ancora richiedono, almeno per alcuni aspetti, di essere ripercorse con attenzione. Nell’estrema concisione del suo stile argomentativo, oltre che per l’incompiutezza dell’opera a cui appartiene, il primo libro del De vulgari eloquentia è infatti un testo complesso, che esige perciò di essere letto e discusso, in ciascuno dei suoi passaggi essenziali, anche quando sembri che questi non presentino una esplicita e necessaria connessione con la tesi ragionata nel sedicesimo capitolo del primo libro; che, per il modo in cui vi è utilizzato un concetto aristotelico, è tuttavia, di tutti, il più problematico. Forse non è necessario aggiungere che, se l’oggetto della ricerca è quello che si è detto,1 le questioni trattate nel secondo libro non saranno discusse se 1. La bibliografia sugli argomenti considerati e discussi in questo saggio è assai ampia. Citerò, come sempre si deve (e come nel caso di Dante è indispensabile), soltanto i titoli che,
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non in quanto si leghino in modo organico a quelle dibattute nel primo. Si tratterà, essenzialmente, di tener conto di quel che Dante scrisse nel primo e nel secondo capitolo. Entrare nelle altre non sarebbe, da parte di chi scrive, se non un atto di presunzione.
a vario titolo, siano entrati nel discorso condotto sui testi. Ho naturalmente tenuto presenti i commenti al De vulgari eloquentia di A. Marigo (Firenze 1968), di P.V. Mengaldo (nelle Opere minori di Dante, a cura di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, II, Milano-Napoli 1979), di G. Inglese (L’eloquenza in volgare, Milano 1998), e quelli altresì di I. Rosier-Catach (Dante Alighieri, De l’éloquence en vulgaire, introduzione e apparato critico a cura di Id., traduzione in francese a cura di A. Grondeux, R. Imbach, I. Rosier-Catach, Paris 2011), su cui G. Inglese, Appunti sul “De vulgari eloquentia”, in «Cultura», 50 (2012), pp. 509-530, di M. Tavoni (Dante Alighieri, Opere, I, Rime, Vita Nova, De vulgari eloquentia, a cura di C. Giunta, G. Gorni, M. Tavoni, Milano 2012) e di E. Fenzi (De vulgari eloquentia, a cura di Id. con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori, Roma 2012), usciti quando il presente saggio era ormai prossimo alla sua conclusione. I commenti saranno citati con il solo cognome del curatore, seguito dall’indicazione della pagina.
1. Il latino e il volgare fra Convivio e De vulgari
La prima questione sulla quale occorre fermarsi riguarda la definizione che, in I i 2-5, Dante dette della lingua della quale si sarebbe occupato nel suo trattato; e questa, come si sa, era per lui il volgare, ossia la lingua che infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt, e che, per dirla in breve, poteva essere definita come quella che «sine omni regula nutricem imitantes accipimus» (I i 2-3). Da questa egli provvide subito a distinguerne un’altra, che i Romani chiamarono «grammatica», e che era per lui una lingua secundaria, una lingua che non esitava a definire artificialis, e tanto difficile che «ad habitum vero huius pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doctrinamur in illa».1 Malgrado l’eccellenza e l’insostituibile 1. Sull’idea dantesca della grammatica, e del latino come una grammatica, cfr. innanzi tutto, l’ottima voce di P.V. Mengaldo, ED, III, 262-263, e l’Introduzione alla sua edizione del De vulgari eloquentia (Padova 1968, pp. 1 ss.), ora anche in Linguistica e retorica di Dante, Pisa 1978, pp. 11 ss. Giustamente Rosier-Catach, p. 296, ha notato che «il est remarquable que, contrairment à l’usage médiéval habituel suivi dans les autres oeuvres, le latin ne soit jamais désigné par le term latinum dans le De vulgari, mais exclusivement par le term “grammatica”». Pur consapevole della difficoltà che la tesi incontra, G. Vinay, La teoria linguistica del “De vulgari eloquentia”, in «Cultura e Scuola», 2 (1962), p. 33, ritenne che ci fossero «alcuni appigli per sostenere che ‘artificialis’ va inteso nel senso di lingua d’arte, non di lingua creata ad arte, artefatta». In realtà, vedo la difficoltà che anche il Vinay vedeva: non vedo, a differenza di lui, alcun appiglio per la sua soluzione. L’artificio che presiede alla costituzione della grammatica risponde all’esigenza che uomini parlanti lingue diverse ne abbiano in comune una con cui comunicare (I ix 11): sulle difficoltà intrinseche a questo concetto cfr. infra nel testo. Non c’è alcuna ragione che autorizzi a ritenere che, per Dante, l’arte nascesse da una consimile esigenza. Per una rassegna dei significati di «grammatica», cfr. Rosier-Catach, pp. 287-290.
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funzione culturale che al latino erano state assegnate nel primo trattato del Convivio («lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile»),2 l’artificio che l’aveva posto, e lo poneva, in atto, non era, come si sa, bastato nemmeno lì a garantirgli il primato. O, se si preferisce, era bastato, dal momento che in modo esplicito Dante aveva dichiarata la sua superiorità sul volgare, che tanto più si rendeva evidente quanto più si fosse considerato che «lo latino molte cose manifesta concepute nella mente, che lo volgare far non può», con la conseguenza che «più è la vertù sua che quella del volgare».3 Ma non senza che, proprio la sua superiorità («lo volgare seguita uso, e lo latino arte»), gli fornisse l’argomento per un parziale, e assai ingegnoso, capovolgimento. La questione che in quel primo trattato del Convivio Dante si era posta e che, forse, lo angustiava, era se al commento che si accingeva a fare delle sue Canzoni convenisse il latino o il volgare. Alla fine, però, la via da seguire gli era apparsa con chiarezza. Se le Canzoni fossero state scritte in latino, l’ipotesi che potessero essere commentate in volgare nemmeno per un istante avrebbe potuto essere presa in considerazione. Ma erano state composte in volgare. Ne conseguiva che, se il latino, lingua sovrana, fosse stato scelto per il commento di canzoni composte in volgare, a queste non avrebbe potuto esser «subietto», di queste sarebbe stato il signore, e dunque né conoscente né obbediente. Lo scopo, per conseguenza, sarebbe stato tradìto e non raggiunto. Che il latino non potesse essere «conoscente», ossia conoscitore del volgare al pari del volgare, era dimostrato da Dante con l’argomento che «quelli che conosce alcuna cosa in genere, non conosce quella perfettamente: sì come, se conosce da lungi uno animale, non conosce quello perfettamente, perché non sa se s’è cane o lupo o becco» (I vi 6-7), ossia, per dirla con il suo maestro Aristotele, con il genere non conosce né la specie né la differenza specifica. E tale era, secondo lui, la condizione in cui, nei confronti dei volgari, il latino si trovava. Che non potesse essere «obediente» a quel che le Canzoni richiedevano per essere intese, era, dunque, indiscutibile. Con argomenti assai sottili, anche se non sempre, per la verità, del tutto perspicui, Dante ne dava la prova nel corso dell’intero settimo capitolo: 2. Conv. I v 7-8 (cito dall’edizione critica di F. Brambilla Ageno, II, Testo, Firenze 1995). Il passo prosegue così: «onde vedemo nelle scritture antiche delle commedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta». Sul significato da dare all’aggettivo «artificiato», cfr. la nota di C. Vasoli nella sua edizione del Convivio, Milano-Napoli 1983, p. 34). 3. Conv. I v 12.
Il latino e il volgare fra Convivio e De vulgari
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un capitolo non semplice, ma, nella sostanza ultima, chiaro, nel quale, in effetti, si incontrano bensì alcuni luoghi di difficile interpretazione e che hanno fatto molto discutere,4 senza che, tuttavia, nell’insieme la lucidità della linea argomentativa ne risenta in modo decisivo. Quando, dopo aver assunto, nei §§ 9-12, che, per esser tale, l’obbedienza dev’essere «con misura e non dismisurata», Dante aggiunse che «come la natura particulare è obediente alla universale, quando fa trentadue denti all’uomo, e non più né meno; e quando fa cinque dita nella mano, e non più né meno; e l’uomo è obediente alla giustizia [quando fa quello, e non più né meno, che la giustizia] comanda, al peccatore», poneva una premessa dalla quale non era difficile trarre un importante argomento a difesa del volgare. Il latino, infatti, non «averebbe fatto» altrettanto, perché «peccato averebbe non pur nel difetto e non pur nel soperchio, ma in ciascuno; e così non sarebbe la sua obedienza stata misurata, ma dismisurata, e per consequente non sarebbe stato obediente» (I vii 9-10). La natura «sovrana», e quindi né «conoscente» né «obediente» del latino, si mostrava, del resto, in ciò che, le Canzoni essendo per sé stesse il «signore», era impossibile che riconoscessero un superiore a cui fossero assoggettate. Richiedevano perciò un commento che, essendo, come tale, a esse sottoposto, contribuisse a farle ben intendere a coloro per i quali erano state scritte, mentre «lo latino non l’averebbe esposte se non a’ litterati, ché li altri non l’averebbero intese» (I vii 11-12).5 A questo punto, la questione era matura perché, se non in assoluto, in relazione al commento e all’intelligenza delle Canzoni, si realizzasse il capovolgimento che, senza propriamente innalzare il volgare sul latino, Dante tuttavia eseguiva quando del primo tesseva un elogio che al secondo, malgrado la sua confermata eccellenza e, anzi, proprio a causa di questa, non avrebbe potuto essere esteso. Il capovolgimento che, in tal modo, si realizzava, era senza dubbio parziale, perché l’eccellenza del latino, e il suo più alto grado, restavano fuori discussione. Ma, entro questi 4. Si veda, in relazione ai §§ 6-8, soprattutto il saggio di G. Aquilecchia, ‟Obedienza interamente comandata e da nulla parte spontanea” (Postilla a ‘Convivio’ I vii 6-8) [1957], in Id., Schede di italianistica, Torino 1976, pp. 23-27. La questione è riassunta da Vasoli nella sua edizione del Convivio, pp. 42-44. Ma le ultime parole del § 8 restano oscure. 5. Sulla questione del latino e della scelta dantesca del volgare per la Commedia, cfr., anche per la letteratura che vi è citata, e che qui non occorre ricordare, i miei saggi Sull’Epistola a Cangrande, in «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», 25 (2010), pp. 49 ss. dell’estr. (edizione rivista in «Cultura», 51 [2013], pp. 359-445) e Appunti sull’epistola di frate Ilaro, in «Cultura», 50 (2012), pp. 5-43.
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La lingua, la Bibbia, la storia
limiti, si era verificato e non poteva essere negato; proprio come non si sarebbe potuto mettere in dubbio che, di pari passo con il capovolgimento, andasse la cruda questione che l’elogio del volgare del sì faceva insorgere in ordine alle idee che, come annunciava, sarebbero state da lui esposte nel trattato De vulgari eloquentia, qui esplicitamente citato. Un grave equivoco, tuttavia, si produrrebbe se, sulla differenza che qui Dante stabiliva fra latino e volgare e, quindi, sul forte rilievo dato all’instabilità di quest’ultimo, non si giungesse a un drastico chiarimento; se, messe a confronto con l’immodificabilità della «grammatica», l’instabilità e la mutevolezza fossero considerate alla stregua di un’infermità o, se si preferisce, di un difetto,6 non rimediabile in assoluto, ma contrastabile, non di meno, attraverso l’esercizio dell’arte e della letteratura. In realtà, la si chiami, se così piaccia, difetto o infermità, resta che la instabilità del volgare era da Dante ascritta alla natura delle cose umane e al loro carattere intrinseco, ossia a qualcosa che, appartenendo all’ordine del creato e al suo inevitabile trascorrere e modificarsi, non poteva essere trasceso in uno che di quel carattere non patisse. A tal punto era così e, nel suo intrinseco, questa realtà non poteva, su questa terra, essere contrastata, trascesa e riscattata che, a pensarci con cura e al di fuori di consolidate banalità, non 6. Come si espresse G. Vinay, Ricerche sul ‘De vulgari eloquentia’. I, Lingua ‘artificiale’, ‘naturale’ e letteraria, in «Giornale storico della letteratura italiana», 136 (1959), p. 239, il quale, tuttavia, lo giudicò come un difetto, non assoluto ma relativo, «perché l’arte riesce, in qualche modo, a fermare il divenire». È qui, come dico nel testo, la radice dell’equivoco: quasi che, invece che criterio e strumento diretto a realizzare una determinata opera, l’arte fosse stata concepita da Dante come una sorta di baluardo innalzato a protezione del determinato momento di una determinata lingua (il quale pensiero, se mai fosse stato pensato da lui, avrebbe implicato che, comunque, almeno fino a quel momento, non ci fosse stata arte bastante a innalzare il suddetto baluardo). In realtà, non è così. Il «legame musaico» (Conv. I vii 14) che trasforma in arte le parole di una lingua e le rende intraducibili in un’altra, dona bensì perpetuità alla composizione letteraria o poetica, e rende impossibile che altre parole vi intervengano a modificarne le proporzioni e il senso. Ma né ha, né può avere, il compito di imbrigliare il divenire, impedendo o, quanto meno, ritardando la sua attuazione. È cosa naturale, infatti, che la lingua divenga e vada oltre anche a quel che, in un’opera specifica, abbia raggiunto la sua propria, non superabile perfezione e permanga, nel tempo, qual era stato concepito e attuato dal suo autore. Dopo di che, francamente, non mi preoccuperei di stabilire il significato che, in questo saggio, ricco per altro di molte notazioni acute, assumono le linee nelle quali è detto che, in tema di linguaggio, «Dante non ha idee molte diverse dalle nostre», anche se poi, alla resa dei conti, si rivelino tutt’altro che le stesse. Non me ne preoccuperei perché non riesco né a capire come si faccia ad avere idee che poi si rivelano diverse da sé stesse, né, meno che mai, a dare identità al «noi» al quale Vinay si riferiva.
Il latino e il volgare fra Convivio e De vulgari
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può tardarsi a comprendere che a confermarlo, quel carattere, era proprio l’idea dell’artificialità della grammatica; che era anch’essa cosa umana, ma artificiale, e, in questa artificialità, messa al riparo dal divenire delle cose. Non prodotta attraverso l’esperienza della natura e della storia, ma costruita e congegnata in modo che le fosse possibile sottrarsi al corso delle cose, l’intenzione di chi così l’aveva concepita e costruita era che al mutamento di quelle essa ponesse rimedio, non überhaupt, in generale, ma non più che nel suo spazio interno, che, a causa della sua artificialità, permaneva nel carattere che gli era stato dato mentre quelle, proseguendo nel loro corso, lo sopravanzavano. Sarebbe stata, quindi, suprema incongruenza pensare che con quello strumento, che sottraeva il suo particolare prodotto al divenire, questo ne potesse, in quanto tale, essere contrastato e fermato. Per realizzare l’impresa volta a fermarlo, la grammatica avrebbe, innanzi tutto, dovuto esserne e farne parte, in modo che, confluendovi, il divenire potesse trovarvi riparo da sé stesso: allo stesso modo di una nave che, entrata nel porto, seguita bensì a stare sulle acque, diverse tuttavia da quelle instabili, variabili e tempestose che l’avevano esposta al rischio del naufragio. Ma, lungi dall’esserne e farne parte, la grammatica stava al di qua, o al di sopra, del divenire, al quale infatti si sottraeva in forza della sua artificialità. In che modo, quindi, ossia con quali mezzi avrebbe potuto contrastarlo? Non certo sacrificando a esso la sua artificialità ed entrando nel suo corso. In questo caso, infatti, lungi dall’essere, rispetto al divenire, un elemento di contrasto, se ne sarebbe resa un momento. Che dunque, riflettendo sulla naturale mutevolezza del linguaggio e, sulla perfezione che, come uomo di lettere, si studiava di conseguire nelle sue Canzoni, Dante avvertisse che, nello scriverle, egli sottraeva la lingua nella quale le componeva alle fluttuazioni che, nella sua quotidianità, era destinata a subire e a registrare in sé stessa, magari, nel corso della sua stessa vita, è vero, naturalmente. E sia pure che la conseguita «bellezza» delle sue Canzoni fosse da lui sentita come qualcosa di in aes incisum, o, addirittura, per gli amanti dell’enfasi, di aere perennius. Ma non per questo egli riteneva, e mai in effetti lo disse, che le imprese letterarie sue e di altri fossero da intendere come rivolte a fermare quelle fluttuazioni, a superare il mobile nell’immobile, a tradurre l’instabilità nel suo contrario. Considerate in sé stesse, e sebbene fossero composte, non in latino, ma nella lingua dell’uso quotidiano, in virtù del gran lavorio linguistico da cui erano nate le Canzoni potevano ben essere, esse stesse, considerate, come ciascuna una «grammatica»; e Dante lo disse, in effetti, nel luogo del Convivio in cui
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commentò i versi conclusivi di Voi ch’ntendendo il terzo ciel movete, e, in particolare, forse, l’ultimo, che la Canzone rivolgeva a quanti non fossero stati in grado di intenderne il senso: «ponete mente almen com’io son bella!». Scrisse infatti: «o uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutate però; ma ponete mente la sua bellezza, che è grande sì per [la] construzione, la quale si pertiene alli gramatici, sì per l’ordine del sermone, che si pertiene alli rettorici, sì per lo numero delle sue parti, che si pertiene alli musici. Le quali cose in essa si possono ben vedere, per chi ben guardi».7 Ma il senso di queste parole non è che egli avesse mai pensato di mettere in competizione la naturalità del linguaggio che vive dei e attraverso i suoi mutamenti, e le Canzoni che, per quanto concerne il loro ambito, lo fermano e si inscrivono in esso, che va oltre tuttavia e le sorpassa, come in altrettante oasi di perfezione letteraria e poetica. Senza dover procedere a «sollecitazioni», più o meno dolci, si può dire, ed è considerazione essenziale, che, come la grammatica era un’arte dello scrivere letterario e poetico che non chiudeva in sé la pretesa di adeguare, comunque lo si intendesse, il linguaggio divino, e restava perciò pur sempre cosa umana, così quello delle Canzoni era, a suo modo, una grammatica; che ne era istituita, tuttavia, e non presupposta, come sarebbe avvenuto se, invece che al volgare, Dante avesse fatto ricorso alla lingua dei poeti antichi, a Virgilio, per esempio, o a Stazio, e all’inalterabile latino nel quale si erano espressi. Altro era, per lui, comporre un’opera letteraria assumendo, per realizzarla, una lingua, artificiale e inalterabile: insomma una grammatica costruita secondo la regola della sua immodificabilità. Altro era realizzare qualcosa come una grammatica, e che, a partire dal linguaggio dell’uso, fosse stata, ma ex post, sottoposta alla norma del ne varietur. Come si deduce dal passo citato qui su, al massimo, dunque, potrebbe dirsi che erano le Canzoni a realizzare, di volta in volta, una grammatica; che vi si esauriva, per altro, e non valeva che in quell’ambito, perché, non esistendo per sé stessa, in tanto poteva esser definita così in quanto, in modo analogo alla grammatica/latino, era una lingua che, elaborata con intenzioni letterarie, selezionava le parole del volgare di cui si serviva secondo regole tali da renderle degne di figurare accanto a quelle presenti nelle opere latine. Che nell’idea secondo cui quella delle Canzoni era una lingua, non solo alta, ma anche formalizzata secondo regole precise, fosse, già nel primo e secondo trattato del Convivio, contenuta in nuce l’idea del volga7. Conv. II xi 9.
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re illustre, è ipotesi da non trascurare. Ma a condizione che la si assuma nei limiti entro i quali è stata collocata qui su. Il volgare illustre non era, infatti, per Dante, una grammatica. Non solo era intrinsecamente legato alla lingua dell’uso, della quale, come a suo tempo si vedrà, costituiva il «primo», qualcosa come la melior et nobilior pars. Ma anche era costituito di parole scelte, di concetti nobili, di costrutti congegnati secondo regole di convenienza, proporzione e armonia; e in questo senso, senza, per un verso, essere una grammatica (come il latino), per un altro lo era, perché chi, essendone e sentendosene degno, si accingeva a usarlo, nel suo volgare sceglieva quel che apparteneva alla sua parte migliore e, ex post, come si è detto, ne faceva perciò, ma in questo senso specifico, e di volta in volta, una grammatica. Non nel senso in cui lo era il latino; che, essendo una lingua artificiale costruita in virtù di convenzioni intervenute fra coloro che ne avevano decisa la nascita, solo in minima parte, come si vedrà, era condizionata, nella sua costruzione, dai volgari che essi parlavano nel corso della loro quotidiana esistenza. Nella sua artificialità, non aveva con le lingue dell’uso, alcun legame organico; e certo non potrebbe dirsi che ne derivasse.8 Il volgare illustre non era invece, in nessun modo, una lingua artificiale. Era, come si è detto, la parte nobile della lingua parlata nella vita quotidiana; e l’unico artificio che lo riguardava era quello in virtù del quale coloro che, in questo atto, se ne rendevano degni, provvedevano a scegliere le parole e i costrutti che meglio corrispondessero alle loro intenzioni letterarie. Di molte altre cose dovrà parlarsi, a questo riguardo, nelle pagine che seguiranno. Ma fin d’ora si può affermare con chiarezza che, in nessun momeno del pensiero di Dante, non nel Convivio, non nel De vulgari eloquentia, non nella Monarchia, non nel Paradiso, si dà l’idea che la tendenza interna alla grammatica e al volgare illustre fosse alla ricostituzione dell’unità linguistica originaria, al superamento delle particolarità e delle insufficienze proprie delle parlate volgari, insomma a un mistico ritorno all’origine; che sarebbe infatti difficilmente concepibile nel quadro della concezione cristiana della storia e del mondo.9 Se si sta a quel che le cristiane 8. Per la questione a cui si accenna qui, cfr. infra. 9. La tesi qui criticata e respinta fu formulata con particolare convinzione da A. Marigo nell’Introduzione alla sua edizione del De vulgari, e nelle note al testo (cfr., in particolare, pp. l19 ss., passim). Ma si veda poi, in questa direzione, oltre a F. Di Capua, Insegnamenti retorici medievali e dottrine estetiche moderne nel “De vulgari eloquentia” [1945], in Id., Scritti minori, II, Roma-New York 1959, pp. 277-278, R. Dragonetti,
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filosofie della storia insegnavano, impensabile era un’epoca in cui, per il tramite della grammatica o, peggio, del volgare illustre, all’umanità fosse consentito di tornare a una lingua che a tutti fosse comune. Alla luce di quelle filosofie, anche quando a conferire a esse il tratto più profondo fosse stata un’accentuata disposizione apocalittica, siffatti ritorni all’origine edenica, e quindi a una lingua che a tutti fosse comune, sarebbero stati del tutto inconcepibili. E più che mai lo sarebbero stati nel caso di Dante; che, in una dimensione del suo pensiero, poteva bensì intendere che, nella prospettiva della seconda parousia del Cristo, l’umanità pervenisse alla conclusione della sua giornata terrena, ma non che, prima che questo momento fosse stato toccato, a essa fosse dato di parlare, in forza della grammatica o, peggio, del volgare illustre, una lingua che, come al tempo dell’Eden, per tutti fosse la stessa. Dante sapeva benissimo che quel tempo era trascorso per sempre, e che non sarebbe tornato. Sapeva che la grammatica era stata fabbricata perché la differenza delle lingue vi trovasse un luogo nel quale, in tempi determinati e per determinate esigenze, potesse porsi un rimedio all’altrimenti insuperabile incomunicabilità dei parlanti lingue diverse. La difesa del volgare, che Dante aveva eseguita come dell’unica lingua che sul serio fosse idonea a un commento delle sue Canzoni, prese, dopo essere stata eseguita in riferimento a quella specifica questione, un andamento assai più largo e, via via, più impetuoso. Nell’argomentarla, non solo non esitò a dichiarare la sua idoneità, pari quasi a quella del latino, a esprimere «altissimi e novissimi concetti», ma nei suoi confronti espresse un caldissimo sentimento di amore, nel quale altresì si mescolavano quelli, di diversa natura, che gli erano stati suscitati dalla sua triste condizione di esule. Il passo in cui egli la descrisse è fra i più belli che si trovino, non solo nel Convivio, ma nella più antica prosa italiana. E converrà leggerlo, non solo per quel che immediatamente vi si nota, ma anche per l’altro, che gli sta dentro e conviene mettere in luce: Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in La conception du langage poétique dans le “De vulgari eloquentia” de Dante, in Aux frontières du langage poétique (Études sur Dante, Mallarmé, Valéry), in «Romana Gandensia», 9 (1961), pp. 9-77. Le tesi di Marigo, di Di Capua, di Dragonetti, di Vinay (e di altri) sono state puntualmente esposte e commentate da I. Pagani, La teoria linguistica di Dante, Napoli 1982, pp. 11 ss.
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fino al colmo della vita e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo core di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato –, per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato animo molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato: nel cospetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.10
L’«altro», che è presente in questo passo, solo in apparenza poteva essere considerato di minore importanza. In realtà, la peregrinazione alla quale l’autore di queste linee era stato, ed era, costretto, dall’esilio e dalle sue dure necessità, lo aveva messo in contatto con quasi tutte le parti «alle quali questa lingua», ossia il volgare, «si stende»; gli aveva rese familiari parlate delle quali, quando viveva nella sua città, solo occasionalmente aveva avuto modo di fare diretta e viva esperienza; gli aveva, e non era un paradosso, rivelato quanto di più profondo egli chiudesse in sé. L’esilio al quale era stato condannato intrecciava infatti nella sua trama il filo della «dolorosa povertade» con quello del volgare; il quale, a differenza del latino, che era inteso da pochi e con pochi consentiva di intrattenere discorsi, rendeva possibili, invece, le «conversazioni» e, con queste, le amicizie. Così, attraverso il commento che si accingeva a scrivere delle sue Canzoni, che erano state composte in volgare e in volgare richiedevano di essere esplicate nei loro vari sensi, accadeva che via via Dante scoprisse gli altri pregi che questa lingua chiudeva in sé e quasi la innalzavano al livello del latino, più nobile ma socialmente anche più angusto. Accadeva che, con consapevolezza tanto più profonda quanto più sofferta, egli si avvedesse che quello era, per lui, un oggetto di amore, e che meritavano la più dura riprovazione i «malvagi», come li definiva, «uomini d’Italia», che invece di amarlo, lo disprezzavano e lo svalutavano nei confronti dei volgari altrui, e soprattutto di quello «di lingua d’oco»,11 «partendo sé in ciò dalla verità» (I x 12). Gli 10. Conv. I iii 4-5. 11. Non credo che A. Pézard, Dante sous la pluie de feu (Enfer, chant xv), Paris 1950, avesse ragione nel ritenere dirette, in primo luogo contro Brunetto Latini, queste linee dantesche, e che il maestro fosse messo fra i «malvagi uomini d’Italia». L’unica cosa certa è che ser Brunetto aveva scritto in francese il Tresor, e che questo tuttavia non bastava, visto che in Francia, dove lo compose (F. Mazzoni, Brunetto Latini, ED, III, 580 b), si trovava
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sembravano, «questi cotali» che avevano «a vile questo prezioso volgare», personaggi «abominevoli e cattivi», gente che non comprendeva che, se era «vile in alcuna [cosa]», quello non lo era se non in quanto suonava nella loro «bocca meretrice» (I xi 21). Al «nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo ed ho amato» (I x 6), Dante assegnava, per contro, un posto altissimo, convinto che, per quanto era in lui, l’averlo scelto in luogo del latino per il commento delle sue poesie ne avrebbe rivelate le grandi potenzialità e le cose pregevoli che conteneva in sé. Lo aveva già detto. Ma a I xii 13 lo ribadiva affermando che «in ciascuna cosa di sermone lo ben manifestare del concetto è più amato e commendato», e che questa era una delle «cagioni […] dell’amore» ch’egli portava a esso. L’altra, ancor più profonda, era da ritrovare nel suo esser stato sia «congiungitore delli» suoi «generanti, che con esso parlavano», sia causa del suo essere entrato «nella via di scienza, che è ultima perfezione [nostra]», e quindi del suo aver appreso il latino al quale, senza quello, non avrebbe potuto approdare (I xiii 4 e 5).12 per ragioni di esilio, e visto altresì che in Conv. I xi 15, è detto che «non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana», anche se «biasimevole» sia «commendare quella oltre la verità, per farsi glorioso di tale acquisto» (che non sembra essere stato atteggiamento che il Latini avesse condiviso). Che poi, addirittura, la condanna di Brunetto Latini come sodomita nel decimoquinto dell’Inferno sia da interpretare come se il peccato «contro natura» egli l’avesse commesso nei confronti del suo volgare ‒ questa, che fu la tesi fondamentale del libro citato qui su, suscitò, a ragione, le perplessità di G. Contini, Dante come personaggio-poeta della “Commedia”, in Id., Un’idea di Dante, Torino 1976, p. 41: «più si torna al contesto, e meno, confessiamolo, esso sembra adattarsi a quell’ingegnosissima soluzione», anche perché, si può precisare, non sembra proprio che ser Brunetto avesse compagni, sulla sabbia di fuoco, al suo specifico (secondo Pézard) peccato contro natura, né si vede perché e come la sodomia potesse aver preso in lui quel tratto specifico. Che, per contro, lui proprio non si escludesse, per quel presunto tratto specifico, dal numero dei «sodomiti», è dimostrato dai vv. 103-108, e soprattutto da quest’ultimo: «d’un peccato medesmo al mondo lerci», sì che sarebbe sul serio eccedere in sottigliezza se si assumesse che la «medesimezza», essa proprio, si dice in molti modi, il suo carattere consistendo nel suo essere, in sé stessa, molteplice! 12. Che nel passo qui sopra citato non sia in questione il rapporto fra il latino e il volgare, ma soltanto si alluda all’apprendimento del primo da parte del fiorentino Dante, è evidente. È la riconoscenza che si prova nei confronti della propria lingua quando se ne apprende una «strana» che ha nel possesso della prima la sua condizione. Ma poiché sull’idea del latino come «grammatica», e cioè come lingua non viva e dell’uso, ma artificiale, è facile che si determinino incertezze ed equivoci, quali, per esempio, quelli che potrebbero esser prodotti da una non recta interpretatio di Conv. I xi 13, su questo, e su altro, converrebbe trattare in un apposito articolo.
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La sequenza che qui su è stata velocemente ripercorse è segnata, nel primo trattato del Convivio, con tale chiarezza che non parrebbe dovesse dar luogo a problemi. E non ne dà, infatti, se la si considera nelle parole che la formano e nei concetti che le danno senso. Ma c’è la citazione del De vulgari eloquentia, che compare nel quinto capitolo e che di problemi, invece, se ci si fa attenzione, ne presenta più d’uno. Difficile, innanzi tutto, decidere con sicurezza la questione delle date: quella in cui furono scritte le parole che si leggono qui, e le altre relative al trattato latino, del quale non si può dire con certezza se fosse stato soltanto progettato quando Dante vi faceva riferimento nel Convivio, e in che modo stesse quindi nella sua testa, o se già avesse avuto inizio, tanto da imporre una pausa, o un rallentamento, alla composizione dell’altro, che era anch’esso soltanto all’inizio. Che il suo progetto si fosse formato nella mente di Dante, e questo importasse che almeno abbozzate, quando era intento al Convivio, fossero state alcune sue tesi, è ovvio: non avrebbe altrimenti potuto citarla come un’opera che, «Dio concedente», intendeva comporre. Trattando la questione del latino e del volgare in una sede non destinata in modo specifico alla questione della lingua, della quale per tante ragioni avvertiva la cruciale importanza, era ben comprensibile che egli alludesse a un’opera che proprio quella questione aveva per oggetto, anche se, in quel momento, non andava oltre lo stato di un semplice progetto e di scritto, probabilmente, non ci fosse nulla. Meglio di Michele Barbi13 vide perciò, a questo proposito, Pier Vincenzo Mengaldo; che, radicalizzando un’osservazione di Pio Rajna,14 ne parlò come di «un’opera in pectore, al massimo incipiente».15 L’idea che, mentre vi accennava nel Convivio, certamente stava nella testa di Dante, e lo induceva a parlare dell’opera in cui si proponeva di svolgerla, è quella che egli espose nel quinto capitolo a proposito della estrema variabilità e quindi, in questo senso, della storicità delle lingue. Un’idea alla quale evidentemente molto teneva, e 13. M. Barbi, Introduzione, all’ed. Busnelli-Vandelli del Convivio, I, Firenze 1954, pp. xviii-xix. 14. P. Rajna, Il trattato ‘De vulgari eloquentia’, in Lectura Dantis. Le Opere minori di Dante, Firenze 1906, pp. 195-221. Cfr. altresì «Bull. Soc. dant. ital.», 25 (1918), pp. 136166, e «Studi danteschi», 11 (1927), pp. 129-147. 15. P.V. Mengaldo, De vulgari eloquentia, ED, II, 40. E cfr. anche Id., Linguistica e retorica di Dante, pp. 19 ss. Si leggano altresì le precisazioni di M. Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino 1983, pp. 143-144, che propone di situare il De vulgari fra i primi tre trattati del Convivio e il quarto.
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che esprimeva con incisiva efficacia quando osservava che «nelle cittadi d’Italia, se bene volemo aguardare, da cinquanta anni in qua molti vocaboli essere spenti e nati e variati: onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico che se coloro che partiro d’esta vita già sono mille anni tornassero alle loro cittadi, crederebbero la loro città occupata da gente strana, per la lingua da[lla] loro discordante» (I v 9). A parte la fantasia degli uomini tornati dopo mille anni nella loro città diventata a essi linguisticamente straniera, questa era infatti un’idea destinata a ripresentarsi, con molto rilievo, nel primo libro del De vulgari, dove, malgrado la nettezza della sua formulazione, si sarebbe, non senza fatica, intrecciata con l’altra del primiloquium edenico,16 e cioè dell’origine, non umana ma divina, dell’originario linguaggio. Altro, tuttavia, deve aggiungersi perché l’ipotesi relativa all’inizio del De vulgari eloquentia acquisti un punto almeno di plausibilità. Se quella della variabilità delle lingue volgari e dell’immobilità del latino, era tesi che in quell’opera avrebbe conosciuta una decisiva conferma e una netta, se si vuole, valorizzazione, essa vi stette tuttavia, non si dice come marginale, ma, in qualche misura, come accessoria, rispetto all’altra che, viceversa, ne costituiva l’autentico centro: quella del volgare illustre. Ed è qui che la questione si fa, in effetti, assai delicata. È a quella tesi che, per provare la continuità tematica fra le due opere, occorrerebbe poter fare riferimento: salvo che nessuna continuità è rintracciabile, sotto questo riguardo, fra il primo trattato del Convivio e il primo libro del De vulgari. Non si dà, nel primo, niente che alluda alla tesi sostenuta nel secondo; e del volgare illustre vi manca il termine non meno del concetto. Vi si dà bensì qualcosa che, se, trasferendolo sul piano del secondo, fosse svolto nelle sue conseguenze, a nascerne sarebbe, non la concordanza, ma il suo contrario, non l’armonia, ma la dissonanza. Se, dopo 16. De vulg. el. I iv 1: «nunc quoque investigandum esse existimo cui hominum primum locutio data sit, et quid primitus locutus fuerit, et ad quem, et ubi, et quando, nec non et sub quo ydiomate primiloqium emanavit». Sulla questione si tornerà a più riprese nelle pagine seguenti. Si veda intanto R. Dragonetti, La conception du langage poétique dans le ‘De vulgari eloquentia’ de Dante [1961], in Dante. La langue et le poème, Paris 2006, pp. 45-106, S. Rizzo, Il ‘De vulgari eloquentia’ e l’unità del pensiero linguistico di Dante [1969], in Id., Note sulla felicità e la filosofia e altri saggi di filosofia e letteratura, Roma 2003, pp. 101-120. Per altra letteratura, cfr. M. Corrado, Dante e la questione della lingua di Adamo (‘De vulgari eloquentia’ I 4-7 e ‘Paradiso’ XXVVI 124-38), Roma 2010, p. 41 n. 16.
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aver letto il vibrante elogio del volgare, anzi dei volgari del sì, contenuto nel primo trattato del Convivio, si passa al primo libro del trattato latino, l’impressione è di entrare in un mondo diverso, anzi opposto, nel quale quel che nel primo era ritenuto pregio, si rivelava come il peggior difetto. Nel Convivio il volgare era lodato in blocco, senza che Dante avvertisse la necessità, non si dice di riconoscervi differenze (perché queste erano ovviamente presupposte), ma di giudicarle in ragione di specifici valori linguistici. Vi era giudicato come il più adatto a fornire alle Canzoni il commento che il latino non sarebbe stato in grado di darne. E, come si è accennato, c’era in esso qualcosa di più che, andando oltre le sue differenze, era come se all’esule che migrava di città in città e non trovava pace, desse almeno il conforto del colloquio che, con il suo mezzo, gli era concesso di intrattenere con altri uomini. Quel che nei volgari italiani gli procurava fastidio, passava in seconda linea rispetto al vantaggio e al conforto che tuttavia gliene venivano. Aveva riservato il primo trattato dell’opera, che aveva deciso di scrivere in volgare, a dar conto del perché di questa scelta. Era perciò inevitabile che il suo accento cadesse, non su quel che nei volgari d’Italia offendeva il suo orecchio e dava da pensare alla sua mente politica, ma sul nesso che comunque legava la sua persona a quella lingua, che era sua come di coloro che gli avevano data la vita. Nel primo libro del De vulgari, la situazione cambiò bruscamente. La rassegna a cui, postosi alla ricerca del migliore fra essi, Dante aveva dato inizio, non solo non forniva se non esempi della miseria che, a diversi gradi, segnava i volgari italici, ma si concludeva con una nota di ulteriore e più grave negatività. Si richiedeva infatti che ci si mettesse a una ricerca volta a scoprire dove si fosse nascosto quello che ora definiva illustre, nonché regale e curiale; e che certamente esisteva, era una realtà e non una idealità, essendo tale tuttavia che, poiché si trovava in ogni luogo senza essere in nessuno, per trarlo fuori del suo nascondiglio ed esibirlo in piena luce occorreva una speciale abilità e sensibilità, non solo linguistica, ma filosofica. Di qui la famosa caccia alla pantera il cui redolere era dovunque avvertibile, sebbene assai difficile da trovare fosse il luogo in cui si era nascosto l’animale che emanava quel gradevole profumo: si trattava infatti di un luogo che era, e anche non era, un luogo. Di qui, come si diceva, l’idea di una venatio che nel primo trattato del Convivio non sarebbe stata nemmeno immaginabile, e che forse non si era ancora formata nella testa di Dante quando scriveva quelle pagine. Il volgare del quale, nel primo tratta-
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to di quell’opera, aveva dettato l’elogio, non era quello che nel De vulgari eloquentia avrebbe definito come illustre, curiale e regale. Era bensì quello con il quale egli si apprestava a commentare le Canzoni messe innanzi a ciascuna delle sue parti, ma anche era la lingua con la quale si erano parlati e intesi l’uomo e la donna che l’avevano messo al mondo. Era il volgare dei letterati, ma anche era, per usare l’espressione che ricorre nell’Epistola a Cangrande, quello di cui, per comunicare, si servivano et mulierculae, anche le donne, se si può dir così, di modesta o di nessuna cultura.17 Ora, tuttavia, la situazione appariva radicalmente mutata. Lo era infatti al punto che non sarebbe da condividere l’idea di chi proponesse che, in tanto il mutamento si era determinato, in quanto a occupare la scena era ora un protagonista di cui prima non si era avvertita la presenza, e cioè il volgare illustre, a paragone del quale ogni altra parlata non poteva non rivelare la sua miseria. Non era l’idea del volgare illustre ad aver rivelata la bruttezza dei volgari italiani. Era, se mai, la bruttezza di questi ad aver spinto Dante a farsi venator di un volgare migliore, a trarre alla luce quel che in essi vi fosse di più nobile. Se ne doveva dedurre che, per qualche ragione, per altro non dichiarata, il pregio dei volgari italiani si fosse perduto, che essi fossero decaduti da un grado più alto a uno assai più basso, e che il nascondiglio della pantera consistesse, non in un luogo extralinguistico, ma nelle stesse parlate italiane, le quali, mentre esplicavano sé stesse nel segno della loro bruttezza e inadeguatezza, in quello stesso atto nascondevano in sé il volgare illustre. Non è ancora giunto il momento di affrontare la questione che questa idea della venatio pone a chi si disponga ad affrontarla sul piano, non della metafora (la pantera, il suo profumo), ma della sua coerenza teorica. Quando il momento verrà, la questione sarà discussa. Per ora basterà tener fermo al punto che, nel De vulgari, la ragione per la quale la decadenza si era prodotta nelle parlate italiane era constatata, ma non indagata di per sé: come se, in quanto tale, non costituisse un problema che attendesse una soluzione. A delinearlo nel segno della consapevolezza non bastavano, infatti, gli accenni alla storia e alla politica che, come si vedrà, pur vi erano presenti. Meno che mai sarebbe bastato il richiamo alla situazione babelica e postbabelica nella quale i volgari avevano la loro lontana origine. Che le lingue storiche e naturali che erano nate da quel lontano dramma ritenessero in sé il segno di quella nascita, deve senz’altro essere 17. Ep. XIII 32 (in Opere minori, p. 622).
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ammesso, anche se su questo punto il testo sia avaro di particolari. Ma questo non significa che, uscendo fuori della confusione babelica, la loro nascita storica e naturale fosse, per ciò stesso, subito segnata dal carattere della decadenza. Non solo di un simile concetto non c’è, nel testo del De vulgari, alcuna traccia, ma, per converso, deve osservarsi che se, fra le pieghe del volgare non illustre, si nascondeva quello che aveva in questo aggettivo la sua definizione, parlarne come di una lingua nata nel segno della decadenza sarebbe stato assunto contraddittorio. Se, nel genere al quale appartiene, dal primo e più eccellente all’ultimo, il volgare si presentava, a giudizio di Dante in questo segno, la conseguenza non poteva essere se non quella che si trarrebbe osservando quel che la struttura del genere include in sé. Se, perciò, lo si percorresse procedendo dal basso verso l’altro, si avrebbe un moto progressivo e ascendente, mentre, se si procedesse in senso opposto, se ne avrebbe uno regressivo e discendente: con la conseguenza che, alla luce di questo concetto, l’idea di un decadimento e impoverimento della lingua non potrebbe, se mai fosse formulata come tale, avere nella struttura del genere il suo criterio. Per averne uno, e posto che di averlo se ne avvertisse la necessità, lo si sarebbe perciò dovuto attingere a un’altra fonte, a un’intuizione di natura storiografica non deducibile da quella struttura. Nei gradi di cui si componeva, essa infatti era immobile, il movimento essendo prodotto soltanto dall’occhio che, nell’osservarla, trascorreva dal primo all’ultimo o dall’ultimo al primo, o dall’idea, mai, per altro, da Dante formulata in parole esplicite, secondo cui, se la parlata dei Romani di oggi si era attestata a un grado così basso, nella scala «generica», da suonare abietta al suo orecchio, la ragione doveva essere ricercata in qualcosa che al genere, in quanto tale, non apparteneva. La questione che è emersa in primo piano richiede attenzione, perché è facile che, al riguardo, si determinino confusioni. Converrà perciò fare riferimento, e restare aderenti, al testo in cui Aristotele sintetizzò i significati di questo concetto, con il quale egli intese che γένος significasse, in primo luogo, ἡ γένεσις συνεχὴς τῶν τὸ εἶδος ἐχόντων τὸ αὐτό, in secondo luogo la derivazione degli uomini da un originario capostipite, che fu Elleno per gli Elleni e Ione per gli Ionici, in terzo luogo la materia (ὕλη), ossia il sostrato, rispetto a cui si dà sia διαφορά (differenza) sia ποιότης (qualità). A nessuno di questi significati, nemmeno al secondo, era, nella visione di Aristotele, intrinseca l’idea di un processo che, all’interno del genere, prevedesse un mutamento degenerativo. I Greci dell’età sua non differivano,
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per lui, da quelli da cui erano derivati, se non nel senso che i primi erano la causa e i secondi la conseguenza: senza che ciò implicasse l’idea di una decadenza che, nel corso degli anni, si fosse prodotta e ora segnasse di negatività il loro modo di essere. All’interno del genere al quale appartenevano, e in ragione del quale erano passibili di definizione, le cose, infatti, differivano l’una dall’altra soltanto in virtù del loro esser diverse. La corruzione, in altri termini, non era intrinseca al genere in quanto genere, alla sua interna composizione e struttura. Derivava, come si è detto, da altro. Ma, senza toccare la physis del genere, e senza perciò alterarne il profilo (il che, se fosse avvenuto, avrebbe messo in discussione il suo essere il principio definitorio di ciò che vi era incluso), lo investiva dall’esterno e così determinava il suo esserne soggetto. Che quindi l’interpretazione del genere come luogo e causa di una differenza implicante decadenza non fosse compatibile con l’idea che ne era stata espressa da Aristotele nel libro Δ della Metafisica, è evidente. Evidente è che, come si vedrà, fu Dante a interpretarlo in quel senso, che nemmeno dai commentatori che gli erano noti gli fu, per quanto concerneva quei passi, suggerito. Non da Tommaso,18 per esempio, non da Averroè. Ad altri luoghi della Metafisica egli ricorse per rendere possibile, ma, anche qui, non senza arbitrii, l’interpretazione del genere come inclusivo di species segnate da decadenza. Dovette infatti ricercare le pagine in cui è affrontata la questione dell’uno e delle cose che, a misura che via via, se ne allontanano, di altrettanto si trovano a essere remote dalla sua perfezione.
18. Si veda Thomae Aquin. in duodecim libros Metaphysicorum expositio, ed. M.R. Cathala-R.M. Spiazzi, Torino 1950, pp. 287-288. Non implica riferimenti all’idea che il genus sia il luogo di un processo degenerativo, quel che si legge in Summa theol. I, q. 51, c. 1, dove trattando della natura degli angeli e ponendo la questione se questi habeant corpora naturaliter sibi unita e il loro intelligere implichi perciò la presenza del senso, nel respingere questa tesi Tommaso osservò bensì che se «in quocumque […] genere invenitur aliquid imperfectum, oportet praexistere aliquid perfectum in illo genere», senza che questo implicasse in nessun modo, per lui, che l’imperfectum fosse una degenerazione o una corruptio del suo contrario/opposto. Entrambe, la perfezione degli angeli e l’imperfezione degli uomini, stanno infatti nel genere; con la conseguenza che, sebbene intelligere non sit actus corporis, accade tuttavia che gli uomini conoscano attraverso i sensi e di questi non possano fare a meno: «humanae animae competit uniri corpori, quia est imperfecta et in potentia existens in genere intellectualium substantiarum; non habens in sua natura plenitudinem scientiae, sed acquirens eam per sensus corporeos a sensibilibus rebus».
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Di questo dovrà riparlarsi quando l’intero filo della ricerca sarà stato quasi per intero dipanato, e quella sia perciò sul punto di toccare il traguardo. Qui e ora deve invece osservarsi che la ragione per la quale le parlate italiane decaddero, o assunsero comunque l’attuale, non positiva, fisionomia, non può essere ritrovata nella natura dell’idioma che era stata ricevuto in vindice confusione.19 Su cosa debba intendersi per confusio linguarum, e quali questioni nasconda in sé il suo concetto, si discuterà a tempo debito. Ma fin d’ora dev’essere chiaro che, dispersasi l’umanità in più parti della terra, dall’ydioma tripharium che allora si formò20 si svolsero i volgari che poi ebbero seguito nel mondo. Si svolsero in modo che, a sua volta, il terzo idioma di quella triade si divise in tre, ciascuno essendo caratterizzabile dal modo in cui fu pronunziata l’affermazione che, in una parte, fu oc, in un’altra oil, nella terza sì, senza, per altro, che niente autorizzi a dire che nella tripartizione del terzo idioma postbabelico avesse luogo il carattere della decadenza, ossia che fin dall’inizio, e senza perciò aver conosciuto momenti migliori, subito ne presentasse i tratti. Tenendo bene a mente che alla radice di ogni accadimento, anche linguistico, non poteva non agire la causa delle cause, ossia Dio, e che parlare, senza alcuna mediazione concettuale, degli uomini come creatori, in assoluto, della loro lingua in opposizione all’idea della sua origine divina, sarebbe ed è, per Dante, una pretenziosa banalità,21 resta vero, tuttavia, che quelle lingue nacquero nel 19. De vulg. el. I viii 3. 20. Per l’interpretazione del cap. viii, cfr. infra. Ma si tenga presente, al riguardo, l’eccellente voce di P.V. Mengaldo, Tripharius, ED, V, 722 a-723 b. 21. Sarà bene chiarire perché non nascano equivoci, che, senza dubbio, altro è dire che solo a Adamo la lingua fu insegnata direttamente da Dio che gliela infuse all’atto della creazione, altro che, perduta l’innocenza e entrati nel mondo della storia, gli uomini dovettero (dopo Babele, secondo il De vulgari, prima di Babele, secondo Par. XXVI) formarsela con gli strumenti che erano a loro disposizione. Ma questo non significa che si possa e si debba dimenticare che a questo destino essi furono esposti perché tale era stata la provvidenziale disposizione divina: sarebbe assurdo se, per l’importanza data alle cause seconde, si dimenticasse che queste sono seconde perché, al di sopra di loro, c’è la causa prima. Il che si dice, naturalmente, non perché si abbia una particolare inclinazione nei confronti di questa teoria, ma perché era alla luce del suo criterio che Dante prospettava la questione, si dica così, della storia, e, qualora se ne prescinda, non gli si regala se non la nostra incomprensione. Vorrei ricordare, inoltre, quel che Contini, Un’idea di Dante, p. 41, ebbe a osservare a proposito di quegli interpreti (e qui a esser ricordato e messo in questione era Bruno Nardi) per i quali c’era «una grande armonia negli interventi danteschi sul problema linguistico» ed era come se tutto cospirasse a un unico fine: «quello di esaltare la mutabilità temporale del linguaggio». In realtà, con piena ragione,
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vivo dell’esperienza che quegli uomini erano stati costretti a compiere per ciò stesso che erano vivi e dovevano intendersi l’un l’altro. Poiché la storia si svolgeva, non nell’Eden, ma nel luogo della sofferenza e della morte, era ovvio che la tavola dei valori, anche linguistici, non potesse essere costituita con l’occhio unicamente rivolto alla purezza del sacratum ydioma e di quanto «perdeo l’antica matre».22 Che la «caduta» fosse l’atto inaugurale della storia umana, e il suo segno dovesse avvertirsi perciò anche nella lingua che, dopo una lunga pausa, conobbe e subì il dramma violento della sua trasformazione, è concetto ovvio; e tanto più da tener presente in quanto è in una fase determinata di questa storia, segnata dalla progressiva perdita del senso del divino, che si determinò l’avvento del Cristo. Per intendere il senso complesso di questa situazione, occorre perciò distinguere fra il consenso che, nel pensare la storia, uno scrittore cristiano non poteva non concedere a questa idea, e le differenti valutazioni che non potevano non farsi della diversità dei momenti attraverso i quali, anche nei riguardi delle lingue, il processo delle cose si era determinato. Resta vero, in ogni caso, che, come le ragioni del decadimento che Dante avvertiva nelle parlate municipali del volgare del sì, non furono da lui addotte e dichiarate, altrettanto deve dirsi di quelle che avrebbero dovuto presiedere alla restituzione del volgare alla sua eccellenza. Nella sua realtà postbabelica, la lingua non era infatti il frutto di una costruzione intellettuale che potesse essere innalzata scegliendo le parti migliori, mettendole insieme ed espellendo quelle degenerate: non si poteva, in altre parole, sottoporla a un processo di purificazione imposto dall’esterno al suo concreto svolgimento. Era infatti una realtà che formava sé stessa a contatto con la natura e con la storia; e, nei termini stessi della teoria dantesca, sarebbe stato difficile, anzi impossibile, presumere che, all’interno di tale varia spontaneità produttiva, potesse darsi un principio formale di elaborazione del meglio sul fondamento dell’espulsione del peggio. Il che, se su questo punto essenziale si tornasse a riflettere, dovrebbe indurre alla considerazione secondo cui, per un verso, la naturalità e la storicità delle lingue erano esse il soggetto concreto delle loro trasformazioni e modificazioni; e che il volgare illustre era, non una Contini riteneva che «questa dialettica» fosse «assai meno serena e più drammatica». Per mio conto, vorrei aggiungere che l’intera trattazione qui di seguito dedicata alla questione del linguaggio si è svolta in questo segno, a ogni passo avendo dovuto constatare le tensioni che, dall’interno, fanno la problematicità del percorso dantesco. 22. Purg. XXX 51.
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costruzione intellettuale, ma, appunto, una realtà obiettiva. Era ciò che nel genere «lingua» occupa la posizione più alta; salvo che, per un altro verso, almeno in parte contravvenendo a questo principio, restava quanto meno indeciso se il volgare illustre fosse quello che si è detto, o non invece, il prodotto di concreti soggetti umani, se la sua origine dovesse essere assegnata alle scelte che gli uomini della curia e i poeti che componevano le Canzoni facevano delle parole e dei costrutti più nobili, o se il merito che a questi doveva essere riconosciuto non consistesse se non nella capacità che gli uni e gli altri avevano dimostrata di attingerlo là dove era. Insomma, il volgare illustre era una pura determinazione ontologica, non sottoposta a mutamenti, il «primo nel genere»23 che, in quanto tale, non è né soggetto né oggetto di trasformazioni storiche? Oppure, ferma restando la struttura del genere, era piuttosto il frutto della scoperta che, col trarlo alla luce, uomini storicamente diversi da quelli di ieri, ne avevano fatta? La differenza fra le due situazioni non è tanto grande da configurare un contrasto e, con questo, la necessità di una scelta. Ma, per un verso, il volgare illustre era lì, occupava un posto determinato ed era come un metallo prezioso che aveva il suo valore in sé stesso e non nell’industria e nella tenacia di coloro che lo cercavano e traevano alla luce. Per un altro, pur nella persistenza della prima tesi, era anche vero che era a quanti fossero stati in possesso di una loro intrinseca nobiltà che esso dischiudeva e rivelava la sua: con la conseguenza che, tendenzialmente, al suo valore obiettivo contribuiva quello che proveniva dal pregio intrinseco a coloro che fossero stati degni di ricercarlo. È una questione sulla quale si avrà occasione di ritornare per meglio determinarla. Ma che qui, in germe, si delineasse una sorta di indecisione fra l’idea secondo cui erano gli uomini a disporre la lingua nel segno della sua eccellenza stilistica e l’altra della sua obiettiva realtà di cosa naturale, è evidente. L’indecisione era scritta nelle cose stesse del pensiero di Dante, e non è dato scioglierla; sarebbe infatti puro arbitrio la pretesa di risolverla, e superarla, sulla seconda facendo prevalere la prima idea, o su questa la seconda. La premessa del suo discorso, in ogni caso, era tale che, se i giudizi negativi pronunziati sui volgari municipali italiani, tutti, con poche e più che parziali eccezioni, condannati senza pietà, fossero stati ascoltati da lui mentre scriveva i capitoli del primo trattato del Convivio, niente gli avreb23. Su questo punto mi fermerò nell’ultima parte di questo saggio.
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be impedito di collocare quel suo omonimo fra i «malvagi uomini d’Italia» intenti a denigrare il loro volgare. Certo, la denigrazione che quelli eseguivano coincideva con l’elogio rivolto ai volgari diversi da quello del sì, e, per questo riguardo, Dante non sarebbe stato tanto «malvagio» da poter essere incluso nel loro numero. Ma soltanto per questo riguardo. Per il resto, infatti, i suoi giudizi erano di tale durezza, e conseguivano un grado così alto di sprezzante negatività che a uno ancora più alto non avrebbero potuto essere spinti. Si pensi, non solo a quelli pronunziati sulla parlata dei romani, definita «non vulgare, sed potius tristiloquium, ytalorum vulgariun omnium turpissimum» (I xi 2),24 nonché su quella dei toscani, «qui propter amentiam suam infroniti titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur» (I xiii 1), e degli stessi fiorentini, la cui lingua era pur quella in cui, come, con commosse parole, aveva detto in Convivio I xiii 4-5, i suoi genitori si erano incontrati: un giudizio esteso persino alla città e alle sue bellezze nel rovente e sofferto passo che si legge a I vi 3-4.25 Ma altresì si pensi al giudizio via via formulato su tutte le altre parlate italiane, su quelle degli abitanti della Marca anconitana, degli spoletini, e poi dei milanesi, dei bergamaschi, per non dire degli aquileiani e degli istriani, e infine dei sardi, «qui non Latii sunt sed Latiis associandi videntur», e, non avendo un proprio volgare, sono gramaticam tanquam simie homines imitantes (I xi 7).26 Si pensi ai verbi, che Dante usò per esprimere i suoi giudizi: decerpare, eruncare, cribrare, eicere, tutti, con l’eccezione dell’ultimo, implicanti un’opera di violento disboscamento, e ai 24. Che nel giudizio, così carico di disprezzo, formulato sulla parlata dei romani, sia percepibile un riflesso politico (confronto fra la Roma di oggi, sede della Chiesa corrotta, e quella di ieri), è, credo, indiscutibile: e tanto più in quanto fu Dante stesso a stabilire il nesso tra la lingua e i costumi: «nec mirum, cum etiam morum habituumque deformitate pre cunctis videantur fetere». Si vedano in particolare Tavoni, pp. 1254-1255, e Fenzi, pp. 77-78. La negatività del giudizio riguardava la lingua, definita addirittura, con termine che sembra di conio dantesto, tristiloquium. Ma si veda il commento di Mengaldo, pp. 92 ss. 25. «[…] multas esse perpendimus firmiterque censemus et magis nobiles et magis delitiosas et regiones et urbes quam Tusciam et Florentiam, unde sumus oriundus et civis, et plerasque nationes et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti quam Latinos» (I vi 3). 26. Ma cfr. anche I x 5. Mengaldo, p. 98, che, dopo aver ricordato, con rinvio a E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze 1992, pp. 601-603, il topos della simia, ha parlato, per questo passo, di «parodia deformante» (e cfr. le dotte informazioni fornite alle pp. 98-99). Per parte sua, Fenzi, p. 82, ha sintetizzato la questione, asserendo che, impossibilitato dalle sue nozioni linguistiche a «percepire la conservatività del sardo», lo rappresentò come «una bestiale (e quindi irrazionale) imitazione del latino».
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sostantivi con i quali, a I xi 2, descrisse la sua impresa, che era appunto di dar luogo a una eradicatio e discerptio. Le eccezioni rappresentate dal siciliano e dal bolognese non valevano infatti ad attenuare la negatività complessiva del giudizio. Nel bolognese parlato dal popolo, o, se si preferisce, da quella che, con molta approssimazione, potrebbe esser detta la classe media, il giudizio sottolineava bensì la sua laudabilis suavitas, derivante da, come la definiva, una commixtio oppositorum,27 ma non si spingeva oltre. Se lo si fosse paragonato agli altri volgari municipali, lo si sarebbe, senz’altro, potuto considerare come il migliore. Ma, a partire di qui, si sarebbe finiti nell’errore se la conclusione fosse stata che quello era il volgare illustre del quale, da tempo, aveva intrapreso la venatio: se lo fosse stato, «maximus Guido Guinizelli, Guido Ghisilerius, Fabrutius et Honestyus et alii poetantes Bononie nunquam a proprio divertissent» (I xv 6). Allo stesso modo, altra era la lingua dei poeti che, in Sicilia erano stati in contatto con la Corte di Federico II e di Manfredi, altra quella dei siciliani di media condizione, tanto che «si vulgare sicilianum accipere volumus secundum quod prodit a terrigenis mediocribus, ex ore quorum iudicium eliciendum videtur, prelationis honore minime dignum est, quia non sine quodam tempore profertur» (I xii 6). La differenza che si era determinata fra questi suoi testi era, d’altra parte, così forte che non si può non tornare a chiedere che cosa potesse averla provocata. Ma è una risposta, quella che si invoca, tanto più difficile a esser data in quanto non c’è, nel testo del De vulgari eloquentia, niente che consenta di proporre la domanda in forma più determinata di questa: da che cosa, nei confronti del volgare del sì, Dante avrebbe potuto essere stato indotto a passare, da un atteggiamento di alta valutazione, e di altrettanto grande affettività, a una così grave condanna della sua attuale situazione? Si tratta infatti di una questione che, per come si presenta nei testi, non consente che si vada molto oltre a quel che già ne fu detto qui su, anche se, forse, potrà risultare meglio definita quando i diversi aspetti del primo libro del De vulgari eloquentia saranno stati esaminati nel nesso che li tiene insieme e nelle difficoltà che tuttavia vi si riflettono: non prima, quindi, che le relative analisi siano state eseguite. A un argomento che le è connesso e che, al momento opportuno, sarà ripreso, converrà tuttavia accennare già qui, non senza che, anche alla questione delle date di composizione, rispettivamente del Convivio e del De vulgari, sia stata, in breve, data attenzione. 27. De vulg. el. I xv 5-6.
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Se si sta alla revisione della tesi di Barbi eseguita da Petrocchi, e, generalmente condivisa, la prima opera ebbe inizio, non nel 1304, ma nell’anno precedente, mentre la sua interruzione e il suo abbandono si determinarono nel 1307. A sua volta, iniziata nel 1304, quando il primo trattato del Convivio era o concluso o vicino a concludersi, la seconda fu interrotta nel corso del 1305, per non essere più ripresa, sia per il probabile avvertimento, da parte di Dante, dell’impossibilità di tener fermo alla sua tesi centrale, sia anche perché, determinata dalla presenza ormai incombente della Commedia, la rinunzia a proseguire il Convivio coinvolse nel fallimento anche il trattato latino. Non si ha, d’altra parte, alcun ulteriore elemento di fatto per stabilire che le cose siano andate come qui, tuttavia, si suggerisce. Ma è improbabile che fra le ragioni che avevano indotto Dante a comporre il De vulgari eloquentia, non sia da considerare anche la necessità, che egli ora avvertiva in modo prepotente, di confermare i pregi del volgare nell’atto in cui, per un altro verso, criticava duramente la decadenza nel cui segno viveva la sua presente vita. Il paradosso che, fra l’elogio e la critica, aveva preso stanza nella sua mente era, insomma, che, per difendere il volgare e rivendicarne il vero pregio, non si poteva fare a meno di sottoporre a una critica decisiva il suo attuale modo di atteggiarsi nelle parlate italiane. L’elogio presupponeva la critica: se non si fosse fatta chiarezza in quella selva selvaggia, il pregio che a quelle era intrinseco non avrebbe mai potuto essere rivelato. Non c’è, d’altra parte, nessuna prova che del contrasto che s’era determinato fra il trattamento riservato al volgare nel Convivio e quello di cui si ha il documento nel primo libro del De vulgari eloquentia, la consapevolezza di Dante fosse stata altrettanto netta della radicalità con cui quello si presentava. In una materia così delicata, e trattandosi di opere che, quando il contrasto si produsse, erano entrambe lontane dal loro traguardo, è difficile proporre congetture che non siano, per qualche tratto, arbitrarie. Certo è, in ogni caso, che l’aver composto con quel carattere il primo libro del De vulgari non lo indusse a ritornare sul primo trattato del Convivio per, quanto meno, distinguere il volgare di cui si serviva lui nel commento delle sue Canzoni da quello in cui gli italiani parlavano nelle varie parti della penisola, e anche i suoi genitori fiorentini si erano espressi. Posto che la differenza fra le due valutazioni non fosse stata da lui avvertita, o che, preso di volta in volta dal suo argomento, i suoi occhi non fossero bastati a fargliela avvertire con sufficiente chiarezza, è impossibile, d’altra parte, non pensare che il disagio provocato dall’obietti-
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vo divergere di quelle due così diverse valutazioni del volgare del sì non si fosse come depositato nel fondo della sua coscienza, aggravando col suo peso il percorso delle due opere e contribuendo, forse, a determinarne il fallimento. È probabile, in effetti, che la critica mossa, nel primo libro del trattato latino, al modo in cui i volgari italiani gli si presentavano non fosse senza connessioni con il maturare in lui di una sempre più chiara tendenza filoimperiale, che, senza per altro riuscire a coincidervi, veniva così a intrecciarsi con la ricerca e la delineazione teorica del volgare illustre. Probabile è altresì che in quella tendenza avesse la sua radice la critica rivolta ai volgari municipali che, nelle loro interne divergenze, riflettevano quella intrinseca alla realtà politica dei Comuni italiani, di cui, proprio in quegli anni, Dante aveva fatto drammatica esperienza. La ricerca che aveva a oggetto la scoperta del volgare illustre non andava perciò senza una connessione profonda con la sua esperienza politica, amaramente conclusasi nella sconfitta; e dava espressione al forte contrasto in cui si era posto con la politica fiorentina, tutta odio e contrapposizioni settarie, prive di orizzonte politico. Non è dunque un arbitrio esegetico indicare in tutto ciò le fasi convulse che videro la conclusione della sua vita di cittadino fiorentino, il conflitto dei Neri e dei Bianchi, il fallimento del tentativo esperito dal cardinale Niccolò da Prato di conciliare la parte dei primi con quella dei secondi, la tragedia della Lastra, la separazione dai compagni con cui aveva condiviso passioni e speranze, la prospettiva di un esilio senza ritorno.28 Se si chiede, e chiederselo è legittimo, in forza di quali ragioni, e di quali esperienze specifiche, nello spazio di pochi mesi, se il Convivio fu iniziato nel 1303, e il De vulgari l’anno dopo, Dante maturasse un così netto mutamento di posizioni, e, da oggetto amato senza dichiarate eccezioni, il volgare che sentiva risuonare nelle città della penisola diventasse un oggetto di disistima e persino di disprezzo, la risposta di cui ci si mette in attesa deve presupporre, non solo che di quel mutamento ci si sia accorti, ma che la ragione che lo produsse sia colta nella sua intera estensione, senza che la si riduca a un insieme non ben connesso di cause particolari. Che la svolta, o, meglio, l’inizio di una svolta filoimperiale, sia visibile nell’esaltazione che, nel primo libro del De vulgari, Dante fece delle figure di Federico II e di 28. R. Davidsohn, Storia di Firenze, III, Le ultime lotte contro l’Impero, Firenze 1960, pp. 323-326, G. Petrocchi, Vita di Dante, Bari 1983, pp. 96-98, M. Santagata, Dante. Il romanzo di una vita, Milano 2012, pp. 165-166.
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Manfredi,29 è innegabile. Ma non sarebbe giusto ritenere che ne dipendesse. Quell’esaltazione fu essa infatti la conseguenza della svolta che si stava faticosamente determinando nella direzione dell’Impero, e sua premessa fu il modo in cui egli visse e patì la convulsa vicenda politica che si concluse con la sua sconfitta e con l’esilio. Nell’atto perciò in cui rappresentava la crisi dell’atteggiamento «sentimentale» che, nei confronti del volgare, Dante aveva assunto nel primo trattato del Convivio, il primo libro del De vulgari apriva uno scenario, in un suo aspetto, assai diverso. Nella filigrana del problema linguistico permetteva di intravvedere i primi segni di un pensiero politico delineante, sul fondamento dell’interpretazione provvidenzialistica che della storia di Roma sarebbe stata da lui proposta nel quarto trattato del Convivio, la teoria dell’Impero universale. Certo, la svolta filoimperiale non andò, nel De vulgari eloquentia, e al momento opportuno se ne darà la prova, senza significative limitazioni e incertezze, entrambe rintracciabili nell’idea stessa del volgare illustre. Nei suoi limiti, si trattò tuttavia di una svolta fondamentale, che aveva le sue ragioni in un profondo intreccio di esperienze, nessuna delle quali, presa da sola, potrebbe dare la spiegazione di quel che accadde nel suo pensiero. E a questo punto, poiché la questione è più complessa di quanto da questi accenni e riferimenti non risulti, occorrerà dar luogo ad alcuni, puntuali, rilievi. Il primo è che una svolta così importante come quella di cui si parla qui non può esser fatta dipendere, in modo rigido, dall’influsso «ideologico» che, forse, Dante ricevette durante il suo primo soggiorno veronese presso Bartolomeo e Alboino della Scala.30 In realtà, non fu quell’influsso a determinare la svolta, ma fu questa, che da 29. E. Fenzi, Introduzione al De vulgari eloquentia, a cura di Id. con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori, Roma 2012, pp. xx-xxi. 30. Fenzi, p. xxi, ricorda, per altro, anche il sarcastico giudizio che su Alboino si legge in Conv. IV xvi 6, e di cui è impossibile, allo stato delle conoscenze, addurre la ragione; che potrebbe essere stata politica (scarso impegno del personaggio nel sostenere la causa patrocinata da Dante) o anche semplicemente personale (scarsa simpatia reciproca). Per un quadro delle circostanze che precedettero il viaggio di Dante a Verona, e per il rapporto con Alboino, le cose più equilibrate si leggono in G. Petrocchi, La vicenda biografica di Dante nel Veneto [1966], in Id., Itinerari danteschi, Bari 1969, pp. 127-129 (sui rapporti con Alboino, p. 128, e anche Id., Vita di Dante, p. 115). Meno realistico, ma non inaccettabile, il quadro di questi rapporti, in U. Cosmo, Vita di Dante, Bari 1930, pp. 131-132. Cfr., da ultimo, Santagata, Dante, pp. 156-158, il quale, riprendendo Biondo Flavio, Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades quattuor, Basileae 1531, p. 388) ritiene che a Verona Dante andasse, non per cercare un «ostello», ma per compiervi la missione diplo-
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tempo era nascosta nel fondo del suo pensiero come un’urgente possibilità, a far sì che quello fosse un influsso e agisse e determinasse, se fu esso a determinarle, conseguenze filoimperiali. Allo stesso modo, una svolta di tale complessità, non solo politica in senso stretto ma concettuale in senso largo, non potrebbe essere spiegata né con la crisi di determinati rapporti politici, né con la prospettiva di un lungo e forse definitivo esilio. Ma c’è di più. È notevole, e con questo si torna sulla questione del volgare e sulla diversa valutazione datane nel primo trattato del Convivio e nel primo libro del De vulgari eloquentia, che fra le ragioni che la provocarono e i giudizi che la documentano, non si sia pensato alla svolta che, per quanto riguarda quello dato sul volgare del sì, si determinò fra l’impostazione, fondata sull’affettività, del primo trattato del Convivio e la sprezzante condanna del suo stato di decadenza eseguita nel primo libro del trattato latino. Eppure, a tutti avrebbe dovuto essere evidente che quella così negativa valutazione aveva alla sua radice ragioni, non solo linguistiche, ma anche politiche, che la sua nascita era stata determinata dalla presa d’atto di quel che sul piano politico importava e significava una così grande, e sempre deteriore, varietà di accenti linguistici. Sulla natura dell’elogio rivolto a Federico II e a Manfredi, e, per conseguenza, sulla «disposizione» filoghibellina, che conteneva in sé, si discuterà, per quanto concerne il De vulgari eloquentia e la questione della lingua, al momento opportuno: anche se fin da ora deve dirsi che lo spunto politico e filoimperiale che poteva notarvisi non ebbe apprezzabili sviluppi nel resto dell’opera e, in sostanza, si spense prima di aver raggiunta la sua propria pienezza. Il discorso filoimperiale sarebbe proseguito nel quarto trattato del Convivio e nel secondo canto dell’Inferno. Nel De vulgari eloquentia non avrebbe lasciato altra traccia di sé. Resta comunque che, per quanto riguarda la composizione del trattato latino, e della disposizione filoimperiale che cominciava a rendervisi visibile, a spiegazione dell’origine di quest’ultima deve in primo luogo addursi la presa d’atto di una decadenza che, se era linguistica, non poteva non essere anche politica. Con la forte implicazione politica che conteneva in sé, il violento attacco rivolto ai volgari d’Italia, per un verso segnava netta la distanza che, pur senza dichiararla, Dante aveva stabilita con il primo trattato del Convivio, e, per un altro, anticipava, come si è detto, i capitoli «imperiali» del quarto e il secondo canto dell’Inferno; due testi, matica che gli era stata affidata, salvo poi a non saper spiegare perché nella città scaligera restasse dieci mesi (p. 157).
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questi, nei quali, senza che la questione della lingua vi fosse presente, l’accento filoimperiale non avrebbe, questa volta, potuto essere più netto, con il rilievo eccezionale dato, nel secondo, a Virgilio, simbolo per eccellenza dell’Impero.31 La selva linguistica era diventata, nell’Inferno, una selva morale e politica, dalla quale solo per la via imperiale segnata dall’autore dell’Eneide sarebbe stato possibile uscire. Ma queste sono cose più che note, e altrettanto indiscutibili. Importante era seguire il percorso, tortuoso e faticoso, che l’idea imperiale dovette compiere per arrivare alla sua prima, sicura formulazione.32 La quale, quando infine fu raggiunta, implicitamente, in riferimento al volgare, segnò la crisi del tema sentimentale, che aveva costituito il Grundakkord del primo trattato del Convivio.
31. Sulla figura di Virgilio in Dante, mi sembra giusto ricordare, fra le tante, le notevoli osservazioni di D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, nuova ed. a cura di G. Pasquali, I, Firenze 1955, pp. 239 ss. Sul significato che deve annettersi al suo essere il simbolo dell’Impero, cfr. pp. 281-283. Le ricordo, non solo per l’intelligenza e la finezza che le distingue, ma anche perché, fra le tante belle cose che possono impararsi dagli autori della letteratura più recente, non conterei la tendenza, che si nota in alcuni di essi, a non far conto adeguato di quel che fu insegnato dai grandi dantisti e, in genere, dai grandi studiosi del passato. 32. Per l’interpretazione di questi testi, rinvio al mio Dante. L’Imperatore e Aristotele, Roma 2002, pp. 253-290.
2. «Nobilior est vulgaris»
Se, dopo aver percorso il primo trattato del Convivio, e aver messo da parte, come ora non pertinente, il suo momento sentimentale, si affronta la lettura del De vulgari eloquentia, si è colpiti da quello che, per certi rispetti, è sul serio un capovolgimento. Nel primo trattato del Convivio, i pregi attribuiti al volgare non avevano escluso che la maggiore nobiltà fosse stata attribuita al latino perché, essendo, non una lingua viva, ma una grammatica, non pativa le conseguenze della varietà e dei mutamenti che colpivano la prima nelle sue «diversae prolationes». Nel primo libro del De vulgari, la situazione era capovolta. Proprio perché era una lingua viva, e non una grammatica, il primato spettava, non al latino, ma al volgare: «harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat» (I i 4). La dichiarazione era tale da non ammettere, in apparenza, né contraddizione né replica. Ma, appunto, in apparenza, e fino a un certo punto. Per un verso, l’affermazione di Dante relativa all’esser stato, il volgare, la prima lingua usata dal genere umano, doveva, nei termini stessi della sua impostazione complessiva, essere presa con cautela. Prima del volgare c’era stata, infatti, la lingua che Dio in persona aveva insegnata a Adamo: una lingua che non pativa le conseguenze di nessun possibile confronto perché, essendo la prima in assoluto, era stata anche l’unica e, in quanto tale, non aveva avuto fuori di sé niente con cui potesse misurarsi. Per humanum genus dovrà quindi intendersi, in quel luogo, non l’umanità edenica, ossia Adamo e Eva nel brevissimo periodo trascorso nel Paradiso Terrestre, ma quella bensì che, generata da loro dopo che ne erano stati espulsi, aveva poi subìto, nei
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modi che si vedranno e con le differenze che ne erano derivate, il destino della varia frammentazione dell’unità linguistica che, fino al momento in cui ebbe luogo l’empia avventura della Torre, le era stata conservata. Per un altro verso, anche l’affermazione della superiore nobiltà del volgare sul latino era soggetta a qualche limitazione. Non a un ribaltamento che di nuovo collocasse il latino sul piedistallo più alto. Ma a una limitazione sì. Il suo essere una grammatica, ossia una lingua artificiale, aveva, su quella naturale e sulle sue incessanti trasformazioni, il sicuro vantaggio che già era stato messo in rilievo nel primo trattato del Convivio: quello, appunto, di non poterne subire, insomma di essere stabile e, in questo senso, massimamente affidabile. Dante lo riconosceva apertamente, con parole in ogni senso congruenti, per questo riguardo, con quelle usate nel Convivio. A I ix 10-11, dopo aver ribadito che «per eandem gentem sermo variatur […] successive per tempora, nec stare ullo modo potest», ed essersela presa con quanti, per esser di poco superiori ai bruti, non riuscivano a comprendere che questa era la sua necessità, proprio di qui ricavava la conseguenza da lui giudicata ovvia; e cioè che, al pari dei mores e degli habitus, «qui nec natura nec consortio confirmantur, sed humanis beneplacitis localique congruitate nascuntur» (ix 10), anche il linguaggio, che non nasceva quindi né dalla natura né da un accordo, obbediva alla regola della sua variabilità; che era tuttavia, anch’essa, una condizione naturale. In quanto era una regola e una condizione, era sia immutabile in sé stessa, sia costitutiva, attraverso gli humana beneplacita, del principio inalterabile delle variazioni e delle differenze. Si dava qui una distinzione che occorre cogliere perché non si determinino, al riguardo, spiacevoli equivoci. Il linguaggio non nasceva dalla natura se con questo termine si fosse intesa una causa unitaria e unica dalla quale a scaturire non potesse essere se non quel determinato effetto. E neppure nasceva da una convenzione resa ferma da un accordo (consortio) intervenuto fra gli uomini perché alle cose fossero dati i nomi ed essi, gli uomini, potessero reciprocamente intendersi: per quella via a venire al mondo era infatti, come si vide, la grammatica, non la lingua viva. Quando Dante diceva che le sue trasformazioni avvenivano nel quadro della natura e della storia, e che erano gli humana beneplacita, ossia (si potrebbe intendere) le fantasie e i gusti degli uomini, a determinarne i non prevedibili sviluppi, la natura che chiamava in gioco non era la stessa che agiva attraverso l’unica causa che produce l’immancabile, unico effetto. Non era una causa, ma una molteplicità di cause che, variamente intrecciandosi, agivano nella produzione dei loro
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diversi effetti. Era, in altri termini, la causa che si vede all’opera nella continua variazione che le cose del linguaggio subiscono nel loro corso storico; e che, come si è detto, poiché non era una causa unica, ma un insieme di cause operanti nel tempo, veniva, in sostanza, a coincidere con le variazioni stesse che accadono nel linguaggio che, a sua volta, le subisce e si modifica. Potrà sembrare strano che si dica così, e che la causa che produce le variazioni che intervengono nelle lingue sia in sostanza identificata con i suoi effetti, ciascuno dei quali è anche causa. Ma la cosa non è affatto strana se si considera che la ricerca che si facesse della causa che produce la prima variazione non potrebbe conseguire il suo risultato se non indicando il principio, in sé non variabile, della variabilità delle cose; le quali, quindi, poiché sono variabili, producono variazioni che, oltre a esserne, nello stesso tempo, anche l’effetto, non sono tali da poter essere la causa della quale ci si era messi in cerca. L’impressione di astrattezza, in effetti, si dissolve se, invece che alla forma, si guarda alla sostanza. Due idee della natura erano presenti in questo punto. Due idee che non erano affatto in contrasto l’una con l’altra, e entrambe avevano la loro plausibilità nel quadro della filosofia che Dante condivideva. Due idee che, proprio perciò, conviene tenere distinte, senza pretendere di dedurle l’una dall’altra, e senza, soprattutto, cedere alla tentazione di ridurre quella che, in queste linee, egli metteva in atto, alla misura dell’altra che, per esempio, può ricavarsi da un passo, più volte citato dai commentatori, del Policraticus di Giovanni di Salisbury. «Quae natura sunt, non modo eadem sed vigent apud omnes; quae opinionis arbitrium sequuntur, incerta sunt, et, sicut ad placitum sunt, ita et ad placitum evanescunt».1 Al concetto che queste linee esponevano può presumersi che niente Dante avrebbe avuto da obiettare, salvo che non ne avrebbe, forse, considerata pertinente la citazione in riferimento all’idea che egli qui esponeva delle variazioni che il linguaggio è destinato a subire nel corso della storia. La differenza stava infatti in ciò, che «natura», e non vane opinioni, erano per Dante anche gli humana beneplacita2 che, 1. Johannes Sal., Policraticus, IV 5,1 (ed. Webb, I, Oxford 1913, p. 250). 2. Mi sembra che la migliore definizione degli humana beneplacita sia stata fornita da B. Nardi, Il linguaggio [1921], in Id., Dante e la cultura medievale, Bari 1983, p. 187, il quale ebbe perfettamente ragione nel chiarire che «il beneplacito e l’arbitrio […] non significano altro, se non che l’uomo stesso è artefice del suo linguaggio, ma per impulso della sua natura stessa di animale fornito di ragione e di senso». Aggiungerei che nel riferire l’ad placitum dantesco all’interpretazione boeziana («nomen igitur est vox significativa secundum placitum») di de inter. I ii 16 b, con l’eccezione di Inglese, p. 50, che rinvia a Thomae
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accadendo, si intrecciavano secondo una modalità causale nella quale un occhio esercitato avrebbe subito riconosciuto sia la causa sia la natura, da intendersi tuttavia nella sua diversità da quella che si esprimeva nell’assoluta uniformità del suo procedere causale. La metafora naturalistica alla quale, com’e noto, Dante avrebbe fatto ricorso nel ventiseiesimo del Paradiso per dire che «l’uso d’i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e l’altra vene» (vv. 137-138), è appunto una metafora naturalistica; che deve essere tuttavia interpretata, non nel senso del naturalismo causale, ma in quello bensì dell’inevitabilità, questa sì immutabile e non sottoposta a eccezioni, che le variazioni si producano l’una, sempre, diversa dall’altra. Insomma, anche nelle variazioni non prevedibili che le lingue subivano dagli humana beneplacita si dava una causa e, con questa, una ratio diversa da quella che non produce se non uniformità e immutabilità: le due qualità che, non nei linguaggi storici potevano contemplarsi, ma, se mai, nell’artificiale grammatica. Fuori discussione deve dunque restare, dopo questo chiarimento, che si davano, per Dante, situazioni immobili, situazioni costanti e situazioni soggette, non solo a variazione, ma a continua variazione; e che proprio dalla considerazione di queste ultime e dalle complicazioni che ne derivavano al genere umano, aveva preso il suo avvio, nella mente di alcuni che poi la inventarono, l’idea della grammatica, «que nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversis temporibus atque locis» (I ix 11). Un’idea che non si interpreterebbe, per altro, nel giusto senso, se si pretendesse che la inalterabilità della grammatica fosse lo specchio di quella della natura, e che il suo essere artificiale fosse stato ottenuto orienSumma theol. II 2, q. 50, a. 1, e non nomina Boezio, i principali commentatori non rilevano che quella interpretazione, non solo non fornisce elementi utili all’interpretazione del termine, ma meno che mai dà conto del testo aristotelico che, in quel punto, non accenna a niente che abbia a che fare con il placitum, a meno che, con questo termine, non s’intenda il κατὰ συνθήκην di 16 a 26-27, che, per altro, meglio che con «arbitrio», si traduce con «convenzione» (ossia con un «arbitrio regolato da leggi convenute», che, di per sé, è una sorta di ossimoro). L’interpretazione di placitum come «arbitrio», «libertà» e simili, è, d’altra parte, diffusissima, dipendendo, come si è detto, da Boezio: si veda, per es., Aegidi Romani de regimine principum, III ii 24 (ed. Courdaveaux, Paris 1857, p. 518) e l’Opus maius, cap. xxviii, di Ruggero Bacone (ed. Bridges, Frankfurt a.M. 1964, p. 102). Se a quanto precede si tiene fermo, allora è evidente che l’ad libitum di De vulg. el. II ix 5, non ha, a differenza di quel che ritiene Rosier-Catach, p. 261, lo stesso significato di ad placitum, se lo si prenda in quello che gli è stato attribuito qui su. In II ix 5 ad libitum riguarda la libertà che al poeta è data di, «in qualibet stantia, rithimos innovare et eosdem reiterare».
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tandolo in modo che a riflettervisi fosse stata la natura stessa con quel suo inalterabile carattere. Si avrebbe torto perché, al contrario, la grammatica, ossia, il latino, era una lingua, non naturale ma artificiale, non dedotta da una causa, ma costruita e «inventata» da chi si era persuaso che al naturale arbitrio umano, alla sua naturale, e perciò irreparabile, regola consistente nel produrre cose nuove e inaspettate, convenisse porre un freno, e a quella contrapporne, per convenzione, un’altra che a sé stessa imponesse stabilità e fermezza: e, con queste, la possibilità che uomini parlanti lingue diverse s’intendessero fra loro: «adinvenerunt ergo illam ne, propter variationem sermonis arbitrio singularium fluitantis, vel nullo modo vel saltim imperfecte antiquorum actingeremus autoritates et gesta, sive illorum quos a nobis locorum diversitas facit esse diversos» (I ix 11). Alla radice della grammatica agiva perciò una regola, convenzionale bensì, ma di valore universale,3 ottenuta attraverso il consenso di molte genti concordi nel vo3. Parlando di una regola di «valore universale», non intendo se non quella stabilita dalla convenzione con la quale, «de communi consensu», si poneva l’esigenza di una lingua che, costruita artificialmente, valesse per tutti come strumento di reciproca comprensione. Quanto qui osservato non ha quindi niente a che vedere, e sarebbe in errore chi viceversa pensasse a una coincidenza di opinioni, con quanto notato dal Marigo, p. 72 (e cfr. Introduzione, p. lxi n. 2) nel commento delle linee immediatamente precedenti quelle citate nel testo («hinc moti sunt inventores gramatice facultatis, que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversis temporibus atque locis»). Il Marigo intese distinguere la gramatice facultas, che sarebbe, a suo giudizio, un «organismo astratto di regole colle quali ogni lingua letteraria è ridotta a sistematica dottrina», e la grammatica che ha «regole particolari di vocaboli, forme e costrutti»; e ha altresì aggiunto che alla prima appartengono i filosofi, inventores gramatice facultatis, alla seconda i gramatice positores, ossia i compilatori di grammatiche particolari. La distinzione fondamentale restava però, a suo parere, fra la grammatica e le lingue babeliche con le loro «dannose conseguenze»; fra la grammatica che rappresentava il tentativo che, anche dopo il peccato, l’uomo aveva compiuto di restituire a sé stesso, con le lingue letterarie, l’unità perduta nelle lingue babeliche. Ma, come Mengaldo, p. 79, condiviso da Fenzi, p. 65, ha ben osservato, le distinzioni del Marigo non hanno riscontro nel testo di Dante; che non intese affatto che la grammatica, e cioè il latino, dovesse sostituire la sua unità alle postbabeliche parlate volgari, delle quali, non si dimentichi, proclamava invece, almeno per quanto riguardava il volgare del sì, la più alta nobiltà. Il riconoscimento che egli faceva dell’importanza del latino concerneva, nel De vulgari, soprattutto la sua funzione sociale, il suo essere l’unico strumento che i diversamente parlanti avevano di intendersi l’uno con l’altro nella sfera soprattutto intellettuale; ed era anche, come si è visto, di impedire che momenti essenziali del pensare e dell’agire degli antichi cadessero nell’oblio. Per quante difficoltà il suo concetto, sia del volgare sia della grammatica, chiudesse in sé, era questo il suo pensiero; anche se, riguardo al primato che i loquentes del sì vantavano nei confronti degli altri volgari, e delle loro analoghe pretese, sia giusto aggiungere che, esemplificato con le
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lerla e ritenerla immutabile. Una regola in forza della quale si conduceva all’atto un’esigenza intrinseca al genere umano che, diviso da lingue diverse, proprio da questa diversità era spinto a dotarsi di uno strumento (la grammatica, appunto) che rendesse possibile la reciproca comprensione in un quadro di civile convivenza. Una regola, infine, che, se lo sguardo si fosse spinto fino a penetrarne la radice, avrebbe rivelato la presenza in essa di qualcosa di talmente intrinseco alla condizione umana da poter essere considerato alla stregua di un’autentica lex naturae, alla quale non si sarebbe, in ogni caso, potuto non dare ascolto. Certo, la lex naturae, della quale qui si parla, non ricevette mai, nel De vulgari eloquentia, una definizione che fosse conseguente al riconoscimento della sua realtà obiettiva. E non era infatti altra cosa dalla conseguenza che gli uomini traevano dalla varietà delle loro parlate umane e dal danno irrimediabile che ne proveniva al loro reciproco intendersi. Ma, nell’esser tale, non era tuttavia meno imperiosa, e necessaria nelle sue conseguenze, di una legge che, individuata nella ratio e nei suoi comandi, in Dio e nel suo volere, non avesse consentito se non l’obbedienza e la soggezione. Per questo vario intreccio di ragioni, accadeva che, destinato, nel trattato sull’eloquenza volgare, a vivere una vita marginale e minore, all’improvviso, in forza di un’esigenza che bene si definirebbe politica e giuridica, il latino tornasse a essere di colpo riconosciuto nel suo valore universale; e, si ripete, non solo in quanto lingua dei dotti, ma, per la finalità che gli era interna, in quanto lingua degli uomini, dell’humanum genus, totaliter acceptum,4 come più tardi Dante avrebbe scritto, ad altro proposito, in un capitolo delpoesie di Cino da Pistoia e dell’amicus eius, il maggior pregio del volgare del sì era da Dante ritenuto direttamente proporzionale al maggior contatto che quello aveva mantenuto, trovandovi un sostegno, con la grammatica, que communis est (I x 2). Ma su questo punto, cfr. infra, nel testo. Per tornare al Marigo, si aggiunga che la distinzione da lui proposta fra la facultas gramatice e la grammatica intesa come un idioma particolare letterariamente atteggiato, è vanificata da ciò che, se fosse una grammatica, quell’idioma particolare si caratterizzerebbe per essere incorruttibile e rimanere identico nel tempo: proprio come la facultas gramatice che, viceversa, secondo la sua esegesi, se ne distingue, e non si capisce in che cosa e perché. Sull’interpretazione proposta da M. Corti, con buone ragioni respinta anche da Fenzi, rinvio a quanto sarà detto in seguito. 4. Mon. I iv 1. Ma, come si vedrà, questo non significa che Dante abbia mai pensato che il latino fosse destinato a essere la lingua dell’Impero, come ritenne Vinay, Ricerche, p. 258. Basti, già qui, osservare che quella che all’Imperatore e ai suoi sottoposti di vario grado consentiva la comunicazione doveva essere una lingua dell’uso quotidiano, non una lingua artificiale che, se tale fosse stata, necessariamente sarebbe stata ristretta a pochi, po-
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la Monarchia. Tendenzialmente svalutato, all’inizio, a causa della sua, non naturalità, ma artificialità, proprio in ragione di quest’ultima era rivalutato e ricondotto al centro dell’attenzione: non senza, tuttavia, che, a una non distratta considerazione del testo, alcune difficoltà risaltassero con nettezza, e con nettezza s’imponessero all’attenzione. Dante non si chiedeva infatti in quale lingua si fossero espressi coloro che, per ovviare all’inconveniens provocato dalla pluralità delle parlate umane e dall’assenza di una che, comune a tutti, lo superasse nella reciproca comprensione, si erano accordati circa la necessità di dar luogo a una lingua artificiale: a una lingua, cioè, che fosse patrimonio di tutti coloro che, ignari, ciascuno, dell’altrui lingua, avessero inteso comunicare in una che fosse, o potesse essere posseduta da quanti avessero avuto interesse ad apprenderla. Per esprimere il desiderio che una lingua siffatta fosse inventata e messa a disposizione di tutti, costoro avrebbero infatti dovuto essersi previamente intesi e altresì avrebbero dovuto, nel corso della sua realizzazione, seguitare a intendersi. Per comunicarsi un’esigenza, che quanto più a tutti era comune, di altrettanto era priva dello strumento che consentisse la reciproca intesa, avrebbero dovuto condividere il possesso di una lingua che, anteriore alla fabbricazione della grammatica, avesse permesso loro di convenire sulla necessità di costruirla. Ma di questa lingua che, anteriore alla grammatica, di questa doveva pur possedere il requisito fondamentale, Dante, che non aveva colto la difficoltà intrinseca al suo argomento, non parlò mai. Non sembrò avvedersi che, per comunicare ad altri l’esigenza della grammatica, era di qualcosa di simile a una previa grammatica che si doveva disporre; ossia di una lingua che, comunque la si chiamasse, fosse tale da ricomprendere in sé, e risolvere, le differenze sussistenti fra le parlate volgari. La difficoltà era pungente, e non superabile. Chi infatti, dopo averlo individuato, avesse deciso di percorrere fino in fondo il sentiero della coerenza, non avrebbe potuto ipotizzare se non che la formulazione di quel proposito era stata resa possibile o da un miracolo come quello descritto negli Atti degli Apostoli5 o dalla presenza, all’interno dei vari gruppi linguistici, di uomini poliglotti che, parlando ciascuno anche la lingua dell’altro, fossero riusciti, con questo mezzo, a comunicarselo. Ma, assai più che di una spiegazione, questo avrebbe avuto il sapore di un espediente escogitato per uscire nendosi così in netto contrasto con l’idea secondo cui era la totalità del genere umano che entrava nell’atto intellettuale in cui l’Impero consisteva. Ma di questo più oltre. 5. Acta apost. 2, 1.
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da una difficoltà che, proprio da quello, finiva per essere ribadita nel suo aspro carattere. La questione perciò restava aperta; e tanto più in quanto non c’è, nel De vulgari, il minimo indizio che a quell’espediente Dante avesse mai rivolta la mente. Restava aperta, ed era destinata a farsi più grave se si fosse considerato che la decisione relativa ai nomi da dare alle cose implicava che, per poter essere noti a tutti nella nuova lingua, tutti dovessero essere diversi da quelli che nelle parlate storiche designavano il medesimo oggetto. Non era infatti pensabile, in linea di principio, che la grammatica fosse costruita con materiali provenienti dai preesistenti volgari; che, se fossero stati utilizzati, avrebbero sottratto alla nuova lingua il carattere della novità e, con questa, soprattutto, il suo essere super partes. Il che, per altro, e come si vedrà, era proprio il contrario di quel che Dante mostrava di intendere quando assumeva che, come lingua seconda, la grammatica, non solo veniva dopo il volgare, ma lo presupponeva come fondamento della sua propria costruzione. Implicita, in questo assunto, era una difficoltà alla quale si darà, al momento opportuno, l’adeguato rilievo. Ma gioverà, per ora, restare su quella che si può riformulare ribadendo che l’idea dell’accordo intervenuto per dotare i diversamente parlanti di una lingua (la grammatica) che a tutti fosse comune e, se non a tutti, a quanti fossero stati disposti ad apprenderla, implicava il suo dover essere preceduta da qualcosa come una pregrammatica, che, per essere costruita, avrebbe richiesto anch’essa una condizione. E quale altra se non quella costituita da poliglotti che, infelicitati dall’essere i rispettivi gruppi linguistici affetti da pervicace monoglottia, avessero posto l’esigenza di una lingua comune?6 Presentata in questi termini semplici, la questione appariva nella forma di un circolo vizioso, anzi di un duplice circolo vizioso, che non c’era modo di rompere, e che, nel caso in cui di una lingua comune, o di qualcosa che ne avesse tenuto il posto, non si fosse stati previamente in possesso, condannava al fallimento lo sforzo volto a rendere possibile la conoscenza di pensieri espressi in lingue diverse dall’unica che ciascuno possedeva e conosceva. Si aggiunga che l’esigenza di un’ecumene linguistica, sulla cui necessità multae gentes avessero convenuto, era messa in crisi, nell’atto stesso in cui era delineata, dall’avvertimento che altre grammatiche esi6. Alle questioni delineate nel testo rimase, per esempio, del tutto estraneo Egidio Romano nel De regimine principum, II ii 7, il quale, com’è noto e come dico anche qui su, restrinse ai filosofi l’idea e la realizazione di una lingua che, essendo comune a quanti professavano quella scienza, avrebbe permesso a ciascuno di comunicare agli altri i propri pensieri.
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stevano, inventate dai Greci e da altri popoli, ma non da tutti (I i 3).7 Ne conseguiva che quella costruita dai Romani con il latino unificava solo i parlanti di una determinata area geografica, e non valeva per quelli che a un’altra grammatica avevano assegnato l’analogo compito di rendere possibile la reciproca comunicazione. Anche in questo ambito, tuttavia, le difficoltà riguardavano il rapporto intrattenuto con la grammatica (per esempio il latino) da coloro che, per sé stessi, parlavano uno specifico volgare: una difficoltà pratica alla quale se ne aggiungeva un’altra, di natura teorica. Per far sì che la grammatica-latino fosse appresa da chi parlava un particolare volgare, si sarebbero dovute compilare, in ciascuna di queste lingue, tante grammatiche delle regole e tanti lessici quanti erano i volgari di coloro che dovevano apprenderla: e questa, senza dubbio, era una difficoltà, ma pratica, come si diceva, che, non importando conseguenze teoriche e, soprattutto, non dipendendendone, era tuttavia una grave difficoltà. Concernente la teoria era invece l’altra per la quale, nel momento stesso in cui il latino-grammatica era inteso come la lingua, non dell’uso, ma dello scrivere letterario, era intanto all’uso, e sia pure a un determinato uso, che 7. F. Bruni, La geografia di Dante nel ‘De vulgari eloquentia’, in De vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi, Roma 2012, p. 248, ha giudicato «inconsueto» l’interesse di Dante per il mondo di lingua greca, manifestato già in un passo della Vita nova, XXXV 3, e confermato in più luoghi del primo e del secondo trattato del Convivio (li si veda indicati in Fenzi, p. 11). Non saprei dire donde, specificamente, Dante traesse le sue informazioni sul mondo greco; e questo resta un problema, come fu già ben notato da G. Contini in «Giornale storico della letteratura italiana», 113 (1939), pp. 283-293. Ancor meno facile stabilire a quali popoli egli alludesse con i non omnes che, a differenza dei Greci e di alii, non avevano costruito grammatiche. Negli alii si sono indicati (Rajna, Schiaffini, Mengaldo) gli Arabi e gli Ebrei; ma l’inclusione di questi ultimi apparve già problematica a Marigo, p. 8, a Inglese, p. 43, e da ultimo a Tavoni, pp. 1135-1136, a causa del suo essere, la loro, lingua di grazia originaria. Così formulata l’obiezione è, senza dubbio, da prendere in seria considerazione. Ma potrebbe tuttavia osservarsi che, sebbene avesse conservato il carattere del sacratum ydioma, è pur vero che, dopo la caduta, l’ebraico era parlato nel mondo umano, e, poiché era entrato ed entrava in contatto con altre favelle, a chi se ne serviva non poteva essere estraneo il problema che il ricorso a una grammatica contribuiva a risolvere. Giova anche non dimenticare che, non solo R. Bacon, Opus minus, in Opus tertium, Opus minus, Compendium philosophiae, a cura di J.S. Brewer, London 1859, p. 33, aveva parlato di una grammatica degli Ebrei e degli Arabi, oltre che dei Greci, ma anche Brunetto Latini, nel Tesoro versificato (A. D’Ancona, Il “Tesoro” di Brunetto Latini versificato, in «Memorie della R. Accademia dei Lincei. Cl. di Scienze morali, storiche e filologiche», ser. IV, 4 [1888], parte I, p. 126), aveva incluso gli Ebrei fra gli autori di una grammatica (di questo testo, cfr. infra, n. 46, la citazione completa). Resta la questione dei non omnes; ma, nei termini in cui si presenta, è francamente insolubile.
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lo si riduceva quando doveva assumersi che con quella lingua, che entrava perciò nella quotidiana comunicazione umana, si trasmettevano pensieri che, sebbene con esclusive finalità scientifiche o letterarie, davano luogo a una societas, non artificiale, ma umana. L’artificio che aveva presieduto alla formazione della grammatica entrava, attraverso la comunicazione che rendeva possibile, nella storia; e lì era destinato a specificarsi secondo il costume intellettuale di chi disponeva del suo prodotto: come forse a Dante sarà pur accaduto di notare quando, leggendo il latino dei suoi filosofi, fra questo e quello avrà notato le differenze che si nascondevano sotto il manto dell’uniformità. Si dirà che queste sono pedanterie, o, peggio, false sottigliezze, dettate da un’idea distorta dell’esegesi. Sia pure. Ma, a parte che, come è stato sagacemente osservato,8 con qualche sacrificio della coerenza Dante non evitò di ammettere che anche nella grammatica potesse intervenire qualche variazione (lo fece intendere, per altro, nel quarto trattato del Convivio,9 in un passo di non facile interpretazione,10 non nel De vulgari eloquentia), non si vede perché alla questione non si sarebbe dovuto dare rilievo. Non risulta infatti che, da parte di chi, nell’età di Dante, e prima di questa, aveva teorizzato, e teorizzava, il latino come una grammatica immutabile,11 questa difficoltà fosse stata individuata e discussa (e così nemmeno le altre, che sono state illustrate qui su). Non fu notata, per esempio, da Egidio Romano che, in un passo, spesso ricordato e citato, del de regimine principum, II 27, aveva scritto che «videntes […] philosophi nullum idioma vulgare esse completum et perfectum, per quod perfecte exprimere possent naturam rerum et mores hominum et cursus astrorum et alia de quibus disputare volebant», quelli stessi «invenerunt sibi quasi proprium idioma, quod dicitur latinum»;12 e non solo ne ricondusse la nascita nell’ambito dei filosofi, ma non mise in rilievo, e in sostanza ignorò, il momento in cui si erano riuniti per decretarne la nascita. Non fu notata da Brunetto Latini nel luogo, già ricordato, della parafrasi 8. P.V. Mengaldo, Gramatica, ED, III, 262 a. 9. Conv. IV vi 3. 10. Sul significato di «lasciato dall’uso in grammatica» cfr. Mengaldo, Grammatica, p. 262, e G. Inglese, nel suo commento al Convivio, Milano 1993, p. 238 n. 3. 11. E. Paratore, Il latino di Dante [1965], in Id., Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1968, p. 145, ha ricondotto la posizione di Dante alle «tendenze dell’ars grammatica dei secoli della decadenza, da Donato a Prisciano». E cfr. H.J. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1958, pp. 11-14. 12. Il passo è stato addotto da Mengaldo, p. 80, e anche da Tavoni, p. 1229.
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versificata in volgare del Tresor, in un passo in cui si parla della grammatica come dello strumento di cui i «Latini antichi e saggi / per rechare inn uno diversi linguaggi / ché s’intendesse insieme la gente, / trovaro la Gramatica comunemente»13 (l’idea del «rechare inn uno diversi linguaggi», e l’avverbio indicante una comunità di intenti, autorizzino a includere questo passo tra le fonti di Dante). È tuttavia nell’idea dell’invenzione e della costruzione di questa grammatica che, come si è detto qui su, la difficoltà si presentava nel modo più acuto. Fin dalla prima volta che ebbe a menzionarne il concetto, Dante aveva definito la grammatica come una locutio secundaria; e, nell’indicarne la genesi e, quindi, i presupposti, si era bensì espresso in modo così stringato che non aveva evitato l’oscurità, ma non al punto che a quel che aveva in mente non fosse possibile accedere. Aveva infatti scritto: «est et inde alia locutio secundaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt» (I i 3),14 e queste, senza dubbio, erano parole chiare. Poiché nelle linee precedenti aveva parlato della lingua naturale che gli uomini apprendono dalle labbra delle nutrici, dall’avverbio inde15 che compare nelle linee citate, e che indica una provenienza, si poteva dedurre con ragionevole certezza che, per lui, era il volgare a costituire il fondamento della grammatica, che era lavorando su quello che i suoi inventores l’avevano messa insieme e che questo era il senso per il quale la si definiva secundaria (il che, come si tornerà a vedere, non andava senza difficoltà). Per Dante, quindi, prima veniva il volgare, poi il latino che, come lingua artificiale, era stata creato per la letteratura e, comunque, per le attività intellettuali. La grammatica-latino non era perciò la lingua che, per esempio, ai suoi tempi Virgilio aveva parlata con i suoi corregionari, ai quali infatti, come risulta da Inf. XXVII 19-21, si rivolgeva in lombardo.16 Ma era bensì quella che aveva usata per scrivere 13. D’Ancona, Il “Tesoro” di Brunetto Latini versificato, p. 126. Su questo passo, cfr. anche S. Rizzo, Teorie medievali, in Ead., Ricerche sul latino umanistico, I, Roma 2002, pp. 21 e 37. 14. Per le fonti, cfr. da ultimo, Fenzi, pp. 10-11. 15. Soltanto G. Inglese, che io sappia, ha dato il giusto rilievo a questo avverbio nella sua edizione e versione del De vulgari (L’eloquenza in volgare, introduzione, traduzione e note a cura di Id., Milano 1998, p. 43), rendendolo con «nato dopo il primo e sul fondamento di quello». Nemmeno il Trissino, che lo rendeva con «anchora», ne colse a pieno il senso: si veda la sua versione riprodotta nell’edizione Fenzi del De vulgari, p. 468. 16. Lombardo, e non italiano, come, fra gli altri, avevano inteso B. Terracini, Il canto XXVII dell’Inferno, in Letture dantesche, a cura di G. Getto, I, Inferno, Firenze 1955, pp. 522-23, e A. Chiari, Letture dantesche, Firenze 1939, p. 46: ma cfr. la discussione che ne
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l’Eneide. Su questo non sembra lecito nutrire dubbi: riferita a locutio, l’aggettivo secundaria indicava una provenienza, rinviava a un presupposto, e, chiudendolo in un ambito definito, delimitava quindi in modo netto il concetto intrinseco al termine inventio, o piuttosto inventores, che s’incontra in questo passo. Se, in quanto soggetti di un’inventio, gli inventores non potevano prescindere da qualcosa che preesisteva al loro atto, che ne era perciò dipendente, la prima conseguenza era che l’impresa in cui erano impegnati non aveva niente di creativo. Conforme all’insegnamento deducibile dal ciceroniano De inventione, dalla Rhetorica ad Herennium, e di lì passato alle artes dictaminis medievali, si risolveva nel ricavare da una materia data un determinato argomento da elaborare in un’opera scientifica o letteraria. In questo senso, perché molteplici ne sono i significati,17 la più ragionevole spiegazione è che, in questo passo, invenire valesse lo stesso del provenzale trobar, e gli inventores non fossero se non trovatori, la cui originalità consisteva, non nel creare la materia nella quale essi trovavano il loro argomento e da cui lo traevano alla luce, ma nell’elaborare in un certo modo, e secondo una determinata idea, quel che vi stesse nascosto. Di qui, non solo il nesso, ovvio per un verso, e pur sempre, tuttavia, meritevole di essere dichiarato, che in questa visione stringe insieme l’inventore e il trovatore, ma, ulteriormente, l’identità dei due significati. Fin qui, dunque, tutto fila liscio. Come da più parti è stato messo in chiaro,18 sebbene artificiale, la grammatica era, per Dante, una lingua compiuta, una lingua vera, e non, come altri suppose,19 le sue strutture formali, i suoi princìpi, i modi significandi corrispondenti ai modi intelligendi et essendi, nei quali Boezio di Dacia e i logici modisti avevano individuato la parte immutabile di ogni lingua. Senonché, nel caso in questione, l’argumentum, che il gramatice inventor ricercava e trovava non era la materia in cui stesse, per dir così, nascosta l’opera che intendeva ricavarne dandole forma. Era, invece, una lingua dell’uso, diretta, a sostifece Paratore, Tradizione e struttura in Dante, p. 148 n. 25. Al riguardo, aveva visto giusto, e con nettezza, A. Viscardi, La favella di Cacciaguida e la nozione dantesca del latino, in «Cultura neolatina», 2 (1942), pp. 312-314. 17. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, pp. 80-81. 18. Cfr., per esempio, R. Imbach, I. Rosier-Catach, De l’un au multiple, du multiple à l’un. Un clef d’interpretation pour le “De vulgari eloquentia”, in «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge», 117 (2005), pp. 509-529. 19. Cfr., per esempio, M. Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1981, pp. 38-39. Ma cfr. infra.
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tuire, in ambiti specifici, la molteplicità dei volgari, e a vincere la barriera che li rendeva l’un l’altro incomprensibili. E qui stava la prima difficoltà che l’idea della grammatica recava con sé. La grammatica richiedeva di essere «inventata». Ma, a differenza di quel che Dante mostrava di credere (I x 1), per mettere al mondo quella che, per quanto artificialmente costruita, doveva poi, a lavoro concluso, essere una lingua, con i suoi vocaboli, i suoi costrutti, le sue articolazioni, e le sue regole, non poteva pretendersi di poterla ricavare, con metodo selettivo, dai volgari storici che l’avevano preceduta nel tempo. La molteplicità dei volgari e la loro reciproca estraneità facevano, infatti, sì che nessuno di essi potesse, né in tutto né in parte, fungere da fondamento della nuova lingua; che, se si fosse mostrata dipendente da uno di essi, avrebbe perduta la sua ulteriorità e, con questa, la sua funzione di universale strumento comunicativo. Non era infatti soltanto nell’area linguistica di un determinato volgare che la grammatica doveva svolgere la sua funzione; che era, al contrario, di connettere aree diverse e diversi volgari, consentendo fra essi una comunicazione che sarebbe stata altrimenti, o impossibile o ristretta a quanti, padroni del proprio, si fossero trovati, per virtù propria, a esserlo anche degli altri. Questa era la prima difficoltà. Ma la seconda non era meno pungente. Per un verso, definendo la grammatica una lingua secundaria rispetto a quella a cui riservava l’aggettivo vera, Dante lasciava intendere che la sua era una seconda nascita, che necessariamente, per conseguenza, presupponeva qualcosa da cui, non si sa come, doveva essere ricavata.20 E, per un verso, φύσει, per dirla alla maniera di Aristotele, era così: la grammatica-latino, che appariva per seconda sulla scena del mondo, presupponeva i volgari dai quali doveva, per dir così, estrarre sé stessa. Ma, λόγῳ, le cose andavano necessariamente in senso inverso. Era infatti, come si è detto, il principio informatore della lingua artificiale, erano l’idea e il criterio che presiedevano alla sua formazione, era 20. Mi pare che a questo si fermasse C. Grayson, “Nobilior est vulgaris”. Latino e volgare nel pensiero di Dante [1965], in Id., Cinque saggi su Dante, Bologna 1972, p. 15: «la grammatica fu creata da inventori non specificati che sceglievano in qualche modo da un fondo non specificato» senza avvedersi che era a lui che quell’espressione avrebbe dovuto riuscire impensabile. A quale «fondo», specificato o no, potrebbe mai attingere una lingua che si vuole artificialmente costruita? Che poi, come proprio la presunta derivazione del sì italiano dal sic latino riveli che in Dante, c’era, al riguardo, incertezza, non è una buona ragione per raddoppiarla aggiungendole la nostra.
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questo che doveva precederne la nascita e presupporla già formata, come un’autentica lingua, nella testa dei suoi «fabbricatori». Potrà sembrare paradossale, eppure è così (e così avrebbe dovuto essere se sul nesso aristotelico della potenza e dell’atto, della materia e della forma, si fosse ragionato in modo conforme a ciò che la sua logica richiedeva). Questa logica imponeva infatti di pensare che non erano i preesistenti volgari a rendere possibile l’atto che formava la grammatica come una nuova lingua: come se in quelli essa stesse in potenza e questa, la potenza, costituisse l’atto del suo passare all’atto! Era, al contrario, il suo atto a far sì che ai preesistenti volgari essa, eventualmente e in qualche caso, si rivolgesse come una lingua già formata, per trarne, se necessario, qualche elemento. Di qui, dalla mancata rigorizzazione di questo essenziale passaggio, le incertezze o, se si preferisce, le ambiguità che vi si colgono. Nella testa di coloro che, Dante compreso, in questo modo elaboravano la questione della grammatica, φύσις e λόγος stavano infatti in un rapporto privo di interna razionalità, del quale, non riuscendosi a individuare né il verso né il criterio, sarebbe stato impossibile decidere se fosse una lingua già, nella sostanza, conseguita in forza dell’artificio che l’aveva messa al mondo, quella che si rivolgeva ai volgari per trarne qualche elemento, o fosse questo a fornirle quelli essenziali alla sua formazione: tanto che sarebbe assurdo se ora i critici e gli interpreti si ponessero essi pure all’interno di un siffatto rapporto e pensassero di dover scegliere o l’uno o l’altro dei suoi due corni. È perfettamente vero che la grammatica era per Dante una lingua secundaria, ed errerebbe chi lo negasse. Ma altrettanto vero era che, nell’intrinseco e necessariamente, egli ragionava in modo da presupporla già formata nella testa di coloro che, a suo giudizio, l’avevano «fabbricata», in questa vicenda intellettuale essendo inevitabile che fosse all’opera l’inconsapevole istanza platonica che si nasconde, del resto, anche nella tesi relativa alla potenza e all’atto, ossia alla precedenza, λόγῳ, di questo rispetto a quella. È, perciò, a questo passaggio logico che, per comprendere la difficoltà in cui, con tanti altri, Dante incorreva, occorre rivolgere lo sguardo. Il che, sia detto ancora una volta, non importava che la grammatica consistesse nei modi significandi, di cui parlavano i logici modisti. Significava bensì che, intesa come la lingua che era, era essa che, in idea, precedeva la sua attuazione storica: veniva prima e, in questo stesso atto, veniva dopo. A un’ultima considerazione può darsi spazio. Il pesante intellettualismo che si rivela alla radice dell’idea della grammatica è, e anche non è, della stessa natura che, come si vedrà, è all’opera nell’idea del volgare illustre. È
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della stessa natura per due motivi: sia perché la pantera,21 che ne costituiva la metafora, era in sè stessa il simbolo della sintesi di quanto di meglio si desse nelle parlate italiane e dell’esclusione, da esse, del cattivo, sia perché, non diversamente, in questo, da quel che accadeva nella costruzione della grammatica, anche la ricerca che se ne faceva obbediva a una istanza di purificazione e di innalzamento della lingua. Non è, tuttavia, della stessa natura perché la grammatica è per intero una costruzione artificiale; e tanto meno risulta che lo sia se, con maggior rigore, si considera che quella che conduce alla scoperta del volgare illustre è solo per metafora una ricomposizione delle parti buone e un’esclusione delle cattive. La sua scoperta è infatti il frutto di un’operazione intellettuale, non di una ricomposizione in unità di parti scisse; e di un’operazione, per giunta, che, essendo determinata dalla struttura del genere e dell’ordine in esso tenuto dalle parti che lo costituiscono, non ha niente, proprio niente, a che vedere con quel che può intendersi per un’operazione di caccia e per il suo procedimento, necessariamente empirico e induttivo. Ma, ribadito fin dall’inizio, e con la massima chiarezza, che il volgare illustre non è una grammatica, e che, essendo la stessa cosa del latino, la grammatica non può essere un volgare, sia pure illustre, è tuttavia innegabile che qualcosa di comune sia rinvenibile nell’idea dell’uno e dell’altro: vi si trovano infatti la purezza e l’elevatezza che, ciascuno nel suo diverso ambito, entrambi sono chiamati a realizzare, e realizzano. Il che non può far dimenticare la differenza che, per il resto, li rende inconcialibili. Fermo, infatti, deve restare che mentre, con le difficoltà che si sono messe in luce, la grammatica-latino era, a giudizio di Dante, il risultato di un’inventio, e aveva perciò natura artificiale, il volgare illustre era, per contro, una formazione insieme storica e naturale. Era una formazione storica perché era all’interno del linguaggio e delle sue modificazioni che il volgare illustre occupava il posto che ne definiva la natura, e che sempre era quello per modificazioni che, nell’insieme, la determinata lingua di cui era parte, avesse 21. Per la simbologia della pantera, cfr. i testi a cui rinvia Rosier-Catach, p. 308. È probabile che su Dante abbia agito quel che aveva letto nel Tresor I 193, 1 (ed. Beltrami, Squillacioti, Torri e Vatteroni, Torino 2007, p. 320), anche se, a rigore, il comportamento della pantera, descritto da ser Brunetto, è diverso da quello della pantera dantesca. La pantera di cui si dice nel Tresor si ritira nella sua tana dopo aver mangiato, e lì sta per tre giorni: dopo di che ne esce, si rende in tutto e per tutto visibile, ed è il profumo che ne emana a far sì che gli altri animali «s’en vont devant li». La pantera di Dante, al contrario sta nascosta in modo tale che unico indizio della sua presenza è il profumo; tanto che, per stanarla, occorre un’impegnativa venatio. Sono minuzie. Ma forse non è inutile recarle alla luce, e notarle.
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subite e subisse. Era una realtà naturale perché il posto che occupava in una lingua era identificato nella e dalla physis del genere, del quale, al di qua di ogni trasformazione che la storia avesse imposta e imponesse, costituiva il punto culminante e di più alto pregio, la melior pars. Per ragioni che, dopo averle constatate, Dante, per altro, non adduceva, questa sua parte si era resa non visibile, si era nascosta in un luogo così inaccessibile, che, per raggiungerla e trarla alla luce, era richiesta una particolare procedura argomentativa esercitata, come si è detto sulla, e guidata dall’interna configurazione del genere. Insomma, e per anticipare quel che in seguito sarà meglio spiegato, in tanto il volgare illustre richiedeva, secondo Dante, di essere ricercato e tratto alla luce, in quanto, per ragioni, si ripete, non rese esplicite, era accaduto e accadeva che, pur dando segni della sua presenza nella realtà, piuttosto che rivelarlo, questa lo avesse nascosto tenendolo come prigioniero. Si vedrà in seguito se in questo modo di presentare la questione, al filo dell’analisi ontologica condotta sulla struttura del genere Dante ne avesse intrecciato uno politico, e un’idea, del resto non dichiarata, di qualcosa come una decadenza si fosse introdotta nella sua rielaborazione del concetto aristotelico del genere. Resta per ora fuori di ogni possibile discussione che, dal nascondiglio che lo sottraeva agli sguardi del venator, il volgare illustre dava un segnale inequivocabile, non solo della sua realtà, ma anche della sua perfezione. Il che, essendo innegabile, spiega, fra le altre cose, il grave equivoco in cui si lasciò irretire chi ritenne che intrinseco e immanente al volgare illustre fosse «un moto ascensionale» tendente a «realizzare una perfezione sempre maggiore, e però, se non in atto, più nobile in potenza di ogni lingua grammaticale».22 22. Marigo, p. 73. Per altri aspetti dell’interpretazione complessiva del volgare illustre fornita da questo studioso, si veda più oltre. Ma fin d’ora si noti l’equivoco in cui egli cadde quando ritenne di poter interpretare il concetto di «genere» messo in campo in I xvi 2-4 in termini dinamici, ossia come un processo di progressiva acquisizione del valore: come se la potenza fosse, in atto, il suo continuo andar oltre sé stessa attualizzandosi. È anche vero che, forse avvertendo di essersi messo sulla via di un generoso travisamento modernizzante del testo dantesco, Marigo, Introduzione, p. lxiv, si arrestò per osservare che «una tale realtà in continuo divenire non può essere concepita da un aristotelico e scolastico, com’era Dante, se non quale potenzialità che si attua passando da materia a forma sempre più perfetta». E non si accorse che, attribuendo a «un aristotelico e scolastico, qual’era Dante», un tale concetto dell’atto che ogni suo conseguimento ne richiedeva uno ulteriore, egli si faceva autore di un’interpretazione del nesso «potenza/atto» che, in riferimento a Aristotele, era tanto arbitraria da risolversi in un puro fraintendimento. Il passo, da lui citato a conferma, di Conv. I viii 9, non confermava affatto la sua interpretazione: semplicemente, la smentiva.
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Vero è che, questa idea del volgare illustre in cammino verso vette sempre più alte fu attribuita, non al grammatico, ma al poeta che, essendo in Dante, lo spingeva ad andare persino al di là del suo pensiero. Ma, con tutto il rispetto dovuto allo studioso che si espresse così, queste sono effusioni sentimentali, non concetti. Di contro a questi entusiasmi, più da retore, si potrebbe dire con qualche cattiveria, che non da critico, occorre ribadire che il volgare era, per Dante, più nobile della grammatica per le ragioni dette fin dal primo luogo in cui questo concetto fu ragionato: «tum quia totus orbis ipsa perfruitur […] tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis exstat» (I i 4); e che, d’altra parte, in tanto non si poteva considerarlo come se, in sé stesso, tendesse ad andar oltre sé stesso nel segno della perfezione, in quanto, coincidendo con ciò che nel genere è primo, non poteva se non essere constatato nella sua realizzata eccellenza, nella sua già conseguita perfezione. Sulla questione del volgare illustre, e sulla physis che, assumendolo come primo all’interno del suo genere, Dante gli attribuì, si parlerà quando la necessità del suo chiarimento radicale si sarà presentata come irrimandabile. Ma fin d’ora deve proporsi una considerazione che, sebbene, per un verso, sia pressoché ovvia, non va, per un altro, senza qualche interna complicazione. Il passo (I x 2) che richiede di essere considerato ha dato luogo, del resto, a più di una controversia; e, nel suo contesto, è talmente contratto che più che giustificata è l’attenzione che gli si dedicherà. Quando, all’inizio del decimo capitolo del primo libro, Dante procedette alla comparazione dei tre volgari che costituivano il «nostro idioma trifario», scrisse che, poiché i gramatice positores avevano preso il sic come adverbium affirmandi, poteva ricavarsene che, per questa ragione, agli italici era legittimo quandam anterioritatem erogare (I x 1). Rispetto a quelli di oc e di oil, il volgare del sì si trovava a essere più vicino alla grammatica-latino, e, come gli esempi di Cino da Pistoia e del «suo amico» dimostravano, meritava perciò che questo suo primato fosse riconosciuto, quia magis videntur initi gramatice que comunis est,23 il che gli sembrava costituisse, rationabiliter, un forte argomento. Ebbene, se lo si legge con qualche attenzione, questo luogo non riesce a tener chiuse in sé, e a risolvere, le difficoltà che in effetti lo costituiscono. Notevole è, innanzi tutto, anche se non sia questa la più importante delle considerazioni che ne sono sollecitate, che, nel presentare la questione dei tre volgari, Dante si fosse trovato ad anticipare, e ad assumere come sua, una delle ragioni che i loquentes del sì proponevano per 23. De vulg. el. I x 2. Sulla questione relativa a videntur (videtur), cfr. infra.
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rivendicare la loro superiorità: anche costoro, infatti, indicavano nella loro maggiore vicinanza alla grammatica e nell’appoggiarsi su di essa nel loro poetare, la prova della superiorità del loro volgare rispetto agli altri due. Certo, la cosa potrebbe non sorprendere una volta che si fosse considerato che, poiché gli accadeva di sostenere due ruoli, per un lato quella di giudice estraneo alla contesa, per un altro l’altro di parte in causa, era invitabile che quel che era accaduto accadesse. Ma la vera difficoltà ha un altro volto; che è, in realtà, un duplice volto. Il primo comincia a delinearsi se si considera che era in effetti ben singolare che, da questo adverbium affirmandi, i loquentes del sì potessero trarre un argomento che comprovasse il primato del loro eloquio. Avrebbe, infatti, dovuto esser chiaro, che i volgari essendo anteriori alla grammatica, che i suoi positores avevano messa al mondo per rimediare alla loro parzialità comunicativa, nei suoi confronti le parlate volgari non potevano stare, tutte, se non alla medesima distanza. Apparteneva infatti alla artificialità della grammatica che il suo universo linguistico fosse costruito ex novo, e che fosse questa novità fondamentale, e non quel che vi si potesse scorgere dei preesistenti volgari, a costituire l’interno criterio della sua eccellenza. Che il sic latino derivasse, secondo questa tesi, dal sì italico non dovrebbe costituire ragione di superiorità una volta che si fosse tenuto fermo al punto che, come si deduce da I ix 11, essendo padroni di tutti i volgari rispetto ai quali la costruivano, i gramatice positores procedevano con il criterio della razionalità senza perciò preoccuparsi di sceglierne e privilegiarne uno. L’argomento avrebbe avuto valore se, invece di derivarne, la grammatica avesse preceduto i volgari, e a derivarne fossero stati questi. Ma non così le cose stavano. E il compito degli inventori della grammatica non era infatti, e in primo luogo, se non di costruire uno strumento utile alla comunicazione di esigenze fondamentali che nei volgari naturali non avrebbero trovato possibilità di espressione. Di altre questioni, e di altre difficoltà, che quest’idea dei gramatice positores racchiude in sé si avrà occasione di parlare ancora quando il discorso lo richiederà. Ma qui e ora converrà piuttosto osservare l’altro volto della difficoltà che si annida nel fondo di questa parte del ragionamento dantesco; nel quale stanno intrecciati insieme almeno due aspetti che, se vanno insieme, tanto più richiedono di essere distinti. Altro era infatti assumere il volgare come la naturale lingua di coloro che, trovandosi a parlarlo, rendevano testimonianza della sua gradevolezza, o del suo contrario, della sua eleganza e di ciò che ne fornisce la negazione, e così via dicendo. Altro era assumerlo nelle sue manifesta-
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zioni d’arte, considerarlo nelle prose della storia sacra, dei fatti dei Troiani e dei Romani, delle imprese di re Artù, ossia nella letteratura d’oil, oppure nelle poesie di Peire d’Alvernia e di altri antiquiores doctores, e cioè nella letteratura d’oc, oppure, da ultime, in quelle di Cino da Pistoia e di Dante, addotte a documento della letteratura del sì. Che è la distinzione che, per un verso, Dante eseguì, se non in modo esplicito, nei fatti, se è vero che quando, all’inizio del capitolo, procedette al paragone dei tre volgari, era alla lingua comune e non a quella letteraria che si riferiva; e, per un altro, invece dimenticò o non tenne più presente a sé stesso nel momento in cui, quasi insensibilmente, il confronto dei volgari passò sul piano letterario e su questo, sia pure con commendevole moderazione e eleganza, fu assegnata la palma della vittoria a quello del sì. La confusione dei due piani, o, se si preferisce, il tacito sfumare del primo nel secondo, salta agli occhi, solo se si legga con un po’ di cura. Ammesso, senza concedere, che l’argomento potesse essere presentato in questa forma, è evidente infatti che, mentre il volgare italico era considerato più vicino alla grammatica perché si riteneva che di fatto lo fosse e che questa vicinanza fosse, appunto, un fatto, non un valore, di tale vicinanza Cino e Dante, ossia due poeti, non duo communes loquentes, erano stati essi gli autori, a loro, al loro studio e alle loro preferenze, si doveva se quella si era realizzata. Dopo aver proposta la distinzione dei due piani, Dante non le conferì forma esplicita, lasciò che il primo momento, riguardante il volgare del sì, non come lingua letteraria, ma come lingua dell’uso, trapassasse e si risolvesse nel secondo, nella lingua non dell’uso, ma della letteratura. Il che forse spiega anche perché, in magis videntur[o videtur] initi gramatice non sia agevole decidere se si debba scegliere la forma plurale attestata dai codici, e preferita da Mengaldo, da Inglese24 e da Rosier-Catach,25 o quella singolare, autorevolmente proposta da Rajna nella sua edizione26 e ora di nuovo accolta da Tavoni e da Fenzi27 nelle loro. Videtur potrebbe essere difeso se si considerasse che, all’inizio del decimo capitolo, oggetto del discorso era stato il volgare del sì considerato nella sua accezione più larga di lingua dell’uso, in modo tale che a quella il 24. Mengaldo, p. 86. E si veda la sua Introduzione al De vulgari eloquentia, pp. lxiixiii; Inglese, p. 81. 25. Rosier-Catach, p. 122. 26. Il Trattato De vulgari eloquentia, a cura di P. Rajna, Firenze 1896, p. 51. 27. Tavoni, pp. 1239-1240, Fenzi, p. 72.
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verbo si sarebbe riferito senza, d’altra parte, escludere la sua dimensione letteraria. Resta però che, nella parte in cui il verbo ricorre, l’attenzione si era decisamente spostata sulla lingua letteraria, sì che non ebbe torto chi fece rilevare che il soggetto è il plurale qui (poetati […] sunt).28
28. Inglese, p. 83. La questione è discussa in Pagani, La teoria linguistica di Dante, pp. 100-101.
3. La lingua di Adamo e la lingua naturale
Delle due lingue la più nobile, per Dante, era dunque il volgare. Alla discrasia che nel suo pensiero era stata determinata dal riconoscimento dato, da una parte al latino e alla insostituibile sua funzione nel tenere insieme la umana societas e nel dare un sostegno a chi poetasse in volgare, da un’altra alla superiore nobiltà di quest’ultimo, egli non era disposto, dato che l’avesse notata, a riconoscere l’importanza che, in sede critica, non può invece non esserle attribuita. Come che fosse, era della più alta nobiltà del volgare che egli intendeva trattare; a questa dedicava la fatica della sua indagine. E di questo deve subito prendersi atto, senza, d’altra parte, poter escludere, e anzi dovendo subito ammettere, che, delimitato così, oltre quella concernente il latino, il campo della ricerca lasciava intravvedere questioni che a nessun patto avrebbero potuto definirsi risolte, o risolvibili, da concetti come quelli che fin lì egli aveva delineati. Tanto meno gli sarebbe stato lecito considerarle risolte se, nel fare dell’esperienza la maestra del linguaggio, già in quel luogo del De vulgari egli avesse avuta presente la questione, sulla quale avrebbe ragionato nel quarto trattato del Convivio, dell’origine dell’uomo, e della sua o nobiltà o viltà. Che gli infanti imparassero a parlare ascoltando coloro che erano preposti alla loro crescita e educazione, e, al riguardo, il primato spettasse perciò alle nutrices, era, se si avesse avuto l’occhio alla natura e alla storia, considerazione di immediata evidenza. Ma del tutto insufficiente, tuttavia, quando di fronte si fosse invece avuta la questione, non tanto dell’apprendimento che, di volta in volta, si fosse potuto fare di una lingua esistente, quanto piuttosto, überhaupt, della sua origine. Di questo si riparlerà, conferendo al problema lo spazio necessario, quando il discorso lo richiederà. Ma, per non perdere il contatto con quel che il testo ha fin qui proposto, conviene chiedersi che cosa sarebbe accaduto, ossia a quale rifles-
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sione si sarebbe stati costretti, una volta che, posta una determinata nutrice esistente in un determinato tempo, da questa si fosse risaliti a quella che le era stata maestra, e così, tracciando a ritroso una via che andava verso l’origine, inevitabilmente ci si fosse trovati a dover decidere se questa fosse preceduta soltanto dall’atto creatore di Dio o da nient’altro che la sua propria eternità, nel cui segno di una sua origine non avrebbe avuto senso parlare. Non potrebbe dirsi che, posta in relazione al primo capitolo del trattato, la questione che si è delineata non sia pertinente e che l’averla richiamata non sia se non indizio di astratto spirito deduttivo. È vero il contrario. Quella dell’origine, e della sua interpretazione, era, in effetti, la questione essenziale, come presto si sarebbe visto se dalle riflessioni condotte sulla naturalità familiare dell’apprendere linguistico si fosse passati a quelle svolte nei successivi capitoli del primo libro. Del resto, per fare in modo che, oltre che nella sua complessità, la questione emergesse e s’imponesse nella sua intera estensione, non era, a rigore, nemmeno necessario che in quei capitoli Dante avesse ripresa quella che, in tema di nascita, nobiltà e viltà, aveva dibattuta nel quarto trattato del Convivio, e, in particolare, nel quattordicesimo capitolo, dove, commentando i vv. 69 ss. di Le dolci rime d’amor ch’i’solia, aveva sfiorato il tema periglioso dell’eternità del mondo e della specie umana. Per uno scrittore cristiano che, per spregiudicato che fosse stato, mai lo sarebbe stato tanto da non considerare vera la parola della Bibbia, non potevano, infatti, esserci dubbi, innanzi tutto sull’essere, il mondo, opera divina, e, in secondo luogo, sul punto che, quella del linguaggio non esclusa, l’intera vicenda delle cose umane aveva avuto nella creazione di Adamo il suo principio. Non poteva dubitarsi che dall’uomo che non aveva avuto una nascita e non aveva bevuto il latte materno, erano nati uomini che, senza per ciò negare quell’origine, erano stati generati da un padre e da una madre, del cui latte, viceversa, si erano nutriti. Dalle complicate e drammatiche vicende che erano seguite alla sua espulsione dal Paradiso Terrestre, a lui, a Adamo,1 1. È noto che, nella rappresentazione del peccato di Adamo e delle sue conseguenze, Dante seguì, ma con sostanziale moderazione, la linea agostiniana (cfr., per esempio, Civ. dei, 14, 13, ma anche de doctrina christiana, III xxxvi 53) e tomista (Summa theol. II 2, q. 163, aa. 1 et 2), tenendosi, per altro, lontano, da quella abelardiana (cfr., per esempio, Scito te ipsum, ed. D.E. Luscombe, Oxford 1971, p. 78: «semel Adam peccauit, et comparatione nostrorum, sicut beatus meminit Hieronimus, leuissimum eius peccatum fuit». Lo si veda riprodotto, ma semplificato nella grafia, in P. Abelardo, Conosci te stesso e Etica, introduzione, traduzione e note di M. Dal Pra, Firenze 1976, p. 155). Sulla concezione agostiniana
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era necessario risalire per intenderne il senso e porre nella giusta luce, fra le altre riguardanti la storia umana, la questione del linguaggio. Che non poteva ridursi a quella su cui aveva richiamata l’attenzione quando aveva evocato le nutrici e gli altri umani precettori. Nella sua empirica indubitabilità, quell’osservazione poteva bastare a segnare la distanza che divideva il linguaggio vero dall’artificiale grammatica; ma certo non bastava a far intendere in che modo, dalla lingua che Adamo aveva appresa, non da una nutrice, ma direttamente da Dio, e che Dante definiva primiloquium (I iv 1), fossero derivati e, attraverso le vicende determinate dalla costruzione della Torre e dalla conseguente confusio linguarum, si fossero svolti, i volgari fra i quali si era via via distinto il vario parlare degli uomini. Insomma, la tendenza, che è in alcuni interpreti, a separare in modo netto, ossia come se non avessero alcun punto di contatto e le seconde non trovassero comunque nella prima una sorta di condizione, la lingua edenica, donata a Adamo dal gesto creatore di Dio, dalle lingue babeliche e postbabeliche, nate da un dramma storico ‒ questa tendenza è apprezzabile in quanto conduce a valorizzare, nella concezione di Dante, il momento naturale, quello storico e, nei limiti segnati da questi, l’altro, addirittura inventivo, delle lingue. Ma lo è decisamente di meno se induca, invece, a far perdere di vista quel punto di contatto e tutte le difficoltà che ne derivano. Saranno, il progresso dell’analisi e i risultati che via via vi si raggiungeranno, a decidere se, dicendo così, si dica bene. Ma fin d’ora deve esser chiaro che, se l’avvento delle parlate volgari segnò un inizio, questo non fu un inizio assoluto. A precederlo era stata infatti, dopo la creazione di Adamo e di Eva, la vicenda, lunga e di non facile interpretazione, che dalla loro espulsione dal Paradiso Terrestre aveva condotto fino al dramma della Torre di Babele. Nell’affermazione dei volgari era perciò possibile indicare bensì l’inizio di una storia che, più dell’altra, ciascun vivente poteva considerare come la sua, ma non, appunto, l’assoluto inizio. E tanto meno si sarebbe potuto in del peccato che da Adamo si trasmise all’umanità, conservano la loro efficacia le osservazioni di E. Buonaiuti, Il Cristianesimo nell’Africa romana, Bari 1928, pp. 372 ss. In Purg. XXXIII 61-63: «per morder quella, in pena e in disio / cinquemila anni e più l’anima prima / bramò colui che ’l morso in sé punìo», è ripreso, nella prospettiva, quindi, della salvezza, il tema del nesso di Adamo con Cristo redentore. In Par. VII 25-33, il tema ritorna, ma con più forte accentuazione del dramma che il peccato di Adamo trasmise alla storia umana («onde l’umana specie inferma giacque / giù per secoli molti in grande errore»), e cfr. anche vv. 85 ss.; ed è ripreso, in una più ampia prospettiva, nel discorso di Tommaso d’Aquino a XIII 37 ss., sul quale occorrerebbe fermarsi a parte.
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quanto era proprio sul lungo tratto che dall’espulsione dei progenitori dal Paradiso Terrestre fino alla costruzione della Torre di Babele, era su questo periodo cruciale che erano destinati ad accendersi i dubbi che avrebbero condotto Dante alla «svolta», per altro (come si vedrà) parziale, di cui è documento il canto ventesimosesto del Paradiso. A complicare ulteriormente le cose, era, d’altronde, fin dall’inizio, se non il dubbio, la più originaria delle domande: quella che, in modo esplicito o implicito, uno scrittore cristiano non poteva non rivolgersi a proposito del significato che dovesse darsi alla progenitura adamitica. Il genere umano poteva esser detto, così, simpliciter, discendente da Adamo? Oppure nel primo uomo era necessario distinguere due uomini che, per un verso erano lo stesso, ma per un altro no, perché, altro era stato quello che, definito come il primo, aveva vissuto nel Paradiso Terrestre la sua breve, anzi brevissima, stagione felice, altro era stato l’altro che, scacciato con Eva da quella beata dimora, aveva perduto il beneficio dell’immortalità, dell’innocenza e di ogni altra delizia, e, con l’acquisto della conoscenza, era stato immerso nella storia che da lui e con lui nasceva nel segno del dolore?2 Senza naturalmente separarli e farne due diverse persone, fra i due, tuttavia, occorreva distinguere. Se, come proprio dal racconto della Genesi poteva apprendersi, altro era l’uomo che per un tempo più che breve, ignaro del dolore e della morte, aveva abitato nel giardino dell’Eden, altro quello decaduto tra le infamie e i dolori del mondo, non è detto che, anche riguardo all’unicità della lingua da lui parlata prima e dopo che ne era stato espulso, non si sarebbe, per meglio vedere nel fondo della questione, dovuto e potuto sollevare qualche dubbio e proporre qualche distinzione. Si poteva chiedere, in effetti, se potesse essere stata la stessa con la quale Adamo aveva preso a parlare nel mondo umano nato da lui e dal suo peccato la lingua nella quale, in quel giardino, aveva pronunziato le poche parole che vi aveva pronunziate: anzi, secondo Dante, l’unica.3 Che, dal momento 2. A partire dalla distinzione paolina di quello carnale e dell’altro spirituale (I Cor. xv, 45-50), la questione dei due Adami è stata posta, per lo più, in relazione al problema della sua discendenza buona, e, per contro di quella cattiva. Qui la si pone per dar conto del suo essere diventato necessariamente diverso, dopo la caduta, da quel che era nello stato d’innocenza. 3. L. Sebastio, Il poeta e la storia. Una dinamica dantesca, Firenze 1994, p. 107, ha osservato che, per Dante, «la lingua nasce e si manifesta prima del peccato originale, nasce e si manifesta nel momento dell’assoluta perfezione di Adamo». L’osservazione è da condi-
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in cui Adamo fu estromesso dal Paradiso Terrestre e collocato nel mondo della storia, l’umanità nata da lui avesse avuto in comune la lingua, non significava necessariamente che fra questa e quella che era stata parlata nell’Eden non fossero intervenute, riflettendovisi, le differenze sussistenti fra la condizione edenica e la condizione umana, fra l’innocenza e il peccato. Al testo biblico, e a quello in cui Dante ne fornì l’esegesi, non è certo legittimo sovrapporre una rete di considerazioni astrattamente dedotte da un principio, razionale se si vuole, ma esterno, comunque, a entrambi. Ma quelle che precedono non sono considerazioni che al testo biblico si rivelino estranee. Estranee, meno che mai, si rivelano a quelle con cui Dante lo interpretò. Si coglie nel suo pensiero, se ci si pone all’ascolto dei suoi interni movimenti, la presenza di un dubbio che, forse, insorse nel momento in cui, dopo aver preso atto della genesi divina della lingua di Adamo, gli accadde di interrogarsi sulla natura della differenza che, con questa, intratteneva l’altra, interamente umana e naturale, descritta nel terzo capitolo del primo libro del De vulgari eloquentia, e riguardante le lingue postbabeliche. Non è infatti illegittimo pensare, lo si è già osservato, che, a partire da quest’opera, il forte rilievo dato alla genesi umana della lingua parlata dagli uomini lo avesse indotto a dubitare della possibilità che, fino al tempo della Torre, l’umanità avesse conservata la lingua di Adamo e che questa fosse stata perciò l’unica sua lingua. Quando, per esempio, a I iii 2, Dante scrisse che «oportuit […] genus humanum ad comunicandas inter se videre, anche se quanto il Sebastio osserva (pp. 105-106) a proposito del nesso intercorrente fra l’intelletto possibile e l’Impero, non abbia alcuna relazione con quanto Dante scrive in De vulgari, I v 1: un passo che non si può leggere a riscontro di Mon. I iii 4-10, perché, ma di questo si tratterà infra, nel nesso intelletto/Impero non è inclusa la lingua, della quale, in effetti, Dante non trattò affatto in quel luogo del trattato politico. Il Sebastio (p. 110) ebbe ragione nell’osservare che, con il peccato originale, anche la lingua fu privata dei «suoi valori originari». Ma non ne ebbe altrettanta quando, forse per attenuare la drammaticità del contrasto che in tal modo si stabiliva fra la condizione edenica e quella «umana», osservò che l’uomo era stato sì «creato in una condizione di perfezione», ma di «perfezione […] tutta umana», e senza che ciò gli facesse perdere «la naturale collocazione nell’ordine del creato» e «la sua natura» (p. 111). Gli accadeva infatti di procedere, per un verso, per difetto quando definiva «tutta umana» la perfezione, che non poteva perciò esser definita così, di Adamo nel Paradiso Terrestre, e per un altro per eccesso, e ponendo una questione di cui non gli era dato di dominare le conseguenze, quando osservava che con «la venuta del Cristo», il recupero della condizione perduta sarebbe stato, «non solo possibile, ma doveroso», e che in sostanza «il Paradiso Terrestre» era, per Dante, «pressoché su questa nostra terra – e non solo fisicamente –, e consiste[va] tutto, e tutto si racchiude[va] nella umana ragione, che è magnifico dono di Dio».
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conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit», e aggiunse tuttavia che, se fosse stato soltanto razionale non avrebbe potuto, da una ragione, essere trasferito a un’altra, la delineazione che in tal modo egli compiva della comunicazione umana non aveva alcun visibile legame con la lingua che l’umanità postedenica e prebabelica aveva parlata: sempre che, naturalmente, si fosse tenuto fermo all’altra tesi sostenuta nel De vulgari, e in quest’opera già forse entrata in crisi, secondo cui la lingua di Adamo fu unitariamente parlata dall’umanità, anche dopo l’espulsione sua dal Paradiso Terrestre, fino all’età della Torre. Se di questa lingua, secondo quella tesi, era stata conservata l’unità, non è detto però che anche vi fossero stati conservati i caratteri essenziali che all’inizio ne avevano fatto, non si dimentichi, un sacratum ydioma. Osservati dall’angolo visuale costituito dal mondo fatto di dolore e di morte in cui, decadendovi, si era risolta la breve stagione che i progenitori avevano vissuta nel Paradiso Terrestre, quei caratteri avrebbero potuto non essere quali erano stati in quella. Com’era pensabile che un sacratum ydioma seguitasse a sussistere in un mondo in ogni senso opposto a quello per il quale era stato creato e nel quale per la prima volta era risuonato? È vero che del suo essersi mantenuto in quel mondo ostile Dante tanto poco dubitò che del sacratum ydioma disse che, perduto per il resto dell’umanità, si era conservato presso i discendenti di Sem, che all’impresa della Torre si erano astenuti dal partecipare (I vii 8). Ma che, nel profondo della sua coscienza, si fosse formato il dubbio che questa conservazione avesse del miracoloso e, non fosse razionalmente spiegabile, è dimostrato da quel che più tardi egli disse nel Paradiso, nel luogo del ventiseiesimo canto in cui fu lo stesso Adamo ad avvertirlo che la sua lingua si era del tutto spenta prima che l’impresa della Torre avesse inizio. Nella sua estrema concisione, non era, questa a cui Dante aveva dato l’avvio, un’autocritica tanto radicale quanto avrebbe dovuto. Per esserlo, avrebbe dovuto, se è lecito proseguire il cammino sul sentiero della razionalità, mettere avanti l’avvertenza che, toccato il faticoso e fangoso terreno della storia, mentre, da destinata all’immortalità, l’umanità si ritrovava a esser divenuta preda della morte, anche la lingua conobbe un destino diverso dal precedente in un tratto essenziale, e cioè nel suo essere ormai predisposta, non a conservare il suo carattere divino, ma a perderlo in una vicenda di continue trasformazioni.
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Si lasci ora da parte, perché è insolubile, la questione concernente il carattere specifico dell’unica lingua che, dopo il peccato della prevaricazione e l’espulsione di Adamo e Eva dal Paradiso Terrestre, l’umanità aveva parlata fino al momento in cui dette inizio alla costruzione della Torre. Che, ferma restando la sua unità, si trattasse di caratteri umani e non divini è, come si sta vedendo, conseguenza che può e deve essere considerata paradossale, se si considera che, per Dante, il carattere di sacratum ydioma essa lo perdé soltanto quando l’umanità si coinvolse nel dramma della Torre. Ma è conseguenza che, sebbene contrasti con quella accettata da lui, si trae da uno degli elementi costitutivi del contesto. Questo elemento era nella Genesi, e ne costituiva anzi il tratto, in senso assoluto, più importante. Era nella Genesi, e non poteva perciò non essere stato presente a Dante; che avrà certo considerato che, con la caduta, la condizione dell’umanità aveva capovolto il suo carattere. Dire che quei caratteri non erano più, perché tali non potevano essere, quelli che Dio aveva immessi nel linguaggio di Adamo al momento della creazione, e che, da divini si erano fatti umani, era una conseguenza che il contesto imponeva a contrasto con l’altra, decisamente facilior, che parlava a favore di una continuità priva di ogni alterazione. Il che, anche questo dev’essere ammesso, non significava che, dicendo così, anche se ne fosse colto e definito, in ogni suo aspetto, il tratto fondamentale. Pur essendo, per una parte non secondaria, diversa da quella parlata nell’Eden, quella lingua era, per un’altra, la stessa: proprio com’era accaduto a Adamo che era pur sempre l’unitario soggetto delle differenze che ora segnavano la sua physis. Della lingua parlata nell’Eden aveva infatti conservato un aspetto essenziale: quello che, nel segno dell’unità, la differenziava dalle altre che si sarebbero formate dopo il dramma babelico della «confusione». Nella lingua postbabelica, ridefinitasi ormai in termini unicamente umani, quei caratteri erano stati sostituiti da altri che qui Dante descriveva come per metà razionali e per metà sensibili: caratteri che potrebbero perciò essere definiti «anfibi» dopo che se ne fosse, per altro, messa in evidenza l’originalità, o la novità. Non si dà, infatti, alcuna certezza che nella lingua parlata da Adamo nell’Eden, e in quella altresì che, in continuazione della prima, era stata parlata dopo che ne era stato espulso, un analogo nesso avesse stretto l’elemento sensibile (il suono) a quello intellettuale (il significato); e nemmeno si può vincere il sospetto che nell’una e nell’altra le cose fossero andate in tutt’altro modo. Asserire con certezza che anche nell’Eden il linguaggio di Adamo si era atteggiato nella forma di un medium che, a un lato, presentava l’elemento intellettuale
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e, a un altro, quello sensibile, è impossibile. Lo si può soltanto supporre, o negare, rimanendo per altro incerti fra la prima e la secondo possibilità. Impensabile è, invece, che fra i due primi abitanti del Paradiso Terrestre la comunicazione fosse avvenuta in modo simile, anche se non identico, a quello che gli uomini tennero quando il tempo della comune lingua postedenica ebbe termine e, dopo il dramma babelico, a prendere il campo furono i volgari in cui quella si divise. La scomparsa della lingua comune costituiva, d’altra parte, un evento di tali proporzioni che, sollecitate dall’estrema stringatezza del testo, a nascerne non potevano essere se non congetture e proposte di diversa qualità. Non significa perciò abbandonarsi a congetture irresponsabili se si immagina che, per suo conto, Dante non si fosse astenuto dal farne. Anche a un credente, quale egli era, il testo della Genesi si presentava in modo tale da consentire, o addirittura sollecitare, ipotesi e interpretazioni non letterali. Se è impossibile immaginare quali pensieri, quando lo leggeva, gli passassero di volta in volta per la mente, congetturarne alcuni è esercizio non necessariamente irresponsabile, ma necessario. Se si pensa che l’espulsione dal Paradiso Terrestre era l’atto inaugurale di una storia che si era atteggiata in modo diverso da quello che sarebbe stato se l’uomo non avesse ceduto alla tentazione diabolica, era impossibile che di tale singolarità Dante non avesse tenuto conto. Era impossibile che non avesse preso atto della sfida che, nel crearlo, Dio aveva diretta all’uomo rendendolo responsabile della scelta che avrebbe dovuto operare fra il bene e il male. E altrettanto lo era che della sua caduta dallo stato della perfezione in quello dell’abiezione non avesse misurato le conseguenze anche in relazione al destino della lingua. Si è ritenuto, da parte di non pochi, che la consapevolezza della naturalità e della storicità del linguaggio Dante non l’avesse conseguita se non quando, nel ventiseiesimo del Paradiso, proprio da Adamo si fece insegnare che la lingua da lui parlata si era spenta ben prima che l’umanità si cimentasse nella folle impresa della Torre, e che, se era necessario che l’uomo parlasse, altrettanto lo era che parlasse non in un modo solo, ma «così o così», ossia come più a lui piacesse. In realtà, se si tiene conto dei grandi momenti che, conseguendo alla prima parola pronunziata da Adamo, videro, via via, la caduta della sua lingua nel basso mondo della storia e poi, dopo Babele, la perdita della sua unità, sarebbe difficile negare che, in questo punto, non avesse luogo una considerazione nettamente diacronica del parlare umano, messo in relazione, del resto, con le sollecitazioni provenienti dalla natura e dalla molteplici circostanze dell’esistere storico.
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Quando, alla fine del primo capitolo del primo libro, Dante scrisse che, rispetto alla grammatica, nobilior est vulgaris e che la sua maggiore nobiltà derivava da ciò che tale lingua prima fuit humano generi usitata, non si usa certo violenza al suo pensiero se si assume che qui egli stesse parlando, non del primiloquium adamitico, ma della lingua che, in forme molteplici e non più riconducibili all’originaria unità, si cominciò a parlare nel mondo precipitato nel dramma della caduta. Per nobile che la considerasse, Dante non poteva non porla in relazione all’evento che, incidendo per sempre sul corpo vivo dell’umanità il destino del dolore e della morte, anche sulla lingua non poteva non aver lasciato il suo segno. Di questo si parlerà, meglio e più diffusamente, quando la maturità dell’indagine lo richiederà. Qui e ora deve avvertirsi che difficile, senza dubbio, è decidere se l’intelletto e la sensibilità che erano nei progenitori, e nell’umanità prebabelica che ne derivò, oltre a essere simili o dissimili, identici o diversi, fra loro, fossero lo stesso intelletto e la stessa sensibilità che caratterizzarono in seguito il genere umano; se, dopo la caduta, percependo non più felicità ma dolore, e pensando pensieri necessariamente diversi da quelli che avevano preceduto il momento della tentazione e della caduta, gli uomini si fossero ritrovati con una sensibilità e un intelletto tanto diversi da quelli che, al momento della creazione, Dio aveva immessi in Adamo, quanto diversa, radicalmente diversa, era la loro situazione storica e esistenziale. Se dalla premessa dei doni supernaturali di cui al momento della creazione Adamo era stato dotato da Dio (I v 1), Dante avesse ricavata l’idea che anche nella sua lingua questi avessero dato segno di sé,4 e il suo carattere di sacratum ydioma si fosse trovato a essere nella sua mente meglio definito di quanto non risultò poi nella scrittura, non è dato sapere. Con drastica brevità, alla questione Dante concesse non più di tre righe; dopo di che non ne parlò 4. Cfr., per una possibile fonte, Thomae Summa, I, q. 45, a. 3 (e cfr. anche I, q. 94, 1 ad 1). Non rientra nei limiti di questa indagine, e andrebbe comunque al di là delle mie competenze, la questione se la grazia santificante avesse agito su Adamo al momento della creazione, come sostenuto da Alberto Magno e da Tommaso d’Aquino sulla falsariga di quanto, per esempio, era stato argomentato da Cirillo di Alessandria, In Joann. I 9, PG 73, 127, o dopo il compimento, da parte sua, di determinati atti, secondo l’opinione di Ugo di san Vittore, Pietro Lombardo (Sent. II, 24) e Bonaventura di Bagnoregio. Ma, per un quadro della questione delineato dal punto di vista della dottrina cattolica, cfr. X. Le Bachelet, Adam, in Dictionnaire de théologie catholique, a cura di A. Vacant, E. Mangenot e E. Aman, I/1, Paris 1923, cc. 372 b-75 a.
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più: «si ergo Faber ille atque Perfectionis Principium et Amator afflando primum nostrum omni perfectione complevit […]».5 Sta comunque di fatto che fu in relazione agli uomini, quali si erano trovati a essere dopo il peccato, che egli si interrogò sul loro essere molteplici e, ulteriormente, sulla conseguente possibilità/necessità della loro reciproca comunicazione. Fu in relazione a uomini che, se anche si supponeva che avessero seguitato a parlare la lingua dei progenitori, da questi si erano ormai resi diversi in cose essenziali: erano infelici, gravati dal peso della storia e dalla prospettiva della morte, e, sebbene possedessero un intelletto (e, forse, proprio perché ne possedevano uno che in tutti era lo stesso), nella reciproca comunicazione delle loro esigenze esistenziali incontravano la più grande difficoltà. Una cosa, infatti, era stata la comunicazione che nell’Eden poteva supporsi fosse intervenuta fra Adamo ed Eva, ossia fra due soggetti troppo simili, nei sentimenti, nei pensieri e, soprattutto, nella semplicità e innocenza che a entrambi era allo stesso modo comune, perché, per ciascuno di loro, quella potesse costituire un problema. Un’altra era la comunicazione fra uomini nel cui animo e nella cui mente la storia e la natura avevano scavato il solco di esperienze tanto profonde quanto diverse. È difficile dire se fosse il maggior peso che Dante attribuiva alla sensibilità degli uomini postedenici e di quelli postbabelici a fargli ritenere che la comunicazione fra loro fosse, in modo specifico, affidata, non all’intelletto, che in tutti era lo stesso e (se questa interpretazione è plausibile) non era tale da porsi, nei confronti di un altro intelletto, nella condizione della differenza, ma, appunto, all’elemento sensibile 5. De vulg. el. I v 1. Difficile dire se Faber, Principium e Amor stiano a indicare le tre persone della Trinità e valga quindi, per questa sequenza, il rinvio a Inf. III 5-6: «fecemi la divina podestade, / la somma sapienza e ’l primo amore», proposto da Fenzi, p. 34; ancora più difficile decidere se fra le perfezioni immesse in Adamo ci fosse anche la conoscenza del mistero della Trinità: così asserì Le Bachelet, Adam, c. 374 b, senza, per altro, addurre testi. Aggiungerei che, Summa, I, q. 95, a. 3, Tommaso escluse con nettezza che la perfezione primi status implicasse la conoscenza dell’essenza di Dio: «perfectio enim primi status non se extendebat ad hoc ut videret Deum per essentiam, et ut haberet cum fruitione finalis beatitudinis». A sua volta, Tavoni, p. 1167, ritenne che qui non ci fosse allusione alla Trinità, Perfectionis essendo retto da Principium e da Amor. Ma la soluzione mi pare alquanto artificiosa: sia perché l’essere perfectionis retto da quei due sostantivi non implica subordinazione a essi, non potendo la perfectio essere se non identica al Principium e all’Amor con i quali, infatti, sostanzialmente coincide, sia perché a reggere la perfectio sono tre elementi: Faber, Principium e Amor. Non aderisce alla soluzione di Tavoni il Fenzi, p. 34, che affida l’espressione del dissenso alla sua diversa traduzione.
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che fungeva da elemento differenziante. Il concetto che sta emergendo è tanto più importante quanto meno, tuttavia, si possa esser certi che la sua natura sarebbe bene interpretata se nell’impossibilità qui assegnata alla ratio individuale di entrare in contatto con un’altra ratio individuale si cogliesse, contro luce, un riflesso della tesi averroistica relativa alla sua unicità. L’espressione dantesca fu, d’altra parte, in questo luogo, così contratta che dirne di più, è impossibile. Oltre a essere estremamente conciso, il ragionamento di Dante fu infatti, se lo si osserva con attenzione, tutt’altro che lineare. L’uomo, diceva, non è mosso dall’istinto, è mosso dalla ragione. Ma, ferma restando la sua identità, la ragione non era la stessa in ogni uomo che, per conseguenza, veniva a trovarsi come chiuso in una sua propria «specie», dalla quale doveva tuttavia poter uscire per mettersi in contatto e comunicare con gli altri uomini, tutti al pari di lui chiusi nella loro. Non era la stessa, si badi, non in sé, e perché in ciascun individuo fosse in sé stessa diversa da quella di un altro. Non per questo, ma perché, e il testo lo suggerisce, ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudicium vel circa electionem diversificetur in singulis (I iii 1), ossia, identica come ratio, risentiva delle diverse inclinazioni e valutazioni di questo, di quello e di quell’altro ancora. Di qui la necessità che ciascuno fosse stato dotato di uno strumento che, a ciascuno, consentisse di andar oltre il suo piccolo orizzonte e di porsi in comunicazione con gli orizzonti altrui. Un’impresa difficile, che sarebbe riuscita impossibile se, privo di quello strumento, la sua attitudine fosse stata o solo intellettuale o solo sensibile. La conoscenza non era infatti conseguibile per mezzo del solo elemento sensibile. Per proprios actus vel passiones, ut brutum animal, nessuno sarebbe arrivato mai ad alium intelligere. Ma nemmeno era conseguibile con quello soltanto intellettuale. A differenza degli angeli, i quali realizzano la reciproca conoscenza per spiritualem speculationem, e senza, dunque, servirsi del linguaggio,6 gli uomini erano infatti coinvolti nella grossities e opacitas della loro natura mortale. 6. Sul linguaggio degli angeli, che per Dante non è un linguaggio (cfr. I ii 3-4); esiste, in riferimento a questo luogo, un’ampia letteratura, benissimo riassunta e discussa da Mengaldo, Preistoria e componenti di una tesi dantesca (‛De vulgari eloquentia’, I ii 3; iii 1-2), in Id., Linguistica e retorica di Dante, pp. 162-199. E cfr. anche l’importante saggio di I. Rosier-Catach, Le parler des anges et le nostre, in ‘Ad ingenii acuitionem’. Studies in honor of Alfonso Maierù, a cura di S. Caroti, R. Imbach, Z. Kaluza, G. Stabile, L. Sturlese, Louvain-la-Neuve 2006, pp. 377-401. Ma si veda anche il suo commento, p. 81, e quello di Tavoni, pp. 1142-1143.
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Lo strumento che essi avevano a disposizione per realizzare la reciproca conoscenza era il linguaggio, ossia un signum sia rationale sia sensuale, ma, ed ecco la ragione per cui l’argomento dantesco è stato definito non lineare, disposto tuttavia in modo che, malgrado la simmetria apparentemente perfetta dei due elementi che lo costituiscono,7 a predominare era il secondo: che, per un verso, infatti, era uno dei due, ma, per un altro, era quello che consentiva il trasferimento, che altrimenti sarebbe risultato ineseguibile, di una ratio in un’altra. Il trasferimento non poteva infatti essere realizzato dall’intelletto («si tantum rationale esset, pertransitare non posset»). Ed è vero che, con apparente simmetria, non avrebbe potuto essere realizzato dall’elemento sensibile che, se fosse stato tale e basta, non avrebbe potuto ricevere il segno dell’intelletto («si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponere potuisset»). Ma è anche vero, tuttavia, che poiché era l’elemento sensibile quello che consentiva e rendeva possibile la comunicazione fra una ratio individuale e un’altra ratio individuale, ecco che, in concreto, la pura simmetria dei due elementi si alterava a favore del secondo; che, sia pure in modo implicito, veniva a porsi come ciò che consentiva la comunicazione umana, alla quale l’elemento intellettuale era, per sé stesso, tanto indispensabile quanto inidoneo. Con le sue difficoltà e i suoi punti oscuri, tutto questo, stando al De vulgari eloquentia, apparteneva, non all’umanità adamitica, ma a quella postbabelica. La netta differenza che Dante indicava fra queste due situazioni era destinata, tuttavia, a non poter restare nei termini in cui l’aveva posta nel primo libro di quest’opera incompiuta. A impedirlo era la consapevolezza che, poco alla volta, dovette prender forma dentro di lui, delle inevitabili conseguenze che l’estrema gravità del trauma che il peccato commesso dai due progenitori aveva determinate nella storia dell’uomo. Da quel momento, come già si è avvertito, la storia era ricominciata con un carattere radicalmente diverso da quello che, altrimenti, sarebbe stato il suo. Non poteva perciò non aver prodotto le sue conseguenze anche nel linguaggio, tanto che, nel momento in cui questa tesi avesse preso, o fosse andata vicino a prendere, forma determinata nella coscienza di Dante, sarebbe stato per lui impossibile condividere, rationabiliter, la lettera del 7. Nardi, Dante e la cultura medievale, pp. 185-187, che pone la simmetria e poi, non cogliendo la sua alterazione a favore dell’elemento sensibile, non rileva l’inflessione averroistica del ragionamento.
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testo biblico, di lì accogliendo la tesi secondo cui la lingua di Adamo aveva conservato il suo carattere unitario di sacratum ydioma8 fino al momento in cui si produsse il dramma della Torre di Babele.9 Era necessario, invece, supporre che le variazioni che, intervenendo in essa durante quel dramma, avevano «spenta» la sua unità, fossero anticipate al momento dell’espulsione dei progenitori dal Paradiso Terrestre. La tesi, e si avrà modo di constatarlo via via, che Dante farà esporre a Adamo nel già ricordato canto del Paradiso, non nacque di colpo. Ma ebbe la sua premessa in ciò che, pur rimanendovi implicito e non dichiarato, egli cominciò a intravvedere già nel primo libro del De vulgari eloquentia. Se è così, ma altro, al momento opportuno, dovrà aggiungersi, si può ben dire che la sua revisione ebbe la sua premessa in quel che leggeva, e non poteva letteralmente accogliere, in un testo, quello della Genesi, che pure, fuori di ogni discussione, era e rimaneva per lui il testo sacro. Delle ulteriori questioni che lungo questa via verranno alla luce si parlerà, traendone le necessarie conseguenze, via via che l’analisi accennerà a scendere verso la radice. Ma intanto si vada avanti, seguendo, in modo non pedantesco, l’andamento del testo. Quella della lingua era per Dante, che ci tenne ad avvertirne in modo esplicito il lettore, una questione non disgiungibile dall’altra che concerneva l’uomo, la sua origine e la sua essenza. Ma, come si è cominciato a vedere, era una questione che, in certo senso, si sdoppiava a seconda che riguardasse il momento edenico o quello propriamente storico, nato dal dramma di Babele. Per un verso, concerneva le parole che i due abitanti dell’Eden avevano pronunziate in quel luogo, e quale dei due fosse stato, secondo la Genesi, il primo a formarle. Riguardava altresì la natura specifica della lingua che essi avevano parlata e nella quale, per la prima volta, avevano comunicato fra loro: ossia, per non lasciare in giro ombre ambigue, se si fosse trattato di una lingua che, al pari dell’anima insieme alla quale era stata creata, avesse in sé la sua propria perfezione, o se, più 8. De vulg. el. I vii 8. 9. La questione del rispetto, o della libera interpretazione, del testo biblico presenta molteplici aspetti, che non possono essere affrontati in questa sede, richiedendo comunque competenze specifiche. Resta fondamentale, al riguardo, l’imponente opera di H. de Lubac, Hexégès médiévale, 4 voll., Paris 1964. Z.G. Baranski, Dantes’s Biblical Linguistics, in «Lectura Dantis: a Forum for Dante Researches and Interpretations», 5 (1989), pp. 104-143, ha suggerito che guida di Dante in questa parte della sua lettura della Bibbia sia da considerarsi Agostino nel de Genesi ad litteram, 9, 22 e nel de doctr. Christ. II xxxi 48-xl 61 (e cfr. Tavoni, p. 1157).
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che una lingua, fosse stata un’attitudine alla lingua, più che un concreto parlare, una disposizione al parlare. In riferimento alla prima questione, consapevolmente deviando da quel che si leggeva in scriptis, ossia nella Genesi, Dante aveva escluso che a parlare per prima potesse essere stata Eva, la presumptuosissima Eva.10 Aveva ritenuto infatti rationabilius […] hominem prius locutum fuisse (I iv 3), e, poco dopo, aveva ribadito: «rationabiliter ergo credimus ipsi Ade prius datum fuisse loqui ab Eo qui statim ipsum plasmaverat».11 In riferimento alla seconda, non aveva, almeno con quella sua dichiarazione esplicita, lasciato dubbi. A I v 1 aveva scritto: «opinantes […] non sine ratione, tam ex superioribus quam inferioribus sumpta, ad ipsum Deum primitus primum hominem direxisse locutionem, rationabiliter dicimus ipsum loquentem primum, mox postquam afflatus est ab Animante Virtute, incunctanter fuisse locutum». Gli era dunque sembrato indubitabile, in primo luogo, che, fosse stata una domanda, oppure una risposta, la prima parola Adamo l’avesse rivolta a Dio, che gli aveva dato la vita; e che fosse parte di una lingua pienamente posseduta quella dalla 10. Che il rifiuto dantesco di concedere a Eva la prima parola sia da mettere in relazione con il ben radicato misoginismo cristiano, documentato, per esempio, da Aug. de Gen. ad litt., XI xxx 39 e Thomae Summa, I, q. 92, a. 1 ad 2) è indubitabile; e anche per questo non mi sentirei di condividere il giudizio di Mengaldo (Adamo, ED, I, 47-48) che, nella correzione apportata qui al testo sacro ha visto una presa di distanza di tipo razionalistico. Che, senza venir meno alla reverenza dovuta al testo sacro, nell’interpretazione della Bibbia Dante avesse proceduto rationabiliter, convinto che per questa via non ne avrebbe messa in discussione l’autorità, è indubitabile. Ma, nel caso della prima donna, la spregiudicatezza di cui era capace ebbe modo di far mostra di sé, non tanto qui, dove giudicò in armonia con gli anzidetti pregiudizi, ma, se mai, più tardi, quando provvide alla sua collocazione nella rosa celeste dei beati: Par. XXXII 4-6: «la piaga che Maria richiuse e unse, / quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi / è colei che l’aperse e che la punse». Sulla questione, cfr. I. RosierCatach, Il n’est pas raisonnable de croire que la très présumptuese Eve fut le premier être parlant, in «Poesie», 120 (2007), pp. 392-397. 11. Non credo che Fenzi, pp. 26-27, abbia ragione nell’escludere che quella di Eva sia stata, nella risposta data al serpente, una vera e propria locutio: sta di fatto che, se Dante non l’avesse considerata tale, non avrebbe perso tempo a negare che da lei fossero state pronunziate le prime parole; che, nella forma in cui egli le riferì si presentano infatti come un articolato discorso. Che poi fosse stato il diavolo a far sì che il sibilo del serpente si articolasse in forma linguistica tanto che Eva lo intendesse, e rimanesse tuttavia, in sé stesso, un sibilo, significa che, in quel momento e per quell’occasione, le sue erano state comprensibili parole: così come era accaduto all’asina di Balaam che si rivolse al suo padrone con parole che le erano state messe nella bocca da un angelo, e in quell’occasione parlò (I ii 6-7). Per questo esempio, cfr. i testi indicati da Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, p. 263 n. 22.
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quale era stata tratta la parola che, per prima, era uscita dalle sue labbra. Chi infatti ritiene che la parola «Deus», con la quale Adamo si era rivolto al suo creatore, potesse non essere espressiva di un pensiero adeguato a un così alto soggetto, e non fosse una lingua compiuta quella con cui egli aveva espresso il suo ringraziamento, non considera che il riconoscimento che con quell’esclamazione egli faceva della divinità presupponeva, in lui, il possesso delle perfezioni di cui era stato dotato. E, fra queste, quella di un compiuto linguaggio. Come, infatti, post prevaricationem humani generis, sarebbe stato un heu,12 ossia una nota di lamento e di pianto, a caratterizzare l’exordium […] locutionis, così Dante giudicava che, per contro, dovesse esser stata un’espressione, non solo gioiosa, ma consapevole di sé stessa e del suo oggetto quella del primo uomo, sia che fosse avvenuta «per modum interrogationis vel per modum responsionis»: «cum nullum gaudium sit extra Deum, sed totum in Deo, et ipse Deus totus sit gaudium, consequens est quod primus loquens primo et ante omnia dixisset “Deus”» (I iv 4). Ma c’era, tuttavia, dell’altro. Sebbene dalla lettura del testo sacro gli sembrasse di non potere, a proposito della lingua di Adamo, ricavare se non la certezza del suo essere stata una lingua, e che non incompleto era stato il dono fattogli da Dio, c’era, appunto, dell’altro. Si trattava di un dubbio che, sebbene non trovasse parole atte ad esprimerlo, tuttavia esisteva, tanto che, malgrado tutto, non si riusciva a far sì che non desse segno di sé. Così si passa alla seconda questione. Non si può dire infatti che, messe le cose in questi termini, e anche a prescindere da quel che fra breve non potrà non essere considerato, tutto, per Dante, fosse chiaro. Indeciso era rimasto se la prima parola fosse stata una domanda rivolta a Dio o una risposta data a lui. E non era un’indecisione che potesse esser lasciata sussistere senza aver cercato di darne la ragione. Nel caso che la sua fosse stata, non una domanda, ma una risposta, occorreva decidere in quale lingua Dio gli si fosse rivolto; e come altresì avesse potuto intendere la sua parola l’uomo che, nato per volere divino, senza padre né madre, non aveva avuto la possibilità di ascoltare, prima di quella di Dio, una voce che articolasse parole e gli imponesse di intenderne il significato. È ovvio che soltanto in forza e in ragione della decisione di Dio che così le cose andassero, e Adamo perciò comprendesse il senso della sua parola, egli poté intenderla. Per le stesse ragioni, anche se fosse 12. Innocentii III de miseria humane condicionis, I 6: «quid igitur est Eva, nisi heu-a?». E cfr. Mengaldo, p. 43.
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stato Adamo a rivolgere a Dio la sua parola, la possibilità che questa fosse inclusa nel suo patrimonio mentale avrebbe dovuto essere senz’altro ammessa: se aveva parlato era perché di farlo era in grado, ed era in grado di farlo perché la lingua gli era stata, con l’anima, donata da Dio. Eppure, come si è accennato, non si riesce ad escludere che un dubbio gli si fosse formato dentro e persistesse tenace al fondo della sua diversa certezza. Il dubbio che, malgrado le parole spese per escluderlo, persisteva tenace era se una vera lingua fosse stata quella con la quale Adamo si era rivolto al Signore. Poteva infatti supporsi che, come questi aveva parlato in una che non era propriamente una lingua, lo stesso carattere dovesse essere attribuito a quella in cui, in quell’occasione, il primo uomo si era espresso. In altri termini: posto che era dipeso dalla volontà divina che le cose fossero andate come erano andate, sia se Adamo avesse rivolta lui una domanda al Signore, sia se la sua fosse stata la risposta a una domanda che aveva ricevuta, non perciò poteva escludersi che, per decisione divina, egli le avesse, l’una o l’altra, formulate in una lingua che non era una lingua. Insomma, la certezza che Adamo fosse stato messo fin all’inizio in condizione di parlare, non riusciva a escludere del tutto il dubbio che le gravava sopra come un’ombra; un dubbio che non avrebbe avuto ragione di sussistere e non riusciva invece a essere eliminato: come qui di seguito si cercherà di far vedere. Si legge a I iv 6: Dicimus quod bene potuit respondisse Deo interrogante, nec propter hoc Deus locutus est ipsa quam dicimus locutionem. Quis enim dubitat quicquid est ad Dei nutum esse flexibile, quo quidem facta, quo conservata, quo etiam gubernata sunt omnia? Igitur cum ad tantas alterationes moveatur aer imperio nature inferioris, que ministra et factura Dei est, ut tonitrua personet, ignem fulgoret, aquam gemat, spargat nivem, grandines lancinet, nonne imperio Dei movebitur ad quedam sonare verba, ipso distinguente qui maiora distinxit? Quid ni?
«Quare ad hoc et ad quedam alia hec sufficere credimus». Ma, in realtà, posta in quei termini, invece di risolversi, la questione si era complicata. Se quella con cui, pronunziando il suo nome, ringraziava Dio, era una parola, è anche vero che con questa Adamo rispondeva ad altre che, a rigore, come si vedrà, non erano propriamente quelle di un compiuto e definito linguaggio. Erano bensì parole. Ma, formate dall’aria che si muoveva docile rispondendo ai suoi comandi, erano state formate e usate da Dio per una circostanza particolare, per questa e non per altro. Erano parole che stava-
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no a sé e facevano parte di un eloquio che non poteva avere riscontri in una parlata umana. Erano messaggi che, forse, non proseguivano sé stessi oltre l’occasione per la quale erano nati. Erano parole, se si vuole, che, poiché appartenevano a Dio, erano più che parole, ma anche meno se, invece che alla sua assoluta libertà di comunicare come che fosse, le si fosse ragguagliate a una lingua definita. Parole, comunque, comunicate a Adamo da Dio perché questi lo riconoscesse e gli rendesse grazie; e non tali, dunque, che, mentre ne comprendeva il senso in forza della sua volontà e della sua grazia, fosse da quelle che apprendeva l’arte della lingua. Quell’arte egli l’aveva già appresa nel momento stesso in cui era stato creato, e prima ancora di essere collocato nel Paradiso Terrestre. Se, ad abundantiam, si rileggono le parole che già sono state citate («rationabiliter […] credimus ipsi Ade prius datum fuisse loqui ab Eo qui statim ipsum plasmaverat»),13 il loro senso appare così chiaro che non c’è ragione di dubitare che quel linguaggio non fosse un vero linguaggio. Ma allora perché Dio non parlò ad Adamo nella lingua che gli aveva immessa dentro creandolo? Perché, in quel luogo del De vulgari, Dante immaginò che, per comunicare, in quell’occasione Dio si fosse servito di uno strumento che, essendo comunicativo, non era tuttavia, in senso stretto, linguistico («nec propter hoc Deus locutus est ipsa quam dicimus locutionem»)?14 Deve riconoscersi che non è facile comprendere perché alla parola che Dio aveva rivolta a Adamo Dante avesse assegnato quel carattere; e che, a spiegarlo, quel che si è detto qui su non è sufficiente. Certo è che, per dare un senso a questa differenza, si potrebbe proporre che, in tanto Dio si era espresso in quel modo, in quanto incolmabile era la differenza sussistente fra lui, che ne era il creatore, e Adamo, che ne era stato creato.15 Quella formata e usata da Dio era, appunto, la lingua di Dio, era una lingua che non poteva essere contenuta nei limiti di una che, sebbene fosse stata creata da lui, apparteneva pur sempre all’uomo, ossia a un essere che gli era incommensurabile. Che, nella circostanza specifica, si fosse risolta in un’escla13. De vulg. el., I iv 3. 14. Ibidem, I iv 6. 15. Non direi dunque, con Dragonetti, La conception du langage poétique, pp. 15 e 18, che, poiché «l’Autre, le plus proche auquel s’adresse d’abord le premier homme, est Dieu», «ainsi, Dante découvre dans la Genèse que le pouvoir de communication du langage se fonde en Dieu». Sulla interpretazione di Dragonetti, e sulla sua tendenza a sovrapporsi al testo, ha equilibrate osservazioni Pagani, La teoria linguistica di Dante, pp. 63 ss. (e cfr. anche M. Sampoli Simonelli, in «Cultura neolatina», 23 [1963], pp. 273-285).
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mazione («Deus»), si può forse spiegare se si considera che, della lingua di cui Adamo era stato dotato, quella era qualcosa come l’atto inaugurale. Se non s’intendesse così, se si respingesse la spiegazione che è stata proposta, la differenza resterebbe inesplicata. Se invece la si accoglie e, come Dante aveva supposto, si tiene fermo che non era stata una parola appartenente a uno specifico e compiuto linguaggio quella con la quale Dio aveva parlato, tanto più dovrà intendersi che fosse invece una lingua quella con la quale Adamo gli aveva risposto. Se Dio aveva parlato attraverso la natura, per rispondergli Adamo non poteva essersi servito di uno strumento come quello, del quale non era certo lui il padrone. Doveva aver fatto ricorso alla sua capacità di parlare rendendola immediatamente attuale con una delle parole con le quali, in tutto e per tutto, coincideva. Se si parla di «capacità di parlare» non è infatti per sostenere che altra sia questa e altra la concreta locutio, che la suddetta capacità precederebbe; e nemmeno, capovolgendo il versus, per proporre che la locutio non sia che una capacità di parlare, una facultas loquendi, che il concreto parlare trae dalla potenza all’atto. A I v1 Dante scrisse che ad ipsum Deum primitus primum hominem direxisse locutionem. Una locutio dunque, non, che sarebbe stato assurdo, fino alla comicità, la facultas loquendi, intesa come semplice struttura logica della lingua, era quella che Adamo aveva diretta al suo creatore. In effetti come si potrebbe rivolgere a qualcuno, non una parola pronunziata, ma la facoltà di pronunziarla? Oppure, come potrebbe pensarsi che a un interlocutore si rivolgano, non parole connesse in un costrutto, ma l’idea del costrutto? Per spiegare la natura della parola che era uscita dalle labbra di Adamo, e per intenderla come un’esclamazione che era tuttavia anche una parola, non occorre, dunque, e anzi sarebbe fuorviante, far ricorso alla distinzione della potenza dall’atto,16 e intendere che la lingua egli la possedeva bensì, ma soltanto come una possibilità alla quale era mancato fin lì l’atto che, appunto, l’avesse resa attuale. In realtà, la mancata emissione delle parole di una lingua che si possiede e, in un determinato momento, poiché si rimane in silenzio, non si rende udibile nei suoni, non significa il suo essere «potenziale» e non attuale, a quel modo che lo stare in silenzio non implica che la facultas loquendi non coincida con, ma piuttosto preceda, il concreto ed effettivo parlare. L’essere in potenza non può essere interpretato come anteriore all’atto e sussistente in sé stesso. Se lo si intendesse così, non 16. Come intese, per esempio, U. Palmieri, Appunti di linguistica dantesca, in «Studi danteschi», 41 (1964), p. 48.
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potrebbe evitarsi di concludere che alla radice di questa separazione si darebbe un atto assurdamente precedente l’atto. In realtà, di questa tesi, che ha avuto e ha i suoi sostenitori, deve dirsi con franchezza che non avrebbe potuto esser peggio formulata: soprattutto, s’intende, se con quella si fosse inteso far riferimento al modo in cui la questione della potenza e dell’atto era stata pensata da Aristotele e dalla tradizione che a lui fa capo. In realtà, non si dà potenza se non dove a precederla sia l’atto: il che significa che se, fra quella e questo che la precede, s’intendesse invertire il rapporto facendo in modo che a esser primo fosse, non l’atto, ma la potenza, questa allora dovrebbe essere il suo proprio atto, con la conseguenza che all’atto non potrebbe pervenire mai. Insomma, intesa così, la potenza sarebbe atto e non trascendibile perciò in un atto. Al contrario, dunque, di quel che interviene qui, dove, assumendola come in potenza, s’intende, nel fatto, che questa sia non più che una pura materia, priva di forma, e perciò non una lingua, ma, nella migliore delle ipotesi, un’astratta attitudine alla lingua. Il che, come deve ripetersi, non potrebbe riuscire più difforme dal modello concettuale aristotelico, per il quale è l’atto a far sì che, nel momento in cui la trae a sé, la potenza sia la potenza, ed è perciò l’atto ad escludere il suo poter stare chiusa in sé stessa. In realtà, questa idea che, al momento della creazione, la lingua di Adamo sarebbe stata soltanto in potenza, non ha alcun riscontro nel testo di Dante; ed è non più che un’escogitazione di critici che non furono, nella fattispecie, consapevoli della logica interna ai concetti che mettevano in campo. Altra, in ogni caso, e posto che il suo concetto fosse pensabile, una lingua chiusa per intero nella potenza e impossibilitata pertanto a dare segno di sé come la lingua che è se a renderla tale non intervenisse l’atto. Altra una lingua che, essendo ascoltabile soltanto nelle parole di volta in volta pronunziate, non per questo potrebbe dirsi che sia soltanto in potenza in quelle che qui e ora non sono adoperate e non risuonano nel discorso. Quel che non si ode e non risuona non è in potenza, ma, al contrario, è attualmente a disposizione di colui che, ove occorra, se ne serve e lo rende udibile e risuonante nel discorso. È il caso di quella che, sia pure soltanto in una parola, si sia resa tuttavia ascoltabile, e che, non fosse che per questo, mai avrebbe potuto essere coerentemente definita nei termini di una potenza separata dall’atto. Quella pronunziata da Adamo era stata in effetti una parola tratta alla luce dal patrimonio linguistico che era attualmente presente in lui. Era stata la vox che aveva reso udibile la risposta che egli dava
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all’interrogazione divina. Il che tanto più avrebbe richiesto di essere notato e sottolineato in quanto era argomento di ragione, per Dante, che, la lingua essendogli stata, insieme all’anima, soffiata dentro dal fiato divino all’atto della creazione, era stato ancor prima della sua collocazione nel Paradiso Terrestre che quello aveva parlato, e parlato subito, senza indugio («rationabiliter dicimus ipsum loquentem primum, mox postquam afflatus est ab Animante Virtute, incunctanter fuisse locutum»).17 Se Dante aveva pensato di concentrare tutte le parole della sua lingua nell’unica con la quale, pronunziando il suo nome, Adamo aveva ringraziato Dio del dono che gli era stato fatto della vita, la ragione stava forse a metà strada fra la teologia e la fantasia, dalla quale la prima era come potenziata e intensificata. Con tutto questo, era tuttavia come se un filo di disagio percorresse la pagina, vi permanesse e non riuscisse a esserne eliminato. La discrasia che, nel testo dantesco si era determinata fra la «non lingua» di Dio e la esclamazione di Adamo, che era tuttavia la parola di una lingua ‒ questa discrasia era, in effetti, tanto più insuperabile quanto meno fosse dato di coglierne la presenza in un luogo specifico del testo, in una parola che la rivelasse con quel carattere. Con la domanda concernente la ragione per la quale si era prodotta ‒ con questa domanda a cui non si è in grado di dare una persuasiva risposta,18 deve perciò accompagnarsi l’ipotesi che, di quel che aveva scritto nel quarto capitolo, e confermato nel quinto, Dante fosse e non fosse, a pieno convinto; che tesi diverse si muovessero nel fondo della sua mente e, non potendo rinunziare a una in favore di un’altra, di questa situazione fosse costretto a sostenere il peso. Era come se il richiamo che faceva degli argomenti di ragione e di quel che trovava scritto nella Genesi delineasse una situazione di non piena coincidenza, e non riuscisse a far tacere il dubbio che quella di Adamo non fosse stata, nell’Eden, una vera lingua, una lingua compiuta. Per un verso, Dante non poteva non credere al racconto della Genesi; e, per quanto lo accogliesse reinterpretandolo, non accoglierlo gli sarebbe stato appunto impossibile. Per un altro verso, era convinto che gli uomini avessero appreso a parlare dalle nutrici che li allevavano; dalla natura, in termini generali, e dalla storia. Sebbene, per un verso, ritenesse che quel che diceva di loro e del modo in cui avevano appreso a parlare non fos17. De vulg. el. I v 1. 18. Non mi sembra che diano una risposta a questa specifica domanda i passi addotti da Corrado, Dante, pp. 44-46 n. 24.
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se riferibile a Adamo e a quanti erano stati generati da lui dopo l’espulsione dal Paradiso Terrestre, la tentazione di reincluderlo con i suoi discendenti nella condizione che era propria dell’umanità postbabelica dovette essergli ben presente anche mentre scriveva il De vulgari eloquentia. Anche se si fosse ammesso che quella parlata da Adamo nelle ore trascorse nel Paradiso Terrestre era stata una vera lingua, poteva ragionevolmente ritenersi che si fosse conservata intatta anche nel lungo tempo che, dopo la caduta, aveva condotto l’umanità postedenica fino all’età della Torre? Il dubbio che, dopo la grave disubbidienza di cui si era reso colpevole, con la destinazione alla felicità Adamo avesse perduto anche la purezza della lingua che gli era stata insegnata da Dio, non poteva facilmente essere ricacciato indietro. Se nel De vulgari lo tenne a bada e impedì che emergesse in modo netto, più tardi quest’opera di contenimento non gli fu più possibile, ed egli procedette alla parziale (si badi parziale) revisione della tesi che vi aveva sostenuta. Si dà, dunque, nella trama di questi primi capitoli del De vulgari eloquentia, una sfasatura, una discrasia. Per un verso, fin dall’atto del suo essere venuto all’esistenza, Adamo era un essere parlante, era il padrone di una compiuta lingua. Per un altro, l’unico documento che, nel De vulgari, Dante ne forniva non era tale da estinguere il dubbio relativo alla sua compiutezza. L’assunto che quella parlata da Adamo nel Paradiso Terrestre fosse una lingua non riusciva ad avere piena ragione del dubbio che non fosse tale. L’esordio linguistico del primo uomo era avvenuto in una situazione particolare, dominata da un Dio che, per qualche ragione, a lui che, per sua volontà, ne possedeva una, si era rivolto in una lingua che non era una lingua. Perché mai? È una domanda alla quale già è stata data una risposta. Ma, riproponendola, alla risposta data in precedenza potrebbe aggiungersi che, se Dio aveva parlato in quei termini non linguistici, se, attraverso la natura, aveva fatto in modo che l’aria si muovesse ad quedam sonare verba, era stato perché sapeva che il possesso della lingua era in Adamo non altrettanto perfetto di come pure era stato detto, ma, in realtà, così rudimentale da rendere necessaria quella particolare forma di comunicazione. Non è, per esempio, senza significato che, nella sua riproposizione del racconto biblico, malgrado gli argomenti di ragione a cui aveva fatto ricorso Dante non producesse un solo esempio da cui risultasse che, oltre ad aver pronunziato il nome di Dio, Adamo avesse nel Paradiso Terrestre proferito altre parole. Sia pure, come si è detto, che l’evocazione del nome di Dio implicasse il possesso, da parte sua, di qualità che lo mettevano in grado
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di averne la nozione nel quadro di un conforme apparato linguistico. Resta che quel solo nome Dante colse sulle sue labbra, sebbene la Genesi gli fornisse il documento delle altre che aveva pronunziate. Fu quindi, in ragione, con ogni probabilità, di una scelta ben meditata se, nei capitoli iniziali del De vulgari, egli omise di ricordare il passo in cui, nella Genesi 2, 19-20, si diceva del nome che, rispondendo al comando divino, Adamo aveva dato agli animali messigli innanzi dal Signore perché, appunto, li nominasse e quello fosse per sempre il loro nome (in modo, si potrebbe dire, che furono le cose a essere conseguenza del nome, non i nomi delle cose!). Del pari, egli omise di riferire il drammatico dialogo che, dopo la consumazione del peccato, si era svolto tra Dio e Adamo. Lo omise forse perché alla sua fantasia la scena dell’espulsione dei due trasgressori dal Paradiso Terrestre era apparsa in una forma di pura drammaticità, alla quale appartenevano segni, non parole. Ma, come che sia, lo omise. Insomma, se nel De vulgari eloquentia, Dante fu così parsimonioso nel far parlare Adamo, perché questa scelta si determinò nel momento stesso in cui gli riconosceva il possesso, reale e attivo, della lingua che in lui era stata concreata con l’anima? Occorre, a questo punto, fermare l’attenzione su un passaggio che, a osservarlo con cura, si rivelerà di estrema importanza; anche se, lungi dal risolvere la questione, rischierà piuttosto di complicarla ancora di più. Come i lettori del De vulgari eloquentia sanno bene, il problema concernente Adamo e la sua lingua compare, per la prima volta, all’inizio del capitolo quarto in un contesto in cui il suo nome conosce una sola citazione, e così veloce e contratta che, a partire di qui, sono sorti i dubbi che, nelle precedenti pagine, sono stati esposti circa la compiutezza della sua lingua. Quel che tuttavia ora preme di mettere in luce non è ciò che ha determinato l’insorgere di quei dubbi, ma è bensì la pertinenza, alla natura del primo uomo, delle considerazioni sul linguaggio svolte da Dante nei capitoli secondo e terzo di questo primo libro. Che queste considerazioni non potessero riguardare Adamo dovrebbe, se si leggesse con attenzione, essere facilmente concesso. Il contesto in cui la questione del linguaggio fu discussa in questi capitoli era decisamente sociale. Nello scriverlo, Dante fece riferimento a un mondo popolato di individui che, in ragione del loro esser tali, non avrebbero potuto non disporre di uno strumento che a ciascuno avesse consentito e consentisse di entrare in comunicazione con gli altri. Non avrebbero potuto non disporne; e, perciò, se lo procurarono ricavandolo dalle condizioni stesse in cui erano venuti a trovarsi. Per contro, la
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situazione in cui, dopo la creazione, Adamo era stato collocato era quella, bensì, di una societas che, poiché era tale che a formarla erano due sole persone, non costituiva, rispetto a queste, un passato dal quale potessero ricavare uno strumento, via via più ricco, di reciproca comunicazione. Sta di fatto, in ogni caso, che l’acquisizione del linguaggio da parte di Adamo avvenne al di fuori anche della ristretta societas che, per poche ore, aveva formata, nell’Eden, con la compagna che Dio gli aveva messa accanto. Avvenne per la volontà e la grazia del Signore che, avendo deciso di creare un essere perfetto, non poteva non dotarlo del linguaggio. In un caso, dunque, la genesi del linguaggio fu delineata da Dante in termini di formazione e acquisizione sociale del medesimo: senza societas niente lingua. Nel secondo, fu delineata in termini di immediata creazione divina: con l’uomo Dio creò la sua lingua. Se è così, dov’è allora il problema? Il problema, in effetti, non si porrebbe nella forma acutamente aporetica in cui invece si presenta se le due situazioni fossero state da Dante delineate e descritte su una tavola in cui si fossero potute leggere le successive evoluzioni e variazioni della lingua che Adamo aveva ricevuta da Dio; se, in luogo di stabilire una linea di continuità che dall’espulsione dall’Eden conduceva a Babele, avesse rappresentato la selva, in cui i progenitori erano caduti e avevano poi generata la loro prole, come il luogo di un nuovo inizio. Altra insomma la creazione di Adamo, delle sue perfezioni e, fra queste, della sua lingua. Altra la nascita del nuovo Adamo decaduto fra le ambasce e i dolori della storia. Ma fra queste due situazioni, fra questi due diversi inizi, Dante non pose, in termini espliciti, la cesura e la differenza che sarebbero bastate a evitare la difficoltà. Le interpretò come se potessero essere prospettate nel segno di una continuità che le includesse entrambe. E, nel De vulgari eloquentia, non mostrò di essersi accorto della difficoltà nella quale incorreva collocando, l’una dopo l’altra, l’origine divina e quella storica e sociale del linguaggio. Non si accorse, in altri termini, che l’idea della genesi storica sarebbe entrata in insuperabile difficoltà con sé stessa, e così del pari, ma sull’altro fronte, quella dell’origine divina, se la prima fosse stata contaminata con la seconda, e questa con la prima. Insomma, non si poteva pensare, nello stesso tempo, secondo la logica della continuità e secondo l’altra della frattura. Che, d’altra parte, fosse difficile, per Dante, evitare questa insidia, può ben comprendersi. Per sfuggire alla difficoltà e proseguire nel segno della coerenza sul sentiero, intitolato alla genesi storica e sociale della lingua, sul quale aveva deciso di camminare, avrebbe dovuto evitare il contatto
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con il racconto biblico. Non potendo ignorarlo, e sapendo che era impossibile, per lui, non condividerlo, nella breve e nervosa trattazione che dedicò alla questione della lingua di Adamo non riuscì a fare in modo che il suo ragionamento non subisse le interferenze che provenivano dall’altra concezione: come, per esempio, e ad abundantiam, può vedersi da quel che, a I v 1, disse dell’uomo che, in quanto è uomo (tamquam homo), prima si fa sentire e poi sente. «Nam in homine sentiri humanius credimus quam sentire, dummodo sentiatur et sentiat tanquam homo. Si ergo Faber ille atque Perfectionis Principium et Amator afflando primum nostrum omni perfectione complevit, rationabile nobis apparet nobilissimum animal non ante sentire quam sentiri cepisse». È evidente che, richiamando il passo della Genesi nel quale si dice delle perfezioni che Dio aveva collocate nella sua creatura, Dante assegnò a Adamo la stessa perfezione che nel Convivio aveva attribuita all’uomo, che perciò i filosofi avevano definito divino animale,19 o, a rovescio, all’uomo storico attribuì i caratteri di quello che non aveva avuto un’analoga nascita. Nel che deve vedersi il segno di una identificazione forzata e non rigorosa: non era infatti altro che una impropria analogia quella per cui poteva dirsi «divino animale» un uomo che era stato generato per conoscere, non la felicità e l’immortalità, ma il dolore e la morte. Fu in questo, o in punti come questo, che si determinò l’incertezza, e presero forma i dubbi che, nelle precedenti pagine, hanno a tratti reso meno limpido il suo ragionamento, e ci hanno, in sede esegetica, dato un bel po’ di filo da torcere. Il discorso che è stato intrapreso per arrivare alla radice del dubbio che forse visitò Dante a proposito della lingua di Adamo, e dell’equivoco, comunque, che egli non poté evitare quando credette di poter mettere in successione incontraddittoria l’apprendimento della lingua da parte del primo uomo e la conquista della medesima da parte dell’umanità consegnata alla storia, deve andare avanti con l’analisi del passo che si trova all’inizio del terzo capitolo. In questo passo non è contenuto alcun riferimento a Adamo, ed è molto più che problematico pensare che possa riferirsi anche a lui. Senza possibilità che insorgano dubbi, vi si parla infatti dell’uomo storico, al quale il possesso reale e attivo del linguaggio era confermato senza mezzi termini (e qui, poiché il riferimento va al De vulgari eloquentia e non include il ventiseiesimo del Paradiso, con l’espressione «uomo storico» dovrà 19. Conv. III ii 15.
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intendersi quello dell’età non postedenica, ma postbabelica). Il linguaggio vi era era definito come un signum, caratterizzato dall’essere un sensuale quid est in quantum sonus est, ma rationale […] in quantum aliquid significare videtur ad placitum (I iii 3); e, a meno di gravi fraintendimenti, nessuno potrebbe suggerire che, sia pure in modo obliquo, nel fondo della coscienza di Dante operasse la convinzione che il nesso del suono e della razionalità significante fosse il risultato di un processo per il quale dal suono privo di significato razionale si perveniva a quest’ultimo, rendendolo tuttavia sensibile e percepibile in risonanti parole. Il che tanto meno potrebbe essere sostenuto sul fondamento del passo di I v 1 in cui è detto che, più che il sentire, proprio dell’uomo è il sentiri. Se con il verbo preso nella forma attiva s’intendesse l’attività dell’anima sensitiva, che sente, appunto, ma non intelligit, e con il verbo nella forma passiva ci si riferisse alla capacità dell’uomo di farsi ascoltare, e quindi di parlare, meno che mai potrebbe intendersi che il possesso del linguaggio e dell’anima intellettiva potesse essere preceduto da un tempo in cui vi fosse bensì l’anima sensitiva, ma quella intellettiva non fosse ancora venuta all’esistenza. Se mai l’idea di un processo interno alla lingua che, per gradi, dal puro sonus l’avesse condotta alla razionalità, poté essersi affacciato alla mente di Dante, non c’è prova che vi si fosse fermata tanto da assumervi una qualsiasi consistenza. Meno che mai a questa idea evoluzionistica della lingua si potrebbe dar credito suggerendo che a Adamo il linguaggio fosse appartenuto nella fase in cui non era se non puro suono sensibile privo di razionalità, e che questa fosse stata conquistata più tardi nel corso della storia. Ammetterlo si potrebbe soltanto se nel dubbio relativo alla compiutezza della lingua di Adamo fosse lecito sorprendere, non si dice un presentimento previchiano, ma qualcosa, comunque, di meglio della semplice impressione che lo fa insorgere; se, per esempio, si fosse certi che il nesso sentire/sentiri di I v 120 fosse interpretabile nel modo opposto a quello tenuto qui su, e fra l’anima sensitiva e quella intellettiva si desse un divario temporale invece dell’unità che, aristotelicamente, Dante presupponeva come propria dell’uomo. In realtà, quella certezza non sarebbe se non un grave equivoco: nel quale si cadrebbe se si ritenesse che dell’anima sensitiva Dante avesse mai posta l’autonomia, il suo poter stare per sé stessa e in sé stessa al di qua di ciò, l’anima intellettiva, di cui è fondamento. Per escludere che così le cose potessero stare, basterà ricordare, senza andare troppo per le lunghe, Convivio III ii 11-15, dove, dopo aver ricorda20. Per l’interpretazione di questo passo, cfr. Marigo, p. 27.
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to che, secondo Aristotele, «l’anima principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare», aggiunse che queste «sono intra sé per modo che l’una è fondamento dell’altra; e quella che è fondamento puote per sé essere partita, ma l’altra che si fonda sopra di essa non può»: il che, com’è spiegato poco dopo, significa che l’anima sensitiva può sì stare a sé, ma nelle bestie, negli uccelli, nei pesci «e in ogni animale bruto», non nell’anima umana, la quale «tutte queste potenze comprende» ed è «perfettissima di tutte l’altre», tanto che, poiché «partecipa della divina natura a guisa di sempiterna intelligenza», è a tal punto «in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è l’uomo divino animale dalli filosofi chiamato». Molte altre cose potrebbero dirsi di questo luogo, del resto famoso, in cui, nella questione dell’anima, Dante non si difese da una tendenza che lo spingeva verso esiti radicali. Ma comunque debba giudicarsi, è certo che da questo luogo del Convivio, che al De vulgari è cronologicamente contiguo, non si ricava niente che possa far pensare che l’uomo fosse atto bensì a raggiungere la razionalità, e quindi il linguaggio che ne è lo specchio, ma nel tempo, per tempora, se si vuol dire così, et aspera. L’unica certezza che al riguardo possa essere esibita è, non sembri un paradosso, quella relativa al dubbio a cui più volte si è accennato in queste pagine: e cioè che, razionalmente insoddisfatto di quel che leggeva nella Genesi, e fermo, tuttavia, nel ritenere compiuta la lingua di cui, ancor prima di esser collocato nell’Eden, Adamo era stato dotato, Dante non riuscisse tuttavia a esserlo tanto da non dover reprimere in sé il sospetto che, non di una lingua si fosse trattato, ma, se mai, del suo inizio. Un sospetto che, per altro, non poteva tramutarsi a sua volta in certezza. L’idea che la lingua di Adamo fosse passata attraverso fasi di successivo arricchimento non trovava infatti, nel pensiero professato nel De vulgari eloquentia, alcun fondamento. Detto questo, deve aggiungersi che non avrebbe ragione chi, dopo aver letto quel che qui su si è affermato, ne concludesse che, sia pure in forma più sfumata, nel dubbio, che Dante non poteva ammettere e non era in grado, tuttavia, di far tacere, relativo alla compiutezza della lingua di Adamo, per questa parte si sia andati vicini alla tesi proposta anni fa da Maria Corti; la quale, come si è più volte accennato nelle precedenti pagine, sostenne che questi passi del De vulgari dovessero essere letti a riscontro delle teorie linguistiche elaborate dai logici modisti e premodisti, e in par-
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ticolare da Boezio di Dacia.21 In effetti, la tesi sostenuta non può, in nessun modo, essere messa d’accordo con quella proposta dalla Corti. È vero che al dubbio avvertito in Dante si è dato un rilievo che ad altri potrebbe essere sembrato eccessivo. È vero che, nel proporre la tesi della compiutezza della lingua parlata dal primo uomo, si è sostenuto che a Dante l’approdo a una sponda in tutto e per tutto sicura non era riuscito se non in parte. Ma non perciò si è lasciato intendere che, parlando di «forma locutionis», egli alludesse ai princìpi universali e sostanziali dai quali la lingua di Adamo avrebbe poi preso il suo avvio in ragione della capacità «strutturante» che a quelli era intrinseca. Meno che mai si è lasciato intendere che, distinguendo fra i princìpi strutturanti e la lingua, si desse luogo a un tempo e a uno spazio all’interno dei quali a Adamo era riconosciuta la capacità di «lentamente» fabbricare il suo linguaggio traducendo in questo la forma locutionis che, per essere innata,22 era intrinseca alla sua natura. Contro l’idea secondo la quale, nel Paradiso Terrestre, quella di Adamo sarebbe stata, non una lingua concreta, ma una semplice facultas loquendi intesa, a sua volta, come la «‟causa formale” e il principio generale strutturante della lingua”» che poi si sarebbe formata nel tempo assumendo, insieme a quello della universalità, anche il carattere di ciò che è naturale, vari argomenti possono essere addotti. Il modo in cui la Corti interpretò il rapporto fra i princìpi universali e la lingua concretamente parlata, non solo non trova riscontro nei capitoli del de vulgari, ma, anche in sé stesso, presenta concetti più che incerti. Posto, infatti, che i princìpi dei quali qui si parla 21. M. Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1981, pp. 48-49, passim. La Corti confermò, da ultimo, il suo punto di vista nel saggio sul De vulgari eloquentia, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, Le Opere, I, Dalle origini al Cinquecento, Torino 1992, pp. 187-209 (ma 193-194). Di altri suoi contributi, che non modificano la tesi centrale, ma la confermano senza arricchirla, si veda l’elenco in Corrado, Dante, pp. 49-50 n. 34 e R. Zanni, Il “De vulgari eloquentia” fra linguistica filosofia e politica, in Dante oggi, I (= «Critica del testo», 14 [2011], 1), p. 290 n. 22. La tesi della Corti, che riscosse, fra gli altri, il consenso di U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Bari 1993, pp. 50-51, fu criticata da A. Maierù, Dante al crocevia?, in «Studi medievali», ser. III, 24 (1983), pp. 735-748, soprattutto, ma non solo, per il nesso stabilito con Boezio di Dacia, in part. pp. 74-82 (cfr. anche la replica della Corti, Postille a una recensione, in «Studi medievali», 25 (1984), pp. 839-845 e la controreplica di Maierù, Il testo come pretesto, in «Studi medievali», 25 (1984), pp. 847-855). E cfr. anche, sulla stessa linea, il saggio di F. Lo Piparo, Dante linguista anti-modista, in Italia linguistica: idee, storia, strutture, a cura di F. Albano Leoni, Bologna 1983, pp. 9-30. 22. Corti, Dante a un nuovo crocevia, p. 48, e Letteratura italiana. Le Opere, I, 50.
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abbiano il carattere, non solo della formalità, ma anche della strutturalità, che la Corti addirittura definì «strutturante», l’unica conclusione possibile è che la sola anteriorità di cui al riguardo si possa predicarli è, o dovrebbe essere, logica, non temporale. Da un contesto concettuale come quello proposto dalla Corti, restava infatti escluso che potesse darsi una fase del tempo in cui, in quanto tali, gli anzidetti princìpi potessero raccogliersi in un loro autonomo ambito, e precedere quel che comunque avrebbe dovuto derivarne, ossia, nel caso in questione, la lingua naturale in cui a Adamo sarebbe poi toccato di tradurre la forma locutionis. In realtà, se, come qui si assume, oltre che innata, tale forma fosse stata non solo strutturale, ma «strutturante», non si sarebbe potuto concedere che sussistesse in sé senza che a essa fosse data una materia su cui imprimere la sua forma: non sarebbe infatti ammissibile che fosse, e potesse essere, strutturante al di qua di ciò che doveva esserne strutturato. Se non s’interpretasse così, e ammessa fosse invece la possibilità che qui invece si esclude, coerentemente la si dovrebbe segnare con il carattere, non dell’attualità, ma della potenzialità, intesa, a sua volta, nel modo più incerto e approssimativo: in quello cioè che, in un contesto aristotelico/averroistico, avrebbe dovuto essere considerato impossibile o, quanto meno, altamente problematico: anche, e anzi più che mai, se si arrivasse a sostenere che la forma locutionis di Adamo non fu né una semplice facoltà di linguaggio né una vera e propria lingua, essendo invece la premessa della lingua naturale che poi «lentamente», e perciò, come che sia, nel tempo, egli costruì. In effetti, se le cose stessero in questi termini, e a Adamo, e all’esperienza che egli via via veniva facendo, si attribuisse la lenta «fabbricazione», nel tempo, della lingua, la conseguenza inevitabile sarebbe che in lui e nelle sue esperienze dovrebbe essere indicato il vero principio attualizzante o strutturante, in una lingua concreta, la forma locutionis: il che sarebbe quanto meno in contrasto con l’idea secondo cui a questa deve riconoscersi, non soltanto la strutturalità, ma una strutturalità strutturante, che verrebbe privata in questo caso proprio della capacità di cui la si predica, quella di imporre ordine e forma alle parti della lingua. Insomma, lo scambio delle parti sarebbe, in questo caso, così netto, che a fungere da principio strutturante sarebbe non il principio, ma ciò che dovrebbe riceverlo. Con una curiosa e, d’altra parte, inevitabile conseguenza; che si renderebbe manifesta, nella sua aporeticità, quando, per usare i termini della potenza e dell’atto, si considerasse che, in quanto anteriore al concreto parlare, la forma locutionis dovrebbe essere, necessariamente, in potenza, mentre non potrebbe non essere in atto se, come qui
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si sostiene, la sua natura fosse di essere un principio e, per di più, «strutturante». Ma, di nuovo, se il principio fosse strutturante, sarebbe impossibile che ciò che ne è strutturato non gli fosse contemporaneo, e che quello, il principio, potesse quindi precederlo ed essergli anteriore. Non per il gusto di proporre obiezioni astratte, che altri potrebbe giudicare di gusto sofistico, ma perché osservarlo è inevitabile, si aggiunga che, se i princìpi fossero strutturanti, ciò che ne fosse richiamato e ordinato non potrebbe esserne diverso: con la conseguenza che il concreto parlare non potrebbe differire da quei princìpi che, come princìpi, dovrebbero invece essergli anteriori: a meno che di essi stessi si facesse, non dei princìpi sussistenti per sé al di qua del concreto parlare, ma la stessa cosa di questo. Il che, posta la premessa, sarebbe assurdo. Ancor meno plausibile, del resto, è l’idea, che non infrequentemente affiora in coloro che sostengono questa tesi, del tempo che, dischiudendosi, fra l’anteriorità dei princìpi e la realizzazione del linguaggio, avrebbe consentito a Adamo di «fabbricarlo» via via («lentamente», è stato detto).23 Questa tesi, in effetti, è insostenibile. Alla 23. Corti, Dante a un nuovo crocevia, p. 47. Vorrei aggiungere che non riesce chiaro il rapporto che, nell’interpretazione della Corti, si stabilisce fra i princìpi strutturanti e gli idiomi particolari. Se la lingua di Adamo è caratterizzata dai princìpi costitutivi della forma locutionis e della naturalità che, secondo questa interpretazione, la caratterizza, i diversa ydiomata, gli idiomi particolari, non hanno alcun rapporto con quei princìpi che, essendo universali, non si predicano de singularibus; e la loro presenza nel mondo non può quindi derivare, nell’interpretazione della Corti, se non dalla maledizione che Dio lasciò cadere sull’umanità che si era riunita per dare la scalata al cielo con la famosa Torre. Ma mi sembra ovvio che così non è, che così non può essere e che, fra la punizione inflitta da Dio all’umanità, con la confusio linguarum e il costituirsi dei diversa ydiomata debba necessariamente porsi una distinzione. Una cosa infatti furono, in questo quadro, i frammenti o i pezzi separati della lingua che era stata unica e ora era in frantumi, un’altra le lingue particolari che, in seguito alla confusione, si formarono attingendo, ciascuna, un grado necessario di unità. Insomma, comunque la si debba ulteriormente interpretare, è evidente che al momento della vera e propria confusione, che rese vana la superbia e l’orgoglio dell’umanità ribelle, tenne dietro, all’interno dei vari gruppi umani, l’elaborazione di lingue diverse che, ciascuna, tuttavia era un’unitaria lingua. Quale che sia il particolare nesso che a un certo punto le strinse, altra è la confusione intesa come frammentazione e smembramento dell’unità, altra la differenziazione e formazione delle lingue; che si determinarono per ragioni che non furono direttamente prodotte dalla maledizione caduta sull’umanità che si era data alla folle impresa della Torre. Dopo di che, se, intesa da lei come il principio strutturante della lingua, la forma locutionis era stata resa concreta da Adamo che, «lentamente», «vivendo e nominando le cose», aveva «fabbricato» la lingua», formato il lessico e dato vita ai «fenomeni morfosintattici», non si capisce come possa sostenersi, e che senso abbia dire, che, ad andare distrutto, a Babele, fu il principio strutturante; che, dato e non concesso che mai avesse potuto sussistere al di qua di ciò che ne era reso possibile,
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sua luce, infatti, non solo non si chiarisce se ci si riferisca a Adamo quale era prima della caduta o all’uomo che fu dopo; non solo non si decide se fra l’uno e l’altro vi sia, rispetto alla lingua, identità o differenza, ma soprattutto in questa condizione di anteriorità non poteva sussistere già nel remoto momento in cui Adamo lo aveva tradotto in una lingua concreta. Si dirà che, per la Corti, con il principio strutturante, la punizione divina colpì la concreta lingua che Adamo aveva fabbricata e trasmessa all’umanità nata da lui. Ma, se questa fosse la sua obiezione all’obiezione, dovrebbe allora intendersi che, poiché il passaggio dalla forma locutionis alla lingua concreta era da tempo avvenuto, e a Babele era stato colpito, non il principio strutturante in sé stesso, ma la sua traduzione nella lingua, l’abbandono della premessa relativa alla sua anteriorità avrebbe dovuto andare di conseguenza. Anche avrebbe dovuto esser chiaro che era l’idea dell’anteriorità del principio strutturante a non poter esser tenuta ferma, sia se la si fosse considerata in sé, sia se la si fosse messa in relazione all’ambito aristotelico in cui il suo concetto richiede di essere pensato. In entrambi i casi, se il principio strutturante è condizione della cosa strutturata, a questa non può essere anteriore nel tempo (si darebbe, se lo fosse, una attività strutturante che non struttura), se è causa non si può prenderlo come se questa potesse restar chiusa in sé stessa, e non causasse. A risultarne non può perciò non essere l’idea della contemporaneità del principio strutturante alla cosa strutturata, e della causa all’effetto: non potendoci essere principio strutturante che, nell’esser tale, non strutturi, e causa che, per essere causa, non causi il suo effetto. Ancora meno comprensibile è l’idea che i volgari non siano se non i rottami di una nave naufragata (p. 49). Questa non fu certo l’idea di Dante: non nel Convivio, come si è visto, e non nel De vulgari, dove la ricerca del volgare illustre, regale e curiale, supponeva bensì che nei volgari dovesse essere eliminato quel che li rendeva indegni di stima, ma perché a emergerne fosse il tratto migliore che in tutti era presente (il punto qui toccato richiederà comunque, al momento opportuno, ulteriore attenzione: si errerebbe infatti se si pensasse che il volgare illustre sia la meta necessaria di ogni volgare che non abbia raggiunto quel grado di perfezione). Ritengo inoltre decisamente inaccettabile la conseguenza che la Corti ha tratta dall’idea che ad andar distrutto, nell’impresa della Torre di Bebele, essendo stato il principio strutturante, dalla presa d’atto di questa situazione si svolse il tentativo vòlto, almeno in parte, a porre rimedio, con la formazione della grammatica, alla perdita dell’unità che la frantumazione di quel principio aveva recata con sé (una tesi, questa, che sia pure con altre modalità e altri riferimenti, è presente anche in Dragonetti, La conception du langage poétique, pp. 2224). Rimedio parziale, secondo la Corti, perché quella di Adamo era stata una lingua naturale, mentre l’altra della grammatica non poté essere altro che artificiale. Ma l’osservazione non regge. Non ha infatti alcun riscontro nei testi. Creata direttamente da Dio, ed essendo perciò un sacratum ydioma, la lingua di Adamo si naturalizzò, non nell’Eden, dove non c’era alcuna ragione che si naturalizzasse e storicizzasse, ma dopo, e cioè quando, a causa della trasgressione del divieto divino, con la sua donna, egli perse le perfezioni delle quali era stato dotato all’atto della sua creazione. Per quanto, invece, concerne la grammatica, deve dirsi, in primo luogo, che essa non nacque affatto come lingua universale (non ci fu una sola grammatica, ce ne furono più di una) e che l’esigenza alla quale, con quella, si cercò di assolvere fu, non il ripristino dell’unicità della lingua, ma la realizzazione degli scopi che Dante aveva indicati a I i 3 e, più dettagliatamente, a ix 11.
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non si spiega in forza di quale concetto si parli di anteriorità e di posteriorità e quindi di un tempo che, distendendosi da quel «prima» a quel «poi», veda all’opera l’uomo che fabbrica, cioè articola in parole la sua lingua. Non di precedenza, dunque, deve parlarsi, ma se mai di coincidenza, non solo con la locutio, bensì anche con i rerum vocabula, con la constructio e la prolatio. Se perciò, distinguendo con nettezza fra ydioma, lingua, loquela, ma anche locutio, da una parte, e forma locutionis, da un’altra, con i primi termini si intendesse la lingua nella sua forma compiuta, e con l’altra soltanto una sorta o di principio formale, o, se si preferisce, di un nesso di princìpi sussistente al di qua di quella e destinato a tradurvisi per virtù di qualcosa che, intervenendo, fosse tale da determinarne l’attuazione, di nuovo dovrebbe osservarsi quel che osservato è stato già. Se lo si definisce «strutturante», un principio non può esser preso e posto al di qua del suo atto concreto, che deve, di necessità, fare tutt’uno con ciò che ne è assunto: pena altrimenti l’impossibilità di tener ferma, in assenza del suo oggetto, la sua stessa definizione. Se è così, deve tenersi fermo che di una simile antecedenza della forma Dante nel De vulgari non parlò mai. Mai vi lasciò intendere che la facultas loquendi e la forma locutionis fossero, esse stesse, non lingua, e lingua concreta, ma princìpi strutturanti ab extra, e non immersi nella lingua, non connessi alla lingua, che rendevano possibile.24 Non c’è perciò nessuna ragione di fargli dono di una dottrina che, formulata così, richiede una critica perentoria. Tanto meno, in effetti, la si trova, questa ragione, in quanto deve anche rilevarsi che, nei termini di questo assunto concettuale, 24. Eco, La ricerca della lingua perfetta, pp. 49-50, ha osservato che «se s’intendesse forma locutionis come una lingua formata», non si capirebbe perché, «per dire che Gesù parlò ebraico si usa una volta lingua e un’altra ydioma (e subito in I vii, raccontando l’episodio della confusione delle lingue, si usa loquela), mentre solo per il dono iniziale si parla di forma locutionis?». Si ammetta pure la disparità degli usi, che del resto è un fatto. Ma se forma locutionis si riferisse solo al dono che della lingua era stato fatto a Adamo, e questa non fosse stata una lingua formata, forse che dovrà intendersi che anche la sua discendenza possedesse niente più che «una facoltà di linguaggio», e non dunque una lingua; che possedesse gli innati princìpi universali della grammatica, non ancora resi attuali in un concreto parlare, e che insomma disponesse di una facultas loquendi, e in concreto, tuttavia, non parlasse? Ma Dante scrisse: «hac forma locutionis locutus est Adam», dove è evidente che la forma locutionis è immediatamente il suo loqui; e, per non essere frainteso, aggiunse: «hac forma locutionis locuti sunt homines posteri ejus usque ad edificationem turris Babel». La confusione delle lingue (o dell’unica lingua che fin lì si era parlata) fu confusione di lingue parlate, non certo di princìpi universali presi al di qua del concreto parlare.
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e sempre che si sia in grado di restargli fedeli, a realizzare i princìpi dando luogo alla lingua, sarebbero, non gli uomini della storia e, prima di loro, Adamo, ma direttamente i princìpi che, senza divario temporale, la realizzano. Del che può darsi un’ulteriore, e non marginale, ragione. Fermi restando sia il concetto della creazione divina sia quello della necessaria precedenza dei princìpi rispetto alla lingua compiuta, l’ammissione di un siffatto divario e, quindi di una precedenza astratta, importerebbe conseguenze gravi su entrambi i piani. Innanzi tutto, e lo si è già detto, sul piano dello «strutturante» e dello «strutturato», se si facesse che al primo fosse dato di restare chiuso in sé stesso come se, per dire così, fosse l’atto del suo essere, non in atto, ma in potenza. In secondo luogo, su quello della creazione, se si ritenesse pensabile il suo poter stare al di qua del creato in cui essa si realizza ed è effettivamente la creazione. Se la ratio philosophica non fosse assunta nella più ampia prospettiva di ratio theologica e giudicata in relazione a quel che questa impone, gli equivoci si aggiungerebbero agli equivoci in un’allegra cavalcata di assurdità. Non si rispetterebbe la premessa cristiana, alla quale certo Dante non intendeva venir meno. E non si rispetterebbe quella filosofica. Come gioverà ripetere, la «forma» di cui Dante parla è «concreata» tanto all’anima quanto, in questo stesso atto, ai rerum vocabula, alla costruzione e alla declinazione (I vi 4: «dico autem ‛formam’ et quantum ad rerum vocabula et quantum ad vocabolorum constructionem et quantum ad constructionis prolationem»).25 Il che significa che, riguardando insieme tutti e tre questi momenti, l’atto della creazione li fece, perché non poteva altrimenti, contemporanei l’uno all’altro nel segno dell’attualità. Se perciò in questo segno li rese attuali, la distinzione tra la forma locutionis, intesa come principio strutturante, e la locutio, intesa come realtà strutturata e lingua concreta, si rivela altrettanto impensabile di un’anima che stesse in potenza, ossia trovasse in questa la sua propria espressione, innanzi di diventare il suo proprio atto. La forma non precede la locutio, perché questa le è intrinseca e quella è, essa stessa, locutio. Si rilegga I vi 5-6: «hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel, que “turris confusionis” interpretatur; hanc formam locutionis hereditati sunt filii Heber, qui ad eo dicti sunt Hebrei». Potrà mai ritenersi plausibile che Dante abbia pensato che non solo Adamo fu dotato della forma locutionis, 25. Così intende, a ragione, anche G. Inglese, Il mito del volgare illustre, in L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura del Due e Trecento, Firenze 2000, p. 103.
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e non della locutio intesa come concreta loquela, ma anche i suoi «posteri» fino al giorno del giudizio babelico? Non è negabile che le difficoltà, i dubbi, le incertezze, che increspano le acque del trattato rendendone rischiosa la navigazione, diano segno di sé anche sotto altri profili: per esempio, sotto quello della perfezione di Adamo, che avrebbe dovuto tenere stretti in un nesso virtuoso, da una parte la conoscenza e, da un’altra, la sua innocenza. «Faber ille atque Perfectionis Principium et Amator afflando primum nostrum omni perfectione complevit» si legge a I v 1. Nette, per un verso, queste parole erano tuttavia, per un altro, problematiche, e debbono perciò esser di nuovo sottoposte ad analisi. Se infatti fosse stato vero, ossia razionale supposizione, che in Adamo Dio aveva infuso tutte le perfezioni, sarebbe impensabile che, oltre l’innocenza, fra queste non fosse stata compresa anche la conoscenza; che dalla prima avrebbe, per altro, dovuto essere esclusa. Dal discorso biblico risultava infatti che, per mantenere, con la propria innocenza, il privilegio di abitare il giardino dell’Eden, Adamo e Eva proprio dal mangiare il frutto della conoscenza avrebbero dovuto astenersi, e che questo era stato l’unico divieto che Dio aveva imposto alle sue creature. O l’una, infatti, o l’altra. O l’innocenza o la conoscenza, che insieme non potevano stare. A seconda che se ne fosse scelta una, e, con questa, le conseguenze che recava con sé, l’altra risultava esclusa. Ne derivava che si sarebbero avuti, un primus noster innocente e non conoscente,26 nel primo caso, un primus noster conoscente e non innocente, nel secondo, sempre che alla natura del peccato delineata nella Genesi si fosse, anche in questo caso, tenuto fermo. Insomma, il racconto biblico sarebbe stato rispettato nella sua intenzione più profonda se, mettendo la sordina all’affermazione relativa a tutte le perfezioni infuse in Adamo al momento della creazione, si fosse fatto battere l’accento su quella che aveva l’esclusivo nome di innocenza e 26. Sarebbe non più che una semplificazione far dipendere da questa prima alternativa la tesi, affermatasi via via nei tempi moderni, secondo cui in Adamo deve vedersi niente più che un uomo che, lungi dall’essere stato dotato di superiori capacità e conoscenze intellettuali, si fa lentamente e faticosamente strada nel suo mondo (documento esemplare di questa tesi si trova, per esempio, in Hobbes, Leviathan, I, 4 [ed. Oakeshott, Oxford 1960, pp. 17-18]). Ma che anche a partire di lì quella tesi abbia preso l’avvio, non credo sia discutibile. Un contributo assai notevole a questa storia estremamente complessa si trova nel bel libro di P. Rossi, I segni del tempo. Storia della terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Milano 1979.
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si fosse impedito che anche sulla conoscenza quello cadesse. Lo si sarebbe invece orientato, ma non senza coerenza, verso la soluzione paradossale di un Adamo creato nel segno del peccato, se dalla premessa relativa al suo essere stato dotato di tutte le perfezioni si fosse ricavato che fra queste la conoscenza non poteva non essere compresa: la conoscenza che, per un altro verso, era bensì una delle perfezioni, ma, anche era il peccato, che, fin dall’inizio, con tale forza, in questo caso, lo aveva segnato, che non poteva essere niente altro che una sorta di allegoria della volontà punitrice di Dio il serpente dal quale la prima donna era stata indotta a soggiacervi. Che, in questa forma specifica, la difficoltà non fosse presente a Dante, non significa che, per vie traverse, egli non l’avvertisse nella trama logica del racconto biblico. Non significa che non ne fosse messo in difficoltà. Sia pure che la contraddizione per la quale, da una parte, la conoscenza era, perché non poteva non esserlo, inclusa tra le perfezioni donate a Adamo, ma per un’altra era invece esclusa dall’innocenza con la quale era incompatibile ‒ sia pure che, nella forma in cui qui è stata presentata, questa contraddizione gli sfuggisse. Ma il conflitto che la Genesi poneva fra innocenza e conoscenza, era troppo esplicito e chiaro nei suoi termini, nonché nelle sue conseguenze, perché, sia pure in modo indiretto, egli non ne cogliesse l’alto grado di problematicità. Il tentativo che, da Agostino a Tommaso, si era esperito di interpretare il divieto che a Adamo era stato imposto di mangiare il frutto dell’albero simboleggiante la conoscenza del bene e del male, era diretto bensì a ribadire piuttosto la sovranità di Dio e il dovere, per l’uomo, di rispettarla obbedendo, che non un’innocenza coincidente, in lui, con la semplicità. Ma senza che con ciò si riuscisse tuttavia a spiegare come potesse accadere che, possedendo tutte le virtù e tutte le conoscenze, da queste potesse essere esclusa quella che, poiché non era da lui posseduta, tutte le altre erano destinate a cadere dal piano a cui, secondo quegli interpreti, erano state elevate. Se, nella Summa theologica e in quella contra Gentiles, si percorre l’elenco delle virtù e delle conoscenze che, all’atto della creazione, Dio aveva immesse nel primo uomo, si resterebbe addirittura sorpresi dalla generosità dell’attribuzione se poi non si considerasse che quella era relativa alla profondità del baratro che la sua perdita avrebbe provocato nell’uomo e nel suo destino di vivente nel fango e nel dolore della storia. La caduta, in effetti, era tanto più grave quanto più alti erano stati i doni concessi e poi ritirati, era tanto più drammatica quanto più si fosse considerato che nel giardino, in cui Adamo avrebbe dovuto condurre la sua vita, non era presente la morte, era tanto più disperante quanto meno si fosse dimenticato che lo stato dell’innocenza era
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tale che a colui che ne partecipava era stato concesso, fra molte altre cose, di videre Deum per gratiam,27 di prevedere la sua incarnazione,28 di conoscere aliqua de misteriis Dei manifesta, quae nunc non possumus cognoscere nisi credendo.29 Problematica era perciò anche la conseguenza che da tutto ciò immediatamente derivava, e avrebbe ben potuto essere considerato come inevitabile: con la trasformazione di Adamo da innocente in peccatore, anche il linguaggio non poteva aver conservata la purezza iniziale e non essere diventato un diverso linguaggio.30 Di qui la necessità di distinguere tra la lingua che Adamo aveva parlata nell’Eden e quella che aveva parlata quando, con la conoscenza, il dolore e la morte erano entrati nell’orizzonte della sua vita, e l’innocenza era stata perduta.31 Di nuovo, per conseguenza, il discorso ci ha ricondotti dinanzi a un primo e un secondo Adamo, diversi nella lingua quanto lo erano ormai 27. Summa theol. I, q. 94, a. 1. 28. Ibidem, II 2, q. 2, 7. 29. Ibidem, II 2, q. 5, 1. 30. Che questo problema rimanesse implicito nel testo di Dante, e non fosse da lui dichiarato, costituisce, a guardar bene, la ragione per la quale si deve, in sede esegetica, non tacerne, ma renderlo esplicito. Se, mai formulato con nettezza, questo pensiero non fosse stato presente in lui e, sia pure per vie traverse, non avesse prodotto conseguenze, sarebbe difficile, fra varie altre cose, spiegare la (parziale) svolta che, in tema di linguaggio, si determinò, come vedremo, nel ventiseiesimo del Paradiso. 31. Che su questo punto il testo suggerisca, e non confermi, è indubitabile. Ma la questione esiste. Se Dante non fosse stato visitato dal dubbio se la lingua parlata da Adamo dopo la sua estromissione dal Paradiso Terrestre fosse e non fosse stata quella che era in suo possesso quando lo abitava, non si comprenderebbe perché, sia pure senza stabilire connessioni e distinzioni, avrebbe tanto insistito nel sottolineare, accanto alla genesi divina della lingua, quella naturale; e nemmeno si comprenderebbe la «svolta» che, nel Paradiso XXVI egli impresse alla questione della lingua del primo uomo e del suo essersi spenta già prima che avesse inizio l’impresa sacrilega della Torre di Babele. Non è forse evidente che, per potersi «spegnere», il sacratum ydioma doveva necessariamente aver cessato di esser tale nel momento stesso in cui il peccato aveva sottratto a Adamo tutte le altre sue perfezioni? Che un dono divino, e il sacratum ydioma tale fu, potesse perdersi e la volontà del donante essere perciò smentita dalla prassi umana, è concetto arduo a intendersi sul piano della coerenza logica; tanto quanto, d’altra parte, lo è che questa sorte fosse toccata al primo uomo che non era stato creato perché perdesse quel che aveva ricevuto da Dio. Ma ancora più arduo sarebbe intendere che potesse essersi conservato intatto dopo la caduta per perdersi poi in un determinato momento del tempo storico. Debbo tuttavia anche aggiungere, e sarà certo per soggettiva pochezza, che non mi sono noti testi in cui tale questione, che in Dante fu obliquamente presente prima di prender forma in quel canto del Paradiso, sia trattata in modo esplicito. Siano benvenute, quindi, le smentite.
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sotto ogni altro riguardo, e a delinearsi torna perciò un motivo che già era apparso all’inizio di questa ricerca. La distinzione era chiara, era imposta dalle cose stesse. Ma, sul piano della fede e del suo rapporto con la ragione, importava conseguenze non lievi. Per sostenere che, unitariamente, Adamo era il primus noster, e che, fra la lingua parlata nell’Eden e quella parlata dopo che ne era stato estromesso, non si dava differenza, si sarebbe dovuto ammettere che fin dall’inizio la sua creazione fosse avvenuta nel segno, non solo dell’innocenza, ma anche della conoscenza, non solo della purezza ma anche della peccaminosità. Una tesi paradossale e pericolosa; meritevole della massima attenzione se la si fosse considerata sotto il profilo della coerenza e della razionalità, ma tale, in relazione al testo sacro e alla sua fondamentale intenzione, che il consenso non avrebbe potuto esserle dato se non entrando a vele spiegate nel mare della più radicale eterodossia. Il che non era certo nelle intenzioni di Dante che, se non intendeva rinunziare ai diritti della ragione, non perciò era disposto a mettersi contro la parola della Bibbia. In breve. Se rinunziare all’idea dell’innocenza era impossibile, escludere la conoscenza dal numero delle perfezioni non lo era di meno. Se innocenza e conoscenza fossero fin dall’inizio andate insieme, e la prima fosse stata, per dir così, contaminata dalla seconda; se, per conseguenza, il Paradiso Terrestre fosse stato abitato, non da due puri soggetti, ma da due soggetti impuri, ossia da due che ab origine erano stati segnati dal peccato della conoscenza, la tesi della continuità del linguaggio non avrebbe incontrata nessuna difficoltà a essere affermata: salvo che a non trovarvi più alcuna giustificazione sarebbero stati sia, se inteso nel modo che il testo sacro indicava, il Paradiso Terrestre, sia il linguaggio originario, al quale non sarebbe più stato possibile riconoscere la purezza che mai perciò, nei progenitori, sarebbe stata presente. Fin dall’inizio il linguaggio aveva conosciuto il destino di nascere dalla realtà; ma solo perché quella della sua origine divina era un mito, non un’idea che avesse dalla sua parte la forza della ragione. Un linguaggio edenico non c’era mai stato perché, a non esserci stato, era l’Eden. Per la stessa ragione, d’altra parte, e all’opposto, la tesi della continuità senza frattura era messa in crisi dalla constatazione che, se innocenza e conoscenza non erano state fin dall’inizio mescolate insieme, e la conquista della seconda aveva recato con sé la perdita della prima, anche il linguaggio doveva averne risentito, non essendo più, dopo il peccato della prevaricazione, quale era stato prima. Diverse nella premessa, le due posizioni convergevano, e, l’una non meno dell’altra, entrambe tendevano
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verso l’idea che soltanto con l’impresa della Torre l’umanità aveva perso la lingua che fin lì era stata quella parlata da Adamo nel Paradiso Terrestre. Di qui la necessità di chiedere chi dunque fosse, o che cosa fosse diventato, il personaggio che Dio aveva privato delle sue delizie. Rispetto a quello che vi era stato collocato, era o no, anche nel linguaggio, il personaggio che era stato all’inizio? A questa domanda la risposta di Dante avrebbe dovuto essere che, conquistata la conoscenza e perduta l’innocenza, anche nella lingua quel personaggio aveva cessato di essere quello che era stato. C’erano tutte le condizioni perché già qui fosse raggiunta la conclusione che, al riguardo, egli avrebbe tratta, o sarebbe andato vicino a trarre, molti anni più tardi, nel ventiseiesimo del Paradiso.32 Ma questa conclusione, nel De vulgari, Dante non la traeva. Vi trasse, invece, quella opposta: come risulta da queste parole, che converrà ascoltare di nuovo: Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel, que “turris confusionis” interpretatur; hanc formam locutionis hereditati sunt filii Heber, qui ab eo dicti sunt Hebrei. Hiis solis post confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratie frueretur. Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt.33
Parole chiarissime. A proposito delle quali, in aggiunta a quel che già se ne disse, deve notarsi che, a leggerle sensatamente, nessuno potrebbe dubitare di quel che Dante vi avesse inteso. Il suo pensiero era infatti che, senza subire modificazioni, dalla lingua che Adamo aveva parlata nel Paradiso Terrestre era provenuta quella che lui stesso e la sua discendenza avevano usata fino al momento in cui, con la costruzione della Torre, l’unica lingua, ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt, e cioè l’ebraico, si confuse, si perse e, quindi, si moltiplicò in tante parlate quanti erano i gruppi che allora si formarono: con l’eccezione rappresentata dai figli di Heber, che da lui furono detti Ebrei, e che furono gli unici a conservarla. A 32. Sulla (parziale) autocritica di Paradiso XXVI, cfr. infra. 33. De vulg. el. I vi 5-7. Che qui Dante seguisse essenzialmente Aug. civ. dei, 16, 11, e de Gen. ad litt. 9,12, 20, avendo presente anche Brunetto Latini (Tresor, III 1), è stato varie volte notato: cfr. Mengaldo, pp. 55-56, Tavoni, pp. 1179-1181, Fenzi, p. 42. Nardi, Il linguaggio, p. 191 n. 55, aggiunse Rabano Mauro, Comm. in Gen. 2, 11 (PL, 107), già segnalato, del resto, da P. Rotta, La filosofia del linguaggio nella Patristica e nella Scolastica, Torino 1909, pp. 78-80.
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giudizio di Dante che, anche qui, alla luce del Nuovo reinterpretò l’Antico Testamento, in tanto a quel popolo era stato concesso di conservare la lingua del padre, in quanto, per usare l’espressione di Convivio IV v 3, nell’«altissimo e congiuntissimo consistorio della Trinitade» era stato deciso che in quello dovesse nascere il redentore del genere umano. Ma, contrariamente a quel che da molti si è pensato, la citazione del Cristo a I vi 6 non significa necessariamente che la lingua ebraica gli fosse stata conservata perché con quella egli realizzasse la sua impresa redentrice e che per questa via Dante sottolineasse il rapporto esistente fra il peccato commesso nell’Eden dal primo uomo e la sua redenzione a opera del figlio di Dio.34 Se questo fosse il senso da attribuire al passo in cui Dante scrisse che ai soli figli di Heber era stato concesso di conservare la lingua ebraica in modo che «Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem», non solo potesse disporre, invece che di una «lingua confusionis», di quella della grazia, ma con questa altresì realizzasse l’opera della redenzione, nel ragionamento dovrebbe allora notarsi un’incongruenza o, quanto meno, un’inavvertenza o, per dirla alla maniera scolastica, un inconveniens. Proprio perché era la lingua, non dell’umanità tutt’intera, ma di una piccola parte di essa, l’ebraico sarebbe stato impari al compito di comunicare al genere umano preso nella sua totalità il messaggio della salvezza. A tal punto lo sarebbe stato che, almeno in riferimento allo strumento linguistico, Dante si sarebbe trovato a procedere in senso inverso a quello che egli avrebbe indicato e intrapreso sia nel quarto trattato del Convivio sia nel secondo libro della Monarchia, quando, osservando che era stato per decreto provvidenziale che la nascita, e la morte, di Cristo avvenissero nel momento in cui l’Impero romano godeva della sua più forte unità,35 immaginò che l’umanità fosse stata disposta come in un ideale teatro a contemplare il dramma salvifico del suo sacrificio. Potrà notarsi, senza dubbio, che né nel Convivio né nella Monarchia egli alluse alla lingua e alle questioni che essa avrebbe poste qualora in senso linguistico avesse dovuto essere interpretata la «parola» che, morendo sulla Croce, il figlio di Dio aveva rivolta agli uomini per la loro salvezza. Si potrà notarlo, traendone la conclusione che, in tanto alla lingua, in quei due testi, egli non alluse, in quanto si era avveduto dell’inconveniente che essa avrebbe rappresentato qualora la si fosse presa come un semplice strumento di comunicazione umana. In realtà, posto che, se 34. Vinay, La teoria linguistica del “De vulgari eloquentia”, p. 31. 35. Mon. II x 6-7, e xi 1-3 (ma tutto questo capitolo è da vedere).
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s’interpreta così, si deve poi essere pronti a cogliere la difficoltà che qui è stata messa in luce, non è detto che questa interpretazione sia l’unica possibile. Se lo si legge per quel che vi è contenuto, il passo che si è citato dice soltanto che la lingua ebraica fu salvata presso la piccola sezione dell’umanità che si era astenuta dal partecipare all’empia impresa della Torre, perché di lì si trasmettesse al redentore che, altrimenti, si sarebbe trovato a parlare, non la lingua della grazia, ma quella della «confusione», dalla quale sarebbe stato come contaminato. Ma non dice che con quella avrebbe realizzato la sua missione. L’unico indizio che gioca a favore dell’altra tesi è il termine «Redemptor noster»;36 che, non essendo, per altro, se non un modo di nominare il Cristo, non implicava necessariamente, in quel contesto, il richiamo della sua concreta azione redentrice. Per il resto, quando di nuovo accennò alla dissidenza della discendenza di Heber dall’orgogliosa impresa della Torre, Dante si restrinse a rappresentarla mentre, immune dal morbo della presunzione e della superbia, con ironia assisteva alla vana impresa nella quale il resto dell’umanità si era coinvolto: «quibus autem sacratum ydioma remansit nec aderant nec exercitium commendabant, sed graviter detestantes stoliditatem operantium deridebant» (I vii 8).37 Parole chiarissime, si è detto. 36. Il passo di Rabano Mauro, Comm. in Gen. 2, 11, che spesso è stato citato a riscontro di I vi 6 (Mengaldo, p. 56, Tavoni, p. 1192, Fenzi, p. 43) consuona bensì con quello dantesco, ma non nel rilievo relativo alla lingua. «Oportuit enim ut in ea lingua salus mundi praedicaretur primo, per quam primum intraverat mors in mundum». È vero che qui il riferimento è, non alla redenzione nel suo significato ultimo, ma, in modo forse meno radicale, alla salus mundi realizzantesi attraverso la predicazione. Ma resta significativo che, se ebbe sott’occhio questo passo, Dante preferisse non richiamarne il concetto, forse perché si era reso conto che una cosa era la parola di Cristo nel suo significato ultralinguistico, un’altra quella che coincideva con la lingua ebraica divenuta, da universale che era stata, una lingua particolare. 37. Tavoni, pp. 1193-1194, discusso da Fenzi, pp. 48-49, ha reso «hec minima pars, quantum ad numerum, fuit de semine Sem, sicut conicio, qui fuit tertius filius Noe etc», come se la «minima pars» si riferisse alla stirpe di Sem, che non tutta, dunque, ma solo, appunto, in minima parte, avrebbe partecipato all’impresa blasfema. «Quanto al numero (ha perciò tradotto) questa fu una parte minima della stirpe di Sem etc.». La proposta è ingegnosa. Ma il suo unico fondamento è nel sicut conicio, che aveva lasciato perplesso Mengaldo, p. 62 e Ebraico, ED, II, 622, il quale asseriva di non saper spiegare perché Dante avesse presentato come una sua congettura quel che, senza alcuno sforzo, si deduceva dal testo biblico. In effetti, mi sembra preferibile riferire la minima pars all’intera discendenza di Sem, che minima, senza dubbio, era rispetto al resto dell’umanità riunitasi nell’impresa della Torre; e, quanto al conicio, non mi pare che si possa intenderlo se non come la sup-
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E non tali, tuttavia, da dissipare l’impressione dell’incertezza che era nel fondo del suo pensiero, del dubbio che proprio così le cose fossero andate. È tempo che siamo alla ricerca della ragione che, senza salire mai alla luce della consapevolezza, la produceva. Si può dire, di nuovo, che l’incertezza nasceva dall’avvertimento della discrasia sussistente fra la tesi della perfezione e quella dell’innocenza, dall’impossibilità in cui Dante allora si trovava di scegliere l’una o l’altra e, in estrema analisi, dal sospetto che la scelta dell’una o dell’altra lo avrebbe messo di fronte a gravi difficoltà? Si può dire che il suo disagio aveva la sua radice nella consapevolezza della differenza che necessariamente si sarebbe dovuta ammettere fra la lingua che Adamo aveva ricevuta da Dio e aveva parlata nell’Eden e questa stessa lingua che, venuta a contatto con le asperità e i dolori della storia umana, non aveva potuto non riceverne in sé il duro contraccolpo e si era modificata tanto che, restando la stessa, anche si era resa diversa? Sta di fatto che, quale che ne fosse l’origine, il disagio di Dante esisteva; e non si può ignorarlo, sebbene non si sia in grado di definirlo. In questo disagio che dà segno di sé, è del resto ravvisabile la premessa, e già lo si è notato, della correzione, parziale ma significativa, che della sua idea della lingua prebabelica egli eseguì nel ventiseiesimo del Paradiso. Vi ritorneremo. Ma intanto si tenga conto di quel che si è detto, e si consideri che la premessa, e ben più che una premessa, di quella che è stata definita un’autocritica, era già nel De vulgari eloquentia: se non nella lettera esplicita, nel suo sottosuolo. Dall’esposizione di queste due interpretazioni deriva dunque che è alla seconda che deve darsi credito esclusivo, e che l’altra non ha nessun diritto da far valere? In realtà, se alla prima si è provato a dar forma, non è stato per obbedire a un qualsiasi estro metaesegetico. Che, nel fondo del ragionamento di Dante, si avverta un’indecisione, qualcosa che non riusciva a fluire con la dovuta speditezza verso una conclusione in ogni senso appagante, sembra proprio indiscutibile. Se, per un verso, ferma era la dichiarazione relativa alla completezza della lingua che, con una sola parola, per altro, Adamo aveva resa viva e udibile nell’Eden, per un altro è innegabile che a documento di questa, nei capitoli iniziali del De vulgari egli non aveva fornito nemmeno quel poco che era contenuto nel racconto posizione che, nella sua interezza, quella stirpe fosse in sé effettivamente esigua di numero (che lo fosse in relazione alla restante umanità, era ovvio e non oggetto di congettura).
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della Genesi. Sebbene l’avesse risolta nel modo che si è visto, la questione seguitava, perciò, a tenerlo inquieto. E non si trattava unicamente e soltanto di aspetti concernenti la lingua e il suo problema. Sebbene nel racconto biblico Adamo comparisse come un personaggio che parla, non perciò potrebbe dirsi che, prima di aver assaggiato il frutto proibito, fosse stato anche un personaggio pensante e in possesso della facultas cognoscendi. Fu infatti, soltanto dopo il compimento della trasgressione, che, come si legge in Genesi 3, 7 Adamo e Eva si guardarono e scoprirono di essere nudi: «et aperti sunt oculi amborum: cumque cognovissent se esse nudos consuerunt folia ficus, et fecerunt sibi perizoma». E fu la voce stessa di Dio a chieder conto a Adamo della conoscenza che a un certo punto egli aveva realizzata della sua, prima non avvertita, nudità. Genesi 3, 11: «quis enim indicavit tibi quod nudus esses, nisi quod ex ligno de quo praeceperam tibi ne comederes, comedisti?». Il che, senza andar troppo per le lunghe, significa che, sebbene il testo biblico definisse Adamo come il vir di Eva, prima di allora entrambi avevano vissuto al di qua di ogni forma di conoscenza che reciprocamente l’uno avesse, o avesse avuta, dell’altra, in uno stato, si direbbe, di tale innocenza conoscitiva e di così assoluta assenza di ragione, da far sospettare che, immersi com’erano nell’una e nell’altra e ignari di tutto, anche il linguaggio avesse risentito di questo loro modo di essere, non essendo quale sarebbe stato dopo che, con il peccato, anche la conoscenza era entrata nel loro patrimonio intellettuale e, di lì, in quello dell’umanità. Se a queste circostanze, che il testo biblico gli metteva sotto gli occhi inducendolo a meditarvi sopra, si concede l’attenzione che meritano, non apparirà allora nella forma della hybris esegetica l’osservazione che a questo punto non si può non proporre. Quando, all’inizio del secondo capitolo, non senza enfasi, Dante affermò che soltanto all’uomo il linguaggio era necessario e che esso solo, nel creato, lo aveva avuto in dono da Dio, era come se, in quell’atto, il suo pensiero si dirigesse, non tanto a Adamo quale era stato nella sua breve stagione edenica, quanto piuttosto a quello che era diventato dopo essere stato espulso dal giardino e immesso nel fangoso mondo della storia. Non all’Adamo dell’Eden dunque, ma all’uomo che, reso mortale e infelice, in quello stesso atto era, altresì, stato gettato in un mondo di molteplici soggetti nati dalle sue nozze feconde, in un mondo di soggetti che non avrebbero potuto costituire una comunità di viventi se il possesso del linguaggio non fosse stato, in loro e per loro, un saldo possesso. Dante sapeva bene che a renderlo tale era stata la conoscenza che, subentrando all’innocente
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purezza dell’origine, aveva fatto sì che la vita umana fosse tanto più varia e ricca quanto più, d’altra parte, era votata all’infelicità e alla morte. Insomma, nell’atto in cui evitava di drammatizzare la differenza, era tuttavia costretto a guardare a un uomo ormai diverso da quello del quale Dio stesso aveva solennemente dichiarata la destinazione a una illimitata vita felice: Genesi 3, 22: «ecce Adam, quasi unus ex nobis factus est, sciens bonum et malum: nunc ergo ne forte mittat manum suam, et sumat etiam de ligno vitae et vivat in aeternum», ma a quello che, per esser divenuto consapevole del bene e del male, meritava di essere estromesso «de paradiso voluptatis, ut operaretur terram de qua sumptus est» (3, 23). Guardava a questo Adamo e lo distingueva perciò dall’altro che avrebbe dovuto avere un diverso destino e non aveva invece saputo esser pari al compito che gli era stato assegnato da Dio. Che poi, in modo esplicito, questa distinzione fra l’Adamo edenico e quello postedenico nel De vulgari eloquentia manchi, e nemmeno sia chiara nel ventiseiesimo del Paradiso, è un’altra questione. Una questione delicata, che ha a che fare con la consapevolezza che Dante ebbe del problema che gli si era aperto dentro, e che certo non potrebbe essere definita come un’esplicita consapevolezza. Quella relativa alla distinzione, in Adamo, dell’uomo che era stato e aveva parlato nel Paradiso Terrestre dall’altro che, dopo la caduta, condusse la sua esistenza e pronunciò le sue parole nel mondo storico, è dunque questione tanto meno facile a essere risolta quanto più è arduo metterla nei suoi termini autentici. Se in Adamo occorre distinguere due uomini che, nell’identità del nome e della persona, agirono, vissero e pensarono diversificandosi in due vite appartenenti a tempi diversi, e in conseguenti due diversi caratteri, non dovrà perciò ribadirsi che non poté essere la lingua parlata prima della caduta quella che fu sua dopo che quel dramma si fu consumato? Estromesso dall’Eden e sprofondato nel dramma della finitezza e della morte, l’ipotesi che con ogni probabilità si era formata nella parte più profonda della consapevolezza di Dante era che Adamo avesse dovuto reimparare la lingua che gli era stata immessa da Dio al momento della creazione e, nel reimpararla, anche l’avesse resa diversa. Era che, nei fatti, il rinnovamento fosse stato imposto da esperienze che in nessun modo erano paragonabili a quelle che avevano caratterizzato la sua esistenza nel breve periodo che aveva trascorso nel Paradiso Terrestre. Fatte di uomini e di donne nati dal suo stesso seme, le nuove esperienze erano accadute e si erano via via formate nel quadro di una natura avara e ostile che richiedeva di essere duramente lavorata perché ne nascessero i frutti che, prima,
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nessuna fatica faceva fiorire. Ebbene. È questa la conclusione che, dopo avere scrutato con più attenzione quel che il testo tiene nascosto fra le sue pieghe, occorre trarre dall’analisi che se ne compia, ed estendere altresì al linguaggio che, dopo essere stato dato al primo uomo direttamente da Dio, ora invece si era fatto umano attraverso il contatto di necessità stabilito con le cose drammatiche dell’esistenza? Il punto interrogativo è d’obbligo perché la forzatura che per questa via si mette in atto nei confronti di quel che letteralmente il testo dice è innegabile. Ma se non si interpretasse così, e la lacuna concettuale che a questo proposito esso presenta non fosse colmata nel modo che ora si è indicato, la conseguenza sarebbe imbarazzante. Non potrebbe infatti spiegarsi perché, messa la questione nei suoi termini generali, con tanta forza e altrettanta convinzione Dante avesse insistito su quella che potrebbe esser detta la naturalità della lingua, con questo termine intendendo, non soltanto che διδάσκαλος dell’uomo nel suo apprendimento di essa era ormai la natura e non Dio, ma che la sua physis lo inseriva in un contesto sociale costituito da uomini al pari di lui necessitati a farsi intendere e a intendere. Se non s’interpretasse così, non potrebbe, fra le altre cose, spiegarsi, e si deve ribadirlo, la parziale autocritica che di questo nesso di problemi Dante dette poi nel Paradiso. Per l’uomo postedenico la lingua era uno strumento, innanzi tutto, di vita e di sopravvivenza; e tanto più lo era quanto più acuta si andava facendo in lui la consapevolezza che quello rappresentato dalla creazione di Adamo e dalle poche ore da lui trascorse nell’Eden era il prologo, non di una lieta commedia campestre destinata a durare in eterno, ma di una tragedia. L’uomo, pertanto, di cui Dante parlava quando in questi termini descriveva la sua natura e le necessità che ne conseguivano, era, e non poteva non essere, quello postedenico che, con la donna divenuta la sua sposa vera, aveva generato uomini ed era entrato con questi in un necessario rapporto di comunicazione. A quel che si sta dicendo si può dare il nome di «forzatura»? Sembra proprio di no, se si pesano le parole. La forzatura in questione si rivela infatti con il volto, non della hybris esegetica, ma, semplicemente, dell’esegesi, se con pazienza si considera la sua interna ragione. La lingua che, immesso nella storia e nei suoi travagli, Adamo dovette reimparare era pur sempre quella che gli era stata donata da Dio, e che egli era stato tuttavia costretto a rendere, giorno dopo giorno, adatta alle situazioni che la sua vita nel mondo gli metteva di fronte, e diversa quindi da com’era stata nell’Eden. Se perciò, al di là del detto guardando nel non detto, si immagina che nel fondo della coscienza di Dante agisse il pensiero secondo cui nella lingua postedenica quella
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parlata nell’Eden si era conservata, perché era su quella che intervenivano le variazioni imposte dalle cose storiche, e anche tuttavia modificata, perché erano sul serio variazioni quelle che le cose le imponevano, la ragione per cui s’interpreta così dovrebbe esser chiara e non contestabile. L’«identità con diversità» che caratterizzò la lingua di Adamo dopo la sua espulsione dall’Eden è la stessa che si nota e deve notarsi in lui; che era pur sempre l’uomo che, avendo generato figli e figlie, non era nato perché era stato creato da Dio, e non di meno da quel suo sé stesso era anche diverso, aveva dovuto rendersi diverso. Da soggetto di predicazioni elementari (l’innocenza, l’immortalità, la destinazione alla vita felice) si era, a causa della sua prevaricazione, reso soggetto di predicazioni opposte alle prime. All’innocenza era subentrata la conoscenza che lo aveva immesso nella regione del male. All’immortalità, la mortalità, con la conseguenza che la destinazione alla vita felice si era capovolta in destinazione alla infelicità. Rimanendo la stessa, anche la lingua si era fatta diversa, non poteva esser rimasta la stessa. Come colui che ora la parlava, era soggetta alla trasformazione e alla morte. Che concetti come questi possano, e debbano, essere colti nel testo di Dante, senza che pur si possa letteralmente ricavarli dalle parole che lo compongono, è, se si legge per capire, altrettanto indiscutibile del loro non essere saliti ai piani alti della consapevolezza. Ma che il problema esistesse per lui, è innegabile. Innegabile è che dovrebbe esistere anche per i suoi interpreti. Per ciò stesso che lo tiene implicito dentro di sé, è il testo che obbliga a renderlo esplicito e, per la sua importanza, a non considerarlo chiuso. A richiederlo è, innanzi tutto, la radicalità con cui, nei capitoli iniziali del trattato, Dante rappresentò l’innocenza del suo protagonista. Malgrado la presenza accanto a lui di una donna, della quale non era, prima del peccato di disubbidienza, riuscito nemmeno a percepire la nudità che condivideva con la sua, il breve tempo da lui vissuto nel giardino dell’Eden si era svolto al di fuori di un qualsiasi contesto sociale, e perciò, a rigore, di ogni «conoscenza» (e qui, con questo termine, s’intende il conoscere nella sua accezione più ampia, non quello a cui si allude in Genesi 4,1). Della nudità, nella quale allora si trovavano, i due non erubescebant, non essendoci vergogna senza conoscenza; la quale, in senso generale e particolare, non ebbe inizio se non dopo la loro estromissione dal giardino dell’Eden. Per parlare con la donna che gli era stata messa a fianco, e attuare con lei il crescite et multiplicamini38 che Dio aveva imposto agli 38. Gen. 1, 28.
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animali della terra, Adamo avrebbe dovuto conoscerla. Ma conoscerla significava disubbidienza al comando di Dio. Il riferimento a sé e alla sua donna dell’ordine impartito agli animali non avrebbe infatti potuto aver luogo se non nella vita del peccato e della morte, quasi che a quel successivo momento, e non al presente, Dio si fosse riferito quando, dopo aver formato la sua compagna traendola dalla costola di Adamo addormentato, aveva dichiarato che sarebbero stati duo in carne una.39 Lì, in quella nuova vita, fatta di lavoro e di pena, il nuovo Adamo avrebbe avuto bisogno di quel che nel Paradiso Terrestre non solo non gli occorreva, ma, in sostanza, gli era precluso dal divieto imposto alla sua voluntas cognoscendi quando, per qualche ragione, questa avesse dato segno di sé. Lì, ma non prima di esservi pervenuto, nel contatto con le persone e con le cose avrebbe reso attuale quella che nell’Eden era stata bensì una lingua autentica, ma come chiusa in sé stessa, perché da niente sollecitata a esercitare sé stessa fino al raggiungimento del suo proprio traguardo. Una lingua che non era in potenza, perché lingua era a tutti gli effetti; e che tuttavia era come se giacesse nello stato dell’inattività. Era insieme in atto perché completa di tutto, e inerte, o solo parzialmente attiva. L’incertezza, ma meglio forse si parlerebbe di inquietudine, che nei capitoli iniziali del de vulgari eloquentia dà segno di sé, è dunque, con ogni probabilità, da mettere in relazione con quella che a Dante era stata trasmessa dal testo biblico; e, più in particolare, dall’idea che egli aveva formulata del linguaggio come segno, parte sensibile e parte intellettuale. Questa idea poteva non suscitargli problemi quando fosse stata riferita all’umanità postedenica, o, stando al De vulgari, a quella che si era divisa in seguito al castigo inflitto da Dio ai costruttori della Torre. Ma ne arrecava invece, o ne avrebbe arrecati, vari e non pochi se, in modo esplicito o anche implicito, egli avesse inteso riferirla ai due abitanti del Paradiso Terrestre, che la lingua che parlavano, del resto con estrema parsimonia, l’avevano appresa direttamente da Dio, e non la esercitavano se non all’interno della loro ristrettissima societas. Se, perciò, privi com’erano della capacità di esercitare la conoscenza, li si fosse presi al di fuori di quella specifica situazione e dell’eccezionalità che la caratterizzava, si sarebbe, per coerenza, dovuto assumere che non fossero in grado di elevarla dal senso all’intelletto. È sulla situazione edenica, infatti, assai più che su quella postedenica, che l’attenzione deve rimanere concentrata quando si ha a che fare con un testo che, come il De vulgari 39. Ibidem, 2, 24.
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eloquentia, costantemente si riferiva alla Genesi. È altresì sul significato da attribuire allo stato di innocenza che, osservato con attenzione, non poteva non dar luogo a problemi. Per un verso, stando al testo sacro, dal suo ambito si sarebbe dovuto escludere la conoscenza. Per un altro, invece, era inevitabile reincludervela a causa della presenza nel primo uomo di tutte le perfezioni (I v 1). Se, per esempio, quando scriveva il De vulgari eloquentia, ebbe presente quel che, a proposito delle perfezioni immesse da Dio nella sua creatura, era stato scritto da Tommaso d’Aquino, è inimmaginabile che Dante non fosse stato colpito dalle dichiarazioni che, al riguardo, a più riprese pur con le consuete distinzioni e sottodistinzioni, ricorrono nella Summa theologica; e in particolare da quelle per cui non era inammissibile «Adam vidisse divinam essentiam supernaturaliter»,40 come non lo era che vedesse «Deum per gratiam»41 e avesse «duplicem cognitionem de Deo, scilicet naturalem et supernaturalem»,42 o da altre di non diverso tenore. Del pari inimmaginabile è che il richiamo che, esplicitamente, aveva avvertito di dover fare al tema delle perfezioni che Dio aveva immesse in Adamo, non aprisse il varco a pungenti difficoltà. Com’era possibile che lo stato d’innocenza fosse compatibile con la non conoscenza, e questa con la capacità attribuita a Adamo di «vedere» l’essenza stessa di Dio? Che perciò, a questo punto, il testo biblico delineasse una situazione duplice che, a un capo presentava la pura innocenza, a un altro una superiore capacità conoscitiva, in modo tale che la ratio esegetica si trovava a essere esposta a pungenti difficoltà, generali e particolari, è evidente. Non era chiaro, per esempio, e si doveva perciò procedere per congetture, che cosa, propriamente, l’interpretazione teologica dello stato edenico prevedesse in riferimento al suo necessario sviluppo. Si poteva ritenere che, facendo ai suoi abitanti il dono della lingua, Dio avesse inteso che dalla loro unione sorgesse una ricca progenie, e quindi una società, all’interno della quale il possesso di quello strumento sarebbe stato condizione indispensabile per il suo mantenimento. Da Adamo e da Eva avrebbe, in altri termini, preso l’avvio una generazione di uomini che, conservandosi immuni dal peccato, ma anche dalla conoscenza del bene e del male, avrebbero bensì disposto di uno strumento comunicativo uguale a quello dei progenitori, ma necessariamente meno ricco dell’altro che sarebbe stato proprio degli uomini viventi nella condizione postedenica: ossia di un 40. Summa theol. I, q. 94, a 1. 41. Ibidem, a. 3. 42. Ibidem, a. 3.
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linguaggio diverso da quello che questi ultimi avrebbero conosciuto e di cui si sarebbero serviti. Anche altro, tuttavia, si sarebbe potuto intendere. L’ipotesi infatti era, o tale avrebbe potuto essere, che, su ogni altra idea prevalendo quella della sua onnisciente decisione, in tanto Dio aveva disposto in quella forma il linguaggio di Adamo e di Eva in quanto gli era ben noto che la loro innocenza non avrebbe retto alla sfida dell’intelligenza, e che, necessariamente, con il loro passaggio dallo stato della felicità a quello del dolore, anche la loro lingua era destinata a farsi più ricca. Nella sua onniscienza, egli sapeva che, diverso da quello che avrebbe dovuto essere, sarebbe stato il corso delle cose. Espulsi, dopo pochi giorni o poche ore, dall’Eden, essi sarebbero stati costretti a foggiarsi una lingua che, pur provenendo dalla prima, e ripetendone i caratteri essenziali, con questa non avrebbe potuto mantenere se non legami sempre più tenui. Insomma, se nell’Eden la lingua che Dio aveva appresa a Adamo e a Eva era stato l’ebraico («fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt»),43 quella che essi parlarono, dopo che ne furono cacciati, fino al momento in cui ebbe luogo l’impresa della Torre, potrebbe, nello svolgimento di questa ipotesi, essere definita come un ebraico di secondo grado, come un ebraico storico succeduto a quello divino ed esposto perciò a tutte le variazioni che, prodotto umano, le lingue subiscono nel loro corso. Per dirla in una parola, quello provocato dal serpente non era certo stato, agli occhi di Dio, un incidente che il suo sapere provvidenziale non avesse previsto e la sua volontà non avesse voluto. Queste considerazioni, alle quali altre potrebbero aggiungersi, non appartengono al testo dantesco. Di questo si deve dar conto al lettore, avvertendolo che la loro formulazione non ha altro scopo che di sondare la profondità da cui poco alla volta, e per vie che altrimenti non potrebbero essere indicate, venne a maturazione l’idea che, a proposito della lingua di Adamo e del suo spegnimento innanzi che avesse inizio l’avventura della Torre, Dante avrebbe poi esposta nel ventiseiesimo del Paradiso. Le considerazioni che precedono, o le ipotesi, se si preferisce chiamarle così, sono dirette a dar conto della differenza che, ragionando sul filo di una razionale esegesi del testo biblico, avrebbe dovuto esser dichiarata sussistente fra il linguaggio, quale si trovava a essere nello stato edenico e quello che, formatosi in 43. De vulg. el. I vi 7.
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seguito all’estromissione di Adamo e di Eva dal Paradiso Terrestre, aveva via via subìto modificazioni anche prima che, a causa della costruzione della Torre, si fosse determinato il trauma della confusione e, come effetto di questa, il formarsi dell’ydioma tripharium, dal quale trassero origine i tanti volgari di cui si disserta nel primo libro del trattato dantesco. Il punto autentico della questione, il tratto che, se fosse stato posto in migliore luce, avrebbe fatto apparire più netta la distinzione fra l’uomo che viveva nell’Eden e quello che ne era stato estromesso, è stato già toccato quando, fra varie altre cose, qui su si disse che, per l’autore del De vulgari eloquentia, il linguaggio era insieme sensibile e intellettuale,44 e che sarebbe perciò stato difficile accreditarlo con questo carattere a un uomo e a una donna che, quali i due progenitori erano stati nel Paradiso Terrestre, non disponevano del bene (o del male) della conoscenza. È un punto, d’altra parte, così importante e, salvo errore, così poco o nient’affatto notato, che l’insistenza posta nel dargli rilievo non sarà da mettere sul conto della coazione a ripetere, senza necessità, il già detto. Nell’assegnare l’origine del linguaggio al dono che Dio aveva elargito al primo uomo, e, per un altro verso, alla natura, come si potrebbe dire semplificando, e alla storia, Dante incorse, dunque, in pungenti difficoltà. Per enunziare la prima, che era in un certo senso anche la più grave, in un caso alla lingua era stato assegnato un inizio, coincidente con l’atto creativo di Dio, mentre, nell’altro, su questo punto si sorvolava, quasi che potesse considerarsi pacifico che si dessero, non un inizio, ma due inizi, senza che fra essi si indicasse il rapporto. Nel primo caso, la lingua era stata donata all’uomo, tutta intera, dal gesto di Dio; e se Adamo non l’aveva parlata se non in piccola parte, la ragione che Dante avrà avuto in mente per spiegare perché ciò fosse avvenuto era che, nelle condizioni in cui si era trovato nell’Eden, non c’era stata necessità, per lui, di attingere al compiuto patrimonio che era, in lui, tanto presente quanto inattivo (il che, come si è visto, non può essere interpretato nel senso che fosse soltanto in potenza). Nel secondo caso, che certo non si poneva in esplicito contrasto con il primo, e piuttosto gli si affiancava senza potervi coincidere, la lingua era detta «naturalis nobis» (I i 4), propria, cioè, dell’uomo in quanto uomo. Certo, la natura era, lato sensu, strumento di Dio, sì che, per il suo tramite, era pur sempre alla causa delle cause che, per intendere quel che era avvenuto, si doveva risalire: salvo che, 44. Ibidem, I iii 2-3.
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ferma restando la premessa, qui la si considerava negli effetti che ne erano stati determinati nella realtà storica, a cominciare dalle parole che le nutrici insegnavano agli infanti, introducendoli nella selva dell’esistenza sociale. Fra i due casi, che avrebbero costituito i termini di una contraddizione solo se Dio e la natura fossero stati messi l’uno contro l’altra, la differenza era dunque soltanto di grado; e assumeva tuttavia caratteri di più acuto contrasto quando, entrata la lingua postedenica nel complesso travaglio della sua confusione, la sua unità si spezzò in lingue diverse, e in ciascuna si rese evidente il processo dell’ulteriore differenziazione: come poi Dante avrebbe detto nei versi del ventiseiesimo del Paradiso, che già sono stati ricordati, «l’uso d’i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e l’altra vene» (vv. 137-138). Poiché, come si è accennato, non è da escludere che, già nell’età del De vulgari, alla sua mente fosse balenata l’idea, non solo della differenza che, pur nell’unità, era intervenuta nella lingua postedenica, ma anche, forse, del suo essersi differenziata, e poi spenta, prima che l’impresa della Torre avesse avuto inizio, questa sequenza richiede di essere resa esplicita attraverso il ritorno alla distinzione, che qui sopra è stata proposta, del primo dal secondo Adamo: da un lato quello che era stato nel Paradiso Terrestre e a cui Dante aveva fatto pronunziare non più che una parola, da un altro quello postedenico, che non aveva invece potuto non rendere interamente attiva, nella varia societas hominum che via via si era formata, la lingua che prima, pur essendo compiuta dentro di lui, non aveva avuto occasione di manifestarsi se non in una parola. La questione a cui si torna ad accennare è importante e non potrebbe esser sottoposta alla censura che suole colpire i così detti argomenti ex silentio. È vero che, nel De vulgari, in modo soltanto indiretto Dante aveva asserito che, nel breve periodo trascorso nell’Eden, Adamo non aveva pronunziato se non la parola «Dio». È vero che non aveva avvertito che, se quella soltanto aveva pronunciata, molte altre (e tante da formare una lingua) erano in suo possesso. È vero che, sia pure ex silentio, aveva evitata l’inconseguenza per la quale, se della potenza si fosse fatto qualcosa di sussistente in sé, nella sua precedenza rispetto all’atto, la si sarebbe resa atto: l’atto, se si vuole, del suo essere in potenza (che è atto). Ma che a uscire dalla bocca di Adamo fosse stata quell’unica parola era un fatto, al quale non si poteva non attribuire un significato. Dal modo in cui il racconto biblico era riesposto, e prospettato nei capitoli iniziali del De vulgari, risulta che per Dante, la lingua di Adamo aveva rivelata la sua ricchezza soltanto quando, dopo la breve stagione della felicità edenica, da lui, dalla
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sua sposa e dalla sua discendenza si era dato inizio a un’età di duro lavoro, di affanni e di morte. Dunque, nel senso che si è detto, e che ora torna a dar segno di sé, due Adami, connessi per un verso, separati per un’altro, ma in forza della stessa ragione. Come già si è detto, il secondo non era infatti se non il primo, decaduto dallo stato della felicità e coinvolto in un mondo di drammi e di dolori. Per evitare che sorgano equivoci, deve per altro avvertirsi che questa distinzione è strettamente funzionale all’interpretazione del linguaggio e delle sue modificazioni, e non ha niente a che vedere con quella, del resto ignorata da Dante, che, nei suoi trattati sulla creazione del mondo e dell’allegoria delle leggi, era stata proposta e argomentata, per esempio, da Filone. Il quale, intervenendo con forza sul testo biblico e interpretandolo ben al di là della lettera,45 aveva distinto l’uomo che Dio aveva creato, e doveva essere considerato incorruttibile e eterno, da quello che, viceversa, aveva plasmato con la terra e con la polvere e al quale, perciò, l’eternità non spettava.46 Senza che la sua presentasse analogie o consonanze con la distinzione proposta dall’allegoresi filoniana, anche Dante tuttavia, sia pure implicitamente ne proponeva una. Collocando, da un lato, l’Adamo edenico e, da un altro, quello postedenico, lasciava intendere che, se al secondo spettava la corona di spine dell’infelicità, anche però gli si doveva riconoscere qualcosa che, comunque, gli spettava di diritto. Senza recidere il filo che lo legava al primo, doveva ritenersi che il vero padre dell’umanità era il secondo Adamo, che nel primo aveva una premessa che non aveva potuto non modificare nella conseguenza. Il che, sia ben chiaro, non significa che nel dramma dell’Eden la fantasia e il pensiero di Dante non si fossero profondamente coinvolti. Significa proprio il contrario. Chi lo presentasse come uno che tanto era interessato al mondo della natura e della storia quanto non lo era nei riguardi del grande prologo teologico che ebbe per teatro il Paradiso Terrestre, cederebbe alla più stantia delle retoriche umanistiche,47 e si vieterebbe di capire il senso complessivo del discorso che, per introdurre il tema speci45. Gen. 1, 26-27 e 2, 7 non si riferiscono alla creazione di due diversi uomini, e comunque non c’è, nei due passi, niente che autorizzi a interpretare il primo come relativo a un Adamo creato, e il secondo come relativo a un Adamo plasmato. 46. Phil. de mundi opif., 46, 134-135. E in alleg. legum, 16, 53-55. 47. Z. Baranski, La linguistica scritturale di Dante [1989], in “Sole nuovo, luce nuova”. Saggi sul rinnovamento culturale in Dante, Torino 1996, pp. 79-80, ha perfettamente
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fico della lingua e conferire a esso l’autentico significato, Dante condusse nei capitoli iniziali del De vulgari eloquentia. Sia pure attraverso il secondo, il primo Adamo gli fu sempre ben presente. Ma se il suo interesse andava all’uomo decaduto, a quello che aveva generato gli uomini che popolavano il mondo e vi compivano le loro varie imprese; se andava all’uomo che, in origine, aveva appreso a parlare direttamente da Dio, ma alla lingua che aveva ricevuta in dono aveva dovuto conferire nuovi caratteri una volta che dalla sua breve felicità il peccato lo aveva trasferito nel dramma della storia, era perché a suscitarlo, quell’interesse, era l’episodio che aveva prodotto la grande caduta, era il secondo Adamo che, presupponendo in sé il primo, lasciava intendere su quali fondamenti la storia del mondo aveva avuto il suo inizio e aveva preso a dipanare il suo filo. Per questo, e solo per questo, debole fu, in apparenza, l’inclinazione a discutere delle questioni connesse al soggiorno dei due primi uomini nel Paradiso Terrestre. Se non poté dirlo, o comunque non lo disse in modo esplicito, fu perché la conseguenza che gli stava in mente non poteva far sì che egli ignorasse la premessa, che il secondo Adamo cancellasse in sé il primo. Era a questo tuttavia che, come si è detto, andava il suo interesse. Il che spiega la relativa sua indipendenza da una tradizione teologica che non aveva rinunciato a mettere in luce la perfezione del primo uomo, e tanto più, anzi, vi aveva insistito quanto più forte fosse stata l’intenzione di esaltare, in lui, la incommensurabile gratuità del dono divino. Da Agostino a Tommaso d’Aquino, e in parte già lo si vide, teologi e filosofi insigni avevano assegnato a Adamo, quale era stato nell’Eden, ogni possibile perfezione, anche intellettuale e conoscitiva. A quel che di positivo era stato detto nel racconto della Genesi avevano conferito il maggior possibile rilievo. Non potevano ammettere, evidentemente, che semplicità e innocenza fossero la stessa cosa di immaturità intellettuale e ignoranza. Non potevano accogliere, nelle drastiche conseguenze negative che con facilità se ne sarebbero potute trarre, l’idea che, per il progenitore dell’umanità, la conoscenza avesse significato la perdita dell’innocenza e questa fosse stata la premessa di una immensa tragedia. Fra la conoscenza, della quale dichiaravano che fin dall’inizio Adamo aveva ricevuto il dono, e quella che aveva acquisito in seguito alle male arti del serpente, proponevano una (facile) distinzione riparatrice. Non erano, evidentemente, ragione di protestare contro le esagerazioni modernizzanti di alcuni interpreti del De vulgari eloquentia.
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disposti ad accettare che le parole del testo sacro fossero prese alla lettera quando la completa aderenza a questa avesse fatto correre il rischio o della sua banalizzazione o, al contrario, delle drammatiche conseguenze che se ne sarebbero potuto trarre. In Civ. dei 14,17, a proposito di quel che in Genesi 3, 7, si diceva della non avvertita nudità dei due progenitori, e della troppo letterale interpretazione che se ne dava, Agostino aveva provato come uno moto d’ira e pronunziato parole di pungente sarcasmo: «neque enim caeci creati erant, ut imperitus vulgus opinatur». Di qui, per accoglierle e, nello stesso atto, trasfigurarle, la tendenza, che aveva avuto forse la sua prima, netta espressione nell’Epistola di Paolo ai Romani, 5, 14, a connettere Adamo, interpretato perciò come τύπος τοῦ μέλλοντος, ο, per dirla con la vulgata, come forma futuri, con Cristo, autentico redentore del genere umano.48 Lungo questa via, era come se, idealmente, senza essere cancellato il peccato coincidesse con la sua redenzione. Non che, in astratto, al De vulgari eloquentia questa disposizione esegetica fosse estranea e a essa il suo autore fosse ostile. Ma Dante che, nel leggere la Genesi, si era proposto di procedere rationabilius, e ne aveva reso avvertito il lettore, aveva tuttavia le sue buone ragioni per non accettare senza riserve un’interpretazione che sostituiva per intero lo «spirito» alla «lettera», e dove il testo diceva «innocenza» pretendeva che si leggesse «perfezione intellettuale». A parte ogni altra difficoltà che potesse insorgerne, l’idea della perfezione in cui Adamo era stato collocato rendeva impossibile, o quanto meno assai difficile, comprendere come mai, possedendo la conoscenza, avesse potuto concedere al male di entrare nel suo mondo, dal quale perciò era stato estromesso insieme alla donna che, per prima, aveva ceduto alla tentazione del serpente. Ancora. Quando nell’Ecclesiastico 16, 1-6, leggeva che all’uomo Dio aveva donato il discernimento, lo aveva dotato della lingua, lo aveva rivestito d’intelligenza, mostrandogli il bene e il male, si può supporre che si sarebbe meravigliato non poco se qualcuno poi avesse preteso di interpretare questi versetti a riscontro di quanto, a proposito di Adamo, si leggeva nel libro della Genesi, dove palesemente la scienza del bene e del male era riservata a Dio e sottratta all’uomo e alla donna che ne erano stati creati. Certo, gioverà ripetere, un’interpretazione esegetica così autorevole non poteva essere ignorata, e qualcosa si doveva pur concederle, come può vedersi dal generico omaggio che, velocemente, Dante le tributò nel luogo, 48. Cfr. anche Cor. 15, 45.
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già ricordato, in cui aveva detto che il primo uomo era stato colmato di tutte le perfezioni (primum nostrum omni perfectione [Deus] complevit).49 Ma al di là di questa affermazione egli non andò; la lasciò, senza trarne conseguenze esplicite, dove l’aveva collocata; e soprattutto evitò di ricavarne ciò che pure, in tema di linguaggio, avrebbe potuto. Preferì, per dir così, aggirarla, e, aggirandola, fare in modo che la distinzione, da lui implicitamente operata in sede di linguaggio, fra i due Adami, l’uno innocente e non conoscente, l’altro conoscente e non più innocente, pervenisse al lettore e questo fosse discretamente avvertito che era a quest’ultimo che egli riservava le sue migliori attenzioni. Certo, dando voce al primo dei due temi che gli stavano dentro e male s’intrecciavano fra loro, non aveva potuto non ammettere che la lingua parlata dall’umanità prima della costruzione della Torre era stata la stessa che nell’Eden era appartenuta ad Adamo, e cioè l’ebraico, mentre, in omaggio alla coerenza e dando ascolto a una voce che era pur sempre la sua e non poteva non essere ascoltata, fra lingua e lingua, fra ebraico, eventualmente, e ebraico, avrebbe dovuto distinguere al modo stesso in cui nel progenitore del genere umano distingueva quello dell’Eden e l’altro che, perduta l’innocenza, aveva conquistato la scienza del bene e del male. Questo sotterraneo contrasto ha lasciato, nel testo, più di un indizio. Quando, per esempio, nel secondo capitolo, Dante fece notare come, fra tutti gli esseri della terra e del cielo, all’uomo soltanto spettasse, come indispensabile e necessario, il linguaggio ‒ quando formulò questo concetto e si trovò di fronte la questione della lingua degli angeli,50 chi potrebbe escludere che, per un istante, nella sua mente si fosse formata l’idea che, proprio come quelli, che parlano senza in realtà parlare, e s’intendono l’un l’altro nel modo peculiare che ora si vedrà, anche Adamo e Eva avessero, nell’Eden, comunicato fra loro in una non dissimile maniera? Si è indotti a pensarlo perché non era sul serio necessario che la questione della lingua angelica fosse introdotta in quel luogo a chiarimento della tesi che Dante aveva in mente. Bastava, a questo fine, l’osservazione secondo cui all’uomo soltanto, e non agli animali, il possesso della lingua era necessario. 49. De vulg. el. I v 1. 50. Non entro qui né nella questione specifica alla quale il testo allude (rinvio, al riguardo, all’importante saggio di Mengaldo, Preistoria e componenti di una tesi dantesca, pp. 162-199), né a quella della locutio angelica: osservazioni e letteratura in Zanni, Il “De vulgari eloquentia”, pp. 307 ss.
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Ma, dando rilievo a un modo di comunicazione non linguistica così nobile com’era quello che egli attribuiva alle intelligenze angeliche, Dante forse intese suggerire che, dopo tutto, c’erano più modi, oltre quello linguistico in senso stretto, di comunicare il proprio pensiero, e proprio quello attribuito agli angeli avrebbe potuto appartenere, agli inizi, ai due abitanti del Paradiso Terrestre. È, beninteso, un’ipotesi, e niente più; ed è comunque più che probabile che, se mai da questa idea fu sfiorato, nel ricacciarla indietro Dante considerasse che, mentre gli angeli erano sostanze separate che rendevano obiettivi i loro pensieri nello specchio divino dove ciascuno di loro poteva leggerli e intenderli, i due primi uomini erano invece pur sempre stati plasmati, bensì da Dio, ma con la polvere e la terra, e dai primi perciò dovevano essere distinti e tenuti a parte anche nella questione che concerneva la lingua. Eppure, alla resa dei conti, non era alla lingua parlata nell’Eden dai due primi uomini che egli si riferiva quando la distingueva da quella degli angeli. La sua mente andava alla lingua di uomini che, a differenza di Adamo e Eva, erano dotati di ragione, e non più di innocenza, e non essendo, a differenza degli animali, in grado di conoscere l’altro mediante i corpi e le passioni, privi, d’altra parte, com’erano di ciò che appartiene alle sostanze separate, non potevano leggere gli altrui pensieri nello specchio di Dio. Erano dotati di intelletto, e questo, sebbene Dante evitasse di dirlo, li distingueva dai progenitori, che erano pura e semplice innocenza.51 Ma erano tuttavia costretti a convivere cum grossitie atque opacitate mortalis corporis, con due pesi, dunque, che al loro spirito impedivano di librarsi nell’aere puro dell’intelligenza. Essendo una creatura di confine, fu in considerazione di questa sua physis che all’uomo era stato dato il linguaggio. Gli era stato dato attraverso il drammatico dono che, per la via del peccato, gli si faceva della storia e della sofferenza. Ed era stato dato all’Adamo postedenico, non a quello che, nel Paradiso Terrestre, non aveva acquisita la conoscenza, e, come non aveva consapevolezza del bene, che Dio gli aveva arrecato creandolo, così ignorava il male di cui l’invidioso serpente gli aveva indicata la via e, soprattutto, non poteva essere posto ad un bivio come quello che divideva il cielo e la terra. 51. Dante non riprese, né qui né altrove, la questione, che (cfr. n. 40) aveva suscitato il vivo interesse di Tommaso, relativa al carattere della conoscenza e della scienza di Adamo. In Summa theol., I, q. 94, a. 1., si legge, per esempio, che Adamo «cognoscebat […] Deum quadam altiori cognitione quam nos nunc cognoscamus; et sic quodammodo ejus cognitio media erat inter cognitionem praesentis status, et cognitionem patriae, qua Deus per essentiam videtur». Ma sia questa, sia la successiva quaestio, debbono essere tenute presenti.
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Certo, avendo, anche se solo per incidens, richiamato la dibattuta questione dell’intelligenza degli angeli, Dante non aveva potuto evitare che, anche a lui, fosse apparsa pungente quella relativa all’insorgere dell’invidia onde da buoni alcuni di loro erano diventati malvagi. La questione non era infatti risolvibile se non con argomenti estrinseci e ricorrendo a non meno estrinseche distinzioni. Per ciò stesso che li leggevano riflessi nel puro specchio della virtù divina, era infatti impossibile che i loro pensieri fossero difformi da questa e inidonei quindi a esserne riflessi. Impossibile era che potessero esserne deviati dall’influsso di elementi la cui presenza o insorgenza non era, in quel contesto, ipotizzabile. La loro sostanza e la loro essenza non consistevano infatti se non nell’ininterrotta contemplazione di Dio: tanto che suona, fra imbarazzata e non pertinente, la risposta che Dante dette al quesito relativo, non soltanto all’insorgere, in alcuni di essi, della malvagità, ma alla conoscenza che potesse aversene. Quesito che egli risolse in due modi parimenti inadeguati, e cioè dichiarando la questione non pertinente a una sede nella quale doveva trattarsi de hiis que necessaria sunt ad bene esse, e aggiungendo che, ad manifestandam inter se perfidiam suam,52 a ciascuno non occorreva se non di conoscere la malvagità di chi ne era affetto e segnato: come se la questione non fosse stata quella relativa all’ammissione che la malvagità insorgesse in una sostanza angelica, e quindi all’altra della sua conoscibilità nello specchio divino.
52. De vulg. el. I ii 4.
4. La Torre di Babele e la confusio linguarum
Se, nelle parti esaminate fin qui, i capitoli iniziali del De vulgari eloquentia presentano problemi, non solo complessi, ma aperti a ulteriori, possibili complicazioni, un giudizio non diverso è imposto dal criterio che, a I vii 4-7, Dante scelse per trattare la questione classica della Torre e della confusione delle lingue.1 Anche qui era il racconto biblico che, per il modo in cui era congegnato, nascondeva più questioni di quante ne dichiarasse. Di qui la necessità che, per interpretare il testo che Dante vi aveva esemplato, senza tradire la lettera se ne cerchino e dichiarino i possibili significati, non sempre coerenti l’uno all’altro. Si sa, perché vi si è già accennato (e in una precedente occasione se ne discusse in modo specifico),2 che, riprendendo la questione nel ventiseiesimo del Paradiso, Dante arrecò 1. Letteratura sull’argomento sarà citata via via. Essenziale è l’imponente opera di A. Borst, Der Turmbau von Babel. Geschichte der Meinungen über Ursprung und Vielfalt der Sprachen und Völker, 4 voll., Stuttgart 1957-1963. Ma importante, per le questioni trattate qui, è J. Budillon, Babel. Étude biblique à partir de ‘Genèse’ 11, 1-9, Paris 1990, e I. Rosier-Catach (con la collaborazione di R. Imbach), La Tour de Babel dans la philosophie du langage de Dante, in Zwischen Babel und Pfingsten. Sprachdifferenzen und Gesprächsverständigung in der Vormoderne, a cura di P. von Moos, Zürich-Berlin 2008, pp. 183-204. Osservazioni interessanti, ma che andrebbero discusse in altra sede, su Firenze-Babele, in E. Brilli, Firenze e il Profeta. Dante fra teologia e politica, Roma 2012, pp. 139 ss. Una dotta e brillante messa a punto delle questioni storiche e archeologiche concernenti il luogo in cui la Torre fu costruita è in una lectio brevis tenuta all’Accademia dei Lincei il 10 gennaio 2013 da Mario Liverani. Spero che sia presto pubblicata. 2. Sul progresso che, radicalizzando il concetto della naturalità della lingua, Paradiso XXVI segna nei confronti del De vulgari eloquentia, insistette Nardi, Dante e la cultura medievale, pp. 190-195. Per ulteriori questioni, cfr. il mio In margine a ‘Paradiso’ XXVI 123-34, in «Cultura», 42 (2004), pp. 297-314.
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alcune correzioni a quanto aveva affermato nel trattato latino. Per ricordare il caso più ricco di conseguenze, senza nemmeno accennare alla possibilità che si fosse formata per una via diversa da quella segnata dalla creazione divina, sostenne che la lingua che Adamo aveva parlata nell’Eden e anche dopo esserne stato discacciato dalla vendetta di Dio, si era per intero «spenta» già prima che Nembrot avesse dato l’avvio all’impresa della Torre. La conseguenza era stata che, se in ebraico il primo uomo aveva parlato prima della caduta, di un diverso, anzi molto diverso, ebraico, se non addirittura di un’altra lingua,3 doveva ritenersi che si fosse servito dopo che quella era avvenuta, e prima, quindi, che, producendo il fenomeno della confusione, la punizione inflitta da Dio al genere umano la moltiplicasse in lingue diverse. Di tutto questo si parlerà a più riprese perché, a più riprese, la questione è destinata a ripresentarsi. Ma fin d’ora occorre ribadire che dai versi del Paradiso non si ricava in nessun modo che, fin dall’inizio e, quindi, già nell’Eden, la lingua di Adamo fosse nata, invece che dall’atto creatore di Dio, dalla natura e dall’esperienza: come se, anche se assai più lungo fosse stato il tempo che poté trascorrervi, nel Paradiso Terrestre si potessero compiere esperienze identiche, o, quanto meno, analoghe, a quelle che si compiono in terra. L’ammissione di quel che qui si considera impossibile avrebbe importato, da una parte, l’irrilevanza del Paradiso Terrestre e della sua assoluta peculiarità, da un’altra il rifiuto di quanto nella Genesi era stato detto riguardo alla creazione dell’uomo. Un conto, infatti, era nutrire dubbi sul senso letterale del racconto relativo alla Torre, un altro era estenderli al Paradiso Terrestre e al significato che dovesse attribuirsi alla scena originaria che vi aveva avuto luogo. Riprendendo nel Paradiso la questione della lingua, Dante poté bensì non dar rilievo al momento del3. L’idea che diverso da quello originario di Adamo fosse l’ebraico da lui e dai suoi parlato dopo l’espulsione dal Paradiso Terrestre si ricava, non direttamente dal testo di Dante, e nemmeno dalla Genesi, ma come si è già notato, dal suo essere stato all’inizio un sacratum ydioma che, a causa della punizione divina, non poteva, se non in parte, aver mantenuto il suo carattere. Come a più riprese si dice nel testo, a questa inferenza deve ricorrersi se si vuole intendere non solo la ragione per la quale, fra il De vulgari e il Paradiso, si dettero, in tema di linguaggio, le differenze che sono state spesso notate, ma anche il limite da cui la loro novità è segnata. Non è al concetto dell’uomo come autore, o, addirittura, creatore del linguaggio che Dante approdò nella terza cantica, ma a quello bensì del suo essere decaduto dall’originaria innocenza e beatitudine e essersi reso un essere inquieto e instabile nella sua finitezza. Sottolinea a ragione il carattere «perfetto» della lingua di Adamo nell’Eden S. Auroux, Comment surmonter Babel?, in «Corps écrit», 36 (1990), pp. 113-114, che non ne trasse tuttavia, salvo errore, quel che più interessava.
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la sua creazione divina, poté bensì far battere l’accento sul tema dell’esperienza umana, e, implicitamente, riferirsi piuttosto alla fase postedenica che a quella edenica in senso stretto. Ma, senza mettere formalmente in discussione l’idea secondo cui la lingua era stata immessa da Dio in Adamo al momento della creazione. Nel ventesimosesto della terza cantica Dante, in effetti, si restrinse ad asserire che quella si era del tutto spenta prima che gli uomini avessero dato mano a costruire la famosa Torre; e, su questo punto, lasciò largo spazio all’interpretazione. Suggerì che nel momento in cui gli uomini avevano tentato la folle scalata al cielo, la lingua con cui si erano trovati a comunicare era ormai diversa, non solo da quella che Adamo e i suoi avevano parlata all’origine della storia umana, ma anche dall’altra che, in prosieguo di tempo, era stata la loro. Senza che questa interpretazione fosse suggerita o esclusa, lasciò intendere, o permise che si intendesse, che anche questa fosse stata sostituita non tanto da una nuova lingua unitaria, quanto piuttosto da una notevole molteplicità di lingue diverse. Insomma, la divisione delle lingue e, in corrispondenza a queste, dei popoli, che Agostino («et per linguas divisae sunt gentes dispersaeque per terras, sicut Deo placuit»)4 e, in seguito, Giovanni di Salisbury5 e molti altri avevano attribuita alla confusione linguistica prodotta da Dio nell’umanità cospirante contro di lui con l’impresa della Torre, era invece fatta risalire, da Dante, alla ratio stessa, se si potesse dire così, del corso storico in cui gli uomini erano stati immessi in seguito al peccato della prevaricazione. La lingua di Adamo si era spenta nel tempo perché si era moltiplicata e modificata in più lingue; e questo fu dunque il risultato della storia, non della punizione inflitta da Dio alla tracotante ambizione degli uomini che avevano progettata la costruzione della Torre. Ne conseguiva, e lo si vedrà meglio in seguito, che nel ventiseiesimo del Paradiso, il dramma babelico era bensì nominato, ma nell’atto, tuttavia, in cui lo si spogliava del significato che, nel De vulgari, gli era stato mantenuto. Se poi ora si chiedesse una più puntuale periodizzazione, e si desiderasse perciò stabilire se Dante tenesse per fermo che, già nel momento in cui toccavano il suolo della terra e entravano nel regno delle cose mortali, anche nella lingua, Adamo e Eva avessero dovuto registrare differenze rispetto a quella che avevano parlata nell’Eden, la risposta non sarebbe facile. La questione non potrebbe infatti essere decisa se non dichiarando che, conforme alla logica della situazione, 4. Aug. civ. dei, 16, 4. 5. Policraticus, VII 1 (ed. cit., pp. 27-28).
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così avrebbe dovuto essere: salvo che, su questo punto, il testo era rimasto muto, e di questo deve prendersi atto. Il rovesciamento tuttavia che, per questo riguardo, nel Paradiso egli eseguì della tesi tradizionale non avrebbe potuto essere più netto. Giunto al suo compimento, tale rovesciamento metteva in crisi la stessa idea della confusio linguarum conseguita all’impresa della Torre e alla punizione con cui Dio l’aveva colpita: più radicalmente, vi passava accanto ed era come se la cancellasse. Su questo non sembra possano esserci dubbi; mentre assai meno semplice sarebbe dar risposta alla questione, che già, del resto, è stata accennata, se nello storicizzarsi e naturalizzarsi della lingua dovesse, sulla linea agostiniana, cogliersi, o no, il segno della decadenza che il peccato della prevaricazione aveva fatto gravare sul futuro dell’umanità. A quanto qui su fu detto distinguendo, e perciò giudicando la decadenza in relazione, o alla perdita dello stato edenico, o a determinati momenti del tempo storico giudicati migliori dei presenti, deve aggiungersi quanto segue. Se, invece che così, si ragionasse in termini di astratta consequenzialità, e, a partire dal peccato della prevaricazione e della caduta che ne era conseguita, la decadenza fosse considerata come l’essenza stessa del tempo storico considerato al di qua dell’escaton dal quale era comunque atteso, la risposta dovrebbe essere positiva: anche perché non è affatto detto che, riferita a Dante, quella conseguenza risulterebbe dedotta astrattamente al di fuori di concreti riferimenti ai testi. Certo è però che, per porre le questione nei suoi termini propri, e fare in modo che il ragionamento corresse sul filo di specifici concetti, occorrerebbe tener conto dell’idea che Dante ebbe della natura assunta nella complessità dei significati, non in ogni senso coerenti, che dall’interno la costituirono nel segno, per un verso di Aristotele e, per un altro, del pensiero cristiano. La natura che egli vide all’opera nel processo costitutivo del linguaggio era piuttosto lo strumento di Dio che non il segno della peccaminosità e dell’imperfezione umane. Era piuttosto quella per la quale «ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propria perfezione»,6 che non «la mala disposizione della materia onde esso [ossia l’uomo] è fatto, che fu principio del peccato della natura».7 Il contrasto in cui queste due concezioni si ponevano l’una con l’altra, è netto. E ha la sua ragione nella impossibilità che, fra la concezione aristotelica e quella cristiana, l’accordo fosse sul serio intrinseco, e potesse perciò 6. Conv. I i 1. 7. Ibidem, III iv 7.
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darsi una σύγκρισις che fosse stata in grado di modificare lo stato delle cose. Sta di fatto, tuttavia, che, quando parlò della storicità della lingua umana, a concetti svalutativi della natura Dante non dette luogo: su quello cristiano fece tacitamente prevalere il concetto aristotelico. E di questo, com’è ben comprensibile, deve tenersi conto quando si abbia a che fare, non solo con il primo libro del De vulgari eloquentia, ma anche con il ventiseiesimo del Paradiso. Come il caso dei volgari italici passati in rassegna nei capitoli centrali del primo libro del De vulgari eloquentia dimostra, la decadenza delle parlate volgari era bensì ammessa da Dante come, per dir così, una possibilità delle cose storiche, resa evidente, nel suo carattere specifico, dalla stessa venatio che aveva a oggetto il volgare. Ma non era identificata nel suo originario momento costitutivo, anche se su questo punto, e al momento opportuno se ne discuterà, manchino elementi per una più rigorosa definizione. Non facile a comprendersi, a causa dell’estrema concisione del testo dantesco, e il silenzio che vi fu mantenuto su questo punto essenziale, la questione che ne nasce è quale ulteriore, possibile conseguenza debba trarsi dall’asserito «spegnimento» dell’unitaria lingua parlata da Adamo. Ci si chiede infatti che cosa Dante poté pensare che fosse accaduto nel non breve periodo intercorso fra la espulsione dei progenitori dal Paradiso Terrestre e la folle impresa avviata da Nembrot. È una questione alla quale si è già accennato. Ma, riprendendola in modo più determinato, la si può ora meglio definire mediante la formulazione di queste due ipotesi. La prima è che il totale spegnimento della lingua si produsse perché, come un fuoco la cui fiamma, per qualche ragione, all’improvviso si spenga, quella venne meno a sé stessa e fu sostituita dal suo alternativo trasformarsi, ben prima, comunque, che, l’impresa della Torre avesse inizio, in una diversa lingua, anch’essa, unitaria. La seconda è che la sua unità si perdette a causa del suo storico essersi via via differenziata in lingue diverse che, con il passare del tempo, vennero a coprire l’area che prima ne era per intero occupata. Il che, come ulteriore conseguenza, importava che il differenziarsi geografico dell’umanità, che nel De vulgari eloquentia era stato messo in relazione al disperdersi del genere umano dopo il fallimento dell’impresa babelica, fosse, viceversa, con un totale ribaltamento del racconto biblico, anticipato a questa. Che questa seconda ipotesi non fosse compatibile con il modo in cui, nella Genesi, il fenomeno della confusio linguarum era stato prospettato, è evidente. Quel fenomeno supponeva che la lingua dell’umanità, che si
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era raccolta insieme per dar luogo al progetto della Torre, fosse stata, fino a quel momento, un’unica lingua, e che fosse a causa del suo fallimento e della dispersione geografica del genere umano, che, dopo di allora, le lingue furono molte e reciprocamente incomprensibili. Se, viceversa, nel Paradiso, l’idea di Dante era stata che il totale spegnimento della lingua di Adamo si era prodotto a misura che, ben innanzi all’età della Torre, quella si era venuta frammentando in lingue diverse, è chiaro che, rationabiliter, al racconto che, al riguardo, si leggeva nel testo sacro, egli, o non credeva più, o preferiva, comunque, non riaffrontarne, in forma esplicita, la insidiosa questione. Esponendolo a dubbi molteplici, l’idea che gli si era radicalizzata nella mente, e che nel De vulgari si era affiancata all’altra, lo metteva infatti in difficoltà nei confronti della reverenza che a quel testo era dovuta. Anche per questo, nei versi del Paradiso, Dante non asserì apertis verbis che, dopo la caduta del primo uomo, alla lingua adamitica se ne fosse sostituita un’altra, diversa a suo parere, se la prima si era «del tutto spenta», e non altrettanto unitaria. Si limitò a dirla del «tutto spenta», senza fornire ulteriori determinazioni a proposito di quella che l’aveva, o di quelle che l’avevano, sostituita. Non è tuttavia ipotesi che possa senz’altro esser messa da parte quella che la sua idea dello spegnimento della lingua di Adamo contemplasse anche le conseguenze più estreme. Sebbene alla realtà dell’impresa sacrilega della Torre egli mostrasse di credere, è chiaro che, in quel quadro (e si deve ribadirlo), la sua importanza era tuttavia ancor meno che marginale. Dante la ricordava come l’«ovra inconsummabile»; e tanto gli bastava per passare oltre senza nominare il fenomeno, che ne era derivato, della confusione delle lingue. Non da quello, infatti, era nato il loro essersi diferenziate, ma da ciò che «nullo effetto mai razionabile, / per lo piacere uman che rinnovella / seguendo il cielo, sempre fu durabile».8 8. Par. XXVI 127-129. E si legga ancora: «opera naturale è ch’uom favella; / ma così o così, natura lascia / poi fare a voi secondo che v’abbella» (vv. 130-132). Il senso di queste parole fu, a partire dal v. 128, radicalmente frainteso da Benvenuto, Comentum, a cura di G.F. Lacaita, V, Firenze 1887, pp. 460-461, il quale intese che le mutazioni intervenute nelle lingue fossero conseguenza della superbia babelica e della sua punizione. Per parte sua, dopo aver registrato che la lingua parlata da Adamo e dai «discesi da llui» era venuta meno «innanzi che Nembroth cominciassi la torre di Babele», C. Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, IV, Roma 2001, p. 1931, ritenne che «in quell’opera» nascesse la divisione delle lingue; erroneamente, sia perché non questo è quel il testo dantesco dice, sia perché egli lasciò senza una riga di commento l’asserzione relativa alla lingua «al tutto spenta», che invece almeno una ne avrebbe richiesta.
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In realtà, che nel ventiseiesimo del Paradiso Dante non condividesse più quel che, sia pure in modo indiretto, aveva mostrato di pensare nel luogo del De vulgari eloquentia I vii 6-7, in cui, fedele a quanto trovava scritto in Genesi 11, 1, aveva asserito che nella lingua del primo uomo locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel (I vi 5), si deduce da un ulteriore indizio, indiretto, ma prezioso. In quel canto, in effetti, egli aveva accennato bensì all’«ovra inconsummabile» a cui Nembrot aveva incitato la «gente». Ma con questa espressione aveva, per altro, inteso che a parteciparvi era stata la sua gente, il suo popolo babilonese, non la gente in generale, non l’intera umanità. Per questa parte, dunque, in modo netto Dante prendeva le distanze dal racconto biblico, nel quale, come egli stesso aveva detto nel De vulgari, era scritto che soltanto la stirpe di Sem aveva assistito, senza parteciparvi, all’impresa. Insomma, nel De vulgari eloquentia, all’impresa aveva partecipato l’umanità con l’eccezione di una piccola parte. Nel Paradiso, al contrario, a partecipare era stata una piccola parte, ossia un popolo particolare, e l’eccezione, la rilevante eccezione, era costituita dalla restante umanità, che ne era rimasta fuori. La distanza presa dalla Bibbia implicava perciò un’idea dello svolgimento storico dell’umanità pre e postbabelica nettamente difforme da quella delineata nel trattato latino. In realtà, non è da escludere che, nel periodo intercorso fra la composizione, poi interrotta, del De vulgari e quella del Paradiso, fosse stata proprio una rimeditazione del racconto biblico e della relativa tradizione esegetica a insinuare in Dante dubbi non lievi sul modo in cui dovessero intendersi le parole della Genesi relative all’essere la terra, nel momento in cui l’opera della Torre aveva avuto inizio, «labii unius, et sermonum eorundem» (11, 1). Certo, secondo la lezione della Vulgata latina il testo sacro era così esplicito, che suona sofistico, oltre che improbabile, il rilievo9 secondo cui il suo intento non sarebbe stato se non di far intendere che comune a tutti era stata, non la lingua, ma la comprensione che, pur parlando idiomi diversi, ciascuno tuttavia aveva degli altri. Resta però che l’idea della lingua unica poteva essere messa in crisi dal modo in cui, rispetto alla Vulgata latina, suonava la lezione dell’Itala. Se nella Vulgata si leggeva: 11, 7: «venite igitur: descendamus et confundamus ibi linguam eorum», a eorum l’Itala aveva sostituito un ipsorum, e suggerito così un’interpretazione restrittiva:10 non tutta l’umanità si era raccolta 9. Nardi, Dante e la cultura medievale, p. 191. 10. Ibidem, p. 192. E cfr. Corrado, Dante, pp. 30-32, e la letteratura ivi citata.
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nell’impresa «delittuosa», ma soltanto una parte di essa; e l’eccezione rappresentata dal comportamento della gente di Sem non era perciò stata l’unica. Si sa, del resto, per merito di Nardi, che fin dal quarto secolo, nel suo De heresibus liber, il vescovo di Brescia, Filastro, non solo aveva ritenuta eretica l’idea che la lingua di Adamo fosse stata l’ebraico, ma esplicitamente aveva sostenuto che, già prima che l’impresa della Torre avesse avuto inizio, la lingua, che era stata unica, si era frazionata in favelle diverse, tanto che la comprensione reciproca degli uomini avveniva nel modo, lì per altro considerato miracoloso, che era stato descritto negli Atti degli Apostoli.11 Nessuno, certo, è in grado di provare che Dante conoscesse, Filastro,12 o altri che avessero sostenuto tesi analoghe alle sue. Qualcuno potrebbe dubitare che, se l’avesse conosciuto, gli sarebbe stata passata per buona la generalizzazione da lui compiuta di un evento miracoloso in una ordinaria attitudine. Ma nessuno può tuttavia escludere che quanto gli fosse accaduto di leggere negli anni seguìti alla composizione del De vulgari eloquentia avesse avuto per effetto l’approfondirsi e il radicalizzarsi dei dubbi che, come si è visto, già costituivano la trama nascosta, o meno evidente, del trattato latino. Non può dunque essere considerato un caso che, nel ventiseiesimo del Paradiso, dopo aver alluso all’impresa «inconsummabile», che mai infatti, dopo essere stata iniziata, avrebbe potuto essere condotta a termine, Dante omettesse di trattare della confusione delle lingue, alla quale aveva dato rilievo nel settimo capitolo del primo libro del De vulgari eloquentia, e si tenesse lontano anche dall’esame che della questione era stato offerto da Agostino nella Civitas Dei, 16, 4. Si potrebbe suggerire che se, in quella cantica, non ne trattò, la ragione fosse da ritrovare nello scarso o nel nessun interesse, che, giunto a quel punto del suo cammino, la questione ormai suscitava in lui, e che, per questo, preferisse non riesumarla. Ma, nell’apparenza della saggezza, sarebbe in realtà un’osservazione di scarsa perspicacia. La ragione per la quale, in quel luogo del Paradiso, Dante lasciò cadere la questione della Torre e della confusione delle lingue deve essere indicata, non in un generico affievolirsi dell’interesse che prima gli aveva suscitato, ma in qualcosa di assai più determinato. La si deve ritrovare, sia nel maturarsi della disposizione problematica con cui, fin dall’inizio, 11. Act. Apost., 2, 1. 12. Tavoni, p. 1199, lo ritiene «praticamente impossibile».
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l’aveva accolta, sia nella radicalizzazione del concetto al quale intanto era pervenuto riguardo all’unità linguistica del genere umano e alla sua naturalità: un concetto che, intrecciato con l’altro, era già presente nel trattato latino. Pur con i dubbi che gli suscitavano, e la disposizione problematica di cui si è detto, quell’unità e naturalità erano state infatti fuori discussione per lui quando scriveva il primo libro del De vulgari eloquentia. Lo erano state nel primo capitolo quando aveva parlato dell’apprendimento che gli infanti facevano della lingua che a loro era insegnata (lo vedemmo all’inizio di questa ricerca) dalle nutrici (I i 2-3). Lo erano state, ancora in questo capitolo, nel punto (§§ 4-5) in cui, orgogliosamente, aveva proclamata la superiorità del volgare sulla grammatica, e poi nei successivi, nei quali aveva descritto il moltiplicarsi delle lingue come effetto della confusione prodotta dalla punizione divina. Ma se, già nel trattato latino, tutto questo era stato fuori discussione, innegabile, però, era la sua coesistenza con il tema della unità e unicità che avevano seguitato a caratterizzare la lingua del genere umano fino al tempo in cui, con la costruzione della Torre e la punizione che aveva decretato il suo fallimento, quelle erano venute meno. Mentre si avviava a terminare il Paradiso, a Dante, tuttavia, la coesistenza di quei temi non sembrò più possibile. In quella stagione della sua vita, più volte lo si è notato, egli teneva per fermo che, concluso il breve soggiorno di Adamo e di Eva nel Paradiso Terrestre, la lingua che quelli avevano seguitato a parlare dopo che ne erano stati espulsi, si fosse «spenta» ben prima che, come si è visto, Nembrot avesse dato inizio alla sua folle impresa. «La lingua ch’io parlai fu tutta spenta». Ma, deve tornarsi a chiedere, che cosa significava, per lui, quello spegnimento? E, prima ancora, che significato occorreva dare al tempo passato del verbo («parlai») che egli usò per alludervi?13 In effetti, asserendo che la sua lingua si era del tutto spenta innanzi che il dramma di Babele avesse il suo inizio, con quell’espressione Adamo avrebbe in realtà potuto aver messo insieme due diversi spegnimenti. Il primo, relativo alla lingua che egli aveva parlata nell’Eden e che, dopo il peccato della prevaricazione e al momento dell’espulsione, si era resa diversa, pur conservando il suo carattere unitario, dalla precedente; che era un sacratum ydioma e non poteva mantenersi al di fuori del luogo per il quale era stato creato. Il secondo, relativo a questa lingua che, dopo aver sostituito la prima e compiuto un lungo cammino, si era, nel corso di 13. Cfr., su questo punto, il mio articolo In margine a ‘Paradiso’ XXVI 123-34, pp. 299-300.
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questo, via via resa diversa in sé stessa, ed era giunta già frazionata in più lingue fra loro non comunicanti quando l’impresa babelica ebbe inizio. Se, ulteriormente determinata in questi termini, questa proposta interpretativa è plausibile e così si scioglie il carattere altrimenti ambiguo di quel verbo usato al passato («la lingua ch’io parlai»), è sull’altro, è sul verbo «spegnere», da lui usato con precisa intenzione, che, dopo quello che già ne fu detto, deve ancora riflettersi e richiamarsi l’attenzione. Se per chiunque è indubitabile che l’estinguersi della lingua originaria non poteva significare che l’umanità si fosse allora, di colpo, fatta muta, altrettanto lo è che con quel verbo Dante aveva inteso alludere a due fenomeni concomitanti, ma diversi. Con l’idea della sparizione della lingua di Adamo, aveva inteso non, per dir così, un ἐξαίφνης, qualcosa di improvviso e di miracoloso, un fuoco che di colpo, come fu detto qui su, si fosse spento, o, per converso, un altro che, accesosi all’improvviso, tutto avesse divorato nella sua fiamma. Non questo. Ma un processo, nel cui corso l’unitaria lingua di Adamo si era differenziata per vie naturali fino a rendersi così diversa da quella che era stata da poter esser detta «spenta», sostituita dalle lingue che si formavano e che erano tante quanti erano i popoli in cui l’umanità si era divisa. Per questa via, il problema della differenziazione linguistica, che la Genesi aveva definito come l’effetto di una punizione miracolosa, era, come già si osservò, anticipato al suo accadimento e prospettato in forma razionale. La confusio non era stata, in realtà, se non un processo di differenziazione linguistica, svoltosi in ambito storico e naturale. Che tutto questo rendesse difficile mantenere, nell’accezione in cui era stata intesa dal libro sacro, l’idea della confusione, è evidente. Quell’idea implicava che unica fosse la lingua parlata in quel momento dal genere umano, che la confusione si fosse esercitata e avesse prodotto il suo effetto su una gente che, come era detto nella Genesi 11, 1, era labii unius, parlava un’unica lingua; e altresì implicava che la confusione avesse dato luogo alla divisione, che ne era stata infatti la conseguenza. Era un’idea del tutto arbitraria, e inidonea a spiegare il fenomeno più importante che ne era messo in gioco. La confusione produce confusione, non dà luogo a una distinzione che, per essere spiegata, richiede un diverso fenomeno e un diverso criterio. Per questo, evidentemente, Dante mostrò di non condividerla più quando, nella terza cantica, tornò ad accennare, senza per altro nominarlo, all’evento della confusione. Nel Paradiso, infatti, il relativo concetto fu inteso in modo che, se, al dire stesso di Adamo, la sua lingua
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si era «tutta spenta» prima che gli uomini avessero dato inizio all’impresa della Torre, non fu essa, non fu la confusione, a produrre la divisione delle lingue; che era già avvenuta per la ragione che, come si è visto, Dante adduceva quando osservava che «nullo effetto mai razionabile / per lo piacere uman che rinnovella / seguendo il cielo, sempre fu durabile». Era il concetto che, senza coinvolgervi gli altri, concernenti l’unità della lingua e la sua confusione babelica, era già da lui stato accennato nel De vulgari I ix 6, dove della confusio aveva detto che nil aliud fuit quam prioris oblivio. Ma, radicalizzandolo, egli ora lo riprendeva nell’osservazione secondo cui, se, messa a contatto con la natura e con la storia, la lingua era, essa stessa, un fatto naturale esposto a subire i mutamenti imposti e condizionati dal cielo, inevitabile era che l’umanità avesse cominciato a parlare «così o così» e che insomma il suo eloquio si fosse mutato e differenziato con i tempi, «ché l’uso d’ì mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene»,14 fin dal momento in cui aveva avuto inizio, per l’uomo, il suo vero inizio: quello postedenico. Di qui, senza far violenza al testo, può ricavarsi che se, nel periodo intercorso fra la cacciata dei progenitori dal Paradiso Terrestre e l’impresa della Torre, si era, di tempo in tempo, prodotto il fenomeno dello spegnimento della lingua che Adamo aveva parlata, il significato di tutto questo era stato che la scomparsa, sia di quella di cui si era servito nell’Eden, sia di quella che, già diversa dalla prima, egli e i suoi avevano parlata dopo, aveva coinciso con il formarsi di favelle diverse:15 con la conseguenza che, se questo concetto della variabilità delle lingue fosse stato svolto in un discorso fino in fondo coerente, e, per ossequio al testo sacro, avesse tuttavia voluto restare fedele al mito babelico, si sarebbe dovuto parlare della confusio linguarum manifestatasi durante la costruzione della Torre come di un fenomeno ulteriore, che aggiungeva una seconda confusione alla prima e riguardava comunque lingue che già si erano differenziate per via storica. Ma a questo concetto che inevitabilmente avrebbe dovuto essere enunciato se all’idea della confusione si fosse voluto tener fermo, Dante non alluse in nessun modo. Piuttosto che a una confusione, si riferì a una differenziazione, che avrebbe potuto considerarsi derivata 14. Par. XXVI 137-138. 15. L’idea che la differenziazione delle lingue avesse preceduto la costruzione della Torre di Babele era per altro ricavabile da Genesi 1, 10, che non è in linea con quanto affermato in 1,11. Cfr. una sintesi della questione in Eco, La ricerca della lingua perfetta, pp. 15-16, che non riguarda per altro quella posta nel testo.
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bensì anch’essa, se si vuole, da una punizione inflitta da Dio, ma diversa da quella che aveva colpito l’arroganza di Nembrot e dei suoi. Diversa da quest’ultima, perché si sarebbe, in realtà, prodotta per il tramite stesso del processo storico e della sua potenza differenziatrice. E diversa da quella a cui si è accennato per escludere, comunque, che a essa Dante avesse, per quel che si può capire, rivolta la mente.16 Se infatti a questa idea avesse concesso credito, avrebbe dovuto dire che, data la preesistente differenza delle lingue, la confusione avrebbe perciò comportato, non che i gruppi linguistici che in tal modo si erano formati non s’intendessero l’un l’altro: questa mancata intelligenza si era già prodotta ed era in effetti presupposta dalla loro diversità. Ma piuttosto che, per effetto della confusione, l’incomprensione si era determinata all’interno di ciascun gruppo linguistico e, se si volesse pervenire alla più estrema delle formulazioni, all’interno di ogni singola parola di ogni singolo parlante, come se da questo non potessero provenire se non suoni lacerati, sconnessi e incomprensibili. Che è la possibilità che Dante intuì, o andò molto vicino a intuire, non nel Paradiso, ma nella rappresentazione che, nel trentunesimo dell’Inferno, fece di Nembrot; al quale assegnò infatti parole che non erano le parole di una lingua, o, forse, lo erano, ma messe insieme a caso, e perciò deformate e mutilate.17 Si sarebbe tuttavia trattato, in questo caso, di un’idea della confusione così diversa, nella sua radicalità, da quella delineata nella Genesi, che, con ogni probabilità, dopo avervi genericamente accennato, invece di affrontarla nelle sue conseguenze, se mai ne avesse avuta l’idea, Dante preferì non insistervi. Ma sulle questioni trattate in questo capitolo dovrà comunque tornarsi nell’analisi che si dedicherà al primiloquium adamico
16. M. Corti, Dante e la Torre di Babele: una nuova “allegoria in factis” [1978], in Ead., Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino 2003, pp. 301-311, ha osservato che «l’allegoria della Torre permette di visualizzare un fenomeno assilante nel medioevo per la sua portata teorica, quello della ramificazione linguistica dell’umanità» (p. 302). Il che è innegabile, anche se altrettanto lo è che, mettendo tacitamente in discussione il mito della Torre, Dante fornì alla soluzione del problema nel ventiseiesimo del Paradiso, un contributo, non allegorico, ma razionale. 17. Inf. XXXI 67-81. E Purg. XII 34-36.
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La differenza sussistente fra De vulgari e Paradiso XXVI implica dunque, fra le altre cose, che al mito della Torre Dante non era disposto a concedere se non un assai ristretto valore. Era la lingua dei babilonesi, della «gente di Nembrot», che si era ulteriormente confusa e differenziata in più lingue: non quella dell’umanità che, per il resto, già si era frazionata in parlate nel corso della sua vicenda storica.1 Il che, se esplicitamente fosse stato messo a tema, avrebbe importato ben più che una conseguenza imbarazzante. Per quella via, Dante sarebbe stato costretto a introdurre l’idea della confusione in una lingua che, lungi dall’essere l’unica del genere umano, apparteneva a un popolo, la cui favella già era stata resa diversa da quella degli altri popoli dalla differenziazione che natura e storia avevano prodotta. L’importanza che, al di là (o al di qua) di queste ulteriori, possibili complicazioni, è giusto riconoscere alla differenza sussistente fra De vulgari e Paradiso, non consiste nella sostituzione che, nel ventiseiesimo canto, Dante avrebbe eseguita dell’idea della lingua creata da Dio con quella della sua genesi puramente naturale. Formulata in questi termini, la tesi appare come una semplificazione modernizzante, frutto di un fraintendimento. L’importanza che le si deve attribuire non sta nella sostituzione della causa naturale a quella divina e nell’abbandono dell’interpretazione della storia desunta dalla Bibbia. Sta nel nesso che Dante tacitamente aveva stabilito fra la perdita dell’innocenza per effetto della punizione divina e la consegna dell’uomo alla natura e alla storia con tutte le conseguenze che 1. Che questa idea della differenziazione prebabelica delle lingue fosse già presente nella Patristica fu sostenuto e documentato da Borst, Der Turmbau von Babel, II/2, 828; e cfr. Corrado, Dante, pp. 32-33.
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inevitabilmente scaturirono dal confronto che era stato costretto a sostenere con le cose, dalle sfide che ne riceveva e a cui doveva far fronte, dalla ricerca delle risorse che doveva attingere in sé stesso per vincerle e non soccombervi. È il nesso fra punizione, storia e natura quello che occorre cogliere se si vuole restare sul terreno concreto dell’esperienza dantesca. Chi parla di lingua «creata» dall’uomo, e simili, si rivela ossequiente a uno schema storiografico che potrebbe esser definito come il frutto dell’impazienza nutrita dalla modernità nei confronti del Medioevo. Un’impazienza che avrebbe, certo, le sue ragioni da far valere dove si parlasse di sé stessi e del modo in cui si ritiene di dover pensare, ma non ne ha nessuna se si parla di Dante e del suo modo di intendere la genesi delle lingue. La quale può certo esser definita naturale e storica, se l’occhio sia rivolto alla situazione postedenica dell’umanità lato sensu intesa. Ma con l’avvertenza che la natura è, per Dante, lo strumento, o uno degli strumenti, per il cui tramite Dio interviene nella vicenda umana e la determina: sì che sarebbe un ben strano equivoco quello di chi la invocasse per rivendicare all’uomo, nel suo nome, la sua autonomia e la sua creatività. Il che è talmente chiaro che non occorre insistervi oltre. O forse no. Insistervi potrebbe giovare, perché l’equivoco ha la sua tenacia e tende infatti a perpetuarsi. Gioverà dunque ribadire che l’insistenza con cui, non senza buone ragioni, si è sottolineata sia la genesi storico/naturale delle lingue, sia il loro intrinseco, continuo trasformarsi, non può far dimenticare che, al di sopra delle cause seconde, sempre, e necessariamente, nel Paradiso non meno che nel De vulgari eloquentia, agiva, per Dante, la causa prima, artefice di ogni cosa, razionale o irrazionale che, in astratto, potesse essere considerata. Che la costruzione della Torre fosse destinata a non pervenire al suo proprio compimento una volta che Dio avesse deciso che, invece di intendersi fra di loro, quelli che sovraintendevano alla produzione dei mattoni fossero condannati a non comprendere il nuovo eloquio dei carpentieri, dei fabbri e di ogni altro lavorante, e ciascun gruppo fosse messo nella condizione di non poter intendere l’altro, deve, in riferimento al De vulgari eloquentia, considerarsi ovvio; mentre, per quanto riguarda il ventiseiesimo del Paradiso2 e l’idea della scomparsa della lingua di Adamo 2. L’idea che, nel pensare la confusione babelica delle lingue, Dante fosse condizionato dalla organizzazione corporativa delle Arti fiorentine, risale, credo, a F. D’Ovidio, Dante e la filosofia del linguaggio, in Studii sulla Divina Commedia, Palermo 1901, p. 304; ed è idea suggestiva che, per altro, descrive ab extra, e non aiuta a ricostruire la trama dei concetti danteschi.
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prima che l’impresa della Torre avesse avuto inizio, sarebbe certamente in errore chi ritenesse che lo scarso, anzi il nessun rilievo, che lì era stato dato all’idea della confusio linguarum sia da mettere in relazione al tramonto, nella mente di Dante, dell’idea provvidenzialistica della storia. Non meno ovvio è che il formarsi di tante nuove lingue per ciascuno dei gruppi che prima ne avevano avuta una in comune, era, se pensato in relazione alla Torre e finché alla verità della sua storia si fosse prestata incondizionata fede, non un fatto naturale, o storico/naturale, ma un prodigio determinato dalla volontà divina. Che, come si deduce dal ventiseiesimo del Paradiso, il processo di differenziazione incominciasse subito dopo l’espulsione di Adamo dal Paradiso Terrestre, e non conseguisse perciò alla confusio linguarum provocata da Dio per punire la gente di Nembrot, resta che fu per un atto dell’insondabile volontà divina che, dopo essere stato creato per il Paradiso Terrestre, Adamo divenne un uomo storico e di questa condizione patì la sofferenza e l’angustia. Meravigliarsene sarebbe stato come dubitare, non solo dell’onnipotenza di Dio, ma anche del fatto che dalla sua non comunicata e insondabile decisione fossero derivati l’insorgere della peccaminosità umana, e la sua conseguente punizione. In effetti, nessun dubbio è possibile sul punto che, creatore della lingua di Adamo, Dio lo fosse stato altresì, attraverso la natura, di quelle che ebbero corso nel mondo e risentirono del suo vario condizionamento, sia che il loro farsi molteplice avesse la sua radice e la sua causa nel fenomeno della confusione babelica, sia che radice e causa richiedessero di essere individuate nel momento in cui Adamo e Eva furono estromessi dal Paradiso Terrestre. Certo, e qui il riferimento torna a riguardare il De vulgari eloquentia, non tutto, in questo schema interpretativo, risulta esente da dubbi e tale, dunque, da non richiedere un ulteriore sforzo di determinazione concettuale. Il testo è infatti così conciso, e i passaggi così rapidi, che l’esegesi è come costretta a moltiplicare le sue proposte o, quanto meno, a meglio scavare in quel che già fosse stato delineato nel suo tratto generale. A porre problemi è soprattutto la scansione temporale del processo che, cadute Allo stesso modo suggestiva, ma, in ultima analisi, estrinseca, è l’idea proposta dalla Corti, Dante e la Torre di Babele, p. 307, secondo la quale la confusio linguarum alluderebbe non più al significato salvifico della Pentecoste (cfr., per esempio, G. Stabile, La Torre di Babele. Confusione dei linguaggi e impotenza tecnica, in Id., Dante e la filosofia della natura. Percezioni, linguaggi, cosmologie, Firenze 2007, p. 224), ma a «confusio di natura cittadina, comunale». Per il modo in cui pensiero politico e pensiero linguistico si intrecciano nel De vulgari, cfr. infra.
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sull’unitaria lingua postedenica la vendetta divina e la confusione, nonché la dispersione, che ne conseguì, condusse alla formazione dell’ydioma tripharium.3 Ci si può chiedere infatti se il momento della confusione fosse distinguibile nella sua autonomia temporale, e assumibile in sé, come quello in cui tutto si confuse e nessuno capiva più né l’altro né a rigore sé stesso. Oppure se si fosse immediatamente determinato con la divisione dell’unica lingua in tre lingue diverse, il cui numero si sarebbe per altro mostrato assai inferiore a quello in cui si dividevano i lavoratori specializzati che avevano messo mano alla costruzione della Torre e formavano ben più di tre gruppi.4 Certo, l’idea che la confusione si costituisse, per un tempo determinato, come pura confusione, avrebbe potuto, come si è detto, essere spinta fino al traguardo di una ben più alta e negativa radicalità. Avrebbe potuto essere considerata interna a ogni singola parola di ogni singolo parlante; e la conseguenza sarebbe stata il venir meno della possibilità di intendere, non solo gli altri, ma, come si è detto, addirittura sé stessi. Da questa idea, per altro, si sarebbe ricavata, la spiegazione, non della differenziazione linguistica del genere umano, ma della sua disgregazione concettuale, realizzatasi in un momento della sua storia, e della conseguente follia.5 Fu anche questa, si deve ripetere, una delle ragioni per le quali, nel Paradiso, Dante preferì evitare il rischio incombente di una 3. De vulg. el. I viii 2. 4. Stabile, La Torre di Babele, p. 226. 5. Poiché sembra che sull’espressione che ricorre a I viii 3: «ab uno postea eodemque ydiomate in vindice confusione recepto» vi sia, nell’esegesi, alquanta incertezza, vorrei dire che un ydioma in vindice confusione receptum è una confusio, non un ydioma, o, se si preferisce il giro più lungo, è una lingua che, in seguito alla vendetta esercitatavi da Dio, si è ridotta a essere un casuale incrocio di suoni sconnessi. Parlarne quindi, come fa, per esempio, Vinay, Ricerche, pp. 383-384, come di un «linguaggio» o, addirittura, di un «volgare di confusione», significa contribuire, non alla chiarezza, ma all’ambiguità: predicato della «confusione», un linguaggio è una confusione, non un linguaggio. Molto meglio il Fenzi, p. 52, con il quale tuttavia non direi che in questi luoghi vi sia non sufficiente chiarezza fra la parte dovuta a Dio e quella lasciata all’uomo. L’ydioma receptum di cui si parla, per esempio, nel luogo citato qui su, è certamente opera di Dio, non nel senso che da lui provenga, per quanto confusa, una lingua, ma in quello che sull’unico ydioma dell’umanità, egli produsse, per vendetta, la confusione, la disarticolazione, lo smembramento che lo resero incapace di svolgere ogni funzione comunicativa, e misero gli uomini, che non si capivano più l’un l’altro, e intanto si erano dispersi in un ampio spazio, nella necessità di porre riparo, con la fabbricazioni di nuovi linguaggi, allo scempio patito dal precedente.
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così drastica conseguenza, e alludere bensì alla questione della Torre, ma passandole però di lato e senza affrontarne le implicazioni. Per dirla con le parole di Aristotele, si potrebbe proporre, in sintesi, che la confusione πολλαχῶς λέγεται, si dice in molti modi; o se si preferisce, la si può prospettare declinando, oltre le conseguenze più evidenti, le più implicite. Se ne sono viste alcune. Si aggiunga questa che consentirà all’analisi di conseguire il suo estremo traguardo. Si incontra, nel De vulgari, I ix 6, una definizione della confusio linguae come oblivio della lingua precedentemente parlata, che, non essendo fin lì stata usata in quella forma, richiede qualche parola di commento da aggiungere a quelle che già furono spese qui su. «Cum igitur omnis nostra loquela – preter illam homini primo concreatam a Deo – sit a nostro beneplacito reparata post confusionem illam que nil aliud fuit quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimum atque variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum temporumque distantias variari oportet». In questo passo, come si vede, Dante spiegò che, con l’eccezione di quella che direttamente era stata creata da Dio, la lingua fu in seguito a nostro beneplacito reparata, e risultò tanto instabile quanto lo era il suo autore e tanto varia quanto diversi erano i costumi, i caratteri, i luoghi a contatto con i quali si era formata. Dopo che si fu prodotta la confusione della lingua comune, gli uomini si impegnarono a fabbricarne altre, che della loro costitutiva instabilità non poterono non risentire, e riuscirono infatti diverse l’una dall’altra. In questo luogo, per altro, della confusio Dante avvertì la necessità di fornire un più preciso concetto. La definì come nient’altro che un’oblivio della precedente lingua, e, con la consueta stringatezza, propose un’idea che merita una considerazione a sé, perché la sua interpretazione non è univoca. L’oblivio prioris [linguae] si può intendere, infatti, in due modi diversi anche se non, necessariamente, esclusivi l’uno dell’altro. (1) Il primo potrebbe essere che, a causa della confusione delle lingue, l’umanità aveva dimenticato l’ydioma che fino a quel momento era stato suo: con la conseguenza che, nel momento in cui l’oblivio si era prodotta, era come se, agli effetti della reciproca comunicazione, per un certo tempo fosse rimasta muta. Con l’occhio rivolto a quel che il testo nasconde in sé e, comunque, non dichiara, l’ipotesi è che l’oblivio durasse il tempo necessario a che i lavoratori che attendevano ad aspetti diversi della costruzione ritrovassero, nel gruppo di cui facevano parte,
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una lingua che, come che fosse, consentisse loro di comunicare, e che riuscì tuttavia diversa da quella di cui si ritrovarono in possesso gli altri lavoratori delle altre specialità: donde, con il riacquisto di una lingua all’interno dei vari gruppi, l’impossibilità che l’una intendesse l’altra. È un’ipotesi di spiegazione che, senza reintrodurre, in modo esplicito, nel discorso l’idea di un intervento divino, volto a compensare con l’assegnazione ai gruppi di una lingua parziale il vulnus che l’umanità aveva subìto con la cancellazione della lingua comune, si mantiene tuttavia nell’ambito del miracoloso. Era pur sempre nel tempo breve scandito dall’esecuzione dell’impresa babelica che, con la confusio, si sarebbe prodotta l’oblivio prioris linguae e, contestualmente, il suo superamento con la rapida acquisizione di tante lingue quanti erano i gruppi dei lavoratori preposti alla costruzione della Torre. Non è infatti pensabile che coloro che presiedevano ai vari e distinti lavori previsti dalla costruzione di quel folle edificio avessero parlato, ciascuno, una specifica lingua. Quando il lavoro aveva avuto inizio, questo aveva previsto bensì gruppi di lavoratori specializzati, che, nondimeno, nel loro interno, parlavano tutti la stessa lingua. (2) L’altro modo prevede che, prodotta dalla confusione, la dimenticanza della lingua comune avesse, per un tratto di tempo non misurabile in ore e in giorni, avuto per effetto, non una lingua confusa, ma qualcosa, addirittura, come la perdita della lingua; e fin qui, fra il primo modo e il secondo c’è coincidenza. Ma con questa differenza, tuttavia, che di una lingua i vari gruppi tornarono in possesso, in forma non unitaria, non nel momento in cui, nei lavori diretti alla costruzione della Torre, al caos subentrava l’ordine, ma a tempo debito, con la fabbricazione di tanti linguaggi quanti erano i gruppi in cui gli uomini si erano, nel frattempo, divisi e quante erano le parti della terra in cui si erano dispersi. Insomma, a diversificare i due significati di oblivio fu il diverso tempo che, nei due casi, dovette trascorrere perché gli uomini si ritrovassero in possesso della lingua, che non poté più essere ricostruita su base unitaria; un tempo che, breve nel primo caso, manteneva il discorso nello spazio mitico della Torre, e, assai più lungo, nel secondo, rendeva impensabile che a quel mito si seguitasse a far capo in senso, per dir così, letterale. Certo, i due modi potrebbero essere unificati mettendo in successione e, nello stesso tempo, connettendo, le linee in cui Dante scrisse che «quot quot autem exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humanum disiungitur» (I vii 7) con quelle in cui, a mo’ di conclusione, asserì che «ex precedenter
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memorata confusione linguarum non leviter opinamur per universa mundi climata climatumque plagas incolendas et angulos tunc primum homines fuisse dispersos» (I viii 1). I due fenomeni hanno infatti in comune la dispersione geografica, oltre che linguistica, del genere umano; e, concettualmente, sono senza dubbio da connettere. Conviene tuttavia tener ferma la distinzione dei due momenti, perché, come è stato detto, a differenziarli è lo spazio in cui si determinarono, e quindi il tempo che gli uomini impiegarono per disperdersi nelle sue parti. La prima dispersione, che ribadì le specializzazioni disposte alla edificazione della Torre, si determinò in un punto specifico della terra, nel luogo che poi fu detto Babele. La seconda, in cui la prima si proseguì e produsse i suoi ulteriori effetti, ebbe per teatro l’intero mondo abitato. Le due che si sono distinte sono, del resto, situazioni che non gioverebbe tenere inseparate, anche se né dall’una né dall’altra si riesce a venire in chiaro su quel che Dante accennò in I viii 1-2, nel luogo cioè in cui scrisse che «ex […] confusione linguarum» poteva ragionevolmente opinarsi (non leviter opinamur) che l’umanità si fosse dislocata in tutte le regioni abitabili, e non spiegò tuttavia se, venendo dopo, subito dopo, il fenomeno della confusione, quello della dispersione lo mantenesse in sé, e per quanto tempo, o se già ne avesse avviato il superamento attraverso la formazione di lingue diverse. Poiché è a questa seconda ipotesi che sembra ragionevole concedere la preferenza, deve allora concludersi che, nel momento della dispersione, la confusio linguarum riguardava, non la reciproca intesa dei singoli, ma quella dei gruppi, all’interno dei quali la comunicazione era invece garantita. Se così deve interpretarsi, deve allora tenersi fermo che la confusio conobbe essa stessa un interno processo, in ragione del quale al momento iniziale, in cui nessuno capiva l’altro, ne tenne dietro un altro in cui fra i vari gruppi si formò un rudimentale linguaggio che, mantenutosi e forse perfezionatosi nel tempo della dispersione, si consolidò come l’ydioma tripharium di cui si dice a I viii 2, e che è definito come quello che secum homines actulerunt. Nel concetto dell’oblivio, soprattutto nella seconda accezione del suo significato, Dante aveva posto la premessa per la critica che, in modo indiretto ma netto, nel ventiseiesimo del Paradiso avrebbe svolta del mito della Torre. A questo risultato deve tenersi fermo. Ma altro tuttavia può essere aggiunto. Se, senza alcun divario di tempo, l’oblìo della lingua comune fosse stato compensato dall’acquisizione di una lingua parziale, quello sarebbe stato un parziale oblìo. Ma se quel divario si fosse dato, se, in quanto tale, l’oblìo avesse avuto un tempo nel
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quale avesse potuto determinarsi e consistere, allora non si sarebbe potuto escludere che, con in capo quell’idea, Dante avesse contemplata l’ipotesi (che forse sarebbe piaciuta a Vico) di un’umanità che, perduta la sua lingua, ne era rimasta priva, nei molti gruppi in cui si era divisa, per il tempo che le era stato necessario ad acquisirne un’altra. Per riprendere il suo esempio, l’umanità si sarebbe trovata in una situazione assai simile a quella che, nell’Inferno, era di Nambrot. Ai due poeti che visitavano il regno nel quale era stato per sempre imprigionato, il gigante aveva detto, gridando con la sua «fiera bocca / cui non si convenìa più dolci salmi»,6 «Raphèl maì amèche zabì almi» (v. 67): parole prive di senso, e per le quali vale l’esegesi, che si distese per sei versi, datane da Virgilio: «Elli stessi s’accusa; / questi è Nembrotto per lo cui mal coto / pur un linguaggio nel mondo non s’usa. / Lasciànlo stare e non parlare a vòto; / ché così è a lui ciascun linguaggio / come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto».7 Se quelle di Nembrot sono, come qui sopra si propose, parole disarticolate, smembrate e ferite, se perciò sono tali che nessuno può capirle, è come se il loro suono rivelasse il silenzio di un’umanità divenuta muta o, se si preferisce, ridotta a emettere suoni privi di senso. Il concetto dell’oblivio prioris [linguae] importava anche, e già lo si notò, questa conseguenza estrema; che, sebbene implicita e non dichiarata, meritava tuttavia di esser resa esplicita e messa in parole.8
6. Inf. XXXI 68-69. 7. Ibidem, 77-81. 8. «Un aspro gemito privo di significato per chiunque tranne che per il gigante stesso» le parole di Nembrot sono state definite da P. Dronke, Dante e le tradizioni medievali, Bologna 2001, p. 73. Ma, come propongo nel testo, penso che si debba andare oltre. La sua trattazione complessiva dell’argomento (pp. 65-96, 173-190) è, per altro, fondamentale.
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Giunti a questo punto, è necessario affrontare una questione che, sebbene abbia la sua radice nei primi due capitoli del primo libro, non è stato fin qui possibile porre, in modo esplicito, all’ordine del giorno. Si sa bene, e già se n’è discusso, che il primus loquens fu Adamo, che suo fu il primiloquium, che l’ebraico fu la lingua che a lui fu donata da Dio insieme all’anima. Ma se si apre il De vulgari eloquentia al primo capitolo, s’incontra qualcosa che induce a riflettere. Non solo si è messi di fronte alla famosa distinzione del volgare, che gli uomini apprendono sine omni regula nutrices imitantes, e che naturalis est nobis, dalla grammatica, che di naturale non ha niente perché, piuttosto, è artificialis, e non è stata inventata se non per ovviare alla naturale mutevolezza del linguaggio impedendo (si leggerà a I ix 11) che di lì avessero a derivare danni irreparabile alla nostra possibilità di attingere antiquorum […] autoritates et gesta. Ma vi si trova anche altro. Dopo aver asserito che, come prodotto dell’instabilissimum atque variabilissimum animal che è l’uomo, la lingua nec durabilis nec continua esse potest, da questa Dante tenne separata quella che fu primo homini concreata a Deo, e fra le due parve voler stabilire una radicale distanza, come se, in altri termini, la prima fosse stata bensì un antecedente della seconda, ma così remoto che, nel quadro di un’analisi razionale, non si potesse se non fare a meno di tenerne conto. Da questo passo, senza che sia necessario far ricorso ad acrobazie esegetiche, si è perciò rinviati a quello nel quale, in apertura del secondo capitolo, del volgare Dante disse che haec est nostra vera et prima locutio. Un’asserzione ferma, sulla quale equivocare sarebbe altrettanto impossibile del tentativo che si facesse di rendere soltanto relativi il suo essere «prima», il suo essere «vera», e il suo essere «nostra», con l’argomento che tale essa non poteva esser detta se
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non a partire dall’esaurimento della lingua che a Adamo era stata insegnata da Dio e che, stando al De vulgari, la sua discendenza aveva parlata fino al tempo in cui, resasi ribelle, l’orgogliosa umanità aveva tentato di costruire la Torre. «Prima» quella lingua doveva e poteva esser detta in relazione al tempo storico, ossia postedenico, in cui si era svolta come lingua degli uomini. E sia pure. Ma, nel dire e nel pensare così, deve escludersi che Dante non tenesse fermo, dentro di sé, il paragone con l’altra che, assegnata a un remoto passato, non per questo era dimenticata; che è concetto da tener fermo e ribadire con forza, se si vuole che la complessità della questione non si perda. L’enfasi, con la quale alla lingua postedenica si assegnava l’esser prima e l’esser vera, non significava che quel «primo» non fosse preceduto da un più originario primo e che, come assoluto primo, ne fosse in qualche modo svalutato, che quel «vero» non avesse un vero più alto dal quale dipendeva. Significava che, nell’atto in cui faceva battere l’accento sulla vera e prima origine della lingua, ossia sulla prima che si era parlata da che l’uomo era stato esiliato sulla terra, l’altra origine, quella divina, non era messa in disparte. Se non era considerata come oggetto di indagine una volta che fosse stato chiaro che, messo il piede sull’aspro terreno della storia, anche nella lingua Adamo aveva cessato di essere quello che era stato quando si trovava nell’Eden, la sua presenza nel discorso restava tuttavia, sebbene non detta, incancellabile. Nella «nostra» lingua era, senza dubbio, compreso, in uno strato più profondo del suo essere, anche il suo remoto primiloquium. Il volgare era la prima e vera lingua degli uomini. Ma, sebbene costituisse un prologo lontano, e privo ormai di nessi con quel che, nella lingua, era accaduto dopo, del sacratum ydioma era tuttavia necessario tener conto, non si poteva fare come se non fosse mai esistito e soltanto una favola priva di verità fosse il racconto che, al riguardo, era contenuto nella Genesi. Per non considerarlo più come un «primo» operante alle spalle di quel volgare a cui si era pur tentati di attribuire il primato, non sarebbe bastato infatti che della lingua parlata da Adamo già lì, nel De vulgari, Dante avesse detto quel che avrebbe asserito nel Paradiso. Anche nel caso in cui, già nel trattato latino, avesse pensato che la sua lingua si fosse del tutto «spenta» prima che Nembrot spingesse l’umanità alla folle impresa della Torre, non per questo avrebbe potuto negare che, innanzi di essersi spenta, quella lingua era esistita e, se era esistita, segno era che, attraverso il suo stesso spegnimento, aveva costituito la innegabile premessa di ogni evento che la mobile e variabile natura dell’uomo avesse poi determinato nell’ambito del linguaggio. Come, in precedenza, si è avuto modo
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di osservare, la revisione, eseguita nel Paradiso, di alcuni aspetti delle tesi sostenute nel De vulgari eloquentia, non recava con sé la conseguenza che al prologo edenico Dante avesse cessato di credere, e che il discorso biblico non significasse più niente per lui che, a quello, aveva ormai sostituito l’idea della genesi storica e naturale delle lingue. Con semplificazioni di questo genere, è giusto ripetere, non si fa storia del pensiero: piuttosto si raccontano storie. La differenza fra quel che Dante aveva scritto nel trattato sulla lingua e quel che poi scrisse nel Paradiso, è netta, come sappiamo. Ma non si presta a semplificazioni. Nel primo, la sua storicità era stata messa in rilievo a partire da quel che essa era divenuta dopo la catastrofe della confusione, e, di quella parlata nel periodo che va dal momento della cacciata dal Paradiso Terrestre alla costruzione della Torre, invece si diceva che era pur sempre il sacratum ydioma. Nel secondo, ossia nel ventiseiesimo canto della terza cantica, la considerazione storica includeva anche il momento successivo all’espulsione dall’Eden e coincidente con l’ingresso dell’uomo nella storia; ossia, dovrà intendersi, con il momento in cui anche nella lingua parlata da Adamo cominciarono a prodursi le alterazioni e modificazioni che furono il preludio del suo finale spegnimento. La novità che, in tema di naturalità e storicità della lingua, il ventiseiesimo canto del Paradiso fece registrare rispetto a quanto era stato detto nel De vulgari eloquentia, sta quindi non solo, o non tanto, nella più viva consapevolezza che Dante ebbe del fondamento ultimo della questione, ma nella assai maggiore estensione di quel fenomeno. Pur senza formulare in modo esplicito la relativa questione, egli aveva benissimo capito che la perdita dell’innocenza non poteva non aver avuta, sulla lingua adamitica, la sua conseguenza; che era inimmaginabile che questa non si fosse coinvolta nella storia a partire dal momento stesso in cui vi era entrata, e che, deve ripetersi, quello che Adamo aveva preso a parlare dopo l’espulsione dall’Eden non era più il sacratum ydioma che era stato prima. Si era infatti trasformato in una lingua naturale, sottoposta al destino della variazione e della morte.1 Spentasi, con il ritiro della grazia, la lingua che aveva avuta in dono al momento della creazione, quella che Adamo si trovò a parlare dopo 1. La questione relativa all’impossibilità che, discacciato dal Paradiso Terrestre e privato della grazia divina, Adamo mantenesse intatta la lingua che gli era stata data da Dio, fu intuita da D’Ovidio, Dante e la filosofia del linguaggio, pp. 501-502, che non la svolse tuttavia in modo adeguato e non ne trasse le necessarie conseguenze.
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l’espulsione dall’Eden era altrettanto nuova di lui che, a rigore, era diverso dall’uomo che era stato. Non era più il sacratum ydioma. Era, essa pure, una lingua naturale sottoposta, come si è detto, al destino della variazione e della morte. All’idea, che il De vulgari aveva direttamente derivata dalla Genesi, secondo cui quel sacro idioma si era conservato solo nella stirpe di Sem, non poteva perciò, nella stagione del Paradiso, riconoscersi nessuna razionale credibilità; a tal punto che anche all’altra, qui sopra avanzata, dei due ebraici, quello originario dell’Eden e l’altro che si era storicizzato nel mondo postedenico, si sarebbe dovuto, se non rinunziare, apportare tuttavia un essenziale chiarimento relativo al suo essere stato, nella sua seconda, peritura esistenza, una lingua essa stessa non più divina. La stirpe di Sem era pur sempre fatta di uomini che, se non avevano partecipato all’impresa delittuosa della Torre, appartenevano tuttavia al secolo, alla storia e al tempo che produce mutamenti. Non poteva perciò ammettersi che, senza aver dovuto subire le variazioni imposte dall’una e dall’altro, parlassero, in terra, la lingua che, nell’Eden, era stata di Adamo. Si sarebbe per conseguenza, e al contrario, dovuto convenire sul punto che, da quella, la loro era tanto diversa quanto la lingua di un mortale può esserlo dall’eloquio di chi sia stato destinato all’eterna felicità. Sarebbe stato in effetti uno specifico miracolo che, essendo anch’essi figli della natura e della storia, la loro lingua non avesse tuttavia subita in sé l’essenziale variazione che il loro esser uomini e mortali di per sé comportava. Sarebbe stato, anzi, un miracolo duplice. Se infatti poteva considerarsi cosa straordinaria che il contatto con la storia e con la natura non avesse inciso sull’unità della lingua, soltanto a un ulteriore miracolo poteva attribuirsi la persistenza e la conservazione a essa del carattere sacro che era stato il suo. Che cosa, nel profondo di sé Dante pensasse di questa difficoltà, è impossibile dire. Ma che nel Paradiso egli avesse evitato di riprendere e confermare l’eccezione rappresentata dalla conservazione del sacratum ydioma nella stirpe di Sem, è un fatto al quale non può non darsi l’adeguato rilievo. Non si può escludere infatti che il silenzio mantenuto su quell’evento, che il testo sacro aveva fortemente sottolineato e al quale lui pure aveva reso omaggio nel De vulgari eloquentia, sia da mettere in relazione con una difficoltà di ordine razionale che egli aveva avvertita nel fondo della questione. Fra l’assunto dell’eternità e l’altro per il quale ciò che era stato creato per l’immortalità potesse, in questo stesso atto, essere esposto all’esito della mortalità che il mito della caduta prospettava come se nessuna difficoltà si opponesse alla sua idea, c’era, in realtà, una con-
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traddizione profonda, che coinvolgeva in sé l’idea stessa della creazione e della sua pensabilità. Una contraddizione che, per la sua dicibilità, non avrebbe potuto essere trasferita se non in Dio, dove per fede, e soltanto per fede, si darebbe come pensabile quel che non è né l’una cosa né l’altra, e cioè che l’eterno possa cessare di esserlo e, per un verso persistendo nel suo carattere, per un altro dia luogo, nel creato, al suo contrario. Se deciso fu il cammino che Dante compì sulla via della naturalizzazione e storicizzazione delle lingue, né nel De vulgari eloquentia, né nel Paradiso, la consapevolezza che egli non poté non avere del contrasto in cui la dottrina della Bibbia si poneva con la sua della naturalità del linguaggio, salì a un grado così alto da imporgli la scelta dell’una e il sacrificio dell’altra. Da una parte, stavano le esigenze della ratio, da un’altra quelle, altrettanto irrinunziabili, della fede e della convinzione che al testo biblico si dovesse reverenza. Poiché si sentiva obbligato a rispettarle e a non porre l’una in alternativa all’altra, drammaticamente, se è consentito usare questo avverbio che altri potrebbe definire enfatico, le incluse entrambe nel suo orizzonte, dove quelle entrarono in un conflitto che, come s’è visto, non poteva avere, e non ebbe, soluzione. Restarono compresenti e inconciliabili; anche se, converrà ripetere, nel ventiseiesimo del Paradiso egli ridusse ai minimi termini il rilievo concesso alla questione della Torre e, almeno lì, evitò di dire in modo esplicito che, a Adamo, la lingua che parlava era stata insegnata da Dio. Evitò di dirlo, perché su altro era interessato a far cadere l’accento. Ma certo non lasciò intendere che, la lingua che parlava, il primo uomo l’avesse appresa da sé e che, privo com’era di storia e di esperienza, da queste, che per lui in effetti non potevano esistere, l’avesse appresa, e non da Dio. C’è, è vero, a complicare le cose, il v. 114 di Paradiso XXVI: «l’idioma ch’usai e che fei».2 Ma, prima di fermare 2. N. Sapegno, nel suo commento alla Divina Commedia, III, Paradiso, Firenze 1985, p. 334, parafrasò: «e quale la lingua che io usai e creai» e, senza incontrare difficoltà nel secondo di questi due versi, rinviò al Buti che, per la verità, in quel luogo, diceva soltanto che Adamo era stato il primo «trovatore del modo di parlare» (e, per il contesto, si veda F. da Buti, Commento sopra la Divina Commedia di Dante, ed. Giannini, III, Firenze 1862, pp. 724-725). Non direi che, in relazione al problema della lingua, il ricorso all’antica glossa sia per giovare in modo essenziale. Benvenuto, il quale (Comentum, V, 460-461) parlò di linguaggio «inventato» da Adamo, per il resto si limitò a una parafrasi, assai scialba, dei versi in questione. E lungo la stessa linea si mosse Landino, Comento, pp. 1931-32, che, per altro, sul v. 114 (p. 1930) non si pronunziò. Per passare ai moderni, S. Frascino, nella continuazione del Commento alla Divina Commedia di V. Rossi, a cura di M. Corrado, III, Roma
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l’attenzione sui due verbi che vi ricorrono, sarà bene non dimenticare che, se fossero state l’esperienza e la storia a far sì che Adamo avesse appreso a parlare, di nuovo dovrebbe osservarsi che, in questo caso, il Paradiso Terrestre non avrebbe potuto essere quale la Genesi lo aveva rappresentato e anche in questo canto era descritto: un «giardino eccelso» nel quale l’uomo era stato posto da Dio che l’aveva creato perché vi stesse per sempre, e che di lì lo scacciò per le ragioni che velocemente furono ricordate in una forma che al racconto della Bibbia non avrebbe potuto essere più fedele. Ma non è così. Nel ventiseiesimo della terza cantica, non solo il Paradiso Terrestre fu descritto con i caratteri che la Genesi gli assegnava, ma del tutto ortodossa fu la spiegazione che egli dette della tragedia che vi ebbe luogo. «Or, figliuol mio, non il gustar del legno / fu per sé la cagion di tanto 2007, p. 1480, rese il «fei» con «creai», e, peggiorando di molto le cose, aggiunse che, se Dante non avesse rettificato la sua precedente posizione, ne sarebbe derivato che, come cosa creata da Dio, la lingua di Adamo sarebbe stata «necessariamente» inalterabile: come se, opera di Dio, l’uomo non fosse stato creato prima immortale e poi mortale, e come se, per dare qualche coerenza a questa tesi, dovesse pensarsi che Adamo era stato creato muto e in grado tuttavia di farsi da sé creatore del suo proprio linguaggio. Deve aggiungersi che l’interpretazione di «fei» nel senso di «creai» è largamente presente nei commenti moderni, da L. Pietrobono, La Divina Commedia, III, Paradiso, Milano 1939, p. 317, a E. Pasquini e A. Quaglio, La Divina Commedia, Milano 1987, p. 1043, e così via. A provare l’invenzione che Adamo avrebbe fatta del linguaggio è consueta la citazione della Genesi 2, 19, dove però di invenzione non si parla, e piuttosto si dice che Dio condusse dinanzi a Adamo gli animali della terra e gli uccelli del cielo perché decidesse lui il nome che conveniva dare a essi (ut videret quid vocaret ea). L’espressione è ambigua: ma «decidere» che nome dovesse esser dato a quegli animali non significava crearlo, quel nome, bensì piuttosto apprenderlo e poi assegnarlo. Inadeguato, su questo punto, e incoerente, è anche il commento di U. Bosco nella Introduzione al canto ventiseiesimo, in La Divina Commedia, a cura di U. Bosco, G. Reggio, III, Roma 2005, p. 606, il quale ritenne, lui pure, che, nel canto ventiseiesimo, a Adamo si attribuisse la «invenzione» della lingua. Quella «concreata» da Dio con l’anima era, infatti, a suo giudizio, non una lingua particolare, e nemmeno l’ebraico, ma la «parola, la facoltà e la necessità di esprimersi parlando»: dove sembra lecito chiedersi se una parola possa esser presa al di qua di una lingua, se la facoltà di esprimersi possa sussistere, muta, al di qua dell’espressione, se, anche se rimasta muta, la lingua potesse esser meno di sé stessa, e se, infine, la facoltà e la necessità dovendo obbligatoriamente venir prima della parola, nei confronti della quale starebbero perciò come in potenza, sia concepibile che, in quanto tali, ossia come cose in potenza, siano create da Dio. Fra la creazione, che non può essere concepita se non come atto supremo, e la potenza, è impensabile che si dia un nesso, e che a quella sia consentito di esser tale nei confronti dell’atto creatore. Una «potenza creata» è una contraddizione, perché necessariamente, in quanto creata, sarebbe atto (l’atto, se si vuole, del suo essere in potenza). E cfr. qui di seguito, nel testo, e n. 9.
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essilio, / ma solamente il trapassar del segno».3 Niente, per conseguenza, lascia supporre, e tutto per la verità induce a escludere, che, poste e tenute ferme queste premesse, Dante potesse aver pensato in modo diverso da questo. Niente autorizza a credere che fosse incorso nell’inavvertenza e nella grossolanità in cui immancabilmente sarebbe caduto se, del giardino dell’Eden, non avesse fatto il luogo dell’innocenza e di una storia destinata a non deviare mai dal sentiero di un’ininterrotta beatitudine. E tutto, invece, concorre a escludere che, con quei verbi («usai», «fei»), egli avesse inteso quel che non pochi poi, in sede critica ed esegetica, pretesero, e cioè che a Adamo avesse attribuita la «creazione» della sua lingua.4 Diamine! Si può ben concedere che il secondo di questi due verbi dia luogo a qualche sorpresa, che metta in difficoltà chi guardi al contesto e, a causa della sua presenza in esso, vi sorprenda qualcosa di stridente e di disarmonico. Ma la legge del contesto è, d’altra parte, troppo imperiosa e, nel caso in questione, anche esplicita, perché la prima regola da rispettare non sia quella che impone di sottomettere, non il tutto alla parte, ma la parte al tutto, interpretandola alla luce di questo; e la seconda non sia l’altra che obbliga a cercare se a quel verbo «fare» non sia, visto il contesto, da assegnarsi un significato meno pretenzioso e ridicolo di quello che darebbe segno di sé quando se ne facesse l’equivalente di «creare». «Creare est […] dare esse»,5 e «non potest esse propria actio nisi solius Dei. Oportet enim universaliores effectus in universaliores et priores causas reducere. Inter omnes autem effectus universalissimum est ipsum esse. Unde oportet quod sit proprius effectus primae et universalissimae causae, quae est Deus».6 Sono parole di Tommaso d’Aquino; e esprimono un concetto che non poteva non essere anche di Dante, comunque poi, in senso specifico la teoria della creazione divina si atteggiasse nei suoi scritti, dal Convivio alla Commedia.7 In ossequio al contesto, deve dirsi che il concetto che Adamo 3. Par. XXVI 115-117. 4. Cfr., per esempio, per una formulazione estrema della tesi qui contestata, U. Palmieri, Appunti di linguistica dantesca, in «Studi danteschi», 41 (1964), p. 47, E. Ferrario, Il linguaggio nel xxvi canto del ‘Paradiso’, in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia a cinquant’anni dalla sua laurea, IV, Modena 1989, p. 569, Corrado, Dante, pp. 73-74. 5. Thomae I Sent. 37, q. 1, a. 1. 6. Thomae Summa theol. I, q. 45, a. 5. 7. La citazione di queste linee non implica la condivisione della tesi secondo cui, a proposito di creazione, Dante seguisse la linea di Tommaso d’Aquino. Spunti averroistici e
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comunicò a Dante fu, non che egli avesse creata, traendola da sé e dalle sue esperienze, la lingua che aveva usata nel Paradiso Terrestre (perché a quel luogo, e a quel momento, il v. 114 si riferisce), ma che la sua opera era consistita nel fare che fosse una lingua concretamente parlata quella che Dio gli aveva appresa quando, all’atto della creazione, l’aveva infusa in lui insieme all’anima. Nella quale dovrà intendersi, e lo si è visto, non che quella stesse in potenza,8 perché fra l’essere in potenza e l’essere creato non può esserci identità di significato, ma stesse bensì (deve ripetersi quel che già è stato detto) come una lingua posseduta e non ancora esercitata: come una lingua, dunque, che, sebbene perfettamente compiuta, era rimasta muta (nel senso, appunto, di non esercitata) fino a che egli non ne trasse la parola con la quale, come si è visto, ringraziò Dio del dono che gli aveva elargito dell’esistenza. Converrà, anche se non sia questa la sede in cui l’argomento possa essere compiutamente svolto, considerare che se, fra le cose create, fosse lecito includere quel che in Aristotele si definisce come «potenza», in quanto creata a questa sarebbe vietato di essere perfezionabile in un atto che le desse forma e determinatezza. Di necessità, in quanto creata, la potenza sarebbe l’atto del suo essere in potenza; e di trapassare in un atto che la trasferisse in sé, e nella sua luce, non avrebbe, in effetti, alcuna necessità; per non dire, con maggior rigore, che al suo trasferimento in quell’atto osterebbe il suo essere già coincidente con il suo che, in quanto tale, non può ulteriormente attualizzarsi in un atto.9 «Fare la lingua» può perciò, in questo contesto, significare qualcosa di analogo all’ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt di De vulgari eloquentia, I vi 7, avicenniani furono indicati da Nardi, “Tutto il frutto ricolto del girar di queste sfere”[1935], in Id., Dante e la cultura medievale, pp. 245-264. Ma, in senso generale, il concetto che informa le linee qui sopra citate di Tommaso, era presente anche in lui. Per una breve storia delle tesi in conflitto, cfr. A. Mellone, Creazione, ED, II, 251-253. 8. Come fu invece inteso, per esempio, da Palmieri, Appunti di linguistica dantesca, p. 48. 9. La questione a cui si allude nel testo è concettualmente delicata, e con facilità potrebbe essere collocata nel regno degli equivoci se non si considerasse che questi sono spesso determinati dall’inavvertenza per cui, anche in testi filosofici, non si considera che quel che è primo secondo il tempo, è di necessità preceduto dal logo che è l’autentico primo, sì che quel primo è in realtà secondo: non lo si considera e ci si lascia prendere dalla suggestione del linguaggio e dalla sua tendenza a mettere in termini di tempo quel che dovrebbe esser messo in termini di logo. Insomma, è perché si dà l’attualità che, senza uscire dall’ambito di questa, può pensarsi il suo essere (stata) in potenza. Che se invece si assumesse che la potenza fosse anteriore all’atto, come potrebbe ammettersi che non fosse in atto la sua anteriorità e, con questa, la sua potenza?
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dove fabricare significa non «creare», non «far essere ciò che non è», ma esercitarla, meglio ancora articolarla, conferendo alle parole ciò che è richiesto dal loro intento significativo.10 Che poi, sostenendo, nel Paradiso, che, dopo l’espulsione dall’Eden, la lingua parlata da Adamo aveva via via subite le variazioni che appartengono al regno delle cose storiche e, lungo il cammino, si era a tal punto trasformata in un’altra da riuscire alla fine diversa da ciò che era, Dante affermasse cosa della cui novità non può dubitarsi, è ovvio: come ovvio è, o dovrebbe essere, che, rispetto a quanto sostenuto nel De vulgari eloquentia, il mutamento si rese evidente, sia nell’idea secondo cui, entrata nella storia, la lingua di Adamo prese subito a modificarvisi, sia nell’esclusione che questo fenomeno dovesse essere attribuito a quanto era avvenuto durante la costruzione della Torre. Tutt’altro che sicuro è invece che, nel canto ventiseiesimo, egli avesse abbandonato sia il concetto, affermato e sostenuto nel De vulgari eloquentia, del carattere sacro del primiloqium adamitico, sia l’altro secondo cui in ebraico Dio si era rivolto ad Adamo ed ebraica perciò era stata la lingua parlata da lui. Per sostenere che naturale, e non divina, fosse stata, già nell’Eden, la lingua di Adamo, sarebbe necessario non far caso a quel che già qui su fu messo in rilievo. E cioè che, in tanto la sua lingua si era spenta prima che avesse inizio l’impresa della Torre, in quanto il germe della morte vi era penetrato nel momento in cui, dal Paradiso Terrestre essendo stato precipitato nel mondo della storia, egli aveva perduto il privilegio della immortalità e di questo anche il suo ydioma aveva subìto il contraccolpo, e da divino si era reso umano. Ma, appunto, è proprio il suo essersi naturalizzato in seguito alle conseguenze della prevaricazione che obbliga a pensare che fosse stato un sacratum ydioma quello che a Adamo era stato concesso di parlare nell’Eden. Il punto essenziale che, proprio per la sua irresistibile tendenza a riproporsi nei momenti salienti del discorso, non dovrebbe mai esser perso di vista è che il senso ultimo della narrazione biblica sta, non solo e non tanto nel definitivo «essilio» che da allora il genere umano patì, ma nell’estrema sua problematicità. Un conto era parlare dell’esilio che, di un sol colpo, nel nome di Adamo Dio aveva inflitto al genere umano che ne sarebbe nato. Un altro era spiegare come fosse stato possibile che, nell’abisso del consiglio divino, si fosse determinata la decisione di dare luogo a un simile, drammatico, fallimento del progetto relativo a un uomo che era stato creato 10. Corrado, Dante, p. 56.
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nella prospettiva dell’eterna felicità. Ma una volta che il racconto biblico presentava come un fatto irrefragabile che il passaggio si era determinato e «cotanto essilio» ne era conseguito, di quel che asseriva non c’era che da prendere atto: con l’avvertenza, per altro, delle conseguenze rivoluzionarie che, rispetto ai modelli edenici, dovevano registrarsi nella natura dell’uomo e anche, naturalmente, della sua lingua. A proposito della quale non si vede perché, se al primo problema si sia data questa soluzione, dovrebbe dubitarsi, o addirittura escludersi, che nel ventiseiesimo del Paradiso Dante avesse abbandonato la tesi che l’ebraico fosse stato il primiloquium adamitico. Al primo (e unico) colloquio che, nell’Eden, Adamo aveva avuto con Dio e alla prima parola che, secondo il De vulgari, egli allora aveva pronunziata, Dante non fece, in quel canto, alcun accenno: con la conseguenza che, come si è visto, resta indeciso se, a proposito del v. 124: «la lingua ch’io parlai fu tutta spenta», il riferimento vada alla lingua che gli era stata infusa con l’anima al momento della creazione, o a quella che, dopo l’espulsione dal Paradiso Terrestre, era stata la sua e che, dalla prima, in questo caso, non poteva (come si è visto) non essere tanto diversa quanto diverso dall’uomo che era stato era ormai lui, che per intero apparteneva al tempo e alla storia. Ma, a questo riguardo, occorre fare attenzione, e distinguere. Niente in realtà vieta di dire, o di ribadire, quel che qui su si è osservato, e cioè che, entrando nel mondo del dolore e della morte, la lingua di Adamo non poté non risentire di quel che era avvenuto nella condizione esistenziale di lui che la parlava, registrandone in sé il contraccolpo e esponendosi perciò al destino della variazione che, in ultima istanza, recava con sé quello del suo progressivo spegnimento. Potrebbe infatti ritenersi, ma di questo si parlerà di qui a poco, che, conoscendo fasi diverse, lo spegnimento avvenisse, non di colpo, ossia nel momento dell’ingresso nel mondo della storia di coloro che erano stati nell’Eden, ma a conclusione di un processo nel corso del quale la lingua parlata da Adamo e da lui trasmessa ai suoi discendenti si venne variamente frammentando, suddividendo, e restando ebraica, se, a questo riguardo, Dante seguitava a condividere quel che aveva sostenuto nel De vulgari eloquentia, I vii 8, soltanto in una sua parte.11 Potrebbe altresì, a proposito di questa specifica ma essenziale questione, 11. La questione è controversa e non facile a essere decisa. Non capisco tuttavia perché, a proposito di I ix 6, in un saggio per altro assai notevole, B. Terracini, Natura ed origine del linguaggio umano nel “De vulgari eloquentia”, in Id., Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, p. 243, abbia asserito che, rispetto all’idea che aveva delineata dell’origine e
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osservarsi che dalla posteriorità del nome El dato a Dio dopo la morte di Adamo rispetto alla lettera I con cui lo si nominava prima, non si ricava che non era l’ebraico la lingua che, secondo Par. XXVI 133-136, il primo uomo aveva parlata, quella essendosi affermata soltanto dopo la sua discesa «a l’infernale ambascia» (v. 133).12 L’unico argomento che può essere addotto a sostegno di quest’ultima tesi sta in quel che, nel De vulgari eloquentia I iv 4, si dice di El come del nome ebraico di Dio. Ma non è argomento che basti a provare un così radicale cambiamento, rispetto alla tesi che Dante aveva sostenuta nel trattato latino. Non lo richiede, e non lo autorizza, quel che si legge nella già più volte ricordata terzina del Paradiso; dalla quale sembra piuttosto doversi ricavare che I era semplicemente un nome più antico, ma pur sempre un nome ebraico, dato a Dio. Intendere così non dovrebbe fare difficoltà se si ammettesse quel che, d’altra parte, sembra ragionevole. E cioè che, come, dopo l’espulsione di Adamo dal Paradiso Terrestre, l’ebraico edenico si era trasformato e reso diverso in un ebraico via via sottoposto alla legge naturale e storica che, di trasformazione in trasformazione, l’aveva condotto fino allo spegnimento, di qui non era arbitrario dedurre che in quel processo il nome stesso di Dio fosse stato coinvolto e avesse soggiaciuto alla potenza di quella legge. Insomma, posto che, come ora Dante sosteneva modificando quel che aveva asserito nel De vulgari eloquentia, non solo El, ma I fosse stato, in precedenti tempi, il nome di Dio,13 perché escludere che, al pari del secondo, anche quello fosse stato un nome ebraico, un più antico nome ebraico?14 Perché, piuttosto, non ammettere, che volendo rappresentadella natura del linguaggio, quella della lingua adamitica stesse dinanzi a Dante come «un’eccezione molesta». Eccezione molesta (alla regola della coerenza) avrebbe allora dovuto apparirgli l’idea stessa che l’uomo storico e mortale avesse un progenitore che, da innocente e immortale, si era reso il contrario di quel che era stato. 12. Nardi, Dante e la cultura medievale, pp. 191-94, seguito da Sapegno, Paradiso, p. 335. 13. La questione, se I sia o non sia antico nome ebraico di Dio, è controversa. F. Figurelli, Il canto XXVI del “Paradiso, in Nuove letture dantesche, VII, Firenze 1974, p. 147, ritenne che il nome I fosse probabile invenzione dantesca. Ma sulla questione avevano già discusso F. D’Ovidio, Il nome di Dio nella lingua di Adamo secondo il XXVI del “Paradiso” e il verso di Nembrotte nel XXXI dell’Inferno, in Id., L’ultimo volume dantesco, Caserta-Roma 1926, pp. 373-418, e D. Guerri, Il nome adamitico di Dio [1907], in Scritti danteschi e d’altra letteratura antica, a cura di A. Lanza, De Rubeis, Anzio 1990, pp. 5673, giungendo a conclusioni difformi da quelle raggiunte qui su. 14. Cfr. per questo G. Casagrande, «I s’appellava in terra il sommo bene (“Paradiso” XXVI 124), in «Aevum», 50 (1976), pp. 249-273, il quale sostenne che il nome I potrebbe
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re con un esempio di particolare efficacia, l’interno trasformarsi dell’ebraico postedenico, Dante immaginasse che il primo avesse nominato come I quel che in seguito, in forza del suo naturale trasformarsi, avrebbe definito come El?15 Quale migliore prova dell’intima tendenza della lingua al proprio cambiamento se persino il nome dato a Dio, ossia a ciò che, nel suo concetto e nella sua essenza, non conosce se non la fermezza dell’eterno, non era stato, in sé, altrettanto fermo nel tempo?16 esser stato suggerito a Dante da Jeronimi ep. X xv 2, che lo elenca fra i dieci nomi di Dio, e P. Damon, Adam on the primal language: “Paradiso” 26.124, in «Italica», 38 (1961), pp. 60-62. 15. Non credo quindi che D’Ovidio, Dante e la filosofia del linguaggio, pp. 501 ss., avesse ragione quando, dopo avere acutamente osservato che era impossibile che, dopo la perdita dell’innocenza e del Paradiso Terrestre, la lingua di Adamo non avesse risentito di quanto era accaduto, interpretò tutto questo come l’impossibilità da parte sua di trasmettere ai figli e ai nipoti una loquela inalterabile, e di qui trasse l’ulteriore conseguenza che la sua lingua non poteva essere stata l’ebraica che, al più, doveva essere «il tardivo e irreconoscibile continuatore della sua lingua». Il D’Ovidio, in effetti, non sembrò avvedersi che, se aveva perduto la purezza originaria, la lingua di Adamo aveva bensì acquisito il carattere della naturalità e della storicità, alle quali era ormai affidata la sua principale caratteristica, e cioè l’instabilità e la mutevolezza, ma non per questo era diventata un’altra lingua. Era la stessa con l’aggiunta dei predicati storici che prima non le appartenevano, e ne facevano ora un soggetto mutevole, destinato, al pari dell’uomo al quale apparteneva, a registrare il dolore e a soccombere alla morte. Era la stessa essendo tuttavia anche diversa, come accade a una lingua che, invece di esercitare sé stessa in un ambiente sottratto al tempo e alla storia, di questa e di quello invece partecipi: come accadde a Adamo, il quale seguitò a essere l’uomo che era stato, ma con l’aggiunta di predicati che sottraevano il suo soggetto all’eternità e lo consegnavano alla morte. 16. Mengaldo, Linguistica e retorica di Dante, pp. 243-244, asserì che «la tesi della deperibilità della lingua di Adamo comporta quale sua necessaria premessa che essa non sia di origine divina, ma sia concepita come libero prodotto umano, della creatività dell’uomo parlante»; e citò a riscontro il v. 114. Ma non considerò, il che sorprende in uno studioso così acuto, che, quali che fossero le questioni che ne nascevano, la lingua di Adamo cessò di essere «divina» nel momento in cui, con la caduta nel mondo della storia e del tempo, anche colui che l’aveva parlata si fece, rimanendo sé stesso, diverso dal suo precedente sé stesso, che era stato destinato all’eternità e ora invece lo era alla morte. Strano che Mengaldo non si avvedesse che, se Dio aveva creato l’uomo dotandolo di ogni perfezione e destinandolo all’immortalità, non avrebbe in quest’atto potuto assegnargli una lingua naturale e peritura. Si sarebbe infatti dovuto considerare che, essendo la lingua donata al primo uomo di origine divina perché susseguente a un atto formale di creazione, di origine divina fu altresì la perdita che, per la nota colpa dei due abitanti dell’Eden, essa ebbe a subire della sua divinità. La caduta dell’uomo e della sua lingua nelle angustie della natura e della storia fu infatti opera, non sua, ma di Dio; e le iniziative che il primo fu costretto a prendere per sopravvivere furono la risposta che egli fu costretto a dare alle sfide che gli provenivano da una
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In margine a questi luoghi, altro tuttavia resta da dire. E almeno un’osservazione dev’essere aggiunta. Da quel che si legge in questi versi, semplici a intendersi nella lettera, assai meno nel concetto, potrebbe infatti ricavarsi, se l’occhio restasse fermo sulla periodizzazione che contengono, qualche ulteriore conseguenza. Se la doppia nominazione di Dio, a cui Dante alluse, si determinò prima e dopo la morte di Adamo («l’infernale ambascia») quando, se era l’ebraico, la lingua parlata da lui si era tuttavia resa qualitativamente diversa da quella che era stata prima della caduta, ecco allora che, ferma restando questa interpretazione, occorrerebbe anche ammettere che, durante la sua vita terrena e, per un tratto, anche dopo la sua morte, la lingua sua e dell’umanità fosse rimasta una, e che ancora non avesse avuto inizio il processo della differenziazione che la spense prima che la costruzione della Torre avesse avuto inizio. Era all’interno della stessa lingua che quella doppia nominazione di Dio si era verificata. La sua trasformazione da lingua sacra a lingua storica non aveva recato con sé la conseguenza del suo essersi presto, e necessariamente, differenziata in parlate diverse: un fenomeno, questo, che dovette verificarsi più tardi in tempi e modi che, posto che Dante li distinguesse con chiarezza nella sua mente, restano tuttavia non determinabili in sede esegetica. Se poi si debba interpretare così, o, ferma restando la legittimità del rilievo, la conseguenza che ne è stata tratta debba essere considerata come un’idea che, rilevata in sede esegetica, non necessariamente era stata vista da Dante, è questione che non può non restare indecisa. Quel che è certo è che, nel fondo del pensiero di lui, che leggeva la Bibbia e vi meditava sopra, c’erano più cose di quante non si notino in superficie; e che richiede uno sforzo notevole il tentativo che doverosamente si compia di avvicinarsi a esse senza tradire e alterare la lettera dei testi.
natura e da una storia a lui ostili, tanto che in nessun caso potrebbe esser messa sul conto della sua «creatività». Ma di questo mi pare che si sia ragionato a sufficienza nel testo. Aggiungerei soltanto che, se si considera contraddittoria e incomprensibile la decisione divina di creare un uomo eterno nell’atto stesso in cui a questa era interna l’opposta decisione di condannarlo alla pena del vivere e del morire, tanto più occorre che la prima tesi (quella dell’origine divina della lingua di Adamo) sia tenuta ferma, pena altrimenti l’impossibilità di farla entrare in conflitto con l’altra, decretante il suo destino mortale.
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Il preambolo biblico che, nel primo libro occupa i primi otto capitoli del De vulgari eloquentia, e che, come si è visto, presenta questioni che erano state, ed erano, al centro dell’attenzione di filosofi, teologi, studiosi dell’origine del linguaggio, può considerarsi concluso nel punto in cui Dante asserì che, tornati nelle loro terre d’origine, i popoli che si erano riuniti per innalzare la Torre vi portarono le tre lingue in cui si era divisa quella che prima avevano avuta in comune. Dopo di che, da ciascuno di questi tre idiomi, ossia da quello che Dante aveva definito tripharium e giudicò nato dalla «vindice confusione» prodotta nella precedente lingua, si originarono i diversi volgari che di lì in poi si parlarono nel mondo. Senza entrare, in questa sede, nelle questioni poste dal modo in cui Dante collocò sulla carta geografica le tre parlate in cui si era distinta la lingua unitaria dell’umanità prebabelica, e quella, in particolare, che assegnò all’Europa,1 converrà ricordare l’essenziale. Dopo aver individuato quella che, contraddistinta dall’affermativa iò, fu da lui collocata nella regione europea che dalle bocche del Danubio si spinge fino alle plaghe occidentali dell’Inghilterra essendo limitata dall’Oceano e Ytalorum Francorumque finibus (I viii 4), egli ne indicò un’altra che ebbe il suo luogo al di là dei confini degli 1. Sull’insufficienza della «classificazione in tre gruppi delle lingue d’Europa», cfr. A. Pagliaro, I “primissima signa” nella dottrina linguistica di Dante, in Id., Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1963, p. 227, che riprende rilievi di F. D’Ovidio, Versificazione italiana e arte poetica medievale [1910], in Id., Versificazione romanza, poetica e poesia medievale, Napoli 1932, pp. 57 ss. Ma si veda ora Tavoni, Introduzione, alla sua ed. cit., pp. 1077-1080, e più ampiamente nel suo Contributo all’interpretazione di “De vulgari eloquentia” I 1-9, in «Rivista di letteratura italiana», 5 (1987), pp. 385-453, e in Ancora su “De vulgari eloquentia” I 1-9, ibidem, 7 (1989), pp. 469-496.
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Ungheri versus orientem, nec non ulterius est protractum. Ma, senza andar oltre questo più che elementare esercizio di geografia linguistica dantesca,2 l’attenzione richiede di essere concentrata sull’idioma che occupò la restante parte d’Europa e che (I ix 1) Dante definì come il nostro. «Trifario» anch’esso perché, di quanti abitarono e abitano le terre in cui si radicò, alcuni usavano l’affermativa oc, altri l’affermativa oil, altri l’affermativa sì, doveva tuttavia, per le parole che aveva in comune, essere considerato certamente unitario. E fu a quello che egli si rivolse come all’oggetto primario del suo trattato. Nel quale, per altro (I ix 4-5), subito mise un particolare impegno nel far notare come esso si fosse via via diviso e differenziato in sé stesso. In Italia, per esempio, altra era la parlata del versante destro, altra quella del versante sinistro, come poteva facilmente constatarsi ascoltando i Padovani e i Pisani, e poi altre genti, che, sebbene limitrofe, presentavano tuttavia particolarità che la vicinanza delle loro sedi avrebbe dovuto piuttosto escludere che giustificare. Persino da strada a strada, per esempio a Bologna, il suo sensibile orecchio percepiva differenze3 che, per un verso, testimoniavano dell’estrema variabilità dell’uomo considerato come soggetto linguistico, e, per un altro, la presentavano come essa stessa una sorta di causa, non storica ma strutturale, del suo storico determinarsi. Di questa disposizione di Dante a presentare in termini di svolgimento storico e di continua differenziazione la questione della lingua molti interpreti hanno parlato, se non, in assoluto, come di una novità, certo come della prova della spregiudicatezza con la quale egli si poneva in rapporto con la tesi della sua origine divina; che nel De vulgari era ammessa bensì, ma a rigore solo per il periodo che dalla espulsione di Adamo dal Paradiso Terrestre andò fino al tempo in cui fu costruita la Torre, dopo di che omnis nostra loquela [fuit] a nostro beneplacito reparata (I ix 6). Ma non è detto affatto che, fermo restando l’anzidetto pregio, l’idea dell’estrema variabilità e frammentazione delle lingue non costituisse, per la coscienza, non linguistica, ma politica di Dante, un problema insidioso e una fonte di viva preoccupazione.4 A questo 2. Si veda l’articolo di Bruni, La geografia di Dante nel “de vulgari eloquentia”, pp. 243-51, e la documentazione cartografica raccolta in appendice. 3. De vulg. el. I ix 4-5: «et, quod mirabilius est, sub eadem civilitate morantes, ut Bononienses Burgi Sancti Felicis et Bononienses Strate Maioris» (I ix 4-5). 4. C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, p. 31, ha scritto che «la lezione del De Vulgari Eloquentia», da lui giudicato come «la porta stretta che comanda per noi l’ingresso, non soltanto alla Divina Commedia, ma conseguentemente a una interpretazione storica di tutta la letteratura italiana» è «in breve questa: un’esigenza
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aspetto della questione che, malgrado la sua importanza, non ricevette, nel De vulgari eloquentia, dove pure è presente, un adeguato svolgimento, occorre dedicare l’attenzione che certamente merita. Per dirla in breve. Quando nel quarto trattato del Convivio compose il suo excursus sull’Impero romano e, in senso ideale oltre che storico, pose quest’ultimo al vertice del percorso che l’umanità politica dovette compiere, dalla più rudimentale alla più complessa delle forme politiche, che è l’Impero, Dante tacitamente presuppose che l’ecumene politica implicasse l’ecumene linguistica: almeno nel senso che, pur parlando lingue diverse, resi omogenei e concordi nel nesso imperiale, attraverso i loro reges particolari i popoli ricevessero e comprendessero la lingua dell’Imperatore. Come questo avvenisse e fosse possibile, Dante non disse e non spiegò mai, così come mai spiegò che cosa dovesse intendersi per lingua dell’imperatore, una volta che la sua persona fosse stata considerata identica all’Impero e questo all’attualità dell’intelletto. Non lo disse e non lo spiegò nel Convivio, non lo disse e non lo spiegò nel De vulgari; e nemmeno nella Monarchia, dove pure tanto più un chiarimento sarebbe stato al riguardo necessario in quanto lì l’attuazione dell’Impero era stata giudicata coincidente con quella di tutta intera l’umanità nella virtus intellectiva e nel suo essere sempre sub actu […] aliter esset dare potentiam separatam, quod est impossibile.5 Di questa umanità che sempre traeva all’atto la sua potenza intellettuale, o, se si preferisce, sempre era nell’atto di trarre all’atto la sua potenza, l’Imperatore era bensì l’emblema, o, se si preferisce, il simbolo sintetico. Ma anche era un uomo e, come uomo, un essere parlante. Era uno che, poiché si rivolgeva a tutti, doveva pur avere una lingua che non poteva esser quella, a lui e alla sua eccellenza non adeguata, del volgare illustre. Il nesso fra intelletto e Impero, che il terzo capitolo della Monarchia aveva stabilito, avrebbe unitaria, di un’ideale unità linguistica e letteraria, proposta e richiesta a una reale, frazionata varietà, un’unità insomma che supera, ma nel tempo stesso implica questa varietà». E sia pure così per quel che concerne l’esigenza unitaria. Ma, a parte quel che ci sarebbe da osservare a proposito di un superamento che, mentre si realizza andando oltre la varietà, per un altro verso la implica e sembrerebbe quindi realizzato a metà, o non realizzato affatto, resta che qui a non esser colto è il tema politico che, senza salire, nel trattato latino, al piano alto della considerazione, ne è tuttavia di continuo presupposto, e tanto più deve esser messo in rilievo quanto più incontri ostacoli alla sua piena affermazione. 5. Cfr. lo svolgimento di questo tema nel mio Dante. L’Imperatore e Aristotele, pp. 183-251.
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dovuto esser reso completo con l’aggiunta della lingua; che, come non poteva non appartenere all’intelletto e all’Impero stretti nella loro unità, così doveva appartenere all’Imperatore che di tutto questo era, come si è detto, il simbolo sintetico. Tanto più su questo piano si sarebbe dovuto procedere in quanto, con un passaggio del quale si sarebbe pur potuto contestare la necessità concettuale, all’impresa della traduzione in atto della potenza Dante aveva chiamato l’intero genere umano; che era uno, in quanto genere, ma molteplice quanto alla lingua che, per poter essere ridotta a unità, richiedeva, se così potesse dirsi, un atto ulteriore a quello che ne garantiva l’unità. Ma di questo ulteriore momento non c’è, nella pagina dantesca, alcun segno. E si può ben comprendere che fosse così. Era, quella a cui si allude, una questione il cui profilo si rende visibile nel luogo che ospita, o dovrebbe ospitare, le conseguenze non tratte. Era, se si vuole, una questione astratta, ma ineludibile una volta che quella della lingua fosse stata considerata non più, come avveniva nel De vulgari eloquentia, sul piano di un’unità, debole, senza dubbio, parziale e tuttavia, una, ma su quello dell’intera umanità e delle sue molte lingue.6 Il volgare illustre del quale Dante ricercava la specifica realtà non rispondeva a nessuna di queste caratteristiche. Era bensì regale, e cioè relativo a una reggia, era bensì curiale, e cioè relativo a una curia, intesa come una librata regula eorum que peragenda sunt (I xviii 4), come il luogo supremo, dunque, delle relative decisioni. Ma se la reggia era il luogo concreto e simbolico del regno, e la curia era quello, esso pure concreto e simbolico, delle decisioni che richiedevano di esser prese, né l’una né l’altra potevano esser messe alla pari dell’Impero, rispetto al quale non erano se non parti; e tanto 6. Stabile, ‘Sì-oc-oil’: in signum eiusdem principii’. Dante contro le barriere di confini e linguaggi [1999], in Dante e la filosofia della natura, p. 261, ha osservato che «non diversamente dal disegno di universalismo politico della Monarchia, Dante nel De vulgari eloquentia tenta lo stesso disegno attraverso l’universalismo linguistico, vale a dire mediante la correzione e inversione della diversio e divaricatio colpevole dei gruppi e dei dialetti italici, in forza di una loro reductio ad unum riparatrice che metta capo all’artificiale costituzione di una forma locutionis comune a tutte le genti». L’osservazione è suggestiva. Ma l’area linguistica in cui si attua il principio della reductio ad unum che rende attuale il volgare illustre, è, nel De vulgari eloquentia, quella del sì; e il volgare illustre, che realizza la perfezione soltanto all’interno di quella, non può perciò essere elevato al rango di «una forma locutionis comune a tutte le genti». Nell’Impero, quale Dante l’avrebbe concepito nella Monarchia, tutte le genti sono comprese e, per conseguenza, tutte le favelle nella loro particolarità. D’altra parte, se la sua iurisdictio terminatur Oceano solum (Mon. I xi 12), quale sarà la sua lingua, la lingua dell’Impero in quanto Impero?
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meno era possibile che, nella lingua, adeguassero quella che avrebbe dovuto esser considerata come la sua. Certo, l’articolazione politica dell’Impero aveva il suo riscontro nella sua articolazione linguistica, e tante infatti vi erano le lingue quante, all’incirca, erano le parti che lo componevano. Questo dato di realtà non avrebbe in nessun caso dovuto essere sacrificato alla suprema esigenza dell’unità politica. Occorreva riconoscerlo e, se lo si fosse considerato piuttosto un ostacolo che una ricchezza, disporsi alla rassegnazione. Ma se in ciascuna delle parti in cui, essendo uno, l’Impero si divideva, si parlava una lingua diversa da quella parlata in un’altra, è pur vero che inammissibile sarebbe stato che, dalla sua propria altezza, quella che era propria dell’Imperatore non pervenisse ai gradi via via più bassi del sistema, che, per esserne ispirato e guidato, non poteva non riceverla direttamente da lui e al di fuori, quindi, di mediazioni estranee che avrebbero potuto attenuarne l’efficacia. C’era il rischio, altrimenti, che la sua unità essendo frazionata, sul piano linguistico, dalle diverse parlate che in esso avevano corso, invece che luogo, simbolico e reale, dell’unità, guardato dall’esterno, e vissuto dall’interno, l’Impero si presentasse come un’involontaria replica della situazione babelica, intesa come incomunicabilità fra i gruppi, e fosse esposto al medesimo destino. Se la questione che qui si sta ponendo fosse stata viva nella mente di Dante, non è dato sapere, perché di essa non c’è traccia nei suoi scritti. Se ne dovrà dedurre che non vi era viva? È difficile, comunque, immaginare in che modo, nei termini della sua cultura linguistica e, soprattutto, filosofica, l’avrebbe impostata e risolta. Avrebbe fatto ricorso a qualcosa di simile al prodigio della communicatio linguarum di cui si dice nel famoso passo degli Atti degli Apostoli,7 che già si è avuta occasione di ricordare, o l’avrebbe modificato nel senso che, in signo intellectus, l’Imperatore comprendesse e fosse compreso? È, questa che si sta proponendo, una questione astratta? Perché no? Senza dubbio, è una questione astratta. Più giusto, tuttavia, sarebbe dire che è tale che si pone al di là del limite che alla consapevolezza di Dante, e alla sua capacità immaginativa, impediva di andar oltre. Il che, per altro, non esclude che, di tanto in tanto, quell’idea non gli balenasse alla mente, o fosse comunque intrinseca al modo in cui egli aveva messo le cose. Fuori questione restava tuttavia che la teoria che, nel De vulgari, era intento a costruire, e non solo, del resto, in senso descrittivo, lo costringeva ad andare in tutt’altra direzione. Che i popoli, che l’Impero avrebbe dovuto ricompren7. Act. Ap. 2, 1.
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dere in sé, parlassero lingue diverse, e non si capissero l’un l’altro anche se geograficamente fossero stati vicini, era un fatto dal quale, comunque lo si giudicasse sul piano politico, e per grave che fosse il problema che ne nasceva, la teoria non poteva prescindere. Può darsi che, nel teorizzare la variabilità e la mutevolezza del linguaggio umano, Dante fosse affascinato dallo spettacolo al quale la sua teoria lo poneva di fronte; e se ne compiacesse come di un equivalente della varietà e anche della mutevolezza delle cose naturali e del loro spettacolo, per la cui descrizione aveva un così grande talento. Ma il pregio della varietà aveva il suo pesante contrappasso politico nella frammentazione e nell’assenza di unità. E questo era un inconveniente, un pesante inconveniente, al quale, nella cornice logica del De vulgari eloquentia, porre rimedio era impossibile. Dante, che, come si ricorderà, sulle parlate italiane esprimeva giudizi sprezzanti e persino feroci, e a dire quel che ne diceva era certamente mosso dal disgusto e dalla rabbia che quelle gli producevano sul piano, non solo linguistico, ma anche politico, poteva ben ritenere che, nella selezione che faceva del loro meglio e nel rifiuto che opponeva al loro peggio, il volgare illustre costituisse una risposta anche politica data alla frammentazione e alla dispersione. Non lo diceva. Eppure, quando giudicava come le giudicava nel loro complesso, non solo le parlate italiane e, fra queste, quelle dei Toscani e dei Romani («Romanorum non vulgare, sed potius tristiloquium, ytalorum vulgarium omnium [est] turpissimum»),8 è più che probabile che, avendo in mente l’altezza dalla quale la città dell’Impero era decaduta, il tristiloquium dei suoi abitanti lo mettesse in relazione allo stato di obiettiva risoluzione dell’ottimo nel pessimo che quella caduta aveva provocata. Nel contrapporsi a questa varia abiezione, il volgare illustre rivelava l’animo politico, e non solo linguistico e letterario, che aveva presieduto alla nascita del suo concetto. Sta di fatto però che, quand’anche la pantera, con la quale Dante lo aveva fantasiosamente identificato, fosse stata trovata e la venatio che egli le dava avesse avuto esito positivo, a mancargli sarebbe stato il più importante dei predicati politici, quello imperiale. Se, per quanto disgregata e avvilita, di una curia italiana era possibile, secondo Dante, parlare in senso ideale (I xviii 4-5), quella restava una curia italiana; e italiano, e ben lungi perciò dalla lingua che avrebbe dovuto esser propria dell’Impero, restava il volgare che si parlava in essa. A una lingua imperiale, invece, che andasse oltre il curiale e il regale Dante, come si è detto, non dirigeva la mente. 8. De vulg. el. I xi 1.
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La questione che avrebbe potuto nascerne non divenne, per lui, nemmeno nella Monarchia, una questione. Resta tuttavia che fra il Convivio e il De vulgari la frattura era netta; ed egli, in realtà, la subiva perché, pur deplorando la frammentazione politica dell’Italia, nel trattato latino non indicava una via che, con sicurezza, avesse per meta il suo superamento nell’Impero. Il che, se in questo excursus è lecito indugiare ancora per un breve tratto, non significa che, necessariamente, solo perché non ne faceva cenno, al De vulgari eloquentia fosse estranea la dottrina imperiale affermata nel Convivio; e che questa non si fosse formata se non fra il 1305 e il 1307, quando il trattato latino giaceva interrotto e quello italiano stava progredendo verso le pagine che, a loro volta lo avrebbero concluso nel segno, esse pure, della definitiva interruzione. Nell’impossibilità di stabilire l’anno, il mese e il giorno in cui alla mente di Dante si affacciò la prospettiva «ghibellina» dell’Impero universale, il partito più prudente suggerisce che se, nel De vulgari, non tanto l’idea dell’Impero era assente, quanto piuttosto l’esplicito riferimento a esso, la ragione doveva essere ritrovata, non necessariamente nel suo essersi formata solo dopo la sua interruzione, ma nei limiti che la teoria del volgare illustre imponeva alla sua considerazione politica. Fondata interamente sulla sua ricerca e sulla sua definizione come illustre, regale e curiale, la teoria che Dante era intento a darne non affermava, ma nemmeno escludeva, che, nella sua sede, quello potesse essere trasceso nella direzione di una lingua che fosse propria dell’Impero e dell’Imperatore. Al conseguimento dell’unità finale concorrevano meglio unità particolari che non unità che tali fossero solo di nome e, nella realtà, si presentassero nel segno dell’interna scissione. L’esclusione dell’Impero dalla prospettiva del volgare illustre, o, all’inverso, e se si preferisce, il fatto che questo non mostrasse in modo esplicito la tendenza a trascendervisi dopo aver conseguito la sua meta specifica, sono, nei testi danteschi, fatti che debbono essere constatati per quel che sono, e nei termini in cui qui sono stati prospettati. Se l’idea dell’Impero universale urgeva già nella sua mente, e il suo interesse restava tuttavia concentrato su quella che potrebbe definirsi la purificazione linguistica della provincia italiana, non si vede perché, fra quell’interesse e l’idea imperiale, dovesse esserci, mentre era intento a scrivere il De vulgari eloquentia, incompatibilità, o, peggio, contraddizione. Il problema della lingua imperiale, e, più in particolare, di quella parlata dall’Imperatore, il problema che avrebbe dovuto entrare fra i suoi pensieri, in questi non prese stanza. Del che, per
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quanto riguarda i due trattati, quello latino e l’altro italiano, e gli anni in cui furono scritti, non c’è, dopo aver sottolineata la questione che ne nasceva, che da prendere atto; aggiungendo però, o ribadendo, che nemmeno nella Monarchia la questione della lingua imperiale riuscì ad assumere dentro di lui una forma determinata. Forse perché, se mai vi pensò, il suo carattere gli appariva nell’aspetto, a lui non gradito, di un metavolgare, e quindi di una lingua artificiale, come una specie di grammatica dell’Impero;9 e per questo si impedì di ragionarvi sopra.
9. Il che mi pare che basti ad escludere la tesi di chi, come Vinay, Ricerche, p. 257, ritenne che la lingua dell’Impero non potesse essere se non il latino.
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Conclusa la parte dedicata alla questione dell’origine e della natura del linguaggio, Dante entrò con decisione e perentorietà nella ytalia silva e, una dopo l’altra, passò in rassegna le molte parlate udibili nella penisola. Ne furono già dati, all’inizio di questo scritto, vari esempi, sui quali, dopo quello che se ne disse, sarebbe inutile tornare. Non inutile è invece osservare che, a differenza dell’altra, che descrisse all’inizio della Commedia, e nella quale si era egli stesso perduto, in questa procedette con sicurezza, guidato da un criterio che riteneva infallibile. Con due sole, e pur sempre parziali, eccezioni, le giudicò tutte con estrema e anzi, come si è visto, con sprezzante severità. Invertendo l’ordine in cui compaiono nel trattato, le parziali eccezioni furono costituite dal volgare bolognese e da quello siciliano. Ma sul senso che, rispetto al modello del volgare illustre, deve darsi alla parzialità, ossia all’inadeguatezza, che Dante ravvisava in esse, occorre tuttavia intendersi. Sia nel caso della Sicilia sia in quello di Bologna, la parzialità e l’inadeguatezza erano riscontrabili in uomini di mediocre condizione, che, nel loro eloquio, restavano infatti al di sotto del livello che, viceversa, era stato raggiunto dai Siciliani nelle canzoni da lui ricordate. Il primo era un volgare non infimo come quello che si parlava in altre città italiane, ma pur sempre mediocre; e diverso dall’altro che era documentato sia dalle canzoni dei Siciliani e in niente differiva ab illo quod laudabilissimum est (I xii 6), sia da quelle composte dai poeti bolognesi, primo fra tutti, Guido Guinizzelli, dalle quali, a sua volta, non poco si distingueva quello, pur dolce e gradevole, parlato dalla gente di media condizione. Non ci sarebbero, al riguardo, particolari questioni se, nei confronti della differenza che Dante riscontrava fra la lingua, si dica così, ordinaria, e quella dotta dei poeti, il caso della Sicilia non ne facesse, sia pure di scor-
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cio, insorgere una, alla quale converrà concedere attenzione. Tanto più, in effetti, concedergliela è necessario, in quanto una assai meno semplice si sarebbe delineata quando, trovato finalmente, per via filosofica, il volgare illustre, egli fosse stato costretto a chiedersi come questo potesse essere definito «curiale» essendo pur sempre la lingua di un paese in cui la curia era assente, e «regale» essendolo di uno che tutto era fuor che un regno. La questione era delicata. Dante se la pose e non riuscì a darle risposta se non ricorrendo a una sottigliezza dialettica che lasciava intatta la difficoltà e anzi, come capita, nel definirla superabile, la rendeva ancor meglio visibile nel suo non esserlo affatto. Alla difficoltà, diceva, «facile respondetur: nam licet curia, secundum quod unita accipitur, ut curia regis Alamannie, in Ytalia non sit, membra tamen eius non desunt; et sicut membra illius uno Principe uniuntur, sic membra huius gratioso lumine rationis unita sunt. Quare falsum esset dicere curia carere Ytalos, quanquam Principe careamus, quoniam curiam habemus, licet corporaliter sit dispersa».1 In effetti, se, a causa della presenza in essa di un principe che ne unificava le membra, la Germania era un regno e quindi una curia, non perché non avesse un principe l’Italia avrebbe potuto esser considerata priva delle membra, che infatti esistevano ed erano ben presenti: salvo che a unificare queste ultime era, non un’autorità politica resa concreta in un governante, ma la ratio che, con il suo lumen indicava la via dell’unità nell’atto, si potrebbe forse intendere, in cui la mostrava in sé.2 Ebbene, che la risposta suonasse non persuasiva, e fosse come costretta a negare quel che intendeva affermare, si comprende con relativa facilità. Il ricorso al gratiosum lumen rationis non era risolutivo perché, dopo aver messo in relazione analogica il potere unificante di un principe con quello della ratio che concedeva benefici, Dante era, egli stesso, costretto a riconoscere che l’analogia era più che debole. Non poteva infatti non ammettere che, corporaliter, quelle membra 1. De vulg. el. I xviii 5. 2. L’espressione ha dato luogo a interpretazioni contrastanti, che, per quanto riguarda la letteratura dantesca di ieri (F. Ercole, L’unità politica della nazione e l’Impero nel pensiero politico di Dante [1917], in Id., Il pensiero politico di Dante, I, Roma 1927, pp. 37 ss., A. Solmi, Il pensiero politico di Dante, Firenze 1922, pp. 216-217) possono trovarsi velocemente riassunte in A. Passerin d’Entrèves, Dante politico e altri saggi, Torino 1955, pp. 97-113, a sua volta discusso da G. Vinay, I. Crisi tra “Monarchia” e “Commedia”, II, “Gratiosum lumen ratonis”, in «Giornale storico della letteratura italiana», 133 (1956), pp. 149-155. Si veda ora la nota di Tavoni, pp. 1352-1355, che, riprende in parte le suggestioni tomistiche proposte da Passerin d’Entrèves.
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rimanevano separate e disperse. È vero che, se mancavano di un principe che unificasse, gli italiani non mancavano tuttavia di una curia. Ma questa era, essa stessa, corporaliter dispersa. Era un luogo che non era un luogo: proprio come il volgare illustre che esisteva, ma, a giudizio di Dante, il suo era tuttavia un luogo inaccessibile. Ciò che, per un verso, costituiva un principio di unità e un rimedio alla disunione, proprio di questa, dunque, partecipava: di questa che dava segno di sé nelle diverse parlate che avevano reso l’Italia un’autentica selva di suoni sgradevoli. La conseguenza era che, visibile nel segno della ratio, l’avvento del volgare illustre non altrettanto lo era, anzi non lo era affatto, nella realtà concreta della lingua. Il che era grave da riconoscere una volta che si fosse tenuto presente che, se il volgare rifulgente nelle canzoni di Guinizzelli non bastava a rendere illustre quello dei suoi concittadini bolognesi, per far sì che questi salissero al grado di quello sarebbe stato indispensabile che avessero realizzata un’unificazione diversa da quella offerta dalla ratio e dal suo lumen, che indicavano l’unità, ma non la conseguivano. O, se si preferisce, e per usare la reverenza che a Dante non sarebbe dispiaciuta, sarebbe stato necessario che la ratio, o, per usare la sua intera espressione, il gratiosum lumen rationis, avesse provveduto esso a far sì che quell’altra, e più concreta, unità fosse raggiunta. Ma questo non era nelle sue possibilità.3 A questo punto, per altro, prima di andare avanti, conviene fermarsi e dire qualcosa intorno a questa espressione che, come si è già avvertito, è stata non poco disputata senza, forse che, malgrado l’acume dei contendenti, il punto essenziale riuscisse a essere toccato. Il gratiosum lumen rationis è stato interpretato dai più come se l’aggettivo di lumen rinviasse alla grazia divina e la ratio non fosse se non ciò che da quel lume era illuminato. Ma, senza entrare ora nella questione se gratiosum sia l’aggettivo di gratia intesa come grazia divina o significhi diversamente, non si può invece non considerare l’altra che si pone quando, ferma restando quella identificazione, debba decidersi se l’espressione sia da considerare come un’unità e, fra lumen rationis e gratiosum, non si dia perciò articolazione discorsiva, o se tale sua noeticità si disponga in forma dianoetica e sia cioè tale che, rispetto a lumen rationis l’aggettivo gratiosum si presenta nella posizione di un predicato (che è necessario in quanto ci sia, ma, che ci sia, non è necessario). Decidere se l’espressione sia da intendere in senso noetico, oppure dianoetico, è essen3. Il punto toccato qui è essenziale. Mi pare che sia stato completamente frainteso da Vinay, Crisi fra Monarchia e Commedia, p. 155.
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ziale. Non considerare la differenza che le due situazioni logiche realizzano l’una nei confronti dell’altra introdurrebbe infatti nel discorso interpretativo un elemento di confusione che sarà bene cercar di eliminare. Nel primo caso, l’espressione verrebbe a significare che gratia e ratio sono lo stesso: in modo tale che, se si volesse comunque tener fermo all’idea della predicazione, dovrebbe dirsi che si predicano l’una dell’altra nello stesso identico modo, e che perciò non si predicano l’una dell’altra, perché l’«una» e l’«altra» non sono che due parole per lo stesso, per l’identico. Nell’altro caso, rispetto a lumen rationis, gratiosum si presenterebbe nella posizione di un predicato che, come si è detto, c’è in quanto ci sia, ma che ci sia non è necessario; e il discorso si atteggerebbe perciò in modo che, ritradotto in termini di logica aristotelica, lumen rationis starebbe nella posizione del soggetto (sostanza) e gratiosum, appunto, in quella di uno dei suoi predicati possibili. Se questo, tuttavia, fosse il significato da attribuire all’espressione dantesca, e si pensasse di doverla intendere in senso, non noetico, ma dianoetico, ecco allora che, poiché è possibile che la sostanza, il soggetto, sussista in sé al di qua dell’intervento delle sue predicazioni, si avrebbe un lumen rationis sussistente in sé anche al di qua del suo eventuale predicarsi della gratia; che sarebbe bensì una ratio gratiosa quando quel predicato andasse ad aggiungersi al soggetto, restando tuttavia, per sé stessa, una pura ratio scevra di quella predicazione. Si dirà che, importante sul piano della distinzione che interviene fra situazioni noetiche e situazioni dianoetiche, la distinzione non è, in riferimento al testo dantesco, altrettanto essenziale. Sia infatti che l’espressione gratiosun lumen rationis costituisca un nesso dianoeticamente non scindibile, sia che gratiosum si presenti nella forma di un predicato di quel soggetto, che può anche esser preso per sé, la situazione, per quanto concerne l’esegesi del passo dantesco, non cambierebbe: in entrambi i casi si avrebbe infatti una ratio che si completa nella grazia divina, e in entrambi i casi si sarebbe messi di fronte al pesante inconveniens di una gratia divina che è bensì presente e operante, ma non produce se non effetti spirituali in una situazione che ne esigerebbe invece anche di materiali: un’unificazione, insomma, delle membra che ora stanno ciascuna di per sé, in un coerente corpo politico. Giunti a questo punto, ci si può chiedere tuttavia se sia proprio sicuro che gratiosum implichi un riferimento alla grazia divina, e, nella fattispecie, richieda, per conseguenza, la sottolineatura della sua inefficacia?4 È 4. Il dubbio è stato proposto da Fenzi, pp. 130-132, il quale, in effetti, ritiene che, né in latino né in volgare, gratiosus si riferisca alla grazia divina, e ha proposto vari esempi.
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sicuro che, senza naturalmente averlo voluto, Dante si sia irretito in una così grave incongruenza? E non dovrà piuttosto intendersi che, nel caso in questione, gratiosum stia a significare quel che, essendo intrinseco al lumen rationis, nel venirne fuori si pone in alternativa alla separazione, a cui non può tuttavia porre rimedio, delle parti italiane? Da questo punto di vista, il gratiosum proveniente dal lumen rationis, era qualcosa come una positiva atmosfera comune che si diffondeva, senza tuttavia unificarle, sulle parti in cui l’unità italiana giaceva divisa. Si contrapponeva, da questo punto di vista, all’unus Princeps che in Italia non c’era; e, metafora per metafora, lungi dal ribadire le intenzioni ortodosse, che vi sono state indicate,5 ma che qui non sono comunque in discussione, l’espressione potrebbe addirittura essere intesa come l’equivalente di quel redolere che, dal suo nascondiglio, il volgare illustre diffondeva intorno a sé dando così il segno della sua presenza. Ma forse c’è, in questo passo, qualcosa di più. Se vi si guarda dentro con l’attenzione che la sua importanza richiede, nel contrasto che Dante vi sottolineò fra il principe assente e il gratiosum lumen rationis che, a suo modo, univa le divise membra italiane, può forse cogliersi l’archetipo di un criterio storiografico che dette segno di essere stato da lui intuito e che ebbe, nel corso dei secoli, varie espressioni. Si tratta del criterio che dà conto della differenza esistente fra una realtà politica divisa e un’istanza unitaria che, per il tramite della lingua parlata, in questo caso, da chi avrebbe fatto parte della curia, se questa ci fosse stata, dava questo importante segno di sé. È il Credo che, nel caso specifico, Fenzi abbia visto giusto; e che il suo argomento tanto più valga quanto più si tenga conto di quel che è detto nel testo. Aggiungerei, tuttavia, che «grazioso» non è, sempre e comunque, privo di connessioni con la grazia divina. La connessione sembra, per esempio, indiscutibile in Conv. IV xxix 3, dove il seme divino della nobiltà è posto nell’animo umano «graziosamente», mentre non direi che lo sia in IV xxv 1, e nemmeno in III vi 12. Qui «graziosa» è definita la «bontade» di Dio, che, essendo un dato permanente della sua essenza mentre la grazia è un bene che egli elargisce di tanto in tanto e a suo insindacabile giudizio, ne verrebbe che essa sarebbe elargita sempre se la si considerasse identica alla sua bontà. In Vita nuova, VIII 1, graziosa, riferita a Beatrice, vale soltanto grata alla città, dunque gradevole a vedersi (De Robertis, Opere minori, I/1, a cura di G. Contini e D. De Robertis, Milano-Napoli 1984, p. 55. G. Gorni, nella sua edizione, Torino 1996, p. 38 preferisce «foriera di grazie», ma la differenza è irrilevante: ciò che riesce grato alla vista è anche «foriero di grazie»). Più incerto l’uso di «grazioso» nel celeberrimo esordio di Francesca (Inf. V 88): «o animal grazioso e benigno», che intenderei come gradevole a vedersi e spirante benevolenza se non facesse riflettere, sebbene sia forse affetta da radicalismo teologico, la glossa di Francesco da Buti, che osservò che «sanza grazia non era ch’elli andasse così vedendo le pene de’ dannati». 5. Tavoni, p. 1355.
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tema dell’Italia che c’è e non c’è; che è una nel sentimento unitario che non venne mai meno ed è testimoniato, malgrado tutto, dalla lingua delle sue élites intellettuali, nonché, naturalmente, da quella dei poeti, ma è molteplice nella situazione che più tardi Dante avrebbe descritta nella celebre invettiva del sesto canto del Purgatorio. Si tocca qui, dove la questione della lingua non riusciva né a esser trattata indipendentemente da quella politica, che ne era in effetti richiamata, né a essere sul serio connessa a essa, uno dei punti più delicati dell’intera costruzione del volgare illustre, il suo punctum realiter dolens. Poiché parlava di unità politica, era evidente che Dante aveva in mente il nesso che a quella legava il volgare illustre, che doveva perciò andar oltre la realizzazione letteraria ottenuta nelle canzoni di questo o di quel poeta. È vero che, se con regnum si poteva e doveva intendere il territorio definito da quel nome, la curia costituiva, rispetto a esso, un luogo di minore estensione, rientrando nel quale anche il volgare avrebbe subìto, non certo in sé ma nel suo uso, un restringimento. Ma a parte che, prima che «curiale», quel volgare era stato definito «regale» senza che, fra l’un predicato e l’altro, Dante avesse avvertita la necessità di introdurre differenze e gradazioni, è indiscutibile che, oltre che linguistica, la questione che egli poneva era politica, sebbene il passaggio alla sua sfera non riuscisse a essere effettuato fino in fondo. Non solo il volgare illustre subiva l’alterna vicenda per la quale ora era attribuito ai curiali, che non erano necessariamente poeti, e ora era ristretto ai poeti ai quali non era richiesto di essere, stricto sensu, uomini della curia. Ma poi accadeva anche che, quale che ne fosse la destinazione politica e letteraria, una volta tratto fuori del nascondiglio e divenuto possesso dei venatores, il volgare illustre si rivelava appartenente a un grado al quale quelli inferiori, che perciò permanevano nel loro, non erano in condizione di accedere: con la conseguenza che la sua scoperta non implicava affatto che, dopo il suo avvenimento, non si parlasse più nel modo barbaro dal quale, al presente, il delicato orecchio di Dante era offeso. La struttura del genere, e delle parti che, dalla prima all’ultima, lo costituivano, impediva, per questo riguardo, che tale ordine fosse modificato e i gradi inferiori ascendessero verso il superiore. Per quanto era del popolo, e così il discorso si ritraduceva in termini politici, il suo restar legato a parlate di suono non eccelso e spesso sgradevole, era dunque un destino al quale, o non si prevedeva di dover porre rimedio, o non si riusciva a trovare il modo di realizzarlo. Di tutto questo c’era la ragione. Il volgare
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illustre era, in ultima analisi, il frutto dell’individuazione di ciò che nel genere, al quale apparteneva, era più eccellente; e ciò che gli teneva dietro, non solo, come fra breve si vedrà, era tanto meno pregevole quanto più ne distasse, ma soprattutto era quel che era e, come si è detto, non c’era modo di fargli mutare di posto, pena lo sconvolgimento strutturale dell’ordine in cui ogni cosa occupava il suo luogo; che, dell’eccellenza del volgare illustre era perciò, per paradossale che possa sembrare, la condizione e il fondamento. Posta questa premessa, i volgari italiani restavano quali erano, ciascuno con il suo non modificabile grado; e l’aspetto politico della questione, che Dante tuttavia aveva avvertita, non riusciva a emergere con nettezza in primo piano, oppure vi emergeva sì, ma in modo tale che il volgare illustre restava patrimonio esclusivo degli uomini che avevano a che fare con la curia, e la tendenza ad andar oltre questo ambito ristretto non riusciva a trovare il luogo della sua espressione. Se, nel De vulgari eloquentia, Dante non ebbe mai a sufficienza chiaro che la questione politica andava oltre gli uomini preposti al governo della cosa pubblica e riguardava anche quelli di grado inferiore, la sua consapevolezza fu come una luce che ora si accendeva e ora si spegneva, illuminava l’ambiente e subito dopo lo precipitava nell’oscurità. Si perveniva in effetti, lungo questa via, dinanzi a un bivio, dal quale si dipartivano due vie assai diverse fra loro. Lungo la prima delle due, e in modo soltanto implicito, al venator del volgare illustre era assegnata la capacità di individuarlo là dove si trovava; e questo era, per dir così, l’aspetto ontologico di un’operazione, che aveva infatti un oggetto e a quello doveva dirigere, senza ulteriori finalità, sé stessa. Lungo la seconda, una volta scoperto e tratto alla luce, il volgare illustre si poneva come una meta da raggiungere, un ideale da realizzare. Si trattava infatti non solo di trarlo fuori del nascondiglio, nel quale stava come nascosto, e di mostrarne la superiorità sulle parlate in cui la lingua italiana si era divisa, ma anche di fare in modo che l’atto della sua scoperta nel luogo in cui era nascosto coincidesse con la sua formazione. E questo era l’aspetto, non necessariamente coordinabile, nel segno della coerenza, con l’altro che, come si è detto, riguardava non la sua invenzione o, se si preferisce questo termine, esso pure dantesco, la sua «fabbricazione», ma la sua scoperta al vertice del genere. Alla luce, non di questo, ma del secondo criterio, si trattava, non di indicare ciò che, essendo il primo, era già costituito in modo che niente poteva essergli aggiunto, ma di svolgere una tutt’altra considerazione. Si trattava, avendo davanti tutte le parlate italiane, di operare la scelta del meglio che si fosse trovato in ciascuna di esse e, dopo averne espunta la peior
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pars, di ricomporle in una nuova unità. Sebbene non tratta alla luce del sole, la conseguenza era che, per questa via, l’atto in cui il venator scopriva il volgare illustre nascosto nei volgari regionali e cittadini, e lo costruiva liberandolo dalle loro angustie, si atteggiava, non come la scoperta di qualcosa di esistente sotto il velo che lo nascondeva, ma come un’operazione costruttiva, volta cioè a scegliere il meglio, a escludere il peggio e così a far essere in forma unitaria, e, per questo aspetto nuova, quel che si trovava a essere disperso nelle parlate particolari. Era, quella di cui si sta parlando, un’operazione in cui agiva un almeno potenziale principio di unificazione, oltre che linguistica, politica, che, come si è visto, aveva tuttavia contro di sé proprio il modo in cui era ontologicamente congegnato il genere nel quale il volgare illustre occupava il luogo più alto. I due criteri che si sono delineati e illustrati erano l’uno con l’altro così poco compatibili che, di tale incompatibilità, il ragionamento subiva la conseguenza. In modo tale, tuttavia, che, quanto più il criterio ontologico faceva valere i suoi diritti trasferendosi nella realtà stessa degli uomini che, se erano eccellenti, erano degni del volgare illustre ma, se non lo erano, inutilmente si sarebbero cimentati nell’impresa di servirsene, di altrettanto era l’altro a dar segno di sé. Perché, infatti, se l’intenzione non fosse stata questa, si sarebbe dovuto procedere a far essere, conferendogli nuova realtà, un volgare che, con quei caratteri, esisteva già, oltre che nella realtà del genere, nelle canzoni composte dai maggiori poeti? In effetti, al di là delle difficoltà che, come si vedrà, le stanno dentro, la venatio non avrebbe avuto un senso se, nel fondo della coscienza di Dante, non avesse operato il pensiero, mai pervenuto, per altro, alla piena consapevolezza, che al grado dell’eccellenza tutti i volgari avrebbero potuto e dovuto essere innalzati. Lungo la seconda di queste due vie, la venatio non riusciva invece a mantenersi e a restare su questo piano. Da politica (o anche politica), e qui per politica deve intendersi qualcosa come una rifondazione innovativa della realtà esistente, si rifaceva soltanto linguistico/letteraria, rivelandosi perciò impari a sostenere il peso che pure, in qualche modo, le si assegnava. Il compito che le si attribuiva non era infatti se non di rendere visibile, traendola fuori del nascondiglio, una realtà che, priva di capacità unificante, avrebbe finito con l’aggiungersi ai volgari come una lingua nobile parlata soltanto nelle canzoni. E la conseguenza era, in questo caso, quella che già si mise in luce quando si osservò che, per questa via, la venatio non aggiungeva niente a quel che già si possedeva in quelle; che, in effetti, erano state messe al mondo anche prima che colui
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che la conduceva l’avesse iniziata e condotta alla meta. Da questa seconda tendenza, che anch’essa operava con forza nel suo pensiero, la prima non poteva non essere intimamente frustrata. Che le due tendenze stessero in equilibrio e si elidessero a vicenda in modo che l’una non riusciva ad avere la meglio sull’altra, è, dunque, innegabile. Ma anche è innegabile che dal gioco di questa reciproca elisione, entrambe emergevano con il loro carattere, incapaci di vincere, ma non disposte a soccombere. Chi pertanto considerasse quello politico come il vero tema nascosto del De vulgari eloquentia, avrebbe torto solo se di questo non osservasse l’irrisolta tensione e, per conseguenza, perdesse il contatto con le difficoltà interne al concetto intorno al quale Dante lavorava: togliergli importanza, pur dopo averne rilevata l’interna fragilità, sarebbe infatti impossibile. La fine, in Sicilia, del felice momento rappresentato dai regni di Federico II e di Manfredi, e l’avvento di successori indegni, gli avevano dettato, mentre discettava intorno al significato della curia, un’invettiva breve, ma fremente di esplicita passione politica. I xii 5: «[…] racha, racha. Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Karoli, quid cornua Iohannis et Azonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie, nisi “venite carnifices, venite altriplices, venite avaritie sectatores?». Se, a I xix 2-3, enunciando a chiare lettere l’intentio che l’aveva guidato fino a quel punto, Dante aveva detto che questa era consistita nel doctrinam de vulgari eloquentia tradere, e sembrò aver voluto restringere tale insegnamento al solo profilo linguistico considerato al di qua di ogni possibile implicazione politica, a contrasto di questa idea può essere addotto, non solo questo luogo, nel quale la luce della politica si aggiungeva a quella propria della lingua, ma anche altro. Al carattere suo di illustre, il volgare che Dante aveva in mente aggiungeva quello del suo essere regale, e perciò riferito a un regno, quello del suo essere curiale, e perciò riferito alla curia, in modo che non erano solo i poeti ad esprimersi nei suoi modi, ma anche coloro che parlavano nell’ambito del primo e della seconda. Era perciò nel suo riferimento anche a realtà politiche costituite nel segno della virtù che il volgare poteva innalzare sé stesso e superare i suoi più evidenti limiti municipali, proprio come, nel caso inverso, accadeva che non fosse in condizione di raggiungere quel grado o di perderlo a causa della decadenza della virtù politica. Insomma, nell’esprimere il suo animus politico, anche in questo il De vulgari rivelava l’indecisione che dal profondo lo caratterizzava.
9. Altre questioni e implicazioni
Il punto, d’altra parte, che da tempo si è imposto all’attenzione, è così delicato e sfuggente, che, al riguardo, non si esagererà se ancora una volta, raccomandandosi cautela, ci si esorta a non aver paura delle sintesi non raggiunte e delle questioni irrisolte. Non soltanto da considerazioni di carattere filosofico (la natura del genere) la via che avrebbe potuto condurre a una più ampia visione politica era impedita. Era impedita anche da altro; che emerge alla luce se si guarda con attenzione a quel che Dante scrisse nel fondamentale capitolo primo del secondo libro del De vulgari: un testo che, non a torto, potrebbe essere considerato come un monumento di conservatorismo politico e di elusione, quindi, di quel che alla politica appartiene quando la si intende come uno strumento indispensabile all’instaurazione di un nuovo ordine. La questione che Dante aveva preso a dibattervi era se «omnes versificantes vulgariter» dovessero far uso del volgare illustre. E, con uno studiato effetto, nel porre questa premessa, sembrò convenire sul punto che, se si fosse rimasti alla superficie, non si sarebbe potuto rispondere se non di sì, quia omnis qui versificatur suos versus exornare debet (II i 2). Se nessun volgare era tale da conferire un ornato tanto eccellente quant’era quello che il volgare illustre consentiva, perché il ricorso che vi si fosse fatto non avrebbe dovuto esser considerato ovvio? Perché non avrebbe dovuto essere valutato alla stregua di una legittima ambizione il tentativo che si fosse esperito di servirsene per le proprie opere letterarie? D’altra parte, se, come anche scriveva, quel che «optimum est in genere suo» si fosse mescolato suis inferioribus, da questi, che per loro conto ne avrebbero tratto giovamento, non sarebbe certo stato contaminato e trascinato in basso, quel che è ottimo essendo evidentemente al riparo da simili avventure. Perché,
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dunque, non credere a queste asserzioni? Perché, secondo Dante, non meritavano che a esse si credesse. E qui segue un lungo passo che, per la sua importanza, è giusto sia citato per intero: Sed hoc falsissimum est: quia nec semper excellentissime poetantes debent illud induere, sicut per inferius pertractata perpendi poterit. Exigit ergo istud sibi consimiles viros, quemadmodum alii nostri mores et habitus – exigit enim magnificentia magna potentes, purpura viros nobiles: sic et hoc excellentes ingenio et scientia querit, et alios aspernatur, ut per inferiora patebit. Nam quicquid nobis convenit, vel gratia generis, vel speciei, vel individui convenit, ut sentire, ridere, militare. Sed hoc non convenit nobis gratia generis, quia etiam brutis conveniret; nec gratia speciei, quia cunctis hominibus esset conveniens, de quo nulla questio est – nemo enim montaninis rusticana tractantibus hoc dicet esse conveniens – convenit ergo individui gratia. Sed nichil individuo convenit nisi per proprias dignitates, puta mercari, militare ac regere: quare si convenientia respiciunt dignitates, hoc est dignos, et quidam digni, quidam digniores, quidam dignissimi esse possunt, manifestum est quod bona dignis, melior dignioribus, optima dignissimis convenient. Et cum loquela non aliter sit necessarium instrumentum nostre conceptionis quam equus militis, et optimis militibus optimi conveniant equi, ut dictum est, optimis conceptionibus optima loquela conveniet. Sed optime conceptiones non possunt esse nisi ubi scientia et ingenium est. Ergo optima loquela non convenit nisi illis in quibus ingenium et scientia est. Et sic non omnibus versificantibus optima loquela conveniet, cum plerique sine scientia et ingenio versificentur, et per consequens nec optimum vulgare. Quapropter, si non omnibus competit, non omnes ipsum debent uti, quia inconvenienter agere nullus debet.1
In questa pagina, che con tanta nettezza stabilisce il nesso che, a chi sia eccellente, lega le cose eccellenti, e il volgare illustre assegna perciò soltanto a chi ne sia degno, si può cogliere, come in controluce, il riflesso, forse non voluto, e, non di meno, evidente, di una nascosta trama politica, nella quale era, come si è detto, implicita una netta vocazione conservatrice. Se, come qui è asserito con chiarezza, quel che agli uomini conviene, vel gratia generis, vel speciei, vel individui convenit, è chiaro che non era in virtù del «genere» o della «specie» che gli individui potevano essere ritenuti degni del volgare illustre. Al primo appartengono, infatti anche gli animali bruti, alla seconda cuncti homines, sia perciò chi fosse stato dotato di virtù, sia chi si trovasse a esserne privo. Ne conseguiva che, non al genere che include ogni vivente, non alla specie, che include tutti gli uomini, ma 1. De vulg. el. II i 4-8.
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agli uomini bensì che per le loro qualità ne fossero stati degni o non degni, il volgare illustre conveniva o non conveniva. Era, come si vede, una tesi drastica, che, comunque fossero state conseguite, nella societas hominum presupponeva divisioni non solo rigide, ma invalicabili. Ne derivava che il volgare illustre si dirigeva, o era come se spontaneamente si dirigesse, verso quei poeti che, dimostrandosene degni, quel grado avessero conseguito prima (e questo era il curioso paradosso) di riceverne la visita. E lo stesso si dica delle «optime conceptiones» che, precedendo l’optima loquela, naturalmente l’attraevano a sé. La conseguenza di tutto questo era evidente. Come nel genere, e lo si vedrà fra breve, sulla falsariga del commento di Tommaso e di altri Dante individuava, da una parte, un primo, da lui interpretato anche in senso assiologico, e, da un’altra, in scala discendente, ogni altra realtà che vi fosse contenuta, lo stesso avveniva nella società degli uomini. Per il modo in cui le cose erano ordinate nella realtà, e per la gerarchia che si stabiliva fra esse, nel suo grado più eccellente la lingua non poteva essere patrimonio se non di chi fosse stato degno di esercitare le più alte fra le attività letterarie e poetiche. La distinzione delle qualità in alte e in basse, in eccellenti e mediocri, era d’altra parte, definita con tale nettezza e crudezza nel suo essere considerata interna al precostituito ordine obiettivo delle cose, che Dante non mancò di avvertirne la difficoltà e di porsi la relativa questione, dando quasi a vedere di essersi pentito di aver proceduto, poco innanzi, in modo così drastico. Senza chiamarlo così, dava l’impressione di ammettere che negli uomini potesse esistere il legittimo desiderio di migliorare sé stessi e la propria loquela, di rendersi degni del volgare illustre, e di assumerlo come lo strumento di un generale miglioramento, che alla fine si sarebbe rivelato, oltre che letterario e stilistico, anche umano e, lato sensu, politico. Ma poi, attraverso paragoni di tale natura che, per coloro che ne erano i destinatari, sarebbe stato meglio se niente egli avesse loro concesso, la sua ammissiome si colorava di pungente sarcasmo. «Et ubi dicitur», scriveva, «quod quilibet suos versus exornare debet in quantum potest, verum esse testamur; sed nec bovem epiphiatum nec balteatum suem dicemus ornatum, immo potius deturpatum ridemus illum: est enim exornatio alicuius convenientis additio». Quel che era stato concesso lo era stato, in realtà, perché, subito dopo, potesse essere ritirato. E il ritiro era imposto dalla rerum exigentia, come, a II ii 5, Dante aveva definito l’ordine strutturale della realtà. Rigorosamente e in modo inalterabile, tale exigentia disponeva la realtà e le sue parti in modo che, se degno è ciò che possiede dignità, e nobile ciò che possiede nobiltà,
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doveva ammettersi che dignità e nobiltà avessero il loro riscontro negativo nel non degno e nel non nobile, e che tale fosse la configurazione obiettiva delle cose da rendere ineseguibile il passaggio dall’uno all’altro ordine. Una fenomenologia discendente dal nobile all’ignobile era, in linea di principio, altrettanto impossibile di una fenomenologia ascendente dall’ignobile al nobile. Il che, tradotto in termini politici, implicava conseguenze non superabili. L’equivalente politico di una situazione così congegnata non avrebbe infatti potuto non ripeterne il sostanziale ordine gerarchico: come, si sarebbe potuto osservare se, trasferendoci a quel che Dante avrebbe poi scritto nel quarto trattato del Convivio, ancora di là da venire (deve ritenersi), quando era intento a comporre queste pagine, si fosse prestata attenzione alla strutturale progressione delle forme politiche, dalla più elementare all’Impero, o, con l’occhio rivolto alla critica da lui, per bocca di Cacciaguida, rivolta, in Paradiso XVI 67-68, alla «confusion de le persone» che sempre «principio fu del mal de le cittadini»,2 si fosse considerata sia l’avversione profonda che egli provava nei confronti del disordine che ne proveniva alla società, sia il patetico elogio di Firenze quando, «dentro da la cerchia antica, / ond’ella toglie ancora e terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica».3 Erano, nella loro ispirazione fondamentale, concetti non diversi da quelli che, nell’Inferno, erano stati attribuiti a Brunetto Latini e all’invettiva che aveva diretta contro «l’ingrato popolo maligno / che discese da Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno».4 Concetti che culminarono nella rivendicazione della «sementa santa / di que’ roman» che erano rimasti nel luogo in cui «fu fatto il nido di malizia tanta»,5 e cioè Firenze, la città nella quale la virtù romana non era riuscita ad aver ragione di una malvagità altrettanto invincibile della dura roccia 2. Sapegno, Paradiso, p. 212, intese che con «confusion de le persone» Dante avesse indicato la «confusione di stirpi diverse, l’immigrazione di gente nuova» come causa della rovina delle città. Il che è giusto per quanto riguarda l’immigrazione di gente nuova (e qui basterà il rinvio a Par. XVI 48 ss.), salvo che non riesco a vedere in questi versi un accenno a mescolanze di stirpi diverse. 3. Par. XV 96-98. 4. Inf. XV 61-63. 5. Ibidem, 73-78: «faccian le bestie fiesolane strame / di lor medesme, e non tocchin la pianta, / s’alcuna surge ancora in lor letame, / in cui riviva la semenza santa / di que’ roman che vi rimaser, quando / fu fatto il nido di malizia tanta». Sulla questione dell’origine «romana» di Firenze, alla quale questi versi alludono, basti qui il rinvio a N. Rubinstein, The Beginnings of political Thouth in Florence. A Study in Medieval Historiography, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 5 (1942), pp. 208, 215-218, e a H. Baron, The
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dalla quale proveniva. Concetti ispirati, per questa parte, a un moralismo conservatore tanto più intrattabile quanto più si presentava nella forma di un aprioristico naturalismo. È vero, d’altra parte, che a un conservatorismo politico di questa natura, che nella considerazione strutturale del «genere» e della sua interna gerarchia trovava un sostegno tanto più forte quanto più il suo mancato rispetto fosse da considerarsi come l’indizio di una follia resasi interna alle cose stesse, altri aspetti del pensiero di Dante si contrapponevano con forza. Non occorre, in questo punto del discorso, richiamare il concetto dell’Impero quale, soprattutto, si sarebbe configurato nella Monarchia, e dare corso all’idea, lì delineata, di un’umanità che, realizzando nell’unità dell’intelletto l’ultimo grado della sua potenza, male si sarebbe proceduto se la si fosse poi suddivisa in statiche gerarchie. Sarebbe bastato, perché la tendenza, per altro fortissima, alla gerarchizzazione fosse contrastata, che Dante avesse prestato ascolto alla musica concettuale proveniente da un’altra tesi che egli riceveva dal de anima e dai molti commenti letti intorno a quel testo capitale. Sarebbe bastato che, ritraducendo in termini politici, la lezione che di lì gli proveniva circa la tripartizione dell’anima, avesse considerato che il culmine intellettuale a cui di necessità, dopo avere idealmente attinto il livello vegetativo e quello sensitivo, questa perveniva nell’uomo, non poteva essere in sé stesso gerarchizzato con il criterio quantitativo del più e del meno, del meno e del più; e che, come aveva scritto nel Convivio, era in virtù di quel vertice che l’uomo, non questo piuttosto che quello, ma l’uomo in genere, era stato dai filosofi considerato un «divino animale». È vero che, come si legge in apertura del Convivio, nell’uomo potevano riscontrarsi due difetti, uno, dalla parte del corpo, se le parti vi fossero state «indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può», l’altro dalla parte dell’anima, «quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, nelle quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa diventa vile».6 È vero che, a turbare il quadro dell’ascesa, interveniva talvolta la potenza deviatrice del male, con il seguito dei gravi problemi che recava con sé. È vero che, come fra breve si vedrà nella rapida delineazione del problema concernente la nobiltà, a complicare ulteriormente il quadro interveniva il «divino seme» che, senza che possa dirsene Crisis of the Early Italian Renaissance. Civic Humanism and republican Liberty in a Age of Classicism and Tyranny, Princeton 1955, pp. 53-55, 475-476, passim. 6. Conv. I i 3-4.
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il perché, cade, o non cade, nelle singole persone, che ne sono perciò, o non ne sono, nobilitate. Ma, se è vero che la discussione che, affrontandone le conseguenze sul terreno teologico e filosofico, si fosse fatta del primo problema avrebbe condotto il discorso in aspre difficoltà, resta tuttavia che, per quel che qui interessa, torto o ragione che avesse avuto ad aver disposto le cose in questi termini, l’ascesa dell’anima dalla fase vegetativa all’intellettiva non era resa oggetto di discussione dal rischio latente che quest’ultima fosse inquinata dalla malizia. I filosofi, perciò, non avevano avuto torto a vedere nell’uomo un «divino animale». Il che, se fosse stato considerato anche in riferimento alle questioni connesse con l’organizzazione della società, avrebbe potuto aprire la prospettiva di un superamento delle chiusure gerarchiche e dell’immobilismo che necessariamente ne derivava al suo concetto; proprio al contrario, d’altra parte (e questo testimonia della complessità e ambivalenza delle soluzioni dantesche), di quel che era implicito nell’altra tesi. Poiché importava insuperabili differenze fra gli uomini toccati, e quelli non toccati dalla grazia, la gratuità della scelta divina finiva infatti per agire come un elemento di irreparabile differenziazione morale, e anche sociale. Non è certo a una questione qual è quella della nobiltà, tormentata, non solo nella critica,7 ma anche, e in primo luogo, nei testi, che qui si intende fare riferimento. È un fatto, tuttavia, che, come si è cominciato a vedere, un’analoga polarità di posizioni contrapposte, e una non diversa incertezza, si constaterebbero se si analizzassero le tesi che Dante formulò su quel tema, che con il suo pensiero politico hanno un’ovvia connessione. Dalla Vita nova al Paradiso, esso percorre l’intera distesa della sua opera. E delle incertezze che, fin all’inizio, avevano punteggiato il suo percorso, delle oscillazioni alle quali non aveva potuto sottrarre il suo concetto, per non parlare di quelle che 7. La letteratura sul tema della nobiltà si è virtuosamente accresciuta, dando rilievo anche a testi giuridici, da quando C. Dionisotti, Appunti sulla nobiltà, in «Rivista storica italiana», 101 (1989), pp. 295-316 (spec. pp. 307-308), ebbe a lamentare l’assenza di Bartolo e di altri giuristi nell’edizione, allora appena uscita a cura di C. Vasoli, del Convivio. Fra la letteratura più recente, si veda innanzi tutto, con essenzale riferimeno alle questioni sociali e politiche, U. Carpi, La nobiltà di Dante, 2 voll., Firenze 2004, e quindi A. Robiglio, The Thinker as a noble Man (‘bene natus’) and preliminary Remarks on the medieval Concept of Nobility, in «Vivarium», 44 (2006), pp. 206-247, e Id., Nobiltà e riconoscimento in Dante: in margine a una recente edizione del IV libro del Convivio, in «L’Alighieri», 30 (2007), pp. 83-102. E cfr. ora il I capitolo del dotto libro di P. Falzone, Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel “Convivio” di Dante, Napoli 2010.
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dovette subire per non essere riuscito a esserne consapevole, Dante dette una sorta di riepilogo autoironico all’inizio del secondo dei tre canti dedicati a Cacciaguida. Proprio all’inizio, egli scrisse: O poca nostra nobiltà di sangue, se gloriar di te la gente fai qua giù dove l’affetto nostro langue, mirabil cosa non mi sarà mai; ché la dove appetito non si torce, dico nel cielo, io me ne gloriai. Ben se’ tu manto che tosto raccorce; sí che, se non s’appon di dí in die, lo tempo va dintorno con le force.8
Che qui Dante alludesse al compiacimento da lui provato quando aveva appreso del grado cavalleresco conferito al suo avo Cacciaguida dall’imperatore Corrado III, e di questa sua debolezza mondana si scusasse nell’atto in cui faceva che, benevolmente questa volta, Beatrice, «ch’era un poco scevra, / ridendo» gli richiamasse alla mente «quella che tossìo / al primo fallo scritto di Ginevra», è evidente.9 Evidente è l’intenzione ironica e autoironica della citazione. Ma, più dell’ironia e dell’autoironia, quel che conta è che, quale che potesse essere la sua opinione sul significato della nobiltà e delle sue molte implicazioni sociali, quella doveva aver avuto, nel corso della sua vita, una storia non priva di contrasti, di idee prima condivise e poi abbandonate, oppure, se si preferisce, di affermazioni perentorie, contrappuntate tuttavia, nel profondo, da tenaci sentimenti di opposta natura. L’idea che nobiltà è quella dell’individuo, non quella del sangue, non era evidentemente stata forte abbastanza da spegnere dentro di lui l’altra e opposta che, dal sangue prima che dall’individuale virtù, quella traesse la sua origine; che se, di tratto in tratto, questa seconda non si fosse insinuata nel suo animo e avesse prevalso sulla prima, perché mai Dante avrebbe dato luogo alla scena che i versi del decimosesto del Paradiso descrissero nel modo che si è visto? Non era infatti soltanto questione di debolezza, di vanità, di tenace perseveranza in un pregiudizio che resisteva alla ragion teorica e, per dir così, sopravviveva al pieno dispiegamento di questa. Non erano soltanto sentimenti di questa natura che, nella resistenza che opponevano all’argomento che avreb8. Par. XVI 1-9. 9. G. Arnaldi, La nobiltà di Dante e Cacciaguida, ovvero la provvidenzialità della mobilità sociale, in «Cultura», 41 (2003), pp. 203-215.
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be dovuto debellarli, determinavano, nella teoria che Dante delineava della nobiltà, il contrasto più significativo. Ne fosse o no consapevole, c’era, in effetti, dell’altro; e la vanità personale, che a tratti aveva fatto avvertire la sua presenza nella sua vita, era cosa decisamente secondaria rispetto alla difficoltà concettuale che, considerata nel suo insieme, la teoria rivelava. Ne Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, ossia nella grande canzone di cui il quarto trattato del Convivio costituisce il commento, Dante aveva intrecciato insieme varie questioni. Aveva esposto tesi avverse alla sua per poterle poi confutare in forza del principio secondo il quale non le ricchezze e la loro antichità determinavano la nobiltà, che da queste, che erano cose vili, era impossibile che nascesse, ma altro, che si trattava di individuare scendendo fino alla «radice». Con particolare energia si era inoltre impegnato a respingere l’idea dell’impossibilità che «vil uom gentil divegna, / né di vil padre scenda / nazion che per gentil già mai s’intenda» (vv. 61-63); e l’aveva respinta innanzi tutto perché la riteneva diretta contro il suo stesso assunto, «in tanto [in] quanto assegna / che tempo a gentilezza si convegna, diffinendo con esso» (vv. 66-68). Il che, salvo errore, sarà da intendere nel senso che, definendo la nobiltà e la gentilezza in relazione all’antichità delle ricchezze e delle famiglie, e quindi al tempo, si pretendeva poi che fosse escluso quello necessario alla realizzazione del passaggio da una condizione ad un’altra; che fosse escluso nell’atto in cui lo si implicava col richiamo che si faceva a una sua dimensione, quella dell’«antichità». Gli sembrava altresì che se, dopo averlo assunto nella dimensione del passato, si escludeva che potesse trascorrere e produrre mutamenti, sarebbe stato allora inevitabile convenire con quanti ritenevano che, senza possibilità di progresso verso il meglio o di regresso verso il peggio, gli uomini fossero o buoni o cattivi, oppure, addirittura, che per l’uomo fosse inammissibile il «cominciamento» («o che non fosse ad uom cominciamento»): cosa, quest’ultima, che giudicava particolarmente deplorevole una volta che la si fosse sostenuta e proposta in un ambito cristiano e da cristiani («ma ciò io non consento, / néd ellino altressì, se son cristiani!» [vv. 72-73]).10 10. A causa dell’estrema velocità dell’espressione, il v. 71 può riuscire non immediatamente chiaro nel suo significato, nonché nel suo intento polemico, e, per conseguenza, dar luogo a equivoci. Mi sembra evidente che qui Dante alludesse alla teoria (aristotelicoaverroistica) secondo la quale, il mondo essendo eterno, non si pone, per l’uomo, una questione dell’inizio, con conseguente esclusione della sua creazione da parte di Dio; che è quanto, fedele al racconto biblico, egli non poteva ammettere e, con lui, non avrebbero potuto e dovuto, se erano cristiani («néd ellino altressì se son cristiani»), coloro con i quali
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Delle tesi che la Canzone esponeva perché contestualmente potessero essere criticate, alla parte in prosa Dante affidò il compito di svolgere una confutazione assai più ampia, dettagliata e, in qualche caso, insistente, che non fosse stata quella contenuta nei versi; alla quale conviene per altro che qui soprattutto ci si attenga perché non appartiene a queste pagine il compito di una trattazione compiuta. Ancora ai versi conviene rivolgersi per osservare, dopo quella destruens, la pars construens dell’argomentazione dantesca, che può essere seguìta a partire dal verso 81 e nei seguenti. Astenendosi, anche qui dal condurre sul testo un’analisi più ravvicinata, e che ambisca alla completezza, può tuttavia, e innanzi tutto, osservarsi che le definizioni della gentilezza e della nobiltà, che Dante elencò in successione, erano tutte, a guardar bene, imputabili di tautologicità, senza che lo sforzo fosse diretto a dimostrare che, radice della virtù, la nobiltà fosse in grado di porre rimedio a questo vizio. La «radice», da cui «ogni vertù principalmente vien», era bensì, secondo la spiegazione fornita a IV xvii 2, un «principio», le virtù che ne discendevano essendo quelle che Aristotele aveva elencate nell’Etica nicomachea.11 Ma la radice non era che l’uno di quel molteplice, presupposto in questo suo carattere, e non veramente dedotto da quello: con la conseguenza, appunto, della tautologicità, esprimibile nella formula secondo cui, se la virtù ha la sua radice nella nobiltà, fra questa e quella non è possibile stabilire la differenza che dovrebbe sussistere fra il principio e ciò che ne deriva.12 La sua definizione come di un «abito eligente», ossia come di un costume esercitante sé stesso in una solida capacità di scegliere e, scegliendo, di collocarsi nel «mezzo», non aggiungeva nulla, infatti, alla definizione precedente e a questa non sottraeva l’anzidetto carattere della tautologicità. A una migliore determinazione del concetto non contribuiva, infatti, anzi, meno che mai contribuiva, l’idea secondo cui «nobilitate in sua ragione polemizzava. D. De Robertis (Dante Alighieri, Rime, edizione commentata a cura di Id., Firenze 2005, p. 66), citò, a riscontro, Conv. IV xv 2: «che ’l mondo sempre sia stato con più uomini, sì che da uno solo la umana generazione discesa non sia»; e a ragione, naturalmente, anche se, tanto più sarebbe stato il caso di integrare le parole del commento rendendo esplicito il riferimento alla teoria dell’eternità del mondo, in quanto, salvo errore, questo è l’unico luogo in cui Dante vi alluse. 11. Conv. IV xvii 4 ss. E cfr., per i riferimenti a Aristotele, le annotazioni di C. Vasoli nella sua edizione del Convivio (in Opere, I/2, Milano-Napoli 1988, pp. 722 ss.). 12. Conv. IV xvi 4 ss.
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/ importa sempre ben del suo subietto, / come viltate importa sempre male; / e vertute cotale / dà sempre altrui di sé buon intelletto» (vv. 89-93). Neppure quel che si legge ai vv. 109-20 contribuiva all’autentica individuazione delle ragioni per le quali la nobiltà è la nobiltà: «dunque verrà, come dal nero il perso, / ciascheduna vertute da costei [la nobiltà], / o vero il gener lor, ch’io misi avanti. / Però nessun si vanti / dicendo: ‘per ischiatta io son con lei, / ch’elli son quasi dèi / quei c’han tal grazia fuor di tutti rei; / ché solo Iddio all’anima la dona / che vede in sua persona / perfettamente star: sì ch’ad alquanti / ch’è ’l seme di felicità, si acosta, / messo da Dio nell’anima ben posta». È vero, se mai, che, con la chiamata in causa della grazia e dell’«anima ben posta», la questione si complicava ulteriormente, finendo in una sorta di duplice determinismo, per il quale, da una parte era la natura bene o male disposta a far sì che Dio donasse, o non donasse all’anima la nobiltà, ma, da un’altra, era la grazia divina a stabilire che dalla massa dei rei si salvassero quelli che essa, appunto, aveva disposti a ricevere il suo dono (e si veda, a ulteriore riscontro, IV xx 6 ss.).13 Il duplice determinismo implicito in questi concetti renderebbe inoltre assai difficile, se fosse elevato al grado della con13. Al di fuori della questione posta qui su, il nesso sussistente, nella teoria di Dante, fra il tema della nobiltà e quello della predestinazione fu colto da Bartolo da Sassoferrato nell’acuta critica che rivolse alla sua teoria della nobiltà: cfr. Commentaria, VIII, In secundam atque tertiam Codicis partem, ap. Junctas, Venetiis 1590, f. 47r. A ragione, infatti, Bartolo sottolineò l’impossibilità che, messe le cose in quei termini, si desse il passaggio dalla viltà alla nobiltà, e da questa a quella. «Videamus», scrisse, «an praedicta sint vera, et ostendo quod non. Pone aliquem propter delictum suum esse infamem, et sic in eum non cadit dignitas, vel nobilitas […] postea reversus ad bonos mores, est factus virtuosus; secundum eum iste erit nobilis, quod est falsum, nisi restituatur per Principem […]. Item. Pone ex uno rege natum filium, qui futurus est reprobus, et infamis, et praedestinatus a Deo in damnatione; secundum eum, iste non erit nobilis, quod est falsum, quia saltem interim antequam vitia committat, est nobilis […]. Praetera. Si est natus ignobiliter, surget in gloria, scribitur prima ad Corinthios 15 c. Vides ergo quod licet praedestinatus sit in gloria, tamen donec est hic dicitur ignobilis. […] Si verun esset dictum eius [ossia di Paolo ad Corinth. 4 c], sequeretur quod nullus plebeius esset virtuosus, vel praedestinatus in salutem; quia si esst praedestinatus, vel virtuosus, esset nobilis secundum eum, et sic non esset plebeius». Nella parte riguardante Dante, la tesi bartoliana sulla nobiltà fu pubblicata da K. Witte, Dante-Forschungen. Altes und Neues, I, Halle 1869, pp. 3-28. Le linee citate qui sono a pp. 15-16. Considerazioni importanti sulla critica di Bartolo in P. Borsa, “Sub nomine nobilitatis”: Dante e Bartolo di Sassoferrato, in Studi dedicati a Gennaro Barbarisi, Milano 2007, pp. 59-121, in E. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ toscani e ai caratteri di un ceto medievale, in Scritti, a cura di I. Birocchi e U. Petronio, I, Spoleto 1999, pp. 775 ss., in P. Gilli, La noblesse du droit. Débats et controverses sur la culture juridique et le rôle des juristes dans l’Italie médiévale, Paris 2003, pp. 35-49, e in Falzone, Desiderio della scienza, pp. 48-50.
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sapevolezza, l’accettazione della critica di una delle tesi che Dante intendeva confutare, ossia di quella secondo cui impossibile sarebbe, nell’uomo, il passaggio dalla «viltà» alla nobiltà. Quando, in sede di commento, e cioè a IV xv 2 ss., se la ritrovò di fronte Dante provò a smontarla attraverso l’esibizione degli «inconvenienti» che ne sarebbero derivati a chi l’avesse accolta. Ma incorse in una nuova difficoltà. Seguendo il filo delle conseguenze derivanti dalle premesse poste, era inevitabile che di nuovo s’imbattesse in Adamo e, forse, tornasse indietro a «rimirar lo passo» sul quale si era intrattenuto nel trattato De vulgari eloquentia che, a quel punto è pressoché certo che fosse ormai stato interrotto. L’inconveniente, che Dante aveva messo in luce nella tesi di quanti ritenevano ineseguibile il passaggio dalla viltà alla nobiltà, era che se, i «nobili» come i «vili», avessero, gli uni e gli altri, ripetuta la condizione dei padri, la conseguenza avrebbe allora dovuto essere che, salendo lungo la scala del tempo fino a raggiungere il primo padre, questo non avrebbe potuto essere l’unico Adamo; che unico, invece, doveva essere ritenuto per fede. Ma avrebbe bensì dovuto essere due diversi progenitori, uno nobile e l’altro vile, secondo l’ipotesi che, in un passo della Summa virtutum ac vitiorum, addotto da Maria Corti,14 esplicitamente Guillaume Pérault aveva respinta alla luce del racconto biblico, nel quale si leggeva di un solo Adamo che Dio «de luto plasmavit, de quo omnes exivimus».15 Su questa tesi anche Dante, naturalmente, conveniva; e, per converso, su quella dei due Adami, nel respingerla (IV xv 6-8), ironizzava non senza ricorrere ai toni sprezzanti che, qualche volta, gli accadeva di usare quando ciò di cui discuteva, e da cui prendeva le distanze, l’aveva messo in difficoltà. In realtà, quel che colpisce in questa parte del quarto trattato è che la confutazione della tesi opposta alla sua si esaurisse per intero nel rilevarne le incongruenze, che tanto più gli apparivano gravi quanto più gli accadesse di osservarne la lontananza dalla filosofia e dalla fede cristiane. Ragionandovi sopra, non avvertì tuttavia la necessità di spiegare in positivo perché, anche a prescindere dalla questione della convertibilità dell’una nell’altra, al mondo la nobiltà coesistesse con la viltà, e questa coesistesse con la nobiltà. Poiché il discorso l’aveva ricondotto indietro fino ad Adamo, la spie14. M. Corti, Le fonti del “Fiore di virtù” e la teoria della ‘nobiltà’ nel Duecento, in «Giornale storico della letteratura italiana», 136 (1959), pp. 65-66, con le ragionevoli riserve di Falzone, Desiderio della scienza, p. 29 n. 15. Summa virtutum ac vitiorum, 28, 1.
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gazione, certo, avrebbe potuto essere che era stata la sua colpa ad aprire dinanzi all’uomo decaduto la prospettiva del bene e del male, del nobile e del vile e di ogni, se si vuole, altra coppia di contrari/opposti. Ma, sebbene accanto alla nobiltà collocasse anche il suo contrario e a queste contrarie qualità riconoscesse un posto non cancellabile nel quadro dell’universo, era pur chiaro che, quando ne esponeva il concetto, Dante alludeva a un valore assoluto, non velato o, addirittura, offuscato dall’ombra oscura del peccato. Di qui la difficoltà con cui, in quella parte del Convivio, la coerenza sarebbe stata conseguita se Dante avesse richiamata la tesi biblica della caduta e con questa avesse dovuto rendere compatibile la sua che in Dio vedeva, non soltanto il vindice dell’originario peccato, ma anche colui che, attraverso la grazia, alla nobiltà che elargiva all’uomo aggiungeva, addirittura, un tratto di divinità. Eppure, se unico, anche per lui, era stato il progenitore dell’umanità, è notevole che, se ne rendesse conto oppure no, nello svolgere il suo argomento Dante avesse finito per togliergli ogni importanza. In Adamo, come per lui era ovvio, egli riconosceva il primo uomo, quello al di qua del quale non poteva andarsi. Ma quel che era accaduto e accadeva agli esseri che, pure, da lui erano nati, non dipendeva, a rigore, né dalla sua più antica virtù né dalla sua più recente disubbedienza. Dipendeva unicamente dalla doppia vicenda della natura umana che, essendo ben disposta, riceveva la grazia di Dio e, non essendolo, non la riceveva. Dipendeva dalla grazia divina che, se questo paradosso è lecito, era come se, in sé stessa, e nelle sue abissali e insondabili profondità, nascondesse un duplice Adamo, che era buono e benevolo quando elargiva nobiltà, ed era malevolo quando elargiva il suo contrario. Certo è che, stando così le cose, sarebbe stato non facile, anzi del tutto impossibile, spiegare sia il passaggio dalla viltà alla nobiltà, sia, al contrario, quello che andava nell’opposta direzione. In termini di iniziativa umana, alla luce dei criteri messi in campo da Dante, il passaggio non rivelava la sua ragione: sempre, beninteso, e per fare un esempio, che non ci si fosse contentati del modo non più che descrittivo che nella spiegazione del passaggio dalla nobiltà alla viltà, e da questa alla nobiltà, era stato tenuto da Andrea Cappellano.16 La ragione poteva essere indicata solo nella grazia di Dio. Ma questa, per sua natura, era tale che, in luogo di esibire la sua ragione 16. Andrea Cappellano, Trattato d’amore (de amore libri tres), a cura di S. Battaglia, Napoli 1947, p. 22.
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e, alla sua luce, rendere intelligibili le cose del mondo, la nascondeva nel suo insondabile abisso. Se è così, della dimensione politica che pur si nasconde, e dà segno di sé, sotto il primo strato del testo, non era facile sorprendere la presenza. Non era facile coglierne e rivelarne il profilo: sempre che per politica s’intenda, non la immobile struttura di una società gerarchica, ma il principio attivo del suo superamento. La ricerca di questo principio attivo di trasformazione che, a tratti nel De vulgari eloquentia, increspava le acque, era contrastata da forze che ristabilivano l’ordine nel segno dell’immobilità. I concetti con cui Dante pensava e costruiva il suo universo politico non riuscivano infatti a costituirsi in un cosmo coerente. L’istanza trasformatrice della realtà presente aveva la sua espressione massima nell’Impero; che a tal punto tuttavia, nel guardare nella direzione del futuro, pativa il peso del passato che, come in un’altra occasione fu detto, era come se, nel delinearne il profilo, Dante facesse rifluire il futuro, al quale dirigeva lo sguardo, entro la cerchia antica dell’antica Firenze, e vi rendesse presente la sua mitica antichità.
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A più riprese, nel corso dell’analisi che è stata dedicata alle questioni presenti nei capitoli del primo libro del De vulgari eloquentia, il discorso si è avvicinato al luogo in cui, non essendo riuscito a trovare il volgare illustre per la via dell’indagine storico-linguistica, Dante si affidò all’investigazione concettuale. Questo luogo è il capitolo sedicesimo; che, per questo riguardo, costituisce sul serio il centro del primo libro, anche se a esso non si possa pervenire se non dopo aver percorso tutte le sue strade e avere affrontato, nel loro insieme, tutte le questioni che vi confluiscono e lo costituiscono. Ma, al di là dell’abilità e dell’ingegnosità con le quali Dante vi svolse la sua argomentazione, a osservarlo con attenzione, in sé stesso e in riferimento alle fonti filosofiche delle quali si avvalse, quel capitolo è così deludente che forse non è esagerato dire che sta qui, e nella consapevolezza che egli forse guadagnò della sua inefficacia logica, una delle ragioni per le quali il trattato della volgare eloquenza non riuscì ad andare oltre i primi capitoli del secondo libro. Non che si abbia la prova che proprio così, nella sua coscienza, le cose andassero. Ma non sarà dipeso soltanto dalla prepotente entrata in scena della Commedia se Convivio e De vulgari rimasero interrotti quando il loro traguardo era, rispettivamente, molto lontano e lontano. Ci saranno state, anche ragioni specifiche che, determinando la crisi dell’una e dell’altra opera, contribuirono a rendere irresistibile quella che si era ormai profilata alla coscienza di Dante e per intero stava occupando la sua fantasia; che troppo, dall’impegno enciclopedico preso con la prima delle due rischiava di essere soffocata. Per quanto, in particolare, riguarda il De vulgari, non si può escludere che, tornando sul capitolo sedicesimo e osservandolo con attenzione nel suo svolgimento concettuale, Dante si persuadesse che all’ingegnosità del suo tentativo non aveva corrisposto la persuasività del risultato. Dopo
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tutto, era pur sempre alla conclusione raggiunta per via empirica che la ricerca logica aveva di nuovo messo capo, paradossalmente confermandone il risultato che, a tal punto era da considerarsi deludente che a un’altra, del tutto diversa, si era pensato di dover dare l’avvio. La conclusione era stata, infatti, che il volgare illustre esisteva in ogni luogo, e in nessuno in particolare, in ciascuna delle città italiane e in nessuna di essa (I xvi 6). La pantera si risolveva nel suo profumo, ora più ora meno intenso: prenderla nella sua realtà era impossibile. Il suo luogo non era un luogo perché era tutti i luoghi. Ed era perciò, se si vuol dire così, un nascondiglio sul serio diabolico, e comunque inviolabile. Ma, a questo punto, converrà lasciare la parola a Dante e ascoltarlo con attenzione: Resumentes igitur venabula nostra, dicimus quod in omni genere rerum unum esse oportet quo generis illius omnia comparentur et ponderentur, et a quo omnium aliorum mensuram accipiamus: sicut in numero cuncta mensurantur uno, et plura vel pauciora dicuntur secundum quod distant ab uno vel ei propinquant, et sicut in coloribus omnes albo mensurantur – nam visibiles magis et minus dicuntur secundum quod accedunt vel recedunt ab albo. Et quemadmodum de hiis dicimus que quantitatem et qualitatem ostendunt, de predicamentorum quolibet, etiam de substantia, posse dici putamus: scilicet ut unumquodque mensurabile sit, secundum quod in genere est, illo quod simplicissimum est in ipso genere.1
Che qui egli avesse sotto gli occhi il libro I[ota] della Metafisica, e rafforzasse i convincimenti che gliene derivavano con il commento di Tommaso e alcuni passi della Summa contra gentiles, è stato notato molte volte.2 Ma la questione non si esaurisce nell’allineare testi, bensì nello stabilire, per Dante e i suoi critici, la pertinenza di quel che si adduca. Osservarlo potrà sembrare banale. Eppure, poiché non risulta che lo sia stato, conviene rilevare che, posto che, per altri versi, la citazione della Metafisica fosse, in questo luogo, pertinente, fra il testo di Aristotele e l’intenzione con cui Dante lo citava, si dava una differenza che si sarebbe dovuta considerare e porre bene in evidenza. Aristotele era impegnato in una rigorosa ricerca, alla quale aveva dedicato parte del libro B, quello delle aporie, parte del libro Δ, quello delle definizioni, e parte del libro I, di ciò che dovesse intendersi per «uno» e per «unità»; e non aveva mai ritenuto che quella 1. De vulg. el. I xvi 2-3. 2. A questi passi aggiungerei quel che si legge nella Summa, I, q. 10, a. 6; e I, q. 11, aa. 1 e 3.
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riguardante le cose incluse in un genere potesse configurarsi come ricerca di realtà nascoste fino al limite dell’introvabilità. Delle molte questioni che egli trattò in quelle pagine non tutte, beninteso, possono essere affrontate qui. Ma almeno su due fra queste occorrerà tenere concentrata l’attenzione. L’uno e l’unità si dicono in molti modi. Senza illustrarli tutti, basterà ricordare che se l’uno in sé non è la determinata cosa una, che tale è perché si predica dell’uno e necessariamente se ne distingue, altro allora è l’uno in quanto sia considerato come predicato, altro in quanto sia preso come una determinata qualità, una determinata quantità, e cioè come tale che inerisce a una sostanza che ne risulta così o così determinata. La questione che a questo punto si porrebbe qualora si chiedesse se il colore bianco che, nella scala dei colori, all’altro capo delimitata dal nero, tiene il posto dell’uno, come il diesis lo tiene nella musica, la lettera nella scrittura, e una determinata sostanza nella sostanza, sia altrettanto indivisibile dell’uno in quanto lo si prenda come uno, e perciò non come colore, non come diesis, non come una particolare sostanza ‒ tale questione non è senza connessione con quella specifica che abbiamo di fronte. Si rivela anzi come essenziale. E per un verso si complica, per un altro tuttavia si determina e si chiarisce se si chiede se l’unum che, nel passo in questione, Dante assumeva come il punto di riferimento di tutte le cose contenute in un genere, sia non l’unità del genere, ma l’unità nel genere, e questa si presenti come il primo di una serie di oggetti che, tanto più risentono della sua eccellenza, quanto meno si trovino a distanza da esso e gli siano lontani. Il luogo aristotelico a cui Dante ebbe la mente è, per queste sue linee, Metaph. I, 1052 b 18-20. Ma il punto è che, mentre in Aristotele τὸ ἕν era un μέτρον, un’unità di misura determinante distanze e rapporti, essendo anche queste cose in Dante esso assumeva un forte profilo assiologico, era un valore che conferiva valore a cose che gli fossero state vicine e lo sottraeva a cose che gli fossero state lontane. Stabiliva una netta scala gerarchica. In un caso, inteso come μέτρον, τὸ ἕν misurava distanze fisiche. Nell’altro, misurava valori. Su questo dovrà tornarsi. Ma intanto si prosegua. A questo punto, infatti, si profila una questione che non può ulteriormente essere rinviata. Se nell’ambito dei volgari concretamente parlati quello che si definisce illustre, e la cui esistenza è inferibile dal redolere proveniente dal luogo, o dai luoghi, in cui si nascondeva la pantera che lo simboleggiava, tiene il primo posto, si può allora, nel genere al quale appartiene, senz’altro indicarlo come l’unum: come l’unum, s’intende, quale Dante lo pensava, e cioè, insieme, come primo e nascosto? Si direbbe di sì
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se, semplicemente, si intendesse che primo è quel che nel genere occupa la prima posizione, e su altro, ossia sul suo essere e poter essere nascosto, non ci si interroghi. Ma dire così non basta, e può, addirittura, essere fonte di equivoco. La questione rivela infatti la sua asprezza non appena, per riprendere il suo stesso esempio, si consideri che, nel genere colore, il primo è il bianco che, essendo luminoso, non può rimanere nascosto. Se, stando in piena luce, è impossibile che si sottragga allo sguardo, altrettanto deve dirsi per il genere «lingua volgare» che, come perfetto equivalente del bianco, al suo vertice dovrebbe appunto avere il volgare illustre, e, rispetto al bianco, altrettanta luminosità. Insomma, se l’unum, a partire dal quale si stabilisce la linea discendente delle cose che, nel riferirglisi, via via se ne allontanano, fosse il volgare illustre, allora sarebbe impossibile sia che esso potesse mai essersi nascosto in un luogo inaccessibile, sia che potesse render noto il suo essere, e il suo esservi presente, solo attraverso il suo redolere. Ancor prima di essere messa in atto e esercitata, la venatio si sarebbe infatti trovata a coincidere con il pieno rivelarsi del suo oggetto; e impossibile perciò sarebbe stato, che, invece che a un animale perfettamente visibile, si fosse diretta a uno nascosto che si sottraeva allo sguardo. Insomma, se l’unum era interpretato come anche il primo, non avrebbe mai potuto restare nascosto. Se era un μέτρον, una mensura, insomma un criterio per la fissazione della vicinanza e della lontananza, come avrebbe potuto non essere per eccellenza reso evidente dalle cose stesse che, necessariamente, esprimono il loro primum? Ma, se è così, deve allora ribadirsi che, come unum, mensura, criterio di valutazione di ciò che gli era prossimo e gli era lontano, l’unum/volgare era anche ciò che per eccellenza era noto, conosciuto, posseduto: in nessun caso, perciò, se ne sarebbe potuto fare l’equivalente di una pantera che, concedendo il suo profumo nell’atto in cui sottraeva il suo corpo alla vista e alla presa dei venatores, divideva il suo essere dall’indizio che lasciava della sua presenza. Per la stessa ragione, e più radicalmente, non potrebbe farsene l’equivalente di un animale che, essendo lì, doveva tuttavia diventare possesso di un venator. Dante, dunque, aveva ragione, ma anche non l’aveva, quando, alla fine del capitolo sedicesimo, dichiarava di aver afferrato quel che cercava, e che l’indagine logica aveva conseguito il risultato che l’altra indagine, quella che qui su è stata definita empirica, non aveva saputo raggiungere. Si celava qui, in effetti, il più sottile degli equivoci in cui la sua argomentazione si era impigliata: come, del resto, dovrebbe subito apparire evidente a chi considerasse che, se l’analisi concettuale era stata resa necessaria dal fallimento
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della precedente ricerca, il risultato che ne era scaturito, e che Dante considerava vittorioso, non differiva in nulla da quello che era stato considerato fallimentare. In ragione di questo, il volgare illustre era stato simboleggiato in una pantera che, poiché emanava un profumo dal quale poteva inferirsi il suo essere in tutti i luogi e in nessuno, era, nello stesso tempo e allo stesso modo, tanto percepibile quanto inafferrabile. In forza del secondo, il volgare illustre era definito come omnis latie civitatis […] et nullius: come presente in tutte le città italiche e in nessuna di esse. Dov’era, dunque, la differenza, se il tentativo che si fosse fatto di afferrarlo in una città era destinato a fallire e, sempre nel segno del fallimento, doveva essere ripetuto per tutte le altre? Se con gli strumenti della prima venatio non si era venuti in possesso se non del profumo, di che altro ci si era impadroniti con gli strumenti dell’altra, che Dante definiva logica o concettuale? Il suo consaputo essere in tutte le città italiche e in nessuna, in che cosa si distingueva dal suo redolere? Nella ricerca del volgare illustre, il mutamento degli strumenti, se si sta all’esplicita dichiarazione dantesca, non aveva condotto a risultati diversi da quelli conseguiti, o piuttosto non conseguiti, con i precedenti. Se, fra la venatio condotta con gli strumenti che dapprima erano stati usati e quella che, viceversa, si era svolta nel segno del concetto, si dava invece, a suo giudizio, una differenza altrettanto grande di quella che passa fra un’impresa fallita e una riuscita, perché gli accadeva di dire, nello stesso tempo, che la pantera era stata tratta fuori del suo nascondiglio e che, non di meno, il volgare illustre era presente in tutte le città e, tuttavia, in nessuna? Dove si nascondeva la radice di questo equivoco? In realtà, non era, quella che Dante traeva, la conseguenza che, a rigore, si sarebbe dovuta trarre, e che così bene egli aveva intuita nella sua diversità dall’altra a cui era giunto fin lì. La conseguenza avrebbe dovuto essere che, se il volgare illustre era il primo nel genere, non poteva non essere saldo possesso di chiunque a quello avesse guardato con gli occhi della mente. Se infatti la metafora della pantera profumata importava che fra l’animale e il suo redolere sussistesse una tale differenza che la percezione di questo non importava il possesso di quello, nel caso dell’«uno» non avrebbe avuto senso presupporne una che a quella fosse stata identica. Posto che l’«uno» avesse avuto un profumo, e che per questo aspetto avesse potuto esser posto in un rapporto di analogia con la pantera, a differenza di quanto avveniva per quest’ultima da quello non avrebbe mai potuto essere distinto. Tale l’uno, tale il suo redolere, che non era perciò il suo
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indizio, ma il suo essere nella realtà. Ne derivava che il volgare illustre poteva essere metaforizzato in un pantera che, nell’atto in cui concedeva il suo profumo, sottraeva il suo corpo alla presa del venator, finché la sua identificazione con l’«uno» e con ciò che nel genere è primo non fosse stata eseguita. Non poteva più esserlo nel momento in cui, svelandosi come l’uno e il primo nel genere, non era più in nessun modo paragonabile a una realtà nascosta, e presente solo attraverso il suo indizio. Anche se l’intenzione fosse stata di tener ferma la metafora della venatio, la logica emergente dallo strumento concettuale che aveva sostituito i precedenti, avrebbe comunque imposto che questi fossero stati mutati con tale radicalità che l’unica possibile conclusione sarebbe stata che, invece che oggetti della ricerca, l’«uno» e il primo si sarebbero rivelati per quel che in effetti erano, e cioè come il suo criterio e, per conseguenza, come il suo risultato. Era stato in effetti sul fondamento del saldo possesso che aveva del volgare illustre come unum che Dante aveva condotto la sua venatio attraverso le regioni linguistiche della penisola e stabilito la vicinanza a, o la lontananza da esso, dei volgari municipali, nei quali il profumo dell’uno si manteneva più o meno, proprio come avveniva con quello di Dio nelle cose che ne dipendono. Il venator credeva di star dando la caccia a un animale che non gli era mai riuscito di afferrare. Ma, si trattasse della sua realtà o del suo profumo, la logica del «genere» a cui Dante aveva fatto ricorso imponeva di pensare che il venator possedesse già quel che riteneva di star cercando; a tal punto che, mentre disperava del felice successo della sua impresa, non si accorgeva che quel che cercava era già stato conseguito da lui che non avrebbe altrimenti potuto proseguirla dando luogo alla gerarchia dei volgari che, più o meno, offendevano il suo orecchio. La seconda venatio, quella logica, non era dunque, nella realtà, se non la riprova del paradosso per il quale ciò che si ricercava era già nelle mani del ricercante; a tal punto che, come si è detto, era proprio il possesso di ciò che credeva di ricercare che al venator consentiva di giudicare i volgari municipali e di stabilirne la rigorosa gerarchia. Era infatti partendo dall’uno, metaforizzato (se si vuole) nel profumo della pantera, e via via discendendo verso le loro più deteriori espressioni che egli determinava il valore (o il disvalore) che a ciascun volgare era intrinseco. Il senso della reductio ad unum, di cui si è talvolta parlato per caratterizzare la sostanza teorica dell’operazione dantesca, non era già, per lui, che le cose interne al genere e alle specie avessero nell’uno il loro significato e che all’uno, anche se diversamente significante, si fosse tor-
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nati, con il volgare illustre, dopo la dispersione linguistica conseguita al dramma di Babele.3 Ma era bensì che, l’uno essendo il primo, era esso che, 3. È questa, se ho ben visto, la tesi di Imbach e Rosier-Catach, De l’un au multiple, du multiple a l’une, pp. 524-528, i quali hanno ritenuto che dall’originario «uno» della lingua adamitica, si fosse tornati, dopo la dispersione babelica, all’«uno» rappresentato dal volgare illustre. Questa tesi è stata ripresa e riassunta con efficacia da Rosier-Catach, Présentation di L’éloquence en vulgaire, pp. 62-63, nel luogo in cui, dopo aver distinto fra l’unità dell’ebraico, quella della grammatica, e l’altra del volgare illustre, osservò che l’unità propria del volgare illustre è, rispetto alle altre, affatto nuova, perché «ne veut plus s’opposer à la variation de l’usage», essendo «mesure et par là même garante des productions les plus diverses, elle constitue un mètre à l’autre duquel elles peuvent être comparées». Che qui tutto corra senza difficoltà, non si potrebbe dire. Per un verso, che il volgare illustre non presenti una natura altrettanto rigida e immutabile della grammatica, si può concedere se si considera che esso ha luogo nella storia e dovrebbe perciò essere destinato a subirne e registrarne in sé i mutamenti: anche se, in questo caso, la sua identificazione con l’uno entrerebbe in crisi. Ma, per un altro, è la stessa Rosier-Catach a osservare che esso costituisce un «mètre», un’unità di misura, rispetto a cui le «productions les plus diverses» debbono essere comparate, e a mettere perciò, essa stessa, in dubbio la precedente sua asserzione relativa alla «variabilité». In effetti, l’oscillazione dei significati è interna al concetto dantesco, che si presenta perciò nel segno della non univocità logica. Come ancor meglio potrebbe vedersi se si dedicasse attenzione a quel che nel testo si osserva a proposito dell’«uno»; che non solo rappresenta il primo e, dunque, anche, all’interno del contesto «generico», un criterio assoluto di valore, ma del genere e delle parti che lo costituiscono esprime anche la stabilità. Pur supponendo infatti che le sue parti siano incluse nel mutamento, la sua physis è tale che mai il primo, ossia l’uno, potrà esserne coinvolto e reso molteplice in sé stesso. Il che, se ben si guarda, conferma l’aporia e, se mai, la rende ancora più pungente. Come, senza giungere ad avvertirne l’acuta problematicità, è indirettamente confermato proprio dalla Rosier-Catach che, nella sua sagacia, ha, in certo senso, avvertito il problema, subendolo tuttavia piuttosto che risolverlo. Ha scritto infatti che il volgare illustre appartiene alla condizione, «dominée par la variabilité», nella quale l’umanità era venuta a trovarsi «après Babel», salvo che «celleci ne peut constituer un défaut que s’il n’existe pas de norme capable de la réguler, pour la remener, en cas de besoin, à l’unité, tout comme la cité terrestre doit avoir des lois e des guides pour garantir la paix nécessaire à la vie commune et à la felicité» (p. 63). Che qui la difficoltà dantesca sia subìta e non spiegata nella sua struttura risulta evidente dal compromesso in forza del quale si dichiara che il volgare illustre è sottoposto alla legge che, nelle città, garantisce la vita comune e la comune felicità. A parte, infatti, che non è ben chiaro se il paragone con la legge sia stato proposto in forma suggestiva o esegetica, e «legge» valga, per questa dotta interprete, lo stesso che per Dante (con il che la questione sarebbe destinata a complicarsi), resta che le leggi mutano e, pur differendo l’una dall’altra secondo i tempi della storia e presentandosi perciò con diversi volti, assolvono alla stessa funzione regolatrice delle societates, mentre non altrettanto può dirsi del «volgare illustre»; che avrebbe cessato di essere quello che Dante aveva in mente e che identificava con l’uno nel genere, se con il mutamento di questo, anche del suo avesse dovuto tener conto. Insomma, la Rosier-Catach non ha considerato che se, per alcuni aspetti, la teorizzazione fornitane da Dante sembrava proporlo come un
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nei volgari postbabelici, conferiva valore alle realtà che ne dipendevano, e che, a seconda della distanza in cui si trovavano nei suoi riguardi, erano giudicabili come più o meno pregevoli. Essere ricondotto all’uno significava che il reale constatava in sé stesso la vicinanza o la lontananza da quello, e quindi, in relazione a entrambe, il suo relativo valore. Se, viceversa, dell’uno si fosse fatta, e senza concedere che si potesse, la meta a cui le cose aspiravano, il suo conseguimento avrebbe significato che in quello il genere avrebbe perduto sé stesso e la sua struttura: le cose non sarebbero state se non uno, e questo avrebbe cessato di essere il primo nel genere. Si legga ora l’altro passo nel quale, passando dal genere alla specie, Dante condusse a compimento il ragionamento che aveva cominciato a svolgere nel primo, che qui su è stato citato e commentato: Quapropter in actionibus nostris, quantumcunque dividantur in species, hoc signum inveniri oportet quo et ipse mensurentur. Nam, in quantum simpliciter ut homines agimus, virtutem habemus ‒ ut generaliter illam intelligamus ‒: nam secundum ipsam bonum et malum hominem iudicamus; in quantum ut homines cives agimus, habemus legem, secundum quam dicitur civis bonus et malus: in quantum ut homines latini agimus, quedam habemus simplicissima signa et morum et habituum et locutionis, quibus latine actiones ponderantur et mensurantur. Que quidem nobilissima sunt earum que Latinorum sunt actiones, hec nullius civitatis Ytalie propria sunt, et in omnibus comunia sunt: inter que nunc potest illud discerni vulgare quod superius venabamur, quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla. Potest tamen magis in una quam in alia redolere, sicut simplicissima substantiarum, que Deus est, in homine magis redolet quam in bruto, in animali quam in planta, in hac quam in minera, in hac quam in elemento, in igne quam in terra; et simplicissima quantitas, quod est unum, in impari numero redolet magis quam in pari; et simplicissimus color, qui albus est, magis in citrino quam in viride redolet.4
Il signum che, in queste linee, Dante indicava come quello che massimamente doveva essere ritrovato perché delle cose che fossero state sotto ideale e un principio di unificazione linguistica al più altro grado, per un altro era proprio la struttura ontologica entro la quale lo prospettava a rendere impensabile il programma che, per certi versi, aveva in mente. Era la struttura gerarchica del genere che, a causa della fermezza inalterabile dei sui momenti, impediva di pensare che, proprio perché stava al di sopra delle parlate inferiori e queste stavano al di sotto, quella così congegnata struttura potesse costituire l’oggetto di una volontà trasformatrice e esserne alterata. Cfr. anche, nel senso qui criticato, Zanni, Il ‘De vulgari eloquentia’, pp. 337-338. 4. De vulg. el. I xvi 3-5.
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gli occhi si intendesse la natura, era dunque quell’unum alla cui luce, come aveva asserito nella pagina precedente, poteva misurarsi quanto le cose incluse nelle specie gli fossero vicine e quanto lontane, e quale fosse, quindi, il valore che doveva attribuirsi a esse. Il punto, tuttavia, che, se non venisse messo in rilievo e chiarito, l’intero passo risulterebbe frainteso, è (conviene ripeterlo) che la sua inventio, il suo ritrovamento, non richiedeva una venatio diretta a trarlo fuori del luogo nel quale si era nascosto. Quel signum era la stessa cosa dell’uno, qui, a sua volta, definito come il simplicissimum, o, al plurale come i simplicissima dai quali, di volta in volta occorreva partire per intendere le species a cui lo sguardo si fosse diretto per intenderle: la virtù, se in questione fossero stati il buono e il cattivo dell’uomo in quanto uomo; la legge, se in questione fossero, ancora, stati il buono e il cattivo dell’uomo in quanto cittadino; le usanze, le mode e la lingua di un popolo, se in questione fossero state le azioni degli italiani, i cui nobilissima signa non erano propri di nessuna città in particolare perché erano comuni a tutte. Se è così, ma sembra proprio che non possa essere altrimenti, è questo allora il punto in cui il suo ragionamento fece registrare la sua crisi e dette luogo a un inevitabile rilievo di incoerenza. L’incoerenza, in effetti, si rese manifesta nell’idea stessa della venatio; che sarebbe stata utile se sul serio nascosto e non posseduto fosse stato quel che invece non era né l’una cosa né l’altra, perché, posseduto e non nascosto, era per ciò stesso di immediata evidenza. Non è forse vero che il volgare illustre, di cui nel successivo capitolo Dante avrebbe spiegato perché lo si dovesse definire curiale e regale, era per intero, non in parte, presente in ogni città; e quel che redole[bat] in ciascuna era perciò necessariamente quel che anche vi cubabat, era proprio esso, era il volgare illustre che, identico ai simplicissima signa, costituiva l’unità di misura, e, in quanto simplicissimum, non poteva non stare per intero nel luogo, o nei luoghi, in cui dava segno di sé, anche se, e proprio per questo, sarebbe stato andar contro alla sua natura se a un solo luogo lo si fosse assegnato? Se a nessuno luogo poteva attribuirsi il titolo di possessore esclusivo di quell’illustre volgare era perché quello stava in tutti allo stesso modo: con la conseguenza che la formula di Dante richiedeva, per coerenza, di essere capovolta nell’asserzione secondo cui, in tanto il volgare dava in tutti segno di sé, in quanto era per intero presente in tutti. Poiché il suo non cubare [in ulla civitate] implicava il suo cubare in tutte e in ciascuna, non era deduzione rigorosa quella per cui si diceva che la sua tana non era in nessuna di esse. Si doveva appunto dire che era
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in tutte la stessa tana, nella quale esso era visibile, non invisibile: ossia, per usare modi realistici e non metaforici, ascoltabile, non inascoltabile. Del resto, il richiamo, che si è fatto a un’esigenza di sobrietà realistica e antimetaforica, cade opportuno a proposito dell’uso, metaforico e non realistico, che Dante fece del redolere; che può considerarsi usato a proposito quando lo si riferisca alla pantera e all’apparato sensibile idoneo a captarne il profumo, ma non, invece, quando lo si attribuisca al colore, al quale un altro senso si rivela pertinente. Che, nell’attribuire al «vedere» quel che è proprio del «sentire», Dante, in realtà, lavorasse di fantasia e sottostasse a una situazione, simile se non identica, a quella che si constata nel verso in cui si dice di colui che «per lungo silenzio parea fioco»,5 non è da escludere; e nessuno sarà così bigotto da ritenere sconveniente che nella dimora del pensiero egli usasse modi che meglio sarebbero convenuti a quella dell’arte. Ma, detto questo, il riconoscimento non può estendersi tanto da far dimenticare che le dimore sono diverse, e che comportarsi nell’una secondo le regole dell’altra potrebbe essere indizio, non solo e non tanto di esuberanza fantastica, quanto piuttosto di non pieno dominio dello strumento concettuale. Se ora, giunti a questo punto, si chiedesse come mai a Dante accadesse di incorrere nello scambio di cui si sono illustrate le modalità, la questione non potrebbe esser dichiarata né astratta né sofistica; e, al riguardo, potrebbe proporsi la seguente spiegazione. Uscendo dall’ambito metaforico in cui aveva mantenuto il suo discorso, lasciando perciò, da un canto, sia i venabula sua, sia la panthera, sia il suo vario redolere, e provando a mettere in termini strettamente razionali la questione agitata nel capitolo decimosesto del De vulgari, dovrebbe chiedersi, non come potesse star nascosto quel che era «uno», primo e semplice, ma se e dove, in quanto uno, primo e semplice, si sarebbe potuto collocarlo nel quadro del genere e delle species, e se, collocato in quel quadro, fosse ancora quell’uno di cui si era detto che era semplice e indivisibile. Alla questione che in tal modo si delinea deve provarsi a rispondere in modo duplice, dando rilievo sia al concetto secondo cui l’uno era inteso come unità di misura, sia all’altro secondo cui era una sostanza, e cioè, per esempio, una lingua chiamata volgare illustre. Per quanto riguarda il primo quesito si può arguire che Dante si fosse trovato in difficoltà, e non a torto, quando si era interrogato circa 5. Inf. I 63.
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la possibilità che, inteso come unità di misura delle cose e delle stesso uno, l’uno potesse essere racchiuso in un luogo specifico. Inteso come unità di misura, l’uno non era infatti quell’uno che, occupando il primo posto nel genere, richiedeva di esservi considerato come il primo. Ne conseguiva che altro era l’uno che, preso, al pari dell’essere, come predicato e perciò come universale, non poteva avere un luogo nel quale trovare posto; e altro era invece l’uno di volta determinato come questo specifico uno all’interno delle categorie, compresa quella della sostanza. A proposito del primo significato si può aggiungere la considerazione che, chiamando in causa il paragone dell’uno con Dio, consente di trarre alla luce un corollario che, certo, se era nella premessa, non era fra quelli che Dante aveva messi in luce; e che tuttavia si delinea quando si osservi che, come sarebbe impossibile che la divinità, la quale è una e indivisibile in parti, avesse un luogo che, se la includesse in sé, la renderebbe parte del molteplice e le toglierebbe l’unità, altrettanto doveva esser detto per l’uno. Anch’esso, infatti, e, anche se in un contesto non poco tormentato, Aristotele l’aveva asserito con chiarezza, non non ha parti e, se, al pari di Dio, è semplice e indivisibile, sarebbe impossibile, qualora si pretendesse che restasse uno, inserirlo in un ambito (che, in sé stesso, si può aggiungere, ne farebbe un molteplice). Per questo, quando diceva del suo non poter stare in nessun luogo e del suo stare in tutti, Dante si rendeva bensì vittima dell’incongruenza per la quale, per un verso, concedeva quel che, per un altro, escludeva (faceva infatti che il non poter stare in un luogo fosse compatibile con il poter stare in tutti, e perciò anche in quello), ma non senza che, proprio attraverso il ritiro di quel che concedeva, egli desse a vedere che dell’incongruenza si era, almeno in parte, reso conto. Per quanto riguarda il secondo quesito, la difficoltà avrebbe mostrata la ragione che la produceva se si fosse considerato che, invece di tener fermo al concetto della indivisibilità dell’uno, Dante lo separava, non solo da ciò che lo seguiva nel genere, ma da sé stesso; che, per un verso, infatti, era pensato come uno e, per un altro, come non più che il primo di una serie discendente di species. È probabile, o, quanto meno, possibile che in questa indecisione concettuale, riguardante il potersi e il non potersi avere esperienza sensibile, in un luogo determinato, del volgare illustre che ricercava, Dante patisse anche lui la complessità e problematicità dell’indagine che Aristotele aveva dedicata a τὸ ἕν, e del doppio registro che in essa gli era assegnato. Preso in sé, infatti, l’uno era predicato e non sostanza, ma poi
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era anche una sostanza determinata nel genere di cui costituiva il primo.6 Può darsi che sia così, e che fra l’uno come predicato e come universale e l’uno come questo determinato uno, Dante non arrivasse a introdurre la distinzione che a ciascuno assegnava il suo campo proprio; anche se, senza poterla escludere, nessuno potrebbe dire che di questo la sua indecisione si fosse nutrita, e non piuttosto dell’incertezza che lo induceva a credere che l’impossibilità, per l’uno, di stare in un luogo fosse la stessa cosa della, e fosse compensata dalla, sua possibilità di stare in tutti: quasi che i «tutti» non fossero, anch’essi, ciascuno un luogo, nel quale era escluso che l’uno potesse stare. Resta che, nel discutere del volgare illustre e nel metaforeggiare intorno al luogo in cui si era reso imprendibile, Dante oscillava. Da una parte, lo considerava come una physis corporea e una sostanza sensibile, da un’altra come un puro unum, sì che era ben comprensibile che, sul luogo del nascondimento, egli non arrivasse a darsi una risposta chiara e permanesse nell’incertezza di cui si è detto. La tana era sentita come un reale nascondiglio; che, non senza ingegnosa sottigliezza, era identificato in un «luogo non luogo», nel «nessun luogo, ogni luogo», che era tuttavia un luogo, in cui diabolicamente il volgare illustre si sottraeva alla vista del venator. Ma anche era tale che, posto che vi si nascondesse, il volgare illustre faceva avvertire la sua presenza e si rivelava come uno e come primo. Che della situazione paradossale che aveva ingegnosamente costruita Dante fosse il primo a patire, è dunque evidente. Aveva finito con l’impigliarvisi nel momento in cui, dopo avere a lungo svolto la sua ricerca sul presupposto che il volgare illustre si era nascosto in un luogo che era, non un luogo, ma tutti i luoghi, aveva tuttavia tenuto fermo al punto che, nel genere, esso era l’uno, e cioè il primo nella scala degli esseri che vi erano compresi: l’uno, il primo e perciò anche il più evidente. Ma a questo punto il discorso deve stringere più da presso il suo oggetto. Il genere in questione essendo necessariamente la «lingua», o, meglio ancora, il volgare del sì, la conseguenza che doveva trarsi dall’osservazione che se ne fosse fatta non poteva essere che una. Considerato, non nel punto culminante, ossia nell’uno e nel primo da cui procedevano in discesa le parlate municipali che via via se ne erano allontanate e se ne allontanavano, ma nel corpo vivo di una di queste, era evidente che l’uno e il primo vi erano presenti, per un verso in modo non esclusivo, perché anche in altre lo erano, ma tuttavia, 6. Arist. metaph. I 1053 b 16-24. E cfr. 1054 a 9-11.
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per un altro, in modo compiuto, perché era pur sempre come uno e come primo che quel genere li ospitava in sé. Insomma, in ogni volgare il volgare illustre era presente come l’uno da cui quello si era allontanato nel diventare il volgare che in quel momento era; ed era la molteplicità indiscussa dei volgari del sì, in ciascuno dei quali il volgare illustre era tanto presente, nel suo vertice, quanto via via si rendeva assente nei luoghi più bassi, a fare in modo che, restando uno e primo, l’uno e il primo stessero in più luoghi e a questi impedissero di essere, ciascuno, il luogo privilegiato. Stando in questo, il volgare illustre stava, allo stesso modo, anche negli altri, nei quali si era ripetuto, e si ripeteva, identico il processo dell’allontanamento dalla sua purezza. In altre parole, nelle parlate municipali che, all’interno del genere, si allontanavano dalla purezza dell’uno, questo era incluso ma non nascosto, era incluso e visibile. Il luogo in cui l’uno, ossia il volgare illustre, si nascondeva era costituito dalle parlate volgari che, a partire di lì, erano via via discese ai gradi più bassi; ed erano esse che variamente offendeva l’orecchio di Dante quando era costretto ad ascoltarne lo sgradevole suono. A ragione, per un verso, perché era un fatto che dal loro suono il suo orecchio era offeso. Non a ragione, per un altro, dal momento che la sua polemica suonava come un rimprovero rivolto a ciò che, a rigore, non poteva stare se non così, e da un rimprovero non avrebbe dovuto, perciò, essere colpito. Se, infatti, com’era necessario, a criterio di giudizio si fosse assunto il genere nella sua interna e necessaria struttura, se perciò si fosse considerato che proprio perché, in quello, si dava, un primo (l’uno come primo), era inevitabile che si dessero via via in scala discendente un secondo e un terzo, che al genere, così concepito, erano necessari non meno dell’uno del quale, come secondo e come terzo, ribadivano il primato e la necessità, subito si sarebbe compreso che, a rigore, le cose non avrebbero potuto stare altrimenti. La decadenza che, in ogni genere, si dava a vedere non era, in realtà, se non la descrizione della sua struttura necessaria; e non si sarebbero dati argomenti per farne un legittimo oggetto di polemica e di azione riparatrice finché quella struttura fosse stata concepita in quel modo. La passionalità che colorava di sé la polemica che Dante svolgeva contro le parlate italiche era certamente un fatto, qualcosa che, poiché si dava nella realtà, non avrebbe potuto non essere presa in considerazione. Ma prenderla in considerazione non significava giustificarla alla luce delle premesse, se queste, appunto, fossero state rispettate. Del resto, che dalla sua idea del genere e della sua necessità strutturale, la sua passionalità fosse, per dire così, se non tenuta in ostaggio, raffrenata e controllata, si vede
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da ciò che del volgare illustre egli fece, non un ideale a cui tutti avrebbero dovuto guardare come alla loro meta necessaria, ma un traguardo conseguibile soltanto da chi ne fosse stato degno: come, del resto, si vide quando, sia pure in breve, si ragionò della sua idea della nobiltà e, mettendola in relazione al problema della lingua, si escluse che nella mente di Dante si fosse formata l’idea di una lingua nazionale italiana. La spiegazione che si è fornita dell’idea di volgare illustre e della sua interna difficoltà potrà apparire astratta, forse sofistica e, per di più, anche sgradita a chi non sia in grado di ammettere che, nell’elaborare la sua tesi nella forma paradossale che finì per conferirle, Dante si era servito delle sue fonti con la geniale spregiudicatezza e con la volontà della provocazione intellettuale che gli erano proprie, ma deviando tuttavia alquanto dalla recta interpretatio dei testi che aveva di fronte e dei quali si serviva: a cominciare da quello di Aristotele che, soprattutto nel libro I della Metafisica, gli aveva imposto di compiere un percorso tortuoso e difficile e di tener conto di distinzioni alle quali, preso dall’esigenza di costruire la sua tesi, non aveva badato quanto altrimenti sarebbe stato necessario. Si è detto della distinzione fra l’uno inteso come predicato e l’uno inteso come la cosa una, o prima, che nel genere occupa il vertice; e che può bensì fungere anche da unità di misura, ma allora dev’essere distinta da quell’uno che essa è in quanto si trovi a essere il primo nel genere. Dopo, per altro, aver notato la curiosa inconseguenza a cui egli dette luogo quando interpretò il volgare illustre come il primo nel genere, e poi pretese che, standovi nascosto, si sottraesse alla presa di chi non ne percepiva che il redolere, altro resta da considerare e da ribadire. Nella delineazione che, per indicare il luogo occupato in esso dal volgare illustre, dette del genere aristotelico, Dante finì per dar vita alla rappresentazione di un autentico, come lo si potrebbe definire, processo discendente, di una vera e propria decadenza. È una questione che si delineò e fu trattata proprio all’inizio di questa ricerca, tornò a essere accennata qui su e ora, mentre questa volge alla sua conclusione, dev’essere ripresa e, se possibile, approfondita. Sebbene non lo dicesse, e mai mostrasse di aver avvertito il relativo problema, era a parlate che avvertiva come decadute che egli si era rivolto per deplorare la condizione in cui, al presente, i volgari municipali si offrivano al suo orecchio. Il che, tratta o no che ne fosse stata la conseguenza, necessariamente implicava che, se il presente linguistico (e, per la verità, non solo) era un tempo di decadenza, doveva essercene stato, nel passato, uno segnato da
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un opposto carattere: un tempo, si è indotti a credere, in cui non solo dagli autori delle Canzoni il volgare illustre era stato parlato, ma anche da altri gruppi di italiani. Certo, com’era documentato da quelle di Cino da Pistoia e dell’amico di lui, Dante Alighieri, Canzoni composte in purissimo volgare illustre si erano lette e ascoltate anche nel tempo della miseria che affliggeva le parlate volgari. In volgare illustre si era parlato nella Corte di Federico II e di Manfredi. Ma si trattava di eccezioni, che certo non potevano indurre a un mutamento del giudizio riguardante il presente. Quel che, al riguardo, ci si sarebbe aspettati era la determinazione dell’età alla quale doveva essere ascritto l’inizio della decadenza linguistica diagnosticata nel De vulgari eloquentia. Ma questa domanda, che pure si aggira inquieta nelle pagine del primo libro del trattato latino, non vi trovò mai una formulazione che la traesse fuori dell’implicito; e non vi ricevette, naturalmente, alcuna risposta. Che una questione siffatta restasse estranea alla coscienza di Dante che, di necessità, se quella fosse stata viva, dalla presente decadenza avrebbe dovuto esser tratto a risalire alla opposta condizione da cui, grado dopo grado, quella si era prodotta, è cosa che, più che sorprendere, va comunque messa a confronto con le istanze politiche che, presenti in certi punti del primo libro, non lo furono, come si vide, tanto da prendere il centro del quadro, imporre il loro tema e definirsi in una tesi specifica. Ma la cosa sta pur così, e in questi termini deve essere posta. Il tratto più originale della rielaborazione che, operando tagli e introducendo semplificazioni, Dante fece delle tesi aristoteliche sul genere, non sta, come pur si potrebbe ritenere, nella scelta, come suo Leitmotiv, dell’«uno» a discapito di quelli, altrimenti importanti, della contrarietà, del μεταξύ e della differenza specifica. Sta bensì nella reinterpretazione dei momenti di realtà inclusi nel suo confine come fasi di una decadenza pensata in chiave neoplatonica. Il che significa che, quel che in Aristotele si era presentato nel segno di una pura considerazione logico/ontologica, qui appariva connotato in termini di valore. Se, d’altra parte, a rendere persuasi di questo mutamento i lettori del De vulgari eloquentia questa considerazione non bastasse, a convincerli dovrebbe esser sufficiente quel che Dante suggerì alla fine del sedicesimo capitolo quando il tema dell’uno gli evocò quello dell’uno per eccellenza, della simplicissima substantia, que Deus est, e che con il suo profumo (ecco ancora una volta il ricorso alla metafora) si rende percepibile, innanzitutto, all’uomo e poi, discendendo per i gradi della scala neoplatonica, agli animali, e da questi alle piante e poi ai minerali, e poi agli elementi, al fuoco più che alla terra. Era uno spunto, questo, che Dante
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aveva elaborato passando da Aristotele al Liber de causis, un testo del quale a più riprese ebbe a servirsi nel Convivio,7 e che anche qui è presente. Ma più che nell’indicare fonti, da questo paragone deve ricavarsi il tema speculativo che ne derivava e dal quale la stessa sua trattazione, in chiave aristotelica, del genere e dell’uno trasse il suo significato e il suo colore. Che, come si diceva, ha un accento neoplatonico, e di qui consente che si acceda alla interpretazione del genere come luogo di una decadenza resa evidente dalla progressio in peius che vi è come contenuta. Che, malgrado la difficoltà che a ciò opponeva l’idea che aveva condivisa del genere, la rappresentazione che Dante faceva dei volgari municipali implicasse quella del loro essere decaduti da un più alto, anche se non specificato, grado di civiltà linguistica, non è negabile. Non si spiegherebbero altrimenti la durezza e il rabbioso disprezzo con cui egli li passò in rassegna nei capitoli centrali del primo libro del De vulgari eloquentia. Assai difficile, se non addirittura impossibile, è, tuttavia, non solo indicare il grado e il tempo, a partire dai quali, la decadenza ebbe inizio e giunse al risultato che egli ebbe sotto gli occhi e descrisse, ma, più radicalmente, definire il suo concetto. Sono in gioco qui due questioni diverse, che conviene tenere distinte e trattare separatamente perché, alla fine, sia possibile indicare il luogo della loro eventuale convergenza. La prima è una questione storica, che concerne, innanzi tutto, il tempo in cui si formò la lingua che, pervenuta da remoti inizi ai primissimi anni del quattordicesimo secolo, offendeva, con i suoi sgradevoli suoni, il delicato orecchio di Dante. Questa lingua che, ai sui tempi, gli si presentava nel segno della decadenza era, senza ombra di dubbio, non quella che Adamo e i suoi avevano parlata dopo che fu consumato il peccato della prevaricazione, ma l’altra che, in forma trifaria, si era formata in seguito al fallimento dell’impresa babelica; e, quindi, rendendo più ravvicinati i tempi, era la lingua che, nell’ulteriormente distintinguersi da quella parlata dai popoli che usavano l’affermativa iò, si era a sua volta tripartita in lingua d’oc, d’oil e del sì. Era, in particolare, rispetto alla forma in cui quest’ultima si era presentata ai suoi inizi, che, più in particolare, rendendo esplicito quel che in Dante rimaneva implicito, si sarebbe potuto misurare il grado della presente decadenza. Ma, salvo errore, non c’è modo di sapere né a quale cronologia egli facesse riferimento quando alludeva alla formazione di questi diversi dialetti municipali, 7. Conv. III vi 11-12; 88, vii 5 e 7 (e III ii), con il commento di Vasoli (pp. 369 ss.).
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né quali caratteri attribuisse a essi: cosa che, in effetti, sarebbe stata essenziale perché, per poter alludere a fatti degenerativi come quelli ai quali alludeva quando, per fornire un esempio, paragonava queste parlate a un bosco fatto di sterpi e di spini (I xi 1), la conoscenza del modo in cui questo si presentava agli inizi era condizione irrinunziabile. Per quanto concerne il primo punto, e cioè il fatto storico della decadenza, la fissazione del suo inizio si rivela come un’impresa impossibile. Dopo aver constatato che, se si era prodotta, la decadenza doveva di necessità aver segnato, con il suo inizio, la differenza da una diversa età, altro non si può dire. La seconda è una questione filosofica che, svolta con il dovuto rigore, conduce a un’ipotesi tutt’affatto diversa da quella contemplata dalla prima. Prevedeva, infatti, una decadenza che, alla luce della seconda, si rivelava intrinsecamente impensabile. È un problema, questo, al quale, per quel che si sapeva, si è dato l’adeguato rilievo. E ora non è necessario tornare a spiegare perché, pensato secondo la logica del genere, e alla luce del rilievo che, adottandola per il suo ragionamento, Dante aveva dato al tema dell’uno e del primo, il volgare illustre si presentasse in modo tale che mai avrebbe potuto essere oggetto di decadenza, ossia di qualcosa che, coincidendo con la inalterabile sequenza di ciò che nel genere è incluso, non era suscettibile di essere interpretato alla stregua di un libero, anche se negativo, evento storico. Il paradosso che, alla luce di questa necessaria conseguenza non avrebbe tuttavia tardato a manifestarsi, era che, ritradotto nei termini della prima questione, e pensato quindi in termini storici, la primazia del volgare illustre nel genere, importava, non solo che di questa natura fosse stata, ai suoi inizi, la lingua del sì, di cui Dante era costretto a dover sopportare l’imbarbarimento nei dialetti municipali, ma che a questa si dovesse tornare, come a un bene perduto, ripercorrendo in salita la strada che il processo della decadenza aveva segnata in discesa. Del che, per altro, non solo non si dava, nel testo, il minimo indizio, ma, alla luce del concetto che Dante aveva delineato chiamando in causa l’idea del genere e della sua necessaria struttura, che non si desse era inevitabile. Se, quindi, la storia della lingua fosse stata rigorosamente pensata in riferimento al concetto che qui Dante aveva messo in campo, si sarebbe dovuto dire, o piuttosto ripetere, che sempre, in ogni momento di quella, il volgare illustre occupava il suo posto all’estremo vertice del genere, e quel che lo seguiva lungo una scala che conduceva verso il basso, lontano dalla sua luce, anch’esso aveva il suo posto, essendo necessario che avesse quello, e non un altro. Che in questa oscillazione si riflettesse l’altra, che qui su fu notata, per la quale le istanze di rinnovamento, non solo linguistico, ma an-
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che politico, che erano presenti nella idea del volgare illustre, entravano in conflitto con la rappresentazione necessariamente statica di ciò che trovava posto nella struttura del genere, o nella realtà, se si preferisce, pensata alla luce di quel concetto, è evidente. E basti pensare ai luoghi, che già furono addotti, nei quali, in sostanza, l’assunto era che del volgare illustre avrebbe usufruito con pieno diritto chi ne fosse stato degno, e non altri che, se, senza esserlo, si fossero tuttavia cimentati nell’impresa di servirsene, non avrebbero evitato il rischio della goffaggine, come nell’esempio già addotto del bos epiphiatus e del balteatus sus (II i 9). L’idea secondo cui, appartenendo a chi ne era degno, e non ad altri, il volgare illustre conferiva ulteriore dignità, era come un balsamo con il quale, alla sua maniera, orgogliosamente, Dante placava il dolore che gli proveniva dalle ferite inferte dall’esilio e consolava sé stesso. «Quod autem honore sublimet, in promptu est. Nonne domestici sui reges, marchiones, comites et magnates quoslibet fama vincunt? Minime hoc probatione indiget. Quantum vero suos familiares gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus» (I xvii 5-6). Ma non si trattava soltanto di questa specifica consolazione. La linea che divideva i più dai meno degni era tracciata con estrema crudezza. Del che, per altro si è detto abbastanza, e ripetere il già detto non conviene. Si può perciò, al riguardo, lasciare la parola a Dante, e mettere fine a questa ricerca che, per quel che si sapeva e poteva, ha toccato il traguardo. «[…] nichil individuo convenit nisi per proprias dignitates, puta mercari, militari ac regere: quare si convenientia respiciunt dignitates, hoc est dignos, et quidam digni, quidam digniores, quidam dignissimi esse possunt, manifestum est quod bona dignis, meliora dignioribus, optima dignissimis convenient. Et cum loquela non aliter sit necessarium instrumentum nostre conceptionis quam equus militis, et optimis militibus optimi conveniant equi, ut dictum est, optimis conceptionibus optima loquela conveniet. Sed optime conceptiones non possunt esse nisi ubi scientia et ingenium est: ergo optima loquela non convenit nisi illis in quibus ingenium et scientia est. Et sic non omnibus versificantibus optima loquela conveniet, cum plerique sine scientia et ingenio versificentur, et per consequens nec optimun vulgare. Quapropter, si non omnibus competit, non omnes ipsum debent uti, quia inconvenienter agere nullus debet» (II i 7-8).
Indice dei nomi
Abelardo, Pietro, 60 Ageno Brambilla, F., 14 Agostino, Aurelio, 60, 71, 92, 109, 110, 117, 122 Albano Leoni, F., 85 Alberto Magno, 67 Aman, E., 67 Antonelli, R., 32 Aquilecchia, G., 15 Aristotele, 7, 14, 27, 28, 51, 54, 77, 84, 118, 131, 142, 175, 182, 183, 191, 194, 195, 196 Arnaldi, G., 173 Asor Rosa, A., 85 Auroux, S., 116 Averroè, 28 Bacon, R., 47 Baranski, Z., 71, 108 Barbi, M., 23, 34 Baron, H., 170 Bartolo da Sassoferrato, 176 Beltrami, P.G., 53 Benvenuto (de’ Rambaldi) da Imola, 120, 139 Biondo Flavio, 36 Birocchi, I., 176 Boezio di Dacia, 50, 85 Boezio, Severino, 42 Bonaventura da Bagnoregio, 67 Borsa, P., 176 Borst, A., 115, 127 Bosco, U., 140 Brewer, J.S., 47
Bridges, J.H., 42 Brilli, E., 115 Brugnoli, G., 12 Bruni, F., 47, 150 Budillon, J., 115 Buonaiuti, E., 61 Busnelli, G., 23 Cappellano, Andrea, 178 Caroti, S., 69 Carpi, U., 172 Casagrande, G., 145 Cathala, M.R., 28 Cecchini, E., 12 Chiari, A., 49 Cicerone, Marco Tullio, 50 Cino da Pistoia, 44, 55, 57, 195 Cirillo di Alessandria, 67 Comparetti, D., 38 Contini, G., 22, 29, 30, 47, 161 Corrado III, imperatore, 173 Corrado, M., 24, 78, 85, 121, 127, 139, 141, 143 Cortese, E., 176 Corti, M., 23, 44, 50, 84, 85, 86, 87, 88, 126, 129, 177 Cosmo, U., 36 Courdaveaux, V., 42 Curtius, E.R., 32, 50, 72 Dal Pra, M., 60 Damon, P., 146 D’Ancona, A., 47, 49 Davidsohn, R., 35
200
La lingua, la Bibbia, la storia
Della Scala, Alboino, 36 Della Scala, Bartolomeo, 38 Della Scala, Cangrande, 26 De Lubac, H., 71 De Robertis, D., 161, 175 Di Capua, F., 19, 20 Dionisotti, C., 150 Donato, Elio, 48 D’Ovidio, F., 128, 137, 145, 146, 149 Dragonetti, R., 19, 20, 24, 75, 88 Dronke, P., 134 Eco, U., 85, 89, 125 Egidio Romano, 46, 48 Ercole, F., 158 Fabrutius (Fabruzzo di Tommasino), 33 Falzone, P., 172, 176, 177 Federico II, imperatore, 33, 35, 37, 165, 195 Fenzi, E., 9, 12, 32, 36, 43, 47, 49, 57, 68, 72, 95, 97, 130, 160, 161 Figurelli, F., 145 Filastro, 122 Filone, 108 Formisano, L., 12, 36 Francesco da Buti, 139, 161 Frugoni, A., 12 Getto, G., 49 Ghisilerius (Ghisileri, Guido), 33 Giannini, C., 139 Gilli, P., 176 Giovanni di Salisbury, 41, 117 Giunta, C., 12 Gorni, G., 12, 161 Grayson, C., 51 Guerri, D., 145 Guinizzelli, Guido, 33, 157, 159 Hobbes, Th., 91 Honestius (Onesto di Bonacasa degli Onesti), 33 Imbach, R., 12, 50, 69, 115, 187 Inglese, G., 12, 47-49, 57, 58, 90 Innocenzo III, papa, 73 Kaluza, Z., 69
Landino, Cristoforo, 120, 139 Lanza, A., 145 Latini, Brunetto, 21, 22, 47, 48, 95, 170 Liverani, M., 115 Lo Piparo, F., 85 Luscombe, D.E., 60 Maierù, A., 69, 85 Manfredi, re di Sicilia, 33, 36, 37, 165, 195 Mangenot, E., 67 Marigo, A., 12, 19, 20, 43, 44, 47, 54, 83 Mazzoni, F., 12, 21 Mengaldo, P.V., 12, 13, 23, 29, 32, 43, 47, 48, 49, 57, 69, 72, 73, 95, 97, 111, 146 Mellone, A., 142 Montuori, F., 12, 36 Moos von, P., 115 Nardi, B., 12, 29, 41, 70, 95, 115, 121, 122, 142, 145 Oakeshott, M., 91 Pagani, I., 20, 58, 75 Pagliaro, A., 149 Palmieri, U., 76, 141, 142, 143 Paolo di Tarso, 110 Paratore, E., 48, 50 Pasquali, G., 38 Pasquini, E., 140 Passerin d’Entrèves, A., 158 Peire d’Alvernia, 57 Pérault, Guillaume, 177 Petrocchi, G., 34-36 Petronio, U., 176 Pézard, A., 21, 22 Pietro Lombardo, 67 Pietrobono, L., 140 Prisciano, 48 Procaccioli, P., 120 Quaglio, A., 140 Rabano Mauro, 95, 97 Rajna, P., 23, 47, 57 Reggio, G., 140
Indice dei nomi
201
Rizzo, S., 24, 49 Robiglio, A., 172 Rosier-Catach, I., 9, 12, 13, 42, 50, 53, 57, 69, 72, 115, 187 Rossi, P., 91 Rossi, V., 139 Rotta, P., 95 Rubinstein, N., 170
Tommaso d’Aquino, 28, 41, 43, 60, 61, 67, 68, 72, 92, 93, 104, 109, 112, 141, 142, 169, 182 Torri, P., 53 Trissino, Giangiorgio, 49
Santagata, M., 35, 36 Sapegno, N., 139, 145, 170 Sasso, G., 38, 115, 123, 145, 151 Schiaffini, A., 47 Sebastio, L., 62, 63 Spiazzi, R.M., 28 Squillacioti, P., 53 Stabile, G., 69, 129, 130, 152 Sturlese, L., 69
Vacant, A., 67 Vandelli, G., 23 Vasoli, C., 14, 15, 172, 175, 196 Vatteroni, S., 53 Vinay, G., 13, 16, 20, 44, 96, 130, 156, 158, 159 Virgilio Marone, Publio, 18, 38, 49, 134 Viscardi, A., 50
Tavoni, M., 9, 12, 32, 47, 48, 57, 68, 69, 71, 95, 97, 122, 149, 158, 161 Terracini, B.N., 49, 144
Witte, K., 176
Ugo di San Vittore, 67
Zanni, R., 85, 188
Finito di stampare nel mese di marzo 2015 dalla Grafica Editrice Romana S.r.l. Roma