La guerra dentro
 9788845276941

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BOMPIANI

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507 TASCABILI BOMPIANI

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FRANCESCA BORRI LA GUERRA DENTRO

I GRANDI TASCABILI BOMPIANI

ISBN 978-88-452-7694-1

© 2014 Bompiani/RCS CRI. na Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano

I edizione Tascabili Bompiani maggio 2014

“Shut your eyes and see.” James Joyce

A Stanley Greene

18°

Autunno

Settembre 2012

Il luogo più pericoloso, qui, è l'ospedale. È la prima cosa che ti dicono quando arrivi: se hai voglia di stare tranquilla, stai sul fronte. Lasciate ogni regola, voi che entrate. Ogni logica. Aleppo è esplosioni, in questi giorni, nient'altro. Esplode, tutto esplode e crolla. E quando ti avventuri fuori in cerca di acqua, quando hai fame sete, solo cecchini ovunque. Gli aerei di Assad bombardano a volo radente, improvvisi, ti precipitano contro in vortici di vento, polvere e carne. Ma sono così imprecisi che non bombardano mai le linee del fronte: rischierebbero di colpire non i ribelli, ma i lealisti. L’unità dell'Esercito Libero in cui siamo embedded è composta da tredici uomini, di cui due in ciabatte— e gli altri non sempre hanno ai piedi due scarpe uguali. Erano diciassette, in tre sono morti per recuperare il cadavere di un quarto che è ancora lì, in fondo alla strada. Hanno per base una scuola, e ognuno un kalashnikov e un coltello. Un bambino, nell’ufficio del preside, lucida i gioielli

di famiglia: due lanciarazzi e un fucile di precisione. A parte il capitano, un ufficiale che ha lasciato le truppe di Assad sei mesi fa, non sono che ragazzini di diciassette, diciotto anni. Alaa studia filosofia,

e tra un turno e l’altro legge Habermas. I disertori si riconoscono subito: si sono rubati dalla caserma la maglietta mimetica. Gli altri hanno quella di Messi o Che Guevara. La primavera siriana è diventata la guerra di Siria. E l’evoluzione si percepisce immediata nella differenza tra la frontiera con il Libano e la frontiera con la Turchia. Beirut è rifugio dei più noti attivisti: quelli da cui tutto è iniziato, nel marzo 2011, corteo dopo corteo, assemblea dopo assemblea — quelli a cui l'Esercito Libero, in un certo senso, ha confiscato la rivoluzione. Aiutavano noi giornalisti non solo ad attraversare clandestini il confine, ma anche, soprattutto, a capire le loro ragioni e rivendicazioni. Adesso la frontiera con il Libano è inaccessibile, invece, presidiata metro a metro dagli uomini di Hezbollah. Schierati con il regime. Si è aperta in compenso la frontiera con la Turchia: i ribelli controllano l’ufficio passaporti, all’ingresso uno zerbino con il ritratto di Assad. Ma questa nuova Siria di cui si sono autoproclamati portavoce, onestamente, è un’incognita. Difficile discutere di politica, qui. Inutile domandare di negoziati dell'ONU, di Islam. Di sunniti e sciiti. L'essenziale, con i ribelli, è consegnare 300 dollari a testa: i giornalisti sono l’affare del momento — è

questa la tariffa per il giro turistico della Aleppo

sotto attacco. Perché poi le linee del fronte, in teoria, sono

quattro. Ma la verità è che il fronte, qui, è uno solo: è il cielo. E chi non ha che proiettili da opporre ai caccia, non ha scampo. Senza un intervento occi-

dentale, come in Libia, l'Esercito Libero non può vincere. E quindi, per ora, tenta di non perdere. Si

difendono le posizioni, ad Aleppo: nient’altro. Non si avanza.

Oggi la media, all'ospedale al-Shifa, è stata un morto ogni tre minuti e trentasette secondi. Per rassicurare la popolazione, i ribelli girano in queste jeep bardate di doshka: è una mitragliatrice placebo, contro un aereo ha l’effetto della cerbottana. Per rassicurare il mondo, convincerlo di meritare armi e sostegno, i ribelli trascinano noialtri al fronte: e cioè davanti a invisibili cecchini lealisti. In due, tre, si acquattano al primo incrocio, a cento metri

di distanza. E poi attraversano di corsa, in perpendicolare, sventagliando alla cieca colpi di kalashnikov. Su e giù. Tra i flash dei fotografi. Quando attraversano di nuovo, quando tornano dal nostro lato, non chiedono se hanno centrato il nemico. Chiedono: Come è venuta? Ogni tanto, controfigure di se stessi, dimentica-

no di sbloccare la sicura. Mentre tutto, intorno, esplode e crolla. Soldati

che giocano, bambini che muoiono. Dovrebbero esserci i civili e i combattenti, ad Aleppo, dovreb-

be esserci un fronte, un qui e un lì, invece non

esiste regola. Non esiste riparo. Ambulanze farcite di munizioni, moschee convertite in postazioni militari. I profughi nelle caserme, negli estintori l’esplosivo, al fronte laureandi che lavorano alla tesi, in università gli studenti bombardati a lezione. Le mine nei giardini, i cadaveri tra le altalene. Ribelli con le divise dei lealisti. Lealisti senza divise. Questa base in cui siamo accampati sembra più un liceo occupato che l’unità di un esercito: è una lite continua. A chi tocca cucinare, come conquistare

il prossimo isolato. Che tattica usare. Hai rubato i miei stivali, no sei tu che hai rubato le mie coperte. E non è che il microcosmo di quello che accade tra i vari gruppi armati, e più in generale, tra i vari gruppi dell’opposizione. Perché l’Esercito Libero dovrebbe infine consegnare il potere al Consiglio Nazionale, questa specie di governo in esilio che ha sede a Istanbul: ma non si ha un’unica leadership e un’unica strategia, qui. Né tra i civili né tra i militari. Ed è questa, più di ogni arsenale, la vera forza di Assad. Tra le aule, tra i kalashnikov e le granate, si

aggirano bambini. Ahmed ha sei anni. Oggi ti insegno a essere un siriano vero, gli dice il capitano.

Un siriano libero. Gli affida la sua Beretta e gli fa sparare un colpo in aria, in questi vicoli stretti di palazzi a otto piani con i vetri in frantumi. Ne va in frantumi un altro. Una donna, i capelli in una treccia, la gonna alle caviglie, corre giù spaventata, 10

il proiettile si è conficcato nella sua cucina. Mi prende penna e taccuino. Ma che Siria verrà mai fuori, scrive, da uomini così? E si rintana nel sottoscala.

Una mano mi tira a terra, e il proiettile, mezzo

metro più su, va a scorticare il muro. Mi chiedevo dove fossero finiti, gli abitanti di Aleppo. Sono oltre 2.000.000, dice l’ultimo censimento, 2.132.000, dice, e per due terzi sembra siano ancora qui, tra queste strade di macerie e cecchini. Ma le case, sfiancate dall’artiglieria, sono vuote, da

quelle spalancate a metà dalle bombe dondolano nel vento una lampada, una tenda, fossili di vite norma-

li. Persino un gatto, qui, raggomitolato su una sedia, sembra dormire: e invece è morto. Sono in un cunicolo buio quando mi rialzo, davanti a me, ripida, una rampa di scale. Eccoli infine, gli abitanti di Aleppo. Decine di ombre mi strusciano vicino curiose: sono la prima anima in

cui si imbattono, da due mesi a questa parte. Un accendino mi fa luce. Diciannove bambini, stretti

gli uni agli altri, mi fissano in silenzio, allineati contro una parete. Immobili. Mi guardano con terrore, poi capisco: è l’elmetto, credono sia un soldato di Assad. Sono allineati alla parete come prigionieri in attesa dell’esecuzione. La casa di Umm Bashar, ventotto anni, è stata

centrata subito, a inizio agosto. Andrebbe chiamadoi

ta Umm Mahmoud, in realtà, perché Bashar, il

primogenito, è rimasto sotto una lastra di cemento, la manica della felpa che si stagliava rossa nella polvere. Ma bisognava solo correre via: ibombardamenti, in genere, sono a due a due — il secondo è per isoccorritori. Sono in trentasette, qui dentro. Oltre ai bambini, tutti dagli uno ai nove anni, cin-

que uomini e tredici donne. Hanno con sé solo i vestiti che avevano addosso al momento della fuga. Non possono permettersi una casa in affitto, né

hanno i 50 dollari per un’auto fino alla frontiera con la Turchia. E quindi galleggiano qui, nell’angolo un fornellino da campeggio e niente acqua, né gas né elettricità. Ogni tanto Omar, ventinove anni, tassista, si avventura fuori in cerca di cibo. Un

cecchino lo aspetta dall’altro lato della strada. Shadi, ventisette anni, meccanico, il fratello di Omar, è stato ucciso così. “E non dimenticherò mai

quando mi sono ritrovato a frugare tra le verdure. Lo zucchero, il riso, quello che aveva comprato.

Lavare via il sangue dalle patate, e cucinarle comunque.” Fuori o dentro, in realtà, non fa più differenza, ad Aleppo. L'intera città è martellata da aerei, elicotteri e carrarmati, metro a metro: bombe e cannonate, un’esplosione ogni pochi secondi. E a migliaia si sono rifugiati sottoterra. “Il pane viene distribuito al cimitero. Solo tra i morti, qui, sei sicuro di non essere un obiettivo”, dice Omar. Ma la verità è che non esiste riparo: da quando Assad 12

ha sguinzagliato l’aviazione, sopravvivere è solo questione di fortuna. “Gli edifici alti, in periferia, proteggono dai mortai. Stai al primo, al secondo piano: nel caso, crollano solo i piani di sopra. Ma se è un aereo, a colpirti, rimani sotto tonnellate di macerie. In una casa bassa, invece”, di quelle tipiche di Aleppo, bellissime, con il cortile al centro e i limoni, i gelsomini rampicanti, “in una casa bassa le macerie, se l’aereo non ti arriva proprio addosso, sono meno. Magari ti tirano fuori. Ma sei a rischio

anche con i mortai.” La verità è che l’unica cosa sicura, ad Aleppo, è andarsene. Solo'che è di nuovo il nostro turno, adesso. Una mitragliatrice antiaerea, improvvisa, tossisce tre

colpi. Ed è un istante — il tempo di guardarci, l’un altro — un caccia di Assad inizia a ringhiarci in testa, la sua sagoma nera, dietro la grata di uno sfiatatoio, compare, scompare riappare, plana, torna in quota, diciannove bambini strillano disperati. Sono i minuti più feroci. Perché la mente è ancora lucida: e mentre il pilota sceglie il suo obiettivo, mentre forse tocca a te, non ti rimane che stringerti a te stesso, le spalle contro un muro umido, e fissare

il pavimento insieme a tutto quello che hai lasciato a metà, nella tua vita, tutto quello che hai rinviato, mentre ti guardi, intorno, adesso che forse tocca a

te. Se anche avessi qualcosa da dire, qui in mezzo a degli sconosciuti, e qualsiasi cosa tu possa dire, qualsiasi nome, qualsiasi desiderio, qualsiasi rim13

pianto, a chi dirli ormai? Chiunque ti manchi,

chiunque tu abbia amato, in mezzo a questi occhi neri, la fame, il fango, questa pelle di brace, questi volti esausti, in mezzo a queste vite che non sono la tua, questo aereo che torna. Ti chiedono “Tutto

bene?”, la verità è che neppure conoscono il tuo nome, mentre ovunque intorno, intanto, bombar-

dano. Aisha, nove anni, mi allunga un biglietto da visita. Un indirizzo: è del negozio qui sopra. Quello da cui si accede alle scale. Tariq al-Bab, mi dice, siamo a Tariq al-Bab. “Scrivi di venirci a prendere. Non scrivere cose inutili.” Poi vede il mio telefono e dice: “hai il numero dell'ONU?” Eppure, per quanto martoriata da Assad, la Aleppo del sottosuolo diffida dell'Esercito Libero. Hanno cominciato una guerra che non erano pronti a combattere, mi dice Afraa, sedici anni — una frase, quattro esplosioni. Sono lì con le infradito e dieci proiettili a testa, “Saremo travolti, hanno offerto ad Assad esattamente quello che cercava: un pretesto per la violenza.” Quando si domanda dei ribelli, l'opinione è quasi unanime, ad Aleppo: non si capisce che strategia abbiano, chi siano davvero. E soprattutto quale Siria vogliano. Afraa ha partecipato a decine di manifestazioni. “Ma ora è tutto finito. Ora è il momento delle armi. Non abbiamo più spazio, più voce.” Diciassette parole e cinque esplosioni. “Occupano le nostre case, sparano dalle nostre finestre. E non interessa loro 14

se non abbiamo altro luogo in cui andare. Se siamo in trappola. In due mesi, qui non si è visto nessuno.” Una ONG, la Croce Rossa, un medico senza frontiere: nessuno. Piove un altro mortaio. Rumore di

vetri in frantumi. Urla. “E poi sono tutti così religiosi, tutti così conservatori. É tutti sunniti”, mi

dice Maryam. Che è la migliore amica di Afraa, ed è tutta in nero anche lei. Ma è cristiana. Indica il suo velo e mi dice: “è il mio elmetto.” Continuo a guardare l’ora. Ad aspettare l’alba. Ma sono l’unica, è un’abitudine della vecchia vita. Perché la sola differenza tra la notte e il giorno, qui, è che senza luce i kalashnikov sono inutili. La notte non rimane che il metronomo delle esplosioni, i ribelli non rispondono. La notte, ad Aleppo, la guerra si fa assassinio. Non si combatte, si muore e basta. A caso. Bombardano, qui, bombardano, bombardano e nient'altro.

Fortunatamente, Abdel Qader al-Saleh è un uomo molto impegnato, e per i giornalisti non ha che dieci minuti. Perché è il comandante dei ribelli nell’area di Aleppo, e per dimostrare che non ha paura né di Assad né di niente, fissa le interviste sulla linea del fronte, maglietta a maniche corte e in mano un bicchiere di tè. “Direi che la situazione è positiva”, esordisce. Una cannonata si schianta poco lontano. “Altri due mesi”, assicura, “e Alep15

po sarà libera.” Un’altra cannonata. Un edificio già mezzo crollato, in fondo alla strada, finisce di crol-

lare. “O forse tre.” La polvere ci ricopre tutti. “Ancora un biscotto?” — e ti versa altro tè. In realtà sono venti giorni, ormai, che i suoi

uomini hanno lanciato l'offensiva definitiva per la conquista di Aleppo, dopo l’offensiva definitiva di agosto, e l’unica differenza è che le linee del fronte, ora, sono le aree del fronte: si combatte ovunque. La città, o più esattamente le sue macerie, sono una

ragnatela di cecchini martellata dall’artiglieria. Fino alla sera prima i ribelli sostenevano di non avere più munizioni. Sembra quindi abbiano deciso di rischiare tutto, un momento prima di cedere: e attaccare. Confidando, gira voce, in una diserzione

di massa nelle fila del regime, concordata con alcuni ufficiali di Assad — cioè comprata da alcuni ufficiali di Assad in cambio di migliaia di dollari. Ma dopo venti giorni, nessuno avanza, qui. Non è che

un nuovo punto di equilibrio, a un livello più alto di violenza. “Ma non scrivere che nessuno progredisce”, mi ammonisce un medico allo Shifa, in mano calcinacci insanguinati. “Progrediscono i morti.” Mi offro incauta di gettare io i calcinacci. Sono pezzi di cranio. Questo frammento di fronte è un incrocio della città vecchia popolato da tre interpreti, sette fotografi, due giornalisti, un gatto, e quattro ribelli. Dietro l’angolo, un cecchino lealista. I quattro siedono in quello che un tempo deve essere stato un 16

piccolo negozio, impegnati da un’ora in un’animata discussione sulla strategia per la presa di Damasco. Una donna anziana, intanto, un cesto di ver-

dure, si affaccia guardinga, abita dall’altra parte della strada, ma nessuno se la fila. E dopo un po’, rassegnata, attraversa da sola — mormorando in preghiera versetti del Corano. Eppure, lo raccomanda anche Wikipedia, si chiama “fuoco di copertura”. “Sono due dollari a proiettile”, mi fulmina Fahdi, “sei matta?”, e torna a pianificare la presa di Damasco. I rinforzi, nel pomeriggio, saltano giù da una jeep sotto forma di Ayman Haj Jaeed, diciotto anni. Oggi è il suo secondo giorno al fronte. “Scrivi”, mi dice, “Assad è agli sgoccioli.” E attraversa di corsa la strada con il suo kalashnikov, sparando il più possibile. “Scrivi scrivi”, mi urla di là dalla strada, “Altri due mesi e Aleppo sarà libera.” Solo che ha sparato a sinistra. E il cecchino era alla sua destra. Hanno tutti storie simili, i ribelli. Sono operai, ingegneri, camionisti, studenti, commercianti: han-

no visto la Tunisia, in televisione, hanno visto l’Egitto, e hanno cominciato a protestare anche loro.

Corteo dopo corteo. Pacifici. Con la polizia intanto che dai manganelli passava ai proiettili, dai proiettili ai carrarmati: perché hanno tutti storie simili, i ribelli — hanno cominciato tutti così, pacifici, fino a quando un padre o un fratello non è stato ucciso, e si sono uniti all’Esercito Libero. Non definirla guerra civile, ti ripetono. Non siamo siriani contro 17

siriani, ma siriani contro Assad. E poi ti chiedono perché il mondo non interviene. Dall’estero, principalmente dal Qatar e dall’ Arabia Saudita, arrivano dollari, ma non armi. Il veto è degli Stati Uniti: non si fidano di questi ribelli che mancano di coordinamento e direzione, sia militare che politica. Che mancano di tutto. Il loro addetto stampa, qui, Mohammed Noor, non sa neppure dirmi approssimativamente quanti siano — e d’altra parte il generale Riad al-Assad, il capo dell’Esercito Libero, non sta in Siria, sta in Turchia. Comunica con i coman-

danti via Skype. Soprattutto, l'Esercito Libero stenta a guadagnarsi sostegno internazionale perché si stima che tra gli 800 e i 2000 uomini, il 5 per cento del totale, secondo diversi istituti di ricerca, sia riconducibile al fondamentalismo islamico. In effetti la battaglia, qui, è iniziata con due autobomba rivendicate da un gruppo di al-Qaeda. Era il 10 febbraio. E a mirare esplicita a uno stato islamico è oggi una delle brigate più attive di Aleppo, la Ahrar al-Sham, i Liberi del Levante. Che è anche una delle brigate più riconoscibili: i suoi combattenti hanno una fascia nera, sulla fronte, “non c’è altro Dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta”. Nelle strade sotto il loro controllo, non è raro imbattersi in lealisti trascinati per i capelli, fradici di sangue, addosso, inequivoche, orme di pestaggi e torture. “Mala Siria sarà una democrazia”, ti garantiscono. Fino a quando non piove un mortaio all’improvvi18

so, “rispetteremo tutti”, un secondo, un terzo: mi infilo nella prima porta che trovo. Solo che sono tutti uomini, dentro: e sotto l’elmetto non ho il velo.

Sarà una Siria di liberi e uguali, ti ripetono, ma pet ora mi lasciano fuori. Sono libici, iracheni, ceceni, afghani. Eppure non sono gli unici stranieri, nell’Esercito Libero. Perché è così, in realtà, che gli abitanti di Aleppo considerano i ribelli: come stranieri. Aleppo è la capitale economica, la Milano della Siria. Una città ricca, di borghesia mista, cristiana, musulmana, senza troppe distinzioni, sunnita e sciita — una

città concentrata sugli affari, tutta industriali e imprenditori. Il suo contributo è stato marginale nelle manifestazioni dei mesi scorsi, la guerra è arrivata dall’esterno — quando la Turchia ha aperto la frontiera e Aleppo, per i ribelli, è stata la prima lungo la strada. L’Esercito Libero qui non è come più a sud, come a Homs, a Hama: il ragazzo, il

padre che difende il proprio quartiere, l’isolato di casa. I ribelli sono siriani delle campagne, qui, sono i siriani poveri, che accusano gli abitanti di Aleppo di indifferenza, cinismo, opportunismo. E da questi sono accusati di avere intanto divelto la città senza avere mezza idea per il futuro se non la parola sbari’a, in un paese in cui però gli arabi sunniti non sono che il 63 per cento della popolazione. Una settimana fa, tre di loro sono finiti allo Shifa

feriti non da proiettili, ma da bottiglie di vetro. Colpiti non da cecchini, ma da cittadini inferociti. 19

Non hanno contraerea, i ribelli: è un bombar-

damento ininterrotto. Ma Riad al-Assad, da alJazeera, invita a stare tranquilli: le previsioni dicono che nei prossimi giorni ci sarà nebbia e pioggia.

A parte una non meglio identificata Brigata delle Vedove, che sembra si aggiri vicino a Idlib, l’unica di cui si ha notizie certe è Thwaiba Kanafani. Architetto, quarantun anni e due figli, è sbarcata ad Aleppo da Toronto, Canada, trucco impeccabile e un filo di tacco: pronta ad arruolarsi nell’Esercito Libero. Nessuno sospetta di una donna, ha spiegato in decine di interviste: e quindi mi occupo di spionaggio — “sono qui in incognito”, ha postato su Twitter. Con tanto di fotografia. I delegati del nuovo Consiglio Nazionale, a cui i ribelli dovrebbero un giorno consegnare il potere strappato ad Assad, sono tutti uomini. Ma non è

vero che le donne non hanno un ruolo, mi rispondono all’ufficio stampa dell’Esercito Libero. Hanno anche compiti di responsabilità, mi dice Mohammed Noor. Lei, per esempio — e mi indica una signora di mezza età con secchio e straccio in mano — “è a capo dell’unità di pulizia”. Mona e Ghofran sono sorelle, hanno ventitré e

diciannove anni. Siamo al fronte, le mitragliatrici che tempestano il nido di un cecchino di là dalla strada, sacchi di sabbia, fango di sangue, una casa

che brucia: un mortaio è appena esploso, e questi 20

due rigab neri che forano la polvere come un’allucinazione. “Hai visto?”, mi dice soddisfatto Wahed, l'interprete, “Non è vero che le donne sono recluse in casa.” In realtà, è la prima volta che Mona e Ghofran si avventurano fuori, in due mesi: hanno finito i soldi, e hanno un padre invalido. Intanto, compaiono tre sedie e tre bicchieri di tè— in mezzo

alla strada e ai proiettili: “e poi scrivete che non rispettiamo le donne”, mi dice Wahed. E mi allunga un biscotto. Non hanno idea di cosa stia accadendo ad Aleppo, Mona e Ghofran, non hanno elettricità. Non hanno televisione né telefono. Vogliono attraversare la città e raggiungere uno zio a cui chiedere un prestito. “Noi non abbiamo niente, mi spiace, neppure una lira”, si scusa Wahed — che ha in tasca i miei 300 dollari di tariffa giornaliera. Più i 300 di Giulio, e i 300 di Javier, i 300 di Zac. “Non hai bisogno di intervistarmi, per capire”, mi dice Mona. “Assad è un criminale, nessuno

ha dubbi. Però guardati intorno.” Intorno, in effetti, non sono che macerie. Tranci di case, mozziconi di muri. Tra i rovi di lamiere, un cane: tra i denti, un osso di tibia. “Abbiamo partecipato a decine

e decine di manifestazioni. Ma adesso, con la guerra, le donne sono tagliate fuori dalla rivoluzione. Certo che abbiamo un ruolo: quello dei morti.” Osman al-Haj Osman, chirurgo dello Shifa, il

solo ospedale ancora attivo, è deluso. “Dottoresse e infermiere sono sparite. Hanno paura. E noi siamo costretti ai tripli turni.” Perché i medici, è vero, 21

sono cinque: tutti uomini. Ma dei diciannove infermieri, nove sono donne. “Quando è iniziata la rivoluzione, mi ero appena laureata”, racconta

Zahra, ventiquattro anni. “Questo è il mio tirocinio.” Tra i mille mortai che hanno colpito lo Shifa, è stata ferita tre volte. “Mi ripeto che sono qui per la libertà del mio popolo. Ma so bene che se anche Assad dovesse cadere, per me la libertà sarà ancora tutta da conquistare. Ho evitato a mio padre un’amputazione, lui che non voleva mi iscrivessi all'università. Avevo le maniche arrotolate per non infettargli il braccio: io ricucivo, tutto che vibrava per le esplosioni, un cadavere accanto, e lui che protestava: ‘Copriti!”” Perché l’aria, ad Aleppo, è densa di cordite e testosterone. “Gli uomini sostengono che non abbiamo coraggio, che siamo troppo emotive”, aggiunge Bahia, ventiquattro anni anche lei, anche lei ferita tre volte. Anche lei ancora qui. “Ma non sono sicura che la freddezza, in certi casi, sia segno

di razionalità. Stare al fronte in ciabatte e ripetere che si è protetti da Dio: a me non sembra tanto normale. Il solo modo per non avere paura, qui, è non pensare. Che è però anche il modo migliore perché questa guerra non finisca più. E quindi il vero coraggio, ad Aleppo, è non abituarsi: avere paura, pensare.” A Raqga, d’altra parte, una città a est verso l'Iraq, sono state le donne a offrirsi come scudi umani. Contro i ribelli, però: hanno chiesto loro di risparmiare la città. Ma il generale Riad al22

Assad è stato inflessibile: è necessario liberarvi, ha detto. All’ingresso, intanto, un’auto scarica un corpo. Arrivano così, i passanti falciati dai cecchini. Trovati per strada, e riversati qui davanti da un’auto che riparte di corsa — lo Shifa è sotto il tiro costante dell’artiglieria. A volte, il corpo viene centrato dai mortai prima ancora di essere trascinato dentro. “E si disintegra, letteralmente”, dice Bahia. “Polvere. Polvere tra la polvere. L'intera Aleppo, ormai, è un monumento al civile ignoto.” Dopo venti mesi e 35.000 vittime, 450.000 profughi, la mappa della Siria è sconfortante. L’Esercito Libero controlla l’area di Idlib, a nord, e poco altro. Frammenti di Aleppo, frammenti della strada verso Damasco. Frammenti comunque infesta-

ti di cecchini: e ora dopo ora, piallati via dai bombardamenti di Assad. “E sulle rovine della Siria,

pianteranno la bandiera del fondamentalismo”, accusa Bahia, che e è credente e praticante, ha il velo. “Ma il mio Islam non è il loro Islam”, precisa. “Ma quale fondamentalismo? Siamo tutti medici, qui, tutti uguali: uomini e donne”, la interrompe Osman. Il padre era un leader dei Fratelli Musulmani. L’intera famiglia fu costretta all’esilio: Osman è cresciuto in Arabia Saudita, è entrato in Siria per la prima volta tre mesi fa. E ogni sera torna a dormire al confine con la Turchia, ad Azaz. La prima città a passare sotto l’autorità dei ribelli, e più nello specifico del suo imam: si è autoproclamato 23

guida spirituale e politica. “Sta a voi partecipare, sta a voi guadagnarvi spazio”, dice Osman. “Siete libere di fare tutto. Anche di operare.” “Anche di governare?” ribatte Bahia. “Anche di governare.” “Anche di combattere?” “Anche di combattere, certo” — e tutti, intorno, che ridono.

Rumore di freni. Un’auto getta sull’asfalto un sacco nero e riparte ssommando. Uno sguardo bianco galleggia sul 5945, le pupille rovesciate. E il cadavere di Mona.

Deve essersi saputo che c’è una guerra da queste parti, deve essere arrivato uno di quegli SMS di Save the Children, Un euro per la Siria, perché siamo rientrati in Turchia, e a Kilis, al confine, era tutto

prenotato. Alberghi, ristoranti: tutti giornalisti famosi. A me è toccata Claire Alison, della televisione

neozelandese. Perché funziona così: ti compaiono a colazione, una mattina, e oltre ai vari autisti e interpreti e pettinatori sparsi, assoldano uno di noi freelance come guida: ti pagano i 300 dollari e tutto, e tu in più impari un po’ il mestiere. Perché Claire è la principale inviata di guerra della Nuova Zelanda, ha trent'anni di esperienza, e per me, che ho trent’anni e basta, è una miniera. Solo che è un’esperta di Africa, soprattutto di Ruanda, è un’esperta di Ruanda e di Balcani, e in Medio Oriente è venuta solo una volta in vacanza. E ha compra-

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to un tappeto, un tappeto e una teiera, e quindi come prima domanda mi ha chiesto se potevo riassumerle chi si oppone a chi, qui, e per quali ragioni. Devo averla involontariamente guardata con uno sguardo un po’ perplesso, o forse meravigliato, o forse allibito, perché si è affrettata a dirmi che naturalmente non è che non sa dove stiamo, stiamo in mezzo a una guetra civile, siriani contro siriani

— poi ha detto: sunniti contro sciiti, e ha aggiunto: “Gli sciiti sono quelli di Alì, vero? Questa cosa bisogna spiegarla, che sono i seguaci di Alì, i telespettatori altrimenti hanno le idee confuse.” E ha segnato sul taccuino: controllare chi è Alì. Anche il suo cameraman, Mark, è qui per imparare il mestiere. Ha ventisette anni, e questo è il suo primo viaggio fuori dalla Nuova Zelanda. Si è comprato anche la Lonely Planet. Si è presentato in giubbotto antiproiettile e bermuda, e così è sbarcato ad Aleppo: in bermuda. Però sono una miniera, i veterani, e quindi sto zitta e ascolto, e cerco di imparare. Perché non sembra ma qui è tutto un dubbio. Per esempio: l’antiproiettile. La scritta Press. Perché i giornalisti, è vero, non dovrebbero essere un obiettivo. L’opposto. Ma da quando ad agosto hanno ucciso la giapponese, Mika Yamamoto, e mirando proprio a lei, non un proiettile vagante, insomma - forse quella scritta Press è meglio toglierla. Solo che molti di noi sono a favore, invece, perché se non hai la scritta e ti sparano, se sembravi un civile, 23

l’assicurazione ha una clausola per cui non ti paga — immagino sia il comma 22. E quindi abbiamo discusso due ore e sedici minuti, oggi, ripercorso tutti i conflitti degli ultimi vent’anni, in particolare teoria e prassi di hutu e tutsi, e deciso infine di consultare un combattente a caso. Il quale si è raccomandato perentorio: “Certo che sì. Usatela. Sempre.” Poi ha chiesto: “Cosa significa Press?” La seconda cosa che ho imparato è che non devo dire “regime” quando parlo del regime di Assad, perché altrimenti non sono neutrale e non rispetto le opinioni di tutti. Devo dire: “il governo di Damasco” — anche se dal governo di Damasco, onestamente, ci grandina addosso di tutto, e io non è che non voglia rispettare le opinioni degli altri, però vorrei rispettare anche il diritto internazionale, a volte. E temo proprio che quello di Damasco, per il diritto internazionale, sia un regime. La terza cosa che ho imparato è che bisogna girare per morti, per trovare storie interessanti: morti e feriti, e possibilmente che siano donne e bambini, perché altrimenti i telespettatori non si identificano e cambiano canale. Onestamente non mi è chiaro perché un neozelandese dovrebbe identificarsi con una siriana con sette figli, un solo braccio e il marito di al-Qaeda, però insomma: ha trent'anni di esperienza. E quindi giriamo tutto il giorno per morti e feriti, e il mio ruolo, nello specifico, consiste nel domandare a Khaled, che è l’interprete, e a cui traduco dall’inglese all’inglese, 26

cioè dall'inglese madrelingua a un inglese che si capisca, cose tipo: “Ho bisogno di un’orfana mutilata”, o “Mi manca il bambino centrato dal cecchi-

no a scuola”. “Il bambino soldato, magari alcolizzato, c’era in Sierra Leone, c’era in Ciad”, ha protestato ieri Claire, minacciando a Khaled di

licenziarlo, “non è possibile che qui non ci sia.” E quindi, in cerca di quella che chiamiamo “la vita vera”, e che in redazione, al montaggio, chiamano “un po’ di colore”, passiamo ore e ore allo Shifa, perché il regime, cioè, il governo di Damasco, è sempre lì che tenta tenace di abbatterlo. Granate, bombe, cannonate. Qualsiasi cosa. Arrivano morti ogni minuto, allo Shifa. Tutti laceri, tutti polvere e sangue, stracci di carne, i parenti, intorno, che

urlano disperati, svengono, prendono a testate i muri, i cadaveri per terra, e in mezzo ai cadaveri uno che ancora respira, mani, braccia amputate che qualcuno ha portato qui perché fossero riattaccate, e però ora nessuno ricorda più a quale ferito corrispondano. E in mezzo, sempre, questi ragazzini con il camice bianco: perché tutti devono aiutare come possono, ad Aleppo, anche i bambini. Mohamed Asaf ha dodici anni, Yussef Mohammed ha undici anni. Sono di turno dalle 8 alle 20. Disinfettano, fasciano, suturano. Consolano, estraggono schegge, iniettano morfina. Entri alle cinque del mattino, a volte, e loro sono ancora lì, tra questi corpi decapitati, che lavano il pavimento nella luce dell’alba, quando anche l’ultimo morto muore. 27

Come quando cammini per le città deserte, e i filippini lavano il pavimento dei negozi ancora chiusi, la mattina presto, e l’asfalto, fuori, è tutto

acqua e detersivo: lavano con quella stessa spazzola, Mohamed e Yussef, quello stesso silenzio nel

giorno sfinito che già ricomincia, l’asfalto tutto acqua e sangue. E onestamente un po’ mi chiedo quanto senso abbia. La sera, quando sono lì davanti al telegiornale della Nuova Zelanda, e non vedo che cadaveri, cadaveri e dolore, madri sfatte, e forse è la Siria

forse l'Iraq, forse è un’altra guerra, non saprei: vedo solo cadaveri. E non so. Penso a Cassese, che era

mio professore di diritto internazionale. Era anche presidente del tribunale dell’Aja, il tribunale per la ex Jugoslavia, e raccontava sempre di quella volta che i serbi sequestrarono sei camion delle Nazioni Unite, e la BBC spiegò che la distribuzione degli aiuti umanitari, in Bosnia, era impedita dal tracollo dell’ordine pubblico — perché il nostro servizio, oggi, si intitolava così: “il tracollo di Aleppo”. Cassese diceva: “tu hai mai visto un camion bloccato da un tracollo?”, i verbi, diceva, i verbi hanno un soggetto, le azioni hanno una responsabilità. In realtà poi è andato in onda un altro servizio, stasera, perché al montaggio si sono accorti del sibilo di due proiettili: un cecchino. E quindi la notizia, stasera, eravamo noi — l’attentato alla televisione

neozelandese — anche se il sibilo non l'abbiamo neppure sentito. Anche se intanto qui i morti, oggi, 28

sono stati 137. A un certo punto bombardavano, siamo corsi in un sottoscala, non c’era un centimetro

libero. Un uomo ha visto la telecamera, mi ha detto:

“La tua vita è più importante della mia, e mi ha ceduto il posto.” È uscito. Tra i mortai, le cannonate, gli elicotteri, tutto... mi ha ceduto il posto e mi

ha detto “Così il mondo saprà.”

Per i suoi compagni è semplicemente Qannaas, il Cecchino. Un tiratore scelto che ha deciso di disertare, a febbraio, e si è unito all’Esercito Libero. Nessuno conosce il suo vero nome. Viene da una famiglia di militari, da una città vicino Damasco, suo zio è ancora un generale al servizio di Assad. Fratelli, cugini: sono tutti ufficiali di alto grado. E tutti, tranne i genitori, credono sia morto. Qannaas preferisce così — anche perché un po’ è morto davvero. Ha i capelli corti, neri, la barba, ventun anni, è un ragazzo magro, lo sguardo insieme intenso e inespressivo mentre aspetta in ferreo silenzio, immo-

bile, per ore, il dito sul grilletto, gli occhi nel mirino. Abbatte calmo chiunque gli passi davanti. Una stoccata, concisa, e neppure un sussulto, poi. Solo un colpo di tosse. Gli occhi di nuovo nel mirino. Si innervosisce solo quando parla della guerra. Perché la guerra, dice, sta cambiando. “Molti non sono qui per rovesciare Assad, ma per costruirsi fama, noto-

rietà. Una reputazione. Per avere potere quando la 29

guerra sarà finita.” E non è l’unico a pensarla così, ad Aleppo. In tanti, qui, ti dicono che la guerra continuerà, caduto Assad: ti dicono che caduto Assad inizieranno gli scontri tra laici e islamisti, oppure tra sunniti e sciiti, musulmani e cristiani.

Oppure, più semplicemente, tra i vari gruppi armati: solo per il controllo del territorio. Solo per il potere. “Ma la Siria non diventerà come la Somalia”, dice Qannaas. “Avremo una Somalia in ogni pro-

vincia.” La guerra ormai è irriconoscibile, dice. Poi respira, lungo. “Perché noi, ormai, siamo irricono-

scibili.” Perché tutto è cominciato con manifestazioni pacifiche, qui. Marzo 2011, decine, centinaia, poi

migliaia di siriani si sono riversati in strada chiedendo riforme politiche ed economiche. Libertà e dignità. Non volevano neppure rovesciare Assad, all’inizio. Volevano solo riforme. Ma Assad ha reagito con violenza. Subito. Ha detto che era un complotto americano, Che le manifestazioni non erano vere,

ha detto che erano registrate in studio. Che era un set di al Jazeera in Qatar. E ha reagito con violenza crescente. Nel luglio 2011, sulle orme della Libia, è comparso l'Esercito Libero: per proporsi come punto di riferimento per una transizione alla democrazia e convincere gli occidentali a intervenire. Solo che qualcosa non ha funzionato — fondamentalmente perché Gheddafi non aveva più nessuno, non aveva più alleati, solo soci in affari per il suo petrolio, solo clienti, mentre Assad ha l’Iran e la Russia. 30

E, appunto, non ha il petrolio. A questi ribelli non è andata come speravano, nessuno è intervenuto, e

sono qui a fabbricarsi catapulte con i segnali stradali, adesso, e l’esplosivo con il nitrato d’ammonio del concime dei fiori e la carta stagnola, come da Manuale delle Giovani Marmotte. Ogni giorno che passa, sempre più dimenticati, sempre più soli, cercano risorse come possono, e soprattutto dove possono, e cioè all’estero, stati o privati cittadini, ovviamente promettendo ai propri mecenati lealtà nella Siria di domani, “ma non si comprano che la nostra temporanea riconoscenza”, avverte Qannaas. Ogni giorno che passa, la Siria si aggroviglia, perché aumentano non solo le armi, ma anche gli obiettivi per cui vengono usate.

Anche perché l’avanzata dei ribelli si è fermata, intanto, e non si misura più in città, adesso, e nep-

pure in quartieri, ma isolati, e la guerra si sta ibernando in una lotta di posizione: una guerra di Qannaas, con questi ragazzi a cinquanta metri di distanza, uno di fronte l’altro, che si insultano tutto il tempo, a volte si sparano a volte chiacchierano, perché scoprono che si conoscono, e sai com'è il Medio Oriente, alla fine sono tutti parenti e cugini qui, e tu stai lì per il tuo pezzo sui sunniti e gli sciiti e loro invece si azzuffano su Real Madrid e Barcellona. Qannaas esamina i muri, studia il foro migliore per appostarsi, e tra un foro e l’altro versa del cibo a un pesce rimasto nella sua boccia di vetro. 31

Oggi è di turno nella città vecchia, in cui i ribelli combattono da queste case eleganti, foderate di libri, le tende ricamate. I lampadari, i divani in

velluto, a loro che vengono dalla campagna, li mettono sempre un po’ in soggezione, tra questi mobili tutti intarsiati, le piastrelle dipinte a mano, temono di rompere qualcosa, si muovono timidi, incerti, qui che tutto, intorno, esplode e crolla. I

proprietari di questo appartamento devono essere fuggiti di corsa. Hanno lasciato tutto qui. Il pesce, il dentifricio sullo spazzolino. La cena ancora mezza nei piatti. Nell’altra stanza uno squarcio di artiglieria e un cadavere, violaceo, mentre altri due cecchini impacchettano con cura tutte le ceramiche, l’argenteria, un quadro, e un terzo, di guardia, sta scalzo alla porta per non rovinare il tappeto. Dei trentaquattro che ha ucciso fino a oggi, Qannaas dice solo che erano shabdia, che in arabo significa fantasmi, e sono le milizie in borghese di Assad. Hanno tormentato i siriani per anni. Ma ora shabia è la parola più frequente, ad Aleppo: l’impressione è che anche l'amante di tua moglie sia diventato uno saba, il capoufficio che ti logorava, il cliente che non ti ha saldato un debito. O quelli che hai ucciso e non ti è chiaro perché. Come Mohammed, il più caro amico di Qannaas. “Sua madre per me è come mia madre. Eravamo in classe insieme. Siamo cresciuti insieme.” E insieme si sono arruolati per la leva. Mohammed era 52

l’unico a sapere che Qannaas in realtà non era morto. “Gli dicevo di disertare, e lui mi rispondeva ‘Non ancora, è troppo presto.” Gli dicevo che l’avrei aiutato. Che l’avrei nascosto. Ma lui diceva ‘No, non ancora.” Temeva che alla sua famiglia capitasse quello che è capitato alla mia.” E cioè interrogatori, minacce, l'emarginazione, i vicini che non ti salutano più. “I miei hanno evitato cose peggiori,” dice Qannaas, “solo perché sono tutti ufficiali di Assad — e perché tutti pensano sia morto: morto del tutto.” Mohammed era di servizio al checkpoint Shatt, e Qannaas lo aveva avvisato: quel checkpoint era il loro prossimo obiettivo. “Ma non mi ha ascoltato. Eravamo in tre. Abbiamo ucciso un colonnello, un soldato semplice e Mohammed. Non so quale dei tre ho ucciso”, dice, “so solo che avevamo dei nemici davanti. E che mi hanno ordinato di sparare.” Respira, lungo. Quello del cecchino, in Siria, è il ruolo più richiesto. E meglio pagato. “Puoi comprarti una casa, alla fine”, dice, “se ci saranno ancora case.” È il ruolo più pagato perché è il ruolo più difficile. “No, non perché devi essere preciso”, dice, “Perché vedi la tua vittima.”

Il primo colpo è esploso inosservato, e così il secondo, sovrastati dalle urla di un ragazzo, una gamba stracciata via e un medico che la rimbocca33

va così, senza anestesia, per bisturi un coltello da cucina. Ma il terzo è piombato dall’altro lato del

marciapiede, affondando tre cadaveri in attesa di riconoscimento. Il quarto ha demolito un’ala del palazzo di fronte, il quinto un’ala del palazzo a fianco: e abbiamo capito che lo Shifa era di nuovo sotto attacco. Folate di calcinacci, e schegge e vetri, la polvere che sale come un’alta marea, densa, e allaga l’aria,

e questi tuoni sempre più forti, sempre più vicini — è una morsa che ti si serra progressiva intorno,

l'artiglieria. Perché il mortaio è un’arma rudimentale, non consente di calcolare la distanza. Si sceglie solo la direzione. Qualcuno poi, vicino all’obiettivo,

via radio segnala “Più a est, più a ovest”, qualcuno che è qui, in questo momento, e sta guardando te. Ma ad Aleppo, un attacco di artiglieria è anche un turbinio di proiettili. Sparati in aria, sparati a terra. Sparati ovunque. E completamente inutili: il mortaio è a chilometri di distanza. Ma servono a convincerci di essere protetti dall'Esercito Libero. E così, oltre che schivare i mortai, bisogna schivare anche i ribelli, qui, a cui hanno insegnato a sparare ma non hanno spiegato quando. Alaaeddin, il driver, mi strattona e scaraventa in auto, addosso a tre altri giornalisti, e riparte sgommando — in panico, perché ha più senso ripararsi in uno scantinato, dietro un muro, spalmarsi sul pavimento, qualsiasi cosa, in questo momento.

Qualsiasi cosa tranne che stare qui per strada men34

tre la strada, improvvisamente, scompare dietro

una saracinesca di polvere. E in mezzo quest'auto, cieca, che corre ubriaca a zig zag: un’esplosione a destra, un’esplosione a sinistra, e noi, dentro, rin-

tanati sotto l’elmetto come al cinema, a guardare la nostra morte sul parabrezza mentre tutto, intorno, crolla e brucia. Non sono rimasti che i cecchini. Un’auto, davanti a noi, sbanda. Poi un’altra, un

uomo rotola fuori e viene centrato in testa. Una prima volta, una seconda, lì sull’asfalto con i proiettili che continuano a traforarlo, a ogni proiettile il corpo ha come uno scatto, uno strappo un fremito, e Alaaeddin sempre più veloce, sempre più disorientato. Fino a quando compare un elicottero e gira a sinistra, poi a destra, nelle vie più strette, l’elicottero che si abbassa, sempre più vicino, seleziona l’obiettivo mentre Alaaeddin urta un’auto parcheggiata, va ancora a destra, poi dritto, e urta un’altra auto, a sinistra, ancora a sinistra, a destra, a sinistra, inchioda: siamo di nuovo allo Shifa. Urla “Cazzo” e riparte sgommando. Siamo arrivati alla frontiera con la Turchia, sessanta chilometri. Così, senza una parola, sugli anfibi il sangue dello Shifa. Alaaeddin si è fermato poco prima dell’ufficio passaporti, “Compro dell’acqua.” Siamo scesi anche noi, tra stormi di bambini in cerca di una moneta, un biscotto. Uno sparo, lontano. Abbiamo sganciato gli elmetti. Un altro. La frontiera è un accampamento, ormai — un terzo, un quarto — i rifugiati, DI

in Turchia, sono già 140.000, il confine è chiuso - un altro, ancora, una grandinata di kalashnikov —

e abbiamo capito di essere sotto attacco. Mi strattona via di nuovo, Alaaeddin, di nuovo mi scaraventa in auto: torniamo indietro, torniamo ad Azaz, che è la prima città che i ribelli hanno

conquistato, è in loro completo controllo. Siamo al sicuro, qui. Tra gli avanzi di una moschea, i gusci carbonizzati dei carrarmati del regime, nel giardino del municipio le foto della battaglia. La guerra, qui, è già un museo.

Di Aleppo, intanto, non abbiamo notizie. Né di Narciso, che è ancora allo Shifa. Le uniche notizie

arrivano insieme ai feriti diretti in Turchia. La città vecchia, dicono, è in fiamme. Giulio è lì. Javier anche. Si sente l’eco delle esplosioni. Aleppo è in fondo all'orizzonte, alla nostra destra, l’arancio carico del tramonto graffiato di nero e di rosso — sembra lava. Deve essere cominciata un’altra offensiva definitiva. Alaaeddin si ferma vicino alla farmacia, “Com-

pro dell’acqua.” Scendiamo anche noi, gli elmetti sul cofano, un uomo ci regala del pane — era una settimana che avevamo solo tè, ad Aleppo -— ci regala del pane e della arance. Guardiamo il tramonto, alla nostra destra: anche Alessio è lì sotto. Quando un aereo, improvviso, lacera l’aria, e

come sempre non c’è niente in cui rifugiarsi, uno scantinato, un muro, niente. Niente. Niente. La

bomba centra una casa a trecento metri da noi. “Se 36

non altro per oggi è finita”, dice Wahed mentre corre a soccorrere i feriti. Un’altra esplosione, un’altra bomba, sulla stessa casa.

Raccoglievano fondi per i cani randagi. Per costruire un asilo in Congo, un pozzo in Etiopia, ristrutturare una chiesa a Haiti. Per salvare dall’estinzione il lupo e l'orso, e anche il tonno dalla pinna blu, finanziare la ricerca sul cancro, la ricerca sulle staminali, cento vaccini contro la poliomielite per cento bambini dell’ Afghanistan. Piantare un albero in Nigeria. Me l’avevano detto: è viva, Berlino. Viva e di sinistra. Ho lasciato gli spiccioli a quelli dei cani. La signora mi ha chiesto: “Da dove vieni?” “Dalla Siria.” “Oh, deve essere bella la Siria. Però è un po’ problematica, adesso, vero?” “In effetti sì, signora: 60.000 morti, 400.000 rifugiati, sì, la Siria è un po’ problematica.” “Oh, non immaginavo. Chissà quanti cani randagi.” Poi ha detto al tipo accanto, al tipo dell’albero in Nigeria: “Sai che lei viene dalla Siria?” “Oh”, ha detto quello dell’albero, “adoro il couscous. Hai mai provato quello con il pesce? Ma non sei siriana?” “No, sono una giornalista.” “E stai in Siria?” “Ad Aleppo.” 57

“Figo”. Ha detto proprio così, “Figo”. “Ogni tanto si muore.” “Meglio un giorno da leoni che cento da pecora”, ha detto. Una settimana fa, mentre aspettavo il comandante nella scuola che fa da base dei ribelli, mentre riordinavo gli appunti, c'erano questi due bambini che si rincorrevano da un’aula all’altra. A un certo punto, mi giro: uno, avrà avuto sei anni, mi

stava davanti con una calibro 22 puntata addosso. La sicura aperta. Giocava. I miei cento giorni da pecora. Sono a Berlino per un premio. Il premio Foto UNICEF dell’ Anno. Che ovviamente per il 2012 va a una foto sulla Siria, perché cosa c’è di più dramma-

tico della Siria, quest'anno? Anche se l’UNICEF, e le Nazioni Unite, ad Aleppo non si sono mai viste, onestamente, e l’unica cosa che hanno organizzato, per questa guerra, è la missione speciale di Kofi Annan. Un tentativo di negoziato avviato a febbraio e archiviato a luglio: l’unica traccia che rimane, a cercare notizie su internet, è quanto è costato, 7.923.200 dollari. Di cui 3.022.300 in stipendi.

Oltre a una missione di pace, comunque, le Nazioni Unite hanno organizzato anche questo premio, e il premio è andato ad Alessio. Alessio Romenzi. Uno che, come tutta la nostra generazione, riparava precario frigoriferi in una vita di provincia da canzone degli 883: poi ha lasciato l’Italia, e in due anni si è ritrovato sulle copertine di Tize. 38

E biondo, Alessio, frugale e schivo, poche parole. Uno che, se ha qualcosa da dire, ti invia una foto

con l'iPhone, “ma poi di notte”, racconta Andrea Bernardi, che fa il cameraman invece, e sta in Siria da mesi, da mesi al fronte anche lui, “lo senti nel

sonno che parla di sangue e battaglie”. Ed è un altro così, Andrea: parla di tutto, ma mai di guerra. “Perché tanto mi ripetono che sono matto, che non ha senso”, dice. “Che se ho bisogno di adrenalina, posso piuttosto lanciarmi con il paracadute. Ed è inutile spiegare che non solo qualcuno deve essere testimone di tutto questo, ma che io non sono un avventuriero, non sfido la morte, al contrario: in Siria, in Iraq, in Libia, quando tutto forse tra un minuto è finito, niente è più potente della vita.” E insomma, sono qui un po’ perché mi sono presa un’infezione, ad Aleppo — ed è un mese ormai che ho la febbre, e nessuno sa che febbre sia — un po’ perché queste foto sono state le foto con cui il mondo si è accorto della Siria. E anche io. Era febbraio, e Alessio, clandestino, si era infilato a Homs attraverso i tubi dell’acqua, mentre la città era sotto assedio, e ha scattato queste foto che a guardarle tutte insieme, una dopo l’altra, capisci perfettamente cosa è la Siria, oggi. E non solo la Siria, capisci cosa sia la libertà, e la dignità, il coraggio. La ragione per cui mi hanno così colpito, però, non è questa: la ragione per cui poi ho comprato un biglietto per Beirut, e ho deciso di raccontare la Siria, la ragione vera, in realtà, è che Alessio è uno che è stato opeDI

raio tutta la vita, mentre io sono stata lì anni a stu-

diare per una laurea, poi un master, poi un’altra laurea, e però non ho mai capito la Siria come davanti a quelle foto lì. Al contrario. Tutto quello che ho studiato si è rivelato completamente infondato. Completamente inutile. A partire dal Kosovo, da cui ho iniziato, e che doveva essere la guerra umanitaria, la guerra giusta, la guerra di sinistra. Ed è cominciata

come la guerra per difendere gli albanesi dai serbi, e quando sono arrivata, invece, il problema era difendere i serbi dagli albanesi. Un po’ come la missione di pace in Libano, che mi è stata insegnata in trenta corsi diversi come la missione di pace per eccellenza, quella perfetta, quella che se diventassi segretario delle Nazioni Unite, un giorno, dovresti fare proprio così, ti dicono: così perfetta che sono trent'anni, infatti, ed è ancora lì. E il Libano anche, sempre lì sull’orlo del collasso. Fondamentalmente io vorrei essere capace di scrivere, di vivere, come quelle foto, con quell’im-

mediatezza, quella naturalezza, quella profondità. Una volta chiesero a Philip Roth quale fosse il libro più importante che avesse letto. Lui rispose Se questo è un uomo di Primo Levi, perché dopo averlo letto, disse, nessuno può più dire di non essere

stato ad Auschwitz. Non di non avere saputo di Auschwitz, proprio di non esserci stato. La forza di quel libro è la forza di certe foto, che ti prendono e ti portano lì. Così sono venuta a Berlino e adesso sono in 40

questa cerimonia strana, in mezzo a questo rinfresco di vini che costano quanto venti passaggi in auto fino al confine con la Turchia, e fa un po’ effetto, onestamente. Perché all’ingresso c’è la foto

che ha vinto il premio, è il ritratto di una bambina, a dimensione naturale: una bambina vestita come una bambola di porcellana, tutta ricami, la gonna a pieghe, un fiore tra i capelli. Io ero lì, quando è stata scattata, perché è stata scattata allo Shifa. La bambina tiene il padre per mano, ha uno sguardo più che di paura di sconcerto, come interrogativo, rivolto a tutti noi che siamo qui davanti. Uno sguardo come a dire “non ho capito perché”. E la foto è bellissima, è ovvio, però fa uno strano effetto.

Non solo per quello che c’era intorno, e che adesso è fuori dall’inquadratura, dimenticato — perché i bambini non sono spaventati, ad Aleppo, sono squarciati, e però le foto vere non finiscono mai sui giornali, per quella storia della sensibilità, di non offendere la sensibilità, e non le proponi neppure, le tieni per te, le foto vere, insieme ai tuoi

fantasmi, insieme alle parole che dici solo di notte. Però non è soltanto per questo. Fa uno strano

effetto perché quando è il momento delle foto di rito, quelle per i comunicati stampa, il momento delle foto con la foto, e sono tutti qui — con i calici, le scarpe di vernice, le cravatte, tutti così eleganti e sorridenti, e hanno questo ritratto, davanti, a

dimensione naturale, questa bambina — nessuno li avvisa: guardate che è morta. Perché il 22 novembre 41

lo Shifa è stato spazzato via, e sono morti tutti. I medici, le infermiere, tutti. I pazienti, Osman, Zahra Bahia, tutti, e la bambina, anche della bambina non

si hanno più notizie, perché era la figlia del medico, la bambina, con il suo fiore tra i capelli. Sono morti tutti, scagliati, sparpagliati ovunque, e sono tutti coperti di vermi, adesso, tutti corrosi, marci, tutti

ancora lì sotto. Perché è così Aleppo, fuori dall’inquadratura, dove non interessa a nessuno, con queste bambole tra le macerie, questi corpi di pezza tra i vermi, un cane che ogni tanto scova un osso. Mi si è avvicinato un americano. Funzionario di

qualcosa. “È una tragedia, è proprio una tragedia”, e ha fissato la foto. “Una tragedia complessa da affrontare, tanti aspetti, quest’odio ancestrale, e l'Islam, una tragedia. Purtroppo è un momento di crisi, come possiamo intervenire con efficacia? Non abbiamo più risorse, le guerre aumentano, le risorse diminuiscono. In alcuni uffici non abbiamo più neppure la carta per le stampanti. È proprio una tragedia.” E mi ha versato del vino. Ha studiato il bicchiere in controluce. Un Cabernet. “Ha un rosso inconfondibile”, ha detto. “Sì”, ho detto, “Inconfondibile.” Weil alla neve davanti allo Shifa.

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Inverno

Gennaio 2013

Ogni mattina, una famiglia carica tutto su un furgoncino e torna a casa. Quella che ho davanti, nove bambini, tre donne due uomini, più due fratelli che partecipavano a una manifestazione contro Assad, a ottobre, e di cui non è rimasta che una sciarpa, tra le macerie, torna ad Al-Bab, vicino Aleppo. Saranno bombardati tra sei ore. Ma qualsiasi cosa è meglio di Atmeh. Anche la guerra. A un metro dalla Turchia, il bucato steso ad asciugare sul filo spinato che marca il confine, oltre 13.000 sfollati vagano stravolti e smagriti tra queste tende che spesso neppure sono tende, ma semplici teli di plastica, tranci di lamiere, vecchi sacchi di farina cuciti insieme, una maglietta sdrucita a suturare un buco e per terra, ormai fradici, tappeti rancidi, la pioggia che martella le pareti e cola addosso. Niente elettricità, niente gas, niente acqua, solo un feroce vento di neve. E come latrine, una decina di fori nel terreno nascosti alla vista da pile di mattoni, la doccia è una madre, una sorella che 43

ti allunga una brocca tra liquami che arrivano alle caviglie. Non hanno che quello che avevano addosso, sono corsi via sotto il tiro dei mortai, i bambini si trascinano nel fango dentro scarpe da adulti, una felpa e poco altro, lo sguardo scavato. E neppure hanno legna, gli ulivi dei campi qui intorno sono presidiati dai proprietari: si bruciano le fronde, le foglie, e le bottiglie vuote di minerale che un camioncino, all’alba, scarica insieme a pane raffermo. A volte un po’ di riso. Delle patate. Non c’è altro. Ora che Aleppo è incagliata in una battaglia in cui nessuno avanza, i giornalisti passano rapidi da Atmeh. Il resto del paese è inaccessibile, costellato di checkpoint del regime, e quella dei profughi è per molti l’ultima storia prima di un aereo per il Mali. Poche righe distratte, poche righe perché si deve — perché i bambini fanno notizia. Eppure Atmeh racconta molto più dei suoi stenti. Del freddo e della fame. Perché non sono che ad Atmeh ormai, o in scantinati di città, trincee artigianali di campagna, non sono che profughi, ormai, o cadaveri, i soli siriani che incontri in Siria. Ad Atmeh si entra dalla Turchia, dall’ultima città della Turchia, Reyhanli, in cui ogni giorno una nuova associazione apre la sua sede: in Siria è il tempo delle ONG. Perché le Nazioni Unite, attraverso l’UNHCR, si occupano dei rifugiati oltre frontiera, quasi 650.000 tra Turchia, Libano, Giordania —100.000 in più solo nell'ultimo mese. Ma gli sfollati all’interno della Siria, nessuno ha idea di quan-

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ti e dove siano. Il regime non rilascia visti alle ONG straniere: e quindi, lo spazio è tutto per i siriani — tutto per l’improvvisazione. In tanti, all’estero da anni, si sono paracadutati qui a fondare la loro associazione. E cioè stamparsi un biglietto da visita e rastrellare donazioni. “Il problema”, spiega Adi Atassi, artista di strada a Cipro, qui responsabile dell'emergenza profughi per la Coalizione Nazionale Siriana, il coordinamento dell’opposizione ad Assad di stanza a Istanbul, “è che non esistono

ruoli definiti. Per qualsiasi necessità, non sai a chi rivolgerti. Ma è una disorganizzazione intenzionale, perché Atmeh è uno snodo storico di contrabbandieri: che così, in cambio di tangenti sugli aiuti, continuano a controllare il territorio per altri tipi di traffici. Tutti hanno interesse a che Atmeh sia terra di nessuno. Purtroppo, tutti tranne i profughi.” La Coalizione Nazionale è stata istituita due mesi fa, novembre 2012, ha sostituito il Consiglio Nazionale che era stato istituito per fare da sponda all’intervento occidentale, come in Libia, per avere un

governo alternativo pronto, alla caduta di Assad. Ma poi si è diviso proprio sull’opportunità di un intervento occidentale. E poi sull’opportunità di rovesciare Assad con le armi, e poi sull’opportunità stessa di rovesciare Assad, o magari invece cercare un compromesso con lui, e poi su mille altre cose. Sostanzialmente la comunità internazionale,

non potendo cambiare l’opposizione, ha pensato intanto di cambiarne il nome.

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Ogni tanto, un delegato fa capolino tra le tende, qui, e in un anticipo di campagna elettorale distribuisce ai profughi un po’ di biscotti come i turisti ai colombi in piazza san Marco. Quello che è apparso stamattina viene da Parigi ed è molto preoccupato per l’inverno, per la neve. Ha delle Clarks e sulla pelle scamosciata, dice, “il segno non va più via”. A Istanbul si pianifica già il dopo Assad. Ma al dopo Assad, per ora, bisogna arrivarci vivi, e ad Atmeh, invece, capita di finire carbonizzati per un

accendino dimenticato vicino una candela. Nove vittime. È che il freddo, qui, ti si cementa addosso di giorno in giorno: e bisogna avere visto almeno una volta la bellezza di Damasco, di Aleppo, l’eleganza di una casa siriana, i tappeti, i cortili di rose e piastrelle pastello, le lampade in ferro battuto, bisogna avere visto tutto quello di cui non rimane

che fotografie nei cellulari per capire Atmeh adesso. Per capire lo sgomento, il sovvertimento, la

disperazione di questa regressione all’età della pietra: scaldarsi intorno al fuoco, sfatti, avvolti come barboni in tutto quello che si è trovato, tuo figlio che trema sudicio con i capelli come stoppie, per pannolino un sacchetto della spazzatura, quest’espressione slavata e smunta, esausta, gli occhi di cenere, la fame e neppure un gabinetto, l’umiliazione di accucciarsi in un prato come bestie al pascolo. Ti parlano a mozziconi, a testa bassa, come Karim, mentre a mani nude tenta di trasformare in 46

stufa un bidoncino di vernice, e si taglia, il rivolo di sangue a stento si fa strada tra le dita di fango. Dice solo: “Mi vergogno.” Fino a quando al tramonto, semplicemente, ci rintaniamo nelle tende. Digiuni, al buio, senza una parola, in media una tenda ogni dieci persone, ma in questa siamo ventitré, allineati come all’obitorio, e dormiamo vestiti, raggomitolati in coperte avariate, vecchie paure e nuove allucinazioni. Passa un’auto, radente, ma improvviso è il sibilo di un caccia. È un istante — il tempo di guardarci l’un

altro, nient'altro — è il tempo che ti si ferma dentro, è l'attesa dell’esplosione. È la morte addosso. In sei mesi, qui non si è visto nessuno. Le Nazioni Unite, una ONG, la Croce Rossa: nessuno. Solo

i sauditi. Che sono i principali finanziatori dei ribelli, ma assistono anche i civili. Arrivano, e finanziano una famiglia. 300 dollari, comprano una sposa. “Non è speculazione, è generosità” sostiene Ismail, quarantun anni, che ha appena scelto Layla. In effetti, avviene tutto alla luce del sole — o meglio, all'ombra della tradizione. Layla ha quindici anni,

il padre è morto di leucemia, ed è qui con sua madre, otto tra fratelli e sorelle, i genitori della madre, zii e cugini vari, a decidere per lei è il padre della madre. E decide da solo. “Layla sa che io so cosa è meglio per lei”, dice brusco. Il consenso di Layla non è necessario. Né un suo parere. Mi guarda, mentre le sorelle intorno le scorciano l’abito, provano il trucco. Mi guarda e non dice niente. “Avrei 47

voluto studiasse”, mormora sua madre. “Ma con questi 300 dollari i suoi fratelli potranno sopravvivere.” “È vero che è una tradizione. Io avevo tredici anni, mio marito trentuno”, aggiunge, poi guarda a terra e sussurra: “Però scrivi: è una tradizione maschile.” Mahmud Najjar ha ventiquattro anni, una laurea in Lingua e Letteratura Inglese e tutta l’impronta della sua vecchia vita nella giacca, la camicia di sartoria, i jeans della Diesel. “La maggioranza dei siriani era contraria a reagire con la violenza alla violenza di Assad. Era inevitabile che avremmo solo raso al suolo il paese e perso la solidarietà internazionale. L’Esercito Libero ci ha trascinato in una guerra che non era capace di combattere. Ci ha ridotto a mendicanti”, dice, “e non avevamo ancora toccato il fondo.” Perché in realtà l'Esercito Libero, con i suoi ventenni in kalashnikov e infradito, le sue granate di stagnola e concime, sta ormai nelle retrovie rispetto a quelli che si sono imposti come i corpi speciali della rivoluzione: gli islamisti di Jabhat al-Nusra, il Fronte del Sostegno. Bollati come terroristi dagli Stati Uniti, sono prevalentemente stranieri, come l’iracheno a capo dell’unità a guardia dei profughi di Atmeh — che con una giornalista non parla: solo uomini, e possibilmente non occidentali. “Nelle aree liberate, il governo transitorio consiste in corti islamiche in cui qualcuno tira fuori un Corano e chiama giustizia la propria volontà”, dice Mahmud.

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Sono loro, sono gli jihadisti a entrare attraverso Atmeh: per questo alle ONG internazionali non è consentito lavorare qui. Non vogliono sguardi scomodi, intorno. E per questo i siriani sono stanchi, sempre più,

stanchi sia di Assad sia dei ribelli. La Coalizione Nazionale, in tutto questo, si azzuf-

fa sulla formazione del governo in esilio. I suoi sessantatré membri sono tutti dissidenti storici del regime, all’estero da una vita: per un’intervista, non ti lasciano neppure un numero di telefono turco, ma francese, americano, inglese. Non sono che stranieri, ormai. Anche loro. Come chi combatte questa guerra, e chi torna per trarne profitto. “Sono interessati alla Siria”, dice Mahmud, “non ai siriani.” L'unico che continua a occuparsi dei siriani, ostinato, è Bashar al-Assad. Ha bombardato anche Atmeh. E in 13.000, tra le urla, terrorizzati, si sono

accalcati al confine, contro il filo spinato. Uno addosso all’altro, e senza più vie di fuga, ormai, braccati fino all’ultimo centimetro — scalzi, affamati, il fango alle caviglie: braccati anche così, a quattro anni.

Ha il suono di un aereo che arriva — tutti si guardano, le parole si spengono in bocca — ma è solo un cancello che scorre e si chiude. Un’accetta che spacca la legna è una raffica di kalashnikov, il passo di un tacco femminile il colpo secco di un 49

cecchino. Sembriamo normali, ad Aleppo. E invece la paura è un cancro che ci sta consumando dentro. A sette mesi dall’inizio della battaglia, una sola cosa non è cambiata: i caccia di Assad sono così imprecisi che non bombardano mai le linee del fronte— rischierebbero di centrare non i ribelli, ma

i lealisti. E se prima l’obiettivo più gettonato era l’ospedale al-Shifa, ora che dei suoi muri non resta che polvere, dei suoi medici un fiore e una foto in cornice, il luogo più pericoloso sono le file per il pane. Non sono che donne e bambini, stamattina. In duecento, davanti una moschea, si contendono una manciata di scatole con un po’ di olio, riso, ceci, zucchero. Hanno dita, orecchie che mancano,

gli occhi maceri addosso, tra gli aculei di vento di questa morsa d’inverno, stravolti e smagriti, una maglia sdrucita e poco altro, la pelle riarsa, logora sugli spigoli delle scapole, degli zigomi, tesa come cera. Le madri ti vedono, straniera, e tentano di

lasciarti il figlio in braccio, ti dicono: “Bring him with you, save him.” Salvalo. Portalo via. E sono tutti bambini anche alla manifestazione di Bustan al-Qasr. Il fiume che seziona in due il quartiere, e che segna il confine tra la Aleppo dei ribelli e la Aleppo del regime, ha vomitato decine di cadaveri, pochi giorni fa, ognuno con un foro alla nuca, i polsi legati, sulla bocca del nastro adesivo: tutti civili, tornavano da questa parte, il più giovane aveva quattordici anni. La Aleppo di là dal 50

fiume, la Aleppo del regime è anche la Aleppo agiata, quella della borghesia, quella che ancora può comprare qualcosa. E allora a centinaia, da qui, attraversano ogni giorno. Si vendono il televisore, i vestiti. Qualsiasi cosa. E quando non hanno

più niente passano al pesce, il cui prezzo è alle stelle perché le sponde del fiume sono tempestate di cecchini. Se ti trovano, nella Aleppo di Assad, maschio, in età da armi, se ti trovano, sparisci. L'Esercito Libero si attende mezza città in corteo, oggi. E invece non sono che cento ragazzini. La

resistenza popolare non esiste più, ad Aleppo. La città è sfinita, non hanno neppure benzina, il furgoncino con il megafono e gli amplificatori è spinto a mano. La donna che ho davanti ha la pelle gialla, e un nome che ripete tre volte ma non capisco, perché non ha più i denti. È vedova, due figlie ventenni. Né capisco cosa abbia ai piedi, come dei pezzi di stoffa, solo che non è stoffa: è pelo. Vede che la osservo, mi dice che è pelo di gatto. Sono i randagi con cui cenano. Si sono rifugiate nella zona industriale di Sheik Najjar, in una casa in costruzione, quattro pilastri e un soffitto in cemento, le pareti che sono teli di iuta, e l’unica che lavora è una delle figlie, qui vicino, in una fabbrica di merendine ancora in funzione. Ma con il suo stipendio possono comprare una confezione di pane a testa a settimana, poco più di una fetta al giorno. Il resto Di

è acqua piovana e carne di gatto. “Ma una sera abbiamo sentito tre uomini litigare violentemente. Poi uno sparo.” Il cadavere è ancora lì, a trecento metri. Una macchia tra l’erba. “E i gatti adesso mangiano il suo corpo.” Ci guarda. Ci chiede: “Ma mangiare itopi, secondo voi è pericoloso, vero?” Neppure il ragazzo dell’Esercito Libero che è con me si è mai imbattuto in una cosa così. Si toglie la sciarpa, la giacca, il berretto, si fruga le tasche in cerca di monete, fa per togliersi anche le scarpe. Ma la signora, dura, gli dice: “Non voglio niente da te. È colpa vostra.” L’Esercito Libero è entrato ad Aleppo ad agosto confidando in una sollevazione generale. “Ma non solo si erano illusi di vincere una guerra con quattro proiettili. Credono di essere i padroni della città. Case, negozi: di qualsiasi cosa abbiano bisogno, entrano e prendono”, racconta Marwan, avvocato. “Sono uguali ai soldati di Assad.” Ha un taglio al sopracciglio, l’occhio pesto. Ieri, a un checkpoint, ha provato a difendere portafogli e telefono. “E

soprattutto, se non avessero usato come basi scuole e ospedali”, sostiene suo fratello Radwan, ingegnere convertito in professore di matematica, “Assad non avrebbe avuto il pretesto per bombardare tutto.” Insieme ad altri amici ha organizzato una scuola in un appartamento. Siamo a Mashad, a trecento metri dal fronte, in classe l’unica luce è

un tubo a led di quelli con cui si decora il balcone DZ

a Natale. Al fragore dei mortai, i bambini neppure si girano. Solo a una grandinata di proiettili cominciano a discutere: “È una doshka”, dice Ahmed, sei anni, “No è un kalashnikov a canna corta”, dice

Omar, sei anni anche lui, “Senti?, è più leggero di un draganov.” Alcuni si sono convertiti in professori di matematica, ad Aleppo, altri in medici. Molti feriti vengono soccorsi in appartamenti privati, senza elettricità, alla luce dei telefonini, degli accendini, per sala operatoria un tappeto, per bisturi un taglierino. Perché in sette mesi, qui non si è visto nessuno. Le Nazioni Unite, una ONG, la Croce Rossa: nes-

suno. Dopo una notte sotto lo zero, le finestre senza i vetri perché in caso di esplosione non ti si frantumino addosso, svegliarsi ad Aleppo è lavarsi con neve sciolta, all’alba, dividersi in nove due mele, e

sentirsi fortunati perché si è ancora vivi. L'unica attività, qui, è tentare di riscaldarsi. Fa freddo da svenire. Freddo che sei violaceo, la pelle grattugiata dal gelo. Hanno segato ogni albero, ogni cespuglio, i siriani, raccogliamo da terra qualsiasi cosa possa bruciare e regalarci un secondo di calore, vecchi copertoni, vecchie ciabatte. Anche se qui niente, in realtà, fa più paura del sole: il maltempo è la sola contraerea. Stiamo tutti con il naso per aria, ad Aleppo. Ovunque devi andare, qualsiasi impegno, qualsiasi luogo, tenti di valutare la probabilità che sia 53

bombardato. Tenti di ragionare. Pensi che magari sia meglio un quartiere che non è mai stato bombardato. Perché forse non è un obiettivo, allora, forse al regime non interessa. Poi pensi che no. Forse invece è più probabile che sia bombardato adesso, se non è mai stato bombardato prima, no? E allora scegli un quartiere già bombardato. Ma poi ti ricordi di quelli bombardati due, tre, cinque volte, e ti ritrovi questi calcoli, queste ipotesi che ti si avvitano addosso. Forse uno bombardato due volte è meglio di uno bombardato sei, o forse è meglio quello bombardato sei, perché quanti missili ancora possono colpirlo? Qual è la probabilità? Qualunque luogo pensi, la verità è che l’unica soluzione è non pensare, qui. Perché pensi che forse un mercato è sicuro, perché una strage al mercato ricorderebbe al mondo Sarajevo, sarebbe troppo, per Assad, ma forse l’opposto: forse colpire i mercati conviene, ad Assad, proprio perché è troppo. Perché indurrebbe Aleppo alla resa, ed è come con i gas, perché Obama, ad agosto, ha detto che i gas sono la linea rossa, ha detto che se Assad avesse usato i gas sarebbe intervenuto, e adesso allora non sai mai se sei al sicuro o forse il contrario, se qualcuno, invece, tra i ribelli, non userà i gas per costringere Obama a intervenire. Capisci che è tutto imprevedibile, qui, che non è possibile neppure essere prudenti, neppure minimizzare il rischio, perché una fila per il pane, qui, è a rischio quanto il fronte. Capisci che un’opzione equivale all’altra perché

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tutto, qui, è un obiettivo. Capisci che non ha senso niente, che forse tra un minuto sei vivo o forse no,

incenerito da un missile che neppure sentirai arrivare, e sei completamente solo, completamente vulnerabile, in questa città, in questa vita su cui il tuo raziocinio non ha la minima influenza, la mini-

ma presa: completamente alla deriva, ostaggio di cose che non comprendi, e forse tra un minuto è finita, così, per caso. Secoli di scienza, l’Illuminismo, le strategie, la logica, i libri, le analisi, Bacone e Galileo, e invece dove vai, adesso? Dopo l’uomo sulla luna, la fisica, la chimica, che strada scegli?

Qual è la più sicura? Dopo che ti hanno detto che tutto ha una spiegazione, una formula, una causa e un effetto, dopo che si può manipolare la natura, e il DNA, e Kant, e invece adesso tutto finisce così, per caso. Non c’è logica e non c’è appiglio, e mentre scrivo forse muoio, forse no. Incenerita da un

missile che neppure sentirò arrivare. Però adesso Aleppo, in teoria, ha anche un’amministrazione.

Il sindaco si chiama Jalal al-Khanji, ha sessantasette anni, è un ingegnere e presiede questo nuovo

Consiglio Rivoluzionario, eletto dai notabili della città. Il suo ufficio è in una banca, in periferia, e la sua priorità è una: il pane. Una confezione, otto fette, costava 15 lire, oggi ne costa 200, quasi tre dollari. Per i servizi essenziali, cioè i rifiuti, l’elet-

tricità, l’acqua, e il pane, appunto, Aleppo ha bisogno di circa 10.000.000 di dollari al mese. In tutto, DO

sono arrivati 1.300.000 di dollari, fondamentalmente donazioni private — solo spiccioli dalla Coalizione Nazionale, a cui Kuwait, Emirati Arabi e Arabia Saudita hanno appena staccato un assegno di 900.000.000 di dollari.

“La maggioranza delle risorse va a finanziare l’attività politica dell'opposizione. Ma cibo e medicine non sono solo aiuti umanitari, ad Aleppo: sono attività politica. Più importante di mille riunioni a Istanbul, mille conferenze”, dice il sindaco. “Perché

altrimenti alle famiglie, qui, non rimane che rivolgersi alle brigate islamiste. A loro il pane non manca mai.” L'ufficio di Jalal al-Khanji è completamente vuoto. Non una penna, non un foglio di carta. Un timbro. Un funzionario. Non fosse stato per Jabhat al-Nusra, in effetti, qui sarebbe già finita. E non è solo questione di pane. Gli uomini di al-Qaeda sono una minoranza, il 5 per cento dei combattenti secondo le stime: ma sono i più addestrati, i più equipaggiati, sono quelli che decidono. In poco tempo hanno conquistato quasi tutte le basi militari dei dintorni, quasi tutte le batterie di artiglieria: il regime bombarda essenzialmente con aerei e missili, ora. E ora il quartier generale dell’Esercito Libero, ad Aleppo, è il quartier generale di Jabhat al-Nusra. Di loro, però, non si sa molto. Con noi giorna-

listi non parlano. Anche se noi non parliamo d’altro, invece: con quei passamontagna neri, Jabhat al-Nusra è quanto di più scenografico potessimo 56

sperare. Alcuni hanno persino una sciabola — ovviamente sono i nostri preferiti. Ma la verità è che Aleppo mantiene le distanze, impegnata solo a sopravvivere. Gira voce che abbiano promesso all’Esercito Libero di ripartire alla caduta di Assad, una volta instaurata la giustizia. Che l’accordo sia questo. “Cosa intendano per giustizia, però, non è chiaro”, mi dice perplesso Salem, che ha appena riaperto il suo chiosco di frutta e verdura. “Meritano rispetto: senza di loro saremmo morti tutti. Ma la Siria è e deve rimanere un paese plurale e laico.” Ha una scheggia nel braccio, Salem. Una granata. “Mi avevano fermato perché avevo una bottiglia di liquore. È esplosa mentre mi ammonivano su quanto è pericoloso

l’alcool.” Sotto il quartier generale, hanno allestito un carcere. Ma nessuno sa niente dei detenuti. Chi siano, e quanti, perché siano lì, in base a quale criterio siano stati arrestati, se saranno processati.

Se saranno giustiziati. Chiedi e ti dicono solo: “Sono shabia.”

Arriva al mattino, il velo e un filo di mascara, e parcheggia davanti al portone come andasse in ufficio. Ma è l’unica cosa che è rimasta, della sua

vecchia vita: perché quello non è l’ingresso del liceo in cui insegna inglese, ma della sua postazione di cecchina. DI

Ha trentasei anni e da sei mesi un nuovo nome:

Guevara. I suoi due figli, Wael e Mira, sono morti in un bombardamento aereo — avevano dieci e sette anni — e lei si è arruolata nell’Esercito Libero. “Erano così terrorizzati dalla guerra. Il sangue, le esplosioni. E io cercavo di rassicurarli, ripetevo: ‘vi proteggerò.’ Mi guarda: “Sono qui per vendicarli.” L’unità in cui combatte, una trentina di uomini, si chiama Wa'id, La Promessa. Guevara ci accoglie energica: “Welcome!”, in-

fila la pistola nella borsetta e ci offre un caffè su un vecchio divano, tranquilla come fossimo nella cucina di casa sua. E invece siamo esattamente sulla linea del fronte, dietro un cumulo di mattoni e sacchi di sabbia. Duecento metri oltre, una saraci-

nesca di edifici bianchi: lì inizia la Aleppo di Assad, lì iniziano i suoi cecchini. La postazione di Guevara è dall’altro lato del marciapiede, al terzo piano. Ma è meno vicina di quanto sembri. Per schivare il fuoco nemico, ci guida tra i sotterranei, di palazzo in palazzo, tra squarci aperti a picconate nelle fondamenta. Poi, semplicemente, si siede dietro la finestra di un soggiorno, alle sue spalle l’argenteria ancora intatta e due piante ormai appassite, e aspetta che qualcuno incappi nel suo mirino. Non tradisce la minima emozione. Solo quando, dal corridoio,

intravede una coperta di Biancaneve, in quella che deve essere stata la stanza dei bambini, indugia un secondo. “So cosa vuoi chiedermi. Se non ci penso 58

mai, alla mia vita di prima. Ma sono due anni che assistete indifferenti alla carneficina di Assad. La domanda vera è un’altra. Voi che adesso mi giudicate, che alternativa mi avete lasciato?”

“Non è che ti ritrovi al fronte all'improvviso. Sono sempre stata un’attivista. Ma a un certo punto capisci che manifestare è inutile: è il tuo megafono contro i loro carrarmati. E se non vogliamo essere uccisi tutti, ognuno, qui, deve contribuire

come può. Quello di cecchina, secondo me per una donna è il ruolo migliore: perché è questione di concentrazione e precisione, non di forza. So di essere un’eccezione. Le mie amiche, al più, sono

infermiere volontarie. Ma non è sufficiente curare le nostre ferite. Dobbiamo impedire ad Assad di ferirci.” Non meraviglia, in realtà, che le donne ad Aleppo non siano in prima linea. Non è solo il tradizionalismo della società siriana — “mi conoscono e rispettano tutti, qui, ma so cosa dicono”, ammette Guevara, “che dovrebbe essere mio marito a difendermi.” Il punto è un altro: gli islamisti. Sempre più numerosi e sempre più radicali. Onestamente, non sembrano considerare le donne particolarmente utili. “E invece proprio per questo è importante esserci, oggi. Combattere. Per contare di più nella Siria di domani”, mi contesta Guevara. “All’inizio, i miei compagni erano diffidenti. Mi sono guadagnata la fiducia sul campo”, dice, “proiettile a

proiettile.” DI

“Tutti quelli che rappresentano un esempio hanno cominciato rappresentando un'eccezione.” Per lei, tutti i siriani che non si sono uniti

all’Esercito Libero sono dei traditori. Incluso il resto della sua famiglia, che abita a trecento metri di distanza: ma oltre quella fila di edifici bianchi. Padre, madre, e nove tra fratelli e sorelle. “Non

temi mai di colpirli?”, domando. Anche perché il criterio per distinguere i civili dai nemici non appare molto rigoroso: “sparo a quelli in divisa”, spiega Guevara, “e a quelli che mi sembrano sospetti.” Quelli che passano di sera, per esempio, o che passano più volte. “Non è che non ho dubbi. Ma se scegli di rimanere dall’altra parte, di rimanere a guardare, in fondo sostieni Assad. Il silenzio qui non ti fa spettatore: ti fa complice. Non è che non ho paura. Ma quando la notte mi sveglio di soprassalto e mi chiedo dove mai siamo finiti, penso solo a Mira e Wael — perché nono-

stante tutto, ricorderò questi giorni come i migliori della mia vita: come i giorni in cui ho conquistato la libertà.” Ha centrato venticinque volte quello che definisce “il bersaglio”. Sono morti in cinque. “E quando colpisco, sto lì. Perché dopo un po’, qualcuno viene e recupera il corpo. E io sparo, ancora: senza pensare a niente. Perché penso solo

che le promesse si mantengono.”

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Ad Antakya intanto, in Turchia, trenta chilometri dal confine, la città in cui siamo di base, è arrivata Eva. Una signora gentile, esile. Genovese. Una signora magra magra, con i capelli lunghi, chiari, lisci. Occhi grandi e spaventati: fuma una sigaretta dopo l’altra, trema che la tazza di tè devi riempirla a metà, altrimenti si rovescia a terra. Gli appunti, sull’agenda, sembrano un sismografo — perché suo figlio ha detto che veniva qui in vacanza, a Natale, e invece è andato in Siria a combattere con alQaeda. Ha ventitré anni, si chiama Ibrahim. Cioè, non so come si chiama, in realtà: Eva non parla con i giornalisti. “Non voglio finisca in prima pagina. Che di mio figlio si discuta nei talk show, in mezzo a gente esperta un giorno di calcio, un giorno di

cucina, un giorno di Siria, il televoto per decidere se è più un terrorista o più un cretino. E la velina che mi spiega dove ho fallito come madre.” “Per voi non è un ragazzo”, dice “per voi mio figlio è solo un’esclusiva da migliaia di euro.” E non so cosa dirle. Perché vorrei dirle che non è vero, e invece è

così, certo che è vero. Perché finirebbe in copettina domani: un ragazzo italiano, completamente italiano — non uno di seconda generazione, figlio di immigrati — un ragazzo italiano, in Siria, al fronte. E non uno di periferia, ma uno della Genova bene, uno con una madre uguale a tua madre, uno

uguale a tuo figlio, lì chiuso nella sua stanza davan61

ti a Facebook, e chissà con chi è in contatto, nel

mondo, chissà cosa pensa, cosa ha dentro. Vorrei dirle che non è così, ma la verità è che i giornali non cercano altro. Il jihadista europeo, la cecchina in tacco sette. Le semplificazioni, i personaggi più delle persone. Il bianco e nero, qui il torto e lì la ragione, qui i sani lì gli squilibrati. Il resto, il contesto non importa: le tue motivazioni, quello che sei ma anche come lo sei diventato, il fronte ma anche perché ci sei arrivato. La Siria non gli impor-

ta, la Siria neppure sanno dove stia. L'altro giorno uno mi ha chiesto “Mi scrivi un pezzo sugli scontri tra le rovine di Petra?” e non ho avuto il coraggio di rispondergli che Petra è in Giordania, vogliono solo queste cose qui, il medico bambino e il bambino soldato, ovviamente. Meglio se alcolizzato. Per cui non so cosa dirle. Capita che stia con te per mezz'ora, poi ti incontra dieci minuti dopo che l’hai salutata e non si ricorda già chi sei. Non si ricorda niente, è sconvolta. E quindi tutti la evitano, pensano sia matta. “Non voglio problemi”, dice Lorenzo. “Che telefoni alla Farnesina, alla Croce Rossa. Al 118. Non mi interessa”, dice. Lorenzo è

il veterano, è quello che è qui da più tempo. Quello che conosce i ribelli meglio di tutti, brigata per brigata: chi fa cosa, chi sta dove, chi è chi. Ma quando incrocia Eva, cambia strada: “Non voglio problemi”, dice. Solo che io vengo dal Sud, e questa frase al Sud ha un suono sinistro. Questa frase non è la mia frase. E poi penso solo a mio padre. 62

Penso che mio padre sarebbe qui come Eva, esattamente come Eva, con quella tazza riempita a metà

e gli appunti che sembrano un sismografo. Lui che è uno che aspetta giù fino a quando non accendi la luce in casa — dovesse bloccarsi l'ascensore, e tu dentro con il cellulare che non funziona. Sempre che tu non sia intanto precipitato perché le porte dell’ascensore si sono aperte e non c’era la cabina, ipotesi che mio padre non scarta mai. Insomma, penso a mio padre. Penso che Eva non è matta, è normale. Forse, qui, è l’unica nor-

male. Per questo non so cosa dirle. “Studiava all’università, poi ha interrotto. Cercava lavoro senza trovarlo.” Non racconta altro, Eva, non si fida. Mi mostra solo una foto di Ibrahim, dovessi vederlo ad Aleppo. Un ragazzo alto, con la barba e la tunica. Ma, onestamente, sono tutti così,

non lo riconoscerei mai. E un po’ in realtà mi fa tristezza, perché si intuisce che è separata, che con il padre di Ibrahim non si parlano neppure in questo momento. A un certo punto scopre che il padre ha sentito Ibrahim via Skype e lei lo ha saputo solo dopo tre giorni. Provo a dirle che suo figlio non ha esperienza sufficiente, che se anche è stato addestrato non starà

certo al fronte, perché gli islamisti combattono sul serio, non ciondolano in ciabatte agli incroci della città vecchia. E quindi, se è ancora vivo, significa

che non è al fronte. In fondo non è che combattono tutti. Provo a dirle: magari fa il cuoco, il guar63

diano del deposito di munizioni. Magari fa quello che carica i video su YouTube. Ad Atmeh, o anche

sul volo per Antakya, in aeroporto, sono tutti così: in tuta e borsone da calcetto, e capisci dalla barba, o da un orecchio che manca, che invece sono jihadisti. Tutti ragazzi così. Di quelli che cercano un lavoro senza trovarlo — per mesi, anni — e girano a vuoto con questo senso, addosso, di essere inutili. E il padre non avvisa la madre di averli sentiti, quando spariscono per tre giorni, per tre mesi. Con questo senso addosso di essere sbagliati. Dovessi vederlo, è vero, non lo riconoscerei mai: è uguale a mille altri, qui.

Confermato, alla fine. Dopo tre giorni di sì, forse, ma no, però. Hanno ucciso Abdallah. A

dieci metri dal Media Center, gli hanno sparato alle spalle. Abdallah è Abdallah Yassin. Aveva trent'anni, e

senza di lui, semplicemente, in tanti non avremmo scritto niente, qui. Aveva combattuto brevemente insieme ai ribelli, ma poi aveva preferito il ruolo dell’attivista — erano sei fratelli, tutti nell’Esercito Libero: due morti, due al fronte, e due al Media Center. Che era stato fondato da Abdallah e altro non era che casa sua, all’inizio. Tutti abbiamo cucinato nella sua cucina, dormito, lavorato sui suoi

tappeti. Lavorato per ore, e ogni volta che alzavi lo sguardo, lui ti aveva rabboccato la tazza di tè. Tut64

ti abbiamo corso per le strade a gruviera di Aleppo sulla sua jeep bianca con i colori della rivoluzione. Ma Abdallah era molto più di questo. Perché diversamente dagli altri, non si occupava solo di logistica. Era capace di trasformare una lavatrice in stufa, ricaricarti una batteria con un cavo elettrico e un limone, ma aveva fondato il Media Center perché era convinto che il sostegno internazio-

nale fosse decisivo per sconfiggere Assad. E che per avere sostegno internazionale, i siriani dovessero spiegare al mondo non solo i crimini del regime, ma anche le proprie idee. Per indurre il mondo a fidarsi. A intervenire. Raccontare la Siria di Assad ma anche la propria Siria. “E invece non leggo che di morti e feriti”, diceva. “Il numero delle bombe di oggi, dove, come, quanti palazzi crollati, quanti

quintali di macerie — a volte”, diceva, “leggo e mi sembra di leggere non un giornale, ma il resoconto di uno stenografo in un commissariato di polizia.” Poi ti diceva: “La mia libertà dipende da te, il tuo ipad è più potente dei miei kalashnikov.” E quindi ti raccontava la Siria. Ti raccontava il regime. Come si viveva, i soprusi, la brutalità, la

paura. E le prime manifestazioni, allora, gli scontri. Ti raccontava dei ribelli, le strategie, le speranze,

ma anche i ripensamenti e gli errori. E ti raccontava il Medio Oriente. Il contesto. Perché la Siria, qui, è complicata. La prima reazione di Assad alla primavera araba, era il 31 gennaio 2011, fu un'intervista al Wa// 65

Street Journal. Ben Ali, in Tunisia, era già in fuga,

e Mubarak al Cairo sotto l’assedio di piazza Tahrir.

Ma nessuna indecisione, nella sua voce, nessun dubbio: la Siria è diversa, dichiarò Assad. In Siria non succederà. E a modo suo, aveva ragione.

Due anni dopo, è ancora al potere. Perché la Siria certo, è simile a molti dei paesi vicini — all’Egitto, alla Tunisia. Ha 22.000.000 di abitanti, per il 60 per cento con meno di venticinque anni: e decine di migliaia di laureati condannati alla disoccupazione da un’economia atrofizzata intorno a un settore pubblico ormai saturo, eredità dell’allineamento all'Unione Sovietica. E mentre le privatizzazioni,

negli ultimi anni, arricchivano gli Assad e i loro amici più fedeli e le risorse statali si prosciugavano insieme alle riserve di petrolio, l'agricoltura, da cui derivava il 25 per cento del reddito, veniva falciata dalla siccità. Il 10 per cento della popolazione, secondo i calcoli delle Nazioni Unite, era ormai

sotto la soglia neppure di povertà, ma di sopravvivenza — un dollaro al giorno: il tempo necessario alla moglie di Assad, a marzo 2012, a guerra già in corso, per spendere 450.000 dollari in lampade e divani. Per questo è complicata, la Siria. Perché era un regime al capolinea, simile a molti dei regimi vicini — perché avrebbe già dovuto franare. E non è solo questione di superiorità militare, invece. Di missili contro proiettili. Il problema è che gli Assad, dai tempi del padre di Bashar, Hafez, diventato presidente nel 1970 con 66

l’ultimo di una lunga serie di colpi di stato, sono stati soprattutto sinonimo di ordine e stabilità. In cambio della libertà, naturalmente, in cambio di un poliziotto ogni 153 abitanti: ma il Libano, che è qui a pochi chilometri, con le sue mille religioni e le sue mille guerre, è sempre stato un monito per tutti. E dei più sinistri. La maggioranza dei siriani, infatti, il 75 per cento, è musulmano sunnita: ma le minoranze sono ampie, e soprattutto, varie. Cristiani, alawiti, curdi — con i soli cristiani a loro

volta frantumati in undici comunità. “Lo spettro del Libano”, diceva Abdallah: “è questa la vera forza di Assad.” Ma due anni e 70.000 morti dopo, la forza di Assad, ora è chiaro, è anche un’altra: è l’opposizione. L’Esercito Libero non ha il minimo rapporto con la Coalizione Nazionale. “Di quello che pensano, qui non interessa niente a nessuno. E non

solo perché vivono a Parigi, a Londra, New York. Ma perché hanno sempre considerato Bashar, diventato presidente nel 2000, un giovane riformatore cosmopolita, frenato da funzionari ereditati dal padre insieme al paese. Uno che avrebbe voluto rinnovare la Siria ma era ostacolato dalla vecchia guardia. E quindi non un nemico, ma al contrario un alleato per una transizione pacifica alla democrazia. Hanno sempre cercato la collaborazione. Anche adesso. Il compromesso. Hanno sempre privilegiato la stabilità: nonostante ognuno di loro avesse una biografia di carcere e persecuzione.” 67

Nonostante il presidente, qui, sia il comandante delle forze armate, il segretario del Ba’ath, e cioè

del partito unico, il capo dell'esecutivo. Nomina il primo ministro, il governo, i più alti funzionari civili e i più alti ufficiali militari. Nomina i giudici. “L’unica vera legge, qui, è lo stato di emergenza. Consente l’arresto di chiunque sia sospettato di costituire un pericolo per l’ordine pubblico. L’unica stabilità, in Siria, è quella dell’oppressione.” Perché è complicata, la Siria. E ora, è anche tutto più complesso di prima, qui. Tutto più sfocato, più torbido. Un mese fa hanno bombardato l’università, che è nella Aleppo del regime. Ma ancora oggi la dinamica non è chiara: non si è capito chi è stato. I ribelli dicono un aereo del regime, ovviamente, il regime dice razzi dei ribel-

li. Dice che miravano a un’accademia dell’esercito lì vicino. Era giorno di esami, ad Architettura: 83 morti. Ma nei video, senti solo due esplosioni. Poi uno ti dice un aereo, l’altro ti dice dei razzi — come è possibile, non avere certezze neppure su questo? Un aereo o dei razzi. Questo aereo, sulle vostre teste,

l’avete visto o no? Aleppo è così, in questo momento. Così è questa guerra: comincia a essere tutto confuso. Perché poi l’università trabocca di sfollati, non solo di studenti: ci vivono in 30.000, ma anche questo nessuno intende ammetterlo — il regime per

negare la crisi umanitaria, i ribelli per negare che dai quartieri sotto il loro controllo la gente si rifugia nei quartieri sotto il controllo di Assad. 68

Ogni giorno che passa, è tutto più complesso, qui. Più equivoco. I gruppi combattenti si moltiplicano, la Coalizione Nazionale si divide — e Abdallah viene ucciso. Girano le voci più svariate, adesso. Dicono sia stato ucciso in una rissa. Dicono sia stato ucciso

per dei debiti non pagati, o comunque per questioni di denaro. Perché i giornalisti iniziano a essere un affare, in Siria. E non solo per i 300 dollari. La notizia non è più riservata, ora: è sparito Jim Foley. Dopo che ad agosto era già sparito Austin Tice. Iniziano a sequestrarci. L'altra mattina sono stati rapiti anche tre francesi, ma sono stati rilasciati subito: Abdallah aveva chiamato l’Esercito Libero, e fornito i nomi

di mandanti ed esecutori. Poche ore dopo è stato ucciso.

E comunque è inutile chiedere agli altri. Lorenzo, al solito, taglia corto: “Non voglio problemi.” Perché questa guerra sta cambiando, ma in realtà stiamo cambiando anche noi. Siamo ogni giorno di meno, qui. Il fronte è in stallo, e le foto ormai, che

sono quelle che contano perché i testi, per i giornali, contano zero — le foto si sono viste ormai, sono sempre quelle. E per i premi i termini sono chiusi, è già stato inviato tutto. Per il World Press Photo, per il Robert Capa. E siamo ogni giorno di meno. Ogni giorno qualcuno che ti chiede perché insisti, non c’è niente da raccontare, qui. Ti dice: “Vai in

Mali.” Anche se non è vero che la guerra ristagna. 69

Ristagna il fronte, ma intorno al fronte sta cambiando tutto. E la guerra non è il fronte, è tutto il resto — tutto quello che sta intorno al fronte e lo genera. Solo che è infinitamente più difficile da analizzare, interpretare. Richiede tempo, richiede studio, richiede pazienza. E richiede quelli come Abdallah. E invece al suo funerale non è andato nessuno di noi. Ho lasciato sette rose rosse nel punto in cui è stato ucciso. Il Media Center era deserto, c’era solo

suo fratello. La Canon ancora sul tavolo, la felpa. Le sigarette. Il silenzio. Non c’era neppure l’elettricità. Solo, fuori, il rumore dei mortai. Non mol-

to lontani: di uno è arrivata una folata di polvere e cordite, e mi sono rintanata in un angolo. Lo stes-

so angolo in cui mi ero rintanata a ottobre, una sera che Aleppo era un’esplosione ogni pochi secondi, implacabile, morti, feriti ovunque, quella sera, uno di quei bombardamenti con un unico obiettivo: che nessuno rimanesse illeso — e io ero qui da sola. Su questo stesso tappeto. Troppo pericoloso raggiun-

gere gli altri, che erano dalla parte opposta della città. E poi era buio, ormai, c’era già il coprifuoco. E quindi stavo qui, da sola, a fissare il pavimento e sentire le pareti tremare quando Abdallah sbucò dalla porta. E dietro Abdallah, tranquillo, Alessio. Aveva attraversato l’intera città, l’intera città in

mezzo all'inferno, fari spenti e gas a manetta, perché non stessi da sola. 70

Qui, in questo stesso angolo, con quel manifesto, davanti, appeso storto come adesso. Ascolto i mortai come si ascolta il mare, dalla riva, il sale e il tempo tra le dita. Ascolto i mortai come fossero ormai la cosa più naturale al mondo. Un paio si schiantano vicino. Un po’ troppo vicino — dovrei spostarmi, credo: ma che mi cambia? Che differenza fa? Non comparirà più nessuno, ora, da quella porta. “Aleppo? Che senso ha andarci ancora?”, mi ha accolto Lorenzo al rientro ad Antakya. “Non c’è più niente da raccontare. Stanno dove stavano un mese fa.” Ho lasciato dei fiori ad Abdallah. Ha tagliato corto: “Non voglio problemi”, ha detto, “Sono storie in cui non voglio entrare.” Se non fosse che ci siamo tutti già dentro.

A modo suo. Ma aveva ragione, Assad, quando

avvertì: la Siria è diversa. Perché la primavera araba è stata essenzialmente una rivolta contro regimi più attenti agli interessi dei pochi al comando, e dei loro amici occidentali, che agli interessi dei propri cittadini. Una rivolta riuscita solo in Tunisia ed Egitto, certo, il resto al momento è un po’ un disastro: ma ha segnato intanto l’esaurimento del postcolonialismo, della vecchia geografia di sovranità formali e dipenmol

denze sostanziali. E travolto la tesi che più di ogni altra l’ha puntellata. Dopo il crollo del muro di Berlino, infatti, in un mondo in cui la democrazia, di paese in paese, sembrava affermarsi ovunque, l'eccezione era il Medio Oriente. La cui cultura, si sosteneva, non era adatta alla democrazia. È stata la tesi dell’eccezione araba, ora smentita da mille piazze Tahrir — e prima ancora, in realtà, da anni di scontri sociali e sindacali. Il Movimento 6 Aprile, icona della resistenza a Mubarak, si chiama così in memoria del 6 aprile 2008, quando la polizia sparò contro operai in sciopero: perché la primavera araba non è nata con Facebook. Ed è stata, al fondo, una rivendicazione di autodeterminazione, di sovranità sostanziali, non solo formali.

Di potere vero: il potere di decidere. Decidere tutti, non solo pochi privilegiati, e senza interferenze esterne. Ed è in questo senso che la Siria è diversa — aveva ragione, Assad — perché per qualsiasi previsione, qualsiasi analisi, è inutile ormai guardare a Damasco. Interrogarsi su Assad e i suoi obiettivi o sugli obiettivi dell'opposizione. Come nel vecchio Medio Oriente, la guerra di Siria è ormai una guerra per procura, combattuta per strategie altrui. E iniziata come la libertà contro l'oppressione, sta diventando l’Iran contro l'Arabia Saudita — e quindi, ti dicono: l'Islam sunnita contro l’Islam sciita. Perché la Siria, ti dicono, in realtà non è

complicata. “Fidati”, mi rassicurò a Beirut uno dei

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veterani, uno di quelli che ti pagano i 300 dollari, qui, e tu in più impari un po’ il mestiere, “sembra complicata”, mi disse, “ma in trent'anni al fronte, trent'anni in Medio Oriente, alla fine non c’era

altro: petrolio e Islam. Fidati.” Se non fosse che ci sono cose in cui ti imbatti solo a fare un passo indietro, qui. Nel senso indietro dal fronte, o più esattamente: intorno. Come Loubna Mrie. Non solo è un’attivista, qui che dovrebbero essere tutti terroristi. Non solo è una ragazza, qui che dovrebbero essere tutti uomini. Ma è un’alawita — qui che questa guerra dovrebbero essere sunniti contro sciiti. È lei, oggi, a continuare il lavoro di Abdallah. “La guerra sta cambiando, è vero. Ma non è vero che siamo siriani contro siriani, sunniti contro sciiti.

Siamo siriani contro Assad. Perché anche quando si parla di Islam, non si parla mai solo di Islam. Assad ha il sostegno dell’Iran per solidarietà sciita, certo, ma soprattutto perché è attraverso il territorio siriano che Hezbollah, in Libano, riceve armi dall’Iran, e per conto dell'Iran tiene sotto pressione Israele. E poi Assad, oltre all’Iran, ha al suo fianco la Russia: e la Russia non è sciita. Però ha in Siria, a Tartous, l’ultima sua base nel Mediterraneo, e solo attraverso la Siria può ancora avere voce in Medio Oriente. E più ancora che per Tartous, Putin è con Assad perché sa che ogni rivolta per la libertà, anche la più lontana, è una scintilla che può incendiargli la Russia. Per Putin nessuno deve inter70

venire in Siria perché nessuno deve intervenire in Cecenia.”

Dimostra meno di ventidue anni. Ha i capelli lunghi e castani, ricci, i lineamenti dolci come lo sguardo, potresti incontrarla fuori da un nostro liceo, mentre va al corteo contro i tagli alla scuola. Lo stesso zainetto, la stessa maglia a righe, gli stessi sogni — perché Loubna ha lo sguardo intenso di certi adolescenti che ti fissano, gli occhi grandi, e sembrano fragili, e invece ti fissano semplicemente perché di lì non si sposteranno. Viene da Latakia, la città degli Assad. E viene da una famiglia di ufficiali dei servizi di sicurezza. Come sua madre, Loubna si è schierata subito

contro il regime. Solo che il regime, per lei e la madre, coincideva con i maschi di famiglia. Erano state avvisate: un’altra manifestazione e sarete uccise. E quando un video in cui Loubna spiegava gli obiettivi delle rivoluzione, ad agosto, è finito su

YouTube, sua madre è sparita. Giustiziata dagli uomini agli ordini di suo padre. Le promesse si mantengono.

“Ho pianto per tre giorni, devastata dai sensi di colpa. Poi ho pensato: mia madre non vorrebbe vedermi qui a piangere. E sono tornata a raccogliere medicine per Homs. Non mi ha chiamato nessuno. Mia nonna, le mie zie: nessuno. I miei amici.

Per paura di ritorsioni. È stata la cosa peggiore, la solitudine. Ero lì che scorrevo la rubrica del telefono, in cerca di qualcuno con cui parlare — e non

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avevo più nessuno. A Latakia sono tutti con Assad perché Assad in televisione ripete venti volte al giorno che la Siria è infestata da terroristi, fondamentalisti islamici pagati dagli israeliani per tagliarci la gola. Sostiene di proteggere le minoranze. La democrazia. Eppure ha ucciso mia madre. E ucciderà me, se mi trova. Qui non impotta se sei cristiano, sunnita, buddista. La verità è che questo regime, se sei contro di lui, ti uccide.”

Gli alawiti, la minoranza sciita a cui appartiene la famiglia Assad, sono circa il 12 per cento della popolazione. Di loro non si sa molto, perché praticano un culto esoterico, i cui libri sacri non sono

pubblici e vengono rivelati, e solo in parte, soltanto ai maschi. Un culto esoterico e sincretico, con

molti elementi del cristianesimo e dell’Islam sunnita. Per questo sono stati a lungo stigmatizzati

come eretici e perseguitati — alawiti, in arabo, significa “seguaci di Ali”, il genero di Maometto, che

gli alawiti venerano più del Profeta. “L’Undici Settembre ha ridotto tutto all’Islam.I fattori economici, sociali, politici sono scomparsi

dalle analisi sul Medio Oriente: tutto derivava dalla religione. La primavera araba è stata capace di spezzare questa equazione arabi uguale musulmani. In Tunisia ed Egitto si sono visti tunisini ed egiziani, non musulmani e cristiani. Qui, invece, tutti

usano la religione, lo spettro della guerra confessionale, per i propri obiettivi — molto terreni. Ma non ha senso definire il regime sciita, anche se sciiti sono 75

gli Assad e sciiti i vertici dell’esercito: perché l’economia di stato ha consentito agli Assad di crearsi reti clientelari di cui ha beneficiato la borghesia, che è prevalentemente sunnita. Non è che un regime di predatori, questo, e l’opposizione non è che un’opposizione di poveri ed esclusi. Sciiti e sunniti e cristiani allo stesso modo. Tutti si concentrano sulla religione, adesso. Ma per capire la Siria, aveva ragione Abdallah, Marx è più utile del Corano.” E soprattutto aveva ragione, Assad, la Siria è diversa. Solo su un punto, dissi ad Abdallah, la Siria non sembra essere diversa: l'Europa, al solito, è assente. La priorità, per noi, è l'economia: salvare la Grecia, la Spagna — non la Siria. E invece, oggi è venuto

fuori che la Francia ha comprato da Assad le coordinate satellitari di Gheddafi, durante la guerra in Libia, per eliminarlo prima che raccontasse delle sue altolocate amicizie d’oltremare. E ha pagato con l’impegno al silenzio. L’impegno a non intervenire. Aveva ragione, Assad. La Siria è davvero diversa. L'unica volta in cui l'Europa ha scelto chiaramente da che parte stare.

“Ma l’obiettivo qual è?”, chiedo, trascinandomi

in una trincea di quelle che ho visto solo nei libri di storia. Mi indicano una specie di deposito, duecento metri più avanti. Un parallelepipedo di 76

cemento. “Conquistare quello.” E poi?, chiedo incauta. “Conquistare quello”, e mi indicano un altro deposito, un altro scatolone di cemento. Altri trecento metri più avanti. “E poi quello a destra”: altri venti. Fino a Damasco, sono quattrocento chilometri. L'aeroporto di Aleppo è alla periferia orientale della città, e ha al suo interno un aeroporto militare e la Brigata 80, assediata da decine di jihadisti sbarcati qui a rinforzo della rivoluzione dalla Tunisia, dalla Libia, dall’Afghanistan, dalla Cecenia — e da svariate periferie europee. La lingua più parlata non è l’arabo, sui fronti in cui combatte al-Qaeda: è l’inglese. La battaglia è iniziata a dicembre. Perché dall’aeroporto transitano i rifornimenti alla metà di Aleppo sotto il controllo del regime, e ai suoi soldati, soprattutto: per i ribelli occuparlo è decisivo. Perché l’idea, in origine, era avanzare di città in città. Da nord a sud, mappa alla mano: Idlib, Aleppo, Hama, Homs, Damasco — ma dopo due anni e 85.000 morti, siamo ancora a Idlib. Ancora a quaranta chilometri dal confine con la Turchia. E gli islamisti, allora, più esperti, dopo un giorno che sono sbarcati hanno cambiato strategia: non si avanza più di città in città, adesso, città che non è

poi possibile gestire, perché dopo tutta la battaglia, e il sangue e le macerie, i morti, alla fine per metà domina ancora il regime, per l’altra metà dominano il freddo e la fame, e per di più i siriani ad ig

Aleppo pensano che tu comandi e vengono a domandarti il pane. Si avanza invece di base militare in base militare. E questa settimana, quindi, i ribelli hanno lanciato l’offensiva definitiva - dopo l'offensiva definitiva di tre settimane fa. Se non fosse che la superiorità di Assad sta negli aerei, e gli aerei non decollano da qui. “A/lzh Akbar”, mi rassicura Kadyr. Dio è grande. “E comunque non siamo qui per questo 0 quell’aero-

porto. Siamo qui per testimoniare che è inutile opporsi alla volontà del popolo”, mi spiega. Anche se è ceceno, Kadyr. Cosa ne sa della volontà del popolo, se questo popolo non è il suo? “Siamo tutti uomini. Tutti fratelli”, ribatte. “Ma i siriani vogliono la democrazia”, ribatto. “Vogliono decidere da soli il proprio futuro, no?” “Perché, voi avete interpellato gli iracheni, gli afghani, prima di decidere il loro futuro? Vince chi è sulla giusta via. Dio solo sa, Allah Akbar. Dio solo decide.” Ha ventisette anni, Kadyr, è ceceno di Grozny, ed è qui perché la Russia, che sostiene Assad, gli ha sterminato la famiglia. Aazar è afghano, ha trentun anni, suo padre è stato ucciso da una mina come la figlia di Faryal, ventisette anni, afehano anche lui — una mina di fabbricazione italiana, mi precisa,

e non mi parla più. Alla sua destra Ajeeb, ventitré anni, libico. Ha perso la madre in un attacco aereo come Masun, venticinque anni, iracheno, falegna-

me con una laurea in biologia. Djamal viene da

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Marsiglia, invece, ha ventun anni, origini algerine, la maglietta di Zidane, “e niente da perdere”. Non è il momento migliore per un’indagine sociologica su al-Qaeda. Un mortaio, alla nostra destra, centra la trincea, e la battaglia ci si schianta addosso improvvisa. Perché è soltanto una trincea di terra, questa, nascosta tra cespugli e cumuli di mattoni e pietre e ferri arrugginiti, una trincea da prima guerra mondiale, di quelle che pensi che ora sbucherà Cadorna con i rinforzi a cavallo — e in tre, semplicemente, scompaiono polverizzati. Bisogna

spostarsi, e rapidi. Il mortaio è sparato da una postazione semi-mobile, al primo colpo, il tempo di ricaricarlo, segue sempre un secondo. Corriamo via come topi, la testa bassa, il secondo colpo che

si abbatte ancora più vicino: corriamo ancora più veloci, il solo riparo è un muro di cemento. Ma è a venti metri. E la trincea è finita. Mentre Aazar e Faryal ci coprono con una barriera di fuoco, attraversiamo uno a uno, al volo, tra i proiettili, la mente spenta, l’aria ormai densa di terra, e polvere e

foglie, schegge, frammenti indecifrabili: Kadyr che scivola e viene ucciso, i mortai che insistono, impla-

cabili. Sono sempre più vicini, sempre più vicini: “Arriveranno fino a noi”, urla Djamal, “siamo già morti: non rimane che attaccare.” Djamal è il primo a scavalcare e lanciarsi verso il deposito, mentre mi rifugio dietro una navetta passeggeri mezza carbonizzata, sul fianco ancora una vecchia pubblicità: Welcome to Syria. Viene 79

centrato quasi subito, Djamal, il cecchino che continua a scaricargli addosso proiettili mentre gli altri, dietro, scavalcano tutti insieme e in un minuto, in un secondo, è guerra, guerra che sembra il cinema,

questi corpi che corrono, che cadono — guerra che sembra la follia — mentre Djamal, a terra, ancora

spara fino all'ultimo rantolo. Dalle due opposte retrovie, partono colpi di RPG, partono razzi, dall’interno del deposito rimbombano kalashnikov, e a ogni morto, l’urlo: A/lab Akbar. Mi trascinano vicino i cadaveri, carne e sangue ed espressioni stravolte, servono a fare barriera. A tratti qualcuno sembra sussultare, qualcuno muoversi. Ma deve essere un’allucinazione: perché va avanti per due ore, la battaglia, i cadaveri che si accumulano, ti sfiorano, ti guardano, ti colano addosso. Ajeeb si

apre una nicchia nel rovo di braccia e spara da lì, gelido. Minuto dopo minuto, come una voragine senza fondo: per ogni corpo che torna, un altro che si lancia, e solo quest’urlo, A/lzb Akbar, si lancia e va, il deposito lo ingoia fino a quando un mortaio ne colpisce l’ala destra, spazzandone via metà. Ed è allora che qualcuno, dalla trincea, tira una bomba incendiaria. Il fumo. Poi qualcosa, dentro, che esplode. E tutto si perde, tutto, dentro, ora tace. Allah Akbar, Allab Akbar, ripete un ceceno. E abbraccia Ajeeb. Allah Akbar, Abbiamo vinto. Abbiamo vinto. Mentre le fiamme divorano tutto, inclusi i suoi

compagni. 80

E mentre qualcuno, anche dall’altro lato del fronte — non ho dubbi — qualcuno contempla le ceneri, in questo momento, ed è lì che esulta: abbiamo vinto.

“Ma sai che lei viene dalla Siria?” ha detto il barista alla barista. “Ma non sei siriana”, ha detto lei. “No, sono una giornalista.” “Oh, e stai in Siria? ” “Ad Aleppo.” “Ad Aleppo? Figo. Ma sai che ho un amico tunisino? Fa dei dolci favolosi. Ma veramente favolosi, secondo me è la farina.” E il barista ha detto: “È sempre la farina. Com'è la farina, ad Aleppo?” “L'ultima volta”, ho risposto, “l’ultima volta era farina di foglie.” “Di foglie?” “Sì. Di foglie. La Siria è un po’ — un po’ in difficoltà in questi mesi. Un po’ problematica.” “Hai sentito? Foglie!”, ha detto alla barista. E poi mi ha chiesto: “Ma ce l’hai la ricetta?” In compenso il cappuccino, al caffè della stazione di Livorno, era magnifico. Sono rientrata per un Hostile Environment Training, addestramento in ambiente ostile, che per gli inviati di guerra, oggi, è obbligatorio. E che in Italia però — dal momento che gli affari esteri in Italia sono la trasferta della 81

Juventus - non esiste: e quindi l’unica scelta è frequentare il corso per i funzionari dell’Unione Europea organizzato dal Sant'Anna di Pisa con i carabinieri del Tuscania, le forze speciali di stanza a Livorno.

È un addestramento in cui sostanzialmente impari come reagire in caso di imboscata, o se capiti in un terreno minato. Impari a decifrare una mappa, a comunicare con i satellitari, criptare i messaggi, tappare una vena tranciata, cose così, come ripa-

rarti dal fuoco nemico o non innervosire i tuoi rapitori. Perché in guerra tutto funziona al contrario. E uno normale, per dire, se si avvicina a un checkpoint, l’ultima cosa che gli viene in mente è spegnere le luci e arrivarci a fari spenti, al checkpoint, perché non so voi, ma io sono barese e a fari spenti in Puglia guidano solo i contrabbandieri. E invece a un checkpoint devi arrivarci a fari spenti e luci interne accese, perché solo così chi è di guardia ha la possibilità di vederti e identificarti. Ti insegnano cose così, insomma: che se uno non ti avvisa e tu

fai la persona perbene, in guerra, cioè accendi i fari e allacci la cintura, finisce che al primo checkpoint ti sparano. Perché è tutta un’altra logica, la guerra. E per esempio la prima lezione, per i militari, è che è meglio ferire che uccidere. Perché se uccidi il nemico, quello ti rimane lì steso e gli altri continuano a combattere, mentre se lo ferisci l’intera squadra a quel punto è fuori uso, perché deve soccorrerlo. 82

È tutta così, la guerra. Certi ragionamenti sottili che tu ascolti ammirato, e poi pensi: magari usas-

simo tutto questo ingegno nella ricerca contro il cancro. In realtà sono rientrata in Italia anche perché alla fine l’infezione si è capito cos’era, dopo che sono tornata da Aleppo, l’ultima volta, vomitando

per strada ogni due metri e svenendo davanti alla porta di casa, ad Antakya. Era tifo. Nonostante sia vaccinata e tutto, ovviamente. Un ceppo particolarmente violento. È inutile dire che in realtà sono molto orgogliosa del mio tifo, ed ero lì che quasi festeggiavo quando i medici hanno sentenziato che era tifo, giuro: avrei brindato, se non fosse che mi sentivo male anche a bere un goccio d’acqua. Perché sono l’unica ragazza, ad Aleppo, e gli altri con tutto il loro testosterone sostenevano che fosse una cosa psicologica, e io lì con la febbre e i crampi e loro a ripetere che era tutto nella mia testa, era la paura, era che sono troppo fragile per la guerra. Per questo, davanti ai medici allibiti, quando mi hanno confermato che era tifo, ho chiamato Lorenzo e con le mie ultime energie gli ho detto: “Hai visto?, Ho il tifo! Ho il tifo!” tutta contenta, prima

di chiudere il telefono e svenire di nuovo. Un medico ha detto all’altro: “Io però non scarterei che sia una cosa psicologica.” Dopo un po’ di flebo, eccomi qui, in questo corso strano. E non per i carabinieri, naturalmente, perché il Tuscania sono forze speciali nel sen83

so proprio della parola, perché stanno dove stanno i soldati ma con l’approccio dei poliziotti, e cioè stanno lì a garantire l'ordine, non demolirlo — differenza che ai soldati, soprattutto americani,

non sempre è evidente. Stare qui è strano perché la logica stessa della guerra è diversa da quella della vita normale. I mortai, per esempio, sono un argomento che mi interessa particolarmente. Gabriele, il capitano, è molto gentile, e anche molto paziente, perché gli tocca rispiegarmelo quattro volte. Io voglio sapere: quando esplode il primo, dal momento che poi arriva sempre il secondo, dove devo correre? A destra, a sinistra? Drit-

to? O magari devo stare ferma. Ma ferma dove? A terra? Dietro un muro? Il meccanismo, mi dice

Gabriele è semplice, è come una forcella. Il primo colpo cade un po’ dopo, il secondo un po’ dietro. Il terzo è quello che deve centrarlo. E un po’,

confesso, non mi è chiaro come distinguere il davanti dal dietro. Ma soprattutto: “centrare cosa?”, gli chiedo. Mi guarda, perplesso. Mi risponde: “Centrare il bersaglio.” “Perché quindi il mortaio ha un bersaglio.” “Certo, Mica spari a caso.” Già. Mica spari a caso. E poi, ancora, i criteri per scegliere casa. Regola numero uno: lontano dal fronte. Regola numero due: se possibile, lontano da obiettivi sensibili, come un ministero, o una caserma. Regola numero tre:

se possibile, vicino a servizi essenziali, come un 84

mercato o una farmacia, per evitare di attraversare mezza città, la sera, in cerca del dentifricio.

“E quando i servizi essenziali sono obiettivi sensibili?”, domando. “Be”, dice Gabriele, “allora vicino l'ospedale. L'ospedale è sempre la cosa più sicura.” “Se l'ospedale fosse troppo lontano, si spara ovunque e non ti ci puoi rifugiare?” “Be, allora i profughi. Ti unisci ai profughi. Mica possono sparare ai profughi.”

Già, i profughi. Mica possono sparare ai profughi, la guerra ha le sue regole, i suoi manuali: mica spari a caso.

La sera studio, se non altro ci provo. Studio per esempio come funziona un satellitare. Poi penso che con un satellitare, come Marie Colvin, la corrispondente del Sunday Tirzes a Homs, con un satellitare ti localizzano, in Siria, e ti piomba un mortaio in testa. E allora cambio capitolo. Cerco il capitolo sui cecchini, anche quello mi interessa particolarmente. Ma non c’è, il capitolo sui cecchini, perché un cecchino, se ti colpisce, sei morto anche con il migliore degli antiproiettili. E allora il capitolo sui cecchini non c'è. E allora studio come riconoscere un ribelle. Un ribelle a) è inquadrato in una catena di comando, b) ha un’arma visibile,

c) ha addosso un segno distintivo. Penso che la cosa più distintiva che ho visto, in Siria, per capire se uno è un ribelle, sono le ciabatte. E quindi finisce sempre che ci provo, la sera, ma poi chiudo, e leg85

go altro. Perché sono sempre così rassicuranti, questi manuali. E come i manuali di diritto internazionale, ci sono i civili e i combattenti, e c'è un fronte, sempre, c’è un qui e un lì, e ci sono anche

i giornalisti, con la loro scritta Press. Non c’è mai Aleppo, però, non c’è mai nessuno, in questi manua-

li, incenerito da un missile che neppure ha sentito arrivare.

Bussano alla porta, intanto. Poggio il libro a terra e apro. È Ronan, uno dei due irlandesi delle forze speciali. Sono qui perché istruttori di un corso simile. Sono due veramente bravi, anni di esperienza ovunque: guardarli in azione è come stare al cinema. Sono molto incuriositi dalla Siria. Nel senso: la guerra vissuta non da chi la combatte, ma da chi la subisce. E quindi in genere ceniamo insieme.

“In primavera vorremmo averti a Dublino”, mi dice Ronan, “Una conferenza. Sarebbe interessante venissi a raccontarci com'è la Siria. Come la guerra sta cambiando.” “Viviamo sotto la traiettoria incrociata delle granate, nella tensione dell’ignoto. Sopra di noi pende il caso. Quando un colpo arriva tutto quel che posso fare è di rannicchiarmi; dove vada a

battere non posso sapere, né influirvi. [...] Per puro caso posso essere colpito, per puro caso rimanere in vita. In un ricovero a prova di bomba posso essere schiacciato come un topo e su un terreno 86

scoperto posso resistere incolume a dieci ore di fuoco tambureggiante. Ciascuno di noi rimane in vita soltanto in grazia di mille casi.” 1918, il libro che sto leggendo, Niente di nuovo sul fronte occidentale.

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Si Primavera

Aprile 2013

Aprile è aprile anche in Siria, leggero, è colline appena mosse, tutte primule e violette, il bianco in fiore dei rami di mandorlo, l’arancio dei tulipani,

e questo vento mite, gentile, carico di luce e gelsomino. Invece nella casa alla tua sinistra, ieri, era

quasi sera, Asma si è suicidata. Un proiettile in testa — aprile non è aprile, in Siria. Aveva tredici anni. La provincia di Idlib, a nord, confina con la Turchia ed è stata la prima a essere conquistata dai ribelli, che in Turchia hanno le loro basi. Ma “area liberata”, qui, non significa affatto area sicura. Perché è terra di missili, questa — ogni giorno: ti piombano addosso a caso, all'improvviso: i ribelli non hanno altra contraerea che il maltempo e la foschia. Missili e islamisti. Sono arrivati dalla Libia, dalla Tunisia e dall’ Afghanistan, veterani di mille altre guerre, senza di loro il regime avrebbe già domato ogni rivolta. Ma nessuno sa quali obiettivi abbiano davvero. Sono temuti e invisibili. Pochi kalashnikov, in giro, pochi checkpoint — sembra la vita di sempre, ma è tutto nell’anarchia, qui, tutto 89

indecifrabile: è un vento asciutto denso di luce e di paura. Jabal al-Zawiya è una riserva naturale costellata di tombe romane e bizantine, è stralci di prato tra

rocce chiare e brulle. Poi però intravedi uno scintillio, sotto un arco in pietra, nel buio, nascosto tra

i cespugli, ed è il metallo di una teiera, tra l’erba un libro fradicio, uno straccio di camicia, vedi un

riflesso d’argento. E non è una delle tante rocce, ma un telo di plastica. È una porta. Sbucano da sottoterra, a decine. Magri, scalzi, lo sguardo stravolto e sdrucito. Si sono rifugiati qui ad attendere la fine della guerra in quest’aria umida e rancida, le volte delle tombe annerite dal fumo delle stufe a legna. Dormono sui sepolcri e tossiscono, tossiscono continui di tubercolosi come

Nader Khaled al-Badwy, ventisei anni, e sua moglie Sanaa, ventidue, in braccio Omar, un anno e sette

mesi. Si rigira tra le mani una scatola di medicine, sono le uniche che ha trovato, in farmacia, il bugiar-

dino è in inglese — “meglio di niente”, dice. Sono medicine per la meningite. Non hanno che pane, tè e acqua piovana, e in Turchia un’altra figlia, sette mesi, a cui ogni tanto cercano di inviare con

un contrabbandiere una bottiglia di latte materno. Sono qui da settembre, e da settembre qui non è passato nessuno. Una ONG, la Croce Rossa. Un

medico senza frontiere: nessuno. Non hanno la minima assistenza. Né la minima aspettativa, ormai. Domando cosa chiederebbero, se potessero, alla 90

Coalizione Nazionale, il coordinamento delle forze

di opposizione che ha sede a Istanbul, e che ha da poco nominato un primo ministro e un governo

provvisorio: rispondono solo “zucchero”. Perché sembrano le colline di sempre, in Siria, poi noti questi alberi, alti, emaciati e come infilzati nel terreno, distanziati gli uni dagli altri, questi alberi strani, questi chiodi, e non capisci. Poi realizzi: non sono che tronchi, mancano i rami. Per

riscaldarsi, hanno segato tutte le frasche, una a una. “Ma gli alberi no. Questo è un parco protetto.” Vivono compressi in ventidue, in queste due tombe, la più piccola si chiama Malaki, ha due mesi e nella sua culla a dondolo fa capolino a stento tra le mosche. Sono le famiglie di Ahmad Omar alYahya, quarantacinque anni, e Basam al-Amnou, quarantadue. Le ossa erano ancora lì, quando sono entrati, in quell’infossatura in cui ora sono impilate le coperte. Hanno seppellito tutto sotto un ulivo e si sono trasferiti qui, a testa piegata, le volte troppo basse, la luce che è un accendino, l’unica latrina segnalata non tanto da un muro di mattoni e dal colare dei liquami, quanto dalla nebbia di insetti. Gusci di scarafaggi, e quando piove, le tombe che si allagano e si sta fuori, sotto l’acqua. Un ragazzino ha il volto pesto, un polso spezzato — ci si infila dentro attraverso cunicoli scoscesi, pertugi di fango — è scivolato una settimana fa. Le loro case, nella vicina al-Bara, sono state spazzate via da un attacco aereo, undici famiglie in polvere. Fino a 91

oggi su al-Bara, 5000 abitanti, si sono abbattuti 6 missili e 275 mortai. Quello che sentiamo adesso è

il numero 276. Ci guardiamo un momento, un’alzata di sopracciglia, ci diciamo: “Un mortaio” — e torniamo a parlare. I rifugiati della guerra di Siria, che il 15 marzo ha compiuto due anni, sono oltre 1.000.000. Ma le statistiche delle Nazioni Unite si riferiscono ai profughi dei campi allestiti in Giordania, in Libano in Turchia, in Iraq. Non registrano gli sfollati rimasti qui. Che si stima siano 4.000.000: e non hanno niente, niente. Le ONG internazionali sono ancora

in rodaggio, ancora al confine, impegnate nell’ennesima riunione di valutazione e pianificazione, quelle locali spesso non sono che sigle improvvisate di siriani rimpatriati a intascare donazioni dopo anni all’estero. E le Nazioni Unite, per statuto,

operano attraverso il governo di Damasco: con il risultato che gli aiuti vengono distribuiti nelle aree sotto il controllo del regime. “Ma raggiungere la Turchia costa”, spiega Mariam al-Mohamad, cinquantasette anni, interrotta da un’altra esplosione. “Un po’ temiamo i saccheggi, e non vogliamo andare via. Un po’, però, la verità è che un’auto fino alla frontiera costa 300 dollari: e per una famiglia media sono necessarie tre auto. Quasi un anno di stipen-

dio. La verità è che diventare rifugiati, qui, è un lusso che non possiamo permetterci.” Ahmad Haj Hammoud ha trentun anni, e ogni giorno alle 8, puntuale, timbra il cartellino a Idlib. 92

È un dipendente pubblico. Solo la provincia, infatti, è sotto il controllo dei ribelli: in città funziona

tutto come sempre, negozi, uffici, scuole. E in tanti sono come Ahmad, di giorno parte del regime, di notte sue vittime. “Ma ho bisogno dello stipendio”, dice laconico, “e voglio semplicemente che questa guerra finisca.” Perché in tanti, ormai, in Siria, non sono né con Assad né con i ribelli. Sono solo stanchi. In trappola tra un regime feroce e un’opposizione disorganizzata, di ventenni in maglietta e fucile. “Non solo non hanno idee per il futuro. Il problema è che non hanno neppure regole per il presente. Pensano solo a se stessi. Hanno confiscato i granai, la farina, e lasciato tut-

ti alla fame, dicendo che la priorità è il fronte. Che hanno bisogno di energie per vincere, per liberarci. Ma per essere liberi, dobbiamo essere vivi.” Un'altra esplosione, intanto. Si combatte a pochi chilometri da qui, a Maraat al-Numan. È sulla verticale Aleppo-Damasco, strategica per avanzare verso sud. Il nome, Maraat al-Numan, è un intarsio del nome greco, Arra, del nome cristiano, Marre, e di quello del suo primo governatore musulmano, an-Numan ibn Bashir. “Una sintesi della Siria di ieri, in cui abitavamo tutti insieme”, dice Habib al-Hallaq, ventisei anni, disertore sunnita che a Damasco aveva casa in un quartiere alawita. “Una

sintesi della Siria di oggi”, lo corregge Noura Nassouh, quarantasette anni, la sua vicina di tomba, “in cui veniamo uccisi tutti, senza distinzioni.” 53

Perché aprile non è aprile, in Siria, e in questo

inganno di primavera punteggiato di boccioli e mortai si sta così, a pane e tè e acqua piovana, sem-

bra argento e invece è plastica, sembra quiete, è morte. Sono operai, un fruttivendolo, un imbian-

chino, un poliziotto, ma anche biologi, ingegneri precipitati qui con una laurea, un dottorato, qui in questa vita allo stato brado ad aspettare che finisca, avvolti come barboni in tutto quello che hanno trovato, l’espressione slavata e smunta, esausta, gli occhi di cenere, nel telefonino, bellissime, le foto-

grafie di Aleppo, di Damasco, di casa, le lampade in ferro battuto — e ti dicono solo: “Avevo una vita come la tua. I Rayban uguali ai tuoi.” Suad ha quindici giorni e gli occhi già rossi e sgualciti, è nata qui, in una tomba, in un’alba di missili, sua madre si chiama Adlalh Ziady, ha diciannove anni e mi fissa in silenzio, la pelle gialla. Esplode un mortaio, intanto qualcuno, intanto, muore,

e mentre penso cosa domandarle, continua a fissarmi in silenzio. Mentre penso: “cosa si prova a diventare madre in una tomba? Paura? Incertezza? E quando è iniziata, questa rivoluzione, immaginavi potesse andare così?” Mentre continua a fissarmi, in silenzio, nient'altro. E io che continuo a pensare, mentre esplode un altro mortaio, “E quin-

di ti hanno bombardato casa? E doveri? E cosa si prova quando ti bombardano casa?”, e non è che una morsa di insensatezza, “Cos'è la cosa più urgente, qui, latte? Medicine?” La morsa di infamia ti 94

stringe quando esci dalla tomba e i bambini ti hanno raccolto i fiori, e ti si aggrappano al braccio come fossi prezioso, come fossi qui per salvarli e invece non sanno, con i loro fiori, non sanno che siamo qui solo per l'ennesimo articolo che non insidierà nessuna coscienza, neppure la nostra. Non lo sanno, mentre ti si aggrappano al braccio, che non contano niente, perché cosa c’è da capire, ancora,

in Siria, cosa c'è da chiedere? Adlalh mi fissa in

silenzio, nient'altro, non parla perché giustamente non ha niente da dire, mentre esplode un altro mortaio e una donna, nell’angolo, stretta in questi suoi cinquant’anni che sembrano settanta, tre figli di cui non è rimasto neppure un cadavere, si copre il volto con le mani, immobile, e anche lei tace. Perché se i siriani sono finiti nelle tombe, le siriane

sono finite negli angoli delle tombe. È una Spoon River al rovescio, questa, in cui i

vivi, dalle loro tombe, parlano ai morti che guardano e non sentono. Amen al-Yassin ha trentasette anni, e insieme alla moglie, la madre e undici figli,

la più piccola ha cinque mesi, abita in una stalla tra capre e galline, su un ripiano barattoli di olive e spezie, un sacco di patate, pane marcio, nient'altro, il bucato steso a una catena per cani, stracci che non sapresti dire se sono una camicia, una maglia,

e di che colore. La loro casa, a Kafr Kouma, è in macerie, e non hanno trovato altro. Per questa stalla, che può essere centrata da un missile in

qualsiasi momento come la loro vecchia casa, paga29

no ogni mese 5000 lire, contro il fitto di 4000 che pagavano prima — ma per una casa vera. Perché in

guerra, la povertà è solidarietà solo nei romanzi: è speculazione, nella realtà, è frontiere popolate di trafficanti e faccendieri, si paga per tutto, qui, per un’auto fino in Turchia, per una bottiglia di latte materno, per dormire in un pollaio. E si paga tre volte il normale. Un altro mortaio. “Sto cercando una tomba. Ma sono tutte occupate, ormai. E quelle rimaste, in terreni privati, sono ancora più care.”

Ismail Khodor al-Yosef ha settantacinque anni e il cuore spompato da un infarto, le ossa che gli scolpiscono la pelle come un bassorilievo, è sdraiato per terra e aspetta di morire. I suoi rantoli incrinano l’aria rappresa della controra, sono cocci di bottiglia. Non è una di quelle morti a cui ti abitua la guerra, stringate, asciutte, un proiettile e via, no: è una morte

lunga, rude, in agonia, la morte di un uomo stretto alla vita, lo sguardo tenacemente rivolto verso la luce. Era il guardiano del parco. Dei suoi figli, tutti profughi, non ha notizie. Fissa la luce per terra, solo questo, la moglie alle sue spalle come una Pietà che non avrà il suo Michelangelo, nella tomba di un uomo di cui nessuno neppure conosce il nome, mentre lentamente, anche lui, semplicemente, scompare.

E alla fame, Aleppo, travolta da un’epidemia di tifo. Per strada si vende di tutto, sembra che ognuno abbia rovesciato a terra il salotto di casa, tra 96

teiere, televisori, telefoni, tovaglie, interruttori della luce, qualsiasi cosa. Più esattamente, pezzi di

qualsiasi cosa: perché Aleppo non è che macerie, uno ti vende il passeggino, un altro le ruote. Ibtisam Ramdan ha venticinque anni, abita con i suoi tre figli e la tubercolosi in un trancio di fognatura sotto l’argine del fiume, la porta è una grata di pollaio, il focolare un bidoncino di vernice, e que-

sti tre bambini nel buio piangono e tossiscono, tossiscono così forte e piangono così disperati che rantolano. Su un ritaglio di cartone, un residuo di riso — non hanno neppure dei piatti, e comunque qui intorno, al momento, non c’è niente di commestibile. Come loro, decine d’altri: tutto l’argine del fiume è faglie e tuguri, non sono baracche, non sono grotte, non sono che cumuli di pezzi di cose, lamiere, assi di legno, teli di plastica — a un certo punto, semplicemente, ci sei dentro, tra donne, bambini, anziani mutilati e muti. Passi a un centi-

metro da loro e queste bocche senza denti neppure ti guardano, la pelle tempestata di infezioni, nera del carbone delle stufe. Persino i gatti, qui, sono malati. Provi a scostare un’anta e trovi un ammalato in fin di vita, provi a scostarne un’altra, e trovi un uomo che sta scuoiando un topo, un’altra ancora, e solo una ragazza, vuota, immobile, e come assen-

te. Provi a fare una domanda, e il tuo interprete che crolla in pianto e ti dice “Scusa, ma non ho più parole, non ho più parole per tutto questo.” È così alla fame, Aleppo, così sfinita che imisSI

sili colpiscono e si rimane ad abitare tra le macerie. Come ad Ard al-Hamra, 117 morti — di cui 17 ancora qui, sparsi sotto di te. I vivi sbucano da scale, soffitti collassati, uno a uno, da pavimenti sgretolati, mozziconi di pilastri, un tappeto che pende dalle pale di un ventilatore: non hanno che quello che hanno addosso, nel Nokia di Fouad Zytoon,

trentasei anni, la foto di una testa scagliata su una mensola, è sua figlia. Insistono per raccontarti tutto nei dettagli, “Vuoi i nomi delle vittime?”, ti chiedono, “Ho l’elenco completo”, e tu ti vergogni a dirlo, ma no, non hai bisogno dei nomi, è sufficiente il numero, e poi è tardi, e Aleppo è mille storie e questo è solo un rigo del tuo articolo, è tardi, davvero, e poi sei stanco, e impolverato, e sei terrorizzato da questo aereo, sulla tua testa, che continua a girare, e girare e girare, il pilota che sta scegliendo chi bombardare, e forse sta scegliendo te. Hai bisogno solo del numero, “Grazie, è sufficiente, 117, di cui 17 mai recuperati” — e il ragazzo, a bruciapelo, che ti guarda, ti dice “Hai visto? Non resta più niente, delle nostre vite, neppure un nome.” Sembra normale, Aleppo. E i giornalisti sono andati via. Tra le macerie è cresciuta l’erba, tanto la guerra è diventata carne di questa città. I tassisti ti vedono con la Nikon al collo e ti fermano come fossi un turista, ti chiedono: “Andiamo al fronte?” Poi incroci una bimba, sorride, bionda, scatta sull’attenti e ti fa il saluto militare. Poi incroci uno spazzino, un elettricista che ripara un’antenna, e come 98

una sferzata di frusta, all’improvviso, il corpo che

cade, abbattuti. Un cecchino. Poi all’ingresso dell’ospedale, mentre l’aereo compare, scompare, riappare, plana, torna in quota, sono stesi i cadaveri senza carta d’identità, la gente passa, solleva appena il lenzuolo, si accerta che non sia un fratello, un cugino. Poi entri in un campo giochi, mentre forse

sta scegliendo te, e tra le altalene c’è un sacco a pelo, e dentro il sacco a pelo un ragazzo violaceo, un foro alla tempia, mentre sono i minuti più spietati, ti guardi intorno e ovunque, sfiancate dall’artiglieria, solo queste case che sono un piano abitato e un piano dilaniato, un triciclo carbonizzato appeso a mezz'aria, nel vento dondolano una lampada, una tenda, fossili di vite comuni. Perché sembra nor-

male, Aleppo: poi entri in una scuola, in un’aula con i bambini chini sui libri, in silenzio, e il maestro ti mostra i disegni. “Il mio migliore amico”: uno è un bambino tra le macerie, uno un bambino senza una gamba, uno è un foglio, rosso, tutto rosso, impregnato di sangue. Mentre forse tocca a te, adesso, e non ti rimane che stringerti a te stesso, insieme a tutto quello che non hai detto, nella tua vita, le volte in cui non sei stato capace di amare, le

volte che non sei stato capace di osare, le parole che ti sono rimaste impigliate tra le dita le volte che... adesso è tardi, invece, è tardi per tutto, e la vita è di una bellezza feroce, adesso che forse tocca a te. Fino a quando concitato, un uomo arriva e

annuncia: “Bombardato Sheik Said.” 25)

Perché è ruvido ammetterlo, è difficile, ma è un sollievo infinito. Sheik Said: non tu. Un sollievo infinito, sapere che qualcuno è morto. È come se questa guerra non ti derubasse dell'umanità, ma ti lasciasse nudo allo specchio, all’improvviso e con ancora più violenza, nudo in quello che davvero sei. Perché conti solo tu, nella tua vita, sanguina ammetterlo ma questa guerra non ti ha derubato di niente. La tua umanità, semplicemente, la tua diversità — non è mai esistita. Conti solo tu. E una vita così, che vita è?

I giornalisti sono andati via uno a uno. Sembra normale, Aleppo, ma il fronte è ancora qui, capisci che ti è vicino quando in direzione opposta alla tua inizia la fila dei siriani in fuga. Decine di furgoncini carichi di tutto si stagliano contro un cielo che ribolle di esplosioni: e non è esattamente l’immagine che assoceresti alla parola “liberazione”. Si portano via tutto, i profughi, il frigorifero, i divani, persino i vasi con i fiori: perché altrimenti sarà rubato tutto — i ribelli svuotano i negozi, smontano i macchinari delle fabbriche, si rivendono i marmi, le finestre di legno intarsiato. Si rivendono le coperte, i tappeti, i piatti. Tutto. Avanza così, il fronte: di città in città, di quartiere in quartiere, avanza come uno tsunami e dopo il suo passaggio non rimane niente, solo bambini che giocano a pallone 100

nella polvere, mentre il regime bombarda tutto il bombardabile, e i ribelli si aggirano nelle loro jeep per arrestare, torturare, a volte giustiziare sul momento chiunque sia sospettato di collusione con il regime — o di qualche altra accusa a loro discrezione. Shabia. Dopo i combattimenti, ibombardamenti: è sempre così. Dopo i bombardamenti, i saccheggi. E dopo i saccheggi, le faide tra ribelli per il controllo delle macerie. “Sono solo invenzioni dei giornalisti!”, mi contesta un loro portavoce mentre attraversiamo un mercato. E intanto, compra del riso

con stampato in bella vista Aid. Not for sale. Si rivendono anche gli aiuti umanitari. Sono tenacemente contro il regime, i siriani, ma

anche, e sempre più, contro i ribelli. Accusati di avere trascinato Aleppo in una guerra che non erano pronti a combattere, con le loro scatolette di tonno convertite in granate. E ora accusati anche

di saccheggi ed estorsioni, e soprattutto di avere consegnato il paese a Jabhat al-Nusra, agli uomini di al-Qaeda. Sono sbarcati qui dal Sudan, dalla Somalia, dagli Stati Uniti, dal Belgio, dalla Bosnia, dalla Svezia, dallo Yemen, dall’Indonesia, da Irlanda e Romania. Con la loro esperienza, con le loro armi sofisticate, hanno cambiato gli equilibri della guerra, evitato una sconfitta che sembrava certa. Ma hanno cambiato anche gli equilibri della Siria, un paese laico, a favore dell’Islam. Continuano a essere una mino101

ranza, secondo le stime sono circa il 5 per cento dei ribelli, ma sono anche i più addestrati, i più equipaggiati, quelli che decidono. E continuano a essere inaccessibili. Di loro non si sa molto, con i giornalisti non parlano e governano attraverso fatwa postate su internet, emanate non si sa bene da chi,

e in nome di quale autorità. Ma imposte si sa bene come: perché ogni tanto cammini, ad Aleppo, e vedi una jeep nera accostata al marciapiede, blindata, i vetri scuri. E poi vedi un uomo, davanti a te, all'improvviso, che viene afferrato di spalle, colpito in testa, scaraventato dentro. E fino a oggi nessuno è mai tornato vivo a dire poi cosa accade. E quindi di loro non si sa molto altro. “Ma non scrivere che non siamo democratici”,

mi ammonisce un saudita nel loro quartier generale, “se hai domande, trovi tutto sulla nostra pagina Facebook.” L'unica certezza è che non hanno contraerea

neppure gli islamisti. Per rassicurarci, stanno lì con le loro doshka, le loro fionde puntate verso il cielo. Ma l’unica contraerea, qui, è la pioggia. Come dice Wael, “l’unico rifugio è la fortuna.” Ha otto anni. E riprende a giocare a pallone, ogni tanto qualcosa, intorno,

esplode e crolla. Ti fissano stralunati, i siriani, fermi a bordo stra-

da come un presepe dell’Armageddon. Poi passa un autobus, ed è un istante. Pensi a quella volta che c'erano cecchini e granate ovunque, a quell’autobus 102

dietro cui ci siamo nascosti, a quel ragazzino che era quasi arrivato anche lui, quasi in salvo. Ma è solo un istante, tiri dritto, entri in una casa qualsia-

si e a destra nella penombra c’è un sottoscala. Un sottoscala come quello... bombardavano, ti ricordi? Bombardavano tutto, e quell'uomo ti cedette il posto perché rimanessi viva e raccontassi al mondo. Ti ricordi? Disse “La tua vita è più importante della mia.” E all’angolo dello Shifa, poi, quell’asfalto appena mosso dove prima c’erano due voragini, due bombe lì dove per poco non è morto Alessio, non è morto Narciso. E quel muro davanti, c’era un cadavere lì, e un mortaio, ti ricordi? Un mortaio che l’ha centrato in pieno, che l’ha disintegrato. Non lo senti? Nell’aria c'è ovunque un cadavere. Ad Aleppo cammini, provi a tirare dritto, ma in ogni angolo c’è un’altra città dietro la città, un’eco in ogni voce, un morto dietro ogni vivo, questa polvere, questa cenere sono un monumento al civile ignoto. Un bambino arriva e ti si aggrappa al braccio, urla “Ho perso tutto!” e ti strattona, e ti implora, “Ho perso tutto!”, e ti sembra solo di precipitare, mentre tutto torna, all’improvviso, davanti a te, tutto si fa vertigini, “Ho perso tutto!” urla, e non va via, ti si aggrappa addosso. Lì dove credevi fossero calcinacci ed erano cocci di cranio, lì dove hai visto Abdallah l’ultima volta, la prima volta che hai detto “ti amo”. Esausto, e ormai grigio di polvere, ti snodi tra gli ennesimi sacchi di sabbia per schivare l'ennesimo cecchino. “Ma tra 103

quanto arriviamo?”, chiedi, i nervi in frantumi, “

ancora lontano?” Ed è solo allora che capisci questa guerra, quando in mezzo al nulla, Alaa ti dice: “Siamo già arrivati.”

Perché dell’antico souk di Aleppo, i 4000 metri quadrati più incantevoli del Medio Oriente, la cartolina più famosa della Siria, un turbinio di voci, e storie, colori, uno straripare di vita, non è rimasto

che questo: macerie. I piedi che affondano, spunzoni contorti di ferri arrugginiti, vetri, lamiere, le serrande sventrate e traforate dai proiettili. Polvere e pietre, nient’altro, davvero nient'altro. Ti guidano vicolo per vicolo, i ribelli: “questo è il merca-

to del cotone”, ti spiegano, “questo il mercato degli orefici, a destra le spezie, lì in fondo l’argento.” E invece non sono che macerie. “Qui le spose vengono a comprare l’abito”, e ti indicano un mozzicone di qualcosa, “qui l’anello” — verbi all’indicativo presente, e tu non vedi niente. Qui dentro non è rimasto neppure un topo.

Iyad ha trentadue anni e un’aria fragile incastonata tra i muscoli larghi, fa il falegname — “il mio laboratorio è quello all'angolo”, ti dice, anche se all'angolo non c’è che un soffitto franato, un moncone di muro, e anche se adesso fa il cecchino, due ore al giorno, ogni giorno, dorme qui, un materas-

so e una coperta di fianco a uno scheletro di porta. È morto il fratello, è morto il padre, è morto il suo migliore amico, sono morti tutti, è morta sua figlia di due anni, nel cellulare la foto del cadavere nel 104

sangue, e adesso fa il cecchino, semplicemente questo, due ore al giorno dietro uno scudo di sacchi di sabbia, guardi nel foro da cui spara e gli elmetti degli ultimi soldati che ha centrato sono ancora lì, in mezzo alla strada. A qualsiasi domanda, Iyad dà la stessa risposta. “Ma cosa si prova”, gli chiedi, “la prima volta?” e ti mostra il cadavere della figlia. “Mentre un uomo rantola, dentro il tuo mirino, cosa si pensa?”, e ti mostra il cadavere della figlia. “Ma quando tutto questo finirà, cosa farai? E che Siria sarà?”, e solo il cadavere della

figlia, solo il sangue che cola — fino a quando ti dice: “Altro da sapere?”, infila il telefono in tasca e ricomincia a sparare. Hanno diciassette, diciotto, vent'anni, e occhi

trasparenti che puoi guardarci attraverso e vedere le macerie alle loro spalle, per quanto sono vuoti. Combattono qui da mesi, l'orologio al muro è fermo alle 17.47, era il 25 settembre e Aleppo un inferno, un'esplosione ogni pochi secondi, la città vecchia, dichiarata dall'UNESCO patrimonio dell’umanità, fu travolta dalle fiamme. Si aggirano tra le spoglie della tempesta in kalashnikov e maglietta, sotto gli anfibi le calze dei Simpson: sono i nuovi padroni di Aleppo, ragazzini che hanno a stento un diploma, a stento un mestiere, però hanno un kalashnikov, ora hanno annusato il potere e non torneranno a essere nessuno come ai tempi di Assad. Sono accampati qui con il loro fornellino da campeggio, il sacco a pelo come fosse il loro interrail, parlarci è 105

inutile, non ricavi mezza parola, mezza emozione. Presidiano ogni angolo, ogni avanzo di muro, qui, ha il suo checkpoint e le sue guardie: pattugliano le strade di una città immaginaria — “questo è il sarto migliore di Aleppo”, e non è che una catasta di lamiere taglienti sotto il tito di un cecchino. E quando ti imbatti in una nebbia di insetti, in un angolo, tu che conosci Aleppo, ormai lo sai: lì sotto ci sono resti umani. In uno squarcio di mortaio, a un certo punto, qualcosa di dorato che ancora brilla. È un lampadario, abbassi la testa, incuriosito, scivoli dentro e ti ritrovi tra decine di copie del Corano infilzate dai proiettili: è la vecchia moschea. Quello che ne rimane.

I muri sfigurati dall’artiglieria, i candelabri divelti. Incisioni, decorazioni piallate via, le sfumature del rosso, sul tappeto, ora sono sfumature di sangue. E da un pilastro all’altro, teli di plastica scura: i cecchini di Assad sono dall’altro lato del cortile. Perché è una guerra del secolo scorso, la guerra di Aleppo, è una guerra di trincea combattuta a colpi di fucili. Ribelli e lealisti sono così vicini che si insultano mentre si sparano — al fronte, la prima volta non ci credi: queste baionette pensavi non si usassero più dai tempi di Napoleone, oggi che la guerra si fa con i droni. Invece qui si combatte metro a

metro, con quella lama legata alla canna e cariata di sangue, perché è davvero una battaglia 106

corpo a corpo, i cani randagi, fuori, che si contendono un osso di tibia. Anche se non sono che pretoriani di un impero di morte, ormai, mentre

ti salutano con il segno della vittoria come fossero davanti al Colosseo per una foto ricordo, e invece sono davanti a minareti schiantati a terra,

rovi di lamiere. Mentre fermano il fotografo: “Qui è vietato entrare”, dicono, “è l’area riservata alle donne”, e invece non sono che resti

carbonizzati di cose che neppure capisci cosa sono. Mentre montano la guardia a un’allucinazione: tutto, qui, tra i fantasmi delle spose, è più

sacro della vita. Sembrano strade, sono La strada di Cormac McCarthy. Neppure il muezzin, ormai, chiama più alla preghiera: cerca donatori di sangue per i feriti dell’ultimo missile. Solo una grandinata di kalashnikov, all’improvviso, ti risveglia — fuori si ricomincia a sparare, è l’unico segno di vita. Fuori, qualcuno muore, qualcuno non è ancora morto.

Devono indicartelo tre volte nei vicoli affollati di Bustan al-Qasr, uno dei quartieri più poveri di Aleppo. Non lo riconosceresti mai, qui in mezzo,

neppure con una sua foto in mano: somiglia a qualsiasi altro siriano — i capelli neri, gli occhi neri, i baffi. Minuto, ha una camicia bianca, trent'anni, e

l’aria ordinaria di un impiegato di provincia degli anni settanta. Ma non è per il suo aspetto che Abu 107

Maryam è il ritratto dei siriani di oggi. Perseguitato dal regime, è stato aggredito dai ribelli e ora è ricercato dagli islamisti. “Ero in mensa a cucinare, una sera, la mensa per

gli sfollati, quando ho sentito dei colpi contro una serranda. Era la brigata Fatah, che cercava di entrare nel magazzino all’angolo. Mi sono avvicinato, hanno detto: ‘è di uno shabia.. Hanno detto: ‘abbiamo mandato di confiscare tutto.’ Ma ci conosciamo uno a uno, qui, e non era vero, il proprietario non

era uno shabia. Allora ho protestato. Ma mi hanno circondato. Insulti, spintoni. E a un certo punto il calcio di un fucile mi ha spaccato la testa. E qualcuno, già che c’era, mi ha anche rubato il portafogli.” Trauma cranico, tredici punti. “Non so onestamente questi ragazzi chi siano. Da dove vengano.

Alcuni, però sono volti noti: erano alle manifestazioni. Elmetto e manganello, erano poliziotti. Nell’Esercito Libero mi sembrano fedeli a un vecchio proverbio arabo: meglio il cane che abbaia insieme a te che quello che abbaia contro di te.” “E quindi, all’inizio, in un contesto così, con tutti questi ragazzi fuori controllo, questi kalashnikov, gli islamisti sono stati un punto di riferimento. Corretti, rigorosi, inflessibili. Non hanno solo fermato Assad, ma anche ripristinato un minimo di ordine

pubblico. Poi però hanno cominciato a presentarsi alle manifestazioni, pretendendo di sostituire i nostri striscioni con i loro, che invocavano il califfato invece che la democrazia. Non sono mai stati amati, qui, 108

perché il nostro, in fondo, è un paese laico, e anche

i musulmani hanno sempre distinto tra sfera privata e sfera politica. Erano rispettati, oggi sono soprattutto temuti. Qualsiasi cosa dica, ti accusano di esse-

re blasfemo. Dici loro che le armi sono vietate alle riunioni, dici loro di lasciarle fuori, e ti dicono che hai offeso Maometto. Dici loro che il pane si distribuisce qui, non in moschea, e ti dicono che hai offeso Maometto. Un venerdì, a un corteo, ho strappato i loro striscioni. La prima volta sono scappato, la seconda mi hanno arrestato e frustato.” Mi guarda, mi dice: “Sono preoccupato, combattono allo stesso modo i criminali e chi non condivide le loro idee. È quello che in genere fa un regime”. Abu Maryam, in realtà, non è un siriano come gli altri. È il leader di Bustan al-Qasr, uno dei quartieri più pericolosi, ad Aleppo. Il fronte ci si incunea dentro, ogni tanto cammini e ti imbatti in una barriera di pneumatici e bidoni — significa che di là si spara, di qua quei bidoni sono la porta di un campetto da calcio. Eppure, Bustan al-Qasr è una specie di città nella città dove i cittadini si sono auto-organizzati: hanno le loro scuole, il loro ambulatorio, una radio. Gestiscono l’acqua, l'elettricità, la mensa per gli sfollati. Era il progetto originario dei Comitati Locali di Coordinamento, da cui tutto è iniziato, in Siria, prima che si formasse l’Esercito Libero: scalzare il regime non abbattendo tutto, ma appropriandosi delle istituzioni pet 109

rifondarle con nuove persone, nuove idee. Lasciar

perdere i funzionari del Ba’ath, del partito unico a cui di fatto era affidato il potere, approvare nuove leggi, lasciar perdere i governatori nominati dal regime ed eleggerne di nuovi, propri. “Senza sfidare Assad sul terreno che gli è più congeniale”, dice Abu Maryam, “la violenza.” “Perché con le armi è ovvio che vince lui”, dice. “Ma con i numeri no, Possiamo scegliere, possiamo essere proiettili contro aerei, oppure 22.000.000

contro uno solo.” In teoria, i Comitati Locali di Coordinamento esistono ancora. Non solo qui, in tutta la Siria, ma

non finiscono mai sui giornali. “Capisco”, dice Abu Maryam. “Capisco che la Siria è una guerra tra le tante, per voi. Che è una gara al rialzo. E che la madre che perde due figli e reagisce sparando è più scenografica di quella che reagisce adottando due orfani, capisco. Il problema è che se si parla solo di chi combatte, qualunque rivoluzione diventa una guerra. Il problema è che la mia libertà dipende anche da te.” Dopo 94.000 morti, 1.663.713 rifugiati, gli attivisti non hanno perso la loro energia, la loro determinazione. Dopo due anni e quattro mesi, un’unica cosa è cambiata, qui: ora non protestano più solo contro Assad. “So che per voi sono un simbolo della Siria di oggi. Braccato da tutti. Dal regime, dai ribelli, dagli islamisti. Sono perfetto. Invece sono un simbolo in 110

un altro senso: sono un simbolo perché sono ancora qui. Possono tentare di imporci quello che vogliono: i ribelli, gli islamisti, chiunque. Non siamo più disposti a obbedire, a subire. Ed è una differenza importante. E la certezza che non si torna indietro. E in questo che sono un simbolo della Siria di oggi.” “Pensa e Hama”, mi dice. “Non comprendi la Siria di oggi se non pensi a Hama.” A Hama, in effetti, i siriani si sono sempre rife-

riti così, senza altra specificazione: “Quello che è accaduto a Hama.” Era tale la paura, sotto il regime, tale il terrore, che i siriani non hanno mai detto “il

massacro di Hama.” E invece, in venti giorni furono uccisi in 20.000. Febbraio 1982. Hafez, il padre di Bashar, liquidò così la rivolta dei Fratelli Musulmani, che ispirati dalla rivoluzione islamica in Iran del 1979 avevano cercato di rovesciare il regime. “Non solo perché era un regime laico, e in più guidato da un alawita, ma perché era un regime allineato all’Unione Sovietica”, precisa Abu Maryam. Un regime cioè che pilotava l'economia attraverso piani quinquennali, aziende di stato. Espropriazioni. Mentre i Fratelli Musulmani erano espressione della borghesia, del ceto imprenditoriale — perché per capire la Siria, al solito, Marx è più utile del Corano. Nel febbraio del 1982, i tre anni di scontri si conclusero con il massacro di Hama, fucina della rivolta.

Fu letteralmente rasa al suolo. Cancellata. Ed è per questo che in tanti, qui, sono ancora 111

convinti che Assad possa resistere al potere. Perché quello che a noi stranieri sembra impossibile, dopo tanta violenza, è già stato possibile. È per questo che altri,invece, sono convinti dell’opposto, perché la Siria è complicata e quindi, all’opposto, dicono: i ragazzi sono la nostra speranza, non sono più

disposti a tacere, a subire. Ora che conoscono la libertà, non la dimenticheranno.

L'appuntamento, puntuale, è ogni venerdì alla moschea. Hanno diciassette, diciotto, vent’anni,

non di più, il corteo si snoda nei vicoli più stretti per non essere centrato dai mortai. Gli adulti, alle finestre, osservano dall’ombra. Quando li intravedono, dietro le tende un filo scostate, dal basso urlano: “Complici! Complici! Il vostro silenzio è la voce di Assad.” Ed è tutto quello che è rimasto

della rivoluzione. Questa manciata di ragazzini laceri di fame e di tifo, mezzi scalzi. Le stampelle, i cerotti. Il furgoncino con il megafono e gli amplificatori è ancora senza benzina, ancora spinto a mano mentre una ragazza, il timbro blues, intona una poesia in memoria dei martiri: ora che di te, canta, ora che di te non è rimasto più niente, solo polvere e pianto mentre a ogni curva, tesi, svoltiamo

piano, cauti, in attesa del primo cecchino. Però cantano, questi ragazzi, cantano così fragili, e a ogni metro aumentano. Indifesi e senza più neppure benzina, mentre tirano fuori i tamburi e la guerra di Siria, improvvisa, di nuovo sembra farsi primavera siriana: e non più missili e sangue, macerie, 112

ma solo slancio e coraggio mentre iniziano le danze, mentre la ragazza canta, ancora, ora che non ci sei, ora che tutto mi parla di te, ora che l’onda,

dalla prima fila, si allarga, dilaga, divampa e tu li guardi, uno a uno. Tu e loro, la stessa generazione, però così diverse, e come non sentirsi coinvolti?

ora che ti ho perso, come non sentirsi travolti ora che di te, dice, sono rimasta io mentre assente li guardi e li invidi, forti, loro che ballano e ridono, anche così, anche tra i fantasmi, anche tra le mace-

rie, davanti a te che invece non sei stato capace di provarci, nella vita. Esplode un mortaio su un palazzo già distrutto a trecento metri, anche di più. Ma il corteo, istantaneo, si disperde. Rimane l’asfalto sparpagliato di ciabatte, bandiere, bottiglie. Il megafono, una sedia rovesciata, bianca. E solo questo furgoncino, di traverso, nella strada deserta. La musica ancora accesa. La polvere, che lenta si deposita. Il locale in cui ci siamo infilati di corsa è un piccolo negozio, vende carne in scatola, succo di mango, dei vecchi biscotti. Il proprietario è un ragazzo alto e magro ed è appena tornato dal suo turno: come tanti, qui, fa otto ore al fronte, otto ore al banco. Nota la Nikon. “Mia moglie è nell’Esercito Libero”, dice — da quando la storia di Guevara ha girato il mondo, a ogni angolo, qui, qualcuno ti fermaeti dice: mia moglie è nell’Esercito Libero. Aggiunge: “100 dollari.” Abitano al piano di sopra, lui ha trentotto anni, 113

lei ventisei, apre la porta in jeans, ma in un minuto

riappare in mimetica e berretto da baseball con il logo di Jabhat al-Nusra. Dei tre figli, l’ultima ha quattro mesi e si chiama Rivoluzione, di lei se ne occupa la nonna: la ragazza e il marito si alternano tra fronte e negozio — anche se lei, al fronte, non

combatte, cucina. Si sistema per la foto, si pettina, si riassesta il trucco, la matita, Rivoluzione in braccio, nell’altra mano una Beretta. Entra Mahmoud, cinque anni, la maglietta dei Pokemon e un fucile di plastica. Entra e mi dice: “Da grande assassinerò Assad.” “E dopo, dopo che avrai assassinato Assad. Cosa farai, dopo? Il medico? O magari l’astronauta? Potresti fare l’astronauta, il calciatore, il violinista.” Assassinare Assad non è un mestiere. “Voglio tagliare la gola agli infedeli”, dice, “Sono tanti, non ci vuole mica un giorno solo.” Eccoli, ibambini, ora che conoscono la guerra.

“Ma l’obiettivo, qual è?”, chiedo trascinandomi

in una trincea di quelle che ho visto solo nei libri di storia, il fango che già mi arriva alle caviglie. Mi indicano una specie di deposito, duecento metri più avanti. Un parallelepipedo di cemento. “Conquistare quello.” “E poi?”, chiedo incauta. “Conquistare quello”, e mi indicano un altro deposito, un altro scatolone di cemento. Altri trecento 114

metri più avanti. “E poi quello a destra”, altri venti. Fino a Damasco, sono quattrocento chilometri. L'aeroporto di Aleppo è ancora alla periferia orientale della città, e ha ancora al suo interno un

aeroporto militare e la Brigata 80, assediata da decine di jihadisti sbarcati qui a rinforzo della rivoluzione dal Kuwait, dal Pakistan, dall’Algeria,

dall’ Albania — e da svariate periferie europee. Non si beve tè, sui fronti in cui combatte al-Qaeda: si beve Red Bull. La battaglia è iniziata a dicembre. Perché è dall’aeroporto che transitano i rifornimenti alla metà di Aleppo sotto il controllo del regime, e ai suoi soldati, soprattutto. Per i ribelli occuparlo è decisivo. L'idea, in origine, era avanzare di base militare in base militare. Da nord a sud, mappa alla mano: Idlib, Aleppo, Hama, Homs, Damasco — ma dopo due anni e cinque mesi, 101.000 morti, siamo ancora a Idlib. Ancora a quaranta chilometri dal confine con la Turchia. E gli islamisti, allora, più addestrati, dopo un giorno che sono sbarcati hanno cambiato strategia: adesso non si avanza più di base militare in base militare, perché sono troppe. Ci si concentra solo su quelle più importanti per poi convergere tutti su Damasco. E questa settimana, quindi, i ribelli hanno lanciato l’offensiva definitiva, qui — dopo l’offensiva definitiva di tre settimane fa. Se non fosse che la superiorità di Assad sta negli aerei, e gli aerei non decollano da qui. til)

“Allah Akbar”, mi rassicura Ilyas. Dio è grande. Dio provvede. Ha trentanove anni, Ilyas, è ceceno di Grozny, ed

è qui perché la Russia, che sostiene Assad, gli ha sterminato la famiglia. Anche Yandar è ceceno, ceceno di Grozny, ha trentatré anni, ed è qui perché la Russia, che sostiene Assad, gli ha sterminato la famiglia -— come Aslan, trentasette anni, in giro per guerre da ventuno. Come Dalkhan, trentasette anni, in giro

per guerre da ventitré. Dopo la Siria, vogliono andare in Libano. Daud e Movsar sono fratelli, invece,

hanno ventitré e venticinque anni, sono nati a Grozny ma cresciuti a Londra, studiano Ingegneria. Dopo la Siria vogliono andare a dare l’esame di Statistica. Un mortaio, l'ennesimo, centra la trincea: e la battaglia, ancora, ci si schianta addosso. Perché non è che una trincea di terra, questa, nascosta tra

cespugli e cumuli di mattoni e pietre e ferri arrugginiti, una trincea da prima guerra mondiale, di quelle che pensi che ora sbucherà Cadorna con i rinforzi a cavallo — e in tre, semplicemente, scompaiono polverizzati. Bisogna spostarsi, e rapidi. Il mortaio è sparato da una postazione semi-mobile, al primo colpo, il tempo di ricaricarlo, segue sempre un secondo. Corriamo via come topi, la testa

bassa, il secondo colpo che si abbatte ancora più vicino: corriamo ancora più veloci, il terzo, il quarto — ma la trincea è finita. Mentre Yandar e Aslan ci coprono con una barriera di fuoco, attraversiamo uno a uno, al volo, verso un muro di cemento, la 116

mente spenta, l’aria ormai densa di terra, e polvere

e foglie, schegge, frammenti indecifrabili, i mortai che insistono, implacabili, sempre più vicini. “Arriveranno fino a noi”, urla Ilyas, “siamo già morti: non rimane che attaccare.” Ilyas è il primo a scavalcare e lanciarsi verso il deposito. Viene centrato quasi subito, il cecchino continua a scaricargli addosso proiettili mentre gli altri, dietro, scavalcano tutti to, in un secondo, è guerra, cinema, corpi che corrono, che sembra la follia. Mentre

insieme e in un minuguerra che sembra il che cadono — guerra Ilyas, a terra, ancora

spara, fino all’ultimo rantolo. Dalle due opposte retrovie, partono colpi di RPG, partono razzi, dall’in-

terno del deposito rimbombano kalashnikov. E a ogni morto, l’urlo: Allah Akbar. Mi trascinano vicino i cadaveri, carne e sangue ed espressioni stravolte, servono a fare barriera. A tratti qualcuno sembra sussultare, qualcuno muoversi. Ma deve essere un’allucinazione: perché va avanti per due ore, la battaglia, i cadaveri che si accumulano, ti

sfiorano, ti guardano, ti colano addosso. Come una voragine senza fondo, per ogni corpo che torna, un altro che si lancia, e solo quest’urlo, A/lab Akbar. Si lancia e va, il deposito lo ingoia fino a quando un mortaio ne colpisce l’ala destra, spazzandone via metà. Ed è allora che qualcuno, dalla trincea, tira una bomba incendiaria. Il fumo. Poi qualcosa, dentro, che esplode. E tutto si perde, tutto, dentro, ora tace.

117

Allab Akbar, Allah Akbar, ripete un ceceno. E abbraccia Dalkhan. Allab Akbar, Abbiamo vinto. Abbiamo vinto. Mentre le fiamme divorano tutto, inclusi i suoi compagni.

E mentre qualcuno, anche dall’altro lato del fronte — non ho dubbi — qualcuno contempla le ceneri, in questo momento, ed è lì che esulta: abbiamo vinto.

Mi ricordo solo l’asfalto. Che poi non era più neppure asfalto, era ricoperto come da una ghiaia di vetri, pietre, schegge — era la seconda linea del fronte, Sheik Magsoud. Quei momenti in cui si capisce poco: avevano finito di bombardare da un paio d’ore, l’aria ancora spessa di fumo, ed era iniziata la caccia all'uomo, strada per strada. I ribelli che cercavano gli shabia. Uno a uno. Ma mi ricordo solo l’asfalto. Solo che mi sono ritrovata a terra, all’improvviso, ho attraversato per ultima, di corsa. Il cecchino sparava dalla nostra sinistra, da un ospedale o qualcosa di simile. So solo che mi sono ritrovata a terra. Che mi aveva colpito l’ho capito dopo, quando mi sono rialzata e trascinata dietro un’auto. Il ginocchio era tutto bruciato, tutto polvere e sangue. 118

Non so perché non abbia sparato di nuovo. Stanley dice era un proiettile vagante, perché mi ha colpito di striscio. O forse ha visto il velo, sotto l’elmetto. Mi ricordo solo l’asfalto. Solo quei tre secondi — tre, cinque, non so. Una vita, il naso sull’asfalto.

Quei tre secondi in cui ho pensato “Come avete potuto lasciarmi qui? Dove cazzo siete? Dove cazzo siete tutti?” Per cui adesso sono qui, con il ginocchio fasciato, e mi aggiro zoppicando per Antakya un po’ stonata, mezza triste mezza perplessa. Un po’ vuota. Leggo tutt’altro, leggo un romanzo. Anche perché non è rimasto più nessuno, qui. E di quei pochi che sono rimasti, arriva Lorenzo, poi, ti guarda il ginocchio e dice: “E non c’era neppure niente da raccontare.” E quindi leggo e trangugio cappuccini all’Ozsut Café, che è il caffè degli stranieri, tutto lucido — uno di quei caffè come è oggi il mondo, che chiedi un biscotto e hanno solo muffin, e ovunque stai, qualunque paese, ti preparano questa finta colazione americana, con tanto di uova strapazzate. Hanno anche lo sciroppo d’acero, tu che credevi lo usasse solo Paperino, anche la torta alla banana, e alle nove del mattino sono già lì che ascoltano Justin Bieber. Ma mi ha scritto una ragazza. Una ragazza che non conosco, tale Martina, avrà vent'anni, studia antropologia alla Sapienza, a Roma. Mi ha scritto perché mi legge, e i lettori a volte sono strani: 119

mi ha inviato l'elenco delle cose che ama fare, a me che neppure la conosco, e non so perché. E questo elenco dice cose tipo: guidare di notte con i finestrini aperti. Di notte. Io ho pensato: ma ti sparano, di notte, sei matta? Ho pensato: quanti anni sono che non guido di notte con i finestrini aperti? Sono qui all’Ozsut perché amavo i caffè, prima di tutto questo. Forse era la cosa che amavo di più. Chiacchierare con gli amici nei caffè. Soprattutto quelli sul mare, o su un lago, un caffè bellissimo sul lago di Piediluco, una volta, una luce come non l’ho mai più vista, una di quelle che poi tutta la vita continui a cercarla in ogni caffè in cui entri. Antakya non ha un lago, però ha un fiume, e l’Ozsut ha tutte queste vetrate sul fiume, sulla gente che cammina. Questa strana gente che non esplode, non si accascia. Non si incenerisce. E quindi sto qui all’Ozsut, che è un posto curioso. Solo stranieri e siriani, perché si sa, ormai, che siamo solo giornalisti, qui, e quindi gli altri sono tutti siriani. Stanno lì con la loro torta di banane, al tavolo accanto al tuo, la fetta di apple pie, e tu studi, scrivi. A un certo punto uno si allunga sul tuo tavolo, sulla tua spalla, ti dice: “Ho il bambino soldato.” Così, nell’orecchio. Aggiunge: “Ed è figlio di uno shabia! Vuoi il figlio dello shabia? Non ce l'ha nessuno.” E i giornalisti — soprattutto quelli che stanno una settimana in Siria una settimana in Congo, quelli che se ricomincia la guerra in Libia e dicono “Figo!” — i giornalisti sono lì che rispon120

dono: “Ma hai anche il kamikaze? Mi serve il kamikaze, possibilmente alcolizzato.” Tutto così. Coni siriani che si offrono come fixer — che viene dall’inglese fix, riparare, aggiustare, il fixer è quello che ti organizza tutto. E quindi ti si offrono come autisti, come interpreti, come cuochi: qualunque cosa.

Anche se il loro inglese in genere è limitato a the cat is under the table, the rebel is on the chair, e

capita, ad Aleppo, che ti dicano /eff invece che right — e alla tua /eft ci può essere un cecchino. Da quando Abdallah è stato ucciso, funziona così, da queste parti. E l’altro giorno, ad Aleppo, mi hanno quasi aggredito, perché gira quest’intervista di Paul Wood al ribelle che ha mangiato il cuore di un nemico, Abu Sakkar. Uno psicopatico, uno che su YouTube ha caricato un filmato in cui banchetta con il corpo di un nemico. Paul, che è il corrispondente della BBC dal Medio Oriente — e quindi è rigoroso come nessun altro, e detesta queste cose un po’ da cinema — è lì che precisa che non si capisce se quello che ha in mano è proprio un pezzo di cuore, o di fegato, forse, o di polmone. Propende per il polmone. E ovviamente non è che questa non fosse una notizia. Solo che è diventata /a notizia. Ovunque. Dal Cile alla Cina, come la storia di Guevara — e come la foto di quel bambino, un mese fa, mentre fuma una sigaretta con il kalashnikov a tracolla. Una foto che ha indignato tutta la Siria. Perché un’arma un conto è averla a tracolla, un 121

conto è spararci. Un bambino soldato non è un bambino che sta al fronte: è un bambino che sta al fronte e combatte, e il bambino della foto, invece, ha sette anni, e a sette anni non hai la forza per un kalashnikov: è una foto costruita. Però intanto è finita in prima pagina, ovunque. Mentre dei 101.000 morti non importa niente a nessuno. Intanto Paul, che è uno dei migliori al mondo,

stava lì a esaminare se era il cuore o il fegato, o magari il polmone, lì a misurare ogni parola, ogni aggettivo, ad attutire il più possibile: e si intuiva benissimo che diceva: “Sto qui perché devo.” Ma un cannibale è un cannibale, la BBC è la BBC, e all'improvviso sembra che i ribelli qui siano tutti degli animali, e voi con questi vorreste sostituire Assad?, ha ringhiato subito la Russia agli Stati Uniti, con l'Arabia Saudita che minaccia di non finanziare più nessuno.

Per questo mi hanno quasi aggredito, sta diventando veramente difficile, qui. Al confine con il Libano è scomparso anche Domenico Quirico,

della Stazzpa. La storia c’è, è chiaro: uno che mangia il cuore del nemico. Ma è chiaro anche che è una storia che avrà effetti imprevedibili, molto più potenti di quello che davvero è: la storia di uno psicopatico, nient’altro. Uno non rappresentativo di niente e di nessuno. Neppure dei più radicali tra i ribelli. Una storia che può essere la Siria come Milwaukee. E quindi sto qui, mi guardo il ginocchio, ripen122

so a quei tre secondi e un po’ onestamente mi chiedo quanto senso abbia. La sera, quando sono lì davanti al telegiornale e non vedo che cadaveri, cadaveri e dolore, madri sfatte, e forse è la Siria forse l'Iraq, forse è un’altra guerra, non saprei. Penso ad Atmeh. Perché c’era questa ragazza, ad Atmeh, su una stuoia mezza marcia. Una ragazza down. E Atmeh già era quello che era: il freddo, la fame, e questa ragazza, in questa tenda di stracci, nel fango, quella cantilena dei down. Nel silenzio di Atmeh, nella neve, solo quella cantilena, quei

gemiti. Era la Siria. Quello sguardo inerme, travolto, era l’icona della Siria. Era un’altra delle foto che

girano il mondo, e poi tutto rimane come prima. Alessio ha guardato, ha messo a fuoco, poi ha guardato ancora, fuori dall’obiettivo. Ha guardato la ragazza, fuori dalla foto, e ha messo a fuoco di nuovo. Ha guardato, ancora. La ragazza neppure capiva, in quell’angolo, in quell’aria macera, con quella sua vita di scarto. Nient'altro. Alessio lì, che guardava. La ragazza. L'icona. Ha svitato l’obiettivo, ha detto “No” ed è andato via. È stata la sua ultima volta in Siria.

Hanno trovato il figlio di Eva, il ragazzo genovese, aveva con sé il passaporto e quindi hanno telefonato a suo padre. Il suo più caro amico, gli 123

hanno detto, un ragazzo somalo, è rimasto ferito. Ibrahim ha provato a trascinarlo al riparo. È stato colpito e ucciso. “Mio figlio è un eroe”, ha detto il padre.

“Mio figlio era un po’ un coglione”, ha detto la madre. Si chiamava Giuliano, in realtà. Giuliano Delnevo. Un po’ studiava, un po’ lavorava, senza idee precise. Si era convertito all'Islam nel 2008 e girava in barba, tunica e turbante. Su YouTube circo-

la un filmato in cui parla del Ramadan, un altro in cui invita Monti, all’epoca primo ministro, a ritirare le truppe dall’ Afghanistan. Nient'altro. Invita Monti a costruire piuttosto scuole e ospe-

dali. Più o meno come la campagna contro gli F35. Solo che ora su Youtube circolano anche altri commenti, sul “Liguristan”. Onestamente a guardarlo, ad ascoltarlo, onestamente mi sembra uno che è diventato islamista come altri sono diventati punkabbestia: dipende da chi incontri lungo la strada. Ora, ovviamente, i giornali italiani hanno scoperto la Siria. O qualcosa di simile. Perché poi ho provato a leggere l’articolo sulla morte di Giuliano, il sottotitolo era ucciso a Qusayr, alle porte di Aleppo, e Qusayr è a duecento chilometri da Aleppo. Allora ho chiuso. Ho letto l’articolo successivo, sull’Afghanistan, ma è finita che ho chiuso anche quello. Magari il cronista credeva di stare in Afghanistan, ma si è sbagliato, stava duecento chilometri 124

più a nord, in Tajikistan. E ho ordinato un’altra torta alla banana. In realtà gli occidentali come Giuliano, senza radici musulmane, qui sono pochi. Un ragazzo belga. Un ragazzo canadese. Sono così pochi che li conosciamo tutti. Gli altri sono ragazzi di seconda generazione. Ragazzi di una di quelle periferie in cui non arriva neppure un tram, una metro, e

poi i sociologi si chiedono come mai non siano capaci di integrarsi. Molti, onestamente, ti ricorda-

no solo De André — partiti per un ideale, per una truffa, per un amore finito male. Come infiniti altri soldati. Non sono degli esaltati. La prima cosa che pensi, a parlarci, è che vengono da vite difficili. Che la guerra vera, per loro, è quella che si sono lasciati alle spalle. Il che, naturalmente, non giustifica la scelta di andare in Siria — qualcuno reagisce sparando, nella vita, qualcuno adottando due orfani. Personalmente, non ho dubbi su chi dei due sia

l'eroe. Perché poi l’unica cosa che credo, quando penso a questi ragazzi, è che questa non è la loro guerra. Quali che siano le loro ragioni. C'è questo pezzo di John Cantlie, il primo di noi a essere stato sequestrato, qui. Un anno fa. Riesce a fuggire, a un certo punto: ferito, ma riesce a liberarsi e correre via veloce, in questi boschi che sembrano le Highlands, racconta, e questi, dietro, che gli sparano. Un inglese inseguito da due jihadisti inglesi, in mezzo a una Siria che sembra la Scozia. 125

Ora il telefono squilla in continuazione. In due anni e più di guerra, 107.000 morti, è la prima volta. No, non vogliono sapere di Qusayr, in cui intanto infuria la battaglia, e che è il simbolo della rivolta, qui, è come Hama, e soprattutto è strategi-

ca perché alla frontiera con il Libano. E da Qusayr che entrano i guerriglieri di Hezbollah che affiancano Assad: se cade Qusayr, se Hezbollah si insedia

a Qusayr, la prossima è Aleppo. Ma al telefono non vogliono sapere di Qusayr. Vogliono sapere se è vero che c’è un'italiana tra i ribelli, un’italiana al fronte, ad Aleppo. Perché in effetti, c’è. Ha trent'anni, e anche una laurea. Una bellissi-

ma ragazza. Sì, c’è l'italiana al fronte, e quindi il telefono squilla in continuazione. Tutti vogliono la jihadista, brilla loro la voce. Jihadista, italiana, “e pure femmina!” — sono in fibrillazione. Vogliono la foto di lei con il kalashnikov. Lei che soccorre i compagni feriti. La foto di lei che si trucca tra i sacchi di sabbia. Con lo specchio sulle casse di munizioni. “Lei con i tacchi”, mi dice uno, “la sera, quando torna.”

“Scusi, quando torna dove?” “Vabbe”, va bene anche la foto con le ballerine.

Ma c'ha anche il fidanzato talebano?” Tre giorni. Tutti così, tutti che vogliono l’italiana al fronte. 126

L'unico problema è che non combatte. Si dice abbia combattuto solo pochi giorni, all’inizio. Poi, con due schegge nello stomaco, ha cambiato idea. Anche lei ha pensato che probabilmente era più saggio essere 22.000.000 contro uno che stare in

ciabatte contro gli aerei. E quindi sta al fronte, sì. Proprio al fronte, e da quasi due anni. Però non combatte, si occupa di aiuti umanitari, logistica,

informazione. “Mi spiace, ma proprio non combatte.” “E vabbe’, sfumi la risposta.” “In che senso, scusi? Uno o combatte o non

combatte.” “Nel senso che glielo domandi, e lei ti risponde con il silenzio. Con uno sguardo ambiguo. E il lettore capisce.” “Capisce cosa?” “Capisce quello che ha voglia di capire.” “Ma io gliel'ho già chiesto, e non mi ha risposto con il silenzio, le ho chiesto ‘Ma tu combatti ancora?’ Ha detto: ‘No. Mica era uno sguardo ambiguo. Era no.” Arriva Lorenzo, offrono 2000 euro per il pezzo solo che lui non ha il numero della ragazza. Gli dico: “Non c’è niente da raccontare.” “Se ti pagano, la storia c’è.” Tre giorni tutti così. Mentre Qusayr precipita, mentre a Qusayr tutto, intanto, esplode e crolla. Qusayr non è una città qualsiasi, qui, per nes127

suno. Perché è l’accesso a Homs, e Homs per i siriani è dove tutto è iniziato — e lo è anche per noi. È stato alla periferia di Homs che un mortaio ha centrato Marie Colvin e Remi Ochlik. Lei scriveva per il Sunday Times, e l’unica cosa che un altro può scrivere di lei è invitare a leggere quello che ha scritto. Era semplicemente la numero uno. Lui aveva ventotto anni, invece, ed era considerato il migliore della nostra generazione. Era un fotografo. Uno di quelli fedeli a Robert Capa, quando diceva che se la foto non era buona, significava che non eri abbastanza vicino. Era così, Remi: nel momento in cui tutti correvano via, lui era lì che correva in direzione contraria. Era straordinario. 22 febbraio 2012, bombardavano così tanto che i cadaveri sono rimasti lì per giorni. Sono morti in sette, per recuperarli. Ma ora il regime è tornato potentemente all’offensiva. Ora dopo ora, filtrano queste immagini drammatiche, centinaia e centinaia di siriani in trappola mentre tutti i ribelli convergono verso sud in un tentativo disperato di difesa. Ma Hezbollah è molto più forte, e ora dopo ora, metro dopo metro, si moltiplicano queste immagini terribili: muoiono tutti, a Qusayr, cadaveri, cadaveri cadaveri, solo macerie e sangue, e queste foto di notti accese dalle bombe, questi notti arancioni, completamente in fiamme, come la bocca di un’acciaieria, di un altoforno che incenerirà tutto. Chiami gli attivisti 128

e senti urla di sfondo, cannonate, spari, bombe.

Richiami dopo un’ora e ti risponde un’altra voce: quello di prima è stato ucciso. Ora dopo ora. Minuto dopo minuto. Queste mail lancinanti: Ci ammazzano tutti! Dove siete? Ci ammazzano tutti! Ma da qui è troppo lontana,

Qusayr. È troppo a sud, e la frontiera con il Libano è sigillata da Hezbollah ormai da mesi. Mentre al caffè Ozsut, intorno, rimbomba Justin Bieber. Chiamo un generale dell'Esercito Libero, sondo la possibilità di andare a sud con loro. Ma non ha idea di cosa stia succedendo, a Qusayr, non ha idea di come aiutarmi. Mi dice: siamo ad Aleppo, Idlib, Ragga, ma più a sud non abbiamo contatti. Chiamo il delegato della Coalizione Nazionale con cui ho rapporti più stretti. Vive in Europa da oltre vent’anni, è stato più volte ospite da me in Toscana. Fa su e giù da Beirut. Mi risponde dalla costiera amalfitana. Mi dice di non angosciarmi. Mi dice che quando l’assalto finirà, potrò entrare, certo. Questione di giorni, mi dice. Perché entrare adesso? Aspetta che finisca. Tra l’altro, mi dice, c’è una bellissima mostra a Roma. Mi dice che forse passa da casa mia, tra Pisa e Firenze. Gli dico: La vicina ha le chiavi. Mi dice: Pensavo ci fossi. Deluso. Mi dice: Se hai un’amica, sono con un amico. Non c’è più nessuno. “Con questa luce, poi, non

si fotografa più niente”, mi dice Tom chiudendo lo zaino. “Ho bisogno di cieli con meno luce.” 129

“Perché non vai in Brasile?”, mi dice, “O a Istan-

bul. Perché non vai a raccontare Gezi Park?” Non c’è più nessuno. La sera leggo e guardo le foto di Alessio, quelle di Tizze. Quelle che mi sembrò di caderci dentro, la prima volta che le vidi: e decisi di venire in Siria. È passato oltre un anno e questa non è più una rivoluzione. Non so cosa sia, però c’è ancora una storia, lì dentro, in quelle foto. A guardarle tutte insieme c’è una storia come mai nient'altro mi è stato chiaro. C'è una storia, lì dentro, e ci sono i siriani.

Anche se adesso non c’è più nessuno, qui. Solo quelle foto. “Siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Gli eventi ci hanno consumati.” Niente di nuovo sul fronte occidentale.

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4. Estate

Giugno 2013 Corriamo. Corriamo veloci tra le case ormai in

rovina di Salaheddin, queste case tutte macerie e topi, tutte sangue rappreso, corriamo veloci di casa in casa attraverso gli squarci nelle fondamenta, quelli dei cecchini, attraverso i muri sfondati, di stanza in stanza, corriamo veloci, corriamo tra que-

sti appartamenti fossili, sparpagliati di oggetti ancora intatti, tutti al loro posto, solo completamente

grigi, adesso, completamente grigi di polvere. Corriamo di stanza in stanza, di piano in piano, certe rampe di scale, all'improvviso, che sbucano nel nulla, perché è tutto crollato, svanito, e queste

scale adesso sono lì, giri l'angolo e non c’è più nulla, all'improvviso, solo macerie, solo altre macerie e allora corriamo indietro, corriamo veloci, un elicottero sulle nostre teste, il rumore sempre più vicino. Intorno è tutto mortai, tutto proiettili, tutto mortai e proiettili e noi che corriamo, di casa in casa, corriamo veloci, corriamo in mezzo a questi

corpi carbonizzati, questi corpi intatti però inceneriti, un’intera famiglia, a cena, interamente anne131

rita. Ètutto normale nella stanza, tutto al suo posto, il lampadario, il divano, la vetrina le porcellane,

tutto intatto, l’orologio, solo tutto grigio di polvere, e questi sei corpi a tavola, composti, la forchet-

ta in mano, che ancora chiacchierano, questi sei corpi carbonizzati, gli occhi spalancati, le orbite vuote, scheletri, e noi che corriamo, corriamo, l’elicottero che sguscia basso tra le strade e ci sta cercando, sta cercando gli ultimi ancora vivi, qui dentro, mentre tutto, intorno, esplode e crolla. Solo quest’elicottero ci sta cercando, solo noi corriamo veloci, di stanza in stanza, di piano in piano, e non possiamo fermarci perché se ti fermi, prima di

girare, prima di imboccare un’altra rampa, se ti fermi per assicurarti che non ci siano cecchini dall’altra parte, qualcuno ti afferra, tra le macerie, ti afferra alle caviglie e ti tira a terra. Questi corpi ti chiedono dell’acqua, ti implorano e ti stringono le caviglie, ti tirano a terra ma l’elicottero è sulle nostre teste e ci sta cercando, ci ha visti. Bisogna solo correre, solo correre veloci perché c’è anche un aereo, adesso, e si avvita in picchiata, ci precipita

addosso. La luce. Le 3.37. Sono le 3.37, solo le 3.37.

Il pino. Il pino, fuori dalla finestra. L’altalena, le colline. Ramallah, ancora Ramallah. Sono mesi che non

dormo, sono mesi che mi sveglio sempre alla stessa ora.

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“Mi piace partire da una parola”, mi ha scritto Federico, “e farne seguire altre liberamente associate.” Mi ha scritto: Leggero, Naturale, Arioso, Colorato, Volante.

Mi ha scritto da Newcastle, insegna Storia antica all’università. I lettori a volte sono strani: mi ha chiesto di inviargli una parola per ogni lettera dell’alfabeto. Ma alla fine sono qui per loro, per i lettori, anzi qui con loro, perché sono parte di quello che scrivo, alla fine, sono loro a completarlo, a costruir-

ne il significato, il valore: sono parte di me. E quindi, anche se a volte i lettori sono strani, ho pensato

una parola per ogni lettera dell’alfabeto, liberamente associate.

Rosso. R di Rosso. R di Ribelli e di Regime, A di Aereo, E di Elicottero, E di Esplode, M di Macerie e di Mortai, F di Ferita, L di Lama, D di Dolore, I di Inadeguato. P di Paura, U di Usura, I di

Inadeguato e Insufficiente, F di Fronte, F di Freddo di Fame di Fuga, C di Colpa, C di Cadavere, di Carrarmato e di Cecchino, C di Carne e di Crollo.

S di Solitudine e di Sangue. S di Sangue e Schegge e Solitudine. Solitudine. Ho riletto l’elenco e sono venuta a Ramallah,

perché il mio Medio Oriente è iniziato qui. Per la tesi del master, un master in Human Rights and Conflict Management, avrei dovuto fermarmi tre mesi: mi sono fermata tre anni. É se penso a una 133

casa, nel mondo, se penso al luogo in cui più mi è naturale sentirmi straniera, come diceva Calvino, penso a Ramallah. Penso a Israele e Palestina. E quindi sono tornata qui dopo oltre due anni. Perché quando sono a Ramallah ho la sensazione di non distrarmi con cose irrilevanti, di non disperdermi. Quando parlo con israeliani e palestinesi ho sempre questa sensazione di profondità, di non galleggiare sulle cose. In questa coabitazione con l’Altro — in questo confrontarmi ogni giorno con la vita, qui, con la vita nuda. La libertà, la dignità, l’identità. Con quello che sono. Il coraggio e la paura. Questo essere chiamata a scegliere, ogni giorno, e ogni giorno avere la possibilità di essere come quella canzone degli U2, Grace, e rovesciare il dolore non in odio e rancore, in scudo, in barriera e attacco, ma in apertura verso gli altri, in comprensione. In dolcezza e bellezza. Delicatezza. She makes beauty out of ugly things... questa capacità di rispondere con la bellezza, sempre, ad what left a mark, quello che ti ha ferito, che ha lasciato un segno su di te, rr0 longer stings, ora non fa più male. Grace. Si intitola così quella canzone, ed è l’unica cosa che vorrei essere, nella vita. Solo che mi sono persa, non so dove però mi sono persa. Comincio a essere uguale agli altri, a quelli che tanto critico. Le stesse frasi a effetto, la stessa superficialità. Quando pianifico i pezzi, quando decido cosa raccontare, comincio a cercare i personaggi, 134

invece che le persone. Comincio a sapere in anticipo cosa scriverò. Cosa troverò. Comincio a vede-

re sempre le stesse cose, a usare sempre le stesse parole, gli stessi aggettivi. Comincio a standardizzare, a non sentire più.

A febbraio, ad Aleppo, ero all'ingresso del Zarzous, l'ospedale che ha sostituito lo Shifa. Ero lì ad aspettare le vittime di un missile, o di un cecchino — perché è questo il mio mestiere. Stare tre ore davanti a un ospedale ad aspettare che qualcuno muoia. E mentre chiacchieravo con dei ragazzini e con un altro giornalista — c’era un cadavere lì accanto, non l’avevo notato.

L'ho notato dopo venti minuti, ho detto: “Un cadavere.” E ho continuato a chiacchierare. Comincio a non sentire più, non solo come giornalista. Una sera, a marzo, eravamo lì a dividerci la

nostra mela, la nostra fetta di pane in nove. E i siriani, al solito, chiedevano “ma perché il mondo non interviene?”, e io a spiegare che la Russia, Obama, l'Iraq, le ragioni politiche, ma soprattutto la crisi. La recessione. Non possiamo permetterce-

lo. Non possiamo aiutarvi. Le banche. La borsa, i mutui. La gente, da noi, non arriva al 27 del mese. E loro ti guardavano, con il loro pezzetto di mela in mano, tutti magri, il loro bicchiere di acqua piovana, di acqua gialla. Loro che avevano il problema di arrivare a domani, mentre i tuoi jeans da soli costavano quanto un loro stipendio. E non è neppure un’iperbole: i tuoi jeans costano davvero 135

quanto uno stipendio che in Siria mantiene sei persone. E però gli dici: “Non possiamo permettercelo. Giuro, Proprio non possiamo.” E quindi sono tornata a Ramallah. Perché sono mesi, ormai, che esiste solo la Siria. Che scrivo di Siria, leggo di Siria, vivo di Siria. E

critico tutti quelli che non si occupano di Siria. 110.000 morti, 1.976.835 rifugiati — cosa altro avete da scrivere? cosa altro avete da pensare? E mi sembra un mondo feroce. Cosa avete di più importante, tutti voi, di più urgente della Siria? Però poi arrivano queste mail dei lettori. Dal Sud Sudan, dal Messico. Dalla Repubblica Centrafricana. Dall’Irag. O anche solo da Taranto, dalla Taranto dell’ILVA, del quartiere Tamburi, dove hanno trovato diossina anche nel latte materno — e non sembra una guerra, a Taranto, solo perché si muore di cancro, si muore in differita. Però tu sei sempre qui, sempre a parlare di Siria. Con il tuo dito puntato contro gli indifferenti del mondo — tu che sei circondato da guerre di cui non sai niente. La Somalia. Il Mali. I droni. I Centri di Identificazione ed Espulsione. Il cIe di Bari è proprio davanti l’aeroporto. Io che ignoro, come tutti, che scrivo di altro e parlo di altro. Eppure è lì alla mia sinistra, ogni volta che parto per la Siria, con il suo filo spinato, le sue gabbie di ferro. Proprio lì. Con i suoi muri di cemento. Invisibile. Con il suo sangue sui muri. 136

Mentre qualcuno, in questo momento, cerca di parlarmene, non ho dubbi, però io non ascolto,

distratta, e cerco di parlare di Siria a qualcuno che non ascolta, distratto. Per questo sono tornata a Ramallah. In cerca di quella bellezza che hanno solo qui. Quando crolla una fabbrica, all’altro capo del pianeta, in mezzo alle loro manifestazioni, in mezzo ai loro mille problemi, trovi quello che raccoglie fondi per gli operai del Bangladesh. E se sei triste, c'è sempre qualcuno che si accorge che sei triste. Perché il mondo in cui vivi, qui, è sempre un po’ più largo del mondo in cui sei. Ramallah. Solo che sono in questa città strana, adesso. La prima foto che ho scattato, qui, era il 2007, è un

ragazzino che beve acqua piovana da una cisterna. Ora quella cisterna è la piscina dell’hotel M6venpick, 200 dollari al giorno. Ora ha i semafori, Ramallah, i semafori e i lampioni e il pavimento di basalto, in centro. Ha gli alberi, i fiori e le siepi. Le auto nuove. E la sera si fa notte con la musica di Justin Bieber in questi caffè tutti lucidi, con la cheesecake, l’apple pie, la torta alla banana, e chiedi un caffè turco e ti dicono: “Sorry, just Illy” — ti rispondono in inglese anche se tu l'hai chiesto in arabo. Perché ci arrivi come sempre, a Ramallah: da Gerusalemme prendi un pulmino, che però ora non è più un pulmino ma un pullman 107,

con l’aria condizionata. Non è più uno spiazzo polveroso quello da cui parti, ma una stazione. E il checkpoint che separa Ramallah da Gerusalemme, il Muro, il checkpoint a cui scendi e ti perquisiscono, passi tra i cani antiesplosivo e risali dall’altra parte, è indicato da un cartello, ora.

Tutto lucido, anche il cartello che dice: Bus stop Qalandya. E quindi mi sveglio, ogni notte, alle tre, e guardo il monumento alla resistenza, nella piazza sotto la mia finestra. È un palo con un palestinese che si arrampica e lega in cima una bandiera — perché si finiva in carcere, durante l’Intifada, se si sventolava una bandiera. Era reato. Questo monumento,

è un palo in una fontana, proprio una fontana con l’acqua. Che è da sempre la prima cosa che noti quando arrivi, la fontana dell’aeroporto di Tel Aviv. Perché l’acqua, che qui è rara, è uno dei temi su cui più si scontrano israeliani e palestinesi, perché il tracciato del Muro non ingloba in Israele solo gli insediamenti, ingloba anche le riserve d’acqua. E quindi quella fontana, a Tel Aviv, è la prima cosa che noti, perché i palestinesi invece, ancora oggi, non hanno l’acqua. Fuori da Ramallah. Perché a Ramallah invece hanno le fontane, a Ramallah hanno il potere: non hanno uno stato, però hanno una capitale e un presidente.

Anche se non ha un passaporto, il presidente, e per andare a negoziare con gli israeliani ha bisogno 138

della loro autorizzazione. E hanno anche la festa dell’Indipendenza. Questa era l'avanguardia del Medio Oriente: tutti gli altri, quando erano sotto Mubarak, sotto Gheddafi e subivano a testa bassa, volevano essere

come i palestinesi. E ora che tutti gli altri si battono per la libertà, qui si battono per pagare le rate del televisore. L'unica cosa che conta oggi a Ramallah è fare soldi.

Si sono indebitati tutti, i palestinesi. Perché a un certo punto è apparso chiaro che il processo di pace era, appunto, un processo: eterno. Negoziati

su negoziati. E allora Salam Fayyad, che era primo ministro, ha detto: intanto costruiamo il nostro

stato, direttamente. Senza aspettare il permesso del mondo. Ha detto: costruiamo le nostre istituzioni,

la nostra economia, e presentiamo domanda di ammissione all’ONU. Altrimenti, ha detto, aspette-

remo altri sessant'anni. E quindi avere un mutuo, un prestito, è diventato facilissimo, qui. E tutti hanno comprato l’auto, la casa. Aperto un caffè per i membri delle ONG. Israele è soddisfatto così, dicono alcuni. Perché chi ha il mutuo da pagare, non ha tempo per andare a farsi esplodere a Gerusalemme. Chi ha una vita, dicono, la casa, un lavoro, persino l’iPhone — non importa che non abbia la libertà: non ha voglia di demolire tutto con un’altra Intifada. Mentre alcuni, naturalmente, dicono l’opposto. Dicono che non è vera ricchezza, perché 139

l’economia palestinese dipende strutturalmente da quella israeliana, e comunque rimane la ricchezza di una minoranza: solo quattro fontane, dicono,

mentre altri non hanno l’acqua — e quindi, secondo loro, si avrà presto un’altra Intifada. Perché la Palestina è complicata. Però intanto sono qui, nel mio caffè preferito, il La vie, in cui siamo tutti giornalisti o cooperanti, incollati al nostro Mac, tutti biondi e occidentali

con le Birkenstock. Gli unici palestinesi sono i camerieri. Qualcuno, con il suo frappè, che dice

immancabile a quello accanto: “Ma sai che lei viene dalla Siria?” E l’altro che risponde: “Ma veramente? Figo!”

Sono qui e leggo. Leggo che sembra non bastare mai, perché all'improvviso è tutto in ebollizione,

qui. Ha iniziato la Turchia, con le proteste per l'abbattimento di questo parco, a Istanbul, e non è tanto per gli alberi, ovviamente, ma perché il centro commerciale che sostituirà il parco è un po’ un simbolo del partito islamista al governo, e di come esercita il potere: senza consultare nessuno. Perché la Turchia è complicata. Un paese musulmano, però laico. Ma soprattutto, un paese estremamente dinamico, in forte crescita economica. Solo che non ha un partito di opposizione, alla fine, e diritti come la libertà di parola e di stampa non è che siano molto tutelati: e quindi, che si discuta di alberi o di costituzione, l’unica è scendere in piazza. Al momento sono morti in 11. E poi è saltato 140

l'Egitto, con questo colpo di stato che nessuno chiama colpo di stato ma certo che è un colpo di stato, perché Morsi, il presidente dei Fratelli Musulmani, è un presidente democraticamente eletto e ora è in carcere, non si sa dove, non si sa perché,

senza neppure un avvocato, e nel suo ufficio c’è il capo dell’esercito. E quindi certo che è un colpo di stato: perché nessuno avrebbe avuto dubbi, se fossero stati i Fratelli Musulmani a rovesciare un presidente democraticamente eletto. E quindi è saltato anche l’Egitto, che è terribilmente complicato in questi mesi: tutti i ragazzi della rivoluzione alle elezioni, un anno fa, per non avere un presidente del vecchio regime, scelsero Morsi, e ora per

non avere Morsi, scelgono il vecchio regime. Al momento l’unica cosa che si capisce è che i morti, al Cairo, sono centinaia. E persino in Tunisia, in cui laici e islamisti sono al governo insieme, e sembrava in corso una transizione come mille altre, un

po’ di scosse ma niente di speciale, persino in Tunisia l’altro giorno hanno sparato al capo dell’opposizione. E insomma, siamo tutti incollati ad al Jazeera, a guardare il Cairo che brucia — tutti perplessi: perché la Libia è nell’anarchia, con tutte quelle sue milizie, la Siria è quello che è, e adesso anche l'Egitto e la Tunisia. E senza neppure l’Egitto e la Tunisia — cosa è rimasto? Perché il resto del Medio Oriente, poi, non è

che stia meglio. Perché qui, per intenderci, la prin141

cipale sostenitrice dei ribelli in Siria, la principale sostenitrice della democrazia è l’Arabia Saudita. Che non ha neppure un vero parlamento, e che mai potrò raccontarvi, perché per andarci ho bisogno di un guardiano maschio, e quindi o mi trovate un marito che mi tiene al guinzaglio o non potrò mai raccontarvi questo paese paladino della libertà in Siria. Insomma — un po’ un casino, in questi giorni,

ovunque ti giri. E dove le cose sembrano non andare male, è semplicemente perché non hanno mai cominciato ad andare. E quindi siamo tutti qui, incollati ad al Jazeera a guardare il Cairo che brucia e nessuno che sa più da che parte cominciare. Stamattina, nell’ordine (e giusto per rimanere nel raggio di pochi chilometri): Ramallah è in subbuglio perché hanno ucciso tre ragazzi a Qalandya, intanto dal Libano è piovuto un razzo, sempre per la guerra contro Israele, mentre per l’altra guerra — perché il Libano ha anche una guerra tra filo-Assad e anti-Assad — è scoppiata un’autobomba a Beirut, e quindi gli israeliani hanno gli aerei sopra il Libano, stamattina, gli elicotteri sopra la

Cisgiordania, e i droni sopra Gaza perché, al solito, le hanno chiuso il confine, sono alla fame e piovono razzi anche da lì. Gli israeliani hanno

anche bombardato la Siria, ieri, un deposito di armi, mentre al Cairo si spara per strada — e sono ancora le 11.27. 142

Era il 17 dicembre 2010 quando Mohamed Bouazizi, ventisei anni, venditore ambulante di frutta e verdura, fu fermato dalla polizia nel sud della Tuni-

sia. Non aveva la licenza e gli confiscarono il carretto: si appiccò fuoco perché non aveva altro, solo quel carretto. È iniziato tutto così, con una gene-

razione che ha deciso che ormai non aveva più niente da perdere. “Ma ora militari e islamisti si contendono il potere, un potere conquistato con il nostro sangue, e noi invece siamo ai margini: di

nuovo. Troppo divisi per riprenderci spazio. E troppo sfiniti: perché siamo ancora tutti senza lavoro, senza niente. La priorità, per molti, è trovare

qualcosa per cena”, mi dice dal Cairo Wael Abbas, uno dei protagonisti di piazza Tahrir. S di Sfiduciati. S di Sparsi e Sparpagliati. “E ovunque ti giri, in Medio Oriente, è tutto uguale. Tutto in crisi.” S di Smarriti e Sopraffatti. S di Sconfitti. “Sei fortunata a venire dall'Italia”, mi dice, “Qui uno studia, si laurea, e sa che è inutile. Che non

avrà mai lavoro. Diritti. Che non conterà mai niente. Perché il potere è tutto corruzione e collusione. E ti ripetono che mancano le risorse per gli ospedali, le scuole, ma poi le risorse per le armi si trovano sempre. E chiamano povertà, chiamano crisi quello che invece è un problema di diseguaglianza. Sei fortunata a venire dall'Italia.” Mentre io leggo Repubblica. 143

Anche Marco Cacciatore aveva ventisei anni. Ha scritto solo: Mi vergogno. Non posso neppure comprarmi le sigarette. E si è sparato. Era disoccupato, e anche i suoi genitori. E si è sparato. A Milano, dove non va male solo perché non ha mai cominciato ad andare, dove non abbiamo più niente da perdere, ormai, tutti senza lavoro, senza dignità, tutti precari eterni, di giorno biologo di sera cameriere, il sabato giardiniere, e però tutti sparsi e sparpagliati, noi che tanto critichiamo la primavera araba, “cosa hanno ottenuto? Solo guerre e dittature”, noi che siamo così bravi a non fallire solo perché siamo così bravi a non provarci.

Alla fine mi ha scritto. Dopo oltre un anno, un attacco di tifo e un proiettile al ginocchio, ha visto la televisione, il mio capo, ha pensato che l’italiana rapita fossi io e mi ha scritto: “Ma se hai internet, non è che twitti il sequestro?” Che poi uno torna la sera — che poi tornare neppure è il verbo giusto, in Siria, con questi mor-

tai intorno che ti esplodono ovunque, e la polvere, la fame, la paura — uno si ferma la sera, in una base dei ribelli in mezzo all’inferno, e spera di trovare un amico, nella posta, una parola una carezza: e trova solo Elena, invece, che sta in vacanza a casa

tua e ti ha scritto otto volte “Urgente!” perché sta cercando il tesserino per entrare alle terme, e dico otto volte. Per il resto solo messaggi di lettori spar-

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si, tipo questo di Paolo: Bellissimo il suo pezzo, ricorda il suo libro sull’Iraq — solo che non è sull’Irag, il mio libro, è sul Kosovo.

Non so. L'unica cosa che ho capito, onestamente, è che uno ha quest'immagine romantica, il freelance pronto a rinunciare alla sicurezza di uno stipendio fisso in cambio della libertà di seguire le storie che più ha voglia di seguire. E invece non sei affatto libero. All’opposto, sei al traino delle notizie in prima pagina. Perché la verità è che l’unica possibilità che ho di lavorare, oggi, è stare in Siria. Cioè stare dove non vuole stare nessuno — la verità è che la seconda lingua, ad Aleppo, dopo l’italiano è lo spagnolo: perché ai greci ormai non è rimasto neppure di che pagarsi il biglietto aereo. E più che ad Aleppo, per essere precisi, al fronte. Perché poi ti chiedono solo il sangue, solo il bum bum. Se racconti gli islamisti, e tutta la loro rete di attività sociali, racconti la ragione della loro forza, un pezzo molto più difficile del fronte, in cui provi a spiegare, non solo a emozionare, ti rispondono: “Ma qui in 6000 battute non è morto nessuno.” In realtà avrei dovuto capirlo da quella volta che mi chiesero un pezzo da Gaza, perché Gaza, al solito, era sotto bombardamento e perché tanto Gaza, diceva la mail, la conosci a memoria: che

importa che stai ad Aleppo. Io invece sono finita in Siria perché ho visto su Tie le foto di questo tipo, Alessio Romenzi, uno che si è infilato nelle condutture dell’acqua ed è sbucato a Homs quan145

do ancora nessuno sapeva che Homs esisteva. Un giorno ho visto queste foto, mentre ascoltavo i

Radiohead. Ho visto quegli sguardi dritti, giuro, degli sguardi che ti si conficcavano addosso, perché erano sotto assedio, a Homs, e Assad li stava sterminando tutti uno a uno, e nessuno neppure sape-

va che Homs esisteva, e giuro: era una morsa alla

coscienza, quelle foto, che alla fine potevi solo dire “devo andare in Siria.” Invece la cosa più frustrante, qui, è che tu scriva da Roma o da Aleppo, è uguale. Ti pagano uguale, 70 dollari a pezzo. Anche in luoghi in cui ogni cosa costa il triplo, perché poi in guerra si specula su tutto, e dormire, ad Aleppo, per dire, sotto il tiro dei mortai, un materasso per terra e l’acqua gialla che domani prendi di nuovo il tifo, costa 50 dollari a notte. L'auto, 250 dollari

al giorno. Con il risultato che finisci per massimizzare, non minimizzare, il rischio. Perché non solo non puoi permetterti un’assicurazione, quasi mille

dollari al mese, ma più in generale non puoi permetterti un fixer, cioè un locale che ti curi la logistica, non puoi permetterti un interprete, ti ritrovi in città sconosciute completamente solo. In mezzo

ai proiettili. E nelle redazioni sono perfettamente consapevoli che con 70 dollari a pezzo ti obbligano a tagliare su tutto, e sperare di morire, se sei colpito, perché non potresti mai permetterti di essere ferito: però poi il pezzo lo comprano comunque. Anche se non comprerebbero mai il pallone della Nike cucito dal bambino pakistano. Come quella 146

volta a Castelvolturno, per gli scioperi dei braccianti clandestini, che mi arrivò questa mail: “Voglio un pezzo indignato! 50 euro! Prendono solo 50 euro al giorno!, ma che mondo è?” — e tutti noi

eravamo lì per 20 euro a pezzo.

o

Con la storia delle nuove tecnologie c’è questo equivoco di fondo: che l’informazione sia velocità, una gara a chi pianta per primo la bandiera sulla luna. E così è ovvio, le agenzie, le Reuters, sono

imbattibili. Però è una logica autolesionista, perché hai materiale standardizzato, così, e il tuo giornale

non ha più alcuna unicità, alcuna ragione per cui dovrei pagare per averlo. Per le notizie ho internet. Gratis. A un giornale chiedo di più, chiedo analisi, chiedo approfondimento — chiedo di capire, non solo di sapere. Perché la crisi, oggi, è dei giornali, non dei lettori: i lettori ci sono, e contrariamente a

quanto pensano i direttori, sono lettori intelligenti, che vogliono cose intelligenti. Semplicità, ma non per questo semplificazione — perché poi ogni volta che pubblico un pezzo di colore, poi trovo sempre queste dieci mail, gente che mi dice “Sì però, bellissimo pezzo, magnifico affresco, però io voglio capire cosa succede in Siria”, e io vorrei tanto rispondere che non posso fare un’analisi, perché se tento un’analisi me la cestinano dicendo “E tu chi sei, per fare un’analisi?”, anche se ho due lauree, un master, due libri e dieci anni di guerre sparse, alle spalle, e la mia giovinezza, onestamente, è finita alla prima di queste. La verità è che noi freelan147

ce siamo solo giornalisti di seconda classe. Anche se poi in Siria ci sono solo freelance, perché la Siria è una guerra bastarda, una guerra del secolo scorso, una guerra di trincea combattuta a colpi di fucile, altro che droni: è una guerra metro a metro, strada a strada e fa paura, minchia, fa paura perché scrivi, con il tuo ipad, e intorno, intanto, tutto esplode — e però ti trattano come un ragazzino. Fai

una foto da copertina e ti dicono: “Ma eri solo nel posto giusto al momento giusto”, fai un pezzo da esclusiva, come quello della moschea, in cui siamo stati iprimi a entrarci, con Stanley, e ti dicono: “E

come giustifico che il mio inviato non è riuscito a entrarci e tu sì?” Uno mi ha scritto: “Lo compro ma lo firma lui.” E poi sono una donna, e mi chiedono sempre di scrivere di donne. D'accordo che quella volta che non avevo il velo sotto l’elmetto, e dentro erano tutti uomini, mi hanno lasciato sotto i mortai. D’accordo. E infatti è il mio pezzo più citato. Ma onestamente è stata una volta sola: mentre gli altri giornalisti — perché sono tutti maschi, onestamente — sono loro a ripeterti che non sei abbastanza coperta, e non sei seduta in modo abbastanza decente, e non hai uno sguardo abbastanza umile, e non rispetti abbastanza la cultura locale — anche se loro poi non hanno mai aperto un Corano. E indipendentemente dal velo, comunque. Come Jonathan, quella sera: bombardavano tutto, e io ero lì in un angolo con quest’aria — che altra aria puoi avere se forse tra un minuto 148

muori? — e Jonathan mi squadra e mi fa: “Questo non è un posto per donne.” A uno così, ma che vuoi dirgli? “Idiota: questo non è un posto per nessuno.” E solo segno di sanità mentale se ho paura, perché Aleppo è tutta cordite e testosterone e sono tutti traumatizzati, Henri non parla che di guerra, Ryan è strafatto di anfetamine, però a ogni bambino squarciato vengono solo da te e ti domandano: “Come stai?” Perché tu sei femmina e fragile, e a te verrebbe da rispondere: “Sto come stai tu.” Perché le volte che ho un’aria ferita, in realtà, sono le volte che mi difendo, tirando fuori ogni emozione, ogni sentimento: sono le volte che mi salvo. Perché poi uno pensa alla Siria, invece è un manicomio. C'è quello che non trova lavoro e si arruola in al-Qaeda, e la madre è lì a inseguirlo per Aleppo per prenderlo a padellate, il turista giapponese che sta al fronte, e sta veramente in vacanza, giuro, ad Aleppo c’è anche un turista giapponese che sta al fronte, si chiama Toshifumi

Fujimoto, dice che ha bisogno di due settimane di adrenalina l’anno. Poi c’è lo svedese, neolaureato

in giurisprudenza, che è venuto a raccogliere prove sui crimini di guerra con la penna e il moleskine, e a Damasco vuole andarci in autostop. O 1 musicisti americani con le barbe da bin Laden, dicono che così sembrano siriani, anche se sono biondi e

alti due metri, e hanno portato medicine per la malaria anche se ad Aleppo la malaria mica c’è, e vogliono distribuirle suonando, come il pifferaio 149

magico. Per non dire dei vari funzionari delle agenzie ONU, a cui dici: “c’è un bambino con la leishmaniosi, possiamo curarlo in Turchia?” “No non possiamo”, si scusa la mail, “è un bambino specifico, e noi possiamo occuparci solo dell’infanzia in generale.” Perché poi, anche noi. Sei un giornalista di guerra e alla fine stai sempre un metro sopra agli altri, no?, con quest’aura d’eroe indomito, tu che rischi la vita per dare voce ai senza voce. Paladino degli ultimi, tu che hai visto cose che gli altri non hanno mai visto, e sei una miniera di aneddoti, a cena sei l’ospite figo ed è una gara per averti — e invece poi arrivi qui, e scopri approssimazione ovunque. E ovunque, questo mantra: /f's 4 secret, it's a secret.

Perché invece di fare rete tra noi, di fare muro, sindacato, qui che è già tutto difficile, siamo i nostri

primi nemici. La ragione dei 70 dollari a pezzo non è che mancano le risorse, perché poi le risorse per il pezzo sulle amiche di Berlusconi si trovano sempre. La ragione vera è che chiedi 100 e un altro è pronto a vendere a 70. Ed è la concorrenza più feroce, tra noi, zero collaborazione zero aiuto

— come Beatriz, ad aprile, che per essere la sola a scrivere di un corteo mi indicò la strada sbagliata, mi spedì tra i cecchini: tra i cecchini per un corteo come mille altri. Perché diciamo di essere qui come Romenzi, qui perché un giorno nessuno possa

rispondere “Ma io non sapevo”, e invece siamo qui solo per vincere un premio, per avere due righe dal 150

direttore, per avere spazio. Con tutti questi fotografi che inseguono solo il singolo scatto, l’icona,

e a loro non importa niente della continuità, della completezza della narrazione, del ritratto di insieme — e dico i fotografi solo perché i writers sono tutti comodi in Turchia, quasi tutti, sprofondati su un

divano a raccontare quello che raccontano loro i fotografi. Siamo qui a intralciarci da soli come se avessimo tra le mani il pezzo da Pulitzer e invece non abbiamo proprio niente, stretti tra il regime che ti rilascia il visto solo se sei contro i ribelli, mentre se stai coi ribelli non è che sei libero, vedi

solo quello che vogliono che tu veda, esattamente come con il regime. La verità è che siamo un fallimento, i lettori a stento ricordano dove sta Damasco, dopo due anni, e il mondo della Siria dice di istinto: “Quel casino della Siria.” Perché della Siria non si capisce niente, solo sangue, sangue, sangue

ed è per questo che la verità è che i siriani ci detestano. Come per quella foto del bambino con sigaretta e kalashnikov: è ovvio che era costruita, però è su tutti i giornali, adesso, e tutti a strillare “Questi siriani! Questi arabi! Che barbari!” E se all’ini-

zio mi fermavano, ad Aleppo, e mi dicevano “Grazie, grazie che mostri al mondo i crimini di Assad”, l’ultima volta uno mi ha fermato e mi ha detto: “Vergognati.” Perché io per prima, se davvero avessi capito qualcosa, di questa guerra, non avrei avuto paura di amare, paura di osare, nella vita. Se solo davve151

ro avessi capito qualcosa, della Siria, di questa vita che forse tra un minuto finisce, invece di essere lì, mille volte, stretta al muro nel mio angolo rancido e buio, e tutto, intorno, che esplode e crolla, lì a

rimpiangere disperata tutto quello che non ho avuto il coraggio di dire, ora che è tardi, è tardi per tutto. Come ho potuto perdere quanto di più bello avevo? Perché è questa l’unica cosa da raccontare, di una guerra, il solo pezzo che davvero avrei dovuto scrivere, ora che è tardi, invece che distrarmi tra ribelli lealisti, sunniti, sciiti, l’unica cosa da

capire, la storia che invece mi è rimasta impigliata tra le dita: voi che potete, voi che domani siete vivi, ma che aspettate? Perché non amate abbastanza? L'unica cosa da scrivere, dalle mie macerie, se solo davvero avessi capito qualcosa: voi che avete tutto, perché avete così paura?

Perché poi, la verità, è che anche a starci mesi della Siria hai solo un’idea a frammenti. Intanto perché sei costretto a scegliere. Scegliere se coprire la Siria di Assad o la Siria dei ribelli. E avere un visto da Assad è sostanzialmente impossibile. Cioè, è possibile se ti accontenti di ciondolare per i caffè di Damasco e scrivere sotto anestesia. Scrivere del circolo di tennis, del banchiere che ti assicura che è tutto normale, a Damasco, magari

è giusto un po’ più triste del solito, la sera, i ristoranti non hanno il pesce fresco di una volta. 110.000 152

morti. A Qusayr, a Homs, è vietato entrare. A Lata-

kia, la città degli Assad, per incontrare un po’ questi alawiti. O anche solo alla periferia di Damasco, in cui si combatte come si combatte ad Aleppo — con tutto che esplode e crolla. Vietato entrare. Ma con i ribelli non è che sia tanto diverso. Non solo perché non controllano che mozziconi sparsi di territorio, e quindi quella di Daraa, per dire, al confine con la Giordania a sud, è un’altra guerra, con altre brigate, un altro mondo. Ma perché hanno anche loro le zone rosse. Per dire: Atmeh, la

frontiera da cui passano gli islamisti. Ci passi anche tu, per andare ad Aleppo, ma non puoi fermarti. Vietato.

E quindi, anche a starci mesi, la verità è che della Siria hai solo un’idea a frammenti. Aleppo, alla fine, è solo Aleppo. Del resto della Siria, leggi sui giornali come se stessi in Guatema-

la. Sulle Ande. La verità è lontana anche quando stai in Siria. Ragga, per esempio, è a centosessanta chilometri da Aleppo, verso est. Verso l'Iraq. Ha 220.000 abitanti più 600.000 sfollati: era considerata una città marginale, fuori dalla verticale Aleppo-Daraa della guerra, e quindi una città sicura, e molti hanno pensato di rifugiarsi lì. In mezzo al deserto. Ragaa è stata il primo capoluogo di provincia, su quattordici, a essere conquistato dai ribelli — il primo e l’ultimo. È stata conquistata quest'anno, a febbraio. In venti giorni. Non tanto per merito 153

dell’Esercito Libero, in realtà, quanto per una scel-

ta dei leader locali, che sono sempre stati relativamente autonomi da Damasco, e a un certo punto

si sono schierati con i ribelli. Tra l’altro, proprio perché marginale, Raqga era presidiata da unità dell’esercito non particolarmente energiche, quindi non si è avuta una battaglia come ad Aleppo. Tre settimane ed era finita. Perché poi, senza giornalisti di mezzo, i ribelli ti dicono: abbiamo conquistato Raqga. Ma non ti dicono come. Qui se uno dei due non si arrende, si va avanti all’infinito: perché nessuno dei due è abbastanza forte da vincere, ma

entrambi sono abbastanza forti da non perdere, da impedire all’altro di governare. Uno controlla una città, e l’altro continua a rove-

sciarti addosso bombe e mortai. Comunque, ora Ragga è la prima città a essere interamente controllata dai ribelli, mentre il regime, appunto, continua a bombardare. Quindi tutti guardano a Raqga per capire un po’ come sarebbe, questa Siria senza Assad. Questa Siria libera. Solo che il potere, a Ragga, non è mai stato consegnato alla Coalizione Nazionale. Non è mai stato restituito ai siriani. All’inizio, è stato esercitato insieme dall’Esercito Libero e da una cosa traducibile come Consiglio Religioso a Sostegno della Rivoluzione. Risultato: la ricostruzione non è mai stata avviata e non un dollaro è stato speso per

l’acqua, l'elettricità, il pane. Niente aiuti umanitari. Solo, progressivamente, la sbar#'a. Perché la 154

priorità, a Raqga, con 600.000 sfollati, sembra sia legiferare sui tacchi e l’alcool. Proibire la musica e le sigarette. Shar/'4 e saccheggi, estorsioni, sequestri: è questo, oggi, Raqga. Più i bombardamenti del regime.

Perché il potere, è finito rapidamente agli islamisti. All’inizio, come già altrove, avevano la fiducia e la stima di tanti. A differenza dell’Esercito Libero,

tentavano di governare davvero. Di distribuire cibo e medicine, ripristinare l’acqua, l’elettricità. Un minimo di ordine pubblico. Ma non è durata molto, e non solo per la shar:'a, per le sigarette. Una delle principali brigate, la Ahrar al-Sham, ha rapinato la banca di Ragaa, e speso tutto in armi. In più Ragga, insieme a Deir ez-Zor, più a sud, è area

di petrolio: e gira voce di una cooperazione sottobanco tra il regime e gli islamisti per l'estrazione e la gestione del greggio. Perché tutti hanno bisogno dei proventi del petrolio per comprare armi, qui: però i ribelli controllano le zone con i pozzi, e il regime invece le zone con gli oleodotti. E quindi, per una volta, regime e ribelli hanno trovato immediatamente un accordo. I sunniti e gli sciiti. Ci sono anche altre cose strane. Per dire, un timbro dell’Iran sul passaporto di un loro comandante. L'Iran, il più fedele alleato di Assad. E i loro quartieri generali, che non sono mai stati bombardati, mai. E tutti sanno dove sono, persino io. Insomma, cose strane. Cose che non tornano. 155

Ed è per questo che possiamo andare ad Aleppo, noi giornalisti, ma non a Raqga. Non a Deir ez-Zor. E adesso a Ragga governa direttamente al-Qaeda. La sede della locale brigata dell'Esercito Libero, l’Ahfad al-Rasoul, i Discendenti del Profeta, è stata colpita con quattro autobomba: la prima volta che gli islamisti hanno attaccato altri ribelli. E non solo i ribelli, onestamente. Hanno insediato il loro

quartier generale in una chiesa. Con la bandiera nera che svetta provocatoria dal campanile. Come sempre in Medio Oriente, in Siria quello delle minoranze è un tema ruvido. I censimenti non hanno mai registrato etnia e religione: le cifre disponibili — un 10 per cento di cristiani, più o meno, un 12 per cento di alawiti — non sono che stime e approssimazioni. Furono i francesi, negli anni venti, negli anni del Mandato, a puntare sulle minoranze, secon-

do la tipica politica europea del divide et impera. In cerca di alleati, si garantirono la lealtà degli alawiti promuovendoli ai vertici delle forze armate. Con gli Assad, poi, a partire dagli anni settanta, al potere militare si è saldato via via il potere politico e il potere economico. E quindi oggi, su circa 200.000 soldati di carriera, gli alawiti sono 140.000: e sono 1°80 per cento degli ufficiali. Soprattutto, sono esclusivamente alawiti i due principali corpi di élite, la Guardia Repubblicana e la IV Divisione Corazzata,

guidati da Maher, il fratello di Bashar. E quindi si dice il regime alawita e si dice la rivolta della maggioranza sunnita. 156

Se non fosse che è alawita anche Loubna Mrie, ad Aleppo. Così come è cristiano Jimmy Shininian, il più noto degli attivisti di Raqga. Ha venticinque anni, è un ingegnere ed è uno dei tanti che non abbiamo raccontato, lì tutti concentrati sul fronte, sul sangue, sulle cose più facili, se non fosse che la sua libertà dipende anche da noi. Se si parla solo di chi combatte, qualunque rivoluzione diventa una guerra. “Capisco”, dice. “Capisco che per voi la Siria è solo una guerra tra le tante: ma per noi questa è l’unica vita — non è una vita tra le tante.” “In Siria non abbiamo mai avuto particolari problemi”, dice. “Ancora oggi, dichiararsi cristiani significa essere rispettati. Lo scontro confessionale è stato importato dai combattenti stranieri.” Che non affollano solo i ranghi dei ribelli. Se i ribelli, infatti, senza gli jihadisti sarebbero stati travolti, neppure Assad senza Hezbollah avrebbe resistito a lungo. “Ormai non siamo che ostaggi di una guerra altrui. Non abbiamo perso solo la rivoluzione. Abbiamo perso la Siria.” “E non è vero che gli islamisti sono stati decisivi. Tutti i territori che ora controllano sono stati conquistati dall'Esercito Libero. Quello che è stato sottratto ad Assad, qui, è stato sottratto ad Assad dall'Esercito Libero”. Per poi essere occupato di nuovo. “La stragrande maggioranza, a Ragga, è contra157

ria a uno stato islamico, e più della metà è più che contraria: è indignata. Ma non possiamo fare niente”, spiega. “Sono loro ad avere le armi.” La stessa frase che sentivamo a Damasco due anni fa, solo che allora si riferiva ad Assad. La prima foto mi è arrivata intorno alle 5: una fila di corpi, un padre in ginocchio. Ma sono mesi che mi arrivano file di corpi, dalla Siria. Mesi che mi sveglio sempre alla stessa ora, sempre con gli stessi cadaveri. Gli stessi padri in ginocchio. E ho guardato distratta. Solo una fila di corpi. Somigliavano ai cadaveri del fiume, quelli di febbraio. Perché erano tutti in fila ordinati, uno dopo l’altro, tutti uguali. Ho riaffondato la testa nel cuscino e cercato di dormire. Sembravano dormire anche loro, uno dopo l’altro. Tutti ordinati, nitidi, tutti senza sangue. Tutti senza la minima traccia di sangue, di ferite, di proiettili, di bombe.

Intatti, tutti intatti. E ho riaperto immediatamente. Foto, video: arrivavano uno dopo l’altro, decine di bambini stesi per terra, nudi, decine e decine, rantolavano, la schiuma alla bocca, questi occhi sbarrati, liquidi. Tossivano, tossivano e morivano. Morivano che non ho mai visto niente del genere. Scossi dalle convulsioni che non riuscivano a tenerli fermi, gli occhi rovesciati. Le urla. 158

La schiuma alla bocca, questi occhi sbarrati. Tossivano e morivano. Mai visto niente del genere. Perché è il 21 agosto 2013. E questo, cristo, è gas. Razzi con testate chimiche, da quanto si è capito. Piovuti su Ghouta, alla periferia est di Damasco,

questa notte intorno alle due. A pochi chilometri dai banchieri del circolo del tennis — lì dove dicono ci siano solo ristoranti e caffè e la vita di sempre: invece è da mesi una palude di combattimenti tra regime e ribelli, incagliati nella solita battaglia in cui nessuno avanza. Oltre 1300 morti. A pochi chilometri da Ghouta, in realtà, a Damasco, oltre ai banchieri in questi giorni ci sono anche degli ispettori dell'ONU, su richiesta di Assad. Perché non è la prima volta, il gas in Siria è già stato usato. E a quanto sembra da entrambe le parti. Il regime avrebbe usato del gas a Jobar, sempre vicino Damasco, ad aprile: due giornalisti di Le Monde erano lì clandestini, per caso, e hanno consegnato

a un laboratorio campioni di sangue e tessuti. Sarin. I ribelli, invece, avrebbero usato del cloro, una soluzione salina più rudimentale, a marzo, a Khan

al-Assal, vicino Aleppo. Ed è la ragione per cui Assad si è rivolto all'ONU. Ma il gas fino a oggi è sempre stato usato su scala minore, poche decine di morti, e mai da solo: sempre a sostegno di armi 159

convenzionali. Sempre mimetizzato tra armi convenzionali per non generare reazioni. Perché Obama ha detto che era questa, in Siria,

la sua linea rossa: le armi chimiche. Un anno fa. Ha detto: “Il ricorso alle armi chimiche cambierebbe le nostre valutazioni.” Nel senso: le nostre valutazioni sulla necessità di un intervento. Ora i ribelli hanno il più potente degli incentivi a usare armi chimiche, dissero subito i sostenitori del regime. Ora il regime ha il più potente degli incentivi a usare tutto tranne che armi chimiche,

dissero subito i sostenitori dei ribelli. Una dichiarazione che è una micidiale leggerezza, dissero tutti gli altri. Ma tanto non conosceremo mai la verità. Chi è

stato, stamattina? Mentre l’ONU negozia perché i suoi ispettori, già che ci sono, allunghino di altri sedici chilometri, e raggiungano Ghouta, Assad sta già bombardando tutto e cancellando ogni prova. Comunque, non è che gli arabi siano più barbari di altri. Imaggiori arsenali di gas al mondo, anche se è in corso il loro smantellamento, sono ancora

oggi di Stati Uniti e Russia. Che hanno firmato la Convenzione per la proibizione delle armi chimiche, nel 1993, non perché siano paesi più illuminati degli altri, nelle loro guerre, in Pakistan o in Cecenia, ma

perché non ne hanno bisogno. La ragione per cui la Siria ha tutti questi depositi di Sarin è che il gas è il nucleare dei poveri. Solo Israele, qui, ha l’atomica. E agli altri, intorno, non rimane che il gas. O 160

gli attentati suicidi. D'altra parte non si capisce molto della Siria se non si capisce Israele. Una delle ragioni della differenza tra Libia e Siria, tra l'intervento in Libia e il non intervento in Siria, è che la Libia non confina con Israele, mentre la Siria

sì. E che Israele con gli Assad ha trovato un suo equilibrio: la sua frontiera problematica oggi è solo quella con il Libano, gli Assad si sono sempre limitati alle parole — mentre a Israele questi ribelli sembrano un po’ troppo musulmani, un po’ troppo arabi, così ancora non ha deciso se preferisce Assad o l'opposizione. Una sicura dittatura o un’ignota democrazia. Ed è anche per questo — perché Israele non ha deciso, con questa primavera araba che gli si è rovesciata addosso controvento, inattesa, e soprattutto, indecifrabile — che gli Stati Uniti, e a ruota

l’Europa, non hanno agito. Non hanno deciso. Cioè, non avevano deciso. Perché adesso, improvvisamente, hanno deciso tutti. Adesso, improvvisa-

mente, la Siria è in prima pagina. E i giornalisti sono già tutti su un aereo per la Turchia. “Ma che, sei ancora a casa?”, mi dice Lorenzo

alle 15.19. “Non mi dire che ti perdi i missili.” Perché abbiamo tutti le idee chiare, adesso. Abbiamo tutti la Siria nel cuore, i diritti umani.

Bisogna bombardare. Eppure abbiamo iniziato a raccontare la Siria, era il febbraio 2012, proprio perché credevamo fosse stata superata la linea rossa: le manifestazioni 161

contro Assad venivano spianate via da proiettili e mortai. Ma gli scontri tra il regime e il neonato Esercito Libero, poco più che ragazzi in kalashnikov e ciabatte, sono presto precipitati: e ci siamo ritro-

vati di là da un’altra linea rossa, quella della guerra. Altrettanto presto i morti hanno cominciato ad accumularsi a centinaia, a migliaia. E alle redazioni abbiamo cominciato a dire: prima di chiudere, chiamate che aggiorniamo le cifre. Poi, all’improvviso, sono comparsi i primi combattenti stranieri.

E ci è sembrata un’altra linea rossa: quella della Siria ostaggio di battaglie, strategie altrui. Fino a quando non sono cominciati a grandinarci addosso missili. Fino a quando non abbiamo visto il comando dell’Esercito Libero, ad Aleppo, sostituito da quello di Jabhat al-Nusra, gli islamisti legati ad al-Qaeda. Fino a quando non ci siamo imbattuti in siriani sempre più magri, gialli, stravolti dalla fame e dal tifo — mentre neppure registravamo più il conto dei morti, tanti erano quelli che nessuno recuperava dalle macerie. L'ultima linea rossa l’avevamo archiviata un mese fa ad Aleppo. Due bambini fucilati per una frase contro l'Islam. Perché la verità è che l’unica linea rossa, in Siria, è la scia di sangue e carne dei feriti, dei loro pezzi trascinati via nella polvere, quando dopo i missili, dopo i mortai, è il turno dei cecchini che sparano sui soccorritori. Interpretazioni e opinioni sull’attacco chimico, adesso, sono come sempre opposte. Che senso 162

aveva per il regime? dicono i difensori di Assad. Dopo la conquista di Qusayr, e con l’ormai esplicito sostegno di Hezbollah, Assad era in netta ripresa. Perché regalare agli Stati Uniti il pretesto per intervenire, e proprio con gli ispettori ONU a Damasco? A Damasco, tra l’altro, per indagare su un altro attacco chimico: quello vicino ad Aleppo i cui maggiori indiziati, invece, sono i ribelli. Che avrebbero così deviato altrove l’attenzione internazionale. Ma nell’area colpita il regime era in difficoltà, ribattono gli oppositori di Assad. Rischiava che i ribelli entrassero a Damasco. E soprattutto: siamo convinti che Assad abbia un controllo ferreo della situazione, mentre il regime, è noto, è da anni in via di sfaldamento. Con Bashar affiancato, assedia-

to da una molteplicità di centri di potere. L'attacco chimico potrebbe dunque essere stato eseguito senza accordo con i vertici, o ordinato da vertici in

competizione con Bashar — a partire da suo fratello Maher. Ognuno, in queste ore, dispensa la sua opinione e interpretazione, che ci svela chi è il colpevole sulla base dei video di YouTube. Ma poi, in realtà, è davvero decisivo capire chi sia stato? Qualcuno ancora dubita che il regime compia crimini contro l’umanità, e i ribelli crimini di guerra? Perché c’è un’altra linea rossa che abbiamo attraversato, ormai mesi fa: quando i siriani hanno cominciato a fuggire non solo dalle aree controllate dal regime, ma anche da quelle cosid163

dette liberate, in preda a un’anarchia di saccheggi, esecuzioni sommarie, sequestri, e improvvisate corti islamiche. Cosa importa che siano armi chimiche o armi convenzionali? Oltre 100.000 morti: è tempo di agire, in Siria. Il padre del mio amico Fahdi, alawita, morto a Latakia per mancanza di medicine, è morto di cancro o di guerra? Come era solito dire Cassese, citando Mark Twain, esiste sempre una

soluzione semplice ai problemi complessi: quella sbagliata. In tanti, in queste ore, richiamano il precedente del Kosovo. Ma l’unica analogia con quei settantotto giorni di bombardamenti, era il 1999, è il veto russo, che oggi come allora blocca l'ONU e il suo Consiglio di Sicurezza. Per il resto, il contesto è radicalmente altro. La contrapposizione tra maggioranza albanese e minoranza serba era niente in confronto al groviglio di diversità, alla pluralità di attori e interessi che è la Siria: la questione di fondo, qui, è che l'opposizione è eterogenea e divisa, con gli islamisti come gruppo dominante. Quale sarebbe dunque l’obiettivo dei bombardamenti, dal momento che la ragione vera dell’inazione internazionale non è il veto russo ma l’assenza di una alternativa ad Assad? La guerra in Kosovo si è conclusa con un protettorato durato anni. È stata l’opposto, ha ricordato il generale Wesley Clark, all’epoca alla guida della NATO, di un’operazione shock and awe, di due giorni di bombardamenti 164

come quelli di cui si parla ora. In ogni guerra, ha ricordato, bisogna avere chiari obiettivi politici, e

soprattutto, essere pronti all’escalation — esattamente come in Kosovo: due giorni che sono diventati settantotto, fino a quando MiloSevic non ha ceduto. Solo che il contesto di questa possibile escalation, adesso, non è la Jugoslavia: è un Medio

Oriente in cui ovunque si guardi è tutto un golpe, un drone, un’autobomba - Ramallah è una delle città più anestetizzate in questo momento, eppure sono stati uccisi tre palestinesi, l’altro giorno, e in un minuto si è incendiata l’intera West Bank. In tanti interpretano questo intervento come una difesa della credibilità dell'Occidente: l’uso di armi chimiche, si sostiene, non può rimanere impunito. La parola di un presidente degli Stati Uniti non può rimanere disattesa. In realtà, sembra tutto molto in continuità con il nostro ruolo in Siria fino a oggi. Perché non è affatto vero, naturalmente, che siamo stati assenti: fino a oggi, la strategia è stata armare e sostenere i ribelli, ma non troppo,

non fino in fondo, solo fino al punto di scalzare Assad attraverso una transizione che fosse insieme rinnovamento e stabilità. Con l’accento sulla stabilità: quella stabilità che nonostante la retorica garantisce a Israele la sua frontiera più sicura. Solo che non ha funzionato perché l’opposizione si è rivelata un disastro, perché è sbarcata al-Qaeda, perché Assad ha scelto di demolire la Siria piuttosto che capitolare. Niente di nuovo, dunque. Contraria165

mente alle apparenze, gli imminenti bombardamenti non sono che l’ennesimo “sì, ma anche no”

che non risponde alla domanda di fondo: qual è l'alternativa ad Assad? Uno causa 1.000.000 di bambini rifugiati, gli altri ibambini li fucilano. Quanto alla credibilità — le armi chimiche, vietate dal diritto internazionale consuetudinario, sono state escluse dalla giurisdizione della Corte Penale Internazionale. Perché costituiscono una categoria unica, le armi di distruzione di massa, insieme alle armi biologiche e soprattutto nucleari — i cui padroni sono noti. É così, siamo qui a indignarci per una linea rossa che non abbiamo classificato come cri-

mine di guerra proprio per riservarci la libertà di superarla. Forse allora è opportuno ricordare che esistono i crimini internazionali, cioè i crimini che comportano responsabilità penale individuale, ma esiste anche la fattispecie di complicità in crimini internazionali. Per esempio, la vendita di armi a chi poi con queste armi compie crimini internazionali. Tutti reati non soggetti a prescrizione. Bisogna fare

attenzione, a difendere la propria credibilità. Un giorno si potrebbe essere presi sul serio.

Dunque, ricapitolando. Ormai trovo trenta nuovi editoriali per ogni cadavere, la mattina, una foto da Aleppo e trenta articoli sulla Siria, e sembra che nel mondo non 166

esista altro che la Siria. Tutti, adesso, hanno la Siria

nel cuore. E io sono qui che leggo ammirata. Perché scrivono tutti questi editoriali da New York, Parigi Roma, Honolulu, tutti questi editoriali elegantissimi, non un aggettivo che stoni. Tutte queste analisi puntuali, dettagliate. Senza tentennamenti. E senza essere mai stati in Siria. Voglio dire: uno crede sia facile, ma la verità è che da Aleppo siamo bravi tutti, dal fronte, anche voi domani se andate al fronte tirate fuori un pezzo da prima pagina, un pezzo tutto adrenalina, tutto ritmo, sangue, scene epiche. Non è una battuta: è la cosa più semplice da raccontare, il fronte. Devi solo tornare vivo.

Quello che è veramente difficile è scrivere di Siria se tutto il tuo Medio Oriente è il piatto di rame comprato in vacanza in Marocco. Lì sì, che devi essere bravo. E quindi sono qui che leggo ammirata. Questi editoriali raffinati, la primavera araba, la democrazia, Jefferson, Rousseau, editoriali che spaziano dalla rivoluzione francese a quella d’ottobre, e i greci naturalmente, Sparta, Atene, Gorbaéév e il

muro di Berlino — un parallelo, stamattina, magnifico, tra l'Egitto e la Siria, coltissimo, su questi

sunniti e sciiti come guelfi e ghibellini, girondini e giacobini. E in Egitto non ci sono gli sciiti. Neppure uno. Scrivere pezzi così. Quella sì, che è bravura. Però, dunque, ricapitoliamo ancora una volta. 167

Mentre seguivamo in diretta gli ispettori dell’ONU raggiungere Ghouta, tipo sbarco sulla luna, metro dopo metro, tutti con il fiato sospeso, perché adesso abbiamo tutti la Siria nel cuore — e perché Assad ha infine detto sì: ha detto che potevano allungare fino a Ghouta, già che c'erano, ma solo per stabilire se sia stato effettivamente usato del gas, non per stabilire chi è stato a usarlo, solo per certificare che accadono cose strane, in Siria, negli ultimi tempi, nubi di gas all’improvviso — insomma, mentre eravamo tutti su lwitter,

Cameron, il primo ministro inglese, ha consultato il parlamento: e il parlamento ha votato no. No all’intervento militare. Obama allora ha deciso di consultare anche lui il Congresso. Però prima deve avere consultato dei sondaggi, che non devono essere stati molto rassicuranti — per via della legge di bilancio, in realtà, non della Siria, perché la legge di bilancio deve essere approvata entro pochi giorni, negli Stati Uniti, altrimenti bloccano le spese del governo, e i repubblicani con i tempi stretti a loro vantaggio alzano la posta, adesso, e in cambio del sì sulla Siria vogliono emendamenti sulla sanità, un po’ come in Italia, nelle votazioni cruciali, quando è in ballo il destino del paese, che in cambio di un sì ogni deputato vuole il finanziamento alla processione, alla squadra dell’oratorio, il marchio DOP per il cetriolo locale — insomma: mentre Obama è impegnato a consultare tutto il consultabile, la Russia ha intanto consultato Assad. 168

E gli ha chiesto di smantellare il suo arsenale chimico.

Siamo qui, più o meno. All’iniziativa della Russia: se Assad si disfa del suo arsenale chimico, niente bombardamenti. Cioè, niente bombardamenti

su Assad. Quelli di Assad possono continuare. Siamo dunque al punto che ora gli Stati Uniti si consulteranno con l'Arabia Saudita e l'Unione Europea, e poi l'Unione Europea si consulterà con i suoi singoli membri e l’Arabia Saudita con i membri del Consiglio del Golfo, e poi tutti insieme, arabi, europei e americani, si consulteranno con la Russia una volta che la Russia si sarà consultata con l'Iran, così che, consultata poi tutti insieme la Turchia, che

sulla mappa non sta né di qua né di là e quindi rischiano ogni volta di dimenticarsela, tutto il mondo possa infine consultarsi con ONU. Tutto il mondo tranne i siriani. Perché poi erano solo lacrimogeni, all’inizio. Lacrimogeni e manganelli. Poi, un giorno, i proiet-

tili. E dopo i proiettili, un giorno i mortai. Dai mortai gli elicotteri. Dagli elicotteri i carrarmati. “Quella linea rossa, in realtà, è un semaforo verde.

Tranquillizza Assad che, tranne i gas, può usare qualsiasi altra cosa e nessuno reagirà”, mi disse Abdallah la mia prima mattina ad Aleppo, mentre eravamo alle cannonate, ma ancora non erano arrivati i missili e gli aerei. Se solo, a volte, ascoltassimo i siriani. Abdallah aveva fondato il Media Center per aiutare noi gior169

nalisti stranieri, che scrivevamo di una maggioranza sunnita oppressa dalla minoranza sciita. Anche se accanto a lui, a spiegarci la Siria, c'era Loubna. Alawita.

“Colpisce, onestamente, che si parli di deterrenza. Perché se l’obiettivo è disincentivare un nuovo ricorso ai gas, l'attacco americano è il modo migliore per incentivare a usarli chi ha interesse a un intervento esterno — e sono tanti, qui: tra chi si oppone al regime, ma anche tra chi all’interno del regime mira a sostituirsi ad Assad”, mi dice oggi Mohammed Noor, un altro veterano del Media Center. Che però si occupa di profughi, adesso,

insieme ai molti altri attivisti passati dalle manifestazioni alle mense per sfollati: perché già a febbraio Abdallah era stato ucciso dai ribelli, che non

volevano più in giro giornalisti e testimoni, che costruivano un nuovo regime — mentre noi conti-

nuavamo a raccontare di una rivoluzione per la libertà. Perché la Siria, è complicata. Ma quando mai abbiamo ascoltato i siriani? Certo non in questi giorni, in cui all'improvviso tutti hanno cominciato a occuparsi di Siria — e delle decine di editoriali letti, mi è rimasto in mente solo, di nuovo, un vecchio Mark Twain: le guerre, a noi occidentali, servono a imparare la

geografia. L'intero dibattito è stato su tutto tranne che sulla Siria. Sulla nostra credibilità, all’inizio, il 170

rispetto delle regole e delle linee rosse, sul ruolo dell’ America nel mondo, l’unipolarismo, il multi-

polarismo e il tramonto delle Nazioni Unite. Sull’intervento umanitario, il Kosovo, la Bosnia, l’etica e

il realismo. L'etica e il cinismo. Poi il parlamento inglese ha bocciato Cameron. Ed è stato il turno dell’analisi dei rapporti tra Stati Uniti e Gran Bretagna, e la Francia, cosa farà la Francia?, approfitterà del ritiro inglese per recuperare un ruolo internazionale?, e l'Europa, esiste?, e i paesi arabi, naturalmente, il Golfo e il prezzo del petrolio. Poi, ancora, Obama ha deciso di interpellare il Congresso: e il dibattito gli si è concentrato addosso. Un presidente debole, un presidente forte, un presidente forte a parole, il Nobel immeritato, repubblicani e conservatori, il trauma dell’Irag, è un falco o una colomba?, o è semplicemente confuso? Guantanamo i droni, e forse è meglio si dedichi al debito e all'economia. Fino a questa iniziativa russa, adesso, per la distruzione dell’arsenale chimico. E ora è tutta un’analisi dei rapporti tra Stati Uniti e Russia, e il ritorno di Putin, e l'Iran, come influisce tutto questo sul nucleare iraniano?, che è poi l’unica cosa che interessa davvero, perché poi, come sempre, chissà le conseguenze su Israele. Davvero - abbiamo parlato di tutto e di tutti, in questi giorni, tranne che di possibili soluzioni, negoziati, transizioni. E abbiamo chiesto un’opinione a tutti, tranne che ai siriani. E il dibattito di questi giorni, allora, dice poco L71

di Siria ma molto di noi. Perché in realtà, superato lo shock delle immagini dell’attacco chimico, a mente lucida si è registrato un consenso quasi unanime sull’inutilità di una rappresaglia. Per ragioni opposte. Chi sosteneva i negoziati, chi invece un intervento più incisivo, con truppe di terra — ma in ogni caso l’idea di due giorni di missili è sembrata insensata a molti. La guerra, si è ripetuto, continuerà come prima. E in più, le ripercussioni sui paesi vicini saranno imprevedibili. Eppure, quando Obama ha fermato il conto alla rovescia e deciso di interpellare il Congresso, la critica al guerriero inutile si è convertita nella critica al guerriero riluttante. E allora colpisce: perché nessuno nega che intervenire in Siria sia una scelta complessa e controversa, però contestiamo che Obama decida di ascoltare, pensare, ponderare? Contestiamo che si lasci condizionare dall’opinione degli americani, come quell’ingenuo di Cameron: non sapeva che gli elettori sono contro la guerra perché sono egoisti? Perché non capiscono qual è il vero interesse nazionale? Non sapeva che, fosse dipeso da loro, non avremmo mai avuto neppure lo sbarco in Normandia? Contestiamo la democrazia, contestiamo quello che è in fondo il nostro obiettivo, in Siria. Vogliamo il leader sicuro di sé, il condottiero tutto muscoli e testosterone, vogliamo l’eroe che agisce, e agisce subito — anche se l’abbiamo appena ammonito che è inutile, e anche pericoloso. Il nostro dibattito 172

ormai è il tifo dagli spalti, il nostro parlamento i social network — è questo, ormai, che intendiamo

per democrazia. Ma soprattutto, perché abbiamo deciso che non

esistono soluzioni diplomatiche per la Siria? Per un mediatore, il caso più ostico è quello di Israele e Palestina: due attori, uno subordinato all’altro,

uno intrappolato dall’altro, lasciati soli al tavolo dei negoziati con il loro squilibrio di risorse e potere. Ma una pluralità di attori e interessi, invece, come

in Siria, si traduce sempre in un intreccio di convergenze, oltre che di divergenze — opportunità, oltre che difficoltà. “L'unica ragione per sostenere Assad, oggi, è ritenere che l’alternativa sia peggiore. Che Assad, per quanto criminale, sia meno criminale dei ribelli. E viceversa: che chi è con i ribelli, oggi, stia con loro solo perché è contro il regime.” Potrei eliminare le virgolette: è quello che in Siria ti dicono tutti. Nessuno può perdere, ma nessuno può vincere — però è proprio qui, ti dicono, lo spazio per il compromesso. Per la pace. Se solo, a volte, ascoltassimo i siriani. Anche perché, se solo ci importasse qualcosa dei siriani, eviteremmo ora giorni di dibattito sull’iniziativa russa. E non solo perché in Iraq sono vent’anni che si continuano a neutralizzare armi

chimiche. “Cosa penso di tutto questo?”, taglia corto Mohammed Noor, “che oltre 110.000 siriani sono stati uccisi con armi convenzionali. Ottanta

volte le vittime dei gas.” 173

Adesso che è ufficiale, sono ripartiti tutti. Adesso che Obama ha deciso, niente bombardamenti, sono ripartiti tutti. D'altra parte, gli attivisti finiscono di nuovo in carcere, al Cairo. Scontri, attentati.

E ovunque il

ritratto del generale al-Sisi, l’autore del colpo di stato. Come un tempo il ritratto di Mubarak. “Ma che, sei ancora a Ramallah?”, mi ha detto Lorenzo. “Non mi dire che ti perdi l’Egitto.” Sembra normale, ormai, la Siria, la guerra. E i

giornalisti sono andati via: “Non c’è niente da raccontare.”

Anche se la prima foto ti arriva sempre intorno alle 5. Quella di oggi è un cortile sparpagliato di macchie rosse, blu, verdi. Vestiti. Una charity islamica distribuiva vestiti di notte, per evitare di essere visti, ma sono stati centrati da un mortaio. Erano quasi tutti bambini. Perché uno pensa: inviamo i bambini, loro non saranno colpiti. Se allarghi, con lo zoom, alcuni tra gli stracci non sono stracci. Non di stoffa.

Poi altri bambini che si specchiano in una pozza di sangue. E un missile, una foto dei soccorsi dopo un missile, a mani nude, pietra dopo pietra. Un palazzo di undici piani. Una foto di padri con i figli in braccio, in fila come all’ingresso di un asilo, e invece sono in fila al cimitero, i figli avvol-

ti in un telo bianco. Un ragazzino in bici che pedala veloce tra i cecchini, la testa bassa e questa bambina, con un fiore tra i capelli, la gonna a pieghe, 174

che raccoglie frammenti di metallo per fabbricare armi, “Vieni a giocare con me?”, ti dice, con il suo fiore tra i capelli, e questo bambino, accanto, senza un braccio, davanti alle macerie dello Shifa, giocano ali giustiziati, allineati contro un muro, giocano ai torturati, ai morti ai mutilati, la testa

incastonata tra le macerie, bruciata, “Vieni a gio-

care con me?”, ti dice, con il suo fiore tra i capelli mentre tutto, intorno, esplode e crolla. Magri, le ossa, le cicatrici, gialli di tifo mentre scuoiano un topo, “Vieni a giocare con me?”, mentre cercano un cadavere, cercano cibo, su queste altalene

a strapiombo su fosse comuni, il sangue che cola loro addosso, mentre cammini e ti si aggrappano al braccio, ti vengono dietro come fossi prezioso, come fossi qui per salvarli, ti raccolgono tutte le dita che trovano, un mazzo di dita di campo, e ovunque ti giri, queste teste ti guardano tra le macerie, lo sguardo interrogativo, ti guardano, come a dire: “Non ho capito perché.” Questi piedi, queste mani, queste braccia dalle macerie, afferrano te che corri via, “Vieni a giocare con me?”,

questi bambini carbonizzati, queste orbite vuote, “Vieni a giocare con me?” e ti tirano a terra, ti afferrano, come fossi qui per salvarli, ti afferrano dalle caviglie e... Sono le 3.37. Di nuovo le 3.37. Continuo a svegliarmi sempre alla stessa ora.

175

Sono rimaste solo le fotografie, nessuno di noi è più disposto a entrare in Siria. È scomparso persino padre Paolo Dall’Oglio. Viveva in Siria da trent'anni, nel monastero di Mar Musa, non molto lontano da Damasco, ed era — è

ancora — il simbolo del dialogo tra cristianesimo e Islam, in Siria. Era tornato pochi giorni fa, dopo essere stato espulso da Assad. Ed era diretto a Raqga, unica città controllata dai ribelli, e dunque prima città della Siria democratica: era tornato per ricominciare, lui che era un tenace oppositore del regime.

E invece è stato sequestrato da al-Qaeda, persino padre Paolo Dall’Oglio. Un oppositore del regime sequestrato dai ribelli. Quindi nessuno di noi, ormai, è più disposto a entrare. Sono rimaste solo

le fotografie, solo i messaggi. “Però poi Obama pensa di bombardare e all’improvviso siete tutti pronti a rischiare. Perché la notizia per voi non è la guerra in Siria, è la politica estera americana. La notizia siete voi stessi. Per voi essere pro o contro i bombardamenti significa essere pro o contro gli Stati Uniti. Per voi, senza gli Stati Uniti, senza voi stessi, non c’è niente da rac-

contare”, mi ha scritto un siriano. Mi ha scritto: “Vergognati.” Sono rimasti solo questi messaggi.

Ora dopo ora, minuto dopo minuto. “Ci ammazzano tutti! Dove siete? Ci ammazzano tutti! 176

i?

Solo questi messaggi, solo queste foto di sangue. Ho provato a riscrivere il mio elenco. Ma dice ancora R di Rosso, C di Cadavere, A di Aereo, E di

Elicottero, E di Esplode. M di Macerie e di Mortai, F di Ferita, L di Lama, D di Dolore, C di Colpa.

O di Ossessione. “Cambia mestiere!” mi ha urlato ieri Elias. Gli avevo telefonato per sapere se qualcuno ha voglia di tornare ad Aleppo. “Ma che vuoi ancora dalla Siria? Dimentica!” mi ha urlato, “Dimentica! Se non sei capace di dimenticare, se non sei capace di andare avanti, cambia mestiere! Scrivi romanzi! Tu e la Siria! Scrivi romanzi, che questo non è un mestiere per gente fragile! Che vuoi ancora dalla Siria?”, mi ha urlato. E ha chiuso, così. È uno dei migliori, un fotografo, uno che ha raccontato la Siria come pochi. Ma ora non ci parliamo neppure più tra di noi, i trentenni che erano lì allo Shifa, fissi, per non mancare il momento del bombardamento, perché sapevamo che era solo questione di tempo. Solo questione di mira. Sapevamo che qualcuno di noi sarebbe stato ucciso, ma siamo rimasti lì. Divisi in

turni, impliciti. Soprattutto i fotografi. Gli italiani, gli spagnoli. Quelli che poi a casa si sentono dire: Bamboccioni. Ma ora non ci parliamo neppure più, ognuno

con i suoi fantasmi. L77

Ognuno che non dorme, nessuno che lo dice. Ognuno, nel sonno, che parla di sangue e di battaglie. E soprattutto da quando è diventata una guerra. Da quando è cambiato tutto, marcito tutto, e non

sei più quello che gli attivisti aiutavano ad attraversare il confine da clandestino. Perché non sei che uno strumento, adesso, uno strumento di propaganda o di guadagno. Per tutti: per i ribelli, per il regime, e per tutti quelli intorno, a cui in realtà importa zero della Siria, del mondo. Di te. Tutti quelli che sono lì ad aspettare la tua foto, il tuo pezzo, l’icona — mentre tu non hai che una ragazza down, davanti. Dentro.

Perché la cosa più difficile non è raccontare il fronte, le guerre degli altri, ma quelle che combatti dentro di te — e quindi siamo qui, ognuno con i suoi fantasmi. Qui che neppure ci parliamo più. Se non sai andare avanti — hanno ragione — Se non sai dimenticare. O di Ossessione. Ma chi è più sano, tra di noi? Chi va avanti o chi si ferma? Chi guarda o chi nega? Chi non è travolto, da 110.000 morti, dopo due anni di guerra? Chi

è più sano, tra di noi? Chi è più fragile? Chi guarda o chi nega? Perché poi puoi nasconderti quanto vuoi — ma è come nei ritratti di quella fotografa inglese, i marines prima e dopo l'Afghanistan. A distanza di 178

un anno e invece sembrano dieci, la pelle ruvida, un'espressione indecifrabile addosso, come ustio-

nata dalla vita. E come nei nostri passaporti, se li sfogli. Se ci confronti: prima, adesso. Altrove. Altrove, per sempre, mentre giro per Ramallah,

giro per questa che era l’avanguardia del Medio Oriente: questa che tutti invidiavano, quando erano sotto i Mubarak, sotto i Gheddafi, e subivano

a testa bassa. Volevano essere così, come i palestinesi. E ora che tutti, qui intorno, si battono per la libertà, qui si battono per pagare le rate del televisore. Questa che non è più casa mia. “Cambia mestiere.” “Ma che vuoi ancora dalla Siria?” “Cercati uno psicologo.” Guardo le foto di Alessio una, dieci, cento volte. Solo le foto di Alessio. La musica dei Radiohead. Solo le foto di Alessio perché c’è una storia, lì dentro. E non è finita. F di fragile, P di paura. P di passione. In redazione mi tranquillizzano: “Puoi scrivere della Siria anche da Roma. Anche da Ramallah. Non è necessario che torni.” Ma se già dalla Siria non hai idea di cosa succeda in Siria. Questi sguardi, conficcati addosso. Queste teste tra le macerie. So solo che c’è una storia, lì dentro, e non è finita. ir,

A di angeli. D di demoni. Uccidete i miei demoni, e ucciderete anche i miei angeli.

S di solitudine. S di Siria. S di specchio. Ma cosa importa? Puoi scrivere della Siria anche da Roma. Perché poi, a vostra insaputa, a raccontarci la Siria sono rimasti solo i siriani. Lavorano per le maggiori agenzie, le maggiori testate, e contribuiscono ad articoli scritti da New York, Parigi, Lon-

dra. Sono i famosi citizen journalists, tanto glorificati anche da chi probabilmente non si affiderebbe mai a un citizen dentist. Il risultato sono casi come quello di Elizabeth O’Bagy, l’analista di un istituto di ricerca americano citata da John Kerry nei giorni dell’attacco chimico. Sul Wa// Street Journal, infatti, era appena apparso un suo pezzo sui ribelli, da cui sostanzialmente si ricavava l'impressione che fossero brava gente, e che gli estremisti, in Siria, non fossero che una manciata. Perché il problema,

no?, è questo, per gli Stati Uniti: temono che Assad sia rimpiazzato da al-Qaeda. Poco dopo, mentre Human Rights Watch denunciava i ribelli per crimini contro l’umanità, si è scoperto non solo che Elizabeth O’Bagy non aveva il PhD dichiarato, ma soprattutto che era a libro paga di una lobby siriana il cui obiettivo era convincere Obama a intervenire. Nell'era di Twitter e YouTube, in cui i gior180

nali risparmiano sugli inviati perché tanto recuperano sempre il siriano che riassume via skype cosa è successo davanti a casa sua, è sui resoconti

delle Elizabeth O’Bagy che poi fondiamo la nostra politica estera. Le nostre guerre. I loro morti. Sui resoconti di una che ha iniziato a occuparsi di Medio Oriente due anni fa. Classe 1987. Cosa importa? Puoi scrivere della Siria anche da Roma.

181

5; Autunno

Settembre 2013

In fila al gate per Antakya, davanti a me, all’aeroporto di Istanbul, due ragazzi con barba, Corano

e passaporto britannico. Uno non ha un braccio. All’altro manca un orecchio. Non sono la sola a tornare ad Aleppo. Ma sono rimasti solo gli jihadisti, ormai. Non c’è più nessuno, ad Antakya. Le televisioni, la BBC, Sky, hanno ancora i loro uffici, tutta l'attrezzatura, ma non c’è più nessuno,

dentro solo qualcuno dello staff locale. I corrispondenti di giornali come il Guardian, Le Monde, i corrispondenti dei giornali veri, che coprono l’intero Medio Oriente e ora che è tutto una rivolta non hanno un minuto libero, passano di qui ogni due, tre mesi.

Gli altri non c'erano prima e non ci sono adesso. Né ci siamo più noi freelance. “Non c’è niente da raccontare”, mi dice subito uno spagnolo venuto a recuperare il suo antiproiettile, “è inutile. Stanno dove stavano un anno fa.” Anche l’Ozsut è deserto. 183

Chiedo un espresso, “Scusi è finito”, mi dicono, “solo caffè turco.” Sono rimasti solo gli jihadisti e i ragazzi delle ONG, che poi è come se non ci fossero per come sono ora. In larga maggioranza ragazzi che vivono qui come se stessero altrove, in un altrove ovunque identico di torte alla banana e serate per soli stranieri, inconfondibili: tutti vestiti uguali, si frequentano solo tra di loro, ubriacandosi in paesi dove è

vietato l’alcool e cose di questo tipo. Come a Ramallah, chi se lo dimentica?, la notte di capodanno del

2009, quando dei danesi organizzarono una festa su una terrazza: e intanto Gaza era l’inferno. Erano i giorni dell'operazione Piombo Fuso: quasi 1400 morti, tutta Ramallah al buio in solidarietà, tutta Ramallah in silenzio e questa terrazza illuminata a festa, e chi se lo dimentica?, la musica a palla.

Ormai con le ONG ti capita di tutto. Non che sia facile lavorare qui. Il primo ostacolo è Assad, naturalmente, che non consente se non

a poche ONG amiche di operare in territorio siriano. Ma il secondo ostacolo è la Turchia, che all’inizio

ha gestito tutto da sola attraverso la sua principale ONG, riconducibile al primo ministro Erdogan. Per Erdogan non è questione di solidarietà: la Siria è l'opportunità di dimostrare al mondo di cosa è capace, di nuovo, la Turchia — questa Turchia che

l'Unione Europea non ha voluto. Poi però i profughi sono diventati decine di migliaia, in pochi mesi, 184

un onere finanziario insostenibile, la crisi è precipitata, rischiando di trascinare a fondo anche la Turchia, e le nostre ONG hanno ottenuto le prime autorizzazioni. Ma tra mille difficoltà, vincoli e

controlli ferrei: per timore che adesso che sono qui, comincino a occuparsi anche di altro — di curdi, per esempio.

Decisamente, lavorare qui non è facile. Soprattutto, il terzo ostacolo è la guerra. “Ma il problema è che le ONG sono ferme al confine da un anno. Ora è pericoloso, è vero, ma

non sono entrate neppure quando era possibile entrare”, mi dice duro Mahmud Saeed dall’ Aleppo Media Center. “Molti avevano paura dei mortai. Cosa più che comprensibile: però se hai paura dei mortai, che è il minimo che ti possa piovere in testa, in una guerra, evita di raccogliere fondi dicendo che distribuisci aiuti in zone di guerra. Spiega che distribuirai le tue coperte a chi da solo troverà il modo di fuggire, e raggiungere la Turchia, e che tutti gli altri moriranno qui, moriranno di fame: perché poi tu fai l'eroe, e la gente crede che abbiamo gli aiuti umanitari, qui, che qualcuno fa qualcosa, che ci sei tu, e invece ad Aleppo non abbiamo mai visto una, dico una bottiglia d’acqua, un pacco di riso che avesse il logo di una vostra ONG.” Delle decine di ONG ferme al confine, solo Medici Senza Frontiere, dopo mesi di trattative, con tenacia, ha allestito i suoi ospedali. E in uno, quello in cui mi hanno curato il ginocchio, Dio solo sa 185

quanto coraggio, quanta generosità avevano, lì den-

tro: perché era come lo Shifa, due bombardamen-

ti a settimana, in media, in una città così piccola

che tutti erano consapevoli che fosse solo questione di tempo. Questione di mira. Però erano tutti lì. Qualcuno è entrato, invece. People in Need, per esempio, una piccola ONG della Repubblica Ceca. Dove non sono arrivati tutti gli altri, con i loro master, i loro dottorati in emergenze umanitarie, i

loro anni trascorsi a testare procedure, calcolare l'algoritmo giusto per distribuire coperte, l’algoritmo universale, è arrivato Michal Przedlacki, trentaquattro anni e poche parole. I jeans, una maglietta la sciarpa, occhi celesti, chiarissimi. Era in Thailandia il giorno dello tsunami, gli morirono tutti, intorno. E invece di tornarsene a casa, torna-

re alla sua agenzia di pubblicità, andò in Cecenia. In tutti questi mesi, è stato l’unico straniero a vivere ad Aleppo. Gli chiedi come sia stato possibile, e ti risponde solo, schivo: “Cormzzitmient.” Impegno. L'impegno e la passione. “Non sono qui per gli altri. Non c’è la Zoro vita e la ya vita — questa è la nostra vita. E quando stai qui, e i siriani capiscono che ci provi, che magari non ci riesci alla fine, ma che ci provi, giorno per giorno, con tutte le tue forze, e che condividi la loro vita, che non è che entri dieci minuti, tiri due sacchi di patate e scappi via, ma che vivi qui, abiti qui, quando capiscono che anche tu sai cosa signi186

fica, ti si forma intorno una rete di protezione sociale. Che poi è l’unica protezione vera, in contesti del genere. Pensano tutti sia questione di dollari e di potere, come nei film western, di pagare la scorta più armata, i ribelli più forti. Ma ci sono cose che non si possono comprare, per esempio il rispetto. Devi integrarti, devi costruire rapporti umani, non contrattuali, proprio il contrario. Devi stare qui perché ti interessa, non solo perché è il tuo mestiere. Se fai questo, non è che sei invulnerabile, non è che è facile, però puoi provarci.” No che non è facile. Sono mesi, Michal, che non dorme. Mesi che si sveglia sempre alla stessa ora. “Tutti che mi chiedono: ma perché? perché stai lì? Ma una volta che hai visto, semplicemente, non puoi più non vedere. Una volta che hai visto, come dice Arundhati Roy, rimanere in silenzio diventa un atto politico quanto parlare. Quanto agire. In entrambii casi, quale che sia la tua scelta, sei responsabile. Non sono l’unico a stare qui: ci siamo tutti, qui, in realtà. Chi tace e chi no. Chi guarda e chi nega. Ci siamo tutti. Solo che ognuno poi decide da che parte stare.” Anche altri, onestamente, vorrebbero provarci. Tra cui un'italiana straordinaria, ma è così frustrata per avere trascorso qui mesi senza mai entrare, a scrivere e riscrivere relazioni su una Siria in cui non è mai stata, che ha deciso di lasciare tutto e

studiare da infermiera. E così un americano: “Dico 187

al mio capo di Michal, e il mio capo da Washington mi dice: quello è uno che fa quello che i siriani gli dicono di fare. Gli dicono: abbiamo bisogno di riso, e gli compra del riso. E magari hanno più bisogno di zucchero che di riso. L'aiuto umanitario ha le sue regole, mi dice, non è improvvisazione. Mi dice:

bisogna seguire le procedure.” Poi mi dice: solo che a volte bisognerebbe seguire anche la coscienza. Attenersi alle regole, ma anche alla realtà. E come lui un tedesco, e un altro americano. Avviliti, chiusi nei loro uffici di Antakya, a pianifi-

care di cosa ha bisogno la Siria senza essere mai stati in Siria. A distribuire coperte ai profughi, a chi da solo trova il modo di fuggire. Però la maggior parte di loro è tranquilla. Ciondolano qui annoiati, tra una riunione e l’altra, organizzano gite e aperitivi, tutti già in fermento per Halloween, un occhio a tifoni e terremoti sparsi perché hanno scoperto che Antakya neppure ha un cinema, una discoteca vera, niente, e le ragazze

non fanno sesso prima del matrimonio, e quindi vogliono andarsene. Conoscono la Siria quanto l’Antartide. “Ho diversi contatti con Hezbollah,

potrebbero aiutarti”, mi dice gentile un francese che è stato in Libano. E mi lascia un foglietto con dei numeri di telefono. Hezbollah, certo: potrebbero aiutarmi a sparire — Hezbollah sta con Assad. O quest'altro francese, che si occupa di farina e di minoranze, e mi chiama perché sta cercando un rappresentante per ogni comunità cristiana. Deve 188

consegnare la sua farina. Mi chiama e mi dice: “Non è che mi trovi dei copti? Ho l’ortodosso e il caldeo, ho anche il melchita, anche l’assiro, ma mi mancano i copti.” Che non è che mancano a lui, mancano alla Siria, perché stanno in Egitto. It's a secret. Chiedi cosa distribuiscono, dove, ti

dicono: Is 4 secret. Come individuano le aree in cui operare, quali sono le necessità più urgenti, chiedi una cosa qualsiasi, quante persone assistono, che tempo che fa, ti dicono: IY5 a secret. Ti dicono solo che distribuiscono gli aiuti attraverso ONG siriane. Per il resto, ti dicono di telefo-

nare all’ufficio stampa a Londra, a Bruxelles, e l’ufficio stampa ti dice che è tutto online. Online capisci al più che hanno un budget di tot milioni di euro. Non una parola di come sia usato, con quali effetti. A parte le parole dei siriani: “Abbiamo fame.” Perché poi gli unici aiuti che hai visto, in questi mesi, erano dei norvegesi, perché i norvegesi, al solito, sono l'eccezione: arrivano ovunque. Non hai visto altro. “Una decina di ONG, qui, sono pronte a intervenire. Ma nessuno ci contatta. E quando abbiamo chiesto il latte per neonati — la priorità, ad Aleppo — ci hanno risposto che è una questione culturale, che il latte materno è meglio di quello in polvere. E ci hanno proposto un training per le donne”, racconta Mohammed, che ad aprile aveva la felpa dei Metallica e lavorava per una ONG occidentale. 189

Ora ha la barba, e lavora per una charity legata ad al-Qaeda. Non ho dubbi che sia meno in bianco e nero di così. E poi questa è Aleppo, è solo Aleppo: magari più est, più a sud, in Uganda è diverso. Ma questo, al momento, è tutto quello che mi dicono - tutto quello che posso scrivere. Impossibile, qui, scrivere di islamisti e di aiuti umanitari. È inutile: coni giornalisti non parlano. Con la differenza che gli stipendi di al-Qaeda non sono pagati con le nostre donazioni. It's a secret.

Its a secret. È tutto quello che posso scrivere. “Troppo pericoloso entrare”, ti dicono, “l’unica è affidarsi direttamente ai siriani.” Anche la Coalizione Nazionale, d’altra parte, ha al suo interno una Assistance Coordination Unit specializzata in aiuti umanitari e ricostruzione. È stata istituita poco meno di un anno fa, dicembre 2012, e fino a oggi ha incassato 47.000.000 di dollari. Tenuti a pacchi in uno stanzino. Ma anche qui è inutile, con i giornalisti non parlano. Gli unici a illustrare i risultati ottenuti sono stati due funzionari, Bassam al-Kuwatly e Mohammed Ayoub, dopo essersi dimessi. “I soldi venivano consegnati in buste di plastica. Uno diceva: ‘Ho bisogno di 150.000 dollari per questo progetto.” E riceveva 150.000 dollari. Senza uno straccio di carta che dimostrasse che effettivamente fossero necessari 150.000 dollari. E soprattutto, che fosse necessario il progetto.” 190

Salari sproporzionati, incompetenza, spese non

rendicontate. Un diplomatico americano, Mark Ward, ha commentato: “Meglio di niente. Prima, riceveva i soldi il gruppo che aveva la linea telefonica che funzionava meglio.” Anche se poi, dove non è arrivata la Coalizione Nazionale, dove non sono arrivate le Nazioni Unite né le ONG né nessuno, è arrivato un altro, introverso e schivo, che è stato operaio tutta la vita, mentre quelli come me stavano lì anni a studiare

per una laurea in solidarietà, poi un master in profughi, un’altra laurea in cavallette & carestie Yakzan Shishakly ha trentasei anni, è nato a Damasco, e finito il liceo è emigrato in Texas, a Houston, si

è pagato i corsi di inglese come cameriere, e ha avviato una ditta di impianti di aria condizionata. Quando ha visto la guerra, e l'indifferenza, precipitare, era il settembre del 2012, è venuto qui. Ha visto donne e bambini, alla frontiera, dietro il filo spinato, sotto la pioggia, tra gli alberi, senza niente. Il confine sbarrato. E semplicemente ha chiesto di cosa avessero più bisogno. Gli hanno detto: “delle tende”, e ha iniziato così, con quello che aveva in tasca. Oggi nel suo campo di Atmeh vivono in 30.000. Per ogni famiglia, spende otto volte meno che le Nazioni Unite per i rifugiati a pochi chilometri di distanza. Certo, neppure Yakzan Shishakly ama i giornalisti. Ti avvicini con il taccuino, e ti indica i profughi, “Non scrivere di me. Sono loro la storia, non 191

io. Usa al tuo meglio quelle poche righe che hai. Anche se sono poche righe, anche se ti sembrano niente: sono importanti. Sono la tua parte.” Yakzan, in arabo, significa: Colui che è sveglio, che è consapevole. Che ha una coscienza. Perché non è rimasto più nessuno, qui, troppo pericoloso, ormai. E poi— perché rischiare? In fondo puoi raccontare la Siria anche da Roma. Attraverso Twitter, Facebook, YouTube. Anche se sono notizie, e persino immagini, non verifica-

bili. E non da ora. La prima protagonista della primavera siriana, nel 2011, è stata un’attivista gay di Damasco seguita da mezzo mondo, Amina. Fino a quando al Guardian non si sono accorti che si chiamava Tom MacMaster e scriveva da Edimburgo. Oppure la foto che l’altro giorno ha commosso tutti: un bambino che dorme tra le tombe dei genitori. Solo che era stata scattata in Arabia Saudita, parte di una performance di un artista. E però tutti che ti ripetono: “Ma che ci fai lì? Ma perché non vai al Cairo?” “Leggete questa analisi dal fronte!”, ha twittato ieri entusiasta il Dipartimento di Stato americano. Tale Aymenn al-Tamimi, uno già citato dal Washirgton Post e dall’ Economist come esperto di gruppi combattenti islamici, e in particolare di jihad in Siria. Poi una giornalista l’ha chiamato per un’intervista: ha ventun anni, studia Lettere a Oxford. E non è mai stato in Siria. 192

Perché ormai c’è quest'idea, che qualcosa, se esiste, è su internet. E viceversa: se non è su internet, non esiste. Ma se è accaduto, se è vero, è su

internet, è solo questione di scavare e trovare. E se è su internet, se è solo questione di scavare

e trovare, perché stare qui? “Torna a casa.” “È pericoloso.” “Ma che vuoi ancora dalla Siria?” Il problema è che è nuova la definizione, ma non è nuovo il fenomeno. I citizen journalists appartengono in realtà a due categorie. Quello che è lì per caso, 111 settembre, lì con il suo cane vicino alle Torri Gemelle, e scatta una foto con il telefonino,

racconta l’aereo che si schianta. Ma abbiamo già una parola, per indicarlo, da sempre: si chiama testimone. E a nessuno verrebbe mai in mente di chiedergli un’analisi di al-Qaeda, e basarci la decisione di bombardare l’Afghanistan. E poi ci sono, invece, quelli che vivono ad Aleppo piuttosto che all’ Avana, a Taranto, sotto un regime o sotto l’ILVA, e scattano foto ogni giorno, raccontano schianti ogni giorno, con continuità — documentano. Preziosissimi. Soprattutto in Siria, con così tante città

inaccessibili. Però anche per loro abbiamo già una parola, si chiamano attivisti. E come tutti gli attivisti, non solo alcuni non difendono che la loro causa, i loro interessi, la loro visione delle cose — d’al-

tra parte è il loro mestiere — ma anche i più misurati sono semplicemente troppo coinvolti. Il 193

giornalismo è questione di essere alla giusta distanza. Non troppo vicini, non troppo lontani. Qualsiasi giornalista sa che a un certo punto deve andarsene, proprio nel momento in cui è diventato un cosiddetto esperto, e tutti lo cercano: deve andarsene perché è troppo vicino, ormai, perché molte cose ormai gli sembrano normali. Gli sono invisibili. Comincia a dire: “Non c’è niente da raccontare.” Lo sanno tutti i giornalisti che una cosa sono le informazioni, un’altra il giornalismo, che è quello

che si costruisce a partire dalle informazioni. Ma sembriamo averlo dimenticato tutti, qui. Quando un anno fa, per le strade di Aleppo, ci siamo imbattuti nei primi torturati, trascinati per i capelli dai ribelli, tutto sangue, lo ricordo ancora: Giulio che voleva scattare una foto, ovviamente, i ribelli lo tenevano lontano. “Che è successo”, chiesi. “È caduto dalle scale.” Come al pronto soccorso, quando arriva una moglie, una fidanzata. È caduto dalle scale. La domanda, qui, è sempre la stessa: “Ma che ci fai ad Antakya? È tutto online, che ci fai ancora lì? E tutto su YouTube. Chiama i ribelli, che ti SECO loro. Sai che ora ti inviano anche le oto?” Ogni giorno, trenta volte: “Ma che ci fai ancota lì?” 194

Anche se la Siria, poi, è lontana persino quando stai in Siria.

Persino Aleppo è lontana da Aleppo. Quando stai al fronte, ti tocca chiamare Romala sera perché qualcuno ti legga le agenzie e ti riassuma cosa è successo, intanto, intorno: perché tu sai solo cosa

è successo nel tuo angolo di città vecchia, lì insieme a un gatto e due cecchini. Soprattutto non sai nulla dell’altra metà di Aleppo, quella sotto il controllo del regime, cento metri davanti a noi. Perché sono due anni, ormai, che sono qui, e neppure so

cosa succede di là dal fiume. Come si vive. È vietata anche ai giornalisti che hanno il visto. Alcuni raccontano di caffè, ristoranti, negozi aperti. Cose normali, scuole, uffici. Raccontano che c’è l’asfalto, di là dal fiume, i lampioni e le strade. Che c’è l’acqua. Altri raccontano di sfollati, invece, di migliaia di sfollati. Raccontano di cecchini e mortai sparati dai ribelli. Indiscriminati come quelli del regime. Raccontano tutto e il suo contrario, e non conosceremo mai la verità. Anche se è tutto online. Tutto su YouTube. Perché la verità è che da Aleppo, non abbiamo idea neppure di cosa succeda ad Aleppo. Ma la domanda è sempre la stessa: “Ma che ci fai ancora lì? Non c'è niente da raccontare.” “Stanno dove stavano un anno fa. Vai al Cairo.” “Vai in Repubblica Centrafricana.” Ma non so niente di Repubblica Centrafricana. 195

“Appunto. Nessuno sa neppure dove sta. Puoi scrivere quello che ti pare.” “Ancora con questa Siria!”, mi dice ruvido Lorenzo, anche lui venuto a recuperare antiproiettile e attrezzatura sparsa. “Ma che è, una fissazione? Poi ti sequestrano, e l’Italia deve pagarti il riscatto con le mie tasse! Invece di finanziare gli asili”, dice,

a voce sempre più alta, “dobbiamo stare a finanziare la tua fissazione! E poi non abbiamo gli asili! Per pagare il riscatto a quelli come te!” “Ha capi-

to?”, urla a quello del tavolo accanto, “vanno in Siria a farsi rapire, e poi devo pagare loro il riscatto!” “E per che cosa? Per che cosa?”, urla. “Per raccontare che stanno dove stavano un anno fa! Perché sono dei fissati! Ma cercati uno psicologo!”, e se ne va. Poi rientra. “Che questo non è un mestiere da femmine!”, e di nuovo se ne va. Mezzo caffè Ozsut che ci guarda.

E comunque, Lorenzo non ha mai pagato le tasse. Perché hanno quasi tutti un conto all’estero, tipo in Libano, in paesi così, e un conto in Italia per gli spiccioli. È uno degli argomenti più gettonati, qui. Come evadere le tasse. Però è vero che stanno dove stavano un anno fa. Hanno ragione. Solo che i ribelli si stanno sfaldando. Solo che sta cambiando tutto, in Siria. Anche se stanno dove stavano un anno fa. Perché non erano che ragazzi che difendevano il proprio quartiere, all’inizio, l’isolato di casa. È 196

cominciata così e spesso è ancora così: gruppi spar-

si, che non hanno che i pochi dollari che arrivano dall’estero, da siriani originari delle stesse zone. Si incontrano ovunque, intenti a inventarsi le loro armi artigianali con avanzi di lamiere, pali stradali, barattoli arrugginiti. Si incontrano mentre mirano a sinistra per stanare un cecchino alla loro destra, mentre le granate esplodono loro tra le mani — capita che i più esperti, al fronte, siano i giornalisti, capita di spiegare come si usa un mortaio. E non chiedono più munizioni, ormai, ma cibo: hanno fame. Ma oltre ai ragazzi in kalashnikov e infradito, altri si sono riuniti in gruppi più ampi e meglio equipaggiati. Come la Liwa al-Tawhid, la Brigata dell'Unità, la più forte di Aleppo. O l’Ahrar alSham, i Liberi del Levante, che è la maggiore brigata islamica moderata e ha anche una sezione per gli aiuti umanitari: l’assassinio del suo capo, pochi giorni fa, opera di al-Qaeda, ha innescato gli scontri adesso in corso. A differenza degli jihadisti più radicali, infatti, che sono esterni all’Esercito Libero, gruppi come l’Ahrar al-Sham rivendicano un maggiore spazio per la shar:'a ma comunque nel contesto di una Siria laica e plurale. Anche se poi è difficile capire la verità: con i giornalisti non parlano. “Ma non scrivere che non siamo democratici”, mi ammonì ad aprile un saudita. “Se hai domande, trovi tutto sulla nostra pagina Facebook.” Non il più astuto dei consigli, onestamente. La prima cosa 107

che trovi, con google, sono i filmati delle teste che mozzano. L'ultima, ad Aleppo, in un ospedale: un paziente che stordito dall’anestesia mormorava versetti sciiti. Solo a testa già tagliata si sono accorti che era uno di loro. Il problema è che quello che chiamiamo Esercito Libero non è che un sinonimo, generico, di resistenza. Non ha mai incluso tutti i ribelli, né è

mai stato capace di coordinarli, di individuare le priorità, formulare una strategia, per varie ragioni. La prima, e principale, è che è stato a lungo guidato dalla Turchia. Dal generale Riad al-Assad, noto per impartire istruzioni via Skype. Soprattutto, l'Esercito Libero è minato dalla competizione tra Arabia Saudita e Qatar, che si contendono la fedeltà delle varie brigate a colpi di dollari. E con le singole brigate autonome nella ricerca e gestione di armi e risorse, il risultato è che non esiste una

catena di comando, e crimini e soprusi non vengono puniti — non solo i saccheggi: neppure Abu Sakkar, quello che banchettava con il cuore di un lealista, è mai stato rimosso. Il problema è che quello che chiamiamo Esercito Libero non esiste. E in tutto questo, pochi giorni fa tredici brigate, circa l'80 per cento dei ribelli, si sono svincolate dalla Coalizione Nazionale. Non intendono riconoscere il suo governo in esilio, hanno dichiarato, ma costruire una Siria basata sulla shbar?'4. Anche perché, a dirla tutta, ribattezzarsi islamisti è il modo 198

più semplice per rastrellare dollari dalle ricche charity dei paesi del Golfo: con 175 dollari puoi adottare un bambino a distanza, nella vita, oppure donare 50 proiettili a un cecchino in Siria. 400 dollari e gli compri otto colpi di mortaio. E così, stravolti dalla fame e dalle epidemie,

decimati dai missili, i siriani guardano sconcertati l'Esercito Libero azzuffarsi con la Coalizione Nazionale e, più seriamente, scontrarsi con gli islamisti. Ogni volta, infatti, torni qui e scopri che i vecchi bad guys sono adesso good guys, perché è arrivato qualcuno, intanto, di ancora più estremista. E se l’Ahrar al-Sham, che ci terrorizzava un

anno fa, ha poi cominciato a proteggerci da Jabhat al-Nusra, il gruppo che ha introdotto gli attentati suicidi, oggi è Jabhat al-Nusra a proteggerci dall’IsIs, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, la filiale di al-Qaeda fondata nel 2004 in Iraq per sradicare non solo gli americani, ma anche gli sciiti, e che mira non a rovesciare Assad, ma a conquistare pezzi di Siria per ripristinare il califfato. Sono tutti stranieri e si sono rafforzati a luglio, con l’attacco al carcere di Abu Ghraib in cui erano detenuti centinaia di loro, che si sono prontamente riversati qui. Ma si sono rafforzati anche con la destituzione di Morsi, in Egitto, interpretata come la dimostrazione che sia inutile conquistare il potere con le elezioni. Perché tanto gli Stati Uniti, poi, organizzano un colpo di stato. L’unica strada è il jihad. 199

Perché il Medio Oriente, a volte, non è compli-

cato. E quindi, in questi giorni i ribelli sono tutti compatti in guerra contro l’ISIS, che per ora prevale e domina i passaggi di frontiera — e cioè, cruciali, le vie di rifornimento dalla Turchia. I resoconti dai suoi checkpoint sono monocorde: esecuzioni sommarie di chiunque sia ritenuto un infedele. Soprattutto, circolano i primi nomi, ormai. A mezza voce, le prime storie, disertori che hanno deciso

di tradire di nuovo. Che hanno deciso di tornare con Assad. Perché è vero: stanno dove stavano un anno fa, qui.

Solo che non sono più gli stessi, solo che è cambiato tutto. Però tutti che ti dicono: “non c’è niente da raccontare.” È rimasto solo Narciso Contreras, ha vinto il

Pulitzer con le sue foto però è ancora qui. Aleppo è inaccessibile, ormai, troppi checkpoint di alQaeda. Ma lui è ancora qui, ovunque sia possibile andare, altrove in Siria.

E rientrato ieri sera: “Ma è difficile, ai giornali non interessa.” Anche se poi i lettori ti scrivono. Ti scrivono perché vogliono sapere. “Ma insomma, queste armi chimiche, a che punto sono?” “Ea che punto è l'Egitto? Non si sa più niente!” 200

“E la Libia, scusi, ma che succede ora in Libia? Chi sta al governo?” “Perché non c’è mezzo articolo sul Pakistan? Ma è vera questa cosa dei droni?” “E le armi chimiche, scusi, ma a che punto sono? Ma perché non si sa più niente?” Decine di messaggi così, ogni giorno. Messaggi di lettori attenti, e messaggi dei siriani, disperati. “Ci ammazzano tutti! Dove siete? Ci ammazzano tutti!” Solo questi messaggi. Solo i lettori e i siriani. Per il resto, è sempre uguale. Ma che ci fai ancora lì?, non c’è niente da raccontare. Non c’è niente da raccontare, hai capito? niente. Niente, hai capito? non c’è niente da raccontare, ma che vuoi ancora dalla Siria? stanno

dove stavano un anno fa, hai capito? Hai capito? Niente. E quindi rimango a casa, la sera. Leggo, studio e guardo le foto di Alessio. Non chiama nessuno, mai. D'altra parte gli amici, in Italia, sono agli sgoccioli, stremati dalla crisi.

Tutti disoccupati o con il contratto in scadenza, 0 in nero, tutti con tanti master e niente lavoro, nien-

te diritti, niente futuro. Sfiduciati.

Sparsi e sparpagliati, ti rispondono “Scusa, ma non ho voglia di parlare. Mi sento uno zero”, smarriti e sopraffatti. “Scusa”, ti dicono, “ma ci manca solo la Siria, 201

stasera. Solo i problemi del mondo.” E hanno ragione: quasi quarant'anni, un dottorato, e non poter pagare un dentista. Anna è lì con un figlio piccolo, il marito a cui martedì non rinnovano il contratto, cinque mesi di stipendio arretrato e un capo, intanto, che gira in Porsche e dice che c’è la crisi, che bisogna fare un sacrificio tutti. E io qui con la mia Siria, con le mie guerre — ma che pretendo? Sono in guerra anche loro. Sconfitti. Mentre le redazioni, come sempre, sono lì che aspettano il pezzo pronto, e il resto sembra non

riguardarli. Ti dicono solo: “Avvisa, quando torni da Aleppo.” Quando torno. Certo. Se torno.

E quindi rimango a casa, la sera. A guardare le foto di Alessio. E a chiedermi che senso ha. Penso a Cassese, che avrebbe cercato giustizia,

penso al diritto internazionale, alla mia vecchia vita. Mentre sono qui che cerco un modo per entrare ad Aleppo, invece che per trascinare Assad all’Aja: perché qualsiasi cosa possa scrivere, poi, anche la migliore, qualunque vita possa rischiare, alla fine questa guerra, ogni guerra continuerà come prima.

Neppure fossi la BBC. Neppure potessi cambiare qualcosa. Qui con tutte le mie energie concentrate su un modo per entrare ad Aleppo, tutte le mie energie sprecate, a chiedermi che senso abbia. 202

Qui che penso a Cassese. E mi manca, qui che penso di avere sbagliato tutto. E però poi guardo quelle foto, ancora. Una, dieci, cento volte. Quegli sguardi — sono due anni, ormai — però ogni volta ti si inchiodano addosso. Ogni volta. Tu credi di guardarli, e invece sono loro che guardano te. Perché è inutile. C’è una storia, lì dentro, una

storia che non è finita. L'unico che mi chiama è Daniel. Daniel Bettini, capo degli esteri di Yedioth Abronotb, il principale quotidiano israeliano. “Mi dispiace, sai?”, gli ho detto, “sono così concentrata sulla Siria. Avrei voluto raccontare tutto quello che sta cambiando, tra israeliani e palestinesi” — perché sta cambiando tutto, tra israeliani e palestinesi, anche se stanno dove stavano quarant’anni fa. Avrei voluto scrivere mille altre cose, in questi mesi. “Mi dispiace.” Mi ha detto: “Scrivere di Siria, di gente sotto assedio, alla fame, dimenticata dal mondo, scrivere di Siria oggi è la cosa più ebraica che tu possa fare. Sei ebrea, quando sei ad Aleppo.” E quindi mi chiama. Sempre. E poi Mustafa Barghouti, per cui lavoravo alcuni anni fa. È un medico e un deputato, uno dei protagonisti della resistenza non violenta all’occupazione israeliana, ma anche della resistenza a Hamas e Fatah — che ormai, per i palestinesi, sono un ostacolo alla libertà quanto il Muro. Avevamo 203

l’idea di un libro insieme, ma mentre ero a Ramallah avevo la testa ad Aleppo. “Mi dispiace,” gli ho detto. “Avrei voluto fare mille altre cose, in questi mesi.” Mi ha risposto: “Scrivere di Siria, di gente sotto assedio, alla fame, dimenticata dal mondo, oggi è la cosa più palestinese che tu possa fare. Sei palestinese, quando sei ad Aleppo.”

Ho guardato le foto di Alessio un’ultima volta. Non so neppure dove sia, in questo momento,

ma sono certa che non dorme, che di notte parla di sangue e battaglie. Perché c’è una storia, lì dentro, è inutile.

Una volta che hai visto non puoi più non vedere.

“Tranquilla”, mi dice Ahmed, mentre attraver-

sato l’ultimo checkpoint entriamo in città, un colpo di mortaio che subito scrolla l’aria. “Ora che sei ad Aleppo, sei al sicuro.” E abbassa la testa per schivare un cecchino. La mia prima volta qui, poco più di un anno fa, non avevo neppure il velo sotto l’elmetto. Dopo il velo, un giorno mi hanno chiesto una maglia lunga. Dopo la maglia lunga, un abito fino alle caviglie. E adesso anche una fede al dito: “perché devi sempre camminare vicino un uomo: l’uomo a cui appartie-

ni.” E perché ora che dominano gli islamisti, e la priorità per molti non è Assad ma la shart'a, ora 204

che ai crimini del regime si sommano i crimini dei ribelli, ai giornalisti è vietato l’accesso — di diciotto di noi, al momento, non si hanno tracce. E quindi

il mio elmetto, oggi, è un velo. Il mio antiproiettile un r7jab. Perché l’unica, per infilarsi ad Aleppo, è passare per siriana. Clandestina. Niente domande per strada, neppure un taccuino, una penna. “Ma

non è questione di velo”, mi dice una donna che mi riconosce immediatamente dalla pelle, dalle mani, “per sembrare siriana, oggi devi essere sudicia, smunta e disperata.” Aleppo non è che fame, ormai, fame e Islam. Per strada si vende di tutto, sembra che ognuno abbia rovesciato a terra il salotto di casa, teiere, televisori, telefoni, interruttori della luce, qualsiasi cosa. Più esattamente: pezzi di qualsiasi cosa, perché Aleppo non è che macerie, e uno ti vende il passeggino, un altro le ruote. Nei vicoli più stretti, per evitare i mortai, giostre e altalene: i maschi a destra con i loro kalashnikov di plastica, a sinistra le femmine, già velate, mentre due padri jihadisti spingono premurosi in barba, tunica e cintura

esplosiva. Circa un milione di siriani abitano ancora qui, nella Aleppo sotto il controllo dell'Esercito Libero — quelli che non hanno i 150 dollari pet pagarsi un’auto fino al confine con la Turchia. Decine di bambini scalzi e stracciati, sfigurati dalle cicatrici della leishmaniosi, seguono madri altrettanto scalze ed emaciate, in nero, completamente coperte, 205

tutti con la scodella in mano in cerca di una moschea

in cui distribuiscano pane, come in Somalia,

un’Etiopia sperduta, gialli di tifo. Ti conficcano gli occhi addosso, quando li incroci, come tutti i veri

bambini di guerra: che non sono mai quelli che vi mostriamo nei giornali, in televisione — quelli che sorridono grati quando gli allunghi un biscotto. Sono questi i bambini veri, esausti, muti, lo sguar-

do di stupore per l’orrore della vita, o quelli falciati dai missili di Assad e di cui trovi pezzi, teste,

braccia, negli ospedali. Dove le vittime sono sempre a coppia, perché di fianco a un cadavere c’è sempre quello di chi ha provato a salvarli ed è stato abbattuto da un cecchino. Sono bambini anche i medici, ormai, “perché qui sono partiti o morti tutti, e mentre il mondo mercanteggia sui gas, noi continuiamo a essere uccisi da tutto il

resto”, mi dice Abu Yazan, venticinque anni, studente improvvisato primario. Che semplicemente, confessa, non solo ha poco più che disinfettante e cerotti in magazzino, ma non ha idea di come curare i suoi pazienti: “un conto è amputare una gamba, un conto curare un’ischemia.” Aveva circa 5000

medici, Aleppo, oggi sono trentasei. Fuori, all’ingresso, una tenda con secchio e spazzola: l’unico antidoto disponibile in caso di attacco chimico. E fuori, naturalmente, anche i corpi senza nom ». La gente passa, solleva appena il lenzuolo, si accerta non sia un fratello, un cugino. Sono soli, i siriani, completamente soli, di qua 206

dalla linea rossa — qui dove non si muore di gas ma di fame, e quindi non importa a nessuno. 126.000 vittime, oltre 2.000.000 di rifugiati,

7.000.000 di sfollati. Quasi metà della popolazione. Più le centinaia di migliaia sotto assedio a Homs, a Damasco, ovunque, e di cui conosciamo solo il

poco che rimbalza via Twitter, foto di scheletri che vagano tra i campi in cerca di foglie e radici. Mentre la televisione di stato trasmetteva l’elenco dei concerti nei locali del centro, ieri sera, gli imam su al Jazeera autorizzavano i siriani a cucinare i cani

randagi. Gli aiuti delle Nazioni Unite, per statuto, sono distribuiti attraverso l’unico governo riconosciuto, cioè il governo di Assad. Questo, però, impone così tante restrizioni di movimento che larga parte degli aiuti finisce nelle aree sotto il controllo del regime — il regime sostiene che è per garantire la sicurezza degli operatori umanitari, anche se poi ha arrestato e torturato quelli che hanno provato a raggiungere le aree sotto il controllo dei ribelli. Quelli che le hanno raggiunte, sono stati sequestrati da alQaeda. In teoria, Aleppo ha un’amministrazione civile: il Consiglio Rivoluzionario. Ma è stato nominato dall’estero, da quella Coalizione Nazionale che è l'opposizione ad Assad inventata dalla comunità internazionale, e le cui decisioni, qui, non interes-

sano a nessuno: i suoi delegati vivono in Europa da anni. E comunque sono arrivati solo 400.000 dol207

lari, per ripristinare l’elettricità, disinfestare le strade, riaprire le scuole, gli ospedali. 40 centesimi a testa. E sono finiti — Lakhdar Brahimi, il mediatore delle Nazioni Unite per la Siria, guadagna 189.000 dollari l’anno.

L’unico modo per avere un po’ di pane ad Aleppo è andare in moschea. E così è inutile meravigliarsi se quando chiedo di incontrare chi governa, mi ritrovo al tribunale islamico. O meglio, clandestina, mi ritrovo a casa

di Luay, membro di al-Qaeda, la sagoma nera di sua moglie che bussa e lascia il caffè dietro la porta chiusa — ogni gruppo ribelle ha nella corte un suo rappresentante. Domando che legge applicano, mi risponde: “sharz'a shari’a” per intendere che non applicano un codice scritto, ma la volontà dei giudici, “perché nella nostra tradizione i giudici sono esperti di giurisprudenza, sono uomini autorevoli, di cui la comunità si fida”. Se non fosse che ad Aleppo, come sempre, sono partiti o morti tutti, e quindi sono bambini anche i giudici, ormai: ha trentadue anni, Luay. Prima della guerra era un praticante avvocato. “In effetti, non è facile”, ammette, “a parte che hanno tutti un’arma, qui, e non hanno bisogno di un tribunale per farsi giustizia. Soprattutto non è facile occuparsi dei ribelli. Saccheggi, estorsioni. Quando abbiamo provato a processare Nemer, il capo di una delle milizie più violente, i suoi uomini hanno circondato il tribunale fino a quando non abbiamo archiviato il caso.” 208

Il tribunale, in compenso, ha emanato un divieto con tanto di cartello all'ingresso del Karaj al-Hajez, il punto di passaggio tra le due metà

di Aleppo. Sembra un viale, in realtà è un libro di Stephen King, dominato dai tre minareti di una moschea e dai loro cecchini. All’ingresso, il cartello dice: “Divieto di trasportare cibo e medicine”. Perché se prima era il regime ad assediare e affamare la metà città in mano ai ribelli, ora sono i

ribelli, conquistate tutte le strade di accesso ad Aleppo, ad assediare e affamare la metà del regime. La gente si avvolge addosso con lo scotch le fettine di carne, riempie di uova finti televisori. Ogni tanto qualcuno, uno sparo asciutto, muore. E per mezz'ora, un'ora, il viale si svuota, il cadavere rimane lì, al sole, un gatto lo annusa. Poi il primo, timido, sbuca da una via laterale, esita un momen-

to: è un ragazzo, attraversa rapido. Un secondo, poi un terzo: il viale torna ad affollarsi, il cadavere ancora lì. I cecchini, nei loro minareti, aspettano con fiducia. Non parlano più di “aree liberate”, i siriani, ma

di Aleppo est e Aleppo ovest. Non ti raccontano più di Assad, di ingiustizia, di oppressione, e nei telefonini non ti mostrano più le foto dei figli, dei fratelli uccisi dal regime, ma semplicemente le foto, bellissime, di Aleppo prima della guerra. Perché nessuno, qui, combatte più il regime: i ribelli ormai si combattono tra loro. Chi non è impegnato in saccheggi o estorsioni 209

è impegnato contro l’ISIS, sigla che sta per Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, il gruppo legato ad al-Qaeda che mira al califfato — e che si fa chiamare solo 4/-Dawlat, lo Stato, come un nuovo regi-

me. “E se possibile, siamo persino meno liberi di prima”, mi dice uno degli ultimi attivisti ancora qui. Ancora vivi. “Perché prima, se non ti impegnavi politicamente, nessuno si intrometteva nella

tue scelte private. Ora ti proibiscono la musica, l’alcool. Le sigarette”, mi dice. “Non è solo questione di cristiani e alawiti. A essere in pericolo, ormai, sono anche tutti i sunniti che come me inter-

pretano il Corano diversamente da al-Qaeda. Perché se Assad mira alla mia vita: questi mirano anche al mio stile di vita.” Però precisa che è un fondamentalismo importato dall’estero, dagli islamisti e da Hezbollah, che

combatte a fianco del regime: “Continuate a dividervi sull'opportunità di un intervento senza accorgervi che qui l’intervento esterno è in corso da mesi.” Si è tornati a parlare sottovoce, ad Aleppo, e a camminare a testa bassa: a luglio, Mohammed Kattaa è stato fucilato per avere pronunciato inopportunamente il nome del Profeta. Aveva quindici anni. Mentre il fronte, intanto, è fermo. Nella città vecchia, la prima unità dell'Esercito Libero in cui

sono stata erzbedded, un anno fa, è sempre lì. Sempre allo stesso incrocio, tenta di stanare sempre lo stesso cecchino. Impresa complicata: sono alla fame

210

anche loro, si sono venduti i kalashnikov per pagare le cure in Turchia di un compagno ferito. In un giorno di battaglia, di solita battaglia metro a metro, naso a naso, avanziamo di cinque isolati. Poi le munizioni finiscono. E torniamo indietro. Con sette uomini in meno.

Perché l’unico fronte, ad Aleppo, ancora, è il cielo. Si muore così, qui: senza preavviso. Un’esplosione, dal nulla, il lampo, uno schiaffo di vento, e

l’aria che si fa rovente di fiamme, sangue, schegge — e nella polvere, tra le urla, solo questi stracci di carne, questi bambini di carbone. Non esiste riparo: le case non hanno scantinati, niente. E l’unica

contraerea è il maltempo. All’improvviso, semplicemente, si muore. Si scava con le mani, non ci sono ruspe, e comunque non ci sarebbe benzina, non c'è

più neppure elettricità, si scava alla luce dei telefonini, degli accendini, i cadaveri ti fissano incastonati tra mozziconi di pilastri. E per giorni, all’alba, in silenzio, su questa battigia di resti umani vedi le donne chine come cercatori di conchiglie. Tra le dita uno scampolo di stoffa, uno scampolo di figlio. Di mezzo, i cani randagi, tra i denti un osso di tibia. Si muore così, ad Aleppo. Si muore che di te non rimane che una foto in cornice. Tra le macerie è cresciuta l’erba, tanto la guerra è diventata carne di questa città — tra i gusci bru201

ciati di auto lasciate lì, ibernate come hanno sban-

dato, nel vetro il foro del proiettile che ha centrato il guidatore, tra le ruote ciclamini selvatici e una maglia insanguinata. Cammini, e ovunque case sfiancate dall’artiglieria, da quelle tranciate dai missili dondolano nel vento una lampada, una tenda, fossili di vite normali. In un angolo, raggomitolato su una sedia, il solito gatto che sembra dormire e invece è morto. Dentro la bottega di un barbiere, intatte, le boccette di vetro ancora allineate sulle mensole, a svitarle senti ancora il profumo al gelsomino. Ragazze coperte fino alle caviglie contemplano vetrine con tacchi fluorescenti e vertiginosi, nei giardini i bambini, tra file di tombe, corrono dietro un pallone, tra le altalene un sacco a pelo, e dentro il sacco a pelo un uomo violaceo, un foro alla tempia mentre un aereo, in circolo, ci sorvola — e sono già dieci minuti — ormai tra un po’ colpisce, tra un po’ qualcuno, tra noi, muore. Cammini, ad Aleppo, una sferzata di frusta all’improvviso e un uomo davanti a te cade, abbattuto. Cammini, e una bimba ti sorride, poi scatta sull’attenti e ti fa il saluto militare. Perché tutto sembra normale, ad Aleppo: non manca niente, ma niente è al suo posto. Nelle ambulanze trovi combattenti, al fronte bambini con il kalashnikov del padre ucciso, tutto come un cortocircuito, i cecchini che si dividono i turni e la mattina arrivano alla loro postazione, puntuali dopo il caffè, parcheggiano davanti al portone come 212

andassero in ufficio. Al fragore di un mortaio, i bambini neppure si girano. Solo a una grandinata di proiettili cominciano a discutere: “è una doshka”, dice Alaa, sei anni, “no, è un kalashnikov a canna corta”, dice Yousef, sei anni anche lui, “senti?, è

più leggero di un draganov.” Il fronte più emblematico, alla fine, il fronte più vero è Bustan al-Qasr: perché è da sempre l’epicentro delle manifestazioni del venerdì — quelle da cui tutto è iniziato. E da cui tutto continua, vener-

dì dopo venerdì, adesso, però, non più solo contro Assad. Ma oggi al corteo non sono che bambini. Perché sono partiti o morti tutti, qui, ormai, e chi

non è né partito né morto, è sparito nel nulla. Come Abu Maryam, perseguitato dal regime, poi dai ribelli, è stato infine fermato dall’ISIS, ed è sparito. Alla

testa del corteo, sua nipote Nasma, dieci anni. Il furgoncino con gli amplificatori, senza benzina, spinto a mano.

A non essere spariti, invece, sono gli sfollati accampati poco lontano, a ridosso del fiume. Perché tutto il suo argine, da mesi, è faglie e tuguri: non sono baracche, non sono grotte, non sono che

pezzi di cose indecifrabili, lamiere, assi di legno, teli di plastica — cumuli, cumuli di pezzi di cose. A un certo punto, semplicemente, ci sei dentro, tra donne, bambini, anziani mutilati e muti, un ragazzo down, per terra, con la sua cena di riso e vermi

su un ritaglio di cartone. Scosti un’anta e trovi un uomo che sta morendo di leucemia, ne scosti un’al215

tra e ne trovi un altro che sta scuoiando un topo, queste bocche senza denti, la pelle tempestata di infezioni. Perché torni, ad Aleppo, ogni volta, e tra gli sfollati è sempre tutto uguale: cambiano solo i nomi. Ibtisam Ramdan, venticinque anni, abitava

qui, con.i suoi tre figli e la tubercolosi in un trancio rancido di fognatura. Ma si è avventurata con il più piccolo in cerca di pane, un giorno, ed è stata centrata da un cecchino. Gli altri due si sono consumati così, di stenti, troppo pericoloso raggiungerli — fino a quando un mortaio non li ha polverizzati, in questa Aleppo disseminata di tombe ovunque, anche nell’aria, questo sterminato monumento al civile ignoto. Pochi metri più su, il fiume divide Aleppo est da Aleppo ovest, continua a vomitare avanzi violacei di uomini giustiziati con un proiettile alla nuca, le mani legate. Non si è mai capito chi siano. Ribelli giustiziati dai lealisti, o lealisti giustiziati dai ribelli? Dipende dai punti di vista — o forse solo dalla corrente.

“Ma sai che lei viene dalla Siria?” “Ma veramente? Figo!” Sullo schermo, la BBC parla di Moadamiya. Corpi di ossa — sembra la Somalia, è a dieci chilometri dal centro di Damasco, dai banchieri del circolo tennis. Perché mentre il mondo si concentra sui gas, Assad ha scoperto un’arma ancora più economica, e di distruzione ancora più di massa: l'assedio 214

e la fame. Sotto la schermo, tre ragazzi giocano a biliardo. Tutti gli altri, ai tavoli, chiacchierano. Ridono, bevono birra. Sullo schermo questi corpi maggri. Invisibili. Ho scelto Amsterdam anche se non ha un lago, è vero, però ha tutti questi canali, tutti questi caffè: e magari, ho pensato, magari un giorno troverò la

stessa luce di quella volta, a Piediluco. E poi perché non conosco nessuno, qui. E in questo momento con la gente non so cavarmela — mi sembra inutile qualsiasi domanda, qualsiasi argomento. Inutile tutto. Vorrebbe ch'io gli raccontassi qualche cosa di laggiù. Ma mi rendo ben conto come non sa, come certe cose non si possano raccontare. D'altra parte, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Da Waterstones, la principale catena di librerie inglesi, l’unico libro sulla Siria è l'antologia degli articoli di Marie Colvin. “Fai un lavoro straordinario”, mi dice il proprietario di casa mentre mi spiega i tasti del riscaldamento, l’antifurto della bicicletta. “Senza quelli come te, non avremmo idea di cosa succede nel mondo. Devi essere orgogliosa”, mi dice, “dai un lavoro fondamentale.” Entra la

moglie. “Ma sai che questa ragazza sta ad Aleppo?” “Ad Aleppo?”, dice lei. “Sei irachena?” “Ma no”, dice lui. “In Siria. Sta in Siria. Non

sembra, eh? Così giovane... Sta embedded con gli americani.” 215

L’ONU oggi ha annunciato che non conterà più i morti. Dice che le fonti sono inaffidabili, ormai.

Che il calcolo è troppo difficile. E quindi, invece di fermare la guerra, ferma il conto dei morti. 130.000. Degli altri — non solo un nome, non rimarrà neppure un numero.

130.000 morti, quasi 2.500.000 rifugiati e 7.000.000 di sfollati. L’ONU ha chiesto 6,5 miliardi di dollari per una catastrofe umanitaria che sta minando i paesi vicini, avvisa, uno a uno. In Libano ormai si combatte, e si combatte strada per strada a Tripoli, nel nord, divisa tra sunniti e ala-

witi come una piccola Siria. I rifugiati sono il 20 per cento della popolazione, in un paese che era già al collasso di suo. Mentre a Ginevra, intanto, si prepara una conferenza di pace. Con la Russia e gli Stati Uniti. Il regime e l'opposizione, con l'Unione Europea, la Turchia e l’Arabia Saudita. Con lIndonesia, il Messico il Lussemburgo, persino la Corea del Sud.

Ma senza l'Iran. E senza neppure i ribelli. Che sono troppo impegnati, al momento, per

andare a Ginevra. Ai siriani non resta che morire o fuggire. E cioè spesso morire comunque, come i 366 e più dispersi e affondati il 3 ottobre al largo di Lampedusa. Ai morti è stata concessa la cittadinanza onoraria,

i vivi sono stati rispediti indietro. Su 2.500.000 rifugiati registrati alle Nazioni Unite, il 97 per cento è stato accolto dai paesi limitro216

fi. L'Europa, dicembre 2013, ha accolto 14.000

rifugiati. No, non è un errore di stampa. Sono proprio 14.000. Di cui 11.000 in Germania. La Gran Bretagna, quella che più voleva intervenire, quella che più aveva la Siria nel cuore, ha accolto zero rifugiati. E ora che Assad si sente più forte, ora che ha capito che nessuno bombarderà, che è sufficiente non usare i gas, è di nuovo facile avere un visto per Damasco. E di nuovo arrivano articoli sulla vita di sempre, i ristoranti, i caffè, articoli che ti assicura-

no che è tutto normale, sotto il regime, magari giusto la crisi, inizia ad avvertirsi, anche qui, la disoccupazione, “l’altro giorno ero in palestra e mi hanno rubato l'iphone”. A dieci chilometri da Moadamiya. Anche se la prima foto, da Moadamiya, continua ad arrivarti puntuale, ogni mattina alle cinque. E sono scheletri, nient'altro. Quello di oggi mastica cartone. Hanno mangiato i gatti, i cani, le foglie. I topi. Le radici. Non c’è più niente. “Stiamo seduti in silenzio tutto il giorno”, ti scrivono, “perché parlare consuma calorie.” Moadamiya. Chiamo un funzionario dell'ONU. “Ma no, guardi”, mi dice, “tecnicamente non possiamo parlare di starvation, di fame. Rileviamo casi di insicurezza alimentare, certo, un disagio diffuso, però no, il

termine è improprio. Non possiamo definirla star vation.” 217

Però a te ti possiamo definire una testa di cazzo. Moadamiya. Mentre sono qui, e questa città è così strana.

Ascolto un dibattito sulla sinistra e le prospettive del movimento pacifista. La domanda è: perché ci siamo mobilitati per la Bosnia, per l'Iraq, ma non per la Siria? Dei tre relatori, uno comincia da Rosa Luxemburg, l’altro dalle contraddizioni del capitalismo. Il terzo si chiede se ai ribelli non manchi l’equivalente funzionale della coscienza operaia. É il problema è: se sosteniamo i ribelli, sosteniamo al-Qaeda che però combattiamo in Pakistan. Il nemico del mio amico è mio nemico, ma se l’amico del mio amico è mio nemico? L'amico del mio nemico è mio amico? E perché non parliamo più delle fabbriche del Bangladesh? In quella scatola a sinistra, intanto, un euro per inviare coperte ai

profughi, grazie. Intanto leggo la posta, mentre ascolto, e Mohammed Noor, oggi, è stato sequestrato da al-Qaeda, il mio ultimo fixer è stato ucciso da un mortaio insieme al mio ultimo interprete, la cui figlia ha pronunciato intanto la sua prima parola, “MIG”. Però non è vero che nessuno si occupa di Siria. Mi hanno invitato su Raiuno, un reality show in cui veline, cantanti, tronisti in dissesto vivono tra i

profughi. Mentre giro per Amsterdam, e Amsterdam è bellissima. Mentre mi specchio nelle vetrine dei negozi, dei caffè, con tutta la gente, dentro, la vita. 218

E così, sono andata via anche io.

Siamo andati via tutti. E invece non è che la guerra, in Siria, sia diventata più pericolosa. In fondo, non è che fosse così meglio un anno fa,

quando Aleppo, feroce, era un’esplosione ogni sei secondi — i feriti che neppure l’ultimo respiro, e già un mortaio pioveva a polverizzare il cadavere. Solo che eravamo insieme ai ribelli, allora, e i ribelli, per quanto disastrati, erano quelli che combattevano per la libertà, e noi quelli che testimoniavano al mondo i crimini di Assad. Oggi che Aleppo è fame, invece, fame e sbarra, nient'altro, donne in stile afghano e bambini in stile africano, oggi che un nuovo regime ha sostituito il vecchio, abbiamo riscoperto all'improvviso cosa significa la guerra quando non si è embedded — oggi che siamo qui a testimoniare al mondo anche i crimini dei ribelli. E sia i ribelli sia il regime ci braccano come nemici. Non è diventata più pericolosa, questa guerra: solo più vera. E adesso che è anche per noi quello che è da sempre per i civili, la guerra in cui nessuno è innocente, nessuno è immune, la guerra in cui nessuno è benvenuto — siamo scappati tutti. Era il febbraio 2012 quando ho deciso che avrei raccontato la Siria. Quando ho visto quelle foto, su Time. Negli ospedali di Tripoli, in Libano, i sopravvissuti di Homs, che avevano ospitato, aiutato,

protetto Alessio, gli zoppicavano incontro commossi: finalmente la Siria era sulle prime pagine. 219

Oggi ci sequestrano. Perché? Cosa è cambiato, da quel giorno di Tripoli? Soprattutto: abbiamo anche noi delle responsabilità? Siamo giornalisti, il nostro ruolo è fare domande. Perché siamo nel mirino? Forse perché in tanti erano qui solo per denaro, solo per il singolo pezzo, il singolo scatto, per un premio un contratto, e anche per i siriani, allora, siamo diventati un mestiere, un business come un altro? Forse

perché quando Abdallah, che ha reso possibile il lavoro di tanti di noi, è stato ucciso, e per difen-

derci, per avere consentito l’arresto di due rapitori, nessuno di noi ha lasciato neppure un fiore sulla sua tomba? Forse perché abbiamo raccontato solo il sangue, il sangue, il sangue, perché era più facile, perché era meno costoso, e consegnato al mondo un ritratto fuorviante della Siria — quel ritratto sgranato e incerto che ora genera politiche

incerte e confuse? Forse perché ci siamo catapultati al confine a decine, dopo l’attacco chimico, per sparire delusi quando Obama ha scelto di non bombardare? Perché, se ci siamo o non ci siamo, oggi per i

siriani è uguale? Forse perché non siamo che riflesso ed espressione della comunità internazionale, e del suo cinismo? Il nostro ruolo è fare domande. Anche a noi stessi. Leggevo le solite mail, sere fa, “No grazie, bellissimo reportage, ma Aleppo non interessa”, ed 220

ero su Twitter, quando ci è piombato in testa un aereo. In un secondo, tutti a seguirmi — in molti, temo, in attesa del mio ultimo tweet da sotto le

macerie. E la mia reazione — io che più che una giornalista, in quel momento, ero solo una come gli altri, lì, solo una con un aereo in testa, una con la morte alla porta — la mia reazione è stata solo: al diavolo. E ho spento tutto. Qui nei nostri Hostile Environment Training,

mutuati dai militari come fossimo militari anche noi. Solo che — le parole sono importanti, no? — chi parla male pensa male. E vive male. La Siria non è un ambiente ostile. È un ambiente pericoloso e complesso, e quindi, certo, il training è indispensabile: ma non è un ambiente ostile, perché non siamo qui contro un nemico. Pensiamo tutti sia

questione di dollari e di potere, come nei film western, di pagare la scorta più armata, i ribelli più forti. E invece ci sono cose che non si possono comprare: per esempio il rispetto. Devi costruire rapporti umani, non contrattuali. L’unica protezione vera, in contesti del genere è la protezione sociale. E invece siamo qui. A studiare la storia del kalashnikov, invece che la storia della Siria. A studiare come sopravvivere nella giungla. “Minacce”, elenca il mio manuale al primo capitolo: “1. I locali spesso non parlano inglese”. Il problema, semmai, è che noi non parliamo arabo. DIA|

Mentre giro per Amsterdam, adesso, e dei miei ultimi due anni posso solo dire che sono stati un

fallimento. Due anni, e i lettori a stento ricordano

dove sta Damasco. A stento ricordano chi è Assad. Perché è stata la guerra dei freelance — e ora sono tutti al Cairo, e dal Cairo poi tutti andranno a Kiev. Tutti a coprire i paesi che costano meno, e sempre più, i paesi in cui si entra senza un visto, dal momento che per avere un visto spesso devi indicare la testata per cui scrivi, e nessuno ormai ti commissiona un pezzo — dovessi essere ucciso: nessuno vuole essere responsabile. E quindi nessuno racconta la Repubblica Centrafricana. Il Sud Sudan, il Bahrain. La Cecenia. E come costruirti relazioni, passo a passo, come conquistarti fiducia, in Siria, rispetto, se anche i migliori quotidiani ormai non hanno che un unico corrispondente per l’intero Medio Oriente? Compriamo un quotidiano, anche il più blasonato, e invece non è che un quotidiano low-cost, è come la maglietta dei cinesi. Il problema è che è così per ogni tipo di giornalismo, non solo il giornalismo di guerra, perché poi nessun pezzo richiede risorse quanto un'inchiesta: l’ILVA è più complicata di Aleppo — raccontiamo il possibile, non l’importante. Raccontiamo solo il fronte, solo chi combatte. E qualunque rivoluzione, così, diventa una guerra.

La loro libertà, invece, dipendeva anche da noi. Noi eravamo troppo impegnati a standardizzare notizie, formati, e scrivere articoli descrittivi 222

come nemmeno i verbali dei carabinieri: e quanti morti, e dove, e causati da quale tipo di arma. Ma cosa è più significativo, quando sei con un cecchino: quante vittime ha centrato o quell’auto parcheggiata davanti al portone, la mattina, come andasse in ufficio? Cosa spiega di più una guerra? Ma cosa siamo, stenografi o giornalisti? Davvero la Siria parla solo di sunniti e sciiti, dei ribelli e del regime? Davvero non ha altro da dirci? Non siamo notai. Quelle macerie, davvero sono solo di Aleppo? Mentre era tutto così difficile — il regime, i ribelli, gli islamisti, direttori e caporedattori — noi non solo non siamo stati capaci di cooperare, ma ci siamo ostacolati l’un l’altro. Credevo di avere visto tutto, dopo che mi hanno indicato la strada sbagliata, ad aprile, e spedito in mezzo ai cecchini per arrivare primi al corteo. E invece la sera prima che entrassi ad Aleppo, quest’ultima volta, uno dagli Stati Uniti ha chiamato mezza Antakya perché l'Esercito Libero mi fermasse — perché è stato lì dieci giorni e non è riuscito a entrare, e che figura ci fa?, adesso, lui che ha vinto decine di premi: battuto da una ragazzina. E alla fine vai in Siria e non solo al-Qaeda, non solo i missili, non solo i proiettili: il pericolo sono gli altri giornalisti. Ma in fondo: in questi due anni, mia madre era malata. Una di quelle malattie che vaghi per medici, vaghi per terapie e nessuno capisce cosa sia. E la sera, quando ero al telefono con lei — ma non è 225

necessario che spieghi come ti senti, a stare in Siria. Quello che conta è che in due anni nessuno mi ha mai chiesto mia madre come stesse. O come stessi io. Lorenzo Milani, scriveva: “il mio prossimo non è Africa, non è il proletariato”, scriveva, “ma chi mi sta accanto.” E se non sei capace di chiedere “come stai?” a chi ti vive accanto, come potresti essere mai capace di raccontare la Siria? Posso dire solo questo dei miei ultimi due anni. Un fallimento. Ieri è stato ucciso Molhem Barakat. La Reuters gli aveva comprato una Canon, ma non un elmetto. Non un antiproiettile. Aveva diciassette anni. È morto così, il fotografo bambino, mentre noi cercavamo il bambino soldato. Spedito al fronte per 10 dollari a foto. Davvero quelle macerie sono solo di Aleppo? Ogni volta, “non c’è niente da raccontare”. E invece ogni volta, torni e ti ritrovi al di là di un’altra linea rossa: dalle cannonate agli aerei, dagli aerei ai missili, dal tifo alla leishmaniosi, dalla leishmaniosi alla poliomielite, ora che scrivo di Moadamiya e già la fame è un’emergenza anche a Ghouta, rileggo e già la fame è un’emergenza anche a Yarmouk. E già dalla fame si è passati a un’arma ancora più economica, e di distruzione ancora più di massa, ancora più rapida: i barili esplosivi. Barili farciti di chiodi e tritolo, una media di trenta al giorno, di mille morti al giorno. Quanto un attacco 224

chimico, ma ogni giorno: adesso che non si muore più di gas ma di tutto il resto, in Siria — e quindi non importa più a nessuno.

A nessuno. Ti arrivano solo i soliti messaggi: “Ci ammazzano tutti! Dove siete? Ci ammazzano tutti! Ora dopo ora, minuto dopo minuto, Dove siete? Dove siete?”

Non lo so dove siamo, non lo so. Il mio pezzo più letto, in questi due anni, è stato il pezzo sui freelance: l’unico pezzo che non parla di Siria. Ho chiamato quel funzionario dell'ONU, prima, avevo

bisogno di alcuni dati, mi ha detto: “Ma è stato l'americano, vero?” Perché avevo twittato quella cosa della starvation. Del termine improprio. “È stato l'americano, vero? Quello è proprio uno stronzo.” E tu sei ogni volta tentato di urlare: “Parlavo di te! Mi riferivo a te! Sei tu lo stronzo! Parlavo di te!” Tutti che pensano che non parli di loro. E invece no. Parlavo proprio di voi. Proprio di noi.

E invece parlando, le mie parole restano nell'aria come sugheri sull'acqua. Sera, Federico Garcîa Lorca.

Kevin Carter aveva la mia età. Trentatré anni. Scattò una foto in Sudan, un bambino, per terra,

con un avvoltoio alle spalle. Durante la carestia. Scattò la foto e andò via, perché gli avevano detto 220

di non toccare i bambini, di non toccare nessuno,

che avrebbero potuto trasmettere malattie. E quindi scattò la foto e andò via. Nessuno ebbe più notizie di quel bambino, provarono a rintracciarlo, ma nessuno ebbe più notizie. Kevin Carter vinse il Pulitzer, con quella foto. Tre mesi dopo si suicidò. Penso a lui, la sera, mentre Amsterdam è così bella, così offensiva, mentre Aleppo muore. Mentre scrivo il mio libro penso solo che lo capisco. Mentre guardo le luci nelle case degli altri, la sera, e tutte queste vite così normali, che d’in-

canto non saranno mai più la mia. Ti dicono: “ti hanno tradotto in nove lingue, ora un libro: due anni straordinari.” E tu chiedi: “Chi è Assad? E i ribelli, chi sono? Cosa vogliono?” E nessuno sa niente. “Ma sai che lei sta ad Aleppo?” “Ad Aleppo? Ma Gheddafi non era stato ucciso? Credevo la guerra fosse finita.” “Ma no, quella è la Libia. Lei sta in Siria. Sta con i talebani.” Due anni. E nessuno sa niente. Io che neppure so cosa succede nell’altra metà di Aleppo. Io che i siriani di cui racconto in questo libro, intanto, sono morti tutti.

Perché intanto ad Aleppo di nuovo si combatte. Mentre i ribelli svuotano i negozi, svuotano le case, le fabbriche, mentre si rivendono il rame delle linee 226

elettriche, anche il metallo dei tubi dell’acqua, e gli islamisti si concentrano sul califfato, Assad è tor-

nato all’offensiva. I suoi uomini hanno infine sfondato la resistenza a sud-est, ad al-Safirah. Era la

base della Liwa al-Tawhid, la principale brigata di Aleppo: e da al-Safirah, in poche ore, è ricominciata la battaglia. Il colonnello al-Okaidi, capo dell’Esercito Libero, si è dimesso. Per una volta, ha ammesso, non è stata questione di insufficienza di armi e munizioni: la Liwa al-Tawhid era impegnata a nord di Aleppo — non contro le truppe di Assad, ha denunciato, contro altri ribelli. D'altra parte, a Wadi Deif, in provincia di Idlib, gli uomini di Jamal Maarouf hanno continuato a combattere per mesi, fermandosi ogni volta un minuto prima della resa delle truppe del regime, per continuare a ricevere fondi dai loro finanziatori del Golfo. Mentre piovono barili esplosivi. Mille morti al giorno, e non esiste riparo, uno scantinato, niente.

Provano tutti a fuggire, ma i ribelli si scontrano con gli islamisti, al confine, per il controllo delle vie di rifornimento, del contrabbando di armi, il confine

è chiuso. “Dove siete? Ci ammazzano tutti! Ci ammazzano tutti! Dove siete?” Ma ormai siamo andati via, uno a uno. Via. E anche io. Adesso sono qui, che provo a scrivere, a raccontare, ma mi alzo nervosa ogni cinque minuti, leggo, 227

telefono, mi distraggo, ogni volta cerco un pretesto per interrompere, per rinviare. Scappo dalla pagina perché quando hai scritto, poi non puoi più dimenticare, quando hai visto, non puoi più non vedere — ora che questi due mesi qui sono stati i più difficili dei miei due anni di Siria. Mi sento definitivamente fuori luogo, ora che non ho più un luogo a cui tornare, ora che neppure Ramallah è più casa mia, che l’esilio è permanente — ora che davvero sono palestinese, avevano ragione, davvero sono ebrea, ora che sono tornata solo per capire che non esiste ritorno. Pedalo, allora, pedalo velo-

ce in giro per questa città, nelle cuffie la musica dei Radiohead, poi una canzone degli U2, alla ricerca di una luce che non trovo, ora che ho perso tutto

e pedalo, pedalo veloce, solo questo, la testa bassa per schivare i cecchini mentre Aleppo è in agguato in ogni rumore, ogni ombra, ogni lampo un’esplosione, ogni tacco femminile il colpo secco di un cecchino. Perché è inutile, è il suono di un aereo che arriva, sarà per sempre un aereo che arriva anche se è solo un cancello che scorre e si chiude,

ora che è tutto in macerie e pedalo veloce senza più sapere dove andare, senza più niente a cui tornare. Provo a tirare dritto, ma in ogni angolo c'è un’altra città dietro la città, un’eco in ogni voce, mentre alla mia destra, a un tratto, mi sfila accanto la sede del

World Press Photo. Penso ad aprile, penso al giorno della premiazione, quando erano tutti lì che guardavano queste foto, Gaza, la Siria, Vl Afghani228

stan, tutte le guerre, tutti i morti, ed erano tutti lì

che discutevano di contrasti, di colori di inquadrature, dell’ultimo modello di Nikon in mezzo a tutti quei morti, quando Alessio, dal palco, disse solo: “Mi vergogno.”

Adesso che la vita fa più paura della Siria.

229

Di Ban

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“Ancora con questa storia? Ma se stanno dove stavano un anno fa!,” mi ha detto puntuale Lorenzo da Kiev. “Che se la raccontino da soli! È la loro

guerra — ma che vuoi dalla Siria?” Sono di nuovo al confine. Ad Aleppo, dalla mia ultima volta, non è entrato più nessuno — più esattamente: nessuno è più tornato, in tre anni sono stati

uccisi sessantadue giornalisti. Sono qui che aspetto il via libera di un comandante saudita. Il problema è evitare un checkpoint del regime controllato da iraniani: ma è tutto pronto, ormai. Ilfixer è un tunisino, e avrò anche internet, nella base di un gruppo di afghani. L'interprete è arrivato da Arssterdam come me. Non è rimasto più nessuno, in Siria. Neppure i SIVIANI.

Perché sono tre mesi, ormai, che piovono barili

esplosivi. Tutto il giorno, tutta la notte: quintali, quintali di chiodi e tritolo. Hanno la potenza dell’aviazione, ma la frequenza dell'artiglieria — e i siriani hanno ceduto. A migliaia, terrorizzati, si sono riversati in Turchia. I morti non abbiamo idea di quanti 231

siano, ma le ultime stime dicono 150.000: più 250.000 morti cosiddetti secondari, cioè quelli che tecnicamente non sono morti per la guerra, perché persino il cancro, ormai — anche a Damasco, dove i giornalisti amici del regime, i soli a ottenere un visto, ci assicurano che è tutto normale, che è la vita di sempre, in Siria, magari giusto la mattina, l’acqua della doccia è un po’ fredda — persino a Damasco il cancro oggi si cura con erbe e tisane. Per chi da mesi non ha che foglie e radici per cena, l’unica carne quella dei gatti randagi, per chi, stremato, per non svenire masti-

ca cartone, anche un'influenza è letale. I negoziati di Ginevra, intanto, sono falliti. Più esattamente, sono stati sospesi. Perché non si è trovato un accordo neppure sulle ragioni del fallimento. A un certo punto i delegati, semplicemente, se ne sono andati e non sono più tornati. Però davanti alle foto degli scheletri sotto assedio, le ONG e le agenzie dell'ONU si sono infine mobilitate. Sono sempre al confine, sempre qui che possono assistere solo i rifugiati, quelli che da soli riescono a fuggire dalla Siria — impresa già notevole, perché i rifugiati sono ormai 2.500.000 e non sono che un

terzo degli oltre 9.000.000 di siriani senza più una casa. Ma se non altro ora si battono con tutte le loro energie per entrare. Assad, però, non risponde: è impegnato con le elezioni, a giugno si vota — si ricandida presidente. I ribelli hanno deciso di riorganizzarsi: troppe brigate, hanno detto, troppa anarchia: ognuno qui fa come gli pare. E quindi hanno nomi252

nato un nuovo comandante. Ma quando alla prima intervista gli hanno chiesto se adesso, finalmente, l'avrebbero finita di sequestrare tutti, ha risposto: “Posso richiamarvi tra cinque minuti?” Non sapeva di essere a capo dell'Esercito Libero. Ha detto che andava un momento a controllare. A sentire il telegiornale. I barili esplosivi sono così micidiali che credevo Aleppo sarebbe caduta. Ma è così da mesi. Sembra che i ribelli stiano per vincere, avanzano, avanzano, e all'improvviso non arrivano più armi. Il regime che passa all'offensiva, allora, e sembra stia per vincere, avanza, avanza, e all'improvviso ai ribelli arrivano nuove armi.

All'inizio alcuni analisti, soprattutto negli Stati Uniti, consigliavano: lasciamo che si squartino tra di loro. Hezbollah, l'Iran, al-Qaeda. Lasciamo che si

eliminino da soli. Che usino le loro armi contro se stessi, invece che contro Israele. Contro di not.

Davvero siamo rimasti a guardare? Non siamo intervenuti? Davvero questa non è la nostra guerra? Mentre ancora non mi arrivano che questi messaggi, ogni giorno: “Dove siete? Ci ammazzano tut-

ti! Ogni giorno, ogni ora — Dove siete?” Tre anni dopo, però, non è vero che è tutto uguale, qui. Ora non mi dicono più: “Non c’è niente da raccontare.” Ora la domanda è: “Hai finito il libro. Ma che ti importa ancora della Siria?” Antakya, 30 marzo 2014 233

Ringraziamenti

L'ordine cronologico degli eventi, per esigenze di chiarezza, compattezza, coerenza della narrazio-

ne, è l’unica cosa di questo libro che a volte non corrisponde alla realtà, insieme ad alcuni dettagli che rendono non riconoscibili i personaggi descritti in termini, diciamo così, non proprio lusinghieri. Le ripetizioni, e in particolare la cronaca dal fronte a pagina 76 e poi a pagina 114, non sono un refuso di stampa, ma il modo più esplicito che avevo per esprimere tutta l’insensatezza di questa guerra — mesi interi in cui cambiavano solo i nomi, progredivano solo i morti. La storia di Qannaas, invece, a pagina 29, è la

rielaborazione di un pezzo di Rania Abouzeid. Credo che uno dei principali errori di noi giornalisti, in Siria, sia stata l'incapacità di collaborare.

Per me il giornalismo — il tentativo, per dirla con David Randall, di scoprire cosa succede nel mondo chiedendolo a persone a volte riluttanti a parlare, altre volte apertamente ostili — non è un'avventura individuale ma un’impresa collettiva, a cui ognuno 235

contribuisce con un frammento di comprensione. Ed è per questo che nel mio libro ho voluto un pezzo di Rania Abouzeid, australiana di origini libanesi che meglio di ogni altro ha raccontato la Siria: perché il suo cecchino, semplicemente, era più interessante del più interessante dei miei, e perché vorrei che il giornalismo fosse così, meno narcisista, meno egocentrico. Meno concentrato

sui premi e più sui lettori, su quello che meglio consente ai lettori di capire. E quindi, grazie a Rania Abouzeid. Grazie a Roberto Saviano per Philip Roth su Primo Levi, a pagina 40.

Grazie a Christian Raimo, che per primo ha visto un libro tra i miei appunti, a Stefano Citati, che per primo ha visto in me una giornalista, e a Yuri Kozyrev, che con uno sguardo, ad Amsterdam, mi ha

insegnato cosa significa esserlo. Grazie a israeliani e palestinesi. Sempre. E grazie a Claudio Romenzi, per avermi tirato giù per terra, una mattina di settembre.

236

Indice

1. Autunno 2. Inverno 3. Primavera

4. Estate

5. Autunno Ringraziamenti

Bompiani ha raccolto l’invito della campagna “Scrittori per le foreste” promossa da Greenpeace. Questo libro è stampato su carta certificata FSC, che unisce fibre riciclate post-consumo a fibre vergini provenienti da buona gestione forestale e da fonti controllate. Per maggiori informazioni: http://www.greenpeace.it/scrittori/

I GRANDI Tascabili Bompiani Periodico quindicinale anno XXIII numero 507 Registr. Tribunale di Milano n. 133 del 2/4/1976 Direttore responsabile: Elisabetta Sgarbi Finito di stampare nel mese di maggio 2014 presso il Nuovo Istituto Italiano d’ Arti Grafiche - Bergamo Printed in Italy

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ISBN 978-88-452-7694-1

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“BOMBARDAVANO TUTTO, E IO ERO LÌ IN UN ANGOLO CON QUEST'ARIA - CHE ALTRA ARIA PUOI AVERE SE FORSE TRA UN MINUTO MUORI? E JONATHAN MI SQUADRA E MI FA: ‘QUESTO NONÈ UN POSTO PER DONNE’. A UNO COSÌ, MA CHE VUOI DIRGLI? ‘IDIOTA: QUESTO NON È UN POSTO PER NESSUNO’.”

LA GUERRA DENTRO Il 21 agosto 2013 un attacco chimico alla periferia di Damasco ricorda al mondo l'esistenza della guerra in Siria, già in corso da due anni. L'intervento occidentale sembra imminente,

decine di giornalisti accorrono alla frontiera per poi sparire delusi quando Obama decide di non bombardare. Lasciano dietro di sé 126.000 vittime accertate, 200.000 stimate, e oltre

metà della popolazione sfollata o rifugiata nei paesi vicini: secondo le Nazioni Unite, la peggiore crisi umanitaria dai tempi della seconda guerra mondiale. Francesca Borri copre per mesi la battaglia di Aleppo da reporter freelance e capisce presto di trovarsi su un duplice fronte: quello di una guerra senza regole, dove non esiste alcuna distinzione tra civili e combattenti, ma anche il fronte quotidiano dei rapporti con i caporedattori e gli altri giornalisti, in cui dominano cinismo, competizione, superficialità. Un viaggio nella guerra, ma anche nei meccanismi a noi nascosti con cui viene costruito, e spesso distorto, il suo racconto. Un viaggio che investe come un colpo di mortaio tutto quello in cui crediamo — il lavoro, l'amicizia, le ambizioni — e ci costringe a non sprecare più niente della bellezza della vita. FRANCESCA BORRI 1980, studi in relazioni internazionali, dopo una

À

) prima esperienza nei Balcani ha lavorato in Medio Oriente, e in particolare in Israele e Palestina, come

specialista di diritti umani.

Nel febbraio 2012 ha deciso di raccontare la guerra di Siria come reporter freelance, e i suoi articoli sono stati pubblicati in undici lingue.

In Italia scrive per “il Fatto Quotidiano”.

ISBN 978-88-452-7694-1

I GRANDI TASCABILI BOMPIANI

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www.bompiani.eu

Marchetti/Co Photo Marco © dell'autrice: Foto Contrasto. Reuters/ /fire Tomasevic ©Goran Damascus Under copertina In in Bertozz Paola Copert Polystu grafico Proget