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Italian Pages 160/144 [144] Year 2018
Sguardi sul mondo attuale Carlo Nordio, Giuliano Pisapia, In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili, prefazione di Sergio Romano Franco Reviglio, Goodbye Keynes? Le riforme per tornare a crescere Francesco Varanini, Contro il management. La vanità del controllo, gli inganni della finanza e la speranza di una costruzione comune Stefano Righi, Reazione chimica. Renato Ugo e l’avventura della Montedison da Giulio Natta a Raul Gardini, prefazione di Giorgio Squinzi Gianluigi Da Rold, Assalto alla diligenza. Il bottino delle privatizzazioni all’italiana, prefazione di Giorgio Vittadini, introduzione di Giulio Sapelli Raffaello Vignali, La grandezza dei piccoli. Lo statuto delle imprese: una rivoluzione copernicana, prefazione di Dario Di Vico Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti, Giuseppe Vacca (a cura di), Emergenza antropologica. Per una nuova alleanza tra credenti e non credenti Giulio Sapelli, L’inverno di Monti. Il bisogno della politica Luca Ricolfi, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale Stefano Bruno Galli, Il grande Nord. Cultura e destino della Questione settentrionale Lorenzo Bini Smaghi, Gianpiero Dalla Zuanna, Umberto Eco, Andrea Riccardi, Integrazione. Il modello Italia, a cura di Marco Impagliazzo Giulio Sapelli, Dove va il mondo? Per una storia mondiale del presente Lodovico Festa, Giulio Sapelli, Se la Merkel è Carlo V. Perché l’Italia può sfasciarsi. Come cinquecento anni fa Francesco Galietti, Pappa mundi. Geoeconomia del cibo, presentazione di Carlo Jean Pino Pisicchio, I dilettanti. Splendori e miserie della nuova classe politica Giovanni Brauzzi, Luca Tivelli, Reset Italia. Dalla grande crisi a un nuovo Rinascimento. Un progetto globale per il Paese, prefazione di Stefano Folli Lamberto Dini, con Luigi Tivelli, Una certa idea dell’Italia. Cinquant’anni tra scena e retroscena della politica e dell’economia, prefazione di Paolo Panerai, introduzione di Antonio Polito Gian Mario Rossignolo, Passione industria. Cinquant’anni nel cuore della grande impresa italiana, prefazione di Giulio Sapelli Georges Corm, Contro il conflitto di civiltà. Sul «ritorno del religioso» nei conflitti contemporanei del Medio Oriente Umberto Ambrosoli, Ostinazione civile. Idee e storie di una rigenerazione civica Enzo Risso, Con rabbia e speranza. Il nuovo volto dell’Italia in cerca di riscatto Antonio Pilati, Rivoluzione digitale e disordine politico, prefazione di Giulio Sapelli Giulio Sapelli, Un nuovo mondo. La rivoluzione di Trump e i suoi effetti globali Giulio Sapelli, Oltre il capitalismo. Macchine, lavoro, proprietà Ferruccio Capelli, Il futuro addosso. L’incertezza, la paura e il farmaco populista Germano Maifreda, Un capitalismo per tutti. La Montedison di Mario Schimberni e il sogno di una Public Company, prefazione di Giulio Sapelli Giulio Sapelli, Chi comanda in Italia (Nuova edizione ampliata e aggiornata) Antonio Pilati, La catastrofe delle élite. Potere digitale e crisi della politica in Occidente
Sguardi sul mondo attuale
ANTONIO PILATI
LA CATASTROFE DELLE ÉLITE Potere digitale e crisi della politica in Occidente
GUERINI E ASSOCIATI
© 2018 Edizioni Angelo Guerini e Associati srl via Comelico, 3 – 20135 Milano http://www.guerini.it e-mail: [email protected] Prima edizione: dicembre 2018 Ristampa: v iv iii ii i
2018 2019 2020 2021 2022
Publisher Antonello De Simone Copertina di Donatella D’Angelo Printed in Italy ISBN 978-88-6250-735-6 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla siae del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da clearedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.
Indice
9 Introduzione 13 Capitolo 1 2016-2018: gli anni della disgregazione e della rivolta Le élite inconsapevoli, p. 14 - Uno scontro politico globale, p. 21
27 Capitolo 2 Il revisionismo del più forte I giganti del web trasformano l’economia e innescano il conflitto, p. 28 - L’esaurimento dell’egemonia americana, p. 35 L’ascesa dei sentimenti revisionisti, p. 39
45 Capitolo 3 Il sistema degli Stati: una genealogia westfaliana L’handicap degli Stati continentali, p. 47 - Le peripezie dell’ordine europeo, p. 52 - Il balzo tecnologico e la grande convergenza, p. 56
61 Capitolo 4 Come la rivoluzione digitale trasforma il mondo Ognuno diventa fonte, p. 64 - L’interazione sociale si riorganizza e risucchia i media, p. 70
8 79 Capitolo 5 Il mondo reinventato dalle piattaforme digitali Riscrivere le attività sociali, p. 80 - La nuova figura dell’interazione, p. 89 - La contrazione del capitale strategico, p. 93
101 Capitolo 6 L’utopia di un mondo senza confini L’ideologia dei diritti, p. 102 - I riflessi sulla competizione politica, p. 105
111 Capitolo 7 Il disastro politico della sinistra in Europa Il dramma della falsa coscienza, p. 113
117 Capitolo 8 Il sistema politico italiano: cessioni di potere e crisi strutturale La guida politica dall’alto, p. 117 - Il vincolo esterno, p. 121 - Riforme costituzionali di fatto, p. 129 - Conflitti civili e deleghe di potere, p. 135
Introduzione
Il secondo decennio del XXI secolo si sta rivelando un periodo di grande fertilità inventiva, denso di scontri, sommovimenti, sorprese. Viviamo uno di quei momenti in cui la storia d’improvviso accelera creando punti di svolta e biforcazioni che segneranno per anni, secondo la direzione che verrà presa, l’esistere dei popoli. È messa in discussione quella sofisticata architettura di organismi internazionali (Onu, Nato, Ocse, Wto…) che, proliferando per tutto il dopoguerra, ha fornito l’ambiente istituzionale in cui si sono misurati e compensati i rapporti di forza fra le potenze: nuovi trattati e nuovi istituti, a lungo negoziati con grandi speranze e molta fanfara retorica (accordi sul clima, partnership transatlantiche e transpacifiche), sono messi in freezer o chiusi. Entra in crisi e vede appassire la propria ragion d’essere l’alleanza atlantica che per settant’anni era apparsa inossidabile. La spinta a cambiare proviene soprattutto dagli Stati Uniti, la nazione più potente del mondo, che oggi paradossalmente si rivela il principale motore revisionista. Si consolidano convergenze, quali la Shanghai Cooperation Organization (Sco) impernia-
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ta su Cina e Russia, fra Stati per lo più autoritari che agiscono, con una decisione inconsueta dopo la fine della guerra fredda, lungo piste strategiche autonome (spesso conflittuali con gli Usa). In Europa si sfalda l’idea solidale che era il principio ispiratore dell’Unione: tra i vari Stati, divisi sui temi politici di fondo e protesi alla difesa dei propri interessi a breve termine, prevale lo stallo. Scoppiano conflitti commerciali a ripetizione e in molte aree del pianeta (Estremo Oriente, Levante e Nord Africa, confini europei della Russia) cresce la tensione militare. Sono due i punti focali della trasformazione ed entrambi hanno intensità inedita. Accelera con travolgente velocità la tecnologia (potenza di calcolo, efficacia delle reti, miniaturizzazione, robot) i cui enormi progressi offrono chance di sviluppo a largo raggio. Si diffonde tra le élite del mondo occidentale uno sbandamento che impedisce di capire il nuovo mondo con le sue feroci turbolenze e induce una reazione scomposta, di chiusura e negazione, che aggrava il disordine. Il luogo dove si scaricano le tensioni è la politica delle democrazie atlantiche che riflette l’acida delusione degli elettori di fronte alle convulsioni, non governate, dell’economia rimodellata dall’accelerazione tecnologica. Nel triennio 2016-2018 saltano gli schemi politici invalsi dopo la fine della guerra fredda: Brexit, elezione di Trump, ripetuti successi elettorali dei partiti critici verso l’attuale assetto dell’Unione Europea, crescente spinta espansiva della Cina sotto la rinsaldata guida di Xi, rafforzamento strategico della Russia, capillare estensione degli strumenti (big data, social mirati) che trasformano le campagne elettorali. In gran numero gli elettori
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occidentali ritirano la fiducia a quell’ordine consociativo – imperniato su partiti-sistema quasi fungibili e ben raccordati con istituti sovranazionali e organi di garanzia (corti costituzionali, autorità indipendenti, banche centrali) svincolati dal voto popolare – che corrisponde a visione e interessi degli happy few (finanza, grandi imprese, alta amministrazione). Le élite, sconcertate dal declino della propria democrazia su misura, vanno all’opposizione dei governi revisionisti imposti da un voto insubordinato (Usa, Italia, Europa centrale) e lanciano una dura guerra ideologica di cui i grandi media tradizionali sono l’asse portante. Si crea una rottura inedita e drammatica nel centro del potere occidentale. Per i vertici europei e i liberal americani i leader revisionisti (Trump in testa), demonizzati come impresari del rancore e demagoghi da tweet, sono l’alfa e l’omega di un traumatico, ma in fondo accidentale, degrado politico da cancellare al più presto. In realtà il filo degli eventi non è così semplice: è involuto, sfaccettato e molto più interessante. I testi che seguono cercano di ricostruire quel filo risalendo dalla superficie visibile dei rivolgimenti politici alla dinamica che li sottende, generata dalla frattura sempre più aspra fra élite e perdenti dell’economia globale, per focalizzare infine il motore drammatico della trasformazione – la furia rivoluzionaria della tecnologia. La globalizzazione economica diverge dalla globalizzazione politica: il gioco delle potenze non è mai stato così incerto dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Capitolo 1 2016-2018: gli anni della disgregazione e della rivolta
Nei primi anni Novanta, quasi in contemporanea, finisce la guerra fredda con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e decolla il web: si scongelano in gran numero opportunità, iniziative, innovazioni e per quasi quindici anni vanno avanti in parallelo globalizzazione economica, sistema mondiale delle potenze, ideologia. Gli Stati Uniti mantengono primato economico e guida strategica favorendo alleati storici (sicurezza elargita a basso costo) e potenziali (Cina e altre potenze emergenti fanno ingresso nei mercati mondiali in condizioni di vantaggio), le istituzioni sovranazionali proseguono la loro celebrata espansione, le élite incamerano ingenti dividendi che dissimulano diffondendo un’ideologia dei diritti che garantisce perfezione morale. Domina una quieta continuità, aumenta solo la scala dei processi: più mercati integrati, più Stati (e più efficienza) nelle catene mondiali di produzione, più impegno morale nella politica internazionale. Tuttavia la stabilità scevra di tensioni non ha un corpo reale: è solo fantasmagoria, gioco di specchi. La rivoluzione digitale dà ai processi di lavoro su scala globale efficienza, velocità, dimensioni: accelera la globalizzazione
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economica e, più delle merci, fa circolare a ritmo vorticoso le conoscenze. Il nuovo paradigma tecnologico trasforma l’agire e, appena l’innovazione raggiunge massa critica, dissesta gli assetti economici esistenti, riorganizza le attività (ne lancia di nuove e delle restanti alcune si potenziano, altre chiudono), porta nell’arena mondiale soggetti imprevisti: come accadde a inizio Novecento, in un’altra fase di sconvolgimento tecnologico e di incipiente globalizzazione economica, anche nel XXI secolo emergono riflessi politici che inaspriscono i rapporti fra le potenze e, rompendo gli equilibri, li virano verso il conflitto. Le due globalizzazioni, economica e politica, si divaricano e generano divisioni sempre più aspre.
Le élite inconsapevoli I punti-chiave sono almeno quattro. Primo: l’integrazione dei mercati fa crescere alcune economie, Cina in testa, con più forza e rapidità di altre (basso costo del lavoro, delocalizzazioni, catene del valore integrate). In Europa la disciplina mercantilista, che si forma a inizio secolo quando la Germania del cancelliere Schroeder aggiusta l’economia e comincia a sfruttare il vantaggio di cambio implicito nell’associazione con Stati più deboli (eurozona), s’impone come un dogma e in breve genera avanzi commerciali di crescenti dimensioni (3,5% del Pil nell’eurozona, 8% del Pil in Germania). Gli interessi economici di cinesi e tedeschi, i due leader dell’export mondiale, si allineano e debordano in ambito politico: ciò crea occasioni di scontro fra Germania e Stati Uniti, come dimostrano le frequenti dissociazioni
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strategiche di Berlino (dissenso sulla guerra in Iraq, accordi con l’Iran, gasdotto Nord Stream). Secondo punto: il primato economico americano si indebolisce e provoca a cascata scompiglio nel sistema delle relazioni politiche. L’economia modifica poteri e gerarchie, la scena politica avverte le ricadute e le amplifica. L’assetto unipolare di fine Novecento non tiene più, gli Stati Uniti scoprono rivali (Cina) in ascesa, alleati che praticano autonomia strategica (Germania con Europa al seguito), nemici considerati allo sbando (Russia) in ripresa su scala mondiale. Il disallineamento innesca scontri: gli Usa cominciano a coltivare sentimenti revisionisti, alleati e rivali dissimulati pretendono invece continuità con il passato (tributi alle istituzioni sovranazionali, americani che pagano alleanze e stabilità). Terzo punto: l’Occidente si divide, anzi si frastaglia al suo interno. Le linee di divisione sono sia orizzontali, all’interno della struttura sociale dei singoli Stati, sia verticali, tra i diversi Stati. I processi sono più marcati e aspri negli Stati Uniti, il cuore pulsante dell’Occidente. Fino all’inizio del nuovo secolo, quando dominava una globalizzazione tradizionale, basata sulla circolazione accelerata e capillare delle merci, gli interessi economici delle élite non erano così divergenti da quelli della classe media e dei lavoratori poco qualificati: la crescente ricchezza favoriva tutti, anche se in misura differente. Quando la rivoluzione digitale si intensifica e riorganizza la maggior parte delle attività, la divaricazione orizzontale di interessi e sentimenti si allarga in modo drammatico: una parte della società perde lavori e reddito (delocalizzazioni, robot, attività che finiscono fuori mercato a causa dell’innovazione digitale), un’altra parte
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(finanza, giganti del web) aumenta in misura imponente ricavi, profitti, retribuzioni. È una forbice che squassa la società perché investe, oltre all’economia, anche l’ambiente di vita quotidiana: crescita di immigrati poco assimilati (lo spagnolo pareggiato all’inglese), trionfo di irraggiungibili modelli di vita cosmopoliti, svalutazione della tradizione per far posto a figure ideologiche dissonanti (in tema di famiglia soprattutto). In Europa la divaricazione orizzontale differisce molto da nazione a nazione: in alcuni Stati, come la Grecia, investe la quasi totalità della popolazione con una tragica caduta dei redditi; in altri, come nel resto della costa mediterranea, colpisce in modo intensivo specifici strati sociali (giovani, fasce di classe media); infine, negli Stati più fortunati, Germania anzitutto, coinvolge solo minuscole frange. In realtà nel continente la spaccatura sociale è guidata e intensificata dai meccanismi dell’Unione: l’impianto mercantilista (export come perno dell’economia, impulsi deflazionisti per estendere la spinta competitiva sull’estero) premia i Paesi creditori, di regola coesi e strutturati, e punisce i debitori, per lo più disordinati e fragili negli apparati istituzionali. Tra gli Stati membri, in teoria consegnati a un’ispirazione cooperativa e multilaterale, si insinua un conflitto dissimulato ma stabile: gli strumenti comunitari si tramutano in armi improprie dentro una competizione aspra e subdola diretta a far valere gli interessi nazionali e a imporre – sia per concreti motivi materiali sia per ragioni di prestigio – la propria visione dell’Europa e della sua strategia economica. La spaccatura orizzontale (sociale), inasprita con l’additivo della crisi importata dagli Stati Uniti, ha una metamorfosi e diventa spaccatura verticale:
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Brexit, alleanze più o meno formali create dentro l’Unione a 27 (Visegrád, allineamento anseatico), scarsa volontà di superare l’istinto dello scaricabarile e di delineare strategie comuni di fronte a un’immigrazione di proporzioni colossali (legata al fallimento di gran parte dell’Africa post-coloniale) che mette a repentaglio il futuro della vita civile europea sono i sintomi drammatici della fine di un progetto cooperativo e del solidificarsi di fratture verticali fra Stati. Quarto punto: le classi dirigenti sono cieche di fronte alla caduta sociale (e al dolore esistenziale) di chi soffre con la nuova globalizzazione ipertecnologica. Ciò enfatizza (e avvelena) le spaccature nazionali: le dinastie al comando della politica americana lungo sette presidenze (dal 1988 al 2016, da Bush sr, già capo della Cia, che abita la Casa Bianca dal 1980, fino a Clinton e per conformità ideologica a Obama) sono estasiate dal successo dei benestanti, che credono valga per tutti, e si beano per la diffusione mondiale della propria ideologia di perfezione morale (aiuti umanitari, diritti per tutti, dagli animali ai poligami, primato della legge sulla ragion di Stato). Anzi, con il sussiego dei privilegiati non si negano il gusto di far la morale a chi è disperato. La spaccatura diventa insanabile e il conto arriva alle elezioni del 2016. In Europa, dove il malessere sociale è capillare e il risentimento deborda alle elezioni in anticipo rispetto agli Stati Uniti, la percezione dell’establishment è più chiara: l’invenzione in provetta dello sprezzante elitista Macron come candidato del rinnovamento e dell’integrazione, la campagna italiana contro la casta dei politici lanciata dalla casta dei media (e dalla cuspide imprenditoriale) che in qualche modo condiziona e cattura parte della prote-
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sta anti-sistema, la vittoria in Olanda (elezioni 2017) del liberale Rutte, europeista ortodosso, che ce la fa usando i temi nazionalisti del radicale eterodosso Wilders indicano abili mosse strategiche di prevenzione sterilizzante. Tuttavia le élite continentali da decenni hanno fatto un investimento massiccio e senza ritorno sullo sviluppo dell’Unione beatificandola con una teoria – pervasiva, totalizzante, spesso minacciosa – che prolunga e acuisce la visione di perfezione morale, basata sulla creazione continua e benefica di diritti, proveniente dall’America. L’investimento ha dato a molti un’ottima resa: notevole libertà finanziaria, massima scorrevolezza nella circolazione di merci e asset d’impresa (delocalizzazioni), governo quasi incontrastato della più grande area economica del mondo. Tuttavia ha messo le élite in contrasto frontale con quegli elettori che oggi vivono la Ue come elemento rilevante della propria sofferenza: alla fine la difesa rigida dell’Unione invischia le classi dirigenti europee e le rende incapaci di comprendere non solo i sentimenti dei cittadini ma anche il rimescolamento delle idee e dei rapporti fra potenze oggi in corso. Un dato colpisce nell’attuale evoluzione economicopolitica: i fattori disgreganti sono più numerosi e incisivi dei fattori che portano ordine. Da un lato la tecnologia, il cui ritmo innovativo accelera di mese in mese, dall’altro il dolore risentito di chi è toccato da un vortice di cambiamento che stordisce hanno una forza endogena che travalica e scompone le strutture d’ordine ereditate dal passato – dalle consuetudini dei business consolidati alla disciplina che gli organismi sovranazionali apportano alle relazioni globali. La tecnologia trasferisce lavoro dagli umani alle mac-
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chine, riscrive e razionalizza (riduce) operazioni, sposta attività in luoghi lontani; in ciò è inarrestabile, può solo essere contenuta o indirizzata da misure politiche inevitabilmente di ambito nazionale: incentivi ai rimpatri di capitale, deterrenza (pur sempre parziale) alle scelte di delocalizzazione, contrasto ai surplus commerciali degli Stati mercantilisti. Il dolore dei disperati è connesso, quasi come contrappasso, all’incomprensione ostinata delle classi dirigenti: sui due lati dell’Atlantico le élite difendono con accanimento una strategia politica che, pur dividendole dai sentimenti popolari, considerano non solo tutela dei propri interessi ma soprattutto garanzia di un ordine del mondo inevitabile e benefico. Nella loro lotta feroce contro la rivolta dei perdenti da globalizzazione e chi li rappresenta – visibile con drammatica chiarezza nell’America di Trump – le élite hanno un’arma formidabile: l’ideologia liberale, divenuta senso (e luogo) comune, che si esprime nella rule of law, in una disciplina consolidata dei rapporti politici, in regole commerciali e finanziarie e si incarna in una serie di istituzioni (locali e sovranazionali) che, per addizioni successive, inquadrano il mondo da settant’anni (e per quasi sessanta hanno fornito buona prova). Le élite non riescono ad aggiornare una strategia che ha dato loro così tanto (si pensi alle dinastie americane e in correlazione al mondo finanziario o ai giganti del web oppure, sul continente, alla Merkel e all’industria manifatturiera tedesca) compiendo quella che è l’operazione essenziale: separare i grandi principi che durano nel tempo dalle applicazioni contingenti che fanno solo danni. Quando ci provano, come nel caso di Macron o di Trudeau, i risultati
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oscillano tra la velleità e il ridicolo. La fragilità ostinata dell’establishment occidentale, che si incarna in leader – da Obama a Hollande e Macron, da Rajoy al duo Cameron-May, da Renzi al tatticismo bottegaio della Merkel – di stupefacente mediocrità, produce conseguenze gravi. In America scatena con il presidente eletto dai perdenti una lunga e velenosa rissa che sconcerta per il suo inedito carico di violenza ideologica: quasi una revanche contro la realtà sgradita che però fa sbandare la politica estera della prima potenza mondiale. In Europa rafforza un’arrogante burocrazia comunitaria che congela ogni tentativo di modificare l’Unione per rendere più equi e meno litigiosi i rapporti fra gli Stati. Quasi ovunque complica la realizzazione delle misure, già di per sé difficili, che possono contenere l’impatto dell’accelerazione tecnologica. In generale aggrava la spaccatura orizzontale della società perché accredita l’idea di un mondo globale dove le decisioni sono prese sempre altrove e a favore di altri: gli algoritmi del web che suggeriscono, mobilitano, impongono, ma restano ogni volta opachi, se non occulti; i regolamenti di Bruxelles che avviluppano la volontà degli elettori in una trama estranea e frustrante di vincoli; le decisioni sui luoghi della produzione che rimbalzano da un capo all’altro del globo incomprensibili a chi ne patisce gli effetti. In questo contesto, dalla combinazione fra la creatività dirompente della tecnologia, che dissesta le gerarchie economiche, e il disordine politico del mondo occidentale trae largo campo d’azione una schiera di Stati asiatici che crescono in misura straordinaria: dotati di un’agenda politica autocentrata e spesso aggressiva, ispirati da programmi di riscossa nazionale quasi sempre di grande popolari-
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tà, introducono nello scenario internazionale fattori di complessità che finiscono per aggiungere disgregazione. Al contrario delle fonti che diffondono turbolenza, i fattori che portano ordine sono ogni giorno indeboliti dai fatti. I commerci internazionali sono intralciati dai dazi. Le istituzioni sovranazionali hanno fatto molti errori e perso credibilità: le ricette del Fmi sono fallite in vari Paesi, la Wto non ha garantito un’equa competizione internazionale, diverse agenzie Onu, Unesco in primis, patiscono gravi squilibri politici. Gli Stati conservatori – nostalgici dell’ordine passato – mostrano, soprattutto in Europa, gravi limiti strategici. L’appello alle regole date appare, in un mondo che evolve a velocità vertiginosa, un esercizio accademico.
Uno scontro politico globale Il gioco volge tutto a favore delle potenze revisioniste. Gli Stati Uniti possiedono una tecnologia in grande espansione, il dollaro, una forza militare ineguagliabile, ma hanno scoperto che i rendimenti delle loro costose alleanze sono bassi e spesso negativi. L’Europa, che si sente protetta da settant’anni di retorica occidentale, paga poco per la sua sicurezza, si dedica a fare avanzi commerciali che mettono in difficoltà tutto il mondo, si allinea su temi cruciali con la Cina e non si rende conto di essere, una volta ristretta l’Urss a Russia, solo una propaggine sussiegosa dell’Eurasia. La Cina ha profittato dei molti vantaggi che le sono stati concessi all’ingresso nell’arena mondiale (forse sperando che insieme ai titoli di Stato Usa comprasse pure la democrazia) e ha lanciato una sfida per il
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primato tecnologico, economico, politico. Nel Medio Oriente gli alleati Usa, riallineati dalla minaccia iraniana, paiono capaci di una strategia comune e autosufficiente permettendo agli americani di minimizzare l’impegno diretto (lo shale gas dà autonomia energetica). Trump ha compreso tutto questo e l’ha inquadrato nella visione di una pronta riscossa dell’America che ha tutti i mezzi – economici, militari, politici – per riscattare la passività strategica del recente passato. L’insofferenza per lo squilibrio della forma attuale di globalizzazione non è un’invenzione degli ultimi mesi, parte da lontano: già nel G20 di Toronto del 2010 gli Stati Uniti denunciano la disciplina mercantilista, fanno pressione su alleati e amici per attenuarne gli effetti, vogliono rilanciare la crescita e ribilanciare le ragioni di scambio. Obama, inerte nella strategia e confuso nella tattica, non sa andare oltre le esortazioni. Trump invece passa all’azione e gioca su più campi: la grande novità, infatti, è che il tema di confronto (e di scontro) con Europa e Cina non si limita più agli squilibri commerciali, ma investe le spese militari, lo shopping dell’alta tecnologia, la tassazione (da adeguare all’epoca dell’immateriale che dissolve i confini nazionali). È una vasta offensiva politica per sbloccare una situazione stagnante e priva di prospettive – a favore dell’America in primo luogo ma anche, a ricasco, dell’Occidente, una volta ripristinate le gerarchie di potere. L’impulso di riscossa è direttamente proporzionale alla durata del precedente periodo d’inerzia. Il revisionismo di Trump, dopo resistenze e sbandamenti, alla fine sembra aver compattato il variegato fronte degli apparati interni (vertici Fbi a parte): l’unico contrasto di fondo riguarda il rapporto con la Russia che a Trump,
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diversamente da quanto ritiene il Deep State, sembra da ripensare. Lo scontro attuale, che ha il costo di consegnare gratis un alleato prezioso alla Cina, nasce non tanto da un conflitto strategico di interessi ma dalla pressione di alleati minori con dolorose memorie storiche (Polonia, Stati baltici) e dalla speranza di alcuni poteri (apparati di sicurezza, energia, finanza) che, pensando fragile un’economia basata quasi soltanto su oil & gas, vorrebbero tornare all’Eldorado dell’epoca Eltsin. Quando la superpotenza è revisionista – e nella storia non si è visto spesso – gli assetti consolidati dal passato sono a rischio. Ma anche Cina e Russia sono revisioniste, in forme diverse. La Cina vuol dare consistenza politica all’ascesa economica con un’espansione mondiale a tappe: prima l’assestamento proprietario dei confini marittimi nel Mar Cinese Meridionale (incorporazione di isole contestate mediante pressione militare sui vicini), poi lo sviluppo in Asia centrale (penetrazione eurasiatica sulle tracce dell’antica Via della Seta) e nell’Oceano Indiano (creazione o acquisto di porti e ferrovie dalla Malesia a Gibuti) con il progetto One Belt One Road, infine l’Africa con un diffuso insediamento – in concorrenza con quello delle ex potenze coloniali – per garantirsi materie prime. In aggiunta fa cospicui investimenti sulle tecnologie d’avanguardia sia in via economica (spesa pubblica di rilievo in telecomunicazioni, intelligenza artificiale, spazio) sia in chiave politica: chi vuole entrare sul mercato cinese è obbligato a condividere cognizioni e standard; nel caso del digitale deve accettare regole e censura del governo e ciò agevola le imprese nazionali. È facile immaginare il potenziale squilibrante di simili azioni. La Russia non può dimenticare la separazione post-
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sovietica dalla sua sfera d’influenza in molti casi popolata da russofoni e conquistata con un processo di colonizzazione bisecolare che è stato (ed è) un marchio qualificante dell’identità nazionale: è quindi naturalmente revisionista, per ragioni storiche e per motivi di sicurezza. Di fronte agli Stati Uniti che dal 1992 cercano di inglobare nella propria sfera strategica, con azioni spesso aggressive, il mondo slavo non russo (e non solo: Ucraina), la memoria della separazione si acuisce e trova due vie d’azione naturali, tracciate da tempo: il Mediterraneo e il Medio Oriente (Siria, Israele, Egitto, Grecia sono sodali che vengono da una lunga e burrascosa storia) da un lato, l’Asia centrale dove si viene stringendo l’accordo (di lungo periodo?) con la Cina dall’altro. La creatività strategica cerca così di arginare il potenziale finanziario che, attraverso le sanzioni, gli Stati Uniti usano per tentare di sbilanciare un’economia debole in quanto non diversificata (oil & gas, armi) e dipendente dal centro. La principale potenza conservatrice è l’Europa, ammesso che si possa considerarla come entità unitaria. Il mix di principi idealisti (rule of law, postura umanitaria) e pratiche opportuniste (costi di sicurezza scaricati sugli Usa, dazi e uso strumentale degli standard operativi) con cui agisce dal 1991 le ha dato molti vantaggi ma ora l’ascesa globale di visioni revisioniste e realiste la mette all’angolo: l’attrattiva ideale sfiorisce nell’ipocrisia, la latitanza dalla frontiera hi-tech riduce un peso strategico già scarso, allineamenti e accordi extra-occidentali (Cina, Iran, Turchia) sono poco credibili e ancor meno presentabili. In aggiunta l’acuirsi dello scontro su un arco così vasto di temi differenzia gli interessi dei vari Stati europei che diventa più difficile allineare dietro la rigida posizio-
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ne mercantilista della Germania («Noi europei dovremo prendere il nostro destino nelle nostre mani», dice Angela Merkel al vertice di Taormina del 2017 in risposta ai dazi promessi da Trump). Ma l’attitudine opportunista della leader tedesca, come segnala l’ambiguo rapporto con la Russia (sanzioni e costruzione del gasdotto Nord Stream 2), non dà garanzie ai partner europei e favorisce autonome politiche di alleanze: alla fine ognuno tratta per sé tanto con gli Stati Uniti quanto con la Russia e la Cina. In queste condizioni la capacità di ottenere la conservazione dello status quo è nulla. In sintesi: su iniziativa degli Stati Uniti è in atto uno scontro politico globale – espresso in forma elettiva come guerra commerciale – per la ridefinizione dei rapporti di forza fra le maggiori potenze nel mondo disordinato (assertivo al limite della violenza) scaturito dalla crisi economica e dalla poderosa innovazione digitale. Ma nello scontro ci sono due sviluppi contrastanti, con implicazioni di gravità molto diverse. Da un lato la tensione fra Stati Uniti e Cina appare nell’ordine delle cose, scritta nella ricorrente rivalità fra potenza dominante e potenza emergente che la sfida. Dall’altro lato il conflitto euro-americano introduce una frattura – non strutturale, evitabile – nell’Occidente e indebolisce così la causa delle democrazie. In ciò i Paesi europei hanno responsabilità gravi. Gli enormi surplus commerciali della Germania (nell’ultimo decennio fra il 6% e il 9% del Pil) e di conseguenza dell’Ue hanno separato gli interessi europei da quelli di molti altri Paesi: l’opzione mercantilista avvicina la Germania alla Cina e la allontana dagli Stati Uniti. È la terza volta in un secolo che i tedeschi si scontrano con gli americani: i precedenti non
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hanno dato buon esito. In modo analogo lo scarso impegno nella spesa per la sicurezza divarica l’Europa continentale dai partner dell’anglosfera e ne prosciuga la fiducia. Forse è tempo di riconoscere che la strategia mercantilista seguita dall’Europa in questo scorcio di XXI secolo non ha prospettive e crea molti danni politici. Il punto-chiave diventa allora se i diversi revisionismi delle tre grandi potenze sono componibili fra loro. Un eventuale G3 sarebbe in condizione (per visione, forza, interessi) di disegnare un nuovo ordine mondiale? Oppure lo scontro fra la potenza dominante e la potenza emergente è, quasi per legge storica, inevitabile? Due delle tre potenze sono cristiane e i loro contrasti attengono alla superficie della storia, non hanno oggi base strategica ma rimandano a interessi temporanei (ideologici). La terza potenza è confuciana, si fonda su una visione di forte orgoglio nazionale e non mostra per ora impulsi di imperialismo culturale. Nella prospettiva di un ordine da restaurare le domande-chiave sono: gli Stati Uniti possono rinunciare all’idea di restringere la Russia a un mediocre rango regionale e acconsentire a una competizione semi-pacifica con la Cina che ne potrebbe minare il primato? La Russia può accettare, senza troppe ferite d’orgoglio, una cauta politica di restauro solo parziale dell’antica sfera d’influenza, come ora fa Putin (di necessità virtù)? La Cina saprà contenere le tante faglie di divisione interna e, se ci riesce, potrà salvarsi da quella sindrome di onnipotenza, tipica dello sfidante reduce da molti successi, che dopo Bismarck portò la Germania alla rovina? Se le risposte fossero negative, lo scontro Usa-Cina prenderebbe un tratto inevitabile mettendo un’ipoteca drammatica sui prossimi anni.
Capitolo 2 Il revisionismo del più forte
Gli Stati Uniti, che con l’elezione di Trump hanno mostrato la propria insoddisfazione per lo stato di cose esistente, sono i principali protagonisti della turbolenza attuale che alimentano con brusche azioni di rottura. Tagliano le tasse sui profitti societari, ne favoriscono – quando le imprese operano all’estero – il pagamento in patria, agevolano i rientri di capitale: così facendo, mettono sotto pressione i sistemi fiscali di molti Paesi (Europa inclusa). Minacciano dazi commerciali di elevato potenziale aggressivo soprattutto verso gli Stati, in prima linea Germania e Cina, che da anni accumulano ingenti avanzi commerciali. Alzano la pressione sulla Cina per difendere la proprietà intellettuale, soprattutto in ambito tecnologico, e smontare le barriere che ne blindano il mercato domestico, bloccano le scalate di Pechino alle proprie imprese d’avanguardia nei settori dell’intelligenza artificiale e delle telecomunicazioni. Archiviano (o quasi) i grandi accordi commerciali multilaterali. Rimettono pesanti sanzioni economiche all’Iran con due obiettivi, uno dichiarato e l’altro implicito: arrestare la poderosa espansione militare di pasdaran e alleati di-
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spiegata dal Bahrein al Golan e stroncare i lucrosi affari persiani di Germania, Francia e Italia. L’Europa, che da dieci anni sventatamente accumula surplus commerciali e da sempre lesina sulla propria difesa in un vuoto di strategia (o addirittura di consapevolezza) politica, inasprisce per reazione la polemica ideologica contro gli Stati Uniti e cerca di colpire i giganti del web (multe, stretta sulle tasse). La replica americana prima sfigura l’immagine dell’auto tedesca (i vari capitoli del Dieselgate), poi, acuendosi, rimette nel mirino la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, tematizzata da tempo, e indirizza la minaccia dei dazi soprattutto nel settore auto (sensibile in particolare per la Germania). A propria volta la Cina pianifica ingenti investimenti per la costruzione di infrastrutture all’estero (Asia, Africa) in modo da dare sostegno all’espansione dell’export. In parallelo consolida influenza in aree sensibili e cerca di aggregare una lunga schiera di Stati clienti: Birmania, Filippine, Sri Lanka, Pakistan, Gibuti, Etiopia, Sudan, Kenya, Tanzania, Zimbabwe, Angola. Infine i grandi produttori di petrolio (Arabia Saudita, Russia, Iran), pur divisi da aspre rivalità politiche, trovano accordi per stabilizzare i prezzi verso l’alto.
I giganti del web trasformano l’economia e innescano il conflitto Il conflitto oggi domina i rapporti fra le economie: la globalizzazione – che moltiplica opportunità, sbocchi commerciali, processi produttivi – dissolve i rapporti economici e sovrappone il proprio potenziale corrosivo
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al disordine in cui, dopo il crollo dell’Urss, versa il sistema degli Stati ormai incapace di regolare le gerarchie di potenza. Entrambi gli sviluppi, l’intensificazione dei conflitti politici e la crescente energia creativa di economia e tecnologia, prendono consistenza negli anni Novanta e subito si intersecano dandosi mutuo rinforzo. Sul versante economico, agevolata dalla crescente capacità di calcolo dei computer e dallo sviluppo funzionale delle reti di telecomunicazione, si estende, fino a diventare globale, l’integrazione dei mercati: Internet permette di ottimizzare i processi operativi (migliora la gestione di forniture e scorte) e diffonde le delocalizzazioni che sfruttano le favorevoli condizioni produttive esistenti soprattutto in Asia; la finanza, trainata dalla grande efficienza nell’uso dei dati (maggiore velocità di circolazione, elaborazioni più potenti), ha un balzo creativo e tecnico che le consegna il mondo come campo d’azione; gli scambi di merci fisiche registrano incrementi costanti raggiungendo dimensioni straordinarie; le nazioni asiatiche (Cina, Corea del Sud, Indonesia, Thailandia) protagoniste delle delocalizzazioni sviluppano a breve distanza di tempo estese produzioni autonome e segnano un aumento importante della propria quota di Pil industriale mondiale. La figura dei mercati globali, che pur intensificata si mantiene ancora tradizionale, muta intorno alla metà del primo decennio 2000, quando i giganti del web cominciano a modificare l’esistenza collettiva (nel 2004 Google va in Borsa e nel 2006 acquista YouTube; sempre nel 2004 nasce Facebook; nel 2007 Apple lancia iPhone e debuttano Twitter e Airbnb): riscrivono l’interazione personale, accumulano conoscenze (soprattutto sociali)
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in quantità incommensurabile rispetto al passato, cartografano in dettaglio consumi, preferenze, attitudini e potenziano la capacità di indirizzo che si applica alla sfera individuale nel suo complesso. La loro forza è la messa in funzione di piattaforme digitali che connettono con solide garanzie e per scopi definiti parti diverse: semplificano le sequenze operative, disintermediano in quantità passaggi e operazioni, moltiplicano attraverso registrazioni onnipervasive informazioni utilizzabili per ogni scopo (big data). Proliferano attività originali, sono ottimizzate quelle tradizionali, si dislocano produzioni in aree un tempo marginali (dove il lavoro costa meno e può essere facilmente coordinato, grazie alle piattaforme, con centri di comando e mercati anche molto distanti). Tutto ciò accelera l’innovazione organizzativa (marketing incluso) e tecnica, taglia i costi (l’occupazione in primis), favorisce l’ingresso di newcomer (imprese e nazioni), sconvolge i mercati mettendo in difficoltà le filiere tradizionali – dai taxi ai quotidiani, dagli alberghi alla musica. La capillare circolazione delle merci, che da sempre costituisce l’elemento di forza delle potenze marittime e l’architrave del loro predominio nel mondo globale, è completata – e superata per importanza – dal nuovo slancio della circolazione di conoscenze che diviene rapida, capillare, poco costosa: sono condizioni inedite da cui traggono vantaggio, in modo quasi paritetico, operatori delle più diverse nazioni. Questa enorme novità strutturale è affrontata nel mondo con due visioni di strategia economica molto diverse fra loro. Gli Stati Uniti puntano sulla leadership nell’innovazione tecnologica e sul primato mondiale
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che un pugno di società di Silicon Valley, Seattle e New York (giganti del web, agenzie finanziarie) riesce ad assicurarsi. Forti di questo presidio assecondano la concorrenza «unfair» delle economie mercantiliste, in primo luogo la Cina che integrano nel mercato mondiale in condizioni di favore e sperano di consolidare con ciò come leale alleato. Allo scopo accettano contropartite modeste o comunque sbilanciate (acquisti su larga scala dei propri titoli di Stato, contenimento dei prezzi per un gran numero di prodotti), che sfociano in ingenti deficit commerciali ma danno una base materiale all’egemonia politica, e accolgono come inevitabili – un effetto di distruzione creatrice – i posti di lavoro perduti a causa dell’invasione di merci dall’estero (e del balzo tecnologico). Altri Stati invece – oltre alla Cina: Germania, Corea del Sud, Olanda – colgono l’opportunità di massimizzare i vantaggi della loro struttura economica orientata all’export (basso costo del lavoro, legislazione favorevole) e si trasformano in fabbriche-mondo. Il confronto tra le due visioni strategiche definisce l’impianto della nuova globalizzazione centrata sull’accumulo di conoscenze: per alcune fasi si sviluppano azioni complementari (Usa e Cina negli anni Novanta), in un secondo tempo, con l’espansione quantitativa dei processi, prevalgono i contrasti: esplodono gli avanzi commerciali degli Stati mercantilisti e crescono gli squilibri fra le economie. Sul versante politico, nel momento in cui si frantuma l’enorme spazio sovietico diviene evidente la fine di un ordine che per più di tre secoli dopo la pace di Westfalia aveva dato forma, alternando rotture violente e ricostruzioni innovative, all’ascesa della civiltà: si esaurisce, in-
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sieme alla guerra fredda, quella disciplina bipolare che allineava (con eccezioni: Jugoslavia, Cina, Paesi ex coloniali) i principali Stati in due campi contrapposti vincolandoli – dopo il tragico trentennio della guerra civile europea – in un sistema di azioni strategiche prevedibile e per certi versi quasi coordinato. Si avvia un inedito ciclo di politica mondiale che non ha una traccia preordinata ma trova come dato di base, accanto alla crescente varietà degli attori, l’enorme squilibrio di potenza (militare, finanziaria, ideologica) che si apre a favore degli Stati Uniti. È questo il fattore principale che negli anni Novanta, quando parte la grande stagione della globalizzazione, indirizza gli eventi, modella le strategie, assegna le posizioni entro uno schema più o meno condiviso. La Russia è stremata, depredata, avvilita. La Cina concentra le energie sulla crescita economica e quindi, secondo la lezione di Deng, si mette al riparo (appoggiandosi agli Stati Uniti) dalle contese politiche che divampano nel mondo. L’Europa si dedica alla propria integrazione, che crede di fondare sugli avanzi commerciali, e secondo abitudine sfugge (delega) le responsabilità verso l’esterno. Il Patto di Varsavia è sciolto (1991) e la Nato, superando promesse fatte a Gorbaciov, ne ingloba i membri. La dissoluzione della Jugoslavia porta Slovenia e Croazia dentro Nato e Ue, stacca Kosovo e Montenegro dalla Serbia considerata filorussa, permette ai sauditi di installarsi, con il sostegno americano, in Bosnia e nelle aree a prevalenza albanese. Gli Stati Uniti rifanno la carta geostrategica d’Europa comprimendo a Est i confini dell’influenza russa: grazie alla sponda cinese, all’acquiescenza (forzata) dell’Europa che ritrova d’improvviso conflitti alle frontiere e al solido, quasi se-
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colare asse con i sauditi (prolungato al mondo arabo sunnita), creano – sulla base della supremazia economica e militare – un ambiente politico unipolare. A ciò dà un poderoso sostegno l’ingente e stabile deficit commerciale americano che alimenta le economie mercantiliste di Europa e Cina. Ma l’egemonia americana è politicamente fragile: in un mondo sempre più connesso, dove le energie vitali hanno uno sterminato campo d’azione, già dal 20002001 suscita, in forme diverse, opposizioni di crescente asprezza. Putin diventa presidente della Russia con un orgoglioso programma di riscossa nazionale, la Cina entra nel Wto a condizioni di favore e accelera la sua ascesa economica, dalle viscere dell’Islam sunnita – e proprio dai lati più connessi agli Usa: sauditi, pakistani – parte, con l’attentato alle Torri gemelle, una sfida feroce all’Occidente cristiano. Gli Stati Uniti, fidando nella supremazia della tecnologia militare, reagiscono da superpotenza incontrastata: colpiscono l’Islam sunnita, dai talebani afghani clienti dell’esercito pakistano all’Iraq di Saddam, cercano di ridisegnare in Medio Oriente, come avevano fatto in Europa, la geografia politica e – per dare una cornice ideale al tentativo – si sforzano di ravvivare la solidarietà occidentale. Tuttavia i contrasti si acuiscono e, diversamente dagli anni Novanta, vincolano la superpotenza. Germania e Francia, che hanno forti interessi commerciali in Medio Oriente, si sfilano dalla guerra in Iraq e si uniscono alla Russia, che segna una ripresa di autonomia strategica, e alla Cina. È una novità di grande rilievo: si rompe, su temi cruciali, quell’unità ideologica delle democrazie occidentali che era stata il motivo-guida dell’alleanza politica ai tempi della guerra
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fredda e che l’egemonia americana aveva preservato negli anni Novanta. La visione strategica degli Stati Uniti perde consenso, gli interessi divaricati faticano a trovare una sintesi: dopo il 2003 la divergenza non farà che estendersi. La divisione ideologica prelude allo scacco militare: come in Corea e in Vietnam, anche in Mesopotamia e in Battriana il primato tecnologico non basta a vincere la guerra terrestre – gli errori politici hanno un peso decisivo, né basta a sanarli il dominio tecnico. La linea di una difesa senza pause dell’egemonia rimane intatta anche dopo il 2008, quando la presidenza cambia stile e programmi mentre esplode una crisi finanziaria disgregante. È aggiornata la confezione ideologica (diritti umani, rilancio dell’alleanza con l’Europa, più trattati internazionali, meno protagonismo diretto), ma la sostanza non cambia: persiste, anzi si amplia – grazie anche al decollo della produzione di shale gas che azzera la dipendenza dall’energia mediorientale – il progetto di ridisegnare la figura politica di intere regioni attraverso cambi di regime più o meno cruenti (Libia 2010, Egitto 2011, Siria 2012, Ucraina 2014); rimane stabile la linea di contrasto alla Russia percepita come nemico e attaccata sui confini, in quasi tutte le aree ex sovietiche (Ucraina, Moldavia, Georgia, Stan asiatici); si consolida, pur con qualche tensione, l’idea di avere nella Cina un partner privilegiato; c’è infine una correzione di rotta sull’Iran che, già favorito in via implicita con la consegna preterintenzionale dell’Iraq da parte di Bush jr, ottiene attraverso l’accordo nucleare voluto da Obama uno status di quasi partner che spiana la via all’ascesa regionale.
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L’esaurimento dell’egemonia americana Il quarto di secolo abbondante dominato dalle dinastie Bush-Clinton (con coda obamiana) si chiude con un saldo negativo. All’origine c’è un ambizioso disegno di origine economica ma con proiezione politica che nell’epoca Clinton si rende manifesto: la potente supremazia americana nella tecnologia e nella finanza può creare campioni nazionali dell’innovazione, generare un’ingente, diffusa ricchezza nazionale e stabilizzare, sulla scena mondiale, un assetto unipolare. Correlata a questa visione scorre una duplice illusione: da un lato l’idea di un inevitabile tramonto della politica resa accessoria – almeno nel gioco dei rapporti di potenza – dal costante sviluppo delle ricchezze; dall’altro la convinzione di surrogarne la latenza con minuziosi set di prescrizioni giuridiche (peraltro orientate, senza dirlo, da interessi) o con malleabili idealità, prima fra tutte la mistica dei diritti umani. Di quel disegno di riassetto dell’economia mondiale, che le élite americane sostengono con entusiasmo e i successori di Clinton confermano, resta poco: gli artefici delle piattaforme digitali hanno raggiunto enorme potenza sfruttando la dimensione globale ma ormai operano come potentati indipendenti su larghissima scala; il mondo della finanza perde, dopo la crisi, attrattiva ideologica anche se mantiene grande potere; la caduta di valore del lavoro (bassi salari, job precari), con l’inevitabile scia di rancori e disagi, spacca la società americana; la sfida delle potenze asiatiche, mai contrastate nel loro dirompente mercantilismo, si rivela molto efficace (anche in settori sensibili come l’hi-tech); il tentativo di imporre, anche via
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sanzioni finanziarie, democrazia e diritti umani getta molti popoli in luttuosi disastri. I danni maggiori emergono però sul versante politico. Supremazia tecnologica senza visione strategica (o con una visione irrealistica) è una formula che non funziona. Incapaci di cogliere, nella geografia politica emersa dopo la guerra fredda, le costanti della storia con tutti i loro vincoli (pluralità di potenze; limiti di lungo periodo all’espansione rapida ma fragile della finanza; disagi strutturali delle potenze marittime nelle guerre terrestri), gli Stati Uniti sopravvalutano i propri punti di forza (finanza, tecnologia militare, soft power), sottostimano l’efficienza operativa e l’abilità tattica di partner e nemici (Cina, mercantilisti europei, outsider nucleari come Corea del Nord e Iran), moltiplicano gli obiettivi, anche se contrastanti (associazione della Cina come junior partner, assoggettamento della Russia, perpetuazione dell’irrilevanza europea, messa in disciplina delle aree turbolente, dai Balcani al Medio Oriente) e sono risucchiati in una lunga sequenza di conflitti regionali. In apparenza lo scopo è proteggere la globalizzazione da crampi e minacce che leader molto aggressivi diffondono in zone sensibili (terrorismo, energia). Nella sostanza sotto i colpi della crisi economica, che distrugge la duplice fantasmagoria della ricchezza derivata per tutti dagli scambi globali e della politica in via di estinzione, l’egemonia americana perde visione strategica e alla fine evapora: la leadership di Obama – anti-realista, soggetta alle tentazioni della tradizione isolazionista, affascinata dalla mitologia dei diritti umani – trascura le difficoltà sul campo, oscilla e non decide. Tutte le iniziative belliche degli Stati Uniti dopo il
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1990, con l’eccezione dell’attacco Nato alla Serbia (1999), sono guerre o perse (Somalia 1993; Afghanistan 2001; Iraq 2003-2011 che estende l’influenza dell’Iran; Siria 2012 che lascia Assad al potere) o fallite (Iraq 1991; Georgia 2007; Libia 2011): il loro esito aggrava le crisi regionali, nuoce alla reputazione americana, moltiplica la diffidenza degli alleati (alcuni marcano distanze nette: Egitto, Turchia), dà più chance a nemici e rivali. In controtendenza ci sono i successi sul fronte europeo: il Baltico, l’Europa centrale, i Balcani si riempiono di alleati che offrono amicizia e basi per contrastare la Russia e premere sulla Germania. In questo contesto aumenta il rilievo politico di Stati per lo più autoritari (Cina, India, Iran, Turchia) che sfruttano i bassi costi e l’alto potenziale offerti dalla nuova globalizzazione: partiti da posizioni marginali nei circuiti di potenza, tramutano in tempi brevi la forza derivante dall’ascesa economica in una crescente e assertiva azione politica. È soprattutto la Cina che trae il massimo dividendo dalla dirompente integrazione dei mercati: non solo eleva la qualità tecnologica della produzione, ma dopo l’ascesa di Xi Jinping (2012), che impone una visione nazionalista con forti tratti espansionisti, riesce a convertire la lunga sequenza degli avanzi commerciali in una base di potere che l’accredita non tanto come alleato leale degli Stati Uniti ma come rivale strategico lanciato (nelle aspirazioni) verso il sorpasso. Da media potenza terrestre dedita a sfruttare in modo intensivo gli strati basilari della globalizzazione si eleva a potenza che compete nell’alta tecnologia e stende su tutto il globo – anche via mare – una rete di sostegno territoriale ai propri vasti commerci e di comando eco-
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nomico. È di fatto una sfida per l’egemonia mondiale: richiama il precedente della Germania che alla fine del XIX secolo, forte del suo esplosivo progresso tecnologico di cui simbolo e culmine fu la costruzione di una potente flotta da guerra, provò a smontare il primato britannico nella globalizzazione dell’epoca. Anche la Russia, che da vent’anni gli Stati Uniti cercano di serrare nella condizione di nazione vinta costretta ad accettare un ruolo minore sulla scena mondiale e cessioni incondizionate delle proprie risorse naturali (speranze di business spiegano forse una tale visione riduttiva), trae forza dal dissesto dell’ordine egemonico: non ha subito sconfitte militari, rimane intatta come potenza nucleare, mantiene il proprio temibile apparato bellico e, dopo lo sbandamento dell’era Eltsin, si riorganizza quale polo antagonista che, più o meno correlato alla Cina, dà un contributo rilevante ai fallimenti delle guerre terrestri Usa e conquista spazi di manovra. Rimane però sospesa la domanda di fondo: ha significato strategico trattare da nemico la Russia che ha deposto l’antica ideologia totalitaria e aspira soprattutto a un riconoscimento di rango? Neppure l’Europa si trattiene dal fomentare squilibri, sia pure per vie diverse: l’eurozona si è disegnata, sull’esempio tedesco, come macchina per fare avanzi commerciali rivelandosi anche una tra le più efficienti del mondo; però non riesce a trasformare i surplus in forza politica e anzi i costi sociali (deflazione, bassi salari, spesa welfare compressa) della disciplina mercantilista, di cui sempre meno si comprende la ragione strategica, provocano all’interno divisioni, diffidenze, scontri: devastazione della Grecia, Brexit, rush indipendentista
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della Catalogna (e crisi politica a Madrid), dissociazione dei Paesi Visegrád, sbandamento italiano.
L’ascesa dei sentimenti revisionisti La seconda fase della globalizzazione contemporanea non ha trovato, dopo la cesura 2000-2001 che esaurisce l’assetto unipolare, una dimensione politica adeguata all’intensità dell’innovazione. Al comodo equilibrio economico tra la crescita americana, che grazie all’avanguardia tecnologica e al privilegio di detenere la moneta di riferimento internazionale regge enormi deficit commerciali, e la forza espansiva delle società mercantiliste non corrisponde una solida architettura politica: manca una visione che guidi i processi di trasformazione (migrazioni incluse), prevalgono squilibri, opportunità non colte (Europa), tensioni derivate da un’ambizione esagerata (Cina). Alla fine gli Stati Uniti, dove il peggioramento delle condizioni di vita è il prezzo pagato da milioni di persone per l’accordo finanziario e politico con le potenze mercantiliste, fanno una scelta elettorale (politica) che li allontana dalla via cosmopolita prediletta dalle élite e chiude il periodo delle dinastie. Trump vince perché, interpretando il cambio del sentimento nazionale, incarna l’idea di dare una nuova figura all’integrazione globale dei mercati. A due anni dal suo avvento appaiono evidenti alcune linee guida: • cessano i privilegi accordati alle economie mercantiliste (tutela carente della proprietà intellettuale, dazi
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sbilanciati): le alleanze ora dipendono da rapporti di forza e non più da un consenso «pagato»; • cade l’ambizione di ridisegnare secondo principi (democrazia, adesione a valori e strategie dell’Occidente) l’assetto di aree specialmente sensibili; • assume priorità l’acutizzarsi delle minacce militari che mettono sotto pressione alleati storici degli Stati Uniti sia in Estremo Oriente, dove cresce la spinta espansionista della Cina, sia nell’arco di crisi esteso dall’Egitto all’India (tre Stati con arsenale atomico dichiarato, una potenza nucleare in fieri e due Stati con progetti avanzati) dove le varie potenze regionali (tutte eredi di antiche civiltà e imperi) ridefiniscono i rapporti di forza fra loro, con gli Stati Uniti e con la Russia; • emerge una lista di richieste e aspettative in ambito strategico nei confronti delle piattaforme digitali e delle tecnologie d’avanguardia (Ai, robot, spazio) che appaiono sempre più elemento essenziale per il mantenimento della supremazia americana: ciò pone ai giganti del web vincoli che contrastano con la piena libertà di manovra di cui fruivano nell’epoca del decollo agevolato dal consenso dei governi. Rimane aperto il tema del rapporto con la Russia: si alternano, secondo le circostanze e i teatri operativi, conflitto e cooperazione. L’incertezza si riflette sulla gestione delle crisi regionali e sui rapporti ambivalenti con gli alleati mercantilisti: al fondo la decisione dipende dallo scontro, violento e aspro come raramente è accaduto nella storia americana, fra Trump e il blocco cosmopolita e moralista delle coste, guidato dai media tradizionali e da
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pezzi della burocrazia di Stato, che resiste alla liquidazione dell’eredità politica delle dinastie (diritti umani, amicizia finanziaria con la Cina, tolleranza con il free riding dell’Europa, fiducia negli organismi sovranazionali). Il cambio di linea apportato da Trump reinterpreta la supremazia americana in una chiave più focalizzata e assertiva: sostituisce all’afflato universalista delle dinastie la concentrazione su poche questioni giudicate essenziali e drammatizza il confronto con alleati in passato trattati sempre, anche nella divergenza di interessi, con fiducia. La politica degli Stati Uniti opta per un selettivo revisionismo che punta a riformare specifici svantaggi accumulati nel tempo per errori o per inerzia. È una strategia che nella sua variegata articolazione rivaluta la decisione politica capace di dare impulsi di trasformazione, in particolare nelle fasi di crisi: ciò segna un contrasto netto con il primato dei vincoli giuridici dominante – con esiti di stallo attendista – nell’epoca Obama. Anche altri Stati vivono nel biennio 2017-2018 un momento di svolta. Putin e Xi Jinping rafforzano in patria la propria presa e per farlo accentuano ideologie di ascesa mondiale radicate nella memoria nazionale. L’Europa, sorpresa da una serie di elezioni che puniscono l’ortodossia mercantilista, manda in stallo la propria costruzione sovranazionale. La Turchia, dopo il trauma del tentato golpe militare avviato da una base americana (luglio 2016), riattiva impulsi di potenza nel tradizionale ambito ottomano (Siria, Iraq, Libia) e nell’inedito fronte est-africano (Sudan, Etiopia, Somalia, Tanzania: basi militari, ospedali, ferrovie in concorrenza con la Cina). In Asia si disegnano inedite connessioni fra potenze: India, Giappone e Australia fanno manovre mili-
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tari congiunte con gli Usa, Russia e Giappone tentano uno storico avvicinamento, la Malesia prende le distanze dalla Cina. Gli Stati oggi in ascesa, contraddistinti da un profilo politico molto assertivo e da una netta impronta trasformatrice, hanno quasi tutti leadership personali forti: Trump, Modi, Erdogan, Widodo, Mahathir. La concentrazione di potere al vertice non è caratteristica solo di Cina o Russia e spesso si associa a una decisa azione a favore di investimenti in tecnologie d’avanguardia: non solo sviluppo digitale, ma anche spazio e operazioni marittime (l’apertura delle rotte artiche permette a Russia e Cina, se attrezzate in modo adeguato, di migliorare in misura rilevante la logistica commerciale). Il nesso non è accidentale e indica forse un elemento tipico dell’epoca attuale: la turbolenza politica, che si lega a un dirompente ricambio di poteri, non è solo disordine di relazioni ma anche apertura verso inediti orizzonti di sviluppo. La tecnologia riconfigura e potenzia, come si è visto, gli scambi di conoscenza, ma incide anche sul trasporto delle merci e in prospettiva sui trasferimenti di persone (sviluppo di strumenti per la traduzione istantanea) se non addirittura sulle frontiere dell’esistenza (piattaforme spaziali, medicina ed espansione della vita). Lungo questa via, che valorizza strategie tecnologiche – ancor più di quanto accada ora con la rivoluzione digitale – e leadership personali, riprende forza decisiva la politica: per la democrazia occidentale è quasi un paradosso ma solo in questo modo, a quanto sembra, si ricostituisce quel rapporto fra classi dirigenti e popoli che da tempo va sfibrandosi. Mentre i partiti si sfaldano nella perdita di credibilità, sono i leader politici forti che riescono a
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impostare l’azione degli Stati, soprattutto se autoritari, in modo da assorbire e indirizzare imprevisti, ostacoli, conflitti di un ambiente che si trasforma con drammatica rapidità. Il revisionismo americano e l’attivismo espansivo delle nuove potenze si combinano su molti fronti. Entrambi sono incentivati dall’accelerazione delle tecnologie che comprime l’occupazione e scardina gli equilibri economici fra gli Stati. L’uno e l’altro sfociano in un brusco ripensamento delle tradizionali convergenze internazionali che si rivelano inadatte a interpretare le ricadute dei conflitti economici. Infine tutti e due logorano i vincoli ideologici che a lungo hanno dato ordine e indirizzo alle strategie del campo occidentale: sembra tornare in auge, come negli anni Dieci o negli anni Trenta del XX secolo, il mondo guidato dagli impulsi nazionali e privo di architetture, anche informali, in grado di assicurare assetti prevedibili. Le alleanze tendono a farsi variabili e gli interessi di breve periodo dettano le convergenze politiche. Nella prima metà del Novecento l’instabilità ebbe esiti tragici: oggi il deterrente atomico ancora funziona e conflitti globali non sembrano in vista. Tuttavia la scomposta costellazione politica attuale non ha per ora individuato una traccia di soluzione: pilastri dell’ordine passato, come l’Unione Europea o le dinastie degli Stati Uniti, dopo una lunga sequenza di errori si stanno disfacendo e presupposti di un nuovo ordine non appaiono ancora in vista. La turbolenza è destinata a durare.
Capitolo 3 Il sistema degli Stati: una genealogia westfaliana
La tensione fra l’integrazione dei mercati e gli assetti politici su grande scala non è uno sviluppo che si riscontra solo nell’ultimo secolo. Fin dal XV secolo, quando comincia l’ascesa dell’Occidente grazie al commercio di largo raggio innescato da innovazioni tecnologiche e contabili, esiste un nesso stretto fra la globalizzazione, che collega i vari luoghi toccati e arricchiti dagli scambi economici, e i nascenti sistemi degli Stati che regolano i rapporti di forza fra le potenze racchiuse in uno spazio geografico definito avendo come fattore-chiave gli apparati militari. La globalizzazione mostra un elemento in piena luce, la creazione di ricchezza, e un altro più oscuro, però di pari importanza, che è l’uso della forza (non solo statuale, vedi la Compagnia delle Indie): il commercio su larga scala, che si svolge per lo più via mare (ma ci sono eccezioni: l’espansione siberiana della Russia verso il Pacifico, la via cinese della seta), ha bisogno di porti, territori di influenza, alleati locali – tutti elementi per i quali le armi hanno rilievo essenziale (o come deterrenza o come impiego). Il nesso tra luce e ombra della glo-
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balizzazione lo definisce con cristallina concisione Walter Raleigh, di professione corsaro ai tempi di Elisabetta I: «Chi governa il mare governa il commercio, chi governa il commercio dispone della ricchezza del mondo, e di conseguenza governa il mondo stesso». Alla fine, nei fatti, la globalizzazione è una dinamica che ha per posta l’esercizio del potere su grande scala. Il sistema degli Stati ha una figura speculare. Avendo come base uno spazio strutturato, dotato di pochi punti di apertura ben definiti, pone come fattore cruciale, elevato alla massima evidenza, il conflitto per la conquista di risorse limitate: la storia politica dell’Europa continentale è una storia di guerre fra potenze per raggiungere un’improbabile egemonia (che ogni volta sfugge come una chimera). Tuttavia, alla base dei conflitti, quale infrastruttura decisiva per lo sviluppo della dotazione bellica, c’è la creazione di ricchezza, l’attitudine all’innovazione tecnologica. Il nesso fra il sistema degli Stati europei e la globalizzazione, che dopo la Via della Seta – prova sperimentale ristretta e confinata al lusso – ha per elemento trainante la proiezione oceanica delle potenze marinare (Venezia, precursore incompleto, Portogallo, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti), vive una storia lunga, tormentata, scandita da costanti strutturali che parte dalla disgregazione dell’equilibrio di potenza in Italia conseguente all’irruzione francese del 1494 – due anni dopo la scoperta dell’America – per arrivare fino alla Seconda guerra mondiale.
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L’handicap degli Stati continentali Le costanti compongono uno schema, definito in due libri di straordinario fascino (Equilibrio o egemonia di Ludwig Dehio e Terra e mare di Carl Schmitt), che si articola in quattro principali punti analitici: • la globalizzazione si manifesta in un’ampia varietà di forme che dipendono dallo stato di sviluppo della tecnologia; • il suo raggio geografico si espande in conseguenza dell’accumulo di ricchezza; • gli Stati continentali, racchiusi in uno spazio ristretto dove sono impegnati in dispendiose lotte egemoniche, non riescono a pareggiare la proiezione di potenza degli Stati marinari: da Carlo V a Hitler, il potere militare continentale, quali ne siano la dimensione e le modalità, registra una lunga sequenza di fallimenti nelle sfide alla globalizzazione oceanica; • il potere strategico delle potenze navali è correlato non solo al progresso della tecnologia, che scandisce l’ampiezza degli scambi globali, ma anche alla scala della popolazione e delle risorse territoriali: la sequenza Olanda/Inghilterra/Stati Uniti, che vede Stati sempre più vasti ascendere al ruolo di leader marittimo, mostra come il costante incremento degli investimenti in asset navali sia il presupposto per dare disciplina ai rapporti internazionali (almeno finché la globalizzazione si accompagna a un ordine westfaliano). La varietà delle forme riguarda la configurazione geografica degli scambi, la tipologia dei prodotti che traina-
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no i commerci e i caratteri delle forze marittime che li sviluppano, il numero e la dimensione politico-militare delle potenze che praticano la globalizzazione. È lo stato di avanzamento della tecnologia che dei vari elementi alla fine decide l’assetto: seleziona le potenze partecipanti, ne definisce il raggio di intervento, stabilisce l’efficacia dell’azione navale. Poiché lo sviluppo della tecnologia è cumulativo, i parametri che ne dipendono sono in continua espansione: l’ascesa della civilizzazione, che li riassume tutti, si pone infine come la costante della globalizzazione (punto 1). In ciò sta la radice del congenito vantaggio che le potenze marinare hanno sugli Stati ristretti nello spazio semi-chiuso dei sistemi terrestri: il commercio garantisce uno sviluppo della ricchezza, e quindi dell’innovazione, più facile e rapido di quanto faccia l’organizzazione della potenza statuale centrata in primo luogo sull’accumulo della forza militare (punto 2). Ciò vale anche quando uno Stato continentale (punto 3) crea, con un salto nell’organizzazione e nella tecnologia, un incremento di potenza tale da segnare una cesura storica. La Francia è un esempio caratteristico: in un primo tempo con Luigi XIV diventa lo Stato più potente d’Europa anche se, al termine di un lungo sforzo, raggiunge solo limitati obiettivi d’espansione e non consolida la presa continentale; ritenta in un secondo tempo con la Rivoluzione che introduce la leva di massa e con Napoleone che pratica geniali innovazioni strategiche, realizzando un drammatico progresso militare che rende obsoleta la guerra diplomatica (en forme) dei duecento anni precedenti: tuttavia alla fine trova sempre, come ostacolo insuperabile, la supremazia inglese sui
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mari e precipita nel disastro, essenzialmente politico, di Lipsia e Waterloo. Un altro esempio è la Germania che nella parte finale del XIX secolo, insieme agli Stati Uniti usciti dalla guerra civile, è la nazione più rapida a sfruttare i progressi tecnologici emersi dalla seconda rivoluzione industriale e ad applicarli in campo militare (navale in particolare): diventa così in breve tempo una potenza mondiale e quindi, nel giro di mezzo secolo, si consegna a una catastrofe epocale. Dalla fine del XV secolo, quando i progressi nelle tecniche marinare e nella cartografia danno il via alla navigazione oceanica, la globalizzazione assume un formato mondiale, ma per quasi due secoli – frenata dal modesto rendimento dell’energia eolica – esplica in misura molto ridotta il proprio enorme potenziale. Gli scambi commerciali sono limitati a merci di lusso, l’impresa estrattiva (oro e argento) è trattenuta nel campo d’azione dello Stato promotore, le ricadute politiche – variegate e instabili – non sono ancora in grado di coagularsi nello schema del predominio marittimo. Solo la ripetizione espansiva degli scambi, che innesca il circuito dell’accumulazione di ricchezza, permette alla proiezione oceanica di acquisire, oltre a quella commerciale, anche una dimensione politica: la Spagna, che naviga non per commercio ma per trasformare oro e argento del Sudamerica nella base materiale di un inedito predominio atlantico (e, al seguito, europeo), si scontra con la nascente marina degli inglesi che vogliono sviluppare scambi su scala mondiale (e per questa via costruire egemonia); i piccoli Stati da cui parte l’esplorazione oceanica, organizzati attorno a una costa e privi di retroterra, non ce la fanno a reggere un gioco di tale dimen-
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sione (punto 4). Gli inglesi vincono lo scontro grazie al migliore uso della tecnologia navale, raggiungono ben presto la supremazia sui mari, si affermano come centro mondiale degli scambi e su questa base raffinano un’ampia gamma di strumenti finanziari. È la base da cui nasce il sistema degli Stati in versione westfaliana: la potenza marittima, isola laterale rispetto al continente e protetta dalle invasioni, può usare la padronanza degli scambi globali per bilanciare i conflitti europei e contenere le ambizioni di chi in via temporanea prevale. Nel tempo la globalizzazione marittima, il cui potenziale si dispiega sempre più ampiamente soprattutto dopo l’invenzione del motore a vapore, prende forma stanziale, colonizza vaste aree del globo, alcune spopolate, altre conquistate (per via commerciale più che militare), e dà alla politica estensione mondiale: la guerra dei sette anni (1756-1763), che ha per posta il dominio del commercio atlantico, è il primo conflitto tra potenze europee combattuto in prevalenza fuori dall’Europa. La parte iniziale del XIX secolo segna una svolta nella dinamica globale: si esaurisce a Lipsia il più solido e durevole tentativo di egemonia continentale messo in atto nel tempo della globalizzazione e si diffonde nel trasporto per nave (mare e acque interne) la macchina a vapore (i primi usi commerciali risalgono al 1712, nelle miniere): in una spirale espansiva, i commerci globali crescono concentrando ricchezza e conoscenze che favoriscono il decollo della rivoluzione industriale la quale, a sua volta, alimenta invenzioni (la macchina a vapore continua a perfezionarsi per oltre un secolo) che potenziano su larga scala i trasporti, prima navali e poi terrestri (dal 1840 le ferrovie cominciano a collegare le aree interne
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degli Stati), dando un nuovo enorme impulso agli scambi globali. La Gran Bretagna – potenziata dall’espansione dei commerci, protagonista di un poderoso slancio industriale, vittoriosa nell’arena politica – da bilanciatore assurge a egemone continentale: domina commercio, tecnologia, ideologia ed è l’unico soggetto che, grazie alla Bank of England e alla British Navy, riesce a operare su scala mondiale (almeno fin quasi a fine secolo). Tuttavia la tecnologia smonta di continuo schemi e assetti: con la seconda rivoluzione industriale inventa nuove produzioni, intensifica grazie ai progressi delle telecomunicazioni gli scambi di conoscenze, ridisegna mappe e quote del commercio mondiale. Sorgono potenze industriali impreviste che aprono la scena politica al di là dell’Europa, verso i lati estremi del mondo: Stati Uniti, Giappone (e Germania sul continente) moltiplicano il proprio output produttivo e, dall’ultimo quarto del secolo, cominciano a minacciare la supremazia economica della Gran Bretagna. La Russia, in un crescendo di ambizione politica, esplora e annette la metà settentrionale dell’Asia. Mentre Stati Uniti e Giappone circoscrivono la propria ascesa industriale entro una geografia isolata e remota che puntano a recintare da interventi esterni (dottrina Monroe), Germania e Russia hanno invece punti diretti di frizione con la Gran Bretagna: l’una, dopo aver consolidato il primato nel continente (Bismarck), proietta la propria forza tecnologica verso il mare (Guglielmo II) con l’idea di una flotta che primeggi nel mondo, l’altra si allunga verso il limite del Pacifico e incrocia l’area d’influenza britannica intorno all’India (che costituisce sia un serbatoio di materie prime sia uno sbocco esclusivo di prodotti inglesi finiti).
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Le peripezie dell’ordine europeo Nella parte finale del secolo l’egemone laterale si trova in difficoltà a mantenere la supremazia sulle rotte mondiali e cala nelle quote di commercio, compete quasi in ogni angolo del globo (Africa, Asia centrale, Sud-est asiatico) con rivali che accumulano territori per assicurarsi materie prime e spazi da colonizzare, perde in più settori il primato tecnologico. Anche l’ideologia si frammenta: la visione liberale, che domina il secolo e dà forma concettuale all’esplosione degli scambi, si scontra con le emergenti concezioni antagoniste che nascono dalla coscienza di sé del mondo del lavoro (socialismo) e dall’impulso di autoaffermazione alimentato nel profondo degli Stati dalla travolgente crescita economica e tecnologica (nazionalismo). È un aumento di complessità che le élite politiche non riescono a dipanare e soprattutto non intendono nelle motivazioni profonde e nelle tremende conseguenze. Gli allineamenti di coalizione, nati per assicurarsi contro eventuali aggressioni, si rivelano invece un drammatico innesco di conflitto e generano una spirale di azioni vincolate alla fine incontrollabili: nei fatti le ideologie nazionaliste, che intensificano le ambizioni di potenza, rendono impervi gli arabeschi diplomatici. La guerra che esplode d’improvviso, inaspettata anche se prevedibile, non è più come nei secoli precedenti un mezzo per risolvere in forma regolata dispute di potenza (ma già Napoleone aveva rotto lo schema) e ridefinire pesi e influenze entro il sistema degli Stati: all’opposto concentra, in un salto concettuale che è insieme un parossismo di violenza, l’evoluzione tecnologi-
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ca (trasporto aereo, sottomarini, nuovi congegni di telecomunicazione) avviata da mezzo secolo e si trasforma in una devastazione senza fine. L’esito è la fine dell’assetto politico definito un secolo prima al Congresso di Vienna: in Europa il sistema degli Stati perde una dimensione negoziata, prevalgono i colpi di forza e si scatena, tra rancori e paure, una trentennale guerra civile che porta le masse al centro della politica (per lo più al fianco delle dittature). La Gran Bretagna, fiaccata dai debiti contratti per finanziare lo sforzo bellico, svaluta la sterlina e perde in via definitiva il primato. Non emerge però una potenza equilibrante sostitutiva – né sul continente, né ai lati marittimi. Il resto d’Europa, debilitato dalla guerra e dalle scelte nocive (riparazioni, gestione dei debiti) del Trattato di Versailles, si disperde nel disordine o nella dittatura. Le potenze esterne al nucleo continentale, già protagoniste all’inizio del secolo, dominano la scena internazionale ma sfuggono responsabilità globali: gli Stati Uniti inventano la Società delle Nazioni, disegnano un’architettura di connessione mondiale e alla fine si ritraggono in una supremazia di raggio americano; il Giappone prosegue l’ascesa avviata nel 1905 con la distruzione della flotta russa e forgia un vasto dominio nel Pacifico (che evolverà nella Sfera di coprosperità dell’Estremo Oriente); la Russia si dedica a una forzata edificazione industriale. Nessuna delle tre potenze vuole fare egemonia su larga scala: l’ordine westfaliano, di scala europea prima del dissesto bellico, non si trasforma in ordine mondiale e, per la seconda volta dopo il quindicennio napoleonico, va in pezzi. Non riprende l’espansione planetaria degli scambi: vincolata alla stabilità politica (che non c’è più) e poco
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governata sul piano tecnico (finisce il gold standard, manca un sapere consolidato sugli effetti a lungo termine delle operazioni finanziarie di grande scala), produce prima un’enorme bolla e poi una crisi di lunga durata che scardina l’economia e le reti sociali sia degli Stati marittimi sia degli Stati europei raccolti nel chiuso sistema continentale. Si arresta l’integrazione dei mercati – commercio, scambi di beni, circolazione di conoscenze – e, nonostante piccoli segnali di apertura (l’innovativa clausola commerciale della Nazione più favorita approvata dal Congresso americano nel 1934), si consolida un assetto a blocchi regionali: il Regno Unito con l’estensione imperiale, il Giappone e la sua area di influenza asiatica, le dittature europee in formato autarchico tese ad ampliare la propria sfera di controllo (il Lebensraum della Germania). Si rafforzano antiche fantasie di dominio che sfociano in motivi di conflitto e l’odio delle potenze alla fine prevale: tra le macerie, nel 1945, l’Europa termina il suo plurisecolare ciclo di primato politico. Con la guerra fredda si ricostruisce, dopo la lunga fase della violenza sregolata, un ordine degli Stati. Le due grandi potenze laterali rimaste in campo non sono più ripiegate, dopo il tremendo sacrificio bellico, sul proprio spazio elettivo: Stati Uniti e Russia si dichiarano esplicitamente potenze mondiali ed entrambe accentuano la vocazione universale della propria ideologia (il nesso democrazia/capitalismo; il campo socialista): ciascuna delle due, corroborata da ingenti sostegni materiali, agisce come poderoso elemento di integrazione del proprio ambito d’influenza. L’ordine che nasce differisce radicalmente dal passato: invece di un sistema europeo senza egemonia, bilanciato e orientato dalla poten-
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za marinara, nasce un sistema mondiale di dualismo (fortemente) egemonico, basato su una mutua garanzia di distruzione planetaria, che per quarant’anni disciplina le relazioni internazionali (al netto di gravi errori strategici come la guerra del Vietnam) e, fra l’altro, governa il complesso smontaggio degli imperi coloniali. L’ordine politico agevola lo sviluppo dei commerci: sul lato occidentale Bretton Woods, il Gatt e le innovazioni della logistica (i container), assicurando per un quarto di secolo stabilità monetaria e tagli delle tariffe commerciali, facilitano la crescita della produzione e la diffusione capillare dei consumi. Le classi medie si allargano, trovano benessere e danno una base di massa (fatto inedito sul continente europeo) all’ideologia americana (i consumi come insegna motivante della democrazia). L’espansione dura per trent’anni in un quadro tecnologico stabile (auto, aerei, elettrodomestici, telefoni, media aggiornano e amplificano di scala invenzioni nate nel XIX secolo); quando si attenua, anche per ragioni politiche (dollaro non più convertibile, shock petroliferi), decolla, quasi in contemporanea, un ulteriore ciclo di innovazioni che si basa sull’informatica e ha conseguenze travolgenti. Negli anni Ottanta i computer cambiano il lavoro d’ufficio, potenziano la finanza, accelerano la crisi dell’Unione Sovietica che non riesce più a tenere il passo delle economie occidentali. Soprattutto preparano la svolta epocale degli anni Novanta. La novità degli anni Ottanta è l’ingresso nella vita quotidiana, con funzioni varie ma ancora limitate, di congegni, come i computer, che per la prima volta nella storia umana svolgono operazioni mentali: calcolo, scrittura, memoria. La novità degli anni Novanta è la messa
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in rete dei congegni: la loro efficacia operativa non si esplica più soltanto nell’elaborazione – isolata nella macchina: stand alone – delle conoscenze ma si applica anche al loro trasferimento: una nuvola di informazioni e dati, elaborati e trasferiti a velocità sempre più elevata, avvolge il mondo e lo duplica entro un’autonoma sfera cognitiva. I fattori che in meno di un decennio provocano questo balzo materiale della conoscenza (più quantità, tempo di circolazione compresso, universalità immediata) sono tre: l’incremento della capacità di calcolo e di memorizzazione (legge di Moore), il potenziamento continuo delle reti di telecomunicazioni (legge di Gilder), la creazione di algoritmi che permettono di instradare le conoscenze alla destinazione voluta. Ne segue la rivoluzione del web che ha ricadute di efficacia su tutte le attività – economiche e sociali.
Il balzo tecnologico e la grande convergenza La globalizzazione diventa realmente mondiale e con il nuovo salto tecnologico sconvolge – come accadeva in passato – peso, forza, rapporti delle potenze: la rivoluzione digitale concentra le aziende di avanguardia negli Stati Uniti, ne rafforza il primato tecnologico, ma al contempo fa emergere nuove potenze, soprattutto asiatiche, che accumulano slancio produttivo, occupazione, avanzi commerciali e in ricaduta ascesa politica. Alla grande divergenza del XVIII secolo (slancio del Nord) segue – quasi un risarcimento speculare – la grande convergenza del XXI secolo (ritorno del Sud). Sono le democrazie occidentali a pagare il prezzo più alto per il ribaltamen-
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to strategico della globalizzazione: divergono gli interessi e sale un’inedita dissonanza politica. Da un lato gli Stati Uniti accumulano deficit, perdono produzioni, sentono sotto minaccia il primato tecnologico e scoprono gran parte dei lavoratori poco qualificati in perdita di reddito e prospettiva. D’altro lato l’Europa si avviluppa in una duplice ideologia altamente ipocrita: sul piano economico professa una dottrina mercantilista che trasforma la maggiore area produttiva oggi esistente in una fabbrica di avanzi commerciali nociva per il resto del mondo; sul piano politico si dà l’aria di potenza mite che alla ragion di Stato sostituisce principi legali e prescrizioni giuridiche (diritti umani in primo luogo). L’attuale periodo di globalizzazione – il trentennio che parte dal 1990 – si può comparare con il periodo che scorre tra il Congresso di Vienna e la guerra mondiale 1914-1918. Entrambi nascono da una drammatica frattura politica (il crollo di Napoleone e della Francia; il disfacimento dell’Unione Sovietica), poggiano su un travolgente slancio tecnologico (la macchina a vapore applicata ai trasporti; la rivoluzione digitale) e seguono una curva politica similare (dal predominio unipolare a un disordinato contrasto di potenze). La differenza sono i tempi di sviluppo e la scala geografica. Nel XIX secolo a base europea occorrono ottant’anni per portare al declino la supremazia della Gran Bretagna e condurre le potenze emergenti alla sua altezza; nel XXI secolo a dimensione mondiale bastano dieci anni per mandare in crisi, a causa soprattutto di errori politici, la dominanza unipolare degli Stati Uniti; ancora meno tempo è necessario – grazie ai nuovi caratteri della produzione: flessibile, disseminata, facilmente integrabile – per dare
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forma alla sfida della Cina come rivale globale e permettere a un numero non piccolo di potenze di porsi come player di rango (almeno regionale). A questo quadro, all’apparenza inquietante, vanno aggiunti almeno tre elementi di grande rilievo che hanno somiglianza strutturale con la situazione d’inizio Novecento ma nella concreta declinazione politica appaiono molto più fluidi e aperti. Il primo elemento è la presenza in entrambi gli scenari di grandi potenze in crisi, i sick men che con la loro debolezza spesso degradata in avventurismo mettono a repentaglio gli assetti globali. Prima del 1914 erano i tre imperi collocati a Est (austriaci, russi, ottomani) che da anni, gonfi di presunzione, davano esca ai conflitti e che sarebbero poi scomparsi nella fornace della guerra. Oggi è l’Unione Europea che, sotto la guida pratica di una burocrazia autoriferita e sotto la guida ideale di un egoismo moralista, si spacca all’interno e fuori dai confini finisce in contrasto, senza quasi averne consapevolezza, con tutte le potenze dotate di un potere reale – dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Cina alla Turchia fino a Israele. Tuttavia sono proprio le divisioni interne, che agevolano le altre potenze nel fare arbitraggio tra i vari Stati membri, a rendere meno compatto e quindi meno pericoloso l’opportunismo (mercantilista) dell’Unione. Il secondo elemento similare è la divaricazione tra classi dirigenti e popolo. Nel primo Novecento l’autocoscienza del lavoro spaventa le classi dirigenti e incentiva azzardi politici per creare compattezza nazionale. Nel XXI secolo si ripete una frattura anche più drammatica: l’establishment, intriso di spirito cosmopolita e inserito con crescenti vantaggi in reti globali, guarda ai rapporti
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internazionali con occhi corporativi e appare incapace di guidare – anzi persino di comprendere – quei pezzi di società che vivono in condizioni di disagio esistenziale ancora prima che economico. I perdenti della globalizzazione, smarrita la fiducia nel sostegno (coesivo) della politica, reagiscono con uno strisciante distacco dalla comunità nazionale identificata con le élite e si rifugiano in un’indifferenza risentita oppure in microcomunità locali o virtuali (autismo di massa incentivato dai congegni social?). La divaricazione si riflette sull’ideologia dominante che in entrambi i periodi – terza analogia – conosce un brusco declino: cedono di netto sia il liberalismo che aveva improntato il XIX secolo sia l’apertura senza vincoli dei mercati, accoppiata all’idea forte di legalità internazionale, che segna l’accelerata globalizzazione partita negli anni Novanta del XX secolo. In entrambi i casi, dopo il declino, si diffonde una frammentata varietà ideologica, di taglio più nazionalista (e quindi più difficile da comporre) a inizio Novecento e di impianto essenzialmente revisionista nelle nazioni (Stati Uniti, Russia, alcuni Stati europei) che si sentono penalizzate da quell’impasto politico di mercantilismo e dirigismo burocratico prevalente, quasi senza avversari, prima di Brexit e Trump. Il panorama che si disegna dopo il 2016 include, più che ideologie formate, sentimenti di riscossa – soprattutto tra i gruppi sociali che soffrono la globalizzazione – e impulsi strategici di rifacimento di un ordine politico avvertito come ostile. La differente capacità d’influenza delle ideologie aiuta a spiegare la diversa incidenza degli allineamenti tra le potenze nelle due fasi storiche: a inizio Novecento il nazionalismo irrigidi-
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sce le visioni strategiche dei leader politici e ne restringe lo spazio di manovra congelando le alleanze; dopo il 2016, quando gli interessi nazionali faticano a connettersi ma non sono strutturati in blocchi ideologici compatti, gli accordi diventano più facili, ma più fluidi: anche convergenze di sostanza strategica, come quella tra Cina e Russia, contengono retropensieri e sono di fatto provvisorie. La capacità trasformativa – insieme creatrice e distruttiva – della rivoluzione tecnologica è l’elemento, oggi basilare, che ridisegna i processi produttivi e con ciò sconvolge le relazioni politiche e rende duratura la turbolenza.
Capitolo 4 Come la rivoluzione digitale trasforma il mondo
La tecnologia digitale rende attuale, ovvero porta nella vita reale, una capacità operativa inedita nella storia dell’uomo: per la prima volta una tecnologia svolge su scala di massa operazioni mentali. Nel passato alle conoscenze, le quali altro non sono che il risultato configurato e reso pubblico di operazioni mentali, sono stati applicati strumenti tecnici in grado di realizzarne la registrazione e la memoria (scrittura), la diffusione in differita (stampa) o in contemporanea sia tra due punti (telegrafo, telefono) sia a largo raggio (radio, televisione), la messa in comune tra persone (organizzazioni). Mai, tuttavia, la tecnologia era riuscita a realizzare in proprio a enorme velocità – come avviene oggi – operazioni mentali di varia tipologia: calcolo, connessione, classificazione, archivio. Da un tale sviluppo la circolazione delle conoscenze è trasformata e potenziata: sono generate e si diffondono con crescente rapidità sempre più conoscenze (i dati prodotti nel 2015 sono pari a tutti i dati prodotti dal debutto della scrittura al 2014), si moltiplicano a dismisura i depositi di sapere accessibili a ogni soggetto, aumenta il potenziale di efficienza di tutti i
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processi cognitivi. Ne risulta quella profonda trasformazione della vita collettiva che vediamo in atto da oltre trent’anni: cambiano l’interazione sociale, il funzionamento delle attività economiche, i modi di operare delle organizzazioni. Il regime cognitivo che si instaura con la rivoluzione digitale introduce quattro novità strutturali che sono il presupposto delle innovazioni ora in corso: • fine dell’associazione tra contenuti cognitivi e supporti fisici che li veicolano; • espansione delle capacità di gestione delle conoscenze di cui dispone ogni soggetto (individuo o piccolo gruppo); • formazione di ambienti operativi (piattaforme, motori di ricerca) che orientano entro la crescente proliferazione delle conoscenze e organizzano scambi cognitivi secondo obiettivi prestabiliti; • dominio della memoria alimentata da una registrazione totale e ineludibile. La prima novità è un’estesa attività di separazione dei saperi e di costituzione in autonomia: i contenuti cognitivi si scindono dal corpo materiale a cui fin dai primi graffiti si sono associati per ottenere dimensione pubblica. Connettersi a un corpo che le veicola nello spazio assicura alle conoscenze esistenza nel tempo e stabilità intersoggettiva ma implica in vario grado limitazioni materiali: volatile inconsistenza (voce), ingombro e deperibilità (supporti della scrittura), vaste difficoltà di trasporto, debole attitudine alla registrazione (scritti esclusi). Nell’universo digitale le cose stanno diversa-
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mente: le conoscenze non patiscono vincoli di scarsità, tempo, azione; hanno una figura consistente, durevole, facile da manipolare: in sintesi non sono assoggettate alla contingenza fisica. Rispetto al passato è un mutamento di enorme rilievo: gli algoritmi in base a cui nel mondo digitale sono organizzati i sistemi cognitivi trovano limiti di capacità solo nelle condizioni – in costante espansione: legge di Moore – relative alla tecnologia del silicio e nelle prestazioni – ormai ultraveloci – delle reti di trasmissione. Per le conoscenze, che escono (quasi del tutto) fuori dal mondo fisico e dai suoi attriti, i trasferimenti si avvicinano alla soglia dell’istantaneo, la dimensione spaziale – frontiere, divisioni territoriali – è eliminata, il mondo si configura come un illimitato presente. Tutto ciò delinea una sorta di repubblica cognitiva costituita come autonoma, con regole proprie di funzionamento: memoria universale, accesso agevole ai depositi di sapere, (quasi) azzeramento dei vincoli di spazio e tempo, agibilità illimitata dei testi (almeno in linea di principio). È un passaggio che porta con sé molte conseguenze una delle quali, in particolare, ha un tratto quasi drammatico: diventano obsolete e si confinano a uno statuto marginale, di nicchia, le strutture operative costruite per diffondere in forma stabile conoscenze e per formare rapporti duraturi – fiducia, abitudine, aspettative – tra le fonti che vogliono costituire una presenza (influente) di lungo termine e i segmenti di pubblico, quasi sempre di vaste dimensioni, che ne sono il bersaglio. A patire non è soltanto la distribuzione editoriale e musicale (precipitano la carta stampata, i supporti fisici della musica e anche dei film): diventa superflua la dimen-
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sione organizzata di molti servizi, dalle agenzie di viaggio alle filiali delle banche, perdono rilevanza le strutture che presidiano su base territoriale il consenso politico, appaiono sopravvivenze del passato molte reti di vendita – anche di prodotti fisici – costruite spesso con grande dispendio di tempo e mezzi. È il fenomeno che va sotto la voce di eliminazione degli intermediari: quando le conoscenze possono fluire, senza intralci, tra una fonte e il suo pubblico potenziale o tra l’origine di una ricerca e la sua informazione-bersaglio, il settore specializzato nella costruzione e gestione dei supporti fisici che mediano la circolazione delle conoscenze si rivela in breve tempo un residuo.
Ognuno diventa fonte In ciò ha radice la seconda novità di fondo della rivoluzione digitale. Consiste nell’incremento del potere di cui dispone il singolo soggetto (individuo, organizzazione) nella gestione delle conoscenze. Nel mondo digitale, dove si disintermedia su vasta scala, il soggetto da cui originano la conoscenza o la ricerca cognitiva arriva a bersaglio – grazie a congegni come i motori di ricerca e le piattaforme – con un tragitto breve e facile. Può fare quindi molte più cose: è al contempo fonte cognitiva in grado di creare la propria audience, impresa che mette a frutto capitali (talento, proprietà, relazioni: Uber, Airbnb) in passato inerti per mancanza di raccordo con destinatari suscettibili di diventare clienti, consumatore potenziato che ha modo di confrontare e scegliere offerte disparate, organizzatore di attività su largo raggio.
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Nel 1980 con The Third Wave Alvin Toffler, delineando in anticipo i tratti della rivoluzione tecnologica in arrivo, lanciava l’idea del prosumer, una nuova figura di consumatore che è anche produttore: la previsione si è largamente avverata e il mondo digitale si è popolato di figure che all’epoca di Toffler sarebbero apparse fantastiche – dagli autori di Facebook ai movimenti politici sviluppati nel formato di Casaleggio fino agli innumerevoli circoli digitali specializzati sui temi più vari. La terza novità nasce dall’incremento dimensionale della circolazione di conoscenze ed è la condizione di base per il potenziamento a fonte o prosumer del singolo soggetto. L’aumento della produzione cognitiva e l’enorme quantità dei depositi di sapere divenuti accessibili creano una varietà iperaffollata – e quindi incertezza, disordine. Per il singolo soggetto disintermediato diventa essenziale l’opera dei costruttori di ordine che danno assetto e gerarchia alla proliferante varietà delle conoscenze. È una specializzazione inedita: in essa rientrano i motori di ricerca che non sono soltanto, come talvolta si dichiarano, aggregatori di contenuti, ma svolgono anche la funzione cruciale e complessa di facilitatori che definiscono nessi e rotte efficaci nel portare a destinazione, verso il bersaglio prefissato, chi cerca informazioni. Più in generale si sviluppano in gran numero piattaforme che raccordano utenti e servizi: semplificano, in un gran numero di attività, l’incrocio di domanda e offerta e creano ambienti regolati dove si raccolgono – intorno a obiettivi tematici – richieste, intenti, operazioni. La circolazione delle conoscenze è strutturata ormai quasi per intero da tali costrutti digitali e si identifica sempre più con i loro ambienti. Nasce da qui il ruolo
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dominante degli Over the Top (Ott): Google, Apple, Facebook, Netflix. L’ultima novità è il dominio capillare, pervasivo, totale della memoria. La volatilità cognitiva, caratteristica della tradizione, scompare e la registrazione, congenita nel funzionamento degli algoritmi che formano gli ambienti digitali, diventa ineludibile: la circolazione delle conoscenze è memoria nello stesso istante in cui avviene, operare coincide con registrare. Nell’epoca predigitale solo una piccola quota dell’interazione sociale, in prevalenza quella dotata di effetti formali (norme, contratti), accede alla registrazione; conversazioni e relazioni interpersonali ne restano escluse, scorrono senza lasciare traccia. Nell’epoca attuale, in cui larga parte delle relazioni sociali è condotta con modalità digitali, il mondo interpersonale si duplica negli apparati, vive una seconda vita registrata – che si svolge nella memoria digitale. Le prospettive della registrazione appaiono sterminate, big data è il reale protagonista dei prossimi anni. Le ultime innovazioni, come l’Internet delle cose o i wearable devices, lasciano prevedere che l’espansione continuerà a ritmi sostenuti: si prevede addirittura che nel 2020 gli oggetti interconnessi, presenti in cinque grandi ambiti operativi (fabbrica; casa; retail ; trasporti; città), sfiorino la cifra di 200 miliardi. Le novità strutturali elencate finora sono coordinate fra loro, operano in modo sistematico: nel loro insieme rimodellano campo e modalità dei rapporti fra istituzioni sociali (organizzazioni private, strutture pubbliche, forme dell’interazione personale) e individui. Una lunga serie di attività è riclassificata e ricostruita secondo linee di tendenza dirompenti rispetto agli standard del passato:
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• crescente ambito operativo dei singoli (più chance d’azione); • meno tattilità (riduzione del campo sensoriale nei rapporti); • più controllo in connessione con la grande espansione della memoria; • consolidata centralità nella vita economica e sociale delle rotte cognitive e dei congegni (motori di ricerca, piattaforme, app) che le strutturano: ad essi tocca infatti la gestione dell’enorme mole di dati che deriva dalle registrazioni. Una tale riclassificazione di attività collettive e rapporti personali agisce con grande forza su scala globale lungo tre principali assi di sviluppo: il funzionamento dell’economia; il potenziale operativo delle organizzazioni – a entrambi si è già fatto cenno – e l’assetto della vita sociale (media inclusi). Il primo asse di sviluppo si focalizza sull’espansione dei mercati. Diventa più facile l’accesso a mercati lontani e diversi da quello di origine (nazionale o settoriale); la ricerca di componenti, competenze, materie prime spazia su bacini più ampi di quelli raggiungibili con i metodi tradizionali e ciò permette di abbassare i costi; la concorrenza, essendo tolti di mezzo gli ostacoli fisici che separano i mercati, si estende; quote rilevanti delle transazioni si semplificano e quindi diminuiscono i relativi costi. In questo ambito si colloca quel consolidamento su scala mondiale dei mercati che produce fra l’altro diffuse conseguenze politiche: ne traggono vantaggio soprattutto le economie emergenti cui è agevolato l’ingresso nell’arena globale, ma in generale sono favoriti
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gli interventi che razionalizzano i processi di produzione (la delocalizzazione è un caso tipico), le nuove iniziative che trovano davanti a sé orizzonti più ampi, i settori in cui fattore cruciale di successo si rivela la capacità di raccogliere e trattare massicce quantità di dati. Il secondo asse di sviluppo riguarda le organizzazioni, soprattutto quelle operanti in ambito economico. Le organizzazioni sono conoscenza solidificata in procedure e contratti, anticipazione mentale di risultati collettivi, nessi coordinati di attività. La rivoluzione digitale, che potenzia l’efficacia della circolazione cognitiva in tutti i suoi passaggi, ha fin dall’inizio nelle organizzazioni un target naturale: ne razionalizza e migliora l’attività. Con l’espansione dei mercati, il primo asse di sviluppo della rivoluzione digitale, le organizzazioni ricevono un’enorme spinta espansiva: ampliano il proprio raggio d’azione, trovano nuovi destinatari, possono fare arbitraggio dei prezzi e delle condizioni operative – dai componenti produttivi alla finanza fino alle localizzazioni – selezionando offerte da tutto il mondo. I principali fronti di progresso, quelli destinati a generare i risultati più efficaci, riguardano il marketing e la finanza. Il primo, ovvero il lavoro volto a plasmare i consumi, assume una nuova configurazione sfruttando l’enorme quantità di informazioni contenute nelle tracce registrate della connessione. Dalle fasi d’avvio, come la progettazione dei prodotti, fino alle porzioni terminali, che consistono nel dare forma ai consumi, tutte le attività di mercato diventano più controllabili e meno soggette a sprechi o deviazioni superflue. Mentre il raggio delle organizzazioni si allarga su scala mondiale, si affina con la massima precisione la cartografia delle
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azioni e delle motivazioni che si svolgono, modellandoli, entro i mercati. Tuttavia è nel settore finanziario che si manifesta con più forza la spinta propulsiva delle innovazioni organizzative sviluppate dalla rivoluzione digitale: l’aumento della potenza di calcolo incentiva uno sterminato proliferare di strumenti; il progresso delle reti di telecomunicazioni toglie ostacoli tecnici agli scambi che accelerano fino a diventare istantanei; la generalizzata capillarità delle registrazioni facilita ogni tipo di analisi e modellizzazione. I vantaggi portati dallo sviluppo digitale innescano una poderosa crescita di potenza operativa: i mercati, cadute le barriere, si integrano amplificando efficacia operativa e dinamiche evolutive; la platea dei soggetti si allarga a dismisura dando alla domanda finanziaria un segno multiforme; i capitali, creati nella forma di semplici registrazioni digitali, si moltiplicano e diventano materia prima che per sé, in quanto inflazionata, ha modesto pregio e si valorizza attraverso l’azione – complessa, inventiva, quasi alchemica – degli strumenti specializzati. Le dimensioni contano: le attività finanziarie che oggi sono scambiate sui mercati sfiorano i mille trilioni di dollari, dieci volte più che nel 1995 e quasi tredici volte il Pil mondiale; di queste attività i derivati con 700 trilioni rappresentano oltre il 70%. I capitali sono intermediati più e più volte generando nel processo instabilità: le crisi, agevolate dagli usi incongrui del capitale in eccesso e dal connesso aumento del debito, estendono il campo delle operazioni finanziarie ormai indispensabili per tenere in equilibrio un sistema sempre più turbolento. In questo movimento emerge un signifi-
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cativo scambio di posizioni: i capitali, materia prima facilmente generabile, perdono peso; le tecniche finanziarie, che in un crescendo esoterico moltiplicano prodotti, transazioni, volumi e possono generare enormi quantità di valore, diventano la funzione essenziale. Il terzo asse di sviluppo è la vita sociale. I nuovi ambienti digitali – piattaforme sociali in primo luogo – danno modo alle interazioni personali di estendersi e assorbire una quota crescente del tempo di vita: con incidenza e forme diverse è accaduta la stessa cosa quando si è consolidato l’uso della posta o del telefono ovvero mezzi diffusivi, come il cinema o la televisione, hanno mostrato crescenti capacità di aggregazione e in generale di addensamento comunitario. Negli ultimi vent’anni, in parallelo con i progressi della rivoluzione digitale, sono aumentati il tempo sociale dedicato all’interazione, il numero dei partecipanti coinvolti, i modelli di relazione messi in atto, lo stesso rilievo degli scambi interpersonali entro il progetto individuale di vita.
L’interazione sociale si riorganizza e risucchia i media La tecnologia riorganizza l’impulso sociale e ne diventa il moltiplicatore: gli toglie difficoltà pratiche e tempi morti, gli dà campo per manifestarsi senza freni inerziali, in certo modo lo industrializza. Il passaggio chiave è la creazione di ambienti specializzati – applicazioni o piattaforme come i social network – in cui, quasi come in una Borsa valori (ma non ci sono quotazioni), confluiscono gli scambi interpersonali, di solito selezionati per
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tema e razionalizzati nella gestione. Ciò dà una forma sistematica all’interazione: la indirizza in una sequenza di passi operativi, ne struttura le aspettative, facilita la gratificazione dei partecipanti. In tale processo la tecnologia fa leva su due fattori che nell’interazione naturale sono marginali e che invece nel mondo digitale diventano cruciali: l’ascesa di ciascuno allo stato di fonte; l’ampia diffusione di moduli di mobilitazione. In un ambiente specificamente disegnato per le interazioni ogni soggetto estende facilmente, in quanto fonte, la propria audience. Le aspettative si accrescono e con esse la pressione sociale sugli interlocutori: le regole operative degli ambienti organizzati mettono in atto operazioni (segnalazioni, richiami, solleciti) che mobilitano i partecipanti e per questa via massimizzano gli scambi. Ciò aumenta la gratificazione delle fonti e, in conseguenza, l’adesione ai network. Per contro tende a deprimersi il controllo di realtà che proviene dall’interazione faccia a faccia e si declina lungo vari tracciati: linguaggio del corpo, percezione diretta (condivisa o meno) delle emozioni altrui, limiti dettati dalla pressione degli interlocutori. Si diffondono così più facilmente sentimenti di potenza, fantasie utopiche, soprattutto una generale messa in scena di sé. La nuova figura delle interazioni sociali ha ricadute di ampia portata sul sistema dei media che attrae e ibrida in larga parte. Nei mercati della comunicazione, per anni stabili nel loro impianto tradizionale, opera come grande fattore di cambiamento la spinta espansiva di piattaforme e motori di ricerca che dimostrano una notevole capacità ristrutturante. Con i propri algoritmi di indicizzazione, ricerca e packaging i nuovi campioni del
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settore, come Google e Apple, specializzati nel definire rotte e usi della conoscenza, rendono accessibili contenuti di ogni tipo – ormai sganciati dai cogenti schemi di erogazione e consumo messi a punto dagli editori – in quantità sterminata e nei formati richiesti dagli utenti. Ricombinato in costellazioni mirate e facili da usare, il debordante spettro di cognizioni diffuso in rete ingloba gli scambi personali di piccolo raggio (social network) generalizzando la condizione di fonte. Grazie a tale formula gli Ott accumulano, in forma di dati organizzabili, le tracce registrate delle operazioni compiute sul web: quanto più queste si espandono, tanto più quelli crescono e alimentano modelli previsionali del consumo, forme di controllo, schemi di orientamento dell’azione. Nascono inediti modelli di business: si modifica lo schema a due versanti che finora ha retto l’economia dei media offrendo da un lato contenuti (free o pagati) ai consumatori e dall’altro trasferendo alle imprese, sotto forma di spazi e dietro remunerazione, quote dell’attenzione sociale (share of mind) conquistata. Con gli organizzatori della complessità, che sfruttano registrazioni generalizzate, entrambi i versanti si complicano e vedono uno scambio raddoppiato che retroagisce, inglobandola, sulla storia personale: i consumatori, in cambio dei contenuti, forniscono non solo tempo e attenzione ma anche memoria di comportamenti (scelte, moduli di consumo e, incrociando, spese o abitudini); alle imprese le piattaforme cognitive vendono al contempo il presente dell’attenzione e il passato dell’azione. Motori di ricerca e social network, che usano le registrazioni in chiave di marketing, ottengono un cruciale vantaggio competitivo: da questa base traggono la spinta per
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espandersi nei vari mercati della conoscenza (produzione, distribuzione, connessione) che a spezzoni riclassificano creando nuove utilità (e relativi servizi) a basso costo: le chiamate telefoniche sono risucchiate nel modello Skype, gli sms scompaiono superati da WhatsApp, l’editoria è riconfigurata dai criteri Amazon, le industrie della musica e dei film non sono più le stesse dopo iTunes e Netflix, i broadcaster patiscono la minaccia di YouTube e dell’attrattiva pubblicitaria di Google. Cresce con questi sviluppi il tempo collettivo assorbito dal nuovo assetto di comunicazione, si potenziano reti terminali e piattaforme, ma soprattutto cambiano i rapporti di forza tra le società che agiscono nel campo – sempre più vasto – della comunicazione: si diffondono nuovi modelli di consumo (tipo Netflix: scelta diretta da catalogo, ampio assortimento di titoli, prezzi bassi, niente vincoli d’uso) alternativi al palinsesto tradizionale, flettono i grandi numeri (diffusione stampa, audience televisiva, biglietti cinema) e si infittisce la coda lunga dei titoli rafforzando i prodotti di nicchia. Il pubblico si frammenta in platee differenziate, i media tradizionali perdono quote di pubblico, diminuiscono le centrali sociali capaci di fare identità condivisa, la riduzione dei filtri editoriali facilita la creatività individuale come il solipsismo o il fanatismo. È significativo che finora lo sviluppo della comunicazione abbia accelerato il suo corso mediante il disegno di prodotti originali che in vari modi (tempi di esecuzione più brevi, prestazioni perfezionate) agevolano l’accesso a contenuti semplici (scrittura, immagini di qualità domestica) o con l’invenzione di moduli operativi che espandono gli scambi interpersonali: dalle maps
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all’e-book, dai tablet ai social network, gli esempi sono abbondanti. Ha dato invece un contributo modesto, diversamente da quanto molte volte era stato previsto e da quel che indica la stessa evoluzione dei media (fotografia, film b/n, colore, 3D), il filone operativo imperniato sull’arricchimento dell’esperienza percettiva e l’intensificazione della dimensione spettacolare: la realtà virtuale o sperimentazioni come i Google Glass si sono rivelate finora vie senza sbocco. Nell’immediato futuro è plausibile che il valore psichico dell’interazione e l’efficacia delle convenzioni mobilitanti continuino a marcare l’impianto della connessione e lo stesso indirizzo operativo della rivoluzione digitale. Sull’asse della vita sociale si concentra quell’espansione della libertà d’azione individuale e del connesso potenziale operativo che molti ideologi avevano promesso come esito di emancipazione derivato dallo sviluppo del web. Si possono iscrivere in questa categoria cinque effetti principali: • • • •
l’ascesa alla condizione di fonte aperta a tutti; l’accesso generalizzato ai depositi di sapere; il crescente potere di organizzare attività; l’estensione – persino bulimica – delle chance di interazione; • l’incremento della scelta in ambito audiovisivo che riorganizza il tempo libero. Sono solo sviluppi fatui («Sognavamo auto volanti e ci ritroviamo con i 140 caratteri», sintetizza Peter Thiel) o rappresentano progressi che migliorano la vita quotidiana? Anche per la rivoluzione digitale, come per tutte le
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grandi svolte nella storia della circolazione cognitiva, dall’invenzione della scrittura in avanti, la controversia sul potenziale di emancipazione e sui reali effetti ottenuti rischia di essere lunga e intensa: tuttavia alcuni avanzamenti, come l’accesso facile e diffuso ai depositi cognitivi, appaiono innegabili. A contrasto va posta la moltiplicazione delle informazioni attinenti alla vita sociale e utilizzabili da strutture centralizzate: la bilancia di forza fra lo Stato e i cittadini, fra le organizzazioni (amministrative e no), che ottengono uno sguardo sempre più penetrante sui movimenti della vita collettiva, e il mondo sociale pende sempre di più dal lato delle strutture verticali. Gestire la proliferante abbondanza delle informazioni e trarne gli enormi vantaggi che contengono richiede mezzi, abilità cumulate, strutture: le organizzazioni sono in condizione di sfruttare per sé i grandi sviluppi della rivoluzione digitale, i piccoli gruppi e gli individui hanno accesso a progressi di portata minore come l’espansione del raggio operativo di ciascun soggetto. La rivoluzione digitale ha effetti economici misti. Nei settori dove la disintermediazione agisce in profondità cala l’occupazione: si restringono le infrastrutture di distribuzione cognitiva, spesso pesanti, la loro attività è assorbita per lo più dai prosumer, sorgono piattaforme specializzate per gestire in forma digitale gli scambi di conoscenza. Tre sono le conseguenze principali: • aumenta la concentrazione, trainata dai nuovi operatori ma alimentata anche dalla reazione di quelli tradizionali (broadcaster e telecom); • si erode il radicamento territoriale del settore: piatta-
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forme e motori di ricerca operano su scala globale, non hanno vincoli di confine; • si riduce il gettito fiscale che ha come presupposto teorico la base nazionale. Media, banche, turismo sono i settori dove è più marcata questa dinamica. Nell’area della comunicazione le imprese storiche, che si sono formate con modelli di business pre-digitali, reagiscono diversificando e, se possono, aumentando la scala degli investimenti: le società di telecomunicazioni si estendono nella distribuzione dei contenuti e ampliano, spesso concentrandosi, la gamma delle offerte; gli editori potenziano la difesa della proprietà intellettuale e cercano di migliorare la qualità spettacolare della produzione. È definito così il tema che domina la fase attuale: lo scontro tra l’impulso espansivo degli Over the Top e le strategie di contrattacco degli editori e degli specialisti della connessione. Si prevede una spirale di rilanci le cui risorse saranno, oltre alla dotazione finanziaria, la capacità di anticipare le propensioni del pubblico e l’abilità di modellare i comportamenti di consumo. Anche nei settori dove la disintermediazione ha meno rilievo emergono tuttavia le condizioni per significativi sviluppi. L’innovazione digitale da un lato ottimizza attività – ricerca biologica, industria militare, finanza – in cui risulta essenziale la capacità di trattare enormi quantità di dati, dall’altro avvantaggia i settori economici che includono processi produttivi complessi e quindi suscettibili di grandi progressi grazie a tecniche di frontiera (robotica, stampanti 3D, intelligenza artificiale). La produzione manifatturiera cambia così
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in radice la sua figura: la crescente potenza di calcolo consente di scomporre nei minimi elementi costitutivi le più articolate attività di trasformazione che possono essere riprodotte come esecuzione di software. È la premessa per automatizzare le operazioni di routine, che si ripetono in modalità stabili senza varianti discrezionali, e ridurre al minimo l’apporto umano. Fuori dalla produzione lo schema si applica a quelle attività, come la guida auto, disegnate da forti vincoli che rendono obbligate le reazioni a eventi non previsti. In linea generale la dinamica attuale amplia il campo d’azione dell’intelligenza artificiale che raggiunge un gran numero di aree inedite, trasferisce la tecnica della produzione additiva (stampanti 3D) fuori dall’ambito di nicchia da cui origina, migliora le capacità di controllo verso il proprio corpo e verso l’ambiente (i dispositivi indossabili, i kit diagnostici sempre più sofisticati). In combinazione i nuovi strumenti della trasformazione materiale e i big data configurano percorsi operativi di grande efficacia. Tutte le fasi della produzione ne sono investite in positivo: la progettazione sfrutta l’accesso rapido a big data e ai più vari depositi di sapere; le operazioni trasformative si realizzano su misura, nelle quantità desiderate, riducendo al minimo i costi di impianto; la logistica, che incorpora macchine intelligenti nelle operazioni di trasporto, ridefinisce le tecniche di gestione e di stoccaggio; il marketing riesce a personalizzare anche su grande scala le operazioni di vendita e può costruire strategie segmentate in modo sempre più fine. La tecnologia mira a togliere incertezza dalle organizzazioni e a diffondere controllo in tutti gli strati di attività, anche i più minuti: ciò elimina dai processi ope-
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rativi approssimazioni, irregolarità, disordine potenziale – e soprattutto forza-lavoro. È sempre più ristretto l’ambito della scelta discrezionale, si riduce il raggio del giudizio da erogare nel corso delle operazioni: evaporano così le ragioni stesse della presenza umana nelle attività. Diminuiscono i costi di transazione e, in generale, di produzione: creare prodotti che migliorano la vita dell’uomo risulta più agevole, anche su frontiere in passato considerate inaccessibili. Su un piano più largo la crescente capacità di elaborazione, gestione e analisi delle conoscenze offre prospettive a imprese cruciali per il futuro, come la conquista dello spazio o l’esplorazione del genoma, che a lungo si erano bloccate per la grande complicazione operativa o per l’eccesso dei costi e che ora invece riescono a mobilitare anche ingenti investimenti privati.
Capitolo 5 Il mondo reinventato dalle piattaforme digitali
Il punto focale di ogni società umana dalla preistoria fino a oggi è la quantità di conoscenze che in essa circolano abbinata all’assetto strutturale che tali flussi assumono. I criteri essenziali che determinano l’efficacia sociale e materiale degli assetti cognitivi sono: il numero dei soggetti che vi hanno accesso; la tipologia e la potenza degli strumenti – concettuali, organizzativi, materiali – che assicurano la diffusione delle conoscenze; i caratteri dei congegni sociali messi in atto per procurare la sincronia delle menti, in particolare l’espansione della fiducia personale e collettiva. Con il tempo e l’estendersi delle conoscenze diffuse, gli assetti cognitivi si complicano e si differenziano; nascono aree specializzate governate da canoni autonomi e indirizzate secondo specifiche dinamiche: saperi della trasformazione materiale, tecniche e norme degli scambi commerciali, sistemi di informazione relativi agli eventi rilevanti per il complesso sociale (attualità politica, militare, economica), mondo dell’interazione individuale (scambi di piccolo raggio, interpersonali).
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La rivoluzione digitale riorganizza su larga scala la circolazione delle conoscenze, e con ciò potenzia l’azione di individui e organizzazioni: permette a ogni soggetto l’accesso ai depositi di sapere dislocati nel mondo, azzera spazio e tempo negli scambi cognitivi, crea strumenti operativi (piattaforme, motori di ricerca) che espandono il potenziale degli ambienti digitali (contatti, investigazioni, esecuzioni con riflessi nel mondo reale). Sono risultati che derivano dalla convergenza di più fattori: l’avvicinamento allo zero dei costi di connessione rende gli ambienti digitali quasi gratuiti; la crescente potenza dei software sfocia in flessibilità operativa (incremento esponenziale delle funzioni svolte, ampliamento dei soggetti attivi, velocità di esecuzione); l’abilità di controllo di conseguenza aumenta (più connessioni, più informazioni, più calcolo).
Riscrivere le attività sociali Il cuore operativo del mondo digitale sono oggi le piattaforme che connettono soggetti molteplici dedicati a una o più funzioni: la connessione si realizza nel momento in cui la piattaforma stabilisce i passi elementari necessari per ottenere il risultato operativo identificato dalle funzioni in cui sono impegnati i soggetti coinvolti. Tale capacità di scomposizione è il punto fondamentale, la competenza innovativa che definisce l’azione delle piattaforme e ne spiega il successo: blocchi complessi di attività svolti nel mondo degli atomi e per lo più consolidati come fatti scontati sono analizzati in componenti minimi, ripensati nel loro sistema di rapporti, riadattati
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per differenti sequenze operative. Il dissolvimento analitico delle forme esistenti è la premessa per costruire efficienza. Google formula PageRank, l’algoritmo che ne promuove il travolgente sviluppo (il numero dei link accumulati in ogni «pagina» di informazioni costituisce il criterio in grado di ordinarle in un indice-guida comodo per il lettore), solo dopo aver analizzato e definito nei dettagli la sequenza delle operazioni implicate nella ricerca di dati cognitivi. La scomposizione operativa, applicandosi a un numero crescente di funzioni, alimenta a propria volta, in un potente feedback positivo, la straripante diffusione delle piattaforme a più versanti: in quantità crescenti, mondi diversi e lontani ottengono garanzie, strumenti, standard per interagire con efficacia. Per questa via ogni versante ottiene un corrispettivo attraente che ne motiva la partecipazione alla piattaforma e le fees pagate (può accadere talvolta che un versante, cruciale per il decollo della connessione su cui si regge il sistema, riceva i servizi gratis: è il caso dei produttori di cellulari che montano Android). Nel mondo a più versanti l’analisi spesso porta a scoprire – e a utilizzare in forma produttiva – asset che nell’economia tradizionale restano immobilizzati: Uber o Airbnb ne sono esempi tipici. Le piattaforme a più versanti non sono un’invenzione dell’era digitale: in realtà sono sempre esistite, come testimoniano fiere, banche, Borse e la stessa moneta coniata. La differenza con il passato sta nell’efficacia che conduce alla proliferazione: grazie alla precisione analitica, incentivata dal boom cognitivo che la rivoluzione digitale innesca, diventa infatti possibile stabilire nessi efficaci tra un numero sempre maggiore di mondi differenti.
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Accanto all’abilità nella scomposizione analitica, che si può presumere mutuata dalle competenze dei programmatori software, le piattaforme fanno leva su altre due qualità peculiari: lo straordinario potenziale delle registrazioni divenute elemento costitutivo di ogni operazione del mondo digitale e il poderoso aumento delle conoscenze che – in conseguenza di scomposizione e registrazioni – sono prodotte (spesso a costo zero), rese disponibili e incrociate per i più vari scopi. La combinazione dei tre fattori assicura alle piattaforme la forza per riorganizzare nel mondo digitale gran parte delle attività svolte nel mondo degli atomi alimentando così un incessante impeto espansivo: la scomposizione intensifica l’efficienza, le registrazioni ormai onnipervasive rendono disponibile la massa di cognizioni che qualunque attività genera nel suo svolgersi, la moltiplicazione delle conoscenze incrementa la competitività e permette una politica di investimenti sempre più generosa. Registrazioni delle operazioni svolte nel mondo reale si hanno a partire dalle prime civiltà agricole: la scrittura nasce proprio a questo scopo. La formazione di entità statuali dalle dimensioni crescenti e il forte sviluppo delle attività commerciali – che si avvia gradualmente a partire dal XII secolo – estendono quantità, precisione e raffinatezza delle registrazioni: partita doppia, registri contabili, anagrafi, documenti civili, verbali, contratti. La società industriale moltiplica ciascuna di queste tipologie: per agevolare la gestione di una quantità di registrazioni in continua crescita e migliorarne l’uso come mezzo di controllo si cominciano a creare strumenti sintetici come le statistiche. Fino allo sviluppo del mondo digitale le registrazioni,
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pur in grande espansione, sono però vincolate da tre caratteri costituiti già all’inizio della loro storia: rispetto allo sterminato flusso delle azioni vissute nel mondo degli atomi sono fortemente selettive, sempre posteriori e realizzate in un materiale specifico (adatto alla scrittura). Per determinare la selezione delle azioni da registrare sono utilizzati criteri di rilevanza economica (contabilità, contratti) o sociale (anagrafe, verbali). Di conseguenza le registrazioni sono sempre eventi eccezionali che, per evidenti ragioni pratiche, si compiono ex post: ciò introduce, tra il fatto e il documento, uno scostamento aleatorio che richiede, per essere sanato, un fattore convenzionale concordato – attraverso regole più o meno penetranti – da autori e utilizzatori delle registrazioni. Solo le intercettazioni sonore e le telecamere a circuito chiuso rompono nella seconda metà del XX secolo, sia pure in misura marginale, il vincolo dell’ex post. Con la rivoluzione digitale l’uso delle registrazioni si trasforma completamente – per configurazione, quantità, rilevanza economica, ricadute sociali. Cadono infatti tutti e tre i caratteri che contraddistinguono le registrazioni in epoca analogica. Ogni operazione digitale lascia una traccia e quindi sono eliminate per via tecnica sia la selezione a priori delle attività da registrare sia la distanza temporale (che di fatto è anche scarto cognitivo) sia infine la differenza materiale tra l’azione e il documento che la registra. Com’è ovvio, il numero e la precisione delle registrazioni disponibili aumentano grandemente, in correlazione con l’enorme crescita di attività del mondo reale che sono scomposte e riorganizzate, attraverso le piattaforme, in sequenze digitali.
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Nella spirale degli incrementi è ricompresa anche la circolazione delle conoscenze: più operazioni in digitale, più registrazioni, più dati. Le piattaforme in realtà generano sapere per molte vie. Estraggono informazioni dalle registrazioni delle sequenze operative che nel mondo degli atomi per larga parte sono svolte in modo irriflesso, senza formalizzare le cognizioni impiegate: in questo modo ottiene veste pubblica la conoscenza informale che permea tanta parte della nostra vita sociale. Raccolgono, su scala mai vista in precedenza, dati prodotti dai congegni (sensori, monitor, comandi) che guidano, controllano, correlano un gran numero di oggetti e macchine (per fare un esempio, ogni auto senza pilota si prevede generi 4.000 gigabyte al giorno). Infine fanno diventare fonte (registrata) quanti in passato hanno avuto parola (non registrata) solo nell’interazione quotidiana di piccolo raggio. Nel mondo digitale le conoscenze hanno un costo di riproduzione nullo, non si logorano con l’uso e non sono limitate da vincoli fisici o legati al costo: l’imponente massa di dati che registrazioni, sensori, blogger, troll, operatori vari del web producono crea facilmente a propria volta, attraverso incroci e combinazioni, nuova conoscenza – dai profili personali alle previsioni finanziarie fino alle estrapolazioni su atteggiamenti e preferenze (consumi, gestione del tempo, voti). Nasce così un sapere delle piattaforme che rappresenta un’eccedenza cognitiva rispetto al sapere originario delle attività sviluppate nel mondo degli atomi: esso esiste solo in quanto effetto del mondo digitale, byproduct del software. La riscrittura delle attività in ambienti artificiali sfocia alla fine nella costituzione di serbatoi cognitivi
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(dati, pattern, previsioni) indipendenti dai soggetti operanti: si tratta della merce più preziosa oggi esistente. Le piattaforme fanno il loro esordio come strumenti per lo scambio di contenuti della comunicazione, musica in particolare. In meno di vent’anni estendono il proprio raggio d’azione all’intera economia e a quasi tutti i settori della società – e lo fanno con uno straordinario impulso trasformatore. Oggi anzi la loro ragion d’essere, la loro cifra distintiva è proprio la spinta incessante a riscrivere la vita collettiva entro ambienti digitali. La scomposizione analitica di cui vivono le piattaforme ha per correlato la ricostruzione: i processi operativi del mondo analogico si sono formati nel tempo in una contingenza idiosincratica che ne condiziona, rallentandoli, i decorsi; l’abilità a sezionarli è destinata a togliere complicazione, a creare efficienza. Dall’auto alle notizie, dall’interazione personale al turismo, l’esistenza quotidiana come la produzione scoprono, attraverso l’analisi digitale che le ricostruisce, utilità impreviste nel mondo analogico: le piattaforme, che fanno da driver alle sequenze di ottimizzazione, acquistano un ruolo essenziale di comando e innovazione dentro la vita collettiva. È una trasformazione di enorme portata paragonabile forse solo a quella prodotta dall’avvento della società industriale. Nella vita sociale riscritta emergono tre grandi aree nelle quali si concentra, con modalità differenti fra loro, l’azione delle piattaforme digitali: l’organizzazione delle attività (gestione, produzione, distribuzione, progettazione, finanza); l’interazione sociale; il sistema dei media. In ambito economico la principale modalità operativa delle piattaforme è la disintermediazione, che costituisce l’esito più caratteristico della scomposizione ana-
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litica. Gli intermediari scompaiono perché la tecnologia digitale semplifica le sequenze d’azione: molte stazioni operative, interposte fra il punto di origine che manifesta l’intenzione dell’agire (il progetto) e il risultato finale per svolgere funzioni essenziali al progresso dell’attività (valutazione degli stati d’avanzamento; scelte tattiche; percezioni relative al contesto, soprattutto di mercato; controllo; correlazione con altri punti della catena; presidio territoriale), sono eliminate poiché il loro contenuto, una volta scomposto in particelle elementari, è superato o riassegnato in base a due parametri-chiave. Il primo parametro è la ridefinizione in algoritmi dei giudizi discrezionali (strategici) relativi al contesto: gli elementi valutati, spesso in modo inconsapevole attraverso conoscenza informale, sono ricompresi e stilizzati in stringhe di operazioni standardizzate che si attivano sulla base di indici e sbarramenti predefiniti. Il secondo parametro è il trasferimento al punto di origine, all’operatore che avvia il processo, delle funzioni che residuano dalle stazioni di lavoro eliminate: il potenziale consumatore, l’utente del servizio, diventa produttore-consumatore (il prosumer di Toffler). È evidente il bilancio della disintermediazione: le catene operative sono accorciate e rese meno costose, ma si perde attenzione al contesto, alla peculiarità del singolo corso d’azione, al giudizio immerso nel momento, e si irrigidisce la sequenza in fattori standard; diminuisce il capitale strategico, la visione personale, cresce l’allineamento normalizzato. Le stazioni intermedie implicano rapporto personale, capacità consultiva, creatività; la sequenza degli algoritmi taglia fuori l’arbitrio, crea traiettorie one size.
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La riorganizzazione digitale delle attività introduce un’altra novità di rilievo: la simulazione delle menti. È una linea operativa che si afferma di recente: la strepitosa espansione dei dati, provenienti da situazioni e fonti molto diverse, e la grande potenza di calcolo sono usate per anticipare, attraverso una sofisticata combinatoria (pattern ricorrenti, cluster disegnati ad hoc), le interazioni reali: scelte di voto, preferenze di mercato, azioni sociali. Con la minuziosa vastità delle informazioni e la precisione dei modelli le piattaforme mirano, in sostanza, a simulare la realtà e a configurare eventi che le menti non hanno ancora consolidato. Le strategie elettorali più aggiornate sperano, anatomizzando le preferenze dei cittadini, di conformare il voto e le aziende del largo consumo puntano a cartografare a livello micro opzioni alimentari e abitudini di vita domestica. Alcuni teorici marxisti cominciano a pensare che algoritmi di grande potenza possano surrogare la capillare circolazione di informazioni fornita dai prezzi e su questa base vorrebbero disegnare una pianificazione effettivamente in grado di sostituire i mercati. È un passaggio denso di significato (e di pericoli): le registrazioni che duplicano la vita in tempo reale, nel momento stesso in cui si svolge, annettono pezzi sempre più ampi dell’agire sociale, diventano vastamente intrusive. Ciò schiude un salto temporale, segna una cesura nella vita organizzata: la duplicazione non è più contenuta nei limiti del presente, deborda verso il futuro: la modellistica ambisce a registrare (duplicare) la vita ancora prima che si realizzi, a trasformare il reale nel contenuto del pattern che lo anticipa – prova empirica della cognizione che si estrapola dalla combinatoria dei dati.
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Al di là delle ansie orwelliane che può suscitare, l’espansione capillare delle registrazioni – ovvero della vita duplicata – ha l’aria di essere uno sviluppo tecnologico irreversibile: procura vantaggi nell’esistenza quotidiana di quasi tutti, accelera l’efficacia sociale, concentra una quota molto elevata di potere (il controllo dei dati) nelle mani di gruppi ristretti che si difendono con forza da regolazioni e controffensive politiche. Come la scomparsa degli intermediari, anche la simulazione delle menti concorre a limitare il pensiero strategico disseminato nella società e lo accumula in luoghi privilegiati: pionieri della tecnologia, grandi imprese, agenzie statali specializzate. Un’ultima traiettoria operativa di rilievo ha per tema la fiducia, basilare componente immateriale della vita economica. Come avviene per le attività condotte da intermediari, anche per le operazioni che implicano fiducia tra parti sconosciute e distanti il trasferimento in ambiente digitale si basa sulla capacità di costruire algoritmi che in un contesto mutevole riescano a standardizzare atti discrezionali: garanzie e relazioni personali sono normalizzate in sequenze operative. È uno sviluppo complesso, la fiducia è un costrutto sfaccettato in cui giudizi arbitrari e accordi su valutazioni armonizzate del futuro hanno grande peso: tuttavia con approssimazioni successive alcuni operatori sono riusciti a ingegnerizzare le componenti della fiducia e ora, per fare un esempio, la piattaforma Blockchain, che realizza una sorta di registro notarile crittografato, sembra in grado di garantire transazioni difficili e complicate. Anche in questo caso l’apporto degli utenti è essenziale: nel momento in cui la condizione di prosumer si generalizza, è l’intero
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lavoro della banca che si appresta a essere inglobato nelle piattaforme digitali.
La nuova figura dell’interazione L’interazione personale è la seconda area della vita collettiva – dopo le attività economiche – che le piattaforme digitali riorganizzano. In conseguenza compie un salto di potenza e modifica alcuni tratti fondamentali messi a punto nei secoli: supera il piccolo raggio a base (per lo più) paritaria in cui si è sempre sviluppata per la mancanza di supporti tecnici o per i limiti dei congegni dedicati a potenziarla (posta, al massimo telefono), si rivela capace – una volta dissolti per via digitale i vincoli spaziali e temporali – di creare audience, è amplificata da formule di mobilitazione strutturate dalle piattaforme e volte a massimizzare gli scambi. In questo processo sono due le principali linee di evoluzione. Da un lato l’espansione digitale, dando all’interazione crescente consistenza, istiga la messa in posa, agevola l’esibizione e i toni teatrali: i like sembrano gli applausi della platea. Diventa facile drammatizzare, esagerare, inventare. L’interazione si ibrida: oscilla tra autobiografia e informazione, narcisismo e marketing (come testimoniano gli influencer), mania e spettacolo. Dall’altro lato la perdita della presenza fisica, che comunque implica un vincolo, non solo moltiplica le chance di contatto ma cambia la forma stessa delle relazioni, il galateo degli scambi: la vita duplicata prende il sopravvento sulla vita reale. Ma è soprattutto dal lato dell’informazione d’attuali-
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tà che si avverte il cambiamento – forse sarebbe meglio dire lo sconquasso. Nel momento in cui da personale diventa pubblica e supera la dimensione dello scambio diretto, l’interazione prende l’aspetto di un medium: un pubblico presuppone una fonte (nascono così influencer, hater, troll). Larga parte dell’interazione collassa nel sistema dei media e lo trasforma: diffonde informazioni a una platea in teoria senza limiti, taglia filtri e intermediari, si inoltra come rivale nei territori un tempo dominio esclusivo degli apparati professionali. Si sfalda il sistema di usi e convenzioni messo a punto in quasi tre secoli di assestamento istituzionale dei mass media (a garanzia di editori, giornalisti e, in ricaduta, anche del pubblico). Perde il suo ruolo centrale quel corpo di professionisti che, basandosi su un codice riconosciuto, produce, vaglia e gerarchizza le informazioni da diffondere. Diventare fonte era un privilegio ottenuto dopo aver superato un certo set di prove e implicava il rispetto di vincoli rilevanti: in primo luogo l’obbligo di firmare (in capo all’autore o all’organizzazione cui appartiene) e quindi di assumere una riconoscibile responsabilità, in secondo luogo il possesso di una serie di requisiti tecnici definiti – a seconda degli Stati – in via informale o dagli organi professionali o per legge. Oggi invece prevale un regime meno strutturato e più selvatico che rende immediato (disintermediazione) il raccordo tra l’origine della conoscenza e la platea dei potenziali destinatari e permette a tutti di diventare fonte: è tolta la riserva operativa concessa agli specialisti, i codici professionali sono azzerati, i vincoli sono di fatto assenti e in particolare l’anonimato è consentito. Le essenziali funzioni di selezione e messa in gerarchia
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delle conoscenze escono fuori dalla produzione e si concentrano negli algoritmi delle piattaforme di distribuzione. I risultati sono da un lato un grande incremento di quantità e varietà delle conoscenze diffuse, dall’altro una drastica caduta d’ordine del circuito cognitivo. Il regime tradizionale dipende dagli standard professionali che alla fine regolano il flusso delle informazioni e gli danno dimensioni gestibili (limitate in quanto dipendono da stringenti criteri di selezione): il comando, concentrato nelle strutture organizzate della produzione, è in qualche modo negoziato con altri poteri rilevanti della società. Nel nuovo regime la produzione manca di filtri regolatori, non c’è selezione, quasi tutto è ammesso, si moltiplicano i punti di (piccolo) comando diffusi nella società (disporre di un’audience, pur limitata, è comunque una modalità del potere) e la dinamica dei flussi diventa imprevedibile. La circolazione di conoscenze va in orizzontale, è piatta, senza gerarchia: nel sovrapporsi di voci e comandi alimenta un disordinato rumore cognitivo. Ed è proprio questa incontenibile varietà che getta nello sconcerto élite nazionali smarrite e consente agli outsider come Trump e Grillo di fare blitz travolgenti cavalcando le nuove dinamiche sganciate da vincoli. Il bilancio è misto, incerto: da un lato appare un evidente tratto democratico che moltiplica sia tra i produttori sia nelle audience gli accessi e gli strumenti cognitivi; dall’altro lato risulta un solo reale punto di comando: l’algoritmo che dà un ordine alle conoscenze messe in circolo. Ciò massimizza il potere delle piattaforme digitali: chi le sviluppa e gestisce non solo mette in contatto diretto produttori di conoscenza privi di vincoli con audience disperse e fa funzionare l’intera dinamica cogni-
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tiva, ma anche decide – in modo inaccessibile – l’ordine dei flussi. In realtà è l’intero settore dei media, non solo l’ambito delle informazioni, che si rimodella sotto l’influenza delle nuove piattaforme: consistendo per l’essenziale nella produzione e diffusione di conoscenze, i media sono trasformati in profondità – assai più di altri settori – sia negli assetti organizzativi (distribuzione in particolare) sia nelle dinamiche competitive. Da un lato l’offerta (musica, film e serie televisive pregiate) tende a personalizzarsi (on demand) grazie all’evoluzione dei terminali televisivi ormai connessi con le reti di telecomunicazioni (si riduce il tempo disponibile per il consumo generalista); dall’altro lato i competitor, nati nel mondo digitale, acquistano sempre più rilievo sfruttando tre importanti vantaggi strutturali. Detengono l’interfaccia con l’utente finale e quindi ne monitorano passo dopo passo il comportamento e il grado di soddisfazione. Dispongono sia di una grande quantità di contenuti gratuiti (autoprodotti o non protetti da copyright) sia di bassi costi d’esercizio: per la distribuzione dei contenuti evitano, in quanto operatori Over the Top, l’onere, insuperabile per editori della carta e broadcaster, di reti dedicate. Infine generano direttamente nei propri ambienti digitali un’enorme quantità di informazioni che possono sfruttare sia in casa per progressi di efficienza sia all’esterno in termini commerciali. Ciò trasforma i dati di consumo in una nuova ingente fonte di ricchezza. Si aggiunge così un terzo versante ai due tradizionali del settore media (vendite al pubblico e vendite alle imprese) e si accresce la forza competitiva dei nuovi operatori digitali a fronte degli editori tradizionali.
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Il regime operativo delle piattaforme digitali, in quanto organizza la circolazione delle conoscenze, materia prima di ogni attività, ha applicazione universale, grande flessibilità d’impianto, vantaggi gestionali facilmente replicabili in contesti diversi. Nell’analisi precedente ne sono apparsi diversi esempi, dalla capacità di razionalizzare sequenze operative (disintermediazione) all’abilità nell’estrarre dati dalle più varie forme d’agire. Emergono tuttavia, accanto ai motivi di efficacia, vari punti critici: • si riduce il capitale strategico diffuso entro le attività; • cade il tasso di responsabilità vigente nei processi operativi; • si deteriora lo spazio pubblico – quello che fa da premessa al delinearsi dell’opinione pubblica e costituisce la materia di base per la formazione dell’agenda politica; • si disperde il comando in una proliferazione di punti decisionali (con la conseguente perdita di ordine del sistema); • emerge il ruolo ancipite degli algoritmi che da un lato si pongono come prodotto dell’ingegno creato da soggetti privati – in quanto tale inaccessibile – e dall’altro svolgono una decisiva funzione pubblica.
La contrazione del capitale strategico Il segno operativo del regime digitale ha un chiaro orientamento: elimina, nella misura maggiore possibile, valutazioni discrezionali, giudizi di contesto, singolarità
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e si sforza di generalizzare flussi d’azione standard che, oltre a semplificare e accelerare i processi, hanno anche il vantaggio di produrre dati formattati e quindi facilmente accumulabili. È un impianto che, normalizzando, toglie tratti specifici e quindi varietà: in questo modo, però, si atrofizza la capacità strategica che vive sfruttando ragioni particolari e ha il suo strumento nel giudizio creativo, nella visione di lungo periodo. Standardizzare vuol dire rinsecchire la prospettiva temporale, comprimere il futuro nel decorso predefinito degli algoritmi. Lo sfoltimento degli intermediari, editori compresi, e la simulazione delle menti, ovvero i due principali sviluppi introdotti dal sistema delle piattaforme, aboliscono quei nodi fondamentali dell’agire collettivo (tali sono tanto un vertice amministrativo, quanto la stazione intermedia di una catena operativa o l’editore entro una filiera di comunicazione) nei quali si concentra gran parte del sapere strategico – e creativo – diffuso nella società. Il guadagno di efficacia nelle sequenze operative è pagato con la perdita di prospettiva nella vita sociale: più linearità nei corsi d’azione, tempi più brevi ma anche meno varietà, meno intuizione di lungo periodo, meno invenzione. La riduzione del capitale strategico trascina con sé anche la caduta della quota di responsabilità implicata nell’agire. Strategia significa scelta, pensiero che taglia (de-cide): quando le azioni si compiono in base agli algoritmi, la decisione, non più imputabile, si perde, diventa impersonale. In ambito finanziario ordini di acquisto o di vendita sono presi in automatico, con riferimento a soglie predefinite; nel credito i profili di affidabilità dipendono da punti acquisiti con i comportamen-
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ti (pre-valutati) tenuti in rete; in Cina è addirittura il comportamento sociale (monitorato con telecamere e resoconti digitali) che viene incasellato (premiato o punito) in una griglia già confezionata. Ma è soprattutto nell’ambito dell’informazione sull’attualità che si registra caduta di responsabilità. Sono visibili tre driver principali (e specifici). Il primo riguarda lo status di fonte: generalizzandosi, si sgancia da requisiti tecnici e si allinea alla condizione irriflessa che prevale nell’interazione personale. Il secondo focalizza l’anonimato che domina in rete e – schermando da ogni eventuale deterrenza o quasi – favorisce esagerazioni, fantasie aggressive, falsità. Il terzo è il set di vantaggi che un qualsiasi progetto/obiettivo può ottenere, con quasi completa sicurezza, da manipolazioni, fughe di informazioni, fake news. La lunga storia della disinformatija, proliferante in Oriente come in Occidente, si arricchisce di capitoli e strumenti nuovi. Infine incide anche l’opacità degli algoritmi che – a quel che pare – privilegiano criteri quantitativi e quindi possono amplificare sviluppi pericolosi. Da oltre due secoli si è costituito in Occidente uno spazio di dibattito pubblico sull’attualità che intreccia e coinvolge politica, media, sezioni dell’economia, istituzioni della cultura. Sulla base di regole informali in esso si definiscono i temi rilevanti per la vita sociale e si contribuisce a determinare l’agenda politica. È il luogo dove l’opinione pubblica si forma e influisce sulle istituzioni. Lo stile attuale dell’interazione, che ha preso il sopravvento entro il sistema informativo, logora con i suoi tratti caratteristici – enfasi esagerata, non riconoscimento degli interlocutori, agevole spazio per il falso, as-
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senza di verifiche – lo spazio pubblico: il dibattito diventa contrapposizione, lo scambio di argomenti trapassa in sequenza di invettive, lo svolgimento tematico si dissolve in ripetizione di slogan. Al posto di un ambito collettivo in cui motivi ideali di consonanza e appartenenza formano la base per il confronto delle posizioni si disegna una sfilata di agglomerati settari chiusi verso l’esterno e dediti ad autoconfermarsi. Lo spazio pubblico vive ed è efficace in quanto permette l’evolversi delle visioni che si contrappongono e che, modificandosi nella critica reciproca, giungono a formare un’agenda comune: nel momento in cui si indebolisce, diventa difficile mettere ordine nei conflitti politici e soprattutto distribuire nel tessuto sociale fiducia – il bene pubblico che fa da presupposto a ogni tipo di transazione. Tutti i principali fattori che caratterizzano le attività riclassificate dalle piattaforme digitali – perdita di capitale strategico, moltiplicazione delle fonti, diffusa caduta di responsabilità – concorrono a disperdere comando, a smontare i punti di concentrazione delle decisioni: prevale una disseminazione granulare dei poteri – limitati, piccoli, inadatti a costruire, volti soprattutto a impedire. Alla fine gli algoritmi si rivelano il decisivo punto di comando del nuovo assetto. Ad essi fanno capo operazioni di messa in gerarchia, indirizzamento, filtraggio, gestione dei dati: di fatto costituiscono la sola funzione di ordine del web. In ciò non sono soltanto strumenti di servizio neutri che facilitano le attività di chi opera in rete, come pretende l’ideologia ufficiale degli Over the Top che gestiscono le grandi piattaforme digitali, ma esplicano anche un ruolo editoriale – guidano la lettura e la visione – nei media e strategico nelle
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attività economiche. Sotto questo profilo costituiscono una essential facility, ovvero un’infrastruttura indispensabile per il funzionamento del sistema economico in generale e informativo in particolare. Il tratto peculiare, che differenzia le piattaforme digitali da altre infrastrutture chiave per la gestione di attività economiche (trasporti, energia), è la materia prima in gioco: le piattaforme gestiscono registrazioni di attività (di fatto tutto quello che si svolge entro il mondo digitale), cioè conoscenze, relative tanto alla vita personale quanto alla vita collettiva, che non si logorano (né esauriscono), sono cumulabili e componibili. La duplice condizione di essential facility e di bacino per la raccolta delle conoscenze diffuse in rete crea, per la sua novità, problemi inediti. Vi sono almeno quattro ordini di questioni: • impedimenti connessi allo stato di infrastruttura indispensabile per lo svolgimento di attività; • rischi derivanti alla sfera personale dall’uso commerciale (o comunque non controllato) di dati sensibili estratti da operazioni condotte in rete; • tensioni relative a operazioni relative a contenuti prodotti da editori; • squilibri nel sistema dell’informazione provocati dalla caduta di responsabilità. Il primo ordine di questioni rientra nella sfera antitrust: la segretezza degli algoritmi, che attiene al carattere privato dei suoi creatori, riduce la competizione e contrasta con la funzione di interesse pubblico che compete alle piattaforme. In altri settori, di fronte a situazioni simili
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concernenti infrastrutture fisiche, da tempo si sperimentano sofisticate architetture giuridiche a tutela degli utenti e di una fair competition. La protezione della privacy sollecita crescente attenzione in un gran numero di Stati, ma sembra difficile immaginare che si possa procedere se non con misure di tutela su punti specifici: le registrazioni sono il cuore operativo (nonché economico) dell’attività digitale e le informazioni che generano sono di fatto ineliminabili. Alcuni usi possono essere impediti ma l’enforcement appare in molti casi complesso. Sulla terza questione, che riguarda i contenuti, è in corso da anni uno scontro, normativo e pratico, fra le piattaforme, che cercano di capitalizzare la soddisfazione degli utenti, e gli editori che rivendicano remunerazione per i propri prodotti informativi e accesso ai dati generati dal loro consumo. Per gli Ott gli editori sono nulla più che intermediari: come tali fungibili e, se resistono, una fonte di complicazione da razionalizzare; per gli editori gli Ott sono free rider che da una posizione di forza sfruttano contenuti di pregio, alla cui produzione non hanno contribuito, e i relativi dati. Il declino degli editori – e degli investimenti in contenuti che ne consegue – è un capitolo di quella contrazione del capitale strategico che accompagna l’ascesa delle piattaforme e che a gioco lungo impoverisce la società intera. Per questo motivo la questione ha una ragione politica che travalica il contrasto (e l’eventuale negoziato) privato. La questione degli squilibri nell’informazione sull’attualità è forse la più delicata in quanto rimodella, con ricadute per lo più negative, il campo di condizioni entro cui si forma l’opinione pubblica. Il regime attuale combina la riduzione del potere e della responsabilità
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nella fase della produzione con la crescita del potere ma non della responsabilità nella fase della distribuzione. Non sembra una formula felice: con più fonti e meno vincoli i pericoli per la sicurezza (terrorismo, generalizzazione dell’odio) sono destinati a crescere. Un antidoto ai rischi da irresponsabilità è forse costituito, più che da interventi esterni facili a scivolate censorie e tecnicamente complessi, dall’applicazione di misure interne in grado di eliminare l’anonimato. Rimane il tema rilevante degli algoritmi che classificano e ordinano le informazioni: rendere pubblici i principi che li ispirano aumenterebbe la chiarezza e il tasso di responsabilità del sistema.
Capitolo 6 L’utopia di un mondo senza confini
L’onda elettorale anti-establishment partita dal 2016 ha senza dubbio una base economica: sconta i ritorni negativi in Occidente della grande espansione mondiale dei mercati (stagnazione e recessione in molte economie, produzioni delocalizzate, posti di lavoro sempre più instabili), la riorganizzazione produttiva innescata dalla crescente efficacia delle piattaforme digitali (disintermediazione, riscrittura dei processi operativi, calo competitivo delle imprese nate analogiche rispetto ai nuovi concorrenti, da Uber a Netflix), la disoccupazione in aumento che si concentra per geografia (dagli Stati mediterranei alla Rust Belt) e anagrafe (giovani), gli squilibri derivati dall’arrembante sviluppo della finanza. Tuttavia il nucleo del voto di rivolta, il suo cuore pulsante, è di ordine culturale: dagli anni Novanta, quando si dissolve il mondo bipolare e la visione liberale vive un istante di trionfo che crede definitivo (la «fine della storia» di Fukuyama), si consolida un’infrastruttura mentale che riorganizza il pensiero politico dopo il crollo del comunismo (tutta la sinistra, socialdemocrazie in testa, ne è coinvolta) e nel contesto favorevole della crescita
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mondiale si diffonde diventando rapidamente pervasiva. Questo sistema di idee ha un problema drammatico che oggi tutti riconoscono: confligge con l’esperienza quotidiana e i sentimenti profondi di milioni di persone sui due lati dell’Atlantico. Nato come ideologia di sostegno all’espansione globale dei mercati, diventa il punto di riferimento di quelle forze politiche che, con Clinton e Blair, la realizzano in tempi accelerati durante gli anni Novanta e poi, visto il successo nell’immediato, si articola in modo sempre più capillare come un generale schema di comprensione della vita sociale. Il suo asse portante è l’idea della libera circolazione di persone, idee, merci, capitali: non più barriere, confini, spazi riservati, ma una competizione in tendenza parificata e universale. L’ingresso della Cina nella Wto è di fatto incondizionato, il raggio d’azione della finanza non trova limiti, gli organismi sovranazionali appaiono la forma politica del futuro e gli Stati nazionali solo un residuo ingombrante.
L’ideologia dei diritti La visione della circolazione illimitata ha un grande fascino almeno nella fase ascendente dell’economia (quando arrivano posti di lavoro perduti e crolli diventa acuta la nostalgia delle rassicurazioni fornite dagli Stati): incarna un ideale di libertà, è in sintonia con l’esplosiva crescita del web che in prospettiva connette ogni individuo al resto del mondo e insieme ai depositi di sapere accumulati nel tempo e nello spazio, aumenta il potenziale di fare e di conoscere disponibile a ciascuno. Dall’ambito dell’economia l’idea dei confini da abbatte-
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re si estende rapidamente alla vita sociale: dove tutto circola senza riserve, non esistono più mondi tutelati da un valore speciale, ogni tema culturale assume pari dignità. Sembra quasi un impulso di emancipazione: le tradizioni che delimitano comportamenti e stabiliscono divieti all’agire sono vissute come barriere reclusive e vengono sostituite dalla visione dei diritti personali in perenne espansione. In economia come nella società l’individuo vede crescere le proprie chance d’azione e si fa misura delle cose: una parità eguale diventa parametro generalizzato e con ciò si comprime il valore, testimoniato dalle storie di vita, della peculiare comunità in cui ognuno dei popoli occidentali è immerso. In questa prospettiva, come sviluppi dalla medesima radice, sono ricompresi temi in apparenza lontani, dall’estensione dei diritti personali (matrimoni gay, eutanasia) all’equiparazione delle culture diffuse nel pianeta in quanto tutte egualmente apprezzabili e benefiche nei loro fondamenti. È una forma di ingegneria sociale che punta a ridisegnare l’impianto di valori delle società occidentali, a reimpostarne le regole di convivenza secondo una visione cosmopolita. Norme cogenti orientano con vincoli sempre più stretti le azioni collettive riducendo il campo della strategia politica e della creatività individuale e alla fine l’astrazione giuridica è mitizzata come fonte e strumento di emancipazione. Chi ha meno risorse per apprezzare i vantaggi dell’assenza di frontiere e di una miscela glamour delle esperienze vive tutto ciò come uno shock che lascia indifesi. Ideologia delle élite e sentimenti di popolo si divaricano. Con il passaggio del millennio, quanto più la globalizzazione si consolida tanto più l’ideologia dei diritti e
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della libertà di circolazione che l’accompagna diventa pervasiva, corrosiva: più campi d’azione regolati, maggiori pretese prescrittive, più forza d’urto contro tradizioni (in tema soprattutto di famiglia, corpo e coppia) che modellano l’esistenza individuale o stili di vita sanzionati come obsoleti. In questa evoluzione la sinistra, che ha perso antiche certezze, trova nuova vitalità: da Al Gore a Veltroni fino a Obama, estende, compatta e radicalizza lo schema ideale avviato da Clinton e Blair. In tempo di crisi ciò accentua le divisioni nella società e in più snatura i caratteri di un pensiero nato per sostenere e guidare un grande salto della tecnologia (l’avvento del digitale) e dell’economia (i mercati globali). In passato le rivoluzioni industriali, tanto la prima quanto la seconda (ultimo quarto del XIX secolo), sono state introdotte da sistemi di idee (illuminismo francese e scozzese; positivismo e pragmatismo) che rompevano schemi di pensiero collaudati dando prospettiva strategica e retroterra sociale alle innovazioni in corso; l’ideologia prescrittiva e perfettista che oggi si correla alla rivoluzione digitale ne comprime invece la portata espansiva: ostacola i suoi artefici (Silicon Valley non apprezza l’ingombrante espansione delle astrazioni giuridiche) e dispiace a una vasta quota di popolazione. È questo il punto drammatico: negli anni della crisi, che da economica si è fatta anche politica, le smentite empiriche all’ideologia prevalente sono state frequenti e brucianti. L’irruzione del fanatismo terrorista nella vita quotidiana pone la questione della differenza (irriducibile?) fra le civiltà e nega che siano tutte, al fondo, paritarie e benefiche. Le frontiere, che sarebbero dovute cadere in tempi rapidi con beneficio di tutti, sono ri-
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scoperte su larga scala come uno strumento utile: i numeri sempre più grandi dei migranti mostrano i rischi – non avvertiti e non gestiti – dell’illimitata circolazione delle persone; gli squilibri della finanza dicono la stessa cosa per la circolazione dei capitali. Gli organismi sovranazionali, dalla Ue all’Unesco, patiscono crisi severe, forse esistenziali, e gli Stati nazionali – fuori dall’Occidente, soprattutto in Asia – rivelano una potente vitalità. L’ideologia dei diritti, dominante nelle università e tra chi vive una dimensione cosmopolita, diverge ormai stabilmente dal senso comune della popolazione lontana dalle reti globali. Se l’una accentua la propria forza assertiva e l’altro è sostenuto da eventi eclatanti che cambiano la stessa vita quotidiana, si crea nella società una frattura che in tempi brevi trova sbocco politico. Quando i pronipoti di Maria Antonietta, che hanno messo da parte abbondanti scorte di brioche, non temono di fare la morale ai «deplorables» (Clinton) o ai «sans dents» (Hollande) che faticano a procurarsi la baguette quotidiana, allora Brexit e Trump sono alle porte.
I riflessi sulla competizione politica In molti Stati europei la frattura, che si esprime nella risentita estraneità esistenziale e culturale di tanti elettori, cambia la forma e il funzionamento del sistema politico: l’assetto tradizionale, basato su partiti-perno (socialisti, liberali, popolari/conservatori) capaci in varie combinazioni di creare stabili maggioranze, non tiene più e i governi si formano attraverso sperimentazioni inedite, divergenti da nazione a nazione.
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Declinano i partiti socialisti scesi in molte elezioni sotto l’8% (Grecia, Francia, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Polonia dove non entrano neppure in Parlamento) e spesso superati dall’estrema sinistra (vedi in dettaglio il capitolo 7). Scadenti prove di governo (Francia con Hollande, Grecia con Papandreou, Cechia) o grandi coalizioni dove sbiadisce l’apporto socialista (Germania, Paesi Bassi nella legislatura 2012-2017) sono i motivi prossimi dei tracolli. I partiti di centro-destra, che vanno meglio dei socialisti, sono però spesso costretti a mutare strategia (il liberale olandese Rutte e il popolare austriaco Kurz vincono rubando temi e soluzioni ai partiti liberalnazionali) e deviano dall’impostazione mainstream di cui per anni è stata campione Angela Merkel. Già prima del 2017 in Danimarca e in Norvegia i partiti di centro associano in maggioranza o al governo formazioni di destra che chiedono un brusco giro di vite sull’immigrazione. In Ungheria il partito Fidesz di Viktor Orbán, membro del Ppe, va al governo nel 2010 e anticipa la nuova strategia. In Germania, Francia, Spagna, dove invece la linea non cambia, popolari e gollisti, che in più affrontano con imperizia questioni politiche spigolose, entrano in crisi. I partiti anti-establishment di destra, fino a ieri considerati ai margini del sistema politico e tagliati fuori dal circuito delle alleanze, fanno il pieno dei voti e arrivano al potere: da soli (Polonia dal 2015, Ungheria), in coalizione con i centristi (Norvegia, Finlandia, Belgio, Austria) o con altre forze anti-sistema (Italia, Repubblica Ceca), in maggioranza ma non al governo (Danimarca). All’onda resistono, pur ammaccati, i due Stati leader dell’Ue che finora hanno definito le coordinate po-
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litiche del continente: in Germania e Francia i partiti radicali subiscono una rigida conventio ad excludendum con marcati tratti moralisti che obbliga a grandi coalizioni o a maggioranze variopinte o a congegni maggioritari con forti moltiplicatori (Macron diventa presidente raccogliendo al primo turno il consenso di circa il 18% del corpo elettorale). Infine entro le complesse costruzioni statuali d’Europa, che la spinta a estendere i poteri dell’Unione tende a svalutare, ritornano vitali vincendo elezioni e referendum – quasi un farmaco anti-crisi – i rappresentanti politici di antiche identità regionali, dalla Scozia alla Catalogna, dalle Fiandre al Veneto. La Spagna getta addirittura in galera i dirigenti dei movimenti catalani (mentre l’Europa offre lezioni di civiltà politica in giro per il mondo) che comunque, in contrasto frontale con i partiti centralisti, aumentano il consenso. Finisce l’impronta omogenea che aveva a lungo caratterizzato i sistemi politici europei e prevale la frammentazione in varianti regionali anche molto diverse fra loro. Le nazioni ex asburgiche dell’Europa centrale, penalizzate dall’emigrazione e diffidenti verso la burocrazia di Bruxelles che impone molto e ascolta poco (quarant’anni di comando sovietico hanno reso ipersensibili verso direttive calate dall’alto e da fuori), riscoprono come perno culturale identità di lungo periodo e ciò favorisce partiti nazionalisti ostili verso l’esterno. La Scandinavia, che esce da una lunga e ormai logora egemonia socialdemocratica, accentua un latente distacco dai modelli dell’Ue (referendum popolari avevano rigettato in Norvegia l’ingresso nell’Unione e in Danimarca nell’eurozona) e cerca una via politica in pro-
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prio, in sintonia con l’Olanda di consolidata ispirazione inglese. I Paesi del Mediterraneo, massacrati dalla crisi economica e dalle terapie tedesche di austerità, scivolano – con la parziale eccezione del Portogallo – verso il disordine acuendo la propria storica fragilità statuale. Persino nel nucleo franco-tedesco l’ispirazione originaria è in affanno: Angela Merkel è a fine corsa e le eccezioni ribelliste della Francia (Mélenchon, Le Pen e altri radicali) sfiorano il 50% dei voti. In sintesi, è in corso una trasformazione di estese proporzioni, di cui sono incerti gli sbocchi ma evidenti le componenti essenziali. I sistemi politici cambiano in molti Paesi sia il formato sia le dinamiche di sviluppo: si rompe l’asse centrale basato sulla competizione – consensuale per un ampio nucleo di temi fondamentali – tra socialisti e popolari (o conservatori) e subentra lo scontro, privo però di un blocco di temi condivisi, tra partiti mainstream (popolari, liberali, socialisti dirottati al centro) e formazioni radicali (collocate sia a destra sia a sinistra). Lo si vede in Francia, Italia, Germania, Polonia, Ungheria e, in misura parziale, in Olanda e Austria, in alcuni Paesi scandinavi, qua e là nei Balcani. In secondo luogo la radice della trasformazione è, con evidenza, il sentimento di esclusione che colpisce quella parte di elettori impoveriti dalle ricadute dell’espansione globale dei mercati e minacciati nei loro sentimenti dal disordine politico (terrorismo, immigrazione fuori controllo) diffuso ai confini dell’Europa. In ciò si mostra il carattere esistenziale della crisi: la crescente invadenza della burocrazia di Bruxelles, unita a politiche fiscali e monetarie disegnate con ipocrisia dagli Stati del nucleo franco-tedesco a proprio vantaggio, suscita nel
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resto d’Europa reazioni di autodifesa identitaria. L’Unione monetaria, nata per promuovere la convergenza delle economie nazionali, non solo provoca crescenti divaricazioni nel suo campo d’origine ma scatena processi di divisione strategica e istituzionale. La politica, che gli algoritmi dell’unificazione monetaria pensavano di circoscrivere, rivive in chiave nazionale e accentua, per questa via, le differenze fra gli Stati del continente.
Capitolo 7 Il disastro politico della sinistra in Europa
Nelle ultime elezioni politiche tedesche (settembre 2017) la Spd, il più grande partito della sinistra europea, scivola al 20,5% dei voti e tocca il minimo storico. Nei mesi successivi la sconfitta socialdemocratica si replica in Austria, Repubblica Ceca, Italia, Ungheria, Svezia. In precedenza insuccessi anche più gravi si erano visti in tre Stati (Francia, Olanda, Grecia), dove i socialisti quasi sfiorano la scomparsa, e in Spagna. La ragione profonda di questi disastri seriali ha a che fare con la visione del mondo: la sinistra europea, e in generale la sinistra del mondo occidentale, è stata investita nell’ultimo quarto di secolo da due catastrofi culturali, un peso difficile da reggere. Non è un dramma che riguarda solo i partiti coinvolti, è una questione globale perché contribuisce a stravolgere in molte nazioni i sistemi politici e in più inasprisce fratture sociali già molto gravi. La prima catastrofe è quella del 1989-1991, quando la visione politica che propugna la costante espansione dell’economia pubblica – fino alla nazionalizzazione dei mezzi di produzione – e la solidarietà internazionale dei
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lavoratori più deboli e dei loro partiti – il campo socialista ovvero anti-imperialista – finisce con il crollo dell’Unione Sovietica. La gran parte dei partiti comunisti cambia nome e si avventura verso linee politiche pro-mercato, molti partiti socialisti scoprono che privatizzare è bello, seguono con fiducia la terza via di Blair e puntano tutto sui consumi, gonfiati con ampie quote di debito, come fattore di coesione sociale. La seconda catastrofe è quella del 2015-2017 e investe il cosmopolitismo irenico convinto che la diffusione mondiale degli scambi, sostenuta da una finanza sempre più creativa e sicura di aver scoperto il modo di azzerare i rischi, costituisca la chiave per assicurare il benessere mondiale attraverso una crescita continua. L’incremento geometrico dei mercati dovrebbe, in prospettiva, pacificare il mondo in una generale scoperta di convergenze: l’esempio tipico è il rapporto tra la Cina, che entra nell’arena commerciale globale da nazione debole – quindi senza impegni – per poi comportarsi da agguerrito player mercantilista, e gli Stati Uniti che a compenso sono finanziati attraverso l’acquisto di massicce quote del debito pubblico. A completare questa visione stanno da un lato l’esaltazione dei diritti umani da applicare su scala mondiale (in ciò si esprime quell’annessione delle relazioni internazionali al campo giuridico che consegue dall’idea di emarginare e superare la politica) e dall’altro lato la creazione a cascata di diritti civili che indeboliscono o addirittura smontano le strutture collettive di lunga tradizione irriducibili al mercato (in primo luogo la famiglia) individualizzando, come nelle transazioni, i soggetti sociali.
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Il dramma della falsa coscienza Il cosmopolitismo irenico, che disprezza e rimuove il realismo politico, cade a pezzi in due fasi. La prima fase è costituita dalla crisi economica che incuba nel 2007, esplode nel 2008, si aggrava in Europa nel 2010-2011 e in molti luoghi non sembra ancora giunta a sicura conclusione: il disastro parte dalle banche e dalle agenzie finanziarie, che gli Stati – cioè la politica – sono costretti a salvare con la messa in circolo di enormi masse di liquidità, si estende all’economia reale, toglie risorse e redditi a centinaia di milioni di persone. La seconda fase è generata dalle migrazioni verso l’Europa che si gonfiano a numeri sempre più grandi a causa del crescente disordine politico in Nord Africa e in Medio Oriente (cui danno alimento i molti errori politici dell’Occidente) e che sono avvertite da milioni di persone come una minaccia alla propria sicurezza e al proprio modo di vita (condiviso da sempre). Il crollo dipende in primo luogo dall’incongruenza sempre più marcata e alla fine insostenibile fra la visione cosmopolita con le sue previsioni teoriche, subito tramutate in promesse beneauguranti per la vita di tutti, e il reale svolgersi degli eventi così difforme in Occidente da quanto immaginato. In secondo luogo ha grande peso una falsa coscienza che si espande con il tempo a dimensioni drammatiche: il suo nucleo è lo scarto fra i soggetti dichiarati come punto di riferimento dell’azione politica – lavoratori subordinati, ceto medio con scarso potere decisionale, classi disagiate – e i soggetti favoriti dalle effettive decisioni politiche – finanza, banche, amministrazione pubblica. Ne è parte, sia pure mi-
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nore, l’attenzione strategica squilibrata a favore dei diritti personali, cari soprattutto a mondi acculturati, e più incerta riguardo ai diritti sociali. Scarto feroce dell’ideologia dalla realtà e falsa coscienza sono tratti comuni a entrambe le visioni che finiscono in catastrofe, forse più accentuati in quella precedente il 1989, come attesta la pluridecennale fake news veicolata dai partiti comunisti sulle condizioni di vita nell’Unione Sovietica. Altri due elementi si muovono invece in chiave diversa, quasi opposta. Il primo concerne il rapporto tra economia e politica. Nella visione caduta in rovina insieme all’Unione Sovietica è la politica che domina: concentra la decisione e indirizza l’economia. La scelta politica ha la pretesa di guidare la società e di favorire, mediante il comando sull’economia, il benessere collettivo. Nella visione degli anni Novanta, formata in simbiosi con la globalizzazione, la politica abdica al primato, si ritira sullo sfondo: è l’economia (a forte leva finanziaria), in quanto globale e non intralciata da comandi eterogenei, che decide e si prende la responsabilità di diffondere ricchezza. Al posto della scelta politica si installa al vertice della società l’algoritmo finanziario. L’inversione è densa di significato e di conseguenze. Il declino di scelte costruite con razionalità consapevole deresponsabilizza e facilita comportamenti approssimativi, incerti, facilmente trainati dal pensiero prevalente nella società globale: ciò toglie ai partiti di sinistra specificità politica e li porta spesso allo stallo o all’irrilevanza. Il secondo elemento che differenzia le due catastrofi è il rapporto della sinistra con l’ideologia politica delle élite e in generale dei partiti mainstream, per lo più centristi, che sono quasi sempre al governo. Prima del 1990-1991
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l’opposizione è netta: principi e ricette, al di là di accordi contingenti, sono in antitesi. Dopo il crollo sovietico prevale la convergenza: cessa la radicale differenza ideologica, ci si distingue su dettagli economici o su temi etici, che per definizione sfuggono al quotidiano della politica, e così è agevolato l’accesso al governo. Il risultato (e il danno) è che nel sistema dei partiti si crea una vasta corrente centrale, con modeste varianti sulle ali, e si perde assortimento politico: l’ascesa delle formazioni radicali nasce anche dalla volontà degli elettori di riprendersi spazi di scelta. In questo frangente se la cavano un po’ meglio i partiti di centro e conservatori: il distacco dalle proprie radici politiche, implicito nell’adeguamento ai principi della globalizzazione, è meno brusco, l’abitudine a governare in coincidenza con le strategie delle classi dirigenti non è una novità e, alla fine, sono i partiti socialisti che convergono sul terreno altrui e non viceversa. Resta da notare infine che l’uscita dall’attuale catastrofe sembra un processo più complicato dell’uscita, pur dolorosa, dalla catastrofe precedente. Il mondo della sinistra si divide infatti, tra tensioni e tormenti che separano ancor più dagli elettori, in due opzioni opposte: da un lato il ritorno alla tradizione, dall’altro l’inseguimento, spesso faticoso e acrobatico, delle tendenze oggi prevalenti. Negli Stati Uniti il socialista Sanders contende fino all’ultimo la nomination alla sinistra finanziaria e saudita della Clinton (e probabilmente l’avrebbe spuntata se l’apparato democratico non avesse favorito con mezzi ai limiti del lecito, e forse anche oltre, Hillary). I socialdemocratici tedeschi non vincono più un’elezione federale dal 2002 (ottennero il 38%, ora i sondaggi li danno al 15%) e si assimilano sempre più al centrismo
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progressista di Angela Merkel (il che crea problemi a entrambi), mentre Die Linke (ex comunisti) si consolida al 10%. In Francia il finanziere Macron, transitato in diretta dalla maison Rothschild al ministero-chiave del governo Hollande, assorbe gran parte del voto socialista (il Ps crolla) e passa il primo turno delle presidenziali (che poi vincerà) senza distanziare troppo (24% contro 20%) il candidato di estrema sinistra Mélenchon. In Italia il Partito Democratico di Renzi patisce una scissione promossa da ex comunisti. In Spagna Podemos, estrema sinistra stile Syriza, ottiene un ottimo risultato al suo debutto elettorale e quasi pareggia il voto del Psoe in netto declino. In altri Paesi il partito leader sceglie con decisione, senza rotture di rilievo, una delle due opzioni: i laburisti britannici tornano con Jeremy Corbyn alla tradizione pre-Blair e realizzano un brillante 40% alle ultime politiche, mentre in Grecia Syriza vince con Alexis Tsipras, dopo la quasi estinzione del Pasok, lo storico partito socialista, due consultazioni di fila in condizioni molto difficili. Nessuna delle due opzioni ha solide prospettive. Quella old fashion fatica a interpretare il mondo della rivoluzione tecnologica accelerata, della finanza dominante, delle grandi migrazioni e del lavoro che diversificandosi perde stabilità, rilievo sociale, dimensioni di massa. Quando realizza buoni risultati elettorali è più per il fascino carismatico del leader (Corbyn, Mélenchon, Tsipras, forse Sahra Wagenknecht della Linke) che per la visione ideologica. L’opzione modernista si è troppo avvicinata all’ideologia cosmopolita e perfettista delle élite per riuscire a sganciarsi senza danni ritrovando elettori delusi e risentiti. Lo smarrimento della sinistra sembra avere buone chance per continuare.
Capitolo 8 Il sistema politico italiano: cessioni di potere e crisi strutturale
Anche in Italia il sistema politico cambia il suo impianto di fondo ed anzi la sua evoluzione comincia con qualche anno di anticipo rispetto agli altri Stati europei. La cesura con il passato si compie nel 2010-2011 quando s’incrina e rapidamente si sfalda quell’assetto politico, centrato su Berlusconi protagonista e su Repubblica alla guida degli ex Pci nella parte degli antagonisti, che si era stabilito con le elezioni del 1994 dopo il turbine giudiziario che aveva travolto selettivamente – Pci e sinistra Dc erano rimasti quasi indenni – i semisecolari partiti al potere dal periodo costituzionale.
La guida politica dall’alto È un brusco cambio di schema: l’avvento (novembre 2011) del governo algoritmico e antipolitico di Mario Monti archivia senza tanti rimpianti il bipolarismo guerriero e avvia un settennato in cui l’establishment assume in proprio, attraverso fiduciari diretti, il comando politico dell’Italia. I risultati sono drammatici: il Pil scende, il
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debito sale. La guida politica dall’alto, spalmata su quattro governi diversi nello stile ma omogenei nella sostanza (a Renzi succede Gentiloni, attento soprattutto a non eccedere in attività), accumula stasi dell’economia, che si traduce in una cronica perdita di attività produttive e di reddito per molta parte della popolazione, disordine amministrativo, che sfocia nel proliferare dei poteri di veto, fragilità nei rapporti internazionali che stringono i vincoli gravanti sull’Italia e impongono più volte soluzioni onerose (sicurezza, banche, energia). Gli italiani patiscono lo sbandamento e reagiscono con un dolore risentito. Sul piano elettorale in dieci anni, tra il 2008 e il 2018, i due partiti-perno del sistema, che hanno dato sostegno parlamentare ai governi dell’establishment, perdono 15 milioni di voti (9 milioni Forza Italia; 6 milioni il Pd) e si fermano sotto la soglia degli 11 milioni. Per contro le formazioni che nel periodo si collocano all’opposizione (M5S, Fdi, Lega dal 2011) raccolgono nel 2018 18 milioni di voti: l’incremento rispetto al 2008 (allora si presentò solo la Lega) è pari a 15 milioni di voti e compensa esattamente il deflusso di voti dai partiti mainstream. In aggiunta le astensioni crescono di oltre 2 milioni. Sul piano sistemico ci sono due passaggi: le elezioni del 2013, che laureano il movimento di Grillo primo partito italiano, trasformano l’assetto politico da bipolare a tripolare; le elezioni del 2018 modificano i rapporti tra i partiti che si svolgono ormai non più sull’asse destra-sinistra ma sul contrasto fra un polo radicale ed eurocritico (che conquista il governo) e un polo (sbandato) di ortodossia europeista. È un vero sconquasso: di fronte al costoso fallimento simmetrico del bipolarismo antagonista incentrato su
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Berlusconi e dei governi allineati agli interessi degli alleati Ue gran parte degli italiani si sente abbandonata, priva di tutela, esposta a un futuro incerto e minaccioso: si forma un insofferente fai-da-te che non riconosce prospettive, invoca risarcimenti a tempi brevi e si assesta in un’assillata richiesta di mutamenti radicali, punizioni esemplari, decisioni risolutive. È una nazione che si presume in credito, che pensa di essere stata violata, dove ciascuno persegue il proprio vantaggio immediato perché nessuno, a quanto appare, si prende carico di un interesse comune. A questo impulso acre e in fondo disperato dà forma nella fase attuale una visione che ruota intorno ai temi antichi del privilegio e della sopraffazione, della riscossa popolana e della pena ai potenti: la campagna contro la Casta, lanciata nel 2007 dal Corriere di Paolo Mieli e dopo la crisi economica dilagata senza argini nelle televisioni, il racconto della politica come sequenza di reati avviato da Repubblica in chiave anti-Berlusconi e perfezionato erga omnes dopo la fondazione del Fatto quotidiano (2009), costituiscono la traccia ideologica delle invettive di Grillo come di molti sentimenti diffusi nel web. Dopo anni di speranze deluse e di fallimenti, lo sfaldamento della politica corrode, combinandosi con l’atomizzazione sconsolata della vita collettiva, quelle precondizioni di nesso sociale che, portando ordine, costituiscono la base della continuità istituzionale e dell’articolazione dello Stato in prestazioni complesse. Nel deserto della fiducia e delle obbligazioni reciproche accelera quella dispersione del potere – ossia evasione dalla responsabilità – che da tempo logora le istituzioni e consuma le chance di indirizzo della società. È un pro-
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cesso che viene da lontano: da un lato toglie ai vertici politici dello Stato, erosi nella legittimità (nonché negli strumenti) e assoggettati a vincoli plurimi, capacità di comando, dall’altro eleva soggetti diversi (nuovi, esterni, minori in crescita) a posizioni di rilievo nei processi di decisione. Il comando si parcellizza, aumentano i micropoteri, la società si disarticola, diminuisce il potenziale strategico della nazione, proliferano le chance di veto e le condizioni di blocco. Il deflusso di comando dal centro, che costituisce il tronco di fondo dell’attuale evoluzione, scorre per almeno cinque vie diverse: mercati; istituzioni comunitarie; Regioni; magistratura; autorità e alta dirigenza amministrativa. Le prime due, mercati e organismi Ue, si intersecano e insieme consolidano fuori dai confini nazionali una parte cospicua delle competenze perdute dal centro. Il processo comincia alla fine degli anni Settanta con l’ingresso nel Sistema monetario europeo (1978) e la progressiva uscita di controllo del debito pubblico: fino ad allora i poteri dello Stato centrale avevano continuato a estendersi, soprattutto in ambito economico, attraverso uno scambio simbiotico con i partiti divenuti quasi protesi dello Stato con segno privato. L’adesione allo Sme, sia pure con una soglia di fluttuazione dei cambi ampliata al 6% (per gli altri Paesi è fissata al 2,25%), vincola – attraverso gli obblighi assunti in ambito monetario – la politica di bilancio che dipende sempre più dallo scrutinio di istituzioni estere. Nel 1981 la scelta del ministro del Tesoro Andreatta di esimere Banca d’Italia dall’obbligo di garantire nelle aste il collocamento integrale dei titoli di Stato emessi formalizza il ruolo determinante di strutture internazionali nello stabilire il livel-
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lo dei tassi da applicare al rinnovo del debito: ad esse con ciò è data una parola decisiva sulle politiche di bilancio. Non si può considerare una mera coincidenza il fatto che alla fine degli anni Ottanta il rapporto debito pubblico/Pil, attestato al 58% nel 1980, superi la soglia del 100%: certamente agiscono anche altri elementi oltre alle valutazioni dei mercati, ma in ogni caso l’incremento del debito nel decennio fa impressione.
Il vincolo esterno Il divorzio del 1981 fra Bankitalia e Tesoro è l’atto originario che mette in pratica quella teoria del vincolo esterno secondo la quale l’obiettivo di una virtuosa politica di bilancio, in grado di contenere il debito pubblico, può essere ottenuto solo attraverso ineludibili costrizioni imposte dall’esterno, essendo la politica italiana, anche per ragioni strutturali (Sud da finanziare, clientelismo endemico), del tutto inadatta al compito: una folta e solidale filiera di classe dirigente italiana, da Carli a Ciampi (con l’appendice dei post-comunisti anni Novanta a caccia di legittimità), si è battuta lungo trent’anni per estendere gli effetti pratici della teoria fino a ridurre ai minimi termini, come accade oggi, la presa nazionale sulla politica economica. L’ingresso nella banda stretta dello Sme (non più del 2,25% di scostamento dall’Ecu, moneta virtuale di riferimento), deciso nel 1990, è il secondo passo che stringe il vincolo esterno: la moneta italiana si trova ancora più esposta al giudizio dei mercati che, nella conclamata crisi del sistema politico (Mani Pulite), si rivela drasti-
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camente negativo (estate 1992) costringendo il Tesoro alla svalutazione quando la difesa del cambio tentata da Bankitalia si rivela inutile – dopo aver bruciato un’ingente quota delle riserve valutarie. Il nesso tra vincolo esterno, inteso come strumento coattivo per aggiustare il bilancio pubblico, inserimento nello Sme, che ne costituisce la concreta applicazione, e sostegno del cambio fino all’estremo, ancorché inane e costoso, è teorizzata, in modo esplicito, dal governatore di Bankitalia: negli anni successivi diverrà, in sequenza, presidente del Consiglio, ministro del Tesoro, presidente della Repubblica. I partiti sono frantumati, sta per nascere la Seconda Repubblica: la politica perde autorità di giorno in giorno, la dispersione del comando accelera e i vincoli esterni si rafforzano. È una dinamica che percorre sotto traccia, come fattore determinante, tutto il periodo successivo al 1992. Nel 1993, dopo un accordo tra il commissario europeo alla concorrenza Van Miert e il ministro del Bilancio Andreatta per la liquidazione in tempi rapidi dell’Iri, è aperta la stagione delle privatizzazioni che con il governo Ciampi (1993-1994) investe soprattutto le banche e poi, sotto la regia del governo Prodi (19961999), si applica a settori produttivi cruciali come telecomunicazioni, grande distribuzione, autostrade. A distanza di vent’anni la cessione d’influenza presenta un bilancio negativo: Telecom si è infilata in una lunga trafila di cambi del controllo che hanno molto arricchito alcuni azionisti ma hanno ridotto la visione strategica della società e la sua capacità di investimento; Autostrade, ceduta a una cordata guidata dalla famiglia Benetton, ha aumentato la redditività ma lesinato sugli investimenti per la manutenzione; Italsider, passata alla fa-
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miglia Riva, si è tramutata, dopo infinite traversie giudiziarie, nel disastro Ilva; Sme, venduta a spezzatino a vari soggetti (alcuni efficienti, per lo più esteri, altri improbabili), vede la parte migliore finire di nuovo ai Benetton che presto ne rivendono il cuore (supermercati Gs) ai francesi di Carrefour, mentre si tengono la parte autostradale (Autogrill). In sostanza lo stile, un po’ alla Eltsin, con cui le privatizzazioni sono state attuate amplifica la perdita di influenza e favorisce fenomeni di disgregazione: compratori scelti tra segmenti amici dell’establishment o utili alleati esteri; prezzi di vendita che alla fine si rivelano modesti e quasi sempre finanziati con una leva di debito molto lunga (talora poi scaricata nella società preda azzerando o quasi i costi di acquisto); garanzie molto scarse in prospettiva futura per consumatori e investimenti, a fronte di tutele assicurate ai compratori molto vincolanti. Di fatto il patrimonio di infrastrutture costruito dallo Stato italiano fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta appare svenduto (forse anche per la fretta posta dai vigilantes europei). In contemporanea, dopo la firma nel febbraio 1992 del Trattato di Maastricht, si sviluppa un’altra poderosa ondata di riduzioni del comando centrale: cessione dei poteri nazionali di gestione della moneta alla Banca Centrale Europea; adesione a stringenti vincoli di bilancio (soglie sanzionabili per i rapporti deficit/Pil e debito/Pil); accordi di Schengen sulla sicurezza; allineamento di molti settori economici – soprattutto quelli organizzati in regime di monopolio pubblico – agli schemi-quadro delineati dalla Commissione. La tendenza prosegue negli anni successivi, fino all’avvento di Monti: si accentua l’apertura internazionale, che spesso
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significa dipendenza da decisioni prese all’esterno dei confini, si restringe l’area della politica economica che permane sotto il controllo del governo, cresce il numero delle società acquisite da soggetti esteri (sono 437 nel solo quinquennio 2008-2012: fra le altre Parmalat, Cariparma, Bulgari, Valentino, Ducati, Erg Petroli, Fastweb, Gianfranco Ferré, Gruppo Fini, Coin, La Perla, La Rinascente, Panini, Ferragamo, Sorin, Stm). L’economia italiana si adegua, almeno in parte, ai modelli comunitari. Tuttavia, è solo dopo il 2011 che il vincolo esterno fa un salto di qualità e, intensificandosi, evolve verso forme di interferenza diretta. Tre sviluppi in particolare appaiono significativi. Il primo è l’inserimento in Costituzione (2012) del Fiscal Compact che obbliga nel tempo a parametri di bilancio ancora più severi di quelli stabiliti con il Trattato di Maastricht. Di fatto la Commissione può definire quasi al dettaglio i numeri principali della legge di stabilità e il governo in carica, se vuole conquistare (schivando onerosi tagli di spesa) margini economici per realizzare i propri programmi, è costretto a trattative svantaggiose. Il secondo sviluppo riguarda le banche: la normativa europea sul bail-in, recepita in Italia a fine 2015, delimita in termini molto stretti gli spazi per la gestione nazionale delle crisi di credito: l’inefficacia degli interventi di simil-soccorso, predisposti nel rispetto delle regole europee, è probabilmente uno dei principali fattori che lungo il 2016 spargono discredito sull’operato del governo Renzi. Infine la stabile debolezza dell’economia – elevato debito pubblico che rende il Paese vulnerabile, alta tassazione con spesa inefficiente, forti squilibri territoriali – si amplifica sempre più con i vincoli (deflazionisti) imposti dall’esterno
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e alla lunga logora, in molti settori, la macchina produttiva. Dopo le elezioni del 2013 supera il migliaio il numero delle società – molte di rilievo primario – nelle quali cessa il controllo italiano: Pirelli, Telecom (nel 2013 la spagnola Telefónica conquista il controllo che l’anno dopo cede a Vivendi), Ansaldo Sts, Pininfarina, Indesit, Italcementi, Italo, Poltrona Frau, Krizia, Loro Piana, Pomellato, Buccellati, Editrice Giochi, Pernigotti, Grom. Inoltre dal 2016 le due società leader dei settori bancario (Unicredit) e assicurativo (Generali) scelgono amministratori delegati francesi che in passaggi cruciali mostrano attenzione per le strategie di sistema degli operatori transalpini: analoga propensione si riscontra in alcune mosse di Mediobanca, controllata in un caso e azionista nell’altro. Per la profondità dei suoi effetti l’ideologia del vincolo esterno forma la traccia decisiva lungo cui si indirizza la più recente vicenda italiana: l’incardinamento europeo le dà forte cogenza pratica e al contempo la riconnette a una tradizione di influenze esterne che segna tutta la storia unitaria. Dopo la fine della guerra fredda, che imponeva alle nazioni europee la disciplina degli schieramenti contrapposti, e la riunificazione tedesca, che rimodella la politica occidentale, l’Ue diventa il campo in cui, attraverso la strumentazione comunitaria, rivive l’antico scontro delle potenze continentali. In questo contesto la fragilità economica, enfatizzata dall’ordine mercantilista dell’eurozona, porta all’Italia effetti molteplici che investono anche le relazioni internazionali: si affievolisce il rapporto con gli Stati Uniti, si complica quello con la Russia, diventa marginale il ruolo in Nord Africa, aumenta la subalternità di fronte alle
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manovre di potere francesi e tedesche. Dal cruento azzardo di Sarkozy e Hillary Clinton in Libia fino al blocco turco delle perforazioni Eni a Cipro passando per le ripetute forzature di Macron contro gli interessi italiani e il surrettizio smontaggio da parte austriaca della soluzione concordata in Sud Tirolo, le prove del degrado in cui versa la considerazione nazionale appaiono frequenti e dolorose. In sintesi, dopo una storia quarantennale, il vincolo esterno, che formalizza la dipendenza da decisioni altrui, fornisce un duplice esito: da un lato toglie potenziale strategico in ambito nazionale, miniaturizza in chiave locale poteri in precedenza di raggio più vasto, dall’altro con un giro speculare ammassa comando a livelli alti e distanti: disarticolazione interna versus concentrazione esterna. Altre linee di deflusso si mantengono invece in ambito nazionale e consistono in una redistribuzione, spesso rilevante, di poteri e funzioni tra soggetti diversi. La si potrebbe definire una forma di vincolo interno e la magistratura ne appare la principale destinataria, il soggetto verso cui deborda la quota maggiore di comando, per densità degli effetti sistemici se non per quantità. Il trasbordo avviene con un doppio movimento: da un lato sono attribuiti ai magistrati compiti ulteriori che sono o creati ex novo o ceduti dagli organi politici; dall’altro Parlamento e governo si spogliano di garanzie costituzionali poste a tutela della rappresentanza o della responsabilità per la gestione degli affari di Stato e lasciano spazio alla formazione creativa di un controllo di legittimità che si applica a tutti gli ambiti discrezionali contenuti nella vita pubblica (attività parlamentari, servizi segreti,
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operazioni coperte di sicurezza): per gradi la ragione di Stato finisce sezionata negli articoli del codice. Per quanto riguarda il primo lato nel 1989, con il nuovo codice di procedura penale, la polizia giudiziaria sfugge al controllo del ministero dell’Interno e vede proprie sezioni dislocate presso le Procure della Repubblica (dalle quali il personale direttamente dipende). In parallelo, con la fase più acuta del terrorismo, la legislazione d’emergenza disegna per i magistrati una missione che va oltre il compito istituzionale di sanzionare i reati commessi e attinge una dimensione politica: il diretto sradicamento delle attività eversive. Con la fine del terrorismo, tuttavia, la dimensione politica non è abbandonata e converge verso la lotta alla mafia. Aumentano così i poteri conferiti alla magistratura e si accumula una penetrante legislazione speciale che, sotto i motivi dell’emergenza, comprime le garanzie personali e amplia la capacità di intervento dello Stato nella vita dei cittadini. Per quanto riguarda invece la perdita autoinflitta delle garanzie politiche si possono citare, in ordine cronologico, il ridimensionamento del segreto di Stato avviato con la riforma dei servizi di sicurezza del 1977; l’abolizione della Commissione parlamentare inquirente (incaricata di esaminare in via preventiva le accuse contro i ministri per azioni compiute nello svolgimento della propria funzione), conseguente al referendum del 1987; l’abrogazione nel pieno di Mani Pulite (1993: Napolitano presidente della Camera) della norma costituzionale sull’immunità parlamentare; l’abolizione per decreto-legge (dicembre 2013: governo Letta) dei contributi pubblici ai partiti (a minimo compenso è ammessa la facoltà di destinare loro il 2 per mille dell’Irpef).
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È banale ripetere che il periodo della Seconda Repubblica, riempito dalla contesa intorno a Berlusconi, ha un essenziale contenuto giudiziario e che la magistratura, abituata ormai a un’espansione costante delle funzioni, si costituisce, con uno stillicidio di iniziative (di cui molte finite nel nulla), come attore politico primario: la stessa caduta del governo nel 2011 è anticipata da eventi giudiziari (processo Ruby, bocciatura del legittimo impedimento). Durante i governi dell’establishment gli interventi si fanno meno numerosi ma tra essi alcuni esprimono una profonda efficacia. Nel 2012 un’inchiesta sui fondi pubblici gestiti dalla Lega costringe Bossi a dimettersi da segretario e scatena nel partito una crisi profonda, quasi distruttiva. Nel 2017-2018, quando la Lega dopo la vittoria del 4 marzo diventa il più importante movimento italiano e guida le strategie del governo, l’inchiesta riparte con un raggio assai più ampio e punta a prosciugare le risorse del partito per bloccarne – come conseguenza di fatto – l’azione politica. Nel 2013 la Cassazione conferma a Berlusconi una condanna per reati fiscali e, per una concatenazione di effetti politico-giudiziari, salta la coalizione di governo tra il Pd, che attiva l’espulsione dal Senato del leader di centro-destra, e Forza Italia. A fine 2012 è approvata la legge Severino che, in caso di pene superiori a due anni, sospende gli amministratori locali condannati in primo grado e fa decadere i parlamentari condannati in via definitiva. Nel 2014 è istituita con un’ampia gamma di poteri l’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) che certifica la centralità del tema nella vita sia degli organismi pubblici sia delle imprese: il suo presidente, Raffaele Cantone, che marca un’assidua presenza pubblica,
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diventa una figura centrale del potere italiano. Infine i vertici di alcune grandi società pubbliche (Eni, Saipem, Finmeccanica) sono messi sotto accusa per corruzione internazionale con pesanti ripercussioni sulla competitività delle tre imprese.
Riforme costituzionali di fatto Emerge una netta conclusione: dal 1992 si realizza per via fattuale una profonda riforma della prassi politica che attribuisce alla vigilanza della magistratura sui comportamenti di partiti e singoli parlamentari un decisivo valore certificante. Da un lato ciò stabilisce l’impianto costitutivo e caratterizzante di quella che per convenzione è definita Seconda Repubblica e, a margine, spiega l’insuccesso dei vari tentativi di riforma costituzionale avviati nel periodo: la riforma essenziale è già stata fatta e si perfeziona nel tempo con i vari interventi legislativi autolimitanti. Dall’altro lato riduce lo spazio di decisione della politica: una serie di opzioni relative al ruolo dei magistrati sono di fatto escluse. Al riguardo è da notare una novità di rilievo: alcune forze politiche si schierano come supporter incondizionati dell’opera di vigilanza svolta dai magistrati e delle loro esigenze in quanto categoria. La filiera di successione del Pci, An e soprattutto il M5S trasformano il tema della legalità in motivo di identità. Tutto ciò definisce, come tratto qualificante del periodo successivo al 1992, un prolungamento ideale e operativo della magistratura in politica. Molto ampia e capillare è anche la cessione di comando alle Regioni che nel 2001, con la riforma del Ti-
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tolo V della Costituzione, ottengono potestà legislativa negli ambiti che non sono di competenza esclusiva dello Stato: ampliano così le proprie competenze funzionali, attingono una larga autonomia di spesa (dando vita, fra l’altro, a un gran numero di nuovi soggetti partecipati: agenzie, Ato, consorzi, unioni) e lasciano la responsabilità del finanziamento quasi per intero allo Stato. Questa felice condizione di libertà irresponsabile è potenziata dall’elezione diretta del presidente di Regione introdotta nel 1999 con una modifica costituzionale: di fatto il «governatore» ha una sorta di legittimazione popolare a spendere e ad allargare il raggio d’azione dell’ente pubblico. Com’è naturale, una simile condizione estende il contenzioso fra Stato e Regioni di fronte alla Corte Costituzionale. La qualità spesso modesta della legislazione prodotta, il disordine amministrativo di molte Regioni, che talora diventa sperpero, la proliferazione di enti e società controllate di cui in molti casi sfugge la ragione funzionale hanno attirato nell’ultimo decennio critiche e interrogativi su larga scala: il ritorno al centro di molte competenze, previsto nella fallita riforma costituzionale del governo Renzi, è comunque un indizio della percezione negativa prevalente nell’opinione pubblica riguardo a un istituto che, dopo quasi mezzo secolo di vita, non sembra ancora aver giustificato la propria utilità. Il successo dei referendum 2018 di Veneto e Lombardia, tesi ad ampliare l’autonomia fiscale, indicano, più che un soprassalto di fiducia nell’istituto regionale, il forte desiderio del Nord di spendere in loco una parte crescente delle imposte raccolte. L’ultimo deflusso di comando avviene verso altri organi dello Stato centrale: l’alta amministrazione in pri-
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mo luogo e poi nuove figure istituzionali come autorità indipendenti e varie agenzie di scopo. L’origine di questo movimento si trova in primo luogo nella crescente quantità e complicazione della produzione legislativa: aumenta il numero dei soggetti che creano norme (istituzioni comunitarie, Regioni), cresce la domanda di garanzie e tutele con la speculare offerta di nuovi diritti in cerca di legittimazione, si rafforza la spinta per agevolazioni legali (che in parte sostituisce quella, sempre più difficile da soddisfare, di sostegni finanziari), diventa complicato il compito di connettere in sistemi coerenti i vari pezzi di legislazione. Aumentano decreti di attuazione e regolamenti che diventano strumenti essenziali per rendere operative leggi sempre più intricate sia al proprio interno sia nel nesso con le altre norme: in ciò gabinetti ministeriali e alta dirigenza amministrativa accumulano comando togliendolo alla politica. Accanto alle ragioni tecniche (la complicazione va trattata dagli specialisti), il deflusso di comando allinea motivi politici: allenta la crescente pressione dell’opinione pubblica e fornisce una parvenza, anche se illusoria, di risposta: un organo espressamente dedicato al problema fa comunque buona impressione. A tutto ciò dà impulso il blocco di leggi approvate nel biennio 1997-1998 che introducono nell’amministrazione criteri di gestione mutuati dall’ambito privato e, creando modelli ibridi ad alto tasso di confusione, aumentano lo spazio discrezionale rimesso all’autonoma decisione dei dirigenti. L’alta intensità giuridica che oggi contraddistingue tanti ambiti della vita sociale non dipende solo dal surplus di produzione normativa generato dalla frammentazione del comando politico; deriva anche da una radi-
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cata ideologia che nella scoperta e affermazione di nuovi diritti, evanescenti nella sostanza ma legittimati da arabescate genealogie costituzionali, vede il progressivo perfezionarsi dell’eguaglianza e un mezzo per stabilire una nuova identità civile differenziata dalla tradizione. Dal pluralismo informativo alla privacy, dalla trasparenza finanziaria all’identità di genere fino alla qualità ambientale o all’internet ultraveloce, l’ultimo trentennio ha rivelato una fantasia sbrigliata nell’inventare scatole giuridiche che, incrociando una propensione comunitaria di analoga matrice ma orientata alla conformazione costruttivista dei mercati, fanno sgorgare norme a cascata: lo sbocco naturale – che premia gruppi di pressione, partiti legati al totem dell’eguaglianza, professionisti dell’ideologia costituzionale – è la formazione di organi specializzati che perimetrano il campo, sgrossano i concetti base, fanno regolamenti, istruiscono squadre di vigilanza. Su questi principi nascono a partire dagli anni Novanta autorità o agenzie che tolgono allo Stato centrale funzioni tradizionali e sviluppano in aggiunta attività inedite: i processi si frammentano e si intersecano, funzioni e personale raddoppiano, gli apparati si feudalizzano. I deflussi di comando dal centro politico provocano tre conseguenze principali. In primo luogo: le procedure si complicano e i tempi si allungano. Ci sono più attori decisionali che esprimono comando, cercano legittimazione e si muovono fra loro in concorrenza; l’esercizio del potere centrale diventa più difficile; i vertici politici perdono razionalità strategica (efficacia rispetto agli obiettivi istituzionali). Ne risulta un costante aumento della ricchezza collettiva assorbita dal sistema
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pubblico e una crescente quota di tempo e di attenzione devoluta dai cittadini all’interazione con gli apparati amministrativi. Proliferano i conflitti burocratici, diminuiscono l’efficacia delle operazioni e la nitidezza delle procedure. In secondo luogo aumentano i costi. Quanto più numerosi sono i centri con un’autonoma capacità di spesa tanto più facilmente il livello dei costi sfugge ai controlli e beffa i conati di spending review: il comando centrale, ormai indebolito, non è in grado di scrutinare e disciplinare la miriade di soggetti che possono spendere. Lo stallo inefficiente costa sempre di più. L’immobilismo è velato dalla confusione dei processi amministrativi: è il terzo danno che la dispersione del comando porta con sé. Il bizantino labirinto delle procedure oscura la responsabilità personale e dissolve l’imputazione politica: tutti sono presi nell’intreccio dei poteri sovrapposti e nessuno risponde del risultato finale. Ma una politica senza responsabilità è una politica irriconoscibile: come nel 1992, anche oggi la macchina dello Stato non ha più una guida visibile e naviga in autonomia; a differenza del 1992, l’apparato pubblico del 2018 è più complesso, frastagliato, risentito (la cura Renzi) e – dopo aver aiutato a schiantare il governo precedente – vuole plasmare l’inesperienza dei nuovi leader. A piccoli passi, chiuso nella propria sapienza feudale, avvia l’Italia lungo il tracciato, alla lunga esiziale, dei microinteressi che da sempre tutela. Le cessioni di potere, esterne e interne, coincidono fin dall’inizio con fasi acute di quei conflitti civili che, a bassa o alta intensità, segnano dalla seconda metà degli anni Sessanta – subito dopo il periodo di grazia del cen-
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tro-sinistra d’esordio – la storia italiana. Il primo passo si compie negli anni Settanta con la legislazione d’emergenza che conferisce ai magistrati pesanti responsabilità e una crescente gamma di funzioni: è la stagione del terrorismo, una fascia di società piccola ma rilevante (anche in ragione della sua composizione sociale) esce fuori dalla convivenza civile, sbandano le due maggiori forze politiche colpite da una profonda crisi strategica (il Pci patisce il fallimento economico e ideale dell’Unione Sovietica ormai in visibile affanno; la Dc, partito-Stato, non riesce a dare prospettiva all’Italia dopo la fine del ciclo di espansione cominciato negli anni Cinquanta). La politica si ripiega su se stessa e perde capacità di guida collettiva. Lo sbandamento è tanto più grave in quanto l’Italia, nazione di frontiera geografica ma anche politica (il Pci è uno dei due muri portanti del sistema dei partiti e insieme l’agente diretto di uno Stato che all’epoca è nemico strategico), riceve dal 1945 crescenti e capillari attenzioni internazionali (accadeva anche in passato, ma con la guerra fredda la scala degli interventi diventa maggiore). Con una politica debole per i conflitti domestici le pretese esterne si rafforzano, si dispiegano nel quotidiano. Quando la crisi dei vertici politici ricade sul piano militare (Moro rapito e ucciso) e segnala interferenze devastanti da parte di potenze straniere, la delega a corpi dello Stato dotati di larga autonomia (magistratura, esercito) appare l’estrema via di salvezza: infatti è solo la combinazione fra la risposta quasi militare implicita nel trasferimento di responsabilità e la reazione sociale (la marcia dei 40.000 a Torino) che, dopo un’ulteriore fase di confusione della politica (Berlinguer ai cancelli di Mirafiori), chiude lo scontro.
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Conflitti civili e deleghe di potere È chiaro, nelle vicende degli anni Settanta, l’intreccio fra vincolo esterno e vincolo interno: il secondo precede per cronologia il primo che assume compiuta veste formale solo negli anni Ottanta, tuttavia nella sostanza è il vincolo esterno che, sebbene implicito e spesso sfumato, fin dal 1860 (anzi ancora da prima: 1855, guerra di Crimea) influenza e indirizza la storia dell’Italia unita costituendo il modello per la delega interna. Nel 1981, con il divorzio di Bankitalia dal Tesoro il vincolo esterno si formalizza, diventa istruzione operativa, comando strutturato. Negli anni Ottanta i vertici politici cercano di riprendersi la delega e di arginare le cessioni di comando: Craxi rivaluta il momento decisionale, sono riformati i regolamenti parlamentari, sulla questione cruciale della scala mobile il governo fa una mossa a sorpresa e affida la scelta a un referendum popolare. A favore del rilancio d’iniziativa della politica giocano sia la crisi dell’establishment industriale, i cui campioni privati (Fiat, Olivetti, Pirelli, grandi editori) sono debilitati dalla dura congiuntura degli anni Settanta e dalla carenza di investimenti, sia l’ascesa spavalda e sprezzante del rischio di spregiudicati outsider (Ferruzzi, Berlusconi, Tanzi) venuti dal nulla, o da condizioni marginali, che mettono a soqquadro assetti e gerarchie di settori cruciali (chimica, televisione, editoria). Il conflitto si polarizza sulla questione televisiva dove si affrontano due partiti editoriali (Fininvest e Repubblica) che si collegano, con reciproco sostegno, a varie forze politiche (ipersensibili al gioco dei poteri nella comunicazione). Tuttavia il siste-
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ma politico, che sconta la crescente tensione internazionale indotta dalle convulsioni finali dell’impero sovietico (l’invasione afghana), rimane in condizioni di debolezza: il debito pubblico, causa anche il divorzio TesoroBankitalia del 1981, fa un balzo, l’economia si allinea con grande fatica agli standard richiesti dal Sistema monetario europeo, le imprese pubbliche – che avevano alimentato insieme politica e sviluppo economico – si avvitano in una spirale a mutuo rinforzo di inefficienze gestionali e scontri di clan. In queste condizioni, aggravate dalle aspre divisioni fra le fazioni della maggioranza (la guerra di De Mita a Craxi), il tentativo di ristabilire unità di comando ha scarsa efficacia. Di fronte alla fragilità sistemica della politica spicca l’ascesa – nel prestigio e nel ruolo – della magistratura che si rivelerà determinante durante la crisi degli anni Novanta. Il fattore chiave è l’estensione alla mafia della delega a contrastare le organizzazioni che mettono in pericolo la vita dello Stato, già sperimentata con il terrorismo (fenomeno ormai in via di estinzione). È una cessione che subito si mostra molto significativa per almeno tre ragioni, diverse ma convergenti. La prima è politica: nel settembre 1982, pochi mesi dopo la nomina a prefetto di Palermo con poteri (promessi ma non attuati) da plenipotenziario antimafia, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è ucciso in un attentato in stile commando: si apre una scia di sangue lunga un decennio che fa emergere, soprattutto in ambito democristiano, una complessa rete di rapporti ambigui. La seconda ragione è ideologica: a differenza del contrasto al terrorismo, che suscita solo una floscia retorica priva di valore politico (tolto il picco di attenzione nei giorni del rapi-
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mento Moro), l’antimafia genera una potente – spesso intimidatoria – ideologia, ostile alle forze di governo e sintonica con la sinistra, che eleva la questione siciliana a decisiva emergenza nazionale (soprattutto dopo gli efferati omicidi di Falcone e Borsellino nel 1992). La terza ragione rimanda al vincolo esterno: date le connessioni internazionali della mafia, i magistrati delegati a combatterla formano, anche per ragioni funzionali, una rete di relazioni a largo raggio. Rilievo politico, armatura ideologica, rapporti atlantici: la magistratura diventa un potere speciale preminente rispetto agli altri apparati dello Stato. Negli anni Novanta i fattori di crisi, gonfiati da tempo, si congiungono ed esplodono. L’elemento catalizzatore, come sempre, proviene dall’esterno: è importante, al riguardo, la sequenza cronologica. Nell’agosto 1991 si schianta l’Unione Sovietica e al suo posto sorgono una dozzina di repubbliche indipendenti, gli Stati Uniti raggiungono un acme di potenza forse inedito nella storia mondiale, si scatena di conseguenza un vasto riassetto di poteri in molti Stati per svariate ragioni fragili: Russia, Paesi dell’Est (Jugoslavia in testa), Italia e poi anche Francia (1995: dopo vent’anni tornano i gollisti) e Spagna (1996: la destra arriva al potere). Nel 1992, a partire da febbraio, comincia a scricchiolare lo Stato italiano che o cede poteri a ritmo accelerato o si dimostra incapace di affrontare le emergenze: firma del Trattato di Maastricht, avvio di Mani Pulite, stragi di mafia (maggio e luglio), crollo della lira e svalutazione (settembre). Il sistema dei partiti perde il baluardo strategico che nei quarant’anni della guerra fredda lo aveva sostenuto in quanto cruciale per gli equilibri internazionali: in breve
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tempo è travolto e le istituzioni sbandano. Nel vuoto si delinea uno strisciante riassetto costituzionale: la perdita a cascata di status e funzioni del potere centrale, il nuovo rango e ruolo della magistratura, l’espansione funzionale che – in concomitanza con il disfarsi dei partiti – vive la Presidenza della Repubblica (Scalfaro, Napolitano). La scena politica, ormai sguarnita, è conquistata dalle coalizioni editoriali che vi trasportano il proprio conflitto sregolato e feroce: sono però soggetti politici molto fragili, con scarse radici nella società, che non riescono neppure a darsi mutuo riconoscimento. Il vincolo esterno e le cessioni di potere crescono d’importanza, cambiano qualità. In particolare, la magistratura, rafforzata da un vasto consenso ideologico, opera come istanza presupposta alla politica e atta a vincolarla: mette nel mirino una terza delega da ottenere non più per cessione spontanea ma da conquistare sul campo – quella per la lotta alla corruzione, soprattutto partitica. Nella confusione seguente al crollo dell’Urss (dissesto di molti apparati di Stato russi, transizioni difficili nei Paesi del Patto di Varsavia) si diffonde il timore per il crescente potere delle mafie che dilagano oltre i rispettivi confini: ciò amplia il campo d’azione e il rilievo politico delle agenzie internazionali. L’occasione viene colta, la magistratura consolida, attraverso i nessi internazionali, la propria espansione di potere e diventa custode della politica ormai vista (dall’opinione pubblica in primo luogo) come un indiziato sul luogo del delitto. Nella crisi le coalizioni editoriali servono molto per fare campagne elettorali ma poco per attuare scelte di governo: l’efficienza istituzionale si riduce al minimo e le cessioni di comando diventano la principale attività
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politica svolta nel periodo del bipolarismo conflittuale, il marchio qualificante di un’epoca sbandata. Nelle fasi di disgregazione (1992-1995, 2011) o di incertezza (20062007) le cessioni sono imposte (opinione pubblica, soggetti destinatari) a un sistema politico privo di autorità ideologica e hanno l’aspetto di capitolazioni. Nelle fasi più ordinate, coincidenti per lo più con i momenti di predominio del centro-sinistra che vanta un nesso di lunga data con l’establishment (industriale e amministrativo), sono volontarie, fanno parte di un disegno ad ampio respiro (rafforzare il credito internazionale, consolidare alleanze economiche, allargare il raggio di interessi difesi dalla coalizione), ma in qualche caso (riforma pro-Regioni del Titolo V approvata alla vigilia delle elezioni 2001) mostrano un certo affanno tattico, derivante forse dalla pressione per risultati a breve. Il centrodestra, che bada soprattutto alle preferenze del grande pubblico (al contempo corpo elettorale e audience televisiva), è meno attento alle alleanze tra i poteri, sottovaluta i vincoli esterni, trattati per lo più in termini di propaganda o di autodifesa spicciola, e alla lunga paga cara la distrazione: gli elettori, cui alla fine poco è stato consegnato, non si mobilitano nella fase difficile, i sostegni esterni evaporano. L’inventore della coalizione prima è cacciato dal governo, in cui il suo partito stava da gregario solo per necessità numerica, e meno di due anni dopo messo agli arresti – quinto leader eminente in mezzo secolo, contando Mattei, a uscire dalla scena politica in modo cruento o forzoso. Il centro-sinistra, che pure ha in dote una base sociale più ristretta, si trova in mano il gioco – più per effetto di vincoli esterni e connessioni economi-
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che che per merito proprio. E infatti nel giro di pochi anni, con i governi del vincolo esterno (da Monti a Gentiloni), perderà in modo rovinoso tutto quanto: potere, consenso, base sociale. Il conflitto civile, che in varie forme segna la storia italiana dell’ultimo mezzo secolo (soprattutto il periodo da febbraio 1992 a marzo 2018), porta insieme debolezza politica, frammentazione dei poteri, perdita di comando (e di sovranità), debito pubblico. La cessione dei poteri, che del conflitto civile è l’elemento distintivo, produce sul piano sistemico due mutamenti essenziali. Da un lato sposta funzioni, come si è visto, fuori dal perimetro nazionale – verso l’alto (Unione Europea, organismi sovranazionali) e verso l’esterno (mercati). D’altro lato rafforza istituzioni che non sono basate sul voto popolare (magistratura, autorità indipendenti) mentre indebolisce governo e Parlamento. In questa dinamica si può anche ricomprendere la crescente espansione del campo operativo di istituzioni cruciali come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale. Questi sviluppi, però, fanno parte ormai di un’epoca che si chiude. Oggi la partita è diversa. Al governo si trovano nuove forze politiche che disprezzano le vecchie, hanno vinto le elezioni mettendo nel mirino i vincoli esterni, vogliono riprendere comando e riaccentrare poteri, ma non sanno bene come farlo. Il punto è che la dispersione del comando è andata ormai molto avanti – ed è quindi sempre più difficile da smontare – sia perché cumula le azioni del passato, ovvero decenni di cessioni a organismi diversi che non si coordinano e quindi fanno essenzialmente veto, sia perché si assimila ai processi digitali in divenire e trova in ciò potenti in-
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centivi. La disintermediazione è un esempio tipico: accorciando le catene operative e disseminando le funzioni svolte nei punti di lavoro eliminati tra un gran numero di consumatori mostra una notevole somiglianza strutturale con le cessioni di comando (ne è favorito il mutuo rinforzo nella vita sociale). Entrambi i processi moltiplicano i punti di decisione diffusi nella società, dilapidano il capitale strategico o visionario concentrato in nodi fondamentali dell’agire collettivo (tali sono tanto un vertice amministrativo, quanto la stazione intermedia di una catena operativa o l’editore entro una filiera di comunicazione), alimentano con il sovrapporsi delle voci disordine cognitivo e stallo operativo. La perdita di capitale strategico è alla base di due fenomeni regressivi che segnano nel profondo la società italiana e contribuiscono a spiegare la scarsa attitudine costruttiva del corpo politico attuale. Il primo è il rinsecchimento di quei corpi intermedi – sindacati, associazioni, parrocchie – capaci di raccogliere e coordinare su obiettivi larghe parti della società: ora appaiono in difficoltà per l’autismo delle fonti e la scomparsa di interlocutori (controparti) dotati di reale comando e in grado di fare strategia. La seconda regressione è il rapido assottigliarsi della borghesia formata attorno alle grandi imprese nazionali (e ai loro disegni strategici) che sono o dissolte (l’integrazione dei mercati è, negli alti livelli, anche ferocia di scontri fra potenze) o dimezzate dalla vigilanza giudiziaria o infine trasferite all’estero – almeno per quanto riguarda i punti di comando – con una grave riduzione del raggio d’azione e di visione del sistema-Paese. Prevale insomma, nella società e in simmetria dentro
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le istituzioni, l’atomizzazione del comando che in alcuni luoghi (ben delimitati) produce una razionalizzazione dei tragitti operativi, ma sul piano generale implica un drammatico calo della sintesi sistemica – ovvero di quel capitale cognitivo diffuso nella società (general knowledge) che pondera fattori molteplici su una scala temporale prolungata (capitale strategico) o individua entro la complessità vie innovative (capitale visionario, contenuti creativi). Per la società è un impoverimento che genera incertezza e confusione nell’azione. Alla fine, tuttavia, se il segno dell’attuale turbinosa innovazione tecnologica (rivoluzione digitale, intelligenza artificiale) sarà declinato in chiave regressiva, come intensificazione dell’orizzonte individuale ma al di fuori di una prospettiva sistemica di sviluppo, oppure sarà interpretato in chiave propulsiva, come ricostituzione di capitale strategico e ripresa dello Stato, dipende dalla soluzione che prenderà la crisi politica. Il voto del 4 marzo 2018, con il suo dirompente risultato che dà oltre metà dei voti a due movimenti o neonati (M5S è alla sua seconda elezione nazionale) o appena rifondati (Lega) e mette ai margini le forze che da un quarto di secolo dominano la scena parlamentare e fanno i governi, è soprattutto un sintomo di malessere: chiude una fase storica, ma non mostra la forza e la visione per aprirne una nuova. Inaugura una transizione incerta, ancora da definire nei suoi tratti operativi, esposta a molti contrasti e a contrattacchi violenti: più che un momento di decollo segna una frattura – un’altra – nella storia politica recente. Prima del marzo 2018 il dopoguerra ha visto solo
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due altre cesure di sistema (e di potere): quella avviata con il referendum del giugno 1991 sulla preferenza unica e conclusa con le elezioni del marzo 1994 che portò alla fine della Repubblica proporzionale nata nel 1946; quella del 2011, importata dall’esterno sull’onda dello spread, che aprì la via ai fallimentari governi dell’establishment. Entrambe le cesure precedenti hanno avuto un andamento traumatico e hanno mutato la fisionomia del sistema politico: quella attuale non sfugge alla regola. Nei casi trascorsi i cambiamenti non hanno provocato esiti felici e la crisi italiana nel tempo non ha fatto che aggravarsi: l’esasperazione testimoniata dai risultati elettorali lo dimostra. Oggi però il contesto internazionale, che in passato non ha giocato per noi, è molto fragile: i due Stati-guida dell’Ue sono in difficoltà politica, scoprono che le strategie perseguite da lungo tempo funzionano poco nell’attuale quadro mondiale e anzi talvolta sono controproducenti, non riescono più a fare l’unità dell’Ue sulle proprie scelte di fondo. In Italia la presa dell’establishment, che ha sempre penalizzato gli impulsi innovatori, appare confusa e contestata, l’innovazione della tecnologia offre chance favorevoli: se non esplodono bolle o dissesti sulla scena globale, c’è forse qualche speranza, nonostante disillusioni e rancori, per un ricambio della politica.
Finito di stampare nel mese di dicembre 2018 da Geca Industrie Grafiche - San Giuliano Milanese (mi)