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Italian Pages 311 [321] Year 2011
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MASSIMO NOVELLI
La cambiale dei Mille E ALTRE STORIE DEL RISORGIMENTO
INTERLINEA EDIZIONI NOVARA
© Novara 2011 interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 www.interlinea.com, [email protected] Stampato da Italgrafica, Novara ISBN 978-88-8212-767-1 In copertina: Un garibaldino della spedizione dei Mille, 1885 ca. (DeA Picture Library, concesso in licenza ad Alinari)
A Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare Abba e Giuseppe Bandi, garibaldini. Ricordando Luciano Bianciardi, cantore del Risorgimento.
Nella primavera del 1943 Leone Ginzburg, confinato politico in un paesino degli Abruzzi, e già presago della crisi suprema che avrebbe investito tutto il Paese, si rifaceva, in alcune bellissime pagine pubblicate dopo la sua morte, alle tradizioni risorgimentali, e ne riscopriva la drammatica attualità. Per gli italiani, diceva, l’atteggiamento da assumere nei riguardi di quel periodo implica ancora una scelta. Il Risorgimento non è «un recipiente in cui si possa versare qualunque liquido», ma una tradizione «a cui ci si richiama di continuo per ricavarne norme di giudizio e incentivo all’azione». ALESSANDRO GALANTE GARRONE (in “La Stampa”, 6 maggio 1961)
Apoteosi di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi allusiva alla liberazione di Roma, incisione su disegno di Quinto Cenni, 1883.
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Si scopron le tombe, si levano i morti
Lo hanno tradito, dimezzato, imbalsamato con la retorica, e infangato, dimenticato. Resta il fatto che quelli del Risorgimento «non furono anni tristi, men che mai noiosi; anzi non ci sono nella nostra storia episodi più eroicamente festosi, concitati, coloriti, persino un poco matti, di quelli che vedremo tra poco: lo sciopero del fumo, la conquista di Porta Tosa, l’incontro di Garibaldi con Carlo Alberto, la beffa di Corleone paiono immaginati da un umorista di acuta fantasia. E proprio la fantasia giovò molto a vincere parecchie di quelle battaglie, specialmente quando furono battaglie popolari e popolane». Lo scriveva il Luciano Bianciardi da Grosseto, che se per ragioni anagrafiche non ebbe la fortuna di essere in carne ed ossa uno dei Mille come il suo gran conterraneo Giuseppe Bandi, che era di Gavorrano, Maremma di miniere, tuttavia fu garibaldino egualmente, in idea, in spirito e in letteratura. Diceva così, il Bianciardi, che di Risorgimento se n’intendeva assai. E diceva bene. Anni davvero memorabili, quelli del 1820-21, del 1848, del 1860 e del 1861, del 1870, non soltanto perché si fece l’Italia che si doveva pur fare, sebbene, alla fine, venisse messa assieme molto male, ossia malissimo, da casa Savoia, e i popolani e i popolari di Giuseppe Garibaldi, oltreché gli ex sudditi delle Due Sicilie, si ritrovarono ingannati e poi liquidati, soprattutto «cornuti e mazziati» dai piemontesi e dai «galantuomini», tassati e vestiti obbligatoriamente, i na7
poletani, i calabresi e siciliani, della regia divisa. E venne così la cosiddetta guerra al brigantaggio nel sud, che fu in realtà guerra brutale di classe e di sterminio delle popolazioni meridionali, come aveva compreso all’epoca un ufficiale dello stato maggiore sabaudo, figlio non troppo degenere, col senno di poi, di un grande congiurato del ’21. Ma l’Italia si fece, si unì, anche se a unirla ci pensarono il Generale nizzardo e le sue camicie rosse, che al Volturno, dai 1089 sbarcati a Marsala, arrivarono a essere almeno 40 o 50 000. Come si fecero, tanto per dire, i moti carbonari e l’insurrezione della Cittadella di Alessandria, la Giovine Italia, le Cinque Giornate di Milano e la carica di Pastrengo, senza dimenticare la difesa della repubblica romana, lo scontro di Magenta e quelli di Calatafimi, di Milazzo, del Volturno, di Bezzecca. E questi fatti d’arme e di cospirazioni, di ideali e di intrighi, di glorie e di martiri, di romanticismo e di ragion di Stato, di alleanze e di divisioni, ebbero, quali eroi e protagonisti da storia, da romanzo, da dramma e pure da commedia («Era terminata la sinfonia, e s’entrava davvero sul palcoscenico per dar principio al primo atto» ricorda il Bandi in I Mille), italiani di tutte le contrade della penisola e delle isole, mettendoci nel conto i forestieri, gente della razza di Tukory, di Türr, di Eber, del De La Flotte, dei volontari americani e ungheresi, svizzeri e persino del Mozambico e di Haiti, non scordando l’Alexandre Dumas, che al Generale e alle camicie rosse dedicò libri esagerati, come era suo mestiere, e vanagloriosi, ma pur sempre di genio. I cognomi degli artefici del nostro Risorgimento sono scritti nelle lapidi, nelle stele, sui basamenti dei busti e dei monumenti che s’affollano, sovente in un’incuria invereconda, nelle vie, nelle piazze e sui muri dei palazzi delle città, dei paesi, d’Italia. Ma la gran massa degli italici di 8
oggi ben poco sa di loro, nemmeno dei più titolati, si tratti di Silvio Pellico, di Peppino Garibaldi o di Anita, del Mazzini, del re galantuomo oppure del re Tentenna e del Grande Tessitore di Santena; o di Massimo d’Azeglio, di Bettino Ricasoli, di Nino Bixio, dei fratelli Bandiera, di Carlo Pisacane, di Medici e di Sirtori, di Cialdini, di Alfonso e Alessandro della Marmora, di Goffredo Mameli e dei Cairoli. Un’ignoranza, un silenzio, che divengono massimi tra il popolo e tra gli studenti, tra i borghesi e i blasonati, tra i ricchi e i miseri, se si pronunciano i nomi di un Carlo Bianco di Saint Jorioz, di un Giacinto di Collegno, di un Santorre di Santa Rosa, di un Pasquale Sottocorno, di un Amatore Sciesa (forse manco più rimembrato per il suo «Tiremm innanz») e di una Giuditta Sidoli, di Stefano Türr e del colonnello Scalavo, di un Gabriele Pepe e dei Poerio, di Ciceruacchio, di Gustavo Modena, dei generali Chrzanowski e Ramorino, dei quali tutto sommato sarebbe meglio tacere per amor di patria; e continuando con Agostino Bertani e Laura Mantegazza, la contessa di Castiglione, l’Alessandro Antongini da Borgosesia e gli studenti toscani del ’48, Agesilao Milano e Bronzetti, Ippolito Nievo e Avezzana l’indomabile, Dezza, la principessa Cristina Trivulzio Belgioioso e Teresa Confalonieri Casati. Anche le donne, certo, perché nel Risorgimento ebbero una parte bella e coraggiosa. Specialmente alla milanese Porta Tosa, al Broletto, fecero una specie di rivoluzione femminista ante litteram. Per citare il Luciano Bianciardi grossetano, insomma, nel marzo del 1848, nella cerchia dei Navigli, «non poche sono le donne che si appostano, disciplinate e valorosissime, dietro le barricate». Ma anche loro, come i loro padri, i fratelli, gli amanti e gli innamorati, sono state consegnate all’oblio pubblico: come l’avvenente contessa Maria Martini Giovio della Torre, la 9
baronessa Speranza Von Schwartz e Tonina Marinello, la bionda garibaldina veneta protagonista di uno stornello struggente di Francesco Dall’Ongaro. Facendosi passare per un uomo, combatté con valore dalla Sicilia al Volturno. Morì giovane, di tisi, a Firenze. Latita e scompare la memoria reale del Risorgimento, che è stato tante cose: un’avventura patriottica e romantica, una liberazione dallo straniero, un’opera di nobili, di borghesi e di popolo, anche della massoneria repubblicana e garibaldina, e nello stesso tempo un’impresa militare e diplomatica condotta neanche troppo mirabilmente, una conquista e una colonizzazione regia. Fu l’epica di Curtatone e Montanara, della repubblica di Venezia, della fuga di Garibaldi con Anita morente, ma significò anche la condanna a morte dei rivoluzionari piemontesi del 1821, Carlo Alberto al Trocadero contro i costituzionali spagnoli, le fucilazioni di Bronte, la misteriosa scomparsa in mare di Nievo con le carte che dovevano provare l’onestà dell’amministrazione garibaldina della Sicilia, la vergogna di Lissa. E la sua anima democratica, da Mazzini e da Bianco di Saint Jorioz, morto suicida e povero in canna a Bruxelles, a Giuseppe Ferrari, al “comunista” Pisacane, venne fatta a brandelli, rimossa con lo scioglimento dell’Esercito Meridionale di Garibaldi, insanguinata dalla repressione del brigantaggio, dalle tasse sul macinato e infine, quasi trent’anni dopo la breccia di Porta Pia, dai cannoni di Bava Beccaris. Di sicuro, con il fido Bianciardi, possiamo affermare che «il Risorgimento fece l’Italia quale poi ce la siam trovata noi italiani, lacerata e divisa. Divisi fra italiani ricchi e italiani poveri. Fra italiani del nord e italiani del sud. Fra italiani dotti e italiani analfabeti». Garibaldi e i garibaldini, i democratici, fecero. Cavour raccolse e stravolse, seppure il conte, essendo morto subito dopo la pro10
clamazione dell’unità, magari, se fosse campato ancora qualche anno, avrebbe cercato di far stravolgere un tantino di meno. Ciò non autorizza, in ogni caso, a sparare a zero su quelle vicende, come si fa adesso, mediante un revisionismo sbracato e ignorante che strumentalizza, per fini di bassa macelleria politica, una storia complessa, che peraltro non si conosce, e che comunque costituisce il fondamento della nazione, la sua unica epopea. Conversando anni fa con il professor Franco Della Peruta, uno dei massimi studiosi del periodo risorgimentale e degli albori del movimento operaio, si parlò proprio dell’uso politico della storia, che sembra soverchiare la ricerca storica. Disse che «un uso strumentale della storia sul Risorgimento è sempre stato fatto. Penso alle polemiche sulle insorgenze del 1796, del 1797. Oppure sui veri portatori dei valori nazionali, i giacobini o le masse sanfediste. Ecco, questo è l’esempio d’un tipo di intervento revisionistico. È capitato poi con il federalismo e con Carlo Cattaneo: trasformato in uno strumento di forze interessate alla devoluzione, ne hanno fatto un antesignano. Dimenticando che Cattaneo fu sì federalista, ma anche assertore fiero dell’unità nazionale, che non è incompatibile con il federalismo. Tra le pagine più belle di Cattaneo ci sono quelle sul tricolore. Quindi, ai margini della storia, ci sono le periodiche esaltazioni dei governi borbonici e via dicendo. Ma questo è un aspetto folcloristico». Piuttosto preoccupava (e preoccupa ora, a maggior ragione) l’ignoranza di quella parte della storia d’Italia, e la messa in discussione delle cattedre universitarie di storia del Risorgimento, i tentativi di riscrittura in chiave revisionista dei manuali per le scuole. Nel difendere la sua disciplina, l’anziano professore non voleva salvaguardare un posto di lavoro, bensì «dei valori fondanti per gli italiani». E 11
«senza questa storia, l’Italia resta una nazione un po’ disancorata. Il Risorgimento fu pure un fatto corale: nelle Cinque Giornate di Milano ci furono trecento morti; a Brescia, che allora era una città di 9000 abitanti, le vittime furono settecento. Penso anche al volontariato del 1848, agli oltre 40 000 che andarono con Garibaldi fino al Volturno. In qualche misura, tutto ciò va tenuto presente. Quello che non va bene è il Risorgimento agiografico». Anche perché, per come si svolsero veramente, in particolare sul fronte dei mazziniani, dei democratici e dei volontari garibaldini, i moti risorgimentali non sono materia destinata alla retorica e all’agiografia. Sempre il nostro amico Luciano Bianciardi, toscano tosto e non pentito, ci diceva che «il Risorgimento è una faccenda che appassiona e avvince, e persino diverte». Ed è colmo di storie emozionanti, umanissime, commoventi, e di uomini e di donne che sperarono, soffrirono, patirono la galera, combatterono, vissero e, in molti casi, morirono, per la patria, l’indipendenza, la libertà, la giustizia, l’eguaglianza. A emblema di ciò ci possono soccorrere le parole di Luigi Bogetti, studente e patriota biellese (di Mongrando), recuperate grazie allo studioso Marco Albera. Partendo per il fronte nel XVI reggimento di fanteria, in Quel Quarantotto come avrebbe detto Augusto Monti, scrisse agli amici: «I presentimenti li lascio alle donnicciuole. Se ritornerò, bene; del resto, buon giorno». Si sostiene che la letteratura italiana sia alquanto avara di opere dedicate al processo che sfociò nell’unità nazionale, e che il Risorgimento, se non altro a livello di immaginario collettivo, sia meglio rappresentato dal melodramma di Giuseppe Verdi. Resta il fatto che ce ne sono alcune di notevole valore: dal romanzo capolavoro di Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano, e dalle sue lettere dal12
la Sicilia, per proseguire con la memorialistica garibaldina di Giuseppe Cesare Abba, di Giuseppe Bandi, di Giulio Adamoli e di Anton Giulio Barrili; fino alle poesie popolari di Dall’Ongaro, ad Antonio Fogazzaro, a Camillo Boito, a Giovanni Verga e a Federico De Roberto, oltre che a Il dottor Antonio e a Lorenzo Benoni di Giovanni Ruffini; e non dimenticando le rivisitazioni di Tomasi di Lampedusa e ovviamente del Bianciardi. In queste pagine rivivono con pienezza, in maniera vivida, il pathos di quei giorni, l’esaltazione dell’avventura liberatrice, le attese, i sogni, e poi le amarezze, i disincanti, le ferite, della «meglio gioventù» di allora. Sentite come Ippolito Nievo racconta all’amata cugina Bice Melzi Gobio lo sbarco a Marsala: Lo sbarco dei nostri fu pronto e felice; ma mentre io attendeva a scaricare le munizioni del secondo nostro vapore Il Lombardo cominciò il cannoneggiamento. Rimasimo colle polveri e colle granate sulla spiaggia, sotto una gragnuola di palle, finché le carrette si risolsero a scendere dalla città. Le nostre schiere assicurate dietro gli argini del molo rispondevano alle bordate col grido «Viva l’Italia!» Il battesimo del fuoco fu per esse santo e grandioso.
Ma è sempre lui, l’Ippolito bello e poeta, a mettere in rilievo l’altra faccia dello sbarco: A Marsala squallore e paura; la rivoluzione era sedata dappertutto o per dir meglio non avea mai esistito; solo qualche banda di semi briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del governo e qualche paura dei proprietari.
In questo libro che, romantico e popolare come si annuncia, vuole essere un omaggio palese ai garibaldini e a Luciano Bianciardi maremmano, vengono narrate alcune di quelle storie. Lo scopo è far rivivere il Risorgimento in 13
un viaggio che s’avventura tra personaggi, fatti e luoghi che, a cominciare dalle rivoluzioni costituzionali del 182021 del Mezzogiorno e del Piemonte, contribuirono a fare l’Italia. Episodi e protagonisti a volte decisivi, a volte apparentemente minori, in taluni casi poco noti, obliati, oppure venuti alla luce di recente: come il ritrovamento straordinario all’Archivio di Stato di Torino del testamento ancora sigillato di Carlo Bianco di Saint Jorioz, l’unico degli insorti del 1821 a non vedersi revocata la condanna a morte da parte di Carlo Alberto, che fu teorico della guerra di guerriglia e tra i fondatori della Giovine Italia e della Giovine Europa. C’è Bianco ma pure il figlio Alessandro, il capitano dell’esercito dei “piemontesi” che aveva capito qualcosa del brigantaggio meridionale postunitario. C’è il Nievo inghiottito dal nulla, al pari dei documenti riguardanti il naufragio in cui morì, che sono da tempo spariti dagli archivi, e rilucono Marchetti, il più piccino (d’età) dei Mille, e il Pagani da Borgomanero. Rullano i fogazzariani tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, come in Piccolo mondo antico. Spicca Alessandro Antongini da Borgosesia, che mettendo a rischio il suo lanificio garantì, con cospicua cambiale all’armatore Rubattino, il noleggio dei piroscafi Piemonte e Lombardo, consentendo a Garibaldi e alle camicie rosse di andare a prendere la Sicilia. C’è naturalmente Mazzini, l’Apostolo Nazionale, sempre alle prese con insurrezioni votate al disastro, colto in suo espatrio clandestino dalla val Vigezzo alla Svizzera che oscilla fra realtà e leggenda. Non mancano il Generale e naturalmente la Tonina Marinello, la dolce Virginia (di Castiglione), la conturbante contessa Martini, la Sidoli morente a Torino: e la fatal Novara del 1821 e del 1849, il bombardamento piemontese di Genova del ’49, i soldati borbonici prigionieri al forte di Fenestrelle. E il giusto spazio è da14
to al poeta e deputato della sinistra Angelo Brofferio, oltreché ad Amedeo Ravina da Gottasecca e al sergente Cirio del reggimento Alessandria. Come non si lesina un cammeo a Cavour che trama, con il Brofferio medesimo, per tenere lontano re Vittorio dagli affari di Stato, distraendolo nella caccia di cinghiali e di gonnelle. Si dà lustro alla nobile esistenza di Gabriele Pepe, resuscitato in virtù e gloria dallo storico Vittorio Scotti Douglas, e ai garibaldini dell’armata del sud che reclamano un posto sulla scena della storia, finora negatogli. Un opuscolo (di cinquant’anni fa) ci ragguaglia sulla vita e sulla morte del tappezziere Amatore Sciesa, nonché sul contributo delle classi popolari alla causa nazionale. Mentre dalle nebbie che avvolgono la guerra di Crimea riappare la figura eccezionale del capitano Celso Cesare Moreno da Dogliani, avventuriero e patriota a modo suo, dalle Langhe a Sumatra, che affascinò l’affabulatore Giovanni Faldella da Saluggia e avrebbe potuto ispirare Emilio Salgari. Tuonar di cannoni, luccicare di baionette, addii strazianti e troppe illusioni e battaglie perdute, vincitori e vinti. Il Risorgimento, dunque, nell’iconografia luminosa e rigato da ombre pesanti, fatto e mancato, desiderato e sviato, uno e trino, ma qui visto più nel bene che nel male, sia pure con molto disincanto. Un Risorgimento che, come nell’Inno di Garibaldi, parole di Luigi Mercantini e musica di Alessio Olivieri, ritorna comunque a echeggiare, a prendersi la scena: Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti! Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma e il nome d’Italia sul cor!
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Alphonse Lalauze, Il cannoniere Baraillier, che difende il suo pezzo d’artiglieria alla battaglia di Marengo il 14 giugno 1800, 1910 (Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria).
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Il tricolore di Alessandria E una piramide a Marengo
Dove si racconta di come non sia saggio fidarsi dei principi e dei re, e si narra di una rivoluzione perduta quanto la piramide di Napoleone Bonaparte. Si comincia a dire del conte Bianco e di Santorre di Santa Rosa, di Ansaldi e del capitano Ferrero. Si finisce con il popolo silente e con gli esuli al porto di Genova.
La rivoluzione divampò ad Alessandria nella notte fra il 9 e il 10 marzo del 1821. Agli ordini del conte Isidoro Palma di Borgofranco e del tenente Giuseppe Garelli, i militari insorti, che appartenevano alla società segreta dei Federati, spalancarono i cancelli e i portoni della Cittadella per lasciare entrare i reparti degli altri congiurati, tra cui spiccavano quelli comandati da Luigi Baronis e dal conte Carlo Bianco di Saint Jorioz. Non c’è da stupirsi per i bei nomi dell’aristocrazia del vecchio Piemonte coinvolti nell’insorgenza. Anche se quella scoppiata nella città-fortezza, adagiata lungo la pianura fra i corsi del Tanaro e della Bormida, fu una rivoluzione di militari e di borghesi, d’avvocati, di medici, di studenti, d’impresari di strade e persino d’orefici, nel resto del Piemonte, a Torino, pullulavano i conti e i baroni, in qualche caso anche i principi e i marchesi. Giovani gentiluomini, in massima parte, fior fiore della nobiltà sabauda, quasi tutti ufficiali e affiliati alle varie sette carbonare, che non ne potevano letteralmente più di Vittorio Emanuele I e dei suoi ministri parrucconi. Rimesso sul trono dopo la 17
caduta di Napoleone, il re di Sardegna, che temeva le innovazioni come il timorato di Dio teme il diavolo, si era affrettato, al rientro a Torino, nel 1814, a far piazza pulita di quanto di buono Bonaparte aveva fatto, cassando i suoi codici e le altre sue innovazioni in campo amministrativo ed economico. Aveva perciò ripristinato le antiche leggi e le anacronistiche consuetudini regie, risalenti ai tempi beati di Vittorio Amedeo II, ridando da buon bigotto il controllo dell’istruzione al clero e bollando come sovversive persino le timide aperture nelle barriere doganali. Gli ebrei e i valdesi vennero nuovamente discriminati. Nel furore passatista si pensò addirittura di far abbattere un ponte sul Po, a Torino, perché era stato costruito durante il periodo napoleonico. Fortunatamente il re suggerì che, dopotutto, era solamente un ponte, e che serviva, innocente, alla bisogna: con disprezzo divertito, disse che avrebbe calpestato ciò che i francesi avevano fatto. Se il popolo, nella maggioranza composto da contadini miseri, tirava avanti indifferente, tra fame e privazioni, carestie e guerre, così come sempre aveva fatto, salvo ribellarsi ogni tanto con violenza spaventosa alle scorrerie delle truppe di occupazione di turno, gli uomini di penna e di legge, in diversi casi tutti ex giacobini e soldati nell’armata napoleonica, e i rampolli delle grandi famiglie del regno mal tolleravano la restaurazione di Vittorio Emanuele e avrebbero voluto qualche riforma. Pareva che il medesimo Carlo Alberto, del ramo Savoia-Carignano, principe ereditario, guardasse con simpatia alle idee liberali e che fosse avverso all’Austria. In attesa dei cambiamenti, gli insofferenti all’Europa e al Piemonte usciti dal congresso di Vienna e gli aspiranti modernizzatori, ancorché moderati, rischiavano costantemente la cella. Gli ufficiali e i sottufficiali potevano incorrere nelle 18
punizioni inflitte dai vertici militari, nobili tutti vecchi di testa e altrettanto di corpo, che contemplavano la detenzione in fortezza e la confisca dei beni. Le fortezze, come Bard, Exilles e Fenestrelle, d’altro canto, non scarseggiavano in quel Piemonte, e le stesse, dopo il 1860, avrebbero ospitato, nel freddo, nella neve, i borbonici rimasti fedeli a “lo re”. Per tornare a quel 1820, al ’21, dal regno delle Due Sicilie e dalla Lombardia illuminata e illuminista, carbonara e federata, quella di Confalonieri, di Porro Lambertenghi, di Maroncelli e anche di Silvio Pellico, non ancora pentito e baciapile come sarebbe stato in seguito, giungevano echi di libertà, si cementavano sentimenti antiaustriaci e antiborbonici. La primogenitura spettava a Napoli, dove, nell’estate del 1820, sull’onda della sollevazione a Nola dei sottotenenti Michele Morelli, calabrese di Vibo Valentia, e Giuseppe Silvati, partenopeo, gli insorti liberali erano riusciti a strappare a Ferdinando I di Borbone una Costituzione molto avanzata, modellata com’era su quella di Spagna. Tra quei giovanotti piemontesi di belle speranze, che scalpitavano più dei loro cavalli, si distingueva Carlo Bianco di Saint Jorioz, nato nel 1795, con palazzo a Torino e possedimenti in Barge, non lontano dal monte Bracco celebrato da Leonardo da Vinci. Nel gennaio del 1815, con lettera inviata all’Ufficio del Soldo, il re gli aveva conferito «la carica di Sottotenente nel Reggimento de’ Nostri Dragoni con tutti gli onori, autorità e prerogative che ne spettano od appartengono e colla riserva di spiegare la di lui anzianità», ordinando «pertanto di assentarlo in tale qualità, e di farlo godere dell’annua paga e vantaggi fissati dalle Nostre Determinazioni de’ 19 luglio 1814, incominciando dal giorno stesso del suo assento e continuando in avvenire durante la di lui servitù ed il Nostro beneplacito che tale è nostra mente». 19
Ma Carlo, testa calda, ribollente di passioni, nel frattempo aveva aderito alla Federazione Italiana, intrattenendo rapporti anche con i settori più estremisti, antimonarchici, della carboneria. Un suo amico, il Carlo Beolchi, di Arona, sul lago Maggiore, a sua volta congiurato del 1821 e quindi esule in Spagna, lo avrebbe descritto «grande nella persona, di nobile aspetto, di alti sensi, di militare ardimento, della libertà amatore ardentissimo». Rimasto presto orfano di madre, era cresciuto con i cugini Sclopis, che tenevano salotti colti e liberaleggianti nei quali era possibile incontrare qualche ex soldato di Bonaparte, che in certe sere, forse scaldato dal vino e illanguidito dai ricordi, si lasciava andare a rievocare il genio e le imprese del “piccolo caporale”, le battaglie della campagna d’Italia e di Marengo. E altri, probabilmente, s’immalinconivano ripensando alla piramide che il già primo console, l’imperatore, insomma, aveva ordinato di fare erigere fra Marengo e Castelceriolo, nei luoghi in cui Desaix e gli altri prodi, come Kellerman e la sua cavalleria, ribaltarono l’esito dello scontro. Nostalgie di vecchi giacobini, che Bianco avrebbe fatto sue negli anni dell’esilio e della guerra di Spagna al fianco dei costituzionali, del soggiorno a Malta e di quello a Marsiglia, quando lui e il Pippo Mazzini, fondata la Giovine Italia, avevano progettato la spedizione della Savoia che si sarebbe rivelata disastrosa. Quella notte dei primi di marzo del ’21, a ogni modo, Bianco entrò nella schiera dei combattenti per la libertà nella possente Cittadella di Alessandria, dove si stava facendo la storia e il Risorgimento principiava. La storia ci dice pertanto che il giorno dopo l’occupazione della Cittadella, fatta costruire da Vittorio Amedeo II nel 1728 (se ne occupò il tortonese Ignazio Giuseppe Bertola, 20
“primo ingegnere di Sua Maestà”), gli insorti inalberarono il tricolore e formarono una giunta di governo. A quel punto il colonnello Guglielmo Ansaldi, comandante in seconda della brigata Savoia, proclamò la “solita” Costituzione spagnola e affermò la volontà di battersi per l’indipendenza italiana. Non è che la dichiarazione d’intenti e il desiderio di battersi per l’Italia fossero così chiari e scontati per tutti gli animatori del moto rivoluzionario. E nemmeno il tricolore, sbattuto dal vento ancora freddo di marzo tra spalti e bastioni, era quello che oggi conosciamo. Quale fosse davvero, di che genere e tinta, del resto, è tuttora un mistero. O quantomeno una controversia annosa. Se per alcuni storci la bandiera innalzata dai nostri era sì rossa e verde, in memoria del regno italico, ma anche azzurra per rendere omaggio alla dinastia dei Savoia, per altri il colore del cielo non c’entrava proprio niente e bisognava, semmai, chiamare in causa l’amaranto dei carbonari. Le idee erano (e sono) abbastanza confuse, come si può vedere. Soltanto una cosa pare certa: i pronunciamenti liberali e nazionali, l’ostilità verso l’Austria, che pure si declinavano veri e puri, non intaccavano la fedeltà dinastica della stragrande maggioranza dei rivoltosi. Sta di fatto che, l’11 marzo, la giunta provvisoria di governo di Alessandria emanò un decreto firmato dal presidente Ansaldi e dal segretario generale Fortunato Luzzi. In nome del regno d’Italia si dichiarava che «considerando, che coll’inalberare lo Stendardo dell’Indipendenza la Nazione si è posta in stato di guerra contro l’Austria, e che essendo in questa attitudine ostile i prodi che la difendono hanno diritto al trattamento delle genti di guerra che trovansi in campagna, ha decretato, e decreta quanto segue. L’esercito italiano è costituito sul piede di guerra: e quindi dal giorno d’oggi in poi gli saranno somministrati li viveri di campagna». 21
Torino non restò a guardare. Sempre l’11 di marzo, che cadeva di domenica, si diede fuoco alla miccia preparata da Santorre di Santa Rosa, da Giacinto Provana di Collegno, da Carlo Asinari di San Marzano, da Guglielmo Moffa di Lisio, che avevano strappato a Carlo Alberto la promessa di appoggiarli. Il principe, tuttavia, non sapeva mai che pesci pigliare, diceva una cosa e ne faceva un’altra, guadagnandosi fin da allora l’appellativo di re Tentenna che Domenico Carbone, un poeta risorgimentale di Carbonara Scrivia, gli avrebbe affibbiato in seguito, nel corso della prima guerra d’Indipendenza (che Tentenna, come è noto, e i suoi pessimi generali persero a Novara, nel ’49, in modo sciagurato). Così, data la parola ai rivoluzionari, il Carignano se la rimangiò in un baleno. Santa Rosa e i suoi compagni, che avevano ideali e fegato, lo lasciarono perdere e agirono in fretta e furia. Come rievoca con un bel po’ di retorica (ma d’altronde era connaturata all’epoca) il buon Beolchi, l’amico di Bianco, nelle sue memorie dall’esilio, «la guerra di Napoli accelerò lo scoppio della nostra rivoluzione. Lo spettacolo di un esercito austriaco che attraversava tutta Italia per andar ad assaltare i nostri fratelli, popolo innocente, che in nulla aveva offeso l’Austria, accese sì fatalmente di sdegno i piemontesi, che non fu più udita voce alcuna di ritegno». A Torino il tricolore, ma un altro ancora, questa volta nero, rosso e azzurro, la bandiera dei carbonari, sventolò davanti alla chiesa di San Salvario, accolto dagli applausi di borghesi e studenti e dall’indifferenza, a quanto pare, se non proprio dall’ostilità dei popolani. Ad agitare lo stendardo ci pensò il capitano Vittorio Ferrero, al comando di una compagnia della legione Reale Leggera, tra le grida di «Viva il re! Viva la Costituzione!» Oggi, in quel luogo, c’è un monumento a forma piramidale, annerito dallo smog, che quasi sicuramente non 22
dice niente alla maggioranza dei torinesi. Se andate a dare un’occhiata all’iscrizione sulla piramide, che venne fatta collocare nel 1873 per iniziativa dei veterani delle guerre d’Indipendenza e del municipio di Torino, potrete leggere le seguenti parole: Qui l’11 marzo 1821 fu giurata la libertà d’Italia. Il 20 settembre 1870 il voto fu sciolto in Roma.
Dai bersaglieri. Però questa è un’altra storia. La nostra storia, invece, ci narra che due giorni dopo, il 13 di marzo, Carlo Alberto accettò di concedere la Costituzione spagnola, anche se «per quanto può da noi dipendere», come sostenne. Lo specificò, nella proclamazione da un balcone del palazzo Carignano, perché sebbene fosse diventato il reggente del trono dopo l’abdicazione del vecchio Vittorio Emanuele, sapeva bene che un grande assente, cioè Carlo Felice, il fratello dell’ex re, in quelle ore a Modena, non avrebbe accettato quanto era accaduto a Torino. Il nuovo sovrano era lui, dato che re Vittorio aveva abdicato in suo favore. Trovandosi fuori regno, tuttavia, la reggenza era stata affidata al giovane Tentenna. Nonostante i suoi gusti semplici e pressoché borghesi (amava l’opera e i grissini da sgranocchiare nel palco reale del Teatro Regio), Carlo Felice era un reazionario con i fiocchi. Le costituzioni, a suo non modesto avviso, erano da concedersi né ora né mai. Perciò stava già organizzando la controrivoluzione con l’aiuto austriaco, e metteva a punto la grande vendetta che si sarebbe abbattuta sui congiurati piemontesi. Ancora ignari della sorte loro riservata da Carlo Felice e dalle truppe del Sallier de la Tour e del generale austria23
co Bubna, i rivoluzionari, soprattutto quelli di Alessandria, si prodigavano nel lanciare proclami di fuoco. Agli inizi del Novecento, lo storico Giuseppe Roberti rammenterà che l’Ansaldi «gettava al popolo le magnanime parole: “Lo stendardo del dispotismo è per sempre curvato a terra fra noi. La patria che ha gemuto finora sotto il peso di ignominiose catene respira finalmente l’aure soavi di fraternità e di pace”». Il popolo rimase sordo. Quanto al Piemonte, osservò Massimo d’Azeglio nei suoi ricordi, «chetata ogni cosa dagli Ulani di Bubna impiccato il povero Garelli, fuggirono o andarono in esilio i compromessi... La popolazione si trovò un po’ più umiliata, un po’ più compromessa di prima: l’Italia notò un intervento straniero di più nei suoi annali». Lo stendardo del dispotismo venne rialzato in poche settimane, mentre appena sei anni prima, nel 1815, il vessillo di Napoleone, caduto che fu nella polvere e morto pure lui, poi, in quel 1821, in Piemonte e altrove venne abbassato e calpestato dagli stessi che l’avevano fatto garrire. A Roccaverano, nell’alta Langa astigiana, giunta la notizia dell’esito della battaglia di Waterloo e della sconfitta di Bonaparte, la sera del 18 giugno 1815 le campane della chiesa della Santissima Annunziata suonarono a festa. Il giorno seguente un Te Deum, salve di fucili, fuochi e luminarie, accompagnarono le grida della folla inneggiante al «nostro re Vittorio Emanuele I». Quelle stesse campane, quel medesimo popolino di contadini e di artigiani che, il 15 agosto del 1810, aveva fatto baldoria in onore di “san Napoleone”. Anche la piramide che l’allora imperatore dei francesi avrebbe ordinato di far edificare a Marengo, nei luoghi della battaglia vittoriosa, non ebbe molta fortuna. Secondo le ricerche condotte con passione e competenza dallo storico Giulio Massobrio e da Gigi Poggio, uno degli arte24
fici (insieme allo stesso studioso di vicende napoleoniche) della riapertura del Museo della battaglia di Marengo, la costruzione venne sicuramente iniziata, ma poi abbandonata per motivi sconosciuti. Nell’archivio del generale Chasseloup-Laubat, comandante del genio, presente ad Alessandria dal 1805, c’è un documento prezioso rinvenuto da Massobrio. Si tratta di un preventivo della Direction de Alexandrie del Corps Impérial du Génie, risalente al 20 ottobre del 1808, in cui si afferma che la piramide «è in pietra di Acqui, il suo volume è di 28 578 metri cubi. Il basamento, già costruito, ha un volume di 8897,05 metri cubi. Restano quindi da costruire 19 630,95 metri cubi». Alla Biblioteca Reale di Torino, inoltre, lo storico alessandrino si è imbattuto in una nota di un certo Mellinij capo di battaglione a riposo. Nel 1812 è indicato come «conservatore del monumento di Marengo», che potrebbe essere proprio la piramide perduta. È lo stesso monsieur Mellinij che da carte precedenti, dell’ottobre 1807, risulta essere stato assunto «essendosi iniziati i lavori della piramide». Era stato verosimilmente il maresciallo Berthier, autore della relazione sulla battaglia di Marengo, a informarlo il 17 maggio del 1805 della sua assunzione, come rammenta Massobrio, «con la precisazione che i pagamenti per il suo incarico inizieranno solamente il mese successivo all’inizio dei lavori di costruzione della piramide e sulla base di una certificazione di Chasseloup». Tutto comincia in una domenica di maggio. Il caso o il fato vuole che fosse un 5 maggio, lo stesso giorno e mese della morte a Sant’Elena di Napoleone. Quella però era la domenica del 5 maggio 1805, e Waterloo ancora lontana a venire, forse non poteva nemmeno essere immaginata. Bonaparte si trovava in Piemonte, vi era giunto in compagnia di Joséphine. Il viaggio aveva un duplice scopo: cin25
gere la corona di ferro a Milano, intanto, diventando re d’Italia; ma nello stesso tempo l’imperatore aveva deciso di costruire la sua leggenda, facendo rievocare ai soldati dell’Armée quanto era accaduto il 14 giugno del 1800 a Marengo, nei campi che da Alessandria diramano verso Tortona e Novi Ligure. Tra quei corsi d’acqua, quei coltivi, quelle alberate e quei cascinali erano state gettate le basi della sua fortuna, sebbene quel giorno il suo ruolo fosse stato piuttosto modesto rispetto a quanto avevano fatto Desaix, che vi morì da eroe, e altri prodi. Per queste ragioni la vittoria inattesa, giunta quando le sorti della battaglia volgevano a favore degli austriaci, doveva essere ricordata più che degnamente, portando in essa, scolpito nella pietra delle antiche divinità e dei faraoni, il suo nome. Giuseppe Mazzini scrisse, nel suo commento all’Orazione a Bonaparte di Ugo Foscolo, che «Il Genio e la gloria stanno nelle mani della Natura, ma l’ultimo tra i mortali può puntellare d’una pietra la piramide inalzata dal Genio». E per eternare il Genio sarebbe dovuta sorgere nei posti dove si era combattuto per la gloria addirittura una nuova città monumentale, la Città delle Vittorie. Il progetto, ideato dal generale Jean Victor, prevedeva su una pianta ottagonale uno scenario di strade, palazzi e monumenti sontuosi e memorabili, che avrebbe ridotto Alessandria a mero sobborgo e appendice. L’imperatore non prese in considerazione le idee di Victor, ma volle invece dare esecuzione all’innalzamento di una vera piramide, somigliante a quella di Cheope seppure di proporzioni inferiori. Sembra che dovesse essere alta 32 metri con una base di 45, e con uno spigolo di lunghezza pari a un milionesimo del meridiano terrestre, orientata in modo tale che la sua faccia a nord sarebbe stata illuminata dal sole solamente a mezzogiorno del solstizio d’estate. 26
Non si sa con certezza quando pronunciò queste parole, nel caldo 5 maggio del 1805, però è noto che le esclamò in modo perentorio: «Io voglio che qui sorga una piramide superba e degna di quelle anime generose, questa serberà eterna memoria dei fatti illustri». Una piramide «su questa pianura stessa, che i bravi hanno bagnata del loro sangue». Inconsapevole o meno che fosse del discorso di Marengo, nell’ottobre del 1829 Mazzini ricordò che «v’hanno nomi, che non possono proferirsi mai senza suscitare un’eco potente nell’anima più profonda: v’hanno produzioni che né [sic] per anni, né per volubilità d’umani consigli invecchiano mai: v’hanno tempi nei quali è pur forza ricorrere ad esse quasi a ritemprare nella loro meditazione l’anima stanca o noiata». Detto quanto aveva da dire e «pronunziati questi accenti», nel prevedibile silenzio, accaldato dall’ora e dal sole ruggente, che ne era seguito, come narrano i cronisti dell’epoca, Napoleone «vide avanzarsi il generale Chasseloup-Laubat con una compagnia di minatori coi loro abiti da festa, e condotti dal capo muratore, il quale col suo grembialetto bianco di tela, col suo mantello d’argento nelle mani, colla cazzola, e calce, presentava all’imperatore la prima pietra del monumento, che aveva scolpite queste parole, lette con tanto piacere da chi l’aveva ordinata: “Napoleone imperatore dei francesi e re d’Italia ai difensori della patria morti nella giornata di Marengo”». La costruzione della piramide venne cominciata fra Marengo e Castelceriolo, probabilmente nei pressi della cascina Poggi, tuttora esistente. Non era un posto qualsiasi. Nei pressi dell’edificio, quel giorno di giugno del 1800, ebbe luogo uno degli scontri decisivi per l’esito della battaglia: ottocento uomini della Guardia Consolare entrarono in collisione con il nemico e, per fronteggiare l’assalto 27
della cavalleria, fecero quadrato. Racconta Massobrio che l’episodio, «ampiamente pubblicizzato dalla macchina propagandistica di Bonaparte, resta uno dei capisaldi del mito di Marengo e, allo stesso tempo, della ricostruzione dei fatti voluta da Napoleone». Nonostante il decreto imperiale, e l’importanza di Marengo nella mitologia napoleonica, però i lavori della piramide furono interrotti. Per mancanza di fondi, forse, oppure perché abbisognavano altre opere, altrove? O per motivi ancora diversi? Non si sa. Pietro Oliva, studioso di Marengo antico e moderno, avrebbe scritto nel libro dal titolo omonimo pubblicato ad Alessandria nel 1842: «Alla perfetta esecuzione del comando imperiale è stato nominato un custode del monumento, e si lavorò per due anni consecutivi, quindi furono sospesi i travagli sino a nuovo ordine». Ma l’ordine non venne più dato: «Né più si proseguirono i lavori lasciando a noi difficile il comprendere come, durante il regno di Napoleone, anzi nel momento della sua più grande potenza siasi obbliato un decreto imperiale dettato con tanta solennità. La base fu poi distrutta, le lapidi dissotterrate e prese, gli ornamenti spezzati, e quasi tutte quelle pietre vagarono poi con incerta fortuna ne’ casolari della Fraschetta», luogo che aveva visto le gesta del bandito Mayno della Spinetta. Massobrio e i suoi amici continuano a cercare. Si ostinano a voler individuare il luogo esatto e i resti del monumento all’interno del quale, come aveva disposto Napoleone, in una camera «rivestita di lastre marmo» verranno incisi «i nomi degli uomini che sono morti». L’impresa non è delle più semplici, loro non demordono. Il ritorno dei Savoia, la presenza delle truppe austriache ad Alessandria e in Cittadella nel 1821 possono avere contribuito a spazzare via le tracce residue del primo console. Maggiori 28
danni, tuttavia, avrebbero fatto le fabbriche e le discariche sorte da quelle parti nel Novecento, stravolgendo completamente la morfologia della zona. E le pietre di Acqui sono state pertanto asportate, distrutte o utilizzate per scopi che con la Storia con la s maiuscola, e pure con quella minuscola, hanno poco a che fare. Il popolo dunque era ritornato a essere sordo ai richiami della gloria, ma anche a quelli di una tirannia, sia pure grandiosa e inizialmente repubblicana. Direbbe il Bianciardi Luciano, e in effetti lo ha detto, che «il popolo, che non aveva fatto tempo a imparare il “viva Vittorio Emanuele”, ora inneggiava a Garibaldi, a Mazzini, a Francesco II». Si riferiva al nostro Mezzogiorno dopo l’impresa garibaldina e la successiva conquista sabauda, ma può valere benissimo per Bonaparte, prima osannato e poi sbriciolato, da vivo e da morto, nella polvere.
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Giuseppe Polani, Progetto per le fortificazioni della Città di Alessandria. 1837, 1845 (Biblioteca Reale di Torino, Manoscritti, Militari 58) (da Alessandria dal Risorgimento all’Unità d’Italia, I. Dalla restaurazione al 1848, SO.G.ED. Edizioni, Alessandria 2008).
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I fantasmi della Cittadella
Nella fortezza abbandonata sfilano le ombre dei soldati e dei martiri. Carlo Alberto assaggia un po’ di sangue e Vochieri sputa in faccia al suo carceriere. Sergenti e caporali, avvocati e zappatori congiurano senza speranza. Ma incombono sulla scena i fucili di Magenta e di Solferino, e un altro Napoleone arriva in Piemonte.
A vederla oggi, colma di vuoti e di abbandono, infonde una gran tristezza, uno struggimento per la desolazione che regna, anche se è stata per oltre due secoli, fino alla Resistenza contro i fascisti e i tedeschi, teatro di guerre, di detenzione e di morte di patrioti, di soprusi, di vita militare. Fu Vittorio Amedeo II, come si sa, a volerne l’edificazione. Vale a dire il duca sabaudo noto anche come la Volpe Savoiarda, che nel settembre del 1706 aveva sconfitto i “cugini” francesi durante la battaglia e l’assedio di Torino. Valente sui campi di guerra, volubile nel gioco delle alleanze. Tanto che Luigi XIV, il Re Sole, una volta esclamò che «i Savoia non terminano mai una guerra sotto la stessa bandiera con cui l’hanno iniziata». E ce l’aveva con lui, con il futuro re di Sicilia e di Sardegna, che nelle arti militari, in ogni caso, non era secondo a nessuno. Commissionatagli l’opera, Bertola, che sarebbe stato nominato conte d’Exilles nel 1742, per non smentire la fama di “primo ingegnere” si mise a lavorare con alacrità alla Cittadella e disegnò un complesso grandioso, a forma di esagono stellare schiacciato. 31
Il battesimo del fuoco risale al 1745. I francesi, ancora loro, avevano stretto Alessandria in una morsa, ponendo il blocco alla fortezza edificata lungo la sponda sinistra del fiume Tanaro. I sardo-piemontesi resistettero. Poterono farlo grazie all’ingegno del Bertola, che aveva concepito la Cittadella massiccia e invisibile dietro ai bastioni, al riparo dai tiri dei cannoni nemici. La mossa risolutiva toccò all’armata di soccorso di Carlo Emanuele III, giunta in tempo, che sbaragliò le truppe assedianti. Da allora, da quei giorni di metà Settecento, l’acqua del Tanaro arrossò, in più di duecento anni, con oceani di sangue svariato. E in Cittadella, in questi 478 340 metri quadrati, si susseguirono rivoluzioni e controrivoluzioni, occupazioni e assedi, imprigionamenti di amici e di nemici della patria e della libertà, fucilazioni di mazziniani e di partigiani del 1944-45, passando da Bonaparte sui campi di Marengo ai moti del 1821 e alla loro repressione, dalle congiure della Giovine Italia alla morte di Andrea Vochieri, alla prima guerra d’Indipendenza, ai soldati francesi di Napoleone III qui accasermati, nel 1859, nell’attesa di andare a misurarsi a Montebello, a Magenta e a Solferino: e continuando con Garibaldi, la sottoscrizione per i cento cannoni, da rivolgere all’indirizzo degli austriaci di Franz Josef, lanciata dalla “Gazzetta del Popolo”; fino ai fanti italiani della brigata Ravenna mandati a morire da Mussolini nella campagna di Russia. Camminando ora lungo il fossato, e osservando i sei bastioni imponenti, i rivellini, le controguardie, i viali ampi, le caserme, i magazzini che rifornivano di viveri e di vestiario l’intera regione militare del nordovest, il palazzo del governatore e il piazzale per le adunate di 30 000 metri quadrati, a dominare è il silenzio. Tutto tace in questa che si cementò come una inaccessibile città nella città, un 32
teatro della storia, la base più importante dell’esercito piemontese e tra le maggiori dello Stato unitario. Un silenzio irreale, smisurato, metafisico, che potrebbe ricordare i dipinti di Giorgio De Chirico e i primi film di Michelangelo Antonioni, rotto solamente dall’apparire di un fenicottero su uno dei bastioni, dai mulinelli di polvere in cui ruotano, nel vento, corone sfrangiate di foglie insecchite. Ed è ancora il silenzio a impadronirsi, con il freddo, delle vaste sale deserte, disperatamente nude, delle caserme Giletti e Beleno, dove una volta risuonavano le voci dei soldati, i comandi impartiti seccamente dagli ufficiali, il battere ossessivo dei tacchi, lo sferragliare delle sciabole. Tanto che è difficile immaginarsi qua dentro i rumori, i suoni e le voci di un giorno del giugno 1833. Eppure quel giugno del ’33 c’è stato, è passato alla storia, seppure dimenticato dai più. Fu in quel giorno, il 10, che il generale Galateri, governatore di Alessandria, mandò a morte l’avvocato Andrea Vochieri, dopo averlo messo ai ferri e fatto torturare in Cittadella. Chi era Vochieri? Come racconta Atto Vannucci nel suo già famoso libro, perlomeno ai tempi dei tempi, su I martiri della libertà italiana, «uomo venerabile per onestà e per dottrina, e fermo contro ogni tormento usò trattamenti bestiali il general Galateri governatore di Alessandria. Ma nulla valse a rimuoverlo dal suo proposito di non dir parola che potesse far male ad alcuno». Aderente alla Giovine Italia, l’avvocato alessandrino venne arrestato insieme a numerosi altri dagli sgherri di Carlo Alberto, sempre Tentenna ma adesso saldo sul trono (Carlo Felice era morto nell’aprile del 1831), nella primavera di quell’anno. Lasciamo parlare il Vannucci, che in queste faccende sapeva il fatto suo:
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Cominciata poi per opera di Giuseppe Mazzini l’associazione della Giovine Italia crebbe molto e rapidamente in ogni parte d’Italia, e in Piemonte vi si aggregarono molti giovani, e uffiziali dell’esercito a Genova, a Torino e nelle altre città. A Genova ne era direttore il medico Iacopo Ruffini, e vi avevano parte attivissima i suoi fratelli Agostino e Giovanni [l’autore, quest’ultimo, del romanzo Il Dottor Antonio. Nell’aprile del ’33] il governo venuto in sospetto procedé ad arresti di studenti e soldati, e cominciò una persecuzione feroce. La fazione austro-gesuitica che dato tempo governava tutto a suo senno, volle compromettere il re Carlo Alberto perché non le fuggisse di mano. Un celebre personaggio che occupava alto luogo nei regii consigli disse del re: «Il faut lui faire tàter du sang, autrement il nous échappe». E il sangue fu versato in gran copia.
Poco importa sapere se Carlo Alberto venisse compromesso oppure se lo facesse di sua spontanea volontà. La retata poliziesca scattò e nelle rete caddero in tanti. Una perquisizione, narra Vannucci, «fatta negli zaini degli artiglieri di Genova fornì indizi e materia a molteplici arresti. Quindi si arrestarono a Genova Iacopo Ruffini, Antonio Gavotti maestro d’armi, Giuseppe Biglia di Mondovì sergente nei granatieri guardie, Francesco Miglio di Rivalta sergente zappatore nelle guardie; ad Alessandria Andrea Vochieri avvocato, Domenico Ferrari di Taggia sergente foriere nella brigata Cuneo, Giuseppe Menardi di Roccasparviera, Giuseppe Rigazzi di Livorno, Armando Costa di Lesine, e Giovanni Marino di Sunna sergenti forieri nella stessa brigata; e a Chambery Effisio Tola luogotenente nella brigata Pinerolo, Alessandro De Gubernatis sergente foriere nella brigata medesima, e Giuseppe Tamburelli caporale foriere. Altri altrove: e non pochi si salvarono, fuggendo, dalla prigione e dalla morte». Scriverà Angelo Brofferio, a sua volta finito in cella qualche tempo prima:
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Nessuna regolare difesa fu conceduta. Ai soli ufficiali dipendenti dall’autorità superiore, d’ogni legale dottrina sprovveduti, e di criminali dibattimenti inesperti, fu commesso, per semplice formalità, di combattere le fiscali conclusioni di morte.
All’avvocato Vochieri le cose andarono peggio, se è lecito parlare di un peggio quando comunque si è condannati al patibolo. Dopo la sentenza di morte inflittagli per cospirazione mazziniana, si legge nel libro del Vannucci, Galateri si recò «in persona nella prigione», in Cittadella, «e, fingendo pietà, tentò sedurre l’infelice dicendogli: “Fatemi noti i vostri voleri, ed io sarò lieto di renderli paghi”. E il condannato gli rispondeva: “Solo una cosa per me si desidera: l’essere liberato dalla vostra presenza odiosissima”. Al che il Galateri andò sulle furie e dette un calcio nel ventre del condannato, il quale non potendo muover le mani legate rispose con uno sputo in faccia a quel vile. Mentre andava al patibolo fu a bella posta fatto passare davanti alla sua casa dove stavano la moglie, la sorella e due bambini. Il governatore assisté colla sua presenza al supplizio». Spregevole figura, Giuseppe Gabriele Maria Galateri di Genola, luogotenente generale di cavalleria e collare dell’Annunziata, che però l’illustre Luigi Firpo riabilitò, sostenendo che «s’era guadagnata fama immeritata di crudeltà» nei processi ai mazziniani. A Vochieri, a ogni modo, non venne riservato un trattamento molto pietoso se è vero che, nei giorni che precedettero la morte, un compagno di detenzione in Cittadella, poi trasferito a Fenestrelle, lo vide nella sua cella: In faccia alla mia prigione v’era quella del povero Vochieri. Vi erano delle fenditure ma chiuse nel fondo della mia porta, e siccome la porta della prigione di Vochieri era aperta, la luce che veniva dalla finestra mi diede curiosità di vedere ove riferiva. Mi avvicinai e vidi Vochieri assiso su una sedia con un [sic] enorme catena al piede e due guardie
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colle sciabole nude al suo fianco: cangiava di prigione ad ogni ora: un silenzio perfetto regnava fra lui e le sue guardie. Una terza sentinella col fucile stava davanti la sua porta. Durante il giorno due cappuccini venivano a parlarci. Restò così avanti agli occhi miei, in una specie di agonia durante una settimana, poi lo condussero a morte.
Il consiglio divisionario di guerra di Alessandria, insediato in Cittadella, in quegli anni carloalbertini, ossia del primo Carlo Alberto, precedente lo Statuto e la guerra infausta all’Austria, funzionò pertanto a pieno ritmo, e non solo per Vochieri. Il 26 ottobre del ’33, infatti, condannò a morte in contumacia Mazzini, per attività rivoluzionaria svolta dall’estero fin dal ’31 e per alto tradimento militare. Per fortuna Pippo era al riparo in Svizzera, dove stava architettando una nuova congiura destinata a naufragare. L’ultimo militare, in un giorno imprecisato del 2007, chiuse dietro di sé a doppia mandata il portone d’ingresso della Cittadella e se ne andò per non farvi più ritorno. Forse era un mattino, come oggi. Da quel momento la fortezza del Bertola, “Primo Ingegnere di Sua Maestà”, è un covo di ombre dei tempi che furono. Spettri e silenzi. Quelli di Ansaldi, di Baronis, di Garelli, di Bianco di Saint Jorioz, di Rattazzi, di Palma di Borgofranco. Nell’aprile del 1821, in seguito alla sconfitta inflittagli alla Bicocca di Novara dai piemontesi del generale Vittorio Sallier de la Tour e dagli austriaci di Bubna, ben più numerosi, dopo avere conquistato un varco a Borgo Vercelli i dragoni di Bianco e di Baronis, gli uomini di Ansaldi ripararono in Cittadella. Ma, come ci dice Roberti, «il timore di dovervi sostenere un assedio e di andare incontro alle vendette dei vincitori, eccitò la ribellione della brigata Genova e indusse l’Ansaldi a muovere in ritirata verso Genova, su cui pure il Santarosa, il Collegno, il San Marzano, il Moffa di Lisio, prima raccoltisi in Acqui, s’affrettarono a ripiegare». 36
Carlo Bornate, storico dell’insurrezione di Genova di quel ’21, rammenta che «allorché la sera dell’8 aprile giunse a Torino l’infausta notizia della rotta di Novara, il Santarosa impartì gli ordini opportuni, affinché le milizie si dirigessero su Alessandria e vi organizzassero una resistenza, che permettesse la ritirata su Genova, dove si sarebbe tentata l’estrema difesa». Ma «quando egli seppe dal San Marzano e dal Lisio, giunti a Torino coi pochi avanzi della cavalleria, che le truppe del Regis, avvilite per l’insuccesso, non sarebbero stare in condizione di difendere Casale minacciata da una colonna austriaca, e che il de La Tour marciava su Torino, comprendendo che tutto era perduto, radunò la giunta di governo, comunicò la sua deliberazione di partire per Genova per concentrare ivi tutte le forze costituzionali e tentare lo sforzo supremo, e la invitò a seguirlo». Arrivato ad Asti, Santa Rosa «ebbe notizie sconfortanti. Quando ad Alessandria pervenne la notizia, che gli austriaci, occupata Casale, marciavano alla volta di quella città, il colonnello Ansaldi con la legione dei Veliti di Minerva si preparò a resistere, ma il reggimento di Genova si ribellò ed abbandonò la Cittadella. L’Ansaldi, che non poteva oramai fare affidamento se non sui volontari e sulla Guardia Nazionale, allorché comprese che lo scoraggiamento aveva invaso tutti, che un’ulteriore resistenza sarebbe stata una follia ed avrebbe causato una strage inutile, poiché il maggiore Gatterburg, comandante dell’avanguardia austriaca, chiedeva l’immediata consegna della Cittadella, minacciando in caso di resistenza il bombardamento, cedette alla necessità». Era la fine della rivoluzione del 1821, l’inizio dell’esilio. Fantasmi, silenzi, rigagnoli di storia. In un sottotetto della caserma Beleno, tra polvere e rottami, c’è ancora quella che dicono sia stata la cella di Vochieri. Sulla porta 37
ecco il suo nome, e una targa che lo ricorda. All’interno, in una manciata di metri, nella luce misera e avara che filtra malamente da una finestrella, sono conservati un tavolaccio di legno, le catene, un collare di ferro. Fuori, sul piazzale, si ritrova altro silenzio. Un sole quieto carezza le facciate delle caserme logore dalle tinte marroni e rosse corrose dagli anni, in qualche punto gli alberi hanno sfondato i tetti e s’allungano verso il cielo acquoso del basso Piemonte. Appena calerà la sera, quando s’infittirà, sui piazzali e sui bastioni usciranno i fantasmi dei soldati, dei martiri e degli aguzzini che tra queste mura combatterono, vissero e morirono. Sfileranno guidati dai rulli di tamburi invisibili.
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Proscritti d’Italia Genova, aprile 1821
I bastimenti e le golette si chiamano Speranza e la Diana, Nostra Signora di Monte Allegro ma pure Nostra Signora de’ Dolori. E se è morta una rivoluzione, se ne farà presto un’altra: forse in Spagna, in Grecia o chissà dove. È un esodo verso “migliori destini”, che per molti saranno di guerra, di febbre gialla, di fuga senza fine.
Giuseppe Mazzini non ha ancora compiuto sedici anni, quando li vede. È una domenica dell’aprile 1821, sta passeggiando con la madre e con un amico in strada Nuova, a Genova. Annoterà nelle sue memorie: I più erano confinati in Sampierdarena aspettandovi la possibilità dell’imbarco, ma molti s’erano introdotti ad uno ad uno nella città, ed io li spiava fra i nostri, indovinandoli ai lineamenti, alle foggie degli abiti, al piglio guerresco e più al dolore muto, cupo, che avevano in volto.
S’affollano al porto, qualcuno ancora per le vie e i vicoli della città. Oltre piazza Embriaci e al di là di Pré, verso la Lanterna, al Molo Vecchio, si possono scorgere bastimenti, golette e sciabecchi, pronti a salpare per Marsiglia, per Barcellona. Sui muri degli edifici del centro, su quelli delle case nei sobborghi, dal 13 aprile nereggia il proclama fatto affiggere da Botto, il direttore di polizia: tutti i forestieri che sono in città da almeno quattro giorni – recita –, e senza un certificato che giustifichi la loro presenza, devono partire entro ventiquattr’ore. 39
Tra i militari e i civili sbandati, i nobili e i borghesi, tutti con i volti già in esilio, spiccano Ansaldi, Appiani, Avezzana, il conte Bianco, Dossena, Rattazzi, l’avvocato Andrea Vochieri, e poi Vittorio Ferrero, Garda, Luzzi, Regis, il Santa Rosa, Voarino. Dice Mazzini: «La popolazione era singolarmente commossa. Taluni fra i più arditi» dei profughi «avevano fatto proposta ai capi, credo Santarosa ed Ansaldi, di concentrarsi tutti nella città, impossessarsene ed ordinarvi la resistenza, ma la città, dicevano, era militarmente sprovveduta d’ogni difesa, mancavano ai Forti le artiglierie, e i capi avevano ricusato e risposto: “Serbatevi a migliori destini”». Non restava pertanto che «soccorrere di denaro quei poveri e santi precursori dell’avvenire e i cittadini vi si prestavano liberamente. Un uomo di sembianze severe ed energiche, bruno, barbuto e con uno sguardo scintillante che non ho mai dimenticato, s’accostò ad un tratto fermandoci: aveva tra le mani un fazzoletto bianco spiegato, e proferì solamente le parole “pei proscritti d’Italia”. Mia madre e l’amico versarono nel fazzoletto alcune monete ed egli si allontanò per ricominciare con altri. Seppi più tardi il suo nome. Era un tal Rini, capitano nella Guardia Nazionale che s’era, sul cominciare di quel moto, istituita. Partì anch’egli cogli uomini pei quali s’era fatto collettore a quel modo e credo che morisse combattendo, come tanti altri dei nostri, per la libertà della Spagna». Beolchi, l’amico di Bianco, è tra gli esuli che vanno in Spagna: «Il giorno 14 aprile 1821, un’ora prima di notte, giunsi a San Pier d’Arena, in compagnia di tre uffiziali del presidio di Torino». Le strade del sobborgo «eran piene di costituzionali, accorsi da ogni parte del Piemonte dopo il disastro di Novara. Appena noi fummo smontati dalla carrozza, ci si affollarono intorno coll’annunzio della contro40
rivoluzione di Genova. La Costituzione non c’era più. Il governatore Desgeneys vi aveva ristaurato l’assoluto governo in nome di Carlo Felice, e le porte della città erano a noi chiuse in faccia». In realtà, pur restaurando l’ordine sabaudo, Des Geneys fece il possibile per agevolare la partenza dei proscritti d’Italia. Persino il Bianciardi, dagli anarchici umori, lo avrebbe riconosciuto, sottoscrivendo il racconto del Bornate: Se il Des Geneys avesse voluto vendicarsi di chi lo aveva gravemente insultato e minacciato, mentre gemeva oppresso dall’avversa fortuna, avrebbe potuto, sotto il manto della più rigida legalità, rendere un servizio al suo Sovrano e prendersi aspra vendetta dell’Ansaldi, ma egli era incapace di serbar rancore e rifuggiva da un atto, che in quelle circostanze sarebbe apparso singolarmente odioso.
Alla «nobiltà d’animo» del governatore «rese insospettata giustizia il Santa Rosa, il quale attestò che a “l’hospitalité génoise” dovettero i profughi la loro salvezza». Anche i «bastimenti che trasportarono quegl’infelici sulla via dell’esiglio furono allestiti a spese del R. Tesoro per cura del governatore e de’ suoi coadiutori. Né le autorità del ducato limitarono l’opera loro alla concessione dei passaporti a tutti coloro, che intendevano con l’esilio volontario sottrarsi alle condanne che la reazione trionfante non avrebbe esitato a pronunciare, ma fornirono anche una modesta somma di denaro a chi ne era del tutto sprovvisto». Le condanne, con confische dei loro beni, non tardano ad arrivare. Entrate in funzione la delegazione speciale creata il 26 aprile dal conte Thaon di Revel, e quelle dei Senati di Torino e di Genova, le sentenze di morte e di carcerazione, la destituzione dei militari dai loro gradi inve41
stono decine di insorti. Quasi tutti, però, per loro fortuna stavano veleggiando fuori dalle acque territoriali del regno di Sardegna. E già la voce popolare, tra le colline e i monti del Piemonte, sussurrava che se i costituzionali erano riusciti a partire, se soltanto pochi tra i rimasti sarebbero stati giustiziati o condannati al carcere, lo si dovesse allo stesso Tentenna, a Carlo Alberto. Raccogliendo le storie dei vecchi della sua vallata, quella della Bormida, Abba racconta che dalle sue parti, nell’aprile del ’21, s’era vista giungere una squadriglia di ussari ungheresi all’inseguimento dei profughi, «forse un cinquecento, quasi tutti studenti dell’Università di Torino». E parve che gli ungheresi li seguissero di «malavoglia», perché un ufficiale «domandò quasi sbadatamente se i fuggitivi avevano continuato a marciare, o erano ancora nel borgo. Agiva così per sentimento suo proprio, o aveva ricevuto ordine di tener dietro lentamente a chi se ne andava? Se mai, da chi quell’ordine poteva essergli stato dato? Quei vecchi, nell’ardore del Quarantotto per Carlo Alberto, volevano fin credere e far credere che ciò fosse stato per preghiere di lui, principe di Carignano, punito ma esaudito dal comandante supremo austriaco Bubna entrato in Piemonte. Forse ponevano così senza saperlo alla storia un quesito che non sarà stato posto da altri mai, e che forse non sarebbe possibile chiarire se si ponesse». Ma ritornando a Genova, a quel giorno, ciò che importava era lasciare in fretta il territorio sabaudo. Atto Vannucci annota i cognomi degli esuli, con la consueta precisione e con il solito sdegno e compianto patriottico. Settantatré sono condannati a morte: da Giuseppe Pavia, conte di Scandeluzza e tenente del reggimento dei cavalleggeri, al colonnello Ansaldi, a Rattazzi e ad Appiani; da Dossena a Luzzi, da Baronis al colonnello Michele Regis e al 42
conte Bianco di Saint Jorioz. Nell’elenco non possono mancare Santorre di Santa Rosa, Moffa di Lisio, Isidoro Palma, il marchese Asinari di Caraglio, meglio noto come San Marzano, e naturalmente Giacinto Provana di Collegno, il principe Emanuele Dal Pozzo della Cisterna, Ettore Perone di San Martino, il marchese Demetrio Turinetti di Priero, il capitano Vittorio Ferrero, il conte Alerino Palma, il capitano Giuseppe Pacchiarotti, i conti Vittorio Carlo Morozzo e Carlo Armano di Grosso. C’è, è ovvio, il nostro amico Carlo Beolchi, e figura Evasio Radice da Vercelli, capitano di artiglieria e professore all’Accademia Militare. Nella lista copiosa compaiono poi il caporale Giuseppe Barberis, nativo di Felizzano, quasi alle porte di Alessandria, e il brigadiere Pietro Pansa, il capitano Cesare Ceppi e il sottotenente Giuseppe Avezzana, il tenente Fortunato Toso e i medici Pietro Carta, Giuseppe Crivelli, Giovanni Godetti, Francesco Tadini; e i sergenti Damiano Rittatore e Vincenzo Aimino, i banchieri Luigi Balladore e Pietro Muschietti, lo studente Ercole Maione, l’alfiere Vittorio Brunetti, il ripetitore di legge Giuseppe Carlo Massa, la cornetta dei Dragoni del re Gaspare Franchini, il sacerdote Gioacchino De Ambrogi, gli avvocati Collegiata, Fechini, Franzini, Gillio, Oreglia, Pollone, Ravina, Testa, Cristiano Vanni e Carlo Camillo Trompeo, direttore del giornale costituzionale torinese “La sentinella subalpina” stampato, a suo rischio e pericolo, da Giuseppe Pomba. Il capitano Giacomo Garelli, del colle del Sassello, sopra il mare di Savona, e il luogotenente dei carabinieri Giovanbattista Laneri, di Verduno, nelle Langhe, non riescono a fuggire. Quest’ultimo, racconta sempre Vannucci, «che era in Savoia quando la rivoluzione scoppiò a Torino e ad Alessandria, e che fece ogni opera pel trionfo di essa, non poté salvarsi nella universale rovina, perché un suo 43
sottoposto gli fece la spia. Salì impavido sul patibolo ai 24 di agosto». Garelli, scrive Santa Rosa, andò al supplizio (21 luglio) con «nobiltà e semplicità di coraggio», da «prode dell’antica armata d’Italia». Non potendo impiccare sul serio gli altri condannati, lo fanno in effigie. Come dice il Vannucci, «in vari giorni, cioè il 2 giugno, il 21 luglio, il 14 agosto, il 6, l’11, il 13, il 22 e il 27 settembre e 3 ottobre». Molti vengono condannati alla «galera perpetua» e a varie pene detentive. Intanto, a Genova, si continua a partire. I registri del porto riportano quei nominativi; ma, avverte Bornate, «i nomi dei passeggeri sono spesso deformati o storpiati. Il nome del luogo d’origine, forse per non esatta dichiarazione degl’interessati, è frequentemente sbagliato». Fatto sta che sulla goletta spagnola San Luigi, il 12 aprile, vengono imbarcati per Barcellona (tanto per ricordarne qualcuno) il tenente colonnello Schultz, indicato come siciliano ma in realtà polacco, l’avvocato pavese Costantino Mantovani e il maggiore della brigata Genova Michele Roccavilla, da Sanfront, oltre a Vincenzo Oldrini da Varsavia, a un Simondi, “sardo”, a Carlo Corsi, tenente d’artiglieria di Nizza, al napoletano Giulio Antonio Vitali e al francese Giuseppe Cassagnac. Sul brigantino Nostra Signora di Monte Allegro, comandato dal capitano genovese Bernardo Solari e con destinazione Marsiglia, Barcellona e Gibilterra, il giorno 13 salgono, “gratis”, il letterato e filosofo torinese Luigi Ornato e un certo «Ann. Derossi» che il Bianciardi, narratore di razza del Risorgimento patrio, non avrebbe esitato un istante a riconoscere, sotto le non mentite spoglie, come Annibale Santorre Derossi di Santa Rosa in persona. Morirà a Sfacteria, nel maggio del 1825, ucciso mentre si batte per la libertà e per l’indipendenza della Grecia. 44
Viene il momento di Bianco di Saint Jorioz. La sua nave è il brigantino spagnolo La Speranza, agli ordini del capitano Gerolamo Campodonico. Un altro bastimento con lo stesso nome avrebbe preso a bordo Peppino Garibaldi, il 15 aprile del 1848, a Montevideo, per riportarlo in Italia, dove nel frattempo Milano si era sollevata e Carlo Alberto aveva dichiarato guerra all’Austria; comandato dal capitano Gaetano Gazzolo di Nervi, che ne era pure l’armatore, il brigantino trasportò ottantacinque legionari del Generale e il povero Francesco Anzani, che sarebbe morto il 5 luglio, poco dopo il ritorno in patria. Insieme a Bianco vanno in esilio alcuni dei promotori della giunta rivoluzionaria di Alessandria: ci sono infatti Giovanni Appiani, Fortunato Luzzi da Mortara, Giovanni Dossena e Urbano Rattazzi. È una bella compagnia, di valorosi e di audaci, come avrebbero dimostrato di nuovo nella guerra di Spagna, che comprende Andrea Vochieri, il capitano Ferrero, l’insorto di San Salvario, e l’avvocato Pietro Fechini, a sua volta coinvolto nei fatti di Torino e quindi capo politico dei costituzionali a Mondovì, senza omettere il colonnello Paolo Ollini, bresciano, l’ingegnere alessandrino Michele Pagani, anche lui partecipante al moto torinese dell’11 marzo, Lodovico Cassini da Acqui Terme, il conte Pirro de’ Capitani, milanese, il napoletano Ferrari, un Antonio Mantegazza da Como, Carlo Sattarino di Asti, Giovanni Voarino da Ceva e il veneziano Andrea Corner. Uno spaccato della futura Italia, in sostanza, quella del 1860, del ’61. Ancora partenze, brigantini e golette. Ancora proscritti. Salpa l’ancora la nave Iride, russa, comandata dal capitano Niccolò Sciaccaluga. È diretta a Barcellona come lo sono lo sciabecco Nostra Signora de’ Dolori, i brigantini Licurgo, Mercurio, la Diana e l’Apollo. Su quest’ultimo viag45
gia Giuseppe Avezzana di Chieri, una cittadina vicino a Torino. Registrato quale “Avezzano”, sottotenente nella brigata Piemonte, risulta presente a San Salvario nel marzo del ’21. Giuseppe Cesare Abba da Cairo Montenotte lo incrocerà nelle giornate del Volturno. E schizzerà un ritratto memorabile del combattente intrepido della libertà, una specie di alter ego di Garibaldi che è stato soldato di Napoleone a sedici anni e che si batterà in Spagna, in Messico, nella Guardia Nazionale di Genova nel ’49 e a difesa della repubblica romana, di cui sarà ministro; fino a indossare ancora la divisa, a quasi ottant’anni di età, nella guerra d’Indipendenza del 1866. Abba lo incontrerà il 14 ottobre del 1860 e nel suo Da Quarto al Volturno annoterà: Ora son proprio contento. Ho veduto l’uomo che per la semplice vita è forse ancor più intero di Garibaldi. Faccia quasi giovanile a settant’anni, persona quadrata che né fatiche, né stenti, né rovine d’ogni sorta non poterono fiaccare: berretto, soprabito, calzoni, tutto nero e assai vecchi, nulla di soldatesco. Ecco il general Avezzana. […] è di quella tribù d’uomini che vanno avanti, con lo sguardo sempre fisso in certi punti lontani, che il mondo non vedrà mai. Eppure per essi quell’ideale lassù, è realtà di vita interiore. Quanto all’esteriore e presente, sono come il Figlio dell’uomo che non sapeva dove posar il capo per dormire. Da mangiare n’avranno domani anch’essi, poiché n’hanno gli uccelli dell’aria. Per oggi basta fare il bene. E così ogni giorno. Sui laghi di Galilea, quando vi fiorivano le parabole di Gesù, gli uomini dovevano essere tutti come Avezzana. Vederlo con qual noncuranza cinge quella spada d’onore che gli fu data, chi sa per qual gloria delle tante sue d’America! Dicono che arrivò appunto di là, in tempo per correre a Caserta, incontrar Garibaldi nel momento più vivo della battaglia sul Volturno, salutarlo e entrar a combattere.
Avezzana va in Spagna. E sempre su Barcellona volge la prua il brigantino S.G.B., che ha come comandante il 46
capitano Vincenzo Domenico Gurlero di Diano: porta parecchi esuli genovesi, salpa il 18 aprile. Le Anime e la Nostra Signora del Carmine mollano gli ormeggi il 17 e il 28 maggio. Sulla San Sebastiano, partita il 3 maggio, è ospitato Amedeo Ravina, che il puntiglioso Vannucci non dimentica e descrive come «uomo più singolare che raro per l’altezza del cuore, per la somma dottrina, e per la sua inflessibilità di principii». Condannato a morte, «esulò in Ispagna, in Francia, in Inghilterra e da ultimo venne a Firenze ove noi per più anni lo abbiamo ammirato ed amato. Nel febbraio del 1848 tornò dopo ventisette anni di esilio in Piemonte, ed eletto a rappresentante del popolo in quattro collegi, sostenne al Parlamento tutti i più generosi partiti insieme coll’altro egregio cittadino Evasio Radice che pure fu condannato a morte nel medesimo tempo». Verso Marsiglia veleggia anche la Piccola Eugenia, brigantino francese comandato dal capitano Guglielmo Collot, con a bordo, “gratis”, Carlo Bollina da Vercelli e Alessandro Bottone da Torino, insieme ai “sardi” G.B. Maglione e Francesco Maglione, dei quali si ignora tutto. La nave Gli Amici, invece, con il capitano Carlo Fazio, muove su Costantinopoli, e l’unico esule che risulta registrato è Carlo Isola, trentaduenne, di Sarzana. Per Cadice e Gibilterra naviga la Santa Fermina, agli ordini del capitano Delpino, che trasporta Pietro Bonaiti da Genova, di ventun anni, Paolo Bernasconi di Chiasso, ventiduenne, e un trentenne che si firma Andrea Ravena Secondo. Brigantini e golette prendono il largo tra urla d’addio e un gran sommovimento di cuori. Rammenta Carlo Beolchi che «appena la nave cominciò a correre, grande si levò un grido di tutta quella moltitudine, che alla fuggente terra mandava l’ultimo saluto. “Addio Genova! addio Italia!” ripetevan tutti ad una voce, ed anche: “Viva la Costituzione!” 47
Il qual grido, sebbene intempestivo e vano, manifestava nulla di meno come per quella avversità non era punto abbattuto il loro animo, né spento l’amore al libero governo». La tempesta si scatena al terzo giorno di navigazione: Tenebre densissime ingombravan l’aere d’ogni intorno. Muggiva il cielo, il mare muggiva. Venti contrarii soffiavano irati, sollevando monti d’acqua; ed il lampo di spaventosa luce rigando tratto tratto le tenebre, tutto mostrava l’orrore di quel furente elemento. I marinai stavano in trepidante tumulto, e la nave, da ogni lato furiosamente sbattuta, ondeggiava in formidabile incertezza. Impauriti i compagni calaron tutti da basso.
Passato il fortunale, rasserenatosi il cielo, «poche ore dopo vedemmo sorgere a piccola distanza la fregata dello Sciaccaluga, la quale aveva salpato con noi da Genova, e che più non avevamo veduta. Ci appressammo a parlare ai compagni, e da una parte e dall’altra si levarono altissime grida di “viva l’Italia, viva la Costituzione”; e contraccambiati i saluti e gli augurii, in breve la nave dalla nostra vista fuggì». Sette giorni dopo la partenza da Genova, «due ora prima del tramontar del sole gittammo l’àncora nella rada di Barcellona». Nella sua narrazione palpitante, scritta come l’avrebbe scritta il caro Bianciardi se fosse stato pure lui con gli esuli del ’21, Beolchi dice che si erano «appena riconfortati», per «aver trovato spediente contra il primo colpo dell’avversa fortuna», quando «i segni apparire si videro di terribilissimo flagello, la pestilenza di Barcellona». È febbre gialla. Comincia a manifestarsi nel sobborgo della Barcellonetta, fra la fine di agosto e l’inizio di settembre. Forse il primo a infettarsi e a morire è un marinaio, sbarcato da un brigantino proveniente dall’Avana. Poi l’epidemia dilaga. 48
La «inesorabile falce» cala anche sugli italiani. Muoiono il medico Simonda e Rattazzi, «già capo politico d’Alessandria, uomo d’alti sensi e di specchiata condotta». Quindi tocca ad Appiani, «uno dei membri della giunta di governo di quella città», e al tenente Schierano, dei Dragoni del re. Morirono «in seguito molti altri degli esuli, e mi è fierissima la ricordanza che alcuni, non tanto dalla malignità del morbo, quanto da crudeli stenti e privazioni furon condotti sul letto della morte». A dicembre l’epidemia si attenua e finalmente cessa, viene tolto il cordone sanitario che separava Barcellona dal resto del Paese. Ma un nuovo flagello si abbatte sulla Spagna: è quello della guerra. I monarchici di re Ferdinando VII, la nobiltà e i proprietari terrieri, l’alto clero, minacciano la Costituzione. I costituzionali, i democratici, e le truppe di Riego, uno degli artefici dei moti rivoluzionari dell’anno precedente, riescono a resistere e a impadronirsi del Parlamento. Però le rivolte antiliberali divampano in tutta la Spagna, anche in Catalogna. Gli esuli del Piemonte, di Napoli, della Sicilia non stanno alla finestra, sanno bene da che parte schierarsi, la parola libertà sulle labbra non è un esercizio letterario, di arte retorica. Tra di loro, racconta Beolchi, si distinguono fin dall’inizio «Josti, Vedani, e Vittorio Ferrero, l’eroe di San Salvario. Primo egli inalberava il vessillo tricolore alle porte di Torino, e proclamava la Costituzione di Spagna; primo stringeva la spada in Catalogna in difesa di quella». Si formano i battaglioni italiani, li guidano Pacchiarotti, il maggiore Brescia, il conte Ceppi. Bianco di Saint Jorioz comanda i lancieri al fianco di Pacchiarotti, «la bandiera del battaglione era la tricolore italiana, e tricolori erano le banderuole dei lancieri». L’Europa reazionaria, tuttavia, è decisa a ristabilire l’ordine dell’assolutismo, a maggior ragione in Spagna do49
ve la Costituzione del 1812 ha fomentato ovunque rivoluzioni e sovversioni del potere costituito. Alla fine del 1822 è convocato il congresso di Verona. È nella città veneta, come dice il Beolchi, che viene perpetrato un «delitto politico», la cui esecuzione è affidata al re di Francia: la repressione dei liberali spagnoli. Luigi XVIII non si fa pregare e invia oltre i confini dei Pirenei un esercito di 30 000 uomini. Per espiare le “colpe” del marzo del ’21, Carlo Alberto fa parte del corpo di spedizione della Santa Alleanza, battendosi per rimettere re Ferdinando sul trono e garantirsi il suo posto nella successione, quando sarà l’ora, a Carlo Felice. Ci riesce benissimo: nella battaglia del Trocadero si distingue per ardimento e valore. Meno eroici sono i massacri dei liberali che seguiranno, nonostante le promesse d’amnistia da parte di Ferdinando VII. Riego, poi, verrà non soltanto ucciso ma addirittura squartato. Per i proscritti d’Italia si spalancano le porte delle galere, si iniziano nuovi esili. Nelle fosse dei cimiteri, nei letti d’ospedale, i sopravvissuti lasciano i compagni che non torneranno. Se n’è già andato Pacchiarotti: una palla gli ha spezzato un ginocchio, gli amputano una gamba, si spegne dodici giorni dopo. Beolchi lo ricorda così: «Era nativo della città di Voghera, nel fior degli anni, grande della persona, di nobile e grato aspetto». In Catalogna «fu l’autor principale della gloria degli esuli». I francesi che militavano nelle file costituzionali «solevan chiamarlo le brave des braves». È morto anche il conte Ceppi, «già maggiore del reggimento Alessandria, e capitano dei Cacciatori in Catalogna», che «avea egli avuto gran parte nella rivoluzione di Piemonte, e s’era mostrato caldo amatore della patria, e fermo sostenitore della libertà». E sono caduti Gaddi, diciottenne milanese, «il più avvenente tra tutti i rifugiati»; Poggiolini, 50
«uno di quei valorosi studenti dell’Università di Pavia, che ne’ primi dì della nostra rivoluzione, sfidando la rabbia dell’austriaco governo, vennero in Piemonte ad offrire il loro braccio alla patria»; lo studente bresciano Rossi, ucciso mentre grida «Viva la Costituzione» invece che «Viva il re assoluto», come gli avevano intimato; e poi il maggiore Brescia, il tenente colonnello Marovaldi, i tenenti Barberis, Fazio e Ferrero, il tenente Michele Simondi, il romano Pierleoni, il fiorentino Franciscoli, i napoletani Damato e Lubrano; e i capitani Guarnieri e Bernes, il tenente Bussi, i sottotenenti Vailati e Guaschi, «tutti piemontesi». Altri ancora moriranno. Alcuni di loro forse erano stati visti dal giovane Mazzini a Genova, in quella domenica d’aprile del 1821. E, scorgendoli, il futuro Apostolo aveva pensato che «quel giorno fu il primo in cui m’affacciasse confusamente all’anima mia, non dirò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un pensiero che si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria».
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Carlo Ernesto Liverati, Ritratto di Gabriele Pepe durante l’esilio fiorentino (1823-1836).
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«Fiore di galantuomo e di patriota» Un duello e altre imprese di Gabriele Pepe
Si parla di una lezione impartita al signor de Lamartine e di un certame poetico con il signor Del Fante. Essere onesto e avere buona morale erano i principi suoi e della sua vita. S’avventurò dal Molise alla Catalogna, da Bonaparte al Quarantotto. Ottenne dagli italiani stima e ammirazione, dai Borboni diversi mandati d’arresto.
Firenze, 19 febbraio 1826. Tempo gelido, se è per questo, alle sei della mattina. Ma non importa, il duello riscalderà il braccio e il cuore. S’incrociano le spade, una è più corta dell’altra ed è l’italiano, con un gesto di cavalleria, ad averla voluta per sé. Silenzio, labbra serrate, forse il frullo d’un passero, improvviso, che sfrangia il rumore dell’impatto della lama. Gabriele Pepe da Civitacampomarano, un paese del Molise non lontano da Campobasso, getta l’arma e va a soccorrere Alphonse de Lamartine, francese di Mâcon. Lo ha colpito e ferito al primo assalto. Non c’è ragione per continuare. L’onore della patria, che per ora esiste solo in ideale, è salvo. La notizia ha immediatamente un’eco enorme. Il primo a stupirsene è proprio il vincitore, che, il 21 marzo, scrive al fratello Raffaele: «Mi sorprende poi moltissimo come abbiate già e così presto saputo l’affare avvenutomi col Francese». «L’affare col Francese» è presto detto. Lamartine era un poeta di sensibilità romantica e sincero democratico, sarebbe stato ministro nel governo repubblicano di Francia del 1848 e Alexandre Dumas avrebbe immortalato lui e Victor 53
Hugo come «i due eroi del nostro secolo, i due giganti dell’epoca». Ciò non toglie che nel suo poema Le dernier chant du pélerinage de Childe-Harold, dedicato a Lord Byron, Lamartine aveva scritto che l’Italia è una «terre des morts», un «monumento crollato», «polvere del passato, che agita sterile vento» e «terra dove i nepoti non hanno più sangue de’ loro avi». Forse non aveva poi tutti i torti. Ma Pepe, ch’era esule a Firenze ed era un vero patriota di lungo corso, militare e letterato, «da’ buoni ammirato e amato» dirà l’Atto Vannucci, lesse il poema e s’indignò moltissimo. Decise di rispondere per le rime, sebbene non potesse farlo direttamente. Nel granducato infatti vigeva una censura occhiuta, se non grifagna, e inoltre Lamartine, in quel periodo, era segretario di legazione nella capitale toscana. Che cosa fare, allora? Vittorio Scotti Douglas, al quale va il grande merito di avere riscoperto Pepe e di avere pubblicato i Galimatias, i diari della guerra in Spagna, racconta che al molisano fiero non restò che attaccarlo con uno scritto letterario sull’Antologia di Pietro Vieusseux. In parole povere, «con quella ch’egli stesso definisce “una sanguinosa staffilata”». L’allusione, «diretta e pesante», contenuta nel saggio di critica dantesca Cenno sulla vera intelligenza del verso di Dante «Poscia più che il dolor poté il digiuno», venne ovviamente interpreta nel senso giusto da Lamartine. Non ci si poteva sbagliare. Uno dei passaggi incriminati recitava: Di sì crassa dappocaggine fora sol capace quel Rimatore dell’ultimo Canto di Child-Harold, il quale si sforza supplire all’estro, onde è vacuo, ed ai concetti degni dell’estro, con baie contro all’Italia; baie, che chiameremmo ingiurie, ove, come dice Diomede, «i colpi dei fiacchi e degli imbelli potessero mai ferire».
Il duello e il suo esito assurgono a simboli del patriottismo rinato, del riscatto patrio. L’offesa all’Italia umiliata 54
dallo straniero è stata lavata col sangue, gli scrivono in tanti per dirgli che vendetta è fatta. Da gran gentiluomo qual è, Pepe però non serba rancore e diventa amico del poeta francese. È un episodio che compendia la sua vita, le sue idee, la sua visione del mondo e degli esseri umani. Oltre un anno dopo quei fatti, il 22 dicembre del ’27, li riassume in questo modo al fratello Raffaele: L’importante per l’uomo è d’essere onesto e di aver buona morale. La mente è una cosa diversa dal cuore, e il pensiero nulla ha di comune con l’operare. Ho vissuto i due terzi della vita con questi principii; e tuttoché non abbia a laudarmi del destino, non ho però rimorsi per un tale vivere. Con ciò la coscienza mi riconsola de’ colpi della sorte, cui posso a viso aperto dire che fu iniqua travalicando un uomo innocentissimo. Vivrò dunque lo scorcio de’ giorni che mi sarà dato di vivere qual vissi pel passato; obbedendo cioè alle Leggi ed aborrendo il delitto.
Visse esattamente come aveva promesso, dunque come aveva vissuto «pel passato». Nel marzo del 1848, nel vivo dei moti costituzionali nel regno delle Due Sicilie, alle soglie dei sessantanove anni, «rispondendo al pressante appello del generale Pignatelli», come ricorda Scotti Douglas, «lascia ancora una volta Civita per Napoli, dove, dopo aver rifiutato per due volte un incarico ministeriale, viene nominato generale della Guardia Civica». In aprile «è eletto al Parlamento in due diversi collegi, a Napoli e in Molise, e sceglie di rappresentare la sua regione». Al momento dell’accendersi «della rivolta di maggio esercita con freddezza un’azione moderatrice, tentando di convincere i rivoltosi a smontare le barricate». Luigi Settembrini, il letterato a lungo detenuto nelle galere borboniche, poi senatore del regno d’Italia, lo incontra in quei giorni, lasciandone una «splendida testimonianza»: 55
In questo vedo avvicinarmisi Gabriele Pepe, generale della Guardia Nazionale, io gli vo incontro, e gli dico: «Generale, perché la Guardia Nazionale non ubbidisce agli ordini della Camera?» Ed egli: «L’ho detto a questi signori, e non mi vogliono ascoltare. Provate voi, diteglielo voi». «E che sono io, generale, rispetto a voi?» Qui entra un giovane che io conosceva, e con gli occhi e il volto come di un matto, dice: «Chi parla di togliere le barricate, è un traditore e io gli tiro!» E appunta il fucile sul petto di Gabriele Pepe, il quale come chi scaccia una mosca, lievemente spinse in alto la punta del fucile, dicendo: «Non fate sciocchezze». E voltò le spalle, e messesi le mani dietro le reni, se ne andò via tranquillo.
Buon sangue non mentiva. Suo padre Carlo Marcello, rampollo di una famiglia della borghesia agraria nascente, aveva professato idee di libertà, illuministe e giacobine, pagando le sue scelte con l’esilio a Marsiglia e con la morte. E suo cugino era Vincenzo Cuoco, il grande storico della repubblica partenopea del 1799. Quella stessa rivoluzione per difendere la quale Gabriele, ventenne, s’era arruolato volontario nell’esercito repubblicano, nelle cui file combatté le bande sanfediste, fu ferito e fatto prigioniero quando la repubblica venne annientata. Inquisito dalla Suprema Giunta di Stato, si salvò dalla pena capitale soltanto perché minore d’età. Gabriele dovette rifugiarsi anche lui a Marsiglia. Nella città francese «venne a conoscenza della morte del padre colpito dalla peste. A questo punto il giovane alto, dalla “faccia giusta e sbarbata”, dopo un periodo di fame e stenti orgogliosamente vissuto a Marsiglia – rifiutava spesso con scuse fantasiose gli inviti a pranzo di un amico molisano, giungendo fino a cibarsi a volte di ghiande nei boschi – saputo che si stava formando a Grenoble la legione italiana agli ordini del generale Lechi, vi accorse a piedi ed entrò a farne parte come ufficiale». Dopo avere perso parte con le truppe napoleoniche al combattimento vittorioso contro gli austro-italiani in quel 56
di Varallo Sesia, il 28 maggio del 1800, visse per un paio d’anni a Milano e poté quindi ritornare a Napoli in seguito alla pace di Firenze del 1802. Nel pieno «fervore degli studi», come rievoca Scotti Douglas, arrivò la chiamata alle armi nell’esercito di Bonaparte, che, come è noto, di guerre ne faceva a getto continuo. Ai tempi delle vicende belliche di Spagna e di Catalogna, alla quale Pepe partecipò nelle armate francesi dal 1808 ai primi mesi del 1811 distinguendosi per valore e coraggio, Napoleone, però, era ormai considerato un conquistatore, un tiranno, dagli italiani ex sudditi dei vari stati e staterelli in cui era suddivisa la penisola. Soltanto l’imperatore deposto, nell’esilio di Sant’Elena, si sarebbe rifugiato nei frammenti della gloria perduta, confidando a chi ne raccoglieva le memorie lacerate che «i giorni migliori che io abbia mai conosciuto sono stati quelli dopo le mie prime vittorie in Italia, quando la gente mi circondava gridando: “Evviva il liberatore!”» Al rientro dalla Catalogna Pepe avrebbe manifestato apertamente sentimenti d’ostilità verso i francesi. Era consapevole, come i probabili distruttori della piramide di Marengo, che «Napoleone ha spinto al massimo grado la tirannia». E auspicava che «Possa d’Italia il popolo / Rigenerarsi intero», come aveva affermato nel 1809 in un certame poetico con Cosimo Del Fante. Provò a dare un suo contributo alla rigenerazione italiana in veste di aiutante di campo del generale Francesco Strongoli Pignatelli, e impegnandosi quindi nelle trattative fra Gioacchino Murat, che voleva salvare il trono dopo che il congresso di Vienna lo aveva restituito ai Borboni, e la coalizione antinapoleonica. Fu tutto inutile, Murat perse la corona e la vita. E Pepe, come annota lo Scotti Douglas che gli vuole davvero bene e lo stima, con amarezza commentò che «allorché di 57
molte piccole nazioni se ne vuol formare una sola, lo spirito di famiglia e di patria comune abbisogna de’ secoli per formarsi». Oggi di uomini come Pepe non ne fabbricano più, né in Molise né altrove: si può esserne più che certi. Pensate un po’ che dopo essere stato ferito in Catalogna all’assedio di Girona e decorato, il 15 aprile del 1815 Gabriele rischia ancora la vita dalle parti di Macerata. Lo operano alla testa, gli estraggono ventiquattro schegge ossee e lo nominano colonnello. Appena si accende il moto costituzionale in Sicilia, nel luglio del ’20, è di nuovo in prima linea. Pubblica un’ode per la Costituzione, lo eleggono deputato e per tentare «di frenare l’affermazione prepotente della borghesia agraria provinciale, che era già uscita vincente dal decennio francese, sulle plebi miserrime delle campagne», propone «il ripristino delle Università, una fiscalità meno onerosa e un sistema elettorale più equilibrato». Le proposte sono cassate. Nel frattempo i Borboni rivedono Napoli e il potere, la vendetta dello «spergiuro Ferdinando», per dirla con il Vannucci, si abbatte sugli insorti. Vengono «carcerati i generali Colletta, Pedrinelli, Arcovito, Colonna, Costa, Ruffo; e i deputati Borrelli, Poerio, Piccolellis e Gabriello Pepe, nonché varii magistrati virtuosi e chiari per opere d’ingegno». Liberato dalla prigionia, non lunga ma durissima, è destinato al confino e in seguito all’esilio. Racconta Atto Vannucci che i «deputati Poerio e Borrelli, il colonnello Pepe e i generali Colletta, Pedrinelli e Arcovito furono condotti negli Stati austriaci e confinati a Gratz [sic], a Praga e a Brünn [Brno, in Moravia, n.d.a.]. Alcuni dopo molti patimenti ebbero il permesso di tornare in patria; altri morirono nell’esilio». Tra quelli che riescono a ritornare, c’è anche lui. Si stabilisce a Firenze, dove trova «ricovero e conforti ai dolori 58
dell’esilio». In «esercizi di lettere visse tra noi», il «colonnello Gabriello Pepe», «da’ buoni ammirato ed amato finché non gli fu concesso di tornare negli Abruzzi [sic] al paese nativo». Nella città del granducato collabora all’Antologia di Vieusseux, colto mecenate che gli passa un po’ di scudi ogni mese, e frequenta gli Imbriani, i Poerio, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo, il marchese Gino Capponi e Carlo Troya. Scriverà Benedetto Croce nel suo saggio sui Poerio che attorno all’Antologia si coagulò quel «partito moderato» italiano, nel senso di «una intesa e appoggio reciproco tra gli uomini della medesima opinione nei vari Stati italiani, sì per le riforme e le istituzioni parlamentari come per la cacciata degli austriaci». E fu allora che «si lessero gli uni gli altri nel fondo dell’anima, e si legarono per la vita, il Poerio e il Colletta e Gabriele Pepe e il Troya e altri meridionali col Capponi, il Giordani, il Niccolini, il Forti, il Tommaseo, il Salvagnoli e altri dell’Iitalia media, e poi col Balbo e gli altri del gruppo piemontese; e costituirono per alcuni decennî come una famiglia sopra le famiglie, una famiglia italiana». Questo è l’uomo, l’intellettuale, il soldato e il combattente della libertà, il liberale moderato e illuminato, che nel 1842, concludendo la sua Lettera al Commendatore «intorno agli ufficiali napoletani che si distinsero nella guerra di Spagna negli anni 1809 e 1810», rammentava di avere visto «tutte queste assurdità antimilitari», dalla Catalogna ai moti del ’21, accorandosi «al vedere che non i colpevoli, ma bensì la nazione, ne paga le spese in pessima fama». Lui, che la fama d’Italia aveva difeso sui campi di battaglia, nel duello con il Lamartine e negli studi, era ora costretto a udire «nel Paese della lingua di un Tasso, di un Petrarca, di un Segneri, ne toccò, dicea, d’udire un sermone in francese dall’abate Lefebvre». Sembrava un Pepe di59
silluso, stanco, tanto da sostenere che, «comunque sia», «ho chiuso bottega e me la vivo eremiticamente». Invece nel 1848, nonostante gli anni e gli acciacchi, lasciò l’eremo e non rinunciò a dare il suo apporto all’ennesima insorgenza democratica e costituzionale nel regno delle Due Sicilie. Il destino delle rivoluzioni è di essere sempre o tradite oppure schiacciate nel sangue. Nei giorni della reazione, a Napoli, dice Vannucci, «i soldati e i Lazzari continuavano furibondi nelle stragi e nelle rapine. Ad istigazione della polizia frotte di meretrici sozzissime andavano per le vie gridando “Viva il re”, e unite a sbirri e soldati facevano oscena guerra ai mustacchi e alle barbe dei cittadini. Chiunque fosse riconosciuto per Guardia Nazionale, per deputato o per liberale, era vituperato con parole e percosse. Lo stesso generale Gabriello Pepe fu svaligiato dagli svizzeri e condotto al castello ove lo tennero due giorni in prigione in mezzo agli scherni di brutale soldatesca». Morì nella sua Civitacampomarano il 26 luglio del 1849. Nelle stesse ore stava arrivando da Napoli l’ordine di arresto per i fatti dell’anno precedente. Il Settembrini, nelle sue Ricordanze, avrebbe scritto che il «colonnello Gabriele Pepe, sannita» era un «prode, dotto, intemerato, fiore di galantuomo e di patriota».
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Nella torre del Ducale Da Jacopo Ruffini a Gaetano Bresci
Arresto e morte di Jacopo Ruffini, martire della Giovine Italia. Brevi ragguagli sul fratello Giovanni e sul suo dottor Antonio, fra Bordighera e dintorni. Ma nella torre famigerata di Genova, a palazzo Ducale, quasi un secolo dopo sono rinchiusi altri sovversivi come l’anarchico Ezio Taddei. Con una nota sull’assassinio del regicida Bresci.
Lo arrestano a Genova nella notte fra il 13 e il 14 maggio del 1833. Rinchiuso in una cella della torre di palazzo Ducale, come dice il Vannucci, «contro Iacopo Ruffini molto infierirono, perché ne speravano rivelazioni importanti». Nato il 22 giugno del 1805, nello stesso giorno in cui nasce Mazzini, del quale è amico fraterno e seguace insieme ai fratelli Agostino e Giovanni, di professione medico, è «un bel giovane di ventotto anni, di cuore ardente, di santi costumi: amava la libertà col caldo e puro affetto di cui era capace la sua vergine e forte anima». Cercano di farlo parlare, probabilmente lo torturano. Mentre Jacopo è in mano ai suoi carcerieri, Agostino e Giovanni riescono a fuggire con la madre Eleonora a Marsiglia. Nella città francese vive da tempo il capo della Giovine Italia, che tra la fine del 1830 e l’inizio del febbraio 1831 ha scontato qualche mese di detenzione nella fortezza savonese di Priamar. Ancora Genova, ma quasi novant’anni dopo. È il marzo del 1921. Lo scenario, fosco, è sempre quello della torre di palazzo Ducale, prigione di Stato. Stavolta vi vengono incarcerati alcuni giovani anarchici, accusati di avere 61
fatto esplodere delle bombe in città per protestare contro gli arresti di Armando Borghi e di Errico Malatesta, esponenti di spicco del movimento libertario. Tra di loro c’è Ezio Taddei, livornese, che poi diventerà un bravo scrittore di denuncia sociale. Nel suo libro La fabbrica parla ricorda così quei giorni: La Torre a Genova è monumento nazionale perché c’è stato dentro Iacopo Ruffini. Quante cimici ci sono! Ogni momento quelle porte massicce, basse si aprivano e n’entrava degli altri. Politici, detenuti comuni, tutto mescolato. A noi ormai ci avevano presi tutti e trenta e si passava l’interrogatorio uno dietro l’altro. La notte non si poteva chiudere un occhio perché bisognava grattare sempre.
Anche loro, come Ruffini e gli altri membri della Giovine Italia, vengono picchiati. È passato quasi un secolo e sono trascorsi cento anni esatti dai moti del 1821, ma l’Italia regia non sembra troppo cambiata. Sentite Taddei che cosa scrive: Il giorno s’era intontiti da quelle nottate in bianco e allora la porta si apriva: «Camisotti; siete voi? Giù». «Dove?» «Il Commissario». Dopo un paio d’ore Camisotti tornò in cella. «Te l’hanno date?» Era pallido, sudava ancora. «Tieni, bevi un po’ d’acqua». «Lascia stare».
Taddei era stato fermato mentre dormiva sulle scale della sede della lega dei Panettieri. Sfamarsi, trovare del pane, era stato il suo problema principale fin da bambino, da quando il padre lo aveva cac62
ciato. Dormiva sui pianerottoli delle case dei poveri o nelle locande da quattro soldi la notte. In una di queste aveva fatto amicizia con un accattone, il caporale Martini, che gli diceva di avere indossato la camicia rossa e di avere preso parte alla battaglia di Mentana: «Mi raccontò qualcosa di sé. Era stato con Garibaldi, aveva fatto tante battaglie. Me le raccontava e io mi ricordavo di quando ero stato a scuola a sentire tutti quei nomi di generali. Poi a Mentana fu ferito il mio amico, apposta ora andava zoppo». Con il vecchio faceva il giro dei conventi dei frati e delle suore per prendere una ciotola di minestra. A un certo punto Martini fu ricoverato al Santo Spirito e morì. Taddei andò a vedere il suo cadavere steso su un tavolo di marmo, avvolto in un lenzuolo. Lo scoprì, guardò il viso con i baffi bianchi e pianse un poco. Ruffini fu arrestato a casa sua. «Erasi lasciato cogliere nelle mura domestiche, persuaso che i suoi compagni sarebbero forti al pari di lui», dice Vannucci. E «questa persuasione lo sosteneva nel carcere, e lo rendeva invincibile contro ogni tentativo de’ suoi assassini». Nei ricordi di Taddei pare di respirare la stessa aria malata di allora, annusare i medesimi fetori, ascoltare i rumori e le urla: «Su per le scale della Torre c’era un andirivieni di guardie, di detenuti. Ci si rimase sette giorni, poi si passò tutti al carcere con l’accusa di associazione a delinquere e attentati terroristici». Nessuno degli anarchici parlò. Nemmeno Jacopo Ruffini. L’auditore di guerra Ratti Opizzoni, un giorno, «chiamandolo davanti a sé, si fece a dirgli: “Voi siete un nobile, un traviato giovane: pensaste che avreste trovato compagni degni di voi al compimento di un generoso scopo: rifiutate adesso di salvare la vostra vita con confessioni che però non istruirebbero di più il governo. Io sento pietà di voi e della vostra vecchia madre: guardate qui che uomini 63
sono quelli pei quali voi affrontate il martirio!” E in così dire gli pose innanzi alcune carte che contenevano deposizioni contro di lui ed erano firmate da uno dei suoi più intimi amici. Forse quella firma era falsa. Il giovane non poté farvi sopra un critico esame, e stupefatto e oppresso dal dolore tornò nella carcere». Taddei viene condannato a diversi anni, la destinazione è il penitenziario terribile dell’isola di Santo Stefano. È l’inferno in cui era morto, ammazzato, il regicida Gaetano Bresci; l’ergastolo borbonico nell’arcipelago delle Pontine dove a Luigi Settembrini, reclusovi, il tempo era parso «come un mare senza sponde, senza sole, senza luna, senza stelle, immenso ed uno». Nella sua odissea da una prigione all’altra, che finirà solo quindici anni dopo, l’anarchico livornese conoscerà anche il reclusorio di Finalborgo, sulla riviera ligure di Ponente. Verrà sepolto in un’altra torre, quella dell’ex convento domenicano di Santa Caterina, trasformato in carcere in seguito alla promulgazione, nel 1864, delle leggi sui beni ecclesiastici: «A Finalborgo le celle di punizione le avevano fatte nel campanile, perché quel penale era un vecchio convento, e allora dal campanile ci avevano levato le campane, le cellette le avevano divise in modo che a ogni piano c’erano due celle di punizione e la scala andava fino in cima». Nel maggio del 1898 vi furono deportati alcuni anarchici e socialisti arrestati duranti i moti di Milano, quelli repressi dai cannoni di Bava Beccaris, il «feroce monarchico Bava» che aveva partecipato alla guerra di Crimea e alle campagne risorgimentali del ’59 e del ’66. Fra i detenuti c’era pure un sacerdote, don Davide Albertario, che scrisse nelle sue memorie: «Ci attira lo sguardo un nugolo di rondinelle vispe che volano, rivolano, volteggiano alle64
gre, garriscono sul nostro capo, avvolgendo e incoronando la torre del carcere, come sciame d’api l’alveare». Probabilmente volavano rondini anche attorno alla torre di Genova, ma Jacopo non le poteva più vedere. Alle due di notte del 19 giugno, temendo «che gli venisse meno la forza a resistere, e forse persuaso anche che a ogni patto si volesse il suo sangue, preferì di togliersi di mezzo a sì basse infamie, e al pericolo di cadere in atti e in parole indegne di lui e della sua fede. Quindi dicono che tolto colle sue mani un chiodo dalla porta della prigione si aprisse con quello una vena della gola, e morendo scrivesse col suo sangue sul muro queste parole: “Ecco la mia risposta: lascio in testamento la mia vendetta ai miei fratelli”. In questi termini andò attorno la fama del tristo fatto. Ma l’intera verità rimase un segreto tra il martire e Dio e i suoi carcerieri». Quale verità? Non si è mai saputa, sebbene la tesi del suicidio, con il passare del tempo, è stata messa seriamente in discussione. Al momento del ritrovamento del cadavere, il chirurgo delle carceri, che era il dottor Paolo Lagomarsino, scrisse che «l’anno 1833, il 19 del mese di giugno, nelle carceri della Torre, e precisamente nelle prigioni dette lo Scalinetto: il chirurgo sottoscritto certifica di aver visitato il cadavere del detenuto Giacomo Ruffini [Jacopo aveva firmato nel registro con questo nome, n.d.a.], avente una ferita lacerata dell’estensione di due pollici alla parte laterale sinistra del collo, con lesione dei vasi sanguigni corrispondenti (cioè carotide e giugulare) che gli cagionò abbondante emorragia, prodotta da instrumento puntuto e lacerante, e fu quella la vera causa dell’immediata morte del suddetto». Il risultato dell’autopsia non escludeva, in alcun modo, la possibilità che Ruffini fosse stato assassinato dalle guar65
die per motivi oscuri, oppure per evitare che la sua condanna al patibolo potesse suscitare reazioni e insorgenze dei mazziniani. Non ci sono dubbi invece per il pavese Umberto Ceva, mazziniano incarcerato dai fascisti, che nel 1930 si uccise in cella ingoiando dei frammenti di vetro. “Il Pensiero Mazziniano” scrisse che si suicidò «per evitare la delazione dei compagni come Jacopo Ruffini poco più di un secolo prima». Verità occultate, trame di Stato, Risorgimento e sovversivi del secolo successivo, destini che s’incrociano. Durante la sua reclusione a Santo Stefano, Ezio Taddei scoprì che Gaetano Bresci, il libertario che uccise Umberto I, non si era suicidato, bensì era stato ammazzato. Lo seppe da un vecchio detenuto, condannato all’ergastolo, segregato nell’isola ormai da trentanove anni. Gli disse che ad assassinare Bresci era stato il capo mozzo Sanna: Si era tutti forzati del vecchio codice, nella stanza a terreno, la camerata dei mozzi. Allora c’era la lanterna a olio. Io ho sempre avuto quel posto... Era Sanna che andava a fare la pulizia nella sua cella. Lui gli portava da mangiare. Una notte lo vennero a chiamare: «Capo mozzo». Sanna uscì e stette fuori più d’un’ora. L’indomani si seppe che avevano acciso a Gaetane’.
Il vecchio gli spiegò che non avrebbe potuto impiccarsi, sarebbe stato impossibile con tutta quella sorveglianza che gli avevano messo. Fu Sanna a legargli il lenzuolo dietro al collo. Due giorni dopo, il capo mozzo fu trasferito a Procida e «di là liberato con grazia sovrana». Se non liberati nel senso stretto, bensì riammessi in patria nel 1848 e persino scolpiti i loro nomi nel marmo, ma un secolo appresso, furono i Ruffini superstiti, Agostino e Giovanni. Quest’ultimo, transfuga in Francia e quindi a 66
Londra, divenne un buon scrittore in lingua inglese. I suoi romanzi d’ambientazione ligure e risorgimentale, da Lorenzo Benoni a Il dottor Antonio, fecero conoscere la riviera di Ponente ai sudditi di Sua Maestà britannica e soprattutto alle suddite che leggendo le pagine dell’Antonio avrebbero versato lacrime innumerevoli per l’amore tragico e impossibile fra la nobile Lucy e il medico protagonista del libro, patriota siciliano esule fra Taggia, città d’origine della famiglia della madre dei Ruffini, e Bordighera. Sconciati in modo vergognoso dalla speculazione edilizia postunitaria, ora i luoghi del romanzo sono piuttosto diversi da come Ruffini li descrisse con accenti sentimentali e delicati, tra profumi intensi di fiori, paesaggi incantevoli, versi del Berchet e arie di Rossini. «Amo questa Bordighera!», esclamava Lucy nel romanzo. Antonio le rispondeva: «Bella com’è essa le toglie la vista magnifica della costa di Francia». E lei: «Non me ne dispiace, un ampio paesaggio distrae la mia attenzione e allora non mi riesce mai d’impedire al mio sguardo di correre all’orizzonte. Il mare e il cielo sono i soli vasti spazi che realmente si godono». Cose così, insomma. Scomparse in gran parte, se non proprio interamente. Sopravvive in compenso la pietra, resiste il marmo, ancorché scoloriti. Come nella vecchia Taggia, in quel Pantano che, dice Antonio a Lucy, «è un po’ la vostra Borsa e la vostra Regent Street messe assieme per la buona gente di Taggia. Qui si combinano gli affari, e qui gli eleganti e i magnati fanno mostra in pubblico della loro bellezza e della loro boria. Quell’individuo alto, in divisa, è il brigadiere dei carabinieri, una delle persone più influenti del luogo. Se ci fermiamo qualche minuto ancora, lo vedremo allontanarsi per andare a stendere un rapporto sul fatto che il dottor Antonio di Bordighera fu visto al67
le quattro in compagnia di una signorina e di un signore forestieri... fatto importante, questo, di cui il mio amico comandante di San Remo sarà informato prima del tramonto». Nel Pantano, in via Soleri, posero nel 1961 l’iscrizione che recita: Su questo “Pantan” che il dottor Antonio descrive la Città di Taggia ricorrente il primo centenario dell’Unità d’Italia lascia un segno di civica devozione alla gloriosa memoria dei fratelli Giovanni, Jacopo e Agostino Ruffini Taggia II giugno 1961 «This in the Pantano», said doctor Antonio, «the Exchange and the Regent Street combined, of the good folks of Taggia», (Doctor Antonio, Giovanni Ruffini).
A Genova, in via Reggio, sul muraglione della torre del Ducale un’altra targa ricorda la morte di Jacopo: Consacrò queste carceri il sangue d’Jacopo Ruffini mortovi per la fede italiana – 1833.
Sono lapidi e targhe oggi ignorate, lette soltanto dalla pioggia o dal vento.
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Il passo dei contrabbandieri Un’avventura in val Vigezzo
Dove s’insegue il fantasma di Pippo Mazzini nel borgo di Olgia, agli estremi confini del regno, e si accredita il racconto di un vecchio parroco. C’è il pretesto per parlar (male) della spedizione di Savoia, e per dire peggio del generale Ramorino. Con una divagazione in terra di Spagna e citazioni del Benito Mazzi da Santa Maria Maggiore.
Doveva o dovrebbe essere il 1834, in un giorno e in un mese imprecisati, l’anno della fallita invasione della Savoia. Perché così si legge nell’epigrafe posta sul muro di un edificio che fronteggia la chiesa di Santa Elisabetta: Giuseppe Mazzini Sulla strada dell’esilio Qua sostò nel 1834. Il tempo ha gloriosamente tramutato In magistrale insegnamento di Libertà e di Giustizia Per tutte le genti Gli ideali di questo grande Italiano. Il Consiglio di valle Vigezzo Pose nel 1965 Confermando la tradizione popolare.
In alto svetta un comignolo possente, sotto riposa una finestra con dei gerani rossi sul davanzale. Tutt’intorno un silenzio assoluto abbraccia il grumo di antiche case di montagna della frazione di Olgia, a 810 metri di altitudine, tra vampe di sole nella nuvolaglia addensata sul monte 69
Gridone e più in basso, verso il paese di Re, il volo di un falco sui boschi. Il confine con il Canton Ticino è a un tiro di schioppo, proprio quegli schioppi che gendarmi e guardie di finanza puntarono sui contrabbandieri in sfide replicatesi per decenni, d’estate e d’inverno, caldo o neve che ci fosse quassù, ai lembi estremi della valle, dove, oltre agli spalloni, si dice che si dessero convegno (ipotetiche, presunte) streghe. Come scrisse “Il Pensiero Mazziniano”, la targa venne scoperta alla presenza di «tutta la popolazione del minuscolo comune alpino, con le autorità della vallata e il gonfalone del comune di Re», e di una delegazione «della vicina Svizzera», che poi «fraternamente» discussero a Malesco «problemi comuni della val Vigezzo e di Centovalli separate dal confine politico, ma unite dalla stessa volontà democratica di libero progresso». Pippo Mazzini avrebbe pertanto varcato quel confine, in un senso o nell’altro, dal regno di Sardegna alla Svizzera o viceversa, nel 1834. Anno orribile, in ogni caso. Fra il 31 gennaio e i primi di febbraio si consumò nel dramma, ma pure nella farsa, uno dei tentativi rivoluzionari alquanto improvvidi messi in opera dalla Giovine Italia e dall’Apostolo. Tanto che, l’8 febbraio, la “Gazzetta Piemontese” di Torino poteva dare notizia del «mal esito della spedizione del generale Ramorino», e il 18 dello stesso mese il consiglio di guerra divisionario di Chambery mandava a morte, per quell’insurrezione abortita, Angelo Volonteri e Giuseppe Borel. Come si legge nella bibbia patriottica di Atto Vannucci, i due, l’uno lombardo e il secondo francese, facevano parte di quei circa trecento, tra italiani, tedeschi e polacchi, che, guidati da Mazzini, dal Ramorino, già combattente nell’armata napoleonica, e dal conte Bianco di Saint Jorioz, «entrarono dal cantone di Ginevra in Sa70
voia», cioè nel regno sardo. Volonteri e Borel, «con altri fuorusciti», arrivavano da Grenoble. Mazzini e gli altri «dovettero retrocedere subito non trovando favore tra i Savoiardi», e soprattutto non trovandosi al posto giusto, e nel momento giusto, il Ramorino, che sconterà le sue leggerezze, la vita dissipata e le sue responsabilità davanti a un plotone di esecuzione, dopo la sconfitta di Novara del 23 marzo 1849, sui prati del sobborgo torinese della Crocetta. Ma in quel ’34, condannato all’impiccagione al pari degli altri congiurati mazziniani, Ramorino era riuscito a mettersi al sicuro in Francia. Avrebbe sperperato, in breve tempo, il denaro della spedizione in bagordi e ai tavoli da gioco di Parigi. Volonteri e Borel, invece, pagarono subito. Caduti nelle mani dei piemontesi, furono portati in manette a Chambery. La corte marziale li condannò a essere «dal carnefice condotti col laccio al collo, in giorno di tribunale o di mercato, per le strade ed altri luoghi soliti fino al luogo destinato ai supplizi, onde essere quivi ad una forca a tal fine innalzata appiccati e strangolati». Il bilancio dell’invasione della Savoia, che avrebbe dovuto accendere focolai insurrezionali dal Piemonte alla Liguria, dalle Marche all’Umbria e a Napoli, era semplicemente disastroso. Mazzini stesso, nonostante avesse voluto proclamare simbolicamente in un lembo di territorio savoiardo il governo rivoluzionario, a un certo punto, nella concitazione e nella confusione, pensò bene di svenire e si risvegliò in Svizzera, dove i compagni di sventura l’avevano trasportato. I suoi proclami alle genti di Savoia e del Piemonte, come quello bilingue, in italiano e in francese, intitolato Il Popolo, all’Armata, erano stati disattesi nella maniera più assoluta. Filippo Buonarroti, il vecchio rivoluzionario, del resto, l’aveva caldamente sconsigliata, però Mazzini non gli vol71
le dare retta, accettando peraltro l’imposizione di Ramorino, sostenuto dai banchieri svizzeri, a capo militare. L’ex soldato di Napoleone verrà accusato da Bianco, il solo che in quelle ore aveva provato a combattere sul serio, di incapacità e soprattutto di tradimento, sospettando una sua intesa con i piemontesi. Il risultato fu sotto gli occhi di tutti, a cominciare da Garibaldi. Dopo avere aderito alla Giovine Italia, era stato incaricato di far sollevare Genova. Sfuggito per un pelo all’arresto, riparò in Francia e s’imbarcò su un mercantile. Dopotutto, pur nella disfatta e nell’esilio inevitabile, per Peppino le cose non si misero poi troppo male, e forse, chissà, senza quella catastrofe non sarebbe diventato l’Eroe dei Due Mondi. Intanto la Giovine Italia era in ginocchio, altri lutti e altre fughe si aggiungevano ai fatti che l’anno prima, nel ’33, come abbiamo visto, avevano portato al suicidio di Jacopo Ruffini nella sua cella del palazzo Ducale genovese, alla carcerazione e all’esilio di tanti giovani. Tra quelli che sono costretti a espatriare c’è l’abate Vincenzo Gioberti, che Carlo Alberto non oserà far processare visto il suo status d’uomo di Chiesa: lo arrestano mentre si trova al caffè della Rotonda, nel torinese Giardino dei Ripari, a Borgo Nuovo, e lo spediscono in una carrozza chiusa alla Cittadella. Una batosta per Mazzini e i suoi compagni. È in conseguenza dello scacco subito tra la Svizzera e la Savoia che sosta a Olgia? Potrebbe essere così. La lapide, quelle iscrizioni nel marmo, ci rivelano soltanto che vi sarebbe transitato nel 1834, «sulla strada dell’esilio». Il fatto è che, in esilio, Pippo ci stava da molto tempo e, lasciata per forza Marsiglia, si era stabilito in Svizzera, prima all’Hotel de la Navigation di Ginevra e in seguito, tramontato il sogno di invadere gli Stati sardi, a Berna e a Losanna. Che cosa ci 72
era andato a fare il Grande Esule nelle ultime propaggini della val Vigezzo, in quella plaga di confine i cui abitanti, all’epoca, come racconta Benito Mazzi da Santa Maria Maggiore, cantore sommo delle sue vallate, erano talmente poveri da poter contare solo «sui miseri prodotti della loro aridissima terra e sul contrabbando», sull’emigrazione? Non si sa. Il Mazzi ci dice che «fu don Luigi Visconti, il vecchio parroco di Olgia, che, sulla base di alcuni documenti, sostenne di essere certo della sosta di Mazzini e dunque della veridicità della credenza popolare. Persona autorevole, d’altronde, don Visconti, anche se la questione della presenza o meno di Mazzini a Olgia è sempre stata al centro di querelle. Ancora negli anni sessanta del secolo scorso, sui giornali locali si diedero battaglia Giuseppe Tramarollo, studioso mazziniano di fama, e una professoressa di un liceo della zona: il primo a favore del passaggio a Olgia, la seconda negatrice e convinta che si trattasse di una bufala». Certo è che nulla impedisce di credere al valente Tramarollo e a don Visconti. Pippo dimorava in Svizzera in quel periodo, e sono noti i suoi frequenti spostamenti in Canton Ticino. Qui, in una tipografia di Capolago, l’Elvetica, fondata dall’esule genovese Alessandro Repetti, mazziniano, e passata alla storia delle cospirazioni, veniva stampato il materiale della Giovine Italia. Era quindi contrabbandato, a volte con la corrispondenza e con le armi, tra le varie barriere doganali del regno di Sardegna e del Lombardo-Veneto, a Chiasso, Maslianico, Campione, Lugano, la val d’Intelvi e il lago Maggiore. Da quelle parti, a Viganello, nei pressi di Lugano, viveva inoltre il conte Giovanni Grilenzoni, patriota di Reggio Emilia, cospiratore nel ’21 e quindi con Ciro Menotti nel ducato di Modena, che con Mazzini intrattenne amicizia fraterna e del quale fu l’a73
gente di fiducia nel cantone di lingua italiana. È il Mazzini che piaceva allo scrittore francese Jean Giono che lo descrive, «verso il 1832», come il «Dio che fa la pioggia, caro a mio nonno. Mazzini, bandito dal Piemonte due anni dopo, era rimasto in contatto con tutti i carbonari che avevano tendenza alla dismisura. Giovanni Battista Giono tagliò molto gentilmente qualche gola dalle parti di Pinerolo in onore del proscritto e secondo piani prestabiliti. Ma non fu quella la volta in cui fu condannato a morte in contumacia. Le imprese contro il governo sardo erano protette dalla complicità di tutta una popolazione che vedeva l’onore sull’altra sponda di un fiume di sangue. Le vittime, d’altronde, erano tutte più o meno affiliate alla polizia». Se è ragionevolmente da escludere una gita di piacere in val Vigezzo in compagnia della Giuditta Sidoli dallo «sguardo di velluto», che gli aveva dato un figlio (sarebbe morto proprio in quel 1834) ed era partita con lui da Marsiglia, più credibile è un passaggio per quelle montagne al momento della costituzione della Giovine Svizzera del Ticino, avvenuta dopo la fondazione a Berna, nell’aprile dello stesso anno, della Giovine Europa. È facile anche pensare a incontri clandestini fra l’Apostolo della Libertà e cospiratori e rivoluzionari assortiti, adepti mazziniani del Piemonte, che avrebbero potuto svolgersi tra quelle boscaglie, in quelle case scure addossate le une alle altre per sentirsi meno fredde e sole. «Olgia era il confine», rammenta Benito Mazzi; e confine impervio e fuori mano, adatto pertanto alle puntate, alle entrate e alle uscite, nel territorio nemico di Carlo Alberto. Nella «tenace tradizione popolare» confidava anche Tramarollo. Al momento dell’inaugurazione della lapide a Olgia, nel 1965, l’allora presidente dell’Associazione Mazziniana Italiana pronunciò un lungo discorso successiva74
mente pubblicato su “Il Pensiero Mazziniano” diretto da Vittorio Parmentola, altro studioso egregio di vicende e protagonisti del Risorgimento. Ammise, è vero, che «la documentazione di una peregrinazione in val Vigezzo non è ancora stata trovata», ma «qualche volta la tradizione può trovare inaspettate conferme: avvenne così, per esempio, quando uno storico diligente poté dimostrare che era leggendario il celebre “Tiremm innanz” di Amatore Sciesa, il popolano milanese che l’avrebbe fieramente pronunciato mentre gli sbirri austriaci lo facevano transitare davanti alla sua casa per indurlo a rivelare i complici della congiura mazziniana del 1851. Ma lo stesso storico trovò negli atti processuali che lo Sciesa aveva fermamente risposto durante l’interrogatorio di polizia, quando gli si contestava la flagrante affissione di manifesti mazziniani: “Quel ch’è faa, l’è faa!”» Risposta, quella del tappezziere battezzato nella parrocchia di San Babila, «non meno eroica e conferma di una tradizione non meno tenace di quella che vuole a Olgia l’inafferrabile Mazzini, incubo di tutte le polizie e di tutti i governi reazionari, come cantò la poesia popolare di Francesco Dall’Ongaro: “Chi dice che Mazzini è in Alemagna, / chi dice che è tornato in Inghilterra, / chi lo pone a Ginevra e chi in Ispagna, / chi lo vuol sugli altari e chi sotterra. / Ditemi un po’, grulloni in cappa magna, / quanti Mazzini c’è sopra la terra? / Se volete saper dov’è Mazzini, / domandatelo all’Alpi e agli Appennini: / Mazzini è in ogni loco ove si trema / che giunga al traditor l’ora suprema, / Mazzini è in ogni loco ove si spera / versare il sangue per l’Italia intera!» Tramarollo disse poi che «il 1834 è un anno capitale della vita di Mazzini: Jessie White Mario, che ne è stata l’amorosa biografa, ha scritto: “Se in una vita grande come 75
quella di Mazzini fosse dato scegliere il punto saliente, l’apoteosi, noi senza dubbio sceglieremmo i mesi e gli anni che seguirono immediati alla fallita spedizione di Savoia”. Sono appunto i mesi che seguirono il fallimento, per responsabilità del capo militare generale Ramorino, dell’invasione della Savoia, che sei o settecento esuli italiani, polacchi, tedeschi, animati da Mazzini tentarono ai primi di febbraio del 1834: ed è forse in questi mesi, quando Mazzini braccato dalla polizia svizzera per le pressioni del governo piemontese mutava affannosamente di domicilio, che potrebbe essere avvenuta la sosta ad Olgia, anche se mancano i documenti e tace l’epistolario mazziniano: certamente Mazzini si sposta da Bienne a Grenchen vincendo non solo la persecuzione poliziesca, ma la tremenda “tempesta del dubbio” che minacciò di condurlo al suicidio e alla follia col rimorso delle giovani vite stroncate dalle vicende cospirative o insurrezionali». All’epoca aveva ventinove anni, e «già da tre anni conosceva le amare vie dell’esilio, dopo aver ideato nel carcere sabaudo di Savona il disegno della Giovine Italia realizzata l’anno successivo a Marsiglia: già aveva visto cadere sotto la spietata repressione sabauda i primi congiurati per la liberazione unitaria e repubblicana d’Italia e Jacopo Ruffini s’era svenato nel carcere sabaudo di Genova temendo di essere costretto a svelare i nomi dei compagni e il governo francese aveva espulso Mazzini e i suoi collaboratori, costringendoli a riparare in suolo elvetico». Quel Mazzini che superò la «tremenda tempesta» con la «coscienza del dovere», tanto che «nell’aprile di quell’anno fondava a Berna con un pugno di esuli ancora italiani, polacchi, tedeschi la Giovine Europa: diciassette uomini contro l’Europa della Santa Alleanza tracciavano la via dell’unità». Perciò «aveva visto giusto il principe Met76
ternich quando, alle notizie dei primi insuccessi di Mazzini, aveva scritto: “Questo moderno Catilina, quest’energumeno dalla eloquenza irresistibile saprà riannodare i fili sparsi e scuotere i troni della penisola finché crolleranno». I troni non vennero scossi, almeno non tutti, e, quando avvenne, semmai sostituiti da altri. E Pippo l’Apostolo, pur precursore in tante cose, fu soprattutto un grande fallito di genio nelle sue cospirazioni. Ciò non toglie, affermò Tramarollo avviandosi a concludere (e qualcuno magari mormorò, lì a Olgia, che finalmente lo stava facendo), che Mazzini fu «uomo moderno, perché anticipatore della soluzione moderna del problema sociale contro il collettivismo livellatore e contro il liberismo indifferente con l’indicazione precisa e tenace della via della cooperazione». E aggiunse che John Fitzgerald Kennedy «nel memorabile viaggio in Italia pochi mesi prima di essere stroncato dalla barbarie razzista, non ricordò nel discorso d’addio a Napoli glorie letterarie o artistiche o scientifiche degli italiani», bensì «richiamò solo il pensiero di Mazzini, citando il discorso pronunciato a Milano nel 1848, all’indomani delle Cinque Giornate, per invitare tutti i popoli di qua e di là dell’Adriatico alla solidarietà nella lotta contro la fame, contro il bisogno, contro l’intolleranza, contro la guerra». Insomma: fosse stato o meno da quelle parti, il Mazzini, o fola oppure verità di popolo, rivolto con ogni probabilità all’epigrafe, commosso, Tramarollo si decise a concludere sul serio: «Leggendone l’iscrizione, d’ora in poi abitanti della val Vigezzo e turisti, italiani e stranieri, renderanno grazie al Consiglio di Valle, che ha voluto ricordare per sempre che qui trovò una breve sosta di pace una delle anime più pure, che hanno pensato e operato per il bene degli uomini del suo e nostro tempo: vero contemporaneo della posterità!» 77
Teniamoci stretta la credenza popolare, e la leggenda o la realtà che sia e che fu. Come Carlo Bianco, nella svizzera Nyon, nel 1833 si teneva saldo alla convinzione che la progettata invasione della Savoia e del Piemonte fosse destinata a sortire poco o niente. Lo scrisse a luglio a Luigi Amedeo Melegari, firmandosi Tacco, ossia Ghino di Tacco: «I Piemontesi emigrati, o noi emigrati che viddi qui, hanno pochissima fede sulla cooperazione attiva delle masse in qualunque caso di movimento. Carlo Alberto gode perfettissima salute, i negozianti che vengono dal Piemonte non osano neppure dire chi siano i nuovi carcerati». Ancora meno fiducioso in se stesso, quasi quarant’anni più tardi, fu un altro piemontese: Amedeo Ferdinando Maria, duca d’Aosta. Incoronato re di Spagna nel novembre del 1870, accettò la corona perché costretto a farlo. Abdicò nel febbraio del 1873. C’era stato il tempo sufficiente per fare vivere una bella avventura a un figlio di quella val Vigezzo visitata, forse sì o forse no, dal Pippo Mazzini. È Mazzi a raccontare che Bernardino Bonardi, nativo del posto, vale a dire di Coimo, pittore e scenografo, fece furore nei teatri spagnoli e venne invitato a corte dalla regina Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna, moglie del triste Amedeo: Bonardi «fu in quel breve periodo di regno lo scenografo dei reali e tale fu il consenso che raccolse che la regina lo premiò personalmente nel corso di un memorabile ricevimento, con una medaglia d’oro». Bernardino tornò in patria nel 1890. Evento, questo del ritorno a casa, che fu amaro fino in fondo per l’Apostolo, e impedito per sempre, fino alla morte, al conte Bianco.
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Suicidio a Bruxelles
Vita e soprattutto morte di Carlo Bianco, disperato amatore della libertà. Si racconta di un cappotto che non c’è, del freddo del Belgio, di una messa negata e delle lettere dell’abate Vincenzo Gioberti. Non mancano una commemorazione tardiva nel feudo di Barge e Pippo Mazzini in quel di Londra, travolto dai ricordi.
Barge, 5 settembre 1909 Michele Lorenzati, segretario comunale capo, contemplò con soddisfazione l’atto che aveva appena terminato di redigere e sagomò un sorriso. Rialzò la testa, osservò la sala del municipio che si era già riempita di folla e attese. Allora il sindaco, nell’illustrissima persona del cavalier Giacomo Priotto, gli fece un cenno. Il brulicare delle voci s’interruppe, gli ultimi frammenti scemarono. Nel silenzio stropicciato da qualche colpo di tosse residuo, come se fosse stato alzato un sipario Lorenzati cominciò a leggere: L’anno millenovecento nove, addì cinque Settembre, nel palazzo comunale. Avanti di me, Priotto cavalier Giacomo, Sindaco del Comune, assistito dal Segretario capo, Michele Lorenzati, si sono presentati i signori: Thorosano cavalier Giuseppe, presidente della Pro-Barge, Roberti dottor professor cavalier Giuseppe, anche in rappresentanza del Signor Scarfiotti avvocato commendator Roberto, Lavagna avvocato Attilio, i quali, a nome della Associazione Pro-Barge e di un comitato di Cittadini, dichiarano di volere offrire alla Comunità
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di Barge una lapide marmorea in memoria del patriota Bargese conte Pier Angelo (detto Carlo) Bianco di Saint Jorioz, già come d’intesa orale collocata nel palazzo comunale di questo comune. Ed essi, a nome proprio e dei loro rappresentanti, dichiarano di consegnare tale lapide definitivamente all’Ill. mo Signor Sindaco di Barge, in questa sua qualità, con la condizione e la preghiera ch’essa sia in perpetuo preservata e tenuta alla pubblica vista, per decoro del comune, per esempio ai concittadini, per onore al conte Pier Angelo (detto Carlo) di Saint Jorioz.
Fece una pausa, gettò uno sguardo alla sala, riprese la lettura: E l’Ill. mo Signor Sindaco cavalier Giacomo Priotto, accetta e riceve tale consegna, ringraziando a nome del comune, e dichiarando che sarà obbligo di esso in perpetuo il custodirla ed il tenere tale monumento secondo l’intenzione dei donatori.
Si affrettò a concludere: Io sottoscritto, segretario comunale capo, Lorenzati Michele, ho rogato il presente atto per ogni effetto e per memoria dell’avvenimento in presenza delli sovra indicati e di molta folla di cittadini plaudenti, alcuni dei quali per maggior dimostrazione di onore qui sotto con me e con i sovradetti Signori si sono sottoscritti. Il presente verbale è mandato a essere custodito nelli archivi comunali. Priotto Giacomo, sindaco. Giuseppe Thorosano, presidente Pro-Barge. Giuseppe Roberti. Attilio Lavagna. Teologo Gosso Chiaffredo, vicario. Perassi geometra Giuseppe, assessore. Alfredo Genre Costa, ufficiale postale. Aldo Chiappero. Giulio Roberti. Trecco Francesco. Perassi Ferdinando.
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Ingegner Filippo Bertorello. Avvocato Domenico Signoretti. Cleretti Corrado. Vottero Pietro, consigliere. Avvocato Luigi Re. Gozzi Domenico, economo dell’ospedale. Il segretario comunale Lorenzati.
Torino, fine maggio 1843 Aveva lasciato la lettera giunta da Bruxelles sullo scrittoio, in un angolo d’ombre. Qualche ora dopo, rientrato a casa, Federico Sclopis la prese per rileggerla ancora una volta. Ormai la conosceva quasi a memoria. Cominciava così: La sig.ra contessa Bianco mi commette di notificarle una orribile disgrazia, che forse sarà già pervenuta a sua cognizione per via dei fogli pubblici. Da qualche tempo in qua il consorte della Sig.ra contessa dava segni non dubbi d’alterazione di mente, che tuttavia non potevano annunziare alcuna sinistra intenzione e che furono probabilmente causati dal disordine dei suoi affari e dall’essere stata seppellita l’ultima sua domanda per la ricuperazione dei propri beni.
Più avanti Vincenzo Gioberti gli scriveva: Nel mattino del 9 del c. uscì di casa sotto pretesto di prendere un po’ d’aria e di fare alcune commissioni e nel partire si mostrò più lieto e sedato del solito, tanto che non diede alcun sospetto. Ma dopo la sua partenza la contessa si avvide di tre lettere che aveva lasciate: l’una delle quali era indirizzata a lei medesima, e le altre due al figlio e a me. Si lessero e dal modo con cui erano concepite si acquistò, se non certezza, un timore che l’infelice avesse disegnato di togliersi la vita. Si corse subito a cercarlo per ogni dove: la polizia fu avvertita e fece molte indagini, ma inutilmente. Finalmente una settimana dopo il caso si trovò il cadavere del povero conte in uno dei numerosi canali che circondano la città.
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Bruxelles, 26 giugno 1843 Si sedette alla scrivania nella luce morbida del primo mattino. Spume di sole ingentilivano i vecchi muri di quella camera dell’istituto, lì nel sobborgo d’Ixelles, dove Pietro Gaggia aveva fondato la sua scuola sulle rovine dell’antico bastione e della Porta di Namur. Prese la penna, l’avvicinò al calamaio. Non avrebbe dovuto esitare o cercare parole particolari e limature di frasi, i lunghi preamboli ormai non erano più necessari con il conte Federico Sclopis. Quante lettere si erano scambiati fra Bruxelles e Torino, del resto, da quando era successa la «orribile disgrazia»? Tante. E tutte irrimediabilmente tristi. Ma esitò, perdendosi all’improvviso tra mozziconi di ricordi. Si fissò su uno in particolare: rivide se stesso in un altro mattino, quando Bianco gli aveva portato per la prima volta all’istituto Gaggia il figlio Alessandro. A quel tempo era ancora vivo Giovanni Voarino, e Bianco, il povero Bianco, vagheggiava di andare a combattere da qualche parte, forse in Grecia o in un’altra isola lontana dal freddo senza speranza del Belgio. Gli parve quasi di sentire le loro voci, di udire Voarino istruire alla ginnastica i suoi allievi e Bianco che gli parlava di Mazzini in esilio a Londra e di Lamberti profugo a Parigi. Il ricordo sbiadì, scomparve fondendosi all’immagine della penna che stava tenendo in mano, sospesa sul bordo del calamaio. Finalmente la intinse. Adesso bisognava risolvere la questione delle spese, mettere nel conto pure la mancia al sagrestano, quegli altri cinque franchi che si aggiungevano ai trecento stabiliti, sebbene, a onor del vero, il parroco del Bon Secours gli avesse restituito i settantacinque franchi già versati per la funzione nella chiesa fuori le mura, che però alla fine non si era tenuta. 82
Incurante del frastuono di carri, di soldati, di vetturini e di donne, di bimbi, che iniziava a salire dalla rue du Bastion e si strappava in lunghi singhiozzi nella polvere della strada per Namur, per ora non più aggrovigliato nei fili di memoria, Vincenzo Gioberti rapidamente spiegò a Sclopis che quando io Le spedii la nota dei funerali, io credeva, che oltre a quello di Brusselle, avesse avuto luogo l’altro fuori della città, conforme allo sborso che avevo fatto di L. 380 al parroco del Buon Soccorso che si era incaricato di ordinare la celebrazione di entrambi. Oggi, esso parroco mi manda a restituire 75 franchi; facendomi sapere che la funzione fuori delle mura non ebbe luogo; e per quanto posso ritrarre dalle sue espressioni, il rifiuto del curato di campagna nasce da qualche scrupolo sulle circostanze infelicissime che accompagnarono la morte del conte...
Fu in quel momento, dopo avere rammentato il rifiuto del curato a celebrare il secondo funerale, che i ricordi vennero di nuovo a galla. Avvertì che premevano in lui, andavano e venivano con forza e con nitidezza, ma casualmente. Come per caso – pensò a un tratto, posando la penna – poco più di un mese addietro era stato rinvenuto quel cadavere, ecco il frutto della «orribile disgrazia», nel canale di Charleroi, a Ruysbroack.
Barge, 5 settembre 1909 Il cavalier Thorosano schiarì la voce: «Signore gentilissime, egregi signori...» Lasciò morire la pausa studiata, salì di un tono: Reputo grande onore per me il ringraziare a nome dell’Associazione “Pro-Barge” e della Cittadinanza Bargese il Dottor Cavalier Giuseppe Roberti che si accinge a commemorare in vostro conspetto
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uno degli uomini di Barge che più hanno onorato questo nostro Paese: il conte Carlo Bianco di Saint Jorioz. Consuetudine vorrebbe che io presentassi a Voi il conferenziere egregio, ma, dinnanzi ad una adunata di Bargesi, è veramente inutile che io parli del professor Roberti, tanto conosciuto come è per l’acutezza del suo ingegno, per la bontà dell’animo gentile, per i meritatissimi onori che egli ha raccolti come docente, come pubblicista e come storiografo. Professore al Liceo Gioberti e all’Accademia Militare di Torino...
S’interruppe, tossì.
Bruxelles, 26 giugno 1843 Doveva scrivere, nonostante i ricordi che non cessavano. Occorreva farlo per fuggire la risacca che gli spingeva con regolarità nella mente, dentro e poi fuori, la visione del corpo ritrovato in quel canale. Ricominciò pertanto a rivolgersi al conte Sclopis: Non credo che sarebbe impossibile il superar questo ostacolo; ma siccome da una parte è corso già un certo tempo, e dall’altra parte l’estinto ebbe già i supremi onori e suffragi in questa città, giudico di conformarmi alle intenzioni della famiglia di lui, non movendo più nulla su questo punto. La spesa dei funerali si riduce dunque a franchi 305; dei quali 300 sono per la solennità di Brusselle. Il parroco mi ha chiesto di più 5 franchi per aver dimenticato nel conto la mancia del sagrestano; e benché la quietanza sia già stata spedita, non ho creduto di potergli disdire questa piccola aggiunta. Gradisca, Ill. mo Signore, i consueti sensi di alta riverenza, con cui mi pregio di riaffermarmi di V. S. Ill. ma de. mo servitore V. Gioberti Brusselle, 26 giugno 1843 Institut Gaggia.
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Barge, 5 settembre 1909 Portò la mano alla bocca, ritrovò il filo del discorso e ricominciò a elencare i titoli del professor Roberti: [...] membro della Deputazione di Storia Patria; socio della Accademia di Besancon; corrispondente del Museo Nazionale Polacco di Rapperswyl; membro della Commissione araldica piemontese; consigliere della Dante Alighieri; scrittore di pregiatissime opere storiche, il professor Roberti è fra i più chiari e reputati conoscitori e narratori di quella meravigliosa e complicata epoca storica che Napoleone il grande condusse costrusse con la potenza della sua persona e plasmò con l’impero del suo genio, e se per la delicata modestia del suo cuore passa e vive fra noi senza la eco della meritata notorietà che le sue opere gli hanno procurato in Italia e in Francia, sta con sicuro passo raggiungendo fuori di qui quel premio di verace gloria che lascierà alla sua famiglia ed a Barge... il più tardi possibile.
Dovette fermarsi ancora, prendere fiato, arieggiarsi un poco. Nel salone comunale si era sfrangiato del vocio, presto soffocato dal tono della voce nuovamente possente e sicuro, prossimo com’era alla fine, del cavalier Thorosano: E mi è dolce e caro di presentare così insieme due fra le glorie di Barge, il conte Carlo Bianco di Saint Jorioz ed il professor Roberti, un morto e un vivente, a dimostrazione che le intime virtù del nostro sangue non vanno tralignando, a conforto del presente, a speranza dell’avvenire.
Scattò l’applauso, alto e forte, mentre il cavaliere dava la parola «al chiarissimo conferenziere dottor cavalier Giuseppe Roberti».
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Barge, 5 settembre 1909 Il cavalier Roberti voltò il foglio: A rappresentare i carbonari piemontesi si trovò nel ’20 il Bianco, forse per la duplice sua qualità di carbonaro e di nobile, negli accordi coll’Unione Liberale, che da Parigi reggeva ogni movimento liberale in tutti gli Stati europei. Probabilmente nel viaggio a Parigi, intrapreso sotto colore di divertimento, toccò Ginevra, dove i cospiratori che andavano e venivano di Francia solevano far sosta per approvvigionarsi di proclami e di opuscoli rivoluzionari e munirsi dei fondi da banchieri di Parigi e di Londra e particolarmente dal Lafitte, e dove per la prima volta s’incontrò con Filippo Buonarroti [in realtà l’incontro avvenne un decennio dopo, come si apprende da una lettera dello stesso Buonarroti, n.d.a.], il patriarca dei cospiratori italiani, che teneva in mano le redini della propaganda rivoluzionaria nella penisola. Della parte presa dal Bianco nella rivoluzione del ’21, di cui pure era stato uno dei più gagliardi antesignani, poco sappiamo. Si trova a Torino nei primi di Marzo e l’Ansaldi, comandante in 2a la brigata Savoia, ne ripartì la sera dell’8 e intervenne con altri cinque il 9 alle 7 di sera ad una riunione a casa del capitano Baronis, al chiudere della quale, giuratasi la Costituzione di Spagna, si deliberò di mettere la notte stessa in esecuzione il progetto di occupare la cittadella. Poche ore dopo il Baronis ed il Bianco, attraversando la città, a capo di quella parte dei Dragoni del re che avevano potuto trascinare seco, entravano infatti nella cittadella accolti dalle grida «Viva la Costituzione». Si lesse allora un ordine del giorno recato da Torino, spirante odio contro gli austriaci e sentimenti di calda italianità: «l’Italia è tra le angosce dell’agonia. Ancora un giorno e la patria esalerà l’ultimo respiro d’indipendenza» e chiudente colle parole: «Guerra ai barbari, viva il re, viva la Costituzione!» Indi, proclamatasi la Costituzione di Spagna, si costituì la giunta provvisoria di governo «incaricata di provvedere alla salvezza e ai bisogni della Patria», presidente l’Ansaldi, e rappresentanti l’elemento militare, accanto al medico Urbano Rattazzi, all’industriale Appiani, agli avvocati Dossena e Luzzi, il Baronis, il Palma di Borgofranco e il Bianco di Saint Jorioz.
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Londra, estate 1843 Scriveva febbrilmente, con l’ardore che lo aveva sempre contraddistinto, preso dai mille ricordi, dai profumi e dagli odori di Marsiglia, parendogli di averlo vicino, che Bianco fosse lì, nella stanza di Londra, e che tenesse le sue concioni sull’eguaglianza, sulla repubblica, su come organizzare le bande per l’insurrezione. Quand’ebbe terminato, Mazzini rilesse l’articolo che sarebbe stato pubblicato il 31 agosto sull’“Apostolato Popolare”. «L’emigrazione italiana ha perduto un de’ migliori cittadini che gli ultimi cinquant’anni abbian dato all’Italia». Aveva esordito così. E aveva proseguito: Il 4 maggio di quest’anno, Carlo Bianco nato in terra piemontese non lontano da Torino, morì in Bruxelles, suicida. Fu l’unica colpa della sua vita; e da quanti dolori, da quante delusioni e amarezze senza conforto ei vi fosse trascinato. Dio solo lo sa: l’indole dell’anima ch’egli aveva posto in lui era di non comune fortezza affinata da lunghe sciagure, e il peso d’angoscia che la prostrò deve essere stato insolitamente grave.
Nel buttare giù quelle parole, nello sforzo di rimettere assieme e smaltare immagini che si erano ossidate, pezzi e scene intere della sua esistenza, delle cospirazioni, degli amori, rinvenivano, galleggiavano nella sua mente. Carlo Bianco – stava scrivendo, mentre ripensava alla cella di Priamar, al suicidio di Ruffini, a Giuditta – «nato di famiglia patrizia ed agiata, entrò giovine nella milizia. S’accostava il 1821, e gli animi in fermento s’affratellavano nella vasta Associazione de’ Carbonari in cerca d’un intento mal definito e procacciato con mezzi timidi, inefficaci, ma nazionali». 87
[L’insurrezione] lo trovò tenente dei dragoni del re. Stimato e amato dai soldati, primo fra quelli che iniziarono il moto in Alessandria, Bianco meritò menzione specialmente onorevole dallo storico della Rivoluzione Piemontese, Santa Rosa, e l’avrebbe meritata dalla nazione, se i vizi ch’erano alla base dell’edifizio non l’avessero rovinato nel giro di poche settimane. Bianco, condannato a morte, partì con altri per la Spagna, dove la Costituzione durava: vi combatté valorosamente per la libertà contro le bande che infestavano, in nome del re assoluto, la Catalogna e crebbe onore a quel pugno d’italiani che guidati da Pacchiarotti e da Ollini cacciarono fra la Spagna e l’Italia germi di simpatia e di fiducia che un dì frutteranno; poi, quando i tradimenti e l’armi francesi spensero anche quella favilla d’indipendenza, sostenne in Malaga i tormenti di una lunga prigionia che gli rovinò la salute.
Quando si erano incontrati per l’ultima volta? Nei mesi successivi al fallimento dell’invasione della Savoia e del tradimento del generale Ramorino: ad aprile, a Berna, per fondare la Giovine Europa? Quei giorni... Lui sarebbe rimasto in Svizzera ancora per qualche anno, prima di raggiungere Londra. E Bianco? Espulso ed emigrato lassù, nel nuovo esilio, l’ennesimo, questa volta a Bruxelles, a patire la fame, a farsi scavare la fossa... Riprese a rileggere: [...] si ridusse in Malta, e vi soggiornò fino al 1830, quando le speranze ravvivate d’Italia lo richiamarono dall’attività del pensiero a tentare quella del braccio. Nel 1831 egli era in Lione, dove si preparava una spedizione italiana; e perché i capi non dichiaravano apertamente intenzioni repubblicane, ei ricusava ogni grado e solamente disegnava seguirla come soldato. Impedito il tentativo dal governo francese, s’affrettò in Corsica d’onde la verificazione d’alcune promesse avrebbe potuto aprirgli un varco all’Italia; ed anche quelle promesse fallirono; e caduta ogni speranza, egli prese soggiorno in Marsiglia, dove era venuto a frequente contatto con i capi della Giovine Italia e convinto che quell’Associazione rappresentava meglio d’ogni altra il pensiero nazionale, le diede il suo nome nel 1832.
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Da allora in poi, rilesse ancora Mazzini, «la vita del Bianco si confuse con quella dell’Associazione, nella quale egli occupò il posto che meritava». Un posto, un’associazione, pensò, che non c’erano più.
Barge, 5 settembre 1909 Si avviava alla conclusione, il cavalier Roberti. Venivano i tormenti più tristi da rievocare, la voce si adeguò al tema da svolgere, a quegli ultimi anni, quei mesi. Allora disse: Vittima degli strozzini, sempre sul punto di essere incarcerato per debiti, la più parte non suoi, costretto ad andare attorno senza mantello in un inverno rigidissimo, in cui il termometro scese oltre 17 gradi Réaumur, scrive lettere pietosissime ad un abate Mucci, col quale era rimasto in carteggio in Piemonte. «Il motto del suggello» egli dice per esempio nel 1837 «dove vi è un bastimento sopra il mare procelloso è: telle est ma vie: non credo vi possa essere un moto più adatto alla mia vita sbattuta dai flutti d’avverso destino dal dì che nacqui fin ad oggi».
Adesso avrebbe citato il Mazzini, il necrologio sull’“Apostolato Popolare”. Ma prima dovette ricordare che coll’acqua alla gola, sull’orlo d’una catastrofe irremediabile, travagliato da forti dolori morali cui si aggiungono gravi patimenti fisici, resi più acuti da un accesso di febbre cerebrale, improvvisamente l’infelice Carlo Bianco il 9 Maggio 1843 scompare di casa. Dopo pochi giorni di ricerche infruttuose, nel canale di Charleroi a Ruysbroak a pochi chilometri da Bruxelles, viene trovato il cadavere d’uno sconosciuto vestito con qualche ricercatezza, nel quale gli amici accorsi, piangendo, ravvisano Carlo Bianco. Fu accompagnata la salma fino alla chiesa del Buon Soccorso, indi al cimitero di Molea-
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bock-S. Jean [in realtà Molenbeek-S. Jean, n.d.a.] fuori dalla porta di Ninove. Esuli e non esuli, italiani e stranieri, segnatamente polacchi, le si affollarono attorno muti, gravi, compresi da solenne dolore.
Londra, estate 1843 Era arrivato in fondo: Fra noi, chi non conobbe Bianco? chi non l’amò? Ben possa l’amore essere operoso: il tributo che noi fratelli suoi paghiamo alla sua memoria, tributo non di sterile compianto, ma d’insistenza costante, irremovibile, sulla via ch’ei seguiva. Il culto dei morti per noi non deve essere che il compimento religioso del pensiero che governò la loro esistenza terrestre.
Gli sembrò di avere scritto ciò che voleva scrivere. C’era il cuore, non poteva non esserci, ma soprattutto c’era la testa. Bisognava rimanere lucidi anche in quelle circostanze. E che importava se qualcuno gli avrebbe rinfacciato di essere votato soltanto alla causa dell’indipendenza e della repubblica italiana, mentre restava freddo e indifferente ai travagli quotidiani degli uomini e delle donne...
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Il testamento del conte
Qui si canta il melodramma, si celebra il romanzo. Riappare persino il conte Bianco e infrange il tempo. Con un testamento ritrovato, poi, la storia dal notaio passa al cantore di leggende. Si parla di uno spietato e disumano re Tentenna, rinvengono gli spettri della Savoia. E l’esilio, per gli esiliati, sarà perpetuo.
Non c’è niente da fare, si nasce segnati: c’è chi è destinato a vivere, ad agire e a morire come un personaggio da romanzo. In vita e in morte. E dopo la morte, anche quasi dopo duecento anni. Il nostro conte Carlo Bianco di Saint Jorioz, del quale si sanno già qualche impresa, manciate di speranze e cumuli di disperazioni, era uno di questi. Romanzesco fu lo stesso suo ostinarsi, fino a quando poté resistere ai creditori e alla depressione, nelle cospirazioni e nei tentativi rivoluzionari in giro per l’Europa. Nel febbraio del 1836, per esempio, ormai sepolto a Bruxelles, «solo buco da dove non ci abbiano ancora cacciati», scriveva a Nicola Fabrizi, uno dei vecchi compagni della Giovine Italia ai tempi di Marsiglia: «Pippo [Mazzini, n.d.a.] stava bene di salute ma alquanto male di finanze. Per adesso tutto è ancora non morto ma sopito, tengo però opinione che non sia lontano il principio d’una nuova èra di movimento». Il «principio» non era così vicino, purtroppo per il conte e per Pippo, per tutti i cospiratori. E il «movimento» sarebbe stato contraddistinto da eventi tragici, da sollevazioni abortite: dal suicidio di Bianco alle uccisioni dei fratelli 91
Attilio ed Emilio Bandiera, di Amatore Sciesa; dei martiri di Belfiore, di Pisacane, fino ad Agesilao Milano che cercò di ammazzare re Ferdinando e fu impiccato, e alle sommosse fallite in Sicilia, a Milano, a Genova, a Livorno. Restavano i toni da romanzo, si consumava il melodramma vero. Accenti e note, questi, che non intenerivano Carlo Alberto: se pure amletico, era piuttosto bigotto, formalista e suscettibile, diciamo vendicativo. A lui si rivolse Bianco, con l’acqua alla gola, allo stremo, il 20 aprile del 1842. Non si trattava di una supplica, perché Saint Jorioz non era persona da supplicare i potenti. In vista dell’amnistia politica nel regno di Sardegna che sarebbe stata concessa per le nozze del duca di Savoia, domandava al sovrano di potere ritornare in patria dopo tanti anni di esilio: Egli spera che ove non si trovasse sfortunatamente compreso nelle categorie stabilite nella Regia Patente proclamata, la Maestà Vostra isdegnerà in un momento di giocondità universale e in cui il paterno di Lei cuore esulta per un felice avvenimento, estendere fino a lui gli atti della di Lei sublime munificenza, reintegrandolo ne’ diritti civili ed accordandogli il conforto di rivedere la patria.
Ma Carlo Alberto, inflessibile, negò l’amnistia all’ex ufficiale dei dragoni del re. Fu il diplomatico Salvatore Villamarina, al padre del quale Bianco si era rivolto per un aiuto, a spiegare in una lettera a Gioberti la ragione di quel duro no da parte del re: Se la cosa fosse ridotta al solo malaugurato affare del 1821, il mio Sig. Padre che conosce l’ottimo cuore del Sovrano, quale sempre mostrossi propenso a favorire simili infelici, avrebbe potuto sperare di ottenere l’implorata grazia. Ma sta alla stessa nota unita una postilla, dalla quale risulta, che di ben nuovo nel 1833 il conte Bianco presentossi alla frontiera della Savoia, come Generale Comandante in Capo una numerosa brigata di mal intenzionati riuniti colà affine
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di eccitare e di fomentare nel nostro bel Piemonte le idee di rivolta al Regio Governo; e non più coi principi del 1821, quali erano l’introdurre delle più larghe costituzioni sotto il Governo però di Carlo Alberto in allora principe di Carignano, ma bensì col nefando progetto di tutto rovesciare non risparmiando né le proprietà né le vittime ed annunziandosi con massime di libertà e Repubblicanesimo.
Così disse Villamarina. E così, per il conte, sfumò ogni speranza. La patria, a quel punto, gli era preclusa per sempre. Tuttavia il Bianciardi maremmano dice: «Le storie noiose non piacciono nemmeno a me». E lo dice per il Risorgimento. A maggiore ragione si può dire per il colpo di coda estremo, da romanzo, per l’appunto, e con tutti i crismi, che il conte Bianco ha voluto dare a poco più di un secolo e mezzo dalla sua triste fine terrena: il ritrovamento, nientemeno, del suo testamento intatto e sigillato con la ceralacca. Ma una ceralacca, dei sigilli, del 1821. Anzi: del marzo 1821. Dunque «nel rievocare gli anni in cui si fece l’Italia», come argomentava il Bianciardi, «dall’insurrezione di Milano alla breccia di Porta Pia», e prima ancora, e poi dopo, pure il 20 dicembre del 2007, un giovedì, ha una sua importanza. È chiaro: ormai l’Italia è stata fatta: male, si sa. E adesso si mette in discussione quella e questa unità, si riduce tutto a un affare di colonialisti sabaudi, di massoni e di «cappelli» o «galantuomini» mafiosi. Però il 20 dicembre del 2007, quel giovedì mattina (freddo e soleggiato), all’Archivio di Stato di Torino, sezioni di via Piave (ex ospedale San Luigi, per essere precisi), in una cerimonia ufficiale eppure sobria veniva aperto il testamento del conte Angelo Bianco di Saint Jorioz, poi soprannominato e passato alla storia quale Carlo. Un caso, questo, che secondo il Parmentola, uno dei principali studiosi del nostro, sarebbe stato «non infrequente in Piemonte». 93
Meno consueto era che le volontà del conte (indicato da lui medesimo come «San Jorio») venissero alla luce, proprio alla lettera, a centottantasei anni di distanza dal momento in cui furono dettate a uno scrivano nello studio di Torino del notaio Giuseppe Ellena. Accadeva il 6 marzo del 1821, un martedì. Nell’imminenza della sollevazione del 9-10 marzo, e consapevole di mettere a repentaglio la sua vita o di essere incarcerato, Bianco si era affrettato a dare le disposizioni per i suoi beni. Lo aveva fatto da buon profeta di se stesso, con quella rettitudine, verso i suoi cari e soprattutto il figlio Alessandro, riconosciutagli da amici e da nemici. È il 20 dicembre 2007, pertanto, quando nel mattino avanzato un gruppetto di persone, tra cui Maria Pia Niccoli, dirigente dell’Archivio di Stato, Vittorio Scotti Douglas e Giovanni Maria Caglieris, scopritore materiale del testamento, si ritrova a esaminare un documento riemerso dalle tenebre del passato nelle medesime condizioni in cui si trovava al momento della sua sigillatura, là, nello studio del notaio Ellena. Come lo ha rinvenuto? Possibile che nessuno sapesse dell’esistenza del testamento? Più che probabile, ovvero sicuro. Perché è del tutto certo che fosse ignoto ai vivi e anche ai morti. La storia si conosce, del resto: naufraga la rivoluzione, Bianco va esule in Spagna e mai più rivedrà le sponde del Po. Carlo Felice lo condanna a morte in contumacia, nonché in effigie, e alla confisca dei beni. E allorché il figlio del conte, l’Alessandro, ritorna a Torino per servire nel reggimento dell’Aosta Cavalleria di quel re che ha rovinato suo padre, chi si ricorderà ancora dell’eredità affidata in lettera con sigillo rosso a un notaio magari morto da tempo? Nessuno. E nessuno se ne rammenterà per decenni e decenni, fino al giorno in cui questo instancabile Caglieris, originario di Barge, cioè del paese infeudato ai 94
Bianco, si appassiona alle vicende del conte e comincia a cercare, come si suole dire, a destra e a manca. Rovista pure nei fondi dell’Archivio di Stato dell’ex capitale dove, di solito, ben pochi vanno a mettere il naso: quelli notarili. E tra un atto e l’altro di compravendita di terreni, una mappa catastale e un rogito per poderi che non esistono più, da un faldone, a un tratto, scivola a terra una busta. Il fato lo ha voluto, il destino di Bianco finalmente si compie, la sua voce ha infranto il tempo. Pare che dica: eccomi qui, sono io, sono di nuovo tra di voi, queste sono le mie volontà, vi autorizzo a renderle pubbliche... Sarebbe piaciuta anche al Bianciardi, mai suddito di chicchessia e di qualsivoglia granducato, neppure di Toscana, quella mattinata di sole algido, che, quasi alla vigilia del Natale 2007, nell’ombra protettiva regnante nella sala dell’ex ospedale, divenuto Archivio di Stato, si andava aprendo come si apriva alla luce, lacerati i sigilli, la busta contenuta nel volume 3277 del fondo Atti Notarili, «versamento Notaio Ellena», foglio 55. Erano due fogli, firmati conte Angelo Bianco di S. Jorio, ma non redatti di suo pugno. Qualcuno, con ogni probabilità la dottoressa Niccoli, si apprestò a leggerli. E con un po’ di emozione, sebbene fosse velata al riparo degli occhiali, lesse: Io sottoscritto conte Angelo Bianco di San Jorio fu Giovanni Battista nativo di questa Città ed attualmente in quella di Alessandria dimorante. Luogotenente nel Reggimento de’ Dragoni di S.M., volendo disporre de’ miei beni fra miei Eredi, ho pensato di fare il presente mio Testamento sigillato scritto per intiero di mio ordine, e datato, di carattere di persona a me fida, e da me sottoscritto, ed ho disposto, e dispongo come segue. 1°. fatto il mio corpo Cadavere ordino che venga sepolto con quelle pompe funebri adattate al mio stato e condizione, e mi si faccia-
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no celebrare messe numero – duecento – il più presto possibile dopo il mio decesso oltre la solenne cantata presente cadavere, il tutto a spese della mia Eredità. 2°. Lego all’Ospedale de pazzarelli di questa Città di Torino la Somma di lire mille per una volta tanto da pagarsegli senza interessi fra un anno dopo il mio decesso. 3°. Lego ed a titolo di legato lascio all’Illmo. Sr. conte federico [sic] Sclopis di questa Città un anello di diamanti del valore di lire Mille da rimettersegli parimenti fra un anno dopo il mio decesso. 4°. Lego al Molto Reverendo Sr. Canonico della Cattedrale di questa Città Piero Bernardino Marentini Mio Cugino la Somma di lire mille cinque cento per una volta tanto da parsegli come sovra senza interessi fra un anno dopo il mio decesso. 5°. Lego alla Sra. contessa Gabriela Pulini mia Sorella la Somma di lire tre mille per una volta tanto da pagarsele pure senza interessi fra un anno dopo il mio decesso. 6°. Lego parimenti alla Sra. Clara Nasi altra mia Sorella ugual Somma di lire tre mille per una volta tanto da pagarsele pure senza interessi fra un anno dopo il mio decesso. 7°. Lego l’intiero e formale usufrutto di tutta la mia Eredità alla Damigella Adelaide Bonsignore residente in questa Città in compagnia del mio figlio naturale, procreato dalla medesima, per nome Alessandro Ipolito [sic] Bianco di San Jorio, tale da me stato riconosciuto al Sacro fonte battesimale e che tuttora per mio figlio naturale formalmente riconosco sotto tal nome di Alessandro Ipolito. 8°. Instituisco e nomino in Mio Erede Universale in tutti li miei beni il predetto mio figlio Alessandro Ipolito Bianco di San Jorio; ed ove il medesimo all’epoca del mio decesso sia ancora in pupillar o minor età costituito deputo ad esso per Tutrice, e pro tempore Curatrice la predetta di lui Madre Adelaide Bonsignore, col carico alla medesima di far procedere ad una descrizione di tutta la mia Eredità col mezzo del Sr Notaio Ellena Giuseppe di questa Città, al quale conferisco a quest’effetto ogni autorità necessaria ed opportuna, liberando inoltre la predetta Adelaide Bonsignore da ogni prestazione di Cauzione per l’usufrutto alla med.ma sovralegatole nell’articolo precedente, volendo in ogni caso che bastar debba la di lei cauzione giuratoria. 9°. In caso che venisse il mio predetto figlio Alessandro Ipolito predecedere a me Testatore, instituisco, e nomino in mia Erede Uni-
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versale di tutta la mia Eredità la predetta Damigella Adelaide Bonsignore. 10°. Annullo ogni altro mio Testamento anteriore, dichiarando, che questa si è la precisa mia volontà che intendo e voglio che venga per mia ultima volontà riguardata e debba in tutto e per tutto sortire il suo pieno ed intero effetto dopo mia morte. Torino li sei marzo mille ottocento vent’uno. Conte Angelo Bianco di S. Jorio.
La lettura era terminata. Se il Bianciardi avesse potuto assistere alla cerimonia, la mattina del 20 dicembre, a quel punto avrebbe battuto le mani, gridando festoso: «Viva il conte di San Jorio e il suo gran cuore! Viva l’Italia e abbasso i tiranni!» D’altra parte, il Bianco se li sarebbe mangiati vivi, o conditi in tutte le salse, i re e i tiranni. Non era stato forse proprio lui, seminatore d’idee ispirate al terrorismo egualitario, a predicare nel temuto e celebrato libro Della guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia, stampato a Marsiglia nel 1830, «l’esterminio di tutti quegli uomini che per la loro natura, circostanze e pregiudizj, sono al cambiamento decisamente contrarj»? A sentire lo storico Piero Pieri, però, il suo estremismo non era in contraddizione con la bontà d’animo che notoriamente lo distingueva, come il testamento ritrovato dimostra in abbondanza. Era invece un estremizzare che derivava, più che da «temperamento», «assai più da necessità contingenti» della lotta, e dalla convinzione che la rivoluzione del 1821 fosse naufragata per la sottovalutazione della questione militare. Ne aveva tratto ulteriore convincimento dalla feroce guerriglia spagnola antinapoleonica e quindi dalla guerra intrapresa dal legittimo governo costituzionale contro le truppe francesi d’occupazione del duca di Angoulême e la setta reazionaria degli Apostoli97
cos, cui Bianco, come è noto, aveva preso parte insieme a molti altri esuli italiani dopo la partenza da Genova nell’aprile del ’21. La disfatta successiva dei costituzionali gli diede altra materia d’insegnamento. Incarcerato per diversi mesi a Malaga, Bianco riuscì infine a evadere e a riparare a Malta, che all’epoca, sotto il controllo inglese, dava asilo a molti rifugiati politici. Beolchi da Arona lo vide nella rada di Gibilterra: Era partito pochi giorni prima ch’io giungessi colà; ma dalla furia dei venti contrarii fu forzato a tornar indietro. Ahimè! chi mi avrebbe detto che quella era l’ultima volta che l’abbracciava! Quando fui in Londra, cominciò tra noi una corrispondenza epistolare la quale non finì se non colla sua vita. Per mezzo d’un mio scolaro, Enrico Pennell, segretario nell’ufficio dell’Ammiragliato, io gi faceva tenere le mie lettere, incluse nei pieghi dell’Ammiragliato al governatore di Malta. Egli mi mandava le sue nei pieghi del governatore all’Ammiragliato. Così la corrispondenza non ci costava nulla. Nel 1830, allorché io pubblicava in Londra la prima parte di queste Reminiscenze, le dedicava all’amico lontano, ma alla mente ed al cuore sempre presente.
La fedeltà alle sue idee, alle cospirazioni, faceva il paio con la fedeltà verso i suoi cari. Raggiunta la Francia e Marsiglia, dopo il lungo soggiorno a Malta, e infiammato dalla rivoluzione scoppiata a Parigi, assunse il nome, nella Giovine Italia, di Ghino di Tacco. Questa volta, tuttavia, Bianco poté pensare anche agli affetti e ai casi suoi. Non vedeva Adelaide, che lui chiamava Adelina, e il figlio Alessandro, dal lontanissimo 1821. E desiderava «far sacramentare il matrimonio de facto che esisteva con Adelina», in quanto, come ci rammenta Tommaso Palamenghi-Crispi, storico degli italiani nelle guerre di Spagna, «lo affliggeva l’esistenza di un figlio privo di nome, di vita civile e sottoposto 98
ai sarcasmi degl’ignoranti suoi compatrioti; egli che aveva sempre agito da galantuomo non voleva lasciare a nessuno, in questo mondo, il diritto di maledirlo, e soprattutto ad un essere che lui amava tanto quale il suo Alessandro». Ottenuti, non senza travagli vari, i passaporti e i certificati necessari per il viaggio dei due dal Piemonte, ai primi d’agosto del 1832 si sposò nella chiesa della Visitazione di Marsiglia; a fargli da testimoni gli esuli Voarino, Cerutti, Stoppini e Bussone. Non si sa se il conte fece un altro testamento in Francia o a Bruxelles, o se mantenne quello dettato allo scrivano del notaio Ellena a Torino, il 6 marzo del ’21, che nessuno aprì mai, né Adelina né Alessandro né altri, per centottantasei anni. Sono conosciute in compenso le parole che Bianco, con ben altro spirito, scrisse ad Alessandro, che, amareggiando non poco suo padre, si era arruolato nell’Aosta Cavalleria. Veniva la primavera del 1843, quando gli disse: «Non so se ci rivedremo mai più, attesa la piena delle disgrazie che si versa continuamente sul mio capo, il quale da ventidue anni che sostiene una tale soprassoma, giungerà a tale da non poter continuare fino al trentesimo, né forse al vigesimo terzo».
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Bandiera patriottica del 1848 (Venezia, Antonietta Zamichieli).
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La bandiera del sergente Cirio
Si ricordano illusioni perdute fra un teatro di provincia e il corso della Bormida. Ci sono l’Abba e il Monti (l’Augusto). Cantano i giovani delle alte colline. E fiorisce «Quel Quarantotto», che presto appassirà come le viole. Memorie di Santorre di Santa Rosa nella città di Acqui, di Amedeo Ravina da Gottasecca e del sergente Cirio.
Nell’anno 1848 «la stagione anticipava». Anche nelle Langhe alte e selvatiche, lungo il corso della Bormida, in quei posti di lupi e di cinghiali, come raccontava Augusto Monti «senza aspettar San Valentino, spinta alle spalle da quel precoce scirocco, a metà febbraio primavera era là». E «quella primavera, quell’anno, curioso, aveva prodotto dappertutto, cose e persone, uno strano formicolio, un’inquietudine, una smania, un’allegria, che pigliava tutto s’attaccava a tutti, come un amabil contagio, e tutti l’avevan e non sapevan perché». Cominciò Milano, a gennaio, con la sciopero del fumo. Seguirono la rivolta di Palermo, Ferdinando che concedeva la Costituzione. S’infiammarono Parigi, Budapest, Praga, Vienna, Berlino e ancora Milano. Carlo Alberto, il 4 marzo, aveva annunciato lo Statuto, e ora dichiarava guerra all’Austria. Era «come se il sentimento dell’umanità intera facesse battere il suo cuore». Era così, come avrebbe esclamato Frédéric Moreau, protagonista dell’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert. 101
In uno di quei paesi della val Bormida, mezza Liguria e mezzo Piemonte, tra i primi, se non il primo, a fremere, a sentirsi una gran smania addosso, una voglia di menare le mani, di andare, fu il vecchio Cirio, l’ex sergente Cirio, ormai conosciuto come capitano Lino. Rabbrividiva, s’agitava, sognava pure il giovane Carlin, il futuro papà di Monti (l’Augusto); Cortemilia, dove si trovava, studente, nella primavera del ’48, non era troppo distante da Dego, patria del capitano, e il fiume che li bagnava era lo stesso, così le inquietudini, quella primavera, quei sommovimenti. Alla fine di marzo, nel rullare dei tamburi, nel muoversi delle truppe piemontesi verso il confine, il re di Sardegna lanciò il proclama ai popoli della Lombardia e delle Venezie. Cirio non aspettò più. Chiese di arruolarsi, di andare alla guerra. Ormai aveva le carte in regola, i fatti del ’21 erano stati dimenticati: si poteva fregiare nuovamente del suo grado, della pensione da veterano. Dice l’Abba, suo discepolo in patriottismo e suo conterraneo, che non venne accettato: «Troppo vecchio era», il vecchio Cirio. Ma «quanti che furono prodi in quell’anno a Goito e poi in Crimea e poi anche a San Martino, avranno dovuto all’esempio di quel vecchio l’ispirazione?» Quel vecchio, d’altronde, la sua parte l’aveva fatta. Era la fine di marzo, era aprile, anche allora. Soprattutto gli inizi dell’aprile 1821. E c’entrava sempre la Bormida, nel tratto in cui tocca Acqui Terme. I costituzionali erano stati sconfitti, la rivoluzione abortita, gli austriaci e i regi di Carlo Felice li inseguivano. Si doveva raggiungere Genova, e non c’erano molte strade su cui cavalcare fino a far sanguinare gli animali. Tra la sera del 9 e la mattina del 10 di aprile fecero il loro ingresso in Acqui i capi degli insorti. Arrivarono Collegno, Moffa di Lisio, San Marzano, poi Santa Rosa e Luigi Ornato. 102
Sopraggiunsero gli altri, a ranghi più folti, in piccoli gruppi, qualcuno da solo. Racconta Beolchi: Stretti insieme in un drappello di cinquanta circa ci rimettemmo in cammino; e dopo due giorni d’infelicissima marcia, rotti dalla pioggia e da ogni maniera di disagi, arrivammo nella città d’Acqui. Qui ci attendeva un’insidia. Il comandante della città, alcuni soldati del reggimento Regina e i carabinieri avevano fatto disegno di venire la notte ad assaltarci e farci prigioni. La trama fu sventata dalla coraggiosa condotta del cavalier Palma, il quale persuase al comandante di desistere da un disegno che poteva costar assai caro agli assaltatori, essendo noi tutti armati e risoluti a difenderci e a vender cara la vita.
Santa Rosa passò la notte nella casa dei Caranti, raccontando forse ai coraggiosi che lo stavano ospitando quanto gli era capitato uscendo da Torino. Era successo che, sulla strada di Asti, un drappello di carabinieri lo aveva fermato, ma un capitano, lo Schultz, era corso, insieme a una trentina di studenti della legione dei Veliti, e lo aveva liberato. Rievocherà Raffaele Ottolenghi in alcuni articoli, nel 1916, che «fu lì», dai Caranti, famiglia illustre di uomini di Stato e di legge, che «il conte di Santa Rosa trovò temporaneo rifugio nella sua nobile fuga, mentre alle sue calcagna si accanivano gli sgherri dell’Austria». All’alba ripartì. Fece una sosta a Cartosio, dove venne ospitato dalla famiglia Scuti, «in attesa di essere raggiunto dai suoi tre compagni, reduci dai tristi campi della prima infausta battaglia di Novara». Con loro prese «per la via di Melazzo e Cartosio». Giunto «il gruppo degli eroi della breve rivoluzione infelice, nella mattina del 10 aprile 1821, al traghetto della Bormida, uno dei cavalli della scorta prese ombra dell’acqua, e si rifiutò decisamente di porre il piede sul barcollante ponte della zattera. Mentre i compa103
gni si attardavano a spingere il ricalcitrante animale, che sbuffava e nitriva, si avanzò il Santa Rosa, estrasse dalle fonde una pistola, l’accostò alla tempia del cavallo sbuffante e fece scattare il grilletto. Il cavallo cadde fulminato, e fu poi sepolto sulle rive della Bormida». Spiegò così il suo gesto: «Non siamo in condizione da portare con noi cavalli riottosi». Passata la Bormida, dice sempre l’Ottolenghi, i quattro fuggitivi «con poca scorta si inerpicarono pei sentieri scoscesi della nostra collina». È possibile che Santa Rosa, in prossimità del mare, si voltasse per guardare ancora i monti del Piemonte, come aveva fatto, nella narrazione di Angelo Brofferio, abbandonando Torino: Dispaiono lungo il Po le ultime bandiere costituzionali. Santa Rosa, a piè del Monte dei Cappuccini, volse un ultimo sguardo alla città. Vi lasciava per sempre le sublimi illusioni, le memorie gloriose, le magnanime speranze. E anche vi abbandonava la moglie, i figli che non doveva rivedere mai più. Si sentiva salire nell’anima le estreme angoscie.
Pure Cirio aveva una bandiera della rivoluzione. Da poco era stato nominato ufficiale, ma tutti continuavano a chiamarlo sergente. Il sergente Cirio, per l’appunto. Il futuro capitano Lino. Venne il suo momento, si avvicinò a sua volta ad Acqui. Portava con sé con il vessillo del suo reggimento, l’Alessandria, quello comandato da Pacchiarotti. L’aveva custodito «dopo la rotta dell’Agogna marciando co’ suoi, poi appresso da solo fino in Acqui». Non proseguì per la città, ma svoltò verso il borgo di Ponzone, «sui colli». Voleva consegnare lo stendardo al suo colonnello, ma «dove mai era andato a cercarlo, dove mai aveva creduto di trovarlo?» Narra Abba che «andarono invece i carabinieri a cercar lui lassù. Ma egli si chiuse nel campanile della chiesa 104
parrocchiale, e da quell’altezza udì intimazioni e minaccie senza volersi arrendere». Era un uomo leale e tutto d’un pezzo, Cirio, il «più valoroso della sua valle», tra Spigno e Piana Crixia, Dego e Cairo Montenotte, i posti della campagna d’Italia del giovane Napoleone. Anche lui, d’altronde, aveva combattuto nella Grande Armée, facendo «le guerre di Spagna sotto il maresciallo Suchet». N’era tornato «con una bella cicatrice di sciabolata in fronte e con una nel petto passato fuor fuori da una lanciata spagnuola. Narrava d’essere guarito sulla nuda terra, in un solco dell’accampamento». Non si voleva arrendere, quel giorno dell’aprile del ’21, il sergente Cirio. Soltanto alla fine, «per fame», si arrese e «offerse di consegnar la bandiera al vescovo d’Acqui», cioè a monsignor Carlo Giuseppe Maria Sappa de’ Milanesi. Fu fatto «così come egli volle; e la bandiera del reggimento Alessandria, già condannato alla dissoluzione e a perdere per obbrobrio il nome, passò da quelle di lui alle mani del vescovo. Di casato quel forte era Cirio, ma perché parlava sempre del suo colonnello nelle guerre di Spagna, Olini, tutti lo chiamavano Lino, anche quando passato il Consiglio di Guerra e assolto, ma licenziato dall’esercito, s’era adattato a divenir guardaboschi del suo Comune, e a vivere come visse per ventisette anni con tre quarti di lira al giorno in un tugurio, nella foresta. E guai a chi avesse osato, lui presente, dir male del principe di Carignano!» Mentre Cirio difendeva la bandiera nel campanile di Ponzone, Santa Rosa scavallava a bordo di un legno le colline delle Langhe, i primi passi dell’Appennino. A Cairo, nella notte, la carrozza si fermò, rievoca Abba, «nella piccola piazza del paese deserta per l’ora tarda». Il cocchiere scese «e andò a battere ad un uscio da dietro 105
il quale venivano tonfi sordi, certamente di pasta rimescolata da qualche fornaio. L’uscio fu scostato un poco quasi timidamente, e tra l’uomo da dentro e il cocchiere furono fatte poche parole. Là, disse il fornaio, mostrando la casa di rimpetto, sta in quel palazzo là. Il cocchiere tornò alla carrozza e parlò con chi vi stava dentro». Una testa allora si sporse dal finestrino, «e una voce chiamò alto: cavalier Stellani!» Un lume si accese, «illuminò la vetrata d’un balcone di quel palazzo, che poco appresso fu aperta». Una voce chiese: «Chi chiama?» «Io, Santorre, fu risposto». «Oh tu? smonta vieni su!» «No, discendi un momento». «Aspetta». In «pochi istanti il cavaliere fu lì dal viaggiatore». Ciò che si dissero, continua l’Abba, «non fu udito dal fornaio che pur era uscito a curiosare, e il colloquio fu corto». «Addio, addio, certo non ci vedremo più». Parole «amare». Quindi «la carrozza partì, e il cavaliere rimase a guardarla finché si perse il rumor delle ruote sull’acciottolato. Allora se ne tornò in casa lento e crucciato». Chi era il cavaliere? Lo spiega Abba: Era quel cavalier Stellani uno che aveva militato da ufficiale nella Giovane Guardia di Napoleone, e nel ventuno apparteneva all’esercito del re. Aveva in una guancia una cicatrice. Questa per lui e per gli amici paesani suoi, era di una sciabolata ricevuta in battaglia; per i nemici pur paesani, segno rimasto d’un colpo dato su d’uno spigolo di pietra, per caduta da cavallo, passando un ponte, dicevano fin dove, di Trento.
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pure malignavano sul suo colloquio di quella notte con Santorre Santarosa. Per quei nemici era stato di raffacci a lui fatti perché non era corso a Torino e in Alessandria a mettersi nella rivoluzione; ma per gli amici fu una calda preghiera di Santorre, ond’egli si adoperasse per chi veniva dietro stentando, e sarebbe passato nella valle e nel borgo.
Stellani fu di parola. Sembra evidentemente che «avesse data la voce agli amici suoi, perché quando quella gente fu al lungo ponte che mette nel borgo, v’eran ad accoglierla molti che la condussero in un giardino dove era stato apparecchiato da rifocillarla». Succedeva questo nella primavera di allora. E non diversamente accadeva in illusioni e in disincanti in quella del ’48, dove di nuovo si inneggiava all’Italia, allo stesso principe e alla Costituzione. Per le colline delle Langhe, nelle frazioni e nei paesi, per la contrada maestra di Cortemilia, racconta Augusto Monti, «attaccaron quel canto, e dietro gli altri in massa, guidati e sostenuti dalle note larghe della banda: quel canto: “Con l’azzurra coccarda sul petto / con italici palpiti in core...” e dopo la prima, ma inavvertita, incertezza, le voci si rinfrancarono, si riempirono, si composero». Una sera di quei giorni un veterano della rivoluzione, «proscritto d’Italia», si apprestava a entrare nel teatro di Cortemilia per la festa delle coccarde. Era il dottor Ravina, il poeta e patriota Amedeo Ravina, «uno dei “cospiratori” del ventuno, l’oracolo dei liberali della valle». Il padre di Monti gli venne presentato, «ed esso gli toccò la mano». Adesso il suo nome si poteva pronunciare liberamente, senza temere di essere messi ai ferri dalla polizia di Carlo Alberto. Anzi. Le memorie di Abba ci raccontano che «verso il Quaranta v’erano già degli uomini che non negavano più se altri diceva loro che avevan avuto degli affet107
tuosi riguardi pei costipati del Ventuno, d’averli ospitati e trattati bene quando erano passati per la valle della Bormida fuggitivi». Gente sopravvissuta, naturalmente: non come la fanciulla senza nome, una ragazza contadina, che nella casa Resio della limitrofa Torre Uzzone, zona di vendite carbonare, aveva ospitato alcuni insorti ed era stata poi fucilata dai soldati del La Tour dopo una delazione. Già prima del ’48, invece, «era come se l’aria si fosse rischiarata via via sempre più, e si potesse mostrarsi senza tema di dare in qualche malpasso». E ci fu chi cominciò a vantarsi di aver cercato di «strappare agli sbirri un famoso costipato, Amedeo Ravina, d’un certo villaggio di quelle Langhe chiamato Gottasecca». Narravano che si «era rifugiato nel porto di Savona su d’una nave spagnola e che il comandante della città, il Rufini, fanatico del proprio potere, aveva mandato le sue guardie a catturarlo, senza riguardo alla bandiera di Spagna». Si seppe che sarebbe passato dalle loro parti per essere condotto a Torino e processato. I costituzionali si appostarono «in una delle giravolte della strada che sale a Montezemolo», e quando «il prigioniero era comparso tra le guardie si erano lanciati per liberarlo». Ravina, però, «tranquillo aveva gridato loro di star buoni, di non far del male a quei poveri diavoli, di andarsene e tenersi segreti, perché l’ambasciatore di Spagna lo avrebbe fatto liberar lui». Così era capitato. Quei «generosi che per anni avevano tremato d’essere scoperti, venuti tempi d’arie nuove, lasciavano dire o dicevano essi stessi d’essere stati a quel procinto. Di quel Ravina e d’altri molti langaroli profughi si parlava con rispetto e con desiderio, nessuno osava più dirne male apertamente, nemmeno coloro che avevano fatto festa agli austriaci del Ventuno». 108
Soffiavano le «arie nuove», i volontari scendevano dai bricchi, da Monesiglio, dalla valle Uzzone, da Torre Bormida, da Perletto, da Gorrino, da Serole, da Roccaverano, e, dopo la sosta a Cortemilia, imboccavano la strada per Alba, dove avevano messo su il centro per l’arruolamento per la guerra all’Austria: «Ad Alba c’è il deposito: tutti quei giovani là son diretti». Carlin Monti arrivò con gli altri al bivio: «di qui si torce a destra, verso la Bormida, in discesa, ed è la strada che mena anche a Ponti», dove stavano la mamma, lo zio prete; «di là si prosegue, si sale, Castino, la Bosia, Borgomalo, poi Alba». Decise. O si lasciò decidere, la sorte comunque era quella, segnata: girò allora per Bistagno, in direzione di Ponti. «Quel Quarantotto» non fioriva per lui, nasceva e appassiva subito, come una violetta di marzo. Si era «affacciato con gli altri anche lui a quel balcone, e aveva rimirato quel primo dilagar di fiamme in cielo; ma sul più bello, vràn, quel maldestino sgarbatamente gli aveva chiuse le imposte sul muso, l’aveva tratto via di là, rivoltato altrove».
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Cesare Morbio, Un episodio della battaglia di Novara alla Bicocca, 1870 ca. (Novara, Galleria Giannoni).
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Il bombardamento di Genova E la fatal Novara
Sui campi di Novara la sconfitta è d’obbligo: tanto nel 1821 quanto nel ’49. Si ritorna a parlare del Ramorino, e di come Brofferio cercò di salvargli la pelle. Si apprende che, se muore un re, se ne fa un altro. Ci sono gli eroismi del generale Passalacqua e della brigata Piemonte, ma soprattutto le cannonate piemontesi su Genova insorta.
Era l’8 di aprile del 1821 quando «verso sera, giunse la nuova dello sciagurato avvenimento di Novara. L’esercito costituzionale non era più». Carlo Beolchi si trovava a Torino, ancora in mano ai liberali, dove grande era stata l’attesa nel corso della giornata «d’udire nuove dal campo, essendosi già divulgato, il nostro piccolo esercito essere giunto a fronte di quello del generale La Tour. E sebbene ognuno vedesse la miglior occasione essere già fuggita, pure non si disperava dell’impresa. Tutto dipendeva dalla deliberazione che fatta avrebbero le truppe comandate dallo stesso La Tour. Combatteranno contro ai fratelli? Si stringeranno cogli austriaci contro la patria? Ognuno sperava che si sarebbero unite ai costituzionali. Questa speranza era avvalorata dalle promesse di molti capi di quelle truppe, e più ancora dall’odio che bolle in petto a chi è nato sotto il cielo d’Italia, contra lo straniero oppressore. Per la qual cosa l’unione dei piemontesi cogli austriaci era ritenuta impossibile». Non avevano fatto i conti, quelle speranze, con i comandi impartiti da Carlo Felice al generale Sallier de La Tour. 111
La sera giunse la notizia ferale: gli scontri erano avvenuti alla Bicocca, lungo l’Agogna, fin sotto le mura di Novara, verso Vercelli, e il piccolo esercito costituzionale sconfitto «senza quasi aver combattuto, senza quasi aver visto il nemico, nell’operare l’imprudente passo della ritirata, erasi disciolto in sul cammino. Un capitano con grandissima celerità arrivato dal campo, ne aveva recato al ministro della Guerra il fiero annunzio, aggiungendo avere gli austriaci, sotto la condotta del generale Bubna, passato il Ticino la notte antecedente, essersi congiunti con La Tour, e così uniti marciare contra Torino». Sciolta la giunta di Torino e fallita la rivoluzione, con La Tour e Bubna alle porte, il giorno dopo la capitale si presentò in «confusione e spavento». Le «botteghe chiuse, i più frequenti luoghi fatti solitudine; e se alcuno scontravi per via, portava descritte in faccia l’ansia e la disperazione dell’animo». L’eco della disfatta raggiunse il resto del regno, oltrepassò vallate e bricchi, toccò le Langhe e la val Bormida. Narra Abba: si rallegraron presto coloro che s’erano rattristati o avevano disprezzato o taciuto per aspettare e vedere. Da Alessandria saliron per val di Bormida notizie di più lontano, dall’altra parte del regno verso la Lombardia. Il principe di Carignano scomparso da Torino era andato di là dai campi dove stavano i reggimenti che s’erano dichiarati per la Costituzione, e aveva riparato tra quelli che erano rimasti fedeli al re assoluto in Novara, sostenuti dagli austriaci corsi da Milano a dar addosso ai costituzionali. Si parlava dei generali La Tour e Bubna, confusamente, poi fu detto il nome del fiume Agogna sulle cui rive era avvenuto un combattimento nel quale i costituzionali avevano consumato le loro speranze. E per questo era un grande scoramento di tutti alle loro spalle, anche di quei soldati che, non essendo giunti in tempo pel fatto d’armi, tornavano indietro pensando a mettersi in salvo per non essere forse fucilati.
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Ansia e disperazione, a Torino e in Piemonte, invasero gli animi anche la sera del 23 marzo del 1849. Si seppe che a Novara gli austroungheresi di Radetzky avevano battuto l’esercito sardo-piemontese di re Carlo Alberto, come era successo l’anno prima a Custoza. Nuovamente era stata la Bicocca, un sobborgo sulla strada per Mortara e per la Lomellina, a fare da fulcro alla battaglia. «Per una nemesi», scriverà Vittorio Parmentola, diciotto anni più tardi «l’esercito regolare sarà disfatto in quella plaga dai suoi alleati del Ventuno!» Persa la Bicocca al calare delle prime brume, Alessandro della Marmora, capo di stato maggiore, ordinò la ritirata. In serata, nel palazzo Bellini di Novara, Carlo Alberto abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele. Un’altra nemesi, ma rovesciata, volle che sempre a palazzo Bellini nel giugno del 1859 Napoleone III e Vittorio Emanuele II s’incontrassero per mettere a punto i piani della battaglia, poi vinta, di Magenta. La prima guerra d’Indipendenza si chiudeva comunque nell’ignominia militare, nelle diserzioni e nel sangue. Ma si concludeva anche con i saccheggi compiuti nelle campagne e nei borghi dai soldati regi allo sbando, dovuti al fatto che i servizi di sussistenza dell’esercito sabaudo non avevano funzionato. Il ricordo delle ruberie di «quei nostri soldati piemontesi che facevano da popolo barbaro», come scrisse una donna di Trino, sopravvisse per anni. Fu memoria non sepolta, per niente digerita e non condivisa, che ostacolò a lungo la costruzione di un sacrario e di un ossario alla Bicocca. Soltanto quando si seppe che era stata lanciata una sottoscrizione per erigere un ossario a Custoza, dove gli austriaci avevano sconfitto per ben due volte i piemontesi, il consiglio comunale di Novara decise di dare il via libera al monumento. Progettato in forma di piramide, in pietra di Sàrnico, da Luigi Broggi, venne 113
inaugurato il 23 marzo del 1879 e, tra la folla degli invitati, presero posto diversi reduci. All’interno vennero incisi su delle mezze bocche da fuoco i nomi dei caduti. Tra morti, feriti e dispersi le vittime della battaglia, cominciata alle 11 del mattino e terminata al crepuscolo, erano state circa 10 000, da suddividersi a metà fra i due schieramenti. Ci si era battuti tra campi, cascinali, corsi d’acqua, fino alla Sforzesca, a Vigevano e a Mortara, in un succedersi di fasi alterne, di offensive e di controffensive. L’eroismo di un pugno di ufficiali e di alcuni reparti, come quello del generale Passalacqua colpito da una palla di fucile in testa mente guidava il suo reggimento, il III della brigata Piemonte, all’inseguimento degli imperiali verso Castellazzo, non bastò a impedire che gli errori e forse le viltà dei generali Chrzanowski e Ramorino, i comandanti dell’esercito sabaudo, risultassero letali. Angelo Brofferio, letterato e avvocato, deputato al Parlamento Subalpino, dedicò a quelle ore pagine di esecrazione giusta e memorabile: Mentre i nostri destini erano decisi a Novara, continuava la Camera nelle sue tranquille deliberazioni, e discuteva l’unione al Piemonte di Mentone e Roccabruna. Né si poté ottenere una seduta notturna che col pretesto di una questione di finanza. Ove la proposta fosse stata di deliberare sulle contingenze della guerra, certamente non sarebbe stata accolta. La guerra, si diceva, non è di nostra competenza; non si disturbino i capi dell’esercito.
Alla mattina del 26 marzo «si avvertiva che il ministero avrebbe sospeso per otto giorni le sedute della Camera». Verso le 9 corse voce che il sindaco di Torino e l’ambasciatore d’Inghilterra sarebbero partiti «per placare in nome del Municipio Torinese le ire di Radetzky. Un’ora dopo cominciava a diffondersi la notizia dell’abdicazione di 114
Carlo Alberto, dell’assunzione al trono di Vittorio Emanuele e dell’imminente di lui arrivo in Torino. Dunque tutto era pronunziato! Conchiusa la guerra, sospeso il Parlamento, abdicata la corona, sottoscritto un secondo armistizio, l’esercito vagante senza disciplina, la popolazione muta, confusa, avvilita, non altro rimaneva che assistere al trionfo della reazione». In quel medesimo 26 di marzo, a Cairo Montenotte, a un centinaio di chilometri dalla capitale, già teatro di una delle vittorie del giovane Napoleone, il piccolo Giuseppe Cesare Abba, poco meno che undicenne, vide passare Carlo Alberto in carrozza sulla strada dell’esilio. Ne annotò il ricordo: Stamattina, mio padre mi condusse con sé a spasso, come suol fare quand’è di cattivo umore. Io dicevo tra me: che cosa avrà? Volgevamo verso il ponte, senza parlare. Dinanzi a noi una trentina di passi andava il capitano Lino, e verso di lui e noi veniva di trotto una carrozza. Quando passò vicino al capitano, questi tremò tutto, e si piantò con le mani al berretto e gridò: «Carlo Alberto!» Mio padre corse per reggerlo; credevamo che cadesse svenuto. Intanto vidi in fondo a quella carrozza un mantello grigio, due grandi mustacchi bianchi, due occhi che mi guardarono di sotto all’ala di un berretto listato d’argento passar via, sparire. Un gran dolore mi pigliò; mi parve che la via, il ponte e tutto intorno, lontano, provasse un gran patimento, dietro quella carrozza che menava via il re.
Portarono via pure Ramorino, ritenuto il responsabile della «fatal Novara». Brofferio, che assunse la sua difesa, disse poi che la voce pubblica «attribuiva la sconfitta di Novara non a disastro ma tradimento. Che fece il ministero? Scelse a capro espiatorio il generale Ramorino», che venne condannato a morte dal consiglio di guerra. S’appellò al magistrato di Cassazione, «il quale considerando 115
che dopo l’armistizio di Novara fosse tuttavia permanente lo stato di guerra, rigettava l’appello». Si rivolse allora alla «clemenza del re». Tutto inutile: «Il ricorso è vano e Ramorino viene fucilato. Il generale era stato accusato di tradimento per il suo comportamento al Ticino. Quando infatti gli austriaci di Radetzky attaccarono al ponte di Boffalora, vicino a Pavia, Ramorino ordinò la ritirata, permettendo così la grande sconfitta piemontese». Brofferio raccoglie «le sue ultime parole, e debbo alla verità della storia di affermare, che tanto da’ suoi particolari colloqui che dal contesto di tutto il processo non emerse che disubbidienza. Ramorino stava saldo in credere che si dovesse custodire la linea del Po, non quella del Ticino, e che il miglior modo di vincere fosse quello di percuotere di repente il nemico alle spalle, a dispetto delle disposizioni di Chrzanowski». Non paghi di avere perduto ogni frammento d’onore alla Bicocca, i piemontesi di Alfonso della Marmora decidono di andare a bombardare Genova, che nel frattempo è insorta. Accade ai primi d’aprile, dopo la firma a Vignale dell’armistizio fra Vittorio Emanuele II e Radetzky. Si è appena consumata la resistenza di Brescia dopo dieci giorni di combattimento contro le truppe del generale austriaco Haynau, soprannominato “la iena” per la sua ferocia. La repubblica di Venezia di Daniele Manin non è ancora caduta e così quella di Toscana, e i francesi non hanno attraccato al molo di Civitavecchia per muovere contro la repubblica romana di Mazzini, di Saffi, di Armellini e di Garibaldi, Bixio, Dandolo, Mameli, Manara, Medici, Carlo Pisacane e di Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, il carrettiere del Porto di Ripetta che gli austriaci fucileranno a Porto Tolle ad agosto. Come nel 1746, come nel 1821, i genovesi si sollevano e restaurano per qualche giorno il sogno della vecchia re116
pubblica. Manco a dirlo, come direbbe il Luciano Bianciardi, tra i rivoltosi c’è il chierese Giuseppe Avezzana, vecchia conoscenza delle rivoluzioni mondiali, uno dei proscritti del Ventuno, che ora comanda la Guardia Nazionale. Giuseppe Cesare Abba, che incontrerà Avezzana al Volturno, avverte un ulteriore tumulto interiore, in quella primavera del 1849, quando a Carcare, dove si trova in collegio, viene a sapere «della rivolta di Genova che non voleva più stare unita al Piemonte, perché questo era stato vinto a Novara, o che se unita voleva mettersi alla testa dello Stato lei, per continuare la guerra». Voci «confuse, oscure, che misero in subbuglio i convittori liguri e monferrini, gli uni contro gli altri. Il padre Canata vegliava e pregava pace. Ma che dolore il giorno in cui per la borgata passò uno squadrone di Aosta Cavalleria, che marciava al Colle di Cadibona per andare all’assedio di Genova! Qualcuno aveva udito quei soldati a dire che avrebbero fatto in Genova la Pasqua, ma udito a dirlo con certe parole feroci che adesso non si possono più ripetere». Vari fattori concorrono a scatenare il moto. In un lungo articolo pubblicato dalla “Rassegna Storica del Risorgimento”, Carlo Baudi di Vesme scrive che la rivolta «sembra all’inizio diretta solo contro l’armistizio» di Vignale, nella convinzione che la sconfitta di Novara non sia decisiva e che la guerra all’Austria debba proseguire. La Liguria, che non ha accettato veramente l’annessione al regno di Sardegna, d’altro canto «è la più interessata alla ripresa delle ostilità, più di Torino che dovrebbe rinunciare a essere capitale»; anche perché «da molto tempo Genova non aveva avuto un periodo così florido: erano scomparse le dogane con la Lombardia e aveva spedito a Milano enormi quantità di caffè, zucchero e cotone; non 117
per nulla uno dei primi atti di Radetzky era stato quello di ristabilire le dogane». Non erano mai tramontati, oltretutto, «i sentimenti municipali del basso popolo», che «presiedevano al desiderio di trasferire il Parlamento a Genova; si aveva una grande idea del compito della città, i cui moti dovevano estendersi a tutta Italia» e rinnovare le gesta del 1746 e di Giovan Battista Perasso, il Balilla della verità o della leggenda, contro gli austriaci. Quando il sindaco Profumo, il 29 marzo, convoca la Guardia Nazionale, «appare evidente che si è verificato un momentaneo accordo di interessi e di passioni in tutti i ceti: nei commercianti che desiderano l’unione con la Lombardia; nei municipali, fieri della missione affidata a Genova; nel popolo, memore del 1746». Divisi tra di loro, che è un classico di tutte le insurrezioni, gli ispiratori della rivolta sono Avezzana, il deputato e giornalista Costantino Reta, David Morchio, i triumviri. Poi il commerciante Niccolò Accame da Pietra Ligure, l’esule napoletano Giovanni La Cecilia, già stretto collaboratore di Mazzini, lo studente e volontario del ’48 Alessandro Destephanis, buon amico di Mameli, oltre agli animatori del Circolo Italiano, in parte mazziniani, tra i quali spicca Didaco Pellegrini, di Novi Ligure. Non mancano altri reduci del ’21. E con gli insorti si schiera il geologo Lorenzo Pareto, nel ’48 ministro nei governi del regno di Sardegna presieduti da Cesare Balbo e da Gabrio Casati. Le idee e i progetti che perseguono sono spesso confusi o contraddittori. C’è chi vorrebbe staccarsi subito dal Piemonte e proclamare la repubblica, continuando la guerra all’Austria insieme ai patrioti di Venezia, di Roma e della Toscana. E dovrà essere guerra di popolo, come predica Mazzini, non più guerra regia. Ma uno dei capi, probabilmente Reta, scriverà dall’esilio di Marsiglia in un 118
opuscolo: «Se vi furono alcuni magnanimi, che, precursori dei tempi, avevano forse per iscopo l’attuare una repubblica, tale però non era l’intendimento dell’immensa maggioranza del popolo». Dice Baudi di Vesme che «l’enunciazione ufficiale, e le richieste» dei rivoltosi genovesi «rimangono le medesime: rifiuto dell’armistizio di Novara e formazione di un ministero liberale». Sperano, d’altronde, di avere l’appoggio dei circoli e dei deputati democratici del Piemonte che si oppongono all’armistizio, non ancora messi fuori gioco, come sarebbe avvenuto, dal proclama di Moncalieri di Vittorio Emanuele II. La Cecilia, intanto, il 27 marzo scrive ai triumviri toscani Montanelli, Mazzoni e Guerrazzi che «vuol tentare di fare di Genova il baluardo del Mediterraneo, come Venezia lo era dell’Adriatico», e di confidare nell’arrivo della divisione lombarda di Manfredo Fanti, che invece la bloccò, «per occupare i forti». Gli eventi precipitarono, sembrarono seguire i versi che Goffredo Mameli, destinato a morire a ventidue anni nella difesa di Roma, aveva dedicato qualche mese prima alla sua città: Ma Balilla gittò un ciottolo. Parve un ciottolo incantato, ché le case vomitarono sassi e fiamme da ogni lato.
Il 2 aprile un gruppo di marittimi e di esuli lombardi diede l’assalto all’Arsenale. Tra gli assalitori c’erano Pellegrini e altri seguaci di Mazzini, che tuttavia disse di non avere avuto alcun ruolo in quei fatti. Il ventitreenne Destephanis catturò un generale; il giovane verrà massacrato poi a pugni e a colpi di baionetta dai soldati piemontesi, e morirà a maggio dopo un mese di agonia. 119
Il gesto dell’Arsenale, racconta Baudi di Vesme, stabiliva «una convivenza fra la città e i repubblicani, la carta era giocata». I triumviri Avezzana, Reta e Morchio danno vita a un governo provvisorio della Liguria. I «negozianti abbattono le insegne di Sardegna, per soddisfare gli umori», si ergono le barricate. Si pensa a organizzare la difesa della città dalle truppe del generale della Marmora, che è stato mandato da Torino per sedare il tumulto. I forti sono occupati, da Roma Carlo Pisacane invia a Genova Mameli e Nino Bixio. Aspettando gli uomini di Fanti, che non arriveranno mai, La Cecilia prova a esportare la ribellione nel resto della Liguria, ma Spezia rimane a guardare e soltanto Chiavari e Lerici, con i marittimi mazziniani in testa, si muovono. Però «già dai primi di aprile le Guardie Nazionali non rispondono all’appello», rimangono «solo i veri repubblicani, i lombardi, gli artiglieri disertori e gli artiglieri della Civica, e soprattutto un gran numero di ammutinati del Corpo Real Navi: dal 1° di aprile si odono grida di “abbasso Savoia”, si inalbera sui forti la bandiera tricolore senza stemma, si vilipende l’effigie dei reali, si combatte gridando Viva il re, Viva la repubblica!» Il 5 aprile della Marmora iniziò a bombardare Genova «senza preventiva notificazione, come era invece negli usi», spalleggiato dal comandante della nave inglese Vengeance. Per il Baudi di Vesme, le bombe che colpirono la città furono settantotto, provocando «più lo spavento che il danno; ma l’atto ebbe conseguenze gravi per lo sdegno vivissimo che suscitò». Seguirono gli «eccessi» della soldataglia piemontese, «ripetizione di quelli di Novara», che si tradussero in saccheggi, ruberie, stupri e omicidi. I moti che qualcuno, in Francia, giudicò un anticipo della Comune di Parigi costarono la vita a qualche centinaio di persone, tra insorti, militari regi e vittime delle violenze. 120
Un secolo e mezzo dopo quei fatti, il comune di Genova fece apporre sulla statua di Vittorio Emanuele II, in piazza Corvetto, una lapide che dice: Nell’aprile 1849 le truppe del re di Sardegna Vittorio Emanuele II al comando del generale Alfonso La Marmora sottoposero l’inerme popolazione genovese a saccheggi bombardamenti e crudeli violenze provocando la morte di molti pacifici cittadini aggiungendo così alla forzata annessione della repubblica di Genova al regno di Sardegna del 1814 un ulteriore motivo di biasimo affinché ciò che è stato troppo a lungo rimosso non venga più dimenticato il Comune di Genova pose.
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Verazzi, Combattimento a palazzo Litta (Milano, Museo del Risorgimento).
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«Quel ch’é faa, lé faa!» E altre storie di popolo
Si narra di alcune pagine ritrovate sulla vita di un tappezziere. Si cospira tra la Corsia della Lupa e Porta Ticinese. Gli austriaci spadroneggiano ancora, ma Milano non ha smarrito le sue Cinque Giornate. Il posto d’onore è per Carlo Pisacane. Non mancano Amilcare Cipriani e il Fanelli, con altri rivoluzionari in camicia rossa.
Il 2 agosto del 1851, il giudice Pichler fece affiggere sui muri delle case di Milano questa sentenza dell’Imperial Regio Comando Militare della Lombardia: Alle ore due e mezza dopo la mezzanotte del 30 al 31 luglio ora decorso veniva su questo corso di Porta Ticinese arrestato da una pattuglia, per affissione in quelle vicinanze e in altre parti della Città di stampati Proclami incendiarj, il Tappezziere Sciesa Antonio dei furono Ermenegildo e Teodolinda Villa, di anni 37, milanese, ammogliato, cattolico, al quale nella immediata personale perquisizione si trovarono sedici di quei Proclami con anche l’occorrente per affiggerli. In seguito alla pronta legale constatazione del fatto e dell’accusa, tradotto egli oggi, dinanzi al Giudizio statario militare, a termini del Proclama 10 marzo 1849 fu condannato alla morte colla forca, ed oggi stesso alle ore due fucilato per mancanza di giustiziere.
Pochi rilevarono l’errore, quell’Antonio al posto di Amatore, il suo vero nome. Colpì di più il fatto della mancanza del giustiziere. In ogni caso i milanesi lessero. Lo fecero con timore, con paura, asciugandosi il sudore e scuotendo la testa. I 123
borghesi e i nobili dissero qualcosa a bassa voce, borbottarono che quel tizio se l’era andata proprio a cercare. Nelle osterie di Porta Tosa, di Porta Comasina, di Porta Vigentina, di Porta Romana, alla Cassoeula e alla Riviera, al Paradiso, al Lampone, ai Lombardi e al Passetto, alla Portalunga, i timori si mescolarono al dolore, alla rabbia. Faceva caldo, la pioggia dei giorni passati non aveva rinfrescato, si soffocava davvero in tutti i sensi. Alla fine di una settimana di calma pesante, ma senza altri arresti, Gaetano Assi, il De Cristoforis, Carta e Guttierez, capi della cospirazione contro gli austriaci, ebbero la certezza che Sciesa non aveva parlato. Dalla loro stamperia clandestina, il 7 di agosto, uscì un manifesto, firmato dal Comitato dell’Olona, per ricordare il tappezziere giustiziato nel castello Sforzesco: Cittadini, Sciesa Amatore, popolano, agente di questo comitato dell’Olona, avendo impensatamente deviato dalle ricevute istruzioni nello eseguire un mandato affidatogli, venne dall’Autorità straniera arrestato, tradotto a un Consiglio di Guerra e condannato a morte. Incontrò fieramente la miseranda fine. I sentimenti di uomo, di marito, di padre, astutamente invocati dai giudici, non valsero a smuoverlo dalla linea del suo dovere, né le minacce, né le preghiere, né le seduzioni di impunità e d’oro poterono un solo istante fargli obliare che innanzitutto si deve essere un buon cittadino. Condotto al supplizio, ei fece impallidire con l’intrepido suo contegno i suoi carnefici, esterrefatti e furenti di tanto eroismo. Viva l’Italia.
Qualche anno dopo, liberata Milano dagli austriaci, Luigia Rotta, vedova di Sciesa, ordinò a un artigiano, il Previati, una stampa raffigurante Amatore mentre si avvia alla fucilazione. La didascalia recitava: «Il patriota Amato124
re Sciesa, che all’offerta di denaro e di aver salva la vita, pur di rendersi delatore al gendarme austriaco risponde sdegnoso tiremm innanz, dirigendosi imperterrito ai soldati che devono fucilarlo». Con molte probabilità l’artigiano battezzato a San Babila e dimorante in piazza della Rosa, dalle parti della Biblioteca Ambrosiana, non pronunciò mai quel «tiremm innanz», bensì un ben più secco, virile «quel ch’è faa, lé faa!», quel che è fatto, è fatto. Battuta popolana e popolare, come di popolo era la cospirazione del ’51. Fu proprio questa caratteristica, d’altro canto, che spinse la grande borghesia milanese, e la nobiltà, a stare fuori da quei fatti. In un vecchio opuscolo dedicato a Sciesa, che il giornalista e storico Giancarlo Carcano scrisse in occasione delle celebrazioni unitarie del 1961, lo si spiega bene: Nonostante l’attenta sorveglianza, i capi popolari (Assi, Ferri, Vigorelli, Fronti) continuano a riunirsi con i rappresentanti della media borghesia; i nobili e i grossi borghesi si sono già ritirati dall’organizzazione, forse nel timore che, se sorpresi, sarebbero stati sottoposti dall’Austria a gravi sanzioni finanziarie, o forse perché vedono con preoccupazione rafforzarsi la partecipazione popolare e quindi la possibilità che la cospirazione, oltre che una rivendicazione politica, comporti anche richieste economiche.
Nei moti del ’51, dove moderati e mazziniani convivevano, come in quelli che sarebbero seguiti nel febbraio del ’53, ispirati decisamente dall’Apostolo, il popolo, operai e artigiani, ebbe dunque una parte di rilievo. I popolani, i “barabba”, erano suddivisi in compagnie di mestiere: quelle dei facchini, dei falegnami, dei calzolai, dei tencitt, i carbonai. Questi ultimi, nella rivolta fallita del ’53, amavano cantare versi del genere:
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Amici, alla fabbrica allegri andiamo; corriamo dei popoli la lega facciamo. È questo il momento del nostro cimento; amici, alla fabbrica allegri andiamo.
E il democratico Bianciardi ricorda che a Milano, dopo il ’48, «operai e artigiani, ora che nobili e borghesi erano quasi tutti riparati in “esilio” a Torino e meglio ancora in Svizzera, continuavano a riunirsi la sera all’osteria, oppure nelle sedi delle loro società di mutuo soccorso (particolarmente attivi erano i facchini), cercavano di darsi un’organizzazione insurrezionale». Nel febbraio del ’53 ci fu addirittura «un tentativo di ripetere le splendida gesta del ’48: un capo operaio, di nome Ferri, alla testa di una ventina di suoi compagni, tentò l’attacco a palazzo Reale, mentre un altro operaio, il Brizzi, tentò dal canto suo di occupare il castello per prendere le armi lì depositate». Ma «a condurre l’azione furono pochi uomini male armati, mancò la solidarietà della popolazione, che nel ’48 era stata decisiva, e seguirono repressioni austriache feroci, specialmente contro i popolani». Amatore Sciesa era uno di loro. «Alto, robusto, capelli neri che scendono sulla fronte e gliela coprono alquanto, sopracciglia e pupille castane, naso profilato, baffi e barba che gli incoronano la bocca»: un foglio clandestino circolato dopo la sua morte lo descriveva in questa maniera. Aveva aderito alla «fratellanza repubblicana», come suppone Carcano, «per l’impopolarità degli austriaci anche nel popolo minuto, ciò che aveva portato la maggioranza dei milanesi ad aderire ai moti del 1848 iniziati dagli intel126
lettuali», ma pure per «l’insofferenza per i forti tributi di recente istituzione che colpivano duramente il piccolo artigianato cui egli apparteneva». Era entrato nel comitato dell’Olona su invito di Gaetano Assi, un tintore, «rivoluzionario convinto, uomo che si vanta di ben conoscere il prossimo e di sapere dire al primo sguardo se un aspirante cospiratore è degno di fiducia», che sarebbe stato tra i principali promotori della rivolta del ’53. Amatore gli piacque, s’incontrò con lui più volte e presto gli affidò incarichi di una certa importanza. La familiarità con lui dimostrava che lo riteneva «elemento capace di resistere alla tortura nel caso in cui fosse caduto nelle mani degli sbirri». Le possibilità di finire in cella e al muro, in quei mesi, erano molte. Il 21 febbraio, dal suo quartier generale di Verona, il maresciallo Radetzky aveva lanciato un proclama in cui richiamava i sudditi del Lombardo-Veneto a osservare le norme emanate il 10 marzo del ’49, qualche giorno prima della battaglia di Novara. Norme draconiane: la sola diffusione di stampati clandestini sarebbe stata punita con la condanna a morte. La situazione precipitò all’inizio dell’estate. Il 25 giugno venne ritrovato nei pressi di via Durini il cadavere del dottor Vandoni, «nota spia» che aveva denunciato un suo collega di simpatie mazziniane. Era stato assassinato con una pugnalata. Venne mobilitato «l’intero corpo di gendarmeria, per dieci giorni tutte le osterie sono setacciate, centinaia di individui sospetti sono interrogati, intere famiglie sono sorvegliate per cercare di cogliere il più piccolo indizio. “Ma il delitto di via Durini”, come dice un documento ufficiale, “resta impunito per l’omertà della popolazione e la criminale abilità dell’assassino che bene ha fatto perdere le sue tracce”». 127
I gendarmi perquisirono anche la Cassoeula di Porta Tosa, arrestando dei sospetti. Assi e Sciesa, che la frequentavano con assiduità, riuscirono a mettersi al sicuro. Si arriva alla notte fra il 30 e il 31 luglio. Carcano dice che «è piovuto da poco, ma fa caldo, il servizio di sorveglianza è stato intensificato e i milanesi, timorosi delle retate, sono andati a dormire presto». Non proprio tutti dormivano. Qualche minuto prima della mezzanotte, un reparto di gendarmi, che stava perlustrando la città, giunse al Duomo. Lo videro subito: un grande foglio attaccato sul portone di un edificio, caratteri grossi, una scritta: «Comitato dell’Olona». Cominciarono a leggere: Cittadini, il segreto istinto della propria coscienza avverte i nostri oppressori delle loro impotenze contro la causa della giustizia e il nostro povero vecchio Radetzky, nel suo proclama del diciannove corrente, si dichiara incapace di proteggere le sue spie. Coraggio, dunque: vicina è l’ora e la rivolta del servo oltraggiato sarà protetta dalla potenza di Dio, padre dell’eguaglianza e perciò nemico dei rei e della conquista.
Non c’era bisogno di leggere tutto. Un certo Figini, l’ufficiale della pattuglia, «intuisce che, se cattura l’affissore, la promozione è sicura». Si diresse in via Santa Margherita, al comando della direzione generale di polizia, dove fece rapporto. Altri agenti vennero sguinzagliati al Duomo, a palazzo Reale, a Santo Stefano e lungo il corso San Gottardo, a Porta Ticinese. Fu l’ultima pattuglia rimasta in servizio, guidata dall’ufficiale perlustratore Antonio Ghezzi, a catturarlo. Battevano dai campanili le due e mezzo del mattino, quando, all’angolo fra via Spadari e la corsia della Lupa, 128
l’odierna via Torino, Ghezzi e i suoi uomini sentirono uno scalpiccio. Videro «la sagoma di un tipo alto, con berretto di panno calato sugli occhi, che cammina adagio sotto la pioggia, ripresa a cadere da qualche minuto». I gendarmi gli andarono incontro, lo circondarono, gli chiesero le generalità. L’uomo rispose: «Sono Amatore Scussa, tappezziere, ammogliato con un figlio, abitante in piazza della Lupa nei pressi dell’Ambrosiana». Lo perquisirono. Dalla tasca sinistra interna della giacca di fustagno «viene fuori un fascio di fogli piegati in quattro parti. La scritta è la stessa del manifesto trovato dal perlustratore Figini». Ghezzi lo interrogò, gli disse di fare i nomi dei complici. Amatore non si scompose: «Mi parli no! Mi soo nagott!», io non parlo, non so nulla. Da quel momento si chiuse «in un ostinato mutismo». Lo condussero al primo circondario di polizia di piazza dei Mercanti. Ripresero a interrogarlo, a domandargli i nomi dei suoi compagni. Rispose soltanto: «Quel ch’è faa, lé faa!» Il processo cominciò nel cortile del castello Sforzesco alle nove di venerdì 1° agosto, si concluse nella mattinata del giorno seguente. Amatore si dichiarò innocente, sempre in milanese aggiunse che non si sarebbe stancato di proclamarlo. Pichler allora troncò l’interrogatorio, si ritirò per scrivere in pochi minuti la sentenza: condanna a morte mediante impiccagione. Il giudice ricomparve, chiamò il comandante di un plotone di soldati schierato nel cortile. A quel punto, come racconta Carcano, «insorge un ostacolo. Il carnefice [fatto arrivare da Bergamo prima che la sentenza venisse emanata, ciò che dimostra come il processo non fosse che una 129
tragica farsa: la decisione era già stata presa da Radetzky e da Giulay, governatore di Milano, n.d.a.] entrato al castello non trova l’attrezzatura di suo gradimento. Si lamenta anche dell’assistente che gli è stato affiancato, poco pratico in quanto la forca è stata introdotta da poco a Milano, e dà palesi segni d’insofferenza. Sono le 13,30 e l’esecuzione non si farà». Il boia, tale Reisinger, però non si fece convincere. Replicò che, «senza attrezzature e senza un efficiente aiuto» non avrebbe potuto eseguire la sentenza. Pichler non perse tempo ulteriore, decise: lo avrebbe fatto fucilare. Si formò in fretta un plotone d’esecuzione, alle 14 Amatore venne messo al muro. Due minuti dopo era morto. Ne vennero altri, come lui. I popolani come Amatore Sciesa sarebbero stati numerosi anche tra i volontari garibaldini, tra gli stessi di Marsala. Germano Bevilacqua, minuzioso e appassionato ricostruttore della vita delle camicie rosse, elencava tra i Mille (e ottantanove) diciannove «contadini, braccianti, analfabeti», ai quali, dice, «ce ne sono almeno tredici della provincia di Parma da aggiungere». Non solo: «Questo è un elenco di gente povera, analfabeta tutta, la più squalificata dalla Società di allora e per questo da tenere in alta considerazione per aver recepito l’alto messaggio di libertà, lanciato da Garibaldi e ottenuto col diritto della spada». E poi: «Non sono i soli analfabeti: bisogna aggiungerne almeno un altro centinaio». Ciò «sta a dimostrare che quando Abba affermava (e altri sulla scia) che di contadini et similia, non ce n’erano, si sbagliava di grosso. E sì che maneggiava meglio la penna che la spada!» Sempre secondo stime approssimative per la difficoltà di tro130
vare i documenti, contava quindi 24 falegnami, 25 calzolai, 21 panettieri, 36 disertori dal regio esercito. Sarebbe bastato esaminare i soli garibaldini bergamaschi, concludeva il Bevilacqua, che rappresentavano il gruppo maggiore, per rendersi conto della partecipazione popolare alla spedizione: su 180, 72 erano operai e artigiani; 18 possidenti (ma allora “possidente” non necessariamente voleva dire ricco) e commercianti; 9 soldati e 21 di mestiere ignoto. Erano stati garibaldini pure il Giuseppe Fanelli e l’Amilcare Cipriani, Carlo Gambuzzi e Raffaele Mileti, poi tutti anarchici e internazionalisti, compagni e amici di Bakunin. Il primo, napoletano, dopo essersi battuto per la repubblica romana e avere fatto il segretario del comitato organizzatore della spedizione di Pisacane, seguì Garibaldi da Quarto al Volturno. Dice Bevilacqua che «ebbe la salute rovinata per gli strapazzi e le fatiche improbe a cui dovette soggiacere durante la breve ma faticosa campagna per la liberazione del Mezzogiorno. Morì nella casa di salute Fleurant di Napoli poco dopo, senza aver avuto quel minimo di gioia cui dopo tanta fatica, avrebbe avuto diritto». Ancora peggiore fu il trattamento che la vita riservò al Cipriani di Anzio, patriota e cospiratore. A quindici anni andò a piedi a Torino, nel ’59, per arruolarsi nel regio esercito. Combatté a San Martino. Fu con il Generale in Sicilia e all’Aspromonte, in Grecia nella rivolta repubblicana contro il re Ottone; e di nuovo con Garibaldi nel ’66, a Candia ad affrontare i turchi, tra i difensori della Comune di Parigi. Divenuto seguace dell’Internazionale dei lavoratori e di fede libertaria, conobbe i penitenziari di mezzo mondo: dalla Nuova Caledonia a Portolongone, dove lo incatenarono in una cella larga 60 centimetri e larga cinque passi. Nel 1888, ormai vecchio di settantaquattro an131
ni, lo graziarono, ma venne riarrestato per una vicenda di oltre due decenni prima: aveva disertato dall’esercito italiano per essere al fianco di Garibaldi all’Aspromonte. Il povero Carlo Pisacane, poi, sarebbe stato certamente uno dei Mille, fino al Volturno, magari a Bezzecca e a Mentana, ancora in Francia nel ’70, se non fosse morto a Sanza, dalle parti di Padula, il 2 luglio del ’57. Lui sì che nel popolo credeva, confidava. E il popolo lo avrebbe tradito. Dice il Bianciardi nostro che Carlo «era fondamentalmente un mazziniano, ma andava al di là del Mazzini nel volere una guerra di popolo, perché aveva intuito che l’autentico popolo, in Italia, era costituito dalle masse dei contadini poveri meridionali». Non mandò altri per far sollevare le plebi del regno delle Due Sicilie. Ci andò lui, di persona. Il 25 giugno del ’57 s’imbarcò a Genova sul Cagliari dell’armatore Raffaele Rubattino, con venticinque compagni, tra i quali c’era l’esule calabrese Giovanni Nicotera, il suo luogotenente. Nel testamento politico scrisse: «Se mai nessun bene frutterà all’Italia il vostro sagrificio, sarà sempre una gloria trovar gente che volenterosa s’immola al suo avvenire; giunto al luogo dello sbarco, per me è vittoria, dovessi anche perire sul patibolo». Non perì sul patibolo, ma si uccise nel Vallone del Diavolo di Sanza, nel Salernitano. Sbarcati a Sapri, i venticinque della spedizione, cui si erano uniti circa trecento detenuti liberati dal carcere di Ponza, la mattina del 2 luglio s’imbatterono nei borbonici e nei contadini aizzati contro di loro e che li credevano briganti. Narra Bianciardi, senza nascondere la sua commozione, «che si riuscì a resistere due ore al fuoco nemico, ma poi sopraggiunsero altre forze, minacciando di aggirare l’ormai sparuto manipolo, e bisognò comandare la ritirata. Per i feriti e per i prigionie132
ri non ci fu pietà: tutti trucidati barbaramente. Lo stesso Pisacane, la mattina dopo, si trovò la strada sbarrata da una turba di gendarmi e di contadini armati di forche, falci, roncole. Ferito al fianco da una fucilata e stramazzato per terra, preferirà togliersi la vita egli stesso con un colpo di pistola». Il ricordo di Pisacane accompagnerà i Mille nella loro avventura. La sera del 4 maggio 1860, cenando in una «gran sala» di Sottoripa, nel cuore antico di Genova, e chiacchierando «in tutti i vernacoli d’Italia», Abba vide a un tratto il «dottor Bandini, che m’era di faccia» levarsi ritto, «cogli occhi nella parete sopra di me. V’era un ritratto. Pisacane! Io lessi alto una strofa stampata a piè dell’immagine di quel precursore, una delle strofe della Spigolatrice di Sapri. Al ritornello, il dottor Bandini mi fu sopra colla sua voce possente e lesse lui: “Eran trecento, eran giovani e forti / e sono morti!” Tornò il silenzio di prima. Ed io pensai alla notte che si fece sulle Due Sicilie, dopo l’eccidio di Sapri. Oh! allora come deve essere parsa fuori d’ogni speranza una ripresa d’armi, a quella povera gente laggiù. Ai profughi si affacciò il sepolcro in terra straniera, e il regno fu tutto un carcere».
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Un raro ritratto fotografico di Celso Cesare Moreno.
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L’avventuriero delle Langhe Da Dogliani a Sumatra, passando per Saluggia
Dove si declinano le avventure mirabolanti del capitano Moreno, e si almanacca delle sue imprese rievocate dal Faldella. Non si omette un colloquio con il re galantuomo e di come questi avrebbe potuto navigare per i mari della Cina. Intanto Cavour manda i bersaglieri nelle Russie e si appresta a fare, a modo suo, l’Italia e non gli italiani.
Era un giorno di marzo dell’anno 1831. Doveva fare piuttosto freddo in quel lembo del regno di Sardegna, sui bricchi, nelle selve e nelle forre delle Langhe. E freddo faceva a Dogliani tra le colline non alte e le sponde del Rea, incamminandosi nel vecchio villaggio fra la chiesa di San Paolo e i Battuti, fino alla vasta piazza delle uova, nel cuore dei commerci dei vini, delle uve, dei formaggi e del pollame, del bestiame e dei carri di fieno e di paglia, dei sacchi di ceci e di fagioli, delle cataste di fascine e di legna. Si può ritenere ragionevolmente che la neve non si fosse sciolta. Le poche strade carrabili marcivano di fango, indurivano in croste ghiacciate. La primavera restava una promessa vaga e i contadini scrutavano il cielo alla sera e all’alba. Se nei prati, sulle rive, fossero sbocciate viole e primule, non era affare loro. Altri segnali dal cielo non attendevano, se non quelli del tempo per le semine. Sussurrati giungevano dalle città echi di rivoluzioni tradite, represse nel sangue. Erano mozziconi di parole smorzati e torbidi, buoni per i caffè dei signori, per il circolo e per il farmacista, che forse teneva salotto liberale segretamente e tepidamente. 135
Celso Cesare Moreno nacque a Dogliani il 5 marzo del 1831. Sulla data non possono sussistere dubbi. Nei registri parrocchiali, il giorno successivo, cioè il 6, il prevosto Vincenzo Garrone dava atto e iscrizione del battesimo avvenuto di un neonato di nome Celso, «cui impositum fuit nomen Celsus», nato ieri, «heri natum» dai coniugi Giuseppe Moreno e Antonia Vivalda. Null’altro si diceva nel testo dettato o vergato di proprio pugno dal prevosto Garrone, se non i nomi, insignificanti, dei padrini. E, del resto, niente in più si sarebbe dovuto pretendere da un semplice certificato di battesimo. Qui finisce la storia del padre e della madre del capitano, dei quali non è trapelata ulteriore notizia se non che di figli ne ebbero sette. Non è nota nemmeno la professione di Antonio: se contadino, che sarebbe presumibile, oppure sensale, facchino, bottegaio, cerusico o soldato, musico, bottaio, vinaio, cavallante, possidente o cenciaiolo. Pare tuttavia che la famiglia abitasse nel borgo Airale e fosse considerata «ragguardevole», come sostiene qualcuno, e che Celso avesse tra gli altri una sorella, Maddalena, e un fratello maggiore, Giuseppe, indicato quale sottufficiale della Marina sarda. Sempre che non si confonda Giuseppe con un cugino del quale si ignora il nome, sebbene venga citato sul “Washington Post” di martedì 13 marzo 1901 come «Lieut. Moreno, of the Italian Navy», e che per varie ragioni risulterebbe essere stato un sottotenente o un tenente di vascello. Per schizzare un contorno vago, se non i volti, dei suoi familiari, non aiuta neppure la copia del giornale «periodico Agrario-Amministrativo-Commerciale-Politico» “Gazzetta di Dogliani”. L’11 aprile del 1891, sessant’anni dopo la venuta al mondo di Moreno, ne celebrava il nuovo ritorno in patria, a Dogliani. E offriva ai lettori in prima 136
pagina il resoconto di «Un banchetto offerto dal Capitano C.C. Moreno, a parecchi suoi amici di Dogliani, ebbe luogo domenica scorsa all’Albergo Nazionale, egregiamente servito dal proprietario Ponzio Francesco». L’estensore aggiungeva, per amore di cronaca onesta e puntuale, che «più che un banchetto d’albergo pareva proprio trovarsi in famiglia, non essendo che gl’invitati, regnando così buona armonia e facile conversazione in tutti i commensali. Alla frutta presero la parola i signori Migliore, Gabetti e Casarico, tessendo ciascuno i meriti del Moreno, accennando al posto che eminentemente occupa presso il governo degli Stati Uniti, facendo brindisi alla di lui salute». Commensali amici, e di certo fraterni, ma non i familiari di sangue del capitano. Questi si erano dispersi per campagne e città o emigrati in America o chissà dove, oppure, in caso differente, avevano avuto le loro brave ragioni per non essere presenti l’11 aprile del 1891 all’albergo Nazionale di Dogliani. Non fu il primo memorabile ritorno a casa del grande Moreno, che si può collocare all’incirca dieci anni prima, nel 1881. Memorabile davvero, se è per questo. Una delegazione di concittadini andò a prenderlo in carrozza alla stazione ferroviaria di Monchiero, a qualche chilometro da Dogliani, rendendogli solenne omaggio. Ed era un riconoscimento imperituro, per quei tempi, a chi aveva saputo impersonare da un capo all’altro dei continenti l’essenza dell’avventura, del favoloso, dell’esotico. Il fatto di Monchiero lo rievoca lo scrittore Giovanni Faldella, che ebbe modo di incontrarlo a Roma più o meno in quel periodo, verso il mese di febbraio, e di restarne affascinato. Bel tipo, il Faldella: narratore immaginifico e straripante, non poté evitare di farsi ammaliare dal capitano, del quale si sarebbe fatto biografo e che avrebbe chia137
mato «Un Viaggiatore piemontese» in un capitolo di Roma borghese. Subito, al momento delle presentazioni, ne ricavò un’impressione notevole tanto da restituirlo ai suoi lettori con «quegli occhi affondati e acutamente luccicanti sotto le arcate delle sopracciglie, quei capelli corti inargentati lievemente di filigrana, quella virgola bianca sul mento, quel temperamento alla Robinson, quel mare di avventure». Non si faceva pregare per dare la stura ai ricordi. Avrebbe incantato Victor Hugo, Giuseppe Verdi, de Lesseps, Gambetta, ammaliando vizir, rajah e sovrani come Vittorio Emanuele II. A Faldella dovette narrarne di ogni sorta senza timore di essere sbugiardato, se lo stesso afferma di non volere «sfrondare il Viaggiatore piemontese delle sue avventure iperboliche, lo canto come un ideale». Dobbiamo allo scrittore, a sua volta piemontese ma di Saluggia, le sparute informazioni sugli anni giovanili. Con buone probabilità gliele fornì lui, fra elusioni ed elisioni, con la consapevolezza – argomenta ancora Faldella, non uno sprovveduto – che «il viaggiatore, come il cacciatore, conta delle frottole, ma le conta in buona fede, imperocché le sue frottole, anziché frottole, sono vivaci fantasie suscitate dal colmo delle sue impressioni ed emozioni strane, e poi rimaste nel cervello come graditi ricordi di realtà». Fantasie o realtà che fossero, il capitano si dipinge, o viene dipinto da Faldella, come un «Villanello [che] zufolando alla pastura, lavorando nei campi forse sentì nello stridìo di un uccello emigrante l’invito ad altri Paesi; tolto ad educare dallo zio, vescovo di Ivrea, vide qualche fanciulletto moro portato dai missionari a far da guernitura alle vetture signorili, e ne sentì tentazioni geografiche. Partì e avverò il suo sogno di trovarsi mozzo arrampicato alla vetta dell’albero di una nave». 138
Faldella corre nel tempo e non sbaglia. Non gli interessava restituire i passi acerbi di un bambino che, secondo taluni, non avrebbe avuto vita grama; e che per altri, tra i quali Moreno medesimo nel racconto del Faldella, venne mandato al pascolo in tenera età in quanto figlio, l’ennesimo, di contadini poveri, come peraltro ne nascevano e ne crescevano a migliaia nelle campagne del Piemonte e dell’Italia dell’Ottocento. Al romanziere, al giornalista assetato di aneddotica saporita e avido di fantasmagorie iperboliche, piaceva vederlo immediatamente mozzo su un brigantino e da mozzo «navarca, padrone», che «spinto per la prima volta davanti a qualche nuda maestà selvaggia coricata sulle stuoie, che si rizza appoggiando le mani a un cuscino trattenuto sulle ginocchia, si burlò di quel re; e tirò le orecchie al porcellino con cui il re di Birmania si trastullava come fosse un cagnolino». Non gli importava capire se il destino di Moreno fosse un’eredità, un segno, della sua terra di solitudini e di sognatori; e se tutto ciò fosse dovuto anche alla non lontana presenza del mare, scavalcati la massa dei colli e i rilievi dell’Appennino. Se proprio si vuole, Faldella si accontentava del premonitore «stridìo di un uccello emigrante». Gli premeva invece, «fantasticando» per Roma nei giorni del febbraio del 1881, di svelare il segreto dell’uomo con un personale «complesso ed alto», la «testa da imperatore romano» e una «fronte ben modellata a linea verticale», che «da quasi un trentennio viaggia nei Paesi più iperborei e più iperbolici, e navigò nelle isole più lontane di quelle dei nostri poemi romanzeschi, e trattò con senatori americani, avventurieri, imprenditori di tutte le parti del mondo, e dopo una seduta in un Parlamento olivastro, sfidò fuori al pugilato l’onorevole collega preopinante; egli che per primo insegnò agli Stati Uniti d’America il commercio 139
con la Corea, culla del baco da seta; egli che strinse la mano a tanti presidenti esotici, e che fece sanguinare le unghie a tanti europei stretti per isbaglio all’uso americano». Dello zio Luigi Moreno, che fu vescovo della città di Ivrea dal 1838 al 1878 e come il nipote portava quel cognome di antica origine spagnola, si conoscono vizi (forse pochi o nessuno) e virtù (sarebbero state numerose). Ma il bello è che quando il prelato fece testamento, ritoccandolo più volte, non si rammentò di Celso, che pure aveva sfamato ed educato e che lo aveva aiutato nelle sue faccende. Lo ignorò nella maniera più assoluta, spartendo l’eredità tra la moglie e i figli del fratello Francesco, un figlioccio, qualche altro parente e un tale don Bartolomeo. E il grande Moreno? Nulla di nulla, nemmeno un soldo o un piccolo regalo, neanche un oggetto caro, tanto per ricordare gli anni lontani. Perché la dimenticanza, la recisione della memoria? Monsignore lo aveva perso di vista da decenni, arrivando a crederlo morto o perduto in qualche inferno tropicale? Tutto potrebbe essere. Eppure sono ipotesi che non paiono troppo convincenti visto che all’epoca del testamento Moreno era già diventato il grande Moreno, assai più che noto a re, a regine, a governi, a diplomatici, ai politicanti e agli affaristi, agli avventurieri, ai giornali dell’intero globo terracqueo e alla santa romana Chiesa. Doveva esserci dell’altro, una ragione precisa. Come una colpa grave, un perdono impossibile. L’esclusione dal testamento avrebbe potuto essere nient’altro che la logica e ovvia conseguenza di qualcosa, di qualche azione e di qualche atto compiuti dal capitano, tali da porsi come assolutamente inaccettabili per monsignor Luigi. E qualcosa c’era, qualcosa di pesante. Nonostante l’adolescenza trascorsa in compagnia dello zio, per una buona parte della sua vita, se non altro a partire dal giorno in cui iniziò a fa140
re parlare di sé, Moreno non nascose mai di essere un acceso mangiapreti, in linea peraltro con i tempi di anticlericalismo diffuso. Dichiarò una personale e inesorabile guerra ai missionari, di qualsiasi fede si ammantassero. Li combatté con tenacia e ostinazione in ogni continente, o nazione oppure arcipelago, in cui i casi della vita lo avevano e lo avrebbero costretto o indotto a sbarcare. Quanto sarebbe accaduto alle Hawaii nell’agosto fatidico e turbolento del 1880, con i missionari e i piantatori bianchi che chiesero al re la sua testa, ne sarà una dimostrazione inequivocabile e drammatica. Da che cosa nasceva la sua avversione? Dal fatto di essere stato cresciuto e istruito dallo zio vescovo, quindi tra messali, penitenze, catechismi, paternostri, confessionali, scomuniche, potere della Chiesa e del papa re? E dall’avere visto all’opera i missionari, non solo cattolici, nelle contrade remote dell’Oriente, delle Indie, dell’oceano Pacifico? Nulla è da escludersi. Di quelle plaghe selvagge basti sapere che, come narra Faldella, ben presto Moreno «si avvide che alcuni missionari curavano più la vita eterna che non la civiltà presente, ed altri meglio la bottega propria che il bene generale; disse: prete via, prete è sempre prete; e divenne il martello, la bestia nera dei sacerdoti di parecchie religioni; e osteggiò soprattutto i gesuiti, che con la loro pania di gentilezza operarono assai miracoli nelle missioni, rendendone conto nella loro prosa splendida ed untuosa, dal magnifico Bartoli al civettuolo Bresciani, che adesca il selvaggio Watomika». Perciò «con la sua indole procacciante, imperiosa e disturbatrice, il nostro Viaggiatore tipico finì per diventare il rompimento, il guastatore delle missioni». Troppo, davvero, per Luigi Moreno, che pure si guadagnò in vita e in morte nomea di vescovo se non liberale 141
perlomeno liberaleggiante, contrario alla non partecipazione dei cattolici alla vita politica del nuovo Stato unitario. Un conto era la politica, un altro la fede e la fedeltà alla Chiesa, che il vescovo di Ivrea sostenne senza titubanze, promuovendo tra l’altro sul suo giornale “L’Armonia”, su posizioni conservatrici, una sottoscrizione per Pio IX in esilio a Gaeta. Era stato monsignor Moreno a prenderlo sotto tutela e a farlo studiare per motivi che non sono conosciuti: la presunta miseria della famiglia, il pane che non bastava per tutti, o qualche evento, tragico e luttuoso? Sono ipotesi che possono coesistere. È pure lecito pensare che la sua pretesa adolescenza non spensierata sia stata una delle motivazioni che lo avrebbero spinto, in seguito, a battersi per fare approvare dal Congresso americano una legge contro la schiavitù dei piccoli emigrati dall’Italia. Bambini, afferma Faldella, delle «nostre Calabrie» che venivano sfruttati «facendoli cantare come uccellini, strimpellar l’arpa, gonfiar le zampogne» e accecati «come quaglie, perché possano ai canti delle vie strillare più compassionevolmente chiedendo per Dio». Il vescovo si era accorto della propensione del giovane Celso a imparare con facilità, in particolare le lingue straniere, e pensò di metterla a buon frutto. Non si sbagliava. Venne l’ora in cui Moreno assurse alla fama di grande Moreno, e i suoi occhi avrebbero conservato i venti di ogni latitudine e la salsedine infinita, la pelle sarebbe stata indurita dai soli più cocenti, la voce resa tagliente e ferma dalle tempeste della natura, degli uomini e delle donne nelle taverne di Bombay, di Rangoon, di Macao, di Singapore, di Giava. In molti, allora, nel descrivere il personaggio e le avventure non mancarono di esaltare le sue capacità linguistiche leggendarie. Il “Washington Post” gli attribuì la 142
conoscenza dell’arabo, dello spagnolo, del francese, del tedesco, dell’inglese, del portoghese, del greco moderno, in parte del cinese e del giapponese, senza dimenticare numerosi dialetti. Faldella non fu da meno: Quando egli incontra per via qualcheduno vestito in foggie esotiche, egli lo ferma, lo saluta e gli parla in qualunque siasi lingua propria a quel forestiero: in sanscrito, in arabo, in malese, in inglese, in birmano, in greco, in albanese, in siriaco, armeno, chinese, giapponese, canacaese, ecc. Non solo parla le lingue forestiere; ma le scrive; ed io ho sott’occhi un suo prezioso opuscolo pubblicato in lingua hawajana ed intitolato: ka uwea telegarapa pacifika i hapaiia e Celso Coesar Moreno, Ma Wasinetona, D.C. 1869.
Affinarsi nella lingua delle isole Hawaii, dove a causa sua sarebbe scoppiata una rivolta, non appare impresa da poco. E che non fosse un tipo comune, lo compresero tutti dai primi giorni della sua comparsa a Honolulu. Vi era sbarcato dal piroscafo cinese Ho-Chung, carico di coolie, nel novembre del 1879, con in testa progetti assortiti che contemplavano la fondazione di compagnie di navigazione, la lavorazione e il commercio dell’oppio, l’emigrazione di lavoratori dalla Cina e la realizzazione di un cavo telegrafico transoceanico fra Oriente e Stati Uniti. Ma la prima cosa che fece, c’è da scommettere, fu quella di destreggiarsi nei dialetti isolani. Nel volgere di qualche settimana tutti a Honolulu, dal re Kalakaua, che divenne suo amico e protettore, agli agenti delle potenze coloniali, che lo osteggiarono da subito, poterono constatare come quel bianco italiano dagli occhi scintillanti, che spesso veniva scambiato per uno spagnolo, fosse capace di parlare una dozzina di lingue del mondo. La lingua, innanzitutto. Doveva essere il suo chiodo fisso, il viatico necessario per riuscire negli affari, negli amori, 143
nella politica, nell’occupazione di terre vergini. Nelle isole della Sonda, a Sumatra, intorno al 1860, aveva fatto così, Faldella lo testimonia: «Egli era capitato in quelle isole come un gigante in un regno di pigmei; ma non li aveva presi a cazzotti, né messi dentro il cappello. Anzi ne imparò la lingua e i costumi; e diventò Mustafà Vizir». Ci siamo spinti troppo in avanti, dobbiamo ritornare al ragazzo e ai suoi sogni, ai trasalimenti, all’odore del mare oltre le colline. Un giorno del 1852, di un mese imprecisato, sopravvive all’oblio, all’usura del tempo, a quanto non sappiamo e non sapremo. Non è un ricordo da niente se ad averlo conservato è il grande Moreno, l’uomo al quale il re d’Italia augurò di potere sedere anche lui su un trono, laggiù nell’Oriente. È un ricordo che non ha rimosso, è sempre vivo quasi trent’anni dopo (qui siamo nel 1881), riluce in lui come l’idea di aprire un passaggio nelle Indie Orientali, fra il golfo del Bengala e il Siam, e quella di collegare l’Atlantico e il Pacifico attraverso il canale di Darien. Riaffiora per caso in uno degli incontri che ha con Faldella nei pressi di Montecitorio e nei dintorni del Quirinale, tra la sala di lettura della Camera e l’albergo Centrale, la fiaschetteria Caselli di via dell’Impresa e il caffè Cavour. Li vediamo conversare seduti nella penombra di uno di quei locali, non è importante dire quale sia. Il capitano deve avere appena finito di raccontare di quella volta, quando chiese a re Vittorio Emanuele II due navi da guerra per occupare Sumatra e cacciare gli olandesi. È un momento di pausa, stanno bevendo qualcosa: un Marsala, un rosolio, del vino di Porto o di Frascati. A un tratto l’illustre Moreno, come lo chiama Faldella, gli fa una domanda. «Avendomi domandato quale fosse il mio paese natìo», 144
lo scrittore glielo dice. Fa il nome di Saluggia, quel posto dalle parti di Vercelli in mezzo alle risaie, in una pianura allagata di cielo e di acque, interrotta a nord dal sipario colossale delle montagne. «Oh, Saluggia!», deve avere esclamato Moreno, abbozzando un sorriso vago, rammentando di esserci passato una sola volta. Aveva accompagnato suo zio vescovo, che «dopo aver data la cresima a Rondissone, s’incamminava a qualche funzione della Madonna del Palazzo». Qui Faldella fa una digressione, per dire che «Moreno era allora forse aiutante di campo del vescovo», il che, con il classico senno del poi, con la storia del testamento e della guerra ai missionari, ce la dice lunga sulla volatilità delle vocazioni umane. Ricordò che venne fuori all’improvviso un Moreno inconsueto, romantico; vennero alla luce una passione dei vent’anni, una maestrina affascinante. Già, le donne… Nell’esistenza errabonda, tumultuosa e frenetica di Moreno sembrano destinate, per quel che ne sappiamo, a recitare una parte minore, sotto tono, quasi impalpabile, inafferrabile, tanto che c’è da chiedersi come mai. La risposta potrebbe trovarsi in una vicenda piuttosto oscura della vita del grande Moreno: fu quando dovette sacrificare l’amore per salvare la vita. È il caso di narrarla ora? Forse. Si pensi pertanto a una grande isola chiamata Sumatra, nell’oceano Indiano, fra lo stretto di Malacca e lo stretto della Sonda, e a foreste smisurate, a fiumi e a paludi, a giacimenti d’oro e a vulcani. Moreno vi sbarcò che aveva poco meno di trent’anni. Non sappiamo se ci fosse già stato e a settentrione avesse già veduto luccicare i kriss di acciaio brunito infilati nei sarong degli indigeni, laggiù nei villaggi, nei kampong, dove su qualche palo conficcato nel suolo sbatteva al vento una bandiera rossa con la mezzaluna. 145
Possiamo dire soltanto che si inoltrò in quei territori, da sempre ribelli alle autorità portoghesi e poi olandesi di Batavia, e che cominciò a mercanteggiare spezie con il sultano dell’Aceh. Immaginiamo la moschea, il Missigit, e la spiaggia della peste, i meriggi roventi, le sere intorno ai fuochi prendendo con le mani il riso dalle ciotole e masticando il betel. Non lontano dai falò, dagli uomini seduti attorno, intenti ai loro lunghi racconti, ai canti monotoni, risuonano le voci squillanti delle donne giovani, e uno sguardo più lucente degli altri balena tra i chiarori rossastri per posarglisi addosso, per fondere quello sguardo con il suo sguardo. La rivide il giorno seguente. Il sultano Ibrahim gli disse che era sua figlia, la principessa Pronpuan, aggiungendo cerimonioso e invitante, con una certa malizia, che FatimaFatigia veniva considerata la più bella ragazza dell’arcipelago malese. Possiamo intuire che avesse capelli neri che la carezzavano le spalle, occhi di diamante, una pelle ambrata e un corpo flessuoso, il passo veloce e agile del leopardo. Moreno se ne innamorò? Oppure la corteggiò soprattutto per sete di denaro, con lo scopo di spuntare buoni affari con il padre di Fatima-Fatigia e di caricare sulla sua nave sacchi e casse di pepe, riso, legno di sandalo, gomma, pietre preziose, oppio? Fatto sta che fra i due le cose andarono come dovevano andare. La sedusse con discorsi mormorati e languidi, con occhiate ardenti all’ombra di alberi secolari, sotto cascate di orchidee lussureggianti, in riva a ruscelli e a laghi. Scrive Faldella che, come sapeva sapientemente fare, «fece corruscare gli occhi in un riso trafiggente prolungato, quasi selvaggio, rivelatore, un riso da soggiogare le regine tatuate di bellezza tropicale». Lei probabilmente comprese ben poco delle sue chiacchiere, ma l’amore nascente gliele tradusse in incantamen146
ti dolcissimi. Le sue occhiate fascinose, quel riso soggiogante, completarono l’opera. A Fatima il giovane prestante venuto dal mare senza confini, della razza dei forti uomini bianchi, parve un guerriero invincibile che la stava conquistando, come avrebbe conquistato il mondo e sconfitto i nemici di suo padre. Le parole furono scalzate dai baci non più timidi, il corteggiamento coronò nel matrimonio. E poi? Che cosa avvenne? Poi tutto precipitò. Ma questa è un’altra storia, una storia di olandesi, di guerra, di morte. A Saluggia dunque, quel giorno dell’anno 1852, Moreno, che lo confidò a Faldella, vide «ad un balconcino una bellissima maestrina… So dirle che era figliuola del tabaccaio di Chivasso». Ma altro non aggiunse e non chiarì se alla visione sicuramente dolce fecero seguito un gioco di sguardi e un approccio prima timido e dopo disinvolto, tali da assomigliare a un innamoramento. La visione di lei però si impigliò nella sua memoria, l’impressione fisica, la più incancellabile, si era cristallizzata. E non diversamente capitò a Faldella: Io approvai meravigliato, perché veramente nei ricordi della mia infanzia c’era come una sacra immagine l’alta, splendida, colorita maestrina, che prima mi insegnò le lettere più grosse; ma non potevo convenire che fosse figliuola del tabaccaio di Chivasso. Giunto a casa me ne informai. Era proprio così.
Il ricordo di Saluggia è una delle rare testimonianze che ci restituisce dei frammenti degli anni giovanili del grande Moreno. Molti avrebbero scritto e parlato di lui, parecchio tempo dopo, e si sarebbero sbizzarriti a descriverlo nel male e nel bene, ma nessuno volle o riuscì a fare luce sul suo passato. Lo accusarono di essere un ciarlatano 147
senza scrupoli, soprattutto per i fatti delle Hawaii, facendolo passare per un pirata, un avventuriero e una spia dei mercanti cinesi, un soldato di fortuna, un affarista scaltro e un fomentatore di rivolte in Oriente: come riportava il giornale “San Jose Mercury” sul finire del 1891, affermando che «Moreno is plotting revolution in Hawaii», e cioè che stava complottando per scatenare una rivoluzione. Altri lo lodarono senza remore, ergendolo a paladino degli indiani, dei malesi, dei nativi delle isole dei mari del Sud e dei bambini immigrati, dei pescatori, dei coloni poveri della California. Il senatore americano Charles Summer, che si batté con forza contro lo schiavismo e la segregazione nei neri, lo definì «uno degli uomini più notevoli del secolo». Ma nessuno seppe mai chi fosse stato realmente negli anni precedenti l’arrivo in America, a San Francisco, che si ipotizza sia avvenuto verso il 1868, il 1869, senza scartare qualche tempo prima. Per quanto ci è dato di sapere, ossia pochissimo, si ritiene che lo zio vescovo lo mantenne agli studi. Inizialmente frequentò la règia Accademia Navale di Genova, da cui uscì, a quanto sembra e come sostenne il “Washington Post” nel marzo del 1901, con i gradi di sottotenente di vascello. Successivamente si iscrisse all’Università, sempre a Genova, dove si sarebbe laureato in ingegneria civile. Resta un mistero come e dove avesse trovato l’occasione di veleggiare da mozzo nel cabotaggio lungo le coste mediterranee e sudamericane, o per le Indie e i mari cinesi, tra il Borneo, Giava, le Filippine, l’Australia e la Nuova Zelanda, come sarebbe emerso, sul finire del secolo, dal ritratto di Faldella. Fidarsi sempre delle sue narrazioni, di quelle fatte al pur divertito e accorto Faldella, non è consigliabile. Sebbene si fosse abbeverato (e ubriacato) alle sue storie, il ro148
manziere e giornalista di Saluggia, un paese in mezzo alle risaie vercellesi forse fatali al conte di Cavour, sapeva bene quanto Moreno riuscisse a essere anche un «avventuroso romanziere della vita». A sentire lo stesso scrittore, però, nei mari orientali avrebbe incrociato nientemeno che Giuseppe Garibaldi, e prima del 1859: quel «mio collega», quel generale Garibaldi, con il quale, rievocava il capitano, «ho fatto commercio di cabotaggio nell’India». E si favoleggia di un incontro con l’impetuoso Nino Bixio, che avrebbe avuto a sua volta in sorte Sumatra, l’Aceh e persino l’isola di Pulo Way. Esattamente l’isola che sarebbe stata rivendicata dal grande Moreno, un’isola abbracciata a una giungla nereggiante, tarlata da spiagge biancastre. I corsi e i ricorsi, gli incroci di destini in quegli angoli sperduti del mondo non impediscono di constatare quanto Moreno fosse immodesto, molto presuntuoso, arrogante. Come giudicare altrimenti, se non con la scarsa modestia e l’alta considerazione di sé, quei commenti non lusinghieri, diciamo pure offensivi, che fece su un valoroso tra i valorosi, su un eroe acclamato del Risorgimento come il generale Bixio: un lupo di mare, un garibaldino, un soldato del re d’Italia che nella rada dell’Aceh, a bordo del suo Maddaloni, avrebbe trovato la morte il 16 dicembre del 1873. Ne fa fede Faldella, che racconta: «Io domandai a Moreno, se Nino Bixio aveva raccolto il suo disegno. Moreno, con alterezza quasi sprezzante, mi disse che sì; ma che Bixio non era tagliato per condurlo ad effetto». Bixio, continuò, «non avrebbe forse potuto trovar fortuna presso i selvaggi» dell’Aceh, che «pur troppo ne violarono il sepolcro». E «brandendo un coltello da tavola», conclude Faldella, «mi diede una dimostrazione figurativa: Bixio trattando con gli indigeni pigliava il coltello per la lama; io lo prendo pel manico». 149
Quantomeno ingeneroso. Ben prima di lui Bixio aveva gettato l’ancora negli scali australiani, nelle Filippine, nei possedimenti olandesi, con la sua ship Goffredo Mameli, nell’estate del 1855. Era stato anzi il primo capitano italiano ad approdare a Melbourne. In gioventù aveva fatto naufragio o aveva tentato di disertare dalla nave su cui era imbarcato, che caricava pepe, tra i malesi dell’Aceh, ignorando che la sua vita si sarebbe spenta proprio nelle isole in cui si era lasciato ammaliare dal fascino dell’Oriente. Quell’ingenerosità, quell’acredine e quella sorta di disprezzo da parte di Moreno non nascevano dal nulla. Ci sarebbero stati dei fatti precisi, riguardanti proprio Sumatra, il sultanato dell’Aceh e le divise blu dei soldati olandesi, a causarle e a ingigantirle. Ci sarebbe stata la «guerra di civiltà contro barbarie» che Bixio avrebbe accettato di servire sotto la bandiera dell’impero dell’Aja, ma anche l’ostilità del Generale al suo progetto di dare l’isola all’Italia. Di Moreno non si hanno notizie di naufragi o di diserzioni. Né si sa quando e dove fu costretto a impugnare per la prima volta il coltello dalla parte del manico, come amava dire. Lo fece negli anni di cabotaggio per le Indie, ai tempi dell’ammutinamento dei Sepoy, su velieri genovesi o di Recco, di Camogli, di Sestri? O all’epoca in cui, più o meno nel 1852, Garibaldi comandava il brigantino Carmen nel viaggio dal Callao a Canton, trasportando guano? E su quale bastimento s’imbarcò? Avrebbe potuto essere il Singapore, un brick di 400 tonnellate che l’armatore e capitano Angelo Celle condusse attorno al 1850 per le acque della Malesia e delle Filippine. Senza scartare il brigantino Tevere, anch’esso di Bogliasco, che raggiunse in modo avventuroso le Filippine nel 1859. E tenendo presente la genovese Adelaide, al comando del capitano Stefano Chiappara, che fu la prima nave italiana a raggiungere Bangkok. 150
Salpata da Cagliari nell’aprile 1857, scaricò sale a Calcutta, stivò del riso a Bangkok con destinazione Macao, e caricò del legno di tek nuovamente a Bangkok. Rivide Genova nel 1860, sempre in aprile, dopo avere fatto il pieno di olio di ricino e di semi, di cuoia secche e di semi oleosi, nei porti di Singapore, Penang e Calcutta. Congetture plausibili, non necessariamente vere. Poco male. Per la nostra storia non è tanto essenziale avere piena ed esatta contezza della vita e dei viaggi del giovane Moreno, non è indispensabile decifrarne e rispettarne la cronologia precisa. È indubbio che avesse l’Oriente nel sangue, e che ne sapesse ascoltare e interpretare le grida e i sussurri più segreti. Al riguardo si tramanda un episodio illuminante. Lo riferisce il “Washington Post”, il 18 novembre 1895, citando una lettera inviata il 4 maggio del 1865 dal signor John A. Dix, della missione diplomatica americana a Parigi, al suo segretario di Stato. L’oggetto della missiva, conservata dal grande Moreno, era naturalmente lui stesso, all’epoca in cui aveva deciso di recarsi negli Stati Uniti. Scriveva Mr. Dix: Mr. Celso Caesar Moreno ha vissuto per molti anni nell’Estremo Oriente e dispone di informazioni che potranno essere utili al governo. Quando il senatore Doolittle del Wisconsin si trovava in Europa, ebbe modo di familiarizzare con Mr. Moreno e rimase fortemente impressionato dalla sua intelligenza e dalla sua conoscenza degli affari e degli interessi orientali. Date le circostanze, ritengo pertanto che per il dipartimento potrebbe essere non inaccettabile mettersi in contatto con lui.
Succedeva nel 1865. Per rispettare tuttavia la trama, il declinarsi del racconto, è bene fare un passo indietro e ritornare alla metà dell’Ottocento, ovvero al 1855, l’anno della Crimea. La guerra era scoppiata nel 1853 in seguito 151
all’occupazione russa dei principati danubiani della Moldavia e della Valacchia, che erano sotto la sovranità turca. Francia e Inghilterra si allearono con la Sublime Porta contro le mire espansionistiche dello zar Nicola I, le cui truppe dovettero ritirarsi nella fortezza di Sebastopoli, in Crimea. Per iniziativa di Cavour, che voleva un posto per il Piemonte nel concerto delle potenze europee, il regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II entrò nel conflitto all’inizio del 1855 al fianco degli alleati. Anche Moreno partì, probabilmente con il grosso del contingente ai comandi di Ferrero della Marmora, circa 18 000 uomini che vennero imbarcati a Genova fra la fine di aprile e i primi giorni di maggio. Possiamo supporlo nella Marina sarda, forse con i gradi di sottotenente di vascello, mentre dà il suo nome di guerra e prende posto sul ponte di una delle fregate e delle corvette in partenza per il mar Nero. Parte per costrizione, per dovere, oppure per onore, per caso. Non è questo ciò che conta. Semmai s’insinua una suggestione, non è da scartare un’altra possibilità: che Moreno s’avventuri in Crimea con i bastimenti liguri, di Genova, di Chiavari, di Moneglia, di Lerici, che non si lasciano sfuggire i traffici aperti dalla guerra. Uno di questi era il Rosario di capitan Giuseppe Vallaro, che trasportava artiglierie e salmerie da Marsiglia a Sebastopoli. La regina Vittoria lo decorò per avere approvvigionato, tra numerosi rischi e pericoli, un presidio inglese sulla costa russa. Nel mar di Marmara diede soccorso ai naufraghi della nave francese Saint-Pierre e si guadagnò una medaglia d’argento anche da Napoleone III (e, guarda caso, capiterà lo stesso al grande Moreno nel golfo del Tonchino: ancora un naufragio, una nave francese, un salvataggio, e forse una Legion d’Onore). 152
Salpò con il suo bastimento. La navigazione fu disturbata da qualche burrasca fra la Corsica e la Sardegna, poi il tempo volse al bello e il viaggio proseguì senza intoppi per Malta, la Morea, oltre il capo Matapan e lo stretto dei Dardanelli fortificati. Gettarono l’ancora a Costantinopoli, l’ultima sosta prima di entrare nel Bosforo e di far vela in direzione della baia di Balaclava, dove, al loro arrivo, avrebbero sentito il rimbombo incessante dei cannoni di Sebastopoli. Ebbe giornate bruciate, di caldo torrido, e notti fredde, devastate dagli insetti che avevano invaso gli attendamenti. Vedeva la morte per acqua e per colera, per sfinimento, per palle e per sciabolate nemiche. Sulle coste della Crimea, intanto, le cannoniere della flotta alleata bombardavano i magazzini di rifornimento dei russi, e le truppe sardo-piemontesi si stavano preparando ai combattimenti della Cernaia. Non è chiaro quando Moreno venne ferito. Per il solito “Washington Post”, che tante pagine gli avrebbe dedicato sia per celebrarne la fama sia per riesumarlo infine dall’oblio, «prese parte a uno scontro fra le forze russe e un distaccamento di una nave da guerra italiana, e fu colpito al collo». Una ferita che gli avrebbe lasciato come postumi un tremolio leggero alla testa, «ben visibile anche in quel suo portamento notevole», nella sua figura definita impressionante. La sua guerra era finita. Se non altro, quella guerra. Come dice Faldella, aveva dato il suo apporto nel «combattere le prime guerre nazionali» e questo poteva essere sufficiente. Rimpatriato con altri feriti ritornò a Genova, e vi trascorse qualche settimana di convalescenza. Nelle mattinate di tempo buono passeggiava per il porto e per i carruggi, 153
passava per Prè, per la Maddalena, per piazza Embriaci, sostando al Molo Vecchio, alla Siberia, alla Borsa del Grano. Per citare le parole di un testimone d’allora, «il porto di Genova sembrava una selva d’antenne. Era un continuo attivare e partire di barchi, un intenso scaricare di merci. Banchi brulicava di sensali, di marinai, di cambiavalute, di mercatanti levantini, di maltesi, di spagnuoli». I commercianti del Porto Franco «in palamidone e cilindro non disdegnavano fermarsi in “Piazza” a contrattare di persona le partite di caffè, di spezierie e di grano e a discutere personalmente i noli con i Capitani Armatori». Fu in quei giorni, dentro quel brulichio. Moreno sentì di nuovo il destino nell’odore del mare. L’isola, immensa, si perdeva al di là delle coste ora basse e ora dirupanti, delle mangrovie, delle palme, nell’intrico della foresta tropicale avvinghiata alle grandi montagne soffocate da nebbie. Oltre i monti, i vulcani, si addensavano fiumi, laghi, paludi, pianure, piantagioni, e oro, perle, diamanti, miniere di stagno e di carbone, zucchero, caffè, cannella, vaniglia, banani, canfora, scimmie, oranghi, leopardi, tigri, pappagalli. Erano i luoghi selvaggi che messer Marco Polo aveva descritto abbondanti di «cose preziose e di spezie pregiate», con alberi che «nel punto in cui si taglia un ramo, gocciolano, e quel liquido è vino» ed «elefanti molto selvatici e unicorni che non lo sono meno», «indovini e maghi che praticano le arti del diavolo», abitanti delle montagne che «sono come gli animali, mangiano carne umana e di qualsiasi altra bestia buona e cattiva». Ascoltandolo, il re si era messo a sognare a occhi aperti, gli parve a un tratto di trovarsi anche lui sull’isola favolosa, a cavallo della linea dell’Equatore, e di farsi largo con 154
la sciabola tra il folto dell’ebano, del bambù, del tek, intuendo negli spiragli di luce tra alberi e liane il cielo di un azzurro stupefacente, perfetto. Sognava Vittorio Emanuele II in un mattino o in un pomeriggio di un giorno dell’anno 1866, nella sala delle carte geografiche della villa della Petraia, sulle colline di Firenze, mentre il capitano Moreno non cessava di descrivere, di enumerare, di decantare. «Ascolti, Maestà!» E il re lo stava a sentire in un crescendo di emozioni, di visioni di un futuro che gli pareva imminente. La voce, accattivante, evocatrice, adesso gli rivelava che «l’isola di Sumatra ha nell’estremo Oriente la stessa importanza che ha l’isola di Cuba nei mari d’Occidente» e che «Sumatra è l’isola delle droghe; è famosa pel commercio del pepe buono, fin dai tempi del Sassetti; produce un prodigio di cose: zucchero, caffè, vaniglia, cannella, noce moscata, garofani, oppio, riso, ananassi, patate dolci, banane di ottima qualità, frutti del paese, pomi di Adamo». E per possedere tutto quel ben di Dio, proseguiva, persino quei «cervi e daini, più alti e più svelti che gli stambecchi reali della Valle di Aosta», occorreva soltanto fidarsi di lui, del capitano Celso Cesare Moreno: «Senta Sire. Solo l’egregio mio suocero, il Sultano di Achin, che mi diede l’espresso incarico di impetrare amicizia e protezione della Maestà vostra, solo mio suocero porta alle narici e ai piedi certi anelli di oro massiccio, con certi diamanti grossi come uova di struzzo, ciascuno dei quali vale più di un milione». Sarebbero stati sufficienti «due bastimenti da guerra», in buona sostanza, «per la conquista italiana di Sumatra» e per mettere fine al dominio olandese. Ora non possiamo sapere se Moreno avesse già in mente l’occupazione di Sumatra all’epoca del suo primo sbarco, sempre che quella fosse stata davvero la prima volta. 155
La raggiunse – si presume – verso il 1861 o il 1862, forse nella stagione di calura secca, anche se non si può escludere che la sua goletta o il suo brigantino avesse avvistato il litorale dell’isola, le mangrovie e le catene montuose, durante le grandi piogge, i monsoni. Restiamo a quanto ci è noto o, perlomeno, a quanto sostiene il “Washington Post”: ossia che Moreno, qualche mese dopo il rimpatrio dalla Crimea e la possibile laurea in ingegneria civile, «allorché gli parve di possedere abbastanza denaro, comprò un mercantile di cui divenne capitano». Si diede al commercio tra Genova, il Mediterraneo e le coste dell’India e di Singapore, e «cominciò la sua meravigliosa carriera di potere e di declino sposando la figlia del sultano» dell’Aceh, la provincia nordorientale dell’isola. Come attesta Faldella, ricordando che «navigò poi di nuovo e sbarcò a Sumatra, baldo, smagliante di virilità. Divenne genero di quel sultano, e ne capitanò il selvaggio esercito come un cavallerizzo imperniato guida i cavalli roteanti nel circo». Quel giorno a Firenze, a colloquio con il re, si dilungò sulla questione di Sumatra. Era uno dei suoi argomenti prediletti, che più avanti avrebbe spartito con le vicende politiche delle Hawaii, dove sarebbe stato ministro degli Esteri, sotto re Kalakaua, per cinque giorni, e con il progetto di posare un cavo telegrafico sottomarino fra America e Cina, le idee per i tagli di canali e istmi. E non risparmiò al sovrano le invettive consuete all’indirizzo degli olandesi. Tanto che Faldella scrive che gli pare di vederlo «fantasma di rupe, ritto sul lido, colle braccia incrociate, la frusta serrata al petto, guatare cruccioso l’orda dei cannibali correnti colle fasce alla cintola e le pale in mano», e maledire Batavia, l’Olanda intera e quanto aveva combinato la Compagnia olandese delle Indie Orientali, che peraltro era stata sciolta da un bel po’ di anni. 156
Ce l’aveva con l’Olanda e ovviamente con l’Inghilterra, la regina dei mari, il grande impero coloniale, i cui interessi aveva più volte minacciato in India, nell’arcipelago malese e, si dice, pure in Cina, durante la rivolta contadina dei Taiping. Sempre al re Vittorio Emanuele, nel loro incontro alla Petraia, il grande Moreno aveva spiegato che «anche gli inglesi sono veduti come il fumo negli occhi», laggiù in Estremo Oriente, ricordandogli che «i loro vassalletti dell’India non domandano di meglio che trovare un punto di appoggio per sollevarsi... Io sono amico personale di quei regoli assoggettati di mala voglia all’Inghilterra. Lo domandi al mio collega, il generale Garibaldi, con cui ho fatto il commercio di cabotaggio nell’India, prima del 1859, prima che la Maestà Vostra e Cavour lo richiamassero a fare l’Italia». E aveva aggiunto, vantandosi e incensandosi, dato che gli riusciva benissimo: «Io girerò fra quei principi indiani come un Pietro l’Eremita». Se la leggenda non è tale, se è verità come sembra, dobbiamo presumere che avesse conosciuto bene quei rajah, quei peswah e quei discendenti dei Moghul fra il 1857 e il 1858, quando ad Agra, a Delhi, a Kanpur e nell’Oudh si consumò la ribellione dei reggimenti indiani dei Sepoy contro le truppe inglesi e quelle della Compagnia britannica delle Indie Orientali. Fucilazioni di massa e massacri scandirono la rivolta indiana capeggiata da Nana Sahib, figlio adottivo dell’ultimo peswah, il sovrano ereditario. La reazione britannica non si fece attendere. Fu spaventosa, una vera carneficina, soprattutto in seguito alla strage di prigionieri inglesi che era stata perpetrata dagli uomini di Nana Sahib il 15 luglio del 1857 a Kanpur. Di Nana Sahib si perdettero le tracce, fu ucciso oppure morì di malattia dalle parti del Nepal, qualche tempo 157
dopo la controffensiva delle truppe della regina Vittoria che riconquistarono Delhi e le altre città del nord dove si erano sollevate le guarnigioni dei Sepoy. I cadaveri seppellirono i cadaveri, oltre 120 000 indiani vennero trucidati, anche se i combattimenti continuarono ancora per diversi mesi, quando Lucknow era già caduta. Sono vicende conosciute, così come è noto che la Compagnia delle Indie, il cui operato era stato tra le cause dell’ammutinamento dei suoi soldati dei reggimenti indiani, cessò di esistere di lì a poco. Ma tutto ciò che cosa c’entra con il mappamondo che troneggiava nel salotto in cui il sovrano lo aveva ricevuto? E poi: l’odio antinglese scaturiva davvero dall’avere combattuto con Nana Sahib? È possibile? Potrebbero testimoniarlo anche i riferimenti ai «principi indiani», tra i quali avrebbe voluto aggirarsi da crociato e da predicatore. E un po’ crociato, un po’ predicatore doveva esserlo stato mettendosi al fianco di gente quale Nana Sahib e Bahadur Shah II, il vecchio imperatore Moghul che gli insorti avevano proclamato loro capo. Ma sì: al re, davanti a quel mappamondo, parlò quasi certamente dell’India, pur rendendosi conto dell’amicizia italiana per l’Inghilterra, dell’aiuto che questa stava fornendo all’avventura risorgimentale e ai disegni di casa Savoia. E fu per questo motivo che, con ogni probabilità, omise di dirgli di essere stato un volontario nell’armata di Hong Xiuquan, il capo della rivolta dei Taiping contro la dinastia Qing, e magari evitò anche di parlargli di quanto era successo a Calcutta, dove il console onorario del re di Sardegna lo aveva descritto come un avventuriero frequentatore di bordelli, arrivando ad accusarlo di spacciarsi, senza esserlo, nipote del vescovo di Ivrea. In ogni caso il Grande Gioco era molto più importante di quei peccati di gioventù. Dai deserti dell’Asia centra158
le alla Persia, all’Afghanistan, a Calcutta, era tutt’altro che concluso e sconfinava ora nell’Indocina, in Estremo Oriente. Moreno voleva puntare le sue carte, invitando al tavolo il nuovo regno d’Italia. Era quest’offerta che aveva fatto a Vittorio Emanuele; era quella frenesia di agire, di appartenere alla razza dei giocatori, che lo aveva condotto nelle Indie e lo avrebbe portato nei mari del Sud. L’affare di Sumatra non andò a buon fine, ma non si accusi il re d’Italia del fallimento. Se la decisione fosse spettata soltanto a Vittorio Emanuele, tutto sarebbe filato liscio. Congedandolo, quella volta, «con teatralità soddisfatta», gli disse più o meno testualmente: «Spero che combineremo qualche cosa e che aiuteremo anche te, Moreno, figliuolo del contadino di Dogliani, a diventare re anche te. Tuo suocero lo faremo papa. Gli lasceremo il potere spirituale a Sumatra. Ma quel trono d’oro andremo a pigliarglielo». Il re ci sarebbe stato a veleggiare per i mari malesi, sulla via del pepe e dell’oro, tra quegli scogli e quegli approdi di pirati, e a farvi sventolare il vessillo tricolore e sabaudo. Le lusinghe del capitano lo avevano pressoché convinto, al pari suo pensava ormai a Sumatra come a «una colonia fertilissima per l’Italia, uno sfogo per gli spostati delle nostre scuole secondarie, uno sbocco pel nostro commercio, un porto di rilascio e di richiamo per la nostra marina da guerra e per la nostra marina mercantile, un punto strategico nei mari dell’Indo-Cina, un punto strategico, da cui nel volgere di pochi anni potremo librarci su tutto il continente di Asia e sulle isole adiacenti». Furono altri a ostacolare, gente gretta e meschina, invidiosa, e a sollevare dubbi su Moreno, a metterlo in cattiva luce e a dipingerlo venditore di fumo e imbroglione, impedendo così di aiutare Ibrahim a liberarsi dal giogo olan159
dese e di conservare infine la piena indipendenza del sultanato dell’Aceh. Contro il progetto di sbarcare a Sumatra si schierarono ministri, consiglieri, diplomatici, militari; e tra questi Nino Bixio in persona. Nel 1867 fu istituita al ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio una commissione con lo scopo di valutare la proposta di Moreno di allearsi con il sultano Ibrahim. A farne parte chiamarono anche Bixio. Come racconta Faldella, furono «le gelide fedine diplomatiche di Visconti-Venosta», il ministro degli Esteri, che «annebbiarono l’ardito disegno». Moreno «venne tenuto parecchio tempo in ponte. Finalmente egli domandò un sì o un no. Fu grato per tutta la vita a quel ministro che gli recò una soluzione, benché fosse del no». «Il bello, anzi il brutto si fu che per prendere la risoluzione del no, il nostro ministro degli Esteri aveva domandato ingenuamente per mezzo del nostro ambasciatore al governo olandese, se questo era contento che l’Italia occupasse parte di Sumatra: come a dire, un amante che domanda il permesso a un geloso rivale per avere un abboccamento possessorio colla sua bella. Il rivale si affretta ad attraversargli la strada. Così fece l’Olanda, che svegliata e rianimata dall’ingenuità italiana, compì la conquista di Sumatra nel 1873 e nel 1874, senza spaurirsi dei vulcani». Il fatto assodato, inequivocabile, è che Ibrahim rimase a mani vuote, non ottenendo né l’alleanza con l’Italia né quella con la Francia di Napoleone III e con gli Stati Uniti, peraltro caldeggiate dal grande Moreno. E Vittorio Emanuele II perse l’occasione di conquistarsi un bel posto al sole. A Moreno non restò altro da fare che ripartire. Forse per San Francisco e in seguito per la Francia, di nuovo per l’Oriente, incurante di ciò che già si diceva e che si sarebbe detto di lui. I suoi piani su Sumatra, sulle 160
Hawaii, sarebbero stati poi ridicolizzati e sviliti persino in qualche libro, in qualche opuscolo, pubblicati però quando il grande Moreno era vecchio e dopo la sua morte. Si sarebbe detto, tra l’altro, che «un avventuriero italiano, certo Celso Cesare Moreno [...], sposando non poche principesse indigene dell’isola aveva creduto di acquistarvi dei diritti di sovranità, che avrebbe ceduto al governo italiano, progetto che veniva sepolto sotto il parere contrario di un’apposita commissione ministeriale». E si sarebbe scritto, a proposito degli «spiriti irrequieti, i giramondo per avventura», che «chi fra essi non ha la forza d’emergere per qualità di carattere al rango di vero e proprio pioniere va a finire nel giro degli imbroglioni e dei venditori di fumo come quel Celso Cesare Moreno». Imbroglione? Venditore di fumo? Non esattamente. Intanto era un uomo che aveva del fegato. Non aveva esitato a prendere le armi nella guerra all’Olanda e a rischiare la pelle in India, come aveva fatto ai tempi di Nana Sahib. E prima ancora, si presume fra il 1860 e il 1862, si era trovato a combattere in Cina al fianco dei Taiping e di Hong Xiuquan, l’uomo che sosteneva di essere il fratello minore di Gesù e che predicava la comunanza delle terre e di ogni bene. Amava le cause perse, questo è vero, e coltivava sogni impossibili. Ma la sua ostinazione per Sumatra non era il vagheggiamento di un ciarlatano. Non possiamo affermare inequivocabilmente che il viaggio celeberrimo da quelle parti, tra lo stretto di Malesia, il Borneo, le Filippine, il Siam e la Birmania, della regia corvetta Principessa Clotilde, agli ordini del capitano Carlo Alberto Racchia, fosse la conseguenza di quei colloqui fiorentini. Tuttavia Racchia salpò intorno al 1868, dunque quando dei progetti di Moreno si discuteva ancora diffusamente. E d’altronde il medesimo 161
comandante della Principessa Clotilde, stando a certe corrispondenze diplomatiche, avrebbe tramato per sobillare gli indigeni contro gli olandesi. Esattamente come Moreno aveva fatto e come aveva suggerito di fare a re Vittorio. Non è chiaro quando il grande Moreno si mise a capo delle truppe e delle navi di Ibrahim, di quei praho più rapidi del fulmine. Secondo qualcuno, che pare degno di fede, il sultano lo incaricò intorno al 1862 di negoziare inizialmente con la Francia un trattato difensivo, in funzione antiolandese. Arrivò nell’Aceh dopo la repressione spaventosa della rivoluzione dei Taiping e quei venti milioni di morti? È plausibile. Anche se non è da escludere, dopo la fuga dalla Cina, un suo tentativo di creare uno Stato indipendente di coolie nell’arcipelago malese controllato dai britannici; se così fosse stato, questo avrebbe cementato nei suoi confronti l’odio della corona e il conseguente ordine di farlo fuori, ovunque si trovasse, alla stregua di un cane rabbioso. Al solito la leggenda insegue la storia, il romanzo tracima nella biografia. Tuttavia pare sicuro che a Sumatra si diede da fare per convincere Napoleone III a fornire dei piroscafi e dei cannoni per soccorrere il sultano amico e suocero. Non se ne fece niente, tanto che, a un certo punto, volle rompere gli indugi senza attendere i rinforzi dall’Europa o dall’America. Il “Washington Post” avrebbe raccontato nel 1901 che «la sua naturale inclinazione per le rivolte e per le avventure lo spinsero a incitare i nativi a ribellarsi agli olandesi», sfruttando a questo scopo l’influenza che la principessa Fatima-Fatigia aveva sul suo popolo e su suo padre. La sollevazione assunse tali dimensioni che le autorità di Batavia inviarono tra gli stretti di Malacca e della Sonda alcune fregate e qualche guarnigione bene armata per soffocare subito l’insurrezione, e possibilmente per mettere il grande Moreno nelle condizioni di non nuocere. 162
La guerra altalenò, visse fasi incerte, insanguinò a lungo l’estrema punta nordorientale di Sumatra, in quell’Aceh il cui nome vuole dire, pensa un po’, «soggiorno della pace». Solamente all’inizio del Novecento il colonnello Van Daalen ebbe modo di battere le forze indigene, mettendo a ferro e a fuoco centinaia di kampong e uccidendo donne, bambini, vecchi. Nel 1873 le truppe coloniali avevano cercato di impadronirsi del palazzo del sultano, ma vennero sconfitte duramente. Il comandante degli olandesi, il generale Koehler, morì davanti al Missigit in fiamme, colpito da una pallottola o da una freccia. Così sarebbe avvenuto negli anni a seguire, senza tregua, un eccidio dopo l’altro. Moreno, in verità, diede due versioni del ruolo avuto nei combattimenti, che potrebbero riguardare due periodi differenti: uno antecedente all’incontro con Vittorio Emanuele, l’altro risalente a un momento successivo. Faldella riferisce di un Moreno che, all’indomani del matrimonio con Fatima-Fatigia, «per rimeritare gli atchinesi, li difese dalle palle olandesi, poi disse al suocero: “Per questa volta l’abbiamo scampata bella. Ma per un’altra volta non vi guarentisco più nulla; imperocché io solo non sarò più sufficiente a liberarvi dalle molestie. Ci vorrebbe il braccio forte del mio Re”». Il secondo Moreno, per così dire, è quello che al medesimo scrittore fa annotare: «Raccontasi che egli comandò i selvaggi Atchinesi in una battaglia di indipendenza contro gli olandesi, e la perdette». È il Moreno che a Singapore tenta di indurre gli ambasciatori di Turchia, d’America, di Francia e d’Italia a sborsare denaro e a sbarcare casse di fucili e di munizioni? O il Moreno che ha nascosto nella giubba, cucite in una tasca, due lettere di Napoleone III dirette a Ibrahim? (Anni dopo, già negli Stati Uniti, il capitano di Dogliani avrebbe confidato 163
a dei conoscenti come il sultano gli avesse dato da tradurre quelle due missive provenienti dalla Francia). Venne il giorno in cui dovette fuggire, abbandonare Kraton, la fortezza di kampong sul fiume, nascosta nella giungla, che soltanto pochissimi uomini bianchi avevano potuto raggiungere. Si sarebbe detto di una taglia sulla sua testa messa dagli olandesi, e che avrebbero dovuto prenderlo vivo o morto, ma possibilmente morto. La guardò, immensa, rimpicciolire nel vento, tra le foschie, nei tremolii di luce sul mare. Trattennero il suo sguardo i contorni sfocati e le linee vaghe delle coste grigie, delle macchie della foresta, delle montagne. Sumatra ora assomigliava all’isolotto che gli antichi viaggiatori e naviganti portoghesi avevano chiamato dell’Inganno, dove donne bellissime seducevano i marinai per darli in pasto ai cannibali. A bassa voce, mentre il vapore francese lasciava la rada e prendeva il mare aperto, mormorò un ultimo saluto a Fatima-Fatigia. Ne ripeté il suo nome. La pensò sulla spiaggia della peste, la moschea sullo sfondo, l’acquazzone tropicale che stava per cominciare. Non l’avrebbe più rivista? N’era perfettamente cosciente? Le sue parole slabbrate, le domande mute, morirono nello stridio degli uccelli migranti. Riapparve. All’inizio in America? O in Europa? E dal vecchio continente da quanti anni mancava? Al Cairo, nel frattempo, aveva saputo che l’Italia si era allargata e allungata, e che adesso il regno cominciava sulle Alpi e finiva quasi in Africa. Pensò a quel sovrano piemontese come lui, che amava le donne e la caccia sulle colline delle sue Langhe, e che si era fatto le ossa in Crimea, sulle vie della seta e dell’Asia, laddove si giocava una delle partite del 164
Grande Gioco. Gli avrebbe chiesto udienza, si sarebbe presentato a lui con le credenziali di Ibrahim per parlargli di Sumatra, delle sue ricchezze inaudite, delle isole abitate da fanciulle splendenti, e per fargli annusare l’odore dei mari indonesiani, malesi, della Cina, del Giappone. Avrebbe esclamato, come esclamò con Faldella: «Avanti Savoia! Sumatra per positura geografica domina al Nord-Est tutto lo stretto di Malacca, e al Sud quello della Sonda: quanto dire, Maestà, i soli due passaggi, per cui dall’Oceano indiano si penetra nel golfo di Siam, e nei mari della Cocincina, della China, della Corea e del Giappone. Gli Atchinesi anelano di perdere una buona volta la maledetta prospettiva di essere ingoiati dagli olandesi». Avrebbe detto. E disse invano, non creduto se non da pochissimi come lo stesso re, almeno all’inizio, e come Ricasoli, Menabrea, Correnti, Depretis, che però non poterono più di tanto o non vollero farlo. Come dice Faldella, «non avendo potuto ottenere il suo intento, ritornò a dar battaglia agli olandesi». Riprese a viaggiare per il mondo. Raggiunse la Francia, fu a Parigi nell’autunno del 1867. Il suo arrivo non passò inosservato; la Francia, del resto, gli doveva qualcosa. Colse l’occasione: sottopose il suo progetto all’imperatore. Il “Washington Post” avrebbe scritto che «Napoleone III lo ricevette con molta cordialità, anche perché, mentre si trovava a Sumatra, Moreno aveva salvato eroicamente dal naufragio diversi passeggeri di un vascello francese. E, per questo motivo, gli conferì la medaglia della Legion d’Onore». Ma l’imperatore, come Vittorio Emanuele II, si mostrò cauto rispetto alla rottura degli equilibri coloniali a Sumatra, in Indonesia, sulle coste malesi, dove gli olandesi si erano insediati da tempo. Un conto era valutare la possibilità di inserirsi nel gioco, un altro giocare subito allo scoperto. 165
Decise di attendere, di temporeggiare, approfittando della popolarità che si era guadagnato sui giornali di Parigi. L’autorevole “Le Siècle”, in ottobre, gli dedicò un articolo che attirò l’attenzione dei diplomatici delle varie legazioni presenti nella capitale. Soprattutto gli inglesi lo tenevano d’occhio, e appuntarono nei loro diari che quell’uomo, quel piemontese, fin da giovane aveva sempre odiato il loro Paese. Non avevano torto, perlomeno sul fatto che l’Inghilterra non gli piacesse e non gli sarebbe mai piaciuta. Ancora nel 1891, in un articolo inviato ai concittadini della “Gazzetta di Dogliani”, a proposito della «questione delle isole Sandwich», cioè delle Hawaii, disse che «fin dall’anno 1879 le isole di Hawaii furono il campo aperto degli intrighi della rapace Inghilterra» e di come lui «ebbe l’opportunità di tutto sapere e quindi svegliai dalla letargia il re Kalakaua e il popolo di tutte le isole, che sono l’Eden di tutto il Pacifico, facendolo considerare seriamente il pericolo che li sovrastava e invitandoli a premunirsi di esso; ma quei popoli non hanno né fermezza di carattere, né la forza di una permanente volontà e permisero che tale pericolo prendesse vaste proporzioni e si approssimasse alla realizzazione». L’articolo, in verità, era il testo di un discorso che, recitava il giornale di Dogliani, «l’egregio nostro concittadino capitano C.C. Moreno ci ha mandato da Washington», ovvero «una copia tradotta in italiano del discorso da lui diretto al presidente Harrison, quando fu ufficialmente ricevuto alla Casa Bianca la mattina del 17 settembre scorso». Discorso mediante il quale lui, il capitano C.C. Moreno, invitava il presidente americano Beniamino Harrison, nonché il premier Blaine e il ministro della Marina Tracy, a inviare laggiù «una forte squadra di navi da guerra degli Stati Uniti con ordini precisi ai comandanti di impedire 166
anche colla forza ogni intrigo, tentativo di sbarco o occupazione per parte delle navi da guerra inglesi nelle isole di Hawaii, nelle isole dei Navigatori (Samoan), nelle isole Marshall e nelle isole Gilbert». In caso contrario, ammoniva, «gli Stati Uniti si troveranno in un prossimo avvenire di fronte a tali eventi pei quali li dovrà combattere o accettarli come fatti compiuti a esclusivo beneficio dell’Inghilterra, alla perdita dell’indipendenza territoriale degli isolani indigeni ed a detrimento del prestigio e degli interessi d’America». Il più danneggiato di tutti sarebbe stato proprio lui, il grande Moreno, «pel motivo che il governo inglese non riconoscerà la legge dell’u.s. congresso passata il 15 agosto 1876, la quale dà a me e ai miei associati il diritto e il Charter di posare il cavo sottomarino attraverso l’Oceano pacifico [sic], tra le coste occidentali degli Stati Uniti, le isole Hawaii, il Giappone, la Corea, la China e Siam, della totale lunghezza di 7845 miglia geografiche, come pure non riconoscerà la legge del Parlamento hawaiiano del luglio 1880, né accorderà il sussidio governativo per tale mio progetto, il quale è la maggiore possibilità del presente come sarà il più gran fatto dell’avvenire, stante che compirà l’ultimo tronco voluto per allacciare l’intiera circonferenza del Globo con cordoni elettrici». Detestava gli inglesi, come sappiamo benissimo, e per ragioni più che comprensibili, che non riguardavano solo la politica estera e coloniale bensì la sua stessa sicurezza personale, la sua pellaccia, insomma. E amava occupare o fare occupare le isole dell’Oriente estremo, dell’oceano Indiano, dei mari del Sud, dalle navi da guerra di nazioni amiche. Ma intanto dobbiamo ritornare nell’autunno del 1867, quando a Parigi riemersero fatti e aneddoti curiosi ed esotici, spesso inventati e tuttavia assai affascinanti e misteriosi. 167
Vennero fuori episodi oscuri, controversi e tenebrosi. Si seppe che a Kanpur, nei mesi della rivolta indiana, aveva ucciso un ufficiale inglese con una rivoltellata. Il fatto venne romanzato, forse ritoccato in abbondanza. Si disse che l’ufficiale lo aveva aggredito, sfiorandogli la testa con una sciabolata, e allora Moreno lo fece secco con un colpo solo, citando nientemeno che il Riccardo III di William Shakespeare, quel «dispera e muori!» famoso. Verità e fantasie si intrecciarono in un groviglio inestricabile quanto una giungla del delta del Gange, o una foresta del Borneo. Il capitano lasciava correre sulle voci, a volte era lui stesso a fabbricarle ad arte. Perciò ci si domanda se nelle sue storie sia possibile distinguere il vero dal falso, e se vi siano dei confini fra la realtà e l’invenzione. O se i suoi racconti possano essere accreditabili nel senso indicato da Marco Polo per le sue meraviglie: «Tuttavia vi sono cose che egli non vide, ma udì da persone degne di fede, pertanto le cose viste dirà di averle viste, le cose udite di averle udite, affinché il nostro libro sia veritiero e privo di menzogne d’alcun genere». Con il capitano invece è impossibile stabilire distinzioni. In realtà tutto è possibile, ogni domanda è consentita, ogni dubbio auspicabile. Tanto per dire: all’indomani della sconfitta di Nana Sahib e dell’ammutinamento indiano sbarcò nell’arcipelago malese per sobillare i coolie cinesi? Oppure si rifugiò a Singapore, dove alcuni marinai malesi gli parlarono di un’isola favolosa con fiumi d’oro e miniere di diamanti? Ed era stato lui ad armare un bastimento da carico per approdare con i malesi in quell’Eldorado? I giornali francesi ci credettero. Scrissero che alla fine aveva trovato l’isola, praticamente disabitata ad eccezione di qualche tribù di indigeni ai quali Moreno era apparso come Hernán Cortés agli Aztechi. Dissero così: che il grande 168
Moreno venne accolto come Montezuma e il suo popolo avevano accolto inizialmente il conquistatore spagnolo che aveva fatto bruciare le sue navi. E che senza la necessità dei segni premonitori d’antiche leggende, senza scomodare le divinità locali e senza bisogno di nessun Quetzalcoatl, entrò nelle grazie del capo di quegli indigeni, sposando due o tre delle sue figlie. Era Sumatra l’isola con i villaggi di palafitte costruite con legno di palma? Sembra probabile. Ma i francesi non la nominarono, restando nel vago, nella favola. Preferirono ricordare come Moreno l’avesse esplorata, tracciando una mappa dei suoi tesori. Non è detto che fosse davvero Sumatra, sebbene vi assomigliasse e come parrebbero dimostrare alcune circostanze: il matrimonio con Fatima-Fatigia, soprattutto; oppure, se si vuole, i supposti sposalizi con innumerevoli principesse musulmane. Potrebbe trattarsi di un altro posto non lontano, per esempio di Pulo Way, chiamata anche Pulau Weh o Pulo We. Una piccola isola vulcanica, nel mar delle Andamane, davanti alle coste dell’Aceh, che Moreno cercò di vendere agli Stati Uniti, senza troppa fortuna, e che avrebbe preteso di riavere invano nei giorni della sua incredibile detenzione nella prigione di Washington in cui avrebbe trascorso qualche mese, scontando così la condanna per avere diffamato il barone Fava, ambasciatore d’Italia. Pulo Way. L’Eldorado di cui avevano fantasticato i francesi? Lo scrigno dell’oro e delle pietre preziose? O solamente la «nereggiante macchia di giungla orlata da una spiaggia bianca», come scriveva il bravo Mino Milani nel suo libro su Bixio, che gli uomini del generale genovese avevano perlustrato poco prima che il generale morisse di colera sul Maddaloni? Quella Pulo Way, quella guerra nell’Aceh, e quel Bixio che aveva scelto per denaro e per glo169
ria di trasportare sulla sua nave le truppe olandesi intenzionate a occupare il sultanato? Comunque Pulo Way, l’isola del grande Moreno. L’isola che gli avevano rubato. Dovette fare letteralmente un balzo, nella sua cella o nella grande rotonda del carcere della città di Washington, quella mattina di dicembre del 1895. Il giornale che aveva nelle mani cascò a terra. E la rabbia, una rabbia impotente e oltremodo rabbiosa, gli eruppe dentro con la violenza dell’eruzione di uno dei vulcani di Sumatra. Una rabbia giustificata, onestamente. Aveva appena letto in un dispaccio da San Pietroburgo che i russi stavano per appropriarsi di un’isola sulla costa settentrionale di Sumatra, con lo scopo di farne una stazione di rifornimento di carbone per i piroscafi sulle rotte dell’oceano Indiano. La decisione era stata causata dal fatto che, fino a quel momento, le navi dello zar avevano dovuto approvvigionarsi nelle stazioni britanniche e giapponesi. Oltretutto l’isola, che disponeva di un buon ancoraggio, poteva diventare il punto di raccolta del carbone estratto nelle miniere di Sumatra. L’isola. L’isola che sulle carte nautiche era indicata come Pulo Way. La rabbia gli sbollì, riprese fiato, gli arrossamenti delle guance si attenuarono e scomparvero. Prese un foglio e la sua penna. Non ci mise troppo tempo per preparare una lettera da inviare al fidato “Washington Post”. Scrisse precisamente queste cose: Ho scoperto l’isola di Pulv [sic] Way nel giugno del 1863. L’ho offerta in vendita agli Stati Uniti per 750 000 dollari. E, a questo proposito, ho in mio possesso la copia di un memoriale inviato al Congresso in data 11 giugno 1868. Se il “Post” la vuole, gliela posso fornire.
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Il giornale richiese il memoriale? Diciamo pure che forse nessuno si preoccupò mai di saperlo. Ma c’è una certezza assoluta: il grande Moreno non riuscì a riavere la sua isola. Nel 1878 sarebbero morti Vittorio Emanuele II e papa Pio IX. Garibaldi se ne sarebbe andato nel 1882, al termine di una vecchiaia non certamente felice, mentre Mazzini, in miseria, avrebbe chiuso gli occhi nel 1872, un anno prima di Bixio, tormentato a sua volta dalla mancanza di denaro. Moreno morì a Washington, nel 1901. Anche lui senza un dollaro in tasca.
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Mayer & Pierson, Ritratto dell’illustre statista Camillo Benso conte di Cavour, 1855 ca. (Firenze, Raccolte Museali Fratelli Alinari).
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Il re, il poeta e il Tessitore
Si canta di cavalieri, d’armi e d’amori. Si dà conto del re Vittorio e del perfido Cavour, oltreché del poeta Angelo Brofferio. La scena se la prende il paese di Roccaverano, assai turrito e ventoso, e ricompare l’ombra di una lettera rubata. Ballerine e popolane, castelli e castellani, dalle Langhe a Valdieri completano il racconto.
Spadroneggiavano, un tempo, i marchesi del Carretto, gli Scarampi, i Valperga, gli Scaglia, i della Rovere e i Gozani. Ratificando il trattato di Munster e mettendo fine alla guerra dei Trent’anni, nel 1648 si decretò che «la Real Casa di Savoja, suoi Eredi e Successori non possa essere mai molestata dall’imperatore nel possesso della Superiorità che ha ne’ feudi Roccaverano, Olmo e Cesole [Cessole, n.d.a.], i quali per niuna ragione dipendono dal Romano Impero». Dopo secoli di passaggi di mano, di devastazioni e di assedi messi in opera dalle milizie spagnole, francesi e napoletane, l’ex feudo di Roccaverano, nell’alta Langa irrorata dai venti e dagli odori del non lontano mare savonese, passava alla dinastia sabauda che ne avrebbe fatto, a suo piacimento, l’uso che credeva. Chi ne fece sicuramente un buon uso fu Vittorio Emanuele II, che tra queste colline e i bricchi d’Olmo Gentile, di Perletto, di Vengore, di San Giorgio Scarampi e di San Gerolamo, teneva riserva, ovviamente reale, di caccia. Teneva qualcosa, cioè le origini della famiglia, anche l’avvo173
cato Angelo Brofferio, vate e storico, giornalista e deputato della sinistra al Parlamento Subalpino e poi a quello d’Italia. Il conte di Cavour lo aveva definito una volta «un uomo pestilenziale». Era nato a Castelnuovo Calcea, fra Nizza Monferrato e Canelli, dove il nonno, chirurgo, si era trasferito da Roccaverano. In «cotesto paese» Brofferio ci mise piede solamente a cinquant’anni suonati, quando decise di «compiere una peregrinazione a quell’antica culla dei miei progenitori», cogliendo l’occasione, per qualche giorno, di smaltire i postumi delle sue battaglie giornalistiche e politiche di oppositore perenne e torrenziale. Se le sue credenziali democratiche erano indiscutibili, come del resto l’avversione alla politica di Cavour, testimoniata dai discorsi infiammati tenuti in Parlamento, c’era tuttavia qualche buco nero nel suo passato di tribuno impetuoso, almeno un frammento di vita non proprio degno di stima. Bisogna ritornare al 1831, l’anno dei moti carbonari dell’Emilia-Romagna, degli Stati Pontifici, e dell’impiccagione di Ciro Menotti e del notaio Vincenzo Borelli da parte del boia di Francesco IV. La rivolta nel ducato di Modena scoppiò a febbraio. In primavera, a Torino, un’associazione segreta chiamata i Cavalieri della Libertà, a quanto pare in forte odore di massoneria, decise di organizzare una sollevazione contro Carlo Felice e di ottenere la Costituzione da Carlo Alberto. Lodevoli propositi, però piuttosto velleitari. Il vecchio re, infatti, morì alcune settimane dopo, quando la congiura dei nostri era stata già scoperta. All’inizio d’aprile la polizia aveva stretto i ferri ai polsi dei congiurati. Tra di loro c’era Brofferio. Ma lasciamo parlare lui, almeno per questa circostanza: Eravamo nella primavera e correva la notte del sabato santo allorché verso le ore 11, dopo di aver passata la serata in casa Caldani, io
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mi restituiva a casa. Il colonnello Bordino, mio ottimo amico, mi accompagnava alla porta della via, e dicendo “a rivederci domani” mi stringeva la mano e mi augurava la buonanotte. Quale soprastasse il domani né io né Bordino potevamo sospettare. Ora lo apprenderanno i lettori. Salgo la scala, suono il campanello, odo il rumore di un passo sconosciuto e mi viene aperto l’uscio col lume in mano non dal solito cameriere, ma da un gendarme.
Sarà perché «nei regii proclami ai rivoluzionari si prometteva il patibolo; e Carlo Felice quando faceva di queste promesse non mancava mai di parola», fatto sta che Balestra, uno degli arrestati, confessa. E Brofferio, oltre a comporre innumerevoli canzoni in dialetto nella sua cella della Cittadella torinese, il 6 agosto, come scrive l’uditore generale di guerra Di Cimella nella sua relazione a «Sua Maestà», che è adesso è Carlo Alberto, fa sapere di essere pronto per «fargli importanti propalazioni relativamente ai delitti politici de’ quali era incolpato, purché gli fosse fatta promessa dell’impunità e che le di lui propalazioni non darebbero luogo ad inquisizioni criminali contro li complici, che egli avrebbe scoperto». La promessa venne onorata. Brofferio fu liberato e così gli altri cospiratori. Soltanto un certo Giuseppe Bersani, ex guardia del corpo del re, restò in carcere. Ci rimase per sei o sette anni, e morì pazzo a Roma. La vicenda, le «propalazioni» del bardo piemontese, furono dimenticate per qualche tempo. Fino a quando, nel 1838, il dottor Maurizio Poeti lo accusò di essere un delatore, in relazione alla vicenda dei Cavalieri della Libertà, scrivendolo in un articolo pubblicato sul giornale milanese “Il Pirata”. Brofferio lo citò per diffamazione e, davanti al magistrato del Real Tribunale di Prefettura, disse: «Mi giovi intanto dichiarar qui alla presenza del magistrato che nei giorni della sventura nulla io feci, nulla io dissi, nulla io pensai che tornar 175
potesse a pubblico o privato nocumento». Il tribunale assolse Poeti «dalla domanda dell’avv. Angelo Brofferio concernente la ritrattazione dell’ingiuria per la seguita pubblicazione del numero 46 del giornale milanese “Il Pirata”, dell’articolo intitolato: “Osservazioni sull’articolo dell’avv. Angelo Brofferio”». Ma dispose «farsi bensì luogo alla riparazione dei danni che possa l’Avv. Brofferio stabilire aver sofferti dalla detta pubblicazione di quell’articolo, mandando a tale effetto alle parti maturare i loro incombenti, spese compensate». I fantasmi di Bersani e delle «propalazioni» si manifestarono di nuovo nell’agosto del 1849. Stavolta toccò ad Aurelio Bianchi Giovini, comasco, acceso anticlericale e direttore del quotidiano torinese “L’Opinione”, su posizioni di sinistra moderata, a scrivergli in una lettera di essere in possesso di «un documento che ti riguarda e perché non t’illuda te ne dirò in poche parole il tenore». Nel biglietto, giunto da Livorno e spedito da un parente dell’unico condannato per i fatti del ’31, «si narra la vita del Bersani, la sua prigionia con te e col Dott. Balestra, i colloqui che egli ebbe con teco nel Carcere del Correzionale, le profferte che ti furono fatte dall’auditore Cimella, le tue rivelazioni ad un “alto personaggio” ch’egli non nomina, la tua liberazione, le inquisitorie successive che ebbe il Bersani, i sette anni ch’egli passò a Fenestrelle». Stanco delle provocazioni giornalistiche e oratorie che Brofferio, evidentemente, aveva fatto nei suoi confronti, Bianchi Giovini lo invitava perciò a smetterla. In caso contrario avrebbe dato pubblicità a quelle carte, raccontando, come aveva fatto Bersani, «di come di notte e in carrozza fosti dal Cimella condotto dall’“alto personaggio” ove facesti le dichiarazioni, salvando te stesso e gettando la colpa sul Bersani». 176
La “pubblicità” delle vicende del ’31 aveva giovato ad Andreis di Cimella, nizzardo, che, proprio per i meriti acquisiti nei processi contro i cospiratori, era stato nominato Uditore generale di guerra e quindi presidente del Senato di Casale. Benemerenze che, nel ’48, lo fecero collocare a riposo prima del tempo previsto, sebbene avesse cercato di guadagnarsi le simpatie dei liberali plaudendo allo Statuto concesso da Carlo Alberto. È probabile che qualche anno dopo, nel 1856, Brofferio avesse archiviato l’episodio oscuro della sua vita, consegnandolo, a sua difesa, alle pagine sterminate delle memorie. Ed è plausibile che quel giorno di quell’anno, mentre placava la mente e la favella nella casa avita di Roccaverano, che esiste sempre, a lato del parco del castello e della torre medievale, non fosse lo spettro del Bersani a crucciarlo. Ma forse c’era di mezzo, anche quella volta, una lettera. Ed era una lettera del conte di Cavour. Lettera poi trafugata, scomparsa, perduta. Dice il Bianciardi, cantore delle Cinque Giornate e del Risorgimento del popolo, che «il diabolico conte», in quel periodo, «stava tessendo una delle sue fitte e sottili trame per le quali è passato a proverbio». Una di queste, ai tempi della guerra di Crimea oppure già in vista di quell’Austria, avrebbe sfiorato anche il paese delle Langhe caro al poeta. Lo racconta quantomeno l’Oldrado Poggio, storico puntuale dei fatti e dei personaggi roccaveranesi, citando un vecchio sacerdote, dunque a somiglianza del don Visconti della val Vigezzo mazziniana. E asserisce che monsignor Giovanni Galliano, arciprete della cattedrale di Acqui Terme, gli riferì di avere visto a casa di don Pietro Turco, parroco di Roccaverano, «una lettera indirizzata da Camillo Benso conte di Cavour ai Brofferio con la quale si invitavano a trattenere “con ogni pretesto il re Vittorio Emanuele 177
onde impedire che lo stesso tornasse a Torino a rompere i ciap”», ossia a rompere le scatole. La lettera «venne conservata nell’archivio parrocchiale fino a quando, creata la Provincia di Asti (quindi dopo il 1935) un giorno si presentarono i Carabinieri della locale stazione ed esibendo un ordine del Prefetto ne pretesero la requisizione». Monsignor Galliano precisò che la missiva era stata scritta da Cavour «allora primo ministro del regno Sabaudo, al suo amico Brofferio. Brofferio a Roccaverano aveva una casa dove andava sovente; anche il re, durante il periodo di caccia, soggiornava volentieri a Roccaverano dove disponeva di un alloggio in piazza della Chiesa e così i due si incontravano spesso. Brofferio godeva dell’amicizia di Cavour che non gradiva molto la presenza a Torino del re. Cavour voleva essere libero e non accettava che il re mettesse il naso nel modo con cui gestiva la cosa pubblica; nel periodo in cui è stato primo ministro ha anche fatto dei colpi di testa come la guerra in Crimea, di cui si assunse la responsabilità e tanti altri come quello di mandare persone di sua fiducia in Francia per guadagnarsi la simpatia di Napoleone III e coinvolgerlo nelle aspettative del Piemonte. Ma torniamo alla famosa lettera: nella stessa, che don Turco conservava gelosamente, redatta in puro dialetto torinese, il primo ministro pregava il Brofferio di trattenere, con una scusa o con un’altra, il re a Roccaverano in modo che lui potesse avere mano libera a Torino». Se è abbastanza dubbio che Cavour coltivasse l’amicizia con Brofferio, per l’appunto «uomo pestilenziale», pur avendone cercato l’appoggio o il non disturbo in determinati momenti della vita parlamentare, è invece innegabile che fra il conte e il re i rapporti furono sovente tempestosi, per esempio all’indomani dell’armistizio di Villafranca del ’59. Così com’è vero che Vittorio Emanuele a Rocca178
verano ci stava da Dio, anzi: da re. Le vecchie cronache, riesumate da Poggio, rammentano che il sovrano «si diletta molto su per i colli che visitò più volte degnandosi ad entrare ad ospizio nella casa dell’Arciprete e trattare con l’usata sua dimestichezza e cortesia con chiunque ebbe l’onore di accostarlo». I roccaveranesi di un tempo ricamavano in fantasia sui soggiorni del re galantuomo, che Massimo d’Azeglio, malevolmente, sosteneva fosse figlio non di Carlo Alberto bensì di un macellaio di Firenze, essendo il vero Vittorio Emanuele morto bruciato, a due anni e mezzo, nell’incendio della sua culla causato dalla balia Teresa Racca Zanotti; questa, spaventata, lo avrebbe sostituito con il bambino di un certo Gaetano Tiburzi detto Maciacca. In ogni caso, vero o falso che sia il pettegolezzo del d’Azeglio, a Roccaverano, al cospetto della chiesa progettata forse da Bramante e dei resti del castello dei marchesi del Carretto, di Sua Maestà cacciatore, di fagiani e di fanciulle, se ne parlava in abbondanza; nell’albergo locale, l’Aurora, i cui muri risalgono al 1679, si potevano persino vedere i piatti di porcellana in cui avrebbe mangiato, con gusto, lepri e cinghiali. Di casa a Roccaverano ma pure a Perletto, borgo distante una manciata di chilometri. Vi giungeva da Alba, attraverso una carrareccia che, sfiorato l’abitato di Castino, in località Roveta, conduceva alla Bormida. Varcato il fiume, il re s’inerpicava a cavallo su fino alla cima del paesino, al castello edificato dai soliti del Carretto, che all’epoca, passato dagli Scarampi agli Spinola, ai Valperga e ai Gozani, era di proprietà della famiglia Toppia. Seppure in cattivo stato, lassù in cima al colle, fronteggiante la torre di San Giorgio Scarampi e a dominare il corso del fiume, il maniero di Perletto fu il teatro del suo 179
amore burrascoso, uno dei tanti, con la ballerina austriaca Sofia Keller. Una storia, questa con la bionda nata in un Paese peraltro nemico, che fece infuriare non poco Rosa Vercellana, al secolo la Bela Rosin, la ragazza del popolo che, giovanissima, era divenuta la sua amante ufficiale e che sarebbe stata moglie morganatica con il blasone di contessa di Mirafiori e di Fontanafredda. Per la Keller, a quanto sembra, il sovrano aveva perso la testa. Narra Domi Gianoglio in un suo bel libro sulle Langhe che re Vittorio, «donnaiolo incorreggibile», la tenne a lungo nel castello «quasi in segregazione, estate ed inverno, salendo a farle visita da Pollenzo con faticose cavalcate, una delle quali gli causò una polmonite portandolo sull’orlo della tomba. Guarito, riprese a frequentare la favorita, che si annoiava mortalmente in questo luogo solitario, mentre la Bela Rosin si rodeva di gelosia, parendole che il capriccio diventasse, col passare del tempo, preoccupante». Nulla consente di collegare la presenza di Sofia nelle Langhe con la lettera di Cavour a Brofferio, anche se i tempi potrebbero essere quelli e l’ex Cavaliere della Libertà, oltretutto, non avrebbe dovuto impiegare troppo tempo, da Roccaverano, per raggiungere Perletto lungo le creste e i valloni d’Olmo Gentile, superando il castello fiabesco dei Gozani, e di San Giorgio. Chi si mosse fu la Bela Rosin. Prese contatto con Urbano Rattazzi, ministro dell’Interno, «andandogli a insinuare», dice Gianoglio, «di segreti di stato che la Keller poteva carpire al re nell’intimità dell’alcova, quale probabile agente del gabinetto di Vienna. L’uomo politico alessandrino risolse la cosa con astuzia e senza scandalo facendo accompagnare la ballerina al confine del Lombardo-Veneto, non senza il viatico di un congruo numero di marenghi d’oro, tutti recanti l’effigie del suo augusto protettore». 180
Il re andò su tutte le furie, ma presto dimenticò Sofia e Perletto restituendosi alla Bela Rosin e scoprendo in sua compagnia la tenuta di Fontanafredda e le terme di Valdieri, in valle Gesso, dove già Carlo Emanuele III, a metà Settecento, aveva valorizzato le sorgenti alle falde del monte Matto. Vittorio Emanuele ci capitò nel 1855, in piena guerra di Crimea. Il posto gli piacque tanto, soprattutto i camosci delle montagne delle Alpi Marittime, che chiese ai comuni di Valdieri e di Entracque di poter godere dei diritti di caccia e di pesca. Gli furono concessi. Fece costruire un grande albergo, naturalmente chiamato Royal, e due chalet civettuoli di legno, con le facciate decorate da fregi floreali, stabilendovi il quartier generale delle sue partite di caccia e degli amori con la Rosina. Anche Brofferio si era restituito a qualcosa, ossia a Roccaverano, come racconta in uno dei libri dei Miei tempi: Portato dagli eventi lontano dalla terra natìa, non ebbi mai opportunità di visitare Roccaverano e la torre di Vengore [che] sorge ancora oggidì ed invita gli eruditi ed i curiosi ad ammirarla. […] giunto al cinquantesimo quarto anno della mia vita, mi parve che la morte potrebbe non aver volontà di aspettare i comodi miei, non volli più ritardare, e mi recai nell’autunno del 1856 a far conoscenza con quei luoghi che nel mattino de’ miei giorni mi venivano così vivacemente rappresentati. [Li trovai] colla massima precisione tali e quali quel buon vecchio [il nonno] li aveva scolpiti nella mia mente; e di più ebbi la consolazione di trovarvi i soli parenti ch’io mi avessi dal lato paterno in fortunate condizioni, e per onorata vita tenuti da tutti in grande estimazione. […] le memorie di Roccaverano, antico paese collocato fantasticamente sulla più alta cima dell’Apennino [sic] che disgiunge i colli del Monferrato dalle coste della Liguria, servivano spesso al mio avo di argomento per piacevoli racconti e poetiche tradizioni.
La visita si svolse forse in autunno, probabilmente insieme al poeta Giovanni Prati, il cui soggiorno è peraltro 181
ricordato da una targa posta sulla facciata della casa di Brofferio. E si può immaginare l’uno a meditare sugli amori della bella Edmengarda, l’altro a sacramentare contro la guerra di Crimea. Andarono a vedere la famosa torre di Vengore, che «la parte più idiota degli abitanti asseriva, questo s’intende, che era stata fabbricata dal diavolo e che le streghe vi celebravano i loro sabbati. Oggi ancora v’ha più d’uno che crede alloggiarvi chi sa quante migliaia di folletti, di fantasime e di mostri di ogni genere». Il nonno «per levarmi di capo le stupide istorie che il volgo narrava, e che dai contadini cercava io pure di raccogliere con trepida avidità, mi raccontava che un marchese del Monferrato, potente dominatore in quelle regioni, voleva diventar re colle crudeltà, colle oppressioni, cogli spogliamenti. Per dar base al novello regno l’ambizioso feudatario costruiva quell’alta torre, che non destinava certamente a virtuose opere; e siccome egli soleva dire ad ogni tratto: «vengo re», rimase alla sua torre la denominazione di Vengore. Non vuolsi tralasciar di avvertire che non solo quel marchese non divenne poi re, ma che, in quella torre medesima, appena terminata, egli fu messo a morte dagli abitanti di Roccaverano stanchi della sua dominazione». Fatto che, conclude Brofferio, «ci conferma che le rivoluzioni non hanno cominciato dalla Francia, dall’America o dall’Inghilterra; ma che in tutti i Paesi dove pose radice la tirannide o tosto o tardi i popoli si ricordarono di essere i più forti, e conchiusero colla pia strangolazione dei tiranni». Fu in quei giorni che gli venne recapitata la lettera di Cavour, sempre ammesso, naturalmente, che una lettera del genere ci sia stata? Può essere. Anche perché in altre occasioni il conte chiese dei favori politici a Brofferio, e i due si ritrovarono a volte alleati, soprattutto se c’era da 182
prendersela con il clero. Capitò nel 1854 per la legge che aboliva le congregazioni religiose. E nel 1858, quando, come raccontano Laurana Lajolo, studiosa serissima delle gesta e delle opere del poeta di Castelnuovo Calcea, ed Elio Archimede, «le elezioni mandarono in Parlamento molti esponenti del clero». Il conte, pertanto, «tornando da Plombières, dopo l’incontro con Napoleone III, si ferma nella villa di Brofferio, “La Verbanella”, nel Canton Ticino, per una lunga e amichevole conversazione anche politica». Un bel giorno, avrebbe scritto, «tutte le nostre liti di dieci anni (voi vedete che durarono quanto l’assedio di Troia) si conchiusero in un fraterno amplesso. Furono auspici di questa meravigliosa pace i Vescovi piemontesi che per comando del Papa mandarono alla Camera una caterva di chierche, di code e di parrucche, in cospetto delle quali bisognò fare di necessità virtù e non andar più cercando come nel passato il pelo nell’uovo. In forza di quell’amplesso le chierche, le code e le parrucche sgombrarono tosto dal Parlamento». Ma l’opposizione a Cavour restò «il tema fondamentale della vita parlamentare di Brofferio». Odio e amore. In uno dei suoi ultimi interventi alla Camera, l’anno prima di morire, nel 1865, tuonando contro lo spostamento della capitale del regno d’Italia da Torino a Firenze, disse tra i «bravo» urlati dell’aula: «Il conte di Cavour è stato il primo a dichiarare ai Torinesi come d’uopo fosse che questa città cessasse di essere capitale per andare a Roma, e i Torinesi, ben lungi dal dolersene, applaudirono con entusiasmo. Si andò, si va a Roma? No. Torino è decapiata contro il decreto del Parlamento, per andare a Firenze. L’ingiustizia è così grande che Cavour non l’avrebbe mai sopportata». Di altro tenore fu il rapporto con il re, anche se a Brofferio, è vero, della nobiltà di nascita importava molto po183
co. E se ci rideva sopra, come fece proprio in occasione della visita al paese del nonno: Il sindaco e il parroco di Roccaverano, due cristiani dabbene, pescarono negli archivi comunali e si affrettarono a presentarmi non so quale polveroso documento in cui i miei antichi progenitori si chiamavano De Brofferiis. Oh quale singolare fortuna s’io avessi saputo a tempo debito! se invece di farmi patrocinatore di cause col modesto appellativo di avvocato Brofferio mi fossi prodotto al mondo sotto gli auspizii di una regia livrea e col titolo di avvocato DeBrofferio! Oh! allora sì che non avrei avuto più fama di poeta di plebe, di giornalista di piazza e di politico rompicollo! allora sì che sarei passato per un giureconsulto profondo, per un personaggio coi fiocchi! Oh! signor sindaco riverito, oh! signor parroco benedetto, perché non mi faceste conoscere quella carta pecora quarant’anni prima?... Si vede bene che era destinato ch’io nascessi volgo, vivessi popolo, e morissi plebe, senza un de, senza un ciondolo, senza un ricamo che consolassero la mia nullità. Pazienza!
Dice la Lajolo che Vittorio Emanuele, in ogni caso, nutriva una spiccata simpatia umana per Brofferio poeta e lo incaricò di scrivere la Storia del Parlamento Subalpino, iniziatore dell’unità italiana, che uscì in sei volumi. Approfittando di quella simpatia regale e trescando un po’ con Cavour, se mai quella lettera e quella richiesta ci furono, allora è possibile che Brofferio si fosse prestato al gioco, tessendo a sua volta un lembo della tela del conte.
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I tamburi di Pallanza E un vescovo patriota
Tramonta un piccolo mondo antico, ne nasce un altro. Si fa di nuovo guerra all’Austria, tra bersaglieri, volontari e zuavi. Correva l’anno 1859. Sul lago Maggiore alitavano anche nebbie e ricordi sparsi di monsieur Henri Beyle e del generale Garibaldi. Con il vescovo Zoppi, patriota, a Cannobio, e la brigata Regina a Palestro.
Suonavano i tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, era la fine di febbraio del 1859. Un’altra guerra contro l’Austria-Ungheria stava per cominciare. Succedeva dieci anni dopo la sconfitta di Novara, l’abdicazione e la morte a Oporto di Carlo Alberto, e il tentativo dell’avvocato Angelo Brofferio di salvare il generale Ramorino dalla fucilazione. I tempi erano ormai maturi. Cavour, Costantino Nigra e soprattutto la contessa di Castiglione si erano lavorati bene Napoleone III. Il 10 gennaio di quell’anno, parlando all’apertura del Parlamento Subalpino di Torino, Vittorio Emanuele II aveva pronunciato una frase destinata a incarnarsi nella storia: «Giacché nel mentre che rispettiamo i trattati non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi». Una frase a effetto che Nigra e Cavour avevano preparato con cura, tanto che nella minuta del discorso della corona del conte, quel 10 gennaio, si può leggere: «Il rispetto dei trattati non c’impedisce di commuoverci alle grida di dolore che ci giungono da tanta parte d’Italia». 185
Già il 23 gennaio si aveva notizia dall’intendente generale di Novara che molti giovani fuggivano dal LombardoVeneto per arruolarsi nell’esercito piemontese, e il 1° febbraio veniva diffusa una relazione sulla situazione della Lombardia, con precisi accenni alle manifestazioni antiaustriache che si erano verificate nel corso della rappresentazione della Norma. Risuonavano i tamburi nella realtà della mattina nebbiosa sul lago Maggiore, e lo avrebbero fatto nelle pagine conclusive del romanzo che Antonio Fogazzaro pubblicò nel 1895: Piccolo mondo antico, certo. La trama è nota: dopo la morte della figlioletta Maria e una lunga separazione dal marito Franco, esule a Torino, Luisa ha accettato di rivederlo prima che lui si arruoli nell’esercito di Vittorio Emanuele II. Lo deve raggiungere all’isola Bella. Durante il tragitto, alla stazione di Cannero sente «un grande strepito di passi, un grande chiasso di voci e di grida». Erano «militari richiamati alle bandiere, venuti al battello con due grandi barche. Altre barchette portavano donne, bambini, vecchi, che salutavano e piangevano. I soldati, per la maggior parte bersaglieri, bei giovanotti allegri, rispondevano ai saluti gridando: “Viva l’Italia!” promettevano regali da Milano», ancora in mano austriaca. A un tratto si alza un coro, «un canto, un canto potente di cinquanta voci gagliarde: Addio, mia bella, addio, / L’armata se ne va». Con La bella Gigogin o, se si preferisce, Daghela avanti un passo, Addio, mia bella, addio è uno dei canti più belli e amati del Risorgimento. Attribuito all’avvocato fiorentino Carlo Alberto Bosi, che era solito pubblicare le sue composizioni nell’anonimato, venne scritto in un caffè, pare in pochi minuti, per onorare i volontari toscani partiti per la guerra del 1848. Ebbe subito una grande diffusione. 186
Nel canzoniere di Bosi, in realtà, compare con il titolo Il volontario parte per la guerra della indipendenza, e i primi versi recitano: «Io vengo a dirti addio, / l’armata se ne va». Ma la voce popolare l’ha immortalato come lo cantano i bersaglieri di Fogazzaro all’imbarcadero di Cannero. Cantavano dunque nel febbraio del ’59, e «avevano a passarlo presto, il Ticino, probabilmente al grido di Savoia, fra una furia di cannonate». Lo avrebbero varcato anche e soprattutto i soldati francesi inviati da Napoleone III, che Jean Giono, nel suo Viaggio in Italia, entrando in Lombardia ricorda così: Passiamo attraverso i campi di battaglia di Magenta senza accorgercene. Mio nonno materno (un altro) che in seguito è stato primo trombone della Guardia Imperiale (Napoleone III), prima del suo secondo arruolamento era stato zuavo da queste parti. Deve aver saltato questi corsi d’acqua nonostante i suoi larghi pantaloni rossi.
La guerra si avvicinava per i «bei giovanotti allegri», nel giorno di febbraio, e «molti di loro erano attesi laggiù, sotto quel cielo sereno, dalla morte; ma tutti cantavano allegri e solo il rumor cupo delle ruote del vapore pareva saperne qualche cosa. Le libere montagne piemontesi lungo le quali filava il battello parevano fiere e paghe, benché nell’ombra, di aver dato i propri figli alle schiave montagne lombarde, tragiche nell’aspetto benché illuminate dal sole». Anche il Franco del romanzo presto sarebbe stato uno di loro e avrebbe indossato la divisa del IX reggimento di linea della brigata Regina, comandata dal generale Villamarina. La stessa brigata Regina che il cameriere dell’albergo del Delfino, dove Franco e Luisa ritrovano l’amore, ricorda nella prima guerra d’Indipendenza: «Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel X. Ci siamo fatti onore 187
nel 1848, ehi! Goito, Santa Lucia, Governolo, Volta! Adesso tocca a loro». E a loro sarebbe toccata, soprattutto a Palestro il 31 maggio di quel 1859, con i piemontesi che avrebbero passato la Sesia, la IV divisione del generale Cialdini, e la brigata Regina, posizionati verso Robbio, e gli zuavi, massacrati dalle batterie dei canoni austriaci, all’assalto alla baionetta dei cacciatori tirolesi e della fanteria nemica, poi messi in fuga. Ma adesso, quella sera di febbraio, c’era ancora tempo per amarsi al Delfino dell’isola Bella, l’albergo che monsieur Henri Beyle, detto Stendhal, menzionò nei suoi taccuini: «En vingt minutes, une barque transporte le voyageur à l’auberge del Delfino, dans l’Isola Bella; c’est un des plus beaux lieux du monde». Franco e Luisa, lo zio di lei, presero «due camere grandi del secondo piano, a mezzogiorno, di fronte al malinconico stretto fra l’isola e la costa boscosa che va da Stresa a Baveno. La prima camera, sull’angolo di ponente, aveva una finestra verso la chiesetta di S. Vittore, che sorge a fianco dell’albergo, e l’isolotto lontano dei Pescatori. […] Pareva l’isola del Silenzio, del resto. Il lago le taceva intorno immobile, la spiaggia era deserta, sui ballatoi delle povere vecchie casucce ammonticchiate sul porto, fra un bastione rotondo del giardino e l’albergo, non si vedeva persona viva». Invisibili per Franco e a Luisa, sulla sponda opposta, davanti ai monti di Lombardia e in prossimità della Svizzera, si distendevano Cannero, dove Massimo d’Azeglio si rifugiò, da Cincinnato, preferendo la solitudine lacustre a un seggio alla Camera e o al Senato, e Cannobio, il paese in cui era nato nel 1765 monsignor Francesco Maria Zoppi, vescovo patriota, figura dimenticata ma non effimera del Risorgimento. Narra Aquilino Zammaretti, storico ed 188
erudito locale che sarebbe piaciuto al Bianciardi per la sua avidità di aneddoti, che «quest’uomo insigne per pietà, dottrina e amor patrio, primo vescovo di Massa sacrificò all’affetto per la cara Italia la stessa sede episcopale». Ottenuti, «ancor giovanissimo incarichi di fiducia da parte del suo arcivescovo che da Milano lo inviava vicario nel Canton Ticino», nel 1824 «entrava come primo vescovo nella nuova diocesi di Massa accolto con entusiasmo da quella popolazione». Era della medesima schiatta di don Giovanni Verità, il sacerdote romagnolo di Modigliana, mazziniano, che aiutò Garibaldi nella sua fuga verso Livorno nell’agosto del 1849, e di don Enrico Tazzoli, uno dei martiri di Belfiore, impiccato nel ’52 per mano degli «sgherri austriaci», come disse Vannucci, nella fortezza mantovana dove trovarono la morte anche Tito Speri, uno dei protagonisti delle Dieci Giornate di Brescia, e Pietro Fortunato Calvi, animatore dei moti insurrezionali del 1848 in Cadore. In Lunigiana, sotto la corte di Modena e dunque tra gli artigli di Francesco IV, Zoppi «signorile nel tratto, austero con sé stesso, caritatevole con gli altri, si diede a profondere il suo cospicuo patrimonio nel rinnovare la cittadina che da poco era assunta alla dignità di sede episcopale». «Conscio dei tempi», si mise a radunare intorno a sé «gli studiosi, i dotti, l’elemento scelto della popolazione di Massa» e il palazzo vescovile «era sempre aperto alla classe intellettuale». Tutto ciò non dovette andare troppo a genio al duca di Modena. Venne così il giorno in cui Francesco IV d’AsburgoEste, «figura bieca di principe ambiguo e crudele», volle che il vescovo gli rivelasse i nomi degli iscritti alla Giovine Italia. Narra Zammaretti che «questa sola pretesa avanzata dal principe con inqualificabile impertinenza suscita lo sdegno di mons. Zoppi, uomo di un’integrità specchiata e di un 189
carattere ferreo che non si piegava davanti a nessuna imposizione. A questo fatto si aggiunse che il vescovo non aveva mai fatto mistero dei suoi sentimenti di italianità, delle sue idee patriottiche e della sua riprovazione per le angherie e le ingiustizie della corte di Modena contro i patrioti italiani». Non gli restò che andarsene. In una lettera pastorale, alla vigilia di lasciare l’amata diocesi di Massa, accennò «vagamente alle ragioni della sua rinuncia parlando di un uomo nemico la cui astuzia gli era stata nociva. L’accenno è rivolto al governatore Petrozzani e al capo della polizia Desperati che avevano iniziato una vera opera di denigrazione e di persecuzione contro il nostro vescovo che non faceva mistero, proprio in quegli anni – siamo nel 1831 – dei suoi sentimenti di amore all’Italia». In febbraio, su iniziativa di Ciro Menotti, patriota di Carpi, e di altri congiurati, scoppiò la rivoluzione a Modena, a Bologna, nel Reggiano, nel ducato di Parma, nello Stato Pontificio. Il duca di Modena, che inizialmente aveva complottato con i liberali e con i carbonari, per timore della reazione austriaca si defilò e scappò a Mantova. Lo fece da “bieco” quale era, trascinandosi dietro, in catene, Menotti. Poco meno di due mesi dopo, le truppe austriache repressero la rivolta e rimisero duchi e duchesse sui loro troni. Ciro Menotti venne giustiziato a maggio. Monsignor Zoppi, «piuttosto che tradire la sua Patria», si era ritirato «come canonico della Metropolitana di Milano». Ma in Lunigiana, conclude lo Zammaretti, aveva lasciato il suo cuore. E infatti, dopo la sua morte, avvenuta nell’aprile del 1841, il cuore del vescovo patriota fu «custodito nella Cattedrale di Massa». Chiosò Zammaretti che «sconosciuta o quasi è la figura di mons. Francesco Maria Zoppi nelle cronache del nostro Risorgimento». Ed è probabile che Fogazzaro non 190
avesse mai sentito parlare del vescovo di Cannobio, sebbene lo scrittore vicentino fosse un cattolico liberale, un modernista. Però di patrioti e di volontari se ne intendeva: suo padre Mariano aveva combattuto nel ’48 contro gli austriaci e in seguito era andato con la famiglia esule a Torino nel 1860. Aveva vissuto pertanto quel clima, quell’euforia e quel sommovimento di cuori italiani che nel romanzo echeggiano attraverso i «tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizi sulla riva». Esercizi, per ora. Ma presto, come spiegava a Luisa e allo zio Piero il giardiniere del palazzo Borromeo, si sarebbe udita un’altra musica: «Il mese venturo faremo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestia grossa. Eccolo là, quel mostro». Il mostro era il vapore austriaco da guerra Radetzki, detto dai rivierani piemontesi Radescòn. «Entra adesso nel porto di Laveno» disse il giovinetto. «Viene da Luino. Vengano qui se vogliono vederlo bene».
Del vapore «si vedeva più il fumo che il corpo. I tamburi di Pallanza rullavano sempre». E ancora di più avevano rullato nel ’48, allorché, come ci racconta il Bianciardi garibaldino, il Nizzardo e i suoi 1500 volontari vollero continuare la guerra anche dopo la resa di Carlo Alberto: «la mattina del 14 giunge ad Arona, sul lago Maggiore, requisisce i due vaporetti che fanno servizio sul lago, prende anche una decina di barconi, ci carica sopra tutta la sua gente, li prende a rimorchio e via sull’altra sponda». Dal comune di Arona «si è fatto dare 7000 lire, una razione di pane per ciascun uomo, venti sacchi di avena e di riso. Prende il largo alle tre del pomeriggio, e soltanto lui sa dove è diretta la spedizione. Contro di lui non si muovono gli austriaci soltanto, ma anche i piemontesi. Infatti il 191
figlio secondogenito del re, duca di Genova, ha l’incarico di arrestarlo. Dice l’ordine: “Se fosse il caso di arresto del signor Garibaldi, Sua Maestà intende che abbia luogo e sia condotto nel Castello di Casale per essere giudicato”». Il «piccolo mondo antico» cambiava, sicuro, ma non tramontava proprio del tutto. Garibaldi, tuttavia, non era disposto a cedere e lanciò un proclama inequivocabile: Se il re di Sardegna ha una corona che conserva a forza di colpe e di viltà, io e i miei compagni non vogliamo conservare con infamia la nostra vita, non vogliamo senza compiere il nostro sacrificio abbandonare la sorte della nostra sacra terra al ludibrio di chi la soggioga e la manomette.
Sbarcò a Luino, sulla sponda lombarda, batté il nemico e si mise in marcia per Varese. Non lo presero nemmeno gli austriaci del maresciallo d’Aspre, perché riuscì a riparare in Svizzera attraverso il lago di Lugano. Ci sarebbe ritornato da quelle parti con i suoi Cacciatori delle Alpi, nel maggio del ’59, occupando Sesto Calende e tenendo in scacco un corpo d’armata austriaco. In quel ’59, ma ancora a febbraio, i tamburi di Pallanza risuonarono in nuovi sussulti. Franco e Luisa si erano amati in una stanza del Delfino. Adesso Franco partiva per fare il soldato e la guerra: «Quando udirono il fragore delle ruote si abbracciarono per l’ultima volta». Il battello «arrivò con fracasso, furon gittate e legate le corde». Luisa rimase sul ponte d’imbarco «fino a che fu possibile udire il rumore delle ruote che si allontanavano verso Stresa». I tamburi di Pallanza «rullavano, rullavano la fine di un mondo, l’avvento di un altro».
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La cambiale dei Mille Da Borgosesia a Marsala
Come fu che l’Alessandro Antongini da Borgosesia, insieme al fratello Carlo, imbarcò i Mille (e ottantanove) sui piroscafi Piemonte e Lombardo, e in che modo, in quel maggio del 1860, i medesimi rischiarono di perdere le loro pregiatissime lane. Si favella di Rubattino e di Bertani, di Bixio e di Fauché, e ovviamente di Cavour.
Portata da un corriere fidato, la lettera arrivò all’opificio di proprietà della ditta Fratelli Antongini, a Borgosesia, agli inizi del 1860. Poteva essere la fine di febbraio, forse i primi di marzo. L’uomo destinatario della missiva, chiuso nel suo ufficio, l’aprì. Chi gli scriveva era persona ben nota: un bravo medico, un «egregio patriota», che con lui aveva condiviso le giornate di Milano del ’48 e che l’anno dopo, a Roma, aveva cercato di strappare invano Mameli dalla morte. Alessandro Antongini si accomodò meglio sulla sedia e cominciò a leggere. Nell’andare avanti si ritrovò all’improvviso a pensare ai fatti dell’anno precedente e a quando con Francesco Simonetta di Intra, colonnello dei Cacciatori delle Alpi, aveva fatto posare un ponte di barche sulla Sesia per consentire il passaggio di Garibaldi. Era la notte fra il 20 e il 21 maggio 1859. Anche questa volta gli si diceva di stare «pronto»: Garibaldi «aveva in animo» di andare in Sicilia. Veniva un’altra primavera. Poco più di due mesi s’erano consumati dal giorno in cui aveva ricevuto la prima lettera di Agostino Bertani e poi le altre, in cui gli chiedeva di 193
Vincenzo Azzola, Imbarco di Giuseppe Garibaldi a Quarto, 1860 ca. (Torino, Museo Nazionale del Risorgimento Italiano).
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Una copia della “cambiale dei Mille” del 29 aprile 1860, conservata nella sala storica della Manifattura Lane Borgosesia, ora Zegna Baruffa. Con questa cambiale, firmata dai fratelli Antongini titolari della società Borgosesia a favore dell’armatore Rubattino di Genova, essi si impegnarono a finanziare la spedizione dei Mille, garantendo il noleggio dei due velieri Piemonte e Lombardo e mettendo a repentaglio il futuro stesso della loro azienda.
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«coadiuvarlo in quella azzardata impresa». Adesso non c’era un momento da perdere. Garibaldi e i volontari dovevano imbarcarsi per la Sicilia, ma per poterlo fare ci volevano i piroscafi. E per noleggiarli necessitavano denari, abbisognavano garanzie da dare all’armatore genovese Raffaele Rubattino. Qualcuno avrebbe dovuto mettere in gioco la propria firma, le proprie fortune. Chi l’avrebbe fatto, chi non si sarebbe tirato indietro? Il rischio era grosso, molte le probabilità di insuccesso e di fallimento. E a quel punto il finanziatore, il garante, si sarebbe ritrovato con un pugno di mosche in mano, le sole sopravvissute, magari, dal quasi sicuro naufragio della spedizione e delle medesime navi. Bertani incalzava, il tempo anche. Alessandro Antongini aveva discusso con i fratelli, soci nella ditta, parlandone soprattutto con Carlo, di parecchi anni più anziano di lui. Già liberale del ’21, aveva preso parte all’insurrezione milanese, erigendo una barricata possente di botti di vino fornite dall’altro fratello Gaetano. Si trattava ormai di decidere, inutile rimuginare ancora. Del resto, per che cosa avevano combattuto lui e Carlo, e pure Gaetano, se si fossero fatti da parte, ora che si provava a fare l’Italia? Che cosa era valso fare il commissario di guerra dei Cacciatori delle Alpi, nel ’59, e giungere a Brescia «per avere quei fucili che gli austriaci abbandonarono nel castello, onde dopo le debite riparazioni, armare i garibaldini, i di cui fucili erano veramente dei catenacci»? E quindi a che cosa era servito, se non avesse accolto la richiesta di Bertani, allestire in quel maggio «un’officina in casa del buon e bravo amico Luigi Perelli in Santo Stefano di Borgogna, e sotto la direzione del valoroso colonnello d’artiglieria Bonelli, che ospitava in casa di mia madre, contrada del Lauro, in breve tempo furono riparati e spediti allo Stelvio ove trovavasi il generale Garibaldi cogli in196
trepidi suoi volontari, i quali non ne poterono far uso stante la pace e l’armistizio segnato dell’alleato l’imperatore Napoleone III e il re Vittorio Emanuele cogli austriaci?» Alessandro e Carlo, gli altri fratelli, decisero. Scrissero sul titolo di credito, datato «Borgosesia li 29 Aprile 1860», che «A vista pagherò per questa mia prima e sola di cambio all’ordine del Sig. Rubattino Raffaele la somma di Lirenuove – Cinquencentodiecimila Piemonte – Valuta a porsi come vi si avvisa». Seguivano un «A me medesimo in Genova Rubattino» e un «Accettata e vale Ln Cinquecentodiecimila Antongini». Sarebbe stato aggiunto il timbro della Società Banca Nazionale di Genova. Non fu l’unico impegno che, «senza attendersi né onori né utili, ma tuttavia senza rimpianto», Alessandro Antongini onorò nei confronti dei Mille. In un suo memoriale, redatto circa vent’anni dopo, avrebbe ricordato di avere accettato l’invito di Bertani di affiancarlo nell’organizzazione dell’impresa, e «non appena giunti in Genova», in aprile, l’amico gli affidò «il delicato ufficio di Cassiere, e quando fu stabilito il giorno della partenza dei Mille, i miei due nipoti Carlo e Alessandro si presentarono armati di tutto punto con gran gioia del generale Garibaldi, ed alla notte del cinque maggio li accompagnai nel porto di Genova, ove saliron a bordo del bastimento il Piemonte capitanato dal prode generale Bixio [sic]». Se ne ritornò «al Comitato a Genova ove affluivano volontari da ogni parte l’Italia, ed anche soccorsi da tutte le città consorelle, ma gran parte dei quali venne raccolta dalla tanto benemerita, e mai abbastanza compianta donna Laura Mantegazza». Ma «per quanto questi soccorsi fossero abbondanti non erano abbastanza per i crescenti bisogni; e più volte dovetti impegnare la mia firma e quell’amico Bertani, onde pagare Capitani di bastimenti che portavano i volontari in soccorso 197
della prima spedizione, per acquistare vascelli, armi, munizioni. […] l’operazione in cui andava compromesso tutto il fatto mio e quello dell’amico Bertani fu l’invio al generale Garibaldi appena entrato in Palermo della non lieve somma di lire 330/m. [330 000, n.d.a.] circa statami versata dai Fratelli Rocca di Genova, dietro lettera di garanzia firmata Alessandro dr. Antongini ed Agostino Bertani, lettera che ci venne restituita (e che tengo in originale) appena che la detta somma fu pagata dal Tesoro di Palermo coll’estinzione di quattro tratte fatte per quel Tesoro». L’impresa principiò a Borgosesia e s’avventurò da Quarto a Marsala. Poteva sembrare una leggenda, semmai era una probabile verità oscurata per ragioni imponderabili e riportata a galla, a fatica e pressoché ignorata dai più, da pochissimi studiosi: da Germano Bevilacqua, intanto, e da Franca Tonella Regis, presidente della Società Valsesiana di Cultura, che ha inoltre pubblicato anni fa il memoriale scritto da Antongini nel 1884 per il Comitato centrale lombardo dei veterani delle guerre 1848-49, custodito al Museo del Risorgimento di Milano. Eppure, per imbattersi in questo capitolo sconosciuto dell’epopea garibaldina, sarebbe bastato andare in una sala dello stabilimento storico della Manifattura Lane Borgosesia, ora del gruppo Zegna Baruffa, per scorgere in bella mostra, inquadrate e appese a un muro, due copie della cambiale dei Mille. Sono sempre al loro posto, lì a Borgosesia, anche se dell’originale si è perduta traccia: trafugata o dispersa chissà dove e chissà quando. Sopra alla riproduzione del titolo di credito qualcuno ha voluto apporre una breve nota, che recita: Con questa cambiale, firmata dai fratelli Antongini, titolari della Società Borgosesia, a favore dell’armatore Rubattino di Genova, essi si impegnarono a finanziare la spedizione dei Mille, garantendo il
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noleggio dei due velieri Piemonte e Lombardo. 500 000 lire di allora corrispondevano al valore attuale di un miliardo circa [500 000 euro, n.d.a.]: a quel tempo, per la nascente industria laniera, significò mettere a repentaglio il futuro stesso dell’azienda.
Gli Antongini e la loro cambiale (anzi: le loro cambiali) dei Mille non ebbero eco e fortuna, lasciando a Nino Bixio, nell’iconografia consacrata, e al Rubattino oppure al Giambattista Fauché, direttore della compagnia di navigazione, peraltro in disputa tra loro, il merito di avere dato alle camicie rosse il Piemonte e il Lombardo. Restando a una vulgata diffusasi già all’epoca, poi periodicamente ritornata a galla, quel merito invece sarebbe stato meglio attribuirlo al re Vittorio Emanuele e a Cavour, che avrebbero finanziato direttamente, ma in gran segreto, l’acquisto delle navi per la spedizione con la complicità di Rubattino, di un notaio, di Giacomo Medici per conto di Garibaldi e di alcuni agenti segreti al servizio del governo di Torino. L’ombra della casa reale e del Tessitore, l’uomo della politica del «doppio binario», cominciò pertanto ad aleggiare da Marsala a Torino, passando per il Volturno. È più che noto quanto i memorialisti garibaldini dissero sulla vicenda. Vollero soprattutto mettere in rilievo il patriottismo e la generosità di Rubattino, che comunque chiese di essere assicurato, in denaro, dell’eventuale perdita dei vapori, anche alla luce della tragica esperienza del ’57, quando aveva fornito un piroscafo, il Cagliari, a Pisacane. E se accennarono al conte piemontese, lo fecero con molta prudenza. Il Bandi fu uno dei più schietti e smaliziati: Quali patti facesse il generale con la Compagnia non lo seppi; né mi curai di saperlo allora, né poi; ma son fermo nel credere che i padroni dei due meschini legni non avrebbero perduto un soldo del loro avere, quand’anche la tempesta o le palle de’ cannoni brobonici li avessero spinti su qualche secca o sprofondati negli abissi.
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Mentre Giuseppe Guerzoni, una di quelle camicie rosse, scrisse: La cura di trovar piroscafi per il trasporto non era stata grande. Raffaele Rubattino aveva permesso di lasciarsene portar via de’ suoi, purché si coprisse con certa maschera di violenza la sua generosa complicità; generosa ripeto, perché in negozi dove altri avrebbe cercato la sua fortuna, non volle essere assicurato che del valore perduto.
Bixio, amico dell’armatore, ideò il piano: in un’andana del porto tra il Lombardo e il Piemonte, proprio costa a costa tanto da toccarsi co’ due vapori, riposava una vecchia carcassa, di nave condannata da tempo e che chiamavano la Nave Joseph; a guardarla, quella carcassa non la si sarebbe detta buona che al fuoco; ma Bixio nella sua mente ne aveva fatta la prima base d’operazione di tutta la mossa.
Sulla nave morta o quasi, da «parecchi giorni», erano stati caricati «degli involti sospetti che avevano le più strane somiglianze di casse di munizioni e d’involti di fucili, e di cui ogni polizia che non avesse rinunciato a tutti i cinque sensi, come quella di que’ giorni, avrebbe fiutato dieci miglia lontano il contrabbando. Era quello l’aiuto vero, e non ne scemo il valore, che Cavour dava alla spedizione: non vedere, non udire, non toccare. Senza quell’aiuto non si partiva per la Sicilia, ma con quel solo aiuto si poteva anche non arrivarci mai, o non tornarne più!» La seconda parte del piano fu messa in opera la sera del 4 maggio: Alle 9 e mezzo arrivarono sulla Joseph Bixio e lo scrittore di queste pagine; appena a bordo (lo ricordo come se fosse ora), Bixio cavò di tasca un berretto di Tenente Colonnello, se lo calcò sulle orecchie e disse: «Signori, da questo momento comando io: attenti ai miei ordini». E gli ordini furono: buttarsi col revolver in pugno sui vicini
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vapori; fingere di svegliarvi la gente di guardia, fingere di costringere i fochisti ad accendere, i marinai a salpar l’ancora, i macchinisti a prepararsi al loro mestiere, sgombrare, pulire il bastimento, allestirlo in fretta per la partenza. E così fu fatto, col massimo ordine e silenzio e non senza accompagnare di molti sorrisi d’ironia quella farsa con cui quell’epopea esordiva.
Anche Ippolito Nievo accreditò quella versione dei fatti. Nel Giornale della spedizione in Sicilia annotò: Maggio 5. – Preparativi d’imbarco. – Lo Stato Maggiore e il Generale alla Villa Spinola, a Quarto; la maggior parte del corpo dalla Foce, un distaccamento dal Porto. – I nostri s’impossessarono a forza dei due vapori designati, il Piemonte ed il Lombardo, per liberare la Compagnia Rubattino da ogni responsabilità.
La storia, le storie, non svelano se, oltre alla cambiale di Borgosesia, Rubattino ricevette ulteriori garanzie, e denaro in contanti, per i due vapori. Nievo lo farebbe intendere quando nel Resoconto amministrativo della prima spedizione in Sicilia, dalla partenza da Genova, il cinque maggio, all’ultimo armistizio coll’armata napolitana in Palermo li 3 giugno 1860, firmato da Giovanni Acerbi ma redatto da Ippolito, rammenta che «noleggiati a gravissimo dispendio dalla società Rubattino due Vapori, il Piemonte ed il Lombardo di cui già si prevedeva la fine, che pur non fu tristissima, pagati i preparativi della spedizione, per la gente, per l’armamento, per le munizioni da Guerra, e da bocca, e per quella scarsa partita di vestiario che si poté raggranellare in sì breve spazio di tempo, rimasero circa lire Italiane 90 000». Quando s’accese la polemica fra Rubattino e Fauché, culminata nel licenziamento di quest’ultimo, l’ombra di Cavour riprese a incombere sull’impresa di Sicilia. Che cosa era accaduto? Dopo la partenza del Piemonte e del 201
Lombardo, pur avendo avuto un ruolo importante nella vicenda ed essendo oltretutto di sentimenti liberali e patriottici, nonché amico di numerosi garibaldini, Rubattino sostenne pubblicamente di essere stato vittima di un atto di pirateria. Lo fece per vari motivi, personali, politici e lavorativi. Tra questi spiccavano il precedente caso del Cagliari dato a Pisacane, che voleva sollevare il popolo meridionale, e i buoni rapporti con il primo ministro di Vittorio Emanuele II. La sua società, inoltre, riceveva sovvenzioni dal governo piemontese. Meglio quindi non apparire per alcuna ragione, o meglio: comparire come derubato dai garibaldini. Per lo storico Arturo Codignola, che se ne occupò in un saggio uscito nel 1931 sulla “Rassegna Storica del Risorgimento”, non sussistevano dubbi: occorreva «assolutamente non tradire il segreto e come il Cavour dà ordini tali da impedire che il governo sia compromesso al comandante della squadra navale, così Rubattino fa deliberare dalla sua Società di abbandonare agli assicuratori i vapori, d’indirizzare una protesta al ministero per i danni subiti per la mancata sorveglianza delle autorità portuarie, e di denunciare infine i rapitori all’autorità giudiziaria». Nello stesso tempo, però, «scrive a Garibaldi sottoponendogli la situazione disastrosa per la preveduta perdita dei due piroscafi che gli ha tolti, soggiungendo: “Nessuno, spero, dubiterà del mio amore alla causa, che voi difendete con tanto eroismo!”». E gli chiede di intervenire presso il governo di Torino, affinché gli sia permesso di «continuare il servizio postale che sta per scadere». Come entrò in scena Fauché? Figlio di un còrso ma nato a Venezia, dove aveva partecipato alla difesa della repubblica nel ’49, era andato esule a Torino e in seguito a Genova, la città in cui nel ’58 Rubattino lo aveva assunto. 202
Con buona probabilità fu l’armatore a sceglierlo per trattare con Garibaldi e Bixio il noleggio dei vapori, in modo da poterne stare ufficialmente fuori. Fauché entrò talmente bene nella parte, memore dei suoi trascorsi da combattente della libertà, che al momento della finta denuncia fatta da Rubattino non ci vide più e si mise a scrivere ai giornali, rifiutandosi, come dice il Codignola, «di definire come atto di pirateria la presa di possesso dei piroscafi». Dimostrò il «suo nobile sentire», ma «anche quanto fosse impari al grande evento, poiché carità di patria, se non altro, avrebbe dovuto consigliarlo a comportarsi in modo più riservato». Ne sortirono il licenziamento e una lunga querelle. Pochi giorni dopo la morte di Garibaldi, rammentò Codignola, Fauché «rivendicò a sé solo la gloria di aver consegnato alla spedizione leggendaria i due piroscafi», ma «la sua voce non ebbe eco alcuna». Ancora nei primi decenni del Novecento lo spettro del Fauché, che era morto nel 1884, rivendicava un brandello di gloria postuma. Nel 1905 il figlio Pietro pubblicò una monografia «per illustrare le benemerenze paterne». E qualche tempo dopo venne fondato un comitato per commemorarlo, animato da Amerigo D’Amia, dell’Archivio di Stato di Pisa. Lo stesso D’Amia diede alle stampe nel 1915 un volumetto intitolato Giambattista Fauché nell’epoca dei Mille, nel quale «con copia di prove, l’Autore illustra diligentemente la concessione fatta a Giuseppe Garibaldi dei due piroscafi il Piemonte ed il Lombardo per imbarcarvi la eroica spedizione, non già da Raffaele Rubattino, ma da Giambattista Fauché (nato a Venezia 1815 + 1884) procuratore e direttore della Società di Navigazione. Questa, anzi, per non incorrere nelle di lui responsabilità lo destituì immantinente; ed egli, quantunque elevato per un momen203
to al dicastero della Marina sotto la dittatura, finì miseramente i propri giorni, pensionato come capitano di porto». In tutto ciò, tra intrighi e maneggi mai chiariti, amarezze e misteri, che ruolo poteva avere avuto l’Antongini? Forse nessuno. Forse le cose andarono veramente come andarono: quell’industriale, esponente di una borghesia settentrionale illuminata, di forti sentimenti italiani e democratici, aveva risposto immediatamente alla richiesta dei compagni con cui aveva vissuto le giornate del 184849, del ’59, non esitando nel mettere a repentaglio i suoi beni per la causa dell’Italia libera e del partito d’azione. E se proprio ci fu lo zampino del conte torinese, si potrebbe ipotizzare che la scelta di garante, e di finanziatore, cadde su di lui perché patriota di fede sicura e, soprattutto, imprenditore piemontese di rilievo, la cui ditta, nel ’58, era stata premiata a Torino «per i progressi fatti dall’opificio, il primo che siasi stabilito ne’ Regi Stati», e i «cui prodotti reggono il confronto con quelli dell’estero». Persona, industriale, patriota di provata fede, sebbene fosse d’idee repubblicane, in grado di sobbarcarsi un titolo di credito da 510 000 lire e di rimanere dietro le quinte. E tale rimase, anche quando nel 1876 venne eletto deputato, ormai a Montecitorio, a Roma, nelle file della sinistra, «sempre militando nel campo della democrazia». Il suo Risorgimento non esisteva più, tradito, scordato, morto e sepolto. Scrisse, a settant’anni, nel memoriale: ma sciolta la Camera non fui rieletto, ciò che a dire il vero mi recò non poco piacere, non trovandomi bene, anzi trovandomi a disagio in quell’ambiente, ove son ben pochi coloro che adempiono al tanto delicato ed importante mandato di Deputato per il bene generale della nazione, nel mentre la maggior parte non fa che gli interessi propri e del solo Collegio che rappresenta, e ad altro non mira che di poter salire in quell’immenso albero della cuccagna.
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La piccola camicia rossa Giuseppe Marchetti
Si narra del bambino dei Mille. Gli diedero diverse medaglie, lo cantò Pascoli, ma ebbe vita grama e breve. Si dice del padre Luigi e della mamma Antonia, e di come molte camicie rosse finirono povere, suicide o pazze. Giovanni Nicotera, intanto, non è più l’uomo di un tempo. Con un ricordo di Costantino Pagani da Borgomanero.
«La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, ma era l’isola santa! Abbiamo a sinistra le Egadi, lontano in faccia il monte Erice che ha il culmine nelle nubi». 11 maggio 1860, mattino inoltrato. Il Lombardo al comando di Nino Bixio si sta avvicinando a Marsala. Il giovane Giuseppe Cesare Abba è tra quelli che si affollano a prua, come gli esuli siciliani vive con gli occhi. Gli è vicino il dottor Luigi Marchetti, un esule veneto «che ride sempre quando mi vede scrivere, non sa che ora scrivo del suo figliuolo». Scrive di Giuseppe, «compagno d’esiglio» di suo padre, che «l’ha voluto seco sin qui». È uno scricciolo, il più piccino dei Mille, «può avere dodici anni; eppure è di piglio sì ardito! Fortunato lui, che ha un mattino così splendido nella sua vita! Se la morte non lo coglierà, sarà un uomo levatosi per tempo nella sua giornata». In realtà non ne ha ancora compiuti undici: è nato a Chioggia il 21 agosto del ’49, pochi giorni prima della caduta della repubblica di Venezia, per la quale suo padre Luigi si era battuto nella legione Cacciatori del Sile. 205
Sul Piemonte, con Garibaldi, è imbarcato Giuseppe Bandi. Scrive pure lui, annota: Passato l’isolotto del Maretimo, vogammo non lungi da Favignana, isola infame pel martirio di tanti patrioti, che furono sepolti nell’ergastolo della sua ròcca. «Lassù sta il povero Nicotera» esclamò Garibaldi, asciugandosi una lacrima. E Nicotera ebbe a dirci, indi a pochi giorni, d’aver provato un fausto ed indicibile presentimento, osservando di tra le sbarre del carcere i due legni misteriosi.
Giuseppe Marchetti non aveva presentimenti quel mattino, mentre guardava insieme agli altri le Egadi e la costa siciliana. Non avrebbe potuto immaginare che gli sarebbe toccato in sorte proprio di arruolarsi con quel Nicotera, e che con lui avrebbe vissuto le giornate del 1867, abbrunate dalla sconfitta di novembre a Mentana. E neppure avrebbe potuto pensare al resto, sarebbe stato impossibile... Spesero una lacrima per Nicotera, intanto che, dice il Bandi, «oltrepassata Favignana, apparsa bella e ridente la spiaggia di Sicilia, e raggiunto il capo Provvidenza, il capitano Castiglia additò a Garibaldi il porto di Marsala, che biancheggiava da lungi». Il bambino Giuseppe pianse come tutti gli altri. Certamente suo padre gli aveva raccontato del cospiratore calabrese che aveva combattuto a Roma nel ’49 e che poi nel ’57, partito come aveva fatto con Pisacane per Sapri, era stato catturato, condannato a morte e quindi segregato a Favignana, dove proprio loro, lui, i garibaldini, lo avrebbero presto liberato. Pensavano a Nicotera, al Pisacane «con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro» del verso di Luigi Mercantini. Abba aveva appena finito di scivere di Marchetti, quando a un tratto notò un movimento di teste verso poppa: «Due navi corrono a vista dietro di noi!» 206
Furono finalmente in vista di Marsala, tallonati dalle navi borboniche. «Pronti, figliuoli» disse Bixio. Facile a dirsi e meno a farsi, quello sbarco del Lombardo. Bandi lo vide «arenato sulla bocca del porto, e in tal posizione che, per la lontananza, non era così agevole sbarcare con pari sollecitudine la sua gente. Di ciò accortosi Garibaldi si dié a gridare mandassero barche in tutta fretta al legno incagliato, tanto più che uno dei vapori della crociera appariva già quasi a tiro di cannone». I canotti e le lance accostarono, Abba aiutò Giuseppe a calarsi: «Eccola lì, Marsala, le sue mura, le sue case bianche, il verde dei suoi giardini, il bel declivio che ha dinanzi». S’iniziava la grande avventura. Non trascorsero neanche vent’anni come nel romanzo di Alexandre Dumas, che avrebbe raggiunto Garibaldi a Palermo e forse conosciuto il bambino dei Mille. Assistito dalla mamma, Giuseppe Marchetti morì di «infermità polmonare», come dissero i medici, alle 3 del 16 maggio 1877 all’Ospedale Gesù e Maria di Napoli. Se n’andava in un altro maggio, ben differente da quello del 1860, quel 16 maggio che cadde all’indomani della vittoria di Calatafimi. Luigi Marchetti riposava ormai da tempo: era deceduto in miseria a Campo Ligure, allora Campofreddo, non lontano da Genova, il 28 gennaio 1864. Non aveva quarant’anni. Anton Maria Scarpa, il solo biografo della piccola camicia rossa, in un volumetto e in un saggio per la “Rassegna Storica del Risorgimento” racconta che gli ultimi momenti di vita «del giovane garibaldino dovevano essere stati particolarmente amari. I suoi polmoni sono a pezzi, i creditori non danno tregua. Le richieste di aiuto, inoltrate dalla madre, che se lo vede morire sotto gli occhi, si fanno sempre più pressanti». 207
Ma nessuno, a Roma, le prende in considerazione. Soltanto nel 1876, con il governo di sinistra guidato da Agostino Depretis, viene dato un sussidio di 100 lire a Giuseppe e a sua madre Antonia Tessaro. Però i continui cambi di abitazione a Napoli, dovuti alla povertà, impediscono loro di riceverlo. Rammenta Scarpa che «in calce all’ordine di pagamento c’è, infatti, questa annotazione: “Il Prefetto di Napoli ha informato che la Marchetti non abita al Vico S. Sepolcro n. 30 e quindi non sa come avvertirla”. E pensare che quel denaro sarebbe stato prezioso per Giuseppe, che sta chiudendo la sua breve ed agitata esistenza a Napoli, in una città gaia e rumorosa che tanto gli ricorda la sua Chioggia!» I travagli, gli stenti erano cominciati subito dopo la smobilitazione dell’Esercito Meridionale. I giorni di gloria del 1860, il congedo di Giuseppe con il grado di caporale e il ricordo di avere divertito il Generale, in un’osteria di Marsala, con dei giochi di prestigio, avevano lasciato il posto ai giorni della fame, delle umiliazioni, persino della sorveglianza da parte della polizia del nuovo regno d’Italia. Liquidata l’armata di Garibaldi, Giuseppe aveva seguito il padre «allorché questi ebbe l’intenzione di passare nell’esercito regolare. Qui, però, vi era per i garibaldini «un’ostilità preconcetta, materiata di albagia, di disprezzo, di sospetto e, diciamolo pure, di grettezza, la quale avrebbe spento qualunque entusiasmo», narra lo Scarpa citando un saggio di Rocco Vincenzo Miraglia. Poco contava che Luigi Marchetti, nominato «all’atto dello sbarco» da Pietro Ripari «officiale sanitario» della V compagnia di Francesco Anfossi, il 16 giugno fosse diventato medico di battaglione «e come tale prestò servizio nel III, II e IV battaglione della I brigata (comandata da Bixio); il 15 ottobre, “medico di reggimento di 2a classe”, passando dal I al II 208
reggimento della stessa brigata, ora inquadrata nella XVIII divisione, sempre sotto il comando di Nino Bixio». Ferito a Calatafimi, «distintosi a Reggio e a Maddaloni, “curando i feriti nel vivo dell’azione”, il 23 maggio 1861 ricevette la menzione onorevole (corrispondente, oggi, alla medaglia di bronzo al valor militare). Si può ritenere che il figlio Giuseppe, data la sua giovane età, sia stato sempre accanto al padre, sopportando sacrifici di ogni genere, che minarono il suo fisico». Sfumata la possibilità di entrare nelle truppe del re, e ottenuti, da Luigi, il congedo e una gratificazione di sei mesi di paga, i Marchetti andarono a Torino, dove arrivò anche Antonia. La famiglia si stabilì al terzo piano di casa Antonelli, in via Vanchiglia 11, un borgo di artigiani, di operai, che aveva già dato rifugio ad altri esuli della repubblica di Venezia come Niccolò Tommaseo. A Torino «il dottor Marchetti deve aver esercitato la sua professione con scarsa fortuna. In una lettera del 24 novembre 1861, indirizzata al ministro dell’Interno, Luigi si dichiara “mancante di mezzi di sussistenza e implora un sussidio straordinario, affinché possa coprire sé ed il figlio nell’attuale invernale stagione”. Grazie alle informazioni favorevoli, fornite da Alberto Cavalletto, presidente del Comitato Politico Veneto Centrale, gli viene elargito un sussidio di lire 40». Denaro che manca, lettere, richieste pressanti, recriminazioni. Sempre Scarpa rievoca che «nella lettera del 17 dicembre 1861, in cui si lamenta col ministero dell’Interno di ricevere “soli trenta soldi al giorno (mentre tutti gli altri emigrati hanno per cadauno L. 1)”, il Marchetti afferma di non potersi dedicare, come vorrebbe, alla sua professione “per una grave ferita” al fianco destro, riportata a Calatafimi; scrive inoltre che “a lui vicino vede il figlio che con 209
esso fece parte alla prima spedizione in Sicilia e che di giorno in giorno spera d’essere riparato dal freddo: egli è dal padre confortato, giacché sarebbe male un disinganno all’età d’anni 12”». Il 13 febbraio del ’62 chiede alla Commissione Governativa per l’Emigrazione «d’inviare il sussidio a Genova, ove si trasferirà “primieramente per migliorare la sua e la salute del figlio, in secondo luogo perché in quella città troverebbe più agevole il vivere esercitando la sua professione qual medico chirurgo”». In certi giorni, scoraggiato, forse pensava che sarebbe stato meglio morire laggiù, com’erano morti i suoi compagni in Sicilia e al Volturno, e com’era morto a Calatafimi Simone Schiaffino da Camogli, che il Bandi racconta con questo pathos: Il fucile del sergente, appoggiato colla punta della baionetta al petto di Schiaffino, fece fuoco, e Schiaffino cadde indietro sollevando in alto, nel cadere, la bionda e lunga barba, e lasciò la bandiera, che in mezzo a grida di giubilo, sparì dai miei occhi.
Morire in battaglia per non suicidarsi come sarebbe successo a tanti, a Campanella, a Carrara, a Cella e a Ciotti, Damiani, Fontana, Manci, Marchesi, Pavolieri, Piccoli, a Savi e a Scaluggia. O per non diventare folli, il che capitò ad Abbagnale, ad Aiello, a Bensaia, Braico, a Brambilla e a Carminati, Cervetto, Dolcini, Perduca, Quezel, Sacchi, Valenti, Zancani, a Zasio e ad Airenta. Girolamo Airenta, certo, detto Giomo: un ligure di Rossiglione. Era amico di Abba, si erano incontrati prima della partenza del Piemonte e del Lombardo, fraternizzando subito: «Fino ad ora non conosco che Airenta, dei nuovi. Egli, mentre scrivo, dorme lungo disteso, colla testa appoggiata alla sua sacca, vicino ai miei piedi. È un giovane d’oro. Ci 210
conoscemmo ieri, ci troviamo qui, ci siamo promessi di star sempre insieme. I suoi maestri del seminario arcivescovile di Genova, quando sapranno il passo che ha fatto!» Di passi ne fece altri «questo oscuro eroe», come lo rievoca il Bevilacqua, «che divenne pazzo e tentò di uccidersi sparandosi un colpo di pistola già nel 1871». Morì in manicomio nel 1875. Nel Dizionario del Risorgimento, quello curato da Michele Rosi e pubblicato da Vallardi negli anni trenta del Novecento, del povero Airenta si dice che «si segnalò al Ponte dell’Ammiraglio a Palermo e fece con onore tutta la campagna circondato dall’affetto dei compagni che del loro Giomo (come essi lo chiamavano) solevano apprezzare la dolcezza del carattere e la generosità dell’animo». Nel ’66 «si batteva a Bezzecca sotto gli ordini di Garibaldi, ma, fatto prigioniero dagli austriaci e condotto in Boemia, ritornava poi in patria addoloratissimo, per non dire avvilito. Forse questo contribuiva a fargli sviluppare una grave malattia mentale che le cure usategli nel manicomio di S. Lazzaro a Reggio Emilia non valsero a guarire». Capitava al dottor Marchetti, in quella Torino ingrata e immemore, di patire non la follia ma una fame doppia: di minestra, in primo luogo, e di rispetto nei suoi confronti, del suo passato recente. Come altri garibaldini, dice Scarpa, «è guardato con sospetto. Il questore di Torino, nella nota del 19 marzo 1862, indirizzata al ministro dell’Interno, così lo descrive: “Dalle assunte informazioni [...] consterebbe che il medesimo è uomo poco socievole ed assai rozzo ne’ suoi modi e nel suo conversare. Col dodicenne suo figlio prese parte alla spedizione di quei 1000 individui, che col sig. Garibaldi andarono in Sicilia, ed in tale occasione fu nominato medico di reggimento in quei volontari. Dimissionario, venne a stabilirsi a Torino, ove 211
abitò in via Goito n.1, piano terreno, ma non era conosciuto dal vicinato per essersi quasi sempre assentato di casa; si sa però che era di cagionevole salute, e che appunto per migliorarla desiderava recarsi a Genova”. Proseguiva la nota poliziesca: “Il suo allontanamento da Torino fu atto prudenziale, giacché qui era di scandalo pel suo modo di vivere scioperato e per le ciniche sue abitudini che lo facevano sembrare uomo dell’infima plebe, anziché laureato in medicina e chirurgia”». Se «fosse stato come ce lo descrive il regio questore, difficilmente il Cavalletto si sarebbe esposto più volte per ricordare i “vari servizi medico-militari prestati dal dr. Marchetti Luigi” nella “prima spedizione in Sicilia”!» Ma in Piemonte, in Italia, le cose e gli uomini avevano ripreso il loro solito corso. Anton Giulio Barrili, un altro garibaldino, concludendo i suoi ricordi sulla campagna del ’67 «alle porte di Roma» avrebbe scritto, a nome di tutti loro, tutti i loro disinganni: Ed io vedevo tanta gente allegra, a teatro, tante belle dame sorridenti nella mezza luce dei palchetti ai cavalieri galanti, dai guanti grigi perlati e dai candidi petti di porcellana! Niente di nuovo, niente di grave era accaduto in Italia. Per chi volevate farvi ammazzare, Generale? Per chi?
Il dottor Marchetti prese la via di Genova, la stessa dei proscritti del 1821, di Santa Rosa e di Giacinto Collegno, di Carlo Bianco di Saint Jorioz e del sergente Cirio. La destinazione era il borgo di Campofreddo, nella valle Stura, ai piedi del colle del Turchino, lungo vallate, montagne e colline sulle quali s’innalzavano castelli e rocche, e dove non lontano sorgeva il paese di Rossiglione, quello di Giomo Airenta. In Liguria, rammenta Scarpa, «l’ex garibaldino conti212
nua la solita vita di stenti. Lo farà ancora per poco. Durante l’inverno del 1863, non ancora quarantenne, è colpito da paralisi. Morirà il 28 gennaio 1864, lasciando una vedova senza pensione e un ragazzo di 14 anni». Una pensione di 1000 lire venne concessa ad Antonia e a Giuseppe, che erano ritornati a vivere a Torino, soltanto nell’aprile del 1865, grazie alla legge del gennaio di quell’anno che aveva stabilito un vitalizio per i superstiti della spedizione in Sicilia. Fu «veramente provvidenziale per i due Marchetti» che si erano mantenuti, fino a quel momento, «con le 40 lire mensili dell’assegno di Giuseppe». Il 14 marzo, poi, aveva ottenuto di potere fregiarsi della medaglia dei Mille, che il Senato di Palermo aveva concesso. Nel 1866 si riprese a fare la guerra. Si ripresero le sciabole e i fucili dagli armadi, vennero spazzolate e ricucite le vecchie camicie rosse. Giuseppe dovette farsene una nuova. Con quella, il 24 di maggio, si presentò al centro garibaldino d’arruolamento di Alba, nelle Langhe, e fu inquadrato nella VI compagnia del V reggimento, agli ordini di Nepomuceno Bolognini. Quest’ultimo, originario di Pinzolo, in val Rendena, era già noto come combattente leggendario: nel ’48 si era distinto con la legione trentina; nel ’59 aveva militato tra le Guide Garibaldine, e, soprattutto, si era fatto onore alla battaglia del Volturno, tanto da guadagnarsi una medaglia d’argento e la nomina a maggiore. Narra Scarpa che Giuseppe si congedò il 27 settembre, con una gratificazione di 72 lire. Il «suo nome figura nell’elenco generale “degli individui ai quali si rilascia la dichiarazione di fregiarsi della medaglia commemorativa per aver fatto la campagna di guerra dell’anno 1866”». Un’altra decorazione, ancora una volta una “medaglia commemorativa”, la ebbe per la campagna del 1860: gli venne data il 9 luglio 1867. Trasferitosi a Napoli insieme alla ma213
dre, non rifiatò che per qualche mese. Nell’autunno del ’67 prese parte al tentativo di Garibaldi e del suo corpo di volontari di prendere Roma. Si arruolò nella colonna di Nicotera, ora generale, XIII compagnia. Anche in questo caso avrebbe avuto una medaglia, quella «de’ benemeriti della liberazione» dell’Urbe, conferitagli dal Comune di Roma, italiana da un anno, nell’agosto del 1871. Molte medaglie, tanto onore, pane sempre più scarso. A Napoli Antonia e Giuseppe fanno la fame, sono pieni di debiti, abitano nei tuguri dei vicoli fetidi della città. La madre «scrive con insistenza al governo, prima a Firenze e poi a Roma, nella speranza di ricevere un aiuto in denaro. Le rispondono raramente, usando un freddo linguaggio burocratico (“Duole al sottoscritto di non poter dare favorevole evasione...”)». Una delle lettere più drammatiche è dell’11 luglio 1874, indirizzata a «Vostra Eccellenza» Girolamo Cantelli, il ministro dell’Interno: Lo stato della supplicante è miserevole oltremodo. Tutto ha pignorato, ed essa non sa come sostentare la vita, ché, qual Veneziana, non ha in Napoli alcuna conoscenza, onde ricorrere nelle sue necessità. V.E. è conosciuta pel Suo cuore generoso: non voglia perciò abbandonare una donna alla sventura.
La risposta di «Vostra Eccellenza» Cantelli, girata al prefetto di Napoli affinché provveda lui, non lascia speranze: Prego la S.V. perché voglia far sentire alla petente che, pur commiserando le infelici condizioni economiche nelle quali rappresenta di trovarsi ridotta, sono spiacente di non poterle accordare il sussidio invocato, per l’assoluta deficienza di fondi all’uopo disponibili. […] In pari tempo vorrà farle comprendere che sarebbe inutile presentare nuove domande allo stesso scopo, in quanto che non potrebbe conseguire risultato diverso.
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Giuseppe morì il 16 maggio del 1877. Antonia Tessaro rimase «terribilmente sola». Scrisse nuovamente a Roma il 20 agosto 1877, questa volta però lo fece con un po’ più di fiducia, presagiva che qualcosa, un poco di bontà, ci sarebbe stata, e che la mano di un vecchio compagno d’armi di suo figlio, poi, adesso si sarebbe posata sulla sua. Il governo era cambiato, e la sinistra comandava; ministro dell’Interno era diventato un garibaldino, addirittura il generale di Giuseppe, l’ex cospiratore rinchiuso a Favignana che Luigi e la piccola camicia rossa, quelli come loro, avevano liberato... Giovanni Nicotera le fece rispondere qualche tempo dopo. Era la risposta di sempre, erano le solite scuse, la solita commiserazione inutile e insultante: «… il ministero non può, con rincrescimento». Un anno dopo, sempre ad agosto, il presidente dell’Associazione delle patrie battaglie delle Province Meridionali volle sostenere le suppliche di Antonia e fece presente al ministro che la donna si trovava «in una squallida miseria e senza mezzi di sussistenza, avendo i di lei congiunti sacrificato sostanze e vita per la Causa Nazionale». Anche il prefetto di Napoli appoggiò la richiesta. Sei giorni dopo, Roma si fece viva. Per dire che «pur commiserando le infelici condizioni in cui versa, [...] questo ministero è spiacente di non poter accordare alla medesima l’invocato sussidio per l’assoluta deficienza di fondi». Pisacane si rivoltò nella tomba, come si rivoltarono tutti gli altri «giovani e forti» che erano morti in un’estate vecchia già di ventun anni. Antonia Tessaro Marchetti se ne andò alla fine del novembre del 1879, «in una povera casa del napoletanissimo quartiere di San Lorenzo». Morì giovane anche Costantino Pagani da Borgomanero, un altro dei Mille. Nel ritratto dell’Abba rifulge un 215
«tenente di fanteria, disertato da Genova, che cadde morto a Calatafimi, sotto il nome di De-Amicis, e giacque là nella sua bella divisa supino, con vicino alla bella testa il suo berretto listato d’argento». Due segni premonitori s’erano manifestati nella sua breve esistenza, straziata a ventitré anni, il 15 maggio del 1860. Il primo lo aveva colto lo stesso Abba, senza rendersene conto, incontrandolo alla stazione di Novi Ligure, il 4 maggio, alla vigilia dell’imbarco da Quarto: «Un sottotenente di fanteria mi si avvicinò e mi disse: “Vorrebbe telegrafarmi da Genova l’ora che partiranno?” Io, né sì né no, rimasi lì muto. Che dire? Non ci hanno raccomandato di tacere?» Il giovane, un «bel giovane», «alla parlata, piemontese», si allontanò «con un’aria dolce di rimprovero». Non seppe il suo nome, «non ne chiederò. Innominato, mi resterà più caro e desiderato nella memoria». Se non proprio «innominato», Pagani morì con un falso cognome, quello appunto di De Amicis, che si era dato perché disertore del regio esercito piemontese. Abba s’imbatté nel suo cadavere al termine della battaglia: «Ma uno d’essi mi mette non so che sgomento nell’anima, quell’ufficiale che vidi a Novi, che rividi a Salemi. Anche De Amicis è morto, è rimasto là nella gloria con nome non suo». Il secondo segno del destino venne avvertito in qualche modo da Giuseppe Bandi, poco prima dell’inizio del combattimento. Accadde quando Costantino gli si avvicinò, affacciandosi da una carrozza prestata da un notabile del posto, e spiegò perché stava viaggiando con quel mezzo: Che vuoi? Per questi ottant’anni che mi restano da campare, voglio godermi un po’ il mondo. Io ti giuro che il primo cannone nemico che vedrò, quel cannone sarà mio... è un’idea fissa che ho in testa; voglio che si dica che il primo cannone guadagnato da Garibaldi in Sicilia, l’ha preso De Amicis.
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Onorò l’impegno: tra i caduti della giornata memorabile ci fu «il tenente De Amicis, che avendo veduti i cannoni, era corso a compiere il suo voto». Breve fu la vita di Costantino Pagani da Borgomanero, figlio del farmacista Giovanni Battista e di Paola Bolchini. Breve e densa di fatti d’arme, di passioni, di romanticismo, di fede patriottica. S’era arruolato giovanissimo, appena diciassettenne, in un reggimento di fanteria che, ancora per un capriccio del fato, era contrassegnato dal medesimo numero dei suoi anni: il diciassettesimo. Si guadagnò la promozione a caporale e poi a sergente. Come ricorda Abba, descrivendone la figura di giovanotto «uscito, mi pare da poco, da qualche collegio militare», sembrava destinato a una buona carriera nelle truppe del re. Le cose non andarono così. Approfittando di una licenza trascorsa a casa, nel giugno del 1858 decise di disertare. Non si sa perché lo fece, se per insofferenza alla disciplina militare oppure se per altri motivi. Si conosce, in compenso, il resto della storia. Allo scoppio della seconda guerra d’Indipendenza, si presentò in uno dei centri d’arruolamento dei Cacciatori delle Alpi e indossò la camicia rossa. Si batté a San Fermo nella battaglia vinta dai garibaldini, che in quel villaggio lombardo, il 27 maggio del ’59, sgominarono gli austriaci e si aprirono la via di Como. Dopo l’armistizio di Villafranca, Pagani seguì Garibaldi. Nel frattempo il Generale aveva ottenuto il comando in seconda, sotto Manfredo Fanti, dell’esercito della Lega dell’Italia Centrale. Nell’aria, in ogni caso, si annusava ormai l’avventura di Sicilia. Costantino non avrebbe di certo mancato quell’occasione. Partì con i Mille, che aveva raggiunto nonostante il silenzio di Abba alla stazione di Novi. Come Bevilacqua avrebbe detto di lui, nell’isola «scrisse l’ultima fuga: quella della gloria, per sempre a Calatafimi». 217
Era un ragazzo in fuga? Può essere. Nella memoria dei garibaldini, di Bandi, sopravvissero il suo sorriso e le parole pronunciate a bordo della carrozza: «Eh – mi disse De Amicis – ti diverti ad andartene a piedi con questo caldo e questo polverone?... Vedi, c’è posto finché vuoi; monta su». Andava incontro alla morte, forse lo sapeva. Senza retorica, ebbe una morte eroica.
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Tonina Marinello La garibaldina
Dove si racconta della bionda Tonina Marinello, che andò dalla Sicilia al Volturno, vestendo la camicia rossa, e si batté da prode sotto mentite spoglie. Si narra della sua terra veneta, dell’esilio e della morte cara agli dei. E si dà conto del fantasma della Bella Gigogin di Porta Tosa. Con una nuova scoperta all’Archivio di Stato di Torino.
Il 23 maggio del 1862 apparve su “Lo Zenzero”, «giornale politico popolare» di Firenze, un articolo, breve ma partecipato, intitolato semplicemente Antonia Marinello. Per non smentire il carattere del foglio, per l’appunto “popolare”, l’estensore dello scritto cominciava rivolgendosi ai «Popolani miei carissimi». E chiedeva loro se avessero visto, «jeri l’altro sera», «quella Bara che portava un cadavere all’ultima dimora». La dovevano avere vista, perlomeno in molti, dato che una gran folla, «con lumi e senza», «l’accompagnava». L’articolista faceva quindi rispondere di «sì», ai suoi lettori, alla domanda se l’avessero vista quella bara, e poi se avessero notato «quanta gente» andava dietro al feretro. E proseguiva: «chi era la persona morta non lo sapete? dissero una Garibaldina... Non sapete altro?... Dunque ascoltate». Ascoltarono, e lessero. E seppe, chi non sapeva, che «quel cadavere, era di Antonia Marinello di Savarese», storpiatura probabile del nome di un paese veneto, che soltanto decenni dopo sarebbe stato individuato come quello natale. Ma chi era stata veramente quella donna, 219
salutata nell’estremo viaggio da molta gente, «con lumi e senza»? “Lo Zenzero” non si perdette nei particolari: era una donna che «appena attaccata la guerra nell’Italia Meridionale assieme a suo marito corse colà nelle file del Generale Garibaldi». Si trattava allora di una vivandiera, il che non sarebbe parso strano o degno di menzione particolare? «No, vi ho detto che combatté, che vuol dire, che col suo fucile in spalla fece tutto quello che fecero quei generosi giovani – essa quando li toccava, o gli [sic] veniva ordinato montava le sue guardie, faceva le sue ore di sentinella a’ posti avanzati – il suo servizio di caserma; insomma faceva tutto ciò con tal disinvoltura e coraggio che per molto tempo i suoi camerati non si erano avveduti, che essa era una femmina». Non s’erano avveduti nemmeno quelli dello “Zenzero” che la stranezza c’era: la “garibaldina”, in buona sostanza, aveva dovuto fare tutta la campagna del 1860 senza dare a vedere di essere “femmina”. A memoria d’uomo, e di memorialisti delle camicie rosse, risultava esserci stata una sola donna, in via ufficiale e citata negli elenchi, nella spedizione di Garibaldi: era la Rosalie Montmasson, savoiarda di Annecy, moglie di Francesco Crispi, che il Bandi descrive a bordo del Piemonte «vestita in dimessi panni», mentre «giuocava a scopa coll’antico parroco Gusmaroli, vecchio dai capelli lunghi e bianchissimi». Altre donne, dopo la presa di Palermo, apparirono sulla scena. Come la contessa Maria Martini Giovio della Torre, figlia di Carlo Canera di Salasco, il generale che dopo la sconfitta di Custoza aveva firmato l’armistizio con l’Austria nell’agosto del ’48, a Vigevano. Abba la vide a ferragosto a Messina, qualche giorno prima dell’approdo in Calabria: «Ho veduto un ufficiale delle Guide camminare lesto lesto lungo la spiaggia, senza sciabola, proprio una donna, fianchi e 220
seno. Bella, faceva l’aria da bambina, ma si guardava dietro con una coda d’occhio così serpentina!... Gli ufficiali della brigata ne chiacchieravano; il colonnello Bassini scuotendo la testa e il frustino, brontolava sordamente dietro quella figura. È una contessa piemontese». Si era invaghita di Garibaldi e lo aveva seguito nella spedizione, occupandosi soprattutto delle ambulanze insieme a un gruppo di picciotte. Vestiva la divisa delle Guide, forse più per vezzo che per altro, e del resto non nascondeva le sue fattezze molto femminili, come Abba aveva ben sottolineato. Il coraggio e lo spirito ribelle, però, non le mancavano. Si raccontava che, da ragazza, avesse partecipato alle Cinque Giornate di Milano, e che dopo avere lasciato il marito, il conte Martini Giovio della Torre, un cremasco, il padre l’avesse chiusa in un convento da cui lei era riuscita fuggire. In Inghilterra, poi, aveva conosciuto Garibaldi. E a Milazzo, durante il combattimento, sembra che a un certo punto, per riportare alle loro batterie gli artiglieri in camicia rossa che fuggivano incalzati dal tiro delle navi borboniche, avesse fatto irruzione tra di loro, a cavallo, con la sciabola in pugno. Smontata di sella, avrebbe puntato un cannone contro il nemico. Un bel tipo, questa contessa, come lo era stata la siciliana Rosa Donato, che nella rivoluzione del 1848, a Messina, aveva impugnato le armi contro i borbonici, anche lei dando fuoco letteralmente alle polveri con un cannone alla batteria di San Giacomo. Ma un tipo fuori ordinanza. Inquadrata regolarmente nelle truppe volontarie, invece, doveva essere stata la garibaldina che si era spenta a Firenze. Visto che Garibaldi che non consentiva alle donne di arruolarsi, per poterlo fare Antonia dovette farsi passare per il fratello più giovane del marito. Di quest’ultimo si ignora tutto. Verosimilmente di cognome faceva Marinel221
lo, ma è un’ipotesi, sia pure ragionevole e suffragata, in qualche modo, da alcune cronache. “Lo Zenzero”, a ogni modo, fu piuttosto laconico nel suo pur encomiabile necrologio, che si chiudeva così: Disfatto l’esercito garibaldino senza staccarsi mai dal suo consorte, si ritirò quà [sic] in Firenze, in una delle più umili casette che sono alla piazza de’ Marroni, ove a 28 anni dopo lunga malattia acquistata nelle fatiche della guerra, spirò nelle braccia del marito lasciandolo nel pianto in terra dell’esilio – O non è di Savarese? – o questa non è terra d’Italia? – dunque il suo consorte non è in esilio! – Errore, miei cari, errore – I veneti che sono raminghi dalla sua patria in mano degli austriaci, sono dai nostri buoni padroni e consorti trattati... Basta è meglio troncare il discorso pel rispetto che si deve ad un angiolo che non è più e cerchiamo invece di una forbita orazione funebre, di consolare il povero consorte nel portare alla tomba della defunta un fiore accompagnato dalla preghiera a Dio onde [parola illeggibile] come più e meglio gli piace, l’Italia dallo straniero e dai birbanti.
Di fiori ne portarono tanti. Secondo Giuseppe Curatolo, che lo rammentò nel suo libro su Garibaldi e le donne, pubblicato nel 1913, la «Tonina Marinelli», «un’altra eroina», morì nel mese in cui «sbocciavano le rose, di cui il suo corpo fu tutto coperto». Altro non rivelò, se non che Tonina, come veniva chiamata affettuosamente, era un’«esule veneta, vestita da garibaldina» che «fece al fianco del marito la campagna dell’Italia meridionale, da Milazzo al Volturno». Era morta povera come i Marchetti e di tisi, il 21 di maggio, una sorte toccata a numerosi altri suoi compagni che avevano fatto la campagna fino al Volturno. Abba ricordò dolente nella sua Storia dei Mille che «nei primi dieci anni dopo il ’60, morirono quelli che erano già quasi vecchi al tempo della spedizione, ma anche molti, massime 222
dei più giovani, consumati dalla tisi. Non pochi finirono di malattie mentali; troppi si spensero da sé, non rimasti abbastanza forti alla vita». Di lì a poco, a luglio, Tonina avrebbe dovuto compiere ventinove anni. Il giornale fiorentino, che usciva tutte le mattine alle sette eccetto il lunedì, disse che molte persone presero parte alle esequie. A quella folla forse si unì Francesco Dall’Ongaro, uno dei poeti più amati e popolari del Risorgimento. Originario di Oderzo, si era battuto nella difesa della repubblica di Venezia e aveva trovato rifugio in Svizzera e in Belgio. Nel ’59 si era stabilito nella capitale toscana per insegnare letteratura drammatica. Non c’è da stupirsi pertanto se, in quel giorno di primavera, fosse salito fino a San Miniato al Monte, al cimitero delle Porte Sante, per dire addio alla garibaldina che veniva, come lui, dal Veneto ancora sotto il giogo austriaco. La sua morte lo commosse e lo ispirò, come aveva commosso e ispirato Ada Corbellini. Era una poetessa di sentimenti fortemente patriottici, componeva canti popolari, diffusi su fogli volanti, come quello del 1° luglio del ’59 per la partenza dei volontari: Han lasciato le vergini loro E i fantastici sogni d’amor... Giovinette, un saluto a costoro, Un sorriso a quei nobili cor.
Nata a Felino, vicino a Parma, e moglie del generale Felice Martini, ebbe in destino pure lei di andarsene presto, a soli ventisei anni. Nella notte del 23 luglio del ’63, Ada scrisse in una sua lirica che avrebbe voluto essere sepolta accanto alla tomba della garibaldina, a San Miniato. È possibile che avesse letto lo stornello che il Dall’Ongaro aveva composto in quei mesi, intitolandolo Tonina Mari223
nello. Sono versi struggenti, colpiscono direttamente il cuore. Anche il vecchio e caro Bianciardi li avrebbe cantati sull’aria che compose il Carlo Castoldi «in chiave di sol con accompagnamento di pianoforte», pubblicando lo spartito di quella «opera 22», verso il 1870, presso la rinomata casa editrice musicale che Francesco Lucca aveva fondato a Milano nel 1825. Non sbagliò dunque il Curatolo a definirli «magnifici», e citandoli tutti nel suo libro sul Generale. E non si sbaglia a riproporli adesso. Dicono: L’abbiam deposta la garibaldina all’ombra della torre a San Miniato, colla faccia rivolta a la marina perché pensi a Venezia e al lido amato. Era bella, era bionda, era piccina, ma avea cuor da leone e da soldato. E se non fosse ch’era nata donna porteria le spalline e non la gonna, e poserebbe sul funereo letto colla medaglia del valor sul petto. Ma che far la medaglia e tutto il resto? Pugnò con Garibaldi, e basti questo!
Erano così belli, così gentili e lievi, i versi dello stornello di Dall’Ongaro, che li vollero incidere sulla lastra tombale di Tonina. Del resto in quel 1862, che sarebbe culminato alla fine d’agosto nei fatti d’Aspromonte, il ricordo della garibaldina sembrava destinato a non tramontare mai, infrangendo il tempo e assumendo un’icastica classicità da mondo antico. Non sarebbe durato a lungo, ma intanto persino oltre oceano, negli Stati Uniti, dove era ben vivo il mito del Ge224
nerale, si rendeva omaggio alla bionda camicia rossa morta giovane, quindi cara agli dei. Sul quotidiano “The Daily True Delta” di New Orleans, il 10 agosto, uscì un articolo dal titolo inequivocabile: The Story of an Italian Heroine. Vi si raccontava che in una lettera, inviata da Firenze al London Atheneum, veniva data notizia degli imponenti e pittoreschi funerali di una «eroina italiana» che, insieme al marito, aveva seguito «le fortune di Garibaldi». Le esequie erano quelle di «Tonina Marinello, giovane donna veneziana nel fiore della vita, che si era battuta coraggiosamente, con il marito, nelle truppe garibaldine in Sicilia, da Marsala a Messina, e poi fino a Napoli e a Capua». Si erano svolte qualche tempo prima, verso sera, all’ora dell’Ave Maria, e il corteo si era mosso dal Duomo verso Porta San Niccolò, per arrivare sulla collina di San Miniato, tra gli olivi e i cipressi. Erano in molti ad accompagnare il feretro, manifestando «pubblico rispetto e simpatia» per quella donna che aveva vissuto gli ultimi mesi della sua vita in una povertà estrema, nella sofferenza della malattia. Spiccavano nella folla gli esponenti del «partito ultra rosso», i garibaldini insomma, la cui presenza massiccia, lì nelle strade fiorentine, «poteva essere scambiata per una dimostrazione». La «piccola storia di Tonina» aveva «aspetti da romanzo», e lei era semplice e affascinante, dalla figura esile, con un bel volto pallido ombreggiato dai capelli biondo-marroni, che spesso avevano il fulgore dei dipinti degli antichi pittori veneziani. Non c’era niente «di arrogante, nulla di poco femminile o di teatrale, nell’atteggiamento del suo coraggio tranquillo». Suo marito aveva combattuto nella prima giovinezza le battaglie del 1848; e quando era scoppiata la guerra del 1859 «era stato impiegato dal comitato liberale segreto dei territori veneziani nel pericoloso servizio di guida per i giovani di Venezia che volevano espatriare 225
nelle province liberate, fuggendo dalla vendetta austriaca, attraverso terre rese desolate dalle capricciose inondazioni del Po, e passando da una sponda all’altra del fiume». Di quelle Guide, «Marinello e sua moglie erano tra le più coraggiose e le più fidate, fino a quando, dopo parecchi mesi trascorsi a esercitare quel mestiere rischioso, i sospetti delle autorità austriache erano caduti su di loro. Così avevano dovuto scappare precipitosamente, con la loro figlia in tenera età, riparando a Modena». La capitale dell’ex ducato di Francesco IV, il boia di Ciro Menotti, nel frattempo, nei primi mesi del 1860, era stata annessa al regno di Sardegna insieme agli altri territori dell’Italia centrale. Furoreggiarono i giorni della primavera del 1860, si preparava febbrilmente la spedizione garibaldina in Sicilia. Marinello decise di unirsi ai volontari. Non volendo separarsi dal suo compagno, anche Tonina disse che sarebbe partita con lui. Lasciarono la bambina a un amico di Modena e andarono a Genova. Ma lì vennero a sapere che il Piemonte e il Lombardo erano appena salpati. Nel giro di qualche settimana, secondo il racconto un po’ vago e probabilmente impreciso del “Daily True Delta”, s’imbarcarono a loro volta «per Marsala». Una volta in Sicilia, forse a Milazzo oppure a Messina, secondo il quotidiano di New Orleans, raggiunsero i Mille, che stavano diventando migliaia. Il giornale inoltre affermò che il marito di Tonina era entrato nella brigata del pavese Gaetano Sacchi, che tuttavia era giunto a Palermo, sul piroscafo Torino, soltanto il 22 di luglio. Si trattava di una delle spedizioni che, fino al Volturno, ingrossarono le file dell’Esercito Meridionale di Garibaldi; al termine della campagna avrebbe potuto contare su circa 40-50 000 uomini. Il colonnello Ferracini, uno degli ufficiali della brigata, apprezzava il valore e la buona condotta dei Marinello, ma 226
sarebbe stato molto difficile, praticamente impossibile, arruolare Tonina. Gli ordini del quartier generale infatti erano perentori: alle donne non era consentito di far parte delle truppe garibaldine. Tonina non era disposta a rinunciare. Ebbe un lungo colloquio con Ferracini, infine riuscì a convincerlo: si sarebbe fatta passare per un uomo, arruolandosi col nome di Antonio Marinello, il fratello più piccolo di suo marito. Nel resoconto giornalistico, a quel punto, gli accenti da romanzo prevalsero, come peraltro era stato annunciato. Soltanto Ferracini e il maggiore Bossi, in sostanza, avrebbero conosciuto la vera identità di Tonina. Nessun altro si sarebbe accorto che sotto quella camicia rossa, quel cappello dalla foggia sbarazzina che tratteneva la chioma bionda, si nascondeva una donna avvenente. «Venne scambiata», si disse, «per uno dei tanti giovani» che stavano facendo la campagna del 1860. Il mistero su Tonina dunque rimaneva, irrisolto e confuso, alimentato prima da leggende, giochi di specchi deformanti, illusionismi, assenze e vuoti, e in seguito dal progressivo e definitivo oblio di lei. Qualche anno dopo ai ricordi parchi, comunque espressi, contribuì ancora il nizzardo in persona. Fu di nuovo epopea degli equivoci. In uno stile letterario non eccelso ed effettivamente un po’ troppo sgangherato, Garibaldi compose il suo libro I Mille, che venne finalmente pubblicato a Torino nel 1874 da Camilla e Bertolero. Davvero “finalmente” perché soltanto quei tipografi e litografi coraggiosi avevano accettato di dare alle stampe un brogliaccio assai polemico e livoroso verso tutto e tutti, dai mazziniani al clero, dal re d’Italia alla Francia, tanto da essere stato rifiutato fino a quel momento da tutti gli altri editori. Lo stile non conta nel nostro caso. Importa che la penna arruffata ma sincera del liberatore, nel capitolo terzo 227
intitolato Lina e Marzia, modellava la memoria di una giovane combattente sotto mentite spoglie che a qualcuno, a chi la conobbe perlomeno, parve il ritratto cesellato e perfetto di Tonina Marinello. Quando la incontrò in Sicilia, forse all’indomani di Calatafimi, al Generale sembrò «un figlio della Germania, colla sua capigliatura bionda, che non poteva nascondere un bonetto a cui s’attotigliava [sic] graziosamente una fascia di seta». Era in compagnia di un altro, «bruno di volto e di capelli», anche lui rivelatosi, anzi, rivelatasi, un’altra. Li vide e si chiese chi eran «quei due giovanetti che nel gruppo dei più arditi tra gli Argonauti, volevan precederli verso il nemico, gareggiando a chi doveva affrontarlo pel primo». Non ci volle molto tempo per capire che «i contorni dei loro fianchi pieni, accusavano, più d’alcune svolazzanti treccie, qualche cosa esclusiva del sesso femminile». Garibaldi si stupì parecchio: tra i Mille, per suo ordine, aveva trovato ingaggio la sola moglie di Crispi, e non altre donne: «venni così a sapere esser esse di più». Un certo P., garibaldino non identificato, che era assieme alle due, gli spiegò che una si chiamava Lina, ed era sua sorella, mentre l’altra portava il nome di Marzia: la biondina «figlia delle belle valli Lombarde», la mora figlia di Roma. Continua Garibaldi: «... le due eroine – giacché le conosciamo donne – avean perduto nella mischia i loro fez [bonetti] e turbanti; dopodiché una capigliatura d’oro ed una d’ebano avean per un momento svolazzato sull’altipiano di Pianto dei Romani». Le ragazze «indispettite d’esser state svelate, misero le ali ai piedi e perseguirono disperatamente il nemico. Le due coraggiose sarebbero forse giunte a Calatafimi la stessa sera, se P. e Nullo, l’eroe della Polonia, ferito in un piede e correndo sopra il sano solo, non le avessero fatte tornare indietro». 228
Il Generale le perdonò, in ogni caso. Lo fece quando P. si presentò a lui per scusarsi del travestimento delle garibaldine in gonnella, dicendogli: «Lina, mia sorella, [...] viene colla sua compagna Marzia, a chiedervi perdono d’aver trasgredito l’ordine di non poter imbarcare donne nella spedizione». Garibaldi rispose: «Quando per una trasgressione si acquistano tali valorose, come sono vostra sorella e la sua compagna, io, che non sono un modello d’ordine, posso bene accomodarmivi». Seguì un frammento di silenzio. P. riprese: «Marzia è Romana, e non possiamo dirvi altro di essa, poiché ella stessa non ci ha fatto sapere di più». E aggiunse: «Lina vuol presentarvi un mantello incerato, tolto a un ufficiale nemico e che vi servirà, sprovvisto come siete, per coprirvi dalla rugiada». Le rivide sulle alture di Palermo, nell’imminenza della presa della città. Avevano abbandonato «la loro assisa maschile», indossando «le vestimenta più confacenti alle loro bellissime forme», cioè «la sottana (non da prete s’intende) ed il farsetto così graziosamente allacciato dalle vezzose forosette della conca d’oro». Due fazzoletti rossi di seta «furono fantasticamente avvolti a quelle teste da modello, nascondendo non totalmente le ricchissime capigliature». I volontari contemplarono «meravigliati le superbe donzelle che sì fiere avean veduto sul campo di battaglia, ora orgogliose d’esser prescelte ad ardua e pericolosa impresa», cioè penetrare in Palermo alla vigilia dell’assalto dei Mille. Le contemplarono pure Nullo, «perdutamente invaghito della Lina», che aveva conosciuto nelle «natie e alpestri vallate», e P., a sua volta innamorato di Marzia. Lina e Marzia compariranno ancora nei capitoli conclusivi dei Mille. Sarà apparizione tragica, lacrimevole ed eroica, con un colpo di scena degno del miglior romanzo d’appendice: Marzia, ferita gravemente, muore vegliata 229
dal vecchio e ritrovato Elia, un ebreo del ghetto romano, già incarcerato dal Sant’Uffizio, che le aveva fatto da padre, e assistita naturalmente da Lina. Negli elenchi dei Mille, nelle memorie d’Abba e di Bandi, non c’è traccia di Lina e di Marzia. E viene da chiedersi se la Lina del libro possa essere davvero la nostra Tonina Marinello. Quei riferimenti alle «valli Lombarde», oltreché gli innamoramenti rispettivi di Nullo e di P., quegli «amori garibaldini» per citare Nievo, basterebbero per una risposta negativa: Tonina aveva seguito il marito, d’altronde, e al suo fianco fece la campagna del sud. Eppure ci fu chi volle ipotizzare che Lina fosse proprio lei, la bionda, bella e coraggiosa esule veneta, identificando Marzia in una certa Piazza. Le analogie c’erano, ed erano tante. Come tanti altri erano, e continuano a essere, gli interrogativi, i dubbi, gli enigmi e i travisamenti. Nel racconto del “Daily True Delta” non si disse se Tonina e verosimilmente il suo compagno si fossero battuti il 15 di maggio nella mischia di Calatafimi, come potrebbe essere se la bionda camicia rossa rammentata da Garibaldi fosse stata realmente lei. Neppure si diede conto di quando ottennero il loro inquadramento nella brigata di Sacchi, ammesso che in questa davvero militarono. Capitò alla fine di luglio? Se è così, dovettero quindi arrivare a Messina verso il 29 di quel mese, ed essere destinati a passare lo stretto alla metà d’agosto. Risalirono la Calabria tra i monti aspri, spesso in avanscoperta, davanti a Garibaldi. Ai primi di settembre fecero il loro ingresso a Cosenza. Toccarono quindi Lagonegro e poi Sapri, dov’era sbarcato, per andare incontro alla morte, il Carlo Pisacane. Si navigò per Napoli, la sera del 12 settembre entravano nel porto. Si arrivò al Volturno, alla grande battaglia con i borbonici vinta dalle divisioni, dalle brigate e dai reggimenti di 230
Bixio, Türr, Cosenz, Medici, Boldrini, Bronzetti, che cadde a Castel Morrone, e di Dezza, di Eber, Milbitz, Sacchi, Simonetta, Sirtori, Taddei, dei picciotti. Col nome di Antonio Marinello, la garibaldina ottenne il brevetto da caporale e il congedo con onore. A decorarla sarebbe stato il Generale, lodando il valore mostrato nei combattimenti, il sangue freddo, lo sprezzo del pericolo, la disciplina. Dissero che era stata sempre la prima, tra i volontari, a buttarsi nella mischia, e l’ultima a lasciare il campo. Dissero. E presto dimenticarono di avere detto. Dopo l’assedio di Capua, l’Esercito Meridionale fu smobilitato dal governo di Torino, le camicie rosse mandate a casa, il regno delle Due Sicilie incamerato dai piemontesi che, allo scopo, non avevano avuto bisogno di sparare troppi colpi, se non quelli a Castelfidardo e ad Ancona. Tonina e il marito, che aveva riportato qualche ferita non grave, ripartirono per l’Emilia. Quando furono a Modena seppero che il loro amico era morto. La bambina, comunque, era stata affidata in buone mani, così l’andarono a prendere. Non si sa perché vollero stabilirsi a Firenze, o perlomeno il giornale non lo scrisse. Rammentò invece che i tre vissero in miseria, «giorno per giorno», sfamandosi con piccoli guadagni, non precisati, e con l’aiuto del comitato veneto degli emigrati. Così Tonina si ammalò. Era tubercolosi. Le conseguenze della guerra, complicate dall’aria malsana dell’abitazione di piazza de’ Marroni e da quella vita di stenti, fecero ciò che non avevano fatto le palle dei soldati napoletani. I compagni garibaldini, gli amici dell’esilio, quando si resero conto delle sue condizioni ormai gravi la fecero ricoverare in uno degli ospedali migliori della città. Troppo tardi: «se l’avessero curata in tempo, due o tre mesi prima, probabilmente si sarebbe salvata». Le resero l’estremo omaggio in un giorno di primavera radiosa, le sue armi e la camicia rossa poste su un cuscino, 231
in mezzo alle ghirlande di fiori. Venne sepolta tra gli ulivi e i cipressi, con la faccia «rivolta alla marina», per sognare nel grande sonno, sulla collina, la lontana e ancora austriaca Venezia. Il ricordo della garibaldina sopravvisse nei versi di Dall’Ongaro, ma soltanto fino a quando quegli stornelli sarebbero stati letti e cantati. Il resto se lo portò via il vento, lo oscurò la storia, quella stessa che avrebbe fatto calare il sipario sulle camicie rosse che avevano fatto e perduto l’Italia. Non una targa o una piccola lapide, nemmeno l’intestazione di una via. A maggior ragione in quel “Savarese”, ovviamente. E dov’era quel borgo di “Savarese”? In quale contrada delle Venezie occupate? E il compagno della garibaldina? Riposava anche lui all’ombra di qualche torre, oppure era stato con il Generale all’Aspromonte e aveva visto i piemontesi aprire il fuoco contro le camicie rosse? O i loro nomi, il suo, quello di Tonina, scolorivano nell’inchiostro sui registri del ministero della Guerra, tra le carte del generale Manfredo Fanti, uno dei liquidatori dell’Esercito Meridionale? Una piccola frattura nell’oblio si ebbe in modo inaspettato nel dicembre del 1944, nel cuore dell’Italia del nord in mano ai fascisti della Repubblica Sociale e dei tedeschi. Su un giornale, forse il “Corriere della Sera” (un’ipotesi, perché esiste solo un ritaglio senza altre indicazioni), apparve un articolo intitolato La donna che combatté con Garibaldi, che cominciava in questo modo: Nessuno più la rammenta. Ma fu eroina e donna italianissima. Combatté nelle file garibaldine, a Milazzo e a Capua e al Volturno, spinta unicamente dal patriottismo e dall’amore. Tonina Marinello ebbe veramente un ideale, serbò limpidi costumi, e non si deve mettere tra le creature che confusero il sentimento di patria con l’esibizionismo. Tant’è vero che combatté sempre vicina allo sposo, in ve-
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sti maschili. [Gli] attestati onorifici e il brevetto della promozione a caporale, avuti dopo diversi scontri in arme, nonché il suo congedo militare portavano infatti il nome di Antonio Marinello.
Si affermava che Tonina e suo marito, chiamato solamente Marinello come da copione ottocentesco, avevano raggiunto la Sicilia a «bordo d’un rimorchiatore, che portava laggiù altri settanta volontari con armi e munizioni», e che erano sbarcati a Marsala. Se davvero salirono su quell’imbarcazione a mal partito, allora avrebbe potuto essere l’Utile, rimorchiatore a pale salpato da Genova alle undici di sera del 27 maggio al comando del capitano livornese Francesco Lavarello, e con il carico della spedizione guidata dal siciliano Carmelo Agnetta, che in seguito, nella svizzera Brissago, avrebbe ferito in un duello alla pistola nientemeno che Bixio (il nervosissimo Nino, del resto, lo aveva malmenato poco dopo il suo arrivo a Palermo). La «retroguardia dei Mille», come venne definita, portava al Generale più di 1000 fucili e 100 000 cartucce, e giovani in buona parte siciliani e liguri, ma anche di altre regioni, ungheresi e polacchi. Il battello giunse a Marsala il 1° di giugno, e qualche giorno dopo, il 6, Agnetta e i compagni entravano a Palermo. Lo stesso articolista, tuttavia, faceva cadere l’ipotesi dell’Utile sostenendo che Tonina e i volontari «raggiunsero i camerati a Salemi, quarantott’ore dopo la gloriosa battaglia di Calatafimi», che però era avvenuta il 15 maggio. Null’altro si aggiungeva se non che «parteciparono alle diverse fasi dell’impresa nella brigata Sacchi, con tutto l’ardore della loro gioventù entusiasta, senza sosta né risparmio. Marinello rimase ferito più volte, ma Tonina, nonostante gli fosse costantemente accanto, passò sempre miracolosamente incolume tra i colpi nemici». Morì «con233
sunta dalla tisi dopo un anno circa tra le braccia del marito disperato, con le pupille fisse all’immagine del Generale cui aveva votata la sua fede». Passarono gli anni. Molti anni. Tonina non riposava nemmeno più all’ombra della torre di San Minato. Il terreno, lì alle Porte Sante, aveva cominciato a smottare, così nel 1957 i resti della garibaldina e di altri patrioti fiorentini vennero traslati a Trespiano. Soltanto qualche vecchio forse ne serbava un ricordo, seppure incerto, tramandato da altri vecchi. Il destino volle che fosse un vecchio signore del paese di Cervarese Santa Croce, nel Padovano, posto fra il fiume Bacchiglione e i colli Euganei, sull’antica via fluviale con Vicenza, a recuperare un brandello della memoria di Tonina. Era ovviamente il borgo di “Savarese”, diventato tale per quella storpiatura del redattore dello “Zenzero”, che magari in quel modo lo aveva appreso negli ambienti degli emigrati veneti. Il vecchio signore si chiamava Giovanni Perin, ufficialmente segretario comunale di “Savarese”, ma soprattutto «poeta per diletto» in lingua veneta. Dal padre o da qualche altro parente, oppure dai contadini del posto, aveva sentito raccontare delle gesta di una patriota detta la Masenela, che era nata a Montemerlo, una frazione di Cervarese, nella contrà della Fossona, non lontano dal castello di San Martino, ed era andata con Garibaldi nel 1860. Era una delle storie favolose che un tempo si narravano ai bambini durante i filò, le veglie d’inverno nelle stalle, raccolti intorno al fuoco e nel tepore del corpo delle mucche. Il Perin non dimenticò il racconto della garibaldina udito da bambino e un giorno, all’inizio del Novecento, le dedicò qualche verso perché la sua memoria non morisse. Allora scrisse:
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Fra i tanti eroi della nostra storia registrar dovemo la Masenela per conservar viva la memoria de sta gueriera dona, forte e bela; sui campi de bataglia tanta gloria e tanto onor l’à vudo, e come stela la sluse in alto su nel firmamento questa eroina del Risorgimento. Ma nel so paese dove la xe nata non ghe xe un segno o sora de na piera un scrito che ricorda la so data per darghe un fiore o dirghe ’na preghiera.
Con la medesima passione popolare di Dall’Ongaro, la delicatezza di toni da trovatore gentile, il «poeta per diletto» Perin aveva strappato la Masenela dal baratro del tempo, infrangendolo. I versi e la storia di Tonina vennero riportati alla luce dal critico d’arte Giorgio Segato, che ne scrisse su “Il Mattino di Padova” dell’8 di aprile del 1980. Ma perché quel nome, quel Masenela? Era il suo cognome, Masanello, declinato in veneto. Ci sarebbe voluta tuttavia la dedizione di Alberto Espen, storico e bibliotecario di Cervarese Santa Croce, per ricavarne un contenuto anagrafico, e non soltanto questo. Stimolato dallo scultore Piero Pierin, figlio di Giovanni, si mise a cercare nell’archivio della parrocchia di Fossona, all’epoca sotto la giurisdizione della “villa” di Montemerlo. E trovò alcuni certificati preziosi. Intanto da quelle carte risultava nata come Antonia il giorno prima del suo battesimo, cioè il 27 luglio del 1833, dai coniugi Antonio Masanello e Maria Lucca, originari di Zianigo, nei pressi di Mirano. A battezzarla fu il parroco don Giuseppe Lazzarotto, presenti i padrini Agostin Terribile, di Trambacche, e Francesca Romanin vedova Tessari, mammana, ossia levatrice. 235
Antonia era la terza figlia con quel nome che Maria Lucca aveva partorito: la prima era morta nel luglio del ’26 «ad anni due mesi uno giorni sette» per una «tosse pagana»; la seconda se n’era andata a nemmeno due anni, nel novembre del ’31, per «febbre sterica». Altri due figli morirono appena nati: Giacomo nel gennaio del ’32, il giorno dopo essere venuto al mondo, in «conseguenza di non poter poppare», e Francesca, nel marzo del ’37, due settimane dopo la nascita. Sopravvissero Tonina, Anna, Giulio e Luigi. I documenti parrocchiali rinvenuti da Espen ci dicono che la famiglia Masanello, pur ritenuta «possidente», nella realtà possedeva ben poco. Il nonno Giulio nel 1810 poteva disporre di «due chiusure di terra arativa e svignata dalla superficie complessiva di quasi sette campi padovani, ubicate a mezzogiorno della fossa Nina e della strada che la fiancheggiava», vicino alla chiesa di Fossona. Nei registri di questa non c’è alcun riferimento al matrimonio di Tonina, ma solamente di quello di Anna, che nel giugno del ’44 si sposò con Costante Fin, di Trissino. Sostiene Espen che «verosimilmente, negli anni immediatamente successivi emigrarono, ma non ci è dato di sapere dove. L’unico che si trattenne a Montemerlo fu Luigi, “giornaliero” presso i poderi del conte Alessandro Papafava». Tonina, invece, nella primavera del 1860 fuggì nottetempo assieme al marito, sospettato di simpatie liberali, desideroso di arruolarsi con i Mille di Garibaldi. «Affidata in custodia la loro figlioletta, i due si diressero a Genova per l’imbarco, ma non giunsero in tempo per essere parte della storica spedizione. Non si persero d’animo: partirono di lì a qualche giorno con un piroscafo che li sbarcò a Marsala con qualche altra decina di volontari e un carico di armi e munizioni. Raggiunsero i Mille a Salemi giusto all’indomani» della battaglia di Calatafimi. 236
Lei «seguì il marito in combattimento e, ovviamente camuffata da uomo, contrastò ella stessa le milizie dell’esercito borbonico. Soltanto un paio di ufficiali erano a conoscenza della sua reale identità ed ebbero a dichiarare che Tonina “avrebbe potuto comandare un battaglione se la sua condizione di donna non glielo avesse impedito”. Il brevetto di caporale e il “congedo con onore” conseguito sotto il falso nome di Antonio Marinello al termine della campagna, dopo la capitolazione della fortezza di Gaeta (13 novembre 1861), starebbero a confermare la condotta di “impavido” combattente della Masanello». C’è un’altra storia raccolta da Espen, e riportata nella sua monografia su Cervarese, che potrebbe avere Tonina come protagonista, soprattutto alla luce delle molte analogie con quanto aveva scritto il giornale di New Orleans. È quella di una «giovane e intrepida donna» che conduceva l’osteria del castello di San Martino nel periodo dell’occupazione austroungarica del Lombardo-Veneto. Organizzò il trasporto clandestino dei patrioti, fra una riva e l’altra del Bacchiglione, che «per evitare la cattura, dovevano sfuggire alla polizia austriaca». Fervente «sostenitrice di quegli ideali rivoluzionari che nel biennio 1848-49 sconvolsero addirittura gran parte dell’Europa», «lei stessa scrutava di persona dal cammino di ronda della roccaforte per avvistare in tempo la comparsa dei militari, così consentendo a coloro i quali avevano aderito alle nuove idee risorgimentali di mettersi prontamente in salvo». Una storia «forse vera, forse solo immaginata e tramandata dalla tradizione», così come è forse leggenda, oppure no, quella della Bella Gigogin milanese. Si narra che il 22 marzo del 1848, durante le Cinque Giornate, da una delle barricate di Porta Tosa sgusciò fuori una ragazza bellissima. Tremava per il freddo. Si seppe 237
che era fuggita dal collegio e che aveva deciso di battersi con i patrioti. Luciano Manara la incaricò di portare un messaggio urgente allo stato maggiore dell’esercito sardo. Eseguì l’ordine. Ritornata a Milano, fece la vivandiera degli insorti e conobbe Goffredo Mameli. Tra i due nacque un grande amore, ma la Gigogin, che è vezzeggiativo lombardo o piemontese del nome Teresina, dovette seguire i volontari di Manara al fronte. A Goito fu in prima linea, a soccorrere e a dar da mangiare ai soldati di Carlo Alberto. L’esercito sardo venne sconfitto, la Gigogin riprese la strada di casa, destinata nuovamente al collegio. Cammin facendo le venne da cantare un ritornello, quel «Daghela avanti un passo» che diverrà famoso, con cui avrebbe voluto invitare i suoi compagni a riprendere la guerra contro l’Austria. Poi della bella Gigogin nessuno sentì più parlare, sebbene qualcuno congetturasse che avesse raggiunto Mameli a Roma, nel ’49, e fosse morta come lui nella difesa della repubblica. Era veramente esistita? Nessuno lo sa. Ma la leggenda narra che il suo fantasma avrebbe assunto sembianze umane, guarda caso quelle di una vivandiera, nelle battaglie della guerra del ’59: a Magenta, a San Martino. Al termine dei combattimenti, sarebbe scomparsa. Certo è che la canzone a lei intitolata, opera di un anonimo e musicata da Paolo Giorza, cominciò a circolare a Milano e pare tra le truppe di Napoleone III, in quel ’59, riscuotendo un enorme successo. Ci dice il solito Bianciardi che, pur non avendo «alcun significato politico», i milanesi, che l’ascoltarono per la prima volta al Teatro Carcano nella notte di Capodanno del ’59, «vollero avvertire in quel “daghela avanti un passo” del ritornello un invito a marciare, a muovere, ad andare avanti». Diventò il vero inno dei Cacciatori delle Alpi e dei Mille, e loro portarono la Gigogin «fresca e graziosa, da Quarto al Volturno»: 238
Di quindici anni facevo all’amore... Daghela avanti un passo, delizia del mio core! A sedici anni ho preso marito... Daghela avanti un passo, delizia del mio core!
Anche Tonina dovette cantarla nel caldo opprimente dell’interno della Sicilia bruciata dal sole, su quei campi riarsi, e nella pioggia violenta della sera del 21 maggio, a Parco, a Pioppo, a Renna, che precedette la conquista di Palermo. I garibaldini andavano incontro al loro destino, come ricorda il Bandi «ripigliarono la faticosa marcia, e il lieto ritornello: “Dàghela avanti un passo, / delizia del mio cuore”, al quale, una quarantina di voci toscane intrecciava allegramente il ritornello livornese: “Bravo, bimbo, bravo, / tallalera, lallera, lera...” mentre Bixio, bestemmiando in tutti dialetti d’Italia, tornava di galoppo in testa alla sua compagnia». Era destino pure che Piero Pierin morisse nel 2008 qualche mese prima dell’esposizione alla Biblioteca Comunale di Cervarese del suo medaglione raffigurante il viso della Masenella, con i capelli fluenti e ricci trattenuti a stento da un berretto, o meglio: da un bonetto. Destino, destini. Nella primavera del 2010 alcune giovani donne, già soprannominate le “garibaldine”, sono intente a riordinare le decine e decine di registri dell’Esercito Meridionale di Garibaldi, custoditi all’Archivio di Stato di Torino. Dal 1861 giacevano negli armadi, inesplorati dagli storici e dagli studiosi per la difficoltà che la loro consultazione presentava. E poi l’Italia dei vincitori, regia e codina, la stessa di sempre, non aveva mai amato quell’armata rigurgitante di repubblicani, di mazziniani e di socialisteggianti. Pochi avevano voluto darle importanza, 239
pochi e senza i mezzi necessari all’impresa, i “garibaldini” dell’Archivio di Stato torinese. Però un altro destino, un piccolo miracolo, ovvero dei finanziamenti sbloccati, hanno permesso finalmente di mettersi all’opera. Così Francesca Gamba, Michela Tappero e Patrizia Viglieno, coordinate dalla dottoressa Paola Briante, hanno cominciato a scavare giorno dopo giorno nelle carte in cui sono riportati i nomi dei volontari delle cinque divisioni del Generale. Leggono, trascrivono, fantasticano su quegli uomini, a volte su quelle donne, che fecero l’Italia. Chi era, ad esempio, la Dragoni Giuseppa da Voghera? Come era capitata a fare la vivandiera per le camicie rosse? E come diavolo c’era finito tra i Mille e passa il Nicolasi Giovanni, che, pur con quel cognome siciliano, proveniva, lui registrato «nero» di pelle, dal Mozambico? E quegli americani di New York, della California, di New Orleans? E gli svizzeri, i polacchi, gli austriaci, gli inglesi, quel francese di Haiti, la legione calabro-sicula del colonnello Ignazio Ribotti, nizzardo, e il gruppo di «musici» di Salerno? Destini, destino. Fantasticavano le “garibaldine” Francesca, Michela e Patrizia. Fantasticano quando s’imbattono in quel nome. Si domandano: chi era il «caporale Masanelli Antonio detto Marinelli», «fu Antonio» e «Lucca Maria», età «24», professione «brentajo», proveniente da «Modena» e con destinazione, dopo il congedo, «Modena»? Caporale della brigata Sacchi, III reggimento, XV divisione Türr? Masanelli Antonio, detto Marinelli. Dunque l’avevano trovata. Sotto le mentite spoglie, certo, e indicata come «brentajo», verosimilmente uno, una, che fabbrica o porta brente di vino, d’acqua, d’olio, vai a sapere. Tutti gli altri dati erano a posto, combaciavano alla perfezione: la brigata di 240
Sacchi, gli anni, il padre e la madre, Modena. E, in un altro faldone, c’era il riferimento sulla nascita a Padova. Scoprendo il suo nome abbandonato in un registro del 1860, le “garibaldine” hanno di nuovo deposto Tonina Marinello all’ombra della torre di San Miniato. È come se la ricoprissero di rose, come se cantassero ancora i versi di Dall’Ongaro sull’aria del Castoldi: E se non fosse ch’era nata donna porteria le spalline e non la gonna, e poserebbe sul funereo letto colla medaglia del valor sul petto. Ma che far la medaglia e tutto il resto? Pugnò con Garibaldi, e basti questo!
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Umberto Coromaldi, Camicie rosse, 1898 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea).
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L’esercito perduto Come furono liquidati i garibaldini
Erano almeno 40 000, giovani e forti, e furono come morti. Dove si narra dei maneggi di Cavour e del suo ministro Fanti, e dell’eroico Nullo. Tirava un vento «di discordie tremende», disse l’Abba, e l’Italia si sarebbe fatta alla moda di Torino. Scompare e poi riappare, dopo un secolo e mezzo, un esercito di fantasmi.
Si sbriciolava l’ombra su Caserta, cadeva il 9 novembre del 1860. Non c’era allegria nella sera. Anche «le nuvole, calando sempre più, mettevano non so che freddo, e l’ora, passando, portava stanchezza». C’era anche Giuseppe Cesare Abba davanti al palazzo Reale, tra le camicie rosse che stavano per essere congedate. Si aspettava il re, arrivò il Generale. «Pallido come forse non fu visto mai», Garibaldi «ci guardava». Parve che cominciasse a tirare «un vento di discordie tremende». Abba pensò che quel vento li avrebbe pigliati tutti, «ci mulinerà un pezzo come foglie, andremo a cadere ciascuno alla porta di casa nostra». Non passarono dalla porta principale della storia, ma da quella di servizio. Le divisioni comandate da Garibaldi e agli ordini di Bixio, Cosenz, Medici, Türr e Avezzana, che aveva unito l’Italia da Quarto al Volturno, vennero smobilitate dal governo piemontese nel giro di poco tempo. Dirà il Bianciardi, piuttosto amaro: Due mesi ci vollero per congedare i garibaldini, che rimasero oziosi a Napoli, a Caserta, ad Aversa, mentre Cialdini e Della Rocca
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bombardavano Gaeta. Gli ultimi a posare le armi furono gli uomini del reggimento comandato da Giacomo Griziotti: a un certo momento parvero anche disposti ad usarle contro i lancieri di Novara. Ma ormai erano velleità e Garibaldi zappava la terra a Caprera: a Natale non ne restava più uno, di garibaldini, nel meridione.
Probabilmente nella primavera del 1861, dopo le sedute burrascose – e inutili per la causa dei volontari – alla Camera di Torino di palazzo Carignano, ancora sulla carta intestata dell’Esercito Meridionale, «XVII divisione. Stato Maggiore», Giacomo Medici annotava: In mezzo ad una popolazione corrotta e ignorante se vuoi, ma cordialmente, sinceramente riconoscente verso i suoi liberatori Garibaldi e compagni, dunque, il primo passo di Cavour fu ostile, Fanti e Farini hanno fatto il resto. [...] Ma domando io è ella sana politica questa di provocarlo [Garibaldi, n.d.a.] li suoi militi rinviati alle loro case coll’elemosina di pochi franchi – i suoi ufficiali lasciati tutti nell’incertezza quanto alla loro posizione – non uno accettato nell’armata regolare.
E in un altro appunto sull’incontro di Teano del 26 ottobre del 1860, che umiliò l’Eroe dei Due Mondi: «Perché il re è venuto troppo presto? E perché si è lasciato partire Garibaldi in quel modo? Il re, se pure doveva venire, ci doveva rimanere in compagnia di Garibaldi». Lo scioglimento dell’Esercito Meridionale, concludeva Medici, «fu cagionato: 1º dal ritiro di Garibaldi; 2º dalla risoluzione del governo di non volerlo mantenere; non esito a dichiararlo, tutti e due questi motivi portano in sé stessi la loro condanna». Sdegnate e profetiche furono anche le parole pronunciate da Brofferio, intervenendo nel marzo del ’61 a palazzo Carignano: «finché non penserete di riconciliarvi francamente, sinceramente, colla rivoluzione che andaste a 244
combattere, col grande capitano rivoluzionario, che per voi dovette volgere in esiglio, a Napoli, mi duole dirvelo, non potrete governare mai». Anni dopo, nelle sue memorie Garibaldi avrebbe scritto: La mia prima dimanda era quella del riconoscimento dell’esercito ch’io comandavo, siccome parte dell’Esercito Nazionale, e fu un’ingiustizia non concederlo. La 2a era quella di conservarmi il potere civile con il titolo, se così piaceva, di Commissario Regio (che non mancava di repugnarmi) sin tanto che io sarei rimasto nell’Italia Meridionale. In quest’ultima richiesta io facevo violenza a me stesso, non propenso ad impieghi di quella natura, ma lo ripeto, colla mano sulla coscienza, ed unicamente in ossequio alla Causa Nazionale. [...] Si trovò incostituzionale la mia dimanda, e mi si aprì il varco al ritiro desiderato ardentemente, e necessario.
L’ingiustizia s’era consumata, i volontari cancellati con rapidi tratti di penna e qualche mese di paga misera. Soltanto pochi, tutti ufficiali, poterono indossare le uniformi dei reparti del regno d’Italia. Vittorio Emanuele II, Cavour e Fanti, ministro della Guerra, nello smobilitare l’armata garibaldina s’erano tolti un gran peso dallo stomaco: inquadrare le camicie rosse nell’esercito regio, infatti, avrebbe significato contaminarlo con elementi professanti idee mazziniane e pertanto repubblicane, radicali, sovversive. Racconta Germano Bevilacqua che ne nacquero «recriminazioni e tumulti un po’ da per tutto nel Meridione perché si voleva subito la liquidazione. Il noto Achille Fazzari telegrafò chiedendo di liquidare subito la promessa indennità al suo Battaglione di Calabresi, perché minacciato nella sua persona “da gente che non vuol capire ragioni”. E come lui, altri comandanti. Il Brigadiere Assanti ebbe la sua casa devastata da un migliaio di Calabresi e Siciliani e così via». Diversi di loro, poi, di lì a poco si sarebbero dati alla macchia, andando a infoltire le bande dei briganti del Mezzogiorno. 245
L’Esercito Meridionale, che il Generale nel frattempo aveva affidato a Giuseppe Sirtori, fu sciolto con il decreto dell’11 novembre 1860. Lo stesso Sirtori, che pure avrebbe scelto di servire la monarchia piemontese, nelle sedute della Camera del ’61 lo difese dalle accuse sabaude, in particolare di Fanti, d’indisciplina e di cattiva gestione della contabilità: «Del resto come poteva essere ordinato un esercito che partiva da Genova con Mille uomini e che si trovava quattro mesi più tardi al Volturno, dopo aver vinto una monarchia difesa da 100 000 soldati? Certo un esercito che da 1000 uomini perviene a 40 000, tutti volontari, in pochi mesi, non può fare i conti esatti ogni giorno, e perciò confido che la Camera e il Paese ci assolveranno». Non furono assolti. I resti dell’esercito garibaldino scampati alla falce vennero inglobati nel Corpo dei Volontari Italiani, ma anche questo, nel 1862, sarebbe stato congedato per sempre. L’Italia era stata sancita e proclamata, ma alla moda di Torino. Tanto che il nostro Bianciardi ci va giù duro: Così non si tenne alcun conto dei desideri di pur limitato autogoverno regionale, si dimenticarono con grande felicità le mezze promesse che Cavour aveva fatto ai suoi medesimi sostenitori in Sicilia. Insieme alle leggi si impose la coscrizione obbligatoria, a cui quelle popolazioni erano per abitudine estranee e ferocemente avverse. Si istituì il confino di polizia per gli oppositori indesiderabili, si limitò e si abolì la libertà di stampa; si giunse al punto di far disperdere con le baionette un reggimento di volontari calabresi che chiedevano lavoro, dopo la smobilitazione. Lo “spurgo” degli ufficiali garibaldini dava come risultato la eliminazione di tre quarti di essi; si accettarono, dopo severissimo esame, soltanto quelli che paressero politicamente fidati: Medici, Cosenz, Sirtori, Bixio divennero generali dell’esercito italiano, e Garibaldi non li avrà più al suo fianco ad Aspromonte, nel Trentino, a Mentana.
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Nel crepuscolo del 9 novembre 1860, a Caserta, Abba e i suoi compagni, i lombardi e i molisani, i liguri e i veneti, i toscani e i campani, i lucani, i calabresi, i siciliani, gli ungheresi, gli americani, gli svizzeri, gli austriaci, gli inglesi, i francesi, i russi, quello di Haiti e quello del Mozambico, avevano compreso che era finita: Così si andò verso il palazzo Reale, a sfilare dinnanzi al Dittatore piantato là sulla gran porta, come un monumento. E si sentiva che quella era l’ultima ora del suo comando. Veniva la voglia di andarsi a gettare a’ suoi piedi gridando: «Generale, perché non ci conducete tutti a morire? La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa!» Ma la guerra civile? Ma la Francia?... L’anno scorso fummo così amici con la Francia!
La via di Roma restava là, e ci sarebbe rimasta, ostruita, per un decennio ancora. Anni dopo, nel redigere le sue memorie e rievocando quei momenti, il Bandi scrisse: Il nostro compito era finito, ma non ne veniva per conseguenza buona e legittima che ci si considerasse, così, dall’oggi al domani, come limoni ormai spremuti e non buoni che a gettarsi via.
E un’altra camicia rossa, il lombardo Giulio Adamoli, aggiunse: Se da un lato i garibaldini, specialmente quelli che non avevan fatto nulla, inveivano contro il governo del re, che importava leggi e regolamenti moderatori, dall’altro si ostentava senza pudore l’ingratitudine e l’oblio. Credendo di fare atto di sottomissione al nuovo ordine di cose, si udivano coloro, che poco prima si prostravano a Garibaldi, rinnegarlo e denigrarlo, quasi egli non avesse operato che a suo profitto e a danno della patria.
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Erano oltre 40 000, «giovani e forti» come i trecento di Carlo Pisacane, e come loro furono morti. I volontari diventarono dei semplici nomi su una gran quantità di registri. L’inchiostro dei nomi sbiadì, i registri furono chiusi a chiave negli armadi del ministero della Guerra, a Torino, e dimenticati definitivamente. Sono rimasti così, in quello stato, come già sappiamo, fino al giorno in cui i “garibaldini” e le “garibaldine” dell’Archivio di Stato dell’ex capitale, dal direttore Marco Carassi alla Paola Briante, a Francesca, a Michela e a Patrizia (alle quali si sono aggiunti Federico Jotti e Daniele Codebò), sono riusciti a farli riemergere dagli abissi della memoria. Quando si parlò per la prima volta del progetto di recupero delle carte dell’Esercito Meridionale di Garibaldi, il nostro amico Vittorio Scotti Douglas, lo storico di Gabriele Pepe e delle guerriglie dell’Ottocento, non nascose la sua contentezza. Ragionandoci sopra, poi disse: «Dell’armata garibaldina si conosce ben poco. Certo, si sapeva che all’Archivio di Stato di Torino esisteva una quantità copiosa di materiale mai studiato, e praticamente del tutto inedito, nessuno vi aveva mai posto mano. Quella dei volontari, d’altra parte, è un’epopea pressoché sconosciuta, cui hanno preso parte decine di migliaia di italiani, spesso di umili origini, di cui s’ignorava anche il nome. Ma le vicende del volontariato sono un filo rosso continuo che si può seguire durante tutto il Risorgimento, arrivando fino alla guerra civile spagnola del 1936-39». In un certo senso, continuava Scotti Douglas, «si può dire che il volontariato degli italiani comincia in Spagna, dopo il fallimento della rivoluzione liberale del 1821, e vi finisce quasi centovent’anni dopo». Un bel taglio glielo avrebbe dato Cavour, con il re e con tutti gli altri ministri regi, «ma perché quella del conte era la politica del “doppio binario”: da un lato promettere alla 248
Francia che non ci sarebbero stati interventi militari nel Mezzogiorno d’Italia o contro lo Stato Pontificio, dall’altro appoggiare in modo sotterraneo l’iniziativa garibaldina, in realtà tutta fondata e costruita grazie alla struttura cospirativa mazziniana e ai suoi uomini migliori: Crispi, Nicola Fabrizi, Bertani, La Masa, Bixio e il fondamentale Rosolino Pilo. Dopo la presa di Palermo i Mille si erano ridotti a poco più di seicento, però il 18 giugno cominciarono a giungere i rinforzi dall’Italia: 2500 uomini al comando di Medici, e poi, via via, quelli delle altre spedizioni, in tutto 20 000 volontari». Proseguiva parallelamente «l’azione di propaganda e di reclutamento locale per costituire l’Esercito Meridionale, che poté contare su circa 50 000 uomini, di cui oltre 30 000 meridionali. A novembre, tuttavia, l’esercito sarebbe stato smantellato. La nuova Italia sabauda non voleva immettere nelle proprie divisioni una massa di potenziali repubblicani, assertori della conquista di Roma, e in qualche caso addirittura di idee socialiste. Si arrivò allo scontro fra Cavour e Garibaldi, alla Camera, nell’aprile del 1861. Con lo scioglimento dell’armata del Sud tramontava l’ultimo tentativo del partito democratico affinché s’impiegassero le forze popolari nella liberazione della patria. Aveva così termine il sogno della nazione armata e del cittadino-soldato. Ma il volontariato garibaldino non cessò di esistere, come provano i tentativi di liberare Roma, frustrati nel sangue, d’Aspromonte nel 1862 e di Mentana nel 1867. E ancora gli italiani andarono a morire per aiutare altri popoli ad acquistare la libertà: nel maggio del 1863 Francesco Nullo, il “Garibaldi del Nord”, cadeva eroicamente in Polonia con un pugno di volontari italiani accorsi per combattere con i polacchi insorti contro i russi». Garibaldi li aveva lasciati, partendo per Caprera, «e questa era la parte sensibile del mio abbandono. Io lascia249
vo quella gioventù generosa che s’era gettatta [sic] attraverso il Mediterraneo disprezzando ogni genere di contrarietà, di disagi, di pericoli, per ragiungermi [sic] ad affrontare la morte, colla speranza di non altro guiderdone, se non quello ottenuto in Lombardia e nell’Italia Centrale». Il 9 «dunque di Novembre io navigavo per Caprera e vi giungevo il 10 col piroscafo Nazionale Washington comandato da Mansi». Ora l’esercito dei fantasmi ricompare, a poco a poco, con le camicie rosse coperte di polvere. Nomi, idee di volti e di corpi, echi di canti e di lamenti. Riappare a Torino, la città il cui potere regio e politico l’aveva estirpato dalla storia d’Italia, e anche a Genova. Qui, all’Archivio di Stato, la direttrice Paola Caroli e Alfredo Assini hanno scoperto in un fondo della vecchia Intendenza sarda, in seguito passato alla Prefettura italiana, le matrici dei passaporti di 2500 volontari garibaldini in partenza dal capoluogo ligure per la Sicilia e per il Meridione, a cominciare dall’estate del 1860 fino ancora a ottobre, e i loro certificati di residenza, che venivano rilasciati a Brescia, i loro fascicoli personali. I 2500 s’imbarcarono per raggiungere Garibaldi, che aveva varcato lo stretto di Messina e risaliva le Calabrie, con l’avallo esplicito di Cavour e del governo di Torino. Rientravano nella politica del «doppio binario» del Tessitore, che, come dice Franco Della Peruta, «aveva deciso di mettere il cappello, come si suole dire, sulle imprese di Garibaldi». Era il conte in persona, in quei giorni, a dare il benestare nei suoi telegrammi alla libera concessione dei passaporti agli ufficiali dell’intendenza garibaldina. Gli uomini che salparono da Genova, in agosto, a settembre, in ottobre, non sapevano niente delle manovre dei piemontesi. Per loro contava soltanto andare ad arruolarsi. C’erano medici, avvocati, borghesi, possi250
denti, ex ufficiali, ma abbondavano soprattutto i contadini, gli spaccapietre, i camerieri, i facchini, i caffettieri, i garzoni, gli operai, i marinai. Molti di loro non sarebbero sopravvissuti. Abba ne registrò l’eroismo al Volturno: «Che gloria di picciotti, in quel momento! Due mesi fa erano riottosi a imbarcarsi pel continente: pareva che non avessero idea d’altra Italia, fuori del triangolo della loro isola: ma marciando per la Calabria trovarono i loro cuori, qui si son fatti ammirare. Caricavano come veterani!» E ne pianse la morte: «Giù sugli altipiani, tra i pochi alberi tristi che non possono sbozzacchire in queste sassaie, quante camicie rosse che non si mossero più! Ne contai una ventina qua e là, qualcuno si riconosceva ai tratti mezzo moreschi, per volontario del Vallo di Mazzara, dove Bixio passò e raccolse gente. Ma vi sono delle testine bionde di settentrionali che paiono di fanciulle». Prima alla spicciolata, poi a gruppi interi, i garibaldini del 1860 marciano fuori dai faldoni, dai registri, di documenti del congedo e dagli atti di morte. Ricompaiono combattenti antichi come l’Avezzana e il Ribotti, quest’ultimo con i suoi siciliani e con i suoi calabresi che nella rivoluzione del ’48 erano stati catturati con uno stratagemma vile: inalberata la bandiera inglese su una nave, nel mare della Grecia i borbonici li avevano attratti a bordo, con la promessa della salvezza garantita da Sua Maestà britannica, e dopodiché arrestati. Incarcerati per diversi anni, erano riusciti ad unirsi alle truppe in camicia rossa. Si rivedono l’inglese Jones, i marinai americani della California, i volontari polacchi, ungheresi e britannici, quello turco e quelli tedeschi; e poi la contessa Martini, la Tonina Marinello e l’ex ufficiale borbonico Certosini, il quale, dice Bandi, «moriva della morte dei valorosi sotto le mura di Capua, colla fronte aperta da una scheggia di granata». C’è na251
turalmente il maggiore Pilade Bronzetti, mantovano, caduto a Castel Morrone. Abba lo ricorda «tra quelle gole», dove «con un mezzo battaglione, tenne la stretta contro i borbonici, sei volte più numerosi dei suoi. Morì, morirono, ma il nemico non poté passare». E c’è il francese Paul de Flotte, amico di Dumas, colpito mortalmente da una palla di trombone sul declinare di agosto. Nel suo ordine del giorno, Garibaldi dettò: «De Flotte, nobile figlio di Francia, era uno di quegli uomini privilegiati che non possono essere rivendicati esclusivamente da un solo Paese. No, de Flotte appartiene all’umanità intera; per lui, infatti, la patria era dovunque un popolo sofferente si levava in nome della libertà». Abba avrebbe aggiunto nelle sue noterelle: «Dormirà La Flotte nella poetica terra di Calabria, che tanto ora è sua più che nostra: lo nomineremo noi, tutta la guerra, perché dicono che da lui sarà chiamata la compagnia di quei dugencinquanta francesi, venuti a portarci il fiore del loro coraggio». Escono dalla carte stinte dal tempo, riformano i battaglioni, le brigate, le legioni, le divisioni, e procedono compatti, intonano Daghela avanti un passo. Abba da Cairo Montenotte li vede come li aveva visti a Caserta, l’8 di ottobre: «Nel primo cortile a sinistra di chi entra nel palazzo Reale, i battaglioni di Taddei, Piva, Spinazzi, Menotti, Boldrini col resto della divisione Bixio, aspettavano Garibaldi, che voleva salutarli per la loro vittoria di Maddaloni». E incontra ancora Sclavo, un incontro da Vecchio Piemonte: E mi saltò fuori come di sottoterra un ufficiale tutto sanguinante in faccia e lacero la camicia, con un mozzicone di sciabola in mano. Mi chiamò: «O tu, dove vai?» «Alla mia compagnia sopra Valle». «E da dove vieni?» «Dal quartier generale».
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«E Bixio?» «Trionfa!» Con queste e poche altre parole, mi parve di parlare con uno delle mie parti. «E tu, chi sei?» domandai già pieno di gioia per quell’incontro con un mio compatriota, in camicia rossa. «Io sono Sclavo di Lesegno». «Ed io il tale». E allora ci abbracciammo, ci bacammo. Non ho mai compreso il paese natio come in quel momento. Le nostre Bormide, il nostro Tanaro, le nostre belle montagne, quei borghi, quelle terricciole, dove c’è della gente così modesta, buona, contenta di poco, e semplice!
Tracimano dagli schedari, dagli ossari e dalle tombe i soldati ignoti. Passano l’Adamoli, Bruzzesi l’incisore di cammei, i Cairoli, Corrao e il Dezza valoroso da Melegnano, Alberto e Jessie White Mario, Bassini, Bedeschini, Blanc da Belluno, Caldesi, il maggiore Cattabene, Cossovich, Narciso Cozzo, Eber, Fasola, Herter, Marani da Adria, i Marchetti da Chioggia, Meneghetti e il capitano Novaria, Pellizzari da Vimercate, Daniele Piccinini, il colonnello Puppi, Antonio Simonetta, il conte Statella e il cantante lirico Eliodoro Spech, Rambosio, Rugarone, Innocenzo Stella e Zasio. Passano anche quelli della brigata Sacchi, con la Tonina Marinello e il sergente Villa, il Gaetano Clerici da Como, un Gerosa da Bergamo, un Martinetti da Ferrara, Ambrogio Repetto e Giobatta Solari da Genova, dei falegnami e un cuoco, vetturini e calzolai, un musicante, un panettiere, un macellaio, uno studente e il barbiere Sanfilippo, palermitano, di sedici anni. Non si fermano più. Come dice lo Scotti Douglas, dobbiamo «dirgli un austero e sommesso “grazie”, quel “grazie” che la burocrazia sabauda ha voluto negargli quasi centocinquant’anni fa». 253
Ritratto di Ippolito Nievo.
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Il caso è chiuso Ippolito Nievo
Dove si narra del «poeta gentile che canterà le nostre battaglie» e della sua scomparsa. Si comincia col dire male di Garibaldi e si finisce in un naufragio. Il mistero dei misteri è di Stato, così come la sparizione delle carte in un archivio della vecchia capitale del regno. S’indaga poi senza troppa fortuna, il silenzio resta tombale.
Prologo Dice il Luciano Bianciardi che «allora accadde una cosa assai strana: alla paura che s’era avuta di Garibaldi guerriero e liberatore del Mezzogiorno, se ne aggiungeva una nuova e assolutamente imprevedibile, del ricordo di Garibaldi governatore. “Non si tratta di questione di Gabinetto, di crisi ministeriale,” scriveva Cavour, “si tratta di salvare il Paese da tremenda catastrofe. Se all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato motivo che Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo rovinati”».
Palermo 19 giugno 1860 Ha la mania di annotare tutto ciò che vede. Ora si mette a scrivere di questo giovanotto che cammina «solitario, sempre guardando innanzi, lontano, come volesse allargare a occhiate l’orizzonte». L’osserva e pensa che «viene in mente di cercare collo sguardo dov’ei fissa, se si cogliesse nell’aria qualche forma, qualche vista di paese della sua fantasia». 255
Sguardi, pensieri, di garibaldini. Aveva già scritto di lui: «si chiama Ippolito Nievo», è il «poeta gentile che canterà le nostre battaglie» che ha notato dopo la partenza dei Mille, a Talamone, l’8 di maggio. Lo ha rivisto dopo Calatafimi, al passo di Renna, nella carrozza dell’Intendenza, con «le carte e il tesoro militare», 30 000 franchi, del «ministero della Guerra». È il vice di Giovanni Acerbi, da Castelgoffredo, già combattente a Venezia nel ’49. Era il 19 maggio quando ha appuntato nel taccuino che «in quella carrozza ve n’hanno due di tesori: il cuore di Acerbi e l’intelletto di Ippolito Nievo. Nievo è un poeta veneto, che a ventott’anni ha scritto romanzi, ballate, tragedie. Sarà il poeta soldato della nostra impresa. Lo vidi rannicchiato in fondo alla carrozza, profilo tagliente, occhio soave, gli sfolgora l’ingegno in fronte: di persona dev’essere prestante. Un bel soldato». Pensieri e sguardi di garibaldini, lo sguardo di Nievo. In questo giorno di giugno, Giuseppe Cesare Abba insegue ancora le fantasie del giovane che se ne va solitario, lasciando indietro gli amici Missori, Nullo, Zasio, Tranquillini, Manci.
Torino, 16 marzo 1861 All’Intendente Militare Nievo pressantissima Palermo Solleciti la sua partenza da costì e si rechi immediatamente a Torino, interessandomi di presentar subito il rendiconto. Acerbi
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Palermo, 18 marzo 1861 All’Intendente Acerbi-Torino Nievo partito giorni 4 per Napoli con quattro personali intendenza. S’ignora la sorte. Col corriere saprà il resto. Il commissario di Guerra reggente l’Ufficio Domenico Marotti.
Palermo, 26 marzo 1861 Il signor Alfonso Hennequin si ferma. Sembra cercare le parole e le frasi attorno a sé, poi ricomincia a scrivere: Quella domenica egli pranzò per l’ultima volta da noi e, quantunque non potevamo figurarci che fosse veramente per l’ultima volta, o che fosse presentimento o soltanto il pensiero che un amico, a noi sì caro, andava a lasciarci per non ritornare di sì presto, il pranzo fu silenzioso e mesto.
Napoli, 26 marzo 1861 I napoletani leggono sul giornale “Il Diritto” i nomi dei naufraghi del vapore Ercole, scomparso nella notte fra il 4 e 5 marzo, in un tratto di mare di Capri o forse di Ischia. Leggono del comandante Michele Mancino, di «Nievo, colonnello; Salviati, Maiolini, maggiori; Garassini, commissario di Marina; Ferretti, cappellano; Serretta, direttore dell’Intendenza; Fontana, scrivano contabile».
Palermo, 2 dicembre 1860 Era come ce l’avesse davanti a sé. Come se Bice fosse lì, in quella stanza, e lui le dicesse le parole della lettera: 257
Ti confesso che, se avessi creduto d’imbarcarmi per questa galera a Genova il 5 Maggio, mi sarei annegato. Bei conforti la patria ci dona! E per conforti i giornali di Piemonte e Lombardia ci piovono addosso accuse di ambiziosi e di traditori che l’è una delizia. Miserabili Tersiti che hanno il cuore di fango e la testa velenosa di un rettile.
Milano, 31 gennaio 1861 Dalla lettera del colonnello Ippolito Nievo Al Chiarissimo Signor Direttore della “Perseveranza” di Milano: Per propria salvaguardia non ebbero altro che un’incessante attività, presente alle cose grandi come alle minute; non consulti, non esitanze, non pentimenti; l’urgenza non lo permetteva, ma lavoro continuo, disinteresse, giustizia imparziale e laconica per tutti. Con ciò sperarono di bilanciare le perdite che dovevano di necessità provenire dall’andamento tumultuario delle cose, dalla scelta impossibile delle persone e dalla fretta dei provvedimenti. – Vi riuscirono? – All’opinion pubblica toccherà decidere se questa volta l’onestà e il buon volere vennero a capo d’amministrare una rivoluzione. Certo gli uomini egregi che tennero di volta in volta il ministero delle Finanze sì a Napoli che a Palermo, non furono loro avari di fiducia; e popolazioni tanto in voce di mala fede, d’invidia, di ingratitudine verso gli estranei, non li designarono mai al pubblico vitupero: come altrove avvenne, non so con qual senno, giustizia e decoro nazionale. Giornali zelanti e ciarlieri anticiparono risultati non troppo veritieri, né genuini, della loro amministrazione. Ora che un po’ di luce s’è fatta nel retaggio di quei cinque mesi di sovvertimento, io godo di poter completare o correggere le premature rivelazioni. Un resoconto minuto, svariato, colossale sta adempiendo al dovere di rispondere di ogni loro atto dinanzi al governo nazionale.
Palermo, 23 febbraio 1861 Mia cara Bice – Dicono che l’inferno è tutto selciato di buone intenzioni. Io non lo credo – perché vi ha tanta copia di cattive e or-
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ribili azioni nel mondo, tanta abbondanza di assassinii, di imposture, di tradimenti che non rimarrà posto laggiù per un pavimento di mezzo carattere.
Ippolito sorrise al pensiero della faccia che avrebbe fatto la Bice dopo aver letto quanto stava per scriverle. Scrisse: Credo piuttosto che tutte le altre buone intenzioni anche la tua di scrivermi di sovente sarà già andata a popolare qualche celletta segreta del Purgatorio – non domando un castigo maggiore per te; anzi per aprirti schietto l’animo mio, voglio confessarti che se fossi papa vorrei assicurati fin d’ora una buona indulgenza plenaria.
Palermo, 26 marzo 1861 Avendoci egli detto che partirebbe coll’Ercole, tentammo più volte di dissuaderlo, facendogli osservare che già una volta aveva avuto un cattivo viaggio con quel vapore, ma egli rispose: Cosa fa? Ci staremo 28 ore invece di 18. Quel giorno ancora egli non si sentiva bene, mi disse: «Non mi sento affatto bene, mi sento come alla vigilia di una forte malattia, sono indolorato da per tutto». Gli feci osservare che il viaggio poteva ammalarlo molto più, al che mi disse: «Oh, no, il viaggio mi rimetterà: starò coricato tutto il tempo, così arriverò sano a Genova». Il lunedì mattina egli venne ad accomiatarsi e mi disse che era guarito del tutto dopo del caffè e il liquore del giorno precedente, però io non prestai fede alle sue parole, perché aveva molto mala cera e mi disse: «Ho paura che arriveremo dopodomani». Queste furono le ultime parole che posso rammentarmi, perché poco dopo egli andò via, ed ahimè, per sempre!
Archivio di Stato di Torino, ai giorni nostri La pratica continua a essere vuota, in tutti questi anni non è successo niente, ogni cosa è rimasta com’era o come non’era. 259
Già: come non’era, e chissà da quando. Marco Carassi, il direttore dell’Archivio di Stato di Torino, ha ereditato quel vuoto, quell’assenza, quella sparizione inspiegabile: «Era stato Stanislao Nievo, il pronipote d’Ippolito, a scoprire che dall’incartamento del mazzo 307 dell’Intendenza garibaldina, ossia la pratica su Nievo e sul naufragio del vapore Ercole, mancavano dei fogli. Accadeva alla fine degli anni settanta, forse all’inizio degli anni settanta, quando stava lavorando a Il prato in fondo al mare, il libro-inchiesta sulla scomparsa del suo antenato. Non si sa se sia stata sottratta, o se sia stata perduta. È un altro mistero nel mistero». «Il dottor Silengo», scrisse Stanislao Nievo, «dopo averci aiutato nell’analisi di altri documenti pieni di polvere e di carte indurite e disidratate dal tempo, ci mostrò con cautela un incartamento a parte, tratto dal mazzo 307 dell’Intendenza dei Mille. Era la pratica riguardante il colonnello Nievo e la sua morte nel Tirreno. Aprii la pratica col cuore in tumulto. Vi erano le minute di alcuni telegrammi, e poi un foglio grande, una copertina interna della pratica, la cosiddetta camicia che conservava un’altra relazione. Aprii anche questa. Dentro non c’era niente. I fogli in questione mancavano. Chi li aveva presi?» L’archivista «abbassò un po’ lo sguardo, come a scusarsi di non saper rispondere».
Palermo, 18 marzo 1861 Dalla direzione Generale dell’Amministrazione Militare presso il Comando Generale Militare della Sicilia viene inviato un dispaccio indirizzato all’Ufficio d’Intendenza Militare di Napoli. Vi si legge tra l’altro che 260
… il giorno 4 andante partirono infatti i detti Signori Impiegati, ai quali per desiderio del prefetto Gen.le Vice Intendente Nievo, si unì lo scrivano Sig. Fontana e seco loro portarono tutte le carte e i documenti che potevano servire nella resa de’ conti che andavano a dare. Presero imbarco sul Vapore mercantile “L’Ercole” diretto costì, né dopo quel giorno si è potuto sapere notizie certe sulla sorte toccata a quel piroscafo sebbene per parte del Governo e dell’amministrazione della compagnia di navigazione siensi fatte ricerche per conoscere la realtà della cosa. Essendo ormai trascorso troppo tempo senza notizie in proposito vi è sgraziatamente da supporre sia a deplorarsi un fatale infortunio e che li passeggeri che trovavansi a bordo di quella nave non abbiano potuto scampare al disastro. E siccome i predetti impiegati avevano con loro a bordo le carte tutte riguardanti l’Amministrazione dell’Esercito Meridionale e la perdita di alcuni documenti potrebbe mettere in imbarazzo la Militare Amministrazione potendovi per avventura interessare anche i terzi, così credo conveniente di rendere partecipe la S.V. della cosa per quelle disposizioni che crederà del caso. Pregola di dare comunicazione del presente al Sig. Acerbi, e dargliene partecipazione a Torino se mai fosse colà Il Direttore Generale Attuni.
Caprera, 28 settembre 1861 Alla famiglia del Colonnello Ippolito Nievo Tra i miei compagni d’armi di Lombardia e dell’Italia Meridionale – tra i più prodi – io lamento la perdita del Coll.llo Ippolito Nievo – Risparmiato tante volte sui campi di battaglia dal piombo nemico – e morto naufrago nel Tirreno – dopo la gloriosa campagna del 60 –. Una famiglia che può contare nel suo seno – un valoroso quale il vostro Nievo – merita la gratitudine dell’Italia – G. Garibaldi.
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Palermo, 23 febbraio 1861 Mi accorgo che non ti ho dato nessuna notizia di qui, fuori del mio malumore. Gli è probabilmente perché non ce n’è nessuna – Scusami e addio – Tuo cugino Ippolito Nievo.
Archivio di Stato di Torino, ai giorni nostri Se le finestre fossero aperte potrebbe entrare il vento, che fuori agita gli alberi nel cortile. Scompiglierebbe i registri dell’esercito garibaldino, posati sui lunghi tavoli. Il vento e conati di luce cadrebbero su quella pagina aperta, dove l’inchiostro nero ha pietrificato un nome, un cognome, una data: Nievo Ippolito Figlio di Antonio e di Adele Marin nato il 30 novembre 1831 in Padova / veneto / Intendenza.
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Le illusioni del tiro a segno Un sogno di Garibaldi
Si racconta della Guardia Nazionale che non c’è e mai sarà, e di come la nazione in armi venne presto disarmata. Si dice di Massimo d’Azeglio e di quel milione di fucili milanesi, di Pallavicini e del fatto d’Aspromonte, delle Calabrie e dei calabresi. E se non si sparerà ai papalini e agli austriaci, lo si farà al bersaglio.
Nel 1861 venne fondata, con regio decreto, la Società Nazionale per il Tiro a Segno. Lo scopo era di addestrare alle armi i giovani del nuovo regno d’Italia. Dopo la liquidazione dell’Esercito Meridionale garibaldino e l’effimera costituzione di una Guardia Nazionale di volontari, subito smantellata, il provvedimento assunto dal governo di Torino, in realtà, aveva il senso di una presa in giro. Garibaldi, però, volle crederci, o pensò perlomeno di sfruttarlo per i suoi fini, che restavano quelli della liberazione di Venezia e di Roma. La mancanza di fucili e di munizioni, la penuria di fucilieri che sapessero sparare, d’altronde, avevano sempre turbato i pasti frugali e i sonni brevi del Generale. Come avrebbe potuto dimenticare quanto era successo un anno prima, nei giorni che precedettero la partenza per la Sicilia? Se lo ricordava bene. Ricordava come Massimo d’Azeglio, governatore della Lombardia, avesse impedito che i 12 000 fucili depositati a Milano, in Santa Teresa, venissero spediti a Genova. Erano le armi comprate con i fondi della sottoscrizione per il «milione di fucili», ma il d’Aze263 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
glio non volle sentire ragioni. Come narra il Bianciardi, indignatissimo e a ragione, il 17 aprile andò Crispi, «personalmente», a Milano «a chiederne una parte, e si sentì rispondere che non si poteva, perché c’era il veto del d’Azeglio» e soprattutto quello del conte di Cavour. Fu «inutile parlarne col ministro degli Interni, il Farini: i fucili milanesi non si toccavano». Peggio fece Giuseppe La Farina, che insieme a Daniele Manin e a Giorgio Pallavicino Trivulzio capeggiava la Società Nazionale Italiana, voluta da Cavour per mettere il cappello sabaudo sulle imprese dei garibaldini e dei repubblicani. Il messinese aveva promesso di armare la spedizione dei Mille, «ma se l’avesse condotta La Masa». Non «se la sentì di tirarsi indietro, ora che Garibaldi accettava di essere lui il capo». Pertanto, dice sempre Bianciardi, da Modena La Farina «avrebbe dato ordine che arrivassero un migliaio di fucili», mentre Enrico Besana, che si occupava del denaro per il «milione di fucili», «comprava da un armaiolo milanese duecento carabine Enfield, le migliori che esistessero a quell’epoca». L’offerta di La Farina, comunque, «fu peggio di un diniego. Solo quando si sballarono le armi modenesi ci si accorse che si trattava di vecchi catenacci ad avancarica – polvere, stoppaccio, palla, stoppaccio ove non si avessero pronti i cartocci (cioè le cartucce) della polvere: originariamente a pietra focaia, li avevano riattati per l’accensione a capsula». Al momento dell’imbarco sul Piemonte e sul Lombardo, ci si rese conto che di armi non c’erano, o che erano pochissime. Anche le duecento carabine Enfield mancavano all’appello, insieme agli uomini che avrebbero dovuto portarle a bordo. Rammenta Abba che il Generale, nelle prime ore di navigazione, aspettava notizie «o altra gente, 264
o armi. Appunto, sino ad ora non abbiamo armi. Soltanto alcuni se ne vanno attorno, con certe carabine che si tengono care come spose. Le hanno sempre in ispalla. Sono genovesi, tutti tiratori da lunga mano, preparati a questi tempi con fede ed amore». È comprensibile perciò che quando Bettino Ricasoli, diventato primo ministro dopo la morte del Tessitore, gli offrì la vicepresidenza della Società per il Tiro a Segno, guidata dal principe Umberto, Garibaldi accettasse. Probabilmente comprese che si trattava di una manovra diversiva di Ricasoli, che intendeva distrarlo, con quella ricompensa misera per avere regalato l’Italia ai Savoia, dai suoi propositi di nuove guerre all’Austria e ai papalini. Ma fece il classico buon viso a cattivo gioco: insegnare agli italiani l’arte del tiro col fucile e colla pistola, inoltre, gli sarebbe venuto utile al momento giusto. E il momento sarebbe venuto di lì a poco. Lo stesso Urbano Rattazzi, subentrato al posto di Ricasoli alla guida del governo, e persino il re Vittorio gli avevano fatto capire, tra allusioni, confusioni e illusioni, che l’ora stava nuovamente suonando. In attesa di muoversi e di muovere le camicie rosse, l’Eroe dei Due Mondi onorava la carica che gli era stata data, forse ritenendo che bisognava affrettare, visti i tempi che s’annunciavano, la formazione di buoni tiratori. Nel marzo del 1862 scrisse all’avvocato e barone Antonio Plutino, calabrese, uno dei Mille, di indicargli il nome di chi avrebbe potuto guidare la costituenda sezione di Reggio Calabria del Tiro a Segno Nazionale. Il barone garibaldino non ebbe dubbi: il nome era quello di Pietro Foti, tra gli animatori dei moti di Reggio del 2 settembre 1847 e poi di Gerace e dei Piani della Corona, esule a Costantinopoli per evitare «il triste carcere di Reggio Calabria». 265
Il 12 di quel mese di marzo inviò una lettera a Foti, dicendo che «in forza delle disposizioni governative e degli otto accordi stabiliti colla Commissione Dirigente per l’istituzione dei Tiri a Segno autorizzo Foti a dare opera perché venga istituito un tiro al Bersaglio in Reggio Calabria mettendoVi, per quanto occorrerà, in relazione con le Autorità Locali». Già il 5 aprile il cospiratore del ’47 era in grado di comunicare l’avvenuta costituzione di un consolato organizzativo provvisorio della società, i cui rappresentanti sarebbero stati i medesimi Garibaldi e Foti, oltre a Domenico Genovese Zerbi. Il 5 agosto, infine, veniva approvato dal prefetto il regolamento, che, tra l’altro, diceva: «lo scopo della società è fornire i mezzi atti all’esercizio del tiro al bersaglio e di somministrare sperimentati tiratori nella guerra nazionale». Intanto il sommovimento, il palpitare dei cuori, i fremiti, erano ridiventati generali. Ed erano ripresi a fine marzo, ad aprile e a maggio, gli arruolamenti dei volontari per far la guerra all’Austria. Arringando le folle che rispondevano, acclamandolo, al grido di «Roma e Venezia!», Garibaldi stava battendo a tappeto la Lombardia per partecipare proprio alle inaugurazioni delle varie società di tiro, ormai un pretesto, e l’occasione, per gettare legna nel fuoco. La guerra si annusava ovunque nell’aria di quei giorni. Ma dove si sarebbe fatta? Arrivò a Milano e invitò il popolo glorioso delle Cinque Giornate a impugnare la carabina, nient’altro che quella. S’incontrò anche con Alessandro Manzoni. Il poeta del Marzo 1821 e del Cinque maggio, il romanziere dei Promessi sposi, s’inchinò di fronte a lui, omaggiandolo come il duce dei Mille e dicendogli di sentirsi piccolo al suo cospetto. 266
In quest’atmosfera, nell’eccitazione crescente in cui un altro garibaldino, il Guerzoni, avrebbe visto giustamente soltanto il «retorico», il «melodrammatico» e il «carnevalesco», il gran nizzardo continuava a occuparsi dei suoi tiri al bersaglio. Il 14 maggio scrisse alla Società di Mutuo Soccorso fra gli Operai di Siena, invitandoli a dare vita al Tiro a Segno: So che siete operai patriotti [sic], so che sapete passare dalle Officine, ove sudate nel lavoro, ai campi delle battaglie Nazionali, quando suonerà l’ora di queste. Però accetto con riconoscenza la Presidenza di codesta Società vostra. Vi esorto a dare prova anche voi, perché sorga anche qui, e presto, un Tiro al bersaglio. Alla nobile Classe degli Operai si addice un maneggio della Carabina per la redenzione della Patria.
L’ora suonava. Francesco Nullo puntò su Sarnico, sul lago d’Iseo, con un centinaio di volontari. Voleva sconfinare nel Trentino e nel Tirolo. Intervennero le truppe italiane, Nullo fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Brescia. Il Generale accorse, ci furono dei disordini e qualche morto. Il caos regnava sovrano, i giornali scrivevano: «Chi ne capisce qualcosa?» Forse soltanto Garibaldi, che nel frattempo, ritornato a Caprera, dall’isola alla fine di giugno s’imbarcò per Palermo insieme al figlio Menotti e a un gruppo di vecchi compagni, tra i quali il Guerzoni e Missori. Le accoglienze trionfali a Palermo, i 3000 volontari radunati al bosco della Ficuzza, le grida di «O Roma o morte!» precipitarono il resto. Il 25 agosto il Generale e le sue camicie rosse sbarcarono a Melito di Porto Salvo, in Calabria, più o meno nel punto in cui era approdato con i Mille il giorno 19 di un altro agosto, quello del 1860. Avrebbe dovuto andare a Reggio per inaugurare la Società di Tiro a Segno Nazionale, ma 267
alcuni patrioti gli fecero sapere che il generale Cialdini lo stava aspettando per fermarlo e gli dissero che, oltretutto, il Tiro a Segno lo avevano già inaugurato il giorno 21. S’accese una prima scaramuccia con le truppe regolari sulla strada per Reggio. Gli consigliarono di deviare per l’Aspromonte. Fu l’inizio della fine, peraltro una fine nota. Lo scontro avvenne il 29 agosto. I bersaglieri del colonnello Pallavicini lo colpirono a una coscia e a un piede. Trasportato a Spezia, venne rinchiuso al forte del Varignano. A comandare la guarnigione, ironia della sorte, era il figlio di Santorre di Santa Rosa. Guerzoni scriverà: Aspromonte e Mentana furono certamente, il primo un grande errore, il secondo una grande temerità, entrambi un’illegalità; ma astraendo anche da quel segreto viluppo di equivoci e di ambiguità, che in tanta parte li giustificarono, essi devono essere giudicati piuttosto un conato di insurrezione contro la politica d’un governo, che un atto di ribellione contro le istituzioni d’uno Stato. […] Non si dimentichi mai che tanto sulla bandiera di Aspromonte, quanto su quella di Mentana, il motto era pur sempre quello di Marsala.
Non rinunciò a Roma, e tantomeno ai suoi tiri al bersaglio sparsi per la penisola. Parma lo aveva nominato presidente. Catania lo fece vice, secondo solo al principe Umberto. E Siena lo volle ospitare in carne e ossa nell’agosto del 1867. Il Generale si cimentò nel tiro con il fucile e con la pistola, dove sfidò un tale Caio della contrada del Bruco. In suo onore fu spostata anche la data del Palio. Vinse la Lupa. Garibaldi ci vide la mano del destino, un segno d’ottimo auspicio per la liberazione imminente di Roma. Le illusioni del tiro a segno continuavano. 268
Con gli occhi di uno sterminatore Alessandro Bianco di Saint Jorioz
Dove si riparla della gloriosa casata dei Saint Jorioz, e di un figlio che tardivamente non disonorerà del tutto il nobile padre. I piemontesi hanno le mani per sparare, uno di loro ha pure gli occhi per guardare. Si fa la guerra alla frontiera pontificia, bisogna che niente cambi e niente resti com’è.
Quando morì a settantaquattro anni, il 25 febbraio del 1893, nessuno o quasi se ne accorse. Un operaio, forse lo stesso che lo aveva trovato cadavere in un’abitazione dello Stradale di Francia al numero 25, a Torino, andò a denunciare il decesso dell’uomo qualificato come «maggiore a riposo». Venne sepolto il 28. Sui giornali della città, rammentò il Parmentola, «non un necrologio, non un’inserzione». La famiglia «con lui si estingue completamente». Qualche giorno prima, il 6 febbraio, se n’era andata la sua compagna Vittorina Théaux d’Aure Forté, più giovane di una ventina d’anni, francese di Evreux, in alta Normandia. Scompariva nel silenzio, tanto delle gazzette quanto della storia, la gloriosa casata dei Bianco di Saint Jorioz, che molto aveva dato alla patria e niente, se non guai e disgrazie a catena, avrebbe ricevuto. L’ultimo dei Saint Jorioz era il conte Alessandro Bianco. Se suo padre Carlo, il grande rivoluzionario, l’esule del 1821, si era rovinato per avere troppo cospirato per la libertà, il figlio chiudeva la sua esistenza terrena in un oblio altrettanto pesante. Questo anonimato, quella qualifica generica di 269
“maggiore a riposo” che nulla svelava della sua carriera militare, avevano tuttavia una causa precisa. Per capire che cos’era accaduto bisognava risalire a ritroso il tempo, ritornare all’epoca della guerra al brigantaggio nel sud d’Italia e alle frontiere con lo Stato Pontificio, e scoprire poi le tombe di altri defunti come il generale Giuseppe Govone. Soprattutto era necessario rileggere le pagine di un vecchio libro. Il calendario segnava in rosso sangue il 1864, quarto anno di guerra nelle “Meridionali Provincie” del regno d’Italia. L’orrore era diventato ordinaria amministrazione, come le teste decapitate e i villaggi bruciati, la fame e la sete, il puzzo di polvere da sparo, le lacrime delle donne e dei bambini prima di essere ammazzati. Sui giornali si esercitava una contabilità macabra. Uno di quelli, “Il Pungolo”, poteva scrivere a metà marzo che «Un’altra notizia venne ad aumentare l’allegrezza»: gli usseri di Piacenza e i bersaglieri stanziati in Ripacandida «reduci da una perlustrazione, avevano portato in paese le teste di tre briganti uccisi nel bosco di Lagopesole». Non tutti si rallegravano per il numero delle teste mozzate dei briganti e delle numerose brigantesse. Nel Parlamento di Torino si levarono alte e vibranti le voci di Nino Bixio, che pure non aveva esitato a far fucilare nel sud un bel po’ di gente, e di Giuseppe Ferrari. Il generale garibaldino ricordò invano nell’aula di palazzo Carignano che «se vorrete un’Italia si compia, bisogna farla con giustizia, e non con l’effusione di sangue». E il milanese Ferrari, socialista e federalista, gli fece eco, egualmente inascoltato: «Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi». Nel suo libro su Garibaldi, Alfonso Scirocco, decano degli storici del Risorgimento, rammenta che «nell’agosto 270
del 1863, con la Legge Pica, fu istituito nel Sud una specie di stato d’assedio, con la sospensione di gran parte delle garanzie costituzionali». Alla fine di quel ’63 «la denunzia di illegalità e arbitri commessi in Sicilia provocò un aspro dibattito alla Camera». Bertani, poi, propose «le dimissioni in massa dei deputati dell’opposizione». Il primo a tradurle in pratica fu Garibaldi: il 21 dicembre, da Caprera, «le comunicò al presidente della Camera», spiegandone le ragioni «nella cecità dimostrata dal Parlamento a proposito della cessione di Nizza e nel “vituperio della Sicilia, che io sarei orgoglioso di chiamare la mia seconda terra d’adozione”». Fu tra quelle polemiche roventi, quegli eccidi nel Mezzogiorno, che nel 1864 G. Daelli e C., editori in Milano, diedero alle stampe un volume ponderoso intitolato Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863: studio storico-politico-statistico-morale-militare. Sulle prime pochi se ne curarono, soltanto il nome dell’autore riavvolse un nastro di memoria negli ambienti militari e della corte sabauda. Se il nome di Carlo Bianco era ormai un ricordo sbiadito, venato forse da qualche vecchio rimorso, quello del figlio era abbastanza noto: si trattava del conte Alessandro, capitano nel Corpo Reale di Stato Maggiore Generale, già sottotenente nell’Aosta Cavalleria, ufficiale d’ordinanza del generale Bava nella guerra del ’49 e autore, nel ’54, di Le storie delle caserme, un grosso centone d’aneddoti di vita militare. Come dice Parmentola, aveva potuto iniziare la sua carriera dopo il suicidio del padre: morto nell’esilio di Bruxelles il propugnatore della guerra rivoluzionaria per bande, «Carlo Alberto può dare, il 16 settembre 1843, ad Alessandro il grado di sottotenente in Aosta Cavalleria; e il 17 ottobre successivo immetterlo nella piena proprietà dei beni confiscati». 271
Nel ’64, dunque, rientrato dai confini della frontiera pontificia, gli venne l’idea, malaugurata col senno di poi, di utilizzare le sue esperienze di quella guerra per cimentarsi in un’opera voluminosa ed enciclopedica sul fenomeno, ovvero «un quadro disegnato di natura e colla prontezza e precisione della fotografia delle origini, delle azioni e delle conseguenze del brigantaggio», distinguendone intanto uno «politico» e «il comune», giacché «gli stessi motivi che conducono al brigantaggio cambiano a seconda delle provincie e della loro indole, giacitura, ricchezza e coltura». «Io non accuso, racconto», precisò. Invece nei ministeri, negli alti comandi, a palazzo Reale, s’interpretò l’esatto contrario. Tanto che, letta l’opera del conte Alessandro, in quegli ambienti dall’allegrezza per gli scannamenti dei briganti si passò all’ira e alla rabbia. Per quel libro, insomma, come scrisse Giuseppe Manno, gran storico del Risorgimento, Alessandro «perdette il suo grado di capitano di Stato Maggiore». Che cosa c’era di tanto esplosivo in quelle considerazioni sul brigantaggio, che per il Ferraris erano «un raro volumetto» (si fa per dire in quanto alle dimensioni...) di «alto interesse per la conoscenza della “questione meridionale” del tempo», e che rivela, in Alessandro, «la ardente e ardita indole paterna»? Se ci si fosse fermati alla dedica, «al luogotenente generale cav. Giuseppe Govone», non ci sarebbe stato niente da eccepire. «Questo studio imperfetto», vi appose il capitano, «ma onesto vero incontroverso / dalle sue opere e fatiche e negozi / e da suoi ammaestramenti / nelle meridionali provincie inspirato / l’autore / riverentemente e affettuosamente / offre» al «cuore generoso e fiero» di Govone, che i briganti aveva cacciato e represso, instancabile e spietato, dall’Abruzzo alla Sicilia, arrivando nell’estate 272
del ’63 a rastrellare centocinquantaquattro comuni con metodi, si disse, «coloniali», che si tradussero nei blocchi degli abitati, nel taglio degli acquedotti e nei divieti d’ingresso e d’uscita fino alla cattura di «tutti i renitenti, i disertori e malfattori». Bastava cominciare a leggere, tuttavia, per comprendere come il saggio di Alessandro fosse tutt’altro che retorico e celebrativo, di maniera, dell’operato regio, nonostante l’apparente condivisione dei motivi che avevano portato alla repressione e i molti giudizi poco lusinghieri sulla storia, sui costumi e sulle abitudini dei meridionali. Tutto «in questo Paese», esordiva, «favorisce il brigantaggio: la povertà dei coloni agricoli; la rapacità e la protervia dei nobili e dei signori; l’ignoranza turpe in cui è giaciuta questa popolazione; l’influenza deleteria del prete». Parlando del brigantaggio «comune», poi, sottolineava la difficoltà di sradicarlo a meno che il governo non facesse «un lavoro penoso ed ingrato di rigenerazione e di educazione», il quale «non è per anco incominciato, qualunque siano le illusioni di cui si pasce il governo in proposito. E ch’io non vedo finora probabilità di poter incominciare con successo». In un crescendo di rilievi, d’annotazioni critiche, di descrizioni cronistiche, il capitano dello Stato Maggiore giungeva a identificare nientemeno che nel «piemontesismo» la causa principale dello strazio del Mezzogiorno: «ecco un’altra parola gravissima, dolorosissima, che non dovrebbe esistere nel Dizionario italiano. Essa esprime un dualismo che si traduce per discorsi, e si sa che l’Italia della discordia fu sempre prostrata. Ma quando i fatti provano che le leggi che si mandano non sono buone per le Provincie Meridionali; che le condizioni economiche di queste sono toto caelo diverse da quelle, e così le spirituali, le 273
cordiali, di abitudini, di costumanze, di tendenze, ecc., ecc., perché si danno e si fanno agire? Bisognava non toccare, non innovare, aspettare e lasciar correre tutto come esisteva, ed appena appena accomodare il tanto necessario ai principi costituzionali iniziati». Passare «dal meglio al peggio quando si aspetta un bene migliore è un violentare di fronte un popolo, un disgradirlo, umiliarlo, offenderlo in tutti gl’interessi economici, morali e politici ancora». L’Italia, pertanto, «non era e non è fatta: le leggi son provvisorie, e per le cose provvisorie voi create un profondo malcontento?» Chi leggeva si stava rendendo conto di avere davanti agli occhi una vera e propria requisitoria sul tradimento degli ideali risorgimentali, un’analisi ponderata della conquista regia del sud e non della liberazione di questo, una disamina acuta delle ragioni della “questione meridionale”. Non si sa, forse si saprà mai, se Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nello scrivere il suo Gattopardo avesse consultato il libro di Alessandro Bianco. Ma è ragionevole credere che questo brano potrebbe tranquillamente essere stato scritto da lui: Il 1860 trovò questo popolo del 1859 vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia. Tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto; i ricchi non sentono pietà; gli agiati serrano gli uncini della loro borsa; i restanti indifferenti o impotenti. Niuno può o vuol l’altro aiutare, sconforto da per tutto.
Ci aveva provato Garibaldi, nel 1860. Nessuno però ricordava più i decreti con i quali, da Alcamo a Palermo, a Cosenza, aveva abolito la tassa sul macinato e i dazi sul274
l’importazione di cereali e di legumi, stabilendo la divisione delle terre comunali e i sussidi alle famiglie più povere. In Calabria si era spinto più avanti. Il 31 agosto aveva firmato il seguente provvedimento: «Gli abitanti di Cosenza e Casali esercitano gratuitamente gli usi di pascolo e semina delle terre demaniali della Sila e ciò provvisoriamente sino a definitive disposizioni». Carte morte, seppellite. Anche Alessandro Bianco di Saint Jorioz, finalmente ricongiunto al padre, venne congedato dal regio esercito di Vittorio Emanuele II.
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Ritratto della contessa Maria Martini Giovio della Torre.
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«Bella ed infelice donna!» La contessa Maria Martini Giovio della Torre
Aveva gli occhi neri, era splendida, ardimentosa e appassionata. Amò perdutamente il Generale, non fu riamata. Si racconta delle Cinque Giornate e di una fuga dal convento, dei combattimenti del Faro e di Bezzecca. Morì dimenticata da tanti, circondata da panni rossi come le camicie dei suoi compagni garibaldini.
Mendrisio, Manicomio Cantonale, gennaio 1919 Ghiacciava una notte d’inverno, ma era una notte piena di sogni. Qualcuno stava sognando, quella notte, in una camera del manicomio. Si assopì mentre ancora la battaglia infuriava, e i legni borbonici spazzavano la spiaggia con i cannoni. Urlavano, fuggivano, nel sole violento. Montò a cavallo, si mise a inseguire quegli uomini agitando la sciabola. Il Generale sarebbe stato fiero di lei. Non si svegliò più.
Milano, giovedì 23 marzo 1848 Non era più un sogno, ma a lei sembrava che lo fosse. Si guardava intorno e vedeva, come se le stesse sognando, le rovine di Milano, le barricate sempre in piedi e fumanti, le caserme svuotate dagli austriaci. Maria camminava per la città tra la folla esultante, che gridava, si stringeva in un abbraccio smisurato nell’oceano di coccarde tricolori. 277
Sui muri dei palazzi, ai cantoni delle strade, da Porta Renza alla Vetra, a Porta Tosa, sfolgoravano i proclami della vittoria. Uno annunciava: «Cittadini! Il maresciallo Radetzky che aveva giurato di ridurre in cenere la vostra città non ha potuto resistervi più a lungo. Voi senz’armi avete sconfitto un esercito che godeva una vecchia fama di abitudini guerresche e di disciplina militare». Lo firmava la giunta provvisoria di governo: «Casati, Presidente. Borromeo Vitaliano. Giulini Cesare. Guerrieri Anselmo. Gaetano Strigelli. Durini Giuseppe. Porro Alessandro. Greppi Marco. Beretta Antonio. Litta Pompeo. Correnti, Segr.». Ora camminava un po’ spavalda, gli occhi che bruciavano nel volto da bambina. Avrebbero poi detto che «fiera nel portamento, Maria Martini camminava come la bellissima contessa di Castiglione».
Brescia, fra il 1908 e il 1910 E dunque, in quegli ozi di agosto, i garibaldini non avevano distrazioni; onde parve gran cosa venuta dal mondo dei sogni, una bellissima donna che vestiva da Guida. L’eleganza della divisa dava un gran rilievo alla persona di quella donna, che appariva e spariva, ora misteriosa, ora in vista fin troppo. Aveva curato i feriti di Milazzo nell’ospedale di Barcellona; feriva essa stessa i cuori. Portava due grandi nomi di signorie piemontesi e lombarde; le si dicevano dietro molte cose tra belle e no; ma ella se ne andava incurante. Alfine fu vista rondeggiare intorno alla torre del Faro dove Garibaldi aveva messo il suo quartiere generale.
Giuseppe Cesare Abba depose la penna. Si passò una mano sulla fronte, ritornò a quel giorno d’agosto del 1860.
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In un luogo imprecisato, ai giorni nostri Ci sono slabbrature, frammenti e molti vuoti nella vita della contessa Maria Martini Giovio della Torre, nata Canera di Salasco nel 1831. D’antica stirpe piemontese, divenne lombarda per matrimonio; morì a ottantotto anni nel manicomio di Mendrisio, in Canton Ticino, nel gennaio del 1919, dopo un lungo ricovero. Era bella, anche questo dovrebbe essere assodato. Una delle poche certezze, però. Fingendo di non essere per nulla misteriosa, lei stessa non faceva altro che diventarlo ancora di più. In una lettera degli anni parigini, dopo il 1860, scrisse di sé: Je ne suis pas si misterieuse et si romanesque qu’on le pense, je ne suis ni Valaque, ni Allemande, ni Américaine. Je m’appelle la comtesse Marie Martini della Torre et je suis née à Milan. Quant à mon masque et à mon sabre, permettez-moi de ne rien vous dire.
Sosteneva dunque di non essere misteriosa o personaggio da romanzo. Eppure il suo abbigliamento, la sciabola che portava, il rifiuto di spiegare quella foggia singolare, dimostravano il contrario. Giacomo Emilio Curatolo, studioso di Garibaldi, la descrisse con ammirazione incantata: «Con due occhi neri che mandavano saette, essa fu veramente bella, di una bellezza affascinante, aristocratica. Vestiva sempre alla militare, così come ce la rappresenta una stampa dell’epoca». Figlia del conte Carlo Canera di Salasco, il generale che stipulò l’armistizio con gli austriaci nel ’48, e della torinese Marianna Pallavicino, «ancora giovanetta», secondo Curatolo, Maria comparve «sulla scena politica nel 1848, a Milano. Dopo la pace, sposò nel gennaio del ’51 il conte Martini Giovio della Torre di Crema, esule a Torino e già 279
vedovo di Deidamia, la sorella di Luciano Manara». Non si può escludere che il conte avesse conosciuto Maria a Milano durante le Cinque Giornate, sebbene sembri più verosimile che il loro incontro fosse avvenuto a Torino verso il 1849. Di quest’opinione era il colonnello Carlo Pagani, che nel suo libro sui fatti milanesi del marzo del ’48 si soffermava sul ruolo che il Martini ebbe nella rivoluzione, come tramite tra Carlo Alberto e gli insorti. E a questo proposito, in un altro volume dimenticato che all’epoca sua fu scritto in presa diretta (uscì nel medesimo 1848), l’autore, il Tettoni, ricorda come alle richieste meneghine d’aiuto il re di Sardegna rispondesse che «sarebbe stato impossibile al governo di S.M. di prendere l’iniziativa di un sussidio militare in Lombardia, a meno che non pervenisse a S.M. una diretta domanda da parte del popolo di Milano». Il nobile cremasco, all’epoca poco meno che trentenne, «benemerito nostro cittadino», s’incaricò di portare «a noi questa notizia a traverso i mille pericoli che si opponevano al suo ingresso in Milano. Giunse la mattina del giorno 21: con che gioja fosse accolto dal governo provvisorio, è facile immaginarlo: ebbe subito missione di riportare a S.M. il re di Piemonte i sensi della nostra gratitudine, i fervidi nostri voti, perché le gloriose sue truppe accorressero in nostro soccorso». Nonostante le «insuperabili difficoltà» date dalla «sospettosa vigilanza dei soldati austriaci», che «si opposero per alcune ore alla partenza del signor Enrico Martini», quest’ultimo, grazie al «valore dei cittadini che gli aprì le porte della città», «ne approfittò, volando a Torino». Un volo inutile, giacché Carlo Alberto varcò il Ticino quando ormai i milanesi s’erano liberati da soli di Radetzky. L’amore fece dimenticare a Martini il disastro della guerra. Narra il Pagani che nel ’49 il conte s’invaghì della fanciulla torinese, e di come molto romanticamente «an280
dasse in campagna, di notte, sotto i balconi della sua villa», quella del Torrione, a Pinerolo, «a cantare romanze d’amore accompagnandosi colla chitarra». Il matrimonio non s’addiceva a Maria. Dice Curatolo che «tristi vicende recarono ben presto lo sfacelo nella famiglia». Tutto naufragò, a quanto pare, per colpa della contessa, la cui condotta di vita, prima e dopo il matrimonio, non sarebbe stata esattamente quella di una donna virtuosa. Le cronache dell’epoca la dipingevano «colta e intelligente»; amava discettare di politica, d’altronde, e diede alle stampe diversi opuscoli patriottici e antimoderati usciti fra il ’59 e il ’60. Contestava la cessione di Nizza e della Savoia a Napoleone III, per esempio, e denunciava altresì i «pericoli creati dal papismo». I libelli come Episode politique en Italie de 1848 à 1858, Dangers creés par le papisme e Non si venda Savoia e Nizza. Appello agli italiani della Signora contessa M.M.G. della Torre sarebbero piaciuti poco al governo di Torino. Ma soprattutto i giornali la ritraevano quale donna del bel mondo «frivola e vana». Malignità e frecciate nei suoi confronti erano il pane quotidiano. Si arrivò a sostenere che avesse reso «disgraziatissimo» il marito a causa della sua condotta «non irreprensibile» e dei debiti ingenti, onorati sempre più a fatica dal conte Martini, che intanto, essendo suddito del Lombardo-Veneto, s’era visto sequestrare i beni di famiglia dagli austriaci. Fu lei a lasciare il marito? Sembra di sì. Tanto che il padre non esitò a rinchiuderla in un convento. Di guai, del resto, il generale Canera di Salasco, che tra l’altro detestava Garibaldi, da lui conosciuto nel ’48, ne aveva ne aveva già fin troppi dopo la firma dello sciagurato armistizio di Vigevano. Lo avevano addirittura identificato con l’atto di resa, come se fosse stato lui a volerlo e non invece il re, cosa che tutti sapevano ma che fingevano 281
d’ignorare. Secondo una malalingua dell’epoca, il colonnello a riposo Luigi De Bartolomeis, il povero generale inoltre avrebbe subito, al pari del conte Martini, le conseguenze della condotta «non irreprensibile» di Maria: È nota al pubblico la condotta scandalosa che tenne la contessa Martini, figlia del conte Salasco, divisa dal marito. Questa, ed altre disgrazie di famiglia, per troppa prodigalità nei figli, furono cagione, coll’armistizio, dell’alienazione del patrimonio vistoso di oltre a centomille [sic] lire di rendita che godeva il conte di Salasco.
Brescia, fra il 1908 e il 1910 Aveva ripreso a scrivere. Scrisse che allora il dottor Ziliani, medico della divisione Türr, si levò dal campo di Fiumara della Guardia, e con a tracolla la sua bisaccia, con la sua coperta arrotolata su di una spalla, se ne andò alla torre. Ivi, senza dir a nessuno il perché di quella sua mossa, si piantò sulla stanza terrena quasi sulla soglia, stese al suolo la coperta, e vi si adagiò a giacere. E notte e giorno stette così parecchio. Gli ufficiali del quartier generale, entravano e uscivano, gli dicevano «Che ci fai?» Egli nulla.
Parigi, 19 maggio 1853 Non c’è alcun dubbio che sia «una delle bellezze in voga nei salotti parigini». Non ne dubita il conte Antonio Casati, segretario della Legazione Sarda nella capitale francese. Appena rientrato dal dejeneur dansant dato dai Faucigny per il matrimonio del figlio con la Pallavicino-Mossi, il diplomatico apre il suo journal e vi annota subito che «era bella come una dea». Lo scrive anche al conte Martini. Le fa rivedere Maria nel suo «magnifico abito rosa che le donaste e che certamente non poteva essere meglio in mostra che in dosso a una così gentile signora». 282
Pont Colbert, vicino a Versailles, 4 agosto 1856 Essere sua! Per sempre sua! Lo aveva capito subito, il 10 maggio di due anni prima, quando lo aveva incontrato a Londra. Corse al secrétaire, da un cassettino prese l’occorrente per scrivere. Cominciò febbrilmente, fremente, adorante: Generale e caro Amico, Se avete fede in me sarete felice! Io vi sarò compagna indivisibile nella gloria e nella sventura; ma quest’ultima non sarà mai, il cuore me lo dice! Accetto ogni responsabilità del futuro; sarò cosa vostra, ve lo giuro. Non dovete temere o dubitare di me. Legandomi a voi, conosco cosa vi debbo di onore, di affetto e di obbedienza. Volesse Dio darmi ascolto per potervi dimostrare quali sono i sentimenti, ch’io nutro per voi. I giorni si avvicinano e alla fine d’agosto sarò al mio posto. Scrivetemi che cosa volete, che cosa desiderate. Questi saranno ordini sacri per me! Sono commossa, orgogliosa di essere scelta per compagna vostra. L’avvenire mi darà ragione della scelta. Tutta vostra Maria Martini. P.S. Eccovi il mio indirizzo: Paris. Poste restante.
In un luogo imprecisato, ai giorni nostri Racconta Curatolo che Maria, «riuscita a fuggire» dal convento, «andò a Londra, dove visse parecchi anni una vita burrascosa fra gli esuli italiani». Nel dicembre del ’53, intanto, a Torino s’era separata dal marito. Non è difficile immaginare che cosa intendesse per «vita burrascosa»: amori, intanto, travolgenti ed effimeri; co283
spirazioni patriottiche, poi, non disgiunte da comportamenti e abiti eccentrici, stranezze assortite, magari travagli finanziari e ostilità, vessazioni, da parte della famiglia e degli agenti sardo-piemontesi. Fu l’incontro con il Generale a cambiare la sua esistenza, marchiandola con il fuoco dell’ineluttabile, del destino tragico. Glielo rammenterà, ormai disperata e decisa a uccidersi, in una lettera del 10 maggio 1865: Generale! Amico! Ecco il 10 maggio! Undici anni fa, ebbi la fortuna e l’onore di andarvi a ricevere a Londra e di profferirvi quell’amicizia, che non si smentì mai. Voi darete un mesto ricordo alla mia morte. Sovvenitevi che fui sempre degna del vostro affetto. Fate ciò che vi chiedo di fare. Vostra Maria contessa Della Torre.
Brescia, fra il 1908 e il 1910 Dunque che cosa ci faceva Zilliani, là, al pianterreno della torre del Faro? Intinse il pennino nel calamaio, riportò la penna sul foglio e sorrise: Che cosa egli si fosse fitto in capo quella volta, non si seppe che nel 1866, quando si ritrovò coi suoi compagni tornati alle armi come gente che s’era votata all’impresa lunga, interrotta, ma rimasta in cima dei loro pensieri fino al compimento. La patria, allora, aveva di tali amanti. Soltanto sei anni dopo, una sera, sul Garda, provocato da uno di quei compagni, lo Ziliani parlò. «Ma che ci facesti laggiù in quella stanza della Torre del Faro?» «Dovevate domandarlo al dottor Ripari. Ora ve lo dico io. Egli aveva mandata via dall’ospedale di Barcellona quella Guida bella perché vi innamorava i feriti di Milazzo, e mi scrisse. Io non volli che essa toccasse la soglia di Garibaldi. Non per lui, no; ma per la gente. Ci vuole poco a far calare un uomo nell’opinione».
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Abba sorrise di nuovo. Si alzò, andò a prendere una copia del suo Da Quarto al Volturno e lo aprì alla data del 15 agosto 1860. Rilesse quanto aveva annotato quel giorno: Ho veduto un ufficiale delle Guardie camminare lesto lesto, lungo la spiaggia, senza sciabola, proprio una donna, fianchi e seno. Bella, faceva l’aria da bambina, ma si guardava dietro con una coda d’occhio così serpentina!... Gli ufficiali della brigata ne chiacchieravano; il colonnello Bassini, scotendo la testa e il frustino, brontolava sordamente dietro quella figura. È una contessa piemontese che corre la ventura; si dice che spanda balsamo, pietosa come una suora di carità; ma si aggiunge che il vecchio dottor Ripari l’ha fatta cacciare dall’ospedale di Barcellona, dove essa voleva fare l’angelo sopra i feriti di Milazzo.
In un luogo imprecisato, ai giorni nostri Si amarono? Oppure il Generale non si fece sedurre dalla bellezza e dal fascino di Maria, respingendola? Curatolo propende per una terza ipotesi, che peraltro accredita come quella giusta: «E sembra che Garibaldi, che non mancava mai di ricambiare un sorriso alle donne, siasi veramente interessato alla sorte dell’infelice contessa; ma non certo così da far nascere in lei la speranza di diventare la sua compagna». Le lettere vibranti ed esclamative di Maria, insomma, non sarebbero state altro che «il prodotto della fantasia immaginosa di questa bollente figlia d’Eva. La quale, se rimase insoddisfatta nel suo desiderio, non per questo però cessò di continuare a profferire amicizia a Garibaldi, che da parte sua gliela ricambiava». Amicizia d’alcova, come si sarebbe detto allora? 285
Lo storico non si sbilancia, preferendo celebrare «l’anima cavalleresca» del suo eroe, «che non era insensibile alle manifestazioni d’affetto da qualunque parte venissero, e sapeva sempre trovare, soprattutto nei momenti di grande sconforto e di disperazione delle sue ammiratrici – e nella vita della contessa Martini, come vedremo, ve ne furono dei tragici – parole dolci, che arrivavano come un balsamo a tanti cuori sanguinanti».
In Liguria, 4 febbraio 1860 Amico mio, Nelle vostre ore tristi, sovvenitevi di me. Quando avrete bisogno di me, domandatemi. Sono tutta vostra Maria.
Palermo, luglio 1860 Dal giornale “Il Precursore”: La contessa Martini Giovio della Torre, che in Crimea prestò tante cure ai feriti con la celebre signora Nightingale, appena arrivata in Sicilia si è messa a capo di un’eletta schiera di giovani donne a raccogliere collette pei nostri feriti. Le madri di questi valorosi verseranno lagrime di gioia, vedendo che i loro figli trovano le più care mostre di affetto, e noi siamo nel dovere di contribuire a quest’opera di paterna benevolenza.
Palermo, luglio 1860 Dal diario del conte Giulio Litta Modignani, in missione per conto di re Vittorio Emanuele II: Prima di sedere a colazione, entrò nella sala una donna con un “sombrero” chiaro in testa, ornato di velluto pensé e due pomponi
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idem. Aveva una giacchetta di tela russa greggia, ornata come quelle delle Guide di Garibaldi e la veste corta di eguale tela, ricca di pieghe, ma senza cage; per calzatura poi, aveva degli stivali di pelle nera, che le arrivavano al ginocchio. Cotesto accoutrement mi colpì molto; ma il mio stupore fu non poco, quando vidi che questa persona, che in viso mi sembrava tutt’altro che attraente, mi salutò disponendosi a parlare. Ma in quel momento il Crispi, avendola fatta entrare, io non potei avvicinarmele; però, essendo accompagnata da un siciliano, mi rivolsi a lui per sapere qualche cosa sul conto di questa persona, il cui strano contegno mi aveva colpito.
In un luogo imprecisato, ai giorni nostri Unico biografo, pietoso e comprensivo, di Maria, il buon Curatolo non dimentica le pagine che Abba e Bandi le dedicarono. Proprio citando il maremmano di Gavorrano, ci rammenta che la contessa, oltre a essere bella, innamorata e molto sventurata, aveva un coraggio non comune: Al Faro, narra il Bandi, un meriggio, mentre nel campo garibaldino, sulla marina, pacificamente si mangiava, alcuni legni borbonici avvicinatisi pian piano alla riva, apersero d’un tratto un terribile bombardamento. Fu un panico, un fuggi fuggi generale! Ma la contessa, buttato via un piatto d’insalata che stava mangiando, irruppe d’un tratto a cavallo colla sciabola in pugno tra gli artiglieri fuggiaschi sotto la gragnuola della mitraglia, e li ricondusse, gridando sui pezzi, puntando poi ella stessa un cannone! L’episodio venne poi confermato da altri garibaldini, che si trovarono presenti.
Palermo, luglio 1860 Dal diario del conte Litta Modignani: Questi mi disse essere una signora La Tour, di origine italiana, che aveva vissuto quasi sempre in Inghilterra fino a quindici anni, poi si era stabilita in Francia... Aveva terminato appena di darmi questi
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ragguagli, che questa signora ritornò nella nostra camera. Era la contessa Martini che avevo dinanzi a me, ed io potevo rinvenire dallo stupore di un simile incontro! Allora ci salutammo con maggiore confidenza. Vedendola da vicino, si poteva scorgere che il tempo e il suo strano vivere avevano fatto non pochi guasti sui suoi tratti, una volta generalmente reputati di non comune avvenenza. Essa mi narrò che partiva per Milazzo, dove con altre signore andava a dedicarsi alle “ambulanze”.
In un luogo imprecisato, ai giorni nostri Curatolo racconta nel suo libro che «il rigido Dr. Ripari la fece espellere dalle ambulanze; ma sembra che essa non fosse pronta ad obbedire neanche al Dittatore e corse voce che egli stesso alfine la cacciasse fuori col... frustino! La qualcosa in verità merita conferma, tanto più se si considera, che la Maria rimase in Sicilia con i garibaldini a lungo ed ebbe agio di scrivere qualche pagina di eroismo, degna di essere ricordata». Di certo restò con Garibaldi fino ai giorni nel Volturno. Un giornalista francese, di stanza a Caserta, ne tracciò un ritratto vivido. Lo avrebbe rammentato Felix Mornand nel suo libro sul Generale, in cui presentava Maria quale «una di queste eroine, tra guerriere ed ospitali», la «giovane contessa della Torre, nata Salasco e figlia del generale di questo nome, la quale fu veduta, dal principio sino alla fine della campagna, seguire da pertutto l’esercito di Garibaldi, e non paventare né le mischie né il soggiorno negli avamposti. Presso il quartier generale, dov’ella albergava, era l’asilo degli ammalati e dei feriti».
Dintorni di Messina, luglio 1860 Il volontario Giulio Adamoli ne fermò il ricordo, lo cristallizzò, conservandolo per la vecchiaia: 288
E non potrei finalmente passare sotto silenzio, senza venir meno alle regole più elementari della galanteria, la seducente contessa Martini Salasco, di antica prosapia piemontese, la quale, nella illusione, in cui era, di prestare aiuti e distribuire soccorsi, cavalcava fra mezzo le squadre garibaldine in un leggiadro costume, che arieggiava l’uniforme delle Guide, e volentieri si soffermava presso il nostro comando.
Torino, settembre 1860 Gli aveva chiesto di lei. Non ne sapeva granché. Glielo scrisse. Urbano Rattazzi non dovette pensarci troppo su per spiegare al conte Martini che «di vostra moglie non ebbi più alcuna notizia; so ch’ella era andata in Sicilia. Ma ignoro se vi si trovi ancora. [...] Del resto, a parte la questione d’interessi, non dovete prendervi nessun fastidio. [...] Quando le cose sono giunte ad un punto simile, il marito non ha più ad occuparsene».
Caserta, autunno 1860 Il giornalista di Parigi cercò la posizione giusta sulla poltrona, accese un sigaro e cominciò il «romantico ritratto» di quella bella «amazzone». Felix Mornand prese qualche appunto. «Dunque si trattava del capitano del genio Fix, un belga, che «aveva ricevuto nel combattimento del 1° ottobre due ferite nelle reni, mentre respingeva il nemico colla bajonetta oltre Sant’Angelo. Seppi ch’era a Caserta, nel palazzo Monti, e andai a trovarlo. Il palazzo Monti è, dopo il palazzo reale, la più bella abitazione di Caserta. Per vedere il mio amico, ebbi a passare più e più ampie stanze, e lo trovai disteso sul letto, spoglio fino alla cintura e pronto ad essere fasciato». Era scesa la sera, «un soldato d’alta statura, con in mano una lampada, faceva lume alla sala; un al289
tro portava l’apparecchio; e pareva che, prima di applicarlo, aspettasse qualcuno. Odesi nell’anticamera un romore di sciabola, ma leggiero e nulla avente di soldatesco. Tutti gli occhi si volgono dalla parte della porta». «Se volete avere una idea giusta abbastanza del personaggio che allora ebbe ad entrare», continuò il giornalista, «raffiguratevi la stuatua di Giovanna d’Arco, rappresentante la Pulcella con in mano una spada appoggiata col pomo al seno, mentre la punta guarda al cielo. E valga il vero, quel personaggio era nel tempo stesso un guerriero ed una donna: abbigliata come la statua, cioè con una lunga tunica disegnante il seno e scendente fino alle ginocchia; oltre a ciò, un mantello sulla foggia dell’amitto romano, atto a drappeggiare il corpo in mille guise. Di sotto, una piccola sciabola elegante, pendente fino a terra». Sì, «la signora era bella». Si avvicinò «al letto sorridendo, applicò la fasciatura, rassicurò dolcemente l’ammalato, s’informò se mancasse qualche cosa, salutò ed uscì. Io credetti d’essere tornato ai tempi favolosi di Berta dai gran piedi. “Chi è questa signora” chiesi al capitano. “Non conoscete la romanzesca contessa della Torre?” mi rispose. “La mia ferita mi spossa troppo, e non sono in grado di parlare a lungo; del resto vi narrerei la di lei storia. Contentatevi di sapere, pel momento, ch’ella prodiga indistintamente ai garibaldini feriti degli ospitali, del pari che a quelli da lei albergati, come son io in casa sua, le medesime cure disinteressate ed il balsamo delle medesime consolazioni».
Genova, 26 febbraio 1861 Caro Generale ed amico, Sono di ritorno dopo avere adempiuto fino all’ultimo la mia missione presso i feriti.
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[...] Io vi scrissi più volte; se non avete ricevuto le mie lettere non è colpa mia, né del mio cuore, né di un’amicizia che conoscete. [...] Non voglio essere calcolata nel numero degli importuni che vi assediano, e benché conosca l’amicizia e il sincero affetto che avete per me, pure mi astengo dal venirvi a vedere. Voglio che mi teniate sempre nel numero di quei pochissimi amici, che vi amano senza egoismo, senza interesse. Tutta vostra Maria Della Torre
Roma, 1928 Dalla “Rassegna Storica del Risorgimento”: Il dott. ARMANDO SAPORI pubblica alcune lettere inedite di Due gentildonne piemontesi a Bettino Ricasoli, vale a dire della contessa Maria Martini della Torre, nata Salasco, che pur nella miseria della sua vita, parve volere sottrarre il Garibaldi all’influenza degli speculatori, che l’attorniavano, per affidarlo al senno e alla calma del Barone; e della principessa Aurelia de la Tour d’Auvergne, nata Bossi...
In un luogo imprecisato, ai giorni nostri L’anno cruciale, l’inizio della sua infinita «agonia morale», come disse lei stessa, è il 1865. È allora, dice Curatolo, «che le lotte che questa strana figura di donna, per ragioni d’interesse e per la sua condotta, dovette sostenere coi parenti, sembra che abbiano raggiunto il culmine». La corrispondenza con il Generale s’infittisce, sempre più drammatica, senza speranza. Maria vuole morire, minaccia più volte il suicidio. Ha lasciato Parigi, soggiorna a Milano e appare a Crema, la città di suo marito Enrico, che deve essere all’origine dei suoi travagli e delle sue sofferenze. Il 5 aprile scrive a Garibaldi: 291
Oggi sono affranta di morale e di fisico. Domando alla morte la pace, la quiete! A voi lego sacre parole di affetto. Vi lego, per testamento, mia figlia. Amatela, fate per lei ciò che potrete per farne una buona cittadina! Povera bambina! è in così cattive e disoneste mani! Addio, Generale!
La lettera dell’8 giugno sembra davvero l’estrema: Narrarvi il martirio morale di due anni sarebbe inutile; il mio testamento e le carte annesse lo diranno. Ebbi per voi un culto, un’adorazione! Invidiavano voi e me; e fecero di tutto per allontanarci. Io soffrii tutto senza addolorarvi. Morendo, posso giovare; viva non lo posso! [...] Riceverete una mia ciocca di capelli; conservatela per memoria del 10 maggio 1854.
Garibaldi, questa volta, non rimane indifferente. Le risponde più volte, cerca di dissuaderla dai suoi propositi e, alla fine, ci riesce. Da Caprera le scrive: Contessa amatissima, Ma voi mi avete disperato con le vostre due ultime lettere. Perché avete deciso di morire? Ditemelo e ditemi ciò che io posso fare a sollievo vostro, perché io vi amo sempre, bella ed infelice donna!
Caprera, 13 marzo 1866 Maria Carissima, Ebbi i vostri due ritratti e ve ne ringrazio. Il bellissimo vostro volto vi è pieno di mestizia e mi diveniste più cara. Voi siete una vittima della perversità umana. In questi tempi, in cui la parte eletta della nazione si millanta di vergogne, che volete? Però voi, giovane, ricca e bella, paragonandovi colle infelici creature, che vi circondano non dovete affliggervi e in una prossima vostra m’invierete un ritratto, che mi confermi non essere vane le mie ammonizioni. Vostro sempre G. Garibaldi
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In un luogo imprecisato, verso il 1910 Raffaello Barbiera magari lo scrisse con il cuore. Ce ne mise almeno un frammento nel ricordare la «sventurata creatura», «l’affascinante contessa», che «in certi periodi della sua folle vita, aveva dormito nei palazzi più suntuosamente storici di Londra e nelle luride locande dei minatori, dove qualche segreto messaggero d’alti personaggi impietositi durava fatica a discernerla per recarle l’offerta della carità».
In un luogo imprecisato, ai giorni nostri Maria indossò ancora la divisa garibaldina. Nel 1866, «durante la guerra per Venezia», come sostiene il Curatolo, «i volontari la videro cavalcare, in camicia rossa, oltre Bezzecca accanto al colonnello Bruzzesi». L’anno successivo seguì Garibaldi nell’avventura romana. Il professor Antonio Vitali, «Accademico Tiberino», la ricordò nel suo libro Le dieci giornate di Monte Rotondo, pubblicato nel ’68 dalla tipografia di un certo G. Aurelj, che aveva bottega al numero 89 di piazza Borghese: Alla cura de’ feriti soprintendeva la Jessie White Mario, e la Salasco Martini della Torre, fatate Angeliche di cotesti paladini. Esse, talor col moschetto ad armacollo, si traevano in giro cercando bende, filacce, materasse e lenitivi pe’ lor feriti.
Poi la notte interminabile, spezzata soltanto dai sogni. Lo storico, che scriveva queste pagine intorno al 1912 o al 1913, concludeva così: «Essa vive ancor oggi, trascinando l’infelice vecchiezza in un manicomio, a Mendrisio». 293
Nella sua «mente ottenebrata» viveva sempre «il ricordo dell’impresa eroica, in mezzo alla quale, come da vortice attratta, passò meravigliosamente strana per valore e per traviata pietà. Ancora, dicono, essa sente viva e forte l’attrattiva del rosso; e panni purpurei cerca per ammantarsi dovunque. Forse un vago, incosciente ricordo della camicia rossa da lei vestita, forse una visione ultima delle fiammanti schiere garibaldine fra le quali galoppò all’assalto? Chi sa!»
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I vinti
Il Risorgimento muore nelle «grida strazianti e dolenti» del popolo cannoneggiato da Bava Beccaris. Gli ultimi garibaldini se ne stanno appartati, silenti e sdegnati. Per i «napolitani» ci sono fortezze e prigioni. Anche la contessa di Castiglione se ne va dimenticata da Dio e dagli uomini. Con un ricordo di Emilio Salgari.
«Addio mia bella addio, l’armata se ne va». L’armata se n’era andata davvero, i tamburi di Pallanza dimenticati per sempre, nei solai, forse in un museo. I loro canti estremi morivano nelle bocche dei cannoni del generale Fiorenzo Bava Beccaris da Fossano, nel maggio che insanguinarono Milano, tra Porta Garibaldi e il convento dei Cappuccini di Porta Monforte: i morti furono almeno ottanta, mentre secondo lo scrittore e giornalista Paolo Valera sarebbero stati centoventisette. Era il 1898, Roma italiana da quasi un trentennio. Nel 1871, un anno dopo Porta Pia, era morta a Torino Giuditta Sidoli, il grande amore di Pippo Mazzini, che una volta le aveva scritto: «È impossibile che io faccia un romanzo su di te. V’è troppa storia per me nell’amore che ti ho portato e in tutto quanto ho sentito per te». Chiuse gli occhi rifiutando i sacramenti della Chiesa, dicendo di credere solo nel Dio degli esuli e dei vinti. La strada torinese in cui Giuditta visse e morì sarebbe stata intitolata, non si sa se per casualità o per scelta, proprio all’Apostolo. Gli ultimi soldati «napolitani» e papalini, altri vinti, avevano lasciato dal 1881 le loro prigioni nella fortezza di 295
Fenestrelle e nella Cittadella d’Alessandria, nelle «inospiti terre del Piemonte» di cui aveva parlato, inascoltato, Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, un vecchio e coraggioso liberale, già deputato del ’48, scrittore di drammi e d’epigrammi. Bava Beccaris, militare tutto d’un pezzo, aveva fatto le campagne di Crimea, del ’59 e del ’66, che gli fruttarono il cavalierato dell’Ordine Militare Italiano. Era dunque un uomo del Risorgimento, ma non lo stesso del trentino Egisto Bezzi, uno dei Mille di Marsala: eletto deputato nel collegio di Ravenna, rassegnò le dimissioni perché gli «ripugnava giurare fedeltà alla monarchia». Amico di Mazzini e di Garibaldi, disse l’Achille Bizzoni, «sospirò col primo, combatté col secondo». Si ritirò a Torino, dove visse in solitudine e in un silenzio sdegnoso. Nel reprimere i moti popolari milanesi contro il carovita, il generale piemontese disse di non avere fatto altro che «seguire le direttive del governo, salvando lo Stato da un gravissimo pericolo», che lui stesso aveva ingigantito per poter avere mano libera nella proclamazione dello stato d’assedio e nell’uso delle armi contro la folla. Nemico implacabile delle «plebi forsennate» e dei «capipopolo rossi e neri», nominato regio commissario a Milano per contrastare le proteste operaie, ricordò sempre di essersi mosso con il benestare del re Umberto I e del marchese Di Rudinì, presidente del Consiglio, a sua volta con dei trascorsi risorgimentali e addirittura filo-garibaldini. A soffiare sul fuoco c’era la borghesia che puntava a una sterzata in senso reazionario e ancora più liberticida, presentando a tale scopo le manifestazioni contro l’aumento del prezzo del pane e per il lavoro come una cospirazione socialista e repubblicana. Nel suo diario Bava Beccaris avrebbe annotato: 296
La condotta che m’ero studiato di seguire nell’adempimento del mio grave dovere, mi procacciò molte e lusinghiere lodi, fra cui mi formarono [sic] [...] particolarmente gradite le parole del compianto Umberto I, il quale volle onorarmi di un telegramma, le cui espressioni oltrepassano di gran lunga i miei meriti.
Il popolo lo procacciò di una canzone diventata famosa, quella che recita: Le grida strazianti e dolenti di una folla che pan domandava il feroce monarchico Bava gli affamati col piombo sfamò.
E Gaetano Bresci nell’assassinare Umberto I a Monza, il 29 luglio del 1900, volle così vendicare i proletari uccisi nelle giornate milanesi di due anni prima. Tipico esponente della casta militare sabauda, leale e sovente ottusa e incapace, coraggiosa e a tratti vile, capace di ubbidire ma non di pensare mai con la propria testa, soltanto in un’occasione ammise che quella «cruenta guerra civile» gli «aveva riempito l’animo di amarezza», pur affermando che «non mi ha mai spaventato il pericolo nelle varie fazioni di guerra, cui presi parte». E su uno degli episodi più drammatici del moto del ’98, il cannoneggiamento del convento di Porta Monforte, scaricò la responsabilità su altri: Se non era dell’Onorevole Sola, il quale, da vecchio soldato, avrebbe dovuto sapere meglio sorvegliare la gravità della notizia che mi portava, io non mi sarei probabilmente mosso dal mio uffizio e non avrei così dato una desiderata e fortuita occasione ai fogli rossi e neri di coprirmi di villani insulti chiamandomi l’invitto eroe di Monforte, il bombardatore del convento dei Capuccini, ecc. Ma di ciò basti.
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Nemmeno congedandosi dalle sue truppe, nel marzo del 1899, Bava Beccaris ebbe un vero ripensamento sul massacro di Milano, convinto di avere «l’animo perfettamente tranquillo» e «persuaso di aver sempre compiuto i doveri del soldato fedele al suo giuramento». Fedeli al loro giuramento furono anche le migliaia di soldati e gli ufficiali degli eserciti del papa e di Francesco II, incarcerati a partire dal 1861 nelle fortezze, nei campi di concentramento e nelle carceri d’Italia. Molti morirono di fame, di stenti, di malattie, di freddo. Di loro non rimase niente, i resti dissolti per «motivi igienici» nella calce viva collocata in una grande vasca sul retro della chiesa del forte piemontese di Fenestrelle, in val Chisone, uno dei luoghi principali di detenzione. Pure il ricordo venne cancellato. Soltanto nel libro parrocchiale dei morti della chiesa si conservò memoria di alcuni di quei ragazzi meridionali, d’età compresa tra i ventuno e i ventisette anni. Provenivano da Chieti, da Isernia, da Napoli, da Avellino, da Barletta, da Lecce, da Paola, da Cosenza. Laceri e malnutriti, i «napolitani» erano soliti aggrapparsi ai muraglioni della fortezza per cercare di catturare qualche raggio di sole, nel tentativo disperato di scaldarsi un poco e magari di conservare una memoria di quel Mezzogiorno che non avrebbero mai rivisto. Erano gli uomini, gli ex militari, i vinti, che il giornale torinese “L’Armonia” descriveva così nell’ottobre del ’61: «A quanto pare, i Napoletani non si lavano ancora a sufficienza del loro lezzo». Due mesi prima, in agosto, Massimo d’Azeglio aveva scritto a un amico: «A Napoli abbiamo cacciato egualmente il sovrano per stabilire un governo sul consenso universale. Ma ci vogliono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il regno, ed è notorio che, briganti o non briganti, tutti non ne vogliono sa298
pere». E aggiungeva: «Ma ad italiani che, rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibusate». Sempre nell’agosto del ’61, i segregati di Fenestrelle sognarono una rivincita impossibile: secondo i giornali dell’epoca, e in particolare “L’Eco delle Alpi Cozie”, prepararono una congiura che avrebbe dovuto consentire loro di «impadronirsi del forte di Fenestrelle e da prigionieri diventare carcerieri». Una delazione fece fallire il loro piano. Da allora solamente qualche voce isolata si levò per rompere il silenzio che era caduto sui «napolitani» incarcerati dal regno d’Italia. La più nobile e severa fu quella del duca di Maddaloni, che protestò: «Ma che dico io di un governo che strappa dal seno delle loro famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati officiali sol per sospetto che nutrissero amore per il loro re sventurato, e rilegargli a vivere nella fortezza di Alessandria, e in altre inospiti terre del Piemonte?» Il loro «delitto», disse ancora, fu «il militare per la corona, allora che re Francesco II combatteva per essa sulle riviere del Volturno e del Garigliano, o fra le mura di Gaeta, e lo averlo seguito a Roma nell’infortunio? Sono essi trattati peggio che i galeotti. Qual delitto hanno commesso eglino, perché il governo piemontese abbia a spinger tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?» Italiana era Virginia Oldoini, nata a Firenze in una famiglia della Spezia. Morì nel 1899 a Parigi, immolata sugli altari della storia, diversamente eppure in modo analogo, nella sostanza, agli altri noti o più oscuri artefici del Risorgimento nazionale, usati e non ricompensati dai vincitori. Vinta dal tempo, anche lei, e dalla sua bellezza scomparsa. Era la Virginia, la contessa di Castiglione Tinella e di Co299
stigliole d’Asti, insomma, della quale Cavour scriveva a Luigi Cibrario, ministro nei governi del regno di Sardegna, il 21 febbraio del 1856: Una bella contessa è stata arruolata nella diplomazia piemontese. Io l’ho invitata a civettare e, se riesce, a sedurre l’imperatore. In caso di successo le ho promesso che chiederò, per suo fratello, l’incarico di segretario a Pietroburgo. Ieri, con discrezione, ha cominciato la sua missione, al concerto delle Tuileries.
«Nicchia», come la chiamavano, sfiorì e si spense a sessantadue anni in solitudine, nel «seppellimento vivente» che s’era imposta, dimenticata da Dio e dagli uomini, sebbene non proprio tutti si fossero scordati di lei. Tra i non immemori ci furono gli agenti della polizia segreta dei Savoia: si fecero consegnare dai colleghi francesi le carte ritrovate nell’appartamento di Virginia, tra cui ci sarebbe stata la sua corrispondenza con Vittorio Emanuele II. Le lettere, ritenute compromettenti per la casa regnante, sparirono. Incontrandola a Torino ancora nello splendore della sua giovinezza, il diplomatico francese Henry d’Ideville appuntò nel “Journal”: L’esilio volontario a cui si era condannata, da tre anni, quella donna, la cui apparizione a Parigi e Londra aveva avuto quasi l’importanza di un avvenimento; la sua vita appartata, quel sistematico ritirarsi dalla società, le abitudini misteriose, l’indifferenza assoluta per quello che accadeva nel mondo, tutto in lei eccitava singolarmente la curiosità.
La curiosità s’attenuò, venne meno, si consegnò a qualche libro e a qualche fotografia. Aveva detto Virginia, sprezzante o malinconica: «I libri sono i ritratti dei morti; i giornali sono solo fotografie che passano». I tamburi di Pallanza erano sonorità mummificate dal 300
lago, come i versi della «cansson d’guerra» che Brofferio aveva composto per la campagna del ’59. Diffusa su fogli volanti, uno dei quali era finito al Faldella bambino, la Piemonteisa si concludeva nel segno del futuro radioso: A la guera, a la bataja Cost vej mond as rinovrà; Dal batesim d’la mitraja A risòrg l’umanità!
Di radioso, però, ora c’era davvero poco. L’Esposizione universale di Parigi inaugurava il XX secolo con ben altre musiche. Anche nel 1911, alla fine d’aprile, si tennero delle Esposizioni a Torino, a Firenze e a Roma, per celebrare i cinquant’anni dell’Unità d’Italia. Furono i torinesi a fare le cose davvero in grande, e la città, per qualche mese, oltre che «culla del Risorgimento» e «scenografia della modernità», ospitando «quasi il mondo intero» si proiettò al centro di questo. Tra quei padiglioni lussureggianti lungo i viali del parco del Valentino, nella «fantastica città orientale specchiata da un bosforo», come scrisse Guido Gozzano, Emilio Salgari, narratore di tutte le storie possibili e immaginabili dei cinque continenti, si sarebbe trovato a suo agio: da tigre nella giungla nera, quindi, e da corsaro nei Caraibi, da cosacco nelle steppe. Ma sette giorni prima dell’apertura dell’Esposizione, prima di spezzare la sua penna, capitan Emilio aveva scritto una lettera ai suoi editori e un’altra ai figli. Quest’ultima la cominciò così: «Cari figli, sono ormai un vinto». La concluse con un post scriptum: «Vado a morire nella valle di San Martino posso il luogo ove quando abitavamo in via 301
Guastalla andavamo a fare colazione. Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che voi conoscete perché andavamo a raccogliere i fiori». Mantenne la parola. Si uccise a rasoiate il 25 aprile. Salgari non scrisse mai romanzi e racconti dedicati alle vicende risorgimentali. Eppure la vera epopea del Risorgimento, sia pure trasfusa sui mari delle perle e nel delta del Gange, a Sarawak e a Maracaibo, l’aveva cantata lui. C’erano degli accenni diretti in alcuni dei suoi libri, certamente: quel «Viva la Giovine Italia!» che mastro José urla in I naufraghi del Poplador; oppure i ricordi delle gesta dei volontari italiani e ungheresi che affratellano i protagonisti di Sull’Atlante. Ma c’era soprattutto dell’altro. Come non riconoscere, insomma, Garibaldi nella figura di Sandokan? E come non identificare Bixio nel personaggio di Yanez? Allusioni, richiami, forti somiglianze, e le stesse passioni, gli stessi eroismi, le stesse battaglie per la libertà e l’indipendenza, che erano stati dei garibaldini: da Quarto a Mompracem, allora. Anche le medesime sconfitte li univano. Come le camicie rosse Salgari aveva fatto l’Italia, a suo modo, nella letteratura, nella fantasia; come loro moriva da vinto. Il destino, d’altra parte, aveva fatto il suo corso: il capitano era nato il 21 agosto del 1862, pochi giorni prima dei fatti d’Aspromonte.
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Fotografia di Nino Bixio in uniforme da generale dell’esercito italiano.
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Martelli, vignetta sulla situazione in Italia nel 1866 (Firenze, Ulstein Bild/Archivi Alinari).
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Note ai testi
Si scopron le tombe, si levano i morti deve suggestioni e ispirazioni principalmente a Daghela avanti un passo (Longanesi, Milano 1992) e al precedente Da Quarto a Torino (Feltrinelli, Milano 1960), entrambe opere di Luciano Bianciardi. Da questi libri sono tratte tutte le altre successive citazioni dello scrittore toscano. L’edizione di I Mille di Giuseppe Bandi è quella degli Scrittori garibaldini dei Classici Ricciardi (Ricciardi, Milano-Napoli 1953 ed Einaudi, Torino 1979). Si accenna alle Lettere garibaldine (Einaudi, Torino 1961) di Ippolito Nievo. A proposito delle vicende narrate in Il tricolore di Alessandria, sono state preziose le Reminiscenze dall’esilio di Carlo Beolchi (Tipografia Nazionale di G. Biancardi e compagni, Torino 1852), ma pure l’opuscolo di Giuseppe Roberti scritto in occasione dell’inaugurazione a Barge, il 5 settembre 1909, della lapide «ad onore» del conte Carlo Bianco di Saint-Jorioz, edito a cura dell’Associazione Pro-Barge. Sulla piramide di Marengo la fonte è Che si salga di pietra in pietra, come su quella d’Egitto. Sulle tracce della Pyramide de Marengo (Le violette dell’Imperatore, Acqui Terme 2009) di Giulio Massobrio. In I fantasmi della Cittadella si ricorre al fondamentale I Martiri della Libertà Italiana (E. Treves, Milano 1872) di Atto Vannucci. Le storie dei Proscritti d’Italia hanno origini in Atto Vannucci e nell’Insurrezione di Genova nel marzo 1821 (Tipografia Artigianelli, Torino 1923) di Carlo Bornate. Vi compaiono le prime citazioni dal libro Da Quarto al Volturno (Noterelle d’uno dei Mille) di Giuseppe Cesare Abba, nella citata edizione dei Classici Ricciardi degli Scrittori garibaldini, e dalle Note autobiografiche (Le Monnier, Firenze 1943) di Giuseppe Mazzini.
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In Fiore di galantuomo e di patriota vengono ricordati Dal Molise alla Catalogna (EditricE, Campobasso 2010), a cura di Vittorio Scotti Douglas, e Una famiglia di patrioti (Adelphi, Milano 2010) di Benedetto Croce. In Nella torre del Ducale ci sono brani da La fabbrica parla di Ezio Taddei e da Il dottor Antonio (Dell’Albero, Torino 1966) di Giovanni Ruffini. Il passo dei contrabbandieri è scandito dall’articolo di Giuseppe Tramarollo La valle Vigezzo per Giuseppe Mazzini (in “Il Pensiero Mazziniano”, 11, 1965, Torino). È ricordato il libro Vigezzo. La valle delle grandi storie (Grossi, Domodossola 1998) di Benito Mazzi, così come il Viaggio in Italia (Fogola, Torino 1975) di Jean Giono. In Suicidio a Bruxelles le lettere di Vincenzo Gioberti che vengono riportate sono tratte da Carlo Bianco conte di Saint Jorioz (17951843). Documenti inediti (in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, Torino 1962) di Luigi Ferraris. L’articolo-necrologio di Mazzini fu pubblicato nell’“Apostolato Popolare” del 31 agosto 1843. Le citazioni dei brani di Giuseppe Roberti sono tratte dall’opuscolo già menzionato. In Il testamento del conte si accenna alla Storia militare del Risorgimento (Einaudi, Torino 1962) di Piero Pieri e a Carlo Bianco, Giuseppe Mazzini e la teoria dell’insurrezione (Bollettino della Domus Mazziniana, Pisa 1959) di Vittorio Parmentola. La bandiera del sergente Cirio si innerva nelle Cronache a memoria (Ecig, Genova 1992) di Giuseppe Cesare Abba e su I sanssôssi (Einaudi, Torino 1963) di Augusto Monti. Di interesse sono gli articoli di Raffaele Ottolenghi pubblicati su “Il Risveglio Cittadino” di Acqui Terme del 1916. Il bombardamento di Genova prende spunto dalle Cronache di Abba e da Carlo Baudi di Vesme, autore dello studio su Genova dal luglio 1848 all’aprile ’49 nelle carte del console francese e in altri documenti, apparso in un numero del 1950 della “Rassegna Storica del
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Risorgimento”. È stato consultato poi il volume Trino risorgimentale (Studi Trinesi, Trino 2010), curato da Franco Crosio e Bruno Ferrarotti. Quel ch’è faa, lé faa! è ispirato da Amatore Sciesa (Edizioni Rattero, Torino 1961) di Giancarlo Carcano. Altre citazioni da I Mille di Marsala (Manfrini, Calliano 1982) di Germano Bevilacqua. Per L’avventuriero delle Langhe è stato indispensabile Roma borghese (Cappelli, Bologna 1962) di Giovanni Faldella. Altre fonti sono Capitani di mare e bastimenti di Liguria del secolo XIX (Arti Grafiche Tigullio, Rapallo 1939) di Gio. Bono Ferrari e La crociera del Maddaloni. Vita e morte di Nino Bixio (Mursia, Milano 1977) di Mino Milani. In Il re, il poeta e il Tessitore alcuni aneddoti sono tratti dal volume Roccaverano. La cronaca che diventa storia (Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2009) di Oldrado Poggio e da Brofferio l’oppositore (Vallecchi, Firenze 1967) di Laurana Lajolo ed Elio Archimede. Ulteriori suggestioni vengono da Invito alle Langhe (Viglongo, Torino 1987) di Domi Gianoglio e da I miei tempi (Renzo Streglio e C., Torino 1902) di Angelo Brofferio. In I tamburi di Pallanza, oltre ai riferimenti a Piccolo mondo antico (Garzanti, Milano 1982) di Antonio Fogazzaro, appaiono tracce del Garibaldi (Rizzoli, Milano 1975) di Indro Montanelli e di Marco Nozza, e dell’articolo Un vescovo patriota nella Lunigiana di Francesco IV di Aquilino Zammaretti (in “Rassegna Storica del Risorgimento”, 1938). La cambiale dei Mille ha tra le fonti il volume 1850-2000 Borgosesia e la manifattura di lane (Società Valsesiana di Cultura, Borgosesia 2002) e il citato libro di G. Bevilacqua. L’articolo Il Lombardo e il Piemonte nella Spedizione dei Mille (in “Rassegna Storica del Risorgimento”, 1931) è di Arturo Codignola. La piccola camicia rossa ha come filo conduttore l’articolo Giuseppe Marchetti, il garibaldino undicenne (in “Rassegna Storica del Risor-
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gimento”, 1980) di Anton Maria Scarpa. Su Pagani fanno fede Bandi e Abba (quest’ultimo anche nelle Pagine di storia (1). Ritratti e profili, S.T.E.N., Torino 1912). Per Tonina Marinello la garibaldina, le fonti principali sono rappresentate da alcuni vecchi giornali, dalla poesia Tonina Marinello di Francesco Dall’Ongaro, compresa nella raccolta Poeti del Risorgimento (Salerno, Roma 2001) e dalla monografia su Cervarese Santa Croce, Uomini e territorio fra passato e presente (Comune di Cervarese S. Croce-Casa editrice il Prato, Saonara 2008) di Alberto Espen. Si cita poi da I Mille (Camilla e Bertolero, Torino 1874) di Giuseppe Garibaldi. In L’esercito perduto si cita l’articolo Un giudizio di Giacomo Medici sul trattamento fatto ai garibaldini nel 1860 (in “Rassegna Storica del Risorgimento”, 1957) di Alfredo De Donno. I brani tratti dalle Memorie di Giuseppe Garibaldi sono riportati nel volume Memorialisti garibaldini (Longanesi, Milano 1973), curato da Eros Sequi. Il caso è chiuso, dedicato ai molti misteri che tuttora sussistono sulla morte di Ippolito Nievo, ha come sfondo il volume con le lettere, già citate, di quest’ultimo (curate da Andreina Ciceri) e il romanzoinchiesta Il prato in fondo al mare (Mondadori, Milano 1974) di Stanislao Nievo. Da menzionare è il notevole Il caso Nievo. Morte di un garibaldino (Armando Caramanica Editore, Marina di Minturno 2006) di Lucio Zinna, da cui ho tratto il dispaccio del Comando Militare della Sicilia del 18 marzo 1861 sulla scomparsa del piroscafo Ercole. Le illusioni del tiro a segno è nato scorrendo il prezioso Annuario 2008-2009 (Bradipolibri, Torino 2010), curato da Bruno Bili e Bruno Gozzellino per l’Unione Nazionale Società Sportive Centenarie d’Italia. Con gli occhi dello sterminatore ripercorre il libro Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863. Studio storico-politico-statistico-morale-militare (G. Daelli e C. Editori, Milano 1864) del conte Alessandro Bianco di Saint Jorioz. La citazione da “Il Pungolo”,
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e altri riferimenti al generale Govone, sono tratti dal romanzo Cielo nostro. Le memorie segrete, le battaglie smarrite del generale che, fatta l’unità d’Italia, se ne pentì (Baldini&Castoldi, Milano 1997) di Giorgio Boatti. Si è tenuto conto poi di Terroni (Piemme, Milano 2010) di Pino Aprile e di Garibaldi: battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo (Laterza, Bari 2001) di Alfonso Scirocco. Per i provvedimenti di Garibaldi a favore dei contadini è stato citato l’articolo Il decreto di Garibaldi contro i doppi incarichi di Lucio Villari, pubblicato in “la Repubblica” del 27 luglio 2010. Alla base di Bella e infelice donna! c’è il libro Garibaldi e le donne (Imprimerie Polyglotte, Roma 1913) di Giacomo Emilio Curatolo, che pubblica le lettere fra la contessa Martini e il Generale, citando anche il diario del conte Litta Modignani. Altri spunti vengono da Uomini e cose in Milano dal marzo all’agosto 1848 (Casa Editrice L.F. Cogliati, Milano 1906) di Carlo Pagani, e da Cronache della rivoluzione di Milano (Wilmant, Milano 1848) di Leone Tettoni. Sono menzionati inoltre Da San Martino a Mentana: memorie di un volontario (Fratelli Treves, Milano 1892) di Giulio Adamoli; Garibaldi (Premiato Stabilimento Nazionale di Giuseppe Grimaldo, Venezia 1867) di Felice Mornand; Grandi e piccole memorie (Successori Le Monnier, Firenze 1910) di Raffaello Barbiera; e Un diario inedito sulla campagna del 1848 in Lombardia (in “Rassegna Storica del Risorgimento”, 1971) di Paolo Emilio Faggioni. In I vinti vi sono citazioni da L’album della Contessa di Castiglione (Longanesi, Milano 1980) e da I miei ricordi (Società Editrice Nazionale, Milano 1936) di Massimo d’Azeglio. Il diario di Bava Beccaris (pubblicato in “Il Presente e la Storia”, Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo, n. 73, 2008), è stato trascritto dagli studenti dell’istituto “Vallauri” di Fossano. Altri suggerimenti sono venuti da Roberto Gremmo, tra i primi a scrivere sulla sua rivista Storia Ribelle dei prigionieri di Fenestrelle. Per gli accenni a Emilio Salgari è stato fondamentale l’articolo «Avevano sete di sangue...». Salgari e Garibaldi (Studi Piemontesi, Torino 1995) e i saggi contenuti in Nella giungla di carta. Itinerari toscani di Emilio Salgari (Bibliografia e Informazione, Pontedera 2010), entrambi di Felice Pozzo.
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I versi di Brofferio sono tratti da Canzoni Piemontesi (Viglongo, Torino 2002) di Angelo Brofferio. Per l’Esposizione di Torino del 1911 è stato consultato Le esposizioni torinesi 1805-1911 (Archivio Storico della Città di Torino, 2003), curato da Umberto Levra e Rosanna Roccia.
Ringrazio per suggerimenti, consigli e collaborazione i direttori e il personale degli Archivi di Stato di Torino (da Marco Carassi a Paola Briante, Maria Pia Niccoli, Francesca Gamba, Michela Tappero, Patrizia Viglieno, Federico Codebò e Daniele Jotti) e di Genova (Paola Caroli, Alfredo Assini). Grazie poi a Giovanni Maria Caglieris, Alberto Espen, Giulio Massobrio, Isabella Novelli, Gigi Poggio, Felice Pozzo, Ugo Roello, Giulio Sardi, Vittorio Scotti Douglas, a Silvano Testa, direttore medico della Clinica Psichiatrica Cantonale di Mendrisio; e al Centro Studi Piero Gobetti, alla Domus Mazziniana di Pisa, all’Istituto piemontese per lo studio della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” e all’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo “Dante Livio Bianco”. Sono riconoscente infine alla ZegnaBaruffa di Borgosesia e a Franca Tonella Regis
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Notizia sull’autore
Massimo Novelli, torinese con ascendenze alessandrine e langhette, è giornalista di “Repubblica” e scrittore. Tra i suoi libri La gran fiera magnara, sui rapporti fra Carlo Emilio Gadda e il cibo; La furibonda anarchia, sulla vita del poeta anarchico Renzo Novatore; Bracconieri di storie, in cui ha pubblicato il carteggio fra Giovanni Arpino e Osvaldo Soriano; Garibaldi graffiti, un racconto per immagini del Risorgimento. Ha curato con Isabella Novelli la ristampa di opere di Barbara Allason, Antonio Aniante, Giovanni Arpino, Guido Seborga, Ezio Taddei, Stefano Terra.
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Sommario
Si scopron le tombe, si levano i morti Il tricolore di Alessandria. E una piramide a Marengo I fantasmi della Cittadella Proscritti d’Italia. Genova, aprile 1821 «Fiore di galantuomo e di patriota». Un duello e altre imprese di Gabriele Pepe Nella torre del Ducale. Da Jacopo Ruffini a Gaetano Bresci Il passo dei contrabbandieri. Un’avventura in val Vigezzo Suicidio a Bruxelles Il testamento del conte La bandiera del sergente Cirio Il bombardamento di Genova. E la fatal Novara «Quel ch’é faa, lé faa!» E altre storie di popolo L’avventuriero delle Langhe. Da Dogliani a Sumatra, passando per Saluggia Il re, il poeta e il Tessitore I tamburi di Pallanza. E un vescovo patriota La cambiale dei Mille. Da Borgosesia a Marsala La piccola camicia rossa. Giuseppe Marchetti Tonina Marinello. La garibaldina L’esercito perduto. Come furono liquidati i garibaldini Il caso è chiuso. Ippolito Nievo
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Le illusioni del tiro a segno. Un sogno di Garibaldi Con gli occhi di uno sterminatore. Alessandro Bianco di Saint Jorioz «Bella ed infelice donna!» La contessa Maria Martini Giovio della Torre I vinti Note ai testi Notizia sull’autore
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Si scopron le tombe, si levano i morti, / i martiri nostri son tutti risorti! /Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, / la fiamma e il nome d’Italia sul cor!
Alia 1. Filostrato di Lemno, Il manuale dell’allenatore, a cura di A. Caretta, pp. 116, euro 7,75. 2. Carlo Dionisotti, Chierici e laici, con una lettera di D. Cantimori, pp. 80, euro 7,75. 3. Mario Gromo, Guida sentimentale, pp. 128, euro 7,75. 5. Stefano Agosti, Carlo Carena, Il lago di Montale, pp. 48, euro 7,75. 6. Michel Deutsch, Sit venia verbo, a cura di S. Arcoleo, con un saggio di M. Conche, pp. 112, euro 7,75. 7. Silvano Petrosino, Lo stupore, pp. 96, euro 7,75. 8. Laura Curino, Roberto Tarasco, Gabriele Vacis, Passione, postfazione di E. Palandri, pp. 96, euro 7,75. 9. Eugenio Montale, L’arte di leggere. Una conversazione svizzera, a cura di C. Origoni e M.G. Rabiolo, note di F. Soldini e U. Motta, pp. 48, euro 7,75. 10. Giorgio Ambrosoli: «Nel rispetto di quei valori», prefazione di G. Colombo, con la lettera-testamento e un ricordo della moglie, a cura di C. Robiglio, pp. 100, euro 7,75. 11. Giannino Piana, Sapienza e vita quotidiana. Itinerario etico-spirituale, con una nota di E. Bianchi, pp. 208, euro 7,75. 12. La Marchesa Colombi, La gente per bene. Galateo, a cura di S. Benatti, I. Botteri, E. Genevois, pp. VIII-272, euro 10,33. 13. Ennio Staid, Perché in India?, pp. 152, euro 10,33. 14. Jeanne Hersch, La nascita di Eva. Saggi e racconti, prefaz. di J. Starobinski, nota di R. De Monticelli, trad. di F. Leoni, pp. 96, euro 10,33. 15. Alberto Nota, Il bibliomane, a cura di M.C. Misiti, prefazione di P. Innocenti, pp. XXXVIII + 92, euro 10,33. 16. Dmitrij Sergeevicˇ Lichacˇëv, Il silenzio del Nord, a cura di A. Raffetto, pp. 64, euro 9,30. 17. Fernanda Pivano, Cesare G. Romana, Michele Serra, De André il corsaro, a cura di C.G. Romana, presentaz. di G.A. Cerutti, pp. 56, euro 10. 18. Carlo Dionisotti, Un professore a Londra. Studi su Antonio Panizzi, a cura di G. Anceschi, pp. 152, euro 10. 19. Giovanni Testori, Maestro no, intervista e fotografie a cura di A. Ria, con testi di L. Romano e F. Branciaroli, prefazione di G. Raboni, pp. 64, euro 10. 20. Francesca Rigotti, La filosofia delle piccole cose, illustrazioni di E. Salvini Pierallini, pp. 96, euro 10. 21. Lucilla Giagnoni, «Vergine madre». Voce di donna nella Commedia di Dante, con DVD, prefazione di Enrico Palandri, pp. 72, euro 15.
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