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Italian Pages 172 [165] Year 2012
BI BL I OTE CA D E L L’«A R CH I VIO D I F ILOS OF IA» collana fon data da marco m. ol i v ett i dir ettore: stefan o s e mp l i ci vic ed irettor i: fr an cesco paolo ci g l i a , p i e r lui g i va l e n za
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L’ANALOGIA D E L LA PE RSONA I N E DITH STEIN FRANCESCO VALERIO TOMMASI
PIS A · ROMA FABRIZ IO SERRA E D ITO RE MMXII
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Sommario
SOMMARIO Introduzione 9 capitolo i analogia dell ’ ente 1. Le Quaestiones disputatae de veritate 21 2. I trascendentali e l’analogia dell’ente 25 3. Tra idealismo e realismo 34 4. Filosofia egocentrica e teocentrica 61 5. Maritain e Przywara : la filosofia cristiana 68 6. L’analogia dell’ente in Essere finito ed essere eterno 77 7. Un’analogia temporale 82
capitolo ii analogia della persona 1. L’analogia della persona in Essere finito ed essere eterno 91 2. La filosofia della persona e l’antropologia di Münster 106 3. Analogia ed empatia 112 4. La motivazione 119 5. Libertà e grazia 125 6. Simbolo e analogia 131 7. Analogia e croce 135 Bibliografia 145 Indice dei nomi 155
Introduzione
INTRODUZIONE
L
o scopo di questo testo è duplice. Da un lato si intende fornire un contributo allo studio di un argomento specifico nella produzione scientifica di Edith Stein, ossia la questione dell’analogia ; e si tenta di mostrare come tale tema, quanti altri mai “classico” nella storia della filosofia e della teologia, riceva in questa pensatrice una piegatura peculiare in termini antropologici. Stein si avvicina all’analogia interessandosi di Tommaso d’Aquino, ma la iscrive in una cornice fenomenologica, ed in particolare nell’analisi dell’io : l’analogia dell’ente diviene così quella che si può definire – ma l’espressione, si badi, non è di Stein – un’analogia della persona. La teoria steiniana dell’analogia rappresenta dunque un momento originale e degno di attenzione della lunghissima storia della questione, in generale, e nel panorama del Novecento e della neoscolastica in modo particolare. Per altro verso, pur incentrata su una questione che viene sviluppata da Stein a partire dal suo confronto con Tommaso e con la scolastica, questa monografia attraversa l’intero percorso intellettuale dell’autrice ; cogliamo infatti nello sviluppo teorico della domanda sull’analogia e nella sua articolazione in termini personali un filo rosso e quasi un momento di arrivo della sua opera. Da questo punto di vista, quindi, il presente lavoro cerca di offrire anche una chiave di lettura innovativa per seguire nelle sue diverse fasi il pensiero poliedrico e sfaccettato di un’autrice che sfugge alla riconduzione in categorie usuali o semplificatorie, e che con altrettanta difficoltà si lascia indagare in modo settoriale. Il libro condivide perciò almeno in parte un vizio di fondo che, a nostro giudizio, ha sovente caratterizzato la ricerca su Stein : ossia quello di offrire studi panoramici sul complesso della sua opera, intraprendendo solo di rado il tentativo di affrontare analiticamente, e magari con una ricostruzione del contesto e delle fonti, aspetti specifici o singoli temi. Ad un approccio più approfondito e scientifico, tuttavia, stanno contribuendo sia il recentissimo riordino del materiale di archivio del lascito manoscritto, sia la recente più rigorosa edizione delle opere complete, i cui volumi sono dotati di seri apparati. Questo problema, su cui torneremo, è strettamente connesso con un secondo difetto, probabilmente ancora più grave, di molte pubblicazioni su Stein, ossia l’accostarsi al suo pensiero sulla scorta di cause occasionali, magari celebrative, legate anzitutto alla sua nota vicenda biografica. Sotto questo aspetto, evidentemente, la ricerca risulta talvolta contaminata o influenzata da interessi estrinseci e non immediatamente scientifici. È quindi subito opportuno sgombrare il campo da possibili equivoci e prendere esplicitamente le distanze da questo tipo di scritti, che pure evidentemente hanno una legittimità o quantomeno un senso. Lo studio che qui ci proponiamo vuole inquadrare con il massimo rigore la proposta teorica dell’autrice nel quadro della ricerca filosofica. Questa doverosa, ancorché, dal nostro punto di vista, quasi scontata premessa, permette d’altronde anche di non negare che il fascino suscitato dalla personalità di Edith Stein abbia contribuito alla scelta di avvicinarsi alle sua opere e di intraprendere questo lavoro. Ma ci consente di considerare altresì con lucidità, al di là delle soggettive propensioni che portano ad occuparsi di un tema o di un autore, che nel pensiero di Stein, ed in particolare nell’attenzione alla questione antropologica, al tema della per
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introduzione
sona, e dunque alla declinazione che in questo senso riceve l’analogia, l’influenza della biografia ha giocato un ruolo che è impossibile misconoscere. L’attenzione teorica alla persona è in Stein afflato verso una esistenza che sia colma di senso, e viceversa. Se quindi lungo tutto il volume abbiamo cercato di evitare i riferimenti alla vita di Stein, nelle parti conclusive, laddove ci rivolgiamo ai suoi ultimi testi di tema prevalentemente mistico e cerchiamo contestualmente di tirare le fila della proposta teorica descritta appunto nei termini di un’analogia della persona, non abbiamo potuto presciderne ; in Stein il nesso tra vita e pensiero è inscindibile e l’analogia della persona rappresenta non tanto o non solo il fondamento di un sistema teorico, quanto la chiave di accesso al rapporto esistenziale con l’altra persona umana ed al rapporto mistico con la persona divina. Nell’espressione « analogia della persona », dunque, non solo il genitivo è sia oggettivo, sia soggettivo, trattandosi di una analogia che riguarda la persona, e che prende le mosse dalla persona stessa. Ma il termine « persona » indica sia un argomento teorico, sia la « cosa stessa » in « carne ed ossa », per riprendere ben note espressioni husserliane. Si tratta d’altronde proprio di una ispirazione fenomenologica : una fedeltà radicale ai fenomeni implica che la ricerca della verità e la questione religiosa non possano non coinvolgere la persona nella sua integralità. Ma si tratta anche di una modalità del tutto soggettiva e appunto personale che Stein stessa confessa :
I miei lavori [teorici] sono sempre e soltanto la ricaduta di ciò che mi occupa nella vita. Perché sono strutturata così, devo riflettere. 1
L’analogia diviene questione « personale » in tutti i sensi. Di conseguenza, il porre attenzione a come un argomento così compromesso da un punto di vista metafisico, e così astratto, come quella dell’analogia, riceva una declinazione che vogliamo definire di tipo personale, permette a nostro giudizio di ovviare a, o quanto meno di ridurre, i due suddetti rischi, cui, come detto, consapevolmente non ci sottraiamo del tutto : da un lato una ricerca contaminata da considerazioni di tipo non immediatamente scientifico o appunto anche personali, che si devono chiamare in causa laddove la realizzazione della persona, e non la costruzione di un’impalcatura di pensiero, è la chiave dell’opera dell’autrice. Dall’altro, l’approccio panoramico all’intera produzione scientifica, inevitabile nel momento in cui si affronta una questione eminentemente neoscolastica (e che perciò interviene tardi nel pensiero di Stein), la cui declinazione originale dipende però dalla fenomenologia (dunque dai saggi giovanili). Se gli studi e i lavori fenomenologici, l’avvicinamento al pensiero scolastico e le originali sintesi della maturità di Stein sono difficilmente comprensibili, in generale, ad un’indagine che li consideri in modo reciprocamente irrelato, una disamina dell’analogia è ancor meno in condizione di sottrarsi alla presa in esame di tutti i periodi della sua opera. Il tema antropologico è d’altronde macroscopicamente centrale nell’arco di tutti gli scritti steiniani, e non a caso già diversa letteratura secondaria vi ha soffermato la propria attenzione. 2 Questo volume si propone allora di legarlo, in un modo sinora
1 E. Stein, Briefe an Roman Ingarden [BI] in Selbstbildnis in Briefen iii, Edith Stein Gesamtausgabe 4, FreiburgBasel-Wien, Herder, 20052, p. 143. In questo volume tutte le opere steiniane sono citate secondo l’edizione della ESGA. Da ora in poi le menzioneremo in nota con la sola indicazione del titolo (di volta in volta abbreviato) e il numero del volume di questa collana. Laddove qualche testo non fosse ancora disponibile in questa nuova serie delle opere complete, non ancora ultimata, si farà riferimento alla prima edizione degli Edith Steins Werke [ESW] o ad altre edizioni disponibili. I riferimenti dettagliati sono in bibliografia. Tutte le traduzioni sono nostre. 2 Cfr., tra gli altri : P. Secretan, Personne, Individu et Responsabilité chez Edith Stein, « Analecta Husser
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introduzione
intentato, all’analogia, che forse non appare come una questione altrettanto centrale in Stein, e che di conseguenza sinora non è stata oggetto di una trattazione così specifica come quella che si tenta qui. L’analogia costituisce un argomento non adeguatamente tematizzato dalla ricerca steiniana. 1 Eppure, il titolo dell’opera che notoriamente rappresenta l’espressione matura e più completa delle posizioni teoriche di Stein, e in cui si intraprende un articolato e complesso tentativo di innalzare un edificio speculativo che faccia sintesi delle esigenze del metodo fenomenologico e della metafisica classica e scolastica, rimanda proprio ad una teoria dell’analogia, declinata in senso anzitutto temporale, e poi personale : Essere finito ed essere eterno, infatti, pretende di offrire una ascesa al senso dell’essere che prenda le mosse dalla constatazione di come la teoria metafisica di Tommaso d’Aquino, paradigma in questo senso, per Stein, di ogni filosofia cristiana, sia fondata sulla contemporanea differenza e partecipazione tra essere in potenza ed essere in atto. Si tratta di due esseri incomparabili, ma in comunicazione tra loro ; ogni essere che possiede in sé anche potenza, infatti, è creato sul modello dell’essere che è pura attualità : ne è infinitamente distante, ma allo stesso tempo è conformato ad esso. L’essere frammisto di potenza ed atto trova la sua ultima costituzione di senso nell’essere in atto. Ecco l’analogia dell’ente. Non a caso, il volume si apre confessando una decisa dipendenza da Erich Przywara e dalla sua Analogia entis. 2
Forse qualcuno si chiederà in che rapporto stia il presente libro con la Analogia entis di Padre Erich Przywara S.J. Si tratta in entrambi i casi della stessa questione, e P. E. Przywara ha fatto liana », 5 (1976), pp. 247-258 ; Id., Essence et personne. Contribution à la connaissance d’Edtih Stein, « Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie », 26/2-3 (1979), pp. 481-504 ; M. C. Baseheart, Edith Stein’s Philosophy of the Person, in J. Sullivan (a cura di), Edith Stein Symposium (Carmelite Studies 4), Washington DC, ICS Publications, 1987, pp. 34-49 ; E. Otto, Welt-Person-Gott. Eine Untersuchung zur theologischen Grundlage der Mystik bei E. Stein, Vallendar-Schönstatt, Patris Verlag, 1990 ; R. Ingarden, Zu Edith Steins Analyse der Einfühlung und des Auf baus der menschlichen Person, in W. Herbstrith (a cura di), Denken im Dialog : zur Philosophie Edith Steins, Tübingen, Attempto Verlag, 1991, pp. 72-82 ; E. García Rojo, La constitucion de la persona en Edith Stein, « Revista de Espiritualidad », 50 (1991), pp. 333-357 ; A. Ales Bello, Fenomenologia dell’essere umano. Lineamenti di una filosofia al femminile, Roma, Città Nuova, 1992 ; Id., Soggetto, persona, comunità, « Aquinas », 40/3 (1997), pp. 441-452 ; Id., Husserl and Stein : the question of the Human Subject, « American Catholic Philosophical Quarterly », 82 (2008), pp. 143-159 ; R. L. Fetz, Ich, Seele, Selbst. Edith Steins Theorie personaler Identität, in R. L. Fetz, M. Rah e P. Schulz (a cura di), Studien zur Philosophie von Edith Stein, Freiburg-München, Alber, 1993, pp. 286-319 ; P. Schulz, Edith Steins Theorie der Person. Von der Bewußtseinsmetaphysik zur Geistesmetaphysik, Freiburg/München, Alber, 1994 ; A. M. Pezzella, L’antropologia filosofica di Edith Stein : indagine fenomenologica della persona umana, Roma, Città Nuova, 2003. F. Haya, La estructura de la persona humana según Edith Stein, in J. F. Sellés (a cura di), Modelos antropológicos del siglo xx, Pamplona, Servicio de Publicationes de la Universidad de Navarra, 2004, pp. 61-81 ; P. J. Schulz, Toward the Subjectivity of the Human Person : Edith Stein’s Contribution to the Theory of Identity, « American Catholic Philosophical Quarterly », 82/1 (2008), pp. 161-176 ; S. Borden Sharkey, Thine Own Self. Individuality in Edith Stein’s Later Writings, Washington D.C., The Catholic University of America Press, 2010. 1 Sul tema, cfr. soprattutto gli studi di E. Garulli, Conoscenza analogica e simbolica secondo Edith Stein, in Metafore dell’invisibile : ricerche sull’analogia, Brescia, Morcelliana, 1984, pp. 163-173 ; K. Hedwig, Edith Stein und die analogia entis, in R. L. Fetz, M. Rah e P. Schulz (a cura di), Studien zur Philosophie von Edith Stein, cit., pp. 320-352 ; ma anche il significativo, anche se breve, P. Secretan, L’analogie du « je suis » selon Edith Stein, in P. Gisele e P. Secretan (a cura di), Analogie et dialectique. Essais de théologie fondamentale, Genève, Labor et fides, 1982, pp. 140-142. Nessuno di questi lavori mette adeguatamente in luce la centralità ed il ruolo decisivo dell’analogia nell’opera di Stein. 2 Cfr. E. Przywara, Analogia entis. Metaphysik, München, Kösel u. Pustet, 1932. L’espressione analogia entis non è di Tommaso, e la sua origine esatta è incerta : cfr. J. Terán-Dutari, Die Geschichte des Terminus « Analogia entis » und das Werk Erich Przywaras, « Philosophisches Jahrbuch », 77 (1970), pp. 163-179.
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introduzione
cenno, nella sua prefazione, a come siano stati significativi per lui i primi sforzi dell’Autrice di confrontare Tommaso e Husserl. La prima versione del suo libro e la versione finale di Analogia entis sono stati scritti pressoché contemporaneamente, ma l’Autrice ha potuto leggere i primi abbozzi di Analogia entis e più in generale ha potuto avere un vivo scambio di pensiero con P. E. Przywara negli anni 1925-1931. 1
La coppia concettuale di potenza e atto (che dava il titolo alla prima e parziale versione dell’opera) viene rinvenuta da Stein nella coscienza trascendentale, punto di partenza di ogni filosofare che voglia fondarsi su un terreno di certezza indubitabile ; lo strato più originario dell’io, infatti, secondo le ricerche che Husserl conduceva proprio negli anni in cui ebbe Stein come assistente, è di tipo temporale. Nella vita della coscienza si individua la contrapposizione ed il rapporto tra la finitezza e l’eternità.
Così essere eterno ed essere temporale, immutabile e mutabile, e anche il non essere, sono idee che lo spirito trova entro di sé, e che non sono desunte da altro […] . A partire da qui risulta immediatamente chiara anche l’analogia entis, compresa come relazione di ciò che è temporale a ciò che è eterno. 2
In un procedere che contamina le categorie della metafisica aristotelica e poi scolastica, le analisi husserliane e la filosofia esistenziale di Heidegger, ma anche tesi di ConradMartius, questa declinazione temporale dell’analogia entis riceve una ulteriore virata di tipo personale, nel duplice senso che abbiamo detto : si tratta infatti di un rapporto esistenziale tra l’io in tutte le sue dimensioni, soprattutto di motivazione, di forza vitale e di senso, e la persona del suo creatore e redentore.
Al dato di fatto innegabile che il mio essere è fuggevole, limitato nel tempo ed esposto alla possibilità del non essere, corrisponde l’altro dato di fatto altrettanto innegabile che nonostante questa mutevolezza io sono e, di momento in momento, io vengo conservato nell’essere (im Sein erhalten), e che nel mio essere mutevole ne includo uno durevole. So di essere conservato e ne traggo tranquillità e sicurezza – non la sicurezza autoconsapevole dell’uomo che in virtù della propria potenza riposa su un terreno tranquillo, ma la dolce e beata sicurezza del bambino che viene portato da un braccio forte – una sicurezza che, concepita oggettivamente (sachlich betrachtet), non è meno razionale. Oppure si potrebbe definire « razionale » il bambino che avesse una paura costante che la madre lo possa far cadere ?3
Ma si tratta anche, in senso teorico stretto, della nozione di persona, in cui il rapporto tra essere finito ed essere eterno trova esplicita fondazione filosofica. L’essere « fuggevole » non è in possesso dell’ente che è fuggevole : gli deve essere donato in modo sempre nuovo. Solo chi possiede veramente l’essere, tuttavia, e chi ne è signore, lo può donare. Ed essere signore è possibile solo per chi è persona. 4
Perciò sosteniamo la tesi che l’analogia, e in particolare una analogia della persona, è descrivibile come l’architrave di quella che si può definire come l’opera principale di Stein. Il rapporto dell’« Io sono » divino con la molteplicità dell’ente finito è l’analogia entis più originaria. Solo per il fatto che ogni ente finito ha il suo modello nell’« Io sono » divino tutto possiede un senso che è comune. Poiché però l’essere si divide nella creazione, esso non ha lo stesso significato in senso stretto in ogni ente, ma accanto ad una consistenza di senso (Sinnbestand) comune, ne ha anche una differente. 5
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Endliches und ewiges Sein. Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Sein [EeS], ESGA 11/12, pp. 4-5. 3 EeS, ESGA 11/12, p. 42. EeS, ESGA 11/12, pp. 59-60. 5 EeS, ESGA 11/12, p. 100. EeS, ESGA 11/12, p. 297.
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Per converso, il presente lavoro possiede anche un ulteriore scopo : si tratta cioè non solo di uno studio monografico su Edith Stein e l’analogia, ma anche della ricostruzione di un capitolo che appare particolarmente rilevante nella storia della questione filosofica dell’analogia, tema che ci appassiona molto e che già altrove, a più riprese, abbiamo indagato. Si può dire anzi che, per certi aspetti, siamo interessati a Stein in quanto siamo interessati all’analogia, e non viceversa. Proprio la possibilità di vederla declinata, implicitamente, nei termini di analogia della persona, ci sembra un motivo di assoluto interesse rispetto al dibattito sulla questione che si registra nel corso del Novecento, grazie anche ai contributi decisivi della neoscolastica, ma anche della fenomenologia. Le due correnti sono obiettivamente molto distanti tra loro. Non solo quando parlano di analogia, perché Husserl, secondo quanto ribadiremo, la accosta all’empatia, o comunque alla questione della conoscenza di alter ego, piuttosto che leggerla in una cornice di metafisica dell’essere, che evidentemente gli è estranea ; 1 e che però, significativamente, si ritrova in Heidegger, formatosi appunto in ambito neoscolastico. 2 Ma i due movimenti di pensiero sono molto diversi anche in termini generali : la fenomenologia muove da un’istanza radicalmente teorica priva di rimandi storici, rivendica un pensiero senza presupposti e porta con sé appunto un rifiuto della metafisica ; la neoscolastica invece ha un riferimento storico privilegiato ben preciso nel pensiero medievale e soprattutto di Tommaso d’Aquino, conosce un’ispirazione anzitutto confessionale, quella della chiesa cattolica, e mira a riproporre la validità della metafisica. Non a caso, Stein stessa si avvicina alla neoscolastica a seguito della scelta per il cattolicesimo, e non viceversa. Ma per altro verso i molti rapporti storici tra neoscolastica e fenomenologia sono un dato di fatto, si pensi a Brentano o come detto al giovane Heidegger, o all’accusa di voler fondare « una nuova scolastica » rivolta alla Ricerche logiche. In qualche modo, Stein incrocia molto di tutto ciò. Anche proprio accostando talora arditamente categorie tra loro distanti, fino quasi a presentare oscillazioni o passaggi non facilmente chiarificabili, l’opera steiniana non solo si sottrae ad una classificazione banale, ma offre un punto di osservazione privilegiato su un’epoca ed alcuni movimenti teorici che trascendono il suo pensiero individuale. Stein conferisce una innovativa svolta ad una metafisica dell’essere pensata su basi tomiste, accettando il presupposto moderno dell’inaggirabilità metodologica dell’io e del più generale primato dell’uomo : il suo pensiero affronta la religione anzitutto come domanda di senso personale, come questione del « vissuto religioso » ; 3 significativamente è stato interpretato persino secondo un accostamento a pensatori che teorizzano un superamento della metafisica ontologica, come Levinas ; 4 e non a caso proprio Przywara ha caratterizzato la feno
1 Cfr. J.-F. Courtine, L’être et l’autre. Analogie et intersubjectivité chez Husserl, « Les Etudes Philosophiques », 3-4 (1989), pp. 249-273. 2 Cfr. Id., Inventio analogiae. Métaphysique et ontothéologie, Paris, Vrin, 2005 ; F. Volpi, Heidegger e Brentano. L’aristotelismo e il problema dell’univocità dell’essere nella formazione filosofica del giovane Martin Heidegger, Padova, Cedam, 1976. 3 Cfr. B. Beckmann, Phänomenologie des religiösen Erlebnisses. Religionsphilosophische Überlegungen im anschluß an Adolf Reinach und Edith Stein, Würzburg, Königshausen und Neumann, 2003. 4 Pensiamo in particolare ai lavori di A. U. Müller, formatosi alla scuola di Bernhard Casper : cfr. Grundzüge der Religionsphilosophie Edith Steins, Freiburg-München, Alber, 1993 o Emmanuel Levinas und Edith Stein, « Edith-Stein Jahrbuch », 3 (1997), pp. 367-384.
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menologia come una « svolta verso l’uomo ». 1 All’opposto, Stein supera un pensiero puramente funzionalistico ed incapace di profondità spirituale : sino a riguadagnare, in modo sorprendente, proprio una metafisica dell’essere. Attraverso la sua opera risultano allora chiariti, sia pur indirettamente, anche alcuni momenti decisivi di entrambe le correnti, fenomenologia e neoscolastica. La generazione di Stein, probabilmente, è l’ultima a credere veramente nella possibilità di contrapporre tout court la validità teorica del tomismo al pensiero moderno, almeno in ambito cosiddetto « continentale » ; e tale tentativo si incentra spesso proprio sull’analogia. 2 Stein stessa polemizza già con quello che definisce « tomismo di sistema », astorico e privo di rigore filologico. Ma dal canto suo la fenomenologia prenderà, nei decenni successivi, quella che è stata chiamata una « svolta teologica ». 3 Inoltre l’analogia di Stein si situa storicamente, sia pur senza prendervi parte direttamente, nel dibattito tra Przywara e Karl Barth e dunque tra analogia entis, da un lato, e analogia fidei e analogia relationis dell’altro. Significativamente, poi, recenti tentativi ispirati dalla fenomenologia, da Heidegger, ma provenienti da ambiti cattolici, e tuttavia non neoscolastici, hanno parlato di « analogia temporale » e di « analogia del soggetto ». 4 Certo, è in qualche modo schematico e semplificatorio condurre parallelismi di tal fatta. A tali questioni saranno rivolti approfondimenti futuri, se le circostanze lo permetteranno. È utile però sottolineare qui come l’espressione « analogia della persona » condensi o abbia sullo sfondo anche tutto ciò. Il nostro interesse primario in questo testo, dunque, è l’analogia in Edith Stein. Il tema della persona viene chiamato in causa piuttosto come declinazione dell’analogia stessa e non come aspetto centrale. Si è detto di come la ricerca si sia già soffermata sull’antropologia steiniana ; ne tratteremo perciò solo secondariamente e derivativamente. Lo stesso contemplare l’intero spettro degli scritti steiniani, che si è ribadito, proprio perché richiesto dalla scelta di una questione che solo tardivamente diviene centrale nell’interesse della pensatrice, non ha condotto ad un’organizzazione del volume che segua una linea di sviluppo cronologica (anche questo elemento si ripresenta sin troppo spesso nei testi su Stein) ; abbiamo optato invece per un ordinamento tematico e concettuale. Il primo capitolo cerca quindi di descrivere la ripresa steiniana della questione dell’analogia dell’ente come condensato di una serie di temi che ruotano attorno alla comprensione del dissidio tra filosofia scolastica e moderna ; la contrapposizione tra le due è concepita inizialmente da Stein sulla base di un interesse primario rivolto all’ontologia, da un lato, o alla teoria della conoscenza dall’altro, “vulgata” piuttosto diffusa e riscontrabile in parte anche in Przywara. Il testo si apre con una rapida analisi dei primissimi confronti steiniani con Tommaso d’Aquino, iniziati con lo studio e la traduzione delle Quaestiones disputatae de veritate,
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Cfr. E. Przywara, Wende zum Menschen, « Stimmen der Zeit », 119 (1930), pp. 1-10. Si pensi solo a J. Maritain, De l’analogie, appendice II di Distinguer pour unir ou les dégres du savoir, Paris, Desclée de Brouwer, 19638 ; o a E. Gilson, Analogie, causalité et finalité, cap. V di L’esprit de la philosophie médiévale, Paris, Vrin 19482. 3 L’espressione è stata resa celebre da D. Janicaud, in Le tournant théologique de la phénoménologie française, Combas, éditions de l’éclat, 1991. 4 Cfr. B. Casper, Analogia temporum et orationis, in V. Melchiorre (a cura di), Pensare l’essere. Percorsi di una nuova razionalità, Genova, Marietti 1989, pp. 87-105 ; M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza 1992.
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perché è l’interesse per questo autore, mediato dalla neoscolastica, che porta Stein ad occuparsi dell’analogia come questione metafisica. Ci soffermiamo quindi sulle parti di commento che l’autrice dedica alla prima quaestio di tale scritto, in cui si espone la dottrina dei trascendentali e il tema della verità come adaequatio. Il rapporto tra conoscenza e realtà, secondo il commento che Stein dedica a quelle pagine, deve far presupporre molteplici significati di essere e quindi, implicitamente, una comprensione analogica dell’ente. Ma il rapporto tra conoscenza e realtà era stato già oggetto di una lunga riflessione steiniana anche durante il periodo eminentemente fenomenologico. L’avvicinamento a Husserl era infatti avvenuto negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del primo volume delle Idee, che segnò la ben nota svolta trascendentale della fenomenologia. Unitamente al trasferimento dello stesso Husserl da Gottinga a Friburgo e alla tragedia della guerra, in cui morì Adolf Reinach, quegli anni tracciarono un confine netto, che solo Stein riuscì a valicare, grazie, ancora una volta, anche a circostanze personali. Si trovò, infatti, ad essere la prima assistente di Husserl nella nuova sede, e a lavorare direttamente, tra l’altro, sui manoscritti di Idee ii e su quelli delle lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo, intervenendo anche direttamente su questi testi ; così che la ricerca husserliana ancora non ha potuto fare chiarezza definitiva sulla questione della proprietà intellettuale di alcune di quelle pagine. Stein viene sovente ricondotta frettolosamente ai fenomenologi cosiddetti « realisti » ; certo, proprio anche nelle sue analisi antropologiche è forte la sua dipendenza da Scheler ; così come stretti sono i legami, nuovamente anzitutto a livello personale, con molti dei fenomenologi di Gottinga e di Monaco. Tuttavia Stein accettò il nuovo corso di pensiero husserliano, come attesta la presenza in tutte le sue opere, anche quelle più tarde, dell’elemento che più lo caratterizza : la riduzione trascendentale. Nel volume si ricostruiscono quindi le principali posizioni steiniane attorno a tale tema, comunque talora oscillanti, che costituiscono un retroterra importante della matura teorizzazione dell’analogia. Difatti, una risposta alla questione della disputa tra idealismo e realismo è rinvenibile nella prima vera opera di confronto teorico tra fenomenologia e neoscolastica, il dialogo tra Husserl e Tommaso d’Aquino, scritto originariamente appunto nella vivace forma di una conversazione e pubblicato poi come un saggio di tipo tradizionale nel volume del 1929 dello Jahrbuch fenomenologico dedicato ad Edmund Husserl. In questo testo, la distinzione fondamentale tra le impostazioni dei due pensatori, di cui si sottolineano punti di comunanza e di differenza, viene rinvenuta nel fondamento della filosofia, che per il primo è definito « egocentrico », per il secondo invece « teocentrico ». È l’ultimo livello in cui si radica il processo costitutivo, il piano cioè su cui si determina il senso dei fenomeni, che costituisce la vera e decisiva differenza tra i due pensatori, paradigmi a loro volta della modernità e della scolastica ; a partire da questo scritto non è più la contrapposizione tra ontologia e teoria della conoscenza ad essere decisiva. Stein offre così una lettura estremamente originale della questione ; e ciò non manca di avere influsso nell’impalcatura di Essere finito ed essere eterno, che appunto dall’indagine della vita intima dell’io si apre all’essere e ascende al suo senso, rintracciandolo in Dio, secondo un movimento di pensiero decisamente qualificabile come « teocentrico » e che tuttavia si pretende ancora fedelmente fenomenologico. Non si tratta certo, dicevamo già, di una fenomenologia di stretta osservanza husser
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introduzione
liana. Per altro verso non si tratta ovviamente, per quanto l’influenza di questo autore sia confessata, di una ontologia di tipo heideggeriano. Ma non siamo in presenza neanche di un tomismo di scuola, come conferma il movimento teorico di rinvenimento di Dio nell’intimo di sé, di tipo piuttosto agostiniano (ma anche, nella lettura steiniana, evidententemente cartesiano-husserliano) ; o le originali posizioni su temi specifici, quali il processo di astrazione, gli universali, la natura degli spiriti puri, il principio di individuazione ; e soprattutto l’impostazione dei rapporti ragione-fede : pur sottolineando sempre una certa continuità tra i due piani, Stein ne mette in risalto anche la differenza profonda, rifiutando esplicitamente l’impostazione di Przywara, che teorizzava la possibilità di gettare un ponte tra natura e sovranatura mediante la metafisica. Se la ragione, come detto, si apre alla pienezza dell’esperienza personale ed è strumento di una più ampia ricerca di senso esistenziale, la fede da parte sua viene descritta da Stein come un rapporto personale, che ingloba sia l’aspetto conoscitivo, sia quello pratico, lasciando spazio alle facoltà dell’uomo, ma anche e soprattutto all’iniziativa della gratuità divina. 2 La visione steiniana, inoltre, nella proposta di una filosofia cristiana e nella distinzione tra natura e condizione della filosofia, è ispirata in modo decisivo da Jacques Maritain ; i due si conobbero personalmente all’incontro della Societé thomiste a Juvisy nel 1932 e intrattennero poi una corrispondenza. Proprio alla questione del Senso e della possibilità di una filosofia cristiana sono dedicate alcune considerazioni introduttive di Essere finito ed essere eterno, che fanno seguito all’introduzione esplicita della questione dell’analogia. Le pagine centrali del nostro volume sono quindi incentrate su un’analisi dettagliata sia dei passaggi di questa opera steiniana in cui si menziona esplicitamente l’analogia, sia della sua struttura generale, come detto costruita attorno ad un’ottica e ad una dinamica analogica. E si segue nello specifico il passaggio, più volte qui sottolineato, da una analogia dell’ente ad una analogia temporale e poi ad una analogia della persona. 1
1 Come non ha mancato di rilevare, ad esempio, K-H. Lembeck, per il quale significativamente risulta davvero incomprensibile la contaminazione di fenomenologia e fede : cfr. Zwischen Wissenschaft und Glauben : die Philosophie Edith Steins, « Zeitschrift für katholische Theologie », 112/3 (1990), pp. 271-287 ; e Id., Glaube im Wissen ? Zur aporetischen Grundstruktur der Spätphilosophie Edith Steins, in W. Herbstrith (a cura di), Denken im Dialog…, cit., pp. 156-175. 2 Così, molti studiosi di Tommaso o veri e propri tomisti hanno, sia pur con toni diversi, rimarcato l’infedeltà e/o l’originalità della lettura steiniana dell’Aquinate, soffermandosi soprattutto su questo punto dei rapporti tra ragione e fede e quindi sulla comprensione, cui accenneremo subito, della « filosofia cristiana ». Come si può vedere, la sua figura e si suoi studi hanno attirato l’attenzione di moltissimi rilevanti esponenti della neoscolastica, anche se nella maggior parte dei casi si stratta di esposizioni di tipo generale e panoramico : cfr. S. Vanni Rovighi, Recensione a Festschrift Edmund Husserl zum 70. Geburtstag gewidmet, « Rivista di filosofia neoscolastica », 22/6 (1930), pp. 491-494 ; A. Gemelli, Edith Stein, « Rivista di Vita Spirituale », 5 (1951), pp. 375-396 ; M. Campo, Recensione a Edith Steins Werke i e ii , « Rivista di Filosofia Neoscolastica », 43/4, 1951, pp. 355-357 ; A. Ales Bello, Fenomenologia e tomismo in Edith Stein, in L’essere. Tommaso d’Aquino nel suo settimo centenario. Atti del convegno di Studi, Napoli, Edizioni Domenicane italiane, 1977, pp. 469-479 ; R. McInerny, Edith Stein and Thomism, « Carmelite Studies » 4 (1987), pp. 74-87 ; C. Fabro, Linee dell’attività filosofico-teologica della Beata Edith Stein, « Aquinas » 32/2 (1989), pp. 193-256 ; L. Elders, Edith Stein und Thomas von Aquin, in Id. (a cura di), Edith Stein – Leben, Philosophie, Vollendung. Abhandlungen des internationalen Edith-Stein-Symposiums Rolduc, 2.-4. November 1990, Würzburg, Naumann, 1991, pp. 253-271 ; I. Mancini, Edith Stein e la filosofia sull’essere e sull’uomo « Rivista di Vita Spirituale », 46 (1992), pp. 319-336 ; B. Mondin, Filosofia cristiana, fenomenologia e metafisica secondo E. Stein, « Aquinas », 37/2 (1994), pp. 377-386 ; A. Molinaro, Edith Stein – Fenomenologia e/o metafisica, « Aquinas », 37/2 (1994), pp. 395-401 ; J. H. Nota, Edith Stein – Christliche Philosophie oder Fideismus ?, « Jahrbuch für Philosophie, Kultur und Gesellschaft », 1 (1994), pp. 18-24 ; H. Seidl, Über Edith Steins Vermittlungsversuch zwischen Husserl und Thomas v. Aquin, « Forum Katholische Theologie », 2 (1999), pp. 114-133 ; A. Zimmermann, Begriff und Aufgabe einer christlichen Philosophie bei Edith Stein, in W. Herbstrith (a cura di), Denken im Dialog…, cit., pp. 133-140.
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introduzione
Nel secondo capitolo, invece, dopo aver osservato il culmine personale dell’analogia secondo la descrizione di Essere finito ed essere eterno, che come detto è individuato nell’analogia di ogni ente con l’« io sono » divino, si indaga il retroterra di questa impostazione nell’analogia tra persone umane. Si tratta di una comprensione del termine più ampia, e non solo legata ad una dottrina metafisica sull’essere. Il noto scritto dedicato all’empatia parlava già di analogia, tuttavia in riferimento alla conoscenza dei vissuti altrui, secondo il senso anche husserliano di cui si è detto. In una dettagliata disamina tecnica, Stein differenzia l’analogia, criticandola, dall’empatia stessa. Dopo l’avvicinamento alla neoscolastica, invece, le riflessioni di antropologia sembrano sovrapporre l’analogia all’empatia, o comunque parlano di conoscenza analogica dell’altro. Sulla scorta di questo uso tardo, quindi, si può affermare che, sin dalla dissertazione, l’analogia della persona, intesa appunto come analisi dei vissuti di altri io, è l’interesse principale di Stein. La conoscenza delle persone spirituali e di Dio, d’altronde, viene considerata da questi primi saggi come un caso specifico della conoscenza di altri. Nel momento in cui la dimensione religiosa si dischiude, il parallelo viene reso esplicito.
Quando vogliamo cercare di spingerci il più avanti possibile nel grado di comprensione raggiungibile nello statu viae, dobbiamo tener conto che questa può essere solo una comprensione analogica. Possiamo cioè prendere le mosse solo da qualcosa che abbiamo già ora, e che in sé e al di là di sé muove nella direzione della visio. Abbiamo però dei punti di partenza. Due in particolare mi sembrano molto importanti : anzitutto la fede, nella misura in cui costituisce un inizio della vita eterna e, come la visione, ha per oggetto Dio stesso ; poi la conoscenza di quelle creature che più di tutte sono analogabili a Dio : gli uomini, nella misura in cui sono persone spirituali. Se la visio viene definita un guardare Dio faccia a faccia, non dobbiamo rappresentarci questa visione come quella sensibile, rivolta alle cose materiali. Dio è puro spirito, e così anche la visione di Dio può essere solo un atto puramente spirituale. Dio è persona e dunque una conoscenza che lo riguarda può essere solo di un tipo che corrisponda alla personalità. 1
L’empatia della vita di coscienza altrui è descritta, nelle pagine della dissertazione, come vissuto decisivo per una comprensione anche degli strati del sé e per la costituzione dell’individuo psicofisico ; mentre poi nelle descrizioni antropologiche ispirate dalla scolastica si definisce la persona come apertura spirituale al mondo, ad altri e a Dio, secondo quella che viene presentata esplicitamente come una analogia strutturale di ambito interiore ed esteriore. Un’altra simmetria tra descrizione fenomenologica e comprensione più lata di metafisica della persona è rinvenibile poi nella trattazione steiniana della motivazione. Il tema si inserisce in un dibattito fenomenologico all’epoca vivace, viene trattato tra gli altri da Pfänder e se ne trova traccia significativa nel secondo volume delle Idee : ma le analisi steiniane che individuano nella motivazione la legge più intima della vita dell’io sono all’opera nella comprensione più tarda della grazia come motivazione fondamentale che può riempire la coscienza. Per Stein, infatti, la libertà è in sé vuota, e la coscienza deve sempre legarsi ad un regno spirituale. Tale legame viene approfondito negli ultimi scritti, che come detto sono prevalentemente di natura mistica. In un saggio su Dionigi Areopagita si tratta ancora esplicitamente della questione dell’analogia nella conoscenza di Dio, e si descrive la nota dinamica della teologia negativa. La struttura della rivelazione divina, che permane sempre misteriosa e che delinea una dialettica costante tra avvicinamento ed allontanamento, viene indagata in questo scritto ancora principalmente a livello teorico, come
1
Was ist der Mensch ? Theologische Anthropologie, ESGA 15, p. 39.
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introduzione
questione della conoscenza di Dio ; eppure viene radicata, ancora una volta, nel rapporto personale con Dio stesso, considerato come culmine e presupposto di ogni possibilità di approccio anche intellettuale al divino. Nell’opera dedicata invece a Giovanni della Croce, la Scienza della croce, si ritrova poi non solo radicalizzata, sin dal titolo, la contrapposizione tra fenomenologia (come « scienza » rigorosa) e cristianesimo, ma anche quella tra piano teorico ed esistenziale. L’analogia come conoscenza misteriosa di Dio, come rapporto di unione e distanza, diviene definitivamente il paradosso di notte e fiamma d’amore. 1 L’analogia della persona, quindi, lungi dall’essere semplicemente un pensiero astratto, viene ricondotta alla questione del senso esistenziale, che diverse volte nella vita di Stein si è presentata come perdita di motivazione e di energia vitale ; come disperazione, di fronte alla quale Stein ha ritenuto di poter rintracciare, nella propria vicenda, interventi di Dio.
Nel sentimento di sicurezza che si impossessa di noi proprio in una situazione “disperata”, quando ragionevolmente non vediamo via d’uscita e quando in tutto il mondo non c’è nessuno che abbia il potere o la volontà di consigliarci o di aiutarci : in un siffatto senso di sicurezza ci si offre una consapevolezza di una forza spirituale indipendente da ogni esperienza esterna. Non sappiamo che cosa sarà di noi, davanti a noi si spalanca un abisso verso cui la vita ci trascina senza pietà, procedendo e non tollerando passi indietro. Ma nel momento in cui pensiamo di precitare, ci sentiamo « nelle mani di Dio », che ci sostiene e non ci lascia cadere. In questo vissuto non ci viene manifestata solo la sua esistenza, ma diviene visibile nei suoi ultimi riverberi anche che cosa egli è, la sua essenza : la forza che ci difende, allorquando tutte le forze umane vengono meno ; che dona nuova vita quando riteniamo di spegnerci interiormente ; che fortifica la nostra volontà quando essa minaccia di anchilosarsi. Questa forza appartiene ad un essere onnipotente. La fiducia che ci lascia supporre un senso della nostra vita anche laddove la comprensione umana non riesce a decifrarlo, ci fa conoscere la sua sapienza. E la fiducia che questo senso è un senso di salvezza, che tutto, anche le prove più dure, sono in ultima istanza al servizio della nostra salvezza ; che questo essere superiore ha misericordia di noi quando gli uomini ci abbandonano ; e che egli non conosce alcuna abiezione : tutto ciò ci rivela la sua perfetta bontà. 2
Si tratta della stessa dialettica di precarietà e sicurezza con cui si rintracciava al fondo dell’essere finito la presenza dell’essere eterno ; ma anche delle esperienze, centrali nella spiritualità carmelitana, del profeta Elia, a cui Dio dona del cibo per continuare il cammino allorquando egli voleva lasciarsi morire ; o di Teresa d’Avila, che nella Vida descrive come dall’abbandono sia giunta al matrimonio mistico ; o della Notte oscura di Giovanni della Croce, nella quale Dio non cessa di essere presente. Non una struttura di pensiero conciliante e rassicurante, l’analogia della persona rintracciata ultimamente nella croce è un paradosso, il cui senso non è in possesso dell’uomo.
Ho intenzione di condurre alcuni studi e mi cerco un’università che offra garanzie di un certo tipo nella mia disciplina. Si tratta di un nesso sensato e comprensibile. Il fatto che io in quella 1 Il percorso di Stein è stato quindi significativamente letto secondo queste tensioni : cfr. R. Guileaud, De la Phénoménologie à la science de la croix. L’itinéraire d’Edith Stein, Louivain-Paris, Nauwelaerts, 1974 ; H. Hecker, Phänomenologie des Christlichen bei Edith Stein, Würzburg, Echter, 1995 ; cfr. anche R. Schmitz-Perrin, Phänomenologie und Scientia Crucis im Denken von Edith Stein : Von der Einfühlung zur Mit-Fühlung, « Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie », 42/3 (1995), pp. 346-366. 2 Einführung in die Philosophie, ESGA 8, pp. 171-172. Significativamente, la biografia di Stein di R. Leuven pubblicata negli ESW x era intitolata : Heil im Unheil. Das Leben Edith Steins : Reife und Vollendug, FreiburgBasel-Wien, Herder, 1983.
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introduzione
città conosca un uomo, che anche « per caso » studia là, e il fatto che un giorno « per caso » parli con lui di questioni esistenziali, mi sembra invece a prima vista un nesso assolutamente non prevedibile. Ma quando dopo anni rifletto sulla mia vita, allora mi diviene chiaro che quel colloquio ebbe un’influenza decisiva su di me, e che forse è stato « più essenziale » di tutto il mio studio, e giungo quindi all’idea che forse « proprio per quello » io « dovevo andare » in quella città. Quello che non era nel mio progetto, giaceva invece nel progetto di Dio. E quanto più spesso faccio questa esperienza, tanto più viva si fa in me la convinzione di fede che – dal punto di vista di Dio – non esiste il « caso », e che la mia intera esistenza sin nei suoi particolari è prefigurata nel progetto della divina provvidenza, e che all’occhio onniveggente di Dio è un nesso di senso compiuto. 1
Circostanze teoriche ed esistenziali, come sempre avviene, si sono intrecciate anche nella genesi materiale di questo volume, la cui realizzazione è stata resa possibile da diverse persone, che è qui doveroso ringraziare. Il Professor Pierluigi Valenza, responsabile di un assegno di ricerca dedicato al Tema dell’analogia in filosofia della religione : ontoteologia e critica dell’onto-teologia nella “aetas kantiana” e nella fenomenologia contemporanea che ha permesso di condurre la ricerca presso il Dipartimento di filosofia della Sapienza, Università di Roma. Il Prof. Stefano Semplici, che ha accolto il volume nella collana della Biblioteca dell’« Archivio di Filosofia » da lui diretta. Il Prof. Andreas Speer, che ha seguito la ricerca durante diversi periodi di soggiorno trascorsi presso il Thomas Institut della Universität zu Köln, e con cui da anni curiamo l’edizione critica delle traduzioni steiniane di Tommaso d’Aquino per la Edith Stein Gesamtausgabe edita da Herder. La Prof.ssa Marta Fattori, che ha molto incoraggiato la presente pubblicazione. L’Edith Stein Archiv di Colonia e la Direttrice, Sr. Dr. Antonia Sondermann, che mi hanno permesso l’accesso al materiale autografo steiniano e a diversa letteratura secondaria. L’Internationales Edith Stein Institut di Würzburg e il Padre Ulrich Dobhan. Il Professor Josef Seifert e la Internationale Akademie für Philosophie. I Professori Angela Ales Bello, Stefano Bancalari, Gianfranco Basti, Beate Beckmann, Sarah Borden Sharkey, Daniel Dwyer, Emmanuel Falque, Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, Patrizia Manganaro, Claudia Mariéle Wulf, Albert Zimmermann, che a più riprese mi hanno rivolto preziosi consigli. I colleghi Emanuele Caminada, Maria Giulia Cremonesi, Diana Di Segni, Giuseppe Di Salvatore, Wolfgang Dickhut, Francesco Lanzillotti, Pietro Secchi, Paolo Zordan. Aurora Corti, in modo particolare, che ha anche rivisto le bozze. Grazie di cuore ai miei genitori. Infine, un ringraziamento a Marco Maria Olivetti, che per primo ha creduto in questa ricerca, e a cui queste pagine sono dedicate.
1
EeS, ESGA 11/12, pp. 106-107.
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1. Le Quaestiones disputatae de veritate
Capitolo i ANALOGIA DELL’ENTE 1. Le Quaestiones disputatae de veritate
D
opo il battesimo, inizia per Edith Stein un nuovo percorso anche sotto il profilo intellettuale e scientifico. Nelle righe di apertura della Prefazione di Essere finito ed essere eterno, che com’è noto costituisce l’opera matura in cui le sue posizioni teoriche ricevono un’organizzazione sistematica, si trova un passaggio significativo, sovente citato :
Questo libro è stato scritto da una discente per colleghi che apprendono insieme a lei. In un’età in cui altri possono osare definirsi insegnanti, è stata infatti costretta a ricominciare il suo cammino dall’inizio. Formata alla scuola di Edmund Husserl, aveva scritto una serie di lavori secondo il metodo fenomenologico. Questi trattati erano apparsi sullo Jahrbuch di Husserl e perciò il suo nome divenne noto proprio nel periodo in cui smise di lavorare e in cui pensava a tutto tranne che ad un ruolo pubblico. Aveva trovato la via a Cristo e alla sua chiesa ed era impegnata a trarne le conseguenze pratiche. Ebbe l’opportunità di familiarizzare con il mondo cattolico concreto quale insegnante presso il collegio delle Domenicane a Spira. Così sorse presto in lei il desiderio di conoscere i fondamenti di pensiero di questo mondo. Andò praticamente da sé il rivolgersi anzitutto agli scritti di Tommaso d’Aquino. La traduzione delle Questiones disputatae de veritate costituì la via per il suo ritorno al lavoro filosofico. 1
Edith Stein si avvicina a Tommaso per ragioni che sono espressamente confessionali e che sono conseguenza di un cammino esistenziale e di scelte personali. Se una tradizione cattolica di lunghissima data vedeva in Tommaso l’autorità principale di riferimento, nel 1879 l’enciclica Aeterni patris aveva sancito ufficialmente tale autorità, e, contemporaneamente, rilanciato gli studi e l’interesse per l’Aquinate. Stein incontra il mondo cattolico nei decenni in cui forse nel modo più evidente si avvertono le conseguenze di questa energica spinta intellettuale impressa dal documento pontificio. L’inizio del Novecento, ed in particolare gli anni venti e trenta, conoscono infatti una vera e propria “primavera” della neoscolastica. Per altro verso si tratta anche di un periodo in cui il movimento neoscolastico inizia a conoscere una divisione che condurrà gli studi di carattere storico-filosofico e filologico a prendere le distanze e a rendersi autonomi da quelli di tipo teorico, volti invece a difendere e promuovere la validità del pensiero di Tommaso rispetto alla filosofia moderna. Stein si inserisce a pieno titolo, e allo stesso tempo con un ruolo autonomo ed originale, in questo contesto, riuscendo a coniugare lavori impostati secondo il più rigoroso metodo storico (e che non a caso vennero all’epoca apprezzati e pubblicamente lodati dai più eminenti studiosi di questo orientamento, come Martin Grabmann), 2 con l’interesse e l’approfondimento più squisitamente speculativo. Il rapporto tra Stein e la scolastica inizia quindi, secondo quanto ella stessa scrive nella testimonianza citata, con una traduzione, per poi prendere le forme di un confronto anche teorico. 1
EeS, ESGA 11/12 p. 3. Cfr. M. Grabmann, Geleitwort a E. Stein, Des Hl. Thomas von Aquino Untersuchungen über die Wahrheit [DeV], ESGA 23 e 24, qui v. 24, pp. 921-27. 2
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capitolo i
Formatasi nello studio della filosofia moderna, ed in particolare evidentemente alla scuola fenomenologica di Edmund Husserl, Stein affronta il pensiero di Tommaso d’Aquino a partire dalle Quaestiones disputatae de veritate perché ritiene di poter trovare in quello scritto una attenzione particolare per il problema della teoria della conoscenza. Una diffusa opinione, certo non priva di fondamenti oggettivi, ma progressivamente messa in questione dalla ricerca storica, riteneva infatti di poter contrapporre la filosofia medievale a quella moderna sulla base di un interesse maggiore rivolto da un lato alla metafisica o all’ontologia (che tuttavia è un termine la cui occorrenza inizia a riscontrarsi, come è ormai acclarato, solo al fine del xvi secolo), e dall’altro al problema gnoseologico. Il De veritate rappresenta un punto di partenza e, progressivamente, permette anche una svolta. Le circostanze del suo avvicinamento a quest’opera, e quindi a Tommaso, sono particolarmente interessanti, sia in senso lato rispetto alle vicende biografiche, sia per la cornice storico filosofica di sviluppo della neoscolastica in cui si inquadrano, sia per i temi teorici che Stein, con tutta probabilità, sviluppa sulla scorta di questo lavoro di traduzione, tra cui proprio la questione dell’analogia. Altrove abbiamo potuto ricostruirle nel dettaglio, qui ci soffermeremo su alcuni passaggi fondamentali, utili appunto soprattutto ad introdurre il tema di cui ci occupiamo direttamente. 1 Se il 1 Gennaio del 1922, nel suo trentunesimo anno d’età, Stein viene battezzata, e nel corso del 1923 inizia a lavorare come insegnante presso il Collegio delle Domenicane di Spira, al 1925 datano le prime testimonianze dell’inizio della sua opera sul testo di Tommaso. Il 9 Ottobre del 1926 Stein scrive all’amico e collega Roman Ingarden :
Utilizzo il poco tempo che il mio lavoro giornaliero mi lascia per l’attività scientifica dedicandomi alla resa in tedesco della teoria della conoscenza di S. Tommaso secondo le Quaestiones de veritate. Resta da vedere se io possa giungere ad una conclusione e anche solo ad un chiarimento dei concetti fondamentali che vorrei trarvi. 2
Sulla decisione di rivolgersi a questo testo giocò un influsso probabilmente tutt’altro che marginale Erich Przywara. Ma in generale questo è il primo nome a cui si deve far riferimento nel pensare al ritorno di Stein al lavoro scientifico, dopo la conversione, e quindi per contestualizzare il suo avvicinamento con il mondo della neoscolastica. 3 È dunque particolarmente significativo, per il nostro lavoro, il fatto che Przywara sia noto anche e forse soprattutto per il suo scritto Analogia entis, pubblicato nel 1932. 4 Ancora in una testimonianza epistolare di Stein si può leggere :
[Przywara] è un ottimo conoscitore della filosofia moderna (è responsabile per la filosofia in Stimmen der Zeit) e nel nostro scambio epistolare si è visto che entrambi consideriamo come un compito di particolare urgenza nella situazione attuale la medesima questione : un confronto tra la filosofia cattolica tradizionale e la filosofia moderna (ma anche per lui la fenomenologia è la cosa più importante). In un colloquio mi ha esortato con veemenza a tornare al lavoro scientifico e a tal fine a ridurre le mie ore di insegnamento […]. Ho quindi rapidamente concluso,
1
Cfr. A. Speer e F. V. Tommasi, Einleitung a DeV, ESGA 23 e 24, pp. xi- ciii. Cfr. BI, ESGA 4, p. 172. 3 Cfr. A. U. Müller e M. A. Neyer, Edith Stein. Das Leben einer ungewöhnlichen Frau, Zürich-Düsseldorf, Benziger, 1998, pp. 171 ss. Sulla biografia di Stein, oltre a questo volume, si vedano tra gli altri : T. R. Posselt, Edith Stein, Nürnberg, Glock und Lutz, 1952 ; R. Leuven, Heil im Unheil..., cit. ; B. W. Imhof, Edith Steins Philosophische Entwicklung. Leben und Werk, Basel-Boston, Birkhauser, 1987 ; H.-B. Gerl, Unerbittliches Licht. Edith Stein. Philosophie-Mystik-Leben, Mainz, Matthias Grünewald, 19982. 4 Cfr. E. Przywara, Analogia entis, cit. 2
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analogia dell ’ ente
anzitutto, il volume di Newman che avevo intrapreso, e ho cominciato da poco con lo studio dell’opera filosofica principale di Tommaso d’Aquino – le Quaestiones disputatae de veritate. […] Ancora non so prevedere che cosa ne uscirà, se una traduzione (che ancora non c’è) con un apparato di note o una trattazione sulla teoria della conoscenza e la metodologia tomista, considerate in sé o in rapporto con la fenomenologia, oppure ancora qualcos’altro. 1
Mentre Przywara, da parte sua, racconta :
Così, ci accordammo rapidamente : non solo sulla forma dell’edizione di Newman, ma anche sul prosieguo del lavoro filosofico di Edith Stein, per il quale ella desiderava un mio consiglio. Decidemmo per una traduzione e commento della pressoché sconosciuta e vasta Quaestio disputata de veritate di Tommaso d’Aquino. L’opera, che successivamente purtroppo uscì solo presso un piccolo editore (poiché la casa editrice cattolica la cui grandezza, invece, era corrispondentemente adeguata, non ne volle sapere !), diede un duplice risultato : - Da un lato Edith Stein tentò di porre l’una di fronte all’altra la fenomenologia di Ed. Husserl e la filosofia e la teologia di Tommaso d’Aquino ; e in anni successivi trattò il tema in modo più esplicito in un colloquio anche letterariamente significativo tra E. Husserl e Tommaso d’Aquino, scritto per il volume commemorativo per Ed. Husserl (ma che poi per volontà di Heidegger dovette purtroppo essere trasformato in un cosiddetto articolo neutrale). Questo confronto decisivo per tutto il pensiero moderno ha altresì preso forma, successivamente, nel suo ultimo grande lavoro sistematico redatto nel Carmelo. – Per altro verso, l’esito di questo confronto venne per così dire a manifestarsi nel fatto che Martin Grabmann, il grande storico della scolastica, scrisse la prefazione alla traduzione della Quaestio disputata de veritate, con la chiara consapevolezza che Edith Stein fu la prima a realizzare quello che era lo scopo primario del lavoro del gruppo di ricerca Ehrle – Denifle – Bäumker – Grabmann : confrontare tutta la profondità della scolastica classica con la vita intellettuale attuale. In ciò Edith Stein rappresenta davvero il completamento dell’opera svolta da Maréchal nei lavori in cui ha genialmente gettato un ponte tra Kant e Hegel da un lato e Tommaso d’Aquino dall’altro. 2
L’avvicinamento di Stein al testo di Tommaso, tuttavia, non deve essere stato facile. Gli accenni steiniani citati, in cui si evince l’incertezza per l’esito di uno studio che, inizialmente, non sa nemmeno che forma specifica prenderà (uno studio di confronto analitico o una traduzione), sono testimoniati in modo ancora più evidente da questo passaggio, tratto dal manoscritto della traduzione della prima quaestio :
Se si proviene dalla moderna teoria della conoscenza è straordinariamente difficile raggiungere anche solo una semplice comprensione della teoria della conoscenza di Tommaso, per non parlare poi di una sua possibile valutazione critica. Le domande che sono centrali per uno studioso moderno di teoria della conoscenza – ad esempio la questione fenomenologica « che cos’è la conoscenza secondo la sua essenza ? » oppure quella kantiana « come è possibile la conoscenza ? » – non sono poste ex professo, ma si deve faticosamente cercare di recuperare una risposta a partire da osservazioni slegate tra loro – e non si sa nemmeno se una risposta in generale sia possibile. Per altro verso vengono trattate delle cose che giacciono completamente al di fuori dell’oriz
1
BI, ESGA 4, p. 158. Di J. H. Newman, e proprio su impulso di Przywara, che come vedremo in quel periodo si stava interessando a questo pensatore, Stein tradusse il testo L’idea dell’università, oltre a lettere e diari (cfr. ESGA 21 e 22). 2 E. Przywara, Edith Stein. Zu ihrem zehnten Todestag, in Id., In und Gegen. Stellungnahmen zur Zeit, Nürnberg, Glock und Lutz, 1955, p. 63. Cfr. anche Id., Edith Stein und Simone Weil – Zwei philosophische Grundmotive, in W. Herbstrith, Edith Stein. Eine grosse Glaubenszeugin. Leben. Neue Dokumente. Philosophie, Annweiler, Thomas Plöger, 1986, pp. 231-247. Sulla descrizione di Stein da parte di Przywara cfr. K.-H. Wiesemann, Edith Stein im Spiegel des Denkwegs Erich Przywaras, in B. Beckmann u. H.-B. Gerl-Falkovitz (a cura di), Edith Stein. Themen, Bezüge, Dokumente, Königshausen u. Neumann, 2003, pp. 189-200.
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capitolo i
zonte della filosofia moderna e che a prima vista sono irrilevanti […] . Credo tuttavia che non ci si debba accontentare di ciò. Se c’è anche solo un nucleo di verità da entrambe le parti, allora devono esserci anche dei ponti. Certo dobbiamo seguire le vie del santo se vogliamo ottenere qualcosa da lui rispetto al nostro problema. Ma non possiamo perdere di vista proprio lo scopo. Dobbiamo cercare di scoprire se in ciò che troviamo in lui si possa rinvenire una risposta alle nostre domande – oppure dei motivi per un abbandono della questione moderna. Così, tutte le Quaestiones saranno attraversate dal filo conduttore : che cos’è la conoscenza ? 1
La questione della teoria della conoscenza, formulata in un modo che richiama chiaramente l’impostazione fenomenologica, ed in particolare ovviamente la fenomenologia delle Ricerche logiche, ossia la ricerca dell’essenza, è l’interesse che, secondo quanto già si accennava, sembra muovere Stein ad affrontare questo testo di Tommaso. Il confronto con i moderni e con la fenomenologia deve avvenire su tale terreno. Ma non sono solo ragioni di provenienza teorica o di contesto a rendere particolarmente significativo il lavoro di Stein, ma anche motivi formali e contenutistici interni al testo stesso. Lo scopo di fondo, abbiamo detto, è quello di aprire un varco alla conoscenza del maestro scolastico a tutti coloro che, come lei, avevano avuto una formazione orientata principalmente alla filosofia moderna. Ma l’opera appare ardua, così che Stein abbandona presto l’idea di elaborare un saggio di confronto e si rivolge ad una traduzione, compito apparentemente più abbordabile o comunque terreno più sicuro da cui prendere le mosse. Il primo problema che si presenta, allora, è di tipo linguistico. Il passaggio storico dal pensiero scolastico al pensiero moderno si è caratterizzato anche come un processo di traduzione del lessico tecnico dal latino alle lingue volgari ; ed ovviamente ciò non è avvenuto senza conseguenze teoriche. 2 Se quindi il lavoro steiniano si pone programmaticamente come un “ponte” tra scolastica e modernità, il più fondamentale ambito in cui si può misurare il senso della sua impresa è proprio questo. L’analisi dei manoscritti della traduzione delle Quaestiones disputatae de veritate è in grado di testimoniare come nel tempo si sia registrato un affinamento delle sue scelte linguistiche ; 3 e più in generale si può osservare come Stein, superato lo straniamento iniziale, acquisisca una sensibilità linguistica ed un’accuratezza sempre maggiore, sino a definire un lessico molto elaborato, di cui si può trovare riscontro sia nell’Indice appunto lessicografico che viene pubblicato in appendice alla traduzione, 4 sia nelle successive opere di resa in tedesco del latino di Tommaso, su tutte il De ente et essentia. 5 Ma al di là delle scelte concrete di traduzione è interessante rilevare come Stein maturi anche una riflessione di principio sul compito e il ruolo delle traduzioni, di cui si trova una ricaduta esplicita in Essere finito ed essere eterno, che dedica proprio alle Difficoltà dell’espressione linguistica un paragrafo introduttivo, in cui si manifesta piena consapevolezza dell’equivocità del lessico metafisico, in cui si sedimentano, tra le altre, la tradizione greca, latina e tedesca. 6 Abbiamo detto delle difficoltà di Stein nell’avvicinamento ad un mondo intellettuale lontano da quello in cui era stata cresciuta. L’esperienza della traduzione le conferisce quindi la piena coscienza dell’equivocità del linguaggio filosofico, con cui inevitabilmente si deve confrontare ogni trattazione
1
DeV, ESGA 23, p. 3 ss. Cfr. ad esempio T. Gregory, Origini della terminologia filosofica moderna, Firenze, Olschki, 2006. 3 Cfr. A. Speer e F. V. Tommasi, Einleitung a DeV, ESGA 23, pp. lii ss. 4 Cfr. DeV, ESGA 24, pp. 875-918. 5 Cfr. Thomas von Aquin. Über das Seiende und das Wesen, ESGA 26. 6 Cfr. EeS, ESGA 11/12, pp. 15-20. 2
2. I trascendentali e l’analogia dell’ente 25
analogia dell ’ ente
metafisica o filosofica in generale che pretenda di avere a che fare con « le cose stesse ». La sua opera, d’altronde, si inscrive in un dibattito molto vivace, all’epoca, relativo all’utilizzo del tedesco e alla opportunità di “germanizzare” i termini la cui origine non fosse puramente tedesca. 1 Proprio con una metafora che fa riferimento alla questione linguistica, d’altronde, Stein descrive il più ampio problema del confronto tra pensiero moderno e scolastico.
Si giunse quindi alla divisione della filosofia in due eserciti, che marciavano separati, parlavano lingue diverse e non si sforzavano più di comprendersi reciprocamente : la filosofia moderna e la filosofia scolastica cattolica, che considerava se stessa la philosophia perennis, ma che era considerata da coloro che le erano estranei come una mera occupazione privata di facoltà teologica, seminari per sacerdoti o scuole di ordini religiosi. 2
Inoltre, la traduzione steiniana modifica la struttura dello scritto in modo che, perdendosi la tipica forma scolastica delle quaestiones, si abbia piuttosto un trattato moderno, ossia un testo unitario e non suddiviso schematicamente nell’esposizione degli argomenti della tesi opposta, nella presa di posizione e poi nella risposta alle obiezioni. 3 Questi fattori, che ad una coscienza filologica attuale potrebbero generare scetticismo, corrispondono da un lato al grado di sviluppo dello studio dei testi e della tradizione dell’epoca, nonché all’impostazione, tipica del motivo ispiratore principale della neoscolastica in genere e anche di quello steiniano nello specifico, per cui il significato del testo e la dottrina di Tommaso costituivano l’interesse primario. Non a caso la sua opera, che costituiva sicuramente un contributo innovativo e pionieristico, oltre ad essere la prima traduzione tedesca di quel testo di Tommaso venne ampiamente lodata, come si iniziava ad accennare, non solo da studiosi con un forte interesse speculativo, quali Przywara, ma anche da storici e filologi come il già citato Grabmann. 4 Per altro verso, la riorganizzazione (e la selezione di passi, perché la traduzione, pur essendo molto ampia, non è completa) operata da Stein sul testo permette anche di cogliere snodi concettuali molto interessanti e di mettere in luce strutture ed elementi di tensione interni al testo dell’Aquinate che una lettura più neutra invece farebbe trasparire con maggiore difficoltà. Infine, e questo forse è l’elemento per noi più importante, Stein interviene nel testo stesso, affiancando alla traduzione alcuni commenti. Ogni quaestio termina con un riassunto dai forti tratti interpretativi, ma anche la vera e propria traduzione è intervallata talora da incursioni steiniane, riconoscibili perché stampate in corsivo. 2. I trascendentali e l’analogia dell’ente Un esempio lampante è la trasposizione del densissimo primo articolo della prima questione di Tommaso. In esso si prende in considerazione la dottrina dei trascendentali. L’analisi di questo tema è introdotta nell’Aquinate dalla domanda quid est veritas 1 Cfr. F. V. Tommasi, Die Frage der « Verdeutschung » in den latein-deutschen Übersetzungen des Thomas von Aquin um die Zeit Edith Steins, di prossima pubblicazione in M. Lebech e J. H. Gurmin (a cura di), Edith Stein. 2 Intersubjectivity, Humanity and Being, Nordhausen, Traugott Bautz. EeS, ESGA 11/12, p. 13. 3 Cfr. A. Speer e F. V. Tommasi, Einleitung a DeV, ESGA 23, pp. xlvii ss. Significativamente tale processo per cui le quaestiones vengono sistematizzate si registra storicamente già agli albori della cosidetta modernità, soprattutto nelle scuole gesuitiche. Cfr. C. H. Lohr, Latin Aristotle Commentaries, Introduction, pp. xiv-xv, Firenze, Olschki, 1988. 4 Cfr. A. Speer e F. V. Tommasi, Einleitung a DeV, ESGA 23, pp. lxvii ss.
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(was ist Wahrheit). Dopo aver elencato una serie di idee e di auctoritates che farebbero propendere per la tesi della coincidenza tra ens e verum (verum est id quod est secondo Agostino), 1 e di converso alcuni sed contra, Tommaso risponde con un testo di rara intensità speculativa. In queste righe, ed in modo particolare grazie alla lettura che ne dà Stein, può emergere con evidenza la centralità della questione della comprensione analogica dell’ente nell’impalcatura metafisica di Tommaso in generale. Soprattutto, la lettura steiniana lascia trasparire una circolarità tra « ente » e « vero », rintracciata nella contrapposizione tra essere e conoscenza, che, come detto, guida l’avvicinamento di Stein al testo. In questa circolarità, che ritroveremo in certo modo già anche nella disamina steiniana della questione del rapporto tra idealismo e realismo, si può a nostro giudizio rinvenire un motivo ispiratore centrale della riformulazione dell’analogia in termini di analogia della persona. Ma occorre procedere con ordine. Come si iniziava a dire, nel primo articolo della prima quaestio di quest’opera, Tommaso d’Aquino sviluppa la trattazione delle nozioni che la tradizione medievale definisce usualmente come prima e communissima e che successivamente saranno registrate dalla tradizione filosofica come trascendentali. Si tratta di quelle nozioni che, trascendendo le categorie aristoteliche, sono predicabili di tutto e perciò sono altresì fondamentali per la metafisica. Sono appunto i termini primi, predicabili universalmente. La dottrina dei trascendentali costituisce un elemento fondamentale della impostazione metafisica di Tommaso e significativamente è messa in rilievo in alcune sue recenti interpretazioni che si segnalano tra le più interessanti ed originali. 2 Come abbiamo potuto mettere in rilevo anche altrove, occupandoci nello specifico della lunga durata della dottrina dei trascendentali e della sua influenza sullo sviluppo del concetto kantiano di « trascendentale », la questione scolastica dei trascendentali è connessa indissolubilmente proprio con il tema dell’analogia : è infatti nella comprensione dell’ente come nozione prima e, al contempo, come nozione che trascende i generi, che si deve necessariamente postulare la sua analogicità. 3 La questione dell’analogia in generale gioca un ruolo centrale nella storia della ricezione del pensiero di Tommaso d’Aquino e di conseguenza anche nell’ambito cosiddetto neoscolastico. Molti sono gli autori e commentatori che l’hanno affrontata, contribuendo ad un dibattito che non sembra accennare a perdere di interesse e che investe sia l’interpretazione del suo peso nel pensiero dell’Aquinate ; 4 sia la sua storia più in generale e il problema teorico in sé. 5 Da quest’ultimo punto di vista l’applicazio
1
Cfr. DeV, ESGA 23, pp. 7 ss. Cfr. soprattutto J. A. Aertsen, Medieval Philosophy and the Trascendentals. The Case of Thomas Aquinas, Leiden-New York-Köln, Brill, 1996. 3 Cfr. F. V. Tommasi, Philosophia transcendentalis. La questione antepredicativa e l’analogia tra la Scolastica e Kant, Firenze, Olschki, 2008. 4 Cfr., tra i testi dedicati strettamente al tema : H. Lyttkens, The Analogy between God and the World. An Investigation of its Background and Interpretation of its Use by Thomas of Aquino, Uppsala, diss., 1952 ; B. Montagnes, La doctrine de l’analogie de l’être d’après Saint Thomas d’Aquin, Louvain, Publicationes Universitaires, 1963 ; R. McInerny, The Logic of Analogy. An Interpretation of St. Thomas, The Hague, M. Nijhoff, 1961 e Id., Aquinas and Analogy, Washington, The Catholic University of America Press, 1996 ; E. Nicoletti, L’analogia in S. Tommaso in G. Casetta (a cura di), Origini e sviluppi dell’analogia. Da Parmenide a S. Tommaso, Roma, ed. Vallombrosa, 1987, pp. 116-175. 5 Da questo punto di vista si tratta di un problema davvero macroscopico. Cfr., solo come orientamento generale, W. Kluxen, art. Analogie, in J. Ritter, K. Gründer e G. Gabriel (a cura di) Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. 1, Basel e Stuttgart, Schwabe & co, 1971, coll. 214-27 ; J. F. Courtine, Inventio analogiae, cit. 2
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ne del termine a problemi differenti, per un verso, o la presenza palese della questione in alcuni ambiti in cui però non si riscontri il termine specifico, complicano notevolmente il quadro. Ma in ogni caso è con riferimento più o meno diretto a Tommaso che deriva molta parte dell’interesse rivolto nella storia del pensiero a questo tema. E da Tommaso, come si è detto, dipende anche l’interesse che vi rivolge Stein. Ma, a testimonianza di come l’analogia sia un tema derivativamente centrale in Tommaso, e cioè rilevante a partire dalle sue interpretazioni, Stein stessa sembra porvi attenzione grazie a Przywara. Va dunque tenuto presente che l’espressione « analogia dell’ente » non è di Tommaso, che nemmeno il termine « trascendentale » si rinviene nell’Aquinate ma è frutto della tradizione successiva, e che anche « analogia » non compare in queste pagine del primo articolo. Fatte salve queste cautele di tipo terminologico, possiamo procedere ad osservare come, avvicinandosi al pensiero scolastico e a quello di Tommaso in particolare, Stein incontra anzitutto proprio il problema della plurivocità dei sensi con cui si predica l’ente, a partire dalla questione dei trascendentali e di quella della verità, e nello snodo tra teoria della conoscenza e metafisica. Tentando di riassumere queste righe, si può dire che l’Aquinate muova, sull’esempio di Avicenna, ponendo un parallelo tra l’ordine della dimostrazione e quello dei concetti, e affermi la necessità per entrambi, secondo la classica impostazione degli Analitici posteriori, di essere ricondotti ad un punto di partenza certo ed indiscutibile. Se il principio di non contraddizione funge a tale scopo per le dimostrazioni, la nozione di ens si pone invece quale fondamento di ogni altro termine, perché è ciò che l’intelletto concepisce primariamente. L’ente è la nozione che è alla base del processo di resolutio di ogni altro concetto, e perciò ha predicabilità universale. Il primato dell’ente nell’ordine della conoscenza non è ovviamente da concepire, secondo l’Aquinate, né in senso temporale, ossia secondo una qualche intuizione originaria, né semplicemente come risultato di una astrazione o di un processo graduale, come avviene per tutte le altre conoscenze : va invece pensato come oggetto dell’intellectus principiorum che raggiunge in modo diretto ed evidente i principi metafisici, e che però si serve al contempo di un movimento di resolutio per arrivare a ciò che è originario. Come l’intelletto che divide e compone ha alla sua base il principio di non contraddizione, così l’intelletto astraente i concetti si fonda sulla nozione di ens. Tra i due principi, il secondo qui menzionato, che regola anche la funzione più originaria dell’intelletto (quella giudicante è infatti secondaria rispetto a quella astraente), ha il ruolo primario. Anche il principio di non contraddizione, allora, rimanda in ultima istanza alla nozione di ente. Per questo il suo carattere di primato e di predicabilità universale, e qui si arriva subito al cuore della cosiddetta trascendentalità della nozione, l’ente non può essere concepito come un genere :
Perciò [ossia dal fatto che l’ente sia la nozione primaria] è opportuno che tutti gli altri concetti dell’intelletto vengano desunti da qualche cosa che si aggiunge all’ente (ex additione ad ens). Ma all’ente non può essere aggiunto qualcosa come una natura estranea nel modo in cui la differenza si aggiunge al genere o l’accidente al soggetto, perché qualsivoglia natura è essenzialmente un ente ; di conseguenza anche il Filosofo nel III libro della Metafisica sostiene che l’ente non può essere un genere, ma di alcune cose si dice che si aggiungano all’ente, perché esprimono un suo modo, che non viene invece espresso dal nome di ente. 1
1 Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, i, 1, resp. (in Opera omnia, voll. 22/1-3, Roma, Commissio Leonina, 1970-1976).
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Questa espressione di modi dell’ente può avvenire secondo Tommaso in due direzioni : secondo una prima si tratta di « un qualche speciale modo dell’ente » (aliquis specialis modus entis) cioè la sostanza, che indica un ente per sé, e le altre categorie, che tutte indicano solo un ambito speciale dell’ente ; secondo una seconda direzione, poi, « così che il modo espresso sia un modo che consegue generalmente ad ogni ente » (ita quod modus expressus sit modus generaliter consequens omne ens). 1 La seconda direzione di dispiegamento del significato di ente è quella propria appunto dei cosiddetti trascendentali. Si tratta di modi che conseguono ad ogni ente, dunque di termini che, come l’ente, possiedono predicabilità universale, e, in virtù di tale carattere, non costituiscono un genere, che è invece appunto solo una sezione di realtà. In una articolata distinzione, Tommaso divide poi questo secondo gruppo in nozioni che appartengono all’ente in sé, secondo ciò che esso esprime di affermativo e di negativo (e queste sarebbero res e unum), e quelle che invece si riferiscono all’ordine di una cosa rispetto ad un’altra : le seconde a loro volta si specificano in nozioni che esprimono la divisione di un ente dagli altri (aliquid) e nozioni che invece denotano la sua « convenienza » con altro. Queste ultime possono manifestare tale convenientia grazie all’anima (quae quodammodo est omnia, come notoriamente affermato nel iii capitolo del De anima). In riferimento allora alla sua facoltà appetitiva l’unione con l’ens è detta bonum, mentre in riferimento a quella cognitiva è detta verum.
Il convenire dell’ente con l’intelletto è espresso dal nome di « vero » […] e questo è dunque ciò che il vero aggiunge all’ente, ossia la conformità o l’adeguazione della cosa e dell’intelletto ; e a tale conformità segue […] la conoscenza della cosa. Così dunque l’entità della cosa precede il senso della verità (rationem veritatis), ma la conoscenza è un certo effetto della verità. 2
In base a queste osservazioni Tommaso conclude il suo respondeo dando una triplice definizione di verità : egli riprende anzitutto il verum est id quod est agostiniano che aveva aperto la trattazione, e in cui si esprime secondo lui il fondamento di ciò che è vero, ossia il rimando imprescindibile all’essere, espresso appunto nella nozione primaria di ens. Fa riferimento poi in un secondo senso a ciò che la nozione di verità porta a compimento da un punto di vista formale, ossia la suddetta conformità, da cui sorge la nota definizione di adaequatio rei et intellectus. In una terza accezione infine la verità può essere intesa per Tommaso secondo il suo effetto conseguente, ossia la conoscenza, come sostengono Ilario di Poitiers (verum est declarativum et manifestativum esse) e Agostino (veritas est qua ostenditur id quod est). E infatti l’Aquinate aveva sostenuto, come si è detto, che da un lato l’entità della cosa precede la verità (« il senso » della verità, secondo la traduzione che abbiamo improvvisato di ratio, cercando una via intermedia tra il significato troppo gnoseologico di « concetto » e quello troppo ontologico di « natura » : il termine ratio, d’altronde, presenta problemi di traduzione non indifferenti anche a Stein) ; 3 dall’altro lato però la conoscenza è una conseguenza, un effetto della verità stessa. Tommaso scompone dunque i diversi significati della nozione di verum, e ne mette in
1
2 Cfr. ibidem. Ibidem. Il termine ratio, solo per fare un esempio, viene tradotto da Stein, nel passaggio appena citato, con Idee (cfr. DeV, ESGA 23, p. 9 ; ma l’apparato critico del volume permettte di osservare come nel manoscritto il termine fosse stato tradotto prima con Wesen e poi con Begriff, ossia « essenza » e « concetto ») ; nella sua traduzione (Thomas von Aquin, Von der Wahrheit, Q. 1, Lateinisch-Deutsch, Hamburg, Meiner, 1986), A. Zimmermann opta invece per Begriff. La plurivocità dei modi con cui Stein traduce ratio è osservabile nell’indice lessicografico : cfr. DeV, ESGA 24, pp. 909-910. 3
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luce i rapporti con l’ente e con la conoscenza. Il vero è ancorato e fondato nell’essere, può costituirsi però solo grazie all’intervento dell’anima e ha come sua conseguenza la conoscenza : questa la tesi centrale. Il lavoro steiniano presenta detta tesi direttamente in apertura, traducendo immediatamente il respondeo. Il suo testo riproduce anzitutto fedelmente l’esposizione tommasiana. Subito dopo, senza alcuna cesura evidente da un punto di vista grafico (non c’è divisione in paragrafi o altro), Stein prende in considerazione le risposte che il pensatore scolastico dà ad alcuni degli argomenti iniziali che sostenevano la tesi dell’equiparazione tra verum e id quod est, dunque tra vero ed ente. Già nella scelta di tali argomenti e risposte, probabilmente mossa da proprie urgenze teoriche, Stein guida il lettore in un percorso che sfocerà nelle righe finali dell’articolo in cui la traduttrice si riserva lo spazio per presentare in corsivo un riassunto di ciò che si è trattato : tale esposizione, come mostreremo nel dettaglio, costituisce però al contempo anche un significativo commento. Prima di seguire nel dettaglio Stein, e come introduzione all’orizzonte di questioni che risulterà centrale, possiamo già ora sottolineare come il problema teorico principale nel trattare della definizione che Tommaso dà qui del « vero », in rapporto all’« ente », consista nel tentativo di tenere assieme la assoluta convertibilità delle due nozioni senza però lasciare che esse vengano a coincidere concettualmente (ossia nella definizione) e dunque vengano ad essere sinonimi. Si tratta appunto di concepire il carattere trascendentale di questi termini. Tale carattere, nella necessità di assoluta convertibilità e di contemporanea distinzione, viene ad essere tutt’uno con il loro significato analogico. Due nozioni assolutamente univoche non sono infatti distinguibili, ma due nozioni equivoche, da parte loro, non hanno assoluta identità di predicabilità. Per quanto riguarda poi nello specifico l’ente ed il vero, se i due termini coincidessero concettualmente – e qui è il cuore della questione nella lettura steiniana, come si vedrà – non vi sarebbe più possibilità di distinguere il pensiero dall’essere. Allo stesso modo, ed esprimendo altrimenti la stessa situazione, dato che ente e vero si predicano di tutto, se essi fossero riducibili ad un genere, tutto verrebbe solo a costituire parte di questo genere, senza più possibilità di differenze reali tra gli enti ; l’ente avrebbe una definizione rigidamente e assolutamente univoca attribuibile ad ogni cosa (persino a Dio, e non a caso il problema dell’analogia si manifesta anche e forse anzitutto come problema delle predicabilità di attributi in ambito teologico, come vedremo anche in Stein) : tutto risulterebbe concettualmente coincidente. La necessità di distinguere nell’ordine dei concetti (ratione, o, nella traduzione di Stein, der Idee nach) ente e vero si radica ancora più profondamente, e in certo modo corrisponde, alla necessità che la nozione stessa di ente non sia univoca e dunque di evitare il monismo. Si vedrà quindi come la lettura steiniana conduca alla messa in evidenza di una distinzione irriducibile e di una contemporanea comunicabilità tra piano del pensiero e piano dell’essere, e si descriveranno le tensioni che, secondo una necessaria ma al contempo difficile sostenibilità teorica, si nascondono in essa. Vedremo inoltre come le questioni tommasiane del trascendentale e dell’analogia, già sin d’ora emerse come strettamente unite tra loro, si possano, e anzi forse si debbano leggere quali originariamente radicate in queste tensioni ; quali radicate cioè nel rapporto tra essere e pensiero, nel problema della verità. Ma procediamo più analiticamente. Dopo aver aperto il testo con la traduzione del respondeo di Tommaso, Stein prende in considerazione le risposte ad alcune obiezioni, a cominciare dal terzo argomento che l’Aquinate presentava a supporto dell’identità assoluta tra verum e ens. Tutte le cose
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che sono identiche concettualmente non possono essere concepite separatamente, e infatti l’ente non può essere pensato senza che con esso venga concepito direttamente anche il vero. Ma il fatto che qualcosa possa essere conosciuta senza un’altra può essere compreso in un duplice senso. Da un lato, nel senso che una viene conosciuta senza che si conosca l’altra – e così quelle cose che sono diverse secondo il loro contenuto di senso (ratione, Bedeutungsgehalt nella traduzione di Stein) sono tali per cui l’una può essere compresa senza l’altra. Dall’altro lato, invece, l’essere conosciuto dell’una cosa senza l’altra può essere compreso così, che l’una viene conosciuta senza che l’altra esista ; e in questo senso l’ente non può essere conosciuto senza corrispondere allo spirito che conosce o che gli si adegui. 1
Ente e vero non hanno la stessa ratio, l’intensione dei due termini è diversa, pur essendo invece uguale l’estensione, vale a dire la loro universale predicabilità. Il fatto che le due nozioni non possano essere pensate in modo indipendente, significa allora qualcosa di diverso : l’ente non può essere concepito senza l’« esistenza » del vero. Ogni volta che si conosce qualcosa in modo corretto, infatti, tale sapere è qualcosa di vero. Non si dà conoscenza dell’ente senza « conoscenza ». La conoscenza dell’ente quindi implica necessariamente, « sempre già » verrebbe da dire con espressione cara alla fenomenologia o, ancora, « trascendentalmente » (nel senso di inevitabilmente), il vero. Tommaso dunque risponde all’obiezione distinguendo tra concetti ed essere. Che statuto d’« essere » però possiede la nozione di verum ? In che senso e fino a che punto si può concepire qualcosa come il suo essere indipendentemente dal suo concetto ? E dunque, di conseguenza e viceversa, fino a che punto lo stesso ens può essere concepito senza ridursi ad un concetto, ossia al di fuori dell’intelletto con cui deve corrispondere e nel cui ambito si trova sempre già ? Tommaso cerca di mantenere rigorosamente il primato dell’ente nel processo conoscitivo, sostiene però al contempo la sua assoluta convertibilità con la nozione di verum. In che misura si può mantenere questa situazione peculiare in cui due nozioni sono assolutamente convertibili, una delle due però possiede al contempo un primato ? Stein procede poi con la presentazione della risposta di Tommaso ad quartum : se il vero non coincide concettualmente con l’ente, si chiedeva il filosofo, deve essere una sua disposizione (dispositivo, Disposition). Ma ens e verum hanno sempre le stesse disposizioni, dunque devono essere omnino idem. La risposta riposa anche qui su una sottile differenziazione, in base alla quale l’Aquinate sostiene che il vero è sì una disposizione dell’ente, ma non nel modo di una qualità, altrimenti i due non sarebbero convertibili e l’ente sarebbe sovraordinato al vero così come la sostanza lo è rispetto alle altre categorie ; esso esprime qualcosa che si trova in ogni ente, ma non è contenuto dal senso del termine ente : è una disposizione nel senso di un ordine (secundum quod importat quemdam ordinem). 2 Riassumendo Tommaso, che partiva dall’osservazione delle cause (e per cui ciò che più è causa di altri enti è massimamente ente, e ciò che più è causa di verità è massimamente vero), Stein presenta poi la risposta successiva (ad quintum) nella quale si sostiene che laddove si trova l’ente in massimo grado, allo stesso tempo è da trovarsi anche il vero in massimo grado e così via, secondo un ordine simmetrico. Tale ordine però non è dato, e qui si ribadisce la soluzione precedente nonché la tesi centrale, dalla convenienza concettuale delle due nozioni (che non sono ratione idem, non possiedono,
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Cfr. DeV, ESGA 23, p. 10.
2
Cfr. DeV, ESGA 23, pp. 10-11.
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secondo la traduzione che Stein utilizza questa volta, begriffliche Übereinstimmung), ma dal fatto che un qualcosa, nella misura in cui possiede entità (ex hoc quod aliquid habet de entitate), ossia nella misura del proprio grado di essere, è predisposto (natus est, ist geschaffen) a corrispondere all’intelletto. In questo modo la nozione di vero segue quella di ente (ratio veri sequitur rationem entis, der Idee nach folgt das Wahre dem Seienden). 1 Ancora una volta Stein può leggere qui in Tommaso una riaffermazione del primato assoluto dell’ente e la contemporanea completa convertibilità con esso del vero. Le due affermazioni (primato assoluto e completa convertibilità) sono compossibili, si ripete, perché tra le due nozioni in questione non c’è identità concettuale, ossia non si tratta di sinonimi in senso stretto. Non c’è univocità. Ma nemmeno si tratta di due nozioni irrelate, con due definizioni solo diverse, dunque di termini equivoci. Il passo in avanti che ora si guadagna nella spiegazione di tale difficile situazione è dato dalla ripresa dell’origine del vero dall’attività dell’intelletto, elemento che era stato introdotto nel respondeo. L’intelletto costituisce per così dire il perno attraverso cui l’ente, principio fondamentale e insostituibile, entra nell’ambito della filosofia e viene subito a costituire il vero, originando infine la conoscenza. Ens e verum sono allora in certo modo inseparabili, ma non sono assolutamente identici. Stein prende infine in considerazione le risposte di Tommaso alle obiezioni sesta e settima, in cui si affrontavano definitivamente il problema di cosa apporti il vero all’ente, e le domande se le due nozioni siano differenti e se la seconda possa precedere la prima. Non si ha infatti tra esse, manifestamente, una diversità per essentiam, né data da qualche altra differenza. Nell’ad sextum Tommaso sostiene per la prima volta che nella ratione di vero ci sia qualcosa in più che in quella di ente, ma non viceversa. L’affermazione sbilancia il suo discorso, che sinora aveva mantenuto ferma la convertibilità totale, ma è sostenibile proprio sulla base del fatto che non si trattava di una identità di definizione. E, non a caso, l’affermazione sbilancia il discorso in modo simmetrico rispetto all’altra apparente incongruenza segnalata precedentemente, ossia l’anteriorità della nozione di ente. 2 L’equilibrio, però, lo si deve ripetere, è difficile, tant’è che Tommaso inizia l’ad septimum, ossia la risposta all’ultima obiezione, affermando ancora una volta che : « il vero non è presente in più cose rispetto all’ente ». Se il vero infatti si predica anche del nonente, ossia anche di negazioni e privazioni, l’ente stesso, « compreso in un certo senso, si predica del non ente » ; e ciò « nella misura in cui il non ente è conosciuto dall’intelletto ». Tommaso conclude allora sostenendo che : « da ciò risulta evidente che ogni vero è in qualche modo un ente (ex quo patet quod omne verum est aliquo modo ens) ». 3 La tensione è chiaramente tutta contenuta in quell’aliquo modo. La traduttrice interviene allora personalmente subito dopo la conclusione della risposta ad sextum, dove Tommaso aveva sostenuto che il vero aggiunge concettualmente qualcosa all’ente, e che però le due nozioni al contempo non si distinguono né per essenza, né secondo qualche altra differenza. Utilizzando come dicevamo il corsivo, a rimarcare le parti di testo in cui si abbandona momentaneamente l’opera di traduzione per riassumere o comunque cercare di facilitare la comprensione al lettore, Stein afferma : « Il vero non aggiunge quindi nulla di materiale all’ente » ; 4 e introducendo la risposta ad septimum procede :
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3
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Cfr. DeV, ESGA 23, p. 11. DeV, ESGA 23, p. 11.
Cfr. DeV, ESGA 23, p. 11. DeV, ESGA 23, p. 11.
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E anche formalmente – o secondo l’ambito di essere (dem Seinsbereich nach), l’ente può essere compreso in senso così ampio che comprende assieme il vero e il non ente. 1
Ciò perché, come detto, il vero si predica anche di negazioni e privazioni, che, in questo senso, sono in certo modo un ente. Anche il non-ente infatti, era giunto a sostenere Tommaso, è un ente ; però, e ciò è decisivo, appunto aliquo modo. Così, il primo articolo si conclude con queste righe di bilancio steiniano :
Qui viene dunque distinto un duplice concetto di essere. L’ente viene anzitutto preso – contro l’utilizzo che se ne è fatto sinora – come ciò che è oggetto della conoscenza. Ciò si può applicare però anche al non ente (concepito come tale rispetto al senso con cui l’ente è stato compreso sinora) e al vero in quanto tale, ossia in ciò che lo differenzia dall’ente (nel senso con cui si è inteso sinora). L’ente nel senso con cui si è inteso sinora è ciò che possiede una propria consistenza di essere (Seinsbestand) o una propria essenza (Wesen) (essentia) ; e ciò manca sia al non ente che al vero. Il non ente è ciò che non ha consistenza d’essere, mentre il vero ha una consistenza d’essere, tuttavia non in quanto vero, ma come ente. All’ente in questo senso pertiene il poter essere conosciuto (Erkanntwerdenkönnen), ma gli è secondario. Per l’ente inteso invece nell’altro senso, essere ed essere conosciuto coincidono. Parleremo invece altrove di come vada compresa la conoscenza del non ente. 2
Il passaggio è significativamente, ed in tutti i sensi, impregnato di equivocità e perciò di non immediata comprensibilità. Stein legge dunque in Tommaso una distinzione tra due modi di intendere l’ens : uno secondo l’accezione più immediata e da cui il testo ha anche preso le mosse, ossia come indicante qualcosa di realmente esistente, o meglio, come qualcosa che ha una consistenza di essere ; l’altra invece in senso astratto e formale, e dunque secondo un significato capace di accogliere anche le negazioni e di riassumere in sé persino il proprio contrario (non ens). L’ente è quindi una nozione che si predica in sensi diversi e non è un concetto rigidamente univoco. Tuttavia pare mantenere una qualche forma di unità di significato alla base. L’unità linguistica posseduta dall’ente sembra essere la prova più evidente del suo significato analogico, piuttosto che equivoco, e se dietro all’utilizzo del termine di ente nei suoi diversi significati sembra potersi celare un senso minimamente unitario, questa impressione si fa sempre più debole laddove il termine ente pare predicabile anche del suo contraddittorio, ossia del non ente. Appare perciò necessario, nella comprensione tommasiana, pensare il rapporto tra ente e vero in modo paradossale, secondo l’impossibilità di concepire uno dei due elementi come originario e secondo la contemporanea inevitabilità di dover considerare l’ente come anteriore. Non a caso il vero viene descritto da Tommaso sia come un elemento in certo modo indipendente (uno dei trascendentali), sia come una relazione (tra ente ed intelletto). La questione descritta si esplicita nella tensione tra il tentativo di comprendere l’ente come un qualcosa che ha un fondamento unitario e accomunante tutto (e questa sarebbe la sua comprensione quale genere, quale communissimum), ma che al contempo lascia intatta la differenza reale e incolmabile tra le diverse sostanze (perché non è riducibile ad una categoria, ma è primum). Se l’ente fosse riducibile ad un genere, se le sostanze dunque fossero riassorbibili in una definizione unitaria, tutto verrebbe solo ad essere parte dell’ente, ed esso sarebbe invece concepito in modo strettamente univocante. È in questo senso che si può dire che l’analogia dell’ente sia
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DeV, ESGA 23, p. 11.
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DeV, ESGA 23, p. 12.
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in Tommaso non solo un aspetto marginale della metafisica o un metodo estrinseco per la conoscenza di Dio, ma la costituzione metafisica stessa intrinseca all’essere e l’espressione della sua trascendentalità : vi è partecipazione universale all’essere, ma in una maniera che tiene radicalmente ferme le differenze reali e perciò irriducibili tra le sostanze. Specularmente a quanto detto in termini metafisici, la questione dell’analogia è anche la possibilità da parte dell’intelletto umano di porre in certo modo un proprio ordine nella realtà, di dover però in fondo adeguarsi, nel porre tale ordine, a ciò che la realtà è, prima ed al di là di ogni pensiero. Tale situazione viene alla luce pienamente nella questione del vero, in cui si originano i diversi significati di ente. Senza il rapporto tra intelletto e realtà non vi sarebbe überhaupt questa comprensione articolata dell’ente, perché non vi sarebbe affatto comprensione o pensiero dell’ente, e quindi la possibilità di ricercarne un senso. La tensione, in Tommaso, sembra essere tra l’immediatezza con cui la nozione di ente, nella sua attualità, si deve dare all’intelletto (che è in certo modo radicalmente passivo nei suoi confronti e lo coglie come principio fondante della filosofia), e il fatto che però l’ente è anche risultato di un operare dell’intelletto stesso, di una risalita a ciò che è più semplice e universale nell’ordine dei concetti, in certo modo di una « costituzione ». Che il conoscere avvenga per Tommaso proprio grazie alla doppia capacità dell’anima di essere assieme agente e possibile, non è probabilmente che la riprova di tale situazione. L’ente pensato è considerato da Tommaso specchio fedele dell’essere, ma non con esso coincidente. Si potrebbe dire, per spiegare tale concezione, che l’intelletto in certo modo torna sull’ente reale e si riapre ad esso una volta che lo ha pensato e dunque categorizzato, anche se non si tratta qui di due movimenti separati, ma piuttosto, ancora, di tenere assieme l’attività e la passività. L’anima ha dunque, per così dire, un potere di intervento sulla realtà non pensata, costituendo il verum ; esso però a sua volta deve essere riferito di nuovo alla realtà stessa (altrimenti non avrebbe criterio di comparazione e dunque non ci sarebbe possibilità di definire appunto qualcosa come vero, ma tutto verrebbe ad essere una mera rappresentazione). Tra ente reale e ente pensato c’è dunque un ponte, costituito dall’attività intellettiva. 1 Vedremo quindi presto, nel prossimo paragrafo, come Stein, cresciuta nel dibattito fenomenologico tra realismo e idealismo, possa rinvenire in queste righe echi molto significativi di problemi con i quali si era già confrontata ed in particolare della questione della costituzione. Prima di passare però all’analisi specifica proprio di quel retroterra, vogliamo sottolineare rapidamente un ulteriore elemento che probabilmente gioca un ruolo importante nella successiva riflessione steiniana su questi temi : la circolarità del rapporto tra ente ed intelletto sembra sostenibile solo grazie al ruolo di Dio, che fonda nell’ente ciò che esso possiede di assolutezza cui l’intelletto deve adeguarsi : e difatti la verità esisterebbe, sostiene Tommaso nel secondo articolo, anche senza la presenza dell’intelletto umano, perché garantita dal creatore. L’esistenza di Dio stesso quale atto puro d’essere
1 Naturalmente, secondo Tommaso, qualcosa è buono o vero non perché l’anima vi tenda, ma viceversa, l’anima vi tende perché è buono o vero : il problema teorico che qui si vuole iniziare a far rimarcare è però se tale situazione non presenti forti possibilità di convertirsi immediatamente nel suo contrario. Significative al proposito sono espressioni dello stesso Tommaso nella Summa theologiae : sensibile in actu est sensus in actu o intelligibile in actu est intellectus in actu (S. Th., i, 14, 2). Nel terzo articolo del De veritate, inoltre, anziché di adaequatio rei et intellectus si parla di comparatio entis ad intellectum e si sostiene che l’intelletto format quidditates rerum (cfr. i, 3, 3).
3. Tra idealismo e realismo 34
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però è guadagnata filosoficamente da Tommaso sulla base della compresenza nella nozione di ente di un senso secondo il quale esso è meramente esistente, e di un senso per cui tale esistenza, che realizza l’essenza stessa attualizzandola, è una perfezione : e questi erano proprio anche gli elementi che costituivano i termini di riferimento del movimento dell’intelletto nella ricerca del vero. Dal fatto che nessun ente, pur avendo tale perfezione dell’esistenza, la possieda in modo assoluto, ossia per essenza, si dimostra infatti secondo l’Aquinate l’esistenza di Dio, ipsum esse subsistens. Il significato equivoco dell’ente (che è anche perfezione) sembra perciò sostenibile grazie alla presenza del creatore, ottenuta da un punto di vista teorico a sua volta grazie proprio all’equivocità dell’ente stesso. La presupposizione di Dio sembra necessaria per il guadagno pieno della trascendentalità e dell’analogia, per il mantenimento del difficile equilibrio ; ma a livello filosofico si giunge all’esistenza di Dio proprio a partire dall’equivocità dell’essere. Non è un caso comunque che una ulteriore circolarità emerga ancora nel secondo articolo di questa prima questione, laddove Tommaso definisce significativamente l’intelletto come il luogo proprio della verità. Sulla base della eminenza attribuita alla causalità finale, l’Aquinate conclude infatti che il fine del processo conoscitivo risiede nell’intelletto. Un ritorno alle cose, allora, è garantito solo dall’attività pratica, che trova appunto negli enti, sotto la forma del bonum, lo scopo finale del proprio tendere. L’Aquinate fa espresso riferimento qui alla citata circolarità aristotelica del De anima. Il problema teorico che si costituisce sembra quindi essere quello di come l’intelletto possa rivolgersi di nuovo alle « cose stesse », una volta conosciute : ossia di come esso possa uscire da se stesso e “toccare” la realtà senza però influenzarla o obiettivarla definitivamente, senza ridurla cioè alle proprie categorie in questo raggiungerla, ma essendone semplicemente specchio : e da queste righe pare che ciò sia reso possibile solo dall’ambito pratico. Tutto ruota in maniera decisiva attorno all’intelletto, alla sua attività in certo modo formatrice nei confronti del reale, ma al contempo anche semplicemente adeguantesi a ciò che in esso vi è di perfezione, ossia a ciò che nel reale vi è di creaturalità e dunque dipende da Dio. 1 A partire quindi dal problema del vero, Stein rinviene in questo primo articolo della prima questione del De veritate una circolarità tra essere e conoscenza : tale circolarità viene fatta risalire ad una inevitabile plurivocità del termine « ente », che per un verso, ed in senso stretto, è ciò che ha una consistenza di essere e dunque una esistenza reale, per altro verso è invece in senso lato qualsiasi cosa, persino il « non ente ».
3. Tra idealismo e realismo Si può notare a questo punto più nel dettaglio come a Stein, già assistente di Husserl e formatasi alla tradizione della filosofia classica tedesca, apparisse una conclusione filosoficamente non impensabile l’equiparazione tra essere e pensiero, e dunque fosse necessario per lei distinguere ciò che in Tommaso era in certo modo implicito. 1 Ma la circolarità della conoscenza è espressa anche nella descrizione della conoscenza stessa che Tommaso dà nel nono articolo, relativamente alla questione se il vero sia anche nei sensi : « le sostanze spirituali, che sono le più perfette tra gli enti, ritornano alla propria essenza secondo un movimento di ritorno completo (redeunt ad suam essentiam reditione completa) : conoscendo qualcosa al di fuori di sé, escono in qualche modo da sé. Ma nel momeno in cui conoscono di conoscersi, iniziano già a rientrare in sé, perché l’atto di conoscenza è un medio tra il conoscente e il conosciuto ; ma questo ritorno si completa solo con la conoscenza della propria essenza, come si dice nel Liber de causis : chiunque conosce la propria essenza ritorna alla sua essenza in un ritorno completo » (Tommaso d’Aquino, Quaestiones…, cit., i, 9, resp.) .
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Com’è noto, Stein aveva iniziato a studiare fenomenologia a Gottinga proprio negli anni in cui, con l’uscita del primo volume delle Idee, la corrente inaugurata da Husserl aveva definitivamente intrapreso quella che a molti discepoli, educati al metodo delle Ricerche logiche, appariva una indebita svolta idealistica. Nel testo di Tommaso abbiamo riconosciuto una tensione implicita tra ente e vero che all’ottica di Stein risultava particolarmente interessante perché sembrava coinvolgere la questione del rapporto tra teoria della conoscenza e metafisica. Stein quindi ritrova in Tommaso, in qualche modo, i termini di un dibattito che le era molto familiare e a cui aveva anche partecipato ; e che evidentemente si radicalizzano nel momento in cui si prende in esame il rapporto tra un pensiero che non si pone come punto di partenza la questione della conoscenza e una filosofia invece « trascendentale » nel senso moderno, cioè post-kantiano. Ma che ciononostante, come abbiamo avuto modo di dire, è tutt’altro che ingenuo rispetto ai problemi gnoseologici. È perciò proficuo per il nostro tema cercare di ricostruire rapidamente alcuni tratti fondamentali della posizione di Stein relativa alla questione dell’impostazione idealistica della fenomenologia. 1 Oltre infatti a costituire, come si è visto, il retroterra nel quale matura il suo avvicinamento a Tommaso, questo sfondo risulterà decisivo anche per capire alcuni aspetti dell’originale impostazione che riceve l’analogia nel suo pensiero. La difficile decidibilità tra idealismo e realismo concepiti in modo eccessivamente statico o unilaterale, infatti, condurrà Stein al tentativo di impostare l’analogia non solo in termini classicamente e astrattamente metafisici o comunque non solo come analogia dell’ente ; ma come rapporto anzitutto tra due persone. La giovane fenomenologa, come avremo modo di ribadire a più riprese, sembra aver condiviso, o quantomeno seguito in alcune sue premesse fondamentali, la linea « trascendentale » husserliana, considerandola ovviamente una posizione non riducibile a quella dell’idealismo classico e anzi come l’unica vera forma con cui il pensiero può muovere da premesse rigorosamente certe e incontestabili. Per altro verso, ne vede molti limiti e condivide una esigenza fondamentalmente « realista » o comunque la necessità che il pensiero si apra sempre di nuovo all’essere. D’altronde, se l’idealismo assoluto sembra essere conseguenza inevitabile di un pensiero che radicalizza l’inaggirabilità dell’io, come vedremo, e il monismo a sua volta deriva da una posizione strettamente univocante, lo stesso Tommaso, da quanto già si è potuto osservare, non pare sostenere una posizione ingenuamente realista o comunque non manca di tener conto del necessario ruolo dell’intelletto. Come iniziavamo a dire, con la pubblicazione, nel 1913, del primo volume delle Idee,
1 Descrizioni equilibrate della posizione steiniana, rispetto a tale questione, sono rinvenibili in A. Ales Bello, Fenomenologia dell’essere umano…, cit., pp. 60-67 ; H.-R. Sepp, Edith Steins Stellung innerhalb der phänomenologischen Bewegung, « Edith Stein Jahrbuch », 4 (1998), pp. 495-510 ; Id. Edith Steins Position in der Idealismus-Realismus Debatte, in B. Beckmann e H.-B. Gerl-Falkovitz (a cura di), Edith Stein. Themen, Bezüge, Dokumente, cit., pp. 13-24 ; P. Volek, Erkenntnistheorie bei Edith Stein. Metaphysische Grundlagen der Erkenntnis bei Edith Stein im Vergleich mit Husserl und Thomas von Aquin, Frankfurt a.M., Peter Lang, 1998 ; B. Beckmann, Phänomenologie des religiösen Erlebnisses…, cit., pp. 171 ss. Con un’espressione efficace, se intesa non in senso tecnico (perché Husserl la critica esplicitamente nelle Meditazioni cartesiane, e Stein non se ne serve mai), ma solo genericamente come idea di conciliazione tra due punti di vista apparentemente opposti, P. Secretan ha definito « realismo trascendentale » la filosofia steiniana in Erkenntnis und Aufstieg. Einführung in die Philosophie von Edith Stein, Innsbruck-Wien-Würzburg, Tyrolia-Echter, 1992, cit., p. 116. Cfr. anche F. V. Tommasi, Lo sviluppo di un dibattito fenomenologico : idealismo e realismo nel pensiero di Edith Stein, « Aquinas », 45 (2002), pp. 171-186.
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Husserl parve introdurre un mutamento radicale nell’impostazione del suo pensiero. Tale almeno fu la sensazione dei suoi discepoli di Gottinga che, cresciuti con il metodo introdotto nelle Ricerche logiche, non si riconobbero più nel nuovo indirizzo trascendentale. Il « tornare alle cose stesse », che era divenuto motto di una filosofia direttamente rivolta ai fenomeni e fiduciosa di poterli ordinare secondo le loro essenze, contrapponendosi a quelle che Husserl considerava invece le astrattezze teoriche del positivismo e del kantismo, sembrava tradito dal ricorso alla riduzione trascendentale, che appariva quale una deriva kantiana e idealistica. A partire da Max Scheler, che in parallelo con il fondatore della fenomenologia portava avanti il nuovo corso di pensiero, molti giovani discepoli husserliani (tra i quali, per la radicalità delle critiche, spiccarono Hedwig Conrad-Martius, Theodor Conrad, Roman Ingarden e Dietrich von Hildebrand, tutti personalmente ed intellettualmente molto vicini ad Edith Stein) contestarono l’impostazione trascendentale e rimasero fedeli ad un modello realista. 1 La questione chiaramente non è dirimibile con eccessiva rapidità, e meriterebbe una lunga e autonoma trattazione. Anzitutto, infatti, è la polivocità degli stessi termini « realismo » e « idealismo » a complicare la discussione, perché si tratta di categorie di carattere generale, incapaci di rendere conto del dettaglio in cui le opinioni dei singoli autori si delineano. Essendo possibili sfumature e posizioni intermedie a riguardo di tali questioni, il pensiero husserliano è risultato di difficile interpretazione, presentandosi in modo diverso e con articolazioni complesse lungo tutto il corso del suo sviluppo, senza giungere mai, probabilmente, a una chiarezza definitiva. E se le stesse Ricerche logiche, che avevano suscitato l’entusiasmo degli allievi di Gottinga, non presentano secondo alcuni una impostazione che sarebbe definibile realista, lo studio del lavoro husserliano tra il 1900 (anno di pubblicazione di questo testo) e il 1913, permette di interpretare lo sviluppo delle posizioni del volume delle Idee piuttosto secondo un’ipotesi di continuità. 2 È stato inoltre sostenuto con buoni argomenti che Husserl non fu mai realista, e che tale posizione fu propria solo di alcuni discepoli gottinghesi influenzati da Adolf Reinach, di cui primo maestro fu Theodor Lipps animatore del circolo che a Monaco conduceva in qualche modo una fenomenologia autonoma e cui presero parte, tra gli altri, Alexander Pfänder, Dietrich von Hildebrand e Moritz Geiger. 3 Ai nomi di coloro che non accettarono l’indirizzo proposto da Husserl nelle Idee viene di solito associato, nelle descrizioni manualistiche della scuola fenomenologica, anche quello di Stein. Abbiamo accennato alla sua amicizia con molte delle figure che più decise furono nella critica al presunto nuovo corso della fenomenologia husserliana ;
1 Cfr. E. Avé-Lallement e K. Schuhmann, Ein Zeitzeuge über die Anfänge der phänomenologischen Bewegung : Theodor Conrads Bericht aus dem Jahre 1954, « Husserl Studies » 9 (1992), pp. 77-90. 2 Sia T. De Boer, in The Development of Husserl’s Thought, The Hague, M. Nijhoff, 1978, p. 260, sia D. Zahavi, in Constitution and Ontology : some Remarks on Husserl’s Ontological Position in the ‘Logical Investigations’, « Husserl Studies », 9 (1992), pp. 111-124, hanno messo in discussione la caratterizzazione del passaggio tra le Ricerche logiche e il primo volume delle Idee quale mera conversione da una posizione realista ad una idealista. 3 Questa sarebbe stata l’opinione di van Breda : cfr. R. Ingarden, On the Motives which led Husserl to Trascendental Idealism, M. Nijhoff, The Hague 1975, p. 4. Sulla fenomenologia cosiddetta realista in generale cfr. H. Spiegelberg, The phänomenological Movement, The Hague, M. Nijhoff, pp. 165 ss. E. Avé-Lallemant, R. Gladiator e H. Kuhn (a cura di), Die Münchener Phänomenologie, Den Haag, M. Nijhoff, 1975 ; H.-R. Sepp (a cura di), Die Münchener-Göttinger Phänomenologie, Freiburg i.B, Alber, 1994 ; S. Besoli e L. Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei circoli di Monaco e Gottinga, Macerata, Quodlibet, 2000 ; ma anche l’antologia di R. De Monticelli (a cura di), La persona : apparenza e realtà. Testi fenomenologici 1911-1933, Milano, R. Cortina, 2000.
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questa prossimità su di un piano personale è sovente accompagnata da testimonianze di condivisione di posizioni teoriche specifiche ; ma, in termini più generali, sembra che proprio il ricorso a fattori biografici possa essere utile per contribuire al chiarimento di alcuni passaggi di questa controversia. La reazione degli allievi gottinghesi di Husserl, che talora appare anche eccessivamente ferma e quasi immotivata, sembra infatti spiegabile anche grazie a particolari di contesto. Molti discepoli, come accennato, si trovavano a Monaco, e quindi erano maturati allo studio delle Ricerche logiche, senza però poi poter seguire direttamente le lezioni del fondatore della fenomenologia, in cui appunto l’indirizzo trascendentale veniva preparato, così come alcuni altri, pur avendo trascorso un periodo a Gottinga, non erano più là. La scuola aveva allora già una certa autonomia, mentre gli studenti più giovani non avevano potuto, per ragioni opposte, seguire per intero i passaggi di pensiero husserliani. L’esperienza della guerra, che era risultata drammatica per l’intera Germania, aveva inoltre avuto gravi ripercussioni sulla cerchia di coloro che ruotavano attorno al fondatore della fenomenologia, non ultima la morte di Adolf Reinach, lasciandolo definitivamente solo nel momento in cui (1917) egli si trasferì, come detto, a Friburgo. Una testimonianza steiniana tratta dalla sua autobiografia rende molto bene il modo in cui a Gottinga, nel seminario avanzato di Husserl, venne inizialmente recepita l’uscita del primo volume delle Idee :
Tutti avevano in mente la stessa domanda […]. Tutti i giovani fenomenologi erano realisti convinti. Tuttavia nelle Idee sembrava che per certi aspetti il maestro volesse tornare all’idealismo. La spiegazione che ci diede a voce non bastò a cancellare i dubbi. Era l’inizio di una evoluzione che condusse sempre più Husserl a vedere in ciò che egli chiamava « idealismo trascendentale » – che non corrisponde all’idealismo trascendentale delle scuole kantiane – l’autentico nocciolo della sua filosofia e ad impiegare tutte le sue energie per la sua fondazione : una strada, questa, su cui i suoi vecchi allievi di Gottinga, con loro e con suo rincrescimento, non poterono seguirlo. 1
Anche a seguito delle circostanze di cui si diceva, però, Stein divenne la prima assistente di Husserl a Friburgo. Dopo aver discusso la propria tesi di dottorato, infatti, decise di proporre il suo aiuto a Husserl, rimasto solo nella nuova sede, e tale offerta aveva incontrato la positiva reazione del maestro. Iniziò quindi una collaborazione le cui difficoltà concrete si intrecciano al problema teorico della ricostruzione delle reciproche posizioni. Da quello che sappiamo, quindi, Stein iniziò con entusiasmo il suo lavoro accanto a Husserl, spinta dalla eccitante prospettiva di operare accanto a colui che reputava « il maestro », il più grande dei pensatori viventi, e per il quale nutriva dunque una venerazione assoluta ed incondizionata. Tale sentimento la portava ad affermare di « ritenere molto più importante di una qualsiasi eventuale produzione propria il fatto che i suoi [di Husserl] lavori vengano conosciuti ». 2 Tuttavia ben presto si trovò a fronteggiare le non poche difficoltà di un lavoro in cui ella si adoperava per sistemare i testi e gli appunti (scritti secondo la stenografia Gabelsberger) di Husserl, mentre il maestro trovava con estrema difficoltà il tempo di seguirla in tale opera, che si rivelava ardua non solo per ciò che concerneva l’aspetto pratico e materiale del riordino dei manoscritti, ma anche ed evidentemente per le questioni teoriche connessevi. 3
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2 Aus dem Leben einer jüdischen Familie, ESGA 1, p. 220. BI, ESGA 4, p. 57. Riguardo a tali difficoltà, Landgrebe ha scritto : « Dei problemi che si presentarono a Edith Stein nel suo lavorare accanto ad Husserl, posso ben raccontare per esperienza personale. Nel momento in cui una 3
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Da quanto si evince dall’epistolario steiniano con Ingarden, Husserl pare essere stato anche notevolmente incostante nell’opera di revisione che egli stesso auspicava, così che Stein decise talvolta di procedere autonomamente al riordino dei manoscritti autorizzandosi anche, nel momento in cui Husserl non l’avesse fatto personalmente, a chiarire i punti poco chiari. Stein dichiara infatti di voler portare il materiale presente nei manoscritti ad una prima unitaria elaborazione che serva da base per il lavoro di Husserl, che altrimenti rimarrebbe sempre bloccato sui particolari singoli ; e solo nel peggiore dei casi, se cioè Husserl sfugga anche alla ultima elaborazione, di voler tentare da sola : il lavoro però, ammette, le richiederebbe anni, ed ella non se lo augura. 1 Stein d’altronde non manca di ricevere attestati di fiducia da parte di Husserl, che voleva affidarle il ruolo che era stato di Reinach a Gottinga. 2 E il suo lavoro oscilla tra periodi di crisi, anche personale, e fasi di fiducia, che probabilmente influenzano anche le sue posizioni teoriche. In particolare, Stein lavorò in quegli anni agli appunti preparati da Husserl per la pubblicazione del secondo volume delle Idee, in cui la questione delle diverse possibili interpretazioni della fenomenologia emerge con urgenza ; e in questo caso i continui ripensamenti husserliani ebbero come conseguenza che il volume non venne concluso. Pur pubblicato nella collana della Husserliana, il testo di Idee ii sta trovando solo in questi anni una edizione critica che cerchi di fare il punto sulla questione dei presunti interventi steiniani sul testo. Ma una questione simile si è originata anche relativamente ad un altro testo che Stein si trovò a rielaborare, ossia i manoscritti sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo, poi editi nel periodo in cui Heidegger fu assistente di Husserl. Il problema di risalire alle esatte posizioni husserliane e steiniane riguardo al problema della costituzione ha condotto alcuni studiosi ad ipotizzare larghi interventi dell’assistente sui testi husserliani, laddove essi sembrano presentare un’impostazione sostanzialmente realista. 3 Lo stesso Husserl, per altro verso, sembra oscillare molto su diverse questioni, in quel periodo ; non a caso per molti anni non pubblicherà nulla. In più di una testimonianza steiniana si racconta persino di come egli fosse sempre meno convinto della soluzione che sinora aveva conferito al problema della costituzione, e e di come sostenesse la necessità di ripensare l’intera dottrina, e a tal fine di dover rivedere la prima parte delle Idee. 4 Al di là delle circostanze personali, e al di là degli eventuali interventi steiniani sui testi di Husserl, questione immensa che travalica le possibilità e gli scopi di questo volume, un passaggio in particolare, però, sembra particolarmente rappresentativo delle convinzioni di Stein sulla disputa tra idealismo e realismo e sul problema della costituzione :
rielaborazione [dei suoi manoscritti stenografati] poteva dirsi pronta, egli era già da tempo impegnato con altre riflessioni e bisognava spendere molte energie per riguadagnare il suo interesse riguardo a ciò che era stato fatto » (cfr. L. Landgrebe Über die Arbeit, die E. Stein für E. Husserl geleistet hat, in W. Herbstrith, Edith Stein, eine grosse Glaubenszeugin…, cit., pp. 147-148, qui p. 148). 1 2 Cfr. BI, ESGA 4, p. 57. Cfr. BI, ESGA 4, p. 46. 3 Cfr. R. Boehm, Einleitung a E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstsein, Husserliana x, The Hague, M. Nijhoff, 1966, pp. xiii-xliii, qui pp. xxix-xxx, nota 1 ; cfr. anche M. Sawicki, Body, Text and Science, Dordrecht-Boston-London, Kluwer, 1997. Alla tesi di pesanti rimaneggiamenti steiniani ha reagito lo stesso Ingarden, pubblicando parte del suo carteggio con Stein : cfr. R. Ingarden, Edith Stein on her Activity as an Assistant of Edmund Husserl, « Philosophy and Phenomenological Research », 23 (1962), pp. 155-175. 4 Cfr. BI, ESGA 4, pp. 32 e p. 46.
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Una passeggiata filosofica verso Haslach fatta insieme di recente mi ha reso nuovamente fiduciosa. Tra l’altro, in coincidenza di essa si è compiuto del tutto improvvisamente in me un nuovo passaggio, a seguito del quale mi illudo di sapere abbastanza cosa sia costituzione, ma in rottura con l’idealismo. Le premesse perché si possa costituire una natura osservabile (anschauliche Natur) mi sembrano essere da un lato una natura fisica assolutamente esistente e dall’altro una soggettività con determinate strutture. Non sono ancora arrivata a confessare al maestro questa eresia. 1
In questo passaggio, quindi, Stein sembra voler tenere conto delle esigenze sia del realismo, ritenendo necessaria per la costituzione una natura « assolutamente esistente », sia dell’idealismo, con il quale pure si proclama in rottura, considerando necessaria anche « una soggettività con determinate strutture » perché si dia una natura intuibile. Stein racconta poi, in una lettera di poco successiva datata 20 Febbraio 1917, di una discussione di due ore, col maestro, su questo tema della costituzione, in cui nessuno dei due è riuscito a convincere l’altro, ma nella quale Husserl ha ancora una volta preso atto della necessità di riesaminare nuovamente e per intero la questione. Stein non racconta purtroppo i termini della disputa e promette di farlo successivamente, ma ciò avviene solo in minima parte : nella lettera del 20 Marzo si viene a sapere che ella ha tentato di mettere per iscritto le sue differenze teoretiche rispetto al maestro, riassunte in un’annotazione : « necessità di un corpo (Leib) per l’empatia ». 2 Questi accenni fanno naturalmente pensare ad un’“eresia” tendente al realismo, rispetto all’idealismo husserliano, e sono confermati da una testimonianza in cui Stein racconta di adoperarsi alla critica di alcuni punti di Idee i, proprio a cominciare dall’idealismo ; in questo stesso passaggio, tuttavia, Stein afferma esplicitamente di non condividere le critiche realiste, ad esempio, di Hedwig Conrad-Martius, di cui ha potuto leggere qualche osservazione, che però non le pare cogliere il cuore del problema.3 In una lettera datata 24 Giugno 1918, inoltre, Stein sostiene di essersi essa stessa « convertita all’idealismo […] che può essere compreso in modo tale da soddisfare anche metafisicamente », anche se aggiunge subito :
ma molto, di ciò che c’è nelle Idee, andrebbe compreso altrimenti, ossia nel senso di Husserl, se solo egli prendesse tutto assieme ciò che ha e non lasciasse fuori dalla considerazione in momenti decisivi qualcosa che appartiene necessariamente alla questione. 4
Stein descrive anche la stanchezza e le difficoltà pratiche di Husserl che, nella nuova sede di Friburgo, ormai senza aiutanti progrediti nella fenomenologia, ha sempre il problema sostanziale di non riuscire a essere sintetico ; tale impaccio non nasce per caso, dato che le analisi delle complesse questioni da lui affrontate ripetutamente lo
1 BI, ESGA 4, p. 40. Nella postfazione all’edizione degli ESW della Einführung in die Philosophie, che tra poco analizzeremo, H.-B. Gerl-Falkovitz sostiene che il sottolineare la necessità di una « natura fisica assolutamente esistente » rimandi non tanto ad una natura sensibile ed empirica, quanto al suo rispondere a leggi oggettive. Cfr. H.-B. Gerl-Falkovitz, Nachwort a Einführung in die Philosophie, ESW xiii, pp. 265-278, 2 in particolare le pp. 270-271. BI, ESGA 4, p. 51. 3 Cfr. BI, ESGA 4, pp. 52 ss. Il dibattito coinvolse a più riprese diversi allievi di Husserl, che sempre di nuovo tornarono sul tema : cfr. H. Conrad-Martius, Zur Ontologie und Erscheinungslehre der realen Aussenwelt, in « Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung », 3 (1916), pp. 345-542 ; Id. Realontologie, « Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung », 6 (1923), pp. 159-333 ; R. Ingarden, Der Streit um die Existenz der Welt, Tübingen, M. Niemeyer, 1964. Ma si pensi anche all’opera di Nicolai Hart4 mann. BI, ESGA 4, p. 87.
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portano a cogliere sempre nuovi aspetti, che poi in effetti risulta impossibile tenere assieme. Da qui le incomprensioni e i mutamenti di posizione. Poche righe più avanti, Stein, commentando un lavoro ingardeniano su Bergson e, in particolare, l’analisi degli schemi di azione, specifica la sua affermazione precedente sulla questione dell’idealismo, sostenendo che dal punto di vista della coscienza e dell’analisi costitutiva nessuno strato noematico possa essere preferito come più obiettivo, tantomeno la « realtà » : l’atteggiamento naturale non possiede motivi di privilegio, anche perché in esso scompaiono gli altri strati possibili di costituzione, mentre questi ultimi permettono il mantenimento del correlato « realtà ». Un punto di attacco per giustificare la preferenza accordata alla esistenza reale del mondo esterno (che dunque qui Stein sembra ancora voler salvare) potrebbe essere allora rinvenuto da un punto di vista pratico, dato che esso, ella sostiene, coincide con l’atteggiamento naturale e potrebbe fornire un tipo privilegiato di appercezione. 1 La sua osservazione non viene purtroppo specificata ulteriormente, accrescendo il rammarico che spesso generano nel lettore queste lettere, che necessariamente non possono dilungarsi su questioni teoriche. 2 Nella stessa lettera Stein comunica che le prime due parti di Idee ii (ossia quelle relative alla costituzione della natura materiale e della natura animale) sono pressoché sistemate senza necessità di suoi interventi, mentre la sezione sullo spirito deve essere completamente rielaborata. Poco prima, d’altronde, aveva affermato di essere avanzata, nella revisione di Idee ii, senza imbattersi in contraddizioni sino alla [costituzione della] persona. 3 Il 6 Luglio, invece, si era avuta per la prima volta notizia dei manoscritti sul tempo ; e durante quell’estate infatti Husserl si recò a Bernau dove elaborò nuove numerose riflessioni su questo tema. 4 Poco dopo (26 Agosto), l’opera di riordino steiniana si rivolge anche ad alcuni appunti dedicati alla costituzione dello spazio, 5 e poi le viene affidato anche il compito di iniziare la revisione della vi Ricerca logica ; incarico che ella, viste le condizioni del maestro, che ormai vedeva la questione in modo completamente diverso rispetto alla stesura originaria, ritiene « impossibile in questa vita ». 6 Stein ed Ingarden non discuteranno più della questione dell’idealismo, almeno in senso tecnico ; l’unico accenno che ulteriormente si rinviene è una notazione di Stein che si proclama idealista nel senso di linguaggio ordinario del termine, interessandosi all’anima dei singoli e delle comunità, volendo tradurre nella realtà i principi dei suoi orientamenti politici e dichiarandosi indifferente agli aspetti materiali della questioni, seppur poi nella stessa lettera dimostri autoironia, commentando, a proposito di una lieve malattia di Ingarden, che in effetti gli ambiti materiali sono tutt’altro che indifferenti. 7 Nella lettera del 19 Febbraio 1918, Stein, a cui nel frattempo è stato affidato anche
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BI, ESGA 4, p. 87. Stein accenna anche al fatto di aver iniziato a mettere per iscritto le sue divergenze con il maestro riguardo al tema della costituzione, ma di non poterle comunicare nello specifico nelle lettere (cfr. BI, ESGA 3 4, p. 53). Cfr. BI, ESGA 4, p. 36. 4 Cfr. BI, ESGA 4, pp. 61-62. Ingarden testimonia come Husserl gli abbia mostrato più di 500 pagine di manoscritti elaborati solo a Bernau : cfr. R. Ingarden (a cura di), Edmund Husserl. Briefe an Roman Ingarden, Den Haag, M. Nijhoff, 1968, p. 154. 5 6 Cfr. BI, ESGA 4, p. 65. Cfr. BI, ESGA 4, p. 92. 7 Cfr. BI, ESGA 4, p. 118. L’impegno politico di Stein nel DDP (Deutsche Demokratische Partei, di orientamento liberale, che assieme al Zentrum e alla SPD aveva formato il primo governo post-bellico), così come quello per il voto alle donne, le produrranno presto delusione e stanchezza (cfr. BI, ESGA 4, pp. 119-120). 2
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il compito di tenere dei corsi introduttivi alla fenomenologia, comunica allora ad Ingarden di aver fatto presente a Husserl come il lavoro di riordino fosse di principio impossibile. Posso pormi al servizio di una causa (Sache) o fare molto per amore di un uomo, ma pormi al servizio di un uomo, ossia obbedire, questo non posso farlo. 1
Non trascorse molto tempo che Stein abbandonò il lavoro ; Husserl, dal canto suo, accettò benevolmente la sua decisione. Al di là delle vicende biografiche, chiamate in causa per la loro rilevanza rispetto alla questione teorica, e al di là della controversa questione degli interventi steiniani sui testi husserliani, come detto molto difficilmente dirimibile, abbiamo potuto descrivere la “via mediana” della giovane fenomenologa rispetto al realismo dei critici radicali di Husserl e all’idealismo trascendentale del maestro. Un maggiore dettaglio si evince tuttavia da passaggi espliciti delle sue opere dedicate alla fenomenologia. Procederemo quindi ad una rapida analisi dei passi che, in tali opere, affrontano il tema in questione. Già il saggio sull’empatia si apre con una premessa sul metodo utilizzato in cui si descrive anzitutto la messa tra parentesi della posizione d’essere :
L’atteggiamento (Einstellung) in cui svolgiamo tutto ciò [ossia il tema trattato nel testo] è quello della « riduzione fenomenologica ». Scopo della fenomenologia è il chiarimento, e con ciò anche la fondazione di ogni conoscenza. Per giungere a tale scopo, mette fuori gioco (ausschalten) dalle sue considerazioni tutto ciò che in qualche modo è sottoponibile a dubbio. 2
Nel campo delle cose dubbie, da fedele discepola husserliana, Stein include sia i risultati delle scienze, sia l’esperienza naturale, sia il mondo, sia il soggetto reale che ne fa esperienza, lasciando spazio solo al campo dei vissuti. Ma quello che non posso mettere fuori gioco (ausschalten), ciò che non soggiace ad alcun dubbio, è il mio avere esperienza (erleben) delle cose (l’apprensione percettiva, di memoria o di qualsivoglia altro tipo) insieme al suo correlato, il pieno « fenomeno della cosa » (Dingphänomen) (l’oggetto che si presenta come lo stesso in serie molteplici di percezioni o ricordi), il quale resta mantenuto nel suo pieno carattere e può essere reso oggetto di trattazione. 3
Lo stesso testo prosegue poi, secondo quanto diremo ancora, con una acuta critica all’analisi di Lipps e Scheler dei vissuti di « unipatia » (Einsfühlung) e « simpatia » (Sympathie) : evitando per ora di seguire nel dettaglio queste descrizioni, vale però la pena notare che Stein si basa sull’accettazione dell’ego puro per criticare la teoria del filosofo monachese di un io sovrapersonale rappresentato da un flusso originario e non individuato di coscienza, dal quale, secondo lei, sarebbe poi impossibile differenziare ciò che è proprio da ciò che è altrui, per il circolo in cui si cade nella deduzione dell’individuale dalla totalità. Proprio per evitare tali errori Husserl avrebbe introdotto, a giudizio di Stein, la distinzione tra percezione interna (rivolta, così come quella esterna, a delle trascendenze) e riflessione, in cui le datità, nella sospensione del loro statuto reale, si portano ad immanenza e vengono descritte oggettivamente. Una posizione più articolata e specifica sul problema si ha comunque nel testo conosciuto come Introduzione alla filosofia. Originatosi probabilmente da un nucleo di
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2 BI, ESGA 4, p. 72. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 11. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 11.
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appunti per alcune lezioni che Stein tenne a Breslavia nei mesi immediatamente successivi alla sospensione dell’attività di assistente presso Husserl nel 1918, esso fu poi sviluppato ripetutamente dall’autrice. 1 Il testo ha come tema un’analisi dei fondamenti di costituzione della realtà, suddivisa in natura e soggettività, secondo uno schema di fondo che si ritrova in Idee ii e appunto segue la bipartizione fondamentale in natura e spirito. Husserl stesso aveva tenuto, poco tempo prima, un seminario dedicato proprio a Natur und Geist e lavorava attorno a questo binomio. L’inizio dell’indagine ha, anche in questo convoluto, movenze classicamente fenomenologiche, venendo delineato il risalimento all’io puro come condizione necessaria di partenza della ricerca, la quale non può basarsi né su certezze di fatto, né su dati già acquisiti da altre scienze, ma deve invece trovare l’ultima fondazione in un piano di assoluta certezza. Ci si rivolge perciò al dubbio cartesiano, che svela il terreno della coscienza pura, su cui si costituiscono necessariamente elementi noetici e noematici. Il campo di ricerca della filosofia deve essere un campo di certezza assoluta e di conoscenza irrevocabile. In tutto il campo dell’esperienza non si dà però una conoscenza indubitabile. Di principio, ogni esperienza può essere superata da un’altra esperienza e il suo valore conoscitivo può essere cancellato. La percezione più chiara ed evidente, in cui una cosa ci è a portata di mano, davanti agli occhi, può rivelarsi un sogno, un’allucinazione. Se la filosofia deve essere un campo di conoscenza scevra da dubbio, dobbiamo mettere fuori gioco non solo i risultati delle singole scienze, ma dobbiamo anche « mettere tra parentesi » tutto ciò che sappiamo grazie all’esperienza. 2
Stein descrive quindi la fenomenologia come scienza dei vissuti, che hanno un versante soggettivo ed un versante oggettivo, noesi e noema. E afferma :
Da ciò deriva che tutto il mondo di oggetti, che nella messa fuori gioco dell’esperienza naturale minacciava di scomparire, viene incluso con un segno diverso nella contemplazione fenomenologica : non come mondo essente, come lo pone l’esperienza naturale, ma come correlato di vissuto. Lasciamo per ora da parte come stiano le cose rispetto alla questione dell’esistenza del mondo. Non facendo uso dell’esperienza naturale non la neghiamo, solo esercitiamo una sospensione di giudizio – epoché, come erano soliti dire gli scettici. 3
Stein prende altresì le distanze dalla psicologia, e sottolinea come l’« io puro », cui quindi fa esplicito riferimento, non sia ovviamente l’io psicologico.
Se possiamo affermare che il vissuto del dubbio (o anche del sogno etc…) e il suo soggetto permangono come resto intoccabile, [bisogna osservare] che questo soggetto non è l’individuo reale e il dubbio, la percezione, il sogno etc… non sono suoi stati psichici. L’io che resta dopo il compimento della messa fuori gioco, della riduzione (der Vollzug der Ausschaltung, der Reduktion), non è altro che il soggetto del vissuto, non ha proprietà e non è sottoposto a condizioni reali ; non se ne può dire nulla, se non che in esso splenda (ausstrahlt) il vissuto, che in lui vive. Lo definiamo « io puro » (reines Ich). 4
Pur fondandosi sul dubbio metodico, la riduzione trascendentale e l’io puro, anche in questa opera Stein sembra riproporre un’impostazione in qualche modo “mediana” tra realismo ed idealismo descritta sinora. Si potrebbe anzi affermare che il testo si fondi 1
Cfr. C. M. Wulf, Hinführung a Einführung in die Philosophie, ESGA 8, pp. xx ss. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 16. 3 Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 19. 4 Einführung in die Philosophie, ESGA 8, pp. 20-21. 2
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sull’espressione citata in precedenza, ossia la necessità di « una soggettività con determinate strutture » e di « una natura assolutamente esistente ». 1 Nella prima parte dello scritto, quindi, dedicata ai Problemi della filosofia della natura, il testo pare rimandare ad un modello vagamente kantiano, anche se meno strutturato. Riprendendo considerazioni husserliane sulla costituzione della cosa e dello spazio, testi di cui si è anche occupata nel suo periodo di lavoro come assistente, Stein apre la trattazione rivolgendosi proprio ad un’analisi dello spazio. Con riferimento alla questione delle essenze, è molto interessante ciò che si afferma riguardo alle geometrie non euclidee. Esse opererebbero con differenti forme di spazio, ma sempre nello spazio stesso, che non è definibile secondo una forma particolare. Questo significa che con le geometrie non euclidee non si è guadagnata, per Stein, una conoscenza diversa dell’essenza dello spazio, ma solo maggior rigore nel distinguere materia e forma di una scienza : spazio e forme spaziali sono la materia della geometria, la cui forma è costituita invece dalle relazioni degli elementi materiali (il sistema), che avvengono però sempre grazie alle leggi logiche. Qui si introduce la distinzione, che si vedrà in seguito essere fondamentale, tra essenzialità (Wesenheit) ed essenza (Wesen) nel concreto, esemplificata dalla differenza tra lo spazio puro e le forme in cui esso si realizza, che possono essere quelle codificate dai vari modelli di geometria. Lo stesso può esser detto altresì per il tempo. Le essenzialità, prosegue Stein, possono semplicemente essere nominate e intuite, ma non concettualizzate, descritte o analizzate. Le essenzialità possiedono inoltre generalità in un duplice senso, ossia in riferimento alle differenze specifiche ed in riferimento alle forme reali in cui si realizzano, venendo a costituire una sorta di nucleo dell’essenza. La necessità delle essenzialità pure e la loro caratteristica fonda l’assolutezza di principio del movimento e dello spazio : essi sono intrinsecamente connessi, ma non sono la stessa cosa, per cui, per esempio, il movimento di un passeggero che percorra, su una nave, un tratto di spazio uguale e contrario a quello effettuato da questa nello stesso tempo non è un movimento inesistente ; nullo invece risulterà solo il risultato del moto. La relatività del movimento ha senso solo se si presuppone un percorrimento assoluto dello spazio, ossia l’assolutezza dello spazio stesso, premessa senza la quale non avrebbe senso dire che il percorrimento dello spazio è inverificabile con certezza : tutti i movimenti sono invece in realtà assoluti, essendo impossibile stabilire quale sia « il » movimento assoluto, mentre la possibilità del movimento relativo si ha solamente all’interno di un sistema spaziale definito ; si può però parlare di sistema spaziale solo se si danno movimenti che hanno diversi risultati di percorrimenti spaziali all’interno del sistema rispetto allo spazio assoluto, come si è detto precedentemente. 2 Il tema delle essenzialità giocherà un ruolo importante anche in Essere finito ed essere eterno. Ma proprio già nella lettera ad Ingarden dove confessava la sua eresia sul tema della costituzione, 3 poche righe più avanti, Stein si dedica ad una descrizione del problema delle essenze secondo le analisi del collega fenomenologo Jan Héring, autore di studi su Eidos e morfé che più avanti saranno pubblicati con il titolo Osservazioni sull’essenza,
1 Con riferimento anche a questi passaggi, E. Ströker, in Die Phaenomenologin Edith Stein – Schulerin, Mitarbeiterin und Interpretin Edmund Husserls, « Edith-Stein Jahrbuch », 1 (1995), pp. 15-35, ha sottolineato l’equilibrio di Stein, affermando persino come la giovane fenomenologa abbia visto forse più chiaramente di Husserl il senso che ha la messa tra parentesi della realtà. 2 3 Cfr. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, pp. 23-54. Cfr. BI, ESGA 4, p. 41.
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l’essenzialità e l’idea (Berkungen über das Wesen, die Wesenheit und die Idee).1 Stein descrive come Héring distingua negli oggetti una essenza peculiare di ciascuno (il Sosein, poion einai, ossia l’« essere tale ») e una essenza comune a tutti gli oggetti di una specie (la Washeit, tì einai, ossia la « quiddità ») : entrambe sarebbero « forme », morfai, ossia essenze concretizzate. Ad esse andrebbero contrapposte le essenzialità pure, divise corrispondentemente secondo eidos e oggetto ideale (idealer Gegenstand), sulla base della stessa differenza, solo su un piano di considerazione astratto dagli oggetti reali. La differenza tra le essenzialità pure e le realizzazioni sembra essere di tipo ontologico formale, ossia quella che intercorre tra significato nominale e attributi o predicati su di un piano apofantico (descrive le essenzialità come il nucleo delle essenze concretizzate). Ciò che Héring intende per « idea » sembrerebbe invece essere sinonimo di « significato » (Bedeutung), senza però che tale impostazione, secondo quanto fa presente Stein ad Ingarden, sia portata avanti in modo coerente. Essa sarebbe lo strumento per individuare le classi dell’essente (ossia le essenzialità, le essenze e gli oggetti), ma non una classe in sé : tali distinzioni sarebbero originate dalla necessità di rendere più rigoroso il discorso husserliano sull’ideazione, non essendoci nel fondatore della fenomenologia una distinzione tra il momento di individuazione del piano eidetico e le oggettualità stesse che ne risultano. Notiamo sin da ora come l’essenzialità è per Héring la prote ousia, mentre l’essenza ideale è una sua singolarizzazione e l’oggetto reale un realizzatore. Ritornando alla descrizione della Introduzione alla filosofia, osserviamo come alla Descrizione dei fenomeni della natura, cui era dedicato il primo paragrafo della prima parte, segua una sezione dedicata alla Scienza della natura come problema filosofico, ossia una riflessione sul metodo della fisica, e poi una dedicata alla Conoscenza della natura come problema filosofico, che si interroga sul correlato soggettivo della conoscenza della natura. Stein quindi ribadisce :
Qui non facciamo psicologia. Si tratta molto di più di come sia in generale possibile che qualcosa come una natura venga a datità in una coscienza e di cosa appartiene secondo una generalità di principio alla coscienza corrispondente. 2
Si procede analizzando poi nello specifico il processo conoscitivo :
La cosa ci si presenta come un ente durevole. Esiste, anche se non la percepiamo, e se la percepiamo, la prendiamo per qualcosa che c’era anche prima della nostra percezione ed eventualmente come la stessa che avevamo incontrato già nelle nostre percezioni precedenti. Però, possiamo affermare il fatto che esista (Daß es aber existiert) solo sulla base della percezione. 3
Una cosa esiste infatti indipendentemente dal fatto che la percepiamo, ma il fatto che esista si può appurare solo grazie alla percezione stessa : da essa vengono dati gli oggetti « in carne ed ossa », i quali però, secondo la più classica delle descrizioni fenomenologi
1 Cfr. J. Héring, Bemerkungen über das Wesen, die Wesenheit und die Idee, « Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung », 4 (1921), pp. 495-543. Lo stesso Ingarden scriverà allora sulle Essentiale Fragen, « Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Philosophie », 7 (1925), pp. 125-304. Conrapponendola schematicamente a S. Weil, la cui ricerca sarebbe stata caratterizzata da un riflessione sull’esistenza, Przywara vede nella ricerca sulle essenze l’elemento centrale della riflessione di Stein (cfr. Edith Stein et Simone Weil, essentialisme, existentialisme, analogie, in Les études philosophiques, 11/3 (1956), pp. 458-472). Questo retroterra fenomenologico condurrà Stein ad avvicinarsi alla tradizione agostiniana e francescana, nelle opere mature, come molti hanno rilevato : cfr. ad esempio P. Secretan, Erkenntnis und Aufstieg...., cit., pp. 128-30. 2 3 Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 63. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 64.
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che, presentano secondo Stein sempre degli adombramenti. Perché un adombramento sia tale deve accompagnare sempre una forma oggettiva, altrimenti perde il suo significato essenziale, secondo un’osservazione cui si era già accennato in precedenza. Nel momento in cui l’intenzione si rivolge direttamente all’adombramento, tralasciando la cosa intera, si ha allora un dato singolo, una sensazione (Empfindung) e non più una percezione (Wahrnehmung). Qui si raggiunge il punto di origine della distinzione tra ciò che è soggettivo e oggettivo. Mentre l’oggetto si fa incontro all’io, che lo osserva come qualcosa di separato e autonomo rispetto a lui, il dato della sensazione non possiede alcun significato che oltrepassi la soggettività. Tale dato appartiene inseparabilmente al flusso della vita di coscienza, benché stia in un certo modo di fronte all’io, e nonostante sia qualcosa di estraneo all’io (Ichfremdes). 1
Il dato di sensazione si colloca nel punto in cui si separano soggetto ed oggetto, è rivolto ad altro, ma in sé non ha nulla che oltrepassi la coscienza, è al confine tra immanenza e trascendenza. La costituzione poi delle oggettività nel flusso di coscienza e a partire dalle sensazioni, sostiene Stein, ha una rigida legalità, per cui la prima « apprensione » di ciò che è dato non avviene a livello arbitrario, non essendo un tipo di deduzione logica, ma « qualcosa che è prima di ogni operazione logica », ossia una « apprensione di qualità che appaiono iscritte in uno schema » : 2 si è ad un livello precedente ogni attività di tipo logico nella vita naturale della coscienza, che secondo una rigida legge interna determina il primo stadio della costituzione e quindi il successivo possibile superamento della mera apprensione verso « ciò che è “rappresentato” dai dati sensibili ». 3 Stein reinterpreta dunque la nozione kantiana dello schematismo, facendo di questa struttura una regola necessaria della percezione, operante implicitamente, e coglibile poi ad una considerazione essenziale della realtà e con una riflessione sulla percezione, ossia quando il dato si è già costituito e viene giudicato obiettivamente. Il primo darsi di oggetti pare allora essere necessario e, anzi, il livello originario di indistinzione tra costituente e costituito viene qui descritto come forse irraggiungibile, dato che « già in qualsiasi fase del vissuto originario si può distinguere il vivere ed il suo contenuto ». 4 Le indagini steiniane proseguono poi proprio con un significativo paragrafo intitolato : Significato metafisico del problema della percezione. La questione dell’idealismo. Stein introduce le considerazioni sostenendo che mentre la questione principale della teoria della conoscenza riguarda il fondamento di diritto della conoscenza, il suo problema metafisico è se gli oggetti della conoscenza stessa abbiano una esistenza indipendente da una qualsivoglia coscienza, ossia se sia possibile una conoscenza di « cose in sé ». Dopo aver menzionato Berkeley, la fenomenologa muove ad un confronto con Kant, delineando la sua impostazione critica. Le strutture aprioriche della conoscenza sono qui genericamente paragonate e ricondotte ancora alla nozione di schema, intesa come condizione della possibilità di costituzione della cosa. Gli schemi infatti sono, nell’interpretazione di Stein, le strutture fondamentali dell’oggettività ; e si tiene momentaneamente sospesa la questione riguardo all’esistenza del mondo reale esterno alla coscienza. Gli schemi così intesi possiedono un essere quasi assoluto, che ha i requisiti delle idee platoniche e quindi non dipende dalla soggettività ; con lo schema si costi
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Einführung in die Philosophie, ESGA 8, pp. 66-67. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 68. 3 Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 68. 4 Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 68. 2
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tuisce infatti una cosa, ma non la si esaurisce, perché gli oggetti singoli non sono mai completamente « riempiti » dalle caratteristiche semplicemente appartenenti allo schema. Resta allora la questione se la coscienza dipenda dalla natura o viceversa. Stein si trova d’accordo con Husserl nel definire l’essere della coscienza come assoluto (« l’essere della coscienza è un essere assoluto », afferma esplicitamente), 1 in contrapposizione soprattutto alla posizione empirico-naturalista che vuole ridurre la vita di coscienza ad epifenomeno dei processi fisici, ma che cade poi nelle contraddizioni proprie di ogni scetticismo, ed evidenziate da Husserl stesso già nelle Ricerche Logiche. In questo senso la posizione delle Idee, secondo quanto accennavamo, sembra essere effettivamente comprensibile come direttamente in continuità con quella espressa in precedenza, nel rifiuto di una naturalizzazione dell’io. « La coscienza – sostiene Stein – non può, per la sua essenza, essere fondata sulla natura ». 2
Con il rifiuto del punto di vista naturalistico non viene tuttavia messo da parte il realismo, che considera il mondo esterno reale come dotato di essere ; altresì non viene nemmeno fondato l’idealismo, che sostiene la dipendenza del mondo dalla coscienza. La seconda domanda che ci siamo posti, rimane infatti ancora da discutere : è pensabile una natura, se ad essa non corrisponde nessuna coscienza ? 3
Escludere dunque il punto di vista naturalistico e ribadire il primato della coscienza non significa per Stein affermare un punto di vista metafisicamente idealistico, ossia la non esistenza di un mondo indipendente dalla coscienza. La discussione viene impostata nuovamente sulla base dell’analisi dei dati di sensazione, che presentano elementi assolutamente soggettivi riferentisi però ad un qualcosa di oggettivo, e che dunque sono al confine tra soggettività ed oggettività. L’oggettività tuttavia è tale in quanto condivisa dai soggetti, e Stein nota allora come per il suo raggiungimento si renda necessaria l’introduzione di analisi intersoggettive : l’essere degli altri, infatti, non è negato nemmeno dal punto di vista dell’idealismo, ma solo dalla posizione del solipsista, che però per affermarla deve necessariamente presupporre un interlocutore, e dunque si autocontraddice. La riduzione dell’altro alla propria coscienza, si prosegue, sembra impossibile per ciò che riguarda l’io puro altrui come principio originario irriducibile alla sfera egologica del solus ipse. Vi è perciò almeno un’esperienza che trascende se stessa, quella dell’altro io ; per la sua esistenza, infatti, non è indispensabile il fatto di essere più o meno esperito da me : e così si raggiunge, secondo Stein, la possibilità definitiva di sottrarsi al rischio soggettivistico.
Il porre altri soggetti che fanno esperienza assieme all’io (mit-erfahrende Subjekte) è di significato metafisico particolare. Qui si trova un essere che si estende oltre la coscienza che fa esperienza e che è indipendente da essa, e che anche il filosofo idealista non vuole relativizzare. C’è tuttavia un punto di vista filosofico – il solipsismo – che ritiene l’io l’unica realtà. Ma il solipsista rinuncia al suo punto di vista nel momento in cui lo espone, perché così facendo assume un interlocutore dotato capace di comprensione. Per dimostrare che non si dà un « altro », si rivolge ad un altro. 4
Solo con un « essere » che sia dello stesso livello del proprio io puro si riesce ad uscire da questa sfera originaria : si tratta di una esperienza, per Stein, « che trascende se stessa ». 5 Se però è necessaria l’esperienza di un altro soggetto, si conferma implicitamente, al
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Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 73. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 75. 5 Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 79.
Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 74. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 77.
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meno in parte, la posizione tendente all’idealismo per cui nel caso degli oggetti naturali non si può parlare in senso vero e proprio di indipendenza dall’io ; si conferma cioè, per esprimersi in termini molto riduttivi, e che nel rapporto tra io e natura fisica l’io ha sempre e comunque una preminenza. L’analisi prosegue con la questione della teoria della conoscenza, in cui quaestio iuris e quaestio facti andrebbero comprese sulla base di che cos’è originariamente conoscenza, dunque riportando la domanda più a monte. La conoscenza è sempre originariamente presa d’atto (Kenntnisnahme), ossia una datità diretta di qualcosa (che può essere una percezione sensibile, l’intuizione geometrica, il sentire un valore ecc...), su cui poi si costruisce il giudizio, e di conseguenza la logica. Solo su questo livello mediato si può parlare di verità o falsità, mentre nel primo l’errore è piuttosto un’illusione. I sillogismi rimandano sempre a tale livello originario, per cui la conoscenza è prima di tutto l’aprirsi di qualcosa : alcune prese d’atto sono infinitamente correggibili (percezione sensibile), altre risultano invece definitive (conoscenza essenziale). La descrizione del giudizio che si introduce rimanda a considerazioni di Husserl : nel giudicare « l’oggetto non è semplicemente accettato, piuttosto è posto come soggetto » ; 1 nel percepire invece non si ha mai il « porre qualcosa come ».
Ogni posizione logica (vogliamo indicare così tutte le tesi appartenenti al complesso del giudizio) considera l’oggetto da un determinato « punto di vista », con un significato generale. 2
Il giudicare scompone l’unitarietà originaria del percepire, astraendone una qualità che coglie nel senso di un significato generale. Così si comprendono anche verità e validità del giudizio, che deve infatti corrispondere all’oggettualità percepita e possedere una forma generale ; e la conseguente necessità di una ontologia formale e di una logica formale. È necessario però, secondo Stein, anche un passo ulteriore all’ontologia formale, ossia il tener conto delle prese d’atto e dei corrispondenti oggetti reali e individuali, altrimenti si resta sempre solo ad un livello astratto che non può spiegare esaurientemente il fenomeno della conoscenza. La filosofia critica, per Stein, ha ragione nel ritenere che si possa parlare solo di ciò che è conosciuto, e che dunque si possa sostenere qualcosa sulle prese d’atto e sui loro contenuti solo quand’essi siano conosciuti, ma in un certo senso si può « cogliere » anche ciò che viene prima della conoscenza. Il rapporto tra la conoscenza e ciò che la precede sarebbe parallelo a quello tra la coscienza e il vivere proprio, che non è oggettivabile, ma si presenta piuttosto come « una luce che lo illumina dall’interno ». 3 Ma si potrebbe obiettare, osserva inoltre Stein, che percezione e realtà sono necessariamente sottoposte alle condizioni della conoscenza e sono possibili solo in quanto così costituite : « la percezione è percezione di un oggetto solo in virtù della sintesi », ed essa « garantisce l’essere oggettivo solo in virtù degli elementi categoriali ». 4 Infatti, oggetti e stati di cose corrispondenti sono categorie formali che necessitano di un riempimento materiale per essere costituenti di cose reali e concretizzarsi, ma in sé hanno un essere non vincolato al loro riempimento, secondo la considerazione delle essenzialità descritta in precedenza, e sono indagate dall’ontologia formale, mentre l’apofantica formale si rivolge solo all’aspetto della validità del giudizio espresso. A livello di possibilità essenziale ad ogni stato di cose sussistente appartiene idealmente una conoscenza che lo
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Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 83. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 85. 4 Einführung in die Philosophie, ESGA 8, pp. 99-100. 3
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Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 83.
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verifica ed una proposizione vera nella quale la conoscenza si esprime, così che vi sono oggettualità formali, ontologiche e apofantiche. Stein conclude allora sospendendo il giudizio tra le posizioni estreme del realismo e dell’idealismo :
Se vogliamo sapere se la natura, di cui facciamo esperienza, abbia un essere assoluto, ossia che esiste indipendentemente da ogni soggetto che ne fa esperienza, dobbiamo arrivare alla chiarezza su come vadano considerati i dati sensibili. Abbiamo riconosciuto come indipendente dalla coscienza che fa esperienza la « forma » della natura che ordina il materiale sensibile e che regola il corso della nostra esperienza. In base al modo in cui dobbiamo considerare i dati sensibili (che costituiscono la materia della nostra esperienza della realtà), ossia se come puramente appartenenti al campo della soggettività o come introdotti « da fuori », decideremo per il punto di vista « idealistico » o « realistico », e considereremo la natura come « parvenza » (Erscheinung) o come « cosa in sé ». L’idealismo, così come lo capiamo, potrebbe non essere un idealismo « soggettivo », che pone la coscienza come l’unico essere assoluto, ma riconoscere una oggettività fondata sulle categorie, che sono a loro volta indipendenti dalla coscienza, e rendere solo la realtà dipendente anche dalla coscienza. Il realismo invece, che ci sembra un risultato possibile della ricerca condotta, potrebbe non essere un realismo « ingenuo », che recepisce con fiducia il mondo così come questo si offre ai sensi ; ma potrebbe tranquillamente considerare il mondo, nel modo in cui appare, come condizionato anche dalla struttura della soggettività. Decisiva è la convinzione che l’esistenza reale significhi qualcosa d’altro dalla semplice presenza (Vorhandensein) di decorsi di coscienza che seguono una regola oggettiva. Non prendiamo qui una posizione tra idealismo e realismo, ma lasciamo il problema aperto. 1
La disputa tra idealismo e realismo si decide, secondo questo passaggio, sul piano dei dati intuitivi che devono essere sistematizzati dalle categorie, alle quali invece è impossibile negare un’oggettualità indipendente dalla coscienza : l’analisi ha comunque dimostrato che l’idealismo non può essere assolutamente soggettivo ossia solipsismo, mentre il realismo non può essere ingenuo. Il testo prosegue poi con la sezione riguardante direttamente la soggettività e la costituzione dei suoi strati : qui sono riprese e approfondite alcune considerazioni che erano già state anticipate nella dissertazione sull’empatia e che verranno poi ulteriormente sviluppate nel lavoro riguardante la psicologia e le scienze dello spirito, di cui avremo modo di dire. Sintetizziamo qui i tratti generali di queste considerazioni, sia perché se ne deducono, almeno indirettamente, ulteriori elementi relativi alla disputa tra idealismo e realismo, sia perché si delineano i tratti generali di un’antropologia a cui Stein si manterrà, nelle linee di fondo, sempre sostanzialmente fedele e che avremo modo di ritrovare. Le indagini si aprono riprendendo la descrizione della persona anzitutto come soggetto della vita dell’io, della vita riflessiva, che viene caratterizzata come una funzione comune ad ogni ego, ma al contempo anche assolutamente individualizzante. La conoscenza immediata della coscienza si presenta come il dato di base ultimo e imprescindibile, in un livello in cui analisi soggettiva e ontologica non sono scindibili ; si tratta, secondo l’autrice, di « conoscenza » solo secondo un’accezione metaforica del termine, perché in realtà è un’apprensione originaria e diretta, non oggettivante, di un’appercezione (anche se Stein non usa tale termine), secondo la preminenza data alla presa d’atto, e che si è vista essere caratteristica di questo scritto. Conoscenza in senso
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Einführung in die Philosophie, ESGA 8, pp. 97-98.
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proprio può esserci solo del corso dei vissuti, del flusso, e per la sua possibilità vanno necessariamente presupposte coscienza originaria, ritenzione, riflessione, libertà della riproduzione e capacità di estrarre un contenuto identico da produzioni differenti : tratto quest’ultimo che determina il fatto che della coscienza si possa avere solo conoscenza, in senso rigoroso, di tipo essenziale. Se le considerazioni svolte finora hanno tentato di avviare l’indagine da una considerazione astratta del flusso di coscienza, ora il testo si rivolge ad un’analisi ontica della totalità persona, ossia del suo essere un ente costituito, tra gli altri del mondo. Stein descrive dettagliatamente le realtà del corpo proprio, della sensibilità, della capacità di movimento autonomo (ossia non determinato casualmente da altro) che si origina da un nucleo che presiede anche allo sviluppo, fenomeno questo che permette l’analisi della peculiarità umana in cui anche l’autodeterminazione, oltre ad un principio di spontaneità involontaria, regola il processo. L’esperienza di fatti indipendenti dall’io, come la crescita, o di alcuni sentimenti vitali, come stanchezza o freschezza, testimoniano che l’io sia collocato nel nucleo della persona, ma non lo esaurisca. C’è comunque sempre rapporto e ripercussione tra i vissuti pertinenti alle diverse sfere della persona (sensazioni corporali, stati d’animo, motivazioni spirituali), a testimonianza dell’intimo legame tra le « parti » di essa, che non vanno concepite come unità separate rigidamente, ma piuttosto come profondità diverse di un continuo. Oltre a trasmettere la dipendenza dell’io dagli agenti esterni, il corpo è anche viceversa mediatore della vita spontanea personale sul resto, è organo della volontà e di espressione, dunque possiede un ruolo la cui importanza era d’altronde già emersa. 1 Stein procede poi con la trattazione dell’anima (o psiche, i termini qui sono sinonimi), distinta ancora una volta dalla coscienza pura :
per psiche si intende una realtà del mondo, mentre la coscienza – colta in purezza – è libera e contrapposta al nesso di tutti gli enti – come ciò per la quale questo tutto è qui. Come un on (ente) del mondo reale la psiche si inserisce, allo stesso modo della cosa materiale, nella categoria suprema della realtà. 2
La psiche è nella temporalità oggettiva, mentre partecipa della spazialità solo in virtù della mediazione del corpo. L’insieme dei vissuti psichici, sganciato dal riferimento al mondo reale, forma il flusso puro della coscienza, mentre la vita psichica attuale è costituita da sensibilità e spiritualità connesse con la realtà : all’interno di questa vita, il carattere è determinato dall’affettività e dalla volontà, che indicano a loro volta l’apertura alla gerarchia dei valori, le oggettualità di questa sfera. La maggiore o minore apertura ad un determinato ambito di valori, secondo Stein, marca la peculiarità individuale, connessa intimamente con il nucleo personale cui si è accennato in precedenza. Ciò si esprime poi all’esterno, tanto che :
Tutto il mondo, di cui un individuo si occupa, porta l’impronta della sua personalità, dei suoi tratti tipici come della sua caratteristica personale. 3
Il nucleo della persona è l’essenza della persona, che non conosce sviluppo, ma solo dispiegamento. Di conseguenza :
Il nucleo della personalità – possiamo dire così riassumendo in breve i risultati da noi raggiunti 1
Cfr. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, pp. 101-123. 3 Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 124. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 144.
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fino a questo momento – è ciò che si dispiega nello sviluppo psicofisico della persona empirica rendendola una persona unitaria con qualità individuali. 1
Si prosegue poi con l’analisi della conoscenza dei fenomeni e degli strati propri della soggettività, che è resa possibile non solo dall’osservazione di sé, ma anche dal rapporto con altri : esperienza primaria nell’atteggiamento naturale, la conoscenza di soggetti diversi da sé è fondata fenomenologicamente nel vissuto dell’empatia. L’io proprio incontra un corpo fisico altrui e, al presentificarsi di vitalità e sensibilità, gli attribuisce le caratteristiche di un corpo vivente e quindi lo recepisce come un individuo psicofisico. Così però non si è ancora giunti a considerare l’altro come persona, ossia come dotato di capacità spirituali : ciò è possibile solo attraverso l’osservazione delle peculiarità espressive del corpo altrui ; anche queste, secondo Stein, vengono mediate dal corpo, ad esempio dagli occhi. Si riprendono qui considerazioni sul fenomeno dell’espressività già proprie del trattato sull’empatia, e su cui dovremo tornare in seguito nel dettaglio, perché sono particolarmente significative per una analogia della persona. Stein sostiene che l’espressività è solo in un certo senso assimilabile all’empatia, perché mentre nell’empatia un vissuto del soggetto altrui è posto assieme all’oggetto che percepisco direttamente, ma lo sguardo è anzitutto diretto all’elemento fisico originario (percependo una mano arrossata, solo successivamente empatizzo il freddo), nell’espressione si è rivolti direttamente al vissuto espresso, al significato, e non all’elemento fisico significante, che non è dunque l’oggetto naturale primario del vissuto. Avviene ciò che si riscontra nel linguaggio, con la differenza però che in esso c’è differenza tra significato ed oggetto, mentre nel caso dell’espressione fisica significante non si rimanda ad un qualcosa di oggettivo che si trova al di là ; il significato giace infatti direttamente ed immediatamente in essa. Se è vero che anche nell’espressione mimica deve esservi un rimando ad un termine generale, e che da parte sua anche la parola è in sé un dato individuale, la peculiarità dell’espressione mimica stessa è di portare immediatamente a datità ciò che vi è nell’anima. La gestualità, o più in generale l’espressività corporea non linguistica, possiede dunque per Stein un rimando diretto allo stato dell’esprimente, mentre il linguaggio parlato, mediato dalla generalità dei significati, non possiede la stessa immediatezza. Immediatamente dopo la conoscenza altrui, e come sottoparagrafo di questa parte dedicata alla conoscenza delle altre persone, si descrive poi il caso particolare del vissuto in cui, nelle situazioni disperate, capita di avvertire un immotivato sentimento di sicurezza che testimonia l’esistenza di Dio e la sua essenza di amore : di un Dio personale che si comunica.
Nel sentimento di sicurezza che si impossessa di noi proprio in una situazione “disperata”, quando ragionevolmente non vediamo via d’uscita e quando in tutto il mondo non c’è nessuno che abbia il potere o la volontà di consigliarci o di aiutarci : in un siffatto senso di sicurezza ci si offre una consapevolezza di una forza spirituale indipendente da ogni esperienza esterna. Non sappiamo che cosa sarà di noi, davanti a noi si spalanca un abisso verso cui la vita ci trascina senza pietà, procedendo e non tollerando passi indietro. Ma nel momento in cui pensiamo di precitare, ci sentiamo « nelle mani di Dio », che ci sostiene e non ci lascia cadere. In questo vissuto non ci viene manifestata solo la sua esistenza, ma diviene visibile nei suoi ultimi riverberi anche che cosa egli è, la sua essenza : la forza che ci difende, allorquando tutte le forze umane vengono meno ; che dona nuova vita quando riteniamo di spegnerci interiormente ; che for
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Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 144.
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tifica la nostra volontà quando essa minaccia di anchilosarsi. Questa forza appartiene ad un essere onnipotente. La fiducia che ci lascia supporre un senso della nostra vita anche laddove la comprensione umana non riesce a decifrarlo, ci fa conoscere la sua sapienza. E la fiducia che questo senso è un senso di salvezza, che tutto, anche le prove più dure, sono in ultima istanza al servizio della nostra salvezza ; che questo essere superiore ha misericordia di noi quando gli uomini ci abbandonano ; e che egli non conosce alcuna abiezione : tutto ciò ci rivela la sua perfetta bontà. 1
Tale considerazione, sulla cui valutazione Stein sospende il giudizio, è introdotta per mostrare come alcuni vissuti che pretendono validità mostrino la possibilità di una conoscenza spirituale non mediata da una apparenza sensibile esterna. In questo caso si ha, secondo l’autrice, una apprensione dell’altro sulla base degli effetti che manifesta in noi, anche se tale fenomeno, come tutti i vissuti empatici, deve poi essere sottoposto a verifica. Se in una persona noto modi di comportamento che non concordano con le caratteristiche a me note o con il comportamento tenuto fino a questo momento, e se le esperienze più diverse hanno una forza di convinzione tale che nonostante la contraddizione non vengono annullate, allora suppongo che ci siano influssi motivanti che hanno causato un cambiamento. 2
Vedremo come questa sorta di “motivazione immotivata”, che non si trasmette sensibilmente ma che poi sensibilmente manifesta i suoi effetti, rappresenti, a livello teorico e a livello esistenziale, la chiave di volta dell’analogia della persona steiniana. Così, procede Stein, dall’osservazione delle opere si può risalire alla personalità dell’autore. Anche nella conoscenza dell’altro, come in quella della natura, l’esperienza è guidata da schemi, che si costituiscono progressivamente su gradi diversi di esperienza ; alcuni di essi, quelli cioè che oltrepassano la percezione del corpo estraneo, non possono essere riempiti dalla semplice percezione esterna. Infine, si deve considerare altresì come gli atti che presentificano la coscienza estranea testimonino anche l’esistenza della coscienza propria. L’anima propria ha sempre già « coscienza » originaria di sé, mentre dei vissuti si possiederebbe solo « conoscenza ». Anche il corpo proprio si percepisce in modo radicalmente diverso nella percezione esterna, in quella interna psicologica e in una peculiarmente propria, differente dalle altre due. Stein sottolinea poi come l’analisi della persona ottenuta dalle indagini basate sull’esperienza di sé sia carente e vada integrata con l’esperienza dell’altro, che porta a definitivo riempimento alcune possibilità intuitive. Fintantoché ci si limita alla considerazione solo del proprio io, il corpo vivente apparirebbe come un qualcosa di assolutamente unico nella natura, sembrando un mero annesso della vita interiore psichica, un qualcosa che è racchiuso in essa anziché racchiuderla. Ma, come si ribadirà trattando più dettagliatamente dell’empatia, l’alterità risulta fondamentale anche per la possibilità dell’autoriflessione e dunque, parrebbe necessario concludere, anche se Stein non si spinge così avanti, per la possibilità del passaggio dalla vita ingenua alla vita cosciente.
In questi casi vediamo che una datità pienamente evidente relativa a persone – sia la propria che quella estranea – è possibile soltanto se l’esperienza propria e quella dell’altro si intrecciano e si completano vicendevolmente. In modo particolare l’unità della persona ci si fa incontro sul fondamento di questa cooperazione. Quello che abbiamo definito nucleo della persona, la radice formativa, a partire dal quale si forma in modo unitario tutto il suo essere interno e esterno, non 1
Einführung in die Philosophie, ESGA 8, pp. 171-172. Già citato : cfr. nota 2 alla p. 18 dell’Introduzione. Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 172.
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si può rinvenire se isoliamo le singole componenti dell’apprensione ; saremo condotti ad esso solo mediante l’osservazione dell’unità nella quale le diverse componenti si intrecciano. 1
Si tratta, evidentemente, di un ulteriore elemento che procede nella direzione di indirizzare un problema astrattamente teorico in una direzione più latamente personale. L’analogia della persona è necessaria alla costituzione dell’io stesso : la questione dell’idealismo monistico viene quindi superata su questo piano. Tuttavia non siamo in presenza di considerazioni che contrappongono fattori di tipo esistenziale o irrazionale alla considerazione fenomenologica, che si pretende scienza rigorosa ; né appunto viene sostenuto un realismo ingenuo. Piuttosto, è la stessa fondazione razionale che pare dover aprirsi inevitabilmente, secondo le esigenze ad essa intrinseche, all’alterità personale. Il testo procede poi con la sezione conclusiva, riguardante le scienze della soggettività : e se in qualche modo la sezione appena descritta e relativa agli strati della personalità sembra corrispondere a Idee ii, le considerazioni seguenti rimandano dal canto loro al terzo volume delle Idee stesse. Le discipline si formano, secondo Stein, sulla base degli strati del soggetto e dei suoi atti. Ci sarebbero dunque fisiologia, psicofisica, psicologia e scienze dello spirito. Le scienze dello spirito si dividono in aprioriche ed empiriche (quest’ultime hanno a che fare con oggettualità reali) e la loro peculiarità rispetto alle discipline che riguardano la natura è il doversi occupare di individualità non generalizzabili. Si tratta infatti di singolarità uniche, portatrici di uno stato qualitativo proprio non semplicemente numerico, ossia non sono semplici casi di una molteplicità. Lo storico, ad esempio, dovendo descrivere una personalità, per la quale parlando con rigore solo il nome proprio risulta appropriato, potrà procedere attribuendole unità di senso che concorrono a formare una unità individuale, nella consapevolezza che l’esattezza matematica in questo campo si rivela impossibile e che dunque si tratta di scienze più simili all’arte che alle discipline matematiche e naturalistiche. Il problema risulta nuovamente quello dell’espressione, ossia di ciò che permette l’accesso all’unità di senso, così come si era visto per i rapporti tra corpo proprio e vita spirituale. Si prende la storia quale esempio e si intraprende una disamina della nozione di fonte, considerando come tale ogni elemento espressivo che consenta di cogliere la vita spirituale trascorsa. Le fonti vanno sottoposte a determinazione, interpretazione e critica. Un’interpretazione totalmente esauriente degli avvenimenti storici in tutto il loro portato di senso, così come avviene d’altronde anche per la realtà presente, non è, secondo lei, mai raggiungibile, ma ci potranno essere solo approssimazioni successive, che coglieranno strati differenti : anche le letture degli avvenimenti condotte da diverse ottiche (politica, storica, economica ecc…) non devono far propendere per un relativismo interpretativo, ma indicano la molteplicità di sensi racchiusi in un evento. L’indagine sulle scienze dello spirito, che si originava necessariamente dall’osservazione dei vissuti psichici, richiede inoltre la presa in considerazione degli elementi psicologici e fisiologici che vi sono inevitabilmente intrecciati. Ancora una volta, dunque, le dettagliate descrizioni di Stein in questa opera rimandano, stavolta con dovizia di analisi, ad una posizione che si sottrae sia ad un idealismo assoluto e soggettivo, sia ad un realismo ingenuo ; Stein si distanzia esplicitamente da entrambe le posizioni. Si è sottolineato inoltre il ruolo che la soggettività altrui sembra rivestire, secondo una linea di considerazioni che la filosofa segue sin dal trattato
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Einführung in die Philosophie, ESGA 8, p. 199.
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dell’empatia, e che vanno nella direzione di rendere necessaria l’apertura dell’io ad altri. Se infatti il punto di partenza certo ed indubitabile della filosofia è il soggetto proprio e la riduzione trascendentale da lui operata, che mette tra parentesi tutto il resto del mondo, lo stesso io ha poi bisogno di altri anche per raggiungere una costituzione di sé ; certo, la presenza di un soggetto estraneo non sembra mettere in questione il livello costituivo originario, ma solo la costituzione psicofisica. Eppure, nel momento in cui ad esempio il corpo proprio può costituirsi come tale solo grazie al rapporto con altri, sembra legittimo domandarsi quanto tale rapporto non metta in questione anche una riduzione trascendentale condotta solitariamente dall’io proprio. La posizione steiniana, in effetti, sembra presupporre in qualche modo aproblematicamente la coincidenza dell’io trascendentale con l’io proprio : una volta operata la riduzione, altri io si presentano alla coscienza : e se ne guadagnano gli strati costitutivi, che poi retroagiscono sugli stessi strati costitutivi dell’io proprio. Piuttosto che lavorare nella direzione di un approfondimento di questo problema, come vedremo, Stein scioglierà il nodo basandosi sull’altro elemento che, abbiamo sottolineato, si presenta nell’ambito della conoscenza delle persone estranee : ossia il vissuto di conoscenza di un’alterità spirituale non mediata sensibilmente e che riempie di forza vitale. I due aspetti sono comunque chiaramente in connessione. Si è evidenziato infine, in questo testo, un riferimento privilegiato piuttosto insolito al criticismo kantiano, nell’utilizzo di una determinata terminologia, ma più in generale come ispirazione teorica di fondo. Con riferimento generico proprio a Kant, un altro scritto da cui trarre elementi per desumere le posizioni steniane sulla contrapposizione tra idealismo e realismo è la recensione di un’opera di Gertrude Kusnitzky, dal titolo Esperienza di natura e coscienza di realtà, pubblicata appunto su Kant-Studien e risalente al 1920. 1 Stein espone il pensiero dell’autrice, secondo la quale nella conoscenza delle cose si presenta immediatamente il loro essere, che non è né un valore, né un genere comune, ma viene appreso senza concetto. Nel caso della manifestazione sensibile si avrebbe infatti una auto-rivelazione della cosa e non il darsi di un senso, come per le parole o l’espressione corporale : si tratterebbe piuttosto dell’apprensione di un assoluto nelle cose, come avviene per la vita interiore. Il reale si dà nell’esperienza tramite gli enti, ma non l’essere. L’autrice distinguerebbe poi il modo di datità degli enti a seconda che essi siano cose (Dinge), o persone. Le prime verrebbero conosciute per ideazione dell’individuale dato nella percezione sensibile (al fondo della quale ci sarebbe una materia originale già sempre categorizzata) e il vissuto in cui si darebbero è sempre costituito da un’unione di essere e « essere tale » (Sosein). Lo stesso avverrebbe nella persona, con il rapporto tra l’io (fondo da presupporre, ma inconoscibile) e i suoi atti. Dopo l’esposizione, Stein nota come il lavoro risenta dell’influsso di Husserl e Scheler e come l’autrice, pur richiamandosi al trascendentalismo, se ne distacchi sostenendo che gli apriori materiali siano delle essenzialità in sé, mentre le forme sarebbero date dalla coscienza. Si conclude infine ribadendo come il problema della costituzione vada sollevato anche per le oggettualità categoriali e come, una volta deciso il loro statuto più o meno indipendente dalla coscienza, non si sia comunque ancora presa posizione per l’idealismo o il realismo. Le questioni più specificamente antropologiche ed in particolare la trattazione della vita psichica sono approfondite da Stein nello scritto dedicato alla psicologia e alle
1 Cfr. Recensione a G. Kusnitzky, Naturerfahrung und Realitätsbewußtsein, « Kantstudien », 24/4 (1920), pp. 402-405.
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scienze dello spirito, pubblicato sullo Jahrbuch husserliano nel 1922 (ma redatto già nel 1919-20). 1 Rilevante per noi, come ribadiremo, è soprattutto la trattazione della motivazione. Basandosi sulle lezioni husserliane dedicate al tempo, cui aveva avuto accesso privilegiato, Stein procede in queste pagine all’analisi degli strati originari dell’io nel flusso di coscienza. La psicologia si presenta quale scienza obiettiva dei vissuti costituiti nel flusso, per cui lo psichico è definito come l’insieme immanente dei dati trascendenti, mentre la coscienza è il trascendente dei dati immanenti. Correggendo una teoria degli atti volitivi già impostata da Alexander Pfänder, Stein descrive la motivazione come il legame che ordina il nesso dei vissuti nell’io puro, e che poi regola il loro tendere ad un oggetto sul presupposto dell’intenzionalità : oltre ad essere lo stadio più complesso di aggregazione di vissuti, quello cioè delle scelte consapevoli, la motivazione si presenta anche come il più basilare, perché la legalità e il nesso tra vissuti stessi è descritto come radicato in un rapporto di motivazione. Si danno casi – quali i motivi inconsci o il paradosso agostiniano del volere ciò che non si vuole – che non possono essere spiegati mediante la teoria di Pfänder della volontà quale autodeterminazione e fondamento della vita dell’io puro : la motivazione quindi non può essere pensata solo come culmine auto trasparente della vita dell’io. Stein suggerisce allora un’impostazione che, descrivendo l’azione motivata come l’ascolto di un’esigenza interiore a cui l’io può rispondere più o meno affermativamente, la riconduce o quantomeno la radica in un livello che precede l’obiettivazione e che si costituisce nell’immanenza del flusso. Sembrerebbe quasi possibile parlare, nel pensiero steiniano, di un fondamento motivazionale del flusso temporale. Tuttavia tale fondamento non inficerebbe il ruolo né dell’io puro, né della riduzione. Come detto, torneremo su questi passaggi, che sono decisivi per rinvenire una piegatura « personalistica » della fenomenologia steiniana, ma che in qualche modo vengono ad essere anche risposta al dilemma tra impostazione realistica ed idealistica della fenomenologia : si riscontra un piano di rapporto motivazionale, e quindi piuttosto orientato personalisticamente, a costituzione della stessa costituzione trascendentale : più trascendentale del trascendentale, verrebbe da dire, senza essere nuovamente ontologico. Ma seguiamo per ora ancora nello specifico la questione delle posizioni steiniane relative al presunto idealismo husserliano, soffermandoci su un ulteriore testo che, tra l’altro, costituisce la prima testimonianza di una presa di posizione filosofica dopo il battesimo : si tratta dell’articolo intitolato Cos’è la fenomenologia ? pubblicato nel 1924. 2 Il testo sostiene che la filosofia moderna sarebbe divisa in due grandi filoni scarsamente comunicanti, quello del pensiero cattolico che prosegue la scolastica, rifacendosi generalmente soprattutto a Tommaso, e quello della filosofia che per eccellenza si definisce « moderna », e che inizierebbe con il Rinascimento e troverebbe il suo culmine in Kant. Negli anni recenti, afferma Stein, le due correnti si sarebbero finalmente aperte a conoscenza reciproca e nessuno da parte non-cattolica avrebbe preparato il terreno per tale incontro, anche se inconsapevolmente, come Husserl ; si ricostruiscono allora rapidamente i tratti fondamentali del pensiero del maestro, notando tra l’altro come la fenomenologia sia nata con le Ricerche Logiche ma abbia trovato la sua definitiva si
1 Cfr. Beiträge zur philosophischen Begründung der Psychologie und der Geisteswissenschaften, ESGA 6. Questo testo costituisce il primo tentativo steiniano di abilitazione : cfr. B. Beckmann-Zöller, Einführung a Beiträge zur philosophischen Begründung der Psychologie…, ESGA 6, pp. ix ss. 2 Cfr. Was ist Phänomenologie ?, « Wissenschaft / Volksbildung – wissenschaftliche Beilage zur neuen pfalzischen Landes-Zeitung » 5 (1924) (ora anche in « Theologie und Philosophie » 66 (1991), pp. 570-573).
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stematizzazione solo in Idee, e sottolineando dunque più la continuità che gli eventuali elementi di rottura tra i due testi. Quali elementi precipui del pensiero fenomenologico, Stein descrive la tendenza all’essenzialità e all’obiettività nella conoscenza, contro ogni forma di relativismo ; il fatto che la verità venga scoperta e non generata (erzeugt) ; l’importante ruolo attribuito all’aspetto intuitivo della conoscenza (carattere presente, secondo Stein, in tutti i grandi filosofi, sia pur in misura diversa), per cui la filosofia non sarebbe una scienza né deduttiva, né induttiva, metodi che la possono solo aiutare ma che devono essere fondati dal « vedere spirituale » : con quest’espressione, d’altronde, non andrebbe intesa una forma di intuizione mistica. L’aspetto intuitivo del conoscere, che sarebbe estraneo sia alla tradizione aristotelico-tomista che a quella neokantiana, osserva poi l’autrice, potrebbe invece trovare dei precursori nella scuola agostinianofrancescana. Stein si sofferma quindi esplicitamente sul presunto idealismo husserliano, che avrebbe permesso di accostare il fondatore della fenomenologia al neokantismo : si tratta di un elemento controverso e discusso, perché se idealismo significa in generale dipendenza del mondo dalla coscienza, non è chiaro se Husserl lo abbia effettivamente sostenuto ; nelle Idee si legge, infatti, che eliminando la coscienza sparirebbe anche il mondo, e Scheler e i monachesi si sono schierati duramente contro tale posizione ; ma Husserl sarebbe stato solito ripetere che la fenomenologia non coincide con l’idealismo. Tuttavia, la mancanza di recenti contatti diretti con il maestro le fa concludere sospendendo il giudizio relativamente alla posizione husserliana, non potendo sostenere con certezza che egli si esprima ancora come un tempo. L’idealismo, conclude Stein, sarebbe comunque una scelta personale e non una conseguenza della fenomenologia, che può avere e di fatto ha avuto sviluppi realistici (vengono citati Reinach e Conrad-Martius) ; l’accusa di idealismo sarebbe altresì attribuibile solo a pochi passi husserliani, non in grado tra l’altro di disturbare il senso generale della sua filosofia. Che la decisione sull’ultima fondazione razionale sia più che altro il frutto di una scelta personale, sarà sostenuto da Stein anche in una lettera ad Ingarden del Dicembre 1927, nella quale, a seguito della ripresa dei contatti tra lei ed Husserl, afferma :
Il fatto che sulla strada del problema della costituzione (che io non sottovaluto) si dovesse o si potesse giungere all’idealismo, non lo credo. Mi sembra che questa domanda non sia assolutamente decidibile per vie filosofiche, ma sia già sempre decisa quando uno inizia a filosofare. E poiché qui si esprime subito anche una posizione personale, è comprensibile che anche in Husserl questo punto resti indiscutibile. 1
Così, in un’altra lettera di poco precedente Stein critica il realismo assoluto dell’amico, sostenendo che si fonda paradossalmente sugli stessi presupposti dell’idealismo :
A pagina 3 [Stein si riferisce allo scritto di Ingarden Űber die Stellung der Erkenntnistheorie im System der Philosophie] si sostiene che il soggetto della teoria pura della conoscenza sia libero da condizionamenti empirici : su questo non Le crederà nessun uomo (eccetto qualche feno
1 BI, ESGA 4, p. 185. In questa lettera Stein manifesta anche sorpresa e ammirazione per Heidegger, che sino a quel momento aveva giudicato solo sulla base degli effetti che il suo lavoro produceva nella scuola husserliana ; la lettura di Essere e tempo, come ribadiremo, la colpisce molto e prevede che anche Husserl resterà sbalestrato. Stein condivide allora il giudizio di Ingarden, secondo cui « Heidegger sarebbe qualcosa di grande, che potrebbe metterci tutti in tasca ». Potenza ed atto, ma poi anche Essere finito ed essere eterno, saranno profondamente influenzati dal pensiero di Heidegger. In appendice ad Essere finito ed essere eterno si trova un testo dal titolo Martin Heideggers Existenzphilosophie, dedicata ad un confronto critico con Essere e tempo, L’essenza del fondamento, il Kant-Buch e Was ist Metaphysik (cfr. EeS, ESGA 11/12, pp. 443-499).
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menologo di stretta osservanza husserliana e qualche neokantiano, che sono abituati a pensare trascendentemente). Anche filosofi che vanno presi molto sul serio ritengono un fatto inevitabile che colui che fa teoria della conoscenza, come tutti gli altri uomini, compia i suoi atti sotto le condizioni della natura umana e non possa farne a meno così come non può saltare sulla propria ombra […] . Io pongo un grosso punto di domanda dietro la concreta assolutezza e libertà di questa disciplina [la teoria della conoscenza] da ogni dogmatismo. Ossia io concedo l’indipendenza […] da ogni altra scienza e anche la funzione che essa ha per le altre scienze. Ma discuto la possibilità di fondarla scientificamente. Ella inizia con una posizione, la posizione della conoscenza, al contempo sia come fatto che come idea. 1
È interessante, quindi, osservare come anche dopo la conversione Stein mantenga posizioni molto simili alle precedenti riguardo alla questione dell’impostazione idealistica o realistica da assegnare al metodo fenomenologico. In Potenza ed atto, perciò, testo maturo redatto agli inizi degli anni ’30 e che costituisce la prima versione di Essere finito ed essere eterno, si ritrova ancora una volta l’indecidibilità tra idealismo e realismo. Nel paragrafo dedicato proprio all’idealismo trascendentale Stein analizza ancora una volta approfonditamente tutto il problema, ribadendo le sue posizioni, formulandole però a partire dal confronto con presupposti nuovi. 2 In queste pagine viene descritto anzitutto il punto di vista husserliano, presentato come un tentativo di eliminare quello che nella filosofia kantiana era il residuo della « cosa in sé » :
« Cosa » e « mondo oggettivo » (dingliche Welt) qui non sarebbe niente di più di un titolo per un insieme di atti, nei quali un soggetto spirituale (al livello più alto una comunità intersoggettiva di monadi che comprende scambievolmente il mondo), procedendo di atto in atto secondo una ferrea legalità motivazionale, dona senso ad un materiale sensibile predato ed in sé privo di senso, costruendo con ciò un oggetto intenzionale. 3
Si noti sia il riferimento alla comunità intersoggettiva monadica, su cui torneremo immediatamente, e che presuppone la lettura dello Husserl di quegli anni ; sia la descrizione della vita di coscienza come « legalità motivazionale ». Stein sottolinea come il mondo sembri presentarsi con una esistenza indipendente alla coscienza stessa, e dunque come la fedeltà ai fenomeni dovrebbe condurre ad una descrizione di esso come assolutamente esistente. Si rivolge poi però alle possibilità della memoria e della fantasia, che a loro volta sembrano conferire al soggetto una certa libertà sul mondo stesso, ma che non sembrano inficiarne, anzi ne presuppongono, l’esistenza oggettiva. Per altro verso, ogni « senso », ogni carattere con cui si presentano i vissuti, è un carattere che essi ricevono negli atti soggettivi in cui si costituiscono.
Si può dire che l’essere obiettivo del mondo di esperienza significa che con l’offrirsi di determinati dati sensibili quali dati assieme immanenti e trascendenti vengono motivati, in un soggetto 1
BI, ESGA 4, pp. 161-162. Cfr. Potenz und Akt. Studien zu einer Philosophie des Seins, ESGA 10, pp. 235 ss. Il testo era stato scritto per un rinnovato tentativo di abilitazione a Friburgo e presentato a Heidegger. Sulle circostanze storiche che hanno portato alla sua elaborazione cfr. H.-R. Sepp, Einführung a Potenz und Akt, ESGA 10, pp. xi ss. Heidegger suggerì a Stein di rivolgersi a Honecker, che teneva la cattedra concordataria : la questione è stata ricostruita anche da H. Ott (che ha pubblicato gli appunti di Honecker al citato testo Potenza ed atto di Stein) : cfr. H. Ott, Edith Stein (1891-1942) in Freiburg, « Freiburger Diözesan-Archiv », 107 (1987), pp. 253-274 ; e Id., Edith Stein und Freiburg in R. L. Fetz, M. Rah e P. Schulz (a cura di), in Studien zur Philosophie von Edith 3 Stein, cit., pp. 107-139. Potenz und Akt, ESGA 10, pp. 235-6 2
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con determinate strutture, atti che gli presentano davanti agli occhi un mondo oggettivo con il carattere fenomenale dell’indipendenza dell’essere ? 1
Se così è, prosegue il testo :
Sembrerebbe che i diversi possibili modi di datità del mondo osservabile (anschauliche Welt) non vadano interpretati in modo ontico, ma possano essere chiariti in modo soddisfacente grazie a queste leggi di costituzione (Auf baugesetze) della vita spirituale. 2
Stein si rivolge allora alle Meditazioni cartesiane, definendole il modello di dottrina della costituzione sinora « più chiuso » da lui elaborato. 3 Ogni monade, si riassume, ha il suo proprio mondo, in cui compaiono altri soggetti che sembrano analogabili all’io proprio e a cui quindi si possono attribuire mondi analoghi. Nello scambio e nella comprensione con altri si costituisce un mondo intersoggettivo, che tuttavia, evidentemente, resta diverso dall’idea di un mondo oggettivo. Stein si appella allora alla nozione heideggeriana di Dasein e alla conseguente fatticità (Faktizität) con cui è comprensibile l’io.
Il vero io si trova « nell’esistenza » (im Dasein) e la sua esistenza, come dato di fatto (Tatsache) non è separabile da lui, anche se può pensare alla possibilità del suo non essere. 4
L’evidenza dell’io e della sua fatticità, per Stein, non possono essere smentite, al contrario di quello che avviene nel caso di tutte le altre percezioni e conoscenze. Certo, l’io ha una certa libertà su di sé, ma questa di fonda su una « non libertà », quella dell’essere « posto nell’esistenza » (ins Dasein gesetzt). 5
Così, l’io si trascende nella direzione di qualcosa in cui ha il fondamento del proprio essere (ossia una trascendenza opposta a quella dell’idealismo trascendentale).
Il mondo esterno non possiede il grado di assolutezza né dell’io (mostrata dal dubbio iperbolico), né tantomeno quella del fondamento dell’io stesso appena chiamato in causa (e che non si descrive più dettagliatamente). Nel mondo troviamo le altre « monadi ». Che cosa conferisce alla loro esistenza (Dasein) un primato rispetto alle altre cose del mondo ? Che io le concepisca come analoga di me stesso (Analoga meiner selbst). Quella cosa che è il suo corpo vivente annuncia una vita soggettiva analoga alla mia e motiva il fatto di credere (Glaube) ad un’esistenza che per altri è un fatto assoluto, proprio come la mia lo è per me. Ma per me essa non possiede questa fatticità assoluta ; è invece sottoponibile al dubbio proprio come quella delle cose materiali. 6
Ciò che infatti percepiamo come un’altra persona, potrebbe sempre rivelarsi un fantoccio. Potrei essere in un sogno o delirare. Certo, continua il testo, l’idealismo non sostiene la dipendenza materiale del mondo da un soggetto, nel qual caso sarebbe solipsismo ; ma solo la relatività di un mondo rispetto ad individui con una certa struttura, che lo costituiscono nella loro vita intenzionale. Non ha senso parlare di un ente che assolutamente e di principio non possa venir esperito : l’essere non coincide con l’essere conosciuto ; ma « ciò che non è spirituale non può provenire da sé » (Ungeistiges kann nicht aus sich selbst sein) ». 7 Allora, si può concludere anche qui, con posizioni simili a quelle espresse nell’Introduzione alla filosofia :
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Potenz und Akt, ESGA 10, pp. 242-243. Potenz und Akt, ESGA 10, p. 243. 5 Potenz und Akt, ESGA 10, p. 243. 7 Potenz und Akt, ESGA 10, p. 245. 3
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Potenz und Akt, ESGA 10, p. 243. Potenz und Akt, ESGA 10, p. 243. 6 Potenz und Akt, ESGA 10, p. 245. 4
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È molto giusto sostenere che il mondo, nel modo in cui ci appare, per manifestarsi in tali corsi di apparizioni (Erscheinungsverläufen), deve essere ordinato a soggetti del nostro tipo. 1
Allo stesso tempo, procede lo scritto, non è privo di senso sostenere come forse l’essere del mondo non sia esattamente coincidente con questo suo apparire e sia invece pensabile un essere del mondo creato di fronte a Dio. Ciò prova, secondo Stein, che una impostazione trascendentale e costitutiva non sia inevitabilmente in contrapposizione con l’insegnamento della fede riguardo alla creazione, sebbene relativizzi alle strutture del soggetto molto di quanto la posizione realista considera assoluto. Stein sostiene dunque, ancora una volta, una sorta di correlazione necessaria tra soggetto costituente e mondo. Rifiuta il realismo ingenuo e arriva a sostenere la compatibilità dell’impostazione trascendentale con l’insegnamento dottrinario cattolico. Oltre all’equilibrio mostrato relativamente alla questione del rapporto tra io proprio e mondo, si deve sottolineare qui come Stein si avvicini alla considerazione della sfera intersoggettiva orizzontale, stavolta mediata dalle considerazioni husserliane delle Meditazioni cartesiane, per trovare una via d’uscita alla disputa tra idealismo e realismo ; ma come infine prediliga, secondo quanto si accennava, e con un movimento teorico che sarà espresso in modo più articolato in Essere finito ed essere eterno, rivolgersi al fondamento assoluto della vita dell’io, concepito ora a partire da categorie heideggeriane. In quelle pagine, secondo quanto avremo modo di descrivere dettagliatamente, è la finitezza temporale la base del riferimento a Dio. Potenza ed atto testimonia perciò che all’inizio degli anni ’30 Stein continua a seguire il dibattito fenomenologico e ad interessarsi della situazione riguardante la sua scuola filosofica di origine. Altri manoscritti lo confermano : nel Significato della fenomenologia come visione del mondo, 2 Stein nota che oramai « per vaste cerchie di persone interessate alla filosofia, il nome di Husserl viene quasi dopo quelli di Max Scheler e Martin Heidegger ». 3 Si prende in esame quale « visione del mondo » (Weltanschauung) abbiano questi tre filosofi, ossia che impostazione metafisica generale si possa ricavare dalle loro opere. E mentre si descrive ancora una volta il percorso di Husserl evidenziandone la continuità e mettendo altresì in rilievo come egli abbia voluto fondare un metodo piuttosto che una sistema, la questione della « svolta trascendentale » è affrontata nello specifico attraverso l’analisi delle critiche che Scheler gli ha rivolto : si sottolinea infatti come quel processo che è il costruirsi (Auf bau) del mondo secondo gli atti della coscienza, e che è definito da Husserl come « costituzione » (Konstitution), abbia suscitato molte polemiche. Stein sostiene che :
la scoperta della sfera della coscienza e della questione della costituzione è sicuramente uno dei grandi guadagni husserliani, che oggi viene valutato troppo poco. Ciò che fece scandalo nel circolo dei suoi amici ed allievi fu una conseguenza – a nostro avviso non necessaria – che egli trasse dal fatto della costituzione : quando determinati e regolati corsi di coscienza portano necessariamente al fatto che un mondo oggettivo viene a datità per il soggetto, allora essere oggettivo significa solamente essere dato così e così per una coscienza. 4
1
Potenz und Akt, ESGA 10, p. 246. Cfr. Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie, ESW vi, pp. 1-17 ; il testo è databile intorno agli anni ’30 per la menzione delle Ricerche Logiche come un testo di trenta anni prima, per il riferimento alle Meditazioni cartesiane e per il fatto che si parla della morte di Scheler, avvenuta nel 1928. Cfr. L. Gelber, Vorwort a ESW vi, pp. xviii-xix. 3 Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie, ESW vi, p. 4. 4 Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie, ESW vi, p. 10. 2
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analogia dell ’ ente
Questa posizione, osserva Stein, definita « idealismo trascendentale », ha preso negli ultimi scritti husserliani la piega di una fondazione intersoggettiva della costituzione. 1 A Scheler ed ai suoi discepoli non è parso accettabile questo che sembrava un ritorno al kantismo, sebbene, si nota significativamente, Husserl « riconosca il loro [dei realisti] modo di ricerca e mostri di metterlo in un ordine sensato dal suo punto di vista. » 2 Scheler d’altronde ha apportato un grande contributo nei campi dell’etica, della filosofia della religione e della sociologia, ma il suo limite, secondo Stein, è stato quello di possedere un modo tipicamente intuitivo di filosofare, privo di approfondimento rigoroso ; ecco la causa probabile del suo non aver mostrato alcuna comprensione per la problematica della costituzione. Heidegger, invece, colloca l’uomo direttamente nell’esistenza concreta, ed è simile in ciò a Scheler ; ma al contempo la sua scelta di incentrare le analisi sull’uomo, lo rende accostabile a Husserl. Stein nota altresì come il Dasein heideggeriano non sia riconducibile né all’io puro, né all’uomo dell’antropologia empirica o delle scienze dello spirito, ma indichi l’essere gettato nell’esistenza, una struttura d’esistere radicalmente temporale che è accompagnato da una strutturale oscurità e vive fondamentalmente nel modo della cura. Quale significato materiale e formale – si chiede Stein – apportano queste tre diverse impostazioni alla filosofia in generale ? Per quanto riguarda Husserl si afferma che se le monadi sono concepite in modo radicale non può più esserci posto per Dio, nonostante Husserl pretenda esplicitamente che nella fondazione intersoggettiva ci sia ancora spazio per le grandi questioni di etica e di filosofia della religione ; il metodo husserliano, d’altro canto, avrebbe apportato rigore, obbedienza alle cose ed umiltà nella ricerca, e non a caso avrebbe permesso a molti suoi discepoli di avvicinarsi al cattolicesimo. Ciò è vero anche delle analisi materiali di Scheler, soprattutto di quelle del suo periodo centrale, che Stein definisce come fondate su un modello agostiniano, ma anche più vicine a Tommaso di quanto sia parso a molti commentatori neoscolastici. Scheler ha descritto una scala di valori e di esseri che culmina in Dio : alla mancanza di rigore è attribuito però anche il fatto che Scheler, nelle parole di Stein, abbia alla fine « perso ciò che era più essenziale. » 3 Il suo modo di portare avanti la filosofia potrebbe essere descritto come quello dello sguardo aperto e fiducioso (che non sempre, però, si presenterebbe tout court come un elemento positivo), contrapposto all’approccio critico ed esaminatore di Husserl. Su Heidegger, invece, Stein rileva come sia ancora prematuro dare un giudizio, perché seppur molto nelle sue opere vada in direzione del nichilismo, vi sarebbero espressioni che lascerebbero aperte altre possibilità. Affascinante, confessa Stein, è comunque tutto il suo incedere filosofico. Questo breve scritto si conclude poi con il richiamo ancora una volta al motto paolino, che sollecita a vagliare tutto e tenere ciò che è buono. 4 Stein si trovò ancora a prendere posizione sulla fenomenologia in occasione della
1 Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie, ESW vi p. 10. Nello stesso volume degli Edith Steins Werke è pubblicato anche un manoscritto steniano intitolato Edmund Husserl e la crisi delle scienze europee (pp. 35-38), che però si limita ad una rapida descrizione di quest’opera del fondatore della fenomenologia, osservando come egli finalmente abbia intrapreso ricerche di storia della filosofia. Tra le poche osservazioni di commento, Stein sottolinea come in Husserl manchino tuttavia riferimenti alla filosofia medievale. 2 Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie, ESW vi, p. 11. 3 Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie, ESW vi, p. 14. 4 Die weltanschauliche Bedeutung der Phänomenologie, ESW vi, p. 16.
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Journées d’études de la Société thomiste tenutasi nel Settembre del 1932 a Juvisy, e dedicata al tema della fenomenologia. 1 Il metodo fenomenologico, sostiene Stein intervenendo nel dibattito, non è propriamente deduttivo, ma procede in modo ostensivo e riflessivo : partendo infatti dal mondo dato nell’atteggiamento naturale, si risale con analisi regressiva a descrivere gli atti in cui il mondo stesso si costituisce per la coscienza e infine il flusso temporale in cui a loro volta gli atti stessi si costituiscono come unità di durata ; a ciò però si affianca un processo inverso, che partendo dall’io trascendentale mostra come in questa vita attuale si costituiscano gli atti e i loro correlati obiettivi a diversi livelli. In poche righe, quindi, si espone il metodo husserliano come risalita all’io trascendentale quale campo di certezza (e al suo livello costitutivo temporale) e il successivo riguadagno della realtà su basi sicure : un movimento che si ritroverà in Essere finito ed essere eterno. 2 Stein allora ricostruisce il percorso husserliano, accennando ancora a Scheler, Heidegger e stavolta, in riferimento alle Meditazioni cartesiane, anche ad Eugen Fink, del quale rileva il fatto che sia stato allievo di Husserl nel periodo in cui il maestro era incentrato sul problema dell’idealismo trascendentale, e che sia stato influenzato anche da Fichte e da Hegel ; Stein si sofferma poi sull’influsso reciproco tra il fondatore della fenomenologia e Natorp, che però viene individuato più nei problemi che nel metodo, perché il neokantismo partirebbe dal dato di fatto delle scienze, deducendone poi le condizioni trascendentali, mentre Husserl rifiuterebbe la presupposizione anche delle scienze e adotterebbe appunto un metodo riflessivo. Riguardo alla questione della continuità tra le Ricerche logiche e le Idee, viene detto qui molto significativamente che la prima opera, ed in particolare la quinta e la sesta ricerca, contengono temi che avrebbero chiaramente dovuto condurre alla posizione della costituzione trascendentale, e che Husserl sarebbe potuto arrivare sino a quell’esito generale anche senza passare attraverso il dubbio cartesiano. 3 Infine, riguardo alla questione che più di ogni altra interessava quello specifico uditorio, ossia i rapporti tra la fenomenologia e il tomismo, Stein sostiene che l’elemento centrale di somiglianza è l’analisi delle essenze, che anche nella filosofia di Husserl non sarebbe una visione immediata, ma un intus legere implicante un processo di astrazione e di espunzione dell’accidentale. Però, procede Stein, c’è probabilmente differenza sull’ampiezza ammissibile alla conoscenza d’essenza, equiparata qui alla conoscenza dei principi. Si sofferma poi sulla necessità di rinvenire un punto di partenza assolutamente certo per la filosofia, esigenza giustificata dalla possibilità dell’illusione e dell’errore, e sostiene che sia Tommaso che Husserl hanno considerato la conoscenza come naturalmente rivolta al mondo esterno. La riduzione trascendentale sembra giustificata metodologicamente dalla necessità di rendere evidente la sfera degli atti costituenti ; tuttavia ci si può chiedere, e qui vengono citati i lavori di Conrad-Martius, se il fenomeno della realtà non costringa ad abbandonare la riduzione e a non poter fare a meno della nozione di esistenza. Si pone allora la difficile questione del materiale hyletico cui l’atto intenzionale, specialmente nella percezione, deve già sempre far riferimento ; l’intenzionalità, secondo la filosofa, permette di evitare l’idealismo berkeleyano, mentre il kantismo resta una possibilità aperta, incapace però di provare la relatività esistenziale del mondo esterno. 4 La pienezza di esistenza e di essenza che riempie il soggetto, e
1
La Phénoménologie. Juvisy 12 septembre 1932, in Journées d’études de la Société Thomiste, Vol. i, Kain-Juvisy, La Saulchoir-Cerf, 1932, pp. 101-111. 2 3 Cfr. La Phénoménologie, cit., pp. 101-102. Cfr. La Phénoménologie, cit., pp. 102-103. 4 Partendo dall’osservazione che al di fuori della cultura occidentale, in un’ottica non egocentrata e non
4. Filosofia egocentrica e teocentrica 61
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che eccede la possibilità di misurazione da parte della coscienza, è però un argomento molto importante, secondo l’opinione di Stein in questo testo, contro la riduzione e contro la tesi di una semplice donazione di senso da parte del soggetto. È quindi l’analisi fedele della datità della realtà, conclude Stein, che permette di propendere per la tesi realista. 1 Ma al confronto più esplicito tra fenomenologia e pensiero di Tommaso d’Aquino erano state dedicate alcune riflessioni precedenti, cui ora ci rivolgeremo nel dettaglio. Riassumendo brevemente i risultati di questo lungo paragrafo, in cui abbiamo cercato di seguire la posizione della fenomenologia steiniana relativamente alla controversia tra idealismo e realismo, possiamo ribadire come : Stein aveva rintracciato in Tommaso l’equivocità dell’essere sulla scorta del ruolo inaggirabile della coscienza in ogni considerazione sulla realtà e sull’essere stesso ; la contrapposizione tra primato della conoscenza o della realtà, con cui Stein affronta inizialmente il rapporto tra pensiero moderno e medievale, è rintracciabile già nella disputa tra idealismo e realismo in fenomenologia ; rispetto a tale questione, Stein ha idee oscillanti, che però non le fanno mai prendere posizione in modo deciso per una impostazione : il realismo ingenuo, così come l’idealismo assoluto, vengono entrambi rifiutati ; tali oscillazioni derivano anche da contingenze, in tutti i sensi, personali (rapporto di lavoro con Husserl, amicizia con i fenomenologi « realisti », conversione religiosa…) ; la stessa decisione finale nei confronti di una metafisica idealistica o realistica viene fatta derivare, talvolta, proprio da scelte di tipo personale piuttosto che teorico ; l’intersoggettività e gli altri soggetti sembrano essere un campo di realtà che con particolare difficoltà si lascia ridurre al soggetto proprio, e quindi uno degli ambiti in cui la posizione realista sembra avere maggiori argomenti a suo favore ; addirittura il soggetto altrui sembra giocare un ruolo decisivo persino nella costituzione del soggetto proprio, almeno nei suoi strati psicofisici ; una peculiare esperienza di personalità estranea è il vissuto con cui si descrive il recupero di forza vitale e il guadagno di motivazione indipendentemente dalla mediazione sensibile, e dunque il rapporto con persone spirituali ; questa direzione viene sviluppata da Stein nella direzione del rinvenimento, nella vita intima dell’io, di un fondamento assoluto che lo sostiene. Quest’ultima è la linea che verrà sviluppata in modo compiuto in Essere finito ed essere eterno, ma che si ritrova già nella idea di una filosofia « teocentrica » che ora passeremo a descrivere. In queste pagine, come si dirà, dedicate al confronto tra Husserl e Tommaso, il punto centrale di differenza verrà rinvenuto nel « chi » si considera ultimamente responsabile del senso.
4. Filosofia egocentrica e teocentrica Le prime vere conclusioni personali di Stein sulla questione dei rapporti tra la fenomenologia di Husserl e la filosofia di Tommaso d’Aquino e di un loro tentativo di obiettivizzante, l’elemento fenomenologicamente materiale riveste una grande importanza, A. Ales Bello, in L’incarnazione nella prospettiva della hyletica fenomenologica, « Archivio di filosofia », 68 (1998), pp. 105-113, ha sostenuto l’opportunità di ripensare la nozione dell’hyletica fenomenologica (secondo quanto emerge anche da manoscritti husserliani ed è rinvenibile anche in alcuni passaggi di Conrad-Martius e di Stein stessa) in senso non inerte e dipendente dal momento noetico, ma come noema di una noesi non ego centrata, cioè come un nucleo strettamente connesso con un’intenzionalità che consente la manifestatività stessa della noesi. Tutto ciò viene legato allo sviluppo mistico di Stein e alla sua lettura della teologia negativa (cfr. Id., Teologia negativa, mistica, hyletica fenomenologica, « Archivio di Filosofia », 70 (2002) pp. 809-820). 1 Cfr. La Phénoménologie, cit., pp. 109-111.
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confronto si ritrovano in un articolo che porta appunto questo titolo (La fenomenologia di Husserl e la filosofia di S. Tommaso d’Aquino) pubblicato nel volume speciale dello Jahrbuch für Philosophie und Phänomenologische Forschung uscito nel 1929 in occasione del settantesimo compleanno di Husserl. 1 L’articolo era stato inizialmente concepito come vera e propria drammatizzazione di un dialogo immaginario tra Husserl e Tommaso, che però Heidegger, allora direttore dello Jahrbuch, ritenne poco adatta alla rivista, invitando Stein a riscriverlo secondo i canoni classici. Tra i manoscritti della filosofa però è rimasta la versione originaria intitolata Was ist Philosophie ? Ein Dialog zwischen Edmund Husserl und Thomas von Aquin, a cui preferiamo qui far riferimento : la brillantezza e vivacità del dialogo, infatti, non lede minimamente il grado di scientificità del lavoro. Il testo si apre con la descrizione immaginaria di Husserl che, nella sua camera, la sera del suo compleanno, parlando tra sé ripercorre con gioia la giornata trascorsa tra gli omaggi degli amici :
Le care persone hanno veramente avuto un pensiero cordiale con le loro visite e certo non dovrei rimpiangere nulla. Ma dopo una giornata così è difficile trovare la tranquillità, e io ho sempre tenuto ad avere un buon riposo notturno. In verità, dopo tutto questo chiacchierare mi piacerebbe ora un ordinato discorso filosofico, in modo tale che in testa si rimetta tutto sui binari giusti. 2
In quel momento quindi Husserl sente bussare alla porta, e, nonostante la sorpresa per l’ora tarda, permette al nuovo ospite l’ingresso ; si tratta di un monaco vestito di bianco, con un mantello nero, che si scusa per il fatto di presentarsi di sera, e si giustifica affermando di non prender parte alla vita di società. Con molta cortesia Husserl invita lo sconosciuto a sedersi, chiedendogli di aiutarlo a ricordasi chi sia : nonostante ci siano molti religiosi alle sue lezioni, non ricorda infatti nessuno con tale abito. Quando allora l’ospite si presenta come Tommaso d’Aquino, Husserl, in preda all’emozione, lo prega di prendere posto sul vecchio divano del suo studio, nel quale Stein stessa ricordava in alcune testimonianze di aver discusso con lui. 3 Husserl manifesta quindi un certo imbarazzo nel rammentare come all’accusa di portare avanti una nuova scolastica, seguita alla pubblicazione delle Ricerche Logiche, avesse sbrigativamente risposto di non conoscere la scolastica : se i suoi pensieri davvero le potevano essere paragonati, allora « tanto meglio per la scolastica », aveva affermato ; ma in realtà per problemi di tempo non era mai riuscito ad occuparsi seriamente del pensiero medievale. Sorridendo, Tommaso lo invita a non preoccuparsi, conoscendo il suo modo di lavorare, sempre orientato a nuove ricerche, e il suo costume di delegare le ricerche di confronto delle proprie idee con gli altri pensatori alle tesi di dottorato degli allievi. L’Aquinate propone allora una chiacchierata filosofica e Husserl, con umiltà, si dichiara disposto ad ascoltare come da un maestro. Tommaso cerca un punto di partenza comune, e lo individua in Franz Brentano, le cui lezioni erano state seguite dal fondatore della fenomenologia e che al contempo
1 L’articolo Husserls Phänomenologie und die Philosophie des hl. Thomas von Aquin [HT], « Jahrbuch fűr Philosophie und phänomenologische Forschung », Ergänzugsband, Tübingen, Max Niymeyer, 10 (1929), pp. 315-338. Nella versione dialogica originale il testo è stato pubblicato in ESW xv, pp. 19-48, con il titolo Was ist Philosophie ? Ein Gespräch zwischen Husserl und Thomas von Aquin. Il citato volume della Festschrift husserliana comprende, tra gli altri testi : lo scritto di Heidegger Sull’essenza del fondamento ; Osservazioni sul problema ‘idealismo-realismo’ di Ingarden ; un articolo Sul giudizio di H. Lipps ; il saggio intitolato Sulla dottrina divina di Jakob Böhme. Un frammento di Koyrè e quello di Conrad-Martius Colori. Un capitolo dell’ontologia reale. 2 3 HT, ESW xv, p. 19. Cfr. BI, ESGA 4, p. 46.
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aveva una formazione decisamente improntata alla scolastica : l’idea di filosofia come « scienza rigorosa » proverrebbe proprio da là, così che la chiarezza che tanto affascinò il giovane Husserl, formatosi a studi di matematica, può essere in qualche modo ricondotta ad una lontana origine scolastica. 1 Per la mediazione di Brentano, quindi, anche lo stesso Husserl apparterrebbe in un certo modo alla lunga tradizione della cosiddetta philosophia perennis, che non andrebbe però concepita, nelle parole del Tommaso steiniano, come un sistema chiuso di dottrine, quanto piuttosto come un modo di fare filosofia secondo il massimo rigore. Questo è il logos o la ratio che muove colui che nasce filosofo e che può poi attualizzare le sue potenzialità nell’incontro con un maestro. Fonti ispiratori primarie di Tommaso sarebbero Aristotele, Platone ed Agostino, mentre quelle di Husserl andrebbero rinvenute in Cartesio, Hume e appunto Brentano. Husserl e Tommaso, fa dire poi Stein ancora all’Aquinate, sono d’accordo nel concepire la filosofia quale scienza rigorosa e nel voler scoprire il logos intrinseco alle cose ; le divergenze inizierebbero nel momento di determinare i confini posti a tale possibilità di conoscenza, perché Tommaso, pur non avendo mai dubitato, come Husserl, delle capacità della ratio, avrebbe distinto tra ragione naturale e soprannaturale. Qui la linea di demarcazione decisiva. Il fondatore della fenomenologia appare a questo punto desideroso di intervenire nel dialogo, ma viene preceduto dall’Aquinate, che prosegue : certo, con « Vernuft als solcher » (ragione in sé) si intende qualcosa che è prima di ogni differenza empirica, anche di quella, eventualmente, tra ragione naturale e soprannaturale. Ammettendo di non aver mai condotto una critica trascendentale, il Tommaso di Stein ritiene possibile affermare qualcosa sulla « ragione in sé », sulla « ratio della ratio », indipendentemente dai modi di conoscenza diversi per i diversi esseri. Ma ciò non sarebbe sufficiente, secondo lui, per porre i limiti della conoscenza, perché si è sempre costretti a lavorare con i propri organi e non è possibile saltare sulla propria ombra. Per Husserl, secondo il Tommaso del testo steiniano, è come se la ragione umana non avesse limiti ; e per quanto il pensatore scolastico possa dirsi d’accordo sul fatto che nel campo della filosofia la verità sia solo una idea regolativa, così come sul fatto che la filosofia stessa abbia un carattere inevitabilmente incompleto, egli non può però accettare che la ragione sia l’unica via alla verità. Infatti :
la piena verità esiste (ist), c’è (es gibt) una conoscenza che la abbraccia completamente, che non è un processo infinito, ma un infinito e riposante riempimento, e questa è la conoscenza divina. 2
Alla pienezza di questo conoscere possono partecipare tutti gli esseri spirituali, secondo Tommaso, nella misura della loro capacità : lo spirito umano è destinato al riempimento completo solo nella patria celeste, ma quanto necessario a tal fine gli è comunicato qui ed ora dalla fede, che dunque è una seconda via. Husserl risponde sostenendo di non aver mai voluto mettere in discussione il diritto della fede, che è l’istanza propria dell’ambito religioso così come i sensi lo sono sul piano dell’esperienza esterna. Come tutte le regioni di essere, cui corrispondono atti specifici, anche la fede come modalità conoscitiva particolare può essere indagata. Però,
1
La ricerca si è anche soffermata sull’ origine scolastica della teoria brentaniana dell’intenzionalità, cfr. H. Spiegelberg, “Intention” and “Intentionality” in the Scholastics, Brentano and Husserl, « Philosophische Hefte » 5 (1936), pp. 72-91. Ma cfr. anche D. Perler, Theorien der Intentionalität im Mittelalter, Frankfurt a.M., V. 2 Klostermann, 2004. HT, ESW xv, p. 24.
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la teoria della fede, come quella dell’esperienza sensibile, è una questione non di questi atti speciali stessi, ma della conoscenza razionale che riflette su (auf und über) questi atti come su tutti gli altri. 1
Con conoscenza razionale, afferma poi lo Husserl steiniano, che ritiene in questo di essere d’accordo con Tommaso, non si intende un metodo particolare (ad esempio il logico deduttivo contrapposto all’intuitivo), ma la conoscenza razionale in generale, o, se si vuole, la conoscenza di ragione naturale ; e su questo l’Aquinate si dichiara d’accordo. Così Husserl può concludere sostenendo che se persino la filosofia della religione va ritenuta materia di ragione e non di fede, allora non è pensabile che la fede possa avere legittimità in altre discipline filosofiche che nemmeno si occupano di religione. Dall’esposizione di Tommaso, infatti, sembrava legittimo trarre l’idea di un suo ruolo decisivo nella teoria della conoscenza. L’Aquinate allora afferma :
Ella descrive proprio il punto decisivo. Non si tratta infatti di una domanda filosofica speciale, ma del porre i limiti della ragione naturale e dunque al contempo della filosofia proveniente dalla pura ragione naturale. 2
La fede quindi, nel Tommaso letto da Stein in modo certo non convenzionale, trova un ruolo anche in ambito filosofico, e nello specifico nella delimitazione dei limiti della filosofia stessa. Tommaso continua paragonando questo compito filosofico nientemeno che all’impresa teorica di Kant ; questi però, sulla scia della filosofia moderna, ha preteso che la ragione lo portasse avanti autonomamente, mentre il maestro scolastico del testo di Stein si chiede se per risolvere tale problema non si debba guadagnare un punto archimedeo fuori di sé. Il problema, prosegue ancora Tommaso, sorge allorquando si concepisce la fede come un qualcosa di irrazionale che non ha a che fare con la verità e la falsità, mentre essa è una via alla verità, anche a verità che altrimenti non sono raggiungibili, e persino dotata di un grado di certezza superiore alla ragione. Si configura perciò, nelle parole del Tommaso steiniano, una doppia dipendenza, materiale e formale, della filosofia dalla fede. Dipendenza materiale, perché la filosofia, che secondo la sua ratio intrinseca cerca la verità, non può rifiutare, senza venire meno al suo stesso senso, le risposte che le vengono proposte dalla fede e che autonomamente non potrebbe acquisire riguardo a determinate domande fondamentali. Dipendenza formale, perché se la fede è la conoscenza più alta, la filosofia la userà come criterio. Si può allora parlare di filosofia naturale e soprannaturale, come avviene per la teologia, perché alcune verità sono raggiungibili dalla sola ragione, ma per stabilire quali esse siano serve la ragione soprannaturale, che deve inoltre controllare ciò che è raggiunto dalla prima facoltà e completarla materialmente.
Una comprensione razionale del mondo, ossia una metafisica – e questa è l’intenzione, più o meno esplicita, di ogni filosofia – può essere guadagnata solo grazie alla cooperazione della ragione naturale e di quella soprannaturale. 3
La valutazione filosofica delle verità di fede è compito, nuovamente, della facoltà che prescinde dall’aiuto del lume sovraumano, ma sempre sotto la guida di esso. Infine – e qui emerge la consapevolezza steiniana di sostenere una posizione che di certo non è quella del tomismo classico, che solitamente sottolinea con energia come l’Aquinate 1
HT, ESW xv, p. 25.
2
HT, ESW xv, p. 25.
3
HT, ESW xv, pp. 27-28.
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abbia distinto chiaramente filosofia e teologia e abbia ritenuto di competenza della sola ragione il primo ambito – Tommaso nota che tutto ciò non è rinvenibile esplicitamente nelle sue opere, ma sarebbe comunque ricavabile da esse. Husserl domanda allora :
se la fede è l’ultimo criterio di tutte le altre verità, quale è il criterio per la fede stessa ; che cosa mi garantisce (verbürgt) la verità della certezza di fede ? 1
A tale interrogativo Tommaso risponde che la fede si fonda (il verbo, anche più avanti, è sempre verbürgen) da sola ; si potrebbe infatti anche rispondere che Dio, che si rivela, ci garantisce della sua verità, ma si tratterebbe semplicemente di un modo differente di affermare la stessa cosa, perché, volendo prendere queste espressioni singolarmente, si avrebbe il circolo vizioso che di Dio, che fonda la fede, si diventa certi grazie alla fede stessa. Nemmeno il ricorso alle prove dell’esistenza di Dio può essere d’aiuto, perché, servendosi della ragione naturale, danno solo la certezza propria di quell’ambito, e non quella della fede. Si può solo mostrare che tale certezza di fede ha per il credente una sicurezza cui tutto il resto si deve sottoporre. « La certezza specifica della fede è un dono di grazia ». 2 Tommaso procede poi confrontando questa impostazione della filosofia con quella della modernità, che cercando l’autofondazione nella conoscenza naturale e mettendo fuori gioco la fede, che era l’orizzonte basilare della filosofia precedente, deve necessariamente intraprendere come primo compito la critica della conoscenza. Così è stato, nota l’Aquinate, anche per Husserl. Il Tommaso steiniano procede quindi ad una esposizione del cammino teorico di Husserl, proponendo la ricerca d’essenza, il dubbio metodico e il ripensamento del kantismo quali tre tappe fondamentali che hanno condotto il fondatore della fenomenologia alla scoperta della coscienza trascendentale, campo della nuova « filosofia prima ». Manifestandosi però delle trascendenze anche nella coscienza trascendentale, la tensione husserliana all’immanenza, ossia ad una conoscenza che sia tutt’uno col suo oggetto, non ha potuto acquietarsi ; Tommaso sostiene quindi che una conoscenza di questo tipo si può avere solo in Dio. L’Aquinate afferma poi di non ritenere privo di valore il metodo critico, e giustifica il suo procedere, che ad un moderno apparirebbe « dogmatico », affermando che il suo interesse era rivolto più al « cosa » che al « come » della conoscenza ; che per lui era benvenuta ogni strada che conduce alla verità ; che si è servito delle auctoritates e ha mostrato grande rispetto per loro, senza però limitarsi ad accettare un argomento solo sulla base dell’autorità umana. Tommaso nota poi come nella sua opera non si è addentrato in analisi di temi specifici (come quello della conoscenza) perché concepiva come differente il suo compito ; e sostiene infine di non aver costruito un « sistema », ma di aver sempre cercato di seguire la verità in domande e risposte su singole questioni. In questa descrizione si può trovare traccia indiretta della fatica e dell’acquisizione,
1 Si è evidenziato il verbo verbürgen (« obbligare, garantire »), usato anche nelle transazioni economiche o in generale personali (Verbürgung, il sostantivo, indicava anche il matrimonio), perché la radice richiama il sostantivo Burg, « castello », che ha echi nella vicenda steiniana : nella sua biografia, infatti, aveva ricordato come nei tempi della scuola superiore, che frequentò in un istituto di confessione protestante, vi fosse l’uso di cantare un inno di Lutero (Ein feste Burg ist unser Gott) in cui si dice : « e se anche il mondo fosse pieno di diavoli, non ci lasciamo spaventare, il nostro Dio è una rocca sicura ». Tali parole, cui ella non attribuiva ancora un significato religioso, ma che nel suo animo collegava alla sua compagnia di amici, avevano la forza di darle, seppur momentaneamente, energia e speranza nei momenti di sconforto, secondo quel sentimento che descriviamo come decisivo nella sua esperienza religiosa (cfr. Aus dem Leben einer jüdischen 2 Familie, ESGA 1, p. 169). HT, ESW xv, p. 29.
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da parte di Stein, del procedere della scolastica, che all’inizio, come si è potuto dire, è risultato tutt’altro che agevole. Siamo partiti entrambi dal fatto che all’idea della verità appartenga un sussistere oggettivo indipendente dal ricercatore o da colui che conosce, ma le nostre strade si dividono sulla questione della prima verità e quindi della prima filosofia. La prima verità, il principio e criterio di ogni verità, è Dio stesso. Questo è, se vogliamo, il primo assioma filosofico. Ogni verità di cui possiamo fare conoscenza, proviene da lui. Da ciò deriva il compito della filosofia : deve avere Dio come oggetto. Deve sviluppare l’idea di Dio, il senso dell’essere e la relazione con Dio in cui si trova tutto il resto, secondo la sua essenza e la sua esistenza, così come il rapporto con la conoscenza divina che pertiene alla conoscenza degli altri esseri dotati di questa facoltà 1
La distinzione ultima che Stein vede tra i due pensatori è quella, secondo le parole che affida a Tommaso, tra « filosofia teocentrica ed egocentrica ». 2
Questa è la contrapposizione più radicale tra la fenomenologia trascendentale e la mia [di Tommaso] filosofia : da un lato orientamento teocentrico, dall’altro, invece, egocentrico. 3
Tommaso sostiene nel dialogo che per lui la prima verità è Dio stesso e tutte le altre verità discendono da lui, dunque anche la filosofia deve avere Dio come oggetto, sviluppare l’idea e il senso del suo essere, nonché la relazione essenziale ed esistenziale che tutti gli esseri hanno con lui, ed ancora il rapporto che la loro conoscenza ha con quella divina. Per far ciò bisogna servirsi di tutte le possibili vie, naturali e soprannaturali, compresa quella, prediletta da Stein, che va dalla conoscenza della struttura della nostra anima alla conoscenza di Dio e delle altre creature. Così la gnoseologia è solo una parte specifica di una teoria generale della realtà in base alla quale tutti gli esseri sono ordinati assieme alle loro facoltà conoscitive. La fenomenologia trascendentale di Husserl è questa ontologia generale, con una radicale messa tra parentesi, secondo il Suo [Tommaso si riferisce all’interlocutore] stesso modo di esprimersi, perché risponde ad un diverso punto di vista. Per Lei la questione è : come si costruisce il mondo per una coscienza che posso studiare nell’immanenza ? Il mondo interiore ed esteriore, naturale e spirituale, dei valori e dei beni, e finalmente e ultimativamente anche il mondo governato dal senso religioso, ossia la sfera di Dio. 4
Secondo il discorso che Stein attribuisce al suo Tommaso immaginario, Husserl ha cercato di risolvere il problema della costituzione del mondo secondo uno schema sostanzialmente duale, ossia grazie ad una serie di atti spirituali soggettivi che ordinano a livelli diversi un materiale ricevuto passivamente, ma nel momento di dover trovare il fondamento di tale processo costitutivo non è riuscito ad andare oltre al soggetto come punto di partenza e fondamento centrale della filosofia. 1
HT, ESW xv, p. 32. È il titolo del paragrafo 4 di questo testo : cfr. HT, ESW xv, p. 32. HT, ESW xv, p. 34. Così, nel suo testo del 1930 intitolato Wende zum Menschen… cit., Przywara può descrivere l’io husserliano con dei tratti quasi divini, una tendenza d’altronde che egli ascrive alla fenomenologia già nelle sue descrizioni degli anni precedenti, come diremo più avanti ; mentre per altro verso ha sempre sottolineato come l’analogia sia principio di un pensiero fondato sulla creaturalità. Se dunque è evidente come Stein e Przywara siano reciprocamente dipendenti in molte analisi, talora è difficile determinare chi dipenda da chi. Il pensiero di Przywara è stato descritto come incentrato sull’idea di una analogia di tipo antropologico in S. Nieborak, « Homo analogia ». Zur philosophisch-theologischen Bedeutung der « analogia entis » im Rahmen der existentiellen Frage bei Erich Przywara S.J. (1889-1972), Frankfurt a.M., Peter 4 Lang, 1994. HT, ESW xv, p. 33. 2
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Nel dialogo, quindi, Husserl ricorda con dispiacere come su questo argomento ci siano state discussioni con i suoi allievi sin dalla pubblicazione delle Idee e si rammarica di non essere mai riuscito pienamente a convincerli, cercando tutt’ora una strada per esporre in una forma ancora più chiara i suoi pensieri. Il fondatore della fenomenologia chiede poi a Tommaso una chiarificazione sull’uso dei termini metafisica ed ontologia, che nell’esposizione dell’Aquinate sono stati usati come sinonimi ; per Husserl, infatti, le ontologie, formale e materiali, sarebbero le scienze puramente essenziali di un campo, senza alcun riferimento empirico, mentre la metafisica nel senso classico del termine riguarderebbe semplicemente questo specifico mondo concreto. Tommaso ammette di non aver portato avanti la distinzione con lo stesso rigore con cui lo ha fatto il suo interlocutore, perché per lui si trattava proprio di guadagnare un’immagine di questo mondo. Nel medioevo si considerava il raggiungimento della verità come massimo ideale per l’intelletto, coincidente con la felicità. Ciononostante la filosofia non era mai concepita come un puro sapere slegato da ogni esigenza pratica. Per indagare questo mondo si doveva dunque svolgere una analisi empirica ed eidetica al contempo, distinzione che comunque Tommaso sostiene di aver avuto chiara sotto i termini di « essenza » e « accidente ». Per la scolastica, tuttavia, l’essenza era sempre riferita alla realtà, non ad una pura possibilità, così che nel trattare ad esempio dell’essenza degli angeli si intendeva trattare di esseri considerati esistenti, non di meri esperimenti mentali. Ma i problemi ontologici sono davvero molti, ammette il Tommaso di Stein, e forse una prima via di risolverli potrebbe essere quella di confrontare gli scritti sull’ontologia formale e sulle ontologie materiali di Husserl e dei suoi discepoli. Si affronta allora la domanda sull’intuizione o visione d’essenza, che è stato il punto d’inciampo sia dei neoscolastici, sia dei neokantiani ; e che è un termine carico di una lunga storia, legata persino alla mistica. Tommaso fa notare come, al di là di questo tema specifico, tra la sua impostazione gnoseologica e quella di Husserl ci siano tre punti fondamentali di accordo. Anzitutto che la conoscenza inizia dai sensi ; anche la scienza d’essenze husserliana è infatti possibile solo su questa base. Poi, che la conoscenza stessa procede sempre mediante una rielaborazione intellettuale di quei primi dati ricevuti : Husserl ha infatti rifiutato l’astrazione nel senso dell’induzione delle scienze naturali che non danno certezza assoluta, ma solo probabilità, e ha sostenuto la necessità di raggiungere la ratio delle cose ; d’altro canto per Tommaso l’intus legere è sostanzialmente un processo passivo, che Husserl avrebbe accentuato dovendo confrontarsi con la filosofia soggettivistica e razionalistica dei suoi predecessori. Infine, e questo sarebbe il terzo punto di accordo, proprio il carattere passivo dell’intelletto e dunque la critica all’arbitrio soggettivo. Si apre allora il problema dell’immediatezza della conoscenza, che Tommaso ha attribuito solo all’intellectus principiorum ; Husserl sembra invece attribuire questo carattere ad ogni verità essenziale. Il fondatore della fenomenologia interviene rimarcando come, tradizionalmente, per principî si siano intese solo le verità logico-formali : ma questo senso è insufficiente, perché principî sono non solo le verità secondo (nach) le quali si giudica, ma anche quelle dalle (aus) quali si procede ; ad esempio, nel campo della matematica vi sono gli assiomi accanto alle regole logiche. Tommaso risponde che tra le verità immediate contenutistiche ha considerato solo l’idea del bene e, in un certo senso, ma solo secondariamente, anche la nozione della propria esistenza : in quest’ultimo caso, per quanto egli abbia parlato di verità prima, non si deve intendere tale primato da un punto di vista temporale, perché la conoscenza è originariamente rivolta agli oggetti. L’Aquinate procede quindi distinguendo tre sensi di conoscenza mediata : tramite
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l’intelletto, e questo tipo di mediazione è necessario per ogni conoscenza umana ; tramite le forme o specie (species) ; e tramite gli altri oggetti di conoscenza. La conoscenza di sé non abbisogna di mediazioni del secondo e terzo tipo e non avviene grazie a specie, ma a partire da specie ; muovendo cioè dalle specie degli oggetti esterni, lo spirito umano riflette su di sé e si conosce. Conoscenza attraverso specie è invece quella del mondo esterno. Tale è anche quella dell’essenza (Wesen), mentre la conoscenza delle specie stesse è mediata di nuovo solo nel primo senso. La conoscenza di Dio da parte dell’uomo è sempre solo mediata, e sempre solo negativa : avviene tramite i suoi effetti, ossia le creature. La stessa visione beatifica è immediata, ma non ha lo stesso grado di immediatezza col quale Dio conosce se stesso : « solo Dio stesso è la conoscenza in cui conoscenza ed oggetto coincidono ». 1 Tommaso conclude poi affermando che è erroneo sostenere l’identità tra specie ed essenza, perché non si ha mai conoscenza piena di ciò che una cosa è ; Husserl, d’altronde, si sarebbe preservato da tale errore proprio con il metodo della riduzione trascendentale : « la visione d’essenza è diretta all’intera essenza, ma a questa intenzione corrisponde solo un riempimento parziale ». 2 Questo intenso testo si conclude quindi con un riassunto di ciò che è emerso nella discussione, per bocca dell’Aquinate, che infine si congeda dall’ospite. Stein ha dunque chiarito da un punto di vista teoretico i principali punti che uniscono e separano la fenomenologia e la scolastica, e se il tema di raccordo principale può essere considerato quello dell’idea della filosofia quale « scienza rigorosa », la divergenza più importante si trova al culmine della fondazione di essa, ossia nel problema della costituzione, secondo una differenza che Stein non vede però incentrata sulla questione idealismo-realismo ; si supera quindi la contrapposizione tra conoscenza e essere, e si incentra la differenza sul fondamento teocentrico od egocentrico del pensiero. Il piano in cui si gioca la questione è quello dell’ultimo stadio della costituzione, di chi veramente possiede il senso della realtà. Stein sostiene quindi la necessità che la filosofia si ampli con il dato di fede : la ragione deve essere integrata con il punto di vista soprannaturale e anzi solo questo, come prospettiva ad essa esterna, come punto archimedeo che la trascende, è in grado di determinarne il limite. Si tratta certo di una prospettiva fenomenologicamente scandalosa. 3 Ma si tratta anche di una prospettiva tomisticamente scandalosa. 4 L’idea di una filosofia soprannaturale che non sia teologia è infatti una concezione assolutamente originale ; come abbiamo visto, nella posizione steiniana si distinguono sia la filosofia che la teologia in un ambito naturale e soprannurale : un’ottica che troveremo, pur moderata ed espressa in altri termini, nella sua idea di filosofia cristiana. Decisivo per lo sviluppo di essa è, oltre al Przywara teorico del pensiero creaturale, Jacques Maritain ; altra figura che, non a caso, rivolgeva in quegli anni la propria attenzione anche all’analogia. 5
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Il quarto paragrafo del primo capitolo di Essere finito ed essere eterno si intitola Senso e possibilità di una « filosofia cristiana ». Giungiamo quindi finalmente a trattare di
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2 HT, ESW xv, p. 46. HT, ESW xv, p. 46. Cfr. sopra, nota 1 a p. 16 dell’Introduzione. 4 Cfr. sopra, nota 2 a p. 16 dell’Introduzione. Ma a tal proposito cfr. ancora F. Gaboriau, Edith Stein philosophe, Paris, fac, 1989 pp. 76-162 ; R. Guilead, De la phénoménologie à la science de la croix..., cit., pp. 137-316 ; P. Secretan, Erkenntnis und Aufstieg…, cit., pp. 1-43 e 113-145. 5 Cfr. sopra, nota 2 a p. 14 dell’Introduzione. 3
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quest’opera, sinora tante volte annunciata, rivolgendoci a questo tema esposto da Stein come considerazione introduttiva di tipo metodologico, ed affiancata a quelle linguistiche cui già si è fatto riferimento in apertura. Stein cerca infatti di giustificare il fatto che nel suo testo si contamineranno elementi di ragione e di fede, sia pur evidentemente secondo un ordine e con un criterio. La questione è legata direttamente all’analogia. Questa digressione introduttiva, infatti, fa seguito alla disamina del problema della potenza e dell’atto con cui si era aperto il testo e che, come vedremo, conduce immediatamente ad una prima e basilare formulazione del principio dell’analogia. In queste pagine si sottolinea come nella storia del pensiero ispirato alla fede si potrebbero distinguere tre posizioni fondamentali : quella dei Padri della Chiesa, che consideravano la verità rivelata come filosofia tout court, nel senso di una sapienza capace di rispondere alle esigenze profonde delle ricerche degli antichi ; quella di chi ha cercato di costruire una filosofia anche con elementi di teologia ; e quella infine di chi definisce « cristiana » una filosofia che non rifiuta di principio l’influsso della luce soprannaturale, pur volendo però tenere i due ambiti distinti : in quest’ultimo senso sarebbe cristiana la filosofia medievale, e questa sarebbe altresì la posizione di Gilson e Maritain. Stein opera questa distinzione tripartita sulla base dei risultati della giornata di studi della Sociéte Thomiste tenutasi l’anno successivo a quella già descritta riguardante la fenomenologia, ossia nel 1933. 1 Stein conobbe Maritain proprio nel 1932 a Juvisy ; in questo paragrafo appare evidente l’influsso del filosofo francese, con cui ella mantenne negli anni un dialogo epistolare. 2 Viene ripresa infatti una distinzione centrale nel suo pensiero – condotta nello scritto pubblicato nel 1933 e intitolato De la philosophie chrétienne – ossia quella tra natura e condizione della filosofia : 3 di principio la filosofia sarebbe puramente naturale, ma nella situazione contingente, susseguente alla caduta e alla redenzione, si potrebbe parlare di una condizione cristiana della filosofia. Maritain riconosce quindi più di un elemento di ragione alle tesi di Blondel, esposte in modo specifico nel volume Le Problème de la Philosophie catholique, seppure poi distingua tra affermazione dell’insufficienza della filosofia ed edificazione della filosofia dell’insufficienza. 4 Stein sostiene che un sapere sulla realtà compiutamente definito sarebbe infatti in sé una idea che, come emerso anche in precedenza, non potrebbe mai realizzarsi in via definitiva. Lo stesso d’altronde potrebbe dirsi per ogni scienza particolare, in cui si devono distinguere la regolarità ideale pura e la condizione contingente. Nella molteplicità delle scienze, la filosofia avrebbe il compito peculiare di dare ordine e fondamento. Se per Tommaso era la scienza che rimandava all’ambito della ragione, mentre la teologia si basava sulla rivelazione, bisognerebbe tener conto di come nel medioevo la filosofia comunque operasse costantemente « all’ombra della dottrina di fede ». 5 « Compito della
1 Cfr. EeS, ESGA 11/12, nota 28, p. 20 ; il curatore del volume fa riferimento erroneamente alla giornata di Juvisy sulla fenomenologia : si tratta, in realtà, della seguente : cfr. La philosophie chrétienne. Juvisy 11 septembre 1933, in Journées d’études de la Société Thomiste, Vol. ii, Kain-Juvisy, La Saulchoir-Cerf, 1933. Cfr. i dialoghi preparatori nel « Bulletin de la Societé francaise de philosophie » del 1931. Cfr. anche F. van Steenberghen, La ii e Journée d’études de la Société Thomiste et la notion de la « philosophie chrétienne », « Revue néo-scolastique de philosophie », 35 (1933), pp. 539-554. 2 Cfr. A. Speer e F. V. Tommasi, Einleitung a DeV, ESGA 23, p. xxxiii. 3 Cfr. J. Maritain, De la philosophie chrétienne, Paris, Desclée de Brouwer, 1933. 4 Cfr. ivi, p. 32 (il volume citato è M. Blondel, Le Problème de la Philosophie catholique, Paris, Bloue e Gay, 5 1932). EeS, ESGA 11/12, p. 21.
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filosofia è il chiarimento dei fondamenti di tutte le scienze », 1 e per questo Tommaso l’aveva definita perfectum opus rationis. Tuttavia, nella condizione di sottomissione al peccato, prosegue Stein, è necessario l’ausilio della luce soprannaturale :
Ciò che Maritain ha sostenuto per l’agire umano, e cioè che deve essere assunto così com’è effettivamente, sulla base del peccato originale e della redenzione, e che di conseguenza la morale non può compiersi come filosofia pura, ma solo dipendendo dalla teologia, ossia mediante il completamento delle proprie verità fondamentali con la teologia ; questa posizione – secondo una certa variazione ed estensione – mi sembra valere per la totalità dell’ente e per l’intera filosofia. Le verità fondamentali della nostra fede – riguardo alla creazione, al peccato originale, alla redenzione e al compimento finale – mostrano ogni ente in una luce secondo la quale appare impossibile che una filosofia pura, cioè una filosofia di semplice ragione naturale, sia nella condizione di compiersi perfettamente, ossia di portare a termine un perfectum opus rationis. Ha bisogno del completamento della teologia, senza perciò divenire essa stessa teologia. 2
Nel suo procedere storico, dunque, la filosofia dipende dalla fede e dalla teologia per la sua concreta realizzazione. Lo stesso Tommaso avrebbe avuto sempre, nelle sue analisi, un canale di dialogo aperto con il lume soprannaturale. Molte nozioni teologiche avrebbero portato allo sviluppo e all’approfondimento di concetti filosofici, senza però che in conseguenza di ciò la scienza razionale venisse intaccata nella sua natura : allo stesso modo infatti si potrebbero notare anche dipendenze della filosofia dalle scienze naturali o da altre discipline. 3
Ciò che proviene dalla visione comune di verità di fede e conoscenza filosofica porta il sigillo di questa doppia fonte e la fede è una luce oscura : ci dà a comprendere qualcosa, ma solo per rimandare a qualcos’altro che per noi resta irraggiungibile. Poiché il fondamento ultimo di ogni ente è inscrutabile, allora tutto ciò che è visto a partire da esso cade nella « luce oscura » della fede e del mistero, e tutto ciò che è concettuale ottiene un fondamento inconcettualizzabile. Questo è ciò che P. Przywara ha descritto come reductio ad mysterium. 4
Si chiama quindi in causa Przywara e il principio dinamico che sorregge l’analogia entis nell’opera omonima ; Stein si dichiara altresì d’accordo con il gesuita polacco nel vedere un completamento della filosofia « mediante » la teologia, ma non « come » teologia ; tuttavia, ella non condivide l’idea che tale unione delle due discipline avvenga grazie alla metafisica, perché anch’essa andrebbe divisa, secondo quanto lo stesso Przywara sembra ammettere, in una parte teologica ed una filosofica. 5 E pur avendo la teologia un primato formale come ultimo giudice della verità, spetterebbe comunque alla filosofia il compito di stabilire l’unità delle due discipline nel formare il perfectum opus rationis : questo è lo spirito delle Summae medievali. Tale compito, tuttavia, è infinito, perché mira ad indagare la completezza dell’ente (alles Seiendes), che è inesauribile. La teologia stessa non possiede infatti, secondo Stein, un carat
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2 EeS, ESGA 11/12, p. 21. EeS, ESGA 11/12, p. 30. Questa la posizione di E. Gilson, citata da Stein stessa, in L’esprit de la philosophie médiévale, cit. Nella consapevolezza di come il concetto di « filosofia cristiana » non sia attribuibile senza difficoltà a Tommaso, Stein cita anche le critiche presentate da Mandonnet durante la giornata di studi a Juvisy (cfr. EeS, ESGA 4 11/12, pp. 20-21). EeS, ESGA 11/12, p. 32. 5 Sulla complessità del pensiero di Przywara rispetto ai rapporti tra ragione e fede cfr. J. Terán-Dutari, Christentum und Metaphysik. Das Verhältnis beider nach der Analogielehre Erich Przywaras, München, Berchmanskolleg, 1973. In particolare, alle pp. 186 ss. si tratta della questione della metafisica, sottolineando l’influsso proprio di Husserl e della sua comprensione della « filosofia prima » sullo sviluppo del tema nel gesuita polacco. 3
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tere definitivo, ma procede lungo la storia per successive acquisizioni, e anche qualora fosse completa, non costituirebbe ancora la totalità della verità, non potendo la stessa rivelazione racchiudere la pienezza di Dio. L’autrice ha qui dunque l’occasione di distinguere tra visio beatifica, visio mystica e fides. Accettando le verità di fede si crede a Dio, ma ciò è possibile solo se si crede che Dio esiste ed è Dio, ossia l’essere sommo e perfetto. Accogliendo le verità di fede si accoglie allora Dio, che è il loro oggetto, e dunque si tende a lui, ma ciò non è possibile senza un previo venir afferrati dalla grazia, cui dunque ci si deve aprire per sperimentare la vita divina. La fede è luce oscura, perché non ha la certezza dell’intelletto, e in questo consiste il progresso descritto da Giovanni della Croce, ossia nel fondarsi sempre più nella semplicità della verità divina. Il compito della filosofia cristiana sarebbe allora quello di preparare la strada alla fede, dialogando con i non credenti alla luce del motto paolino, nuovamente chiamato in causa, che invita all’esame attento di ogni cosa per poter scegliere ciò che vale la pena di accettare. Colui che non condivide la fede, d’altra parte, può nell’opinione di Stein discutere col credente, partendo dal punto di vista di ritenere le proposizioni provenienti dal lume sovra-razionale come ipotesi anziché come tesi e poi vagliando razionalmente la loro accettabilità, in un atteggiamento che però, se vuole propriamente presentarsi come filosofico, deve essere realmente privo di pregiudizi. 1 Si è fatto riferimento al ruolo di Przywara e di Analogia entis, di cui d’altronde si era già sottolineata, proprio in apertura del volume, l’importanza. Anche nella corrispondenza steiniana in generale si ha traccia evidente del dialogo intellettuale tra i due, ed in una lettera nello specifico si ha notizia di osservazioni steiniane sulla stesura del volume appena descritto. 2 Ma soprattutto, per ammissione esplicita di Stein, Essere finito ed essere eterno risente di una dipendenza diretta dallo scritto di Przywara. Forse qualcuno si chiederà in che rapporto stia il presente libro con la Analogia entis di Padre Erich Przywara S.J. Si tratta in entrambi i casi della stessa questione, e P. E. Przywara ha fatto cenno, nella sua prefazione, a come siano stati significativi per lui i primi sforzi dell’Autrice di confrontare Tommaso e Husserl. La prima versione del suo libro e la versione finale di Analogia entis sono stati scritti pressoché contemporaneamente, ma l’Autrice ha potuto leggere i primi abbozzi di Analogia entis e più in generale ha potuto avere un vivo scambio di pensiero con P.E Przywara negli anni 1925-1931. 3
È opportuno dunque presentare, nelle linee generali, l’opera del sacerdote polacco che ebbe un determinante influsso sul pensiero di Stein. Per Przywara, l’analogia è il principio che costituisce la struttura della realtà e ne regola la dinamica intrinseca. Stein riconosce proprio in questo senso strutturale la sua vicinanza con l’analogia di Przywara. 1
Il concetto di « filosofia cristiana » utilizzato da Stein ha quindi suscitato un certo interesse. Cfr. X. Tilliette, La filosofia cristiana di Edith Stein, « Aquinas » 32/1 (1989), pp. 131-137 ; Id., Edith Stein et la philosophie chrétienne : à propos d’être fini et être éternel, « Gregorianum » 71 (1990), pp. 97-113 ; M. Filippa, Edith Stein e il problema della filosofia cristiana, Roma, Edizioni Università della Santa Croce, 2001 ; M. Paolinelli, La ragione salvata. Sulla « filosofia cristiana » di Edith Stein, Roma, Franco Angeli, 2001. 2 Cfr. in particolare Selbstbildnis in Briefen i, ESGA 2, pp. 236-7 e p. 326, dove sono menzionate tutte le lettere in cui compare il suo nome o in cui esso è citato nell’apparato critico ; cfr. quindi anche Selbstbildnis in Briefen ii, ESGA 3, p. 603 ; e BI, ESGA 4, p. 246. Inoltre, in Selbstbildnis in Briefen ii, ESGA 3, p. 126, Stein viene scambiata da Johannes Hogg con Thoma Angelica Walter, autrice di Seinsrythmik. Studie zur Begründung einer Metaphysik der Geschlechter, Freiburg i. B., Herder, 1932 e le vengono richieste indicazioni bibliografiche relative alla possibilità di una Analogia Trinitatis. 3 EeS, ESGA 11/12, pp. 4-5 ; già citato nella nota 1 a p. 12 dell’Introduzione.
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Il primo volume di Analogia entis, già pubblicato, è da un punto di vista tematico un esame metodico-critico preliminare alla trattazione delle questioni che formano l’oggetto del presente libro e che P. E. Przywara ha previsto di affrontare nel suo secondo volume (coscienza, essere, mondo). Si trova, tuttavia, un certo punto di contatto : infatti, da un lato l’analogia viene indicata come principio fondamentale che governa tutti gli enti e che perciò deve essere determinante anche come metodo ; dall’altro lato, la ricerca che ha come oggetto tematico direttamente l’ente conduce fino al senso dell’essere alla scoperta del principio fondamentale. 1
Improntato, nell’impostazione filosofica e teologica, all’idea agostiniana del « Dio dentro di noi e Dio sopra di noi », il lavoro di Przywara tenta di tenere assieme teologia affermativa e negativa in quella che viene definita dall’autore una « polarità dinamica », o una « unità nella tensione » e che viene descritta anche come mistica di amore e notte.2 Nella Prefazione Przywara ricostruisce il corso di pensiero che lo ha portato alla stesura dell’opera, e menziona esplicitamente il ruolo di Scheler, di Heidegger e quello di Stein stessa :
La conformazione filosofica [dell’opera] è derivata soprattutto dai vivi legami con la fenomenologia, ottenuti in modo decisivo grazie all’opportunità di essere coinvolto abbondantemente nei lavori di Edith Stein dedicati al confronto tra Husserl e Tommaso. Sono stati anzitutto i legami fruttuosi avviati da Edith Stein con Husserl che hanno esercitato un influsso sulla messa in forma dell’aspetto metodico. 3
Przywara d’altronde si è interessato a più riprese di fenomenologia, approfondendo non solo Husserl, ma anche Scheler, che viene accostato a Newman. 4 I legami di dipendenza di questo pensatore da Rudolf Eucken, a sua volta allievo di Trendelenburg, sono sottolineati da Przywara per rintracciare una parentela della fenomenologia con la scolastica, che è evidenziata anche nel caso di Husserl, allievo di Brentano. Przywara rinviene quindi nella fenomenologia un movimento di pensiero molto interessante, perché mette in atto un ribaltamento di Kant e del pensiero moderno, con una rinnovata apertura alla realtà, senza tuttavia negare il ruolo del soggetto. 5 La fenomenologia si pone “a metà” tra il metodo della scolastica ed una filosofia ancorata al soggetto. 6
Anche Przywara tenta un confronto analitico tra la fenomenologia e la neoscolastica, soffermandosi sulla conoscenza delle essenze e sulla loro presunta datità intuitiva, sulla teoria della conoscenza e sulla questione dell’idealismo trascendentale, descrivendola come una posizione contraria di principio allo spirito stesso della fenomenologia ; scritti in anni evidentemente significativi (l’inizio della seconda decade del Novecento), questi saggi furono probabilmente letti e studiati da Stein. E difatti alcuni passaggi
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EeS, ESGA 11/12, p. 5. Cfr. E. Przywara, Analogia entis. Metaphysik, cit., p. vii. Ma cfr. anche, per una prima esposizione di questa idea fondamentale : Id., Gott in uns oder über uns ? (Immanenz und Transzendenz im heutigen Geistesleben), « Stimmen der Zeit » 105 (1923), pp. 343-362. 3 E. Przywara SJ, Analogia entis.., cit., p. vi. 4 Cfr. E. Przywara, Religionsbegründung. Max Scheler – J.H. Newman, Freiburg i.B, Herder, 1923. 5 Cfr. E. Przywara, Gottesgeheimnis der Welt. Drei Vorträge über die geistige Krisis der Gegenwart, München, Theatiner-Verlag, 1923 ; o Id., Zu Max Schelers Religionsauffassung, « Zeitschrift für katholische Theologie », 47 (1923), pp. 25-49 ; o ancora Id. Drei Richtungen in der Phänomenologie, « Stimmen der Zeit », 115 (1928), pp. 252-264. Sappiamo d’altronde come Przywara stesso commissionò a Stein traduzioni di Newman. 6 Id., Religionsbegründung…, cit., p. 10. 2
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sembrano richiamati nel dialogo tra Tommaso e Husserl. Sarebbe quindi interessante farne oggetto di analisi comparativa. Per altro verso, laddove Przywara definisce la fenomenologia come la nostalgia del mondo intellettuale moderno, cartesiano-kantiano, per il cattolicesimo, ci sarebbe da chiedersi quanto la sua lettura dipenda proprio dal rapporto avviato con Stein e dalla testimonianza ricevuta da lei. Queste pagine del 1923 sono significative :
La fenomenologia è la via di ritorno a casa del mondo spirituale non cattolico verso il duomo della vecchia filosofia. 1
Ed è molto interessante notare come già in quel periodo Przywara, pur con cautela, sottolineasse le possibilità offerte da Heidegger di un ritorno ad un realismo depurato da una « distruzione » dei sistemi storici di pensiero
[Heidegger mira] alla realtà attraverso una « distruzione storico-critica » (historisch-kritisch Destruktion) : si tratta di una liberazione della realtà stessa, “nascosta” dai sistemi di pensiero storici. 2
Dopo l’uscita di Essere e tempo, quindi, Przywara scrisse un saggio sulle Tre direzioni della fenomenologia, confrontando Husserl, Scheler e Heidegger. 3 Mentre in Husserl sarebbe centrale la questione della verità, Scheler si interesserebbe a quella del bene, mentre Heidegger al problema della vita e dell’essere. Questa presentazione sommaria è forse piuttosto scontata, e le descrizioni di dettaglio dei singoli pensatori sono piuttosto generali ; interessante ci sembra invece l’idea che tutte e tre le « direzioni » fenomenlogiche siano, secondo Przywara, caratterizzate dalla « visione di essenza » (Wesensschau), che in Husserl sarebbe « ideazione » (Ideation), in Scheler « sentimento del valore » (Wertfühlen) e in Heidegger « comprensione dell’essere » (Seinsverständnis). Questa caratteristica porterebbe la fenomenologia, in tutte le sue possibili declinazioni, a cadere nella tentazione di assumere il punto di vista di Dio ; ma per altro verso rappresenta anche una positiva uscita fuori dall’io in direzione della realtà. Per questo, secondo Przywara, ogni metafisica equilibrata deve essere consapevole della creaturalità del proprio punto di vista, tendere alla verità e all’oggettività, mantenendo però la consapevolezza che la pienezza del sapere è irraggiungibile e appunto è solo appannaggio di Dio. Si tratta di una
umiltà dell’evidenza, che deve comprendersi quale evidenza in realtà creaturale, e per la quale ogni intuizione della verità, in modo originariamente agostiniano, è un guardare-attraverso (Hindurch-schauen) rivolto all’unica verità, che è Dio. 4
Queste considerazioni rivelano già la struttura dell’analogia dell’ente, principio che poi viene esplicitamente chiamato in causa in questa stessa pagina come rapporto del « divenire » della creatura con l’« essere » di Dio. Si tratta quindi di un pensiero che è accostabile alle posizioni steiniane descritte, soprattutto alla contrapposizione tra « filosofia teocentrica » ed « egocentrica », che tuttavia non è chiamata in causa esplicitamente. Queste linee di fondo sono riprese e sviluppate compiutamente in Analogia entis. Nelle pagine di apertura del volume, Przywara esamina la questione se la metafisica debba essere anzitutto una riflessione sull’oggetto (dunque una « meta-ontica », secondo
1 Id., Gottesgeheimnis…, cit., ora in Id. Schriften, Bd. ii, Religionsphilosophische Schriften, Ensiedeln, Jo2 hannes Verlag, 1962, p. 121-242, qui p. 125. Ivi, p. 128. 3 Cfr. Id., Drei Richtungen…, cit. Sulla possibilità di leggere Przywara, a livello teorico, sulla scia delle esigenze di Heidegger, cfr. K. Metzl, Phänomenologische Hermeneutik und Analogia entis, Passau/Winter, 4 Edition Tre Fiume, 2007. E. Przywara, Drei Richtungen…, cit., p. 264.
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l’espressione del testo) o sull’atto stesso della riflessione (« meta-noetica ») ; si riprendono, quindi, i termini con cui, come detto, la neoscolastica impostava il suo tentativo di confronto con la modernità. Descrivendo un rimando reciproco tra i due poli Przywara rifiuta un punto di partenza filosofico assoluto, e sostiene l’impossibilità dell’« auto chiusura nella sfera del puro » ; 1 anche in questo tratto, quindi, si possono cogliere assonanze con alcune posizioni steiniane descritte. Questo carattere di impossibile purezza, inoltre, viene connesso anche in queste pagine da Przywara alla creaturalità dell’uomo, elemento che si ripresenta come decisivo. Il problema del rapporto tra meta-ontico e meta-noetico, nella sua radicalizzazione, diviene poi secondo Przywara il problema dei trascendentali, su cui non a caso abbiamo posto l’attenzione in apertura ; si contrappone la comprensione scolastica, che descriveva queste nozioni come le strutture costitutive della realtà, alla comprensione kantiana, che le ha trasformate nelle strutture della conoscenza (non a caso, le tre critiche indagano le facoltà dell’uomo relative al vero, al buono e al bello, tre dei classici trascendentali). Nel filosofare si dà quindi una alternativa di fondo tra metafisica trascendentale e trascendentalismo metafisico, ipotesi che sono descritte però nuovamente, in base a quanto appena detto, come « utopie di “una incondizionata purezza dello stile” ». 2 Elemento accomunante delle due posizioni è il muoversi nello spazio di tensione interno allo schema dell’« essenza dentro-sopra l’esistenza ». Infatti, nel successivo terzo capitolo Przywara si pone la domanda su quelle che ha definito « le quinte » della scienza, ossia sul « fondamento, fine e senso ». 3 Colui che pone tale domanda è già sempre necessariamente sul « palcoscenico », per cui non può darsi un soggetto assolutamente puro, ma « il problema completo si ha solo nel richiamarsi e nel compenetrarsi dei due aspetti ». 4 Per altro verso si potrebbe descrivere il problema, secondo Przywara, come questione dell’oggetto metafisico e del suo atto, che potrebbero essere indagati in modo eidetico e quindi deduttivamente, o in modo morfologico ossia induttivamente, a seconda che si parta da un principio assolutamente aprioristico o invece da una realtà a posteriori. 5 Si parla anche di « devoluzione » da un lato ed « evoluzione » dall’altro. Ma il testo prosegue anche sottolineando una irrisolvibile dialettica, nell’analisi del pensiero di un autore del passato, tra ciò che ha realmente detto e ciò che, invece, ha sostenuto veramente, nel senso delle conclusioni a cui il suo pensiero, portato avanti secondo il massimo rigore, sarebbe dovuto giungere. Da tutte queste analisi rimandanti ad una irrisolvibile dialettica di fondo allora risulta la cosiddetta « metafisica creaturale ». Il pensiero può prendere le mosse considerando Dio « sopra » o « dentro » l’esistenza : si tratterà allora di una « metafisica teologica » o « filosofica ». La pretesa di sciogliere tale tensione, invece, implica lo spostamento su una posizione teopanistica, da un lato, o panteistica dall’altro : la prima è quella in cui, accentuando l’apriorismo, Dio si fa cosmo e lo informa pienamente, e tale impostazione sarebbe tipica della teologia protestante ; mentre la seconda, sottolineando l’aspetto dell’aposteriori, vedrebbe il cosmo farsi Dio ; e questa linea di pensiero caratterizza per
1 Id. Analogia entis…, cit., p. 4. Una buona descrizione del testo di Przywara, che significativamene sottolinea anche proprio il principio di creaturalità è E. Naab, Zur Begründung der analogia entis bei Erich Przywara. Eine Erörterung, Regensburg, F. Pustet, 1987. 2 E. Przywara, Analogia entis…, cit., p. 12. 3 4 Cfr. ivi, p. 13. Ivi, p. 15. 5 Si vedrà come anche Stein utilizzi i termini eídos e morfé per riferirsi rispettivamente all’essenza al di là o all’interno dell’ente.
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Przywara soprattutto il messianesimo ebraico. La teologia cattolica è allora l’unica in grado di tenere compresenti entrambi gli aspetti. A ratio e natura corrisponderebbero poi sul piano soprannaturale fides e gratia ; il testo conduce in queste pagini affascinanti sul rapporto tra teologia e filosofia, tra credo ut intelligam ed intellego ut credam, tra mysterium e profanum, dinamiche che però, pur nella loro armonia, non potrebbero sbocciare hegelianamente in un concetto sintetico, ma andrebbero mantenute su un piano rigidamente formale, e tenendo aperta la tensione : tale sarebbe per Przywara anche la linea del primo Concilio Vaticano, che, proprio in contrapposizione al pensiero di Hegel, avrebbe ribadito la già reductio in mysterium, ossia
una via nel mistero « dentro » al concetto e « sopra » il concetto, oltre ad esso, come risposta al tentativo di Hegel di comprendere il mistero « come » concetto (nel « sapere assoluto ») sulla base del fatto che primariamente il concetto si mostra « come » mistero. 1
È in questo modo che si guadagna l’analogia come principio ordinante. L’analogia sarebbe in rapporto da un lato con ogni lógos, ossia con la logica, che rispecchia l’ideale della piena sapienza divina, dall’altro con la dialettica, che a sua volta può essere di tipo irrisolto (una rinuncia all’ordine) o di tipo risolutore (venendo invece in questo caso appunto a coincidere con la logica) : la chiave, secondo Przywara, è nel mantenere la tensione, senza accentuare né il polo risolutore, né quello disgregatore. La fondazione vera e propria dell’analogia entis avviene allora grazie al principio di non contraddizione, che è l’unica nozione formale in grado di mediare, aristotelicamente, tra eraclitismo e parmenidismo. Logica e dialettica invece riducono inevitabilmente, in due modi opposti ma speculari, il principio di non contraddizione al principio di identità. L’analogia infine deve anche spiegare il rapporto tra contingente ed assoluto, e ciò avviene sulla base delle categorie, fondamentali in Stein, di potenza ed atto : la prima è l’insieme delle possibilità formalmente realizzabili e di quelle « motivate », ossia che premono per venire ad essere ; mentre l’atto è un principio positivo, ma anche evidentemente limitante. Il divenire si colloca quindi tra l’assoluto vuoto della possibilità in sé e l’atto puro. La sfera contingente riceve l’essere solo grazie all’atto puro, mentre il rapporto tra le due viene definito come una « relazione di alterità contrapposte », 2 in cui appunto si ha un principio positivo, ossia la relazione, continuamente rimandante ad uno negativo, l’alterità contrapposta. Dopo una digressione storica, quindi Przywara conclude sostenendo come l’analogia non sia una semplice qualità dell’essere, ma l’essere stesso, così come anche il pensiero sarebbe analogia ; in quanto originariamente dinamico, tale principio analogico è definibile come « ritmo », secondo il modello delle fughe di Bach, che si intrecciano continuamente per superarsi nel silenzio. 3 Anche solo questa rapidissima descrizione dell’opera di Przywara permette di mettere in luce diverse affinità con il pensiero steiniano, in parte già evidenziate : si pensi alla dialettica tra aspetto noetico ed ontico, che richiama la struttura noetico-noematica della fenomenologia, ma, più in generale, la contrapposizione più volte chiamata in causa tra indagine orientata gnoseologicamente od ontologicamente, tra idealismo e
1
2 E. Przywara, Analogia entis…, cit., p. 60. Ivi, p. 95. Tale conclusione richiamantesi al tema musicale delle fughe appare solo nella riedizione del testo del 1962, in cui fu aggiunta anche l’intera seconda parte, costituita da articoli in cui l’autore affronta le applicazioni concrete del suo principio (cfr. E. Przywara, Analogia entis. Metaphysik. Ur-Struktur und All-Rythmus, Einsiedeln, Johannes Verlag, 1962). 3
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realismo. L’impostazione generale di pensiero, anche a livello architettonico, rispecchia poi la struttura fondamentale di Essere finito ed essere eterno, come diremo. Anche in Analogia entis, infatti, sulla scorta del movimento che si è schematizzato quale « dentrosopra », si teorizza una ascesa a Dio e un riguadagno del creato, reso possibile da un lato grazie alla « metafisica filosofica », dall’altro alla « metafisica teologica », che arricchisce la verità dell’essere dei contenuti ottenuti mediante il lume soprannaturale. In Stein si potrà descrivere un movimento molto simile. Tuttavia, vi sono anche punti di distacco decisivi tra i due : ad esempio il ruolo delle prove dell’esistenza di Dio, ritenute valide da Stein solo a livello astrattamente teorico, ma considerate come incapaci di fornire la certezza propria della fede, ambito peculiare in cui avviene il discorso teologico. Quest’ultimo va quindi impostato in tutta la sua profondità e le sue implicazioni esistenziali, e non solo con un mero approccio intellettuale, dimensione pur ritenuta evidentemente importante anche da Stein. Abbiamo detto, d’altronde, della critica steiniana all’idea che la metafisica possa essere considerata come abito di mediazione tra naturale e soprannaturale. Vale allora la pena di notare, sia pur solo incidentalmente, come, con questa correzione di approccio, Stein non solo testimoni il suo retroterra fenomenologico e la sua provenienza quindi da un ambito che affronta la religione anzitutto come un « vissuto ». Ma anche come il pensiero steiniano sembri in grado di poter meglio fronteggiare le notissime obiezioni che Karl Barth mosse a Przywara. E forse anche in questo famoso dibattito, destinato ad influenzare larga parte della teologia cattolica e luterana del Novecento, va rinvenuto un motivo ispiratore delle critiche steiniane alla metafisica e alla possibilità che il pensiero abbia validità stringente in questioni esistenziali. O quantomeno, pur senza poter individuare la questione come fonte esplicita o diretta di Stein, che mai la cita, vale però la pena osservare come la teoria da lei sviluppata, appunto sulla scorta della formazione fenomenologica, sia in qualche modo in grado di rappresentare una proficua « via mediana ». Sviluppando la linea del commento luterano alla Epistola ai romani di Paolo, Barth arrivò a definire l’analogia entis come « l’invenzione dell’Anticristo », paventando il rischio che, nel momento in cui la relazione tra creatore e creatura venga impostata a livello ontologico, la grazia si riduca ad un elemento naturale. L’analogia tra Dio e uomo può darsi secondo lui a livello teorico solo mediante la Scrittura ; per parlare del creatore si possono usare solo le parole rivelate. Oppure mediazione si dà sul piano pratico, laddove, mediante la fede, la grazia opera determinando direttamente la libertà umana : ecco quella che, secondo una tradizione protestante di lunga durata, Barth definisce analogia fidei. 1 Secondo Przywara, evidentemente, tale impostazione eliminerebbe di fatto l’analogia e andrebbe ricondotta a quello che egli ha definito « teopanismo », ossia alla riconduzione di tutta la natura alla grazia. L’impostazione di Stein, invece, che assegna validità all’analogia dell’essere e quindi alla conoscenza naturale di Dio e al discorso razionale in ambito teologico, ma che rimarca anche lo scarto che intercorre tra la filosofia e il piano della fede, e coinvolge quindi l’integralità della persona, sembra
1 Cfr. K. Barth, Die kirchliche Dogmatik i, 1, Zollikon-Zürich, Evangelischer Verlag, 19482, pp. viii ss. Una ricostruzione dell’enorme ma interessantissimo dibattito, cui presero parte, tra gli altri, anche von Balthasar, Jüngel, Pannenberg, Söhngen è in E. Mechels, Analogie bei Erich Przywara und Karl Barth. Das Verhältnis zwischen Offenbarugstheologie und Metaphysik, Düsseldorf, Neukirchener, 1974. Cfr. anche H.-G. Pöhlmann, Analogia entis oder analogia fidei ? Die Frage der Analogie bei Karl Barth, Göttigen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1965.
6. L’analogia dell’ente in Essere finito ed essere eterno 77
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tener conto delle esigenze di entrambe le posizioni. Se infatti Stein si colloca nella linea classica cattolica per cui le conseguenze del peccato originale non sono tali da aver completamente corrotto le facoltà naturali dell’uomo, la sua impostazione del piano teologico appare meno compromessa con una fondazione assolutamente razionale, che d’altronde Przywara stesso non intendeva probabilmente sostenere, avendo proclamato il principio della reductio ad mysterium. Una analogia della persona può altresì avvicinarsi alla teorizzazione di Barth della analogia relations. Ma il discorso sarebbe evidentemente lungo e complesso. 1 Inoltre, l’idea di Stein che debba essere il piano filosofico, in quanto insufficiente, a dover decidere di quale completamento aver bisogno, sembra poter dare risposta ad un’altra obiezione mossa a Przywara, ossia quella di uno slittamento dal piano religioso a quello specificamente cristiano nel momento in cui si tratta di definire il mysterium : verrebbe meno, così, la coerenza dell’analogia, secondo cui invece è necessario tenere aperta la tensione tra il piano del predicabile e dell’indefinibile (ossia un piano di religione positiva e uno di puro mistero). 2 E se è vero che anche tale critica non sembra cogliere appieno l’impostazione di Przywara, che aveva in precedenza definito il suo principio come caratteristica peculiare della teologia cattolica, giustificando così il ricorso ad essa, una volta fondato il principio, la posizione steiniana sembra comunque presentare un’altra soluzione valida al problema : vi sono secondo Stein motivi di preferibilità della fede cattolica, per cui la ragione, cui manca un completamento nella ricerca della verità, si affida alla teologia che più le appare corrispondere all’esigenza propria delle sue domande. Ma descrivendo ora nel dettaglio la posizione steiniana sull’analogia delineata in Essere finito ed essere eterno avremo modo di riprendere questi temi, e di osservare appunto come Stein rinvenga proprio il principio dell’analogia quale architrave della sua sintesi teorica. Tale principio è ancorato al vissuto religioso di fiducia in Dio, di cui abbiamo detto, che si può rinvenire nel profondo della coscienza e nei momenti di disperazione. Ad esso, però, viene assegnata anche una notevole rilevanza teorica, nonostante lo si riconosca come diverso da una “prova” dell’esistenza di Dio. Inoltre, Stein propone una metafisica forse ancora più « ontologica » e « classica » di Przywara, riprendendo numerose e tradizionali categorie del pensiero scolastico e seguendo più nel dettaglio Tommaso d’Aquino su molti punti ; ma al contempo radicalizza quello che abbiamo descritto come principio di creaturalità, contaminando le sue analisi con considerazioni di tipo fenomenologico, sia husserliano che heideggeriano. Si insegue, come già detto, un perfectum opus rationis. Ma si distinguono la natura e la condizione della filosofia. Cerchiamo perciò di osservare come sia possibile il tentativo di armonizzare il tutto.
6. L’Analogia dell’ente in Essere finito ed essere eterno Il cammino svolto sinora, che è servito di preparazione per comprendere il modo originale con cui Stein imposta la discussione sul tema dell’analogia, può essere evidentemente letto anche specularmente : l’analogia, ed in modo specifico l’analogia della persona, costituiscono la sintesi di molte tra le istanze teoriche principali che, in generale,
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Cfr. K. Hammer, Analogia relations gegen analogia entis, in Parrhesia. Karl Barth zum achtzigsten Geburtstag, Zürich, EVZ Verlag, 1966, p. 288-304. 2 Cfr. P. Volontè, Introduzione alla tr. it. di E. Przywara, Analogia entis. La struttura originaria e il ritmo cosmico, Milano, Vita e Pensiero, 1995, pp. xi ss. (in particolare p. xxxii).
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animano la riflessione di Stein. Osserveremo così come le questioni sinora descritte si condensino nell’analogia, che appunto Stein declina con tratti di particolare originalità. Proprio attorno all’impostazione steiniana dell’analogia, vedremo, può infatti trovare un punto di raccordo la difficile comprensione dei modi con cui la scolastica e la fenomenologia impostano il loro confronto con la filosofia. D’altronde, nell’affrontare la questione della verità in Tommaso si è rivelato necessario chiamare in causa molteplici significati dell’essere. Ma un equivoco affetta il problema dei rapporti tra conoscenza ed esistenza del mondo già nella fenomenologia, combattuta tra idealismo e realismo : e il nodo non si lascia sciogliere, nelle pagine steiniane, solo sulla base di motivazioni teoriche, ma implica una presa di posizione personale. Tale presa di posizione può avvenire nell’intimo della coscienza, laddove si riconosce un fondamento più assoluto dell’io stesso. In questo senso Stein ha parlato di « filosofia teocentrica ». Ma tale fondamento, che secondo Stein è una persona, e il cui riconoscimento dipende da una scelta personale, viene presentanto anche secondo un movimento teorico che si pretende rigoroso, come diremo. Sulla scorta dell’influsso di Przywara, Stein si riferirà costantemente alla dottrina dell’analogia nel pensiero di Tommaso, in quest’opera, mediante l’espressione analogia entis ; come si diceva in apertura, tale espressione costituisce una “invenzione” neoscolastica che accentua evidentemente proprio il peso sistematico del principio dell’analogia, legandolo immediatamente alla questione dell’ente e quindi conferendogli una centralità metafisica che, se si segue solo l’uso terminologico, non è così esplicitamente rintracciabile nei testi di Tommaso, pur non sembrando infedele allo “spirito” della sua impostazione teorica. 1 Il punto da cui prenderà le mosse la nostra analisi è un passaggio testuale che ci appare, per molteplici ragioni, di particolare rilevanza. Si tratta del secondo capitolo dell’opera matura, Essere finito ed essere eterno, in cui Stein riprende ed amplia le pagine con cui aveva aperto quella che, come detto, era la prima versione dell’opera, ossia Potenza ed atto. La trattazione svolta in questo capitolo mostra l’architrave fondamentale su cui è strutturato l’edificio della proposta teorica che il pensiero dell’autrice ha raggiunto in uno scritto che per molti aspetti, come è noto, costituisce una “summa” finale. Stein propone le categorie di potenza ed atto come fondamento della metafisica di Tommaso d’Aquino, ma altresì come categorie decisive per interpretare in modo originale la dinamica fondamentale della vita dell’io puro fenomenologico. In entrambi i casi, prima a livello metafisico e poi a livello fenomenologico, è l’analogia a costituire il fulcro dell’analisi : si tratta di un’analogia tra due enti, che per il suo essere radicata in un piano temporale diviene un’analogia della persona. Da qui il titolo dell’opera, che appunto affianca « essere finito » ed « essere eterno », e che riassume il percorso che l’autrice porta avanti nella stessa, ossia una « ascesa al senso dell’essere », come recita il sottotitolo, nonché la chiave di volta della sua proposta teorica in generale : detta in prima battuta essa consiste, appunto, nella posizione di due piani di essere la cui distinzione è netta ; e che tuttavia risultano in qualche modo comunicanti, essendo possibile una « ascesa » dal primo al secondo, ed essendo il primo modellato di principio sul secondo. Finitezza ed eternità sono due piani essenzialmente diversi, eppure comunicanti. L’essere finito e l’essere eterno sono appunto due « esseri ». Ecco l’analogia, riproposta
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Cfr. sopra, nota 2 a p. 11 dell’Introduzione.
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secondo i termini che classicamente ne costituiscono la tensione, e tuttavia appunto impostata con tratti di originalità, ossia in una declinazione che, tramite il metodo fenomenologico e l’analisi temporale, sfocerà in un esito personale. L’analisi del capitolo in questione permetterà quindi di abbordare subito il cuore del pensiero steiniano, di rintracciarne in posizione determinante l’analogia, nonché di apprezzare la peculiarità del modo con cui la stessa viene descritta. Lo svolgimento di queste pagine riprende i due passaggi centrali che in Potenza ed atto erano altresì presentati nel primo capitolo, e suddivisi in modo molto netto in due paragrafi, dedicati rispettivamente ad una Prima introduzione nel significato di « atto » e « potenza » secondo il De Potentia, e al Punto di partenza immanente della filosofia. Potenza ed atto nella sfera immanente. Dalla sfera immanente a quella trascendente. 1 Da parte sua, il secondo capitolo di Essere finito ed essere eterno si intitola : Atto e potenza come modi di essere (Seinsweisen) ; ed il primo paragrafo è dedicato alla Esposizione secondo il De ente et essentia. 2 Stein porta avanti esplicitamente le considerazioni con cui si apriva Potenza ed atto. Nelle righe di apertura di questo capitolo si legge :
La dottrina dell’atto e della potenza è stata come il portale di un grande edificio, che da lontano si mostrava in tutta la sua altezza. Già anche questo primo sguardo da lontano ha offerto una comprensione provvisoria di come con questa coppia concettuale si possa abbracciare l’intera estensione dell’ente. 3
La centralità del binomio atto-potenza deriva a Stein anzitutto dall’influenza dello studio di Gallus Manser, esplicitamente citato in queste pagine, e del suo lavoro Das Wesen des Thomismus, che definisce la dottrina dell’atto e della potenza come l’« intima essenza del tomismo » ; 4 ed essa, per Stein, « conduce immediatamente nel cuore della filosofia tomistica ». 5
La prima domanda che Tommaso pone nelle Quaestiones disputatae de potentia è : Dio possiede potenza ? E nella risposta si dispiega un duplice senso di potenza ed atto. L’intero sistema dei concetti fondamentali viene attraversato da una radicale linea di separazione che – a partire dall’essere – suddivide ciascuno di essi, così da mostrare un volto diverso al di qua e al di là : niente può essere detto nello stesso senso di Dio e delle creature. Se ciononostante è lecito che vengano utilizzate le stesse espressioni per entrambi gli ambiti, ciò dipende dal fatto che questi termini non sono predicati in un unico senso (einsinnig) (univocamente), ma nemmeno solamente in senso duplice (zweideutig) (equivocamente) ; essi si trovano invece in un rapporto di conformità (Übereinstimmungsverhältnis) (analogamente). Così si potrebbe dare il nome di Analogia entis alla linea di demarcazione che caratterizza il rapporto tra Dio e l’uomo. 6
Così, per Dio si può parlare di potenza solo in senso analogo, essendo Dio atto puro. Stein procede allora affrontando la questione dell’atto e della potenza come modi di essere, e introduce il De ente et essentia. Se infatti la dottrina dell’atto e della potenza andrebbe rinvenuta soprattutto nelle quaestiones disputatae che sono dedicate a questo tema, ossia appunto quelle de potentia, la trattazione di quelle pagine di Tommaso, a cui come detto era dedicato il primo paragrafo anche di Potenza ed atto, si rivela nell’opinione espressa in questo scritto da Stein, di non facile utilizzabilità : è infatti eccessivamen
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Cfr. Potenza ed atto, ESGA 10, § 1 e 2 del cap. i, pp. 7 ss. e 9 ss. 3 Cfr. EeS, ESGA 11/12, pp. 37 ss. EeS, ESGA 11/12, p. 37. 4 Cfr. EeS, ESGA 11/12 p. 9 nota 2 (lo studio in questione è G. Manser, Das Wesen der Thomismus, Fribourg, Rutschi, 19352). 5 6 EeS, ESGA 11/12. p. 9. EeS, ESGA 11/12, p. 10. 2
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te teologica. Probabilmente, sostiene l’autrice, perché scritta nello stesso periodo in cui Tommaso redasse anche la prima parte della Summa theologiae. Essendo dunque inutilizzabili le Quaestiones disputatae de potentia, Stein si rivolge all’opuscolo De ente et essentia. Questo passaggio denota evidentemente un maggiore respiro assunto dalla trattazione steiniana : la coppia concettuale potenza ed atto viene rinvenuta sin nei concetti più fondamentali del pensiero di Tommaso, a cui si rivolge appunto questo testo giovanile quale esplicazione ad uso degli allievi dell’Aquinate del lessico fondamentale della metafisica.
Qui troviamo naturalmente solo un primo approccio, che sta in rapporto alla dottrina descritta come un germe ad un grande albero. Ma proprio questo, forse, ci può aiutare ad avvicinarci ad una comprensione originaria della cosa. 1
L’opera viene definita quale un « abbozzo di una dottrina dell’essere », che descrive « il complesso degli enti come una scala progressiva (Stufenreich) ». 2 Tre sono i gradini, secondo la descrizione steiniana, molto fedele al testo di Tommaso, che si possono distinguere nell’essere : l’ambito materiale, ossia le cose che sono composte di materia e forma, e quindi il mondo dei corpi ; le sostanze semplici o spirituali, ossia le forme pure, come gli angeli ; e infine l’ente primo, ossia Dio. Stein ricostruisce quindi rapidamente il contesto storico in cui si colloca il lavoro di Tommaso e sottolinea l’originalità della posizione dell’Aquinate rispetto all’idea dominante all’epoca per cui anche gli angeli sarebbero composti di forma e una qualche materia, benché spirituale. Probabilmente la descrizione storica steiniana è ispirata in questi passaggi proprio dalla dettagliata descrizione data da Rolland-Gosselin nella introduzione alla sua edizione del De ente et essentia – da cui Stein cita e in cui c’è un capitolo sulla questione dell’individuazione mediante la materia, che ha interessato molto l’autrice in chiave antropologica. Tommaso invece ritiene che gli spiriti siano pure forme ; in quanto creati, non possono però essere pensati come spiriti assolutamente puri, ed egli deve quindi rinvenire anche in loro una qualche composizione, altrimenti non potrebbero distinguersi da Dio. È a questo punto che la coppia concettuale di atto e potenza viene fatta valere in tutta la sua portata speculativa. Anche gli spiriti sono in qualche modo composti, e nello specifico la loro composizione è di forma ed essere. Non hanno l’essere di per sé, perché lo ricevono dal creatore.
Ma tutto ciò che riceve l’essere da qualcosa d’altro è in potenza rispetto ad esso, e quanto invece viene ricevuto è per lui atto. Dunque la quiddità (Washeit) o la forma stessa che costituisce l’ente spirituale deve essere in potenza rispetto all’essere che riceve da Dio, e quell’essere ricevuto è nel modo dell’atto. Così, negli enti spirituali si trovano potenza ed atto, tuttavia non forma e materia. 3
Negli spiriti, l’essenza (was-Sein) è distinta dal’essere (Sein) stesso. Essi ricevono un essere che è autonomo nella realtà (Stein traduce subsistentia in rerum natura con in der Wirklichkeit selbständiges Sein) grazie all’atto primo, che è anche il primo essere ; di per se stessi sono solo in potentia (Sein-Können), così come tutta la creazione. In questo « poter essere » o « essere in potenza », si nasconde un essere in un duplice senso, secondo Stein : un « essere ordinati » (Hinordnung) all’essere stesso, ma anche, in qualche modo, un essere autonomo : « essere possibile, infatti non significa solamente non essere ». 4 Se
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EeS, ESGA 11/12, p. 38. EeS, ESGA 11/12, p. 38.
EeS, ESGA 11/12, p. 9. EeS, ESGA 11/12, p. 39.
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non fosse così, si procede, non avrebbe senso parlare di gradazioni o di potenzialità, o di maggiore o minore attualità in un ente. Così arriviamo a distinguere livelli di essere (Abstufungen des Seins) e a comprendere l’atto e la potenza come modi di essere (Weisen des Seins). Il passaggio dalla potenza all’atto o – come adesso possiamo dire – dall’essere possibile a quello reale (vom möglichen zum wirklichen Sein) è un passaggio da un modo di essere all’altro, e nello specifico da uno più basso ad uno più alto. 1
La dottrina della potenza e dell’atto è quindi letta come una dottrina dell’essere, e nello specifico dei suoi diversi gradi. L’attualità, che coincide con l’essere stesso, è suddivisa nella lettura steiniana di Tommaso in gradazioni che vanno da una minore ad una maggiore, ossia, si può dire con i termini usati da Stein, ad una maggiore realtà e ad un maggior essere. L’essere, possiamo quindi concludere, non è un concetto univoco, perché al suo interno è suddiviso in diversi livelli. Tutti gli enti si possono correttamente dire tali, ossia sono in qualche misura « essere » ; tuttavia il concetto va predicato in modo diverso di ciascuno di essi. Dio, le creature spirituali e le creature composte di materia e forma, nella lettura steiniana di Tommaso, sono enti, sono esseri, ma in modo radicalmente diverso, proprio perché, secondo quanto aveva premesso in apertura, la dottrina dell’analogia entis separa radicalmente in due la realtà distinguendo creatore e creature. Se l’essere fosse un concetto univoco, infatti, le creature verrebbero ridotte allo stato di nulla, o viceversa sarebbero coincidenti con il creatore stesso. Stein non nomina qui in modo esplicito, nuovamente, l’analogia. Tuttavia è evidente come la dottrina che vi fa riferimento sia decisiva per comprendere quanto descritto, e anzi, sia la struttura stessa che informa e organizza la trattazione e, dunque, tutta la realtà. Quella che nelle prime pagine era stata introdotta come una questione di predicazione (« niente può essere detto nello stesso modo del creatore e delle creature ») è immediatamente anche una questione metafisica. Come il problema si giochi anche al confine tra un aspetto linguistico ed un aspetto reale è confermato implicitamente dalle righe finali del paragrafo, in cui Stein afferma di aver raggiunto, con le considerazioni che abbiamo seguito, una comprensione generale dei termini « potenza » ed « atto », e in cui però si chiede anche come giungere, a questo punto, ad una comprensione reale ed oggettiva (sachlich). Per descrivere la differenza viene introdotto un esempio tipicamente fenomenologico : quando il cieco sente parlare del rosso, del blu o del verde, si tratta per lui di termini privi di senso ; egli sa di certo che si tratta di colori, ma non li conosce veramente. « C’è una via per raggiungere una maggiore vicinanza alla cosa (Sachnähe) ? », si chiede Stein. 2 L’argomentare steiniano procede a questo punto in modo apparentemente paradossale : viene infatti introdotta la riduzione trascendentale, ossia un aspetto che a prima vista potrebbe essere definito come “funzionalistico”, per chiarire in modo più « oggettuale » (sachlich) i termini di « potenza » ed « atto », introdotti sinora in riferimento all’essere, e dunque quali categorie ontologiche. Prima di osservare però nel dettaglio questi passaggi, vale la pena riassumere brevemente quanto raggiunto sinora. Sulla base del De ente et essentia Stein ha potuto descrivere una struttura metafisica che ruota attorno alla differenza tra potenza e l’atto, costituendo diversi strati di realtà e quindi una gradazione gerarchica nell’essere. Siffatta gradazione è fondata nella distinzione tra ente creato e ente creatore, ossia nel
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EeS, ESGA 11/12, p. 39.
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EeS, ESGA 11/12, p. 40.
7. Un’analogia temporale 82
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principio dell’analogia entis, con cui si è aperta l’opera. L’essere in potenza è fondato nell’essere in atto, pur essendone infinitamente distante : per questo non si tratta né di mera equivocità, né di univocità. I concetti di potenza ed atto, che di per sé non hanno riferimento diretto ad enti, ma sono piuttosto modi o funzioni, hanno quindi ricevuto una piegatura che permette di rinvenire una organizzazione generale della totalità del reale. In questo senso accennavamo all’importanza del De ente et essentia rispetto anche al nuovo titolo conferito all’opera : da una analisi dei concetti di atto e potenza, si arriva ad una « ascesa al senso dell’essere » che prende le mosse dalla distinzione fondamentale tra l’essere che si è, e quello che si deve raggiungere e in cui è radicato il senso. Il movimento di passaggio tra i due esseri, e la loro distinzione fondamentale, saranno individuati, proprio sulla scorta delle nozioni di potenza ed atto, nell’aspetto temporale. Il passaggio dalla potenza all’atto, infatti, implica evidentemente il tempo. Dalla trattazione di essere in potenza ed essere in atto si passa dunque a quella di essere finito ed essere eterno. Qui entrano in gioco le considerazioni di tipo fenomenologico, che, come vedremo, risentono in modo particolare soprattutto della confidenza avuta da Stein con i testi husserliani sulla coscienza interna del tempo, nonché con l’analitica esistenziale di Heidegger. Vogliamo ancora notare incidentalmente come proprio criticando Heidegger e la sua sbrigativa trattazione del pensiero medievale, Stein altrove individui nell’analogia entis il « senso dell’essere », confermando ulteriormente la nostra lettura che interpreta Essere finito ed essere eterno, quale trattato di Ascesa al senso dell’essere, come un volume incentrato sull’analogia. Nel testo pubblicato in appendice all’opera maggiore e intitolato Martin Heideggers Existenzphilosophie, dopo aver sottolineato appunto come Essere e tempo si confronti con la scolastica solo in note a margine che ne evidenziano i presunti errori, Stein afferma :
Non sarebbe valsa la pena di studiare se negli sforzi attorno alla analogia entis non risieda l’autentica questione sul senso dell’essere ? 1
Stein fa riferimento quindi al primo articolo della prima questione del De veritate, su cui ci siamo intrattenuti, per evidenziare come in Tommaso si dia un quadruplice significato della verità e il giudizio non sia l’unico luogo in cui essa si costituisce. Il percorso iniziato con quella traduzione e con l’individuazione di molteplici significati dell’essere viene a culminare nella tesi dell’analogia dell’ente come senso dell’essere. Ma Stein non si ferma qui : osserviamo dunque, secondo quanto accennavamo, come introducendo la riduzione trascendentale l’analogia prenda una declinazione temporale che contempla anche un confronto con le categorie heideggeriane.
7. Un’analogia temporale Gli oggetti (Gegenstände) chiamati in causa da S. Tommaso per la ricerca sull’essere possono apparire irraggiungibilmente lontani a chi è estraneo al pensiero medievale : Dio e gli angeli : che cosa ne sappiamo e da quali fonti ? « …Cherubini e Serafini… : quanto li crediamo assenti, secondo la parola che ci annuncia di certe potenze celesti » (Agostino, De Trinitate x, 3). Invece c’è qualcosa che ci è vicino in modo completamente diverso e anzi inevitabilmente vicino. Ogniqualvolta lo spirito umano ha cercato un punto di partenza indubitabilmente sicuro nella sua ricerca della verità, si è scontrato con questa vicinanza inevitabile : il dato di fatto del proprio essere. 2
1
Martin Heideggers Existenzphilosophie, in ESGA 11/12, pp. 445-499, qui p. 483. EeS, ESGA 11/12, p. 40.
2
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Stein cita a questo punto esplicitamente sia Agostino che Cartesio e in particolare i ben noti passaggi in cui entrambi gli autori, con un argomentare simile, giungono alla certezza dell’esistenza del proprio io. 1 In particolare, il dubbio universale delle Meditationes viene accostato all’epoché husserliana quale tentativo di fondazione del metodo fenomenologico : essa viene esercitata, si specifica ancora in quest’opera, sia nei confronti dell’atteggiamento naturale (natürliche Einstellung), sia rispetto ai dati acquisiti dalle scienze settoriali. In questo modo resta solo il dominio della coscienza (Bewußtsein), definita anche « vita dell’io » (Ichleben). Secondo le movenze ben note dell’argomento : si può dubitare se quanto viene percepito in una sensazione esiste veramente o meno, ma la percezione in quanto tale non si può eliminare ; si può dubitare se la conclusione che viene tratta è corretta o meno, ma il pensiero che trae le conclusione è un dato di fatto indubitabile.
In ognuno di questi fenomeni – nella « vita » di Agostino, nell’« io penso » di Cartesio e nella « coscienza » (Bewußt-sein) o nell’« avere vissuti » (Erleben) di Husserl – ovunque si nasconde un « io sono » (Ich bin) […] . Questa consapevolezza del proprio essere è – in un certo senso – la conoscenza più originaria : non la prima temporalmente, perché « l’atteggiamento naturale » dell’uomo è prima di tutto rivolto al mondo esterno e ha bisogno di molto prima di trovarsi ; nemmeno nel senso di un principio (Grundsatz), a partire dal quale si lasciano dedurre logicamente tutte le altre verità o rispetto al quale tutte le altre andrebbero misurate, come con una unità di misura ; ma nel senso di ciò che mi è più vicino, che mi è inseparabile e che è quindi un punto di partenza dietro al quale non si può retrocedere oltre. 2
Si tratta, procede Stein, di una certezza irriflessa, che precede ogni pensiero rivolto su di sé e che sottrae lo spirito all’atteggiamento originario per cui è indirizzato esternamente agli oggetti. La descrizione che la filosofa dà di questa certezza dell’io è quindi particolarmente originale : per un verso, Agostino, Cartesio ed Husserl vengono accomunati nell’idea che l’individuazione dell’io e della sua vita di coscienza siano in grado di garantire uno strato che si sottrae al dubbio scettico. In questo senso, Stein sembra seguire Husserl nella sua idea di essere un radicalizzatore di Cartesio : ed infatti la descrizione della certezza del fenomeno di coscienza, al di là dell’esistenza dell’oggetto, è evidentemente husserliana. Tuttavia in Stein la vita di coscienza sembra assumere immediatamente uno spessore sostanziale o un carattere ontologico, nel momento in cui la certezza originaria raggiunta è quella dell’« io sono ». Si tratta, ancora una volta secondo considerazioni che sono già di Husserl, ma che assumono qui una piegatura nuova, di una certezza che non è originaria né di fatto (ossia la prima da un punto di vista temporale), né di principio (quale un assioma da cui dedurre altre verità). Il primato e l’originalità dell’« io sono » di Stein consiste in una inaggirabilità che certo richiama il pensiero trascendentale in generale, ma che è descritta appunto in modo inedito come prossimità ed inseparabilità rispetto a sé stessi. Non sembra trattarsi solo della funzione che accompagna tutte le rappresentazioni o la vita di coscienza, ma di una forma di presenza di sé a se stessi da cui non ci si può mai separare : un qualcosa, in questo senso, che mostra nuovamente caratteri di concretezza e di effettività e rispetto al quale non sembra assente un influsso heideggeriano. Cosa accade allora, si chiede Stein, quando si presta attenzione a questo « dato di fatto semplice » (einfache Tatsache) ? Immediatamente emergerebbero tre domande, relative al che cos’è questo essere che
1
Vgl. EeS, ESGA 11/12, pp. 40-41.
2
EeS, ESGA 11/12, p. 41.
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costituisce l’io interiormente, che cos’è l’io, e che cos’è il sentimento spirituale che genera questa coscienza. Stein prende le mosse allora dalla constatazione che l’essere che io sono presenta un duplice ed ambiguo volto : quello dell’essere e quello del non essere ; ciò dipende dalla sua intrinseca temporalità.
Esso [l’essere dell’io] è, come essere « attuale » – ossia come essere presente e reale (gegenwärtigwirklich), puntuale : un « ora » tra un « non più » e un « non ancora ». Ma per il fatto di separarsi in essere e non essere, nel suo aspetto di scorrimento, svela anche l’idea dell’essere puro, che non ha nulla in sé di non essere, in cui non c’è nessun « non più » e « non ancora » e che non è temporale, ma eterno. 1
Stein arriva quindi immediatamente alla distinzione tra essere finito ed essere eterno, muovendo dalla vita di quell’« io sono » che ha descritto come punto di partenza assolutamente certo ed indubitabile per la riflessione filosofica. Di sicuro ancora nulla è detto relativamente all’esistenza dell’essere eterno. Evidentemente Stein sta riprendendo qui l’argomento già espresso in Potenza ed atto, per cui al fondo della vita della coscienza si può riscontrare la presenza di un essere assoluto ; e declina quindi in termini metafisici quel vissuto di esperienza religiosa per cui ci si sente sorretti e si possiede una apparentemente immotivata fiducia. Vedremo infatti come Stein accosti espressamente questi due passaggi teorici. Come idea, l’eterno emerge immediatamente assieme alla vita di coscienza. In questa vita di coscienza già sempre temporale, nell’essere inevitabilmente temporale che io sono, si chiarisce e, al contempo, si declina in modo nuovo anche l’analogia entis, stavolta chiamata direttamente in causa da Stein.
Così essere eterno ed essere temporale, immutabile e mutabile, e anche il non essere, sono idee che lo spirito trova entro di sé, e che non sono desunte da altro. Una filosofia fondata sull’atteggiamento naturale trova qui un legittimo punto di partenza (si può per ora tralasciare se sia l’unico possibile). A partire da qui risulta immediatamente chiara anche l’analogia entis, compresa come relazione di ciò che è temporale a ciò che è eterno. 2
Stein quindi definisce esplicitamente in termini temporali l’analogia entis. Il binomio stesso che costituisce il titolo dell’opera, ossia essere finito ed essere eterno, che già lasciava intravedere la dinamica dell’analogia entis, viene qui ricondotto senza mezzi termini ad essa. L’analogia dell’essere è quindi guadagnata in modo originale a partire da movenze fenomenologiche ed in modo particolare a partire da una analisi della struttura temporale della coscienza. Nello specifico, la dinamica che si descrive sembra essere la seguente : l’essere dell’io è, nell’istante momentaneo in cui è, un essere attuale del tipo dell’essere puro che non ha mutamenti nel tempo. Ma proprio per il fatto di esserlo momentaneamente, l’io non coincide con l’essere eterno stesso, ma ne è solo – così dice Stein esplicitamente – un analogon o una copia (Abbild) di esso, in cui l’aspetto della dissomiglianza prevale su quello della somiglianza. 3 Stein cita quindi la formulazione dottrinale del principio dell’analogia determinata dal iv Concilio Lateranense :
inter creatorem et creaturam non potest tanta similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda. 4 1
EeS, ESGA 11/12, p. 42. EeS, ESGA 11/12, p. 42. Già citato : cfr. nota 2 a p. 12 dell’Introduzione. 3 EeS, ESGA 11/12, p. 42. 4 Cfr. EeS, ESGA 11/12, p. 42. Cfr. H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, 806 (ed. Freiburg i.B., Herder, 199137, p. 361). 2
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Stein procede sottolineando come la distinzione tra essere finito ed eterno, sinora guadagnata astrattamente, non sia tale da permettere di parlare di una relazione reale tra i due ambiti e quindi di chiamare in causa i termini di creatore e creatura. La vita dell’essere eterno, infatti, è rimasta fino a questo momento una mera possibilità teorica. Si è manifestata invece solo la vita presente e reale (gegenwärtig-wirklich) dell’io, che ha dischiuso la nozione di attualità. Anche il non essere ancora e l’essere già stato, tuttavia, non sono puro nulla : non solo perché hanno un essere nell’intelletto e nella memoria, ma anche, su di un piano più strettamente metafisico, perché lo stesso essere presente e reale dell’io non è pensabile come esistente in modo autonomo, allo stesso modo in cui il punto non è pensabile senza la linea e l’istante momentaneo senza la durata. L’io si dà come qualcosa che emerge dall’oscurità, per attraversare un raggio di luce e sprofondare nuovamente nell’oscurità : la dinamica temporale che caratterizza la vita dell’io rivela l’agire di attualità e potenzialità già a questo livello.
Il mio essere presente è un essere attuale e potenziale, reale e possibile allo stesso tempo ; e nella misura in cui è reale, è realizzazione di una possibilità, che già prima sussisteva. Attualità e potenzialità come modi di essere (Seinsweisen) sono contenute già nel semplice fatto di essere e vanno ricavate da là. 1
Anche il ricordo (Erinnerung) e l’aspettativa (Erwartung), tuttavia, non sono completamente definibili come non essere, ma come essere in potenza : ed in quanto tali, cioè in quanto ricordo ed aspettativa, sono anche presenti. Stein si riferisce quindi alle analisi condotte da Hedwig Conrad-Martius in un saggio sul tempo, in cui le considerazioni che qui si sono descritte venivano per grandi linee già anticipate, in particolare la contrapposizione tra la puntualità del presente e l’estensione dell’esistenza temporale nelle sue altre due dimensioni. 2 L’essere viene quindi definito come strutturalmente temporale, e l’essere dell’io, in particolare, « ha bisogno del tempo » (bedarf der Zeit). 3 Rispetto a Conrad Martius, tuttavia, Stein rimarca la propria comprensione dell’attualità come non meramente fondata sull’accadere (passieren), quanto piuttosto sulla perfezione : perciò anche l’essere presente, reale e puntuale, secondo Stein, non è una pura attualità, non solo perché è sempre sottomesso alle dimensioni potenziali del passato e del futuro, ma anche perché non tutte le cose che sono attualmente presenti in lui lo sono nella stessa misura, con lo stesso grado e la stessa intensità. Ciò che si è, nel presente, è il dispiegamento delle possibilità della propria essenza. Solo in Dio, procede Stein, tutte le possibilità sono attualmente e al massimo grado dispiegate in un presente eterno, e per questo si può dire che essere ed essenza vengono nel suo caso a coincidere. Per questo Dio si sarebbe attribuito, secondo il noto passo dell’Esodo che Stein legge con Agostino, il nome di « essere ».
Alla unità perfetta dell’essere divino si contrappone la frammentazione e suddivisione dell’essere creato. Ma nonostante l’abisso, tra i due vi è una comunanza che permette di parlare di essere 1
EeS, ESGA 11/12, p. 43. Cfr EeS, ESGA 11/12, pp. 44-45. Cfr. H. Conrad-Martius, Die Zeit, « Philosophischer Anzeiger », 2 (19271928), pp. 143-182 e 354-390 (ristampato in Schriften zur Philosophie, I, Münche, Kosel, 1963, pp. 101-184). Sul rapporto tra Stein e Conrad-Martius cfr. A. Ales Bello, Edith Stein und Hedwig Conrad-Martius : eine menschliche und intellektuelle Begegnung, in R. L. Fetz, M. Rah e P. Schulz (a cura di), Studien zur Philosophie von Edith Stein, cit., pp. 256-284 ; A. Ales Bello, F. Alfieri, M. Shahid (a cura di), Edith Stein – Hedwig Conrad-Martius. 3 Fenomenologia Metafisica Scienze, Bari, Laterza, 2010. EeS, ESGA 11/12, p. 45. 2
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in entrambi i casi. Tutto ciò che è, nella misura in cui è, è qualcosa secondo il modo dell’essere divino. Ma ad ogni essere, tranne che all’essere divino, è frammisto qualcosa del non essere. E ciò ha conseguenze in tutto ciò che esso è. Dio è actus purus. 1
Tanto più un ente partecipa dell’essere divino, tanto maggiore è, evidentemente, il suo grado di attualità. Ciò invece che è, senza essere in atto, ossia senza essere realmente presente, è in potenza : e la potenza ovviamente è attribuibile solo alle creature. La pura potenzialità è il modo di essere della materia, non si presenta però mai unicamente come tale. Attualità e potenzialità sono così ribadite da Stein quali modi di essere (Seinsweisen). Così, dopo aver distinto con acribia linguistica attualità e potenzialità, essere in atto e in potenza, e atto e potenza, Stein si dedica nel dettaglio a cercare di definire che cosa significhi appunto « modo di essere ». La riflessione prende le mosse da una considerazione relativa alle unità di durata (Dauereinheiten), con cui normalmente si ragiona nel quotidiano, e che di principio, rispetto a quanto descritto, non sarebbero ammissibili. L’attualità è stata rinvenuta, infatti, nell’istante momentaneo : ma il senso comune abitualmente ragiona con fenomeni, ad esempio la paura, o la gioia etc… che si costituiscono in un lasso di tempo (Zeitstrecke), e formano una unità di vissuto (Erlebniseinheit). La vita dell’io, il suo essere vivo, è rappresentato proprio dal costituirsi (auf bauen) temporale di queste unità, in un continuo divenire. Perciò Stein può ribadire, introducendo anche Eraclito e Parmenide come paradigmi della contrapposizione, la distinzione tra l’essere eterno e immutabile e quello temporale.
Divenire ed essere. Non si frantuma così anche per noi, con il riconoscimento di questo contrasto, l’unità dell’essere ? E tuttavia questo abisso spalancatoci non deve farci perdere di vista la comunanza complessiva che abbiamo riconosciuto nel nome analogia entis (conformità dell’essere in ogni ente – una conformità tuttavia, a cui corrisponde una maggiore difformità). Il divenire non è scindibile dall’essere, ossia dall’essere vero, in senso proprio, perché secondo il suo senso è un passaggio all’essere (Übergang zum Sein). 2
Divenire ed essere sono quindi i modi di essere che si svelano nella vita dell’io ed in particolare nelle unità di vissuto. Stein ribadisce comunque come l’idea dell’essere puro sia, per l’appunto, una idea, e che ancora da chiarire resti la questione relativa alla sua effettiva esistenza o meno. Si analizza quindi la costituzione (qui, ancora, Auf bau) e le condizioni di essere delle unità di vissuto ; si isola anzitutto il contenuto (Gehalt), che è ciò che le rende unitarie ; poi la direzione (Richtung) con cui l’io si rivolge ad esso, ossia l’intenzione fenomenologica, che impegna l’io in modi diversi anche contemporaneamente (ad esempio intuizione di un oggetto e gioia rispetto ad esso). Inoltre, non è possibile avere un vissuto, senza che l’io in qualche modo non venga con-vissuto. Si deve quindi distinguere, rispetto all’io originario in cui si costituiscono i vissuti di coscienza, l’io psicologico, che è trascendente tanto quanto l’oggetto. L’io dei vissuti di coscienza viene invece definito, ancora in modo genuinamente fenomenologico, come io puro (reines Ich).
Il flusso in cui si costituiscono (auf bauen) sempre nuove unità di vissuto è la sua [dell’io] vita. Questo tuttavia significa qualcosa in più rispetto al semplice fatto che gli appartengono tutti i contenuti di vissuto. L’io vive e la vita è il suo essere. 3 1
EeS, ESGA 11/12, P. 46.
2
EeS, ESGA 11/12, p. 49.
3
EeS, ESGA 11/12, p. 52.
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L’io ha una preminenza rispetto ai vissuti, che gli devono l’essere, stavolta nel senso del portatore rispetto a ciò che viene portato ; e può avere diversi gradi di vita e vitalità. Dopo aver chiarito la possibilità della presentificazione (Vergegenwärtigung), averla distinta come modalità da quella con cui si offrono i fenomeni in modo originario (ursprünglich) e averla accostata a quella dei vissuti altrui, con evidente eco delle ricerche sull’empatia su cui avremo modo di tornare, Stein si sofferma altresì sui difetti che possono verificarsi nella vita di coscienza (mancanze di memoria, sonno senza sogni etc…). L’io vive i propri vissuti, ma se questi cessano, è vuoto ; diventa un nulla. I vissuti d’altronde non gli si presentano come un dominio privo di problemi ed illimitato. E, talvolta, l’io è decisamente passivo nei confronti di essi. Un rumore o una gioia, ad esempio, possono invaderlo ed impossessarsene. Qualcosa come una gioia, quindi, sembra provenire da una profondità che in qualche modo è trascendente (jenseitige Tiefe) rispetto all’io stesso : tale profondità si apre nel vissuto cosciente della gioia, senza tuttavia essere trasparente.
La vita cosciente dell’io è dipendente nei suoi contenuti da un doppio al di là (jenseits) (« trascendenza » nel senso husserliano), da un mondo « esterno » e da un mondo « interno » che si annunciano nella vita cosciente dell’io, nell’ambito di essere (Seinsbereich) che gli è inseparabile (« immanenza » in senso husserliano). 1
Con la sua vita strutturalmente e costitutivamente temporale, sostiene Stein citando a questo punto esplicitamente Martin Heidegger, e pur nella sua eminenza, l’io non è un qualcosa che possieda il proprio essere in virtù delle sue capacità e delle sue forze, quanto un qualcosa di « gettato nell’esistenza » (ins Dasein geworfenes). L’io non possiede mai veramente il proprio essere, che invece ha il carattere dell’essere « ricevuto » (empfangen), ed è sottomesso ad una doppia trascendenza : da un lato quella dei fenomeni del mondo esterno, rispetto ai quali però la vita di coscienza sembra poter essere costitutiva, secondo la descrizione husserliana della fenomenologia trascendentale che Stein, nelle linee generali, sembra condividere ; ma questa trascendenza dei fenomeni pare poter essere in qualche modo annullabile e, appunto, « riducibile » dall’io. Per altro verso, all’io si apre una ulteriore « trascendenza », che proviene piuttosto dal suo interno, quella per esempio di una gioia che lo pervade sino ad impossessarsene. Ed è proprio in questa direzione che a nostro giudizio trova un ulteriore chiarimento la questione del presunto realismo della fenomenologia di Stein. Anche la trascendenza dei fenomeni, infatti, viene recuperata solo nel momento in cui essi possiedono una qualità tale da conquistare l’io, e ciò può avvenire solo nel caso in cui si originino nella profondità dell’io stesso. L’essere dell’io, sostiene Stein, è un essere che in ogni momento è posto di fronte al nulla e che in ogni momento ha bisogno di ricevere l’essere. Tuttavia è, e viene mantenuto nell’essere con una certa costanza : per questo si trova altresì posto in prossimità della pienezza dell’essere (die Fülle des Seins).
Le unità di vissuto, il cui essere è un divenire e un trascorrere, hanno bisogno dell’io per giungere all’essere. Ma l’essere che ricevono tramite l’io non è l’essere eterno e senza cambiamenti […]. L’io sembra essere simile all’essere puro, perché raggiunge la vetta dell’essere non per un solo momento, ma vi è mantenuto in ogni momento, certo non in modo immutabile, ma con una condizione di vita costantemente mutevole. 2
Si ribadisce poi come l’essere dell’io conosca livelli diversi e vi siano perciò gradi di 1
EeS, ESGA 11/12, p. 56.
2
EeS, ESGA 11/12, p. 58.
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vicinanza all’idea della pienezza dell’essere, rispetto sia alla durata che alla profondità. L’idea dell’atto puro è quindi la misura dell’essere dell’io : « ma come arriva a vedere in esso anche la fonte o l’autore del suo proprio essere » ? 1 La nullità e sfuggevolezza del proprio essere appaiono con chiarezza all’io quando questi pensa al proprio essere. Ma anche l’angoscia (Angst), secondo la descrizione di Heidegger, porta per Stein l’uomo direttamente di fronte al nulla del proprio essere. Questo stato, per un verso, esprime una condizione che per Stein è oggettivamente propria dell’io : il non essere in pieno possesso del proprio essere. Tuttavia questo stato è altresì descritto come una situazione malata, perché normalmente la condizione dell’io è quella di trovarsi in un essere il cui possesso è percepito come sicuro. Che cosa significa questa percezione di sicurezza che accostava l’essere dell’io all’ideale della pienezza ? È del tutto infondata ?
Assolutamente no. Perché al dato di fatto innegabile che il mio essere è fuggevole, limitato nel tempo ed esposto alla possibilità del non essere corrisponde l’altro dato di fatto altrettanto innegabile che nonostante questa mutevolezza io sono e, di momento in momento, io vengo conservato nell’essere (im Sein erhalten) e che nel mio essere mutevole ne includo uno durevole. So di essere conservato e ne traggo tranquillità e sicurezza – non la sicurezza autoconsapevole dell’uomo che in virtù della propria potenza riposa su un terreno tranquillo, ma la dolce e beata sicurezza del bambino che viene portato da un braccio forte – una sicurezza che, concepita oggettivamente (sachlich betrachtet), non è meno razionale. Oppure si potrebbe definire « razionale » il bambino che avesse una paura costante che la madre lo possa far cadere ? 2
Ecco, dunque, il culmine personale dell’analogia : si tratta del rapporto tra un bambino e sua madre. Cercando di descrivere in modo fenomenologicamente oggettivo la vita dell’io, Stein ne ha messo in luce la dialettica tra essere e nulla. L’io ha un essere che non è descrivibile come essere pieno, e perciò è sottomesso alla contingenza della condizione temporale che lo espone al nulla. Tuttavia, altrettanto oggettivamente, esso percepisce una sicurezza abitudinaria del proprio essere che permette di descrivere l’angoscia come uno stato non ordinario. Da dove proviene allora all’io questa sicurezza ? Ecco la dinamica che per Stein permette di giungere alla conclusione dell’esistenza dell’essere eterno. Tale dinamica pare essere in certo modo parallela, o anzi dipendere direttamente da quella descritta precedentemente rispetto alla trascendenza interiore. La qualità relativa al sentimento dell’io rispetto alla propria vita proviene da una profondità appunto interiore e si impossessa dell’io stesso. Tale qualità, ordinariamente, è di sicurezza ; ma non si tratta di un terreno assolutamente certo, perché costantemente esposto alla mutevolezza e alla possibilità del nulla. L’angoscia nei confronti del nulla, a sua volta, non pare essere descrivibile come condizione normale dell’io. Perciò questo senso di certezza, in cui l’io si percepisce costantemente immerso e che quindi gli è trascendente, va ricondotto ad altro.
Nel mio essere io mi imbatto (ich stoße) in un altro che non è mio ma che è sostegno e fondamento del mio essere che invece in sé è privo di sostegno e fondamento. Lungo due percorsi posso giungere a riconoscere come l’essere eterno questo fondamento del mio essere in cui io mi imbatto in me stesso. La via della fede […], [che] non è quella della conoscenza filosofica [e] la via del pensiero logico e consequenziale (das schlußfolgernde Denken), percorsa invece dalle prove dell’esistenza di Dio. Fondamento e autore del mio essere, così come di ogni essere finito, può in conclusione essere solo un essere che al contrario di ogni essere proprio dell’uomo, non sia un 1
EeS, ESGA 11/12, p. 59. EeS, ESGA 11/12, pp. 59-60. Già citato : cfr. nota 3 a p. 12 dell’Introduzione.
2
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essere ricevuto : deve invece provenire da sé ; si tratta di un essere che, al contrario di tutto ciò che ha un inizio, non può non essere, ma è necessario. 1
Si noti come la considerazione precedentemente esposta del vissuto religioso di fiducia, l’indagine fenomenologica della coscienza interna del tempo, i termini heideggeriani e le categorie aristoteliche e tomiste di potenza ed atto siano chiamate in causa in una mossa teorica originale. L’analogia dell’essere, letta temporalmente, diviene una analogia della persona. Ma Stein si riferisce qui esplicitamente ancora a Hedwig Conrad-Martius e alla sua formulazione di una prova dell’esistenza di Dio così formulata : « Se si dà l’esistenza temporale […] allora si dà anche l’esistenza eterna ». 2 Stein infatti vuole rimarcare che non si tratta tanto di un passaggio logico del tutto argomentato, quanto di una percezione molto oscura (ein sehr dunkles erspüren).
La sicurezza d’essere che avverto nel mio essere mutevole rinvia ad un ancoraggio nell’ultimo sostegno e fondamento del mio essere […] . Si tratta di una percezione molto oscura, che a malapena si può definire « conoscenza ». […] . Il pensiero logico e consequenziale conia concetti nitidi, ma anche questi non sono in grado di cogliere l’incomprensibile, e anzi lo ricacciano in quella lontananza che è propria di tutto ciò che è concettuale. La via della fede ci offre più della via della conoscenza filosofica : il Dio della vicinanza personale, amorevole e misericordioso, e con una certezza che non è propria di alcuna conoscenza naturale. Ma anche la via della fede è oscura. Dio stesso abbassa il suo linguaggio ai canoni umani per renderci comprensibile l’incomprensibile. 3
Anche qui viene chiamata nuovamente in causa l’autorità di Agostino, prima di citare la rivelazione del nome di Dio secondo il racconto dell’Esodo, per cui all’« io sono colui che sono » viene affiancato anche « il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe » come nome che Mosè deve comunicare agli Israeliti. Con queste righe, quindi, si conclude il capitolo steiniano.
1
EeS, ESGA 11/12, p. 60.
2
EeS, ESGA 11/12, p. 60, nota 54.
3
EeS, ESGA 11/12, p. 61.
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1. L’analogia della persona in Essere finito ed essere eterno
Capitolo ii ANALOGIA DELLA PERSONA 1. L’analogia della persona in Essere finito ed essere eterno
S
tein riprende esplicitamente la questione dell’analogia entis nel sesto capitolo di questo volume, intitolato « il senso dell’essere » (der Sinn des Seins). Nel percorso che separa questa trattazione dalle analisi del secondo capitolo che abbiamo seguito nel dettaglio, Stein procede secondo la via che definisce « aristotelica », ossia di risalita al « senso dell’essere » attraverso l’analisi del mondo esterno, giustapponendola al percorso invece « agostiniano » che aveva ispirato l’analisi dell’io. Dopo aver descritto, ancora una volta con chiaro riferimento all’impostazione fenomenologica, l’essere essenziale, e aver cercato di districarsi nella selva di termini con cui la tradizione prima greca, poi latina, e infine della filosofia tedesca definiscono l’essenza, la sostanza, la forma, il sostrato, l’ipostasi, etc…, Stein giunge alla disamina dell’ente in quanto ente e quindi, seguendo Tommaso ed in particolare, evidentemente, il primo articolo della prima questione delle Quaestiones de veritate, alla descrizione dei trascendentali. Queste analisi danno luogo a posizioni molto originali su diverse questioni, quali lo statuto ontologico delle essenze, la conciliazione tra intuizione intellettuale e astrazione metafisica, o, soprattutto, la scelta, decisiva a livello antropologico, relativa al problema dell’individuazione. Cerchiamo di seguirne rapidamente qualche passaggio, limitandoci ad evidenziare ciò che è funzionale in generale al nostro tema : in particolare, si tratta di osservare come il percorso di Stein si prefigga di giungere al senso dell’essere in sé, e proceda in tale percorso di ascesa (Aufstieg) con il chiarimento della struttura dell’ente nelle sue qualificazioni prima categoriali e poi trascendentali. Nel terzo capitolo Stein inizia ad interrogarsi sui rapporti tra temporalità e finitezza, termini che per ora sono stati usati pressoché come sinonimi, notando che non tutto ciò che è finito è necessariamente temporale. 1 I vissuti del flusso di coscienza, infatti, possiedono almeno un aspetto che permane nonostante la loro mutevolezza : una gioia specifica può manifestarsi e poi scomparire, ma ciò non avviene della gioia in quanto tale. Si tratta, per Stein, della questione dell’essenzialità (Wesenheit) : secondo il « platonismo » tipico soprattutto del primo Husserl, di cui abbiamo detto, l’aspetto essenziale è espressamente descritto come necessario alla costituzione dei vissuti singoli : è certamente vero, da una parte, che se non si desse mai una gioia concreta tale sentimento non sarebbe di fatto sperimentabile, ma è altrettanto vero, per altro verso, che se non ci fosse una preminenza ontologica dell’essenzialità (Wesenheit) « gioia », un vissuto specifico di quel tipo non potrebbe mai formarsi secondo quel determinato modo. Senza la gioia reale non si può dare quindi solo l’esperienza della gioia, il vissuto della gioia ; la gioia in sé invece, appunto nella sua essenzialità, è per Stein indipendente. Senza la presenza delle essenzialità, la vita dell’io risulterebbe allora un caos inestricabile, perché non sarebbe possibile il costituirsi di qualcosa come un senso e la comprensibilità : ma – si chiede allora l’autrice – che significa il termine « senso » (Sinn) ?
1
Cfr. EeS, ESGA 11/12, pp. 62 ss.
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capitolo ii
Non possiamo né dirlo, né spiegarlo, perché si tratta del fondamento ultimo di tutto il dire e di tutto lo spiegare […] . Senso e comprensione si appartengono reciprocamente (Sinn und Verstehen gehören zueinender). Senso è ciò che può essere compreso, e comprendere è coglimento di senso […] « Ratio » (procedimento logico) è deduzione di senso da senso o riconduzione da senso a senso. 1
Qui si giunge quindi alla questione della sfera originaria del comprendere e del significare, e Stein porta avanti considerazioni che abbiamo ritrovato anche nel suo dialogo immaginario tra Husserl e Tommaso, laddove si evidenziava la questione della ratio della ratio. La fenomenologia e il pensiero dell’Aquinate, entrambi presi in senso lato, erano considerati come due impostazioni di pensiero simili, condividendo appunto la ricerca del fondamento del sapere razionale. Stein si dilunga quindi in una complessa disamina relativa all’essere essenziale, di cui possiamo accennare appunto solo qualche tratto fondamentale. Le essenzialità non andrebbero confuse con i concetti formati dall’intelletto, con le parole che si usano per nominarle o con i vissuti in cui vengono conosciute. Si tratta perciò di affrontare il problema di che specie di essere posseggano, e di determinare in che misura esso si differenzi da quello dell’atto puro, rispetto al quale evidentemente non posseggono lo stesso grado di perfezione (pur non essendo sottoposte alla temporalità, sono comunque affette dalla finitezza) e da cui sono distinte anche per l’assenza di effettività reale. L’essere delle essenzialità, che non è reale (wirklich) nel senso in cui lo è quello degli enti che normalmente si definiscono esistenti, non può tuttavia nemmeno dirsi assolutamente un « non essere », perché lo si è descritto quale condizione di possibilità degli stessi esseri reali. Per ora Stein definisce quindi tale essere come essere essenziale (wesenhaftes Sein). L’essenzialità in sé non è definibile, perché è condizione di possibilità della definizione stessa. Questa indefinibilità e questo primato sono altresì legati, in modo estremamente interessante, ad un argomento, per così dire, di tipo fenomenologico-esperienziale. Non si può sapere cos’è una gioia, se non se la si vive personalmente :
È stato detto : le essenzialità non si possono definire. Nessuno mi può rendere comprensibile che cos’è la gioia, se io non ho vissuto una gioia in prima persona. Se ho fatto esperienza di una gioia, allora capisco anche cos’è la gioia « in sé » (Freude überhaupt). 2
L’essenzialità, quindi, è legata in modo immediato all’esperienza fenomenologica e non alla definizione. È invece l’essenza (Wesen) l’elemento che, declinando l’essenzialità nei singoli enti, permette la risposta alla domanda classica sul « che cos’è », e determina « l’essere tale » (Sosein) di questo o quell’oggetto, venendo a sua volta a costituire la base per l’apprensione del concetto, che è foggiato invece dall’intelletto. Ogni cosa ha la sua essenza e a sua volta ogni essenza deve essere essenza di qualcosa. Dopo aver distinto di conseguenza il significato universale e quello individuale dell’essenza, per cui una gioia particolare deve possedere un’essenza particolare, Stein affronta la questione del valore dei nomi, sostenendo che ciò che esprimono propriamente ed in ultima analisi sono le essenzialità. Se non esprimessimo altro, tuttavia, la lingua sarebbe costituita solo da nomi propri : ma non è possibile possedere una conoscenza delle essenze così precisa. Stein trova quindi spazio, in una interessante nota, per descrivere come proprio dall’interpretazione husserliana della visione d’essenza, che
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EeS, ESGA 11/12, pp. 65-66.
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EeS, ESGA 11/12, p. 68.
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analogia della persona
porrebbe l’attenzione solo sul suo versante universale, recidendone ogni legame con la realtà, si sarebbe potuta originare la sua successiva concezione idealistica. 1 Si pone a questo punto il problema della possibilità di mutazione dell’essenza : nello sviluppo dell’essere umano, ad esempio, si registrano cambiamenti tali che permettono di ipotizzare un cambiamento di essenza nello stesso individuo : Stein allora teorizza un necessario terzo elemento che « abbraccia e fonda il passaggio dall’una all’altra », 2 e che viene definito come « nucleo essenziale » (Wesenskern). Viene ripresa e approfondita poi l’analisi dell’essere essenziale in rapporto alla potenza e all’atto, e si osserva come per l’essere essenziale si debba parlare, con riferimento all’espressione aristotelica tò tì en einai, di mancanza di mutamenti temporali, di un essere in quiete, che in tedesco verrebbe reso dal verbo wesen : la distinzione di Tommaso tra esse ed essentia potrebbe perciò essere resa, secondo Stein, da quella wesen-Wesen (essere in quiete-essenza). 3 Le essenze tuttavia non sono in grado di produrre per virtù propria il passaggio all’essere reale, altrimenti non avrebbero un semplice essere quiescente, ma una efficacia creatrice, attribuibile invece solo alla perfezione compiuta dell’atto puro. 4 Rispetto alle questione degli universali, infine, l’autrice definisce la sua concezione come intermedia tra platonismo e realismo moderato, assimilandola a quella scotista e ritoccando Tommaso grazie all’assegnazione di un essere indipendente alle essenzialità, oltre a quello che invece esse possiederebbero nello cose reali-attuali o nello spirito umano, ossia l’essere in quiete. 5 Stein tira a questo punto le somme :
Guardiamo indietro alla via che abbiamo percorso. Abbiamo preso le mosse dall’incancellabile dato di fatto del nostro essere, che si è rivelato mutevole, limitato di momento in momento e perciò impensabile senza un altro essere, fondato in se stesso, creatore, signore di tutto l’essere, che fosse l’essere stesso. Abbiamo inoltre incontrato qualcosa di altro che sorge nel nostro essere scorrevole e mutevole […] [e che] per quanto sorto nel flusso del tempo, appare esserne sottratto e privo di tempo. Il flusso temporale, l’avere esperienza di vissuti (Erleben) […] è sottoposto a leggi che determinano il suo andamento […] . È una molteplicità di unità di senso diverse per contenuto e reciprocamente separate. Il « mondo reale » […] è fondato in questo « regno del senso » (Reich des Sinnes) e ha in esso il fondamento della sua possibilità. Le unità di senso sono finite (endlich), nella misura in cui « sono qualcosa e non tutto ». Ma non hanno possibilità di inizio e fine nel tempo. 6
A questo punto, con una mossa tanto decisa quanto rapida, Stein sostiene ciò che già in alcuni passaggi precedenti aveva lasciato intendere, ossia che anche l’essere essenziale non può essere pensato autonomamente rispetto a quello divino e che tale essere divino va pensato come personale. L’essere « fuggevole » non è di possesso dell’ente che è fuggevole : gli deve essere donato in modo sempre nuovo. Solo chi possiede veramente l’essere, tuttavia, e chi ne è signore, lo può donare.
1
2 Cfr. EeS, ESGA 11/12, p. 82, nota 45. EeS, ESGA 11/12, p. 82. Il tedesco wesen, quale verbo, indica l’essere presente e attivo, soprattutto nel suo fondamento, per cui si capisce come Stein possa definirlo anche come essere oltre i mutamenti temporali. « Come tutto il movimento tende alla quiete, così ogni divenire ha di mira un essere in quiete (wesen) » (EeS, ESGA 11/12, p. 90). Sembra perciò appropriata la traduzione italiana proposta da Luciana Vigone in Essere finito ed Essere eterno, Roma, Città nuova, 1988, p. 131, di wesen con « essere in quiete », perché si fa qui riferimento in particolare al momento temporale. 4 Sull’indistizione in Dio, secondo Stein, dell’essere attuale-reale e di quello essenziale cfr. anche M. C. Baseheart, Person in the World, Dordrecht-Boston-London, Kluwer, 1997, p. 93. 5 Cfr. sul tema A. Höflinger, Das Universalienproblem in Edith Steins Werk „Endliches und ewiges Sein“, 6 Freiburg Schweiz, Universitätsverlag, 1968. EeS, ESGA 11/12, p. 99. 3
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capitolo ii
Ed essere signore è possibile solo per chi è persona. Ma egli non sarebbe signore dell’essere se qualcosa si sottraesse al suo potere sull’essere : se si desse un essere o un non essere indipendentemente da lui. Così, anche l’essere delle unità di senso non può essere indipendente da Dio. Decade così nel flusso del tempo ? Anche questo non è possibile. 1
Le unità di senso, tutto l’essere essenziale nelle sue diverse forme, infatti, pur non essendo temporali, non possiedono l’essere per autonoma virtù. È l’essere dell’io che le rende reali e dona loro l’essere ; ma l’essere dell’io, a sua volta, era stato descritto come un essere ricevuto da altro, ossia dall’essere eterno.
Il « senso » si è mostrato certamente come la legge che domina questo flusso e che riposa in se stessa. Ma davvero le unità di senso riposano « in sé » ? L’essere che attribuiamo loro è veramente loro ? Quando una unità di senso diviene reale in me, allora sono io ciò che riceve l’essere in dono, e attraverso l’essere che mi è donato essa diviene reale. Ma non è l’essere che dà la forma all’unità di senso a donarmi l’essere ; invece, assieme all’essere mi viene donato questo senso, e io vengo formato attraverso di esso. Ciò che mi dà l’essere e che allo stesso tempo colma questo essere di senso deve essere non solo signore dell’essere, ma anche del senso. 2
A livello di essenze si riproduce una dinamica parallela a quella che si è descritta come propria della vita dell’io trascendentale. La descrizione cioè di una regione di essere dall’eminenza particolare, e che tuttavia non può trovare in se stessa il motivo ultimo del suo consistere. In particolare, Stein descrive il fondamento del senso nel logos che per la tradizione cristiana è la seconda persona della Trinità, e descrive a sua volta la relazione interna alla vita divina come fondata su un’unica essenza ma su diversi esseri reali, che hanno origine nella persona del Padre, a cui Stein rimanda anche l’interpretazione dell’arché dell’incipit del Vangelo di Giovanni. In realtà però, prosegue l’autrice, in Dio essere ed essenza non possono nemmeno venir pensati distinti e se si riuscisse a intendere questo pensiero in tutta chiarezza si avrebbero i fondamenti per una “prova ontologica dell’esistenza di Dio” », 3 che, sostiene Stein, in senso stretto non sarebbe nemmeno una prova che pretende di concludere logicamente, ma solo una declinazione dell’idea secondo la quale l’esistenza di un Dio sarebbe autoevidente, sulla scorta del fatto che Dio è il suo stesso essere : tale tipo di passaggio non sarebbe rifiutato nemmeno da Tommaso, che negherebbe la possibilità reale per l’intelletto umano di cogliere direttamente l’essenza divina ; solo in conseguenza di ciò, infatti, Tommaso negherebbe anche la possibilità di avere una certezza immediata della sua esistenza. Perciò, sostiene Stein, non è giustificato l’argomento confutatorio della prova ontologica che a volte si attribuisce a Tommaso, ossia quello di un illegittimo passaggio dal piano logico a quello ontologico, perché si tratta invece dello spostarsi dall’essenza all’essere, movimento che però in Dio non va visto come un salto, perché i due elementi coincidono. Tuttavia non è possibile per la mente umana dare riempimento adeguato all’intenzione di un’essenza che sia solo essere. Nel « paradosso proprio dello spirito umano, nel suo essere teso tra finitezza e infinità » 4 – sostiene Stein con una considerazione che sembra richiamare il principio dinamico dell’analogia di Przywara – è il destino della prova ontologica, che trova quindi sempre nuovi sostenitori e detrattori. 5
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EeS, ESGA 11/12, p. 100. Già citato : cfr. nota 4 a p. 12 dell’Introduzione. 3 4 EeS, ESGA 11/12, p. 100. EeS, ESGA 11/12, p. 103. EeS, ESGA 11/12, p. 104. 5 Sulla base del realismo fenomenologico e della conoscenza essenziale J. Seifert ha tentato una riproposizione dell’argomento ontologico in Gott als Gottesbeweis, Heidelberg, Universitätsverlag Carl Winter, 1996. 2
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analogia della persona
Chi si è spinto sino al pensiero dell’essere divino – dell’« atto puro », primo, eterno, infinito – non può sottrarsi alla necessità d’essere che vi è racchiusa. Non appena però egli cerca di coglierlo come si è soliti cogliere qualcosa di adeguato alla conoscenza, allora esso gli si sottrae e non appare più come un fondamento sufficiente per costruirvi l’edificio di una prova. Al credente, che nella fede è certo del suo Dio, appare talmente impossibile il pensare Dio come non esistente, che fiducioso intraprende l’opera di convincere l’insipiens dell’esistenza di Dio. Il pensatore che applica il metro della conoscenza naturale indietreggia sempre di nuovo di fronte al salto sopra l’abisso. Ma le prove a posteriori […] hanno forse miglior fortuna ? Quanti non credenti hanno acquisito la fede grazie alle prove dell’esistenza di Dio di Tommaso ? 1
Il problema, dunque, è visto soprattutto nella strutturale limitatezza dell’essere umano, così che anche in questo caso la dinamica centrale sembra essere proprio quella del principio dell’analogia, cui ancora una volta Stein fa implicitamente riferimento in queste righe :
Ma poiché Dio non è comprensibile per noi né come essere, né come essenza, poiché ci avviciniamo a lui solo con l’aiuto di immagini finite nelle quali essere ed essenza sono separate, questo avvicinamento si verifica talvolta sul versante dell’essenza, talvolta su quello dell’essere, e perciò parliamo come di un qualcosa di diviso di ciò che in sé non è divisibile. 2
E proprio l’analogia viene esplicitamente chiamata in causa come principio per chiarire, ad esempio, il rapporto tra Logos come persona divina e logos come senso, secondo una dinamica di corrispondenza e non corrispondenza (ÜbereinstimmungNichtübereinistimmung). 3 Il rapporto per cui il logos di tutto consisterebbe nel Logos non va naturalmente pensato in modo panteistico, secondo Stein, ma come una « totalità di senso » (Sinn-Ganze), la cui immagine più significativa si ritroverebbe nella vita di ciascuno, in cui sembrerebbero intrecciarsi eventi intenzionali e eventi casuali ; essi sono tali però solo apparentemente, perché osservati dopo un certo tempo apparirebbero dotati di un significato chiarentesi definitivamente grazie all’eterno.
Ho intenzione di condurre alcuni studi e mi cerco un’università che offra garanzie di un certo tipo nella mia disciplina. Si tratta di un nesso sensato e comprensibile. Il fatto che io in quella città conosca un uomo, che anche « per caso » studia là, e il fatto che un giorno « per caso » parli con lui di questioni esistenziali (weltanschauliche Fragen), mi sembra invece a prima vista un nesso assolutamente non prevedibile. Ma quando dopo anni rifletto sulla mia vita, allora mi diviene chiaro che quel colloquio ebbe un influenza decisiva su di me, e che forse è stato « più essenziale » di tutto il mio studio, e giungo quindi all’idea, che forse « proprio per quello » io « dovevo andare » in quella città. Quello che non era nel mio progetto, giaceva invece nel progetto di Dio. E quanto più spesso faccio questa esperienza, tanto più viva si fa in me la convinzione di fede che – dal punto di vista di Dio – non esiste il « caso », e che la mia intera esistenza sin nei suoi particolari è prefigurata nel progetto della divina provvidenza, e che all’occhio onniveggente di Dio è un nesso di senso compiuto. 4
Per Dio nulla avviene per caso, e nel lume della gloria tutto sarà svelato nel suo senso definitivo, non solo l’esistenza individuale, ma anche quella dell’umanità. Così giungiamo ad un doppio significato dell’essere del finito nell’Eterno : al venir compreso di
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2 EeS, ESGA 11/12, p. 104. EeS, ESGA 11/12, p. 105. Stein osserva come la traduzione tedesca della Summa, secondo il principio di “germanizzazione” dei termini tedeschi di cui si è detto, parli di Verhältnisgleichheit (cfr. EeS, ESGA 11/12, p. 105, nota 110). 4 EeS, ESGA 11/12, pp. 106-107. Già citato : cfr. nota 1 alla p. 19 dell’Introduzione. 3
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capitolo ii
ogni « senso » nello spirito divino e all’essere fondato archetipico e causativo di tutto l’ente (alles Seienden) nell’essenza divina. 1
Nella prima parte delle indagini qui svolte, conclude allora Stein, si è potuti giungere all’essere eterno : dapprima a partire dall’analisi dell’essere finito ed in particolare nella struttura dell’io e dei suoi vissuti, e poi nell’indagine delle essenze. La migliore conciliazione dei due risultati avviene secondo l’autrice su un piano teologico, nell’accennata trattazione della Trinità. In questo senso, dunque, l’ambito rivelato verrebbe in aiuto delle questioni filosofiche, secondo una modalità di cooperazione che più avanti, trattando della comprensione steiniana della filosofia cristiana, avremo modo di descrivere nel dettaglio. Va notato, inoltre, come tutte le direzioni di ricerca intraprese possiedano una caratterizzazione che mette in luce l’aspetto personale. Sia nel punto di partenza individuato nell’io ; sia nel punto di arrivo, in un ente che per poter donare l’essere deve avere caratteristiche di tipo personale ; sia nella dinamica esistenziale di angoscia e fiducia ; sia nel senso teorico per cui solo la nozione di persona esprime la possibilità di signoria sull’essere. L’esito trinitario, che più avanti verrà ribadito da Stein, è dunque particolarmente significativo sia a livello metodologico, sia a livello contenutistico, come anche noi potremo ancora rimarcare. Una sottolineatura dell’aspetto personale è rinvenibile anche nel lungo e complesso quarto capitolo in cui Stein prosegue il suo cammino di ascesa al senso dell’essere dedicandosi alle categorie classiche della metafisica aristotelica, e in particolare allo spinoso problema dell’ousia ; l’attenta e articolata trattazione steiniana, che riprende e approfondisce anche in questo caso molti elementi già introdotti in Potenza ed atto, si profila ancora una volta come un interessante tentativo di conciliare le nozioni della filosofia classica con un punto di vista fenomenologico, impostato in questo caso soprattutto sulla distinzione tra ontologia formale e materiale. Di queste dettagliate analisi – che, vale la pena notarlo, meriterebbero una trattazione autonoma che ne mostrasse i nessi e l’originalità rispetto al contesto neoscolastico e fenomenologico – ci interessa qui sottolineare solo qualche elemento di carattere generale utile ad un inquadramento delle tesi fondamentali di Stein e del loro influsso rispetto alla questione che intendiamo seguire nel dettaglio. L’autrice sembra ancora una volta cercare una conciliazione tra aristotelismo e platonismo, così come una piegatura, per così dire, « genetica » e « dinamica » della metafisica classica. 2 Se dunque Aristotele sembra oscillare, nella definizione dell’ousia, tra l’individuo composto di materia e forma e l’essenza, l’opinione che Stein qui ribadisce è quella per cui la morfé indica piuttosto la forma essenziale (Wesensform), ossia la guida del processo per cui « tutto ciò che appartiene all’essere [di un individuo] è cresciuto come da una radice unitaria ». 3 Considerata in sé essa è una forma pura (eidos), in cui essere ed essenza non sono distinguibili, e che poi nella realtà orienta il dispiegarsi dell’individuo secondo le sue caratteristiche. Anche per quanto riguarda la nozione di materia Stein introduce delle novità rispetto alla concezione classica : si sottolinea il problema di descriverla come un qualcosa di in
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EeS, ESGA 11/12, p. 109. Come la metafisica steiniana sia improntata ad un dinamiso radicato nella temporalità, e dunque richiami in qualche modo Bergson, è stato sottolineato in M. Barukinamwo : cfr. Edith Stein. Pour une ontologie dynamique, ouverte à la trascendance totale, Frankfurt a.M.-Bern, P. Lang, 1982. 3 EeS, ESGA 11/12, p. 141. 2
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analogia della persona
determinato, ma non completamente tale, perché non potrebbe coincidere con il nulla, venendo a riproporsi la necessità della definizione della materia in sé, separata dalla forma, e che viene trovata nella determinabilità (Bestimmbarkeit) : tale essere proprio e in un certo modo indipendente, che viene attribuito da Stein alla materia sulla scorta di Duns Scoto, non toglie comunque il fatto che essa venga sempre necessariamente creata assieme alla forma. Si espone poi ancora, come già in Potenza ed atto, la distinzione tra Stoff e Materie, cioè tra una pienezza sostanziale estesa e una pienezza pesante opaca, che viene ripresa a sua volta dalle analisi di Conrad-Martius e dal suo tentativo di proporre appunto una concezione dinamica della natura accanto a quella atomistica. 1 Dopo la discussione delle nozioni di sostrato o soggetto (upokeimenon) e di sostanza o supporto (ipostasis), questo capitolo si chiude quindi con la descrizione di come il culmine della natura sia da rilevare negli esseri viventi ; e mentre negli esseri inferiori l’unità di materia e forma è inscindibile, per i viventi invece l’anima è un principio ulteriore, che però poi diviene anche forma dell’intero. È quindi la teoria husserliana dell’intuizione intellettuale nel senso di visione dell’essenza ad aprire il capitolo quinto, dedicato ai trascendentali. Secondo Stein, la Wesensschau non rappresenta una sorta di illuminazione, ma un processo cognitivo che, in quanto fondato nella percezione sensibile, sarebbe compatibile con la teoria classica dell’astrazione – altro tema, questo, meritevole di una dettagliata e autonoma trattazione e che qui si deve solo menzionare rapidamente. L’autrice sostiene come detta intuizione intellettuale possa riguardare sia aspetti materiali e contenutistici, che formali, anche se i primi verrebbero intuiti sempre necessariamente per mezzo dei secondi. Il termine formale più generale – ecco quindi introdotti i trascendentali – è l’« oggetto » in senso più ampio (aliquid), capace di comprendere non solo le categorie, ma anche tutto l’ente (alles Seiendes) in generale : solo del primo ente dunque non si può predicare che sia « qualcosa » senza limitarlo. I trascendentali della tradizione scolastica, infatti, rappresentavano com’è noto i termini più generali applicabili universalmente e quindi, per definizione, eccedenti le categorie, che invece determinano sfere di enti limitate. Per Tommaso, in particolare, che anche per questo tema svolge il ruolo di autorità di riferimento della tradizione, i trascendentali erano ens, res, unum, aliquid, bonum e verum : nel pensiero dell’Aquinate, come abbiamo visto in apertura, l’ente in sé indicava positivamente solo la res (che però si riferiva più propriamente alla quiddità), l’uno era rivolto all’indivisione e l’aliquid alla contrapposizione con un altro, mentre i restanti trascendentali venivano definiti grazie al rapporto con l’ente che ha la caratteristica essenziale di convenire con ogni ente, ossia l’anima (nel suo volere e nel suo conoscere). Abbiamo detto di come la dottrina dei trascendentali sia interconnessa con la comprensione analogica dell’ente ; la nozione di ens, nota qui Stein, deve altresì abbracciare, in qualche modo, sia l’essere creato che quello increato.
Il concetto trascendentale fondamentale è quello dell’« ens ut ens » (on e on), dell’ente in quanto tale. Secondo Gredt va concepito in modo così generale da comprendere in sé sia l’ente creato che quello increato, e così sia l’ente reale che quello possibile (attuale e potenziale), poiché solo l’ente increato è atto puro, mentre tutto il reale creato è in parte attuale e in parte potenziale. Ma proprio questa è la grande questione, se e come una tale costruzione concettuale che riassuma il creato e l’increato sia possibile (ossia giustificabile oggettivamente). 2
Con riferimento a Gredt, Stein distingue qui poi il significato di ente come sostantivo 1
Cfr. EeS, ESGA 11/12, pp. 153 ss.
2
EeS, ESGA 11/12, p. 246.
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capitolo ii
da quello di ente come participio : in quest’ultimo senso, secondo Gredt, sarebbe pertinente solo per Dio, in quanto nell’essere finito si dovrebbero distinguere l’essere e il quod est e quindi l’essere sarebbe qualcosa di aggiunto esternamente. L’essere come nome invece indicherebbe in qualche modo qualsiasi cosa che, sotto qualsivoglia forma, è ; dunque soprattutto l’aspetto di « cosalità ». Stein tuttavia contesta questa divisione, sostenendo che anche nel nome di « ente » sarebbe immediatamente incluso il suo significato di participio. Il significato di « cosa », d’altronde, viene adeguatamente espresso dalla res. 1 Sulla scorta dell’analisi dei trascendentali, quindi, ed in particolare della Überinestimmung dell’anima con l’ente, che è chiamata in causa dal « vero » e dal « buono », Stein può ulteriormente differenziare la verità logica (adeguazione del sapere con l’oggetto, ossia la verità del giudizio), dalla verità ontologica (come autenticità dell’ente sulla base della sua forma pura) e da quella trascendentale (la proprietà dell’essere manifesto di un ente nel momento in cui viene conosciuto, che non era considerata dalla verità logica e che appartiene costitutivamente ad ogni ente). Secondo Stein si può altresì parlare di verità artistica (che consisterebbe in un rapporto speciale tra l’artista, l’idea pura e la materia) e verità divina (si tratterebbe di un sapere dall’eternità, sapere creatore e in cui sarebbe impossibile avere distinzioni, elemento questo che a sua volta ridurrebbe, secondo Stein, la portata della tradizionale disputa tra intellettualismo e volontarismo). In Dio essere e verità coincidono, dunque non si può parlare propriamente di una relazione tra i due elementi, mentre per gli spiriti creati la perfezione ha fondamento nella relazione con il divino e si guadagna progressivamente attraverso il rapporto con gli altri enti creati. Si può notare qui il riproporsi dell’andamento steiniano descritto in apertura, con l’essere degli enti trascendentalmente manifesto all’io, e tuttavia fondato ultimamente nell’essere divino. Con la trattazione dei trascendentali, quindi, Stein è giunta al culmine del suo cammino di ascesa al senso dell’essere attraverso il mondo esterno, riassunto in queste nozioni fondamentali che abbracciano tutto. Il serrato confronto con molti elementi fondamentali della classica tradizione metafisica, letti originalmente, ancora una volta, alla luce di un’impostazione fenomenologica, ha condotto sino al « senso dell’essere », cui espressamente viene dedicato il sesto capitolo dell’opera.
Possiamo tentare ora di determinare il contenuto di senso (Sinnbestand) comune a tutto l’essere (finito) : essere finito è il dispiegarsi di un senso ; essere essenziale è dispiegamento privo di tempo al di là della contrapposizione tra potenza ed atto ; essere reale è il dispiegamento da una forma essenziale dalla potenza all’atto, nel tempo e nello spazio. Essere pensato è dispiegamento in un senso molteplice. 2
A questo punto si pone chiaramente il problema della pluralità degli tipologie di enti e, ancora più in generale, degli enti tout court rispetto all’idea e al discorso di un essere unico. Quando definiamo l’essere come uno non intendiamo l’unità di un qualcosa di « generale » ; non è un genere che si divide in specie e si isola in individui. Quando S. Tommaso afferma che l’ente non è un genere, siccome sta trattando dell’ente in quanto tale, la sua affermazione vale anche per l’essere. Resta allora la questione di che senso mantengano il discorso sulle diverse modalità
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Il testo di Gredt a cui si fa riferimento è : I. Gredt, Elementa Philosophiae aristotelico-thomisticae, Freiburg i. B., Herder, 1931. Sulla dottrina steiniana dei trascendentali cfr. A. Bejas, Vom Seienden als solchen zum Sinn des Seins. Die Transzendentalienlehre bei Edith Stein und Thomas von Aquin, Frankfurt a.M.-New York, Peter 2 Lang, 1994. EeS, ESGA 11/12, pp. 284-285.
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analogia della persona
di essere (Seinsweisen), il discorso su un ente singolo contrapposto ad un altro (ossia di un’unità numerica) e il discorso su un essere che appartiene ad ogni singolo ente come il suo proprio essere. 1
Dopo aver fatto riferimento al senso comune che sempre già assume come un dato di fatto l’esistenza di una molteplicità di enti reciprocamente indipendenti, e aver fatto rapido cenno al tentativo di correzione aristotelica della filosofia degli eleati, Stein cerca di impostare il problema del rapporto tra unità e pluralità dell’essere partendo da quanto aveva guadagnato poco prima in una riflessione sui trascendentali del buono e del bello, ossia di una unità che è data dall’ordine armonioso delle parti. Tale unità però è stata descritta come divisa secondo molteplici livelli di complicazione, nell’essere naturale realmente esistente, in quello spirituale con la sua intenzionalità e in quello essenziale. Tutte queste specie di essere sono fondati nell’essere divino, in cui è racchiusa ogni pienezza di essere. Si è detto in precedenza che il divenire reale di un quid (Was) essenzialmente possibile non è comprensibile né a partire dall’essere essenziale (come essere di una struttura di significato limitata) né a partire dall’essere reale (come essere di un finito reale), ma solo a partire da un essere, che è al contempo essenzialmente e realmente e che è entrambe le cose dall’eternità. 2
Solo con un atto puro che dall’eternità sia essenziale e reale in massimo grado si potrebbe spiegare infatti il realizzarsi di un quid essenzialmente possibile, che né l’essere essenziale in sé, né l’essere reale sarebbero invece nella condizione di attuare. Stein dedica a questo punto, come si iniziava ad accennare in precedenza, un paragrafo al primo ente (Das erste Sein) e all’analogia entis. L’ascesa al senso dell’essere ha infatti condotto a dover ipotizzare questo atto puro, essere puro, primo ente. Ma l’« ente » – come tutti i nomi trascendentali – vale nel suo caso solo in senso analogico, e certo questo è il luogo proprio dell’« analogia entis » ossia del rapporto che si instaura propriamente tra essere finito ed eterno e che permette di parlare in entrambi i casi di « essere », sulla scorta di una comune consistenza di senso (Sinnbestand). 3
Stein analizza qui dunque l’analogia entis a partire da Aristotele, ed in particolare evidentemente dai passaggi in cui si teorizza la molteplicità dei modi di dire l’essere, che tuttavia fanno riferimento ad una unità di fondo. Non viene evidenziato il fatto che Aristotele non menziona esplicitamente il termine analogia (così come d’altronde lo stesso Tommaso o i pensatori medievali non hanno utilizzato l’espressione analogia entis, secondo quanto abbiamo detto) : pur non priva di sensibilità storica e filologica, Stein si trova ad operare in un contesto che ancora non ha sviluppato, relativamente a tali questioni, la chiarezza che si ha in epoca odierna, e ha in ogni caso di mira anzitutto la valenza teorica della questione. Secondo Tommaso, prosegue Stein, ciò che permette di parlare di essere sia per Dio che per la creatura sarebbe un rapporto di somiglianza. Come in Dio l’essere divino è atto della sua essenza, lo stesso rapporto, secondo un’analogia di proporzionalità, si riscontrerebbe nelle nature finite a partire dall’essere creato, e l’infinita distanza tra i due ambiti sarebbe mantenuta dal fatto che nell’atto puro dell’essere sussistente per sé, l’essere e l’essenza coinciderebbero in realtà perfettamente, così che il rapporto di potenza ed atto o le altre distinzioni vengono introdotte solo per facilitare la comprensione ed adeguarsi al linguaggio e al pensiero
1
EeS, ESGA 11/12, p. 286.
2
EeS, ESGA 11/12, pp 287-288.
3
EeS, ESGA 11/12, p. 288.
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umano. Stein si domanda quindi che senso possa avere, una volta rimarcata l’infinità della distanza, l’utilizzare queste espressioni a riguardo del creatore, e risponde sostenendo che la coincidenza in Dio di essere ed essenza e alcune formulazioni che si rinvengono in Tommaso, del tipo « Dio è la sua bontà, la sua vita, il suo essere etc. », sono solo tentativi di formulare con un giudizio ciò che invece in tale forma, cui pertiene necessariamente una divisione di parti, non può più essere espresso : per cui l’asserto meno inadeguato sarebbe « Dio è – Dio ». 1 Stein prende quindi ancora una volta in considerazione il brano della Bibbia di Es. 3, 14 e, dopo aver accennato alle possibili traduzioni dall’ebraico di tale noto passo in cui si ha quella che viene presentata come una manifestazione del Dio del popolo eletto a Mosè, si pronuncia nuovamente a favore dell’interpretazione agostiniana, che vede il significato dell’espressione tradotta come « Io sono colui che sono » nella definizione dell’essere in persona : la fonte prima dell’essere e del senso, secondo quanto si è già avuto modo di notare, non può infatti secondo Stein non possedere caratteristiche personali, ossia ragione e libertà.
Colui, il cui nome è « Io sono », è l’essere in persona. Che il cosiddetto « ente primo » debba essere persona va dedotto già da molte cose che sono state dette in precedenza : solo una persona può creare (erschaffen), ossia chiamare all’essere in virtù della sua volontà. E l’efficacia della « prima causa » non è pensabile che come atto libero (freie Tat), perché ogni efficacia che non è atto libero, è causa su base di altro (verursacht) e dunque non è efficacia prima. Rimanda ad una persona come autore anche l’ordine razionale e la conformità al fine del mondo : solo mediante un essere (Wesen) razionale si può porre in opera un ordine razionale ; solo un essere (Wesen) che conosce ed è dotato di volontà può porre degli scopi ed ordinarvi dei mezzi. Ragione e libertà, tuttavia, sono caratteristiche essenziali della persona. 2
« Io » può definirsi solo un ente che ha in sé il proprio essere, che lo possiede per sé e che mediante queste caratteristiche è essenzialmente distinto da ogni altro ente ; la definizione di « io » è segno della vita cosciente (anche se da un punto di vista temporale ci potrebbe essere una sfasatura tra la pronuncia del termine e l’inizio effettivo della consapevolezza), la quale a sua volta si dispiega secondo le varie modalità ampiamente descritte in precedenza : l’io possiede una duplice eminenza di essere, per cui la sua vita è in ogni momento presente ed attuale, al contrario di quella dei suoi vissuti ; così come è portatore dei vissuti stessi, che solo in esso ricevono essere ed unità. Nonostante ciò, l’io è anche bisognoso di sostegno e costantemente sottomesso al nulla ; ed è vuoto se non riceve contenuti da un’al di là, che sia esterno od interno ; la sua vita procede dall’oscurità e muove verso un’oscurità.
Da qui [dall’io] giungiamo ad una comprensione – sia pur solo analoga (gleichnishaften) – dell’essere divino, se eliminiamo tutto ciò che è non essere. In Dio non c’è, come invece nell’uomo, una contrapposizione tra vita dell’io ed essere. Il suo « Io sono » è presente che vive in eterno, senza inizio né fine, senza lacune né oscurità. Questa vita dell’io ha in sé e da sé tutta la pienezza [… è] la pienezza dell’essere in forma personale (die Fülle des Seins persönlich geformt). 3
In Dio non si dà opposizione fra essere e vita dell’io, ma pienezza di essere in forma personale. Si tratta di una pienezza che abbraccia ogni tipologia di essere, quella essenziale, quella reale nonché quella pensata (trattandosi di uno spirito). Quid e esse sono 1
EeS, ESGA 11/12, p. 293.
2
EeS, ESGA 11/12, pp. 293-4.
3
EeS, ESGA 11/12, p. 295.
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contenuti inscindibilmente nell’« io sono » che trascende non solo le divisioni categoriali dell’ente finito, ma anche quelle trascendentali dei modi di essere universali, che appunto di Dio si possono predicare solo analogamente.
Il rapporto dell’« Io sono » divino con la molteplicità dell’ente finito è l’analogia entis più originaria. Solo per il fatto che ogni ente finito ha il suo modello nell’« Io sono » divino tutto possiede un senso che è comune. Poiché però l’essere si divide nella creazione, esso non ha lo stesso significato in senso stretto in ogni ente, ma accanto ad una consistenza di senso (Sinnbestand) comune, anche una differente. 1
Il risultato che emerge quindi dalla risalita steiniana al culmine del senso dell’essere è che l’analogia entis più originaria è quella della molteplicità dell’essere creato, secondo i suoi livelli, con l’essere divino, per cui ogni cosa ha un fondo di significato comune solo grazie a tale rapporto primario : al contempo, l’opposizione e la maior dissimilitudo insita nel concetto stesso di analogia implica l’irriducibilità del creatore all’essere finito e il conseguente rifiuto del panteismo.
L’autonomia del creato non deve essere posta quale quella dell’immagine nei confronti di ciò che rappresenta, o dell’opera rispetto all’artista. Piuttosto, si può trarre un paragone con l’immagine dello specchio e l’oggetto riflessovi o con la luce ed un suo raggio, anche se pure in questi casi si tratta di descrizioni imperfette di ciò che non ha paragoni. 2
La questione dell’immagine di Dio nel creato conduce Stein ad affrontare ancora il problema delle relazioni intra-trinitarie : la seconda persona della Trinità, infatti, è definita classicamente come immagine perfetta del Padre. Si riprende l’ipotesi che la pluralità delle persone sia intima alla stessa essenza divina e che si tratti di un « noi » perfetto, senza contrapposizione tra universale e particolare, ma con entrambi gli elementi compresenti al livello massimo di perfezione possibile.
Il noi come unità di io e tu è un’unità più alta di quella dell’io. Si tratta, nel suo senso più perfetto, di una unità d’amore. L’amore come assenso ad un bene è possibile anche come amore di un io. Ma l’amore è più di questo assenso, di una « stima di ciò che ha valore » (Wertschätzung). È dono di sé ad un tu e nella sua perfezione – sulla base del reciproco dono di sé – essere uno. Poiché Dio è amore, l’essere divino deve presentarsi come essere uno di una pluralità di persone (Einssein einer Mehrheit von Personen) e il suo nome « io sono » significa « io mi dono completamente ad un tu », « sono una cosa sola con un tu » e perciò significa anche « noi siamo ». 3
L’amore reciproco del Padre e del Figlio (o di uno nei confronti dell’altro) secondo la tradizione, genera lo Spirito. Anche la relazione tra essere eterno ed essere finito acquista secondo Stein maggiore chiarezza nella presupposizione del dogma della Trinità, perché gli enti creati sono, tramite le loro forme pure, da sempre nel Verbo e ivi anche conosciute ; ed essendo anche il piano della creazione previsto dal principio, si può pensare, secondo Stein, che nel generare il Figlio, il Padre gli consegni da sempre il mondo
1 EeS, ESGA 11/12, p. 297. Già citato : cfr. nota 5 a p. 12 dell’Introduzione. Cfr. P. Secretan, L’analogie du « je 2 suis » selon Edith Stein cit. EeS, ESGA 11/12, p. 297. 3 EeS, ESGA 11/12, p. 299. Tali considerazioni sulla vita intersoggettiva permetterebbero di correggere, a livello dell’io, quello che si è detto precedentemente nel piano più generico dei trascendentali, ossia l’originarietà della nozione di ente e lo scaturire del rapporto con l’alterità solo dalla determinazione in un certo modo secondaria dell’uno. Si avrebbe quindi qui un mantenimento dell’impostazione già notata nel primo scritto sull’empatia e nelle altre opere fenomenologiche dell’autrice, ossia un’accentuazione dell’importanza dell’aspetto comunitario.
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in virtù di quel doppio volto del Logos/logos che si è descritto anche in precedenza, quale immagine perfetta e unita a Dio e al contempo senso dell’universo. 1 Ancora una volta, quindi, il principio dell’analogia si dimostra centrale nell’impalcatura metafisica di Stein : il paragrafo dedicato espressamente all’analogia entis si colloca infatti nel cuore di questo capitolo intitolato « il senso dell’essere », nel quale si giunge al culmine del percorso di ascesa e si affronta direttamente il tema che era annunciato nel sottotitolo dell’opera. Se quindi il titolo del volume conteneva già in sé, implicitamente, la questione dell’analogia nonché la declinazione in termini temporali che abbiamo potuto descrivere nel dettaglio, nuovamente questi passaggi hanno rivelato come la questione ontologica prenda una piegatura particolare nell’attenzione alla persona, e come il ragionamento filosofico sia costantemente innervato ed ispirato dal dato di fede. L’analogia originaria e più fondamentale è quella con l’« io sono » divino. Il percorso del volume procede su questa direttrice, e i capitoli successivi prendono lungamente in esame il modo in cui l’essere finito possa rispecchiare il creatore. 2 L’analisi si rivolge anzitutto ad un approfondimento proprio della nozione di persona e parte dalla Trinità stessa : si è giunti, infatti, al termine dell’indagine precedente e col sostegno del lume soprannaturale, a Dio come essere in tre persone : sulla scorta della nota definizione boeziana, che qualifica la persona come rationalis naturae individua substantia, e dei relativi commenti di Tommaso, si individua allora il significato generale di sussistenza (Subsistenz) come quello che è in grado di restituire il senso della nozione di persona in un modo migliore rispetto a quello, tramandato dalla tradizione greca, di « ipostasi », che invece risulta utilizzabile anche per la sostanza nei confronti degli accidenti. La sussistenza delle persone divine è supporto della loro essenza, senza però che vi sia una materia o un contenuto differenti ; avviene dunque in questo caso qualcosa di simile a ciò che si era riscontrato per l’io puro e i suoi vissuti, per la persona finita e le sue particolarità, per la forma dell’oggetto nei confronti della sua pienezza di contenuto, tutte relazioni che trovano quindi, secondo Stein, il loro archetipo nella vita trinitaria, nella quale però forma e pienezza sono in realtà inscindibili. Attraverso l’approfondimento della nozione di spirito, l’autrice giunge allora a differenziare l’io, quale vita che sgorga da sé, dalla persona, quale capacità di comandare e dirigere tale vita. Le descrizioni antropologiche che si conducono qui sono basate sempre sulla triplice struttura corpo, anima, spirito, ma traggono il loro punto di partenza, secondo l’impostazione già presente in Potenza ed atto ed all’inizio di questa opera, dall’osservazione dell’oscurità in cui la vita cosciente si trova immersa, per cui essa :
non si identifica con « il mio essere », ma sembra simile ad una superficie illuminata su di un fondo oscuro, che si annuncia grazie a tale superficie. 3
Stein ha quindi l’occasione per sottolineare nuovamente il ruolo dell’io, e per descrivere più nel dettaglio il suo rapporto, quale vita coscienziale, con il corpo e l’anima. Nel momento in cui si mostri in grado di esercitare il dominio di sé, questo io è inoltre definibile quale persona. Stein nota come non è possibile vivere semplicemente quale io puro, perché la sua vita dipende dalla pienezza d’essenza che esso per un verso sostiene, ma dalla quale è a sua volta sostenuto : in questa doppia struttura emerge quindi la
1
Sulla presenza di un modello trinitario nella creazione secondo Essere finito ed essere eterno cfr. J. Ruf, Das Abbild der Dreifaltigkeit in der Schöpfung in Edith Steins Buch : Endliches und ewiges Sein, München, diss., 1973. 2 3 Cfr. EeS, ESGA 11/12, pp. 303 ss. EeS, ESGA 11/12, p. 311.
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caratteristica tipica della persona umana, che si differenzia dagli spiriti puri finiti, dotati di una continua e completa chiarezza rispetto al proprio essere : la persona umana si avvicina però a Dio in modo peculiare proprio grazie a questa profondità d’essere da cui pare provenire, e che gli angeli, nella loro assoluta trasparenza a se stessi, non possiederebbero. Dopo aver definito lo spirito in generale come « senso e vita – in piena realtà : vita riempita di senso » 1 e aver sottolineato come la pienezza di vita non formata si definisca « forza » (Kraft) e il senso senza pienezza di vita « idea » (Idee), Stein passa ad una trattazione filosofica dell’angelologia. A prima vista una tale disamina sembrerebbe ancora più difficilmente giustificabile di quella dell’essere eterno. Si sottolinea allora come il clima intellettuale della sua epoca rese ovvio, a Tommaso, rivolgersi ad un tale tema ; e si evidenzia il tentativo dell’Aquinate di procedere quasi ad una dimostrazione razionale dell’esistenza degli angeli (sostenendo che mancherebbe qualcosa in natura se oltre agli esseri corporei e corporeo-spirituali non vi fossero anche quelli puramente spirituali). Stein dichiara poi di voler procedere da un punto di vista strettamente filosofico, secondo lo stile husserliano, considerando gli angeli come mera possibilità essenziale, e sospendendo dunque la questione sulla esistenza o meno di puri spiriti (che è comunque, viene ribadito, una verità di fede). Si descrive quindi, in una disamina che non vale qui la pena di seguire nel dettaglio, conoscenza superiore, unità di vita e di forza degli angeli, e vengono introdotte anche notazioni molto interessanti sul rapporto tra natura e grazia, per cui mentre la prima in un certo senso separa da Dio (anche se non allo stesso modo della natura decaduta), con il porre esseri con un grado relativo di indipendenza, la seconda invece riconduce al creatore. Viene inoltre trattato il problema del male, del quale si sostiene che la semplice definizione di mancanza di essere, formulata per evitare il dualismo manicheo, non rende conto della differenza tra una privazione naturale e il male in quanto voluto, tra i termini tedeschi Schlecht e Böse ; differenza che, tra l’altro, Stein osserva essere presente nella dottrina teologica del peccato e della punizione : il male originario (Urböse) è nella ribellione della volontà creata contro quella del creatore, l’opposto della apertura alla grazia, e da tale disobbedienza di principio si originerebbe poi il male fisico. Con Duns Scoto, inoltre, Stein attribuisce agli spiriti puri una certa materialità (che non è corporeità), quella cioè di una materia primo prima completamente coincidente con la forma, in cui l’elemento passivo è solo la ricettività possibile nei confronti di una pienezza spirituale esterna, per cui gli angeli sono assieme in una comunità di vita. In analogia con essa, va pensata anche la chiesa, e qui Stein si rifà alle analisi dello pseudo Dionigi Areopagita, autorità richiamata d’altronde più volte in queste analisi di angelologia ; e con termini ancora significativamente antropologici, Stein descrive la comunità dei fedeli come ancorata, paolinamente, a « Cristo capo e Corpo vivo ». 2 Se allora la materia corporea viene definita pienezza indeterminata di spazio, quella spirituale è pienezza indeterminata di vita : le determinazioni verrebbero ricevute tramite la forma, la quale a sua volta ottiene determinazione grazie al senso. Nella relativa autonomia dell’ente creato, nella sua pienezza che è di senso, e nel suo manifestarsi in una vita, sia pur secondo gradi diversi, Stein ritrova ancora un’im
1
EeS, ESGA 11/12, p. 323. Sull’angelologia steiniana cfr. X. Tilliette, Edith Stein. La dottrina degli angeli, « Aquinas », 34/3 (1991), pp. 447-457. 2
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magine della Trinità divina, in cui si può parlare di un fondamento permanente nella persona del Padre, di una pienezza di significato nel Figlio e di una irradiazione di vita nello Spirito Santo. Anche gli oggetti materiali esprimerebbero infatti un senso mediante il quale potrebbero trascendere la semplice corporeità, acquistando in un certo modo un essere spirituale : così la tripartizione in corpo, anima e spirito si ritrova in tutto l’essere :
arriviamo ad un secondo significato di corpo vivente – anima – spirito, secondo il quale queste nozioni descrivono le forme dell’essere reale : l’essere animato come mobilità fluente che spinge per dar forma, l’essere corporeo come possesso dell’essenza dispiegatasi, l’essere spirituale come il libero uscire da sé, l’esprimersi o il respirare fuori da sé dell’essenza. 1
La somiglianza della Trinità nella persona umana troverebbe quindi una ulteriore analogia nella natura creata, in cui entrambe si rispecchiano. Nel costituirsi dell’ente materiale tramite un supporto, una forma che lo attua e che poi si sviluppa, oppure nei movimenti di dispiegamento temporale dell’essenza, ossia formazione, possesso di sé ed uscita da sé, andrebbero rinvenuti due modelli trinitari di marca fortemente genetico-dinamica. Ma un’ulteriore immagine trinitaria nella natura sarebbe, per Stein, anche la divisione dei tre stati della materia (solido, liquido e gassoso). Tale struttura viene quindi osservata nel dettaglio nelle piante, negli animali e infine nell’uomo, lo sviluppo della cui forma ha una parte involontaria e una guidata razionalmente. La capacità di un autoformarsi conscio da parte dell’anima matura presuppone secondo Stein la conoscenza di sé, che si dà secondo vari livelli, a partire da quello dell’immediata certezza di sé dell’io, in cui non vi è ancora obiettivazione e quindi distinzione tra conoscente e conosciuto ; si sperimentano però vari strati di profondità di vissuti, per cui l’io scopre l’anima e cerca di illuminarla, operazione possibile solo per gradi, e che quindi si presenta soprattutto quale compito. Stein si sofferma inoltre, in queste pagine, sul venire alla luce della vita dell’anima come vita dello spirito, ossia sull’uscire da quello che viene definito un « fondo oscuro » per giungere al guadagno della certezza di sé. L’io che vive nella profondità dell’anima può comprendere al meglio le connessioni significative degli eventi e regolare le sue azioni di conseguenza : la sua vita è allora sensata ; e tanto più esso vive ed è raccolto in sé, secondo l’autrice, tanto più la sua vita interna può essere anche irradiata all’esterno. L’ultimo strato dell’anima, però, resta sempre un mistero persino per l’io stesso : qui si trova infatti qualcosa che è in grado di attrarre l’anima più del mondo esteriore, che la spinge a rimanere nella sfera interiore e che poi nel suo profondo si manifesta quale un nuovo uscire da sé. Anche la vita dell’anima umana è immagine della Trinità ; ripresi gli esempi agostiniani delle triadi di spirito, amore, conoscenza e di memoria, intelletto, volontà, Stein sviluppa molteplici possibilità di approfondimento, il cui culmine si ritrova nell’inabitazione reale di Dio nell’anima stessa, per cui essa vivrebbe una vera e propria vita trinitaria, abbandonandosi alla volontà del Padre e in ciò permettendo in sé, in modo misterioso, la generazione del Figlio e la vita dello Spirito Santo. Ciò avviene grazie all’apertura del fondo dell’anima all’essere spirituale. Ogni comunità di persone, infine, e in massimo grado, si è visto, la gerarchia angelica, rappresenta per Stein un’ulteriore immagine della Trinità.
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EeS, ESGA 11/12, p. 357.
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L’ultimo capitolo di questo imponente testo si apre invece ad un’indagine sul senso dell’essere individuale dell’uomo. 1 A tal fine, Stein muove anzitutto ad una definizione dell’individualità in sé. Secondo una prima approssimazione, si sostiene in queste pagine che un ente dotato di tale caratteristica è quello che non si può più chiamare con un nome (che è necessariamente universale), ma solo indicare con un gesto. Viene ridiscussa perciò la dottrina del principio di individuazione che, secondo Tommaso, andava rinvenuto nella materia determinata dall’estensione (materia signata quantitate). Stein nota però anzitutto come la determinazione della materia possa già sempre avvenire solo mediante una forma : così si ottiene infatti la sussistenza e da questa l’individualità, anche se il fondamento ultimo è da rinvenirsi ulteriormente nel suppositum, ossia in ciò che sorregge le altre determinazioni ; l’esistenza reale è invece una caratteristica che non pertiene necessariamente a tutti i sussistenti. L’essenza individuale è altresì il supporto delle proprietà specifiche e del loro sviluppo. Stein sottolinea inoltre come l’individualità possieda un senso molto più spiccato nell’uomo che nelle altre creature, grazie all’incomparabilità della parte più intima dell’anima, da cui tutta la persona riceve forma. In tale profondità risiede Dio, l’unico in grado di conoscere il vero nome di ciascuno. 2 Lo scritto si conclude quindi con un paragrafo strettamente teologico su « Cristo unico capo e corpo », in cui si analizzano le questioni relative all’unità del genere umano e la lettura del suo destino alla luce della storia della salvezza, nel ruolo centrale dato nella creazione all’uomo, che come medio tra natura e spirito ha accolto l’incarnazione di Cristo, rivolta così a tutto l’universo. L’analogia tra Dio e mondo, tra essere finito ed essere eterno, trova quindi il suo culmine nella persona di Cristo, in cui si realizza pienamente quella che qui abbiamo potuto descrivere come una analogia della persona. 3 Essere finito ed essere eterno rappresenta, come abbiamo detto più volte, una sorta di sintesi delle ricerche filosofiche e teologiche di Stein. Per comprendere come il problema dell’analogia, secondo quanto descritto, rappresenti in un certo modo sia il fondamento, sia la struttura e la dinamica che sorregge l’intera imponente opera, abbiamo dovuto procedere ad una descrizione dettagliata del punto di partenza dell’opera e ad una panoramica sull’andamento complessivo della stessa. Stein prende le mosse dalle nozioni di atto e potenza, che delineano appunto l’analogia dell’ente ; queste categorie vengono rinvenute poi nella coscienza trascendentale e nel suo flusso temporale, così da rappresentare un primum sia a livello ontologico che fenomenologico. Nella vita dell’io, sottoposta alla temporalità finita e, quindi, all’angoscia esistenziale, Stein rinviene un fondamento privo di potenzialità e di finitezza : è l’essere eterno, che sorregge ontologicamente, costituisce fenomenologicamente e motiva esistenzialmente la vita
1
Cfr. EeS, ESGA 11/12, pp. 395 ss. Sulla questione del principio di individuazione in Stein cfr. S. Borden Sharkey, Thine Own Self, cit., e F. Alfieri, La presenza di Duns Scoto nel pensiero di Edith Stein. La questione dell’individualità, Bari, Laterza, 2011. 3 In Edith Stein und die analogia entis, cit., Hedwig muove critiche a nostro avviso troppo sbrigative : sostiene infatti che Przywara, nella questione dell’analogia, non abbia distinto adeguatamente tra piano logico e ontologico ; che in Stein non sia presente lo schema cosiddetto « dentro-sopra » (pur non esplicitato, a noi appare invece macroscopicamente in azione) ; e che la posizione steiniana dell’analogia non sia tomista (e anche in questo caso, se la “lettera” sembra dargli ragione, lo “spirito” ci sembra ben diverso). Hedwig inoltre è molto deciso nel criticare la difficile fondazione teologica dell’analogia steiniana ; e parla persino di una sua presunta critica irata di Stein a Heidegger, motivata dal fatto di non riuscirne a venire a capo filosoficamente. 2
2. La filosofia della persona e l’antropologia di Münster 106
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dell’io. A partire da questo fondamento più intimo all’io dell’io stesso, e al contempo radicalmente diverso e altro da lui, la ricerca di Stein si apre al guadagno dell’intera realtà e all’« ascesa al senso dell’essere ». Si passa perciò attraverso l’essere essenziale e quello reale per giungere, oltre la trattazione dei trascendentali e dell’ente in sé, al senso dell’essere e alla sua pienezza in Dio ; e Dio è persona. È l’« io sono » originario, dal quale tutto il resto dell’essere è creato e rispetto al quale tutto il resto dell’essere si costituisce per analogia. Raggiunta questa vetta, il movimento teorico dell’opera si indirizza nuovamente alla realtà, in una sorta di “ridiscesa” che la ricomprenda alla luce del significato dischiusosi in vetta. Al di là del fondamento nell’essere eterno, quindi, di cui abbiamo detto più volte, nella sua dinamica generale il procedere del testo appare riprendere il modello fenomenologico così come Stein, in particolare, lo aveva descritto a Juvisy : ossia regressione al piano ultimativamente costitutivo e poi riguadagno della realtà. Il perno però attorno a cui ruota il movimento, in questo caso, non è più l’io, ma Dio, secondo il passaggio da filosofia egocentrica a teocentrica. Si giunge infatti al fondamento ultimo della costituzione dell’io, degli enti, del loro essere e del loro senso in Dio ; e si procede poi alla loro nuova descrizione, che deve avere come punto di riferimento e modello Dio stesso. Ma la dinamica, è evidente, è fortemente ispirata anche dalle tesi di Przywara. Con il suo continuo riferire secondo gradazioni di senso e di dipendenza i livelli ontologici progressivamente scoperti a Dio, radice ultima della costituzione e quindi dell’essere, l’analogia pare allora essere descrivibile quasi come una sorta di corrispettivo metafisico del procedimento fenomenonologico. Per altro verso, proprio l’impostazione fenomenologica trasforma l’analogia dell’ente in una analogia della persona. Non ci si trova in presenza, evidentemente, di un semplice tentativo di trasformare la fenomenologia trascendentale in una metafisica di stampo tomista, e anzi, vale la pena ribadirlo ancora una volta, il metodo trascendentale husserliano è anche qui il punto di partenza e la chiave di volta. Non a caso in Stein si registra un allontanamento teorico esplicito da numerose posizioni di Tommaso. Per altro verso si tratta di un tentativo che sembra cogliere il cuore e lo spirito della filosofia di Tommaso.
2. La filosofia della persona e l’antropologia di Münster Dopo aver delineato come la metafisica steiniana sia fondata sull’architrave dell’analogia e come quest’ultima, a sua volta, assuma una declinazione molto originale nei termini di una analogia temporale prima, e di una analogia della persona poi, ci rivolgiamo ora ad osservare come il nesso tra analogia e persona, che abbiamo descritto come culmine di una serie di esigenze teoriche maturate nel corso della sua opera, presenti altri rilevanti tracce. Al di là dei dettagli tecnici e delle analisi molto raffinate svolte da Stein sugli strati di costituzione e i livelli in cui si può scomporre la persona umana, che per certi versi rappresentano l’interesse primario della sua indagine teorica, nostra cura specifica sarà rivolgerci alla questione dell’analogia nei termini con cui, sin dal trattato sull’empatia, essa viene utilizzata per inquadrare teoreticamente la questione dell’altro io ; per arrivare a mostrare come il rapporto personale con Dio, ossia l’analogia della persona nei termini fondativi che abbiamo descritto, che per un verso è risposta alla questione della costituzione nel rapporto tra realtà e conoscenza, sia modellata sull’analogia per così dire “orizzontale” con altri soggetti personali umani. Abbiamo detto di come il rinvenimento di una analogia della persona quale fondamento della
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sua sintesi teorica risieda piuttosto nello sviluppo della questione religiosa e teologica ; di come cioè il tema intersoggettivo sia indagato da Stein nei termini di un vissuto peculiare, ma poi, nonostante alcuni accenni molto interessanti, non approfondito in una direzione costitutiva radicale. Tuttavia il nesso è complicato, perché appunto la conoscenza religiosa era descritta da Stein come un caso specifico della conoscenza di persone estranee. È dunque su questo modello che viene pensata e sviluppata. Husserl stesso, com’è noto, tratta in termini di analogia la questione empatica e il rischio solipsistico, soprattutto in alcune celebri pagine delle Meditazioni cartesiane.1 Se la radice e il culmine dell’analogia dell’ente vanno rinvenuti in un’analogia tra essere finito ed essere eterno che è anzitutto un’analogia tra persona umana e persona divina, è estremamente significativo come il rapporto interpersonale, prima della riflessione su temi neoscolastici, venga più volte concepito da Stein, direttamente od indirettamente proprio mediante la figura dell’analogia. Si tratterà dunque, in queste pagine, di temi soprattutto fenomenologici. Per rintracciarne il nesso con quanto esposto sinora, tuttavia, e soprattutto con la descrizione dell’analogia a livello personale che abbiamo seguito analiticamente in Essere finito ed essere eterno, intendiamo procedere in certo modo a ritroso, prendendo le mosse cioè da alcune riflessioni dedicate da Stein all’antropologia negli anni ’30 ; si tratta perciò di analisi già marcate dall’assunzione dell’orizzonte di riferimento cristiano in generale e tomista nello specifico, ma in cui emergono altresì tracce fenomenologiche, cui ci rivolgeremo poi progressivamente nelle opere precedenti la conversione. Dopo aver tentato invano la possibilità dell’abilitazione a Friburgo con lo scritto Potenza ed Atto, Stein aveva ricevuto un incarico di insegnamento presso il Deutsches Institut für Wissenschaftspedagogik di Münster, nel 1932. Del breve periodo trascorso in quella sede (già nel 1933 Stein entrerà nel Carmelo di Colonia) sono rimaste due serie di appunti preparatori per le lezioni, che sviluppano una antropologia ispirata a Tommaso d’Aquino : l’antropologia, infatti, è per Stein la scienza teorica che deve essere posta a fondamento della pedagogia. 2 La prima serie di appunti, intitolata La costituzione della persona umana (Der Auf bau der menschlichen Person), prende le mosse da una analisi del modello di uomo veicolato da quella che Stein chiama la « metafisica cristiana », e lo confronta con le proposte dell’idealismo tedesco, della psicologia del profondo e della filosofia esistenziale heideggeriana. 3 Il titolo è molto significativo : nella sua autobiografia, Stein notava che fin dal trattato sull’empatia il suo oggetto di interesse primario era stata la questione della costituzione della persona umana :
In una prima parte [della dissertazione], avevo esaminato l’atto dell’« empatia », con riferimento ad accenni delle lezioni husserliane, come un atto specifico della conoscenza. Ma a partire da là mi ero spinta su un terreno che mi stava molto a cuore, e che nei lavori successivi mi avrebbe impegnato sempre di nuovo : la costituzione della persona umana (Der Auf bau der menschlichen Person). 4
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Cfr. al proposito J.-F. Courtine, L’être et l’autre, cit. Cfr. B. Beckmann, Edith Stein’s Theory of the Person in her Münster Years (1932-1933), « American Catholic Philosophical Quarterly », 82/1 (2008), pp. 47-70 ; C. M. Wulf, Subjekt-Person-Religion. Edith Steins Vermittlung zwischen philosophischer und theologischer Anthropologie, « Freiburger Zeitschrift fuer Philosophie und Theologie », 49/3 (2002), pp. 347-369. 3 Cfr. Der Auf bau der menschlichen Person, ESGA 15. 4 Aus dem Leben einer jüdischen Familie, ESGA 1, p. 328. 2
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Dopo aver accennato a diversi modelli di antropologia, il testo prende le mosse da una distinzione molto rigorosa tra filosofia e teologia, secondo una ripresa di Tommaso stavolta piuttosto classica, forse perché finalizzata all’insegnamento in un contesto istituzionalmente cattolico. Stein si propone di seguire un’indagine puramente razionale, sulla base però non delle opere dell’Aquinate, che non ha scritto direttamente di antropologia, ma partendo da movenze fenomenologiche. La fenomenologia viene descritta allora come un metodo guidato dalle cose stesse, ma non per questo empiristico, perché rivolto alle essenze : non si menziona in questo caso la riduzione trascendentale, forse perché l’analisi è indirizzata direttamente ad una ontologia materiale, tralasciando il problema costitutivo ; o forse, ancora una volta, in considerazione dell’uditorio, che non è specialistico. 1 Stein descrive l’uomo anzitutto come oggetto materiale, per poi passare alla sua struttura organica e a quella animale, ed arrivare infine anche in questo caso alla trattazione dello spirito ; le linee fondamentali sono dunque quelle di Essere finito ed essere eterno, e di cui abbiamo in parte detto, con alcuni tratti però di originalità. Stein si sofferma infatti sulla Gestalt, sul movimento, o sulle datità acustiche, con analisi che sarebbero meritevoli di una disamina dettagliata. Analizza poi i caratteri vegetativi dell’uomo, giungendo a correggere la teoria di Tommaso dell’unità della forma sostanziale, che vedeva la pluralità delle forme risolversi in quella superiore. Per Stein va invece concepita piuttosto una forma composta (Formgefüge), in cui c’è unità grazie alla legalità interna che divide le funzioni superiori e inferiori ; è la forma dominante a definire la finalità ed essa può dunque essere a tutti gli effetti considerata la forma sostanziale, sebbene l’intera sostanza non sia determinata solo da essa. Stein si pone così in condizione di attribuire un principio spirituale anche allo sviluppo dell’embrione (cosa che sulla base del tomismo di stretta osservanza non risulta possibile : per l’Aquinate, infatti, sino ad una certa fase di sviluppo sono presenti solo l’anima vegetativa, poi anche quella animale, ma solo in un terzo momento subentra quella razionale) ; per Stein l’embrione è invece dotato da subito di un’anima spirituale, che guida lo sviluppo delle altre parti. In modo corrispondente, e dunque facendo riferimento ancora una volta ad un possibile sviluppo interno presieduto dalla forma, Stein si rivolge anche al problema dell’origine della specie, analizzandolo da un punto di vista filosofico, e cercando una correzione di elementi tomistici che rendano la dottrina classica almeno in parte conciliabile con le acquisizioni scientifiche della biologia. Le innovazioni introdotte nella dottrina metafisica di Tommaso, anche in queste pagine, sono comunque di natura anzitutto genetica e temporale. 2 La trattazione prosegue quindi distinguendo nell’uomo i fattori genericamente animali da quelli specificamente antropologici : in modo particolare il secondo paragrafo di questo capitolo, il sesto, presenta un passaggio particolarmente rilevante per noi perché si intitola : Chiarimento analogico di ciò che è estraneo mediante ciò che è proprio, e di ciò che è proprio mediante ciò che è estraneo (Analogische Deutung des Fremden durch Eigenes und des Eigenen durch Fremdes).
Uno studio di critica della conoscenza dovrebbe chiedersi in che misura quanto di ciò che percepiamo come animato negli uomini e negli animali è un chiarimento delle apparenze esterne se1
Cfr. Der Auf bau der menschlichen Person, ESGA 15, pp. 1-28. Cfr. Der Auf bau der menschlichen Person, ESGA 15, pp. 29-75.
2
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analogia della persona
condo un’analogia con ciò che percepiamo di animato in noi, e in che misura questo chiarimento analogizzante può procedere. Ma anche, viceversa, quanto di ciò che percepiamo in noi e di noi è determinato mediante l’analogia con ciò che cogliamo dell’essere umano nell’esperienza esterna. Il fatto che chiariamo ciò che ci è estraneo con l’analogia rispetto a ciò che ci è proprio vale soprattutto per l’esperienza della vita attuale. Il fatto invece che ci consideriamo secondo l’analogia con l’altro ha più significato per il coglimento dell’essere durevole dell’anima, dell’uomo come integralità psicofisica, delle sue potenze. 1
Sfortunatamente, tuttavia, questo paragrafo è esaurito completamente da questo breve testo e Stein non dice altro. Infatti le pagine immediatamente seguenti, che aprono il paragrafo dedicato alle Strutture dell’anima, affermano :
Appartiene all’uomo stesso il fatto di possedere una doppia esperienza di altri uomini, sia interiore che esteriore ; e il fatto che queste due entrino in un’unità dell’esperienza. Ma di ciò non ci occuperemo qui. 2
Si procede invece ad analisi degli strati della persona in termini generali, e senza riferimento alla modalità di costituzione : da una descrizione di istinti, affetti, tendenze e sentimenti sensibili sino all’io, alla sua libertà, al sé e al rapporto dell’anima con il corpo ; si giunge infine alla nozione dello spirito, declinata sia in ambito individuale, sia, soprattutto, in ambito sociale. Per quanto riguarda il primo aspetto, Stein scrive :
Spiritualità personale significa vigilanza (Wachtheit) e apertura (Aufgeschlossenheit). Non solo sono e non solo vivo, ma so del mio essere e della mia vita. E tutto ciò è uno. La forma originaria del sapere che appartiene all’essere e alla vita spirituale non è una forma successiva e riflessa, in cui la vita diviene oggetto del sapere, ma è come una luce, da cui la vita spirituale in quanto tale viene illuminata. La vita spirituale è allo stesso modo sapere originario di altro rispetto a sé. Significa essere in altre cose, guardare dentro un mondo che sta di fronte alla persona. Il sapere di sé è apertura verso l’interno, il sapere di altro è apertura verso l’esterno. 3
Ma appunto interno ed esterno sono due aspetti della stessa questione. Poche righe prima, infatti, Stein aveva affermato :
Guardo negli occhi di un uomo e il suo sguardo mi risponde. Mi lascia entrare nel suo intimo o mi respinge. È signore della sua anima e può aprire o chiudere le sue porte. Può uscire da sé ed entrare nelle cose. Quando due uomini si guardano reciprocamente, allora un io e un altro io stanno reciprocamente davanti. Può trattarsi di un incontro che avviene sulla soglia o di un incontro che avviene all’interno. Se si tratta di un incontro che avviene interiormente, allora l’altro io è un tu. Lo sguardo dell’uomo parla. Un io signore di sé, vigilante, mi guarda. Rispetto a ciò parliamo anche di una persona spirituale libera. 4
L’apertura (Erschlossenheit) che caratterizza secondo Stein l’essere umano, infatti, è la stessa che gli permette di cogliere il proprio mondo interiore, il mondo esterno e Dio. L’esistenza umana è aperta verso l’interno, è un’esistenza dischiusa nei confronti di se stessa, ma è aperta e dischiusa anche verso l’esterno, in modo che possa accogliere in sé un mondo […] . Dentro come fuori di sé, l’uomo trova richiami a qualcosa che è sopra di lui e sopra a tutte le cose, e da cui egli stesso e tutto il resto dipende. 5 1
Cfr. Der Auf bau der menschlichen Person, ESGA 15, pp. 75-76. Der Auf bau der menschlichen Person, ESGA 15, p. 76. 3 Der Auf bau der menschlichen Person, ESGA 15, p. 78-9. 4 Der Auf bau der menschlichen Person, ESGA 15, p. 78. 5 Der Auf bau der menschlichen Person, ESGA 15, p. 32. 2
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capitolo ii
L’analisi introduce poi due capitoli molto interessanti dedicati all’essere sociale delle persone, che rappresenta per Stein il vertice della costituzione della persona umana, secondo quanto, come diremo, aveva già teorizzato nei suoi studi fenomenologici ; le considerazioni si aprono con questa osservazione : « troviamo l’uomo sempre in un mondo di uomini » ; 1 la considerazione isolata dell’uomo, infatti, è un’astrazione. Stein analizza gli atti sociali, le relazioni sociali e le costruzioni sociali. Sviluppa quindi una teoria tipologica e si sofferma sulle caratteristiche proprie di un popolo, così come sul rapporto del singolo con il popolo stesso. Il metro finale della vita umana, in ogni caso, consiste secondo queste pagine in ciò che si fa non per la famiglia, la comunità, il popolo o l’umanità, ma nel seguire la chiamata di Dio. L’opera prende infine in considerazione l’aspetto teologico e termina con una rapida descrizione del ruolo pedagogico delle verità eucaristiche. Tale integrazione teologica della descrizione naturale viene condotta più diffusamente negli appunti per le lezioni del semestre estivo successivo, quello del 1933 dedicati a una Antropologia teologica (Was ist der Mensch ? Theologische Anthropologie) lavoro che ha per scopo, secondo le parole dell’autrice stessa, quello di « esporre l’immagine dell’uomo che è contenuta nella nostra dottrina di fede », tenendo tuttavia fisso lo sguardo, come anche nelle lezioni precedenti, sulle finalità precipuamente pedagogiche. 2 Anche questa opera, che accenna a molti temi che saranno ripresi nelle opere più tarde dedicate specificamente alla mistica, si apre con una considerazione della natura umana comune a tutti gli individui, tratta poi della condizione umana prima della caduta originaria, dello stato della natura ferita, dell’incarnazione di Cristo, della redenzione e dello stato antropologico dei redenti, concludendosi con un’analisi dei sacramenti e dei rapporti tra grazia e fede. Si tratta quindi di riflessioni che si muovono da cima a fondo all’interno della dottrina cattolica e che inscrivono la trattazione antropologica in questo orizzonte. Va notato in modo particolare, rispetto a quanto si è detto sulla filosofia teocentrica e sulla filosofia cristiana, come Stein descriva qui la grazia in termini molto tradizionali. Anche il rapporto tra ragione e fede è modellato su quello espresso dal magistero.
La fede è descritta come in accordo con la ragione naturale nella misura in cui motivi razionali muovono a favore della sua accettazione. Ma l’atto di fede non è in se stesso un atto della ragione naturale. 3
Qui vengono distinti ancora una volta l’ordine naturale e quello soprannaturale, sia secondo il principio che secondo l’oggetto : provenendo però entrambi da Dio non possono essere in contraddizione, conclude Stein con piena fedeltà alla più classica delle impostazioni di stampo cattolico. Il lavoro termina quindi con la citazione della condanna del modernismo da parte di Pio IX, cui Stein sembra adeguarsi senza riserve. 4 Anche in questo testo, però, si fa menzione della questione dell’analogia ; e pur prendendo le mosse da termini molto generali, che non si discostano dalla dottrina di marca teologica che regola la possibilità di comprendere le realtà soprannaturali che abbiamo
1
Der Auf bau der menschlichen Person, ESGA 15, p. 135. Cfr. Was ist der Mensch ? Theologische Anthropologie, ESGA 15, pp. 3 e ss. 3 Was ist der Mensch ? Theologische Anthropologie, ESGA 15, p. 171. 4 Cfr. Was ist der Mensch ? Theologische Anthropologie, ESGA 15, pp. 173 ss. 2
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analogia della persona
già potuto esporre, va notato soprattutto come, ancora una volta, Stein declini la questione in termini personali. Si sta trattando il problema della visio beatifica e si afferma :
Quando vogliamo cercare di spingerci il più avanti possibile nel grado di comprensione raggiungibile nello statu viae, dobbiamo tener conto che questa può essere solo una comprensione analogica. Possiamo cioè prendere le mosse solo da qualcosa che abbiamo già ora e che in sé e al di là di sé muove nella direzione della visio. Abbiamo però dei punti di partenza. Due in particolare mi sembrano molto importanti : anzitutto la fede, nella misura in cui costituisce un inizio della vita eterna e, come la visione, ha per oggetto Dio stesso ; poi la conoscenza di quelle creature che più di tutte sono analogabili a Dio : gli uomini, nella misura in cui sono persone spirituali. Se la visio viene definita un guardare Dio faccia a faccia, non dobbiamo rappresentarci questa visione come quella sensibile, rivolta alle cose materiali. Dio è puro spirito, e così anche la visione di Dio può essere solo un atto puramente spirituale. Dio è persona e dunque una conoscenza che lo riguarda può essere solo di un tipo che corrisponda alla personalità. 1
Gli uomini, ed in particolare la caratteristica della personalità, vengono ribaditi da Stein come l’elemento che più di ogni altro è in grado di rappresentare un ponte analogico per poter pensare di avvicinare Dio. Anche la conoscenza dell’altro uomo, procede poi Stein, prende le mosse dal sensibile per giungere allo spirituale. Per entrare nella alterità spirituale della persona che si incontra ci sono diverse vie : la simbolica del corpo come modalità espressiva e, ovviamente, la comunicazione linguistica. Infine, e con considerazioni che le derivano ancora dal suo scritto sull’empatia, Stein conclude questa sezione osservando come il processo con cui si accede allo stato d’animo dell’altro non sia di tipo conoscitivo in senso stretto. La comprensione vera e propria si raggiunge quando si hanno gli elementi (oggetto, motivazioni etc…) che caratterizzano il vissuto. Il primo approccio al vissuto stesso, però, è di condivisione. I due aspetti si devono integrare, così che l’amore e la conoscenza, nei rapporti personali, procedono secondo Stein di pari passo. Il rapporto con un’altra persona, proprio come il rapporto con Dio, richiede fiducia e capacità di avanzare lungo tracce oscure, sottraendosi alla verificabilità assoluta. Non ci sarebbe dunque uno scarto assoluto, in queste pagine di Stein, tra la conoscenza di Dio e quella dell’altro : la stessa doppia apertura, interiore ed esteriore, che governa il processo di conoscenza dell’alterità personale governa per Stein anche il processo di approccio alla realtà spirituali e religiose, concepite anzitutto proprio come un rapporto personale. La seconda, in qualche modo, potrebbe essere pensata quasi come un’analogia alla doppia potenza, ossia come un’analogia dell’analogia intersoggettiva. Se è proprio nelle realtà sociali che si estrinseca la spiritualità della persona, queste stesse realtà sociali rappresentano il veicolo principale perché la spiritualità stessa possa giungere al livello che Stein considera come il più elevato, ossia quello religioso. Quella che abbiamo definito semplicisticamente come una analogia elevata a potenza è quindi veicolata e strettamente connessa alla prima. Abbiamo già osservato in precedenza come l’eventuale conoscenza di persone spirituali fosse considerato da Stein quale un caso specifico della conoscenza generale dei vissuti altrui ; e abbiamo potuto rimarcare come l’analisi dell’alterità personale umana non venisse sviluppata da Stein nella direzione di avere un significato costitutivo decisivo, nonostante accenni importanti : alter ego per Stein gioca un ruolo nella costituzione psicofisica dell’io proprio, ma non mette
1 Was ist der Mensch ? Theologische Anthropologie, ESGA 15, p. 39. Già citato : cfr. nota 1 alla p. 17 dell’Introduzione.
3. Analogia ed empatia
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capitolo ii
in questione la riduzione trascendentale. Nemmeno, evidentemente, il piano intersoggettivo è l’unico in cui si dia analogia personale, anzi, come detto, Stein sembra prediligere la via dell’analogia personale rivolta direttamente alla persona spirituale di Dio e alla trascendenza. Ma, significativamente, pensa le due analogie in analogia reciproca. Dedichiamoci ora finalmente a descrivere più nel dettaglio il modo con cui Stein si è occupata di tali questioni sin dal trattato sull’empatia, il suo esordio filosofico. 3. Analogia ed empatia Le considerazioni relative alla conoscenza dell’altro uomo e al procedimento analogico che le presiede rimandano, infatti, con tutta evidenza, ai lavori fenomenologici steiniani ; ed in particolare, ovviamente, al primo scritto dedicato all’empatia. Può essere molto proficuo mettere in diretta connessione questo testo, che Stein considerò « uno schema, [… da] completare nel corso della vita », 1 con gli appunti delle lezioni del 1932 e del 1933, per osservare come quella che all’inizio, nella questione fenomenologica dell’empatia, è una analogia intersoggettiva, abbia potuto prendere un significato teologico ed assumere quindi la declinazione di cui abbiamo detto. Anche se, come osserveremo nel dettaglio seguendo il linguaggio tecnico steiniano, va sottolineato sin da subito che l’analogia non viene affiancata in questo studio all’empatia, ma anzi contrapposta ad essa ; così che il suo utilizzo per la conoscenza dell’altro io sembra essere una mediazione successiva, derivata dalla sovrapposizione sul termine scolastico di una più generale teoria della conoscenza intersoggettiva, che in una fase più tarda, e con un altro contesto di riferimento, non deve più preoccuparsi di un confronto specifico con altre elaborazioni tecniche sul tema, ma può permettersi considerazioni più ampie e quindi un lessico più generale. Altresì preliminarmente bisogna osservare come il testo che oggi si possiede, ossia quello che all’epoca fu preparato per la pubblicazione, consista solo della seconda parte della tesi di dottorato vera e propria, riguardante l’essenza degli atti di empatia ; al momento della pubblicazione, dovendo risparmiare, Stein stralciò le considerazioni della prima sezione, che avevano una natura storica ed esponevano i problemi fino ad allora emersi negli studi sul tema. Tale trattazione purtroppo non è oggi più reperibile, per cui la parte del lavoro pubblicata e oggi analizzabile si apre direttamente con un’interessante premessa sul metodo fenomenologico, in cui Stein in modo esplicito rimanda all’impostazione husserliana del primo volume delle Idee, secondo quanto abbiamo già avuto modo di sottolineare. 2 Oggetto del lavoro è l’indagine di quei fenomeni per cui si può avere esperienza di altri soggetti psichici dotati delle stesse caratteristiche che si riscontrano come proprie, a partire dalla percezione del loro corpo vivente (Leib) ; i corpi degli esseri animati, infatti, non si annunciano all’io quale un semplice oggetto meramente fisico (Körper). Il vissuto che permette di comprendere l’altro in quanto soggetto psichico è appunto quello dell’empatia o, come anche si rende talvolta in italiano il termine Einfühlung, dell’« entropatia » (che vuole esprimere il prefisso ein-, l’ingresso nella vita altrui). È possibile giungere alla vita dell’altro io, nella descrizione di Stein, non con un atto di percezione diretta (non si percepisce, infatti, direttamente lo stesso dolore o la stessa gioia del soggetto estraneo), ma con quella che, in termini husserliani, viene definita una ripresentazione, in un modo cioè simile a quanto accade nel caso del ricordo,
1
BI, ESGA iv, p. 57.
2
Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 11 ss.
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analogia della persona
dell’attesa o della fantasia ; il vissuto cioè non è direttamente presente. Nel caso dei vissuti empatici, la non originarietà è data ovviamente non da uno scarto temporale, ma dal fatto che ci si riferisce ad una coscienza altrui. 1 Il processo con cui si raggiunge il vissuto dell’altro io viene scomposto da Stein secondo tre gradi : anzitutto si ha l’emersione del vissuto altrui in modo fisico, sensibile, per cui si « legge », ad esempio, il volto dell’altro e se ne traggono delle notizie sui suoi stati d’animo. Si ha poi la cosiddetta « esplicitazione riempiente », mediante la quale la manifestazione del vissuto di altri attrae in modo quasi naturale dentro di sé e conduce a vivere « nell’ » atto dell’altro ; in questa fase, un elemento di particolare interesse è dato dal fatto che il vissuto altrui non è tematizzato, perché si ha di mira direttamente il suo oggetto di riferimento : ossia si prende il posto dell’altro io e si esperisce il suo atto, vivendone l’intenzione. Se ad esempio si empatizza la gioia per una buona notizia occorsa ad altri, si giunge in questo caso a riprodurre l’atto intenzionante e ad aver di mira la stessa buona notizia come oggetto di riferimento. Questo, secondo Stein, è il punto più alto del vissuto d’empatia. Nel terzo stadio invece si ha quella che viene definita « oggettivazione comprensiva del vissuto esplicito », in cui si giunge a tematizzare il vissuto empatico, e a rendere lo stato d’animo vero e proprio un « oggetto in sé » ; e qui si riscontrerebbe invece il vertice nella chiarificazione teorica. Tale impostazione viene poi confrontata da Stein soprattutto con quelle di Lipps e di Scheler. Il primo ha caratterizzato la Einfühlung come un fenomeno che, secondo Stein, dovrebbe essere definito piuttosto di Einsfühlung, ossia di « unipatia ». Lipps infatti sostiene che si possa giungere a vivere lo stesso identico vissuto assieme, perché una volta attratti nel vissuto non originario avverrebbe una naturale identificazione dei due soggetti ; e solo in questo caso sarebbe lecito parlare di empatia in senso stretto. A ciò Stein obietta che, pur non essendo l’altro io un vero e proprio oggetto del vissuto proprio, tuttavia identificazione tra soggetti si verifica solo nei casi di vissuti che si riferiscono ad un « noi », fenomeno questo che comunque non implica una coincidenza in un solo e medesimo « io ». Quali esempi per marcare le differenze vengono addotti i vissuti di gioia tra amiche per l’esame superato da una di esse (in cui una sola ha un vissuto originario) o di entusiasmo per una notizia che coinvolge entrambe allo stesso modo ed è appresa contemporaneamente ed insieme (in cui dunque c’è la stessa base) ; in entrambi i casi, pur avendo lo stesso oggetto, i vissuti risultano comunque differenti. Ma l’esempio che più di tutti comproverebbe la necessità di correggere Lipps è quello della paura provata dall’acrobata e dallo spettatore durante uno spettacolo pericoloso : evidentemente non si tratta dello stesso identico vissuto, seppure in entrambi coloro che lo vivono esso abbia il medesimo oggetto. 2 Nella sua analisi dell’empatia, dal canto suo, Scheler ha sostenuto che l’esperienza vissuta dell’altro sarebbe tanto originaria quanto la propria, perché in questi casi si darebbe un flusso originario e indifferenziato di coscienza, dal quale poi si differenzierebbero i vissuti propri ed estranei. Tale premessa, nota Stein, rende però impossibile la pretesa distinzione tra ciò che è mio e ciò che invece è altrui, secondo il circolo vizioso che necessariamente si viene a creare nel momento in cui si cerca di dedurre l’individualità dalla totalità : ogni esperienza di vissuti è infatti inscindibile dall’io. L’errore di Scheler, secondo Stein, deriverebbe proprio dal misconoscere la teoria dell’io puro. Egli
1
Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 14 ss. Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 26 ss.
2
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confonderebbe infatti la percezione interna, in cui si offrono, di fatto, tutti i vissuti, e che però va messa tra parentesi dalla riduzione, e la riflessione, con cui invece « distogliendo lo sguardo dall’oggetto lo [si] rivolge all’esperienza vissuta di quest’oggetto » che è « attuale » e ci dà « un essere assoluto ». 1 Da ciò deriverebbe la sua nota teoria degli idoli. 2 Proprio per evitare tali fraintendimenti, prosegue Stein, Husserl avrebbe rinunciato all’uso del termine « percezione interna » per utilizzare appunto quello di « riflessione » : il fondatore della fenomenologia non avrebbe così attribuito alcuna preferenza alla percezione interna su quella esterna, come invece appunto Scheler, ma già anche Brentano, essendo entrambe rivolte a delle trascendenze. Superando dunque quello che naturalmente potrebbe apparire come un controsenso, Stein sostiene che sia proprio la corretta teorizzazione dell’io puro a permettere di evitare l’idealismo di un io sovrapersonale. L’empatia, viene quindi ribadito, si delinea come un vissuto simile alla percezione, perché presenta in modo diretto, ma dissimile da essa, in quanto non capace di raggiungere immediatamente ed in modo originario il suo ultimo oggetto di riferimento, venendo questo ad essere proprio della coscienza altrui. 3 Oltre a quello con Lipps e Scheler, Stein conduce un confronto anche con le teorie di Volkelt e Stern sull’associazione, e con le posizioni di Münstenberg ; ma è un altro paragrafo a rivestire per noi importanza specifica, quello cioè dove Stein prende in esame la teoria dell’inferenza per analogia (Analogieschlußtheorie). Si tratterebbe, prima delle critiche rivoltele proprio da Lipps, della teoria più accreditata per descrivere l’esperienza altrui, e sostenuta tra gli altri da J. S. Mill.
Conosco il corpo estraneo e le sue modificazioni, conosco il corpo proprio e le sue modificazioni ; nel secondo caso so che sono condizioni e conseguenze dei miei vissuti (che sono dati contestualmente). Ora, poiché in un caso la successione dei fenomeni corporei è possibile solo tramite la mediazione del vissuto, assumo la presenza di una tale mediazione anche laddove mi si diano solo manifestazioni corporee. 4
Se per le altre teorie, procede il testo, si poteva affermare che non conducessero al fenomeno dell’esperienza altrui, in questo caso si può persino sostenere che questo fenomeno venga del tutto ignorato da una teoria siffatta. Nella conoscenza del vissuto altrui, ammette Stein, non sono del tutto assenti inferenze di tipo analogico : è possibile, infatti, che un’espressione altrui me ne rammenti una propria e che quindi io proceda ad attribuire all’altro la mia. Ma appunto si tratterebbe di casi in cui manca il vissuto
1
Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 45. Cfr. M. Scheler, Die Idole der Selbsterkenntnis, in Vom Umsturz der Werte, GW III, Bern-München, Franke, 1972. 3 Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 43 ss. ; l’opera principale di Scheler con cui si confronta Stein è evidentemente Zur Phänomenologie und Theorie der Sympathiegefühle von Liebe und Haß, Halle, M. Niemeyer, 1913 ; ma non è l’unica. Sul tema cfr. P. Zordan, Edith Stein e Max Scheler. Un confronto a partire dalle analisi del Problema dell’empatia, « Segni e comprensione », 54 (2005), pp. 64-78, che sottolinea molto opportunamente come Scheler giochi un ruolo decisivo anche nella trattazione steiniana della persona. Un’opera diffusa che faccia il punto dei diversi e complessi rapporti tra Stein e Scheler è ancora un desideratum della ricerca. Per una analisi in generale di questo lavoro cfr. invece E. Costantini, Einfühlung und Intersubjektivität bei E. Stein und bei Husserl, « Analecta Husserliana », 11, Dordrecht, D. Reidel, 1981, pp. 335-339 ; C. Balzer, The Empathy Problem in E. Stein, « Analecta Husserliana » 35, Dordrecht-Boston-London, Kluwer, 1991, pp. 271-279 ; K. Hedwig, Über den Begriff der Einfühlung in der Dissertationsschrift Edith Steins, in L. Elders (a cura di), Edith Stein – Leben, Philosophie, Vollendung, cit., pp. 239-252 ; P. Manganaro, L’« Einfühlung » nell’analisi fenomenologica di Edith Stein : Una fondazione filosofica dell’alterità personale, « Aquinas », 43/1 (2000), pp. 101-121. 4 Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 41. 2
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analogia della persona
empatico, in cui cioè è assente l’esperienza del vissuto, sia pur indiretta, altrui. Qui la critica steiniana fondamentale a questa teoria che si basa sostanzialmente su un piano inferenziale e che quindi riconduce anche la questione dell’analogia a questo livello. Le analisi di Stein procedono quindi con il ruolo dell’empatia per la costituzione dell’individuo psicofisico, e riprendono quanto accennavamo in precedenza rispetto all’importanza della conoscenza dei vissuti altrui anche per il sé. L’io puro viene compreso, immediatamente, non come un io solo. Abbiamo trattato dell’io puro, sinora, come del soggetto dei vissuti privo di qualità altrimenti indescrivibile. In diversi autori – ad esempio Lipps – abbiamo ritrovato la tesi che questo io non sia «individuale», ma sia tale solo in contrapposizione ad un «tu» e ad un «egli». 1
L’importanza dell’altro io è descritta quindi in riferimento alla comprensione di sé come ipse. E questa alterità [di un altro io] si annuncia nel modo della datità. [L’altro io] si rivela come un altro rispetto all’io nella misura in cui mi è dato altrimenti rispetto a « io ». Perciò è un « tu » ; ma questi si vive così come io vivo me stesso, e perciò il « tu » è « un altro io ». Così l’io non esperisce l’individualizzazione per il fatto che si trova dinanzi un altro, ma la sua individualità o, come noi preferiamo dire, la sua ipseità (dobbiamo risparmiare la designazione di « individualità » per altro) viene messa in risalto dal confronto con l’alterità dell’altro. 2
Stein nota allora come al flusso di coscienza di un io possano affiancarsi altri flussi analoghi. Ipseità e diversità qualitativa dei vissuti sono dunque due gradi di avvicinamento a ciò che generalmente, dice Stein, si intende per « io individuale », ossia l’unità psicofisica. Essa può essere considerata anzitutto dal punto di vista meramente psichico ; e in relazione a ciò l’analisi steiniana affronta un tema apparentemente sorprendente, ossia quello dell’anima sostanziale. Questa viene definita come « unità individuale della psiche in quanto tale » e come « qualcosa che sta alla base dei vissuti e manifesta se stessa e le sue proprietà costanti così come il suo identico portatore », 3 ossia è ciò che permette che i vissuti abbiano determinate qualità, una certa colorazione, alcune sfumature che rendono noto l’intimo dell’io puro : l’anima, dunque, è il flusso reale dei vissuti ; ed essa è necessariamente sempre anima di un corpo proprio. Quest’ultimo si presenta come un fenomeno peculiare, perché la sua inaggirabilità e il nostro essere inevitabilmente legati ad esso lo manifestano come differente rispetto alle altre realtà percepibili. La datità del corpo proprio si costituisce sulla base delle sensazioni che non risultano mai provenire dall’io puro, perché sono sempre localizzate a distanza da esso ; anche se propriamente parlando il cogito non ha una localizzazione vera e propria (esso è nella testa per le sensazioni visive, nella parte centrale del corpo per le sensazioni tattili ecc., ossia dipende dagli elementi reali che lo costituiscono) ; e la distanza da un corpo altro non può mai essere paragonata a quella dal corpo proprio. Fondamentale risulta la distinzione fenomenologica che c’è, ad esempio nella percezione di un oggetto esterno, tra oggetto stesso, percezione di esso, sensazione vissuta e percezione del corpo proprio : questi due ultimi elementi, ossia la mera sensazione e il costituirsi del corpo vivente, risultano strettamente connessi. Inoltre, per il corpo vivente, così come avviene per tutte le percezioni, si riscontra il fenomeno cosiddetto
1
Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 54. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 54. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 55-56.
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della « fusione », ossia del comune formare, da parte di sensazioni diverse, un’oggettualità : ciò non avviene però semplicemente con il giustapporsi di dati provenienti da sensi differenti (la vista darebbe la forma e il colore, il tatto la levigatezza o meno ecc.), ma con un trascorrere reale e continuo degli elementi propri di un modo di datità ad un altro (la vista « vede » la durezza). Tale approfondimento, non riducibile secondo Stein ad una semplice questione di associazioni psicologiche (per cui « io vedo la durezza dello zucchero e mi ricordo della sua dolcezza ») non viene però ulteriormente sviluppato. 1 Dopo aver analizzato già qui come si presenta il problema costitutivo nei confronti del movimento, Stein sostiene che sussista la possibilità di un io senza corpo proprio (naturalmente si tratterebbe di capire che tipo di io e di che rapporti potrebbe avere con il mondo), ma non viceversa, perché il corpo è costituito in modo essenziale da sensazioni, che devono essere ricondotte inevitabilmente all’io. Si dà forse, in astratto, la possibilità di una coscienza fornita solo di atti sensibili senza atti egologici, ossia di un corpo animato ma senza io, anche se tale ipotesi sarebbe difficilmente difendibile. Presenta difficoltà anche il giudicare della questione di un io senziente senza corpo. Così come in sospeso resta la domanda sui rapporti causali reciproci tra psiche e corpo, che viene solo marginalmente trattata, laddove si accenna alle questioni dei rapporti tra sentimenti ed espressione di essi (in cui si afferma che il sentimento necessariamente richieda un’espressione, le cui forme possono essere considerate essenzialmente) e tra volontà e corpo proprio. Riassumendo, conclude Stein, l’individuo è un qualcosa di unitario, in cui l’unità della coscienza di un io e di un corpo fisico si congiungono indissolubilmente ; pertanto ciascuno dei due assume un carattere nuovo : il corpo si presenta come corpo proprio di un io, mentre la coscienza si presenta come anima dell’individuo. Descritto l’individuo proprio, Stein passa ad esaminare i gradi con cui invece l’individuo estraneo viene a costituirsi. 2 Le sensazioni altrui, così come i vissuti, sono raggiungibili secondo Stein mediante endosensazione, considerata come un grado basilare dell’empatia ; essa permette di pervenire al corpo estraneo come punto zero d’orientamento del mondo spaziale e trasporsi nel « suo punto di vista ». Ciò rende possibile inoltre la costituzione completa anche del corpo proprio, che viene considerato « un » corpo al pari di altri ; nell’esperienza meramente originaria esso era invece solo un corpo vivente ; e nella percezione esterna un corpo dato imperfettamente in quanto inaggirabile. Tale conoscenza di sé anche, sotto alcuni aspetti, come « uno dei tanti », si presenta come un elemento radicalmente presente in molti vissuti. Infine è di grande importanza la ripresa della considerazione che aveva mosso il lavoro, ossia che l’esperienza empatica, fondamento dell’intersoggettività, diviene anche fondamento della « possibilità di una conoscenza del mondo esterno esistente », 3 come sostengono anche Husserl nelle Idee e Royce : l’assumere l’ottica dell’altro permette infatti di cogliere un aspetto differente delle apparizioni del mondo e di uscire dall’ambito della sfera meramente egologica, arrivando finalmente a un mondo in sé costituentesi in una molteplicità di coscienze. Stein conduce poi considerazioni di estremo interesse sull’« espressione », che non si presenterebbe come mero segno dello stato d’animo, bensì come simbolo di esso ;
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Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 56 ss. Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 74 ss. Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 81 ss.
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non vi sarebbe un rimando, ma il contenuto si darebbe direttamente nella manifestazione :
L’espressione triste del volto non è propriamente un tema che rinvii ad un altro tema, bensì una sola cosa con la tristezza […] l’espressione del volto è il lato esteriore della tristezza ed entrambe costituiscono un’unità naturale. 1
Sostenere però, come Lipps, che anche l’espressione linguistica sia un simbolo e che in essa sia direttamente presente un atto del soggetto (di comprensione nel caso della parola, di giudizio per quel che riguarda una frase) è per Stein un errore : le parole infatti non sono un tema, rimandano tuttavia ad un tema altro. Esse però non sono nemmeno meri segnali, perché vivono sempre in virtù di una coscienza, mentre invece i segnali, una volta prodotti, assumono vita propria ; ossia, per essere più esatti, il segnale sembra avere un corpo più materiale della parola. Le parole, inoltre, rimandano sempre ad un significato, ossia ad una formulazione necessariamente logico-categoriale di uno stato di cose, non a tale stato di cose semplicemente :
se qualcuno mi dice che è triste, io comprendo il senso delle sue parole. La tristezza, di cui ora so, non è affatto « viva » com’è viva la datità percettiva che mi sta di fronte. 2
Nell’espressione linguistica si raggiunge sempre un universale che va integrato con l’intuizione, ed è questa che permette di capire l’esatto riferimento individuale momentaneo. Così, Stein può giungere anche alla definizione del fenomeno della motivazione, di cui si accennava in precedenza, secondo la quale non si tratterebbe solo del caso specifico di causalità psichica proprio degli atti volontari ; viene definita infatti come scaturire di un vissuto da un altro vissuto nella pura immanenza, senza deviazione nell’ambito degli oggetti : è il rapporto, dice Stein, tra la vergogna e l’arrossire, non quello tra lo sforzo e l’arrossire stesso. 3 Un accadere che avviene solo nell’ambito della coscienza, che non si manifesta nel modo del « se … allora », e che appunto « motiva » il passaggio da un vissuto ad un altro. Cosicché anche il comprendere non è che il vivere questi rapporti tra vissuti (e non un oggettivare) :
[La motivazione] appartiene essenzialmente alla sfera dei vissuti. Non si danno altrove rapporti di questo tipo. Siamo soliti definire il rapporto di motivazione, in contrapposizione a quello causale, come comprensibile (verständlich) o sensato (sinnvoll). Comprendere (verstehen) non vuol dire altro che vivere il passaggio da una parte ad un’altra di una totalità di vissuti (non : avere oggettivamente, gegenständlich), e tutto ciò che è obbiettivo (objektiv), tutto il senso dell’oggetto (Gegenstandssinn) si costituisce soltanto mediante vissuti di questa specie. Un’azione è unità di comprensione o di senso, in quanto i vissuti parziali che la costituiscono sono tra loro in rapporto che può essere vissuto (erlebbar). E nello stesso senso il vissuto e l’espressione formano un tutto comprensibile. Comprendo un’espressione, mentre una sensazione posso soltanto portarmela a datità. 4
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2 Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 95. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 99. Significative sono le somiglianza tra alcune descrizioni heideggeriane dell’arrossire e queste steiniane : cfr. S. Bancalari, La carne come limite e il limite della carne : Heidegger e il fenomeno dell’erröten. A proposito del contributo di Jean Greisch, « Archivio di Filosofia », 68 (1999), pp. 83-103. Heidegger tuttavia come « simbolo » quello che qui Stein definisce « segno » (cfr. al riguardo anche F. V. Tommasi, Prima e al di là di ogni intenzione. Teologia negativa ed eccedenza fenomenologica in Edith Stein e Emmanuel Levinas, « Archivio di filosofia », 70, 2002, pp. 821-848). 4 Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 102-103. 3
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Nel cogliere i nessi significativi si possono correggere le interpretazioni che si traggono dai vissuti di empatia e tale possibilità permette inoltre di costituire il carattere dell’altro, elemento questo che fungerà poi a sua volta da base per ulteriori interpretazioni o correzioni. Infine, e così si conclude questa sezione relativa all’esperienza altrui, la costituzione dell’individuo estraneo sembra essere anche condizione per quella propria, secondo l’ordine di considerazioni che si anticipava già in precedenza, anche negli strati superiori : l’esperienza della sfera psichica altrui come « simile », che avviene necessariamente per oggettivazione grazie alla mediazione del corpo estraneo e quindi del non presentarsi originariamente del flusso di vissuto dell’altro io, permette l’oggettivazione anche dello psichico proprio, che altrimenti in modo spontaneo viene vissuto in modo non riflessivo e non oggettivante. Empatia e percezione interna collaborano allora alla conoscenza di se stessi. 1 La trattazione steiniana avanza quindi con la parte dedicata all’empatia come comprensione delle persone spirituali ; 2 il dato di fatto che la coscienza possa obiettivizzare ed essere costitutiva, infatti, ha mostrato come essa non si ponga solo come una realtà della natura, ma anche quale correlato di essa, quindi come spirito. L’espressione e gli atti di volontà sono le manifestazioni principali dello spirito. Per questo, la vita spirituale è essenzialmente di tipo motivazionale, e le scienze dello spirito si fondano sulla questione della comprensione. Viene quindi chiamato in causa Dilthey, che ha tentato di fondare le scienze dello spirito basandosi sulla psicologia descrittiva anziché esplicativa, dunque sulla motivazione anziché sulla causa. Si deve infatti giungere non tanto ad afferrare il motivo causale effettivo di un fenomeno, ma a comprendere ciò che veramente lo fa essere ciò che è, ossia la struttura categoriale interna, il senso. Gli atti della persona, ossia gli atti spirituali, sono tra loro in rapporto di nessi significativi, ossia in rapporto motivazionale :
il soggetto spirituale è per sua essenza subordinato alle leggi della ragione e […] i suoi vissuti stanno in rapporti intelligibili. 3
I vissuti emotivi sono particolarmente importanti per la costituzione spirituale, perché sul piano degli atti della quotidianità è possibile immaginare un soggetto che viva sempre rivolto agli oggetti senza mai riflettere sugli atti stessi e dunque accorgersi di sé : nel sentire però ciò non è possibile, l’io « vive se stesso » secondo diversi strati di profondità, anche se tale io non è l’io puro, che invece non ha profondità. Oltre alla profondità, i vissuti si distinguono anche per raggio d’azione (ossia per quanta parte dell’io coinvolgono) e per durata nel tempo. L’analisi degli atti dell’io, tuttavia, va sempre condotta per Stein in correlazione con quella dei suoi oggetti, e legando il piano del sentimento ad un’assiologia. Nel rapporto tra le componenti soggettive e oggettive si può costruire una teoria della personalità, qui solo abbozzata, che, accenna Stein, rappresenterebbe il fondamento ontologico delle scienze dello spirito secondo la ricerca di Dilthey. Se tale proposta pare essere fortemente scheleriana, nel suo riferirsi anche esplicito al Formalismo, 4 la considerazione che il fondamento vada trovato comunque nell’unità di
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Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 106 ss. Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 108 ss. 3 Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 115. 4 Cfr. M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik. Neuer Versuch der Grundlegung eines ethischen Personalismus, in GW ii, Bern, Franke, 19665. 2
4. La motivazione 119
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significato costituentesi nell’esperienza vissuta subordinata alle leggi di ragione, ossia nei vissuti e nella loro legalità a priori, sembra rimarcare la fedeltà husserliana dell’indagine. Dilthey da parte sua aveva legato indissolubilmente essere e dovere nel mondo dello spirito, ossia i valori sarebbero per lui coincidenti con i nessi della ragione, per cui chi sente un valore e può realizzarlo, lo fa ; ma con ciò, sostiene Stein, non si affermerebbe ancora nulla riguardo al valore stesso. Nella parte conclusiva, infine, il testo prosegue analizzando come sia altamente variabile la tipologia personale e come l’empatia nel campo dello spirito debba basarsi su tutta la persona, dovendo cogliere un’unità significativa, e non sul mero campo percettivo. L’empatia permette certo di porre il proprio sé quale oggetto, risultando dunque significativa per l’autoconoscenza, ma si rivela fondamentale anche per l’autovalutazione. Il lavoro steiniano si chiude con un dubbio riguardo alla esperienza religiosa : ci si chiede cioè se non si tratti in realtà di uno scheleriano « idolo dell’autoconoscenza », problema che è introdotto dalla questione circa la possibilità di un’empatia tra spiriti non mediata dal corpo. 1
4. La motivazione Le considerazioni del lavoro sull’empatia, ed in particolare della loro sezione conclusiva riguardante la soggettività, sono approfondite nel lavoro dal titolo Contributi per una fondazione filosofica della psicologia e delle scienze dello spirito, pubblicato solo nel 1922 sullo Jahrbuch husserliano, ma scritto probabilmente già nel 1919 o nel 1920, così da tradire una decisa vicinanza, in molti passaggi, con il secondo volume delle Idee. 2 Oltre a tentare di descrivere in generale alcune delle tesi fondamentali del volume, porremo attenzione però in particolare alla motivazione, che abbiamo chiamato in causa diverse volte, sia come direzione “personalistica” su cui si dirime la questione della disputa relativa al problema costitutivo, sia ora come vissuto centrale per una comprensione delle scienze dello spirito. Se in Essere finito ed essere eterno, ed in generale negli scritti dopo la conversione, Stein sembra individuare una trascendenza costitutiva della stessa vita egologica dell’io puro (e non tanto una trascendenza irriducibile all’io, secondo quanto vorrebbe il realismo), questa tesi pare già anticipata dall’idea per cui il flusso temporale di coscienza sia originariamente di tipo motivazionale, dunque spirituale ; e come, di per sé vuoto, trovi riempimento solo in un regno appunto spirituale che lo ricolmi. Vedremo quindi come la motivazione descritta quale vita dell’io venga da Stein legata al problema della grazia, con una considerazione che in senso tecnico sembra riprendere la descrizione del vissuto di recupero della forza vitale mediante un intervento esterno, inaspettato, di Dio. Questo scritto originariamente progettato per un primo tentativo di abilitazione all’insegnamento universitario è diviso in due sezioni, una dedicata al problema della Causalità psichica, l’altra ad Individuo e comunità. Il saggio si avvia con una disamina del concetto di causa, centrale nelle discipline scientifiche, che andrà applicata nell’ambito
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Cfr. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, pp. 135-136. Cfr. B. Beckmann-Zöller, Einleitung a Beiträge…, cit., pp. xiv ss. ; cfr. anche M. Shahid, A Phenomenological Analysis of the Psiche in Ideas ii and A Phenomenological Psychology, « International Journal of Philosophy of Culture and Axiology », 8 (2007), pp. 50-58 ; M. Lebech, Study Guide to Edith Stein’s Philosophy of Psychology and the Humanities « Yearbook of the Irish Philosophical Society : Voices of Irish Philosophy », 4 (2004), pp. 40-76. 2
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in questione, e dalla frequentemente misconosciuta distinzione tra coscienza e psiche : la differenza è parallela, ovviamente, a quella tra fenomenologia e psicologia. Partendo anche in questo caso dalle ricerche husserliane sul tempo e sul flusso originario di coscienza, Stein risale all’origine della vita dell’io, in cui non si può più riscontrare lo schema duale della costituzione, ossia al flusso stesso dei vissuti, dove vive la coscienza costituente ultima. All’epoca in cui Stein scrisse questo testo, gli appunti husserliani sul tempo erano ancora inediti : perciò, Stein si vede costretta a dover giustificare l’impostazione della sua analisi in una annotazione, in cui si augura l’approvazione del maestro per l’impostazione pionieristica del saggio, rivolto direttamente al flusso e non al risalimento degli strati costitutivi del mondo dato nell’atteggiamento obiettivante, come era avvenuto per le Idee. 1 Si procede allora ad una descrizione minuziosa di questo livello originario di coscienza : il flusso si presenta come un continuum, ma è al contempo costituito da fasi, che costituiscono a loro volta delle unità, ossia i vissuti, tra i quali non si riscontra un semplice congiungimento, ma anche un rapporto causale di tipo meccanico. In ognuno di essi si possono poi distinguere, così come già si era visto nel caso dell’empatia, un contenuto ricevuto nella coscienza, il momento in cui si vive questo contenuto, e la coscienza del vivere. Nell’ambito dello psichico si potrebbe parlare di causalità reale in analogia con ciò che avviene nel mondo fisico, basandosi sul concetto di forza vitale :
Non esiste realtà psichica senza causalità. Se vengono meno la forza vitale e l’effettualità fenomenica che da essa nasce, non c’è alcuna possibilità di costituzione di una psiche con qualità e stati reali. 2
La forza vitale non sarebbe determinabile esattamente e numericamente, ma ciò non significa, per l’autrice, che non siano osservabili in essa differenze di massima : non si possono determinare tutte le sfumature di rosso, ma si può distinguere il rosso dal blu. La vita dello spirito comincia invece con intenzionalità, riflessione e oggettivazione, mediante le quali si esce dalla mera sfera passiva del flusso considerata in modo astratto, per giungere ad entità che si costituiscono secondo gradi diversi, ossia nell’apprensione (aggiunta di ciò che segue a ciò che precede), nell’appercezione (connessione delle singole apprensioni, sintesi) e nella messa in movimento di quello che segue per mezzo di ciò che precede. A quest’ultimo livello corrisponde la motivazione, secondo l’ampliamento del suo concetto tradizionale (che si limitava genericamente a identificarla con gli atti liberi) che già si era notata nella dissertazione sull’empatia e che qui è ulteriormente sviluppata, al punto da renderla non solo elemento culminante della costituzione dei vissuti, ma anche suo fondamento. Tale sviluppo del concetto avviene probabilmente in rapporto agli studi di Alexander Pfänder che nell’opera intitolata Motive und Motivation aveva distinto i fenomeni del mero tendere (semplice assecondamento di un impulso) e del volere (atto spontaneo di autodeterminazione, in cui l’io è sia soggetto sia oggetto e che, tra l’altro, permette la coscienza immediata di sé). 3 Il motivo si presenta come fondamento del volere conforme all’esigenza, e « motivazione » viene definita quella relazione speciale che sussiste tra il fondamento conforme all’esigenza e l’atto del volere che si appoggia su di esso. Il
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Cfr. Beiträge…, ESGA 6, p. 11. Beiträge…, ESGA 6, p. 29. Sul concetto di « forza vitale » cfr. C. Betschart, Was ist Lebenskraft ? Eine Auseinandersetzung mit Edith Steins Untersuchung „Psychische Kausalität“, Roma, diss., 2008. 3 Cfr. A. Pfänder, Motive und Motivation, München, J. A. Barth, 19633 (19111). 2
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motivo dunque, dovendo essere accolto dall’io come fonte del volere, non causa il volere, come invece gli stimoli e gli impulsi, ma lo fonda quale esigenza pratica. Secondo Pfänder, l’elemento principale che permette di distinguere la causalità dalla motivazione è che quest’ultima può essere costituita da qualcosa che non è reale, ad esempio un qualcosa di meramente pensato od immaginato ; realtà e causalità vengono quindi poste in stretta connessione reciproca, essendo la prima costituita solo da ciò che è assolutamente determinabile e quindi definibile causalmente sul fondamento delle categorie logico-matematiche. Il motivo invece offre solo supporti ideali e innesca un movimento di ascolto interiore dell’esigenza e di decisione. 1 Su queste basi Pfänder era giunto persino a teorizzato una scienza dei propositi pratici, analoga alla logica. 2 Per Stein, invece, nel paragrafo intitolato La motivazione come legalità fondamentale della vita spirituale (stesso titolo, tra l’altro, del paragrafo 56 di Idee ii), la motivazione è invece anzitutto e in generale il legame che connette gli atti tra loro : si tratta del provenire di vissuti dall’io puro, del loro susseguirsi sensato attraverso lo stesso io puro, e del loro tendere finale ad un’oggettualità sul presupposto dell’intenzionalità. Rifacendosi al § 47 del primo volume delle Idee, dove tale ampliamento del significato di motivazione è già introdotto da Husserl come una « generalizzazione » dell’uso abituale del termine, 3 Stein afferma che si tratta del sorgere di un atto grazie ad un altro, sulla base di un contenuto di senso e del loro successivo rivolgersi ad oggetti. Così, con gli atti e le loro motivazioni si scopre il dominio del senso, che regola la vita del flusso, e che viene dischiuso ponendosi « sul » flusso, e non più solo « in » esso. L’io compie un atto sul fondamento del fatto che ne ha già compiuto un altro, scoprendo così una legalità diversa rispetto a quella del semplice causarsi meccanico dei vissuti indipendente da un suo diretto intervento.
Quando definiamo in generale il legame tra atti, cui ci rivolgiamo qui, come motivazione, siamo consapevoli di distanziarci dall’uso linguistico comune, che limita questa espressione al campo degli « atti liberi » ed in particolare della volontà. Ma riteniamo che questo ampliamento abbia un buon motivo, e che ciò che abbiamo di mira ora sia una struttura generale valida per l’intero ambito dei vissuti intenzionali. 4
La motivazione quindi sembra non essere solo una tipologia specifica di atti, ma appunto la modalità più profonda con cui ciascun atto intenzionale opera, perché regola la vita del flusso e dell’io. La motivazione nel nostro senso generale è il legame che unisce gli atti tra loro : non un mero fondersi, come quello delle fasi del flusso di vissuti che scorrono contemporaneamente o che si susseguono ; né un nesso associativo di vissuti ; ma un derivare (Hervorgehen) dell’uno
1 Ma il caso di possibili motivi inconsci, per quanto preso in considerazione da Pfänder, sembra difficilmente armonizzabile con questa impostazione : appare infatti difficilmente ipotizzabile che una volontà non sappia ciò che la muove, nel momento in cui la motivazione stessa è stata descritta come il vissuto in cui l’io vive la sua più alta realtà spirituale e trova in qualche modo auto trasparenza e autodfondazione. Come nota Roberta De Monticelli : « una volontà può ignorare i suoi atti propri ? Gli atti del volere non sono per definizione dei sì o dei no impressi dall’io ai propositi consci considerati ? Di più, non sono in Pfaender i veri luoghi della costituzione di questo io, che si afferma determinandosi o identificandosi nel progetto considerato e dissociandosi dal progetto rifiutato ? … come ammettere dunque un volere che ignora se stesso dopo averlo definito il modo della presenza a sé del soggetto ? » (R. De Monticelli, La persona : apparenza e realtà, Milano, R. Cortina, 2000, p. 36 nota 1).. 2 Stein cita qui esplicitamente Pfänder, cfr. Beiträge…, ESGA 6, p. 52. 3 Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und einer phänomenologischen Philosophie, i, Husser4 liana iii, The Hague, M. Nijhoff, 1959, p. 89. Beiträge…, ESGA 6, pp. 35-36.
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dall’altro un compiersi (Sichvollziehen) o essere compiuto dell’uno sulla base dell’altro, grazie all’altro. 1
Seppur velata, la motivazione è tuttavia presente anche negli atti di livello più basso, come la percezione. Tutti i tipi di atti dell’io, nessuno escluso, sono accomunati dal fatto di obbedire a questa legalità di tipo motivazionale. Gli atti liberi invece presuppongono esplicitamente un motivo, ma poi è sempre necessario un impulso non motivato e libero che provenga dall’io. Tale spinta personale tuttavia, non deve essere necessariamente obiettivizzata in un proposito, ma può semplicemente essere l’ascolto di un’esigenza interiore cui si risponde con un atto volontario. Stein comunque assegna di rimando anche al tendere una possibile consapevolezza dell’oggetto, e la nega solo all’impulso. Dunque la differenza tra motivazione e tendenza non risiede nell’obiettivazione, ma nell’intervento originale dell’io. Questo elemento, insieme all’ampliamento della portata semantica del termine, permette di avanzare l’ipotesi che la motivazione, qui presentata espressamente anche come un terzo livello di costituzione dei vissuti dopo appercezione e sintesi, ossia come piano spirituale dopo quelli fisico e psichico, possa però essere considerata anche come il fondamentale, essendo presente implicitamente, come detto, in ogni livello. Causalità e motivazione sono comunque intrecciate, perché è certo pensabile astrattamente una coscienza che viva solo degli atti motivanti, ma di fatto essa è sempre sottoposta all’influsso causale dei mutamenti di vitalità, e viceversa : Stein descrive poi, seppure incidentalmente, l’esperienza che ricorre con insistenza nelle sue testimonianze, della perdita della forza vitale e del recupero di essa mediante l’abbandono in Dio, che non richiede sforzo di volontà, ma solo la capacità di lasciarsi riempire. Distingue le varie specie di atti motivati, ad esempio quelli razionali e quelli irrazionali. La stessa epoché è presentata come un atto motivato dalla insufficiente credibilità del mondo. La conclusione di questa sezione stabilisce infine che le leggi associative dei vissuti rendono possibili previsioni dell’accadere psichico, ma non una rigida determinazione di esso. Si critica dunque la possibilità della psicologia quale scienza esatta di tipo matematico. Stein si rivolge poi, nella seconda sezione, alla analisi dei rapporti tra individuo e comunità. Prendendo come presupposto la celebre opera di Tönnies su Comunità e società, 2 il testo afferma che società si darebbe quando i soggetti sono oggettivizzati, possibilità attuabile però solo su una base previa di altro tipo ; la comunità senza società è dunque possibile, ma non viceversa. Pur nella sua assoluta irriducibile individualità, l’io ha per Stein la possibilità di possedere dei vissuti in comunione con altri : si porta come esempio una truppa addolorata per la perdita del comandante. Si tratta evidentemente di vissuti diversi rispetto a quelli di empatia tra due soggetti, sia a livello del soggetto che li vive, sia a livello di struttura del vissuto, sia per quanto riguardo il flusso in cui si inseriscono. Non esiste in effetti, a giudizio dell’autrice, un io puro comunitario, ma solo qualcosa come una personalità globale. Ogni individuo ha la sua tristezza, benché d’altro canto si sia autorizzati a dire che tutti sentono la stessa tristezza. La tristezza è un contenuto individuale che sento ma non è solo questo. Essa ha un senso e pretende, in virtù di questo senso, di essere valida per qualcosa che si trova al di là
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Beiträge…, ESGA 6, p. 36. Cfr. Beiträge…, ESGA 6, pp. 110 ss. (cfr. F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig, Reisland, 1887). 2
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del vivere individuale, che esiste oggettivamente e per mezzo del quale essa è fondata razionalmente. L’oggettività della perdita del comandante è un correlato di vissuto comune, che poi può riempire in modi differenti l’intenzione dei singoli, a seconda di come sono vissute le esigenze del contenuto di senso. La comunità non ha solo un contenuto di vissuto comune, ma anche un vivere sovraindividuale, di cui però c’è coscienza solo negli individui che ne fanno parte : dunque per le comunità si deve distinguere il flusso di coscienza (che non c’è), dal flusso di vissuto : ciò che l’individuo vive, come membro della comunità, forma il materiale su cui sono costituiti i vissuti comunitari. Questi si possono poi estendere per generazioni e costituirsi grazie all’appoggio degli individui (ad esempio l’odio dei guelfi contro i ghibellini). Quali vissuti individuali sono adatti a costituire un vivere comunitario ? L’analisi dettagliata giunge ad evidenziare il carattere comunitario degli oggetti di esperienza (a partire dalle realtà materiali sino alle costituzioni di livello superiore) e quindi a ribadire la necessità di una teoria dell’empatia per una descrizione esaustiva dell’esperienza. Stein nota inoltre come esista un mondo comunitario di fantasia (le favole), nonostante tale vissuto sia radicalmente individuale : quando infatti il vissuto individuale fantastico assume un significato, esso risulta accessibile all’altro, come avviene per tutte le costituzioni di senso. Possiedono un significato generale anche gli atti categoriali, che escludendo di principio l’elemento dell’individualità sensibile (su cui comunque si fondano).
Dobbiamo dunque distinguere il significato in quanto oggettività normalmente determinata in sé, il contenuto di significato dei singoli vissuti e il contenuto di significato dei vissuti comunitari ; gli ultimi due tendono ad un significato ideale compiuto e sono in una relazione reciproca, dal momento che il contenuto comunitario è costituito dai contenuti singoli ed è inteso in essi. 1
La matematica come forma ideale sarebbe invece sia un’esperienza del singolo che della comunità, ricevendo colorazioni diverse nella sua essenzialità identica. Nella sfera del sentimento, invece, ossia degli oggetti quali portatori di valori che costituiscono vissuti corrispondenti, si potrebbe avere anche un’unità comunitaria. Si procede poi ad esaminare quali dei legami tra vissuti, presenti nella vita individuale, ritornino nella vita comunitaria : non c’è, secondo l’autrice, associazione per contiguità (si darebbe nei singoli, ma non nel vissuto comunitario), mentre le connessioni intellettuali (scienza) e di solidarietà sono motivazioni sovraindividuali. Si definisce inoltre la possibilità di un rapporto causale, ossia di una trasmissione della forza vitale, del contagio psichico, distinguendolo dalla comprensione, in cui invece l’impressione è colta come espressione di uno stato interno e per la quale è necessaria la vita spirituale. Viene ammessa infine l’eventualità di un’azione volontaria sovraindividuale, se una molteplicità di soggetti è accomunata da uno scopo volontario, nonostante l’impulso con cui inizia il libero agire sia riservato all’individuo e possa presentare sfumature o caratteristiche diverse. Nella seconda sezione Stein si rivolge allo studio della comunità reale e della sua struttura ontica, descrivendola in analogia con la personalità individuale per ciò che riguarda la forza vitale (che nella comunità è data da quella degli individui, dagli influssi esterni, dalle azioni sociali e da fonti oggettive, ossia oggettualità reali quali il clima, un
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Beiträge…, ESGA 6, pp. 132.
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paesaggio, oppure opere culturali, tradizioni ecc. secondo molteplici possibilità di combinazione). Si affronta inoltre il problema della possibilità di attribuzione di qualità alla comunità, che non possiederebbe le capacità psichiche inferiori, ma quelle superiori, ossia intelletto e volontà. Il nucleo della persona, che risiede nel suo carattere e dunque nel suo rapporto col mondo dei valori, è descritto come il luogo di radicamento dell’anima, l’elemento specifico umano (in contrapposizione, ad esempio, agli individui corporeo-spirituali). L’anima ha per Stein pesantezza e rigida determinazione, al contrario dello spirito ; anche se un’analisi dettagliata rivela la difficoltà di distinguerli, come non semplice si rivela la comprensione del modo in cui si costituisce il nucleo individuale con le qualità caratteriali permanenti e quelle invece che si formano. La questione che più direttamente interessa in quest’opera, in ogni caso, è quello di stabilire se anche la comunità abbia un’anima. Vengono differenziate a tal fine la costituzione della massa (individui che si comportano con uniformità grazie alla reciproca eccitabilità della psiche), della società (individui riuniti per il raggiungimento di uno scopo e dunque obiettivizzati, in quanto unificati meccanicamente e razionalmente), della comunità. La conclusione dell’indagine rivelerà come, in certa misura, si possa parlare di un’anima delle comunità, ossia di un elemento centrale del loro flusso di vissuto, ma non propriamente di un nucleo, che le equiparerebbe in tutto e per tutto a delle personalità. In appendice si tratta infine della distinzione epistemologica tra psicologia e scienze dello spirito, dipendente dal tema sotteso all’intera trattazione, ossia quello della differenza tra psiche e spirito : anzitutto è emerso che la vita psichica è rigidamente individuale, mentre lo spirito si presenta invece come un uscire da se stessi, verso il mondo oggettivo e verso gli altri. Anche l’individuo spirituale può isolarsi, ma ciò contraddice la sua tendenza originaria di apertura, su cui si basano anche le formazioni sovraindividuali : le connessioni psichiche, infatti, si propagano e possono essere messe in comune grazie allo spirito. La confusione tra psicologia e scienze dello spirito, nota Stein, si è iniziata a chiarire solo da poco (grazie a Dilthey, Spranger e Münsterberg) con l’introduzione della psicologia descrittiva e analitica accanto a quella esplicativa, ossia dell’utilizzo del « comprendere » accanto allo « spiegare », come dicevamo. Nell’ambito dello spirito, al contrario che in quello della natura, ogni individuo ha qualità peculiari irriducibili a categorie generali. Le scienze descrittive evidenzierebbero i tipi i cui esemplari sono da ritenersi le singole cose, le scienze esplicative, invece, le leggi causali da cui si ricava lo stato dei singoli oggetti. Da un confronto con Windelband e Rickert, che non riconoscono lo spirito come elemento classificatorio, perché non distinguono tra psiche e spirito, e che quindi sostengono che la differenza delle scienze dello spirito da quelle naturali vada rintracciata solo nel metodo (nomotetico e ideografico al contempo), Stein prende poi spunto per le sue considerazioni conclusive : la fenomenologia è scienza della coscienza pura, mentre le scienze dello spirito si occupano degli atti nel loro intreccio col mondo. Il cosmo spirituale e gli atti spirituali trascendono allora la coscienza. L’io puro è funzionale, soggetto d’irradiazione, mentre soggetto della vita spirituale è la persona. Nella misura in cui entra in relazione spirituale con la persona il mondo è spirito oggettivo. Ma se il comprendere e la motivazione sono stati descritti come le modalità proprie dello spirito, per un verso, e la legalità più profonda e fondamentale del flusso, pare presentarsi una strutturale ambiguità : sembrerebbe infatti che la motivazione sia da un lato lo stadio più complesso di aggregazione di vissuti, il culmine degli atti motivati
5. Libertà e grazia
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analogia della persona
in senso tradizionale, quelli che pertengono alle scienze dello spirito ; per altro verso anche come il più basilare, perché è ciò che genera i vissuti stessi, ossia il legame degli atti nell’io puro.1 Anche questo problema resta aperto e sarebbe meritevole di un approfondimento che potrebbe probabilmente gettare luce maggiore sulla questione della genesi controversa di Idee ii . Ciò che vale qui rilevare, comunque, è come questa trattazione della motivazione verrà da Stein sviluppata nel senso di un rapporto con la grazia in cui, ancora una volta, la presenza del divino si rinviene al fondo della persona.
5. Libertà e grazia Un testo che forse non è tra i più noti di Stein, ma che è molto rilevante per noi proprio perché declina il tema della motivazione nei termini teologici che accennavamo, è quello che sino a pochi anni fa, per un errore materiale, si riteneva fosse intitolato La struttura ontica della persona e la sua problematica teoretico-conoscitiva, e il cui titolo in realtà è Natura, libertà, grazia. Inoltre, sinora il testo era datato all’inizio degli anni ’30, ma alcuni elementi di contenuto, come ad esempio lo scarso riferimento (una sola citazione) a Tommaso d’Aquino e la descrizione condotta esclusivamente sul piano del vissuto esperienziale religioso, e anche proprio la vicinanza di alcune considerazioni con lo scritto appena trattato sulla psicologia, hanno portato ad ipotizzare una sua datazione più antica. In una lettera ad Ingarden del 1921, per altro, Stein menziona il suo lavorare ad uno studio di filosofia della religione. Alcuni riferimenti heideggeriani abbastanza palesi, tuttavia, fanno suppore come pressoché inevitabile la dipendenza di questo testo da Essere e tempo. 2 L’indagine, divisa in cinque parti, si apre con una considerazione in generale dell’anima che richiama appunto i lavori fenomenologici, perché si distingue la vita psichica sottoposta alla legge di impressioni e reazioni e quella invece centrata nell’io e nella sua libertà, che è al contempo, e qui subito si esprime il motivo fondamentale del testo, vita intima e scaturente dall’alto :
[l’anima] infatti non può essere al sicuro in se stessa senza essere sollevata sopra se stessa, nel regno dell’altezza. Con l’essere rientrata in sé e per essere ancorata in alto, l’anima viene anche cinta di protezione (umfridet), sottratta alle impressioni del mondo e al rischio di venire saccheggiata senza difesa. Questo è ciò che sopra abbiamo descritto come essere liberata (befreit). 3
Non esite infatti, secondo l’apertura di queste pagine steiniane, la possibilità di atti veramente liberi se non si è liberati dalla natura e dal mondo. Le prese di posizione 1 B. W. Imhof, Edith Steins philosophische Entwicklung, Basel-Boston, Birkhäuser, 1987, pp.187-191 ha significativamente affermato che Stein ascriverebbe la motivazionalità sia alla fenomenologia trascendentale che alle scienze dello spirito, riconducendo l’ambiguità ad una posizione realista. 2 Il testo Natur, Freiheit, Gnade era presente con il titolo Die ontische Struktur der Person und ihre erkenntnistheorethische Problematik in ESW vi, pp. 137-197. Lo citeremo da quella edizione, l’unica sinora disponibile, però con il titolo corretto. Sulle circostanze di composizione del testo cfr. C.-M. Wulf, Rekonstruktion und Neudatieriung einiger früher Werke Edith Steins, in B. Beckmann e H.-B. Gerl-Falkovitz, Edith Stein. Themen, Bezüge, Dokumente, cit., pp. 249-267, in particolare le pp. 261 ss. La lettera ad Ingarden è in BI, ESGA 4, p. 140. 3 Natur, Freiheit, Gnade, ESW vi, p. 138. Nell’introduzione all’edizione francese del testo, Secretan ha sottolineato il concetto di « essere liberati », evidenziando quindi l’aspetto di passività. (cfr. P. Secretan, Introduction a E. Stein, De la Personne, Fribourg, Cerf, 1992. L’introduzione di Secretan mette bene in luce, anche se necessariamente in modo molto sintetico, il progresso nella analisi della persona steiniana e il legame di questo testo con le opere prime fenomenologiche, le successive di pedagogia, antropologia ed ontologia e le ultime di mistica.
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capitolo ii
dell’anima provengono da un centro. La sua attività si caratterizza per una passività strutturale, perché questo centro, che in sé è vuoto, viene costantemente occupato da altro. Questo altro appunto può essere il mondo, oppure un ancoraggio in qualcosa di più alto, che libera la libertà stessa : con l’apparente paradosso che proprio nel luogo della libertà, nel nucleo profondo dell’io, non si farebbe alcun uso proprio della libertà. Ma la rinuncia alla libertà e all’attività, si chiede allora Stein, non sono esse stesse un atto libero ? Ossia quella che si è definita « vita liberata » non presuppone essa stessa la libertà ? Prima della caduta si viveva nel regno della grazia secondo la vita naturale, al modo in cui tutt’ora vivrebbero gli angeli, che sono sottomessi senza sottomettersi ; il loro stato presuppone infatti la libertà, e perciò la possibilità di rifiutare l’obbedienza, ma non l’uso della libertà nel senso di un originario atto di sottomissione. La libertà naturale sarebbe di principio la vita originaria dell’uomo, ma in uno stato in cui la condizione iniziale è stata rovinata, può essere richiesto un atto libero per riacquisire la libertà stessa, e così tra il regno di natura e quello di grazia si ha quello della libertà. La libertà, prosegue Stein, non si presenta in questa condizione decaduta propriamente come un regno, come invece natura e grazia, perché non possiede dimensioni. A giudizio dell’autrice infatti l’assoluta libertà si risolve in una assenza di essa e in una esposizione al vuoto, che viene riempito solo dal regno cui ci si dona.
Propriamente non è possibile parlare di un regno della libertà, perché questo regno non ha dimensioni e si riduce ad un punto. La persona, presa solo come soggetto libero, non è capace di alcun movimento dell’anima ; ogni movimento dell’anima si gioca in un regno, che possiede un’estensione, e l’anima per dispiegarsi ha bisogno del legame con un tale regno. 1
Perciò il suddetto paradosso, di doversi consegnare per diventare liberi :
Il soggetto libero, dunque, per poter iniziare qualcosa con la sua libertà deve, anche se in parte, lasciare la libertà stessa ; per guadagnare anima e vita deve legarsi ad un regno. 2
Si tratta, dice Stein, di una « attività passiva ». 3 Questo è il livello in cui si svolge la vita personale. L’anima che affida la propria libertà al regno della grazia diviene padrona di sé e acquisisce così un centro. Proprio nel suo essere obbediente, sostiene Stein, guadagna la sua libertà. Solo così, infatti, sono possibili atti liberi che distinguano l’anima dalle bestie. Su questo piano sono possibili dominio di sé, autoeducazione e anche vero e proprio superamento di sé. L’anima diventa un cosmo e può altresì conoscere (erkennen) se stessa e la propria struttura, fino a dominare le leggi che scopre nel proprio intimo, al contrario di coloro che sono sottoposti al regno di natura, che possono solo prendere atto (Kenntnis nehmen) e sapere (wissen). Nell’anima regna infatti la descritta legalità razionale delle motivazioni, qui chiamata nuovamente in causa, e colui che ha raggiunto il nucleo del suo essere si rivolge consciamente alle sue leggi interne, senza limitarsi a subirle passivamente.
Le leggi di ragione, infatti, motivano (motivieren), e non necessitano (necessitieren), al contrario delle leggi di natura, che sono operanti solo nella vita di un’anima il cui soggetto non è in possesso della libertà o non ne fa uso. 4
La conoscenza viene ad essere un elemento centrale della distinzione tra l’anima che 1
Natur, Freiheit, Gnade, ESW vi, p. 140. 3 Ivi, p. 140. Ivi, p. 138.
2
4
Ivi, p. 142.
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analogia della persona
cerca di vivere nel suo centro e quella disordinata e dispersa nell’esteriorità della natura. Tuttavia, sussiste sempre anche la possibilità dell’errore. La persona che vuole stare nella sua libertà e essere signora a sé stessa resta esposta al pericolo di ricadere nell’irrazionalità. La vita della sua anima è specificamente insicura (ungeborgene). 1
Se infatti nella vita di natura l’anima si disperde, nella vita di libertà essa può anche solo svuotarsi di ciò che le proviene dall’esterno, senza però guadagnare nulla : in questo modo l’anima riesce solo a consumarsi, perché perde progressivamente le dimensioni abbandonate senza però trovarne altre, ma raggiungendo, in questo percorso di astrazione dai vincoli, solo il vuoto. Si è detto, infatti, di come la mera libertà non sia un regno, ma un punto senza dimensioni. L’anima può allora affidarsi ad un regno spirituale che la riempia, liberandosi così definitivamente dai condizionamenti della natura, ma in tal modo non ha ancora certezza di essersi definitivamente riguadagnata, perché ciò dipende evidentemente dal tipo di spirito (persona o sfera spirituale) cui si affida. Ma ogni sfera spirituale procede da persone e quindi affidarsi ad una sfera spirituale significa inevitabilmente affidarsi a persone.
Sottoporsi ad uno spirito ha di conseguenza un duplice senso : significa introdursi in una sfera spirituale e lasciarsene riempire. E contemporaneamente significa anche sottomettersi alla persona che è il centro di questa sfera. 2
Nel tentativo, ad esempio, di dominare la natura e di porsi dal punto di vista dell’io assolutamente libero e padrone si può cadere schiavi, secondo Stein, del regno in cui vige la legalità della signoria dominante, e di questa situazione sono emblematiche le figure letterarie di Prospero e Faust. 3 Sembra infatti che gli spiriti obbediscano a queste figure, ma è un’illusione (Schein), perché si può entrare in rapporto con spiriti che sono al di fuori dell’ambito naturale solamente sottomettendosi alla loro sfera. Per ritrovare se stessa, l’anima deve invece entrare nel regno della luce e della pace, ossia il regno di grazia, ma ciò è possibile solo se qualcosa le viene incontro e solo se essa è in grado di accoglierlo, perché il semplice vedere la sfera spirituale non permette di entrarvi. L’essere libero ha la possibilità di sottrarsi al fondamento di natura e di guardare al di là della sua sfera naturale. Ma questo evidentemente può accadere solo se gli viene incontro qualcosa dalla sfera che deve nuovamente guadagnare. La sua libertà gli basta per rivolgere lo sguardo a sfere libere e per giungerne alle soglie. Ma solo nella misura in cui esse gli si offrono. Non può infatti conquistare ciò che non gli si vuole dare. L’uomo può afferrare la grazia, solo nella misura in cui la grazia lo afferra. Può cadere nel male, solo nella misura in cui il male lo tenta. Come essere di natura, è al di là del bene e del male. Entrambe le possibilità gli si presentano nella misura in cui trascende la natura. 4
Il fatto che ci si possa sottomettere sia al dominio del bene sia a quello del male implica 1
2 Ivi, p. 143. Natur, Freiheit, Gnade, ESW vi, p. 144. Si possiede anche un commento steiniano al Faust di Goethe dal titolo Natura e sovranatura nel Faust di Goethe, nel quale, rivolgendosi ad un pubblico confessionale, la filosofa vaglia l’opportunità di sottoporre giovani studenti alla lettura di tale opera ; ancora sotto la guida del motto paolino « vagliate tutto e prendete ciò che è buono », e pur mettendo in risalto come il romanzo sia una delle poche grandi opere in cui emerge con vigore l’ampiezza dell’anima umana e la ricerca del suo destino e della sua salvezza, Stein mette in guardia dagli elementi che non sono compatibili con il cristianesimo, sostenendo che non è questa l’opera principale su cui educare dei giovani allo spirito del Vangelo (cfr. Natur und Übernatur in Goethes Faust, ESW 4 vi, pp. 19-31). Natur, Freiheit, Gnade, ESW vi, p. 147. 3
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allora che l’anima possieda in sé i principi di entrambi, e di ciò essa si accorge perché le capita di odiare ciò che naturalmente sente che sarebbe degno di amore e viceversa. Dopo aver descritto sommariamente come si presentano i regni del bene e del male, Stein passa alla questione di cosa resti dell’individualità dell’anima una volta che ci si sia sottomessi allo spirito, e risponde considerando come sicuramente nella nuova sfera vi sia un mutamento tale da poter essere definito « rinascita », sostenendo però anche che l’individualità propria, che è dietro a tutte le disposizioni, non scompare, ma anzi si riguadagna completamente e attraverso la grazia ha addirittura se stessa e il proprio autentico essere in regalo. La seconda parte del testo si apre con la citazione evangelica « chi vorrà preservare la propria anima la perderà », sulla scia della quale Stein analizza come l’anima possa paradossalmente trovare se stessa quando non ha a che fare con sé, mentre coloro che cercano di liberarsi dal mondo, di contrapporsi ad esso, o di entrare nel regno della grazia con l’interesse di trovare se stessi, finiscono inevitabilmente per fallire. 1 La chiave per capire soprattutto l’ultimo errore sarebbe nell’analisi del termine di « cura » (Sorge) ; per Stein si dà una cura che è sempre presso gli oggetti e li tiene stretti a sé, mentre un’altra non è diretta a nessun contenuto specifico in particolare, ma è una angoscia generica, e viene defnita Angst.
L’angoscia di cui viene riempita ogni anima che non è rinata può prendere diverse forme, ma ciò che le è caratteristico, in ognuna di queste forme è che non è angoscia di qualcosa di determinato che le stia davanti agli occhi. Si attacca talvolta ad una cosa, talvolta ad un’altra […] . Ma certo è lo stato dell’anima che fa scaturire l’angoscia in essa. 2
L’angoscia dunque è angoscia dell’anima per se stessa, ma ha la caratteristica di non dover essere oggettivata per poter essere conosciuta ; viene invece provata (gespürt). L’origine di questa angoscia andrebbe rinvenuta nel peccato, sia in quello attuale che in quello di origine, perché finché viene scambiata con la paura di qualcosa, ci si muove sempre solo alla periferia dell’anima. Si deve invece cogliere il senso metafisico dell’angoscia. Essa sopravviene come inquietudine promossa dalla grazia. Si può, allora, secondo l’autrice, abbandonare il proprio io e convertirsi al regno della luce ; ma donarsi completamente ad esso è opera della grazia preparatoria stessa, e dal momento che le si appartiene non c’è più necessità di un atto espresso di dono di sé, perché la grazia stessa fluirebbe nell’anima aperta e ne prenderebbe possesso :
allo sguardo di colui che prende parte a questa via della grazia – come Lutero – si può comprensibilmente sottrarre del tutto la collaborazione della libertà. 3
Abbiamo detto di come l’analogia della persona steiniana sia pensabile come una via mediana tra analogia dell’ente e analogia della fede. Bisogna abbandonarsi allora completamente a questa nuova vita, che come visto è descritta da Stein quale liberante ; ma ciò richiede tempo, perché per poterlo fare occorrere possedersi completamente : si tratta, sostiene l’autrice, della battaglia di una vita intera, al cui culmine però « la donazione di sé è l’atto più libero della libertà ». 4 Dopo una discussione sulla speranza della salvezza universale, che non toglie però la possibilità di principio della dannazione, Stein si rivolge nella terza parte alla considerazione della possibilità della mediazione delle persone finite all’azione della grazia. In
1
Natur, Freiheit, Gnade, ESW vi, pp. 153 ss. 3 4 Ivi, p. 155. Ivi, p. 157. Ivi, p. 156.
2
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analogia della persona
tale trattazione, svolta secondo le linee del diritto puro, e dunque ispirate probabilmente al considerazioni fenomenologiche di Reinach, 1 si sostiene subito l’imprescindibilità della considerazione di Dio non solo secondo l’attributo della somma giustizia, ma anche di quello somma misericordia Il fatto che la libertà divina si sottometta quasi, nell’ascolto della preghiera, alla volontà dei suoi diletti è il fatto più meraviglioso della vita religiosa. Il perché ciò avvenga supera ogni concetto. 2
Il testo prende allora in esame la comunione dei santi, la chiesa e Cristo come capo di essa, nonché la possibilità dell’espiazione vicaria aperta anche ai figli di Dio, cui è affidata la responsabilità dei fratelli, ma anche in un certo senso dell’intera creazione (ed è interessante notare come Stein differenzi gli animali dall’uomo in quanto privi dell’angoscia metafisica). La quarta parte tratta poi, nuovamente, del legame necessario che intercorre tra l’anima e il corpo vivente (Leib). Secondo l’autrice, il Leib si distingue dagli oggetti materiali per il fatto che prova (spürt) tutti i suoi stati, e quindi appartiene necessariamente ad un soggetto che ha sensazioni, esprime la sua vita interiore ed è inserito in quella esteriore attraverso la corporeità stessa. Il provare gli stati corporali può avvenire in vari modi secondo varie intenzionalità, dirette ad esempio ad un punto preciso, che può provocare dolore, o al corpo proprio in generale, che può essere centro della vita priva dello sguardo spirituale, per cui il soggetto non gli è contrapposto, ma affondato in esso, [ed allora] è primariamente un soggetto corporale, soggetto degli stati sensibili. 3
Come polo opposto si presenta la possibilità di essere completamente indifferenti a ciò che accade al corpo, e a questo punto si è, secondo Stein, pronti per lasciarlo. La vita periferica e la vita centrale dell’anima sarebbero comunque in comunicazione diretta, così che un corso di pensieri e un dolore non possono non influenzarsi vicendevolmente. Riemerge allora il concetto che già si era visto essere centrale nella vita psichica, ossia quello di energia vitale, che qui è ricavato soprattutto nell’analisi della connessione tra anima e corpo proprio ; si sottolinea quindi come la forza vitale sia la fonte principale della vita dell’interiorità, considerata assolutamente in sé e definita, nella sua chiusura monadica, come psiche, qui contrapposta alla nozione di anima, che invece ne sarebbe la parte profonda.
Solo allorquando si è compresa la psiche si può capire che senso ha il fatto che essa sia inserita nell’interiorità del corpo vivente e il suo crescere assieme. 4
Ma, prosegue Stein riequilibrando l’indagine, non ha senso cercare la liberazione dell’anima dal corpo se proprio per suo tramite essa può riacquisire freschezza ed ener1
Cfr. A. Reinach, Die apriorischen Grundlagen des bürgerlichen Rechts, « Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung », 1 (1913), pp. 685-847 (ora in Sämtliche Werke, München-Hamden-Wien, Philosophia Verlag, 1989, vol. 1, pp. 141-278). Tali ricerche di Reinach tornano ad ispirare anche il volume steiniano Eine Untersuchung über den Staat, ESGA 7, pubblicato originariamente sul volume del 1925 dello Jahrbuch fenomenologico. Questa ricerca politica sembra presentare alcune movenze di fondo accostabili al testo che stiamo analizzando, perché lo Stato viene descritto come una entità puramente formale, che si deve riempire dei contenuti concreti conferitigli dalla comunità. 2 Natur, Freiheit, Gnade, ESW vi, p. 161. 3 4 Ivi, p. 173. Ivi, p. 175.
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gia vitale ; d’altronde non si deve nemmeno permettere che la vita del corpo stesso prevalga su quella interiore, perché in generale la persona è tanto più libera quanto più è in grado di dominare il suo corpo, e a tal fine è prevista l’ascesi. Nuovamente, la via del perfezionamento della libertà non è solo opera della libertà stessa, ma anche del regno dello spirito, che potrebbe influire sull’energia vitale ed anzi il riferimento ad esso si renderebbe necessario per evitare che un’ascesi fine a se stessa porti al suicidio, per lo svuotamento prima descritto dell’anima in una libertà non fondata. Inoltre il corpo proprio non va concepito, secondo Stein, come la prigione dell’anima, ma secondo il suo senso originario ne costituirebbe lo specchio ; ciò da cui ci si deve liberare è piuttosto il corpo corrotto (verdorbene), cosicché è più corretto dire che l’anima liberata deve santificare il corpo ; in questo senso il santo è anche medico, perché può ristabilire la costituzione originaria del corpo, sebbene tale processo vada concepito come miracoloso piuttosto che come sottomesso ad una legalità meccanica. Nell’opera di liberazione e santificazione dell’anima troverebbero posto anche i sacramenti, che oltre ad essere segni visibili della grazia, sarebbero efficaci nell’apportare giustizia e santità. 1 Essi sono, secondo Stein, funzionali alla natura sensibile dell’uomo e connessi strettamente al mistero dell’incarnazione di Cristo. La grazia non passa sempre solo attraverso di essi, ma laddove si ha la possibilità di accedervi non si ha il permesso di rifiutarli. Naturalmente, e così inizia la quinta parte, le questioni concernenti la chiesa sono di fede e quindi ci si deve rivolgere ad esse differenziando prima di tutto il significato generico del termine da quello strettamente religioso. Si introduce allora una divisione tra conoscenza (Erkenntnis) di un contenuto (Sachverhalt) e convinzione (Überzeugung) del suo consistere (Bestehen), vissuto questo che può ricevere modificazioni di certezza, tra le quali rientra anche quella del credere. La fede in senso religioso è per Stein anzitutto un atto proprio e non un carattere d’atto come la credenza ; inoltre, non si tratta di un atto fondato in altro, ma di un atto semplice, perché rivolto direttamente ad un oggetto e non mediato da un contenuto. Infine, non si tratta di un atto meramente teorico :
non si apprende semplicemente qualcosa e lo si ritiene vero – in una posizione distanziata, come se non ci fosse nulla che mi riguardi, al modo dell’atteggiamento naturale –, ma quello che apprendo, non appena ciò avviene, mi invade (eindringet) ; mi prende nel mio centro personale e io mi tengo legata ad esso. Il non appena va preso qui in senso stretto, perché non c’è qui né prima né poi, né da un punto di vista temporale, né contenutistico. 2
La fede, procede Stein, porta con sé assieme i momenti della conoscenza, dell’amore e dell’azione : il suo oggetto è Dio, « la fede è fede in Dio », e in quell’« in » si evidenzia la differenza tra l’atto specifico di cui si tratta qui per il vivere religioso e invece gli atti teoretici, come mostrato anche dallo stesso senso che si può esprimere nella fiducia « in » un uomo.
E noi crediamo anche senza vedere, ossia senza poter addurre prove dall’esperienza, o senza usarle come fondamenti della fede laddove sono a disposizione. 3 1 Interessante è ciò che Stein dice a riguardo del pentimento e della remissione della colpa, che di principio apparirebbe essere un movimento interiore così spirituale da non dovere richiedere un sacramento, ma di fatto si presenta come un processo che non investe solo lo spirito e l’anima, ma anche e necessariamente le leggi della psiche, e che dunque dovrebbe tener conto del legame necessario con la sensibilità. 2 3 Natur, Freiheit, Gnade, ESW vi, p. 188. Ivi, p. 189.
6. Simbolo e analogia 131
analogia della persona
L’atto di fede raggiunge quindi uno strato della persona così originario da far quasi venire meno la distinzione tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto, tra teoria e pratica. La fiducia tra uomini, come anticipato già nella trattazione dell’empatia, è ciò che per la filosofa permette di capire meglio la fede stessa ; ma quest’ultima avrebbe una certezza infinitamente superiore, tanto che non sarebbe richiesto il fondamento del « vedere », elemento centrale della fenomenologia. In Dio c’è per Stein l’assoluta sicurezza (Geborgenheit).
Si unisce allora assieme ciò che si è detto sulla fede e ciò che prima si era detto della grazia. La grazia è lo Spirito di Dio che viene a noi […] . La grazia comunicata a noi obiettivamente diviene propria soggettivamente per noi nella fede […] . Diventare credenti senza ricevere la grazia è impossibile. In virtù della libertà ci si può solo predisporre alla grazia. Per altro verso la fede non può dispiegarsi se la grazia non viene colta con libertà. Grazia e libertà sono costitutive della fede. Grazia e libertà divengono costitutive per la fede […] , non ci si può legare però a Cristo senza al contempo seguirlo. 1
6. Simbolo e analogia Negli ultimi anni della sua vita, significativamente, Stein rivolse la propria attenzione intellettuale soprattutto a scritti di ambito mistico. L’intenzione appena citata di seguire Cristo, infatti, la condusse com’è noto nel Carmelo, dove scrisse, oltre ad una serie di testi spirituali dedicati alla vita conventuale, anche due importanti saggi di natura scientifica, uno dedicato allo pseudo Dionigi Areopagita e l’altro a Giovanni della Croce. Rifugiatasi ad Echt per tentare di sottrarsi alle persecuzioni naziste, nel 1941 Stein redasse il primo testo, intitolato Vie della conoscenza di Dio (Wege der Gotteserkenntnis). Si tratta di uno studio su Dionigi, accompagnato, come spesso avveniva nel suo approccio a nuovi autori, anche da una traduzione. Secondo una dialettica in cui sembrano agire ancora una volta le strutture fondamentali di Przywara e dunque anche quelle di Essere finito ed essere eterno, Stein espone il paradosso derivabile dalle opere di Dionigi e in base al quale la crescita della familiarità con l’ambito del divino porta con sé, contemporaneamente e corrispondentemente, anche una crescita di ciò che se ne ignora. 2 Su questa dialettica, qui esposta soprattutto in termini concettuali e scientifici, nella Scienza della croce declinati invece in modo piuttosto esistenziale, intendiamo soffermare ancora la nostra attenzione. Si tratta infatti, qui in modo esplicito, di una ripresa della questione dell’analogia, ancora una volta radicata in modo personale nel rapporto con Dio. Questo articolo espone in termini generali gli scritti di colui che, ritenuto il discepolo convertito da Paolo ad Atene, era stato perciò investito di grande autorità nel medioevo. Presentato dunque l’ambito generale di riferimento e riassunta la questione filologica relativa alla datazione degli scritti di questa misteriosa figura, Stein procede col descrivere nello specifico il testo del de mystica theologia. Si sostiene allora come Dionigi intenda con teologia non tanto una scienza o un sapere sistematico, quanto piuttosto i modi diversi di parlare di Dio (genitivo oggettivo) che si possono realizzare solo nella misura in cui ci sia quale presupposto un parlare di Dio (genitivo soggettivo) in cui egli stesso si rivela e ispira una parola proveniente dalla sua vita intima. Per questo Stein 1
Natur, Freiheit, Gnade, ESW vi, pp. 196-197. Cfr. Wege der Gotteserkenntnis. Studie zu Dionysius Areopagita und Übersetzung seiner Werke, ESGA 17.
2
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capitolo ii
può chiarire l’espressione « teologia mistica » con quella di « rivelazione misteriosa » (geheime Offenbarung). 1 Si tratta di una misteriosa ascesa (Aufstieg), nel silenzio e nel buio, accostata alla ascesa di Mosè sul monte. 2 Stein descrive inoltre la struttura generale del pensiero dionisiano come un ordine gerarchico dell’essere cui corrisponde un ordine di conoscenza, entrambi dipendenti però dall’azione divina e chiariti secondo l’espressione di Alberto Magno : ad locum, unde exeunt, flumina revertuntur, ut iterum fluant. 3 Dio si rivela misteriosamente, e coloro che ricevono tale rivelazione devono poi comunicarla agli altri. Anche gli angeli dunque sono secondo questa visione teologi, ma teologo originario è il Cristo, in quanto verbo divino.
Conoscere e annunciare si coappartengono. Ma quanto più alta è la conoscenza, tanto più essa è oscura e misteriosa (geheimnisvoller) dunque tanto meno è possibile comprenderla (fassen) in parole. L’ascesa a Dio è un’ascesa verso il buio e il silenzio. 4
Così è possibile distinguere vari livelli di teologia, ossia di discorso sul divino : ad una teologia cosiddetta « positiva » (tale in quanto affermativa, non in quanto rivelata, come precisa Stein stessa), che a partire dal mondo esperibile cerca i nomi che possano essere predicabili di Dio in modo sempre meno imperfetto, si deve contrapporre una teologia « negativa », che riconosca appunto la limitatezza presente in ogni determinazione e quindi la superi progressivamente, per ottenere una conoscenza migliore del divino. La teologia affermativa procede dalle caratteristiche che possono essere con più ragione trasposte a colui che secondo la fede è comunque al di là di esse, quindi, ad esempio, dalla bontà o dalla vita, mentre la via che nega prende al contrario le mosse da ciò che più lontano sembra essere dall’immagine vera di lui. Quest’ultima strada, notoriamente, è ritenuta da Dionigi la più adeguata, o, per esprimersi più correttamente, la meno inadeguata : anche la via negativa, infatti, deve negare se stessa. Il supporre o il negare qualcosa di Dio non tocca direttamente colui che è al di sopra di ogni predicazione quale causa di tutto e dunque sempre già al di là (jenseits) anche di ogni negazione. La teologia positiva, che Stein ritiene fondata in modo per noi molto significativo, come diremo subito, nell’analogia entis, va completata sempre dalla teologia negativa, dunque alla similitudo deve sempre far seguito una maior dissimilitudo ; ma l’opposizione tra le due non è ultimativa, perché in certo modo a fondamento di essa e dunque della via di ascesa c’è la « teologia mistica », in cui
Dio stesso svela (entschleiert) i suoi misteri (Geheimnisse), ma al contempo rende sensibile (spürbar macht) l’impenetrabilità di essi. 5
Stein dunque accosta l’analogia entis direttamente alla teologia affermativa, e ad essa viene contrapposta la maior dissimilitudo e dunque la preminenza del linguaggio negativo. Si ha, in questo caso, una sfasatura rispetto a quanto descritto in precedenza, in cui anche l’aspetto negativo e di dissomiglianza veniva ricondotto all’interno dell’analogia stessa, con riferimento come detto alla formulazione dogmatica del iv Concilio Late1
Wege der Gotteserkenntnis, ESGA 17, p. 27. Il tema dell’Aufstieg, tipico della mistica carmelitana spagnola, dove viene espresso espresso col termine subida, si ritrova nel sottotitolo di Endliches und ewiges Sein, ossia Aufstieg zum Sinn des Seins, che era concepito appunto come una salita al senso dell’essere. 3 Wege der Gotteserkenntnis, ESGA 17, p. 27. 4 5 Ivi, p. 25. Ivi, p. 29. 2
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analogia della persona
ranense del 1215, così che la negazione non costituiva una vera e propria opposizione rispetto a questo principio, quanto parte della sua stessa espressione. La teologia positiva si fonda sulla corrispondenza di essere (Seinsentsprechung) tra creatore e creatura – l’analogia entis, come Tommaso l’ha espressa in riferimento ad Aristotele ; la teologia negativa invece sul fatto che accanto alla similitudo si dà una maior dissimilitudo, come d’altronde Tommaso stesso ha sempre sottolineato. Le due coincidono (fallen zusammen) al culmine (im Gipfel), nella « teologia mistica ». 1
Traccia di tale ambiguità si rivela nel fatto che Stein abbia cancellato questa parte di testo, che si riviene quindi solo nel manoscritto. È d’altronde un’ambiguità classicamente insita nell’analogia, che esprimendo somiglianza sembra accostabile tout court ad una possibilità positiva, per altro verso implica però necessariamente anche distanza, differenza ; sia in sé, che nella formulazione dogmatica. Tale difficoltà, che emerge qui in modo peculiare, è probabilmente interna al principio in generale, tanto è vero che spesso nella storia del pensiero è stato ricondotto direttamente e solo al suo aspetto positivo, cioè ad una teologia che per quanto con cautela, però vuole e riesce a predicare qualche cosa di Dio. Al vertice della dialettica tra somiglianza e differenza, inoltre, secondo la Stein lettrice di Dionigi, ma anche e molto più come struttura e motore interno di tutto il principio, vi è la relazione mistica, ossia personale, con Dio. Dopo queste considerazioni introduttive Stein procede con l’analisi specifica del testo della Teologia simbolica, in cui si tratta di trasporre (übertragen) 2 il linguaggio umano a Dio, e dei livelli possibili di comprensione della parola ispirata. La questione linguistica è strettamente connessa, nella trattazione steiniana, con la questione semiotica. L’immagine (Bild) che si utilizza simbolicamente, si dice, è tratta dal mondo esperibile e ha due sensi : un senso immediato ed uno mediato. Con l’espressione « simbolo » si indica secondo Stein un segno (Zeichen), che è segno distintivo e di riconoscimento (Kennzeichen e Erkennungszeichen) e si cita quale esempio del secondo tipo il simbolo della fede. Il simbolo fa riferimento a qualcosa di costruito (Gebildetes), che ha una forma (Gestaltung) comprensibile e che rimanda a Dio come un’immagine che ci si foggia in anticipo (Vorbild) rispetto al suo riempimento (Erfüllung), o una copia (Abbild) nei confronti dell’originale (Urbild). La dialettica di Abbild ed Urbild rimanda esplicitamente ad un passo di Essere finito ed essere eterno dedicato all’analogia. Si tratta di queste righe :
Ciò vuol dire che l’essere attuale è una copia che ha somiglianza con l’archetipo, ma che in maggior grado ha non-somiglianza rispetto ad esso [ein Abbild, das Ähnlichkeit mit dem Urbild hat, aber weit mehr Unähnlichkeit]. 3
Esse infatti seguono immediatamente un passaggio che abbiamo già citato e che chiamava in causa l’analogia entis :
A partire da qui [il dato di fatto del proprio essere] risulta immediatamente chiara anche l’analogia entis, compresa come relazione di ciò che è temporale con ciò che è eterno. 4
Ma il movimento analogico della conoscenza, anche in questo caso, viene ricondotto 1
Wege der Gotteserkenntnis, ESGA 17, p. 29. Übertragung era stata definita da Stein anche la sua traduzione delle Quaestiones disputatae de veritate di 3 Tommaso (cfr. DeV, ESGA 23 e 24). Cfr. EeS, ESGA 11/12, p. 42. 4 Già citato: p. 12, nota 2. Sulla questione cfr. P. Zordan, Immagine e simbolo. Alcune considerazioni sul pensiero di Edith Stein, « Divus Thomas », 111/2 (2008), pp. 143-160. 2
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ad un rapporto personale. Le parole, infatti, ci trasmettono l’immagine che viene trasposta a Dio. Ma perché il teologo possa parlare di Dio e l’ascoltatore comprendere è necessario, secondo Stein, che si conoscano entrambi i termini di riferimento dell’immagine, ossia quello finito e quello infinito ; e il primo ambito ovviamente non sembra presentare eccessivi problemi, essendo le immagini tratte da esperienze comuni, per il secondo il discorso è più complesso. Stein schematizza allora secondo tre ordini di grandezza le fonti sulle cui basi il teologo può esprimersi e conseguentemente l’uditore comprendere. Una è quella della cosiddetta teologia naturale, la cui possibilità è stata forse lasciata aperta, secondo l’autrice, dall’Areopagita ; ma è molto raro ed improbabile che il teologo che si esprime con il solo riferimento al mondo non possieda altre basi alle spalle. Queste andrebbero individuate negli altri due livelli, ossia la fede, intesa anche qui come adesione più o meno personale e convinta alla dottrina e alle verità rivelate, e l’esperienza soprannaturale. Ogni grado viene descritto da Stein come intenzione (Intention) che ottiene il suo riempimento (Erfüllung) solo in quello superiore. Il rapporto personale con Dio e l’esperienza diretta di lui, quindi, sono guida e scopo di ogni possibile teologia. Dio stesso è in senso proprio il teologo originario (Ur-Theologe), perché nella creazione manifesta se stesso, e tale linguaggio è in qualche modo accessibile a tutti gli uomini.
Tutte le forme di esperienza soprannaturale – ma il fare conoscenza personale (persönliches Kennenlernen) in modo particolare – si rapportano alla fede nel modo in cui nel campo naturale la conoscenza per esperienza in prima persona (persönliche Begegnung) si rapporta al sapere per apprendimento esterno. Cioè come un riempimento (Erfüllung) di qualcosa che sino a quel momento era solo pensato, e recepito senza presa d’atto originaria e in prima persona. L’incontro personale si segnala come riempimento anche nei confronti della conoscenza mediata di esperienza. 1
La conoscenza personale, a sua volta, trova secondo Stein un riempimento finale nell’esperienza mistica dei livelli più alti, e poi, in grado ultimo e perfetto, nella visio ultraterrena. Anche nel leggere Dionigi e nel soffermarsi sulla questione conoscitiva e semiotica della teologia simbolica, dunque, Stein sembra fondarsi sulla struttura dell’analogia e teorizzarne il riferimento primario in un rapporto di tipo personale. Può allora essere molto interessante richiamare qui di nuovo in modo esplicito le descrizioni dell’empatia in base alle quali nelle espressioni altrui non si darebbero semplicemente segni dello stato d’animo dell’altro, bensì simboli di esso, in quanto non si avrebbe un rimando, ma il contenuto si presenterebbe direttamente nella manifestazione. Le questioni del simbolo e dell’espressione, infatti, erano state legate esplicitamente da Stein alla conoscenza altrui e al volto d’altri. l’espressione triste del volto (Miene) non è propriamente un tema che rinvii ad un altro tema, bensì una sola cosa con la tristezza […] l’espressione del volto è il lato esteriore della tristezza ed entrambe costituiscono un’unità naturale. 2
Tale fenomeno, secondo quanto si è potuto dire, è essenzialmente diverso da quello rappresentato ad esempio dalla presenza di fumo che rinvia al fuoco come un segno, inferenza che avverrebbe come passaggio da un tema ad un altro tema, come invece nel linguaggio. 1
Wege der Gotteserkenntnis, ESGA 17, p. 48. Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 95. Già citato: p. 117, nota 1.
2
7. Analogia e croce analogia della persona
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se qualcuno mi dice che è triste, io comprendo il senso delle parole. La tristezza, di cui ora so, non è affatto « viva » com’è viva la datità percettiva che mi sta di fronte. 1
Questo tipo di vissuto, come detto, veniva legato dalla Stein fenomenologa immediatamente anche alla motivazione, nel nuovo e più generale senso attribuito a questo termine e che abbiamo ribadito ; e quindi veniva messo in connessione con il fenomeno del comprendere tipico delle scienze dello spirito. La legalità che connette al suo fondamento i vissuti e che era esemplificata da Stein in modo esplicito con le espressioni della persona, si ritrova nella conoscenza di Dio, che è di tipo simbolico, ma che rimanda ad un rapporto personale. Il regno che si trova al fondo della coscienza assume infatti i tratti di un volto. Ma questa conoscenza simbolica, a sua volta, richiamava la dinamica dell’analogia. Ancora, dunque, non solo l’analogia dell’ente è declinata in senso personale, come esperienza di tipo mistico che deve essere a culmine, oltre che a fondamento, della conoscenza di Dio. Ma l’analogia tra esseri umani, come grado massimo della conoscenza simbolica, sembra a sua volta direttamente connessa con l’analogia tra persona umana e divina. La simbolicità con cui si articola la conoscenza di Dio sembra possedere una struttura simmetrica a quella con cui si articola la conoscenza dell’espressione presente sul fondo altrui. E questa, a sua volta, è rinvenibile come struttura originaria della conoscenza nella motivazione come legalità primaria degli atti. La struttura stessa della coscienza trova al suo fondo, come necessaria motivazione originaria, un’alterità, ossia quello che Stein ha definito un regno altro. Tale sfera ha le caratteristiche di un’alterità personale. Si è dunque ribadita più volte, e a diversi livelli, quella che qui abbiamo definito come analogia della persona. Secondo queste considerazioni, dunque, si articola ulteriormente l’analogia della persona. Questa espressione, infatti, con cui abbiamo voluto descrivere anzitutto e più nello specifico il movimento teorico di Essere finito ed essere eterno, trova quindi da un lato un retroterra fenomenologico molto dettagliato, dall’altro un approfondimento ed un ispessimento in una direzione che non è possibile definire se non come « mistica » : un ambito cioè di tipo spirituale che nella relazione personale con Dio, concepito come forza vitale e motivazione originaria che è al fondo della coscienza e che è in grado di salvare la vita, trova il suo terreno ultimo. L’analogia della persona di Stein, quindi, va rinvenuta in ultima analisi su di un piano esperienziale e quindi personale a tutti gli effetti.
7. Analogia e croce A ridosso di questo scritto su Dionigi, appena descritto, ed in occasione del quattrocentesimo anniversario della nascita di Giovanni della Croce, Stein intraprese lo studio intitolato Scienza della croce. In questo testo si cerca di offrire un’esposizione sistematica e, appunto, « scientifica », degli scritti del riformatore dell’ordine carmelitano. Nell’introduzione alla recente edizione dell’opera per la Edith Stein Gesamtausgabe, Ulrich Dobhan sottolinea come Stein probabilmente sia entrata in contatto con la figura di Giovanni della Croce già nel periodo degli studi o nei mesi di lavoro come assistente di Husserl, e forse grazie alla mediazione del Sacro di Rudolf Otto, che il fondatore della
1
Zum Problem der Einfühlung, ESGA 5, p. 99. Già citato: p. 117, nota 2.
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fenomenologia lesse proprio in quegli anni. 1 A quell’epoca risalgono comunque le prime tracce di un confronto di Stein con tematiche religiose. Prima di soffermarci sul modo con cui viene letto Giovanni della Croce, vogliamo evidenziare qualche passaggio di tale avvicinamento steiniano alla religione, insistendo ancora una volta sulla dinamica di disperazione e salvezza, strutturale nell’incontro steiniano con il fenomeno religioso in generale, con il cristianesimo e con la spiritualità carmelitana in particolare, ma altresì nella maturazione di un’analogia della persona declinata in senso di rapporto mistico con Dio. Si tratta in sostanza, come abbiamo visto, di una forma di crisi di senso, forse di depressione, di perdita comunque di energia vitale, che Stein sembra aver sperimentato in alcuni passaggi decisivi della sua esistenza ; nei quali tuttavia le si è presentata una forza misteriosa, che viene interpretata in senso religioso, e poi declinata in senso cristiano e cattolico ; questa forza trascende il fondo dell’anima, nelle descrizioni di Stein, ed è in grado di riportarla in vita e ridonarle energia e sensatezza. Molto noto è il passaggio di una lettera steiniana dell’8 Giugno 1918 in cui si racconta di una sua passeggiata a tre con Husserl e il « piccolo » Heidegger, e nella quale si sarebbe discusso di temi di filosofia della religione. 2 Altre simili testimonianze o episodi dell’epoca si potrebbero citare, come la lettura delle opere di Dostoijevski, o l’avvicinamento agli Esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola, a Kierkegaard, a Schleiermacher, che hanno indubbiamente contribuito alla formazione di un clima ideale favorevole alla sua scelta di fede cristiana. E poi la lettura della biografia di Teresa d’Avila, a casa dei coniugi Conrad, ultimo e famoso passaggio. 3 Ma prima di tutto ciò, l’esperienza fondamentale che toccò profondamente Stein fu il modo in cui Anne Reinach, moglie di Adolf, si mostrò capace grazie alla fede di affrontare la morte del marito in guerra. L’evento aveva segnato profondamente e gettato nello sconforto anche Stein, che rimase colpita dalla forza e tranquillità mostrate dall’amica. Reinach era il rappresentante principale della giovane generazione di fenomenologi e quindi del mondo di Gottinga, che lasciava presagire la possibilità di uno sviluppo felice ed armonioso della scuola husserliana e del suo grandioso progetto scientifico comunitario, in cui Stein si era gettata con entusiasmo ; ma era era anche un caro amico di Stein. Ingarden scrive :
io ho visto la sua [di Stein] reazione dopo la morte di Reinach. Che impressione terribile le ha fatto ! Sono dell’idea che sia stato l’inizio di alcune “peregrinazioni” interiori che si sono poi completate in lei. 4
Negli anni del conflitto Stein aveva potuto scrivere a Fritz Kaufmann come le giungesse notizia che Reinach non si ritenesse più interessato alla filosofia e anzi non si reputasse nemmeno dotato per tali argomenti, mentre volesse dedicarsi interamente alla religione, 5 e qualche anno dopo ella avrebbe potuto leggere, rivedendo le opere 1
Cfr. U. Dobhan, Einführung a Kreuzeswissenschaft. Studie über Johannes vom Kreuz, ESGA 18, pp. xi ss., qui 2 in particolare p. xii. Cfr. BI, ESGA 4, p. 85. 3 Cfr. soprattutto E. Otto, Welt, Person, Gott. Eine Untersuchung zur theologischen Grundlage der Mystik bei E. Stein, Vallendar-Schönstatt, Patris, 1990, che ricostruisce molto bene gli elementi che hanno contribuito al cammino di conversione di Stein. Cfr. anche A. U. Müller e M. A. Neyer, Edith Stein…, cit., pp. 101 ss. 4 Cfr. R. Ingarden, Über die philosophischen Forschungen Edith Steins, in W. Herbstrith, Edith Stein. Eine grosse Glaubenszeuging, cit., pp. 203-229, qui p. 208. Sul rapporto tra Stein e Reinach cfr. K. Schuhmann, Edith Stein und Adolf Reinach, in R. L. Fetz (a cura di), Studien zur Philosophie von Edith Stein, cit., pp. 53-88. 5 Cfr. Selbstbildnis in Briefen i, EGA ii, p. 22.
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dell’amico per la pubblicazione di un volume commemorativo, il manoscritto Sull’assoluto, composto proprio durante l’esperienza sotto le armi, negli ultimi mesi di vita. In queste breve ma dense pagine si legge :
cerchiamo di entrare più profondamente nel segreto di come l’esperire terreno (irdisches Erleben), che come tutto ciò che è terreno deve muoversi tra gradazioni gerarchiche di perfezione e imperfezione, possa comunque prendere parte all’assoluto. Nel distinguere in un vissuto il contenuto (Gehalt) dal suo rendersi valevole, determiniamo l’assolutezza dell’uno e la relatività dell’altro. Per servirci di un’analogia con le relazioni terrene : possiamo esperire solo limitatamente la forte compassione che riconosciamo di dovere ad un uomo. In questa situazione vanno distinti chiaramente due casi : non tributo ad un uomo la compassione che gli spetta ; e gli tributo questa compassione, ma questa non entra nel vissuto. Ci si chiede allora se la distinzione tra la compassione pienamente vissuta e il sapere che ci venga richiesta una compassione che non possiamo vivere sia sufficiente a rendere conto di questo stato di cose. L’«assolutezza» appartiene interamente al contenuto del vissuto (Gehalt des Erlebten) e non al suo venir vissuto (Erleben). Certo, alla assolutezza corrisponde qualcosa anche nell’esperire il vissuto ; si esprime con le parole : essere completamente pervasi, interamente riempiti. 1
La giovane moglie di Reinach, di confessione protestante, trovò appunto nell’unione con il Cristo crocifisso la forza necessaria per proseguire la propria vita con serenità e coraggio. Molti anni più avanti Stein avrebbe confidato, a riguardo della signora Reinach :
Questo fu il mio primo incontro con la croce e con la potenza divina che essa condivide con coloro che la portano. Io vidi per la prima volta in modo palpabile di fronte a me la chiesa nata dalle sofferenze redentrici di Cristo nella vittoria sull’aculeo della morte. Fu il momento in cui la mia incredulità crollò, l’ebraismo sparì e Cristo rifulse : Cristo nel mistero della croce.2
La morte di Reinach fu l’elemento centrale del crollo del mondo in cui Stein era cresciuta e aveva alimentato gli ideali della sua giovinezza, della fede in cui era cresciuta ma che presto aveva rifiutato, delle future gloriose sorti della fenomenologia e dell’immagine romantica di solidità e valore della Germania prussiana. In alcune lettere risalenti al febbraio del 1917 Stein aveva confidato ad Ingarden di sentirsi assolutamente sicura che la guerra sarebbe finita in estate con la vittoria tedesca, ritenendo tale certezza al livello del fenomenologico « principio di tutti i principi » e, esprimendosi in modo quasi hegeliano sulla situazione politica e storica, aveva proclamato all’amico :
lo Stato è il popolo cosciente di sé, che disciplina la sua funzione. Poiché sembra che il rafforzarsi dell’autocoscienza sia legato ad una crescente tendenza allo sviluppo, così l’organizzazione mi sembra un segno di forza interiore, e il popolo tanto più perfetto […] quanto più è Stato. E credo di poter dire obiettivamente che dai tempi di Sparta e Roma non si sia mai data una così potente coscienza statale come in Prussia e nel nuovo impero tedesco. Perciò ritengo escluso che adesso noi si soccomba. 3
Facile è immaginare allora la delusione provata poi da Stein di fronte alla diversa realtà degli eventi. In una lettera racconta poi della lettura dei patrioti polacchi, in cui si mostra come l’amore per il proprio popolo possa vincere anche l’esperienza delle contrarietà ; e come si possa superare l’idea della virtù romana dell’orgoglio, incapace
1 A Reinach, Bruckstück einer religionsphilosophischen Ausführung in Sämtliche Werke, München-HamdenWien, Philosophia Verlag, 1989, vol. 1, pp. 605-611, qui p. 609. 2 3 Cfr. T.-R. Posselt, Edith Stein, cit. , p. 68. BI, ESGA 4, p. 43.
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di accettare la sconfitta e portata, di fronte ad essa, a vedere nel suicidio l’unica scelta possibile per riscattare l’onore. 1 Abbiamo detto poi delle difficoltà di Stein nel lavoro con Husserl. Anche il periodo di scrittura della tesi di dottorato sull’empatia fu caratterizzato da una fatica enorme. Il tutto le richiedeva un lavoro quasi ininterrotto dalle sei del mattino a mezzanotte, con una riflessione che non si interrompeva nemmeno durante le notti, in cui, racconta, teneva un foglio e una matita sul comodino per segnare le idee che le sarebbero venute in mente : la durezza di tale estenuante attività e la difficoltà nel venire a capo della questione la gettarono « in un’autentica disperazione », tanto da affermare :
Era la prima volta in vita mia che mi trovavo di fronte a qualcosa che non potevo ottenere con la mia volontà […] non riuscivo più ad attraversare una strada senza avere il desiderio che una macchina mi investisse. 2
Abbiamo poi detto anche dell’impossibilità di conseguire l’abilitazione per l’insegnamento universitario, a cui forse si devono aggiungere anche due inizi di legami d’amore, entrambi non andati a buon fine. 3 La questione religiosa assume, nelle sue poche testimonianze di quegli anni, anche la forma di un interrogarsi sui rapporti tra il senso della storia (Stein aveva sempre mantenuto, come detto, un vago senso del destino) e la libertà dell’individuo, rapporto la cui problematicità si acuisce nel periodo della guerra. 4 Così, confidò ad Ingarden :
È impossibile costruire una teoria della persona senza affrontare le domande su Dio, ed è altresì impossibile comprendere cos’è la storia. 5
Non si capisce la persona, evidentemente, se non ci si interroga sul destino. Sul legame cioè di essa con leggi che la trascendono e che magari giungono a determinarla. Otto Gründler, che frequentò in quegli anni i seminari steiniani di introduzione alla scuola di pensiero husserliana scrive :
nelle descrizioni di Stein desidereremmo la risposta alla domanda fondamentale, ossia come vada compresa la dipendenza della persona dalle leggi di ragione […] . Il fatto che gli atti personali sottostiano alle leggi di ragione non significa altro se non che essi, secondo la loro essenza, richiedano di essere giudicati in base a tale legalità : essa però non regola il loro corso fattivo – come avviene per le leggi di natura con gli eventi naturali –, ma è una norma secondo la quale devono procedere. Come però debbano accadere gli atti singoli di una persona non è stabilito né dalle leggi di natura né da quelle di ragione, ma solamente dall’essenza della persona stessa […]. 6
1
BI, ESGA 4,p. 104. Aus dem Leben einer jüdischen Familie, ESGA 1, pp. 226-227. 3 Vari impedimenti si presentano rispetto alla questione dell’abilitazione, ma la difficoltà maggiore risiede inizialmente nella chiusura della carriera accademica alle donne (cfr. BI, ESGA 4, pp. 124-125), ostacolo che anche Husserl, nonostante le proteste della moglie e della figlia, aveva mostrato di non voler superare per ragioni « di principio » (cfr. BI, ESGA 4, p. 46). D’altronde, in un’inchiesta ministeriale del 1907, solo Max Lemahnn, David Hilbert e Carl Runge si erano espressi a favore dell’apertura della carriera accademica alle donne (cfr. M. A. Neyer und A. U. Müller, Edith Stein…, cit., p. 108). Husserl in particolare vedeva difficoltà concrete per una donna nel condurre un’attività accademica e nel portare avanti la famiglia (compito cui era a suo giudizio destinato per natura il sesso femminile) : cfr. T. Wobbe, „Sollte die akademische Lauf bahn für Frauen geöffnet werden…“ Edmund Husserl und Edith Stein, « Edith-Stein-Jahrbuch », 2 (1996), pp. 361-374. 4 5 Cfr. BI, ESGA 4, p. 72. BI, ESGA 4, p. 47. 6 O. Gründler, Elemente zu einer Religionsphilosophie auf phaenomenologischer Basis, München, Kosel & Pustet, 1922, p. 80. 2
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La questione che resta sempre aperta, dunque, è quella del nucleo più profondo dell’io, dell’ultimo piano di costituzione, ossia, secondo quanto detto, di cosa guidi la legalità della vita motivazionale. Da dove nasce la motivazione ? Cosa fonda la persona ? Abbiamo visto come Stein fornisca in qualche modo la risposta a questa domanda nello scritto su natura, libertà e grazia. Ma la chiave di volta va rinvenuta, oramai è chiaro, nella dinamica che abbiamo potuto descrivere più volte. In una lettera del 10 Ottobre 1918 si apprende del maturo avvicinamento di Stein al « Cristianesimo positivo », descritto in questo termini :
Non so se da espressioni già usate in precedenza Lei ha potuto intuire che mi sono avvicinata sempre più ad un cristianesimo positivo. Ciò mi ha liberato dalla vita che mi aveva atterrita e mi ha dato allo stesso tempo la forza di assumere la vita in modo nuovo e riconoscente. Posso parlare di « rinascita » in senso profondo. 1
Il passo decisivo di Stein avvenne, come è risaputo e come abbiamo già accennato, grazie alla lettura della Vita di Teresa d’Avila. 2 Una notte dell’estate del 1921, mentre si trovava nella casa di Bad-Bergzaben dei coniugi Conrad, e non riuscendo a prendere sonno, Stein trova nella libreria questo libro, al termine della cui lettura prende la decisione di farsi battezzare. L’idea principale che probabilmente la colpì nella lettura dello scritto di Teresa è quella della vicinanza di Dio, anzi della sua intima e profonda presenza nell’anima umana, che può avere esperienza diretta e quasi sensibile del soprannaturale, se si abbandona ad esso, venendone sommersa d’amore. Questa idea, detto in termini molto generici, pare possedere tratti eminentemente cattolici, per cui Stein si decise per quella confessione. 3 Teresa vede in Dio la fonte di ogni verità e, pur rimarcando la differenza infinita che intercorre tra ciò che è terreno e ciò che e celeste, non disdegna di servirsi di metafore tratte dalla quotidianità della vita per descrivere quelle che ritiene realtà della vita di orazione, in cui si scopre la verità di Dio. Tale verità è sostanzialmente descritta in termini di amore e richiede quindi la donazione della persona nella sua integralità, permettendo però poi a colui che si avvia per questa strada di sperimentare quella che viene definita una nuova nascita. Teresa scrive, con parole che potrebbero essere di Stein :
Sia benedetto Dio, che mi ha dato vita per sottrarmi ad una morte così spaventosa ! La mia anima ha avuto, credo, grandi forze dalla maestà divina […] Io desideravo con ardore la vita, perché vedevo chiaramente che non vivevo, ma lottavo con una sorta di ombra di morte, e non avevo trovato nessuno che mi desse vita, né potevo darmela da me. 4
La donazione e il servizio si realizzano massimamente, secondo Teresa, nel modo dell’orazione, che ha come oggetto immediato Dio stesso. Questa è la peculiarità dello 1
BI, ESGA 4, p. 106. Nel Libro de la Vida, Teresa descrive la sua vita e le sue lotte spirituali fino al 1554, anno della « conversione definitiva » in cui si risolve all’abbandono di quelle che erano anche solo piccole abitudini negative, dopo una vita di difficoltà e crisi interiori ; il testo ha poi una parte che concerne più strettamente e obiettivamente la vita di preghiera e una riguardante l’umanità di Gesù, per poi riprendere la trattazione autobiografica con la descrizione delle esperienze mistiche più alte. 3 Sembra che Stein ebbe una volta a confidare all’amica Conrad-Martius : « Il cielo è chiuso per i protestanti, mentre è aperto per i cattolici » (cfr. J. M. Österreicher, Walls are crumbling, New York, Devin Aldair Company, 1952, p. 397). 4 Teresa d’Avila, Libro della vita, cap. viii. 2
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spirito dell’ordine carmelitano, che si esplica nel ritiro dal mondo, nel silenzio e nella penitenza, strumenti per permettere all’anima di raggiungere il rapporto più intimo possibile con Dio. Nelle descrizioni di Teresa la preghiera però non è altro che la risposta dell’anima all’affacciarsi del suo Signore, cui pertiene sempre il primo movimento. Teresa esprime tutto ciò anche con la metafora del rituale matrimoniale. Nel Castello interiore, opera commentata anche da Stein, si descrive quindi il cammino dell’anima verso l’unione con Dio, secondo un processo diviso in quelle che metaforicamente sono chiamate « stanze » o « mansioni », e che termina appunto con il cosiddetto « matrimonio mistico ». 1 Il testo descrive minuziosamente tutte le esperienze che si provano nel progredire nell’ambito dell’orazione, dal semplice primo rientrare in sé stessi, abbandonando la vita delle mura del castello (ossia l’essere rivolti all’esteriorità e dunque servirsi quasi unicamente dei sensi), verso la stanza, la settima, dove « il re ha il suo trono di luce ». Dopo aver iniziato sottolineando di scrivere per pura obbedienza ai superiori e di controvoglia, Teresa rimarca subito la profonda ignoranza dell’anima in cui si trovano tutti per propria colpa :
tornando ora al nostro splendido e delizioso castello, dobbiamo appurare innanzitutto come possiamo entrarvi. Sembra che dica uno sproposito, perché se il castello è l’anima stessa, è tanto ovvio che non occorre entrarvi, in quanto l’individuo fa tutt’uno con esso ; esattamente come parrebbe idiozia dire ad uno di entrare in una stanza, quando egli vi si trova già. Dovete però sapere che c’è modo e modo di starvi. Vi sono infatti molte anime che sostano sul camminamento di ronda del castello, ossia là dove s’aggirano le sentinelle di guardia [nella metafora è la parte corporea dell’anima, in cui si trovano i sensi e le facoltà o potenze], senza darsi pensiero di entrarvi, senza sapere né cosa ci sia in quella sontuosa dimora, né chi vi abiti, né addirittura quanti locali contenga. 2
Colui che inizia ad abbandonare le vie del peccato può compiere, secondo Teresa, il percorso ascetico per guadagnare, in una dialettica misteriosa tra il piano soprannaturale e quello umano, una vita di grazia stabile che lo conduce fino ai primi fenomeni mistici descritti nelle quarte mansioni. Qui c’è ancora confusione, ma si può iniziare a distinguere tra « soddisfazioni » e « gusti » spirituali, ossia tra piaceri che sono procurati nell’orazione dall’anima stessa attraverso il suo impegno, e doni che invece sono direttamente infusi : la differenza, apparentemente impossibile a cogliersi, è invece secondo Teresa chiarissima all’anima giunta a questo livello, che se ne rende conto immediatamente, allo stesso modo in cui si nota la diversità tra una fonte che scaturisce naturalmente e l’acqua che invece proviene attraverso un complicato sistema di canalizzazioni e tubature. I « gusti », che non vanno assolutamente ricercati per se stessi, ma sono dono divino, si riconoscono per la proprietà che hanno di dilatare il cuore e di lasciarlo in una grande pace, mentre le « soddisfazioni » producono un certo sentimento di restringimento del cuore stesso. I primi trovano « scaturigine non nel cuore, bensì in un punto ancor più interno, come in un nucleo profondo. Penso debba essere il centro dell’anima », sostiene Teresa arrivando quindi ad analisi che sono assonanti al pensiero steiniano. 3 Dopo l’analisi ulteriormente dettagliata dei fenomeni soggettivi e degli interventi
1
Per il commento steiniano, che è in appendice a Essere finito ed essere eterno, subito dopo il confronto con la filosofia di Heidegger, cfr. EeS, ESGA 11/12, pp. 501 ss. 2 Teresa d’Avila, Castello interiore, Roma-Morena, ed. ocd, 20004, tr. it. di P. E. Martinelli, p. 39. 3 Ivi, p. 104
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divini nell’anima, scaturenti da livelli diversi di orazione, e che sembra quasi essere un’analisi fenomenologica della preghiera, Teresa rimarca la centralità dell’amore verso il prossimo contro il rischio di quello che si potrebbe definire un « egocentrismo spirituale ». Si procede poi verso le mansioni più alte, in cui si deve morire al mondo per vivere in Dio, cercare di conformare completamente la propria volontà a quella divina, secondo l’immagine del baco da seta, che lavora per costruirsi la dimora in cui morirà, e da cui scaturirà però una farfalla : ossia, l’anima che ha provato una prima unione con Dio, e che è stata dunque solo presentata allo Sposo, sperimenta uno stato di completo assopimento delle facoltà, resta ferita dall’amore divino, e ne esce trasformata ; si passa cioè dall’orazione cosiddetta di riposo a quella di unione, di cui Teresa descrive le estasi, mettendo però anche in risalto il coraggio necessario a ricevere grandi grazie da Dio. Infatti, dopo aver dovuto a questo punto affrontare delle prove molto dure di fedeltà, che costituiscono per l’anima il « fidanzamento interiore », corrispondente anche allo stadio che S. Giovanni della Croce descrive come la « notte oscura », avviene, nella settima stanza, il « matrimonio spirituale », laddove « Dio introduce l’anima nel suo appartamento privato, che è poi il centro dell’anima stessa ». 1 Dopo la conversione Stein avrebbe avuto il desiderio di entrare subito nell’ordine delle carmelitane, ma sia la necessità di abituarsi alla vita nella nuova fede, sia la profonda incomprensione, cui si è accennato, che incontrò nella famiglia e tra alcuni amici, la costrinsero a rivedere i progetti. 2 Il rapporto con la madre in particolare risultò molto doloroso, dopo il battesimo, per la assoluta impossibilità di dialogo su questioni religiose. Da quanto abbiamo potuto descrivere, Stein trovò sia a livello teorico che a livello esistenziale una forte consonanza con la spiritualità carmelitana, con gli scritti di Teresa d’Avila, e con una mistica incentrata sulla croce. Non a caso, il nome che scelse all’ingresso nell’ordine fu quello di Teresa Benedetta della Croce. La dialettica di morte e rinascita, ma anche le analisi psicologiche presenti nelle opere di Teresa sembrano aver toccato alcune sue corde molto sensibili. Ma questi ed altri elementi di consonanza con il proprio pensiero e la propria vicenda si ritrovano altresì nello scritto dedicato a Giovanni della Croce. Anche in questo lavoro, che si propone nientemeno che di rendere a livello scientifico e sistematico il tema mistico della croce, si può rinvenire una forte impronta fenomenologica, sia di metodo che di contenuto.
Quando parliamo di scienza della Croce non bisogna intendere ciò nel senso di scienza : non si tratta infatti di una mera teoria […] ma di una verità viva, reale ed effettiva : come un granello di senapa, viene seminata nell’anima e vi getta radici e cresce, dando all’anima una forma particolare e determinandola nel suo fare ed agire, rilucendo e rendendosi riconoscibile in essi. 3
Stein avvia le sue indagini seguendo gli anni dell’infanzia di Giovanni della Croce, indagando i suoi primi contatti con l’esperienza della croce e narrandone poi le ulteriori vicende esistenziali, soprattutto l’esperienza di prigionia e catene, nella quale ogni 1
Cfr. ivi, p. 283. Una delle sorelle testimonia : « Conoscevamo il cattolicesimo solo dall’esperienza delle classi basse della nostra patria nella Slesia orientale e credevamo che la religione cattolica consistesse nell’inginocchiarsi e baciare le scarpe al sacerdote. Così non riuscivamo proprio a renderci conto di come lo spirito della nostra elevatissima Edith avesse potuto decadere verso quello setta superstiziosa ». (cit. da T. R. Posselt, Edith Stein, cit., p. 70). Anche Ingarden le confida che il cattolicesimo gli appariva solo un « apparato di dogmi pensato per il dominio delle masse », cfr. BI, ESW xiv, p. 153. 3 Kreuzeswissenschaft, ESGA 18, p. 5. 2
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capitolo ii
conforto, anche quelli sacramentali, gli erano negati. Secondo le testimonianze che Stein descrive, anche in quei periodi molto bui la vita divina continuava a irrorare l’intimo della sua anima, dandogli la certezza di un fondamento sicuro in fondo al grande sconforto. Si sottolinea, quindi, ancora una volta, il vissuto religioso decisivo. Significativamente, inoltre, Stein parla di « messaggio » (Botschaft) sia della Scrittura che della croce, e di « incontri » (Begegnungen) con la croce : il livello del discorso è quindi del tutto personale. 1 Lo scritto steiniano si indirizza poi all’analisi delle opere, esponendone in modo sistematico il contenuto, e il cui tema centrale è il risalimento dell’anima verso le sue profondità sino a raggiungere Dio, attraverso quella che viene descritta simbolicamente come una notte, dettagliatamente esposta nelle sue diverse ore, sino al raggiungimento dell’alba. Stein si sofferma anche qui su una analisi tecnica di tipo semiotico, distinguendo l’immagine della notte da quella della croce. La croce è un segno, perché non possiede un rimando diretto ed immediato al suo significato, ossia la sofferenza, mentre la notte è un simbolo.
L’immagine (Bild), intesa come copia (Abbild) rimanda al copiato (Abgebildete) attraverso una somiglianza interna. Chi la vede, viene indirizzato subito al modello (Urbild), che così viene conosciuto o riconosciuto. 2 La croce, come oggetto costruito dall’uomo, rimanda al suo significato simbolico mediante una comprensione storica. La notte è invece qualcosa di naturale, è un’« espressione cosmica » di cui si deve comprendere il senso mistico. Stein fa riferimento quindi alla poesia di Giovanni, descrivendo i significati con cui viene introdotto il termine di « notte », e analizzando il loro rapporto con la vita spirituale soggettiva.
Dietro a tutto ciò che egli [Giovanni della Croce] scrive si trova una ontologia dello spirito [Ontologie des Geistes]. Ma non ne possiediamo alcuna trattazione e forse egli non si è nemmeno mai sforzato di portare al livello della «teoria» tutto ciò che possedeva come sapere abituale e che caratterizzava occasionalmente le sue espressioni. 3
Il percorso è descritto da Stein nel dettaglio a riguardo non solo dei fenomeni, ma anche dell’impostazione letteraria del mistico spagnolo, con un commento che ne segue analiticamente gli scritti. Se i primi passi nella notte sono definibili quali un’attività dell’anima, un seguire la croce frutto di una decisione, quelli successivi risultano piuttosto caratterizzati da passività, dall’essere crocifissi : nei primi si abbandonano i sensi, nei secondi le facoltà più alte dell’anima. La notte rappresenta un percorso di apparente distacco, perdita e allontanamento, che in realtà costituisce una purificazione che porta all’incontro e all’unione con Dio. Le potenze dell’anima vengono messe fuori gioco e appunto anche la fede sembra spegnersi e attraversare il buio. Ma si tratta di una ascesi, la salita (Austieg) al monte Carmelo, secondo il titolo di un’opera di Giovanni. L’anima viene bruciata, purificata e forgiata. Il cammino avviene sotto la guida divina, e sembra presupporre la descrizione dell’anima, dell’io e della libertà e del loro rapporto ai regni spirituali descritta in precedenza. Al culmine di questo percorso in cui il divino deve riempire e anzi prendere il posto dell’umano, le facoltà dell’anima stessa devono allora essere sostituite dalle virtù teologali : l’intelletto dalla fede, la memoria dalla speranza e la volontà dalla carità. Si giunge così ad una rinascita dello spirito sul piano soprannaturale.
1
Cfr. Kreuzeswissenschaft, ESGA 18, p. 9 ss. Kreuzeswissenschaft, ESGA 18, p. 31.
2
3
Kreuzeswissenschaft, ESGA 18, p. 46.
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Ogni uomo è libero e viene posto ogni giorno e ogni ora di fronte a decisioni. La parte più intima dell’anima, tuttavia, è il luogo dove Dio dimora «tutto solo», fintanto che l’anima non giunge alla più perfetta unione di amore ; la Madre Teresa la chiama la settima stanza, che si dischiude all’anima solo nel matrimonio mistico. 1
Si distinguono inoltre, di nuovo, tre livelli di possibile conoscenza di Dio e di rapporto dell’anima con lui. Giovanni ha distinto tre modi di unione dell’anima a Dio : attraverso il primo egli abita essenzialmente (wesenhaft) in tutte le cose create e così le possiede nell’essere ; nel secondo si tratta dell’abitare della grazia nell’anima, mentre nel terzo si avrebbe un’unione formante e divinizzante con l’amore perfetto. 2
Gli ultimi due modi sarebbero solo due livelli della stessa realtà. Prima di raggiungere il culmine, la risurrezione, l’anima sperimenta una vera e propria morte. Stein vi può riconoscere ancora la propria esperienza. L’ordine carmelitano, d’altronde, rinviene in Elia il padre della propria spiritualità ; e questa pagina, in cui ancora si descrive un’esperienza analoga, è notevolmente significativa di questo tratto più volte ribadito :
Ma egli stesso proseguì per un giorno di viaggio in territorio aspro e giunse ad un ginepro, sotto il quale si sedette : e chiese di morire e disse : « è abbastanza, ora o Signore, prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri ». E giacque e dormì sotto il ginepro fin quando un angelo lo scosse e gli disse : « alzati e mangia. » Egli guardò e scorse del pane cotto sulla pietra e una brocca d’acqua vicino ad esso. E mangiò e bevve e si stese di nuovo. Allora l’angelo del Signore venne di nuovo una seconda volta, lo scosse e gli disse : « alzati e mangia, perché il viaggio è ancora troppo lungo per te. » Così egli si alzò, mangiò e bevve e camminò con la forza di quel cibo per quaranta giorni e quaranta notti fino all’Oreb, il monte di Dio. 3
Alla morte dell’anima in ascesi, fa seguito anche in Giovanni l’unione con la « fiamma viva d’amore », e la partecipazione progressivamente più piena possibile alla vita trinitaria, culminante appunto nel matrimonio mistico. Tale unione, in questa vita, è sempre inevitabilmente, e misteriosamente, mediata dalla croce.
L’uomo nuovo porta le piaghe di Cristo sul suo corpo vivente : il ricordo della sofferenza del peccato (Sündenelend) da cui è stato richiamato alla vita beata, e del prezzo che per ciò è stato pagato. E gli rimane il dolore della nostalgia per la pienezza di vita, fino al momento in cui potrà entrare, attraverso la vera morte corporale, nella luce senza ombre. Così, l’unione sponsale dell’anima con Dio è il fine per cui è stata creata, guadagnato con la croce, portato a termine sulla croce e per tutta l’eternità segnato della croce. 4
La vita di Stein giunge alla sua tragica conclusione proprio quando si stavano ultimando le pagine di quest’opera. Se in Essere finito ed essere eterno l’analogia della persona, impostata a livello teorico da un punto di vista filosofico-teologico, era culminata nelle pagine dedicate a Cristo, in questo scritto si radicalizza il tratto esistenziale espresso dalla croce. In un modo che non cessa di lasciare attoniti, Stein sembra quasi viver in prima persona il senso di una teoria della persona che non si è mai lasciata ridurre ad un aspetto meramente astratto e che ha trovato il suo apice nel rapporto con la croce. Ma la croce prelude all’unione sponsale. 1
2 Ivi, p. 135. Ivi, p. 139. Kreuzeswissenschaft, ESGA 18, p. 227.
4
3
1 Re 19, 4-8.
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Indice dei nomi
INDICE DEI NOMI
Aertsen, Jan A. 26n
Agostino 26, 28, 63, 82, 83, 85, 89 Alberto Magno 132 Ales Bello, Angela 11n, 16n, 35n, 61n, 85n Alfieri, Francesco 85n, 105n Aristotele 63, 96, 99, 133 Avé-Lallemant, Eduard 36n Avicenna 27
Bach, Johann Sebastian 75
Balzer, Carmen 114n Bancalari, Stefano 117n Barth, Karl 14, 76, 76n, 77, 120n Barukinamwo, Matthieu 96n Baseheart, Mary Catharine 11n, 93n Bäumker, Clemens 23 Beckmann-Zöller, Beate 13n, 23n, 35n, 54n, 107n, 119n, 125n Bejas, Andrés 98n Bergson, Henry 40, 96n Berkeley, George 45 Besoli, Stefano 36n Betschart, Christoph 120n Blondel, Maurice 69, 69n Boehm, Rudolph 38n Borden Sharkey, Sarah 11n, 105n Brentano, Franz 13, 62, 63, 72, 114
Campo, Mariano 16n,
Cartesio, René 63, 83 Casetta, Giuseppe 26n Casper, Bernhard 13n, 14n Conrad, Theodor 36 Conrad-Martius, Hedwig 12, 36, 39, 39n, 55, 60, 61n, 62n, 85, 85n, 89, 97, 136, 139n Costantini, Elio 114n Courtine, Jean-François 13n, 26n, 107n
De Boer, Theodore 36n
De Monticelli, Roberta 36n, 121n Denifle, Heinrich 23 Denzinger, Heinrich 84n Dilthey, Wilhelm 118, 119, 124 Dionigi Aeropagita 17, 103, 131, 132, 133, 134, 135 Dobhan, Ulrich 135, 136n
Dostoijevski, Fëdor 136 Duns Scoto 97, 103
Ehrle, Franz 23
Elders, Leo 16n, 114n Elia 18, 143 Eraclito 86 Eucken, Rudolf 72
Fabro, Cornelio 16n
Faust 127, 127n Fetz, Reto Luzius 11n, 56n, 85n, 136n Fichte, Johann Gottlieb 60 Filippa, Mario 71n Fink, Eugen 60
Gaboriau, Florent 68n
Gabriel, Gottfried 26n Garcia Rojo, Ezequiel 11n Garulli, Enrico 11n Geiger Moritz 36 Gelber, Lucie 58n Gemelli, Agostino 16n Gerl-Falkovitz, Hanna-Barbara 23n, 35n, 39n, 125n Gilson, Etienne 14n, 69, 70n, Giovanni della Croce 18, 71, 131, 135, 136, 141, 142 Gisele, Pierre 11n Gladiator, Reinhold 36n Goethe, Johann Wolfgang 127n Grabmann, Martin 21, 21n, 23, 25 Gredt, Joseph 97, 98, 98n Gregory, Tullio 24n Gründer, Karlfried 26n Gründler, Otto 138, 138n Guidetti, Luca 36n Guileaud, Reuben 18n
Hammer, Karl 77n
Hartmann, Nicolai 39n Haya, Fernando 11n Hecker, Herbert 18n Hedwig, Klaus 11n, 105n, 114n Hegel, Georg W.F. 23, 60, 75 Heidegger, Martin 12, 13, 14, 23, 38, 55n, 56n, 58, 59, 60, 62, 62n, 72, 73, 73n, 82, 87, 88, 105n, 117n, 136, 140n
156
indice dei nomi
Herbstrith, Waltraud 11n, 16n, 23n, 38n, 136n Héring, Jan 43, 44, 44n Hilbert, David 138n Höflinger, Anton 93n Hogg, Johannes 71n Honecker, Martin 56n Hume, David 63 Husserl, Edmund 12, 13, 15, 21, 22, 23, 34, 35, 35n, 36, 37, 37n, 38, 38n, 39, 39n, 40, 40n, 41, 42, 43n, 46, 47, 53, 54, 55, 55n, 56, 58, 59, 59n, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 70n, 71, 72, 73. 83, 91, 92, 107, 114, 116, 121, 121n, 135, 136, 138, 138n
Ignazio di Loyola 136
Ilario di Poitiers 28 Imhof, Beat W. 22n, 125n Ingarden, Roman 11n, 22, 36, 36n, 38, 38n, 39n, 40, 40n, 41, 43, 44, 44n, 55, 55n, 62n, 125, 125n, 136, 136n, 137, 138, 141n
Metzl, Klaus 73n Mill, John Stuart 114 Molinaro, Aniceto 16n Mondin, Battista 16n Montagnes, Bernard 26n Mosè 89, 100, 132 Müller, Andreas Uwe 13n, 22n, 136n, 138n Münsterberg, Hugo 124
Naab, Erich 74n
Natorp, Paul 60 Newman, John Henry 23, 23n, 72, 72n Neyer, Maria Amata 22n, 136n, 138n Nicoletti, Enrico 26n Nieborak, Stefan 66n Nota, Jan H. 16n
Olivetti, Marco Maria 14n
Janicaud, Dominique 14n Jüngel, Eberhard 76n
Österreicher, John Maria 139n Ott, Hugo 56n Otto, E lisabeth 11n, 135n Otto, R udolf 135
Kant, Immanuel 23, 45, 53, 54, 64, 72
Pannenberg, Wolf hart 76n
Kaufmann, Fritz 136 Kierkegaard, Soren 136 Kluxen, Wolfgang 26n Koyrè, Alexandre 62n Kuhn, Helmut 36n Kusnitzky, Gertrude 53, 53n
Landgrebe, Ludwig 37n, 38n
Lebech, Mette 25n, 119n Lemahnn, Max 138n Lembeck, Karl-Heinz 16n Leuven, Romaeus 18n, 22n Levinas, Emmanuel 13 Lipps, Theodor 36, 41, 62n, 113, 114, 115, 117 Lohr, Charles H. 25n Lutero, Martin 65n, 128 Lyttkens, Hampus 26n
Mancini, Italo 16n
Mandonnet, Pierre 70n Manganaro, Patrizia 114n Manser, Gallus 79, 79n Maréchal, Joseph 23 Maritain, Jacques 14n, 16, 68, 69, 69n, 70 Martinelli, Edoardo 140n McInerny, Ralph M. 16n, 26n Mechels, Eberhrd 76n Melchiorre, Virgilio 14n
Paolinelli, Marco 71n Paolo 76, 131 Parmenide 86 Pezzella, Anna Maria 11n Pfänder, Alexander 17, 36, 54, 120, 120n, 121, 121n Pöhlmann, Horst Georg 76n Posselt, Teresa Renata 22n, 137n, 141n Prospero 127 Przywara, Erich 11, 11n, 12, 13, 14, 14n, 16, 22, 22n, 23, 23n, 25, 27, 44n, 66n, 68, 70, 70n, 71, 72, 72n, 73, 73n 74, 74n 75, 75n, 76, 77, 77n, 78, 94, 105n, 106, 131
Rah, Matthias 11n, 56n, 85n
Reinach, Adolf 15, 36, 37, 38, 55, 129, 129n, 136, 136n, 137, 137n Reinach, Anne 137 Rickert, Heinrich 124 Ritter, Joachim 26n Rolland-Gosselin, Bernard 80 Royce, Josiah 116 Ruf, Josef 102n Runge, Carl 138n
Sawicki, Marianne 38n
Scheler, Max 15, 36, 41, 53, 55, 58, 58n, 59, 60, 72, 73, 113, 114, 114n, 118n
indice dei nomi Schleiermacher, Friedrich 136 Schmitz-Perrin, Rudolph 18n Schuhmann, Karl 36n, 136n Schulz, Peter J. 11n, 56n, 85n Secretan, Philibert 10n, 11n, 35n, 44n, 68n, 101n, 125n Seidl, Horst 16n Seifert, Joseph 94n Sélles, Juan Fernando 11n Sepp, Hans Rainer 35n, 36n, 56n Shahid, Mobeen 85n, 119n Söhngen, Gottlieb 76n Speer, Andreas 22n, 24n, 25n, 69n Spiegelberg, Herbert 36n, 63n Spranger, Eduard 124 Stern, Paul 114 Ströker, Elisabeth 43n Sullivan, John 11n
Terán-Dutari, Julio 11n, 70n
Teresa d’Avila 18, 136, 139, 139n, 140, 140n, 141, 143 Tilliette, Xavier 71n, 103n Tommasi, Francesco V. 22n, 24n, 25n, 26n, 35n, 69n, 117n Tommaso d’Aquino 9, 11, 11n, 12, 13, 14, 15, 16n, 19, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 27n, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 33n, 34, 34n, 35, 54, 59, 60, 61,
157
62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 70n, 71, 72, 73, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 91, 92, 93, 94, 95, 97, 98, 99, 100, 102, 103, 105, 106, 107, 108, 125, 132, 133, 133n Tönnies, Ferdinand 122, 122n Trendelenburg, Friedrich A. 72
van Breda, Herman Leo 36n
van Steenberghen, Fernand 69n Vanni Rovighi, Sofia 16n Vigone, Luciana 93n Volek, Peter 35n Volkelt, Johannes 114 Volontè, Paolo 77n Volpi, Franco 13n von Balthasar, Hans 76n von Hildebrand, Dietrich 36
Walter, Thoma Angelica 71n
Weil, Simone 44n Wiesemann, Karl Heinz 23n Windelband, Wilhelm 124 Wobbe, Theresia 138n Wulf, Claudia Marièle 42n, 107n, 125n
Zahavi, Dan 36n
Zimmermann, Albert 16n, 28n Zordan, Paolo 114n, 133n
co m p osto in ca r atte re da n te monotype dalla fa b rizio se rr a e dito re, pisa · roma. sta m pato e ril e gato nella t i p o g r a fia di ag na n o, ag nano pisano (pisa).
* Maggio 2012 (c z 2 · f g 1 3 )
Biblioteca dell’«Archivio di filosofia» Fondata da Marco M. Olivetti 1. Stefano Semplici, Socrate e Gesù. Hegel dall’ideale della grecità al problema dell’Uomo-Dio, 1987, pp. 160. 2. Francesco Paolo Ciglia, Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, 1988, pp. 236. 3. Irene Kajon, Ebraismo e sistema di filosofia in Hermann Cohen, 1989, pp. 192. 4. La recezione italiana di Heidegger, a cura di M. M. Olivetti, 1989, pp. viii-604. 5. L’argomento ontologico, a cura di M. M. Olivetti, 1990, pp. 766. 6. Stefano Semplici, Dalla teodicea al male radicale. Kant e la dottrina illuminista della «giustizia di Dio», 1990, pp. 320. 7. Alberto Iacovacci, Idealismo e Nichilismo. La «lettera» di Jacobi a Fichte, 1992, pp. 176. 8. Religione, Parola, Scrittura, a cura di M. M. Olivetti, 1992, pp. 560. 9. La storia della filosofia ebraica, a cura di I. Kajon, 1993, pp. xvi-548. 10. Pierluigi Valenza, Reinhold e Hegel. Ragione storica e inizio asso luto della filosofia, 1994, pp. 312. 11. Filosofia della rivelazione, a cura di M. M. Olivetti, 1994, pp. 994. 12. Trascendenza Trascendentale Esperienza, a cura di G. Derossi, M. M. Olivetti, A. Poma, G. Riconda, 1995, pp. 600. 13. Irene Kajon, Profezia e filosofia nel Kuzari e nella Stella della redenzione. L’influenza di Yehudah Ha-Lewi su Franz Rosenzweig, 1996, pp. 152. 14. Philosophie de la religion entre éthique et ontologie, a cura di M. M. Olivetti, 1996, pp. 832.
15. Enrico Castelli, Diari, a cura di E. Castelli Gattinara Jr., vol. i (1923-1945), 1997, pp. xxx-650, ill. f.t. 8. 16. Vol. ii (1945-1948), 1997, pp. viii-716. 17. Vol. iii (1949-1955), 1997, pp. viii-764. 18. Vol. iv (1956-1976), 1997, pp. viii-784. 19. Incarnation, a cura di M. M. Olivetti, 1999, pp. 748. 20. Francesco Paolo Ciglia, Scrutando la «Stella». Cinque studi su Rosenzweig, 1999, pp. 192. 21. Pierluigi Valenza, Logica e filosofia pratica nello Hegel di Jena, 1999, pp. 428. 22. Stefano Bancalari, L’altro e l’esserci. Il problema del Mitsein nel pensiero di Heidegger, 1999, pp. 256. 23. Martin Heidegger, Colloquio sulla dialettica, a cura di Mauro Vespa, 1999, pp. 80. 24. Friedrich Heinrich Jacobi, Woldemar, a cura di Serenella Iovino, 2000, pp. 340. 25. Mauro Vespa, Heidegger e Hegel, 2000, pp 260. 26. Intersubjectivité et théologie philosophique, a cura di M. M. Olivetti, 2001, pp. 828. 27. Richard Swinburne, Esiste un Dio? 2001, pp. 132. 28. Stefano Semplici, Il soggetto dell’ironia, 2002, pp. 256. 29. Théologie négative, a cura di M. M. Olivetti, 2002, pp. 884. 30. Bernhard Casper, Evento e preghiera, a cura di S. Bancalari, 2003, pp. 172. 31. Pierluigi Valenza, Oltre la soggettività finita. Morale, religione e linguaggio nella filosofia classica tedesca, 2003, pp. 200. 32. Man and God in Hermann Cohen’s Philosophy, ed. by G. Gigliotti, I. Kajon, A. Poma, 2003, pp. 312 + 4 ill. f.t.
33. Stefano Bancalari, Intersoggettività e mondo della vita. Husserl e il problema della fenomenologia, 2003, pp. 196. 34. Le don et la dette, textes réunis par Marco M. Olivetti, 2004, pp. 610. 35. K . L. Reinhold. Am Vorhof des Idealismus, hrsg. von Pierluigi Valenza, 2005, pp. 380. 36. L e Tiers, a cura di Marco M. Olivetti, 2006, pp. 596. 37. E manuela Pistilli, Tra dogmatismo e scetticismo. Fonti e genesi della filosofia di F. H. Jacobi, 2007, pp. 232. 38. R udolf Otto, Opere, a cura di Stefano Bancalari, 2010, pp. 464. 39. L ’assoluto e il divino. La teologia cristiana di Hegel, a cura di Tommaso Pierini, Georg Sans, Pierluigi Valenza, Klaus Vieweg, 2011, pp. 212. 40. F rancesco Valerio Tommasi, L’analogia della persona in Edith Stein, 2012, pp. 172.
ARCHIVIO DI FILOSOFIA la rivista dal 1945 si pubblica in numeri monografici La crisi dei valori, 1945, pp. 176. L’esistenzialismo, 1946, pp. 240. Il problema dell’immortalità, 1946, pp. 184. Leibniz, 1947, pp. 108. Umanesimo e machiavellismo, 1949, pp. 208. Esistenzialismo cristiano, 1949, pp. 160. Filosofia e linguaggio, 1950, pp. 132. Il Solipsismo. Alterità e comunicazione, 1950, pp. 148. Testi umanistici inediti sul «De Anima», 1951, pp. 228. Fenomenologia e sociologia, 1951, pp. 144. Il compito della metafisica, 1952, pp. 130. Filosofia e psicopatologia, 1952, pp. 190. Filosofia dell’arte, 1953, pp. 246. Kierkegaard e Nietzsche, 1953, pp. 282. Testi umanistici su la retorica, 1953, pp. 160. La filosofia della storia della filosofia, 1954, pp. 276. Apocalisse e Insecuritas, 1954, pp. 186. Testi umanistici sull’ermetismo, 1955, pp. 164. Studi di filosofia della religione, 1955, pp. 240. Semantica, 1955, pp. 436. Metafisica ed esperienza religiosa, 1956, pp. 300. Filosofia e simbolismo, 1956, pp. 310, tav. fuori testo i. Il compito della fenomenologia, 1957, pp. 278. La filosofia dell’arte sacra, 1957, pp. 212. Il tempo, 1958, pp. 252. Umanesimo e simbolismo, 1958, pp. 320, tavv. fuori testo xxxii. Tempo e eternità, 1959, pp. 200. La diaristica filosofica, 1959, pp. 256. Husserliana. Tempo e intenzionalità, 1960, pp. 204. Umanesimo e esoterismo, 1960, pp. 448, tavv. fuori testo xxiii. Il problema della demitizzazione, 1961, pp. 336. Filosofia della alienazione e analisi esistenziale, 1961, pp. 250. Demitizzazione e immagine, 1962, pp. 352. Pascal e Nietzsche, 1962, pp. 218. Ermeneutica e tradizione, 1963, pp. 450. Umanesimo e ermeneutica, 1963, pp. 164.
Tecnica e casistica, 1964, pp. 373. Cusano e Galileo, 1964, pp. 128. Demitizzazione e morale, 1965, pp. 440. Surrealismo e simbolismo, 1965, pp. 156. Logica e analisi, 1966, pp. 104. Mito e fede, 1966, pp. 586. Filosofia e informazione, 1967, pp. 152. Il mito della pena, 1967, pp. 484. Il problema della domanda, 1968, pp. 176. L’ermeneutica della libertà religiosa, 1968, pp. 646. Campanella e Vico, 1969, pp. 204. L’analisi del linguaggio teologico. Il nome di Dio, 1969, pp. 552. Il senso comune, 1970, pp. 188. L’infallibilità. L’aspetto filosofico e teologico, 1970, pp. 628. Ermeneutica e escatologia, 1971, pp. 294. Rivelazione e storia, 1971, pp. 260. Significato e previsione, 1971, pp. 204. La testimonianza, 1972, pp. 536. Informazione e testimonianza, 1972, pp. 158. Il simbolismo del tempo. Studi di filosofia dell’arte, 1973, pp. 188, ill. f.t. 76. Demitizzazione e ideologia, 1973, pp. 596. La filosofia della storia della filosofia. I suoi nuovi aspetti, 1974, pp. 348. Il sacro. Studi e ricerche, 1974, pp. 494. Prospettive sul sacro, 1975, pp. 236. Temporalità e alienazione, 1975, pp. 496. Schelling, 1976, pp. 186. Ermeneutica della secolarizzazione, 1976, pp. 504. Prospettive sulla secolarizzazione, 1977, pp. 148. L’ermeneutica della filosofia della religione, 1977, pp. 486. Lo spinozismo ieri e oggi, 1978, pp. 410. Religione e politica, 1978, pp. 414. Indici degli Atti dei convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), 1979, pp. 296. Il pubblico e il privato, 1979, pp. 280. Esistenza Mito Ermeneutica, 1980 (2 voll.), pp. 448, 506. Filosofia e religione di fronte alla morte, 1981, pp. 564. Nuovi studi di filosofia della religione, 1982, pp. 352. Indici 1931-1981, 1982, pp. 210. Neoplatonismo e religione, 1983, pp. 480. Schleiermacher, 1984, pp. 652. Ebraismo Ellenismo Cristianesimo, 1985 (2 voll.), pp. 392, 484. Intersoggettività Socialità Religione, 1986, pp. 812.
Etica e pragmatica, 1987, pp. 508. Teodicea oggi?, 1988, pp. 724. La recezione italiana di Heidegger, 1989, pp. xii-672. L’argomento ontologico, 1990, pp. 796. Studi di filosofia tedesca, 1991, pp. 424. Religione, Parola, Scrittura, 1992, pp. 600. La storia della filosofia ebraica, 1993, pp. xvi-548. Filosofia della rivelazione, 1994, pp. 994. Trascendenza Trascendentale Esperienza, 1995, pp. 600. Filosofia della religione tra etica e ontologia, 1996, pp. 896. Enrico Castelli. Diari: 1997, Vol. i (1923-1945), pp. xxx-650, ill. f.t. 8. Vol. ii (1945-1948), pp. viii-716. 1998, Vol. iii (1949-1955), pp. viii-764. Vol. iv (1956-1976), pp. viii-784. Incarnazione, 1999, pp. 768. Heideggeriana, 2000, pp. 352. Intersoggettività e teologia filosofica, 2001, pp. 828. Teologia negativa, 2002, pp. 884. Unità della coscienza e unicità di Dio in Hermann Cohen, 2003, pp. 512+4 ill. f.t. Il dono e il debito, 2004, pp. 610. K. L. Reinhold. Alle soglie dell’idealismo, 2005, pp. 380. Le Tiers, 2006, pp. 596. Filosofia della religione oggi?, 2007, pp. 454. Tra dogmatismo e scetticismo: fonti e genesi della filosofia di F. H. Jacobi, 2007, pp. 230. Il sacrificio, 2008, pp. 414. Marco Maria Olivetti. Un filosofo della religione, 2008, pp. 300. Opere di Rudolf Otto, 2009, pp. 466. Riconoscimento e comunità. A partire da Hegel, 2009, pp. 256. L’impossibile, 2010, pp. 432. L’assoluto e il divino. La teologia cristiana di Hegel, 2010, pp. 212. Unità e pluralità del vero: filosofie, religioni, culture, 2011, pp. 212. Cinquant’anni di Colloqui Castelli, 2011, pp. 236. L’analogia della persona in Edith Stein, 2011, pp. 172.
Riviste · Journals ACTA PHILOSOPHICA Rivista internazionale di filosofia diretta da Francesco Russo
ANTIQVORVM PHILOSOPHIA An International Journal Rivista diretta da Giuseppe Cambiano
ARCHIVIO DI FILOSOFIA Rivista fondata nel 1931 da Enrico Castelli diretta da Stefano Bancalari
BRUNIANA & CAMPANELLIANA Ricerche filosofiche e materiali storico-testuali Rivista diretta da Eugenio Canone
HISTORIA PHILOSOPHICA An International Journal Rivista diretta da Paolo Cristofolini
FABRIZIO SERRA EDITORE PISA · ROMA
www.libraweb.net
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Fabrizio Serra
Regole editoriali, tipografiche & redazionali Seconda edizione Prefazione di Martino Mardersteig · Postfazione di Alessandro Olschki Con un’appendice di Jan Tschichold Dalla ‘Prefazione’ di Martino Mardersteig
O
[…] ggi abbiamo uno strumento […], il presente manuale intitolato, giustamente, ‘Regole’. Varie sono le ragioni per raccomandare quest’opera agli editori, agli autori, agli appassionati di libri e ai cultori delle cose ben fatte e soprattutto a qualsiasi scuola grafica. La prima è quella di mettere un po’ di ordine nei mille criteri che l’autore, il curatore, lo studioso applicano nella compilazione dei loro lavori. Si tratta di semplificare e uniformare alcune norme redazionali a beneficio di tutti i lettori. In secondo luogo, mi sembra che Fabrizio Serra sia riuscito a cogliere gli insegnamenti provenienti da oltre 500 anni di pratica e li abbia inseriti in norme assolutamente valide. Non possiamo pensare che nel nome della proclamata ‘libertà’ ognuno possa comporre e strutturare un libro come meglio crede, a meno che non si tratti di libro d’artista, ma qui non si discute di questo tema. Certe norme, affermate e consolidatesi nel corso dei secoli (soprattutto sulla leggibilità), devono essere rispettate anche oggi: è assurdo sostenere il contrario. […] Fabrizio Serra riesce a fondere la tradizione con la tecnologia moderna, la qualità di ieri con i mezzi disponibili oggi. […]
*
Dalla ‘Postfazione’ di Alessandro Olschki
Q
[…] ueste succinte considerazioni sono soltanto una minuscola sintesi del grande impegno che Fabrizio Serra ha profuso nelle pagine di questo manuale che ripercorre minuziosamente le tappe che conducono il testo proposto dall’autore al traguardo della nascita del libro; una guida puntualissima dalla quale trarranno beneficio non solo gli scrittori ma anche i tipografi specialmente in questi anni di transizione che, per il rivoluzionario avvento dell’informatica, hanno sconvolto la figura classica del ‘proto’ e il tradizionale intervento del compositore.
Non credo siano molte le case editrici che curano una propria identità redazionale mettendo a disposizione degli autori delle norme di stile da seguire per ottenere una necessaria uniformità nell’ambito del proprio catalogo. Si tratta di una questione di immagine e anche di professionalità. Non è raro, purtroppo, specialmente nelle pubblicazioni a più mani (atti di convegni, pubblicazioni in onore, etc.) trovare nello stesso volume testi di differente impostazione redazionale: specialmente nelle citazioni bibliografiche delle note ma anche nella suddivisione e nell’impostazione di eventuali paragrafi: la considero una sciatteria editoriale anche se, talvolta, non è facilmente superabile. […]
2009, cm 17 × 24, 220 pp., € 34,00 isbn: 978-88-6227-144-8
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