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0'~>"'-~"S..~"''iamo riconoscergli. Sia ben chiaro: nessuna indulgem.a per i malanni della nostra democrazia. Ma l'assoluta incompatibilità fra democra.tia e dittatura, tra governo delk leggi e governo-degli uomini, o addirittura dell'Uomo del destino, rimane. Rimane, e se la dimentichiamo è solo per leggercu.a o perché gli errori di oggi ci l'anno dimenticare gli errori di ieri. La sueha radicale fatta allora non ci sembra oggi meno necessaria e meno giu.'>ta. Tanto neces.'>aria, tanto giusta, che non mi risulta abbia avuto i suoi dissociati e tanto meno i suoi pentiti. Tra noi non vi è stato nessuno che al momento del bilancio finale abbia detto: .. ci siamo sbagliati». No, non ci siamo sbagliati. Anche se poi non ci nascondiamo. e non abbiamo alcuna esitazione a confcs.'>arc (lo abbiamo confessato tante volte), che la realtà di oggi non corrisponde agli ideali di ieri. Possiamo ançhe considerarci degli illusi. O dei delusi. Ma non ci consideriamo degli sconfitti. La prima edizione del libro fu recen.'>ila al suo apparire su "La Stampa,. da Franco Antonicelli, cui sono debitore del titolo del libro pubblicato l'anno scorso dallo stesso Passigli, nt:1 quale vent'anni dopo ho raccolto una seconda serie di ~ritratti e testimonianze~: Maeslri e cu111p11g11i. Era il titolo che Franco avc"a dato a una collana della casa editrice da lui fondata nel 1943, e ba1te1.7.ata col nome di un antico editore torinese, Francesco Dc Silva. Vi t·rano çomparse
infatti opere di maestri come Salvatorclli, Umberto Cosmo, Ferdinando Neri, e di un compagno come Alessandro Galante Garrone. Scrivo queste pagine nel giorno del quarantesimo anniversario della Uberazionc. Ho visto dopo tanti anni il film girato in quei giorni a Torino, e ho rivisto lui, Franco, diventato presidente del Comitato di Liberazione del Piemonte, giovane, pallido, esile ma fone, su un palco improvvisato mentre tiene il primo discorso della vittoria dinnanzi ai partigiani adunati dopo la slìlata in piazza Vittorio Veneto. Sono pa,;;sati dieci anni dalla sua morte. La prima edizione di questo libro usci sema una dedica. Questa la dedico a lui, ripetendo fra me e me gli ultimi versi di una delle sue ultime poesie: ... quando ava11za110 i cesaria11i conia rima11ere anche sola, in 11110 çpa;:.io sempre più piccolo, la buo11a daga in mano, 11011 cs!>ere allri né aftrol'e, nw u11 ~·olda/o i11 campo.
Torino, 25 aprile 1985 Norberto Bobbio
N.B. Ripubblic{) questi saggi come lurono ~crini e pubblicati unginariamente sal\'o qualche correzione formale e qualche aggiornamento bibliol;l.ra fico. Gli aggiornamenti bibliografici già inclusi nella prima edi.t.iune in volume ~onu indicati in nota fra parentesi quadre. Gli ulteriori aggiornamenti sono oggetto di un'apposita appendice bibliografica curata dal D1: Pietro Po· lito.
PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE
Ho raccolto l'invito dell'editore Lacaita a riunire in un volume alcuni articoli sparsi in miscellanee, atti, riviste (uno solo è inedito), nati quasi tutti (ad eccezione del primo), da un'unica occasione: il ricordo di amici o maestri scomparsi. Ho creduto di doverli disporre sec~ndo un ordine ideale (e non secondo la data di composizione), non perché avessi [a presunzione di fare apparire come libro unitario una raccolta di saggi manifestamente occasionali, ma perché mi sono accono che toccavano, più o meno direltamente, i principali momenti della mia forma1.ione intellettuale e civile, e avrebbero potuto segnare una traccia per la storia di una generazione. I primi due saggi, che ho raccolto sotto il titolo «Le premesse•, costituiscono una introduzione storica: più precisamente il secondo, sulla giovinc1.za di Rodolfo Morandi, può essere considerato come una integrazione della seconda pane del primo, che traccia un disegno molto generale delle teorie cd ideologie politiche in Italia nei primi decenni del Novecento. Sotto il titolo «Due fìlosofi- ho riunito due saggi, su Benedetto Croce e su Piero Martinetti, scritti a un anno di distan1.a, rispettivamente nel decimo e nel ventesimo anniversario della loro mo11e: li ho messi l'uno accanto all'altro, non Solo per il valore esemplare dei due personaggi, ma anche perché pensai e scrissi il saggio su Maninctti, come vedrà il lettore, avendo in mente quel che avcrn detto su Croce, soprattutto lit dove raffronto la concezione lìlosolìca e morale del primo con quella del secondo. I tre
saggi della terza parte, intitolata «Gli studi», possono sc1-vire, altra verso il ricordo di tre insegnanti, Umberto Cosmo, Zino Zini, Arturo Segrc, e l'esame del pensiero e dell'opera di Gioele Solari, a dare un'idea dell'ambiente di un liceo torinese e dell'Università di Torino all'incirca tra il 1925 e il 1930, gli anni del consolidamento del fascismo in regime. Nella quarta parte, che ho intitolato ~L'università», ho raccolto tre 1estimonianze su tre colleghi, appartenenti ad una generazione precedente alla mia, dei quali fui prima ammiratore pieno di rispetto, poi amico devoto e discreto: tulli e tre con la nobiltà della loro vita contribuirono a farmi apparire non troppo grande il divario tra l'università delle speram.e e delle illusioni gio\'anili e quella della realtà. La quinta parte, intitolata ~L'impegno», è dedicata a tre uomini della Resistenza, la cui attività si svolse in tutto o in parte all'Università di Padova, dove insegnavo in quegli anni: essi sono un antifascista dell'esilio, Sil\'io Trentin, che conobbi negli uhimi mesi prima della morte, e due compagni della cospirazione, Luigi Cosattini e Antonio Giuriolo. Si tratta, dunque, di saggi in pa11e autobiografici: sono tanto innanzi negli anni da non resistere alla tentazione di guardare indietro, di risalire la corrente. Ma non c'è mai stata, in questa ricerca del tempo perduto, ombra di compiacimento. Del resto non so di che cosa dovrei compiacermi: la mia \"ila è stata un continuo difficile e lento tirocinio, tanto difficile da lasciarmi quasi sempre sfinito e insoddis[ano, tanto lento da non essere ancora compiuto. Dopo questo tirocinio non ho altro insegnamento da offrire ai lettori che la mia riconosccnt.a a coloro che mi hanno aiutato ad uscire dalla selva oscura degli errori, illusioni, falsi problemi e false speranze, pregiudizi, inquietudini, incomprensioni dell'adolescenza, a orientarmi, a trovare una strada, a formarmi un giudizio critico delle cose, a misurarmi con ciò che è grande per sopprimere anche il più piccolo moto di orgoglio: e la mia incondizionata ammirazione per coloro che nei momenti decisivi hanno saputo dare un esempio. Sono autobiografici, questi saggi, anche se raramente parlo in prima persona. Ma non ho l'abitudine di parlare di me. E poi non è né il mio mestiere nC la mia vocazione. Anche se ne avessi avuto la tentazione, i tempi in cui siamo vissuti, i milioni di morti (e di quale morte!) che abbiamo alle spalle, i demoni che non abbiamo saputo 10
placare, l'enormità della catastrofe cui abbiamo asl>btito impotenti, avrebbero dovuto guarirci definitivamente da un ecccssi\o amore
pietatanH.-ntc i cedimenti, i compromessi, la cecità e [e bassezze della generalione che fu travolta dal fascismo. Credo che la maggior parte dclk pagine contenute in questo libro dimostreranno il contrario, o per lo meno daranno un quadro meno fosco. Nella scuola, nell'università. nonostante la vernice di conformismo e, più raramente, di entusiasmo, la rottura col passato non fu mai cosi completa da non la!'>ciarc intravedere il volto offeso o soltanto corrucciato di un'altra Italia. Chi \'O· leva capire, capi. Molti della mia generazione, mc compreso, dovettero alla conoscen.,.a di questo mondo sottermnco la loro salvezza. Non faccio ['apologia di una generazione, e tanto meno di mc stc:,so. perché, se non fui proprio tra gli ultimi, non fui neppur cietà politica due momenti distinti, se pur dialetticamente congiunti: il momento della direzione (o del consenso) ch'egli chiama del!'• egemonia», e il momento della coercizione (o della forza) che egli chiama della •dittatura» (o del dominio diretto). Rispetto a Marx e ad Engels, secondo i quali lo stato è sempre una dittatura (una dittatura di classe), Gramsci aggiunge che una dittatura - con ciò intende la detenzione del potere politico nel senso stretto di questo termine - non può andare disgiunta dall'egemonia, cioè dal possesso degli strumenti ideologici. « Lo stato - egli dice - è tutto il complesso di attività politiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati» (81). Riprendendo la celebre distinzione hegeliana tra società civile e stato, attribuisce alla società civile il momento del consenso, alla società politica (o stato in senso stretto) quello della forza, e· giunge alla definizione sintetica di stato come • eguale a società politica più società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione,. (82), il che è un altro modo di dire che la classe governante è quella che ha insieme l'egemonia (nella società civile) e la forza (nello
(80) Cosl ci si spiega l'importanza che negli scritti del carcere ha lo studio della storia e della fwuione degli intellettuali. (81) A. Gramsci, Note sul Machiavelli ecc., cit., p. 79. (82) Op, cit., p. 132.
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stato). « Si possono [ ... ] fissare due grandi piani superstrutturali, quello che si può chiamare della società civile e quello della società politica o stato e che corrispondono alla funzione di 'egemonia' che il gruppo dominante esercita in tutta la società e a quella di dominio diretto o di comando che si esprime nello stato e nel governo giuridico• (83). La formazione dell'egemonia negli stati moderni spetta, secondo Gramsci, ai partiti. E poiché la funzione egemonica è quella esplicata dagli intellettuali, i partiti sono la fucina degli intellettuali cosiddetti organici. Direttamente connessa alla teoria dello stato è per Gramsci la teoria del partito politico. Immaginosamente egli paragona il partito dello stato moderno al Principe di Machiavelli: come questi, anche quello ha il compito fondamentale di organizzare nella società civile le forze necessarie per la conquista dello stato. Come ai tempi della formazione delle monarchie assolute, Machiavelli, primo scienziato della politica, si era proposto di ammaestrare il Principe, cosl ai nostri giorni il novello scienziato della politica dovrà ammaestrare i partiti. L'ammaestramento fondamentale di Gramsci per il nuovo partito del proletariato, se vorrà evitare gli errori dei partiti socialisti tradizionali, è che per conquistare lo stato bisogna prima acquistare l'egemonia, che la dittatura senza egemonia è destinata a essere travolta, e che la sola dittatura destinata a sopravvivere è quella che si acquista quando il consenso delle classi intermedie componenti la società civile è ormai pas· sato dalla vecchia classe in declino alla nuova in ascesa. E se la classe che assume l'egemonia è il proletariato, la forza di cui si vale per conquistare il potere è destinata a diminuire, via via che i conflitti di classe scompariranno, sino a che non vi sarà più lo stato, cioè il momento politico, ma soltanto la società civile, cioè il momento etico: « Una classe che ponga se stessa come passibile di assimilare tutta la società, e sia nello stesso tempo realmente capace di esprimere questo processo, porta alla perfezione questa concezione dello stato e del diritto, tanto da
(83) A. Gramsci, Gti intellettuali ecc .• cit., p, 9.
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concepire la fine dello stato e del diritto come diventati inutili per aver esaurito il loro compito ed essere stati assorbiti dalla società civile• (84).
12. - Dopo la liberazione il pensiero politico ha proseguito in gran parte le strade aperte durante gli anni della crisi, tra il 1919 e il 1925. In modo molto generale e approssimativo si potrebbe dire che non vi siano più state opere di grande originalità. Ma forse ci sentiamo troppo poco posteri - i temi del rinnovamento postfascista sono ancora tutti in discussione - per ripercorrerle con animo di storici. Sono le strade che ciascuno di noi, più o meno coscientemente, con maggiore o minore speranza, percorre ogni giorno, come militanti più che come storici, incontrando ad ogni svolta nuovi amici (o perdendone dei vecchi). E naturalmente, essendo noi stessi in cammino, non siamo in grado di fare una scelta critica, di dare un giudizio. Bisognerà riprendere questa rassegna fra vent'anni; e chi la riprenderà speriamo possa vedere qualche luce costante là dove noi vediamo soltanto ombre o bagliori fuggitivi.
(84) A. Gramsci, Note sul Machiavelli ecc., cit., pp. 129-130.
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Rodolfo Morandi
Rodolfo Morandi appartiene a quella generazione di intellettuali militanti - intellettuali di razza e politici costruttori - che si formò negli anni della crisi dello Stato liberale e dell'avvento del fascismo (I). Gettata la sfida alla vecchia generazione, posero le basi di quel rinnovamento radicale 'della società e della cultura italiana che alimentò le "grandi speranze• degli anni 1943-45. La nuova storia d'Italia comincia di n, anche se è rimasta più un progetto di storia che una storia compiuta: incompiuta, ma non esaurita. Nato nel 1902, Morandi era coetan·eo di Gobetti (1901) e di Carlo Rosselli ( 1899). I suoi scritti giovanili comprendono un manipolo di saggi e articoli d'argomento filosofico e politico, che apparvero tra il 1923 e il 1926, e precedettero, con un intervallo di qualche anno, la p(ima ricerca di ampio respiro, la Storia della grande industria in Italia, apparsa nel 1931. La parabola che vi si rivela è esemplarmente rappresentativa del travaglio da cui 1rasse origine quel clima di cultura in cui, caduto il fascismo, fummo immersi negli anni della Resistenza e della tibe-
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razione, e aiutò noi più giovani ad uscire, più rapidamente, dal labirinto. Potrebbe essere ben definita col titolo che Morandi diede ad uno scritto del carcere di molti anni posteriore ( 1942): Dall'idealismo al mar.xismo. Dopo aver letto questi scritti, chi farà la storia di quegli anni, per scoprire le varie vene, più o meno sotterranee, che sono con· fluite nel grande alveo dell'antifascismo militante, non potrà non tener conto, oltre che del neo-liberalismo di Gobetti o del neosocialismo di Rosselli, del neo-repubblicanesimo di Rodolfo Morandi. Nella storia della cultura contemporanea d'Italia, i momenti cruciali sono due: i primi anni del secolo e gli anni dal '20 al '25. E sono l'uno contro l'altro armato. L'inizio del secolo ci appare sempre più oggi come un periodo di restaurazione spirituale e politica, mentre il dopoguerra è un periodo di rinnovamento e di radicalismo sociale, politico, culturale. ~ comune ai migliori rappresentanti della nuova generazione, che ha vissuto direttamente o indirettamente l'esperienza del primo conflitto mondiale, un profondo senso di insoddisfazione verso la tradizione, che li ha preceduti, di superbo spiritualismo, di pragmatismo irrazionalistico, di intuizionismo misticheggiante, che si capovolse in cieco attivismo. Nasce la esigenza di ripensare in termini critici la fede filosofica dominante, che è l'idealismo. Si pensi alle pagine, bellissime, di Gobetti, / miei conti con l'idealismo attuale, in cui si denuncia il .. semplicismo pratico,. e la ,. nessuna aderenza al reale» della filosofia di Gentile (2). Questa crisi dell'idealismo nasce prima nella cultura militante che in quella accademica, dove maturerà soltanto tra il '30 e il 40. Ma quelli stessi che lo combattono, ne sono impregnati sino al midollo: lo combattono appunto perché sentono il bisogno di liberarsene. Le tesi dell'idealismo - il primato dello spirito, il provvidenzialismo storico, la svalutazione delle scienze, e in genere del sapere empirico - che erano sembrate alla generazione precedente ali per volare sulla palude fangosa e pestifera
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dei fatti positivi, ora cominciano a pesare come catene. Si fa strada l'idea che l'idealismo, a furia di divorarsi, boccone per boccone, tutta la realtà - anche la politica per Gentile bisognava andarla a cercare in interiore homine - era diventato spiritualismo assoluto (il metodo pc1cnne dello spiritualismo è l'agostiniano in le redi), cioè una filosofia della restaurazione, e il fa. scismo, dietro quella filosofia, era da tempo in agguato. La \'ia per liberarsene è stata lunga e difficile, e siamo ben lontani dall'averla percorsa sino in fondo (ma anche qui la cultura militante va più in fretta di quella delle scuole): ci vuol più tempo a ricostruire che a distruggere. Si ha talora l'impressione che gli ideali nuovi si aprano a fatica la strada, impediti dalla consuetudine di un linguaggio carico di pathos speculativo, più adatto a costruire castelli ideologici che istituzioni capaci di funzionare. Gli scritti giovanili di Morandi sono estremamente significativi come tappe di questo itinerario. Il punto di rottura con la cultura ufficiale fu il suo repubblicanesimo. Quasi tutti i suoi primi scritti sono intorno al Mazzini.~ di ispirazione mazziniana (3); e attraverso Mazzini egli scopre la democrazia, proprio quella democrazia che i grandi padri dell'idealismo avevano dileggiato. Si pensi agli sprezzanti scritti di Croce, durante la guerra, contro gli ideali democratici. Se c'è qualcosa di nuovo nel democratismo fiducioso, ingenuo, entusiastico, nella rinnovata (e quanto deprecata!) confusione tra l'etica e la po1itica, di un giovane alle prime armi negli anni intorno al '20, è da mettere in relazione con la insistente cd insolente polemica anti· democratica dei machiavellici, le cui lezioni di realismo politico avrebbero offerto una legittimazione storica e ideologica alle squadre d'azione.
(3) !ritorno alla democrazia e a politica, Roma, 25 settembre 1923: politic.a, 25 gi1-t1J110 1924; La eticità /,a crit,ca polmca, 25,set_tembre. ?5
un nuovo liberalismo, in La critica Giovine democrazia, in La critica dello stato (Hegel e Mauini), in oW?bre, 25 novembre 1924:. Il
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li culto di Mazzini, del resto, fu comune a molti giovani antifascisti, che non provenivano dal marxismo, come i fratelli Ros· selli. Né posso dimenticare l'importanza che ebbe la lettura degli scritti di Mazzini per la formazione spirituale e antifascista an· che della mia generazione, il disgusto provato per il tentativo, ripetutamente fatto dal Gentile, di annettere Mazzini all'area, che si andò cogli anni allargando, dei precursori del fascismo. Gobetti non era un mazziniano: più maturo anche a vent'anni, più lucido e rigoroso, e attento ai mutamenti profondi delle cose, nonostante la sua figura di paladino delle nobili cause perdute, aveva scritto rlella introduzione a Rivoluzione liberale la celebre frase: • Se ci richiedono dei simboli: Cattaneo invece di Gioberti, Marx invece di Mazzini • ( 4 ). Ma aveva avuto anche lui il suo eroe giovanile, il personaggio ideale in cui ci si rispecchia e al quale si vorrebbe assomigliare: non Mazzini, ma Alfieri. Gobetti e Morandi si erano laureati entrambi in filosofia del diritto, il primo a Torino nel 1923 con una tesi sul pensiero politico dell'Alfieri, il secondo a Milano nel 1925 con una tesi sulla Idea universale della pace e di una Società delle Nazioni da Kant e Mazzini (5): si direbbe che avessero scelto il loro personaggio ideale per cominciare non scolasticamente la loro disciplina di studio. Se un discorso su Morandi deve cominciare dal suo mazzinianesimo, mi domando se un ritratto del Gobetti non potrebbe cominciare dalla sua intransigenza alfieriana. A proposito dell'Alfieri aveva scritto: « Tre generazioni si educarono in Italia sulla sua opera; e ancora per noi rappresenta la morale intransigente dell'uomo libero in tempo di schiavitù • ( 6). Da Mazzini, il giovane Morandi trae, oltre agli ideali politici, cui vorrebbe dedicare la propria azione, l'ideale della repubblica e quello della democrazia, qualche cosa di più profondo che tocca non solo l'intelligenza ma l'animo ( e quanto l'animo di Morandi fosse fervido, sentimentalmente bisognoso di effusione, ce lo hanno rivelato le Lettere al fratello): il senso della
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edita nel saggio L'idea della
~e nella storia del pensiero, citato nella nota (3). (6) Risorgimento senta eroi. Torino, 1926, p. 92.
politica come missione da compiere, della clidtà dell'azione politica. Nella leltera che accompagna il primo arlicolo inviato :ti direttore di Critica politica (1923), c'C una frase che fa da con· trappeso a quella di Gobetti, citala poc'anzi, ed esprime molto bene l'opposto punto di partenza: « Mazzini non fu contemporaneo di Romagnosi, di Ferrari e di Cattaneo; egli fu un uomo nuovo - è l'uomo di oggi,. (7). Nel suo secondo articolo Giovine democrazia (del giugno 1924), ispirato, forzato, gonfio, diciamo pure un po' retorico, si esprime in questo modo: • Noi non abbiamo una teorica della morale e una teorica della politica; la nostra vita, come l'anima nostra, è una, e la pratica di democrazfa, prima d'essere in noi soluzione politica, è soluzione mora· le• (8).
Lo storico delle idee nell'Italia di quegli anni trova una singolare riprova del clima di cultura carico di idealismo, in cui si muovevano i giovani che apriranno la strada alla crisi dell'idealismo, nel fatto che il ritorno a Mazzini venga presentato da Morandi in tennini idealistici, addirittura in termini hegeliani. Nella lettera, già citata, si legge; • Mazzini predicò una concezione dello Stato e della Società che è oggi più viva che mai, che solo oggi, è anzi da dire, incomincia a prender corpo nella realtà della vita; quella concezione etica dello Stato che deriva dalla filosofia dell'idealismo e più direttamente da quella di Hegel, Mazzini l'aveva colta in tutta l'interezza e novità del suo valore e svolta con spirito italiano• (9). Hegel era dunque un passaggio obbligato per entrare nel tempio della filosofia: una specie di nume, cui si doveva chiedere protezione per profferir verbo in materia filosofica. Tutti si richiamavano ad Hegel: vi si richiamavano i liberali, dando corpo a quello strano liberalismo nostrano che si tramanda dagli Spaventa a Croce sino a De Ruggiero, nella cui Storia del liberalismo europeo Hegel rappresenta il vertice del pensiero liberale. Vi si richiameranno i fascisli, con Gemile in testa. Ma anche il giova-
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(7) La democr~ia del socialismo, cit., p. 4.
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ne Morandi cerca di dimostrare che per arrivare a Mazzini bisogna partire da Hegel: il connubio Hegel-Mazzini mi pare, tra tutti, il più inedito. Tanto radicata era la convinzione della superiorità dell'idealismo e della filosofia hegcliana che ogni itinerario filosofico doveva cominciare di Il: le pagine giovanili di Morandi sono un tentativo ingegnoso di nobilitare filosoficamente Mazzini col blasone della discendenza hegeliana. Questo tentativo è, ad "esempio, il filo conduttore del primo articolo Intorno alla democrazia e a un nuovo liberalismo (1923), in cui sostiene che se la democrazia langue ed è attaccata dal fascismo « nuova negazione di Dio•, è perché ha abbandonato le correnti vive del pensiero rappresentate dallo storicismo hegeliano, per imbeversi delle dottrine antimetafisiche e antistoriche del positivismo e del materialismo, eredi dell'illuminismo settecentesco, e lascia sventolare ai conservatori e ai reazionari la bandiera dello storicismo. Di qua l'invito a essere "'più storici dei nostri avversari che han voluto seppellirci in questo terreno, ma che non han potuto comporre nella bara che i tronconi morti del nostro pensiero• (10). Si osservi che l'uso che Morandi fa in questo scritto delle categorie storiografiche, come illuminismo e storicismo, è di netta derivazione crociana. Tanto che la ripresentazione degli ideali democratici in formule storicistiche resta un'esigenza non chiarita, un programma da predicare più che una tesi dimostrata. In che cosa consista quest'accostamento degli ideali democratici allo storicismo, diventa più chiaro in un saggio successivo, filosoficamente e ideologicamente più ambizioso, L'eticitd dello Stato ( Hegel e Mazzini), pubblicato in tre puntate lsettembre, ottobre, novembre 1924) in Critica politica. Come risulta sin dal sottotitolo, ciò che Morandi aveva in mente, quando parlava di storicismo e di democrazia, era l'integrazione di Mazzini con Hegel. Morandi aveva studiato con cura il suo Hegel: vi si era imbattuto nella tesi di laurea, dove si era soffermato sulla concezione hegeliana della guerra, criticandola e considerandola come una inconseguenza del sistema. E non si era lasciata sfug(10) Op. dt., p. Il.
gire l'occasione di una fcecciala al Gentile e ai suoi seguaci, • fedelissimi ripetitori ad literam ,., che spacciano • per buona quella che è la sua [di Hegel] inconseguenza più grave,, ( 11 ). Nello stesso anno aveva pubblicato su una rivista accademica un lungo articolo, / prindpi metafisici della teoria hegeliana dello Stato, frutto di una lettura e di una ·meditazione diretta: opera scolastica. esposizione senza commento, ma di buona scuola (12). L'articolo sull'eticità dello Stato sapeva, più di ogni altro, di imparaticcio idealistico: il soggettivismo cartesiano e l'astrattismo illuministico erano i bersagli preferiti. Ma la tesi centrale si scostava dalle idee tramandate dallo hegelismo, tanto di quello di destra che finiva in Bismarck, quanto di quello di sinistra che cominciava da Marx: essere stato Mazzini il vero continuatore e integratore di Hegel. Cominciava cos\: • La teoria dello Stato come istituto etico, quale direttamente deriva dalla metafisica di Hegel, trova - s'io non m'inganno - nel pensiero di Mazzini il suo compimento dottrinale ed il concreto sviluppo del suo valore pratico~ (13). L'integrazione compiuta dal Mazzini era consistita nella elaborazione dell'idea di nazione: poiché soltanto lo Stato nazionale è etico, è l'eticità calata nella storia, Mazzini aveva tratto in sede storica e quindi anche politicamente rilevante la conclusione dalle premesse hegeliane. Oggi chi volesse rivalutare politicamente Mazzini si guarderebbe dal farlo apparire un continuatore di Hegel. Che l'interesse per la filosofia verso l'idealismo è oggetto di una lettera del carcere del dicembre 24 aprile 1937) confessa: • I miei
hegeliana fosse mediato attratestimonianza diretta. In una 1938 (era stato arrestato il studi di filosofia, che hanno
come preludio la lettura di Mazzini, cominciano propriamente il mio primo anno d'università, con la lettura di Croce e Gen-
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tile,. (14). Ma subito dopo aggiunge: « Queste virtuose correnti contemporanee che sono dei poveri colatoi delle grandi filosofie sistematiche dischiusesi in seno alla cultura tedesca del secolo scorso, ottenebrano facilmente il neofita con la loro sentenziosità universalistica. Prive in sé d'ogni ritenutezza, deprimendo piutt~ sto che stimolando con l'immodestia loro, il senso critico del pensatore, esse risolvono la realtà universa nelle loro formule, svuotandola d'ogni contenuto concreto, privandola di tutte le sue determinazioni positive s. Risulta chiaramente da questa lettera che era avvenuta la lib~razione dalla giovanile fede filosofica; e la diagnosi dei malanni di quella febbre metafisica non poteva essere più lucida e spietata. Questo brano ci dà l'impressione di un brusco ma salutare risveglio da un sonno dogmatico. Quanto era durato d periodo del sonno dogmatico? Quando era cominciato il risveglio? Si capisce bene che l'idealismo era stato, come accadde a molti giovani di quella generazione ( anche Gobetti aveva cominciato ad amoreggiare con Gentile), una fiammata giovanile, il primo ed ardente surrogato della fede tradizionale, una filosofia generale che acquietava i dubbi sulla trascendenza senza richiedere la faticosa e laboriosa conquista del metodo attraverso la espe· rienza. Il primo cozzo contro la realtà, contro le difficoltà concrete da risolvere non con le formule prestigiose della dialettica ma con la conoscenza approfondita dei problemi reali, l'avrebbe infranta. L'urto avvenne, com'è già stato notato dal Merli, quando la lotta politica in Italia diventò più aspra, e le belle formule, come quella dello Stato etico di Hegel calato nella nazione di Mazzini, non servivano più: occorrevano armi intellettuali meno arrugginite. Morand.i stesso in un discorso degli ultimi anni, commemorando Matteotti nel trentesimo anniversario dell'eccidio, indicò il delitto Matteotti come una data decisiva per la sua formazione e il suo passaggio al socialismo ( 15). Il passaggio al s~ cialismo, col bisogno che lo aveva accompagnato di studiare
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Marx e l'economia politica, di mettere in quarantena i filosofi, rappresentava non soltanto un avanzamento nella lotta politica, ma una vera e propria metamorfosi culturale, un rivolgimento interiore, che sarà decisivo per tutto il resto della sua vita di studioso e di militante. Il primo problema, urgente, che ~on am· metteva dilazioni né poteva essere risolto con dotte elucubrazioni, era come combattere il fascismo. Il nuovo impegno politico dettò al Morandi due articoli, pubblicati entrambi in Critica politica, il primo Rivedere le posizioni, del 25 febbraio 1925, il secondo Rivoluzionari e costituziotlfJli, del 25 marzo. Il suo atteggiamento di fronte al fascismo è comune a quello dei giovani insofferenti del passato e che vogliono romperla con la vecchia classe politica, come Gobetti e Rossel!i:ollil fascismo è una cosa seria, perché ha radici profonde nella storia della nazione; dunque, bisogna prepararsi a combatterlo con energia, accettando la persecuzione. Contro i legalitari, i costituzionali, i formalisti che vogliono far rientrare il fascismo nella legalità, bisogna avere il coraggio di dire che esso, anche se la marcia su Roma fu una burla, resta l'.ton meno un fatto rivoluzionario: « L'aver disconosciuto questo con pertinace cocciutaggine fu l'errore nefasto di tutti gli oppositori. Grande o meschino, epilogo o prologo d'una vera rivoluzione che si spegne o ch'è in marcia, esso è un fatto rivoluzionario. Credere di potervi contrastare solo col codice penale - col vecchio codice - via, è stato per lo meno puerile• {16). Ma ci si intenda bene sul significato di rivoluzione: non si tratta di una rivoluzione morale o religiosa, come i diversi Gentile hanno il toupet di pretendere, ma di una rivoluzione di palazzo, « quel bel fiore, la storia c'insegna, che sboccia solo tra lo sfacelo dei sentimenti civici d'una nazione, nei periodi di turbamento più profondo della società, o sia in ore di crisi morali gravissime» (17). Il primo effetto pratico di questa presa di posizione è la sfiducia nei vecchi partiti ( che fu uno degli insegnamenti di Gobetti, tradotto poi nella utopia del Partito d'Azio-
( 16) Rivedere le r,osiz.ioni, op. clt., p. SI. ( 17) Rivoluzionari e costitw.iorw1i, op. cit., p. 53.
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ne): sfiducia che lo induce ad auspicare ':In accordo tra repubblicani e socialisti per un'azione comune, lasciando cadere ogni forma di alleanza con «le frazioni retrograde d'una democrazia conserva. trice, e con le vecchie clientele della borghesia capitalista• ( 18). Prima di abbandonare definitivamente il repubblicanesimo per il socialismo, Morandi aveva mostrato di aver appreso la migliore, e forse la sola, lezione di concretezza che il Partito repubblicano era ancora in grado di dare: era la lezione delle autonomie amministrative, di fronte alla quale gli eredi del repubblicanesimo risorgimentale, mazziniani e cattaneani, avevano fatto tacere le vecchie ruggini e avevano mescolato le loro idee. Si ricordi che lo stesso Gobetti, in un articolo poco tenero verso i repubblicani, l'unica cosa che salvava nella loro dottrina, lui discepolo di Cattaneo, erano le tesi sull'autonomia (19). Per un futuro storico dell'economia, come Morandi, è significativo il fatto che le tesi piU interessanti e mature di quegli anni non debbano essere cercate tra i saggi filosofici, ma in un anicolo scritto per Gobetti, apparso su Rivolutione liberale del gennaio 1925, col titolo Il problema delle autonomie. Qui c'è in nuce non solo lo storico dell'economia, ma il socialista, anche se il punto di partenza è ancora il repubblicanesimo. La tesi centrale dell'articolo è questa: il problema del decentramento non è solo amministrativo, ma anche politico ed economico: economico, perché l'accentramento è legato allo sviluppo capitalistico; politico, perché l'accentramento è strettamente connesso all'istituto della monarchia. Contro il decentramento il capitalismo è il piU fedele alleato della monarchia accentratrice; di conseguenza, l'autonomia è un programma, insieme anticapitalistico e antimonarchico. Quando sia avvenuto il passaggio definitivo dal democratismo repubblicano al socialismo, è difficile dire. In un articolo polemico, pubblicato su Critica politica nell'agosto-settembre 1925, a proposito del libro di Nitti sulla pace, chiama in causa ancora una volta contro i socialisti, che si affaticano sui testi per dimostrare che l'idea marxistica non rinnega la nazione, la limpida
tesi di Mazzini, secondo cui l'argine più sicuro al dispotismo dei popoli è la nazione, e sostiene che i socialisti dovranno approprian;i dell'ideale repubblicano (20). Nel febbraio del '26 appare l'ultimo anicolo pubblicato sulla rivista di Zuccarini: ed è ancora un articolo, a dire il vero di scarso rilievo, sulla Nazione in Giuseppe Mazzini, annunciato come parte di un più ampio lavoro su La teoria ideologica di Mazzini. Ma pochi mesi dopo Con l'articolo pubblicato su Quarto Stato, La democrazia del socialismo, l'ultimo degli scritti giovanili, il passaggio è ormai compiuto. C'è stata di mezzo, forse, la lettura di Marx: ma non più che una prima lettura, magari affrettata, e su pochi testi. Sembra che una più piena adesione al marxismo e una più adeguata conoscenza del pensiero marxistico siano avvenuti l'anno successivo ( 1927), durante un viaggio di studi in Germania. Ma improvvisamente, dopo tanto linguaggio idealistico e mazziniano, ci troviamo di fronte a termini e concetti marxistici, in primo luogo al concetto di lotta di classe. Mazzini non è del tutto scomparso dalla scena. Ma al binomio Hegel-Mazzini subentra quello, meno inedito ( penso, ad esempio, ad un vecchio socialista riformista e umanitario, come Alessandro Levi), Mazzini-Marx, o meglio il trinomio Hegel-Marx-Mazzini, dove Hegel rimane, immobile, sullo sfondo, come un personaggio che non parla: .,. Mazzini ~ Marx sono i due più grandi interpreti del pensiero idealistico. Nelle loro dottrine, profondamente diverse, per tanti lati divergenti e contrastanti, ma avviate pure attraverso un comune intento, ad una meta unica, il germe vitale dell'idealismo trae alimento e si sviluppa,. (21 ).
li tono è ancor quello moraleggiante degli altri scritti: c'è subito, sia nelle prime righe, un appello alle .,. volontà forti educate con scuola rude dalla stessa realtà che le contrasta,. (22). E il socialismo, non diversamente dal repubblicanesimo di prima, è offerto e sofferto come una religione: • Il socialismo eleva la politica all'altezza della religione e la religione stessa invera
( 20) UI pace in un libro di Nilti, op. cit., pp. 85--86. ( 21) L sofo artigiano e non taumaturgo, che egli prediligeva. Ma aveva cura di ripetere che la buona filosofia non nasceva dalla lettura di altri libri di filosofia, e tanto meno da una generica cultura libresca, ma dall'esercizio appassionato e severo di una qualsiasi attività spirituale, fosse quella del poeta o dello storico o dello scienziato o dell'uomo d'azione. Ed egli stesso, alla fine della critica di se stesso, si compiaceva nell'immaginare che un giorno o l'altro avrebbe abbandonato la filosofia in senso stretto e scolastico per la « filosofia dei fatti particolari•, che si fa narrando criticamente (filosoficamente) la storia di quei fatti, o filosofia in azione (16). La filosofia in quanto momento parziale della vita nella sua interezza non poteva staccarsi dalla vita se non a costo di inaridire. Nel medio evo, quando re o ministri venivano chiusi in monastero si diceva che erano mandati a • filosofare »; ma « il filosofo vero, il filosofo dei tempi nuovi, terrebbe a vergogna la beatitudine del monaco, e la sua contemplazione non è inerte, perché, pur nell'esercizio specifico della filosofia, tornando sempre dalla contemplazione alla vita, se non fattiva, simpatica con gli altri uomini, e risalendo da questa in perpetuo alla rinnovata contemplazione, vuol essere ed è la coscienza storica della propria società e del proprio tempo• ( 17). Accanto alla polemica contro la filosofia sovrana, regina del sapere, corre continuamente nell'opera crociana un'altra polemica non meno dura contro la filosofia pura, incontaminata, ammiranda ed esecranda insieme per il suo candore. Tanto la prima è inutile, altrettanto questa seconda è sterile. Se la filosofia era un mestiere non era però un mestiere come
( 16) Contributo alta critica di me stesso, in Etica e polilica, cit.,
p.407.
( 17) Frammenti di etica, cit., p. 205.
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tutti gli altri. Anzitutto non poteva essere esercitata come si è detto, da sola: buon filosofo era soltanto colui che, oltre la filosofia, possedeva bene per Io meno un altro campo del sapere. Era una professione ausiliaria. In secondo luogo, non si poteva esercitarla a ogni ora del giorno, ma solo a suo tempo e luogo. Paradossalmente, un mestiere non da giorni feriali, ma da giorni festivi, dei giorni in cui si sospende il lavoro, e si ritemprano le forze per la nuova fatica. Giudicando melanconicamente le condizioni della filosofia in Italia in una Postilla del 1933, si consolava scrivendo: • Pe~ il proprio e normale esercizio dell'intelligenza umana è il giudizio o la conoscenza delle cose; laddove il filosofare in senso specifico, ossia risalire ai supremi concetti e alle categorie, il pensare sul pensiero, è (parlando, beninteso, historice) un incidente, un fatto fuori dell'ordinario, simile a una malattia e a una crisi, che conviene di necessità subire e superare, ma che non è lecito andar cercando per se stessa e pretendere di procacciarsela per diletto, o fingerla vanamente a se stesso per il gusto di seguitare a scrivere volumi cosiddetti di filosofia •. E poco più. oltre ribadiva, aggiungendo a una saggia osservazione un'immagine persuasiva, che la filosofia • non è il pane quotidiano• (18). Chi faceva o era costretto a fare della filosofia il proprio pane quotidiano era il filosofo accademico, il professore di filosofia. Già, quella filosofia sublime o inutile, cui si sarebbe dovuto opporre la filosofia utile del buon artigiano, quella filosofia pura e sterile, cui si contrapponeva la filosofia mescolata con la vita, produttrice di una migliore comprensione del mondo, trovava la sua perfetta incarnazione nel professore di filosofia, che, al contrario dei comuni mortali, filosofa, cioè ozia, tutta la settimana, e lavora (posto che sia ancora in grado di farlo) quando gli altri riposano. Che cosa pensasse Croce della utilità delle cattedre di filosofia e qual giudizio feroce desse della titolomania provocata dal sistema dei nostri concorsi, è cosa nota (ma, ahimè, non ~ ancora
(18) Candidoni presmti ddla fUosofia. in Italia. (1933), in Conversazioni critiche, Serie quinta, p. 271.
acqua tutta passata) (19). li concetto che egli aveva della maggior parte dei libri dei professori è esposto e deposto in innumerevoli documenti, su cui npn è ancora caduta tanta polvere che occorra sollevarla per riscoprirli. In uno dei suoi magnanimi sdegni ( e scatta la mia intima avversione ,., aveva detto) considerava l'abito professorale, che stacca la filosofia dalla vita e promuove la ripetizione e la scuola, "il preciso opposto,. del suo ideale• (20). Come non era attività da tutti i giorni, cosi la filosofia non era occupazione cui ci si potesse dedicare con egual trasporto e frutto in tutte le età della vita. E anche per questo i professori fi. losofanti, per necessità o per regolamento, tutti i santi anni, gli dovevano apparire come dei condannati ad un lavoro forzato. Ho ricordato che alla fine dell'esame di coscienza compiuto alle soglie della maturità, aveva espresso il desiderio di abbandonare la filosofia. In un bellissimo pensiero della maturità si lascia andare addirittura a immaginare, contrariamente alla raffigurazione tradizionale, che la filosofia sia « cosa del giovine, ossia dell'uomo che si prepara a vita operosa•. Certo, non poteva, non doveva essere opera del vecchio giunto alla fine della propria vita: « Se veramente quel vecchio non partecipa più alla vita, e non si sente più di parteciparvi, deve volgersi non alla filosofia ma ai casti pensieri della tomba. Vero è che molti concepiscono la filosofia come una tomba, un superamento e una chiusura dell'operosità~- (21 ). L'ufficio della filosofia non era di volgere i casti pem,ieri della tomba, ma di aiutare gli uomini nelle loro varie e specificate attività a comprendere meglio il mondo in cui vivevano. Non contemplazione della morte, ·ma comprensione della vita. Come coscienza critica dello storico, del poeta, dell'uomo d'azione, dello scienziato, la buona filosofia era per Croce quella che affrontava un problema per volta, che non conosceva il
problema dei problemi, ma soltanto problemi particolari, ciascuno a tempo debito e con le dovute precauzioni. Nella tendenza caratteristica della filosofia oziosa, inutile ed accademica, a risolvere i problemi nel problema, egli scorgeva i vizi detestati della pigrizia mentale, della confusione intellettuale e dell'igno. ranza. Quest'elogio del problema particolare mi è parso sempre uno dei più salutari insegnamenti di Croce, anche se dei meno seguiti. Ricordo di averlo udito paragonare il filosofo all'uomo che vuol riposare ma è infastidito da un nugolo di mosche: per continuare il suo lavoro basterà che si liberi delle mosche che gli danno noia, e via via che gli capitano a tiro. Non occorre che uccida, in un colpo solo, tutte le mosche esistenti. Cosi il filosofo, tanto più spianerà la strada del sapere critico quanto più saprà individuare quel particolare ostacolo che trova sulla via e concentrarsi solo su di esso sino a che non s'imbatterà in un altro. Del resto, i grandi filosofi, a suo giudizio, non erano quelli che avevano risolto una volta per tutte il problema del· l'universo (occupazione tanto cara ai professionisti della filosofia), ma coloro che avevano conquistato una particolare verità arricchendone in moOfia come metodologia offre occasione e materia di studio, cioè un lavoro proficuo, anche a chi non ha fiato sufficiente per far giungere la propria voce alla posterità, e mette in fuga i metafisici presuntuosi che, immaginando di appartenere alla sparuta schiera dei grandi scultori della statua dell'uni\'erso, non si adat· tano a fare gli scalpellini. La filosofia come concezione del mondo è un frutto che non matura tutte le stagioni. La filos~fia come metodologia matura sempre, purché sia ben coltivata. Se dovessi scrivere anch'io un « invito alli amatori della filo sofia •. non mi dispiacerebbe cominciare con queste parole: « ... bisogna cangiare la tradizionale figura del filosofo che sia solo e puro filosofo, e ridurla a quella del critico e dello storico e dello scienziato e, insomma, dell'uomo variamente operoso, che alla filosofia si volge solo per nccessilà intrinseca al suo proprio pro· cesso mentale e pratico e, soddisfatta quella necessità, riprende la sua varia opera di uomo• (30). E siccome immagino che molti accoglierebbero l'invito, anzi protestando di non aver mai amato il filosofo puro, ùi averne allontanato derinitivamente dalla loro mente il fantasma, di averne sempre detestato in cuor loro la grottesca figura, mi accontenterei di chiedere che riconoscessero il loro debito a Croce. Qualcuno potrebbe insinuare che ho insistito troppo su un aspetto della personalità di Croce a scapito di altri; rispondo che Croce attribuiva un'importanza decisiva a questa • nuova orientazione data alla filosofia" («nuova precisava - ma non cavata capricciosamente dalla mia testa•), tanto da chiamarla, nella noterella da cui ho preso le mosse e con cui voglio anche terminare, " il gener.ile risultato della sua
( 30) Troppa filosofia,
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in C1.1lt1.1ra e vita morale, ciL, p. 242.
vita di studioso •. E pretendeva che chi volesse dimostrare che la sua era stata una vita sbagliata, dovesse avere il coraggio di distruggere questo concetto della filosofia e tornare al concetto antico, « a quello che s'irraggia dalla figura del Filosofo• (31).
(31) Ultimi saggi; ciL, p. 388.
9.1
Piero Martinetti
Sono passati quasi trent'anni dal giorno in cui venni per la prima volta a Castellamonte. Gioele Solari, mio maestro, voleva presentarmi a Piero Marlinclti, che viveva da qualche anno in
volontario esilio nella rustica casa avita di Spineto. Doveva es~erc l'autunno del '34. Era appena uscita l'ultima opera della grande trilogia, cioè dopo l'lntrodut.ione alla metafisica. del 1906, La libertà del 1928, il volume Gesù Cristo e il Cristianesimo,
subito sequestrato per offese alla religione, ma ad onta del sequestro diffuso rapidamente e furtivamente tra amici, discepoli, ammiratori. A quest'opera Martinetti si era dedicato infaticabil· mente negli ultimi anni, dopoché, dal '31, aveva voltato sdegnosamente le spalle all'università asservita. La fama di Martinetti era in quel tempo, ndla cittaddla del· la filosofia italiana, altissima. Oltre Croce e Gentile, solo Marfi. netti allora era considerato da noi giovani, non un professore di tilosofia, ma un filosofo. lo ero, invece, un giovinotto da poco laureato, che stava facendo i primi incerti esercizi come rcrittore di cose filosofiche. Avevo scritto durante l'estate un articolo, trat to dalla mia tesi di laurea, sulla filosofia di Husserl, di cui si cominciava allora a parlare. Solari lo aveva inviato, proponen done la pubblicazione sulla u Rivista di filosofia», a Martinetti, che ne era il direttore occulto: la ragione della visita era sentire che cosa egli ne pensasse e in più, se il verdetto fosse stato favorevole, proporre una mia collaborazione più regolare alla rivista, anzi la mia partecipazione al consiglio direttivo che si riu-
niva a Milano due volte l'anno. Pareva che la rivista, guardata con sospeqo dal regime, abbandonata dalla filosofia ufficiale, sostenuta anche finanziariamente da un piccolo cenacolo di ami· ci e mal provvista di mezzi, avèsse bisogno di qualche giovane volenteroso. Si può immaginare la mia emozione: fortunatamen te ero guidato, per così dire scortalo, dal vecchio Solari la cui giovialità era proverbialmente contagiosa. Martinetti aveva letto il mio articolo. Mi disse che in complesso poteva andare, ma era un po' astruso. Mi consigliò di renderlo un po' più accessibile al lettore comune: insistette sul fatto che la "Rivista di fi. losofia » era rivolta non soltanto agli studiosi di filosofia, ma anche a gente semplice che coltivava i problemi dell'anima senza appartenere alla esigua e presuntuosa schiera degli specialisti. t. una lezione che non ho più dimenticata e di cui ho cercato, nel corso della mia vita, di far tesoro. Mariinetti aveva il culto della chiarezza: Soleva ripetere che la chiarezza è l'onestà del filosofo. Come. uomo, visto a tu per tu, era estremamente semplice, un po' ruvido e asciutto, ma di grande ::iffabilità: aveva gli occhi sfa· villanti, la fronte altissima, sporgente,' il volto segaligno, la voce energica. Aveva allora più di sessant'anni, ma al mio ricordo l'aspetto era ancor giovanile. Vestiva dimessamente e si sapeva che viveva con grande frugalità, disprezzando i beni materiali, ciò che riluce di fuori ed è opaco di dentro. Alla fine del colloquio mi trovavo ormai a mio agio, e visitammo insieme la splen· dida biblioteca, dove mi colpirono soprattutto i libri di storia e di critica religiosa che egli era andato raccogliendo npa\i ultimi anni. Questo incontro ebbe poi una coda, che è la parte più curiosa di tutta la storia. Qualche tempo dopo Martinetti mi scrisse una cartolina postale ove mi diceva di esser lieto per la mia decisione di entrare a far parte stabilmente del consiglio direttivo della « Rivista di filosofia~. Indi aggiungeva questo commento: « La rivista è ancora una delle poche voci libere che vi siano in Italia: è poca cosa, ma coi tempi che corrono è molto •. Il mattino del 15 maggio del '35 a Torino, la polizia politica fece una grossa retata di intellettuali invisi al regime: era quello che si dice un bel colpo. Fui arrestato anch'io per legami di amicizia 9.)
con alcuni esponenti del movimento clandestino di Giustizia e Libertà. Ma la vera sorpresa di quella mattina fu che andarono a prendere anche Martinetti che non aveva alcun rapporto né palese né segreto col gruppo. Era atteso quella mattina a Torino in casa Solari, dove si recava una volta al mese, credo per ritirare la pensione. Alle sei arrivarono i questurini e misero a soqquadro l'alloggio. Quando verso le dieci giunse Martinetti, ignaro e senza alcun sospetto, Solari lo presentò cordialmente agli insoliti visitatori e quelli senza tanti complimenti se lo portarono via. Nell'unico interrogatorio che ebbi nei brevi giorni di detenzione mi fu rinfacciata tra l'altro la frase i:critta da Martinetti nella cartolina poc'anzi citata, e mi furono chieste le solite spiegazioni. Evidentemente la mia corrispondenza era da qualche tempo sorvegliata e la frase incriminata era stata rilevata e copiata. Non saprei dire quali fossero le ragioni che indussero il capo della polizia politica di Torino ad arrestare quel giorno an che Martinetti. Ma non escludo che avesse avuto la sua parte anche l'innocente cartolina. Comunque, lascio ai futuri storici dell'antifascismo torinese il compito di appurare la verità. L'antifascismo di Martinetti non era un antifascismo attivo. Non era neppure, a parlar propriamente, politico. Era un atteg· giamento morale, e poiché la morale per lui confluiva nella religione, era insieme anche un atteggiamento religioso. Croce fu maestro di libertà attraverso i libri; Martinetti, come si conviene ad uno spirito profondamente religioso, con l'esempio. Raccontano i suoi allievi che nelle lezioni all'Università di Milano non facesse mistero della sua irriducibile avversione al regime. Ma era l'avversione dello stoico contro ogni forma di potenza mondana, del cristiano delle sette contro la legge della spada, del devoto ascoltatore della coscienza morale contro la giustizia del più forte. Credeva fermamente nella funzione morale dello stato, e vedeva nella democrazia, intesa come governo di un'aristocrazia spirituale, la realizzazione, se pure imperfettissima, di un ideale morale. Diceva: « Lo spirito democratico non esige che la moltitudine imperi; bensl che chi impera cerchi il consenso morale della moltitudine e tratti gli uomini non come sudditi che devono cieca obbedienza, ma come soggetti morali che
debbono piegarsi soltanto ad una potenza morale• (1). Il fascismo era la negazione di questo ideale di stato. Il 1ifiuto di aderire al regime era per lui non problema politico, ma esclusivamente di coscienza. Una delle virtù che maggiormente esaltava, e di cui fu la vivente immagine, era la fierezza morale. In un discorso tenuto agli studenti a Castellamonte il 19 settembre 1926 - quando ormai il fascismo era diventato regime - disse: • Tra i doveri essenziali dell'uomo Kant pone quello dell'orgoglio, della fierezza morale. Egli dice: Non farti servo di nessuno ! E questo vuol dire: Non subordinare la tua coscienza ai timori ed alle speranze della vita inferiore: non avvilire la tua personalità piegandola servilmente dinnanzi ad altri uomini ! Soltanto chi sente in sè l'esigenza di questa dignità morale, di questa fierezza inflessibile, è un uomo nel vero senso della parola; il resto è gregge nato n servire• (2). Di questa fierezza aveva dato un bell'esempio pochi anni prima, quando nel marzo del 1926, promotore, organizzatore e presidente del VI Congresso nazionale di filosofia, svoltosi a Mi· !ano, aveva resistito impavidamente alle pressioni congiunte di clericali ed idealisti perché fosse escluso Ernesto Buonaiuti, scomunicato vitando, dal novero dei relatori. Scris!ie in quell'occasione: • Non potevo d'altra parte, e credo di avere in questo la loro approvazione [si riferisce all'approvazione dei cattolici che avevano notificato la loro astensione dal congresso per la presenza del Buonaiuti], rendermi esecutore di un decreto di scomunica, io, filosofo, cittadino di un mondo nel quale non vi sono né persecuzioni, né scomuniche 11 ( 3 ). Dopo il discorso di France::;;co De Sarlo su L'alta cultura e la libertà, il Rettore dell'Università, ligio al regime, troncò il congresso, e il giorno dopo, quando avrebbe dovuto parlare il Buonaiuti, il Congresso fu sciolto per
canavesana, opuscolci
citazione è a p. 18-19. sociale e religiosa detfa filo-
ordine dell'autorità prefettizia. Giovani Gentile sul e Popolo d'lta· Iia • del 26 aprile derideva rozzamente gli spropositi del prof. De Sarlo, discorso - egli diceva - che era un e tessuto di luoghi comuni dei più abusati, dei più logori ... in lode della dea Scienza, della dea Libertà, degli immortali principi, dei sacri Diritti dell'individuo, della Libertà del pensiero, e altre simili novità, che ormai non solo i fascisti, ma tutti (dico, tutti) gli uomini colti ritengono scimunitaggini • ( 4 ). Quanto al discorso di Martinetti, e del buon Martinetti •, cui e il presente movimento politico italiano ha rotto l'alto sonno nella testa •, ne compativa la banalità, i pettegolezzi, il misoneismo, e concludeva col tono di chi fa il rabbuffo al bambino capriccioso: • La dimostrazioncella antifascista del Congresso viene da uomini che nella presente vita italiana non hanno nessunissima importanza: non sanno nem· meno che cosa il fascismo voglia, e in che consista. Guardano a questo o a quel fascista, fanno piccole questioni di persone. Miserie• (5). Oggi noi ci troviamo qui a quasi quarant'anni di distanza a ricordare con reverenza, con profondo senso di grati· tudine, uno di quegli uomini di nessunissima importanza, men tre ancora ribolle la nostra indignazione per l'alte7Zosa lezione del pedagogo-demagogo (e solo l'altissimo pretzo con cui il Gen· tile pagò la sua stoltezza e un senso di umana pietà che ogni tomba suscita, c'impediscono di infierire sulla sua memoria). Nel novembre del '31 il Ministro dell'educazione nazionale, Balbino Giuliano, imponeva ai professori universitari il giuramento • di essere fedeli al re e al regime fascista •, e " di formare cittadini operosi, probi, e devoti alla patria e al regime fascista•Uno di quegli uomini, che il Gentile aveva accusato di fare piccole questioni di persone, Piero Martinetti, disse recisamente di no fin dal primo momento, e nonostante le insistenze degli amici, non proferì il giuramento e insieme con altri dieci galantuomini fu cacciato dall'Università italiana. Al ministro e filosofo Giuliano scrisse una nobilissima lettera, uno dei non molti documenti che salvano l'onore dei chierici italiani: e Ho sempre diretta la
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~~~~ P~ ~~ura, Milano, Treves, 1928, p. 106.
mia attività filosofica secondo le esigenze della mia coscienza, e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità di subordinare queste esigenze a direttive di qualsivoglia altro genere. Così, ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l'uomo può avere nella vita, è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio, Ora col giuramento che mi è richiesto, io verrei a smentire queste inie convinzioni ed a smentire con essa tutta la mia vita; l'Eccellenza Vostra riconoscerà che questo non è possibile. Con questo io non intendo affatto declinare qualunque eventuale conseguenza della mia decisione: soltanto sono lieto che l'Eccellenza Vostra mi abbia dato la possibilità di mettere in chiaro che essa procede non da una disposizione ribelle e proterva, ma dalla impossibilità morale di andare contro ai princlpi che hanno retto tutta la mia vita> (6). In una lettera al collega Adelchi Baratone dell'Università di Genova precisò in questo modo il significato del suo gesto: • La cosa in se stessa personalmente non· mi ferisce affatto: io sono lieto di essere restituito totalmente ai miei studi: e dico 'miei' per dire 'fatti solamente per me, per la mia personalità interiore e la mia vita'. Certo sento la tristezza della cosa obiettivamente considerata: io non ho voluto giurare (e cosl credo molti degli undici), per un motivo religioso, per non subordinare le cose di Dio alle cose della terra: dove sta per andare il rispetto della coscienza ? Ciò è triste ed annunzia oscuramente un avvenire triste per tutti, anche per i persecutori,. (7). Questo brano di lettera è importante perché contiene una dichiarazione autentica dei motivi della rinWlZia: motivi religiosi. Martinetti non era stato e non sarà neppure negli anni tragici della guerra (di cui non vedrà la fine) un oppositore politico nel senso che allora si dava tra gli intellettuali a questa parola partecipazione a gruppi d'azione clandestina, elaborazione e diffu. sione di programmi politici, giornali stampati alla macchia, prese
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di contatto e colloqui con uomini politicamente influenti, eccetera -. Non disdegnava l'attività politica, anzi riteneva che la partecipazione alla vita politica fosse doverosa. Su questo punto è illuminante una pagina del Breviario spirituale: "'EL. un dovere imperioso per tutti gli onesti quello di non astenersi per pigrizia, per disgusto o per falso orgoglio dalla partecipazione alla vita politica, di non lasciare che si svolga liberamente l'azione degli elementi immorali e sospetti • ( 8 ). Era favorevole al voto obbligatorio. Più ancora, chiedeva la partecipazione dei cittadini a tutte le associazioni che si propongono un fine sociale, per la buona ragione che ,. anche qui l'astensione favorisce il trionfo degli elementi più ambigui che sanno abilmente sfruttare l'azione collettiva per le ambizioni particolari, coperti nei loro subdoli raggiri dalle eterne marionette decorative che riappariscono alla testa di tutti i comitati come simbolo della vanità e della imbecillità pubblica» (9). Ma considerava l'attività politica pur sempre come un'attività inferiore e subordinata, che doveva essere integrata e superata nella pienezza della vita morale, e questa a sua volta nella contemplazione filosofico-religiosa. Ecco un suo pensiero caratteristico: "Il sacrificio per la patria è un alto valore, ma non il più alto. Morire sul campo può ei;sere un duro dovere ma non il più glorioso, come predicano quelli che in genere preferiscono sopravvivere • (IO) L'ideale cui tendeva era quello della saggezza, intesa come partecipazione e unione, attra verso un diuturno sforzo di comprensione e sintesi razionale, alla totalità dell'universo: nei termini tramandatici dai Greci ciò significava il primato della vita contemplativa su quella attiv3. Peraltro credeva fermamente nella funzione politica, se pure indiretta, di un'alta educazione morale e religiosa. Ogni società, anche quella più democratica, è guidata da aristocrazie: la qualità di una società dipende dalla qualità della sua aristocrazia. La società ideale, ch'egli vagheggiava, era quella guidata da un'aristocrazia della cultura e della moralità. Il filosofo doveva tende-
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re a realizzare in se stesso la più alta vita morale, animato dalla convinzione che la rigenerazione morale doveva cominciare prima di tutto da se stessi. Il filosofo doveva avere fiducia nel risultato, anche se doveva essere indifferente di fronte ad esso. Ma aggiungeva: • L'indifferenza ai risultati non infirma per ciò affatto l'ob· bligo che noi abbiamo di cooperare con quella volontà, di cui la stessa unità morale dello stato è un grado ed uno strumento e che ha nella voce della coscienza la sua rivelazione individuale immediata: bisogna compiere anche in questa parte senza illusioni, ma con fede sicura, il proprio dovere: la sconfitta o il successo possono essere indifferenti a chi non vede nell'ordine sensibile altro che un simbolo ed inserisce in esso la propria azione senza timori né speranze, solo per ubbidire ad una legge interiore inflessibile» (Il). Nei dieci anni del suo ritiro a Castellamonte - dal 1932 sino alla morte avvenuta il 22 marzo 1943 - rivisse, quasi a conferma della sua visione del male radicale della storia, in libera solitudine, confonata dal colloquio con pochi amici, l'esperienza della crisi del fascismo e della catastrofè della nazione. Si dedicò soprattutto agli studi prediletti di storia del cristianesimo. Oltre al libro già menzionalo su Gesù Cristo e il cristianesimo, e il saggio introduttivo Ragtone e fede, scrisse molti articoli che ap parivano regolarmente sulla • Rivista di filosofia», di cui dal 1927, cioè dopo lo scioglimento della Società filosofica italiana, era diventato l'ispiratore. Ritenendo opportuno che il suo nome non apparisse in p..ibblico, aveva fatto assumere l'ufficio di di· rettore responsabile ad un suo vecchio e fedele amico, Luigi Fossati, uomo del buon tempo antico per mitezza d'animo, candore, senso profondo della dignità personale, purezza di cuore, il quale insegnava in una scuola privata a Milano dopo esser passato attraverso la burrasca del modernismo, non certo in odore di santità presso i fascisti, ma per lo meno non segnato a dito. Attorno a Fossati si era costituito un consiglio direttivo, di cui facevano parte Solari, Alessandro Levi, Cesare Goretti, Giulio
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Sagei ~ dì-
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Grasselli, Ludovico Geymonat, e dal 1935 anch'io. Ci si riuniva in casa di Fossati: Martinetti non vi intervt:nne mai. Oltre che solitario, era diventato, e forse era sempre stato, sedentario. Non amava viaggiare. Si vantava di non aver mai usato quel mezzo diabolico di dissipazione mentale che era il telefono ( allora mi pareva una stranezza; ma ora non mi scalirei di dargli torto). Come la «Critica,. di Croce, se pure con minore risonanza, anche la « Rivista di filosofia ,. compl opera di resistenza, non lasciando stormire i propri fragili ramoscelli al vento talora im· petuoso che veniva da Roma. Credo che in tutti i fascicoli che si susseguirono dal '27 sino al '43, il fascismo e il suo capo non fossero mai stati né per dritto né per traverso nominati. Come quelle tribù della Patagonia, di cui si racconta che vivono ignorando l'esistenza del mondo civile, in via Ciro Menotti 20, sede della rivista, la fama del fascismo nel 1935, quando vi entrai, non era ancora arrivata. Eravamo in fin dei conti troppo piccoli per dar nell'occhio, e poi avevamo appreso l'arte del topolino nel castello dell'orco, che era quella di passargli di tra le gambe trattenendo il respiro. Solo una volta l'orco trasali e poco mancò che la rivista facesse una brutta fine. Fu quando, in occasione dell'entrata dell'Italia in guerra, nel giugno del '40, Martinetti introdusse in un saggio suUa rinascita di Schopenhauer la tremenda requisitoria dell'Abbé Grégoire contro Napoleone (,. dal fondo delle tombe dodici milioni d'uomini sgozzati levan la voce contro di lui. Sembra che in Europa, in Francia soprattutto, le madri, le infelici madri, non partoriscano più che per provvedere vittime alla sua ferocia»). E si domandava: « Non potrebbe es· sere oggi ripetuta con le stesse parole?» ( 12). E subito dopo, per non lasciar dubbi sul fatto che voleva parlar chiaro, aggiun· se; « Non bisogna nemmeno illudersi che dei progressi particolari, come la rinuncia all'antropofagia o l'abolizione ddla schiavitù, che furono possibili in determinati momenti favorevoli, siano conquiste definitive: del resto la schiavitù ha fatto di nuovo oggi, sotto mutato nome, la sua apparizione cd ha trovato i suoi apo-
( 12) La riPllJScita di Schopenhauer,
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«
ruv.
di fil.•, XXXI, 1940, p. 85.
logisti. Che cosa è la teoria delle razze inferiori se non un appello al ritorno della schiavitù?• (13). Venne l'ordine di sospensione. Fossati, pazientemente, diplomaticamente, riuscl ad ammansire non ricordo più quale gerarca e il pericolo fu sventato. La rivista continuò la sua vita, se pure un po' asfittica, cercando di sfuggire agli sguardi indiscreti, sino al gennaio del 1945. Nonostante la morte di Martinetti, riuscimmo a farne uscire due fascicoli anche nel '44, durante l'occupazione tedesca. Nel primo di questi fascicoli apparve senza nome d'autore un articolo leibniziano di Eugenio Colorni, ebreo, antifascista militante, membro del Consiglio direttivo del partito socialista clandestino, che doveva morire per mano di un sicario della banda Koch il 30 maggio dello stesso amio. Nonostante il suo isolamento, Martinetti non esitò a mantenere contatti con alcuni discepoli che erano entrati nel movimento attivo della resistenza. Ricordo Ennio Carando, professore di filosofia e storia a Savona e poi alla Spezia, il quale, come ci attesta l'amico suo Geymonat in una commossa c-ommemorazione, aveva scritto e diffuso segretamente tra gli amici e gli al· lievi intorno al 1939 un volumetto di discussione ·politica, in cui si risente l'eco di insegnamenti martinettiani. Si veda, ad esempio, un passo dove mostra di pregiare più il valore morale del riformatore che non i bei programmi: .. Il vero riformatore deve sentirsi cosi unilo alla propria causa, da preferire di morire piuttosto che assistere alla sua rovina. Né abbia paura che, morto lui, la causa si trovi senza difensori: nessuno è indispensabile. Dubitare di chi dovrà succedergli è degno di scarsa intelligenza. L'importante, se si deve morire, è saperlo fare con dignità e per un ideale che merita un sl grande sacrificio» ( 14 ). Venuto il momento delle indifferibili decisioni, Carando si iscrisse al partito comunista, combatté nelle brigate garibaldine del Comandante Barbato: arrestato insieme col fratello Ettore e col commissario politico Leo Lanfranco a Villafranca Piemonte, fu fucilato nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 1945.
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[~onat, La (i6ura di Ennio Carando, educalore e patriota, in « Rassegna municipale del Comune della Spezia•, 1955, p. 75.
L'isolamen10 ma1eriale in cui Martinetti si ritrasse negli ultimi dieci anni della vita fu il rispecchiamento visibile e sensibile dell'isolamento spirituale in cui si era venuto a tro\·arc, anzi, in cui si era tleliber.1tamenlc poslo, tlurante il magi .~ti:ro filosofico nei primi tre decenni del secolo. Filosoficamente, Martirn:tti fece parte per se stesso. Non ebbe maestri diretti, o almeno sinorn nessuno ha saputo indicarli. Aveva studiato all'Uni\l!rsità di Torino attorno al nornnt-1 e per quanto nella prefazione all'/11/roduzione alla metafisica riconosca il proprio debito di riconoscenza ai tre professori dell'ateneo torinese che l'avevano guidato nei primi passi, Allievo, Bobba e D'Ercole, non fu di nessuno dei tre l'erede spirituale. Un rapporto, se non altro di assonanza spirituale, potrebbe se mai essere cercato, attraverso D'Ercole, con Pietro Ccretti (15). Contrariamente a ogni abitudine ac cademica di allora, e anche di adesso, si immerse nello studio della filosofia indiana, e sotto l'ispirazione, credo, delle ricerche del Garbi:, e alla lontana seguendo il grande esempio di Schopenhauer, ne trasse un volumetto d'esposizione chiara ma scolastica sul sistema Sankhya, che vide la luce nel 1897. L'eretico kantiano, Artw-o Schopenhaucr, fu molto probabilmente il suo maggior modello: ne condivise l'amore per la filosofia, maestra di vita e di saggezza, un certo gusto per l'eccentricità, persino il mi· soginismo, la coscienza aristocratica dell'uomo pensante di fronte alla turba sensuale e istintiv~, il disdegno per i filosofi salariati, l'insofferenza per le scuole filosofiche e la simpatia per una fi losofia popolareggiante, il rifiuto del pensiero corale in nome di una filosofia come esperienza personale, come religione indivi· duale, come opera del saggio che redime se stesso e irraggia la propria sapienza attorno a sé, infine il pessimismo storico e la concezione filosofica della religione e religiosa della filosofia. Nell'articolo già citato sulla rinascita di Schopenhauer, pubblicato nel '40, vedeva nella di lui dottrina « il pili puro esempio d'una religione filosofica personale» (16), e si augurava che in un periodo,~ nel
(15) Cui dedicò un saggio in occasione del primo centenario della
nascita, ora in Saegi e discorsi. cit., pp. 167-180. (16) Op. cii., p. 86. 104
quale il bisogno religioso e la decadenza prolonda delle religioni positive deviano gli spiriti, in cerca di verità, verso lo spiritismo, la tcosoria cd altre aberrazioni simili•, l'idealismo schopcnhaueriano potesse esercitare sulla religiosità contemporanea un'azione più viva. Ma il suo filosofo del cuore fu il pensatore russo-tedesco, Africano Spir, cui giunse, credo, pili tardi (nell'fnlrodu;;ione ali:, metafisica non ne parla), ma quando lo scoperse senti con lui una vera e propria affinità eleltiva e se ne fece divulgatore con scritti ed edizioni, esaltandolo come "una delle più elette, delle più vigorose, delle più significative personalità filosofiche del secolo scorso» ( 17). Anche Spir era un eccentrico, uno di quei filosofi che i manuali non sanno bene come classificare, un kantiano eterodosso, che il neokantismo di questo secolo avrebbe ripudiato: riprendeva Kant insieme con Schopenhauer, e sfociava in una teoria dualistica, che partiva dalla constatazione della contraddìtorictà della realtà fenomenica per giungere all'affermazion~ di una realtà incondizionata, di cui è testimonianza la legge morale. La realtà del male fu certamente uno dei .temi caratteristici del pensiero martinettiano: l'ha visto recentemente Augusto Del Noce, il quale, illuminando il rapporto tra Martmetti e Rcnouvier (su cui aveva richiamato l'attenzione anche il Paci) (18), afferma che l'avversario comune che entrambi riconobbero al termine del processo delk loro filosofie fu l'ottimismo, inteso come negazione della realtà del male, in definitiva come aspirazione morale o psicologica a trovare una conciliazione col mondo dei fenomeni (19). Come non ebbe maestri, Martinetti non ebbe compagni di strada: non si mescolò con nessuno dei gruppi che invasero la sce na filosofica italiana nei primi anni del novecento. Non fu né positivista nC idealista, né pragmatista né mistico. Ignorò il materialismo storico quand'era giovane, l'esistenzialismo quando era vecchio. Non si identificò con nessuna delle filosofie militanti,
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che tennero il campo in Italia nei primi decenni del secolo. Ma non fu un'anima in pena come l'altro solitario della filosofia italiana, Giuseppe Rensi. Anzi fu sin dalla sua prima grande opera l'Introduzione alla metafisica, un esempio ::li solidità e di coerenza, l'immagine più perfetta di chi va dritto per la sua strada senza lasciarsi distrarre dai colori troppo forti del paesaggio. Nel primo colloquio, che ho raccontato, mi lasciò alquanto sconcertato quando mi disse che se lui era un filosofo, Croce c Gentile non lo erano, e viceversa. Dovevo imparare molto più tardi che le grandi ali della filosofia proteggono gli atteggiamenti urna· ni più disparati. Gli idealisti in genere si erano liberati dal fastidio di dover tener conto dei suoi libri, considerandolo uno spiritualista ottocentesco in ritardo. Croce lo ignorò come se le cose che Martinetti andava scrivendo non lo riguardassero minimam~·nte. Solo nel '45 si occupò brevemente, e severamente, del libro su Hegel, uscito postumo nel '43: dopo aver reso lealmente omaggio all'uomo • da sempre ricordare con venerazione nella scuola italiana per il suo contegno fiero durante l'oppressione fascistica~. ripeteva il solito giudizio secondo cui il Martinetti non aveva superato .- le linee della comune filosofia accademica ottocentesca•- Gli rimproverò di non aver alcun concetto della storia; del che Martinetti non solo era perfettamente consapevole, ma era fiero, perché considerava lo storicismo come una degradazione dello spirito filosofico (20). A proposito dello stesso libro, in un altro passo, Croce parlava dell'autore come di un • egregio insegnante», sfortunatamente • formatosi nell'ambiente positivistico dell'Otto cento~ (21 ). Gentile. al contrario, prima della rottura avvenuta al Congresso del '26, già ricordata, aveva mostrato un serio inten:::.sc, si: pur decrescente con gli anni, per gli scritti martincttiani. Quando apparvc l'J,11roduz.ione alla metafisica scrissc sulla • Critica• una lunga nota, quasi un articolo in cui, pur non rinunciando a criticare il silenzio Su Hcgcl e il mancal•J approdo al-
t
(20) •Ouad..::m, della critn:a•. 1945, n, 2.. p. 9? (21) Una palli11a sconosciuto degli ultimr mesi ~ella vita d, HeRel 1948). in lndaRmi .m Hege/ e Khiorrme11li filosofi,·1, 1952. p. 28.
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l'idealismo trascendentale, diceva di aver sentito « vibrare D in molte pagine "uno spirito fraterno, ansioso di intendere l'intima essenza del reale• (22); quattro anni più tardi, di fronte al saggio Il regno dello spirito, vedeva ancora in Martinetti un alleato contro i modernisti, ma cominciava ad accorgersi che dal punto di vista dell'idealismo che risolveva totalmente la religione in filosofia, Martinetti si era messo su una strada sbagliata (23); infine nel '21, quando recensl le conferenze milanesi sul compito della filosofia nell'era presente, il distacco era diventato ormai netto: con l'idealismo trascendente di cui Martinetti si faceva banditore, non era più possibile alcuna intesa (24). Dal canto suo Martinetti non si curò né di Croce né di Gentile, né dei loro seguaci. Anche se di fatto vivevano gomito a gomito nel non sterminato orto della filosofia italiana, filosoficamente pareva vivessero in pianeti diversi. ~ significativa la risposta che chiede una volta a Ugo Spirito che lo aveva rimproverato di « ostentata noncuranza• per la filosofia italiana contemporanea: « Mi af. fretto a dire che questa mia noncuranza non è affatto ostentata. ma reale, sincera e completa. Ho serhpre avuto per abitudine di cercare la mia informazione filosofica soltanto là dove sento un pensiero onesto e sincero, dal quale credo di aver qualcosa da imparare. Appunto per questo non ho mai perduto, né perderò mai un'ora del mio tempo a leggere i lesti di questa filosofia. contemporanea, nemmeno per recensirli• (25). L'indirizzo della sua filosofia, principalmente impegnata in un rinnovamento religioso in Italia, andava nel senso diame tralmente opposto a quello dei signori di ieri, i positivisti, e ai signori di quegli anni, gli idealisti, nemici tra loro ma concordi in una concezione radicalmente laica della filosofia. Poteva, se mai, avvicinarlo ai modernisti, che nei primi anni del secolo avevano agitato le acque della morta cultura religiosa italiana. Ma per quanto il suo discorso inaugurale del 1908 all'Accademia scienti-
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fico-letteraria di Milano intitolato I/ regno dello spirito, fosse stato pubblicato nella loro nuova rivista •Rinnovamento• (26), il contatto era stato occasionale: non già un colloquio intimo, ma un incontro di convenienza. I modernisti operavano dentro la chiesa costituita. La religione di Martinetti era una religione filosofica, in polemica contro tutte le religioni positive, e con speciale severità contro la chiesa cattolica. Il suo atteggiamento di attrazione per la personalità morale dei modernisti e insieme di riserbo o addirittura di dissenso nei confronti della loro dottrina è documentato nei due lunghi saggi che dedicò a Tyrrel e Loisy (27), negli anni in cui stava elaborando le proprie idee sulla storia e sul signitìcato del cristianesimo. Nomi· nato professore a Milano nel 1906, aveva iniziato il suo insegna· mento di filosofia teoretica con una prolusione intitolata: La /1111· zione religiosa della filosofia. Di fronte ai positivisti e agli idealisti vi sosteneva una tesi che non si poteva immaginare pili impopolare: •il risultato positivo del pensiero filosofico non è in nessuna teoria, in nessuna conclusione concreta e definitiva, ma nell'educazione religiosa dell'umanità•. Ma subito dopo segnava una linea netta di confine rispetto ai modernisti dichiarando: «Un rinnovamento della vita religiosa si impone come la maggiore necessità sociale del tempo nostro; e questo rinnovamento verrà, com'è naturale, non dal seno dell'ortodossia, ma da coloro che, liberi dai vincoli del dogma, sentono vivo in sé il bisogno dell'elevazione religiosa; questo rinnovamento sarà, come in ogni tempo è stato, opera della filosofia• (28). o~crt!i dire che come non aveva avuto né maestri né com· pagni, Martinetti non ebbe neppure veri e propri discepoli, tranne forse il filosofo del dirilto Cesare Gorcni: due filosofi della gcnera1.ione di mezzo, come Banfi e Barié, che gli furono \~l· riamente vicini, diedero al loro pensiero esiti troppo lontani da quelli del maestro perché si possa chiamarli discepoli. Non ebbe una scuola, nonostante la devozione, la reverenza con cui è stato
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più volte rievocato da coloro che sedettero sui "lunghi banchi consunti simili più a quelli di una chiesa che di una scuola• (29), ad ascoltare le lezioni ch'egli impartiva nelle prime ore del mattino per tener lontani - come ha ricordato recentemente Guido Piovene - « gli ascoltatori dilettanti o mondani, estranei all'università» (30). La sua scuola era prima di tutto una scuola di carattere, di disinteressata dedizione alla ricerca, di rigore nella disciplina dello studio, di coerenza ideale e mentale, di pro fonda sincerità nell'accettazione di una dottrina, di rigore nella condotta di vita, di indomita libertà nella professione della pro· pria fede filosofica. Secondo la testimonianza di un'allieva: « Un non so che d'inspiegabile rendeva questo maestro di filosofia, tanto diverso dagli altri, dai più: un'alta personalità piena di riserbo e fierissima nello stesso tempo, gelosa di sé e aliena da tutto quanto potesse apparire, anche da lontano, lusinga o adulazione ... Insieme alla profonda convinzione di ogni verità enunciata sia nel campo teoretico che in quello morale, ci faceva presentire la profonda coerenza che nell'urto degli avvenimenti avrebbe suggellato tutta l'opera di tui • (31). Coloro che si oc· cuparono del suo pensiero subito dopo la morte - ma non sono molti -, come Sciacca, Cantoni, Alessio, furono attratti dalla particolare intensità della sua vocazione filosofica, cercarono di individuare i motivi ispiratori di una dottrina che pareva sotto tanti aspetti anacronistica, ma non ne ricalcarono le onne e non ne hanno tramandato il pensiero; gli si avvicinarono per capirlo, non per seguirlo e tanto meno per imitarlo. Bisogna anche aggiungere che il pensiero di Martinetti, non trovandosi su nessuno dei gradi crocicchi della filosofia contemporanea, è passato ,in :Ft.:!-.;i ultimi anni, da parte dei giovani, quasi del tutto inosser vato. Rensi continua a suscitare di tanto in tanto qualche curiosità: sono apparsi a breve distanza due libri sul suo pensiero. Su Martinetti ì: caduto il silenzio. Dopo il saggio di Paolo Rossi,
(29) Irene Riboni, Piero Marti11el/i: u11 maestro, « Il Ponte", VII, 1951, p. 337. (30) L'eretico Piero Marriuetti gnm 11e111ico d1 Be11edelto Croce,
e La Stampa•, 1963, n. 46.
Ol l I. Rihoni, cit., p. ~38
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..:he è del 1950, non vorrei sbagliarmi, ma saggi sul suo pensiero non ne sono più apparsi, almeno sulle riviste più note (32). Sarà strano, ma l'ultimo a richiamare l'attenzione sull'attualità del p..:nsiero di Martinetti non è stato un giovane, ma uno dei veterani della filosofia italiana, Giuseppe Tarozzi, il quale nel 1950 leggeva all'Accademia delle Scienze dell'lstiluto di Bologna, una memoria, intitolata Il vafore attuale del pensiero di Piero Marti· netti: in essa sosteneva a mo' di conclusione che • la filosofia di Martinetti è una nuova forma di razionalismo che risponde a un'esigenza profonda del pensiero contemporaneo" (33). Con tutto il rispetto per il vecchio Tarozzi, le categorie del· l'attuale e dell'inattuale non si addicono alla filosofia di Martinetti, o per meglio dire alla concezione che egli aveva della filosofia. La sua filosofia non è mai stata attuale, né allora, né poi: e non poteva esserlo. Il concetto di attualità presuppone un rapporto della filosofia col tempo, una concezione storicistica della filosofia. Martinetti non era uno storicista: la storia della filoso fia non era per lui una scalinata in cui la filosofia successiva stesse un gradino più su di quella precedente. Quando Croce, Gentile e i loro seguaci lo accusavano di essere in ritardo, penso che dovesse scrollare le spalle: di fronte all'eternità, cinquanta anni più, cinquant'anni meno ! La filosofia era per lui un evento individuale, un'ascesa personale verso una sempre più perfetta comprensione di Dio. Sorgeva quando sorgeva. E quando nascev'l il grande filosofo - e nasceva rarissimamente -, questi non aveva nessun legame col suo tempo: anzi, la vera filosofia era un salto fuori del tempo. Poteva esserci un filosofo superiore ad un altro, ma la superiorità non aveva niente a che fare col superamento. La maggiore o minore superiorità era questione di gradi
di perfezione, non di successione temporale, né di adeguazione al progresso storico. 1 suoi quattro autori furono Platone, Spi~oza, Kant, Schopenhauer: non vi sarà mai alcun storicista tan-
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lo esperto nell'arte ddla dialettica da trovare il modo di sistc· marli tutti e quattro secondo una linea di successivi superamenti. Col suo eone etto di filosofia Martinetti aveva tremendamente in sospetto i filosofi attuali. E non li invidia\'a; l'attuale di oggi l·ra il caduco di domani, e l'inattuale di ieri. L'attuale era l'c:ffi. Sarebbe molto istruttivo un raffronto tra Martinetti e Croce: non si potrebbero immaginare due concezioni della filosofia più antitetiche. Per Croce la realtà era la storia, e la filosofia aveva il compito di elaborare le categorie per comprendere la storia, era in,;omma metodologia della storia. Per Martinetti, la filosoria cominciava dal trascendimento della storia, che era il regno delle rassioni, dell'istinto, dell'animalità, del male. Sulla realtà del mak, il loro dissidio era profondo. Croce considerava il mak come un momento del naturale passaggio dal bene al meglio: solo il bene è reale. Per Martinelli il male era una realtà ine· sorabile cui la maggioranz.a degli uomini, la turba, la folla, la massa, era condannata. Per Croce l'individuo non contava nulla, per Martinetti non contava nulla 1a: storia. Croce non considerava altro processo che quello dello spirito universale; Martinetti negava il movimento storico e non riconosceva altro processo che l'ascesa dell'individuo dalla schiavitù degli istinti alla liberazione nella contemplazione. Croce credeva nella salvezza delle opere, Martinetti in quella della sola fede. Per Croce il grande tema di tutta la vita fu il sign.ificato della storia. Per Martinetti la storia aveva un significato ? Questa divergenza nel modo di concepire la realtà e la filosofia si riverberano nelle loro rispettive precettistiche morali. Ancora più istruttivo è il confronto fra i Frammenti di etic!.1. di Croce, e il trattatello di morale che è contenuto nel Breviario spiritllale. La morale di Martinetti era un insieme di regole per raggiungere la perfezione individuale, e con essa la tranquillità della coscienza, ovvero la serenità: il rispetto di se stessi, il ripudio della vanità, della vanagloria, dell'ambizione, la condanna di ogni forma di servilismo e l'elogio dell'indipendenza, il coraggio fisico e morale, la temperanz.a, la pazienz.a e il dominio dell'ira, la persevcranz.a e la cura del tempo. Era, nel senso classico lii
della parola, un'etica della moderazione come via alla rinunzia, al distacco, all'ascesi spirituale, Croce al contrario ammirava l'uomo delle grandi passioni, l'energia volitiva e creatrice, che si tempra in mezzo ai contrasti: « Ah, le grnndi cose al mondo - escla mava - non sono state compiute dai saggi e dai filosofi, da coloro che riescono abilmente a solcare il mare della vita senza troppe h.'mpcste, ma dagli animi appassionati ed energici, che sfidano te tcmpcstc ! ,. (34). Quando commenta questa frase, pare che Martinelli sia il suo interlocutore: « Certamente, per adottare questa concezione della realtà, bisogna distruggere in sè la concezione dell'individuo come entità metafisica, la concezione monadologica, la cui radice è egoistica, le cui conseguenze è dato vedere nella triste immortalità che essa promette, a contra· sto con l'immortalità vera e radiosa, che va oltre l'individuo~ (35). Effettivamente la filosofia di Martinetti è un monadismo: ciò che gli stava a cuore era la perfezione dell'individuo, al quale egli indicava un'etica della dignità e della libertà, da raggiungersi soprattulto attraverso il dominio di se stessi, il controllo degli istinti e delle passioni. Per Croce, siccome l'individuo scompariva nella storia, ciò che contava non era la salvezza individuale, ma il processo storico, il contributo che le anime grandi avevano dato a indirizzare e correggere la rotta di quest'arca santa in cui gli uomini tutti insieme e tutti solidali sono imbarcati nel burrascoso mare della storia: era l'amore delle cose buone contrapposto all'amore degli atti buoni. Se si vuole, un'etica della pura interiorità, quel1a di Martinetti, contrapposta ad un'etica che guarda il fine, il risultato, quella di Croce: un'etica che giudica gli uomini alla stregua di un dovere incondizionato, riflesso di una realtà assoluta, contrapposta ad un'etica che li giudica alla stregua della fecondità delle loro opere. Ancora: poiché la storia è continuo movimento e contrasto, un'etica storicistica non si adagia mai nel miraggio di una perfe· zione irraggiungibile. E finisce per insegnare, come insegnò Croce, l'umiltà di fronte alla realtà di cui siamo parte e la rassegnazio-
(34) Etica e pclitica. III ed., Bari, 1945, p. 22. cit., p. 22.
(35) op.
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ne di trontc ai misteriosi disegni della provvidenza. Martinetti nel suo Breviario loda la modestia, ma non l'umiltà. Croce aveva colto nel segno quando aveva scritto: « Se al peccato del monadismo etico si dà il nome, che gli spetta, di superbia, la virtù che gli si contrappone, sorgente dal seno della filosofia antimonadistica e idealistica, è quella dell'umiltà» (36). Quanto alla rassegnazione, Martinetti la considerava virtù dei pavidi, dei deboli, degli imbelli. Da un suo pensiero del '41; « La rassegnazione spinta ai limiti estremi non è più una virtù: bisogna anche saper difendere la propria dignità morale» (37). Predicava con profonda convinzione una certa sostenutezza, condannava ogni forma di timidezza cronica che è ostacolo spesso insuperabile alla pratica del coraggio morale, esigeva che ci si comportasse senza spavalderia ma anche senza eccessiva umiltà, con la quale l'uomo « deprime non soltanto se stesso, ma anche il valore che egli rappresenta» (38). Delle due concezioni morali mi è sempre sembrata più vicina alla morale cristiana quella del filosofo mondano, dell'immanentista, del teorico dello storicismo assoluto. La morale di Martinetti, che concepisce la filosofia come la forma più alta di ascesi religiosa, era una forma ammodernata di stoicismo. Del resto, il filosofo ch'egli cita più spesso nel Breviario non è Sant'Agostino, ma Marco Aurelio. Mi piace di immaginare che Croce, scrivendo il suo famoso saggio Perché non possiamo non dirci cristiani, volesse dare, se pure indirettamente, una risposta alla domanda con la quale Martinetti aveva chiuso la sua opera sul cristianesimo: Possiamo ancora noi essere cristiani? Il termine della vita morale era, per Martinetti, la saggezza, intesa come « quella disposizione di spirito che ci fa considerare le cose della vita e specialmente la nostra attività morale dal punto di vista dell'eternità,. (39). In questa ascensione verso la contemplazione di una realtà assoluta, la cui esistenza è rivelata dall'incondizionatezza del dovere morale, sta il compito ultimo della filosofia. La filosofia è in ultima istanza esercizio e com-
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~~\\thl!ifia ~, XXXII, 1941, p. ISO. 38 Breviario spirituale, cit., p. 57.
(39) Id., p. 238.
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pimento di saggezza. Il vero filosofo è il saggio. Ciò che può fare la filosofia nessuna religione costituita può fare. La più alta forma di religione è la filosofia. L'organo della religione è 1a tradizione, della filosofia la ragione. Nella filosofia, che è saggezza, viene superato il tradizionale dissidio di fede e ragione, perché la fede è essa stessa un'opera della ragione, se pure un grado provvisorio della ragione, e solo la ragione è capace di giungere all'unità interiore delle cose, che si rivela, a priori, per una specie di consenso, allo spirito: la ragione intesa spinozionamente come intellectus contemptationis (40). La saggezza è per cosl dire lo sbocco di un atteggiamento religioso di fronte al mondo: ma di una religiosità non fideistica o tradizionale o positiva ma razionale, che era poi per Martinetti l'unica forma di religione consentita al filosofo. Cosl spiegava incisivamente il suo pensiero opponendolo a quello del Tyrrell: • Non s1 tratta di sostituire con la filosofia la religione, che è una vi1a assai più vasta e complessa: ma di eliminare recisamente ogni ambiguità circa l'elemento tra· dizionale ed immaginativo e riconoscere che la religione spirituale solo da una compenetrazione con ta filosofia, ciol con la ragione, può trarre una più profonda comprensione di se stessa e un criterio per la sua direzione verso forme di spiritualità più alte ,. (41 ). Mentre l'idealismo sosteneva in quegli anni la risoluzione totale della religione nella filosofia. e quindi la soppressione della religione come forma dello spirito, Martinetti proponeva la religione come filosofia. O, con altre parole, non la filosofia come soppressione e superamento della religione, ma come l'unica vera religione, la religione dell'uomo di ragione. Nei termini stessi di Martinetti, dall'articolo che aveva suscitato la reazione di Gentile per la nettezza della contrapposizione: e Mentre per l'i· dealismo immanente la religione o non è nemmeno un problema ... o è pensata come qualche cosa che maschera e serve la vita morale, per l'idealismo trascendente la religione è il cardine stesso della vita, e la vita morale non ha termine e consistenza vera che nella coscienza religiosa• (42). Rispetto alla religione tra-
~m f:::Z: jJ~~~i, (40)
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Ragione e fede, Milano, 1934. p. 11. ~ft~~p.'e./J~SI, cit., P. 17].
dizionale, il risultato non era molto diverso: era accettata o tol· lerata come una forma di filosofia inferiore per coloro che non sono in grado di accedere alla vera filosofia. Ma le ragioni del rifiuto erano diverse: in una concezione dualistica come quella di Martinetti la condanna della religione è più pratica che teoretica; per gli storicisti da Hegel in poi è sempre stata più teoretica che pratica. Voglio dire che, mentre un immanentista laico si sforzerà di dimostrare che le credenze religiose sono false e quindi negherà ad esse qualsiasi valore teoretico, per esempio l'immortalità dell'anima, un dualista come Martinetti considererà pur sempre la religione positiva come un adombramento del vero, se pur corrotto da pratiche magiche, verso le quali si rivolgerà con l'arma della condanna morale; in altre parole, sarà disposto ad accordare alle credenze religiose un valore teoretico, seppure imperfetto, concentrando il suo radicale rifiuto sull'aspetto pratico-istituzionale della vita religiosa. Martinetti non si limitò a predicare la saggezza: la praticò imponendosi una severa disciplina di vita, che incuteva rispetto nelle anime semplici e teneva lontarii i frivoli, i superficiali, i fatui, le anime volgari. Se non ebbe maestri, compagni, discepoli, ebbe ammiratori ferventi e riverenti in tutti coloro che subirono il fascino del suo rigore morale, al di sopra delle divergenze filosofiche. Credo non vi siano stati filosofi in Italia in questo secolo cui abbiano reso omaggio personalità fra loro più diverse e da lui filosoficamente e ideologicamente più lontane, da Ludovico Geymonat, che ne scrisse sull'• Unità• di Milano nel marzo del 1958, additando alle giovani generazioni la ~ grande e com· plessa eredità morale che egli ci ha lasciato •, a Carlo Mazzan· tini, che nell'ultimo numero di •Filosofia» ne ha voluto ricordare con animo commosso• u l'umanità profonda•, l'impegno teo· retico, l'afflato religioso (43). E mi pennetta, Augusto Guzzo, di citare da una lettera che mi scrisse il 4 febbraio di quest'anno alcune sue parole che esprimono sinteticamente le ragioni che ci u
(43) C. Maz:zantini, Piero Martinetti XIV, 1963, pp. 819-820.
e l'Oriente, • Filosofia•,
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hanno riunito oggi in questa cerimonia commemorativa: ~ La fiamma non mai spenta della sua invitta fede morale». L riografica. La ricerca storiografica era un mezzo per verificare
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alcuni principi. Sia che studiasse Kant, Fichte, Hegel, come si è visto, sia che commentasse Leibniz (52) o Comte (53), non si lasciava sfuggire occasione di ritornare ai principi della sua metafisi(;a sociak. In quelle rapide sintesi storiche di determinate correnti o ide(;, in cui egli era maestro, come sono i saggi sulla conceLione politica della giustizia (54) e sullo stato come libertà (55), l'idealismo sociak sta sempre sullo sfondo. D'altro canto, ancht· la parte dell'attività dedicata, soprattutto negli ultimi anni, alla filosofia contemporanea, non ha altro scopo che quello di stabilire le differenze tra la propria e l'altrui posizione. Non vi è corso di dispense in cui non si discuta della filosofia del Croce e del
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Gentile (56). A Gentile in pa.-1.icolare dedica uno dei suoi ultimi saggi (57). Riprende la discussione col neo-kantismo (58), a cui si era già rivolto, come si è visto, nei primi anni. Nell'ultimo saggio, venuto alla luce pochi mesi prima della morte, esaminando la posizione assunta dal collega ed amico Augusto Guzzo ~ul problema della giustizia (59), vi contrappone la propria e cerca di delineare in sintesi i punti fermi della dottrina seguita. Pochi anni prima, in occasione della morte di Piero Martinetti, scrive un saggio sul di lui pensiero giuridico e politico, ed ecco nuovamente la contrapposizione tra idea individuale e idea sovero motivo conduttore di tutta la sua ricerca ciale, storiografica -, e la difesa dell'idealismo sociale contro quello radicato in una visione individualistica della società (60). Si ha l'impressione, a leggere questi saggi, che stesse a cuore a Solari non tanto l'altrui dottrina che egli presentava, quanto la propria convinzione che attraverso la presentazione cercava di mettere in luce. Per uno storico della filosofia, questa insistenza può sembrar singolare. Ma la verità è che Solari nacque agli studi con una passione dominante, ed è questa passione dominante, non la ricerca storica, che caratterizza la sua personalità di studioso. Ancora un esempio: nello scritto su Aldo Mautino, quando giunge nel racconto al momento in cui Aldo frequenta il secondo anno di università e incontra il suo professore di filosofia del diritto, Solari si sofferma a descrivere minutamente - e con questa descrizione il manoscritto si arresta - il corso che il professore svolgeva in quell'anno (che era il 1937). Questa descrizione è un pretesto per riassumere idL"e a cui aveva serbato fede tutta la vita e che gli pareva doveroso esprimere nella forma più semplice e breve, quasi uno scabro testamento, (56) Vedi per tutti il corso a stampa incompiuto Le,:;irmi di filosofia det diritto, cit., Introduzione. Una critica della filosofia del diritto del n~~ari~:o ltillosofia det diritto com_e .scienza autr>(57') e diritto concreto, in • Giom. crit. fil. ital. •.
~':! sà:.~;~ fil, XXVII (58)
fil.•,
fitoso(ia del diritto, in •Riv. di
(59)
G«uo,
(60)
fil.•, X
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da cui si tolgono inutili fronzoli per far apparire il proprio volere nella più nuda realtà. Eppure, nonostante i proposti lungamente maturati e ripe· cutamcnte espressi, questa filosofia del socialismo, che si sareb· be dornta contrapporre alla filosofia del liberalismo, Gioele Solari non scrisse mai. Dalle prime alle ultime opere, come abbiamo cercalo di mostrare, la annunziò, ma non vi pose mai mano. Nella prima fase della sua attività scientifica sembrava che dovc~~c orientare le ricerche verso lo studio dei mutamenti i:ivvc-nuti o prevedibili nella situazione giuridica a opera dei nuovi indirizzi filosofici, mostrando il nesso tra riforma filosofica l' riforma giuridico-sociale. Ma poi In ricerca dei precedenti sto· rici prese il sopra\'Venlo. E Solari diventò, forse suo mnlgrado, uno storico. L'idea dello spirito collettivo rimase un'esigenza. fermissima, ma non si trasformò in idea operante. Operò, sì, m..1 ,·orrei dire in senso rdrospetth o. Invece di risolverla in una costruzione di nuovi ordinamenti, Solari cercò di giustificarla storicamente, di mostrarne in sede storica la necessità l' la validità, movcndo dall'idea che bisognasse procurar solide fondamenta prima di avventurarsi a costruir l'edificio. E nella costruzione delle fondamenta s'impegnò tanto che vi si e!.aurì. Ma queste fondamenta sono, tanto per far qualche citazione, i due volumi sull'idea individuale e sociale del diritto, gli innumercvoli saggi con cui collaborò assiduamente sia all'attività di questa Accademia che lo ebbe tra i suoi soci nazionali sin dal 1924, sia alla ~ Rivista di Filosofia», della quale, dal 1927. fu insieme col Martinetti sostenitore e collaboratore: saggi i~ parte oggi racpgèe~ti!g:11arn~. e1914.~';:'~~~u#.'~~2~re::. ~if~~tfifs. tp."1?-1V; G. D. Romaviosi. I primo processo, in• La Scuola positiva», XV, 1935, pp · · · · · nnsbruck, in Arch. · po/è inse• Auna Pa~a ._- lfX, ~t.k «
a':A!h. 'sf.P·:i~E'.~,1\:~;~~~f~1!li
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mento, e massime di colui che aveva posto a principio della condotta la religione del dovere. E il Levi stesso rievocò il Mazzini -:hiudendo la vita dei due fratelli, citandone una celebre sentenza: u Il sacrificio non è sterile mai». 6. - Iniziando la sua carriera accademica con la prolusione al corso libero del 1906, Alessandro Levi aveva affermato che gli era caro rivolgere ai giovani u parole ispirate ad un sano, ad un sereno, ad un positivo ottimismo~ (26). Per il tempo in cui si formò, per gli ideali che difese tutta la vita, per l'indole generosa, disposta, ancor più che alla tolleranza, all'indulgenza, per la natura di uomo semplice e schietto che nei rapporti umani non amava i giri tortuosi ma subito dava e ispirava confidenza, per il candore dei suoi sentimenti, per la bonomia, condita di arguzia, del carattere, egli coltivò la religione dell'ottimismo, e la diffuse attorno a sé. Parlando una volta della concezione tragica dell'etica che era difesa dall'amico suo Limentani, disse di non condividerla perché tale concezione, per quanto austera e geniale, era « eccessivamente arcigna verso la vita» (27). Quando lo si incontrava, e si era accolti da quelle sue manifestazioni calorose di affetto - tendeva le braccia, quasi si ergeva per farsi più vicino all'interlocutore, e scioglieva i propri sentimenti in gioiose effusioni - si era tratti improvvisamente nel cerchio del suo ottinùsmo. La sua serenità era contagiosa. In sua compagnia ci si distendeva, ci si sentiva subito a proprio agio: la conversazione era libera d'impacci, di autocontrolli, procedeva spontanea senza schermaglie o giochi di sottintesi e reticenze; non si nascondeva nulla perché nulla ci era nascosto. Ed era bello godere insieme con lui quello stato di giocondità che nasce dall'onesto piacere dell'amicizia. Egli era ottimista nonostante le dure avversità che lo colpirono. Il suo ottimismo era una convinzione, non una debolezza. Egli era un idealista, non un ingenuo. Se fosse stato un ingenuo,
(26) Le
idealità Pridiche netta filosofia positiva del diritto, cit.,
h11 Ancora.sui criteri dell'operare_
p. 2
Ferrara, 1937, p. 37d.
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in Studi in. onort di P. Sitta,
la vita ch'egli ebbe, i tempi in cui visse, lo avrebbero aiutato a ricredersi. Non gli mancarono né traversie di caniera né persecuzioni politiche. Nel 1938 fu, per le leggi razziali, espulso dall'insegnamento, e durante l'occupazione tedesca andò esule per qualche tempo in Isvizzera. Ma non venne mai meno ai principi della comprensione e della tolleranza, che avevano ispirato la sua vita, e costituivano siffattamente la sua indole di uomo di ragione da essere più forti delle avversità. Chi ebbe occasione di avvicinarlo durante gli anni in cui non ebbe cattedra, non ud} da lui recriminazioni né lamenti di orgoglio ferito: i persecutori avevano ferito non il suo orgoglio, ma la dignità dell'uomo. Con· tinuò a lavorare come sempre aveva fatto. Collaborò più assiduamente col proprio nome a riviste straniere (28). Anonima uscl la traduzione della nota opera del Thon, Norma giuridica e diritto soggettivo, con lunga introduzione. Con lo pseudonimo di A. S. Sverni pubblicò sulla • Rivista di Filosofia• nel 1942 due articoli sul problema della giustizia (29) che, uniti ad altri due saggi, raccolse nel 1943 in un volumetto dal titolo Riflessioni sul problema della giustizia (lodi, tip. Biancardi, ediz. fuori commercio). Questo volumetto rispecchia lo stato d'animo di quegli anni amarissimi, aggravato dal dolore per la morte del diletto amico Ludovico Limentani, cui è dedicato. Egli vi riprende un'antica idea (di cui si trova già traccia nella prolusione, più volte citata, di Padova, e ancora nel volume La société e/ l'ordre juridique), che la giustizia nasca dal dolore. Indi eleva la giustizia sulla carità, la distingue dal diritto, fa derivare da essa il concetto del dovere come principio incondizionato della condotta. L'aspetto più interessante di quest'opera, che è passata per lo più inosservata, è il tentativo di mostrare la compatibilità e
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l'armonia delle morali, entrambe immanentistiche e umanistiche, di Ardigò e di Croce, le quali non eludono, come era parso a critici frettolosi o prevenuti, il problema della responsabilità morale. Nei due anni di esilio in !svizzera diede con fervore la sua opera a quei corsi che erano stati colà istituiti per gli studenti esuli, e pose nell'iniziativa, che lo rimetteva a contatto coi giovani, tutta la sua attiva passione di insegnante. Ne son prova alcuni volumi di dispense ciclostilate edite dal • Fondo europeo di soccorso agli studenti., che riproducono le lezioni da lui tenute nel campo universitario d'internamento militare, presso l'Università di Ginevra (30). Ma solo dopo la liberazione, ritornato alla cattedra di Parma dove rimase sino al 1948, concluso infine il ciclo delle peregrinazi0ni a Firenze, in questa sua città di elezione che gli era sopra ogni altra cara e dove aveva coltivato le più intime e solide amicizie, finalmente tranquillo dopo le burrascose giornate, poté riprendere l'antico disegno dell'opera che aveva cercato di costruire, un piano per volta, durante il corso della sua vita, e condusse a termine, con la pazienza e la meticolosità del vecchio lavoratore, il grande edificio. La Teoria ge11erale del diritto è apparsa nel 1950 ( Padova, Cedam ). Chi ha frequentato in questi ultimi anni Alessandro Levi, sa con qual trepidazione egli curasse quest'opera, e con quale: circospezione, frenando l'ansia di condurla una buona volta a termine, procedesse nella stesura. Quando la ebbe terminata, la difese da alcune obiezioni, tra le altre da quelle che io stesso gli avevo mosse, in un articolo che è uno degli ultimi scritti, apparso dopo la morte (31 ). Ed esauritasi rapidamente la
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prima edizione, la riprese tra le mani per curarne la seconda. Fu questa l'ultima fatica, la fatica che serve al coronamento dell'opera e dopo la quale si può riposare in pace con la coscienza tranquilla (32). Quando alla fine dell'agosto scorso c'incontrammo a Bruxelles, là convenuti per il Congresso internazionale di Filosofia, mi parlava sovente di questa seconda edizione, delle fatiche cui ancora una volta si era sottoposto per migliorare l'opera che riassumeva le sue ricerche e le sue convinzioni, dell'ultimo pacco di bozze che aveva portato con sé da correggere prima di tornare in Italia. Aveva già scritto la prefazione, non mancava più nulla. Era contento che non gli fossero venute meno salute ed energia (da qualche tempo sapeva che il suo cuore era indebolito) per condurre a buon fine il lavoro, che era stato un po' il cruccio e il premio di tutta la sua vita. E poi? Non era uomo da mettersi a riposo. In quei giorni mi andava ripetendo in tono scherzoso: .. Sono stanco di fare vacanza. E ora di tornare a casa a riprendere il lavoro ,._ Ma non tornò. Pochi giorni dopo, il 5 settembre, la morte lo colse imProvvisa, accanto alla consorte che Io accompagnava, a Bema, durante il viaggio di ritorno in Italia. Erano state davvero, quelle, le sue più lunghe vacanze.
( 32) Questa seconda edizione, riveduta ed aumentata. apparve alcuni mesi dopo la morte, alla fine del 1953. 207
Giuseppe Capograssi
~
impossibile indicare con poche parole, tanto meno con
una formula, e meno ancora con uno dei molti " ismi • che popolano un qualsiasi dizionario filosofico, il nucleo del pensiero di Capograssi. Non appartenne a nessuno degli indirizzi o delle scuole riconosciute: le attraversò tutte, la filosofia dell'azione, l'idealismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo, arricchendosene,
ma non lasciandosi arrestare nè chiudere in un sistema e tanto meno in una contaminazione accademica di sistemi. Dichiarò assai raramente, com'è stato notato, le sue fonti: Agostino, Pascal, Vico, Rosmini, Ollé-Laprune, Blondel, in un'opera del '30; Scheler e la fenomenologia in un'opera del '32. Ma di solito rifuggiva da ogni riferimento a questa o a quella dottrina, soprattutto contemporanee. E del resto citava più volentieri poeti, pensatori stravaganti, scrittori politici, saggisti: una strofa di Baudelaire, un'interpretazione di Kayserling, una tesi di Proudhon, un'annotazione di Simone Weil. Si formò liberamente attraverso le letture più disparate: e molte delle sue letture non erano filosofiche. Traeva gran parte del suo materiale di studio e di riflessione dall'osservazione diretta della vita attorno a sè. Le «dottrine• contemporanee, filosofiche e giuridiche, di cui aveva una conoscenza sicura, gli servivano, più che da fonte di ispirazione, da bersaglio polemico. Nemico dell'at208
tualità, mantenne vivo e operoso il colloquio coi grandi spiriti di tutti i tempi, non per accettarne una metodologia compiuta del filosofare o una serie conchiusa di verità, bensl per estrarne un pensiero, una suggestione, wi'osservazione profonda, ch'egli poi metteva arditamente in relazione con altro pensiero o suggestione o osservazione, nate in sede ed occasioni diversissime. La storia della filosofia gli si presentò come un libero colloquio, senza tempo, tra i grandi interpreti dell'anima umana; e fu un ascoltatore assiduo e reverente di questo colloquio, pur non traendone argomento per scrivere libri sui libri altrui, soltanto per avvicinarsi con più ricca esperienza all'anima di coloro che non scrivono libri e fanno con le opere quotidiane, meglio che non i potenti e i filosofi, questo nostro mondo delle nazioni. Preferì forse per questo i rivelatori della « misère • dell'uomo ai celebratori della e grandeur ». E certo tra i filosofi del cuore ebbe soltanto quelli che si arrestarono, non importa se pieni di meraviglia o di angoscia, di fronte al mistero. Quando parlava di Croce, di cui ammirava l'umanità, la semplicità, il rigore, restava attonito e costernato: quèst' uomo pur grande non aveva mai avuto il senso del mistero. Tra i grandi spiriti del passato dominò su tutti gli altri nel suo pensiero - come ha detto bene in un bel saggio Pietro Piovani (I), uno dei suoi allievi prediletti -, Giambattista Vico. Non vi è opera, in cui l'ispirazione di Vico non solo nel disegno generale ma in alcune tesi particolari non sia evidentissima I! ripetutamente dichiarata. La prima chiave per capire il pensiero di Capograssi è forse proprio il suo originale vichismo; ond~ si potrebbe cominciare col dire, per tentare una prima approssimativa definizione del suo pensiero, che la sua opera abbia rappresentato un capitolo nuovo della fortuna del Vico nella filosofia del diritto italiana. Ma il suo Vico non fu il filosofo della storia degli hcgcliani napoletani, né il sociologo dei positivisti, né lo scopritore delle guise dello spirito o
(I) Itinerario di GiusepPe CaPoiras~i. in« Riv. int. fil. dir.•, XXXIII, 1956, p. 421. A questo scntto nmando per la bibliografia delle opere del Capograssi.
il preromantico o l'anticipatore di Hegel degli idealisti. Se mai,
per Capograssi, Hegel non aveva sviluppato Vico, ma lo aveva svuotato ed immiserito Il suo Vico era il filosofo che si era ribellato all'autorità di Cartesio e della ragione astratta, e messosi umilmente alla scuola del senso comune aveva cercato di strappare il segreto delle vicende umane scrutando non tanto le giustificazioni che gli uomini danno delle proprie azioni, ma le azioni medesime nella loro inconsapevole immediatezza. Era un Vico interpretato alla luce della filosofia anti-intellettualistica che ebbe voga nel primo decennio del secolo soprat· tutto negli ambienti della cultura militante, di cui Capograssi dovette sentire fortemente l'attrazione, come apprendo da una notizia preziosa del Piovani sulle sue letture giovanili (2): un Vico filosofo della vita contro l'intelletto astratto, dell'esperienza immediata contro ogni degenerazione concettualistica, del primato dell'azione contro l'antico e nuovo razionalismo, dell'individuo empirico contro i fasti dello Spirito assoluto. Nelle poche pagine che egli scrisse sulla Attualità del Vico nel 1941 si legge questo passo: « Vico dice al filosofo che l'individuo che deve esser oggetto della sua speculazione è l'individuo iniziale, inizialmente posto dinanzi alle necessità della vita, non l'individuo già malato di metafisica, perché è il Polifemo che costruisce il mondo umano» (3); e quest'altro: «Al filosofo, Vico dice che, per adeguarsi a questo individuo, deve essere questo individuo che soffre, più che nella vita, la vita. Il filosofo deve ridursi alle condizioni di puro slancio d'umanità e libertà, sì da poter ricreare la sua esperienza " ( p.93 ). In questo senso, egli volle essere filosofo alla maniera di Vico, o per lo meno secondo l'interpretazione che egli dava del modello vichiano: il filosofo che non si sovrappone colla sua ragione alla vita, ma si immerge in essa per coglierne l'intima razionalità; che non è l'oracolo dello Spirito assoluto, ma il cronista degli eventi quotidiani, dell'individuo anonimo.
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Fin dal suo primo libro diceva vichianamente: • 11 principio dello Stato è nella realtà dello Stato: conoscerlo equivale a produrlo, a farlo nascere dal concreto dell'attività umana» (4). Nel suo primo libro teoreticamente impegnativo (5), denunciando il distacco tra filosofia e vita, definiva la filosofia riflessione sulla vita e di contro alla speculazione attratta dal fascino della vita universale egli andava a mettersi dalla parte dell'individuo dell'esperienza immediata, per interrogarla, come dirà nell'opera successiva, •in ciò che ha di originale, di irriducibile, di veramente dato,. (6). E in questa stessa opera, proponendosi di cercare il diritto come vivente idea umana e vivente energia (e citava il Vico), chiedeva che il filosofo si facesse coscienza comune; e presentava la sua indagine non come una soluzione del problema, ma come • una descrittiva dell'esperienza giuridica ». Nel libro su Il problema della scienza del diritto (Roma, Soc. ed. Foro Italiano, 1937) contrapponeva al metodo della superbia proprio dei filosofi speculativi che si appollaiavano su picchi inaccessibili, il proprio metodo mirante a una ricostruzione interna del contenuto della scienza, ed era il metodo dell'wniltà: e chi non corre subito col pensiero alla vichiana • boria dei dotti,.? Questa fedeltà all'ideale del filosofo •registratore" della storia fatta dagli uomini, fu nota costante di tutti i suoi scritti, i quali nascevano per lo più, e sempre più chiaramente negli ultimi anni, dal bisogno di dare un'interpretazione, ch'egli diceva o credeva fedele, della storia contemporanea, nelle sue trasformazioni giuridiche e sociali. Una volta chiama se stesso •amanuense» della storia (7). Altrove si dice • un dilettante, che ha soltanto origliato alla porta dei filosofi,. (8). Licenzia il suo libro maggiore, breve summa della sua interpretazione della vita, Introduzione alla vita etica, presentandolo come« la effimera testimonianza dello stato d'animo
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1}ff.es~~io~~u~tciOdi!~8'Afhe~3!'e~~,.8 1ho. (6) Studi sull'esperienza giuridica, Roma, E. Loescher. 1932, r11. 223 \7) L'ambiguità del diritto COPftemJ.°raneo, in La crisi del diritto, 9~:, 1~. 1lj 7 Pad(S)· L
~~1!::/l,i if~\i~~
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d'un anonimo individuo p1:rduto nella folla anonima di quei tempi- (9). E ancora nell'ultimo saggio assegna al Alosofo il compito di assistere «al continuo nascere della vita nelle sue forme essenziali e nelle sue forme storiche• e di cercare «di darne notizia» (IO). Fu questa «umiltà"· forse, a suggerirgli di indicare l'oggetto delle sue riflessioni col nome di " esperienza ». Come filosofo del diritto, chiamò l'oggetto della sua ricerca col nome di "esperienza giuridica», e non con quelli più corÌlpromettenti e anche più ristretti che erano comuni tra i filosofi del diritto, come «idea» e «concetto» del diritto; sì che egli ebbe nome di filosofo dell'esperienza giuridica e da lui ha tratto ispirazione una tendenza nell'odierna filosofia del diritto italiana che al l'esperienza giuridica si richiama. «Esperienza» è spesso nelle opere di Capograssi sinonimo di « vita •; i due termini sono nella maggior parte dei contesti srambiabili. Si potrebbe parlare dunque anche di una « filosofia della vita » contrapposta ad ogni concezione intellettualistica dell'uomo e del filosofare sull'uomo; e forse questa espressione è meno equivoca, e avrebbe provocato meno erronee interpretazioni ( quando si pensi che « esperienza • fa pensare ad « empirismo •, e questa filosofia dell'esperienza non C una filosofia empiristica). Ecco, ad esempio, come Capograssi cerca di portarci al suo concetto di esperienza: « C'è tutto uno sforzo nel soggetto, pieno di incertezza ma pieno di continuità, per arrivare a veder chiaro per anivare a realizzare il suo destino e questo sforzo ricco di affermazioni e ricco di dubbi, ricco di speranze e ricco di scoraggiamenti, è l'esperienza ~ ( 11 ). Nel concetto di esperienza o di vita comprendeva tutto il mondo dell'uomo, visto nella sua continua opera di produziOne della propria storia (12).
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Più preciso, forse, o almeno più chiaro, era il concetto di •esperienza• nel suo uso polemico. Ponendo l'esperienza giuridica a oggetto della riflessione filosofica, Capograssi intendeva prender posizione contro alcuni indirizzi dominanti che a suo giudizio restringevano l'ambito della riflessione filosofico-giuridica al diritto come nonna ( donde la sua adesione alle teorie istituzionali), o risolvevano il momento giuridico nel momento astratto della volontà (donde la sua polemica antigcntiliana (13) ). o vedevano nel diritto una forma vuota riempibile dei più diversi contenuti (donde la sua critica aperta del Kclsen (14) ). Nell'esperienza giuridica egli poneva le norme e le istituzioni, ma insieme anche e primamente i soggetti, gli uomini che creavano le une e le altre, e additando ai filosofi del diritto come loro campo di osservazione l'esperienza giuridica, li invitava ad abbandonare ogni angusta visuale che non poteva non deformare la complessità dei fenomeni sociali che vengono di solito compresi ( dalla coscienza comune in specie) sotto il nome di diritto. e ad abbracciare il diritto non più soltanto nella sua ogsettività ma nel suo porsi nella coscienza degti uomini In una Nota sull'esperienza giuridica che mi pare particolarmente illuminante si pone la domanda: • Ma che cosa è l'esperienza»?, e risponde: • Se si considera dall'çsterno come insieme di azioni e insieme di nonne, ed il diritto si confonde con la norma, l'essere sarà staccato dal dover essere perpetuamente, ma il problema resta intatto ed insoluto perché il problema sarà sempre di spiegare il nascere di queste norme, e quel rifondersi di queste norme nell'azione, o almeno, se le nonne non si realizzano nell'azione, di spiegarsi questa duplice posizione, e la relazione interna a questa duplicità. Occorre dunque considerare l'esperienza là dove essa è veramente se stessa cioè nell'attività concreta del soggetto• (15). (
modo esplicito, in Studi .su//'e.sperienza giuri-
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rm\ca~n~11an~~~~J:-:i~n~e 5~ 81n°eof:::n:~~~i contenuto (Saggio sullo (iS) Anali.si tlell'esperienta comune, cit., pp_ 153-154 fil, 1591, Il
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cor.;1vo è mio.
E quando dovrà fare l'elogio del giurista Camelutti spiegherà che il diritto da lui • è concepito francamente nettamente incontestabilmente come esperienza», il che vorrà significare che « per questo giurista il diritto non è norma, non è comando, non è codice di legge ma niente altro che vita, una forma particolare della vita concreta, una esperienza che gli uomini costruiscono vivono soffrono, che fanno e disfanno con la loro obbedienza e con la loro disobbedienza• (16).
Ci fu nelle riflessioni del Capograssi, a mio giudizio, un problema centrale, e fu il problema dello stato, cui si voi.se sin dal primo libro: meglio si direbbe forse il problema della tensione drammatica, particolarmente acuta nella società contemporanea, fra l'individuo e lo stato. Credo che valga la pena di cominciare a parlare della filosofia di Capograssi, in attesa di studi più ampi, dal punto di vista del suo interesse per il problema dello stato contemporaneo e della salvezza dell'individuo nella crescita smisurata dello stato totale. Il suo pensiero fu dominato dalla presenza minacciosa dello stato moderno sempre più potente e insieme sempre più inadeguato ai bisogni della società e alla misura dell'individuo. Nei due grandi antagonismi storici ch'egli spesso illustrò tra società e stato, tra individuo e stato, si mise dalla parte della società (e ciò spieghi il suo interesse dichiarato, nelle opere giovanili, per il marxismo) e dell'individuo (riviveva in lui tutta la tradizione personalistica della filosofia cristiana ch'egli vedeva culminante in Rosmini). Nessun contrasto, invece, vedeva fra individuo e società, considerando la società nelle sue varie forme come il luogo di esplicazione dell'azione individuale, come il molteplice prodotto dell'azione Si possono distinguere, pur restando unitarie e l'ispirazione e la soluzione, tre diversi atteggiamenti di fronte al problema,
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che nascono da diversi periodi storici in cui ebbe a scrivere, e ci permettono di distinguere, senz'altra pretesa che la chiarezza espositiva, tre fasi della sua attività di studioso, ciascuna all'incirca della durata d'un decennio. Il primo decennio di maturazione ( 1918-1929) comprende tre opere giovanili poco note, tutte e tre aventi per oggetto, per l'appunto, il problema dello stato: Saggio sullo Stato, già menzionato; Riflessioni sulla autorità e 1a sua crisi (Lanciano, Carabba, 1921); La nuova democratia diretta (Roma, Arti Grafiche Ugo Pinnarò, 1922). Il punto di part.enza comune a questi scritti è la rinascita o meglio la spera~za che ,·a affiorando, dopo il primo tremendo conflitto (in verità manca anche il più piccolo riferimento agli avvenimenti esterni), nella rinascita della società coi suoi ordini, le sue istituzioni, la sua spontaneità creatrice, contro Io stato sovrano e autoritario, oppressivo e aggressore. Nel primo saggio Capograssi si propone vichianamente di comprendere il fenomeno dello stato ripercorrendo l'itinerario che gli individui umani hanno percorso per arrivarci. E questo itinerario lo conduce sino a trovarsi faccia a faccia collo stato moderno « travolto da una torbida sconnessa incoerente volontà di dominio e di ambizioni• (17). Al di là del quale si annuncia la fine dello stato, la civitas magna, di cui Vico, dallo sguardo più acuto di quello di Hegel, parlò, ed è la città nuova fondata non sul diritto ma sulla carità. Questo stesso stato moderno gli si presenta, nel secondo libro, come l'usurpatore di tutte le autorità sociali e quindi come il negatore della vera autorità di cui l'esperienza umana non può fare a meno, di quell'autorità che nasce nella società e culmina nella ragione suprema e non può esaurirsi nella sovranità dello stato. Era una netta affermazione del pluralismo sociale contro il monismo statualistico e una rivendicazione del movimento di liberazione sociale contro il monopo, lio del potere da parte dello stato, e insieme un'appassionata rivelazione della profonda antinomia che agitava la società mc> derna. Questa antinomia egli riteneva, nel terzo libro ricordato, il più ricco e denso dei tre, che fosse per essere superata dalle (17) Sanio sullo Stato, cit .. p. 233 fl, 134).
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trasformazioni sociali in corso, nella quale il vecchio stato fondato sull'accentramento dell'imperio e sull'assorbimento e annullamento di tutte le froze sociali sottostanti, veniva a poco a poco scalzato da nuovi istituti di diritto pubblico, che tendevano o che egli interpretava come tendenti a nuove forme di « democrazia diretta», definita come " l'intervento delle forze sociali nella for· mazione della volontà e dell'ordine pubblico• (18). Ma la speranza che la crisi dello stato moderno potesse essere superata in una nuova e più alta forma di democrazia in cui gli ordini sociali imbrigliati prendessero il sopravvento sullo stato accentratore, doveva essere delusa e preclusa dagli avvenimenti che Seguirono. Il secondo decennio (1930-1942) comprende la trilogia delle opere maggiori: Analisi dell'esperienza comune; Studi .su/l'esperienza giuridica; e /I problema della scienza del diritto, già ricordate, e si può far terminare col saggio scritto alla soglia della catastrofe, Il significato dello Stato contemporaneo (19). Con queste tre opere Capograssi si sottrae all'incalzare delle domande sulla società contemporanea, alle quali avev::>. cercato di dare una risposta nelle opere precedenti, e tenta una oggettiva e impersonale « fenomenologia ,. (le suggestioni della scuola fenomenologica sono evidenti e dichiarate) dell'esperienza giuridica: la prima, a guisa d'introduzione, inserisce il diritto nel contesto della universale esperienza pratica dell'uomo, accanto alla morale e alla religione; la seconda, concentrando il fascio di Juce della riflessione soltanto sopra l'esperienza giuridica, ne illustra gli elementi costitutivi, il concetto e le fasi di sviluppo: la terza si rivolge ad un aspetto particolare di questa esperienza, cioè all'opera dei giuristi che interpretano, integrano, sviluppano le norme giuridiche. Non manca all'inizio della seconda opera la ricorrente polemica contro lo statualismo e la constatazione che « all'unico piano del diritto statale che sembrava ormai assestato e definito, si sostituiscono molteplici piani che s'intersecano e si frammischiano ed anche talvolta
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si escludono a vicenda• (20). Ma la tensione drammatica tn società e stato resta sullo sfondo: in primo piano appare lo sforzo di una descrizione ragionata e pacata. La legge dello stato è considerata come l'ultimo traguardo dell'esperienza giuridica, che sale alla vetta attraverso le due tappe della legge intrinseca dell'azione e della legge positiva, è « la legge libera dell'azione che raggiunge il punto culminante della sua vita, il massimo della sua vita, in quanto raggiunge il massimo della realizzazione e dell'effettuazione• (21). In un saggio del 1939, Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici (22), partendo ancora una volta dalla tesi pluralistica, attribuisce all'ordinamento statale la funzione preminente di realizzare l'ordinamento unitario dell'esperienza giuridica, in un'esigenza mai compiutamente soddisfatta per la presenza degli altri stati. Solo nel saggio già citato sul significato dello stato contemporaneo la raffigurazione drammatica dei due protagonisti dell'esperienza giuridica, l'individuo e lo stato, riprende il sopravvento sulla descrizione; nel 1942 non è più lecito a un filosofo che si attribuisce il principal compito di deCifrare i messaggi che la vita reca attraverso gli eventi della storia, restare impassibile. Nella perpetua lotta fra l'individuo e lo stato, quest'ultimo per ora è trionfante: la crisi dei valori annunziata dal profeta del nichilismo ha aperto un vuoto in cui l'individuo ha smarrito la propria sicurezza. Lo stato è intervenuto a occupare questo vuoto, si è sostituito all'individuo: •ha trovato questo vuoto e si è insediato in esso; ha trovato l'individuo disoccupato e l'ha occupato attirandolo nella sua azione• (23). Se negli scritti giovanili Capograssi aveva salutato con favore e fervore lo sperato avvento del primato della società sullo stato; se negli scritti della maturità aveva identificato il suo stato ideale in quell'ordinamento che accoglie tutti gli ordinamenti sociali inferiori e ne garantisce la vitalità, ora è costretto a concludere che • alterando il rapporto tradizionale tra società e stato, per cui lo
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!22) Nella • Riv. int. fil. dir.,., XIX, 1939, pp. ~S [IVÌ 183-2211. (23) li significato dello stato contemporaneo, cit., p. 6 [IV. 38ol. 217
stato veniva nel movimento della storia a coronare la società e a dare al suo processo l'ultima mano, lo stato contemporaneo si pone come il creatore del mondo sociale» (24). Cadute le speranze nell'avvento della « nuova democrazia diretta•, il commosso e inquieto interprete della storia contemporanea si è tr~ vato, pieno d'angoscia, faccia a faccia con lo stato totalitario. Nell'ultimo decennio ( 1945-1955) il problema della dialettica non risolta tra individuo e stato, fra società e stato, riemerge e torna in primo piano. Basterà ricordare, oltre al libro già citato Introduzione alla vita etica, alcuni saggi che si richiamano l'un l'altro: /I diritto dopo la catastrofe (negli Scritti giuridici in onore di Carnelutti, I, Padova, Cedam, 1950); Incertezze sull'individuo (negli Scritti di sociologia e politica in onore di L. Sturzo, I. B~ lagna, 1953); l'ambig11ità del diritto contemporaneo, già citato; Su alcuni bisogni dell'individuo contemporaneo, pure citato. Caper grassi ha sentito profondo orrore della catastrofe; e la interpreta dal punto di vista metafisico come la macabra vittoria del nichilismo sulla tradizione cristiana; dal punto di vista sociale, come la vittoria dello stato onnipotente sull'individuo spogliato e spodestato. Egli prende le difese dell'individuo. E lo difende perché, nonostante la miseria in cui è caduto, ha fiducia in lui. Dalla rinascita dell'individuo dipende la ripresa dopo la crisi. E forse la crisi è stata così dura che non può alla fine non essere salutare: quando il fondo dell'abisso è stato toccato, si ricomincia a salire. Parte dalla constatazione dell'individuo disindividualizzato, disponibile alla propaganda e alla letteratura del male. Di questo individuo cerca di tracciare ancora una volta la storia ideale eterna: dal momento aurorale dell'azione alla caduta nello sforzo, dissimulata nelle false rivelazioni dell'inerzia, della paura, della superbia; dalla ricomposizione nella vita etica fondata sul do,·cre alla consapevolezza della finitudine rivelatrice della morte, dì fronte alla quale non vi sono che due vie, o il suicidio (disperazione della propria finitezza) o la preghiera (speranza nell'infinito). Ma non dimentica di guardarlo anche alla luce delle vive esigenze
(24) 11 significato dello .~tato coritemporarie.o, cit., p. 63 [IV, 381 J.
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di oggi, di quell'esigenza profonda di liberazione che si dirama in tre direzioni, della libertà dal bisogno, della libertà dalla disuguaglianza dei punti di partenza, della libertà dal lavoro meccanizzato, e che pur partendo dal bisogno fondamentale dell'uguaglianza, si protrae nel bisogno dell'amicizia e si conclude nel bisogno della speranza. Ma gli istituti giuridici non sono ancora adeguati ad accogliere le nuove esigenze. I vecchi istituti sono stati travolti ma non rinnovati: il mondo del diritto vive sotto l'insegna dell'ambiguità. Solo l'individuo ritrovando se stesso, non lasciandosi trasformare in un automa, può eliminare l'ambiguità, cioè abbandonare la strada sbagliata del tipo autoritario di stato e percorrere sino in fondo quella del tipo contrattuale o democratico di cui sin dal suo primo scritto aveva cercato di cogliere l'essenza. Ma per tornare ad essere se stesso l'individuo deve riascoltare la voce di Dio: « Partite dello sport e della guerra con i loro clamori, incessante pulsare dei macchinismi grandiosi dell'industria con il continuo risucchio in sé delle esistenze umane, masse urlanti nelle piazze, folle che si assiepano in tutte le strade: tutto Cerca di coprire l'esile voce di silenzio con la quale Dio batte alla porta del cuore dell'uomo• (25).
Giuseppe Capograssi appartiene alla schiera dei moralisti più che a quella dei filosofi nel senso stretto ( e da lui aborrito) della parola. Se di una maniera di filosofare si può parlare a proposito delle sue opere, essa è simile per consonanza o vocazione naturale, non per imitazione, a quella degli esistenzialisti; anch'egli mirò a fare un'analisi dell'esistenza umana (e non si curò del sistema) (26). Più che un teorico del diritto e dello stato, fu un profondo e illuminato interprete della crisi contemporanea. I suoi libri sono scritti « con animo perturbato e commosso•
(25) lntrodrdone alla vita etica. cit .. pp. %-'fl rrn, 1471(26) Giusta mi pare l'osservazione di Camelutti che vi sia un'affinità tra il concetto ca[)Olf"rassiano di esperienza e quello di esistenza, ~\"°~~~ 8f~~~i~s!~t~~j~l~it:i;n:;,'e~e;g;f~iist P~af.'grassi . • Quaderni 219
più che non siano opera di riflessione e con mente pura ». Il suo pensiero fu dominato da tre o quattro intuizioni o il· luminazioni: come al di sotto della dotta riflessione dei filosofi c'è l'esperienza comune di cui bisogna tener conto, così al di sotto della storia ufficiale degli stati, c'è la storia clandestina, ignorata, monotona del povero individuo anonimo ed è questa storia segreta quella che conta, perché da essa alla fine traiamo un'indicazione sulla salvezza e sulla perdizione delle società che invano cerchiamo nelle azioni pubbliche e magniloquenti; il diritto che sale sino ai fastigi dello stato e della società internazionale nasce in questa storia anonima, e qui sia il suo valore intimo e perenne, e vi nasce allo scopo di salvare l'azione dell'individuo indipendentemente dalla salvezza dell'agente, in quanto è valutazione consapevole del valore dell'azione, e per questo il diritto è elemento costitutivo della società umana; il significato ultimo della storia è nella destinazione religiosa dell'uomo, vena sotterranea che solo a tratti sale alla luce del sole ma sempre nutre le radici più profonde onde crescono gli alberi destinati a dar frutti, e di questa destinazione religiosa verità è il cristianesimo, garanzia la Chiesa. Con queste fondamentali illuminazioni cercò di rischiarare per sé e per gli altri la scena della storia, di cui si propose di essere (ma non fu) imparziale e impassibile "narratore•- Il diritto fu per lui un personaggio vivente di questa storia, uno dei personaggi decisivi: di qua il carattere vivo e appassionato dei suoi libri, il suo stile concitato, oratorio. « L'esperienza giuridica è il dramma di questo volere, che non vuole e che, anche non volendo, è riportato al suo vero destino. L'esperienza giuridica non ha altro oggetto che di dare al volere, che non vuole, il suo vero oggetto, di fargli volere se stesso nel suo fine, nella vera pienezza del suo fine pienamente ricostituito• (27). Filosofo della vita, Capograssi visse con severa serietà la sua filosofia. La sua vita fu una vita filosofica, una filosofia vivente, nel senso che nessun evento, anche il più piccolo, accadeva attorno a lui a caso, senza che una consapevolezza cosmica (27) Introduzione. alla vita etica, cit., pp. 33-34 [III, 571220
sempre vigilante lo trasformasse in un segno, in una cifra di una regola misteriosa la cui continua rivelazione era il compito del filosofare. Questa vita nobilissima, condotta sotto il segno di una serietà senza debolezze e indulgenze verso se stesso, fu scaldata dall'amor del prossimo, dal generoso abbandono allo spirito dell'amicizia, da una vocazione pedagogica ininterrotta che attrasse verso di lui uomini disparatissimi in cerca di lumi intellettuali e morali. Perciò il suo pensiero, la sua anima, è solo per una minima parte racchiusa nei libri, ai quali del resto da uomo saggio non dava troppa importanza tanto da affidarli a piccole case editrici senza pubblico. Costituirono i suoi libri non più che una pausa del suo filosofare discorrendo e dialogando tra le pareti domestiche. Fu detto, benissimo, che • il foglio sul quale egli imprimeva le sue parole eravamo noi stessi• (28). Fu pensatore non libresco non solo perché non scrisse libri su libri, ma, in senso ancor più pregnante, perché non esaurl il suo magistero nei libri e saggi che scrisse. Amava il colloquio improvviso, spontaneo, libero, in cui ~a frase, un fatto, un personaggio erano una scintilla per accendere il fuoco della discussione, il pretesto per intessere una riflessione, per trarne una moralità. Da ogni inc?ntro con lui si ritornava arricchiti, più maturi nella conoscenza di noi stessi, della piccolezza dei nostri pensieri, della inconsistenza delle nostre ambizioni, della sproporzione tra gli ideali e le opere, della fragilità dei nostri castelli di idee. Sarà difficile dimenticare quel viso nobilissimo e profondo, vero specchio dell'anima: lo vidi attraversato da un riso beffardo o da un sorriso ironico senza malizia, dall'ammicco indulgente o dalla dura smorfia dell'indignazione. Vi lessi gioia e corruccio, speranza e disperazione, irritazione e compatimento, insofferenza e indulgenza, e pietà, soprattutto pietà, L'amicizia di Capograssi è stata anche per me come per molti che di lui già hanno scritto un dono prezioso. Uno di quei doni che non si possono ricambiare come accade quando chi riceve è più povero di chi dà. (28) S. Satta. Gius~ Capograssi, Roma, Min. Pubbl. lst., 1956, p.17.
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Piero Calamandrei L - Splendevano al sole i bei colli di Firenze in quel limpido pomeriggio di settembre quando lo accompagnammo, sconsolati, al cimitero di Tresplano. Di quei colli, in uno dei suoi ultimi scritti, aveva detto che su di essi vibrava • una misteriosa luce di umanità,., sl che « veniva voglia, se si potesse, di carezzarli da lontano ». Non li avrebbe più visti. Il suo sguardo, pieno di affettuoso stupore, non si sarebbe più posato sul paesaggio « carico di espressione umana ,. ; né « sugli ultimi colli degradanti che continuano a chiamarsi natura, ma in realtà sono ormai opera d'arte•; né sulla città posta al centro di quel dolce avvallamento « come una perla al centro di una conchiglia preziosa • (I). Ma Firenze era nella mia mente cosl legata alla sua immagine, alla sua voce, al suo gesto che io la vedevo coi suoi occhi, e guardandola, durante quell'ultimo viaggio, mi pareva di portare in me qualcosa di suo. Era anche questo un modo, nell'imminenza del congedo, di trattenerlo con me, di non dirgli addio. E quando tornai in città, una sola cosa parve potermi consolare: il proposito di non lasciarlo morire. Ricordo che, passando dinnanzi a una libreria, vidi esposti alcuni suoi libri: acquistai l'foventario della casa di campagna, mi chiusi nella camera d'albergo e non uscii fino a che non l'ebbi terminato. Cercavo di tener lontano con quella lettura quel sacrilegio dell'oblio che compiamo così spensieratamente anche verso i nostri morti più cari. Non volevo che l'onda dei ricorcli che m'incalzava si ritraesse e mi lasciasse arido e vuoto; e rimasi come sommerso o sospeso in uno stato di commozione, di concentrazione nel ricordo. Da quel momento è cominciato un lungo colloquio con lui che dura tuttora. Ringrazio il caso che mi mise fra le mani, in quell'ora, quel libro, perché (I) Parlare di Firenze, Firenze, La Nuova Italia, pp. 8, 9, IO.
non vi sono pagine forse, tra le mille e mille ch'egli scrisse, capaci di rappresentare più fedelmente la sua figura morale e sentimentale, ciò che abbiamo più amato di lui: il fanciullo ingenuo, trasognato, che sopravvive nell'uomo ma1uro che combalterà intrepido per cose grandi come la giustizia, e non conosce, come il fanciullo anonito di fronte alle prime manifestazioni della maestà della natura, né sospeni né dubbi, e si abbandona fiduciosamente all'ordine morale che si rivela con immediatezza alla coscienza: l'uomo grave che si abbandona al riso fanciullesco sgorgato dal cuore, perché, malgrado tulio, non ha perso ogni speranza negli uomini, e continua a credere, come il fanciullo che si inseriva pianamente, senza scosse, nel mondo stabile e sicuro dei grandi, che il cattivo sarà punito e il buono trionferà. II significato profondo della vita di Calamandrei, ciò che rese la sua figura umana cosl affascinante, si può riassumere brevemente in queste parole: passione e lotta per la giustizia. Combatté per la giustizia come giurista, c?me avvocato, come riformatore di leggi, come scrittore politico, come uomo politico, in genere come uomo di cultura, come quello straordinario uomo di cultura ch'egli fu, accademico fra gli accademici fino ad essere considerato uno dei rappresentanti più autorevoli della nuova scuola di diritto processuale civile, militante tra i milltanti tanto da aver fondato e diretto e nutrito dei suoi scritti una delle riviste di cultura e politica più fortunate e meno effimere in Ita lia, dove la vita delle riviste si misura non a decenni, ma ad anni o a mesi. L'ideale di giustizia, costantemente perseguito, lo fece esser presente con cuore appassionato e mente lucidissima dovunque vi fosse un sopruso da denunciare, un torto da riparare, un debole da proteggere. Fu l'ispirazione unitaria dei vari aspetti della sua opera multiforme, ed è forse, per chl cerca di comprendere l'essenza della sua personalità, la migliore chiave di spiega· zione. Purché non si dimentichi che la giustizia cui egli mirava non era accigliata ma sorridente, volta più verso l'indulgente comprensione che verso la severità: era una giustizia in cui la bilancia contava più del gladio e sui due piatti della bilancia una rosa pesava più di un grosso volume di dottrina.
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2. - Come studioso, Calamandrei appartenne alla seconda generazione dei giuristi, che hanno contribuito a costruire, nei vari campi del diritto, la scienza giuridica in Italia, nel senso moderno della parola, ad operare il passaggio dalla fase esegetica a quella sistematica. La prima generazione, nel campo del diritto processuale civile, ebbe un grande rappresentante: Giuseppe Chiovenda, che gli fu maestro, e verso il quale egli serbò grato ricordo insieme con una calda ammirazione per la probità, la libertà di giudizio, l'austerità della vita e l'eccellenza dell'ingegno. ~ stato detto, e forse a ragione, che Calamandrei sia stato il più chiovendiano degli allievi, tra i quali si annoverano i più insigni proceduristi italiani. Egli colse felicemente il momento del passaggio dalla vecchia alla nuova scuola nelle parole stesse dell'ultimo rappresentante del metodo esegetico, Ludovico Mortara, quando questi, durante le onoranze al Chiovenda, si disse lieto di portare il saluto u di quella generazione di esegeti italiani ,., che, pur vantando nomi insigni e qualche non trascurabile benemerenza, aveva ormai compiuto "in serenità la sua giornata di lavoro• (2). Disse bene che la novità di Chiovenda era consistita • nell'affer· mare, attraverso la dimostrazione dell'autonomia dell'azione e degli scopi pubblicistici del processo, la netta separazione del diritto processuale dal diritto privato, ed a restituir con ciò allo studio del processo... la dignità di una scienza,. (3). Nelle varie opere mise via via in rilievo i debiti di riconoscenza verso il maestro non solo per la concezione generale del processo, che fu detta pubblicistica in antitesi alla precedente privatistica o individualistica, e per l'equilibrio con cui aveva saputo superare la concezione individualistica e liberale senza cadere in quella collettivistica e autoritaria, ma anche per l'elaborazione di alcuni concetti tecnici essenziali che avevano permesso la costruzione dogmatica del processo, quali quelli dell'azione come diritto po testativo e del rapporto processuale.
(2) Lodovico Mortara (1937), in Studi sul processo civile, IV, p. 212. {3) Giuseppe Chiovenda. in Studi. IV, p. 224. Lo scritto citato è cnrnposto di quallro saggi diversi, rispettivamente del 1924, 1929, 1931, 1937. Un altro saggio su Chiovenda scritto a guisa di rievocazione a dieci anni dalla morte, si trova in Studi, IV, pp. 283-294.
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Il compito che spettava alla « seconda generazione •, era, da un lato, di fondazione, e, dall'altro, di integrazione dell'edi· ficio appena cominciato. Si trattava, ora di saggiare la validità delle premesse del sistema attraverso l'analisi d'istituti particolari, e di sottoporre a poco a poco tutti gli istituti principali ad una revisione dogmatica, ad una purificazione linguistica, ad una maggiore determinazione concettuale; ora, salendo alla teoria generale del diritto, di rompere ogni barriera fra disciplina e disciplina, e travasare strumenti concettuali nati in un campo ad altro campo, e mostrare almeno tendenzialmente l'unità logica del di· ritto, o il diritto come sistema. Calamandrei lavorò con alacrità nelle varie direzioni non mai smentendo l'abito, che gli era caratteristico, di nitidezza nella posizione del problema, di scioltezza nell'esposizione, di originalità nelle soluzioni, di misura nel giu• dizio. Una dichiarazione di principio, fatto all'inizio di uno dei suoi primi saggi, può valere come esemplare programma metodologico: ~ Chi attende agli studi giuridici, sa con quanta urgenza, sulla soglia di ogni questione pratica, si presenti la necessità di determinare con precisione, magari cOn sottigliezza, gli elementi concettuali che devono servire alla ulteriore ricerca: di affilare, a dir così, gli strumenti che dovranno adoperarsi nel successivo ragionamento. Questo, come altri miei studi, risponde infatti a una mia necessità di metodo: la necessità di avere ben chiare le idee elementari sistematiche senza le quali non si può con coscienza affrontare la risoluzione dei problemi del diritto positivo,. (4 ). All'elaborazione monografica del sistema diede il suo maggior contributo con l'opera monumentale sulla Cassatione civile, uscita nel 1920, che è uno dei prodotti più insigni e ancor oggi insostituibili della nuova scuola: la ricostruzione minuta della storia dell'istituto costituisce il presupposto della ricostruzione dogmatica, e la ricostruzione dogmatica offre i criteri teoretici per una critica de iure condendo. Quanto al lavoro di sgrossamento e di limatura concettuale, operato attraverso la sapiente utilizzazione degli strumenti che la teoria generale veniva via via fornendo, i sei volumi di Studi sul processo civile, che raccolgono i (4) Vizi della sentenza e mezzi di gravame (1915), in Studi, I, p. 173.
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!rutti di un quarantennio di ricerche, sono una testimonianza di lavoro penetrante, vario ed eccezionalmente fecondo: ora è l'analisi delle varie fasi del ragionamento del giudice (5), ora è l'esame della differenza fra validità e giustizia di una sentenza e rispettivamente tra error i11 procedet1do ed error i11 iudicat1do, condotta sulla scorta dell'analogia fra sentenza e negozio giuridico privato (6); ora è l'applicazione della teoria dei destinatari alla distinzione fra giurisdizione e amministrazione nella sentenza civile (7); ora è la riflessione sull'antitesi fra legalità ed equità a proposito delle giurisdizioni d'equità istituite nel primo dopoguerra (8); ora l'utilizzazione del concetto di atto complesso allo scopo di distinguere sentenze soggettivamente e oggettivamente complesse (9); ora la definizione di condanna, elaborata sulla base della distinzione fra obbligo e soggezione (IO); ora, come in uno degli ultimi scritti, lo studio della nozione di verosimiglianza nel linguaggio scientifico e nel linguaggio giuridico (11). Attento all'allargamento della concezione generale del diritto attraverso la dottrina dell'istituzione e della pluralità degli ordinamenti giuridici, ne fece un'applicazione ai rapporti tra ordine cavalleresco e ordinamento statuale, in uno studio che è un modello d'invenzione razionale (12), 3. - Pur dando un importante e originale contributo alla costruzione sistematica, Calamandrei non si lasciò sedurre dal formali-
(
(8 I significato costituzionale delle giurisdizioni di ~uità (1920). in Studi. II. pp. 1-56. Si veda anche Diritto ed equità nell'arbitrato (1930), in Studi, III, pp. 65-75. ( (1924), in Studi, II,
179-193. civile (1955), in Studi,
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smo: e questo, forse, e un tratto caratteristico volle; sfidb gli accusatori, dicendo tutta intera la verità. Si disse lieto di appartenere al Partito d'Azione e gettò apertamente in faccia ai Tedeschi l;accusa di essere degli oppressori e dei barbari. Dopo quattro mesi, il 21 giugno, fu deportato in Germania. Il convoglio dei deportati passb da Udine, sua città natale. Qui i prigionieri, attraversando la città, dal carcere alla stazione,
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cantarono, in atto di sfida, le vecchie canzoni dell'irredentismo triestino, le canzoni di tutte le lotte contro i Tedeschi. Luigi riuscl ad avvisare i suoi e poté riabbracciare il padre e la sorella prima di intraprendere il viaggio da cui non doveva più fare ritorno. E i suoi cari, i suoi amici, i suoi compagni di lotta ancora una volta e con maggiore angoscia si domanda· rono: ritornerà? lo rivedremo? Era più lontano, ma forse, si pensava, meno esposto ai pericoli. E poi, chi avrebbe previsto che la guerra sarebbe durata ancora un anno ? E anche questa volta non si volle cedere al pessimismo, e si disse: Cosattini ritornerà; sarà di nuovo qui, presto, libero, in un mondo di liberi. Fu prima deportato nel campo di Buchenwald presso Weimar, poi in quello di Aschersleben, non lontano e dipendente dal primo. Arrivavano di tanto in tanto alcune lettere sue; la resistenza fisica era straordinaria, sostenuta da una invincibile forza d'animo. Come sempre, non si preoccupava di sè e della sua sorte, ma dei suoi genitori e dei suoi cari lontani. Ciò che più lo tormentava era la sof~erenza di chi lo attendeva e non poteva far nulla per abbreviare le sue pene; ed egli in ogni lettera trovava parole di conforto per lenire quella soffe.. renza. Si ebbero sue notizie ancora nella primavera del '45. La guerra stava per finire. Che ragione c'era perché non dovesse tornare sano e salvo dopo avere superato l'inverno più terribile e micidiale? A liberazione avvenuta cominciò l'attesa del ritorno. Una attesa lunga, angosciosa, che diventava ogni giorno più incerta; un'attesa che si fece a poco a poco infinita, eterna, come sono infinite ed eterne le speranze di cose che non saranno mai raggiunte, come sono infiniti ed eterni gli sforzi che gli uomini compiono, nonostante i disinganni, per realizzare i loro ideali più alti. E infinito ed eterno per l'uomo ciò che noi illusoriamente trasferiamo in un altro mondo, costruito per nostra difesa e per nostro sostegno, al di fuori di ogni possibilità veramente umana. Anche il ritorno del nostro compagno appartiene ormai a questo mondo ideale dove tutto avviene secondo i nostri progetti, ma dove questi progetti non sono che la proiezione delle nostre più disperate illusioni. Gli furono fatali gli ultimi giorni, quando ormai la libera281
zionc era vicin.i. Grazi..: a un p,1rtin1larcgfÌalu racconto di un ~uo compagno di prigionia. possi:1mu .~l'guirlo passo passo in questi ultimi giorni ~ino a un tentativo di e\'a,ir,ne compiuto il 21 aprile. Per l'app1m,sirnarsi ddk truppe alleate il campo di Ascherslebcn fu !atto crncuarc il 12 aprik• l' i prigionieri divisi in tre gruppi si diressero verso l'interno scurt.1ti da poche S.S La Sl'ra dd 12 i prigionieri giunsero a Conncrn: la sera del 13. Cl>tenuati dalla fatica, laceri, affamati, a Zorbig; la sera dd 14, orm,1i abb.inopraggiungentc alk sue spalle? Fu lungo o breve il suo cammino? quale casa lo ospitò o lo respinse'? quale strada lo accol~c stanco l' lo sorresse nella sua fatica? quali furono gli ultimi \'Olti umani che lo videro? rurono essi benigni o torvi. infl!rociti o pietosi ? quale lcrra ha raccolto il suo corpo, quelle sue membra agili e forti, quel suo bd \'olto 282
spirituale e gentile? Non i suoi familiari lo accolsero tra le braccia a conforto della lunga attesa. Non i suoi compagni di lotta lo riebbero tra loro a ricordare le passate gesta, a disegnare nuovi progetti per il futuro. Non lo ebbe più tra le sue mura quest'Università di Trieste, donde era partito per il lungo viaggio e dove sarebbe tornato ritemprato dalla nuova, più dura e fortificante, esperienza di uomo, a riprendere il suo posto di docente, a difendere nella scuola quella libertà che non è mai conquistata abbastanza, ma è sempre minacciata ed offesa, e deve trovare sempre chi la riconquisti, la difenda e la proclami virilmente dinanzi a tutti. Luigi Cosattini non è più tornato, non è più tra noi oggi che la lotta è soltanto interrotta, ma non finita. Ma quando mai in questo mondo avrà fine la lotta per la libertà? e sarebbe veramente libertà se non si dovesse continuamente lottare per non lasciarsela sfuggire di mano? Oggi Luigi Cosattini non è più tra noi, ma è pur presente tra noi come un esempio, come un simbolo, come un ammonimento. Come un esempio del puro e incorruttibile combattente per la libertà, che avrà onore di pianto, « ove sia santo e lacrimato il sangue per la Patria versato»; come un simbolo di quella passione per la patria che non si lascia infiacchire dal tempo di servitù e che si agita, ribolle nell'animo sino a che non trova il modo di manifestarsi in qualche azione risolutiva; come un ammonimento a quegli uomini di cultura che si rinchiudono nella torre dei loro studi e pure essendo ben consapevoli che il mondo va in rovina, non osano muovere un dito per impedirlo. Luigi Cosattini non è tornato, eppure noi lo attendiamo. Lo attendiamo con trepidazione e con speranza. E diciamo, come abbiamo sempre ripetuto nei momenti che sembrano più disperati: ritornerà! Si, ritornerà tra noi, ogni qual volta Ci sarà una offesa alla patria da rintuzzare, il nostro onore da riconquistare, la nostra dignità da difendere, il legame della solidarietà tra gli uomini da riannodare o da rendere più stretto e più forte, ogni qualvolta la libertà dell'Italia e degli italiani sarà avvilita o tradita. Attendiamolo, o amici e colleghi. Non ci lascerà soli nel pericolo. Ritornerà. 283
Antonio Giuriolo
Vi ho scrillo, amici, che non vi avrei parlato di Antonio Giuriolo come studioso, di un Toni, cioè, oggettivato nei suoi scritti, quasi staccato dall'atmosfera che lo circondava cd egli riempiva della sua presenza, insieme così solida e tranquilla, cosi forte e serena. Non ne avrei parlato perché non _ne sarei stato capace. Ho qui in mente, con Wl'immagine che non potrebbe essere più salda, lui vivo, lui così vivo, che non potrei parlare se non di lui vivo, di lui parlante e sorridente, cammi· nante per la sua città, le sue colline, le sue montagne, come lo
vidi parlare, sorridere, camminare nei nostri indimenticabili incontri. Ho fatto male ad accettare ? Me lo son chiesto. Eppure parlare di Toni era per me un bisogno e un dovere: bisogno di manifestare innanzi a chi potesse comprendermi il sentimento di amicizia, e che poi, in questi anni dopo la sua morte, ho custodito come un'eredità preziosa, forse la più preziosa, dei giorni della lotta per la libertà; e dovere di rendere pubblica testimonianza - quanto si può e meglio che si può - di coloro che hanno celebrato, sino al sacrificio supremo, la passione e la gloria della vita morale. Se non fossimo qui a rendere testimonianza della loro vita eroica e sventurata, a difenderla contro la bassezza degli insulti e l'offesa, forse ancora più bruciante, del silenzio, l'essere noi vivi, oggi, non ci sembrerebbe una colpa? In questi anni dopo la liberazione mi è accaduto di parlare o di scrivere di quasi tutti gli amici caduti: Leone Ginzburg, Luigi Capriolo, Luciano dal Ciero, Luigi Cosattini. Ed ora Antonio Giuriolo. E stata la "via crucis,. di noi vivi; ad ogni stazione un morto da ricordare. Sarà questa l'ultima stazione ? Non so. Certo era una stazione attravel"So cui dovevamo passare. Ed anche
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per questo, o