Ippia maggiore. Ippia minore. Ione. Menesseno 9788806212353


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Italian Pages [560] Year 2012

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Indice
Premessa
Nota al testo e alla traduzione
Abbreviazioni delle opere platoniche citate
IPPIA MAGGIORE
IPPIA MINORE
IONE
MENESSENO
Note complementari
Bibliografia
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Ippia maggiore. Ippia minore. Ione. Menesseno
 9788806212353

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Piccola Biblioteca Einaudi.

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Nuova serie

Classici. Filosofia

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© 2012 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it isbn

978-88-06-21235-3

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Platone

Ippia maggiore  Ippia minore Ione  Menesseno A cura di Bruno Centrone Traduzione e note di Federico M. Petrucci Testo a fronte

Piccola Biblioteca Einaudi. Classici Filosofia

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Indice

p. vii xv xviii

Premessa di Bruno Centrone Nota al testo di Federico M. Petrucci Abbreviazioni delle opere platoniche citate



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Ippia minore



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Ione



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Menesseno

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Ippia maggiore

Note complementari Bibliografia

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Premessa

In un momento storico non definitivamente precisato, forse già nella prima Accademia o, secondo altre ipotesi, tra il i secolo a. C. e il i d. C., i dialoghi platonici furono ordinati in tetralogie1. L’unificazione di quattro dialoghi in una tetralogia, modellata secondo le fonti antiche (Trasillo in Diogene Laerzio) sullo schema delle rappresentazioni tragiche (tre tragedie seguite da un dramma satiresco), poteva seguire vari criteri, ricostruibili in via congetturale: continuità drammatica tra dialoghi, affinità tematiche o di struttura dialogica, identità dei personaggi2. Per la VII tetralogia non è facile rintracciare un criterio preciso e applicato con coerenza, salvo quello semplicemente alfabetico3. Nell’ordinamento alternativo 1   Il nome che viene in primo piano è quello del grammatico Trasillo (i a.C.i d.C.), cfr. Diogene Laerzio, III, 56: «Dice Trasillo che Platone pubblicò i suoi dialoghi secondo le tetralogie dei poe­ti tragici». È assai discusso se la testimonianza di Diogene Laerzio implichi che Trasillo sia l’autore della divisione in tetralogie o se addirittura lo escluda; cfr. comunque anche Diogene Laerzio, IX, 45. Il medio platonico Albino (ii d.C.) cita a proposito della divisione in tetralogie Albino e Dercillide (cfr. Albino, Intr., 4, 1-17), la cui cronologia è incerta tra il i a.C. e il i d.C.; cfr. Brisson 1992, pp. 3709-10, favorevole, sulla scia di Alline, all’ipotesi Dercillide. Il problema dell’origine della divisione tetralogica va distinto da quello di un’edizione accademica delle opere di Platone. A favore dell’ipotesi, già di Wilamowitz e Bickel, che la divisione in tetralogie risalga all’Accademia antica cfr. tra gli altri Carlini 1962; 1972; Müller 1975, pp. 32-41. In favore di Trasillo, Tarrant 1993, pp. 11-17 passim. 2   Processo e morte di Socrate nella I tetralogia (Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone); brevi dialoghi aporetico-definitori nella V tetralogia (Teage, Carmide, Lachete, Liside); dialoghi almeno in parte posti in continuità drammatica dallo stesso Platone nell’VIII tetralogia (Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia). 3   Se si tolgono gli Anterastai l’ordine alfabetico della VI e della VII tetra-

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bruno centrone

dei dialoghi in trilogie a opera dei grammatici alessandrini (Aristofane di Bisanzio, iii a.C.), piú imperfetto e dunque con tutta probabilità precedente quello in tetralogie, figurano solo 15 dei 36 scritti del corpus, e si tratta di quelli per i quali è piú facile stabilire una interna connessione organica. Non a caso nessuno dei dialoghi qui considerati trovava posto nell’ordinamento trilogico. Dei quattro dialoghi che compongono la VII tetralogia i due Ippia, in cui è protagonista l’omonimo sofista, presentano tra loro l’affinità maggiore; oltre all’identità del protagonista (fonte peraltro di problemi relativi all’autenticità) entrambi hanno carattere aporetico: il maggiore presenta un modulo piú classico, con un tentativo naufragato di definizione del bello (καλόν); il minore, non definitorio, termina con una conclusione sconcertante, che pone comunque in una situazione aporetica: chi volontariamente erra e fa il male è l’uomo buono. Lo Ione giunge invece a una conclusione positiva: il ra­pso­do (e con lui il poe­ta) non è possessore di un’arte (τέχνη), ma espleta la sua attività grazie a un possesso divino e a un entusiasmo ispirato; rimane tuttavia aperta la questione dell’oggetto specifico e della natura dell’arte poe­tica, che possono indurre a considerare il dialogo un aporetico sui generis. Il Menesseno, orazione funebre per i caduti, costituisce, in quanto prestazione retorica che occupa la parte piú cospicua del dialogo, un unicum nel panorama del corpus platonico. L’Ippia minore e lo Ione sono accomunati dal tema dell’interpretazione dei poe­ti e dell’esegesi omerica, che permette di stabilire connessioni tra la critica platonica alla sofistica e quella rivolta alla poe­sia e all’arte imitativa, ma anche da una simmetria della struttura drammatica: assenza di prologo, un unico interlocutore, due parti dialogiche separate da un breve intermezzo socratico4. Un altro possibile criterio di logia è evidente: Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Ippia maggiore, Ippia minore, Ione (in greco ΙΩΝ, con l’omega, ultima lettera), Menesseno. 4   Cfr. Kahn 2008, pp. 106-7.

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unificazione (valido però nella prospettiva dei moderni piú che storicamente ipotizzabile) è dato dalla possibilità di leggere questi dialoghi in chiave satirica: satire della retorica funebre contemporanea e della politica ateniese (Menesseno), della ra­pso­dia e della poe­sia (Ione), della sofistica deteriore (i due Ippia). I tratti fortemente ironici hanno al contempo rappresentato in passato un motivo di svalutazione delle finalità di questi dialoghi, ridotti al rango di satire scherzose prive di contenuto filosofico, dove l’intento polemico prevarrebbe decisamente sulle intenzioni piú serie. Paradossalmente lo scritto filosoficamente piú interessante è quello la cui attribuzione a Platone è meno certa, l’Ippia maggiore, un dialogo molto elaborato anche dal punto di vista della costruzione drammatica. Se anche dovesse trattarsi di uno spurio, all’autore sono generalmente riconosciute una sicura competenza filosofica e una notevole abilità mimetica, testimoniate se non altro dal fatto che la lista dei sostenitori dell’autenticità è tutt’ora lunga e fatta di nomi autorevoli. Su ciascuno dei quattro dialoghi sono stati avanzati dubbi relativi all’autenticità, ma l’Ippia maggiore rimane, insieme alla VII Lettera, lo scritto del corpus a proposito del quale il problema è tutt’ora maggiormente dibattuto. Se i quattro dialoghi considerati non sono certamente tra i piú noti del corpus, una valutazione adeguata della loro eventuale importanza dipende in gran parte dalla possibilità di un loro inquadramento, e in quali termini, nel complesso della filosofia platonica. Qui entrano in gioco criteri ermeneutici relativi a come leggere Platone, su cui da sempre ha luogo lo scontro tra interpretazioni contrapposte. Nel quadro di un’interpretazione storico-evolutiva, che ha dominato per lungo tempo l’ermeneutica platonica e riscuote tuttora consensi, questi dialoghi non sembrano avere grande valore: essi rappresentano tentativi non pienamente riusciti, o esprimono incertezze e posizioni ancora mal definite; il loro interesse risiederebbe sem-

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mai nella possibilità di utilizzarli per disegnare le tappe dell’evoluzione spirituale di Platone. Al principio generale, assunto come guida da questo filone interpretativo, di non servirsi di dialoghi cronologicamente successivi, o comunque piú ricchi e piú compiuti, per spiegare dialoghi presumibilmente precedenti e di certo meno elaborati, si collega una lettura in parte alternativa che, pur nell’ambito di una prospettiva evolutiva, ritiene possibile individuare contributi rilevanti e acquisizioni positive in ciascun dialogo isolatamente considerato. Il criterio della considerazione frammentata è però esposto a obiezioni decisive; di fatto si rivela quasi sempre impossibile rinunciare a una precomprensione di Platone derivante da una considerazione complessiva dei suoi scritti, o almeno di alcuni di essi. Nell’individuare acquisizioni positive di un dialogo isolatamente considerato non si prescinde quasi mai dal riferimento ad altri scritti, selezionati a questo punto in maniera arbitraria o in base a criteri che rimangono discutibili, considerata anche l’incertezza generale sulla cronologia dei dialoghi. Il filone interpretativo alternativo, basato su una considerazione unitaria dei dialoghi e del pensiero del filosofo, pur declinato in modi molto diversi nell’ambito dell’ermeneutica platonica, offre decisamente maggiori possibilità di una valutazione positiva, in particolare riguardo ai dialoghi aporetici e refutativi (come appartenenti a quest’ultimo genere sono classificati, nelle liste antiche, i due Ippia). In quest’ottica i dialoghi aporetici non rappresentano, come nella prospettiva evolutiva, fasi embrionali o difficoltà reali della filosofia platonica e possono essere interpretati in vari modi5. A seconda dei punti di vista la loro finalità può essere considerata protrettica6, di esortazione – dei personaggi dei dialoghi e di riflesso dei loro destinatari – alla continuazione del5   Si veda l’introduzione in Erler 1987, pp. 1-18 [poi 1991, pp. 39-65]; cfr. anche Centrone 1997, pp. 7-16. 6   Gaiser 1959.

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la ricerca a seguito della liberazione dalle opinioni sbagliate, attuata mediante la confutazione; o prolettica, di anticipazione di dottrine esposte da Platone in dialoghi cronologicamente successivi, dove l’incompletezza riflette un piano pedagogico o un programma di esposizione graduale della filosofia7; o comunque pedagogica, con la posizione di compiti che il lettore all’altezza può e deve risolvere alla luce di altri dialoghi8. Si tratta di prospettive che non si escludono necessariamente l’una con l’altra e possono, entro certi limiti, integrarsi tra loro, salvo divergere sulla questione fondamentale, se la soluzione ultima delle aporie si trovi nelle dottrine non scritte di Platone o se allo scopo siano sufficienti i dialoghi, nonché sulla possibilità di stabilire una cronologia e di disegnare comunque uno sviluppo, se non “spirituale”, programmatico-pedagogico. Una prospettiva differente, ma per molti versi conciliabile con le precedenti, pone l’accento sugli aspetti drammatici, vedendo gli aporetici come raffigurazioni del comportamento e del modo di fare filosofia del dialettico nel suo confronto con interlocutori di vario genere9; in questo caso la situazione aporetica che si produce nei dialoghi, lungi dal riflettere difficoltà reali o stadi embrionali della filosofia platonica, corrisponde alla necessità di sospendere o graduare la comunicazione della verità filosofica in relazione alle capacità degli interlocutori di recepire contenuti piú o meno elevati: con alcuni interlocutori il dialogo e l’insegnamento possono proseguire, e alcuni aporetici, come il Carmide e il Lachete, terminano in questo senso, alludendo a una possibile prosecuzione della ricerca; con altri, che si mostrano non all’altezza del compito, questa prosecuzione è impossibile o inutile, e l’aporia non offre vie di uscita (si pensi all’Eutifrone o agli eristi dell’Eutidemo). I protagonisti di questi fallimenti, sedicenti esperti

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  Kahn 1981; 1996 [poi 2008].   Erler 1987, passim. 9   Szlezák 1985 [=1988], passim. 7 8

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in qualche campo, o con pretese di sapienza universale, risultano irrimediabilmente ottusi o, anche quelli apparentemente piú abili, inadatti alla ricerca. Nei dialoghi qui considerati Ippia e Ione si distinguono per il consueto abbinamento di presunzione e ignoranza. Se Ione compete per la palma dell’interlocutore piú sciocco dei dialoghi, Ippia rappresenta per vari versi una contraffazione caricaturale del dialettico, rispetto al quale presenta tratti analoghi ma opposti10. La descrizione di personaggi del genere risulta altamente interessante proprio in quanto delinea, per contrasto, l’autentico filosofo. Menesseno costituisce invece, almeno nell’interpretazione che qui proponiamo, un caso diverso: un giovane al bivio tra una scelta di vita orientata ai valori civici generalmente condivisi, che trovano il loro compimento nelle discipline della retorica e della politica, e una conversione alla filosofia. A lui, evidentemente giudicato ancora in grado di fare la scelta giusta e progredire, Socrate promette altri futuri discorsi di contenuto politico, destinati ad andare oltre il livello dell’orazione pronunciata nel dialogo. Ciò permette, a fronte di interpretazioni che hanno ridotto il dialogo esclusivamente a una parodia della retorica funebre e della politica ateniese dell’epoca, una lettura “seria”, che riconduce alla protrettica platonica nei suoi intenti piú genuini. Altri motivi di interesse dei dialoghi qui considerati sono piú strettamente legati ai loro contenuti. Lo Ione contiene una teoria dell’ispirazione poe­tica che sin da Goethe (che pure considerava il dialogo una semplice satira) ha attirato la massima attenzione e che contiene in nuce gli sviluppi piú compiuti dell’estetica e della poe­tica di Platone; al contempo il dialogo fornisce indicazioni importanti circa lo statuto complessivo della τέχνη, nozione di fondamentale importanza per la comprensione della filosofia platonica. Il Menesseno, anche qualora se ne accetti un’interpretazione in chiave esclusivamente 10

  Cfr. l’introduzione all’Ippia maggiore, pp 21-23.

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ironica, restituisce una ricostruzione interessante, per quanto distorta, della storia di Atene e costituisce un documento importante riguardo all’atteggiamento complessivo di Platone verso la politica e la retorica del suo tempo. Sia lo Ione sia il Menesseno possono essere ricondotti a una prospettiva non esclusivamente distruttiva ed essere visti come documenti del progetto platonico di una nuova poe­sia e di una nuova retorica filosoficamente fondate. Nell’Ippia maggiore viene proposta una definizione del bello che fu assai discussa nell’Accademia antica e figurano significativi apporti originali su concetti filosoficamente importanti come quelli di οὐσία, essenza e πάθος, affezione non essenziale. L’Ippia minore con il suo esito inaccettabile induce a una riflessione e a un approfondimento sul tema socratico dell’involontarietà del male e della liceità del mentire, ma contiene anche, come lo Ione, indicazioni molto interessanti sull’esegesi dei poemi omerici praticata all’epoca. L’uso che qui spesso viene fatto anche di dialoghi tardi per illuminare il contenuto di quelli in esame non implica necessariamente la considerazione della filosofia di Platone come un blocco monolitico non soggetto a variazioni di sorta, né la convinzione che dottrine sviluppate in altri scritti siano da sempre già presenti sullo sfondo nella loro forma piú compiuta. Non si può però neanche rinunciare a indicare possibili vie di soluzione dei problemi lasciati in sospeso o irrisolti alla luce di altri dialoghi, o segnalare possibili sviluppi, in particolare quando dietro le aporie o le dichiarazioni socratiche di ignoranza si intravede una sapiente regia drammatica che rende assai dubbia l’ipotesi di reali perplessità o difficoltà da parte di Platone. In alcuni casi specifici sembra difficile negare che dietro questi dialoghi si possano intravedere sviluppi piú compiuti: è il caso della dottrina dell’imitazione (μίμησις), non esposta nello Ione ma chiaramente decifrabile da una serie di elementi11, o del-

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  Cfr. l’introduzione allo Ione, pp. 301-7.

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la teoria delle idee, molti dei cui tratti sono chiaramente riconoscibili nell’Ippia maggiore (e ciò vale a maggior ragione nel caso che il dialogo sia ritenuto inautentico). Come scriveva Werner Jaeger nel 1944 a proposito degli aporetici in generale, solo a patto di una totale ingenui­tà si potrebbe pensare che, per il fatto di non giungere a una scolastica definizione del soggetto in esame, questi dialoghi si rivelino come l’opera di un principiante che azzardi qui i suoi primi passi infelici su un terreno inesplorato. In realtà il risultato cosiddetto negativo di questi dialoghi «confutatori» o «elenctici» è di tutt’altro significato12.

Anche se non si può dimostrarlo definitivamente, si avverte istintivamente che ogni passo compiuto dai personaggi del dialogo è stato pensato da Platone con finalità ben precise. 12

  Jaeger 1944 [=1954, pp. 148-49].

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Nota al testo e alla traduzione

Testo. Chi traduca la VII tetralogia gode oggi di un vantaggio non comune: l’Ippia maggiore, l’Ippia minore e lo Ione hanno infatti ricevuto recenti e importanti edizioni critiche, che sono alla base della versione qui proposta. Al 1996 risale l’edizione critica dei due Ippia curata da Bruno Vancamp; ancora piú prossima è l’edizione dello Ione, pubblicata da Albert Rijks­ba­ron nel 2007. Queste edizioni hanno contribuito al controverso dibattito sulla Einzelüberlieferung – cioè la tradizione della singola opera – dei dialoghi di Platone (tema sempre piú rilevante nell’ambito della filologia platonica) e propongono da questo punto di vista prospettive comunque problematiche – in particolare, lo statuto di S (Marc. gr. 189) come testimone primario per l’Ippia minore e lo Ione1. Al di là di tali aspetti tecnici, il testo oxoniense di John Burnet risulta ormai datato, e le migliorie apportate dalle edizioni citate le rendono a oggi canoniche. Per queste ragioni, esse sono state adottate come base per la presente traduzione, che se ne discosta raramente: in questi casi, indicati poco oltre, le scelte del traduttore sono segnalate e spiegate nelle note (ma non applicate al testo, che viene preservato nella sua coerenza per come edito). Considerazioni diverse si impongono per il Menesseno. Nel 1998 Stavros Tsitsiridis ne ha pubblicato un’edizione critica commentata, che però non è fondata su una 1   Per l’Ippia minore cfr. Carlini 1997; per lo Ione si veda, per esempio, la nota 59 al dialogo. A sostegno dell’indipendenza di S per lo Ione si è però schierato anche Ferroni 2007.

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nota al testo e alla traduzione

nuova collazione completa dei manoscritti, anche se ha il merito di correggere in apparato numerose lezioni di F (Vind. suppl. gr. 39). Per questa ragione le eventuali migliorie apportate dalla nuova edizione non sono quasi mai basate sulla determinazione di una nuova situazione tradizionale, bensí su specifiche riflessioni editoriali. A una valutazione comparativa è sembrato preferibile e piú economico mantenere come edizione di riferimento quella di Burnet, da cui ci si distanzia in un numero ridotto di casi (indicati e discussi nelle note). La traduzione si discosta dalle edizioni canoniche indicate nei seguenti luoghi (è proposta per prima la lezione adottata nella traduzione; indicazioni piú puntuali sulla situazione tradizionale dei singoli passi sono riportate nelle note): Hipp. Min., 367d5 (cfr. nota 34): ἄλλως non delendum vid., [ἄλλως] Bekker, recc. edd. Hipp. Min., 375e7 (cfr. nota 76): ἀμαθεστέρα Burnet, ἀμαθεστέρα Vancamp Ion2, 532d1 (cfr. nota 25): ἔσται Burnet, ἐστι Rijks­ba­ron Ion, 534b8 (cfr. nota 40): καί Burnet, τε καί Rijks­ba­ron Ion, 534c6 (cfr. nota 42): εἰ Burnet, εἴπερ Rijks­ba­ron Ion, 540d1 (cfr. nota 78): Ναί Burnet, Νὴ < Δία > Rijks­ba­ron Menex., 237a3 (cfr. nota 21): εὔφραινον Schanz, ηὔφραι­ νον Burnet, rec. Tsitsiridis Menex., 239a5-6 (cfr. nota 38): οἱ τῶνδέ τε πατέρες 2   Rimangono dubbie alcune altre scelte, basate – almeno in parte – sull’importanza conferita dall’editore a S: in particolare, si veda l’apparato critico dell’edizione di Rijks­ba­ron a 531a1-2, 534a1, 541d3, 542a7 e b1. In questi luoghi, tuttavia, il supporto del solo F e le note di commento dell’editore inducono a mantenere il testo della nuova edizione. Infine, è forse poco opportuna la decisione di inserire nel testo il sottotitolo oltre che il titolo e di riportare anche al termine del dialogo titolo e sottotitolo.

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nota al testo e alla traduzione

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καὶ ἡμέτεροι καὶ αὐτοὶ οὗτοι Tsitsiridis, οἱ τῶνδέ γε πατέρες καὶ οἱ ἡμέτεροι καὶ αὐτοὶ οὗτοι Burnet Menex., 240b2 (cfr. nota 48): εὐδοκιμωτάτοις Tsitsiridis, εὐδοκιμώτατοι Burnet Menex., 245b2 (cfr. nota 79): πάντων Berndt, Παρίων Burnet, † Παρίων † Tsitsiridis Traduzione. Le quattro opere della tetralogia propongono stili e contesti letterari differenti. In particolare, alle serrate sequenze dialogiche contenute nei primi tre si oppone con decisione l’orazione del Menesseno, caratterizzata da uno stile retorico. In funzione dei diversi contesti e delle specifiche esigenze – letterarie e filosofiche –, la traduzione tenta di conciliare la fedeltà al testo greco nelle sue articolazioni puntuali e il rispetto di un carattere complessivo e fondamentale della prosa platonica, l’elevato livello stilistico ed estetico, che deve comunque essere espresso nella resa italiana. federico m. petrucci

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Abbreviazioni delle opere platoniche citate

Alc. I Apol. Charm. Crat. Eryx. Euthyd. Euthyphr. Gorg. Hipparch. Hipp. Min. Hipp. Maj. Ion Lach. Leg. Men. Menex. Parm. Phaedo Phaedr. Phil. Pol. Prot. Resp. Sisyph. Soph. Symp. Theaet. Tim.

Alcibiade primo Apologia di Socrate Carmide Cratilo Erissia Eutidemo Eutifrone Gorgia Ipparco Ippia Minore Ippia Maggiore Ione Lachete Leggi Menone Menesseno Parmenide Fedone Fedro Filebo Politico Protagora Repubblica Sisifo Sofista Simposio Teeteto Timeo

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Introduzione

All’inizio dell’Ippia maggiore1 Socrate saluta il sofista, giunto ad Atene dopo lunga assenza, chiamandolo «bello e sapiente». La qualifica attribuita a Ippia preannuncia il tema del dialogo, richiamato anche nel sottotitolo delle antiche classificazioni (περὶ τοῦ καλοῦ)2, appartenente al genere refutativo (ἀνατρεπτικός)3. È in effetti abituale nei dialoghi indagare un concetto o una virtú con un interlocutore che si presume possa costituirne un’incarnazione vivente. Molti dialoghi recano nel titolo il nome di sofisti dell’epoca, bersagli di una polemica ironica ma veemente. Il motivo principale di tale avversione è la pretesa dei sofisti, agli occhi di Platone destituita di ogni fondamento, di un sapere universale, cui si accompagna l’orrenda pratica di ricevere, a differenza di quanto faceva Socrate, 1   Edizione critica piú recente: Vancamp 1996. Principali traduzioni e commenti del dialogo sono Wood­ruff 1982 (traduzione inglese e commento); Pradeau 2005 (introduzione, traduzione francese e note); ­Heitsch 2011 (traduzione tedesca e commentario continuo, con appendici). Monografie principali di riferimento: Tarrant 1928; Soreth 1953; Ludlam 1991. Altri studi particolari Malcolm 1968; Nehamas 1975, specialmente pp. 297-303 (su 287c1 sgg. e la presunta confusione di Ippia tra universali e particolari); Wood­ruff 1978 (confluito in gran parte nello studio del 1982); Morgan 1983; Kahn 1985 (lunga discussione di Wood­ruff 1982, con presa di posizione contro l’autenticità); Tarrant 1994; Centrone 1995; ­Heitsch 1999 (sull’inautenticità); Wolfs­dorf 2006; cfr. inoltre Friedländer 2004, pp. 505-17 [=1964, II, pp. 97-107]; Szlezák 1988, pp. 149-67. 2   Tutti i testimoni primari (a parte F) e Diogene Laerzio (III, 60) indicano il sottotitolo περὶ τοῦ καλοῦ. Per altre allusioni “casuali” al tema del dialogo nella prima parte cfr. la nota 2 del commento. 3   Diogene Laerzio, III, 51 e 60; Albino, Introd., 3, 18 conferma questa classificazione, anche se non specifica a quale dei due Ippia faccia riferimento.

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introduzione

un compenso in denaro per la trasmissione di false verità. Ippia incarna entrambi gli aspetti, facendo mostra di una presunzione quasi senza paralleli. Nella sua polemica generale Platone differenzia i vari sofisti, non infierendo su alcuni di loro, come è il caso per Gorgia. Ippia è invece uno tra i piú bistrattati e ridicolizzati. Eppure è con lui che l’autore dell’Ippia maggiore sceglie di inscenare una conversazione socratica su un concetto fondamentale, il «bello» (καλόν), su cui verte l’indagine. Il tema è delicato e impegnativo, data la profonda affinità, sia nella comune mentalità greca che in Platone, del καλόν con l’ἀγαθόν, il buono-bene, supremo oggetto di conoscenza (μέγιστον μάθημα), la cui trattazione esplicita è affrontata solo in una circostanza e non senza pesanti riserve4. Facendo intervenire nella discussione un terzo interlocutore anonimo, Socrate costringe il sofista alla posizione e all’esame di varie definizioni del bello, le prime proposte da Ippia, le successive dall’anonimo o da Socrate, tutte a vario titolo confutate. Alla fine del dialogo, secondo uno schema consueto negli aporetici, non si è giunti a un risultato positivo e Socrate per primo dichiara di trovarsi in una situazione di sbandamento, dalla quale Ippia, definito ancora «sapiente», è ironicamente risparmiato. Anche per l’Ippia maggiore si pone dunque, nello specifico, la questione delle finalità dei dialoghi aporetici. Molto discussa è l’autenticità del dialogo, mai messa in questione nell’antichità, ma revocata in dubbio da piú parti nel xix e xx secolo. Se molti dei piú antichi argomenti in senso contrario hanno trovato valide controbiezioni, l’inautenticità è stata autorevolmente ribadita in tempi recenti, anche se le prese di posizione piú significative rimangono estremamente distanti tra loro quanto alla possibile datazione del dialogo. L’Ippia maggiore è, insieme alla VII lettera, lo scritto del corpus la cui autenticità rimane piú dubbia5. 4 5

  Platone, Resp., 504e sgg.   Cfr. infra.

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ippia maggiore

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Data drammatica. In entrambi i dialoghi che recano il suo nome, Ippia figura in visita ad Atene. Il sofista compare anche nel Protagora, la cui data drammatica è generalmente fissata al 433/2 a. C. (visita di Protagora ad Atene). L’Ippia maggiore menziona però (cfr. 282b) la visita ad Atene di Gorgia del 427. La data fittizia dei due dialoghi, che sembrano ambientati in un periodo di pace, sarebbe dunque da fissare tra il 421 e il 416 a. C.6. 1.

L’oggetto della ricerca: il καλόν.

Oggetto dei tentativi di definizione da parte degli interlocutori è il καλόν, il bello, concetto per noi prevalentemente confinato alla sfera estetica, ma che nella Grecia antica presenta valenze semantiche molto piú ampie, in primo luogo etiche, spesso con sfumature utilitaristiche. Il numero elevato di definizioni proposte nel dialogo si spiega anche in base alla poliedricità del concetto. Per i Greci καλόν è, oltre che il bello in senso estetico, anche ciò che si potrebbe dire «moralmente bello», come il suo contrario, l’αἰσχρόν, può essere sia ciò che è esteticamente brutto, sia ciò che è moralmente riprovevole e turpe, un’azione e un comportamento di cui vergognarsi (vergogna = αἶσχος, αἰσχύνη). Al καλόν corrisponde l’honestum dei latini, che nella nostra lingua attuale ha mantenuto l’accezione esclusivamente morale, ma che ancora nel Cinquecento aveva un significato vicino a honestus, «bello» in senso proprio e figurato. La valenza morale del καλόν rende problematico distinguerlo dal buono-bene, l’ἀγαθόν, sia sul piano intensivo che su quello estensivo, tanto nella morale popolare che nella filosofia di Platone. E come all’ἀγαθόν, al καλόν sono legate anche valenze “utilitaristiche”. L’ἀγαθόν appare di fatto semanticamente connesso a una famiglia di concetti che rimandano alla dimensione dell’utile, del   Cfr. Nails 2002 e la nota 3 del commento.

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vantaggioso, di ciò che apporta profitto. Platone stesso nel Cratilo (417a sgg.) li elenca: συμφέρον, λυσιτελοῦν, ὠφέλιμον, κερδαλέον (utile, profittevole, vantaggioso, lucroso), riconducendoli tutti all’ἀγαθόν. Nei dialoghi platonici questa affinità semantica è spesso utilizzata per argomentare una tesi fondamentale: il bene non può essere disgiunto da ciò che è vantaggioso e utile. Tutte le cose buone, inclusa la virtú, sono anche utili e vantaggiose (Men., 87d8-e2). Già nei poemi omerici si possono ritrovare alcuni di questi aspetti: καλόν indica in genere ciò che in certe circostanze è giusto o opportuno fare, talvolta con la sfumatura di «conveniente», come ciò che si addice o ciò che è vantaggioso, in linea con un certo utilitarismo di fondo della morale tradizionale greca. Valenze estetiche, etiche e utilitaristiche sono molto spesso intrecciate. Una bella azione, un “bel gesto”, civilmente e moralmente significativi, sono anche, presumibilmente, qualcosa di bello a vedersi. Per il poe­ta Tirteo (fr. 10, 1-2) è bello (καλόν) che un uomo valoroso (ἀγαθός) cada in battaglia per la patria. Καλὸν εἰπεῖν significa parlare bene, in modo conveniente e bello a sentirsi (per esempio Omero, Od., VIII, 166). Tutti questi aspetti vengono puntualmente in luce nelle definizioni proposte nel dialogo, alcune delle quali fanno prevalente riferimento a una dimensione estetico-visiva (una bella ragazza; l’oro come ornamento che conferisce valore estetico aggiunto; il piacevole per la vista), altre a quella etica, in una prospettiva utilitaristica (il conveniente, πρέπον; l’utile, χρήσιμον; il vantaggioso, ὠφέλιμον). Se l’intreccio di queste valenze è un dato di fatto di partenza, l’esito aporetico dell’Ippia pone il difficile problema del loro rapporto e della loro demarcazione sul piano della definizione filosofica.

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L’andamento del dialogo e le definizioni del bello.

Inizialmente Ippia, interrogato circa l’oggetto del suo insegnamento, parla in riferimento ai poemi omerici di belle occupazioni (ἐπιτηδεύματα, 286a3 passim), grazie alle quali un giovane potrebbe acquisire fama e reputazione. Al καλόν è qui opposto l’αἰσχρόν (286c-d). Ci si muove dunque in una dimensione eminentemente eticopolitica. La prima risposta fornita alla domanda fondamentale di Socrate, «che cos’è questo “bello”» (τί ἐστι τοῦτο τὸ καλόν;, 287d3) è però «una bella ragazza», e nelle successive esemplificazioni all’interno dello stesso argomento il bello è riferito a cavalli, lire, pentole, dove la dimensione in questione è quella estetica, con possibili implicazioni e sfumature utilitaristiche. La confutazione dell’anonimo riassume moduli del tipo et alia e et idem non7: «bello» può dirsi di altre cose oltre a una bella ragazza, e se è veritiero il proverbio «il piú sapiente degli uomini è in confronto agli dèi una scimmia» (289b4), una bella ragazza potrà essere contemporaneamente brutta, mentre il bello in sé non può che essere bello. Si accenna a una possibile modalità di rapporto tra le cose belle e il bello in sé dicendo che questo εἶδος si aggiunge (προσγένηται)8. Prendendo alla lettera il verbo, che è in Platone uno dei possibili termini deputati a esprimere il difficile rapporto tra idee e particolari sensibili, e favorito in ciò dalla notazione che questo bello è ciò per cui le cose «assumono ornamento» (κοσμεῖται, 289d3) Ippia intende questo εἶδος nel senso di un ornamento che conferisce un valore aggiunto, proponendo l’oro come candidato possibile9. La confutazione è qui ancora piú   Cfr. la nota 59 del commento.   Cfr. Phaedo, 100d6, dove il termine indica la modalità piú generica in cui può attuarsi il rapporto tra idee e particolari. 9  ­Heitsch 2011, pp. 66-67: Ippia non può che comprendere la notazione in quel senso. Discutibile invece che per intuirne il significato sia necessaria una previa conoscenza della dottrina delle idee. 7 8

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facile, secondo un analogo schema (et alia): anche l’avorio o la pietra possono essere in alcuni casi un ornamento adatto. Di qui lo slittamento nella nozione espressa dal verbo πρέπειν, «essere appropriato, o conveniente»; ciò che è appropriato, o si addice a qualcosa, come per esempio l’oro, lo fa apparire καλόν. 3.

Il conveniente (πρέπον).

Il verbo πρέπειν significa in greco in primo luogo «essere ben visibile, distinguersi per come ci si presenta alla vista»10; o anche «somigliare», da cui «conforme (a quanto richiesto)», e dunque «conveniente», «confacente», «adatto», riferito in primo luogo alle cose. Πρέπον è dunque ciò che appare o si presenta in modo conveniente e ciò che si addice o è giusto fare o dire; già nell’uso comune le valenze estetiche, etiche (con connotazione visiva) e utilitaristiche sono fuse insieme. Al πρέπον corrisponde genericamente il nostro «decoroso, decente» o «conveniente» opposto a «sconveniente», nel senso di inopportuno. Cicerone (De off., I, 93-96) tratta questa nozione nell’ambito dell’honestum, corrispondente appunto al καλόν, il bello morale, traducendo il termine con decorum (in latino anche aptum), per lui essenzialmente connesso all’honestum e al giusto, da cui è separabile solo in teoria. Decorum è tutto ciò che si addice, l’aspetto delle virtú che appare ed è percepibile con immediata evidenza, per cosí dire un «ornamento» (ornatus) della vita. Di qui i nostri «dicevole» e «disdicevole», «decoroso» e «decente», intesi come ciò che si presenta alla vista in modo consono al dovuto, rispettando canoni estetici ma anche morali. Cicerone precisa con chiarezza la connessione con la vista presente nel termine greco, a fronte della sua perdita nel corrispondente latino. 10   Cfr. per esempio Omero,. Il., XII, 104: «Sarpedone […] si distingueva [ἔπρεπε] tra tutti».

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Giocando sulla compresenza nel termine di valenze di utilità e bellezza, Socrate confuta con facilità la definizione: per girare la minestra è piú adatto un me­stolo di legno che non uno d’oro, che pure sembra piú bello (290d-291c). L’oro non potrà essere il bello cercato, che – come lo stesso Ippia rimarca mostrando di aver parzialmente assimilato la lezione – non può essere meno bello di qualcos’altro e non può mai apparire come il suo contrario (291d1-3). La successiva definizione proposta da Ippia, che ambisce a una maggiore universalità, è piú carica di connotazioni che rientrano nella sfera morale: bello è per tutti e dappertutto essere ricchi, sani, onorati dai concittadini, seppellire καλῶς i propri genitori ed essere poi seppelliti dai figli magnificamente (μεγαλοπρεπῶς, 291e2). Il πρέπειν ritorna in questo avverbio, che richiama una vera e propria virtú trattata poi da Aristotele, la μεγαλο­ πρέπεια (magnificenza). Si tratta di condizioni e regole di comportamento socialmente rilevanti che configurano una bellezza non solo estetica, ma anche morale, attinente la dignità umana. Una vita del genere è invidiabile e chi la conduce non avrà niente da farsi rimproverare. Non è però difficile per Socrate mostrare che, di nuovo, la definizione proposta non può valere per gli dèi, immortali, o per eroi come Eracle o Achille, la cui morte precoce ha assicurato loro la fama di καλοί, cosicché questo bello risulta tale per alcuni, non per altri, mentre si ricercava ciò che è bello sempre e per tutti. La tendenza all’universalizzazione porta – stavolta l’interlocutore anonimo – a proporre il conveniente in sé (αὐτὸ τὸ πρέπον, 293e4), e non una sua particolare realizzazione, come definizione. Il πρέπον in sé potrebbe allora essere, nella sua connotazione visiva, ciò che fa apparire bello qualcosa; ma ciò che si ricercava è ciò che fa essere bello qualcosa (294a). La stessa diffusa divergenza di opinioni su ciò che appare bello smentisce la definizione: se il πρέπον facesse apparire bello qualcosa a tutti, non vi sarebbe nelle città alcuna querelle sulle migliori leggi e istituzioni.

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Bello, allora – e stavolta è lo stesso Socrate a proporlo – potrebbe essere l’utile (χρήσιμον, 295c3). Vengono con ciò in piena luce le valenze utilitaristiche del concetto, per noi in prima istanza meno facilmente comprensibili, essendo usuale distinguere l’utilità e la funzionalità di una cosa dalla sua bellezza. Belli sono gli occhi effettivamente capaci di vedere, non quelli che appaiono tali, o i corpi, o i viventi, o gli strumenti, o le istituzioni e le leggi che risultano utili in un certo modo o in un certo momento, mentre le cose inutili sono dette brutte. Anche qui Socrate fa leva sul sentire comune, ma è interessante notare come la confutazione di questa definizione avvenga tramite una demarcazione dell’utile rispetto al καλόν e all’ἀγαθόν, stavolta considerati come un’unità; in estrema sintesi, utile è ciò che ha una certa capacità (δύναμις) rispetto a qualcosa, ma una capacità può essere indirizzata a fini cattivi, a un κακόν, è quest’ultimo è incompatibile con il καλόν. Nella nozione di utile, si potrebbe parafrasare, è implicita la subordinazione a un fine, ma il fine può essere cattivo. La logica del χρήσιμον di per sé (utile in vista di qualcosa, che evidentemente si ritiene essere un bene) implica una distinzione dall’ἀγαθόν, anche se Platone cercherà costantemente di tener ferma e consolidare l’idea che solo l’ἀγαθόν sia ciò che è realmente utile. Il successivo tentativo (296d6-297d2) mette in campo un’altra nozione apparentata all’utile e significativa per la morale greca in generale e per l’etica platonica: il vantaggioso (ὠφέλιμον, 296e2 sgg.). L’idea di fondo generalmente condivisa, su cui si basa in ultima analisi anche il cosiddetto «intellettualismo etico» di Socrate, è che tutto ciò che è buono, o un bene, in primo luogo la stessa virtú (ἀρετή), non possa essere disgiunto da ciò che è vantaggioso e utile. Come il χρήσιμον, però, anche l’ὠφέλιμον è di per sé finalizzato a qualcosa di diverso da se stesso. Ὠφέλιμον, vantaggioso, è ciò che produce un bene, essendone la causa; ma allora il bello, definito dall’ὠφέλιμον, sarà la causa di ciò che è buono; la cau-

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sa è però per definizione distinta dall’effetto, e allora il bello non sarà buono e il buono non sarà bello (297c3-4). L’assurda e inaccettabile conclusione è raggiunta in base a un’indistinzione tra uso identificante e uso copulativo del verbo essere, che solo nel Sofista verrà pienamente in luce e in parte risolta11. Con l’ultima definizione, proposta in prima persona da Socrate in modo apparentemente slegato da quanto precede, si ritorna a una dimensione prima di tutto estetica: bello è ciò che è piacevole per l’udito e la vista (298a6-7). Le conseguenze indesiderate che potrebbero derivarne, evidenti nella impossibilità di considerare, per esempio, le leggi, che pure normalmente si definiscono belle, come qualcosa di piacevole per la vista e/o l’udito, vengono per il momento consapevolmente accantonate (298c9-d5), ma l’osservazione di Socrate, lasciata subito cadere, segnala le intrinseche difficoltà di definizione derivanti dalla ricordata polivalenza semantica del καλόν. La successiva confutazione (299b8 sgg.) segue invece una via piú difficile e costituisce una prestazione di alto livello nel campo della “logica”. Il bello coincide solo con una parte del piacevole, ciò che è tale per la vista e l’udito; ma cosa rende belli questi piaceri in particolare? Non il fatto di essere piaceri, in quanto comune a tutti i piaceri (299d2-7); e neanche il «piacevole per la vista», non applicabile al «piacevole per l’udito», o il «piacevole per l’udito», non applicabile al «piacevole per la vista» (299e2-6); ciò che li rende belli dovrà essere qualcosa di peculiare e di comune a entrambi (299d8-e2; κοινόν, 300a9-b2), che si applica anche a ciascuno singolarmente; non può però trattarsi del «piacevole per la vista e l’udito», affezione (πά­ θημα, 300b5) comune ma non riferibile singolarmente al «piacevole per la vista» né al «piacevole per l’udito» (299c4-8). Con ciò la definizione sarebbe già sostanzial11   Cfr. Platone, Soph., 256a-b: il movimento è identico (perché partecipa del genere dell’identico) e non-identico, perché diverso dal genere dell’identico.

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mente confutata. La confutazione presuppone però la consapevolezza di una distinzione tra proprietà distributive e proprietà collettive, cioè la originale scoperta, altrove attestata in Platone12, per cui a un gruppo di oggetti possono essere riferite proprietà non attribuibili a ciascuno dei suoi componenti singolarmente preso (e viceversa, proprietà attribuibili a ciascuno singolarmente non possono essere attribuite al gruppo): nel caso specifico, come si è visto, «piacevole per la vista e l’udito» può attribuirsi solo collettivamente ai piaceri della vista e dell’udito, ma non singolarmente, o distributivamente, a ciascuno di questi piaceri. Ippia non è in grado di intendere questa distinzione (300b6-8), e ciò costringe Socrate a un excursus volto a dimostrarne la possibilità. La posizione parentetica dell’excursus è segnalata dalla scomparsa dell’anonimo; la questione riguarda ora solo Socrate e Ippia. Per Ippia, infatti, che intende l’affezione in questione nel senso letterale del termine, come un «patire», ogni predicazione possibile si applica in senso distributivo e collettivo: se Socrate e Ippia sono giusti, lo sono ciascuno ed entrambi, e se patiscono qualcosa (essere picchiati e analoghi), lo patiscono ciascuno ed entrambi. Ciò in base a una vaga quanto oscura teoria della «continuità del reale» contrapposta da Ippia alle divisioni operate nei discorsi da Socrate e dai suoi amici (301b4-6) Socrate fa allora valere la distinzione di cui sopra in riferimento a esempi evidenti: due qualunque entità sono collettivamente due e pari, ma ciascuna singolarmente è una e dispari (302e), in seguito applicando la distinzione agli stessi termini «ciascuno» ed «entrambi». Dimostrata la possibilità di predicazioni collettive ma non distributive, e ottenuto l’assenso di Ippia, i punti precedenti possono esser ripresi e riproposti con

12   Cfr. Resp., 524a-b, Theaet., 185b, Soph., 243c-e, Parm., 158e-159a; cfr. anche Aristotele, Polit., 1261b28-30, 1264b19-21 e la nota 145 del commento.

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nuova consapevolezza. L’uso di verbi all’imperfetto13 rende evidente che Socrate si sta richiamando a punti concordati in precedenza. A rendere belli i piaceri della vista e dell’udito dovrà essere una οὐσία (un’entità, o piú tecnicamente un’«essenza», 302c5; cfr. infra) che consegue a entrambi e a ciascuno, l’elemento comune di prima (300a-b); ma «piacevole per la vista e l’udito» consegue a entrambi, ma non a ciascuno (302e5-9, che ribadisce il punto stabilito a 299c4-6). In quale dei due tipi (predicazioni distributive, ma non collettive, come l’uno, o collettive ma non distributive, come il due, da un lato; e predicazioni distributive e collettive dall’altro) rientra il bello (303b1)? Ippia opta, come già si era concordato, per il secondo tipo: il bello deve rientrare tra ciò che si applica a ciascuno e a entrambi i piaceri considerati. Ciò esclude come candidato il piacevole per la vista e l’udito (303d7-9). L’ultimo tentativo di individuare una specificità dei piaceri chiamati a definire il bello conduce all’esito aporetico. Ciò che distingue questi piaceri da quelli degli altri sensi è che essi sono, singolarmente e collettivamente, ciascuno ed entrambi, i piú innocui e i migliori (303e4-5), e di conseguenza, in base al solito passaggio semantico, vantaggiosi; il bello sarebbe dunque un piacere vantaggioso (ἡδονὴν ὠφέλιμον, 303e9); in tal modo, secondo un modulo consueto dei dialoghi aporetici14, si ricade, in circolo, nella difficoltà della precedente definizione, che aveva equiparato καλόν e ὠφέλιμον. I problemi interpretativi suscitati da questa serie di definizioni e confutazioni sono svariati.

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  ἔλεγον, 302b7; ὤμην, 302c5; ἐλέγετο, 302e3.   Cfr. Euthyphr., 15b-c; Charm., 174b-c.

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introduzione Una dottrina delle idee?

Un nodo obbligato dell’interpretazione di Platone con cui anche un’analisi dell’Ippia maggiore deve confrontarsi è il problema della eventuale presenza, sullo sfondo, della dottrina delle idee, centrale nella filosofia platonica e apparentemente richiamata da alcune formulazioni abituali. L’anonimo vuole sapere, non cosa sia bello (287d3), ma cosa sia il bello in sé, αὐτὸ τὸ καλόν, o la bellezza in sé (αὐτὸ κάλλος, 292d3), o ciò che è bello per tutti e sempre (πᾶσι καλὸν καὶ ἀεί, 292e2). Si tratta di formulazioni stereotipe che nei dialoghi centrali indicano solitamente le idee, e in effetti anche il termine εἶδος compare in riferimento a questa entità (289d4). La domanda di fondo viene giustificata in base all’osservazione che questo καλόν è qualcosa (ἔστι τι, 287c4 sgg.), assunzione che può essere considerata piú o meno impegnativa sul piano ontologico. Sino a che punto questi aspetti rivelino la presenza della dottrina delle idee, quali siano le eventuali differenze rispetto ai dialoghi centrali e a cosa siano dovute (se a un’evoluzione del pensiero di Platone, o a ragioni legate alla funzione pedagogico-protrettica dei dialoghi, o al loro andamento drammatico) è questione dibattuta per l’Ippia maggiore come per gli altri aporetici. Nella domanda socratica viene impiegato l’aggettivo sostantivato preceduto dall’articolo (τὸ ..), che in greco si presta a indicare: (a) l’insieme delle cose x; (b) la particolare cosa x in questione; (c) la qualità o proprietà astratta X-... . La prima risposta di Ippia (una bella ragazza) può considerarsi giustificata alla luce di b, ma il sofista non comprende la differenza tra la domanda «che cosa è bello» e «che cosa è il bello» (287d2-9); ciò che Socrate ha in mente è piuttosto ciò che fa sí che le cose belle siano tali, entità che svolge dunque una funzione causale e può avvicinarsi a c. Decisivo è il passaggio operato dall’anonimo a 287c1

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sgg., che offre alla domanda una legittimazione di fondo: le cose x (giuste, belle) sono tali per/in virtú di (dativo strumentale) X (la giustizia); ma la giustizia è qualcosa (ἔστι τι, 287c4), e dunque ci si può chiedere che cosa essa sia (τί ἐστι). Questa giustificazione della posizione della domanda socratica fondamentale è formulata in questo passaggio con una chiarezza esemplare, che ha pochi paralleli nei dialoghi. La formulazione «le cose x sono tali in virtú di X» richiama l’ontologia dei dialoghi centrali, nei quali si dispiega la matura dottrina delle idee. Benché apparentemente tautologica, la tesi è in realtà pregnante, come mostra esemplarmente il Fedone: essa coincide con la scoperta, della cui importanza Platone è perfettamente conscio, della causa formale (εἶδος =«forma» e «idea»). Nel Fedone questa tesi è inizialmente caratterizzata come un punto fermo, un’ipotesi salda cui ci si deve attenere in ogni caso, e in seguito, in parte ironicamente, anche come una tesi ingenua, non raffinata, in quanto in apparenza carente sul piano dell’individuazione delle cause (Phaedo, 100c9-e3; 105b5-c2). A seconda poi del peso che si attribuisce all’espressione «essere qualcosa», la si può ritenere indicativa della presenza della matura dottrina delle idee o del tutto neutrale. È perfettamente normale per un greco ritenere che «essere» sia sempre «essere X» (qualcosa), ma essere qualcosa non implica necessariamente, di per sé, essere qualcosa di realmente esistente (la chimera è pur sempre qualcosa), e dunque la tesi potrebbe non essere, di per sé, impegnativa rispetto all’esistenza di idee come entità aventi esistenza separata e autonoma. Inoltre, nella critica dell’ultima definizione, ciò in virtú di cui sia i piaceri della vista che quelli dell’udito sono belli e che si aggiunge a ciascuno di essi e a entrambi è qualificato con il termine οὐσία, anch’esso ontologicamente significativo, che altrove designa il vero essere e l’idea. Anche in questo caso, però, è stato possibile interpretare il termine in un senso generico e non tecnico.

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È dunque comprensibile che anche a proposito dell’Ippia maggiore si siano registrate opinioni opposte circa la presenza e il grado di elaborazione della dottrina delle idee. Sulla base delle analogie con i dialoghi centrali (causalità espressa dal dativo strumentale, affermazione dell’esistenza di un X in sé) si è sostenuto che già nei dialoghi giovanili le forme sono presenti in tutta la loro consistenza ontologica, come entità autonomamente esistenti e separate dalle loro istanze sensibili15. A questa tesi si oppone quella della neutralità ontologica delle dottrine dell’Ippia, che non implicherebbero ancora i successivi sviluppi dei dialoghi centrali16. Connessa è la questione del tipo di causalità che deve essere attribuita al bello e al conveniente, se puramente logico-esplicativa o piuttosto produttiva e costitutiva in senso forte17. Posto in questi termini, il dibattito sembra condurre a un punto morto. È fuori di dubbio, infatti, che tutte le formulazioni ricordate non siano di per sé e necessariamente impegnative sul piano ontologico, e anche che lo scopo di Socrate nel contesto del dialogo non sia quello di condurre una dimostrazione di questo genere. Le somiglianze con la dottrina dei dialoghi centrali rimangono però molto forti e sono difficilmente casuali. La risposta alla questione va probabilmente cercata su un altro piano, quello di una considerazione dei dialoghi nella dimensione drammatica. 5.

La finzione dell’interlocutore anonimo.

È un fine accorgimento, dal punto di vista drammatico, l’introduzione di un personaggio immaginario, un interlocutore anonimo che svolge in absentia il ruolo dell’in  Per esempio Allen 1970.   Wood­ruff 1978 e 1982, passim. 17   Cfr. Wood­ruff 1982, pp. 151-53 per l’interpretazione in senso logicoesplicativo; contra Kahn 1985, pp. 277-79; Pradeau 2005, pp. 37-40 e 128129. Cfr. anche le note 49 e 68 del commento. 15 16

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terrogante18. Questo personaggio si rivela ben presto, per il carattere, il metodo seguito e il tipo di questioni poste, il doppio di Socrate. Socrate svela di fatto, almeno per il lettore, la sua identità: «il figlio di Sofronisco» (298b11; Sofronisco era appunto il padre di Socrate) non gli consentirà di parlare di cose che non sa come se le sapesse; e in fine di dialogo rivela che costui è un suo parente stretto e abita nella sua casa (304d). Tenace e non facile ad accontentarsi (289e; 290e), sarcastico, capace di dire cose dure e sconcertanti (χαλεπὰ καὶ ἀλλόκοτα, 292c5): tutti tratti, questi, del Socrate che ben conosciamo. Ippia, tuttavia, cui inizialmente Socrate non rivela l’identità dell’anonimo, asserendo che tanto egli (Ippia) non lo conosce (290d10-e2), non perverrà mai all’identificazione. Tramite questo stratagemma è possibile a Platone fare svolgere a Socrate, ancor piú del solito, il suo consueto ruolo di ignorante che non sa e domanda per apprendere, e all’anonimo il ruolo del dialettico in possesso di un sapere superiore, in grado di confutare l’interlocutore o di condurlo nella direzione voluta. Nei dialoghi Socrate svolge talvolta il ruolo dell’interrogante, talvolta quello di chi risponde, e l’amalgama dei due ruoli costituisce un annoso problema interpretativo. Lo stratagemma permette il continuo passaggio di Socrate, nei panni suoi o dell’anonimo, da un ruolo all’altro. È chiaro infatti per il lettore che dietro l’anonimo si cela pur sempre Socrate (cioè Platone). È l’anonimo a porre inizialmente la domanda fondamentale «che cosa è il bello» (286d1-2) in un’immaginaria conversazione avuta con Socrate, da lui indotto in confusione. Socrate si presenta come «esperto in obiezioni» (287a5-6) e finge di immedesimarsi con l’anonimo, mettendo in difficoltà Ippia (287b5-e4). Questo dovrebbe servire a essere istruito dal sofista, ma in realtà è una buona scusa per confutarlo, dissimulando i suoi reali

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  Sul motivo delle interrogazioni fittizie cfr. in generale Longo 2000.

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intenti. Il gioco delle parti è intricato; l’anonimo interroga ora Socrate in quanto istruito da Ippia, e lo confuta (288a6 sgg.); cosí in realtà il confutato è Ippia, ma lo stratagemma consente a Socrate di scaricarsi dalla responsabilità delle pseudodefinizioni fornite e di strapazzare indirettamente il sofista, schernito (290a4) con un sarcasmo e una veemenza che hanno pochi riscontri in altri dialoghi e con altri interlocutori, pur se un certo tono di cortesia e urbanità non viene mai meno. Socrate tiene infatti a precisare (292d6-e3), nell’immaginario scambio con l’interlocutore, che la terza definizione (essere ricco, ecc.) non proviene da lui, ma da Ippia, che ora risponde alle domande dell’anonimo poste da Socrate, subendo un nuovo ἔλεγχος (292e4-293b9). A questo punto le parti si invertono nuovamente e protagonisti dello scambio dialogico divengono Socrate e l’anonimo (293b10 sgg.). Il mutamento segna, coincidendo con un sostanziale ridimensionamento del ruolo di Ippia, che non proporrà piú definizioni di suo pugno, un innalzamento di livello del dialogo19. A questa situazione dialogica corri­sponde, in dialoghi in cui compaiono piú di due personaggi, l’abbandono di un interlocutore non all’altezza, che lascia il posto a un altro generalmente in grado di innalzare il livello. La finzione del terzo permette di riproporre questo motivo drammatico anche in una conversazione a due. In effetti, le definizioni fornite da questo momento in poi contengono tutte, a certe condizioni, elementi di verità. Lo stratagemma dell’anonimo permette dunque di distinguere nettamente queste risposte dalle prime definizioni fornite da Ippia, decisamente piú inadeguate. È infatti l’anonimo a dare una formulazione piú adeguata a una precedente definizione di Ippia, tramite l’universalizzazione del πρέπον (293d6-e7), ed è Socrate a confutare la definizione. La sua osservazione che il bello è sfuggito dalle loro mani (293e1-2), essendo risultato che il conveniente non è bello, allude al fatto che qualcosa 19

  Szlezák 1988, p. 153.

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di vero doveva essere contenuto in quella definizione20. È lo stesso Socrate a proporre e confutare la definizione successiva (l’utile, 295c), poi l’ultima ­(298a6-7), confutata solidalmente nello scambio con l’anonimo. Quest’ultimo è scomparso nell’intermezzo riguardante le proprietà collettive e distributive, in cui Socrate confuta direttamente Ippia. 6.

Ippia: la contraffazione del filosofo.

A una presenza dietro le quinte ma ingombrante, che il lettore avverte come autorevole, fa riscontro la figura caricaturale di Ippia, interlocutore presentato come ignorante e presuntuoso. L’attacco portato a Ippia è impetuoso e sarcastico e forse senza paralleli è il disprezzo nei suoi confronti, ironicamente dissimulato; ma anch’egli si permette spesso di trattare Socrate con sufficienza (cfr. per esempio 282d6). Il sofista Ippia rappresenta, nei suoi tratti essenziali, una contraffazione del filosofo. Come chiarisce il Sofista, il filosofo e il sofista presentano in apparenza tratti comuni, salvo che nel caso del sofista si tratta di imitazioni e contraffazioni. Alcuni comportamenti di Ippia richiamano in effetti atteggiamenti e metodi propri del filosofo: egli è presentato come colui che dovrebbe, secondo lo schema individuato da Szlezák, venire in aiuto al proprio discorso (ἀναμαχούμενος τὸν λόγον, 286d7), cioè dare a esso una fondazione piú solida quando viene messo alla prova. Nella simulazione ironica Socrate chiede a Ippia di istruirlo per potere affrontare nuovamente la conversazione con l’anonimo e Ippia proclama di poter insegnare a Socrate a rispondere a qualsiasi domanda; ma il corso del dialogo mostra il suo fallimento senza possibilità di appello. In una fase cruciale del dialogo (295a-b; 297e) Ippia chiede di avere un po’ di tempo

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  Cfr. Ludlam 1991, pp. 175-81 e la nota 98 del commento.

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per riflettere in solitudine; cosí potrà essere «piú preciso della precisione». È il metodo altrove adottato dallo stesso Socrate in frangenti decisivi di una conversazione filosofica, che raffigura a livello drammatico il «dialogo dell’anima con se stessa»21 e spesso prelude, come nel Fedone22, a un innalzamento del livello della discussione. Tuttavia, la mancata concessione da parte di Socrate di questa possibilità rivela trattarsi di una promessa che il sofista non potrebbe mantenere e dunque qualifica inevitabilmente come ironica l’ammissione che quando sarà da solo Ippia saprà facilmente trovare cosa sia il bello (295b). Altrove (297e1-2) Ippia ammette di non avere una soluzione «al momento presente», anche questo un topos del Socrate dei dialoghi, che in talune circostanze dichiara, piú o meno ironicamente, di non poter svolgere una trattazione adeguata di un problema nelle circostanze del momento, rimandandola a un’altra occasione23. E ancora, nel corso dell’argomentazione forse piú difficile del dialogo, Ippia accusa Socrate di attaccarsi ai particolari trascurando la struttura della totalità (301b), poi ribadisce l’accusa alla fine del dialogo: Socrate sminuzza il discorso e fa della «micrologia» (304b)24. L’aspirazione a considerare la totalità è un’esigenza genuinamente platonica nello spirito (la dialettica approda a una conoscenza della totalità), ma sulla bocca di Ippia questa ambizione non può che apparire velleitaria. Il tratto che distingue il sofista dal filosofo senza possibilità di mediazione è l’insegnamento dietro compenso. L’ironia socratica è qui smaccata: criterio della σοφία sarebbe la capacità di far soldi, ma a Sparta, guarda caso, Ippia non ha guadagnato nulla. Viene qui in luce il proverbiale filolaconismo dell’aristocratico Platone: gli Spartani, detentori di vera sapienza, non sanno che far  Cfr. Theaet., 189e.   Phaedo, 95e7; cfr. anche Charm., 160e. 23   Resp., 506e; 509c; 611c; cfr. anche Timeo in Tim., 38b ed Eutifrone in Euthyphr., 15e. 24   Analoga accusa in Hipp. min., 369b-c. 21 22

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sene del presunto sapere di Ippia; di qui il suo fallimento anche sul piano economico25. Questa raffigurazione complessiva del sofista nella sua presuntuosa ignoranza costituisce una ragione sufficiente, sul piano drammatico, a spiegare il riserbo dell’autore rispetto a un’esposizione esaustiva della dottrina delle idee e alla messa in campo di un’ontologia impegnativa. Ippia, che non è in grado di comprendere la differenza tra «bello» e «il bello», non è un interlocutore adatto a essere persuaso dell’esistenza di una (possibile) idea del bello, come invece avviene con gli interlocutori del Fedone o della Repubblica. È dunque perfettamente comprensibile che alcune caratteristiche primarie dell’idea non siano compiutamente delineate. Ciò, tuttavia, non può escludere la presenza effettiva, sullo sfondo, di un’ontologia piú impegnativa, a cui si allude in molteplici modi. Il rifiuto dell’oro come candidato, per esempio, ricorda la critica delle cause ingenue dei predecessori condotta nel Fedone, che lí prelude all’approdo alle idee (Phaedo, 100c9 sgg.: non può essere causa autentica ciò che produce un effetto realizzabile anche dal suo opposto, per esempio l’esser due, causato sia dall’aggiunzione che dalla divisione): anche l’avorio o la pietra possono rendere bello qualcosa (290a-c). E anche l’impiego del termine οὐσία per indicare ciò che realmente fa essere belli i piaceri, in contrapposizione a πάθος, le affezioni che essi subiscono e che non possono essere la vera causa della loro bellezza, si inquadra perfettamente nell’ontologia del Platone maturo26 e sembra difficilmente casuale. Nell’ipotesi di una funzione protrettica e/o prolettica, oltre che refutativa, dei dialoghi aporetici, le omissioni sono perfettamente comprensibili e anzi necessarie nel particolare contesto drammatico. Ma a che cosa, propriamente, rimanda un dialogo come l’Ippia maggiore? In che misura quel che viene detto sul καλόν può esse-

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  Cfr. le note 19, 22, 25 del commento.   Centrone 1995.

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re considerato un’anticipazione di ciò che se ne dice in altri dialoghi? Vi sono, poi, ragioni piú specifiche per spiegare i suoi esiti aporetici? L’Ippia ricalca lo schema di altri aporetici, differenziandosene in alcuni tratti. Alla fine del dialogo non è l’interlocutore a trovarsi in aporia, ma lo stesso Socrate. A Ippia non viene riconosciuta neppure la consapevolezza della propria ignoranza, condizione preliminare per una continuazione della ricerca. Per questo egli non esprime, a differenza di altri interlocutori, il desiderio di tornare da Socrate in un’altra occasione e farsi suo discepolo27. Neanche si dà che l’insuccesso sia dovuto, come in molti aporetici, alla riconduzione della ἀρετή in esame alla scienza del bene e del male, circostanza che vanifica apparentemente la specificità delle singole virtú, rendendo impossibile una definizione particolare28; all’ἀγαθόν, comunque, si è continuamente ricondotti tramite la famiglia di concetti apparentati, quali il πρέπον e l’ὠφέλιμον. La peculiare difficoltà dell’Ippia è dunque data, oltre che dalla complessità semantica del concetto cercato, il καλόν, dal fatto che esso è difficilmente distinguibile dallo stesso ἀγαθόν, con cui si sovrappone secondo modalità di difficile determinazione. In modo differente da altri dialoghi definitorio-aporetici, che – previa spiegazione dei motivi dell’eventuale riserbo platonico – possono essere interpretati alla luce di definizioni fornite altrove dallo stesso Platone (il Lachete sul coraggio, il Carmide sulla σωφροσύνη, virtú poi definite nella Repubblica), il problema dell’Ippia non può trovare una soluzione univoca in altri dialoghi. La risposta a un problema lasciato insoluto nell’Ippia, e cioè che cosa differenzia i piaceri della vista e dell’udito dagli altri, si trova nel Filebo (51a sgg.), che individua tale peculiarità nel fatto di essere piaceri non   Cfr. per esempio Charm., 176a sgg.; Lach., 200e sgg.   Cfr. Charm., 174b-c; Lach., 199c-d.

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preceduti da dolori, e dunque implica una trattazione piú approfondita della natura stessa dell’ἡδονή con la differenziazione tra piaceri puri (cui accostare gli «innocui», ἀσινέσταται, 303e4, dell’Ippia maggiore) e impuri. Ma del problema piú generale della definizione del καλόν non si trova una soluzione esaustiva, come non si trova una definizione dell’ἀγαθόν (salvo la generalissima caratterizzazione formale della Repubblica), che rappresenta la questione di fondo dell’interpretazione di Platone. Per una comprensione generale del καλόν in Platone bisogna ricorrere ad altri dialoghi, prima di tutti al Simposio, dove la compenetrazione di καλόν e ἀγαθόν è piú evidente: la celebre ascesa erotica lí descritta definisce distinti gradi di bellezza, culminando in una visione del bello in sé, analoga all’ascesa del filosofo all’ἀγαθόν delineata nella Repubblica; non si trova comunque, neppure nel Simposio, una trattazione in termini definitori29. La difficoltà o impossibilità di definire il καλόν-ἀγαθόν può essere dovuta a differenti motivazioni, riconducibili da un lato all’impossibilità intrinseca di circoscriverlo in quanto concetto limite e normativo, dall’altro all’inopportunità della comunicazione legata a ragioni contingenti, tra cui in primo piano la diffidenza di Platone verso l’opera scritta. Le difficoltà di definizione del bello nell’Ippia maggiore sono dunque intrinseche e vanno ben oltre le ragioni legate alle funzioni dei dialoghi aporetici. Nel contesto di una introduzione all’Ippia maggiore ci si deve dunque limitare a considerare una serie di elementi e dati che aiutano a chiarire i rapporti del καλόνἀγαθόν con la famiglia di concetti a vario titolo legati all’utilità. Come negli altri dialoghi aporetici, alcune definizioni contengono elementi di verità, se inquadrate correttamente negli schemi concettuali platonici, o se concepite come caratterizzazioni e non come definizioni in senso stretto. Per chi adotti la prospettiva di un’etica deontologica

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  Symp., 209e-212a; Resp., 511a-e.

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gli aspetti “utilitaristici” dell’etica platonica possono risultare difficili da accettare. È certo, comunque, che in accordo con la mentalità greca e con la semantica di base dei termini Platone tende a non separare il bene e la virtú dall’utile e dal vantaggioso: l’ἀγαθόν (inteso sia come entità astratta che come persona) e il comportamento virtuoso, l’ἀρετή, sono anche vantaggiosi (ὠφέλιμα; Men., 87d8-e2; 89a), come il vizio (κακία) è ciò che vi è di piú dannoso. Per definizione non si può non ricercare ciò che è vantaggioso e rifiutare ciò che è dannoso. Tutto ciò che si compie in vista di qualcosa (che è il bene, definibile appunto come ciò in vista di cui si fa tutto)30 si fa e si vuole se risulta utile e vantaggioso, si rifiuta se è ritenuto dannoso (Gorg., 468c; 470a; 474e). Il bene è dunque l’oggetto intenzionale del volere umano, e l’ὠφέλιμον si situa formalmente sullo stesso piano del bene, costituendo, almeno a livello intenzionale, l’oggetto necessario del volere umano. Altri termini semanticamente affini come il χρήσιμον, presente nell’Ippia maggiore, o il κερδαλέον (lucroso) dello pseudoplatonico Ipparco31, sono sottoposti alla stessa regola. Al tempo stesso l’ὠφέλιμον può essere posto con l’ἀγαθόν in un rapporto di mezzo e fine, se lo si intende non come ciò che rappresenta esso stesso di per sé un bene, ma come ciò che lo produce32. Su questa base, come si è visto, l’ὠφέλιμον con cui viene ipoteticamente identificato il καλόν risulta distinto dall’ἀγαθόν e dunque il bello viene a essere qualcosa di non-buono; cosí la definizione naufraga, ma la tesi secondo cui l’ὠφέλιμον è produttivo del bene si ritrova, oltre che in altri dialoghi, nelle pseudo­platoniche   Resp., 505d11-e2.   Secondo uno schema analogo lo pseudo-platonico Ipparco (sul guadagno, κέρδος, cfr. il κερδαλέον, «lucroso» del Cratilo) argomenta – in modo paradossale se si intende il κέρδος nel suo senso piú usuale di «lucro» – che ogni guadagno è un bene. Tesi fondante del paradosso è che il bene è ciò che vi è di piú vantaggioso e rappresenta dunque l’unico autentico guadagno. 32   Cfr. Resp., 505a: è l’idea dell’ἀγαθόν che rende le altre cose giuste, utili e vantaggiose (χρήσιμα e ὠφέλιμα). 30 31

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Definizioni e in Aristotele, ed è da considerarsi genuinamente platonico-accademica33. Vista la stretta parentela di καλόν e ἀγαθόν, gli aspetti “utilitaristici” vengono a investire anche il bello. Di fatto le definizioni dell’Ippia nella loro molteplicità sono riconducibili a due aspetti essenziali rispetto ai quali il bello si determina: l’utile e il piacevole. Il punto è stabilito con chiarezza da Socrate nel Gorgia (474d3 sgg.) in funzione, di nuovo, di un argomento a favore dell’identità di καλόν e ἀγαθόν: tutte le cose belle, che si tratti di oggetti o suoni, leggi o istituzioni, o delle stesse scienze, sono dette tali o per il piacere che suscitano, o per la loro utilità, o per entrambe le cose; la demarcazione concettuale del bello nei termini del piacere e del buono incontra persino l’approvazione di Polo (Gorg., 475a24). Ancora, nel Protagora (358b) si stabilisce che tutte le azioni miranti a una vita piacevole e priva di dolore sono belle e vantaggiose, e che ogni opera bella è buona e vantaggiosa; e nella Repubblica (457b) si sottolineano la verità e l’eterna validità della tesi secondo cui l’ὠφέλιμον è bello, il nocivo brutto34. Tra i termini proposti nell’Ippia come definizioni del bello, anche il πρέπον ha in Platone una notevole rilevanza etico-estetica, in quanto connesso alle nozioni di «doveroso» (δέον), all’arte della giusta misura, o metretica, di cui è detto essere una parte (Pol., 286d1-2) e alla nozione di armonia; in una struttura internamente armonica ogni parte πρέπει, è disposta in modo conveniente rispetto alle altre in modo da formare un tutto concorde (Phaedr., 264c; Lach., 188d; Gorg., 503e), con evidenti implicazioni estetiche35. 33   Platone, Hipparch.,232a1; Gorg., 499d2; Aristotele, Top., 147a34 (l’ὠφέλιμον è produttivo del bene: 124a15-17; 153b38); Def., 414e6 (l’ὠφέλι­ μον è causa del bene). 34   Vale naturalmente che anche l’ἀγαθόν, come il καλόν, può essere in ultima analisi definito nei termini del piacere e del piacevole. 35   Anche in Aristotele πρέπον è termine importante in relazione all’etica del giusto mezzo, indicando appunto ciò che rispetta la misura conveniente (in Eth. Eud., 1233b è in relazione con κόσμος, cfr. ornatus in Cicerone, De

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Tutto questo conferma come le definizioni dell’Ippia centrate sugli aspetti dell’utilità contengano elementi di verità; risulta senz’altro vero, a certe condizioni, dire che il bello è (l’) utile o (il) conveniente o (il) decoroso. Al tempo stesso, però, gli argomenti proposti chiariscono l’aspetto di potenziale strumentalità e la non-autonomia di termini strutturalmente incompleti come «utile» o «vantaggioso» (ciò che è utile o vantaggioso è sempre tale in vista di X), che mal si conciliano con le caratteristiche di autosufficienza e intrinseca finalità proprie del bene-bello già sul piano formale e rendono impossibile l’identificazione. Il problema di fatto sollevato è che il bello, poiché in quanto ὠφέλιμον è solo produttivo del buono, ne sarebbe distinto e dunque non sarebbe ἀγαθόν. L’inaccettabile conclusione potrebbe essere superata in modo relativamente facile mediante una distinzione tra uso copulativo e uso identitario del verbo essere36 – la cui consapevolezza, almeno sul piano dell’uso, è difficile non attribuire a Platone già nell’Ippia (qualora si tratti di un dialogo del primo periodo) – ma la questione filosofica di fondo, la determinazione dei rapporti tra καλόν e ἀγαθόν, non sarebbe con ciò risolta. Un analogo discorso si può svolgere per l’ultima definizione: sul piano estensivo, risulta tutt’ora vero che il termine «bello» si applica solo a ciò che cade sotto il dominio della vista o dell’udito; non diciamo «bello» un profumo o un cibo. La confutazione della definizione si fonda – sia pure, ovviamente, senza giungere a una distinzione tra estensione e intensione in termini analoghi a quelli moderni – sulla diversità tra le entità cui si attribuisce la proprietà X e ciò in cui consiste l’essere X, un’acquisizione fondamentale di Platone qui applicata al bello. La definizione proposta sembra delimitare corleg., I, 93) e con ἀξία, 1233b8), anche se bisogna precisare che in verità Aristotele usa il termine soprattutto in relazione alla virtú della μεγαλοπρέπεια o magnificenza, concernente in special modo l’azione dello spendere (Eth. Eud., 1233a31-b14; Eth. Nic., 1122a18-1123a33). 36   Cfr. supra la nota 11.

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rettamente il campo degli oggetti belli, ma non coglierne l’essenza. E tuttavia il nesso del bello con il piacevole rimane in Platone un elemento essenziale, che nell’immediato sembra costituire un elemento differenziante del καλόν rispetto all’ἀγαθόν, esaltando la componente estetica del primo (salvo la precisazione che lo stesso ἀγαθόν rimane sempre inseparabile da una componente edonistica). Nel Filebo (51b sgg.), per esempio, è ribadita l’associazione dei piaceri della vista e dell’udito (figure, colori, suoni uniformi e nitidi), considerati piaceri puri in quanto non preceduti da sofferenza, con la bellezza in sé. Il «bello» non è evidentemente scindibile da una dimensione estetica, che però non ne esaurisce le valenze, non coprendo gli aspetti etici. In questo senso va la notazione, subito lasciata cadere nel dialogo, che questa definizione del bello non permette di parlare del καλόν in riferimento alle occupazioni, alle leggi, alle istituzioni (298c-e). Se anche si individuasse l’essenza del bello estetico, la definizione risulterebbe parziale. Una molteplicità di motivi concorre dunque a spiegare l’aporeticità del dialogo nella impossibilità di definire il bello. Difficoltà che non a caso si riflette nelle pseudoplatoniche Definizioni (414e8), dove il bello verrà lapidariamente definito «l’ἀγαθόν». 7.

Πάθος e οὐσία.

Nell’uso delle nozioni di οὐσία e di πάθος l’autore mostra un alto livello di consapevolezza teorica. Sembrano esserci buone ragioni per sostenere che in questa sezione, almeno in alcune occorrenze dei termini, πάθος indichi una proprietà non essenziale, οὐσία l’essenza. Il punto è però molto controverso. La nozione di πάθος e di πάσχειν è introdotta insensibilmente nell’ambito della discussione sulla definizione fornita a 298a (piacevole per la vista e l’udito): i piaceri dell’udito e quelli della vista sono detti avere qualcosa in

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comune che li fa (ποιεῖ, 300a9) belli; in quanto questo fare è un agire su di essi Socrate può dire che entrambi patiscono qualcosa e definire questa condizione un’affezione (πάθημα, 300b5; πάθος, b6). Per Socrate, tuttavia, questo elemento comune deve rendere belli entrambi e ciascuno di essi; se a subire questa affezione fossero entrambi ma non ciascuno, non potrebbe essere in forza di essa che i piaceri sono belli. Socrate ammette dunque la possibilità di una applicazione discontinua, non distributiva, di una proprietà a un gruppo di oggetti (entrambi x, ciascuno non-x). Ippia, come si è visto, rifiuta con decisione questa possibilità (300b6-d8), sfidando Socrate a trovare un’affezione che entrambi (Socrate e Ippia), ma non ciascuno, subiscano. Nel ribadire la sua convinzione, Socrate introduce una distinzione terminologica che è sfuggita alla quasi totalità degli interpreti37, ma merita la massima attenzione: a lui sembra possibile che ciò che egli né patisce di essere (300e3, πέπονθα εἶναι), né è, né Ippia è, entrambi lo patiscano di essere (300e5, πεπόνθαμεν εἶναι), e a riverso, che qualcosa che entrambi patiscono di essere, nessuno dei due lo sia. Socrate distingue insomma tra «essere» (εἶναι) e «patire di essere», o avere l’affezione di essere (πάσχειν εἶναι). Anche la successiva risposta di Ippia è degna di attenzione: saremmo di fronte in questo caso a «mostruosità ancora maggiori» di quelle precedenti. Ippia ha evidentemente percepito una novità rilevante e, in modo conforme a questa percezione, tiene ben distinti i due casi di «essere» e «patire» : se entrambi sono giusti, anche ciascuno lo è; se ciascuno singolarmente patisce qualcosa, anche entrambi la patiranno. Il senso in cui Ippia intende πάθος e πάσχειν è evidente dagli esempi portati subito dopo: essere tagliato, ferito, percosso (301a1-3). Si tratta del significato piú usuale di πάσχειν, subire qualcosa a opera di qualcuno/qualcosa, opposto a fare, agire (ποιεῖν). Tutti questi casi sfuggono alla regola dell’applicazione discontinua: se entrambi 37

  Unica eccezione a me nota: Soreth 1953, pp. 49-62.

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sono x, o subiscono un’affezione x, ciò varrà anche per ciascuno di loro preso singolarmente. Le due possibilità sono poco dopo riassunte da Ippia nell’alternativa tra πάθος e οὐσία (301b8): non può esserci nulla, πάθος o οὐσία, che si applichi a entrambi, ma non a ciascuno, o a ciascuno, ma non a entrambi. Ippia intende, come è logico attendersi, πάθος e οὐσία nel senso piú comune dei termini: πάθος come ciò che viene subito da qualcosa/qualcuno (essere percosso, ecc.) e οὐσία come tutto ciò che una cosa è detta essere (nominalizzazione della domanda «che cos’è», dove οὐσία sta per qualsiasi nome del predicato che completi la copula: essere x, sano, vecchio, ecc.). Socrate introduce insomma, insensibilmente e surrettiziamente, una distinzione tra essere (εἶναι) e patire di essere (πάσχειν εἶναι); Ippia percepisce una differenza, ma interpreta, in base al senso comune, la distinzione come tra εἶναι e πάσχειν, o altrimenti detto, οὐσία e πάθος, essere qualcosa e patire qualcosa nel senso piú usuale. L’alternativa tra affezione o essenza (ἢ πάθος ἢ οὐσίαν, 301b8), che riassume la posizione precedente di Ippia, deve significare: un’affezione subita (solo secondariamente un predicato), un πάθος, o «ciò che una cosa è», l’οὐσία. Ippia intende πάσχειν εἶναι come sinonimo di τυγχάνειν εἶναι (301a6, τύχοιμεν ὄντες), espressione che significa in greco «trovarsi a essere», o semplicemente «essere», e sul piano della semantica comune l’identificazione è ovviamente corretta (salvo segnalare, da parte nostra, che Platone potrebbe dare una particolare sfumatura filosofica alla locuzione comune). Ma c’è ragione di pensare che con πάσχειν εἶναι Socrate intenda qualcosa di piú significativo. Non vi sono, a mia conoscenza, paralleli in altri autori per questa espressione, che si ritrova invece in alcuni dialoghi platonici, in contesti altamente tecnici. Nel Parmenide38 l’espressione designa affezioni subite 38   Cfr. Parm., 140a3-4; 6-7; 147c6-7; 148a3-4; 158e5-6; Soph., 245b79: se l’essere avrà l’Uno solo come sua affezione, non sarà a esso identico.

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dall’Uno in senso assoluto, che come tale non può, di per sé, che essere uno; altri predicati a esso ipoteticamente riferibili (identico, diverso, simile) saranno solo sue affezioni. L’affezione indicata dal πάσχειν εἶναι non restituisce ciò che una cosa è di per sé, la sua οὐσία. Nel caso degli esempi portati nell’Ippia, l’affezione in questione è l’esser uno per Ippia e Socrate (302a1-2), il cui essere di per sé non consiste certo nell’esser uno (per questo di Socrate e di Ippia, in una predicazione collettiva, si può anche dire che sono due). Il punto decisivo è che proprietà riferibili a qualcosa in senso distributivo ma non collettivo, o in senso collettivo ma non distributivo (302b6-c4) non possono rappresentare l’essenza di quel qualcosa. Ma essere piacevole per la vista e l’udito si applica ai piaceri solo in senso collettivo. Ciò in virtú di cui le cose belle sono tali deve essere un’entità (οὐσία) che consegue a esse sia in senso distributivo che collettivo (302c4-7). Οὐσία viene in questo modo ad avere un significato prossimo all’«essenza», e qui è possibile cogliere il momento del passaggio dal significato ordinario a quello filosofico. Quando il «che cos’è» di qualcosa, la sua οὐσία, non viene identificato con qualunque proprietà a essa riferibile, ma con ciò che la fa propriamente essere ciò che è, è pressoché compiuta la risemantizzazione filosofica del termine in direzione dell’essenza. L’autore del dialogo conferisce dunque a οὐσία e πά­ θος la valenza tecnica di proprietà essenziali e proprietà non essenziali (o, volendo, accidentali), distinzione di grande rilievo filosofico, che ha qui uno dei suoi primi documenti39. L’incostanza e l’oscillazione nell’uso di questi termini, ora nel senso del linguaggio comune, ora in senso tecnico, è dovuta, nel contesto drammatico, al differente modo di intenderli da parte di Ippia, il 39   Il parallelo piú vicino a quest’uso si trova nell’Eutifrone (11a6-9): Eutifrone doveva fornire la οὐσία del pio e ne ha invece solo detto un πάθος (pio è ciò che viene amato – un’affezione passiva – dagli dèi).

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cui orizzonte è limitato alla comprensione ordinaria, e di Socrate, che adatta il linguaggio alle sue acquisizioni filosofiche. 8.

La questione dell’autenticità.

Il fatto che Aristotele citi l’Ippia minore semplicemente come Ippia (Metaph., 1025a) ha costituito a suo tempo un argomento contro l’autenticità del maggiore40. Ma la modalità della citazione indica solo che al tempo di Aristotele la tesi discussa era sufficiente per identificare il dialogo in questione41. Sempre Aristotele nei Topici (146a21-3) discute una definizione del bello in termini quasi identici a quelli dell’Ippia maggiore (297e3 sgg.), e anche la definizione del bello come πρέπον (Top., 102a6 e 135a13) rimanda probabilmente a Hipp. Maj., 293d6294e10. Ciò non conferma definitivamente l’autenticità, se si ritiene che i riferimenti non siano necessariamente al dialogo, o che esso abbia avuto origine all’interno dell’antica Accademia. A partire da Wilamowitz, che negava al dialogo tanto l'ethos quanto lo humour tipici di Platone, ritenendolo una commedia di bassa lega, la presunzione di inautenticità si è spesso fondata su una percezione istintiva di elementi avvertiti come non all’altezza dell’arte e allo spirito del filosofo. In tempi abbastanza recenti si è scritto che «chiunque prenda l’Ippia maggiore per un’opera di Platone non ha alcuna sensibilità per l’arte del maggiore scrittore di prosa dell’antichità»42. Alcuni argomenti, legati a schemi interpretativi superati o difficilmente accettabili, non sembrano piú avere 40   Ueberweg 1861, pp. 175-76; Tarrant 1928, pp. 9-10. Tra i sostenitori piú antichi dell’inautenticità figurano Ast, Jowett, Horneffer, Gomperz, Zeller, Wilamowitz, Lutoslawski. 41   Cfr. Wood­ruff 1982, p. 96. 42   Kahn 1985, p. 268.

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molto peso43. L’uso di argomenti sofistici da parte di Socrate (sempre che le presunte fallacie vengano dimostrate) o di tesi difficilmente condivisibili da Platone non stupisce piú di tanto in un contesto dialettico-agonale, in cui la confutazione dell’interlocutore ha comunque valore positivo; e ciò, in particolare, in una fase degli studi in cui l’uso della fallacia, anche intenzionale, da parte di Platone ha trovato convincenti spiegazioni di vario genere. Il tono polemico, insolitamente veemente e sarcastico, usato nei confronti di Ippia, che alcuni hanno ritenuto non confacente a Platone, trova invece pieno riscontro in dialoghi in cui figurano interlocutori di basso profilo (si pensi al trattamento riservato a Eutifrone nell’omonimo dialogo, o agli eristi dell’Eutidemo)44. Non platonica è stata ritenuta l’introduzione dell’anonimo interlocutore, ma se è vero che questo accorgimento presenta peculiarità drammatiche che lo rendono in qualche modo unico, la tecnica di introdurre un assente che conduce un’interrogazione fittizia ha invece molti paralleli45 . L’inautenticità è stata ribadita con vigore in tempi recenti, e molti degli argomenti proposti meritano la massima attenzione46. Secondo Kahn47 l’Ippia maggiore è l’unico dialogo in cui viene effettivamente commessa la cosiddetta «fallacia socratica»48, presentata in una versione particolarmente maldestra e indegna di Platone: la conoscenza della definizione di X è condizione necessaria per attribuire a qualsiasi cosa la proprietà corrispondente, laddove in testi paralleli (Menone, Eutifrone) l’analogo principio è formulato in termini meno impegnativi e non fallaci (per esempio come condizione sufficiente ma 43   Per esempio, la presenza della teoria delle idee in un dialogo che dovrebbe essere giovanile (Tarrant 1928), o la supposta presenza di terminologia aristotelica (Pohlenz 1913, p. 123). 44   Grube 1926, p. 135. 45   Cfr. Longo 2000. 46   In particolare Thesleff 1976; Kahn 1985; ­Heitsch 1999; 2011 passim. Erler 2007, p. 301, annovera il dialogo tra i dubia. 47   Kahn 1985, pp. 274-75; 2008, pp. 181-83. 48   Geach 1966.

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non necessaria). L’efficacia di questo argomento contro l’autenticità è però assai dubbia 49. Una batteria di argomenti grammaticali, stilistici, lessicali e contenutistici contro l’autenticità è stata messa in campo da ­Heitsch50. Tra questi, la stranezza che Platone abbia composto due dialoghi con lo stesso nome e rappresentato due discussioni di Socrate con Ippia; la diversa raffigurazione di Ippia nei due dialoghi, ragionevole difensore del senso comune nel minore, comicamente, ma anche penosamente, sciocco e presuntuoso nel maggiore 51; connessa a ciò la diversità delle critiche, apparentemente simili, mosse da Ippia a Socrate nei due dialoghi, dove quella del maggiore sembrerebbe mutuata di peso dal minore e applicata in modo estrinseco; la menzione, sospetta, della esibizione che Ippia terrà presso Fidostrato, chiaro rimando all’Ippia minore, sembra costruita come patente di autenticità; alcune particolarità grammaticali e stilistiche sembrano poi in contrasto con gli usi platonici52. 49   Cfr. infra la nota complementare 2, pp. 502-3. Quando si dice che il principio, nella formulazione dell’Ippia maggiore, è falso, si fa riferimento a un livello che Platone identificherebbe con quello dell’opinione (vera): come implica il Fedone (74b2; 76b8-12), la conoscenza che tutti hanno dell’uguale non implica la capacità di renderne ragione o di fornirne la definizione. Il punto di Platone riguarda però un livello piú elevato: la legittimità di usare con cognizione di causa una certa nozione e di saperne dare ragione, il passaggio cioè da opinione vera a scienza. Sulla base dell’opinione vera è possibile indicare correttamente molti esempi di cose belle (come anche Ippia fa), ma senza conoscere la natura del bello sarebbe possibile talvolta pensare che è bello qualcosa che non lo è (per Ippia sarà bello, per esempio, insegnare a pagamento). La formulazione dell’Ippia maggiore non appare, in questa luce, fallace: senza conoscere il bello non si potrà sapere se un discorso, o un’azione, sono belli o no (ciò implica la capacità di stabilire, sempre e con assoluta certezza, se si può attribuire la proprietà in questione ed è compatibile con la possibilità, in qualche caso, di attribuzioni corrette, ma non epistemicamente fondate, della proprietà medesima). Il principio potrebbe essere cosí riformulato: per sapere con certezza epistemica se una cosa è x, è necessario conoscere la definizione di X. L’esigenza ultima di Platone è stabilire un criterio valido in assoluto che orienti anche l’agire pratico, senza margini di errore. In questo senso la presunta fallacia non sussiste. 50  ­Heitsch 1999; 2011, pp. 111-35 passim. 51   Cfr. però infra la nota complementare 1, pp. 501-2. 52   Cfr. la nota 111 del commento.

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Rimangono in effetti molti sospetti e incertezze. Lascia perplessi, tra l’altro, il gioco dello svelamento dell’identità dell’anonimo. Esso potrebbe avere senso nei confronti di Ippia, ma dato che nella finzione letteraria il sofista risulta evidentemente ignaro del nome del padre di Socrate, l’esplicita rivelazione che si tratta del figlio di Sofronisco risulta comprensibile solo per il lettore, al quale viene cosí sottratta ogni complice interazione con il testo. Il gioco finisce cosí per avere l’aria di una certa grossolanità, non corrispondente all’abituale finezza di Platone53. E ancora, un motivo ricorrente è il contrasto tra l’uso dei termini in senso tecnico e filosofico da parte di Socrate e la loro riduzione, da parte di Ippia, alle accezioni piú banali e immediate (per esempio κοσμεῖσθαι, 289d3; d8; προ­ σγένεσθαι, 289d4; e5; πάθος e πάσχειν, 300b4; b5; b7; 300d5 sgg.; οὐσία, 301b8; 302c5). Il motivo coglie un aspetto essenziale della capacità innovativa di Platone, ma sembra applicato in modo alquanto meccanico; le domande poste nei vari frangenti hanno l’aria di trappole approntate da Socrate, che introduce surrettiziamente termini su cui Ippia è destinato a inciampare. Un procedimento del genere, applicato con una certa sistematicità, appare costruito a tavolino e sembra alquanto in contrasto con la spontaneità caratteristica delle costruzioni platoniche, anche di quelle piú elaborate. D’altro canto, se le precedenti analisi sul πάσχειν εἶναι sono esatte, appare poco probabile che sia un imitatore a far uso del verbo in un senso cosí tecnico, mai tematizzato esplicitamente e non diffuso a livello colloquiale. Rimangono insolute, in ogni caso, questioni a cui i convinti sostenitori dell’inautenticità dovrebbero dare risposta. Anche chi lo ritiene inferiore ai livelli artistici e filosofici propri di Platone deve riconoscere al dialogo una qualità incomparabile con quella di altri spuri quanto a consapevolezza filosofica e capacità lettera53   D’altro canto è possibile anche ipotizzare che Ippia giunga al riconoscimento, cfr. la nota 137 del commento.

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rie dell’autore, certamente una personalità di qualche rilievo. Sarebbe d’obbligo, a questo punto, avanzare un’ipotesi di paternità. Quale sarebbe poi lo scopo del dialogo? Un semplice gioco mimetico? Una satira veemente di un sofista avulsa dalla personale polemica di Platone? A differenza di quanto accade con altri spuri, non si riesce a individuare una presa di posizione particolare riconducibile a dibattiti interni all’Accademia o esterni, originatisi in altri periodi. Nei contenuti filosofici non c’è nulla che vada oltre Platone. Solo ampliando di molto lo spettro dei dialoghi spuri si potrebbe evitare l’isolamento, difficilmente comprensibile, dell’Ippia maggiore, unico dialogo inautentico di un certo livello, fortemente simile agli altri aporetici, il cui scopo sembra concepibile solo all’interno di un complesso omogeneo. Risposte convincenti a questi interrogativi non sono state ancora fornite. Nei confronti del problema dell’autenticità dell’Ippia maggiore è forse consentito assumere una posizione scettica nel senso proprio e piú filosofico del termine: le ragioni pro e contro sembrano avere uguale forza e inducono a una sospensione del giudizio. Le recenti prese di posizione in favore della inautenticità sembrano espresse con una convinzione eccessiva rispetto alla effettiva cogenza degli argomenti impiegati, e del resto le ipotesi di datazione dei piú convinti fautori di questo orientamento sono tra loro lontanissime; anche alcune difese dell’autenticità sembrano però soffrire di un certo dogmatismo. Ciò che rimane indubbio è che l’interesse, filosofico e letterario, suscitato dall’Ippia maggiore non è inferiore a quello di altri scritti platonici. 9.

Cronologia.

Tutte le ipotesi possibili sono state formulate a proposito della cronologia dell’Ippia maggiore, ritenuto un’opera giovanile, o del periodo intermedio, o tarda, in partico-

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lare se ne viene negata l’attribuzione a Platone54. In base a un’ipotesi evolutiva, ma anche in base a un’ipotesi unitaria che attribuisce agli aporetici valore prolettico, il dialogo andrebbe naturalmente collocato nel gruppo dei dialoghi piú antichi; altri elementi, anche di natura stilistica, hanno però indotto a datazioni piú tarde. La discordanza delle opinioni, anche all’interno della stessa ipotesi evolutiva, è indicativa della inaffidabilità della maggior parte degli argomenti a riguardo, in particolare di quelli basati sulla maggiore o minore affinità con le esposizioni centrali della dottrina delle idee. Anche i sostenitori dell’inautenticità hanno ipotizzato cronologie molto diverse. Altri indizi rimangono discutibili55. Le analisi stilometriche risultano confermare sia l’autenticità che una collocazione nei dialoghi del primo periodo56. 54   Per le ipotesi precedenti cfr. Hoerber 1964, pp. 145-46; Wood­ruff 1982, pp. 93-94; Thesleff 1982, pp. 226-28 ha proposto una datazione intorno al 360, individuando un presunto terminus post quem nell’inconsueto εὐδόξως di 287e5, che alluderebbe a Eudosso di Cnido, attivo nell’Accademia in quegli anni. Tra i sostenitori dell’inautenticità Kahn 1985, p. 269, ipotizza una datazione tarda, in età ellenistica o romana; ­Heitsch 2011, pp. 122-3 propende per il iv secolo a. C., con Platone ancora in vita, quando nell’Accademia si discutevano problemi relativi alle divisioni e alle definizioni di tipo aggiuntivo, di cui si hanno riflessi in Aristotele. 55   Il citato εὐδόξως; presunte reminiscenze dalla commedia, l’Αἴσχρα di Anassandride (Thesleff 1982, p. 227). 56   Ledger 1989, pp. 156-57 e 168-69.

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281 [a] σωκρατης Ἱππίας ὁ καλός τε καὶ σοφός· ὡς διὰ χρόνου ἡμῖν κατῆρας εἰς τὰς Ἀθήνας. ιππιας Οὐ γὰρ σχολή, ὦ Σώκρατες. ἡ γὰρ Ἦλις ὅταν τι δέηται διαπράξασθαι πρός τινα τῶν πόλεων, ἀεὶ ἐπὶ πρῶτον | ἐμὲ ἔρχεται τῶν πολιτῶν αἱρουμένη πρεσβευτήν, ἡγουμένη δικαστὴν καὶ ἄγγελον ἱκανώ­ τατον εἶναι τῶν λόγων οἳ ἂν [b] παρὰ τῶν πόλεων ἑκάστων λέγωνται. πολλάκις μὲν οὖν καὶ εἰς ἄλλας πόλεις ἐπρέσβευσα, πλεῖστα δὲ καὶ περὶ πλείστων καὶ μεγίστων εἰς τὴν Λακεδαίμονα· διὸ δή, ὃ σὺ ἐρωτᾷς, οὐ θαμίζω εἰς τούσδε τοὺς τόπους.

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281 [a] socrate Ecco Ippia1, bello e sapiente!2. Per quanto tempo non sei venuto ad Atene, qui da noi! ippia Non ne ho avuto il tempo, Socrate. Quando Elide ha bisogno di concludere un affare con una qualsiasi altra città, si rivolge sempre a me per primo, scegliendomi tra i cittadini come ambasciatore poiché mi ritiene giudice e messaggero di massimo valore riguardo ai discorsi che [b] ciascuna città potrebbe proporre. Piú volte ho portato ambascerie anche in altre città, ma nella maggior parte dei casi e per questioni di massima importanza e valore a Sparta; proprio per questo, e cosí rispondo alla tua domanda, non frequento molto queste zone3. 1   Per l’Ippia storico e la sua rappresentazione nell’Ippia maggiore e nell’Ippia minore cfr. infra la nota complementare 1, pp. 501-2. 2   Gli aggettivi indicano immediatamente due aspetti centrali dell’opera. In primo luogo, il dialogo ha come tema il «bello», e in particolare una ridiscussione del significato di questa nozione rispetto alla sua semantica comune, proprio quella secondo la quale qui Socrate può dire «bello» Ippia; d’altro canto, è stata spesso notata (su tutti da Wood­ruff 1982, p. 36, e ­Heitsch 2011, p. 43, nota 15) la concentrazione di allusioni apparentemente casuali al «bello» nell’intera prima parte del testo (282b1, d6, e9; 283a9; 285b8; 286a4-5, b1, b4). In secondo luogo, il dialogo mostrerà a piú riprese – attraverso un complesso «gioco delle parti» (per il quale cfr. supra l’introduzione pp. 18-21), grazie ai toni piuttosto sarcastici di Socrate e per l’incapacità di Ippia di far fronte alla discussione – quanto Ippia sia tutt’altro che sapiente. Emerge già velatamente che la sapienza del sofista (σοφία-σοφιστής) è dal punto di vista platonico del tutto fallace (cfr. anche infra, nota 7, e supra, introduzione pp.21-24). 3   Elide fu a lungo alleata di Sparta nella prima parte della guerra del Peloponneso. Se si considera (282b5) che la visita di Ippia segue quella di Gorgia del 427 – deve dunque trattarsi di una visita diversa da quella rappresentata nel Protagora, la cui data drammatica è generalmente individuata prima della guerra del Peloponneso – e che l’incontro dopo molti impegni sottintende

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σωκρατης Τοιοῦτον μέντοι, ὦ Ἱππία, ἔστι τὸ τῇ ἀληθείᾳ σοφόν τε καὶ τέλειον ἄνδρα εἶναι. σὺ γὰρ καὶ ἰδίᾳ ἱκανὸς εἶ παρὰ τῶν νέων πολλὰ χρήματα λαμβάνων ἔτι πλείω [c] ὠφελεῖν ὧν λαμβάνεις, καὶ αὖ δημοσίᾳ τὴν σαυτοῦ πόλιν ἱκανὸς εὐεργετεῖν, ὥσπερ χρὴ τὸν μέλλοντα μὴ καταφρονήσεσθαι ἀλλ’ εὐδοκιμήσειν ἐν τοῖς πολλοῖς. ἀτάρ, ὦ Ἱππία, τί ποτε τὸ αἴτιον ὅτι οἱ παλαιοὶ ἐκεῖνοι, ὧν ὀνόματα μεγάλα | λέγεται ἐπὶ σοφίᾳ, Πιττακοῦ τε καὶ Βίαντος καὶ τῶν ἀμφὶ τὸν Μιλήσιον Θαλῆν καὶ ἔτι τῶν ὕστερον μέχρι Ἀναξαγόρου, ὡς ἢ πάντες ἢ οἱ πολλοὶ αὐτῶν φαίνονται ἀπεχόμενοι τῶν πολιτικῶν πράξεων;

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socrate Questo, Ippia, vuol dire essere un uomo veramente sapiente e completo. Tu, infatti, in privato sei in grado di arrecare vantaggi ancor piú ingenti degli ingenti compensi [c] che prendi dai giovani, e poi in pubblico sei in grado di procurare benefici alla tua città, proprio come deve fare chi aspira a non essere disprezzato, bensí a godere di buona reputazione tra i piú. Ma allora, Ippia, per quale ragione quegli uomini del passato, le cui nomee sono grandi per la loro sapienza – dico Pittaco, Biante, i seguaci di Talete di Mileto e poi tutti gli altri fino ad Anassagora –4, si tennero tutti (o quasi) chiaramente distanti dall’attività politica?5. una pace recente, le conversazioni con Ippia devono probabilmente essere collocate tra il 421 e il 416 – cosí Wood­ruff 1982, pp. 93-94, e recentemente Nails 2002, p. 313. Già dalle prime parole che pronuncia, Ippia si proclama cittadino di spicco della propria città in virtú della capacità conferitagli dalla sofistica, quella di prevedere, comporre e giudicare i discorsi. Ippia sembra dunque ricalcare la posizione – tipicamente sofistica – sostenuta nel Gorgia (466b4 sgg.) da Polo, per cui i retori hanno nella città la migliore reputazione e il massimo potere in virtú della loro eloquenza sofistica. 4   I personaggi richiamati associano una proverbiale sapienza (in particolare, Pittaco, Biante e Talete sono tre dei sette sapienti) a un noto impegno politico nelle rispettive patrie: Pittaco regnò su Mitilene, Biante fu una figura di spicco a Priene come Talete lo fu a Mileto. Anche Anassagora, per quanto noto soprattutto come presocratico, fu certamente vicino al governo democratico di Atene. Inoltre, le figure immaginabili tra Talete e Anassagora – poe­ti o filosofi che siano – possono difficilmente essere pensate come volontariamente e fieramente distanti dalla politica (si pensi a Solone e Pitagora; cfr. ­Heitsch 2011, p. 45). L’argomento è dunque sconcertante, e la spiegazione spesso avanzata (cfr. su tutti Wood­ruff 1982, p. 37, nota 6) considera il modo di fare politica di questi personaggi: Platone vorrebbe evidenziare come essi non richiedessero né ricevessero compenso per la loro attività, e mantenessero un certo distacco dalle masse. Se questa spiegazione rimane in generale valida, la formulazione di Socrate è comunque quantomeno ambigua, e non può essere escluso che sia già finalizzata anche a insinuare un’immagine caricaturale del sofista: Ippia si trova subito paragonato alle figure deformate dei grandi sapienti, e Socrate sa che egli vorrà dichiararsi migliore anche di loro (cfr. anche infra le note 6-7) e che per farlo dovrà accettare tale caratterizzazione paradossale. 5   La descrizione dell’attività di Ippia è evidentemente ironica: grandi benefici sotto grandi compensi (si pensi alle classiche critiche all’insegnamento sofistico, per esempio in Prot., 311a8 sgg. e Gorg., 459b5 sgg.) e attenzione per la stima tributata dai piú (cfr. per esempio la “filosofia” di Callicle in Gorg., 484c4-486 d1).

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ιππιας Τί δ’ οἴει, ὦ Σώκρατες, ἄλλο γε ἢ ἀδύνατοι ἦσαν [d] καὶ οὐχ ἱκανοὶ ἐξικνεῖσθαι φρονήσει ἐπ’ ἀμφότερα, τά τε κοινὰ καὶ τὰ ἴδια; σωκρατης Ἆρ’ οὖν πρὸς Διός, ὥσπερ αἱ ἄλλαι τέχναι ἐπιδεδώκασι καὶ εἰσὶ παρὰ τοὺς νῦν δημιουργοὺς οἱ παλαιοὶ | φαῦλοι, οὕτω καὶ τὴν ὑμετέραν τὴν τῶν σοφιστῶν τέχνην ἐπιδεδωκέναι φῶμεν καὶ εἶναι τῶν ἀρχαίων τοὺς περὶ τὴν σοφίαν φαύλους πρὸς ὑμᾶς; ιππιας Πάνυ μὲν οὖν ὀρθῶς λέγεις. σωκρατης Εἰ ἄρα νῦν ἡμῖν, ὦ Ἱππία, ὁ Βίας ἀνα­ βιοίη, γέλωτ’ 282 [a] ἂν ὄφλοι πρὸς ὑμᾶς, ὥσπερ καὶ τὸν Δαίδαλόν φασιν οἱ ἀνδριαντοποιοί, νῦν εἰ γενόμενος τοιαῦτ’ ἐργάζοιτο οἷα ἦν ἀφ’ ὧν τοὔνομ’ ἔσχεν, καταγέλαστον ἂν εἶναι. ιππιας Ἔστι μὲν ταῦτα, ὦ Σώκρατες, οὕτως ὡς σὺ λέγεις· | εἴωθα μέντοι ἔγωγε τοὺς παλαιούς τε καὶ προτέρους ἡμῶν προτέρους τε καὶ μᾶλλον ἐγκωμιάζειν ἢ τοὺς νῦν, εὐλαβούμενος μὲν φθόνον τῶν ζώντων, φοβούμενος δὲ μῆνιν τῶν τετελευτηκότων. [b] σωκρατης Καλῶς γε σύ, ὦ Ἱππία, ὀνομάζων τε

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ippia Non credi, Socrate, che sia perché erano incapaci [d] e non in grado di guardare con intelligenza a entrambi gli ambiti, il comune e il privato?6. socrate Ma allora, per Zeus, come le altre arti sono progredite e gli artigiani del passato sono dappoco rispetto a quelli di adesso, cosí anche la vostra arte, quella dei sofisti7, è progredita, e gli antichi che si occuparono della sapienza sono dappoco rispetto a voi? ippia Certo, dici correttamente. socrate Quindi, Ippia, se Biante tornasse all’istante8 in vita per noi si renderebbe ridicolo 282 [a] rispetto a voi, come accadrebbe anche a Dedalo9, il quale – cosí affermano gli scultori – se nascesse oggi e producesse opere quali quelle che gli diedero la sua fama, sarebbe risibile. ippia Le cose stanno proprio come dici, Socrate. Comunque, io ho l’abitudine di riservare elogi agli uomini del passato e a chi è venuto prima, prima e piú che ai contemporanei, usando cautela per l’invidia dei vivi e serbando timore dell’ira dei defunti. [b] socrate Bello davvero, Ippia, mi pare il modo 6   Come spesso segnalato (cfr. Wood­ruff 1982, pp. 36-37, nota 4; ­Heitsch 2011, pp. 44-46), Ippia riflette una prospettiva tipicamente sofistica, per la quale nelle generazioni si assisterebbe a un progresso della riflessione e del modo di vivere: Protagora, per esempio, afferma che anche Omero, Esiodo e altre antiche figure di grande rilievo erano in realtà sofisti (Prot., 316d3317c1). La posizione di Ippia, per quanto in continuità con questa, sembra ben piú forte (gli antichi sapienti sono incapaci) e caricaturale. 7   Platone gioca sulla traslazione semantica che egli stesso sta introducendo nella “storiografia filosofica” antica. Fino all’avvento della sofistica e alla sua condanna da parte di Platone il termine σοφιστής indicava – secondo la sua origine grammaticale – un alto livello di sapienza, per esempio quello dei sette sapienti che Socrate ha appena richiamato: in base all’indicazione precedente, c’è un’unica linea di continuità tra i σοφισταί del passato e quelli di ora. Il gioco ironico è di grande efficacia: Ippia si rappresenta all’apice di una simile linea esattamente nel momento in cui Platone lo sta ritraendo come esempio della degenerazione e della distorsione della medesima tradizione. 8   Socrate produce un gioco retorico (βίας ἀναβιοίη) di ispirazione sofistica; cfr. anche Gorg., 467b11 e infra la nota 10. Una rassegna parziale di “parodie” socratiche dello stile di Ippia è proposta da Grube 1929, p. 375. 9   Scultore del mito, dotato di eccezionali bravura e fama; cfr. anche Euthyphr., 11c1-d2 e Men., 97d3 sgg., dove vengono evocate le sue proverbiali «statue viventi».

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καὶ διανοούμενος, ὡς ἐμοὶ δοκεῖς. συμμαρτυρῆσαι δέ σοι ἔχω ὅτι ἀληθῆ λέγεις, καὶ τῷ ὄντι ὑμῶν ἐπιδέδωκεν ἡ τέχνη πρὸς τὸ καὶ τὰ δημόσια πράττειν δύνασθαι μετὰ τῶν ἰδίων. Γοργίας τε γὰρ οὗτος | ὁ Λεοντῖνος σοφιστὴς δεῦρο ἀφίκετο δημοσίᾳ οἴκοθεν πρεσβεύων, ὡς ἱκανώτατος ὢν Λεοντίνων τὰ κοινὰ πράττειν, καὶ ἔν τε τῷ δήμῳ ἔδοξεν ἄριστα εἰπεῖν, καὶ ἰδίᾳ ἐπιδείξεις ποιούμενος καὶ συνὼν τοῖς νέοις χρήματα πολλὰ ἠργάσατο [c] καὶ ἔλαβεν ἐκ τῆσδε τῆς πόλεως· εἰ δὲ βούλει, ὁ ἡμέτερος ἑταῖρος Πρόδικος οὗτος πολλάκις μὲν καὶ ἄλλοτε δημοσίᾳ ἀφίκετο, ἀτὰρ τὰ τελευταῖα ἔναγχος ἀφικόμενος δημοσίᾳ ἐκ Κέω λέγων τ’ ἐν τῇ βουλῇ πάνυ ηὐδοκίμησεν καὶ ἰδίᾳ | ἐπιδείξεις ποιούμενος καὶ τοῖς νέοις συνὼν χρήματα ἔλαβεν θαυμαστὰ ὅσα. τῶν δὲ παλαιῶν ἐκείνων οὐδεὶς πώποτε ἠξίωσεν ἀργύριον μισθὸν

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in cui usi le parole e ragioni10. Del resto posso anch’io testimoniare che dici il vero, che la vostra arte è realmente progredita acquisendo la capacità di svolgere le attività pubbliche insieme a quelle private. Infatti Gorgia11, il sofista di Lentini, venne qui dalla sua patria come ambasciatore per una missione pubblica – in quanto era reputato il piú capace a Lentini nelle questioni di comune interesse –, e da un lato si fece fama di avere ottima eloquenza davanti al popolo, dall’altro in privato, producendo esibizioni oratorie e intrattenendosi con i giovani, acquisí molte ricchezze e [c] le portò con sé via da questa città. Se vuoi, c’è anche il nostro amico Prodico12: piú volte è venuto qui per missioni pubbliche, ma l’ultima volta, di recente, pur essendo giunto da Ceo in missione pubblica non ha solo riscosso grande apprezzamento parlando all’assemblea, ma ha anche acquisito un’incredibile quantità di ricchezze in privato, producendo esibizioni oratorie e intrattenendosi con i giovani. Nessuno di quegli uomini del passato, invece, ha mai valutato positivamente l’idea di richiedere pagamenti 10   Socrate guarda ironicamente ai giochi retorici della precedente affermazione di Ippia (προτέρους … προτέρους; parallelismo con antitesi delle ultime due proposizioni participiali; echi deformati di topoi tipici delle orazioni funebri ateniesi – cfr. Tosi 1980, pp. 67-70). 11   Gorgia, celebre sofista di Lentini, visitò Atene per la prima volta nel 427 (terminus post quem per la datazione drammatica della nostra opera; cfr. supra la nota 3). Per quanto nell’omonimo dialogo Gorgia non sia descritto come un vero sapiente, la differenza che Platone istituisce tra alcune figure di spicco del movimento sofistico (con Gorgia, anche Protagora; cfr. del resto 282d6-e8) e altre – come Ippia – è evidente. La tattica ironica sembra spingere Ippia a elevarsi con toni caricaturali anche al di sopra dei sofisti della prima generazione. Al contempo, se Platone ha in qualche modo adombrato una “storia della distorsione” della sapienza in sofistica (cfr. supra la nota 7), in questo passo sembra possibile vedere in Gorgia una figura assolutamente centrale di tale slittamento, caratterizzato dai presidi tipici della sofistica (per l’arte dell’esibizione retorica cfr. per esempio Gorg., 447a5 sgg. e 456a7 sgg.; per l’insegnamento ai giovani dietro compenso cfr. per esempio 458e3 sgg.). 12   Prodico di Ceo, cronologicamente piú vicino a Socrate di Gorgia, è indicato dallo stesso Socrate come proprio maestro (Prot., 340e8-341a1; Crat., 384b1 sgg.; Men., 96d5-e1); il tono è spesso ironico, anche se di sicuro ne viene data una valutazione complessiva ben migliore di quella che emerge per Ippia. Su questa figura cfr. ora Bonazzi 2010b, pp. 126-31, 138-42, 158-59.

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πράξασθαι οὐδ’ ἐπιδείξεις ποιή- [d] σασθαι ἐν παντοδαποῖς ἀνθρώποις τῆς ἑαυτοῦ σοφίας· οὕτως ἦσαν εὐήθεις καὶ ἐλελήθει αὐτοὺς ἀργύριον ὡς πολλοῦ ἄξιον εἴη. τούτων δ’ ἑκάτερος πλέον ἀργύριον ἀπὸ σοφίας εἴργασται ἢ ἄλλος δημιουργὸς ἀφ’ ἧστινος τέχνης· καὶ ἔτι | πρότερος τούτων Πρωταγόρας. ιππιας Οὐδὲν γάρ, ὦ Σώκρατες, οἶσθα τῶν καλῶν περὶ τοῦτο. εἰ γὰρ εἰδείης ὅσον ἀργύριον εἴργασμαι ἐγώ, θαυμάσαις ἄν· καὶ τὰ μὲν ἄλλα ἐῶ, ἀφικόμενος δέ ποτε εἰς Σικελίαν, Πρωτα- [e] γόρου αὐτόθι ἐπιδημοῦντος καὶ εὐδοκιμοῦντος καὶ πρεσβυτέρου ὄντος πολὺ νεώτερος ὢν ἐν ὀλίγῳ χρόνῳ πάνυ πλέον ἢ πεντήκοντα καὶ ἑκατὸν μνᾶς ἠργασάμην, καὶ ἐξ ἑνός γε χωρίου πάνυ σμικροῦ, Ἰνυκοῦ, πλέον ἢ εἴκοσι μνᾶς· καὶ τοῦτο ἐλθὼν | οἴκαδε φέρων τῷ πατρὶ ἔδωκα, ὥστε ἐκεῖνον καὶ τοὺς ἄλλους πολίτας θαυμάζειν τε καὶ ἐκπεπλῆχθαι. καὶ σχεδόν τι οἶμαι ἐμὲ πλείω χρήματα εἰργάσθαι ἢ ἄλλους σύνδυο οὕστινας βούλει τῶν σοφιστῶν. σωκρατης Καλόν γε, ὦ Ἱππία, λέγεις καὶ μέγα τεκμήριον 283 [a] σοφίας τῆς τε σεαυτοῦ καὶ τῶν νῦν ἀνθρώπων πρὸς τοὺς ἀρχαίους ὅσον διαφέρουσι. τῶν γὰρ προτέρων [περὶ Ἀναξαγόρου λέγεται]

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in denaro o di produrre esibizioni oratorie della propria sapienza [d] di fronte a una massa indiscriminata di uomini: fino a questo punto erano semplici, e sfuggiva loro quanto valore abbia il denaro!13. Al contrario, ciascuno di quei due ha tratto dalla sapienza piú denaro che ogni altro artigiano dalla propria arte – quale che sia –; lo stesso fece anche, e ancor prima di loro, Protagora14. ippia Ma Socrate, non hai alcuna idea delle imprese davvero belle in questo campo! Se sapessi quanto denaro ho guadagnato io rimarresti incredulo. Una volta – e tralascio gli altri casi – giunsi in Sicilia nel periodo in cui Protagora [e] vi risiedeva e, nonostante egli fosse già molto stimato e ben piú anziano, io, benché molto piú giovane, in poco tempo guadagnai piú di centocinquanta mine, e addirittura piú di venti in una sola e piccola località, Inico. Quando poi tornai a casa consegnai la somma a mio padre: lui e gli altri concittadini rimasero allora increduli e profondamente colpiti. Credo proprio di aver acquisito piú ricchezze io di qualsiasi coppia di sofisti tu voglia!15. socrate Bello davvero, Ippia, è il tuo racconto, una grande prova 283 [a] della sapienza tua e dei contemporanei, di quanto differiscano dagli antichi: molta ignoranza, secondo il tuo discorso, era propria dei no13   La valutazione è ironica e si basa sulla duplicità semantica di εὐήθεια (cfr. infra la nota 48 all’Ippia minore): la frase va letta, in modo conforme a una tradizione conservatrice vicina a Platone (Solone, fr. 15), nel senso opposto, per cui il buon carattere e la virtú degli antichi facevano sí che essi serbassero diffidenza verso il denaro. Ancora a una prospettiva tradizionale e antisofistica rimanda il rifiuto del contatto con la massa. 14   Il capostipite della sofistica, Protagora di Abdera, viene evocato a completamento del gruppo di “sofisti migliori” rispetto ai quali Ippia è chiamato ironicamente a primeggiare. Si delinea cosí una gradazione declinante, dalla sapienza antica alla distorsione sofistica, e da questa a una delle sue peggiori figure, Ippia. 15   Ippia abbocca all’esca di Socrate (che tratta con sufficienza; in particolare a 282d6), proponendo da un lato la sua vittoria schiacciante sull’anziano Protagora, dall’altro la pretesa di primeggiare da solo contro una coppia di sofisti. Pace Wood­ruff 1982, pp. 129-31, o Ippia è vanaglorioso e superbo oppure non è abbastanza intelligente da vedere che Socrate lo induce ad affermazioni vanagloriose.

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πολλὴ ἀμαθία κατὰ τὸν σὸν λόγον. τοὐναντίον γὰρ Ἀναξαγόρᾳ φασὶ συμβῆναι ἢ ὑμῖν· κατα- | λειφθέντων γὰρ αὐτῷ πολλῶν χρημάτων καταμελῆσαι καὶ ἀπο­ λέσαι πάντα – οὕτως αὐτὸν ἀνόητα σοφίζεσθαι – λέγουσι δὲ καὶ περὶ ἄλλων τῶν παλαιῶν ἕτερα τοιαῦτα. τοῦτο μὲν οὖν μοι δοκεῖς καλὸν τεκμήριον ἀποφαίνειν περὶ σοφίας τῶν [b] νῦν πρὸς τοὺς προτέρους, καὶ πολλοῖς συνδοκεῖ ὅτι τὸν σοφὸν αὐτὸν αὑτῷ μάλιστα δεῖ σοφὸν εἶναι· τούτου δ’ ὅρος ἐστὶν ἄρα, ὃς ἂν πλεῖστον ἀργύριον ἐργάσηται. καὶ ταῦτα μὲν ἱκανῶς ἐχέτω· τόδε δέ μοι εἰπε· σὺ αὐτὸς πόθεν πλεῖστον | ἀργύριον ἠργάσω τῶν πόλεων εἰς

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stri predecessori16. Dicono infatti che ad Anassagora sia accaduto il contrario che a voi: egli, pur avendo ereditato grandi ricchezze, non se ne diede pensiero e finí per perdere tutto – tanto era privo di intelletto nell’esercizio della sua sapienza!17 –, e raccontano storie simili anche su altri sapienti del passato. Mi pare che questa bella prova sia chiarificatrice circa la sapienza [b] dei contemporanei a fronte di quella dei predecessori, e certamente molti condivideranno l’opinione per cui il sapiente deve essere sapiente soprattutto a favore di se stesso. Gli sarà propria questa descrizione: uno che sappia guadagnare la maggiore quantità di denaro possibile18. Con ciò questo argomento è stato trattato a sufficienza. Dimmi invece quest’altra cosa19: tra le città in cui ti sei recato, dove hai 16   Wood­ruff 1982, p. 39, nota 22, accoglie il testo tràdito correggendo περὶ in μέχρι («fino a»), al fine di riprodurre l’espressione che occorre a 281c6. In realtà hanno probabilmente ragione tutti gli editori a partire da Stallbaum a espungere περὶ Ἀναξαγόρου λέγεται, facilmente identificabile come glossa relativa all’aneddoto «su Anassagora». 17   Per l’aneddoto cfr. anche la versione in Diogene Laerzio, II, 7. Come spesso notato (cfr. su tutti Wood­ruff 1982, p. 39, nota 24) Platone coinvolge nell’ironia anche Anassagora, filosofo che introdusse un νοῦς come principio organizzatore del reale: se questa dottrina è esplicitamente criticata nel Fedone (97b8 sgg.), qui a essa si allude affermando in definitiva che Anassagora era ἀνόητος, privo di intelletto. L’ironia, però, non si ferma qui, e il suo bersaglio è ancora Ippia: nella precedente gradazione (281c3-8) Anassagora è comunque tra i sapienti che precedono i sofisti, e la sua valutazione, per quanto ridimensionata, sarà comunque ben piú alta di quella di Ippia. 18   Non è indifferente che proprio il guadagno sia uno dei tratti decisivi per distinguere l’educazione del sofista da quella di Socrate all’inizio del Sofista (in particolare 222d8-9); cfr. Centrone 2008a, p. xix. 19   Ha qui inizio la seconda parte dell’“introduzione” (283b3-286c2), che completa la descrizione ironica di Ippia e della sua sapienza fallace. Socrate si allaccia alle narrazioni orgogliose sui guadagni individuando immediatamente il caso paradossale di Sparta, dove il sofista non ha guadagnato insegnando: se leggi buone sono vantaggiose, poiché Sparta è retta da buone leggi e proprio le leggi le impediscono di onorare Ippia, allora l’attività del sofista non è né buona né vantaggiosa. L’atteggiamento di Socrate riflette la nota tendenza filospartana di Platone (cfr. supra l’introduzione, pp. 21-23, e infra le note 22 e 25), ma cela forzatamente una polemica (diffusa nei primi dialoghi; cfr. Wolfs­dorf 2004, pp. 21-22) nei confronti delle città che accolgono e celebrano i sofisti, Atene su tutte. Del resto l’idea sottesa all’obiezione di Socrate è simile a quella spesso rivolta contro i politici ateniesi: esercitando il proprio potere essi non hanno reso migliori i cittadini (cfr. il locus classicus in Gorg., 515b6 sgg.), mentre le buone leggi di Sparta hanno impedito che Ippia potesse danneggiare i giovani.

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ἃς ἀφικνῇ; ἢ δῆλον ὅτι ἐκ Λακεδαίμονος, οἷπερ καὶ πλειστάκις ἀφῖξαι; ιππιας Οὐ μὰ τὸν Δία, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Πῶς φῄς; ἀλλ’ ἐλάχιστον; [c] ιππιας Οὐδὲν μὲν οὖν τὸ παράπαν πώποτε. σωκρατης Τέρας λέγεις καὶ θαυμαστόν, ὦ Ἱππία. καί μοι εἰπέ· πότερον ἡ σοφία ἡ σὴ οὐχ οἵα τοὺς συνόντας αὐτῇ καὶ μανθάνοντας εἰς ἀρετὴν βελτίους ποιεῖν; ιππιας Καὶ | πολύ γε, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Ἀλλὰ τοὺς μὲν Ἰνυκίνων ὑεῖς οἷός τε ἦσθα ἀμείνους ποιῆσαι, τοὺς δὲ Σπαρτιατῶν ἠδυνάτεις; ιππιας Πολλοῦ γε δέω. σωκρατης Ἀλλὰ δῆτα Σικελιῶται μὲν ἐπιθυμοῦσιν ἀμείνους γίγνεσθαι, Λακεδαιμόνιοι [d] δ’ οὔ; ιππιας Πάντως γέ που, ὦ Σώκρατες, καὶ Λακε­ δαιμόνιοι. σωκρατης Ἆρ’ οὖν χρημάτων ἐνδείᾳ ἔφευγον τὴν σὴν ὁμιλίαν; ιππιας Οὐ δῆτα, ἐπεὶ ἱκανὰ αὐτοῖς ἐστιν. σωκρατης Τί δῆτ’ ἂν εἴη ὅτι ἐπιθυμοῦντες καὶ ἔχοντες χρή- | ματα, καὶ σοῦ δυναμένου τὰ μέγιστα αὐτοὺς ὠφελεῖν, οὐ πλήρη σε ἀργυρίου ἀπέπεμψαν; ἀλλ’ ἐκεῖνο, μῶν μὴ Λακεδαιμόνιοι σοῦ βέλτιον ἂν παιδεύσειαν τοὺς αὑτῶν παῖδας; ἢ τοῦτο φῶμεν οὕτω, καὶ σὺ συγχωρεῖς;

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guadagnato la maggior somma di denaro? Che domande, certamente a Sparta, dove sei andato piú spesso! ippia No, Socrate, per Zeus! socrate Come dici? Lí hai guadagnato la somma minore? [c] ippia Non ho mai guadagnato assolutamente ­niente. socrate È qualcosa di sconvolgente e strano, Ippia. Ma dimmi: la tua sapienza non è forse in grado di rendere migliore in relazione alla virtú chi si intrattiene con lei e la apprende?20. ippia Decisamente, Socrate. socrate Era forse in grado di rendere migliori i figli degli abitanti di Inico, ma impotente con quelli degli Spartani? ippia Questo è di gran lunga falso! socrate Allora i Sicelioti desiderano divenire migliori, mentre gli Spartani [d] no? ippia Assolutamente no, Socrate, anche gli Spartani! socrate Hanno dunque evitato la tua compagnia per mancanza di denaro? ippia No di certo, ne hanno a sufficienza. socrate Come può essere, allora, che gli Spartani non ti abbiano rimandato indietro pieno di denaro, benché ne avessero desiderio e possedessero ricchezze, e tu fossi capace di offrire loro dei vantaggi in relazione alle cose piú importanti? La ragione non è forse che gli Spartani sono in grado di educare i loro ragazzi meglio di te?21. Diciamo in questo modo, concordi? 20   Facendo riferimento allo stupore e all’incredulità (qui mescolata con τέρας, termine piú forte – letteralmente «mostruosità» – reso con «qualcosa di sconvolgente»), Socrate sembra riprendere ironicamente il racconto dei guadagni di Ippia (in particolare 282d7 e 282e6) deformandolo e radicalizzandolo in senso negativo. Per l’esigenza di «rendere migliori» cfr. la nota precedente. 21   Il tema dell’insegnabilità della virtú rappresenta un aspetto problematico del pensiero platonico (considerando solo grandi evidenze, è l’argomento del Protagora e uno dei nuclei centrali del Menone), mentre è un luogo comune tra i sofisti (cfr. in particolare Apol., 19e1 sgg.; Euthyd., 274e8 sgg.; Prot., 318a6 sgg.; Gorg., 460a3 sgg.; Men., 95c1 sgg.). Non può dunque stupire che Platone utilizzi (ironicamente o meno) questo argomento contro Ippia

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Οὐδ’ ὁπωστιοῦν. Πότερον οὖν τοὺς νέους οὐχ οἷός τ’ ἦσθα πείθειν ἐν Λακεδαίμονι ὡς σοὶ συνόντες πλέον ἂν εἰς ἀρετὴν ἐπιδιδοῖεν ἢ τοῖς ἑαυτῶν, ἢ τοὺς ἐκείνων πατέρας ἠδυνάτεις πείθειν ὅτι | σοὶ χρὴ παραδιδόναι μᾶλλον ἢ αὐτοὺς ἐπιμελεῖσθαι, εἴπερ τι τῶν ὑέων κήδονται; οὐ γάρ που ἐφθόνουν γε τοῖς ἑαυτῶν παισὶν ὡς βελτίστοις γενέσθαι. ιππιας Οὐκ οἶμαι ἔγωγε φθονεῖν. σωκρατης Ἀλλὰ μὴν εὔνομός γ’ ἡ Λακεδαίμων. ιππιας Πῶς γὰρ 284 [a] οὔ; σωκρατης Ἐν δέ γε ταῖς εὐνόμοις πόλεσιν τιμιώ­ τατον ἡ ἀρετή. ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Σὺ δὲ ταύτην παραδιδόναι ἄλλῳ κάλλιστ’ ἀνθρώπων ἐπίστασαι. ιππιας Καὶ πολύ γε, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Ὁ οὖν κάλλιστ’ ἐπιστάμενος ἱππι­ κὴν | παραδιδόναι ἆρ’ οὐκ ἂν ἐν Θετταλίᾳ τῆς Ἑλ­λάδος μάλιστα τιμῷτο καὶ πλεῖστα χρήματα λαμβάνοι, καὶ ἄλλοθι ὅπου τοῦτο σπουδάζοιτο; ιππιας

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[e] ippia Assolutamente no! socrate Forse allora a Sparta non sei stato in grado di persuadere i giovani che potrebbero progredire nella virtú in misura maggiore intrattenendosi con te piuttosto che con i loro maestri? Oppure sei stato incapace di persuadere i loro padri che devono affidare i figli a te piú che occuparsene essi stessi, se davvero li hanno a cuore? Certamente non hanno impedito ai loro figli di divenire il piú possibile eccellenti perché mossi da invidia. ippia Neanche io credo siano mossi da invidia. socrate Ma Sparta ha buone leggi?22. ippia Come 284 [a] no? socrate E nelle città con buone leggi la virtú è ciò che riceve la massima considerazione. ippia Certo. socrate E tu sai trasmetterla ad altri meglio di qualunque uomo. ippia Certamente, Socrate. socrate Ora, chi sappia trasmettere meglio di chiunque altro l’equitazione, tra le regioni della Grecia non sarà tenuto in massima considerazione e acquisirà la maggiore quantità di ricchezze in Tessaglia e in qualsiasi altro luogo in cui ci si dedichi seriamente a tale disciplina?23. e finisca per sostenere una tesi simile a quella proposta da Protagora (Prot., 326e6 sgg.) a favore dell’insegnabilità della virtú e poi smentita nel Menone (89e6 sgg.) con un argomento probabilmente ironico. 22   O anche, con una voluta ambiguità, «Sparta rispetta le leggi». La preparazione relativamente lunga di questa affermazione ha la funzione di tagliare eventuali vie di uscita alternative. Da un lato gli Spartani hanno tutti i caratteri per volere e poter ascoltare Ippia, dall’altro Ippia è indotto a escludere di aver peccato egli stesso per incapacità. A questo punto il discorso non può che venire incanalato nella ricerca di un fattore estrinseco che fondi il “rifiuto” spartano. La sua identificazione con le leggi è una mossa vincente, poiché Sparta è tradizionalmente connotata come dotata di buone leggi. In Platone: Sparta è ricca in Alc. I, 122e2 sgg.; è detentrice di virtú guerriere in particolare in Leg., I, 630d4 sgg. e 636e4 sgg. (Sparta è comunque molto presente in termini positivi in quest’opera); cfr. anche Prot., 342a6 sgg. (sull’avversione spartana per i sofisti). 23   Per il legame tra la Tessaglia e l’allevamento dei cavalli cfr. anche Men., 70a5-6 e Leg., I, 625c10-d3. In questo passo è stata vista (cfr. in particolare Wood­ruff 1982, p. 40, nota 29) la celebre analogia tra virtú e arte (cfr. anche infra la nota 61 all’Ippia minore), ma l’immagine proposta è probabilmen-

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Εἰκός γε. Ὁ δὴ δυνάμενος παραδιδόναι τὰ πλείστου ἄξια μαθήματα εἰς ἀρετὴν οὐκ ἐν [b] Λακεδαίμονι μάλιστα τιμήσεται καὶ πλεῖστα ἐργάσεται χρήματα, ἂν βούληται, καὶ ἐν ἄλλῃ πόλει ἥτις τῶν Ἑλληνίδων εὐνομεῖται; ἀλλ’ ἐν Σικελίᾳ, ὦ ἑταῖρε, οἴει μᾶλλον καὶ ἐν Ἰνυκῷ; ταῦτα πειθώμεθα, ὦ Ἱππία; ἐὰν γὰρ σὺ κελεύῃς, | πειστέον. ιππιας Οὐ γὰρ πάτριον, ὦ Σώκρατες, Λακεδαιμονίοις κινεῖν τοὺς νόμους, οὐδὲ παρὰ τὰ εἰωθότα παιδεύειν τοὺς ὑεῖς. σωκρατης Πῶς λέγεις; Λακεδαιμονίοις οὐ πάτριον ὀρθῶς [c] πράττειν ἀλλ’ ἐξαμαρτάνειν; ιππιας Οὐκ ἂν φαίην ἔγωγε, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Οὐκοῦν ὀρθῶς ἂν πράττοιεν βέλτιον ἀλλὰ μὴ χεῖρον παιδεύοντες τοὺς νέους; ιππιας Ὀρθῶς· ἀλλὰ ξενικὴν παίδευσιν οὐ νόμιμον αὐτοῖς παιδεύειν, ἐπεὶ εὖ ἴσθι, εἴπερ τις ἄλλος ἐκεῖθεν χρήματα ἔλαβεν πώποτε ἐπὶ παιδεύσει, καὶ ἐμὲ ἂν λαβεῖν πολὺ μάλιστα – χαίρουσι γοῦν ἀκούοντες ἐμοῦ καὶ ἐπαινοῦσιν – ἀλλ’, ὃ λέγω, οὐ νόμος. ιππιας

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ippia È del tutto probabile. socrate Ebbene, chi è capace di trasmettere le piú valide e importanti cognizioni che conducono alla virtú [b] non sarà tenuto in massima considerazione e acquisirà la maggior quantità di ricchezze – questo nel caso in cui lo voglia – a Sparta e in qualsiasi altra città della Grecia retta da buone leggi?24. O credi che questo accadrà in misura maggiore in Sicilia, amico mio, e a Inico? Vogliamo pensarla cosí, Ippia? Se lo ordini tu, bisogna pensarla cosí… ippia Vedi, a Sparta modificare le leggi ed educare i figli in modo difforme rispetto ai costumi aviti è contro la tradizione25. socrate Che intendi? Forse la tradizione spartana non prevede l’agire correttamente [c] bensí l’errare? ippia Non voglio dire questo, Socrate. socrate Non agirebbero dunque correttamente se educassero i giovani meglio e non peggio? ippia Correttamente, è chiaro. Ma per loro è contro le norme educare secondo un modello straniero, poiché – e devi intenderlo bene – se per assurdo qualcun altro avesse mai acquisito ricchezze là con l’educazione, allora io ne avrei certamente acquisite molte di piú – infatti si divertono ad ascoltarmi e mi applaudono con approvazione. Ma questo è vietato dalla legge26. te meno impegnativa, volta solo a evidenziare come la condizione di Ippia a Sparta sia del tutto “paradossale”. 24   Benché non esplicita, è qui chiara la prospettiva – tipicamente platonica – del legame essenziale tra politica, leggi e virtú: i politici devono rendere migliori (piú virtuosi) i cittadini (cfr. supra la nota 19); le leggi e la legislazione devono gestire al meglio le virtú dei cittadini (oltre al modello di stato fondato nella Repubblica, cfr. per esempio le ultime pagine del Politico). 25   Una delle peculiarità del sistema spartano è un forte conservatorismo basato su una costituzione ritenuta corretta e virtuosa; tale prospettiva è diffusamente ripresa e rielaborata da Platone: cfr. in particolare Pol., 300c1; Prot., 342a6-343 c5; Resp., IV, 424b3 sgg.; Leg., IV, 715c6-d6; VI, 772a4 sgg.; XII, 960c7-d6. 26   Platone potrebbe alludere a una dottrina dell’Ippia storico, per cui al diritto positivo dovrebbero essere preferite leggi naturali e universali non scritte (cfr. Prot., 337c2 sgg. e Senofonte, Mem., IV, 4); tutto ciò rimane

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[d] σωκρατης Νόμον δὲ λέγεις, ὦ Ἱππία, βλάβην πόλεως εἶναι ἢ ὠφελίαν; ιππιας Τίθεται μὲν οἶμαι ὠφελίας ἕνεκα, ἐνίοτε δὲ καὶ βλάπτει, ἐὰν κακῶς τεθῇ ὁ νόμος. σωκρατης Τί δέ; οὐχ ὡς ἀγαθὸν μέγιστον πόλει τίθενται τὸν νόμον οἱ τιθέμενοι; | καὶ ἄνευ τούτου μετὰ εὐνομίας ἀδύνατον οἰκεῖν; ιππιας Ἀληθῆ λέγεις. σωκρατης Ὅταν ἄρα ἀγαθοῦ ἁμάρτωσιν οἱ ἐπι­ χειροῦντες τοὺς νόμους τιθέναι, νομίμου τε καὶ νόμου ἡμαρτήκασιν· ἢ [e] πῶς λέγεις; ιππιας Τῷ μὲν ἀκριβεῖ λόγῳ, ὦ Σώκρατες, οὕτως ἔχει· οὐ μέντοι εἰώθασιν ἅνθρωποι ὀνομάζειν οὕτω. σωκρατης Πότερον, ὦ Ἱππία, οἱ εἰδότες ἢ οἱ μὴ εἰδότες;

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[d] socrate Tu dici che la legge è un danno o un vantaggio per la città? ippia Credo che la legge sia stabilita in vista del vantaggio, ma che talvolta, nel caso in cui sia mal formulata, possa anche danneggiare. socrate Come? Chi stabilisce la legge non la formula come massimo bene per la città? Senza di questa, del resto, è impossibile godere di una vita ben regolata. ippia Dici il vero. socrate Pertanto, quando chi si impegna nello stabilire la legge non coglie il bene, certamente non coglie neanche la norma e la legge stessa. Come [e] dici altrimenti? ippia Le cose stanno cosí, Socrate, secondo il ragionamento piú preciso… Ma gli uomini non sono soliti parlare in questi termini27. socrate Chi, Ippia? Chi sa o chi non sa?28. però estremamente incerto (cfr. Bonazzi 2010b, pp. 109-10). Qui Ippia vorrebbe limitarsi a rivendicare un impedimento formale da parte della legislazione spartana. Socrate, che già ha accennato (284b6-c4) alle implicazioni che nell’argomento ha la buona natura delle leggi, approfondisce il problema (284d1-285b7) portandolo a generare una contraddizione palese, quella per cui gli Spartani, per seguire le leggi – cioè per perseguire un bene – avrebbero dovuto trasgredirle; ma poiché le leggi spartane sono buone, una simile possibilità è implicitamente da accantonare, ed emerge in controluce che Ippia non è in grado di rendere migliori con la sua educazione. L’argomento presenta aspetti condivisi da Platone: al filolaconismo e al conservatorismo legislativo (cfr. supra le note 22 e 25) si associa l’idea della salvaguardia dell’opinione corretta data dall’educazione costituita, che caratterizza in qualche modo i guardiani della Repubblica. Da considerare, infine, come Platone scelga di rappresentare Ippia in difficoltà proprio su un argomento, quello della legislazione, che il sofista ha effettivamente affrontato (cfr. infra la nota complementare 1, pp. 501-2). 27   L’ammissione di questa tesi non è scontata: un Callicle avrebbe chiesto chiarimenti per arrivare ad affermare che il fine di chi stabilisce la legge nelle città (contro quella di natura) è il vantaggio dei piú deboli (cfr. Gorg., 483a8 sgg.). L’accordo concesso da Ippia dipende qui probabilmente dalla precisa strategia di Socrate, che accetta senza chiarimenti la semantica essenzialmente utilitaristica di «bene» considerata da Ippia. Per la teoria dello stato e della legge presso i sofisti cfr. Bonazzi 2010b, pp. 83-114. 28   La distinzione tra chi sa e chi non sa cade poi nel vuoto. Anche per questo è probabile che il passaggio abbia come bersaglio lo stesso Ippia, il quale, non avendo capito realmente il valore della legislazione e dei divieti spartani, finisce per imporsi come immagine di chi non sa.

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Οὐ δῆτα. Ἀλλὰ μήν που οἵ γ’ εἰδότες τὸ ὠφελι­ μώτερον τοῦ ἀνωφελεστέρου νομιμώτερον ἡγοῦνται τῇ ἀληθείᾳ πᾶσιν ἀνθρώποις· ἢ οὐ συγχωρεῖς; ιππιας Ναί, συγχωρῶ, ὅτι γε τῇ ἀληθείᾳ. σωκρατης Οὐκοῦν ἔστιν τε καὶ ἔχει οὕτως ὡς οἱ εἰδότες ἡγοῦνται; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Ἔστι δέ γε Λακεδαιμονίοις, ὡς σὺ φῄς, ὠφελιμώ- 285 [a] τερον τὴν ὑπὸ σοῦ παίδευσιν, ξενικὴν οὖσαν, παιδεύεσθαι μᾶλλον ἢ τὴν ἐπιχωρίαν. ιππιας Καὶ ἀληθῆ γε λέγω. σωκρατης Καὶ γὰρ ὅτι τὰ ὠφελιμώτερα νομιμώτερά ἐστιν, καὶ τοῦτο λέγεις, ὦ Ἱππία; ιππιας Εἶπον γάρ. σωκρατης Κατὰ τὸν σὸν | ἄρα λόγον τοῖς Λακε­ δαιμονίων ὑέσιν ὑπὸ Ἱππίου παιδεύεσθαι νομιμώτερόν ἐστιν, ὑπὸ δὲ τῶν πατέρων ἀνομώτερον, εἴπερ τῷ ὄντι ὑπὸ σοῦ πλείω ὠφεληθήσονται. ιππιας Ἀλλὰ μὴν ὠφελη[b] θήσονται, ὦ Σώ­ κρατες. σωκρατης Παρανομοῦσιν ἄρα Λακεδαιμόνιοι οὐ διδόντες σοι χρυσίον καὶ ἐπιτρέποντες τοὺς αὑτῶν ὑεῖς. ιππιας Συγχωρῶ ταῦτα· δοκεῖς γάρ μοι τὸν λόγον πρὸς ἐμοῦ λέγειν, καὶ οὐδέν με δεῖ αὐτῷ ἐν­αντιοῦσθαι. σωκρατης Παρανόμους μὲν δή, ὦ ἑταῖρε, τοὺς Λά­ κωνας εὑρίσκομεν, καὶ ταῦτ’ εἰς τὰ μέγιστα, τοὺς ιππιας

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ippia I piú. socrate Sono forse loro quelli che sanno il vero, i piú? ippia No di certo. socrate Invece quelli che sanno ritengono in verità che ciò che è piú vantaggioso per tutti gli uomini è piú conforme alle norme di ciò che è piú svantaggioso. Concordi? ippia Sí, concordo: questa è la verità. socrate In realtà, dunque, le cose stanno come ritengono quelli che sanno? ippia Certamente. socrate Ma per gli Spartani – tu affermi – sarebbe piú vantaggioso 285 [a] ricevere l’educazione che tu proponi, per quanto straniera, piuttosto che quella locale. ippia E dico il vero. socrate E non dici anche questo, Ippia, che le cose piú vantaggiose sono piú conformi alle norme? ippia L’ho detto, infatti. socrate Se è vero che grazie a te otterranno realmente un vantaggio maggiore, quindi, secondo il tuo discorso per i figli degli Spartani è piú conforme alle norme essere educati da Ippia, mentre è piú estraneo alle leggi essere educati dai propri padri29. ippia Ma certo che otterranno [b] un vantaggio, Socrate! socrate Gli Spartani, quindi, trasgrediscono la legge nel momento in cui non ti offrano oro e non ti affidino i loro figli. ippia Concordo assolutamente. Mi pare che tu pronunci il discorso come in mia vece, e non c’è alcuna necessità che io mi opponga. socrate Dunque, amico mio, abbiamo scoperto che proprio gli Spartani, pur sembrando i piú rispettosi delle norme, in realtà trasgrediscono la legge, e per giun-

29   La responsabilità dell’assurdo dipende dalla rivendicazione di Ippia; cfr. anche la nota seguente.

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νομιμωτάτους δοκοῦντας εἶναι. ἐπαινοῦσι δὲ δή σε πρὸς θεῶν, ὦ Ἱππία, καὶ χαίρουσιν ἀκούοντες ποῖα; ἢ δῆλον δὴ ὅτι ἐκεῖνα ἃ σὺ κάλλιστα [c] ἐπίστασαι, τὰ περὶ τὰ ἄστρα τε καὶ τὰ οὐράνια πάθη; ιππιας Οὐδ’ ὁπωστιοῦν· ταῦτά γε οὐδ’ ἀνέχονται. σωκρατης Ἀλλὰ περὶ γεωμετρίας τι χαίρουσιν ἀκούοντες; ιππιας Οὐδαμῶς, ἐπεὶ οὐδ’ ἀριθμεῖν ἐκείνων γε, ὡς ἔπος εἰπεῖν, πολλοὶ | ἐπίστανται. σωκρατης Πολλοῦ ἄρα δέουσιν περί γε λογισμῶν ἀνέχεσθαί σου ἐπιδεικνυμένου. ιππιας Πολλοῦ μέντοι νὴ Δία. σωκρατης Ἀλλὰ δῆτα ἐκεῖνα ἃ σὺ ἀκριβέστατα ἐπίστασαι [d] ἀνθρώπων διαιρεῖν, περί τε γραμ­ μάτων δυνάμεως καὶ συλλαβῶν καὶ ῥυθμῶν καὶ ἁρ­ μονιῶν; ιππιας Ποίων, ὠγαθέ, ἁρμονιῶν καὶ γραμμάτων; σωκρατης Ἀλλὰ τί μήν ἐστιν ἃ ἡδέως σου ἀκροῶνται καὶ ἐπαινοῦσιν; αὐτός μοι εἰπέ, ἐπειδὴ ἐγὼ | οὐχ εὑρίσκω. ιππιας Περὶ τῶν γενῶν, ὦ Σώκρατες, τῶν τε ἡρώων

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ta riguardo le cose piú importanti30. Ma dimmi, per gli dèi: ascoltando quali discorsi, Ippia, ti applaudono e si divertono? Che domande, di sicuro quelli di cui [c] ti intendi in modo cosí bello, relativi agli astri e agli eventi del cielo31... ippia Assolutamente no, non riescono a sostenerli! socrate Allora si divertono ascoltandoti parlare di geometria? ippia In nessun modo, visto che molti di loro praticamente non sanno neanche contare. socrate Quindi sono ben distanti dal poter sostenere le tue esposizioni sul calcolo… ippia Molto distanti, per Zeus! socrate Ma amano di certo ascoltare quelle distinzioni che tu organizzi con maggiore puntualità di chiunque altro, [d] circa le funzioni di lettere, sillabe, ritmi e armonie? ippia Ma quali ritmi e armonie, ottimo uomo? socrate Quali sono allora gli argomenti che ascoltano con piacere da te, per i quali ti applaudono? Dimmelo tu, io proprio non riesco a scoprirlo. ippia Socrate, ascoltano con sommo piacere discorsi 30   L’artefice fattuale della conclusione assurda è Socrate, ma difficilmente si può dire che Ippia sia colpevole solo di una certa accondiscendenza (cosí Wood­ruff 1982, p. 41, nota 35). Se da un lato Ippia vuole scaricare su Socrate le conclusioni raggiunte (ma cfr. 285a4, in cui afferma di aver detto ciò che invece era stato Socrate a proporre a 284e5-7), dall’altro il fatto che avverta di cadere in un tranello (come capita spesso ai sofisti interlocutori di Socrate) non lo discolpa né dall’aver seguito Socrate senza proporre precisazioni né dall’aver offerto il fianco a una confutazione ad hoc. 31   Con una formulazione già usata (283b5) Socrate torna a sottolineare un aspetto contraddittorio delle vicende “professionali” di Ippia: nessuno a Sparta è interessato alle sue conoscenze scientifiche (per cui Ippia era effettivamente noto; cfr. anche Prot., 318e1-5 e qui la nota complementare 1, pp. 501-2). Per quanto sia forse eccessivo vedere qui una connessione diretta, le discipline matematiche sono quelle che, secondo uno studio filosofico indirizzato alla dialettica, compongono l’iter formativo del VII libro della Repubblica (cfr. anche ­Heitsch 2011, pp. 52-53). La critica non può quindi essere diretta contro le discipline in sé, bensí contro un modo incolto di praticarle: tale carenza, benché forse relativa anche ai metodi propri di ciascuna matematica, potrebbe essere rintracciata nell’assoluta ignoranza di Ippia nella dialettica, vero fine delle matematiche nella Repubblica.

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καὶ τῶν ἀνθρώπων, καὶ τῶν κατοικίσεων, ὡς τὸ ἀρ­ χαῖον ἐκτίσθησαν αἱ πόλεις, καὶ συλλήβδην πάσης τῆς ἀρχαιολογίας ἥδιστα [e] ἀκροῶνται, ὥστ’ ἔγωγε δι’ αὐτοὺς ἠνάγκασμαι ἐκμεμαθηκέναι τε καὶ ἐκμεμελετηκέναι πάντα τὰ τοιαῦτα. σωκρατης Ναὶ μὰ Δί’, ὦ Ἱππία, ηὐτύχηκάς γε ὅτι Λακεδαιμόνιοι οὐ χαίρουσιν ἄν τις αὐτοῖς ἀπὸ Σόλωνος τοὺς | ἄρχοντας τοὺς ἡμετέρους καταλέγῃ· εἰ δὲ μή, πράγματ’ ἂν εἶχες ἐκμανθάνων. ιππιας Πόθεν, ὦ Σώκρατες; ἅπαξ ἀκούσας πεντή­ κοντα ὀνόματα ἀπομνημονεύσω. σωκρατης Ἀληθῆ λέγεις, ἀλλ’ ἐγὼ οὐκ ἐνενόησα ὅτι τὸ | μνημονικὸν ἔχεις· ὥστ’ ἐννοῶ ὅτι εἰκότως σοι χαίρουσιν 286 [a] οἱ Λακεδαιμόνιοι ἅτε πολλὰ εἰδότι, καὶ χρῶνται ὥσπερ ταῖς πρεσβύτισιν οἱ παῖδες πρὸς τὸ ἡδέως μυθολογῆσαι. ιππιας Καὶ ναὶ μὰ Δία, ὦ Σώκρατες, περί γε

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sulle stirpi degli eroi e degli uomini, sugli insediamenti – su come le città furono anticamente fondate –, e in generale ogni narrazione dei tempi andati32, [e] cosicché a causa loro sono stato costretto ad apprendere e padroneggiare perfettamente tutto ciò che riguarda questi temi33. socrate Per Zeus, Ippia, è stata per te una grande fortuna che gli Spartani non si divertano quando qualcuno elenca loro i nostri arconti a partire dai tempi di Solone: in tal caso, avresti avuto un bel da fare per impararli... ippia Su che basi dici questo, Socrate? Sarei in grado di imparare cinquanta nomi anche ascoltandoli una volta sola! socrate È vero, non avevo considerato la tua mnemotecnica! A questo punto capisco… è ragionevole che 286 [a] gli Spartani si divertano con te: sai molte cose, e ti usano come fanno i bambini con le anziane, per farsi narrare storie piacevoli34. ippia Sí, per Zeus, Socrate! Recentemente, inoltre, 32   L’uso del termine ἀρχαιολογία è stato utilizzato per sostenere l’inautenticità del dialogo (Kahn 1985, p. 269): il sostantivo non occorre in età classica e il verbo correlato (ἀρχαιολογεῖν) è usato solo da Tucidide (VII, 69, 2, 10-15) e in senso leggermente negativo, come «parlare di cose già vecchie». In realtà proprio l’occorrenza in Tucidide inquadra ciò che Ippia vuole dire: gli Spartani non amano le sue conquiste scientifiche, bensí narrazioni di cose già vecchie, dei «tempi andati». Le uniche occorrenze di verbo e sostantivo in età classica sono dunque coerenti, e il passo del dialogo è, in questo modo, decisamente efficace. 33   Nella misura in cui l’Ippia minore dimostrerà l’incapacità di Ippia nell’affrontare anche questi temi, lo scambio non può che risultare fortemente ironico. Da sottolineare, inoltre, come Ippia riveli un tratto tipico dei sofisti, cioè l’asservimento ai gusti e ai pareri del pubblico (tema, questo, centrale nel Gorgia – cfr. 481e5 sgg. e 517b2 sgg.). 34   Per la mnemotecnica cfr. anche infra la nota 40 all’Ippia minore. L’attacco di Socrate si fa quasi frontale, con l’immagine offensiva dell’anziana (cfr. anche Gorg., 527a5-8 e Resp., I, 350e2). Ma proprio in questo frangente emerge un elemento di debolezza della tesi per cui Ippia sarebbe solo maltrattato da Socrate e un personaggio dappoco. Nel panorama delle eventuali concessioni pacate e urbane di Ippia risulta infatti ben difficile spiegare – se non, ancora, attraverso l’ironica descrizione cercata da Platone – perché Ippia abbia un sussulto di orgoglio solo per rivendicare la propria mnemotecnica, applicata peraltro alle liste arcontali (gli elenchi di chi ricoprí la carica di arconte, magistratura tra le piú importanti ad Atene).

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ἐπιτηδευμάτων καλῶν καὶ ἔναγχος αὐτόθι ηὐδοκίμησα διεξιὼν ἃ χρὴ τὸν | νέον ἐπιτηδεύειν. ἔστι γάρ μοι περὶ αὐτῶν παγκάλως λόγος συγκείμενος, καὶ ἄλλως εὖ διακείμενος καὶ τοῖς ὀνόμασι· πρόσχημα δέ μοί ἐστι καὶ ἀρχὴ τοιάδε τις τοῦ λόγου. ἐπειδὴ ἡ Τροία ἥλω, λέγει ὁ λόγος ὅτι Νεοπτόλεμος [b] Νέ­ στορα ἔροιτο ποῖά ἐστι καλὰ ἐπιτηδεύματα, ἃ ἄν τις ἐπιτηδεύσας νέος ὢν εὐδοκιμώτατος γένοιτο· μετὰ ταῦτα δὴ λέγων ἐστὶν ὁ Νέστωρ καὶ ὑποτιθέμενος αὐτῷ πάμπολλα νόμιμα καὶ πάγκαλα. τοῦτον δὴ καὶ ἐκεῖ ἐπεδειξάμην καὶ | ἐνθάδε μέλλω ἐπιδεικνύναι εἰς τρίτην ἡμέραν, ἐν τῷ Φειδοστράτου διδασκαλείῳ, καὶ ἄλλα πολλὰ καὶ ἄξια ἀκοῆς· ἐδεήθη γάρ μου Εὔδικος ὁ Ἀπημάντου. ἀλλ’ ὅπως παρέσῃ [c] καὶ αὐτὸς καὶ ἄλλους ἄξεις, οἵτινες ἱκανοὶ ἀκούσαντες κρῖναι τὰ λεγόμενα. σωκρατης Ἀλλὰ ταῦτ’ ἔσται, ἂν θεὸς θέλῃ, ὦ Ἱππία. νυνὶ μέντοι βραχύ τί μοι περὶ αὐτοῦ ἀπόκριναι· καὶ γάρ με εἰς | καλὸν ὑπέμνησας. ἔναγχος γάρ τις, ὦ ἄριστε, εἰς ἀπορίαν με κατέβαλεν ἐν λόγοις τισὶν τὰ μὲν ψέγοντα ὡς αἰσχρά, τὰ δ’ ἐπαινοῦντα

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ho riscosso successo presso di loro parlando delle belle occupazioni delle quali i giovani si devono occupare35. Vedi, ho pronto un discorso su questi argomenti, composto in modo bellissimo e studiato nell’ordine delle parole; ne ho ben presente la cornice, ed eccone l’inizio. Quando Troia fu presa, dice il discorso che a Nestore Neottolemo chiese [b] quali siano le belle occupazioni occupandosi delle quali, da giovani, si può ottenere una buona fama. A questo punto a parlare è Nestore, che ne propone di tutti i tipi, tutte conformi alle norme, tutte di grande bellezza36. A Sparta ho già esibito questo discorso, e mi appresto a esibirlo, insieme a molte altre cose degne di attento ascolto, anche qui, tra due giorni, nella scuola di Fidostrato, su invito di Eudico figlio di Apemanto37. Ma perché non [c] vieni anche tu? E magari porta con te anche altri: ascoltandomi sarete degni giudici di quanto detto. socrate Sarà cosí, Ippia, se un dio lo vorrà. Ora però rispondi brevemente su questo argomento: me l’hai richiamato alla mente in un bel momento38. Recentemente, ottimo uomo, mentre conducevo un discorso in cui biasimavo alcune cose in quanto brutte e ne lodavo altre in quanto belle, un tale39 mi ha gettato in 35   Ippia, imperturbabile, propone una descrizione entusiastica della propria composizione retorica, relativa a un tema di indubbio valore per Platone, i καλὰ ἐπιτηδεύματα: se autentici, essi rappresentano “istanze” del bello intelligibile nell’ascesa del Simposio (210c3 sgg.), peraltro associate alle leggi. 36   La traduzione tenta di rendere la composizione artificiosa del discorso, ricco di allitterazioni e figure retoriche che esasperano alcuni tratti comuni del greco: su tutte λέγει ὁ λόγος; Νεοπτ. – Νεστ. (i nomi sono avvicinati appositamente nella frase); ἐπιτηδεύματα – ἐπιτηδεύσας; πάμπολλα – πάγκαλα. 37   All’esibizione retorica, ormai svolta, si fa riferimento all’inizio dell’Ippia minore (363a6-c2; cfr. note ad loc.). 38   L’inizio della discussione sul bello (al quale si allude ancora: εἰς καλόν) è segnato dall’introduzione di una delle esigenze del dialogo socratico, la brachilogia, centrale specialmente nei dialoghi con i sofisti (cfr. infra l’introduzione all’Ippia minore, p. 204). Inoltre, la situazione che Socrate evoca pone in parallelo l’esperienza dialogica del filosofo con le esibizioni retoriche di Ippia: mentre il sofista ha proposto un discorso sulle belle occupazioni basato sul mito, Socrate ha affrontato la confutazione dialettica sul bello. 39   L’introduzione di un interlocutore terzo, spesso evocata come segnale

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ὡς καλά, οὕτω πως ἐρόμενος καὶ μάλα ὑβριστικῶς· «Πόθεν δέ μοι σύ», ἔφη, «ὦ Σώκρατες, οἶσθα [d] ὁποῖα καλὰ καὶ αἰσχρά; ἐπεὶ φέρε, ἔχοις ἂν εἰπεῖν τί ἐστι τὸ καλόν;» καὶ ἐγὼ διὰ τὴν ἐμὴν φαυλότητα ἠπορούμην τε καὶ οὐκ εἶχον αὐτῷ κατὰ τρόπον ἀποκρίνασθαι· ἀπιὼν οὖν ἐκ τῆς συνουσίας ἐμαυτῷ τε ὠργιζόμην καὶ ὠνείδιζον, καὶ | ἠπείλουν, ὁπότε πρῶτον ὑμῶν τῳ τῶν σοφῶν ἐντύχοιμι, ἀκούσας καὶ μαθὼν καὶ ἐκμελετήσας ἰέναι πάλιν ἐπὶ τὸν ἐρωτήσαντα, ἀναμαχούμενος τὸν λόγον. νῦν οὖν, ὃ λέγω, εἰς καλὸν ἥκεις, καί με δίδαξον ἱκανῶς αὐτὸ τὸ καλὸν ὅτι [e] ἐστίν, καὶ πειρῶ μοι ὅτι μάλιστα

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difficoltà40 interrogandomi, di certo con grande insolenza, in questo modo: «In base a cosa, Socrate», mi disse, «sai [d] quali cose sono belle e quali brutte?41. Vediamo: sapresti dirmi cosa è il bello?»42. E io, a causa della mia pochezza, sono piombato in grandi difficoltà e non ho saputo rispondergli adeguatamente. Al termine della conversazione, ero irritato con me stesso e mi rimproveravo severamente; cosí mi promisi che non appena mi fossi imbattuto in uno di voi sapienti avrei ascoltato, imparato e appreso saldamente per poi tornare da chi mi aveva posto la domanda, pronto a rinnovare la battaglia nel discorso. Ora, dunque, dico che giungi in un bel momento: insegnami in modo adeguato cosa è il bello in sé43 [e] e prova a rispondermi parlando con la masdi inautenticità del dialogo, rientra in realtà nelle forme letterarie adottate da Platone (si pensi per esempio a Diotima nel Simposio). Dietro all’anonimo si cela, in modo sempre meno oscuro, lo stesso Socrate (per una ricognizione critica cfr. Ludlam 1991, pp. 56-57), ma attraverso questo stratagemma Platone può evitare uno scontro diretto con Ippia, svincolare la figura del maestro dal possesso di una certa conoscenza (senza violare, dunque, la pretesa ignoranza), ma al contempo attribuire a una voce determinata un livello di formulazione filosofica superiore al piano del dialogo; cfr. Szlezák 1988, pp. 149 sgg. e supra l’introduzione, pp. 18-21. 40   «Difficoltà» traduce ἀπορία. La domanda dell’anonimo produce in Socrate ciò che Socrate produce nei suoi interlocutori, come qui in Ippia: una competenza apparente viene smascherata, e chi la rivendica si trova in difficoltà. Per altre analogie tra l’anonimo e Socrate cfr. l’introduzione, p. 19, e infra le note 61, 71 e 76. 41   Socrate loda e biasima rispettivamente le cose belle e le cose brutte: la prospettiva di partenza è dunque morale. La complessità semantica dei termini greci (cfr. supra l’introduzione, pp. 7-15) induce ad adottare corrispettivi italiani piú ampi possibili. Negli ultimi decenni la critica analitica – con Wood­ruff 1982 – ha tradotto καλόν con fine, termine parso piú ambiguo e complesso; una scelta simile a quella qui operata – in assenza, peraltro, di un corrispettivo reale di fine nella lingua italiana – è stata però proposta recentemente da Wolfs­dorf 2006, p. 221, nota 1 (trad. beautiful) proprio sulla base dell’impossibilità di trovare un termine che si avvicini in modo efficace al greco. 42   Sulla domanda socratica cfr. su tutti Giannantoni 2005, pp. 313-48. Sui problemi implicati dalla domanda dell’anonimo, e in particolare sulla “fallacia socratica” cfr. infra la nota complementare 2, pp. 503-5. 43   Per le implicazioni di questo passo circa la figura di Ippia cfr. supra l’introduzione, p. 21. In contesti analoghi l’espressione αὐτὸ τὸ + aggettivo al neutro indica spesso (benché non sempre) l’idea platonica della nozione a cui si fa riferimento. Per il problema della presenza di una teoria delle idee (e, eventualmente, in che forma) nell’Ippia maggiore cfr. supra l’introduzione, pp. 16-

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ἀκριβῶς εἰπεῖν ἀποκρινόμενος, μὴ ἐξελεγχθεὶς τὸ δεύτερον αὖθις γέλωτα ὄφλω. οἶσθα γὰρ δήπου σαφῶς, καὶ σμικρόν που τοῦτ’ ἂν εἴη μάθημα ὧν σὺ τῶν πολλῶν ἐπίστασαι. ιππιας Σμικρὸν μέντοι νὴ Δί’, ὦ Σώκρατες, καὶ οὐδενὸς ἄξιον, ὡς ἔπος εἰπεῖν. σωκρατης Ῥᾳδίως ἄρα μαθήσομαι καὶ οὐδείς με ἐξελέγξει ἔτι. ιππιας Οὐδεὶς μέντοι· φαῦλον γὰρ ἂν εἴη τὸ ἐμὸν πρᾶγμα 287 [a] καὶ ἰδιωτικόν. σωκρατης Εὖ γε νὴ τὴν Ἥραν λέγεις, ὦ Ἱππία, εἰ χειρωσόμεθα τὸν ἄνδρα. ἀτὰρ μή τι κωλύω μιμούμενος ἐγὼ ἐκεῖνον, ἐὰν σοῦ ἀποκρινομένου ἀντιλαμβάνωμαι τῶν λόγων, ἵνα ὅτι | μάλιστά με ἐκμελετήσῃς; σχεδὸν γάρ τι ἔμπειρός εἰμι τῶν ἀντιλήψεων. εἰ οὖν μή τί σοι διαφέρει, βούλομαι ἀντιλαμβάνεσθαι, ἵν’ ἐρ­ ρωμενέστερον μάθω. ιππιας Ἀλλ’ ἀντιλαμβάνου. καὶ γάρ, ὃ νῦν δὴ εἶπον, οὐ [b] μέγα ἐστὶ τὸ ἐρώτημα, ἀλλὰ καὶ πολὺ τούτου

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sima precisione possibile, perché io non mi renda nuovamente ridicolo subendo una seconda confutazione44. Certamente tu sai in tutta chiarezza la risposta: sarà una piccola nozione tra le molte che conosci. ippia Per Zeus, piccola davvero, Socrate, e praticamente di nessun valore. socrate Vuol dire che imparerò facilmente e nessuno mi confuterà piú45. ippia Nessuno davvero: in tal caso la mia attività sarebbe dappoco, 287 [a] amatoriale. socrate Per Era, dici bene, Ippia, se dobbiamo sottomettere il nostro uomo. D’altro canto cosa mai impedisce che mentre tu rispondi io lo imiti opponendo obiezioni ai tuoi discorsi, affinché tu possa insegnarmi con la massima cura? Credo infatti di essere esperto nell’opporre obiezioni. Se dunque per te non fa differenza, vorrei impegnarmi a fare obiezioni, per imparare nel modo piú saldo possibile46. ippia Obietta pure. Del resto, come ho appena detto, ciò che mi chiedi non [b] è nulla di grande, anzi: io 18 e infra, passim. Una peculiarità dell’interazione tra Socrate e l’anonimo è in questo senso significativa. Se il secondo ha chiesto a Socrate «cosa è il bello», Socrate ripropone la domanda a Ippia con la formulazione tipica della dottrina delle idee (αὐτὸ τὸ καλόν). Escludendo che Socrate deformi senza motivo la domanda, è probabile che già in questa stringa sia implicitamente avanzata una “definizione” formale del bello cercato: in base alla domanda dell’anonimo si deduce (a) che il bello in sé deve essere la causa (per ora indeterminata) della bellezza delle cose belle (per le implicazioni cfr. infra la nota 49) e, in base alla specificazione di Socrate, (b) che il bello come causa è il bello in sé. Ippia risulta però fin da subito incapace di cogliere questo pur generale punto, frutto di una rielaborazione filosofica del linguaggio ordinario. 44   Ancora un accento ironico: mentre Socrate è irritato e consapevole della propria ignoranza dopo una sola confutazione e sa di risultare ridicolo nel caso di una seconda, nel corso del dialogo Ippia subirà numerose confutazioni senza per questo avvertire analoghi disagi. 45   La pretesa facilità del compito e la gratitudine fittizia di Socrate ricorrono nei dialoghi, specialmente in quelli che riguardano i sofisti (cfr. per esempio Gorg., 470c4-8). 46   L’effetto dialogico peculiare è reso possibile dall’introduzione dell’anonimo: questi può possedere dottrine proprie e salde, mentre Socrate, mettendosi nei suoi panni, potrà esporle. Al contempo, poiché l’anonimo ha posto la domanda, sarà per ora (almeno formalmente) nella parte di chi valuta le risposte altrui e propone obiezioni, un ruolo che non a caso si addice a Socrate.

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χαλεπώτερα ἂν ἀποκρίνασθαι ἐγώ σε διδάξαιμι, ὥστε μηδένα ἀνθρώπων δύνασθαί σε ἐξελέγχειν. σωκρατης Φεῦ ὡς εὖ λέγεις· ἀλλ’ ἄγ’, ἐπειδὴ καὶ σὺ κελεύεις, | φέρε ὅτι μάλιστα ἐκεῖνος γενόμενος πειρῶμαί σε ἐρωτᾶν. εἰ γὰρ δὴ αὐτῷ τὸν λόγον τοῦτον ἐπιδείξαις ὃν φῄς, τὸν περὶ τῶν καλῶν ἐπιτηδευμάτων, ἀκούσας, ἐπειδὴ παύσαιο λέγων, ἔροιτ’ ἂν οὐ περὶ ἄλλου πρότερον ἢ περὶ τοῦ καλοῦ – ἔθος [c] γάρ τι τοῦτ’ ἔχει – καὶ εἴποι ἄν· «Ὦ ξένε Ἠλεῖε, ἆρ’ οὐ

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potrei insegnarti a rispondere anche a domande molto piú difficili47 di questa, in modo tale che nessun uomo possa confutarti. socrate Ah, impossibile dir meglio! Forza, ora: poiché anche tu intimi di farlo, proverò a porti domande mettendomi il piú possibile nei panni di quell’uomo. In effetti, se tu gli esibissi questo tuo discorso – quello di cui parlavi, sulle belle occupazioni –, egli ascolterebbe e, nel momento in cui smettessi di parlare, vorrebbe farti domande su nient’altro prima che sul bello – si tratta per lui di una sorta di [c] abitudine48 – e ti direbbe49: 47   L’evidente vanagloria di Ippia (pace Wood­ruff) sembra sottolineata da un implicito gioco del sofista, che con questa affermazione viola il principio tradizionale per cui χαλεπὰ τὰ καλά, che peraltro chiude il dialogo (cfr. infra la nota 176). 48   L’abitudine riguarda il fine della domanda, la volontà di cogliere anche in ampi discorsi un unico centrale elemento, quello relativo all’essenza e alla causa. Su questa “abitudine” si fondano i dialoghi definitori. 49   La densa sezione che precede la prima “definizione” di Ippia presenta alcune importanti implicazioni. Con il ricorso al dativo (cfr. la nota seguente) Socrate potrebbe alludere a una semplice strumentalità come anche a un legame di causalità ben piú forte. In modo simile, le domande che seguono (287c6-d2; per la loro formulazione, frutto di una rielaborazione del linguaggio tecnico, cfr. Giannantoni 2005, pp. 329 sgg.) potrebbero indicare la sussistenza delle cause come semplici cause logiche: cosí ritiene Wood­ ruff 1978, pp. 103-11, che vede il passo come ontologicamente neutrale e interpreta la causa come explanatory factor (cosí spesso continua a fare la critica analitica; sulla stessa linea Kahn 1985, pp. 277-79, ma cfr. Sedley 1998, pp. 121 sgg.; per la neutralità ontologica del passo già Rist 1975, pp. 345-46). La medesima formulazione può però individuare anche realtà in qualche modo ontologicamente consistenti (Moreau 1940, pp. 26-27, e Allen 1970, pp. 120-25 e 147; ­Heitsch 2011, pp. 60-61, arriva a indicare un significato esistenziale del verbo essere). Ora, in base alla rappresentazione fornita da Socrate della domanda dell’anonimo (286c8-d3; cfr. supra la nota 43), il bello cercato non è una tra le cose belle, e contrae con le cose belle un rapporto peculiare di causalità tale da porsi comunque al di là di esse. Dunque, il bello è una causa, lo è per le cose belle, è esso stesso qualcosa. Se probabilmente è eccessivo inferire che Platone asserisca qui una separazione tradizionale delle idee, dall’altro proporre una lettura ontologicamente neutrale non tiene conto prima di tutto della corrispondenza tra assiologia e ontologia richiesta dalla teoria platonica della causa. Per quanto non sia possibile rintracciare una compiuta teoria della separazione delle idee, sono certamente presenti i suoi presupposti fondamentali (su tutti la causalità; cfr. in questo senso ancora Allen 1970, p. 147), il suo lessico (cfr. supra la nota 43 e infra le note seguenti) e, piú avanti nel dialogo, alcune sue peculiari problematizzazioni (cfr. infra la nota 59): in questo qua-

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δικαιοσύνῃ δίκαιοί εἰσιν οἱ δίκαιοι;» ἀπόκριναι δή, ὦ Ἱππία, ὡς ἐκείνου ἐρωτῶντος. ιππιας Ἀποκρινοῦμαι ὅτι δικαιοσύνῃ. σωκρατης «Οὐκοῦν ἔστι τι τοῦτο, ἡ δικαιοσύνη;» ιππιας Πάνυ | γε. σωκρατης «Οὐκοῦν καὶ σοφίᾳ οἱ σοφοί εἰσι σοφοὶ καὶ τῷ ἀγαθῷ πάντα τἀγαθὰ ἀγαθά;» ιππιας Πῶς δ’ οὔ; σωκρατης «Οὖσί γέ τισι τούτοις· οὐ γὰρ δήπου μὴ οὖσί γε». ιππιας Οὖσι μέντοι. σωκρατης «Ἆρ’ οὖν οὐ καὶ τὰ καλὰ πάντα τῷ καλῷ [d] ἐστι καλά;» ιππιας Ναί, τῷ καλῷ. σωκρατης «Ὄντι γέ τινι τούτῳ;» ιππιας Ὄντι· ἀλλὰ τί γὰρ μέλλει; σωκρατης «Εἰπὲ δή, ὦ ξένε», φήσει, «τί ἐστι τοῦτο τὸ καλόν;» ιππιας Ἄλλο τι οὖν, ὦ Σώκρατες, ὁ τοῦτο ἐρωτῶν δεῖται | πυθέσθαι τί ἐστι καλόν;

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«Straniero di Elide, i giusti non sono giusti per50 la giustizia?»; rispondi, Ippia, pensa che sia lui a domandare. ippia Risponderei che è per la giustizia. socrate «Questo, la giustizia, è dunque qualcosa?»51. ippia Certo. socrate «Anche i sapienti sono dunque sapienti per la sapienza, e tutte le cose buone sono buone per il buono?» ippia Come no? socrate «E ciascuna di queste è qualcosa: non è assolutamente possibile che non sia». ippia Certo, lo è. socrate «E non è vero anche che tutte le cose belle sono belle [d] per il bello?»52. ippia Sí, per il bello. socrate «E questo è qualcosa?» ippia Lo è; ma dove vuoi arrivare? socrate «Ora dimmi, straniero», farà, «cosa è questo bello»? ippia Chi pone questa domanda, Socrate, non vuole forse sapere solo cosa è bello?53. dro l’incompletezza della dottrina proposta sembra meglio leggibile come basata su un silenzio strategico. 50   Il dativo detto strumentale rappresenta in generale una delle modalità espressive della causalità formale platonica (cfr. in particolare il locus classicus Phaedo, 100d7-8 e Sedley 1998, p. 130, che individua l’espressione come la standard locution per la causalità formale), ma può certamente anche essere utilizzato secondo una semantica piú piana (cfr. Gorg., 475a1 sgg.); cfr. però la nota precedente. 51   Cfr. supra la nota 49. 52   Questa formulazione richiama in modo estremamente prossimo l’illustrazione della causalità formale nel Fedone (100d7: τῷ καλῷ πάντα τὰ καλὰ καλά), tanto che Tarrant 1928, ad loc., vi ha visto una prova per l’inautenticità del dialogo. Piuttosto, sembra possibile individuare qui la medesima posizione in un contesto diverso: se nel Fedone Simmia e Cebete sono ricettivi e abituali ascoltatori di Socrate, Ippia è del tutto incapace di cogliere il presupposto stesso della distinzione in questione. 53   Ippia viene subito meno all’accordo circa la natura causale – dunque la differenza strutturale rispetto alle cose belle – del bello. Un simile sconcertante atteggiamento – che rimarrà costante all’interno del dialogo – può difficilmente segnalare una qualche strategia (cfr. Wood­ruff 1982, pp. 45-46, note 60-61); sembra ben piú probabile (cosí anche ­Heitsch 2011, pp. 59-60) che fin dall’introduzione della questione sul bello Ippia abbia semplicemente seguito Socrate, considerando sempre il problema da un punto di vista non

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Ἱππία.

platone Οὔ μοι δοκεῖ, ἀλλ’ ὅτι ἐστὶ τὸ καλόν, ὦ

Καὶ τί διαφέρει τοῦτ’ ἐκείνου; Οὐδέν σοι δοκεῖ; ιππιας Οὐδὲν γὰρ διαφέρει. σωκρατης Ἀλλὰ μέντοι δῆλον ὅτι σὺ κάλλιον οἶσθα. ὅμως δέ, ὠγαθέ, ἄθρει· ἐρωτᾷ γάρ σε οὐ τί ἐστι καλόν, ἀλλ’ ὅτι [e] ἐστὶ τὸ καλόν. ιππιας Μανθάνω, ὠγαθέ, καὶ ἀποκρινοῦμαί γε αὐτῷ ὅτι ἐστι τὸ καλόν, καὶ οὐ μή ποτε ἐλεγχθῶ. ἔστι γάρ, ὦ Σώκρατες, εὖ ἴσθι, εἰ δεῖ τὸ ἀληθὲς λέγειν, παρθένος καλὴ καλόν. ιππιας

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socrate Non mi pare: piuttosto, Ippia, vuole sapere cosa è il bello. ippia E in cosa differisce questo da quello? socrate Ti pare non differisca in niente? ippia Infatti non differisce in niente. socrate Invece è chiaro che tu ne hai un’ancor piú bella cognizione... Comunque, ottimo uomo, osserva bene: egli non ti chiede cosa è bello, ma cosa [e] è il bello. ippia Capisco, ottimo uomo, e gli risponderò cosa è il bello in modo tale da non essere mai confutato. Se bisogna dire il vero, Socrate, sappi che bello è una bella ragazza54. filosofico (cfr. già 286e5-287 a1 e qui la nota seguente); l’impostazione platonica implica, evidentemente, la ricerca di una semantica tecnica e specifica impossibile da seguire per un interlocutore non filosoficamente preparato. 54   Prima “definizione” di Ippia, basata sulla possibilità di intendere τὸ καλόν come «qualcosa di bello» (cioè come un’istanza della nozione in questione). La domanda di Socrate riguarda il bello in sé, l’universale – l’articolo ha funzione (almeno logicamente) astrattiva –, mentre Ippia propone un particolare – considerando l’articolo nella domanda come se individuasse “una cosa” tra quelle riconducibili alla nozione (benché a un maggior grado di generalità, altre risposte dei dialoghi definitori cadano in simili difficoltà: Euthyphr., 5d9-2 sul pio, Men., 71e1 sgg. sulla virtú, Lach., 190e4 sgg. sul coraggio). La risposta riprende la domanda di Socrate attraverso l’uso dell’aggettivo neutro senza articolo, e la segue con l’indicazione generica di una qualsiasi bella ragazza: la traduzione tenta di rendere tali caratteri del greco, ma la sostanza dell’affermazione, che in realtà chiarisce come Ippia percepisca l’utilizzo dell’articolo nel senso piú usuale, è resa da Wood­ruff nella sua traduzione: «a fine girl is a fine thing»; cfr. anche Wolfs­dorf 2006, pp. 236-238. Vi sono stati alcuni tentativi di riabilitare la risposta di Ippia. Nehamas 1975, pp. 297-303, in continuità con l’analisi di analoghe sequenze nei primi dialoghi e soprattutto per conciliare con questa risposta il fatto che Ippia abbia compreso il precedente esempio sulla causalità, ha sostenuto che il sofista non confonde particolari e universali ma fornisce solo un «universale parziale», elevando il caso particolare a «condizione» universale coincidente con l’essere bello: «being a beautiful maiden is (what is to be) beautiful». In realtà la comprensione di Ippia della causalità proposta da Socrate è tutt’altro che scontata (cfr. la nota precedente), e le possibilità sia linguistiche che drammatiche di una simile lettura sono piuttosto esigue (cfr. già le critiche di Ludlam 1991, pp. 80-85). Wood­ruff 1982, pp. 47-48 e 129-30, ha invece visto in questa come nelle successive definizioni solo il cosciente tentativo di sfuggire alle domande di Socrate. Sembra meglio fondata la classica idea, argomentata in vario modo (cfr. per esempio Moreau 1940, p. 27; Kahn 1985, p. 276; Fronterotta 2007, pp. 42-44; ­Heitsch 2011, pp. 60-67), che Ippia semplicemente non colga la distinzione di Socrate e risponda secondo il comune uso dell’articolo, ignorando di fatto la precedente tematizzazione del

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σωκρατης Καλῶς γε, ὦ Ἱππία, νὴ τὸν κύνα καὶ εὐδόξως ἀπεκρίνω. ἄλλο τι οὖν, ἂν ἐγὼ τοῦτο ἀποκρίνωμαι, τὸ 288 [a] ἐρωτώμενόν τε ἀποκεκριμένος ἔσομαι καὶ ὀρθῶς, καὶ οὐ μή ποτε ἐλεγχθῶ; ιππιας Πῶς γὰρ ἄν, ὦ Σώκρατες, ἐλεγχθείης, ὅ γε πᾶσιν δοκεῖ καὶ πάντες σοι μαρτυρήσουσιν οἱ ἀκούοντες ὅτι ὀρθῶς | λέγεις; σωκρατης Εἶεν· πάνυ μὲν οὖν. φέρε δή, ὦ Ἱππία, πρὸς ἐμαυτὸν ἀναλάβω ὃ λέγεις. ὁ μὲν ἐρήσεταί με οὑτωσί πως· «Ἴθι μοι, ὦ Σώκρατες, ἀπόκριναι· ταῦτα πάντα ἃ φῂς καλὰ εἶναι, εἰ τί ἐστιν αὐτὸ τὸ καλόν, ταῦτ’ ἂν εἴη καλά;» ἐγὼ | δὲ δὴ ἐρῶ ὅτι εἰ παρθένος καλὴ † καλόν, ἔστι δι’ ὃ ταῦτ’ ἂν εἴη καλά; † [b] ιππιας Οἴει οὖν ἔτι αὐτὸν ἐπιχειρήσειν σε

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socrate Bella risposta, Ippia, e brillante55, per il cane! Pensi dunque che se io rispondessi questo 288 [a] avrei ormai risposto pienamente e in modo corretto alla domanda e non verrei mai confutato? ippia Come potresti essere confutato, Socrate, su ciò che pare vero a tutti? Tutti quelli che ti ascolteranno testimonieranno in tuo favore, che dici correttamente! socrate Bene, hai certamente ragione56. Ma ora, Ippia, voglio riassumere ciò che dici guardando alla mia situazione. Quello mi porrà la domanda piú o meno cosí: «Avanti, Socrate, rispondi. Cosa deve essere il bello in sé perché tutte queste cose che dici essere belle possano essere belle?» Io dirò allora che, se bello è una bella ragazza, a causa di esso queste cose possono essere belle57; è cosí? [b] ippia E credi che egli si metterà ancora a confubello come causa. Ciò induce a pensare che, se la formulazione di Platone è volutamente ambigua e rimanda in qualche modo alla dottrina delle idee (cfr. supra la nota 43), e se Ippia manca il punto proprio perché è del tutto lontano da un linguaggio cosí connotato, Platone faccia qui riferimento proprio a questa dottrina e al suo distacco dal linguaggio e dal pensiero comuni. 55   L’avverbo εὐδόξως, hapax nella letteratura greca, è una delle espressioni linguisticamente peculiari del dialogo (cfr. anche supra l’introduzione, p. 38, note 54-55); per una loro rassegna cfr. Wood­ruff 1982, pp. 98-100. 56   La confutazione e la discussione dialettica sono per Ippia – come per Polo (cfr. Gorg., 471e1 sgg.) e in generale per i sofisti – legate alla persuasione dei piú e al sostegno ricevuto dalla loro approvazione; a questo metodo, ancora nel passo del Gorgia citato, Socrate oppone il dialogo a due con la ricerca dell’accordo. 57   Il passo, per come tràdito dai testimoni manoscritti (e accolto da Burnet), è probabilmente corrotto. Forse ha ragione Vancamp a individuare un locus nondum sanatus tra καλόν (288a10) e καλά, ma non può essere escluso che la scelta migliore rimanga quella di Hermann, l’espunzione dello stesso segmento di testo, che potrebbe essere una glossa antica a uno dei momenti dell’argomento: in questo modo, forse, la risposta di Ippia sarebbe piú consequenziale. Nella traduzione è opportuno considerare almeno in generale il testo tràdito (con la correzione, già dello Stephanus, di διὸ in δι’ ὃ), il cui significato è comunque piuttosto chiaro e risponde alla precedente domanda dell’anonimo: poiché è stato chiarito che il bello (in sé) deve essere la causa della bellezza per le cose belle, se il bello è una bella ragazza allora una bella ragazza è la causa della bellezza per le cose belle. Socrate non solo mette in ridicolo la soluzione di Ippia (la risposta a un «compito banale»), ma evidenzia ancora come il nucleo centrale del problema risieda nel rapporto di causalità che il sofista non coglie.

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ἐλέγχειν ὡς οὐ καλόν ἐστιν ὃ λέγεις, ἢ ἐὰν ἐπιχειρήσῃ, οὐ καταγέλαστον ἔσεσθαι; σωκρατης Ὅτι μὲν ἐπιχειρήσει, ὦ θαυμάσιε, εὖ οἶδα· εἰ δ’ | ἐπιχειρήσας ἔσται καταγέλαστος, αὐτὸ δείξει. ἃ μέντοι ἐρεῖ, ἐθέλω σοι λέγειν. ιππιας Λέγε δή. σωκρατης «Ὡς γλυκὺς εἶ», φήσει, «ὦ Σώκρατες. θήλεια δ’ ἵππος καλὴ οὐ καλόν, ἣν καὶ ὁ θεὸς ἐν τῷ χρησμῷ ἐπῄνεσεν;» [c] τί φήσομεν, ὦ Ἱππία; ἄλλο τι ἢ φῶμεν καὶ τὴν ἵππον καλὸν εἶναι, τήν γε καλήν; πῶς γὰρ ἂν τολμῷμεν ἔξαρνοι εἶναι τὸ καλὸν μὴ καλὸν εἶναι;

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tarti sostenendo che bello non è quello che dici tu? E qualora si mettesse a farlo, non si renderà ridicolo? socrate Che si metterà a confutarmi, uomo stupefacente, lo so per certo; se invece mettendosi a farlo si renderà ridicolo, si vedrà. Ora voglio dirti ciò che affermerà. ippia Avanti, dillo. socrate «Come sei semplice, Socrate!» dirà. «E non è bello una bella giumenta? L’ha lodata addirittura il dio nel responso oracolare!»58. [c] Cosa affermeremo, Ippia? Non dovremo forse dire che bello è anche la giumenta – ovviamente quella bella? Come potremmo spingerci a dire che ciò che è bello non è bello?59.   Per un possibile riferimento cfr. Schol. ad Theocr., XIV, 48/49a.   Con «ciò che è bello» si traduce qui τὸ καλόν, che altrove è reso con «il bello»: Platone oscilla tra la semantica comune e quella filosoficamente specializzata, e in questo caso l’ambiguità non può essere mantenuta. La confutazione si articola in due momenti: dapprima Socrate propone altri oggetti che potrebbero rivendicare il carattere di «bello» tanto quanto una bella ragazza (cavalle, lire, pentole), poi (289a1-d5) stabilisce che ciascuno degli oggetti in questione non può essere detto assolutamente bello, nel senso che può anche non essere bello rispetto a qualcos’altro. L’argomento sembra cosí iniziare secondo un modello et alia (cfr. Euthyphr., 6d6-7, con Goldschmidt 1947, pp. 37-38) per poi virare verso uno et idem non (cfr. infra la nota 68, con Goldschmidt 1947, pp. 39 e 42). Tale combinazione dipende in parte dal tentativo di spiegazione fornito da Ippia dopo l’introduzione degli altri oggetti belli (e6-9): tutti sono belli in diversi ambiti e la pentola è indegna di essere detta «bella» a fronte della ragazza. Dal punto di vista dialogico, dunque, Socrate segue Ippia (senza accusarlo, come fa con Menone – Men., 72a8-b7 –, di indicare uno «sciame» di oggetti cercati) perché questi dimostra di non cogliere in alcun modo il nucleo problematico di un argomento at alia – e, in generale, l’esigenza di unicità dell’oggetto cercato – e pensa di sfuggirne indicando come criterio di bellezza una delle diverse cose belle: è Ippia stesso a offrire il fianco al secondo modello di confutazione, che ha qui la funzione maggiore. Dal punto di vista di Platone, però, la successione di queste due confutazioni (la prima implicita, la seconda esplicita), permette di evidenziare in controluce due aspetti centrali dell’oggetto cercato: la sua unicità come «bello» – solo l’oggetto definibile come «il bello» in sé è «il bello in sé», mentre molte sono le cose belle – e la sua assolutezza, cioè il non poter essere altro da ciò che è (tantomeno il proprio contrario; cfr. anche Allen 1970, pp. 73-74) sotto qualsiasi rispetto. Il fatto che il testo evidenzi tali aspetti e non, per esempio, l’estensione di ciò che partecipa del bello, non può deporre contro l’autenticità del dialogo (cosí Kahn 1985, p. 276). Non sembra però che tali caratteri implichino anche l’autopredicazione dell’oggetto cercato (cosí, in modi diversi: Nehamas 1979, in particolare pp. 93-96 – «il bello è bello» va letto come «il bello è ciò che deve essere bello»; Wood­ruff 1982, pp. 153-56, anche se in una forma logicamente accetta-

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ιππιας Ἀληθῆ λέγεις, ὦ Σώκρατες· ἐπεί τοι καὶ ὀρθῶς αὐτὸ | ὁ θεὸς εἶπεν· πάγκαλαι γὰρ παρ’ ἡμῖν ἵπποι γίγνονται. σωκρατης «Εἶεν», φήσει δή· «τί δὲ λύρα καλή; οὐ καλόν;» φῶμεν, ὦ Ἱππία; ιππιας Ναί. σωκρατης Ἐρεῖ τοίνυν μετὰ τοῦτ’ ἐκεῖνος, σχεδόν τι εὖ οἶδα | ἐκ τοῦ τρόπου τεκμαιρόμενος· «Ὦ βέλτιστε σύ, τί δὲ χύτρα καλή; οὐ καλὸν ἄρα;» [d] ιππιας Ὦ Σώκρατες, τίς δ’ ἐστὶν ὁ ἄνθρωπος; ὡς ἀπαίδευτός τις ὃς οὕτω φαῦλα ὀνόματα ὀνομάζειν τολμᾷ ἐν σεμνῷ πράγματι.

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ippia Dici il vero, Socrate; di certo il dio parlava correttamente: da noi ci sono cavalle di straordinaria bellezza60. socrate «Bene», affermerebbe poi, «non è forse bello una bella lira?» Noi diremo di sí, Ippia? ippia Sí. socrate Allora, dopo questo egli dirà – che sarebbe pressappoco cosí lo so bene basandomi sui suoi modi: «Tu, uomo eccellente, dimmi ancora: non è forse bello una bella pentola?» [d] ippia Socrate, chi è quest’uomo? Quanto è incivile uno che osa utilizzare nomi di rango tanto basso in una conversazione rispettabile?61. bile, definita da Kahn 1985, pp. 279-80, come reinforced Pauline predication; per una ricognizione sulla vexata quaestio cfr. Fronterotta 2001, pp. 223-69). L’attribuzione della bellezza al bello cercato (autopredicazione dell’idea: l’idea del «bello» è essa stessa bella) dipende in questo passo dalla necessità di considerare dei sensibili belli – quelli coinvolti nella confutazione –, e la reale caratterizzazione del «bello in sé» rimane quella di causa per le cose belle dell’essere belle (cfr. supra la nota 43) con l’ulteriore specificazione, qui approfondita, delle sue assolutezza e unicità. In altri termini, il fatto che per confutare la posizione di Ippia Socrate abbia indicato che il bello deve essere bello unicamente e in assoluto non implica che lo stesso debba valere per una trattazione del bello in sé, che dovrà essere unicamente e assolutamente «bello in sé» e non bello esso stesso. La confutazione fa dunque emergere dalle ambiguità dei particolari l’assolutezza dell’oggetto cercato, che si presenta al di là dei particolari come causa del loro essere belli in quanto privo dell’instabilità a cui quelli sono soggetti (cfr. anche Allen 1970, pp. 73-77, e Irwin 1977, pp. 148-49; contra Wood­ruff 1978, pp. 111-13). 60   La risposta di Ippia, per quanto apparentemente sconcertante, tiene dietro alla logica che il sofista ha applicato fin dall’inizio della discussione: se il bello cercato è un particolare oggetto bello, Ippia riconosce di aver scelto male il particolare poiché il dio gliene suggerisce uno migliore. Proprio tale consequenzialità rende difficilmente accettabile un’interpretazione della risposta secondo il “modello” di Wood­ruff – Ippia tenterebbe di sfuggire alla discussione – mentre avvalora l’idea che Ippia sia del tutto spaesato e non colga il punto – filosoficamente forte – di Socrate (cfr. recentemente ­Heitsch 2011, pp. 64-67). 61   Cfr. anche Senofonte, Oec., VIII, 18-20. Benché rimanga plausibile che Ippia voglia suggerire la possibilità di usare un nome meno comune per «pentola» (cosí Wood­ruff 1982, p. 53, nota 75), sembra forse preferibile ipotizzare che Ippia sia irritato dal richiamo all’oggetto specifico, che appartiene piú degli altri alla quotidianità e che non è dotato di alcuna particolare virtú da un punto di vista maschile (è del resto classica l’accusa a Socrate da parte dei sofisti di tirare in ballo argomenti troppo “volgari” fuori contesto: cfr. per esempio Gorg., 491a1-b4). Ippia, in altri termini, avverte che l’anonimo abbassa il livello della conversazione con fini ironici e tenta di ribellarsi. Molti

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σωκρατης Τοιοῦτός τις, ὦ Ἱππία, οὐ κομψὸς ἀλ­ λὰ συρφετός, | οὐδὲν ἄλλο φροντίζων ἢ τὸ ἀληθές. ἀλλ’ ὅμως ἀποκριτέον τῷ ἀνδρί, καὶ ἔγωγε προ­ αποφαίνομαι· εἴπερ ἡ χύτρα κεκεραμευμένη εἴη ὑπὸ ἀγαθοῦ κεραμέως λεία καὶ στρογγύλη καὶ καλῶς ὠπτημένη, οἷαι τῶν καλῶν χυτρῶν εἰσί τινες δίωτοι, τῶν ἓξ χοᾶς χωρουσῶν, πάγκαλαι, εἰ τοιαύτην ἐρωτῴη [e] χύτραν, καλὴν ὁμολογητέον εἶναι. πῶς γὰρ ἂν φαῖμεν καλὸν ὂν μὴ καλὸν εἶναι; ιππιας Οὐδαμῶς, ὦ Σώκρατες. σωκρατης «Οὐκοῦν καὶ χύτρα», φήσει, «καλὴ καλόν; ἀπο- | κρίνου». ιππιας Ἀλλ’ οὕτως, ὦ Σώκρατες, ἔχει, οἶμαι· καλὸν μὲν καὶ τοῦτο τὸ σκεῦός ἐστιν καλῶς εἰργασμένον, ἀλλὰ τὸ ὅλον τοῦτο οὐκ ἔστιν ἄξιον κρίνειν ὡς ὂν καλὸν πρὸς ἵππον τε καὶ παρθένον καὶ τἆλλα πάντα τὰ καλά. 289 [a] σωκρατης Εἶεν· μανθάνω, ὦ Ἱππία, ὡς ἄρα χρὴ ἀντιλέγειν πρὸς τὸν ταῦτα ἐρωτῶντα τάδε· Ὦ ἄνθρωπε, ἀγνοεῖς ὅτι τὸ τοῦ Ἡρακλείτου εὖ ἔχει, ὡς ἄρα «Πιθήκων ὁ κάλλιστος αἰσχρὸς ἀνθρώπων

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socrate È fatto cosí, Ippia, non raffinato bensí volgare, non ha rispetto di nulla se non del vero. Ma occorre comunque rispondere a quest’uomo, e io direi in primo luogo questo: se la pentola, plasmata da un buon ceramista, fosse liscia, rotonda e avesse ricevuto una bella cottura (come quelle belle pentole con due manici che contengono sei congi62, bellissime), [e] allora occorrerebbe essere d’accordo che è bella – a condizione che la pentola a cui si riferisce la domanda sia di tal fatta. Come potremmo affermare, infatti, che non è bello benché sia bello? ippia Non potremmo in nessun modo, Socrate. socrate «Dunque», farà, «bello è anche una bella pentola?63. Rispondi». ippia Socrate, le cose stanno cosí, credo: se lavorato in bellezza, bello è anche questo utensile. Tuttavia, considerando tutto nel complesso64, questo oggetto non è degno di essere giudicato bello rispetto a una giumenta, a una ragazza e a tutte le altre cose belle. 289 [a] socrate Bene. A questo punto, Ippia, capisco che a chi ci domanda queste cose dobbiamo controbattere cosí: nostro uomo, tu non riconosci la validità del detto di Eraclito, secondo il quale «la scimmia piú bella

gli elementi tipici di Socrate attribuiti all’anonimo: oltre all’accusa citata, è tipicamente legata a Socrate la breve descrizione come non raffinato e come uomo che segue solo la verità (cfr. per esempio Apol., 17b5 sgg.; Ion, 532d6-e4). 62   Ogni congio corrispondeva a piú di tre litri. 63   Evidentemente la pentola è bella (καλή) ma non è il bello. La constatazione della bellezza della pentola assume un certo valore nella dimostrazione, in quanto permette di inserire tra gli oggetti belli qualcosa che Ippia non avrebbe ritenuto degno di menzione, come indica inoltre il netto parallelismo espressivo tra questa domanda e l’affermazione di Ippia sulla «bella ragazza» (287e4). 64   Benché Ippia possa utilizzare τὸ ὅλον in modo generico («in generale»), è possibile che Platone voglia anche alludere a qualcos’altro. Piú che suggerire un particolare interesse per giudizi globali (cosí in piú casi Wood­ruff 1982; cfr. in particolare p. 54, nota 78) Ippia sembra ribadire che la bella ragazza e gli altri particolari richiamati sono «cose belle»: τὸ ὅλον potrebbe indicare l’insieme delle cose belle all’interno delle quali Ippia ha voluto individuare un’istanza notevole. Cfr. supra la nota 54.

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γένει συμβάλλειν», καὶ χυτρῶν ἡ καλλίστη | αἰσχρὰ παρθένων γένει συμβάλλειν, ὥς φησιν Ἱππίας ὁ σοφός. οὐχ οὕτως, ὦ Ἱππία; ιππιας Πάνυ μὲν οὖν, ὦ Σώκρατες, ὀρθῶς ἀπεκρίνω. σωκρατης Ἄκουε δή. μετὰ τοῦτο γὰρ εὖ οἶδ’ ὅτι φήσει· «Τί δέ, ὦ Σώκρατες; τὸ τῶν παρθένων γένος θεῶν γένει ἄν τις [b] συμβάλλῃ, οὐ ταὐτὸν πείσεται ὅπερ τὸ τῶν χυτρῶν τῷ τῶν παρθένων συμβαλλόμενον; οὐχ ἡ καλλίστη παρθένος αἰσχρὰ φανεῖται; ἢ οὐ καὶ Ἡράκλειτος αὐτὸ τοῦτο λέγει, ὃν σὺ ἐπάγῃ, ὅτι «Ἀνθρώπων ὁ σοφώτατος πρὸς θεὸν πίθηκος | φανεῖται καὶ σοφίᾳ καὶ κάλλει καὶ τοῖς ἄλλοις πᾶσιν;» ὁμολογήσομεν, Ἱππία, τὴν

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è brutta a confrontarla con il genere degli uomini»65, e che la pentola piú bella è brutta a confrontarla con il genere delle ragazze, come afferma Ippia il sapiente. Non è cosí, Ippia? ippia Certo, Socrate, hai risposto correttamente. socrate Ascolta, allora. So bene ciò che affermerà a questo punto: «E poi, Socrate? Se uno confrontasse il genere delle ragazze con il genere degli dèi, [b] non accadrà esattamente ciò che accade confrontando il genere delle pentole con quello delle ragazze? Non sembrerà brutta anche la ragazza piú bella? E non dice lo stesso anche Eraclito – che proprio tu hai chiamato in causa –, affermando “il piú sapiente degli uomini sembra una scimmia rispetto al dio, sia in sapienza sia in bellezza sia in tutti gli altri aspetti”?»66. Saremo d’ac65   Eraclito, dk 22B82. La tradizione manoscritta compatta offre ἄλλῳ γένει συμβάλλειν («confrontare con un altro genere»), ma gli editori fin da Bekker hanno corretto il testo; tale scelta è stata criticata da Wood­ruff 1982, p. 54, nota 79 e ancora da Pradeau 2005, p. 126, nota 72. La correzione, però, è poco incisiva dal punto di vista paleografico poiché spesso ἀνθρώπων (genitivo plurale di ἄνθρωπος) viene abbreviato (in conformità con l’uso applicato ai nomina sacra nella tradizione dei testi in ambito cristiano) in ανων (cfr. già Vancamp 1995, p. 57). In secondo luogo, il significato del testo tràdito rimane insoddisfacente: la piú bella delle scimmie può essere brutta se confrontata con un altro genere, ma non è necessariamente brutta (come l’esempio successivo e il contesto indicherebbero). In terzo luogo, portare a sostegno del testo tràdito la citazione che del frammento fa Plotino (Enn., VI, 3, 11, 21-26: καίτοι καὶ καλὸν λεγόμενον φανείη ἂν πρὸς ἄλλο αἰσχρόν, οἷον ἀνθρώπου κάλλος πρὸς θεόν· πιθήκων, φησίν, ὁ κάλλιστος αἰσχρὸς συμβάλλειν ἑτέρῳ γένει) è fuorviante: è verosimile che Plotino citi direttamente da Platone (pace Vancamp, ibid.), e la sua modifica (da ἄλλῳ a ἑτέρῳ) potrebbe indicare proprio la percezione dell’inadeguatezza del testo che anch’egli leggeva (cioè la già avvenuta corruttela nel testo di Platone) o, nella rielaborazione del testo, sottolinea­ re con ἑτέρῳ la differenza del genere delle scimmie da quelli già indicati (uomini e dèi). Del resto Plotino chiama in causa esplicitamente il «genere» degli uomini, che nel testo tràdito di Platone comparirebbe solo dopo (289b4-5). 66   Sulla citazione eraclitea cfr. Ludlam 1991, p. 95, nota 27. I frammenti di Eraclito sono letti come se proponessero una prospettiva relativistica e protagorea, alla quale l’efesino è esplicitamente associato nel Teeteto (152d2 sgg. con Ferrari 2011, pp. 39-56; cfr. anche Soph., 242d8-243a1): in questo senso la scelta di Eraclito può incentivare Ippia ad accogliere la posizione espressa dalla citazione. Tale opzione argomentativa e filosofica non può essere di per sé accettabile per Platone, che quindi rivolge consapevolmente (e ironicamente) l’argomento sofistico contro Ippia per portarlo a identificare un «bello in sé», nozione che rifiuta ogni interpretazione relativistica.

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καλλίστην παρθένον πρὸς θεῶν γένος αἰσχρὰν εἶναι; ιππιας Τίς γὰρ ἂν ἀντείποι τούτῳ γε, ὦ Σώκρατες; [c] σωκρατης Ἂν τοίνυν ταῦτα ὁμολογήσωμεν, γε­ λάσεταί τε καὶ ἐρεῖ· «Ὦ Σώκρατες, μέμνησαι οὖν ὅτι ἠρωτήθης;» Ἔγωγε, φήσω, ὅτι αὐτὸ τὸ καλὸν ὅτι ποτέ ἐστιν. «Ἔπειτα», φήσει, «ἐρωτηθεὶς τὸ καλὸν ἀποκρίνῃ ὃ τυγχάνει ὄν, ὡς αὐτὸς φῄς, | οὐδὲν μᾶλλον καλὸν ἢ αἰσχρόν;» Ἔοικε, φήσω· ἢ τί μοι συμβουλεύεις, ὦ φίλε, φάναι; ιππιας Τοῦτο ἔγωγε· καὶ γὰρ δὴ πρός γε θεοὺς ὅτι οὐ καλὸν τὸ ἀνθρώπειον γένος, ἀληθῆ ἐρεῖ. σωκρατης «Εἰ δέ σε ἠρόμην», φήσει, «ἐξ ἀρχῆς τί ἐστι [d] καλόν τε καὶ αἰσχρόν, εἴ μοι ἅπερ νῦν ἀπεκρίνω, ἆρα οὐκ ἂν ὀρθῶς ἀπεκέκρισο; ἔτι δὲ καὶ δοκεῖ σοι αὐτὸ τὸ καλόν, ᾧ καὶ τἆλλα πάντα κοσμεῖται καὶ καλὰ φαίνεται, ἐπειδὰν προσγένηται ἐκεῖνο τὸ εἶδος, τοῦτ’ εἶναι παρθένος ἢ ἵππος | ἢ λύρα;

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cordo, Ippia, che la piú bella ragazza è brutta rispetto al genere degli dèi? ippia Chi potrebbe controbattere a questa affermazione, Socrate? [c] socrate Ebbene, nel momento in cui fossimo d’accordo su questo, egli riderà e dirà: «Socrate, ricordi la domanda che ti è stata fatta?» Sí, affermerò, cosa è mai il bello in sé. «E allora», farà lui, «benché ti sia stato chiesto il bello rispondi ciò che può essere, in base a varie circostanze, in niente piú bello che brutto – come tu stesso affermi». Cosí sembra, dirò… oppure, amico mio, cosa mi suggerisci di dire? ippia Questo anch’io: è vero ciò che dice, che rispetto agli dèi il genere umano non è bello. socrate «Nel caso in cui io ti avessi chiesto», affermerà, «fin dal principio cosa è [d] bello e brutto, non avresti fornito la risposta corretta se mi avessi risposto ciò che mi rispondi ora? Inoltre, ti pare ancora che il bello in sé, ciò per cui anche tutte le altre cose si fanno belle67 e appaiono belle nel momento in cui a esse si aggiunga la sua forma, proprio questo è una ragazza, una cavalla o una lira?»68. 67   «Fare bello» traduce, in modo volutamente generico, κοσμέω. Il senso platonico è evidentemente piú forte (in quanto indica qui la partecipazione relativa al bello) ma il termine ha anche un valore debole, l’unico che Ippia riesca a cogliere; cfr. anche infra la nota 70. 68   Socrate concretizza l’argomento et idem non (cfr. anche Euthyphr., 8a10 sgg.; Charm., 160e2 sgg.; Lach., 192e1 sgg., con Goldschmidt 1947, pp. 38-39): lo stesso oggetto è bello e anche brutto, dunque non può essere il bello cercato. Da un punto di vista dialogico, il presupposto va evidentemente trovato in un carattere proprio del bello in sé: il bello in sé non può essere, a seconda delle circostanze e dei diversi rispetti, anche brutto. La conclusione non si limita però a sancire l’inadeguatezza di un candidato, ma ribadisce l’incompatibilità tra una condizione di bellezza (qualcosa si trova a essere bella) e il bello in sé inteso come la causa dell’essere bello per le cose belle: il bello in sé è dunque una causa che non varia mai la propria condizione, è sempre e stabilmente ciò che è (cfr. Phae­do, 78d3-e4). A questa caratterizzazione, già estremamente vicina a quella dell’idea, si aggiunge l’uso di due termini-chiave nell’ontologia di Platone, εἶδος (l’idea platonica) e προσγίγνομαι (Phaedo, 100d4-8; si tratta di un passo fondamentale per la descrizione della causalità formale delle idee), che sembrano qui alludere (per quanto, comunque, in modo ambiguo) all’effettiva dinamica di

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ιππιας Ἀλλὰ μέντοι, ὦ Σώκρατες, εἰ τοῦτό γε ζητεῖ, πάντων ῥᾷστον ἀποκρίνασθαι αὐτῷ τί ἐστι τὸ καλὸν ᾧ καὶ τὰ ἄλλα πάντα κοσμεῖται καὶ προσγενομένου αὐτοῦ καλὰ φαίνεται. [e] εὐηθέστατος οὖν ἐστιν ὁ ἄνθρωπος καὶ οὐδὲν ἐπαΐει περὶ καλῶν κτημάτων. ἐὰν γὰρ αὐτῷ ἀποκρίνῃ ὅτι τοῦτ’ ἐστὶν ὃ ἐρωτᾷ τὸ καλὸν οὐδὲν ἄλλο ἢ χρυσός, ἀπορήσει καὶ οὐκ ἐπιχειρήσει σε ἐλέγχειν. ἴσμεν γάρ που πάντες ὅτι ὅπου ἂν | τοῦτο προσγένηται, κἂν πρότερον αἰσχρὸν φαίνηται, καλὸν φανεῖται χρυσῷ γε κοσμηθέν.

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ippia Se cerca questo, Socrate, rispondergli cosa è quel bello per cui anche tutte le altre cose si fanno belle e appaiono belle nel momento in cui esso si aggiunga loro è la cosa piú facile di tutte69… [e] Quest’uomo è davvero troppo semplice, e non ha il senso di ciò che è bello possedere. Qualora infatti gli risponda che il bello che chiede non è altro se non l’oro, si troverà del tutto in difficoltà e non si metterà piú a confutarti: in qualche modo tutti sappiamo che a qualsiasi cosa esso si aggiunga, questa appare bella, anche nel caso in cui prima apparisse brutta, perché si fa bella per l’oro70. causalità che caratterizza la dottrina delle idee di Platone: l’idea, X-in sé, è sempre e stabilmente ciò che è, ma è causa per i particolari dell’avere il carattere che essa è. Benché Platone non proponga alcun chiaro riferimento a una «teoria dei due mondi» (ma potrebbe forse farlo esplicitamente con Ippia? cfr. anche supra la nota 49), i caratteri della «forma» in questione e i termini utilizzati per esprimerli sono quelli della matura teoria delle idee (di qui, peraltro, alcuni tentativi di vedere l’Ippia come opera scolastica dipendente dal Fedone). 69   Facendo affidamento sul senso comune, per la seconda volta (cfr. già 286e5-287b3, con ­Heitsch 2011, pp. 67-68) Ippia liquida la domanda dell’anonimo come banale e fa riferimento alla sua persona in modo irrispettoso. Ciò indebolisce l’idea di un Ippia come urbana e intelligente vittima di un Socrate quasi persecutorio (cosí Wood­ruff), idea che si perde nel dilemma: se Ippia non è cosí spaesato, ha capito che dietro l’anonimo c’è Socrate e qui come altrove giunge quasi a insultarlo, dunque non è «urbano»; se Ippia non ha capito che dietro l’anonimo c’è Socrate, difficilmente gli si può attribuire la finezza di un gioco delle parti volto a sfuggire a Socrate. 70   La seconda proposta di Ippia – il bello è l’oro – è grossolana e dipende da un presupposto esterno (il fare affidamento sul sentire comune: ἴσμεν … πάντες) e dal fraintendimento della terminologia platonica, che, intesa secondo una semantica non specializzata, dà margine per proporre l’oro come candidato. Ippia intende infatti εἶδος come «forma, figura apparente», προσγίγνομαι come aggiungere in senso materiale, κοσμέω come abbellire esteriormente e φαίνομαι come apparire esteriormente. Del resto, che la prospettiva di Ippia sia orientata in senso strettamente materiale è già segnalato dal riferimento ai καλὰ κτήματα. Simili fraintendimenti della terminologia tecnica, non infrequenti nei dialoghi, qui devono sottolineare quanto pregnante voglia essere la descrizione della causa fornita da Socrate: Ippia sembra infatti proporre quella che nel Fedone (98c2 sgg.) sarà descritta come causa materiale, mentre Socrate – ancora secondo il modello del Fedone – intende evidentemente la causa formale. Alla possibilità che Platone proponga qui solo una vaga teoria della causalità logica, semplice antecedente della teoria delle idee (cosí su tutti Wood­ruff 1982, pp. 161-79), si oppongono dunque l’evidenza di paralleli con pagine platoniche particolarmente mirate, ma soprattutto il risalto dato alla terminologia tecnica della teoria delle idee

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σωκρατης Ἄπειρος εἶ τοῦ ἀνδρός, ὦ Ἱππία, ὡς σχέτλιός ἐστι καὶ οὐδὲν ῥᾳδίως ἀποδεχόμενος. ιππιας Τί οὖν τοῦτο, ὦ Σώκρατες; τὸ γὰρ ὀρθῶς λεγόμενον 290 [a] ἀνάγκη αὐτῷ ἀποδέχεσθαι, ἢ μὴ ἀποδεχομένῳ καταγελάστῳ εἶναι. σωκρατης Καὶ μὲν δὴ ταύτην γε τὴν ἀπόκρισιν, ὦ ἄριστε, οὐ μόνον οὐκ ἀποδέξεται, ἀλλὰ πάνυ με καὶ τωθάσεται, καὶ ἐρεῖ· | «Ὦ τετυφωμένε σύ, Φειδίαν οἴει κακὸν εἶναι δημιουργόν;» καὶ ἐγὼ οἶμαι ἐρῶ ὅτι Οὐδ’ ὁπωστιοῦν. ιππιας Καὶ ὀρθῶς γ’ ἐρεῖς, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Ὀρθῶς μέντοι. τοιγάρτοι ἐκεῖνος, ἐπει­­δὰν ἐγὼ ὁμολογῶ ἀγαθὸν εἶναι δημιουργὸν τὸν Φειδίαν, «Εἶτα», [b] φήσει, «οἴει τοῦτο τὸ καλὸν ὃ σὺ λέγεις ἠγνόει Φειδίας;» Καὶ ἐγώ· Τί μάλιστα; φήσω. «Ὅτι», ἐρεῖ, «τῆς Ἀθηνᾶς τοὺς ὀφθαλμοὺς οὐ χρυσοῦς ἐποίησεν, οὐδὲ τὸ ἄλλο πρόςωπον οὐδὲ τοὺς πόδας οὐδὲ τὰς χεῖρας, εἴπερ χρυσοῦν γε | δὴ ὂν κάλλιστον ἔμελλε φαίνεσθαι, ἀλλ’ ἐλεφάντινον· δῆλον ὅτι τοῦτο ὑπὸ ἀμαθίας ἐξήμαρτεν, ἀγνοῶν ὅτι χρυσὸς ἄρ’ ἐστὶν ὁ πάντα καλὰ ποιῶν, ὅπου ἂν προσγένηται». ταῦτα οὖν λέγοντι τί ἀποκρινώμεθα, ὦ Ἱππία; [c] ιππιας Οὐδὲν χαλεπόν· ἐροῦμεν γὰρ ὅτι ὀρθῶς

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socrate Non lo conosci quest’uomo, Ippia, non hai mai provato quanto sia arcigno e non conceda nulla facilmente71. ippia E allora, Socrate? Delle due l’una: o ammette ciò che è detto correttamente 290 [a] oppure, non ammettendolo, si rende ridicolo. socrate E io, ottimo uomo, so bene che non solo non ammetterà questa risposta, ma addirittura si prenderà gioco di me e dirà: «Ma dove hai la testa?72. Credi allora che Fidia73 sia un cattivo artigiano?» E io, credo, dirò: no, in nessun modo. ippia E dirai correttamente, Socrate. socrate Correttamente, infatti. A questo punto, nel momento in cui io mi dichiari d’accordo sul fatto che Fidia è un buon artigiano, quello affermerà: [b] «Allora credi anche che Fidia non avesse cognizione di questo bello di cui parli?» E io: «E perché?» Farà lui: «Poiché Fidia non fece gli occhi, il resto del viso, i piedi e le mani di Atena d’oro, bensí d’avorio, benché ciascuna di queste parti sarebbe parsa piú bella possibile se fosse stata d’oro: è chiaro che egli commise questo errore per ignoranza, poiché non sapeva che l’oro è ciò che rende ogni cosa bella ogniqualvolta sia aggiunto». Cosa gli risponderemo quando dirà questo, Ippia? [c] ippia Nessuna difficoltà, diremo che Fidia ha lagrazie al (cioè, per mezzo del) suo fraintendimento da parte di Ippia. In altri termini, Platone qui non mette in evidenza solo una dottrina peculiare, ma anche – e, forse, soprattutto – una terminologia filosofica. Eliminando una simile consapevolezza da parte di Platone il gioco dialettico, estremamente accentuato, perde ogni significato. 71   Ancora una caratterizzazione appropriata per il Socrate platonico. 72   L’appellativo, raro, è stato ricondotto alla commedia attica; cfr. Wood­ ruff 1982, p. 57, note 88 e 99-100. 73   Fidia è il piú celebre scultore dell’Atene periclea. Tra le sue opere spicca la statua crisoelefantina di Atena che si trovava all’interno del Partenone, sulla quale si basa la confutazione di Socrate. La scelta del riferimento a Fidia può dipendere dalla volontà di colpire Ippia non solo nel merito dell’argomento platonico (da cui il sofista dimostra costantemente di essere lontanissimo), ma anche nel campo su cui egli cerca di “combattere”, quello del sentire e dell’esperienza comuni.

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ἐποίησε. καὶ γὰρ τὸ ἐλεφάντινον οἶμαι καλόν ἐστιν. σωκρατης «Τοῦ οὖν ἕνεκα», φήσει, «οὐ καὶ τὰ μέσα τῶν ὀφθαλμῶν ἐλεφάντινα ἠργάσατο, ἀλλὰ λίθινα, ὡς οἷόν τ’ ἦν | ὁμοιότητα τοῦ λίθου τῷ ἐλέφαντι ἐξευρών; ἢ καὶ ὁ λίθος ὁ καλὸς καλόν ἐστι;» φήσομεν, ὦ Ἱππία; ιππιας Φήσομεν μέντοι, ὅταν γε πρέπων ᾖ. σωκρατης «Ὅταν δὲ μὴ πρέπων, αἰσχρόν;» ὁμολογῶ ἢ μή; ιππιας Ὁμολόγει, ὅταν γε μὴ πρέπῃ. [d] σωκρατης «Τί δὲ δή; ὁ ἐλέφας καὶ ὁ χρυ­σός», φήσει, «ὦ σοφὲ σύ, οὐχ ὅταν μὲν πρέπῃ, καλὰ ποιεῖ φαίνεσθαι, ὅταν δὲ μή, αἰσχρά;» ἔξαρνοι ἐσόμεθα ἢ ὁμολογήσομεν αὐτῷ ὀρθῶς λέγειν αὐ­τόν; ιππιας Ὁμολογήσομεν τοῦτό γε, ὅτι ὃ ἂν πρέπῃ ἑκάστῳ, τοῦτο καλὸν ποιεῖ ἕκαστον. σωκρατης «Πότερον οὖν πρέπει», φήσει, «ὅταν τις

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vorato correttamente: anche ciò che è d’avorio è bello, credo74. socrate «Ma allora», dirà, «per quale ragione non ha fatto anche il centro degli occhi in avorio, bensí in pietra, trovandone una il piú possibile somigliante all’avorio? Forse bello è anche una pietra – naturalmente una bella pietra?» Diremo di sí, Ippia? ippia Nel momento in cui la pietra sia quella che conviene, diremo certamente di sí. socrate «E quando non sia quella che conviene, è brutta?» Sarò d’accordo o no? ippia Nel momento in cui non convenga, sarai d’accordo. [d] socrate «Dunque? Dimmi, uomo sapiente», farà lui, «l’avorio e l’oro non fanno sí che le cose sembrino belle nel momento in cui essi convengano, mentre brutte nel momento in cui non convengano?» Lo negheremo o saremo d’accordo con lui che dice cose corrette? ippia Saremo d’accordo su questo: ciò che conviene per ciascuna cosa renderà quella cosa bella75. socrate «E poi», farà, «nel momento in cui uno metta 74   Riprendendo i fraintendimenti di Ippia (cfr. supra la nota 70), Socrate confuta ancora il sofista sul suo stesso campo, lasciando sullo sfondo la propria pregnante idea della causalità del bello in sé. L’argomento, della forma et alia, è di facile comprensione (per il bello cercato si rivendica un’unicità come causa della bellezza, mentre oltre l’oro vi sono anche altre cose che a seconda del contesto in cui siano considerate rendono qualcosa bello; implicito anche l’uso della forma et idem non: nel contesto sbagliato, l’oro non rende bello alcunché), e la sua efficacia è realizzata dallo stesso Ippia, il quale evidenzia come anche l’avorio sia bello. Al netto degli assunti necessari per la confutazione specifica, dunque, il bello in sé non può cessare di essere ciò che è sotto alcun aspetto né può essere altro rispetto a ciò che è. 75   Viene introdotta la nozione di πρέπον, fondamentale per il prosieguo del dialogo; cfr. infra le note 98 sgg., e supra l’introduzione, pp. 10-11. In questo caso il πρέπον non è ancora una “definizione” per il bello, bensí la condizione entro la quale qualcosa è bella: in questo senso la sua estensione può coincidere già con quella del bello. Per quanto l’associazione tra πρέπον e καλόν sia in Platone importante, la tesi qui proposta deve essere rifiutata (e non rappresenta, nei termini in cui la intende Ippia, «a good suggestion» – cosí Wood­ruff 1982, p. 58, nota 95), perché indirizzata in una prospettiva non filosofica: solo una volta colta la portata ontologica del bello in sé è possibile discuterne la correlazione con il πρέπον, ma un simile livello di discussione filosofica è del tutto irraggiungibile con Ippia.

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τὴν χύτραν ἣν ἄρτι ἐλέγομεν, τὴν καλήν, ἕψῃ ἔτνους καλοῦ μεστήν, χρυσῆ τορύνη αὐτῇ ἢ συκίνη;» ιππιας Ἡράκλεις, οἷον λέγεις ἄνθρωπον, ὦ Σώ­ κρατες. οὐ [e] βούλει μοι εἰπεῖν τίς ἐστιν; σωκρατης Οὐ γὰρ ἂν γνοίης, εἴ σοι εἴποιμι τοὔνομα. ιππιας Ἀλλὰ καὶ νῦν ἔγωγε γιγνώσκω, ὅτι ἀμαθής τίς ἐστιν. σωκρατης Μέρμερος πάνυ ἐστίν, ὦ Ἱππία· ἀλλ’ ὅμως τί | φήσομεν; ποτέραν πρέπειν τοῖν τορύναιν τῷ ἔτνει καὶ τῇ χύτρᾳ; ἢ δῆλον ὅτι τὴν συκίνην; εὐωδέστερον γάρ που τὸ ἔτνος ποιεῖ, καὶ ἅμα, ὦ ἑταῖρε, οὐκ ἂν συντρίψασα ἡμῖν τὴν χύτραν ἐκχέαι τὸ ἔτνος καὶ τὸ πῦρ ἀποσβέσειεν καὶ τοὺς μέλλοντας ἑστιᾶσθαι ἄνευ ὄψου ἂν πάνυ γενναίου ποιήσειεν· | ἡ δὲ χρυσῆ ἐκείνη πάντα ἂν ταῦτα ποιήσειεν, ὥστ’ ἔμοιγε 291 [a] δοκεῖν τὴν συκίνην ἡμᾶς μᾶλλον φάναι πρέπειν ἢ τὴν χρυσῆν, εἰ μή τι σὺ ἄλλο λέγεις. ιππιας Πρέπει μὲν γάρ, ὦ Σώκρατες, μᾶλλον·

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sul fuoco la pentola di cui parlavamo prima, quella bella, piena di una bella zuppa di legumi, per questa sarà piú conveniente un mestolo d’oro o uno di legno di fico?» ippia Per Eracle, che razza di uomo, Socrate! [e] Non vuoi proprio dirmi chi è? socrate Anche se te ne dicessi il nome, non lo conosceresti. ippia Ma so fin da ora che è un maleducato, un ignorante! socrate È certamente molesto76, Ippia… Comunque, cosa diremo? Quale dei due mestoli conviene per la zuppa e per la pentola?77. Non è forse già chiaro che è quello di legno di fico? In qualche modo, infatti, esso rende piú dolce la zuppa e a un tempo, amico mio, poiché non rompe la pentola, non può far fuoriuscire la zuppa né spegnere il fuoco né privare di una zuppa di grande valore chi si apprestava voglioso a mangiare. Il mestolo d’oro, invece, avrebbe fatto tutto questo, cosicché mi 291 [a] pare corretto per noi affermare che il mestolo di legno di fico conviene piú di quello d’oro, a meno che tu non dica diversamente. ippia Infatti, Socrate, conviene di piú; io però non 76   Μέρμερος è un attributo che occorre nell’epica greca: esso è quindi appropriato per rispondere a chi, come Ippia, sostiene di conoscere perfettamente questo genere letterario – come evidente dal tema dell’Ippia minore. La descrizione di Socrate trova facili riscontri: egli è (consapevolmente) ignorante e al contempo maleducato, rozzo (cfr. supra le note 61 e 71). 77   In realtà l’argomento ha già raggiunto il proprio fine e l’insistenza di Socrate ha in primo luogo valenza ironica. La situazione ora presentata, però, indica un possibile aspetto problematico del vincolo tra πρέπον e καλόν in una prospettiva sensibile: in situazioni complesse, che richiedono che qualcosa sia conveniente da piú punti di vista, uno stesso oggetto può essere al contempo conveniente e non conveniente. Ciò rimanda alle aporie sulla causalità del Fedone, per cui una stessa causa non può essere causa di due effetti opposti a seconda del punto di vista (96d8 sgg.): solo attraverso un innalzamento del livello di riflessione (e, conseguentemente, del livello ontologico della causa), tali aporie possono essere risolte. Ancora in questo senso conduce l’insistenza sul lessico della causa, e in particolare sul verbo ποιεῖν, con cui Platone vuole sottolineare che si sta parlando sí di una causa, ma di quella sbagliata. Tutto questo rende altamente improbabile che Platone non voglia alludere, tenendola sullo sfondo, a una teoria della causalità formale.

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οὐ μεντἂν ἔγωγε τῷ ἀνθρώπῳ τοιαῦτα ἐρωτῶντι διαλεγοίμην. σωκρατης Ὀρθῶς γε, ὦ φίλε· σοὶ μὲν γὰρ οὐκ ἂν πρέποι τοιούτων ὀνομάτων ἀναπίμπλασθαι, καλῶς μὲν οὑτωσὶ ἀμπεχομένῳ, καλῶς δὲ ὑποδεδεμένῳ, εὐδοκιμοῦντι δὲ ἐπὶ σοφίᾳ ἐν πᾶσι τοῖς Ἕλλησιν. ἀλλ’ ἐμοὶ οὐδὲν πρᾶγμα φύρεσθαι [b] πρὸς τὸν ἄνθρωπον· ἐμὲ οὖν προδίδασκε καὶ ἐμὴν χάριν ἀποκρίνου. «Εἰ γὰρ δὴ πρέπει γε μᾶλλον ἡ συκίνη τῆς χρυσῆς», φήσει ὁ ἄνθρωπος, «ἄλλο τι καὶ καλλίων ἂν εἴη, ἐπειδήπερ τὸ πρέπον, ὦ Σώκρατες, κάλλιον ὡμολόγησας εἶναι | τοῦ μὴ πρέποντος;» ἄλλο τι ὁμολογῶμεν, ὦ Ἱππία, τὴν συκίνην καλλίω τῆς χρυσῆς εἶναι; ιππιας Βούλει σοι εἴπω, ὦ Σώκρατες, ὃ εἰπὼν εἶναι τὸ καλὸν ἀπαλλάξεις σαυτὸν τῶν πολλῶν λόγων; [c] σωκρατης Πάνυ μὲν οὖν· μὴ μέντοι πρότερόν γε πρὶν ἄν μοι εἴπῃς ποτέραν ἀποκρίνωμαι οἷν ἄρτι ἔλεγον τοῖν τορύναιν πρέπουσάν τε καὶ καλλίω εἶναι. ιππιας Ἀλλ’, εἰ βούλει, αὐτῷ ἀπόκριναι ὅτι ἡ ἐκ τῆς συκῆς | εἰργασμένη. σωκρατης Λέγε δὴ νυνὶ ὃ ἄρτι ἔμελλες λέγειν. ταύτῃ μὲν γὰρ τῇ ἀποκρίσει, [ᾗ] ἂν φῶ τὸ καλὸν χρυσὸν εἶναι, οὐδὲν ὡς ἔοικέ μοι ἀναφανήσεται κάλλιον ὂν χρυσὸς ἢ ξύλον σύκινον· τὸ δὲ νῦν τί αὖ λέγεις τὸ καλὸν εἶναι; [d] ιππιας Ἐγώ σοι ἐρῶ. ζητεῖν γάρ μοι δοκεῖς τοιοῦτόν τι τὸ καλὸν ἀποκρίνασθαι, ὃ μηδέποτε αἰσχρὸν μηδαμοῦ μηδενὶ φανεῖται.

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sono disposto a parlare con un uomo che mi pone domande di questo livello! socrate E hai ragione, mio caro: è sconveniente per te essere sommerso da simili parole, tu che ti avvolgi sempre in vesti tanto belle, che calzi sempre scarpe tanto belle, che godi di eccellente fama presso tutti i Greci per la tua sapienza78. A me però non dà alcun problema immischiar­ mi [b] con quest’uomo; quindi, fallo per me79, forniscimi una preparazione e rispondi. «Se dunque il mestolo di legno di fico converrà piú di quello d’oro», affermerà il nostro uomo, «non sarà anche piú bello, Socrate, visto che eri d’accordo80 che il conveniente è piú bello del non conveniente?» Non saremo d’accordo, Ippia, che il mestolo di legno di fico è piú bello di quello d’oro? ippia Socrate, vuoi che ti dica ciò che, dicendo che è il bello, ti permetterà di liberarti di questa moltitudine di argomenti?81. [c] socrate Certamente, ma non prima di avermi detto cosa rispondere su quale tra i due mestoli di cui parlavo prima è conveniente e piú bello. ippia Se vuoi, rispondigli che è quello fatto di legno di fico. socrate Di’ ora quello che volevi dire prima: mi sembra infatti che se affermassi che il bello è oro, per questa risposta l’oro si rivelerebbe in niente piú bello di legno di fico. Avanti, dimmi un’altra volta cosa è il bello. [d] ippia Te lo dico subito. Mi pare che per la tua risposta tu cerchi il bello siffatto, che non possa sembrare turpe a nessuno, in nessun modo, in nessun momento.   Cfr. Hipp. min., 368a8-369a2.   Il modello letterario del «non far scappare il filosofo» (Szlezák 1988, pp. 354-58) viene qui – come non di rado nei dialoghi con i sofisti – invertito, con il filosofo che trattiene l’interlocutore (cfr. per esempio Gorg., 497a7-b5); l’effetto è particolarmente significativo, poiché Platone allude all’inadeguatezza di Ippia come interlocutore, al suo status di contraffazione del filosofo (cfr. supra l’introduzione, pp. 21-24). 80   Cfr. 290d1-4. 81   Ippia tenta di distogliere Socrate dalla conclusione dell’argomento, che lo smentisce direttamente per la seconda volta.

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σωκρατης Πάνυ μὲν οὖν, ὦ Ἱππία· καὶ καλῶς γε νῦν ὑπο- | λαμβάνεις. ιππιας Ἄκουε δή· πρὸς γὰρ τοῦτο ἴσθι, ἐάν τις ἔχῃ ὅτι ἀντείπῃ, φάναι ἐμὲ μηδ’ ὁτιοῦν ἐπαΐειν. σωκρατης Λέγε δὴ ὡς τάχιστα πρὸς θεῶν. ιππιας Λέγω τοίνυν ἀεὶ καὶ παντὶ καὶ πανταχοῦ κάλλιστον |  εἶναι ἀνδρί, πλουτοῦντι, ὑγιαίνοντι, τι­μω­μένῳ ὑπὸ τῶν Ἑλλήνων, ἀφικομένῳ εἰς γῆρας, τοὺς αὑτοῦ γονέας τελευτή- [e] σαντας καλῶς περιστείλαντι, ὑπὸ τῶν αὑτοῦ ἐκγόνων καλῶς καὶ μεγαλοπρεπῶς ταφῆναι. σωκρατης Ἰοὺ ἰού, ὦ Ἱππία, ἦ θαυμασίως τε καὶ μεγαλείως καὶ ἀξίως σαυτοῦ εἴρηκας· καὶ νὴ τὴν Ἥραν ἄγαμαί σου ὅτι | μοι δοκεῖς εὐνοϊκῶς, καθ’ ὅσον οἷός τ’ εἶ, βοηθεῖν· ἀλλὰ γὰρ τοῦ ἀνδρὸς οὐ τυγχάνομεν,

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socrate È proprio cosí, Ippia: ora hai avuto una bella intuizione!82. ippia Allora ascolta, e sappi che se qualcuno avesse di che controbattere sarebbe lecito dire che io non ho davvero cognizione di nulla83. socrate Dillo quanto prima, per gli dèi! ippia Dico allora che sempre, ovunque e secondo tutti massimamente bello per un uomo è l’essere ricco, sano e onorato dai Greci, arrivare alla vecchiaia, allestire una [e] bella sepoltura per i propri genitori nel momento in cui muoiano, e ricevere dai propri figli onori funerari belli e magnificenti84. socrate Oh oh, mio Ippia, che parole stupefacenti e magnifiche hai pronunciato, degne di te! E poi, per Era, ti ammiro infinitamente, poiché mi pare che tu mi soccorra con benevolenza al massimo delle tue possibilità85. Devi però aver ben presente che non abbiamo assoluta82   Ippia comprende solo in parte l’esigenza di assolutezza del bello cercato (su questo aspetto e sull’intero argomento cfr. anche ­Heitsch 2011, pp. 7376), poiché sulla base delle precedenti confutazioni mantiene centrale l’aspetto estrinseco del bello – essere bello per tutti, sempre e ovunque – mentre non ne coglie ancora, come è subito evidente, il problema dello statuto intrinseco, cioè l’essere sempre e sotto ogni rispetto «il bello» e causa dell’essere bello. La risposta di Socrate, dunque, sancisce un miglioramento per Ippia ma allude ironicamente alla visione ancora empirica del sofista; a conferma di ciò vale il fatto che la confutazione sia essenzialmente sovrapponibile alle precedenti. 83   Cfr. già l’analoga dichiarazione che precede la prima proposta, a 286e8287a1. 84   Con questa terza proposta Ippia passa dalla dimensione estetica del bello a quella etica. Le condizioni di ricchezza, salute e onore sono tradizionalmente fondamentali per l’etica pubblica greca, e Platone rispecchia spesso (specialmente con i sofisti) tale prospettiva (cfr. per esempio Gorg., 451d9 sgg.; Men., 87e5-7; Euthyd., 279a4-b3, ma anche Leg., I, 631d1-c1 e II, 661a4-7). Da sottolineare è il tentativo di Ippia di connotare costantemente come belle le azioni e gli oggetti che indica (belle sepolture, ecc.), il che segnala immediatamente la loro insufficienza come candidati per il bello in sé. La medesima astuzia va rintracciata nell’uso dell’avverbio μεγαλοπρεπῶς, che riprende la nozione di πρέπον per rafforzare il precedente καλῶς. 85   Socrate commenta la terza proposta di Ippia con righe di feroce ironia, utilizzando moduli tipici della commedia (dall’esclamazione iniziale alla forma ἄγαμαι + genitivo; cfr. anche l’immagine della bastonata evocata subito oltre), elogiando in modo spropositato quanto detto da Ippia, alludendo alle limitate capacità del sofista e richiamando ironicamente il modulo del «soccorrere il discorso» (Szlezák 1988, pp. 121-26).

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ἀλλ’ ἡμῶν δὴ νῦν καὶ πλεῖστον καταγελάσεται, εὖ ἴσθι. ιππιας Πονηρόν γ’, ὦ Σώκρατες, γέλωτα· ὅταν γὰρ πρὸς ταῦτα ἔχῃ μὲν μηδὲν ὅτι λέγῃ, γελᾷ δέ, αὑτοῦ καταγελάσεται 292 [a] καὶ ὑπὸ τῶν παρόντων αὐτὸς ἔσται καταγέλαστος. σωκρατης Ἴσως οὕτως ἔχει· ἴσως μέντοι ἐπί γε ταύτῃ τῇ ἀποκρίσει, ὡς ἐγὼ μαντεύομαι, κινδυνεύσει οὐ μόνον μου καταγελᾶν. ιππιας Ἀλλὰ τί μήν; σωκρατης Ὅτι, ἂν τύχῃ βακτηρίαν ἔχων, ἂν μὴ ἐκφύγω φεύγων αὐτόν, εὖ μάλα μου ἐφικέσθαι πει­ ράσεται. ιππιας Πῶς λέγεις; δεσπότης τίς σου ὁ ἄνθρωπός ἐστιν, καὶ τοῦτο ποιήσας οὐκ ἀχθήσεται καὶ δίκας ὀφλήσει; ἢ οὐκ [b] ἔνδικος ὑμῖν ἡ πόλις ἐστίν, ἀλλ’ ἐᾷ ἀδίκως τύπτειν ἀλλήλους τοὺς πολίτας; σωκρατης Οὐδ’ ὁπωστιοῦν ἐᾷ. ιππιας Οὐκοῦν δώσει δίκην ἀδίκως γέ σε τύπ­των. σωκρατης Οὔ μοι δοκεῖ, ὦ Ἱππία, οὔκ, εἰ ταῦτά γε ἀποκριναίμην, ἀλλὰ δικαίως, ἔμοιγε δοκεῖ. ιππιας Καὶ ἐμοὶ τοίνυν δοκεῖ, ὦ Σώκρατες, ἐπει­ δήπερ γε αὐτὸς ταῦτα οἴει. σωκρατης Οὐκοῦν εἴπω σοι καὶ ᾗ αὐτὸς οἴομαι δικαίως ἂν | τύπτεσθαι ταῦτα ἀποκρινόμενος; ἢ καὶ σύ με ἄκριτον τυπτήσεις; ἢ δέξῃ λόγον; [c] ιππιας Δεινὸν γὰρ ἂν εἴη, ὦ Σώκρατες, εἰ μὴ δεχοίμην· ἀλλὰ πῶς λέγεις; σωκρατης Ἐγώ σοι ἐρῶ, τὸν αὐτὸν τρόπον ὅνπερ νῦν δή, μιμούμενος ἐκεῖνον, ἵνα μὴ πρὸς σὲ λέγω ῥήματα, οἷα ἐκεῖνος εἰς | ἐμὲ ἐρεῖ, χαλεπά τε καὶ ἀλλόκοτα. εὖ γὰρ ἴσθι, «Εἰπέ μοι», φήσει, «ὦ Σώκρατες,

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mente avuto ragione del nostro uomo; al contrario, egli ora starà ridendo di noi piú che mai. ippia È un riso amaro, Socrate! Che rida, nel momento in cui non abbia nulla da dire su queste cose: riderà di se stesso 292 [a] e sarà deriso da tutti i presenti. socrate Probabilmente le cose stanno cosí… ma è altrettanto probabile il rischio che – posso predirlo – per questa risposta non si limiti a deridermi. ippia E perché mai? socrate Perché se per caso avrà a tiro un bastone e io non riuscirò a scappare fuggendo da lui, tenterà di colpirmi come si deve. ippia Come dici? Quest’uomo è per te una sorta di padrone, e pur facendo questo non sarà arrestato e condannato? O forse [b] la vostra città non è regolata dalla giustizia e permette che i cittadini si colpiscano a vicenda ingiustamente? socrate Non lo permette in nessun caso. ippia Dunque sconterà la giusta pena, se ti colpirà ingiustamente. socrate Questo non mi pare, Ippia: non se risponderò queste cose. Al contrario – almeno cosí pare a me – agirebbe giustamente. ippia Allora non può che sembrare cosí anche a me, Socrate, visto che proprio tu lo ritieni. socrate Non vuoi che ti dica anche perché credo sarebbe giusto colpirmi se rispondessi queste cose? Oppure mi colpirai anche tu senza alcun processo? O magari ammetterai che io pronunci il mio discorso? [c] ippia Sarei terribile, Socrate, se non lo ammettessi. Ma cosa vuoi dirmi? socrate Te lo dirò nello stesso modo in cui ho parlato finora, impersonando quell’uomo, affinché io non rivolga a te parole come quelle che egli rivolgerà a me, dure e spiacevoli86. Devi sapere che affermerà: «Dim86   Socrate non è qui molto distante dal dichiarare quali siano le finalità dell’introduzione dell’anonimo; cfr. supra l’introduzione pp. 18-21, e la nota 39.

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οἴει ἂν ἀδίκως πληγὰς λαβεῖν, ὅστις διθύραμβον τοσουτονὶ ᾄσας οὕτως ἀμούσως πολὺ ἀπῇσας ἀπὸ τοῦ ἐρωτήματος;» Πῶς δή; φήσω ἐγώ. «Ὅπως;» φήσει· «οὐχ οἷός τ’ εἶ μεμνῆσθαι ὅτι τὸ καλὸν αὐτὸ ἠρώτων, [d] ὃ παντὶ ᾧ ἂν προσγένηται, ὑπάρχει ἐκείνῳ καλῷ εἶναι, καὶ λίθῳ καὶ ξύλῳ καὶ ἀνθρώπῳ καὶ θεῷ καὶ πάσῃ πράξει καὶ παντὶ μαθήματι; αὐτὸ γὰρ ἔγωγε, ὦ ἄνθρωπε, κάλλος ἐρωτῶ ὅτι ἐστίν, καὶ οὐδέν σοι μᾶλλον γεγωνεῖν δύναμαι ἢ | εἴ μοι παρεκάθησο λίθος, καὶ οὗτος μυλίας, μήτε ὦτα μήτε ἐγκέφαλον ἔχων». εἰ οὖν φοβηθεὶς εἴποιμι ἐγὼ ἐπὶ τούτοις τάδε, ἆρα οὐκ ἂν ἄχθοιο, ὦ Ἱππία; Ἀλλὰ μέντοι τόδε τὸ [e] καλὸν εἶναι Ἱππίας ἔφη· καίτοι ἐγὼ αὐτὸν ἠρώτων οὕτως ὥσπερ σὺ ἐμέ, ὃ πᾶσι καλὸν καὶ ἀεί ἐστιν. πῶς οὖν φῄς; οὐκ ἀχθέσῃ, ἂν εἴπω ταῦτα; ιππιας Εὖ γ’ οὖν οἶδα, ὦ Σώκρατες, ὅτι πᾶσι καλὸν τοῦτ’ | ἐστίν, ὃ ἐγὼ εἶπον, καὶ δόξει.

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mi, Socrate, credi che sarebbe percosso ingiustamente chiunque canti un ditirambo siffatto, in modo cosí stonato87, tenendosi tanto distante dalla richiesta?» Come? Farò io. «Come?» affermerà. «Non sei neanche in grado di tenere a mente che ti ho domandato del bello in sé, [d] quello che consente a ogni cosa – pietra, legno, uomo, dio, ogni azione o ogni sapere – a cui si aggiunge di essere bella?88. Cosa è questa bellezza, mio uomo, è ciò che ti chiedo, ma non riesco a farmi capire da te piú di quanto potrei se tu stessi impietrito seduto davanti a me, una macina senza orecchie né cervello». Ippia, non avresti obiezioni se io, impaurito, replicassi a queste parole dicendo: Ma [e] Ippia ha affermato che il bello è questa cosa qui! Inoltre io gli ho chiesto, proprio come tu hai fatto con me, ciò che è bello sempre e per tutti89. Come ti porresti, non avresti obiezioni se dicessi queste cose? ippia So perfettamente, Socrate, che per tutti bello è quello che ho detto, e a tutti parrà cosí. 87   Nell’Ippia minore (368d1) a Ippia è attribuita la scrittura di ditirambi. Socrate potrebbe qui alludere alla retorica gorgiana generalmente utilizzata dal sofista (cosí Wood­ruff 1982, p. 60, nota 105), ma anche alla banalità delle affermazioni proposte da Ippia, popolari (come tradizionalmente destinata al grande pubblico della πόλις era la poe­sia ditirambica) e ben distanti da una prospettiva filosofica. 88   Ippia, cioè, alla terza “definizione” non è ancora riuscito ad avanzare nella comprensione del nucleo della domanda, l’identificazione del bello in sé come la causa dell’essere bello (e tutto ciò che questo implica). 89   La domanda dell’anonimo, per come riproposta da Socrate, fa in realtà già riferimento alla prossima obiezione (cfr. infra la nota 91). La formulazione richiama certamente alcune descrizioni del bello ideale (cfr. in particolare Symp., 210e6-211a1), ma sembra qui studiata appositamente per offrire in modo ambiguo uno degli aspetti peculiari dell’idea (il bello in sé è sempre e sotto ogni rispetto ciò che è) insieme a determinazioni – «per tutti» e «sempre» – leggibili sia in senso assoluto, secondo una distinzione ontologica, sia in senso relativo ed empirico, come fa Ippia (a 291d9-10 e 292e4-5). Un ulteriore elemento di ambiguità risiede nell’uso di κάλλος, termine piú vicino alla sfera estetica e meno associabile alla prospettiva ontologica di Socrate (cfr. anche Ludlam 1991, p. 75): in questo modo Platone da un lato suggerisce che anche il κάλλος trova la propria radice nel bello in sé (cfr. ancora Symp., 209b4 sgg.), dall’altro lascia Ippia – legato al linguaggio tradizionale – in una confusione ancor piú marcata.

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σωκρατης «Ἦ καὶ ἔσται;» φήσει· «ἀεὶ γάρ που καλὸν τό γε καλόν». ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης «Οὐκοῦν καὶ ἦν;» φήσει. ιππιας Καὶ ἦν. σωκρατης «Ἦ καὶ τῷ Ἀχιλλεῖ», φήσει, «ὁ ξέ­ νος ὁ Ἠλεῖος ἔφη καλὸν εἶναι ὑστέρῳ τῶν προ­ γόνων | ταφῆναι, καὶ τῷ πάππῳ αὐτοῦ Αἰακῷ, καὶ τοῖς ἄλλοις ὅσοι 293 [a] ἐκ θεῶν γεγόνασιν, καὶ αὐτοῖς τοῖς θεοῖς;»

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socrate «E lo sarà, anche?»90 farà. «Il bello, infatti, deve in qualche modo essere sempre bello». ippia Certo. socrate «Dunque lo era, anche» farà lui. ippia Lo era, anche. socrate «Allora», affermerà, «secondo lo straniero di Elide è bello essere sepolto dopo i propri genitori anche per Achille e per suo nonno Eaco, e cosí per tutti gli altri 293 [a] figli degli dèi e per gli dèi stessi?»91. 90   Il discorso di Socrate si muove su due piani. Dal punto di vista dialogico inizia qui l’argomento contro Ippia, basato (ancora) sull’instabilità di ciò che è stato proposto come «il bello»: ciò che è ritenuto bello non risulta in realtà sempre bello (come chiariscono gli esempi), e non può quindi essere il bello cercato. Questa funzione specifica può determinare una distorsione della “definizione” del bello in sé che emerge dalla domanda, cioè del bello in sé come effettivamente bello (per autopredicazione): per confutare Ippia, infatti, Socrate non avrebbe potuto dire semplicemente che il bello in sé è sempre e stabilmente ciò che è, cioè la causa dell’essere bello per le cose belle, poiché Ippia non avrebbe recepito la contraddizione. Dal punto di vista di Platone, dunque, la domanda posta va letta con una forte cautela: da un lato il bello in sé è sempre (cioè irriducibilmente) ciò che è, dall’altro la funzione elenctica della domanda impone di svincolare Platone da un impegno circa l’autopredicazione dell’idea (elemento, questo, su cui insiste Wood­ruff 1982, pp. 153-56 e 172-75). 91   Achille, suo nonno Eaco ed Eracle (293a9-10) sono figli di divinità (rispettivamente di Teti e di Zeus), e rappresentano istanze specifiche della categoria a cui appartengono, esplicitamente richiamata; in una stretta climax, sono poi citati direttamente gli dèi. L’argomento mina (in modo solo formalmente diverso dalle confutazioni precedenti) l’universalità della “definizione” fornita: gli dèi, infatti, sono immortali, e sia per loro sia per i loro figli il bello non potrà essere il seppellire i propri genitori, poiché questo non potrà mai accadere. Gli esempi scelti da Socrate, inoltre, rappresentano casi particolari, poiché Achille ed Eracle sono morti violentemente secondo un piano divino funzionale al loro valore in guerra, cioè al loro essere καλοί dal punto di vista etico: in altri termini Socrate allude anche al fatto che se Achille ed Eracle avessero vissuto secondo la vita “bella” proposta da Ippia non avrebbero in realtà vissuto la vita “bella” (eroica) a cui erano destinati. Ora, le contraddizioni stabilite (secondo il modello et idem non; cfr. Goldschmidt 1947, p. 43), quella generale e con essa quella piú specifica, sono certamente forzate (cfr. Wood­ruff 1982, p. 61, nota 107: secondo la “definizione” di Ippia bello potrebbe essere seppellire bene i genitori nel momento in cui essi muoiano), ma il sofista non riesce a opporre resistenza, irritandosi: Ippia non cerca di assecondare Socrate (in tal caso la reazione sdegnata non avrebbe senso); semplicemente, non riesce a cogliere il livello a cui Socrate vorrebbe condurre il discorso.

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ιππιας Τί τοῦτο; βάλλ’ ἐς μακαρίαν. τοῦ ἀνθρώπου οὐδ’ εὔφημα, ὦ Σώκρατες, ταῦτά γε τὰ ἐρωτήματα. σωκρατης Τί δέ; τὸ ἐρομένου ἑτέρου φάναι ταῦτα οὕτως ἔχειν | οὐ πάνυ δύσφημον; ιππιας Ἴσως. σωκρατης «Ἴσως τοίνυν σὺ εἶ οὗτος», φήσει, «ὃς παντὶ φῂς καὶ ἀεὶ καλὸν εἶναι ὑπὸ μὲν τῶν ἐκγόνων ταφῆναι, τοὺς δὲ γονέας θάψαι· ἢ οὐχ εἷς τῶν ἁπάντων καὶ Ἡρακλῆς ἦν καὶ | οὓς νῦν δὴ ἐλέγομεν πάντες;» ιππιας Ἀλλ’ οὐ τοῖς θεοῖς ἔγωγε ἔλεγον. [b] σωκρατης «Οὐδὲ τοῖς ἥρωσιν, ὡς ἔοικας». ιππιας Οὐχ ὅσοι γε θεῶν παῖδες ἦσαν. σωκρατης «Ἀλλ’ ὅσοι μή;» ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης «Οὐκοῦν κατὰ τὸν σὸν αὖ λόγον, ὡς φαίνεται, τῶν ἡρώων τῷ μὲν Ταντάλῳ καὶ τῷ Δαρδάνῳ καὶ τῷ Ζήθῳ δεινόν τε καὶ ἀνόσιον καὶ αἰσχρόν ἐστι, Πέλοπι δὲ καὶ τοῖς ἄλλοις τοῖς οὕτω γεγονόσι καλόν». ιππιας Ἔμοιγε δοκεῖ. σωκρατης «Σοὶ τοίνυν δοκεῖ», φήσει, «ὃ ἄρτι οὐκ ἔφησθα, τὸ θάψαντι τοὺς προγόνους ταφῆναι ὑπὸ τῶν ἐκγόνων ἐνίοτε καὶ [c] ἐνίοις αἰσχρὸν εἶναι· ἔτι δὲ μᾶλλον, ὡς ἔοικεν, ἀδύνατον πᾶσι τοῦτο γενέσθαι καὶ εἶναι καλόν, ὥστε τοῦτό γε ὥσπερ καὶ τὰ ἔμπροσθεν ἐκεῖνα, ἥ τε παρθένος καὶ ἡ χύτρα, ταὐτὸν πέπονθε,

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ippia Ma cosa?... Che passi a miglior vita! Le domande di quest’uomo, Socrate, non sono davvero consone92. socrate E allora? Rispondere a lui, che poneva la sua domanda, affermando semplicemente che le cose stanno cosí non è ben poco consono? ippia Forse. socrate «Forse, allora», farà, «tu sei quello secondo il quale bello è sempre e per tutti ricevere sepoltura dai propri figli e darla ai genitori; ma non era anche Eracle uno di quei «tutti» di cui or ora parlavamo, e con lui tutti quelli che abbiamo appena detto?» ippia Ma io non parlavo degli dèi. [b] socrate «E neanche degli eroi, sembra». ippia Almeno non di chi tra loro era figlio di dèi. socrate «Bensí di chi non lo era?» ippia Certo. socrate «Dunque, secondo questo tuo ragionamento – come sembra – ciò che è terribile, empio e brutto per alcuni eroi, come Tantalo, Dardano e Zeto, non è bello per Pelope e tutti gli altri con un’origine simile»93. ippia Mi pare questo. socrate «Allora ti pare», farà, «ciò che prima hai negato, che in alcuni casi e per alcuni ricevere sepoltura dai figli avendo dato sepoltura ai genitori [c] è brutto, e inoltre, a maggior ragione, che è impossibile – cosí pare – che ciò si verifichi e sia bello per tutti. Di conseguenza anche questo candidato, proprio come i precedenti – la ragazza e la pentola94 –, ha fatto la stessa fine, 92   La traduzione tenta di rendere l’ambiguo significato di εὔφημα, che allude non solo all’empietà (significato qui principale) ma anche all’ineleganza del discorso di Socrate, come ci si aspetta facilmente da un sofista attento alla forma come Ippia. 93   In continuità con quanto precede, Tantalo, Dardano e Zeto sono (secondo diverse tradizioni) figli di Zeus, e per loro è empio e brutto seppellire i genitori; Pelope è invece figlio di Tantalo, un eroe mortale, al quale può essere applicata la “definizione” di Ippia e per il quale, quindi, seppellire bene il proprio padre dovrebbe essere bello. Un tratto ironico è rappresentato dalla scelta di Tantalo e Pelope come eventuali modelli di una vita bella e felice: il primo uccise e smembrò il secondo, suo figlio. 94   In realtà il secondo candidato di Ippia non era la pentola bensí l’oro,

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καὶ ἔτι γελοιοτέρως τοῖς μέν ἐστι καλόν, τοῖς δ’ οὐ | καλόν. καὶ οὐδέπω καὶ τήμερον», φήσει, «οἷός τ’ εἶ, ὦ Σώκρατες, περὶ τοῦ καλοῦ ὅτι ἐστὶν τὸ ἐρω­ τώμενον ἀποκρίνασθαι». ταῦτά μοι καὶ τοιαῦτα ὀνειδιεῖ δικαίως, ἐὰν αὐτῷ οὕτως ἀποκρίνωμαι. τὰ μὲν οὖν πολλά, ὦ Ἱππία, σχεδόν [d] τί μοι οὕτω διαλέγεται· ἐνίοτε δ’ ὥσπερ ἐλεήσας μου τὴν ἀπειρίαν καὶ ἀπαιδευσίαν αὐτός μοι προβάλλει ἐρωτῶν εἰ τοιόνδε μοι δοκεῖ εἶναι τὸ καλόν, ἢ καὶ περὶ ἄλλου ὅτου ἂν τύχῃ πυνθανόμενος καὶ περὶ οὗ ἂν λόγος ᾖ. ιππιας Πῶς τοῦτο λέγεις, ὦ Σώκρατες; σωκρατης Ἐγώ σοι φράσω. «Ὦ δαιμόνιε», φη­σί, «Σώκρατες, τὰ μὲν τοιαῦτα ἀποκρινόμενος καὶ οὕτω παῦσαι – λίαν γὰρ εὐήθη τε καὶ εὐεξέλεγκτά ἐστιν – ἀλλὰ τὸ τοιόνδε [e] σκόπει εἴ σοι δοκεῖ καλὸν εἶναι, οὗ καὶ νῦν δὴ ἐπελαβόμεθα ἐν τῇ ἀπο­κρίσει, ἡνίκ’ ἔφαμεν τὸν χρυσὸν οἷς μὲν πρέπει καλὸν εἶναι, οἷς δὲ

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anzi: in modo ancora piú risibile è bello per alcuni, non bello per altri95. Cosí, Socrate», affermerà, «a oggi non sei ancora capace di rispondere cosa sia il bello che ti è stato chiesto». Se gli rispondessi cosí mi rimprovererebbe giustamente con parole di questo tipo. In effetti, Ippia, nella maggior parte dei casi in cui [d] dialoghiamo mi si rivolge piú o meno in tal modo; talvolta, però, come impietosito per la mia ignoranza e la mia scarsa preparazione, lui stesso mi sospinge domandandomi se il bello – o anche qualsiasi altra cosa su cui in quel caso voglia indagare o circa la quale verta il discorso – mi paia essere una certa cosa96. ippia In che senso, Socrate? socrate Te lo dico subito. «Socrate, uomo divino» affermerà, «smetti di fornire risposte di questo tipo e in questi termini! Sono davvero troppo semplici, troppo facili da confutare97. Guarda invece [e] se ti pare che bello sia qualcosa di questo tipo: or ora nel rispondere ci abbiamo per un attimo messo le mani, quando e si era anzi giunti ad accennare al πρέπον. Come spesso accade il riassunto di Socrate è inesatto e tendenzioso: qui probabilmente il fine è far apparire il terzo candidato di Ippia ancora peggiore (cfr. anche la nota seguente), persino piú assurdo della pentola. 95   Come notato da Wood­ruff 1982, p. 61, nota 112, questo candidato è «piú risibile» perché è il terzo dello stesso tipo (cioè confutato allo stesso modo) proposto da Ippia; cfr. anche 286e2 e nota ad loc. 96   Qui è l’anonimo che soccorre il discorso (Szlezák 1988, pp. 121-26 e 151 sgg.). Si crea cosí un nuovo momento dialogico, in cui Socrate riporta l’“aiuto” dell’anonimo dopo aver chiesto a Ippia collaborazione contro l’anonimo stesso (286d7-e2). 97   In modo non inaspettato le espressioni con cui l’anonimo descrive le risposte di Socrate richiamano quelle che in qualche modo Ippia ha utilizzato contro di lui o chi ritiene inferiore: su tutti, l’εὐήθεια caratterizzava gli antichi sapienti (282d2: cosí Socrate, che però esprime ironicamente il pensiero di Ippia) e l’anonimo stesso (289e1). L’evidente debolezza delle proposte di Ippia si oppone alle dichiarazioni circa la loro validità enunciate in modo ricorrente (solo nell’ultimo argomento: 291d6-7, 291e8-292a1, 292e45). D’altro canto l’esortazione a cambiare modalità e livello delle risposte è basata sul comune difetto delle precedenti discussioni: nonostante l’impulso iniziale dato dall’anonimo (cfr. supra, in particolare le note 43 e 49), il dialogo è rimasto sempre – a causa di Ippia – al livello empirico, delle «cose belle», e non ha esplorato efficacemente le diverse dimensioni della complessa nozione di καλόν.

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μή, οὔ, καὶ τἆλλα πάντα οἷς ἂν τοῦτο προσῇ· αὐτὸ δὴ τοῦτο τὸ πρέπον καὶ τὴν φύσιν αὐτοῦ τοῦ | πρέποντος σκόπει εἰ τοῦτο τυγχάνει ὂν τὸ καλόν». ἐγὼ μὲν οὖν εἴωθα συμφάναι τὰ τοιαῦτα ἑκάστοτε – οὐ γὰρ ἔχω ὅτι λέγω – σοὶ δ’ οὖν δοκεῖ τὸ πρέπον καλὸν εἶναι; ιππιας Πάντως δήπου, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Σκοπώμεθα, μή πῃ ἄρ’ ἐξαπατώμεθα. ιππιας Ἀλλὰ χρὴ σκοπεῖν. σωκρατης Ὅρα τοίνυν· τὸ πρέπον ἆρα τοῦτο λέ­

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abbiamo affermato che l’oro è bello per le cose per cui conviene mentre non lo è per quelle per cui non conviene, e che sono belle tutte le altre cose in cui esso venga a essere. Ebbene, osserva questo conveniente in sé e la natura del conveniente in sé, se per caso non sia proprio questo il bello». Io sono abituato ad annuire ogni volta a queste proposte: il fatto è che non so che dire. A te, invece, pare che bello sia il conveniente?98. ippia In ogni caso, Socrate. socrate Avanti, osserviamo bene per evitare di ingannarci in qualche modo99. ippia Ma certo, occorre osservare bene. socrate Guarda, allora. Diciamo che il conveniente 98   Per il contesto dell’introduzione del πρέπον cfr. 290c7 sgg. e le note ad loc.; la sezione trova probabilmente echi in Aristotele (Top., 102a6 e 135a13). La domanda dell’anonimo fornisce la possibilità di affrontare in modo “platonico” una nozione che nei dialoghi ha una forte importanza in relazione al bene e al bello (per un quadro generale cfr. supra l’introduzione, pp. 10-11): essa, infatti, ha da un lato implicazioni estetiche (cfr. Phaedr., 264c2-5; Lach., 188c6-d2; Gorg., 503e1-504a2), dall’altro etiche (cfr. per esempio Pol., 284e2 sgg., in particolare 284e5-8 e 286c5-d2), talvolta anche intrecciate tra loro (come nel già citato luogo del Gorgia; cfr. anche Ludlam 1991, pp. 175-81, che su questa base vede nel πρέπον la “definizione” autenticamente platonica a cui le proposte di Socrate andrebbero riportate). Ancora, il πρέπον è riconducibile all’ambito semantico di nozioni quali μέτριον/μέτρον, καιρόν, che svolgono nel Politico (nel luogo citato, seppur in modo velato; per una possibile lettura cfr. Petrucci 2004, pp. 122-29) e soprattutto nel Filebo (66a4-b3) funzioni centrali e che sono comunque riconducibili all’ordine e al bene. Che dunque per Platone il πρέπον sia strettamente legato – e a vari livelli – al bello (e al bene) è indubbio, come è indubbio che l’anonimo voglia qui alludere proprio a una semantica forte di πρέπον: egli incita a guardarlo in sé, nella sua natura, cioè la sua vera essenza al di là di ogni determinazione. Ciò non implica però che Socrate possa svolgere questo compito con il suo interlocutore: il fatto che la proposta, stabilita in questi termini, venga dall’anonimo garantisce la possibilità di mirare a una tematizzazione filosoficamente forte, ma non implica che i personaggi siano poi in grado di portare a compimento tale spunto. In qualche modo la proposta dell’anonimo si configura come una sfida agli interlocutori. In questo senso vanno lette due ambiguità presenti all’interno del suggerimento, per il resto filosoficamente coerente: in primo luogo l’anonimo fa riferimento ancora all’oro, il che non spinge il già debole Ippia a distaccarsi dal proprio piano; in secondo luogo, l’anonimo pone la domanda decisiva (293e7) omettendo l’articolo per καλόν, il che non implica che egli non faccia riferimento a «il bello» (cfr. Wood­ruff 1982, p. 64, nota 116), ma certamente rischia di fuorviare Ippia. 99   La prudenza di Socrate dipende dalla prospettiva a cui Ippia fa riferimento con il suo assenso.

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γομεν, ὃ παρα- 294 [a] γενόμενον ποιεῖ ἕκαστα φαίνεσθαι καλὰ τούτων οἷς ἂν παρῇ, ἢ ὃ εἶναι ποιεῖ, ἢ οὐδέτερα τούτων; ιππιας Ἔμοιγε δοκεῖ [πότερα] ὃ ποιεῖ φαίνεσθαι καλά· ὥσπερ γε ἐπειδὰν ἱμάτιά τις λάβῃ ἢ ὑποδήματα ἁρμόττοντα, | κἂν ᾖ γελοῖος, καλλίων φαίνεται. σωκρατης Οὐκοῦν εἴπερ καλλίω ποιεῖ φαίνεσθαι ἢ ἔστι τὸ πρέπον, ἀπάτη τις ἂν εἴη περὶ τὸ καλὸν τὸ πρέπον, καὶ οὐκ ἂν εἴη τοῦτο ὃ ἡμεῖς ζητοῦμεν, ὦ Ἱππία; ἡμεῖς μὲν γάρ που [b] ἐκεῖνο ἐζητοῦμεν, ᾧ πάντα τὰ καλὰ πράγματα καλά ἐστιν – ὥσπερ ᾧ πάντα τὰ μεγάλα ἐστὶ μεγάλα, τῷ ὑπερέχοντι· τούτῳ γὰρ πάντα μεγάλα ἐστί, καὶ ἐὰν μὴ φαίνηται, ὑπερέχῃ δέ, ἀνάγκη αὐτοῖς μεγάλοις εἶναι – οὕτω δή, φαμέν, καὶ τὸ | καλόν, ᾧ καλὰ πάντα ἐστίν, ἄντ’ οὖν φαίνηται

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è questo, ciò che 294 [a] con la sua presenza fa sí che ogni cosa in cui è presente appaia bella? Oppure fa sí che ogni cosa sia bella? Oppure nessuno dei due? ippia Mi pare ciò che fa sí che appaia bella: per esempio, nel momento in cui un uomo calzi vestiti e scarpe ben abbinati, anche risultando ridicolo, appare comunque piú bello100. socrate Ma allora, Ippia, se davvero il conveniente fa sí che qualcosa appaia piú bella di quanto non sia, il conveniente sarà una sorta di inganno relativo al bello101 e non potrà certo essere quello che stiamo cercando! In qualche modo, infatti, noi [b] cercavamo ciò per cui tutte le cose belle sono belle: proprio come tutte le cose grandi sono grandi per ciò che eccede – infatti sono tutte grandi per questo, e se eccedono saranno necessariamente grandi, anche nel caso in cui non appaiano tali102 – cosí anche il bello, per cui tutte le cose sono belle, 100   Il linguaggio utilizzato da Socrate richiama la dottrina delle idee, in particolare la παρουσία dell’idea in ciò che ne partecipa (cfr. Phaedo, 100d5); ancora, torna qui chiaramente il ruolo di causa che la nozione cercata deve ricoprire. La domanda di Socrate è decisiva, poiché la scelta di Ippia determina il naufragio della proposta. Il sofista ha buone ragioni per affermare che il πρέπον è ciò che fa apparire qualcosa bella: la semantica estetica del termine può condurre in questa direzione, verso la quale Ippia è predisposto in quanto sofista particolarmente attento alla fama, all’eleganza e alla forma (cfr. per esempio 291a5-8). Dal punto di vista di Platone, però, Ippia sbaglia: a meno che non sia fondato su un autentico «essere bello», l’apparire bello di qualcosa può essere il frutto di un artificio, di una tecnica falsificatrice (cfr. in particolare Gorg., 465b1 sgg.; ma anche, piú in generale, Soph., 264c4 sgg., con Centrone 2008a, pp. lii-lv). In questo senso Platone avrebbe accettato la prima delle opzioni proposte e, con il caveat ora segnalato, l’idea per cui il πρέπον fa sí che le cose siano e appaiano belle (cfr. infra la nota 107), ma non la seconda. La terza opzione, infine, sta per «qualcosa di diverso». 101   Cfr. in particolare Gorg., 465b1 sgg. 102   Questa comparazione è fortemente dibattuta, soprattutto a causa di evidenti paralleli con il Fedone (100e8-101b2 e 102a10-d4). Wood­ruff 1982, p. 65, nota 119 (che propone anche una sintetica rassegna critica) ha accostato il passo a Phaedo, 102a10- d4, in cui il fatto che Simmia ὑπερέχει in altezza Socrate non dipende da ciò che eccede – parti del corpo di Simmia – bensí dalla grandezza: ne risulta che secondo il Fedone la grandezza è la causa di ciò che eccede, mentre secondo l’Ippia è ciò che eccede a essere la causa della grandezza. ­Heitsch 2011, pp. 78-80, a partire dalla tesi dell’inautenticità del dialogo, ha visto l’Ippia come dipendente dal Fedone ma ha anche risolto l’incongruenza facendo riferimento a Phaedo, 100e8 sgg.: in realtà

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ἄντε μή, τί ἂν εἴη; τὸ μὲν γὰρ πρέπον οὐκ ἂν εἴη· καλλίω γὰρ ποιεῖ φαίνεσθαι ἢ ἔστιν, ὡς ὁ σὸς λόγος, οἷα δ’ ἔστιν οὐκ ἐᾷ φαίνεσθαι. τὸ δὲ ποιοῦν εἶναι καλά, ὅπερ νῦν δὴ εἶπον, [c] ἐάντε φαίνηται ἐάντε μή, πειρατέον λέγειν τί ἐστιν· τοῦτο γὰρ ζητοῦμεν, εἴπερ τὸ καλὸν ζητοῦμεν. ιππιας Ἀλλὰ τὸ πρέπον, ὦ Σώκρατες, καὶ εἶναι καὶ φαίνεσθαι ποιεῖ καλὰ παρόν. σωκρατης Ἀδύνατον ἄρα τῷ ὄντι καλὰ ὄντα μὴ φαίνεσθαι καλὰ εἶναι, παρόντος γε τοῦ ποιοῦντος φαίνεσθαι; ιππιας Ἀδύνατον. σωκρατης Ὁμολογήσομεν οὖν τοῦτο, ὦ Ἱππία, πάντα τὰ τῷ ὄντι καλὰ καὶ νόμιμα καὶ ἐπιτηδεύματα καὶ δοξάζεσθαι καλὰ [d] εἶναι καὶ φαίνεσθαι ἀεὶ πᾶσιν, ἢ πᾶν τοὐναντίον ἀγνοεῖσθαι καὶ πάντων

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che appaiano tali o meno, cosa potrebbe essere? Di certo non il conveniente: infatti fa sí che qualcosa appaia piú bella di quanto sia – questo secondo il tuo discorso – e non lascia che appaia quale è. Occorre invece provare a dire cosa è ciò che fa sí che le cose siano belle – l’abbiamo appena richiamato –, [c] che lo appaiano o meno: questo cerchiamo, se davvero cerchiamo il bello. ippia Ma il conveniente, Socrate, con la sua presenza fa sí che le cose siano e appaiano belle103. socrate È quindi impossibile che le cose realmente belle non appaiano belle, nel momento in cui sia presente ciò che fa sí che appaiano tali?104. ippia Impossibile. socrate Saremo dunque d’accordo su questo, Ippia, che tutte le cose realmente belle, le norme e le attività, sono sempre belle nell’opinione di tutti [d] e appaiono sempre belle a tutti? O piuttosto, tutt’al contrario, esse non sono riconosciute e sono piú di ogni altra cosa il bello corrisponde qui alla grandezza e il πρέπον, associabile all’eccesso, ne è il risultato. Forse però il problema va svolto in altri termini. Nel Fedone il problema di Socrate è distinguere due modelli di causalità e proporre come autentica quella formale: in questo senso Simmia, che eccede (in altezza), non può essere la causa del proprio eccesso rispetto a Socrate, e va individuata la superiore causa formale, la grandezza. Qui, invece, Socrate fa direttamente riferimento a una causa formale, e il parallelo deve quindi essere in qualche modo leggibile in modo tale che τῷ ὑπερέχοντι sia una causa formale in grado di rendere le cose grandi. Questo non sembra però un problema: secondo un modello basilare (o incompleto, come quello qui proposto) di dottrina delle idee ciò che eccede eccede per l’eccesso, cioè per «ciò che eccede». Sicuramente Socrate avrebbe potuto scegliere un altro termine – μέγεθος su tutti – ma forse il parallelo cercato con πρέπον sarebbe stato meno efficace perché μέγεθος non è direttamente legato a un verbo ed esprime in modo meno immediato l’efficacia della causalità. Tutte le incongruenze, dunque, sembrano nascere proprio dalla ricerca di un parallelo troppo stretto con il passo del Fedone, l’importanza del quale risiede soprattutto nell’indicazione di ciò che τῷ ὑπερέχοντι non può essere qui, una causa diversa dalla formale. 103   L’argomento utilizzato per contrastare l’opzione di Ippia si fonda sulla “definizione” dell’oggetto cercato, il bello in sé, fornita fin dall’inizio e basata sulla nozione di causa (cfr. supra la nota 49). Socrate cerca cosí di salvare lo spunto dell’anonimo dando a Ippia una seconda possibilità. 104   Se il πρέπον fa sí che le cose siano belle e appaiano belle, è impossibile che una delle due condizioni causate venga a mancare.

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μάλιστα ἔριν καὶ μάχην περὶ αὐτῶν εἶναι καὶ ἰδίᾳ ἑκάστοις καὶ δημοσίᾳ ταῖς πόλεσιν; ιππιας Οὕτω μᾶλλον, ὦ Σώκρατες, ἀγνοεῖσθαι. σωκρατης Οὐκ ἄν, εἴ γέ που τὸ φαίνεσθαι αὐτοῖς προσῆν· προσῆν δ’ ἄν, εἴπερ τὸ πρέπον καλὸν ἦν καὶ μὴ μόνον καλὰ ἐποίει εἶναι ἀλλὰ καὶ φαίνεσθαι. ὥστε τὸ πρέπον, εἰ μὲν τὸ καλὰ ποιοῦν ἐστιν εἶναι, τὸ μὲν καλὸν ἂν εἴη, ὃ ἡμεῖς ζητοῦμεν, οὐ μέντοι τό γε ποιοῦν φαίνεσθαι· εἰ δ’ αὖ τὸ [e] φαίνεσθαι ποιοῦν ἐστιν τὸ πρέπον, οὐκ ἂν εἴη τὸ καλόν, ὃ ἡμεῖς ζητοῦμεν. εἶναι γὰρ ἐκεῖνό γε ποιεῖ, φαίνεσθαι δὲ καὶ εἶναι ποιεῖν οὐ μόνον καλὰ οὐκ ἄν ποτε δύναιτο τὸ αὐτό, ἀλλ’ οὐδὲ ἄλλο ὁτιοῦν. ἑλώμεθα δὴ πότερα δοκεῖ τὸ πρέπον εἶναι | τὸ φαίνεσθαι καλὰ ποιοῦν, ἢ τὸ εἶναι.

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al centro di contese e battaglie, sia in privato per ciascun individuo sia in pubblico per le città? ippia È piú che altro cosí, Socrate, non sono riconosciute105. socrate Ma non sarebbe cosí se per assurdo venisse a essere in esse l’apparire belle106; e verrebbe a essere in esse se bello fosse per assurdo il conveniente e facesse sí non solo che le cose siano belle ma anche che lo appaiano. Cosicché, se il conveniente è ciò che fa sí che le cose siano belle, potrà essere il bello che noi stiamo cercando, ma certamente non ciò che fa sí che le cose appaiano belle. Per converso, se [e] il conveniente è ciò che fa sí che appaiano tali, non potrà essere il bello che noi stiamo cercando. Questo infatti fa sí che siano belle, e la stessa cosa non potrà mai far sí a un tempo che le cose siano e appaiano non solo belle, ma anche in qualsiasi altro modo. Dobbiamo per forza scegliere se il conveniente pare essere ciò che fa sí che le cose appaiano belle o ciò che fa sí che siano belle107. 105   Eliminata l’opzione per cui il πρέπον fa sí che le cose appaiano belle si considera la possibilità per cui esso sia causa insieme dell’essere e dell’apparire bello. Socrate fa però emergere immediatamente che non sempre le cose belle appaiono anche tali a tutti, dunque anche questa opzione cade. Al di là di paralleli significativi (su tutti Euthyphr., 7c9-d6), il prodursi di dispute tra opinioni relative alle cose piú belle e importanti è esattamente ciò che viene rappresentato nei dialoghi, a partire dalla prima sezione dello stesso Ippia maggiore: Socrate e Ippia divergono circa la bellezza e la validità delle norme (non a caso qui richiamate) di Sparta. 106   Torna il verbo πρόσειμι, che già l’anonimo aveva utilizzato per indicare l’«aggiunta» del bello, cioè l’esplicazione della sua causalità su qualcosa (293e4): è dunque impossibile (Socrate, utilizzando qui e immediatamente dopo un modus irrealis, segnala che l’opzione è già abbandonata, dunque considerata “per assurdo”) che il πρέπον sia causa a un tempo dell’apparire e dell’essere bello. 107   Raccogliendo la proposta dell’anonimo Socrate aveva indicato due possibilità, che il πρέπον sia causa dell’essere bello o dell’apparire bello. Scartata la seconda, Socrate ha proposto che esso sia causa a un tempo di entrambe le cose, ma anche questa opzione è stata immediatamente accantonata. Dunque: se il πρέπον è identificabile con il bello cercato (cioè la causa dell’essere bello), allora non può essere causa anche dell’apparire bello (come dimostra la seconda confutazione); se invece il πρέπον è causa dell’apparire bello, non sarà il bello cercato perché non potrà essere anche la causa dell’essere bello. La logica sottesa all’argomento rimane probabilmente quella della dottrina

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Τὸ φαίνεσθαι, ἔμοιγε δοκεῖ, ὦ Σώκρατες. Βαβαῖ, οἴχεται ἄρα ἡμᾶς διαπεφευγός, ὦ Ἱππία, τὸ καλὸν γνῶναι ὅτι ποτέ ἐστιν, ἐπειδή γε τὸ πρέπον ἄλλο τι ἐφάνη ὂν ἢ καλόν. ιππιας Ναὶ μὰ Δία, ὦ Σώκρατες, καὶ μάλα ἔμοιγε ἀτόπως. 295 [a] σωκρατης Ἀλλὰ μέντοι, ὦ ἑταῖρε, μήπω γε ἀνῶμεν αὐτό· ἔτι γάρ τινα ἐλπίδα ἔχω ἐκφανήσεσθαι τί ποτ’ ἐστὶ τὸ καλόν. ιππιας Πάντως δήπου, ὦ Σώκρατες· οὐδὲ γὰρ χαλεπόν ἐστιν εὑρεῖν. ἐγὼ μὲν οὖν εὖ οἶδ’ ὅτι, εἰ ὀλίγον χρόνον εἰς ἐρημίαν | ἐλθὼν σκεψαίμην πρὸς ἐμαυτόν, ἀκριβέστερον ἂν αὐτό σοι εἴποιμι τῆς ἁπάσης ἀκριβείας. σωκρατης Ἆ μὴ μέγα, ὦ Ἱππία, λέγε. ὁρᾷς ὅσα ιππιας

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ippia Mi pare faccia sí che appaiano tali, Socrate. socrate Accidenti, Ippia, ecco che se n’è andata e ci è sfuggita la conoscenza di cosa mai sia il bello! Questo perché il conveniente ci è apparso con chiarezza qualcosa di diverso dal bello. ippia Sí, per Zeus, e mi sembra davvero assurdo, Socrate! 295 [a] socrate Ma non lasciamolo scappare ancora, amico mio: conservo comunque una qualche speranza che si riveli cosa mai sia il bello. ippia Assolutamente, Socrate. In effetti non è difficile trovarlo108: so bene, io, che se potessi riflettere tra me e me, isolandomi in tutta calma anche solo per poco tempo, riuscirei a indicartelo in modo piú esatto della totale esattezza. socrate Ah, Ippia, non utilizzare questi paroloni!109. delle idee, per cui una causa non può direttamente essere causa di due diverse qualità (anche se può farlo indirettamente per qualità che si coimplicano). Lo svolgimento della proposta dell’anonimo che Socrate e Ippia portano avanti contiene un aspetto evidentemente paradossale: una delle due possibilità, che il πρέπον sia causa solo dell’essere bello, è del tutto accantonata. La responsabilità di questo atteggiamento, come chiarisce la chiusura della sezione (294e6), ricade interamente su Ippia, che non considera neanche la possibilità di un bello slegato dall’apparire tale. Ciò dipende dall’interesse di Ippia per l’apparenza (cfr. Wood­ruff 1982, pp. 130-31), ma anche dalla semantica comune del «bello», inscindibile dalle sue ovvie implicazioni estetiche. Dire che per Platone l’opzione corretta sia l’unica non analizzata sarebbe forse eccessivo, ma in questa direzione conducono non solo la struttura del passo ora illustrata (con la sua chiusura – 294e7-10 –, fortemente ironica), ma anche il legame che emerge spesso nei dialoghi tra καλόν e πρέπον (cfr. supra la nota 98, e l’introduzione, pp. 10-11). Probabilmente è meglio suggerire cautamente che la prospettiva di Platone va cercata all’interno dell’opzione non esplorata, per cui sussiste una relazione essenziale tra πρέπον e καλόν tale da garantire le molte valenze di quest’ultimo. 108   Ippia continua (cfr. già 286e5-6 e 290c1, in cui si trova un riferimento alla «difficoltà») a sostenere la facilità dell’indagine in corso e a negare il tradizionale (e platonico) detto χαλεπὰ τὰ καλά. 109   La possibilità di raggiungere la verità attraverso una riflessione solitaria è in contraddizione con il principio socratico dell’accordo. Ancora, la pretesa di una conoscenza compiuta va contro l’idea, anch’essa socratica e platonica, dell’impossibilità di raggiungere una sapienza perfetta: in questo caso Socrate rivolge il principio contro un sofista che continua a mostrarsi vanaglorioso. Non può però essere ignorato che paradossalmente è proprio Socrate a praticare nell’opera un dialogo con se stesso – o con un suo doppio –, che però nel

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πράγματα ἡμῖν ἤδη παρέσχηκε· μὴ καὶ ὀργισθὲν ἡμῖν ἔτι μᾶλλον [b] ἀποδρᾷ· καίτοι οὐδὲν λέγω· σὺ μὲν γὰρ οἶμαι ῥᾳδίως αὐτὸ εὑρήσεις, ἐπειδὰν μόνος γένῃ. ἀλλὰ πρὸς θεῶν ἐμοῦ ἐναντίον αὐτὸ ἔξευρε, εἰ δὲ βούλει, ὥσπερ νῦν ἐμοὶ συζήτει· καὶ ἐὰν μὲν εὕρωμεν, κάλλιστα ἕξει, εἰ δὲ μή, στέρξω οἶμαι ἐγὼ τῇ | ἐμῇ τύχῃ, σὺ δ’ ἀπελθὼν ῥᾳδίως εὑρήσεις· καὶ ἐὰν μὲν νῦν εὕρωμεν, ἀμέλει οὐκ ὀχληρὸς ἔσομαί σοι πυνθανόμενος ὅτι ἦν ἐκεῖνο ὃ κατὰ σαυτὸν ἐξηῦρες· νῦν δὲ θέασαι αὖ τόδ’ εἴ σοι [c] δοκεῖ εἶναι τὸ καλόν. λέγω δὴ αὐτὸ εἶναι – ἀλλὰ γὰρ ἐπισκόπει μοι πάνυ προσέχων τὸν νοῦν μὴ παραληρήσω – τοῦτο γὰρ δὴ ἔστω ἡμῖν καλόν, ὃ ἂν χρήσιμον ᾖ. εἶπον δὲ ἐκ τῶνδε

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Guarda piuttosto quante difficoltà ci ha già procurato: ho paura che se lo irritiamo potrà fare ancora peggio… [b] Ma avanti, dico cose senza senso. Tu, credo, lo troverai facilmente quando potrai stare da solo; e tuttavia, per gli dèi, trovalo davanti a me – se vuoi –, come ora con me lo stai cercando: qualora lo troviamo, sarà una cosa bellissima, mentre in caso contrario io, credo, mi accontenterò della mia sorte e invece tu, quando ti sarai allontanato da me, lo troverai facilmente. Inoltre, qualora lo troviamo, puoi star certo che non ti importunerò chiedendoti ciò che hai scoperto per conto tuo110. Ma adesso concentrati ancora su quest’altra cosa e dimmi se ti [c] pare che sia il bello; ora te la dico, ma111 tu osserva offrendomi la massima attenzione perché io non parli a vuoto: questo sia ora bello per noi, ciò che può essere utile112. L’idea mi è venuta cosí: affermiamo che gli ocfilosofo si configura come un dialogo interiore (cfr. del resto Soph., 263e3-5). In questione sono dunque principalmente le scarse qualità filosofiche di Ippia. 110   Ancora una riproposizione capovolta del «non far scappare il filosofo» (cfr. supra la nota 79): è Ippia a venire trattenuto per concludere la ricerca (cfr. anche, per esempio, Prot., 348c5). All’interno della descrizione dei possibili risultati dell’indagine, due οἶμαι («credo») occupano posizioni strategiche: il primo (b1) sottolinea ironicamente lo scetticismo verso la ricerca solitaria di Ippia, il secondo (b4) potrebbe alludere (in modo neanche troppo velato) a ulteriori ricerche sul bello, che effettivamente trovano attestazioni importanti nei dialoghi (si pensi anche solo al Simposio). 111   Questo uso della coppia di particelle ἀλλὰ γάρ (letteralmente «ma» e «infatti») è secondo ­Heitsch 1999, pp. 17-19 – ripreso in ­Heitsch 2011, pp. 117-19 – una traccia dell’inautenticità del dialogo. In Platone tale locuzione non avrebbe mai la semplice funzione avversativa, ma sottintenderebbe una struttura del tipo «ma (proposizione X), infatti Y», dove X è una proposizione implicita che trova la sua spiegazione nella proposizione esplicita Y. Ora, anche trascurando la possibilità – difficilmente eliminabile a priori – di rintracciare anche in questo caso una proposizione X, un uso semplicemente avversativo di ἀλλὰ γάρ è sostenuto da almeno un’occorrenza platonica (Phaedr., 261c4: Ἴσως. ἀλλὰ γὰρ τούτους ἐῶμεν· – trad. it. di M. Bonazzi: «Forse. Ma lasciamo stare costoro» –; cfr. anche Hipp. Min., 300c4, sulla cui problematicità porta l’attenzione lo stesso ­Heitsch 1999, p. 19, nota 49) e risulta comunque attestato già in Isocrate, di fatto contemporaneo di Platone. 112   Anomala è la presentazione di una “definizione” puntuale con la struttura ἄν + congiuntivo (in proposizione relativa), che indica una certa condizionalità. Proprio l’ambiguità dell’«utile», cioè il suo essere tale in diversi modi in diverse condizioni, sarà del resto alla base della confutazione.

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ἐννοούμενος· καλοί, φαμέν, οἱ ὀφθαλμοί εἰσιν, οὐχ | οἳ ἂν δοκῶσι τοιοῦτοι εἶναι οἷοι μὴ δυνατοὶ ὁρᾶν, ἀλλ’ οἳ ἂν δυνατοί τε καὶ χρήσιμοι πρὸς τὸ ἰδεῖν. ἦ γάρ; ιππιας Ναί. σωκρατης Οὐκοῦν καὶ τὸ ὅλον σῶμα οὕτω λέγομεν καλὸν εἶναι, τὸ μὲν πρὸς δρόμον, τὸ δὲ πρὸς πάλην, καὶ αὖ τὰ [d] ζῷα πάντα, ἵππον καλὸν καὶ ἀλεκτρυόνα καὶ ὄρτυγα, καὶ τὰ σκεύη πάντα καὶ τὰ ὀχήματα τά τε πεζὰ καὶ τὰ ἐν τῇ θαλάττῃ πλοῖά τε καὶ τριήρεις, καὶ τά γε ὄργανα πάντα τά τε ὑπὸ τῇ μουσικῇ καὶ τὰ ὑπὸ ταῖς ἄλλαις τέχναις, | εἰ δὲ βούλει, τὰ ἐπιτηδεύματα καὶ τοὺς νόμους, σχεδόν τι πάντα ταῦτα καλὰ προσαγορεύομεν τῷ αὐτῷ τρόπῳ· ἀποβλέποντες πρὸς ἕκαστον αὐτῶν ᾗ πέφυκεν, ᾗ εἴργασται, ᾗ κεῖται, τὸ μὲν χρήσιμον καὶ ᾗ χρήσιμον καὶ πρὸς ὃ χρή[e] σιμον καὶ ὁπότε χρήσιμον καλόν φαμεν εἶναι, τὸ δὲ ταύτῃ πάντῃ ἄχρηστον αἰσχρόν· ἆρ’ οὐ καὶ σοὶ δοκεῖ οὕτως, ὦ Ἱππία; ιππιας Ἔμοιγε. σωκρατης Ὀρθῶς ἄρα νῦν λέγομεν ὅτι τυγχάνει παντὸς ὂν μᾶλλον καλὸν τὸ χρήσιμον; ιππιας Ὀρθῶς μέντοι, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Οὐκοῦν τὸ δυνατὸν ἕκαστον ἀπερ­γά­

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chi sono belli non quando ci pare che non siano capaci di vedere, bensí quando ne sono capaci e sono utili per vedere113. Non è cosí? ippia Sí. socrate In questo senso, dunque, diremo anche che l’intero corpo è bello – talora per la corsa, talora per la lotta –, e ancora che lo sono [d] tutti gli animali – un bel cavallo, un bel gallo, una bella quaglia – e tutti gli utensili e i veicoli – quelli terrestri, quelli adatti a navigare nel mare, le triremi – e tutti gli strumenti – utilizzati nella musica e nelle altre arti –, e, se vuoi, le occupazioni e le leggi. In generale, dunque, queste cose le diremo belle nello stesso senso: guardando alla natura di ciascuna di esse, alla sua produzione, alla sua condizione, diciamo bello ciò che è utile sia per come è utile, sia in relazione a ciò per cui è utile, [e] sia per il momento in cui è utile, mentre brutto ciò che è inutile in tutti questi sensi114. Non pare anche a te cosí, Ippia? ippia Sí. socrate Quindi, diciamo ora correttamente che bello è piú di ogni altra cosa l’utile? ippia Correttamente di sicuro, Socrate! socrate Dunque, ciò che è capace di produrre una 113   Si tratta della prima “definizione” proposta da Socrate, che si fonda su un’ampia base tradizionale e comune: ciò che è bello è anche valente, dunque utile e capace rispetto al raggiungimento di un fine; cfr. anche supra l’introduzione, p. 12. Non ci si allontana del tutto dalla prospettiva estetica, ma se ne coglie un aspetto particolare e tipicamente greco, per cui la bellezza è vicina alla capacità. Come suggerito da Wood­ruff 1982, p. 67, Socrate può trarre questa idea da precedenti passaggi del dialogo (in particolare 290e4291a2), in cui il conveniente produceva una certa utilità. 114   Per l’elenco cfr. Gorg., 474d3-e1, in cui il bello dipende dall’utile e dal piacere. L’accumulazione di esempi può essere funzionale a una tematizzazione platonica dell’utile come bello, dunque come causa della bellezza delle cose belle: l’utile può essere tale causa perché rende utili/belle tutte le cose nei contesti in cui lo sono distinguendosi da esse (potendo cioè esserne la causa stabile). Già in questa proposta, tuttavia, sono presenti le basi per la successiva confutazione: come evidenziato dalla chiusura, «utile» è un termine incompleto, che manca della determinazione di fine specifico e strumenti (Per cosa è utile? In che modo? In che momento?) e – soprattutto – di un orientamento da un punto di vista valoriale; cfr. le note seguenti.

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ζεσθαι, εἰς ὅπερ δυνατόν, εἰς τοῦτο καὶ χρήσιμον, τὸ δὲ ἀδύνατον ἄχρηστον; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Δύναμις μὲν ἄρα καλόν, | ἀδυναμία δὲ αἰσχρόν; ιππιας Σφόδρα γε. τά τε γοῦν ἄλλα, 296 [a] ὦ Σώκρατες, μαρτυρεῖ ἡμῖν ὅτι τοῦτο οὕτως ἔχει, ἀτὰρ οὖν καὶ τὰ πολιτικά· ἐν γὰρ τοῖς πολιτικοῖς τε καὶ τῇ ἑαυτοῦ πόλει τὸ μὲν δυνατὸν εἶναι πάντων κάλλιστον, τὸ δὲ ἀδύνατον πάντων αἴσχιστον. σωκρατης Εὖ λέγεις. ἆρ’ οὖν πρὸς | θεῶν, Ἱππία, διὰ ταῦτα καὶ ἡ σοφία πάντων κάλλιστον, ἡ δὲ ἀμαθία πάντων αἴσχιστον; ιππιας Ἀλλὰ τί οἴει, ὦ Σώκρατες; σωκρατης Ἔχε δὴ ἠρέμα, ὦ φίλε ἑταῖρε· ὡς φο­ βοῦμαι τί ποτ’ αὖ λέγομεν. [b] ιππιας Τί δ’ αὖ φοβῇ, ὦ Σώκρατες, ἐπεὶ νῦν γέ σοι ὁ λόγος παγκάλως προβέβηκε; σωκρατης Βουλοίμην ἄν, ἀλλά μοι τόδε συν­επί­ σκεψαι· ἆρ’ ἄν τίς τι ποιήσειεν ὃ μήτ’ ἐπίσταιτο μήτε τὸ παράπαν δύναιτο;

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certa cosa è anche utile rispetto a ciò in vista di cui è capace, mentre ciò che è incapace è inutile?115. ippia Certo. socrate Bello è quindi una capacità, brutto un’incapacità? ippia Assolutamente. Anche gli altri ambiti, 296 [a] So­crate, testimoniano per noi che la faccenda sta in questo modo, e su tutti quello politico: negli affari politici e nella propria città l’essere capace è la cosa piú bella di tutte, mentre l’essere incapace la piú brutta di tutte116. socrate Ben detto. Ma per gli dèi, Ippia, per queste ragioni anche la sapienza è la cosa piú bella di tutte, mentre l’ignoranza la piú brutta di tutte?117. ippia Cosa hai in mente, Socrate? socrate Concedimi un po’ di calma, amico mio: ho paura di ciò che stiamo per dire stavolta. [b] ippia Perché mai stavolta dovresti aver paura, Socrate? Proprio ora che hai sviluppato un ragionamento cosí bello! socrate Lo vorrei davvero, ma considera questo con me. Potrebbe qualcuno fare qualcosa che non conosce e di cui non è assolutamente capace?118. 115   La nozione di capacità (su cui insiste Ludlam 1991, pp. 118-24 per sottolineare la scorrettezza logica dell’argomento), centrale nell’Ippia minore, è qui introdotta piuttosto nel suo significato medio, relativo alla possibilità di realizzare qualcosa. Il fine è quello di rafforzare l’incompletezza della nozione di utilità: l’utile/capace è utile/capace rispetto a qualcosa, senza che ne sia determinato il fine specifico o la qualità. Ancora, proprio l’accostamento tra utile e capace rende piú semplice la dimostrazione negativa, giocata soprattutto sulla possibilità di fare solo ciò di cui si è capaci. 116   Ippia è spinto a una simile riflessione dalla propria vicenda personale, dal ruolo politico di cui si è vantato all’inizio del dialogo (281a3 sgg.), da un comune retroterra sofistico (cfr. per esempio Gorg., 466a9 sgg.) ma anche dall’ampiezza semantica del termine δύναμις, che indica anche il «potere». 117   Questo presidio, notoriamente socratico-platonico, ha qui la funzione di introdurre l’intellettualismo etico, clausola fondamentale per l’argomento (cfr. infra la nota 119). 118   L’argomento procede come segue: (1) l’utile è diretto verso qualcosa; (2) esso è sempre diretto intenzionalmente verso il bene, ma spesso produce il male; (3) ma non si produce ciò di cui non si è capaci; (4) la capacità può essere diretta verso il male.

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Οὐδαμῶς· πῶς γὰρ ἂν ὅ γε μὴ δύναιτο; Οἱ οὖν ἐξαμαρτάνοντες καὶ κακὰ ἐργα­ ζόμενοί τε καὶ ποιοῦντες ἄκοντες, ἄλλο τι οὗτοι, εἰ μὴ ἐδύναντο ταῦτα ποιεῖν, οὐκ ἄν ποτε ἐποίουν; ιππιας Δῆλον δή. σωκρατης Ἀλλὰ μέντοι δυνάμει [c] γε δύνανται οἱ δυνάμενοι· οὐ γάρ που ἀδυναμίᾳ γε. ιππιας Οὐ δῆτα. σωκρατης Δύνανται δέ γε πάντες ποιεῖν οἱ ποιοῦντες ἃ ποιοῦσιν; ιππιας Ναί. σωκρατης Κακὰ δέ γε πολὺ πλείω ποιοῦσιν ἢ ἀγα­ θὰ πάντες ἄνθρωποι, ἀρξάμενοι ἐκ παίδων, | καὶ ἐξαμαρτάνουσιν ἄκοντες. ιππιας Ἔστι ταῦτα. σωκρατης Τί οὖν; ταύτην τὴν δύναμιν καὶ ταῦτα τὰ χρήσιμα, ἃ ἂν ᾖ ἐπὶ τὸ κακόν τι ἐργάζεσθαι χρήσιμα, ἆρα φήσομεν ταῦτα εἶναι [d] καλά, ἢ πολλοῦ δεῖ; ιππιας Πολλοῦ, ἔμοιγε δοκεῖ, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Οὐκ ἄρα, ὦ Ἱππία, τὸ δυνατόν τε καὶ τὸ χρήσιμον ἡμῖν, ὡς ἔοικεν, ἐστὶ τὸ καλόν. ιππιας Ἐάν γε, ὦ Σώκρατες, ἀγαθὰ δύνηται καὶ ἐπὶ τοιαῦτα | χρήσιμον ᾖ. σωκρατης Ἐκεῖνο μὲν τοίνυν οἴχεται, τὸ δυνατόν τε καὶ χρήσιμον ἁπλῶς εἶναι καλόν· ἀλλ’ ἄρα τοῦτ’ ἦν ἐκεῖνο, ὦ Ἱππία, ὃ ἐβούλετο ἡμῶν ἡ ψυχὴ εἰπεῖν, ιππιας

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ippia In nessun modo: come potrebbe mai fare ciò di cui non è capace? socrate Non è forse vero che chi sbaglia e realizza un male, e lo fa involontariamente, non l’avrebbe fatto se non fosse stato capace di farlo?119. ippia È evidente. socrate Ma chi [c] è capace è capace per una capacità? Non potrebbe certo esserlo per incapacità. ippia No di certo. socrate Mentre quelli che fanno qualcosa sono tutti capaci di fare ciò che fanno? ippia Sí. socrate Ma tutti gli uomini, fin dalla giovinezza, fanno molte piú cose cattive che cose buone, e sbagliano involontariamente. ippia È vero. socrate E allora? Questa capacità e questi utili, che sono utili rispetto al realizzare un qualche male, diremo che sono [d] belli o piuttosto che ne sono ben lontani? ippia Davvero ben lontani, mi pare, Socrate. socrate Quindi, Ippia, bisogna concludere che ciò che è capace e l’utile non sono per noi – cosí sembra – il bello. ippia Ma lo sono, Socrate, nel momento in cui si sia capaci di fare cose buone e l’utile sia volto a cose siffatte. socrate Ebbene, è fuggita anche questa possibilità, che bello siano ciò che è capace e l’utile senza ulteriori specificazioni120. Ma allora, Ippia, la nostra anima voleva 119   All’argomento si potrebbe obiettare che tutto ciò che è utile viene usato per un bene intenzionale, cioè per il fine che ciascuno identifica con il bene: in tal caso, un male oggettivo potrebbe essere visto come un bene soggettivo, e chi lo raggiunge sarebbe capace di farlo. L’intellettualismo impedisce che una simile obiezione sia avanzata, e svolge per questo un ruolo centrale. Esso elimina la possibilità che Ippia ammetta un utile che produce un male per una specifica volontà – dunque per una capacità –: in questo caso tale male potrebbe comunque essere considerato un bene. In altri termini, l’intellettualismo stabilisce che non tutti i fini sono buoni (perché alcuni non lo sono, e si ottengono involontariamente), dunque non sono buoni neanche tutti i mezzi «utili» per raggiungerli. 120   Il tentativo di Ippia di salvare l’argomento è maldestro, in quanto non tiene conto (per l’ennesima volta) della necessità di fornire una “definizio-

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ὅτι τὸ χρήσιμόν τε καὶ τὸ δυνατὸν ἐπὶ τὸ ἀγαθόν τι ποιῆσαι, τοῦτ’ ἐστὶ τὸ [e] καλόν; ιππιας Ἔμοιγε δοκεῖ. σωκρατης Ἀλλὰ μὴν τοῦτό γε ὠφέλιμόν ἐστιν. ἢ οὔ; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Οὕτω δὴ καὶ τὰ καλὰ σώματα καὶ τὰ καλὰ νόμιμα καὶ ἡ σοφία καὶ ἃ νῦν δὴ ἐλέγομεν πάντα καλά ἐστιν, ὅτι ὠφέλιμα. ιππιας Δῆλον ὅτι. σωκρατης Τὸ ὠφέλιμον ἄρα ἔοικεν ἡμῖν εἶναι τὸ καλόν, ὦ Ἱππία. ιππιας Πάντως δήπου, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Ἀλλὰ μὴν τό γε ὠφέλιμον τὸ ποιοῦν ἀγαθόν ἐστιν.

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dire quest’altra cosa: l’utile e ciò che è capace rispetto al produrre qualcosa di buono; è questo il [e] bello?121. ippia Mi pare di sí. socrate Ma questo è il vantaggioso; o no? ippia Certo. socrate In tal modo i bei corpi, le belle norme, la sapienza e le cose che dicevamo or ora sono tutti belli perché vantaggiosi122. ippia È evidente. socrate Il bello, Ippia, ci sembra quindi essere il vantaggioso. ippia Certamente, Socrate, in ogni caso! socrate Ora, il vantaggioso è ciò che produce123 qualcosa di buono124. ne” unica e assoluta (non soggetta a condizioni) del bello; Socrate segnala tale inadeguatezza sottolineando l’incompletezza dell’utile, che se considerato ἁπλῶς è ambiguo. 121   Socrate propone la sua seconda “definizione”, ora piú marcatamente vicina alla sfera etica, a partire dalla precedente: l’incompletezza semantica di χρήσιμον è infatti (almeno apparentemente) ridotta poiché il vantaggioso produce sempre e per definizione un vantaggio, cioè un bene (o, come in traduzione, «qualcosa di buono»; cfr. infra la nota 124). L’argomento per assurdo procede come segue (cfr. anche Wood­ruff 1982, pp. 70-74, che presenta una rassegna critica e tenta di dimostrarne la correttezza logica; cfr. però le critiche di Kahn 1985, pp. 265-66, e di Ludlam 1991, pp. 124-32, il quale insiste, in parte giustamente – cfr. infra la nota 131 –, sul continuo gioco di Socrate nella confusione di particolari e universali; cfr. anche Wolfs­dorf 2006, pp. 238-40, e ­Heitsch 2011, p. 85). 1) 296e1-2: il bello è il vantaggioso; 2) 296e2-297a1: il bello è causa del buono; 3) 297a2-b2: la causa è altro dal proprio effetto (cfr. infra la nota 126); 4) 297b2-c6: il bello non è buono, il buono non è bello (per le ambiguità e gli elementi di verità della conclusione cfr. infra la nota 131). La conclusione (4) è inaccettabile per il senso comune (e per Platone), dunque la tesi è confutata per assurdo. 122   Socrate esplica cosí la funzione causale che il vantaggioso deve avere rispetto alle cose belle se identificato con il bello (cfr. supra la nota 49): l’esigenza ontologica rimane saldamente centrale. 123   L’espressione τὸ ποιοῦν è già stata utilizzata nell’argomento sul πρέπον, in cui è stata tradotta come «ciò che fa sí che» perché seguita da espressioni verbali. In entrambi i casi la base filosofica dell’uso è la medesima: l’oggetto in questione è una causa (cfr. anche Sedley 1998, p. 115). 124   Per l’argomento cfr. anche supra l’introduzione, pp. 12-3. Benché la traduzione canonica di ἀγαθόν preveda il sostantivo «bene», l’argomento è fondato su un uso ambiguo del termine – cfr. in particolare infra la nota 131 –,

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Ἔστι γάρ. Τὸ ποιοῦν δέ γ’ ἐστὶν οὐκ ἄλλο τι ἢ τὸ αἴτιον· ἦ γάρ; ιππιας Οὕτως. σωκρατης Τοῦ ἀγαθοῦ ἄρα 297 [a] αἴτιόν ἐστιν τὸ καλόν. ιππιας Ἔστι γάρ. σωκρατης Ἀλλὰ μὴν τό γε αἴτιον, ὦ Ἱππία, καὶ οὗ ἂν αἴτιον ᾖ τὸ αἴτιον, ἄλλο ἐστίν· οὐ γάρ που τό γε αἴτιον αἰτίου αἴτιον ἂν εἴη. ὧδε δὲ σκόπει· οὐ τὸ αἴτιον ποιοῦν ἐφάνη; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Οὐκοῦν ὑπὸ τοῦ ποιοῦντος ποιεῖται οὐκ ιππιας

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ippia Lo è. socrate Ma ciò che produce non è altro se non la causa125; o no? ippia È cosí. socrate Dunque 297 [a] il bello è causa del buono. ippia Lo è. socrate Ora, Ippia, la causa e ciò di cui la causa è causa sono qualcosa di diverso126: la causa non sarà mai causa della causa127. Osserva in questa direzione: non è ormai chiaro che la causa produce qualcosa? ippia Certo. socrate Ora, da ciò che produce viene prodotto un uso che può essere reso in modo soddisfacente solo impiegando nella traduzione l’aggettivo – talvolta sostantivato – «buono» (come piú volte suggerito da M. Vegetti – per esempio in Vegetti 2003, p. 224). La nozione tradizionale e comune di ἀγαθόν ha nell’aspetto utilitaristico un elemento fondamentale – per un greco una «cosa buona» non può essere svantaggiosa –, aspetto che Platone sfrutta nei dialoghi per argomentare a favore dell’intellettualismo etico: nessuno fa il male volendolo perché nessuno vuole un male, cioè uno svantaggio (cfr. per esempio Gorg., 466d5 sgg. e Men., 77b6 sgg.). Piú problematico è il legame tra il vantaggioso e il bello: qualcosa di «bello» in senso tradizionale, cioè ammirevole e lodevole, può essere svantaggioso. Anche in questo caso, però, lo sforzo di Platone rispetto alla tradizione consiste nel ricondurre il bello al bene: qualcosa di bello (moralmente) è di per sé qualcosa di buono (cfr. in particolare Alc. I, 115a2 sgg.). Per il legame tra καλόν e ἀγαθόν cfr. anche supra l’introduzione, pp. 7-8. 125   La proposizione è ambigua, in generale e dal punto di vista di Platone. In primo luogo non emerge a che tipo di causa si faccia riferimento: Socrate potrebbe parlare di una causa formale o piuttosto, in senso metaforico, di una causa produttiva. Ancora, per quanto la presenza degli articoli richiami una discussione generale, rimane sullo sfondo la possibilità (con Ippia sempre in agguato) che l’affermazione sia letta come «le cose belle sono la causa delle cose buone». 126   La proposizione per cui «la causa non è il suo effetto» può essere letta in modi diversi: «è» può esprimere un’identità (cioè: la causa non è il suo effetto) o avere funzione copulativa (cioè: la causa non ha la qualità designata dal suo effetto); cfr. anche Wood­ruff 1982, pp. 72-73. L’argomento si basa sulla prima possibilità, ma si chiude con l’uso della seconda (cfr. infra la nota 131); Platone ha presente la differenza tra le due applicazioni del verbo essere (cfr. Centrone 2008a, pp. lix-lxviii) e gestisce in loro funzione l’argomento. 127   Il greco dell’intero argomento è volutamente ambiguo, e la traduzione – nei limiti dell’intelligibilità – non può rinunciare alle asperità implicate da tali strutture. Qui Socrate non dice che «è impossibile che una causa sia causa di un’altra causa», ma che «è impossibile che la causa in questione sia la causa della causa in questione», o piú chiaramente: è impossibile che la causa in questione coincida con il proprio effetto.

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ἄλλο τι ἢ τὸ γιγνόμενον, ἀλλ’ οὐ τὸ ποιοῦν; ιππιας Ἔστι ταῦτα. σωκρατης Οὐκοῦν ἄλλο τι τὸ γιγνόμενον, ἄλλο δὲ τὸ ποιοῦν; ιππιας Ναί. σωκρατης Οὐκ ἄρα τό γ’ αἴτιον αἴτιον [b] αἰτίου ἐστίν, ἀλλὰ τοῦ γιγνομένου ὑφ’ ἑαυτοῦ. ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Εἰ ἄρα τὸ καλόν ἐστιν αἴτιον ἀγαθοῦ, γίγνοιτ’ ἂν ὑπὸ τοῦ καλοῦ τὸ ἀγαθόν· καὶ διὰ ταῦτα, ὡς ἔοικεν, σπουδάζομεν καὶ τὴν φρόνησιν καὶ τἆλλα πάντα τὰ καλά, ὅτι | τὸ ἔργον αὐτῶν καὶ τὸ ἔκγονον σπουδαστόν ἐστι, τὸ ἀγαθόν, καὶ κινδυνεύει ἐξ ὧν εὑρίσκομεν ἐν πατρός τινος ἰδέᾳ εἶναι τὸ καλὸν τοῦ ἀγαθοῦ. ιππιας Πάνυ μὲν οὖν· καλῶς γὰρ λέγεις, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Οὐκοῦν καὶ τόδε καλῶς λέγω, ὅτι οὔτε ὁ πατὴρ ὑός [c] ἐστιν, οὔτε ὁ ὑὸς πατήρ; ιππιας Καλῶς μέντοι. σωκρατης Οὐδέ γε τὸ αἴτιον γιγνόμενόν ἐστιν, οὐδὲ τὸ γιγνόμενον αὖ αἴτιον. ιππιας Ἀληθῆ λέγεις. σωκρατης Μὰ Δία, ὦ ἄριστε, οὐδὲ ἄρα τὸ καλὸν ἀγαθόν ἐστιν, οὐδὲ τὸ ἀγαθὸν καλόν· ἢ δοκεῖ σοι | οἷόν τε εἶναι ἐκ τῶν προειρημένων; ιππιας Οὐ μὰ τὸν Δία, οὔ μοι φαίνεται. σωκρατης Ἀρέσκει οὖν ἡμῖν καὶ ἐθέλοιμεν ἂν λέγειν ὡς τὸ καλὸν οὐκ ἀγαθὸν οὐδὲ τὸ ἀγαθὸν καλόν;

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nient’altro se non ciò che viene a essere; di certo non viene prodotto ciò che produce 128. ippia È vero. socrate Quindi una cosa è ciò che viene a essere, un’altra ciò che produce? ippia Sí. socrate La causa, quindi, non è causa [b] della causa, bensí di ciò che viene a essere grazie a essa? ippia Certo. socrate Se quindi il bello è causa del buono, il buono verrà a essere grazie al bello. Per questa ragione, sembra, ci impegniamo per avere l’intelligenza e tutte le altre cose belle, perché la loro opera, il loro figlio, è degno di ogni impegno: è il buono. Per ciò che stiamo scoprendo è probabile che il bello assuma nei confronti del buono l’aspetto di un padre129. ippia Certo. Ciò che dici è molto bello, Socrate! socrate E non è bello anche dire che il padre non è il figlio [c] e il figlio non è il padre?130. ippia Bello di certo. socrate E né la causa è prodotta, né per converso ciò che è prodotto è la causa. ippia Dici il vero. socrate Per Zeus, ottimo uomo, allora buono non è il bello né bello il buono! O ti pare che questo sia possibile a partire da quanto detto? ippia No, per Zeus, non mi sembra! socrate Ebbene, siamo soddisfatti? Vorremo forse dire che buono non è il bello né bello il buono? 128   Cioè: la causa non realizza la causa (se stessa), bensí il proprio effetto. Wood­ruff 1982, pp. 71-74, ha voluto applicare un eccessivo principio di carità per salvare l’argomento da ogni velo di tendenziosità: se si vede nella causa solo e soltanto una causa produttiva di qualcosa, la causa non potrà essere uguale al suo effetto. In questo caso, forse, l’applicazione del principio di carità è fuorviante e inutile: Platone coglie e gestisce consapevolmente queste ambiguità e le difficoltà che implicano. 129   L’uso del termine ἰδέα è qui privo di implicazioni ontologiche: il bello si è rivelato come un padre rispetto al bene. 130   Non: «il padre non è un figlio né il figlio non è un padre».

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Οὐ μὰ τὸν Δία, οὐ πάνυ μοι ἀρέσκει. Ναὶ μὰ τὸν Δία, ὦ Ἱππία· ἐμοὶ δέ γε πάντων [d] ἥκιστα ἀρέσκει ὧν εἰρήκαμεν λόγων. ιππιας Ἔοικε γὰρ οὕτως. σωκρατης Κινδυνεύει ἄρα ἡμῖν, οὐχ ὥσπερ ἄρτι ἐφαίνετο κάλλιστος εἶναι τῶν λόγων τὸ ὠφέλιμον καὶ τὸ χρήσιμόν τε | καὶ τὸ δυνατὸν ἀγαθόν τι ποιεῖν καλὸν εἶναι, οὐχ οὕτως ἔχειν, ἀλλ’, εἰ οἷόν τέ ἐστιν, ἐκείνων εἶναι γελοιότερος τῶν πρώτων, ἐν οἷς τήν τε παρθένον ᾠόμεθα εἶναι τὸ καλὸν καὶ ἓν ἕκαστον τῶν ἔμπροσθεν λεχθέντων.

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ippia No, per Zeus, non mi soddisfa assolutamente! socrate Per Zeus, è proprio cosí, Ippia: anzi, questo mi soddisfa ancor meno [d] di ogni altra cosa detta. ippia Cosí sembra. socrate A questo punto rischiamo che il discorso per cui il vantaggioso, l’utile e ciò che è capace rispetto al fare qualcosa di buono sono il bello non sia, come ci sembrava poco fa, il piú bello di tutti, e che le cose non stiano assolutamente in questo modo; anzi, questo è – se possibile – ben piú risibile dei primi ragionamenti, nei quali avevamo creduto che il bello fosse una ragazza e di volta in volta ciascuna singola cosa chiamata precedentemente in causa131. 131   Per la traduzione di ἀγαθόν con «buono» cfr. supra la nota 124. La conclusione a cui Socrate è giunto (297c3-5) è ambigua da un punto di vista linguistico: essa può indicare che «il bello non è il buono» (cioè, «il bello non è il bene») o che «il bello non è buono». Se da un lato, infatti, l’articolo può in questi casi essere omesso (cfr. Wood­ruff 1982, p. 64, nota 116), dall’altro la sua omissione non può escludere il significato piú lineare (il bello è buono); inoltre, la scelta di una forma ambigua deve essere volontariamente perseguita da Platone. Tale ambiguità si fa ancor piú significativa se si considera che essa va a insistere sul punto problematico dell’argomento, cioè l’apparente confusione tra un’identificazione e una predicazione copulativa piú ampia in relazione a causa-effetto (cfr. anche Hoerber 1955, p. 185). Questa ambiguità sembra piú forte (e inclusiva) di quella evidenziata da Wolfs­dorf 2006, pp. 238-40, secondo il quale la fallacia risiederebbe nell’assenza di distinzione tra «le cose belle/buone» e «il bello/buono». Che vi sia una possibile lettura “migliore” è segnalato dalla chiusura, che Socrate non accetta lasciando intendere un’insoddisfazione radicale rispetto alle basi che erano state poste (l’avvicinamento tra bello, buono e vantaggioso): la conclusione è addirittura piú risibile dell’identificazione del bello con una singola cosa bella. Risulta dunque probabile che l’intero argomento sia volontariamente costruito in modo tale da lasciare intendere una versione alternativa rispetto a quella che poi sarà messa in luce dagli interlocutori. Ora, il gioco di Platone sembra condotto a due livelli interrelati. Da un lato καλόν e ἀγαθόν sono ambiguamente trattati come «il bello» e «il buono» o come «bello» e «buono» – cosí, soprattutto, nella conclusione –. Dall’altro non viene mai chiarito se il «non essere x» sia in questa dimostrazione un «non essere identico» o un «non essere qualcosa». Mantenendo tali ambiguità Socrate può dire, senza percettibili variazioni formali, che la causa non è (identica a) l’effetto che produce e che il bello non è buono, laddove nel primo caso i due elementi della predicazione sono entrambi realtà ed «è» ha funzione identificativa, mentre nel secondo un aggettivo (qualità) si predica di un sostantivo ed «è» ha funzione copulativa. Ippia non coglie lo slittamento e si oppone alla conclusione, che però potrebbe essere platonicamente valida se si ristabilisse un uso coerente del verbo essere: il bello non è identico al buono (almeno intensionalmente), ma può ancora

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Ἔοικεν. Καὶ ἐγὼ μέν γε οὐκ ἔτι ἔχω, ὦ Ἱππία, ὅποι τράπωμαι, ἀλλ’ ἀπορῶ· σὺ δὲ ἔχεις τι λέγειν; [e] ιππιας Οὐκ ἔν γε τῷ παρόντι, ἀλλ’, ὥσπερ ἄρτι ἔλεγον, σκεψάμενος εὖ οἶδ’ ὅτι εὑρήσω. σωκρατης Ἀλλ’ ἐγώ μοι δοκῶ ὑπὸ ἐπιθυμίας τοῦ εἰδέναι οὐχ οἷός τέ σε εἶναι περιμένειν μέλλοντα· καὶ γὰρ οὖν δή τι | καὶ οἶμαι ἄρτι ηὐπορηκέναι. ὅρα γάρ· εἰ ὃ ἂν χαίρειν ἡμᾶς ποιῇ, μήτι πάσας τὰς ἡδονάς, ἀλλ’ ὃ ἂν διὰ τῆς ἀκοῆς καὶ τῆς ὄψεως, τοῦτο φαῖμεν εἶναι καλόν, πῶς τι ἄρ’ ἂν ἀγωνι298 [a] ζοίμεθα; οἵ τέ γέ που καλοὶ ἄνθρωποι, ὦ Ἱππία, καὶ τὰ ποικίλματα πάντα καὶ τὰ ζωγραφήματα καὶ τὰ πλάσματα τέρπει ἡμᾶς ὁρῶντας, ἃ ἂν καλὰ ᾖ· καὶ οἱ φθόγγοι οἱ καλοὶ καὶ ἡ μουσικὴ σύμπασα καὶ οἱ λόγοι καὶ αἱ μυθολογίαι | ταὐτὸν τοῦτο ἐργάζονται,

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ιππιας

σωκρατης

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ippia Sembra. socrate E adesso, Ippia, non so proprio piú da che parte girarmi, ormai bloccato in difficoltà. Tu hai qualcosa da dire? [e] ippia Non in questo momento… ma, come dicevo prima, riflettendoci so bene che lo troverò. socrate Ma io, spinto dal desiderio di sapere, non credo di riuscire ad attendere il tuo futuro impegno; del resto, credo di aver appena trovato una soluzione132. Osserva. Se dicessimo che bello è ciò che ci fa godere, e non tutti i piaceri, ma ciò che lo fa tramite l’udito e la vista, come ce la caveremmo nel confronto? 298 [a] Ecco, Ippia, gli uomini in vario modo belli, ogni decorazione, le pitture e le sculture – a condizione che siano belle – deliziano noi che li guardiamo, e producono lo stesso effetto anche i bei suoni, ogni aspetto della musica, i discorsi e i racconti133: a questo punto, se riessere buono. L’opzione che Ippia lascia naufragare, dunque, potrebbe essere filosoficamente fruttuosa: il bello e il vantaggioso, pur non identificandosi con il buono, sono buoni. Ciò condurrebbe, peraltro, a un’identificazione estensionale di bello e buono, certamente non lontana dalla prospettiva platonica. 132   Socrate propone la sua terza “definizione”, secondo la quale il bello è il piacevole tramite la vista e l’udito; tracce evidenti della sezione sono riscontrabili in Aristotele (Top., 146a21 sgg.; per un confronto cfr. Wood­ruff 1982, pp. 78-79): ciò depone comunque a favore dell’autenticità del dialogo. Essa occupa un’ampia sezione e comprende numerosi nuclei problematici. Può preliminarmente essere sottolineato come Socrate torni qui all’aspetto estetico del bello e rinunci a fornire una “definizione” relativa all’essenza del bello (intensionale) ripiegando su una estensionale, cioè relativa a ciò che è bello a causa del bello. Per alcune considerazioni generali cfr. supra l’introduzione, pp. 13-15 e 29-33; per l’articolazione dell’argomento cfr. infra la nota 134, per i suoi nuclei notevoli infra la nota 167. 133   La vista e l’udito sono preminenti tra i sensi e non sono soggetti a piaceri dannosi come quelli del cibo e della carne (cfr. anche infra le note 139-40). Per quanto il rapporto di Platone con i prodotti artistici, figurativi e poe­ tici, sia controverso e – in particolare in relazione alla poe­sia – piú complesso di quanto solitamente si affermi (cfr. infra l’introduzione allo Ione, pp. 295298 e 301-8), l’inclusione tra le istanze peculiari del bello delle pitture, delle sculture e dei racconti mitici sembra almeno in parte fuori posto da un punto di vista strettamente platonico: se nelle Leggi alcuni tipi di poe­sia sono ammessi in quanto forniscono un piacere innocuo (II, 670c8 sgg.), piú difficile è intravedere la causalità del bello in pitture o sculture. Tale punto di vista sembra piuttosto legato a una prospettiva comune e introdotto per abbassare il discorso al livello di Ippia.

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ὥστ’ εἰ ἀποκριναίμεθα τῷ θρασεῖ ἐκείνῳ ἀνθρώπῳ ὅτι Ὦ γενναῖε, τὸ καλόν ἐστι τὸ δι’ ἀκοῆς τε καὶ δι’ ὄψεως ἡδύ, οὐκ ἂν οἴει αὐτὸν τοῦ θράσους ἐπίσχοιμεν;

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spondessimo a quell’uomo arrogante «Nobile uomo, il bello è il piacevole tramite udito e vista», non credi che potremmo arginare la sua arroganza?134. 134   Lo svolgimento si articola nei seguenti momenti, che colgono progressivi passaggi logici: 1) 297e3-298a1: il bello è il piacevole tramite vista e udito (tesi); 2) 298a1-300c1: estensione di questo bello e criteri di inclusione/esclusione: a) 298a1-8: le cose belle, anche solo relative alla vista o all’udito – statue, ecc. o suoni, ecc. – dànno piacere; b) 298b2-d5: le leggi e le occupazioni belle, benché non ricadano nella “definizione”, sono accantonate (cfr. infra la nota 138); c) 298d5-299c3: i piaceri non riconducibili a vista e udito sono accantonati perché non belli; d) 299c4-300a8: la ragione della bellezza non può risiedere specificamente nella vista o nell’udito, in quanto la bellezza dell’uno non varrebbe per l’altro; e) 300a9-c1: necessità di ricercare un κοινόν che garantisca la bellezza di ambedue i piaceri e di ciascuno di essi. 3) 300c2-302b7: excursus sulla predicazione collettiva e distributiva (è possibile che un predicato si addica a due oggetti congiuntamente e non a ciascuno dei due singolarmente e viceversa): a) 300c2-301d4: Ippia rifiuta la possibilità proposta da Socrate (2e) elencando oggetti che ammettono una predicazione sia collettiva sia distributiva (due oggetti sono x sia collettivamente sia singolarmente), dunque una predicazione “continua”; b) 301d5-302b7: Socrate indica alcuni predicati (per esempio «essere uno/due») che non ammettono tale predicazione. 4) 302b8-303d10: fallimento della proposta: a) 302b8-303a3: occorre trovare una causa che renda bello sia il piacere tramite la vista sia quello tramite l’udito (in modo distributivo) sia entrambi congiuntamente (collettivamente); b) 303a4-c3: distinzione di due gruppi: oggetti che ammettono una predicazione continua (distributiva e collettiva) e oggetti che non la ammettono (cfr. anche Morgan 1983, pp. 146-47, e Wolfs­dorf 2006, pp. 221-22: il bello deve essere una continuous property); c) 303c3-7: il bello non ammette una predicazione discontinua; d) 303c8-d6: il piacere tramite vista e udito ammette una predicazione discontinua (solo collettiva), in quanto se il bello è piacere tramite vista e udito tali piaceri sono belli solo congiuntamente; e) 303d6-10: il bello non è il piacevole tramite vista e udito. L’argomento in sé richiede solo pochi di questi passaggi. In particolare: il bello è il piacevole tramite vista e udito (1); sia il piacevole tramite la vista sia quello tramite l’udito, ciascuno dei due e ambedue insieme, devono essere belli (2e); in una coppia, il bello rende belli ambedue i componenti collettivamente e distributivamente (4c); ma il piacevole tramite vista e udito può essere causa dell’essere piacevole tramite vista e udito solo per entrambi i tipi di piacere insieme, e non per ciascuno dei due (4d); dunque l’essere piacevole tramite vista e udito non coincide con il bello – non è la stessa causa – (4e).

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Ἐμοὶ γοῦν δοκεῖ νῦν γε, ὦ Σώκρατες, εὖ [b] τὸ καλὸν ὃ ἔστιν. σωκρατης Τί δ’; ἆρα τὰ ἐπιτηδεύματα τὰ καλὰ καὶ τοὺς νόμους, ὦ Ἱππία, δι’ ἀκοῆς ἢ δι’ ὄψεως φήσομεν ἡδέα ὄντα καλὰ εἶναι, ἢ ἄλλο τι εἶδος ἔχειν; ιππιας

λέγεσθαι

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ippia In effetti, Socrate, mi pare che in questo modo venga ben detto [b] ciò che è il bello. socrate E poi, Ippia? Affermeremo che le belle occupazioni e le leggi sono belle in quanto risultano piacevoli tramite udito o135 tramite vista, oppure diciamo che hanno un’altra forma?136. Piú di un nucleo merita attenzione. (i) In primo luogo, l’ambiguità centrale del passo è rintracciabile nell’ambivalenza di ciò che può essere individuato come ἀμφότερα: «ambedue» può infatti essere inteso collettivamente o distributivamente. Il testo non è chiaro in questo senso (la traduzione è per questa ragione vaga): Socrate distingue raramente i due tipi di piacere, usa quasi sempre καί per collegarli e solo in un caso ἤ (per queste ragioni pare riferirsi a un significato collettivo; cfr. anche la nota seguente), ma al contempo con 2a e 4d fa riferimento a un significato distributivo (cfr. anche ­Heitsch 2011, pp. 86 e 97-98). Ora, Platone padroneggia il problema logico (cfr. infra la nota 145) e svolge l’argomento in modo articolato: sarebbe per questo arbitrario pensare a confusioni involontarie. Piuttosto, nel contesto dell’argomento, Platone usa una logica complessa per liquidare una proposta evidentemente inefficace (cfr. infra, in particolare, la nota 138), ma ciò non implica che la distinzione non possa avere qui anche altre funzioni implicite. (ii) In secondo luogo, la proposta è fin dal principio percepita come fallimentare. In particolare, per 2b (cfr. infra la nota 138) Socrate sa che la “definizione” non può individuare la totale estensione del bello; nonostante ciò, egli si dilunga nell’argomento. (iii) Ancora, l’ampio excursus (punto 3) sembra eccessivamente articolato per l’argomento (ma, pace ­Heitsch 2011, pp. 98-99, non è inutile – cfr. i passaggi 4b-d). (iv) Inoltre, la classificazione del bello tra i predicati che non ammettono predicazione disomogenea (4b-c) è solo proposta e non dimostrata (ma cfr. infra la nota 168). (v) Infine, l’argomento viene liquidato in modo incongruente rispetto all’ampiezza con cui è stato discusso. Tutto ciò segnala che la complessità e l’articolazione del passo non sono giustificate né ­dalla validità della “definizione” né dalla conclusione (il fulcro dell’attenzione, dunque, può essere rintracciato altrove; cfr. per esempio infra le note 145 e 167). Ciò che del bello in sé (da un punto di vista intensionale) si sa alla fine è solo – come ripete la conclusione del dialogo – che è troppo complesso per essere ridotto a un principio estetico. 135   Si tratta dell’unico caso in cui vista e udito sono collegate con ἤ («o»). Oltre a questa difformità, forse caricata di eccessiva importanza (per esempio da von Kutschera in ­Heitsch 2011, pp. 102-4), va sottolineata la ricercata oscillazione tra diverse formulazioni per indicare la coppia di piaceri in questione: senza ragioni teoriche si avvicendano espressioni che prevedono o meno l’articolo o la ripetizione della preposizione per il secondo senso – διὰ (τῆς) ὄψεως καὶ (διὰ τῆς) ἀκοῆς – (cfr. anche 302b6-8: ἡ διὰ τῆς ὄψεως καὶ δι’ἀκοῆς ἡδονή … εἶεν, immediatamente seguito (302c8) da ἡ δι’ὄψεως ἡδονὴ καὶ ἡ δι’ἀκοῆς). L’apparente confusione cela evidentemente la volontà di sottolineare le difficoltà implicite nel problema logico in questione. 136   Un ironico riferimento all’eventuale teoria della causalità sottesa? In effetti, posto che il bello deve essere la causa dell’essere bello, esso dovrà essere l’unica forma a garantire tale causalità, e l’esclusione dal novero

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ιππιας Ταῦτα δ’ ἴσως, ὦ Σώκρατες, κἂν παραλάθοι τὸν ἄνθρωπον. σωκρατης Μὰ τὸν κύνα, ὦ Ἱππία, οὐχ ὅν γ’ ἂν ἐγὼ μάλιστα αἰσχυνοίμην ληρῶν καὶ προσποιούμενός τι λέγειν μηδὲν λέγων. ιππιας Τίνα τοῦτον; σωκρατης Τὸν Σωφρονίσκου, ὃς ἐμοὶ οὐδὲν ἂν μᾶλλον ταῦτα [c] ἐπιτρέποι ἀνερεύνητα ὄντα ῥᾳδίως λέγειν ἢ ὡς εἰδότα ἃ μὴ οἶδα. ιππιας Ἀλλὰ μὴν ἔμοιγε καὶ αὐτῷ, ἐπειδὴ σὺ εἶπες, δοκεῖ τι ἄλλο εἶναι τοῦτο τὸ περὶ τοὺς νόμους. σωκρατης Ἔχ’ ἡσυχῇ, ὦ Ἱππία· κινδυνεύομεν γάρ τοι, ἐν τῇ αὐτῇ ἐμπεπτωκότες ἀπορίᾳ περὶ τοῦ καλοῦ

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ippia Socrate, magari questo potrebbe sfuggire al nostro uomo… socrate Per il cane, Ippia, non certo a lui! Al suo cospetto proverei una grandissima vergogna a comportarmi come uno sciocco, a non dire niente di sensato pur provando a dire qualcosa. ippia Ma chi è? socrate Il figlio di Sofronisco137, che non mi concederebbe [c] di parlare di cose non ben investigate piú facilmente di quanto mi lascerebbe parlare di cose che non so come se le sapessi. ippia Allora, visto che l’hai detto tu, anche a me pare che ciò che riguarda le leggi sia qualcos’altro. socrate Non essere affrettato, Ippia: rischiamo di credere che vi sia una diversa, facile via d’uscita, mendelle cose belle di alcuni oggetti indubitabilmente belli porterebbe alla necessità – paradossale – di un’altra idea. Ciò condurrebbe al fallimento immediato di quest’ultimo tentativo, e non a caso occupazioni e leggi saranno effettivamente accantonate. Per chi, come Ippia, non coglie il linguaggio tecnico utilizzato da Socrate, il termine εἶδος mantiene comunque il suo significato usuale. 137   Ippia chiede ancora (cfr. già 288d1) chi sia l’anonimo, e stavolta riceve una risposta fin troppo esplicita, che ha destato non poche perplessità nella critica: l’anonimo è il figlio di Sofronisco, Socrate. Che l’anonimo sia un alter ego di Socrate è evidente (cfr. supra l’introduzione, p. 19) – il nome di Socrate compare addirittura come glossa (pace Pradeau 2005, p. 137, nota 175) incorporata nel testo nel ramo principale della tradizione manoscritta (solo F fornisce la lezione corretta) –. La formulazione è però sembrata troppo forte o fuori posto a molti interpreti a partire da Hermann (cfr. anche Ludlam 1991, pp. 59 sgg.). L’espunzione di una sezione piú ampia, 298b2-c4, è stata argomentata da ­Heitsch 2011, pp. 86-88, sulla base dell’ambiguo atteggiamento che Ippia tiene nel passo e sull’apparente insensatezza dell’affermazione di Socrate a 298c5-7 (non ci sarebbe motivo di invitare Ippia, che ha già dato l’assenso, a mantenere la calma; sulla complessa situazione dialogica dipendente dal problema delle «belle leggi» cfr. però le note precedenti e la nota seguente). In effetti, se Ippia a questo punto non intuisse l’identità tra Socrate e l’anonimo il «gioco delle parti» diverrebbe parodistico ed eccessivo: proprio in questo senso l’esplicita menzione del figlio di Sofronisco può apparire poco platonica. Non può però essere escluso che Ippia colga ora – se non lo ha già fatto – l’identità dell’anonimo, ma trovi utile continuare a usufruire del terzo personaggio per accusare indirettamente Socrate: proprio per questo egli può innalzare il livello dell’attacco dialettico, non a caso rivolto talvolta (per esempio nel centrale passaggio 301b2-c3; cfr. infra la nota ad loc.) contro lo stesso Socrate.

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ἐν ᾗπερ νῦν δή, οἴεσθαι ἐν ἄλλῃ τινὶ εὐπορίᾳ εἶναι. ιππιας Πῶς τοῦτο λέγεις, ὦ Σώκρατες; σωκρατης Ἐγώ σοι φράσω ὅ γ’ ἐμοὶ καταφαίνεται, εἰ ἄρα τὶ [d] λέγω. ταῦτα μὲν γὰρ τὰ περὶ τοὺς νόμους τε καὶ τὰ ἐπιτηδεύματα τάχ’ ἂν φανείη οὐκ ἐκτὸς ὄντα τῆς αἰσθήσεως ἣ διὰ τῆς ἀκοῆς τε καὶ ὄψεως ἡμῖν οὖσα τυγχάνει· ἀλλ’ ὑπομείνωμεν τοῦτον τὸν λόγον, τὸ διὰ τούτων ἡδὺ καλὸν | εἶναι, μηδὲν τὸ τῶν νόμων εἰς μέσον παράγοντες. ἀλλ’ εἰ ἡμᾶς ἔροιτο εἴτε οὗτος ὃν λέγω, εἴτε ἄλλος ὁστισοῦν· «Τί δή, ὦ Ἱππία τε καὶ Σώκρατες, ἀφωρίσατε τοῦ ἡδέος τὸ ταύτῃ ἡδὺ ᾗ λέγετε καλὸν εἶναι, τὸ δὲ κατὰ τὰς ἄλλας [e] αἰσθήσεις σίτων τε καὶ ποτῶν καὶ τῶν περὶ τἀφροδίσια καὶ τἆλλα πάντα τὰ τοιαῦτα οὔ φατε καλὰ εἶναι; ἢ οὐδὲ ἡδέα, οὐδὲ ἡδονὰς τὸ παράπαν ἐν τοῖς τοιούτοις φατὲ εἶναι, οὐδ’ ἐν ἄλλῳ ἢ τῷ ἰδεῖν τε καὶ ἀκοῦσαι;» τί φήσομεν, ὦ Ἱππία; ιππιας Πάντως δήπου φήσομεν, ὦ Σώκρατες, καὶ ἐν τοῖς ἄλλοις μεγάλας πάνυ ἡδονὰς εἶναι.

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tre in realtà siamo caduti nella stessa difficoltà relativa all’indagine sul bello or ora svolta. ippia In che senso, Socrate? socrate Io ti esporrò ciò che mi appare evidente, ma mi domando se dirò qualcosa di sensato. [d] Probabilmente ciò che riguarda le leggi e le occupazioni potrebbe non apparire al di fuori della sensazione che ci troviamo ad avere tramite l’udito e la vista. Dobbiamo però soffermarci su questo discorso – che bello è il piacevole tramite questi sensi – senza distorcerlo introducendovi ciò che riguarda le leggi138. Ma se l’uomo di cui parlo o qualsiasi altro ci dicesse: «Dunque, Ippia e Socrate, separate dal piacevole quel tipo di piacevole che voi dite essere bello, mentre non dite bello quello relativo alle altre sensazioni, [e] date dal cibo e dalle bevande, dal sesso e da tutte le altre cose del genere? O magari queste cose non sono piacevoli e affermate che non c’è assolutamente alcun piacere in esse né in nessun’altra che non sia vedere e sentire?» Cosa affermeremo, Ippia? ippia Di certo, Socrate, affermeremo che ci sono assolutamente grandi piaceri anche in tutte le altre cose!139. 138   Il passaggio è centrale (e spesso visto come problematico; cfr. ­Heitsch 2011, pp. 86-88): oggetti di notevole importanza – per Ippia come per Platone (cfr. supra la nota 35) –, le belle leggi e le belle occupazioni, cadono al di fuori dalla “definizione” estensionale del bello. Ippia sembra disposto a rinunciare al proposito, ma non si assume specificamente la responsabilità di questa scelta addossandola a Socrate (298c3-4), né è inconsapevole che una simile opzione renderebbe l’intero argomento estremamente fragile agli occhi dell’anonimo (298b5-9). L’argomento nascerebbe troppo debole se fin da subito persino Ippia fosse consapevole di una sua carenza strutturale, e Socrate deve dunque sanare il problema. Piú che attribuire a Platone un dichiarato scetticismo – controproducente vista la consapevolezza di Ippia – espungendo οὐκ (cosí Stallbaum), è del tutto preferibile (e, per quanto detto, fondato) leggere l’auspicio di Socrate come una cautela verso le crepe già emerse. Dal punto di vista di Platone, comunque, tale modo di affrontare il problema delle «belle leggi» e delle «belle occupazioni» ha dei chiari caratteri ironici: esse possono essere innegabilmente belle (come le leggi di Sparta), ma fin da subito si sa che non potranno essere belle per la “definizione” che si sta considerando, la quale risulta per tale incongruenza indebolita fin dal principio. 139   L’obiezione non è esclusivamente riconducibile agli standards filosofici dell’anonimo, ma (come conferma l’assenso di Ippia) è accessibile a chiunque e, non a caso, non coglie nel segno: l’esclusione di alcuni piaceri dal novero dei piaceri belli non incide sull’estensione dell’oggetto cercato, il bello,

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σωκρατης «Τί οὖν», φήσει, «ἡδονὰς οὔσας οὐδὲν ἧττον ἢ καὶ ἐκείνας ἀφαιρεῖσθε τοῦτο τοὔνομα καὶ ἀποστερεῖτε τοῦ 299 [a] καλὰς εἶναι;» Ὅτι, φήσομεν, καταγελῴη ἂν ἡμῶν οὐδεὶς ὅστις οὔ, εἰ φαῖμεν μὴ ἡδὺ εἶναι φαγεῖν, ἀλλὰ καλόν, καὶ ὄζειν ἡδὺ μὴ ἡδὺ ἀλλὰ καλόν· τὰ δέ που περὶ τὰ ἀφροδίσια πάντες ἂν ἡμῖν μάχοιντο ὡς ἥδιστον ὄν, δεῖν δὲ αὐτό, ἐάν | τις καὶ πράττῃ, οὕτω πράττειν ὥστε μηδένα ὁρᾶν, ὡς αἴσχιστον ὂν ὁρᾶσθαι. ταῦτα ἡμῶν λεγόντων, ὦ Ἱππία, «Μανθάνω», ἂν ἴσως φαίη, «καὶ ἐγὼ ὅτι πάλαι αἰσχύνεσθε ταύτας τὰς ἡδονὰς φάναι καλὰς εἶναι, ὅτι οὐ δοκεῖ τοῖς [b] ἀνθρώποις· ἀλλ’ ἐγὼ οὐ τοῦτο ἠρώτων, ὃ δοκεῖ τοῖς πολλοῖς καλὸν εἶναι, ἀλλ’ ὅτι ἔστιν». ἐροῦμεν δὴ οἶμαι ὅπερ ὑπεθέμεθα, ὅτι «Τοῦθ’ ἡμεῖς γέ φαμεν τὸ μέρος τοῦ ἡδέος, τὸ ἐπὶ τῇ ὄψει τε καὶ ἀκοῇ γιγνόμενον, καλὸν εἶναι. ἀλλὰ | ἔχεις ἔτι τι χρῆσθαι τῷ λόγῳ, ἤ τι καὶ ἄλλο ἐροῦμεν, ὦ Ἱππία; ιππιας Ἀνάγκη πρός γε τὰ εἰρημένα, ὦ Σώκρατες, μὴ ἄλλ’ ἄττα ἢ ταῦτα λέγειν. σωκρατης «Καλῶς δὴ λέγετε», φήσει. «οὐκοῦν εἴπερ τὸ [c] δι’ ὄψεως καὶ ἀκοῆς ἡδὺ καλόν ἐστιν, ὃ μὴ τοῦτο τυγχάνει ὂν τῶν ἡδέων, δῆλον ὅτι οὐκ ἂν καλὸν εἴη;» ὁμολογήσομεν;

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socrate «Perché dunque», affermerà,«pur essendo piaceri non meno di quelli volete togliere loro questo nome e derubarli 299 [a] dell’essere belli?» Perché, diremo, nessuno riuscirebbe a trattenere le risa se affermassimo che mangiare non è piacevole ma bello o che l’odore piacevole non è piacevole ma bello. Per ciò che riguarda in vario modo il sesso, poi, tutti ci muoverebbero contro ritenendo che è piacevole al massimo grado, ma che occorre praticarlo – nel momento in cui lo si pratichi – in modo tale che nessuno veda, poiché è quanto di piú brutto a vedersi140. Dicendo noi questo, Ippia, probabilmente quello farebbe: «Capisco anche io che prima vi siete vergognati ad affermare che questi piaceri sono belli, perché cosí non pare [b] agli uomini. Io però non domandavo questo, cosa pare bello ai piú, bensí cosa è». Credo che ora diremo ciò che avevamo ipotizzato141: noi affermiamo che bello è proprio questa parte del piacevole, quella che si produce in funzione di vista e udito. Ma Ippia, te ne farai qualcosa di questo argomento o diremo qualcos’altro? ippia Considerando le precedenti affermazioni, Socrate, non c’è altro da dire se non questo. socrate «Dite davvero cose belle», farà lui. «Se dunque bello è il [c] piacevole tramite vista e udito, non è chiaro che bello non potranno essere le cose piacevoli che non coincidano con questo?» Saremo d’accordo? poiché i piaceri della carne e della gola non sono belli (in quanto non buoni; cfr. Phaedo, 64c10 sgg. e Phil., 51b3 sg.; per la distinzione tra piaceri buoni e cattivi cfr. anche Gorg., 495a1 sgg.). Questa “esclusione” rappresenta sostanzialmente una corretta delimitazione estensionale dell’oggetto cercato (e in questo senso, per quanto comune, ha senso che sia poi discussa dall’anonimo), a fronte della limitazione evidentemente scorretta relativa a leggi e occupazioni. Sul passo cfr. anche Tarrant 1994, il quale vi vede le tracce di una teoria edonistica di estrazione socratica. 140   La spiegazione vede l’uso ambiguo e congiunto delle semantiche estetica e morale del bello: un cibo non è bello – esteticamente – ma è piacevole, mentre mostrarsi durante l’atto sessuale non è bello in quanto moralmente riprovevole («brutto» nel senso di «turpe»). 141   Per questa semantica di ὑποτίθημι – un discorso o una “definizione” specifica vengono posti e, discutendoli, se ne verifica la validità – cfr. Phaedo, 100a3 sgg., con Centrone 2000, ad loc., e Trabattoni 2011, ad loc.

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Ναί. «Ἦ οὖν τὸ δι’ ὄψεως ἡδύ», φήσει, «δι’ ὄψεως | καὶ ἀκοῆς ἐστιν ἡδύ, ἢ τὸ δι’ ἀκοῆς ἡδὺ δι’ ἀκοῆς καὶ δι’ ὄψεώς ἐστιν ἡδύ;» Οὐδαμῶς, φήσομεν, τὸ διὰ τοῦ ἑτέρου ὂν τοῦτο δι’ ἀμφοτέρων εἴη ἄν – τοῦτο γὰρ δοκεῖς ἡμῖν λέγειν – ἀλλ’ ἡμεῖς ἐλέγομεν ὅτι καὶ ἑκάτερον τούτων αὐτὸ καθ’ αὑτὸ τῶν ἡδέων καλὸν εἴη, καὶ ἀμφότερα. οὐχ οὕτως | ἀποκρινούμεθα; [d] ιππιας Πάνυ μὲν οὖν. σωκρατης «Ἆρ’ οὖν», φήσει, «ἡδὺ ἡδέος ὁτιοῦν ὁτουοῦν διαφέρει τούτῳ, τῷ ἡδὺ εἶναι; μὴ γὰρ εἰ μείζων τις ἡδονὴ ἢ ἐλάττων ἢ μᾶλλον ἢ ἧττόν ἐστιν, ἀλλ’ εἴ τις αὐτῷ τούτῳ | διαφέρει, τῷ ἡ μὲν ἡδονὴ εἶναι, ἡ δὲ μὴ ἡδονή, τῶν ἡδονῶν;» Οὐχ ἡμῖν γε δοκεῖ· οὐ γάρ; ιππιας Οὐ γὰρ οὖν δοκεῖ. σωκρατης «Οὐκοῦν», φήσει, «δι’ ἄλλο τι ἢ ὅτι ἡδοναί εἰσι προείλεσθε ταύτας τὰς ἡδονὰς ἐκ τῶν ἄλλων ἡδονῶν, τοιοῦ- [e] τόν τι ὁρῶντες ἐπ’ ἀμφοῖν, ὅτι ἔχουσί τι διάφορον τῶν ἄλλων, εἰς ὃ ἀποβλέποντες καλάς φατε αὐτὰς εἶναι; οὐ γάρ που διὰ τοῦτο καλή ἐστιν ἡδονὴ ἡ διὰ τῆς ὄψεως, ὅτι δι’ ὄψεώς ἐστιν· εἰ γὰρ τοῦτο αὐτῇ ἦν τὸ αἴτιον | καλῇ εἶναι, οὐκ ἄν ποτε ιππιας

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ippia Sí. socrate «Ora, il piacevole tramite vista», affermerà, «è piacevole tramite vista e udito, oppure il piacevole tramite udito è piacevole tramite udito e tramite vista?» In nessun modo – faremo noi – quello tramite l’uno potrà essere tramite ambedue (questo ci pare che tu dica); al contrario, noi dicevamo che bello dovrebbero essere ciascuno dei due piaceri in sé e per sé e ambedue. Non risponderemo in questo modo?142. [d] ippia Certo. socrate «Ebbene», farà, «una qualsiasi cosa piacevole differisce da una qualsiasi cosa piacevole per questo, per l’essere piacevole? Cosí, un piacere differisce dall’altro non per il fatto che un piacere è piú grande o piú piccolo, o che lo è in misura maggiore o minore, ma perché tra i piaceri uno è un piacere, l’altro no?»143. Non ci pare, vero? ippia No, non pare proprio. socrate «Dunque», affermerà, «non è vero che tra gli altri piaceri avete scelto questi per qualche altro motivo al di là dell’essere piaceri, [e] osservando in ambedue la qualità per la quale si differenziano dagli altri, e affermate che sono belli guardando a essa? Del resto il piacere tramite la vista non è bello per questo, cioè perché è tramite la vista: se per assurdo fosse questa la causa del suo essere bello, non potrebbe mai essere bello 142   La delimitazione dell’estensione del piacevole che descrive il bello si avvia alla conclusione e comincia ad aprirsi il problema maggiore della sezione, cioè il rapporto tra il bello, i due tipi di piacere indicati (tramite l’udito e tramite la vista) e il piacevole che li riunisce ambedue; cfr. supra la nota 134. 143   Ancora un’obiezione relativa all’esclusione di alcuni piaceri. La scelta, non ben motivata, di alcuni piaceri fa emergere il problema del criterio di discriminazione tra essi (cfr. anche Phil., 12d8-e2): non essendo stata adottata una discriminante quantitativa (piaceri piú o meno grandi) l’anonimo suggerisce paradossalmente che l’unico criterio sia quello dell’essere piacevole, da cui deriverebbe che i piaceri esclusi non sono piaceri. L’obiezione è importante soprattutto poiché il suo sviluppo (299d8-e7) chiarisce il criterio adottato, di natura qualitativa, nella scelta dei piaceri della vista e dell’udito, ma reintroduce al contempo il problema del rapporto tra ciascuno dei due piaceri e la loro coppia.

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ἦν ἡ ἑτέρα, ἡ διὰ τῆς ἀκοῆς, καλή· οὔκουν ἔστιν γε δι’ ὄψεως ἡδονή». Ἀληθῆ λέγεις, φήσομεν; ιππιας Φήσομεν γάρ. 300 [a] σωκρατης «Οὐδέ γ’ αὖ ἡ δι’ ἀκοῆς ἡδονή, ὅτι δι’ ἀκοῆς ἐστι, διὰ ταῦτα τυγχάνει καλή· οὐ γὰρ ἄν ποτε αὖ ἡ διὰ τῆς ὄψεως καλὴ ἦν· οὔκουν ἔστι γε δι’ ἀκοῆς ἡδονή». ἀληθῆ φήσομεν, ὦ Ἱππία, λέγειν τὸν ἄνδρα ταῦτα λέγοντα; ιππιας Ἀληθῆ. σωκρατης «Ἀλλὰ μέντοι ἀμφότεραί γ’ εἰσὶ καλαί, ὡς φατέ». φαμὲν γάρ; ιππιας Φαμέν. σωκρατης «Ἔχουσιν ἄρα τι τὸ αὐτὸ ὃ ποιεῖ αὐτὰς καλὰς | εἶναι, τὸ κοινὸν τοῦτο, ὃ καὶ ἀμφοτέραις αὐταῖς ἔπεστι κοινῇ [b] καὶ ἑκατέρᾳ ἰδίᾳ· οὐ γὰρ ἄν που ἄλλως ἀμφότεραί γε καλαὶ ἦσαν καὶ ἑκατέρα». ἀποκρίνου ἐμοὶ ὡς ἐκείνῳ. ιππιας Ἀποκρίνομαι, καὶ ἐμοὶ δοκεῖ ἔχειν ὡς λέγεις. σωκρατης Εἰ ἄρα τι αὗται αἱ ἡδοναὶ ἀμφότεραι πεπόνθασιν, | ἑκατέρα δὲ μή, οὐκ ἂν τούτῳ γε τῷ παθήματι εἶεν καλαί. ιππιας Καὶ πῶς ἂν εἴη τοῦτο, ὦ Σώκρατες, μηδετέρας πεπονθυίας τι τῶν ὄντων ὁτιοῦν, ἔπειτα τοῦτο τὸ πάθος, ὃ μηδετέρα πέπονθεν, ἀμφοτέρας πεπονθέναι; [c] σωκρατης Οὐ δοκεῖ σοι;

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l’altro, quello tramite l’udito; non è certo piacere tramite vista»144. E noi affermeremo: «dici il vero»? ippia Lo affermeremo. 300 [a] socrate «Ancora, neanche il piacere tramite l’udito si trova a essere bello per questa ragione, cioè perché è tramite l’udito; di nuovo, infatti, non potrebbe mai essere bello il piacere tramite la vista; non è certo piacere tramite udito». Affermeremo che cosí il nostro uomo dice il vero, Ippia? ippia Il vero. socrate «Ma di certo ambedue sono belli, stando a quanto affermate». Diciamo di sí? ippia Diciamo di sí. socrate «Hanno dunque uno stesso qualcosa che fa sí che siano belli, un cosa comune che è presente sia in comune in ambedue [b] sia in proprio in ciascuno; altrimenti, infatti, non sarebbero in alcun modo belli ambedue e ciascuno dei due». Rispondi a me come fossi lui. ippia Rispondo subito: anche a me pare che le cose stiano come dici. socrate Se quindi questi piaceri avessero ambedue una certa affezione, ma ciascuno di loro non la avesse in proprio, non potrebbero essere belli per questa affezione. ippia E come può essere, Socrate, che, benché nessuna di due cose qualsiasi abbia una certa affezione, comunque ambedue abbiano proprio quell’affezione che nessuna delle due aveva? [c] socrate Non ti pare possibile?145. 144   La scelta non può basarsi sulla qualità propria di ciascuno dei due piaceri, cioè «essere tramite la vista» o «essere tramite l’udito»: se infatti si considerasse uno di questi due criteri, immediatamente il piacere basato sul principio opposto dovrebbe essere escluso. 145   Inizia qui l’importante excursus sulla possibilità di predicare qualcosa di ambedue i componenti di una coppia congiuntamente e non di ciascuno di essi separatamente; cfr. anche Theaet., 201d8 sgg. (in cui, pur con finalità probabilmente diverse, Platone suggerisce la possibilità che il tutto composto da due elementi sia qualcosa di diverso dalla somma di ciascuno dei due; cfr. Centrone 2002 e Ferrari 2011, pp. 107-23 e note ad loc.); Prot., 329d3 sgg. (cfr. Centrone 2008b), e ancora Parm., 158e1-159b1; Soph., 243c2-e9; Resp., VII, 524a6-c9. La base ontologica della riflessione dell’Ippia deve es-

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ιππιας Πολλὴ γὰρ ἄν μ’ ἔχοι ἀπειρία καὶ τῆς τούτων φύσεως καὶ τῆς τῶν παρόντων λέξεως λόγων. σωκρατης Ἡδέως γε, ὦ Ἱππία. ἀλλὰ γὰρ ἐγὼ ἴσως κιν- | δυνεύω δοκεῖν μέν τι ὁρᾶν οὕτως ἔχον ὡς σὺ φῂς ἀδύνατον εἶναι, ὁρῶ δ’ οὐδέν. ιππιας Οὐ κινδυνεύεις, ὦ Σώκρατες, ἀλλὰ πάνυ ἑτοίμως παρορᾷς. σωκρατης Καὶ μὴν πολλά γέ μοι προφαίνεται τοιαῦτα πρὸ | τῆς ψυχῆς, ἀλλὰ ἀπιστῶ αὐτοῖς, ὅτι σοὶ μὲν οὐ φαντάζεται, [d] ἀνδρὶ πλεῖστον ἀργύριον εἰργασμένῳ τῶν νῦν ἐπὶ σοφίᾳ, ἐμοὶ δέ, ὃς οὐδὲν πώποτε ἠργασάμην. καὶ ἐνθυμοῦμαι, ὦ ἑταῖρε, μὴ παίζῃς πρός με καὶ ἑκὼν ἐξαπατᾷς· οὕτως μοι σφόδρα καὶ πολλὰ φαίνεται.

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ippia In tal caso sarei decisamente inesperto sulla natura di queste cose e sulla formulazione dei presenti discorsi. socrate Affronti la cosa in modo piacevole, Ippia… ma forse è solo una mia impressione quella di vedere qualcosa che si comporta proprio come tu dici essere impossibile, e in realtà non vedo niente. ippia Non «forse», Socrate: evidentemente la tua vista è stata sviata. socrate Eppure molte cose siffatte si mostrano davanti alla mia anima; io però non accordo loro fiducia poiché non si mostrano a te, [d] uomo che ha guadagnato piú denaro di ogni contemporaneo per la sua sapienza, ma a me, che non ho mai guadagnato niente di niente. Al contempo, amico mio, vorrei scacciare un dubbio che mi ronza in testa, che tu ti stia prendendo gioco di me e mi stia volontariamente ingannando: ecco fino a che punto sono forti e numerose le cose che mi si mostrano146… sere rintracciata negli scambi che portano ad aprire l’excursus (300a9-b8), con l’introduzione della nozione di πάθος. La possibilità che un componente di una coppia non sia bello singolarmente ma solo considerato nella coppia rende necessario (e strategico) introdurre una predicazione particolare, che ha a che fare con una circostanza. A fronte di questa nozione, però, viene presentata l’idea (a9-b2) per cui la stabilità non rintracciabile in ciò che partecipa sarà necessariamente attribuibile alla causa, ciò che è comune: viene già qui adombrata una nozione ontologica di essenza a fronte di quella di affezione (cfr. già Allen 1970, p. 69, ma in particolare Centrone 1995, pp. 149-50). A conferma di ciò giocano due ulteriori approfondimenti, a 300d5301b1 e 302b5-c7. Nel primo caso, in particolare, Socrate sviluppa la nozione di πάθος introducendo quella di πάσχειν εἶναι: qualcosa è in qualche modo, ma la relazione è inessenziale e si pone come un πάθος (cfr. Centrone 1995, pp. 143-45). Ippia evidentemente non coglie la portata del discorso e intende i termini come se Socrate facesse riferimento al significato comune di πάθος – «affezione» come afflizione subita. Una diversa lettura del rapporto πάθος/οὐσία è suggerita da Wolfs­dorf 2006, pp. 230-36. Il nucleo teorico è spesso (cfr. su tutti Kahn 1985, p. 270) richiamato per contestare la paternità platonica del dialogo, in quanto recherebbe le tracce di una derivazione aristotelica; ma cfr. Euthyphr., 10e9-11 b5, e in particolare Parm., 139e7 sgg. per un’analoga nozione di πάσχειν εἶναι, con Centrone 1995 e qui l’introduzione, pp. 29-33. 146   Nel Gorgia (486e5 sgg.) Socrate individua tre possibili elementi negativi che rendono impossibile il dialogo con l’interlocutore: ignoranza, malignità e vergogna. Qui Socrate sta di fatto accusando Ippia di non essere benevolo nei suoi confronti e (come tenterà di fare Callicle nel dialogo citato)

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ιππιας Οὐδεὶς σοῦ, ὦ Σώκρατες, κάλλιον εἴσεται εἴτε παίζω εἴτε μή, ἐὰν ἐπιχειρήσῃς λέγειν τὰ προφαινόμενά σοι ταῦτα· φανήσῃ γὰρ οὐδὲν λέγων. οὐ γὰρ μήποτε εὕρῃς, ὃ μήτ’ ἐγὼ πέπονθα μήτε σύ, τοῦτ’ ἀμφοτέρους ἡμᾶς πεπονθότας. [e] σωκρατης Πῶς λέγεις, ὦ Ἱππία; ἴσως μὲν τὶ λέγεις, ἐγὼ δ’ οὐ μανθάνω· ἀλλά μου σαφέστερον ἄκουσον ὃ βούλομαι λέγειν. ἐμοὶ γὰρ φαίνεται, ὃ μήτ’ ἐγὼ πέπονθα εἶναι μήτ’ εἰμὶ μηδ’ αὖ σὺ εἶ, τοῦτο ἀμφοτέρους πεπονθέναι ἡμᾶς οἷόν τ’ εἶναι· | ἕτερα δ’ αὖ, ἃ ἀμφότεροι πεπόνθαμεν εἶναι, ταῦτα οὐδέτερον εἶναι ἡμῶν. ιππιας Τέρατα αὖ ἀποκρινομένῳ ἔοικας, ὦ Σώ­ κρατες, ἔτι μείζω ἢ ὀλίγον πρότερον ἀπεκρίνω. σκό­ πει γάρ· πότερον εἰ ἀμφότεροι δίκαιοί ἐσμεν, οὐ καὶ ἑκάτερος ἡμῶν εἴη ἄν, | ἢ εἰ ἄδικος ἑκάτερος, οὐ καὶ ἀμφότεροι, ἢ εἰ ὑγιαίνοντες, 301 [a] οὐ καὶ ἑκάτερος; ἢ εἰ κεκμηκώς τι ἢ τετρωμένος ἢ πεπληγμένος ἢ ἄλλ’ ὁτιοῦν πεπονθὼς ἑκάτερος ἡμῶν εἴη, οὐ καὶ ἀμφότεροι αὖ ἂν τοῦτο πεπόνθοιμεν; ἔτι τοίνυν εἰ χρυσοῖ ἢ ἀργυροῖ ἢ ἐλεφάντινοι, εἰ δὲ βούλει, γενναῖοι ἢ σοφοὶ | ἢ τίμιοι ἢ γέροντές γε ἢ νέοι ἢ ἄλλο ὅτι βούλει τῶν ἐν ἀνθρώποις ἀμφότεροι τύχοιμεν ὄντες, ἆρ’ οὐ μεγάλη ἀνάγκη καὶ ἑκάτερον ἡμῶν τοῦτο εἶναι; [b] σωκρατης Πάντως γε δήπου. ιππιας Ἀλλὰ γὰρ δὴ σύ, ὦ Σώκρατες, τὰ μὲν ὅλα τῶν πραγμάτων οὐ σκοπεῖς, οὐδ’ ἐκεῖνοι οἷς σὺ

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ippia Se ti impegni a spiegarmi queste cose che ti si mostrano, Socrate, nessuno saprà meglio se mi prendo gioco di te o meno: allora sarà chiaro che non avrai detto nulla di sensato. Non potrai infatti mai trovare una stessa affezione che non abbiamo né io né tu, ma che abbiamo ambedue. [e] socrate Come dici, Ippia? Probabilmente dici qualcosa di sensato, eppure io non capisco. Ascolta comunque in termini piú chiari ciò che voglio dire: a me sembra possibile che ambedue abbiamo l’affezione di essere una certa cosa benché né io abbia l’affezione di esserlo né io lo sia né lo sia tu. Vi sono poi altre cose, che ambedue abbiamo l’affezione di essere e nessuno di noi due è147. ippia Socrate, mi sembra che tu risponda di nuovo delle mostruosità, addirittura piú grandi di quelle di poco fa! Osserva: se ambedue siamo giusti, non lo sarà anche ciascuno di noi due? E se ciascuno dei due è ingiusto, non lo saremo anche ambedue? Oppure: se ambedue siamo in buona salute, 301 [a] non lo sarà anche ciascuno dei due? Oppure: se ciascuno di noi due fosse afflitto da un male, danneggiato, colpito, o fosse affetto da qualcosa, non saremo ambedue affetti da questa cosa?148. Di nuovo, allora: se ambedue ci trovassimo a essere d’oro, d’argento, d’avorio, o, se vuoi, nobili, sapienti, onorati, vecchi, giovani o qualsiasi cosa tu voglia tra quelle che possono occorrere agli uomini, non è del tutto necessario che anche ciascuno di noi due sia in questo stesso modo? [b] socrate È assolutamente certo. ippia Ma allora, Socrate, tu non guardi le cose nella loro interezza, né lo fanno quelli con cui sei solito parlare: di ingannarlo o, secondo la formulazione poi centrale nell’Ippia minore, di dire il falso volontariamente. 147   Cfr. supra la nota 145. 148   Ippia non coglie le distinzioni proposte da Socrate e nell’elenco di esempi utilizza la proposizione «essere x» e il termine πάθος nei loro significati non tecnici, cioè rispettivamente come «essere giusti, ecc.» e «subire» una stessa afflizione.

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εἴωθας διαλέγεσθαι, κρούετε δὲ ἀπολαμβάνοντες τὸ καλὸν καὶ ἕκαστον | τῶν ὄντων ἐν τοῖς λόγοις κατατέμνοντες. διὰ ταῦτα οὕτω μεγάλα ὑμᾶς λανθάνει καὶ διανεκῆ σώματα τῆς οὐσίας πεφυκότα. καὶ νῦν τοσοῦτόν σε λέληθεν, ὥστε οἴει εἶναί τι ἢ πάθος ἢ οὐσίαν, ἣ περὶ μὲν ἀμφότερα ταῦτα ἔστιν ἅμα, [c] περὶ δὲ ἑκάτερον οὔ, ἢ αὖ περὶ μὲν ἑκάτερον, περὶ δὲ ἀμφότερα οὔ· οὕτως ἀλογίστως καὶ ἀσκέπτως καὶ εὐήθως καὶ ἀδιανοήτως διάκεισθε. σωκρατης Τοιαῦτα, ὦ Ἱππία, τὰ ἡμέτερά ἐστιν, οὐχ οἷα | βούλεταί τις, φασὶν ἄνθρωποι ἑκάστοτε παροιμιαζόμενοι, ἀλλ’ οἷα δύναται· ἀλλὰ σὺ ἡμᾶς ὀνίνης ἀεὶ νουθετῶν. ἐπεὶ καὶ νῦν, πρὶν ὑπὸ σοῦ

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voi percuotete il bello e tutti gli enti dopo averli isolati, e li fate a pezzi nei vostri discorsi149. Per questa ragione vi sfugge quanto siano naturalmente grandi e continui i corpi di ciò che è. Proprio ora ti è sfuggita una cosa della stessa portata, e sei giunto a credere che vi sia un qualcosa, affezione o essenza150, che sia congiuntamente presente in ambedue gli oggetti insieme [c] ma non in ciascuno dei due, o per converso presente in ciascuno dei due ma non in ambedue151. Sino a tal punto giunge la vostra condizione di irrazionalità, ottusità, semplicità e incapacità d’intendere152. socrate Cosí, Ippia, sono le nostre cose: non come si vuole – dice il noto proverbio – ma come si può volta per volta. Però tu con le tue critiche ci sei sempre di grande beneficio. Ora, prima che tu critichi tutto que149   Ippia obietta a Socrate il non guardare alla totalità delle cose con corrispondenti ampi discorsi, il soffermarsi su piccolezze non importanti. Simili accuse, oltre che tradizionalmente rivolte al Socrate storico (per esempio Aristofane, Nub., 627 sgg.), sono scagliate contro il Socrate platonico dallo stesso Ippia nell’Ippia minore (369b8-c1 – il parallelo ha alimentato sospetti di inautenticità –; cfr. anche il Gorgia, per esempio 497b6-7); queste accuse sembrano alludere, inoltre, a un metodo platonico basato sulla divisione di interi, la dialettica, in qualche modo rintracciabile già nel Gorgia (cfr. Centrone 2008a, p. 69, nota 43). Ancora nel Gorgia si può trovare il retroterra dell’allusione di Ippia a conversazioni comuni svolte secondo i metodi di Socrate: Callicle (485a4 sgg.) descrive similmente l’attività filosofica inserendo in modo generico Socrate tra «quelli» che praticano la filosofia. Ippia sembra dunque rifunzionalizzare questa accusa sofistica contro la coppia, ormai sempre piú indistinguibile, formata da Socrate e l’anonimo (cfr. già Wood­ ruff 1982, p. 85, nota 173). 150   Per le nozioni di πάθος e οὐσία nell’argomento cfr. supra la nota 145. Ippia non confonde i due termini (cosí, tra gli altri, Wood­ruff 1982, p. 86, nota 176), ma li accosta in modo superficiale sulla scorta della ben piú complessa precedente affermazione di Socrate (300e3-6) e senza cogliere la portata ontologica del discorso (cfr. anche 300e7-301a7); cfr. Centrone 1995, pp. 144-45. Il controverso οὐσία, peraltro, è ripreso in modo aproblematico da Ippia nell’indicare la propria prospettiva (301b6: «ciò che è»), per la quale cfr. infra la nota complementare 3, pp. 506-9. 151   Su questo passo, dall’interpretazione controversa, cfr. infra la nota complementare 3, pp. 506-9. 152   Socrate ha preso tempo prima di condurre il proprio argomento; i tratti apparentemente docili di Ippia si fanno cosí aggressivi: Ippia, sicuro di sé e credendo in un’esitazione, tenta di atteggiarsi come in tutto il precedente svolgimento non è riuscito a fare, pur desiderandolo (cfr. anche ­Heitsch 2011, pp. 92-93).

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ταῦτα νουθετηθῆναι, ὡς εὐήθως διεκείμεθα, ἔτι σοι μᾶλλον ἐγὼ ἐπιδείξω εἰπὼν ἃ διενοούμεθα [d] περὶ αὐτῶν, ἢ μὴ εἴπω; ιππιας Εἰδότι μὲν ἐρεῖς, ὦ Σώκρατες, οἶδα γὰρ ἑκάστους τῶν περὶ τοὺς λόγους ὡς διάκεινται. ὅμως δ’ εἴ τι σοὶ ἥδιον, λέγε. σωκρατης Ἀλλὰ μὴν ἥδιόν γε. ἡμεῖς γάρ, ὦ βέλ­ τιστε, οὕτως ἀβέλτεροι ἦμεν, πρίν σε ταῦτ’ εἰπεῖν, ὥστε δόξαν εἴχομεν περὶ ἐμοῦ τε καὶ σοῦ ὡς ἑκάτερος ἡμῶν εἷς ἐστιν, τοῦτο δὲ ὃ ἑκάτερος ἡμῶν εἴη οὐκ ἄρα εἶμεν ἀμφότεροι – οὐ γὰρ εἷς ἐσμεν, ἀλλὰ δύο – οὕτως εὐηθικῶς εἴχομεν· νῦν δὲ παρὰ [e] σοῦ ἤδη ἀνεδιδάχθημεν ὅτι εἰ μὲν δύο ἀμφότεροί ἐσμεν, δύο καὶ ἑκάτερον ἡμῶν ἀνάγκη εἶναι, εἰ δὲ εἷς ἑκά­ τερος, ἕνα καὶ ἀμφοτέρους ἀνάγκη· οὐ γὰρ οἷόν τε διανεκεῖ λόγῳ τῆς οὐσίας κατὰ Ἱππίαν ἄλλως ἔχειν, ἀλλ’ ὃ ἂν ἀμφότερα | ᾖ, τοῦτο καὶ ἑκάτερον, καὶ ὃ ἑκάτερον, ἀμφότερα εἶναι. πεπεισμένος δὴ νῦν ἐγὼ ὑπὸ σοῦ ἐνθάδε κάθημαι. πρότερον μέντοι, ὦ Ἱππία, ὑπόμνησόν με· πότερον εἷς ἐσμεν ἐγώ τε καὶ σύ, ἢ σύ τε δύο εἶ κἀγὼ δύο; ιππιας Τί λέγεις, ὦ Σώκρατες; σωκρατης Ταῦτα ἅπερ λέγω· φοβοῦμαι γάρ σε σαφῶς λέγειν, 302 [a] ὅτι μοι χαλεπαίνεις, ἐπειδὰν τὶ δόξῃς σαυτῷ λέγειν. ὅμως δ’ ἔτι μοι εἰπέ· οὐχ εἷς

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sto in quanto a parer tuo posto con semplicità, porterò ancora avanti l’argomento dicendoti cosa ne pensiamo; [d] oppure non vuoi che parli? ippia Parlerai a chi già sa, Socrate; so bene, infatti, come si comportano quelli che si occupano di discorsi. Ma comunque, se la cosa è per te piú piacevole, parla. socrate È sicuramente piú piacevole. Prima che tu esprimessi il tuo parere, uomo eccellente, noi eravamo tanto sciocchi da ritenere, circa me e te, che ciascuno di noi due è uno, e ciò che può essere ciascuno di noi due non possiamo esserlo ambedue; e, in effetti, non siamo uno bensí due. Fino a tal punto eravamo semplici! Ora però tu [e] ci hai ormai fatto cambiare idea, insegnandoci che se ambedue siamo due, necessariamente anche ciascuno di noi due deve essere due, e se ciascuno dei due è uno, anche ambedue siamo necessariamente uno. Infatti per il principio continuo di ciò che è, formulato da Ippia, non è possibile che le cose stiano altrimenti: ciò che due cose sono ambedue, questo lo è anche ciascuna delle due, e ciò che è ciascuna delle due, lo sono ambedue153. Ebbene, ora siedo qui, immobile, persuaso da te. Ma prima, Ippia, ricordami comunque una cosa: io e te siamo uno o piuttosto tu sei due e anche io due? ippia Ma che dici, Socrate? socrate Esattamente ciò che dico: ho paura a parlarti chiaramente, 302 [a] perché assumi un atteggiamento aggressivo ogniqualvolta ti paia di aver detto qualcosa di sensato. Comunque, avanti, dimmi ancora: 153   La vendetta ironica di Socrate è proporzionale alla precedente aggressività di Ippia. L’esempio scelto rende immediatamente evidente il problema di fondo: se di due singoli, separatamente, si predica l’«essere uno», secondo il discorso di Ippia lo stesso predicato dovrà essere applicabile collettivamente alla loro coppia, e viceversa. Emerge qui piú chiaramente l’ambiguità sottesa all’intero argomento – diffusamente notata dalla critica; cfr. in particolare Wood­ruff 1982, pp. 83-84, e ­Heitsch 2011, pp. 91-105 –, cioè la mancata distinzione tra due sensi di ἀμφότερα: in senso distributivo (ambedue come l’uno e insieme l’altro) ciò che appartiene a ciascuno è proprio anche di ambedue (cioè, dell’uno e dell’altro); in senso collettivo tale convertibilità è invece incerta e non sempre applicabile.

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ἡμῶν ἑκάτερός ἐστιν καὶ πέπονθε τοῦτο, εἷς εἶναι; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Οὐκοῦν εἴπερ εἷς, καὶ περιττὸς ἂν εἴη ἑκάτερος ἡμῶν· ἢ οὐ τὸ ἓν περιττὸν | ἡγῇ; ιππιας Ἔγωγε. σωκρατης Ἦ καὶ ἀμφότεροι οὖν περιττοί ἐσμεν δύο ὄντες; ιππιας Οὐκ ἂν εἴη, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Ἀλλ’ ἄρτιοί γε ἀμφότεροι· ἦ γάρ; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Μῶν οὖν, ὅτι ἀμφότεροι ἄρτιοι, τούτου ἕνεκα καὶ ἑκάτερος [b] ἄρτιος ἡμῶν ἐστιν; ιππιας Οὐ δῆτα. σωκρατης Οὐκ ἄρα πᾶσα ἀνάγκη, ὡς νῦν δὴ ἔλεγες, ἃ ἂν ἀμφότεροι καὶ ἑκάτερον, καὶ ἃ ἂν ἑκάτερος καὶ ἀμφοτέρους εἶναι. ιππιας Οὐ τά γε τοιαῦτα, ἀλλ’ οἷα ἐγὼ πρότερον ἔλεγον. σωκρατης Ἐξαρκεῖ, ὦ Ἱππία· ἀγαπητὰ γὰρ καὶ ταῦτα, ἐπειδὴ τὰ μὲν οὕτω φαίνεται, τὰ δ’ οὐχ οὕτως ἔχοντα. καὶ γὰρ ἐγὼ ἔλεγον, εἰ μέμνησαι ὅθεν οὗτος ὁ λόγος ἐλέχθη, ὅτι ἡ διὰ τῆς ὄψεως καὶ δι’ ἀκοῆς ἡδονὴ οὐ τούτῳ εἶεν καλαί, [c] ὅτι τυγχάνοιεν ἑκατέρα μὲν αὐτῶν εἶναι πεπονθυῖα, ἀμφότεραι δὲ μή, ἢ ἀμφότεραι

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ciascuno di noi due non è forse uno, e ha questa affezione, di essere uno? ippia Certo. socrate E se è uno, ciascuno di noi due dovrebbe essere anche dispari154; o non ritieni che l’uno sia dispari?155. ippia Sí. socrate Dunque anche noi, ambedue, siamo dispari pur essendo due? ippia Non è possibile, Socrate. socrate Al contrario, ambedue siamo pari; o no? ippia Certo. socrate Dunque, visto che ambedue siamo pari, per questo anche ciascuno [b] di noi due è pari? ippia No di certo. socrate Non è vero, quindi, che è del tutto necessario – cosí dicevi or ora – che ciò che sono ambedue le cose lo sia anche ciascuna delle due, né che ciò che è ciascuna delle due lo siano anche ambedue156. ippia Non in relazione a cose del genere, ma in relazione a quelle di cui parlavo prima. socrate È già abbastanza, Ippia: possiamo accontentarci anche solo di queste, perché alcune evidenziano tale qualità, mentre altre no. E infatti io dicevo – se ricordi ciò da cui questo discorso ha avuto origine – che il piacere tramite la vista e quello tramite l’udito possono essere belli non perché [c] ciascuno dei due ha l’affezione di essere in questo modo ma non la hanno ambedue, o la 154   L’argomento aggiunge un elemento di complessità alla dottrina proposta. Se qualcosa ha un predicato, avrà per forza anche quelli essenzialmente correlati a esso: se si partecipa di un numero dispari si parteciperà necessariamente del dispari; cfr. del resto Phaedo, 103c10 sgg. 155   In generale la risposta non è scontata in quanto nella matematica greca antica l’unità non è un numero ma principio del numero. Aristotele, riprendendo una tesi forse riconducibile a Filolao, considera l’uno come parimpari (cioè avente entrambe le nature, del pari e del dispari; cfr. Metaph., I, 986a1820 e Pyth., fr. 9 Ross). L’identificazione dell’uno come dispari, tuttavia, è un comune presidio academico (cfr. Speusippo, fr. 122 Isnardi Parente e Senocrate, fr. 213 Isnardi Parente). 156   Socrate, riprendendo l’affermazione precedente di Ippia (300e7-301a7), produce una generalizzazione della conclusione a cui è approdato.

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μέν, ἑκατέρα δὲ μή, ἀλλ’ ἐκείνῳ ᾧ ἀμφότεραί τε καὶ ἑκατέρα, διότι συνεχώρεις ἀμφοτέρας τε αὐτὰς εἶναι καλὰς καὶ ἑκατέραν. τούτου δὴ ἕνεκα τῇ | οὐσίᾳ τῇ ἐπ’ ἀμφότερα ἑπομένῃ ᾤμην, εἴπερ ἀμφότερά ἐστι καλά, ταύτῃ δεῖν αὐτὰ καλὰ εἶναι, τῇ δὲ κατὰ τὰ ἕτερα ἀπολειπομένῃ μή· καὶ ἔτι νῦν οἴομαι. ἀλλά μοι λέγε, ὥσπερ ἐξ ἀρχῆς· ἡ δι’ ὄψεως ἡδονὴ καὶ ἡ δι’ ἀκοῆς, εἴπερ [d] ἀμφότεραί τ’ εἰσὶν καλαὶ καὶ ἑκατέρα, ἆρα καὶ ὃ ποιεῖ αὐτὰς καλὰς οὐχὶ καὶ ἀμφοτέραις γε αὐταῖς ἕπεται καὶ ἑκατέρᾳ; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Ἆρ’ οὖν ὅτι ἡδονὴ ἑκατέρα τ’ ἐστὶν καὶ ἀμφότεραι, διὰ τοῦτο ἂν εἶεν καλαί; ἢ διὰ τοῦτο μὲν | καὶ αἱ ἄλλαι πᾶσαι ἂν οὐδὲν τούτων ἧττον εἶεν καλαί; οὐδὲν γὰρ ἧττον ἡδοναὶ ἐφάνησαν οὖσαι, εἰ μέμνησαι.

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hanno ambedue ma non ciascuno dei due, bensí in virtú di quella cosa per cui sono belli ambedue e ciascuno dei due – questo perché tu stesso hai convenuto che sono belli ambedue e ciascuno dei due. Per questa ragione ritenevo che, se davvero ambedue le cose sono belle, sono belle necessariamente per l’essenza che accompagna ambedue e non per quella che, come in quegli altri casi157, viene meno; e questo lo ritengo ancora adesso. Ma dimmi, riprendendo dal principio: se davvero il piacere tramite la vista e quello tramite l’udito [d] sono belli ambedue e ciascuno dei due, non è vero anche che ciò che li fa essere belli dovrà accompagnare sia ambedue sia ciascuno dei due?158. ippia Certo. socrate È dunque per questo che sarebbero belli, perché ciascuno dei due e ambedue sono piaceri? Oppure proprio per questo anche tutti gli altri dovrebbero essere in nulla meno belli di essi? Se ricordi, infatti, era chiaro che sono nondimeno piaceri159. 157   Per la traduzione cfr. ­Heitsch 1999, p. 34, il quale evidenzia, anche se al fine di mostrare l’inautenticità del dialogo, che qui κατὰ τὰ ἕτερα non può riferirsi a ciascuno dei due oggetti nei quali qualcosa viene meno – cosí ancora, per esempio, Pradeau 2005 –; rimane però del tutto lecito tradurre «come in quegli altri casi». 158   L’intero intervento, oltre ad aprire l’ultima parte della discussione, chiosa il tema dell’excursus. Dopo aver chiarito come sia possibile una predicazione discontinua (collettiva e non distributiva e viceversa) Socrate può stabilire definitivamente che il caso in cui qualcosa sia non essenzialmente bello non esprime un’essenza, bensí un πάσχειν εἶναι; a questa nozione si oppone la vera causa della bellezza, che è tale in modo non avventizio. Non costituisce problema rispetto ai cenni alla teoria del πάθος e dell’οὐσία (cfr. supra la nota 145, e infra la nota 167) che Platone usi qui (302 c5) οὐσία in modo ancora ambiguo, a indicare anche un’entità che non appartiene essenzialmente a qualcosa: come nel resto del dialogo, anzi, proprio l’oscillazione tra usi tecnici e non tecnici sembra voler evidenziare la transizione verso una semantica e una teoria ontologicamente pregnanti. Tale ambiguità non può venir meno nella traduzione, che tuttavia sottintende uno slittamento: «Per questa ragione ritenevo che, se davvero ambedue le cose sono belle, sono belle necessariamente per l’essenza [οὐσία in senso forte] che accompagna ambedue e non per quella < entità > [οὐσία è sottinteso, e avrebbe un senso comune] che, come in quegli altri casi, viene meno». 159   Cfr. 298c9 sgg., per cui i piaceri relativi a vista e udito sono solo alcuni dei piaceri, quelli belli; ma poiché anche gli altri sono piaceri – ecco il pun-

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Μέμνημαι. Ἀλλ’ ὅτι γε δι’ ὄψεως καὶ ἀκοῆς αὗταί [e] εἰσι, διὰ τοῦτο ἐλέγετο καλὰς αὐτὰς εἶναι. ιππιας Καὶ ἐρρήθη οὕτως. σωκρατης Σκόπει δὲ εἰ ἀληθῆ λέγω. ἐλέγετο γάρ, ὡς ἐγὼ μνήμης ἔχω, τοῦτ’ εἶναι καλὸν τὸ ἡδύ, οὐ πᾶν, ἀλλ’ ὃ ἂν | δι’ ὄψεως καὶ ἀκοῆς ᾖ. ιππιας Ἀληθῆ. σωκρατης Οὐκοῦν τοῦτό γε τὸ πάθος ἀμφοτέραις μὲν ἕπεται, ἑκατέρᾳ δ’ οὔ; οὐ γάρ που ἑκάτερόν γε αὐτῶν, ὅπερ ἐν τοῖς πρόσθεν ἐλέγετο, δι’ ἀμφοτέρων ἐστίν, ἀλλ’ ἀμφότερα μὲν δι’ ἀμφοῖν, ἑκάτερον δ’ οὔ· ἔστι ταῦτα; ιππιας Ἔστι. σωκρατης Οὐκ ἄρα τούτῳ γε | ἑκάτερον αὐτῶν ἐστι καλόν, ὃ μὴ ἕπεται ἑκατέρῳ (τὸ γὰρ ἀμφότερον ἑκατέρῳ οὐχ ἕπεται) ὥστε ἀμφότερα μὲν αὐτὰ φάναι καλὰ κατὰ τὴν ὑπόθεσιν ἔξεστιν, ἑκάτερον δὲ οὐκ 303 [a] ἔξεστιν· ἢ πῶς λέγομεν; οὐκ ἀνάγκη; ιππιας Φαίνεται. σωκρατης Φῶμεν οὖν ἀμφότερα μὲν καλὰ εἶναι, ἑκάτερον δὲ μὴ φῶμεν; ιππιας Τί γὰρ κωλύει; σωκρατης Τόδε ἔμοιγε δοκεῖ, ὦ φίλε, κωλύειν, ὅτι ἦν που | ἡμῖν τὰ μὲν οὕτως ἐπιγιγνόμενα ἑκάστοις, εἴπερ ἀμφοτέροις ἐπιγίγνοιτο, καὶ ἑκατέρῳ, καὶ εἴπερ ἑκατέρῳ, καὶ ἀμφοτέροις, ἅπαντα ὅσα σὺ διῆλθες· ἦ γάρ; ιππιας

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ippia Lo ricordo. [e] socrate Ma si diceva che sono belli perché sono tramite vista e udito. ippia Si diceva anche questo160. socrate Osserva ora se dico il vero. Per come ne ho memoria, si diceva che bello è questo piacevole: non tutto, ma quello tramite vista e udito. ippia È vero. socrate Ma non è vero che questa affezione accompagna ambedue ma non ciascuno dei due? Ciascuno dei due – lo dicevamo in precedenza – non è tramite ambedue i sensi, anzi: ambedue i piaceri – e non ciascuno – sono tramite ambedue i sensi; non è vero? ippia Lo è. socrate Ciascuno dei due, quindi, non è bello per questa affezione che non accompagna ciascuno dei due (l’«ambedue», infatti, non accompagna ciascuno dei due)161: cosicché, secondo l’ipotesi162, è possibile affermare che sono belli ambedue, ma 303 [a] non che lo è ciascuno dei due. Come diciamo, altrimenti? Non è necessariamente cosí? ippia È chiaro. socrate Dunque, affermiamo che ambedue sono belli, ma neghiamo che bello sia ciascuno dei due? ippia Cosa lo impedisce? socrate A me pare, mio Ippia, che lo impedisca questo. Avevamo individuato alcune cose che si aggiungono a ciascun oggetto in questo modo: se si aggiungono ad ambedue, anche a ciascuno dei due, e se a ciascuno dei due, anche ad ambedue. Ciò vale per tutti i casi che tu hai passato in rassegna163; è cosí? to qui ripreso – la causa del loro essere belli non può essere il fatto di essere piaceri, altrimenti sarebbero belli tutti i piaceri. 160   Cfr. 299b6 sgg. 161   Spiegazione generale della valutazione negativa appena proposta: non è possibile che ciascuna di due cose sia bella a causa di ciò che le rende belle ambedue insieme e solo nella misura in cui sono considerate insieme: infatti «ambedue» non può essere detto di ciascuno. 162   Cfr. 299b2; l’«ipotesi» coincide con la proposta in questione. 163   Cfr. 300e7-301a7.

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Ναί. Ἃ δέ γε αὖ ἐγὼ διῆλθον, οὔ· ὧν δὴ ἦν καὶ αὐτὸ | τὸ ἑκάτερον καὶ τὸ ἀμφότερον. ἔστιν οὕτως; ιππιας Ἔστι. [b] σωκρατης Ποτέρων οὖν, ὦ Ἱππία, δοκεῖ σοι τὸ καλὸν εἶναι; πότερον ὧν σὺ ἔλεγες· εἴπερ ἐγὼ ἰσχυρὸς καὶ σύ, καὶ ἀμφότεροι, καὶ εἴπερ ἐγὼ δίκαιος καὶ σύ, καὶ ἀμφότεροι, καὶ εἴπερ ἀμφότεροι, καὶ ἑκάτερος· οὕτω δὴ καὶ εἴπερ ἐγὼ καλὸς | καὶ σύ, καὶ ἀμφότεροι, καὶ εἴπερ ἀμφότεροι, καὶ ἑκάτερος; ἢ οὐδὲν κωλύει, ὥσπερ ἀρτίων ὄντων τινῶν ἀμφοτέρων τάχα μὲν ἑκάτερα περιττὰ εἶναι, τάχα δ’ ἄρτια, καὶ αὖ ἀρρήτων ἑκατέρων ὄντων τάχα μὲν ῥητὰ τὰ συναμφότερα εἶναι, τάχα [c] δ’ ἄρρητα, καὶ ἄλλα μυρία τοιαῦτα, ἃ δὴ καὶ ἐγὼ ἔφην ἐμοὶ προφαίνεσθαι; ιππιας

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ippia Sí. socrate Ma non vale per quelli che io ho a mia volta passato in rassegna; tra questi, del resto, c’erano sia «ciascuno dei due» in sé sia «ambedue»164. È vero ciò che dico? ippia È vero. [b] socrate Dunque, Ippia, tra quali ti pare rientrare il bello? Forse tra quelli di cui parlavi tu – se io sono forte e anche tu, anche ambedue, e se io sono giusto e anche tu, anche ambedue, e se ambedue, anche ciascuno di noi due – in modo tale che se io sono bello e anche tu, anche ambedue, e se ambedue, anche ciascuno di noi due? Oppure niente impedisce che sia in quest’altro modo, per cui se due grandezze qualsiasi sono ambedue pari, ciascuna delle due forse è pari o forse è dispari, o ancora, se ciascuna delle due è inesprimibile, ambedue insieme sono forse esprimibili o forse [c] inesprimibili165, o come gli innumerevoli casi simili, proprio quelli 164   Cfr. 301d5 sgg. In realtà Socrate ha proposto l’esempio, ancora piú efficace, del due e dell’uno, a cui tuttavia è riconducibile quello a cui qui si allude, relativo all’essere ciascuno o all’essere ambedue: in altri termini, di ciascuno si può dire che è ciascuno, il che sarà impossibile da dire (collettivamente) di ambedue (cfr. anche 302e10-11). Ha probabilmente ragione Wood­ruff 1982, p. 87, nota 184, nel sostenere l’assenza di riferimenti alla dottrina delle idee in questa espressione, soprattutto per la sua vaghezza e poiché Socrate sembra fare piuttosto riferimento al «fatto di essere ciascuno». E tuttavia una certa ambiguità rimane, anche perché, intesi di per sé come predicati, anche l’essere ciascuno e l’essere ambedue dovrebbero essere riconducibili a strutture formali soggette alle peculiari forme di «aggiunta» (partecipazione) in questione. 165   Il contenuto matematico del passo è controverso e facile da sovrainterpretare: le attestazioni relative all’irrazionalità in Platone sono poche e oscure (per una rassegna cfr. Fowler 1999, pp. 359-360), e l’effettivo stato delle competenze tecniche e dei termini in cui erano espresse è difficile da cogliere. La prima immagine è piú semplice: gli addendi di un numero pari – che è la somma di ambedue gli addendi – possono essere anche dispari. La seconda immagine è molto piú oscura. Con ogni probabilità essa ha come oggetto (anche per il precedente riferimento ai numeri) numeri razionali e irrazionali, in particolare numeri che «di per sé» sarebbero irrazionali e che invece, insieme, possono essere razionali (commensurabili) o irrazionali (incommensurabili). Come già indicato da Wood­ruff 1982, p. 87, nota 187, il cenno è troppo conciso per essere interpretabile senza eccessivi rischi. È forse possibile proporre ipoteticamente che si alluda al metodo dell’ἀνθυφαίρεσις (o ἀνταναίρεσις), certamente praticato nell’Academia ai tempi di Platone,

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ποτέρων δὴ τιθεῖς τὸ καλόν; ἢ ὥσπερ ἐμοὶ περὶ αὐτοῦ καταφαίνεται, καὶ σοί; πολλὴ γὰρ ἀλογία ἔμοιγε δοκεῖ εἶναι ἀμφοτέρους μὲν ἡμᾶς εἶναι καλούς, ἑκάτερον δὲ | μή, ἢ ἑκάτερον μέν, ἀμφοτέρους δὲ μή, ἢ ἄλλο ὁτιοῦν τῶν τοιούτων. οὕτως αἱρῇ, ὥσπερ ἐγώ, ἢ ’κείνως; ιππιας Οὕτως ἔγωγε, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Εὖ γε σὺ ποιῶν, ὦ Ἱππία, ἵνα καὶ ἀπαλλαγῶμεν [d] πλείονος ζητήσεως· εἰ γὰρ τούτων γ’ ἐστὶ τὸ καλόν, οὐκ ἂν ἔτι εἴη τὸ δι’ ὄψεως καὶ ἀκοῆς ἡδὺ καλόν. ἀμφότερα μὲν γὰρ ποιεῖ καλὰ τὸ δι’ ὄψεως καὶ ἀκοῆς, ἑκάτερον δ’ οὔ· τοῦτο δ’ ἦν ἀδύνατον, ὡς ἐγώ τε καὶ σὺ δὴ ὁμολογοῦμεν, | ὦ Ἱππία.

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che – dicevo – mi si erano mostrati?166. Avanti, tra quali collochi il bello? Magari su questo anche a te si mostra ciò che si mostra a me? Vedi, a me pare davvero irrazionale che ambedue noi siamo belli, ma non lo è ciascuno di noi, o che lo è ciascuno di noi ma non lo siamo ambedue, o qualsiasi altra cosa simile. Scegli questo mio punto di vista o la pensi nell’altro modo? ippia Il tuo, Socrate. socrate È una buona scelta, Ippia, per farci abbandonare [d] ulteriori ricerche: se infatti il bello è tra questi, bello non potrà piú essere il piacevole tramite vista e udito. Infatti l’espressione «tramite vista e udito» fa sí che siano belli ambedue ma non ciascuno dei due; ma questo – io e te siamo d’accordo – è impossibile, Ippia167. per cui due grandezze venivano confrontate e sottratte reciprocamente e progressivamente fino a verificare se l’operazione non lasciasse resto (in tal caso, le due grandezze erano reciprocamente commensurabili); in tal caso, però, Ippia darebbe l’assenso senza realmente capire il significato dell’allusione. ­Heitsch 2011, p. 101, nota 162, vede un piú semplice riferimento a composizioni razionali di numeri irrazionali (per esempio √2 x √2 = 2); Fowler 1999, p. 360, ha proposto che il cenno, genericamente riferibile a grandezze, poggi sulle operazioni tra numeri irrazionali poi fissate nel X libro degli Elementi. 166   Cfr. 300c4- e6 e 301d5 sgg. 167   Socrate sembra accogliere positivamente lo sbrigativo accantonamento dell’ampio argomento (cfr. anche la nota seguente), che già per la sua struttura destava forti perplessità (cfr. supra la nota 134). Dalla sezione emergono però elementi teorici importanti in relazione al problema della causalità del bello, centrale nel dialogo. (i) Ampia attenzione è dedicata al problema di circoscrivere il dominio di oggetti per la “definizione” estensionale del bello (cfr. supra le note 134, 136, 138-39, 143-44). Piú che il risultato ottenuto (il piacevole tramite vista e udito), sono degni di nota i criteri toccati, e talvolta non applicati. In primo luogo, una “definizione” estensionale prevede che i termini coinvolti condividano la qualità conferita dalla causa che si cerca. In secondo luogo, l’esclusione di parte del dominio di oggetti può dipendere in generale solo dal fatto che questi non condividano realmente la qualità in questione. In terzo luogo, la raccolta deve essere inclusiva tanto quanto la causa cercata penetra nella realtà: l’esclusione arbitraria di qualcosa di bello dal novero delle cose belle rappresenta un errore. (ii) Platone impiega anche in senso ontologico i termini πάθος e οὐσία, e approfondisce la complessità del loro rapporto introducendo la nozione di πάσχειν εἶναι (cfr. Centrone 1995, in particolare pp. 140-52, e qui l’introduzione, pp. 29-33 e le note 145 e 151). Allo sviluppo della terminologia corrisponde una proposta ontologica: il bello deve essere un’«essenza» comune, ciò che è sempre e per tutti causa dell’essere bello. Una simile lettura consente inoltre di spiegare perché Platone faccia dilungare Socrate nell’excursus per poi raggiungere un risulta-

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Ὁμολογοῦμεν γάρ. Ἀδύνατον ἄρα τὸ δι’ ὄψεως καὶ ἀκοῆς ἡδὺ καλὸν εἶναι, ἐπειδή γε καλὸν γιγνόμενον τῶν ἀδυνάτων τι παρέχεται. ιππιας Ἔστι ταῦτα. σωκρατης «Λέγετε δὴ πάλιν», φήσει, «ἐξ ἀρχῆς, ἐπειδὴ [e] τούτου διημάρτετε· τί φατε εἶναι τοῦτο τὸ καλὸν τὸ ἐπ’ ἀμφοτέραις ταῖς ἡδοναῖς, δι’ ὅτι ταύτας πρὸ τῶν ἄλλων τιμήσαντες καλὰς ὠνομάσατε;» ἀνάγκη δή μοι δοκεῖ εἶναι, ὦ Ἱππία, λέγειν ὅτι ἀσινέσταται αὗται τῶν ἡδονῶν εἰσι | καὶ βέλτισται, καὶ ἀμφότεραι καὶ ἑκατέρα· ἢ σύ τι ἔχεις λέγειν ἄλλο ᾧ διαφέρουσι τῶν ἄλλων; ιππιας

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ippia Siamo d’accordo. socrate È quindi impossibile che bello sia il piacevole tramite vista e udito, poiché proprio nel momento in cui è bello comporta qualcosa di impossibile. ippia È vero168. socrate «Dite nuovamente», farà lui169, «riprendendo dal principio, poiché lí avete [e] commesso un errore: cosa è a vostro avviso questo bello, quello presente in ambedue i piaceri, a causa del quale li avete detti belli, onorando questi sopra agli altri?» In effetti, Ippia, mi pare necessario dire che tra i piaceri essi – ambedue e ciascuno dei due – sono i piú innocenti e i migliori170. O forse puoi indicare qualcosa di diverso per cui differiscono dagli altri? to dialogico del tutto sproporzionato: l’excursus, infatti, riesce a spiegare in primo luogo come alcune predicazioni, pur legate al verbo essere, siano solo un πάσχειν εἶναι e non l’espressione di un’essenza, e che invece il bello cercato deve essere una causa comune stabile. 168   Di fatto, l’accantonamento del piacevole tramite vista e udito come candidato per il bello dipende direttamente dall’assunzione per cui il bello è tra le cose che rendono belli «ciascuno dei due» e «ambedue»: poiché tale caratteristica non può essere applicata al piacevole tramite vista e udito, l’identificazione deve cadere. La collocazione del bello nella “categoria” in questione è, come spesso notato, un punto debole – logicamente o argomentativamente – del procedimento (cfr. Wood­ruff 1982, pp. 83-84, Kahn 1985, p. 267, e ­Heitsch 2011, pp. 103-4 – opinione di von Kutschera): Socrate afferma – con un curioso gioco di parole rispetto al precedente riferimento all’irrazionalità numerica – che l’opzione contraria è irrazionale, e nel chiedere conferma a Ippia sa che lo troverà d’accordo, visto che il sofista sostiene questa tesi fin dall’inizio della discussione. Ciò rende però evidenti almeno due aspetti impliciti dell’argomento. In primo luogo, se la “definizione” cercata in questo caso non fosse estensionale, l’argomento non avrebbe senso: è l’estensione del bello a non poter coincidere con quella del piacevole tramite vista e udito perché prevede una predicazione continua, mentre quella del piacevole una discontinua. In secondo luogo, da un lato l’excursus sulla predicazione non è ininfluente per la conclusione (pace ­Heitsch 2011, in particolare p. 99), poiché proprio la differenza tra le due predicazioni distingue le estensioni di bello e piacevole; dall’altro (pace von Kutschera in ­Heitsch 2011, pp. 102-5) il bello non prevede una predicazione distributiva o collettiva, bensí una collettiva e distributiva. 169   L’anonimo torna a comparire dopo aver abbandonato Socrate e Ippia alla ricerca sul piacevole; non secondario è che egli non chieda conto del fallimento appena verificatosi. 170   Cfr. Leg., II, 670c8 sgg., in riferimento alla sola musica. Una simile affermazione sembra semplicemente riprendere la precedente distinzione piú generica.

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Οὐδαμῶς· τῷ ὄντι γὰρ βέλτισταί εἰσιν. «Τοῦτ’ ἄρα», φήσει, «λέγετε δὴ τὸ καλὸν εἶναι, ἡδονὴν ὠφέλιμον;» Ἐοίκαμεν, φήσω ἔγωγε· σὺ δέ; ιππιας Καὶ ἐγώ. σωκρατης «Οὐκοῦν ὠφέλιμον», φήσει, «τὸ ποιοῦν τἀγαθόν, τὸ δὲ ποιοῦν καὶ τὸ ποιούμενον ἕτερον νῦν δὴ ἐφάνη, καὶ εἰς τὸν πρότερον λόγον ἥκει ὑμῖν ὁ λόγος; οὔτε γὰρ τὸ ἀγαθὸν ἂν 304 [a] εἴη καλὸν οὔτε τὸ καλὸν ἀγαθόν, εἴπερ ἄλλο αὐτῶν ἑκάτερόν ἐστιν». Παντός γε μᾶλλον, φήσομεν, ὦ Ἱππία, ἂν σωφρονῶμεν· οὐ γάρ που θέμις τῷ ὀρθῶς λέγοντι μὴ συγχωρεῖν. ιππιας Ἀλλὰ δή γ’, ὦ Σώκρατες, τί οἴει ταῦτα εἶναι ξυν- | άπαντα; κνήσματά τοί ἐστιν καὶ περιτμήματα τῶν λόγων, ὅπερ ἄρτι ἔλεγον, κατὰ βραχὺ διῃρημένα· ἀλλ’ ἐκεῖνο καὶ καλὸν καὶ πολλοῦ ἄξιον, οἷόν τ’ εἶναι εὖ καὶ καλῶς λόγον καταστησάμενον ἐν δικαστηρίῳ ἢ ἐν βουλευτηρίῳ ἢ ἐπὶ ἄλλῃ [b] τινὶ ἀρχῇ, πρὸς ἣν ἂν ὁ λόγος ᾖ, πείσαντα οἴχεσθαι φέροντα οὐ τὰ σμικρότατα ἀλλὰ τὰ μέγιστα τῶν ἄθλων, σωτηρίαν αὑτοῦ τε καὶ τῶν αὑτοῦ χρημάτων καὶ φίλων. τούτων οὖν ιππιας

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ippia In nessun modo: sono realmente i migliori. socrate «Questo, quindi», affermerà, «dite essere il bello, piacere vantaggioso?»171. Cosí ci sembra, affermerò io; e tu? ippia Anche io. socrate «Ma se vantaggioso», affermerà, «è ciò che produce il buono ed era or ora evidente che ciò che produce è altro rispetto a ciò che viene prodotto, questo nostro discorso non tornerà al precedente? 304 [a] Se infatti ciascuna delle due cose è diversa dall’altra, né bello potrà essere il buono né buono potrà essere il bello»172. Niente di piú vero, affermeremo noi con ragionevolezza, Ippia: non è lecito non convenire con chi parla correttamente. ippia Ma cosa pensi che sia in realtà tutto questo, Socrate? Lacerti… scampoli di discorso divisi in piccoli pezzi, te lo dicevo prima! Eccola invece la cosa bella e di grande valore: l’essere in grado di condurre bene e in bellezza discorsi in tribunale, in assemblea o di fronte a [b] qualsiasi altra magistratura alla quale possa essere rivolto il discorso, e riuscendo nella persuasione andar via portando non il piú piccolo bensí il piú grande dei premi possibili, la sicurezza per se stessi, per le proprie ricchezze e per i propri cari. A questo bisogna 171   Si tratta dell’ultima “definizione” proposta nel dialogo, basata sul passaggio da «innocenti e migliori» a vantaggiosi. Tale slittamento è accettabile in ragione di tacite e usuali implicazioni: da un lato ciò che è innocente non danneggia, dunque quantomeno non porta svantaggi, dall’altro ciò che è migliore porta – per la semantica utilitaristica del bene – un vantaggio. La “definizione” fa quindi leva sulle ambiguità del lessico ordinario, e sembra già per questo forzata; inoltre, essa è proposta e accantonata in tutta fretta; ancora, presenta problemi ed errori già toccati e ormai superati (­Heitsch 2011, pp. 105-6, individua questa difficoltà e vi vede, a partire dalla tesi dell’inautenticità, una carenza nella composizione nel dialogo; non è però infrequente nei dialoghi aporetici che nella conclusione sia ripresa una tesi già toccata, o che sia evidenziata una certa circolarità: cfr. per esempio Euthyphr., 9b10 con Centrone 2010, p. 95, nota 71, e Charm., 174b11 sgg.). Per queste ragioni sembra probabile che il passo abbia una marcata funzione compositiva: Socrate porta Ippia all’esasperazione riprendendo elementi già ampiamente discussi. 172   L’obiezione riprende – con le sue ambiguità – quella che aveva affossato il «vantaggioso»; cfr. supra la nota 131.

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χρὴ ἀντέχεσθαι, χαίρειν ἐάσαντα τὰς σμικρολογίας ταύτας, | ἵνα μὴ δοκῇ λίαν ἀνόητος εἶναι λήρους καὶ φλυαρίας ὥσπερ νῦν μεταχειριζόμενος. σωκρατης Ὦ Ἱππία φίλε, σὺ μὲν μακάριος εἶ, ὅτι τε οἶσθα ἃ χρὴ ἐπιτηδεύειν ἄνθρωπον, καὶ ἐπιτετήδευκας ἱκανῶς, ὡς [c] φῄς· ἐμὲ δὲ δαιμονία τις τύχη, ὡς ἔοικεν, κατέχει, ὅστις πλανῶμαι μὲν καὶ ἀπορῶ ἀεί, ἐπιδεικνὺς δὲ τὴν ἐμαυτοῦ ἀπορίαν ὑμῖν τοῖς σοφοῖς λόγῳ αὖ ὑπὸ ὑμῶν προπηλακίζομαι, ἐπειδὰν ἐπιδείξω. λέγετε γάρ με, ἅπερ καὶ σὺ νῦν | λέγεις, ὡς ἠλίθιά τε καὶ σμικρὰ καὶ οὐδενὸς ἄξια πραγματεύομαι· ἐπειδὰν δὲ αὖ ἀναπεισθεὶς ὑπὸ ὑμῶν λέγω ἅπερ ὑμεῖς, ὡς πολὺ κράτιστόν ἐστιν οἷόν τ’ εἶναι λόγον εὖ καὶ καλῶς καταστησάμενον περαίνειν < τι > ἐν δικαστηρίῳ ἢ ἐν ἄλλῳ [d] τινὶ συλλόγῳ, ὑπό τε ἄλλων τινῶν τῶν ἐνθάδε καὶ ὑπὸ τούτου τοῦ ἀνθρώπου τοῦ ἀεί με ἐλέγχοντος πάντα κακὰ ἀκούω. καὶ γάρ μοι τυγχάνει ἐγγύτατα γένους ὢν καὶ ἐν τῷ αὐτῷ οἰκῶν· ἐπειδὰν οὖν εἰσέλθω οἴκαδε εἰς ἐμαυτοῦ | καί μου ἀκούσῃ ταῦτα λέγοντος, ἐρωτᾷ εἰ οὐκ αἰσχύνομαι τολμῶν περὶ καλῶν ἐπιτηδευμάτων διαλέγεσθαι, οὕτω φανερῶς ἐξελεγχόμενος περὶ τοῦ καλοῦ ὅτι οὐδ’ αὐτὸ τοῦτο ὅτι ποτέ ἐστιν οἶδα. «Καίτοι πῶς σὺ εἴσῃ», φησίν,

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tenere, lasciando stare simili frammenti di discorso per non sembrare privi di capacità d’intendere dedicandosi – come ora – a deliri e sciocchezze173. socrate Mio Ippia, tu sei davvero beato, poiché non solo sai di cosa un uomo deve occuparsi, ma tu stesso – come affermi – te ne sei occupato in modo degno. [c] Io, invece, sono posseduto – come sembra – da una sorte demonica, e cosí vado errando e sono sempre in grandi difficoltà. Ma quando esibisco a voi, i sapienti, la mia difficoltà con un discorso, nel momento stesso in cui la esibisco voi da parte vostra prendete a ingiuriarmi: mi dite infatti proprio quello che anche tu mi dici ora, che mi dedico a cose assolutamente sciocche, piccole e di nessun valore. Ma quando poi, persuaso da voi, dico ciò che dite – che di gran lunga piú importante è essere capace di condurre discorsi bene e in bellezza, e ottenere un risultato in tribunale o in un [d] qualsiasi altro consesso politico – mi sento rivolgere parole di grande biasimo da parte di alcuni altri di questa città e da quest’uomo, che mi confuta sempre. Egli infatti è uno dei miei piú stretti congiunti e vive nella mia stessa casa: cosí, ogniqualvolta io vi faccia ritorno ed egli mi senta dire queste cose, mi domanda se non provi vergogna a osare discutere delle belle occupazioni benché venga confutato circa il bello in modo tanto evidente da non sapere neanche cosa mai sia. «E allora», fa lui, «se non conosci il bello in che modo 173   Se in precedenza l’analogo sfogo di Ippia dipendeva da eccessiva sicurezza (cfr. 300c2 sgg., in particolare 301b2-c3), qui è evidente che la sua base sia da cercare nella frustrazione e nell’ormai chiara consapevolezza di essere in balia di Socrate. Le accuse rivolte dal sofista, oltre che richiamare il passo precedente e l’Ippia minore (369b9-c8), trovano importanti paralleli nel Gorgia (cfr. per esempio le finalità della retorica secondo Gorgia – 452e1-8 – e Polo – 466b4 sgg. – nonché l’esempio di vita politica promosso da Callicle a fronte dell’isolamento filosofico – in particolare 486e5 sgg.). Al contempo, l’attacco è reso piú incisivo dal linguaggio utilizzato, ricercato e inconsueto (benché raro, ancora – cfr. già supra le note 72 e 85 – attestato nella commedia: per κνήσματα cfr. Aristofane, Pax, 790-91 (ἀπόκνησμα); per περιτμήματα Eupoli, fr. 95, 54, e lo scolio a Gorg., 497c1, con Cufalo 2007, p. 244, che peraltro individua nel termine la sostanza dei consueti attacchi dei sofisti a Socrate – cfr. supra la nota 149). Poco fondati, dunque, i tentativi di trovare in questo passo tracce a favore dell’inautenticità del dialogo.

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«ἢ λόγον [e] ὅστις καλῶς κατεστήσατο ἢ μή, ἢ ἄλλην πρᾶξιν ἡντινοῦν, τὸ καλὸν ἀγνοῶν; καὶ ὁπότε οὕτω διάκεισαι, οἴει σοι κρεῖττον εἶναι ζῆν μᾶλλον ἢ τεθνάναι;» συμβέβηκε δή μοι, ὅπερ λέγω, κακῶς μὲν ὑπὸ ὑμῶν ἀκούειν καὶ ὀνειδίζεσθαι, κακῶς | δὲ ὑπ’ ἐκείνου. ἀλλὰ γὰρ ἴσως ἀναγκαῖον ὑπομένειν ταῦτα πάντα· οὐδὲν γὰρ ἄτοπον εἰ ὠφελοίμην. ἐγὼ οὖν μοι δοκῶ, ὦ Ἱππία, ὠφελῆσθαι ἀπὸ τῆς ἀμφοτέρων

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saprai se [e] uno ha svolto un discorso o una qualsiasi altra azione in modo bello o meno? E nel momento in cui ti trovi in questa condizione, credi davvero che per te sia meglio essere vivo piú che morto?»174. Mi capita, ti dico, di sentirmi rivolgere parole di biasimo e rimprovero non solo da voi, ma poi anche da lui! E tuttavia forse è necessario affrontare con pazienza tutto questo: non ci sarebbe nulla di strano, infatti, se ne traessi vantaggio175. Vedi, Ippia, mi pare di aver tratto vantaggio 174   Torna, in chiusura, la “fallacia socratica”, che aveva aperto la parte tematica del dialogo (cfr. anche infra la nota complementare 2, pp. 503-5). Vlastos 1994, pp. 70-73, ha sottolineato l’importanza di questo passo in quanto sancisce la priorità di una conoscenza salda; Olson 2000, pp. 281-86, ha individuato la ragione di una condizione tanto terribile nell’incapacità di rendere ragione delle proprie scelte ma soprattutto dei propri consigli, dunque nell’ignoranza inconsapevole. Le parole dell’anonimo potrebbero essere spiegate anche dal presidio sofistico (sul quale cfr. in particolare Gorg., 486a7 sgg., e 508c4 sgg.) per cui la retorica salva da situazioni difficoltose, dalle accuse e dalle condanne capitali nei tribunali – dunque, garantisce la sopravvivenza (cfr. del resto 304a6-b3) –, mentre chi pratica la filosofia non sa gestire tali situazioni. Pertanto, Socrate si presenta all’anonimo con il discorso retorico dei sofisti («quando poi, persuaso da voi, dico ciò che dite»), e l’anonimo risponde con un presidio antisofistico, cioè l’inautenticità del soccorso portato (a piú livelli) nei contesti pubblici dalla retorica. 175   Socrate sembra stabilire un parallelo relativamente articolato tra la propria attività e quella dei sofisti, parallelo che rivela le differenze strutturali nel momento in cui i due metodi giungano, come in questo dialogo, a scontrarsi (per la diffusione di questo modello nei primi dialoghi cfr. Wolfs­dorf 2004, pp. 17-22). Il modello di «sapienza» e occupazione dei sofisti è immerso nella città democratica e negli impegni che le sono propri, mentre di fatto la riflessione di Socrate si risolve nella missione filosofica (per l’immagine del demone socratico cfr. anche Apol., 31a4 sgg.; Phaedr., 242b8 sgg.; Alc. I, 103a5-6). Ancora, per quanto entrambi – Socrate e un eventuale sofista – condividano formalmente l’utilizzo del discorso (in questo senso è significativo l’uso apò koinoú di λόγῳ), sussiste un’opposizione evidente tra due tipi di ἐπίδειξις (in particolare a 304c2) – quella socratica, consapevole dei limiti della ricerca e mirata alla descrizione dell’essenza (cfr. già 286c8-d3), e quella sofistica, incapace di risolvere i problemi della ricerca e pronta all’insulto e all’attacco – e di fatto tra due tipi di vita – quella pubblica dei sofisti e quella di ricerca di Socrate, classicamente l’unica degna di essere vissuta (Apol., 28b2 sgg.) e (non certo casualmente, visto il ruolo della nozione nel dialogo) vantaggiosa per il fatto di essere confutata nell’errore (cfr. anche Gorg., 458a2-7). Infine, va notato che proprio in questo contesto di confronto Socrate insiste sulla situazione di aporia (304c1-4) che si produce nel dialogo con i sofisti come Ippia: l’aporia risulta in primo luogo dall’incapacità dei sofisti di soccorrere il discorso. Si tratta probabilmente di una fondamentale chiave di lettura per i fallimenti ripetuti delle ricerche del dialogo.

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ὑμῶν ὁμιλίας· τὴν γὰρ παροιμίαν ὅτι ποτὲ λέγει, τὸ «Χαλεπὰ τὰ καλά», δοκῶ μοι εἰδέναι.

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dall’incontro tra voi due, e di sapere ora cosa vuol dire il proverbio «difficili le cose belle»176. 176   Cfr. anche Crat., 384a8-b1; Resp., II, 364a2; IV, 435c7-8; VI, 497d10. La formulazione del proverbio è attribuita dallo scolio ad loc. a Solone, che avrebbe cosí rielaborato il detto di Pittaco χαλεπὸν ἐσθλὸν ἔμμεναι (cfr. Cufalo 2007, pp. 262-63). La chiusura del dialogo sembra sancire in modo inequivocabile l’inadeguatezza di un interlocutore, Ippia, che ha a lungo e in modo ripetuto contraddetto il proverbio: la responsabilità del fallimento ricade sul sofista. In questo senso la conclusione dell’Ippia maggiore invita velatamente a una piú attenta analisi delle cause dell’aporia e del ruolo giocato da Ippia in relazione a ciascun fallimento.

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Il sottitolo dell’Ippia minore nelle classificazioni antiche dei dialoghi è un generico «sul falso»1. In realtà il dialogo verte su una questione attinente al tema, ma molto piú specifica, che si riassume in una tesi estremamente paradossale sostenuta da Socrate nell’ambito di un’esegesi omerica riguardante le figure di Achille e Odisseo e contrapposta a quella del sofista Ippia: chi mente volontariamente è migliore di chi lo fa involontariamente, tesi che alla fine del dialogo arriva a trasformarsi in quella, ancor piú provocatoria, secondo cui chi commette ingiustizia ed erra volontariamente, posto che un tal uomo esista, è l’uomo buono e virtuoso. Il livello di paradossalità è tale da causare la consueta ammissione da parte di Socrate di trovarsi in aporia, con cui il dialogo si conclude. Come in altri dialoghi la situazione aporetica è causata da una conclusione impossibile da accettare, ma in questo caso la particolare difficoltà è data dal fatto che 1   1I manoscritti T e W presentano come sottotitolo περὶ τοῦ καλοῦ (Sul bello), lo stesso dell’Ippia Maggiore, mentre S e F tacciono; il sottotitolo che sembrerebbe piú adeguato, περὶ τοῦ ψεύδους (Sul falso), è offerto solo da due testimoni secondari derivati da S, ma viene confermato da Diogene Laer­ zio (III, 60), secondo il quale il dialogo è di genere refutativo (III, 51 e 60). Bibliografia orientativa: Vancamp 1996 (edizione critica); Jantzen 1989 (introduzione e commento, con la traduzione di Schleiermacher); Fronterotta 2005 (introduzione, traduzione francese e note); principali studi di riferimento: Hoerber 1962; Mulhern 1968; Weiss 1981; Zembaty 1989; Szlezák 1988, pp. 135-48; Erler 1991, pp. 211-45; Vlastos 1991, pp. 366-72; Kahn 1996 (=2008, pp. 118-29); Balaudè 1997; Beversluis 2000, pp. 94-110; Giannantoni 2005, pp. 275-84; Levystone 2005.

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la tesi finale rappresenta l’esatto opposto di una delle piú celebri dottrine socratiche: quella dell’involontarietà del male, secondo cui è impossibile errare e commettere il male volontariamente. In questo aspetto risiede il principale nucleo filosofico del dialogo. Il carattere provocatorio della conclusione e i procedimenti argomentativi seguiti da Socrate hanno dato adito a interpretazioni tra loro molto distanti. Anche sul piano letterario il dialogo presenta motivi di interesse, in quanto specimen dell’esegesi omerica in voga all’epoca e importante testimonianza dell’atteggiamento di Platone nei confronti di tali pratiche e piú in generale della sofistica. 1.

L’andamento del dialogo.

Nella scena iniziale del dialogo il sofista è reduce da un’esibizione pubblica (ἐπίδειξις)2. Deve trattarsi dell’epidissi da lui stesso annunciata nell’Ippia maggiore (284b), e prevista per due giorni dopo nel διδασκαλεῖον di Fidostrato su invito di Eudico, che ora figura come personaggio del dialogo. Viene cosí stabilita una continuità drammatica tra i due dialoghi, secondo un procedimento che non è senza paralleli in Platone3. L’ἐπίδειξις era un’orazione, o lettura, rivolta a un pubblico di spettatori e dimostrativa delle abilità di un retore4; il genere rappresentava una pratica comune dei sofisti dell’epoca, e si concretava talvolta in vere e proprie gare di discorsi sottoposti a regolamentazione, secondo alcune testimonianze introdotte da Protagora5, in cui veniva continua2   Sulla retorica epidittica cfr. Kennedy 1963, pp. 152-73; Walker 2000, pp. 7-16. 3   Il rimando potrebbe però anche costituire un tentativo di accreditamento dell’autenticità dell’Ippia maggiore, cfr. ­Heitsch 2011, pp. 116-17. Secondo Kahn 2008, p. 118, l’epidissi di Ippia potrebbe essere posta in continuità con lo Ione, rappresentando l’adempimento della promessa lasciata in sospeso dal ra­pso­do. 4   Aristotele, Rhet., 1358b sgg. 5   Diogene Laerzio, IX, 52.

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ta la tradizione degli agoni ra­pso­dici. L’epidissi di Ippia è stata lunga (τοσαῦτα, 363a1) e tenuta davanti a un grande pubblico. Ora invece la discussione sarà ristretta (αὐτοὶ λελείμμεθα, 363a4) e basata sulla brachilogia, brevi domande e risposte che permettono di mettere seriamente alla prova la posizione dell’interlocutore. È un motivo ricorrente la polemica di Socrate-Platone contro la pratica, non esclusivamente sofistica, della macro­logia, il discorso lungo che è di ostacolo all’autentico dialogo filosofico6. L’esibizione di Ippia è consistita in un saggio di esegesi omerica. Socrate vuole ora porre una particolare domanda: quale dei due eroi, Achille e Odisseo, Ippia ritiene fosse il migliore, e per quale ragione. La risposta di Ippia è che Omero ha rappresentato Achille come il migliore (ἄριστος), Nestore come il piú saggio (σοφώ­ τατος), Odisseo come πολυτροπώτατος, aggettivo al superlativo il cui significato ambiguo è all’origine delle successive difficoltà. «Politropo» (da πολύ, molto, τρό­ πος, modo, e anche carattere) significa «multiforme, dai molti aspetti», da cui poi, in riferimento al carattere e a una sua possibile doppiezza, anche «scaltro, astuto»; è in effetti l’aggettivo che nell’invocazione iniziale dell’Odissea caratterizza Odisseo, «dalle molte risorse»7. Alla domanda di Socrate, se anche Achille non fosse politropo, Ippia risponde in modo negativo, citando i versi in cui Achille dichiara di avere in odio chi pensa una cosa e ne dice un’altra: Achille era, al contrario di Odisseo, semplice, o diretto (ἁπλοῦς, 365b4) e veritiero (ἀληθής). Dal momento che ciò sancisce la presunta inferiorità di Odisseo, Ippia conferisce evidentemente a πολύτροπος un senso peggiorativo, quello di «menzognero» (ψευδής), o ipocrita, mentre, almeno in prima istanza, Socrate, bisognoso di spiegazioni, sembra intendere il termine in un’accezione piú neutrale. Prende le

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  Giannantoni 2005, pp. 48 sgg.   Cfr. infra la nota 11 al testo.

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mosse a questo punto un primo argomento paradossale di Socrate, volto a stabilire che il veritiero e il menzognero sono invece la stessa persona (365d6-366c4). Chi mente è infatti capace di mentire e ingannare, e chi è capace è intelligente, sa ciò che fa ed è in grado di fare ciò che vuole. Ma incondizionatamente capace di mentire potrà essere solo chi conosce la verità, perché chi non la conoscesse potrebbe, in circostanze limite, dirla per caso; solo il matematico che conosce il risultato di un’operazione potrà dare sempre la risposta falsa. Con ciò il veritiero e il menzognero risultano essere la stessa persona, e il menzognero sarà il sapiente. L’argomento di Socrate può essere diversamente interpretato e considerato fallace o valido a seconda che si dia a termini come ψευδής e ἀληθής il significato di mera capacità o quello di habitus, inteso come disposizione stabile del carattere8. La tesi per cui il menzognero e il veritiero sono la stessa persona può essere considerata vera se intesa nel senso che chi è capace di dire sempre la verità è anche l’unico capace di mentire sempre9. Da ciò non segue naturalmente che la stessa persona debba essere di fatto, a livello di atteggiamento abituale, veritiera e menzognera, né che chi è capace di mentire, sia, come habitus, un mentitore. La dimostrazione di Socrate non può certo valere, in generale, contro la tesi che un soggetto sia tendenzialmente portato a mentire e un altro tendenzialmente sincero; a intenderla in senso stretto si dovrebbe escludere la stessa esistenza di una disposizione caratteriale10.   Cfr. Aristotele, Metaph., 1025a6-13, infra.   Weiss 1981, pp. 293-94. 10   Si possono in generale distinguere (cfr. Mulhern 1968) le accezioni di un termine che indicano atteggiamenti e comportamenti tipici («τρόποςterms»: ψευδής come menzognero, falso) da quelle che denotano abilità e capacità («δύναμις-terms»: ψευδής come capace di dire il falso). Nel corso della dimostrazione Ippia è condotto (pace Weiss 1981, pp. 291-94) dall’intendere ἀληθής e ψευδής nel primo senso (come mostrano i versi omerici citati a 365a, dove Odisseo è presentato come uno che pensa una cosa e ne dice un’altra; comportamento, questo, che potrebbe non essere tipico

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L’argomento, inoltre, è efficace solo a patto di intendere «capace» (δυνατός) in senso forte, cioè come in possesso di un’abilità che, nel caso specifico, permette di dire intenzionalmente il falso; anche chi dice cose false sbagliandosi per ignoranza ha, in senso debole, la corrispondente capacità (altrimenti ne sarebbe incapace e non potrebbe agire in quel modo), ma questa capacità debole non implica quella opposta di dire il vero. È però Ippia stesso, posto da Socrate di fronte all’alternativa, se coloro che dicono il falso lo facciano per ignoranza o in base a una conoscenza, a scegliere la seconda possibilità: i politropi/falsi sono tali per furbizia e intelligenza ­(365e4-5). Il sofista non potrebbe fare diversamente, perché la sua svalutazione di Odisseo si basa, come è chiaro dal seguito (370e5-9) sull’intendere πολύτροπος e ψευ­ δής come termini denotanti una qualità caratteriale che si esplica nella menzogna volontaria, e non semplicemente in una falsità proferita casualmente. In questo senso la strategia di Socrate consisterà nel mostrare che la capacità di dire il falso volontariamente implica la capacità opposta e che dunque la distinzione posta da Ippia tra i due eroi omerici, una volta portata sul terreno della capacità, non regge (369b3-7). In ogni caso la distinzione tra la semplice capacità e l’attuazione pratica – che secondo alcune interpretazioni non verrebbe mai realizzata dall’uomo virtuoso – non è sufficiente a escludere che una menzogna possa essere di fatto messa in atto da tale uomo e permane, in linea di principio, la possibilità di un inganno volontario perpetrato a fin di bene. A Ippia, convinto di poter mostrare che Omero ha invece rappresentato Achille come migliore di Odisseo e non menzognero, mentre quest’ultimo come astuto, mentitore e moralmente peggiore, Socrate cita alcuni versi omerici da cui Achille emergerebbe come πολύτροπος e mentitore; quanto a Odisseo sembra invece sufficiente di chi ha la capacità dei due opposti) all’intenderli nel secondo; cfr. infra la nota 23 al testo.

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negare che egli abbia mai mentito. Da notare però che la posizione dichiarata di Socrate nei confronti dei due eroi omerici è che entrambi siano eccellenti, ἄριστοι, e che sia difficile appurare quale dei due sia il migliore, cosicché il deprezzamento di Achille sembra equivalere a una prova per assurdo («secondo il tuo ragionamento», 370a2); con il metodo esegetico di Ippia e nell’impossibilità di appurare le reali intenzioni dell’autore si può altrettanto bene dimostrare la doppiezza di Achille, che sembra aver agito in modo contrario a quanto dichiarato. È qui che Ippia introduce una distinzione tra i due eroi basata sulla volontarietà del mentire, ascrivibile a Odisseo ma non ad Achille. Su questa base, però, Socrate, rifacendosi alla precedente tesi della superiore capacità del mentitore volontario, può spingersi a sostenerne la estrema degenerazione: chi volontariamente danneggia gli altri ed è ingiusto, mentendo e ingannando, è migliore di chi lo fa involontariamente (372d3-7). La possibile presa di distanze di Socrate dalla sua stessa tesi è sottolineata dalla notazione che si tratta di un «attacco di delirio» (κατηβολή, 372e1) che lo ha preso «nel momento presente» (372e5). Dopo un breve intermezzo (373a9-c6) Ippia accetta di rispondere alle domande di Socrate, che costituiscono l’argomento finale in favore della tesi provocatoria. Con una serie di esempi riferiti a varie abilità Socrate mostra che chi volontariamente provoca l’effetto contrario a quello proprio di una certa attività è migliore di chi lo fa involontariamente: un cattivo velocista che corre lentamente è inferiore a un bravo velocista che faccia la stessa cosa di proposito; costui è infatti anche in grado, a differenza del primo, di correre velocemente. Chi è migliore in qualsiasi pratica, tecnica o attività fisica è anche colui che è capace di produrre entrambi gli effetti opposti (ἀμφότερα ἐργάζεσθαι, 374a8). Soggetto di questo agire è l’anima, e dunque l’anima che opera male ed erra volontariamente è migliore di quella che agisce allo stesso modo involontariamente. Qui Ippia tenta di opporsi, applicando legittimamente questo risultato al-

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la giustizia e all’ingiustizia e basandosi sulla forza della diffusa convinzione (che è alla base di ogni legge, come già da lui ricordato a 372a) che essere volontariamente ingiusti sia peggiore dell’esserlo involontariamente. Ma la giustizia, insiste Socrate, o è una capacità (δύναμις) o una conoscenza (ἐπιστήμη) o entrambe le cose; piú giusta sarà dunque l’anima piú capace o quella che piú sa o quella che è entrambe le cose; ma quest’ultima è quella capace di produrre entrambi gli effetti opposti, male e ingiustizia e i loro contrari. L’uomo che possiede tale anima sarà dunque volontariamente ingiusto, e se esiste un tal uomo, costui non potrà che essere l’uomo buono, l’ἀγαθός. L’inaccettabilità della conclusione fa sí che Socrate descriva la propria condizione, servendosi di un’immagine per lui abituale, come uno sbandamento o una oscillazione in su e in giú. 2.

Interpretazioni del dialogo.

Le interpretazioni del dialogo sono di vario genere, a partire da quella che lo ha considerato semplicemente una satira nei confronti del sofista senza alcun contenuto positivo, o uno scherzo (παίγνιον) dialettico non inteso seriamente11; o uno stimolo alla riflessione sui concetti di buono e volontario12. L’interpretazione però forse piú diffusa individua la finalità del dialogo in una dimostrazione per assurdo della tesi socratica dell’involontarietà del male: se fosse possibile fare il male volontariamente, chi fa ciò sarebbe l’uomo virtuoso; ma la palese assurdità della conclusione mostra l’insostenibilità della premessa, adombrata nella condizione posta «se esiste un tal uomo», che andrebbe considerata falsa13. A questa inter  Wilamowitz 1919-20, II, pp. 135-39; Pohlenz 1913, pp. 57-72 e 80-85.   Sprague 1962, pp. 65-79. 13   Calogero 1984 (ed. or. in Calogero 1938); Guthrie 1975, pp. 197-99; Giannantoni 2005, pp. 275-84; Fronterotta 2005, p. 155. Argomenti contrari in Szlezák 1988, pp. 144-45.

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pretazione sostanzialmente “socratica” fanno riscontro altre di segno opposto. È stato possibile, per esempio, ribaltare il ragionamento e considerare il dialogo una critica dell’intellettualismo etico di Socrate: se la virtú consistesse unicamente nella conoscenza, dato che ogni conoscenza è potenzialità degli opposti, il virtuoso sarebbe colui che piú di tutti è in grado di fare il male e agire ingiustamente; una presa di distanze, dunque, di Platone rispetto al maestro14. Sottolinea invece la continuità Socrate-Platone chi ha letto nel dialogo una persistente confusione nel Socrate storico e nello stesso Platone su un tema che solo Aristotele chiarirà distinguendo ἀρετή e τέχνη, saggezza pratica e habitus o capacità tecnica15. In modo del tutto opposto, altre interpretazioni hanno sostenuto la possibilità di intendere seriamente l’intera argomentazione e di considerare vera la conclusione, se interpretata in modo qualificato: se la volontarietà si intende nel senso forte che a essa conferisce Platone, come implicante il sapere che è proprio del filosofo, allora solo chi possiede tale sapere è in grado di mentire con cognizione di causa e a fin di bene, secondo il modello della «nobile menzogna» della Repubblica, e di commettere atti ritenuti ingiusti secondo i comuni criteri di giudizio, ma in realtà rivolti al bene; tale persona sarà in effetti migliore di chi agisce senza piena volontarietà16. 3.

Il falso e l’inganno volontario.

Per orientarsi tra queste diverse opzioni è necessario individuare le ragioni del dissenso tra gli interpreti, gran parte del quale è riconducibile all’ambiguità delle formule che risultano centrali nell’argomentazione, prima tra tutte quella di ἑκὼν ψεύδεσθαι (dire volontariamente il

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  Horneffer 1904; Leisegang 1950, col. 2382; Gauss 1954, p. 13.   Vlastos 1991 (=1998, pp. 366-72). 16   Erler 1991; in una diversa prospettiva, Weiss 1981. 14 15

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falso), dovuta ai vari possibili significati della volontarietà (ἑκών) e del verbo ψεύδεσθαι; grande peso ha inoltre la problematicità del passaggio dallo ψεύδεσθαι – che in quanto mentire si qualifica nell’immediato in senso deteriore da un punto di vista morale, ma potrebbe avere risvolti positivi – all’agire ingiustamente, in quanto tale univocamente qualificato in senso negativo. ἑκών nel senso piú immediato indica la volontarietà intesa come un agire non coatto, un’azione liberamente e consapevolmente scelta dall’agente. Ma a seconda di come si intende quella consapevolezza, la volontarietà può acquisire una maggiore o minore consistenza. Se si fa ricorso ad altri dialoghi platonici si può riscontrare come un agire volontario in senso proprio presupponga un sapere che va ben oltre la semplice conoscenza delle circostanze e si identifica con il sapere proprio del filosofo. Poiché il bene è l’oggetto intenzionale della volontà, non si può volere altro che il bene e ogni agire che non realizzi il bene va in ultima analisi qualificato come involontario17. Propriamente volontario è dunque solo l’agire che realizza il bene. Dato però che non è possibile agire pienamente bene se non si conosce il bene, né, se si conosce in modo compiuto il bene, si può agire in senso contrario, propriamente volontario finisce per essere solo l’agire che presuppone piena conoscenza del bene. Ψεύδεσθαι può significare, a sua volta, dire (oggettivamente) il falso, oppure mentire consapevolmente, o anche essere nel falso, cioè sbagliarsi intorno a qualcosa. Combinando i vari significati, è evidente come la formula ἑκὼν ψεύδεσθαι possa essere intesa in modi diversi: a) essere volontariamente nel falso, o sbagliarsi intenzionalmente; b) mentire di proposito, possibile in questo senso a chiunque pratichi un inganno; 17   Cfr. in particolare Men., 78a-b; Hipp. Maj., 296b; Prot., 358a-359a; Gorg., 460a-c; 466a-469c; Resp., 413a-b.

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c) mentire con piena conoscenza del bene, cosa possibile solo al filosofo che sa; in questo caso è necessario trovare un senso a questo modo di agire, in prima istanza opposto alla dignità morale del σοφός. Aiuta a comprendere la (a) una distinzione posta nella Repubblica (382a1-d3) tra il falso nelle parole e il falso nell’anima, cioè l’ignoranza e l’essere in errore; il primo è solo un’imitazione e un’immagine del secondo; il falso nel discorso va dunque inteso, in tal caso, come un dire oggettivamente il falso e non come un mentire consapevolmente, essendo la conseguenza di una condizione di errore. Intesa in questo senso l’espressione rimane vuota di riferimento, poiché nessuno può voler essere in errore, ed equivale alla piú generica tesi dell’involontarietà del male, che nella sua formulazione canonica suona «nessuno sbaglia volontariamente» (οὐδεὶς ἑκὼν ἐξαμαρτάνει): come nessuno sbaglia volontariamente, cosi nessuno può realmente voler ingannare se stesso18. Dato che il significato (c) implica il riferimento ad altri dialoghi platonici, metodologia non universalmente condivisa, molti interpreti, attenendosi al criterio di spiegare il dialogo nella sua autonomia, non hanno ritenuto reperibile un senso in cui si possa considerare la tesi condivisa da Platone; in questa prospettiva l’ἑκὼν ψεύδεσθαι non potrebbe che significare il mentire deliberatamente. La tesi della superiorità del mentitore volontario viene di conseguenza considerata falsa, secondo il naturale principio di una valutazione negativa dell’inganno, o tutt’al piú limitata all’ambito strettamente tecnico, non equiparabile a quello etico. Nel quadro di un’interpretazione unitaria ci si può in18   Sempre nella Repubblica (535d9-e5), tuttavia, si contempla la possibilità che chi si trova involontariamente nel falso, colto in flagrante ignoranza, non ne sia contrito e continui a «sguazzarci». Sorge il problema di come la propria ignoranza possa essere una colpa e di come sia possibile essere consapevole della propria ignoranza e compiacersene. Aristotele risolverà il problema giungendo ad attribuire al soggetto la responsabilità della propria ignoranza; cfr. Eth. Nic., 1113b-1114b.

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vece basare su una serie di passi in cui viene teorizzata la possibilità di un mentire operato a fin di bene con piena consapevolezza. Nella Repubblica il falso nei discorsi, a differenza del «veramente falso» (ἀληθῶς ψεῦδος, 382b8), universalmente deplorato, è definito utile in una serie di circostanze: con gli amici, per esempio, come un farmaco che può distoglierli da azioni dissennate, o in generale nell’uso politico della mitologia, esplicitamente teorizzato da Platone, dove il falso viene fatto rassomigliare il piú possibile al vero (Resp., 376e sgg.; 382ae). Un falso il cui uso e le cui finalità sono limitate agli uomini, perché la divinità, perfettamente veritiera, non avrebbe nessuna necessità di mentire: «un poe­ta menzognero non alberga nel dio». L’emblema di questa possibilità concessa solo a chi sa è la celebre «nobile menzogna» della Repubblica, il mito dei metalli (Resp., 414b-415d): in origine il dio avrebbe plasmato gli uomini mescolando metalli piú o meno preziosi (l’oro nei governanti, l’argento negli ausiliari, il bronzo nei crematisti); un racconto mitico falso ma persuasivo, volto a giustificare la divisione della πόλις in classi facendola risalire a un’originaria differenza di natura tra gli uomini. Accanto alla considerazione delle affermazioni esplicite di Platone in tal senso, la valutazione positiva dell’ingannatore volontario ha dalla sua la raffigurazione del Socrate dei dialoghi elenctici, il Socrate che non rifugge da trucchi, da fallacie argomentative, da menzogne smaccatamente ironiche quali gli encomi esagerati dei suoi interlocutori; sono di questo genere, nell’Ippia minore, le reiterate affermazioni della sapienza del sofista (cfr. 368b; 369d; 372bd). Il comportamento di Socrate può essere considerato un’icastica illustrazione della stessa tesi secondo cui solo chi sa può mentire e ingannare deliberatamente. Un inganno, comunque, sempre orientato alla confutazione, che in quanto purificazione dell’anima dalle false opinioni è il maggior bene per chi ignora ed è bisognoso di apprendere19.

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  Cfr. Soph., 230b-e.

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Si può andare ancor oltre e vedere in filigrana nel verbo ἐξαπατᾶν (ingannare) una sfumatura di significato positiva, quella di un «deviare» che mette sulla strada giusta l’interlocutore. Un inganno che, conformemente all’etimologia originaria del termine ἀπάτη, può deviare l’interlocutore facendogli cambiare strada e mettendolo su quella giusta20. L’amore decantato nei dialoghi erotici, componente primaria della filosofia platonica, contiene in sé l’elemento dell’inganno, della risorsa intellettuale, della trama astuta: Eros è, nel Simposio, figlio di Poros, risorsa, ingegno, e nipote di Metis, l’intelligenza astuta; è mago (γόης: Symp., 203d8) e astuto macchinatore (ἐπίβουλος: Symp., 203d4)21, sempre intento a intrecciare trame (πλέκων μηχανάς: Symp., 203d6), come Socrate, l’erotico per eccellenza, intreccia, secondo Ippia, discorsi (πλέκεις λόγους, 369b8) da lui ritenuti fuorvianti. Ironicamente va dunque interpretata anche la dichiarazione di Socrate che l’ingannare di cui Ippia lo accusa sia involontario (373b6-9)22; diversamente il sapiente gioco condotto da Socrate con il suo interlocutore andrebbe ridotto a un evento del tutto casuale. Nulla è piú evidente di come il turbinio cui è sottoposto il sofista sia l’effetto dell’abilità dialettica di Socrate, sempre pienamente padrone degli strumenti del discorso e capace di condurlo agli esiti voluti. L’eventuale uso di argomentazioni scorrette, se non di veri e propri sofismi, va inquadrato in questa prospettiva. Socrate di fatto “mente” anche in questo dialogo, a meno di non volere perdere l’ironia smaccata contenuta in affermazioni quali quelle della sapienza di Ippia e della sua superiorità (369d1-2; 376c) o quelle relative a situa20   Cfr. Phaedr., 261e-262, su cui cfr. Centrone 2000 (=2011). Nell’Ipparco, dialogo non attribuibile a Platone, ma dai contenuti platonici, è evidente come l’ἐξαπατᾶν di Socrate, lungi dal poter essere considerato un reale inganno, metta l’interlocutore sulla strada giusta (cfr. in particolare Hipparch., 228a-229e). 21   Gli stessi epiteti sono attribuiti da Socrate ad Achille (Hipp. Min., 371a3). 22   La professione di ignoranza implica necessariamente l’ammissione che l’inganno sia involontario; diversamente Socrate sarebbe sapiente, cfr. 373b7. Se dunque si accetta che tale professione sia ironica, dovrà esserlo anche la corrispondente ammissione.

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zioni in cui il disaccordo tra i due è assunto da Socrate a riprova della sua propria ignoranza, che lo metterebbe in condizione di potere, da Ippia, solo imparare (372bc). 4.

L’esegesi omerica.

Legata a una valutazione favorevole del mentitore volontario in senso forte è, a livello drammatico, l’interpretazione in senso positivo della figura di Odisseo, incarnazione della menzogna volontaria, proposta da parte della critica23 e comunque problematica. Connessa a questa rivalutazione è l’interpretazione dell’ambiguo termine πολύτροπος riferito a Odisseo. Una rivalutazione dell’eroe omerico non era senza precedenti nei circoli socratici. In base a una testimonianza di Porfirio, si può ricostruire come Antistene avesse cercato di conciliare la qualifica di σοφός attribuita a Odisseo con quella di πολύτροπος, mettendo in luce la doppia valenza di τρόπος nel senso di «carattere» e nel senso di «modalità»24. In questo secondo senso di τρόπος, applicabile al linguaggio, la politropia può venire a significare la versatilità nell’uso degli strumenti linguistici. Il sapiente è in tal senso caratterizzato dalla capacità di usare diversi registri comunicativi; Odisseo, dunque, capace di rapportarsi agli uomini in molteplici modi, come, tra i sapienti, Pitagora, che secondo la tradizione dei discorsi tenuti a Crotone, si serví di λόγοι diversi adattandoli ai differenti destinatari, ragazzi, donne, governanti. Questo 23   Giuliano 1995 (= 2004); Luzzatto 1996, cfr. pp. 294-99 e indipendentemente, come è ovvio, Levystone 2005 (contro Blundell 1992), che vede raffigurata nella politropia di Odisseo la versatilità, in senso negativo, dei sofisti e dell’Atene democratica; secondo Montiglio 2007 la valutazione positiva di Odisseo non può basarsi sull’Ippia minore, che lascia la questione aperta, ma si attua solo nella Repubblica. 24   Cfr. Schol. ad Od., α 1 = Socratis et Socraticorum reliquiae, V, A, 187 Giannantoni. Platone polemizza contro Antistene, secondo Brancacci 1990, pp. 45-55; Kahn 1996 (2008, pp. 125-28); di diverso avviso Giuliano 1995 (=2004, pp. 121-28); Luzzatto 1996, cfr. pp. 293-94 e la replica di Brancacci 1996, particolarmente pp. 385-86.

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precedente può costituire un indizio a favore dell’ipotesi di una rivalutazione dell’eroe omerico in Platone, che si appoggia inoltre ad altri passi platonici in cui Odisseo è visto in una luce positiva; nella Repubblica, per esempio, dove gli viene attribuita la qualifica di σοφώτατος (390a8)25, o laddove si citano i corrispondenti versi omerici per metterne in rilievo la fermezza d’animo (καρτερία)26. Si può ritenere che manchino sostegni definitivi per attribuire a Platone una valutazione positiva dell’eroe omerico orientata in un senso analogo a quello dell’interpretazione antistenica. Un suo atteggiamento positivo nei confronti di Odisseo rimane tuttavia altamente verosimile, non solo sul terreno dell’esegesi omerica, ma anche in riferimento alla tendenza a non porre in una luce sfavorevole personaggi che di fatto costituivano all’epoca modelli educativi importanti. Platone è in linea di principio restio a svalutare figure di origine divina o eroi della tradizione comunemente indicati come possibili modelli di comportamento; il carattere ironico della valutazione negativa di Achille, dipinto da Socrate come impostore e mentitore, è segnalato dalla notazione che il figlio di una dea, educato dal nobilissimo centauro Chirone, non poteva essere cosí smemorato da comportarsi incoerentemente (371c6-d2). Ed è plausibile pensare che l’intelligenza poliedrica di Odisseo, capace di inganni attuati per un fine superiore ed eroe in ultima analisi positivo, abbia impressionato Platone in senso favorevole. 5.

Dal mentire volontario all’ingiustizia volontaria.

Piú che problematico rimane comunque il passaggio dalla tesi della superiorità del mentitore volontario alla conclusione, espressa in una forma non solo parados25   Cfr. anche Montiglio 2007, la cui ricostruzione di un nuovo «mito di Odisseo» in Platone è però molto congetturale. 26   Cfr. Symp., 220c; Resp., 390d.

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sale e moralmente inaccettabile, ma intrinsecamente auto­contraddittoria: la persona che è volontariamente ingiusta altri non sarebbe che l’uomo buono; tesi, questa, che in nessun modo sembra possibile attribuire a Platone. Tale impossibilità è segnalata dalla descrizione da parte di Socrate della sua condizione, nell’atto di sostenere quella tesi, come un attacco di delirio (κατη­ βολή, 372e1), e da altre limitazioni: cosí gli pare «al momento presente» e l’esito è dovuto ai precedenti discorsi (372e3-6). In altre parole, il salvataggio della tesi della superiorità del mentitore volontario mediante il riferimento alla nobile menzogna della Repubblica non giustifica il passaggio all’esito estremo. Se è possibile mentire volontariamente in senso buono, non è possibile fare il male o autoingannarsi volontariamente27; la condizione «se esiste un tal uomo» va in ogni caso considerata un’ipotesi impossibile, anche se non si individua quale scopo principale del dialogo la dimostrazione dell’impossibilità di commettere il male volontariamente. Il punto decisivo è che Ippia deve accettare questo ulteriore passaggio, non essendo in grado di decifrare nel loro vero senso le affermazioni di Socrate, di individuarne (distinguendo eventualmente le diverse modalità del mentire volontario, la polivalenza di ψεύ­ δεσθαι e quella di ἀγαθός), le condizioni di validità, e di comprendere in che modo un agire del genere possa avere una valenza positiva. Socrate può permettersi di portare il suo interlocutore, in sua completa balia, sul terreno dell’assurdo. Ma come avviene la transizione? Decisivo è il passaggio, da un lato dalla conoscenza all’agire pratico-produttivo, dall’altro dalla semplice capacità all’attuazione pratica, e infine dal valore prestazionale del termine 27   Se non nel senso di compiere azioni normalmente ritenute ingiuste, ma che non lo sono in riferimento alla disposizione interna dell’agente o alle particolari circostanze (per esempio Resp., 331c : non restituire l’arma, in teoria dovuta, a un pazzo). Ma in questo caso si tratta, appunto, di azioni non ingiuste, ma giuste.

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ἀγαθός (bravo) a quello morale (buono, virtuoso), tramite la polifunzionalità riconosciuta all’anima (ψυχή). La tesi secondo cui chi possiede un sapere è anche colui che è in grado di realizzare al meglio le finalità opposte all’oggetto di quella scienza o arte compare ripetutamente nei dialoghi in differenti formulazioni28. Suo corollario è che il possessore di questo sapere, quando per ipotesi produce l’opposto effetto negativo, è migliore di chi lo fa involontariamente. Se è il bravo medico il soggetto capace di causare al meglio la malattia, costui è indiscutibilmente superiore, dal punto di vista tecnico, all’inesperto che causa lo stesso effetto involontariamente perché incapace. Una formulazione piú generale è la tesi accademica per cui gli opposti sono oggetto di una medesima scienza, frequentemente citata da Aristotele29. L’ἐπιστήμη alla quale in alcuni dialoghi aporetici vengono ricondotte le singole virtú, la cui definizione individuale non ha successo, è conoscenza sia del bene che del male. Se la tesi può considerarsi vera nell’ambito tecnico-epistemico, problematica è invece la transizione nella sfera etica, derivante dall’analogia posta spesso nei dialoghi tra ἀρετή e τέχνη. L’analogia e il grado di adesione a essa da parte di Platone è un altro tra i temi piú discussi dalla critica. Proprio per la conclusione assurda che ne deriverebbe Aristotele stabilirà una netta demarcazione tra virtú/saggezza pratica e arte/tecnica, tra ἀρετή/φρόνησις e τέχνη: chi sbaglia volontariamente è, nel campo della τέχνη, migliore, mentre nel campo dell’agire pratico è peggiore (Eth. Nic., 1140b22-24). Proprio riferendosi all’Ippia minore, Aristotele rileva la falsità implicita nella conclusione della superiorità di chi è volontariamente malvagio, ottenuta tramite un’induzione fallace: la volontarietà di chi di proposito zoppica è solo una imitazione dell’essere volontariamente zoppo; se quest’ultima eventualità

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  Cfr. per esempio Resp., 333e-334a.   Cfr. per esempio Top., 104a15-16; An. pr., 69b9-10.

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fosse possibile, essa configurerebbe invece una inferiorità morale (Metaph., 1025a6-13)30. Quanto ad ἀγαθός, in generale, prima ancora di avere valenza etica, il termine indica in greco abilità prestazionali, capacità e bravura. La qualifica di ἀγαθός segnala varie forme di eccellenza, non solo in relazione alle qualità morali della persona, quali il coraggio o la nobiltà d’animo, ma anche rispetto a qualità fisiche (la forza) o a beni esteriori (ricchezza, posizione sociale), talvolta in aperto contrasto con un’accezione che definiremmo morale. Per i Greci di età arcaica è possibile essere ἀγαθός e comportarsi in modo ingiusto o moralmente riprovevole (il caso di Achille definito ἀγαθός proprio mentre compie azioni raccapriccianti)31. Platone sfrutta queste valenze nell’argomento finale, da 373c6 in poi, dove ἀγαθός o i corrispondenti comparativi (ἀμείνων, βελτίων) sono riferiti inizialmente a chi esercita una certa abilità (il corridore, il lottatore), poi a facoltà fisiche e di qui all’anima stessa, sede delle capacità intellettuali e tecniche, ma ovviamente anche di quelle morali: diviene in tal modo possibile trasferire la tesi della superiorità del volontario realizzatore dell’opposto di una certa arte dalle varie abilità alla giustizia; essendo la giustizia una facoltà (e una conoscenza) dell’anima, l’anima migliore sarà quella capace di entrambi gli opposti, dunque della giustizia come dell’ingiustizia. L’uomo ἀγαθός, tale in quanto possiede una corrispondente anima, sarebbe dunque quello piú capace di ingiustizia, perché capace, come i precedenti ἀγαθοί, di realizzare entrambi gli opposti32. Sul versante della capacità, si potrebbe pensare di salvare la formulazione finale in un senso qualificato: l’ἀγαθός sarebbe, a livello di capacità, la persona teo  Cfr. anche la nota 61 del commento.   Cfr. Omero, Il., 24, 50-54. 32   Lo scivolamento dal valore prestazionale a quello etico di nozioni come ἀγαθόν e ἀρετή è anche altrove impiegato a fini confutatori, per esempio nel dialogo con Trasimaco in Resp., 348b8-350b11.

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ricamente in grado di compiere (o forse di concepire) le peggiori ingiustizie; se è vero che è convinzione di Platone che le grandi nature, anche quando non conseguono la conoscenza del bene, sono quelle in grado di compiere i piú grandi mali33, a fortiori questo dovrebbe valere per gli ἀγαθοί. L’uomo ἀγαθός non può però, per definizione, rivolgere tale capacità in senso opposto al bene, che una volta conosciuto attrae irresistibilmente. Se è stato possibile pensare che Platone sia rimasto per primo vittima della analogia posta o che abbia alluso ai limiti di un’analogia che alcuni ritengono attribuibile al Socrate storico, piú probabile sembra l’ipotesi che invece qui venga segnalata, anche senza essere tematizzata fino in fondo, la differenza strutturale tra la τέχνη comunemente intesa e il sapere del bene, che non può, qualora sia presente in un uomo, causare il comportamento opposto. Come insegna il Protagora (352b-c), la conoscenza epistemica del bene, se è veramente tale, non può essere sopraffatta da nulla. Il fatto che Platone non abbia rigidamente distinto i due ambiti, come in seguito farà Aristotele, non può oscurare la particolarità dello statuto di tale sapere, ripetutamente ribadita nei dialoghi. 6.

La contraffazione del filosofo.

L’Ippia minore inscena dunque la consueta contrapposizione tra il filosofo, rappresentato da Socrate, e il sofista, sua contraffazione, benché la descrizione di quest’ultimo figuri solo di passaggio nell’ambito degli argomenti proposti – senza con ciò risultare meno efficace. In particolare, di Ippia viene messa in ridicolo la pretesa di una conoscenza universale, impossibile imitazione del sapere filosofico34. Il sapere enciclopedi  Cfr. Resp., 491d-e, che si riferisce probabilmente ad Alcibiade.   Il sofista si professa in possesso di un sapere universale (cfr. Soph., 232a-234d).

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co compare qui, da un lato nella menzione delle varie discipline in cui Ippia vanta la sua perizia (aritmetica, geometria, astronomia, discipline fondamentali nell’organizzazione platonica del sapere, o la mnemotecnica), dall’altro nelle sue applicazioni pratiche, disegnando una caricaturale autarchia rispetto ai bisogni essenziali. Ippia produce da solo tutto ciò che gli serve, dalla cintura all’ampolla. Modello, questo, criticato nel Carmide (161b sgg.) e nella Repubblica, dove la πόλις si origina proprio dalla non autosufficienza di ciascuno rispetto a tali bisogni e necessità35. La pretesa di un sapere universale trova espressione a livello psicologico nella smisurata presunzione di Ippia, analoga a quella messa in mostra nell’Ippia maggiore: egli si proclama in grado di rispondere a chiunque su qualunque argomento (363d) e non ha mai incontrato, da quando gareggia, qualcuno migliore di lui (364a7-9). La contrapposizione trova espressione nel gioco ironico del ribaltamento dei ruoli: è Ippia che dovrebbe «risanare l’anima» di Socrate (372e7; in genere un compito caratteristico del filosofo), liberarlo dall’ignoranza, analogo della malattia del corpo, e dal suo continuo «oscillare». Ambito specifico di questa contrapposizione ai sofisti è uno dei campi in cui si dispiegava la loro attività: l’esegesi di Omero, cardine della παιδεία greca. Come noto, soprattutto dalla Repubblica, Platone è fortemente contrario a basare l’educazione sui poe­ti e in particolare su Omero, ed è inoltre in generale critico verso questo tipo di attività ermeneutica, per ragioni che si possono desumere dalla critica della scrittura contenuta nel Fedro e da altri passi dei dialoghi: uno dei motivi di diffidenza verso lo scritto è la sua incapacità di difendersi in assenza del suo autore, o detto altrimenti, l’impossibilità di appurare i suoi intendimenti, unito al fatto che lo scritto ripete sempre le stesse cose36;

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  Cfr. Resp., 369b5-7 sgg.   Phaedr., 275d4 sgg.

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il dialogo è possibile solo con chi assuma su di sé le responsabilità del discorso, cosa che Ippia fa accettando di rispondere anche per conto di Omero. L’esegesi di Omero, non direttamente interrogabile, passa cosí in secondo piano. È per Platone impossibile, e in ultima analisi non cosí interessante, appurare definitivamente come Omero abbia inteso rappresentare Odisseo. Per questo Socrate può adottare criteri che talvolta sembrano sconfinare in interpretazioni arbitrarie o capziose, come avviene esemplarmente nel Protagora con il carme di Simonide (Prot., 339a sgg.). Decisivo diventa invece l’esame dell’interlocutore che abbia accettato di discutere in prima persona, e ciò è segnato dal passaggio da un discorso lungo (μακρὸς λόγος), mezzo nel quale si dispiega l’esegesi omerica dei sofisti, a un dialogare in brevi battute (κατὰ βραχὺ διαλέγεσθαι), posto da Socrate come condizione della discussione (373a). La superiorità che Socrate rivela anche nell’esegesi omerica rispetto al sofista passa in secondo piano rispetto a quella che si dispiega nel confronto dialettico volto alla ricerca del vero. 7.

Cronologia e autenticità.

L’Ippia minore è stato tradizionalmente posto all’inizio della produzione platonica, sia per la sua brevità, sia per il carattere aporetico37: l’ipotesi è stata confermata dall’indagine stilometrica38. La lista dei sostenitori dell’inautenticità non è esigua (Ast, Schleiermacher, Lutoslawski, Arnim, Tarrant, Bluck; dubbioso Thesleff)39, ma il problema non è stato 37   Wilamowitz 1919-20, I, p. 136 riteneva il dialogo anteriore alla morte di Socrate, che vi è rappresentato come un immoralista; cosí anche Ritter 1933, p. 39, nota 1; Friedländer 2004, p. 553 (=1964, II, pp. 133-34). 38   Ledger 1989, pp. 159-60. 39   Cfr. Thesleff 1982, pp. 220-21, che propende per l’attribuzione a un discepolo di Platone.

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piú sollevato in tempi recenti. La testimonianza di Aristotele, che cita il dialogo in Metaph., 1025a6-13, senza comunque fare il nome di Platone, è stata generalmente assunta a riprova dell’autenticità, evitando all’Ippia minore, come notò Friedländer40, il destino – cui sarebbe altrimenti andato incontro – di essere bollato come inautentico41.   Friedländer 2004, p. 553 (=1964, II, p. 134).   Secondo Thesleff 1982, p. 221, nota 48, la testimonianza aristotelica dimostrerebbe solo che si tratta di un testo accademico anteriore alla Metafisica. Ma soltanto un’opera ben nota come di Platone potrebbe essere citata da Aristotele con il solo titolo.

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363 [a] ευδικος Σὺ δὲ δὴ τί σιγᾷς, ὦ Σώκρατες, Ἱππίου τοσαῦτα ἐπιδειξαμένου, καὶ οὐχὶ ἢ συν­ επαινεῖς τι τῶν εἰρημένων ἢ καὶ ἐλέγχεις, εἴ τί σοι μὴ καλῶς δοκεῖ εἰρηκέναι; ἄλλως τε ἐπειδὴ καὶ αὐτοὶ λελείμμεθα, οἳ μάλιστ᾿ ἂν ἀντιποιησαίμεθα | μετεῖναι ἡμῖν τῆς ἐν φιλοσοφίᾳ διατριβῆς. σωκρατης Καὶ μήν, ὦ Εὔδικε, ἔστι γε ἃ ἡδέως ἂν πυθοίμην [b] Ἱππίου ὧν νυνδὴ ἔλεγεν περὶ Ὁμήρου. καὶ γὰρ τοῦ σοῦ πατρὸς Ἀπημάντου ἤκουον ὅτι ἡ

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363 [a] eudico E tu perché stai cosí zitto, Socrate, benché Ippia1 abbia condotto una cosí ampia esibizione oratoria? Perché non dài la tua approvazione a qualcuna delle cose dette o la confuti, se non ti è parsa ben formulata? In particolare, considera anche che noi siamo rimasti qui, e pretendiamo assolutamente di prender parte a discorsi di argomento filosofico2. socrate In effetti, Eudico3, tra le cose che or ora Ippia diceva su Omero [b] ve ne sono di sicuro alcune sulle quali vorrei sapere di piú da lui4. Vedi, ho sentito piú volte da tuo padre Apemanto che, tra le opere di 1   Per la figura dell’Ippia storico e le differenze nella connotazione del personaggio nei due dialoghi a cui dà il titolo cfr. infra la nota complementare 1, pp. 501-2; per la datazione drammatica cfr. supra la nota 3 all’Ippia maggiore. 2   L’espressione διατριβὴ ἐν φιλοσοφίᾳ richiama discussioni per le quali Platone rivendica un forte rilievo “filosofico” (cfr. per esempio Phaedo, 63e10; Theaet., 172c3 sgg.; Resp., VII, 540b2), ma è significativo che qui sia pronunciata da Eudico per descrivere il dialogo con Ippia. Ciò dipende dalla complessità del termine φιλοσοφία, che è dotato di una semantica comune (cfr. per esempio Menex., 234a5 e la nota 3 al dialogo, ma anche Tucidide, II, 40, 1) e riceve solo con Platone una specializzazione in termini di peculiare e caratterizzata occupazione intellettuale. Sembra cosí probabile che Platone usi volontariamente il termine all’inizio del dialogo: Ippia non riuscirà in alcun modo ad avvicinarsi a una possibile “autentica” dimensione filosofica, né a cogliere la portata di alcune enunciazioni (cfr. infra, passim, nelle note di commento); piuttosto, egli si prefigura anche in questo dialogo come una contraffazione del filosofo (cfr. supra l’introduzione, pp. 202-4). 3   Al di fuori delle menzioni nei dialoghi platonici (cfr. anche Hipp. Maj., 286b7) nulla è noto di Eudico, figlio di Apemanto. 4   Tra le occupazioni sofistiche di Ippia rientravano evidentemente le esibizioni retoriche dedicate all’esegesi letteraria del testo di Omero (cfr. del resto Hipp. Maj., 285d6 sgg. e infra la nota complementare 1, pp. 501-2; inoltre Bonazzi 2010b, pp. 65-72, per l’attività di esegesi letteraria dei sofisti).

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Ἰλιὰς κάλλιον εἴη ποίημα τῷ Ὁμήρῳ ἢ ἡ Ὀδύσσεια, τοσούτῳ δὲ κάλλιον, ὅσῳ ἀμείνων Ἀχιλλεὺς Ὀδυσσέως εἴη· ἑκάτερον γὰρ τούτων τὸ μὲν | εἰς Ὀδυσσέα ἔφη πεποιῆσθαι, τὸ δ᾿ εἰς Ἀχιλλέα. περὶ ἐκείνου οὖν ἡδέως ἄν, εἰ βουλομένῳ ἐστὶν Ἱππίᾳ, ἀναπυθοίμην ὅπως αὐτῷ δοκεῖ περὶ τοῖν ἀνδροῖν τούτοιν, πότερον [c] ἀμείνω φησὶν εἶναι, ἐπειδὴ καὶ ἄλλα πολλὰ καὶ παντοδαπὰ ἡμῖν ἐπιδέδεικται καὶ περὶ ποιητῶν τε ἄλλων καὶ περὶ Ὁμήρου. ευδικος Ἀλλὰ δῆλον ὅτι οὐ φθονήσει Ἱππίας, ἐάν τι αὐτὸν | ἐρωτᾷς, ἀποκρίνεσθαι. ἦ γάρ, ὦ Ἱππία, ἐάν τι ἐρωτᾷ σε Σωκράτης, ἀποκρινῇ; ἢ πῶς ποιήσεις; ιππιας Καὶ γὰρ ἂν δεινὰ ποιοίην, ὦ Εὔδικε, εἰ Ὀλυμπίαζε μὲν εἰς τὴν τῶν Ἑλλήνων πανήγυριν, ὅταν τὰ Ὀλύμπια ᾖ, [d] ἀεὶ ἐπανιὼν οἴκοθεν ἐξ Ἤλιδος εἰς τὸ ἱερὸν παρέχω ἐμαυτὸν καὶ λέγοντα ὅτι ἄν τις βούληται ὧν ἄν μοι εἰς ἐπίδειξιν παρεσκευασμένον ᾖ, καὶ ἀποκρινόμενον τῷ βουλομένῳ ὅτι ἄν τις ἐρωτᾷ, νῦν δὲ τὴν Σωκράτους ἐρώτησιν φύγοιμι. 364 [a] σωκρατης Μακάριόν γε, ὦ Ἱππία, πάθος πέπονθας, εἰ ἑκάστης Ὀλυμπιάδος οὕτως εὔελπις ὢν

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Omero, l’Iliade sarebbe un poema piú bello dell’Odissea, e piú bello nella misura in cui Achille sarebbe migliore di Odisseo. Affermava infatti che dei due poemi l’uno è stato composto in funzione di Odisseo, l’altro in funzione di Achille. Proprio su questo, dunque, lo interrogherei volentieri piú da vicino – se davvero Ippia lo vuole –, cioè su cosa gli pare di questi due uomini e quale [c] sia a suo avviso migliore, visto che ci ha già esibito anche molte altre cose e di ogni tipo su altri poe­ti e su Omero5. eudico Se gli poni una domanda, è chiaro che Ippia non si rifiuterà di rispondere. Non è vero, Ippia, che se Socrate ti chiederà qualcosa, tu gli risponderai? Come ti comporterai altrimenti? ippia Farei qualcosa di tremendo, Eudico, se proprio io, che mi reco sempre a Olimpia per l’assemblea di tutti i Greci ogniqualvolta si tengano i giochi olimpici, [d] che dalla mia patria, Elide, raggiungo il tempio, e che offro me stesso dicendo a chiunque ciò che lui voglia sui temi preparati per l’esibizione oratoria e rispondendo a chi vuole ciò che mi chiede, proprio io volessi sfuggire ora alle domande di Socrate6. 364 [a] socrate Beata davvero, Ippia, è allora la tua condizione, se a ogni Olimpiade ti rechi al tempio 5   A differenza del modestissimo Ione, a Ippia è concessa una qualche competenza su un ampio spettro di opere e poe­ti, anche se le interpretazioni che egli fornirà saranno del tutto insufficienti. La tesi riportata, quella della superiorità di Achille su Odisseo e conseguentemente dell’Iliade sull’Odissea, è ben attestata nella tradizione, che però registra anche l’eccellenza intellettuale di Odisseo, qui sottoposta a indagine (cfr. infra la nota 11); cfr. Giuliano 2004, pp. 109-15. 6   Ippia si presenta subito con i caratteri del sofista itinerante, in grado di parlare e rispondere su tutto. In particolare, significativo è il ripetuto accento sulla capacità di rispondere a qualsiasi domanda dopo l’esibizione retorica, come anche il mettersi “a disposizione” dell’interrogazione (cfr. per esempio Gorg., 447c5-8): Ippia rivendica la capacità di lasciarsi bersagliare di domande da chiunque senza paura, sicuro di sapere tutto (nonostante la limitazione, forse ironicamente insinuata da Platone, all’argomento dell’esibizione). Il carico di ironia si fa però marcato se si considera che nell’Ippia minore Ippia, proprio perché risponde supinamente a ogni domanda, viene condotto, senza che ne abbia coscienza, a conclusioni paradossali che non accetta.

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περὶ τῆς ψυχῆς εἰς σοφίαν ἀφικνῇ εἰς τὸ ἱερόν· καὶ θαυμάσαιμ᾿ ἂν εἴ τις τῶν περὶ τὸ σῶμα ἀθλητῶν οὕτως ἀφόβως τε καὶ πιστευτικῶς ἔχων τῷ | σώματι ἔρχεται αὐτόσε ἀγωνιούμενος, ὥσπερ σὺ φῂς τῇ διανοίᾳ. ιππιας Εἰκότως, ὦ Σώκρατες, ἐγὼ τοῦτο πέπονθα· ἐξ οὗ γὰρ ἦργμαι Ὀλυμπίασιν ἀγωνίζεσθαι, οὐδενὶ πώποτε κρείττονι εἰς οὐδὲν ἐμαυτοῦ ἐνέτυχον. [b] σωκρατης Καλόν γε λέγεις, ὦ Ἱππία, καὶ τῇ Ἠλείων πόλει τῆς σοφίας ἀνάθημα τὴν δόξαν εἶναι τὴν σὴν καὶ τοῖς γονεῦσι τοῖς σοῖς. ἀτὰρ τί δὴ λέγεις ἡμῖν περὶ τοῦ Ἀχιλλέως τε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως; πότερον ἀμείνω καὶ κατὰ τί | φῂς εἶναι; ἡνίκα μὲν γὰρ πολλοὶ ἔνδον ἦμεν καὶ σὺ τὴν ἐπίδειξιν ἐποιοῦ, ἀπελείφθην σου τῶν λεγομένων – ὤκνουν γὰρ ἐπανερέσθαι, διότι ὄχλος τε πολὺς ἔνδον ἦν, καὶ μή σοι ἐμποδὼν εἴην ἐρωτῶν τῇ ἐπιδείξει – νυνὶ δὲ ἐπειδὴ ἐλάττους τέ

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tanto fiducioso nella sapienza della tua anima! Mi stupirei se uno degli atleti, quelli che si battono col corpo, si recasse là per l’agone tanto privo di paura, con tanta fede nel proprio corpo quanta tu affermi di averne nella tua intelligenza7. ippia Socrate, che io sia in questa condizione è facile da capire: da quando ho cominciato a competere nell’agone in occasione delle Olimpiadi non mi sono mai e poi mai imbattuto in nessuno che mi fosse in qualcosa superiore8. [b] socrate È bello ciò che dici, Ippia: la tua fama è per la città di Elide e per i tuoi genitori un monumento alla sapienza! Ma cosa ci dici di Achille e Odisseo? A tuo avviso chi è migliore, e secondo quale criterio?9. Vedi, prima dentro eravamo in molti e mentre tu producevi la tua esibizione oratoria io non sono riuscito a seguire ciò che dicevi; avevo vergogna, infatti, di chiederti una serie di cose, poiché dentro c’era una gran massa di gente e non volevo essere di impedimento all’esibizione con le mie domande10. Ora, però, visto che siamo ormai 7   Socrate coglie prontamente la vocazione agonistica dell’attività del sofista (cfr. Erler 1991, p. 211, nota 1) e lo paragona agli atleti delle Olimpiadi (la sintassi greca evidenzia un’intraducibile parallelismo tra l’essere fiducioso nell’anima – come è Ippia – e l’aver fede nel proprio corpo – come gli atleti). Una simile caratterizzazione è ben accetta per Ippia, che vi vede il riconoscimento della propria capacità retorica, ma implica già una dura condanna da parte di Platone proprio per la natura non filosofica ma eristica dell’attività in questione; cfr. per esempio Gorg., 457c4-e1 (allusione indiretta) e 471e2472c6; nel contesto “sofistico” del Protagora (336d6-e4), inoltre, Crizia invita i presenti, e in particolare Socrate e Protagora, a non aspirare semplicemente alla vittoria nella discussione. L’accusa di φιλονικία, però, è talvolta rivolta a Socrate dai suoi interlocutori; cfr. infra la nota 41. 8   Ippia accetta di buon grado la caratterizzazione fornita da Socrate. La frase del sofista sembra riecheggiare il proemio dell’Iliade (particolarmente I, 6-7), in cui il nesso ἐξ οὗ identifica il momento da cui inizia la narrazione, cioè la rimanda alla nascita della contesa tra Agamennone e Achille. Una simile reminiscenza sembrerebbe inoltre ben calzante rispetto alla scena eristica evocata, quella della “sfida” tra Ippia e ogni altro retore/esegeta di Omero. 9   Socrate pone in tali termini il tema iniziale del dialogo, che in questo momento – cioè nella misura in cui è aderente al testo di Omero – si prefigura come uno ζήτημα omerico (cfr. Giuliano 2004); cfr. però infra la nota 21. 10   La situazione descritta è comune alle rappresentazioni platoniche delle esibizioni retoriche pubbliche, con la grande folla di uditori e lo spaesamento di Socrate. D’altro canto già la natura monologica dell’esibizione sofistica e la

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ἐσμεν καὶ Εὔδικος ὅδε κελεύει ἐρέσθαι, εἰπέ τε καὶ [c] δίδαξον ἡμᾶς σαφῶς, τί ἔλεγες περὶ τούτοιν τοῖν ἀνδροῖν; πῶς διέκρινες αὐτούς; ιππιας Ἀλλ᾿ ἐγώ σοι, ὦ Σώκρατες, ἐθέλω ἔτι σαφέσ­ τερον ἢ τότε διελθεῖν ἃ λέγω καὶ περὶ τούτων καὶ ἄλλων. φημὶ | γὰρ Ὅμηρον πεποιηκέναι ἄριστον μὲν ἄνδρα Ἀχιλλέα τῶν εἰς Τροίαν ἀφικομένων, σοφώτατον δὲ Νέστορα, πολυτροπώτατον δὲ Ὀδυσσέα. σωκρατης Βαβαῖ, ὦ Ἱππία· ἆρ᾿ ἄν τί μοι χαρίσαιο τοιόνδε, μή μου καταγελᾶν, ἐὰν μόγις μανθάνω τὰ λεγόμενα καὶ [d] πολλάκις ἀνερωτῶ; ἀλλά μοι πειρῶ πρᾴως τε καὶ εὐκόλως ἀποκρίνεσθαι. ιππιας Αἰσχρὸν γὰρ ἂν εἴη, ὦ Σώκρατες, εἰ ἄλ­ λους μὲν αὐτὰ ταῦτα παιδεύω καὶ ἀξιῶ διὰ ταῦτα

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meno e il nostro Eudico mi incita a interrogarti, dicci e [c] spiegaci chiaramente cosa dicevi su questi due uomini: in base a cosa li differenziavi? ippia Socrate, voglio svolgere per te ancor piú chiaramente di prima quanto dico, su questo e altri argomenti. Affermo infatti che Omero ha ritratto Achille come il migliore degli uomini che andarono a Troia, Nestore come il piú sapiente, Odisseo come il piú multiforme11. socrate Accidenti, Ippia! Vorrai usare nei miei confronti questa gentilezza, di non deridermi qualora avessi difficoltà a capire ciò che dici e [d] ponessi frequentemente domande? Impegnati piuttosto a rispondere con affabilità e pazienza. ippia Sarebbe brutto, Socrate, se io, che ad altri insegno queste stesse cose e pretendo per questo di acdiffusione indiscriminata di teorie che Socrate ha legato a temi etici centrali (364a1-3) rappresentano elementi del tutto negativi dell’attività di Ippia. Socrate (cfr. anche 364c8-d2) si impegna quindi implicitamente a portare Ippia su un diverso e piú autentico campo di discussione, quello dialogico, che rappresenta la vera dimensione di confronto filosofico (cfr. Gorg., 471e2-c6, e supra l’introduzione, pp. 203-4). 11   Ippia produce una concisa descrizione di tre figure centrali dei poemi omerici in base alle loro caratterizzazioni classiche senza darne un chiarimento reale; ciò motiva l’esclamazione ironica con cui Socrate risponde. Nestore è il vecchio saggio per antonomasia (cfr. per esempio Il., I, 253; II, 78), mentre Achille è il piú valido guerriero (cfr. Giuliano 2004, pp. 100-9), ma qui (grazie all’ampiezza semantica di ἀγαθός – centrale nel prosieguo del dialogo – e del suo superlativo ἄριστος) il suo valore può essere esteso fino a divenire l’uomo migliore di tutti. Odisseo è invece caratterizzato, in base all’incipit dell’Odissea, con l’aggettivo πολύτροπος. La connotazione negativa dell’aggettivo (reso con il classico «multiforme», da intendere comunque – almeno nella prospettiva del sofista – come allusivo alla plurivocità e all’ambiguità di Odisseo) è tratta da Ippia non direttamente dall’Iliade e dall’Odissea ma da altre istanze della tradizione epica, come testimonia per esempio Esiodo (fr. 198), poi divenute “canoniche” nell’Atene classica; sul tema cfr. Erler 1991, pp. 212-14, e Lévystone 2005, pp. 182-83. In questo contesto – a differenza di quello omerico (cfr. supra l’introduzione, pp. 197-8) – l’aggettivo esprime un’essenziale molteplicità di modi d’essere: Odisseo non è diretto, bensí ambiguo e sfaccettato (cfr. anche infra la nota 16). Nonostante alcuni tentativi della critica (particolarmente Weiss 1981, pp. 288-94), tale condizione non può essere univocamente ricondotta, nello sviluppo del dialogo, solo a un modello stabile di carattere o solo a uno di potenzialità, poiché Socrate e Ippia fanno oscillare la prospettiva dell’analisi (cfr. Balaudé 1997, pp. 263-68, ma già Mulhern 1968); sulle implicazioni di questo problema nel dialogo cfr. infra la nota 23.

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χρήματα λαμβάνειν, | αὐτὸς δὲ ὑπὸ σοῦ ἐρωτώμενος μὴ συγγνώμην τ᾿ ἔχοιμι καὶ πρᾴως ἀποκρινοίμην. σωκρατης Πάνυ καλῶς λέγεις. ἐγὼ γάρ τοι, ἡνί­ κα μὲν ἄριστον τὸν Ἀχιλλέα ἔφησθα πεποιῆσθαι, ἐδόκουν σου μανθάνειν [e] ὅτι ἔλεγες, καὶ ἡνίκα τὸν Νέστορα σοφώτατον· ἐπειδὴ δὲ τὸν Ὀδυσσέα εἶπες ὅτι πεποιηκὼς εἴη ὁ ποιητὴς πολυτροπώτατον, τοῦτο δ᾿, ὥς γε πρὸς σὲ τἀληθῆ εἰρῆσθαι, παντάπασιν οὐκ οἶδ᾿ ὅτι λέγεις. καί μοι εἰπέ, ἄν τι ἐνθένδε | μᾶλλον μάθω· ὁ Ἀχιλλεὺς οὐ πολύτροπος τῷ Ὁμήρῳ πεποίηται; ιππιας Ἥκιστά γε, ὦ Σώκρατες, ἀλλ᾿ ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος, ἐπεὶ καὶ ἐν Λιταῖς, ἡνίκα πρὸς ἀλλήλους ποιεῖ αὐτοὺς διαλεγομένους, λέγει αὐτῷ ὁ Ἀχιλλεὺς πρὸς | τὸν Ὀδυσσέα –

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365 [a] «Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν᾿ Ὀδυσσεῦ, χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν, ὥσπερ δὴ κρανέω τε καὶ ὡς τελέεσθαι ὀίω· ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν, [b] ὅς χ᾿ ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ. αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω, ὡς καὶ τετελεσμένον ἔσται».

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quisire ricchezze12, proprio io nel ricevere domande da te non fossi morbido nel giudizio e non rispondessi con gentilezza. socrate Davvero ben detto. Vedi, quando affermavi che Achille è stato ritratto come migliore, mi pareva di capire [e] ciò che dicevi, e cosí anche per Nestore come piú sapiente. Ma nel momento in cui hai detto che il poe­ta ha ritratto Odisseo come il piú multiforme, a dirti il vero non ho affatto capito cosa tu intendevi. E allora dimmi – magari in questo contesto potrei capire meglio13: Omero non ha ritratto Achille come multiforme? ippia Per nulla, Socrate: al contrario, come sommamente diretto e veritiero14. Anche nelle Preghiere15, quando li fa parlare tra loro, vuole che Achille dica a Odisseo: 365 [a] «Laerziade, stirpe divina, Odisseo dalle molte risorse, occorre che senza esitare riveli a te il mio proposito, come lo compirò e come credo si compirà; quell’uomo infatti mi è odioso, similmente alle soglie dell’Ade, [b] che celi qualcosa nel petto e un’altra ne dica. Ma io dal mio canto dirò ciò che sarà compiuto»16. 12   Ancora un’autodescrizione tipicamente sofistica di Ippia, che rivendica finalmente l’esercizio di un insegnamento dietro compenso; cfr. per esempio la tematica alla base del Protagora, Gorg., 459c6 sgg., ma soprattutto Hipp. Maj., 281b5 sgg. 13   La costruzione di questo inciso, che introduce la discussione su Omero, doveva suonare a sua volta omerica a causa dell’uso epico di ἄν con il congiuntivo in proposizione indipendente. 14   Spesso l’aggettivo ἀληθής viene tradotto con «sincero» (cosí, per esempio, Fronterotta e Pradeau: «sincère»). Il termine greco, tuttavia, copre uno spettro semantico ben piú ampio, che si estende dal dire il vero in assoluto al dire ciò che si crede vero, cioè essere sinceri; in questo senso si può essere sinceri senza dire il vero, o dire il vero senza per questo essere «sinceri». Tale ambiguità emerge in modo decisivo nel dialogo, in quanto l’essere ἀληθής sarà legato a una capacità (cfr. infra la nota 23) e a una competenza: la traduzione «sincero» risulta evidentemente incompatibile con una simile prospettiva. Per questa ragione è stata scelta la traduzione «veritiero», che resiste meglio all’ampiezza semantica del termine greco. 15   Titolo antico del IX libro alessandrino dell’Iliade, l’ambasceria di Odisseo, Aiace e Fenice ad Achille per convincerlo a tornare in battaglia. 16   Cfr. Labarbe 1949, ad loc., e Lohse 1965, pp. 253-56. Platone cita i versi IX, 308-14 dell’Iliade, che costituiscono l’incipit della risposta di Achille a Odisseo (nei quali, peraltro, Ippia trova la caratterizzazione di Odisseo

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Ἐν τούτοις δηλοῖ τοῖς ἔπεσιν τὸν τρόπον ἑκατέρου τοῦ ἀνδρός, ὡς ὁ μὲν Ἀχιλλεὺς εἴη ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, ὁ δὲ | Ὀδυσσεὺς πολύτροπός τε καὶ ψευδής· ποιεῖ γὰρ τὸν Ἀχιλλέα εἰς τὸν Ὀδυσσέα λέγοντα ταῦτα τὰ ἔπη. σωκρατης Νῦν ἤδη, ὦ Ἱππία, κινδυνεύω μανθάνειν ὃ λέγεις· τὸν πολύτροπον ψευδῆ λέγεις, ὥς γε φαίνεται. [c] ιππιας Μάλιστα, ὦ Σώκρατες· τοιοῦτον γὰρ

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In questi versi chiarisce la forma caratteriale di ciascuno dei due uomini: secondo lui Achille sarebbe veritiero e diretto mentre Odisseo multiforme e falso; infatti fa sí che Achille dica queste parole proprio a Odisseo17. socrate Finalmente, com’è probabile, capisco ciò che dici, Ippia: mi sembra chiaro che per uomo multiforme tu intendi falso18. [c] ippia Assolutamente, Socrate; in molti luoghi, income πολυμήχανος, «dalle molte risorse», che può facilmente essere messa in parallelo con quella in discussione, πολύτροπος). La sezione presenta molte delle tipiche difficoltà delle citazioni omeriche in Platone (per indicazioni generali cfr. infra la nota 59 allo Ione). In primo luogo, Platone non riporta il v. 311, ὡς μή μοι τρύζητε παρήμενοι ἄλλοθεν ἄλλος («perché voi non stiate tutt’attorno a bofonchiare»). Benché Labarbe abbia argomentato a favore di una lacuna già presente nel testo letto da Platone sulla base degli incipit simili dei vv. 310 e 311, e Giuliano 2004 abbia proposto la stessa lettura avanzando l’ipotesi che la corruttela possa risalire alla tradizione del testo platonico, sembra convincente il suggerimento di Stallbaum poi ripreso da Lohse: Ippia propone un dialogo ristretto tra Achille e Odisseo, ed esclude quindi dalla citazione il riferimento agli altri eroi dell’ambasceria contenuto nel v. 311. Ancora, nel testo di Platone τελέεσθαι ὀίω (che secondo Labarbe è la lezione corretta anche per l’Iliade) sostituisce l’omerico τετελεσμένον ἔσται («che sarà realizzato»), forse in base a una deliberata modifica di Platone, volta ad attribuire direttamente ad Achille una «sincera» affermazione sul concretizzarsi delle proprie parole (cosí Lohse 1965, p. 256). Infine, in linea generale anche qui (cfr. infra la nota 59 allo Ione) S tende a divergere dagli altri testimoni platonici offrendo lezioni attestate nella tradizione testuale omerica. 17   L’esegesi di Ippia è artificiosa e in parte intraducibile. L’attribuzione a Odisseo della πολυτροπία dipende infatti dall’assunto generale di un confronto diretto e solitario tra Achille e Odisseo, che discende da una falsificazione della citazione (cfr. la nota precedente); in questo confronto, dice Ippia, si rivela il τρόπος (tradotto, per rendere l’etimologizzazione, «forma caratteriale») dei due eroi; ma se Achille è sincero e ἁπλοῦς (semplice, di carattere univoco), Odisseo sarà necessariamente falso (tradizionalmente) e, per opposizione a ἁπλοῦς, πολύ-τροπος. In questo momento, dunque, per Ippia πολύτροπος si spiega etimologicamente come «carattere molteplice» (cfr. anche Jantzen 1989, pp. 40-44). Una simile esegesi del termine, legata in particolare alla nozione di τρόπος, doveva essere stata utilizzata anche da Antistene. Inoltre, benché Antistene facesse valere finalità e metodi diversi (cfr. Brancacci 1990, pp. 44-55), è forse possibile individuare le tracce di una comune base interpretativa “socratica” (cfr. Lévystone 2005). Cfr. anche supra l’introduzione, pp. 197-8. 18   Socrate riduce ironicamente l’affermazione di Ippia, che piú che a una sinonimia tra essere falso ed essere πολύτροπος sembrerebbe mirare a una generalizzazione relativa al carattere naturale dell’uomo. Ippia, tuttavia, non tiene il punto e si lascia condurre da Socrate.

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πεποίηκεν τὸν Ὀδυσσέα Ὅμηρος πολλαχοῦ καὶ ἐν Ἰλιάδι καὶ ἐν Ὀδυσσείᾳ. σωκρατης Ἐδόκει ἄρα, ὡς ἔοικεν, Ὁμήρῳ ἕτερος μὲν εἶναι ἀνὴρ ἀληθής, ἕτερος δὲ ψευδής, ἀλλ᾿ οὐχ ὁ αὐτός. ιππιας Πῶς γὰρ οὐ μέλλει, ὦ Σώκρατες; σωκρατης Ἦ καὶ σοὶ δοκεῖ αὐτῷ, ὦ Ἱππία; ιππιας Πάντων μάλιστα· καὶ γὰρ ἂν δεινὸν εἴη εἰ μή. σωκρατης Τὸν μὲν Ὅμηρον τοίνυν ἐάσωμεν, ἐπειδὴ καὶ [d] ἀδύνατον ἐπανερέσθαι τί ποτε νοῶν ταῦτα ἐποίησεν τὰ ἔπη· σὺ δ᾿ ἐπειδὴ φαίνῃ ἀναδεχόμενος τὴν αἰτίαν, καὶ σοὶ συνδοκεῖ ταῦτα ἅπερ φῂς Ὅμηρον λέγειν, ἀπόκριναι κοινῇ ὑπὲρ Ὁμήρου τε καὶ σαυτοῦ.| ιππιας Ἔσται ταῦτα· ἀλλ᾿ ἐρώτα ἔμβραχυ ὅτι βούλει. σωκρατης Τοὺς ψευδεῖς λέγεις οἷον ἀδυνάτους τι ποιεῖν, ὥσπερ τοὺς κάμνοντας, ἢ δυνατούς τι ποιεῖν;

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fatti, Omero ha ritratto Odisseo in tal modo, sia nell’Iliade che nell’Odissea19. socrate Quindi a questo punto sembra che secondo Omero uno è l’uomo veritiero, un altro è il falso, e non sono lo stesso20. ippia Come potrebbe non essere cosí, Socrate? socrate Allora, Ippia, pare cosí anche a te? ippia È assolutamente certo, e sarebbe tremendo se fosse altrimenti! socrate In tal caso lasciamo stare Omero, poiché è del tutto [d] impossibile interrogarlo a fondo su cosa mai pensasse mentre componeva questi versi. Visto che secondo quanto affermi fai chiaramente tua la causa e condividi ciò che dice Omero, rispondi tu, piuttosto, come in comune, sia per Omero che per te21. ippia Faremo cosí. Domandami in breve22 ciò che vuoi. socrate Dici che i falsi sono come incapaci di fare qualcosa, come i malati, o che sono capaci di fare qualcosa?23. 19   Ippia si appella a un’immagine tradizionale di Odisseo (cfr. supra la nota 11), che tuttavia rappresenta una distorsione della connotazione piú diffusa come campione dell’intelligenza (cfr. Giuliano 2004, pp. 100-9). 20   Questa tesi, benché per ora piuttosto vaga, è alla base della seguente confutazione. 21   Per l’idea secondo cui l’opera scritta non può essere difesa dal suo autore cfr. Phaedr., 275d4 sgg. (con Szlezák 1988, pp. 136-37). Una simile istanza non viene seguita in molti altri contesti (cfr. per esempio l’esegesi del carme simonideo in Prot., 343b7 sgg.), e non si scorge qui un motivo sostanziale per la sua evocazione; con ogni probabilità Platone vuole trarre Ippia all’interno del dialogo in modo piú radicale, scivolando cosí dall’esegesi del passo omerico a una riflessione dialettica autonoma. Nello stesso senso conduce il peculiare riferimento all’opinione di Omero, non in quanto tale ma in relazione a ciò che egli espone secondo Ippia. In questo senso, l’identificazione nel dialogo di uno ζήτημα omerico (cosí Giuliano 2004) non può che richiedere cautele e limitazioni. 22   Non ci sono particolari ragioni (cosí invece Fronterotta 2005, p. 198, nota 16) per supporre che Ippia stia evocando il principio della brachilogia (per il quale cfr. particolarmente Prot., 328e5-c2 e 334c7 sgg.): con ogni probabilità egli desidera al contrario restringere lo spazio della domanda per proporre poi un’ampia e articolata risposta retorica. Il riferimento alla dimensione del dialogo, dunque, è al massimo indiretto e ironico nei confronti di Ippia. 23   Cfr. supra l’introduzione, pp. 187-9. La tesi, finora debole e solo ac-

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ιππιας Δυνατοὺς ἔγωγε καὶ μάλα σφόδρα ἄλλα τε πολλὰ καὶ ἐξαπατᾶν ἀνθρώπους. [e] σωκρατης Δυνατοὶ μὲν δή, ὡς ἔοικεν, εἰσὶ κατὰ τὸν σὸν λόγον καὶ πολύτροποι· ἦ γάρ;

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ippia Secondo me sono sommamente capaci di fare molte e svariate cose, nonché di ingannare gli uomini. [e] socrate Secondo il tuo discorso, dunque, sono davvero capaci – cosí sembra – e multiformi24. È cosí? cennata, per cui chi dice il vero e chi dice il falso sono persone diverse viene qui sottoposta a un ampio e tortuoso argomento (sul quale cfr. Weiss 1981, pp. 288-94; Erler 1991, pp. 211-19; Zembaty 1989, pp. 52-58; Jantzen 1989, pp. 46-64; Kahn 2008, pp. 118-21; Beversluis 2000, pp. 98-102): 1) 365d6-366a1: il dire il falso è legato a una capacità, il che implica possesso di intelligenza, conoscenza e sapienza; 2) 366a2-6: riproposizione delle acquisizioni di 1 e della distinzione tra dire il vero e dire il falso; 3) 366a6-c4: la capacità di dire il falso implica la volontarietà dell’esercizio della falsità, della quale è una condizione necessaria; 4) 366c5-368a7: esempi dell’ambito delle arti: l’esperto è capace di dire il vero e il falso, dunque la stessa persona è veritiera e falsa; consegue che il veritiero non è migliore del falso; 5) 368a8-369b7: conclusione: una stessa persona è insieme veritiera e falsa, e quindi il veritiero non può essere migliore del falso. Sono spesso state evidenziate alcune difficoltà logiche. In primo luogo, pace Weiss 1981, Socrate e Ippia non intendono «dire il falso/il vero» solo come δύναμις (capacità), poiché deve sempre essere considerato il riferimento al τρόπος dei personaggi omerici (cfr. Balaudé 1997, pp. 263-68); in altri termini, Socrate non dice solo che «chi dice il vero» è capace di «dire il falso» (tesi non problematica), ma in qualche modo anche che tale commistione è in atto in qualcuno. In secondo luogo, anche ammettendo che il mentire sia sempre mantenuto in termini di potenzialità, sembrerebbero originarsi alcuni paradossi (cfr. Kahn 2008, pp. 120-21, e Beversluis 2000, pp. 98-102): se si è falsi per la sola capacità di esserlo, si può essere falsi senza esserlo mai stati; si può essere falsi senza saperlo; ancora, non è vero che solo conoscendo il vero si può essere falsi. Inoltre, vi sono ambiguità strettamente legate ai termini utilizzati da Socrate, in particolare «volontariamente» e «dire il falso» (per le quali cfr. supra l’introduzione, pp. 192-6). Infine, l’argomento sembrerebbe poco “platonico”: nella misura in cui non prevede distinzioni di valore tra chi dice il vero e chi il falso, parrebbe violare l’intellettualismo etico (nessuno sbaglia volontariamente) e ribaltare l’idea per cui il piú competente è anche il migliore (moralmente) affermando che è anche il piú capace di dire il falso. Simili difficoltà potrebbero essere accantonate limitando l’argomento all’ambito tecnico, cioè escludendo il punto di vista morale (cfr. Erler 1991, pp. 211-19); e tuttavia il dialogo, letto come serie di argomenti continui (cfr. Weiss 1981, pp. 287-88; contra Hoerber 1962, pp. 128-31), prevede uno slittamento verso l’etica. In questo senso va notato che già qui Platone usa implicitamente in modo ambiguo la nozione di “virtú” come eccellenza prestazionale – nelle arti – e morale – cosí intende Ippia. Tutto ciò suggerisce che Platone vuole già introdurre temi centrali, quali le ambiguità della nozione di virtú (cfr. infra, passim nelle note) e le condizioni entro le quali chi è moralmente buono può dire il falso (cfr. particolamente supra l’introduzione, pp. 194-6). 24   Primo snodo (365d6-366a1): (a) chi dice il falso ha la capacità di dire il

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Ναί. Πολύτροποι δ᾿ εἰσὶ καὶ ἀπατεῶνες ὑπὸ ἠλιθιότητος καὶ ἀφροσύνης, ἢ ὑπὸ πανουργίας καὶ φρονήσεώς τινος; ιππιας Ὑπὸ πανουργίας | πάντων μάλιστα καὶ φρονήσεως. σωκρατης Φρόνιμοι μὲν ἄρα εἰσίν, ὡς ἔοικε. ιππιας Ναὶ μὰ Δία, λίαν γε. σωκρατης Φρόνιμοι δὲ ὄντες οὐκ ἐπίστανται ὅτι ποιοῦσιν, ἢ ἐπίστανται; ιππιας Καὶ μάλα σφόδρα ἐπίστανται· διὰ ταῦτα καὶ κακουργοῦσιν. σωκρατης Ἐπιστάμενοι δὲ ταῦτα ἃ ἐπίστανται πότερον | ἀμαθεῖς εἰσιν ἢ σοφοί; ιππιας Σοφοὶ μὲν οὖν αὐτά γε ταῦτα, 366 [a] ἐξ­απατᾶν. σωκρατης Ἔχε δή· ἀναμνησθῶμεν τί ἐστιν ὃ λέ­ γεις. τοὺς ψευδεῖς φῂς εἶναι δυνατοὺς καὶ φρονίμους καὶ ἐπιστήμονας καὶ σοφοὺς εἰς ἅπερ ψευδεῖς; ιππιας Φημὶ γὰρ οὖν. σωκρατης Ἄλλους δὲ τοὺς ἀληθεῖς τε καὶ ψευδεῖς, καὶ ἐναντιωτάτους ἀλλήλοις; ιππιας Λέγω ταῦτα. σωκρατης Φέρε δή· τῶν μὲν δυνατῶν τινες καὶ σοφῶν, ὡς ἔοικεν, εἰσὶν οἱ ψευδεῖς κατὰ τὸν σὸν λόγον. ιππιας

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ippia Sí. socrate E sono multiformi e ingannatori per pochezza e stupidità o piuttosto per furbizia e per una certa intelligenza?25. ippia Soprattutto per furbizia e intelligenza. socrate Quindi, come sembra, sono intelligenti. ippia Sí, per Zeus, e molto. socrate Ma, se sono intelligenti, sanno ciò che fanno oppure non lo sanno? ippia Certamente lo sanno; per questo agiscono male. socrate Ma se sanno ciò che fanno, sono ignoranti o sapienti? ippia Sapienti, e proprio in questo: 366 [a] ingannare. socrate Bene; ora riportiamo alla mente ciò che dici. Affermi che i falsi sono capaci, intelligenti, in possesso di conoscenza e sapienti esattamente in relazione alle cose false? ippia Lo affermo. socrate Ancora, che sono diversi i veritieri e i falsi, e anzi del tutto opposti tra loro?26. ippia Dico proprio questo. socrate Avanti, allora: secondo il tuo discorso i falsi si possono annoverare, cosí sembra, tra i capaci e i sapienti27. falso (d6-8); (b) quindi ha una forma di intelligenza (e1-6); (c) quindi ha una forma di conoscenza e sapienza (e6-366a1). Benché in (a) la capacità possa indicare solo la possibilità oppure una consapevole deliberazione, i passaggi da (a) a (c) sono basati su lievi slittamenti semantici facilmente ammissibili secondo un lessico comune. 25   La peculiarità dell’argomento porta all’accostamento di termini la cui semantica è ambigua; in particolare πανουργία, talvolta connotato negativamente (per esempio in Menex., 247a1 e Men., 80b8), sembra qui rappresentare la dimensione tecnica e pratica dell’intelligenza; cfr. del resto Des Places 1964, p. 399. 26   Cfr. 365c3-4. 27   Secondo e piú importante snodo (366a6-c4): (a) essere capaci di dire il falso vuol dire farlo ogniqualvolta si voglia (a6-b5); (b) l’essere capaci di dire il falso è condizione necessaria per essere falsi (b5-7); (c) questa capacità consiste in quanto tale nell’esercizio volontario e deliberato (b6-c4). Questo passaggio sembra il piú controverso dell’argomento, poiché pone condizioni improprie

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Μάλιστά γε. Ὅταν δὲ [b] λέγῃς δυνατοὺς καὶ σο­ φοὺς εἶναι τοὺς ψευδεῖς εἰς αὐτὰ ταῦτα, πότερον λέγεις δυνατοὺς εἶναι ψεύδεσθαι ἐὰν βούλωνται, ἢ ἀδυνάτους εἰς ταῦτα ἅπερ ψεύδονται; ιππιας Δυνατοὺς ἔγωγε. σωκρατης Ὡς ἐν κεφαλαίῳ ἄρα εἰρῆσθαι, οἱ ψευ­ δεῖς | εἰσιν οἱ σοφοί τε καὶ δυνατοὶ ψεύδεσθαι. ιππιας Ναί. σωκρατης Ἀδύνατος ἄρα ψεύδεσθαι ἀνὴρ καὶ ἀμα­ θὴς οὐκ ἂν εἴη ψευδής. ιππιας Ἔχει οὕτως. σωκρατης Δυνατὸς δέ γ᾿ ἐστὶν ἕκαστος ἄρα, ὃς ἂν ποιῇ τότε ὃ ἂν βούληται, ὅταν βού- [c] ληται· οὐχ ὑπὸ νόσου λέγω ἐξειργόμενον οὐδὲ τῶν τοιούτων, ἀλλὰ ὥσπερ σὺ δυνατὸς εἶ γράψαι τοὐμὸν ὄνομα ὅταν βούλῃ, οὕτω λέγω. ἢ οὐχ, ὃς ἂν οὕτως ἔχῃ, καλεῖς σὺ δυνατόν; ιππιας Ναί. σωκρατης Λέγε δή μοι, ὦ Ἱππία, οὐ σὺ μέντοι ἔμπειρος εἶ λογισμῶν καὶ λογιστικῆς; ιππιας

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ippia Assolutamente. socrate Ma quando [b] dici che i falsi sono capaci e sapienti in relazione a queste stesse cose, intendi che qualora vogliano sono capaci di dire il falso oppure che sono incapaci di farlo proprio sulle cose su cui dicono il falso? ippia A mio avviso sono capaci. socrate Quindi, per dirlo in modo lapidario: i falsi sono i sapienti e i capaci di dire il falso. ippia Sí. socrate Quindi un uomo incapace di dire il falso e ignorante non può essere falso. ippia Le cose stanno cosí. socrate E capace è chiunque possa di volta in volta fare ciò che voglia ogniqualvolta voglia; [c] non mi riferisco alla limitazione provocata dalla malattia o da cose simili, ma al fatto che, per esempio, tu sei capace di scrivere il mio nome ogniqualvolta voglia. O forse non chiami capace chi ha questa qualità? ippia Sí, capace. socrate Avanti, Ippia, ora dimmi: tu non sei esperto nei calcoli e nell’arte del calcolo?28. per «dire il falso» sulla base dell’ambiguità della nozione di «essere capaci». Ora, se dire il falso è un esercizio razionale, dovrà essere legato alla deliberazione; tuttavia, si dà il caso che si possa dire il falso senza deliberazione (cfr. Beversluis 2000, pp. 98-102). Nello stesso senso, la capacità di dire il falso è condizione necessaria e sufficiente per essere falsi se l’«essere capaci» è inteso come esercizio razionale, ma non lo è se inteso come semplice possibilità. 28   Per l’aritmetica – qui nella particolare dimensione dell’arte del calcolo – come arte esemplare cfr. Pol., 258b4-6; Alc. I, 114c4 sgg.; Gorg., 450d6 sgg.; e anche Ion, 531d12-e4. Gli esempi relativi alle altre arti sono rispetto a Ippia, specialista in numerose discipline (cfr. infra la nota complementare 1, pp. 501-2), particolarmente pregnanti. L’esempio (366c5-367d3) ha una funzione centrale nell’argomento e conduce a una prima conclusione; secondo Socrate, infatti: (a) chi ha la capacità di dire il vero su un argomento lo fa con deliberazione ed è in questo ottimo (c5-e1); (b) anche all’ignorante può capitare di dire il falso, ma chi ne ha «la capacità» lo sa fare sistematicamente e perfettamente (36e1-367b5); (c) ma chi è capace di dire il falso sul calcolo è anche capace di dire il vero in virtú della stessa competenza (b5-c4); (d) colui che è capace di dire il vero e il falso sarà anche «buono» – cfr. il punto (a) – (c4-7); (e) la stessa persona è veritiera e falsa. L’esempio implica alcune difficoltà. In primo luogo, centrale è l’ambiguità

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Πάντων μάλιστα, ὦ Σώκρατες. Οὐκοῦν εἰ καί τίς σε ἔροιτο τὰ τρὶς ἑπτακόσια ὁπόσος ἐστὶν ἀριθμός, εἰ βούλοιο, πάντων τάχιστα καὶ [d] μάλιστ᾿ ἂν εἴποις τἀληθῆ περὶ τούτου; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Ἆρα ὅτι δυνατώτατός τε εἶ καὶ σοφώ­ τατος κατὰ ταῦτα; ιππιας Ναί. σωκρατης Πότερον οὖν σοφώτατός τε εἶ καὶ δυνα­ τώτατος μόνον, ἢ καὶ ἄριστος ταῦτα ἅπερ δυνατώτατός τε | καὶ σοφώτατος, τὰ λογιστικά; ιππιας Καὶ ἄριστος δήπου, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Τὰ μὲν δὴ ἀληθῆ σὺ ἂν δυνατώτατα εἴποις [e] περὶ τούτων· ἦ γάρ; ιππιας Οἶμαι ἔγωγε. σωκρατης Τί δὲ τὰ ψευδῆ περὶ τῶν αὐτῶν τού­ των; καί μοι, ὥσπερ τὰ πρότερα, γενναίως καὶ με­ γα­λο­πρεπῶς ἀπόκριναι, ὦ Ἱππία· εἴ τίς σε ἔροιτο τὰ τρὶς ἑπτακόσια πόσα ἐστί, πότερον σὺ ἂν μά­ λιστα | ψεύδοιο καὶ ἀεὶ κατὰ ταὐτὰ ψευδῆ λέγοις περὶ τούτων, βουλόμενος ψεύδεσθαι καὶ μηδέποτε ἀληθῆ ἀποκρίνεσθαι, ἢ ὁ 367 [a] ἀμαθὴς εἰς λογισμοὺς δύναιτ᾿ ἂν σοῦ μᾶλλον ψεύδεσθαι βουλομένου; ἢ ὁ μὲν ἀμαθὴς πολλάκις ἂν βουλόμενος ψευδῆ λέγειν τἀληθῆ ἂν εἴποι ἄκων, εἰ τύχοι, διὰ τὸ μὴ εἰδέναι, ιππιας

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ippia Assolutamente, Socrate. socrate Dunque, se uno ti domandasse che numero è tre volte settecento, se tu volessi, su questo non sapresti dire [d] il vero con maggiori velocità ed esattezza di chiunque altro? ippia Certamente. socrate In queste cose, quindi, sei sommamente capace e sapiente? ippia Sí. socrate Ma nelle cose in cui sei sommamente capace e sapiente, dico i calcoli, sei solo sommamente capace e sapiente o anche ottimo? ippia Anche ottimo, Socrate, di certo. socrate Dunque su queste cose saresti in grado di dire il vero con somma capacità; [e] non è cosí? ippia Credo proprio di sí. socrate E come sta la faccenda per quanto riguarda il falso su queste stesse cose? Rispondimi proprio come prima, Ippia, con nobiltà e magnificenza: se uno ti domandasse quant’è tre volte settecento, nel caso in cui volessi dire il falso e non rispondere mai il vero, saresti in grado di mentire e dire il falso su questo, sempre allo stesso modo? O 367 [a] l’ignorante nel calcolo sarebbe piú capace di te nel dire il falso, anche nel momento in cui tu lo volessi? Oppure, ancora, pur volendo dire il falso, l’ignorante potrebbe spesso trovarsi a dire involontariamente il vero proprio perché non sa, mentre tu, tra due possibili significati di dire il vero/falso: da un punto di vista morale la sincerità corrisponde sempre a dire il vero, mentre da uno tecnico si può dire ciò che è vero per noi – essere sinceri – e al contempo dire qualcosa di falso. Ancora, permane l’ambiguo significato di «essere capace»: in (b), per esempio, diversi sono l’essere capace di chi è competente – «essere in grado» – e quello di chi è ignorante – «avere la possibilità». Ora, certamente Socrate fa riferimento a un modello tecnico (cfr. Erler 1991, pp. 216-18), e in questo senso l’argomento è coerente, ma al contempo le conclusioni che ne vengono tratte avranno una ricaduta morale (come indicherà la chiusura del dialogo): Platone non può ignorare questa ambiguità (su cui si fondano le perplessità di Ippia), dunque l’oscillazione deve rappresentare un nucleo volontariamente problematico e indicare eventuali soluzioni positive qui programmaticamente taciute (cfr. supra l’introduzione, pp. 192-6).

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σὺ δὲ ὁ σοφός, εἴπερ βούλοιο ψεύδεσθαι, ἀεὶ ἂν κατὰ τὰ | αὐτὰ ψεύδοιο; ιππιας Ναί, οὕτως ἔχει ὡς σὺ λέγεις. σωκρατης Ὁ ψευδὴς οὖν πότερον περὶ μὲν τἆλλα ψευδής ἐστιν, οὐ μέντοι περὶ ἀριθμόν, οὐδὲ ἀριθμῶν ἂν ψεύσαιτο; ιππιας Καὶ ναὶ μὰ Δία περὶ ἀριθμόν. σωκρατης Θῶμεν ἄρα καὶ τοῦτο, ὦ Ἱππία, περὶ λογισμόν τε καὶ ἀριθμὸν εἶναί τινα [b] ἄνθρωπον ψευδῆ; ιππιας Ναί. σωκρατης Τίς οὖν ἂν εἴη οὗτος; οὐχὶ δεῖ ὑπάρχειν αὐτῷ, εἴπερ μέλλει ψευδὴς ἔσεσθαι, ὡς σὺ ἄρτι ὡμο­ λόγεις, δυνατὸν εἶναι ψεύδεσθαι; ὁ γὰρ ἀδύνατος ψεύδεσθαι, εἰ μέμνησαι, ὑπὸ σοῦ ἐλέγετο ὅτι οὐκ ἄν | ποτε ψευδὴς γένοιτο. ιππιας Ἀλλὰ μέμνημαι καὶ ἐλέχθη οὕτως. σωκρατης Οὐκοῦν ἄρτι ἐφάνης σὺ δυνατώτατος ὢν ψεύδεσθαι περὶ λογισμῶν; ιππιας Ναί, ἐλέχθη γέ τοι καὶ τοῦτο. [c] σωκρατης Ἆρ᾿ οὖν καὶ δυνατώτατος εἶ ἀληθῆ λέγειν περὶ λογισμῶν; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Οὐκοῦν ὁ αὐτὸς ψευδῆ καὶ ἀληθῆ λέγειν περὶ λογισμῶν δυνατώτατος· οὗτος δ᾿ ἐστὶν ὁ ἀγαθὸς περὶ τούτων, ὁ λογιστικός. ιππιας Ναί. σωκρατης Τίς | οὖν ψευδὴς περὶ λογισμὸν γίγνεται, ὦ Ἱππία, ἄλλος ἢ ὁ ἀγαθός; ὁ αὐτὸς γὰρ καὶ δυνατός· οὗτος δὲ καὶ ἀληθής.

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il sapiente, se davvero volessi dire il falso, sapresti dire il falso sempre allo stesso modo?29. ippia Sí, le cose stanno come dici tu. socrate Dunque, l’uomo falso è falso solo circa gli altri argomenti e non circa il numero, e dei numeri non potrebbe dire il falso? ippia No, per Zeus, anche circa il numero! socrate Stabiliamo quindi anche questo, Ippia, che circa il calcolo e il numero c’è qualche [b] uomo falso? ippia Sí. socrate E chi può essere? Se davvero è predisposto a dire il falso, non deve essergli propria – tu stesso prima eri d’accordo – la capacità di dire il falso? In effetti, se ricordi, proprio tu hai detto che chi è incapace di dire il falso non potrà mai essere falso. ippia Lo ricordo, si è detto cosí30. socrate Prima, del resto, non è emerso con chiarezza che tu sei sommamente capace di dire il falso circa i calcoli? ippia Sí, si è detto anche questo31. [c] socrate Quindi sei anche sommamente capace di dire il vero circa i calcoli? ippia Di sicuro. socrate La stessa persona, dunque, è sommamente capace di dire il vero e il falso circa i calcoli; costui, inoltre, è chi è buono a farli, l’esperto di calcolo. ippia Sí. socrate Ebbene, Ippia, uno che è falso nel calcolo sarà forse qualcun altro piuttosto che l’uomo buono? Egli stesso sarà infatti anche capace; e proprio costui è anche veritiero. 29   Socrate invoca ironicamente la magnanimità di Ippia, poiché già in questa domanda è contenuta la base dell’intera confutazione: la possibilità che sia un ignorante che un sapiente dicano il falso implica infatti che, nel momento in cui almeno uno dei due possa dire il vero, la tesi della distinzione tra veritiero e falso cada. 30   Cfr. 367c4-6. 31   Cfr. 366e3-367a5.

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Φαίνεται. Ὁρᾷς οὖν ὅτι ὁ αὐτὸς ψευδής τε καὶ ἀληθὴς περὶ τούτων, καὶ οὐδὲν ἀμείνων ὁ ἀληθὴς τοῦ ψευ- [d] δοῦς; ὁ αὐτὸς γὰρ δήπου ἐστὶ καὶ οὐκ ἐναντιώτατα ἔχει, ὥσπερ σὺ ᾤου ἄρτι. ιππιας Οὐ φαίνεται ἐνταῦθά γε. σωκρατης Βούλει οὖν σκεψώμεθα καὶ ἄλλοθι; ιππιας Εἰ [ἄλλως] γε σὺ βούλει. σωκρατης Οὐκοῦν καὶ γεωμετρίας ἔμπειρος εἶ; ιππιας Ἔγωγε. σωκρατης Τί οὖν; οὐ καὶ ἐν γεωμετρίᾳ οὕτως ἔχει· ὁ αὐτὸς δυνατώτατος ψεύδεσθαι καὶ ἀληθῆ λέγειν περὶ τῶν διαγραμμάτων, ὁ γεωμετρικός; ιππιας Ναί. σωκρατης Περὶ ταῦτα οὖν [e] ἀγαθὸς ἄλλος τις ἢ οὗτος; ιππιας Οὐκ ἄλλος. σωκρατης Οὐκοῦν ὁ ἀγαθὸς καὶ σοφὸς γεωμέτρης δυνατώτατός γε ἀμφότερα; καὶ εἴπερ τις ἄλλος ψευδὴς περὶ διαγράμματα, οὗτος ἂν εἴη, ὁ ἀγαθός; οὗτος γὰρ δυνατός, ὁ δὲ κακὸς | ἀδύνατος ἦν ψεύδεσθαι· ὥστε ιππιας

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ippia Chiaro. socrate Dunque, lo vedi che su queste cose lo stesso uomo è falso e insieme veritiero, e che il veritiero non è in niente migliore del falso?32. [d] Di certo, infatti, è lo stesso, e non sono due figure sommamente contrarie, come tu prima credevi33. ippia A questo punto non sembra proprio. socrate Vuoi allora che indaghiamo anche in un’altra direzione? ippia Se vuoi farlo comunque34… socrate Non sei esperto anche di geometria?35. ippia Lo sono. socrate Allora? Le cose non stanno cosí anche nella geometria, e lo stesso uomo, l’esperto di geometria, è sommamente capace di dire il falso e di dire il vero circa le figure? ippia Sí. socrate E in queste [e] sarà buono qualcun altro se non lui? ippia Nessun altro. socrate E il buono e sapiente esperto di geometria non sarà sommamente capace in entrambe le cose? Se davvero c’è un altro uomo falso circa le figure, non potrà essere solo questo, l’uomo buono? Egli infatti era capace, mentre il cattivo era incapace di dire il falso; cosic32   L’evocazione della nozione di «bontà» (cfr. già 367c2-4) rimarca l’ambiguità tra le dimensioni morale e tecnica: in ambito tecnico essa è relativa alla caratterizzazione dell’esperto come «buono in, a fare qualcosa» (cfr. Weiss 1981, pp. 297-304), ma già qui è linguisticamente possibile intendere «buono» o «migliore» in senso morale – come fa Ippia. 33   Cfr. 365c3-4. 34   A partire da Bekker gli editori hanno espunto ἄλλως, tràdito da tutti i manoscritti. Rimane però convincente l’argomento di Dodds 1959, pp. 256-257 (su Gorg., 479c7), secondo il quale ἄλλως va inteso come «in qualunque caso», «comunque»: in effetti, Ippia si è visto incalzare da Socrate fino a una stringente confutazione e sa già che il seguito non sarà per lui piú favorevole. 35   Cfr. infra la nota complementare 1, pp. 501-2. L’argomento riproduce il precedente per svolgimento e ambiguità: sa dire il vero e il falso solo chi ne ha la capacità, dunque il “buon” esperto di geometria.

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οὐκ ἂν γένοιτο ψευδὴς ὁ μὴ δυνάμενος ψεύδεσθαι, ὡς ὡμολόγηται. ιππιας Ἔστι ταῦτα. σωκρατης Ἔτι τοίνυν καὶ τὸν τρίτον ἐπισκε­ ψώμεθα, τὸν ἀστρονόμον, ἧς αὖ σὺ τέχνης ἔτι μᾶλλον ἐπιστήμων οἴει 368 [a] εἶναι ἢ τῶν ἔμπροσθεν. ἦ γάρ, ὦ Ἱππία; ιππιας Ναί. σωκρατης Οὐκοῦν καὶ ἐν ἀστρονομίᾳ ταὐτὰ ταῦτά ἐστιν; ιππιας Εἰκός γε, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Καὶ ἐν ἀστρονομίᾳ ἄρα εἴπερ τις καὶ ἄλλος ψευδής, ὁ ἀγαθὸς ἀστρονόμος ψευδὴς | ἔσται, ὁ δυνατὸς ψεύδεσθαι. οὐ γὰρ ὅ γε ἀδύνατος· ἀμαθὴς γάρ. ιππιας Φαίνεται οὕτως. σωκρατης Ὁ αὐτὸς ἄρα καὶ ἐν ἀστρονομίᾳ ἀληθής τε καὶ ψευδὴς ἔσται. ιππιας Ἔοικεν. σωκρατης Ἴθι δή, ὦ Ἱππία, ἀνέδην οὑτωσὶ ἐπί­ σκεψαι κατὰ [b] πασῶν τῶν ἐπιστημῶν, εἴ που ἔστιν ἄλλως ἔχον ἢ οὕτως. πάντως δὲ πλείστας τέχνας πάντων σοφώτατος εἶ ἀνθρώπων, ὡς ἐγώ ποτέ σου

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ché – su questo eravamo d’accordo36 – chi non è capace di dire il falso non potrà essere falso. ippia È vero. socrate Avanti, allora, indaghiamo anche la terza figura, l’astronomo, della cui arte tu ti ritieni ancora una volta conoscitore, e 368 [a] anche piú che delle precedenti37. Non è cosí, Ippia? ippia Sí. socrate Dunque, anche per l’astronomia non è esattamente lo stesso? ippia È del tutto probabile, Socrate. socrate Anche in astronomia, quindi, se davvero c’è qualcuno che è falso, sarà il buon astronomo a esserlo, cioè quello che è capace di dire il falso. D’altro canto, non sarà certo quello che non è capace: è infatti ignorante. ippia Questo è chiaro. socrate Anche in astronomia, quindi, lo stesso uomo sarà sia veritiero che falso. ippia A quanto pare. socrate Forza, Ippia, continua a indagare senza sosta [b] tutti gli ambiti di conoscenza38 in tal senso, se in qualche modo ve ne sia qualcuno che presenti condizioni diverse da queste. Vedi, tu sei in assoluto il piú sapiente tra gli uomini in un gran numero di arti: io stesso   Cfr. 367c4-6.   Cfr. infra la nota complementare 1, pp. 501-2. Benché l’argomento riprenda ancora i precedenti, Platone insiste maggiormente sulla relazione tra capacità, bontà e conoscenza. Ciò sembra rimandare al nucleo propriamente platonico della prima parte del dialogo: solo chi è buono – cioè conosce il bene – ha l’autentica capacità di dire il falso in vista del bene (cfr. supra l’introduzione, pp. 194-6). Evidentemente tale nucleo filosofico rimane nascosto a causa del livello e della natura dell’interlocutore. 38   Per questa semantica “debole” di ἐπιστήμη, simile anche a quella del seguente (368e5) σοφία, cfr. infra la nota 88 al Menesseno. Platone parla qui costantemente di forme tecniche, ma il contesto dialogico lo induce a utilizzare diversi termini che nel lessico comune hanno un significato non specializzato affine a quello di τέχνη. Non può essere tuttavia escluso che l’oscillazione celi un riferimento alla dottrina platonica sottesa: la tesi per cui l’esperto può dire il falso volontariamente è vera per le arti ma soprattutto, in una prospettiva platonica, per la ἐπιστήμη (come scienza) suprema, quella del bene (cfr. supra l’introduzione, pp. 194-6).

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ἤκουον μεγαλαυχουμένου, πολλὴν σοφίαν καὶ ζηλωτὴν σαυτοῦ διεξιόντος ἐν ἀγορᾷ ἐπὶ ταῖς | τραπέζαις. ἔφησθα δὲ ἀφικέσθαι ποτὲ εἰς Ὀλυμπίαν ἃ εἶχες περὶ τὸ σῶμα ἅπαντα σαυτοῦ ἔργα ἔχων· πρῶτον μὲν δακτύλιον – ἐντεῦθεν γὰρ ἤρχου – ὃν εἶχες σαυτοῦ ἔχειν [c] ἔργον, ὡς ἐπιστάμενος δακτυλίους γλύφειν, καὶ ἄλλην σφραγῖδα σὸν ἔργον, καὶ στλεγγίδα καὶ λήκυθον ἃ αὐτὸς ἠργάσω· ἔπειτα ὑποδήματα ἃ εἶ­ χες ἔφησθα αὐτὸς σκυτοτομῆσαι, καὶ τὸ ἱμάτιον ὑφῆναι καὶ τὸν χιτωνίσκον· καὶ ὅ γε | πᾶσιν ἔδοξεν ἀτοπώτατον καὶ σοφίας πλείστης ἐπίδειγμα, ἐπειδὴ τὴν ζώνην ἔφησθα τοῦ χιτωνίσκου, ἣν εἶχες, εἶναι μὲν οἷαι αἱ Περσικαὶ τῶν πολυτελῶν, ταύτην δὲ αὐτὸς πλέξαι· πρὸς δὲ τούτοις ποιήματα ἔχων ἐλθεῖν, καὶ ἔπη καὶ τραγῳδίας [d] καὶ διθυράμβους, καὶ καταλογάδην πολλοὺς λόγους καὶ παντοδαποὺς συγ­κειμένους· καὶ περὶ τῶν τεχνῶν δὴ ὧν ἄρτι ἐγὼ ἔλεγον ἐπιστήμων ἀφικέσθαι διαφερόντως τῶν ἄλ­ λων, καὶ περὶ ῥυθμῶν καὶ ἁρμονιῶν καὶ γραμμάτων ὀρθό- | τητος, καὶ ἄλλα ἔτι πρὸς τούτοις πάνυ πολλά, ὡς ἐγὼ δοκῶ μνημονεύειν· καίτοι τό γε μνημονικὸν ἐπελαθόμην σου, ὡς ἔοικε, τέχνημα, ἐν ᾧ σὺ οἴει λαμπρότατος εἶναι· οἶμαι δὲ καὶ [e] ἄλλα πάμπολλα ἐπιλελῆσθαι. ἀλλ᾿ ὅπερ ἐγὼ λέγω, καὶ εἰς τὰς σαυτοῦ τέχνας βλέψας – ἱκαναὶ δέ – καὶ εἰς τὰς τῶν ἄλλων εἰπέ μοι, ἐάν που εὕρῃς ἐκ τῶν ὡμολογημένων ἐμοί τε καὶ σοί, ὅπου ἐστὶν ὁ μὲν ἀληθής, ὁ δὲ ψευδής, χωρὶς καὶ | οὐχ ὁ αὐτός; ἐν ᾗτινι βούλει σοφίᾳ τοῦτο σκέψαι ἢ πανουργίᾳ 369 [a] ἢ ὁτιοῦν χαίρεις ὀνομάζων· ἀλλ᾿ οὐχ εὑρήσεις, ὦ ἑταῖρε – οὐ γὰρ ἔστιν – ἐπεὶ σὺ εἰπέ.

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una volta ti sentivo vantarti di questo, mentre esibivi la tua sapienza, grande e ammirevole, nella piazza del mercato, davanti ai banchi. Affermavi che una delle volte in cui hai raggiunto Olimpia tutto ciò che avevi indosso era frutto della tua stessa opera: in primo luogo – da qui hai cominciato – era opera tua l’anello che portavi, [c] perché dicevi di sapere come si cesellano gli anelli, ed erano opera tua anche un sigillo, una spazzola e un’ampolla, che tu stesso avevi prodotto. Poi, affermavi, avevi cucito tu stesso le scarpe che calzavi, e il mantello e la tunica tu stesso li avevi tessuti. Questo poi parve a tutti eccezionale, un esempio di enorme sapienza: affermavi che la cintura della tunica, che portavi, era della stessa qualità di quelle persiane, cosí costose, ma questa l’avevi intrecciata tu stesso! Non solo: arrivasti con opere letterarie, versi epici, tragedie e [d] ditirambi, e ancora con un gran numero di discorsi in prosa, composti in modi del tutto vari. E poi ti presentavi come conoscitore ben superiore rispetto agli altri di tutte quelle arti di cui dicevo prima, e della correttezza dei ritmi, delle armonie e delle lettere39, ma anche di moltissimi altri ambiti, di cui mi pare di avere memoria: ecco, pare che abbia dimenticato la tua mnemotecnica, nella quale reputavi di essere estremamente brillante. Credo comunque di [e] aver dimenticato molte altre cose, e di ogni tipo. Questo però voglio dire: guardando sia alle tue arti, davvero di valore, sia a quelle degli altri, indicami un ambito – qualora tu riesca in qualche modo a trovarlo a partire da ciò su cui io e te eravamo d’accordo – in cui uno è il veritiero, un altro il falso, distinti e non coincidenti nella stessa persona. Avanti, cercalo in qualsiasi forma di sapienza, nelle abilità 369 [a] o in qualunque cosa (lasciamo stare i nomi) tu voglia. Ma non lo troverai, amico mio, perché non c’è. E ora parla tu40.   Cfr. Hipp. Maj., 285c7-d3 e infra la nota complementare 1, pp. 501-2.   Il passo rappresenta un forte attacco ironico nei confronti di Ippia, il quale può coglierne solo alcuni aspetti. Certamente può essergli evidente il paradosso di una lode tanto ampia e vibrante a fronte della definitiva con-

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Ἀλλ᾿ οὐκ ἔχω, ὦ Σώκρατες, νῦν γε οὕτως. Οὐδέ γε ἕξεις, ὡς ἐγὼ οἶμαι· εἰ δ᾿ ἐγὼ ἀληθῆ λέγω, | μέμνησαι ὃ ἡμῖν συμβαίνει ἐκ τοῦ λόγου, ὦ Ἱππία. ιππιας Οὐ πάνυ τι ἐννοῶ, ὦ Σώκρατες, ὃ λέγεις. σωκρατης Νυνὶ γὰρ ἴσως οὐ χρῇ τῷ μνημονικῷ τεχνήματι – δῆλον γὰρ ὅτι οὐκ οἴει δεῖν – ἀλλὰ ἐγώ σε ὑπομνήσω. οἶσθα ὅτι τὸν μὲν Ἀχιλλέα ἔφησθα ἀληθῆ εἶναι, τὸν δὲ Ὀδυσσέα [b] ψευδῆ καὶ πολύτροπον; ιππιας Ναί. σωκρατης Νῦν οὖν αἰσθάνῃ ὅτι ἀναπέφανται ὁ αὐτὸς ὢν ψευδής τε καὶ ἀληθής, ὥστε εἰ ψευδὴς ὁ Ὀδυσσεὺς ἦν, καὶ | ἀληθὴς γίγνεται, καὶ εἰ ἀληθὴς ὁ Ἀχιλλεύς, καὶ ψευδής, καὶ οὐ διάφοροι ἀλλήλων οἱ ἄνδρες οὐδ᾿ ἐναντίοι, ἀλλ᾿ ὅμοιοι; ιππιας Ὦ Σώκρατες, ἀεὶ σύ τινας τοιούτους πλέ­ κεις λόγους, καὶ ἀπολαμβάνων ὃ ἂν ᾖ δυσχερέστατον τοῦ λόγου, τούτου [c] ἔχῃ κατὰ σμικρὸν ἐφαπτό­ μενος, καὶ οὐχ ὅλῳ ἀγωνίζῃ τῷ πράγματι περὶ ὅτου ἂν ὁ λόγος ᾖ· ἐπεὶ καὶ νῦν, ἐὰν βούλῃ, ἐπὶ πολλῶν τεκμηρίων ἀποδείξω σοι ἱκανῷ λόγῳ Ὅμηρον Ἀχιλλέα πεποιηκέναι ἀμείνω Ὀδυσσέως καὶ ἀψευδῆ, τὸν δὲ | δολερόν τε καὶ πολλὰ ψευδόμενον καὶ χείρω Ἀχιλλέως. εἰ δὲ βούλει, σὺ αὖ ἀντιπαράβαλλε λόγον ιππιας

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ippia In questo momento, Socrate, non riesco a dirne nessuna che sia cosí. socrate Né ci riuscirai mai, credo. Se dico il vero, Ippia, ricorda ciò che consegue dal nostro ragionamento. ippia Non colgo ciò che intendi, Socrate. socrate Forse in questo momento non usi la mnemotecnica – è chiaro, non credi di averne bisogno! –; ma te lo ricorderò io. Sai di aver affermato che Achille è veritiero mentre Odisseo [b] falso e multiforme? ippia Sí. socrate Ebbene, a questo punto non percepisci che lo stesso uomo ci si è chiaramente mostrato falso e insieme veritiero, cosicché se Odisseo era falso, diviene anche veritiero, e se Achille era veritiero, diviene anche falso, e questi uomini non sono differenti tra loro né opposti, bensí del tutto simili? ippia Socrate, tu intrecci sempre discorsi di questo tipo e, cogliendo isolatamente l’aspetto potenzialmente piú difficoltoso del discorso, [c] ti aggrappi a questo facendo leva su piccolezze, senza confrontarti sull’oggetto del discorso nella sua interezza. Vedi, anche adesso, qualora tu volessi, grazie a molti argomenti farei emergere per te, con un discorso all’altezza della situazione, che Omero ha ritratto Achille come migliore di Odisseo e non falso, mentre l’altro come ingannatore, abituato a dire molte falsità e peggiore di Achille. Se vuoi, tu contrapponi di nuovo discorso a discorso, dicendo che a tuo danna della sua tesi: in questo senso tanto è marcata la boria di Ippia quanto risulta pesante l’effetto ironico. Socrate attacca però anche la mnemotecnica, totalmente inefficace poiché spiegata a Socrate e da questi presto dimenticata insieme a molte altre cose (368d6-e1; cfr. del resto 369a7-8). Ancora, la descrizione del vestiario di Ippia si focalizza – riprendendo, dice Socrate, quanto lo stesso Ippia diceva – principalmente su elementi ornamentali ed esteriori, segno di lusso e ricchezza (368b6-c7). In relazione al vestiario, va inoltre sottolineato che l’idea di «capacità di produrre da sé le proprie cose» è utilizzata, per esempio, nel Carmide (161b5 sgg.), come tematizzazione – volutamente – paradossale per la virtú (in particolare, per la temperanza). Infine, è probabilmente ironico il riferimento alle composizioni letterarie (368c8-d6), descritte come estremamente varie, dunque con caratteri negativi dal punto di vista di Platone (cfr. per esempio Resp., III, 399e8 sgg.).

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παρὰ λόγον, ὡς ὁ ἕτερος ἀμείνων ἐστί· καὶ μᾶλλον εἴσονται οὗτοι ὁπότερος ἄμεινον λέγει. [d] σωκρατης Ὦ Ἱππία, ἐγώ τοι οὐκ ἀμφισβητῶ μὴ οὐχὶ σὲ εἶναι σοφώτερον ἢ ἐμέ· ἀλλ᾿ ἀεὶ εἴωθα, ἐπειδάν τις λέγῃ τι, προσέχειν τὸν νοῦν, ἄλλως τε καὶ ἐπειδάν μοι δοκῇ σοφὸς εἶναι ὁ λέγων, καὶ ἐπιθυμῶν μαθεῖν ὅτι λέγει διαπυνθάνομαι | καὶ ἐπανασκοπῶ καὶ συμβιβάζω τὰ λεγόμενα, ἵνα μάθω· ἐὰν δὲ φαῦλος δοκῇ μοι εἶναι ὁ λέγων, οὔτε ἐπανερωτῶ οὔτε μοι μέλει ὧν λέγει. καὶ γνώσῃ τούτῳ οὓς ἂν ἐγὼ ἡγῶμαι σοφοὺς εἶναι· εὑρήσεις γάρ με λιπαρῆ ὄντα περὶ τὰ λεγό[e] μενα ὑπὸ τούτου καὶ πυνθανόμενον παρ᾿ αὐτοῦ, ἵνα μαθών τι ὠφεληθῶ. ἐπεὶ καὶ νῦν ἐννενόηκα, σοῦ λέγοντος, ὅτι ἐν τοῖς ἔπεσιν οἷς σὺ ἄρτι ἔλεγες, ἐνδεικνύμενος τὸν Ἀχιλλέα εἰς τὸν Ὀδυσσέα λέγειν

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avviso l’altro è migliore; cosí tutti loro sapranno chi di noi due parla meglio41. [d] socrate Ippia, non voglio certo contestare che tu sia piú sapiente di me. E tuttavia ho l’abitudine di prestare viva attenzione ogniqualvolta qualcuno dica qualcosa, e specialmente ogniqualvolta chi parla mi paia sapiente: allora, mosso dal desiderio di apprendere ciò che dice, mi informo con insistenza, riconsidero tutto piú volte e esamino complessivamente quanto detto, per riuscire a imparare. Qualora invece chi parla mi paia sciocco, non pongo domande né mi importa di ciò che dice. Grazie a questo criterio tu potrai riconoscere quelli che ritengo sapienti: su quanto detto [e] da un sapiente mi troverai a ostinarmi e a informarmi da lui, perché apprendendo io tragga un beneficio42. Vedi, anche ora, mentre sostenevi che nei versi citati Achille parla a Odisseo ritenendolo un impostore, avvertivo qualcosa di improprio – se mi dici il vero –, cioè che mentre Odisseo, il 41   Il primato della persuasione dell’uditorio, tipicamente sofistico (cfr. Gorg., 471e2 sgg.), spinge Ippia a proporre un primo argomento implicito: egli stesso è migliore poiché sostiene la figura tradizionalmente migliore. L’accusa rivolta a Socrate trova numerosi paralleli nei dialoghi (cfr. per esempio Gorg., 461b3-c4; Hipp. Maj., 301b2-5 – cfr. supra la nota ad loc. –; Resp., I, 336b8-c6 e 341a5 sgg., VI, 487b1 sgg.; talvolta Socrate è anche accusato di φιλονικία: per esempio in Prot., 360e3 e Gorg., 515b5); comune è anche il proposito di “vendicarsi” battendo Socrate dopo aver subito una confutazione. Maggiormente significativo è però che Ippia, ormai confutato, pur scorgendo che Socrate ha utilizzato strumenti dialettici poco appropriati, non riesca a localizzare eventuali aspetti problematici nella confutazione e non accetti le conclusioni di passaggi a cui ha dato l’assenso: un simile atteggiamento mina fortemente la descrizione dell’Ippia dell’Ippia minore come honest man, che secondo i sostenitori dell’inautenticità dell’Ippia maggiore non sarebbe rintracciabile in quest’ultimo dialogo e costituirebbe cosí una base per argomentare a favore della sua atetesi (cfr. infra la nota complementare 1, pp. 501-2). 42   In realtà, secondo un noto passo dell’Apologia (21b1 sgg.), Socrate si intrattiene con chi non è sapiente per smascherarne la pochezza; il Socrate platonico conferma spesso (si pensi a Ione ed Eutifrone, esempi massimi di interlocutori dappoco) questa tendenza. Tutto ciò induce ancora a vedere qui un atteggiamento ironico (Socrate, dunque, dice il falso), secondo modalità tipiche delle conversazioni con i personaggi di estrazione sofistica; tale accento è inoltre confermato dall’inciso «se mi dici il vero», che può anche significare, in modo piú diretto, «se sei sincero» (cfr. anche Hipp. Maj., 300d2-4 e supra la nota ad loc.).

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ὡς ἀλαζόνα ὄντα, ἄτοπόν μοι δοκεῖ | εἶναι, εἰ σὺ ἀληθῆ λέγεις, ὅτι ὁ μὲν Ὀδυσσεὺς οὐδαμοῦ 370 [a] φαίνεται ψευσάμενος, ὁ πολύτροπος, ὁ δὲ Ἀχιλλεὺς πολύτροπός τις φαίνεται κατὰ τὸν σὸν λόγον· ψεύδεται γοῦν. προειπὼν γὰρ ταῦτα τὰ ἔπη, ἅπερ καὶ σὺ εἶπες ἄρτι –   ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀίδαο πύλῃσιν, | ὅς χ᾿ ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ,

[b] ὀλίγον ὕστερον λέγει ὡς οὔτ᾿ ἂν ἀναπεισθείη ὑπὸ τοῦ Ὀδυσσέως τε καὶ τοῦ Ἀγαμέμνονος οὔτε μένοι τὸ παράπαν ἐν τῇ Τροίᾳ, ἀλλ᾿ – «αὔριον ἱρὰ Διὶ ῥέξας», φησί, «καὶ πᾶσι θεοῖσιν, νηήσας εὖ νῆας, ἐπὴν ἅλαδε προερύσσω, ὄψεαι, αἴ κ᾿ ἐθέλῃσθα καὶ αἴ κέν τοι τὰ μεμήλῃ, ἦρι μάλ᾿ Ἑλλήσποντον ἐπ᾿ ἰχθυόεντα πλεούσας [c] νῆας ἐμάς, ἐν δ᾿ ἄνδρας ἐρεσσέμεναι μεμαῶτας· εἰ δέ κεν εὐπλοΐην δώῃ κλυτὸς Ἐννοσίγαιος, ἤματί κεν τριτάτῳ Φθίην ἐρίβωλον ἱκοίμην».

Ἔτι δὲ πρότερον τούτων πρὸς τὸν Ἀγαμέμνονα λοιδορούμενος | εἶπεν –

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«Νῦν δ᾿ εἶμι Φθίηνδ᾿, ἐπεὶ ἦ πολὺ λώϊόν ἐστιν οἴκαδ᾿ ἴμεν σὺν νηυσὶ κορωνίσιν, οὐδέ σ᾿ ὀίω [d] ἐνθάδ᾿ ἄτιμος ἐὼν ἄφενος καὶ πλοῦτον ἀφύξειν».

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multiforme, non dice chiaramente in nessun momento niente 370 [a] di falso, secondo il tuo discorso proprio Achille appare in qualche modo multiforme: infatti dice il falso. In effetti, pur avendo già pronunciato proprio i versi che prima43 anche tu hai citato: «quell’uomo infatti mi è odioso, similmente alle soglie dell’Ade, che celi qualcosa nel petto e un’altra ne dica»,

[b] afferma poco dopo che non si lascerebbe mai convincere né da Odisseo né da Agamennone, né rimarrebbe mai per nessun motivo a Troia, anzi: «domani», afferma, «compiuti sacrifici a Zeus e a tutti gli dèi, avendo ben caricato le navi, le tirerò in mare, e vedrai, se ne avrai volontà e se te ne sarai dato pensiero, navigare di prima mattina sull’Ellesponto pescoso [c] le mie navi, e su di loro uomini impegnati a remare; e se navigazione felice donasse il glorioso dio che scuote la terra, il terzo giorno potrei toccare la fertile Ftia»44.

Ma ancora prima di questi, ingiuriando Agamennone, dice: «E ora vado a Ftia, ché ben piú desiderabile è tornare a casa sulle navi ricurve, né ho intenzione [d] di rimanere qui privo di onore a procurarti lusso e ricchezza»45. 43   Cfr. 365a4-b1. Socrate riprende i versi piú importanti della citazione di Ippia per evidenziare quanto debole sia l’argomento del sofista; la confutazione appare estremamente mirata. 44   Socrate propone versi poco successivi a quelli citati da Ippia (Il., IX 357-63), in cui Achille annuncia un pronto abbandono della spedizione. La scelta di versi tanto prossimi dipende dalla volontà di rendere il vincolo di sincerità su queste parole, che come noto non avranno seguito, particolarmente stringente. 45   Socrate cita i vv. I, 169-71 dell’Iliade, in cui Achille si scaglia contro Agamennone che chiede di ricevere una compensazione per dover cedere Criseide, proprio “bottino”: egli riprende cosí la prima affermazione dell’intento di lasciare Troia da parte di Achille. L’unica significativa divergenza testuale rispetto a Omero riguarda λώϊον («desiderabile»), testimoniato in qualche modo da tutti i manoscritti platonici, che sostituisce l’omerico φέρτερον (traduzione generica «piú coraggioso»). Secondo Labarbe 1949, pp. 71-79, Platone offre una variante formulare, mentre per Lohse 1965, pp. 258-60, vi sarebbe una ripresa dell’adirata risposta di Agamennone (I, 229). In realtà questi due comparativi di ἀγαθός non sono esattamente sinonimi: il testo di Omero esprime una valutazione legata al coraggio dell’azione, mentre quello platonico una basata sulla preferibilità. Se dunque in Omero Achille

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ταῦτα εἰπὼν τοτὲ μὲν ἐναντίον τῆς στρατιᾶς ἁπάσης, τοτὲ δὲ πρὸς τοὺς ἑαυτοῦ ἑταίρους, οὐδαμοῦ φαίνεται οὔτε παρασκευασάμενος οὔτ᾿ ἐπιχειρήσας καθέλκειν τὰς ναῦς ὡς ἀπο | πλευσούμενος οἴκαδε, ἀλλὰ πάνυ γενναίως ὀλιγωρῶν τοῦ τἀληθῆ λέγειν. ἐγὼ μὲν οὖν, ὦ Ἱππία, καὶ ἐξ ἀρχῆς σε ἠρόμην ἀπορῶν ὁπότερος τούτοιν τοῖν ἀνδροῖν ἀμείνων [e] πεποίηται τῷ ποιητῇ, καὶ ἡγούμενος ἀμφοτέρω ἀρίστω εἶναι καὶ δύσκριτον ὁπότερος ἀμείνων εἴη καὶ περὶ ψεύδους καὶ ἀληθείας καὶ τῆς ἄλλης ἀρετῆς· ἀμφοτέρω γὰρ καὶ κατὰ τοῦτο παραπλησίω ἐστόν. ιππιας Οὐ γὰρ καλῶς σκοπεῖς, ὦ Σώκρατες. ἃ μὲν γὰρ ὁ Ἀχιλλεὺς ψεύδεται, οὐκ ἐξ ἐπιβουλῆς φαίνεται ψευδόμενος ἀλλ᾿ ἄκων, διὰ τὴν συμφορὰν τὴν τοῦ στρατοπέδου ἀναγκασθεὶς καταμεῖναι καὶ βοηθῆσαι· ἃ δὲ ὁ Ὀδυσσεύς, ἑκών τε καὶ ἐξ ἐπιβουλῆς.

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Pur avendo detto queste parole una volta davanti a tutto l’esercito e un’altra davanti ai suoi compagni, è evidente che mai si prepara e si appresta a calare in mare le imbarcazioni per navigare via verso casa, né di certo si impegna – con grande nobiltà! – a dire il vero. In effetti, Ippia, fin dall’inizio ti interrogavo perché non riesco a cogliere quale dei due uomini sia stato [e] ritratto dal poe­ta come migliore, e perché ritengo che siano entrambi ottimi e sia ben difficile individuare quale possa essere migliore in relazione alla falsità, alla veridicità e a ogni altra virtú46; anche in questo, infatti, sono entrambi allo stesso livello. ippia E infatti le tue osservazioni non sono corrette, Socrate. Per quanto riguarda le cose su cui Achille dice il falso, è evidente che non lo fa sulla base di una trama premeditata bensí involontariamente, in quanto costretto a rimanere e prestare soccorso per le sventure occorse all’esercito; Odisseo, invece, lo fa volontariamente e sulla base di una trama premeditata47. è il guerriero che valuta le azioni in base a una morale guerriera, in Platone esprime una valutazione generale sulla preferibilità di un atteggiamento. In questo modo Platone sostiene in modo piú efficace la sua tesi: se la valutazione fosse legata alla morale guerriera, l’uccisione di Patroclo – per la quale Achille tornerà in battaglia – rappresenterebbe un buon motivo per rimanere, mentre la modifica testuale fa apparire Achille ambiguo circa le valutazioni generali degli atteggiamenti opportuni. Le osservazioni di Labarbe sulla formularità della sostituzione, astratti dal loro contesto argomentativo, forniscono anche una buona base per la scelta lessicale di Platone, che ha contaminato Omero con Omero. 46   Socrate ripropone la tesi raggiunta alla fine del precedente argomento (369b3-7), rafforzata ora dalle citazioni, che rappresentano una confutazione diretta: anche Achille è capace, volendo, di dire il falso, dunque sarà “buono” tanto quanto Odisseo. Al contempo Socrate produce qui un’evidente forzatura, che scatena la successiva risposta di Ippia: egli amplia infatti la similitudine tra le due figure all’ambito dell’intera virtú. Ora, se si intende «virtú» secondo una semantica comune, prestazionale – eccellente capacità di realizzare qualcosa –, l’affermazione è coerente e in buona continuità con quanto precede; Ippia, tuttavia, non riesce a cogliere le possibili distinzioni semantiche e a separare queste significato da quello etico. 47   Ippia fa riferimento, con una certa edulcorazione, al fatto che Achille rinunci al proposito di partire per vendicare Patroclo, entrato a sua insaputa in battaglia con le sue armi e ucciso da Ettore, mentre Odisseo ha come proprio carattere costante l’obliquità delle parole e il tessere trame.

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σωκρατης Ἐξαπατᾷς με, ὦ φίλτατε Ἱππία, καὶ αὐτὸς τὸν Ὀδυσσέα μιμῇ. 371 [a] ιππιας Οὐδαμῶς, ὦ Σώκρατες· λέγεις δὲ δὴ τί καὶ πρὸς τί; σωκρατης Ὅτι οὐκ ἐξ ἐπιβουλῆς φῂς τὸν Ἀχιλλέα ψεύδεσθαι, ὃς ἦν οὕτω γόης καὶ ἐπίβουλος πρὸς τῇ ἀλαζονείᾳ, ὡς πεποίηκεν Ὅμηρος, ὥστε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως τοσοῦτον | φαίνεται φρονεῖν πλέον πρὸς τὸ ῥᾳδίως λανθάνειν αὐτὸν ἀλαζονευόμενος, ὥστε ἐναντίον αὐτοῦ αὐτὸς ἑαυτῷ ἐτόλμα ἐναντία λέγειν καὶ ἐλάνθανεν τὸν Ὀδυσσέα· οὐδὲν γοῦν φαίνεται εἰπὼν πρὸς αὐτὸν ὡς αἰσθανόμενος αὐτοῦ ψευ[b] δομένου ὁ Ὀδυσσεύς.

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socrate Vorresti ingannarmi, carissimo Ippia, e tu stesso imitare Odisseo. 371 [a] ippia In nessun modo, Socrate! Ma perché dici questo, e in relazione a cosa?48. socrate Perché tu affermi che Achille non dice il falso sulla base di una trama premeditata, proprio lui che era un tale incantatore, tanto disposto a tramare inganni – cosí lo ha ritratto Omero – da dare l’impressione di essere piú scaltro di Odisseo nell’ingannarlo, sfuggendo agevolmente alla sua attenzione, al punto che osava contraddirsi al suo cospetto. È infatti evidente che Odisseo non gli dice nulla di ciò che ci si aspetterebbe da chi abbia intuito che l’altro [b] diceva il falso. 48   Nel successivo argomento (371b2-372a5) Socrate sottopone Ippia a una confutazione elaborata. Il sofista ha ribadito (370e5-9) che Achille dice il vero e per questo è migliore di Odisseo. Socrate cita a questo punto un passo che, secondo la sua lettura, indicherebbe che Achille è pronto a contraddirsi all’interno dello stesso scambio, pur con interlocutori diversi: poiché Achille dice a Odisseo il falso – cioè che partirà – mentre ad Aiace il vero – cioè che rimarrà – ritiene Odisseo ben meno scaltro di se stesso. Socrate aggiunge inoltre che Achille, in virtú delle sue nobili origini ed educazione, non può che aver esercitato volontariamente un simile atteggiamento (371a2-c5). Ippia contesta l’interpretazione del passo e, considerando le due affermazioni di Achille come diverse versioni dello stesso progetto, propone una propria spiegazione: la formazione di Achille gli garantisce quella εὐήθεια, intesa come purezza di carattere, bontà, che lo induce a essere sincero in due modi diversi, mentre Odisseo premedita le proprie menzogne (371d8-e3). Socrate può a questo punto far leva sul termine εὐήθεια, intendendolo nel senso di «dabbenaggine», per dedurre dall’affermazione di Ippia che Odisseo è “migliore” di Achille, e riproporre la tesi per cui chi dice il falso volontariamente è migliore di chi lo fa involontariamente (371e4-8). Per difendere la propria tesi Ippia risponde ampliando la prospettiva di valutazione, cioè associando il dire il falso al fare il male: chi fa il male volontariamente è peggiore di chi lo fa involontariamente (371e9-372a5): sarà questa la base dello sviluppo del dialogo. La sezione evidenzia che Ippia con le sue categorie comuni non riesce a far fronte all’assurdo, e per converso che Platone gestisce, pur in modo ambiguo, una lenta transizione da una prospettiva apparentemente tecnica/prestazionale a una morale attraverso le complesse nozioni di «virtú/capacità» e, per implicazione, di «buono». Da questo intricato procedere emerge lo stratagemma teso da Socrate: egli interpreta in modo tendenzioso il testo di Omero per scatenare la reazione di Ippia, il quale si vede costretto ad affermare una certa “inferiorità” di Achille. In secondo luogo, il passo segna un non indifferente innalzamento della materia trattata, che scivola in modo decisivo verso il «fare il bene/male».

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Ποῖα δὴ ταῦτα λέγεις, ὦ Σώκρατες; Οὐκ οἶσθα ὅτι λέγων ὕστερον ἢ ὡς πρὸς τὸν Ὀδυσσέα ἔφη ἅμα τῇ ἠοῖ ἀποπλευσεῖσθαι, πρὸς τὸν Αἴαντα | οὐκ αὖ φησιν ἀποπλευσεῖσθαι, ἀλλὰ ἄλλα λέγει; ιππιας Ποῦ δή; σωκρατης Ἐν οἷς λέγει – ιππιας

σωκρατης

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«οὐ γὰρ πρὶν πολέμοιο μεδήσομαι αἱματόεντος, [c] πρίν γ᾿ υἱὸν Πριάμοιο δαΐφρονος, Ἕκτορα δῖον, Μυρμιδόνων ἐπί τε κλισίας καὶ νῆας ἱκέσθαι κτείνοντ᾿ Ἀργείους, κατά τε φλέξαι πυρὶ νῆας· ἀμφὶ δέ μιν τῇ ᾿μῇ κλισίῃ καὶ νηῒ μελαίνῃ | Ἕκτορα καὶ μεμαῶτα μάχης σχήσεσθαι ὀίω».

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Σὺ δὴ οὖν, ὦ Ἱππία, πότερον οὕτως ἐπιλήσμονα οἴει εἶναι [d] τὸν τῆς Θέτιδός τε καὶ ὑπὸ τοῦ σοφωτάτου Χείρωνος πεπαιδευμένον, ὥστε ὀλίγον πρότερον λοιδοροῦντα τοὺς ἀλαζόνας τῇ ἐσχάτῃ λοιδορίᾳ αὐτὸν παραχρῆμα πρὸς μὲν τὸν Ὀδυσσέα φάναι ἀποπλευσεῖσθαι, πρὸς δὲ τὸν Αἴαντα μενεῖν, ἀλλ᾿ οὐκ | ἐπιβουλεύοντά τε καὶ ἡγούμενον ἀρχαῖον εἶναι τὸν Ὀδυσσέα καὶ αὐτοῦ αὐτῷ τούτῳ τῷ τεχνάζειν τε καὶ ψεύδεσθαι περιέσεσθαι; ιππιας Οὔκουν ἔμοιγε δοκεῖ, ὦ Σώκρατες· ἀλλὰ καὶ αὐτὰ [e] ταῦτα ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθεὶς πρὸς τὸν Αἴαντα ἄλλα εἶπεν ἢ πρὸς τὸν Ὀδυσσέα· ὁ δὲ Ὀδυσσεὺς ἅ τε ἀληθῆ λέγει, ἐπιβουλεύσας ἀεὶ λέγει, καὶ ὅσα ψεύδεται, ὡσαύτως. σωκρατης Ἀμείνων ἄρ᾿ ἐστίν, ὡς ἔοικεν, ὁ Ὀδυσ­ σεὺς Ἀχιλ- | λέως.

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ippia A cosa ti riferisci esattamente, Socrate? socrate Non sai che, dopo aver dichiarato a Odisseo che avrebbe preso il mare all’alba, parlando ad Aiace non lo ribadisce, e anzi dice tutt’altro? ippia Ma dove?49. socrate Nei versi in cui dice: «della guerra cruenta non mi preoccuperò [c] prima che il figlio del saggio Priamo, Ettore luminoso, non giunga alle tende e alle navi dei Mirmidoni uccidendo gli Argivi, e allora accenda col fuoco le navi. Ma di fronte alla mia tenda e alla nave nera presagisco che Ettore, invasato che sia dalla battaglia, si fermerà»50.

Dunque, Ippia, credi davvero che [d] Achille, generato da Teti ed educato dal sapientissimo Chirone, fosse tanto smemorato che poco prima, oltraggiando chi inganna con la peggiore delle offese, avrebbe dichiarato sul momento a Odisseo l’idea di navigare via, mentre poi ad Aiace quella di rimanere, senza una trama premeditata, senza ritenere Odisseo ingenuo e se stesso superiore a lui proprio per questa sua maestria, questa capacità di dire il falso? ippia Non mi pare proprio, Socrate. Al contrario, [e] ha detto ad Aiace queste stesse cose, anche se in un modo diverso rispetto a come le ha dette a Odisseo, mosso dalla propria semplicità; quando invece Odisseo dice il vero, lo dice sempre con premeditazione, ed è cosí anche quando dice il falso. socrate Quindi Odisseo – cosí sembra – è migliore di Achille. 49   Come nello Ione (cfr. particolarmente infra le note 65 e 67 al dialogo), Platone ridicolizza chi si professa perfetto conoscitore del testo omerico. Probabilmente Ippia ha presente il passo in questione ma – a ragione, cfr. la nota seguente – non lo valuta come argomento a favore di Socrate. 50   Socrate cita altri versi (650-55) del IX canto iliadico, in cui Achille fornisce su richiesta di Aiace una definitiva versione delle sue intenzioni. Da sottolineare a discolpa di Ippia è che nel prosieguo del canto non si ha alcuna indicazione che porti a pensare che queste parole di Achille siano da leggere come opposte alle precedenti, anzi: Odisseo riferisce solo dell’intenzione di Achille di lasciare la campagna (vv. 676-692); Socrate, però, sembra fare leva proprio su questo aspetto della narrazione epica.

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platone

Ἥκιστά γε δήπου, ὦ Σώκρατες. Τί δέ; οὐκ ἄρτι ἐφάνησαν οἱ ἑκόντες ψευδόμενοι βελτίους ἢ οἱ ἄκοντες; ιππιας Καὶ πῶς ἄν, ὦ Σώκρατες, οἱ ἑκόντες ἀδι­ κοῦντες καὶ 372 [a] ἑκόντες ἐπιβουλεύσαντες καὶ κακὰ ἐργασάμενοι βελτίους ἂν εἶεν τῶν ἀκόντων, οἷς πολλὴ δοκεῖ συγγνώμη εἶναι, ἐὰν μὴ εἰδώς τις ἀδικήσῃ ἢ ψεύσηται ἢ ἄλλο τι κακὸν ποιήσῃ; καὶ οἱ νόμοι δήπου πολὺ χαλεπώτεροί εἰσι τοῖς ἑκοῦσι κακὰ | ἐργαζομένοις καὶ ψευδομένοις ἢ τοῖς ἄκουσιν. σωκρατης Ὁρᾷς, ὦ Ἱππία, ὅτι ἐγὼ ἀληθῆ λέγω, λέγων ὡς [b] λιπαρής εἰμι πρὸς τὰς ἐρωτήσεις τῶν σοφῶν; καὶ κινδυνεύω ἓν μόνον ἔχειν τοῦτο ἀγαθόν, τἆλλα ἔχων πάνυ φαῦλα· τῶν μὲν γὰρ πραγμάτων ᾗ ἔχει ἔσφαλμαι, καὶ οὐκ οἶδ᾿ ὅπῃ ἐστί. τεκμήριον δέ μοι τούτου ἱκανόν, ὅτι ἐπειδὰν συγγέ- | νωμαί τῳ ὑμῶν τῶν εὐδοκιμούντων ἐπὶ σοφίᾳ καὶ οἷς οἱ Ἕλληνες πάντες μάρτυρές εἰσι τῆς σοφίας, φαίνομαι οὐδὲν εἰδώς· οὐδὲν γάρ μοι δοκεῖ τῶν αὐτῶν καὶ ὑμῖν, ὡς ἔπος [c] εἰπεῖν. καίτοι τί μεῖζον ἀμαθίας τεκμήριον ἢ ἐπειδάν τις σοφοῖς ἀνδράσι διαφέρηται; ἓν δὲ τοῦτο θαυμάσιον ἔχω ἀγαθόν, ὅ με σῴζει· οὐ γὰρ αἰσχύνομαι μανθάνων, ἀλλὰ πυνθάνομαι καὶ ἐρωτῶ καὶ χάριν πολλὴν ἔχω τῷ ἀποκρινο- | μένῳ, καὶ οὐδένα πώποτε ἀπεστέρησα χάριτος. οὐ γὰρ πώποτε ἔξαρνος ιππιας

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ippia Ma assolutamente no, Socrate! socrate Ma come? Prima non è emerso con chiarezza che chi dice il falso volontariamente è migliore di chi lo fa involontariamente?51. ippia E dimmi, Socrate, in che modo chi volontariamente commette ingiustizia, 372 [a] volontariamente trama e compie dei mali, può essere migliore di chi lo fa involontariamente? Per quest’altro, infatti, mi pare vi sia una buona giustificazione, qualora commetta ingiustizia, dica il falso o faccia un qualche altro male non avendone cognizione. Del resto le leggi sono molto piú severe con chi compie un male e dice il falso volontariamente che con chi lo fa involontariamente. socrate Lo vedi, Ippia, che dico il vero quando affermo che [b] sono ostinato nell’interrogare i sapienti?52. E c’è il rischio che di buono abbia solo questo e tutto il resto sia proprio dappoco: infatti sono sempre incerto sul reale stato delle cose, e non so in che modo stiano davvero. Per me ne è una prova sufficiente che ogniqualvolta io mi trovi a conversare con uno qualsiasi di voi, famosi per la sapienza e della cui sapienza tutti i Greci sono testimoni, emerge con chiarezza che non so nulla: io e voi, infatti, non la vediamo allo stesso modo praticamente su niente. [c] Del resto, quale maggior prova di ignoranza dell’essere in disaccordo con uomini sapienti? E tuttavia, ho quest’unica meravigliosa cosa buona, che mi salva: non mi vergogno di imparare, anzi mi informo, pongo domande, ho molta gratitudine verso chi risponde e non ho mai fatto venir meno la mia gratitudine a nessuno53. In 51   Cfr. 366e1 sgg., particolamente 366e1-367a5. La generalizzazione prodotta da Socrate è forse forzata. Per il significato platonico della conclusione raggiunta nella prima parte del dialogo cfr. supra l’introduzione, pp. 194-96. 52   Cfr. 369d1-e2. 53   L’uso del termine χάρις potrebbe indicare un accento ironico attraverso un implicito riferimento non solo alle modalità di esplicazione della «gratitudine», ma anche a un significato piú concreto del termine, quello di «dono come ricompensa», che nel dialogo non può che alludere alla confutazione e alle indicazioni filosofiche che essa reca; per il vantaggio insito nell’essere confutati cfr. per esempio Gorg., 470c6-8.

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ἐγενόμην μαθών τι, ἐμαυτοῦ ποιούμενος τὸ μάθημα εἶναι ὡς εὕρημα· ἀλλ᾿ ἐγκωμιάζω τὸν διδάξαντά με ὡς σοφὸν ὄντα, ἀποφαίνων ἃ ἔμαθον παρ᾿ αὐτοῦ. καὶ δὴ καὶ [d] νῦν ἃ σὺ λέγεις οὐχ ὁμολογῶ σοι, ἀλλὰ διαφέρομαι πάνυ σφόδρα· καὶ τοῦτ᾿ εὖ οἶδα ὅτι δι᾿ ἐμὲ γίγνεται, ὅτι τοιοῦτός εἰμι οἷόσπερ εἰμί, ἵνα μηδὲν ἐμαυτὸν μεῖζον εἴπω. ἐμοὶ γὰρ φαίνεται, ὦ Ἱππία, πᾶν τοὐναντίον ἢ ὃ σὺ λέγεις· οἱ | βλάπτοντες τοὺς ἀνθρώπους καὶ ἀδικοῦντες καὶ ψευδόμενοι καὶ ἐξαπατῶντες καὶ ἁμαρτάνοντες ἑκόντες ἀλλὰ μὴ ἄκοντες, βελτίους εἶναι ἢ οἱ ἄκοντες. ἐνίοτε μέντοι καὶ τοὐναντίον δοκεῖ μοι τούτων καὶ πλανῶμαι περὶ ταῦτα, δῆλον ὅτι διὰ [e] τὸ μὴ εἰδέναι· νυνὶ δὲ ἐν τῷ παρόντι μοι ὥσπερ κατηβολὴ περιελήλυθεν, καὶ δοκοῦσί μοι οἱ ἑκόντες ἐξαμαρτάνοντες περί τι βελτίους εἶναι τῶν ἀκόντων. αἰτιῶμαι δὲ τοῦ νῦν παρόντος παθήματος τοὺς ἔμπροσθεν λόγους αἰτίους εἶναι, | ὥστε φαίνεσθαι νῦν ἐν τῷ παρόντι τοὺς ἄκοντας τούτων ἕκαστα ποιοῦντας πονηροτέρους ἢ τοὺς ἑκόντας. σὺ οὖν χάρισαι καὶ μὴ φθονήσῃς ἰάσασθαι τὴν ψυχήν μου· πολὺ 373 [a] γάρ τοι μεῖζόν με ἀγαθὸν ἐργάσῃ ἀμαθίας παύσας τὴν ψυχὴν ἢ νόσου τὸ σῶμα. μακρὸν μὲν οὖν λόγον εἰ ᾿θέλεις λέγειν, προλέγω σοι ὅτι οὐκ ἄν με ἰάσαιο – οὐ γὰρ ἂν ἀκολουθήσαιμι – ὥσπερ δὲ ἄρτι εἰ ᾿θέλεις μοι ἀποκρίνεσθαι, πάνυ ὀνήσεις, | οἶμαι δὲ οὐδ᾿ αὐτὸν σὲ βλαβήσεσθαι. δικαίως δ᾿ ἂν καὶ σὲ παρακαλοίην, ὦ παῖ Ἀπημάντου· σὺ γάρ με ἐπῆρας Ἱππίᾳ διαλέγεσθαι,

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effetti, io non ho mai negato di aver appreso qualcosa, facendo mia la nozione appresa come una mia scoperta; al contrario, lodo come sapiente chi mi insegna rendendo manifesto quanto ho imparato da lui. Ebbene, [d] ora non sono d’accordo con te su ciò che dici, anzi ne prendo totalmente le distanze: so bene che questo accade a causa mia, perché sono come sono – per non dire di me niente di ancor piú pesante… Vedi, Ippia, a me pare tutto il contrario di quello che dici: chi procura danni agli uomini commettendo ingiustizie, dicendo il falso, ingannando e sbagliando, volontariamente e non involontariamente, è migliore di chi lo fa involontariamente. D’altro canto talvolta mi pare vero anche l’opposto e vado errando su queste cose: è chiaro, ciò [e] dipende dal fatto che non le conosco. Ma ora, in questo momento, è come se fossi colto da un delirio, e mi pare che chi sbaglia volontariamente in qualcosa sia migliore di chi lo fa involontariamente. Posso trovare la causa della mia attuale condizione nei discorsi precedenti, in conseguenza dei quali ora, in questo momento, chi fa ciascuna di queste cose involontariamente mi appare piú malvagio di chi le fa volon­tariamente. Ma tu, allora, concedimi questa grazia e non rifiutarti di curare la mia anima: 373 [a] faresti per me un bene di gran lunga maggiore rimuovendo l’ignoranza dall’anima che una malattia dal mio corpo54. Se però hai intenzione di pronunciare un ampio discorso, ti dico fin da ora che non riu­ scirai a guarirmi – non sarei in grado di seguirti; se invece hai intenzione di rispondermi come prima, mi farai un gran beneficio e – credo – non sarà dannoso neanche per te55. Inoltre, sarebbe nei miei diritti invocare anche te, figlio di Apemanto: tu infatti mi hai spinto a dialogare con Ippia, e adesso, qualora egli non   Cfr. per esempio Gorg., 479b3-c6.   Per l’importanza della brachilogia nel dialogo filosofico cfr. supra l’introduzione, pp. 203-4.

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καὶ νῦν, ἐὰν μή μοι ἐθέλῃ Ἱππίας ἀποκρίνεσθαι, δέου αὐτοῦ ὑπὲρ ἐμοῦ. ευδικος Ἀλλ᾿, ὦ Σώκρατες, οἶμαι οὐδὲν δεήσεσθαι Ἱππίαν [b] τῆς ἡμετέρας δεήσεως· οὐ γὰρ τοιαῦτα αὐτῷ ἐστι τὰ προειρημένα ἀλλ᾿ ὅτι οὐδενὸς ἂν φύγοι ἀνδρὸς ἐρώτησιν. ἦ γάρ, ὦ Ἱππία; οὐ ταῦτα ἦν ἃ ἔλεγες;

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abbia intenzione di rispondermi, richiedi aiuto in mio nome56. eudico Socrate, credo che Ippia non abbia assolutamente bisogno [b] della nostra richiesta; ha già detto che simili atteggiamenti non gli appartengono, anzi: non si sottrarrebbe mai alle domande di nessuno. Non è cosí, Ippia? Non era questo ciò che dicevi?57. 56   Questa lunga dichiarazione di Socrate suggerisce una via di lettura dell’argomento del dialogo. Essa tocca diversi aspetti: a) 372a6-c8: Socrate non sa, ma impara dagli altri attraverso le domande, che ricambia con un “ringraziamento”, ironicamente leggibile come confutazione (cfr. supra la nota 53); b) 372c8-d7: Socrate sostiene la tesi opposta a quella di Ippia, ormai generalizzata (371e9-372a5): chi fa il male e sbaglia volontariamente è migliore di chi lo fa involontariamente; c) 372d7-e6: Socrate rimanda a situazioni in cui gli sembra corretta la tesi opposta, e vede nella discussione pregressa la causa di questo suo “delirio”; d) 372e6-373a5: Socrate implora Ippia di confutarlo. Il nucleo fondamentale è (c), per il quale talvolta Socrate ritiene che chi fa il male volontariamente è peggiore di chi lo fa involontariamente. Neanche questa posizione coincide con un modello platonico intellettualistico: è possibile che Platone voglia cosí segnalare l’instabilità di entrambe le posizioni che scaturiscono dall’ammettere la possibilità generale (cioè, applicata anche all’ambito etico) che si faccia il male volontariamente. Ancora (c) indica che il problema risiede proprio in questa possibilità, poiché la precedente discussione ha accreditato come elemento centrale dell’azione la sua volontarietà. In modo velato, dunque, Platone sembrerebbe indicare le ambiguità del ragionamento finora condotto: in primo luogo la plurivocità semantica di «volontariamente» (cfr. supra l’introduzione, pp. 192-3); in secondo luogo, la possibilità che la tesi per cui «chi dice il falso volontariamente è migliore» possa essere vera – in sé e per sé e a certe condizioni (cioè se si riferisce al filosofo; cfr. supra l’introduzione, pp. 194-6); infine, l’ambiguità essenziale della nozione di virtú. In questa prospettiva assume senso l’invocazione alla confutazione di (d), apparentemente del tutto ironica se letta in funzione di (a): con (d) Platone non allude a una confutazione ma all’intervento che chiarisca i limiti dell’argomento, che definisca la semantica da attribuire caso per caso alla nozione di virtú, che possa introdurre in riferimento al nuovo oggetto di analisi un modello intellettualistico (cfr. anche Erler 1991, pp. 228-29). 57   La nuova comparsa di Eudico individua una breve pausa prima della serie finale di domande. Da un punto di vista drammatico questo intervallo è molto significativo: finora la tesi considerata, «chi dice il falso volontariamente è migliore», può ad alcune condizioni essere platonica. Di qui alla fine del dialogo, invece, lo slittamento generale verso il tema dell’«agire bene/ male» volontariamente prefigura una posizione assunta ironicamente da parte di Socrate (cfr. particolarmente infra le note 73 e 79).

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ιππιας Ἔγωγε· ἀλλὰ Σωκράτης, ὦ Εὔδικε, ἀεὶ ταράττει ἐν | τοῖς λόγοις καὶ ἔοικεν ὥσπερ κακουρ­ γοῦντι. σωκρατης Ὦ βέλτιστε Ἱππία, οὔτι ἑκών γε ταῦτα ἐγὼ ποιῶ –σοφὸς γὰρ ἂν ἦ καὶ δεινὸς κατὰ τὸν σὸν λόγον – ἀλλὰ ἄκων, ὥστε μοι συγγνώμην ἔχε· φῂς γὰρ αὖ δεῖν, ὃς ἂν κακουργῇ ἄκων, συγγνώμην ἔχειν. [c] ευδικος Καὶ μηδαμῶς γε, ὦ Ἱππία, ἄλλως ποίει, ἀλλὰ καὶ ἡμῶν ἕνεκα καὶ τῶν προειρημένων σοι λόγων ἀποκρίνου ἃ ἄν σε ἐρωτᾷ Σωκράτης. ιππιας Ἀλλ᾿ ἀποκρινοῦμαι, σοῦ γε δεομένου. ἀλλ᾿ ἐρώτα | ὅτι βούλει. σωκρατης Καὶ μὴν σφόδρα γε ἐπιθυμῶ, ὦ Ἱππία, διασκέψασθαι τὸ νῦν δὴ λεγόμενον, πότεροί ποτε ἀμείνους, οἱ ἑκόντες ἢ οἱ ἄκοντες ἁμαρτάνοντες. οἶμαι οὖν ἐπὶ τὴν σκέψιν ὀρθότατ᾿ ἂν ὧδε ἐλθεῖν. ἀλλ᾿ ἀπόκριναι· καλεῖς τινα δρομέα ἀγαθόν;

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ippia Sí, però Socrate crea sempre scompiglio nei discorsi, mio Eudico, e sembra quasi farlo con cattiveria58. socrate Ma non lo faccio volontariamente, ottimo Ippia – in tal caso, secondo il tuo discorso, sarei sapiente e formidabile! –, bensí involontariamente; di conseguenza, perdonami, tu che affermi ancora che chi sbaglia involontariamente deve senz’altro essere perdonato59. [c] eudico Avanti, Ippia, non comportarti diversamente, anzi: per noi e i tuoi precedenti discorsi rispondi ciò che Socrate vorrà chiederti. ippia Visto che tu lo richiedi, risponderò60. Ora domanda ciò che vuoi. socrate Ippia, desidero fortemente indagare ciò che abbiamo detto or ora: chi mai è migliore, chi sbaglia volontariamente o chi lo fa involontariamente. In effetti, credo che questo sia il modo piú corretto per procedere nell’indagine61. Rispondi: c’è un podista che dici buono?   Cfr. supra la nota 41.   Cfr. 371e9-372a5. Socrate si attribuisce un “errore involontario”; ciò potrebbe suggerire che Platone lo stia rappresentando come immagine vivente dell’intellettualismo etico, cioè come chi sbaglia per ignoranza. In real­tà, posto che l’atteggiamento di Socrate è qui evidentemente ironico, Platone deve attribuirgli almeno la coscienza di una dissimulazione all’interno dell’argomento, cioè la volontà di fuorviare Ippia dicendo il falso. Del resto, conducendo Ippia a rendersi conto della propria pochezza Socrate non “fa il male”, anzi: dice il falso in vista del bene. L’atteggiamento di Socrate, dunque, non istanzia qui l’intellettualismo etico (non sbaglia involontariamente), bensí il “dire il falso” volontariamente in vista del bene; cfr. supra l’introduzione, pp. 194-96. 60   Come accade piú volte nell’Ippia maggiore (cfr. supra le note 79 e 110), il modello del “non far scappare il filosofo” viene ribaltato: è il sofista, ironicamente identificato con il sapiente, a essere trattenuto. 61   Prende avvio la serie di argomenti che accompagna il dialogo fino alla sua conclusione: (a) chi compie involontariamente male un’azione corporea è peggiore di chi lo fa volontariamente/chi compie volontariamente male un’azione corporea è migliore di chi lo fa involontariamente (373c9-374b4); (b) è migliore ciò che/chi agisce male volontariamente: dimostrazioni condotte progressivamente sulle parti del corpo, sugli strumenti, sull’anima degli animali, sulle arti umane, sull’anima umana (374b5-375d2); (c) chi sbaglia e compie azioni brutte e ingiuste volontariamente è migliore di chi lo fa involontariamente, ed è buono (375d7-376b6). I tre momenti sono concatenati (e tutti argomentativamente legati alla prima parte del dialogo – cfr. Weiss 1981, pp. 287-88 – che tuttavia non perde una sua autonomia tematica): solo nel primo viene stabilito che il buono può agire male e che può farlo volontariamente, mentre il secondo rappresenta una progressione epagogica su questa base.

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Ἔγωγε. Καὶ κακόν; ιππιας Ναί. σωκρατης Οὐκοῦν ἀγαθὸς μὲν ὁ εὖ θέων, κακὸς δὲ ὁ κακῶς; ιππιας Ναί.

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[d] ippia Certo. socrate E cattivo? ippia Sí. socrate E non è buono quello che corre bene e cattivo quello che lo fa male? ippia Sí. Alcune difficoltà, proposte fin dall’inizio, si riverberano fino alla conclusione: – confusione del conoscere e dell’agire: uno dei presupposti impliciti degli argomenti è quello per cui chi è migliore in una certa attività è anche capace di svolgerla male. Questa posizione, da un lato – se estesa a un ambito etico – contraddice l’intellettualismo platonico, dall’altro – in ambito pratico e tecnico – si basa sull’idea per cui la valutazione implica un agire conseguente, il che non è sempre vero; – l’estensione del modello tecnico/prestazionale: se per «modello tecnico» si intende «modello della pratica di una specifica capacità», è evidente che le conclusioni raggiunte in (a) siano basate su modelli tecnici, e che la loro validità sia rafforzata da esempi analoghi in (b). Non è però legittimo estendere le conclusioni relative a un modello tecnico/prestazionale a uno morale, poiché la dimensione dell’agire bene/male nei due ambiti ha implicazioni e statuto diversi; cfr. (pur con declinazioni differenti) già Calogero 1984, pp. 284-88; poi Sprague 1962, pp. 74-77; Kahn 2008, p. 121; Beversluis 2000, pp. 107-9; – rimane comunque un’ambiguità tra due modalità diverse dell’«agire male» qui considerate equivalenti. Come già notava Aristotele (Metaph., V, 1025a2-13) l’agire male di chi è eccellente è un’imitazione, mentre l’agire male involontario è un’azione immediata. Ancora, anche permanendo nell’ambito tecnico, non sempre l’«agire male» corrisponde al cattivo uso di un’arte: se ciò può valere per un medico che avvelena, difficilmente potrebbe essere detto per un podista – che correndo piano semplicemente non utilizza la propria arte (cfr. Beversluis 2000, pp. 107-9). Per risolvere tali difficoltà Weiss 1981, pp. 297-304, ha tentato di ridurre la nozione di bontà (etica) a quella, puramente tecnica, di «buono in/a fare qualcosa», e la nozione di volontarietà a quella di capacità; e tuttavia, la comparsa finale della giustizia evidenzia uno slittamento verso un discorso dichiaratamente etico (cfr. Balaudé 1997, pp. 272-75, ma già Sprague 1962, pp. 74-77, e Kahn 2008, p. 121, nota 19). In realtà tutte le ambiguità segnalate sono riconducibili a un’altra, frequentemente riscontrabile nei dialoghi (cfr. già supra la nota 48). La nozione di virtú ha comunemente – e non di rado in Platone – una semantica prestazionale (eccellenza nel fare qualcosa; cfr. Des Places 1964, s.v. ἀρετή). Da un punto di vista prestazionale – a cui rimanda la nozione tecnica di «buono in» – le difficoltà si riducono, poiché chi è virtuoso in qualcosa può (teoricamente) graduare il proprio impegno. Le piú severe difficoltà sono prodotte nel passaggio da questa prospettiva a quella etica, dunque dall’incapacità di Ippia di gestire la risemantizzazione – già in parte preplatonica ma centrale per Platone – della nozione di «virtú». Ciò implica inoltre che Platone possa nascondere elementi positivi dietro le ambiguità concettuali che scaturiscono dall’ampio argomento.

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σωκρατης Οὐκοῦν ὁ βραδέως θέων κακῶς θεῖ, ὁ δὲ ταχέως εὖ; ιππιας Ναί. σωκρατης Ἐν δρόμῳ μὲν ἄρα καὶ τῷ θεῖν τάχος μὲν ἀγαθόν, | βραδυτὴς δὲ κακόν; ιππιας Ἀλλὰ τί μέλλει; σωκρατης Πότερος οὖν ἀμείνων δρομεύς, ὁ ἑκὼν βραδέως θέων ἢ ὁ ἄκων; ιππιας Ὁ ἑκών. σωκρατης Ἆρ᾿ οὖν οὐ ποιεῖν τί ἐστι τὸ θεῖν; ιππιας Ποιεῖν μὲν οὖν. σωκρατης Εἰ δὲ ποιεῖν, οὐ καὶ ἐργάζεσθαί [e] τι; ιππιας Ναί. σωκρατης Ὁ κακῶς ἄρα θέων κακὸν καὶ αἰσχρὸν ἐν δρόμῳ τοῦτο ἐργάζεται; ιππιας Κακόν· πῶς γὰρ οὔ; σωκρατης Κακῶς δὲ θεῖ ὁ βραδέως θέων; ιππιας Ναί. σωκρατης Οὐκοῦν ὁ μὲν ἀγαθὸς δρομεὺς ἑκὼν τὸ κακὸν τοῦτο ἐργά- | ζεται καὶ τὸ αἰσχρόν, ὁ δὲ κακὸς ἄκων; ιππιας Ἔοικέν γε. σωκρατης Ἐν δρόμῳ μὲν ἄρα πονηρότερος ὁ ἄκων κακὰ ἐργαζό- 374 [a] μενος ἢ ὁ ἑκών;

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socrate Dunque, non corre male chi corre lentamente e bene chi lo fa velocemente? ippia Sí. socrate Nella podistica e nella corsa, quindi, velocità è bene, lentezza è male? ippia Ma cosa importa? socrate Chi è dunque un podista migliore, quello che corre volontariamente con lentezza o quello che lo fa involontariamente? ippia Quello che lo fa volontariamente. socrate Ma il correre non è fare qualcosa? ippia Certamente, è fare qualcosa. socrate E se è fare qualcosa, non è anche compiere [e] qualcosa? ippia Sí. socrate Nella podistica, quindi, chi corre male compie questa cosa male e in modo brutto. ippia Male, ovvio. socrate E non corre male chi corre lentamente? ippia Sí. socrate Dunque, il buon podista non compie que­ st’azione male e in modo brutto volontariamente, mentre il cattivo involontariamente? ippia Sembra proprio. socrate Nella podistica, quindi, non è piú malvagio62 chi compie il male involontariamente 374 [a] di chi lo fa volontariamente?63. 62   Per caratterizzare chi compie male qualcosa (letteralmente, in questi passaggi: chi compie «questo male»/«i mali») e l’azione compiuta male Socrate utilizza fin dall’inizio dell’argomento l’aggettivo πονηρός e i suoi comparativi, che saranno funzionali nell’applicazione delle acquisizioni raggiunte all’anima per poterla poi descrivere come priva di virtú; per questa ragione viene proposta fin da subito la traduzione «malvagio», anche al fine di preservare la continuità dell’argomento e di evidenziare l’ambiguità della semantica platonica. 63   Il primo argomento è bipartito (per il momento 2 cfr. infra la nota 65), e dimostra la stessa posizione nell’ambito della corsa e in quello della lotta. (1) Nella corsa (373c9-374a1): a) 373c9-d2: il buon podista corre velocemente, il cattivo lentamente; b) d3-5: chi corre velocemente corre bene, chi corre lentamente male, dunque correre velocemente è bene, lentamente male;

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Ἐν δρόμῳ γε. Τί δ᾿ ἐν πάλῃ; πότερος παλαιστὴς ἀμεί­ νων, ὁ ἑκὼν πίπτων ἢ ὁ ἄκων; ιππιας Ὁ ἑκών, ὡς ἔοικε. σωκρατης Πονηρότερον δὲ καὶ αἴσχιον ἐν πάλῃ τὸ πίπτειν ἢ τὸ καταβάλλειν; ιππιας Τὸ πίπτειν. | σωκρατης Καὶ ἐν πάλῃ ἄρα ὁ ἑκὼν τὰ πονηρὰ καὶ αἰσχρὰ ἐργαζόμενος βελτίων παλαιστὴς ἢ ὁ ἄκων. ιππιας

σωκρατης

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ippia Nella podistica è cosí64. socrate E nella lotta? Chi è un lottatore migliore, chi cade volontariamente o chi lo fa involontariamente? ippia Chi lo fa volontariamente, sembra. socrate E nella lotta è piú malvagio e brutto il cadere o il gettare a terra? ippia Il cadere. socrate Anche nella lotta, quindi, chi compie volontariamente le azioni malvagie e brutte è un lottatore migliore di chi lo fa involontariamente. d5-7: miglior podista è quello che corre lentamente in modo volontario; d7-e1: correre è un ἐργάζεσθαι; e1-2: chi corre male compie male l’azione del correre; e2-3: chi corre lentamente corre male; e4-5: il buon podista compie volontariamente male l’azione del correre, il cattivo involontariamente; h) 373e6-374a1: chi compie involontariamente male l’azione del correre è peggiore di chi lo fa volontariamente; i) [presupposto implicito: a correre lentamente in modo volontario può essere solo chi corre velocemente, ed è per questo un buon podista]. Posto (a) relativo alla figura del podista, si deduce (b) relativo all’azione del correre. La conclusione (c) deriva in parte da una considerazione intuitiva, dall’altro dal presupposto [i]. Successivamente, considerato (d), per (e) e (f ) emerge che chi corre lentamente compie male l’azione del correre, e con [i] si deducono (g) e (h). Ora, la prima fase (a-c) determina il podista peggiore, e si basa sulla separazione tra la figura del podista – buono o cattivo – e il correre bene e male; grazie a essa è possibile che il buon podista corra male. La sua valutazione come migliore, poi, dipende da [i], a sua volta legato alla “trazione” semantica esercitata dall’uso di ἀγαθός (buono): difficile negare, infatti, che l’ἀγαθός sarà ἀμείνων (comparativo di ἀγαθός: migliore). La seconda fase (d-i), per converso, individua il podista peggiore a partire dalla caratterizzazione dell’azione del correre come un ἐργάζεσθαι (compiere/ rendere qualcosa in un certo modo, generalmente – ma non solo – in senso peggiorativo): vengono cosí introdotte non solo la scissione tra agente e azione (scil. il fatto che un buon podista possa correre male), ma anche una realizzazione peggiorativa o negativa dell’azione stessa (cfr. anche Jantzen 1989, pp. 78-88). Al contempo, l’introduzione di questo verbo rimarca la permanenza all’interno della semantica prestazionale, in quanto l’ἐργάζεσθαι è il compiere un ἔργον, e chi eccelle nel farlo è virtuoso da un punto di vista prestazionale (cfr. Resp., I, 352d8-353d1). Essendo cosí stabilito che anche il buon podista può correre male, per [i] la caratterizzazione negativa spetterà al cattivo podista. 64   Ippia tenta di limitare la portata dell’argomento e ne sfiora cosí uno dei nuclei problematici, vale a dire la generalizzazione di una conclusione tratta da esempi tecnici o prestazionali; cfr. supra la nota 61. c) d) e) f ) g)

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Ἔοικεν. Τί δὲ ἐν τῇ ἄλλῃ πάσῃ τῇ τοῦ σώματος χρείᾳ; οὐχ ὁ βελτίων τὸ σῶμα δύναται ἀμφότερα ἐργάζεσθαι, καὶ τὰ ἰσχυρὰ καὶ τὰ [b] ἀσθενῆ, καὶ τὰ αἰσχρὰ καὶ τὰ καλά· ὥστε ὅταν κατὰ τὸ σῶμα πονηρὰ ἐργάζηται, ἑκὼν ἐργάζεται ὁ βελτίων τὸ σῶμα, ὁ δὲ πονηρότερος ἄκων; ιππιας Ἔοικεν καὶ τὰ κατὰ τὴν ἰσχὺν οὕτως ἔχειν.| σωκρατης Τί δὲ κατ᾿ εὐσχημοσύνην, ὦ Ἱππία; οὐ ιππιας

σωκρατης

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ippia minore, 374a-b

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ippia Sembra. socrate E per quanto riguarda tutti gli altri ambiti in cui si fa uso del corpo? Non è vero che il migliore in relazione al corpo è capace di compiere entrambi i tipi di azione, sia quelle fatte con forza sia quelle fatte con [b] debolezza, sia quelle brutte sia quelle belle, cosicché, quando nell’ambito delle azioni del corpo si compiano azioni malvagie, chi è migliore in relazione al corpo le compie volontariamente mentre chi è piú malvagio involontariamente?65. ippia Sembra che le cose stiano cosí anche nell’ambito della forza fisica. socrate E nell’ambito dei bei movimenti66, Ippia? 65   Il secondo momento, (2) sulla lotta (374a1-b4), riprende ampiamente il precedente (a cui si riferiscono i rimandi tra parentesi; cfr. supra la nota 63): a) 374a1-3: lottatore migliore è quello che cade volontariamente (cfr. 1c); b) a3-4: il praticare male la lotta è il (scil. si concretizza nel) cadere (cfr. 1b e 1d-f); c) a5-6: chi pratica (ἐργάζεται) involontariamente male la lotta è peggiore di chi lo fa volontariamente (cfr. 1h); d) [presupposto implicito: solo chi pratica bene la lotta ed è un buon lottatore può praticarla in modo volontario (cfr. [i])]. La conclusione dell’argomento approfondisce le acquisizioni raggiunte. «il migliore … entrambi i modi» (a7-8): questa considerazione, già intuitiva, discende dalla distinzione tra agente buono/cattivo e azione buona/cattiva prodotta in 1b e 1d-f, ed è necessaria per escludere preventivamente la disgiunzione tra chi è buono e l’azione cattiva. «Sia con forza … sia belle» (a8-b1): sotto le categorie di forza e debolezza si collocano rispettivamente velocità (nella corsa)/ resistenza (nella lotta) e lentezza (nella corsa)/caduta (nella lotta), mentre l’allusione ad azioni belle/brutte amplia la prospettiva verso la distinzione generale tra agire bene o male. «Cosicché … involontariamente» (b1-3): la conclusione rappresenta la convergenza delle due fasi dei precedenti argomenti, poiché in essa si riunificano le valutazioni dei migliori e peggiori agenti. 66   Basandosi sul modello dei due argomenti iniziali, Socrate propone ora una serie di osservazioni piú concise relative a diversi ambiti (1-5; per i momenti 3-5 cfr. infra la nota 69) per poi giungere a una generalizzazione finale (6; per questo momento e considerazioni generali cfr. infra la nota 73). 1) 374b5-e2, sulle parti del corpo: a) 374b5-c2: il movimento: il corpo migliore si muove male volontariamente, il peggiore involontariamente, il primo per una sua virtú, il secondo per una sua malvagità; b) 374c2-5: la voce: è migliore la voce che stona volontariamente, è peggiore quella che lo fa involontariamente; c) 374c5-6: intermezzo: si desiderano le cose buone;

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τοῦ βελτίονος σώματός ἐστιν ἑκόντος τὰ αἰσχρὰ καὶ πονηρὰ σχήματα σχηματίζειν, τοῦ δὲ πονηροτέρου ἄκοντος; ἢ πῶς σοι δοκεῖ; ιππιας Οὕτως. σωκρατης Καὶ ἀσχημοσύνη ἄρα ἡ μὲν ἑκούσιος [c] πρὸς ἀρετῆς ἐστιν, ἡ δὲ ἀκούσιος πρὸς πονηρίας σώματος. ιππιας Φαίνεται. σωκρατης Τί δὲ φωνῆς πέρι λέγεις; ποτέραν φῂς εἶναι βελτίω, τὴν ἑκουσίως ἀπᾴδουσαν ἢ τὴν ἀκουσίως; ιππιας Τὴν ἑκουσίως. σωκρατης Μοχθηροτέραν δὲ τὴν ἀκουσίως; ιππιας Ναί. σωκρατης Δέξαιο δ᾿ ἂν πότερον τἀγαθὰ κεκτῆσθαι ἢ τὰ κακά;

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Non è proprio del corpo migliore produrre volontariamente movimenti brutti e malvagi, mentre del piú malvagio involontariamente? Come ti sembra altrimenti? ippia È cosí. socrate Anche per il brutto movimento, quindi, quello volontario dipende [c] da una certa virtú del corpo mentre quello involontario da una sua malvagità. ippia Chiaro. socrate E cosa dici sulla voce? Quale dichiari migliore, quella che stona volontariamente o quella che lo fa involontariamente? ippia Quella che lo fa volontariamente. socrate Ed è in peggiori condizioni quella che lo fa involontariamente? ippia Sí. socrate Dunque, tu preferiresti possedere le cose buone o le cose cattive? d) 374c6-d2: i piedi: si desiderano i piedi che zoppicano volontariamente; la zoppia è la malvagità dei piedi; e) 374d2-6: gli occhi: l’offuscamento della vista è la malvagità degli occhi; si vogliono possedere occhi che si offuschino volontariamente; f ) 374d6-e2: estensione agli altri organi di senso: quelli che compiono male le azioni non sono desiderabili in quanto malvagi, quelli che le compiono bene sono desiderabili in quanto buoni; sono desiderabili quelli che compiono volontariamente male le rispettive azioni; 2) 374e3-375a1, sugli strumenti: a) 374e3-5: il timone: è meglio possedere uno strumento con cui si compie il male volontariamente; b) 374e5-375a1: estensione a tutti gli altri strumenti; Gli argomenti sono concatenati. Poiché per (1a) il corpo migliore agisce male volontariamente per una sua «virtú» – cioè in quanto «buono» –, allora (1b) è preferibile una voce che agisca male volontariamente. Ora, esplicitando il presupposto (1c) e sulla base di (1a-b) – per cui chi agisce male volontariamente è migliore e buono –, Ippia assente facilmente a (1d), (1e), (1f) ma anche a (2a) e (2b). Socrate si limita a evidenziare di volta in volta come all’agire male volontariamente siano associati bene e virtú, e all’agire male involontariamente, male e malvagità. L’assenso a (1a) è dunque determinante – benché ampiamente preparato dai precedenti argomenti –, perché introduce la nozione di virtú secondo una semantica prestazionale (tradizionalmente legata, inoltre, alle parti del corpo: cfr. per esempio Od., XX, 411, per i piedi e le gambe): ciò che ha la virtú è in grado di svolgere in modo perfetto la propria azione, ed è preferibile in assoluto, cioè anche qualora compia il male, perché potrà farlo solo volontariamente.

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Τἀγαθά. Πότερον οὖν ἂν δέξαιο πόδας κεκτῆσθαι ἑκουσίως χωλαίνοντας ἢ ἀκουσίως; [d] ιππιας Ἑκουσίως. σωκρατης Χωλεία δὲ ποδῶν οὐχὶ πονηρία καὶ ἀσχημοσύνη ἐστίν; ιππιας Ναί. σωκρατης Τί δέ; ἀμβλυωπία οὐ πονηρία ὀφθαλμῶν; ιππιας Ναί. σωκρατης Ποτέρους οὖν ἂν βούλοιο ὀφθαλμοὺς κεκτῆσθαι καὶ ποτέροις συνεῖναι; οἷς | ἑκὼν ἄν τις ἀμβλυώττοι καὶ παρορῴη ἢ οἷς ἄκων; ιππιας Οἷς ἑκών. σωκρατης Βελτίω ἄρα ἥγησαι τῶν σαυτοῦ τὰ ἑκου­ σίως πονηρὰ ἐργαζόμενα ἢ τὰ ἀκουσίως; ιππιας Τὰ γοῦν τοιαῦτα. σωκρατης Οὐκοῦν πάντα, οἷον καὶ ὦτα καὶ ῥῖνας καὶ στόμα καὶ πάσας τὰς αἰσθήσεις, εἷς λόγος συν­ έχει, τὰς μὲν ἀκόντως [e] κακὰ ἐργαζομένας ἀκ­ τήτους εἶναι ὡς πονηρὰς οὔσας, τὰς δὲ ἑκουσίως κτητὰς ὡς ἀγαθὰς οὔσας. ιππιας Ἔμοιγε δοκεῖ. σωκρατης Τί δέ; ὀργάνων ποτέρων βελτίων ἡ κοινωνία, οἷς ἑκών τις κακὰ ἐργάζεται ἢ οἷς ἄκων; οἷον πηδάλιον ᾧ ἄκων κακῶς | τις κυβερνήσει βέλτιον ἢ ᾧ ἑκών; ιππιας Ὧι ἑκών. ιππιας

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ippia Le cose buone. socrate Dunque, preferiresti possedere piedi che zoppicano volontariamente o involontariamente?67. [d] ippia Volontariamente. socrate Ma la zoppia non è una condizione malvagia, un brutto movimento dei piedi? ippia Sí. socrate E poi? L’offuscamento della vista non è una condizione malvagia degli occhi? ippia Sí. socrate Dunque, quali occhi preferiresti possedere, con quali preferiresti percepire? Con occhi che possano volontariamente essere offuscati e mancare la visione o con quelli che lo facciano involontariamente? ippia Con quelli che lo facciano volontariamente. socrate Quindi, tra queste parti del tuo corpo ritieni migliori quelle che compiono qualcosa in modo malvagio volontariamente rispetto a quelle che lo fanno involontariamente? ippia Sí, quelle di questo tipo. socrate Un solo ragionamento, dunque, le comprende tutte quante – per esempio le orecchie e il naso e la bocca e tutti gli organi di senso: quelle che [e] compiono male qualcosa involontariamente non sono un bel possesso perché sono malvagie, mentre quelle che lo fanno volontariamente sono un bel possesso perché sono buone. ippia A me pare cosí. socrate E poi? Quali strumenti sono migliori da utilizzare, quelli con i quali volontariamente si compie male qualcosa o quelli con cui lo si fa involontariamente? Per esempio, è migliore un timone con cui involontariamente si dirigerà male la nave o uno con cui lo si farà volontariamente? ippia Quello con cui lo si farà volontariamente. 67   La critica di Aristotele (Metaph., V, 1025a2-13) all’argomento prende questo come caso esemplificativo; cfr. supra la nota 61.

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σωκρατης Οὐ καὶ τόξον ὡσαύτως καὶ λύρα καὶ αὐλοὶ καὶ τἆλλα σύμπαντα; 375 [a] ιππιας Ἀληθῆ λέγεις. σωκρατης Τί δέ; ψυχὴν κεκτῆσθαι ἵππου, ᾗ ἑκών τις κακῶς ἱππεύσει, ἄμεινον ἢ ἄκων;

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socrate Non sarà lo stesso per l’arco, la lira, gli auli e ogni altro strumento? 375 [a] ippia Dici il vero. socrate E poi? È meglio per un cavallo possedere un’anima68 grazie alla quale cavalchi volontariamente male, o una grazie alla quale lo faccia involontariamente?69. 68   L’argomento trova una forte ragione di continuità ed efficacia nella presenza costante della nozione di anima (cfr. particolarmente infra le note 69 e 70), dal riferimento agli animali a quello all’uomo. Per questa ragione è fondamentale che in tutti i passaggi della sequenza (375a1-c8) la traduzione preservi, benché siano inconsuete, le formulazioni greche, che fanno riferimento all’anima di un cavallo, di un cane, ecc., senza sostituirle con espressioni piú usuali ma meno efficaci (per esempio, «un cavallo con un’anima…»). 69   Socrate prosegue (cfr. supra la nota 66, per i punti 1 e 2) arrivando al tema dell’anima umana (cfr. infra la nota 73, per la generalizzazione finale): 3) 375a1-7, sull’anima animale: a) 375a1-6: per un cavallo è meglio possedere l’anima che lo faccia cavalcare male volontariamente, poiché svolgerà solo volontariamente le azioni peggiori tra quelle che le sono proprie; b) a6-7: estensione alle anime degli altri animali. Le basi poste nei precedenti argomenti forzano Ippia ad accettare la posizione di Socrate. Ora, per (1a) chi agisce male volontariamente è «virtuoso» in senso prestazionale: a partire da una semantica prestazionale del termine virtú, quindi, chi agisce male volontariamente è virtuoso, cioè realizza meglio le opere (ἔργα) che gli sono proprie. Inoltre, l’opposizione malvagità-virtú diviene, con l’introduzione dell’oggetto «anima», ben piú calzante ed efficace. Si può a questo punto introdurre l’anima umana: 4) 375a7-c3, sull’anima umana nelle arti: a) 375a7-b4: per il tiro con l’arco è meglio possedere un’anima che non colga il bersaglio (ἁμαρτάνειν) volontariamente perché sarà migliore, mentre quella che lo fa involontariamente è malvagia; b) b4-7: per la medicina è meglio possedere un’anima che agisca volontariamente male sui corpi; c) b7-c3: estensione a tutte le arti (per citarodia e auletica cfr. infra la nota 32 allo Ione). Ippia è ancora costretto dalle precedenti acquisizioni ad accettare le posizioni di Socrate, che però continua a introdurre elementi che riguardano la dimensione etica: in particolare, con (4a) si assume che «chi sbaglia volontariamente è migliore di chi lo fa involontariamente», posizione tratta dall’ambito delle arti ma facilmente estendibile a quello etico. 5) 375c3-6, sull’anima degli schiavi: l’argomento si applica ormai senza possibilità di evasione e in modo ripetitivo. Questa ulteriore tappa, tuttavia, permette di introdurre la nozione di κακουργεῖν (commettere un’azione cattiva, comportarsi male), che rappresenta il termine adatto per descrivere l’azione moralmente cattiva, laddove il piú ampio κακὰ ἐργάζεσθαι, finora efficace per preparare la conclusione, sarebbe stato meno mirato.

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Ἧι ἑκών. Ἀμείνων ἄρα ἐστίν. ιππιας Ναί. σωκρατης Τῇ ἀμείνονι ἄρα ψυχῇ ἵππου τὰ τῆς ψυχῆς ἔργα ταύτης τὰ | πονηρὰ ἑκουσίως ἂν ποιοῖ, τῇ δὲ τῆς πονηρᾶς ἀκουσίως; ιππιας Πάνυ γε. σωκρατης Οὐκοῦν καὶ κυνὸς καὶ τῶν ἄλλων ζῴων πάντων; ιππιας Ναί. σωκρατης Τί δὲ δή; ἀνθρώπου ψυχὴν ἐκτῆσθαι τοξότου ἄμεινόν ἐστιν, ἥτις ἑκουσίως ἁμαρτάνει [b] τοῦ σκοποῦ, ἢ ἥτις ἀκουσίως; ιππιας Ἥτις ἑκουσίως. σωκρατης Οὐκοῦν καὶ αὕτη ἀμείνων εἰς τοξικήν ἐστι; ιππιας Ναί. σωκρατης Καὶ ψυχὴ ἄρα ἀκουσίως ἁμαρτάνουσα πονηροτέρα ἢ ἑκουσίως; ιππιας Ἐν τοξικῇ γε. σωκρατης Τί δ᾿ ἐν ἰατρικῇ; οὐχὶ | ἡ ἑκοῦσα κακὰ ἐργαζομένη περὶ τὰ σώματα ἰατρικωτέρα; ιππιας

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ippia Quella grazie alla quale lo faccia volontariamente. socrate Quindi è migliore. ippia Sí. socrate Non è vero, quindi, che grazie alla migliore anima di cavallo sarà possibile realizzare volontariamente le azioni malvagie proprie di quest’anima, mentre grazie all’altra si potranno realizzare solo involontariamente quelle proprie dell’anima malvagia? ippia Certo. socrate E non sarà lo stesso anche per l’anima di un cane e di tutti gli altri animali? ippia Sí. socrate E poi? È meglio possedere un’anima umana70 di arciere che sbagli volontariamente nel colpire [b] il bersaglio o quella che lo faccia involontaria­ mente? ippia Quella che lo faccia volontariamente. socrate Dunque, proprio questa è migliore per il tiro con l’arco. ippia Sí. socrate Un’anima che sbagli involontariamente, quindi, è piú malvagia di una che lo faccia volontariamente? ippia Nel tiro con l’arco71, certamente. socrate E nella medicina? Non cura di piú quella che compie volontariamente il male in relazione ai corpi?72. 70   Anche la nozione di anima viene coinvolta nelle ambiguità tra semantica prestazionale e morale: se nella seconda l’anima è un principio razionale e morale, nella prima essa determina le capacità prestazionali. Qui la nozione di anima viene introdotta in quest’ultimo senso («acquisire» un’anima equivale ad «acquisire» certe capacità tecniche), ma nell’ultimo argomento (375e1 sgg.) essa sarà considerata come nucleo della vita morale. 71   Come già precedentemente (374a1), Ippia sembra intuire che l’argomento punta a una generalizzazione inaccettabile, ma non cogliendo i punti deboli del ragionamento non può far altro che proporre in modo cursorio delle limitazioni, a cui Socrate risponde con ulteriori esempi. 72   La scelta della medicina come modello di arte, non certo isolata (cfr. infra la nota 20 allo Ione), è tendenziosa: il medico è talvolta costret-

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Ναί. Ἀμείνων ἄρα αὕτη ἐν ταύτῃ τῇ τέχνῃ [τῆς μὴ ἰατρικῆς]. ιππιας Ἀμείνων. σωκρατης Τί δέ; ἡ κιθαριστικωτέρα καὶ αὐ­ λη­τικωτέρα καὶ τἆλλα πάντα τὰ κατὰ τὰς τέχνας [c] τε καὶ τὰς ἐπιστήμας, οὐχὶ ἡ ἀμείνων ἑκοῦσα τὰ κακὰ ἐργάζεται καὶ τὰ αἰσχρὰ καὶ ἐξαμαρτάνει, ἡ δὲ πονηροτέρα ἄκουσα; ιππιας Φαίνεται. σωκρατης Ἀλλὰ μήν που τάς γε τῶν δούλων ψυχὰς κεκτῆσθαι δεξαίμεθ᾿ ἂν μᾶλλον τὰς ἑκουσίως | ἢ τὰς ἀκουσίως ἁμαρτανούσας τε καὶ κακουργούσας, ὡς ἀμείνους οὔσας εἰς ταῦτα. ιππιας Ναί. σωκρατης Τί δέ; τὴν ἡμετέραν αὐτῶν οὐ βουλοίμεθ᾿ ἂν ὡς βελτίστην ἐκτῆσθαι; ιππιας

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ippia Sí. socrate Essa è quindi migliore in quest’arte. ippia Sí, migliore. socrate E poi? Considerando l’anima piú abile nella citaristica, nell’auletica e in generale in tutte le arti e [c] le competenze, non sarà la migliore a compiere volontariamente le azioni cattive e brutte e a sbagliare, mentre quella piú malvagia lo farà involontariamente? ippia Chiaro. socrate Ma allora, riguardo alle anime degli schiavi, preferiremmo di certo possedere quelle che sbagliano e fanno il male in modo volontario piú che quelle che lo fanno in modo involontario, poiché in queste stesse cose sono migliori. ippia Sí. socrate E poi? La nostra anima, non vorremmo possederla nelle migliori condizioni possibili?73. to a infliggere un male apparente per produrre un bene (cfr. per esempio Gorg., 480a1 sgg.); in questo senso è evidente che chi infligge un male volontariamente – per esempio per cauterizzare – è migliore di chi lo fa involontariamen­te – per esempio sbagliando un’operazione. 73   Infine (cfr. supra le note 66 e 69) Socrate produce (6) una generalizzazione in relazione all’anima umana (375c6-d2): si vuole un’anima migliore possibile, che sarà quella che compie azioni cattive e sbaglia volontariamente. Questa acquisizione rappresenta ormai l’apice e il completamento dell’ampio argomento epagogico, attraverso il quale Socrate ha condotto un avvicinamento progressivo a una simile affermazione. Perché però Socrate produce un numero tanto elevato di esempi benché essi siano formalmente paralleli e dipendenti dalle acquisizioni di (1)? Certamente il modello epagogico (cfr. Kahn 2008, pp. 124-25) prevede una certa quantità di esempi. Ma forse la ragione piú stringente risiede nella volontà di far emergere solo progressivamente i termini e le nozioni piú attinenti al tema etico. In effetti, i vari passaggi rivestono in questo senso funzioni peculiari. L’argomento (1) introduce la logica generale del procedimento nei termini di un vincolo essenziale tra volontarietà dell’agire male e virtú da un lato e involontarietà e malvagità dall’altro, ma propone anche il principio generale per cui si desidera ciò che è buono/migliore. Con l’argomento (2) si continua ad alludere a una semantica prestazionale, che viene rafforzata ironicamente senza che Ippia colga le eventuali implicazioni; al contempo, si insiste sulla nozione di malvagità, che si rivela sempre piú centrale e adeguata all’orizzonte etico. L’argomento (3) propone una prima formulazione relativa all’anima, anche se animale: questo passaggio concretizza la relazione tra anima virtuosa e preferibilità dell’azione cattiva volontaria in un ambito, quello delle attività animali, che offre ampio spazio all’appli-

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Ναί. Οὐκοῦν βελτίων ἔσται, ἐὰν ἑκοῦσα κακουργῇ τε καὶ ἐξαμαρτάνῃ, ἢ ἐὰν ἄκουσα; ιππιας Δεινὸν μεντἂν εἴη, ὦ Σώκρατες, εἰ οἱ ἑκόν­ τες ἀδικοῦντες βελτίους ἔσονται ἢ οἱ ἄκοντες. σωκρατης Ἀλλὰ μὴν φαίνονταί γε ἐκ τῶν εἰρημέ­ νων. ιππιας Οὔκουν ἔμοιγε. σωκρατης Ἐγὼ δ᾿ ᾤμην, ὦ Ἱππία, καὶ σοὶ φανῆναι. πάλιν δ᾿ ἀπόκριναι· ἡ δικαιοσύνη οὐχὶ ἢ δύναμίς τίς ἐστιν ἢ ἐπιστήμη ἢ ἀμφότερα; ἢ οὐκ ἀνάγκη ἕν γέ τι τούτων εἶναι τὴν [e] δικαιοσύνην; ιππιας Ναί. σωκρατης Οὐκοῦν εἰ μὲν δύναμίς ἐστι τῆς ψυχῆς ἡ δικαιοσύνη, ἡ δυνατωτέρα ψυχὴ δικαιοτέρα ἐστί; βελτίων γάρ που ἡμῖν ἐφάνη, ὦ ἄριστε, ἡ τοιαύτη. ιππιας Ἐφάνη γάρ. ιππιας

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[d] ippia Sí. socrate Ebbene, non sarà migliore qualora faccia il male e sbagli volontariamente piú che qualora lo faccia involontariamente? ippia Ma sarebbe davvero terribile, Socrate, se quelli che commettono ingiustizia volontariamente ci risultassero migliori di quelli che lo fanno involontariamente. socrate E tuttavia, sulla base di quanto detto, sembra cosí. ippia Non a me74. socrate Io invece credevo, Ippia, che sembrasse anche a te. E allora rispondi di nuovo: la giustizia non è una certa capacità, o una conoscenza, o entrambe? Non è forse necessario che la [e] giustizia sia una di queste cose? ippia Sí. socrate Se dunque la giustizia è una capacità dell’anima, l’anima piú capace non è piú giusta? In qualche modo, ottimo uomo, l’anima siffatta ci si è mostrata migliore75. ippia È cosí. cazione della semantica prestazionale del termine «virtú» (cfr. per esempio Resp., I, 335b6 sgg.). In altri termini, con (3) Socrate non associa solo anima, virtú e agire male (in)volontariamente, ma coglie un’occasione per far passare facilmente l’idea per cui un’anima virtuosa (prestazionalmente, cioè eccellente nell’attività che le è propria; cfr. anche supra la nota 70) sarà migliore (leggibile in senso assoluto) di una che non lo è. Con (4) e (5) ci si sposta nell’ambito dell’agire umano, e si può cosí tematizzare il tipo di «agire male» che caratterizza il discorso etico: l’ἁμαρτάνειν (cfr. già Calogero 1984, pp. 284-88) e il κακουργεῖν. L’avvicinamento di Socrate produce dunque una rete semantica già studiata per la finale applicazione all’etica (cfr. infra la nota 79). 74   Socrate ha ormai imbrigliato Ippia (cfr. anche l’accento ironico di 375d7), che avrebbe dovuto fermare l’argomento ben prima, o comunque proporre dei distinguo rispetto all’introduzione dell’orizzonte etico. A questo punto, egli può solo rifiutare un assenso dovuto (cfr. anche Erler 1991, pp. 222-23). 75   Il dialogo ha preso le mosse dalla valutazione come «migliore» di ciò che è piú capace (cfr. 365d6 sgg.). Il senso dell’affermazione è quindi: se l’anima piú capace è migliore (e l’anima migliore è piú giusta) allora l’anima piú capace è piú giusta.

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σωκρατης Τί δ᾿ εἰ ἐπιστήμη; οὐχ ἡ σοφω- | τέρα ψυχὴ δικαιοτέρα, ἡ δὲ ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα;

σωκρατης Τί δ᾿ εἰ ἀμφότερα; οὐχ ἡ ἀμφοτέρας ἔχουσα, ἐπιστήμην καὶ δύναμιν, δικαιοτέρα, ἡ δ᾿ ἀμαθεστέρα < καὶ ἀδυνατωτέρα > ἀδικωτέρα; οὐχ οὕτως ἀνάγκη ἔχειν; ιππιας Φαίνεται. σωκρατης Οὐκοῦν ἡ δυνατωτέρα καὶ σοφωτέρα αὕτη ἀμείνων οὖσα | ἐφάνη καὶ ἀμφότερα μᾶλλον δυναμένη ποιεῖν, καὶ τὰ 376 [a] καλὰ καὶ τὰ αἰσχρά, περὶ πᾶσαν ἐργασίαν; ιππιας Ναί. σωκρατης Ὅταν ἄρα τὰ αἰσχρὰ ἐργάζηται, ἑκοῦ­ σα ἐργάζεται διὰ δύναμιν καὶ τέχνην· ταῦτα δὲ δικαιοσύνης φαίνεται, ἤτοι ἀμφότερα ἢ τὸ ἕτερον. ιππιας Ἔοικεν. σωκρατης Καὶ τὸ μέν γε | ἀδικεῖν κακὰ ποιεῖν ἐστιν, τὸ δὲ μὴ ἀδικεῖν καλά. ιππιας Ναί. σωκρατης Οὐκοῦν ἡ δυνατωτέρα καὶ ἀμείνων ψυχή, ὅτανπερ ἀδικῇ, ἑκοῦσα ἀδικήσει, ἡ δὲ πονηρὰ ἄκουσα;

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socrate E se invece è conoscenza? L’anima piú sapiente sarà piú giusta mentre quella piú ignorante piú ingiusta? ippia Sí. socrate E se invece fosse entrambe le cose? Non sarà piú giusta l’anima che le possiede entrambe, conoscenza e capacità, mentre piú ingiusta quella piú ignorante?76. Le cose non stanno necessariamente cosí? ippia Chiaro. socrate Ma la stessa anima, piú capace e insieme piú sapiente, non era chiaramente migliore e piú capace di fare entrambe le cose, 376 [a] sia quelle belle sia quelle brutte, in relazione a ogni attività? ippia Sí. socrate Nel momento in cui compia cose brutte, quindi, le compie volontariamente per capacità e arte77; queste, però, paiono ora – entrambe o una delle due – riconducibili alla giustizia. ippia Sembra. socrate Inoltre, il commettere ingiustizia è fare il male, mentre il non commettere ingiustizia è fare qualcosa di bello. ippia Sí. socrate E l’anima piú capace e migliore, ogniqualvolta – e senza eccezioni – commetta ingiustizia, commetterà ingiustizia volontariamente, mentre quella malvagia involontariamente. Non è cosí? 76   Recependo la scelta di Ast, Vancamp ha integrato καὶ ἀδυνατωτέρα per rispettare il parallelismo implicato dall’argomento; per quanto filologicamente poco invasiva, però, una simile scelta editoriale risponde solo a una logica di coerentizzazione. Ora, l’assenza della seconda specificazione potrebbe rappresentare un’allusione a una posizione autenticamente platonica ben presente sullo sfondo della conversazione, che prevede il primato della conoscenza in senso forte. Per queste ragioni sembra opportuno non intervenire sul testo dei testimoni medievali e mantenere l’ambiguità. 77   La giustizia non è piú capacità e/o ἐπιστήμη bensí capacità e/o τέχνη: ciò è possibile per il significato comune di ἐπιστήμη (cfr. già 367e9, 368e5, 375c1). Al contempo una simile oscillazione in questa sede potrebbe segnalare una volontaria allusione di Platone ai due sensi in cui l’argomento può essere letto; cfr. infra la nota 79.

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ιππιας Φαίνεται. [b] σωκρατης Οὐκοῦν ἀγαθὸς ἀνὴρ ὁ τὴν ἀγαθὴν ψυχὴν ἔχων, κακὸς δὲ ὁ τὴν κακήν; ιππιας Ναί. σωκρατης Ἀγαθοῦ μὲν ἄρα ἀνδρός ἐστιν ἑκόντα ἀδικεῖν, κακοῦ δὲ ἄκοντα, εἴπερ ὁ ἀγαθὸς ἀγαθὴν ψυχὴν ἔχει. ιππιας Ἀλλὰ μὴν ἔχει γε. σωκρατης Ὁ ἄρα ἑκὼν | ἁμαρτάνων καὶ αἰσχρὰ καὶ ἄδικα ποιῶν, ὦ Ἱππία, εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, οὐκ ἂν ἄλλος εἴη ἢ ὁ ἀγαθός.

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ippia Chiaro. [b] socrate Ma uomo buono non è quello che ha una buona anima, mentre cattivo quello che ne ha una cattiva? ippia Sí. socrate Quindi, se davvero il buono ha un’anima buona, commettere ingiustizia volontariamente è proprio di un uomo buono, mentre farlo involontariamente di uno cattivo. ippia Accidenti, è proprio cosí. socrate Quindi, Ippia, chi volontariamente sbaglia e fa cose brutte e cattive – se davvero esiste quest’uomo78 – non potrebbe essere nessun altro se non l’uomo buono79. 78   Spesso questo cenno è stato usato dalla critica come base per giustificare il distacco di Platone rispetto alla conclusione raggiunta nel dialogo: cfr. particolarmente Gould 1955, pp. 42-44; Hoerber 1962, pp. 127-28; Irwin 1977, p. 77; contra Erler 1991, pp. 121-45. 79   Socrate propone un ultimo argomento (375d8-376b6), implicitamente basato sulle acquisizioni dei precedenti. Il presupposto teorico è il seguente: la giustizia è (1) o capacità (2) o conoscenza (3) o entrambe (375d8-e1). 1) 375e1-4: la giustizia è capacità dell’anima; se la capacità è un carattere positivo dell’anima e (come presupposto implicito) l’anima migliore è piú giusta, allora l’anima piú capace è piú giusta; 2) 375e4-6: la giustizia è conoscenza; l’anima piú sapiente è piú giusta; 3) 375e6-376b6: la giustizia è sia capacità sia conoscenza: a) 375e6-8: se l’anima possiede sia capacità sia conoscenza è piú giusta, se non possiede conoscenza è ingiusta; b) 375e8-376a1: l’anima piú capace e sapiente è migliore, quindi è capace di compiere (ἐργάζεσθαι) in ogni azione cose buone e cattive; c) a2-4: quando realizza cose cattive lo fa volontariamente per capacità, dunque per la giustizia; d) a4-5: commettere ingiustizia è realizzare il male, non commetterla il bene; e) a6-7: l’anima piú capace e migliore commette ingiustizia solo volontariamente, quella malvagia involontariamente; f ) b1-2: l’uomo buono ha un’anima buona, quello cattivo cattiva; g) b2-4: l’uomo buono commette ingiustizia volontariamente, il cattivo involontariamente; h) b4-6: solo l’uomo buono sbaglia e commette ingiustizia volontariamente. Poiché i precedenti rifiuti di Ippia sono legati solo all’inaccettabilità della tesi finale di Socrate, i passaggi fondamentali dell’argomento riprendono posizioni già ampiamente stabilite: (b) si basa su 366e1-367a5, ed (e)

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ταῦτα.

platone Οὐκ ἔχω ὅπως σοι συγχωρήσω, ὦ Σώκρατες,

σωκρατης Οὐδὲ γὰρ ἐγὼ ἐμοί, ὦ Ἱππία· ἀλλ᾿ ἀναγκαῖον οὕτω [c] φαίνεσθαι νῦν γε ἡμῖν ἐκ τοῦ λόγου. ὅπερ μέντοι πάλαι ἔλεγον, ἐγὼ περὶ ταῦτα ἄνω καὶ κάτω πλανῶμαι καὶ οὐδέποτε ταὐτά μοι δοκεῖ. καὶ ἐμὲ μὲν οὐδὲν θαυμαστὸν πλανᾶσθαι οὐδὲ ἄλλον

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ippia Non posso proprio convenire con te su queste cose, Socrate80. socrate Ma neanche io, Ippia! Eppure a questo punto [c] emerge necessariamente questo dal nostro discorso. In realtà lo dicevo già prima81: su tali argomenti io vado errando in ogni direzione, e mi sembra che le cose non stiano mai allo stesso modo. Del resto non c’è niente di cui stupirsi se io vado errando, e nesui presupposti dell’argomento 373c9 sgg. Esse possono essere generalizzate come segue: (b) chi è piú capace e migliore compie azioni sia buone che cattive; (e) chi è piú capace e migliore commette ingiustizia volontariamente. Ippia dovrebbe fermare Socrate qui: la nozione prestazionale di virtú (o di «compiere bene qualcosa») viene infatti definitivamente traslata in una morale, il che non permetterebbe la permanenza delle precedenti acquisizioni né la loro traslazione in un ambito chiaramente etico. Tuttavia, il progressivo e studiato slittamento dalla semantica prestazionale a quella etica impedisce al sofista di avvedersi del problema. Ciò implica che Platone avesse delle riserve sulla correttezza dell’acquisizione finale: lo confermano le cautele espresse già precedentemente (371e9-373a8) e il tono dubitativo della conclusione (376b8-c6) prima ancora della controversa – e grammaticalmente non ambigua – espressione εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος (376b6-7; cfr. la nota precedente). Ora, se Ippia non è stato in grado di sostenere il dialogo a un livello piú alto (cfr. anche Szlezák 1988, pp. 143-44) rimane possibile che Platone non condividesse solo alcuni aspetti dell’argomento proposto. In particolare, la tematizzazione della virtú come conoscenza e capacità (congiunte, come dimostra lo svolgimento comune dell’argomento) è attestata nella Repubblica (IV, 430b2-5, in relazione al coraggio, e V, 477d1 sgg., in cui è la conoscenza stessa a essere descritta come capacità), in una sezione di capitale importanza. Una simile tematizzazione, però, può essere intesa in due sensi: da un lato Ippia, sulla scorta degli argomenti precedenti, continua a intendere «capacità» in una prospettiva prestazionale ed ἐπιστήμη in una tecnica; dall’altro Platone, come nella Repubblica, può intendere i termini in senso forte, come possesso e consapevolezza della scienza, il che conduce al di fuori della prospettiva prestazionale verso quella intellettualistica (per le ambiguità dovute in generale all’analogia tra virtú e capacità cfr. Irwin 1977, pp. 71-77). Per questa ragione, mentre Ippia si lascia guidare verso una conclusione paradossale, Platone avrebbe contestato la possibilità per chi ha scienza di fare il male volendolo e piú in generale la commistione tra le due semantiche attribuibili a «virtú», ma non l’associazione tra virtú e scienza in senso forte. 80   Ippia, come già in precedenza (cfr. supra la nota 41), intuisce la presenza di alcune ambiguità; non riuscendo però a localizzarle, si trova costretto a rifiutare le conclusioni paradossali di un argomento al quale ha dato integralmente il suo assenso. Tale rifiuto conferisce comunque al dialogo una forma aporetica, poiché due tesi in qualche modo isosteniche, quella di Socrate e quella di Ippia, non si risolvono in un accordo. 81   Cfr. 372d7-e2.

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ἰδιώτην· εἰ δὲ καὶ ὑμεῖς πλανήσεσθε οἱ σοφοί, | τοῦτο ἤδη καὶ ἡμῖν δεινὸν εἰ μηδὲ παρ᾿ ὑμᾶς ἀφικόμενοι παυσόμεθα τῆς πλάνης.

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anche se lo fa un’altra persona comune; ma se anche voi, i sapienti, errate, questo è terribile anche per noi, che nemmeno approdando a voi potremo porre fine al nostro errare82. 82   Forse un’allusione alle peregrinazioni di Odisseo (cosí Erler 1991, p. 230; Jantzen 1989, p. 119; Giuliano 2004, p. 29; Blondell 2002, pp. 159160). La natura aporetica del dialogo, garantita dall’ultima affermazione di Ippia, si fa qui paradossale ed esplicitamente ironica – come segnalato dall’ennesima lode della sapienza di un interlocutore ormai annichilito –: con un’ulteriore (cfr. 372a6-373a5) professione di ignoranza Socrate rinvia ancora a momenti in cui ritiene corretta un’altra linea di ragionamento. Qui però Socrate non afferma – come aveva fatto in precedenza (372d7-e2) – che in altre circostanze crede il contrario di quanto espresso, ma piú genericamente che ritiene cose diverse. La conclusione, inoltre, fornisce una conferma all’importanza che nelle ambiguità del dialogo ha la confusione tra semantica comune e semantica morale/platonica: giungere a simili conclusioni è infatti possibile per un uomo “qualunque”, non per un sapiente.

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Introduzione

Nel suo discorso di difesa tenuto nell’Apologia (­22a-c) Socrate racconta di aver sottoposto a esame, insieme ai politici e ai detentori di arti, anche gli autori di ditirambi e tragedie e tutti gli altri poe­ti, dai quali riteneva di poter apprendere qualcosa interrogandoli sul senso di quanto dicevano. Dalle risposte avute comprese però che, benché costoro si ritenessero i piú sapienti tra gli uomini, le loro produzioni non erano dovute a sapienza, ma a una certa disposizione naturale e a un entusiasmo analogo a quello di profeti e indovini, i quali, pur dicendo molte cose belle, non hanno alcuna cognizione di ciò che dicono. Nello Ione l’omonimo protagonista del dialogo, ra­pso­do e interprete di Omero, viene confutato da Socrate nella sua presunzione di sapienza, negata in quanto abilità tecnica e ricondotta a possessione divina ed entusiasmo. Benché il protagonista non sia propriamente un poe­ta, lo stretto nesso esistente in generale tra ra­pso­dia e poe­sia e il ruolo primario dell’ἐνθουσιασμός individuato nel dialogo permettono di considerare lo Ione come la rappresentazione scenica di una delle conversazioni ricordate nell’Apologia. 1.

Oggetto e scopo del dialogo.

Il sottotitolo dello Ione è un curioso «sull’Iliade», del genere πειραστικός1. Brani dell’Iliade vengono in ef1   Edizione critica recente con introduzione e commento: Rijks­ba­ron 2007. Traduzioni e commenti: Canto 2001 (traduzione francese, introduzione e no-

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introduzione

fetti, come accade spesso, introdotti da Socrate nella discussione, ma non costituiscono certo il tema principale del dialogo, che potrebbe essere invece individuato nella questione, se la ra­pso­dia, di cui il protagonista è un esponente, sia a tutti gli effetti una τέχνη (arte/tecnica). L’esito del dialogo si riassume infatti nella constatazione finale, visibilmente ironica, che Ione è divino, ma non τεχνικός. La ra­pso­dia non è però facilmente separabile dalla poe­sia in generale, e lo Ione sembra in effetti dover essere inquadrato nel contesto della ben nota critica platonica, presente soprattutto nella Repubblica, della poe­sia, in particolare del suo massimo rappresentante, Omero, e dell’arte in generale. Eppure non trova sviluppo nel dialogo la teoria dell’arte, anche di quella poe­tica, come imitazione (μίμησις), su cui principalmente si fondano le critiche platoniche. Misurare le pretese della ra­ pso­dia o della poe­sia di costituirsi come un’arte o tecnica comporta poi una precisa messa a fuoco dello statuto concettuale della τέχνη, che ha nello Ione uno dei suoi documenti piú importanti e ne fa un interessante oggetto d’indagine. L’andamento del dialogo, peraltro, in cui Ione mostra di essere uno dei piú sprovveduti interlocutori di Socrate, rivela la marcata ironia sottesa alla qualifica di “divino”. Perché venga scelto, per criticare te); Capuccino 2005 (traduzione italiana e commento). Monografie di riferimento: Flashar 1958. Tra gli altri studi si segnalano Verdenius 1943; Diller 1955; Gaiser 1984, pp. 103-25; Trabattoni 1985-86, Stern-Gillet 2004. Il titolo è accompagnato in tutti i testimoni primari dal sottotitolo περὶ Ἰλιάδος. Rijks­ba­ron 2007, pp. 15-23, ha spiegato la sua pertinenza affermando che, nonostante l'argomento del dialogo siano genericamente l’arte del poe­ta e quella del ra­pso­do, le conseguenze delle conclusioni ricadono sulla valutazione dello stesso prodotto poe­tico. Secondo Diogene Laerzio (III, 57-61) il dialogo è di genere «peirastico». Peirastico, da πεῖρα, prova, è un dialogo in cui vengono messe alla prova le opinioni di un interlocutore che presume di sapere; cfr. la definizione dei λόγοι πειραστικοί in Aristotele, Soph. el., 165b4-7. L’attribuzione a Platone dello Ione è stata negata da Schleiermacher, Bekker, Ast, Zeller e, inizialmente, da Wilamowitz; poi da Moreau 1939, pp. 419 sgg.; Bluck 1949, p. 193; Diller 1955, p. 187; Thesleff 1982, pp. 221222, per ragioni linguistiche. Argomenti contro l’inautenticità in Verdenius 1943, pp. 233-36. Il contenuto è generalmente riconosciuto come platonico.

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le pretese dell’arte poe­tica, un ra­pso­do presentato come particolarmente sciocco anziché, con maggiore onestà intellettuale, un poe­ta dei migliori, rimane una circostanza bisognosa di spiegazione. Come e piú che in altri dialoghi l’atteggiamento di Socrate sembra qualificarsi in senso capzioso ed eristico, con l’uso di argomentazioni non sempre corrette e spesso tendenziose, che fanno di Ione, incapace di repliche adeguate, un facile bersaglio su cui infierire2. Alcuni tratti del protagonista e la sua stessa attività di ermeneuta dei poe­ti lo avvicinano poi ai sofisti, e il nesso altrove ben delineato tra poe­sia, sofistica e interpretazione dei poe­ti3 pone la questione, quale figura e quale pratica siano l’obiettivo polemico primario del dialogo, se la poe­sia in generale, o i poemi omerici piú in particolare, o l’esegesi sofistica dei poe­ ti, o la “critica letteraria” dell’epoca, o la pratica ra­pso­ dica tout court 4. D’altro canto la concezione della poe­ sia come entusiasmo ispirato e possessione divina, dove il poe­ta è presentato come un essere «leggero, sacro e alato», richiama inevitabilmente la dottrina del Fedro (245a), secondo cui la poe­sia piú autentica rappresenta una forma di delirio e mania dovuta all’ispirazione delle Muse e superiore alla τέχνη. Siamo allora, nello Ione, di fronte ad autentica dottrina platonica? E sino a che punto il riconoscimento di una componente entusiastica nell’attività di Ione può essere considerato ironico? La compresenza di questi motivi spiega la varietà delle interpretazioni del dialogo, che oscillano tra il considerarlo una semplice satira scherzosa priva di rilevanza filosofica5 o un documento significativo della filosofia platonica, un importante anello intermedio tra la poe­tica 2   Sugli argomenti fallaci del dialogo cfr. Kahn 1993, p. 376 e nota 9; Beversluis 2000, pp. 75-93 e infra le note 13 e 62 del commento. 3   Cfr. Resp., 596a sgg.; Soph., 233d sgg. e l’intero Ippia minore. 4   Cfr. infra la nota 1 del commento. 5   Per primo Goethe 1796, pp. 169-76, che ritenendo il dialogo «nichts als eine Persiflage», spiegava il suo ruolo canonico in base alla tesi finale dell’ispirazione divina, da lui però considerata ironica; Wilamowitz 19191920, vol. I, pp. 131-35; vol. II, p. 45.

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introduzione

preplatonica e quella aristotelica6; o ancora, uno specchio della doppia anima di Platone, poe­ta e filosofo7, o il dialogo in cui è già visibile in nuce la sua aspirazione a costituire una nuova forma di poe­sia filosoficamente fondata8; o comunque, in chiave meno strettamente filosofica, il luogo di fondazione di una nuova critica letteraria9. 2.

Ra­pso­di e poe­ti.

Il genere dei ra­pso­di nell’antica Grecia costituisce una prosecuzione di quello degli aedi, cantori di gesta epiche in grado di comporre e improvvisare, quali troviamo nei poemi omerici10. Etimologicamente il termine non è legato al bastone (ῥαβδός) che i ra­pso­di portavano, ma indica il cucire insieme (ῥάπτω) canti (ἀοιδή, ᾠδή)11. In origine dunque il ra­pso­do non è distinto dal poe­ta12, ma in seguito il termine viene a designare lo specialista nella recitazione e declamazione a memoria, in particolare dei poemi di Omero ed Esiodo, ma anche di altri poe­ti13. Al suo apice nel vii-vi secolo, questa figura declina in parte con l’avvento del teatro tragico, dell’attore e degli altri generi letterari, pur continuando a rivestire un ruolo di primo piano. L’attività del ra­pso­do era infatti legata a feste religiose, giochi e ad altri eventi fondamentali della vita pubblica greca, nei quali avevano luogo vere e proprie competizioni con relativi premi; ciò fa del ra­ pso­do una figura di per sé itinerante, come lo stesso Ione mette in rilievo nella presentazione iniziale. Il dialogo   Flashar 1958.   Friedländer 2004, pp. 533-41 (=1964, vol. II, pp. 117-24). 8   Gaiser 1984. 9   Baltzly 1992; sulla critica letteraria greca cfr. Verdenius 1983. 10   Sui ra­pso­di cfr. Patzer 1952; Pfeiffer 1968, pp. 50-59; Sealey 1957; Ford 1988; Boyd 1994. 11   Cfr. Dionisio Trace, Ars gramm., 1, 1, 8, 5; Eustazio, Ad Hom. Il., I, 10; Schol. in Pind. Nem., 2, 1 (= Filocoro fr. 212). 12   Cfr. Resp., 600d, dove Omero ed Esiodo vengono definiti ra­pso­di. 13   Ateneo, Deipn., 620a-d.

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pseudoplatonico Ipparco (228b) testimonia che Ipparco (vi secolo a.C.), figlio di Pisistrato, per primo introdusse ad Atene i poemi di Omero, decretando che alle Panatenee i ra­pso­di dovessero recitarli di seguito e in ordine, usanza ancora in vigore a quel momento. Secondo altre testimonianze14 fu Solone a decretare che le ra­pso­die di Omero fossero recitate in sequenza (dove uno si arrestava, l’altro ricominciava)15. Ancora all’epoca di Platone, come documenta lo stesso Ione con la descrizione degli effetti provocati dal ra­pso­do su un pubblico assai numeroso (ventimila persone!), questa pratica aveva molta importanza e influenza16, e continuerà ad averla almeno sino al iii secolo d.C. Va puntualizzata l’importanza, in una cultura fondata sull’oralità, di questa figura, che rappresentava per i piú l’unico tramite di accesso alle forme artistico-letterarie; i ra­pso­di garantivano in tal modo la trasmissione del patrimonio culturale e dei suoi modelli educativi. All’epoca di Platone i poemi omerici costituivano ancora la base della formazione culturale e dell’educazione morale del cittadino. La recitazione dei poemi implicava poi l’immedesimazione dell’interprete con i personaggi e la capacità di comunicare emozioni forti all’uditorio. Nella sua attività declamatoria delle vicende dell’Iliade e dell’Odissea Ione è detto scuotere l’animo degli ascoltatori, ma è lui per primo preda di commozione o di paura, con relative manifestazioni corporee, quali lacrime, capelli dritti e palpitazioni cardiache (535c4-8). Si prefigurano qui le passioni fondamentali, ἔλεος e φόβος, che Aristotele individuerà come caratteristiche della tragedia. Questa attività non si limita però alla conoscenza   Dieuchida in Diogene Laerzio (I, 57 = FrGrHist, 485F69).   Cfr. Nagy 1982, pp. 23 sgg. 16   Non si deve probabilmente dare troppo peso alla testimonianza di Senofonte (Symp., 3, 6; Mem., IV, 2, 10) che descrive i ra­pso­di come stupidi e da cui alcuni hanno dedotto una loro scarsa influenza culturale all’epoca. Senofonte deriva forse da Platone, cfr. Méridier 1931; Flashar 1958, pp. 24-25, ma è stata anche ipotizzata una comune dipendenza dello Ione e di Senofonte da Antistene (Thesleff 1982, p. 223 e nota 59).

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o alla riproduzione drammatica dei versi del poe­ta, ma comporta la capacità di cogliere il senso del suo autentico pensiero (διάνοια, 530b10; c4; d3), che trova forma in una illustrazione-esibizione, o ἐπίδειξις (530d5; 541e-542a) . Il ra­pso­do può dirsi l’ermeneuta del poe­ta (530b-c)17. La sua attività include dunque l’esegesi del testo letterario, secondo una pratica invalsa all’epoca che non era di esclusiva pertinenza dei ra­pso­di, ma anche di altre categorie, tra cui, in primo piano, i sofisti. L’esegesi dei poe­ti, Omero su tutti, aveva assunto le forme di una critica letteraria ante litteram, articolata in varie forme. Tra queste, l’interpretazione allegorica, che si sforzava di adattare elementi mitici e arcaici a un contesto culturale ormai “illuminato” e demitizzato, rendendo attuali e restituendo un senso accettabile a passaggi moralmente scomodi o non facilmente comprensibili per il pubblico dell’epoca18. Esponenti di queste pratiche, quali Metrodoro di Lampsaco e Stesimbroto di Taso, sono ricordati nel dialogo come termini di confronto rispetto ai quali Ione proclama la propria eccellenza (530c-d). L’immedesimazione del ra­pso­do e dell’attore con i fatti narrati è vista con estremo sfavore da Platone nella Repubblica, in quanto suscettibile di trasformarsi in un’abitudine consolidata, quasi una seconda natura, «sia nel corpo, sia nella voce, sia nel modo di pensare» (Resp., 395d) e dunque di cadere vittima dei caratteri negativi imitati, con effetti indesiderati sia sull’attore, sia sull’ascoltatore. Se dunque la nozione di imitazione è assente dallo Ione nel suo lato “ontologico”, sviluppato nella Repubblica (596a sgg.) e relativo alla duplice distanza dei prodotti dell’arte dagli originali ideali (e non potrebbe essere diversamente, dato che nello Ione, qualsiasi ne sia la ragione, sono di fatto assenti le idee di Platone), essa è già presente nella dimensione originaria del 17   Baltzly 1992, p. 30 sgg.. Interprete o mediatore? Cfr. infra la nota 9 del commento. 18   Bibliografia sull’interpretazione allegorica in Arrighetti 1987, pp. 1533. Cfr. anche infra la nota 8 del commento.

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μῖμος, che è appunto impersonificazione di caratteri e tipi umani prima che il genere di riproduzione imitativa tipico delle arti figurative e anche della poe­sia19. Se ciò contribuisce a spiegare l’atteggiamento negativo nei confronti del protagonista20, si tratta comunque nello Ione di un aspetto non in primo piano; l’attenzione si incentra piuttosto sullo statuto di τέχνη cui l’arte praticata da Ione (e la poe­sia stessa) aspirano. 3.

La τέχνη.

Sin dalle prime battute del dialogo Socrate dichiara di invidiare i ra­pso­di per la loro τέχνη (530b). Tradizionalmente nella cultura greca veniva riconosciuta ai poe­ti e ai loro interpreti un’abilità di tipo professionale21. Ione tende subito a confinare la sua arte all’interpretazione di Omero, nella quale presume di non avere rivali né nel passato né nel presente (530c-d). Le successive mosse di Socrate, tese a screditare la pretesa di Ione, comportano di fatto, forse come in nessun altro dialogo platonico, la determinazione dei criteri che individuano una τέχνη. Esiste una molteplicità di τέχναι, dono del dio22, ciascuna con un suo campo di competenza e una sua attività specifica (ἔργον, 537c5-6), non sovrapponibile con quello delle altre; ogni τέχνη implica conoscenza (ἐπιστήμη, 537d6; e2; 538b6) e dominio esclusivo sui suoi oggetti23; l’oggetto conosciuto da una τέχνη non può essere conosciuto da un’altra (537d1-4; 538a1-4). L’esperto in   Keuls 1978, pp. 9-32.   Cfr. Gould 1990. 21   Verdenius 1983, p. 20 sgg. 22   Si confronti il celebre mito di Prometeo nel Protagora (cfr. 320c-323c) e Menex., 238b. 23   L’ἐπιστήμη di cui si parla è un sapere qualificato, anche se il livello di conoscenza riconosciuto da Platone ai possessori di una τέχνη resta ben al di sotto della scienza suprema cui viene riservato l’impiego piú proprio del termine ἐπιστήμη. Usi terminologici comuni convivono in Platone con usi piú specializzati.

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una τέχνη è in grado di riconoscere e giudicare un altro competente (531e), distinguendolo da un inesperto24; ciò implica che il competente abbia conoscenza degli opposti su cui verte la sua arte. E soprattutto, la τέχνη è una totalità (532c9-d2; e4); ciò equivale a dire che il suo campo d’azione è qualcosa di unitario, che racchiude tutti i suoi oggetti, sui quali si estende, senza discontinuità, la competenza dell’esperto. È in base a queste premesse, alcune delle quali vengono in luce solo in una fase avanzata del dialogo, che Socrate non riconosce all’attività praticata da Ione la qualifica di una τέχνη. Ione, infatti, si dichiara formidabile nell’interpretazione del solo Omero e Socrate sembra intenzionato, in modo in fondo sorprendente, a riconoscergli una competenza piú ampia. In base alla constatazione che poe­ti come Omero ed Esiodo parlano delle stesse cose (guerra, divinazione, ecc.), Socrate argomenta che Ione dovrebbe intendersi ugualmente di entrambi (531a sgg.). Ma la differenza rilevata da Ione attiene a ciò che noi chiameremmo qualità letteraria: Omero parla meglio degli altri (531d10). Cosí la specializzazione apparentemente comica di Ione, limitata per sua espressa dichiarazione al solo Omero, potrebbe ricevere un senso. Socrate intende però, ambiguamente, il parlare meglio o peggio nel senso del parlare in modo tecnicamente competente sugli oggetti su cui di volta in volta verte la poe­sia25 (sulla mantica, per esempio, su cui si esprimono sia Omero che Esiodo). Il possessore delle relative τέχναι sarà colui che è in grado di capire chi parla meglio o peggio. L’argomento di Socrate implica che – posto che quella di Ione sia una τέχνη con un suo oggetto – Ione dovrà intendersi sia di Omero che degli altri poe­ti; se invece il giudizio dovesse essere relativo agli oggetti di cui i poe­ti parlano, la competenza sarebbe in questo caso del possessore di quella specifica arte (per esempio dell’indovino).

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  Cfr. Charm., 169d-174d.   L’ambiguità è sottolineata da Beversluis 2000, pp. 81-82.

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La controbiezione di Ione fa appello ai dati di fatto: il suo interesse, quando altri discorrono dei poe­ti, è risvegliato solo da Omero, sul quale ha abbondanza di argomenti, mentre sugli altri poe­ti non è in grado di apportare contributi degni di nota (531b8-c4). La successiva replica di Socrate (532d6-533c3) si appella anch’essa ai fatti, citando casi dalle varie arti (pittura, scultura, musica, sino alla stessa ra­pso­dia), dai quali risulta che di fatto la competenza di eventuali “critici d’arte” non è mai limitata a qualche esponente particolare della τέχνη considerata. Sul terreno dei fatti Ione può dunque riproporre senza sostanziali variazioni la sua precedente obiezione nella forma di una constatazione che sembra trarre forza dal riconoscimento dei propri limiti basato su un’autoconsapevolezza; egli sa bene, tra sé (ἐμαυτῷ σύνοιδα, 533c5), di intendersi del solo Omero (533c48). Una professione di modestia che, in fondo, potrebbe attirare una certa simpatia; il fatto però che Ione abbia sostanzialmente accettato il punto di Socrate sulla τέχνη rende inevitabile la successiva spiegazione del fenomeno su un altro piano. È qui che subentra un’altra delle nozioni chiave del dialogo, l’ἐνθουσιασμός. 4.

Entusiasmo e ispirazione divina.

Quella che muove Ione non è un’abilità tecnica, ma una capacità divina (θεία δύναμις, 533d3). Una delle trovate piú geniali del dialogo è l’immagine del magnete, che non solo attrae gli anelli di ferro, ma trasmette loro, in una catena ininterrotta, la medesima capacità di attrazione; cosí la Musa rende alcuni pieni di divino (ἐνθέους, 533e4), e attraverso costoro si costituisce una catena di entusiasti posseduti dal dio (ἐνθουσιαζόντων, 533e5). I poe­ti, epici o melici, o di qualunque altro genere, compongono non grazie a una τέχνη, ma a una presenza del dio, che conferisce loro una capacità fuori dall’ordinario. Questo entusiasmo ispirato cade al di fuori della

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τέχνη in quanto totalmente altro rispetto alle capacità razionali; il poe­ta divinamente ispirato è in uno stato di inconsapevolezza (ἔκφρων) e l’intelletto (νοῦς) non è piú in lui (534b5-6); per suo tramite è il dio stesso a parlare, rendendolo cosí suo interprete e mediatore. La citazione, portata a riprova, di Tinnico, poe­ta di scarse capacità, ma miracolosamente in grado di comporre un unico peana da tutti ammirato, può segnalare che anche a Ione (come accade in genere in Platone anche con i possessori di arti a tutti gli effetti) non viene necessariamente misconosciuta una certa capacità. Ma grazie all’immagine del magnete diviene possibile accomunare ra­pso­di e poe­ti, rinvenendo in entrambi la medesima fonte di ispirazione divina; in questo modo la questione relativa al sapere proprio degli interpreti dei poe­ti si salda, grazie alla nozione di entusiasmo, con quella del tipo di sapere che è possibile riconoscere ai poe­ti stessi. Lo scopo ottenuto è duplice26: negare lo statuto di τέχνη alla pratica ermeneutica dei ra­pso­di e offrire uno sguardo sulla natura e l’essenza ultima della poe­sia. La catena magnetica si estende però anche oltre, sino a coinvolgere lo spettatore, ultimo anello della catena (535e7-8), la cui anima è in balia della volontà del dio (536a2-3). Qui si può intravedere, in abbozzo, la critica all’arte imitativa della Repubblica. Gli effetti dell’estraniamento irrazionale di cui è preda il ra­pso­do si estendono infatti sino all’ultimo anello della catena, ma di questo estraniamento vengono, di sfuggita, messi in risalto gli aspetti negativi: la sofferenza o la paura provate da Ione, i suoi pianti inscenati durante le sue esibizioni non hanno alcun riscontro con la realtà (535d1-5), ma queste emozioni vengono trasmesse al pubblico (d8-9). Non è difficile riconoscere una sottile ironia (paura in mezzo a ventimila persone? lamenti da parte di qualcuno che non è stato privato di nulla?) e un intento critico in questa notazione di Socrate, che pure non persegue sino in fon-

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  Flashar 1958, pp. 26-27.

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do le implicazioni negative di queste pratiche sull’anima sia di chi recita, sia di chi ascolta. La maggior parte degli interpreti, anelli della catena ermeneutica, si rifà, come Ione, a Omero (536b4), non direttamente denigrato nel dialogo, anche se le allusioni sembrano sufficienti a intravedere il medesimo atteggiamento critico della Repubblica. 5. La specificità della poe­sia: il πρέπον alla luce del la «Repubblica». Quando Ione non accetta la spiegazione fornita, negando che le sue prestazioni omeriche siano dovute a possesso divino o follia, è aperta la strada a un modulo di confutazione piú usuale. Se sino ad allora si era trattato di riconoscere a Ione una competenza piú ampia di quella che egli stesso tendeva ad attribuirsi, la questione verte ora sull’oggetto specifico della τέχνη ra­pso­dica. Come in altri casi, l’incapacità dell’interlocutore di individuare questa specificità implica mettere in dubbio la possibilità che si tratti di un’autentica τέχνη. Per portare Ione a questo esito Socrate intende il parlare correttamente a proposito di ciò che è oggetto della poe­sia come un formulare giudizi corretti relativi agli ambiti tecnici di volta in volta in questione: parlare bene e correttamente in ordine ai passi dei poemi omerici in cui figurano τέχναι quali la medicina, la mantica o la pesca può solo significare, in questa prospettiva, esprimersi in modo tecnicamente adeguato sui loro oggetti; ma in base ai criteri stabiliti in precedenza questa abilità spetterà di volta in volta ai competenti di queste arti. Risulta in questo modo vanificata la dichiarazione iniziale di Ione circa l’universalità del suo sapere (536e3), che, quando viene nonostante tutto ribadita (539e), deve essere specificata, in seguito all’accusa di smemoratezza mossa da Socrate (un ra­pso­do smemorato sarebbe l’estremo paradosso, 539e7-9): il ra­pso­do saprà ciò che si addice (πρέπει) dire ai singoli personaggi. Con ciò Ione sembrerebbe aprire

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un nuovo orizzonte e avvicinarsi a una risposta adeguata. Mettendo in campo una nozione di ordine estetico, il πρέπον27, Ione introduce di fatto un elemento formale della poe­tica, presente già nella riflessione della retorica e della sofistica28. Egli sembra però intendere il πρέπειν piuttosto nella sua valenza etica, immettendo quell’elemento pedagogico che costituisce la cifra caratteristica della poe­sia nella sua dimensione pubblica: cosa sia appropriato dire per un uomo, una donna, uno schiavo, un libero cittadino, rimanda all’ambito della morale popolare piú che a un canone artistico. Ma come accade anche ad altri personaggi dei dialoghi, Ione non è in grado di individuare la richiesta specificità ed è costretto ad adeguarsi all’ennesima riconduzione operata da Socrate a un ambito specificamente tecnico: ciò che si addice dire ai singoli personaggi sarebbe ciò che è conforme ai canoni della loro τέχνη, per cui l’arte di Ione risulta, di nuovo, priva di oggetto: saprà il medico e non il ra­pso­do cosa si addice dire a un medico (540b6-d3). Che Ione si sia avvicinato a una risposta adeguata, è chiaro dalla Repubblica, dove la questione della poe­sia verte essenzialmente sui corretti modelli etici di comportamento che il poe­ta deve presentare e su ciò che i personaggi in scena devono dire o fare in conformità del loro ruolo e status. La poe­sia non dovrà presentare dèi menzogneri, eroi piangenti o lamentosi, depressi e intimoriti, intemperanti o inclini al riso eccessivo, iracondi o empi29. Il poe­ta deve dunque sapere ciò che si addice dire ai personaggi rappresentati, ma la prospettiva è in questo caso di natura etico-politica. Solo chi ha conoscenza della natura della divinità e della virtú sarà all’altezza del compito. La conoscenza richiesta al poe­ta, che egli dovrà trasferire nei suoi personaggi, è dunque conoscenza del bene, a un livello che si tratterà di precisare.

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  Sul πρέπον cfr. supra l’introduzione all’Ippia maggiore, pp. 10-11.   Diller 1955, pp. 185-86. 29   Resp., 381c-392c. 27 28

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299 La conclusione del dialogo.

Uno degli esempi portati da Socrate nello Ione sembra condurre nella direzione appena indicata: che cosa lo stratega debba dire ai suoi soldati per incitarli (540d12) sembra essere materia piú di etica che di strategia in senso tecnico. Forse per questo Ione perviene cosí facilmente alla grottesca identificazione di strategia e τέχνη ra­pso­dica, che conduce all’assurdo esito finale: Ione sarà dunque anche il migliore stratega in circolazione. Un esito simile, insinua Socrate, può essere imputabile solo a un comportamento doloso e malevolo di Ione, che dunque è costretto a scegliere tra l’alternativa: ingiusto, se possiede una τέχνη la cui natura vuole occultare, o divino, in quanto, come voleva Socrate, posseduto. Secondo un consueto topos dei dialoghi, Socrate ironizza su una sapienza che Ione terrebbe intenzionalmente in serbo, ma di cui invece il suo interlocutore non è evidentemente in possesso (541e1-542a1)30. La scelta è obbligata, una delle due alternative essendo l’ingiustizia, e ciò porta a ribadire in fine di dialogo il punto mostrato in precedenza da Socrate: non a una τέχνη, ma a un possesso entusiastico sono dovute le supposte abilità di Ione. 7.

Lo «Ione» come dialogo aporetico «sui generis».

Nel caso di Ione si tratta inizialmente di una confutazione ad hominem, dovuta alla sua autolimitazione di competenza al solo Omero; un ἔλεγχος del genere risulterebbe inefficace nei confronti di un ra­pso­do che dichiarasse di intendersi di tutti i poe­ti (o di un poe­ta che dichiarasse di intendersi di tutto). Ma la sua successiva pretesa di intendersi di tutto ciò che si trova in Omero (in quanto l’oggetto della poe­sia viene ora in tal mo-

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  Szlezák 1988, particolarmente pp. 101-20 in riferimento all’Eutidemo.

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do – correttamente – ricondotto dal poe­ta particolare al contenuto delle sue creazioni, potenzialmente estendibile a qualsiasi cosa, senza limiti e universale) riapre la strada al modulo confutativo basato sul criterio dell’oggetto specifico della τέχνη. Ione non è in grado di indicare quale sia questo oggetto. Questa difficoltà sussiste perché tutto può cadere sotto quell’arte, e Ione non riesce a stabilire in quale prospettiva gli oggetti delle singole τέχναι potrebbero essere di pertinenza della ra­pso­diapoe­sia e come potrebbe ancora configurarsi una competenza specifica in quel campo. Ci si può chiedere però se quest’esito sia dovuto solo alla pochezza intellettuale del ra­pso­do o alla strutturale impossibilità che la poe­sia sia una τέχνη. Lo Ione non è, a prima vista, un dialogo aporetico. Si è stabilito che le (presunte) capacità di Ione sono dovute a entusiasmo e in questo sembra potersi riconoscere un tratto caratteristico della poe­sia, consistente nell’ispirazione e nel possesso da parte del dio, che esclude la sua natura di τέχνη. Il risultato raggiunto è comunque positivo. Ma la stessa struttura della confutazione finale lascia presagire, per analogia con altri dialoghi, la possibilità che il sapere di cui si parla possa comunque esistere con un suo ambito di competenza. In altri dialoghi, infatti, un’analoga incapacità degli interlocutori di individuare l’oggetto specifico del sapere o della virtú in questione non è di per sé segno dell’inconsistenza di questo sapere, la cui natura viene precisata da Platone altrove31. Nello Ione questo esito fallimentare deriva in parte dalla tendenziosa impostazione di Socrate, consistente nel proporre come oggetti possibili solo quelli specifici di altre τέχναι, le quali a questo punto hanno necessa31   Nel Carmide, per esempio, si trova un analogo schema: non si riesce a individuare un oggetto specifico della saggezza (σωφροσύνη) considerata come scienza delle scienze, sempre ricondotto a quelli delle singole scienze, ma questo non esclude l’esistenza di una scienza del genere – in ultima analisi la dialettica – e l’esito è dovuto solo all’incapacità dei presenti di individuarla. Cfr. anche Gaiser 1984.

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riamente la meglio sull’evanescente arte del ra­pso­do. Ma perché mai un poe­ta per essere tale dovrebbe intendersi di strategia o di medicina da un punto di vista tecnico, salvo il necessario bagaglio di conoscenze minime? Ione non è comunque in grado di svelare questa tattica, né di proporre valide alternative, rimanendo cosí il principale responsabile del fallimento dell’indagine. Rimane dunque aperto il problema, se esista e quale possa essere l’eventuale oggetto specifico della poe­sia e quale sia la natura essenziale di quest’ultima. Ciò fa dello Ione un dialogo aporetico, sia pure sui generis. 8. La natura della poe­sia e la soluzione della «Repub blica». La questione trova soluzione solo alla luce della Repubblica, dove viene chiarita l’essenza della poe­sia come narrazione imitativa in versi. In quanto imitazione la poe­sia non è confinata a un oggetto specifico, ma può (come la sofistica) riprodurre tutto, cose, azioni, caratteri32. Come tale, essa non può che essere, come la sofistica (cfr. infra), una pseudoconoscenza e una pseudoarte, lontana dalla verità, ma con ambizioni di universalità. Come il sofista, il poe­ta può produrre qualsiasi cosa, ma solo a livello di imitazione. Una buona poe­sia dipenderà dunque dalla bontà dei modelli imitati. La specificità del poe­ta risiederà allora nel presentare, nelle forme peculiari della sua arte, validi modelli di comportamento, basati su una conoscenza del bene a qualche livello. Nelle Leggi (719b-d) viene ancora ribadito, citando un «antico mito» accettato da tutti, che la τέχνη del poe­ta consiste nell’imitazione ed è pertanto condizionata dalle disposizioni, spesso tra loro opposte, degli uomini che rappresenta; come già nell’Apologia, il poe­ta, un soggetto fuori di senno (οὐκ ἔμφρων, 719c4), non sa nulla circa

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  Cfr. Resp., 392c6 sgg.; 598d sgg.

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la verità o meno delle cose dette. Non siamo di fronte a un tardivo riconoscimento della natura di τέχνη alla poe­ sia, ma alla conferma che la specificità di questo sapere risiede interamente nella capacità imitativa. Platone si trova di fronte a forme di sapere, vero o presunto, come la retorica e la poe­sia, di fatto esistenti e di portata universale, riguardanti ambiti che, considerati in una diversa prospettiva, sono di pertinenza di specifiche τέχναι33. In ultima analisi non si può negare l’esistenza e una certa specificità di queste forme, riconducibile però a una particolare capacità piú che a uno specifico oggetto di loro competenza. Esistono abilità retoriche e poe­tiche che hanno qualcosa di “tecnico”, ma in linea di principio non sono confinate a un oggetto come le singole τέχναι. Si tratta di saperi strumentali che possono ricevere un senso solo nell’orientamento corretto verso il bene, e dunque si risolvono, nell’ottica di Platone, nella piú generale conoscenza del bene e del vero. Deve comunque esistere, nonostante tutto, una capacità naturale di realizzare queste forme artistiche, che – nel caso della poe­sia – Platone riconduce all’ispirazione piú che a tecniche compositive di varia natura34. Nel passo delle Leggi appena citato è ancora posta l’ispirazione del poe­ta, una fonte lasciata scorrere liberamente, all’origine delle sue produzioni; questa ispirazione spontanea si concreta però forzatamente nell’imitazione dei suoi oggetti, i molteplici caratteri umani. Nella Repubblica Platone distingue con chiarezza il che dal come, l’oggetto dell’imitazione dalle sue modalità (392c sgg.; 394c). Essendo dovute a una comu33   Sul problema costituito dall’assegnazione di uno specifico oggetto a una τέχνη in un rapporto di biunivocità esclusiva cfr. Kahn 1993, pp. 374-75: il principio è problematico se per «oggetto» si intende non, in senso intensionale, l’argomento specifico di ciascuna τέχνη, ma, in senso estensionale, un insieme di oggetti o entità individuali (l’uomo può essere oggetto, sotto diversi rispetti, tanto della medicina quanto della politica). 34   Nella Repubblica (394e-395b) si accenna comunque alle peculiarità te­ cniche delle varie forme poe­tiche, che di fatto sono difficilmente di competenza di una sola persona.

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ne capacità naturale, le varie forme di imitazione non sono di pertinenza di soggetti diversi. Come insegna il Simposio (223d), il vero poe­ta autore di tragedie saprà anche comporre commedie, il che rende ancora piú ridicola la specializzazione di Ione, limitata al solo Omero. In questo senso è possibile una forma di poe­sia (e di retorica) filosoficamente orientata, ed è verosimile che Platone abbia concepito i suoi dialoghi, capolavori di poe­sia (e di retorica), proprio in questo senso35. L’ispirazione, anche poe­tica, sembra giocare nella filosofia di Platone un ruolo fondamentale e molte descrizioni dei dialoghi lasciano presagire una sua diretta esperienza del fenomeno, testimoniata anche negli aneddoti della tradizione biografica, che raccontano degli inizi del filosofo come poe­ta36. 9.

Poe­sia, ra­pso­dia e sofistica.

La natura imitativa della poe­sia la accomuna alla sofistica, ma questa connessione emerge con chiarezza solo nella Repubblica e nel Sofista37; il sofista è paragonato all’artista in quanto imitatore universale, produttore di immagini nei discorsi che rassomigliano al vero, come il possessore dell’arte mimetica (pittura, ma anche poe­sia, cfr. Resp., 597e6-8), chiamato σοφιστής (596d1), produce imitazioni non reali di qualsiasi cosa. Lo pseudosapere di entrambi è universale proprio in quanto sprovvisto di un oggetto proprio e contraffazione della vera sapienza, che si estende a tutta la realtà. La particolare specie dell’imitazione intesa come impersonificazione di caratteri e atteggiamenti, mentali e corporei, la “mimica” vera e propria descritta nello Ione (535b1-c8), tipi  Gaiser 1984, pp. 103-24, passim.   Cfr. Apuleio, De Plat. dogm., I [II], 184; Apol., 10; Aulo Gellio, Noct. Att., XIX, 11, 2; Diogene Laerzio, III, 5; Eliano, V. hist., II, 30; Proclo, In remp., I, 205, 4-13 Kroll. 37   Cfr. Resp., 596c sgg.; Soph., 233d-234d; 265a-267b.

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ca della pratica ra­pso­dica, merita da sola, nel Sofista, la peculiare denominazione di μιμητικόν, mentre l’imitazione realizzata tramite strumenti viene lasciata provvisoriamente senza nome (Soph., 267a1-b3). Nello Ione si può tutt’al piú avvertire un presentimento di questa connessione considerando i tratti che accomunano Ione alla sofistica. Il ra­pso­do è in quanto tale un soggetto itinerante, che viaggia di città in città, girovago come i sofisti (Soph., 217c-d)38, mentre, per contrasto, il filosofo Socrate si caratterizza per la sua scarsa propensione ad allontanarsi da Atene. Il tratto piú deprimente della descrizione di Ione nel dialogo è l’imbarazzante caduta di stile contenuta nella sua confessione di avere di mira, quando suscita emozioni nel suo pubblico, solo il guadagno economico (535e), caratteristica tipica anche dei sofisti. Il sapere di Ione, infine, ambisce, come quello del sofista, a essere universale, nonostante la sua iniziale autolimitazione di competenza al solo Omero: egli si proclama in grado di indagare e giudicare tutto (ἅπαντα, 539e6) e coerentemente non si astiene, al termine del dialogo, dal rivendicare, in modo grottesco, il possesso persino dell’arte strategica. 10. Entusiasmo e misura. Come valutare quanto detto nello Ione circa l’ispirazione entusiastica della poe­sia e dei suoi interpreti? E sino a che punto può essere ritenuta ironica la considerazione in termini entusiastici di un personaggio presentato in una luce pessima? Anche dell’entusiasmo vi sono in Platone due facce, o meglio, diversi gradi e modalità. Un’altra categoria di soggetti cui viene attribuito, in modo a prima vista sorprendente, un entusiasmo di origine divina è quella dei politici. Nel Menone (99a-d) Socrate afferma infatti che

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  Cfr. infra la nota 1 del commento.

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i politici, quelli di fama, possono essere capaci di guidare correttamente le città, ma solo grazie a una opinione corretta (qui: εὐδοξία), e non in forza della sapienza (σοφία), di cui non sono in possesso; come i profeti e gli indovini, i politici dicono molte cose vere, ma non sanno ciò che dicono e non sono in grado di renderne conto. A buon diritto, dunque, essi possono essere considerati uomini divini ed entusiasti (ἐνθουσιάζειν, 99d4) . Il parallelo con i poe­ti/ra­pso­di dello Ione è evidente, sia per la comune analogia con vati e indovini, sia per il rifiuto di attribuire a entrambi conoscenza (ἐπιστήμη, 99b9) e intelligenza (νοῦς, 99c8)39. Data la scarsa considerazione di cui i politici godono presso Platone, si potrebbe essere inclini a ritenere ironica la notazione, che invece è con tutta probabilità intesa seriamente. Come spiegare i molti casi di azioni e decisioni degli uomini politici corrette e vantaggiose, in assenza di un effettivo sapere? Rispetto alla politica ci si trova in una situazione analoga a quella della poe­sia. Lo statuto di τέχναι di queste abilità è assai dubbio; la difficoltà di trasmetterle ad altri non soddisfa, infatti, un ulteriore criterio di individuazione di una τέχνη, la sua insegnabilità (criterio, questo, che emerge nel Menone ma non nello Ione); e tuttavia esistono esponenti di questi presunti saperi che si distinguono dagli altri uomini e colgono spesso nel segno. Si tratta di un sapere istintivo di cui i possessori non sanno rendere conto e che può essere descritto in termini di opinione vera, una modalità di conoscenza che, come chiarisce ancora il Menone40, può avere di fatto i medesimi effetti positivi del sapere epistemico. In quanto questo sapere è incapace di dar conto di sé, la sua origine va ricondotta altrove, da cui la possibilità di qualificarlo come divino e di ritenere ἔνθεοι, «posseduti dal dio», i suoi esponenti41. Analogo il sapere che si può attribuire al poe­ta,

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  Cfr. Verdenius 1943, p. 244.   Men., 96e-97c (cfr. anche Sisyph., 387e-388a); cfr. Petrucci 2011. 41   Per l’analogia tra entusiasmo e opinione vera cfr. Trabattoni 1985-86. 39 40

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la cui ispirazione avrà però, presumibilmente, modalità diverse. In questo modo viene sottratta alla poe­sia la sua pretesa di sapienza: essa è priva di un requisito indispensabile del sapere autentico, la capacità di rendere ragione. È un’operazione anche politica, che ha di mira l’intero sistema educativo dell’Atene dell’epoca: i poe­ti, a partire da Omero, non possono trasmettere l’autentica virtú, e tantomeno i loro interpreti. Ma al tempo stesso la teoria dell’entusiasmo fornisce una spiegazione di come possano esistere soggetti apparentemente competenti in un campo sottratto all’ambito delle τέχναι e di casi come quello di Tinnico. La soluzione dell’entusiasmo è a questo riguardo efficace, ma fa sorgere un altro problema: come conciliare il falso nei poe­ti con la loro ispirazione divina? Dalla Repubblica sappiamo che il dio non può esser causa di falsità: «Nel dio non alberga menzogna» (Resp., 382d). Per quanto riguarda Ione, egli può essere considerato una mera contraffazione caricaturale del poe­ta, grazie all’immagine della catena magnetica, in cui l’energia trasmessa è destinata ad affievolirsi e disperdersi. La sua prestazione annunciata (536d6-e1), che permetterebbe eventualmente di esprimere un giudizio sulle sue effettive capacità, ci viene risparmiata. Egli, peraltro, rifiuta l’interpretazione della sua attività in termini di follia ispirata e ribadisce la sua pretesa di consapevolezza (536d4-7), liberandoci dall’imbarazzo di doverlo considerare un divino entusiasta42. Quanto ai poe­ti effettivamente ispirati, l’entusiasmo può essere eccessivo o stravolto dal medium del poe­ ta stesso e dalla sua incapacità di controllare il piacere derivante dalla possessione43. Nelle Leggi (700a-701b), in un celebre passo sulla “teatrocrazia”, si deplora, dei poe­ti «baccheggianti» (βακχεύοντες, 700d5), riconosciuti in possesso di un’ispirazione naturale, un eccesso

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  Cfr. infra la nota 56 del commento.   Flashar 1958, pp. 136-39.

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nell’arrendersi piú del dovuto alla possessione, causato dal piacere. Platone riconosce, nella sua caratterizzazione dell’autentica disposizione filosofica, la presenza di due componenti apparentemente contrastanti e difficili da conciliare. Il filosofo, che è un «Bacco», deve contemperare razionalità ed entusiasmo; la filosofia al suo apice è mania, possesso divino, estraneazione ed estasi, ma anche temperanza, misura, equilibrio interiore44. Nei contesti in cui si insiste sulla componente maniaco-dionisiaca si affaccia sempre anche la σωφροσύνη. C’è dunque una misura che tempera l’entusiasmo, ma non è alla portata di tutti realizzare questa difficile sintesi. L’idea di una ispirazione divina del poe­ta non è nuova nella cultura greca; tradizionalmente, però, essa non coincide con un furor poe­ticus consistente in una possessione o in un estraniamento di tipo irrazionale. Il poe­ta ispirato dalle Muse riceve da esse un’abilità permanente che è anche di tipo tecnico e le cui componenti essenziali sono costituite dalla conoscenza basata sull’informazione, dalla capacità mnemonica e da quella performativa; qualcosa, dunque, di molto lontano da una condizione dissennata45. Ciò spiega un’apparente contraddizione di Ione nel suo contemporaneo assenso e dissenso rispetto alla tesi socratica dell’ispirazione: da un lato il ra­pso­do riconosce la provenienza divina dell’attività ermeneutica del poe­ta (535a3-5), dall’altro nega risolutamente che le sue prestazioni omeriche implichino un possesso estraneo e una condizione di follia (536d4-7). La sostanziale novità presente nello Ione consiste nella scissione di ispirazione e τέχνη, entrambe concepite da Platone in modo originale nel contesto della sua filosofia. Platone nega alla poe­sia tradizionale lo statuto   Cfr. Phaedo, 68e-69e; Phaedr., 244d-245a; 254b; 256b.   Sull’ispirazione nella poe­sia cfr. Tigerstedt 1969; Murray 1981 (da Omero a Pindaro); 1992; Verdenius 1983, pp. 38-44. Il precedente piú interessante è la teoria di Democrito (cfr. 68B18 dk; Giuliano 2005, pp. 177183; Brancacci 2007, pp. 200-5).

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di un’arte e ripensa radicalmente la natura dell’ispirazione poe­tica. Solo nella filosofia al suo massimo livello di realizzazione potrà ripresentarsi la conciliazione di τέχνη ed ἐνθουσιασμός, nelle forme proprie del pensiero platonico. Lo Ione contiene in tal senso spunti fondamentali, che troveranno piena realizzazione nei dialoghi a venire. Non si tratta comunque, nello Ione, solo della poe­sia di per sé, ma del modo di interpretarla, incarnato nella figura del ra­pso­do. A differenza di quanto accade in altri casi (si pensi all’interpretazione del carme di Simonide nel Protagora e all’Ippia minore), non ha però luogo nel dialogo un confronto tra esegesi testuali dei poe­ti; l’ἐπίδειξις di Ione si fa attendere invano e Socrate si serve dei versi omerici solo per introdurre la discussione sulle τέχναι. È sempre Socrate a introdurre citazioni dai poemi omerici e il contributo “tecnico” di Ione è limitato alla recitazione a memoria di un brano indicatogli dal suo interlocutore. Se ci si attiene strettamente al dialogo, l’obiettivo polemico di Platone può essere ristretto alle pratiche ra­pso­ diche, contemporanee e del passato46; ma i vari spunti che nello Ione conducono alla poe­sia in sé, alle relative pratiche ermeneutiche e alla sofistica lasciano presumere un bersaglio piú ampio. La recitazione dei ra­pso­di, come ricordato di passaggio nel Fedro (Phaedr., 277e), è da sempre una pratica incapace di indagine critica e non mirante all’insegnamento, ma alla persuasione incurante della verità; in questo essa fa tutt’uno con altre forme del sapere che hanno trovato la loro realizzazione in opere scritte. Ma come per la poe­sia, è possibile una ra­pso­dia riformata, e nella città delle Leggi 47 Platone riserverà ancora un posto ai ra­pso­di.

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  Verdenius 1943, p. 241; Baltzly 1992; Murray 1996, p. 21.   Cfr. Leg., 764d-e; 834e.

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11. Cronologia. Lo Ione è stato generalmente collocato tra i primi dialoghi di Platone (il primo, secondo Wilamowitz), negli anni Novanta48. Secondo altre ipotesi il dialogo sarebbe stato scritto ancor prima della morte di Socrate (399 a.C.)49. Ma è stata proposta anche, su basi terminologiche, una datazione piú tarda, che lo collocherebbe tra Repubblica e Fedro50. Le indagini stilometriche confermano una data intorno al 39551. La data drammatica del dialogo può essere fissata, in base a una serie di indizi, intorno al 412 a.C.52. 48   Flashar 1958, pp. 96-105: intorno al 394-393, come farebbe pensare la notazione (541c) che Efeso è assoggettata ad Atene. 49  ­Heitsch 2002; 2003, pp. 109-19. 50   Rijks­ba­ron 2007, pp. 2-8; argomenti contro una datazione precoce in Moore 1974. 51   Ledger 1989, p. 223. 52   L’affermazione di Socrate secondo cui Efeso è sotto il dominio ateniese (541c) potrebbe adattarsi al periodo tra il 394 e il 391 (Flashar 1958, pp. 98-100), in cui però si trattò piuttosto di un’alleanza difensiva; o, piú probabilmente, alla fase della guerra del Peloponneso precedente la rivolta della Ionia nel 412; cfr. Moore 1974; Canto 2001, pp. 26-32 e infra la nota 82 del commento.

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530 [a] σωκρατης Τὸν Ἴωνα χαίρειν. πόθεν τὰ νῦν ἡμῖν ἐπιδεδήμηκας; ἢ οἴκοθεν ἐξ Ἐφέσου;

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530 [a] socrate Il mio saluto all’illustre Ione!1. Da dove vieni oggi per passare un po’ di tempo con noi? Forse dalla tua patria, Efeso?2. 1   Ione è un personaggio fittizio. In base al prologo: (1) proviene dalla Ionia (Efeso, sulla costa dell’Asia minore), tradizionale patria d’origine di ra­pso­di; (2) è un ra­pso­do, dunque (3) viaggia di città in città (da ciò, secondo Padilla 1992, pp. 124-25, il suo nome; cfr. anche infra la nota 80); (4) ha grande stima di sé e della propria “arte”. La scelta di un personaggio fittizio ha dato adito a numerose supposizioni: Ione impersonificherebbe la poe­sia tradizionale come fonte di educazione (Verdenius 1943) o piú specificamente i poemi omerici (Moore 1973 e Velardi 1989, pp. 40-41); ancora, la poe­sia in generale nella sua dimensione pubblica (Trabattoni 1985-86, pp. 31-35), o la ra­pso­dia sofistica (Flashar 1958, particolarmente pp. 21-26); oppure, infine, la “critica letteraria” (su tutti Lowenstam 1993, pp. 19-23). Certamente Ione presenta caratteri sofistici e l’incontro evidenzia paralleli con quelli tra Socrate e, negli omonimi dialoghi, Protagora e Gorgia (sempre di passaggio ad Atene, essi sostengono prontamente il proprio valore). Vi sono tuttavia argomenti che suggeriscono come l’attacco a Ione possa essere esattamente ciò che è, cioè l’attacco alla figura del ra­pso­do come “esperto di letteratura” (cfr. già Newell Campbell 1986; Baltzly 1992; Lowenstam 1993; Weineck 1998). A suo favore giocano infatti tutti gli argomenti pro natura sofistica di Ione – sofisti e ra­pso­di sono figure tradizionalmente vicine; cfr. le autorevoli pagine di Pfeiffer 1973, pp. 61 sgg.; poi Blondell 2002, pp. 98-99; per spunti platonici in questo senso cfr. supra l’introduzione, pp. 303-4 – insieme ai numerosi riferimenti alla reale pratica ra­pso­dica: Ione partecipa a reali manifestazioni (530a1-b3); è connotato secondo le attività che caratterizzavano storicamente i ra­pso­di – ornato e truccato, Ione recita e spiega il testo poe­tico (cfr. 530b5-c6 e infra le note 8-10) –; propone come propri concorrenti figure reali della classical scholarship preplatonica (cfr. 530c7-d3 e infra la nota 10). I riferimenti di Platone all’esegesi letteraria contemporanea, soprattutto a quella allegorica, non sono del resto né rari (cfr. per esempio Phaedr., 229b4-d1 e Resp., II, 378b8 sgg.) né di scarsa importanza: cfr. Giuliano 2005, pp. 291-95. 2   Se si considera la pochezza che Ione rivela nel corso del dialogo, le prime righe del prologo (530a1-b4) rivelano un tono ironico. (1) La forma del saluto è unica nei dialoghi e fortemente retorica: l’articolo, in Platone gene-

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ιων Οὐδαμῶς, ὦ Σώκρατες, ἀλλ᾿ ἐξ Ἐπιδαύρου ἐκ τῶν Ἀσκληπιείων. σωκρατης Μῶν καὶ ῥαψῳδῶν ἀγῶνα τιθέασιν τῷ θεῷ οἱ Ἐπιδαύριοι; ιων Πάνυ γε, καὶ τῆς ἄλλης γε μουσικῆς. σωκρατης Τί οὖν; ἠγωνίζου τι ἡμῖν; καὶ πῶς τι ἠγωνίσω; [b] ιων Τὰ πρῶτα τῶν ἄθλων ἠνεγκάμεθα, ὦ Σώ­ κρατες. σωκρατης Εὖ λέγεις· ἄγε δὴ ὅπως καὶ τὰ Παναθήναια νι­κή­σομεν. ιων Ἀλλ᾿ ἔσται ταῦτα, ἐὰν θεὸς ἐθέλῃ.

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ione Assolutamente no, Socrate: da Epidauro, dalle celebrazioni in onore di Asclepio. socrate Non vorrai dirmi che gli abitanti di Epidauro organizzano per il dio anche un agone di ra­pso­di?3. ione Ma certo, e anche delle altre arti consacrate alle Muse!4. socrate Allora? Hai preso per noi parte all’agone? Ti sei fatto valere? [b] ione Abbiamo ottenuto il primo premio, Socrate! socrate Ben detto! Avanti, in questo modo vinceremo anche le Panatenee5. ione Sarà cosí, qualora lo voglia un dio6. ralmente utilizzato per i nomi propri nella transizione narrativa del dialogo, è qui enfatico, mirato a individuare in modo ironico una personalità di spicco (cfr. Rijks­ba­ron 2007, pp. 95-100). (2) Ricorrono, nei pronomi e nelle forme verbali, prime persone plurali (530a1, a8, b1, b2-3), che sembrano segnalare un innalzamento del tono volto a celebrare la statura di Ione. (3) Il richiamo alla vittoria a Epidauro e la quasi certezza di una vittoria alle Panatenee implicano – ancora ironicamente – l’attribuzione di grande valore. 3   Le feste di Epidauro (Peloponneso nordorientale) in onore di Asclepio (divinità legata alla medicina) si tenevano in primavera, ogni quattro anni (probabilmente l’anno prima delle Olimpiadi), nove giorni dopo i giochi Istmici (Schol. Pind. N., III, 84/147). Per le implicazioni di questo riferimento rispetto alla datazione drammatica del dialogo cfr. Flashar 1958, pp. 100-1, e Moore 1974, pp. 428-30. 4   La μουσική rappresenta l’ampio gruppo di arti “consacrate” alle Muse, dunque le varie forme di espressione musicale, poe­tica e letteraria. Ione è fin da subito presentato come ra­pso­do (cfr. anche infra la nota 9): una figura “professionale” che conosceva, recitava, mimava, interpretava e spiegava versi, soprattutto epici e omerici – ma non solo, cfr. 530a2; Ateneo, XIV, 620, 12, con Nagy 1982, pp. 21-29 e 1996, pp. 153 sgg., e Ford 1988 (che identifica la ra­pso­dia con una solo-performance senza accompagnamento musicale). Sul termine e la figura cfr. Flashar 1958, pp. 22-24, e Capuccino 2005, pp. 263-72, ma soprattutto Pfeiffer 1973, pp. 50-59, che individua le tecniche di interpretazione del poe­ta. Per riferimenti alla ra­pso­dia nei dialoghi platonici cfr. Phaedr., 277e5-278a2 (come esempio di recitazione di discorsi volta al divertimento del pubblico e al lucro); Resp., II, 373b2-c2 (come parte della schiera di «imitazioni» che ampliano e peggiorano la città nel suo primo nucleo) e III, 395a1-9 (come pratica dell’imitazione poe­tica da allontanare); Leg., II, 658b7-d10 (in cui si descrive la recitazione dei poemi epici – cfr. anche Eryx., 405d5-9); VI, 764c5-e3 e VIII, 834d8-835a7 (in cui è annoverata tra le pratiche degli agoni). 5   Grandi feste ateniesi in onore di Atena; per una ricostruzione della posizione e dell’attività dei ra­pso­di durante le Panatenee cfr. Boyd 1994. 6   Benché l’espressione ἐὰν θεὸς ἐθέλῃ sia sostanzialmente tradizionale (per esempio Od., III, 228 e 231; V, 169) essa viene qui riformulata rispetto alla

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σωκρατης Καὶ μὴν πολλάκις γε ἐζήλωσα ὑμᾶς τοὺς ῥαψῳδούς, ὦ Ἴων, τῆς τέχνης· τὸ γὰρ ἅμα μὲν τὸ σῶμα κεκοσμῆσθαι ἀεὶ πρέπον ὑμῶν εἶναι τῇ τέχνῃ καὶ ὡς καλλίστοις φαίνεσθαι, ἅμα δὲ ἀναγκαῖον εἶναι ἔν τε ἄλλοις ποιηταῖς διατρίβειν πολλοῖς καὶ ἀγαθοῖς καὶ δὴ καὶ μάλιστα ἐν Ὁμήρῳ, τῷ | ἀρίστῳ καὶ θειοτάτῳ τῶν ποιητῶν, καὶ τὴν τούτου διάνοιαν [c] ἐκμανθάνειν, μὴ μόνον τὰ ἔπη, ζηλωτόν ἐστιν. οὐ γὰρ ἂν γένοιτό ποτε ἀγαθὸς ῥαψῳδός, εἰ μὴ συνείη τὰ λεγόμενα ὑπὸ τοῦ ποιητοῦ. τὸν γὰρ ῥαψῳδὸν ἑρμηνέα δεῖ τοῦ ποιητοῦ τῆς διανοίας γίγνεσθαι τοῖς ἀκούουσι· τοῦτο δὲ καλῶς ποι- | εῖν μὴ γιγνώσκοντα ὅτι λέγει ὁ ποιητὴς ἀδύνατον.

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socrate In realtà, Ione, spesso mi sono trovato ad ammirare7 voi, i ra­pso­di, per la vostra arte. Da un lato, per questa arte il vostro corpo deve sempre risplendere ben adornato e apparire piú bello possibile; dall’altro trascorrete necessariamente molto tempo occupandovi di molti altri bravi poe­ti, ma su tutti certamente di Omero, il migliore e piú divino tra loro, e [c] apprendete il suo pensiero e non solo i suoi versi: per questo essa suscita ammirazione8. In effetti, non è in alcun modo possibile divenire buon ra­pso­do se non si comprende quanto detto dal poe­ta: il ra­pso­do, infatti, deve essere per chi ascolta l’interprete del pensiero messo in versi dal poe­ta, ed è impossibile svolgere bene questo compito per chi non conosca ciò che il poe­ta dice9. sua versione epica, e per questo difficilmente rappresenta un semplice richiamo letterario (cosí Capuccino 2005, pp. 109-19): dal punto di vista di Ione può indicare una parafrasi omerica, ma per Platone anticipa la sezione sulla possessione divina (Flashar 1958, pp. 19-21) con il suo carico ironico verso Ione. 7   Che l’affermazione di Socrate sia ironica o meno, ζηλόω ha un significato positivo (non «invidiare»); inoltre, il verbo costruito con τινά τινος ha il significato di «ammirare qualcuno per qualcosa» (cfr. LSJ, I, 2, s.v. ζηλόω). 8   Le due ragioni di «ammirazione» fanno capo a diversi livelli di valutazione. In primo luogo Platone sottolinea ironicamente (cfr. Gorg., 464c3 sgg.) che l’apparenza ha nell’attività di Ione un ruolo centrale. Ben piú importante è la seconda ragione: facendo riferimento alla διάνοια dei poe­ti Platone allude, probabilmente con un termine tecnico, all’insieme dei metodi di esegesi del testo antico, il piú noto dei quali era quello allegorico (cfr. particolarmente Tulli 1987, con Lanata 1963, pp. 240-43 – che forse distingue eccessivamente l’esegesi κατὰ διάνοιαν dalle altre – e Rijks­ba­ron 2007, p. 120). Almeno in questo momento la valutazione dei poe­ti è tagliata fuori, mentre rimangono centrali i caratteri reali e tecnici della ra­pso­dia. 9   Specificando la seconda ragione di ammirazione, Socrate chiarisce che il ra­pso­do è ἑρμηνεύς del poe­ta e che condizione necessaria (non sufficiente: cfr. ἀδύνατον a 530c5 e l’aspetto “estetico” del trucco) per la sua identificazione è la conoscenza della διάνοια del poe­ta. Questo è importante per discutere uno tra i punti piú controversi del prologo, cioè il significato di ἑρμηνεύς. Spesso le traduzioni contemporanee rendono il termine con «interprete» e, con l’eccezione di Allen, la mantengono nelle successive sezioni; per garantire un’uniformità di resa per questo termine-chiave tale traduzione è probabilmente necessaria. Ora, «interprete» può essere inteso anche come semplice mediatore del pensiero del poe­ta (su tutti Flashar 1958, pp. 28-34; cfr. inoltre l’ampia discussione di Gonzalez 2011, pp. 93-96) o addirittura come figura estranea a qualsiasi attività esegetica (in senso ampio; cfr. Capuccino 2005, pp. 124-32 e 2011, pp. 67-70). Come mostrato da Most 1986, particolarmente pp. 311 sgg., tuttavia, qui e a 535a4-10 l’ἑρμηνεύς è – grazie a una rielabo-

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ταῦτα οὖν πάντα ἄξια ζηλοῦσθαι. ιων Ἀληθῆ λέγεις, ὦ Σώκρατες· ἐμοὶ γοῦν τοῦτο πλεῖστον ἔργον παρέσχεν τῆς τέχνης, καὶ οἶμαι κάλλιστα ἀνθρώπων λέγειν περὶ Ὁμήρου, ὡς οὔτε Μητρόδωρος ὁ Λαμ- [d] ψακηνὸς οὔτε Στησίμβροτος ὁ Θάσιος οὔτε Γλαύκων οὔτε ἄλλος οὐδεὶς τῶν πώποτε γενομένων ἔσχεν εἰπεῖν οὕτω πολλὰς καὶ καλὰς διανοίας περὶ Ὁμήρου ὅσας ἐγώ. σωκρατης Εὖ λέγεις, ὦ Ἴων· δῆλον γὰρ ὅτι οὐ φθονήσεις μοι | ἐπιδεῖξαι. ιων Καὶ μὴν ἄξιόν γε ἀκοῦσαι, ὦ Σώκρατες, ὡς εὖ κεκόσμηκα τὸν Ὅμηρον· ὥστε οἶμαι ὑπὸ Ὁμηριδῶν ἄξιος εἶναι χρυσῷ στεφάνῳ στεφανωθῆναι. σωκρατης Καὶ μὴν ἐγὼ ἔτι ποιήσομαι σχολὴν ἀκροᾶσ­θαί σου. 531 [a] Νῦν δέ μοι τοσόνδε ἀπό­

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Ebbene, tutte queste cose sono ben degne di ammirazione. ione È vero, Socrate. Del resto, è proprio questo aspetto dell’arte che mi ha richiesto massima applicazione, e credo di parlare su Omero meglio di chiunque altro uomo, tanto che né Metrodoro [d] di Lampsaco né Stesimbroto di Taso né Glaucone né nessun altro che sia mai vissuto nella storia sarebbero in grado di esprimere pensieri su Omero cosí belli e numerosi quanto i miei10. socrate Ben detto, Ione! È chiaro che non ti rifiuterai di esibirli11... ione Socrate, vale davvero la pena di ascoltare come ho fatto bello Omero, tanto che credo a buon diritto di meritare di essere incoronato con una corona d’oro dagli Omeridi12. socrate E io mi procurerò di certo altro tempo libero per stare ad ascoltarti. 531 [a] Ma ora rispondirazione semantica di Platone – un «literary exegete» (cfr. anche 531a7 sgg. e 533b2, Rijks­ba­ron 2007, pp. 124-28; in questo senso la traduzione «spiegare» proposta da Trabattoni); ciò viene peraltro confermato in modo decisivo dalle comparazioni con figure certamente dedite all’esegesi letteraria di Omero (cfr. la nota seguente). La traduzione meno impegnata di «interprete» deriva proprio dall’ambiguità che Platone vuole mantenere: nella sezione sulla possessione poe­tica Platone può facilmente attribuire a Ione l’agire irrazionale e senza arte proprio in quanto Ione è un ἑρμηνεύς come esegeta letterario, mentre il poe­ta-posseduto dal dio è un ἑρμηνεύς come tramite del dio privo di consapevolezza (cfr. anche infra la nota 44). 10   La natura letteraria dell’operazione di Ione è sottolineata dal riferimento alle parole dette su Omero e dal richiamo esplicito a tre personalità dedite all’esegesi di Omero del v secolo: Metrodoro di Lampsaco, allievo di Anassagora, è noto per le sue interpretazioni allegoriche (cfr. Lanata 1963, pp. 244-47, e Pfeiffer 1973, pp. 87-91); Stesimbroto di Taso fu commentatore κατὰ διάνοιαν dei poemi (Porfirio, Schol. Hom. ad Λ 636 = fr. 4 Lanata; cfr. Lanata 1963, pp. 240-43); Glaucone è identificabile con diverse figure (cfr. Aristotele, Poe­t., 1461a35-b3; oppure Porfirio, Schol. Hom. ad Λ 636; oppure Aristotele, Rhet., III, 1403b26), tutte comunque a vario titolo riconducibili alla pratica e all’esegesi letterarie. 11   Socrate si aspetta da Ione, come dai sofisti, il desiderio di fare sfoggio della propria composizione (cfr. per esempio Hipp. Maj., 286a3 sgg.) nella forma – ancora sofistica – dell’ἐπίδειξις. Come sempre, Socrate non la ascolterà (cfr. anche 536d8-e2 e, per esempio, Gorg., 447b1 sgg.); per l’insistenza ironica su questo aspetto cfr. infra la nota 83. 12   Gli Omeridi sono qui probabilmente identificabili nel leggendario gruppo di “eredi” e conservatori di Omero a Chio.

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κριναι· πότερον περὶ Ὁμήρου δεινὸς εἶ μόνον ἢ καὶ περὶ Ἡσιόδου καὶ Ἀρχιλόχου; ιων Οὐδαμῶς, ἀλλὰ περὶ Ὁμήρου μόνον· ἱκανὸν γάρ μοι δοκεῖ εἶναι. σωκρατης Ἔστι δὲ περὶ ὅτου Ὅμηρός τε καὶ Ἡσίοδος ταὐτὰ λέγετον; ιων Οἶμαι ἔγωγε καὶ πολλά. σωκρατης Πότερον οὖν περὶ τούτων κάλλιον ἂν ἐξηγήσαιο ἃ Ὅμηρος λέγει ἢ ἃ [b] Ἡσίοδος;

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mi a questo13: sei formidabile solo su Omero o anche su Esiodo e Archiloco?14. ione Assolutamente no, su Omero soltanto; e mi pare piú che sufficiente. socrate C’è qualche argomento sul quale Omero ed Esiodo dicono entrambi le stesse cose?15. ione Credo proprio di sí, e sono anche molti. socrate Ma allora, su questi argomenti, sapresti spiegare meglio quanto dice Omero o quanto dice [b] Esiodo? 13   L’argomento che ha inizio (531a5-533c8) verifica lo statuto della ra­ pso­dia (se sia o meno un’arte) a partire dal presupposto (per il quale cfr. per esempio Phaedo, 60b1-c1; Symp., 223c6-d8; Charm., 166e7-9; Resp., I, 334a2 sgg. e III, 409d8-10; Leg., VII, 816d9-e10) per cui una τέχνη ha competenza sull’intero dominio di oggetti che le sono propri. Il procedimento è stato criticato in quanto fallace o, almeno, poco chiaro (cfr. per esempio Bevers­luis 2000, pp. 81-85, o Harris 2001, pp. 88-97, il quale vi coglie i tratti di una reductio ad absurdum), ma sembra da un lato affermare il suddetto punto, costante nella riflessione platonica, dall’altro essere diretto e formulato ad hominem (cfr. Kahn 2008, pp. 109 sgg.), dunque valutabile solo in rapporto alla scarsissima resistenza che Ione riesce a offrire. D’altro canto Ione non rivendica casualmente una competenza ristretta al solo Omero, né è senza senso la giustificazione della limitazione a partire dal maggior valore di quest’ultimo: da un lato i ra­pso­di si occupavano principalmente di Omero, che era considerato come caposaldo della cultura greca (cfr. supra la nota 4), dall’altro l’affermazione per cui Omero è «migliore» è storicamente giustificabile in quanto fin dal vi secolo gli esegeti del testo poe­tico avevano nei poemi omerici il proprio oggetto primario di attenzione (cfr. Pfeiffer 1973, p. 59) e vi vedevano uno standard di eccellenza. L’argomento è dunque ad hominem nel senso che attacca un modello storico, non solo nella sua espressione meno valida – Ione – ma nel suo piú riconoscibile statuto reale. Al contempo, proprio per questo l’argomento lascia spazio alla possibilità che esista un’altra critica letteraria (Baltzly 1992, pp. 33-35, e Janaway 1992, pp. 1-10), che emerge in negativo come un possibile modello “artistico”, cioè mirato al completo dominio di oggetti che gli sono propri – la totalità (cfr. 532d6-e5) della produzione poe­tica: non solo l’epica ma, con il riferimento esemplificativo ad Archiloco, anche gli altri generi; cfr. Symp., 223c6-d8 –, e provvisto di una competenza quantitativamente e qualitativamente adeguata. 14   Citando non solo Omero, inteso soprattutto come autore di Iliade e Odissea, ed Esiodo, poe­ta epico, ma anche Archiloco, poe­ta elegiaco e giambico (per una rassegna dei riferimenti platonici ai poe­ti, dall’epica alla commedia, cfr. Vicaire 1960, pp. 77-192), Platone lascia già intendere di voler criticare non solo Ione ma anche quei ra­pso­di che si occupavano esclusivamente di epica o di sezioni limitate di letteratura; cfr. ancora Symp., 223c6-d8 – che a ragione la critica associa diffusamente a questo passo. 15   Socrate dimostra in primo luogo che il possessore di un’arte deve conoscere l’intero dominio di oggetti che le sono propri, vale a dire tutto ciò che è stato detto, in modo simile o differente, dai poe­ti; cfr. Flashar 1958, pp. 37-40.

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ιων Ὁμοίως ἂν περί γε τούτων, ὦ Σώκρατες, περὶ ὧν ταὐτὰ λέγουσιν. σωκρατης Τί δὲ ὧν πέρι μὴ ταὐτὰ λέγουσιν; οἷον περὶ μαντικῆς λέγει τι Ὅμηρός τε καὶ Ἡσίοδος. ιων Πάνυ γε. σωκρατης Τί οὖν; ὅσα τε ὁμοίως καὶ ὅσα | διαφόρως περὶ μαντικῆς λέγετον τὼ ποιητὰ τούτω, πότερον σὺ κάλλιον ἂν ἐξηγήσαιο ἢ τῶν μάντεών τις τῶν ἀγαθῶν; ιων Τῶν μάντεων. σωκρατης Εἰ δὲ σὺ ἦσθα μάντις, οὐκ εἴπερ περὶ τῶν ὁμοίως λεγομένων οἷός τ᾿ ἦσθα ἐξηγήσασθαι, καὶ περὶ τῶν διαφόρως λεγομένων ἠπίστω ἂν ἐξηγεῖσθαι;| ιων Δῆλον ὅτι. [c] σωκρατης Τί οὖν ποτε περὶ μὲν Ὁμήρου δεινὸς εἶ, περὶ δὲ Ἡσιόδου οὔ, οὐδὲ τῶν ἄλλων ποιητῶν; ἦ Ὅμηρος περὶ ἄλλων τινῶν λέγει ἢ ὧνπερ σύμπαντες οἱ ἄλλοι ποιηταί; οὐ περὶ πολέμου τε τὰ πολλὰ διελήλυθεν καὶ περὶ ὁμιλιῶν πρὸς | ἀλλήλους ἀν­ θρώπων ἀγαθῶν τε καὶ κακῶν καὶ ἰδιωτῶν καὶ δημιουργῶν, καὶ περὶ θεῶν πρὸς ἀλλήλους καὶ πρὸς ἀνθρώπους ὁμιλούντων ὡς ὁμιλοῦσι, καὶ περὶ τῶν οὐρανίων παθημάτων καὶ περὶ τῶν ἐν Ἅιδου, καὶ γενέσεις καὶ θεῶν καὶ [d] ἡρώων; οὐ ταῦτά ἐστι περὶ ὧν Ὅμηρος τὴν ποίησιν πεποίηκεν; ιων Ἀληθῆ λέγεις, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Τί δὲ οἱ ἄλλοι ποιηταί; οὐ περὶ τῶν αὐτῶν τούτων; ιων Ναί, ἀλλ᾿, ὦ Σώκρατες, οὐχ ὁμοίως πεποιήκασι καὶ Ὅμηρος.

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ione Per quelli su cui dicono le stesse cose, Socrate, saprei farlo in modo simile. socrate E per quanto riguarda quelli su cui non dicono le stesse cose? Per esempio, sia Omero sia Esiodo parlano della divinazione. ione Certamente. socrate Allora? Tutto ciò di cui questi due poe­ti hanno parlato, in modo simile o differente, in relazione alla divinazione, saresti in grado di spiegarlo meglio16 tu oppure un divinatore – dico un buon divinatore? ione Un divinatore. socrate E se per assurdo tu fossi un divinatore, se fossi in grado di interpretare puntualmente ciò di cui hanno parlato in modo simile, non sapresti anche ­interpretare ciò di cui hanno parlato in modo diffe­rente? ione Chiaro. [c] socrate E perché mai sei formidabile su Omero ma non su Esiodo né sugli altri poe­ti? Davvero Omero parla di cose diverse rispetto a quelle di cui parlano tutti gli altri poe­ti? Non ha narrato soprattutto guerre, relazioni di uomini buoni e cattivi o di privati cittadini e artigiani, e dèi che si incontrano – e in che modo si incontrano – tra loro e con gli uomini, gli eventi del cielo e quelli dell’Ade, e le nascite di dèi e [d] di eroi? Non sono questi gli argomenti sui quali Omero ha composto i suoi poemi?17. ione È vero, Socrate. socrate E per quanto riguarda gli altri poe­ti? Non composero su questi stessi argomenti? ione Sí; però, Socrate, non hanno realizzato le loro composizioni come Omero. 16   La risposta di Ione rende evidente che la disgiunzione riguarda chi tra Ione e il divinatore saprebbe condurre meglio la spiegazione; risulta per questo preferibile riferire ἤ a πότερον piú che a κάλλιον. Da ragioni analoghe dipende la traduzione di 531a6-8. 17   Benché gli argomenti citati corrispondano ad ambiti tematici ben rintracciabili nei poemi omerici (cfr. per esempio Murray 1996, p. 106, e Canto 2001, p. 141, nota 26), la loro formulazione, piuttosto vaga, consente di rintracciarli anche in Esiodo e negli altri generi (Giuliano 2005, pp. 138-41); torna subito, del resto, l’allusione ad altri generi letterari (531d4-5).

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Τί μήν; κάκιον; Πολύ γε. σωκρατης Ὅμηρος δὲ ἄμεινον; ιων Ἄμεινον μέντοι νὴ Δία. σωκρατης Οὐκοῦν, ὦ φίλη κεφαλὴ Ἴων, ὅταν περὶ ἀριθμοῦ πολλῶν λεγόντων εἷς τις ἄριστα λέγῃ, γνώ­ σεται δήπου τις [e] τὸν εὖ λέγοντα; ιων Φημί. σωκρατης Πότερον οὖν ὁ αὐτὸς ὅσπερ καὶ τοὺς κακῶς λέγοντας, ἢ ἄλλος; σωκρατης ιων

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socrate Come allora? Peggio?18. ione Di gran lunga! socrate Mentre Omero meglio? ione Decisamente meglio, per Zeus! socrate Dunque Ione, testa mia19, nel momento in cui tra molti che parlano del numero uno ne parli perfettamente, non vi sarà di certo qualcuno in grado di riconoscere [e] quello che parla bene?20. ione Sí. socrate E lo stesso sarà in grado di riconoscere anche quelli che parlano male, oppure sarà un altro? 18   Inizia qui il secondo momento dell’argomentazione (Flashar 1958, pp. 40-41), volto a dimostrare come il possessore dell’arte riconosca e discuta i propri oggetti di attenzione a qualsiasi livello di bontà. 19   La locuzione è modellata su una formulazione omerica (cfr. Il., VIII, 281) e occorre in altri due luoghi nel corpus platonico (Phaedr., 264a8 e Gorg., 513c2); qui l’appellativo sembra avere un forte carico ironico (cfr. Rijks­ba­ ron 2007, p. 144). 20   L’argomento si articola secondo la seguente struttura (per una diversa schematizzazione, in forma quasi sillogistica, cfr. Flashar 1958, pp. 45-46, e, in una prospettiva diversa, Janaway 1992, pp. 8-10): a) 531d11-e9; esempi: – 531d11-e4: esempio i (l’aritmetico; per l’aritmetica come τέχνη esemplare cfr. Pol., 258b4-6; Alc. I, 114c4 sgg.; Gorg., 450d6 sgg.; e Hipp. Min., 366c5 sgg.); – 531e4-9: esempio ii (medico; per la medicina come τέχνη esemplare cfr. Pol., 298a1 sgg.; Theag., 123e5; Charm., 165c8 sgg. e 170b3 sgg.; Gorg., 464b3 sgg.); b) 531e9-532b6; svolgimento: – 531e9-532a4 (premessa a): tratta degli esempi e condivisa da Ione: chi possiede un’arte è in grado di conoscere e valutarne gli oggetti a ogni livello di correttezza; – 532a4-7 (premessa b): tutti i poe­ti parlano delle stesse cose a diversi livelli di correttezza; – 532b2-6 (conclusione): poiché Ione conosce Omero (premessa implicita), deve conoscere tutti i poe­ti e la totalità degli oggetti della sua arte, a ogni livello di correttezza. I due esempi aprono un argomento con il fine di far ammettere all’interlocutore la fondamentale premessa a, quella che – come indicato esplicitamente (532b4-6) e sottolineato con la ripetizione prima della conclusione (532a8-b2) – costa a Ione la confutazione. Ironicamente un’altra premessa, implicita, è proprio il motivo di vanto di Ione, la grande conoscenza di Omero. In realtà, lo svolgimento stesso dell’argomento è fortemente ironico, in quanto Socrate si limita a dimostrare – paradossalmente – che Ione, a partire dai presupposti che ha ammesso, conosce perfettamente anche tutti gli altri poe­ti, tanto è vero che deve essere proprio il ra­pso­do a dichiarare che non è cosí e a portare a compimento la dimostrazione (532b7-c3).

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Ὁ αὐτὸς δήπου. Οὐκοῦν ὁ τὴν ἀριθμητικὴν τέχνην ἔχων οὗτός ἐστιν; ιων Ναί. σωκρατης Τί δ᾿ὅταν πολλῶν λεγόντων πε­ρὶ | ὑγιει­ νῶν σι­τίων ὁποῖά ἐστιν, εἷς τις ἄριστα λέγῃ; πότερον ἕτερος μέν τις τὸν ἄριστα λέγοντα γνώσεται ὅτι ἄριστα λέγει, ἕτερος δὲ τὸν κάκιον ὅτι κάκιον, ἢ ὁ αὐτός; ιων Δῆλον δήπου, ὁ αὐτός. σωκρατης Τίς οὗτος; τί ὄνομα αὐτῷ; ιων Ἰατρός. σωκρατης Οὐκοῦν ἐν κεφαλαίῳ λέγομεν ὡς ὁ αὐ- | τὸς γνώσεται ἀεί, περὶ τῶν αὐτῶν πολλῶν λεγόντων, ὅστις 532 [a] τε εὖ λέγει καὶ ὅστις κακῶς· ἢ εἰ μὴ γνώσεται τὸν κακῶς λέγοντα, δῆλον ὅτι οὐδὲ τὸν εὖ, περί γε τοῦ αὐτοῦ; ιων Οὕτως. σωκρατης Οὐκοῦν ὁ αὐτὸς γίγνεται δεινὸς περὶ ἀμφοτέρων; ιων Ναί. σωκρατης Οὐκοῦν σὺ φῂς καὶ Ὅμηρον καὶ | τοὺς ἄλλους ποιητάς, ἐν οἷς καὶ Ἡσίοδος καὶ Ἀρχίλοχός ἐστιν, περί γε τῶν αὐτῶν λέγειν, ἀλλ᾿ οὐχ ὁμοίως, ἀλλὰ τὸν μὲν εὖ γε, τοὺς δὲ χεῖρον; ιων Καὶ ἀληθῆ λέγω. σωκρατης Οὐκοῦν, εἴπερ τὸν εὖ λέγοντα γιγνώσκεις, καὶ τοὺς χεῖρον [b] λέγοντας γιγνώσκοις ἂν ὅτι χεῖρον λέγουσιν; ιων Ἔοικέν γε. σωκρατης Οὐκοῦν, ὦ βέλτιστε, ὁμοίως τὸν Ἴωνα λέγοντες περὶ Ὁμήρου τε δεινὸν εἶναι καὶ περὶ τῶν ἄλλων ποιητῶν οὐχ ἁμαρτησόμεθα, ἐπειδή γε αὐτὸς ὁμολογεῖ τὸν αὐτὸν | ἔσεσθαι κριτὴν ἱκανὸν πάντων ιων

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ione Di certo lo stesso. socrate E questo non è chi possiede l’arte aritmetica? ione Sí. socrate E poi, nel momento in cui tra molti che parlano di quali siano i cibi salutari uno ne parli perfettamente, vi sarà forse uno in grado di riconoscere che chi parla perfettamente parla perfettamente e un altro in grado di riconoscere che chi parla peggio parla peggio, oppure sarà lo stesso? ione Certamente lo stesso, è chiaro. socrate E chi è? Che nome gli spetta? ione Medico. socrate Per dirla in modo lapidario, non affermiamo dunque che lo stesso saprà sempre riconoscere, tra molti che parlano degli stessi argomenti, 532 [a] chi parla bene e chi parla male, e che se invece non saprà riconoscere chi parla male, chiaramente neanche chi parla bene sullo stesso argomento?21. ione È cosí. socrate Lo stesso uomo non è dunque formidabile in entrambe le cose? ione Sí. socrate Ebbene, tu non affermi che sia Omero sia gli altri poe­ti – tra i quali Esiodo e Archiloco – parlano esattamente delle stesse cose benché non allo stesso modo, e che il primo lo fa bene mentre gli altri peggio? ione E dico il vero. socrate Ma se davvero riconosci chi parla bene, non dovrai essere in grado di riconoscere [b] che quelli che parlano peggio parlano peggio? ione Sembra proprio. socrate Dunque, ottimo uomo, sbaglieremo forse nel dire che Ione è formidabile allo stesso modo sia su Omero sia sugli altri poe­ti, visto che egli stesso è d’accordo che lo stesso uomo sarà un giudice adeguato di tut21   Le proposizioni introdotte da οὐκοῦν scandiscono l’argomento e vanno tutte interpretate come domande; cfr. Rijks­ba­ron 2007, p. 144.

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ὅσοι ἂν περὶ τῶν αὐτῶν λέγωσι, τοὺς δὲ ποιητὰς σχεδὸν ἅπαντας τὰ αὐτὰ ποιεῖν; ιων Τί οὖν ποτε τὸ αἴτιον, ὦ Σώκρατες, ὅτι ἐγώ, ὅταν μέν τις περὶ ἄλλου του ποιητοῦ διαλέγηται, οὔτε προσέχω [c] τὸν νοῦν ἀδυνατῶ τε καὶ ὁτιοῦν συμβαλέσθαι λόγου ἄξιον, ἀλλ᾿ ἀτεχνῶς νυστάζω, ἐπειδὰν δέ τις περὶ Ὁμήρου μνησθῇ, εὐθύς τε ἐ­γρήγορα καὶ προσέχω τὸν νοῦν καὶ εὐπορῶ ὅτι λέγω; σωκρατης Οὐ χαλεπὸν τοῦτό γε εἰκάσαι, ὦ ἑταῖρε, ἀλλὰ παντὶ | δῆλον ὅτι τέχνῃ καὶ ἐπιστήμῃ περὶ Ὁμήρου λέγειν ἀδύνατος εἶ· εἰ γὰρ τέχνῃ οἷός τε ἦσθα, καὶ περὶ τῶν ἄλλων ποιητῶν ἁπάντων λέγειν οἷός τ᾿ ἂν ἦσθα· ποιητικὴ γάρ που ἐστὶν τὸ ὅλον. ἢ οὔ; ιων Ναί. σωκρατης Οὐκοῦν ἐπειδὰν λάβῃ τις καὶ ἄλλην τέχ­ νην ἡντινοῦν [d] ὅλην, ὁ αὐτὸς τρόπος τῆς σκέψεώς ἐστι περὶ ἁπασῶν τῶν τεχνῶν; πῶς τοῦτο λέγω, δέει τί μου ἀκοῦσαι, ὦ Ἴων;

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ti quelli che parlino delle stesse cose e che d’altro canto piú o meno tutti i poe­ti compongono sulle stesse cose? ione Ma allora, Socrate, qual è mai il motivo per cui io, nel momento in cui si discuta di un altro poe­ta, non presto [c] attenzione, sono incapace anche di formulare un qualsiasi discorso adeguato e sono semplicemente22 nel dormiveglia, mentre ogniqualvolta si richiami Omero torno subito sveglio, presto attenzione, so bene cosa dire? socrate Non è difficile figurarselo, amico mio, anzi è chiaro a chiunque: per arte e conoscenza23 sei incapace di parlare di Omero. Se infatti ne fossi in grado per arte – e cosí non è –, saresti in grado di parlare anche di tutti gli altri poe­ti; in qualche modo c’è infatti un’arte poe­tica nella sua totalità24. O no? ione Sí. socrate Dunque, lo stesso tipo di indagine varrà25 per tutte le arti, ogniqualvolta si consideri anche una qualsiasi altra arte [d] come totale? Per capire in che senso dico questo, Ione, hai forse bisogno di sentire qualcosa da me?26. 22   Qui come altrove nel dialogo (534d8) Platone gioca con l’avverbio ἀτεχνῶς, che ha il significato generico di «semplicemente», ma rimanda etimologicamente alla mancanza di arte (cfr. la forma ἀτέχνως); cfr. l’approfondita analisi di Roochnik 1987 (particolarmente p. 261). 23   I due termini sono utilizzati in endiadi come sinonimi con il fine di rafforzare l’affermazione; difficilmente, infatti, Socrate può qui alludere a ἐπιστήμη come scienza in senso forte o come «knowledge of a τέχνη» (cosí Rijks­ba­ron 2007, pp. 151-2; dove è rintracciabile, questo significato è generalmente reso esplicito: cfr. Gorg., 448c2, citato a sostegno della tesi da Rjiks­ baron). Non si può al contempo escludere che, posta ipoteticamente una forma “tecnica” di critica letteraria, la correttezza delle sue valutazioni dipenda dal possesso sovraordinato di una ἐπιστήμη in senso piú forte – per esempio nel caso in cui l’unico vero buon esegeta dei poe­ti sia il filosofo. Questo ri­mane però nascosto dal significato contestuale, ben piú debole, della locuzione. 24   Per la traduzione cfr. Rijks­ba­ron 2007, pp. 152-53. La chiusura dell'argomento fa emergere in positivo una descrizione di arte finora solo adombrata (cfr. Flashar 1958, pp. 46-47); cfr. supra la nota 13. 25   Rijks­ba­ron 2007, p. 153, ha proposto, a sostegno della lezione ἐστι di T W, il passo parallelo di 532e3, in cui una formula analoga è ripresa in un’infinitiva con εἶναι. Tuttavia le funzioni dei due passi sono diverse: nel primo, infatti, Platone propone una norma che varrà in generale, mentre nel secondo si appresta a darne un’estesa e immediata dimostrazione con degli esempi. Per questa ragione viene qui mantenuto il testo di F S accolto da Burnet, ἔσται. 26   Proprio come accade quando sente parlare di poe­ti diversi da Omero,

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ιων Ναὶ μὰ τὸν Δία, ὦ Σώκρατες, ἔγωγε· χαίρω γὰρ ἀκούων ὑμῶν τῶν σοφῶν. σωκρατης Βουλοίμην ἄν σε ἀληθῆ λέγειν, ὦ Ἴων· ἀλλὰ σοφοὶ μέν που ἐστὲ ὑμεῖς οἱ ῥαψῳδοὶ καὶ ὑπο­ κριταὶ καὶ ὧν ὑμεῖς ᾄδετε τὰ ποιήματα, ἐγὼ δὲ οὐδὲν ἄλλο ἢ τἀληθῆ λέγω, οἷον [e] εἰκὸς ἰδιώτην ἄνθρωπον. ἐπεὶ καὶ περὶ τούτου οὗ νῦν ἠρόμην σε, θέασαι ὡς φαῦλον καὶ ἰδιωτικόν ἐστι καὶ παντὸς ἀνδρὸς γνῶναι ὃ ἔλεγον, τὴν αὐτὴν εἶναι σκέψιν, ἐπειδάν τις ὅλην τέχνην λάβῃ. λάβωμεν γὰρ τῷ λόγῳ· γραφικὴ γάρ | τις ἐστὶ τέχνη τὸ ὅλον; ιων Ναί. σωκρατης Οὐκοῦν καὶ γραφῆς πολλοὶ καὶ εἰσὶ καὶ γεγόνασιν ἀγαθοὶ καὶ φαῦλοι; ιων Πάνυ γε. σωκρατης Ἤδη οὖν τινα εἶδες ὅστις περὶ μὲν Πολυ­ γνώτου τοῦ Ἀγλαοφῶντος δεινός ἐστιν ἀπο­φαίνειν ἃ εὖ τε γράφει καὶ ἃ μή, περὶ δὲ τῶν ἄλλων γραφέων ἀδύνα- 533 [a] τος, καὶ ἐπειδὰν μέν τις τὰ τῶν ἄλλων ζωγράφων ἔργα ἐπιδεικνύῃ, νυστάζει τε καὶ ἀπορεῖ καὶ οὐκ ἔχει ὅτι συμβάληται, ἐπειδὰν δὲ περὶ

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ione Per Zeus, sí davvero, Socrate; mi piace ascoltare voi, i sapienti. socrate Come vorrei che tu dicessi il vero, Ione! E invece in qualche modo sapienti siete voi, i ra­pso­di e gli interpreti27, e quelli dei quali voi cantate le composizioni, mentre io non dico nient’altro se non le cose vere, [e] come è naturale per un uomo comune. Vedi, anche circa ciò su cui ti ho interrogato ora, osserva tu stesso come banale, comune e alla portata di ogni uomo sia comprendere ciò che dicevo, cioè che l’indagine è la stessa ogniqualvolta si consideri un’arte nella sua totalità28. Consideriamola, quindi, perché il discorso ne tragga giovamento29: c’è un’arte della pittura nella sua totalità? ione Sí. socrate E non ci sono e ci sono stati in passato molti uomini dediti alla pittura, sia bravi che dappoco? ione Certamente. socrate Ebbene, ti è mai capitato di vedere qualcuno che è formidabile nel mostrare ciò che è ben dipinto e ciò che non lo è su Polignoto figlio di Aglaofonte, ma è incapace di farlo sugli altri pittori? 533 [a] Dico uno che, ogniqualvolta qualcuno illustri le opere degli altri pittori, è come nel dormiveglia, non sa assolutamente che fare qui Ione è come intorpidito; deve essere lo stesso Socrate a offrire un’ulteriore spiegazione. 27   L’ὑποκριτής è in primo luogo l’interprete dei segni divini, dunque anche – per traslazione – l’interprete letterario (cfr. il saggio mirato di Koller 1957); qui però Platone fa probabilmente riferimento anche a un significato diverso, quello di attore (Flashar 1958, p. 47), all’ambito del quale alluderà anche successivamente (536a6). La traduzione italiana consente comunque di mantenere una certa ambivalenza. 28   Socrate propone un’opposizione tra una prospettiva “sapienziale” attribuita in modo ironico agli interlocutori e un’opinione comune e condivisa – in questo senso vera –, che identifica con la propria; la scelta di questa opzione è non a caso diffusa nelle conversazioni con i sofisti (cfr. per esempio Symp., 198d3-5; Gorg., 462e6; Hipp. Min., 372a6 sgg. e 376c3-4); cfr. anche Flashar 1958, pp. 48-49, e Rijks­ba­ron 2007, pp. 154-55. 29   Per la traduzione cfr. Rijks­ba­ron 2007, pp. 155-56. Socrate propone a conforto del proprio argomento una serie di esempi tratti da pittura, scultura, arti musicali, fino a giungere nuovamente (533b9-c3) alla ra­pso­dia; sul rapporto tra arti musicali e figurative cfr. anche Resp., X, 595a1 sgg., con Annas 1982; Nehamas 1982; Giuliano 2005, pp. 68-80.

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Πολυγνώτου ἢ ἄλλου ὅτου βούλει τῶν γραφέων, ἑνὸς μόνου, δέῃ ἀποφήνασθαι γνώμην, ἐγρή- | γορέν τε καὶ προσέχει τὸν νοῦν καὶ εὐπορεῖ ὅτι εἴπῃ; ιων Οὐ μὰ τὸν Δία, οὐ δῆτα. σωκρατης Τί δέ ἐν ἀνδριαντοποιίᾳ; ἤδη τιν᾿ εἶδες ὅστις περὶ μὲν Δαιδάλου τοῦ Μητίονος ἢ Ἐπειοῦ [b] τοῦ Πανοπέως ἢ Θεοδώρου τοῦ Σαμίου ἢ ἄλλου τινὸς ἀνδριαντοποιοῦ, ἑνὸς πέρι, δεινός ἐστιν ἐξ­ ηγεῖσθαι ἃ εὖ πεποίηκεν, ἐν δὲ τοῖς τῶν ἄλλων ἀνδριαντοποιῶν ἔργοις ἀπορεῖ τε καὶ νυστάζει, οὐκ ἔχων ὅτι εἴπῃ; ιων Οὐ μὰ | τὸν Δία, οὐδὲ τοῦτον ἑώρακα. σωκρατης Ἀλλὰ μήν, ὥς γ᾿ ἐγὼ οἶμαι, οὐδ᾿ ἐν αὐ­ λήσει γε οὐδὲ ἐν κιθαρίσει οὐδὲ ἐν κιθαρῳδίᾳ οὐδὲ ἐν ῥαψῳδίᾳ οὐδεπώποτ᾿ εἶδες ἄνδρα ὅστις περὶ μὲν Ὀλύμπου δεινός ἐστιν ἐξηγεῖσθαι ἢ περὶ Θαμύρου ἢ [c] περὶ Ὀρφέως ἢ περὶ Φημίου τοῦ Ἰθακησίου ῥαψῳδοῦ, περὶ δὲ Ἴωνος τοῦ Ἐφεσίου ῥαψῳδοῦ ἀπορεῖ καὶ οὐκ ἔχει συμβαλέσθαι ἅ τε εὖ ῥαψῳδεῖ καὶ ἃ μή.

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e non riesce a formulare alcunché, mentre ogniqualvolta debba esprimere il proprio giudizio su Polignoto – o su qualsiasi altro pittore tu voglia – e solo su quest’unico, si sveglia, presta attenzione e sa bene cosa dire?30. ione No, per Zeus, no di certo. socrate E poi, nell’ambito della scultura? Ti è mai capitato di vedere qualcuno che è formidabile nell’interpretare ciò che è ben fatto in relazione a Dedalo figlio di Metione o [b] Epeio figlio di Panopeo o Teodoro di Samo o un qualsiasi altro scultore – ma solo uno –, mentre con le opere degli altri scultori non sa assolutamente che fare ed è come nel dormiveglia perché non ha niente da dire?31. ione No, per Zeus, non ho mai visto neanche uno cosí. socrate Ma allora credo proprio che neanche negli ambiti dell’auletica, della citaristica, della citarodia e della ra­pso­dia, tu non abbia mai visto un uomo che è formidabile nel condurre un’esegesi su Olimpo, Tamiri, [c] Orfeo o Femio, il ra­pso­do itacese, mentre su Ione, il ra­pso­do di Efeso, non sa assolutamente che fare e non sa formulare discorsi su quanto ha prodotto, bene o meno, con la ra­pso­dia32. 30   Il parallelo non è limitato all’evocazione dell’arte, ma si estende all’individuazione di un artista, Polignoto, che – in quanto personalità di tutta eccellenza nell’arte figurativa dell’Atene del v secolo – può rappresentare il corrispettivo di Omero (cfr. Flashar 1958, p. 52) in quest’ambito. Inoltre, Socrate riprende la descrizione che Ione aveva precedentemente dato del proprio rapporto con Omero e gli altri poe­ti (532b8-c4); la decisa ed enfatica risposta di Ione accentua ulteriormente l’ironia. 31   Come e piú che nel caso precedente gli artisti evocati rappresentano i padri nobili dell’arte: Dedalo è il leggendario scultore rinchiuso nel labirinto da Minosse (cfr. anche supra la nota 9 all’Ippia maggiore); Epeio è l’inventore del cavallo di Troia (Od., VIII, 493), Teodoro lo è della lavorazione del bronzo. Il parallelo con l’argomentazione precedente si basa inoltre sulla descrizione delle opere – tanto dei poe­ti (531d1-2 e 532d7) quanto degli scultori (533b3) – come ποιήματα, nonché sulla ripresa della descrizione di Ione (532b7-c3). 32   Dalle arti figurative si passa progressivamente a quelle musicali: l’auletica prevedeva il suono dell’«aulo» (strumento a fiato simile all’odierna ciaramella), la citarodia era il canto individuale accompagnato da cetra, la citaristica prevedeva solo il suono della cetra. Sfruttando il suffisso -ῳδία Platone può inoltre produrre un raggruppamento “omogeneo” di arti “musicali”, che culmina nella

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ιων Οὐκ ἔχω σοι περὶ τούτου ἀντιλέγειν, ὦ Σώ­ κρατες· | ἀλλ᾿ ἐκεῖνο ἐμαυτῷ σύνοιδα, ὅτι περὶ Ὁμή­ ρου κάλλιστ᾿ ἀνθρώπων λέγω καὶ εὐπορῶ καὶ οἱ ἄλλοι πάντες με φασὶν εὖ λέγειν, περὶ δὲ τῶν ἄλλων οὔ. καίτοι ὅρα τοῦτο τί ἔστιν. σωκρατης Καὶ ὁρῶ, ὦ Ἴων, καὶ ἄρχομαί γέ σοι ἀπο­φανούμενος [d] ὅ μοι δοκεῖ τοῦτο εἶναι.

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ione Su questo non ho argomenti da contrapporre ai tuoi33, Socrate. Per quanto mi riguarda, però, so di sicuro quella cosa, cioè che su Omero parlo in modo piú bello di ogni altro uomo, so bene cosa fare e tutti gli altri affermano che ne parlo bene, mentre sugli altri no. Ora, vedi tu di cosa si tratta34. socrate Io lo vedo, Ione, e comincio a mostrarti [d] ciò di cui secondo me si tratta35. Il fatto è questo: ra­pso­dia. La serie è seguita in parallelo da quella di artisti: Olimpo è l’inventore dell’auletica (Symp., 215c2-3), Tamiri un suonatore leggendario di cetra (Il., II, 594-95), Orfeo è notoriamente un aedo del mito che si accompagnava con la cetra, mentre Femio – messo in parallelo con Ione – è il ra­pso­do che intrattiene i Proci a Itaca (Od., I, 154 e XXII, 330 sgg.) e afferma di essere αὐτοδίδακτος. Il richiamo a Femio è ironico in due sensi. In primo luogo, risulta paradossale l’implicita associazione di Ione a una delle figure tradizionalmente piú eccellenti della ra­pso­dia. In secondo luogo, Femio dice esplicitamente (Od., XXII, 347-48) θεὸς δέ μοι ἐν φρεσὶν οἴμας παντοίας ἐνέφυσεν («un dio tutti i canti mi ispirò nel petto»): è probabile che Platone voglia già introdurre l’immagine dell’ispirazione divina (cfr. infra la nota 35). Infine, da notare è la traslazione della ra­pso­dia da arte che interpreta a arte che, oltre a interpretare, viene interpretata: ciò prefigura ancora un’estensione della “poe­tica”, che diviene una sorta di arte complessiva della produzione e dell’esegesi. 33   Le antilogie, discorsi contrapposti e isostenici su una tesi volti a indagare in modo complesso una questione, erano un presidio dei sofisti (a partire da Protagora); cfr. Bonazzi 2010b, pp. 76-80. 34   La posizione di Ione segna al contempo la resa all’argomento di Socrate e la rivendicazione della propria arte: se da un lato egli non può piú sottrarsi all’argomento, dall’altro ribadisce di assolvere appieno e al meglio ai compiti del ra­pso­do secondo le sue prerogative storiche. Ione rivendica dunque di essere il piú eccellente dei ra­pso­di “storici”, e Platone può cosí colpire con la successiva argomentazione l’intera arte della ra­pso­dia per come esisteva storicamente. 35   La risposta allo specifico problema della ristrettezza delle competenze di Ione consiste in una sezione ampia e centrale (533c9-536d7), affine – per posizione e rilievo rispetto alle pagine precedenti e seguenti – alle digressioni, generalmente mitiche ma non solo, che caratterizzano altre opere (come Fedro, Simposio, Menone; cfr. Flashar 1958, pp. 73-76). Socrate sostiene che il poe­ta non si avvale di un’arte ma, come posseduto, parla per una capacità infusa dal poe­ta, il quale a sua volta l’ha ricevuta dalla divinità. La prima parte della sezione (533c9-535a1) procede come segue: – 533c9-d3: tesi – già dimostrata – da spiegare: i ra­pso­di non compongono per arte ma per una capacità divina (per la tradizione dell’immagine cfr. infra la nota 37); a) 533d3-e5: l’immagine del magnete; 533e5-b7: spiegazione attraverso: i) 533e5-534b3: l’invasamento bacchico; ii) 534b3-6: il volo delle api;

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ἔσ­τι γὰρ τοῦτο τέχνη μὲν οὐκ ὂν παρὰ σοὶ περὶ Ὁμήρου εὖ λέγειν, ὃ νῦν δὴ ἔλεγον, θεία δὲ δύναμις, ἥ σε κινεῖ, ὥσπερ ἐν τῇ λίθῳ ἣν Εὐριπίδης μὲν Μαγνῆτιν ὠνόμασεν, οἱ δὲ πολλοὶ Ἡρακλείαν. καὶ

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il ben parlare su Omero – di cui or ora dicevi - non ti è proprio come arte; al contrario, è una divina capacità a darti l’impulso, come accade per la pietra che Euripide chiamò Magnete e i piú Eraclea36. Anche questa pietra, b) 534b6-d4: conferma e approfondimento della tesi: ogni poe­ta è “appeso” a un certo genere; iii) 534d4-e1: spiegazione (Tinnico di Calcide); c) 534e1-535a1: riproposizione della tesi. Segue un intermezzo dialogico (535a2-e6) in cui Ione sembra accogliere la proposta di Socrate, salvo alla fine rivelare che il suo interesse, ben consapevole, è anche durante le sue performances quello di farsi apprezzare dagli spettatori per ottenere denaro. Socrate propone allora un secondo monologo (535e7-536d3), che riprende ampiamente elementi e nuclei della discussione precedente (l’immagine della catena con i suoi caratteri basilari), in particolare la descrizione dello spaesamento di Ione sui poe­ti diversi da Omero e l’assenza di arte. Tuttavia, grazie all’intermezzo dialogico, Socrate può ora chiarire il coinvolgimento di Ione e introdurre la figura degli spettatori, anelli successivi della “catena” divina (per le basi tradizionali del valore “affettivo” della poe­sia cfr. Verdenius 1983, pp. 49-53). Per una lettura complessiva cfr. supra l’introduzione, pp. 295-6 e 304-8. Il passo considera certamente anche la poe­sia in generale: in questo senso la poe­sia acquisisce positivamente alcuni caratteri (cfr. anche Phaedr., 245a18: κατοκωχὴ καὶ μανία … λαβοῦσα … ψυχήν, non ἐκ τέχνης bensí 244c3: θείᾳ μοίρᾳ; cfr. anche Apol., 21e2-22e6; Phaedr., 243e9-c4; Men., 99b11100c2) e, benché privata di statuto tecnico, assume una sua collocazione tra le attività e la facoltà di dire il vero, pur nei limiti dalla mediazione passiva umana. Da questo punto di vista a cadere sotto la critica è la tradizionale attribuzione di autorità assoluta alla poe­sia stessa (cfr. le declinazioni di questa tesi da parte di Verdenius 1943 e 1944, e Trabattoni 1985-86). Con l’intermezzo dialogico e la seconda esposizione emerge però uno specifico attacco a Ione, che evidentemente – mentre sbircia il pubblico pensando al prossimo guadagno – non è divinamente ispirato. Sulla ra­pso­dia vi è però qualcosa di piú (cfr. anche supra l’introduzione, pp. 304-8). Lo svolgimento dell’immagine nella prima parte segue due linee parallele; poiché la principale (a, b, c) risponde autonomamente all’impegno di chiarire la condizione di Ione, la funzione della seconda (i, ii, iii) sembra sfuggire. Essa consiste in realtà in una composizione di reminiscenze poe­tiche, di luoghi letterari (per i riferimenti puntuali cfr. Velardi 1989, pp. 106-9; Murray 1996, pp. 115-20; Giuliano 2005, pp. 158-91, e qui le note 36-9 e 41), che non sono solo strumenti retorici, ma oggetti di spiegazione filosofica (cfr. già Flashar 1958, pp. 61-62, Gaiser 1984, pp. 111-14, e – per l’emersione in controluce della figura del filosofo – Gonzalez 2011) e derivano – a differenza di quelli che potrebbe contemplare Ione – da una gamma praticamente onnicomprensiva di generi poe­tici. In questo senso, Platone sembra proporre un esempio di nuova critica letteraria, non ancora dialettica (Giuliano 2005, pp. 291-307) ma già “artistica” e filosofica, cioè (quantomeno) rispondente ai criteri di completezza, competenza e specificità della τέχνη. 36   Euripide, fr. 567 (dall’Oineo). La denominazione «Eraclea» (cfr. anche Tim., 80c2) è di origine incerta (cfr. Canto 2001, p. 146, nota 44); per

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γὰρ αὕτη | ἡ λίθος οὐ μόνον αὐτοὺς τοὺς δακτυλίους ἄγει τοὺς σιδηροῦς, ἀλλὰ καὶ δύναμιν ἐντίθησι τοῖς δακτυλίοις, ὥστε δύνασθαι ταὐτὸν τοῦτο ποιεῖν ὅπερ ἡ λίθος, ἄλλους ἄγειν [e] δακτυλίους, ὥστ᾿ ἐνίοτε ὁρμαθὸς μακρὸς πάνυ σιδηρίων καὶ δακτυλίων ἐξ ἀλλήλων ἤρτηται· πᾶσι δὲ τούτοις ἐξ ἐκείνης τῆς λίθου ἡ δύναμις ἀνήρτηται. οὕτω δὲ καὶ ἡ Μοῦσα ἐνθέους μὲν ποιεῖ αὐτή, διὰ δὲ τῶν ἐνθέων τούτων ἄλλων | ἐνθουσιαζόντων ὁρμαθὸς ἐξαρτᾶται. πάντες γὰρ οἵ τε τῶν ἐπῶν ποιηταὶ οἱ ἀγαθοὶ οὐκ ἐκ τέχνης ἀλλ᾿ ἔνθεοι ὄντες καὶ κατεχόμενοι πάντα ταῦτα τὰ καλὰ λέγουσι ποιήματα, καὶ οἱ μελο­ ποιοὶ οἱ ἀγαθοὶ ὡσαύτως· ὥσπερ οἱ κορυβαντιῶντες 534 [a] οὐκ ἔμφρονες ὄντες ὀρχοῦνται, οὕτω μὲν καὶ οἱ μελοποιοὶ οὐκ ἔμφρονες ὄντες τὰ καλὰ μέλη

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infatti, non solo attrae gli anelli – essi stessi di ferro –, ma inoltre infonde in loro una capacità in conseguenza della quale sono in grado di realizzare esattamente la stessa azione della pietra, [e] cioè attrarre altri anelli: allora si produrrà una grande catena di anelli di ferro appesi l’un l’altro, ma per ciascuno di essi questa capacità dipende da quella pietra. Nel medesimo modo anche la Musa, proprio lei, riempie alcuni uomini di divino, e attraverso questi uomini pieni di divino si salda una catena di altri divinamente ispirati37. In effetti tutti i poe­ti epici – quelli buoni – pronunciano tutti questi bei poemi non sulla base di un’arte, ma perché sono pieni di divino e posseduti, e cosí anche i buoni lirici. Come coloro che ballano da coribanti 534 [a] non danzano in uno stato di consapevolezza, cosí anche i lirici non compongono quanto altre importanti personalità si siano interessate alla pietra – su tutte Democrito (dk 68A165); per una rassegna cfr. Giuliano 2005, pp. 177-83 – e la sua conoscenza fosse effettivamente diffusa, Platone chiama in causa specificamente Euripide, rintracciando cosí in modo mirato un’autorità poe­tica. 37   Platone riprende la tradizione epica – in particolare i proemi di Iliade e Odissea – e identifica nella Musa la fonte del canto: la Musa è la pietra, dalla quale si produce una catena di anelli magnetici. La forza dell’immagine risiede nel fatto che la possibilità di una catena magnetica dipende (di qui le numerose occorrenze di composti di ἀρτάω, che indica anche l’essere fisicamente “appeso”) dalla presenza del magnete, la Musa, e dalla sua capacità di infondere la δύναμις. L’uso della nozione di “ispirazione” è mirato: riprende infatti un luogo comune nell’intera produzione poe­tica (piú ampiamente Giuliano 2005, pp. 159-77), identificabile come uno dei principî fondamentali della critica letteraria greca (cosí Verdenius 1983, pp. 37-46). I poemi epici affermano in modo chiaro e frequente l’origine divina del canto, sia nei momenti proemiali che in passi specifici (cfr. per esempio i passi sugli aedi Demodoco – VIII, 43-45 – e Femio – XXII, 346-48 – nell’Odissea), mentre i lirici, monodici e corali, rielaborano questo luogo tradizionale (cfr. per esempio Archiloco, fr. 1, 1-2; Alcmane, fr. 1, 39; Pindaro, Pyth., VI, 6; Bacchilide, Epin., V, 9-10 e 184-86; su tale elemento nella concezione dei poe­ti da Esiodo a Bacchilide cfr. Arrighetti 1987, pp. 37-137). Al contempo, come piú volte notato, Platone modifica radicalmente l’idea tradizionale di ispirazione, che prevede una collaborazione tra Musa e poe­ta dotato di arte, per trarne un’immagine sbilanciata, in cui il poe­ta è un tramite del tutto passivo (cfr. per esempio Tigerstedt 1969 e 1970; Murray 1981; Giuliano 2005, pp. 158-77, ha riavvicinato l’interpretazione platonica alla concezione tradizionale). L’operazione di Platone può cosí a pieno titolo essere intesa come critica letteraria: egli allude implicitamente a determinati luoghi poe­tici e li interpreta in un modo originale (per operazioni simili in Platone cfr. Most 2011), diverso da quello dalla ra­pso­dia tradizionale.

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ταῦτα ποιοῦσιν, ἀλλ᾿ ἐπειδὰν ἐμβῶσιν εἰς τὴν ἁρμονίαν καὶ εἰς τὸν ῥυθμόν, καὶ βακχεύουσι καὶ κατεχόμενοι, ὥσπερ αἱ βάκχαι ἀρύονται ἐκ | τῶν ποταμῶν μέλι καὶ γάλα κατεχόμεναι, ἔμφρονες δὲ οὖσαι οὔ, καὶ τῶν μελοποιῶν ἡ ψυχὴ τοῦτο ἐργάζεται, ὅπερ αὐτοὶ λέγουσι. λέγουσι γὰρ δήπουθεν πρὸς ἡμᾶς οἱ ποιηταὶ [b] ὅτι ἀπὸ κρηνῶν μελιρρύτων ἐκ Μουσῶν κήπων τινῶν καὶ ναπῶν δρεπόμενοι τὰ μέλη ἡμῖν φέρουσιν ὥσπερ αἱ μέλιτται, καὶ αὐτοὶ

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questi bei canti in stato di consapevolezza; al contrario, ogniqualvolta si addentrino nell’armonia e nel ritmo, sono come presi dall’invasamento bacchico e posseduti38: come le baccanti attingono ai fiumi miele e latte, possedute e non nella consapevolezza di sé, anche l’anima dei lirici fa la stessa cosa, e proprio questo dicono loro stessi39. Ci dicono infatti i poe­ti che [b] attingendo i canti in giardini e valli boscose consacrate alle Muse a fonti da cui sgorga miele, li portano a noi come le api, 38   I coribanti (cfr. la rassegna critica di Capuccino 2005, p. 77, nota 94; al coribantismo ha dato grande rilievo Velardi 1989, particolarmente pp. 7398; cfr. anche infra la nota 53) e chi danza preso dal furore bacchico sono comunque esempi di modalità di danza su una musica determinata: in questo senso conduce la citazione delle due componenti della musica, armonia e ritmo, che costituiscono insieme al λόγος il carattere stesso della produzione musicale (cfr. per esempio Gorg., 502c5-7, e Resp., III, 398d1-2). Anche l’associazione piú stringente tra il poe­ta e chi è posseduto da Dioniso – come le baccanti – ha determinate origini letterarie, rintracciabili soprattutto (ma non solo: cfr. Archiloco, fr. 120 e Anacreonte, frr. 56 e 93) nella produzione corale e drammatica (per esempio Pindaro, Pyth., I, 1-10, ed Eschilo, frr. 60 e 341; piú ampiamente Giuliano 2005, pp. 169-74). 39   La sezione è ricchissima di riferimenti letterari, fitti e intrecciati. – 534a4-6. L’immagine delle baccanti riprende in modo stringente la celeberrima descrizione euripidea (Bacch., 142-43 e 699-711), che si colloca a sua volta in un’ampia tradizione. – 534a7-b2. L’associazione tra la poe­sia e il miele, già omerica (Il., I, 247249; cfr. anche Od., XII, 187, e poi Hymn. Pan, XIX, 18; Hymn. Ap., III, 518-19) ed esiodea (Th., 84-85 e 96-97), trova numerose attestazioni in Pindaro (per esempio Ol., XI, 4; Pyth., IV, 59-61 e X, 53 sgg.; Nem., III, 76-79) ed è un luogo comune soprattutto nella lirica corale (ma cfr. anche Aristofane, fr. 581k.-a.; in generale Usener 1902 e Waszink 1974). Ampiamente attestate sono le immagini della fonte per il fluire poe­tico (già omerica e ancora pindarica: Ol., VI, 85-86; Nem., VII, 11-12 e Is., VII, 18-19) e del giardino delle Muse come luogo dell’ispirazione (Pindaro, Ol., IX, 26, e Aristofane, Ran., 1299-300). Forse ancor piú celebre è la descrizione del poe­ta o della poe­sia come ape (Pindaro, Pyth., X, 5354; Bacchilide, Epin., X, 10; Aristofane, Av., 749). – 534b2-7. Il poe­ta come creatura leggera, alata e sacra, capace del volo, oltre a essere correlata con la metafora dell’ape, è attestata isolatamente fin da Omero – si pensi alla formula ἔπεα πτερόεντα –; cfr. poi Teognide, 237-54; Pindaro, Nem., V, 20-21; Ol., II, 88; Bacchilide, Epin., V, 16-30 (ma anche Aristofane, Av., 1373-174); in merito Skiadas 1971, pp. 86-87. Platone non si limita a comporre luoghi comuni, ma ne offre al contempo un’esegesi (534a6-7 e b2): egli vuole programmaticamente chiarire il fondo delle affermazioni dei poe­ti sulla loro ispirazione; svolge dunque un’operazione di critica letteraria razionale su tutta la poe­sia.

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οὕτω πετόμενοι· καὶ ἀληθῆ λέγουσι. κοῦφον γὰρ χρῆμα ποιητής ἐστιν καὶ πτηνὸν καὶ ἱερόν, καὶ οὐ |  πρότερον οἷός τε ποιεῖν πρὶν ἂν ἔνθεός τε γένηται καὶ ἔκφρων καὶ ὁ νοῦς μηκέτι ἐν αὐτῷ ἐνῇ· ἕως δ᾿ ἂν τουτὶ ἔχῃ τὸ κτῆμα, ἀδύνατος πᾶς ποιεῖν ἄνθρωπός ἐστιν καὶ χρησμῳδεῖν. ἅτε οὖν οὐ τέχνῃ ποιοῦντες τε καὶ πολλὰ λέγοντες καὶ [c] καλὰ περὶ τῶν πραγμάτων, ὥσπερ σὺ περὶ Ὁμήρου, ἀλλὰ θείᾳ μοίρᾳ, τοῦτο μόνον οἷός τε ἕκαστος ποιεῖν καλῶς ἐφ᾿ ὃ ἡ Μοῦσα αὐτὸν ὥρμησεν, ὁ μὲν διθυράμβους, ὁ δὲ ἐγκώμια, ὁ δὲ ὑπορχήματα, ὁ δ᾿ ἔπη, ὁ δ᾿ ἰάμβους· τὰ δ᾿ ἄλλα φαῦλος | αὐτῶν ἕκαστός ἐστιν. οὐ γὰρ τέχνῃ ταῦτα λέγουσιν ἀλλὰ θείᾳ δυνάμει, ἐπεί, εἴπερ περὶ ἑνὸς τέχνῃ καλῶς ἠπίσταντο λέγειν, κἂν περὶ τῶν ἄλλων ἁπάντων· διὰ ταῦτα δὲ ὁ θεὸς ἐξαιρούμενος τούτων τὸν νοῦν τούτοις χρῆται ὑπηρέταις καὶ [d] τοῖς χρησμῳδοῖς καὶ τοῖς μάντεσι τοῖς θείοις, ἵνα ἡμεῖς οἱ ἀκούοντες εἰδῶμεν ὅτι οὐχ οὗτοί εἰσιν οἱ ταῦτα λέγοντες οὕτω πολλοῦ ἄξια, οἷς νοῦς μὴ

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loro stessi come api volando. E dicono il vero. Perché il poe­ta è una cosa leggera e alata e sacra, incapace di comporre prima di essere pieno di divino e ormai fuori dalla consapevolezza di sé, prima che l’intelletto non sia piú insediato in lui: finché mantiene tale possesso, infatti, nessun uomo è capace di comporre e cantare come oracolo. Poiché dunque voi componete e dite molte e belle cose [c] su certi argomenti – proprio come tu su Omero – non per arte ma per una prossimità divina40, ciascuno è capace di comporre in bellezza solo nell’ambito al quale la Musa lo ha condotto: uno ai ditirambi, un altro agli encomi, un altro al canto danzato, un altro ai versi epici, un altro ai giambi41; per il resto, invece, ciascuno di loro non vale niente. E in effetti dicono tutto questo non per arte ma per una capacità divina, poiché se42 per assurdo avessero per arte la competenza di parlare su uno specifico ambito, saprebbero farlo anche su tutti gli altri. Per queste ragioni il dio, facendo proprio il loro intelletto, li usa come servi – [d] cosí fa con gli oracoli e i divinatori realmente divini –, affinché noi, quelli che ascoltano, sappiamo che non sono loro, ormai privi di ogni capacità di intendere, a dire queste cose di cosí 40   Rijks­ba­ron accoglie τε καί, tràdito da S e F, contro la testimonianza di T e W (καί, adottata da Burnet), confermata da Proclo (In Remp., I, 184, 21). La forza della testimonianza di S rimane dubbia, mentre la citazione di Proclo, ampia e puntuale, fornisce un serio supporto alla lezione di T e W. L’espressione θεία μοῖρα indica una «sorte/azione divina» (per esempio Apol., 33c6 o Men., 99e6) ma anche, con una specificazione tecnica verso la semantica qui utilizzata, la prossimità del dio nell’invasamento (cfr. ­Phaedr., 244c3). 41   L’ampiezza degli ambiti considerati da Platone, già implicita nelle allusioni del passo, emerge esplicitamente, con un richiamo a generi lirici corali (ditirambo, encomio, hyporchema), all’epica e al giambo. Inoltre, poiché i riferimenti impliciti alla poe­sia teatrale sono numerosi e all’inizio dell’immagine Platone fa riferimento a Euripide (cfr. supra le note 36 e 39), si può supporre che attraverso l’allusione a giambo e canto corale Platone voglia comunque richiamare anche tragedia e commedia, a completare il novero dei generi poe­tici. 42   Come in un caso precedente (cfr. supra la nota 40), la scelta di Rijks­ba­ ron nella costituzione del testo è debole, in quanto raccoglie la lezione di S e F – εἴπερ – contro quella – εἰ – offerta non solo da T e W ma anche dalla tradizione indiretta (qui un’ampia citazione di Giovanni Stobeo, Anth., II, 5, 3, 29-31).

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πάρεστιν, ἀλλ᾿ ὁ θεὸς αὐτός ἐστιν ὁ λέγων, διὰ τούτων δὲ φθέγγεται πρὸς ἡμᾶς. μέγιστον | δὲ τεκμήριον τῷ λόγῳ Τύννιχος ὁ Χαλκιδεύς, ὃς ἄλλο μὲν οὐδὲν πώποτε ἐποίησε ποίημα ὅτου τις ἂν ἀξιώσειεν μνησθῆναι, τὸν δὲ παιῶνα ὃν πάντες ᾄδουσι, σχεδόν τι πάντων μελῶν κάλλιστον, ἀτεχνῶς, ὅπερ αὐτὸς λέγει, «εὕρημά τι [e] Μοισᾶν». Ἐν τούτῳ γὰρ δὴ μάλιστά μοι δοκεῖ ὁ θεὸς ἐνδείξασθαι ἡμῖν, ἵνα μὴ διστάζωμεν, ὅτι οὐκ ἀνθρώπινά ἐστιν τὰ καλὰ ταῦτα ποιήματα οὐδὲ ἀνθρώπων, ἀλλὰ θεῖα καὶ θεῶν, οἱ δὲ ποιηταὶ οὐδὲν ἀλλ᾿ ἢ ἑρμηνῆς εἰσιν τῶν θεῶν | κατεχόμενοι ἐξ ὅτου ἂν ἕκαστος κατέχηται. ταῦτα ἐνδεικνύμενος ὁ θεὸς ἐξεπίτηδες διὰ τοῦ φαυλοτάτου ποιητοῦ τὸ 535 [a] κάλλιστον μέλος ᾖσεν· ἢ οὐ δοκῶ σοι ἀληθῆ λέγειν, ὦ Ἴων; ιων Ναὶ μὰ τὸν Δία, ἔμοιγε· ἅπτει γάρ πως μου τοῖς λόγοις τῆς ψυχῆς, ὦ Σώκρατες, καί μοι δοκοῦσι θείᾳ μοίρᾳ ἡμῖν παρὰ τῶν θεῶν ταῦτα οἱ ἀγαθοὶ ποιηταὶ ἑρμηνεύειν. σωκρατης Οὐκοῦν ὑμεῖς αὖ οἱ ῥαψῳδοὶ τὰ τῶν ποιητῶν ἑρμηνεύετε; ιων Καὶ τοῦτο ἀληθὲς λέγεις. σωκρατης Οὐκοῦν ἑρμηνέων ἑρμηνῆς γίγνεσθε;

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grande valore, e che è invece il dio stesso colui che parla, anche se risuona per noi solo attraverso loro. A offrire la piú grande prova a favore di questo discorso è Tinnico di Calcide, il quale non ha mai composto altra poe­sia degna di memoria se non quel peana che tutti cantano, forse il piú bello tra tutte le liriche, che è semplicemente – cosí dice lui stesso – «invenzione [e] delle Muse»43. Mi pare in effetti che soprattutto in quest’uomo il dio ci mostri – affinché noi non ne dubitiamo – che queste belle poe­sie non sono umane né alla portata degli uomini, bensí divine e proprie degli dèi, e che i poe­ti sono solo interpreti44 degli dèi, posseduti da quel dio da cui ciascuno di loro è posseduto. E proprio per mostrare tutto questo il dio, con una certa malizia, 535 [a] ha cantato la lirica piú bella attraverso il poe­ta piú incapace. O forse non ti pare che io dica il vero, Ione? ione Sí, per Zeus! In qualche modo, Socrate, mi tocchi nell’anima con i discorsi, e mi pare che per una prossimità divina i buoni poe­ti si facciano per noi interpreti degli dèi. socrate Ma voi, i ra­pso­di, non interpretate45 a vostra volta le cose dette dei poe­ti? ione Anche in questo dici il vero. socrate Non siete dunque interpreti di interpreti? 43   La figura di Tinnico è evocata solo da Porfirio (De abst., II, 18: Eschilo gli avrebbe attribuito un peana perfetto), che forse dipende da Platone. L’allusione a questo autore ha la funzione di estremizzare l’imperscrutabilità e l’arbitrarietà del fluire del canto divino, forse con qualche tratto ironico. 44   A differenza del passo precedente (530c3), dedicato all’attività “rea­le” di Ione, qui Platone riferisce ἑρμηνεύς al poe­ta come mediatore posseduto dal dio. 45   Il fatto che l’attività di Ione, precedentemente riconducibile a un’esegesi (cfr. supra la nota 9), sia ora identificata da Platone con il canto divino dei poe­ti non implica che il ra­pso­do Ione si limitasse a recitare dei versi. Al contrario, si assiste qui a un tipico gioco platonico, basato sull’ambivalenza semantica di ἑρμηνεύς e ἑρμηνεύειν: poiché lo stesso termine (con significati diversi) può designare l’attività del poe­ta e quella del ra­pso­do, Socrate può facilmente attribuire a Ione l’ispirazione tradizionalmente (e aproblematicamente) associabile ai poe­ti. Non è un caso che Ione sia in prima battuta accondiscendente, e solo una volta intuita la strategia di Socrate possa legittimamente tentare di sviare l’argomento (536d4-7) dando inizio a una nuova sezione del dialogo.

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Παντάπασί γε. [b] σωκρατης Ἔχε δή· τόδε μοι εἰπέ, ὦ Ἴων, καὶ μὴ ἀποκρύψῃ ὅτι ἄν σε ἔρωμαι. ὅταν εὖ εἴπῃς ἔπη καὶ ἐκπλήξῃς μάλιστα τοὺς θεωμένους, ἢ τὸν Ὀδυσσέα ὅταν ἐπὶ τὸν οὐδὸν ἐφαλλόμενον ᾄδῃς, ἐκφανῆ γιγνόμενον τοῖς μνηστῆρσι καὶ ἐκχέον | τα τοὺς ὀιστοὺς πρὸ τῶν ποδῶν, ἢ Ἀχιλλέα ἐπὶ τὸν Ἕκτορα ὁρμῶντα, ἢ καὶ τῶν περὶ Ἀνδρομάχην ἐλει­νῶν τι ἢ περὶ Ἑκάβην ἢ περὶ Πρίαμον, τότε πότερον ἔμφρων εἶ ἢ ἔξω [c] σαυτοῦ γίγνει καὶ παρὰ τοῖς πράγμασιν οἴεταί σου εἶναι ἡ ψυχὴ οἷς λέγεις ἐνθουσιάζουσα, ἢ ἐν Ἰθάκῃ οὖσιν ἢ ἐν Τροίᾳ ἢ ὅπως ἂν καὶ τὰ ἔπη ἔχῃ; ιων Ὡς ἐναργές μοι τοῦτο, ὦ Σώκρατες, τὸ τεκ­ μήριον | εἶπες· οὐ γάρ σε ἀποκρυψάμενος ἐρῶ. ἐγὼ γὰρ ὅταν ἐλεινόν τι λέγω, δακρύων ἐμπίμπλανταί μου οἱ ὀφθαλμοί· ὅταν τε φοβερὸν ἢ δεινόν, ὀρθαὶ αἱ τρίχες ἵστανται ὑπὸ φόβου καὶ ἡ καρδία πηδᾷ. [d] σωκρατης Τί οὖν; φῶμεν, ὦ Ἴων, ἔμφρονα εἶναι τότε τοῦτον τὸν ἄνθρωπον ὃς ἂν κεκοσμημένος ἐσθῆτι ποικίλῃ καὶ χρυσοῖσι στεφάνοις κλάῃ τ᾿ ἐν θυσίαις καὶ ἑορταῖς, μηδὲν ἀπολωλεκὼς τούτων, ἢ φοβῆται πλέον ἢ ἐν δισμυρίοις ἀνθρώ- | ποις ἑστηκὼς φιλίοις, μηδενὸς ἀποδύοντος μηδὲ ἀδικοῦντος; ιων

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ione Assolutamente. [b] socrate È un primo approdo; e ora dimmi questo, Ione, e bada a non nascondermi ciò che ti domando. Quando declami cosí bene i versi epici e scuoti l’animo di chi assiste – nel momento in cui canti Odisseo che si slancia sulla soglia, si rivela ai pretendenti e sparge le frecce ai suoi piedi, o Achille che si scaglia alla rincorsa di Ettore, o uno dei passi pieni di pietà su Andromaca, Ecuba o Priamo46 – in quel momento sei cosciente o piuttosto vieni a essere fuori [c] di te, e la tua anima, divinamente ispirata, crede di trovarsi all’interno delle vicende di cui parli, che si svolgano a Itaca, a Troia o in qualsiasi luogo in cui i versi si ambientino? ione Con quale chiarezza, Socrate, hai descritto per me questa prova! E io ti parlerò senza nascondermi. In effetti, quando racconto un qualsiasi episodio intriso di pietà, mi si riempiono gli occhi di lacrime, mentre quando racconto un qualsiasi episodio pauroso o terribile, per la paura i capelli si drizzano e il cuore sobbalza. [d] socrate Allora, Ione, affermiamo che è cosciente quest’uomo? Uno che, adornato con un vestito variopinto e corone dorate, si lamenta durante le cerimonie e le feste benché non abbia perduto niente, che ha paura pur trovandosi tra piú di ventimila amici e senza che nessuno lo privi di nulla o gli faccia dei torti?47. 46   Una serie di celebri scene omeriche: l’ingresso nella reggia di Itaca di Odisseo pronto per la vendetta all’inizio del XXII canto dell’Odissea; il duello iliadico tra Achille ed Ettore sotto le mura di Troia (Il., XXII, 312 sgg.); il drammatico dialogo alle porte Scee tra Ettore e la moglie Andromaca (Il., VI, 370-502; cfr. anche XXII, 405 sgg. e XXIV, 723-46); le sofferenze di Ecuba, regina di Troia (Il., XXII, 79-89, 405 sgg., o XXIV, 747-60), e del marito, il re Priamo (per esempio Il., XXII, 33-78, 408-28 e XXIV, 144-717). 47   Ione risponde con una generica teoria dei sentimenti causati dalla poe­sia, ἔλεος e φόβος, testimoniata da Aristotele (Poe­t., 1449b; cfr. piú in generale Verdenius 1983, pp. 51-52). Come però è stato notato (Flashar 1958, pp. 68 sgg.), queste allusioni finiscono per produrre un quadro ben distante da quello implicato dalle reminiscenze omeriche: attraverso gli elementi psicologici e corporei citati Ione afferma la propria somma capacità di plasmare le emozioni, di esercitare un discorso seduttore. In questo quadro si coglie efficacemente perché Socrate chiosi (535d1-5) l’indicazione di Ione con una descrizione ferocemente ironica dell’attività del ra­pso­do, con un probabile gioco sul “non essere in sé”.

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ιων Οὐ μὰ τὸν Δία, οὐ πάνυ, ὦ Σώκρατες, ὥς γε τἀληθὲς εἰρῆσθαι. σωκρατης Οἶσθα οὖν ὅτι καὶ τῶν θεατῶν τοὺς πολλοὺς ταὐτὰ ταῦτα ὑμεῖς ἐργάζεσθε; [e] ιων Καὶ μάλα καλῶς οἶδα· καθορῶ γὰρ ἑκάσ­ τοτε αὐτοὺς ἄνωθεν ἀπὸ τοῦ βήματος κλάοντάς τε καὶ δεινὸν ἐμβλέποντας καὶ συνθαμβοῦντας τοῖς λεγομένοις. δεῖ γάρ με καὶ σφόδρ᾿ αὐτοῖς τὸν νοῦν προσέχειν· ὡς ἐὰν μὲν κλά- | οντας αὐτοὺς καθίσω, αὐτὸς γελάσομαι ἀργύριον λαμβάνων, ἐὰν δὲ γελῶντας, αὐτὸς κλαύσομαι ἀργύριον ἀπολλύς. σωκρατης Οἶσθα οὖν ὅτι οὗτός ἐστιν ὁ θεατὴς τῶν δακτυλίων ὁ ἔσχατος, ὧν ἐγὼ ἔλεγον ὑπὸ τῆς Ἡρακλειώτιδος λίθου ἀπ᾿ ἀλλήλων τὴν δύ­ ναμιν λαμβάνειν; ὁ δὲ μέσος σὺ ὁ ῥαψῳδὸς 536 [a] καὶ ὑποκριτής, ὁ δὲ πρῶτος αὐτὸς ὁ ποιητής· ὁ δὲ θεὸς διὰ πάντων τούτων ἕλκει τὴν ψυχὴν ὅποι ἂν βούληται τῶν ἀνθρώπων, ἀνακρεμαννὺς ἐξ ἀλλήλων τὴν δύναμιν. καὶ ὥσπερ ἐκ τῆς λίθου ἐκείνης ὁρμαθὸς πάμπολυς ἐξήρτηται χορευ- | τῶν τε καὶ διδασκάλων καὶ ὑποδιδασκάλων, ἐκ πλαγίου ἐξηρτημένων τῶν τῆς Μούσης ἐκκρεμαμένων δακτυλίων. καὶ ὁ μὲν τῶν ποιητῶν ἐξ ἄλλης Μούσης, ὁ δὲ ἐξ ἄλλης ἐξήρτηται – ὀνομάζομεν δὲ αὐτὸ κατέχεται, τὸ δέ ἐστι [b] παραπλήσιον· ἔχεται γάρ – ἐκ δὲ τούτων

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ione Per Zeus, no, no di certo, Socrate – per quanto possa essere detta la verità…48 socrate Sai dunque che voi producete questi stessi effetti anche nella maggior parte degli spettatori? [e] ione Certo che lo so, e bene! Ogni volta dall’alto del palco li osservo piangere, guardare con occhi terribili, essere presi dallo stupore per ciò che viene detto. Per me è infatti assolutamente necessario prestare loro la massima attenzione: qualora desti in loro il pianto, io riderò prendendo il denaro, ma qualora ridano io piangerò per averlo fatto sfumare49. socrate Ebbene, sai che lo spettatore non è altro che l’ultimo degli anelli, quelli che – dicevo prima – assumono l’uno tramite l’altro la capacità grazie alla pietra di Eraclea? L’anello di mezzo sei tu, il ra­pso­do 536 [a] e interprete50, mentre il primo è il poe­ta stesso. Attraverso tutti questi anelli il dio trae l’anima degli uomini fino a quanto voglia, rinsaldando la capacità nel passaggio dall’uno all’altro. E cosí, proprio come da quella pietra, si produce una catena di molti pezzi, di coreuti e maestri e sottomaestri di coro, agganciati lateralmente agli anelli rinsaldati dalla Musa. Inoltre, un poe­ta si aggancia a una certa Musa, un altro a un’altra – in tal caso diciamo che è posseduto –, [b] ed effettivamente accade qual48   Per la traduzione cfr. Rijks­ba­ron 2007, pp. 183-84. Ione, cogliendo qualche stranezza nell’affermazione di Socrate, risponde in modo poco convenzionale e certamente non del tutto affermativo. 49   Dalla descrizione tradizionale e letteraria della possessione poe­tica si scivola verso un’immagine feroce di Ione, con la possessione che si traduce in un mascheramento emotivo volto all’acquisizione di denaro (535e1-6): da controfigura di Omero, Ione arriva a ricordare il sofista Ippia (Hipp. Maj., 285d5 sgg. e Hipp. Min., 364d3-6; cfr. anche l’allusione ai ra­pso­di in Phaedr., 277e5-278a2). D’altro canto lo stesso Socrate sembra ora poco interessato ad attribuire a Ione un invasamento simile a quello di Omero, proponendo dopo la seconda esposizione subito uno scambio dialogico sul tema della τέχνη (536d8 sgg.). Può legittimamente nascere il sospetto che l’associazione di Ione – e non necessariamente della poe­sia – al fenomeno “divino” della poe­sia sia subordinata alla semplice sanzione dell’incompetenza e dell’irrazionalità dell’attività del ra­pso­do. 50   Qui ὑποκριτής; cfr. supra la nota 27.

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τῶν πρώτων δακτυλίων, τῶν ποιητῶν, ἄλλοι ἐξ ἄλλου αὖ ἠρτημένοι εἰσὶ καὶ ἐνθουσιάζουσιν, οἱ μὲν ἐξ Ὀρφέως, οἱ δὲ ἐκ Μουσαίου· οἱ δὲ πολλοὶ ἐξ Ὁμήρου κατέχονταί τε καὶ ἔχονται, ὧν σύ, | ὦ Ἴων, εἷς εἶ· καὶ κατέχῃ ἐξ Ὁμήρου, καὶ ἐπειδὰν μέν τις ἄλλου του ποιητοῦ ᾄδῃ, καθεύδεις τε καὶ ἀπορεῖς ὅτι λέγῃς, ἐπειδὰν δὲ τούτου τοῦ ποιητοῦ φθέγξηταί τις μέλος, εὐθὺς ἐγρήγορας καὶ ὀρχεῖταί σου ἡ ψυχὴ καὶ εὐπορεῖς ὅτι λέγῃς· [c] οὐ γὰρ τέχνῃ οὐδ᾿ ἐπιστήμῃ περὶ Ὁμήρου λέγεις ἃ λέγεις, ἀλλὰ θείᾳ μοίρᾳ καὶ κατοκωχῇ, ὥσπερ οἱ κορυβαντιῶντες ἐκείνου μόνου αἰσθάνονται τοῦ μέλους ὀξέως ὃ ἂν ᾖ τοῦ θεοῦ ἐξ ὅτου ἂν κατέχωνται, καὶ εἰς ἐκεῖνο τὸ μέλος καὶ | σχημάτων καὶ ῥημάτων εὐποροῦσι, τῶν δὲ ἄλλων οὐ φροντίζουσιν· οὕτω καὶ σύ, ὦ Ἴων, περὶ μὲν Ὁμήρου ὅταν τις μνησθῇ, εὐπορεῖς, περὶ δὲ τῶν ἄλλων ἀπορεῖς· τούτου δ᾿ [d] ἐστὶ τὸ αἴτιον ὅ μ᾿ ἐρωτᾷς, δι᾿ ὅτι σὺ περὶ μὲν Ὁμήρου εὐπορεῖς, περὶ δὲ τῶν ἄλλων οὔ, ὅτι οὐ τέχνῃ ἀλλὰ θείᾳ μοίρᾳ Ὁμήρου δεινὸς εἶ ἐπαινέτης. ιων Σὺ μὲν εὖ λέγεις, ὦ Σώκρατες· θαυμάζοιμι μεντἂν εἰ | οὕτως εὖ εἴποις ὥστε με ἀναπεῖσαι ὡς ἐγὼ κατεχόμενος καὶ μαινόμενος Ὅμηρον ἐπαινῶ. οἶμαι

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cosa di molto simile: è in suo possesso51. Poi, a partire da questi primi anelli, i poe­ti, ciascuno è a sua volta agganciato a uno diverso e da esso è divinamente ispirato: l’uno a Orfeo, l’altro a Museo52, ma la maggior parte è posseduta da Omero ed è in suo possesso. Tu, Ione, sei uno di questi: sei posseduto da Omero, e ogniqualvolta qualcuno canti un altro poe­ta tu cadi nel sonno e non trovi nulla da dire, mentre ogniqualvolta qualcuno intoni il canto di questo poe­ta, ti svegli subito, la tua anima danza e sai bene cosa dire. [c] Infatti non dici ciò che dici su Omero per arte o conoscenza, bensí per una prossimità divina, per una possessione: esattamente come i coribanti percepiscono in modo acuto solo quella lirica che appartenga al dio dal quale sono posseduti, e proprio per quella melodia trovano movimenti53 e parole, mentre non rivolgono alcuna attenzione alle altre, cosí anche tu, Ione, nel momento in cui qualcuno richiami Omero sai bene cosa fare, mentre su altri non lo sai assolutamente. [d] Ora, la causa di questo – che è ciò che mi chiedi: per quale motivo tu sai bene cosa fare su Omero ma non sugli altri – è che sei formidabile nel portare lodi54 a Omero non per arte ma per una prossimità divina. ione Parli bene tu, Socrate… Sarei però oltremodo stupito se riuscissi a parlare tanto bene da convincermi del fatto che quando lodo Omero io sono posseduto e invasato55. Credo del resto che non avresti piú 51   Socrate gioca qui e poco oltre (536b4) con ἔχειν (avere) e il composto κατέχεσθαι (essere posseduto). 52   A Museo, secondo il mito figlio di Orfeo (per il quale cfr. supra la nota 32), erano attribuiti soprattutto versi di tipo oracolare e religioso. 53   I coribanti (originariamente identificabili con i seguaci di Cibele) erano iniziati e partecipavano a rituali di danza sfrenata ispirata da una musica apposita; l’analogia è particolarmente pregnante poiché i partecipanti ai riti “rispondevano” con movimenti di danza (σχήματα) solo a certe musiche, che ne determinavano l’invasamento (cfr. Velardi 1989, pp. 76-78). 54   Sulla caratterizzazione di Ione come autore di lodi ed esponente di un’“etica della lode” ha insistito Capuccino 2011. 55   La resistenza di Ione è probabilmente legata all’ulteriore insistenza di Socrate sulla passività del ra­pso­do – derivata da quella del poe­ta – e sull’ormai decisa associazione con i coribanti, soggetti a un invasamento forsennato:

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δὲ οὐδ᾿ ἂν σοὶ δόξαιμι, εἴ μου ἀκούσαις λέγοντός τι περὶ Ὁμήρου. σωκρατης Καὶ μὴν ἐθέλω γε ἀκοῦσαι, οὐ μέντοι πρότερον πρὶν [e] ἄν μοι ἀποκρίνῃ τόδε· ὧν Ὅμηρος λέγει περὶ τίνος εὖ λέγεις; οὐ γὰρ δήπου περὶ ἁπάντων γε. ιων Εὖ ἴσθι, ὦ Σώκρατες, περὶ οὐδενὸς ὅτου οὔ. σωκρατης Οὐ δήπου καὶ περὶ τούτων ὧν σὺ μὲν τυγχάνεις οὐκ | εἰδώς, Ὅμηρος δὲ λέγει. ιων Καὶ ταῦτα ποῖά ἐστιν ἃ Ὅμηρος μὲν λέγει, ἐγὼ δὲ οὐκ οἶδα; 537 [a] σωκρατης Οὐ καὶ περὶ τεχνῶν μέντοι λέ­ γει πολλαχοῦ Ὅμηρος καὶ πολλά; οἷον καὶ περὶ ἡνιοχείας· ἐὰν μνησθῶ τὰ ἔπη, ἐγώ σοι φράσω. ιων Ἀλλ᾿ ἐγὼ ἐρῶ· ἐγὼ γὰρ μέμνημαι. σωκρατης Εἰπὲ δή μοι ἃ λέγει Νέστωρ Ἀντιλόχῳ τῷ ὑεῖ, παραινῶν εὐλαβηθῆναι περὶ τὴν καμπὴν ἐν τῇ ἱπποδρομίᾳ τῇ ἐπὶ Πατρόκλῳ.

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quest’opinione di me se solo mi sentissi dire qualcosa su Omero. socrate E io voglio davvero ascoltarti, ma non prima che [e] tu mi abbia risposto a questo56: delle cose di cui parla Omero, su quali parli bene? Di certo non proprio su tutte... ione Devi saperlo, Socrate: non ve n’è alcuna su cui non parli bene. socrate Di certo non anche su quelle di cui, benché Omero ne parli, tu ti trovi a non saper niente. ione E quali sarebbero queste cose di cui Omero parla ma io non so niente?57. 537 [a] socrate Omero non parla – in molti modi e luoghi diversi – anche di arti? Per esempio, anche della guida del carro; se riesco a richiamare alla memoria i versi, li pronuncerò io per te... ione Ma li dirò io! Io li so a memoria! socrate Allora dimmi ciò che dice Nestore al figlio Antiloco esortandolo a essere cauto nella curva in occasione della corsa dei cavalli in onore di Patroclo58. Ione tenta cioè, per quanto gli è possibile, di resistere e rivendicare le peculiarità della propria specifica attività. 56   Inizia qui l’ultima parte del dialogo, incentrata sullo statuto dell’arte e del suo oggetto. Socrate dimostra che Ione non possiede un’arte perché, se una certa arte in quanto tale si occupa di uno specifico insieme di oggetti che le è proprio (537a5-538b6; cfr. infra la nota 62), e se i vari passi di Omero sono propri di arti diverse dalla ra­pso­dia, la ra­pso­dia sarà senza oggetto, dunque non sarà un’arte. L’argomento procede cosí attraverso esempi tratti da passi omerici (538b7-c6 sulla medicina; 538c7-d6 sulla pesca; 538d7539d4 sulla divinazione) e un’ulteriore confutazione finale (539d5 sgg.) alla tesi di Ione per cui la ra­pso­dia si occupa di ciò che è opportuno dire in generale, e poi di ciò che è opportuno dire per uno stratega (dunque contro la tesi che ra­pso­dia e strategia siano una stessa arte). L’argomento non implica che non possa esistere un’arte ra­pso­dica (cfr. Gaiser 1984, pp. 111-14; Janaway 1992; Baltzly 1992; Morris 1993, pp. 265-69); al contrario, il principio che determina lo statuto di arte è compatibile con la tematizzazione dell’oggetto dell’arte come totalità proposto nella prima parte del dialogo (cfr. supra le note 13 e 15, e infra la nota 62). 57   Socrate ha in mente di discutere il modello dell’arte ra­pso­dica, per cui fa fin da ora riferimento agli oggetti propri di altre arti. Ione, invece, intende probabilmente il discorso come se si riferisse a versi ed espressioni poe­tiche su cui condurre un’esegesi tradizionale. 58   Secondo l’uso precedente alla divisione editoriale antica, le sezioni dei

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ιων «Κλινθῆναι δέ», φησί, «καὶ αὐτὸς ἐϋξέστῳ ἐνὶ δίφρῳ

[b] ἦκ᾿ ἐπ᾿ ἀριστερὰ τοῖιν· ἀτὰρ τὸν δεξιὸν ἵππον κένσαι ὁμοκλήσας, εἶξαί τέ οἱ ἡνία χερσίν. Ἐν νύσσῃ δέ τοι ἵππος ἀριστερὸς ἐγχριμφθήτω, ὡς ἄν τοι πλήμνη γε δοάσσεται ἄκρον ἱκέσθαι | κύκλου ποιητοῖο· λίθου δ᾿ ἀλέασθαι ἐπαυρεῖν».

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[c] σωκρατης Ἀρκεῖ. ταῦτα δή, ὦ Ἴων, τὰ ἔπη εἴτε ὀρθῶς λέγει Ὅμηρος εἴτε μή, πότερος ἂν γνοίη ἄμεινον, ἰατρὸς ἢ ἡνίοχος; ιων Ἡνίοχος δήπου. σωκρατης Πότερον ὅτι τέχνην ταύτην ἔχει ἢ κατ᾿ ἄλλο τι; ιων Οὔκ, ἀλλ᾿ ὅτι τέχνην. σωκρατης Οὐκοῦν ἑκάστῃ τῶν τεχνῶν ἀποδέδοταί τι ὑπὸ τοῦ θεοῦ ἔργον οἵᾳ τε εἶναι γιγνώσκειν; οὐ

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ione «Inclinati», afferma, «tu stesso nel cocchio ben lucidato59, [b] leggermente alla loro sinistra; il cavallo di destra sprona al contempo, a gran voce incitandolo, e con le mani [allenta le briglie. Stringa alla curva il cavallo a sinistra, ché sembri toccare lo spigolo il mozzo della ruota ben fatta. Ma devi riuscire a non colpire la pietra»60.

[c] socrate Basta cosí. Ora, Ione: chi riconoscerà meglio se Omero parli correttamente o meno in questi versi, un medico o un auriga? ione Di certo un auriga. socrate Perché possiede quest’arte o per un qualche altro motivo? ione No, perché possiede quest’arte. socrate A ciascuna delle arti, dunque, non è stata assegnata dal dio una specifica opera, che essa è in grado di conoscere?61. In effetti, ciò che conosciamo con poemi omerici sono richiamate per “scene”. La citazione copre i versi XXIII, 335-40 dell’Iliade, relativi alla preparazione delle gare nelle celebrazioni funebri per Patroclo, ucciso da Ettore. 59   Si possono osservare qui in modo esemplificativo alcuni problemi peculiari delle citazioni platoniche di Omero. In primo luogo, a differenza di quanto previsto dai testi di Burnet e Rijks­ba­ron, nella traduzione viene isolata in versi solo la sezione propriamente esametrica (verso epico): per esempio, il primo verso di questa citazione prevede una componente del dialogo, φησί, che deforma la versificazione. In secondo luogo, si osserva che una lezione, ἐϋξέστῳ, tràdita per il testo platonico da T W F, si contrappone a una, ἐϋπλέκτῳ, tràdita dal solo testimone platonico S e dai testimoni omerici. Ciò dimostra la possibilità di oscillazione ed emendazione delle lezioni all’interno della tradizione testuale di Platone, fenomeno al quale si affianca certamente quello di corruzione del testo di Platone a partire da una lezione che esso condivide con Omero. Rijks­ba­ron 2007, pp. 37-49, ha tentato di indicare (non senza escludere alcuni aspetti problematici) che tendenzialmente la lezione genuinamente platonica è quella offerta dalla famiglia di F e S; al contempo, la tendenza particolare di S a offrire lezioni autenticamente omeriche non può che incrementare i dubbi sul valore tradizionale di questo manoscritto (cfr. supra la nota al testo e alla traduzione, pp. xv-xvii). 60   Cfr. Labarbe 1949, pp. 89-101. A essere riformulato è soprattutto il primo verso, probabilmente per il fenomeno di adattamento al dialogo (cfr. la nota precedente e già Lohse 1965, pp. 263-64): il verso omerico recita αὐτὸς δὲ κλινθῆναι ἐϋπλέκτῳ ἐνὶ δίφρῳ. 61   Il greco γιγνώσκω esprime in questa sezione sia il «conoscere» che il riconoscere (cfr. anche supra a 531d11 sgg., in cui comunque va mantenuta

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γάρ που ἃ κυβερνητικῇ γιγνώσκομεν, γνωσόμεθα καὶ ἰατρικῇ. ιων Οὐ δῆτα. σωκρατης Οὐδέ γε ἃ ἰατρικῇ, ταῦτα καὶ τεκτονικῇ. ιων Οὐ [d] δῆτα. σωκρατης Οὐκοῦν οὕτω καὶ κατὰ πασῶν τῶν τεχνῶν, ἃ τῇ ἑτέρᾳ τέχνῃ γιγνώσκομεν, οὐ γνωσόμεθα τῇ

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l’arte della navigazione di sicuro non lo conosceremo con l’arte medica. ione No di certo. socrate E non conosceremo con la carpenteria le cose conosciute con la medicina. ione No [d] di certo. socrate Non vale dunque lo stesso anche per tutte le altre arti? Ciò che conosciamo con l’una non lo conosceremo con l’altra62. Ma prima che a questo, rispondimi la traduzione «riconoscere»); la traduzione propone il significato adeguato nella lingua italiana, ma l’argomento di Platone conta non poco sulla sfumatura del verbo. Un’altra ambiguità significativa va rintracciata nella nozione di «parlare bene/correttamente», che per Socrate – ma non per Ione né nel senso comune – ha lo specifico valore di «parlare in modo competente e conforme all’arte» (cfr. supra l’introduzione, p. 294). 62   Il primo argomento (537c1-d2) prende il via a partire dall’individuazione di un insieme di oggetti: a) c1-3: nel testo di Omero c’è un determinato insieme x di oggetti [relativi alla guida del carro]; b) c3-4: l’insieme x è l’oggetto totale di conoscenza proprio di chi possiede la τέχνη X; c) c5-7: i norma generalizzata: vige un rapporto biunivoco tra la τέχνη X e l’insieme x; d) c8-d2: ii norma – conseguente da i –: una τέχνη X non conosce insiemi non-x. In successione Socrate propone un secondo argomento (537d3-e8) che, inversamente al precedente, individua in primo luogo l’arte per poi coglierne gli oggetti: a) d3-4: vi sono arti diverse l’una dall’altra; b) d4-e1: ciascuna forma di conoscenza (il termine ἐπιστήμη individua qui una generica forma di conoscenza relativa a un insieme di oggetti e va identificato con l’arte corrispondente) è relativa a un proprio specifico insieme di oggetti; c) e1-8: controprova: se due forme di conoscenza riguardassero gli stessi oggetti non sarebbero distinguibili (il che contraddice la prima asserzione). La conclusione (538a1-b6), valida per entrambi gli argomenti, recupera da essi il principio di specializzazione, e attraverso una serie di domande porta a un’acquisizione finale (538b1-3) – in forma di domanda disgiuntiva – che ricorda il primo scambio dopo la citazione omerica (537c1-3). I due argomenti dimostrano che una τέχνη X ha un rapporto biunivoco con un insieme x di oggetti, cioè il principio di specializzazione alla base di numerose sezioni di altri dialoghi (cfr. per esempio Charm., 170e12-171c3 e Gorg., 462b1-465a7; cfr. Wood­ruff 1990, pp. 68-74 e poi su tutti Kahn 2008, pp. 109-18). Spesso è stato sottolineato che l’argomento finisce per far scomparire artificiosamente e in modo fallace la ra­pso­dia (cfr. per esempio Janaway 1992, pp. 10-15; Baltzly 1992, pp. 29-33; Lowenstam 1993, pp. 23-26; Morris 1993, pp. 265269; Beversluis 2000, pp. 89-91; cfr. anche Trabattoni 1985-86, pp. 45-52),

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ἑτέρᾳ; τόδε δέ μοι πρότερον τούτου ἀπόκριναι· τὴν μὲν, ἑτέραν φῂς εἶναί τινα τέχνην, τὴν δὲ, ἑτέραν; ιων Ναί. σωκρατης Ἆρα ὥσπερ | ἐγὼ τεκμαιρόμενος, ὅταν ἡ μὲν, ἑτέρων πραγμάτων ᾖ ἐπιστήμη, ἡ δὲ, ἑτέρων, οὕτω καλῶ τὴν μὲν, ἄλλην, τὴν δὲ, [e] ἄλλην τέχνην, οὕτω καὶ σύ; ιων Ναί. σωκρατης Εἰ γάρ που τῶν αὐτῶν πραγμάτων ἐπι­ στήμη εἴη τις, τί ἂν τὴν μὲν ἑτέραν φαῖμεν εἶναι, τὴν δ᾿ ἑτέραν, ὁπότε γε ταὐτὰ εἴη εἰδέναι ἀπ᾿ ἀμφοτέρων; ὥσπερ ἐγώ τε γιγνώσκω ὅτι πέντε εἰσὶν | οὗτοι οἱ δάκτυλοι, καὶ σύ, ὥσπερ ἐγώ, περὶ τούτων ταὐτὰ γιγνώσκεις· καὶ εἴ σε ἐγὼ ἐροίμην εἰ τῇ αὐτῇ τέχνῃ γιγνώσκομεν τῇ ἀριθμητικῇ τὰ αὐτὰ ἐγώ τε καὶ σὺ ἢ ἄλλῃ, φαίης ἂν δήπου τῇ αὐτῇ. ιων Ναί. 538 [a] σωκρατης Ὃ τοίνυν ἄρτι ἔμελλον ἐρήσεσθαί σε, νυνὶ εἰπέ, εἰ κατὰ πασῶν τῶν τεχνῶν οὕτω σοι δοκεῖ, τῇ μὲν αὐτῇ τέχνῃ τὰ αὐτὰ ἀναγκαῖον εἶναι

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a quest’altro: affermi che una è un’arte di questo tipo, mentre l’altra di un altro?63. ione Sí. socrate Giudicando come me, quindi, se una è la conoscenza di certi oggetti, un’altra di altri, allora chiamo una come una certa arte, l’altra come [e] una certa altra arte; vale anche per te? ione Sí. socrate Se infatti vi fosse in qualche modo una certa conoscenza relativa agli stessi oggetti di un’altra, in che modo – nel momento in cui fosse possibile conoscere le stesse cose con entrambe – potremmo dire che l’una è un’arte, l’altra un’altra? Io so che queste dita sono cinque, e tu, come me, su queste saprai esattamente le stesse cose; se allora io ti chiedessi se io e te conosciamo le stesse cose con la stessa arte, l’aritmetica, o con un’altra, affermeresti di certo che è con la stessa. ione Sí. 538 [a] socrate Ebbene, dimmi ora quello che prima64 ero sul punto di domandarti, se ti pare che per tutte le arti valga questo: con la stessa arte conosciamo necese che Ione avrebbe potuto e dovuto sostenere che i passi omerici sono in real­ tà rappresentazioni dell’operazione tecnica e andrebbero giudicati per questo come oggetti della ra­pso­dia. Al di là di tale possibile soluzione, certamente Platone punta a introdurre – velatamente e senza che Ione la sfrutti – la nozione di «in quanto» (cfr. Kahn 2008, pp. 109-18), che consente di considerare gli oggetti e l’arte da un punto di vista intensionale. Il principio di specializzazione dell’arte è infatti ben giustificabile proprio da un punto di vista intensionale – un’arte X in quanto tale si occupa di un insieme x di oggetti che le sono propri in quanto tali –: Ione accetta cioè un argomento che Socrate potrebbe esporre e difendere in modo piú efficace. Lo stesso argomento è inoltre compatibile con la tematizzazione di τέχνη proposta nella prima parte del dialogo, in cui si sosteneva che l’insieme di oggetti della τέχνη è una totalità: un oggetto può dunque far parte di piú totalità in quanto intensionalmente caratterizzato in funzione di un’arte. In questo senso rimane possibile concepire una forma “artistica” di critica letteraria a condizione che essa si occupi di un insieme di oggetti totale, completo, proprio. Per la nozione di τέχνη cfr. anche supra l’introduzione, pp. 293-5. 63   Per la traduzione cfr. Rijks­ba­ron 2007, p. 200. 64   A 537d2, prima dell’introduzione del secondo argomento (cfr. supra la nota 62). Nella misura in cui il secondo arriva alla stessa conclusione del primo seguendo la direzione inversa, questa continuazione varrà per entrambi.

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γιγνώσκειν, τῇ δ᾿ ἑτέρᾳ μὴ τὰ αὐτά, ἀλλ᾿ εἴπερ ἄλλη ἐστίν, ἀναγκαῖον καὶ ἕτερα γιγνώσ- | κειν. ιων Οὕτω μοι δοκεῖ, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Οὐκοῦν ὅστις ἂν μὴ ἔχῃ τινὰ τέχνην, ταύτης τῆς τέχνης τὰ λεγόμενα ἢ πραττόμενα καλῶς γιγνώσκειν οὐχ οἷός τ᾿ ἔσται; [b] ιων Ἀληθῆ λέγεις. σωκρατης Πότερον οὖν περὶ τῶν ἐπῶν ὧν εἶπες, εἴτε καλῶς λέγει Ὅμηρος εἴτε μή, σὺ κάλλιον γνώσει ἢ ἡνίοχος; ιων Ἡνίοχος. σωκρατης Ῥαψῳδὸς γάρ που εἶ ἀλλ᾿ οὐχ ἡνίοχος. ιων Ναί. σωκρατης Ἡ δὲ ῥαψῳδικὴ τέχνη ἑτέρα | ἐστὶ τῆς ἡνιοχικῆς; ιων Ναί. σωκρατης Εἰ ἄρα ἑτέρα, περὶ ἑτέρων καὶ ἐπιστήμη πραγμάτων ἐστίν. ιων Ναί. σωκρατης Τί δὲ δὴ ὅταν Ὅμηρος λέγῃ ὡς τετρωμένῳ τῷ Μαχάονι Ἑκαμήδη ἡ Νέστορος παλλακὴ κυκεῶνα πίνειν δίδωσι; καὶ [c] λέγει πως οὕτως· «οἴνῳ πραμ­ νείῳ», φησίν, «ἐπὶ δ᾿ αἴγειον κνῆ τυρὸν

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κνήστι χαλκείῃ· παρὰ δὲ κρόμυον ποτῷ ὄψον»·

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sariamente le stesse cose, mentre con una diversa non le stesse, anzi, se davvero è un’altra, vale necessariamente anche che conosceremo cose diverse. ione Mi pare cosí, Socrate. socrate E chi non possieda una certa arte, non sarà neanche in grado di conoscere bene le asserzioni e le operazioni proprie di questa arte. Vero? [b] ione È vero. socrate Sui versi di cui parlavi, dunque, chi riconoscerà meglio se Omero parli bene o meno, tu o un auriga? ione Un auriga. socrate E tu sei pur sempre un ra­pso­do e non un auriga. ione Sí. socrate E l’arte della ra­pso­dia è diversa da quella della guida del carro? ione Sí. socrate Se è diversa, quindi, sarà anche una conoscenza riguardante oggetti diversi. ione Sí. socrate E poi, quando Omero dice che Ecamede, la concubina di Nestore, diede a Macaone ferito una pozione da bere? [c] Dice piú o meno cosí: «con vino pramneo», afferma, «grattò sopra formaggio caprino con una grattugia di rame; e accanto cipolla, compagna del bere»65. 65   Cfr. Labarbe 1949, pp. 101-8; sull’uso platonico delle citazioni letterarie cfr. anche Tarrant 1951, particolarmente pp. 61-67; Benardete 1963; Halliwell 2000; Giuliano 2005, pp. 307-38; Clay 2010. Platone cita Il., XI, 639-40, la preparazione di una bevanda nella tenda di Nestore poco prima dell’arrivo di Patroclo, inviato da Achille. Il secondo verso compone in realtà l’inizio del v. 640 (κνήστι χαλκείῃ) con la seconda del v. 630, παρὰ (ἐπὶ S) δὲ κρόμυον ποτῷ ὄψον, accantonando la seconda parte del v. 640, ἐπὶ δ’ἄλφιτα λευκὰ πάλυνε. Ulteriore differenza rispetto al v. 630 è la presenza di παρά (per ἐπί), che occorre però al v. 631. Spesso tale composizione è stata ricondotta a una confusione di Platone, che avrebbe fuso per errore mnemonico due versi vicini (cosí Labarbe 1949, pp. 104-7; Giuliano 2005, p. 309, nota 210, e poi Rijks­ba­ ron 2007, pp. 39-40). Poiché però altrove (Resp., III, 405c4 sgg.) Platone parafrasa i due versi secondo la loro autentica struttura omerica, sembra plausibile (cfr. già Lohse 1964, pp. 21-25) che egli abbia manipolato volontariamente il testo per provare “sul campo” l’incompetenza “letteraria” di Ione, già ironicamente adombrata (cfr. 537a2-4 e, poco prima di questa citazione, που a 538b3).

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ταῦτα εἴτε ὀρθῶς λέγει Ὅμηρος εἴτε μή, πότερον ἰατρικῆς | ἐστι διαγνῶναι καλῶς ἢ ῥαψῳδικῆς; ιων Ἰατρικῆς. σωκρατης Τί δέ ὅταν λέγῃ Ὅμηρος· [d] «ἡ δὲ μολυβδαίνῃ ἰκέλη ἐς βυσσὸν ὄρουσεν, ἥ τε κατ᾿ ἀγραύλοιο βοὸς κέρας ἐμμεμαυῖα ἔρχεται ὠμηστῇσι μετ᾿ ἰχθύσι πῆμα φέρουσα»·

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ταῦτα πότερον φῶμεν ἁλιευτικῆς εἶναι τέχνης μᾶλλον κρῖ- | ναι ἢ ῥα­ψῳδικῆς, ἅττα λέγει καὶ εἴτε καλῶς εἴτε μή; ιων Δῆλον δή, ὦ Σώκρατες, ὅτι ἁλιευτικῆς. σωκρατης Σκέψαι δή, σοῦ ἐρομένου, εἰ ἔροιό με· «Ἐπειδὴ τοί- [e] νυν, ὦ Σώκρατες, τούτων τῶν τεχνῶν ἐν Ὁμήρῳ εὑρίσκεις ἃ προσήκει ἑκάστῃ διακρίνειν, ἴθι μοι ἔξευρε καὶ τὰ τοῦ μάντεώς τε καὶ μαντικῆς, ποῖά ἐστιν ἃ προσήκει αὐτῷ οἵῳ τ᾿ εἶναι διαγιγνώσκειν, εἴτε εὖ εἴτε κακῶς πεποίηται» – σκέψαι | ὡς ῥᾳδίως τε καὶ ἀληθῆ ἐγώ σοι ἀποκρινοῦμαι. πολλαχοῦ μὲν γὰρ καὶ ἐν Ὀδυσσείᾳ λέγει, οἷον καὶ ἃ ὁ τῶν Μελαμποδιδῶν λέγει μάντις πρὸς τοὺς μνηστῆρας, Θεοκλύμενος·

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539 [a] «Δαιμόνιοι, τί κακὸν τόδε πάσχετε; νυκτὶ μὲν ὑμέων εἰλύαται κεφαλαί τε πρόσωπά τε νέρθε τε γυῖα, οἰμωγὴ δὲ δέδηε, δεδάκρυνται δὲ παρειαί· εἰδώλων τε πλέον πρόθυρον, πλείη δὲ καὶ αὐλὴ |

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Chi sa ben valutare se Omero ne parli correttamente o meno, l’arte della medicina o quella della ra­pso­dia? ione L’arte della medicina. socrate E poi, quando Omero dice: [d] «e quella guizzava verso il fondo, simile a piombo che, nel corno di un bue da pascolo, desideroso arriva tra i pesci voraci portando disastro»66.

A nostro avviso quale arte giudica meglio se in questi versi parli bene o meno, l’arte della pesca o quella della ra­pso­dia? ione È chiaro, Socrate, l’arte della pesca67. socrate Ora osserva bene. Nel momento in cui tu mi ponessi domande, se mi domandassi68: «Allora, [e] Socrate, poiché in Omero trovi versi che spetta a ciascuna di queste arti valutare, avanti, scova per me anche quelli propri del divinatore e della divinazione69, tali che spetti a un uomo siffatto valutare se siano stati composti bene o male», osserva con quanta tranquillità e aderenza al vero io ti rispondo: «Ne parla in molti luoghi, anche nell’Odissea, per esempio quando uno dei discendenti di Melampo, il divinatore Teoclimeno, dice ai pretendenti: 539 [a] «Miei signori, che male vi affligge? Di notte sono coperti le vostre teste e i visi, le membra e i piedi; s’è diffuso un pianto, rigate di lacrime le guance. E di spettri è pieno il protiro, e piena a sua volta la corte: 66   Cfr. Labarbe 1949, pp. 109-21, e Rijks­ba­ron 2007, p. 40. Platone cita Il., XXIV, 80-82, il volo di Iride per convocare Teti da parte di Zeus. 67   Non è escluso che anche qui Platone colpisca con ironia: se è vero che il brano astratto dal suo contesto può forse riguardare la pesca, sembra però paradossale associarlo a quest’arte se si considera (cfr. la nota precedente) che il soggetto è Iride alla ricerca di Teti; Platone adombra ancora (cfr. supra la nota 65) la possibilità che Ione non abbia ben presente il passo in questione. 68   La formulazione di Socrate è volutamente pesante e ridondante (Rijks­ ba­ron 2007, pp. 210-11), e per questo probabilmente ironica, come lo è la proclamazione della “facilità” della risposta subito seguente (538e5). 69   Torna qui come esempio di arte la divinazione (cfr. già 531b3-10), che però secondo il passo sulla possessione difficilmente può essere considerata come τέχνη; Platone sembra suggerire che i tratti specifici dell’argomento sono ad hominem.

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ἱεμένων ἔρεβόσδε ὑπὸ ζόφον· ἠέλιος δὲ [b] οὐρανοῦ ἐξαπόλωλε, κακὴ δ᾿ ἐπιδέδρομεν ἀχλύς»·

πολλαχοῦ δὲ καὶ ἐν Ἰλιάδι, οἷον καὶ ἐπὶ τει­χομαχίᾳ· λέγει γὰρ καὶ ἐνταῦθα· «Ὄρνις γάρ σφιν ἐπῆλθε περησέμεναι μεμαῶσιν, | αἰετὸς ὑψιπέτης, ἐπ᾿ ἀριστερὰ λαὸν ἐέργων, [c] φοινήεντα δράκοντα φέρων ὀνύχεσσι πέλωρον, ζῳόν, ἔτ᾿ ἀσπαίροντα· καὶ οὔπω λήθετο χάρμης. κόψε γὰρ αὐτὸν ἔχοντα κατὰ στῆθος παρὰ δειρὴν ἰδνωθεὶς ὀπίσω, ὁ δ᾿ ἀπὸ ἕθεν ἧκε χαμᾶζε ἀλγήσας ὀδύνῃσι, μέσῳ δ᾿ ἐνὶ κάββαλ᾿ ὁμίλῳ· [d] αὐτὸς δὲ κλάγξας πέτετο πνοιῇς ἀνέμοιο».

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Ταῦτα φήσω καὶ τὰ τοιαῦτα τῷ μάντει προσήκειν καὶ σκοπεῖν καὶ κρίνειν. ιων Ἀληθῆ γε σὺ λέγων, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Καὶ σύ γε, ὦ Ἴων, ἀληθῆ ταῦτα λέγεις. ἴθι δὴ καὶ σὺ ἐμοί, ὥσπερ ἐγὼ σοὶ ἐξέλεξα καὶ ἐξ Ὀδυσσείας καὶ ἐξ Ἰλιάδος ὁποῖα τοῦ μάντεώς ἐστι καὶ ὁποῖα τοῦ ἰατροῦ καὶ ὁποῖα [e] τοῦ ἁλιέως, οὕτω καὶ σὺ ἐμοὶ ἔκλεξον, ἐπειδὴ καὶ ἐμπειρότερος

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nell’oscurità profonda s’affrettano ormai verso l’Erebo. Il sole [b] è perito nel cielo, una bruma malvagia copre ormai tutto»70.

Ma in molti luoghi anche nell’Iliade, per esempio nella Teicomachia; dice infatti anche qui: «Volevano attraversarla. Li raggiunse allora un uccello, un’aquila dal volo alto, che chiudeva a sinistra la truppa, [c] e negli artigli portava un serpente, enorme, cosparso di sangue, vivo, che continuava ad affannarsi: non abbandonava ancora la [lotta. Mentre lei lo teneva, la morse al petto, vicino al collo, torcendosi indietro: lo gettò allora lontano, al suolo, sofferente dal grande dolore; lo scagliò sull’esercito, nel mezzo, [d] e volò via gridando, sorretta dal soffio del vento»71.

Io affermerò che spetta al divinatore osservare e giudicare questi versi e quelli simili. ione E dirai il vero, Socrate. socrate E anche tu, Ione, dici che questo è vero. Ma forza, ora fai lo stesso per me72: come io ti ho proposto dei versi, dall’Odissea e dall’Iliade, tali da essere di volta in volta propri del divinatore, propri del medico e [e] propri del pescatore, anche tu, Ione – visto che sei anche piú esperto di me sulle opere di Omero –, propo70   Cfr. Labarbe 1949, pp. 120-30, e Rijks­ba­ron 2007, p. 40. Sono citati i versi XX, 351-57 dell’Odissea (con l’omissione di XX, 354, probabilmente per ragioni legate al testo letto da Platone; cfr. Labarbe 1949, pp. 121-24 e 410-11): Teoclimeo, portato a Itaca da Telemaco, li pronuncia all’interno di una fosca visione che anticipa la distruzione dei pretendenti. 71   Cfr. Labarbe 1949, pp. 130-36, e Rijks­ba­ron 2007, pp. 46-47. Teicomachia è la denominazione tradizionale per la «battaglia sotto le mura» di Troia, narrata nel XII canto dell’Iliade. Platone ne cita i vv. 200-7, che descrivono un nefasto presagio per i Troiani. Il testo platonico riproduce perfettamente quello omerico. 72   Con un accento già evidentemente ironico Socrate incita Ione a indicare passi che possano propriamente rappresentare elementi dell’insieme di oggetti specifico dell’arte ra­pso­dica. Socrate stabilisce cosí in modo implicito la propria tematizzazione di arte come parametro per la valutazione della ra­ pso­dia, e sfida Ione ad adeguarsi a esso per poter ancora rivendicare il possesso di τέχνη in termini platonici. La prima risposta di Ione, «tutti» (539e6), serve a Platone per mostrare nella concretezza della confutazione l’applicazione della regola per cui le arti hanno insiemi propri di oggetti (cfr. supra la nota 62), mentre il seguito evidenzia come Ione non sia in grado di fornire oggetti validi, dunque che la ra­pso­dia (almeno quella incarnata da Ione) non merita lo statuto di arte.

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εἶ ἐμοῦ τῶν Ὁμήρου, ὁποῖα τοῦ ῥαψῳδοῦ ἐστιν, ὦ Ἴων, καὶ τῆς τέχνης τῆς ῥαψῳδικῆς, ἃ τῷ ῥαψῳδῷ προσήκει καὶ σκοπεῖσθαι καὶ διακρίνειν παρὰ τοὺς ἄλλους | ἀνθρώπους. ιων Ἐγὼ μέν φημι, ὦ Σώκρατες, ἅπαντα. σωκρατης Οὐ σύ γε ἔφης, ὦ Ἴων, ἅπαντα· ἢ οὕτως ἐπιλήσμων εἶ; καίτοι οὐκ ἂν πρέποι γε ἐπιλήσμονα εἶναι ῥαψῳδὸν ἄνδρα. 540 [a] ιων Τί δὲ δὴ ἐπιλανθάνομαι; σωκρατης Οὐ μέμνησαι ὅτι ἔφησθα τὴν ῥαψῳδικὴν τέχνην ἑτέραν εἶναι τῆς ἡνιοχικῆς; ιων Μέμνημαι. σωκρατης Οὐκοῦν καὶ ἑτέραν οὖσαν ἕτερα γνώ­ σεσθαι ὡμολόγεις; ιων Ναί. σωκρατης Οὐκ ἄρα πάντα γε γνώσεται ἡ ῥαψῳδικὴ κατὰ τὸν σὸν λόγον οὐδὲ ὁ ῥαψῳδός. ιων Πλήν γε ἴσως τὰ τοιαῦτα, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Τὰ τοιαῦτα δὲ λέγεις πλὴν τὰ τῶν [b] ἄλλων τεχνῶν; ιων Σχεδόν τι. σωκρατης Ἀλλὰ ποῖα δὴ γνώσεται, ἐπειδὴ οὐχ ἅπαντα; ιων Ἃ πρέπει, οἶμαι ἔγωγε, ἀνδρὶ εἰπεῖν καὶ ὁποῖα

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nimi allo stesso modo versi tali da essere propri del ra­ pso­do e dell’arte della ra­pso­dia, quelli che sugli altri uomini spetta al ra­pso­do osservare e valutare. ione Io, Socrate, affermo che sono tutti. socrate No, Ione, tu non affermavi che sono tutti... Non avrai mica una memoria cosí corta? Bada, l’avere una memoria corta non è conveniente per un uomo che esercita la ra­pso­dia!73. 540 [a] ione Ma che cosa ho dimenticato? socrate Non ricordi di aver affermato che l’arte della ra­pso­dia è diversa da quella della guida del carro? ione Lo ricordo. socrate E non eri d’accordo che, essendo essa diversa, conoscerà cose diverse?74. ione Sí. socrate Secondo il tuo discorso, quindi, l’arte della ra­pso­dia non le conoscerà tutte, e cosí neanche il ra­pso­do. ione Forse, Socrate, a parte quelle di questo tipo. socrate Intendi dire tutte [b] a parte quelle delle altre arti? ione Qualcosa del genere75. socrate Ma esattamente quali conoscerà, visto che non le conoscerà tutte? ione Quelle di questo tipo, credo: quelle che di caso in caso è conveniente dire per un uomo o per una don73   L’affermazione di Socrate (che riprende un’accusa classicamente rivolta a figure sofistiche di secondo piano; cfr. Gorg., 466a6-8 e Hipp. Min., 369a78) è ironica in due sensi: da un lato inizia a insinuare il tema del πρέπον come criterio di valutazione, che poi sarà impropriamente utilizzato da Ione (cfr. infra la nota 76); dall’altro serve a mostrare ulteriormente, e stavolta in modo esplicito, la scarsa conoscenza che Ione ha dei poemi (cfr. già supra le note 65 e 67). 74   Le due ammissioni di Ione, limitate in realtà all’assenso a Socrate, sono in sequenza a 538b4-6. 75   In base alla nuova collazione dei manoscritti, Rijks­ba­ron 2007, pp. 215218, ha dimostrato che W isola con due dicola (:) σχεδόν τι attribuendolo a Ione; gli altri testimoni non offrono segnali chiari, benché convergano comunque nell’attribuire a Socrate questo passaggio. La disposizione delle battute resa da W rende in effetti piú efficaci sintassi e contenuto, e per questo viene qui mantenuta – benché sia estremamente dubbia da un punto di vista tradizionale.

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γυναικί, καὶ ὁποῖα δούλῳ καὶ ὁποῖα ἐλευθέρῳ, καὶ ὁποῖα ἀρχομένῳ καὶ ὁποῖα ἄρχοντι. σωκρατης Ἆρα ὁποῖα ἄρχοντι, λέγεις, ἐν θαλάττῃ χειμαζομένου πλοίου πρέπει εἰπεῖν, ὁ ῥαψῳδὸς γνώ­ σεται κάλλιον ἢ ὁ κυβερνήτης; ιων Οὔκ, ἀλλὰ ὁ κυβερνήτης τοῦτό γε. σωκρατης Ἀλλ᾿ ὁποῖα ἄρχοντι κάμνοντος πρέπει εἰπεῖν, ὁ ῥαψῳ- [c] δὸς γνώσεται κάλλιον ἢ ὁ ἰατρός; ιων Οὐδὲ τοῦτο. σωκρατης Ἀλλ᾿ οἷα δούλῳ πρέπει, λέγεις; ιων Ναί. σωκρατης Οἷον βουκόλῳ, λέγεις, δούλῳ ἃ πρέπει εἰπεῖν ἀγριαινουσῶν βοῶν παραμυθουμένῳ, ὁ ῥαψῳδὸς γνώσεται ἀλλ᾿ οὐχ ὁ βουκό- | λος;

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na, per uno schiavo o per un uomo libero, per chi è comandato o per chi comanda76. socrate Intendi forse, per esempio, che il ra­pso­do conoscerà meglio di un timoniere quali parole è conveniente dire per chi comanda un vascello battuto dalla tempesta in mare aperto? ione No, anzi: meglio il timoniere! socrate Invece, il ra­pso­do [c] conoscerà meglio del medico quali è opportuno dire per chi comanda le azioni di un malato? ione Questo no di certo. socrate Ma allora intendi quelle siffatte, che siano convenienti per uno schiavo? ione Sí! socrate A tuo avviso, per esempio, sarà il ra­pso­ do e non il bovaro a conoscere quelle che conviene dire a uno schiavo bovaro per calmare i suoi buoi divenuti irrequieti?77. 76   La risposta di Ione si basa probabilmente sul fatto che il termine preposto a designare il genere epico, ἔπη – in opposizione a μέλη, ecc. –, e la presenza nei poemi di narrazioni, dialoghi, ecc., possono rimandare all’εἰπεῖν (infinito aoristo di λέγω, «dire»): in questo senso la formulazione di Ione rias­sume con grande concentrazione l’argomento dell’epica, le azioni e le conversazioni di uomini e donne, schiavi e uomini liberi, padroni e subordinati (cfr. già 531c1d2). Nella stessa prospettiva, il significato che Ione attribuisce a πρέπον ha a che fare con la resa poe­tica (per l’uso del termine nell’esegesi omerica preplatonica cfr. Lanata 1963, p. 106, nota 3) di tali scene e conversazioni, un significato ben lontano da quello propriamente platonico (a cui comunque, con ogni probabilità, si vuole alludere; cfr. supra l’introduzione, pp. 297-98) ma in fondo vicino a quello “esteriore” su cui converge Ippia nell’Ippia maggiore (293e11 sgg. con le note 98, 100 e 107). 77   Socrate confuta Ione specificando le sue generali indicazioni, cioè calando ciascuna affermazione in uno specifico contesto tecnico: ogni asserzione sarà cosí propria di una certa arte. L’articolazione della confutazione ha certamente dei tratti ironici, in quanto individua delle situazioni concrete e poco celebrate a fronte del tono ben piú roboante con cui Ione ha presentato gli “oggetti” della ra­pso­dia. Nel fare questo, tuttavia, Socrate non è del tutto scorretto e probabilmente non fraintende Ione: se questi alludeva alle scene epiche, Socrate ha solo sciolto la formulazione generale proponendo situazioni comunque riscontrabili nei poemi. Al contempo, proprio in questo frangente appare chiara la carenza di Ione nel cogliere una possibile via d’uscita: pur suggerendo una delle specificità della letteratura, cioè il proporre solo una rappresentazione di azioni, non isola il suo contenuto «in quanto tale», ma segue Socrate nell’ambigua assimilazione tra operazioni e loro rappresentazioni poe­tiche (cfr. già supra la nota 62).

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Οὐ δῆτα. Ἀλλ᾿ οἷα γυναικὶ πρέποντά ἐστιν εἰπεῖν ταλασιουργῷ περὶ ἐρίων ἐργασίας; ιων Οὔ. σωκρατης Ἀλλ᾿ οἷα ἀνδρὶ πρέπει εἰπεῖν γνώσεται στρατηγῷ στρατιώ- [d] ταις παραινοῦντι; ιων Νὴ < Δία >, τὰ τοιαῦτα γνώσεται ὁ ῥαψῳδός. σωκρατης Τί δέ; ἡ ῥαψῳδικὴ τέχνη στρατηγική ἐστιν; ιων Γνοίην γοῦν ἂν ἔγωγε οἷα στρατηγὸν πρέπει εἰπεῖν. σωκρατης Ἴσως γὰρ εἶ καὶ στρατηγικός, ὦ Ἴων. καὶ γὰρ εἰ ἐτύγχανες ἱππικὸς ὢν ἅμα καὶ κιθαριστικός, ἔγνως ἂν ἵππους εὖ καὶ κακῶς ἱππαζομένους· ἀλλ᾿ εἴ σ᾿ ἐγὼ ἠρόμην· [e] «Ποτέρᾳ δὴ τέχνῃ, ὦ Ἴων, ιων

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ione No di certo. socrate Invece quelle siffatte, che è conveniente dire sulla lavorazione della lana per una donna che fili? ione No. socrate Conoscerà allora quelle siffatte, che è conveniente dire per un uomo che eserciti la strategia, [d] nel momento in cui inciti i soldati? ione Sí 78, il ra­pso­do conoscerà cose di questo tipo! socrate Allora? L’arte della ra­pso­dia è della stra­ tegia?79. ione In effetti, posso affermare di essere un conoscitore di tali cose, quelle che è opportuno dire per uno stratega. socrate Allora, Ione, sei egualmente anche un esperto di strategia. Ora, se per assurdo fossi, non so, un esperto di ippica e insieme di citaristica, conosceresti i cavalli buoni da cavalcare e quelli cattivi. Ma se, parlando ancora per assurdo, io ti chiedessi: [e] «Con quale arte, 78   Per sanare il testo tràdito, νή, è qui preferibile rinunciare alla troppo incisiva integrazione di Rijks­ba­ron 2007, pp. 221-22 – νὴ < Δία > («per ») – e recuperare (con i precedenti editori) la congettura antica (forse bessarionea, nel ms. Marc. gr. 186) ναί («sí»), sostenuta anche dalla plausibilità di un’affermazione omogenea alla precedente serie di risposte negative. 79   La traduzione tenta di mantenere la formulazione greca: lo stesso aggettivo in -ικός, se sostantivato (ἡ …-ική), indica l’arte – qui «l’arte della ra­pso­dia» –, mentre senza articolo l’attività/l’ambito di oggetti di un’arte (qui quelli propri “della strategia”). L’arte della ra­pso­dia sembrerebbe cioè occuparsi anche della strategia, cioè “inglobare” la strategia. L’esempio a cui Ione ha finalmente dato l’assenso indica, come già i precedenti, un’applicazione specifica della descrizione generale che ha fornito a 539d5-e5. A farlo capitolare sono infatti motivi estrinseci di varia natura: la preponderanza dell’argomento militare nell’epica omerica e la particolare importanza di questo aspetto sugli altri (la navigazione, la medicina, la tessitura, la pastorizia). Flashar 1958, pp. 86-87, ha inoltre sottolineato la caratteristica affinità rivendicata dai sofisti (per la relazione tra Ione-ra­pso­do e atteggiamenti sofistici cfr. già supra la nota 1) tra la propria arte e la competenza in materia militare. La confutazione che segue mostra una nuova mossa dialettica di Socrate. Ione non coglie che quanto si ostina ad affermare contrasta con la tematizzazione di arte precedentemente convenuta, poiché identifica due arti e i relativi oggetti. A 541a3-4, dunque, Socrate potrebbe evocare nuovamente il principio di distinzione delle arti; egli, però, evita di farlo, segue Ione nelle sue dichiarazioni per poi colpirlo ironicamente con un argomento ben piú semplice e pratico, tratto dalla realtà politica, forse l’unico che Ione riesca a cogliere.

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γιγνώσκεις τοὺς εὖ ἱππαζομένους ἵππους; ᾗ ἱππεὺς εἶ ἢ ᾗ κιθαριστής;» τί ἄν μοι ἀπεκρίνω; ιων Ἧι ἱππεύς, ἔγωγ᾿ ἄν. σωκρατης Οὐκοῦν εἰ καὶ τοὺς εὖ κιθαρίζοντας διεγίγνωσκες, ὡμολόγεις ἄν, ᾗ κιθαριστὴς εἶ, | ταύτῃ διαγιγνώσκειν, ἀλλ᾿ οὐχ ᾗ ἱππεύς. ιων Ναί. σωκρατης Ἐπειδὴ δὲ τὰ στρατιωτικὰ γιγνώσκεις, πότερον ᾗ στρατηγικὸς εἶ γιγνώσκεις ἢ ᾗ ῥαψῳδὸς ἀγαθός; ιων Οὐδὲν ἔμοιγε δοκεῖ διαφέρειν. 541 [a] σωκρατης Πῶς οὐδὲν λέγεις διαφέρειν; μίαν λέγεις τέχνην εἶναι τὴν ῥαψῳδικὴν καὶ τὴν στρατηγικὴν ἢ δύο; ιων Μία ἔμοιγε δοκεῖ. σωκρατης Ὅστις ἄρα ἀγαθὸς ῥαψῳδός ἐστιν, οὗτος καὶ ἀγαθὸς στρατηγὸς τυγχάνει ὤν; ιων Μάλιστα, | ὦ Σώκρατες. σωκρατης Οὐκοῦν καὶ ὅστις ἀγαθὸς στρατηγὸς τυγχάνει ὤν, ἀγαθὸς καὶ ῥαψῳδός ἐστιν. ιων Οὐκ αὖ μοι δοκεῖ τοῦτο. σωκρατης Ἀλλ᾿ ἐκεῖνο μὲν δοκεῖ σοι, ὅστις γε [b] ἀγαθὸς ῥαψῳδός, καὶ στρατηγὸς ἀγαθὸς εἶναι; ιων Πάνυ γε. σωκρατης Οὐκοῦν σὺ τῶν Ἑλλήνων ἄριστος ῥαψῳδὸς εἶ; ιων Πολύ γε, ὦ Σώκρατες. σωκρατης Ἦ καὶ στρατηγός, ὦ Ἴων, τῶν Ἑλλήνων ἄριστος εἶ; ιων Εὖ ἴσθι, ὦ Σώκρατες· | καὶ ταῦτά γε ἐκ τῶν Ὁμήρου μαθών. σωκρατης Τί δή ποτ᾿ οὖν πρὸς τῶν θεῶν, ὦ Ἴων, ἀμφότερα ἄριστος ὢν τῶν Ἑλλήνων, καὶ στρατηγὸς

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Ione, conosci i cavalli buoni da cavalcare, quella con la quale sei un esperto del cavalcare o quella con la quale sei un citarista?» cosa mi risponderesti? ione Io farei: «Quella con la quale sono un esperto del cavalcare». socrate Dunque, se per assurdo fossi anche in grado di valutare quelli che suonano bene la cetra, saresti d’accordo che sapresti valutarli proprio in virtú di quella con la quale sei un citarista, e non di quella con la quale sei un esperto del cavalcare. È cosí? ione Sí. socrate Ma visto che conosci ciò che riguarda l’esercito, lo conosci in virtú dell’arte con la quale sei un esperto di strategia o in virtú di quella con la quale sei un buon ra­pso­do? ione Non mi pare che differiscano in nulla. 541 [a] socrate In che senso dici che non differiscono in nulla? A tuo avviso l’arte della ra­pso­dia e l’arte della strategia sono una sola arte oppure due? ione Una sola, mi pare. socrate Quindi chiunque sia un buon ra­pso­do si trova a essere anche un buono stratega? ione Assolutamente, Socrate. socrate Dunque, vale anche che chiunque si trovi a essere un buono stratega è buono anche come ra­pso­do? ione Questo invece non mi pare. socrate L’altra cosa, invece, pare a te, cioè che chiunque sia [b] un buon ra­pso­do è anche un buono stratega? ione Certamente. socrate E tu non sei il miglior ra­pso­do tra i Greci? ione Di gran lunga, Socrate. socrate E allora anche come stratega, Ione, sei il migliore tra i Greci? ione Devi esserne certo, Socrate! E questo proprio perché ho appreso quanto ne ha detto Omero. socrate Ma allora, per gli dèi, perché mai tu, Ione, pur essendo il migliore dei Greci in entrambi i campi, come stratega e come ra­pso­do, pratichi la ra­pso­dia viag-

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καὶ ῥαψῳδός, ῥαψῳδεῖς μὲν περιιὼν τοῖς Ἕλλησι, στρατηγεῖς δ᾿ οὔ; ἢ ῥαψῳ- [c] δοῦ μὲν δοκεῖ σοι χρυσῷ στεφάνῳ ἐστεφανωμένου πολλὴ χρεία εἶναι τοῖς Ἕλλησι, στρατηγοῦ δὲ οὐδεμία; ιων Ἡ μὲν γὰρ ἡμετέρα, ὦ Σώκρατες, πόλις ἄρ­ χεται ὑπὸ ὑμῶν καὶ στρατηγεῖται καὶ οὐδὲν δεῖται στρατηγοῦ, ἡ δὲ | ὑμετέρα καὶ ἡ Λακεδαιμονίων οὐκ ἄν με ἕλοιτο στρατηγόν· αὐτοὶ γὰρ οἴεσθε ἱκανοὶ εἶναι. σωκρατης Ὦ βέλτιστε Ἴων, Ἀπολλόδωρον οὐ γι­ γνώσκεις τὸν Κυζικηνόν; ιων Ποῖον τοῦτον; σωκρατης Ὃν Ἀθηναῖοι πολλάκις ἑαυτῶν στρα­ τηγὸν ᾕρηνται [d] ξένον ὄντα· καὶ Φανοσθένη τὸν Ἄνδριον καὶ Ἡρακλείδην τὸν Κλαζομένιον, οὓς ἥδε ἡ πόλις ξένους ὄντας, ἐνδειξαμένους ὅτι ἄξιοι λόγου εἰσί, καὶ εἰς στρατηγίαν καὶ εἰς τὰς ἄλλας ἀρχὰς ἄγει· Ἴωνα δ᾿ ἄρα τὸν Ἐφέσιον οὐχ αἱρήσεται | στρατηγὸν καὶ τιμήσει, ἐὰν δοκῇ ἄξιος λόγου εἶναι; τί δέ; οὐκ Ἀθηναῖοι μὲν ἐστὲ οἱ Ἐφέσιοι τὸ ἀρχαῖον, καὶ ἡ Ἔφε- [e] σος οὐδεμιᾶς ἐλάττων πόλεως; ἀλλὰ

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giando in missione80 tra le genti greche, ma non eserciti la strategia? O [c] ti pare che per i Greci sia di grande utilità un ra­pso­do incoronato con una corona dorata, mentre uno stratega di nessuna? ione Il fatto, Socrate, è che la nostra città è comandata da voi e sottoposta ai vostri strateghi, quindi non ha alcun bisogno di uno stratega; la vostra città e quella dei Lacedemoni, d’altro canto, non potrebbero scegliermi come stratega: credete infatti di bastare a voi stessi81. socrate Ottimo Ione, non conosci Apollodoro di Cizico? ione Che uomo sarà mai? socrate Quello che piú volte gli Ateniesi hanno scelto come proprio stratega [d] benché fosse straniero. E anche Fanostene di Andro e Eraclide di Clazomene: benché stranieri, questa nostra città li eleva alla strategia e ad altre cariche, perché hanno mostrato di essere degni di considerazione. E ora, invece, non sceglierà come stratega né onorerà Ione di Efeso, qualora paia degno di considerazione? E poi, voi Efesini non siete di origine ateniese? E non è forse vero che Efeso [e] non è inferiore a nessuna città?82. 80   L’etimologia (strumento retorico tipico dell’epica greca) Ἴων - περιιών (la traduzione tenta di renderla forzando περιιών in «viaggiando in missione») sembra confermare le ipotesi sulla scelta del nome dell’interlocutore da parte di Platone; cfr. supra la nota 1. 81   Ione non rifiuta una descrizione politica, anzi sarebbe ben felice di essere scelto addirittura come stratega ateniese; ciò sembra rimandare a una qualche ispirazione “sofistica” del ra­pso­do (cfr. supra la nota 1). È però difficile non vedere in queste righe una certa ironia di Platone nei confronti della propria città: supponendo che il dialogo sia ambientato durante la guerra del Peloponneso (cfr. la nota seguente), Platone – facendo riferimento alle “leve” della democrazia ateniese e a quelle acquisite – esercita una forte “ironia” in relazione al triste esito del conflitto. 82   Efeso è una città della Ionia, le cui genti sono tradizionalmente vicine alle popolazioni attiche di Atene. Per quanto Efeso sia stata alleata di Atene anche dopo la morte di Socrate, cioè durante la guerra di Corinto (per la quale cfr. infra la nota 76 al Menesseno), essa fu realmente assoggettata dalla città solo fino al 412 (cfr. Moore 1974, pp. 431-32); una datazione simile per questo cenno è inoltre suggerita dal riferimento a Sparta e Atene come due potenze assolute e contrapposte. Indicazioni analoghe, anche se non del tutto coerenti, provengono dalle figure citate: quasi nulla è noto di Apollo-

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γὰρ σύ, ὦ Ἴων, εἰ μὲν ἀληθῆ λέγεις ὡς τέχνῃ καὶ ἐπιστήμῃ οἷός τε εἶ Ὅμηρον ἐπαινεῖν, ἀδικεῖς, ὅστις ἐμοὶ ὑποσχόμενος ὡς πολλὰ καὶ καλὰ περὶ Ὁμήρου ἐπίστασαι καὶ φάσκων ἐπιδείξειν, ἐξαπα- | τᾷς με καὶ πολλοῦ δεῖς ἐπιδεῖξαι, ὅς γε οὐδὲ ἅττα ἐστὶ ταῦτα περὶ ὧν δεινὸς εἶ ἐθέλεις εἰπεῖν, πάλαι ἐμοῦ λιπαροῦντος, ἀλλὰ ἀτεχνῶς ὥσπερ ὁ Πρωτεὺς παντοδαπὸς γίγνει στρεφόμενος ἄνω καὶ κάτω, ἕως τελευτῶν διαφυγών με στρατηγὸς 542 [a] ἀνεφάνης, ἵνα μὴ ἐπιδείξῃς ὡς δεινὸς εἶ τὴν περὶ Ὁμήρου σοφίαν. εἰ μὲν οὖν τεχνικὸς ὤν, ὅπερ νῦν δὴ ἔλεγον, περὶ Ὁμήρου ὑποσχόμενος ἐπιδείξειν ἐξαπατᾷς με, ἄδικος εἶ· εἰ δὲ μὴ τεχνικὸς εἶ, ἀλλὰ θείᾳ μοίρᾳ κατεχόμενος ἐξ Ὁμήρου | μηδὲν εἰδὼς πολλὰ καὶ καλὰ λέγεις περὶ τοῦ ποιητοῦ, ὥσπερ ἐγὼ εἶπον περὶ σοῦ, οὐδὲν ἀδικεῖς. ἑλοῦ οὖν πότερα βούλει νομίζεσθαι ὑπὸ ἡμῶν ἄδικος εἶναι ἀνὴρ ἢ θεῖος.

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In realtà83, Ione, se è vero quanto dici, che sei in grado di lodare Omero per arte e conoscenza, commetti un’ingiustizia. Vedi, proprio tu, che sostieni di sapere molte e belle cose su Omero e prometti di esibirle, mi inganni e, lungi dal produrre la tua esibizione oratoria, sei il primo a non voler dire quelle cose sulle quali sei formidabile nonostante io insista ormai da molto tempo. Anzi, come Proteo assumi spontaneamente ogni forma cambiando costantemente traiettoria, finché all’ultimo momento, per sfuggirmi, mi appari di nuovo in veste di stratega 542 [a] con il solo fine di non esibire le capacità formidabili della tua sapienza su Omero. Se dunque possiedi un’arte e – come or ora dicevo – pur avendo preso l’impegno di esibirti su Omero mi inganni, sei ingiusto. Se invece non possiedi alcuna arte, ma sei posseduto da Omero per una certa prossimità divina e dici molte e belle cose sul poe­ta pur senza sapere nulla – esattamente come dicevo di te84 – non commetti alcuna ingiustizia. Scegli dunque quale delle due cose dobbiamo ritenere, che tu sei un uomo ingiusto o uno divino. doro di Cizico (cfr. Nails 2002, p. 40) oltre questa citazione, ma si suppone sia stato naturalizzato intorno al 410; poco di piú si sa di Fanostene di Andro (cfr. Nails 2002, pp. 235-36), la cui naturalizzazione è databile grazie a un'iscrizione tra il 410 e il 407; per la dubbia interpretazione di due decreti è stato a lungo ritenuto che Eraclide di Clazomene sia stato naturalizzato solo nel 392/1 (alcuni critici hanno visto qui un anacronismo o basi per dichiarare spurio il dialogo; cfr. le rassegne di Flashar 1959, pp. 1-16, e Moore 1974, pp. 432-38, e le pagine di quest'ultimo per una confutazione di tali posizioni), ma pare probabile che la naturalizzazione risalga piuttosto al 424/3(cfr. Nails 2002, pp. 159-60). 83   L’argomento ha toni evidentemente ironici: Ione è ingiusto perché non conduce quell’ἐπίδειξις su Omero che Socrate gli ha per due volte impedito di esibire (530d9-531a2 e 536d6-e2). Proprio per questo, la scelta di Ione è ancora piú paradossale: senza rivendicare la propria correttezza, si lascia blandire dalla descrizione come «divino», ampiamente tradizionale per i poe­ti. Flashar 1958, pp. 88-90, ha proposto che Platone voglia descrivere Ione come realmente ingiusto in quanto figura sofistica, dunque sfuggente, proteiforme, contraddittoria e priva di arte. In realtà, un simile finale sbrigativo e ironico suggerisce soprattutto la possibilità che vi sia qualcosa di ulteriore e importante da dire sulla poe­sia, o meglio, su una possibile autentica poe­tica filosofica (cfr. Gaiser 1984, p. 112). Per la struttura letteraria della conclusione cfr. supra l’introduzione, pp. 299-301. 84   A 536b4 sgg.

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[b] ιων Πολὺ διαφέρει, ὦ Σώκρατες, θεῖος· πολὺ γὰρ κάλλιον τὸ θεῖον νομίζεσθαι. σωκρατης Τοῦτο τοίνυν τὸ κάλλιον ὑπάρχει σοι παρ᾿ ἡμῖν, ὦ Ἴων, θεῖον εἶναι καὶ μὴ τεχνικὸν περὶ Ὁμήρου ἐπαινέτην.

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[b] ione Divino, e di gran lunga, Socrate: è ampiamente piú bello essere ritenuto divino. socrate E allora, Ione, per quanto ci riguarda ti appartiene proprio questa piú bella qualifica, di essere, su Omero, un autore di lodi divino e non in possesso di arte.

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Introduzione

Il sottotitolo del Menesseno1 nelle antiche classificazioni dei dialoghi platonici è ἐπιτάφιος2, discorso funebre, del genere etico. La parte maggiore del dialogo è infatti costituita da una lunga orazione funebre in onore dei caduti in guerra tenuta da Socrate dopo il suo incontro con Menesseno, giovane in procinto di intraprendere la carriera politica. L’orazione, stando alla stessa dichiarazione di Socrate, è stata da lui udita il giorno prima da Aspasia. La parte finale dell’epitafio è costituita da una prosopopea in cui Socrate riferisce, dichiarando di averlo udito direttamente dalla loro voce, il discorso che i padri-antenati nell’imminenza del pericolo raccomandavano venisse fatto ai loro figli in caso di morte: una toccante esortazione alla virtú che culmina in una perorazione a favore degli onori da rendere ai caduti. Il dia1   L’edizione piú recente, con commento, è Tsitsiridis 1998. Tra le traduzioni recenti con commento si segnala Loayza 2006 (traduzione francese, con introduzione e note). Tra i molti studi si vedano in particolare Scholl 1959; von Löwenclau 1961; Kennedy 1963, pp. 158-65; Kahn 1963; Vlastos 1973; Loraux 1974; Clavaud 1980, che contiene anche (pp. 17-77) un resoconto analitico della letteratura precedente, inclusa la piú antica; Labriola 1980; Coventry 1989; Labarbe 1991; Collins-Stauffer 1999; Tulli 2003. 2   Fin da Aristotele (Rhet., III, 14, 1415b30) la tradizione antica utilizza spesso il titolo ἐπιτάφιος, proposto dai manoscritti come sottotitolo. Se, come probabile, il titolo voluto da Platone era Menesseno, l’attribuzione del sottotitolo – ammettendo che non fosse già stato stabilito da Platone – deriva dal corpo del dialogo, che consiste appunto in un epitafio; per la questione cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 127-29. Anche altri autori, generalmente legati alla tradizione socratica e platonica, scrissero opere intitolate Menesseno – forse ispirandosi a Platone –; secondo Diogene Laerzio (III, 60, 3-4) il dialogo è di genere etico.

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introduzione

logo si conclude con la promessa fatta da Socrate a Menesseno – scettico circa l’effettiva provenienza del λόγος da Aspasia – di altri discorsi politici, belli e numerosi. 1.

Interpretazioni e problemi del dialogo.

Il Menesseno è stato definito il piú enigmatico tra i dialoghi platonici3 e quello che presenta il ritratto di Socrate piú paradossale. Sono molti, in effetti, i problemi posti dal dialogo4. Il piú immediato è un vistoso anacronismo: nel corso dell’orazione, che si profonde in un encomio di Atene nella sua storia dalle origini al presente, ci si riferisce ad avvenimenti relativi alla guerra corinzia e alla pace di Antalcida, con cui essa si concluse (386 a.C.); siamo dunque a tredici anni dalla morte di Socrate. Anacronismo complementare è il fatto che l’interlocutore di Socrate, Menesseno, se deve essere identificato – secondo l’opinione prevalente5 – con uno dei personaggi del Liside, presente inoltre nel Fedone alla morte di Socrate6, difficilmente poteva essere nel 386 un giovane in procinto di intraprendere la carriera politica. Ugualmente enigmatica è la dichiarazione di Socrate che il discorso proviene da Aspasia, la concubina di Pericle che ebbe grande influenza culturale e suscitò grande interesse nei circoli socratici, anch’ella quasi sicuramente già morta alla data fittizia del dialogo (aveva dato a Pericle un figlio che nel 406, alla battaglia delle Arginuse, era già stratega). Stando a quel che dichiara Socrate (236a-b), Aspasia, autrice dell’epitafio pronunciato a suo tempo 3   Friedländer 2004, p. 633 (=1964, vol. II, p. 202); Kahn 1963, p. 220. Critico Clavaud 1980, p. 65: il termine rivelerebbe solo la scarsa convinzione di alcuni autori rispetto alle loro stesse tesi. 4   Che hanno portato alcuni (Momigliano, Bluck, Tigerstedt) a sostenerne l’inautenticità: cfr. Thesleff 1982, p. 116, nota 1. 5   Eccezioni: Rosenstock 1994; Dean Jones 1995, secondo cui si tratta di Menesseno figlio di Socrate; cfr. infra la nota 1 del commento. Dubbi erano già stati espressi da Wilamowitz 1919-20, vol. I, p. 185. 6   Cfr. Phaedo, 59b.

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da Pericle7, avrebbe in parte improvvisato, in parte fatto uso, incollandoli, di spezzoni residuali di quel discorso. L’opinione sfavorevole di Platone nei confronti di Pericle8 e la critica, altrove esplicita9, a questa modalità di composizione di uno scritto sembrano già mettere in cattiva luce il discorso che segue. L’orazione funebre di Socrate-Aspasia contiene poi, nella sua ricostruzione della storia politica e delle gesta di Atene, una serie di forzature e distorsioni, omissioni e falsificazioni piú o meno palesi che hanno colpito i lettori moderni e delle quali si è cercato di determinare le finalità, con spiegazioni spesso divergenti o antitetiche. Piú in generale, non sono immediatamente evidenti i motivi e le finalità che possono avere indotto Platone, severo critico della retorica in generale, a cimentarsi nel genere dell’orazione funebre. Secondo l’ipotesi piú riduttiva, si tratterebbe di un discorso redatto ad arte da Platone per mostrare che le sue capacità non sono inferiori a quelle dei retori contemporanei10. La prestazione fornita da Socrate è da lui stesso qualificata, prima che abbia inizio, nei termini di uno «scherzare» (παίζειν, 236c9); ciò sembrerebbe porre una pesante ipoteca sulla orazione che segue e vanificare in partenza la sua stessa validità, inducendo legittimi sospetti circa la serietà del suo contenuto. Lo «scherzare» e il «gioco», tuttavia, possono avere in Platone una funzione piú seria di quanto si sia immediatamente portati a pensare11. Nell’antichità, in ogni caso, l’orazione fu unanimemente presa sul serio12. Cicerone (Orator, 44, 151; cfr. 7   Di questa orazione abbiamo la versione di Tucidide; per il rapporto con l’orazione del Menesseno cfr. infra. 8   Cfr. Gorg., 515d-516d; 519a; Men., 94b; Prot., 319e-320a. 9   Phaedr., 278d-e. 10   Wilamowitz 1920, vol. II, p. 126 sgg.; questo non esclude per W. che il dialogo avesse finalità politiche. 11   Cfr. Phaedr., 276b-e; 277e: in ogni scritto c’è παιδιά; Symp., 215c-e; cfr. von Löwenclau 1961, pp. 144-48. 12   Secondo Eucken 1983, pp. 162-65, tuttavia, già Isocrate avrebbe considerato il Menesseno come una caricatura.

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infra) riferisce che ad Atene era abituale recitarla ogni anno, e anche altri retori antichi la citano senza il minimo dubbio che il suo contenuto non vada preso alla lettera13. Tra i moderni è invece prevalsa l’interpretazione ironica, sorretta da una serie di dati oggettivi: l’innegabile ironia sottesa al dialogo iniziale, il ricorso ad Aspasia, le eclatanti distorsioni storiche, l’assunzione dei medesimi toni e registri stilistici della vituperata retorica. Interpretazione che ha portato a considerare il dialogo una satira parodistica della retorica, inizialmente oggetto di una lode il cui carattere ironico è immediatamente riconosciuto da Menesseno, o una critica della democrazia ateniese e del suo massimo rappresentante, Pericle14, o entrambe le cose15. Gorgia in particolare è stato riconosciuto quale principale bersaglio, e la composizione del Gorgia platonico risale probabilmente agli stessi anni16; ma oggetti possibili di polemica sono stati individuati anche in Tucidide e nel celebre epitafio pericleo delle Storie17, spesso analizzato in parallelo. L’encomio funebre, genere in cui Platone doveva veder convergere i vizi della retorica e quelli della politica, si prestava particolarmente bene allo scopo. L’epitafio è stato dunque interpretato come una caricatura, o quantomeno una imitazione ironico-parodistica della retorica adulatoria dell’epoca nella sua indifferenza alla verità, indicativo di un modello negativo da non seguire (l’anacronismo relativo a Socrate avrebbe, secondo alcune interpretazioni, la funzione di segnalare le inten13   Dionigi di Alicarnasso (Demosth., 23-30) cita e commenta l’orazione, lodando l’introduzione, criticando la parte intermedia per le sue esagerazioni retoriche e riportando alla lettera l’ultima parte. 14   Labriola 1980; Loraux 1993, pp. 315-29. 15   Nella sua forma piú vigorosa e dettagliata l’interpretazione ironica è stata sostenuta da Clavaud 1980, partendo dal vecchio studio di Berndt 1881; cfr. anche Vlastos 1973; Loraux 1974; Henderson 1975; Coventry 1989. 16   Cfr. Dodds 1959, p. 24, nota 2. Per elementi di dipendenza di Platone da Gorgia cfr. invece Tulli 2007. 17   Per esempio Pohlenz 1913, pp. 256-309; questo vale anche nella diversa prospettiva propria dell’interpretazione “seria”: Scholl 1959, pp. 99-117; Kahn 1963, pp. 224 e 231 (Tucidide e anche Lisia).

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zioni simulatorie)18. In alcune versioni dell’interpretazione ironica è naturalmente possibile riconoscere un messaggio positivo nel Menesseno, consistente nel mostrare la necessità che la politica si fondi sulla filosofia e le conseguenze negative che derivano dalla mancata attuazione di questo principio19. L’interpretazione ironica deve però fare i conti con altri dati, che fanno presumere intenti seri. Molte indicazioni e giudizi relativi ai fatti storici sembrano collimare con posizioni espresse da Platone in contesti non certamente satirici, e alcune tesi etiche esprimere l’autentico sentire platonico. Accanto alla critica ironica o alla satira sarebbero riconoscibili elementi di serietà e dichiarazioni sincere che rivelano finalità pedagogiche e convinte motivazioni politiche, con l’intento, da parte di Platone, di agire concretamente sulla realtà; in alcuni casi si è poi ritenuto di poter individuare scopi molto precisi20. L’orazione è stata interpretata, in questa prospettiva, come una condanna dell’imperialismo ateniese e dei suoi esiti disastrosi concretizzatisi nei fatti che si conclusero con la pace del Re; un appello all’unità della Grecia contro il barbaro, secondo il dif18   Méridier 1931, p. 64; Guthrie 1975, p. 320; la stessa idea circa la funzione dell’anacronismo, sotto il segno di un’interpretazione diversa, in Rosenstock 1984. L’anacronismo del Socrate redivivo non va sovrainterpretato (cfr. in proposito Tulli 2003, pp. 91-94): il genere dei λόγοι σωκρατικοί, di cui fanno parte anche i dialoghi platonici, fa solitamente parlare non il Socrate storico, ma un Socrate idealizzato, proponendo quello che Socrate avrebbe detto, nelle intenzioni dell’autore, se fosse stato ancora vivo. Nonostante interpretazioni anche molto suggestive, dietro il visibile anacronismo, che non è l’unico nei dialoghi, non sono probabilmente da decifrare altre intenzioni se non quella di ribadire l’autorevolezza e l’attualità della figura di Socrate. 19   Per esempio Coventry 1989. 20   Per esempio Huby 1957: il Menesseno sarebbe stato composto per smuovere la coscienza degli Ateniesi in un momento storico in cui i tagli alle spese andavano a colpire i caduti (cfr. Lisia, XIX, 11; in questo senso si era espresso già Pohlenz 1913, p. 296, sottolineando la richiesta di tutela e assistenza degli orfani di guerra); secondo Kahn 1963, p. 230, si tratta del primo tentativo da parte di Platone di influenzare la politica ateniese dopo il suo ritorno dal viaggio in Sicilia. Un obiettivo politico era riconosciuto anche da Wilamowitz 1920, vol. II, pp. 126 sgg.

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fuso ideale panellenico (da Gorgia a Isocrate); e come un complementare encomio dell’Atene delle origini, o di una Atene idealizzata secondo i desideri e gli auspici di Platone; o ancora, come un modello di corretta retorica funebre con intenti parenetico-protrettici, da sostituire a quella vigente, e ciò in linea con il piú generale progetto platonico di rimpiazzare la disprezzata retorica corrente con una sua nuova versione filosoficamente fondata21. Particolare supporto a un’interpretazione che individui elementi di serietà è stato offerto dalla prosopopea finale, nella quale è evidente un cambiamento di registro, sottolineato da quasi tutti gli interpreti22: abbandonato ogni riferimento ai fatti storici e venuto meno il terreno piú adatto a falsificazioni e distorsioni, la parte conclusiva del discorso sviluppa una commossa esortazione alla virtú civica. Il sincero tono protrettico e l’apparente sensatezza dei contenuti, esaltati in gran parte da una sapiente padronanza degli strumenti retorici, rendono piú difficile decifrare tratti e scopi ironici; sono stati qui individuati, al contrario, segni evidenti di dottrine platoniche, inclusa la tesi dell’unità della virtú. E tuttavia è stato possibile interpretare anche questa parte nel segno dell’ironia, ridimensionando la portata filosofica delle tesi espresse: si tratterebbe nel migliore dei casi di generici richiami a valori civici ed etico-politici per lo piú accettati e condivisibili, privi di autentiche connessioni con la filosofia platonica, se non addirittura di formule inaccettabili e prive di significato23. La presenza di due componenti, serietà e ironia, che difficilmente si riescono a sopprimere per intero, induce a considerare troppo angusta l’alternativa Scherz /Ernst. 21   Per questo filone interpretativo cfr. Harder 1934; Scholl 1959; von Löwenclau 1961; Gaiser 1963; Kahn 1963; Kennedy 1963; Thurow 1968. 22   Notato già da Plutarco (Pericl., 23). Un mutamento di tono è riconosciuto naturalmente anche dai sostenitori dell’interpretazione ironica. 23   Per esempio Méridier 1931, pp. 71-73; Guthrie 1975, pp. 318-19; Clavaud 1980, pp. 203-28; Coventry 1989, pp. 14-15.

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Molte tra le interpretazioni ricordate, che presentano sfumature di cui è impossibile qui dare completamente conto, ricercano un equilibrio tra queste due componenti, e si lasciano difficilmente inquadrare entro schemi rigidi, individuando la tensione tra i due aspetti nell’intero dialogo, o tra le sue parti, con possibili variazioni: ironico solo il λόγος iniziale di Socrate sui retori, serio tutto il resto; ironica la parte storica dell’epitafio, seria la prosopopea finale; oppure, un misto di ironia e serietà che pervade l’intera orazione. L’estrema varietà delle interpretazioni – divergenti, come si è visto, rispetto alla stessa finalità complessiva dello scritto – conferma l’enigmaticità del Menesseno, facendone un interessante oggetto di indagine. 2.

Brevi cenni storici.

La composizione del Menesseno risale con tutta probabilità al periodo immediatamente successivo alla pace di Antalcida, o «pace del Re» (386 a.C.), ai cui esiti si fa riferimento nel corso dell’orazione. Il trattato di pace segnò la fine della guerra corinzia, combattuta da Sparta contro la Persia e sul fronte interno contro Atene e le altre maggiori città greche (Tebe, Argo, Corinto). Il nodo della questione era costituito dalle richieste di aiuto rivolte a Sparta dalle città greche d’Asia minore, minacciate dalla Persia. In questa guerra il gioco delle alleanze non fu però lineare, con ribaltamenti vari della politica spartana verso la Persia e atteggiamenti ambivalenti di Atene, da un lato sostenuta anche finanziariamente dalla Persia, dall’altro pur sempre ostile a essa e impegnata in piú circostanze in azioni antipersiane. La guerra si svolse su vari fronti, con vittorie alterne. Dopo la sconfitta subita nella guerra del Peloponneso contro Sparta, Atene si era gradualmente risollevata, grazie anche agli aiuti finanziari ottenuti dalla Persia tramite la mediazione

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di Conone (cui si allude nel Menesseno a 245a), riallestendo una flotta e ricostruendo le lunghe mura (392); ciò suscitò gli ovvi timori di Sparta, già logorata da una guerra condotta su due fronti, e fu uno dei fattori che favorirono già prima del 386 una linea incline alle trattative di pace con i Persiani (trattative di Sardi, 392). Nel contempo era sempre piú cresciuta, almeno sul piano culturale-ideologico, la consapevolezza di una forte identità ellenica nella sua distinzione dal barbaro, con la graduale formazione di un ideale panellenico. Durante le prime trattative di pace prese corpo l’ipotesi di cedere alla Persia le città greche d’Asia in cambio dell’autonomia delle altre città greche, alla quale inizialmente gli Ateniesi (unici, secondo il Menesseno) si opposero. La questione fu in ogni caso ad Atene molto controversa. La pace finalmente stipulata nel 386 prevedeva, in cambio dell’autonomia delle città greche e di alcune cleruchie che rimanevano sotto il controllo ateniese (le isole di Lemno, Imbro, Sciro), la definitiva rinuncia all’autonomia delle città greche d’Asia minore, consegnate al controllo persiano; un esito difficile da accettare per tutti coloro che – tra i quali lo stesso Platone – rivendicavano con orgoglio l’identità ellenica nella sua profonda diversità dal “barbaro”, l’antico nemico persiano. Questa rivendicazione costituisce il nerbo della tensione morale, ironica o meno, dell’orazione del Menesseno. 3.

Il genere dell’epitafio.

Annualmente aveva luogo ad Atene una cerimonia funebre in onore dei caduti in guerra (cfr. Tucidide, II, 34, 1-7), accompagnata da un’orazione, l’epitafio, pronunciata da una personalità di rilievo designata dalla βουλή. Secondo quanto si legge in Demostene (Or., XX, 141), si trattava di una peculiare usanza ateniese; l’epitafio venne poi a costituire una tipologia all’interno

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del genere oratorio epidittico. La letteratura di questo genere a noi pervenuta non è molto vasta24; tra i piú celebri epitafi si annovera – termine di confronto importante per il Menesseno – quello pronunciato da Pericle al termine del primo anno della guerra del Peloponneso nella versione che ne offre Tucidide (II, 34, 8 - 46, 2), sicuramente una rielaborazione condotta secondo i canoni della storiografia antica. L’epitafio, per quel che ne è possibile ricostruire, si svolgeva secondo rubriche fisse: la celebrazione dei morti tramite un encomio della loro terra di origine, in alcuni casi con esaltazione dell’autoctonia ateniese, e il ricordo delle gesta degli antenati; l’elogio della costituzione politica e della conforme educazione dei caduti; in conclusione, una consolazione dei parenti e un’esortazione ai vivi. Da questo punto di vista l’epitafio è tra i generi della retorica quello che permette minore libertà di azione, costringendo l’oratore entro moduli prestabiliti25. All’epoca di Platone esistevano probabilmente manuali di retorica in cui le relative istruzioni erano codificate, in modo tale da permettere, in caso di necessità, l’improvvisazione. Il Menesseno ci fornisce indicazioni importanti, quando Socrate, a fronte della proclamata difficoltà del compito, allude all’esistenza di discorsi già predisposti (λόγοι παρεσκευασμένοι, 235d1-2; cfr. infra) sui quali un oratore può basarsi per la composizione di epitafi che a volte devono essere preparati in un tempo breve. Questo istituto rituale, fondamentale per la coesione sociale interna alla πόλις e per la stessa identità della democrazia ateniese, non poteva evidentemente essere del tutto alieno da quelle forme di adulazione che co24   Gli epitafi piú antichi a noi pervenuti sono, oltre a quello di PericleTucidide, alcuni frammenti di Gorgia (82A15; B27 dk), di dubbia autenticità; un Epitafio attribuito a Lisia (spurio), uno attribuito a Demostene (dubbio), uno di Iperide. 25   Kennedy 1963, pp. 154-58; Loraux 1993, pp. 231-74; Tulli 2003, pp. 94-96. Cfr. anche infra la nota 24 del commento.

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stituiscono per Platone la quintessenza della retorica26. Di qui la tendenza diffusa a considerare l’esemplare platonico come una imitazione con intenti satirici o una parodia. Ma nella misura in cui si riconosce a Platone l’intento di fondare una nuova, corretta forma di retorica, la questione rimane problematica. 4.

La cornice dialogica.

All’inizio del dialogo Socrate incontra Menesseno, proveniente dal βουλευτήριον, dove il consiglio si appresta a designare un oratore che tenga l’encomio dei caduti. Lo stesso luogo di provenienza del giovane lascia supporre a Socrate che egli sia ormai in procinto (come noi sappiamo, in ossequio a un’indicazione di Callicle nel Gorgia, ma anche di Isocrate)27, di abbandonare, a ridosso dell’età adulta, la sua formazione culturale – qui chiamata «filosofia» – per intraprendere la carriera politica e governare sui suoi concittadini. Una notazione, questa, che alla luce di altri dialoghi28 lascia già presentire la diffidenza di Socrate. Menesseno, peraltro, si presenta come un fedele discepolo di Socrate, rendendo manifesta la sua intenzione di dedicarsi alla politica solo con l’approvazione del maestro. La prima prestazione di Socrate consiste in un elogio (234c1235c5), visibilmente ironico, della retorica funebre, i cui effetti sull’anima del destinatario vengono descritti nei termini di un incanto e uno stregamento che inducono in chi ascolta autocompiacimento e una perdurante   Cfr. infra la nota 7 del commento.   Isocrate, Antid., 266. 28   Cfr. in Gorg., 484c e 485e le tesi di Callicle (e l’analoga tesi di Adimanto in Resp., 487b-d) secondo cui la filosofia è un’attività che va praticata da giovani, ma deve essere abbandonata in età matura perché inadatta alla vita pubblica. Cfr. inoltre l’intero Alcibiade I, in cui vengono messe alla prova le ambizioni politiche di Alcibiade, mostrando la necessità che chi intende esercitare ruoli di governo in politica possegga la virtú. Cfr. anche infra la nota 3 del commento.

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estraniazione, capace di indurre la sensazione di essere prossimi alle isole dei beati. Elementi fortemente critici di questo genere retorico sono già espliciti: esso esalta anche persone di poco conto per il solo fatto di essere morte e produce sull’ascoltatore un effetto alienante, insieme a un ingiustificato senso di superiorità. È all’opera l’idea, sviluppata nel Gorgia e poi nel Fedro, del potere decettivo della retorica deteriore, strutturalmente fondata sull’adulazione e sulla falsità. Menesseno coglie senza difficoltà l’ironia, ma ridimensiona la critica alla retorica implicita nella descrizione socratica (quell’effetto sembra presupporre un’accurata e meticolosa preparazione), ricordando che in questo frangente l’oratore prescelto si troverà costretto, dato lo scarso tempo a disposizione, a improvvisare. Socrate, di rimando, sostiene con convinzione la facilità di tenere discorsi del genere anche all’ultimo momento, sia perché l’oratore può contare su discorsi preconfezionati, sia perché – una notazione ripresa da Aristotele e divenuta proverbiale – è facile lodare gli Ateniesi davanti agli Ateniesi, mentre non lo sarebbe di fronte agli Spartani (vale a dire, l’adulazione propria della retorica consiste nel compiacere i destinatari dicendo loro ciò che si aspettano e predisponendoli cosí a un giudizio acriticamente positivo). Alla domanda, se sia in grado di tenere un discorso del genere, Socrate non risponde, come ci si potrebbe attendere, negativamente, ma fa comunque ricadere ogni eventuale merito della sua supposta perizia nel parlare su quell’Aspasia della quale si proclama discepolo; da lei, cui risalirebbe la composizione della celebre orazione funebre tenuta da Pericle, ha udito il discorso che si accinge a pronunciare, composto in parte improvvisando, in parte incollando pezzi (inevitabile qui pensare alla descrizione contenuta nel Fedro, 278d8-e2, del procedimento di cucitura seguito dagli scrittori di discorsi) dell’epitafio pericleo. L’attribuzione ad Aspasia stabilisce come inevitabile termine di confronto l’ora-

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zione periclea in Tucidide, piú volte esaminata in parallelo nella letteratura29. 5.

L’orazione.

L’esordio e l ’ a u t o c t o n i a .

L’orazione ricalca nella sua struttura moduli abituali dell’encomio funebre, facendo uso di luoghi comuni e di uno stile piuttosto carico, intessuto di figure retoriche e prossimo a quello gorgiano. L’encomio ricalca, nel suo ordine interno, un modulo prestabilito, sul quale si innestano elementi originali: proemio, celebrazione dei natali dei caduti e della loro educazione, rassegna delle gesta della città, consolazione ed esortazione30. Dopo un esordio basato su luoghi comuni (236d4-237c4), la celebrazione dei natali dei caduti, confinata inizialmente ai loro padri, acquista una dimensione assai piú ampia. I loro progenitori nacquero dalla terra come da una madre, processo assunto a modello della generazione di esseri umani da altri umani. L’encomio è, piú in particolare, una lode del territorio dell’Attica, caro alla divinità, come comprova la mitica contesa degli dèi per il suo dominio. È qui che si generò l’uomo stesso, come mostrano le colture tipiche di questa terra, orzo e grano, nutrimento basilare del genere umano. Sotto la tutela degli dèi, i progenitori dei caduti ricevettero per primi il dono delle arti e una costituzione politica. Questi motivi sottolineano la superiorità, l’antichità e la purezza del popolo dell’Attica e il suo legame originario con il territorio abitato, ma ancor piú radicalmente lo identificano con l’uomo originario, facendolo assurgere a paradigma dell’umanità. Nonostante il ricorso a luoghi 29   Cfr. von Löwenclau 1961, passim. Il richiamo ad Aspasia è stato talvolta interpretato come un’allusione all’Aspasia del socratico Eschine di Sfetto (cfr. Dittmar 1912). 30   Cfr. infra, anche per i paralleli, le note 24, 25, 32, 40, 84 del commento.

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comuni, Platone tratta il tema con notevole originalità; in particolare, il topos della nobiltà di natali (εὐγένεια) si salda con il motivo dell’autoctonia, sviluppato sino a sfociare nella dottrina dei nati dalla terra, che ha un parallelo nel piú elaborato mito del Politico31 e allude a un’età d’oro, in cui la terra offriva spontaneamente i suoi frutti e l’uomo viveva ancora sotto la tutela degli dèi. Il successivo elogio della costituzione (238b7-239a4) rie­ labora temi dell’epitafio pericleo, apportando, non senza evidenti forzature, significative modifiche. L’accento è posto sull’ininterrotta continuità temporale della costituzione, definita un’aristocrazia con l’approvazione dei piú, chiamata da alcuni democrazia, ma nella sostanza una forma in cui a governare sono chiamati i migliori, in base alla loro fama di virtú e sapienza; si sottolinea l’elemento sempre presente della regalità dei governanti, con probabile riferimento alla figura dell’arconte re (all’epoca una figura la cui denominazione era puramente verbale e sicuramente non piú rappresentativa della regalità)32. L’uguale origine (ἰσογονία) stabilita in precedenza fonda da un lato il rapporto di fratellanza tra i cittadini e la profonda differenza rispetto alle oligarchie e alle tirannidi, dove tra governanti e sudditi vigono rapporti di padronanza-schiavitú; dall’altro è alla base dell’uguaglianza secondo la legge (ἰσονομία), interpretata come una conferma dell’idea che l’unico criterio di supremazia di alcuni cittadini su altri sia costituito dalla virtú. In questo modo viene fondato il legame di continuità stabilito tra autoctonia e forma di governo democratico-aristocratica, la cui presunta continuità temporale costituisce la piú evidente tra le forzature sul piano storico33. 31   Cfr. infra la nota 25 del commento. Secondo questo mito (Pol., 268d274e), nell’età di Crono, quando il dio accompagnava il cammino del mondo, egli guidava e assisteva come un pastore la razza degli uomini, che nascevano dalla terra e non si riproducevano l’uno dall’altro; un’era prepolitica, pretecnica e prefilosofica. Quando invece il dio si ritirò, il mondo, abbandonato a se stesso, ruotò in senso inverso procedendo nel senso di un crescente disordine. 32   Cfr. infra la nota 34 del commento. 33   Cfr. infra la nota 36 del commento.

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I fatti sto r i c i .

Le gesta dell’Atene storica si qualificano nel segno della virtú (ἀρετή), e della libertà (ἐλευθερία), motore delle guerre contro il barbaro, ma anche di quelle intraelleniche. Particolare risalto viene dato alla continuità della virtú di Atene, che ha costituito un modello per l’agire coraggioso dei suoi cittadini e per la loro educazione (παιδεία), e al suo ruolo guida nella difesa della libertà della Grecia. L’intera sezione è costellata da una serie di omissioni ed esagerazioni, distorsioni, se non falsificazioni della realtà storica. La ricostruzione storica allude solo di passaggio ai fatti piú antichi e prende le mosse dalle guerre persiane, nelle quali il ruolo di Atene viene ingigantito a scapito delle altre città greche. La battaglia di Maratona sarebbe stata sostenuta dalla sola Atene, con gli Spartani arrivati a cose concluse; nessuna menzione della presenza dell’esercito di Platea34. Il ruolo di Sparta è attenuato anche nella battaglia di Platea (479 a.C.), tramite una non corretta valutazione, proposta in termini paritetici, dell’apporto di Ateniesi e Spartani. Viene omesso qualsiasi riferimento all’impero marittimo ateniese (talassocrazia), visto, com’è noto, con sfavore da Platone35, e in generale all’imperialismo ateniese, edulcorato occultando sistematicamente le pretese egemoniche ed espansionistiche della città dietro il paravento della difesa dai Persiani. Se la guerra persiana fu una guerra di tutti i Greci contro i barbari (242a), subentrano in seguito il desiderio di emulazione e l’invidia delle altre città, individuati come causa dei successivi conflitti; Atene viene cosí liberata da ogni responsabilità. Nei fatti riguardanti la guerra del Peloponneso la città viene elogiata per aver saputo prevalere da sola contro gli altri Greci, coalizzati sotto

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  Cfr. infra la nota 47 del commento.   Cfr. Leg., 704d-707c.

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la guida di Sparta. La spedizione in Sicilia viene giustificata con il pretesto di soccorrere Lentini; di nuovo una motivazione nobile, la volontà di soccorrere altri Greci. Quanto all’ultima fase della guerra, con le battaglie navali dell’Ellesponto, viene deprecata l’alleanza spartana con la Persia, in contrasto con l’indisponibilità di Atene ad allearsi con il barbaro, ma soprattutto occultata, con argomenti speciosi, la sconfitta finale di Atene: la battaglia delle Arginuse (ultima vittoria ateniese), vista come l’occasione in cui si è manifestata la virtú di Atene al suo massimo livello, assurge a simbolo di una perenne superiorità della città, in quanto da essa si origina la sua fama di ideale invincibilità; ciò consente di ricondurre ogni successiva sconfitta a un dissidio interno, rendendo di fatto la città il soggetto storicamente piú degno di attenzione (243c-d), ma comporta anche la prima critica esplicita, proprio a causa di questo conflitto intestino, sintomo di irrimediabile decadenza. Eppure la virtú di Atene rende anche la successiva lotta intestina, con riferimento al regime dei trenta tiranni (404-3), la migliore delle guerre civili possibili. Viene conseguentemente esaltata la riconciliazione seguita alla lotta intestina, alla στάσις, sia all’interno che all’esterno, ricondotta ancora una volta alla comune origine dei Greci, senza menzionare l’intervento spartano. E inevitabilmente è omesso ogni riferimento a quella che agli occhi di Platone dovette essere l’ingiustizia piú grande commessa dalla città, la condanna di Socrate. Nella successiva descrizione della guerra di Corinto si insiste sulla magnanimità di Atene, disposta in nome della liberazione dalla schiavitú a soccorrere, in una guerra non voluta ma subita, anche coloro che le erano stati ingiustamente ostili; si ricorda velatamente il ruolo avuto da Conone (non nominato espressamente) nell’aiuto portato al re di Persia, ma distinguendo la sua azione, iniziativa sostanzialmente autonoma, dalla posizione della città, per principio estranea a un’alleanza appena tollerata. Dalla ricostruzione dei fatti fornita non risulta nulla

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circa i rapporti di Atene con la Persia e i finanziamenti ricevuti. E solo Atene viene presentata come fieramente contraria, ancora in nome della purezza ellenica, alla cessione al gran Re delle città greche d’Asia. In generale, l’orazione evita ogni riferimento all’imperialismo ateniese, alle sue mire espansionistiche ed egemoniche: Atene appare costantemente guidata da un generoso desiderio di libertà, sempre diretto a vantaggio delle altre città, che ha rappresentato l’ultimo baluardo dei Greci contro il barbaro. La deformazione, in generale, della realtà storica è un dato inoppugnabile, sul quale però le spiegazioni fornite dalla critica divergono: satira sferzante della politica ateniese, ottenuta tramite il carattere eclatante delle falsità, delle distorsioni e dell’edulcorazione; o, all’opposto, descrizione dell’Atene ideale, in contrasto con la realtà storica; o, con intenti critico-costruttivi, (amara) descrizione dell’Atene che avrebbe dovuto essere e non fu (sempre tenendo conto del genere oratorio in questione, che impone per sua stessa natura una deformazione in qualche misura della realtà storica). La prosop o p e a .

In questa parte dell’epitafio, che si caratterizza per originalità rispetto alle altre orazioni funebri rimaste, si percepisce un mutamento di registro, unanimemente sottolineato dalla critica e segnato anche da un’altra variazione: a parlare sono ora i morti (246d1-248d6), mentre nella successiva chiusa l’oratore riprende la parola rivolgendosi direttamente ai figli e ai padri dei caduti (248d7-249d1). Il tono solenne accompagna una sentita esortazione alla virtú, non legata ai fatti storici e di portata universale. Le parole iniziali dei padri fanno pensare alla scelta del Socrate dell’Apologia: a una vita non bella costoro preferirono una bella morte; la loro esortazione a ricercare la virtú, che sola rende bello qualsiasi altro posses-

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so, ricorda quella di Socrate nella sua difesa (41e2-5). L’idea che non è una vita degna di essere vissuta quella di chi deve vergognarsi di se stesso può essere considerata, in una «civiltà della vergogna» (secondo la celebre definizione di Dodds), piuttosto ovvia. Sembra invece piú significativa, quanto a implicazioni filosofiche, la successiva affermazione che senza la ἀρετή ogni possesso od occupazione diviene un male, perché la ricchezza accompagnata da viltà (ἀνανδρία, 246e3) non apporta bellezza morale, e allo stesso modo la bellezza corporea e la forza appaiono sconvenienti in chi è vile. Ogni conoscenza (ἐπιστήμη, 246e7) priva di virtú è furbizia (πανουργία) e non sapienza (σοφία, 247a1). I figli dovranno sforzarsi di superare, senza dilapidarla, la fama dei progenitori (perché sarebbe turpe essere onorati per tale fama e non per i propri meriti) e, nella stessa logica, trasmettere la propria ai propri figli. In questo modo essi realizzeranno tra loro un legame di autentica amicizia. Nell’idea che l’ἀρετή sia condizione necessaria perché ciò che è comunemente ritenuto un bene sia in effetti tale si possono individuare tracce della dottrina platonica dell’unità della virtú; la tripartizione dei beni sembra almeno delineata nella successione ricchezza-bellezza corporea e forza-giustizia e altre virtú, e l’opposizione σοφία/ πανουργία come quella tra la vera sapienza e una abilità non orientata dalla virtú e rivolta all’inganno è proposta anche altrove da Platone36; lo stesso vale per l’idea che nessuno debba basare la propria fama su quella dei progenitori (247b3-4), che trova paralleli nei dialoghi37; il futuro canone delle virtú (sapienza, coraggio, temperanza, giustizia) sembra anticipato nella triade σώφρων / ἀνδρεῖος/ φρόνιμος, da cui non può essere separata la già citata giustizia nel suo ruolo primario (247a1); il richiamo al precetto delfico «nulla di troppo» (μηδὲν ἄγαν, 247e5) con la sua esortazione alla misura

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  Cfr. Leg., 747c3 e anche Resp., 519a-b.   Cfr. Theaet., 174e-175b. e Lys., 205c-d.

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è fondamentale in Platone38, anche nella sua applicazione ai casi luttuosi39. Principalmente su questi paralleli si è basata la posizione di chi intende le indicazioni della prosopopea come conformi alle dottrine filosofiche di Platone. Altri interpreti sono stati però inclini a neutralizzare la portata strettamente filosofica di tutte queste indicazioni, riconducendole nel contesto di una morale popolare e convenzionale; altri, ancor piú radicalmente, le hanno interpretate ironicamente, ritenendole confuse o false, in ogni caso non riconducibili a una dottrina filosoficamente fondata; o ancora, si è ritenuto che il tono serio serva solo a inasprire l’ironia, rivelando come impossibile l’applicazione di autentici principî morali alla realtà storica nel suo squallore. La chiusu r a .

Nel breve scambio di chiusura (249d1-e7) Menesseno esprime dubbi circa la provenienza dell’orazione da Aspasia: una donna sarebbe stata in grado di comporre tali discorsi? Socrate lo invita a seguirlo per averne conferma, ma Menesseno, perseverando nel suo scetticismo, ribatte di conoscere bene Aspasia, come a ribadire che il λόγος non può provenire da lei, e aggiunge di essere grato al suo autore, chiunque costei (o costui) sia. Socrate promette altri discorsi politici di Aspasia, numerosi e belli. Anche per questo breve dialogo finale si pone l’alternativa tra un’interpretazione seria e una ironica. 6.

Proposte di soluzione.

L’enigma del Menesseno si riflette nella possibilità di letture diametralmente opposte, ognuna delle quali sem-

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  Cfr. Charm., 165a3; Phil., 45e1.   Cfr. Resp., 387e.

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bra avere buoni argomenti dalla sua. Spiegare come questo sia possibile significa forse offrire una chiave per la soluzione delle difficoltà. In generale, è venuto sempre piú in luce negli studi recenti che Platone, lontano dal criticarla in assoluto, intende sostituire alla retorica corrente una propria forma di retorica corretta, intesa come strumento di persuasione filosoficamente orientato. Ed è verosimile, in linea di principio, estendere questo quadro alla retorica funebre, che rientra tra le pratiche indispensabili di una comunità politica. Il genere dell’encomio funebre, una volta adottato, impone determinati passaggi obbligati. Mediante il richiamo ai procedimenti di incollaggio di parti preesistenti, con aggiunte del momento, Platone segnala che il genere dell’epitafio è stereotipato, prevedendo moduli fissi da cui non è possibile discostarsi troppo, ma che il discorso a venire contiene sensibili novità. L’attribuzione ad Aspasia e la citazione di Pericle permettono di individuare come termine di riferimento piú probabile l’epitafio in Tucidide, cui debbono essere apportati importanti correttivi. L’adozione di questo genere, piú o meno forzata, impone anche il ricorso a un determinato stile retorico, da cui Platone non rifugge in determinate circostanze (i suoi discorsi nel Fedro ne sono un esempio; cfr. infra). La presenza di elementi parodistici è difficilmente negabile, ma non necessariamente comporta, come si vedrà, una totale svalutazione dell’epitafio e la sua riduzione a una moquerie. Quanto al contenuto, se un encomio deve essere pronunciato, non ci si può certo aspettare che esso metta in luce i vizi e gli errori della politica ateniese; distorsioni, omissioni e, in certa misura, falsificazioni della realtà storica divengono inevitabili. Platone ammette e teorizza, nel contesto politico della Repubblica (414b-c), la possibilità, da parte dei filosofi governanti in possesso del sapere, di una nobile menzogna a fin di bene, e anche le sue pratiche retoriche la richiedono. D’altro canto, non

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ci si può aspettare che un epitafio ambientato nell’Atene democratica e nelle condizioni storiche dell’epoca, di necessità rivolto – almeno idealmente – a un pubblico ampio, contenga un modello ideale di πόλις sub specie aeternitatis; esso non può che limitarsi a proporre una descrizione della migliore πόλις possibile, ferma tenendo la forma di governo vigente al momento, proiettata nel corso della storia; né può contenere una descrizione della ἀρετή filosofica, ma solo la forma di virtú possibile per i destinatari del discorso e nelle condizioni storiche del momento: una virtú civica e politica, come si vedrà meglio, di secondo livello. Tutto ciò pone al tempo stesso seri limiti intrinseci all’epitafio, collocandolo a un livello inferiore a quello delle tesi filosofiche di Platone, e richiede una presa di distanza in qualche forma, spesso attuata mediante l’ironia. Su questo stato di cose ha trovato il suo fondamento l’interpretazione ironico-parodistica, che agli elementi ironici ha però dato valore assoluto, sopprimendo tendenzialmente ogni intenzione seria. Trovare la via per conciliare ironia e serietà, gioco e intenti etico-politici, rappresenta la sfida principale per l’interprete del Menesseno. L’elogio i n i z i a l e .

I paralleli con la Repubblica e il Politico a proposito delle dottrine dell’autoctonia e dei nati dalla terra permettono di individuare una dottrina autenticamente platonica, sia pure in una formulazione embrionale. Il mito del Politico, con la descrizione di un’età aurea in cui la nascita dalla terra si colloca nella fase in cui l’uomo gode dell’assistenza del dio e non è lasciato a se stesso, costituisce parte integrante della concezione della storia di Platone40. La descrizione iniziale del Menesseno allude a un’era pretecnica, prepolitica e prefilosofica, agli

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  Gaiser 1963, pp. 205-17.

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albori della comunità umana, in cui non trova ancora posto la città di Atene41. A questa fase seguirà un ciclo di decadenza, delineato nel Menesseno nella successiva storia di Atene: dall’unità panellenica contro il barbaro alle lotte fratricide, alla discordia civile nella città, sino al tradimento perpetrato con il sacrificio delle città greche d’Asia. Nella Repubblica il mito di Cadmo, pur espressamente definito «nobile menzogna» (414b9-c1), fonda l’interna coesione del corpo sociale: i nati dalla terra sono fratelli e consanguinei, salvo le differenze di natura (stirpe aurea, argentea, bronzea) che determinano le diverse funzioni (guardiani, ausiliari, crematisti) e la conseguente distinzione della πόλις in classi. Mediante questi accenni Platone propone in abbozzo le linee generali della sua concezione della storia e piú specificamente fornisce un primo fondamento teorico al diffuso topos dell’autoctonia e alla stessa ἰσονομία democratica. Nei dialoghi politici a venire (a prescindere dal grado di effettiva convinzione, da parte di Platone, riguardo al contenuto dei miti proposti) è indubbio che a queste dottrine venga conferita una funzione positiva in senso fondativo, e la presenza, non necessaria in un encomio, di spunti in questo senso rivela un intento serio, inconciliabile con l’interpretazione ironica nella sua versione piú estremistica. Quanto al successivo elogio della costituzione, l’atteggiamento generalmente critico di Platone verso la democrazia e le evidenti forzature nella ricostruzione storica offrono in prima battuta argomenti all’interpretazione ironica: un governo dei migliori solo apparente, la democrazia ateniese, se le cariche vengono assegnate dai piú – criterio per Platone inaccettabile –, e a coloro che solo sembrano i migliori, criterio già inficiato dalla parentela linguistica di quel sembrare (δοκεῖν) con la svalutata δόξα42. Altre tesi, tuttavia, sembrano esprimere

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  Cfr. infra la nota 25 del commento.   Dodds 1959, p. 24, nota 2. Cfr. la nota 35 del commento.

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autentiche convinzioni di Platone. La fratellanza tra i cittadini e il loro diverso modo di considerazione reciproca rispetto a quello in uso in forme di governo degeneri quali le tirannidi e le oligarchie richiama una tesi centrale della Repubblica: nella πόλις ideale le reciproche denominazioni impiegate da guardiani e sudditi – salvatori gli uni, sostentatori gli altri –, profondamente differenti da quelle in vigore nelle altre città, dove i sudditi sono chiamati schiavi (δοῦλοι) e i governanti despoti (δεσπόται) – cfr. 463a-464a –, rispecchiano la parentela e fratellanza dei cittadini. Nel Menesseno l’accento è posto sul governo dei migliori, della virtú e del sapere, e a esso viene piegato lo schema democratico con una concessione al potere della maggioranza, arbitra della scelta dei governanti; una concessione in linea di principio certamente non conforme alle idee platoniche, ma considerata nel quadro della sia pur improbabile eventualità che la scelta sia felice; un governo di questo tipo, con al suo interno elementi di regalità, che incontri l’approvazione dei sudditi, è forse la migliore soluzione concretamente possibile in alternativa all’ideale platonico. Non lo stato ideale, dunque, in cui i criteri della scelta saranno altri, ma la migliore realizzazione possibile entro i confini della forma democratica, il cui encomio è giocoforza in un epitafio ateniese; una democrazia, però, emendata con correttivi, a prezzo di qualche distorsione rispetto agli eventi storici, in cui la moltitudine sia di fatto guidata dal criterio della scelta dei migliori43. I fatti sto r i c i .

L’epitafio è un’orazione funebre, non un’opera di ricostruzione storica. Un intento doloso di falsificazione può essere in alcuni casi ridimensionato. Alcune distorsioni possono dipendere dall’uso di una fonte di parte; 43   Cfr. anche la descrizione del governo misto nelle Leggi (712c sgg.) come la miglior forma possibile del momento.

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altre non sono intenzionali o non sembrano comunque interpretabili in senso ironico; l’attribuzione ai soli Ateniesi della vittoria di Maratona, per esempio, è ribadita nelle Leggi (698e-699a) e rappresentava probabilmente un punto di vista diffuso44. Oggettivamente piú fondata da un punto di vista storico (benché la questione rimanga discutibile) è la tesi che nella guerra di Corinto Atene si oppose con maggiore vigore, rispetto a Sparta, alla cessione delle città greche d’Asia minore e difese con maggior vigore il principio dell’autonomia, anche se ciò avvenne probabilmente piú in funzione particolaristica e di difesa delle proprie posizioni che non nel nome di un’unificazione politica della grecità45. La questione rimane controversa, ma non al punto da poter individuare, aldilà di ogni dubbio, un intento ironico dietro le tesi sostenute nell’orazione. Se la riconduzione dell’imperialismo ateniese a un altruistico anelito di libertà risulta comprensibile semplicemente in base alla tendenza, propria di ogni politica imperialista, ad autogiustificarsi adducendo come motivazione le altrui richieste di aiuto (dove sarebbe sin troppo facile citare esempi della storia recente), in altri casi l’edulcorazione degli avvenimenti storici è realizzata in nome di principî piú specifici condivisi da Platone e formulati in altri dialoghi: tra questi, l’idea di una fratellanza interna al corpo sociale, fondata per natura, e la consapevolezza dell’identità ellenica nella sua distinzione dal barbaro, che comporta una differenza sostanziale tra guerra e lotta intestina e conseguenti regole di comportamento differenziato anche per il tempo di guerra, quali il dovere della riconciliazione e la rinuncia all’annientamento o alla riduzione in schiavitú46. Altre deformazio44   Cfr. Erodoto, IX, 27, 5; Tucidide, I, 73, 4; Kahn 1963, pp. 224-25; Loayza 2006, p. 24. 45   Cfr. Musti 1990, p. 523, versione che trova conferme nell’attidografo Filocoro. 46   Cfr. Resp., 469b-471c e Gastaldi 2000, pp. 322-24. Il comportamento degli Ateniesi dopo la battaglia di Sfacteria, con Atene che risparmia i prigio-

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ni sono ugualmente originate da sincere convinzioni di Platone, quali la sua diffidenza verso la talassocrazia, una costante della politica ateniese a partire da Pericle, e la visione negativa della guerra in quanto tale. Tutto ciò non toglie che ironia e critica alla politica fattuale ateniese siano in molti casi sottese, ma non al punto che si possa considerare una parodia l’intera orazione. Nei casi di flagrante difformità dalla realtà storica si deve supporre l’intento di dipingere l’Atene quale si vorrebbe fosse stata in quei frangenti: non la città ideale in assoluto, ma rispetto alle circostanze, e nel quadro di una inevitabile decadenza legata ai cicli storici. La prosop o p e a c o n c l u s i v a .

La prosopopea che conclude l’orazione è stata, di fatto, la piú difficile da giustificare per l’interpretazione ironica, che ha puntato, per svalutare i suoi contenuti, soprattutto sul divario che li separa dalle piú autentiche posizioni di Platone. In ciò essa ha avuto buon gioco contro le interpretazioni “serie” che hanno preteso di ricondurre tout court quei contenuti alle tesi basilari della filosofia platonica. L’alternativa sembra però mal posta e può essere fuorviante, sia recidere ogni legame con le dottrine platoniche, sia accentuare in modo indiscriminato i paralleli con tesi filosofiche espresse altrove da Platone. Una prospettiva piú adeguata può basarsi sul riconoscimento di differenti livelli di virtú nell’etica platonica, concezione presente con evidenza nei dialoghi. La ἀρετή filosofica basata sulla conoscenza epistemica del bene, che implica la tesi dell’unità delle singole virtú e la loro presenza simultanea in un soggetto, non può che essere appannaggio di pochi, dal momento che «è imposnieri, ricalca l’indicazione che si trova nella Repubblica, dove è condannata la lotta intestina tra Greci (distinta dalla guerra, che è contro il barbaro) e si invita a un trattamento benevolente, che rinunci alla schiavitú e all’annientamento; Tulli 2003, pp. 104-5.

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sibile che la massa sia filosofa» (Resp., 491a-b; 494a), e nel contesto di un progetto politico, anche ideale, non ci si può aspettare altro nella massa dei cittadini se non una virtú «popolare» (δημοτική: Phaedo, 82a11; Resp., 500d8) di livello inferiore. La virtú eventualmente conseguibile dai piú risulta da una combinazione della disposizione naturale, o virtú fisica, con una retta opinione trasmessa e consolidata dall’educazione e dall’abitudine; qui la tesi dell’unità dell’ἀρετή non vale piú negli stessi termini e i singoli rimangono ancora caratterizzati da virtú specifiche. Di questo tipo è per esempio il coraggio degli ausiliari nella Repubblica, definito non in termini di «scienza», ma di «opinione» (δόξα) e qualificato come «politico» (Resp., 430b2-c6). L’ἀρετή di cui si parla nell’epitafio sembra in effetti caratterizzata in primo luogo come coraggio, secondo quanto mostra l’individuazione dei suoi naturali opposti nella mancanza di virilità (ἀνανδρία, 246e3) e nella viltà (δειλία, 246e7). Ciò è perfettamente naturale nel contesto di un encomio di caduti in guerra47. Naturale pensare, data l’ampiezza dei destinatari, non alla virtú filosofica, ma a una virtú politica di secondo livello. L’idea che ogni conoscenza (ἐπιστήμη) priva di virtú sia solo furbizia, capacità di raggiro (πανουργία)48, impiega – come accade spesso in Platone – la nozione di ἐπιστήμη propria del linguaggio ordinario, intesa come sapere competente in qualche ambito, e non come la conoscenza in senso forte propria del filosofo-dialettico, che implica la virtú o è a essa identica. A un superiore livello la tesi risulta 47   Secondo Clavaud 1980, pp. 213-14 è brusco e non preparato il salto dall’ἀρετή intesa come coraggio alla virtú in senso lato (247a1: δικαιοσύνης καὶ τῆς ἄλλης ἀρετῆς), e l’idea che il coraggio, qui non associato, come vorrebbe l’unità delle virtú, alla temperanza, sia il bene supremo, non è platonica. Ma il passaggio è naturale già sul piano semantico e serve esattamente a condurre l’ascoltatore verso una concezione meno angusta di virtú. E non sarebbe platonica, allora, l’idea della presenza nel corpo sociale di nature temperanti (poco inclini al coraggio) e nature coraggiose (poco inclini alla temperanza) che vanno amalgamate dall’uomo politico (Pol., 306e-311a)? 48   Cfr. in Hipp. Min., 365e4 l’accoppiamento di πανουργία e φρόνησις.

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falsa, perché l’autentico sapere, la vera ἐπιστήμη, non può essere separato dalla virtú (come del resto è falsa, a un livello superiore, la definizione, nella Repubblica, del coraggio in termini di opinione). Ciò nonostante sarebbe erroneo considerarla, per questo, indizio di un intento ironico; essa esprime una convinzione platonica49 e allude alla tesi dell’unità della virtú, proponendone un modello di rango inferiore valido per il cittadino ideale non filosofo, che dovrà cercare di contemperare il coraggio naturale con la forma di consapevolezza a lui possibile, definibile in termini di un’opinione vera trasmessa dall’educazione e consolidata dall’abitudine. La chiusa .

Nel perseverante dubbio di Menesseno circa la possibilità che una donna, Aspasia, fosse in grado di comporre discorsi di quel livello è implicita una sua valutazione positiva dell’epitafio50. Alla successiva conferma da parte di Socrate Menesseno persevera nel suo scetticismo, e nella sua risposta all’ennesima conferma di Socrate («non le sei grato per il λόγος?») ripete i suoi dubbi («chiunque sia colei o colui che te l’ha esposto»), con un significativo passaggio dal femminile al maschile. È grato a chi ha 49   Cfr. Resp., 495a-b e Theaet., 176c-177a, qui in termini di δεινότης (abilità); inoltre Ep. X, 358c. 50   Un analogo gioco si svolge in Euthyd., 290e-291a (cfr. von Löwenclau 1961, pp. 126-27), dove Critone dubita che un discorso riferito da Socrate come di Clinia possa provenire, per i suoi contenuti elevati, da un giovane; va notato che la tesi “di Clinia” (superiorità del dialettico, che sa servirsi dei risultati delle altre arti) è sicuramente platonica. L’accorgimento drammatico del Menesseno risulta incomprensibile in certe versioni dell’interpretazione ironico-satirica: perché far intendere, alla fine, che il λόγος non è di Aspasia, ma di Socrate, se attribuirlo ad Aspasia serviva a far capire che Platone in realtà lo ripudia? Se si accredita l’interpretazione ironica, Menesseno, il cui riconoscimento immediato dell’ironia contenuta nella lode socratica della retorica funebre viene considerato decisivo, sarebbe ora, nella sua valutazione positiva del λόγος, completamente fuori strada. Secondo Clavaud 1980, pp. 70-71 la felicitazione di Menesseno sarebbe, dopo una parodia, obbligatoria (tesi del tutto gratuita; cosa avrebbe ostato a un ulteriore segnale ironico, anche in forma allusiva?).

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pronunciato quel discorso (249e1: ὁ εἰπών) a Socrate e a Socrate che l’ha pronunciato a lui (249e2: τῷ εἰπόντι), dove l’identità dei termini sottintende quella delle persone51. Menesseno ha dunque smascherato il gioco di Socrate52, vero autore del discorso. La riconduzione a Socrate sembra indicare che il λόγος va preso seriamente, in quanto migliore rispetto ai correnti epitafi, ma al tempo stesso segnala la sua incompiutezza rispetto a un percorso ben piú lungo, cui Socrate allude con il suo annuncio di altri discorsi politici a venire, numerosi e belli. Questa strada potrà essere seguita o no da Menesseno, a seconda che egli perseveri nel suo prematuro impegno nella politica o che invece si dedichi approfonditamente alla filosofia53. Tutto ciò spiega il complesso gioco delle maschere sotteso da prologo ed epilogo. L’accorgimento drammatico avvalora la paternità socratica e dunque, entro i limiti che abbiamo indicato, il contenuto dell’epitafio. 7.

Il «Menesseno» e il «Fedro».

Sembra opportuno approfondire le analogie, in parte già indicate in passato54, tra l’epitafio platonico e il primo discorso socratico nel Fedro. Il discorso funebre del Menesseno e le modalità della sua introduzione ricordano la situazione iniziale del Fedro, dove il giovane seguace della retorica ha a disposizione un discorso scritto composto dal divo del momento, Lisia. All’ironico entusiasmo   Loayza 2006, pp. 137-38.   Socrate non ripudia dunque l’orazione (cosí invece Clavaud 1980, p. 110). 53   Cfr. Phaedr., 257a: Fedro è a cavallo di due inclinazioni, verso la retorica e verso la filosofia, e deve decidersi. In una situazione analoga sembra trovarsi Menesseno. 54   Friedländer 2004, pp. 635-66 (=1964, vol. II, pp. 203-4) ha messo in luce alcuni paralleli e considerato il Menesseno un’anticipazione del Fedro. Il primo discorso come pendant all’epitafio in Scholl 1959, pp. 83-88. Sottolinea invece le differenze Loayza 2006, pp. 54-58. Secondo Croiset 1903 il parallelo sarebbe piuttosto con il secondo discorso di Socrate nel Fedro.

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iniziale di Socrate (Phaedr., 228a-c) corrisponde perfettamente l’ironica lode iniziale dei retori nel Menesseno55. Nel Fedro Socrate si trova costretto a sostenere la stessa tesi del discorso di Lisia, per lui odiosa (bisogna concedersi a chi non ama piuttosto che a chi ama), ma apporta, nella misura possibile, decisive correzioni facendo impiego degli stessi mezzi della retorica e iniettando elementi protofilosofici, che anticipano in abbozzo e in maniera incompiuta gli sviluppi teorici successivi56. È una tecnica (anch’essa retorica) di avvicinamento seguita anche altrove da Platone e consistente nel preparare gradualmente il destinatario di un discorso a dottrine che trascendono il suo orizzonte immediato e non possono venir proposte senza una mediazione di qualche tipo. Se proprio si è costretti a sostenere quella tesi, quello è il modo giusto57; analogamente, se un epitafio deve essere pronunciato, esso deve sottostare a certe regole e passaggi obbligati, e per questo “Aspasia” può limitarsi a costruire il discorso assemblando nuovi contributi e parti dell’epitafio pericleo. L’analogo del discorso di Lisia nel Fedro sarebbe allora l’epitafio di Pericle-Tucidide. In entrambi i casi Socrate teme di apparire ridicolo (καταγελάσῃ: Menex., 236c8; γελοῖος: Phaedr., 236d4), e tutti e due i discorsi sono frutto di improvvisazione (ἐκ τοῦ παραχρῆμα: Menex., 236b3; αὐτοσχεδιάζων: ­Phaedr., 236d5)58. In entrambi i 55   Naturalmente la validità del parallelo può essere ammessa anche da chi non riconosce in esso nessuna intenzione seria, nella misura in cui intenzioni serie non vengono individuate nemmeno nel primo discorso del Fedro, per esempio Coventry 1989, p. 5. Si tratta di stabilire sino a che punto Socrate prenda le distanze dai discorsi pronunciati. 56   Oltre a presentare una migliore disposizione degli argomenti il discorso pone al centro la natura dell’anima, con primitivi accenni alle sue funzioni e parti, nonché alla classificazione dei beni; cfr. Centrone 1998, pp. xiii-xvi. 57   Cfr. Phaedr., 236a2-3: «per chi sostenga ciò, questi argomenti, credo, debbono essere concessi e condonati». 58   La differenza è dovuta al fatto che nel Fedro Socrate è manifestamente l’autore del discorso, e dichiarato è il suo nascondersi dietro un altro; nel Menesseno è invece dichiarato che il discorso è di un altro e Socrate nasconde la sua paternità (nel Fedro: questo discorso è mio, ma lo attribuisco a un altro; nel Menesseno: questo discorso lo attribuisco a un altro, ma in realtà è mio, per chi, come Menesseno alla fine, sappia capirlo).

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casi si parla di uno «scherzare» (παίζειν), in riferimento ai discorsi della retorica deteriore (Menex., 235c6; 236c9; Phaedr., 234d7), e questo παίζειν si riferisce all’impressione (Δοκῶ γάρ σοι παίζειν: Phaedr., 234d8; σοι δόξω … ἔτι παίζειν: Menex., 236c8-9) che sull’interlocutore suscita il comportamento di Socrate, con il dubbio però che quanto verrà detto non sia solo un gioco. In entrambi i dialoghi Socrate è costretto a mutuare da qualcun altro i contenuti del suo discorso59, nel Fedro precisando che ciò è dovuto alla sua ignoranza. In entrambi i casi è preso da vergogna: nel Menesseno pronuncia il discorso solo perché i due sono soli, e che si tratti di qualcosa di cui vergognarsi è chiaro dalla sua affermazione che per Menesseno egli potrebbe anche danzare nudo. E come nel Fedro Socrate ricorre all’artificio di far pronunciare il discorso da qualcuno che, per la vergogna della tesi da sostenere, parla a capo coperto, cosí nel Menesseno si libera dalla responsabilità totale dell’orazione attribuendola ad Aspasia (va ricordato che anche la prosopopea interna all’orazione è attribuita ai padri e non all’autore dell’orazione). È un segnale che ci si sta muovendo entro vincoli invalicabili, un’allusione alle successive distorsioni, e al fatto che ci sarebbero da fare altri discorsi, piú autentici; ma anche l’indicazione che nel λόγος si può pur sempre trovare un contenuto positivo. In questa prospettiva, pur rendendo giustizia agli elementi sottolineati nell’interpretazione ironica, si rendono decifrabili intenti seri. Nel Fedro si segnala, in aggiunta, che chi pronuncia quel discorso in realtà ama il ragazzo cui si rivolge (­Phaedr., 237b); e anche nel Menesseno dobbiamo supporre, dietro le distorsioni e le omissioni, un coinvolgimento e un reale interesse di Platone nei confronti dei destinatari. Il primo discorso del Fedro rimane bisognoso di integrazioni ed è perciò seguito dalla palinodia, il piú vero 59   Phaedr., 235c7: «da me stesso non ne ho pensata una sola di esse» (παρά γε ἐμαυτοῦ οὐδὲν αὐτῶν ἐννενόηκα); Menex., 236a8: «io, per me stesso, forse niente» (Αὐτὸς μὲν παρ᾽ ἐμαυτοῦ ἴσως οὐδέν).

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λόγος di Socrate, composto nella maniera corretta e dai contenuti piú elevati. Qui si arresta il parallelo con il Menesseno, che si chiude con quell’unico λόγος; ma a una prosecuzione a un livello piú elevato allude la promessa di altri discorsi politici, numerosi e belli. Se si può collocare il Menesseno nel 386 a.C., poco dopo il ritorno di Platone dal primo viaggio in Sicilia, l’allusione potrebbe essere ad altri scritti di politica, prossimi a venire (la stessa Repubblica, l’inizio della cui stesura si fa generalmente coincidere con quel termine)60. 8.

I destinatari dell’orazione.

Un parallelo quanto alla natura dell’epitafio in relazione ai potenziali destinatari (dell’orazione piú che del dialogo) si può istituire anche con il discorso di Socrate nell’Apologia, rivolto a un grande pubblico, con il quale la discussione non è destinata a proseguire; questo discorso è però, come ha argomentato in maniera convincente Thomas Szlezák, il primo di una difesa a piú livelli che continua nel Critone e poi nel Fedone con una cerchia ristretta di interlocutori piú progrediti61. I paralleli con l’Apologia indicano analoghi destinatari, a conferma dell’idea che quanto viene proposto è un modello di virtú di secondo grado. Nel suo discorso di difesa Socrate rimane ben al di sotto del livello filosofico del Critone e, ancor piú, del Fedone. 60   Cfr. Diels 1886, pp. 22-23. La generica denominazione di λόγοι non costringe a pensare ad altre orazioni, tantomeno funebri, delle quali non si avrebbe alcun riscontro nei dialoghi. Clavaud 1980, p. 70, ridimensiona la portata della frase finale di Socrate come semplice formula di congedo e rimanda a paralleli di promesse non mantenute (Theaet., 210b; Soph., 254b). Ma è schiacciante, a un’analisi della struttura drammatica dei dialoghi, la superiorità dei casi che costituiscono approfondimenti e soluzioni di problemi lasciati in sospeso, mediante la struttura di «soccorso al discorso» (cfr. Szlezák 1988, passim). La promessa di nuovi discorsi non trova una spiegazione convincente nell’interpretazione ironica (per esempio in Clavaud 1980, pp. 89 e 109). 61   Szlezák 1988, pp. 298-333.

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L’epitafio non può che rivolgersi a un pubblico ampio ed essere un discorso lungo; entrambi elementi, questi, che non soddisfano pienamente l’ideale platonico della comunicazione filosofica, ma ai quali Platone non esita a ricorrere in determinate circostanze. Il λόγος del Menesseno è pensato come modello di un discorso rivolto a un pubblico non filosofico e perciò si arresta a un livello relativamente primitivo, con la proposta di una virtú civica, non filosofica, per molti aspetti riconducibile al patrimonio culturale tradizionale; ma è anche un discorso che contiene sostanziali innovazioni nel segno della filosofia platonica. Ciò illumina anche la scelta dell’interlocutore del dialogo, Menesseno, che – come mostra lo scambio iniziale – erroneamente crede di avere già raggiunto il termine della filosofia, ma è al momento tutt’al piú un valido apprendista, un potenziale discepolo ancora bisognoso di udire altri discorsi. L’amore per i discorsi, del resto, segnala una certa attitudine alla filosofia, ma preso di per sé ne rappresenta un livello piú basso62. Amore per i discorsi che è la caratteristica saliente della stessa Atene63. Contro un’interpretazione orientata in senso unicamente ironico-satirico possono valere alcuni argomenti generali. La satira della retorica come finalità del dialogo è piuttosto angusta rispetto all’indicazione, in un encomio, di modelli di comportamento per la città; la questione è per Platone troppo importante per essere ridotta in termini caricaturali64. E perché inframmezzare, in un encomio satirico, posizioni di cui Platone è sinceramente convinto, quali le tesi dell’autoctonia o quella dell’unità panellenica65, o quelle, eticamente rilevanti, 62   Si pensi ai casi, negli omonimi dialoghi, di Lachete (Lach., 188c4 sgg.) e di Fedro. 63   Cfr. Leg., 641e4-6. 64   Kennedy 1963, pp. 159-60; Kahn 1963, p. 224. 65   Che l’opposizione greco-barbaro non sia una diairesi corretta sul piano logico (cfr. Pol., 262c-263a) non esclude che possa avere un senso per Platone sul piano politico come inclinazione personale.

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della prosopopea? L’unico modo di spiegarlo è svalutare la portata di queste tesi a fronte delle piú autentiche dottrine filosofiche di Platone, ma molti degli argomenti addotti non convincono66. Eventuali contrasti non fanno che confermare una lettura che individui nella prosopopea la proposta di una virtú politica di livello inferiore a quella filosofica. Ciò indica anche i limiti dell’interpretazione “seria”, almeno nelle versioni che tendono ad armonizzare senza residui i contenuti dell’orazione con le dottrine filosofiche basilari di Platone. Il Menesseno non è propriamente aporetico, ma, come gli aporetici, costituisce un dialogo di livello iniziale, con intenti parenetici e protrettici. Come altri aporetici, esso mette in scena un interlocutore giovane al bivio tra una scelta di vita conforme ai valori vigenti e la conversione alla filosofia, proponendogli, questa volta nella forma di un λόγος, un primo approccio che dovrà trovare una continuazione a livello superiore, secondo un motivo drammatico consueto nei dialoghi platonici. Il Menesseno è un dialogo pensato in primo luogo per i consueti destinatari dei dialoghi di tipo protrettico, ma suscettibile di raggiungere un pubblico piú ampio. Esso costituisce, entro i limiti consentiti dal genere dell’oratoria funebre, il miglior discorso possibile, un modello di epitafio valido per il tempo a venire, come testimonia il suo successo nell’antichità: in populari oratione, qua mos est Athenis laudari in contione eos qui sint in proeliis interfecti; quae sic probata est, ut eam quotannis, ut scis, illo die recitari necesse sit. (Cicerone, Orator, 44, 151) 66   Quando Platone ha un intento unicamente parodistico, presenta prodotti (come il discorso di Lisia nel Fedro) in cui non c’è niente da salvare. Se la falsificazione dei fatti storici è il mezzo per ottenere lo scopo, qualcosa di analogo dovremmo attenderci nella prosopopea: una esaltazione di falsi valori. Ma sia pure non valide in assoluto a livello filosofico, le indicazioni della prosopopea hanno un senso ben preciso nel contesto globale dell’etica platonica, se si tiene conto dei potenziali destinari dell’orazione.

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Ἐξ ἀγορᾶς ἢ πόθεν Μενέξενος; Ἐξ ἀγορᾶς, ὦ Σώκρατες, καὶ ἀπὸ τοῦ βουλευτηρίου. σωκρατης Τί μάλιστα σοὶ πρὸς βουλευτήριον; ἢ δῆλα δὴ ὅτι | παιδεύσεως καὶ φιλοσοφίας ἐπὶ τέλει ἡγῇ εἶναι, καὶ ὡς ἱκανῶς ἤδη ἔχων ἐπὶ τὰ μείζω ἐπινοεῖς τρέπεσθαι, καὶ ἄρχειν ἡμῶν, ὦ θαυμάσιε, ἐπιχειρεῖς σωκρατης

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234 [a] socrate Menesseno1, vieni dalla piazza del mercato? Da dove, altrimenti? menesseno Dalla piazza del mercato, Socrate, e in particolare dal palazzo del consiglio2. socrate Che ragione ti ha portato al palazzo del consiglio? Che domande, è chiaro che tu ritieni di avere ormai acquisito una formazione e una cultura compiute, e poiché credi di padroneggiarle già a sufficienza intendi rivolgerti alle cose di maggiore importanza: nonostante la tua età, uomo meraviglioso, ti appresti a governare3 1   Non si hanno notizie su Menesseno al di fuori di quelle fornite da Platone qui, nel Liside e nel Fedone. Quest’ultimo dialogo (59b9) ne indica la presenza al fianco di Socrate in prigione, nel suo ultimo giorno, mentre nel Liside (particolarmente 207c1 sgg.) il giovane Menesseno è amico di Liside e figlio di Demofonte (forse nipote di Pericle), di ottima famiglia e iniziato all’eristica (211b6-c6). Nel Menesseno è invece piú maturo, pronto per essere introdotto nella vita politica ateniese. Questi caratteri ne fanno un ottimo candidato per ricevere da Socrate una “lezione” sull’Atene democratica nella forma dell’epitafio. Tuttavia nel 386 – data drammatica del dialogo (cfr. infra la nota 76) – il Menesseno che aveva assistito all’ultimo giorno di Socrate non poteva certo essere un giovane che si appresta a entrare sulla scena politica. Se poi si considera che uno dei figli di Socrate si chiamava Menesseno e che nel 399 era ancora un bambino (Diogene Laerzio, II, 26), è facile suggerire (cosí Rosenstock 1994, p. 339, e piú ampiamente Dean-Jones 1995, pp. 51-57) che l’interlocutore sia proprio il figlio di Socrate: secondo questa lettura, dunque, Socrate (paradossalmente morto) parlerebbe a suo figlio. La valutazione tra le due possibilità rimane incerta, ma quello relativo a Menesseno non sarebbe certamente il piú forte tra gli anacronismi del dialogo (cfr. infra la nota 77). 2   Il palazzo del consiglio si trovava nell’agorà e rappresentava un luogo centrale della vita dell’Atene democratica. Questa circostanza non solo consente lo sviluppo dell’argomento del dialogo, ma ne introduce anche l’orizzonte politico. 3   La risposta di Socrate non cela l’ironia rivolta all’impegno politico di

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τῶν πρεσβυτέρων [b] τηλικοῦτος ὤν, ἵνα μὴ ἐκλίπῃ ὑμῶν ἡ οἰκία ἀεί τινα ἡμῶν ἐπιμελητὴν παρεχομένη; μενεξενος Ἐὰν σύ γε, ὦ Σώκρατες, ἐᾷς καὶ συμ­ βουλεύῃς ἄρχειν, προθυμήσομαι· εἰ δὲ μή, οὔ. νῦν μέντοι ἀφικόμην | πρὸς τὸ βουλευτήριον πυθόμενος ὅτι ἡ βουλὴ μέλλει αἱρεῖσθαι ὅστις ἐρεῖ ἐπὶ τοῖς ἀποθανοῦσιν· ταφὰς γὰρ οἶσθ᾿ ὅτι μέλλουσι ποιεῖν. σωκρατης Πάνυ γε· ἀλλὰ τίνα εἵλοντο; μενεξενος Οὐδένα, ἀλλὰ ἀνεβάλοντο εἰς τὴν αὔ­ ριον. οἶμαι | μέντοι Ἀρχῖνον ἢ Δίωνα αἱρεθήσεσθαι.

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noi, gli anziani, [b] affinché la vostra famiglia non smetta di offrirci amministratori attenti. menesseno Qualora proprio tu, Socrate, mi consenta o addirittura consigli di governare, io sarei certamente pronto; ma se no, no4. Vedi, mi sono appena recato al palazzo perché sono stato informato che il consiglio si appresta a scegliere chi terrà l’orazione per i caduti; saprai infatti che si preparano a celebrare i funerali5. socrate Certamente. E chi hanno scelto? menesseno Nessuno, hanno rinviato a domani; credo però che sarà scelto Archino o Dione6. Menesseno, al quale viene implicitamente rimproverata l’incompletezza della formazione culturale, sia come παίδευσις sia come φιλοσοφία (tradotto come «cultura»). Questo termine va inteso nel senso generico di occupazione intellettuale e conoscitiva: difficilmente Socrate può in questo contesto fare riferimento al significato specializzato del termine, benché Platone voglia di sicuro alludere anche a esso e al ruolo centrale della filosofia in una compiuta costituzione politica. All’impegno politico, dunque, è in primo luogo imposta una limitazione: esso non può prescindere dall’aver ottenuto una completa formazione (cfr. per esempio Ep. VII, 324b9-326b4), che in una prospettiva platonica ben strutturata consisterà nel programma del VII libro della Repubblica. L’affermazione di Socrate sottintende che Menesseno non sia il solo a desiderare l’accesso o ad accedere a cariche politiche senza aver completato tale formazione (sul tema nel dialogo cfr. Coventry 1989). In effetti, l’abbandono precoce della filosofia in favore dell’attività politica rappresenta – dal punto di vista di Platone – una delle carenze strutturali della cultura dell’Atene democratica, nella sua dimensione storica come nella raffigurazione nei dialoghi: una formazione retorica e non filosofica mirata immediatamente alla politica era promossa da Isocrate nella sua scuola (cfr. anche Phaedr., 278e8 sgg., con la nota ad loc. in Centrone 1998); nel Gorgia (484c3 sgg.) Callicle vede nella filosofia un’occupazione puerile, da abbandonare per la politica, mentre Socrate impone l’esercizio della filosofia e della virtú come prerequisito per svolgere attività politica (527d5-e7); nell’Alcibiade I – di autenticità molto discussa – Socrate sostiene la necessità di una conversione verso la conoscenza come base per ogni impegno politico (per le istanze rappresentate da Alcibiade cfr. anche Symp., 216b2 sgg., con Centrone, Nucci 2009, pp. xxxvii e 195, nota 320). 4   Menesseno coglie l’ironia di Socrate ma si rimette simbolicamente al suo giudizio secondo codici di urbanità e rispetto (Tsitsiridis 1998, pp. 136-37). 5   La recitazione dell’epitafio faceva parte della celebrazione dei caduti dell’Atene democratica, dopo una guerra – come funerale – o come commemorazione annuale; in merito cfr. supra l’introduzione, pp. 388-9. 6   Archino, personalità di spicco dell’Atene che uscí sconfitta dalla guerra del Peloponneso, contribuí alla cacciata dei trenta tiranni e alla restaurazione della democrazia, ma fu anche un noto oratore, forse autore di un epitafio (Clemente Alessandrino, Strom., VI, 22). Dopo il 401 non se ne hanno no-

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[c] σωκρατης Καὶ μήν, ὦ Μενέξενε, πολλαχῇ κιν­ δυνεύει καλὸν εἶναι τὸ ἐν πολέμῳ ἀποθνῄσκειν. καὶ γὰρ ταφῆς καλῆς τε καὶ μεγαλοπρεποῦς τυγ­

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[c] socrate In effetti, Menesseno, ci sono buone ragioni per credere che morire in guerra sia davvero bello!7. Si gode di una sepoltura bella e magnificente anche quatizie, e forse nel 386 era già morto; questo sarebbe tuttavia un anacronismo minore degli altri, e la figura di Archino non è certamente né preminente né proposta come esempio (pace Huby 1957, pp. 111-12). Dione, di identità piú oscura, è forse identificabile con uno degli ambasciatori ateniesi che si recarono a Sardi durante la guerra di Corinto (nel 392; cfr. Senofonte, Hell., IV, 8, 13). Lo spettro di interpretazioni offerte per chiarire queste allusioni di Platone è estremamente ampio (cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 139-41). Secondo Loraux 1993, p. 426, nota 143, Platone vorrebbe qui alludere in qualche modo a Dione di Siracusa, amico fidato di Platone e «paradigme du bon politique»: l’indifferenza della scelta segnalerebbe l’incompetenza del consiglio nella valutazione degli oratori. In realtà sembra qui piú probabile che Platone si voglia muovere nel contesto politico ateniese citando personaggi noti a qualche titolo: la critica implicita nella scelta risiede in tal caso nel ruolo di Archino nella restaurazione democratica – non certo gradita a Platone – e, per quanto riguarda Dione, proprio nella sua pochezza, probabilmente alla base delle scarse notizie che ne abbiamo. 7   Platone riprende un luogo comune dell’etica aristocratica e della tradizione letteraria permeato nei moduli classici dell’epitafio: la lode dei caduti non per il loro valore individuale ma per la sola scelta di morire per la patria (cfr. Loraux 1993, pp. 120 sgg.). La segnalazione di questo tratto, già di discutibile valutazione, apre un monologo parodistico: esso è spesso considerato ironico anche da chi legge l’epitafio come un “discorso serio” (cfr. però Tulli 2007a, che vi vede piuttosto l’affermazione ancipite della potenza della retorica) mentre funge da base argomentativa per chi interpreta il Menesseno come dialogo totalmente ironico. In particolare, l’orazione funebre sarebbe presentata come una tipica operazione sofistica, volta a plasmare la realtà (il reale valore degli uomini) attraverso strumenti retorici, e addirittura in grado di produrre un incantesimo su chi ascolta, che si vede molto migliore di quanto non sia. Altri elementi specifici rivelano la forte ironia del passo: la citazione della splendida sepoltura, argomento altrove denigrato (Phaedo, 115e1 sgg.); l’attribuzione di una dignità intellettuale a chi non ne ha attraverso una “cosmesi” retorica (cfr. Gorg., 463e3 sgg.), unita alla sensazione estatica che questa induce (cfr. per esempio Apol., 17a1 sgg.; Symp., 198b1 sgg.; Phaedr., 234d1-6); l’idea generale di una virtú totalmente esogena, infusa con il semplice discorso o al massimo ereditata; il ricorso al lessico dell’incanto (235a2: γοητεύουσιν; 235a7: ἐξέστηκα; 235b1: κηλούμενος; 235b7-8: ἀναπειθόμενοι) e a immagini correlate; la sensazione di trovarsi nelle isole dei beati, luogo destinato ai sapienti ma al contempo rappresentazione dell’incanto provocato dalla retorica democratica secondo Aristofane (Vesp., 636641; cfr. Loraux 1993, pp. 319 sgg.); ancora, il riferimento specifico all’idea ateniese e radicalmente democratica dell’annullamento di ogni differenza nella sepoltura comune dei caduti (cfr. Loraux 1993, p. 45); infine, lo stile, già ricco di gorgianismi (cfr. Clavaud 1980, pp. 112-13). L’ironia di Socrate colpisce cosí l’epitafio comune, ma con esso anche il sistema della retorica pubblica, dunque la struttura ideologica dell’Atene democratica, senza però pregiudicare l’ipotesi di un epitafio di diverso valore.

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χάνει, καὶ ἐὰν πένης τις ὢν τελευτήσῃ, καὶ ἐπαίνου αὖ ἔτυχεν, καὶ ἐὰν φαῦλος ᾖ, ὑπ᾿ ἀνδρῶν σοφῶν | τε καὶ οὐκ εἰκῇ ἐπαινούντων, ἀλλὰ ἐκ πολλοῦ χρόνου λόγους παρεσκευασμένων, οἳ οὕτως καλῶς ἐπαινοῦσιν, ὥστε καὶ τὰ 235 [a] προσόντα καὶ τὰ μὴ περὶ ἑκάστου λέγοντες, κάλλιστά πως τοῖς ὀνόμασι ποι­ κίλλοντες, γοητεύουσιν ἡμῶν τὰς ψυχάς, καὶ τὴν πόλιν ἐγκωμιάζοντες κατὰ πάντας τρόπους καὶ τοὺς τετελευτηκότας ἐν τῷ πολέμῳ καὶ τοὺς προγόνους ἡμῶν | ἅπαντας τοὺς ἔμπροσθεν καὶ αὐτοὺς ἡμᾶς τοὺς ἔτι ζῶντας ἐπαινοῦντες, ὥστ᾿ ἔγωγε, ὦ Μενέξενε, γενναίως πάνυ διατίθεμαι ἐπαινούμενος ὑπ᾿ αὐτῶν, καὶ ἑκάστοτε ἐξέστηκα [b] ἀκροώμενος καὶ κηλούμενος, ἡγούμενος ἐν τῷ παραχρῆμα μείζων καὶ γενναιότερος καὶ καλλίων γεγονέναι. καὶ οἷα δὴ τὰ πολλὰ ἀεὶ μετ᾿ ἐμοῦ ξένοι τινὲς ἕπονται καὶ συνακροῶνται πρὸς οὓς ἐγὼ σεμνότερος ἐν τῷ παραχρῆμα | γίγνομαι· καὶ γὰρ ἐκεῖνοι ταὐτὰ ταῦτα δοκοῦσί μοι πάσχειν καὶ πρὸς ἐμὲ καὶ πρὸς τὴν ἄλλην πόλιν, θαυμασιωτέραν αὐτὴν ἡγεῖσθαι εἶναι ἢ πρότερον, ὑπὸ τοῦ λέγοντος ἀναπειθόμενοι. καί μοι αὕτη ἡ σεμνότης παραμένει ἡμέρας πλείω [c] ἢ τρεῖς· οὕτως ἔναυλος ὁ λόγος τε καὶ ὁ φθόγγος παρὰ τοῦ λέγοντος ἐνδύεται εἰς τὰ ὦτα, ὥστε μόγις τετάρτῃ ἢ πέμπτῃ ἡμέρᾳ ἀναμιμνῄσκομαι ἐμαυτοῦ καὶ αἰσθάνομαι οὗ γῆς εἰμι, τέως δὲ οἶμαι μόνον οὐκ ἐν μακάρων νήσοις οἰκεῖν· οὕτως ἡμῖν | οἱ ῥήτορες δεξιοί εἰσιν. μενεξενος Ἀεὶ σὺ προσπαίζεις, ὦ Σώκρατες, τοὺς ῥήτορας. νῦν μέντοι οἶμαι ἐγὼ τὸν αἱρεθέντα οὐ πάνυ

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lora uno sia povero al momento della morte, e anche qualora uno sia di poco valore si guadagna8 una lode da parte di uomini sapienti, che non lodano in modo approssimativo, ma preparano discorsi da molto tempo. E lodano in modo talmente bello che, 235 [a] dicendo ciò che è opportuno e ciò che non lo è su ciascuna cosa, adornando in qualche modo il tutto fino a renderlo splendido con le loro parole, incantano le nostre anime con l’encomio di tutti gli aspetti della città, dei caduti in guerra e di tutti i nostri avi che vissero in passato, e con lodi anche per noi, ancora in vita. Cosí, Menesseno, quando vengo lodato da loro io mi sento di nobile stirpe, e ogni volta [b] ascoltandoli mi abbandono, incantato, come avvertendo che in quel momento sono divenuto piú grande, piú nobile, piú bello. E poi, come d’abitudine, ci sono stranieri che seguono e ascoltano con me, agli occhi dei quali in quel momento divengo piú degno di rispetto9; anch’essi infatti mi paiono subire questi stessi effetti, sia nei miei confronti sia nei confronti del resto della cittadinanza: persuasi dall’oratore, la ritengono ben piú stupefacente di prima. Su di me questo senso di dignità rimane per piú [c] di tre giorni: il discorso e il suono modulati dall’oratore sono tanto melodiosi e si insinuano a tal punto nelle orecchie che al quarto o al quinto giorno riprendo appena a ricordarmi di me stesso e capisco dove mi trovo, e fino a quel momento quasi credo di essermi stabilito nelle isole dei beati. A tal punto i retori sono capaci nei nostri confronti! menesseno Socrate, tu ti prendi sempre gioco dei retori! Stavolta però credo davvero che chi sarà chiamato 8   Platone produce una variatio utilizzando lo stesso verbo, τυγχάνειν, in due aspetti (tempi) diversi; nell’impossibilità di rendere questo gioco, si preferisce cambiare verbo producendo una variatio con l’uso di sinonimi. 9   L’aggettivo σεμνός (e il sostantivo σεμνότης, che segue di poco) è qui certamente ironico in quanto individua l’incongrua attribuzione di merito a fronte dell’incanto retorico; cfr. Loraux, 1974, pp. 192-95, e 1993, pp. 330331. La presenza degli stranieri è un tratto caratteristico delle cerimonie in cui si recitavano gli epitafi, soprattutto a causa delle alleanze in tempo di guerra; cfr. Loraux 1993, p. 41.

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εὐπορήσειν· ἐξ ὑπογύου γὰρ παντάπασιν ἡ αἵρεσις γέγονεν, ὥστε ἴσως ἀναγκασθήσεται ὁ λέγων ὥσπερ αὐτοσχεδιάζειν. [d] σωκρατης Πόθεν, ὠγαθέ; εἰσὶν ἑκάστοις τούτων λόγοι παρεσκευασμένοι, καὶ ἅμα οὐδὲ αὐτοσχεδιάζειν τά γε τοιαῦτα χαλεπόν. εἰ μὲν γὰρ δέοι Ἀθηναίους ἐν Πελοποννησίοις εὖ λέγειν ἢ Πελοποννησίους ἐν Ἀθηναίοις, ἀγαθοῦ ἂν ῥήτορος | δέοι τοῦ πείσοντος καὶ εὐδοκιμήσοντος· ὅταν δέ τις ἐν τούτοις ἀγωνίζηται οὕσπερ καὶ ἐπαινεῖ, οὐδὲν μέγα δοκεῖν εὖ λέγειν. μενεξενος Οὐκ οἴει, ὦ Σώκρατες; σωκρατης Οὐ μέντοι μὰ Δία. [e] μενεξενος Ἦ οἴει οἷός τ᾿ ἂν εἶναι αὐτὸς εἰ­ πεῖν, εἰ δέοι καὶ ἕλοιτό σε ἡ βουλή;

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difficilmente potrà riuscire nel compito: la scelta è stata disposta senza alcun preavviso, cosicché l’oratore sarà di certo costretto a improvvisare10. [d] socrate Ma come ti viene in mente, ottimo uomo? Per ciascuno di loro sono pronti discorsi già predisposti, e per di piú simili orazioni non sono neanche molto difficili da improvvisare11. Se si dovesse parlar bene degli Ateniesi davanti ai Lacedemoni o dei Lacedemoni davanti agli Ateniesi, occorrerebbe che l’uomo impegnato nella persuasione fosse un buon retore, di identità autorevole; ma nel momento in cui uno partecipi a un agone proprio davanti a quelli che al contempo loda, non è un grande compito dare l’impressione di parlare bene12. menesseno Credi di no, Socrate? socrate No di certo, per Zeus! [e] menesseno Credi allora che anche tu saresti capace di parlare, se dovessi farlo e il consiglio scegliesse te?13. 10   La risposta di Menesseno delinea efficacemente il profilo dell’interlocutore: nonostante aspiri all’attività politica e dunque, nell’Atene democratica, alla pratica retorica, egli non si lascia blandire e coglie la pesante ironia di Socrate; al contempo, non si sottrae alla possibilità di elogiare i retori per la capacità di produrre in poco tempo magnifiche esibizioni retoriche, seguendo in questo un luogo comune dei proemi delle orazioni funebri (per esempio Lisia, Epit., 1). 11   L’affermazione di Socrate fa capo a due diversi aspetti della pratica retorica: da un lato la presenza di discorsi (o loro parti) già predisposti era un presidio didattico sofistico che ha poi permeato l’intera retorica, dall’altro il genere dell’epitafio prevedeva ripetitività e formularità tali da rendere l’improvvisazione relativamente banale; cfr. 236a6-b6 e Loraux 1993, pp. 253263, con l’introduzione, supra, p. 389. 12   Il pubblico al quale è rivolta un’orazione, e in particolare una lode, è posto come criterio di difficoltà retorica anche da Aristotele (Rhet., I, 9, 1367b8 e III, 14, 1415b30), che porta a sostegno una parafrasi di questo passo. Platone coglie qui un aspetto centrale dell’epitafio (come specie del genere epidittico), la sua funzione civile, che implica un tacito accordo tra oratore e pubblico – ultimo giudice dell’efficacia – e una consequenziale adulazione del secondo da parte del primo (cfr. Kennedy 1963, pp. 152-54, e Clavaud 1980, pp. 86 sgg.). 13   Lo stupore di Menesseno è riconducibile alla professione di ignoranza e alla predilezione per la brachilogia proprie di Socrate. D’altro canto, come notato dalla critica, Socrate non viola tali caratteri nel momento in cui attribuisce il proprio epitafio ad Aspasia (cfr. del resto 236a8); dopo Friedländer, cosí – tra gli altri – Scholl 1959, p. 17; von Löwenclau 1961, pp. 30-33; Henderson 1975, pp. 25-29; Tsitsiridis 1998, pp. 56-57; Long 2003, pp. 66-68.

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σωκρατης Καὶ ἐμοὶ μέν γε, ὦ Μενέξενε, οὐδὲν θαυμαστὸν οἵῳ τ᾿ εἶναι εἰπεῖν, ᾧ τυγχάνει διδάσκαλος οὖσα οὐ πάνυ φαύλη | περὶ ῥητορικῆς, ἀλλ᾿ ἥπερ καὶ ἄλλους πολλοὺς καὶ ἀγαθοὺς πεποίηκε ῥήτορας, ἕνα δὲ καὶ διαφέροντα τῶν Ἑλλήνων, Περικλέα τὸν Ξανθίππου. μενεξενος Τίς αὕτη; ἢ δῆλον ὅτι Ἀσπασίαν λέγεις; σωκρατης Λέγω γάρ, καὶ Κόννον γε τὸν Μητροβίου· οὗτοι γάρ 236 [a] μοι δύο εἰσὶν διδάσκαλοι, ὁ μὲν μουσικῆς, ἡ δὲ ῥητορικῆς. οὕτω μὲν οὖν τρεφόμενον ἄνδρα οὐδὲν θαυμαστὸν δεινὸν εἶναι λέγειν· ἀλλὰ καὶ ὅστις ἐμοῦ κάκιον ἐπαιδεύθη, μουσικὴν μὲν ὑπὸ Λάμπρου παιδευθείς, ῥητορικὴν δὲ ὑπ᾿ Ἀντιφῶντος τοῦ | Ῥαμνουσίου, ὅμως κἂν οὗτος οἷός τ᾿ εἴη Ἀθη­

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socrate Menesseno, per quanto mi riguarda non ci sarebbe niente di incredibile se fossi capace di parlare, io che ho avuto in sorte una maestra di retorica non certo impreparata, e che ha anzi formato anche altri retori, molti e buoni, ma soprattutto uno, che spicca tra i Greci: Pericle figlio di Santippe. menesseno Chi è questa donna? Intendi Aspasia14, vero? socrate Intendo proprio lei, insieme a Conno figlio di Metrobio: questi 236 [a] sono infatti per me due maestri, l’uno di musica, l’altra di retorica. Dunque, non è per niente incredibile che un uomo cresciuto e nutrito in tal modo sia formidabile nel parlare. E tuttavia anche uno che sia stato educato peggio di me – educato per esempio da Lampro per la musica e da Antifonte di Ramnunte per la retorica15 – sarebbe in grado di ottene14   Pericle, figura centrale della politica dell’Atene classica, fu certamente un grande oratore, come testimoniano tra le altre fonti alcuni passi platonici (per esempio Phaedr., 269e1-2; Symp., 215e4-5); per una ricognizione cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 161-62. Nonostante ciò, la valutazione qui offerta è ironica, se non comica (pace Duffy 1983, pp. 83-86): se già la bravura retorica e politica di Pericle è spesso per Platone solo fittizia (cfr. Gorg., 515b6 sgg.), desta sospetto il ricorso alla figura di Aspasia. Aspasia, seconda moglie di Pericle, nacque a Mileto da una nobile e ricca famiglia ateniese (per una ricostruzione della famiglia di Aspasia e della sua vita ad Atene cfr. Bicknell 1982, pp. 240-47; piú in generale Nails 2002, pp. 58-62; per la tradizione biografica legata ad Aspasia cfr. Tulli 2007b). Di grandi fascino, bellezza e intelligenza, ebbe forte influenza nei confronti di Pericle, ma al contempo la sua personalità e la sua indipendenza le fecero guadagnare, oltre all’immagine di una donna estremamente potente, la fama dell’etera. I poe­ti comici (ampiamente citati nello scolio ad loc.; cfr. Cufalo 2007, p. 270) la dipingono come politicamente influente (Aristofane, Ach., 524; ma lo stesso ruolo le era probabilmente attribuito nel Dionisalessandro di Cratino, secondo una tradizione destinata a durare a lungo – cfr. anche Plutarco, Per., 32) ma anche come «cagna concubina» (Cratino, fr. 259 k.-a.); in questo contesto, inoltre, le è talvolta attribuito il ruolo di maestra di retorica (Callia, fr. 21 k.-a.). Tra i socratici, Antistene scrisse un’Aspasia in cui probabilmente ne dava una descrizione negativa (cfr. Giannantoni 1990, vol. IV, pp. 323-25), mentre nella sua Aspasia Eschine la dipingeva in termini positivi (cfr. Giannantoni 1990, vol. IV, pp. 592-96, e Kahn 2008, pp. 31-37). 15   Conno, maestro di musica strumentale, è citato da Socrate in termini parodistici come proprio maestro e citarista nell’Eutidemo (particolarmente 272c1 sgg. e 295d3 sgg.); la sua figura doveva essere stata associata a quella di Socrate anche in ambito comico (per esempio da Ameipsia nel suo Con-

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ναίους γε ἐν Ἀθηναίοις ἐπαινῶν εὐδοκιμεῖν. μενεξενος Καὶ τί ἂν ἔχοις εἰπεῖν, εἰ δέοι σε λέγειν; σωκρατης Αὐτὸς μὲν παρ᾿ ἐμαυτοῦ ἴσως οὐδέν, Ἀσπασίας δὲ [b] καὶ χθὲς ἠκροώμην περαινούσης ἐπιτάφιον λόγον περὶ αὐτῶν τούτων. ἤκουσε γὰρ ἅπερ σὺ λέγεις, ὅτι μέλλοιεν Ἀθηναῖοι αἱρεῖσθαι τὸν ἐροῦντα· ἔπειτα τὰ μὲν ἐκ τοῦ παραχρῆμά μοι διῄει, οἷα δέοι λέγειν, τὰ δὲ πρότερον ἐσκεμμένη, ὅτε μοι | δοκεῖ συνετίθει τὸν ἐπιτάφιον λόγον ὃν Περικλῆς εἶπεν, περιλείμματ᾿ ἄττα ἐξ ἐκείνου συγ­

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re una buona fama lodando gli Ateniesi proprio in un consesso di Ateniesi. menesseno E cosa avresti da dire, se dovessi parlare? socrate Io, per me stesso, forse niente, ma [b] giusto ieri ho ascoltato Aspasia che portava a compi­mento un’orazione funebre su questi stessi temi. Aveva infatti sentito proprio ciò che tu ora dici, che gli Ateniesi si apprestano a scegliere l’oratore: cosí, su alcune cose – quei temi di cui l’oratore dovrebbe specificamente parlare – ha sviluppato per me un discorso sul momento, mentre su altre aveva riflettuto precedentemente – credo già ai tempi in cui componeva l’orazione funebre che pronunciò Pericle16 – e no) – per una ricognizione sulle testimonianze cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 165168 –; per queste ragioni il richiamo è con ogni probabilità ironico (già Erler 1991, p. 125). L’ironia sembra sfociare in una palese parodia quando Aspasia e Conno vengono anteposti a Lampro e Antifonte. Il primo, forse maestro di Sofocle, fu certamente una figura centrale della cultura musicale ateniese del v secolo (cfr. Aristosseno, fr. 74 w.); il secondo, forse identificabile con il sofista (per uno status quaestionis cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 170-71), fu uno tra i piú noti e celebrati retori ateniesi dello stesso secolo, citato positivamente da Tucidide (VIII, 68), del quale forse fu maestro. In base a questa relazione, molto ipotetica, alcuni critici hanno visto anche qui un indiretto richiamo a Tucidide (per esempio von Löwenclau 1961, pp. 34 sgg. e Kahn 1963, p. 221), ma rimane piú probabile che Platone voglia fare ironicamente riferimento a un esponente della retorica fondata sull’improvvisazione e sull’“incollare” pezzi di discorso già predisposti (cfr. particolarmente Clavaud 1980, pp. 265 sgg.). 16   Aspasia, in quanto maestra di retorica – oltre che moglie – di Pericle, avrebbe composto il celebre epitafio dello stratega ateniese (Tucidide, II, 3546); questa affermazione paradossale è la conseguenza diretta dell’altrettanto paradossale descrizione dei maestri di Socrate, e trova riscontro nella tradizione comica (cfr. le note precedenti). La scelta di Aspasia (per la quale cfr. anche supra l’introduzione, pp. 382-3 e 408) rimane fortemente enigmatica: se c’è una generale convergenza sulla sua funzione di mediazione tra Socrate e la diretta competenza retorica (cioè la produzione dell’epitafio), molti aspetti rimangono oscuri e discussi. In primo luogo Aspasia è certamente già morta nel 386, probabile data drammatica del dialogo: questo anacronismo, associato a quello piú marcato che riguarda Socrate, ha portato a vedere nella scelta o un tratto di ironia (già Momigliano 1930, p. 43; poi Henderson 1975, pp. 25-29) o uno degli anacronismi volti a costruire un dialogo in cui i morti sono i veri vivi e dicono il vero (Rosenstock 1994). Inoltre, Aspasia è una donna e la sua relazione con il genere eminentemente maschile dell’epitafio poteva produrre un effetto straniante (Loraux 1993, pp. 332-37; Salkever 1993, pp. 190-91). Infine – ed è questo il problema centrale – rimane enigmatica la sua funzione all’interno del dialogo. Le principali vie interpretative possono essere cosí riassunte: (a) Aspasia è un ponte per richiamare Pericle (per esempio Martano 1980, pp. 1428-29; Rosenstock 1994,

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Ἀσπασία;

platone Ἦ καὶ μνημονεύσαις ἂν ἃ ἔλεγεν ἡ

σωκρατης Εἰ μὴ ἀδικῶ γε· ἐμάνθανόν γέ τοι παρ᾿ αὐτῆς, καὶ [c] ὀλίγου πληγὰς ἔλαβον ὅτ᾿ ἐπελανθανόμην. μενεξενος Τί οὖν οὐ διῆλθες; σωκρατης Ἀλλ᾿ ὅπως μή μοι χαλεπανεῖ ἡ δι­

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ha incollato insieme alcuni residui del discorso di quello17. menesseno Riesci anche a ricordare le cose che diceva Aspasia? socrate Sarebbe davvero ingiusto il contrario: io ero lí per apprendere da lei, e [c] quando è capitato che mi sia fatto sfuggire qualcosa sono quasi stato colpito. menesseno Perché non le esponi? socrate Vorrei evitare che la mia maestra si adiri pp. 333-38; Collins-Stauffer 1999, pp. 92-93; Long 2003, pp. 66-68) o (b) Tucidide, che riporta l’epitafio pericleo (cfr. tra gli altri Scholl 1959, pp. 99 sgg.; von Löwenclau 1961, pp. 34 sgg.; Kahn 1963, pp. 220-22; Tulli 2003, p. 98); (c) Aspasia è piú in generale un esponente di una certa retorica, politicamente schierata (Bloedow 1975, pp. 32-48) o di scarso valore per fissità o improvvisazione (su tutti Loraux 1974, pp. 199-202; Clavaud 1980, pp. 95-106 e 245259); (d) non manca chi vi ha visto insieme tutto questo (Coventry 1989, p. 3), e di fatto la distinzione tra le posizioni è, come naturale, spesso difficile; (e) Platone potrebbe anche criticare i socratici, su tutti Eschine, che scrissero su Aspasia (per esempio Clavaud 1980, pp. 278-86); (f ) Aspasia potrebbe al contrario essere un “doppio” di Diotima, una sorta di sacerdotessa veridica (Rosenstock 1994, pp. 341-44) o piú semplicemente un altro personaggio femminile “incaricato” di dire il vero al posto di Socrate (per esempio von Löwenclau 1961, pp. 29-42). Con ogni probabilità il torto della maggior parte di queste interpretazioni è nella pretesa di una specificità: come dimostra l’anacronismo di Socrate, Platone tiene a produrre effetti stranianti; come suggeriscono la natura politica del dialogo e l’esplicita indicazione di Platone, Pericle viene comunque sempre tenuto in considerazione, quantomeno come il piú noto tra gli autori di orazioni funebri; come indica la natura retorica dell’epitafio, Platone non può non pretendere che si pensi costantemente ai retori e ai loro metodi. 17   Socrate descrive in questi termini, anche linguisticamente poco consueti, l’epitafio che si appresta a pronunciare. Il lavoro di Aspasia sembrerebbe presentato come l’inserimento di argomenti nuovi, improvvisati, in un insieme di brani già in qualche modo composti anche se esclusi dall’epitafio. Il metodo di Aspasia da un lato è storicamente attestato (cfr. su tutti Alcidamante, frr. 3-4 e 6-12, con Isocrate, XIII, 1, e Clavaud 1980, pp. 263-77), dall’altro può alludere semplicemente alla pratica della retorica epidittica, e in particolare dell’epitafio, che era caratterizzata da una forte scleroticità di topoi di volta in volta adattati alle circostanze storiche (cfr. Loraux 1993, pp. 233-74). Rimane certo che Platone non potesse vedere in simili pratiche una buona retorica (cfr. su tutti Phaedr., 263e6 sgg.): per questo tale descrizione, coniugata all’ironia riservata in tutto il prologo alla retorica, ha indotto molti critici (cfr. particolarmente Clavaud 1980, pp. 33-77) a vedere nell’intero epitafio – frutto di questo metodo – una parodia della retorica politica in generale. Rimane però forte la possibilità che Platone, sottolineando l’inserimento di nuclei originali in una trama tradizionale, voglia in realtà evidenziare la propria – e positiva – manipolazione del genere; cfr. anche supra l’introduzione, pp. 408-9.

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δάσκαλος, ἂν ἐξενέγκω αὐτῆς τὸν λόγον. μενεξενος Μηδαμῶς, ὦ Σώκρατες, ἀλλ᾿ εἰπέ, καὶ πάνυ μοι χαριῇ, εἴτε Ἀσπασίας βούλει λέγειν εἴτε ὁτουοῦν· ἀλλὰ μόνον εἰπέ. σωκρατης Ἀλλ᾿ ἴσως μου καταγελάσῃ, ἄν σοι δόξω πρεσβύτης ὢν ἔτι παίζειν. μενεξενος Οὐδαμῶς, ὦ Σώκρατες, ἀλλ᾿ εἰπὲ παντὶ τρόπῳ. σωκρατης Ἀλλὰ μέντοι σοί γε δεῖ χαρίζεσθαι, ὥστε κἂν ὀλίγου, [d] εἴ με κελεύοις ἀποδύντα ὀρχήσασθαι, χα­ρισαίμην ἄν, ἐπειδή γε μόνω ἐσμέν. ἀλλ᾿ ἄκουε. ἔλεγε γάρ, ὡς ἐγᾦμαι, ἀρξαμένη λέγειν ἀπ᾿ αὐτῶν τῶν τεθνεώτων οὑτωσί. Ἔργῳ μὲν ἡμῖν οἵδε ἔχουσιν τὰ προσήκοντα σφίσιν αὐτοῖς, | ὧν τυχόντες πορεύονται τὴν εἱμαρμένην πορείαν, προπεμφθέντες κοινῇ μὲν ὑπὸ τῆς πόλεως, ἰδίᾳ δὲ ὑπὸ τῶν οἰκείων· λόγῳ δὲ δὴ τὸν λειπόμενον

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con me, nel momento in cui io renda pubblico il suo discorso. menesseno Assolutamente no, Socrate; parla, e mi concederai un grande favore, che tu voglia pronunciare il discorso di Aspasia o di chiunque altro: avanti, parla e basta. socrate Ma mi deriderai se, pur essendo anziano, ti darò l’impressione di scherzare ancora. menesseno In nessun modo, Socrate; a qualsiasi condizione, parla! socrate Bene, è davvero necessario concederti il favore: cosí [d] – anche se per poco – ti accontenterei, se anche mi chiedessi di danzare nudo, dato che siamo soli18. Tu ascolta. Parlò cosí, a quanto mi sembra, cominciando proprio dai caduti. Con l’azione concreta, da parte nostra codesti hanno quanto spetta loro; ottenutolo, la via decretata dal fato percorrono, scortati in forma pubblica dalla città e in forma privata dai familiari. Con la parola, ora, tributare gli onori restanti, che anche la legge prescri18   La cornice drammatica si chiude con questo rapido scambio, che conferma il tono ironico del prologo ma soprattutto la ricerca di immagini stranianti. In primo luogo, il rapporto di Socrate con Aspasia (che richiama, nella pur fugace descrizione, quello con Conno dell’Eutidemo; cfr. supra la nota 15) ricorda piú l’educazione infantile e viene qui sintetizzato nell’immagine di paura di Socrate, intimorito da un’eventuale punizione violenta. Al contempo, l’ira di Aspasia per la diffusione di un brano frutto di commistione tra improvvisazione e residui di una vecchia produzione è paradossale, e diviene addirittura parodistica se si considera l’essenziale formularità dell’epitafio come genere letterario. Ancora, l’attenzione reale per il discorso di Aspasia sembra qui subire un forte ridimensionamento: da un lato a Menesseno è sufficiente ascoltare Socrate al di là del suo autore vero o presunto, dall’altro Socrate prima identifica il proprio discorso con uno scherzo indegno per un uomo anziano, poi paragona implicitamente la sua esposizione al danzare nudo e la vincola alla privatezza della circostanza. L’epitafio viene dunque introdotto come un gioco di cui è lecito vergognarsi, la cui diffusione – stando una tradizionalità formale – è biasimevole. Ciò non può tuttavia costituire un’ipoteca sul contenuto del dialogo. La forma letteraria dell’orazione funebre rimane certamente non filosofica (pace Duffy 1983), ma questa orazione potrebbe contenere idee genuinamente platoniche pur celate nel contesto retorico; proprio questo ambiguo statuto dell’epitafio platonico potrebbe anzi motivare una simile, enigmatica introduzione (cfr. anche supra l’introduzione, pp. 407-11).

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κόσμον ὅ τε νόμος προστάττει [e] ἀποδοῦναι τοῖς ἀνδράσιν καὶ χρή. ἔργων γὰρ εὖ πραχθέντων λόγῳ καλῶς ῥηθέντι μνήμη καὶ κόσμος τοῖς πράξασι γίγνεται παρὰ τῶν ἀκουσάντων· δεῖ δὴ τοιούτου τινὸς λόγου ὅστις τοὺς μὲν τετελευτηκότας ἱκανῶς ἐπ­αινέσεται, τοῖς δὲ ζῶσιν | εὐμενῶς παραινέσεται, ἐκγόνοις μὲν καὶ ἀδελφοῖς μιμεῖσθαι τὴν τῶνδε ἀρετὴν παρακελευόμενος, πατέρας δὲ καὶ μητέρας καὶ εἴ τινες τῶν ἄνωθεν ἔτι προγόνων λείπονται, τούτους δὲ 237 [a] παραμυθούμενος. τίς οὖν ἂν ἡμῖν τοιοῦτος λόγος φανείη; ἢ πόθεν ἂν ὀρθῶς ἀρξαίμεθα ἄνδρας ἀγαθοὺς ἐπαινοῦντες, οἳ ζῶντές τε τοὺς ἑαυτῶν ηὔφραινον δι᾿ ἀρετήν, καὶ τὴν τελευτὴν ἀντὶ τῆς τῶν ζώντων σωτηρίας ἠλλάξαντο; δοκεῖ μοι χρῆναι | κατὰ φύσιν, ὥσπερ ἀγαθοὶ ἐγένοντο, οὕτω καὶ ἐπαινεῖν αὐτούς. ἀγαθοὶ δὲ ἐγένοντο διὰ τὸ φῦναι ἐξ ἀγαθῶν. τὴν εὐγένειαν οὖν πρῶτον αὐτῶν ἐγ­ κωμιάζωμεν, δεύτερον δὲ τροφήν [b] τε καὶ παιδείαν· ἐπὶ δὲ τούτοις τὴν τῶν ἔργων πρᾶξιν ἐπιδείξωμεν,

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ve [e] di rendere agli uomini valorosi: questo bisogna fare19. Grazie a un discorso splendidamente pronunciato, infatti, memoria e onore di opere ben compiute giungono a chi le ha condotte da parte di chi ascolta. C’è sicura necessità di un discorso20 siffatto, che esalti degnamente chi è caduto ed esorti benevolmente chi è vivo, che inviti figli e fratelli a imitare la virtú di questi, che infonda conforto ai padri e alle madri e ai parenti piú anziani che vivono ancora. 237 [a] Quale discorso siffatto potrebbe mostrarcisi? Da che parte potremmo iniziare correttamente a lodare uomini buoni, che da vivi davano gioia21 ai loro congiunti grazie alla virtú, che accettarono la morte in cambio della salvezza dei vivi?22. Mi pare si debba seguire la natura: come buoni furono generati, cosí devono anche essere lodati. E buoni furono generati perché nacquero da buoni. Dobbiamo dunque in primo luogo rivolgere encomi alla loro nobile origine, in secondo luogo alla formazione [b] e all’educazione; dopo queste, esporremo la realizzazione delle loro 19   L’incipit rivela già la complessità retorica e i gorgianismi che caratterizzano l’epitafio (per un’analisi dettagliata cfr. Clavaud 1980, pp. 230-44): esso presenta – 236d4-5 – una struttura metrica studiata (cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 179-80); una rete di parallelismi antitetici sia linguistici (μέν … δέ) che concettuali, tra parole /azioni (tradizionale – cfr. Lisia, Epit., 2; Demostene, Epit., 13; Iperide, Epit., 1-2 – ma probabilmente ripreso, invertendone il significato, da Tucidide – II, 34, 1 –, che oppone proprio le opere e le parole dei riti) e pubblico/privato; assonanze e allitterazioni (cfr. Clavaud 1980, pp. 93-94). La peculiare posizione in excipit di καὶ χρή ha spinto Dionigi di Alicarnasso (Demostene, 24) a vedervi un’“aggiunta” fuori posto; in base a questa testimonianza Clavaud 1980, p. 183, vi ha voluto individuare una traccia lasciata da Platone dell’incapacità di Aspasia. 20   Platone utilizza λόγος in modo ambiguo: nell’incipit (e2) indica la parola contrapposta all’azione, qui designa il discorso che Socrate sta tenendo. 21   Va ristabilita (come già faceva Schanz) la lezione dei manoscritti, εὔφραινον, ricercata forma non aumentata dell’imperfetto ηὔφραινον; cfr. Erodoto, II, 44, 8 e IX, 48, 15, Isocrate, III, 6, con Schwyzer 1988, p. 203. 22   Il tema degli ἀγαθοὶ ἄνδρες e quello della virtú sono propri della forma letteraria dell’epitafio (cfr. per esempio Tucidide, II, 37, 1; Lisia, Epit., 69-70; Demostene, Epit., 27 sgg.; Iperide, Epit., 27 sgg.; in merito Loraux 1993, pp. 120 sgg.) e intrinsecamente correlati. Nonostante ciò, poiché a comporre l’epitafio è Platone, tali elementi devono subire un costante controllo semantico volto a verificare a quale nozione di virtú si faccia riferimento; in questo caso, evidentemente, è in questione la virtú tradizionale e militare.

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ὡς καλὴν καὶ ἀξίαν τούτων ἀπεφήναντο. τῆς δ᾿ εὐγενείας πρῶτον ὑπῆρξε τοῖσδε ἡ τῶν προγόνων γένεσις οὐκ ἔπηλυς οὖσα, οὐδὲ τοὺς ἐκγόνους τούτους ἀποφηναμένη | μετοικοῦντας ἐν τῇ χώρᾳ ἄλλοθεν σφῶν ἡκόντων, ἀλλ᾿ αὐτόχθονας καὶ τῷ ὄντι ἐν πατρίδι οἰκοῦντας καὶ ζῶντας, καὶ τρεφομένους οὐχ ὑπὸ μητρυιᾶς ὡς οἱ ἄλλοι, ἀλλ᾿ ὑπὸ [c] μητρὸς τῆς χώρας ἐν ᾗ ᾤκουν, καὶ νῦν κεῖσθαι τελευτήσαντας ἐν οἰκείοις τόποις τῆς τεκούσης καὶ θρεψάσης καὶ ὑποδεξαμένης. δικαιότατον δὴ κοσμῆσαι πρῶτον τὴν μητέρα αὐτήν· οὕτω γὰρ συμβαίνει ἅμα καὶ ἡ τῶνδε εὐγένεια κοσμουμένη.

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opere23, di quali bellezza e valore dimostrarono di esser capaci nel compierle24. In primo luogo, l’origine dei progenitori è per codesti garanzia di nobile origine. Non era straniera. Non ha prodotto questi figli come meteci che giungessero da fuori in questo territorio, bensí come figli della terra, che irriducibilmente risiedessero e vivessero nella patria, che fossero nutriti non – come gli altri – da una matrigna ma da [c] un’autentica madre, il territorio nel quale risiedevano. E anche ora, che hanno ormai cessato di vivere, giacciono nei luoghi familiari di colei che li ha generati, nutriti, accolti. Ebbene, è assolutamente giusto onorare in primo luogo la madre stessa: in questo modo, infatti, è onorata a un tempo anche la nobile origine di codesti25. 23   Secondo un modulo tradizionale (pace Salkever 1993, pp. 137-38), procedere κατὰ φύσιν vuol dire seguire (1) l’identità naturale dei caduti e (2) il loro sviluppo naturale, dalla nascita alla formazione all’impegno nelle imprese militari. 24   Si conclude qui il proemio (236d4-237b2), che rivela la sua struttura cristallizzata. (a) L’apertura (236d4-e1) richiama le onoranze prescritte dalle norme patrie (cfr. Tucidide, II, 35, 1-2); (b) segue una captatio benevolentiae (236e1-3), incentrata sulla necessità di tributare degni onori ai caduti (cfr. Tucidide, II, 35, 2-3; Lisia, Epit., 1-2; Demostene, Epit., 1-2; Iperide, Epit., 2; con Isocrate, IV, 3-4), ma priva della classica dichiarazione della difficoltà del compito (cfr. Scholl 1959, pp. 19-20); (c) si ha, quindi, una propositio (236e3-237a1), qui particolarmente articolata e ampia (cfr. Tucidide, II, 35, 3; Demostene, Epit., 3; Iperide, Epit., 3); (d ) sono poi poste due domande retoriche (237a1-4), la dubitatio (cfr. Demostene, Epit., 15; Iperide, Epit., 6), che introducono (e) un ulteriore momento introduttivo, la partitio (237a4-b2), che annuncia i temi in procinto di essere trattati secondo un ordine anch’esso ampiamente attestato (cfr. Tucidide, II, 36, 1; Lisia, Epit., 3; Demostene, Epit., 3; Iperide, Epit., 3). Per quanto Platone sia certamente piú schematico e rigoroso degli altri autori, difficilmente si può concordare con Clavaud 1980, pp. 171-75, nel vedere in questo tratto una forzatura determinante della tradizione. 25   Il proemio è seguito da un’ampia sezione di lode, che si apre con questa affermazione di autoctonia e autenticità. Il motivo dell’autoctonia come base di valore per gli Ateniesi nasce tra il vi e il v secolo (cfr. Erodoto, VII, 161) e diviene un luogo comune nelle orazioni funebri (Lisia, Epit., 17; Demostene, Epit., 4-5; Iperide, Epit., 7-8; con Isocrate, IV, 24, 1 sgg.): gli Ateniesi hanno sempre abitato e dominato la stessa terra. Evidentemente Platone vuole richiamare l’attenzione su questa sezione, poiché offre argomenti e immagini ben piú elaborati di quelli tradizionali (cfr. Henderson 1975, pp. 33 sgg.; Pissavino 1981, pp. 206-8; Clavaud 1980, pp. 117-18 e 178 sgg.), peraltro del tutto taciuti da Pericle. Tale rafforzamento non sembra segnalare

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Ἔστι δὲ ἀξία ἡ χώρα καὶ ὑπὸ πάντων ἀνθρώπων ἐπαινεῖσθαι, οὐ μόνον ὑφ᾿ ἡμῶν, πολλαχῇ μὲν καὶ ἄλλῃ, πρῶτον δὲ καὶ μέγιστον ὅτι τυγχάνει οὖσα θεοφιλής. μαρτυρεῖ δὲ ἡμῶν τῷ λόγῳ ἡ τῶν ἀμφι­ σβητησάντων περὶ αὐτῆς θεῶν [d] ἔρις τε καὶ κρίσις· ἣν δὴ θεοὶ ἐπῄνεσαν, πῶς οὐχ ὑπ᾿ ἀνθρώπων γε συμπάντων δικαία ἐπαινεῖσθαι; δεύτερος δὲ ἔπαινος δικαίως ἂν αὐτῆς εἴη, ὅτι ἐν ἐκείνῳ τῷ χρόνῳ, ἐν ᾧ ἡ πᾶσα γῆ ἀνεδίδου καὶ ἔφυε ζῷα παντοδαπά, θηρία τε καὶ βοτά, | ἐν τούτῳ ἡ ἡμετέρα θηρίων μὲν ἀγρίων

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Davvero degno di lode è questo territorio, da parte di tutti gli uomini e non solo da parte nostra, e in molti e diversi sensi, ma in prima e suprema istanza perché ha in sorte di essere caro agli dèi. A testimoniare per il nostro discorso sono la contesa e il giudizio degli dèi che si sfidarono per essa: [d] come potrebbe non meritare di diritto le lodi di tutti gli uomini proprio il nostro territorio, che fu lodato dagli dèi?26. Una seconda lode gli sarà poi giustamente propria. Esattamente nel tempo in cui ogni zona della terra produceva e faceva crescere animali di ogni tipo, e fiere e bestiame, allora la nostra terra si mostrò pura, incapace di generare fieironia (cosí particolarmente Henderson 1975, pp. 33 sgg. e Clavaud 1980, pp. 117-18) né anticipare, con impegno filosofico, la narrazione del Crizia, in cui viene descritta una Urathen virtuosa (cosí già Harder 1934, pp. 497-98, e poi von Löwenclau 1961, pp. 51-62). In realtà il tratto centrale del passo, alla base della difformità rispetto alla tradizione, consiste nell’intensificazione dell’immagine dell’autoctonia fino a richiamare una reale nascita dalla terra (cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 199-202). In questo modo il motivo storiografico dell’autoctonia, tipico degli epitafi, si fonde con quello esiodeo (Op., 109 sgg.) della stirpe piú divina e ancestrale dell’età dell’oro. Platone utilizza questo mito nel Politico (269c4-274e4), in cui viene descritta un’autoctonia del tutto analoga a quella di questa sezione, con un accento particolare sulla connotazione dei primi uomini come γηγενεῖς (nati dalla terra): gli uomini nascevano dalla terra, autentica madre (271a5 e 273e11-274b2; cfr. Menex., 237b1-c4 e 237e1-238b1); venivano in tutto curati dagli dèi (271c8-272b1; cfr. Menex., 237c5-d2); avevano nutrimento spontaneo dalla terra (272a2b1; cfr. Menex., 237e1-238b1); erano privi di ogni costituzione politica ma anche di conoscenze specifiche e di caratteri morali (272b2 sgg.; cfr. Menex., 238b1-6). Pertanto: (1) difficilmente i tratti “storici” che nel Politico hanno una grande importanza sono qui utilizzati con fini ironici; (2) Platone non vuole celebrare Atene come comunità politica già costituita, bensí porre un nobile momento di inizio dell’“umanità” ateniese; (3) è lecito supporre che il momento del’autoctonia, come nel Politico (cfr. Gaiser 1988, pp. 49-70 e 116-21), sia un punto di partenza premorale, da cui ha inizio lo sviluppo storico-morale di un popolo, diretto alla virtú o, piú frequentemente, al vizio. 26   La prima prova della venerabilità del territorio ateniese (237c5-d2) è fornita da un episodio mitico, quello della contesa tra Atena e Poseidone per l’Attica (cfr. per esempio Pseudo-Apollodoro, Bibl., III, 178-79). Platone descrive l’episodio con tono solenne e senza citare scontri violenti, in modo conforme alla rilettura del mito proposta nel Crizia (109b1). Al contempo sembra qui presupposta una delle componenti del mito tradizionale, quella della risoluzione della contesa a favore di Atena perché questa fece nascere dalla terra un ulivo (cfr. anche Erodoto, VIII, 55). Ciò stabilisce una continuità con la prova della seconda ragione di lode, basata sulla fecondità della terra (particolarmente 238a7-b1).

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ἄγονος καὶ καθαρὰ ἐφάνη, ἐξελέξατο δὲ τῶν ζῴων καὶ ἐγέννησεν ἄνθρωπον, ὃ συνέσει τε ὑπερέχει τῶν ἄλλων καὶ δίκην καὶ θεοὺς μόνον [e] νομίζει. μέγα δὲ τεκμήριον τούτῳ τῷ λόγῳ, ὅτι ἥδε ἔτεκεν ἡ γῆ τοὺς τῶνδέ τε καὶ ἡμετέρους προγόνους. πᾶν γὰρ τὸ τεκὸν τροφὴν ἔχει ἐπιτηδείαν ᾧ ἂν τέκῃ, ᾧ καὶ γυνὴ δήλη τεκοῦσά τε ἀληθῶς καὶ μή, ἀλλ᾿ ὑπο­βαλλομένη, ἐὰν μὴ ἔχῃ | πηγὰς τροφῆς τῷ γεννωμένῳ. ὃ δὴ καὶ ἡ ἡμετέρα γῆ τε καὶ μήτηρ ἱκανὸν τεκμήριον παρέχεται ὡς ἀνθρώπους γεννησαμένη· μόνη γὰρ ἐν τῷ τότε καὶ πρώτη τροφὴν ἀνθρωπείαν 238 [a] ἤνεγ­κεν τὸν τῶν πυρῶν καὶ κριθῶν καρπόν, ᾧ κάλλιστα καὶ ἄριστα τρέφεται τὸ ἀνθρώπειον γένος, ὡς τῷ ὄντι τοῦτο τὸ ζῷον αὐτὴ γεννησαμένη. μᾶλλον δὲ ὑπὲρ γῆς ἢ γυναικὸς προσήκει δέχεσθαι τοιαῦτα τεκμήρια· οὐ γὰρ γῆ γυναῖκα | μεμίμηται κυήσει καὶ γεννήσει, ἀλλὰ γυνὴ γῆν. τούτου δὲ τοῦ καρποῦ οὐκ ἐφθόνησεν, ἀλλ᾿ ἔνειμεν καὶ τοῖς ἄλλοις. μετὰ δὲ τοῦτο ἐλαίου γένεσιν, πόνων ἀρωγήν, ἀνῆκεν τοῖς [b] ἐκγόνοις· θρεψαμένη δὲ καὶ αὐξήσασα πρὸς ἥβην ἄρχοντας καὶ διδασκάλους αὐτῶν θεοὺς ἐπηγάγετο· ὧν τὰ μὲν ὀνόματα πρέπει ἐν τῷ τοιῷδε ἐᾶν – ἴσμεν γάρ – οἳ τὸν

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re selvagge; operò al contrario un’oculata scelta tra gli animali e generò l’uomo, animale che supera gli altri in intelligenza, il solo a riconoscere la giustizia e gli dèi27. [e] C’è poi una grande prova a favore di questo discorso, secondo il quale codesta terra partorí i progenitori nostri e di costoro. Tutto ciò che partorisce, infatti, possiede un nutrimento apposito per ciò che ha partorito: grazie a esso si distingue chiaramente una donna che ha davvero partorito da una che non lo ha fatto e ha invece preso un figlio altrui, e in tal caso non possiede le fonti di nutrimento per il bambino generato. La nostra terra, la nostra madre, offre proprio questa come valida prova a conferma dell’aver generato uomini: fu infatti la prima e l’unica in quel tempo a 238 [a] offrire i frutti del grano e dell’orzo – dei quali si nutre nel modo piú appropriato e migliore il genere umano –, e questo perché fu realmente genitrice di questo animale. Del resto, conviene raccogliere simili prove piú per una terra che per una donna: non è infatti la terra ad aver imitato la donna nel concepimento e nella generazione, bensí la donna la terra. La terra, inoltre, non ha covato con gelosia questo frutto, ma lo ha distribuito anche agli altri. Dopo questo, diede inizio per quelli che aveva partorito alla produzione dell’olio, aiuto nelle fatiche. [b] Cosí, avendo provveduto alla nutrizione e alla crescita fino alla giovinezza, procurò come loro governanti e maestri gli dèi: in tale circostanza è opportuno tralasciare i loro nomi (noi li conosciamo)28, i nomi di questi dèi che orga27   Nel proporre la nascita dell’uomo – anche qui direttamente dalla terra – come grande peculiarità del territorio e momento di sua realizzazione, Platone va contro una tradizione diffusa che voleva l’Attica abitata da numerose fiere (cfr. per esempio già Euripide, Ph., 801-2, e poi Pausania, Graec. descr., I, 32, 1). L’Attica di Platone, a differenza di quella degli altri epitafi, si configura segnatamente come il territorio dell’ordine e della razionalità (cfr. anche Loraux 1993, pp. 169-73, che propone la stessa valutazione per l’Atene del mito narrata poco dopo). 28   L’inciso ἴσμεν γάρ, tràdito da tutti i manoscritti, non va espunto come glossa (cosí Tsitsiridis 1998, pp. 217-18, che segue l’indicazione di Wilamowitz 1898, pp. 519-20). Proprio perché gli dèi non potevano essere citati negli epitafi (cfr. Demostene, Epit., 30-31, con Clavaud 1980, p. 169), questa

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βίον ἡμῶν κατεσκεύασαν πρός τε τὴν καθ᾿ ἡμέραν δίαιταν, τέχνας πρώ- | τους παιδευσάμενοι, καὶ πρὸς τὴν ὑπὲρ τῆς χώρας φυλακὴν ὅπλων κτῆσίν τε καὶ χρῆσιν διδαξάμενοι. Γεννηθέντες δὲ καὶ παιδευθέντες οὕτως οἱ τῶνδε πρόγονοι ᾤκουν πολιτείαν κατασκευασάμενοι, ἧς ὀρθῶς ἔχει διὰ βρα- [c] χέων ἐπιμνησθῆναι. πολιτεία γὰρ τροφὴ ἀνθρώπων ἐστίν, καλὴ μὲν ἀγαθῶν, ἡ δὲ ἐναντία κακῶν. ὡς οὖν ἐν καλῇ πολιτείᾳ ἐτράφησαν οἱ πρόσθεν ἡμῶν, ἀναγκαῖον δηλῶσαι,

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nizzarono la nostra vita nelle abitudini e nelle azioni quotidiane educando noi, per primi, alle arti, e nella difesa del territorio insegnandoci il possesso e l’uso delle armi29. I progenitori di codesti, cosí generati ed educati, conducevano qui la vita provvisti di una costituzione politica30, che è ora giusto [c] riportare brevemente alla memoria. La costituzione politica è nutrimento per gli uomini: quella bella è di uomini buoni, mentre quella di natura opposta di uomini malvagi31. È dunque necessario chiarire che i nostri predecessori furono nutriti e cresciuti in una bella costituzione politica32: grazie a lei segnalazione indica una forzatura del genere e una richiesta di maggiore attenzione: in effetti, nel mito parallelo del Politico (cfr. supra la nota 25), appaiono specifiche divinità con simili funzioni – Prometeo, Efesto e “altri” –, che Platone conosce ma deve qui mantenere nell’ombra. 29   La seconda parte della lode al territorio (237d2-238b6) approfondisce il tema dell’autoctonia. Pur presentando caratteri tradizionali essa risulta originale nel panorama degli epitafi classici (il parallelo piú prossimo è rappresentato da alcune frasi dell’Epitafio – 5 – demostenico). Secondo questa ricostruzione “storica”, ricavabile sia dalla narrazione che dalla prova della sua autenticità, la terra ateniese: (a) avrebbe prodotto non fiere ma uomini (237d2-e1), (b) avrebbe provveduto alla loro nutrizione spontaneamente e perfettamente (237e1-238b1), (c) avrebbe fornito loro un’educazione di vario tipo attraverso alcuni dèi (238b1-b6). La forte originalità – soprattutto rispetto all’epitafio pericleo – indica che Platone vuole sottolineare l’importanza dell’argomento, che trova infatti puntuali e pregnanti paralleli nel Politico (cfr. supra la nota 25). 30   Pertanto, la tutela divina aveva fornito ai progenitori anche una costituzione politica (πολιτεία), benché solo nel momento in cui gli dèi abbandonarono gli uomini a se stessi. 31   Per il suo tono lapidario la frase, benché ambigua, rivendica un valore generale. Non è del tutto chiaro quale rapporto si debba istituire tra costituzione e condizione umana. Risulta però fortemente implausibile che Platone voglia sostenere che per uomini malvagi è semplicemente opportuna una costituzione cattiva. Al contrario, se la costituzione è nutrimento, è essa stessa a interagire con la condizione umana: una costituzione bella, dunque, rende gli uomini buoni. Questo presupposto, stabilito in modo tanto chiaro e generale, pone una “norma regolativa” necessariamente applicabile alle narrazioni successive e abolisce la possibilità di una degenerazione (prevista come elemento strutturale, per esempio, in Resp., VII, 545 sgg.). Ora, il presupposto dell’autoctonia è genuinamente platonico ma suggerisce, nella sua versione autentica, una progressiva degenerazione (cfr. supra la nota 25); la narrazione esplicita di una degenerazione, però, non può essere accolta in un epitafio: è quindi probabile che Platone proponga questa “norma” per mascherare nel contesto la propria prospettiva. 32   L’ampia sequenza sulla costituzione ateniese, centrale nell’epitafio peri-

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δι᾿ ἣν δὴ κἀκεῖνοι ἀγαθοὶ καὶ οἱ νῦν εἰσιν, ὧν οἵδε τυγ­χάνουσιν | ὄντες οἱ τετελευτηκότες. ἡ γὰρ αὐτὴ πολιτεία καὶ τότε ἦν καὶ νῦν, ἀριστοκρατία, ἐν ᾗ νῦν τε πολιτευόμεθα καὶ τὸν ἀεὶ χρόνον ἐξ ἐκείνου ὡς τὰ πολλά. καλεῖ δὲ ὁ μὲν αὐτὴν [d] δημοκρατίαν, ὁ δὲ ἄλλο, ᾧ ἂν χαίρῃ, ἔστι δὲ τῇ ἀληθείᾳ μετ᾿ εὐδοξίας πλήθους ἀριστοκρατία. βασιλῆς μὲν γὰρ ἀεὶ ἡμῖν

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essi erano buoni, come buoni sono i contemporanei, tra i quali codesti caduti. In effetti, c’era allora e c’è adesso la stessa costituzione politica, un’aristocrazia, nell’alveo della quale siamo ancora oggi cittadini, che dura da quel tempo per tutto il successivo senza soluzione di continui­ tà, o almeno per la maggior parte. Qualcuno la chiama [d] democrazia, qualcun altro in un modo diverso che piú trova adatto, ma è in verità un’aristocrazia provvista dell’approvazione dei piú33. Abbiamo sempre avuto dei cleo, completa la prima parte della lode, in generale dedicata alla formazione del popolo (cfr. Lisia, Epit., 18-19; Demostene, Epit., 15-17 – particolarmente sull’educazione del popolo – e 25-27 – lode della democrazia –; con Isocrate, IV, 39). I caratteri della costituzione descritta possono essere cosí riassunti: (a) è insegnata dagli dèi; (b) è perennemente stabile; (c) è nata come governo dei migliori; (d) ha caratteri democratici; (e) prevede una figura regale; (f ) il potere è detenuto dal popolo. La norma posta all’inizio della sequenza (238c12) sembrerebbe autorizzare il ragionamento: i progenitori furono cresciuti in una buona costituzione, dunque corroborarono la loro bontà, che rimase stabile nelle generazioni. L’impegno maggiore è certamente riposto nel sottolineare una forte continuità tra il tempo dei progenitori e la contemporaneità: poiché la costituzione è il nutrimento e la garanzia della bontà della cittadinanza, la sua permanenza stabilisce la bontà della città contemporanea (cfr. Scholl 1959, p. 25). Per rendere verosimile questa tesi, estremizzazione di posizioni tradizionali (cfr. Lisia, Epit., 17), Platone è però costretto a fare solo un cenno criptico (238c7) ai momenti in cui Atene conobbe regimi distanti dalla democrazia (per esempio sotto il tiranno Pisistrato, alla fine del vi secolo, o sotto i trenta tiranni nel 404) e arriva a sostenere la presenza di un’unica costituzione in tutta la storia ateniese. Inoltre la pretesa continuità appena stabilita impone una retroproiezione totale della democrazia, che giunge a coprire le figure mitiche dei primi re ateniesi. Platone non è il solo a proporre simili forzature, ma è certamente il piú radicale. Un presupposto analogo apre per esempio l’epitafio pericleo (Tucidide, II, 36, 1): gli avi avrebbero trasmesso con piena continuità il territorio con virtú e libertà. Le forzature rispetto all’epitafio pericleo non si limitano però a questo: la commistione tra democrazia e aristocrazia (democrazia come aristocrazia fondata sull’approvazione) fa implicito riferimento alle analoghe ambiguità che caratterizzano l’orazione di Pericle (cfr. Loraux 1993, pp. 188 sgg.); ancora, all’epitafio di Pericle rimandano sia l’idea per cui le cariche pubbliche sono conferite ai migliori senza considerare la povertà (Tucidide, II, 40, 1; cfr. anche Clavaud 1980, pp. 119 sgg.) o fattori diversi dalla virtú (II, 37, 1-2), sia il cenno alla denominazione (Tucidide, II, 37, 1; cfr. Kahn 1963, pp. 220-24, e Labriola 1980, pp. 212-13), sia il silenzio sulla pratica del sorteggio. 33   I temi di questa sezione sembrano discendere da una rielaborazione dell’epitafio pericleo (cfr. la nota precedente) basata su una costruzione argomentativa (consapevole) oltremodo fragile. L’immagine della democrazia è rimodellata da due punti di vista, l’uno storico/strutturale, l’altro sociale (il secondo dei quali è implicitamente sostenuto dal primo): da un punto di

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εἰσιν· οὗτοι δὲ τοτὲ μὲν ἐκ γένους, τοτὲ δὲ αἱρετοί· ἐγκρατὲς δὲ τῆς πόλεως τὰ πολλὰ τὸ πλῆθος, τὰς δὲ ἀρχὰς δίδωσι | καὶ κράτος τοῖς ἀεὶ δόξασιν ἀρίστοις εἶναι, καὶ οὔτε ἀσθενείᾳ οὔτε πενίᾳ οὔτ᾿ ἀγνωσίᾳ πατέρων ἀπελήλαται οὐδεὶς οὐδὲ τοῖς ἐναντίοις

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re – una volta scelti in base alla stirpe e in altre epoche eletti34 –, ma ad avere in misura maggiore potere sulla città sono i piú: essi conferiscono le cariche e il potere a chi sembra sempre migliore, e nessuno è mai stato escluso perché debole, povero o di padre ignoto, né – come vista storico/strutturale la democrazia è la migliore e originaria costituzione, dunque forma perennemente uomini buoni; da un punto di vista sociale, la democrazia si configura come la realizzazione della scelta della maggioranza dei buoni. Entrambe le condizioni dipendono da proposizioni ambigue: la prima da una norma di incerta validità (cfr. supra la nota 31), la seconda da una possibilità – la corretta scelta di un governante ottimo da parte della massa – che Platone difficilmente condividerebbe (cfr. per esempio Resp., VI, 498d7-501a8) e direttamente mutuata dall’epitafio di Pericle. Per queste ragioni appare difficile che Platone faccia tout court riferimento a una forma di stato ideale (cosí Wilamowitz 1919, vol. II, pp. 137-42 e Harder 1934, p. 500; poi von Löwenclau 1961, pp. 62-79; Kahn 1963, pp. 225-26; Tulli 2003, pp. 100-3) o a una comunità realmente e permanentemente virtuosa (Scholl 1959, pp. 24-37); sembra piú probabile che con lo specifico riferimento alla democrazia egli voglia comunque deformare la ben nota descrizione di Atene formulata da Pericle mettendone in evidenza le contraddizioni e i punti di maggiore debolezza (cosí Colin 1938, p. 237; Vlastos 1973, pp. 188201; Labriola 1980, pp. 216-19; Clavaud 1980, pp. 119-27; Coventry 1989, p. 11; Loraux 1993, pp. 196-97; Monoson 1998, pp. 492-93). Perché però Platone avrebbe posto un momento originario – quello dell’autoctonia – di grandi nobiltà e valore filosofico per poi proseguire con una descrizione deformata della costituzione periclea? In realtà il passaggio può alludere a una lettura duplice. (a) Da un lato la descrizione dell’età dell’oro rappresenta un momento pre-morale e la sua serietà non sarà intaccata dalla qualità morale che il popolo svilupperà; al contrario, il parallelo con il Politico suggerisce la probabilità di una decadenza, che però in un epitafio deve essere mascherata. L’illustrazione della costituzione democratica allude dunque al presupposto storico per la possibilità di una decadenza progressiva (cfr. anche 238c1-2: difficilmente Platone potrebbe trovare nella democrazia fondata sull’opinione delle masse un esempio di costituzione positiva, dunque i suoi tratti di negatività saranno visti alla base di una possibile successiva decadenza). (b) D’altro canto l’immagine della democrazia come costituzione basata sull’opinione dei buoni può aprire contemporaneamente a una diversa possibilità: attraverso una riforma morale (come quella proposta alla fine del dialogo) rimane possibile che anche le azioni e le opinioni dei piú convergano verso un’organizzazione politica migliore, una democrazia “aristocratica”. Sull’interpretazione della difficoltosa sequenza cfr. anche supra l’introduzione, pp. 401-2. 34   Questa affermazione pone il problema dell’individuazione della figura del re “eletto”, storicamente mai esistito: nella democrazia ateniese, infatti, l’arconte-re (cosí Friedländer 2004, p. 639) era sorteggiato. Con ogni probabilità la spiegazione migliore è fornita da Loraux 1993, p. 197, che sottolinea come Socrate porti a estremizzazione una tendenza chiara nell’epitafio di Pericle, quella di non citare mai il sorteggio come metodo di scelta delle cariche.

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τετίμηται, ὥσπερ ἐν ἄλλαις πόλεσιν, ἀλλὰ εἷς ὅρος, ὁ δόξας σοφὸς ἢ ἀγαθὸς εἶναι κρατεῖ καὶ ἄρχει. [e] Αἰτία δὲ ἡμῖν τῆς πολιτείας ταύτης ἡ ἐξ ἴσου γένεσις. αἱ μὲν γὰρ ἄλλαι πόλεις ἐκ παντοδαπῶν κατεσ­κευασμέναι ἀνθρώπων εἰσὶ καὶ ἀνωμάλων, ὥστε αὐτῶν ἀνώμαλοι καὶ αἱ πολιτεῖαι, τυραννίδες τε καὶ ὀλι­γαρχίαι· οἰκοῦσιν οὖν ἔνιοι μὲν δούλους, | οἱ δὲ δεσπότας ἀλλήλους νομίζοντες· ἡμεῖς δὲ καὶ οἱ ἡμέτεροι, 239 [a] μιᾶς μητρὸς πάντες ἀδελφοὶ φύντες, οὐκ ἀξιοῦμεν δοῦλοι οὐδὲ δεσπόται ἀλλήλων εἶναι, ἀλλ᾿ ἡ ἰσογονία ἡμᾶς ἡ κατὰ φύσιν ἰσονομίαν ἀναγκάζει ζητεῖν κατὰ νόμον, καὶ μηδενὶ ἄλλῳ ὑπείκειν ἀλλήλοις ἢ ἀρετῆς δόξῃ καὶ φρονήσεως. Ὅθεν δὴ ἐν πάσῃ ἐλευθερίᾳ τεθραμμένοι οἱ τῶνδέ

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in altre città – è stato onorato per i motivi opposti. C’è una sola regola: governa e assume le cariche chi sembri35 sapiente e buono36. [e] La causa che fonda per noi questa costituzione politica è la discendenza da un’uguale origine. Le altre città, infatti, sono state organizzate da uomini di ogni sorta e senza equilibrio, cosicché senza equilibrio sono anche le loro costituzioni politiche, tirannidi e oligarchie: alcuni governano altri considerandoli schiavi, gli altri a loro volta ritengono quelli padroni. Al contrario noi e i nostri, 239 [a] nati tutti come fratelli da una sola madre, non ci consideriamo vicendevolmente schiavi o padroni: l’eguale origine, conforme alla natura, ci porta invece a cercare necessariamente l’eguaglianza secondo legge, a non sottostare a nessun altro se non a chi sembri dotato di virtú e intelligenza. A quel punto, ormai cresciuti in completa libertà37 e 35   Qui come altrove (per esempio 239a4) la presenza del verbo δοκέω sembra presupporre una riserva ironica sull’efficacia della valutazione da parte del popolo (cosí già Taylor 1963, p. 43, e Dodds 1959, p. 24, nota 2; poi su tutti Loraux 1993, p. 335; contra Kahn 1963, p. 226): nonostante l’uso del verbo caratterizzi il linguaggio politico (cfr. per esempio Pohlenz 1913, pp. 246-47), con ogni probabilità Platone vuole effettivamente alludere a una dimensione di virtú non compiuta, per quanto non necessariamente fallace. 36   Secondo il mito di fondazione della città, Atene ebbe come primo re – illuminato – Teseo. Platone (ma cfr. Lisia, Epit., 18, e Demostene, Epit., 28, 2, con Isocrate, X, 35, i quali, mantenendo un profilo piú moderato, sottolineano la bontà del re), non può ignorarlo, e per preservare la tesi della democrazia “originaria e continua” è costretto a calare la figura del re nel contesto della democrazia. Anche in questo, però, Platone richiama Pericle (Tucidide, II, 36, 1-2), che individuava una continuità virtuosa nei costumi ateniesi e al contempo l’intrinseco legame tra Atene e la democrazia. Il re è qui originariamente scelto per stirpe, ma poiché gli Ateniesi sono tutti autoctoni (238e1 sgg.) e buoni, ciò non intacca l’identità “democratica”. Successivamente il re viene eletto, ed è un buono eletto da buoni, un’istituzione pienamente compatibile con la democrazia “aristocratica”. Su queste basi si può ribadire (238d2-5) che il potere è del tutto in mano al popolo, cioè ai buoni. 37   L’importanza della nozione di ἐλευθερία dipende dall’aderenza al genere letterario (cfr. per esempio Tucidide, II, 36, 1 e 37, 2 e 40, 3; Lisia, Epit., 22; Iperide, Epit., 5; con Loraux 1993, pp. 114-20), e ha qui un ruolo centrale come giustificazione per qualsiasi impegno militare degli Ateniesi: soprattutto nelle guerre che furono storicamente costitutive dell’impero, Atene viene rappresentata come mossa dal desiderio per la libertà, propria o altrui (per esempio a 240e2; 242a7 e b6; 243a1-2; 244c6-7). In questi riferimenti è difficile non scorgere ironia, dal momento che secondo Platone proprio la

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γε πατέρες καὶ οἱ ἡμέτεροι καὶ αὐτοὶ οὗτοι, καὶ καλῶς φύντες, πολλὰ δὴ καὶ καλὰ ἔργα ἀπεφήναντο εἰς πάντας ἀνθρώπους [b] καὶ ἰδίᾳ καὶ δημοσίᾳ, οἰό­μενοι δεῖν ὑπὲρ τῆς ἐλευθερίας καὶ Ἕλλησιν ὑπὲρ Ἑλλήνων μάχεσθαι καὶ βαρβάροις ὑπὲρ ἁπάντων τῶν Ἑλλήνων. Εὐμόλπου μὲν οὖν καὶ Ἀμαζόνων ἐπι­ στρατευσάντων ἐπὶ τὴν χώραν καὶ τῶν ἔτι προτέρων ὡς | ἠμύναντο, καὶ ὡς ἤμυναν Ἀργείοις πρὸς Καδμείους καὶ Ἡρακλείδαις πρὸς Ἀργείους, ὅ τε χρόνος βραχὺς ἀξίως διηγήσασθαι, ποιηταί τε αὐτῶν ἤδη καλῶς τὴν ἀρετὴν ἐν μουσικῇ ὑμνήσαντες εἰς πάντας με­μη­

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formati in tutta bellezza, i padri di codesti e i nostri e questi stessi38 misero in luce al cospetto di tutti gli uomini, [b] sia in privato che in pubblico, molte e belle imprese, fermi nell’idea che in nome della libertà è necessario combattere sia i Greci in nome dei Greci sia i barbari in nome di tutti i Greci39. Troppo poco è il tempo per narrare degnamente come si difesero quando Eumolpo e le Amazzoni e gli altri ancora prima attaccarono il nostro territorio, come difesero gli Argivi contro i discendenti di Cadmo e gli Eraclidi contro gli Argivi; poe­ti lo hanno già testimoniato di fronte a tutti, lodando meravigliosamente la loro virtú con inni nelle forme care alle Muse40: libertà è non solo la radice – ovviamente negativa – della democrazia (Resp., VIII, 557a10 sgg., particolarmente 557b4-7), ma anche la tossina che innesca il passaggio alla tirannide (Resp., VIII, 562a11 sgg.; ma cfr. anche Leg., III, 693e6-8 e 698a9-b2). 38   Va probabilmente accolta la correzione – qui tradotta – proposta da Tsitsiridis 1998, p. 241 (οἱ τῶνδέ τε πατέρες καὶ ἡμέτεροι καὶ αὐτοὶ οὗτοι), efficace e con buona base tradizionale. 39   In conformità con la struttura tradizionale, Platone conduce la lode delle imprese ateniesi. A differenza degli altri autori (Lisia si dilunga su fatti mitici, Pericle sostituisce mito e storia con la descrizione della “morale” ateniese), però, si sofferma poco sul mito (239a5-b8) e si immerge quasi immediatamente in un’amplissima rassegna di imprese storiche, che occuperà gran parte dell’epitafio (239b8-246a4): tale estensione segnala l’interesse di Platone per le vicende ateniesi a partire dalle guerre persiane. Ben piú rilevanti sono però le numerose distorsioni che si potranno riscontrare in queste pagine (per indicazioni puntuali cfr. infra, passim; rassegne complessive in Méridier 1931, pp. 59-64; Scholl 1959, pp. 46-59; Kahn 1963, pp. 224-28; Henderson 1975, pp. 29-33; Clavaud 1980, pp. 127-202), sulla cui valutazione la critica si è divisa: esse potrebbero inserirsi nel genere dell’epitafio ed essere finalizzate ad auspicare (Scholl 1959, pp. 46-59, e Kahn 1963, pp. 224-28) o celebrare (von Löwenclau 1961, pp. 79-106, e Tulli 2003, pp. 100-5) un’Atene ideale, o essere al contrario troppo forti per non produrre un effetto ironico (Colin 1938, pp. 237-39; Henderson 1975, pp. 29-33; Clavaud 1980, pp. 127-202; Coventry 1989, pp. 9-10). Cfr. però supra l’introduzione, pp. 402-4. 40   (a) Eumolpo, re dei Traci, attaccò l’Attica e Atene sotto il regno di Eretteo (anche Demostene, Epit., 8); (b) le Amazzoni invasero Atene sotto il regno di Teseo (anche Lisia, Epit., 4-6 – piú ampiamente – e Demostene, Epit., 8); (c) i precedenti invasori non sono facilmente identificabili, e potrebbero forse essere i Tebani di Labdaco; (d) Teseo sostenne Adrasto contro i tebani (anche Lisia, Epit., 7-10 – piú ampiamente –, Isocrate, IV, 64, 4 sgg. e Demostene, Epit., 8); (e) Atene aiutò i figli di Eracle perseguitati dal re Euristeo di Argo (anche Lisia, Epit., 11-16, Isocrate, IV, 58, 1 sgg., Demostene, Epit., 8). Questi episodi, forse originariamente selezionati in analogia con la nuova ideologia democratica (cfr. Loraux 1993, pp. 84 sgg.), erano ampia-

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νύκασιν· ἐὰν οὖν ἡμεῖς [c] ἐπιχειρῶμεν τὰ αὐτὰ λόγῳ ψιλῷ κοσμεῖν, τάχ᾿ ἂν δεύτεροι φαινοίμεθα. ταῦτα μὲν οὖν διὰ ταῦτα δοκεῖ μοι ἐᾶν, ἐπειδὴ καὶ ἔχει τὴν ἀξίαν· ὧν δὲ οὔτε ποιητής πω δόξαν ἀξίαν ἐπ᾿ ἀξίοις λαβὼν ἔχει ἔτι τέ ἐστιν ἐν ἀμνηστίᾳ, τούτων πέρι μοι | δοκεῖ χρῆναι ἐπιμνησθῆναι ἐπαινοῦντά τε καὶ προμνώμενον ἄλλοις ἐς ᾠδάς τε καὶ τὴν ἄλλην ποίησιν αὐτὰ θεῖναι πρεπόντως τῶν πραξάντων. ἔστιν δὲ τούτων ὧν λέγω [d] πρῶτα· Πέρσας ἡγουμένους τῆς Ἀσίας καὶ δουλουμένους τὴν Εὐρώπην ἔσχον οἱ τῆσδε τῆς χώρας ἔκγονοι, γονῆς δὲ ἡμέτεροι, ὧν καὶ δίκαιον καὶ χρὴ πρῶτον μεμνημένους

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qualora dunque [c] ci impegnassimo a ornare questi stessi fatti con la prosa, appariremmo probabilmente inferiori41. Mi sembra opportuno lasciare da parte queste imprese per tale ragione: hanno già degna valutazione. Piuttosto, mi pare necessario riportare la memoria proprio a quelle imprese che nessun poe­ta ha ancora fatto proprie – da cose di valore cogliendo una valida fama42 –, imprese che sono per di piú dimenticate, lodandole43 e inducendo altri a porle in odi e in ogni altro genere di composizione letteraria, come conviene per chi le realizzò. È dunque proprio di queste che parlo [d] per prime. I figli di codesto territorio, nostri padri, tennero lontani i Persiani, che dominavano sull’Asia e volevano ridurre in schiavitú l’Europa: è giusto e necessario, serbandone memoria, lodare in primo luogo la loro virtú44. mente noti al pubblico e richiamati nelle tragedie (ciò spiega il riferimento ai poe­ti, tipicamente retorico; per indicazioni specifiche cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 245-48), oltre che stabilmente presenti negli epitafi (con Pericle fa eccezione solo Iperide). 41   La giustificazione è poco efficace, poiché opere in versi – in particolare tragedie – erano dedicate anche alle guerre persiane (come i Persiani di Eschilo), delle quali però Socrate si accinge a parlare. Certamente vi sono affermazioni parallele negli altri epitafi – cfr. per esempio le ben piú caute formulazioni in Demostene, Epit., 9 – ma Platone forza questo luogo comune (cfr. già Colin 1938, p. 237). 42   La sequenza δόξαν … ἀξίοις rappresenta un classico saggio di stile gorgiano, con allitterazioni e ripetizioni. 43   Qui come in pochi altri casi (246b5-7; 246c2; 246c4-6; 248e2) è stata segnalata la presenza di voci maschili (προμνώμενον) per l’autore dell’epitafio, che sembrerebbero essere in contrasto con l’attribuzione ad Aspasia (cfr. Labarbe 1991, pp. 89-100); in realtà la recitazione dell’epitafio è prerogativa maschile (cfr. Loraux 1993, pp. 64-78) e, benché composto da Aspasia, esso sarebbe stato letto o recitato da un uomo. 44   Inizia l’ampia sezione dedicata alle guerre persiane, propria del modulo tradizionale (i tardi epitafi di Iperide e Demostene considerano invece solo l’evento storico per cui sono composti). Dopo la cosiddetta rivolta ionica (500-494 a.C.), i Persiani del re Dario intrapresero l’invasione della Grecia, e avendo sottomesso le Cicladi ed Eretria sbarcarono a Maratona. L’esercito ateniese vinse con una manovra avvolgente; i Persiani si imbarcarono allora verso Atene, rimasta sguarnita, ma a marce forzate gli Ateniesi raggiunsero la città e ne impedirono la presa. Dieci anni dopo, nel 480, i Persiani guidati da Serse (figlio di Dario) attraversarono l’Ellesponto e tentarono di invadere la Grecia, indebolita e in parte filopersiana. Sotto la guida di Sparta e Atene, però, un’alleanza si organizzò secondo il piano dell’ateniese Temistocle,

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ἐπαινέσαι αὐτῶν τὴν ἀρετήν. δεῖ δὴ αὐτὴν ἰδεῖν, εἰ μέλλει τις καλῶς | ἐπαινεῖν, ἐν ἐκείνῳ τῷ χρόνῳ γενόμενον λόγῳ, ὅτε πᾶσα μὲν ἡ Ἀσία ἐδούλευε τρίτῳ ἤδη βασιλεῖ, ὧν ὁ μὲν πρῶτος Κῦρος ἐλευθερώσας Πέρσας τοὺς αὑτοῦ πολίτας τῷ αὑτοῦ φρονήματι [e] ἅμα καὶ τοὺς δεσπότας Μήδους ἐδουλώσατο καὶ τῆς ἄλλης Ἀσίας μέχρι Αἰγύπτου ἦρξεν, ὁ δὲ ὑὸς Αἰγύπτου τε καὶ Λιβύης ὅσον οἷόν τ᾿ ἦν ἐπιβαίνειν, τρίτος δὲ Δαρεῖος πεζῇ μὲν μέχρι Σκυθῶν τὴν ἀρχὴν ὡρίσατο, ναυσὶ δὲ τῆς τε 240 [a] θαλάττης ἐκράτει καὶ τῶν νήσων, ὥστε μηδὲ ἀξιοῦν ἀντίπαλον αὐτῷ μηδένα εἶναι· αἱ δὲ γνῶμαι δεδουλωμέναι ἁπάντων ἀνθρώπων ἦσαν· οὕτω πολλὰ καὶ μεγάλα καὶ μάχιμα γένη καταδεδουλωμένη ἦν ἡ Περσῶν ἀρχή. αἰτιασάμενος δὲ | Δαρεῖος ἡμᾶς τε καὶ Ἐρετριᾶς,

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Ebbene, occorre averla davanti agli occhi se la si vuole lodare in modo bello, come trovandosi grazie al discorso in quel tempo, quando già tutta l’Asia era schiava del terzo dei tre re. Il primo di loro, Ciro, dopo aver liberato i Persiani, suoi sudditi, mosso dalla propria cupidigia ridusse in schiavitú [e] i padroni Medi e prese il comando della restante parte dell’Asia fino all’Egitto45; il figlio, invece, delle regioni dell’Egitto e della Libia che fu in grado di invadere. Dario, per terzo, con spedizioni via terra stabilí il proprio potere fino alla Scizia, con spedizioni navali prendeva il comando 240 [a] sul mare e sulle isole: cosicché non v’era nessuno che neanche pensasse di contrapporsi a lui. Ormai schiavo era il giudizio di tutti gli uomini: tanto numerose e grandi e combattive erano le stirpi che già il potere persiano aveva condotto in schiavitú46. Dario rivolse allora conche vedeva nelle battaglie navali l’unica possibilità di vittoria. Cosí, mentre l’esercito persiano di terra veniva bloccato (con il fondamentale e celebre contributo di Sparta) negli angusti passaggi delle Termopili, la flotta ateniese si portava presso l’Artemisio e limitava le perdite in un grande scontro navale. L’esito delle due battaglie, tuttavia, può essere visto come favorevole ai Persiani: la caduta delle Termopili aprí infatti un varco nella Grecia continentale, e Atene fu presto presa e devastata. Come ultimo baluardo greco rimaneva l’istmo di Corinto; Temistocle riuscí a incanalare la flotta persiana nello stretto di Salamina, costringendola sempre piú e impedendo la fuga via terra. Serse decise cosí di ripiegare, pur mantenendo proprie postazioni a nord. Nell’estate del 479 i Persiani invasero nuovamente la Grecia e presero Atene; allora gli Spartani (insieme a molti altri contingenti) intervennero in soccorso e raggiunsero i nemici a Platea: nella battaglia che ne seguí è probabile che gli Ateniesi non abbiano brillato, e la vittoria fu greca grazie a Sparta. L’ultimo atto della guerra è rappresentato dall’attacco ellenico al promontorio di Micale, in Ionia (attuale costa turca), dove venne distrutta la flotta persiana. 45   Ciro II regnò dal 559 al 530, anno della sua morte; la sua impresa maggiore consistette probabilmente nella liberazione del proprio popolo dai Medi nel 550-49 (Erodoto, I, 122-30). Corretti, anche se enfatici, sono anche i cenni alle ulteriori conquiste che portarono l’impero persiano ad annettere i territori babilonesi. La valutazione platonica di Ciro, come anche quella di Dario, è altrove positiva (Leg., III, 694c1 sgg.) e, benché il contesto dell’orazione pubblica richieda in generale una caratterizzazione negativa dei re barbari, Platone si limita anche qui a contrapporre implicitamente i Greci, liberi e democratici, ai sovrani persiani, volti al dispotismo. 46   Il figlio di Ciro, Cambise, regnò dal 530 al 522 ed estese l’impero fino all'Egitto nel 525 (Erodoto, III, particolarmente 1-26). L'improvvisa morte di Cambise lasciò nell’instabilità l’impero; gli subentrò dopo un anno Dario,

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Σάρδεσιν ἐπιβουλεῦσαι προφασιζόμενος, πέμψας μυριάδας μὲν πεν­τήκοντα ἔν τε πλοίοις καὶ ναυσίν, ναῦς δὲ τρια­κο­σίας, Δᾶτιν δὲ ἄρχοντα, εἶπεν ἥκειν ἄγον­τα Ἐρετριᾶς καὶ Ἀθηναίους, εἰ βούλοιτο τὴν [b] ἑαυτοῦ κεφαλὴν ἔχειν· ὁ δὲ πλεύσας εἰς Ἐρέτριαν ἐπ᾿ ἄνδρας οἳ τῶν τότε Ἑλλήνων ἐν τοῖς εὐδοκιμώτατοι ἦσαν τὰ πρὸς τὸν πόλεμον καὶ οὐκ ὀλίγοι, τούτους ἐχειρώσατο μὲν ἐν τρισὶν ἡμέραις, διηρευνήσατο δὲ αὐτῶν πᾶσαν τὴν χώραν, | ἵνα μηδεὶς ἀποφύγοι, τοιούτῳ τρόπῳ· ἐπὶ τὰ ὅρια ἐλθόντες τῆς Ἐρετρικῆς οἱ στρατιῶται αὐτοῦ, ἐκ θαλάττης εἰς θάλατταν διαστάντες, συνάψαντες τὰς χεῖρας διῆλθον ἅπασαν τὴν [c] χώραν, ἵν᾿ ἔχοιεν τῷ βασιλεῖ εἰπεῖν ὅτι οὐδεὶς σφᾶς ἀποπεφευγὼς εἴη. τῇ δ᾿ αὐτῇ διανοίᾳ κατηγάγοντο ἐξ Ἐρετρίας εἰς Μαραθῶνα, ὡς ἕτοιμόν σφισιν ὂν καὶ Ἀθηναίους ἐν τῇ αὐτῇ ταύτῃ ἀνάγκῃ ζεύξαντας Ἐρετριεῦσιν ἄγειν. τούτων | δὲ τῶν μὲν

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tro di noi e gli abitanti di Eretria un’accusa, adducendo come pretesto una nostra cospirazione contro Sardi, e inviò cinquecentomila uomini su imbarcazioni e navi: trecento navi sotto il comando di Dati, a cui disse di tornare portando Eretria e Atene, se avesse desiderato [b] conservare la testa47. Quello, allora, si mise in mare verso Eretria, per affrontare uomini, e non pochi, che dei Greci di allora erano tra quelli che godevano della maggiore stima48 nelle occupazioni belliche. Li sottomise in tre giorni. Poi, perché nessuno riuscisse a sfuggire, batté attentamente l’intero loro territorio in questo modo: i suoi soldati, giunti ai margini di Eretria e disposti per tutta l’estensione, da mare a mare, attraversarono tutto il [c] territorio tenendosi per mano, per essere in grado di dire al Re che nessuno era riuscito a sfuggirgli49. Con le stesse intenzioni scesero da Eretria verso Maratona, del tutto sicuri di prendere anche gli Ateniesi costringendoli nella stessa morsa usata contro gli abitanti di Eretria. Mentre la prima di queste operazioni era atappartenente a un ramo secondario della stirpe reale: egli regnò dal 522 al 486 e fu protagonista della prima guerra persiana. Qui Dario rappresenta l'apogeo dell’impero, dunque il momento di sua massima temibilità e forza, contro la quale gli Ateniesi avrebbero avuto l’eccezionale coraggio di schierarsi. 47   Il racconto della prima guerra persiana in parte non corrisponde alla maggiore fonte antica a noi nota, Erodoto (cfr. anche supra la nota 44); in particolare, alcune difformità potrebbero indurre a vedere una manipolazione da parte di Platone: (a) viene omessa la sconfitta nella rivolta ionica; (b) i numeri relativi all’esercito persiano sono molto ingranditi (240a6-7); (c) la presa di Eretria è circoscritta in soli tre giorni (240b3-4) a fronte dei sette di Erodoto; (d) è omessa la partecipazione alla battaglia di Maratona dell’esercito di Platea (Erodoto, VI, 108; come Platone, tuttavia, si comportano anche Lisia e Isocrate – per esempio IV, 86) ed è falsata la notizia sull’arrivo degli Spartani (240c4-d1), che giunsero in ritardo ma non a battaglia finita (cfr. Erodoto, VI, 120; la stessa notizia è riportata nelle Leggi – III, 698d5-e5 –, ma con tono certamente piú indulgente). I dati in questione discendono comunque da una fonte storica – probabilmente di parte ateniese – ma fatti e omissioni trovano solo parziale riscontro anche in altre opere (per esempio Lisia, Epit., 20-47, e Isocrate, IV, 89 sgg.): Platone, dunque, forza coscientemente la narrazione (cfr. del resto la descrizione ben piú equilibrata in Leg., III, 698e). 48   Va probabilmente ristabilito il testo tràdito da T e W (ma in parte suggerito anche da F), εὐδοκιμωτάτοις (cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 270-72). 49   Si tratta del noto episodio della σαγηνεία (cfr. Erodoto, VI, 31, 2, e Platone, Leg., III, 698c7-d5).

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πραχθέντων, τῶν δ᾿ ἐπιχειρουμένων οὔτ᾿ Ἐρετριεῦσιν ἐβοήθησεν Ἑλλήνων οὐδεὶς οὔτε Ἀθηναίοις πλὴν Λακεδαιμονίων – οὗτοι δὲ τῇ ὑστεραίᾳ τῆς μάχης ἀφίκοντο – οἱ δ᾿ ἄλλοι πάντες ἐκπεπληγμένοι, ἀγαπῶντες τὴν [d] ἐν τῷ παρόντι σωτηρίαν, ἡσυχίαν ἦγον. ἐν τούτῳ δὴ ἄν τις γενόμενος γνοίη οἷοι ἄρα ἐτύγχανον ὄντες τὴν ἀρετὴν οἱ Μαραθῶνι δεξάμενοι τὴν τῶν βαρβάρων δύναμιν καὶ κολασάμενοι τὴν ὑπερ­ηφανίαν ὅλης τῆς Ἀσίας καὶ πρῶτοι στήσαν­ τες | τρόπαια τῶν βαρβάρων, ἡγεμόνες καὶ διδάσ­ καλοι τοῖς ἄλλοις γενόμενοι ὅτι οὐκ ἄμαχος εἴη ἡ Περσῶν δύναμις, ἀλλὰ πᾶν πλῆθος καὶ πᾶς πλοῦτος ἀρετῇ ὑπείκει. ἐγὼ μὲν οὖν ἐκείνους [e] τοὺς ἄνδρας φημὶ οὐ μόνον τῶν σωμάτων τῶν ἡμετέρων πατέρας εἶναι, ἀλλὰ καὶ τῆς ἐλευθερίας τῆς τε ἡμετέρας καὶ συμπάντων τῶν ἐν τῇδε τῇ ἠπείρῳ· εἰς ἐκεῖνο γὰρ τὸ ἔργον ἀποβλέψαντες καὶ τὰς ὑστέρας μάχας ἐτόλμησαν διακινδυ- | νεύειν οἱ Ἕλληνες ὑπὲρ τῆς σωτηρίας, μαθηταὶ τῶν Μαραθῶνι γενόμε­ νοι. τὰ μὲν οὖν ἀριστεῖα τῷ λόγῳ ἐκείνοις ἀναθε241 [a] τέον, τὰ δὲ δευτερεῖα τοῖς περὶ Σαλαμῖνα καὶ ἐπ᾿ Ἀρτεμισίῳ ναυμαχήσασι καὶ νικήσασι. καὶ γὰρ

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tuata e la seconda veniva intrapresa, nessuno dei popoli greci prestò soccorso né agli abitanti di Eretria né a quelli di Atene a eccezione dei Lacedemoni, che giunsero però all’indomani della battaglia: tutti gli altri, profondamente scossi e affezionati [d] alla salvezza di cui godevano al momento, rimasero immobili. Solo trovandosi là uno potrebbe cogliere di quale virtú furono allora capaci quelli che a Maratona ricevettero l’attacco della potenza dei barbari, che punirono l’arroganza dell’Asia intera, che per primi conseguirono trofei di vittoria contro i barbari, che divennero per gli altri guide e maestri50 del fatto che la potenza dei Persiani non era imbattibile, e che al contrario ogni quantità e ogni ricchezza sottostà alla virtú51. Ebbene, io affermo che quegli [e] uomini sono padri non solo dei nostri corpi ma anche della libertà, sia nostra sia di chiunque si trovi in codesta terra greca: proprio volgendo lo sguardo a quelle imprese e alle battaglie successive i Greci, facendosi allievi degli uomini a Maratona, trovarono il coraggio di correre ogni rischio in nome della libertà. Con il discorso, dunque, occorre assegnare il primo e piú alto premio a quelli; 241 [a] il secondo va invece a chi ha combattuto e vinto le battaglie navali presso Salamina e l’Artemisio52. Molte 50   Questa considerazione rappresenta un topos fondamentale del genere, ma echeggia in particolare una nota posizione periclea (Tucidide, II, 37, 1 e 41, 1). 51   Con le imprese militari torna il tema della virtú, centrale nel genere letterario. Benché Platone condivida la subordinazione di forza fisica, numero e ricchezza alla virtú, difficilmente si possono identificare in questi passaggi posizioni essenzialmente platoniche (l’associazione dell’Atene di Maratona con la città ideale è proposta per esempio già da Harder 1934, pp. 497-500). Oltre che tributi alla tradizione e al genere, esse possono comunque rappresentare delle acquisizioni minime di virtú politica: per quanto non (necessariamente) portatori di una virtú autentica, gli Ateniesi di Maratona agiscono in modo coraggioso. 52   Cfr. supra la nota 44. Benché qui sia particolarmente netta (Clavaud 1980, pp. 148-49), l’omissione delle battaglie delle Termopili e di Micale, come anche di riferimenti alle molte forze greche coinvolte, è tradizionale (per esempio Lisia, Epit., particolarmente 21 e 30; per l’ampia alleanza a sostegno di Atene nella battaglia dell’Artemisio cfr. Erodoto, VIII, 1-2). La distribuzione dei “premi” risponde a una logica interna al dialogo, poiché altrove (Leg., III, 698d5-699d2) Platone cita esplicitamente, tra le battaglie delle guerre persiane, solo Maratona, e allude in tono minore alla seconda guerra

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τούτων τῶν ἀνδρῶν πολλὰ μὲν ἄν τις ἔχοι διελθεῖν, καὶ οἷα ἐπιόντα ὑπέμειναν κατά τε γῆν καὶ κατὰ θάλατταν, καὶ ὡς ἠμύναντο ταῦτα· ὃ | δέ μοι δοκεῖ καὶ ἐκείνων κάλλιστον εἶναι, τούτου μνησθήσομαι, ὅτι τὸ ἑξῆς ἔργον τοῖς Μαραθῶνι διεπράξαντο. οἱ μὲν γὰρ Μα­ρα­θῶνι τοσοῦτον μόνον ἐπέδειξαν τοῖς Ἕλλησιν, ὅτι [b] κατὰ γῆν οἷόν τε ἀμύνασθαι τοὺς βαρβάρους ὀλίγοις πολλούς, ναυσὶ δὲ ἔτι ἦν ἄδηλον καὶ δόξαν εἶχον Πέρσαι ἄμαχοι εἶναι κατὰ θάλατταν καὶ πλήθει καὶ πλούτῳ καὶ τέχνῃ καὶ ῥώμῃ· τοῦτο δὴ ἄξιον ἐπαινεῖν τῶν ἀνδρῶν τῶν τότε ναυμαχησάντων, | ὅτι τὸν ἐχόμενον φόβον διέλυσαν τῶν Ἑλλήνων καὶ ἔπαυσαν φοβουμένους πλῆθος νεῶν τε καὶ ἀνδρῶν. ὑπ᾿ ἀμφοτέρων δὴ συμβαίνει, τῶν τε Μαραθῶνι μαχεσαμένων καὶ τῶν ἐν [c] Σαλαμῖνι ναυμαχη­ σάντων, παιδευθῆναι τοὺς ἄλλους Ἕλληνας, ὑπὸ μὲν τῶν κατὰ γῆν, ὑπὸ δὲ τῶν κατὰ θάλατταν μαθόντας

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cose, infatti, vi sarebbero da narrare anche su questi uomini: a quali attacchi resistettero, per terra e per mare, come allora si difesero! Voglio però ricordare quella che mi pare la piú bella tra le loro imprese, che hanno portato a compimento dopo le vicende di Maratona. Solo questo, infatti, quelli mostrarono ai Greci a Maratona, che [b] per terra era possibile che i barbari, benché molti, da pochi fossero respinti. Quanto alle azioni navali, invece, era ancora tutto oscuro: con la loro imponenza, la loro ricchezza, la loro competenza, la loro forza, i Persiani avevano fama di essere invincibili per mare. Ebbene, proprio per questo è degno lodare gli uomini che allora si impegnarono nella battaglia navale: essi dissolsero la paura residua dei Greci, arrestarono il loro timore della grande quantità di uomini e navi. Grazie a entrambi, a quelli che a Maratona combatterono per terra e a quelli [c] che a Salamina combatterono sulle navi, gli altri Greci ricevettero un’educazione53: hanno appreso e si sono abituati a non temere i barbari né per terra – grazie agli persiana. Nel Menesseno i premi sono assegnati in corrispondenza dell’ordine cronologico e viene rappresentata una gerarchia che conduce, declinando, dalle guerre persiane fino alla guerra di Corinto. Tsitsiridis 1998, pp. 281-82 (ma già Scholl 1959, pp. 40-46) ha motivato la disposizione seguendo le indicazioni di Platone, cioè indicando come le guerre abbiano progressivamente insegnato meno ai Greci e sottolineando che a Maratona gli Ateniesi combattevano soli. Sembra però piú probabile che Platone stia descrivendo un declino, che però la lode deve mascherare (Clavaud 1980, pp. 175-81; Pradeau 1997, pp. xviii-xxiii). Del resto Platone, esasperando un atteggiamento già pericleo (cfr. Loraux 1993, pp. 106-14), tace per tutta la digressione storica la formazione e le vicende dell’impero talassocratico ateniese, che reca nella sua prospettiva un necessario declino morale (cfr. per esempio Gorg., 515c sgg.). Ciò non vuol dire che Platone dissimuli realmente e radicalmente la sua opposizione (cosí Clavaud 1980, pp. 193-200): al contrario, la disposizione dei premi, il ricorso al mito dell’autoctonia e le crescenti e sempre piú forti edulcorazioni della storia costituiscono una parziale violazione del genere che lascia facilmente intuire un presa di posizione. Diversa la lettura di alcuni critici che hanno visto in questo atteggiamento solo le basi per una seria esortazione all’autentica virtú platonica: l’impero sarebbe qui sostituito dall’Atene auspicabile o ideale (cfr. Kahn 1963, pp. 224-25; Tulli 2003, pp. 100-3). 53   Il motivo tradizionale dell’educazione fonda la classificazione; Platone sembra però riprendere ed esasperare una posizione periclea (cfr. supra la nota 50). Per l’identificazione della vittoria ateniese con una testimonianza di valore dei Greci cfr. per esempio Lisia, Epit., 41.

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καὶ ἐθισθέντας μὴ φοβεῖσθαι τοὺς βαρβάρους. τρίτον δὲ λέγω τὸ ἐν Πλαταιαῖς ἔργον καὶ ἀριθμῷ καὶ ἀρετῇ | γενέσθαι τῆς Ἑλληνικῆς σωτηρίας, κοινὸν ἤδη τοῦτο Λακεδαιμονίων τε καὶ Ἀθηναίων. τὸ μὲν οὖν μέγιστον καὶ χαλεπώτατον οὗτοι πάντες ἠμύναντο, καὶ διὰ ταύτην τὴν ἀρετὴν νῦν τε ὑφ᾿ ἡμῶν ἐγ­κωμιάζονται καὶ εἰς τὸν ἔπειτα [d] χρόνον ὑπὸ τῶν ὕστερον· μετὰ δὲ τοῦτο πολλαὶ μὲν πόλεις τῶν Ἑλλήνων ἔτι ἦσαν μετὰ τοῦ βαρβάρου, αὐτὸς δὲ ἠγγέλλετο βασιλεὺς διανοεῖσθαι ὡς ἐπιχειρήσων πάλιν ἐπὶ τοὺς Ἕλληνας. δίκαιον δὴ καὶ τούτων ἡμᾶς ἐπιμνησθῆναι, | οἳ τοῖς τῶν προτέρων ἔργοις τέλος τῆς σωτηρίας ἐπέθεσαν ἀνακαθηράμενοι καὶ ἐξελάσαντες πᾶν τὸ βάρβαρον ἐκ τῆς θαλάττης. ἦσαν δὲ οὗτοι οἵ τε ἐπ᾿ Εὐρυμέδοντι ναυμαχή- [e] σαντες καὶ οἱ εἰς Κύπρον στρατεύσαντες καὶ οἱ εἰς Αἴγυπτον πλεύσαντες καὶ ἄλλοσε πολλαχόσε, ὧν χρὴ μεμνῆσθαι καὶ χάριν αὐτοῖς εἰδέναι, ὅτι βασιλέα ἐποίησαν δείσαντα τῇ ἑαυτοῦ σωτηρίᾳ τὸν νοῦν προσέχειν, ἀλλὰ μὴ τῇ τῶν Ἑλ- | λήνων ἐπιβουλεύειν φθορᾷ. Καὶ οὗτος μὲν δὴ πάσῃ τῇ πόλει διηντλήθη ὁ πόλεμος ὑπὲρ 242 [a] ἑαυτῶν τε καὶ τῶν ἄλλων

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uni – né per mare – grazie agli altri. Indico come terza impresa per la salvezza del territorio greco, sia per numeri sia per virtú, quella di Platea, già comune di Lacedemoni e Ateniesi54: tutti loro tennero testa a quanto di piú grande e pericoloso; per questa virtú anche oggi ricevono encomi da noi, e cosí sarà nei tempi a venire [d] da parte dei nostri successori. Dopo questo55 ancora molte città erano con i barbari56, e il Re stesso annunciava il proposito di impegnarsi nuovamente contro i Greci. È dunque giusto che noi ricordiamo anche quelli che, realizzando la nostra salvezza, portarono a compimento le imprese dei predecessori, che eliminarono e bandirono i barbari tutti dal mare. Eccoli, gli uomini che combatterono la battaglia navale presso l’Eurimedonte, [e] gli uomini che fecero parte dell’armata verso Cipro, gli uomini che navigarono verso l’Egitto, e ancora molti in diversi tempi e luoghi: occorre ricordarli ed essere consapevolmente loro grati per aver fatto sí che il Re, ormai intimorito, si preoccupasse della propria salvezza piuttosto che di ordire piani per la distruzione dei Greci57. E questa guerra fu portata a conclusione dalla nostra città, tutta intera, per 242 [a] noi e gli altri che parla54   La stessa alleanza paritetica tra i due schieramenti sottende probabilmente un’edulcorazione, in quanto non solo Erodoto (IX, 6-12) ma addirittura Lisia (Epit., 46) segnalano il soccorso portato dagli Spartani. 55   Viene impiegata per la prima volta la locuzione μετά + pronome dimostrativo, che coordina tradizionalmente (Loraux 1993, pp. 159-60) la narrazione di accadimenti storici negli epitafi classici (in particolare quello di Lisia; sembra però improbabile che, come vuole Clavaud 1980, pp. 176-78, Platone stia semplicemente criticando questo tratto stilistico). Se la successione coincide con una degradazione morale (cfr. supra la nota 52), il nesso assume un doppio valore, tradizionale e valutativo. 56   Principalmente alcune isole e città della Ionia. 57   Platone vuole proporre un’edulcorazione di un calcolo politico di Atene, che incrementò il proprio potere con il pretesto di preparare difese contro un ritorno persiano. Per raggiungere una simile descrizione positiva rappresenta le campagne come appendice alla gloriosa guerra persiana, benché cronologicamente e politicamente esse appartengano (come in Tucidide, I, 100-6) alla strategia militare di espansione a cui fa capo anche la guerra di Beozia. Ancora, il silenzio totale di Isocrate e il breve cenno di Lisia (Epit., 49) alla sola spedizione egiziana segnalano la “sconvenienza” per Atene di simili episodi.

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ὁμοφώνων πρὸς τοὺς βαρβάρους· εἰρήνης δὲ γενομένης καὶ τῆς πόλεως τιμωμένης ἦλθεν ἐπ᾿ αὐτήν, ὃ δὴ φιλεῖ ἐκ τῶν ἀνθρώπων τοῖς εὖ πράττουσι προσπίπτειν, πρῶτον μὲν ζῆλος, ἀπὸ ζήλου δὲ φθόνος· ὃ καὶ | τήνδε τὴν πόλιν ἄκουσαν ἐν πολέμῳ τοῖς Ἕλλησι κατ­ έστησεν. μετὰ δὲ τοῦτο γενομένου πολέμου, συν­ έβαλον μὲν ἐν Τανάγρᾳ ὑπὲρ τῆς Βοιωτῶν ἐλευθερίας Λακεδαιμονίοις [b] μαχόμενοι, ἀμφισβητησίμου δὲ τῆς μάχης γενομένης, διέκρινε τὸ ὕστερον ἔργον· οἱ μὲν γὰρ ᾤχοντο ἀπιόντες, καταλιπόντες [Βοιωτοὺς] οἷς ἐβοήθουν, οἱ δ᾿ ἡμέτεροι τρίτῃ ἡμέρᾳ ἐν Οἰνο­ φύτοις νικήσαντες τοὺς ἀδίκως φεύγοντας δικαίως κατήγαγον. | Οὗτοι δὴ πρῶτοι μετὰ τὸν Περσικὸν

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no la stessa lingua58, contro i barbari. Ma mentre vigeva la pace e colma di gloria era la città, giunse su essa ciò che da parte degli uomini è solito abbattersi su chi sta bene: il desiderio di emulazione in primo luogo, e dal desiderio di emulazione l’invidia. Proprio questo condusse anche codesta città, che pur non voleva, in guerra contro i Greci59. Dopo questo, già in atto la guerra, si riunirono a Tanagra per combattere contro i Lacedemoni in nome della libertà dei Beoti. [b] Molto incerta fu la battaglia, e il giudizio fu dato dall’impresa successiva: si allontanarono, quelli, e abbandonarono il campo lasciando chi stavano soccorrendo; i nostri, invece, vinsero il terzo giorno a Enofita, e ripresero giustamente chi era fuggito ingiustamente60. Dopo la guerra persiana per 58   Per la tradizionale distinzione tra Greci e barbari sulla base della lingua cfr. già Erodoto, VIII, 144, 9 sgg. 59   Platone allude ad alcuni conflitti che precedettero lo scoppio della grande guerra del Peloponneso (la cosiddetta prima guerra del Peloponneso, tra il 459 e il 446) e ne identifica la causa con l’invidia delle altre città greche, secondo un luogo comune degli epitafi. Vengono taciute alcune spedizioni che si succedettero fin dal termine di ogni ostilità con i Persiani e furono essenzialmente guerre di sottomissione da parte degli Ateniesi: l’espansione di Atene si era infatti volta dal 460 sia verso sud (con la vittoria di Enoe sugli Spartani) sia – pacificamente – verso Mantinea e Megara. Solo nel 457, con la richiesta d’aiuto dei Dori dell’Eta per le pressioni dei Focesi, gli Spartani schierarono un esercito nella Grecia centrale e, sconfitti i Focesi, attesero l’esercito ateniese a Tanagra. Probabilmente alleati degli Spartani furono i Tebani, che chiesero in cambio della partecipazione alla guerra, in caso di vittoria, il dominio sulla Beozia. L’alleanza spartana vinse (la dubitabilità della vittoria è probabilmente il frutto di una linea storiografica di parte; cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 300-1), ma le truppe peloponnesiache si ritirarono subito. Cosí, dopo soli due mesi, gli Ateniesi ottennero una schiacciante vittoria sui Beoti a Enofita, ristabilendo il dominio sulla Beozia (o, dal punto di vista dell’epitafio, completando il soccorso alla Beozia). La testimonianza di Tucidide (I, 107-8) permette di cogliere l’effettiva vittoria degli Ateniesi contro i Beoti. Tra gli autori di epitafi, solo Lisia – Epit., 47 sgg. – accenna a questi conflitti, facendo peraltro menzione di episodi diversi. Per i fatti della guerra in Beozia cfr. Cloché 1952, pp. 66-75. 60   L’espressione potrebbe indicare che gli Ateniesi vinsero a Enofita dopo solo tre giorni dalla precedente battaglia o che la battaglia durò tre giorni, ma entrambi i dati sono errati (cfr. particolarmente Tucidide, I, 108, 2, per cui la battaglia ebbe luogo dopo piú di due mesi dalla precedente). Considerando il modulo retorico dell’esagerazione, è possibile che la concentrazione degli eventi sia volta a sostenere la prontezza degli Ateniesi nella riscossa (particolarmente Clavaud 1980, p. 132; per altre ipotesi cfr. Tsitsiridis 1998,

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πό­λεμον, Ἕλλησιν ἤδη ὑπὲρ τῆς ἐλευθερίας βοη­ θοῦντες πρὸς Ἕλληνας, ἄνδρες ἀγαθοὶ [c] γε­ νόμενοι καὶ ἐλευθερώσαντες οἷς ἐβοήθουν, ἐν τῷδε τῷ μνήματι τιμηθέντες ὑπὸ τῆς πόλεως πρῶτοι ἐτέθησαν. μετὰ δὲ ταῦτα πολλοῦ πολέμου γενομένου, καὶ πάντων τῶν Ἑλλήνων ἐπιστρατευσάντων καὶ τεμόντων τὴν χώραν καὶ | ἀναξίαν χάριν ἐκτινόντων τῇ πόλει, νικήσαντες αὐτοὺς ναυμαχίᾳ οἱ ἡμέτεροι καὶ λαβόντες αὐτῶν τοὺς ἡγεμόνας Λακεδαιμονίους ἐν τῇ Σφαγίᾳ, ἐξὸν αὐτοῖς διαφθεῖραι ἐφεί[d] σαν­το καὶ ἀπέδοσαν καὶ εἰρήνην ἐποιήσαντο, ἡγούμενοι πρὸς μὲν τὸ ὁμόφυλον μέχρι νίκης δεῖν πολεμεῖν, καὶ μὴ δι᾿ ὀργὴν ἰδίαν πόλεως τὸ κοινὸν τῶν Ἑλλήνων διολλύναι, πρὸς δὲ τοὺς βαρβάρους

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primi questi, che in nome della libertà soccorsero Greci contro altri Greci, uomini buoni [c] che liberarono coloro che soccorsero, ricevettero per primi dalla città l’onore di essere deposti in codesto monumento61. Dopo questo, divampò un ampio conflitto62: tutti gli altri Greci entrarono in guerra, irruppero con violenza nel territorio, ripagarono la nostra città con un indegno ringraziamento. Ma i nostri li vinsero in battaglia navale, catturarono i loro capi Lacedemoni a Sfaghia, e pur avendo la possibilità di annientarli li risparmiarono, [d] li riconsegnarono, e determinarono cosí la pace: erano fermi nella convinzione che contro genti della stessa stirpe bisogna sí guerreggiare fino alla vittoria, ma non distruggere la comunità dei Greci per la passione di parte per una città, mentre contro i barbari scontrarsi fino alla pp. 301-2). La lettura dei fatti proposta rimane comunque opaca: gli Spartani avevano soccorso i Dori, che però non vengono qui chiamati in causa, mentre l’aiuto ateniese ai Beoti non è riconducibile a realtà storica neanche vedendovi un riferimento alla liberazione della Beozia dal dominio tebano (a Enofita i Beoti si schierarono comunque con Tebe). Platone oscura dunque ogni fatto salvo l’azione liberatrice – quale che fosse – di Atene. Cfr. anche Clavaud 1980, pp. 133-4. 61   La pratica della recitazione dell’epitafio e della sepoltura comune presso il Ceramico risale almeno al (ma forse anche a prima del) 464 (cfr. Loraux 1993, pp. 49-52). Forse Platone vuole dire che i caduti in Beozia siano stati i primi a essere deposti nel monumento tra quelli che combatterono per la libertà di Greci contro Greci (Tsitsiridis 1998, p. 304), ma rimane del tutto plausibile che con un errore volontario Platone voglia sottolineare l’inizio delle guerre e degli atteggiamenti imperialistici da parte di Atene (cosí Loraux 1993, p. 84). 62   Si tratta della prima parte della guerra del Peloponneso, i dieci anni di guerra achemenide (431-421) intercorsi tra l’invasione dell’Attica – qui citata da Platone – e la pace di Nicia. Di questo periodo di guerra, che vide molte sconfitte ateniesi, Platone cita solo l’iniziale invasione (esagerando – secondo un modello retorico classico applicabile a dati, numeri, ecc.; cfr. 240a4 sgg. e in generale Clavaud 1980, pp. 128-29 – il numero dei popoli greci coinvolti contro Atene e, come Lisia, omettendo gli alleati) e la schiacciante vittoria (nel 425) della flotta ateniese a Sfaghia (Sfacteria), isola sulle coste della Messenia che gli Ateniesi assediarono facendo poi prigionieri piú di duecento Spartani. Dato che vengono sottaciute le sconfitte che seguirono Sfacteria, la pace di Nicia sembra una vittoria. La guerra del Peloponneso è omessa da Lisia (Epit., 57-58), che allude però alla disfatta di Egospotami: Platone assume dunque un atteggiamento ambiguo, citando laddove non necessario la guerra del Peloponneso, ma tacendo la disfatta finale, su cui neanche Lisia osa sorvolare (cfr. anche infra le note 66 e 71-72).

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μέχρι διαφθορᾶς. τούτους δὴ ἄξιον | ἐπαινέσαι τοὺς ἄνδρας, οἳ τοῦτον τὸν πόλεμον πολεμήσαντες ἐνθάδε κεῖνται, ὅτι ἐπέδειξαν, εἴ τις ἄρα ἠμφεσβήτει ὡς ἐν τῷ προτέρῳ πολέμῳ τῷ πρὸς τοὺς βαρβάρους ἄλλοι τινὲς εἶεν ἀμείνους Ἀθηναίων, ὅτι οὐκ ἀληθῆ ἀμφισ­ βητοῖεν· οὗτοι [e] γὰρ ἐνταῦθα ἔδειξαν, στασια­ σάσης τῆς Ἑλλάδος περιγενόμενοι τῷ πολέμῳ, τοὺς προεστῶτας τῶν ἄλλων Ἑλλήνων χειρωσάμενοι, μεθ᾿ ὧν τότε τοὺς βαρβάρους ἐνίκων κοινῇ, τούτους νικῶν­ τες ἰδίᾳ. τρίτος δὲ πόλεμος μετὰ ταύτην τὴν | εἰρήνην ἀνέλπιστός τε καὶ δεινὸς ἐγένετο, ἐν ᾧ πολλοὶ καὶ ἀγαθοὶ τελευτήσαντες ἐνθάδε κεῖνται, πολλοὶ μὲν ἀμφὶ Σι- 243 [a] κελίαν πλεῖστα τρόπαια στήσαντες ὑπὲρ τῆς Λεοντίνων ἐλευθερίας, οἷς βοηθοῦντες διὰ τοὺς ὅρκους ἔπλευσαν εἰς ἐκείνους τοὺς τόπους, διὰ δὲ μῆκος τοῦ πλοῦ εἰς ἀπορίαν τῆς πόλεως καταστάσης

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distruzione63. Ecco uomini che è degno lodare, uomini che per aver in questa guerra combattuto giacciono qui, perché hanno mostrato che se qualcuno avesse mai per assurdo avanzato il dubbio che nella guerra precedente, quella contro i barbari, altri fossero stati migliori degli Ateniesi, tale dubbio non avrebbe mai potuto trovare riscontro nel vero64. In questa circostanza essi, [e] che prevalsero nella guerra benché la Grecia si fosse coalizzata, che batterono quelli che avevano assunto la guida degli altri Greci, con i quali allora avevano vinto in alleanza sui barbari, mostrarono di saper vincere da soli proprio su questi65. Dopo questa pace scoppiò una terza guerra, non prevista, terribile. Giacciono qui i molti e valenti uomini che caddero in essa66. Molti ottennero numerosissimi trofei in Sicilia, 243 [a] lottando in nome della libertà degli abitanti di Lentini, per soccorrere i quali si misero per mare, fedeli ai giuramenti, fino a quei luoghi; ma a causa della lunghezza della navigazione la città era   Cfr. anche Resp., V, 470e1 sgg.   Il dubbio è proposto già come assurdo, in quanto formulato nel modus irrealis εἰ … ἠμφεσβήτει. 65   Gli Spartani si guadagnarono il ruolo di “guida” della Grecia nelle guerre persiane. In questo caso è però evidente una qualche strumentalità nell’utilizzo della formula, che non ricorda solo quella circostanza ma anche la nuova assunzione della guida da parte degli Spartani, ben meno favorevole ad Atene. 66   Si tratta della seconda parte della guerra del Peloponneso, che si aprí dopo sei anni di tregua (415) con la spedizione in Sicilia (415-413), disastrosa per gli Ateniesi, e si concluse nel 404 con la definitiva vittoria degli Spartani. La divisione in due conflitti della guerra del Peloponneso è attestata altrove (cfr. Andocide, III, 9, pur meno esplicito; Tucidide – particolarmente V, 26, 2 – la vede invece come un conflitto unitario), ma in questo contesto la scelta dipende dalla volontà di mettere artificiosamente in evidenza la “vittoria” nella prima parte (la guerra achemenide; cfr. supra la nota 62). Questa guerra non fu certo inattesa, anzi: la spedizione in Sicilia fu a lungo dibattuta (Tucidide, VI, 8-25) e preparata. Inoltre, sono qui taciute le alleanze e (con gli autori degli altri epitafi) i tentativi di avvicinamento con la Persia, dei quali sono invece accusati gli avversari. La collocazione del conflitto come terzo, che identifica le guerre di Beozia e achemenide rispettivamente come prima e seconda peloponnesiache, mette in parallelo queste tre con le tre persiane (Maratona, Salamina, Platea). L’ordine invocato è dunque cronologico, ma anche basato su una qualche valutazione, che conduce a vedere nella storia ateniese un progressivo declino (cfr. già supra la nota 52).

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καὶ οὐ δυναμένης αὐτοῖς ὑπηρετεῖν, | τούτῳ ἀπει­ πόντες ἐδυστύχησαν· ὧν οἱ ἐχθροὶ καὶ προσ­πολε­ μήσαντες πλείω ἔπαινον ἔχουσι σωφροσύνης καὶ ἀρετῆς ἢ τῶν ἄλλων οἱ φίλοι· πολλοὶ δ᾿ ἐν ταῖς ναυμαχίαις ταῖς καθ᾿ Ἑλλήσποντον, μιᾷ μὲν ἡμέρᾳ πάσας τὰς τῶν πολεμίων [b] ἑλόντες ναῦς, πολλὰς δὲ καὶ ἄλλας νικήσαντες· ὃ δ᾿ εἶπον δεινὸν καὶ ἀνέλπιστον τοῦ πολέμου γενέσθαι, τόδε λέγω τὸ εἰς τοσοῦτον φιλονικίας ἐλθεῖν πρὸς τὴν πόλιν τοὺς ἄλλους Ἕλληνας, ὥστε τολμῆσαι τῷ ἐχθίστῳ ἐπι­ κηρυκεύσασθαι | βασιλεῖ, ὃν κοινῇ ἐξέβαλον μεθ᾿ ἡμῶν, ἰδίᾳ τοῦτον πάλιν ἐπάγεσθαι, βάρβαρον ἐφ᾿ Ἕλληνας, καὶ συναθροῖσαι ἐπὶ τὴν πόλιν πάντας Ἕλληνάς τε καὶ βαρβάρους. οὗ δὴ καὶ [c] ἐκφανὴς ἐγένετο ἡ τῆς πόλεως ῥώμη τε καὶ ἀρετή. οἰομένων γὰρ ἤδη αὐτὴν καταπεπολεμῆσθαι καὶ ἀπειλημμένων ἐν Μυτιλήνῃ τῶν νεῶν, βοηθήσαντες ἑξήκοντα ναυσίν, αὐτοὶ ἐμβάντες εἰς τὰς ναῦς, καὶ ἄνδρες γενόμενοι ὁμολογουμένως | ἄριστοι, νικήσαντες μὲν τοὺς πολε­ μίους, λυσάμενοι δὲ τοὺς φιλίους, ἀναξίου τύχης

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ormai senza scampo, incapace di offrir loro supporto: per il fallimento di questa impresa subirono una triste sorte67. E tuttavia i nemici, che pur li avevano combattuti, ne lodarono temperanza e virtú in misura maggiore di quanto altri ottengano da amici. Molti, ancora, caddero nelle battaglie navali presso l’Ellesponto, essi che in un solo giorno [b] presero tutte le navi dei nemici, e molte altre ne vinsero68. Ecco però ciò che dicevo e dico terribile, non previsto della guerra: gli altri Greci giunsero a un tal grado di ambizione per la vittoria contro la nostra città che osarono inviare un ambasciatore per trattare la pace al Re piú odioso – lui, che avevano sconfitto alleati con noi, barbaro contro Greci! –, condurlo di nuovo qui per conto proprio, adunare insieme contro la città tutti i Greci e i barbari69. Fu proprio allora che [c] forza e virtú della città divennero manifeste. Quelli la ritenevano già battuta e avevano intercettato le navi a Mitilene, ma i nostri andarono in soccorso con sessanta navi imbarcandovisi essi stessi, uomini ottimi per universale opinione. Vinsero i nemici. Liberarono gli alleati. Ma giacciono qui70, vittime di una sorte 67   Come già in precedenza (supra la nota 59), Platone indica un pretesto (cfr. infatti Tucidide, VII, 16) per giustificare la spedizione in Sicilia, benché l’ambiguo riferimento a Lentini possa essere comunque corretto (già nel 427 Atene aveva portato soccorso a Lentini e ad altre città alleate, ma nel 415 Lentini era stata annessa da Siracusa). L’indicazione della lunghezza del viaggio rappresenta un’artificiosa giustificazione per la sconfitta, e la citazione iniziale dei trofei guadagnati è di sicuro eccessiva. 68   Le battaglie dell’Ellesponto, come la maggior parte di quelle di questa guerra, furono vinte dagli Spartani: considerando le pochissime vittorie riportate da Atene tra il 411 e il 410, il riferimento alle altre numerose vittorie è forzato, come forzato è quello alla conquista di tutte le navi avversarie (cfr. Senofonte, Hell., I, 1, 18). 69   Gli Spartani decisero di allearsi con il re persiano Dario e il suo satrapo Tissaferne (cfr. Tucidide, VIII, 18, 36-37 e 57-59), anche se prima delle battaglie degli anni 411-10. 70   La contraddizione tra l’impossibilità di raccogliere i corpi e la presenza nel monumento è evidente. È possibile che la negazione οὐκ insista sull’intera frase (cosí, per esempio, Méridier e Robin), o che il monumento sia comunque anche loro, ma sembra ben piú plausibile che Platone voglia alludere a una presenza “spirituale”, anche attraverso l’epitafio; cfr. del resto Tucidide, II, 43, 3.

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τυχόντες, οὐκ ἀναιρεθέντες ἐκ τῆς θαλάττης κεῖνται ἐνθάδε. ὧν χρὴ ἀεὶ μεμνῆσθαί τε καὶ [d] ἐπαινεῖν· τῇ μὲν γὰρ ἐκείνων ἀρετῇ ἐνικήσαμεν οὐ μόνον τὴν τότε ναυμαχίαν, ἀλλὰ καὶ τὸν ἄλλον πόλεμον· δόξαν  γὰρ δι᾿ αὐτοὺς ἡ πόλις ἔσχεν μή ποτ᾿ ἂν κατα­ πολεμηθῆναι μηδ᾿ ὑπὸ πάντων ἀνθρώπων – καὶ ἀληθῆ ἔδοξεν – τῇ δὲ ἡμετέρᾳ | αὐτῶν διαφορᾷ ἐκρατήθημεν, οὐχ ὑπὸ τῶν ἄλλων· ἀήττητοι γὰρ ἔτι καὶ νῦν ὑπό γε ἐκείνων ἐσμέν, ἡμεῖς δὲ αὐτοὶ ἡμᾶς αὐτοὺς καὶ ἐνι­ κήσαμεν καὶ ἡττήθημεν. μετὰ δὲ ταῦτα [e] ἡσυ­ χίας γενομένης καὶ εἰρήνης πρὸς τοὺς ἄλλους, ὁ οἰκεῖος ἡμῖν πόλεμος οὕτως ἐπολεμήθη, ὥστε εἴπερ

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indegna, senza neanche che i corpi siano stati recuperati dal mare71. Questi uomini bisogna sempre avere nella memoria, sempre [d] lodare: grazie alla loro virtú, infatti, vincemmo non solo la battaglia navale di allora, ma anche il resto della guerra; per merito loro la città acquisí la fama di non poter mai essere battuta, neanche da tutti gli uomini. Ed è una fama conforme al vero: siamo stati sottomessi per la nostra difformità rispetto a loro e non per mano degli altri; ancora oggi, proprio ora, siamo in realtà imbattuti per mano di quelli. Piuttosto, noi stessi abbiamo vinto e battuto noi stessi72. Dopo questo, [e] si stabilirono calma e pace con gli altri, ma la nostra guerra civile divampò in modo tale che se una lotta intestina fosse per degli uomini ineluttabile, nessuno mai 71   Platone allude alla vittoria delle Arginuse del 406, l’ultima di Atene in questo conflitto. L’ateniese Conone venne rinchiuso con le sue navi nel porto di Mitilene; un contingente di sostegno, con l’aiuto di Samo, andò in soccorso ottenendo una vittoria schiacciante ma dall’alto prezzo in vite umane. I dati storici sono rimodellati per incrementare l’immagine coraggiosa degli Ateniesi: secondo Senofonte (Hell., I, 6, 16 sgg.) le navi mandate in soccorso furono molte di piú, vi fu un contingente ulteriore di alleati e a salire sulle navi non furono solo – come qui si lascia supporre – i cittadini ateniesi ma chiunque fosse abile al combattimento (anche gli schiavi). La sventura occorsa alle navi è identificabile nella tempesta che subito dopo la vittoria impedí di raccogliere i corpi dei soldati in mare. I comandanti della spedizione furono per questa mancanza giustiziati sommariamente e contro la legge, e tra i pochi a opporsi a questa decisione fu Socrate. Ciò sembra confermare l’omissione di alcune valutazioni e l’ironia usata nelle sezioni piú manipolate dell’epitafio: Platone applica un silenzio strategico e lascia solo alcune tracce di una possibile valutazione morale. 72   L’edulcorazione della realtà sfocia qui nella composizione di un argomento ad hoc per spiegare la sconfitta nella guerra del Peloponneso, che vide in realtà vincitori gli Spartani nel 405 con la battaglia di Egospotami, vertice di un inesorabile declino. La causa della sconfitta ateniese risiederebbe nell’incapacità di imitare degnamente la virtú dei prodi delle Arginuse, e in particolare – probabilmente – nel disordine politico che portò anche all’esecuzione sommaria contrastata da Socrate (cfr. la nota precedente). Lungi dall’essere tutto ciò solo un tributo al genere letterario, la riformulazione della storia trova qui un luogo di enorme importanza: la tesi della perenne bontà di Atene causata dalla sua costituzione democratica si rivela almeno in parte deficitaria e paradossale. Sembra dunque che il modulo della lode finisca per certi versi per distruggere se stesso, stretto tra i diversi tentativi di salvare la bontà della città: ciò indica per Platone non tanto la velleità e l’inconsistenza della forma “storica” dell’epitafio, quanto l’impossibilità di una permanente virtú comune nell’Atene democratica.

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εἱμαρμένον εἴη ἀνθρώποις στασιάσαι, μὴ ἂν ἄλλως εὔξασθαι μηδένα πόλιν ἑαυτοῦ νοσῆσαι. ἔκ τε γὰρ τοῦ Πειραιῶς καὶ τοῦ ἄστεως | ὡς ἁσμένως καὶ οἰκείως ἀλλήλοις συνέμειξαν οἱ πολῖται καὶ παρ᾿ ἐλπίδα τοῖς ἄλλοις Ἕλλησι, τόν τε πρὸς τοὺς Ἐλευσῖνι 244 [a] πόλεμον ὡς μετρίως ἔθεντο· καὶ τούτων ἁπάντων οὐδὲν ἄλλ᾿ αἴτιον ἢ ἡ τῷ ὄντι συγγένεια, φιλίαν βέβαιον καὶ ὁμόφυλον οὐ λόγῳ ἀλλ᾿ ἔργῳ παρεχομένη. χρὴ δὲ καὶ τῶν ἐν τούτῳ τῷ πολέμῳ τελευτησάντων ὑπ᾿ ἀλλήλων μνείαν ἔχειν καὶ | διαλ­ λάττειν αὐτοὺς ᾧ δυνάμεθα, εὐχαῖς καὶ θυσίαις, ἐν τοῖς τοιοῖσδε, τοῖς κρατοῦσιν αὐτῶν εὐχομένους, ἐπειδὴ καὶ ἡμεῖς διηλλάγμεθα. οὐ γὰρ κακίᾳ ἀλλήλων ἥψαντο οὐδ᾿ ἔχθρᾳ [b] ἀλλὰ δυστυχίᾳ. μάρτυρες δὲ ἡμεῖς αὐτοί ἐσμεν τούτων οἱ ζῶντες· οἱ αὐτοὶ γὰρ ὄντες ἐκείνοις γένει συγγνώμην ἀλλήλοις ἔχομεν ὧν τ᾿ ἐποιήσαμεν ὧν τ᾿ ἐπάθομεν. μετὰ δὲ τοῦτο παν­ τελῶς εἰρήνης ἡμῖν γενομένης, ἡσυχίαν ἦγεν ἡ πόλις, | τοῖς μὲν βαρβάροις συγγιγνώσκουσα, ὅτι παθόντες ὑπ᾿ αὐτῆς κακῶς [ἱκανῶς] οὐκ ἐνδεῶς

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si augurerebbe che la propria città soffra di questa malattia in modo diverso73. Sia dalla parte del Pireo che da quella della città, con quale pacatezza e familiarità i cittadini si mischiarono tra loro e, contro ogni attesa, agli altri Greci! Con che misura impostarono la guerra contro quelli di Eleusi! 244 [a] Di tutto questo non vi è altra causa se non l’essenziale comunanza di origine, che procura un’amicizia salda, basata sulla consanguineità, e non a parole bensí nei fatti. Occorre dunque serbare memoria anche dei caduti, l’uno a causa dell’altro, in questa guerra, e riconciliarli per quanto possiamo, con preghiere e sacrifici, in circostanze come codesta, pregando chi li comanda74, ché anche noi ci siamo ormai riconciliati. In effetti, non si attaccarono a vicenda per cattiveria o per reale inimicizia, [b] ma per sventura. Testimoni per loro siamo noi stessi, che ora viviamo: noi siamo per origine uguali a quelli, e ci perdoniamo reciprocamente sia per ciò che abbiamo fatto sia per ciò che abbiamo subito. Dopo questo, stabilitasi per noi una pace completa, la città assunse una condizione di calma. Con i barbari aveva raggiunto un accordo perché essi, pur avendo subito del male per mano di questa, si erano 73   Cioè: il modo in cui Atene ha vissuto la guerra civile (come una malattia) è il migliore possibile, quello che chiunque preferirebbe se la propria città dovesse necessariamente affrontare una guerra civile. Viene introdotta la breve narrazione della guerra civile che coinvolse Atene subito dopo la fine della guerra del Peloponneso (404-3), con i democratici di Trasibulo (il “partito” del Pireo) che riuscirono a cacciare i trenta tiranni ma non a ristabilire immediatamente la democrazia per uno scontro permanente con gli oligarchi (rappresentati dal collegio dei dieci). La pacificazione avvenne solo grazie alle pressioni di Sparta, che spinse per la dichiarazione di un’amnistia (403/402). Una definitiva stabilizzazione (quella a cui allude Platone) si ebbe solo nel 400, con il rientro ad Atene degli oligarchici radicali, riparati a Eleusi. Benché in parte tradizionale, da sottolineare è il silenzio sulla disastrosa pace che Atene dovette accettare dopo la sconfitta nella guerra, sul pur breve periodo di regno degli oligarchi, sull’aiuto di altre città per la liberazione, ma anche e soprattutto su uno dei piú forti atti giudiziari della nuova democrazia, la condanna di Socrate. Al contrario, l’attenzione è qui rivolta alla riconciliazione – storicamente favorita dagli Spartani, ma nell’epitafio ricondotta all’argomento dell’autoctonia – e alla guerra tradizionalmente “moderata” (cfr. Lisia, Epit., 51-55) contro gli oligarchi. 74   Scil. gli dèi inferi, in particolare Ade e Persefone.

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ἠμύναντο, τοῖς δὲ Ἕλλησιν ἀγανακτοῦσα, μεμνημένη ὡς εὖ παθόντες ὑπ᾿ αὐτῆς οἵαν [c] χάριν ἀπέδοσαν, κοινωσάμενοι τοῖς βαρβάροις, τάς τε ναῦς περι­ ελόμενοι αἵ ποτ᾿ ἐκείνους ἔσωσαν, καὶ τείχη κα­ θελόντες ἀνθ᾿ ὧν ἡμεῖς τἀκείνων ἐκωλύσαμεν πεσεῖν· διανοουμένη δὲ ἡ πόλις μὴ ἂν ἔτι ἀμῦναι μήτε Ἕλλησι πρὸς ἀλλήλων | δουλουμένοις μήτε ὑπὸ βαρβάρων, οὕτως ᾤκει. ἡμῶν οὖν ἐν τοιαύτῃ διανοίᾳ ὄντων ἡγησάμενοι Λακεδαιμόνιοι τοὺς μὲν τῆς ἐλευθερίας ἐπικούρους πεπτωκέναι ἡμᾶς, σφέτερον δὲ ἤδη [d] ἔργον εἶναι καταδουλοῦσθαι τοὺς ἄλλους, ταῦτ᾿ ἔπραττον. καὶ μηκύνειν μὲν τί δεῖ; οὐ γὰρ πάλαι

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vendicati in modo non certo incompleto. Verso i Greci, invece, provava ancora risentimento, memore di quale ringraziamento essi avevano reso, benché avessero vissuto circostanze favorevoli grazie a lei: [c] si erano uniti ai barbari, avevano sequestrato le navi che una volta li avevano salvati, avevano distrutto le mura davanti alle quali noi avevamo impedito che cadessero le loro. Ma la nostra città, ormai decisa a non impegnarsi piú in difesa di Greci ridotti in schiavitú, tra loro o per mano dei barbari, era stabile in questa sua condizione75. Dunque, mentre noi tenevamo fede a una simile decisione, i Lacedemoni, ritenendo che noi, i difensori della libertà, fossimo ormai battuti e che fosse invece già una loro prerogativa [d] l’impresa di ridurre gli altri in schiavitú, mettevano in atto questo piano. Che bisogno c’è di dilungarsi ancora? Mi appresto a parlare di avvenimenti76, 75   La pace che seguí la guerra del Peloponneso poté essere solo relativa, in quanto gli Spartani pretesero la partecipazione ateniese alle proprie campagne (per esempio, contro Elide nel 400 e nel 399); è però vero in linea di principio che Atene di per sé non si impegnò immediatamente in scontri (del resto non ne sarebbe stata in grado). Credibili, benché presentati sotto forma di rivendicazioni di parte, anche i rapporti con i barbari (sconfitti nelle guerre persiane ma vittoriosi su Atene da alleati degli Spartani) e con i Greci, qui come prima considerati tutti filospartani, che avevano preteso l’abbattimento delle grandi mura e il disarmo quasi totale della flotta. 76   La cosiddetta guerra di Corinto (per la quale cfr. anche supra l’introduzione, pp. 387-88), scoppiata nel 395 e conclusasi nel 386 con la «pace del Re», iniziò come insurrezione contro Sparta: spalleggiata dal potere e dall’oro persiano, un’alleanza tra Tebani, Corinzi e Ateniesi, dopo aver subito alcune sconfitte nei primi periodi di guerra vinse a Cnido nel 394 grazie a Conone e all’appoggio del satrapo Farnabazo, mettendo fine alla talassocrazia di Sparta. Mentre le sconfitte spartane continuavano, Argo e Corinto formavano un unico stato, la Persia tornava a rivendicare potere sul Peloponneso e Atene ricostruiva (grazie all’oro persiano) flotta e grandi mura. Dopo il fallimento di trattati di pace con Atene (che rifiutava l’idea dell’indipendenza di tutti gli stati greci), gli Spartani condussero un primo tentativo di pace con i Persiani e i loro alleati greci, fallito per il rifiuto ateniese di cedere le città ioniche alla Persia. Atene proseguí la guerra con varie vittorie, anche grazie a un’alleanza con il dinasta cipriota Evagora e con l’egizio Akoris. Le ostilità si conclusero nel 386, quando Sparta offrí una nuova pace alla Persia e costrinse le altre città greche ad accettarla bloccando gli stretti e con essi gli approvvigionamenti. Una narrazione parallela e piú ampia è quella di Lisia (Epit., 67 sgg.), il cui epitafio – come probabilmente questo – è dedicato proprio ai caduti della guerra di Corinto.

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οὐδὲ παλαιῶν ἀνθρώπων γεγονότα λέγοιμ᾿ ἂν τὰ μετὰ ταῦτα· αὐτοὶ γὰρ ἴσμεν ὡς ἐκπεπληγμένοι ἀφίκοντο εἰς χρείαν τῆς πόλεως τῶν τε Ἑλ- | λήνων οἱ πρῶτοι, Ἀργεῖοι καὶ Βοιωτοὶ καὶ Κορίνθιοι, καὶ τό γε θειότατον πάντων, τὸ καὶ βασιλέα εἰς τοῦτο ἀπορίας ἀφικέσθαι, ὥστε περιστῆναι αὐτῷ μηδαμόθεν ἄλλοθεν τὴν σωτηρίαν γενέσθαι ἀλλ᾿ ἢ ἐκ ταύτης τῆς πόλεως, ἣν προθύμως [e] ἀπώλλυ. καὶ δὴ καὶ εἴ τις βούλοιτο τῆς πόλεως κατηγορῆσαι δικαίως, τοῦτ᾿ ἂν μόνον λέγων ὀρθῶς ἂν κατηγοροῖ, ὡς ἀεὶ λίαν φιλοικτίρμων ἐστὶ καὶ τοῦ ἥττονος θεραπίς. καὶ δὴ καὶ ἐν τῷ τότε χρόνῳ οὐχ οἵα τε ἐγένετο καρτερῆσαι οὐδὲ | διαφυλάξαι ἃ ἐδέδοκτο αὐτῇ, τὸ μηδενὶ δουλουμένῳ βοηθεῖν 245 [a] τῶν σφᾶς ἀδικησάντων, ἀλλὰ ἐκάμφθη καὶ ἐβοήθησεν, καὶ τοὺς μὲν Ἕλληνας αὐτὴ βοηθήσασα ἀπελύσατο δουλείας, ὥστ᾿ ἐλευθέρους εἶναι μέχρι οὗ πάλιν αὐτοὶ αὑτοὺς κατεδουλώσαντο, βασιλεῖ δὲ αὐτὴ μὲν οὐκ ἐτόλμησεν βοηθῆσαι, | αἰσχυνομένη τὰ τρόπαια τά τε Μαραθῶνι καὶ Σαλαμῖνι καὶ Πλαταιαῖς, φυγάδας δὲ καὶ ἐθελοντὰς ἐάσασα μόνον βοηθῆσαι ὁμολογουμένως ἔσωσεν. τειχισαμένη δὲ καὶ ναυ­

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quelli verificatisi dopo questi, né di tempi antichi né compiuti da uomini antichi77. Proprio noi ben sappiamo come a chiedere l’assistenza della città vennero qui, battuti e sconvolti, anche i primi dei Greci: Argivi, Beoti, Corinzi. Ben sappiamo che, evento piú divino tra tutti, persino il Gran Re giunse a una condizione di difficoltà tale da non trovarsi attorno, in nessun luogo, in nessun modo, altra salvezza se non quella derivante da questa città, che aveva ardentemente desiderato [e] distruggere! Del resto, anche se qualcuno volesse accusare a buon diritto la nostra città, potrebbe accusarla correttamente solo dicendo che è sempre eccessivamente disposta alla compassione, a favorire il piú debole. Ebbene, in quel momento non è stata capace di pazientare, di rispettare le scelte che le erano in precedenza sembrate opportune: non soccorrere nessuno 245 [a] di quelli che si erano comportati in modo ingiusto nei nostri confronti, anche se ridotto in schiavitú. Al contrario, si è fatta piegare, è andata in soccorso. E con il suo soccorso, allora, essa ha affrancato i Greci dalla schiavitú, in modo tale che godessero della libertà fino a quando di nuovo non si fossero ridotti in schiavitú gli uni con gli altri; e tuttavia non ha osato – essa – soccorrere il Re, disonorando cosí i trofei di Maratona, Salamina e Platea, pur lasciando che solo i fuggiaschi e i volontari lo soccorressero, e lo salvò secondo un sentire comune78. Per le numerose falsificazioni storiche del passo cfr. anche Clavaud 1980, pp. 145-46 e 153-61. 77   Questo snodo è di centrale importanza perché segna il superamento di una data fatidica, il 399, anno della morte di Socrate, che quindi narra una parte di storia successiva alla propria fine. Questo ha indotto in passato a considerare il dialogo, la sua cornice narrativa o addirittura solo questa parte (cosí Labarbe 1991, pp. 89-100) come spuri. Se queste posizioni sono ormai inaccettabili, rimane certo che il lettore doveva trovare straniante il passaggio al di là del 399 (per un’analisi fortemente orientata in questo senso Rosenstock 1994). In realtà l’ampiezza delle falsificazioni e il passaggio attraverso il 399 sembrano sottolineare in modo specifico le ambiguità della narrazione storica, come Platone sembra confermare evidenziando la prossimità di questi eventi (244d1-3): gli ultimi fatti della guerra civile precedono la guerra Corinzia di soli sei anni, ma si verificarono prima della morte di Socrate. 78   Riferimento, quest’ultimo, a Conone, che dopo la sconfitta di Ego-

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πηγησαμένη, [b] ἐκδεξαμένη τὸν πόλεμον, ἐπειδὴ ἠναγκάσθη πολεμεῖν, ὑπὲρ Παρίων ἐπολέμει Λακε­ δαιμονίοις. φοβηθεὶς δὲ βασιλεὺς τὴν πόλιν, ἐπειδὴ ἑώρα Λακεδαιμονίους τῷ κατὰ θάλατταν πολέμῳ ἀπαγορεύοντας, ἀποστῆναι βουλόμενος ἐξῄτει τοὺς | Ἕλληνας τοὺς ἐν τῇ ἠπείρῳ, οὕσπερ πρότερον Λακεδαιμόνιοι αὐτῷ ἐξέδοσαν, εἰ μέλλοι συμμαχήσειν ἡμῖν τε καὶ τοῖς ἄλλοις συμμάχοις, ἡγούμενος οὐκ ἐθελήσειν, ἵν᾿ αὐτῷ πρόφασις εἴη [c] τῆς ἀπο­ στάσεως. καὶ τῶν μὲν ἄλλων συμμάχων ἐψεύσθη· ἠθέλησαν γὰρ αὐτῷ ἐκδιδόναι καὶ συνέθεντο καὶ ὤμοσαν Κορίνθιοι καὶ Ἀργεῖοι καὶ Βοιωτοὶ καὶ οἱ ἄλλοι σύμμαχοι, εἰ μέλλοι χρήματα παρέξειν, ἐκ­ δώσειν τοὺς ἐν τῇ ἠπείρῳ | Ἕλληνας· μόνοι δὲ ἡμεῖς οὐκ ἐτολμήσαμεν οὔτε ἐκδοῦναι οὔτε ὀμόσαι. οὕτω

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Ricostruite le mura e armata una flotta, [b] accettando la guerra poiché alla guerra era stata costretta, ha mosso in nome di tutti79 contro i Lacedemoni. Ma il Re ha avuto paura della nostra città poiché vedeva che i Lacedemoni rinunciavano alla guerra per mare e, volendo fare defezione, richiese pretestuosamente per sé i Greci della terraferma (proprio quelli che precedentemente i Lacedemoni gli avevano consegnato) come condizione per combattere insieme a noi e agli altri alleati, già supponendo che essi non avrebbero voluto. [c] E fu ingannato dagli altri alleati: i Corinzi, gli Argivi, i Beoti e gli altri, infatti, hanno voluto consegnarglieli, si sono uniti insieme e hanno giurato che qualora egli fosse stato disposto a offrire delle ricchezze gli avrebbero consegnato i Greci della terraferma. Solo e soltanto noi non abbiamo osato consegnargli alcunché né giurare80; ecco spotami (405) era fuggito per poi tornare a vincere per Atene a Cnido nel 394 (cfr. supra la nota 76). In generale la versione fornita è, come prevede il genere, fortemente edulcorata – in particolare in relazione al ruolo centrale di Atene – anche se certamente la rivolta poteva configurarsi come una ribellione al potere spartano. Anche la situazione di difficoltà del Gran Re è esagerata, soprattutto considerando il ruolo di “burattinaio” che giocò nel conflitto e l’oro che garantí ad Atene. Poiché il risultato della guerra non fu certo favorevole, Platone introduce fin da ora come causa primaria della disfatta la sconfitta morale degli Ateniesi da parte di se stessi, provocata – intervengono qui in aiuto i topoi del genere letterario – ancora da un eccesso di disponibilità e di amore della libertà. 79   Il testo dei manoscritti, accolto da Burnet, riporta Παρίων. Il riferimento agli abitanti di Paro è stato ampiamente discusso, fino alle cruces con cui è segnato da Tsitsiridis 1998, pp. 347-49. Il problema risiede nell’inconsistenza dell’episodio militare a cui si farebbe riferimento, evento marginale nella campagna di liberazione delle Cicladi tra il 394 e il 393. Wilamowitz 1919, vol. II, p. 136, e poi Clavaud 1980, pp. 186-87, hanno supposto che Platone abbia scelto appositamente questo episodio per finalità ironiche; in tal caso, tuttavia, l’indiretta ironia eventualmente presente nell’epitafio sarebbe estremizzata in modo palese. Sembra ben piú efficace applicare la congettura πάντων (come già Berndt 1881, p. 53, nota 7), molto facile da spiegare paleograficamente: con essa Platone richiamerebbe le nobili gesta ateniesi a favore di tutti narrate da Eschilo (Pers., 405) e celebrate già all’inizio della narrazione storica (239b1-3) per giustificare la campagna, ben piú parziale e decisamente fallimentare, contro Sparta. 80   L’episodio narrato riguarda la firma della «pace del Re» (e non il tentativo di pace del 392; cfr. Tsitsiridis 1998, pp. 349-55), e propone alcune sostanziali falsificazioni. In particolare, Atene non si rifiutò tanto di ricon-

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δή τοι τό γε τῆς πόλεως γενναῖον καὶ ἐλεύθερον βέβαιόν τε καὶ ὑγιές ἐστιν καὶ φύσει μισοβάρ[d] βαρον, διὰ τὸ εἰλικρινῶς εἶναι Ἕλληνας καὶ ἀμιγεῖς βαρβάρων. οὐ γὰρ Πέλοπες οὐδὲ Κάδμοι οὐδὲ Αἴγυπτοί τε καὶ Δαναοὶ οὐδὲ ἄλλοι πολλοὶ φύσει μὲν βάρ­βαροι ὄντες, νόμῳ δὲ Ἕλληνες, συνοικοῦσιν ἡμῖν, ἀλλ᾿ αὐτοὶ Ἕλληνες, οὐ | μειξοβάρβαροι οἰκοῦμεν, ὅθεν καθαρὸν τὸ μῖσος ἐντέτηκε τῇ πόλει τῆς ἀλ­ λοτρίας φύσεως. ὅμως δ᾿ οὖν ἐμονώθημεν πάλιν [e] διὰ τὸ μὴ ἐθέλειν αἰσχρὸν καὶ ἀνόσιον ἔργον ἐργάσασθαι Ἕλληνας βαρβάροις ἐκδόντες. ἐλθόντες οὖν εἰς ταὐτὰ ἐξ ὧν καὶ τὸ πρότερον κατεπολεμήθη­ μεν, σὺν θεῷ ἄμεινον ἢ τότε ἐθέμεθα τὸν πόλεμον· καὶ γὰρ ναῦς καὶ τείχη ἔχοντες καὶ | τὰς ἡμετέρας αὐ­ τῶν ἀποικίας ἀπηλλάγημεν τοῦ πολέμου οὕτως, ἀγαπητῶς ἀπηλλάττοντο καὶ οἱ πολέμιοι. ἀν­δρῶν μέντοι ἀγαθῶν καὶ ἐν τούτῳ τῷ πολέμῳ ἐστε­ρήθημεν, τῶν τε ἐν Κορίνθῳ χρησαμένων δυσχωρίᾳ καὶ ἐν Λεχαίῳ

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il carattere nobile, saldamente libero, sano, per natura avverso al barbaro proprio di questa città: perché [d] noi siamo per natura e puramente greci, in nulla commisti con i barbari. Né Pelopi né Cadmi né Egizi o Danai, né molti altri che sono barbari per natura e greci solo per usi hanno infatti familiarità con noi: noi siamo davvero greci, noi che governiamo senza unirci ai barbari, e un odio profondo per ciò che è di natura estranea penetra la nostra città81. E tuttavia siamo stati lasciati soli ancora una volta, [e] perché non abbiamo voluto compiere un’azione turpe, un’azione empia, consegnando Greci a barbari. Pur essendo giunti a quelle stesse condizioni a partire dalle quali già precedentemente avevamo subito una disfatta, accompagnati da un dio ci impegnammo nella guerra, e con risultati migliori di allora: siamo usciti dalla guerra con navi, mura, le nostre stesse  colonie, e in modo tale che anche per i nemici è ­sta­to ­piacevole uscirne82. Certo, anche in questa guerra ­siamo stati privati di uomini buoni, colti dalle difficoltà a ­Corinto per le condizioni ambientali e a Licaone segnare le città in questione (quelle della Ionia, che Sparta aveva offerto alla Persia durante la guerra del Peloponneso), quanto piuttosto di riconoscere in generale l’autonomia delle città greche – il che avrebbe causato la dissoluzione di ogni lega –; inoltre non fu solo Atene a opporsi alla cessione delle città della Ionia (cfr. Isocrate, IV, 175). Ad accentuare il processo storico di decadenza, le narrazioni si aprono con la vittoria sui Persiani e si chiudono con una pace, pur forzata, con essi (ma cosí accade anche nell’orazione di Lisia). 81   A giustificazione di un fallimento, inquadrato peraltro nel contesto di minor potere da parte di Atene, è ancora invocata l’autoctonia. I personaggi richiamati sono di origine mitica: Pelope è figlio di Tantalo, frigio antenato di Agamennone, pensato qui probabilmente come signore di Argo; Cadmo, di origine fenicia, è fondatore di Tebe; Danao e Egitto sono entrambi di origini egiziane. La scelta dei personaggi non sembra casuale se si considera che Argo e Tebe erano alleate di Atene e che lo fu anche l’Egitto a partire dal 389. Una simile affermazione risulta evidentemente ironica, visto che l’invettiva giunge proprio contro gli alleati della guerra. 82   La condizione di difficoltà passata è quella che segnò la fine della guerra del Peloponneso: la comparazione è probabilmente volta a conferire maggiore lustro alle conseguenze della guerra di Corinto. Dalla guerra Atene trasse certamente il nuovo allestimento della flotta e la ricostruzione delle grandi mura, mentre l’acquisizione di colonie si limitò alle antiche cleruchie di Lemno, Imbro e Sciro.

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246 [a] προδοσίᾳ· ἀγαθοὶ δὲ καὶ οἱ βασιλέα ἐλευ­ θερώσαντες καὶ ἐκβαλόντες ἐκ τῆς θαλάττης Λακε­ δαιμονίους· ὧν ἐγὼ μὲν ὑμᾶς ἀναμιμνῄσκω, ὑμᾶς δὲ πρέπει συνεπαινεῖν τε καὶ κοσμεῖν τοιούτους ἄνδρας. Καὶ τὰ μὲν δὴ ἔργα ταῦτα τῶν ἀνδρῶν τῶν ἐνθάδε κειμένων καὶ τῶν ἄλλων ὅσοι ὑπὲρ τῆς πόλεως τε­ τελευτήκασι, πολλὰ μὲν τὰ εἰρημένα καὶ καλά, πολὺ δ᾿ ἔτι πλείω καὶ καλλίω τὰ [b] ὑπολειπόμενα· πολλαὶ γὰρ ἂν ἡμέραι καὶ νύκτες οὐχ ἱκαναὶ γένοιντο τῷ τὰ πάντα μέλλοντι περαίνειν. τούτων οὖν χρὴ μεμνημένους τοῖς τούτων ἐκγόνοις πάντ᾿ ἄνδρα παρακελεύεσθαι, ὥσπερ ἐν πολέμῳ, μὴ λείπειν τὴν τάξιν τὴν τῶν | προγόνων μηδ᾿ εἰς τοὐπίσω ἀναχωρεῖν εἴκοντας κάκῃ. ἐγὼ μὲν οὖν καὶ αὐτός, ὦ παῖδες ἀνδρῶν ἀγαθῶν, νῦν τε παρακελεύομαι καὶ ἐν τῷ λοιπῷ χρόνῳ, ὅπου ἄν τῳ ἐντυγχάνω [c] ὑμῶν, καὶ ἀναμνήσω καὶ διακελεύσομαι προθυμεῖσθαι εἶναι ὡς ἀρίστους· ἐν δὲ τῷ παρόντι δίκαιός εἰμι εἰπεῖν ἃ οἱ πατέρες ἡμῖν ἐπέσκηπτον ἀπαγγέλλειν τοῖς ἀεὶ λειπομένοις, εἴ τι πάσχοιεν, ἡνίκα κινδυνεύσειν ἔμελλον. φράσω δὲ ὑμῖν | ἅ τε αὐτῶν ἤκουσα ἐκείνων καὶ οἷα νῦν ἡδέως ἂν εἴποιεν ὑμῖν λαβόντες δύναμιν, τεκμαιρόμενος ἐξ ὧν τότε ἔλεγον. ἀλλὰ νομίζειν χρὴ αὐτῶν ἀκούειν ἐκείνων ἃ ἂν ἀπαγγέλλω· ἔλεγον δὲ τάδε – [d] Ὦ παῖδες, ὅτι μέν ἐστε πατέρων ἀγαθῶν, αὐτὸ

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246 [a] per un tradimento; e buoni di sicuro sono stati quelli che liberarono il Re, che scacciarono dal mare i Lacedemoni. Di questi io offro il ricordo a voi, e per voi è opportuno unirvi nel lodare, nel celebrare uomini siffatti83. Ecco dunque le imprese degli uomini che giacciono in codesto luogo e degli altri che sono caduti in nome della città: quelle dette sono molte e belle, ancor piú numerose e ancor piú belle le rimanenti, [b] ché molti giorni e notti non potrebbero risultare sufficienti per chi volesse impegnarsi nel condurle tutte a completa narrazione84. Ben memore di questi, dunque, ogni uomo deve esortare i loro figli, come in guerra, a non abbandonare la fila dei progenitori, a non battere in ritirata cedendo al male. Ebbene, figli di uomini buoni, ora come nel tempo rimanente anch’io continuerò a esortare chiunque di voi incontri in ogni luogo, [c] e inciterò la vostra memoria e vi incoraggerò a voler essere quanto migliori possibile. Nella presente circostanza, però, ho il dovere di dire ciò che i padri, quando si apprestavano a correre qualche pericolo, ci raccomandavano di riferire a chi avrebbero lasciato per sempre solo se fosse accaduto loro qualcosa. Ispirandomi a quanto allora dicevano, riferirò per voi le parole udite direttamente da loro e quelle che ora vi direbbero volentieri se ne acquisissero la capacità. Occorre però pensare di ascoltare da loro stessi le parole che vi riferisco. Ecco. [d] Figli nostri85, che siate di padri buoni lo testimo83   I due episodi risalgono alla prima parte della guerra, una sconfitta presso Corinto nel 393 e una nel 392 presso il porto della stessa città, Licaone. Le motivazioni addotte rimangono fortemente dubbie e tendenziose (cfr. Clavaud 1980, pp. 138-40); del resto l’episodio, proprio per la sua sconvenienza, non è citato in alcun modo da Lisia. Il salvataggio del Re e la liberazione dei mari dagli Spartani sembrano invece rappresentare una generalizzazione, una raffigurazione complessiva del coraggio ateniese. 84   Secondo il modulo retorico tradizionale (cfr. Kennedy 1963, pp. 154166), inizia qui l’ultima delle tre parti canoniche dell’epitafio, che prevede consolazione ed esortazione (246d1-248d6) precedute da un breve proemio (246a5-c8). 85   La tecnica retorica scelta è quella della prosopopea, non infrequente nei dialoghi platonici (per esempio in Crit., 50a6-54d1; Resp., VIII, 546a1547c4) e, in particolare, diffusamente utilizzata nelle Leggi.

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μηνύει τὸ νῦν παρόν· ἡμῖν δὲ ἐξὸν ζῆν μὴ καλῶς, καλῶς αἱρούμεθα μᾶλλον τελευτᾶν, πρὶν ὑμᾶς τε καὶ τοὺς ἔπειτα εἰς ὀνείδη καταστῆσαι καὶ πρὶν τοὺς ἡμετέρους πατέρας καὶ πᾶν τὸ | πρόσθεν γένος αἰσχῦναι, ἡγούμενοι τῷ τοὺς αὑτοῦ αἰσχύναντι ἀβίωτον εἶναι, καὶ τῷ τοιούτῳ οὔτε τινὰ ἀνθρώπων οὔτε θεῶν φίλον εἶναι οὔτ᾿ ἐπὶ γῆς οὔθ᾿ ὑπὸ γῆς τελευτήσαντι. χρὴ οὖν μεμνημένους τῶν ἡμετέρων λόγων, ἐάν τι καὶ ἄλλο [e] ἀσκῆτε, ἀσκεῖν μετ᾿ ἀρετῆς, εἰδότας ὅτι τούτου λειπόμενα πάντα καὶ κτήματα καὶ ἐπιτηδεύματα αἰσχρὰ καὶ κακά. οὔτε γὰρ πλοῦτος κάλλος φέρει τῷ κεκτημένῳ μετ᾿ ἀνανδρίας – ἄλλῳ γὰρ ὁ τοιοῦτος πλουτεῖ καὶ οὐχ ἑαυτῷ – οὔτε σώματος | κάλλος καὶ ἰσχὺς δειλῷ καὶ κακῷ συνοικοῦντα πρέποντα φαίνεται ἀλλ᾿ ἀπρεπῆ, καὶ ἐπιφανέστερον ποιεῖ τὸν ἔχοντα καὶ ἐκφαίνει τὴν δειλίαν· πᾶσά τε ἐπιστήμη χωριζομένη 247 [a] δικαιοσύνης καὶ τῆς ἄλλης ἀρετῆς πανουργία, οὐ σοφία φαίνεται. ὧν ἕνεκα καὶ πρῶτον καὶ ὕστατον καὶ διὰ παντὸς πᾶσαν πάντως προθυμίαν πειρᾶσθε ἔχειν ὅπως μάλιστα μὲν ὑπερβαλεῖσθε καὶ ἡμᾶς καὶ τοὺς πρόσθεν εὐκλείᾳ· εἰ δὲ μή, | ἴστε ὡς ἡμῖν, ἂν

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nia la situazione del momento. Pur essendo per noi possibile una vita non bella, una bella morte abbiamo scelto per noi piuttosto che condurre voi e le future generazioni nel baratro del biasimo, piuttosto che arrecare vergogna ai nostri padri e all’intera stirpe dei predecessori: riteniamo la vita di chi arreca vergogna ai propri congiunti indegna di essere vissuta, ché per un uomo siffatto, quando giunga alla morte, non vi è alcun amico, né tra gli dèi né tra gli uomini, né sulla terra né sotto la terra. Occorre dunque che voi, ben memori dei nostri discorsi, qualora pratichiate una o un’altra cosa, [e] lo facciate accompagnati da virtú, consapevoli che sono turpi e cattivi ogni possesso e ogni attività privi di essa86. Ricchezza, infatti, non porta bellezza a chi possiede sostanze accompagnato da viltà: grazie ad altro e non a se stesso si arricchisce un uomo siffatto. Né bellezza e forza del corpo, se presenti in un uomo vile e malvagio, appaiono opportune, bensí inopportune: fanno luce su chi le possiede e illuminano la sua viltà. E ogni competenza, separata dalla 247 [a] giustizia e dal resto della virtú, si mostra come furbizia, non come sapienza. In vista di queste, al primo momento e all’ultimo e per la vita intera, l’intera vostra passione vogliate spendere, al fine di superare in fama il piú possibile noi e i predecessori. Sappiate altrimenti che per noi, se vi vinciamo in 86   Platone introduce l’ultima parte dell’epitafio stabilendo la figura dei caduti come esempio per i vivi, incitando a imitarne il coraggio in battaglia non abbandonando le file. L’idea di un’esemplarità dei caduti, soprattutto nelle virtú guerriere, è ben attestata (per esempio in Lisia, Epit., 69 e Tucidide, II, 43, 1), ma si è spesso evidenziato che Platone incita qui piú in generale a essere ὡς ἀρίστους (c2). Ancora, l’esortazione alla virtú è spesso stata associata alle incitazioni alla virtú dell’Apologia (particolarmente 29d4 per la formulazione e, pur indirettamente, 41c8 sgg. per i contenuti). Tuttavia, da un lato la virtú chiamata in causa è propriamente guerresca e fattuale, dunque incompatibile con una prospettiva essenzialmente platonica, dall’altro l’identificazione con la virtú del rimanere al proprio posto, e in particolare con il coraggio, è direttamente dipendente dalla tradizione e rappresenta un presidio di morale comune. Rimane dunque probabile che Platone voglia soprattutto aprire l’esortazione secondo moduli tradizionali (cfr. Lisia, Epit., 69-70; Demostene, Epit., 27 sgg. – con una lode piú articolata –; Iperide, Epit., 27 sgg. e 40); cfr. particolarmente infra la nota 88.

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μὲν νικῶμεν ὑμᾶς ἀρετῇ, ἡ νίκη αἰσχύνην φέρει, ἡ δὲ ἧττα, ἐὰν ἡττώμεθα, εὐδαιμονίαν. μάλιστα δ᾿ ἂν νικῴμεθα καὶ ὑμεῖς νικῴητε, εἰ παρασκευάσαισθε τῇ τῶν [b] προγόνων δόξῃ μὴ καταχρησόμενοι μηδ᾿ ἀναλώσοντες αὐτήν, γνόντες ὅτι ἀνδρὶ οἰομένῳ τὶ εἶναι οὐκ ἔστιν αἴσχιον οὐδὲν ἢ παρέχειν ἑαυτὸν τιμώμενον μὴ δι᾿ ἑαυτὸν ἀλλὰ διὰ δόξαν προγόνων. εἶναι μὲν γὰρ τιμὰς γονέων ἐκγόνοις καλὸς | θησαυρὸς καὶ μεγαλοπρεπής· χρῆσθαι δὲ καὶ χρημάτων καὶ τιμῶν θησαυρῷ, καὶ μὴ τοῖς ἐκγόνοις παραδιδόναι, αἰσχρὸν καὶ ἄνανδρον, ἀπορίᾳ ἰδίων αὑτοῦ κτημάτων τε καὶ εὐδοξιῶν. [c] Καὶ ἐὰν μὲν ταῦτα ἐπιτηδεύσητε, φίλοι παρὰ φίλους ἡμᾶς ἀφίξεσθε, ὅταν ὑμᾶς ἡ προσήκουσα μοῖρα κομίσῃ· ἀμελήσαντας δὲ ὑμᾶς καὶ κακισθέντας οὐδεὶς εὐμενῶς ὑποδέξεται. τοῖς μὲν οὖν παισὶ ταῦτ᾿ εἰρήσθω.

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virtú, la vittoria reca vergogna, mentre l’inferiorità, se risultiamo inferiori, felicità. Sarà maggiore la possibilità che siamo vinti e che voi vinciate se sarete pronti a non servirvi della fama dei [b] progenitori, a non dilapidarla, consapevoli che per un uomo che crede di essere qualcosa nulla è piú turpe del ricevere onori non grazie alla propria fama bensí a quella dei progenitori. Sono infatti gli onori dei padri un tesoro bello e di valore per i figli; cosí, dilapidare il tesoro di ricchezze e onori, non trasmetterlo ai figli, è turpe, indegno di un vero uomo, perché discende dall’incapacità di procurarsi ricchezze e buona fama proprie. [c] Allora, qualora mettiate in pratica questi impegni, quando la sorte che vi spetta vi porterà via, giungerete a noi come cari tra cari; nessuno invece vi accoglierà con benevolenza se non ve ne darete pensiero, se assumerete comportamenti malvagi87. Ai giovani siano dette queste cose88. 87   L’accoglienza nell’Ade è un luogo comune della poe­sia (cfr. per esempio Pindaro, Pyth., 5, 96 e Ol., 8, 77; Sofocle, Trach., 1200), ma sembra aver subito una traslazione negli epitafi (cfr. per esempio Iperide, Epit., 35). 88   La sezione ha ricevuto una peculiare attenzione, in quanto secondo i critici che interpretano l’epitafio come “serio” racchiude posizioni autenticamente platoniche (von Löwenclau 1961, pp. 107-26; Kahn 1963, p. 229; Salkever 1993, p. 140; Tulli 2003, p. 105) o almeno adeguate a una parenesi platonica alla virtú (Scholl 1959, pp. 59-67); altri, al contrario, hanno visto qui poco piú che una composizione di luoghi comuni tradizionali (Loraux 1974, pp. 202-11), finanche buffonesca se se ne considerano lo stile (valutato come) gorgiano e l’ambiguo uso del termine ἀρετή (Clavaud 1980, p. 204 sgg.). Tuttavia, anche critici che dànno una lettura ironica devono ammettere la presenza in questa sezione di toni piú pacati e formulazioni piú composte (cfr. per esempio Henderson 1975, pp. 44-46). La prima e centrale indicazione è fornita dal contesto generale del passo, che rimanda a una condizione “esteriore” di virtú, cioè al riscontro che azioni ritenute virtuose hanno sull’opinione altrui in termini di fama. Quale che sia la virtú auspicata, il suo raggiungimento non sarà positivo per ragioni interiori, bensí per il solo mantenimento/incremento della fama e delle ricchezze familiari. In questa prospettiva deve dunque essere collocato il passo centrale (246e2-247a4), che prevede la distinzione di diversi beni: (1) la ricchezza raggiunta con viltà non porta bellezza; (2) la bellezza esteriore non porta benefici se associata alla viltà; (3) l’ἐπιστήμη non è σοφία, bensí πανουργία, se dissociata dalla giustizia e da ogni altra virtú. Platone non indica propriamente tre livelli di bene (come Glaucone in Resp., II, 357a1 sgg.; cfr. anche Alc. I, 127e2 sgg.), bensí tre caratteri – possesso di denaro, bellezza, competenza tecnica – che trovano la condizione necessaria per ottenere uno statuto posi-

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Πατέρας δὲ ἡμῶν, οἷς εἰσί, καὶ μητέρας ἀεὶ χρὴ παραμυθεῖσθαι ὡς ῥᾷστα φέρειν τὴν συμφοράν, ἐὰν ἄρα συμβῇ γενέσθαι, καὶ μὴ συνοδύρεσθαι – οὐ γὰρ τοῦ λυπήσοντος [d] προσδεήσονται· ἱκανὴ γὰρ ἔσται καὶ ἡ γενομένη τύχη τοῦτο πορίζειν – ἀλλ᾿ ἰωμένους καὶ πραΰνοντας ἀναμιμνῄσκειν αὐτοὺς ὅτι ὧν ηὔχοντο τὰ μέγιστα αὐτοῖς οἱ θεοὶ ἐπήκοοι γεγόνασιν. οὐ γὰρ ἀθανάτους σφίσι παῖδας ηὔχοντο γενέσθαι | ἀλλ᾿ ἀγαθοὺς καὶ εὐκλεεῖς, ὧν ἔτυχον, μεγίστων ἀγαθῶν ὄντων· πάντα δὲ οὐ ῥᾴδιον θνητῷ ἀνδρὶ κατὰ νοῦν ἐν τῷ ἑαυτοῦ βίῳ ἐκβαίνειν. καὶ φέροντες μὲν ἀνδρείως τὰς συμφορὰς δόξουσι τῷ ὄντι ἀνδρείων παίδων πατέρες εἶναι [e] καὶ αὐτοὶ τοιοῦτοι, ὑπείκοντες

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Occorre sempre incoraggiare i nostri padri, per chi li ha ancora, e le nostre madri a sopportare quanto piú lievemente le sventure che si dovessero presentare loro, a non lamentarsene, perché non [d] avranno bisogno di chi li rattristi: già la presente sorte lo farà a sufficienza. Piuttosto, cercandone una cura e infondendo calma, occorre ricordare loro che gli dèi hanno sempre ascoltato chi li ha pregati per le cose di massima importanza. E in effetti li pregarono non perché i figli fossero immortali, bensí buoni e ricchi di gloria: questi beni, di massima importanza, si trovarono ad averli; ché per un uomo mortale, è facile a intendersi, non è semplice ottenere tutti i beni nella propria vita89. Se sopporteranno coraggiosamente le sventure si mostreranno davvero padri di figli coraggiosi, [e] coraggiosi essi stessi; se tivo in una quarta, la virtú: la ricchezza e la bellezza sono positive se date dal coraggio, l’ἐπιστήμη è σοφία se associata al resto della virtú. La virtú non rappresenta, cioè, un bene in sé, bensí una condizione per l’acquisizione di altro. Ora, l’asserzione 1 presuppone che la ricchezza abbia una sua importanza purché ottenuta con coraggio: una simile prospettiva, adeguata per un ateniese comune (come Cefalo in Resp., I, 329e4 sgg.), è in realtà incompatibile con una valutazione filosofica della ricchezza (Theaet., 174e2 sgg.) ed estranea al progetto politico platonico (la ricchezza è causa strutturale della decadenza da una costituzione aristocratica fino a una democratica nel libro VIII della Repubblica). Anche l’asserzione 2 non sembra attribuibile a Platone: l’affermazione per cui la bellezza, se dissociata dal coraggio, ha lo svantaggio di mettere in evidenza la viltà rimanda solo a una valutazione esteriore, inautentica del valore. L’asserzione 3 contiene termini che assumono in Platone un significato filosofico pregnante (ἐπιστήμη, σοφία), i quali sono però tematizzati secondo un lessico comune: ἐπιστήμη è un’abilità pratica che si eleva a competenza eccellente (σοφία) se associata a uno svolgimento “corretto” (di qui il riferimento alla giustizia), e a un’eccellenza prestazionale (cioè al resto della “virtú”; per questi significati in Platone cfr. Des Places 1964, s.v. ἐπιστήμη e σοφία). Occorre dunque concludere che Platone propone ironicamente un modello di virtú che non condivide? Probabilmente no. Egli sembra insinuare in una veste tradizionale un modello di virtú non filosofica, per raggiungere il quale è sufficiente conformarsi alle leggi tradizionali e agire di conseguenza, grazie al quale la caduta nella malvagità – dannosa per la comunità – non è evitata al livello delle motivazioni e dell’intellezione, bensí a quello dell’agire. Questa virtú sembra vicina a quella denigrata nel Fedone (69a6-c3), una virtú πολιτική e δημοτική (82a11) che, priva di caratteri intellettualistici, si realizza nel semplice compiere azioni virtuose spinti da deterrenti esterni. Cfr. supra anche l’introduzione, pp. 404-6. 89   L’associazione della bontà con la gloria e la fama conferma la dimensione esteriore di virtú a cui si continua a fare riferimento (cfr. la nota precedente).

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δὲ ὑποψίαν παρέξουσιν ἢ μὴ ἡμέτεροι εἶναι ἢ ἡμῶν τοὺς ἐπαινοῦντας καταψεύδεσθαι· χρὴ δὲ οὐδέτερα τούτων, ἀλλ᾿ ἐκείνους μάλιστα ἡμῶν ἐπαινέτας εἶ­ ναι ἔργῳ, παρέχοντας αὑτοὺς φαινομένους τῷ ὄντι πατέρας | ὄντας ἄνδρας ἀνδρῶν. πάλαι γὰρ δὴ τὸ Μηδὲν ἄγαν λεγόμενον καλῶς δοκεῖ λέγεσθαι· τῷ γὰρ ὄντι εὖ λέγεται. ὅτῳ γὰρ ἀνδρὶ εἰς ἑαυτὸν ἀνήρτηται πάντα τὰ πρὸς εὐδαιμονίαν 248 [a] φέροντα ἢ ἐγγὺς τούτου, καὶ μὴ ἐν ἄλλοις ἀνθρώποις αἰωρεῖται ἐξ ὧν ἢ εὖ ἢ κακῶς πραξάντων πλανᾶσθαι ἠνάγκασται καὶ τὰ ἐκείνου, τούτῳ ἄριστα παρεσκεύασται ζῆν, οὗτός ἐστιν ὁ σώφρων καὶ οὗτος ὁ ἀνδρεῖος καὶ φρόνιμος· | οὗτος γιγνομένων χρημάτων καὶ παίδων καὶ διαφθειρομένων μάλιστα πείσεται τῇ παροιμίᾳ· οὔτε γὰρ χαίρων οὔτε λυπούμενος ἄγαν φανήσεται διὰ τὸ αὑτῷ πεποιθέναι. τοιούτους [b] δὲ ἡμεῖς γε ἀξιοῦμεν καὶ τοὺς ἡμετέρους εἶναι καὶ βουλόμεθα καὶ φαμέν, καὶ ἡμᾶς αὐτοὺς νῦν παρέχομεν τοιούτους, οὐκ ἀγανακτοῦντας οὐδὲ φοβουμένους ἄγαν εἰ δεῖ τελευτᾶν ἐν τῷ παρόντι. δεόμεθα δὴ καὶ πατέρων καὶ μητέρων τῇ αὐτῇ ταύτῃ | διανοίᾳ χρωμένους τὸν ἐπίλοιπον βίον διάγειν, καὶ εἰδέναι ὅτι οὐ θρηνοῦντες οὐδὲ ὀλοφυρόμενοι ἡμᾶς ἡμῖν μάλιστα χαριοῦνται, ἀλλ᾿ εἴ τις ἔστι τοῖς τετελευτηκόσιν αἴσθησις [c] τῶν ζώντων, οὕτως ἀχάριστοι εἶεν ἂν μάλιστα, ἑαυτούς τε κακοῦντες καὶ βαρέως φέροντες τὰς συμ­ φοράς· κούφως δὲ καὶ μετρίως μάλιστ᾿ ἂν χαρίζοιντο.

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al contrario non faranno fronte a esse daranno adito al sospetto che non siano nostri padri o che mentiva chi di noi li lodava. Occorre invece che entrambe le possibilità siano escluse, che siano proprio loro a tessere le nostre lodi nelle azioni, e si mostrino in tutta chiarezza come veri padri, uomini padri di uomini. L’antico detto Nulla di troppo90 pare davvero ben formulato: e ben formulato è senza alcun dubbio. Per quell’uomo che vincola a se stesso tutte le condizioni 248 [a] che conducono alla felicità o in prossimità di questa, che non ondeggia appoggiandosi su altri uomini, dai quali, a seconda che essi agiscano bene o male, anche le sue vicende sarebbero costrette a dipendere, si predispone una vita dai migliori caratteri. Ecco l’uomo temperante, ecco l’uomo coraggioso e intelligente! Ecco l’uomo che, alla presenza di ricchezze e figli o al loro venir meno, obbedisce pienamente al proverbio: non si rallegrerà né soffrirà in misura eccessiva perché si è affidato solo a se stesso. Noi [b] pensiamo sia degno, e vogliamo e affermiamo, che anche i nostri siano uomini di tal fatta, e come uomini di tal fatta ora noi ci presentiamo, senza cedere troppo alla rabbia o alla paura se nel momento presente dobbiamo morire. Abbiamo bisogno che i padri e le madri conducano il resto della vita facendo forza proprio su questo pensiero, che siano consapevoli che ci rendono grazia in massimo grado non innalzando cori di sofferenza, non lamentandosi, al contrario: se è vero che i morti possono avere una qualche percezione [c] dei vivi, questi non potrebbero essere ringraziati in modo peggiore se si lasciassero andare all’afflizione e sopportassero con gravità le sventure; facendolo invece con levità e misura renderebbero loro grazia nel modo 90   Il detto è attribuito tradizionalmente – e dallo stesso Platone, per esempio in Prot., 343b3 – ai sette sapienti; lo scolio ad loc. propone un puntuale riferimento a Solone. Il suo uso in relazione alla sopportazione moderata delle emozioni è poco attestato, ma fa comunque parte (probabilmente sulla scorta dello stesso Menesseno) del repertorio della consolazione; cfr. per esempio Pseudo-Plutarco, Cons. ad Apoll., 116c10 sgg.

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τὰ μὲν γὰρ ἡμέτερα τελευτὴν ἤδη ἕξει ἥπερ καλλίστη γίγνεται ἀνθρώποις, ὥστε πρέπει | αὐτὰ μᾶλλον κοσμεῖν ἢ θρηνεῖν· γυναικῶν δὲ τῶν ἡμετέρων καὶ παίδων ἐπιμελούμενοι καὶ τρέφοντες καὶ ἐνταῦθα τὸν νοῦν τρέποντες τῆς τε τύχης μάλιστ᾿ ἂν εἶεν ἐν λήθῃ καὶ [d] ζῷεν κάλλιον καὶ ὀρθότερον καὶ ἡμῖν προσφιλέστερον. ταῦτα δὴ ἱκανὰ τοῖς ἡμετέροις παρ᾿ ἡμῶν ἀγγέλλειν· τῇ δὲ πόλει παρακελευοίμεθ᾿ ἂν ὅπως ἡμῖν καὶ πατέρων καὶ ὑέων ἐπιμελήσονται, τοὺς μὲν παιδεύοντες κοσμίως, τοὺς δὲ | γηροτροφοῦντες ἀξίως· νῦν δὲ ἴσμεν ὅτι καὶ ἐὰν μὴ ἡμεῖς παρακελευώμεθα, ἱκανῶς ἐπιμελήσεται. Ταῦτα οὖν, ὦ παῖδες καὶ γονῆς τῶν τελευτησάντων, ἐκεῖνοί [e] τε ἐπέσκηπτον ἡμῖν ἀπαγγέλλειν, καὶ ἐγὼ ὡς δύναμαι προθυμότατα ἀπαγγέλλω· καὶ αὐτὸς δέομαι ὑπὲρ ἐκείνων, τῶν μὲν μιμεῖσθαι τοὺς αὑτῶν, τῶν δὲ θαρρεῖν ὑπὲρ αὑτῶν, ὡς ἡμῶν καὶ ἰδίᾳ καὶ δημοσίᾳ γηροτροφησόντων ὑμᾶς καὶ ἐπιμελη- | σομένων, ὅπου ἂν ἕκαστος ἑκάστῳ ἐν­ τυγχάνῃ ὁτῳοῦν τῶν ἐκείνων. τῆς δὲ πόλεως ἴστε που καὶ αὐτοὶ τὴν ἐπιμέλειαν, ὅτι νόμους θεμένη

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migliore. Le nostre vicende, infatti, avranno già avuto fine, la fine in assoluto piú bella per un uomo: è dunque ben opportuno che siano oggetto di celebrazione piú che di lamento. Le nostre donne potranno piú efficacemente dimenticare la sorte, vivere nel modo piú bello, corretto e a noi caro, prendendosi cura dei figli, nutrendoli, volgendo in tal senso il loro pensiero. [d] Ecco le parole che è degno riferire da parte nostra ai nostri congiunti; alla città raccomanderemo invece di prendersi cura per noi dei padri e dei figli, con equilibrio allevando gli uni, assistendo gli altri nella vecchiaia. Sí, ora sappiamo che essa se ne prenderà cura degnamente anche qualora non potremo farle simili raccomandazioni91. Figli e padri dei caduti, [e] ecco ciò che loro ci hanno incaricato di riferire e io riferisco, con la capacità che mi è possibile profondere. Cosí io stesso mi impegno per loro perché i figli imitino i propri congiunti, i padri siano forti in loro nome: in qualsiasi luogo si trovi chiunque di noi con chiunque dei loro congiunti, noi vi assisteremo nella vecchiaia, ci prenderemo cura di voi, in privato e in pubblico. Voi stessi, del resto, conoscete in qualche 91   All’interno della tradizionale consolazione e delle consuete raccomandazioni ai vivi (cfr. Tucidide, II, 44-46; Lisia, Epit., 75-80; Demostene, Epit., 35-37; Iperide, Epit., 41; con Loraux 1993, pp. 135-41), Platone propone – alterando il modulo attraverso un suo deciso ampliamento (Clavaud 1980, pp. 224-25) – alcuni tratti di un modello etico delle emozioni incentrato sulla capacità di gestire autonomamente le proprie faccende (particolarmente 247e6-248a4): virtuoso è chi sappia vivere in autonomia, facendo fronte ai turbamenti che ne scaturiscono con moderazione, seguendo il proverbio. Il modello proposto non sembra però rappresentare le prerogative di chi è autenticamente virtuoso, bensí di chi possieda una corretta opinione su ciò che va temuto o meno (248a7-b4) e sa valutare la vantaggiosità delle situazioni a fronte di altre (248c2-5). Ciò non sembra rappresentare l’ideale della μετριοπάθεια (cosí su tutti Tsitsiridis 1998, p. 392), né delineare i tratti di una teoria platonica delle affezioni (come affermano gli interpreti che leggono l’epitafio come serio), quanto piuttosto un tratto specifico del modello di virtú attribuito ai guardiani della Repubblica (IV, 429a8-430d5), possessori di una virtú di per sé di secondo grado e riconducibile a una prospettiva politica. A conferma di questa lettura giungono alcuni cenni: il riferimento non solo alla felicità, ma anche a qualcosa di solo vicino a essa (247e7-248a1) e l’integrazione in un’unica figura del coraggioso e dell’intelligente (248a4), che sembra attribuire al coraggioso una “certa” intelligenza, legata propriamente alla sua forma di coraggio.

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περὶ τοὺς τῶν ἐν τῷ πολέμῳ τελευτησάντων παῖδάς τε καὶ γεννήτορας ἐπιμελεῖται, καὶ δια249 [a] φερόντως τῶν ἄλλων πολιτῶν προστέτακται φυλάττειν ἀρχῇ ἥπερ μεγίστη ἐστίν, ὅπως ἂν οἱ τούτων μὴ ἀδικῶνται πατέρες τε καὶ μητέρες· τοὺς δὲ παῖδας συνεκτρέφει αὐτή, προθυμουμένη ὅτι μάλιστ᾿ ἄδηλον αὐτοῖς τὴν ὀρφανίαν γενέσθαι, ἐν | πατρὸς σχήματι καταστᾶσα αὐτοῖς αὐτὴ ἔτι τε παισὶν οὖσιν,   καὶ ἐπειδὰν εἰς ἀνδρὸς τέλος ἴωσιν, ἀποπέμπει ἐπὶ τὰ σφέτερ᾿ αὐτῶν πανοπλίᾳ κοσμήσασα, ἐνδεικνυμένη καὶ ἀναμιμνῄσκουσα τὰ τοῦ πατρὸς ἐπιτηδεύματα ὄργανα τῆς πατρῴας [b] ἀρετῆς διδοῦσα, καὶ ἅμα οἰωνοῦ χάριν ἄρχεσθαι ἰέναι ἐπὶ τὴν πατρῴαν ἑστίαν ἄρξοντα μετ᾿ ἰσχύος ὅπλοις κεκοσμημένον. αὐτοὺς δὲ τοὺς τελευτήσαντας τιμῶσα οὐδέποτε ἐκλείπει, καθ᾿ ἕκαστον ἐνιαυτὸν αὐτὴ τὰ νομιζόμενα ποιοῦσα κοινῇ | πᾶσιν ἅπερ ἑκάστῳ ἰδίᾳ γίγνεται, πρὸς δὲ τούτοις ἀγῶνας γυμνικοὺς καὶ ἱππικοὺς τιθεῖσα καὶ μουσικῆς πάσης, καὶ ἀτεχνῶς τῶν μὲν τελευτησάντων ἐν κληρονόμου καὶ ὑέος [c] μοίρᾳ καθεστηκυῖα, τῶν δὲ ὑέων ἐν πατρός, γονέων δὲ τῶν τούτων ἐν ἐπιτρόπου, πᾶσαν πάντων παρὰ πάντα τὸν χρόνον ἐπιμέλειαν ποιουμένη. ὧν χρὴ ἐνθυμουμένους πρᾳότερον φέρειν τὴν συμφοράν· τοῖς τε γὰρ τελευτήσασι καὶ τοῖς | ζῶσιν οὕτως ἂν προσφιλέστατοι εἶτε καὶ ῥᾷστοι θεραπεύειν τε καὶ θεραπεύεσθαι. νῦν δὲ ἤδη ὑμεῖς τε καὶ οἱ ἄλλοι πάντες κοινῇ κατὰ τὸν νόμον τοὺς τετελευτηκότας ἀπολοφυράμενοι ἄπιτε.

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modo la sollecitudine della città: è sollecita nel prendersi cura dei figli e dei genitori dei caduti in guerra stabilendo leggi per loro; inoltre, al di sopra 249 [a] degli altri cittadini, è stato dato alla magistratura piú importante il compito di sorvegliare su questo, ché i loro padri e le loro madri non possano subire ingiustizia. Proprio lei cresce i figli nella comunità, lei si impegna perché quanto piú impercettibile sia per loro la condizione di orfani, lei assume per loro il ruolo paterno, quando sono ancora bambini e quando giungono all’età virile; lei, allora, li lascia andare alle rispettive abitazioni dopo averli provvisti di un’armatura completa, lei rivela e ricorda le attività del padre, lei dà gli strumenti [b] della paterna virtú e li fa andare per la prima volta, a titolo di augurio, al fuoco paterno, ormai capaci di comandare con la forza conferita loro dal possesso delle armi92. I caduti lei non smette mai di onorare, e celebra ogni anno per tutti le onoranze comuni tradizionalmente prescritte, proprio quelle rese a ciascuno in privato, e stabilisce inoltre agoni ginnici e ippici e di ogni tipo di arte sacra alle Muse93, e [c] assume di fatto il ruolo di erede e figlio per i caduti, di padre per i figli, di tutore per i loro genitori, con sollecitudine svolgendo il compito di fornire sempre e su tutto ogni cura. Con la mente rivolta a questo occorre sopportare con levità la sventura: cosí ai caduti e ai vivi potrete esser cari, ben disposti nel fornire e nel ricevere cure. Ebbene, andate già ora, voi e tutti gli altri, levando insieme le lamentazioni stabilite per legge94. 92   Secondo un modulo tradizionale (cfr. per esempio Tucidide, II, 45; Lisia, Epit., 77-81; Iperide, Epit., 42-43), Platone ricorda le disposizioni cittadine per l’assistenza ai congiunti dei caduti (cfr. Loraux 1993, pp. 46-49). 93   All’inizio del dialogo (234b3 sgg.) la cerimonia è convocata all’improvviso: ciò sembrerebbe confermare (Tucidide, II, 34, 7) che i caduti fossero onorati solo nelle occasioni scandite dalle guerre. Qui sembra invece che vi siano celebrazioni annuali: con ogni probabilità le due informazioni riguardano diverse celebrazioni, una prima e occasionale – funerale propriamente detto – e una seconda, rituale, provvista di agoni; cfr. Loraux 1993, pp. 59-61, e supra la nota 5. 94   Analoghe formule di chiusura sono utilizzate nell’Epitafio demostenico (37) e in quello di Pericle (Tucidide, II, 46), nel quale è inoltre riscontrabile un riferimento all’uso di ritirarsi dopo la fine dell’epitafio (II, 34, 6).

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[d] Οὗτός σοι ὁ λόγος, ὦ Μενέξενε, Ἀσπασίας τῆς Μιλησίας ἐστίν. μενεξενος Νὴ Δία, ὦ Σώκρατες, μακαρίαν γε λέγεις τὴν Ἀσπασίαν, εἰ γυνὴ οὖσα τοιούτους λόγους οἵα τ᾿ ἐστὶ | συντιθέναι. σωκρατης Ἀλλ᾿ εἰ μὴ πιστεύεις, ἀκολούθει μετ᾿ ἐμοῦ, καὶ ἀκούσῃ αὐτῆς λεγούσης. μενεξενος Πολλάκις, ὦ Σώκρατες, ἐγὼ ἐντετύχηκα Ἀσπασίᾳ, καὶ οἶδα οἵα ἐστίν. σωκρατης Τί οὖν; οὐκ ἄγασαι αὐτὴν καὶ νῦν χάριν ἔχεις τοῦ λόγου αὐτῇ; μενεξενος Καὶ πολλήν γε, ὦ Σώκρατες, ἐγὼ χάριν ἔχω τούτου [e] τοῦ λόγου ἐκείνῃ ἢ ἐκείνῳ ὅστις σοι ὁ εἰπών ἐστιν αὐτόν· καὶ πρός γε ἄλλων πολλῶν χάριν ἔχω τῷ εἰπόντι. σωκρατης Εὖ ἂν ἔχοι· ἀλλ᾿ ὅπως μου μὴ κατερεῖς, ἵνα καὶ αὖθίς σοι πολλοὺς καὶ καλοὺς λόγους παρ᾿ αὐτῆς πολιτικοὺς | ἀπαγγέλλω. μενεξενος Θάρρει, οὐ κατερῶ· μόνον ἀπάγγελλε. σωκρατης Ἀλλὰ ταῦτ᾿ ἔσται.

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[d] Eccoti il discorso di Aspasia di Mileto, Menesseno. menesseno Per Zeus, Socrate, fai Aspasia davvero beata se, pur essendo una donna, è capace di comporre discorsi siffatti! socrate Se non ci credi, seguila con me e ascolterai parlare lei stessa. menesseno Ho già incontrato Aspasia molte volte, Socrate, so bene quali capacità abbia. socrate Allora? Non sei pieno di ammirazione per lei? Non provi nei suoi confronti gratitudine per il discorso? menesseno Molta è la gratitudine, Socrate, che per questo discorso provo [e] per lei… o anche per lui – chiunque sia stato ad averlo proferito a te. Inoltre, provo gratitudine per chi lo ha proferito anche per molte altre ragioni. socrate Bene cosí. Ma a questo punto non devi denunciarmi, in modo tale che io possa riferirti anche altre volte molti e bei discorsi di natura politica composti da lei. menesseno Non aver paura, non ti denuncerò; ma tu riferiscimeli. socrate Cosí sarà95. 95   La vena ironica della chiusura del passo non sfugge a Menesseno. Da un lato Socrate continua a esaltare – gratuitamente – Aspasia come autrice e finisce per promettere altri discorsi, dall'altro Menesseno adombra piú volte la diversa paternità dell'epitafio (particolarmente 249d12-e2). Ciò non implica che l’intero contenuto dell’orazione funebre sia ironico; al contrario, sembra suggerire la consapevolezza già di Menesseno della paternità di Socrate, dunque della necessità di valutarne in modo attento i contenuti discriminandovi tradizione e intervento platonico. Sull’importante sequenza e sul suo valore per l’interpretazione complessiva del dialogo cfr. anche supra l’introduzione, pp. 406-7.

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1. L’Ippia storico, l’Ippia personaggio, e il problema della coerenza delle caratterizzazioni del sofista nei due dialoghi omonimi. Ippia di Elide (città del Peloponneso) vive a cavallo tra il v e il iv secolo e appartiene alla seconda generazione della sofistica di età classica (cfr. anche Hipp. maj., 282e1-2). Oltre che nei due Ippia, compare nel Protagora, in cui svolge la funzione di mediatore tra Socrate e Protagora, e nei Memorabili (IV, 4, 5-25) di Senofonte. L’ampiezza degli interessi dell’Ippia storico, suggerita (ironicamente) da Platone, sembra confermata da Aristotele (Pol., 1461a21: Ippia si occupava di problemi di prosodia omerica) e poi da autori piú tardi: oltre alle lettere, Ippia avrebbe riflettuto su teoria politica, filologia, matematiche (su questo cfr. particolarmente Proclo, In Eucl., 272, 3) e “storia della filosofia” (per l’Ippia storico cfr. Patzer 1986, e ora Bonazzi 2010b, pp. 71-72, 109-12, 160). Benché fosse certamente una figura di spicco della vita culturale dell’Atene classica, l’Ippia del Maggiore appare per molti versi come uno tra gli interlocutori piú deboli dei dialoghi platonici. Una spiegazione peculiare di questo dato, in sé generalmente riconosciuto dalla critica, è quella di Woodruff (1982, pp. 127-30), il quale vede nella scorrettezza di Socrate la causa diretta dell’apparente pochezza di Ippia (condotto dalla sua filosofia della concordia; ma cfr. già le critiche di Ludlam 1991, pp. 24-26 su questo punto) e rigetta con decisione le caratterizzazioni del sofista come inetto o vanaglorioso. Una spiegazione migliore può però emergere già da un breve confronto con l’Ippia minore, che ha invece spesso indotto perplessità. In effetti, la presenza di due dialoghi dedicati a Ippia e le differenti caratterizzazioni del sofista nelle due opere sono state considerate a piú riprese come argomento contro l’autenticità: nell’Ippia maggiore Ippia sarebbe assolutamente inetto, succube di Socrate, incapace di capire alcunché, mentre nell’Ippia minore verrebbe caratterizzato solo come un «honest man of good common sense who stubbornly refuses to concur in Socrates’ paradoxes» (cosí Kahn 1985, p. 271; la tesi è stata riproposta da Heitsch nel suo commento al dialogo). E tuttavia, in real­tà non è la figura di Ippia a essere connotata in modo disomogeneo: anche nell’Ippia maggiore il sofista è un honest man che, in virtú della sua cultura e del suo senso comune, sa affrontare

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argomenti etici e opporsi a paradossi in questi ambiti, ma non sa né può cogliere un primo cenno alla dottrina delle idee. Considerata tale distinzione – che introduce, in questi termini, un ulteriore tratto di continuità tra i due dialoghi –, gli aspetti caratteristici del personaggio (la vanagloria, la pretesa di possedere una conoscenza perfetta, globale, economicamente fruttuosa, ma anche la vicinanza al senso comune) permangono in modo coerente, mentre a variare è il livello di complessità delle questioni affrontate. Ancora, in entrambi i dialoghi Ippia si dimostra attento alla forma retorica dei propri interventi (Woodruff 1982, pp. 132-33, evidenzia pleonasmi, ripetizioni, antitesi), ma del tutto incapace di reggere alle confutazioni di Socrate, di soccorrere il discorso laddove ve ne sia bisogno (cfr. del resto qui l’introduzione all’Ippia maggiore, pp. 21-24, su Ippia come contraffazione del filosofo). 2. La cosiddetta fallacia socratica nell’«Ippia maggiore». Il corpo del dialogo dedicato propriamente al καλόν si apre con l’irruzione dell’anonimo, che premette alla classica domanda socratica τί ἐστι τὸ καλόν una considerazione problematica, per la quale senza conoscere il bello non è possibile dire quali cose siano belle e quali brutte: la critica vi ha diffusamente riconosciuto un’istanza della cosiddetta “fallacia socratica”. La questione posta dall’anonimo, in effetti, porta in primo piano uno dei maggiori problemi interpretativi della teoria socratico-platonica della “definizione”, quello della sua priorità – non è possibile parlare, distinguere, confrontare, cose che sono x se non si conosce cosa è X –, in cui viene classicamente individuata la cosiddetta fallacia socratica (o di Geach; formulata classicamente in Geach 1966). Qui essa sembra impostata in una prospettiva estensionale, mentre altrove (cfr. per esempio Men., 71b1-8 sgg.; cfr. Bonazzi 2010a, p. 7, nota 4) in una intensionale: non è possibile dire nulla di X senza sapere cosa è X. In ogni caso le due versioni vanno a convergere nella priorità della conoscenza dell’essenza di qualcosa e, risultando controintuitive, hanno indotto a cercare una spiegazione. Il dibattito sul problema, di fatto ancora aperto, ha visto diverse prese di posizione e strategie argomentative, soprattutto in due direzioni: 1) Davvero Socrate crede nella priorità della definizione? 2) Se sí, tale presupposto epistemologico è lecito o addirittura necessario? L’interpretazione a lungo accolta come standard ha risposto negativamente a (1) e ha fatto riferimento alla possibilità di impiegare opinioni vere in assenza – o in attesa – di una conoscenza della “de-

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finizione” di qualcosa (cosí la critica analitica e ancora Woodruff sull’Ippia). Altri (per esempio Beversluis 1987; cfr. anche Vlastos 1990) hanno ristretto l’impegno sul principio a dialoghi detti “di transizione”, tra cui il nostro Ippia. Negli ultimi venti anni la critica ha però sottolineato come il Socrate platonico – nei primissimi dialoghi come ancora nel Menone – creda nella priorità della definizione (indifferentemente in entrambe le forme; infondata quindi l’idea di Kahn 1985, p. 274, per cui la formulazione dell’Ippia sarebbe grossolana e testimonierebbe l’inautenticità del dialogo), e l’impegno si è concentrato sulle vie di spiegazione di (2). Dopo le rilevanti analisi di Benson 1990 e Prior 1998, il contributo di Wolfs­dorf 2003 – da considerare anche per un ampio status ­quaestionis – ha messo in evidenza ciò che in questa sede ha maggiore importanza: l’impegno nella priorità della definizione discende direttamente dall’ontologia di Platone, e in particolare dalla funzione causale delle idee. Lasciando da parte questa vexata quaestio – tipica soprattutto della critica analitica –, devono qui essere indicati alcuni aspetti dello snodo teorico a partire da una premessa generale: nonostante l’ampia bibliografia in merito, Platone non tematizza una nozione di “definizione”; piuttosto, vuole cogliere una “descrizione essenziale” che individui una nozione specifica (cfr., in merito al nostro dialogo, Wood­ruff 1982, pp. 156-57) al di là di elementi contingenti o estrinseci, vale a dire la sua essenza. Ora, la domanda dell’anonimo propone già, implicitamente, almeno un carattere proprio di tale essenza, vale a dire la sua “presenza”, in ciò che è a esso collegato in un rapporto causaeffetto. Per queste ragioni il bello cercato ha un’effettiva priorità rispetto alle cose belle, è per esse la causa dell’essere belle (in caso contrario la domanda dell’anonimo non avrebbe senso; per Platone, inoltre, tale relazione è spesso trattata come evidente – cfr. Sedley 1998, pp. 116-18), dunque è “sopra” le molte cose belle (cfr. Men., 75a4-5) ed è individuabile come bello in sé (come essenza; cfr. qui la nota 43 all’Ippia maggiore, p. 69). 3. Ippia e i «corpi grandi e continui di ciò che è». Ippia, convinto di avere ormai la meglio su Socrate, oppone all’abbozzo di distinzione tra predicazione continua e discontinua un’enigmatica descrizione generale di ciò che è: la real­tà è una totalità di corpi grandi e continui («μεγάλα … καὶ διανεκῆ σώματα τῆς οὐσίας»). Ogni speculazione su un’eventuale dottrina dell’Ippia storico non può che avere basi estremamente fragili; ciò però non vuol dire che Platone non stia attribuendo al personaggio in quanto tale una specifica prospettiva. Trascurando il dibattito dell’inizio del Novecento, impostato in termini superati (cfr. Wolfs­dorf 2006, pp. 223224), la critica di Ippia è stata oggetto di due importanti letture volte

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a individuarvi elementi di polemica nei confronti della teoria delle idee embrionalmente presente nel dialogo. Morgan 1983 ha letto nel passo una vera e propria teoria materialistica delle parti e dell’intero, per la quale ciascun oggetto fisico e la totalità degli oggetti sono composti continui di proprietà – anch’esse fisicamente intese – indissolubili: ciascun oggetto è un πράγμα/οὐσία da intendere come intero non omeomero (in questo Morgan si rifà a Prot., 329d4 sgg.), dal quale non può essere separata una componente qualificante, per esempio il bello. Nella misura in cui Socrate mantiene la possibilità di leggere nelle cose una simile composizione – almeno nel caso del bello – emergerebbe che le forme sono anche per Socrate nelle cose – dunque non vi è alcuna loro separazione – e che (1) se le forme sono nelle cose, (2) se fanno parte del composto, (3) se il composto è bello, allora Socrate sostiene implicitamente un peculiare modello di autopredicazione: il bello, presente nel composto, rende bello al contempo il composto (ambedue i componenti) e se stesso. Piú articolato ed equilibrato è l’intervento di Wolfs­dorf 2006, il quale non identifica un modello olistico, ma sostiene che la prospettiva di Ippia va comunque ricondotta a un materialismo basato sulla continuità delle proprietà (in cui rientra anche l’οὐσία) e degli oggetti a cui si riferiscono: esse non possono esserne astratte, quindi il bello non può essere astratto da ciascuna cosa bella – cioè τὸ καλόν per come qui lo intende Ippia. Benché entrambe le letture – soprattutto quella di Wolfs­dorf – siano suggestive, il quadro che ne emerge finisce per caricare la critica di Ippia di una portata ontologica eccessiva. In primo luogo, le basi per vedere nelle parole di Ippia una “teoria” ontologica sono davvero esigue (pace Morgan 1983, p. 141). Inoltre – ed è questa la maggiore difficoltà, segnalata dallo stesso Wolfs­ dorf (2006, pp. 252-55) – per ricavare tali letture (per le quali Ippia anticiperebbe la figura di Parmenide nell’omonimo dialogo) occorre assumere che il sofista abbia in qualche modo inteso il significato specializzato con cui Socrate individua il bello – come diverso dalle cose belle, immateriale, ecc. – e le sue basi linguistiche: ciò però si oppone non solo alla descrizione complessiva del personaggio, ma anche all’ultima confutazione del dialogo, ancora basata su un simile fraintendimento (cfr. qui la nota 171 all’Ippia maggiore, p. 175, ma anche Wolfs­dorf 2006, pp. 240-41). Per queste ragioni sembra piú cauto affermare che Ippia, esattamente come il dialogo richiede, sta criticando in termini altisonanti la sua versione della teoria platonica insieme alle modalità di analisi adottate da Socrate. Come nel resto dell’opera, Ippia non coglie la tematizzazione tecnica del bello come οὐσία comune a ciò che è bello e rivendica invece la presenza diffusa ed estesa del bello inteso come “le cose belle”. Ora, l’obiezione di Ippia ha senso da un lato perché Socrate non ha ancora specificato il tipo di predicazione a cui ricondurre il bello (che quindi potrebbe ancora predicarsi di ambedue gli oggetti, ma non di ciascuno), dall’altro – e piú in generale – in quanto Ippia per-

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cepisce in qualche senso che il bello cercato da Socrate rischia di presentarsi di nuovo incomprensibilmente “al di là” delle cose belle. A favore di questa lettura, certamente non radicale, e contro le precedenti – ben piú connotate metafisicamente – depongono altri fattori. 1) Le accuse di Ippia coincidono con quelle che i sofisti rivolgono spesso a Socrate (cfr. qui la nota 149 all’Ippia maggiore, p. 159). 2) La breve sequenza eventualmente “metafisica” dell’intervento di Ippia si colloca all’interno di una sua “ribellione” alla conduzione della discussione da parte di Socrate (cfr. qui la nota 152 all’Ippia maggiore, p. 159): il fine primario è quello di scardinare i τέρατα (300e7) di Socrate per ristabilire una qualsiasi prospettiva tradizionale. 3) Proprio con questo fine Ippia riprende qui (fraintendendole) le ultime formulazioni “incomprensibili” di Socrate e oppone a esse una visione del reale e di ogni sua “sezione” (per esempio le cose belle) come un tutto continuo, mutuando per tale descrizione elementi linguistici poetici e/o complessi (per esempio διανεκῆ, fulcro della “teoria” di Ippia, è termine poetico ed empedocleo – cfr. anche Morgan 1983, pp. 143-44); l’intera formulazione διὰ ταῦτα-πεφυκότα è volutamente allusiva e poco chiara, tanto da essere proposta come indizio dell’inautenticità del dialogo; cfr. Heitsch 1999, pp. 27-31). In effetti, il modello di real­tà presentato da Ippia sembra proporre in termini altisonanti (e tradizionali) nulla piú di un olismo materialista, cioè una sorta di dottrina generica leggibile come base per ogni speculazione preplatonica sulla natura. Le basi per la riuscita di una simile operazione da parte di Platone sono del resto solidamente sostenute dall’interesse di Ippia per la “storia della filosofia”, un interesse che doveva trovare massima rappresentazione nella sua Synagoge (cfr. Patzer 1986 e Narcy 2000). Platone sembra dunque attribuire a Ippia nulla piú di un luogo comune della filosofia di cui certamente il sofista si era occupato. 4) Infine, la semantica dello ὅλον (301b2) corrisponde a quella richiamata precedentemente da Ippia (288e6-9) proprio per affermare che Socrate dovrebbe limitarsi a considerare la totalità delle cose belle, operazione in real­tà – come spesso ripetuto da Ippia – semplice e banale.

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Stampato per conto della Casa editrice Einaudi Presso Mondadori Printing S.p.a., Stabilimento N.S.M., Cles (Trento) nel mese di agosto 2012 c.l. 21235 Ristampa 0

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Piccola Biblioteca Einaudi Nuova serie

Classici 325. Confucio, Dialoghi 337. Manuale di Epitteto, introduzione e commento di Pierre Hadot 397. Liezi, a cura di Alfredo Cadonna 412. Aristotele, Poetica 477. Sigmund Freud, Il disagio nella civiltà 481. Immanuel Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico 529. Ludwig Binswanger, Il caso Ellen West 553. Platone, Fedro 554. Platone, Fedone 570. Friedrich Nietzsche, La genealogia della morale 578. Platone, Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno

Filosofia 6. Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia delle immagini 8. Pierre Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo 14. Franca D’Agostini, Breve storia della filosofia nel Novecento 30. Pascal Engel, Filosofia e psicologia 40. Bernard Williams, La moralità 55. Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche 67. Karl R. Popper, Scienza e filosofia 69. Anne Cheng, Storia del pensiero cinese (2 voll.) 77. Michael Dummett, Origini della filosofia analitica 78. Giorgio Agamben, Infanzia e storia 101. Massimo Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz

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110. Fulvia de Luise e Giuseppe Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni 112. Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione 134. Giulio Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità 139. Gilles Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi 144. Carlos Lévy, Le filosofie ellenistiche 154. Kurt Flasch, Introduzione alla filosofia medievale 173. Paolo Rossi, Storia e filosofia 176. Vincenzo Costa, Elio Franzini e Paolo Spinicci, La fenomenologia 177. Storia della filosofia analitica, a cura di Franca D’Agostini e Nicla Vassallo 187. Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia 194. Camille Dumoulié, Il desiderio 209. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia? 212. Jean Starobinsky, Montesquieu 214. Max Horkheimer, Filosofia e teoria critica 215. Maria Lorenza Chiesara, Storia dello scetticismo greco 222. Anthony Kenny, Frege 228. Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali 229. Bertrand Russell, La filosofia dell’atomismo logico 235. Stefano Petrucciani, Modelli di filosofia politica 238. Mario Vegetti, Quindici lezioni su Platone 242. Nicla Vassallo, Filosofie delle scienze 248. Franco Farinelli, Geografia 253. Gilles Deleuze, La piega 258. Nigel Warburton, La questione dell’arte 262. Alain Badiou, Deleuze. «Il clamore dell’essere» 264. La filosofia di fronte all’estremo, a cura di Simona Forti 266. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 267. Norberto Bobbio, Thomas Hobbes 271. Maria Bettetini, Figure di verità 273. Michel Foucault, L’ordine del discorso 281. Andrea Iacona, L’argomentazione 285. Storia della filosofia nell’Islam medievale, vol. I, a cura di Cristina D’Ancona 286. Storia della filosofia nell’Islam medievale, vol. II, a cura di Cristina D’Ancona

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291. La Scuola di Francoforte, a cura di Enrico Donaggio 292. Pierluigi Donini e Franco Ferrari, L’esercizio della ragione nel mondo classico 297. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica 298. Benjamin Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni 305. Giorgio Agamben, Homo sacer 306. Ludwig Wittgenstein, Causa ed effetto 307. Roberto Esposito, Communitas 311. Thomas S. Kuhn, La tensione essenziale 323. Samir Okasha, Il primo libro di filosofia della scienza 326. John R. Searle, La costruzione della realtà sociale 332. David Hume, Dialoghi sulla religione naturale 333. Crispin Sartwell, I sei nomi della bellezza 339. Walter Benjamin, Strada a senso unico 342. Jean-Paul Sartre, L’immaginario 351. Walter Benjamin, I «passages» di Parigi 356. Hans-Georg Moeller, La filosofia del Daodejing 358. Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico 359. Jürgen Habermas, Morale, Diritto, Politica 360. Peter Szondi, La poetica di Hegel 363. Theodor W. Adorno, Terminologia filosofica 366. Ludwig Wittgenstein, Zettel 367. Nigel Warburton, Il primo libro di filosofia 369. Italo Sciuto, L’etica nel Medioevo 371. Il sapere greco, vol. I 372. Il sapere greco, vol. II 373. Peter Kivy, Filosofia della musica 377. Georges Canguilhem, Sulla medicina 385. Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte 386. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, La fenomenologia dello spirito 387. Pierre Hadot, La filosofia come modo di vivere 391. Jan Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia 402. Platone, Sofista 404. Georg W. Bertram, Arte. Un’introduzione filosofica 405. John Stuart Mill e Harriet Taylor, Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile 429. Glenn W. Most, Il dito nella piaga 431. Antologia del buddhismo giapponese, a cura di Aldo Tollini

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436. Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche 438. Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche 442. Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt: perché ci riguarda 444. Steven Nadler, Il migliore dei mondi possibili 446. Norberto Bobbio, Teoria generale della politica 449. Alberto Voltolini e Clotilde Calabi, I problemi dell’intenzionalità 450. Vladimir Jankélévitch, La morte 452. Hannah Arendt, Sulla rivoluzione 453. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 458. Steven Nadler, Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento 459. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo 462. Theodor W. Adorno, Teoria estetica 463. Andrea Tagliapietra, Il dono del filosofo 464. Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia 468. Hans Jonas, Il principio responsabilità 476. Franco Farinelli, Crisi della ragione cartografica 478. Gilles Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti 487. Albert Newen, Filosofia analitica 489. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo 490. Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica? 491. Karl R. Popper, Logica della scoperta scientifica 495. Platone, Menone 499. Andrea Iacona, L’argomentazione (nuova edizione) 504. Roberto Esposito, Pensiero vivente 508. Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio 519. Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana 525. Jonathan Israel, Una rivoluzione della mente 526. Giorgio Agamben, Stanze 534. Immanuel Kant, Critica del giudizio 535. Vladimir Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente 561. Vladimir Jankélévitch e Béatrice Berlowitz, Da qualche parte nell’incompiuto 568. Hubert Dreyfus e Sean Dorrance Kelly, Ogni cosa risplende 569. John Rawls, Liberalismo politico 576. Sergio Givone, Metafisica della peste

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Scienze religiose e antropologiche 3. Maurice Sachot, Genesi del cristianesimo 124. Gershom Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo 195. Jan Assmann, La morte come tema culturale 196. Peter Brown, Il culto dei santi 275. Giovanni Filoramo, Che cos’è la religione 338. Guy G. Stroumsa, La fine del sacrificio 340. Gavin Flood, L’induismo 361. Passioni d’Oriente, a cura di Giuliano Boccali e Raffaele Torella 407. Martin Lutero, Degli ebrei e delle loro menzogne 434. Dizionario di antropologia e etnologia, a cura di Pierre Bonte e Michel Izard. Edizione italiana a cura di Marco Aime 457. Giovanni Filoramo, Il sacro e il potere. Il caso cristiano 496. Damien Keown, Buddhismo

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