Introduzione a Giorgio Agamben 8870189104, 9788870189100


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Introduzione a Giorgio Agamben
 8870189104, 9788870189100

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Copyright © 2013, il nuovo melangolo s.r.l. Genova - Via di Porta Soprana, 3-1 www.ilmelangolo.com ISBN 978-88-7018-910-0

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Carlo Salzani

Introduzione a Giorgio Agamben

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ABBREVIAZIONI

La seguente lista contiene le abbreviazioni usate in riferimento alle opere di Agamben (elencate cronologicamente e non alfabeticamente, in modo da fornire una bibliografia, anche se non completa, dei suoi scritti). La versione citata è la più recente e, se non altrimenti specificato, i corsivi sono dell’autore. Le interviste da lui rilasciate sono indicate sotto il nome dell’intervistatore e incluse nella bibliografia generale in fondo al volume. I riferimenti agli altri testi seguono lo stile di citazione Harvard (autore-data), ad eccezione dell’Agamben Dictionary, a cura di Alex Murray e Jessica Whyte, abbreviato in AD preceduto dal nome dell’autore della voce, e delle Opere Complete di Walter Benjamin, abbreviate in OC seguito dal numero del volume. SLV USC JB

S IS LM FP IRM IP QGK BPS

“Sui limiti della violenza”, Nuovi argomenti 17 (1970), pp. 159-73. L’uomo senza contenuto, Rizzoli, Milano, 1970, poi Quodlibet, Macerata, 1994. “José Bergamin”, in José Bergamin, Decadenza dell’analfabetismo, trad. Lucio D’Arcangelo, Rusconi, Milano, 1972, pp. 7-29. Nuova edizione Bompiani, Milano, 2000. Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino, 1977. Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino, 1979. Nuova edizione accresciuta Einaudi, Torino, 2001. Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino, 1982. Nuova edizione accresciuta Einaudi, Torino, 2008. La fine del pensiero / La fin de la pensée, edizione bilingue, trad. francese di Gérard Macé, Le Nouveau Commerce, Paris, 1982. “Un importante ritrovamento di manoscritti di Walter Benjamin”, aut-aut: rivista di filosofia e di cultura 189-190 (1982), pp. 4-6. Idea della prosa, Feltrinelli, Milano, 1985. Nuova edizione illuminata e accresciuta Quodlibet, Macerata, 2002. “Quattro glosse a Kafka”, in Rivista di estetica 26 (1986), pp. 37-44. “Bataille e il paradosso della sovranità”, in Jacqueline Risset (a cura di), Georges Bataille: Il Politico e il Sacro, Liguori, Napoli, 1988, pp. 115-19.

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CV VS BAR HS MSF CI

CGCT QRA TR CGD A SE SSC GDS PP PR CD NI AM RG

SR SL NU AP OP BCB

MM

La comunità che viene, Einaudi, Torino, 1990. Nuova edizione Bollati Boringhieri, Torino, 2001. “Violenza e speranza nell’ultimo spettacolo”, in AA.VV. I situazionisti, manifestolibri, Roma, 1991, pp. 11-17. Bartleby, la formula della creazione (con Gilles Deleuze), Quodlibet, Macerata, 1993. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995. Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996. Categorie italiane. Studi di poetica, Marsilio, Venezia, 1996. Nuova edizione accresciuta di otto testi e con un nuovo sottotitolo, Studi di poetica e di letteratura, Laterza, Roma-Bari, 2010. “Caro Giulio che tristezza questa Einaudi”, lettera aperta a Giulio Einaudi, La Repubblica, 13 novembre 1996, p. 31. Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone. Homo sacer, vol. III, Bollati Boringhieri, Torino, 1998. Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera ai romani», Bollati Boringhieri, Torino, 2000. “Il cinema di Guy Debord”, in Enrico Ghezzi e Roberto Turigliatto (a cura di), Guy Debord (contro) il cinema, Il Castoro, Milano, 2001, pp. 103-7. L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002. Stato di Eccezione. Homo sacer, vol. II/1, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. “Se lo Stato sequestra il tuo corpo”, La Repubblica, 8 gennaio 2004, p. 42. “Introduzione” a Carl Schmitt, Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di Giorgio Agamben, Neri Pozza, Vicenza, 2005, pp. 7-28. La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza, 2005. Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005. Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006. Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino, 2007. L’amico, Nottetempo, Roma, 2007. Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, vol. II/2, Neri Pozza, Vicenza, 2007, poi Bollati Boringhieri, Torino, 2009. Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino, 2008. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento. Homo sacer, vol. II/3, Laterza, Roma-Bari, 2008. Nudità, Nottetempo, Roma, 2009. Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. Homo sacer, vol. IV/1, Neri Pozza, Vicenza, 2011. Opus Dei. Archeologia dell’ufficio. Homo sacer Vol. II/5, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. “Introduzione” a Walter Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di Giorgio Agamben, Barbara Chitussi e Clemens-Carl Härle, Neri Pozza, Vicenza, 2012, pp. 7-18. Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza, Roma-Bari, 2013.

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1. IDEA DELLA FILOSOFIA

La pubblicazione di Homo sacer: Il potere sovrano e la nuda vita nel 1995 ha reso Giorgio Agamben una vera e propria “star” filosofica internazionale: il libro è stato tradotto e discusso in tutto il mondo e ha in certo modo trasformato e ridefinito i parametri della filosofia politica e del discorso critico contemporanei, introducendo un nuovo vocabolario e una nuova concettualità; allo stesso tempo, le sue tesi provocatorie, estreme e per molti “scandalose” hanno polarizzato il campo della teoria, dividendolo in adepti entusiasti, che considerano Agamben quasi come un “profeta” degli eventi che cambieranno qualche anno dopo la storia mondiale (l’11 settembre 2001, il campo di prigionia a Guantanamo, i fatti della prigione di Abu Ghraib, ecc.), e in critici assoluti e categorici, che tacciano il suo progetto filosofico di nichilismo, utopismo e perfino di essere impolitico. Da qualsiasi prospettiva si parta, è indubbio comunque che non è ormai possibile discutere di concetti come biopolitica, sovranità, vita, sacertà (per nominarne solo alcuni) senza fare in qualche modo i conti con la filosofia di Agamben. A rischio di ridurre gran parte del suo vocabolario a facili formule ad effetto, come è accaduto, ad esempio, con i concetti di homo sacer e di “nuda vita”. Il grande successo di Homo sacer ha però avuto anche un risvolto in certo senso negativo, o almeno riduttivo: l’opera di Agamben è stata rubricata sotto l’etichetta di “filosofia politica” e la prima, consistente mole di letteratura critica che di lui si è occupata si è concentrata quasi esclusivamente su Homo sacer e sulle tesi qui proposte. E, dal punto di vista della teoria politica 7

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“tradizionale”, la “filosofia politica” di Homo sacer è senza dubbio anomala, dati i tanti rimandi alla metafisica, alla letteratura, alla linguistica, e perfino a un discorso pseudo-religioso; le accuse di “impoliticità” possono, al limite, perfino essere giustificate, se si limita e riduce la “politica” ai confini ben circoscritti della teoria accademica. Il successo di Homo sacer (e dei volumi che lo seguiranno) ha però portato anche a riesaminare (e a tradurre) le sue opere precedenti, per cui la letteratura critica si è progressivamente riorientata a un esame complessivo della filosofia di Agamben, al di là della semplificazione che individua in Homo sacer una “svolta” politica (foucauldiana) rispetto alle precedenti analisi sull’estetica, la metafisica, la letteratura e il linguaggio. È risultato quindi evidente che il progetto “politico” cominciato con Homo sacer (o, meglio, come vedremo, con La comunità che viene, 1990) può essere veramente compreso solo inserendolo nel complesso dell’opera agambeniana, ovvero in una sostanziale continuità di interessi e intenti; se è indubbio che, a partire dagli anni Novanta, la filosofia di Agamben si concentra in modo particolare sulla questione della politica e della sua crisi nella contemporaneità (e se è indubbio che l’influenza di Foucault contribuisce a questa “svolta”), è altrettanto certo che queste analisi “politiche” si fondano su, e riarticolano in senso più esplicitamente politico, le critiche della metafisica, dell’estetica, del linguaggio e della storia che Agamben aveva condotto, in modo coerente e sostanzialmente unitario, fin dai primi anni Settanta. Se la “filosofia politica” di Agamben è anomala ed eterogenea rispetto alla teoria politica tradizionale, è perché dev’essere ricondotta alla sua matrice autentica e originaria: l’ontologia. La politica è per Agamben una questione squisitamente ontologica, anzi, è la questione ontologia tout court, perché in essa ne va dell’“abitare” di quell’animale chiamato “uomo” nel mondo in cui si trova gettato. E quello che Foucault aveva chiamato “biopolitica”, e cioè un riorientarsi della politica moderna a una “gestione della vita”, non è che l’estrema evoluzione di un processo già da sempre presente e intrinseco all’ontologia occi8

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dentale. La filosofia di Agamben potrebbe quindi essere meglio rubricata (se proprio si ha bisogno di etichette) come una critica integrale dell’ontologia dell’Occidente. Allo stesso modo, la sua proposta politica, la pars construens del suo progetto, risulta incomprensibile (e anche per questo ha ricevuto tanti attacchi) se non la si pensa all’interno di questo ambito: una nuova politica (data l’insormontabile crisi della vecchia) è possibile solo attraverso una nuova ontologia. Nello stesso ambito dobbiamo anche inserire le analisi dell’estetica (o, meglio, dell’arte), della letteratura, dell’etica e del linguaggio: la questione, per Agamben, è sempre una questione di quello che Aristotele chiamava prote philosophia, “filosofia prima”. Un’importanza centrale assume in questo senso l’analisi del linguaggio, giacché l’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica, “l’animale che ha il linguaggio”, ma questa definizione non può essere presa e accettata acriticamente, dev’essere, anzi, problematizzata, analizzata e indagata al di là dei suoi presupposti metafisici. Questa è la preoccupazione costante e inaggirabile che Agamben metterà esplicitamente al centro di ogni sua elaborazione, giacché dalla risposta che la civiltà occidentale ogni volta darà alla domanda “Cosa significa avere il linguaggio?” non dipende solo lo status della linguistica e delle scienze in generale, o dell’arte e della letteratura, ma quello della definizione stessa di “umano”, e quindi della vita, dell’etica e della politica. Inscindibile da queste questioni è quella del tempo e della storia, ed è anch’essa una questione che, in modo coerente e sostanzialmente invariato, informa ogni singola opera di Agamben. Vivere e agire, e cioè l’etica e la politica, avvengono solo nel tempo e a partire dal tempo, per cui la critica dell’ontologia occidentale significa anche e innanzi tutto una critica dell’idea di tempo e di storia che da questa ontologia deriva e che, allo stesso tempo, a essa dà forma. La proposta di una nuova ontologia significherà allora la proposta di una nuova idea di tempo e di storia, di una nuova esperienza del vivere e dell’agire nel tempo. Questa proposta di un ripensamento categorico dei pilastri dell’ontologia, della filosofia, dell’etica e della politica occi9

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dentali non può non scontrarsi con inevitabili resistenze, incomprensioni e semplificazioni. Tante delle quali derivano, certo, dalla complessità e difficoltà dei libri di Agamben, che abbracciano campi tanto diversi come l’estetica, la religione, la politica, la giurisprudenza e l’etica. E lo fanno con un’erudizione che ha pochi pari ed è non comune anche per un intellettuale del suo livello: i suoi riferimenti spaziano dalle opere (filosofiche, letterarie, storiche, linguistiche, giuridiche, religiose) dell’antichità greco-romana a quelle medievali, moderne e contemporanee, dalla mistica ebraica e islamica alla più complessa linguistica contemporanea, dalla poesia tardo-medievale al postmarxismo. E lo fanno, a un tempo, sprofondando in una cura filologica minuziosa e confondendo e disattivando le divisioni e i raggruppamenti di ambito e categoria. Tanti di questi riferimenti sono e rimangono estranei e inaccessibili a un lettore comune; inoltre lo stile di Agamben, estremamente elegante e ricercato, è anche assai denso e compatto fin quasi a diventare ellittico: con la sola eccezione de Il Regno e la Gloria, i libri di Agamben sono per lo più brevi e puntuali, il che non vuole affatto dire semplici o di facile lettura. L’elaborazione si snoda inoltre non in una progressione e accumulazione lineare e strutturata, ma piuttosto attraverso una ripetizione e un raffinamento di tesi precedenti. Per queste e altre ragioni Agamben è stato anche accusato di oscurità, esteticismo o snobismo. Innegabile tanto per gli adepti che per i detrattori (e forse proprio la causa sia dell’ammirazione che della critica) è però il fatto che Agamben spinge la filosofia verso i suoi limiti. Tante delle critiche e delle accuse che gli sono state mosse non sono di certo prive di fondamento. Ogni lettura di Agamben deve però tenere ben presente i presupposti da cui la sua filosofia muove e gli scopi che si dà, deve cioè affrontarlo sul suo terreno e con gli strumenti adeguati, per evitare le incomprensioni e le semplificazioni sia dell’agiografia che della demonizzazione. Nei capitoli di questo libro cercheremo, pur nei limiti imposti dal formato di una breve introduzione, di presentare e illustrare il pensiero di Agamben nel suo sviluppo sia cronologico che tematico – e, dove questo diventi importante per la com10

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prensione del suo pensiero, anche biografico (al di là di un mero “filosofo italiano nato a Roma nel 1942”) – nella speranza di riuscire parzialmente a fornire le basi e gli strumenti per una lettura critica e ragionata, che lasceremo poi al lettore che viene.

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2. UNA SCIENZA GENERALE DELL’UMANO (L’uomo senza contenuto, Stanze, Categorie italiane)

2.1. Oltre l’estetica Il primo libro di Agamben, L’uomo senza contenuto (1970), pubblicato all’età di ventotto anni, si propone come una critica dell’estetica, ma presenta già una serie di tratti che diventeranno caratteristici dell’opera successiva del filosofo, dall’estrema erudizione all’eleganza dello stile all’uso di figure-chiave per la sua intera elaborazione filosofica, da Aristotele a Heidegger, da Benjamin a Kafka. Questo primo libro mostra anche in filigrana una “prassi” o un “metodo” che nelle opere più mature diventerà più esplicito e cosciente: la critica del presente si costruisce su una ricerca (che più tardi prenderà il nome di “genealogia”) delle sue radici concettuali o ideologiche, a loro volta indagate a un livello semantico ed etimologico. Inoltre la critica di fenomeni apparentemente circoscritti (qui l’estetica) si inserisce all’interno di una più vasta critica della “metafisica” occidentale, e cioè dell’evoluzione della civilizzazione occidentale pensata fin dalle sue origini. Infine, se il presente è vissuto come “crisi”, come limite estremo e decisivo di un percorso di alienazione (la “metafisica”), il superamento della crisi non viene cercato né in un ritorno passatista a stadi storico-culturali più “autentici”, né in un superamento totale che si liberi completamente dei tratti del presente, ma piuttosto in una piena e cosciente assunzione di questo presente come “proprio”. Tuttavia, come nota Alex Murray (2010: 79), questo “metodo” è qui ancora incompleto: l’impostazione fortemente heideg12

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geriana porta Agamben a postulare la modernità come una rottura radicale, che deve essere superata per riacquistare una condizione più “originale”. La tesi del libro è infatti che la nascita dell’estetica come “scienza” dell’arte ha separato (alienato) l’opera d’arte dal suo milieu naturale e dalla sua essenza, che è quella dell’“abitare” dell’uomo sulla terra. Il compito urgente del nostro tempo è qui per Agamben quello di mettere in questione il senso stesso dell’estetica, è quello di una “distruzione” dell’estetica, affinché l’opera d’arte riacquisti la sua “struttura originale” (USC 16-17). L’analisi procede a ritroso e parte dalla critica di Nietzsche alla definizione kantiana dell’arte come piacere disinteressato: Nietzsche vuole un’arte che riacquisti lo statuto che aveva nel mondo greco, quello di un’esperienza che riempiva l’uomo di “divino terrore” e che aveva spinto Platone a scacciare i poeti dalla sua città, e in questo modo esemplifica una separazione nella concezione moderna dell’opera. L’opera d’arte presenta oggi due facce non ricomponibili in unità: l’arte vissuta dall’artista come realtà vivente, come “promessa di felicità”, e l’arte vissuta dallo spettatore come insieme di elementi semplicemente “interessanti” (e cioè senza vita) che si rispecchiano nel giudizio estetico. Questa divisione attraversa l’estetica stessa, in quanto essa è la determinazione dell’opera a partire dall’aisthesis, dall’apprendimento sensibile dello spettatore, ma allo stesso tempo presuppone fin dall’inizio l’opera come frutto del particolare e irriducibile “genio” dell’artista. Agamben traccia questa divisione alla metà del XVII secolo, con la nascita dell’“uomo di gusto” e la conseguente scissione tra genio e gusto, tra artista e spettatore: se la nascita del gusto crea una sfera di competenza per la sensibilità dello spettatore, la creazione dell’opera diventa però affare esclusivo dell’artista, che si separa dal tessuto vivo della società per isolarsi nella sfera eccentrica dell’esteticità. L’arte diventa ora assoluta libertà, che cerca in se stessa il proprio fine e il proprio fondamento e non ha bisogno di alcun contenuto al di fuori di se stessa: l’artista diventa “l’uomo senza contenuto” del titolo (che ricalca il titolo del romanzo di Musil L’uomo senza qualità), “che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla 13

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dell’espressione ed altra consistenza che questa incomprensibile stazione al di qua di se stesso” (USC 83). Dall’altra parte, il giudizio estetico come viene teorizzato da Kant (e che sta alla base della nostra nozione di estetica) è una sorta di “teologia negativa”, che determina la bellezza in modo puramente negativo: piacere senza interesse, universalità senza concetto, finalità senza fine, e normalità senza norma. Determinando l’arte a partire da quello che essa non è, il giudizio estetico fa della nonarte il contenuto dell’arte, e quindi, scrive Agamben (ripetendo un vezzo tipografico heideggeriano che userà anche in futuro, e che ha preso il nome di sous rature, “sotto cancellazione”, per l’uso massiccio che ne farà Derrida), esso “pensa l’arte come arte […], dovunque e costantemente, esso immerge l’arte nella sua ombra” e fa di questa arte il valore supremo della “terra aesthetica” (USC 66). Questo fondare il giudizio estetico su un’idea indeterminata assomiglia per Agamben a “un’intuizione mistica” senza alcun solido fondamento, ma all’interno della dimensione dell’estetica non esiste alternativa. Qui Agamben segue fondamentalmente le Lezioni di estetica di Hegel (1838), che vedeva l’arte al limite estremo del proprio destino come una negazione che nega se stessa, un “autoannientantesi nulla”: attraversando tutti i suoi contenuti senza poter mai giungere a un’opera positiva, giacché non può mai identificarsi con alcuno di essi, l’arte diventa la pura potenza della negazione, vuole il reale come Nulla, ed è quindi “nichilismo”. Il termine non è ovviamente hegeliano ma heideggeriano, come heideggeriana è la conclusione di tutta la prima parte sull’essenza dell’arte nella modernità: “l’essenza del nichilismo coincide con l’essenza dell’arte nel punto estremo del suo destino in ciò che in entrambi l’essere si destina all’uomo come Nulla. E finché il nichilismo governerà segretamente il corso della storia dell’occidente, l’arte non uscirà dal suo interminabile crepuscolo” (USC 87). I capitoli che seguono contrappongono a questo nichilismo la concezione “originale” dell’opera d’arte dei greci antichi, letta anch’essa attraverso la lente dell’interpretazione heideggeriana. Il filo conduttore è l’idea che, nel passato, l’arte fosse il modo fondamentale dell’“abitare” 14

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dell’uomo sulla terra, un abitare che era essenzialmente “poetico” in quanto la poiesis era il modo in cui ogni cosa veniva prodotta, e cioè portata dal non-essere alla presenza, all’essere. Quest’interpretazione si fonda su tre fondamentali saggi di Heidegger, L’origine dell’opera d’arte (1950), La questione della tecnica (1953) e “…Poeticamente abita l’uomo…” (1954). In questa concezione l’“originalità” dell’opera d’arte non consiste tanto, come per noi, in una sua supposta “unicità”, ma piuttosto nella sua prossimità con l’“origine”: “L’opera d’arte è originale perché si tiene in un particolare rapporto con la sua origine, la sua arché formale, nel senso che non soltanto proviene da questa e ad essa si conforma, ma resta in un rapporto di perenne prossimità con essa” (USC 91). Questa “struttura originale” dell’opera è ciò che, nella poiesis, fonda lo spazio originale dell’uomo nel mondo, lo spazio del suo “abitare”: attraverso di essa l’uomo fa esperienza del suo essere-nel-mondo, e solo in questo modo un mondo si apre per l’azione; inoltre, nell’atto poietico l’uomo accede a una dimensione più originale del tempo, il continuum lineare del tempo si spezza e l’uomo ritrova, fra passato e futuro, il proprio spazio presente. La questione dell’arte (come sarà poi la questione della politica) è quindi una questione propriamente “ontologica”. Seguendo l’analisi che Hannah Arendt fa in Vita activa (1958), Agamben traccia poi l’evoluzione che ha portato a invertire la gerarchia dell’azione umana che era tipica dei greci: alla poiesis, al pro-durre che edifica un mondo e apre così lo spazio della verità (l’heideggeriano dis-velamento, a-letheia), la modernità ha sostituito la praxis, un fare che è immediatamente espressione di una volontà, e che è a sua volta pensata a partire dal lavoro, cioè dalla produzione della vita materiale. Se anticamente l’uomo aveva sulla terra uno statuto “poetico”, se abitava “poeticamente” il mondo, egli ha oggi uno statuto pienamente “pratico”. Attraverso una dettagliata analisi “genealogica”, che si sofferma in modo particolare su Marx e Nietzsche, Agamben arriva a definire il punto di arrivo di questo processo come una “metafisica della volontà”. Per quel che riguarda l’arte, questo significa non solo che l’estetica si fonda sull’idea che l’arte sia 15

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espressione della volontà creatrice dell’artista, ma anche e soprattutto che l’arte si è in questo modo esiliata dalla propria essenza e dalla propria origine. La domanda fondamentale che guida questo studio è quindi: “com’è possibile accedere in modo originale a una nuova poiesis?” (USC 96). La risposta non è scontata e non va nella direzione di un “recupero” della perduta “originalità”. Agamben nota che l’arte contemporanea segna una crisi insuperabile dell’estetica e individua nel ready-made e nella pop-art il punto di estrema confusione e perversione della lacerazione che ne costituisce il fondamento: confondendo originalità (nel senso di unicità) e riproducibilità, poesia e tecnica, entrambi mostrano al nudo la lacerazione nell’attività poetica dell’uomo, la portano al punto estremo in cui ciò che viene alla presenza non è che la privazione stessa della potenza poietica; ma in questo modo essi fanno anche segno al di là dell’estetica, verso una zona, ancora indeterminata, in cui l’attività pro-duttiva dell’uomo possa riconciliarsi con se stessa. Il seguente passo è esemplare della prassi filosofica che caratterizzerà tutta la successiva produzione di Agamben: è anche a partire da questa autosospensione dello statuto privilegiato del “lavoro artistico”, il quale raccoglie ora nella loro inconciliabile opposizione le due facce del pomo diviso a metà della pro-duzione umana, che sarà un giorno possibile uscire dalla palude dell’estetica e della tecnica per restituire la sua dimensione originale allo statuto poetico dell’uomo sulla terra. (USC 101)

La ricerca della via d’uscita prende come punto di partenza l’assumere come “propria” la crisi stessa. Solo da una considerazione profonda del limite estremo può sorgere la risposta e l’alternativa. Questo porta Agamben, nel capitolo conclusivo, a un brusco cambio di tono: l’impostazione fortemente heideggeriana lascia il posto a un’analisi fortemente benjaminiana, che inserisce il problema dell’estetica all’interno di una lettura del destino storico della crisi della cultura occidentale come crisi della tradizione. La bellezza estetica, teorizzata nella modernità come epifania istantanea e inafferrabile, diventa la cifra del16

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l’impossibilità della trasmissione, della distruzione della trasmissibilità della cultura, che può ora essere oggetto solo di accumulazione e museificazione. In questa cultura accumulata l’uomo non può più riconoscersi e trovare criteri per la sua azione nel tempo e nella storia. La direzione per una via d’uscita l’ha data Kafka (un Kafka fortemente benjaminiano): rinunciando alle pretese di verità dell’arte, egli ha preso a contenuto della trasmissione l’atto di trasmissione stesso, ha trasformato in principio poetico il ritardo dell’uomo di fronte alla verità e alla storia, e in questo modo, nell’abolire cioè lo scarto tra la cosa da trasmettere e l’atto di trasmissione, ha riavvicinato l’arte “al sistema mitico-tradizionale nel quale esisteva fra i due termini una perfetta identità” (USC 171). Il libro si apre e si chiude con un’immagine: “secondo il principio per cui è solo nella casa in fiamme che diventa visibile per la prima volta il problema architettonico fondamentale, così l’arte, giunta al punto estremo del suo destino, fa diventare visibile il proprio progetto originale” (USC 17, 172). Leland de la Durantaye (2009: 51) nota che quest’immagine è un adattamento della celebre immagine che chiude Il dramma barocco tedesco (1925) di Benjamin: “dalle rovine dei grandi edifici l’idea del loro disegno complessivo parla in modo più eloquente che da quei pochi ben conservati (OC 2: 268). In queste rovine, nella luce di queste fiamme va cercata la redenzione. Il veleno e l’antidoto. Martin Heidegger e Walter Benjamin emergono già in questo primo libro come i due grandi “maestri” di Agamben. Heidegger lo conobbe di persona, quando partecipò, nel 1966 e nel 1968, a due seminari che il filosofo tedesco teneva a Le Thor, in Provenza (il primo su Eraclito e il secondo su Hegel). Heidegger si recava in Provenza per visitare il poeta René Char e Agamben fu invitato la prima volta da un discepolo di Char, lo scrittore Dominique Fourcade, a partecipare ai seminari (Leitgeb e Vismann 2001: 17). Nonostante avesse già scritto una tesi di laurea su Simone Weil e il concetto di persona (1965), è l’incontro con Heidegger che sarà per lui “l’incontro vero con la filosofia” (Sofri 1985: 32). Negli stessi anni iniziò a leggere Benjamin nell’edizione italiana dell’Angelus novus curata da Renato Solmi, provandone un’impressione fortissima: “per nessun altro autore ho provato un’affinità così inquietante” (Sofri 1985: 32). A proposito di questo curioso abbinamento teorico, che lui stesso ha

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definito come una “costellazione di due autori di cui uno era molto critico rispetto all’altro, e l’altro probabilmente non conosceva nemmeno l’altro (chiesi a Heidegger se aveva mai letto Benjamin e disse di no)”, Agamben ha ripetutamente usato una metafora: i due filosofi gli sono serviti “uno come contravveleno dell’altro” (Andreotti e De Melis 2006: 2), o, più specificamente: “Ogni grande opera contiene una parte d’ombra e di veleno, contro la quale non sempre fornisce l’antidoto. Benjamin è stato per me questo antidoto, che mi ha aiutato a sopravvivere a Heidegger” (Marongiu 1999: ii). Ma anche il contrario è vero: “i due [filosofi] agiscono l’uno nei confronti dell’altro come veleno e contravveleno. Con Benjamin sono stato salvato dal veleno Heidegger, e lo stesso vale viceversa” (Leitgeb e Vismann 2001: 18).

‫א‬

Lettere a Hannah. Un’altra presenza in L’uomo senza contenuto che giocherà in futuro un ruolo centrale nell’opera di Agamben è quella di Hannah Arendt. Anche se non arrivò mai a incontrarla di persona, tra i due ci sarà un breve scambio epistolare: come Agamben racconta in un’intervista più tarda (Leitgeb e Vismann 2001: 18), durante il secondo seminario a Le Thor nel 1968, nelle pause si parlava dei fatti del maggio studentesco e di autori come Arendt e Marcuse; Heidegger diede l’indirizzo di Arendt ad Agamben (nella lettera conservata nell’Archivio Arendt della Library of Congress, Agamben scrive che fu Fourcade a dargli l’indirizzo) e Agamben le scrisse mandandole anche un suo saggio recente, “Sui limiti della violenza” (1970), parzialmente ispirato anche agli scritti di Arendt. La filosofa citerà questo saggio in una nota della traduzione tedesca di Sulla violenza (Arendt 1970: 35). Dopo L’uomo senza contenuto non si trovano riferimenti alle opere di Arendt negli scritti di Agamben fino a Homo sacer (1995) – o almeno agli studi preparatori che a esso condurranno –, a partire dal quale Arendt diventerà un punto di riferimento fondamentale.

‫ א‬Il pericolo e il salvifico. Il principio-guida di cercare il riscatto e la redenzione là dove la situazione è più estrema ha un’origine ben precisa, l’incipit del poema Patmos (1802) di Hölderlin: “Wo aber Gefahr ist, wächst / Das Rettende auch” (“Ma dove è il pericolo, cresce / Anche ciò che dà salvezza”, Hölderlin 2001: 314). Heidegger cita a più riprese questi versi, in modo particolare in La questione della tecnica (1953) e Perché i poeti? (1946), e Agamben, anche se vi farà riferimento esplicito solo in Idea della prosa (IP 74-75) e Quel che resta di Auschwitz (QRA 69) (e in modo implicito, ad esempio, nel saggio “Tradizione dell’immemorabile”, nella frase “Questa è la radice del nostro malessere e, insieme, della nostra unica speranza”, PP 158), implicitamente ma chiaramente segue fin dal principio l’insegnamento heideggeriano e ne farà fino alla fine il cuore del suo “metodo” filosofico (e qui sta, per alcuni critici, anche l’“ambivalenza” di questo metodo; cfr. per esempio Geulen 2009: 137). 18

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Senza virgolette. A questo proposito, è stato spesso rimproverato ad Agamben, soprattutto nel mondo accademico anglosassone, di non citare in modo totalmente esplicito o appropriato le proprie fonti. Se da un lato questa è una pratica diffusa nell’accademia italiana, che gli anglosassoni fanno fatica ad accettare, dall’altro questa pratica ha in Agamben un significato ben preciso: non solo il fatto che, come lui stesso ha spesso ripetuto, “Con gli autori che amo, più che imitarli, ripeterli, cerco di trovare il punto in cui possono essere sviluppati, portati a, continuati” (Andreotti e De Melis 2006: 2), per cui viene lasciata al “lettore accorto”, come scrive nella prefazione a Signatura rerum, la “cernita” tra ciò che deve essere riferito al filosofo citato, “ciò che deve essere messo in conto dell’autore e ciò che vale per entrambi” (SR 7). Agamben usa piuttosto la citazione come un’“arte”, quella che Benjamin chiamava “l’arte di citare senza virgolette” (OC 9: 512, appunto N1,10). Agamben cita questa pratica benjaminiana alla fine del Tempo che resta (TR 128), ma già l’ultimo capitolo de L’uomo senza contenuto si apre con la teoria benjaminiana della citazione come potenziale di estraneazione la cui “carica di verità è funzione dell’unicità della sua apparizione estraniata dal suo contesto vivente” (USC 157). La citazione, in Benjamin come in Agamben, estraniando e ricontestualizzando un’idea, contesta il principio di autorità e mette alla prova l’idea che ora deve reggersi sulle proprie gambe (de la Durantaye 2009: 146).

2.2. L’oggetto della conoscenza In un’intervista, Agamben sostiene che L’uomo senza contenuto “conteneva già tutti i motivi del libro successivo” (Sofri 1985: 32), e in effetti Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (1977) si apre con una densa prefazione che riprende la definizione di “critica” proposta nel libro precedente (cfr. USC 70 seg.): la critica è definita qui come “indagine sui limiti della conoscenza, su quel che, cioè, precisamente non è possibile né porre né afferrare” (S xi). In quanto tale, essa condivide il carattere di negatività dell’opera d’arte, è anch’essa quell’“autoannientantesi nulla” che Hegel aveva identificato nell’opera d’arte moderna: “Essa non è anzi altro che il processo della sua ironica autonegazione” (S xii). Tuttavia, rispetto al primo libro, Stanze presenta uno spostamento di prospettiva. Per cominciare, la posizione di Hegel non è qui tanto sposata quanto criticata: interpretando questa negatività come quella 19

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provvisoria della dialettica, “che la bacchetta magica dell’Aufhebung è sempre già in atto di trasformare in positivo”, Hegel ne fraintende la natura “assoluta e senza riscatto” (S xii). Inoltre la modernità, l’epoca in cui questa negatività si disvela (S xiv), non è qui interpretata come una rottura radicale che allontana l’uomo da una condizione più “originale”, ma piuttosto come l’esasperazione e il momento culminante di una crisi intellettuale che attraversa già tutta la metafisica occidentale ed è perciò essa stessa “originale”. Questa frattura non è quella tra l’artista e lo spettatore, o quella che separa l’estetica dalla poiesis, ma la frattura originale tra la conoscenza e il suo oggetto. Infine, se Stanze è dedicato in memoriam a Heidegger (morto l’anno precedente), e se la critica della metafisica occidentale è ancora tutta heideggeriana, l’influenza di Benjamin e di un nuovo metodo, la filologia della scuola warburghiana, diventano qui preponderanti. Contra Hegel, la “negatività” della critica è qui rivendicata come il solo ponte che possa essere gettato per sperare di ricomporre, in qualche modo, le due sponde della frattura originale. Pur essendo “assoluta e senza riscatto”, essa “non rinuncia per questo alla conoscenza”: la sua conoscenza sa di non poter “possedere” il suo oggetto, ma proprio questa impossibilità è rivendicata dalla critica come “il proprio carattere specifico” (S xii). In una definizione che può essere compresa solo retroattivamente e di cui il libro costituisce la spiegazione, Agamben afferma che “Come ogni autentica quête, la quête della critica non consiste nel ritrovare il proprio oggetto, ma nell’assicurare le condizioni della sua inaccessibilità” (S xiii). La frattura che separa la conoscenza dal suo oggetto determina una schizofrenia nella cultura occidentale, che si manifesta nella scissione e inimicizia fra poesia e filosofia, per cui la poesia possiederebbe il suo oggetto senza conoscerlo e la filosofia lo conoscerebbe senza possederlo. La critica “non rappresenta né conosce, ma conosce la rappresentazione”; in questo modo essa “si situa nella scollatura della parola occidentale e fa segno al di qua o al di là di essa verso uno statuto unitario del dire” (S xiv). L’espressione “fa segno…” ricorre come un mantra in tutto il libro 20

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per caratterizzare l’intenzione soteriologica della critica, che viene così definita: All’appropriazione senza coscienza e alla coscienza senza godimento, la critica oppone il godimento di ciò che non può essere posseduto e il possesso di ciò che non può essere goduto. […] Ciò che è recluso nella “stanza” della critica è nulla, ma questo nulla custodisce l’inappropriabilità come il suo bene più prezioso. (S xiv)

Agamben usa la figura della “stanza” dei poeti del ’200 come guida per la sua ricerca: “dimora capace e ricettacolo”, la “stanza” costituiva il nucleo essenziale della loro poesia in quanto custodiva non solo gli elementi formali della canzone, ma anche l’unico “oggetto” della poesia, quello che essi definivano il joi d’amor, e costituiva dunque un “modello” di conoscenza. La “stanza” esemplifica quelle operazioni, che il libro studierà, in cui “il desiderio nega e, insieme, afferma il suo oggetto e, in questo modo, riesce a entrare in rapporto con qualcosa che non avrebbe potuto altrimenti essere né appropriato né goduto” (S xiv). In questo modo la stanza risponde all’impossibile compito di “appropriarsi” di qualcosa che è e rimarrà comunque inappropriabile, e allo stesso tempo “fa segno” verso un diverso statuto della conoscenza umana, in cui l’oggetto non sia posseduto o rinchiuso in “sacri confini”, ma la cui relazione con il soggetto sia quella che de la Durantaye chiama una “durabile libertà” (2009: 76). Le “stanze” in cui il libro si suddivide sono quattro. La prima studia il rapporto tra conoscenza, desiderio e oggetto nell’evoluzione del concetto di “malinconia” dalle sue origini nell’accidia medioevale alla sua formulazione nella psicanalisi freudiana: sia nell’accidia medioevale come peccato che nella sua medicalizzazione nella malinconia rinascimentale e nella psicanalisi freudiana, questa “perversione” del desiderio consiste in un disperato sprofondare nell’abisso che si spalanca fra esso e il suo inafferrabile oggetto. Tuttavia, la privazione stessa è qui rovesciata in possesso, in quanto l’accidia/malinconia comunica col suo oggetto nella forma della negazione e della carenza, e in 21

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questo modo apre uno spazio all’“epifania dell’inafferrabile” (S 13). L’“appropriazione” che l’intenzione accidiosa/malinconica concede è “fantasmagorica”, ma proprio in quanto tale essa apre uno spazio all’“esistenza dell’irreale” e delimita una scena in cui “l’io può entrare in rapporto con esso e tentare un’appropriazione che nessun processo potrebbe pareggiare e nessuna perdita insidiare” (S 26). Una “nuova dimensione” è in questo modo aperta, un “intermediario luogo epifanico” (S 32) che mette l’uomo in contatto con un mondo, quello in cui desiderio e oggetto interagiscono, da cui dipende la sua felicità. La stessa struttura è individuata nella seconda “stanza”, la più benjaminiana perché tratta temi e autori classici delle ricerche dell’ultimo Benjamin nei “Passages” di Parigi e nel libro su Baudelaire (il feticismo della merce, Freud, Marx, Baudelaire, il dandy, il giocattolo), anche se il debito rimane implicito e “senza virgolette”. Qui il rapporto tra conoscenza, desiderio e oggetto è cercato nel modello del “feticcio”, dalla sua analisi freudiana come “presenza di un’assenza”, al “feticismo della merce” individuato da Marx nello sdoppiamento tra valore d’uso e valore di scambio, che rende la merce inafferrabile e fantasmagorica. Il passo al di là di questa frattura è individuato nella rivoluzione poetica di Baudelaire (un Baudelaire molto benjaminiano), che all’invadenza della merce oppose la mercificazione assoluta dell’opera d’arte, nella quale il processo di feticizzazione è “spinto fino al punto da annullare la realtà stessa della merce in quanto tale” (S 51). Facendo dell’opera il veicolo stesso dell’inafferrabile, Baudelaire assegna all’arte il compito di appropriarsi dell’irrealtà e, come il dandy, insegna la possibilità di un nuovo rapporto con le cose che vada oltre il valore d’uso e il valore di scambio. Portando fino alle sue estreme conseguenze il principio della perdita e dello spossessamento di sé, il dandy e la poesia moderna oppongono all’accumulazione capitalistica del valore di scambio e al godimento del valore d’uso del marxismo “la possibilità di un nuovo rapporto con le cose: l’appropriazione dell’irrealtà” (S 59). La terza “stanza”, che ricostruisce la teoria del fantasma nella lirica tardo-stilnovista, non solo è la più estesa, ma occupa 22

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il posto centrale della ricerca in quanto ne costituisce il modello. È anche la “stanza” in cui l’influenza del metodo warburghiano è più evidente ed esplicita (e ad Aby Warburg, tra gli altri, è dedicata). Quella che viene qui ricostruita, mediante una lunga, minuziosa ed estremamente erudita analisi della teoria della sensazione medioevale, è la relazione tra amore e immagine: secondo la psicologia medioevale, gli oggetti sensibili imprimono nei sensi la loro forma e quest’impressione (chiamata “fantasma”) è ricevuta dalla fantasia, che la conserva anche in assenza dell’oggetto. Questo “fantasma” costituisce una sorta di intermediario fra l’anima e la materia e permette così di spiegare tutti gli influssi fra il corporeo e l’incorporeo, compreso l’amore: “L’oggetto dell’amore è infatti un fantasma, ma questo fantasma è uno ‘spirito’, inserito, come tale, in un circolo pneumatico in cui si aboliscono e si confondono i confini fra l’esterno e l’interno, il corporeo e l’incorporeo, il desiderio e il suo oggetto” (S 128). L’amore è in quanto tale “fantasmatico”, cioè irreale, e, come l’accidia/malinconia, nel suo fissarsi sull’inaccessibilità del suo oggetto esso è “patologico”, è la “malattia mortale” dell’immaginazione. È con gli stilnovisti che questo processo riceve una “nobilitazione soteriologica”: nel linguaggio poetico (esemplificato soprattutto dalla teorizzazione di Dante) inteso come dettato d’amore, gli stilnovisti cercano di colmare la frattura metafisica fra visibile e invisibile, corporeo e incorporeo, apparire ed essere. Eros e poesia sono qui legati e coinvolti in una comune appartenenza che scuote la distinzione semantica tra significante e significato e che concilia la frattura fra il desiderio e il suo inafferrabile oggetto: “il fantasma genera il desiderio, il desiderio si traduce in parole e la parola delimita uno spazio in cui diventa possibile l’appropriazione di ciò che non potrebbe altrimenti essere né appropriato né goduto” (S 153). Il tema della frattura metafisica fra significante e significato è analizzato a fondo nell’ultima “stanza”, che presenta una critica della semiologia moderna. La dualità del manifestante e della cosa manifestata che costituisce il segno rispecchia la “frattura originale della presenza”: “tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di 23

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un’esclusione, nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare” (S 160-61). La nozione semiotica del segno come unità espressiva di significante (S) e significato (s) rimuove e occulta la frattura originale, e quest’oblio metafisico si manifesta nella barriera (/) del grafo che indica il segno: S/s. Non interrogandosi sul senso di questa barriera, di questa divisione/differenza, la metafisica occidentale (di cui la semiologia moderna rappresenta il momento culminante e l’impasse) copre l’abisso spalancato fra il significante e il significato; essa non è quindi che “l’oblio della differenza originaria tra significante e significato” (S 163). In questo senso, la strutturazione metafisica del significare nella semiologia rende il fatto linguistico qualcosa di “impossibile”, mostra (nella barriera /) l’impossibilità del segno di prodursi nella pienezza della presenza. Il progetto della decostruzione di Derrida ha messo a nudo, per Agamben, l’eredità metafisica della semiologia moderna, ha posto l’accento su e ha svelato la frattura originaria, ma far venire alla luce il fondamento negativo della metafisica non significa superarla, e la decostruzione qui si è fermata. Una “semiologia liberata” che voglia “far segno” verso un nuovo modello del significare, verso “un dire che non ‘nasconda’ né ‘riveli’, ma ‘significhi’ la stessa giuntura […] insignificabile fra la presenza e l’assenza, il significante e il significato” (S 165), dovrebbe portare lo sguardo proprio su questa barriera, su questa “articolazione invisibile” che indichi la strada per quello che Eraclito chiamava “armonia”, e cioè una stazione “giusta” nella presenza.

‫ א‬Aby Warburg e il metodo. Parte della ricerca per Stanze fu condotta nel 1974-1975 a Londra, nella biblioteca del Warburg Institute, nel quale Agamben fu introdotto grazie alla mediazione di Frances Yates, conosciuta a Parigi tramite Italo Calvino (Sofri 1985: 32). Dopo quelli con Heidegger e Benjamin, l’incontro con Aby Warburg (1866-1929) è sicuramente quello che più ha marcato la formazione intellettuale del giovane Agamben e la sua influenza rimarrà una costante anche nella produzione posteriore, tanto che Antonio Negri l’ha potuto definire “un Warburg dell’ontologia critica” (Negri 2003: 21). Secondo Alex Murray (in AD 199-200), è stato probabilmente questo incontro a provocare in Agamben lo spostamento di prospet24

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tiva dall’approccio più convenzionale (o più heideggeriano) all’arte de L’uomo senza contenuto a quello più “strutturale” di Stanze e della produzione successiva. L’influenza di Warburg si riferisce soprattutto alla sua esplorazione dell’immagine e del suo rapporto con la storia: svincolando l’opera d’arte (l’immagine) dall’artista, il metodo di Warburg ne cercava la continuità e le variazioni nella storia, in modo analogo alla trasformazione della storia in immagini praticata da Benjamin. Questa ricerca strutturata attorno a categorie e tipologie culturali verrà poi inglobata da Agamben nel metodo “archeologico” che caratterizzerà le sue opere più conosciute (Murray in AD 200). La presenza di Warburg si farà sentire in svariati scritti e in ogni fase della produzione di Agamben, fino al breve volume Ninfe (2007), che si centra sull’analisi dell’atlante per immagini (Bilderatlas) Mnemosyne, ultimo progetto incompiuto di Warburg, e sul concetto di Pathosformel (formule di pathos) che ne guida la costruzione.

‫א‬

Filologia e filosofia. L’erudizione e la precisione del metodo filologico warburghiano infondono in Agameben la convinzione che, senza un’indagine dettagliata dell’immagine e della parola, la vera speculazione filosofica è impossibile (de la Durantaye 2009: 66). Tuttavia, nell’ultima “stanza” sulla semiologia Agamben scrive: “Saussure rappresenta […] il caso estremamente prezioso di un filologo che, preso nella rete del linguaggio, sente, come Nietzsche, l’insufficienza della filologia e deve diventare filosofo o soccombere” (S 182). L’importanza della filologia per la ricerca filosofica di Agamben era già evidente in L’uomo senza contenuto, ma diventa preponderante in Stanze e marcherà tutta la sua ricerca futura. In un’intervista Agamben fa risalire questo metodo non tanto a Warburg quanto a Benjamin, per il quale la filologia era “la rivendicazione di un rapporto quasi materiale con i testi, con gli oggetti”; se Agamben afferma che “nel mio metodo c’è molto questo rapporto con la materialità di un passato”, allo stesso tempo individua nella filologia la contraddizione “per eccellenza” di dover ricorrere alla congettura per ovviare alle insufficienze documentali, e quindi di finire per “‘produrre’ il documento del passato che dovrebbe restaurare” (Andreotti e De Melis 2006: 3). In un’altra intervista riferisce dunque a se stesso la descrizione di Saussure data in Stanze: “il filologo che sia andato veramente al fondo della sua pratica ha bisogno della filosofia, deve a un certo punto (l’esperienza di Nietzsche lo insegna) diventare filosofo” (Sofri 1985: 33). Il tema del rapporto tra filosofia e filologia rimarrà centrale fino alla fine, tanto che nella prefazione all’edizione accresciuta di Categorie italiane del 2010 Agamben si scaglierà contro i “cattivi filologi [che] non amano abbastanza la parola da esaudirne il significato” e i “filosofi pessimi, che amano così poco la verità da lasciare ad altri la cura della sua dimora nella lingua”; il gioco fra suono e senso costituisce per Agamben “il momento poetico del linguaggio, che il filologo e il filosofo devono, ciascuno a suo modo, custodire” (CI vi).

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Metafisica e Decostruzione. La critica della decostruzione di Derrida che inizia in Stanze diventerà una costante e un segno distintivo della produzione di Agamben. La tesi rimarrà la stessa, anche se verrà declinata in modi e ambiti diversi: la decostruzione opera una critica salutare della metafisica e ne svela il fondamento negativo, ma rimane pur sempre all’interno di essa e non ne costituisce un superamento. Il rapporto di Agamben con Derrida è però assai complesso: i due si erano conosciuti già nell’ambito del Collège international de philosophie a Parigi, che Agamben ha poi diretto dal 1986 al 1993, a Derrida Agamben dedicherà il saggio “La cosa stessa” (forse ironicamente, visto che parla del gramma aristotelico come “mistico”; cfr. PP 9-23), e nella tarda conferenza L’amico (2007, cioè posteriore alla morte di Derrida) lo nominerà come “amico”, seppur criticandolo (cfr. AM 6-9). Resta che la critica alla decostruzione appare come parte sostanziale della filosofia di Agamben, ed è possibile che, come sostiene Catherine Mills, la crescente popolarità di Agamben abbia in parte contribuito allo scemare del dominio della decostruzione (almeno nell’accademia anglosassone; Mills 2008: 1).

2.3. La scienza senza nome Agamben andò a Parigi nel 1970 per tre anni come lettore di italiano (Sofri 1985: 32) e vi tornò dopo l’esperienza di Londra. Qui conobbe tra gli altri Italo Calvino, e con questi e Claudio Rugafiori, tra il 1974 e il 1976, tentò di definire il programma di una rivista (che non vide mai la luce), una sezione della quale doveva essere dedicata alla definizione di quello che tra loro chiamavano “categorie italiane”. L’identificazione delle “strutture categoriali della cultura italiana” doveva procedere attraverso una serie di concetti polarmente coniugati, per cui Rugafiori proponeva di occuparsi di architettura/vaghezza, Calvino di velocità/leggerezza e Agamben di tragedia/commedia, diritto/creatura e biografia/favola (CI vii). Di questo progetto originale resta solo il “Programma per una rivista”, pubblicato in limine a Infanzia e Storia, ma esso costituirà anche un durevole impulso che porterà Agamben ad aggiungere altre categorie (lingua materna/lingua grammatica, lingua viva/lingua morta, stile/maniera ecc.) e a pubblicare nel corso degli anni diversi saggi e prefazioni sulla Commedia di Dante (a cui lavorava negli anni in cui nacque il progetto, CI vii), su Arnaut Daniel, su 26

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Pascoli e la lingua morta, su Delfini, Caproni, Elsa Morante e altri, che confluiranno nel 1996 nel volume Categorie italiane, e a cui si aggiungeranno altri saggi su Zanzotto, Manganelli, Nappo, e ancora Caproni e Morante nella riedizione accresciuta del 2010. Questi scritti sparsi, questo “torso dell’idea” originale (CI viii), proseguono in certo modo il progetto di Stanze di una “critica creativa”, che faccia da ponte sulla frattura che separa le due sponde irreconciliabili ma complementari di poesia e filosofia. In un certo senso, “Programma per una rivista” (scritto sulla falsariga dell’“Annuncio della rivista Angelus Novus” [1922] di Benjamin) esplicita e riassume i fondamenti delle ricerche che avevano prodotto L’uomo senza contenuto e Stanze. Il testo inizia individuando il compito proprio della rivista nella “‘distruzione’ della storiografia letteraria”, e cioè della prospettiva cronologica, alla ricerca di una “attualità” radicalmente e originalmente “storica”, che si situi, cioè, in “un’interruzione e uno scarto” (IS 143). Questo scarto è la “frattura irreparabile” fra il patrimonio culturale e la sua trasmissione, fra verità e trasmissibilità, che era il soggetto dell’ultimo capitolo dell’Uomo senza contenuto e ne costituiva la conclusione. Per Agamben, questa scollatura e questo scarto, che riguardano la cultura occidentale nel suo complesso, raggiungono nella cultura italiana la loro “massima ampiezza”, nel senso che in essa, fin dall’inizio, il patrimonio culturale non si è saldato alla sua trasmissione: “Lo scarto, in cui la rivista intende situarsi, è quindi, per la cultura italiana, l’evento originale, che non ha ancora cessato di avvenire” (IS 145). Questa peculiare fragilità costituisce però anche la forza della cultura italiana, in quanto essa nasce già come un relitto, e come tale non teme le correnti “e può perfino mandare dei segnali” (IS 145). La “distruzione” della storiografia letteraria deve quindi essere una “distruzione della distruzione”, in cui “la distruzione della trasmissibilità, che costituisce il carattere originale della nostra cultura, venga portata dialetticamente alla coscienza” (IS 145). Qui ricorre l’immagine che aveva aperto e chiuso L’uomo senza contenuto: come nella casa in fiamme diventa visibile il progetto architettonico fonda27

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mentale, così questa distruzione porterà a visibilità le strutture categoriche della cultura italiana. Il “Programma” si salda quindi al progetto di Stanze stabilendo come organo di questa “distruzione della distruzione” una “filologia che abbia superato i confini cui la costringe un’angusta tradizione accademica” (IS 146): il compito della filologia consisterebbe proprio nell’abolizione dello scarto fra cosa da trasmettere e atto della trasmissione, in una Aufhebung della mitologia che la rende una “mitologia critica”, e che quindi la “identifica senza residui con la poesia” (IS 147). Questa nuova filologia, rinominata una “disciplina dell’interdisciplinarità” e assimilata alla “critica”, deve perciò situarsi nello scarto della parola occidentale e farne la sua esperienza centrale, in cui convergano tutte le scienze umane e il cui fine sia una “scienza generale dell’umano” (IS 148). Questa scienza, scrive Agamben, rimane ancora “innominata”, ma è chiaramente quella “scienza senza nome” che Warburg aveva fondato e che Agamben analizza nel ritratto a lui dedicato nel 1975, “Aby Warburg e la scienza senza nome”. Facendo “esplodere” con il suo nuovo metodo la storia dell’arte, e sostenendo la necessità di un approccio congiunto di tutte le scienze umane allo studio dei “problemi dell’uomo”, Warburg tendeva nientemeno che alla “configurazione di un problema che è, insieme, storico ed etico, nella prospettiva di quella che egli ebbe talvolta a definire ‘una diagnosi dell’uomo occidentale’” (PP 129). Questa scienza si colloca in un “intervallo”, in una terra di nessuno al centro dell’umano, tanto che Warburg ebbe a definirla “un’iconologia dell’intervallo” (PP 134), ed Erwin Panofsky, uno dei più autorevoli colleghi/discepoli di Warburg, la battezzò “iconologia” (PP 140). Per quanto Agamben sostenga che l’accezione che Panofsky dava al termine si allontana dalle intenzioni originali di Warburg, in certo modo anch’egli lo adotterà (negli ultimi anni della sua carriera universitaria Agamben sarà docente di Iconologia all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia), sostenendo che “solo questa scienza potrebbe […] permettere all’uomo occidentale, uscito dai limiti del proprio etnocentrismo, di rivolgere su di sé la conoscenza liberatrice di una ‘diagnosi dell’umano’ che potrebbe guarirlo 28

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dalla sua tragica schizofrenia” (PP 143), di ricomporre cioè la frattura che divide poesia e filosofia, la parola che “canta” e quella che “ricorda”. In una postilla aggiunta per la ripubblicazione del saggio nel 1983, Agamben afferma che “il progetto di una scienza generale dell’umano” gli appare ora “non superato, ma certamente non più perseguibile negli stessi termini” (PP 144). Rimanendo nel solco del progetto warburghiano di “afferrare qualcosa come la pura materia storica”, Agamben si volge ora piuttosto verso una ricerca “eterodossa” come quella di Benjamin sull’immagine dialettica, in cui riconosce un “esito fecondo del lascito warburghiano” (PP 146). Il “Programma per una rivista” si conclude infatti con un appello alla revisione della concezione della storia che ha dominato lo storicismo moderno e per “una nuova e più originaria esperienza della storia e del tempo” che cita pesantemente Benjamin “senza virgolette”: Al tempo vuoto, continuo, quantificato e infinito dello storicismo volgare, si deve opporre il tempo pieno, spezzato, indivisibile e perfetto dell’esperienza umana concreta; al tempo cronologico della pseudostoria, il tempo cairologico della storia autentica; al “processo globale” di una dialettica che si è perduta nel tempo, l’interruzione e l’immediatezza di una dialettica immobile. (IS 149)

L’Aufhebung della filologia, e quindi anche del progetto di una “scienza generale dell’umano”, passa per una nuova esperienza della storia. Ed è qui che comincia Infanzia e storia.

‫ א‬Diritto/creatura. Se alle opposizioni categoriche tragedia/commedia e biografia/favola Agamben ne aggiungerà nel tempo altre, perseguendo fino al presente il progetto di una “critica” che coniughi l’esattezza microscopica della filologia all’orizzonte ampio della filosofia, la coppia diritto/creatura verrà a costituire l’ossatura portante del progetto che ad Agamben ha dato fama internazionale, Homo sacer. Come dimostra la pubblicazione dell’edizione accresciuta di Categorie italiane nel 2010, questi due filoni non sono alternativi, ma complementari e strettamente intrecciati.

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3. STORIA E LINGUAGGIO (Infanzia e storia, Il linguaggio e la morte, Idea della prosa)

3.1. Esperienza e linguaggio L’indagine su una “nuova esperienza della storia”, in cui era sfociato il progetto di una “scienza generale dell’umano”, si costruisce attorno a due categorie: una nuova concezione del tempo e una nuova indagine sul linguaggio. Queste rimarranno categorie fondamentali delle future ricerche filosofiche di Agamben, e vi rimarranno in una forma sostanzialmente invariata: Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (1978) propone tesi sulle quali Agamben ritornerà incessantemente per ridefinirne e specificarne il significato e l’importanza, e stabilisce un vocabolario filosofico che informerà i progetti futuri. È significativo che questo sia anche il libro più “benjaminiano” di Agamben: non solo perché i vari saggi si ispirano, più o meno esplicitamente, a scritti e idee di Benjamin, ma soprattutto perché il progetto di una nuova esperienza della storia e del linguaggio è interamente benjaminiano. Per quanto i punti di contatto con il progetto filosofico di Heidegger siano assai importanti, e per quanto a un certo punto Agamben indichi il pensiero di Heidegger come il luogo della critica più radicale alla concezione tradizionale della storia (IS 108-10), il linguaggio, la struttura e il “tono” del libro rimangono squisitamente benjaminiani. Il volume è in realtà una raccolta di saggi, tematicamente coesi ma indipendenti, e prende il titolo dal primo saggio, il più esteso e complesso. “Infanzia e storia” porta il sottotitolo “Sag30

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gio sulla distruzione dell’esperienza” e prende in effetti le mosse dal saggio di Benjamin “Esperienza e povertà” (1933), che decretava la fine dell’esperienza nel nostro tempo. Agamben cita Benjamin e (molti) altri autori “con le virgolette”, ma senza note bibliografiche (i soli due saggi della raccolta che contengono note bibliografiche, “Il paese dei balocchi” e “Il principe e il ranocchio”, lo fanno in modo assai sporadico), il che ha portato il traduttore inglese a confondere “Esperienza e povertà” con il saggio “Il narratore” (1936), che in realtà riproduce, nella prima sezione, una porzione di “Esperienza e povertà” quasi parola per parola. Il tema della distruzione dell’esperienza, e del suo legame con storia e linguaggio, è comunque una costante del pensiero benjaminiano, e infatti, se Agamben prende le mosse da “Esperienza e povertà” per analizzare la fine dell’esperienza nel nostro tempo, “Infanzia e storia” si propone però esplicitamente come una rielaborazione e un approfondimento di un saggio di Benjamin di molto anteriore, “Sul programma della filosofia futura” (1918). Qui Benjamin attaccava la teoria kantiana dell’esperienza perché basata sul modello meccanicistico della matematica newtoniana e in quanto tale fondamentalmente astorica, e proponeva un nuovo concetto di esperienza basato su una “pura coscienza trascendentale” (OC 1: 334) che eliminasse la dicotomia soggetto-oggetto e non si basasse dunque sull’“io” della psicologia. Questa trasformazione di esperienza e conoscenza, concludeva Benjamin, può essere raggiunta solo mettendole in relazione con il linguaggio, nel solco della critica che già Johann Georg Hamann (17301788) aveva portato a Kant (OC 1: 338). In “Esperienza e povertà” Benjamin aveva situato questa trasformazione in “un nuovo positivo concetto di barbarie” (OC 5: 540), che costringesse l’umanità a rinunciare al vecchio concetto di esperienza e a ripartire da zero. Agamben si propone, allo stesso modo, di preparare il “luogo logico” in cui il “germe di un’esperienza futura” possa giungere a maturazione (IS 7). In fondo, come nota de la Durantaye (2009: 87), queste riflessioni sulla perdita dell’esperienza sono un’estensione di quelle sulla perdita della tradizione che concludevano L’uomo senza conte31

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nuto e proseguivano nella “stanza” sul feticismo di Stanze. Prolungando queste riflessioni sulla falsariga del “Programma” benjaminiano, Agamben procede a una critica del progetto della scienza moderna, che ha espropriato l’uomo dell’esperienza trasponendola nell’esperimento, e cioè negli strumenti e nei numeri, e riferendo conoscenza ed esperienza a un soggetto unico e astratto. Kant ha chiamato questo soggetto (fondamentalmente il soggetto cartesiano) “soggetto trascendentale”, che non può mai conoscere l’oggetto (e nemmeno se stesso) e lo relega nel noumeno, impostando quindi il problema dell’esperienza sulla postulazione dell’“inesperibile”. La filosofia successiva, da Hegel a Dilthey, da Bergson a Husserl e alla “filosofia della vita”, ha cercato di colmare lo iato del soggetto kantiano e di catturare l’esperienza vissuta, un’esperienza “prima” che Husserl aveva chiamato “muta”. Ma è la poesia moderna che, con Baudelaire, ha preso coscienza che l’inesperibile è la condizione normale dell’umanità moderna e ne ha fatto la “nuova dimora dell’uomo” (IS 38). Sulla base di questa analisi, Agamben riprende le critiche di Hamann a Kant e le completa con un profondo studio della linguistica moderna, che va da Jakobson a Chomsky a Lévi-Strauss e culmina negli studi di Benveniste: questi studi mostrano che è nel linguaggio e attraverso il linguaggio che l’uomo si costituisce come soggetto, e che quindi il trascendentale non può essere che il linguistico. Il problema dell’esperienza, la ricerca di un’“esperienza originaria”, porta dunque lontano dal “soggettivo” e dal soggetto, a qualcosa che è prima del soggetto e dunque prima del linguaggio: Agamben chiama quest’esperienza “in-fanzia”, nel senso etimologico in cui il prefisso in- nega il verbo fari, parlare. La teoria dell’esperienza diventa quindi una teoria dell’infanzia, e il suo fulcro diventa il problema dell’origine del linguaggio: in-fanzia non è infatti, per Agamben, uno stato soggettivo e psicologico che precede cronologicamente il linguaggio e che cessa di esistere quando l’in-fante acquisisce il linguaggio; essa è piuttosto l’“origine trascendentale del linguaggio” (IS 49), coesiste originariamente col linguaggio e si costituisce proprio nell’espropriazione che il linguaggio ne attua. Fondamentale è 32

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qui, di nuovo, il concetto di origine che tanta importanza ha sia per la filosofia di Heidegger che per quella di Benjamin: l’origine si situa in un punto di frattura dell’opposizione di diacronico e sincronico, di storico e strutturale, ed è quindi una “storia trascendentale, che costituisce, in un certo senso, il limite e la struttura a priori di ogni conoscenza storica” (IS 48). L’in-fanzia come “origine” del linguaggio è questa “esperienza pura e trascendentale”, per cui la definizione di esperienza diventa la seguente: “Come infanzia dell’uomo, l’esperienza è la semplice differenza fra umano e linguistico. Che l’uomo non sia sempre già parlante, che egli sia stato e sia tuttora in-fante, questa è l’esperienza” (IS 40). L’umano non è per Agamben, come per la tradizione della metafisica occidentale, zoon logon echon, l’animale che ha il linguaggio, ma piuttosto l’animale che, a differenza degli altri animali che “sono sempre assolutamente nella lingua”, ne è privo e deve riceverlo dal di fuori. L’uomo, in quanto ha un’infanzia, in quanto non è sempre già parlante, “si pone come colui che, per parlare, deve costituirsi come soggetto del linguaggio, deve dire io” (IS 50), e quindi dimora nella scissione tra lingua (il sistema dei segni) e parola (l’uso). La natura dell’uomo è “originariamente” scissa, ed è questa differenza e discontinuità che rende l’uomo un essere “storico”: “solo perché c’è infanzia dell’uomo, solo perché il linguaggio non s’identifica con l’uomo e c’è una differenza fra lingua e discorso, fra semiotico e semantico, solo per questo c’è storia, solo per questo l’uomo è un essere storico” (IS 51). La teoria dell’infanzia si pone dunque esplicitamente come uno svolgimento della distinzione tra semiotico e semantico formulata da Benveniste, della differenza irriducibile che separa il piano della lingua (il semiotico) da quello della parola (il semantico): nell’individuazione di questo iato, però, la scienza del linguaggio giunge al suo limite, oltre il quale, come già Agamben aveva detto di Saussure e la filologia, essa non può procedere senza trasformarsi in filosofia. I saggi che seguono, meno articolati ed estesi, proseguono la riflessione sulla storicità dell’uomo sul binario doppio ma intrecciato di una nuova definizione del tempo e dello statuto 33

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ontologico “alternativo” dell’infanzia. “Il paese dei balocchi” indaga – sulle orme delle ricerche antropologiche di LéviStrauss (a cui è dedicato), ma anche su quelle linguistiche di Benveniste – il rapporto tra gioco e storia: se l’antropologia ha mostrato che l’origine del gioco si situa nel rito, nelle antiche cerimonie sacre, esso trasforma però radicalmente il sacro e il suo rapporto con la storia. Il rito compone passato e presente, fissa il calendario e riassorbe gli eventi in una struttura sincronica, mentre il gioco spezza la connessione fra passato e presente, sbriciola la storia in eventi e trasforma la sincronia in diacronia. La storia, il “tempo umano”, non è la diacronia, lo svolgersi lineare degli eventi senza soluzione di continuità, ma l’opposizione e lo scarto fra diacronia e sincronia, la relazione fra i significanti sincronici prodotti dal rito e quelli diacronici prodotti dal gioco. Queste riflessioni sul gioco saranno fondamentali per il progetto soteriologico di Homo sacer e riceveranno una nuova rielaborazione, che però non ne muterà i caratteri sostanziali. Lo stesso si può dire delle riflessioni sul tempo di “Tempo e storia”, che si propone di criticare il concetto marxiano di storia in quanto basato su un’esperienza tradizionale del tempo. Agamben presenta qui una breve carrellata dei concetti filosofici di tempo nella storia del pensiero occidentale, dalla rappresentazione circolare e continua greco-romana a quella lineare cristiana, alla sua secolarizzazione nell’età moderna: tutte queste concezioni si basano su un tempo concepito come un continuum puntuale, infinito e quantificato, che impedisce, per Agamben, l’accesso alla storicità autentica. Se il linguaggio del saggio è quello delle tesi Sul concetto di storia di Benjamin, e se Heidegger è indicato come il pensatore che ha sottoposto a una critica radicale la concezione lineare del tempo, Agamben propone come modelli alternativi e più “originali” il tempo incoerente e non omogeneo della Gnosi, che fonda nella brusca interruzione dell’attimo la presentificazione esemplare della storia della salvezza, e in quello “cairologico” della Stoa, che concentra i vari tempi nell’attimo della decisione. Il cairós è l’attimo in cui l’uomo decide della propria libertà, si “libera” dal tempo, e apre un luogo alla felicità. 34

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La critica della dialettica tradizionale (hegeliana e marxiana) come consustanziale al concetto lineare e progressivo della storia, che già “Infanzia e storia” e “Tempo e storia” avevano individuato come uno dei compiti più urgenti di una nuova ricerca storica (IS 30, 102-4), viene svolta in “Il principe e il ranocchio” a partire dalla corrispondenza tra Adorno e Benjamin a proposito del saggio di Benjamin “La Parigi del secondo Impero in Baudelaire”: alle richieste di Adorno di adeguare il suo progetto alla “mediazione” propria della dialettica, Benjamin risponde con il concetto di “dialettica immobile” (Dialektik im Stillstand), di una dialettica, cioè, che interrompa, invece di adattarsi a, il concetto “volgare” di tempo lineare, e con questo nuovo e rivoluzionario concetto di dialettica il materialismo storico, conclude Agamben, dovrà prima o poi fare i conti. Infine, “Fiaba e storia” propone delle brevi considerazioni sul presepe che, come nel caso del giocattolo in “Il paese dei balocchi”, individuano nel presepe il trapasso del mito (o del rito) nella storia. Queste brevi note sono assai importanti perché adottano per la prima volta il linguaggio fortemente ed esplicitamente messianico che caratterizzerà le ricerche future di Agamben: nel presepe il tempo si è fermato, ma non nell’eternità del mito e della fiaba, bensì “nell’intervallo messianico fra due istanti, che è il tempo della storia” (IS 137). Il presepe mette dunque in scena un evento “cairologico”, l’interruzione del continuum del tempo lineare e vuoto del mito e del sacro, che sola può aprire lo spazio “profano” e propriamente umano della felicità. È possibile che queste note citino implicitamente il “Frammento teologico-politico” (forse 1920-21) di Benjamin, che sull’“ordine del profano” eretto sull’idea di felicità fondava il compito della politica mondiale (OC 1: 512). Questo vocabolario andrà a costituire, negli anni a venire, la struttura portante delle riflessioni più propriamente “politiche” di Agamben.

‫ א‬Infanzia benjaminiana. Se in Infanzia e storia esplicito è il riferimento alle riflessioni di Benjamin su esperienza, tempo e storia, rimane però implicito quello al profondo e costante interesse di Benjamin per l’infanzia, il gioco e il giocattolo, che è senza dubbio un’importante fonte d’i35

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spirazione per il libro. Almeno dalla nascita, nel 1918, di suo figlio Stefan, Benjamin iniziò a collezionare libri per bambini e a dedicare a questi libri, al gioco e ai giocattoli, all’infanzia e alla pedagogia, scritti sparsi ma che costituiranno un corpus coerente, fino a culminare nelle “memorie” degli anni trenta Cronaca berlinese (1932) e Infanzia berlinese (1934-1938), e in importanti note dei “Passages” di Parigi. Anche se Benjamin non svilupperà una “teoria” esplicita e coerente, egli analizza l’infanzia da un punto di vista “ontologico” e la svincola dalle teorie psicologiste che la relegano a un mero stadio psicosomatico o cronologico. Di particolare importanza per il progetto agambeniano è poi il potere liberatorio, “messianico”, che Benjamin attribuiva all’infanzia e al gioco (cfr. Salzani 2009). E tuttavia, come nota William Watkin (2010: 12-13), allo stesso tempo questo riferimento può essere fuorviante, perché evoca una naturale connessione con il bambino, che non è certo in questione nella problematizzazione dell’infanzia da parte di Agamben. Anche per questo motivo Agamben in seguito rinuncerà quasi completamente al termine “infanzia” e adotterà quello di “potenza” (anche se molti critici continuano a insistere sulla nozione di “infanzia”; cfr. per esempio Faulkner 2010 e Dickinson 2011a).

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Messianismo cairologico. Il significato del termine “messianico” per l’intero progetto filosofico di Agamben verrà esplorato nel capitolo 7, quando diventerà la colonna portante dell’intera proposta soteriologica di Homo sacer. È importante però sottolineare fin da subito l’accezione assai particolare in cui Agamben interpreta e usa il termine. Māšīāh. o Mashiach in ebraico significa “unto”, e cioè “consacrato”, tradotto in greco come christòs, colui che è stato unto con il chrisma. L’unzione significava l’investitura divina, e riguardava i sacerdoti, i profeti, ma soprattutto i re, e con la fine del regno giudaico e l’esilio babilonese il termine assume un significato escatologico: sarà l’“unto del signore”, l’inviato di Dio, che ristabilirà il Regno, che prende dunque il nome di “Regno messianico”. Il messianismo, e cioè la credenza nell’avvento di un messia che verrà a redimere il mondo, caratterizza non solo l’Ebraismo e il Cristianesimo, ma è presente in molte altre religioni; e tuttavia è di norma identificato con l’escatologia, cioè con l’attesa dell’ultimo giorno (éschaton in greco = ultimo), il giorno del giudizio e la resurrezione dei morti, o con l’apocalittismo (apokalipsis in greco = rivelazione, togliere il velo). Come nota de la Durantaye (2009: 120), Agamben segue Benjamin (e Kafka) nel conferire al termine tutt’altro significato: come paradigma del tempo storico, il messianismo non è il tempo dell’attesa del messia, ma il tempo in cui agiamo come se il messia fosse già qui. Le tesi Sul concetto di storia di Benjamin si concludono con una frase paradigmatica: “ogni secondo […] era [per gli ebrei] la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia” (OC 7: 493). Questo significa che ogni momento di ogni giorno, in questa vita e in questo mondo, è il momento (“cairologico”) della decisione e dell’azione, il presente, e non il futuro, è il tempo della storia.

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3.2. Metafisica e linguaggio La problematizzazione dell’“origine del linguaggio” si articola, negli anni successivi, su un tema già centrale sia nell’Uomo senza contenuto che in Stanze e in Infanzia e storia: quello della “negatività”. Come abbiamo visto, nell’Uomo senza contenuto l’arte era definita come “la pura potenza della negazione” e il suo destino era fatto coincidere con quello del “nichilismo” (USC 86-87 e passim); il giudizio estetico kantiano era poi definito come una “teologia negativa” (USC 68), e la stessa accusa era ripetuta in Infanzia e storia a proposito del soggetto trascendentale (IS 26-27); anche la “critica”, in Stanze, era appaiata all’arte e definita, hegelianamente, come un “autoannientantesi nulla”, una “negatività assoluta e senza riscatto”, che non rinuncia alla conoscenza, ma la marca nondimeno con questo carattere assolutamente negativo (S xii). Il tema della negatività può essere riassunto, in questi testi, come la ricerca di un fondamento che rimane vana e che sfocia necessariamente nella postulazione – mistica – di un “inconoscibile” (L’uomo senza contenuto, Stanze), di un “inesperibile” (Infanzia e storia) o di un “indicibile” (Stanze, Infanzia e storia). È nella quarta “stanza” di Stanze che il tema della negatività viene indagato nella relazione tra metafisica e linguaggio, ed è questa ricerca che viene sviluppata e approfondita in Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività (1982). Il volume si presenta come la raccolta e la rielaborazione delle idee e dei materiali discussi in un seminario, tenutosi nel 1979-1980, che includeva solo cinque partecipanti (“alcuni giovani napoletani laureati in filosofia”, Sofri 1985: 33), un po’ nello stile dei seminari di Heidegger a Le Thor. In un’intervista Agamben così lo descrive: “Ci incontravamo a Roma, a Siena, a Capri. Senza lo schermo dell’università, il rapporto di studio comune è meno ambiguamente accademico, più apertamente di amicizia” (Sofri 1985: 33). Il seminario parte dalla definizione di uomo come il “mortale” e, insieme, il “parlante”, cioè come l’animale che ha, allo stesso tempo, la “facoltà” del linguaggio e quella della morte. Questo nesso tra linguaggio e morte porta 37

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in luce il problema della negatività, che attraversa la “dimora dell’uomo” sulla terra e su essa la fonda; quello che il seminario si propone di esporre e comprendere è dunque il “fondamento negativo” della tradizione occidentale, che porta Agamben a equiparare metafisica e nichilismo. La metafisica come nichilismo è così definita già nell’introduzione: essa è “la tradizione di pensiero che pensa l’autofondazione dell’essere come fondamento negativo” (LM 6). Il libro si articola in otto “giornate” a cui seguono sette “excursus”, e si centra fondamentalmente su una lettura parallela e incrociata di Heidegger e Hegel. La lettura di Heidegger parte dalla particella da (“lì”, “là”, “vi” o “ci”) che compone il termine Da-sein, l’“Esser-ci” che definisce l’umano nell’elaborazione heideggeriana; la lettura di Hegel parte invece dal dimostrativo diese (“questo”), con cui comincia la sezione sulla “certezza sensibile” del primo capitolo della Fenomenologia dello spirito (1807). Il Dasein non è per Heidegger che il suo da, il “ci” dell’“Esser-ci”, ma questo da come “possibilità più propria” è il modo puramente negativo dell’essere-per-la-morte; il diese di Hegel mostra allo stesso modo la pura negatività della certezza sensibile, che quando vuole dire qualcosa si vede costretta a ridurlo alla pura astrazione universale del pronome dimostrativo. L’analisi di queste due particelle conduce Agamben a interrogarsi sulla funzione linguistica della deixis (o deissi), e cioè dell’indicazione o dimostrazione, che ha luogo nel pronome: già nella linguistica medioevale il pronome era definito come quella parte del discorso in cui si attua il passaggio dal significare al mostrare; nella linguistica moderna, Benveniste definisce i pronomi come “indicatori dell’enunciazione” e Jakobson come shifters, e cioè come “segni vuoti” che diventano “pieni” non appena il locutore li assume in un’istanza di discorso, e cioè non appena li articola in un “messaggio”. Ciò che, nei pronomi, la deissi “indica” o “dimostra” non è quindi un oggetto o una realtà, ma un “luogo di linguaggio”: “l’indicazione è la categoria attraverso cui il linguaggio fa riferimento al proprio aver-luogo” (LM 35). Prima di designare degli oggetti reali, i pronomi e gli shifters indicano allora che “il linguaggio 38

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ha luogo” e permettono di riferirsi, prima ancora che al significato, allo stesso “evento di linguaggio” all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato (LM 36). Questo evento di linguaggio ha luogo in una “voce”: “L’enunciazione e l’istanza di discorso non sono identificati come tali che attraverso la voce che le proferisce” (LM 44). E cioè, colui che enuncia è innanzitutto la voce che enuncia; questa voce non è più un mero suono, ma non è ancora un significato, è l’intenzione di significare che coincide con la pura indicazione che il linguaggio ha luogo. Come tale, essa è ciò che deve essere tolto affinché il discorso significante abbia luogo, ed è quindi una dimensione negativa: l’articolazione originaria del linguaggio umano, ciò che articola la voce umana in linguaggio, è allora una “pura negatività”, che Agamben scrive con la maiuscola, “Voce”, per distinguerla dalla voce come mero suono (replicando la distinzione heideggeriana tra “Essere” e “essente”, cfr. Mills 2008: 17). La Voce, l’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato, è “fondamento, ma nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché l’essere e il linguaggio abbiano luogo” (LM 49). Agamben definisce quindi la Voce come lo shifter supremo, che permette di cogliere l’aver-luogo del linguaggio; essa “apre” il luogo del linguaggio, ma lo fa sempre in modo negativo, ed è quindi il “fondamento negativo” su cui poggia tutta la struttura della metafisica occidentale. Sia il pensiero di Hegel che, sorprendentemente, anche quello di Heidegger, non riescono a oltrepassare per Agamben questa radicale negatività, e questo perché la filosofia come tale poggia, di necessità e originariamente, su questa negatività, su un fondamento “muto” (la Voce) che resta rigorosamente informulabile ed è perciò “mistico” (LM 114). Questa radicale negatività del fondamento ha decisive e drammatiche conseguenze per l’etica e la politica, che verranno accennate nell’ottava e ultima giornata e nell’excursus che segue (e la cui analisi rimandiamo al prossimo capitolo). Un superamento della metafisica e del suo nichilismo è quindi necessario; in due excursus Agamben attacca però le soluzioni proposte da Derrida e Bataille. La critica a Derrida riprende 39

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sostanzialmente i termini di quella contenuta in Stanze: la grande acutezza di Derrida è stata quella di aver identificato con più rigore lo statuto della negatività del linguaggio nella tradizione metafisica occidentale, ma il suo grande limite è stato quello di aver creduto in questo modo di aver aperto la via al superamento della metafisica, mentre ne aveva solo portato alla luce il problema fondamentale (LM 53-54). Bataille (principalmente nel suo carteggio con Kojève, che sarà importante anche per le riflessioni più “politiche” del progetto di Homo sacer) ha invece cercato un superamento della negatività dialettica nella piena rivendicazione della “negatività senza impiego”, ha cercato cioè di giocare questa negatività contro lo stesso sistema metafisico di cui essa costituisce il fondamento. Tuttavia, questa “negatività senza impiego” rimane fondamentalmente un’esperienza mistica, e quindi necessariamente muta, non fa cioè che portare all’estremo, alla sua assolutizzazione, il nichilismo metafisico del fondamento negativo (LM 64-67). Un superamento di questo nichilismo deve, al contrario, “trovare un’esperienza di parola che non supponga più alcun fondamento negativo” (LM 67). In un gesto già presente in Stanze, e centrale per l’intenzione che ha animato per più di trent’anni il progetto di Categorie italiane, ma che diventerà poi anche caratteristico della successiva elaborazione più propriamente filosofico-politica, Agamben cerca questa “esperienza di parola” nella poesia. La settima “giornata”, interrogandosi su un’esperienza di linguaggio alternativa alla tradizione filosofica, e cioè che non riposi su fondamenti indicibili, legge due testi poetici nei quali in questione è l’esperienza dell’avvento stesso della parola poetica: la tenzo de non-re (tenzone del nulla) di Aimeric de Peguilhan (XIII secolo) e L’infinito di Leopardi. Riassumendo la terza “stanza” di Stanze, Agamben analizza il tema dell’amore nei poeti provenzali come il luogo dal quale e nel quale avviene la parola poetica, come il luogo dell’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio. Come sappiamo, questo luogo è “introvabile”, l’oggetto dell’amore è vissuto come lontano e inafferrabile, e accessibile solo in questa lontananza e inafferrabilità; l’esperienza dell’aver luogo del linguaggio sembra anche qui necessariamen40

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te segnata da una negatività. Allo stesso modo, attraverso un’analisi degli shifters nella poesia di Leopardi (“questo” è ripetuto sei volte, “quello” due volte), Agamben arriva alla conclusione che anche nella poesia l’aver-luogo del linguaggio è indicibile e inafferrabile, che anche qui la parola ha luogo in modo tale che “il suo avvento resta necessariamente non detto in ciò che si dice” (LM 96). E tuttavia, rispetto alla prosa (filosofica), la poesia contiene un elemento metrico-musicale, attraverso il quale essa “commemora […] il proprio inaccessibile luogo originario e dice l’indicibilità dell’evento di linguaggio (trova, cioè, l’introvabile)” (LM 97). In esso il pensiero, come nella poesia di Leopardi, “naufraga”, ma allo stesso modo, nel suo “estinguersi”, l’evento di parola cessa di essere un’esperienza negativa. Agamben è lontano tuttavia dal celebrare la parola poetica come la soluzione definitiva, come il “vero” superamento della negatività; in fondo anch’essa, come la filosofia, mostra il luogo della parola come introvabile, anche se vi accede, in modo diverso, attraverso il “godimento”. In una breve parentesi Agamben conclude che né la poesia né la filosofia potranno mai, da sole, portare a compimento l’impresa millenaria del superamento della negatività, e che, forse, solo un reciproco limitarsi e completarsi delle due parole potrebbe diventare “la vera parola umana” (LM 98). Questo tema “messianico” (anche se il termine non è mai usato) della “fine” del linguaggio come lo conosciamo, della “fine” del pensiero come lo conosciamo, informa l’Epilogo del libro, “La fine del pensiero”, aggiunto alla riedizione accresciuta del 2008, e che riproduce un piccolo volumetto pubblicato a Parigi in edizione bilingue italiana e francese lo stesso anno de Il linguaggio e la morte. In una serie di brevi pensieri o aforismi, scritti in una prosa poetica e in uno stile evocativo che ritorneranno anche in opere successive, Agamben ripropone il tema del “compimento” del linguaggio, del “compimento” del pensiero, come di una voce che non ha più nulla da dire, di un pensiero che non ha più nulla da pensare. L’ottava e ultima giornata chiama questa “dimora” senza volontà e senza voce “in-fanzia” (senza alcun riferimento esplicito a “Infanzia e storia”): più che l’origine trascendentale del linguaggio, in-fanzia è 41

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qui però intesa come un pensiero e una parola che, liquidando il mistico, e cioè il fondamento indicibile, riuscissero a pensare e a parlare al di là della Voce. Con la fine della Voce anche la filosofia avrebbe fine, e con essa il legame tra linguaggio e negatività, tra linguaggio e morte. Questa nuova esperienza di linguaggio non può più avere la forma di un distacco e successivo ritorno all’origine; il concetto stesso di fondamento è quello che deve essere superato, per dare spazio a una parola senza origine e senza destino. L’excursus che conclude il libro è di estrema importanza in quanto, nel delineare la necessità di pensare un’umanità poststorica al di là delle elaborazioni hegeliana e heideggeriana, introduce una problematica e una terminologia che, se qui rimangono a livello di intuizione, andranno a costituire il nucleo del successivo progetto di Homo sacer. In quanto non ha un fondamento nel linguaggio, in quanto è l’in-fondato, l’uomo cerca il proprio fondamento nel proprio fare, costruisce la finzione di un inizio, di un passato immemoriale e tuttavia memorabile. Questo fare fondante è il fare violento del sacrificio: “ogni inizio è, in verità, iniziazione” (LM 131). Già in “Il paese dei balocchi” di Infanzia e storia Agamben aveva definito come compito del sacro, del rito, quello di “comporre la contraddizione fra passato mitico e presente, annullando l’intervallo che li separa e riassorbendo tutti gli eventi nella struttura sincronica” (IS 77). Alla fine de Il linguaggio e la morte il rito sacrificale diventa il paradigma di ogni fare umano, giacché è solo nella ripetizione sacrificale che l’uomo cela l’infondatezza della sua prassi e “fonda” ogni altro fare: ogni facere, scrive Agamben in una formula che ritornerà incessantemente nella sua riflessione futura, è sacrum facere (LM 131). Sacrum facere, rendere qualcosa o qualcuno sacer, significa separarlo dalla comunità e colpirlo da esclusione, ma quest’esclusione significa riservarne l’accesso solo a determinate persone e secondo determinate regole: è proprio su quest’esclusione (che diventerà in seguito l’“eccezione”), su ciò che è escluso dalla comunità, che la comunità fonda l’intera sua vita. Qui Agamben introduce (senza alcun riferimento all’autore o all’opera) la definizione di homo sacer dal 42

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De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.), che costituirà l’impulso del libro e del successivo progetto che portano questo nome: “homo sacer is est quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed qui occidit parricidi non damnatur” (“Uomo sacro è, però, colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per omicidio”, LM 132). Sacer significa sia abbietto che riservato agli dèi; colui che ha violato la legge, in particolare l’omicida, è escluso dalla comunità, è riservato agli dèi, e quindi non può essere sacrificato (in quanto abbietto), ma può essere ucciso senza delitto. Su questa nozione ci soffermeremo a lungo in seguito. Prima di concludere è importante sottolineare il legame fondamentale che unisce il sacrum facere alla violenza. La violenza umana, scrive Agamben, non è un dato biologico originario, ma è “innaturale”, è “una produzione storica dell’uomo” (LM 132): è la stessa infondatezza del fare umano (a cui il mitologema sacrificale vuole porre rimedio) a costituire il carattere violento (cioè contra naturam, secondo il significato latino della parola) del sacrificio. Ogni fare umano, in quanto non è naturalmente fondato, ma ha da porre da sé il proprio fondamento, è, secondo il mitologema sacrificale, violento, ed è questa violenza sacra che il sacrificio presuppone per ripeterla e regolarla nella propria struttura. (LM 132)

“Il fondamento della violenza è la violenza del fondamento” (LM 132-33), una violenza che si impone su tutto e in modo particolare sulla vita. Nell’ultimo capoverso Agamben introduce un altro termine fondamentale (anche qui senza alcun riferimento alla sua fonte, che è il saggio “Per la critica della violenza” [1921] di Benjamin), la “nuda vita”: la sacralizzazione della vita deriva anch’essa dal sacrificio, e la vita “sacra” non è che la “nuda vita” naturale abbandonata alla propria violenza e alla propria indicibilità. Il compito “messianico” (anche se il termine non è qui usato) dell’umanità è quello di eliminare il sacer, il fondamento negativo e indicibile (e come tale violento) e di trovare una prassi e una parola umana divenute “trasparenti a se stesse” (LM 133). 43

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Sacertà e nudità. In un’intervista Agamben afferma di essere stato affascinato per molti anni dalla definizione di homo sacer e di essersela portata dietro “come un pacchetto, un enigma”, finché l’incontro con i testi sulla biopolitica di Foucault non gli ha permesso di cominciare a comprenderla (Leitgeb e Vismann 2001: 17). Per quel che riguarda il concetto di “nuda vita”, che si legherà indissolubilmente a quello di homo sacer, Agamben doveva certo conoscerlo fin dagli anni sessanta, visto che già nel 1970 pubblica un saggio, “Sui limiti della violenza”, che si centra su “Per la critica della violenza” di Benjamin. Qui il termine “nuda vita” non viene citato (solo l’espressione “nuda corporeità” compare una volta, SLV 163); inoltre questo saggio giovanile compie un gesto che sarà poi totalmente rinnegato: mette in relazione di analogia la “violenza sacra” del sacrificio e la “violenza rivoluzionaria” che tutto il saggio si propone di analizzare, senza alcuna ricerca sul significato di “sacro” (SLV 170). Questo legame tra la violenza e il sacro è quello che il progetto di Homo sacer si proporrà di spezzare. Un ultimo punto da notare è che, nell’excursus de Il linguaggio e la morte, l’espressione “nuda vita” è seguita dall’aggettivo “naturale” (LM 133), che nell’elaborazione di Homo sacer scomparirà, in quanto la nuda vita non sarà qui considerata “naturale” ma il prodotto dell’eccezione sovrana.

‫ א‬Nuda vita. “Nuda vita” è la traduzione dell’espressione bloßes Leben che appare nell’ultima parte del saggio benjaminiano del 1921 “Per la critica della violenza” (sui problemi di traduzione si veda la seconda nota alla sezione 5.2). Questa vita è, per Benjamin, la portatrice della “colpa” mitica e su di essa si esercita la “violenza mitica” in nome della violenza, a cui Benjamin contrappone la necessità di una violenza “pura” o “divina” che interrompa e sciolga il circolo vizioso di violenza (mitica) e retribuzione. L’essere umano non coincide in alcun modo con questa nuda vita, giacché essa non è che “il portatore destinato della colpa”, ed è per questo che Benjamin attacca il “dogma della sacertà della vita”, “ultima aberrazione dell’indebolita tradizione occidentale, per cui si vorrebbe cercare il sacro, che essa ha perduto, nel cosmologicamente impenetrabile” (OC 1: 487). Se queste idee, che Benjamin non svilupperà, rimangono, nella conclusione de Il linguaggio e la morte, abbozzate e citate “senza virgolette”, esse, insieme a molti altri concetti proposti in “Per la critica della violenza” (nonostante non tutti gli interpreti siano d’accordo, cfr. Murray 2010: 37), diventeranno il cardine attorno a cui ruota tutta l’elaborazione di Homo sacer.

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3.3. Experimentum linguae L’auspicio e la ricerca di una parola che superi e completi il divario e l’insufficienza della parola filosofica e di quella poetica, che Agamben racchiude nella sospensione di una parentesi in Il linguaggio e la morte, potrebbe essere preso come definizione di una serie di “esperimenti” che egli compirà per tutti gli anni ottanta: Per questo, forse, né la poesia né la filosofia, né il verso né la prosa potranno mai portare a compimento da sole la propria impresa millenaria. Forse solo una parola in cui la pura prosa della filosofia intervenisse a un certo punto a spezzare il verso della parola poetica, e il verso della poesia intervenisse a sua volta a piegare in anello la prosa della filosofia, sarebbe la vera parola umana. (LM 98)

Se il tema dell’“inimicizia” tra filosofia e poesia ricorre ostinatamente in tutti i libri finora pubblicati (per esempio anche in USC 79 e S xiii-xiv), è in questi nuovi esperimenti con il linguaggio che Agamben si prova a fare esperienza di una parola diversa, che “faccia segno” verso un superamento del divario e dunque al di là di se stessa. Un primo, breve esempio, lo abbiamo visto, è La fine del pensiero; un altro, il più importante e “riuscito”, è Idea della prosa (1985). Il retro di copertina (della nuova edizione “illuminata e accresciuta” del 2002) definisce il libro come “Trentatré piccoli trattati di filosofia con undici immagini dialettiche”; ogni piccolo trattato (di lunghezza compresa tra poche righe e qualche pagina) porta il titolo “Idea di…” (“…della materia”, “…della verità”, “…dello studio”, “…del potere”, ecc.), anche se il titolo non sta in una relazione descrittiva con il contenuto: ad esempio, “Idea del comunismo” parla di pornografia, “Idea della politica” delle pene non afflittive del limbo, “Idea del pensiero” delle “virgolette”. L’intenzione e il contenuto dei trattati sono senza dubbio “filosofici”, ma la prosa, dotta, elegante ed evocativa, sembra “piegata in anello” da uno slancio poetico, il cui “verso” è a sua volta “spezzato” dalla prosa filosofica. Intermezzate ai trattati ci sono undici “immagini dialettiche” (foto45

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grafie, litografie, riproduzioni, montages), senza alcuna didascalia ad eccezione della prima. In un’intervista Agamben spiega prima di tutto la “forma” del libro: “Per me”, egli dice, “la riflessione sulla forma del pensiero è stata sempre centrale e non ho mai creduto che un pensiero responsabile potesse eludere questo problema, come se pensare significasse semplicemente esprimere opinioni più o meno giuste su un certo argomento. Proprio questa centralità della forma fonda la vicinanza di poesia e filosofia” (Sofri 1985: 32). La forma breve, quasi aforistica, dei trattati non si propone “tanto di esporre teorie più o meno convincenti, quanto di far compiere un’esperienza, di trar fuori dall’inganno, di risvegliare”. Inoltre Agamben rinuncia completamente, non solo allo stile, ma a tutto l’apparato accademico della tradizionale prosa filosofica: Proprio perché la poesia, come la filosofia, è essenzialmente un’esperienza di linguaggio, anzi un’esperienza “del” linguaggio come tale, di ciò che è in questione nell’uomo per il fatto stesso di parlare, il luogo in cui si situa il soggetto che parla dev‘essere estremamente chiaro. Le note, le virgolette, il rinvio bibliografico, il “si veda”, rimandano a un soggetto del sapere arroccato come un ventriloquo dietro il soggetto parlante, come se fosse possibile parlare da due luoghi nello stesso tempo. Per questo la prosa accademica corrente è così spesso infelice, divisa com’è fra un’autentica esperienza della parola, che non può avere nulla da dire prima di misurarsi con la parola, e l’arroccamento in una posizione di sapere. (Sofri 1985: 32)

Gli esperimenti di Idea della prosa si propongono, dunque, prima di tutto di “misurarsi con la parola”, con il linguaggio stesso e i suoi limiti, al di là delle limitazioni e costrizioni della tradizionale prosa filosofica. Il titolo del libro è in sé uno di questi esperimenti. Il secondo trattato si intitola in effetti “Idea della prosa”, ma, in modo assai caratteristico, è della definizione di “poesia”, o della differenza tra poesia e prosa, di cui qui si tratta, e l’espressione “idea della prosa” non è mai, non solo spiegata, ma nemmeno menzionata. Per trovarne la spiegazione e l’origine dobbiamo andare a un saggio pubblicato nel 1983, “Lingua e storia. Cate46

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gorie linguistiche e categorie storiche nel pensiero di Benjamin”. Il saggio comincia con una citazione dalle note preparatorie alle tesi Sul concetto di storia, in cui Benjamin accosta, nella prospettiva messianica, le categorie di lingua e di storia, e del mondo messianico scrive: “Il suo linguaggio è l’idea della prosa stessa, che è compresa da tutti gli uomini, come la lingua degli uccelli dai nati di domenica” (OC 7: 503; citato in PP 37, traduzione modificata). Agamben procede quindi ad analizzare le teorie linguistiche che Benjamin aveva esposto in tre scritti fondamentali, “Sulla lingua in generale e la lingua degli uomini” (1916), “Il compito del traduttore” (1921), e la premessa gnoseologica al libro sull’Origine del dramma barocco tedesco (1925), sottolineandone la connessione con l’idea di storia e l’intenzione messianica. L’importanza di questo saggio può essere difficilmente sopravvalutata, in quanto illumina non solo gran parte delle ricerche confluite in Infanzia e storia e Il linguaggio e la morte, ma permette anche di contestualizzare e comprendere (giacché la sua origine rimane per lo più implicita) l’idea di linguaggio che informerà tutti i progetti futuri di Agamben e giocherà un ruolo fondamentale, anche se spesso sottovalutato, in tutto il progetto di Homo sacer. Se infatti la concezione del linguaggio in Agamben è costruita su profonde ricerche sulla linguistica antica, medievale e moderna, che culminano in attente e perspicaci letture di Benveniste, egli ripete spesso che la linguistica, come la filologia, raggiunge a un certo punto un limite, un’aporia, che non può oltrepassare o risolvere senza trasformarsi in filosofia (IS xi, 59); ed è grazie – o insieme – all’interpretazione “filosofica” di Benjamin che Agamben arriva a compiere questa trasformazione. L’“idea della prosa” è dunque, per Benjamin, la lingua dell’umanità redenta, quella “pura lingua” che, nel saggio del 1916, egli identificava con la lingua dei nomi precedente al “peccato originale”, alla “caduta” nella significazione e nella comunicazione, e che quindi non significa e comunica che se stessa, e che nel saggio del 1921 diventa la “pura lingua” della riconciliazione messianica di tutte le lingue alla fine della loro storia. Da sottolineare qui è lo statuto di questa lingua, che precede e segue la 47

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“caduta” del linguaggio nella significazione: in quanto essa non comunica niente al di fuori di se stessa, in quanto non ha contenuto né significato, essa è “perfettamente trasparente a se stessa” (PP 42). Questo significa che nella pura lingua non può esistere il problema dell’“indicibile”, che, come abbiamo visto, costituisce il fondamento negativo e mistico della tradizione metafisica occidentale analizzata e criticata in Il linguaggio e la morte. È quindi possibile rileggere il progetto filosofico iniziato con Infanzia e storia, Il linguaggio e la morte e Idea della prosa come una rielaborazione e continuazione delle tesi benjaminiane, che Agamben compendia, qui e altrove, in una citazione dalla celebre lettera che Benjamin inviò nel 1916 a Martin Buber: per motivare il suo rifiuto di contribuire alla rivista di Buber Der Jude, Benjamin propone un’analisi della scrittura in generale, e della “scrittura politica” in particolare, che alla fine ne determina il compito in una “cristallina eliminazione dell’indicibile nel linguaggio” (citato in PP 45). Un tratto da non dimenticare della teorizzazione benjaminiana (soprattutto in “Il compito del traduttore”) è che la pura lingua non indica solo il compimento messianico di tutte le lingue storiche, ma è allo stesso tempo presente in esse come “l’inteso” (das Gemeinte), come ciò che ognuna di esse vuole dire, e cioè, al di là di ogni espressione e significazione, che la lingua è, la parola che non dice che se stessa. Il rimando è qui, nuovamente, al concetto di “origine” esposto nell’Origine del dramma barocco tedesco: la pura lingua come “origine” del saggio del 1916 non è un punto cronologico iniziale, così come la pura lingua come “fine messianica” del saggio del 1921 non è una semplice cessazione cronologica. Insieme esse costituiscono “l’idea della lingua”, dove “idea” deve essere letta in senso platonico come “lingua che non pre-suppone più alcuna lingua, e che avendo bruciato in sé ogni pre-supposto e ogni nome, non ha veramente più nulla da dire, ma, semplicemente, parla” (PP 53). Quest’idea del linguaggio è quindi quello che, formalmente, sostiene gli esperimenti di Idea della prosa, ma che appare anche esplicitamente in una serie di “idee”, da “Idea della materia” a “Idea della cesura”, da “Idea del dettato” a “Idea del 48

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nome”, e, ovviamente, in “Idea del linguaggio I” e “Idea del linguaggio II”. (A livello contenutistico, Idea della prosa contiene poi altre importanti intuizioni e “idee”, in particolar modo sul concetto di potenza, di tempo, e soprattutto di etica e di politica, a cui faremo di volta in volta riferimento nei prossimi capitoli.) A sua volta, la meditazione benjaminiana è sostenuta da una serie di altri saggi sul linguaggio (anch’essi stilisticamente “tradizionali”) paralleli e complementari, come ad esempio “La cosa stessa” (1984), che, partendo da una lettura di Platone e Aristotele, individua “la cosa stessa”, il to pragma auto della tradizione metafisica occidentale, nella “stessa dicibilità, la stessa apertura che è in questione nel linguaggio, che è il linguaggio” (PP 19); o come “L’idea del linguaggio” (1984), che, partendo dall’idea di rivelazione, ripropone in parte le riflessioni su linguaggio e fondamento negativo de Il linguaggio e la morte (cfr. PP 25-36); o ancora come “Filosofia e linguistica” (1990), una “recensione filosofica” del libro del linguista francese Jean-Claude Milner Introduction à une science du langage (1989), che, sottolineando la vicinanza tra filosofia e linguistica, ne individua la differenza nel fatto che l’oggetto della linguistica è il factum linguae, la “lingua, in quanto essa è descrivibile in termini di proprietà reali”, mentre la filosofia si occupa del factum loquendi, del fatto che la lingua sia, che la scienza del linguaggio deve limitarsi a presupporre: “La filosofia è il tentativo di esporre questo presupposto, di prendere coscienza del fatto che si parli”; “la filosofia si occupa, infatti, della pura esistenza del linguaggio, indipendentemente dalle sue proprietà reali” (PP 63). La riflessione filosofica sulla “pura lingua” di Benjamin è qui appaiata a quella su “die Sage” (il Dire originario) dell’ultimo Heidegger e descritta come “un esperimento che ha per oggetto il factum loquendi, la pura esistenza del linguaggio” (PP 73). Questo “esperimento” è illustrato nuovamente in “Experimentum linguae”, la fondamentale prefazione del 1989 alla traduzione francese di Infanzia e storia, aggiunta anche alla nuova edizione italiana del 2001: questa breve prefazione ricapitola e collega, da un lato, le riflessioni di Infanzia e storia e Il lin49

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guaggio e la morte (e implicitamente anche di Idea della prosa) e, dall’altro, le apre alla riflessione più propriamente etico-politica che porterà, un anno dopo, a La comunità che viene. Gettando uno sguardo al passato, Agamben fa qui un’affermazione che illumina la continuità delle sue ricerche: “Nei libri scritti e in quelli non scritti, io non ho voluto pensare ostinatamente che una cosa sola: che significa ‘vi è linguaggio’, che significa ‘io parlo’?” (IS x). Il “libro non scritto” di cui parla è il progetto di un’opera rimasta incompiuta che si sarebbe dovuta intitolare La voce umana oppure Etica, ovvero della voce e che avrebbe dovuto interrogarsi sul rapporto tra voce e linguaggio, fra phone e logos: le analisi de Il linguaggio e la morte vengono qui collegate a quelle di Infanzia e storia, giacché il problema della “voce” è quello che sta alla base dell’experimentum dell’in-fanzia, e cioè del tentativo di pensare i limiti del linguaggio al di là della postulazione mistica dell’“ineffabile” e nella direzione del progetto della lettera benjaminiana a Buber di una “purissima eliminazione dell’indicibile nel linguaggio”. L’experimentum linguae è dunque il tentativo di pensare non l’ineffabile, ma “il massimamente dicibile, la cosa del linguaggio” (IS viii), per cui nell’esperimento dell’in-fanzia “i limiti del linguaggio non sono cercati al di fuori del linguaggio, in direzione del suo riferimento, ma in un’esperienza del linguaggio come tale, nella sua pura autoreferenzialità” (IS x). Qui Agamben compie un gesto decisivo, già anticipato in “Idea dell’infanzia” di Idea della prosa (IP 81-84), e che porterà al progressivo scomparire del termine “infanzia” dal suo vocabolario filosofico a favore del termine “potenza”: l’in-fanzia come esperienza trascendentale acquista il suo senso proprio solo alla luce dell’opposizione tra potenza e atto della riflessione aristotelica. La potenza per Aristotele, scrive Agamben, “è la facoltà specificamente umana di mantenersi in relazione con una privazione, e il linguaggio, in quanto è scisso in lingua e discorso, contiene strutturalmente questa relazione, non è nient’altro che questa relazione” (IS xii). L’experimentum linguae si propone dunque come un’esperienza della “potenza” del linguaggio, della potenza di parlare, della “grammatica del 50

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verbo ‘potere’”, e la sola risposta possibile alla domanda su questa “potenza” è un’esperienza del linguaggio (IS xii). Su questo concetto ci soffermeremo a lungo nel prossimo capitolo. Un ultimo punto, che traghetta queste riflessioni verso la terra dell’analisi etico-politica de La comunità che viene, dev’essere sottolineato: l’experiementum linguae, il tentativo di fare esperienza del linguaggio al di là del presupposto mistico dell’“indicibile” e come pura “potenza”, è quello che apre lo spazio a un nuovo concetto di etica e a una nuova idea di comunità. Come abbiamo visto in Il linguaggio e la morte, solo il superamento del fondamento negativo, e quindi di ogni presupposto sostanziale, di ogni “voce” o grammatica, può condurre alla liberazione “messianica” dell’umanità post-storica; “Experimentum linguae” così si conclude: “Cercare una polis e una oikía che siano all’altezza di questa comunità vuota e impresupponibile, è il compito infantile dell’umanità che viene” (IS xv). Questo compito porta Agamben a La comunità che viene.

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A José Bergamín. Idea della prosa è dedicata alla memoria del poeta spagnolo José Bergamín (1895-1983). In un’intervista concessa in occasione dell’uscita del libro, Agamben accosta Bergamín a Heidegger nell’indicare i suoi “maestri”: “Ma altrettanto decisivo fu a partire dal 1967 e fino alla sua morte due anni fa, l’incontro con José Bergamín e la Spagna. Certo erano entrambi molto più anziani di me, ma, in particolare nel caso di Bergamín, io li ho sentiti soprattutto come esempi e come amici. Solo dopo la morte ho cominciato a sentirli come maestri” (Sofri 1985: 32). I versi posti in epigrafe a Idea della prosa sono l’ultima quartina di Velado Desvelo di Bergamín: “Y es tanto su desvelo que, al velarlo / de sueño sin sentido, / siente que por debajo de ese sueño / nunca despertará del sueño mismo” (cfr. Bergamín 1983: 197). Se questi versi compendiano il proposito del libro di tematizzare il linguaggio come un heideggeriano “svelamento che vela”, in un saggio di molto anteriore (“José Bergamin”, 1972), Agamben accostava il poeta spagnolo piuttosto alla figura di Benjamin, in particolar modo per il concetto di “critica filosofica”, per la teoria della citazione, e per l’interesse per l’allegoria barocca (cfr. JB 7-29). Bergamín non ricorrerà nell’opera di Agamben come una figura maggiore, anche se una citazione da Decadenza dell’analfabetismo, la cui traduzione italiana il saggio del 1972 introduceva, compare in una nota a Il tempo che resta (cfr. TR 59).

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Immagine dialettica. L’“immagine dialettica”, con cui Agamben indica le undici immagini che accompagnano i testi di Idea della prosa, è il termine cardine attorno a cui ruota tutta la costruzione dei “Passages” di Parigi dell’ultimo Benjamin. In una delle note più citate (anche da Agamben) dei “Passages” Benjamin così la definisce: Non è che il passato getti la sua luce sul presente, o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso, ma un’immagine discontinua, a salti. Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio. (OC 9: 516, appunto N2a,3)

Quest’immagine è dunque una costellazione che passato e presente formano, in un istante che porta il movimento storico al suo arresto e permette la “leggibilità” dell’evento, il “risveglio” dal sonno dell’ideologia. In Idea della prosa queste immagini, insieme ai testi, seguono dunque il proposito benjaminiano “di far compiere un’esperienza, di trar fuori dall’inganno, di risvegliare” (Sofri 1985: 32), e tuttavia è importante far notare che, per Benjamin, queste “immagini” non sono tanto figurative, quanto si incontrano nel linguaggio. In Idea della prosa è anche la dialettica tra parola e immagine che deve provocare il risveglio. La prima immagine, che in realtà precede il titolo del libro, è l’unica che porta una didascalia (Anonimo tedesco, Amore forsennato sulla lumaca, Parigi, Biblioteca Nazionale) e un titolo, “Idea dell’opera”, e costituisce dunque un’“Idea” a sé (non c’è un testo con il titolo “Idea dell’opera”). Di quest’immagine Agamben dirà: “il mio motto prediletto è il ‘Festina lente’, pazienza e impazienza insieme. Di qui l’immagine nel controfrontespizio del mio ultimo libro” (Sofri 1985: 32). Alcune immagini sono riconoscibili, come la foto del vecchio Nižinskij sospeso in aria in un ultimo balzo di danza nel sanatorio in cui passò gli ultimi anni di vita (IP 25; cfr. Kishik 2012: 31); o come una pagina degli appunti per il saggio “Il narratore”, che fa parte dei manoscritti benjaminiani scoperti da Agamben a Parigi (IP 52

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93; cfr. de la Durantaye 2009: 154); o ancora come il montage di una mappa di Berlino e di una di Napoli (due città molto “benjaminiane”; IP 65), di cui Agamben parla in un’intervista (Andreotti e De Melis 2006: 1).

‫א‬

Benjamin e Baudelaire. Nel 1981 Agamben trovò a Parigi dei manoscritti sconosciuti di Benjamin. Cercando tracce di Benjamin nella corrispondenza di Bataille, trovò una lettera di Bataille al conservatore della Biblioteca nazionale, che lo pregava di recuperare una busta con manoscritti di Benjamin lasciata in deposito durante la guerra. Dopo qualche mese di ricerche Agamben trovò cinque grosse buste nel deposito privato della vedova di Bataille, che contenevano, tra gli altri, alcuni sonetti scritti dopo la morte dell’amico Christoph Friedrich Heinle, il dattiloscritto originale di Infanzia berlinese, quello del saggio sul “Narratore” e una grossa mole di note per il libro su Baudelaire (per la lista completa si veda IRM 56). In un’altra circostanza, non specificata, Agamben trovò a Parigi anche il dattiloscritto originale delle tesi Sul concetto di storia (IRM 6; Sofri 1985: 33). Nel 1981 gli fu quindi affidata la cura dell’edizione delle opere complete di Benjamin presso la casa editrice Einaudi, per la quale già lavorava come consulente grazie all’introduzione di Italo Calvino, e ne curò, fino al 1994, cinque volumi. Quando, nel 1994, la casa editrice fu acquistata dal gruppo Mondadori, Agamben si scontrò violentemente con le richieste editoriali del nuovo gruppo di modificare sostanzialmente l’edizione del nuovo volume che stava curando sugli scritti benjaminiani su Baudelaire degli anni trenta, che includeva parte dei manoscritti da lui scoperti all’inizio degli anni ottanta. Nel 1996, di fronte al suo rifiuto di modificare l’edizione, gli fu tolta la curatela delle opere complete, ed egli pubblicò una violenta lettera aperta a Giulio Einaudi sul giornale La Repubblica rompendo ogni rapporto con la casa editrice (cfr. CGCT). Solo nel 2012, scaduti finalmente i diritti sulle opere di Benjamin, Agamben sarà in grado di pubblicare, in una collana da lui diretta presso l’editore Neri Pozza, l’edizione che stava preparando per Einaudi con il titolo Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, prima edizione mondiale “storicogenetica” (I 12) di tutto il materiale riguardante il progetto benjaminiano su Baudelaire.

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4. LA POLITICA CHE VIENE (La comunità che viene, Bartleby)

4.1. Senza presupposti Come abbiamo già accennato, spesso Homo sacer è considerato una svolta nel pensiero di Agamben, quasi una cesura che separa le analisi ontologiche e linguistiche dei suoi primi libri da quelle più propriamente “politiche” che qui cominciano. Certo questo libro è stato una cesura, ma più nella carriera di Agamben – giacché gli ha dato fama internazionale e ha dato inizio a un “progetto” più sistematico che continua da quasi vent’anni – che nel suo pensiero, che mostra piuttosto unità e continuità. È indubbio che, dagli anni novanta, le sue ricerche si siano focalizzate più propriamente sulla politica, ma queste nuove ricerche si sviluppano a partire dalle riflessioni ontologiche e linguistiche di tutti i suoi scritti precedenti, e se di “svolta politica” proprio si deve parlare, questa dev’essere cercata piuttosto in La comunità che viene (1990). Questo libro non costituisce tuttavia una cesura, quanto piuttosto una “cerniera”, che congiunge e salda le ricerche degli anni settanta e ottanta al “fuoco” politico degli anni seguenti: in questo volumetto breve ma estremamente denso e complicato, le analisi su essere, tempo e linguaggio che lo precedono “precipitano”, per così dire, in un condensato “politico”, che verrà poi elaborato, esteso e sistematizzato nel progetto che comincia con Homo sacer. La critica recente ha riconosciuto il posto centrale che questo libro occupa nella carriera di Agamben e gli ha dedicato un interesse sempre maggiore; qui troviamo, in nuce, tutti i germi della riflessione posterio54

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re, e a questo libro dedicheremo quindi una lettura più attenta ed elaborata. Nel capitolo precedente non ci siamo soffermati sulla portata etico-politica – sempre esplicita – delle riflessioni su ontologia, tempo e linguaggio, che devono perciò essere qui riprese a riassunte. Già il “Programma per una rivista” che conclude Infanzia e storia stabiliva, senza elaborarla, una “coesione originaria” tra poesia (e critica) e politica (IS 148-49). Le riflessioni sulla negatività de Il linguaggio e la morte, poi, sono esplicitamente orientate, già nell’introduzione, alla questione dell’etica, la cui elaborazione costituisce “il cammino […] che il pensiero deve ancora percorrere” dopo aver identificato ed esposto il problema della negatività: all’etica è qui assegnato uno statuto propriamente ontologico, in quanto onto-logia ed etica “riposano su un unico fondamento negativo e sono, nell’orizzonte della metafisica, inseparabili” (LM 5). Etica, ethos, è qui definita, etimologicamente, come “la dimora abituale dell’uomo” ed esplicitamente collegata alla politica come prassi del pensiero (LM 5). Questo è il tema che conclude l’ottava e ultima “giornata” de Il linguaggio e la morte: qui Agamben ribadisce che, per la metafisica, il fondamento comune tanto della logica che dell’etica resta un fondamento negativo e si rifà (senza virgolette) all’elaborazione heideggeriana (per esempio nei Contributi alla filosofia [Dall’Evento], 1936-1938), che aveva definito quest’unità come una “sigetica”, un fondamento nel silenzio (sigan in greco = tacere). Se “l’unità originaria di logica e etica è, per la metafisica, una sigetica” (LM 109), allora l’ethos, che etimologicamente deriva dal gruppo indoeuropeo del riflessivo *se, ciò che è “proprio”, è sempre già scisso e minacciato da un negativo (con tutte le conseguenze che Agamben illustra, come abbiamo visto, nell’excursus finale). Solo a partire dal superamento della metafisica, dall’eclissi della Voce, “diventa possibile per l’uomo un’esperienza del proprio ethos che non sia più semplicemente una sigetica” (LM 121). Agamben conclude l’ultima “giornata” illustrando questo superamento attraverso la poesia Ritorno di Caproni che così comincia: “sono tornato là / dove non ero mai stato…”; una nuova parola, che “fa ritorno a 55

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ciò che non è mai stato e a ciò che non ha mai lasciato e ha, pertanto, la semplice figura di un’abitudine” (LM 122), è il nuovo ethos che deve essere cercato. Queste riflessioni sono riprese e approfondite in un saggio pubblicato lo stesso anno di Il linguaggio e la morte, “*Se. L’Assoluto e l’‘Ereignis’” (1982), che ne ripete l’ottava “giornata” e l’ultimo excursus e allo stesso tempo fa segno verso Idea della prosa: il saggio si conclude ponendo il compito di pensare “con Hegel e oltre Hegel, con Heidegger e oltre Heidegger”, un’umanità “propria”, finalmente “etica”, cioè “assolta da ogni negatività e da ogni esser stato – da ogni natura e da ogni destino”, la cui parola sarebbe “la semplice parola dell’uomo, il volgare illustre dell’umanità redenta che, avendo definitivamente spento ciò che destina, farebbe tutt’uno con la sua prassi e la sua storia”, e che, “avendo compiuto il suo passato, sarebbe ora veramente prosa (cioè pro-versa, rivolta in avanti)” (PP 187). Un altro saggio dello stesso anno, “Walter Benjamin e il demonico” (1982), riprende, parallelamente, le riflessioni sull’etica e sull’umanità compiuta. Il saggio è articolato e complesso e qui non possiamo soffermarci sulle argomentazioni particolari; quello che ci interessa sottolineare è che qui l’etica non è declinata sull’etimologia di ethos, ma sul senso che le dava la filosofia greca, “dottrina della felicità”; ma anche qui la “dottrina della felicità” è messa in relazione alla filosofia della storia e al concetto di redenzione. Questo saggio stabilisce già una terminologia che diventerà centrale a partire da La comunità che viene, non solo nell’analisi del “Frammento teologico-politico” di Benjamin, che pone a fondamento dell’ordine “profano” l’idea di felicità e quindi lega indissolubilmente l’etica al profano (cfr. PP 214-15), ma soprattutto perché la redenzione è messa in relazione al concetto di “insalvabile”, che, come vedremo, costituisce il fulcro de La comunità che viene: come il nuovo ethos è far ritorno a ciò che non si è mai lasciato, è cioè una liberazione da ogni origine e da ogni destino storico, così la redenzione salva, non ciò che è stato, il passato come tale, ma ciò che non è mai stato, l’insalvabile. Il compimento della felicità, questo mai stato, conclude Agamben, “è la patria – storica e integralmente attuale – dell’umanità” (PP 235). 56

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Questa nuova etica, questa redenzione, si fondano dunque su una “liberazione” del linguaggio dai suoi presupposti metafisici, dalla sua negatività, e solo da questa nuova idea del linguaggio può sorgere una nuova “comunità”. Già “L’idea del linguaggio” (1984) si concludeva facendo segno verso una comunità senza presupposti (“Vera comunità è solo una comunità non presupposta”, PP 36), e nell’intervista concessa in occasione della pubblicazione di Idea della prosa, alla domanda se esistesse un rapporto tra le sue ricerche sul linguaggio e la politica, Agamben così rispondeva: Un rapporto fortissimo: il linguaggio è il comune che lega gli uomini. Se questo comune è concepito come un presupposto, diventa qualcosa di irreale e di inattingibile, di cui il singolo non può mai venire a capo, che lo si concepisca come nazione, come lingua o come razza. Qualcosa, cioè, che è già “stato” e, come tale, può solo esistere nella forma di uno Stato. L’unica esperienza politica autentica sarebbe invece quella di una comunità senza presupposti, che non può mai decadere in uno stato. (Sofri 1985: 33)

Proprio Idea della prosa (e in particolare l’“idea della prosa” benjaminiana) costituirebbe, per Vivian Liska (2008: 36), una “cerniera” tra le analisi linguistiche (e heideggeriane) degli anni Settanta e Ottanta e gli scritti politici degli anni Novanta. Importante in questo senso è la conclusione del saggio “Tradizione dell’immemorabile” (1985), che, oltre a menzionare per la prima volta le analisi di Carl Schmitt sulla crisi delle categorie storico-sociali della contemporaneità, cita i tentativi di Jean-Luc Nancy e Maurice Blanchot (insieme a quello di Massimo Cacciari) di pensare una nuova forma di comunità: nella “comunità inoperosa” di Nancy e in quella “inconfessabile” di Blanchot “il nostro tempo avverte l’esigenza di una comunità senza presupposti e mantiene tuttavia, senza rendersene conto, la forma vuota della presupposizione al di là di ogni fondamento” (PP 158). Questa breve nota è sviluppata in modo più articolato in un breve saggio di tre anni posteriore, “Bataille e il paradosso della sovranità” (1988), in cui Agamben cita di nuovo Nancy e Blan57

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chot in quanto entrambi, nel constatare la crisi radicale della comunità nel nostro tempo, guardano al rifiuto radicale di Bataille di ogni comunità “fondata sulla realizzazione o sulla partecipazione di un presupposto comune” (BPS 116). Quello che Agamben trova interessante in Bataille è il suo tentativo di pensare una comunità che vada al di là di un legame positivo, dell’appartenenza, dell’inclusione; Bataille usa in particolare un termine che diverrà centrale per l’elaborazione de La comunità che viene, ekstasis, l’esperienza di un “assoluto esser-fuori-di-sé del soggetto”, che fonda l’autoesclusione dei membri della comunità. E tuttavia, come abbiamo già visto in Il linguaggio e la morte, la soluzione di Bataille è di esasperare e portare all’estremo la negatività della tradizione metafisica occidentale: la sua “comunità negativa” fonda la sua possibilità nell’esperienza della morte come “ciò che non può in alcun caso essere trasformato in una sostanza o un’opera comune” (BPS 116), e in questo modo reinscrive, nel gesto stesso in cui cerca di superarla, la struttura negativa della metafisica occidentale nel cuore della comunità. Cercando di pensare al di là del soggetto, cercando di pensarne l’ek-stasis, il suo stare fuori di sé, Bataille non ne ha pensato che il limite interno. La stessa critica vale per il pensiero contemporaneo (Nancy e Blanchot, ma ovviamente anche Derrida), che, sulle orme di Bataille, ha cercato di superare l’essere e il soggetto, ma non è riuscito a pensarne che “la forma più estrema e stremata” (BPS 118). Questo saggio presenta anche la prima formulazione (che rimarrà immutata) del “paradosso della sovranità” basato sulla definizione di Schmitt (cfr. BPS 117), che costituirà il cuore della prima parte di Homo sacer (cfr. sezione 5.3). Queste riflessioni, tuttavia, sono importanti perché, insieme alle analisi su ontologia, tempo e linguaggio di tutti gli anni ottanta, ci forniscono la chiave per leggere La comunità che viene: come è stato giustamente fatto notare (cfr. de la Durantaye 2009: 157-61), nonostante sia stato pubblicato all’indomani degli enormi sconvolgimenti geopolitici della fine degli anni ottanta (la caduta del muro di Berlino, la fine del “socialismo reale”, la rivolta di Piazza Tienanmen), La comunità che viene non è propriamente o 58

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solo una riflessione su questi cambiamenti epocali, ma dev’essere situato all’interno del dibattito sull’idea di comunità originato in Francia dalla pubblicazione del saggio di Nancy “La comunità inoperosa” (1983, rielaborato in forma di libro nel 1986) e dalla risposta di Blanchot La comunità inconfessabile (1983). Questo riferimento rimane implicito nel libro di Agamben (ad eccezione di una breve menzione parentetica di Blanchot, CV 67), ma La comunità che viene è prima di tutto una risposta a questo dibattito, che sottolinea l’importanza e la necessità delle proposte di Nancy e Blanchot, ma, come abbiamo visto, ne mette anche in evidenza i limiti e l’insufficienza. Rispetto alle proposte di Nancy e Blanchot (fondamentalmente basate, come notano, tra gli altri, Galindo [2005: 80] e de la Durantaye [2009: 160], su una rielaborazione del Mit-sein, dell’“essere-con”, heideggeriano), Agamben si ricollega alla sua precedente critica della negatività e imprime al dibattito un potente impeto messianico.

4.2. Qualunque, o della potenza La comunità che viene si compone di diciannove brevi trattati, seguiti da una sezione aforistica intitolata “L’irreparabile”. Il volume riprende sostanzialmente la forma non ortodossa di Idea della prosa, caratterizzata da un linguaggio alquanto evocativo e priva di riferimenti e apparato bibliografico, ma, rispetto al libro precedente, i trattati sono leggermente più estesi e soprattutto sono tenuti insieme da un’intenzione molto più sistematica. L’intenzione è quella di pensare e di cercare di definire cosa potrebbe essere una “comunità senza presupposti”, e la strada che Agamben sceglie è decisamente originale: una comunità senza presupposti deve essere fondata sull’idea di “qualunque”. Ovvero, l’unico modo di andare al di là dei “presupposti” comunitari (dei criteri di inclusione ed esclusione, di identità e rappresentanza, di appartenenza e rifiuto, e della violenza intrinseca che li accompagna) è quello di “svuotare” ed “esternalizzare” questi presupposti, fino a ridurli a una totale irrilevanza. 59

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Il primo trattato si apre con l’enumerazione scolastica dei trascendentali (“quodlibet ens est unum, verum, bonum seu perfectum, qualsivoglia ente è uno, vero, buono o perfetto”, CV 9), che Kant riprende nella Critica della ragion pura dopo la definizione delle categorie e che Agamben aveva già menzionato in “Experimentum linguae” dell’anno precedente (IS x). Quello che ad Agamben interessa in questa definizione è la sua assoluta – quasi tautologica – genericità, il fatto che questi predicati trascendono ogni categoria pur insistendo in ciascuna di esse; essi sono quindi degli “arcitrascendentali, o dei trascendentali alla seconda potenza” (IS x). Questa assoluta genericità si concentra nell’aggettivo quodlibet, e tutto il libro è un tentativo di articolare il pensiero della comunità su questo termine. Per cominciare, quodlibet permette ad Agamben di definire i membri della “comunità che viene”, al di là di individualità e universalità, come “singolarità qualunque”: individualità e universalità si fondano, metafisicamente, su un comune presupposto negativo (individuum est ineffabile, e l’universale, come abbiamo visto nell’analisi di Hegel in Il linguaggio e la morte, è la pura astrazione negativa dell’intelligibilità), mentre la singolarità qualunque è una singolarità “pura”, non determinata da proprietà che ne denotano l’appartenenza a una classe (individuale), ma nemmeno genericamente priva di appartenenza (universale). Essa è l’esser-tale, l’esser-così, e il suo statuto è esibito dall’esempio: un esempio vale per tutti i casi dello stesso genere e, allo stesso tempo, è incluso fra di essi; non è né particolare né universale, ma è una singolarità che “si dà a vedere come tale, mostra la sua singolarità” (cv 14). Questa singolarità non è definita da alcuna proprietà tranne l’“esser-detto”, e il suo statuto è quindi puramente linguistico: l’esser-detto è la proprietà che fonda tutte le possibili appartenenze (per esempio, l’esserdetto italiano fonda l’appartenenza all’italianità), ma in sé non ha alcuna identità, è il “Più Comune”, ma allo stesso tempo avulso da ogni comunità reale. Fondare la singolarità qualunque su questo “Più Comune” linguistico significa, per Agamben, potersi appropriare dell’appartenenza stessa (CV 14). Agamben sottolinea che questa “onnivalenza” della singo60

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larità qualunque non significa “né apatia né promiscuità né rassegnazione” (CV 14); “la quodlibetalità”, egli continua, “non è l’indifferenza” (CV 20). E tuttavia la questione della “differenza” è fondamentale per la singolarità qualunque: le proprietà di questa singolarità non si dissolvono in una indeterminata universalità, ma nemmeno vanno a costituire la sua essenza, esse sono “inessenziali”; “Qualunque”, scrive Agamben, “è la cosa con tutte le sue proprietà, nessuna delle quali costituisce, però, differenza” (CV 20). “L’in-differenza rispetto alle proprietà è ciò che individua e dissemina le singolarità, le rende amabili (quodlibetali)” (CV 20-21): l’in-differenza rispetto alla differenza è ciò che rende i presupposti (identità, inclusione, rappresentazione, e cioè differenza) assolutamente irrilevanti. Questa caratteristica è e rimarrà talmente costitutiva di tutta l’opera di Agamben che William Watkin parla a proposito di una vera e propria “filosofia dell’indifferenza” (Watkin 2010: 46, 194). Qui la critica a Derrida è evidente, ma Agamben va oltre una mera critica della decostruzione o delle politiche identitarie: è proprio l’in-differenza rispetto alle differenze che rende la singolarità qualunque “amabile”. Come già evidenziava la prima descrizione di questa singolarità nell’incipit del libro, se quodlibet è di norma tradotto (correttamente) come “qualunque” (“non importa quale, indifferentemente”), etimologicamente esso significa qual-si-voglia, e quindi contiene già sempre un rimando al desiderare. –libet deriva infatti dalla radice indoeuropea *lib, che va anche a comporre i termini latini libere, libido, e libertas, il tedesco Liebe e il russo lioubit (amore). La singolarità qualunque è quindi “l’essere tale che comunque importa” (CV 9), e l’amore costituisce la relazione ontologica della politica che viene: l’amore non si dirige mai verso questa o quella proprietà dell’amato, ma nemmeno ne prescinde in nome della genericità, l’amore “vuole la cosa con tutti i suoi predicati, il suo essere tale qual è” (CV 10). Lo statuto ontologico (e non psicologico) dell’amore, e la sua importanza per il progetto filosofico-politico di Agamben, risaltano in una conferenza tenuta tre anni prima a Parigi, “La passione della fatticità: Heidegger e l’amore” (1987, PP 289320): in una complessa e articolata analisi, sulla quale qui non 61

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ci possiamo soffermare, Agamben sostiene che, contro un’idea assai comune, il tema dell’amore non è assente da Essere e tempo, ma ne costituisce anzi, in certo senso, il tema centrale. Esso è ciò che caratterizza l’autotrascendenza dell’In-der-WeltSein (l’essere-nel-mondo), in cui il Dasein è già sempre dato come aperto al mondo, prima e al di là di ogni soggettività. In questo contesto, la Faktizität (fatticità) è ciò che caratterizza la Verfallenheit (deiezione), la condizione di ciò che dimora nascosto nella propria apertura, di ciò che è esposto nel proprio ritirarsi. La fatticità è quindi marcata da quell’intreccio di latenza e illatenza che costituisce l’esperienza della verità (a-letheia) e dell’Essere. Il Dasein deve essere la propria fatticità, il suo esser-così, e quindi la fatticità ne esprime l’originale carattere ontologico; allo stesso tempo, tuttavia, il Dasein non può mai appropriarsi di questo essere ed è perciò sempre già consegnato a un’originale inautenticità (Uneigentlichkeit). Esistere nel modo della fatticità significa esistere nel modo della possibilità, ma di una possibilità che è sempre anche un’impossibilità, una radicale impotenza rispetto al mondo a cui si è consegnati. A questo punto Agamben cita il corso di Heidegger del 1931 sul libro IX (Theta) della Metafisica di Aristotele, che sottolinea il primato della possibilità sull’atto: la possibilità/potenza ha un legame inscindibile con l’impotenza, o meglio, con la potenza di non essere, ed è quindi potenza passiva, passione, l’esperienza più radicale della possibilità. Su questo punto fondamentale torneremo fra poco. Questo è dunque il concetto di amore in Heidegger, la “passione della fatticità”, la passione di essere propriamente (eigentlich) l’improprio (Uneigentlich), di abbandonarsi all’inappropriabile, in cui il Dasein può la propria impotenza: l’amore è “passione e esposizione della fatticità stessa e dell’irriducibile improprietà dell’ente”, in cui l’uomo si scopre come “colui che si appassiona propriamente dell’improprio, colui che, unico tra i viventi, può la sua impotenza” (PP 318). L’importanza di queste ultime affermazioni può difficilmente essere sopravvalutata. L’idea di “potenza” costituisce, anzi, come è stato ben evidenziato dalla critica, l’idea centrale di tutto il pensiero di Agamben, ed è illustrata in una fonda62

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mentale conferenza tenuta a Lisbona lo stesso anno di “La passione della fatticità” e rimasta inedita fino alla pubblicazione in traduzione inglese nel 1999 (e poi inclusa in La potenza del pensiero, 2005): “La potenza del pensiero” (1987). Qui Agamben analizza sostanzialmente il libro IX (Theta) della Metafisica di Aristotele, che si occupa di definire i concetti di potenza e atto e le loro relazioni: la potenza per Aristotele, sostiene Agamben, è definita essenzialmente dalla possibilità del suo non-esercizio, è, anche e innanzitutto, potenza di non passare all’atto. Questo significa che potenza e impotenza stanno in una relazione di costitutiva coappartenenza, per cui la potenza, nella sua struttura originaria, si mantiene in rapporto con la propria privazione, è sempre potenza di essere e di non essere: “Il vivente, che esiste nel modo della potenza, può la propria impotenza, e solo in questo modo possiede la propria potenza. Egli può essere e fare, perché si tiene in relazione col proprio non-essere e non-fare” (PP 281). Solo l’uomo, tra i viventi, esiste in questa dimensione: “gli altri esseri viventi possono soltanto la loro potenza specifica, possono solo questo o quel comportamento iscritto nella loro vocazione biologica; l’uomo è l’animale che può la propria impotenza” (PP 282). Il punto fondamentale è che il passaggio all’atto non annulla né esaurisce la potenza, ma questa si conserva nell’atto come “potenza di non”; anzi, la passività/passione (l’accoglienza in sé del non essere) della potenza consiste in una “conservazione e in un perfezionamento di sé”: la potenza, “donandosi a se stessa, si salva e accresce nell’atto” (PP 286). Le conseguenze di questa concezione per la politica, a cui Agamben qui brevemente accenna (“il problema della conservazione del potere costituente nel potere costituito”, PP 286), costituiranno un nodo centrale in Homo sacer (cfr. specialmente la sezione 5.4). Questa concezione della potenza era già assolutamente centrale in Idea della prosa, che si apre proprio con una “soglia” che, definendo il limite ultimo del pensiero come “la propria assoluta potenza, la pura potenza della rappresentazione stessa” (IP 12), dà il tono a tutte le idee seguenti. In particolare, “Idea dell’infanzia” (IP 81-84) riarticola l’analisi dell’in-fanzia di 63

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Infanzia e storia sull’idea di potenza (per cui il concetto di “infanzia” sarà, per così dire, d’ora in poi “assorbito” in quello di potenza), e “Idea dello studio” (IP 43-45) imprime all’idea di potenza la carica messianica che questa acquisterà ne La comunità che viene. Quest’idea cita tre nomi che diventeranno centrali nel libro successivo: Kafka, Robert Walser, e il Bartleby di Melville. È infatti nel saggio su Bartleby, pubblicato tre anni dopo La comunità che viene (“Bartleby o della contingenza”, 1993), che Agamben amplia, elabora e articola le sue riflessioni sulla potenza. Quello che è importante sottolineare di questo saggio non è solo il fatto che Agamben individua nella formula di Bartleby (I would prefer not to, preferirei di no) la “formula della potenza” (BAR 65), la “potenza perfetta” (BAR 55), in quanto, preferendo non scrivere, egli “dimor[a] così ostinatamente nell’abisso della possibilità e non sembr[a] avere la più piccola intenzione di uscirne” (BAR 64), quanto la carica di redenzione che questo concetto di potenza implica: il “preferirei di no” è “la restitutio in integrum della possibilità, che la mantiene in bilico tra l’accadere e il non accadere, tra il poter essere e il poter non essere”; in questo modo Bartleby revoca in questione il passato, non semplicemente per redimere ciò che è stato, per farlo essere nuovamente, quanto per “riconsegnarlo alla potenza” (BAR 83). Qui il riferimento è, ovviamente, al messianismo di Benjamin, che aspira alla redenzione di tutti gli eventi gioiosi che avrebbero potuto essere ma non si sono realizzati, che vuole salvare ciò che non è mai stato, l’insalvabile; ed è per questo che Bartleby è, per Agamben, una figura messianica, “che viene ad abolire la vecchia Legge e inaugurare un nuovo mandato”, a restituire il mondo alla potenza dell’irredimibile (BAR 87). Quest’idea di potenza è ciò che sostiene tutto il progetto de La comunità che viene (e tutta la proposta politica a venire): qui il trattato che si occupa della potenza si intitola “Bartleby” e ripete brevemente l’analisi di “La potenza del pensiero” per affermare che “propriamente qualunque è l’essere che può non essere, può la propria impotenza” (CV 33). L’essere potenziale della singolarità qualunque significa che essa è determinata solo attraverso la sua relazione alla “totalità delle sue possibilità”, 64

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essa è quindi “esteriorità pura”, “pura esposizione”: ek-stasis (CV 55). Questo significa che essa non è ancorata a presupposti, non deve realizzare alcuna essenza, alcuna vocazione storica o spirituale, significa che non ha un destino. E questo è quello che Agamben chiama “etica”: l’unica via d’uscita dalla metafisica negativa della “sigetica” è di svincolare l’uomo e il suo ethos (la sua “dimora abituale”, la sua comunità) dai presupposti essenziali e identitari per riconsegnarlo alla potenza; l’etica, ciò che l’uomo è e ha da essere, “è il semplice fatto della propria esistenza come possibilità o potenza” (CV 39). Questo nuovo ethos è equiparato a un termine che diventerà centrale per la soteriologia di Homo sacer: uso (cfr. sezione 7.1.8). Citando una frase di una lettera di Hölderlin all’amico Casimir Ulrich Böhlendorf del 4 dicembre 1801, che già concludeva “La passione della fatticità” (PP 319), Agamben definisce l’appropriarsi della potenza/impotenza come “l’uso libero del proprio” (“der freie Gebrauch des Eigenes”), che, per Hölderlin, “è il compito più difficile” (Hölderlin 1959: 456). Questo uso – “ovvero ethos” – è la maniera in cui la singolarità qualunque “passa dal comune al proprio e dal proprio al comune” (CV 22), e questa “maniera” è “la sola felicità veramente possibile per gli uomini” (CV 28).

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La potenza di Heidegger. “La passione della fatticità” e “La potenza del pensiero” menzionano brevemente le lezioni friburghesi di Heidegger del semestre estivo del 1931 sul libro IX della Metafisica di Aristotele (PP 314, 284), ma il debito di Agamben verso queste lezioni per la sua nozione di “potenza” sembra essere ben maggiore. Pubblicate postume nel 1981 come volume 33 della Gesamtausgabe, esse portano il titolo Von Wesen und Wirklichkeit der Kraft (Dell’essenza e realtà della potenza) e presentano una lettura delle sezioni 1-3 (1045b-1047b) del libro IX della Metafisica. Nella parte introduttiva, analizzando l’analisi aristotelica dell’essere, Heidegger cita anche il passo della Critica della ragion pura in cui Kant riprende la definizione scolastica dei trascendentali, quodlibet ens est unum, verum, bonum (Heidegger 1981: 32), e questa potrebbe quindi essere la fonte primaria d’ispirazione per il concetto di “singolarità qualunque”. Più in generale, l’analisi heideggeriana costruisce interamente il Dasein sul concetto di potenza o potenzialità, e la critica ha giustamente ricondotto tutto l’impianto potenziale dell’ontologia agambeniana a quella heideggeriana. Con una precisazione: Paolo Bartoloni nota che Agamben rovescia il registro della negatività e dell’assenza che caratterizza la potenzialità del

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Dasein heideggeriano (quello dell’esistere-per-la-morte) in un registro della presenza, o, meglio, di uno spazio interstiziale tra attualità e inattualità, tra presenza e assenza (Bartoloni 2004: 11).

4.3. Che viene I trattati de La comunità che viene sono disposti in modo, per così dire, “alternato”, per cui a un trattato che cerca definizioni/descrizioni (“esempi”) della “singolarità qualunque” segue un trattato che ne espone la portata soteriologica (e quindi politica) e si centra sull’idea di redenzione e salvezza. Alla proposta di un’ontologia alternativa fondata sulla potenza corrisponde, cioè, la proposta di un’alternativa dottrina della salvezza, che a sua volta comporta il progetto di una politica alternativa. Come l’elaborazione della singolarità qualunque consiste in uno “svuotamento” di ogni presupposto (essenza, identità, appartenenza, inclusione, rappresentanza) teso all’appropriazione dell’inappropriabile, così l’elaborazione dell’idea di salvezza si centra precisamente sull’idea di “insalvabile”. Il corollario “etico” dell’assioma della potenzialità è, come abbiamo visto, che la singolarità qualunque è e ha da essere solo la propria potenza, e cioè, scrive Agamben, il proprio così. L’assioma della potenza comporta, cioè, il rifiuto totale di ogni trascendenza, o, meglio, il paradossale rovesciamento della trascendenza in una “assoluta immanenza”: se “l’uso libero del proprio”, l’ethos, è l’appropriarsi della propria (im-)potenza, l’idea del “bene” che sta alla base di quest’etica perde ogni connotato trascendete; il bene, scrive Agamben, “non è […] in un altro luogo: è semplicemente il punto in cui [le cose] afferrano il proprio aver luogo, toccano la propria intrascendente materia” (CV 17). Il bene è “che il mondo sia” (CV 16). Il nome che Agamben dà a questa assoluta immanenza è “l’irreparabile”, alla cui elaborazione sono dedicati uno dei trattati e la sezione aforistica che conclude il libro. “L’irreparabile” è il tentativo di pensare la “salvezza”, ovvero il progetto eticopolitico di azione, rinnovamento e redenzione, in modo assolu66

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tamente immanente, al di là (o al di qua) dei presupposti teologico-politici (metafisici) tradizionali. E infatti esso è introdotto come risposta alla domanda sullo statuto del mondo post iudicium: prendendo come esempio le figure letterarie di Robert Walser, Agamben sostiene che, dopo il giudizio universale, “tutto sarà così com’è, irreparabilmente, ma proprio questa sarà la sua novità” (CV 37). L’irreparabile significa, cioè, che le cose “sono consegnate senza rimedio al loro esser-così, che esse sono, anzi, proprio e soltanto il loro così […]; ma significa, anche, che, per esse, non vi è letteralmente alcun riparo possibile, che, nel loro esser-così, esse sono ora assolutamente esposte, assolutamente abbandonate” (CV 37-38). L’irreparabile è il corollario dell’assioma della potenza, nel senso che esso è il nome della “contingenza alla seconda potenza”: se l’essere potenziale significa poter il proprio non essere, potere la propria impotenza, allora riconsegnare l’essere, il mondo, alla potenza significa andare oltre le categorie teologico-metafisiche di necessità, contingenza, trascendenza, salvezza, e considerare il mondo come già “finito”, “completo”, come se il giudizio fosse già avvenuto. Agamben riarticola, cioè, l’immagine kafkiana di uno “stato della storia”, di un pensiero storico che si situi al di là del continuum teleologico della storia lineare, nel “giorno dopo l’ultimo giorno” (che lo accompagna fin dall’ultimo capitolo de L’uomo senza contenuto; cfr. sezione 2.1), sull’ontologia della potenzialità. Potere la propria impotenza, poter non nonessere, significa potere l’irreparabile: Gli animali, le piante, le cose, tutti gli elementi e le creature del mondo dopo il giudizio, esaurito il loro compito teologico, godono ora di una caducità per così dire incorruttibile, su di essi sta sospeso qualcosa come un nimbo profano. (CV 38)

L’ultimo termine di questa citazione, “profano” (termine centrale dell’elaborazione benjaminiana), diventa già qui il cardine attorno a cui ruota tutta l’elaborazione della politica “che viene”: la salvezza non può né deve essere cercata in un mondo trascendente, “altro”, in un tempo futuro, in un cambiamento 67

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totale che spazzi via il mondo presente (questi sono i presupposti teologico-metafisici), ma è piuttosto “salvazione della profanità del mondo, del suo esser-così”, significa riconsegnare “il mondo alla profanazione e alla cosalità” (CV 73). Che questo progetto politico sia fondato in una nuova ontologia (l’ontologia della potenza) risulta evidente dalla nota che introduce la sezione aforistica conclusiva sull’“Irreparabile”: qui Agamben dichiara che gli aforismi cercano di ripensare il problema metafisico del rapporto tra essenza ed esistenza e vanno letti come un commento al § 9 di Essere e tempo e alla proposizione 6.44 del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Quest’ultima dice: “Non come il mondo sia, è ciò che è mistico, ma che esso sia”, mentre il § 9 di Essere e tempo si intitola “Il tema dell’analitica dell’Esserci” e apre il primo capitolo della prima parte, subito dopo l’introduzione (Heidegger 1976: 64-68). L’ontologia potenziale del Dasein heideggeriano, coniugata all’immanenza assoluta del progetto wittgensteiniano, permette ad Agamben di fare un passo più in là rispetto alla critica dei fondamenti metafisici negativi di Il linguaggio e la morte, e di superare e rovesciare la presupposizione in “esposizione”. A sua volta, a questa “esposizione” viene conferito l’afflato messianico kafkiano-benjaminiano che vede la redenzione nella “definitiva profanità del profano” (CV 85). In particolare due immagini articolano quest’idea di redenzione (e la coniugano alla politica). Il secondo trattato si intitola “Dal Limbo” e riproduce quasi letteralmente “Idea della politica” di Idea della prosa (IP 59-60): gli abitanti del Limbo, scrive Agamben, sono afflitti solo da una pena privativa, e cioè dalla carenza della visione di Dio; essi sono incurabilmente perduti, dimorano nell’abbandono divino, ma non ne provano dolore, perché il dolore sarebbe una pena afflittiva e non sarebbe giusta. Essi sono quindi irreparabilmente perduti, ma non se ne curano, stanno al di là di perdizione e salvezza, dimorano in un’assoluta neutralità rispetto alla salvezza. Sono insalvabili perché in essi non c’è nulla da salvare, ma proprio per questo contro di essi “naufraga la poderosa macchina dell’oikonomia cristiana”. Come le figure di Walser e Kafka, che Agamben ripetutamente 68

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prende a esempio, “essi si sono lasciati alle spalle il mondo della colpa e della giustizia: la luce che piove sulla loro fronte è quella – irreparabile – dell’alba che segue alla novissima dies del giudizio. Ma la vita che comincia sulla terra dopo l’ultimo giorno è semplicemente la vita umana” (CV 12). La seconda immagine apre il trattato intitolato “Aureole” ed è la parabola sul regno messianico che Agamben trova, in due versioni molto simili, in Tracce (1930) di Ernst Bloch e in un breve scritto di Benjamin, “In der Sonne” (1932): il regno messianico, narra la parabola, non è frutto di una totale distruzione del mondo attuale, di un cambiamento completo alla fine dei tempi; per attuarlo, dice la versione di Bloch, “basta spostare solo un pochino questa tazza o quest’arboscello o quella pietra, e così tutte le cose”; “Tutto sarà com’è ora”, dice la versione di Benjamin, “solo un po’ diverso” (CV 45). Questo piccolo spostamento, glossa Agamben, non riguarda lo stato delle cose, ma il suo senso e i suoi limiti: esso introduce una possibilità supplementare nell’irreparabilità del mondo, e lo riconsegna così alla sua potenza. Questo carattere assolutamente immanente della redenzione e dell’azione politica è ciò che esprime la formula “che viene”, formula che imprime un carattere esplicitamente messianico a tutto il progetto (“colui che viene” è, nella tradizione giudaicocristiana, il Messia). Nella breve postilla aggiunta all’edizione del 2001, che riarticola il progetto de La comunità che viene sul vocabolario adottato a partire da Homo sacer, Agamben racchiude in una parentesi la seguente definizione: “che viene non significa futura” (CV 92). Come avremo modo di vedere meglio nel capitolo 7, il “che viene” articola la temporalità dell’azione politica sull’“ora” messianico che interrompe il continuum temporale: il tempo dell’azione non è il futuro, ma il presente come esigenza di compimento; e tuttavia questo tempo non è mai pienamente presente a se stesso, necessita sempre di quel “piccolo spostamento” della parabola sul regno messianico. “Che viene” esprime quindi anche il carattere potenziale della comunità, che, come pura “esposizione”, priva di essenza, sostanza, vocazione o destino, non è che il suo approssimarsi, il suo “venire”. Questo 69

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“venire” è anche attesa, ed è perciò in relazione con il desiderio, con la quodlibetalità come “amabilità”: come abbiamo visto in “La passione della fatticità”, questa amabilità costituisce un’apertura ontologica al mondo, un’ontologia dell’apertura alla sua irreparabilità. Agamben aveva già usato l’espressione “compito della filosofia che viene” a conclusione dei saggi “La cosa stessa” (1984) e “Filosofia e linguistica” (1990), ma a partire da La comunità che viene l’espressione “che viene” diventerà una formula ricorrente posta a indicare (di norma nella conclusione degli scritti) il compito messianico del pensiero, della filosofia, della politica. Questa formula proviene dal saggio di Benjamin “Sul programma della filosofia che viene” (1918; in italiano il “che viene”, kommende, è tradotto erroneamente come “futura”), che Agamben aveva già usato come griglia teorica per l’elaborazione di “Infanzia e storia”, e che comincia con la frase “il compito fondamentale della filosofia che viene è…” (OC 1: 329): l’ultimo e fondamentale significato del “che viene” è quindi quello di un compito, di un esigenza, di una pressante richiesta che il momento presente pone al pensiero. Il momento presente è per Agamben quello hölderlinianoheideggeriano del pericolo che alberga in sé la possibilità della salvezza. Ma se in precedenza Agamben si era focalizzato principalmente sul presente come compimento della metafisica, ora questo compimento è allo stesso tempo – e in modo assolutamente inscindibile dalla metafisica – il compimento del capitalismo, che, a partire da La comunità che viene, prende il nome debordiano di “spettacolo”. Guy Debord aveva coniato la definizione “società dello spettacolo” nell’omonimo libro del 1967 per definire lo stadio ultimo e la mutazione qualitativa del capitalismo. Lo “spettacolo”, per Debord, “non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini”; esso descrive l’ultimo stadio dell’accumulazione capitalistica, che vede una sorta di “transustanziazione” del capitale in una forma immateriale, in una fantasmagoria spettacolare che tutto assorbe e tutto comprende: “Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine” (citato in CV 63). 70

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Agamben adotta la formula di Debord, ma proprio in questa trasformazione ultima cerca i germi della salvezza. Per esempio, la mercificazione del corpo umano, la sua trasformazione in immagine patinata nella pubblicità e nella pornografia, emancipa il corpo dalla sua organicità, dalla biologia, e dai fondamenti teologici che nella cultura occidentale ne facevano un’immagine di Dio: solo ora il corpo umano può diventare “qualunque”, giacché ora “non somiglia più al Dio né all’animale, ma agli altri corpi umani” (CV 43), e appropriarsi di questa trasformazione storica contro la logica dello spettacolo è il compito della politica che viene. Allo stesso modo, le trasformazioni sociali che hanno dissolto le vecchie classi sociali in una piccola borghesia planetaria, che “è verisimilmente la forma nella quale l’umanità sta andando incontro alla propria distruzione”, devono essere considerate “un’occasione inaudita” nella storia dell’umanità: la piccola borghesia non ha una vera identità sociale, essa conosce solo l’improprio e l’inautentico, ma proprio in questo modo svincola l’umanità dai presupposti dell’identità, della singolarità, della soggettività, e apre la possibilità di una vera comunità senza presupposti e senza soggetti (CV 51-53). Ma la trasformazione ultima e fondamentale è per Agamben quella del linguaggio: egli amplia e personalizza la descrizione di Debord, cosicché lo spettacolo viene a costituire per lui l’alienazione della stessa natura linguistica e comunicativa dell’uomo, che isola il linguaggio in una sfera separata in cui esso non rivela e non comunica più nulla; lo spettacolo quindi “sradica” l’uomo dalla sua dimora vitale nella lingua. Ma proprio per questo “lo spettacolo contiene ancora qualcosa come una possibilità positiva, che può essere usata contro di esso” (CV 64): proprio grazie a questo sradicamento estremo, diventa per la prima volta possibile fare esperienza del linguaggio stesso come medium, della stessa essenza linguistica dell’uomo, del fatto stesso che si parli. “La politica contemporanea è questo devastante experimentum linguae, che disarticola e svuota su tutto il pianeta tradizioni e credenze, ideologie e religioni, identità e comunità” (CV 66), e coloro che riusciranno a compierlo fino in fondo saranno i primi cittadini di una comunità senza presupposti. 71

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Nel trattato sulla piccola borghesia Agamben riutilizza la formula “nuda vita” (CV 52), che compare anche, assieme alla definizione di Festo di sacertà (sempre senza alcuna spiegazione), nell’ultimo trattato, “Tienanmen”. Qui Agamben concentra in tre paginette la questione centrale che il progetto di Homo sacer si proverà a svolgere, ovvero la questione di una politica che tenti di superare lo stallo della crisi definitiva di ogni presupposto che il nostro tempo sta vivendo, e che vada così oltre la tradizionale definizione di politica e le forme che questa ha assunto nella storia occidentale. Cercare di pensare una comunità senza presupposti, e quindi senza identità, appartenenza, inclusione e rappresentanza, significa svincolarla dalla forma tradizionale di socializzazione, e cioè dallo “stato”: la politica che viene “non sarà più lotta per la conquista o il controllo dello stato, ma lotta fra lo stato e il non-stato (l’umanità), disgiunzione incolmabile delle singolarità qualunque e dell’organizzazione statale” (CV 67-68). Le proteste di piazza Tienanmen del 1989 esemplificano per Agamben questa lotta, in cui, a un’assenza di contenuti determinati (di rivendicazioni “identitarie”), lo stato ha risposto con un’inspiegabile violenza: ciò che lo stato non può in alcun modo tollerare è lo scioglimento del legame sociale, verso cui tendono invece le singolarità qualunque, che diventano quindi “il principale nemico dello stato” (CV 69). Oltre a esemplificare la violenza inaudita di questa lotta, Tienanmen rappresenta anche il dissolversi delle vecchie contrapposizioni ideologiche: la questione non è quella di una contrapposizione tra diverse forme del legame sociale, tra democrazia e comunismo, o tra democrazia e fascismo; tutte queste forme (salve le ovvie differenze) si equivalgono, in quanto non sono che diverse espressioni di un’unica forma di legame sociale basata sullo stato. La vera contrapposizione è quindi quella tra queste forme “formalmente” equivalenti e una diversa idea di politica, che si liberi di esse come di ogni altro presupposto. Pensare questa politica è il compito che, in modo assai più sistematico e articolato, Agamben si prefiggerà nelle sue ricerche a venire.

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Lo spettacolo del linguaggio. Guy Debord faceva parte degli intellettuali che Agamben frequentava a Parigi negli anni settanta, e alla sua memoria (morì suicida nel 1994) Agamben dedicherà Mezzi senza fine (1996). Su Debord scriverà inoltre vari saggi, tra cui la prefazione alla traduzione italiana dei Commentari sulla società dello spettacolo (poi inclusa in Mezzi senza fine, 60-73), pubblicata lo stesso anno de La comunità che viene (e di cui, come gli altri scritti su Debord più o meno contemporanei, ripete i concetti). Come nota Yoni Moland (in AD 53-54), le prime menzioni da parte di Agamben, non di Debord, ma del progetto situazionista di cui egli era l’esponente di spicco, sono piuttosto critiche: in L’uomo senza contenuto il “progetto situazionista di un superamento dell’arte inteso come realizzazione pratica delle istanze creative che in essa si esprimono in modo alienato”, fa pienamente parte della “metafisica della volontà, cioè della vita intesa come energia e impulso creatore”, in cui culmina l’estetica occidentale (USC 108); questa critica è ripresa in uno scolio di Stanze sulla reificazione del processo creativo, in cui dei situazionisti si dice che, “nel tentativo di abolire l’arte realizzandola, finiscono invece col dilatarla all’intera esistenza umana” (S 63). Quello che interessa ad Agamben è piuttosto la critica debordiana del feticismo della merce, che egli estende fino a comprendere il linguaggio stesso. A partire dalla fine degli anni Ottanta, la terminologia debordiana della “società spettacolare” entrerà permanentemente nel lessico agambeniano, tanto che un breve scritto del 1991, “Violenza e speranza nell’ultimo spettacolo”, eleva le analisi di Debord al rango di quelle heideggeriane di quarant’anni prima (cfr. VS 14).

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Pardes. Il trattato de La comunità che viene in cui Agamben estende la teoria debordiana dello spettacolo al linguaggio stesso si intitola “Schechina” e usa l’aggadah (racconto) talmudica chiamata “isolamento della Schechina” come allegoria dell’alienazione spettacolare del linguaggio nel nostro tempo. In breve, l’aggadah è la seguente: Quattro rabbi entrarono nel Pardes (il paradiso, ma anche la conoscenza suprema), Ben Azzai, Ben Zoma, Aher e rabbi Akiba. Ben Azzai gettò uno sguardo e morì; Ben Zoma guardò e impazzì; Aher tagliò i ramoscelli; Rabbi Akiba uscì illeso. Il “taglio dei ramoscelli” da parte di Aher indica il peccato dell’“isolamento della Schechina” (letteralmente “abitazione, dimora”, la presenza di Dio, la manifestazione e il celarsi di Dio nelle nubi celesti), della sua separazione dal resto e della sua comprensione come un potere autonomo; come il peccato di Adamo, con cui il taglio dei ramoscelli viene spesso identificato, il peccato di Aher è quello di isolare la conoscenza, che, separata dalle altre modalità di Dio, perde i suoi poteri e diventa malefica. In La comunità che viene questo isolamento allegorizza la spettacolarizzazione stessa del linguaggio nella società dello spettacolo, la conoscenza come spettacolo e non come realtà (CV 64-66). In un saggio pubblicato lo stesso anno in francese, “Pardes. La scrittura della potenza” (PP 345-63), Agamben ripete quasi

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parola per parola la spiegazione dell’“isolamento della Schechina”, ma questa volta per proporre un’interpretazione del pensiero di Derrida. “Pardes” è il tentativo più articolato e sostenuto da parte di Agamben di confrontarsi con il pensiero del filosofo francese, ma è anche malauguratamente quello in cui l’argomentazione è più obliqua e allegorica, e ben più ambigua delle brevi ma esplicite menzioni precedenti. Qui Derrida è paragonato a Aher, per cui potrebbe sembrare, se leggiamo questo saggio insieme a La comunità che viene, che Derrida non sia che un altro sacerdote dell’alienazione della natura linguistica dell’uomo. E in effetti, in un certo senso, per Agamben Derrida resta intrappolato nell’esilio della Schechina, nei “paradossi dell’autoreferenza” (PP 363). E tuttavia, la complessa e oscura argomentazione del saggio è volta principalmente a mettere in relazione la “traccia” derridiana al concetto di (im-)potenza sviluppato altrove da Agamben, per cui l’experimentum linguae di Derrida non costituirebbe l’equivoca pratica interpretativa volta all’infinita decostruzione di un testo, ma la “scrittura della potenza”. Quello che Derrida non è in grado di fare, però, è di trovare una via d’uscita dall’esilio, dall’autoreferenza della potenza. Una frase sibillina conclude il saggio: “Grazie all’ostinata dimora di Acher nell’esilio della Shekinah, rabbi ‘Aquiva può entrare e uscire illeso dal paradiso del linguaggio” (PP 363). Se Acher è Derrida, allora Agamben sembra volersi identificare con rabbi ‘Aquiva, che riesce a superare i paradossi autoreferenziali della decostruzione. Comprensibilmente, questa allegoria non è piaciuta ai lettori derridiani (cfr. per esempio Thurschwell 2005).

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5. ARCHEOLOGIA DEL POTERE (Homo sacer I e II: Stato di eccezione, Il Regno e la Gloria, Il sacramento del linguaggio, Opus dei)

5.1. Il progetto La pubblicazione di Homo sacer nel 1995 ha reso Agamben non solo un riferimento fondamentale e inaggirabile nel dibattito politico-filosofico contemporaneo, ma una vera e propria “star” filosofica internazionale. Tante delle analisi e dei concetti che ha introdotto con questo libro e con i libri seguenti (come homo sacer, “nuda vita”, inoperosità, il “campo” come paradigma della modernità, ecc.) sono entrati nel lessico filosofico contemporaneo – ridotte spesso anche a facili formule a effetto – e hanno creato un ampio e acceso dibattito e una mole di letteratura secondaria sempre crescente che, se inizialmente si è focalizzata su Homo sacer, più di recente ha investito anche le opere precedenti in uno sforzo di analizzare la totalità del suo pensiero. A livello più strettamente filosofico, Homo sacer ha dato avvio a un progetto di ricerca e analisi centrato sulla comprensione delle strutture socio-politiche della contemporaneità e volto alla ricerca di un superamento della loro drammatica crisi. Questo progetto, non ancora completato, riporta Agamben a una scrittura e a una organizzazione più accademicamente “tradizionali”, dopo gli esperimenti non convenzionali di Idea della prosa e La comunità che viene, e a una sistematizzazione della ricerca che si compone di tre parti principali suddivise in più volumi. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita è stato retroattivamente ribattezzato come “primo volume” della serie, in quanto pone le questioni e le problematiche che i volumi suc75

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cessivi svolgeranno e approfondiranno. I vari volumi non sono però pubblicati in ordine cronologico, e completano e ridefiniscono ogni volta il progetto iniziale. Allo stato attuale, Agamben ha pubblicato sette volumi della serie, suddivisi come segue: Volume I:

Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (1995)

Volume II: 1. Stato di eccezione (2003) 2. Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo (2007) 3. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (2008) 4. [non ancora pubblicato] 5. Opus Dei. Archeologia dell’ufficio (2012) Volume III: Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (1998) Volume IV: 1. Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (2011) 2. [non ancora pubblicato]

Salvo ulteriori aggiunte, allo stato attuale mancano il volume II/4 e il volume conclusivo IV/2. Nonostante Agamben non abbia mai troppo esplicitamente definito e spiegato la struttura del progetto e le sue suddivisioni, possiamo a grandi linee riassumerle come segue: il volume II, di gran lunga il più esteso e articolato, si preoccupa di analizzare progressivamente la struttura del progetto politico occidentale, che potremmo (forse riduttivamente) definire come struttura della sovranità o, più in generale, del potere; il volume III, il primo a seguire la pubblicazione di Homo sacer, si centra invece sull’analisi della vita (o della “nuda vita”) nella stretta del potere sovrano; infine, il volume IV cerca di proporre una via d’uscita da, e un’alternativa a, l’ontologia politica occidentale descritta negli altri volumi. Agamben ha pubblicato parallelamente altri libri e saggi che non rientrano “ufficialmente” nella serie di Homo sacer; e tuttavia è possibile sostenere che il progetto dà il “tono” a tutta la sua produzione successiva, e che quindi queste pubblicazioni “esterne” rientrano anch’esse, in qualche modo, in una proposta filosofica unitaria, per cui le analizzeremo come parti integranti del progetto. Per poter meglio cogliere quest’unità, abbandoneremo nei prossimi tre capitoli l’impostazione cronologica che 76

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abbiamo fin qui seguito, per adottare invece un’impostazione “logica” e tematica: se questo comporta certo lo svantaggio di diluire l’unità e l’unicità di ogni singolo libro nella logica dell’insieme, e se rischia inoltre di imporre a questi scritti una sorta di uniformità che probabilmente è solo retrospettiva, il vantaggio è però quello di rivelare e sottolineare la struttura coerente e unitaria del progetto e di fornire una visione d’insieme. L’impostazione logica e tematica significherà soprattutto espungere dall’analisi dei vari testi le tracce e indicazioni che, fin da Homo sacer, costruiscono progressivamente il vocabolario e preparano il terreno per il volume IV; questo vocabolario sarà poi esaminato in dettaglio nel capitolo 7.

5.2. Il protagonista: la nuda vita L’ormai celebre incipit dell’introduzione a Homo sacer nota che i Greci non avevano un unico termine per esprimere il concetto di vita, ma la scindevano in zoé, “che esprimeva il semplice fatto di vivere comune a tutti gli esseri viventi (animali, uomini o dèi)”, e bíos, “che indicava la forma o maniera di vivere propria di un singolo o di un gruppo”, “una vita qualificata, un particolare modo di vita” (HS 3). Nel mondo classico (qui Agamben si rifà – implicitamente – all’analisi di Arendt in Vita activa, che a sua volta si rifà ad Aristotele; cfr. Arendt 1991: 6870), la zoé era esclusa dalla polis e confinata, come mera vita riproduttiva, nell’ambito dell’oîcos, della casa. Il punto da cui muove tutta l’analisi di Homo sacer (come libro e come progetto) è la celebre tesi che Foucault propone alla fine de La volontà di sapere (1976), secondo cui, “alle soglie dell’età moderna, la vita naturale comincia, invece, a essere inclusa nei meccanismi e nei calcoli del potere statuale e la politica si trasforma in biopolitica” (HS 5). Per Foucault (che a partire da Homo sacer diventerà il pensatore di riferimento per l’intero progetto di Agamben; su questo rapporto cfr. sezione 6.3), biopolitica significa una trasformazione, una cesura che avviene alle soglie della modernità, per cui il corpo vivente, la mera vita biologica, 77

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diventa la posta in gioco della politica: “l’ingresso della zoé nella polis,” glossa Agamben, “la politicizzazione della nuda vita come tale costituisce l’evento decisivo della modernità, che segna una trasformazione radicale della categorie politico-filosofiche del pensiero classico” (HS 6-7). Il compito che l’indagine di Agamben si propone è quindi quello di interrogare il rapporto fra nuda vita e politica “che governa nascostamente le ideologie della modernità apparentemente più lontane tra loro” (HS 7). Il modello biopolitico di Foucault (giacché non si interessa di diritto e sovranità, ma delle pratiche e dispositivi del potere, delle “tecnologie del sé; cfr. Leitgeb e Vismann 2001: 18) deve però essere integrato con quello giuridico-istituzionale (le tradizionali teorie della sovranità, o meglio, come vedremo, il modello di Schmitt), e da questa integrazione Agamben deriva la tesi portante della sua ricerca: “l’implicazione della nuda vita nella sfera politica costituisce il nucleo originario – anche se occulto – del potere sovrano. Si può dire, anzi, che la produzione di un corpo biopolitico sia la prestazione originale del potere sovrano” (HS 9). Agamben quindi estende la teoria foucauldiana all’intera storia politica dell’occidente e sostiene che la politica occidentale è, originariamente e da sempre, biopolitica; la cesura che Foucault aveva individuato nella modernità non fa che portare alla luce “il vincolo segreto che unisce il potere alla nuda vita” (HS 9). L’opposizione classica tra zoé e bios è in realtà un’implicazione: l’esclusione della nuda vita dalla vita politicamente qualificata è allo stesso tempo un’inclusione, o piuttosto un’“esclusione inclusiva”, in quanto la vita politicamente qualificata si definisce proprio come esclusione della nuda vita, e questa è la “struttura dell’eccezione” che, come vedremo, è per Agamben consustanziale alla politica occidentale. Se la politica è il luogo in cui il vivere (zoé) deve trasformarsi in vivere bene (bios), allora “ciò che deve essere politicizzato [è] già sempre la nuda vita. La nuda vita ha, nella politica occidentale, questo singolare privilegio, di essere ciò sulla cui esclusione si fonda la città degli uomini” (HS 10). La tesi di Foucault deve essere corretta nel senso che l’inclusione della zoé nella polis è in sé antichissima e non è ciò che caratterizza la 78

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modernità; ciò che caratterizza la modernità è piuttosto il fatto che lo spazio della nuda vita, situato all’origine al margine dello spazio politico (nell’“eccezione”), viene progressivamente a coincidere con esso: “la nuda vita […] si libera nella città e diventa insieme il soggetto e l’oggetto dell’ordinamento politico e dei suoi conflitti, il luogo unico tanto dell’organizzazione del potere statale che dell’emancipazione da esso” (HS 12). Due punti vanno qui sottolineati: primo, l’esclusione inclusiva della nuda vita nella vita politicizzata, scrive Agamben, avviene attraverso il linguaggio, il logos, essa costituisce l’articolazione fondamentale fra il vivente e il logos, ed è quindi un’operazione pienamente “ontologica”. Questo significa che “la ‘politicizzazione’ della nuda vita è il compito metafisico per eccellenza, in cui si decide dell’umanità del vivente uomo, e, assumendo questo compito, la modernità non fa che dichiarare la propria fedeltà alla struttura essenziale della tradizione metafisica” (HS 11). La politica, cioè, non ha per Agamben uno statuto meramente “gestionale”, “pratico”, ma invece pienamente “ontologico”, è il compito metafisico; inoltre, la modernità e la sua politica, per quanto si considerino disincantate e de-metafisicizzate, rimangono pienamente e assolutamente nella tradizione della metafisica occidentale. Perdere di vista questo fatto ha portato molti critici di Agamben a fraintendimenti sostanziali del significato e degli scopi del suo progetto. Secondo, questo porta Agamben a postulare, come già abbiamo visto in La comunità che viene, una sostanziale equivalenza, sul piano storicofilosofico, dei progetti politici della modernità, e quindi ad avanzare la “tesi di un’intima solidarietà fra democrazia e totalitarismo” (HS 14). In entrambi i casi, la politica “non conosce […] altro valore (e conseguentemente, altro disvalore) che la vita” (HS 13-14). Agamben sottolinea che questo non significa svalutare le conquiste della democrazia, ma piuttosto cercare di comprendere perché, “nel momento stesso in cui sembrava aver definitivamente trionfato dei suoi avversari e raggiunto il suo apogeo, essa si è rivelata inaspettatamente incapace di salvare da una rovina senza precedenti quella zoé alla cui liberazione e alla cui felicità aveva dedicato tutti i suoi sforzi” (HS 13). Le demo79

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crazie attuali (o piuttosto le “postdemocrazie spettacolari”, HS 13) rimangono pienamente ancorate ai presupposti metafisici e non sono in grado di comporre la frattura, e di costruire un’articolazione, tra zoé e bios; il compito è quindi di provarsi a pensare una “politica integralmente nuova – cioè non più fondata sull’exceptio della nuda vita” (HS 15). A questo punto potremmo chiederci che cosa sia esattamente questa “nuda vita” attorno a cui ruotano tutte le elaborazioni precedenti. Nell’introduzione Agamben dichiara che essa è il “protagonista” del libro, ma la sola definizione che qui ne dà (senza ancora alcun riferimento a Benjamin o a Sesto Pompeo Festo) è che essa è la vita dell’homo sacer, uccidibile ma insacrificabile (HS 12). Andrew Norris (2005: 270) nota che la nuda vita non è mai veramente definita da Agamben, ma viene piuttosto presentata attraverso esempi. Nella prima parte di Homo sacer, intitolata “Logica della sovranità” e dedicata all’analisi della struttura dell’“eccezione” (che presenteremo nella prossima sezione), gli esempi sono alquanto scarsi: qui la nuda vita è definita semplicemente come la vita nel bando sovrano, nello stato di eccezione (HS 61); con un esempio letterario (che rimarrà centrale anche in futuro), Agamben la illustra come la vita vissuta nel villaggio ai piedi del Castello kafkiano, che diventa indistinguibile da, e finalmente coincide con, la legge, o come quella di Josef K. nel Pocesso, che viene a coincidere con il processo stesso (HS 61). La prima vera definizione si trova nella “Soglia” che separa la prima dalla seconda parte del libro e si centra su una breve analisi di “Per la critica della violenza” di Benjamin: qui Agamben rivela finalmente che “nuda vita” è la traduzione del bloßes Leben benjaminiano, ed è definita come “il portatore del nesso fra violenza e diritto” (HS 74-75). E tuttavia la “definizione” si ferma qui e, invece di tentare di articolare il significato della “nudità” della vita, Agamben si interroga sul suo nesso con la sacertà, che si propone di analizzare nella parte seguente. In effetti, la seconda parte di Homo sacer, intitolata proprio “Homo sacer”, si articola in una minuziosa analisi genealogica del concetto di homo sacer e sembra voler rispondere all’invito 80

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che Benjamin faceva verso la fine di “Per la critica della violenza”: “Varrebbe la pena di indagare l’origine del dogma della sacertà della vita. Forse, anzi probabilmente, esso è di data recente, ultima aberrazione dell’indebolita tradizione occidentale, per cui si vorrebbe cercare il sacro, che essa ha perduto, nel cosmologicamente impenetrabile” (OC 1: 487). La ricerca genealogica di Agamben lo porta invece indietro nel tempo fino alla definizione dell’homo sacer data da Sesto Pompeo Festo (anche quest’origine è qui rivelata per la prima volta), per cui la “nuda vita” viene a coincidere con la vita “sacra”: una vita doppiamente esclusa, a causa di un delitto, sia dall’ambito divino (e quindi insacrificabile) che da quello umano (e quindi uccidibile impunemente). Agamben mette in relazione questa doppia esclusione con la struttura dell’eccezione sovrana, e ipotizza quindi che l’homo sacer presenti la “figura originaria della vita presa nel bando sovrano”, che conserva “la memoria dell’esclusione originaria attraverso cui si è costituita la dimensione politica” (HS 92). È importante sottolineare che la nuda vita qui non è più semplicemente la zoé naturale: “[n]on la semplice vita naturale, ma la vita esposta alla morte (la nuda vita o vita sacra) è l’elemento politico originario” (HS 98); “[n]é bios politico né zoé naturale, la vita sacra è la zona di indistinzione in cui, implicandosi ed escludendosi l’un l’altro, essi si costituiscono a vicenda” (HS 101). Ritorneremo sulla relazione tra sovranità e nuda vita nella prossima sezione. La seconda parte di Homo sacer si conclude con un esempio, che mette in relazione le analisi centrate sul diritto romano (su cui si basa tutta la seconda parte) con una particolare fattispecie dell’antico diritto germanico: il “lupo mannaro” (Werwolf, da wargus, vagr, lupo o “lupo sacro”), l’uomo-lupo, ossia un ibrido tra umano e ferino, tra la selva e la città, che rappresenta la figura di colui che è stato bandito dalla comunità. La vita del bandito è la nuda vita, una soglia di indifferenza e di passaggio fra l’animale e l’uomo, fra la physis e il nomos. A questa figura Agamben riferisce l’homo homini lupus di Hobbes, per proporre la tesi secondo cui lo stato di natura hobbesiano non sarebbe in realtà una condizione pregiuridica, ma l’eccezione e la soglia che costituisce e abita il 81

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diritto: esso è “la condizione in cui ciascuno è per altro nuda vita e homo sacer”, e in quanto tale è “il presupposto sempre presente e operante della sovranità” (HS 118). È la terza parte del libro, quella più propriamente “biopolitica”, che fornisce il maggior numero di esempi di nuda vita. Con l’allargarsi dello spazio biopolitico dell’eccezione a tutto lo spazio politico tout court, la nuda vita finisce per coincidere con la stessa vita biologica dei cittadini, per cui non esistono più figure “eccezionali” come l’homo sacer o il lupo mannaro, ma oggi “siamo tutti virtualmente homines sacri” (HS 127). A partire da questa tesi, Agamben presenta e discute un numero di esempi in cui il paradigma “virtuale” dell’homo sacer si “attualizza” in figure specifiche. La prima è il “rifugiato”, che spezza la finzione del legame fra uomo e cittadino, fra natività (nuda vita) e nazionalità: “Esibendo alla luce lo scarto fra nascita e nazione, il rifugiato fa apparire per un attimo sulla scena politica quella nuda vita che ne costituisce il segreto presupposto” (HS 145). Centrale è poi la figura della Versuchsperson, la “cavia umana”, il cui esempio principale sono gli internati dei campi nazisti su cui i medici compivano esperimenti, ma che trova un corrispondente nei condannati a morte su cui, nelle Filippine ma soprattutto negli Stati Uniti, venivano compiuti esperimenti medici: il punto è qui che i detenuti dei campi e i condannati a morte sono esclusi dalla comunità politica e si situano in una zona-limite in cui non sono più che nuda vita, una vita presa in uno spazio intermedio tra la vita e la morte. La definizione di “morte” diventa allora centrale, giacché la biopolitica implica una sorte di “medicalizzazione” della politica, o uno sfumarsi dei confini che un tempo dividevano il sovrano dal medico. Un ulteriore esempio di nuda vita sono quindi, per Agamben, le persone in “oltrecoma”, ovvero tenute interamente in vita dalle moderne tecnologie di rianimazione: la loro situazione (Agamben cita qui il caso di Karen Quinlan, che diede in certo senso avvio, negli anni Settanta, alla controversia etico-legale sul “diritto di morire”, ma noi possiamo anche aggiungere i casi più recenti, e di grande impatto mediatico, di Terri Schiavo negli Stati Uniti ed Eluana Englaro in Italia) configura una zona di 82

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indeterminazione, dove le parole “vita” e “morte” perdono il loro significato, uno spazio di eccezione “in cui appare allo stato puro una nuda vita per la prima volta integralmente controllata dall’uomo e dalla sua tecnologia” (HS 184). Gli esempi culminano nel prigioniero del campo di concentramento nazista, spogliato di ogni statuto politico e ridotto integralmente a nuda vita: nel campo “il potere non ha di fronte a sé che la pura vita senz’alcuna mediazione” (HS 191). Forse però la sola vera “definizione” della nuda vita si trova nella terza “Soglia” che funge da conclusione del libro: “Nuda”, nel sintagma “nuda vita”, corrisponde qui al termine greco haplôs, con cui la filosofia prima definisce l’essere puro. L’isolamento della sfera dell’essere puro, che costituisce la prestazione fondamentale della metafisica dell’occidente, non è, infatti, senza analogie con l’isolamento della nuda vita nell’ambito della sua politica. A ciò che costituisce, da una parte, l’uomo come animale pensante, fa riscontro puntualmente, dall’altra, ciò che lo costituisce come animale politico. In un caso, si tratta di isolare dai molteplici significati del termine “essere” (che, secondo Aristotele, “si dice in molti modi”), l’essere puro (on haplôs); nell’altro, la posta in gioco è la separazione della nuda vita dalle molteplici forme di vita concrete. (HS 203)

Nell’essere puro e nella nuda vita la metafisica e la politica occidentali trovano il loro fondamento e il loro senso, ma, allo stesso tempo, isolando il loro elemento proprio, esse sembrano urtarsi a un “limite impenetrabile”: “Poiché, certo, la nuda vita è altrettanto indeterminata e impenetrabile dell’essere haplôs e, come di quest’ultimo, così si potrebbe dire di essa che la ragione non può pensarla se non nello stupore e nell’attonimento” (HS 203). Agamben costruisce, cioè, la nuda vita come un concetto limite, “vuoto e indeterminato”, a cui conferisce però il compito di “custodire le chiavi del destino storico-politico dell’occidente” (HS 203): solo decifrando l’enigma dell’essere puro e della nuda vita, solo comprendendo l’indissolubile nesso tra ontologia e politica, egli sostiene, potremo uscire dall’impasse della politica occidentale. Il sintagma “nuda vita” è entrato ormai nel linguaggio filosofico-politico contemporaneo ed è senza dubbio l’espres83

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sione più popolare e popolarizzata del vocabolario agambeniano; e tuttavia la sua costruzione come limite indeterminato e impenetrabile ha dato luogo, non solo a fraintendimenti e usi impropri, ma a una serie di critiche profonde e a volte addirittura feroci.

‫א‬

Differenza specifica. Agamben nota fin dall’inizio che ci sono eccezioni alla sua distinzione tra zoé e bios, e nota soprattutto il fatto che Aristotele, nella Politica, definisce l’uomo come politicòn zôon (1253a, 4), il che contraddirebbe la tesi della politicità del solo bíos e non della zoé; e tuttavia spiega questa incongruenza con il fatto che “politico non è attributo del vivente come tale, ma è una differenza specifica che determina il genere zôon” (HS 5). Questa breve giustificazione è apparsa a molti critici insufficiente, e ha dato luogo ad attacchi veementi, che hanno contestato l’intero apparato filologico di Agamben e considerato arbitraria la divisione chiara e univoca tra zoé e bios. Per esempio, Laurent Dubreuil (2008: 126) accusa Agamben (e Arendt) di semplificare il discorso aristotelico e di dissolverlo nella grandiosa entità dei “Greci”; con non minore ferocia, e in uno dei suoi rari riferimenti ad Agamben, Derrida (2009: 404, 406-7) contesta la distinzione tra attributo e differenza specifica nella giustificazione del politicòn zôon, e con essa l’intero apparato fondativo della proposta di Agamben e la presunta specificità biopolitica della modernità (cfr. Regazzoni 2012: 29-44).

‫ א‬Problemi di traduzione. Uno degli aspetti più polemici del dibattito sulla “nuda vita” è il fatto che Agamben traduca l’aggettivo benjaminiano bloß come “nuda”. In tedesco bloß significa “mero”, “nient’altro che”, e quindi anche “scoperto” e “nudo”; le più recenti traduzioni italiane di Benjamin rendono infatti bloßes Leben come “mera vita” e non “nuda vita”. Curioso è il fatto che, nella traduzione tedesca di Homo sacer, “nuda vita” non sia stato ritradotto come bloßes Leben ma come nacktes Leben (dove nackt significa “nudo” nel senso di “senza vestiti”), il che ha dato luogo a non poche polemiche. Nelle traduzioni inglesi, solo Vincenzo Binetti e Cesare Casarino hanno optato (nella loro traduzione di Mezzi senza fine) per naked life, mentre il termine è entrato ormai nel vocabolario filosofico-politico internazionale nella forma che gli ha dato Daniel Heller-Roazen nelle sue prime traduzioni di Agamben, bare life, dove bare si avvicina più al tedesco bloß che all’italiano “nudo”. È da notare tuttavia, che “nuda vita” non è un’arbitraria scelta di Agamben, ma è il termine, elegante ma ambiguo, che Renato Solmi scelse per la sua traduzione dell’antologia benjaminiana Angelus Novus nel 1962 (cfr. Benjamin 1995), con la quale Agamben iniziò a leggere Benjamin (Sofri 1985:32), e che si è limitato ad adottare fin dal principio (anche se poi l’ha profondamente trasformato e “fatto suo”). 84

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Gender-blindness. Un altro aspetto assai criticato del sintagma “nuda vita”, in particolar modo da una prospettiva femminista, è la completa assenza di ogni determinazione di genere. Agamben è in generale accusato di quella che in inglese si chiama gender-blindness, o “cecità alle differenze di genere”, non solo per l’uso (ancora assai comune) di quello che le femministe chiamano il “neutro universale ‘uomo’” al posto di “essere umano” (che qui abbiamo per coerenza conservato), ma in particolar modo per l’assenza di determinazioni di genere, sessualità, razza, e classe nell’eccessiva astrazione della “nuda vita”, che non riconosce, sostiene Catherine Mills, la “distribuzione ineguale del fardello di vulnerabilità e violenza nella sfera sociale, economica e (geo)politica” (Mills 2008: 136: cfr. anche Mills in AD 124). Se Mills dubita che le questioni di genere possano perfino essere sollevate all’interno dello schema concettuale agambeniano, Ewa Ziarek (2008) propone invece di riconsiderare il concetto di “nuda vita”, sottraendolo dall’isolamento da ogni determinazione culturale e sociale e “completandolo” con le determinazioni di razza, genere e classe. Penelope Deutscher (2008), oltre a notare la quasi completa assenza del corpo femminile negli scritti di Agamben, sostiene che la sua elaborazione dell’homo sacer presenta una vicinanza inquietante con alcuni discorsi antiabortisti estremisti, che usano a proposito dell’aborto proprio la metafora dell’olocausto e assegnano quindi alla donna lo status di un sovrano minaccioso. Contro queste interpretazioni (e più in là degli “adattamenti” del concetto di “nuda vita” alla condizione femminile; cfr. la femina sacra di Millán de Benavides 2004), Colby Dickinson (2011b : 190, 200-1) sostiene invece che il progetto di Agamben, in quanto si basa su una critica e “disattivazione” (cfr. sezione 7.1.6) delle significazioni (sociali, culturali) di genere e sesso, sarebbe addirittura affine a certe istanze presenti nei contemporanei Gender Studies.

‫ א‬Vita e morte. La mancanza di determinazioni positive si traduce per alcuni interpreti in determinazioni negative, per cui il sintagma “nuda vita” è stato ulteriormente criticato per la sua eccessiva “negatività”. In una delle prime recensioni a Homo sacer, Luciano Ferrari Bravo accusa precisamente Agamben di fissarsi unicamente sul nesso vita-morte e di far coincidere così la nuda vita “con ciò che vivente non è, col mondo inorganico, ma soprattutto con ciò che vivo non è (non è ancora o non è più): con la morte appunto” (2001: 280). Antonio Negri ha sviluppato questa critica in uno degli attacchi più corrosivi alla costruzione agambeniana: la “nuda vita” è per Negri un’“ideologia” e una “mistificazione che va combattuta”, perché appiattisce sul nudo la qualità umana e la riduce all’impotenza. “Assumere il nudo a rappresentare la vita”, scrive Negri, “significa omologare la natura del soggetto e il potere che la rese nuda e confondere in quel nudo ogni potenza della vita”. La nuda vita in questo modo rinnega la potenza dell’essere e ne neutralizza la possibilità di espressione, essa “è il contrario di 85

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ogni spinoziana potenza e gioia del corpo. È l’esaltazione dell’umiliazione, della pietà, è cristianesimo medievale” (Negri 2001: 193-95) (sulla critica di Negri ad Agamben si veda Neilson 2004).

5.3. La struttura dell’eccezione Homo sacer si apre con la definizione del “paradosso della sovranità”: “il sovrano è, nello stesso tempo, fuori e dentro l’ordinamento giuridico” (HS 19). Qui Agamben prende la definizione che apre il primo saggio di Teologia politica (1922) di Schmitt (“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, Schmitt 1972: 33) come la definizione di sovranità tout court, una mossa spesso e da più parti criticata. Se, per Schmitt, sovrano è colui al quale l’ordinamento giuridico riconosce il potere di proclamare lo stato di eccezione e di sospendere così la validità dell’ordinamento stesso, allora egli sta fuori e dentro l’ordinamento, si pone legalmente fuori legge. Questo significa, per Agamben, che la condizione di possibilità dell’ordinamento, della norma, sta nell’eccezione sovrana, nella sospensione della norma stessa, ovvero, la norma si mantiene in relazione con l’eccezione nella forma della sospensione: “la norma si applica nell’eccezione disapplicandosi, ritirandosi da essa” (HS 22). Questa è la “relazione di eccezione”, che include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione, e crea così una soglia di indifferenza tra la situazione di diritto (la norma) e la situazione di fatto (l’eccezione). Questa è, per Agamben, “la struttura formale originaria della relazione giuridica”, “la struttura politicogiuridica originaria” (HS 23-24). Questa zona di indifferenza, in cui fatto e diritto sono indistinguibili, è quindi anche una zona di indecidibilità, in cui non è possibile decidere con chiarezza su inclusione ed esclusione, su dentro e fuori, su eccezione e norma: la decisione sovrana è “la posizione di un indecidibile” (HS 33). L’eccezione, la situazione di fatto, la singolarità che viene in questo modo esclusivamente inclusa dal nomos, è la physis, ovvero la vita. L’eccezione è quindi “la struttura originaria in cui il diritto si riferisce alla vita e la include in sé attraverso la pro86

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pria sospensione” (HS 34). E questo è il significato immediatamente e originariamente biopolitico dello stato di eccezione (si veda anche SE 12). Mutuando il concetto da L’imperativo categorico (1983) di Jean-Luc Nancy, Agamben chiama la relazione di eccezione “bando”, nella duplice accezione di esclusione (il bandito come fuorilegge) e di comando (bandito come promulgato dalla legge); la vita è “ab-bandonata” dalla legge nel senso che essa è esposta nello stato di eccezione, nella soglia in cui esterno e interno si confondono: “il rapporto originario della legge con la vita non è l’applicazione, ma l’Abbandono” (HS 34). Il frammento 169 di Pindaro (“Il nomos di tutti sovrano / dei mortali e degli immortali / conduce con mano più forte / giustificando il più violento”, HS 36) permette ad Agamben di aggiungere una determinazione inquietante a questo Abbandono: nella zona di indistinzione dell’eccezione sovrana, diritto e violenza diventano anch’essi indistinti, per cui il sovrano diventa “il punto di indifferenza fra violenza e diritto, la soglia in cui la violenza trapassa in diritto e il diritto in violenza” (HS 38). Ciò che costituisce la sovranità è dunque una “coincidenza” di violenza e diritto. Questa è la tesi portante di “Per la critica della violenza” di Benjamin, che, a ragione, Adam Kotsko ha definito come il riferimento primario per l’intero progetto agambeniano (pur criticando la lettura che Agamben ne dà; cfr. Kotsko 2008). In un certo senso si può sostenere che la seconda parte di Homo sacer costituisce un approfondimento genealogico delle tesi benjaminiane, articolate però sull’asse della relazione di eccezione schmittiana. Come abbiamo visto, la sacratio, ovvero il dichiarare un uomo come sacer, configura una doppia eccezione, che esclude l’homo sacer tanto dal diritto umano che da quello divino, e in questo modo doppiamente lo include. E il tratto fondamentale di questa doppia esclusione inclusiva è la sua esposizione alla violenza: “Sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio, e sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera” (HS 92). Se la relazione di eccezione è la forma originaria del bando sovrano, ne consegue che 87

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la produzione di questa vita, della nuda vita, è “la prestazione originaria della sovranità” (HS 93). Sacer esto (sia sacro), sostiene Agamben, è “la formulazione politica originaria dell’imposizione del vincolo sovrano” (HS 95). In Homo sacer, il cuore di questa interpretazione della sovranità è costituito da una lettura della leggenda kafkiana “Davanti alla legge”, che narra di un contadino che si presenta davanti alla “Porta della legge” e chiede di accedervi, a cui il guardiano della porta risponde presentandogli varie difficoltà, e in definitiva l’impossibilità, di farlo. Per Agamben, la leggenda kafkiana rappresenta “in uno scorcio esemplare la struttura del bando sovrano”, “la forma pura della legge” (HS 57): la porta è aperta e nulla impedisce veramente al contadino di entrarvi, il che significa per Agamben che la legge “si afferma con più forza proprio nel punto in cui non prescrive più nulla, cioè come puro bando” (HS 57). La legge, cioè, si applica disapplicandosi, tiene il contadino nel suo bando abbandonandolo fuori di sé, lo include escludendolo e lo esclude includendolo. Da una lettera a Benjamin, in cui Geshom Scholem discute e critica il saggio benjaminiano su Kafka del 1934, Agamben deriva la definizione di questa situazione della legge come “vigenza senza significato” (Geltung ohne Bedeutung): la struttura del bando sovrano è quella di “una legge che vige ma non significa” (HS 59). Questa è anche la struttura che Kant ha lasciato in eredità al pensiero occidentale: la legge kantiana (l’imperativo categorico del “puoi perché devi”) presenta la “forma” elementare della legge, indipendentemente da qualsiasi “contenuto” specifico, “una legge ridotta al punto zero del suo significato e che, tuttavia, vige come tale” (HS 60). In Stato di eccezione (2003), questa struttura viene riassunta nella formula “forza-di-legge”, dove la legge sous rature, barrata, esprime la separazione/confusione tra forza e applicabilità, per cui, da un lato, la norma vige ma non si applica, e, dall’altro, atti che non hanno valore di legge ne acquistano la “forza”; e questo isolamento della “forza-dilegge” dalla legge è, per Agamben, la “prestazione specifica dello stato di eccezione” (SE 52). Questa struttura fondamentalmente (anche se criticamente) 88

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schmittiana deve però essere completata con una specificazione che ne rovescia il significato: fin dalle prime pagine, Agamben propone la tesi secondo cui “proprio lo stato di eccezione, come struttura politica fondamentale, nel nostro tempo emerge sempre più in primo piano e tende, in ultimo, a diventare la regola” (HS 24). La definizione schmittiana di sovranità viene cioè rovesciata e in certo senso disattivata dall’affermazione di Benjamin che apre la tesi VIII di Sul concetto di storia: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola” (OC 7: 486). La tesi di Benjamin permette ad Agamben, nella terza parte di Homo sacer, di gettare un ponte tra la teoria della sovranità di Schmitt e la tesi sulla biopolitica di Foucault: la cesura storica che caratterizza la modernità è, in termini schmittiani/benjaminiani, che l’eccezione sovrana diventa (sempre più) la regola, ma questo significa precisamente, in termini foucauldiani, che l’ambito della nuda vita si allarga fino a coincidere con la vita stessa dei cittadini, e la politica non diventa, ma piuttosto si rivela come, biopolitica. Da un lato, gli eventi fondanti della democrazia moderna, l’Habeas corpus del 1679 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, iscrivono la vita naturale nell’ordine giuridico-politico dello Stato-nazione e ne fanno la posta in gioco del conflitto politico: la vita viene così investita come tale del principio di sovranità. Dall’altro, questa investitura significa precisamente l’estensione dell’ambito della decisione sovrana, dello stato di eccezione, all’intero campo politico, per cui esso da eccezione diventa la regola. Quando l’eccezione diventa la regola, lo spazio che si apre è il campo di concentramento. Qui sono gli studi di Arendt sul totalitarismo che devono integrare la tesi di Foucault (che, sostiene Agamben, non aveva mai spostato la sua indagine sui campi; a loro volta gli studi di Arendt mancherebbero di ogni prospettiva biopolitica). Gli esperimenti totalitari del novecento costituiscono i casi estremi e allo stesso tempo – o proprio per questo (cfr. Ross 2008: 3) – paradigmatici della trasformazione biopolitica della modernità: in essi, lo stato di eccezione, che lo statuto prevedeva in caso di situazioni provvisorie di pericolo 89

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per la sicurezza pubblica o nazionale, viene esteso – come effettivamente avvenne durante i 12 anni di regime nazista in Germania – indefinitamente e diventa a tutti gli effetti la regola. E il campo è “la struttura in cui lo stato di eccezione […] viene realizzato normalmente” (HS 190). L’essenza del campo consiste cioè nella materializzazione dello stato di eccezione e nella creazione di uno spazio in cui la nuda vita e la norma entrano in una soglia di indistinzione; e ogni volta che una tale struttura viene creata, ci troviamo virtualmente (giuridicamente parlando) in presenza di un campo. In Homo sacer Agamben cita, oltre ai vari campi creati in periodo di guerra, lo stadio di Bari in cui nel 1991 la polizia italiana ammassò gli immigrati clandestini albanesi prima di rimpatriarli, e le zones d’attente negli aeroporti internazionali francesi, in cui vengono trattenuti gli stranieri che chiedono il riconoscimento dello statuto di rifugiato, e in Stato di eccezione porta a esempio il campo di prigionia statunitense a Guantanamo, dove vengono detenuti i prigionieri catturati in Afganistan; ma noi potremmo aggiungere tanti altri casi, fino agli attuali Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) dell’ordinamento italiano, in cui vengono trattenuti gli immigrati illegali in attesa di esplusione. Quello che accomuna tutti questi casi – peraltro così eterogenei e diversi – è, Agamben ripete spesso, lo “statuto giuridico” dello spazio delimitato e della persona che vi entra (cfr. per esempio l’intervista con Beppe Caccia 1998: 21). Questo porta Agamben a proporre la sua tesi più “oltraggiosa”: è il campo, e non la polis, il pardigma, la matrice nascosta, il nomos del moderno. Rispetto a questa tesi, il volume II/1, Stato di eccezione, pubblicato a otto anni di distanza da Homo sacer, presenta un leggero spostamento di fuoco: la ricerca sullo stato di eccezione viene qui approfondita e articolata in senso filologico-genealogico, il che porta Agamben, da un lato, ad analizzare i molti tentativi da parte dei giuristi di definire e includere lo stato di eccezione nel corpo dell’ordinamento, e, dall’altro, a cercarne le radici ancora più indietro, fino all’istituto del iustitium (“arresto, sospensione del diritto”) nel diritto romano, fondato nell’auctoritas (anomica e metagiuridica) come contrapposta alla 90

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potestas (normativa e giuridica). A questo si aggiunge un approfondimento della lettura di Schmitt, che, mettendo a confronto due testi, La dittatura (1921) e Teologia politica (1922), cerca di gettare nuova luce sulla questione. I risultati di questa vasta e – al solito – estremamente erudita ricerca possono essere riassunti in due punti principali: 1) lo stato di eccezione non si definisce, come la dittatura, come una pienezza di poteri, ma è piuttosto un vuoto e un arresto del diritto; di qui la vanità di tutti i tentativi di includerlo nell’ordinamento, di “normalizzarlo” e regolamentarlo; 2) questo spazio vuoto di diritto, questo spazio anomico, sembra però essere essenziale all’ordine giuridico, che tenta sempre e in ogni modo di appropriarsi di esso. La dialettica – costitutiva del sistema politico-giuridico occidentale – tra nomos e anomia è ciò che crea lo stato di eccezione, il cui compito è quello di articolare e tenere insieme i due poli antagonistici; questa dialettica funziona – anche se è sempre assai fragile e instabile – fintantoché i due poli rimangono distinti, ma quando essi tendono a coincidere, quando l’eccezione diventa la regola, “allora il sistema giuridico-politico si trasforma in una macchina letale” (SE 110). Rispetto a Homo sacer, in Stato di eccezione Agamben non guarda tanto al campo, quanto allo stato di eccezione come “paradigma di governo”, che nella politica contemporanea diventa sempre più dominante: questo paradigma consiste sostanzialmente in una pratica di legislazione per via di decreti governativi o decreti-legge, che, “da strumento derogatorio ed eccezionale di produzione normativa [sono] diventat[i] un’ordinaria fonte di produzione del diritto” (SE 26). Quando i decretilegge diventano la forma normale di legislazione, la distinzione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario viene meno, il potere esecutivo assorbe di fatto gli altri due (sotto questo profilo l’Italia è stata, per Agamben, “un vero e proprio laboratorio politico-giuridico”, SE 26) e la democrazia parlamentare si trasforma in democrazia “governamentale” (SE 26). Stato di eccezione mostra, cioè, un allargamento del campo di indagine, che ricentra i vari studi che compongono il volume II del progetto sul campo ben più ampio di un’archeologia del “potere” tout 91

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court. L’analisi della “governamentalità” condurrà Agamben, come passo successivo, al suo studio più complesso e ambizioso, Il Regno e la Gloria.

‫א‬

All’ombra di Schmitt. Molti lettori, soprattutto nel mondo anglosassone, hanno trovato oltraggioso e addirittura scandaloso il fatto che Agamben si basi in modo così fondamentale sulle teorie di Schmitt, Kronjurist del Terzo Reich nazista. Al di là di facili prese di posizione, alcuni critici hanno esaminato filosoficamente questa dipendenza teorica: tra gli altri, Alfonso Galindo (2005: 18-19) rileva uno “spazio di coincidenza” tra Schmitt e Agamben a proposito del diagnostico sulla politica moderna, pur sottolineando il rovesciamento polemico della teologia politica di Schmitt operato da Agamben. Andrew Norris (2005: 264), come anche Derrida (2009: 134-35), prolungano questo spazio di coincidenza individuando una certa “logica della sovranità” all’opera nel discorso di Agamben, dato l’isomorfismo tra l’eccezione e l’esempio o il paradigma, per cui i paradigmi scelti da Agamben sarebbero frutto di una decisione sovrana che divide, schmittianamente, i lettori in amici e nemici. Questa logica “schmittiana” informa anche, per Judith Butler, l’analisi agambeniana della sovranità, “monolitica” e “onnicomprensiva”, a cui lei contrappone (foucauldianamente) una più utile molteplicità di discorsi di potere (Butler e Spivak 2007: 36, 102; cfr. anche Kalyvas 2005: 111). Nell’introduzione alla raccolta di saggi e interviste di Schmitt curata da Agamben nel 2005 possiamo trovare una sorta di risposta alle critiche: per Agamben, la rilevanza di Schmitt è dovuta al fatto che, al di là di “facili prese di distanza” e di “altrettanto stolide esaltazioni”, il suo pensiero è pregno di attualità, esso forma una “costellazione […] con i problemi politici decisivi del nostro tempo”, ed è per questo che questo “pensatore fascista […] continua a riguardarci da vicino” (GDS 7-8).

‫ א‬I due (o tre) Agamben. Alle critiche per l’eccessiva dipendenza di Agamben dallo schema schmittiano (che pure condivide), Antonio Negri aggiunge l’accusa di una sua eccessiva dipendenza dall’ontologia heideggeriana, che ne limiterebbe un’autentica comprensione della politica. Con una definizione che ha avuto notevole fortuna critica, Negri afferma, in una recensione a Stato di eccezione (ripresa poi anche in Negri 2007b: 117), che esisterebbero due Agamben: un primo Agamben heideggeriano, ossessionato dall’orizzonte della morte e della negatività, la cui ontologia cinica e pessimista non presenta vie d’uscita; e un secondo Agamben, che segue invece una linea spinozista e deleuziana carica di “febbrile ansia utopica” (Negri 2003: 21). L’heideggerismo – dominante – del primo Agamben è quello della “nuda vita”, che riduce a impotenza la relazione tra vita e potere, a cui Negri contrappone una nozione “spinoziana” di “biopotere” che è 92

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in grado di superare il limite mortifero della negatività (cfr. Casarino e Negri 2004: 171-75). Anche se, in una successiva recensione a Opus Dei, Negri rileverà il distacco di Agamben dall’ontologia heideggeriana, l’accusa di lavorare “contro ogni umanesimo, contro ogni possibilità di azione, contro ogni speranza di rivoluzione” rimarrà immutata (Negri 2012: 10). William Watkin chiama i due Agamben di Negri il “metafisico” e il “politico”, ma ne aggiunge un terzo, l’Agamben “letterario”, che nella dialettica tra metafisica e politica inserirebbe la possibilità di una dissoluzione “poetica” del loro antagonismo dialettico (Watkin 2010: 2-3 e passim).

‫א‬

Critica della normatività. Con il termine “legge” Agamben intende “l’intero testo della tradizione nel suo aspetto regolativo, che si tratti della Torah ebraica o della Shariah islamica, del dogma cristiano o del nomos profano” (HS 59). Questo rifiuto assoluto di ogni tipo di normatività ha attirato non poche critiche: Catherine Mills, per esempio, sostiene che esso porta a un “assolutismo concettuale” che situa la proposta politica di Agamben “al di fuori di ogni possibile intervento critico” (Mills 2008: 136); Andrew Benjamin contesta le basi stesse della lettura agambeniana del frammento 169 di Pindaro, e sostiene che è proprio il nomos che Agamben troppo rapidamente identifica con la “legge” e la violenza ciò che invece crea lo spazio stesso della comunità (Andrew Benjamin 2005); William Connolly, infine, sostiene che quest’estrema astrazione di Agamben è un’eccessiva semplificazione che annulla le complessità della via sociale e culturale (Connolly 2007). La tesi su cui Agamben ripetutamente insisterà fino alla sua (per il momento) ultima pubblicazione, Il mistero del male (2013), è però che la crisi della normatività nelle società contemporanee consiste in una crisi del principio stesso che fonda e legittima il potere, e cioè in una confusione e appiattimento dei due principi di legalità e legittimità, per cui ormai “la macchina politica gira a vuoto con esisti spesso letali” (MM 8). Il superamento di questa crisi non può risiedere soltanto nel piano del diritto (“L’ipertrofia del diritto, che pretende di legiferare su tutto, tradisce anzi, attraverso un eccesso di legalità formale, la perdita di ogni legittimità sostanziale”, MM 6-7), ma avrà bisogno, come vedremo, di un ripensamento radicale dell’ontologia stessa su cui si fondano l’etica e la politica occidentali.

‫ א‬Il tatuaggio biopolitico. Nel gennaio 2004, Agamben cancellò all’improvviso un corso che avrebbe dovuto tenere qualche mese dopo alla New York University, per protestare contro le nuove misure di sicurezza adottate dal governo degli Stati Uniti che prevedevano la schedatura delle impronte digitali di ogni straniero che voleva fare ingresso nel paese. Espose le sue ragioni in un articolo sul quotidiano La Repubblica, “Se lo Stato sequestra il tuo corpo”, largamente diffuso poi su molti quotidiani stranieri, e che causò non poco clamore e scandalo per il parallelo (paradigmatico) che isti93

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tuiva tra questa schedatura e i tatuaggi dei deportati di Auschwitz. Con la schedatura elettronica delle impronte digitali e della retina, scrive Agamben, le pratiche di identificazione personale, inizialmente ideate per schedare i delinquenti abituali (e la cui storia ricostruirà brevemente in “Identità senza Persona” [2009], NU 71-82), giungono a una soglia “il cui oltrepassamento segna una nuova condizione biopolitica globale”, in cui la nuova relazione biopolitica “normale” fra i cittadini e lo stato si costruisce sull’“iscrizione e la schedatura dell’elemento più privato e incomunicabile: la vita biologica dei corpi”. Come probabilmente il tatuaggio ad Auschwitz era sembrato il modo più “normale” ed economico di regolare l’iscrizione dei deportati nel campo, così, Agamben conclude, “il tatuaggio biopolitico che oggi ci impongono per entrare negli Stati Uniti è la staffetta di quello che domani potrebbero farci accettare come l’iscrizione normale dell’identità del buon cittadino nei meccanismi e negli ingranaggi dello stato” (SSC 42).

5.4. Il paradigma gestionale Il capitolo di Homo sacer intitolato “Potenza e diritto”, che, come già aveva notato de la Durantaye (2009: 229), è assolutamente centrale anche se per lo più trascurato dalla letteratura critica, si interroga sulla relazione irrisolta nella teoria politica occidentale tra “potere costituente” e “potere costituito”. Sulla falsariga di “Per la critica della violenza” di Benjamin, Agamben li ridefinisce come “violenza che pone il diritto” e “violenza che lo conserva” (HS 47) e rileva l’estrema difficoltà di distinguerli e separarli, ragion per cui critica il tentativo di Negri (in Il potere costituente, 1992) di mostrare l’irriducibilità del potere costituente a qualsiasi forma di ordinamento costituito e l’impossibilità di ricondurlo al principio di sovranità (HS 50). Il merito di Negri è tuttavia, per Agamben, quello di aver restituito alla questione il suo rango ontologico, facendo segno verso un’“ontologia della potenza” che deve interrogarsi sulla dialettica irrisolta tra potenza e atto. Agamben ripropone quindi brevemente l’analisi del libro Theta della Metafisica aristotelica già svolta in “La potenza dell pensiero”, La comunità che viene e Bartleby, ma per esporre qui una tesi sorprendente, e cioè che, con la sua analisi della potenza, Aristotele ha consegnato alla filosofia occidentale il “paradigma della sovranità”: “Poiché 94

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alla struttura della potenza, che si mantiene in relazione con l’atto precisamente attraverso il suo poter non essere, corrisponde quella del bando sovrano, che si applica all’eccezione disapplicandosi” (HS 54). Questo tema, già presente fin da “Idea del potere” di Idea della prosa (qui il potere è definito come “l’isolamento della potenza dal suo atto, l’organizzazione della potenza”, IP 51), costituisce una sorta di filo rosso che attraversa tutte le ricerche successive e viene di volta in volta ridefinito, riarticolato e rinominato. L’ultimo capitolo di Stato di eccezione lo presenta come la dialettica tra auctoritas e potestas nel diritto romano: la potestas pertiene ai magistrati, ed è quindi un principio pienamente giuridico, mentre l’auctoritas (che sta a fondamento del potere del senato di sospendere il diritto attraverso la proclamazione del iustitium) è prerogativa del senato (e poi di Augusto) e non vige formalmente come diritto, ma si riferisce direttamente a, e scaturisce da, la persona stessa, e cioè dalla vita. Il capitolo si conclude con una tesi riassuntiva di estrema importanza per le analisi successive: Il sistema giuridico dell’Occidente si presenta come una struttura doppia, formata da due elementi eterogenei e, tuttavia, coordinati: uno normativo e giuridico in senso stretto – che possiamo qui iscrivere per comodità sotto la rubrica potestas – e uno anomico e metagiuridico – che possiamo chiamare col nome di auctoritas. L’elemento normativo ha bisogno di quello anomico per potersi applicare, ma, d’altra parte, l’auctoritas può affermarsi solo in una relazione di validazione o di sospensione della potestas. (SE 109-10)

Il volume II/2, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo (2007), si propone precisamente di analizzare la genealogia e la struttura di questa articolazione, dove i due elementi eterogenei ma coordinati prendono ora il nome di Regno e Governo. Lo studio prende le mosse dal concetto di “governamentalità”, coniato da Foucault nei suoi corsi al Collège de France a partire dal 1977 (in particolare in Sicurezza, territorio, popolazione [1977-1978] e Nascita della biopolitica [1978-1979]) per definire “l’arte del 95

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governo” in senso lato, ovvero non limitato alle politiche statuali, ma esteso a includere una vasta gamma di soggetti e di tecniche di controllo. Come già aveva fatto in Homo sacer, Agamben amplia la portata cronologica della genealogia foucauldiana e la integra con l’innesto della teologia politica di Schmitt: la tesi che ora propone è che la forma paradigmatica per comprendere il funzionamento e l’articolazione della macchina governamentale è il dispositivo della dottrina trinitaria elaborato nei primi secoli della teologia cristiana nella forma di una oikonomia. Per sostanziare questa tesi, Agamben procede a una – al solito – eruditissima ricerca genealogica che analizza e discute una quantità impressionante di testi, antichi e moderni, teologici, filosofici, giuridici e antropologici, portando il libro a una voluminosità per lui affatto inusuale. L’innesto della teologia politica schmittiana sulla genealogia foucauldiana comporta non solo l’ampliamento cronologico e tematico della ricerca genealogica, per cui il paradigma governamentale va ora cercato nell’elaborazione teologica della dottrina trinitaria, ma anche un’integrazione del paradigma teologico-politico, a cui Agamben ne accosta uno “teologico-economico”. Se la teologia politica schmittiana (enunciata in modo lapidario all’inizio del terzo ed eponimo saggio di Teologia politica nella tesi “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”, Schmitt 1972: 61) fonda nell’unico Dio la trascendenza del potere sovrano, la teologia economica concepisce invece l’oikonomia come un ordine immanente: il primo paradigma fonda la filosofia politica e la teoria della sovranità, il secondo la biopolitica e il trionfo dell’economia; il primo è propriamente “politico”, mentre il secondo è “gestionale” e “governamentale” (e quindi “impolitico”). I due paradigmi sono quindi sostanzialmente antinomici, ma, come Agamben cercherà di dimostrare, funzionalmente connessi. La ricerca prende le mosse dall’etimologia greca di oikonomia come “amministrazione della casa” (oikos), che la vede contrapposta (nello schema aristotelico) alla politica come arte di governare la polis. Il paradigma che su essa si basa è quindi 96

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“gestionale”, “implica decisioni e disposizioni che fanno fronte a problemi ogni volta specifici, che riguardano l’ordine funzionale (taxis) delle diverse parti dell’oikos” (RG 31); esso designa una “prassi” e non un’“episteme”, una scienza. Attraverso una lunga e minuziosa analisi di testi teologici, essenzialmente del secondo e terzo secolo d.C., Agamben mostra come il termine oikonomia venga trasposto in ambito teologico e finisca per designare l’articolazione trinitaria della vita divina, la “disposizione ordinata” che articola l’essere divino in una trinità pur mantenendolo in una unità: la trinità non è quindi un’articolazione dell’essere divino, ma della sua prassi, non è un’ontologia o una metafisica, ma un “apparato di governo” e di amministrazione, articolato “in termini economici e non politici” (RG 57). Questo paradigma di articolazione e amministrazione della vita divina viene poi trasposto al governo delle creature attraverso la nozione di “provvidenza”. Qui il parallelo con il paradigma dello stato di eccezione è importante: entrambi “coincidono nell’idea di una oikonomia, di una prassi gestionale che governa il corpo delle cose, adattandosi ogni volta, nel suo intento salvifico, alla natura della situazione concreta con cui deve misurarsi” (RG 64). Il problema che il paradigma economico tenta di risolvere è quello della separazione in Dio (sconosciuta al mondo classico) tra essere e agire, tra ontologia e prassi. L’economia attraverso la quale Dio governa il mondo è distinta e non deducibile dal suo essere, per cui i due poli devono essere articolari da un terzo termine: questo ponte, la parola (Logos) e la prassi di Dio, è il Figlio, che in questo modo viene però “sradicato dall’essere e reso anarchico”. “Che Cristo sia ‘anarchico’ significa che, in ultima istanza, il linguaggio e la prassi non hanno fondamento nell’essere”; e, per la storia filosofico-politica dell’Occidente, significa “un conflitto fra essere e agire, fra ontologia ed economia, fra un essere in sé incapace di azione e un’azione senza essere” (RG 74-75). Agamben riarticola in questo modo la dialettica irrisolta tra potenza e atto, che costituisce il nucleo essenziale di Homo sacer, nel conflitto tra essenza e potenza, tra arché e dynamis, che si traduce, nella teoria e prassi politica, 97

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nella separazione tra Regno e Governo. Questa separazione è, di nuovo, quella tra auctoritas e potestas. Rispetto a Stato di eccezione, l’articolazione di questi due termini si riferisce qui alla separazione/coordinazione fra il potere e il suo esercizio, fra un potere senza esecuzione effettiva (l’auctoritas, il Regno) e un potere di esercizio (la potestas, il Governo); questa separazione ricalca la frattura ontologica fra trascendenza e immanenza che Aristotele ha lasciato in eredità alla tradizione occidentale con la sua teoria della relazione tra il motore immobile e il cosmo (nel libro Lambda [XII] della Metafisica), e l’oikonomia cristiana nomina l’incessante attività di governo che tenta di ricomporla. Per un’analisi del potere, questo significa che non vi è un’arché di esso, che il potere non si fonda in un essere e in un’ontologia, che esso è sostanzialmente “an-archico”, insostanziale, puramente “economico”: “Non vi è una sostanza del potere, ma solo un’‘economia’, soltanto ‘governo’” (RG 156). La conclusione di quest’analisi è che il dispositivo economico-provvidenziale contiene “qualcosa come il paradigma epistemologico del governo moderno” (RG 159), e la vocazione economico-governamentale delle democrazie contemporanee deriva in modo essenziale da esso. Un saggio contemporaneo alle ricerche che confluiranno in Il Regno e la Gloria, Che cos’è un dispositivo? (2006), nota che la traduzione del termine oikonomia negli scritti dei padri latini è dispositio (CD 18), e il termine (foucauldiano) “dispositivo” verrà quindi a indicare nel vocabolario agambeniano il macchinario “economico” delle politiche governamentali. E tuttavia la ricerca non si ferma qui, ma si spinge oltre in un ambito che inizialmente Agamben non aveva messo in conto: l’analisi del paradigma economico come governo e gestione efficace non spiega un aspetto essenziale e perdurante del potere, il suo carattere cerimoniale e liturgico, che Agamben chiama “Gloria”. Se il potere è “essenzialmente forza e capacità di azione e di governo”, si chiede, “perché assume la forma rigida, ingombrante e ‘gloriosa’ delle cerimonie, delle acclamazioni e dei protocolli?” (RG 10). La risposta richiede una nuova indagine archeologica, che allunga di più di un terzo il volume del libro (qui per Negri comincia un secondo 98

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libro, più vicino a Quel che resta di Auschwitz che a Stato di eccezione; cfr. Negri 2007: 18), ma che raggiunge anche (come vedremo meglio nel capitolo 7) dei risultati essenziali nell’economia dell’intero progetto. La Gloria, “la zona incerta in cui si muovono acclamazioni, cerimonie, liturgia e insegne” (RG 209), è, prima di tutto, il luogo in cui la relazione fra teologia e politica emerge con evidenza alla luce, o piuttosto, è il luogo in cui esse coincidono: contro la tesi di Schmitt, che identificava la relazione tra le due come una derivazione (“secolarizzazione”) tra due principi ben distinti, Agamben sostiene che “la teologia della gloria costituisce […] il segreto punto di contatto attraverso cui teologia e politica incessantemente comunicano e si scambiano le parti” (RG 215). Questa soglia di indistinzione è costitutiva dell’economia trinitaria stessa, giacché la “gloria” nomina innanzitutto l’operazione di glorificazione reciproca tra il Padre e il Figlio, e cioè la conciliazione tra essere e prassi; in essa, la prassi salvifica di Dio e il suo essere si congiungono e si muovono l’una attraverso l’altro: soltanto nello specchio e nello splendore della gloria “essere ed economia, Regno e Governo sembrano per un istante coincidere” (RG 231). La gloria, sia in ambito divino che profano, non è un mero ornamento del potere, ma lo fonda e lo giustifica. Nelle democrazie moderne, il suo ambito diventa quello dell’opinione pubblica, in cui i media la concentrano, moltiplicano e disseminano al di là di ogni immaginazione nello “spettacolo” debordiano. L’ultima e fondamentale parte del libro cerca di penetrare e spiegare l’essenza e l’arcano di questa assoluta centralità della gloria, mettendola in relazione a un termine essenziale della soteriologia agambeniana: “inoperosità”. Ne rimandiamo l’analisi al capitolo 7, in cui affronteremo anche il tema dell’“anomia” attorno a cui ruota invece Stato di eccezione: entrambi pertengono alla “nuova ontologia della potenza” che costituisce il motore di tutto il progetto e che sfocierà nella proposta politica del volume IV.

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5.5. Diritto e linguaggio Una parte centrale del progetto investe il linguaggio, nei suoi rapporti con la violenza, la religione, il diritto, e in generale con la storia della metafisica occidentale. Per quanto la letteratura critica abbia di norma preferito soffermarsi su altri temi più “tradizionalmente” politici, la ricerca filosofica sul linguaggio è fondamentale, non solo per l’analisi di sovranità, potere, e diritto, ma anche per il progetto soteriologico di Agamben. In effetti, anche nel suo lungo, complesso e articolato progetto “politico”, Agamben rimane fedele a quanto affermava, sei anni prima della pubblicazione di Homo sacer, in “Experimentum linguae”: “Nei libri scritti e in quelli non scritti, io non ho voluto pensare ostinatamente che una cosa sola: che significa ‘vi è linguaggio’, che significa ‘io parlo’?” (IS x). L’idea di linguaggio che informa il nuovo progetto rimane sostanzialmente quella articolata e consolidata nei suoi scritti precedenti, che viene ora declinata in senso più esplicitamente “politico” e approfondita con il metodo archeologico. Il legame tra linguaggio, diritto e violenza era comunque già da sempre esplicito: per esempio, già in una delle “idee” di Idea della prosa più commentate dalla critica, “Idea del linguaggio II”, Agamben interpreta l’apparecchio di tortura del racconto kafkiano “Nella colonia penale” come il linguaggio, che è, “sulla terra e per gli uomini”, “uno strumento di giustizia e punizione” (IP 105). Riprendendo l’idea del saggio benjaminiano “Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo” della lingua postlapsaria come “giudizio” (OC 1: 292), Agamben interpreta il linguaggio come “pena” e afferma: “Per questo la logica ha il suo ambito esclusivo nel giudizio: il giudizio logico è, in verità, immediatamente giudizio penale, sentenza” (IP 106). “Experimentum linguae”, poi, propone già brevemente la struttura dell’interpretazione che troveremo in Homo sacer, mettendo in relazione il linguaggio con il problema aristotelico della “potenza”: la potenza, come sappiamo, “è la facoltà specificamente umana di mantenersi in relazione con una privazione, e il linguaggio, in quanto è scisso in lingua e discorso, contiene 100

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strutturalmente questa relazione, non è nient’altro che questa relazione”; in questa struttura Agamben identifica la radice della “violenza senza precedenti del potere umano” (IS xii). L’introduzione a Homo sacer iscrive l’intero progetto all’interno di questa cornice, facendo riferimento a un passo della Politica aristotelica (1253a, 10-18, che già aveva citato in uno snodo fondamentale dell’ottava giornata di Il linguaggio e la morte, cfr. LM 108-9) che situa il luogo proprio della polis nel passaggio dalla voce al linguaggio: per Aristotele, la comunità della polis può aver luogo solo perché l’uomo, nel linguaggio, si separa, conservandola, dalla voce (animale). Questo significa, per Agamben, che “[l]a domanda: ‘in che modo il vivente ha il linguaggio?’ corrisponde esattamente a quella: ‘in che modo la nuda vita abita la polis?’ Il vivente ha il logos togliendo e conservando in esso la propria voce, così come esso abita la polis lasciando eccepire in essa la propria nuda vita” (HS 11). Agamben riarticola dunque l’analisi della “Voce” come “fondamento negativo” del linguaggio proposta tredici anni prima in Il linguaggio e la morte (cfr. sezione 3.2) sul paradigma dell’eccezione: “Vi è politica, perché l’uomo è il vivente che, nel linguaggio, separa e oppone a sé la propria nuda vita e, insieme, si mantiene in rapporto con essa in un’esclusione inclusiva” (HS 11). La struttura presupponente del linguaggio è dunque la struttura dell’esclusione inclusiva, che lo mantiene in un’“essenziale prossimità” alla sfera del diritto, e nell’analizzare, nella prima parte di Homo sacer, la logica della sovranità, Agamben ricorre ripetutamente al parallelo diritto/linguaggio: il passaggio dalla langue alla parole, e cioè dal termine nella sua mera consistenza lessicale, indipendentemente dal suo impiego nel discorso, alla denotazione, a un’istanza di discorso in atto, corrisponde al passaggio dalla norma giuridica generale, che deve valere indipendentemente dal caso singolo, alla sua applicazione ai singoli casi; allo stesso modo, il linguaggio presuppone il non-linguistico (la voce) come ciò con cui esso deve potersi mantenere in relazione virtuale, proprio come la legge presuppone il non-giuridico (per esempio, lo stato di natura) come ciò con cui essa si mantiene in rapporto potenziale nello stato di eccezione. Il 101

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parallelo va però oltre la mera analogia, e presenta una consustanzialità tra linguaggio e diritto: Come soltanto la decisione sovrana sullo stato di eccezione apre lo spazio in cui possono essere tracciati confini fra l’interno e l’esterno e determinate norme possono essere assegnate a determinati territori, così solo la lingua come pura potenza di significare, ritirandosi da ogni concreta istanza di discorso, divide il linguistico dal non-linguistico e permette l’apertura di ambiti di discorso significanti, in cui a certi termini corrispondono certi denotati. Il linguaggio è il sovrano che, in permanente stato di eccezione, dichiara che non vi è un fuori lingua, che esso è sempre al di là di se stesso. La struttura particolare del diritto ha il suo fondamento in questa struttura presupponente del linguaggio umano. Essa esprime il vincolo di esclusione inclusiva cui è soggetta una cosa per il fatto di essere nel linguaggio, di essere nominata. Dire è, in questo senso, sempre ius dicere. (HS 25-26)

Come la legge, così anche il linguaggio tiene l’uomo nel suo “bando”, lo include in sé (siamo già sempre nel linguaggio) escludendolo (presupponendo un non-linguistico, un ineffabile; HS 58) (il che, per Eva Geulen [2009: 76], renderebbe la relazione di eccezione quasi un “trascendentale”). In Stato di eccezione, l’analogia strutturale fra linguaggio e diritto ritorna con un’importante estensione: non solo lingua e diritto, sostiene qui Agamben, ma “tutte le istituzioni sociali si sono formate attraverso un processo di desemantizzazione e di sospensione della prassi concreta nel suo immediato riferimento al reale”. In ogni ambito, la “civilizzazione” procede separando la prassi umana dal suo esercizio concreto, un processo che Lévi-Strauss (Agamben si riferisce alla nozione di “significante fluttuante o vuoto” che compare in “Introduction à l’oeuvre de Marcel Mauss”, 1950) aveva definito come “eccesso della significazione sulla denotazione”: “il significante eccedente […] corrisponde, in questo senso, allo stato di eccezione, in cui la norma vige senza applicarsi” (SE 50; anche 53-54, 78). La centralità del linguaggio è confermata dal fatto che Agamben deciderà di dedicarvi un intero volume del progetto, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (vol. II/3, 2008). L’aspetto che questo volume illumina e approfondi102

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sce non è, però, tanto l’analogia strutturale tra diritto e linguaggio, quanto il concetto di sacratio; esso si situa quindi nella scia di Il Regno e la Gloria (pubblicato solo un anno prima) e approfondisce in senso linguistico l’analisi della figura dell’homo sacer del primo volume della serie. Lo studio si presenta come un’“archeologia del giuramento”: il giuramento si situa infatti allo snodo di religione e politica, è un “istituto giuridico che contiene elementi che siamo abituati ad associare alla sfera religiosa” (SL 25), e permette così, da un lato, di illuminare la reciproca appartenenza dei due ambiti, e, dall’altro, di metterli in relazione alla natura stessa del linguaggio umano e dell’uomo come “animale parlante”. Già la seconda parte di Homo sacer si apriva con la critica di quello che Agamben chiama “il teorema dell’ambivalenza del sacro”, che postula una separazione (anche cronologica) delle due sfere della religione e del diritto e pregiudica così la comprensione della doppia valenza politico-religiosa della figura dell’homo sacer (HS 83-89). Il sacramento del linguaggio sviluppa questa critica e in certo senso propone un rovesciamento del teorema: il giuramento è attestato in forme che rimangono più o meno costanti e non si lascia definire come un fenomeno solamente religioso o solamente giuridico; e proprio questa sua ambiguità, sostiene Agamben, può permetterci di ripensare interamente cosa siano il diritto e la religione. Il giuramento non si riferisce alla funzione semiotica e cognitiva del linguaggio come tale, ma alla sua “veracità”: la sua funzione è quella di “garantire la verità e l’efficacia del linguaggio” (SL 7), e cioé la corrispondenza puntuale fra le parole e le cose o le azioni. Esso comporta quindi costitutivamente la possibilità dello spergiurare, del giurare il falso, contro cui opera un terzo elemento, la maledizione. A testimonianza della veracità del linguaggio venivano chiamati gli dèi, e quindi il giuramento “è una forma di sacratio” (SL 40). La struttura del giuramento presenta dunque tre elementi: “un’affermazione, l’invocazione degli déi a testimoni, e una maledizione rivolta allo spergiuro” (SL 43). Il dio chiamato a testimoniare, scrive Agamben, “nomina una potenza implicita nello stesso atto di parola”, e quindi ciò che è in questione nel giuramento è lo stesso pote103

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re significante del linguaggio, il legame che unisce le parole con le cose, “cioé il logos come tale” (SL 45). Il nome del dio nomina e garantisce la giusta relazione fra le parole e le cose, mentre la maledizione indica lo spezzarsi di questa relazione, e quindi la debolezza costitutiva del logos. Agamben approfondisce questa tesi ricorrendo a un’opera del filologo tedesco Hermann Usener (1834-1905), Götternamen (I nomi degli dei, 1896, fonte di ispirazione, tra l’altro, anche per gli studi iconologici di Warburg), che, attraverso l’analisi dei Sondergötter, gli “dèi speciali” che nominavano unicamente e direttamente un’attività, sosteneva che tutti i nomi degli dèi sono all’inizio nomi di azioni o eventi momentanei, che perdono con il tempo la loro relazione con il vocabolario vivo e si trasformano in nomi propri. Questo porta Agamben a sostenere che il dio invocato nel giuramento è l’evento di linguaggio stesso, in cui parole e cose indissolubilmente si legano: “Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che in esso si realizza” (SL 63). Con il passaggio al monoteismo il nome di Dio nomina il linguaggio stesso, è il logos stesso a essere divinizzato come tale nel nome supremo, attraverso il quale l’uomo comunica con la parola creatrice di Dio: “il nome di Dio esprime, cioé, lo statuto del logos nella dimensione della fides-giuramento, in cui la nominazione realizza immediatamente l’esistenza di ciò che nomina” (SL 71-72). Questa struttura, in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato, è stata chiamata dal linguista John L. Austin “performativo” o “atto verbale” (speech act; in Come fare cose con le parole, 1962), e “io giuro” è il paradigma perfetto di una tale atto. Collegando l’analisi di Usener alla teoria di Austin, Agamben sostiene che i performativi rappresentano nella lingua “il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semanticodenotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giura104

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mento, l’atto verbale invera l’essere” (SL 74-75). Per poter agire, il performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello dell’adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un fatto; in questo senso, il modello del performativo è quello dello stato di eccezione: “Come, nello stato di eccezione, la legge sospende la propria applicazione solo per fondare in questo modo la sua vigenza, così nel performativo il linguaggio sospende la sua denotazione proprio e soltanto per fondare il suo nesso esistentivo con le cose” (SL 76). Il modello dell’analogia tra linguaggio e diritto proposto in Homo sacer e Stato di eccezione è qui sostituito o integrato per poter compiere un passo ulteriore nell’analisi del diritto. Il diritto e la religione sarebbero nati, infatti, per cercare di legare le parole alle cose, per assicurare l’efficacia del linguaggio, per “vincolare, attraverso maledizioni e anatemi, il soggetto parlante al potere veritativo della sua parola” (SL 80). Essi non preesistono all’esperienza performativa del giuramento, ma sono invece stati inventati per “tecnicizzare” in istituti e dispositivi specifici la relazione fondamentale della veridicità del linguaggio. La sfera del diritto è, cioè, quella di “una parola efficace, di un ‘dire’ che è sempre indicere (proclamare, dichiarare solennemente), ius dicere (dire ciò che è conforme al diritto) e vim dicere (dire la parola efficace)” (SL 85). In questo senso, il diritto presenta una “consustanzialità tecnica” con la maledizione (SL 52), in quanto è la maledizione che definisce l’ambito della legge, è la sanzione che definisce il modo in cui la legge si riferisce alla realtà. Il sacer esto che dichiara un uomo sacer, cioé lo separa sia dall’ambito divino che da quello umano, è la maledizione attraverso la quale il diritto si mette originariamente in relazione con la vita. E solo quando questo nesso con la maledizione sarà spezzato vi potrà essere un altro uso della parola e del diritto. La struttura denotativa e quella performativa del linguaggio, suggerisce Agamben, non sono caratteri originari ed eterni della lingua umana, ma appartengono pienamente alla storia della metafisica occidentale, che egli fonda appunto nell’espe105

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rienza di parola che trova nel giuramento. Con la “morte di Dio” (o del suo nome), questa storia sta giungendo a compimento, come mostra anche la contemporanea decadenza del giuramento nelle nostre società (nota che apre e chiude il libro). Una vita sempre più ridotta alla sua realtà puramente biologica e una parola sempre più vuota e vana segnano il momento critico in cui la metafisica, e con essa la sua politica e il suo linguaggio, dovranno arrivare a una svolta e a una trasformazione.

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Messianismo bloccato. Con Homo sacer, la critica di Agamben alla decostruzione si fa “politica” e in certo modo sale di tono. E non solo, com’è stato sostenuto (Geulen 2009: 142-44), a partire da o a causa dell’accusa a Derrida di aver frainteso il concetto benjaminiano di “violenza pura” nella sua interpretazione di “Per la critica della violenza” (in Forza di legge [1989, e, in volume, 1994], in cui l’aveva accostata alla “soluzione finale” nazista; cfr. HS 73); ma perché l’operazione fondamentale della decostruzione, che pone “degli indecidibili in eccesso infinito su ogni effettiva possibilità di significato”, corrisponde, per Agamben, a uno “stato di eccezione linguistico”, in cui il linguaggio sovrano stabilisce fra senso e denotazione una zona d’indistinzione “in cui la lingua si mantiene in rapporto con i suoi denotata abbandonandoli, ritirandosi da essi in una pura langue” (HS 30). In questo modo, la decostruzione finisce per assumere la parte del guardiano della parabola kafkiana “Davanti alla legge”, che, “senza veramente impedire l’ingresso, custodisce il nulla su cui la porta apre” (HS 63). In Stato di eccezione, l’attacco si estende alla critica decostruzionista della legge, che, “mantenendo il diritto in una vita spettrale, non riesce più a venirne a capo” (SE 82), e in Il tempo che resta (2000) la decostruzione è definita come “un messianismo bloccato, una sospensione del tema messianico” (TR 98), tesi che nell’introduzione a una raccolta di saggi e interviste di Schmitt (2005) viene ripresa per accostare Derrida a Schmitt: “Il tempo katechontico di Schmitt è un messianismo bloccato: ma questo messianismo bloccato si rivela essere il paradigma teologico del tempo in cui viviamo, la cui struttura non è altro che la différance derridiana. L’escatologia cristiana aveva introdotto nel tempo un senso e una direzione: katechon e differance, sospendendo e dilazionando questo senso, lo rendono indecidibile” (GDS 16-17).

5.6. L’ontologia dell’operatività Il tema della relazione tra potenza e atto, e quindi tra essere e agire, tra ontologia e prassi, che costituisce, come abbiamo 106

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visto, il nucleo centrale attorno a cui il progetto si articola fin dall’inizio, viene ulteriormente approfondito nell’ultimo (per il momento) libro del volume II, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio (vol. II/5, 2012). Questo nucleo è, cioè, talmente complesso e articolato che Agamben sembra dover aggiungere di continuo nuove analisi, ricerche e specificazioni, che hanno portato il volume II a un’estensione certamente non prevista in partenza. Ma ciò di cui qui si tratta è nientemeno che di un’analisi e di una critica dell’intera ontologia occidentale, di cui politica, etica, economia e linguaggio non sono che aspetti consustanziali e derivati; è, allora, solo attraverso un’analisi archeologica e una critica dell’ontologia, solo attraverso la comprensione delle strutture più profonde – e quindi “sotterranee” (OD 8) – che ci determinano, sostiene Agamben, che sarà forse possibile immaginare una diversa ontologia, e quindi una politica e un’etica alternative. Opus Dei si presenta come studio complementare alla ricerca compiuta in Il Regno e la Gloria: se quest’ultimo indagava il “paradigma gestionale” che, definendo l’ontologia trinitaria, si traspone nella gestione “economica” del mondo e diventa infine il paradigma della nostra politica “governamentale”, Opus Dei si volge invece verso la prassi che una tale ontologia comporta e determina, non solo o non propriamente in senso politico-governamentale, ma più specificamente etico-pratico: quale paradigma offre questa ontologia all’azione umana? La tesi dello studio è che questa nuova prassi determina a sua volta una trasformazione dell’ontologia stessa, e questa nuova ontologia, che Agamben chiama “operatività”, è ciò che determina ancora oggi il nostro presente. L’azione che qui diventa paradigmatica è quella del sacerdote, del soggetto cui compete il ministero del mistero eucaristico, e che incarna quindi la trasformazione “pratica” operata dall’ontologia trinitaria: la liturgia del sacerdote, per la quale il termine tecnico nella tradizione della Chiesa cattolica in lingua latina era opus Dei, esemplifica, per Agamben, una prassi che entra in una zona di indistinzione con l’essere, per cui l’essere si risolve nei suoi effetti pratici e viceversa. Il termine “liturgia” è relativamente moderno, e quello 107

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che designava l’opus Dei prima del XIX secolo era officium, per cui lo studio si presenta come un’“archeologia dell’ufficio”. Attraverso un’estesa e minuziosa analisi del termine “liturgia”, che parte dalla sua originaria determinazione politica di “prestazione pubblica” (da laos, popolo, ed ergon, opera) nella società greca, per arrivare al senso ecclesiastico di “prestazione sacerdotale di Gesù”, Agamben mostra come esso finisca per indicare l’atto soteriologico efficace che, attraverso il sacerdote, Gesù stesso compie nella celebrazione del sacramento. L’efficacia e la validità oggettiva del sacramento sono cioè indipendenti dal soggetto che lo amministra, perché l’amministrazione del sacramento è appunto opus Dei, l’opera di Dio stesso. Nell’azione del sacerdote, la realtà effettuale è separata sia dal soggetto che la compie sia dal processo attraverso cui si realizza: determinante non è l’intenzione dell’agente, ma solo la funzione che l’azione svolge in quanto opus Dei. In questo modo la Chiesa assicura la validità oggettiva degli atti che il sacerdote compie in nome dell’istituzione, indipendentemente dalla sua probità e rettitudine individuale, ma allo stesso tempo ne svuota la sostanza personale: il sacerdote, “in quanto ‘strumento animato’ di un mistero che lo trascende, in realtà non agisce e tuttavia, in quanto titolare di un ministero, esercita in qualche modo un’azione propria” (OD 38). In questo modo, sostiene Agamben, la Chiesa ha inventato “il paradigma di una attività umana la cui efficacia non dipende dal soggetto che la mette in opera e che ha, tuttavia, bisogno di lui come di uno ‘strumento animato’ per realizzarsi e rendersi effettiva” (OD 41). Questo significa anche che, nel mistero liturgico, la passione di Cristo non è solamente rappresentata, ma, nella rappresentazione, essa si realizza: nel mistero è operativa la presenza reale di Cristo come azione salvifica, ed essa è solo in quanto è rappresentata/effettuata nel mistero. Essa coincide, cioè, integralmente con i suoi effetti, con la sua “effettualità”, è “performativa”. Se nell’ontologia classica l’essere è considerato indipendentemente dagli effetti che può produrre, in questa “effettualità” del mistero liturgico l’essere è inseparabile dai suoi effetti. Attraverso un’analisi delle ricorrenze del termine effec108

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tus in alcuni padri della Chiesa, Agamben mostra come esso traduca, esprimendone una declinazione particolare, e insieme modifichi, il termine aristotelico energeia: esso non nomina semplicemente l’essere-in-opera (l’energeia), ma “l’operazione che realizza dall’esterno una potenza e si rende, in questo senso, effettuale” (OD 57). L’effectus non è più, come l’energeia aristotelica, il modo di essere e la permanenza di una sostanza, ma indica invece “una dislocazione dell’essere nella sfera della prassi, in cui l’essere è ciò che fa, è la sua stessa operatività” (OD 58); i caratteri decisivi di questo nuovo paradigma ontologico non sono più l’energeia e l’entelechia, ma l’effectus e l’effettualità, per cui l’essere diventa inseparabile dalla prassi, esso “coincide senza residui con l’effettualità, nel senso che esso non è semplicemente, ma deve essere effettuato e realizzato” (OD 61). Rispetto alla separazione aristotelica tra potenza e atto, l’effettualità si inserisce come terzo termine, che non è né soltanto potenziale né soltanto attuale, ma è una potenza che si dà realtà attraverso la sua propria operazione: “l’essere contiene al suo interno un’operazione, è questa operazione e, insieme, se ne distingue, come il Figlio si distingue e, insieme, è indiscernibile dal Padre. […] [L]’operatività stessa è essere e l’essere è in se stesso operativo” (OD 65). Un’ulteriore determinazione viene aggiunta attraverso l’analisi genealogica del termine latino che, prima di “liturgia”, nominava la prassi effettuale del sacerdote: officium. Leggendone la storia dalla sua introduzione nel vocabolario etico-morale nel De officiis di Cicerone (che con esso traduce il termine stoico kathekon, “ciò che è conveniente, opportuno”) al suo ingresso nel vocabolario liturgico della Chiesa cattolica, Agamben mostra come esso venga infine a designare la sfera del “dovere” (cosa che non faceva nell’uso stoico-ciceroniano). Nella prassi sacerdotale, nell’officium del sacerdote, si istituisce una relazione circolare tra essere e prassi, in cui all’effettualità si aggiunge l’accezione del comando: l’essere del sacerdote definisce la sua prassi e questa, a sua volta, definisce l’essere, ma in senso imperativo: “il sacerdote deve essere ciò che è ed è ciò che deve essere” (OD 97). Questa indeterminazione tra essere e prassi porta 109

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alla trasformazione dell’essere in dover-essere e all’introduzione del dovere come concetto fondamentale nell’etica. E questa trasformazione determina tanto l’ontologia quanto la politica e l’etica della modernità. Se questa nuova ontologia si distingue da quella classica (cioè, per Agamben, aristotelica), tuttavia i germi di questa trasformazione sono da cercare in quell’ontologia stessa; e cioè, come per la differenza tra zoé e bios o per la relazione tra motore immobile e cosmo, è un’aporia nell’ontologia classica che permette l’originarsi delle nuove strutture che la teologia cristiana lascerà poi in eredità alla modernità. Ovvero, la trasformazione operata dalla teologia cristiana costituisce certo una cesura, ma non così radicale come potrebbe apparire: è l’ontologia occidentale nella sua totalità, incluse le sue origini greche, che va ripensata alla radice. Nel paradigma dell’operatività giunge, cioè, a compimento un processo che era latente fin dall’inizio nell’ontologia occidentale: per il fatto stesso di introdurre una scissione nell’essere – la distinzione potenza-atto – e di affermare il primato dell’energeia, dell’atto, sulla dynamis, la potenza, già Aristotele presentava “implicitamente un orientamento dell’essere verso l’operatività” (OD 72). Agamben ritorna quindi, ancora una volta, al libro Theta della Metafisica aristotelica, dimostrando così come questo costituisca l’intimo punto focale attorno al quale, almeno da trent’anni, si traccia l’orbita del suo pensiero. Rispetto alle molte e pur diverse letture precedenti, qui Agamben aggiunge una sfumatura importante: decisivo è ora il problema di ciò che permette il passaggio dalla potenza all’atto, che per Aristotele era la hexis (da echo, “avere”, tradotto in latino come habitus) ed era trattato nella teoria delle virtù. La hexis, l’abito, definisce e articola il passaggio dalla potenza generica (quella del bambino che può imparare a scrivere) alla potenza effettiva (quella di chi sa già scrivere, “ha” la potenza di farlo, e deve solo porla in atto); essenziale per Aristotele è che questo “avere” si mantenga in relazione con la sua privazione (steresis) o potenza-di-non (adynamia): solo in questo modo la potenza può esistere come tale, indipendentemente 110

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dal suo passaggio all’atto; come già sappiamo, “ha veramente una potenza colui che può tanto metterla quanto non metterla in atto” (OD 110). Ma questo rende problematico il concreto passaggio all’atto: se l’abito è sempre anche privazione e potenza di non passare all’atto, cosa determina questo passaggio? Cosa “governa” la relazione tra potenza-di-non e passaggio all’atto? La risposta di Aristotele è: la “virtù” (areté), ma, per Agamben, questa risposta non definisce in alcun modo le modalità del passaggio, se non attraverso il frequente esercizio della virtù, se non risolvendo l’abito in “abitudine”. Quest’aporia dà origine, a partire dalla scolastica, all’accostamento tra officium e virtù, che mette tra parentesi la potenza-di-non e “ha lo scopo di conferire effettualità alla virtù nel governo dell’abito e della potenza” (OD 113). La virtù diventa allora il dispositivo che garantisce l’“operatività” dell’abito, ciò che lo rende operativo: “La bontà della virtù è la sua effettualità, il suo spingere e orientare la potenza verso la sua perfezione. E questa non consiste, per l’uomo, nell’essere, ma nell’operare e solo attraverso l’azione l’uomo si assimila a Dio” (OD 116). A sua volta, quest’operare è l’esecuzione di un dover-essere, la virtù si risolve in un “debito”, e in questa struttura religione e diritto coincidono. L’etica kantiana, con il suo “dovere di virtù” (Tugendpflicht), costituisce la formulazione estrema di questo paradigma, ne è la realizzazione compiuta. In Kant, la legge prende il posto di Cristo come garante dell’effettualità del dovere, per cui la contrazione di essere e dover-essere assume la forma dell’“imperativo” e l’ontologia dell’operatività si svela come “ontologia del comando”: lungi dall’essere solo un concetto giuridico o religioso che si aggiunge dall’esterno all’essere, il dover-essere definisce una vera e propria ontologia, che si afferma progressivamente come ontologia della modernità. Agamben è quindi in grado di ridefinire il concetto di “performativo”, che già appariva in Il Regno e la Gloria e aveva assunto una posizione centrale in Il sacramento del linguaggio: “se il performativo, attraverso il suo semplice proferimento, realizza il proprio significato, ciò è perché esso non si riferisce all’essere ma al dover-essere” (OD 137), perché presuppone un’ontologia opera111

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tiva e non una sostanziale, un’ontologia del comando e non una della sostanza. Anche Opus Dei segue la strategia che informa tutta la ricerca archeologica di Agamben: l’analisi dei vari paradigmi presenta, insieme, come presupposto e conclusione il fatto che questi paradigmi sono oggi in crisi, dall’eccezione all’oikonomia al giuramento fino all’operatività. Ed è proprio questa crisi epocale (il “compimento della metafisica occidentale”) che apre lo spazio e la possibilità per pensare nuove forme di comunità, di linguaggio, di azione. Questa strategia è quella hölderlinianaheideggeriana, che abbiamo visto già in opera fin da L’uomo senza contenuto, di cercare il “salvifico” proprio nel momento di più grande pericolo; e il “salvifico” non può consistere in un ritorno a una più originale autenticità, ma nello spingere la crisi alle sue estreme conseguenze. È la ricerca archeologica che può fornire gli strumenti per quest’operazione, ma qui si deve fermare. La conclusione di ogni libro del volume II presenta quindi sempre più o meno la stessa forma, che ritorna anche per Opus Dei: “Il problema della filosofia che viene è quello di pensare un’ontologia al di là dell’operatività e del comando e un’etica e una politica del tutto liberate dai concetti di dovere e di volontà” (OD 147). A questo compito sarà dedicato il volume IV, ma prima di presentarlo dobbiamo soffermarci sul volume III e, al contempo, illustrare in modo più specifico il metodo archeologico di Agamben.

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6. LA VITA E IL PARADIGMA (Homo sacer III: Quel che resta di Auschwitz; L’aperto, Signatura rerum)

6.1. L’inumanità dell’umano L’ultimo capitolo di Homo sacer, intitolato “Il campo come nomos del moderno”, presenta i lager nazisti come il nomos, il paradigma dello spazio politico moderno, precisamente perché “i suoi abitani sono stati spogliati di ogni statuto politico e ridotti integralmente a nuda vita”: in essi “il potere non ha di fronte a sé che la pura vita senz’alcuna mediazione” (HS 191). Negli internati dei lager culminano quindi gli esempi di nuda vita che i capitoli precedenti avevano mano a mano presentato: essi costituiscono il caso estremo, e in quanto tale paradigmatico, della vita “nuda” e riassumono tutte le caratteristiche dei rifugiati, delle Versuchspersonen, degli oltrecomatosi e così via. Se, come abbiamo visto, i vari studi del volume II si allontanano progressivamente da questo paradigma e sviluppano una serie di altri paradigmi – non alternativi, ma di più ampia e profonda portata – per indagare la struttura formale della sovranità e del potere, il volume III del progetto, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (1998), si centra invece proprio sul polo della “vita”, quella vita denudata all’estremo nei campi di sterminio nazisti, di cui Auschwitz è preso a paradigma. Va notato che questo è il primo volume della serie ad apparire, a tre anni di distanza, dopo Homo sacer, e precede di ben cinque anni il primo studio del volume II, Stato di eccezione; inoltre il volume si presenta subito come unitario, e cioè senza le suddivisioni che caratterizzeranno poi il volume II. 113

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Quel che resta di Auschwitz è anche l’opera di Agamben che è stata più aspramente e violentemente criticata – le accuse vanno dall’opportunismo, all’apocalittismo, all’estetizzazione della sofferenza, all’inadeguatezza del paradigma scelto –, tanto che perfino un lettore generalmente ben disposto come de la Durantaye (2009: 248) lo definisce il più “debole” o “difettoso” dei suoi libri. Pur allontanandosi dalle critiche più aspre, de la Durantaye (2009: 247-49) nota che l’approccio di Agamben al tema della vita denudata all’estremo è per lo meno singolare: la strada che egli sceglie è attraverso un’analisi della “struttura della testimonianza”, quasi che questo fosse il vero dilemma: come si può dare testimonianza della nuda vita? Inoltre, a paradigma è preso un evento storico unico e puntuale, che deve essere allo stesso tempo analizzato nella sua unicità, e questo ha portato molti critici a contestare il metodo stesso di Agamben (su questo aspetto si veda la sezione 6.3). Ma il punto è, per Agamben, che se le circostanze storiche dello steriminio degli ebrei sono state sufficientemente chiarite, quello che ancora rimane un enigma è il significato etico e politico di quest’evento; dare testimonianza della nuda vita degli internati di Auschwitz significherà quindi anche mettere in questione tutte le dottrine sull’etica e metterle alla prova di un’Ethica more Auschwitz demonstrata (QRA 9). Questo, a sua volta, porterà Agamben, attraverso un percorso non sempre rettilineo e limpido, a proporre una vera e propria teoria della soggettività, inestricabilmente intrecciata alla struttura della testimonianza e alle ricerche linguistiche consolidate negli anni Settanta e Ottanta. Se le testimonianze e i documenti discussi e analizzati sono numerosi, Agamben prende quasi a “testimone paradigmatico” Primo Levi, che aveva personalmente conosciuto quando lavorava per la casa editrice Einaudi. Articolando l’analisi attorno a una quantità di citazioni da Levi e da altri, Agamben inizia con lo sgombrare il campo da una serie di inesattezze e di equivoci, a cominciare dalla “tacita confusione di categorie etiche e di categorie giuridiche” (QRA 16) che, per lui, contamina e in definitiva invalida ogni discussione attuale sull’etica. Come arriva a mostrare attraverso un’analisi genealogica dei termini, quasi 114

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tutto il vocabolario corrente dell’etica, dal giudizio alla colpa, dalla responsabilità alla dignità, ha origine in istituzioni giuridiche (per lo più romane). Messe alla prova di Auschwitz, di quel nuovo “elemento etico” che Levi chiamava la “zona grigia”, in cui “l’oppresso diventa oppressore e il carnefice appare a sua volta come vittima” (QRA 19), tutte queste categorie si rivelano insufficienti e opache. Affare del superstite è invece proprio “tutto ciò che porta un’azione umana al di là del diritto” (QRA 15), o, meglio, “al di qua” del bene e del male, “al di qua di dove ci avevano abituato a pensarla” (QRA 19); e questo “al di qua”, dove non abita il superuomo ma piuttosto il “sottouomo”, è il luogo della testimonianza. Un’altro aspetto terminologico che Agamben contesta è la definizione del genocidio degli ebrei come “olocausto” (in greco, “tutto bruciato”) o “shoah” (in ebraico, “distruzione”, “catastrofe”): questa terminologia, che pertiene al vocabolario sacrificale o all’ambito della punizione divina, situa il genocidio in un campo semantico che lo mette in relazione al divino, al “sacro”; lo rende, come viene spesso sostenuto, “indicibile” e “incomprensibile”, e gli conferisce così il prestigio della mistica. Il luogo della testimonianza è invece un altro. Anche qui la precisione etimologica è importante: il testimone non è il testis, che in latino designava chi si pone come terzo in un processo tra due contendenti, né è il martis, che in greco significa certo “testimone”, ma che ha assunto la connotazione del testimoniare della propria fede nella persecuzione; il testimone è piuttosto il superstes, “colui che ha vissuto qualcosa, ha attraversato fino alla fine un evento e può, dunque, renderne testimonianza” (QRA 15). Ma attraversare “fino alla fine” l’evento che è stato Auschwitz significa non poter testimoniare, significa esservi morti; chi può testimoniare sono i sopravvissuti, che però l’“evento” non l’hanno vissuto “fino alla fine”. Al centro della testimonianza sta dunque una lacuna, un “intestimoniabile”: i “veri” testimoni, i “testimoni integrali”, sono coloro che da Auschwitz non sono tornati, e “chi si assume l’onere di testimoniare per loro, sa di dover testimoniare per l’impossibilità di testimoniare” (QRA 32). Questo “intestimoniabile”, che è allo stesso tempo 115

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il “testimone integrale”, ha un nome: esso è il Muselmann, il musulmano, che nel gergo del campo designava (probabilmente a causa del fatalismo estremo attribuito, in Occidente, ai musulmani) gli internati giunti all’ultimo stadio di consunzione, in cui sembravano aver perso ogni volontà e ogni coscienza, e quindi ogni “umanità”. Esso è la soglia mobile in cui l’uomo trapassa in non-uomo, é un essere indefinito, nel quale non soltanto l’umanità e la non umanità, ma anche la vita vegetativa e quella di relazione, la fisiologia e l’etica, la medicina e la politica, la vita e la morte transitano le une nelle altre senza soluzione di continuità. Per questo il suo “terzo regno” è la cifra perfetta del campo, del non-luogo dove tutte le barriere disciplinari vanno in rovina, tutti gli argini tracimano. (QRA 43)

Glossando Levi, Agamben sostiene che la testimonianza e l’etica cominciano precisamente quando lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma del quotidiano, quando il musulmano ha eradicato per sempre la possibilità di distinguere fra l’uomo e il non-uomo. Levi aveva definito il musulmano come “chi ha visto la Gorgona”. La visione della Gorgona è ciò che trasforma l’uomo in non-uomo (nella mitologia greca, chi guardava negli occhi Medusa, la Gorgone per antonomasia, rimaneva pietrificato), e quindi ciò che la Gorgona in realtà designa è l’impossibilità di vedere: il musulmano, colui che ha “toccato il fondo” ed è diventato non-uomo, “non ha visto né conosciuto nulla – se non l’impossibilità di conoscere e di vedere” (QRA 49). E tuttavia proprio questo “fondo”, questa impossibilità di vedere, questa profonda inumanità dell’umano, è ciò che chiama e interpella l’umano alla testimonianza. L’esperimento impensabile del campo ha mostrato che la “potenza” umana sconfina nell’inumano, che l’uomo può sopportare anche il non-uomo, e cioè che l’umano porta in sé la “segnatura” dell’inumano come infinita possibilità di disumanizzazione, che revoca in questione la stessa umanità dell’uomo. Questo significa, per Agamben, che “il nome ‘uomo’ si applica innanzi tutto al non-uomo, [che] testi116

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mone integrale dell’uomo è colui la cui umanità è stata integralmente distrutta”; significa, cioè, che “l’uomo è colui che può sopravvivere all’uomo” (QRA 76). Riprendendo (e correggendo) le tesi di Foucault (in particolare da Bisogna difendere la società, il corso del 1975-1976), Agamben ridefinisce questo “fondo” come la “sostanza biopolitica assoluta”, nella cui produzione confluiscono il potere sovrano di “far morire e lasciar vivere” e il biopotere di “far vivere e lasciar morire”, e in cui la biopolitica coincide con la “tanatopolitica” (QRA 77-79). La questione dell’inumanità dell’umano e della sua testimonianza porta Agamben ad articolare una vera e propria teoria della soggettività. Il punto di partenza e, insieme, in punto focale di questa teoria è la nozione di “vergogna”, che costituisce il sentimento dominante e inassumibile dei sopravvissuti. Attraverso un percorso a tratti tortuoso e con vari movimenti tangenziali, e che va da discussioni del risentimento in Nietzsche e Jean Améry, passando per analisi della soggettività poetica in Kafka, John Keats, e Fernando Pessoa, e per i tentativi di definizione del soggetto da parte degli psichiatri Ludwig Binswanger e Kimura Bin, per approdare al soggetto dell’enunciazione definito dalla linguistica, Agamben costruisce il soggetto come un campo di forze in cui un processo di soggettivazione e uno di desoggettivazione interagiscono, si oppongono e, insieme, si completano l’un l’altro. Questo doppio movimento è già pienamente esplicito nelle analisi della vergogna compiute da Lévinas (in Dell’evasione, 1935) e Heidegger (nel corso sul Parmenide, 1942-1943): la vergogna è per entrambi i filosofi il sentimento dell’essere soggetti in quanto “assoggettati” alla propria inassumibile passività, che costituisce però, allo stesso tempo, anche l’estrema e irriducibile presenza del soggetto a se stesso. Essa è perciò un sentimento “ontologico”, che dà costitutivamente alla soggettività la doppia forma di una soggettivazione e di una desoggettivazione. Questo stesso movimento doppio e paradossale è quello che costituisce ogni atto di parola, ogni passaggio dalla lingua al discorso in atto, per cui Agamben rimanda alle analisi di Il linguaggio e la morte sulla Voce e il fondamento negativo del linguaggio per riformularle in una 117

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“fenomenologia della testimonianza”: “testimoniare significa entrare in un movimento vertiginoso, in cui qualcosa va a fondo, si desoggettiva integralmente e ammutolisce, e qualcosa si soggettiva e parla senza avere – in proprio – nulla da dire” (QRA 112). La testimonianza è la zona di indistinzione o il campo di forze in cui la dialettica tra soggettivazione e desoggettivazione, umano e non-umano, il parlante e il muto, il superstite e il musulmano, in definitiva si traduce in questa tesi: “‘Gli uomini sono uomini in quanto non sono umani’ – o, più precisamente: ‘Gli uomini sono uomini in quanto testimoniano del nonuomo’” (QRA 112). Il luogo dell’umano è perciò la frattura fra il non-umano e l’umano, fra il vivente e il parlante; l’umano ha luogo nella mancata articolazione fra il vivente e il logos, ma questo significa anche che l’uomo non ha un’essenza, che l’uomo è un essere di “potenza”: L’uomo è, cioè, sempre al di qua o al di là dell’umano, è la soglia centrale attraverso la quale transitano incessantemente le correnti dell’umano e dell’inumano, della soggettivazione e della desoggettivazione, del diventar parlante del vivente e del diventar vivente del Logos. Queste correnti sono coestensive, ma non coincidenti, e la loro non coincidenza, il crinale sottilissimo che li divide è il luogo della testimonianza. (QRA 126)

Questa struttura potenziale della testimonianza situa il soggetto nello scarto fra una possibilità e una impossibilità di dire: come già ben sappiamo, la potenza si dà solo in relazione a un poter non essere, e quindi come contingenza; e, come già sappiamo, l’uomo è il vivente che ha linguaggio perché può la sua in-fanzia, può non avere lingua. Questo significa che la testimonianza è “una potenza che si dà realtà attraverso una impotenza di dire e una impossibilità che si dà esistenza attraverso una possibilità di parlare” (QRA 136). La portata politica di queste analisi è chiara: la soggettività è il campo della lotta biopolitica in cui si decide ogni volta dell’umano e dell’inumano, della vita e della morte, e le armi di questa lotta sono gli “operatori ontologici”, le categorie della 118

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modalità (possibilità, impossibilità, contingenza, necessità). Queste categorie “scindono e separano in un soggetto ciò che egli può da ciò che non può, il vivente dal parlante, il musulmano dal testimone – e, in questo modo decidono di lui” (QRA 137). In questa prospettiva, Auschwitz rappresenta un esperimento biopolitico sugli operatori dell’essere che riduce il soggetto a un punto-limite, il musulmano, in cui la contingenza viene radicalmente negata e l’impossibile è imposto a forza sul reale. Nel musulmano si realizza “l’ambizione suprema del biopotere”: “produrre in un corpo umano la separazione assoluta del vivente e del parlante, della zoé e del bios, del non-uomo e dell’uomo: la sopravvivenza” (QRA 145). E proprio questo isolamento della sopravvivenza dalla vita è ciò che la testimonianza confuta.

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Agamben alla prova di Auschwitz. Le tante critiche a Quel che resta di Auschwitz richiederebbero un’esposizione dettagliata e argomentata, che qui non ci possiamo permettere; ci limiteremo dunque a elencarne sommariamente alcune. Per cominciare, un’accusa mossa ad Agamben è quella di aver sbagliato paradigma: anche un lettore bendisposto come Sergei Prozorov sostiene che il “campo” come paradigma non copre tutte le qualificazioni e le possibilità a disposizione del soggetto nel bando sovrano, e quindi, come paradigma, non ha molto senso (Prozorov 2010: 1061-62); allora Luciano Ferrari Bravo propone come paradigma “migliore” Ellis Island (Ferrari Bravo 2001: 284), Robert Eaglestone la “colonia” (Eaglestone 2002: 61) e Mika Ojakangas la “società del welfare” (Ojakangas 2005: 27). Tutte queste critiche, nota de la Durantaye (2009: 223), non mettono in discussione la logica del paradigma. Forse, però, la maggior parte delle critiche si centra appunto sul metodo paradigmatico, o, meglio, sul prendere un avvenimento storico unico come Auschwitz e usarlo come paradigma per comprendere situazioni altre e ben diverse: Alfonso Galindo (2005: 127) contesta la “violenta decontestualizzazione” che sposta figure o avvenimenti storici in altri ambiti secondo “un’analogia meramente superficiale e potenzialmente ambigua”; per Robert Eaglestone (2002: 64-65), questa decontestualizzazione sacrifica la realtà storica in nome della chiarezza paradigmatica e, per Esther Marion (2006: 1020-22), in questo modo Agamben viola l’unicità della realtà empirica e disumanizza l’olocausto articolandolo in un’astratta teoria del linguaggio e della soggettività; alcuni critici (Levi e Rothberg 2003: 30; Marchard 2007: 27) sostengono poi che, in questo senso, Agamben avrebbe tralasciato le condizioni storiche, legali e politiche che hanno portato alla creazione del campo. Questa decontestualizzazione è inoltre accompagnata, per alcuni, da un’astrazione

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che, sostiene Erik Vogt (2005: 93), “ontologizzandone” i caratteri storici specifici, neutralizza la possibilità di resistere all’evento storico, per cui l’ontologia diventerebbe una sorta di “anestetico”; per Catherine Mills (2008: 102-5), facendo ricadere l’etica nell’ontologia, e cioè, privandola del suo fondamentale carattere relazionale, Agamben commette un errore fatale, che, per J. M. Bernstein (2004: 14), ricade in un’estetizzazione (pornografica) della sofferenza del Muselmann. La critica più articolata e demolitrice (che in un certo senso riassume le precedenti) è il libro di Philippe Mesnard e Claudine Kahan, Giorgio Agamben à l’épreuve d’Auschwitz (2001), che analizza minuziosamente Quel che resta di Auschwitz inserendolo nell’insieme dell’opera di Agamben, e criticandola poi in toto: le accuse vanno dall’ambivalenza analitica e metodologica all’interpretazione forzata dei testi di Primo Levi, dall’ignoranza dei dibattiti linguistici e storiografici alla delegittimazione delle testimonianze “reali”, dalla “costruzione” opportunistica della figura del musulmano alla logica estetizzante del sublime che ricerca la fascinazione piuttosto che la dimostrazione; in complesso, concludono Mesnard e Kahan, Agamben si chiude alla comprensione non solo di Auschwitz, ma della politica, della società e della realtà tout court.

6.2. La macchina antropologica Prima di concentrarsi, a partire da Stato di eccezione, sulla struttura ontologica della sovranità e del potere, Agamben ritornerà ancora una volta sul problema politico-ontologico della divisione tra umano e inumano in un volume che non fa parte della serie di Homo sacer, ma che si collega direttamente alle ricerche di Quel che resta di Auschwitz: L’aperto. L’uomo e l’animale (2002). Qui l’ambito dell’analisi si allarga dall’“esperimento” dei campi di sterminio alla questione più generale dell’antropogenesi, ovvero di cosa definisca l’umano e lo distingua dall’animale. L’esperimento dei campi di sterminio è infatti, per Agamben, solo il caso estremo e quindi paradigmatico della struttura essenziale della metafisica occidentale, che “costruisce” l’umano sul superamento della sua natura animale, sul “meta-” che va oltre la “physis” naturale; questo superamento – l’antropogenesi – non è un evento storico compiuto una volta per tutte, ma è invece un processo incessante e ripetuto, che ogni volta “decide” dell’umanità e dell’inumanità dell’uomo, e le cui conseguenze etiche e politiche sono fondamentali. 120

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Il titolo dello studio proviene dal celebre incipit dell’ottava elegia duinese di Rilke: Con tutti gli occhi la creatura vede l’aperto [das Offene]. Solo i nostri occhi sono all’indietro rivolti e completamente schierati intorno ad essa come trappole intorno al suo libero esito. (Rilke 1994: 85)

Heidegger aveva ripetutamente analizzato questi versi, in particolar modo nel corso del semestre invernale del 1942-1943 su Parmenide (ma anche, per esempio, in “Perché i poeti?”, conferenza tenuta nel 1946 proprio per il ventesimo anniversario della morte di Rilke), e Agamben fa riferimento all’interpretazione heideggeriana fin dagli anni ottanta. L’analisi della “Voce” in Il linguaggio e la morte presenta già infatti i tratti fondamentali della struttura dell’antropogenesi che confluirà in L’aperto (qui Agamben accenna in una nota alla lettura heideggeriana di Rilke [LM 69], e in modo più esteso nella conferenza del 1980 “Vocazione e Voce” [in particolare PP 81-82], studio preparatorio per Il linguaggio e la morte). Questa struttura ritorna fondamentalmente immutata nella teoria della soggettività proposta nel terzo capitolo di Quel che resta di Auschwitz, dove l’Aperto di Rilke è brevemente menzionato (QRA 114), e non sorprende quindi che la parte centrale e più estesa de L’aperto ripeta e approfondisca l’analisi dei testi heideggeriani. Prima di affrontare la lettura dei testi di Heidegger, tuttavia, Agamben posiziona la discussione nel contesto foucauldiano della biopolitica, proponendo una breve e parziale genealogia dell’“umano”, dell’umanesimo e della (mancata) definizione della “vita”, che va da Aristotele a Pico della Mirandola a Linneo. Il punto è che, fin da Aristotele, nella tradizione occidentale la vita è “ciò che non può essere definito, ma che, proprio per questo, deve essere incessantemente articolato e diviso” (A 21). Queste articolazioni e divisioni passano all’interno dell’uomo stesso, in cui la vita organica è in qualche modo separata dalla vita “animale” vera a propria, cioè dalla vita di relazione con il mondo esterno. Agamben ricorre alla definizione classica data 121

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dal chirurgo e fisiologo francese Xavier Bichat (1771-1802) in Ricerche fisiologiche sulla vita e la morte (1800) (figura importante già per le analisi di Foucault, che gli aveva dedicato un capitolo in Nascita della clinica, 1963), che già aveva usato in Quel che resta di Auschwitz (QRA 141-44): Bichat aveva distinto, in ogni organismo superiore, due “animali”, l’animale che esiste all’interno (la vita organica) e l’animale che vive all’esterno (la vita di relazione) (A 22-23). La cesura fondamentale all’interno dell’animale umano articola e congiunge il corpo all’“anima”, il vivente al logos, l’elemento naturale a quello sociale. Nell’uomo, i due elementi coabitano ma non coincidono, l’uomo è anzi, per Agamben, proprio ciò che risulta da questa sconnessione, e la frontiera mobile tra i due elementi costituisce il fondamentale problema pratico-politico della nostra cultura. Il problema della separazione si articola in un dispositivo di “riconoscimento” dell’umano, che Agamben, parafrasando il concetto di “macchina mitologica” che Furio Jesi (1941-1980) aveva sviluppato negli anni Settanta, chiama “macchina antropogenica o antropologica” (A 34). Questa “macchina” permette all’uomo, che in sé manca di un’essenza vera e propria, di riconoscersi e ridefinirsi ogni volta, e tuttavia non è mai in grado di fissare un punto di arrivo: La macchina antropologica dell’umanesimo è un dispositivo ironico, che verifica l’assenza per Homo di una natura propria, tenendolo sospeso fra una natura celeste e una terrena, fra l’animale e l’umano – e, quindi, il suo essere sempre meno e più che se stesso. (A 35)

Questa macchina per “produrre” l’umano funziona attraverso l’opposizione tra umano e non-umano, tra uomo e animale, e quindi attraverso un’esclusione inclusiva e un’inclusione esclusiva; essa produce così una zona di indeterminazione, una sorta di “stato d’eccezione”, in cui dentro e fuori si determinano attraverso la loro reciproca esclusione e inclusione. Essa presenta inoltre due modelli fondamentali, specularmente simmetrici l’uno all’altro: la macchina antropologica degli antichi 122

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ottiene l’uomo attraverso l’umanizzazione dell’animale (lo schiavo, il barbaro, lo straniero sono animali in forma umana), mentre quella dei moderni ottiene l’uomo animalizzando l’umano, escludendo da sé come non-umano un già umano (l’ebreo è il non-uomo prodotto nell’uomo, ma anche l’oltrecomatoso è l’animale isolato nel corpo umano). La zona di eccezione che deve articolare l’umano e l’animale è, ovviamente, vuota, essa è, come ogni stato di eccezione, una zona di indifferenza, per cui l’umano è in definitiva solo il luogo di una decisione (sovrana) che riarticola e sposta sempre di nuovo la cesura. Il prodotto di questa decisione non è però la vita umana, “ma solo una vita separata ed esclusa da se stessa – soltanto una nuda vita” (A 43). Entrambi i modelli della macchina antropologica non fanno, cioè, che produrre nuda vita, entrambi fanno parte del macchinario biopolitico cooriginario alla metafisica occidentale, e il compito non è di scegliere tra l’una o l’altra, ma di capirne il funzionamento per poterle, eventualmente, arrestare. Su questa base Agamben innesta la lettura dei testi di Heidegger, in modo particolare il corso del semestre invernale 1929-1930, pubblicato poi sotto il titolo di Concetti fondamentali della metafisica, e il corso del 1942-1943 su Parmenide. L’analisi di Heidegger è però introdotta da una breve lettura del concetto di Umwelt definito dall’influente pioniere dell’etologia e dell’ecologia Jakob von Uexküll (1864-1944), che, nelle sue analisi del mondo animale (già menzionate in CV 77), aveva abbandonato ogni prospettiva antropocentrica: contrapposto all’Umgebung come “spazio oggettivo”, l’Umwelt è l’ambiente proprio di ogni vivente ed è costituito da “portatori di significato” che sono caratteristici per ogni vivente. Ogni Umwelt è per Uexküll un mondo a sé, una totalità chiusa in cui l’animale espleta le sue funzioni vitali. Riprendendo l’analisi di Uexküll in Concetti fondamentali della metafisica, Heidegger le conferirà una connotazione ontologica, per sostenere la celebre tesi secondo cui la pietra (cioè gli oggetti inanimati) è senza mondo, l’animale è povero di mondo, e l’uomo è formatore di mondo. L’animale è “povero di mondo” in quanto è confinato nel suo Umwelt, che per esso è assolutamente “aperto”, ma non acces123

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sibile. Heidegger rovescia in questo modo la tesi di Rilke, per il quale solo l’animale vede l’Aperto: ogni Umwelt è determinato da un numero definito e limitato di possibilità (i “portatori di significato”, che Heidegger ribattezza come “disinibitori”), e dal cerchio di queste possibilità l’animale non può uscire; solo l’uomo è in grado di farlo, disattivando e sospendendo tutte le concrete possibilità specifiche. Questa disattivazione e sospensione avviene per l’uomo nell’esperienza della “noia profonda”, alla cui analisi Heidegger dedica gran parte del corso: nella noia profonda l’uomo, sospendendo le possibilità concrete, fa esperienza della “potenza pura”, della “possibilitazione originaria”, che, come disattivazione delle possibilità concrete, si presenta costitutivamente come potenza-di-non, come “impotenza”. Il vivente uomo “diventa” Dasein, cioè l’essere che esiste nella forma del poter-essere, sospendendo e disattivando il rapporto animale col disinibitore; ma questo “diventare” non apre uno spazio al di là dell’ambiente animale, esso non consiste che nell’afferrare come tale l’Umwelt animale e la sua esposizione: “il Dasein è semplicemente un animale che ha imparato ad annoiarsi” (A 73). L’Aperto non è che un afferramento del non-aperto animale, per cui l’uomo “sospende la sua animalità e, in questo modo, apre una zona ‘libera e vuota’ in cui la vita è catturata e ab-bandonata in una zona di eccezione” (A 81). Il senso della lunga lettura di Heidegger che Agamben propone sta certo nel sottolineare la profonda portata ontologica del problema, che forse riceve in Heidegger l’analisi più cogente. E tuttavia anche Heidegger in qualche modo rimane, per Agamben, all’interno del meccanismo della macchina antropologica: “Egli è stato […] l’ultimo a credere – almeno fino a un certo punto e non senza dubbi e contraddizioni – che la macchina antropologica, decidendo e ricomponendo ogni volta il conflitto fra l’uomo e l’animale, fra l’aperto e il non-aperto, potesse ancora produrre per un popolo storia e destino” (A 78). Il “compimento” della metafisica occidentale, la crisi permanente di tutte le sue strutture e istituzioni che, per Agamben, caratterizza la contemporaneità, significa che la macchina antropologica gira oggi a vuoto, che non funziona più, pur continuando a pro124

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durre il suo mortifero carico di nuda vita. In un gesto che gli è caratteristico, Agamben si volge, nelle pagine finali, da Heidegger a Benjamin, e cerca nel messianesimo di quest’ultimo la via per la disattivazione e l’arresto della macchina antropologica (cfr. in particolare la sezione 7.1.6).

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Antropocentrismo. Agamben esplicitamente differenzia la sua critica dell’umanesimo da quella di Peter Sloterdijk, che (in particolare, ma non solo, in Regole per il parco umano. Una risposta alla “Lettera sull’umanesino” di Heidegger, 1999) rimarrebbe in definitiva all’interno dei meccanismi della macchina antropologica (Leitgeb e Vissmann 2001: 20-21). Di fatto, L’aperto è diventato un testo di riferimento anche (e al di là delle intenzioni primariamente “politiche” di Agamben) per quelli che nel mondo anglosassone si chiamano Animal Studies, in cui, in varie forme e modi, si propone un abbandono dell’umanesimo e dell’antropocentrismo in favore di un’etica che includa anche l’animale non umano. E tuttavia, la critica ha notato degli importanti resti di antropocentrismo nell’elaborazione di Agamben (cfr. per esempio Edkins 2007: 88-90). Questo rimprovero è stato articolato in modo sostanziale, anche se da due prospettive assai diverse e quasi opposte, da Krzysztof Ziarek e Matthew Calarco. Da una prospettiva heideggeriana, Ziarek (2008) rileva resti di umanesimo nel fatto che Agamben non mette realmente in questione la centralità (metafisica) dell’“animale umano”, che è e rimane il perno attorno a cui la relazione umano-animale si articola; inoltre, una volta disattivata, la macchina antropologica cesserebbe di girare, ma i termini su cui essa si costruisce continuerebbero a sussistere immutati e il primato dell’umano sull’animale verrebbe così riconfermato (anche se come inoperativo). Per Ziarek solo la prospettiva heideggeriana, per la quale il Dasein non deve essere considerato nell’ottica della divisione umano-animale, ma nemmeno in quella dell’umano tout court, può lasciarsi alle spalle l’umanesimo e la metafisica. Da una prospettiva animalista, Calarco (2008: 79-102) nota invece che l’interesse di Agamben rimane interamente ed esclusivamente focalizzato sugli effetti della macchina antropologica sugli esseri umani, e la questione dell’“animale” o della “vita animale” non è mai veramente posta, e questo proprio perché, sostiene, l’intera elaborazione di L’aperto si basa su uno schema heideggeriano, fondamentalmente incapace di “vedere” l’animale.

6.3. Paradigma e Archeologia Il quarto e conclusivo capitolo di Quel che resta di Auschwitz, “L’archivio e la testimonianza”, presenta anche un primo confronto, da parte di Agamben, con la metodologia foucaul125

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diana, che diverrà un punto di accese critiche, e al quale Agamben si sentirà costretto a tornare in futuro per definire in modo più chiaro la propria metodologia. Il capitolo segue immediatamente quello dedicato alla teoria della soggettività, e quindi il problema centrale del confronto è, qui, il luogo e la funzione del soggetto nel suo rapporto con il linguaggio in generale e la testimonianza in particolare. Il testo chiave di questo confronto è, ovviamente, L’archeologia del sapere (1969), in cui Foucault presenta il proprio metodo. L’estrema importanza e la novità di questo testo consistono, per Agamben, nel fatto che Foucault prende a oggetto del proprio programma di studi non il testo del “discorso” occidentale (i “saperi disciplinari”), ma l’aver luogo stesso del linguaggio: “l’archeologia rivendica come suo territorio il puro aver luogo di queste proposizioni e di questi discorsi, cioè il fuori del linguaggio, il fatto bruto della sua esistenza” (QRA 129). Questo riposizionamento dell’indagine la svincola dal legame tradizionale con un Io o una coscienza trascendentale: una volta che il referente principale dell’indagine diventano gli enunciati, e cioè l’aver luogo del linguaggio come pure esteriorità, “il soggetto si scioglie da ogni implicazione sostanziale e diventa una pura funzione o una pura posizione” (QRA 131). Proprio al 1969 risale, infatti, anche la celebre conferenza di Foucault “Che cos’è un autore?”, in cui egli ridefinisce la nozione di autore come una semplice specificazione della funzionesoggetto. Il problema, per Agamben, è che Foucault non si interroga sulle implicazioni etiche della teoria degli enunciati, e in modo particolare sul rapporto tra linguaggio/testimonianza e il soggetto costruito come campo di forze di una soggettivazione e una desoggettivazione, come sconnessione tra il vivente e il parlante. All’“archivio” foucauldiano, definito come “sistema delle relazioni fra il non-detto e il detto in ogni atto di parola, fra la funzione enunciativa e il discorso in cui si esercita, fra il fuori e il dentro del linguaggio” (QRA 134), Agamben contrappone la testimonianza intesa come “sistema delle relazioni fra il dentro e il fuori della langue, fra il dicibile e il non dicibile in ogni lingua – cioè fra una potenza di dire e la sua esistenza, fra una pos126

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sibilità e una impossibilità di dire” (QRA 135). Come sappiamo, questa cesura tra la possibilità e l’impossibilità di dire è il luogo del soggetto, per cui alla riduzione foucauldiana del soggetto a mera funzione o posizione vuota Agamben contrappone l’importanza etica e politica di interrogarsi sul soggetto: “nella testimonianza il posto vuoto del soggetto diventa la questione decisiva” (QRA 135). La soggettività è ciò che attesta, nella relazione fra la lingua e la sua esistenza, la “potenza” del linguaggio, e cioè il suo poter-non-essere, l’in-fanzia: “La testimonianza è una potenza che si dà realtà attraverso una impotenza di dire e una impossibilità che si dà esistenza attraverso una possibilità di parlare” (QRA 136). La discussione della metodologia è qui funzionale alla teoria del soggetto e della testimonianza che Agamben propone, e non va oltre la portata di una sottile anche se importante specificazione. I molti e pesanti attacchi che Agamben riceverà, in modo particolare – ma non solo – dopo la pubblicazione di Quel che resta di Auschwitz, lo porteranno tuttavia a dover precisare e presentare in modo più specifico il metodo che informa l’intero suo progetto: in varie interviste Agamben ha ripetuto che i suoi paradigmi non sono analisi storiche o sociologiche (Raulff 2004: 610; Andreotti e De Melis 2006: 5), ma archetipi filosofici, che funzionano proprio e solo in quanto sono fenomeni storici concreti, e, in quanto tali, non svalutano eventi storici positivi, ma permettono invece di comprendere un più ampio contesto storico-politico (Leitgeb e Vissmann 2001: 19). La questione del paradigma è “strutturale”, come nel caso del raffronto tra i prigionieri di Guantanamo e quelli dei lager nazisti (in Stato di eccezione) che riguarda appunto il loro “status legale” (Raulff 2004: 610). Nel 2008, a dieci anni di distanza da Quel che resta di Auschwitz, Agamben pubblicherà dunque la sua “metodologia”, Signatura rerum. Sul metodo, un volume che non fa ufficialmente parte della serie Homo sacer e che si compone di tre saggi, “Che cos’è un paradigma?”, “Teoria delle segnature” e “Archeologia filosofica”. I saggi rivendicano esplicitamente la loro filiazione foucauldiana, anche se, come già fin da Homo sacer, Agamben dà di Foucault una lettura assai originale e per127

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sonale. Il bersaglio forse principale delle critiche “metodologiche” rivolte ad Agamben riguarda la nozione di paradigma, ovvero il fatto che egli prenda concetti o fenomeni storici positivi (l’homo sacer, il musulmano, lo stato di eccezione, il campo, l’oikonomia trinitaria o il giuramento) e costruisca con essi un contesto storico-problematico che va oltre il significato fattuale di questi fenomeni storici; è quindi con la definizione di paradigma che Agamben comincia, e mostra in questo modo fin da subito la sua personalizzazione della teoria foucauldiana, visto che, da un lato, Foucault non definisce mai il termine paradigma e usa piuttosto una serie di altri termini analoghi ed equivalenti (SR 11), e, dall’altro, la definizione qui data di paradigma ricalca pesantemente la definizione di “esempio” che costituisce l’asse centrale attorno a cui ruota La comunità che viene (cfr. in particolare CV 13-14) e rimanda quindi al periodo “prefoucauldiano” di Agamben. Esempio e paradigma sono qui usati in modo interscambiabile e, come già in La comunità che viene, sono definiti come “un oggetto singolare che, valendo per tutti gli altri della stessa classe, definisce l’intellegibilità dell’insieme di cui fa parte e che, nello stesso tempo, costituisce” (SR 19). Il paradigma è quindi un caso singolo che viene isolato dal suo contesto, disattivato dal suo uso normale, e che, proprio esibendo la propria singolarità, rende intellegibile un nuovo insieme; quest’insieme, a sua volta, non preesiste al paradigma, ma viene da esso costituito: è la disattivazione dell’uso normale che, sola, può mostrare il canone di quell’uso. Riprendendo la definizione aristotelica dell’esempio, Agamben contrappone il metodo paradigmatico sia al metodo induttivo, che passa dal particolare all’universale, sia a quello deduttivo, che passa dall’universale al particolare: il paradigma passa, in modo analogico, dal particolare al particolare, rimane e dimora sul piano del particolare, e in questo modo – proprio come la “singolarità qualunque” de La comunità che viene – revoca in questione l’opposizione dicotomica fra il particolare e l’universale: il paradigma “ci presenta una singolarità che non si lascia ridurre ad alcuno dei due termini della dicotomia” (SR 21). In esso è impossibile separare 128

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chiaramente la sua paradigmaticità dal suo essere un caso singolo, e quindi ciò che il paradigma presuppone è “l’impossibilità della regola”: “è la sola esibizione del caso paradigmatico a costituire una regola, che, come tale, non può né essere applicata né enunciata” (SR 23). Una nuova e più argomentata definizione di paradigma è quindi la seguente: il paradigma implica un movimento che va dalla singolarità alla singolarità e che, senza uscire da questa, trasforma ogni singolo caso in esemplare di una regola generale che non è mai possibile formulare a priori. (SR 24)

L’intellegibilità del paradigma sta nella sua relazione con l’idea, con l’eidos, e cioè nel fatto che esso contiene in qualche modo la forma stessa che va a definire. La somiglianza che forma l’omogeneità dell’insieme è però “prodotta” attraverso l’operazione paradigmatica, attraverso il “porre” o “mostrare accanto” (para-deiknymi) che congiunge ed espone il rapporto fra la singolarità e l’intellegibilità. L’insieme paradigmatico non è mai, perciò, presupposto ai paradigmi, ma resta immanente ad essi; non vi è, quindi, un’origine o un’arché, ma “ogni fenomeno è l’origine, ogni immagine è arcaica” (SR 33). In questo senso, i vari paradigmi che Agamben ha via via utilizzato non sono ipotesi che cercano di spiegare la modernità riducendola a una causa o a un’origine storica; essi, come paradigmi, hanno lo scopo di rendere leggibile, intellegibile una serie di fenomeni, e la loro arché “non è un’origine presupposta nel tempo, ma, situandosi all’incrocio di diacronia e sincronia, rende intellegibile non meno il presente del ricercatore che il passato del suo oggetto” (SR 33). Il secondo saggio analizza il concetto – anch’esso foucauldiano – di “segnatura”, che Agamben aveva già ampiamente usato l’anno prima in Il Regno e la Gloria, e che qui presenta attraverso una genealogia enciclopedica che parte da Paracelso e va dalla teoria dei sacramenti all’astrologia, dalle Pathosformel di Warburg alla facoltà mimetica di Benjamin, dagli indizi di Carlo Ginzburg ai significanti fluttuanti di Lévi-Strauss, e 129

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che ha, ovviamente, Foucault (e la lettura che ne dà Enzo Melandri) come fulcro. Una descrizione più concisa ed efficace si trova però all’inizio de Il Regno e la Gloria: una segnatura (“nel senso di Foucault e Melandri”) è “qualcosa che, in un segno o in un concetto, lo marca e lo eccede per rimandarlo a una determinata interpretazione o a un determinato ambito, senza, però, uscire dal semiotico per costituire un nuovo significato o un nuovo concetto. Le segnature spostano e dislocano i concetti e i segni da una sfera all’altra […] senza ridefinirli semanticamente” (RG 16). La segnatura è quindi qualcosa che è inseparabile dal segno, ma non si lascia ridurre ad esso; inoltre, è proprio la segnatura che rende il segno “efficace”, anzi, “i segni non parlano se le segnature non li fanno parlare” (SR 62). Il compito dello studioso, di chi si immerge nella tradizione dell’Occidente per tentare di capire il presente, è proprio quello di imparare a riconoscere e a maneggiare le segnature, perché le loro “regole, pratiche e precetti” sono ciò che guida e rende efficaci i segni: in questo senso, l’archeologia, Agamben spesso ripete, è “la scienza della segnature” (SR 66). Il saggio “filosoficamente” forse più complesso e articolato è il terzo, “Archeologia filosofica”, in cui in certo modo confluiscono e trovano il loro senso la definizione del paradigma e la teoria delle segnature. È nell’arché che è in questione nell’archeologia che il fenomeno paradigmatico e la segnatura si articolano per dare origine a un “metodo” filosofico, ed è quindi su quest’arché che ci si deve interrogare. Mutuando la definizione dal teologo protestante tedesco Franz Overbeck (1837-1905), Agamben definisce questa arché non come “origine”, ma come “punto d’insorgenza” (Entstehung): l’archeologia non ha a che fare con un “passato originario”, ma col “punto d’insorgenza” di un fenomeno che è rimasto sepolto e neutralizzato dalla tradizione, e a cui essa deve risalire confrontandosi nuovamente con le fonti e decostruendo i paradigmi mediante i quali la tradizione ne condiziona e regola l’accesso. Due punti vanno sottolineati: primo, questi paradigmi sono ciò che determina in definitiva lo statuto del soggetto conoscente, per cui il punto di insorgenza è “insieme oggettivo e soggettivo e si situa, anzi, in una 130

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soglia di indecidibilità fra l’oggetto e il soggetto” (SR 90); ciò significa che, allo stesso tempo, l’indagine sull’insorgenza è un’indagine sul soggetto, che il fatto e il soggetto conoscente emergono insieme dalla ricerca archeologica, che “l’operazione sull’origine è, nello stesso tempo, un’operazione sul soggetto” (SR 90). Ma, secondo, questo determina anche la particolare struttura temporale dell’archeologia filosofica: il punto d’insorgenza diverrà accessibile e presente solo dopo che l’inchiesta archeologica avrà compiuto la sua operazione, e cioè, l’arché qui in questione ha “la forma di un passato nel futuro, cioè di un futuro anteriore” (SR 106). Questo significa che l’arché a cui tende l’archeologia non è un dato situabile in una cronologia, né, d’altra parte, in una struttura metastorica atemporale: essa è piuttosto “una forza operante nella storia” (SR 110), un campo di correnti storiche tese fra l’ultrapassato e il presente, fra il punto di insorgenza e il divenire. La ricerca archeologica, aprendo un varco verso il passato, si inserisce in questo campo di tensioni ed è proiettata nel futuro, ma in un futuro che sarà stato possibile solo una volta che la ricerca avrà sgombrato il campo dagli strati accumulati dalla tradizione che impediscono l’accesso alla storia. Il passato, divenuto per la prima volta veramente accessibile, si dimostra così contemporaneo al presente, e l’archeologia, che si situa nella zona di indifferenza fra memoria e oblio, “è la sola via di accesso al presente” (SR 103).

‫ א‬Agamben e Foucault. Per quanto fino al 1989 (in “Experimentum linguae”) non si trovino nell’opera di Agamben riferimenti a Foucault, questi costituisce senza dubbio “l’influenza più decisiva nell’opera tarda di Agamben” (de la Durantaye 2009: 208), come d’altronde egli stesso ripete spesso: quest’influenza, come abbiamo visto, è sia concettuale che metodologica e ha prodotto una consistente mole di letteratura critica. La lettura (o reinterpretazione) agambeniana di Foucault è però assai articolata e complessa, e se ad alcuni essa appare come una rivelatrice rivalutazione del pensatore francese, ad altri sembra un’eccessiva e arbitraria “agambenizzazione”, che trasforma radicalmente le tesi foucauldiane fino a impedire, per i foucauldiani più estremi, un “dialogo” tra le due filosofie (Ojakangas 2005). Abbiamo già marcato, negli ultimi due capitoli, i punti fondamentali in cui Agamben usa e allo stesso tempo amplia o “corregge” (espressio131

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ne che è dispiaciuta a molti) le tesi di Foucault; qui possiamo solo accennare brevemente ad alcuni snodi che per la critica si sono rivelati particolarmente problematici. Per cominciare, la biopolitica è per Foucault alternativa al modello del potere sovrano, che sostanzialmente sostituisce, ed è piuttosto caratteristica del potere disciplinare (così in Sorvegliare e punire [1975], anche se Foucault correggerà questa posizione nei corsi Sicurezza, territorio, popolazione [1977-1978] e Nascita della biopolitica [19781979]; cfr. Bussolini 2009: 107, e Snoek 2010: 48). Oltre a legare indissolubilmente sovranità e biopolitica, Agamben presenta anche un concetto di sovranità “monolitico”, certo incompatibile con la molteplicità dei “discorsi” del potere in Foucault (cfr. Butler e Spivak 2007: 36, 102), e, ampliando l’assai puntuale analisi foucauldiana (sostanzialmente limitata al XVII e XVIII secolo) all’intera storia occidentale, in fondo costruirebbe un’antifoucauldiana “grande narrazione” (Kalyvas 2005: 111), la cui ampiezza ne inficierebbe la credibilità storica (Mills 2008: 87). La continuità temporale del paradigma agambeniano si contrapporrebbe, poi, alla tendenza di Foucault a individuare “punti di rottura” storici nei regimi discorsivi, e il “fondamentalismo concettuale” dell’archeologia di Agamben (Mills 2008: 86-87), per cui l’origine di un concetto ne determina il significato successivo, sarebbe antitetico al metodo genealogico di Foucault, che si teneva ben lontano dalla ricerca di rapporti “originari” (cfr. anche Laclau 2007: 11). Inoltre, la matrice “ontologica” delle ricerche di Agamben sarebbe antinomica rispetto allo scetticismo di Foucault riguardo la capacità del discorso filosofico di affrontare problemi storici e di dare forma all’azione politica (Ross 2008: 2). Infine, molti notano che Foucault sottolineava la pluralità, diversità e – soprattutto – reversibilità delle relazioni di potere, che offrirebbero così opportunità “strategiche” per una resistenza immanente (una resistenza “attiva” e quindi “volontaria”, termini che Agamben rovescia completamente), mentre Agamben rifiuta ogni possibilità di trasformare le relazioni di potere rimanendo all’interno della loro logica e propone invece un’immagine totalizzante e iperbolica della crisi della politica contemporanea (e dell’idea occidentale di politica tout court) e un’“antistrategia” altrettanto totalizzante per uscire dall’impasse, pregna, per di più, di un patos messianico completamente estraneo a Foucault. Se la “macchina” della politica occidentale si è inceppata, non è, per Agamben, a causa di una serie di processi storici che possono essere eventualmente – e immanentemente – rovesciati, ma perché è già da sempre, “ontologicamente”, una macchina thanatopolitica per imprigionare la vita, e, come vedremo nel prossimo capitolo, l’unica vera via d’uscita consiste nel suo arresto.

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7. VERSO UNA NUOVA EPOCA STORICA (Homo sacer IV: Altissima povertà; Mezzi senza fine, Il tempo che resta, Profanazioni, Nudità)

7.1. Un vocabolario messianico Nonostante Agamben rimandi la presentazione della pars construens del suo progetto al volume IV, tutti gli scritti che compongono gli altri volumi contengono tracce e anticipazioni, che delineano i contorni di quello che dovrà essere qui presentato e stabiliscono una specifica terminologia, un vocabolario quasi “tecnico”, per la proposta messianica a venire. Alle anticipazioni contenute nei volumi del progetto si aggiungono quelle degli scritti che non fanno parte di esso, a partire dalla raccolta di saggi Mezzi senza fine. Note sulla politica (1996), che riunisce alcuni studi preparatori a Homo sacer, seguita da Il tempo che resta (2000), un commento alla Lettera ai Romani di San Paolo, e dalle raccolte più personali Profanazioni (2005) e Nudità (2009), a cui vanno aggiunti alcuni saggi di La potenza del pensiero (2005), volume che riunisce saggi e conferenze che vanno dagli anni Settanta ai primi anni del nuovo secolo. Questo vocabolario messianico riprende in gran parte temi e concetti che caratterizzano tutta la produzione di Agamben, ma che ricevono ora una chiarificazione e una sistematizzazione strategiche. Prima di leggere il volume IV dovremo perciò presentare e analizzare questa terminologia, che abbiamo fin qui lasciato inesplorata.

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7.1.1. Forma-di-vita Le pagine che compongono la breve “Soglia” conclusiva di Homo sacer presentano una serie di esempi: il Flamen Diale, il sacerdote dell’antica Roma preposto al culto di Giove, la cui vita è indiscernibile dalle funzioni cultuali che egli adempie; l’homo sacer e il bandito, la cui vita è al massimo “politica” in quando in ogni momento deve fare i conti con il bando sovrano; il Führer nel Terzo Reich, che s’identifica con la stessa vita biopolitica del popolo tedesco; il musulmano dei campi di sterminio, che si muove in un’assoluta indistinzione di vita e di norma; il biologo Wilson (non meglio specificato), che, scoprendosi ammalato di leucemia, decide di usare il proprio corpo come laboratorio; Karen Quinlan, la cui vita dipende dal progresso della medicina e da decisioni giuridiche (HS 204-8). Ciò che accomuna queste “vite” (tra loro tanto diverse) è l’indecidibilità fra politica e biologia: esse presentano una zona di indifferenza fra vita e norma, fra fatto e diritto, fra zoé e bios, ed è solo a partire da questa indistinzione e indifferenza che, per Agamben, “andranno pensate le vie e i modi di una nuova politica” (HS 209). Questo significa che non è più possibile alcun ritorno alla politica classica (il bersaglio qui è la restaurazione delle categorie politiche classiche proposta, seppur in modo diverso, da Leo Strauss e Hannah Arendt): “Occorrerà, piuttosto, fare dello stesso corpo biopolitico, della nuda vita stessa il luogo in cui si costituisce e s’insedia una forma di vita tutta versata nella nuda vita, un bios che è solo la sua zoé” (HS 210). È proprio – e solo – nella situazione estrema (secondo il principio hölderlinianoheideggeriano), e cioè dal collasso biopolitico del bios nella zoé, che la “redenzione”, che una diversa politica vanno cercate. In un passo delle note intitolate “In questo esilio” che concludono Mezzi senza fine Agamben esclama enfaticamente: Ma è a partire da questo terreno incerto, da questa zona opaca di indistinzione che dobbiamo oggi ritrovare la via di un’altra politica, di un altro corpo, di un’altra parola. A questa indistinzione di pubblico e privato, di corpo biologico e di corpo politico, di zoé e bios non mi

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sentirei di rinunciare per nessuna ragione. È qui che devo ritrovare il mio spazio – qui, o in nessun altro luogo. Solo una politica che parta da questa coscienza può interessarmi. (MSF 107-8)

Nelle ultime righe di Homo sacer Agamben propone quindi una prima e succinta definizione: egli chiama “forma-di-vita” “questo essere che è solo la sua nuda esistenza, questa vita che è la sua forma e resta inseparabile da essa” (HS 211). Questo concetto viene meglio esplorato nel breve saggio “Forma-di-vita” che apre Mezzi senza fine (ma che era già stato pubblicato separatamente nel 1993) e che può essere considerato un vero e proprio “manifesto” (Kishik 2012: 39): qui formadi-vita, dove i termini sono separati e uniti – al modo heideggeriano – dal trattino per distinguerla dall’espressione abituale “forma di vita” (il trattino, scrive Agamben nel saggio del 1996 “L’immanenza assoluta”, è “il più dialettico dei segni di interpunzione, perché unisce solo nella misura in cui distingue, e viceversa” [PP 380]), è definita come “una vita che non può mai essere separata dalla sua forma, una vita in cui non è mai possibile isolare qualcosa come una nuda vita” (MSF 13). Questa è “una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso e, nel suo vivere, ne va innanzitutto del suo modo di vivere” (MSF 13), e cioè una vita senza vocazione biologica, non determinata da necessità, ma i cui atti e processi sono sempre e innanzitutto possibilità: una vita della potenza. In quanto tale, questa vita è “irrimediabilmente e dolorosamente assegnata alla felicità” ed è perciò una vita eminentemente “politica” (MSF 14). Il nesso che costituisce le varie forme di vita in una forma-divita, l’esperienza che ha per oggetto il carattere potenziale della vita, è, per Agamben, il pensiero, e questo è sempre esperienza di una potenza “comune”: “comunità e potenza si identificano senza residui, perché l’inerire di un principio comunitario in ogni potenza è funzione del carattere necessariamente potenziale di ogni comunità” (MSF 18). Riprendendo il concetto averroista di “intelletto comune” e la trasposizione che Dante ne dà nel De monarchia (su cui continuerà a insistere; cfr. ad esempio “L’opera dell’uomo” [2004, PP 372-76]), Agamben sostiene che 135

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alla potenza del pensiero come tale inerisce la multitudo, per cui il pensiero diventa “la potenza unitaria che costituisce in formadi-vita le molteplici forme di vita”, “la potenza che incessantemente riunisce la vita alla sua forma o impedisce che se ne dissoci” (MSF 19). Come nota Alex Murray (in AD 71-72), la distinzione tra le varie forme di vita e la singola forma-di-vita è importante, in quanto la divisione è il principio su cui si basa il potere sovrano per separare la nuda vita dalla sua forma e quindi per controllarla. Il potere sovrano e lo Stato si fondano, come abbiamo visto, sulla separazione di una sfera della nuda vita dal contesto delle forme di vita, e quindi la possibilità di una forma-di-vita è pensabile solo a partire dall’emancipazione da questa scissione e da ogni sovranità. Ed è anche per questo che alla forma-di-vita non vengono assegnate qualità o presupposti (e rimane quindi enigmatica; cfr. Murray in AD 71). Al di là delle divisioni sovrane, la forma-di-vita, glossa David Kishik, dev’essere considerata – spinozianamente e deleuzianamente – come “immanenza assoluta” (Kishik 2012: 34). Se il concetto di ethos delle opere degli anni Settanta-Ottanta può essere considerato come un antesignano della forma-di-vita, La comunità che viene aveva già presentato questa vita come “semplicemente la vita umana” (CV 12) e altri testi la presenteranno in seguito come “vita felice” (MSF 91), “vita beata” (QRA 22) o “vita eterna” (RG 11). Questa forma-di-vita “deve diventare il concetto-guida e il centro unitario della politica che viene” (MSF 19) e tale rimarrà in tutto il progetto.

‫ א‬Forma-di-vita e Dasein. Appena prima di proporre la definizione di forma-di-vita alla fine di Homo sacer Agamben introduce una breve analogia tra la politica contemporanea e la situazione epocale della metafisica e scrive: “Il bios giace oggi nella zoé esattamente come, nella definizione heideggeriana del Dasein, l’essenza giace (liegt) nell’esistenza” (HS 210). Una nota che conclude il capitolo sull’eugenetica nazista in Homo sacer già svolge quest’analogia interrogandosi sulla relazione fra Heidegger e il nazismo (questa nota sarà poi svolta nella conferenza del 1996 “Heidegger e il nazismo” che verrà pubblicata anche come prefazione ad Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo di Levinas e poi inclusa in La potenza del 136

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pensiero; cfr. PP 321-31): il Dasein, scrive Agamben, presenta una struttura circolare “per il quale ne va, nei suoi modi di essere, del suo stesso essere”, in esso “è impossibile distinguere fra la vita e la sua situazione effettiva, fra l’essere e i suoi modi di essere”; il Dasein è “un essere che è e ha da essere i suoi stessi modi di essere”, è “l’assunzione decisa di questi modi e di questa situazione, in cui ciò che era dote (Hingabe) deve essere trasformato in compito (Aufgabe)”. Il nazismo, come ben aveva notato Levinas, si radica in quella stessa esperienza della fatticità da cui muove il pensiero di Heidegger, ma in esso, precisa Agamben, la fatticità viene imprigionata in un fatto, in una determinazione razziale oggettiva. Il progetto di entrambi consiste in una “radicalizzazione senza precedenti dello stato di eccezione (con la sua indifferenza di natura e politica, esterno e interno, esclusione e inclusione)”, ma il nazismo farà della nuda vita il luogo di una incessante decisione biopolitica, mentre Heidegger fa del Dasein un’“unità inseparabile di essere e modi, soggetto e qualità, vita e mondo” che “si sottrae a ogni decisione esterna e si presenta come una coesione indissolubile, in cui è impossibile isolare qualcosa come una nuda vita”; nel Dasein “la vita dell’homo sacer, che era la controparte del potere sovrano, si rovescia in un’esistenza su cui il potere non sembra avere più alcuna presa” (HS 167-70). Questa definizione del Dasein sembra un’anticipazione quasi letterale del concetto di forma-di-vita; proprio come il concetto agambeniano di “potenza” trova le sue radici nella struttura del Dasein, così anche per quello di forma-di-vita, che ne è un corollario, può essere evidenziata una genealogia heideggeriana, ben notata dalla critica (per esempio Geulen 2009: 179) e che Agamben esplicitamente conferma (cfr. Leitgeb e Vissmann 2001: 21).

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Vita e arte. L’accusa di “esteticismo” mossa a certi tratti della filosofia di Agamben comprende anche e principalmente il concetto di forma-divita. Tra gli altri, Eva Geulen (2009: 119-22) sostiene che questo concetto troverebbe le sue radici negli studi di Agamben sull’arte e l’estetica degli anni Settanta e Ottanta e in una sorta di nostalgia romantica per una perduta “unità” (quella tra forma e contenuto). Geulen (che insiste sul sospetto di “romanticismo sociale” a proposito di molti aspetti del progetto agambeniano) cita un’intervista in cui Agamben lega la forma-di-vita all’idea foucauldiana di “vita come opera d’arte”: qui Agamben specifica però che questa “opera d’arte” sarà senza autore, senza artista; anzi, sarà un’opera che bisogna proteggere e difendere dall’idea stessa di “artista” (Raulff 2004: 613-14). Una nota di Altissima povertà chiarificherà questo punto: “arte” qui va intesa nel senso dell’espressione “arti e mestieri”, di una “tecnica” che si apprende e si applica di continuo, e cioè, lungi dall’essere un’estetizzazione dell’esistenza, bisogna intenderla come una “definizione della propria vita in relazione a una pratica incessante” (AP 46-47).

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7.1.2. Stato di eccezione effettivo Come la forma-di-vita consiste in una radicalizzazione della riduzione biopolitica del bios alla zoé, così la proposta di Agamben per “superare” lo stato di eccezione non consiste nella restaurazione di una politica più “autentica” (la politica occidentale, come abbiamo visto, è già da sempre e intrinsecamente biopolitica), ma proprio in una radicalizzazione dello stato di eccezione. Ed è ancora Benjamin a fornire ad Agamben il vocabolario di questa radicalizzazione. Nell’ottava tesi Sul concetto di storia, il compito che emerge dalla constatazione che lo stato di eccezione è diventato la regola è identificato nella creazione dello “stato di eccezione effettivo (wirklich)” (OC 7: 486, traduzione modificata). L’aggettivo wirklich può significare “reale”, “vero” (e così spesso viene reso nelle traduzioni del testo di Benjamin), ma il verbo wirken, da cui deriva, significa “operare”, “agire”, “produrre un effetto” (Wirkung), per cui Agamben lo traduce come “effettivo”. Quest’effettività si contrappone alla “virtualità” dello stato di eccezione divenuto regola: quest’ultimo è “virtuale” nel senso che in esso la legge si mantiene come pura forma, mera vigenza senza significato, e in questo modo produce la nuda vita. Nello stato di eccezione effettivo, “alla legge che s’indetermina in vita fa riscontro, invece, una vita che, con un gesto simmetrico ma inverso, si trasforma integralmente in legge”; in esso legge e vita, che il bando sovrano distingueva e manteneva uniti, “si aboliscono a vicenda ed entrano in una nuova dimensione” (HS 64). Questa abolizione della distinzione tra legge e vita è proprio la situazione che, nella tradizione messianica, si verifica all’avvento del Messia, la cui venuta significa “il compimento e la consumazione della legge”: “il messianismo è, dunque, una teoria dello stato di eccezione; solo che a proclamarlo non è l’autorità vigente, ma il Messia che ne sovverte il potere” (HS 67; su questo punto si veda il saggio del 1992 “Il Messia e il Sovrano: Il problema della legge in W. Benjamin”, PP 251-70, che anticipa molte delle tesi centrali di Homo sacer). Con un gesto che rimanda direttamente alla “singolarità qualunque” de La comunità che viene (e che sarà ripetuto nel 138

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saggio “Che cos’è un paradigma?” di Signatura rerum; cfr. SR 25-26, e, significativamente, in Altissima povertà; cfr. AP 120, 130), all’eccezione viene contrapposto l’esempio: se l’eccezione è un’esclusione inclusiva, che include, cioè, ciò che viene espulso, l’esempio è invece un’inclusione esclusiva, che mostra la sua appartenenza a una classe, ma, proprio per questo, fuoriesce da essa. L’esempio è “escluso dal caso normale non perché non ne fa parte, ma, al contrario, perché esibisce il suo appartenervi” (HS 27). Se la forma-di-vita è in fondo una rielaborazione della “singolarità qualunque”, allora possiamo dire che lo stato di eccezione effettivo, trasformando l’eccezione in esempio, diventa uno stato di esemplarità. Lo stato di eccezione effettivo viene quindi messo in relazione con il concetto centrale di “Per la critica della violenza”: la violenza divina (o pura). Benjamin non ne fornisce alcuna identificazione positiva (di qui la molteplicità ed eterogeneità delle interpretazioni che ne sono state date, fino all’accostamento da parte di Derrida, in Forza di legge [1989], alla soluzione finale nazista, che Agamben ritiene un “singolare fraintendimento” [HS 73]), ma la contrappone comunque alla violenza mitica (giuridica) e così la definisce: Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue. (OC 1: 485)

Importante, come nota Agamben, è che questa violenza non pone né conserva il diritto (come invece fa la violenza mitica), ma lo de-pone (entsetzt), e, per Benjamin, proprio sullo “spodestamento [Entsetzung] del diritto insieme alle forze a cui esso si appoggia (com essa ad esso), e cioè in definitiva dello Stato, si basa una nuova epoca storica” (OC 1: 487). Questa violenza si situa, per Agamben, in una zona in cui non è più possibile distinguere fra eccezione e regola e “sta, rispetto alla violenza sovrana, nello stesso rapporto in cui, nell’ottava tesi, lo 139

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stato di eccezione effettivo sta rispetto a quello virtuale”. Non un’altra forma di violenza accanto alle altre, in quanto de-pone il diritto essa non è che “lo scioglimento del nesso fra violenza e diritto” (HS 74), e cioè lo scioglimento del nesso che lega la vita alla legge nello stato di eccezione. Questo scioglimento è ciò che apre la via a “una nuova epoca storica”, e cioé allo stato di eccezione effettivo. 7.1.3. Mezzi puri Un altro concetto fondamentale per la soteriologia agambeniana che proviene da “Per la critica della violenza” di Benjamin è quello di “mezzi puri” o “mezzi senza fine” (da qui il titolo della raccolta del 1996). Nel proporre un’alternativa non violenta ai “mezzi legali e illegali di ogni genere, che sono pur sempre tutti insieme violenza”, Benjamin la identifica nei “mezzi puri”, la cui specificazione si limita al fatto che non sono mai mezzi di soluzioni immediate, ma sempre di soluzioni mediate. Essi non si riferiscono quindi mai direttamente alla risoluzione di conflitti fra uomo e uomo, ma solo attraverso l’intermediario delle cose. Nel riferimento più concreto dei conflitti umani a beni oggettivi si dischiude la sfera dei mezzi puri. (OC 1: 478)

Gli esempi che Benjamin fornisce sono la tecnica (Technik) nel senso più ampio del termine, la conversazione o inter-loquire (Unterredung), e più in generale il linguaggio. Non violenti e puri in quanto “purificati” dalla relazione sia a un fine che a un soggetto (a una volontà), i mezzi puri sono in realtà un paradosso: se la storia della filosofia occidentale, da Aristotele a Kant, conosce il concetto di “fini puri” o “fini-in-sé”, un mezzo non può essere “in-sé” nel senso kantiano, in quanto per definizione dipende dal fine a cui è preposto. Benjamin situa invece il mezzo in una medialità che, pur conservandolo come tale, lo considera indipendentemente dai fini che esso persegue. Della “purezza” di questi mezzi (come anche della “violenza pura” o della “pura lingua” dei saggi benjaminiani “Sulla 140

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lingua in generale” del 1916 e sul “Compito del traduttore” del 1921) Agamben fornisce un’interpretazione puntuale ed originale: nel capitolo centrale di Stato di eccezione, rimandando a una lettera di Benjamin a Ernst Schoen del 1919 che definisce la “purezza” come relazionale e non sostanziale, egli scrive che “il medio non deve la sua purezza a una qualche intrinseca proprietà specifica, che lo differenzia dai mezzi giuridici, ma alla sua relazione con questi. […] [P]ura è quella violenza che non si trova in relazione di mezzo rispetto a un fine, ma si tiene in relazione con la sua stessa medialità” (SE 80). Questa “relazione con la sua stessa medialità” costituisce il cuore di un saggio di undici anni precedente, “Note sul gesto” (1992, poi incluso in Mezzi senza fine), che – senza alcun riferimento a Benjamin – si conclude con la seguente definizione: “La politica è la sfera dei puri mezzi, cioè dell’assoluta e integrale gestualità degli uomini” (MSF 53). Riprendendo i termini dell’experimentum linguae di qualche anno prima, Agamben amplia questa definizione alla fine di “Note sulla politica” (anch’esso del 1992 e incluso in Mezzi senza fine): Ciò che è in questione nell’esperienza politica non è un fine più alto, ma lo stesso essere-nel-linguaggio come medialità pura, l’essere-inun-mezzo come condizione irriducibile degli uomini. Politica è l’esibizione di una medialità, il render visibile un mezzo come tale. Essa è la sfera non di un fine in sé, né dei mezzi subordinati a un fine, ma di una medialità pura e senza fine come campo dell’agire e del pensiero umano. (MSF 92-93)

Quest’idea della politica rimarrà centrale in tutto il progetto e ritornerà esplicitamente nell’importante saggio “Elogio della profanazione” (2005), dove il mezzo puro è definito di nuovo come “una prassi che, pur mantenendo tenacemente la sua natura di mezzo, si è emancipata dalla sua relazione a un fine, ha gioiosamente dimenticato il suo scopo e può ora esibirsi come tale, come mezzo senza fine” (PR 99). Per Agamben, nulla è però così fragile come la sfera dei mezzi puri, e il dispositivo dello spettacolo capitalista consiste proprio in una incessante “nullificazione dei mezzi puri” (PR 102): “Nella sua fase 141

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estrema, il capitalismo non è altro che un gigantesco dispositivo di cattura dei mezzi puri […]. I mezzi puri, che rappresentano la disattivazione e la rottura di ogni separazione, vengono a loro volta separati in una sfera speciale” (PR 101). Esempio principale ne è il linguaggio, il “mezzo puro per eccellenza”, che non solo viene ridotto alla funzione strumentale della propaganda, ma viene ancor più neutralizzato nei dispositivi mediatici, in cui gira a vuoto e dice soltanto il proprio nulla (PR 101-2). Compito della politica che viene è di liberare i mezzi puri dai dispositivi che li imprigionano e neutralizzano. 7.1.4. Gesto “Note sul gesto” conferisce al massimo grado l’esemplarità di mezzo puro al gesto. In realtà, anche questo è un concetto profondamente benjaminiano, centrale, tra le altre cose, nell’interpretazione che Benjamin dà sia di Kafka (nel saggio “Franz Kafka” del 1934) che di Brecht (in “Che cos’è il teatro epico?” del 1939) (Alfonso Galindo ne nota però anche il debito con l’ontologia e l’etica heideggeriane: cfr. Galindo 2005: 108-14). Agamben riarticola le intuizioni benjaminiane sulla critica debordiana dello spettacolo e sulla politica dei mezzi puri per proporlo come contrasto a, o sospensione de, la politica e l’etica tradizionali. Il gesto “spezza la falsa alternativa tra fini e mezzi che paralizza la morale e presenta dei mezzi che, come tali, si sottraggono all’ambito della medialità, senza diventare, per questo, dei fini” (MSF 51). Sospendendo e cristallizzando il continuum dell’agire e del produrre, il gesto è “l’esibizione di una medialità, il render visibile un mezzo come tale. Esso fa apparire l’essere-in-un-medio dell’uomo e, in questo modo, apre per lui la dimensione etica” (MSF 52). La sfera di una medialità pura e senza fini che il gesto espone e comunica significa che esso e, principalmente e in senso proprio, comunicazione di una comunicabilità. Esso non ha propriamente nulla da dire, perché ciò che mostra è l’essere-nel-linguaggio dell’uomo come pura medialità. Ma, poiché l’essere-nel-linguaggio non

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è qualcosa che possa essere detto in proposizioni, il gesto è, nella sua essenza, sempre gesto di non raccapezzarsi nel linguaggio, è sempre gag nel significato proprio del termine, che indica innanzitutto qualcosa che si mette in bocca per impedire la parola, e poi l’improvvisazione dell’attore per sopperire a un vuoto di memoria o a una impossibilità di parlare. (MSF 52-53)

In questo senso il gesto è prossimo sia alla filosofia che al cinema, in quanto entrambi non sono che “esposizione dell’essere-nel-linguaggio dell’uomo: gestualità pura” (MSF 53). Un testo dell’anno precedente sul critico tedesco Max Kommerell (1902-1944) e che si basa fondamentalmente sulle stesse tesi, “Kommerell, o del gesto” (1991), si concludeva proprio con l’asserzione: “politica è la sfera dell’assoluta, integrale gestualità degli esseri umani e non c’è altro nome per essa se non il suo pseudonimo greco, qui appena proferito: filosofia” (PP 249). Un testo ben più tardo, “L’autore come gesto” (2005), riarticola queste tesi per proporre nientemeno che una teoria della soggettività. Il testo parte dalla celebre conferenza di Foucault “Che cos’è un autore?” (1969) e in particolare dalla tesi (che è una citazione da Beckett) che la guida: “la traccia dell’autore sta solo nella singolarità della sua assenza” (PR 67). Deborah Levitt scrive (in AD 81-82) che Agamben mette in movimento la staticità della definizione foucauldiana trasformando l’assenza dell’autore in un non-cessare-di-scomparire, ed è questo che lo costituisce come gesto: “Se chiamiamo gesto ciò che resta inespresso in ogni atto di espressione, potremmo dire, allora, che […] l’autore è presente nel testo soltanto in un gesto, che rende possibile l’espressione nella misura stessa in cui insedia in essa un vuoto centrale” (PR 73). Questo gesto apre le condizioni di possibilità dell’espressione, ma non è mai espresso esso stesso, e in quanto tale è la cifra della soggettività in quanto tale. L’ultimo paragrafo rigetta qualsiasi sostanzialità del soggetto e lo costruisce piuttosto nell’inesauribile e immanente movimento e gioco della situazione concreta: “Una soggettività si produce dove il vivente, incontrando il linguaggio e mettendosi in gioco in esso senza riserve, esibisce in un gesto la propria irriducibilità ad esso. Tutto il resto è psicologia e da nessuna parte nella 143

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psicologia incontriamo qualcosa come un soggetto etico, una forma di vita” (PR 81).

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Agamben e il cinema. “Note sul gesto” propone un’interpretazione del cinema fondata sul gesto, e la relazione di Agamben con il cinema, se forse non centrale, è comunque importante, anche dal punto di vista biografico: suo padre era proprietario di sale cinematografiche e da ragazzo Agamben andava al cinema spesso, anche due volte al giorno (Sofri 1985: 32). Inoltre, all’età di 22 anni partecipò, nella parte dell’apostolo Filippo, al Vangelo secondo Matteo (1964) di Pasolini, che aveva conosciuto attraverso Elsa Morante (esperienza di cui dirà: “Lavorare nel film non mi piacque molto. Non ero del tutto convinto di quel Vangelo, della figura del Cristo. E poi quei tempi morti, le attese di ore che sono proprie del cinema, e di quello in particolare, abbastanza disorganizzato,” Sofri 1985: 32). Dal punto di vista teorico, sulla scia di Benjamin e Deleuze ma anche di Warburg, Agamben interpreterà il cinema come momento integrante dell’evoluzione capitalistica, ma vi scorgerà anche la presenza di cristalli di emancipazione. In “Note sul gesto”, se sostiene che “[n]el cinema, una società che ha perduto i suoi gesti cerca di riappropriarsi di ciò che ha perduto e, insieme, ne registra la perdita” (MSF 48), egli identifica però nel gesto l’elemento proprio del cinema, per cui, “[p]oiché ha il suo centro nel gesto e non nell’immagine, il cinema appartiene essenzialmente all’ordine dell’etica e della politica (e non semplicemente a quello dell’estetica)” (MSF 50). Questa breve interpretazione del cinema viene svolta ed esplicitata in senso messianico nella breve conferenza del 1995 (pubblicata in francese nel 1998 e in traduzione italiana nel 2001) “Il cinema di Guy Debord”: la “situazione messianica” del cinema (qui esemplificata dai film di Debord e Godard) sta nelle sue condizioni di possibilità (i suoi “trascendentali”), la ripetizione e l’interruzione. La ripetizione “restituisce la possibilità di ciò che è stato, lo rende nuovamente possibile. Ripetere una cosa è renderla di nuovo possibile” (CGD 105). In questo senso essa è prossima alla memoria, che restituisce al passato la sua possibilità. La rilevanza storica e messianica del cinema consiste nel fatto che esso “trasforma il reale in possibile e il possibile in reale” e in questo modo proietta “la potenza e la possibilità verso ciò che è impossibile per definizione, verso il passato”, contrariamente ai media spettacolari, che invece ci danno sempre il fatto senza la sua potenza (CGD 105). L’interruzione, a sua volta, sottrae l’immagine al potere narrativo per esporla in quanto tale, la trasforma in un “mezzo puro”, che si mostra in quanto mezzo: “L’immagine si mostra in se stessa invece di scomparire in ciò che ci fa vedere” (CGD 107). E tuttavia, nota Alex Murray (2010: 92), rendendo visibile il mezzo, il cinema di Debord (come il teatro epico di Brecht) tende allo stesso tempo a esporre la propria natura illusoria; in questo modo dobbiamo leggere, secondo Murray, il breve schizzo

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che chiude Profanazioni, “I sei minuti più belli della storia del cinema”, che descrive una breve scena del progetto incompiuto di Orson Welles Don Quixote: esporre l’immaginazione come donchisciottesca, come distorsione spettacolare, è il primo passo per ricostruire una nuova forma di immagine e una nuova poetica.

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Pornocairologia. “Note sul gesto” presenta il film pornografico come esempio del gesto quale esibizione di una medialità: nella pornografia, l’attore o l’attrice, “per il solo fatto di essere fotografata ed esibita nella sua stessa medialità, è sospesa da questa e può diventare, per gli spettatori, medio di un nuovo piacere (che sarebbe altrimenti incomprensibile)” (MSF 52). L’uso “paradigmatico” della pornografia (de la Durantaye 2009: 193) è presente quasi in ogni fase dell’opera di Agamben, il che, prevedibilmente, ha disturbato non poche lettrici, che lo attribuiscono alla sua genderblindness (per esempio Mills 2008: 115, 128, 137). Già in “Idea del comunismo” di Idea della prosa il “contenuto di verità” della pornografia è identificato nella sua “ingenua, stuccosa pretesa di felicità”, e “l’eterna ragione politica della pornografia” nel “mostrare il potenziale di felicità presente in ogni minima situazione quotidiana e ovunque vi sia una socialità umana” (IP 56). Importante è che, in essa, questa felicità è esibita nel suo irrimediabile carattere episodico e immanente; Cesare Casarino sostiene quindi che la pornografia “spoglia il corpo sessuale e i suoi piaceri della loro aura sacra per presentarli come pienamente secolari e storici”, come segnature di una storia che “non è fato ineluttabile o telos, ma piuttosto contingenza che deve essere afferrata come necessità” (Casarino 2002: 122-23). Questa temporalità della pornografia mostra, per Casarino, il cairos del piacere e la accomuna, in senso paradigmatico, al comunismo, per cui egli conia il termine “pornocairologia” (Casarino 2002: 125). Così, in La comunità che viene, la pornografia (insieme alla pubblicità), attraverso il processo di mercificazione del corpo, costituisce l’apoteosi dello spettacolo, ma proprio in questo modo riscatta il corpo sia dal suo destino biologico che dai suoi fondamenti teologici e lo apre quindi, pur inconsapevolmente, alla possibilità di un nuovo corpo veramente e solamente umano (CV 42-44). “Idea della gloria” introduce inoltre una tesi che Agamben ripeterà costantemente, ad esempio in “Il volto” (MSF 76), “Il cinema di Guy Debord” (CGD 107), “Elogio della profanazione” e “Nudità” (NU 126): nell’ultima fase dell’evoluzione della pornografia, il soggetto guarda, sempre più spesso, direttamente verso l’obiettivo, esibendo così la coscienza di essere esposto allo sguardo (IP 114-15). Questo fatto non è limitato alla pornografia ma si è esteso a ogni forma di immagine del volto, e nel cinema ha una data di nascita precisa, la scena in cui, nel film di Ingmar Bergman Monica e il desiderio (1953), l’attrice Harriett Andersson tiene fisso lo sguardo nell’obiettivo per qualche secondo (CGD 107; PR 103). Per Agamben, questa esposizione estrema del volto spezza ogni relazione tra il vissuto e la sfera espressiva

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– è un “gesto” – e trasforma così il volto in “puro mezzo” (PR 105), evento che la pornografia come industria cerca invece di neutralizzare in ogni modo (e in quanto tale è paradigmatica dello stadio spettacolare del capitalismo).

7.1.5. Resto “Resto” è un concetto teologico-messianico che Agamben deriva principalmente da San Paolo e che sostiene tutta l’analisi di Quel che resta di Auschwitz e Il tempo che resta, come appare peraltro evidente dai titoli. Il primo porta in epigrafe proprio due passi incentrati sul “resto”, uno dal Vecchio Testamento (Isaia 10: 20-22), che si conclude con “solo un resto si salverà…”, e il secondo dalla Lettera ai Romani di San Paolo (11: 5-26), che recita “Così nel tempo di ora si è prodotto un resto, secondo l’elezione della grazia. […] E così tutto Israele sarà salvato” (QRA 12). Il concetto è brevemente introdotto, però, solo nel capitolo sulla vergogna e il soggetto, in cui quest’ultimo è ciò che si produce come resto dei processi concomitanti di soggettivazione e desoggettivazione: “Il sé è ciò che si produce come resto nel doppio movimento – attivo e passivo – dell’autoaffezione. […] Il rossore è quel resto che, in ogni soggettivazione, tradisce una desoggettivazione, e, in ogni desoggettivazione, testimonia di un soggetto” (QRA 103-4). Come abbiamo visto, questa teoria della soggettività è volta a sostenere l’elaborazione della testimonianza: il soggetto come resto dei processi di soggettivazione e desoggettivazione significa che “l’identità tra uomo e non-uomo non è mai perfetta, che non è possibile distruggere integralmente l’umano, che resta sempre qualcosa. Il testimone è quel resto” (QRA 125). Tuttavia, è solo negli ultimi paragrafi del libro che Agamben propone una definizione di resto: questa è introdotta da due citazioni, la prima da un’intervista a Hannah Arendt del 1964, in cui, alla domanda su cosa restasse, per lei, della Germania prehitleriana, rispose “Che cosa resta? Resta la madrelingua” (Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache); la seconda è il verso che chiude l’inno hölderliniano Andenken (Ricordo, 1803), “ciò che resta, però, lo fondano i 146

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poeti” (Was bleibet aber, stiften die Dichter), a cui Heidegger aveva dedicato varie interpretazioni (ad esempio la conferenza del 1937 “Hölderlin e l’essenza della poesia” o il corso del semestre invernale 1941-1942 L’inno Andenken di Hölderlin). Per Agamben, sia la testimonianza che la poesia, come abbiamo visto, si situano in una posizione di resto, esse “fondano la lingua come ciò che resta, che sopravvive in atto alla possibilità – o all’impossibilità – di parlare” (QRA 150-51). Il significato teologico-messianico di resto è quindi spiegato in riferimento ai libri profetici dell’Antico Testamento: “resto” non rimanda qui semplicemente a una porzione numerica che si salverà, ma è invece “la consistenza che Israele assume nel punto in cui è posto in relazione immediata on l’eschaton, con l’evento messianico o con l’elezione. Nel suo rapporto alla salvezza, il tutto (il popolo) si pone, cioè, necessariamente come resto” (QRA 152). Il resto d’Israele qui non è né tutto il popolo né una parte di esso, “ma significa appunto l’impossibilità per il tutto e la parte di coincidere con se stessi e fra di loro”, per cui, in riferimento ad Auschwitz, ciò che ne resta, i testimoni, “non sono né i morti né i sopravvissuti, né i sommersi né i salvati, ma ciò che resta fra di essi” (QRA 153). Questa concezione del resto come non coincidenza del tutto e della parte era però già implicita nella lunga nota che chiude l’ultimo capitolo di Homo sacer (e che riprende il breve saggio del 1995 “Che cos’è un popolo?”, poi incluso in Mezzi senza fine, 30-34): nella politica occidentale, scrive Agamben, il concetto di “popolo” è già sempre attraversato da una scissione (biopolitica) fondamentale che divide il Popolo (come corpo politico integrale) e il popolo (come molteplicità frammentaria degli esclusi). Esso è “ciò che non può essere incluso nel tutto di cui fa parte e non può appartenere all’insieme in cui è già sempre incluso” (HS 199); è quindi, nel vocabolario degli studi che seguono, già sempre “resto”. In Quel che resta di Auschwitz l’interpretazione messianica del resto si basa principalmente (anche se brevemente) sulla Lettera ai Romani di San Paolo (cfr. QRA 152), ed è quindi in Il tempo che resta, che di questa lettera propone una minuziosa 147

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interpretazione (a partire dal primo versetto, e cioè su dieci sole parole), che troviamo un’elaborazione compiuta del concetto di resto. Alla Legge, che opera innanzitutto istituendo divisioni e separazioni, San Paolo non oppone un’eliminazione universalistica delle divisioni, ma invece un’ulteriore divisione, che si esercita sulle stesse divisioni nomistiche: “L’aforisma messianico […] non ha un oggetto proprio, ma divide le divisioni tracciate dalla legge. […] La divisione messianica introduce nella grande divisione nomistica dei popoli un resto” (TR 52-53). Questo resto non è qualcosa come una porzione numerica o un residuo positivo, ma ha piuttosto la forma di una doppia negazione, che introduce nell’opposizione A/non-A un “non non-A”: “Colui che si tiene nella legge messianica è non-non nella legge” (TR 53). Questa interpretazione del rapporto tra soggetto e legge si pone in esplicita polemica con la lettura che di San Paolo dà Alain Badiou, che, in San Paolo: La fondazione dell’universalismo (1997), insisteva sulla tradizione “cattolica” (universale) che vede in esso, appunto, l’apostolo dell’universalismo moderno, “in cui qualcosa – per esempio, l’umanità dell’uomo – viene fatto valere come il principio che abolisce tutte le differenze o come la differenza ultima, al di là della quale nessuna divisione è più possibile” (TR 54). Per Agamben, la divisione messianica non raggiunge mai un universale, ma rappresenta invece l’impossibilità per ogni popolo, per ogni identità, di coincidere con se stessi, e tra essi crea un resto. Il resto, impedendo alle divisioni di essere esaustive, costituisce “non tanto l’oggetto della salvezza, quanto piuttosto il suo strumento, ciò che, propriamente, la rende possibile” e funziona così come “una molto speciale macchina soteriologica”: esso è, nelle parole di Benjamin, “quell’insalvabile nella cui percezione soltanto la salvezza si lascia raggiungere”, o quella speranza che Kafka diceva esistere, “ma non per noi”; “Il resto messianico eccede irrimediabilmente il tutto escatologico, esso è l’insalvabile che rende possibile la salvezza” (TR 58). Così, il lascito politico del messianismo paolino permette di chiarificare (come Agamben esplicitamente fa in un’intervista; cfr. Leitgeb e Vissmann 2001: 22) l’ultima nota di Homo sacer sul con148

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cetto di “popolo”: esso non è né il tutto né la parte, né maggioranza né minoranza, ma ciò che non può mai coincidere con se stesso, ciò che resta o resiste in ogni divisione; “E questo resto è la figura o la consistenza che il popolo prende nell’istanza decisiva – e, come tale, esso è l’unico soggetto politico reale” (TR 59). È chiaro che tutta l’elaborazione del concetto di resto è diretta contro la teoria dell’eccezione, e la riarticola proprio sull’idea di uno “stato di eccezione effettivo”; così Agamben può concludere:

‫א‬

Il resto è un’eccezione spinta all’estremo, portata alla sua formulazione paradossale. Nella condizione messianica del credente, Paolo radicalizza la condizione dello stato di eccezione, in cui la legge si applica disapplicandosi, non conosce più né un dentro né un fuori. Alla legge che si applica disapplicandosi, corrisponde ora un gesto – la fede – che la rende inoperosa e la porta al suo compimento. (TR 100-1)

Lingua viva/lingua morta. La breve teorizzazione della lingua come resto in Quel che resta di Auschwitz si basa su un’opposizione che si ripropone costantemente nell’elaborazione di Agamben, quella tra lingua viva e lingua morta. Ogni lingua è un campo di tensioni tra trasformazione e grammaticalizzazione, e il punto d’incrocio fra le due è il soggetto parlante; quando, in esso, si spezza l’equilibrio fra norma e trasformazione, si ha la morte di una lingua. E tuttavia, il poeta in lingua morta (sull’esempio delle poesie in latino di Giovanni Pascoli), spezza e rende indecidibile questa opposizione e “convoglia alla parola un’assoluta impossibilità di parlare”. Come sappiamo, questo è precisamente ciò che fa la testimonianza, che significa proprio “porsi nella propria lingua nella posizione di coloro che l’hanno perduta, insediarsi in una lingua viva come se essa fosse morta o in una lingua morta com se essa fossa viva” (QRA 150). Le due opposizioni qui evocate, lingua materna/lingua grammatica e lingua viva/lingua morta, sono tra le categorie portanti del progetto di Categorie italiane, ed è proprio in un saggio del 1982 ivi incluso, “Pascoli e il pensiero della voce”, che Agamben fornisce un’elaborazione articolata di questi concetti. Se qui l’opposizione è articolata sul tema della “Voce” di Il linguaggio e la morte, per cui la “morte” della lingua significa “l’uscita del linguaggio dalla sua dimensione semantica e il suo far ritorno nella sfera originale del puro voler-dire” (CI 66), e quindi “parlare, poetare, pensare” viene a significare “fare esperienza della lettera come esperienza della morte della propria lingua e della propria voce” (CI 71-72), questo tema assumerà di volta in volta tratti sempre più messianici, fino alla conferenza “Il ‘logos erchomenos’ di

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Andrea Zanzotto” del 2007 (inclusa nella seconda edizione di Categorie italiane), in cui la scissione del linguaggio (nel caso di Zanzotto in dialetto e grammatica) nomina il factum loquendi tout court e allo stesso tempo ne mostra la struttura messianica: “Il linguaggio, il logos, è […] l’elemento messianico per eccellenza, sempre erchomenos [che viene], sempre a monte e in annuncio di sé, sempre sopravveniente in un non-luogo” (CI 101).

7.1.6. Désoeuvrement/Inoperosità La citazione che chiude la sezione precedente contiene quello che è probabilmente il termine centrale del progetto soteriologico di Agamben: “inoperoso”. Di questo concetto è possibile individuare dei precursori negli scritti che precedono Homo sacer, come già “Idea della politica” di Idea della prosa, che si centra sulla condizione di chi dimora nel Limbo (IP 59-60), ripresa quasi letteralmente nel trattato “Dal Limbo” de La comunità che viene (CV 11-12). La prima si chiude con la figura del Bartleby melvilliano (che in La comunità che viene merita un trattato a sé, cfr. CV 33-35), ed è proprio nella conclusione del saggio su Bartleby che troviamo un concetto, “decreazione”, che preannuncia la futura “inoperosità”: Bartleby è qui accostato alla figura del Messia, ma il compimento della Legge (che egli, che è un law-copist, preferisce non scrivere più) che qui si realizza segna il passaggio alla creazione seconda, in cui Dio richiama a sé la sua potenza di non essere e crea a partire dal punto di indifferenza di potenza e impotenza. La creazione che ora si compie non è una ricreazione né una ripetizione eterna, ma, piuttosto, una decreazione, in cui ciò che è avvenuto e ciò che non è stato sono restituiti alla loro unità originaria nella mente di Dio e ciò che poteva non essere ed è stato sfuma in ciò che poteva essere e non è stato. (BAR 88)

La postilla aggiunta nel 2001 alla nuova edizione de La comunità che viene riprende il concetto di decreazione e lo accosta a “inoperosità”: “Non il lavoro, ma inoperosità e decreazione sono […] il paradigma della politica che viene” (CV 92). In Homo sacer, al compito di “pensare l’esistenza della potenza senz’alcuna relazione con l’essere in atto”, e cioè di 150

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“pensare l’ontologia e la politica al di là di ogni figura della relazione” (HS 55), Agamben risponde proponendo il désoeuvrement (citando di nuovo Bartleby, HS 56), che introduce brevemente nella nota che chiude la prima parte del libro. Il termine désoeuvrement (“inoperosità”, anche se in francese il termine è una forma deverbale passiva, dove il prefisso de- denota privazione, mentre in italiano è una forma denominale attiva, dove il prefisso in- denota inversione) era stato introdotto nel lessico filosofico da Kojève in “Les Romans de la sagesse” (1952), una recensione a tre romanzi di Raymond Queneau, Pierrot mon ami (1942), Loin de Rueil (1944) e Le Dimanche de la vie (1952). Qui Kojève definiva i protagonisti dei tre romanzi voyous désoeuvrés (che è in realtà un’espressione colloquiale e si potrebbe tradurre come “teppistelli sfaccendati”) e in essi vedeva la figura del “saggio” alla fine della storia. La recensione provocò il sarcasmo di Bataille, che coniò a riguardo il termine homo quenellensis (che gioca con l’assonanza del nome Queneau con la quenelle, un impasto di farina, uova e latte insaporito con pesce o carne), ma la querelle tra Kojéve e Bataille ebbe un grande impatto sulla generazione successiva in Francia e il termine venne reso celebre dall’uso che ne fecero soprattutto Blanchot e Nancy. Nella nota di Homo sacer, Agamben brevemente ridefinisce e personalizza il termine: l’inoperosità “non può essere né la semplice assenza di opera né (come in Bataille) una forma sovrana e senza impiego della negatività”, ma deve essere pensata come “un modo di esistenza generica della potenza, che non si esaurisce […] in un transitus de potentia ad actum” (HS 71). Questa prima e succinta definizione viene specificata, anche se ancora brevemente, nella penultima paginetta delle note “In questo esilio” che concludono Mezzi senza fine: qui, commentando un passo dell’Etica nicomachea (1907 b 22 seg.) in cui Aristotele si chiede se vi sia un’“opera” (ergon, nel senso di enérgeia, di essere-in-atto) propria dell’uomo, come ve n’è una per l’auleta o lo scultore, Agamben (contro Aristotele, che la individuava nel logos, nell’essere-in-opera dell’anima secondo la virtù; cfr. PP 370) risponde negativamente e sostiene che 151

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l’uomo è essenzialmente argòs (a privativo + ergos), senz’opera, inoperoso, e questo ne determina immancabilmente l’agire: La politica è ciò che corrisponde all’inoperosità essenziale degli uomini, all’essere radicalmente senz’opera delle comunità umane. Vi è politica, perché l’uomo è un essere argòs, che non è definito da alcuna operazione propria – cioè: un essere di pura potenza, che nessuna identità e nessuna vocazione possono esaurire. (MSF 109)

Questa pagina riporta in realtà la conclusione di un saggio dello stesso anno, “Heidegger e il nazismo” (1996; PP 330-31), che verrà poi sviluppata e ampliata in un saggio di otto anni più tardo, “L’opera dell’uomo” (2004; PP 365-76) e ripresa brevemente in una nota de Il Regno e la Gloria (RG 269-70). È però in Il tempo che resta che il concetto di inoperosità riceve l’elaborazione definitiva. Qui Agamben nota che il verbo di cui San Paolo si serve costantemente per esprimere la relazione fra il messianico e la legge è katargéo, un composto di argéo che deriva a sua volta proprio dall’aggettivo argòs. Katargéo significa quindi “rendo inoperante, disattivo, sospendo dall’efficacia” (TR 91); in quanto si oppone a energéo, esso indica il far uscire dall’enérgeia, dall’atto, e costituisce il principio di inversione messianica del rapporto potenza-atto: “Per Paolo, la potenza messianica non si esaurisce nel suo ergon, ma resta in esso potente nella forma della debolezza” (TR 93). Questo significa che il “compimento” della legge che il Messia opererà alla sua venuta non consiste in una negazione o in un annientamento, ma in una dis-attivazione della Legge: il messianico rende la legge e le opere “in-operanti, le restituisce alla potenza nella forma dell’inoperosità e dell’ineffettività. Il messianico è non la distruzione, ma la disattivazione e l’ineseguibilità della legge” (TR 93). Questa dis-attivazione non abolisce il suo oggetto, ma lo conserva e lo porta a compimento. Lutero, nota Agamben, traduce il katargésis paolino con Aufhebung, e imprime così alla tradizione filosofica moderna un impulso messianico: la filosofia hegeliana e posthegeliana non sarebbe che una secolarizzazione della teologia cristiana (TR 94-95; anzi, 152

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Agamben ripeterà a distanza di 13 anni: “forse ogni filosofia della storia è costitutivamente cristiana”; MM 15). A sua volta, il désoeuvrement di Kojéve, che reintepreta il concetto hegeliano di “fine/compimento della storia”, può essere considerato una buona traduzione del katargein paolino e chiude quindi il cerchio messianico (TR 96). Se il compimento della Legge è la sua disattivazione, questo indica una “sostanziale anomia del tempo messianico” (TR 104). Il concetto di “anomia” (a-nomos, assenza di norma/legge) è centrale per l’elaborazione di Stato di eccezione e viene esplorato nel capitolo che ne costituisce il cuore, “Gigantomachia attorno a un vuoto”, che si centra sul dibattito tra Benjamin e Schmitt sullo stato di eccezione. Basandosi su acute osservazioni biografiche e filologiche, Agamben propone una testi alquanto originale: egli sostiene che Schmitt avrebbe scritto Teologia politica (1922) in risposta alla teorizzazione benjaminiana della violenza pura in “Per la critica della violenza” (1921). La violenza pura di Benjamin postula la possibilità di un’azione svincolata dal diritto, di una “prassi pura” (cfr. Salzani 2008 e Salzani 2010), e cioè di una “zona anomica”, che Schmitt tenta ogni volta di reinscrivere in un contesto giuridico, e questa zona di anomia costituisce, per Agamben, l’“oggetto politico estremo”, la “‘cosa’ della politica” (SE 77). L’esplorazione di questa zona anomica occupa le importanti pagine finali dell’ultimo capitolo di Il Regno e la Gloria, dove essa riprende il nome di inoperosità. Nell’economia teologica che Agamben ha qui esaminato in dettaglio, la Gloria occupa un posto centrale, in quanto nomina, a un tempo, ciò che è più proprio di Dio e la condizione umana che segue al Giudizio universale; in quanto tale, essa coincide con la cessazione di ogni attività e di ogni opera, “è ciò che rimane quando la macchina dell’oikonomia divina ha raggiunto il suo compimento e le gerarchie e i ministeri angelici sono divenuti completamente inoperosi” (RG 262). All’inizio e alla fine del potere più alto (tanto di Dio che della sua secolarizzazione in politica) sta una figura non dell’azione e del governo, ma dell’inoperosità; e scopo dei dispositivi governamentali, tanto divini che profani, è 153

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appunto la cattura e l’iscrizione in una sfera separata di questa centrale inoperosità della vita. Il katargéin messianico consiste nel disattivare i dispositivi per restituire questa zona alla sua potenza inoperosa: “In questa inoperosità, la vita che viviamo è soltanto la vita attraverso cui viviamo, soltanto la nostra potenza di agire e di vivere, la nostra ag-ibilità e la nostra viv-ibilità. Il bios coincide qui senza residui con la zoé” (RG 274).

‫א‬

Passività e rivoluzione. Per definire la proposta politica di Agamben è stato spesso e insistentemente usato il termine “passività”, già a proposito de La comunità che viene (cfr. Wall 1999), e poi più specificamente a proposito del désoeuvrement e dell’inoperosità (anche con una connotazione positiva: cfr. Franchi 2004). Proprio a causa di questa passività, sostiene Vivian Liska (2008: 6-8), il messianismo di Agamben sarebbe “vuoto”, sarebbe un messianismo che liquida qualsiasi contenuto concreto e si muove in uno spazio senza mondo che si sottrae così all’azione politica. Tra i critici più accesi di questa passività è, di nuovo, Antonio Negri, che insiste sul fatto che l’inoperosità che Agamben propone non è che “impotenza e sterilità” (Negri 2007a: 18) e “nihilismo radicalizzato” (Negri 2012: 10; cfr. anche Laclau 2007: 22), che annega ogni possibile resistenza e attività. La stessa critica è ripresa nei libri scritti con Michael Hardt: già una breve sezione di Impero (2000) – in cui Agamben non viene nominato, ma il riferimento a lui è chiaro – attacca il rifiuto di Bartleby come “solo l’inizio”, che in sé è “vuoto”; il puro e semplice rifiuto “conduce solo a una sorta di suicidio sociale”, e ciò di cui abbiamo bisogno è invece un nuovo progetto costituente che vada oltre il rifiuto e “crei una vera alternativa” (Hardt e Negri 2003: 184). In Comune (2009) la critica diviene esplicita e l’inoperosità di Agamben viene fatta risalire alla nozione heideggeriana di Gelassenheit (abbandono), “completamente incapace di costruire un’alternativa” (Hardt e Negri 2010: 53). Sulla stessa linea procedono le altrettanto insistenti critiche di Slavoj Žižek (che pure usa ampiamente il vocabolario agambeniano dell’homo sacer e della “nuda vita”), che accusa la politica messianica agambeniana di rinunciare ai rischi e alle responsabilità di una politica di emancipazione rivoluzionaria (cfr., come esempio tra i tanti, Žižek 2005).

‫ א‬Impolitico. L’enfasi sulla passività conduce molti critici ad accusare il pensiero di Agamben di essere “impolitico” (per esempio Formenti 1996; Kalyvas 2005: 112; Laclau 2007: 22). La questione qui dipende ovviamente dalla definizione di “politica”, che per Agamben, come abbiamo più volte sottolineato, è una questione squisitamente ontologica. Il giudizio di impoliticità guida l’intero studio di Alfonso Galindo, che può essere usato 154

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come una sorta di “paradigma” di queste critiche: la politica, per Galindo, è non solo un compito “produttivo e utile” (Galindo 2005: 20), ma è innanzi tutto qualcosa di inestricabilmente vincolato all’ambito “sociale” (31), ed è quindi “azione” (135). Il fatto che Agamben in fin dei conti sostituisca alla politica l’ontologia e l’estetica, riduce le sue proposte politiche a “idealismo essenzialista” e a “misticismo” (136; cfr. anche Mesnard e Kahan 2001: 127); il suo pensiero sarebbe allora non tanto politico quanto “religioso” (nel senso lato di un pensiero sull’umanità che rinunci a riferirsi ad alcuna sfera concreta), o, meglio, sarebbe un “pensiero religioso sul politico” (Galindo 2005: 141).

7.1.7. Profanazione Un importante saggio del 2005, “Elogio della profanazione”, fornisce un’ulteriore specificazione al katargéin messianico e, allo stesso tempo, rivela l’“anima”, per così dire, di tutto il progetto soteriologico agambeniano: ciò che va opposto alla sacratio teologico-politica che sostiene l’intero macchinario dell’ontoteologia occidentale, alla “sacralità” della vita dell’homo sacer, è il concetto di “profano”. Il punto di partenza è qui la definizione di religione, la cui etimologia Agamben non fa risalire al latino religare (ciò che lega e unisce l’umano e il divino), ma a relegere, che indica l’atteggiamento di scrupolo e di attenzione cui devono improntarsi i rapporti con gli déi: “Religio non è ciò che unisce uomini e déi, ma ciò che veglia a mantenerli distinti” (PR 85; cfr. anche SL 33-34; sull’uso “strategico” – e spesso arbitrario – dell’etimologia in Agamben cfr. Witte 2012: 36-38). Religione è quindi “ciò che sottrae cose, luoghi, animali o persone all’uso comune e le trasferisce in una sfera separata”, e il dispositivo che attua e regola la separazione è il sacrificio, che sancisce il passaggio di qualcosa dalla sfera profana a quella divina (PR 84). Profanare, in questo contesto, significa sottrarre qualcosa alla sfera divina e restituirla a quella profana, significa rendere “inoperose” le separazioni. Prendendo spunto da un frammento benjaminiano del 1921, “Capitalismo come religione”, Agamben sviluppa questi spunti in un attacco al capitalismo: esso generalizza e assolutizza in ogni ambito la struttura della separazione che definisce la religione e costitui155

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sce dunque “un unico, multiforme, incessante processo di separazione, che investe ogni cosa, ogni luogo, ogni attività umana per dividerla da se stessa ed è del tutto indifferente alla cesura sacro/profano, divino/umano” (PR 93). Il capitalismo realizza “la pura forma della separazione, senza più nulla da separare”; ogni cosa viene dislocata in una sfera separata, il “consumo” – che prende anche il nome debordiano di “spettacolo”, in cui “ogni cosa è esibita nella sua separazione da sé” (PR 94); in questa sfera le divisioni diventano indifferenti e la profanazione diventa impossibile: “la religione capitalistica nella sua fase estrema mira alla creazione di un assolutamente Improfanabile” (PR 94). Un breve saggio dell’anno successivo, Che cos’è un dispositivo? (2006), che ha conosciuto una notevole fortuna critica, riarticola (tra le altre cose) la struttura della separazione sulla nozione foucaldiana di dispositif: il dispositivo non è solo ciò che separa, ma, attraverso la separazione, esso ha la capacità di “catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi” (CD 22). Se i dispositivi non sono in sé negativi – anzi, essi sono gli operatori stessi dell’antropogenesi, in cui l’uomo separa i comportamenti animali da sé e li destina ad altro uso; inoltre, “il linguaggio stesso […] è forse il più antico dei dispositivi” (CD 22) – il capitalismo produce una gigantesca accumulazione e proliferazione dei dispositivi, che imprigionano il vivente separandolo da se stesso. Tanto più urgente è, per Agamben, il problema della profanazione dei dispositivi: “La profanazione dell’improfanabile è il compito politico della generazione che viene” (PR 106). Importante è che la profanazione, come la katargésis, “non si limita ad abolire la forma della separazione, per ritrovare, al di qua o al di là di essa, un uso incontaminato”; i comportamenti profanati “sono disattivati e, in questo modo, aperti a un nuovo, possibile uso” (PR 98).

‫ א‬Il dibattito sulla secolarizzazione. In “Elogio della profanazione”, la profanazione è contrapposta da Agamben alla secolarizzazione: quest’ulti156

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ma è “una forma di rimozione, che lascia intatte le forze, che si limita a spostare da un luogo all’altro”, come nel caso della secolarizzazione politica dei concetti teologici, mentre la profanazione “implica, invece, una neutralizzazione di ciò che profana. Una volta profanato, ciò che era indisponibile e separato perde la sua aura e viene restituito all’uso” (PR 88). Il concetto di secolarizzazione, che in origine designava il ritorno di un religioso nel mondo (saeculum), diventa centrale nella storia delle idee con la celebre tesi di Max Weber sul capitalismo come secolarizzazione dell’etica calvinista (in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, inizialmente pubblicato in due lunghi saggi nel 1904-1905 e poi in volume nel 1920) e con l’altrettanto celebre tesi che apre il saggio eponimo di Teologia politica di Carl Schmitt (1922): “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati” (Schmitt 1972: 61). Agamben fa spesso riferimento a quello che è stato chiamato il “dibattito sulla secolarizzazione”, che ebbe luogo in Germania tra gli anni Cinquanta e Settanta: questo dibattito ebbe origine da uno studio di Karl Löwith, Storia mondiale e storia della salvezza (1953), secondo cui sia la filosofia della storia dell’idealismo tedesco che l’idea di progresso dell’Illuminismo non sono che una secolarizzazione dell’escatologia cristiana; a questa tesi Hans Blumenberg rispose con La legittimità dell’età moderna (1966), in cui contestava il carattere stesso della categoria di secolarizzazione; fanno parte di questo dibattito anche Teologia politica II (1970) di Schmitt, che rispondeva in realtà all’attacco al concetto di “teologia politica” da parte di Erik Peterson (in Il monoteismo come problema politico, 1935), e Difficoltà con la filosofia della storia (1973) di Odo Marquard. Nei suoi riferimenti a questo dibattito, Agamben fa notare quanto le posizioni qui sostenute non siano poi così distanti: in Il tempo che resta sia Löwith che Blumenberg sono accusati di confondere e appiattire il concetto di tempo messianico su quello di escatologia (TR 63-64); la tesi è ripetuta in Il Regno e la Gloria, in cui Agamben individua negli “apparenti avversari” un fronte comune contro l’idea messianica di storia (RG 17). Qui Agamben nota anche che la secolarizzazione è una “segnatura” (RG 17) e riprende questa tesi in “Teoria delle segnature” di Signatura rerum: una segnatura, come abbiamo visto, è qualcosa che, “in un segno o in un concetto, lo marca e lo eccede per rimandarlo a una determinata interpretazione o a un determinato ambito, senza, però, uscire da esso per costituire un nuovo concetto o un nuovo significato” (SR 78). Come nota Anton Schütz (in AD 163-64), il concetto di secolarizzazione in definitiva non è che un dispositivo di potere che, fingendo di lasciarsi alle spalle ciò che “secolarizza”, ne conserva in realtà tutta l’efficacia. Ed è proprio all’intera filosofia della storia della modernità “secolarizzata” che Agamben contrappone, come vedremo, una nuova idea di tempo, di storia e di azione.

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7.1.8. Uso Strettamente legato a e inseparabile dal concetto di désoeuvrement è quello di “uso”. Anche in questo caso, come nota Jessica Whyte (in AD 194-96), le radici della proposta soteriologica posteriore a Homo sacer affondano nelle ricerche che lo precedono, come già mostra la sezione di Stanze sul feticcio, che prospetta una nuova relazione con le cose che vada al di là sia del valore d’uso che di quello di scambio (cfr. S 55-64). È però in La comunità che viene che Agamben nomina per la prima volta l’uso come “la maniera in cui [la singolarità qualunque] passa dal comune al proprio e dal proprio al comune”, lo associa all’ethos (cv 22) e lo definisce usando l’espressione contenuta nella lettera di Hölderlin a Böhlendorf “l’uso libero del proprio” (CV 25). “L’uso libero del comune” – dove comune è definito come “un punto di indifferenza fra il proprio e l’improprio, cioè qualcosa che non è mai afferrabile nei termini di un’appropriazione o di un’espropriazione, ma soltanto come uso” – è poi associato alla “sfera dei mezzi puri” e indicato come compito della politica che viene nella pagina finale di “Note sulla politica” di Mezzi senza fine (MSF 93). Queste brevi note un po’ criptiche vengono elaborate in Il tempo che resta, in cui l’espressione paolina chresai (“fa uso”) è messa in relazione alla definizione della vita messianica come un hos me, un “come non”: la vita messianica consiste nella revocazione, nella forma del “come non”, di ogni vocazione. Vivere messianicamente significa “usare” la vocazione (cioè la situazione mondana in cui si è stati “chiamati”), e quest’uso è, a sua volta, una revocazione, una katargésis. Se, come nota ancora Whyte (AD 195), Agamben sostanzialmente deriva la sua interpretazione di Paolo dal corso di Heidegger Fenomenologia della vita religiosa del semestre invernale 1920-1921, fondamentale è però la distanza tra l’uso di Agamben e l’“appropriazione” che invece caratterizza la lettura heideggeriana: Paolo contrappone l’usus messianico al dominium: restare nella chiamata nella forma del come non significa non farne mai oggetto

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di proprietà, ma solo di uso. L’hos me non ha quindi soltanto un contenuto negativo: esso è, per Paolo, l’unico possibile uso delle situazioni mondane. La vocazione messianica non è un diritto né costituisce un’identità: è una potenza generica di cui si usa senza mai esserne titolari. Essere messianici, vivere nel messia significa la depropriazione, nella forma del come non, di ogni proprietà giuridico-fattizia (circonciso/non circonciso; libero/schiavo; uomo/donna) – ma questa depropriazione non fonda una nuova identità, la “nuova creatura” non è che l’uso e la vocazione messianica della vecchia. (TR 31)

La katargésis non elimina le identità fattizie, la Legge o i dispositivi, sostituendoli con nuove identità/Legge/dispositivi, ma li rende inoperosi, cioè li neutralizza e conserva allo stesso tempo, aprendoli a un nuovo – “vero” – uso. Questo significa che il “vero” uso non è un dato originario (come, ad esempio, il valore d’uso marxiano o l’“usabilità” dell’utilitarismo, con cui Negri sembra confondere l’uso agambeniano; cfr. Negri 2007b: 124), ma è solo conseguente alla disattivazione operata dalla katargésis (il che rende la figura della “regressione” usata da Colby Dickinson per lo meno inadeguata; cfr. Dickinson 2011a: spec. 142 seg.). Così, in Stato di eccezione, nella relazione tra vita e diritto non è la cancellazione del diritto, ma la sua disattivazione che lo apre a un nuovo uso e permette di accedere a una nuova condizione: “Ciò che si trova dopo il diritto, non è un valore d’uso più proprio e originale, precedente al diritto, ma un nuovo uso, che nasce soltanto dopo di esso. Anche l’uso, che si è contaminato col diritto dev’essere liberato dal proprio valore” (SE 83). È di nuovo “Elogio della profanazione” che espone al meglio questo concetto: profanare significa (già per i Romani) restituire al libero uso degli uomini ciò che la consacrazione aveva separato e collocato in una sfera altra. Quest’uso, tuttavia, “non appare qui come qualcosa di naturale: piuttosto a esso si accede soltanto attraverso una profanazione” (PR 83-84). E cioè, “la creazione di un nuovo uso è […] possibile per l’uomo soltanto disattivando un vecchio uso, rendendolo inoperoso” (PR 99). Un importante corollario su cui Agamben insiste fin da La comunità che viene – anche se non lo 159

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svolge né lo dimostra – è che “le forme di questo uso comune potranno essere inventate soltanto collettivamente” (PR 100). E il compito è urgente, giacché, se la religione capitalistica mira, come abbiamo visto, alla creazione di un “assolutamente Improfanabile”, questo corrisponde a un’assoluta impossibilità di usare: “ciò che non può essere usato viene, come tale, consegnato al consumo o all’esibizione spettacolare” (PR 94).

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Il corpo glorioso. Un’immagine ricorrente nel repertorio esemplare di Agamben è quella del “corpo glorioso”, cioè del corpo dei risorti in paradiso dopo il Giudizio universale, che va letta insieme a quella del corpo mercificato, tecnicizzato e spettacolarizzato della pubblicità e della pornografia (cfr. ad esempio CV 41-44). In entrambi i casi, ciò che interessa ad Agamben è la figura di un corpo spogliato del suo destino biologico e della segnatura teologica che lo determinano inesorabilmente. Il saggio del 2009 “Il corpo glorioso” ne fa quindi un esempio dell’“uso”: separando l’organo dalla sua funzione fisiologica, e cioè, rendendo inoperativa un’attività rivolta a un fine, il corpo glorioso, come quello mercificato, lascia intravedere la possibilità di un altro uso del corpo. Questo nuovo uso del corpo è “possibile solo se strappa la funzione inoperosa alla sua separazione, solo se riesce a far coincidere in un unico luogo e in un unico gesto esercizio e inoperosità, corpo economico e corpo glorioso, la funzione e la sua sospensione” (NU 144).

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Lingua inoperosa. Uno dei marcatori della continuità sostanziale del pensiero di Agamben è il suo interesse non tanto per la poesia come fenomeno linguistico-letterario, ma come un modello dell’experimentum linguae che trasforma e “rivela” il linguaggio. Come già abbiamo notato nei primi capitoli, fin dagli scritti degli anni Settanta e Ottanta, da Stanze a Il linguaggio e la morte a Idea della prosa, e in modo preponderante nei saggi di Categorie Italiane, la poesia è presa a modello di una parola che disattiva le funzioni comunicative e informative del linguaggio ed espone così la sua immediata “medialità”, il suo essere “mezzo puro”. Nel progetto politico di Agamben questa connotazione messianica viene enfatizzata e la poesia è proposta, ad esempio in Il Regno e la Gloria, come paradigma di désoeuvrement: essa marca il punto in cui la lingua “riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire e si apre, in questo modo, a un nuovo, possibile uso” e il soggetto poetico diventa “quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile” (RG 274-75). Il tempo che resta, infine, prende la rima poetica come “modello in miniatura del tempo messianico” (TR 77).

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7.1.9. Gioco, studio, festa La disattivazione e l’uso vengono esemplificati da tre figure ricorrenti, il gioco, lo studio e la festa, anch’essi motivi centrali del pensiero di Agamben ben prima di Homo sacer. Già in Infanzia e storia, e in modo particolare nel saggio “Il paese dei balocchi”, Agamben aveva formulato le sue tesi sul gioco, che ritorneranno pressoché immutate a distanza di un quarto di secolo. Basandosi su ricerche antropologiche e in special modo sul saggio di Benveniste “Le jeu et le sacré” (1947), Agamben rileva qui la derivazione del gioco dalla sfera del sacro, ma ne sottolinea anche e soprattutto la differenza: il gioco trasforma radicalmente il sacro, rovesciandolo a tal punto da poter essere definito un “sacro capovolto” (IS 71-72). Quello che interessa ad Agamben in questo contesto è la trasformazione del tempo che il gioco opera; la tesi del gioco come rovesciamento del sacro ritornerà, però, pressoché immutata (compreso il ricorrente riferimento a Benveniste) nei testi del suo progetto politico, anche se spesso sotto forma di accenni e tesi non svolte. Il capitolo “Gigantomachia intorno a un vuoto” di Stato di eccezione si conclude, così, un po’ profeticamente: “Un giorno l’umanità giocherà col diritto, come i bambini giocano con gli oggetti fuori uso, non per restituirli al loro uso canonico, ma per liberarli definitivamente da esso” (SE 83). In modo più articolato, “Elogio della profanazione”, ripetendo quasi letteralmente le tesi de “Il paese dei balocchi”, individua nel gioco una forma di profanazione: il gioco libera l’uomo dalla sfera del sacro, ma senza abolirlo; anzi, esso restituisce il sacro a un uso tutto speciale, che, significativamente, non coincide con il consumo utilitaristico. Il tono profetico della conclusione ricorda comunque quello di Stato di eccezione: “Come la religio non più osservata, ma giocata, apre la porta dell’uso, così le potenze dell’economia, del diritto e della politica, disattivate in gioco, diventano la porta di una nuova felicità” (PR 87). Lo studio costituisce quasi un binomio con il gioco, a cui molto spesso si accompagna, e anch’esso costituisce un’idea ricorrente nell’opera di Agamben, sempre intriso di un poten161

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ziale messianico, come già dimostra “Idea dello studio” di Idea della prosa (cfr. IP 43-45). Nel progetto di Homo sacer, l’idea di studio è legata a quella che è diventata quasi una formula per simboleggiare il potenziale di disattivazione messianica: a partire almeno dalla conclusione del capitolo “Gigantomachia intorno a un vuoto” di Stato di eccezione, Agamben cita gli ultimi paragrafi del saggio benjaminiano su Kafka del 1934, in cui Benjamin interpreta il racconto kafkiano “Il nuovo avvocato” (1920). Qui Bucefalo, “il nuovo avvocato”, rimane fedele alle sue origini di giurista, ma non esercita più la professione, bensì solo la studia; così Benjamin conclude: “Il diritto che non è più esercitato ed è solo studiato, è la porta della giustizia. La porta della giustizia è lo studio” (OC 6: 152). Agamben glossa: “Vi è, dunque, ancora una figura possibile del diritto dopo la deposizione del suo nesso con la violenza e il potere; ma si tratta di un diritto senza più forza né applicazione […]. Ad aprire un varco verso la giustizia non è la cancellazione, ma la disattivazione e l’inoperosità del diritto – cioè un altro uso di esso” (SE 82-83). Inoperosità, uso e gioco si uniscono nella festa. Implicitamente, già l’analisi della temporalità del gioco in “Il paese dei balocchi” pone le basi delle analisi successive: gli abitanti del paese dei balocchi collodiano (che vivono in un’eterna festa) “sono occupati a celebrare riti e a manipolare oggetti e parole sacre, di cui hanno però dimenticato il senso e lo scopo”; in questo modo, “essi emancipano anche il sacro dalla sua connessione col calendario e col ritmo ciclico del tempo che esso sancisce e entrano così in un’altra dimensione del tempo” (IS 73). Un capitolo importante di Stato di eccezione è interamente dedicato a quelle che Agamben chiama “feste anomiche” che, nel sovvertimento (ben regolato e delimitato) dei costumi e delle gerarchie tradizionali, “fanno […] segno verso una zona in cui la massima soggezione della vita al diritto si rovescia in libertà e licenza e l’anomia più sfrenata mostra la sua parodica connessione col nomos: in altre parole, verso lo stato di eccezione effettivo come soglia di indifferenza fra anomia e diritto” (SE 93). La festa per antonomasia è però il sabato, il settimo giorno in cui Dio cessa ogni opera, e significativo è che, nella tradizio162

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ne giudaico-cristiana, non l’opera della creazione, ma la cessazione di ogni opera sia stata dichiarata sacra; fin dalla postilla del 2001 a La comunità che viene (cfr. CV 92), e poi in modo più articolato nelle ultime pagine di Il Regno e la Gloria (cfr. RG 262-65), Agamben chiama dunque “sabatismo” il paradigma dell’inoperosità e della politica che viene. Un saggio del 2009, “Una fame da bue. Considerazioni sul sabato, la festa e l’inoperosità”, fissa in modo chiaro e articolato i punti dell’analisi agambeniana: partendo dal comandamento di “santificare le feste”, Agamben sostiene che “l’inoperosità, che definisce la festa, non è semplice inerzia o astensione: è, piuttosto, santificazione, cioè una modalità particolare dell’agire e del vivere” (NU 149). L’inoperosità coincide con la stessa festosità, giacché questa consiste appunto nel rendere inoperosi i gesti e le azioni umane: “La festa non è definita da ciò che in essa non si fa, ma piuttosto dal fatto che ciò che si fa – che in sé non è diverso da ciò che si compie ogni giorno – viene dis-fatto, reso inoperoso, liberato e sospeso dalla sua ‘economia’, dalle ragioni e dagli scopi che lo definiscono nei giorni feriali” (NU 156). Questa festosità è quindi una dimensione della prassi in cui il quotidiano viene sospeso per essere “festosamente esibito”, e in questo modo aperto a un “possibile uso sabbatico” (NU 158-59).

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Agamben legge Kafka. L’importanza di Kafka per l’opera di Agamben meriterebbe uno studio a sé (e Anke Snoek glie ne ha dedicato uno; cfr. Snoek 2012). In realtà, Agamben ha dedicato esclusivamente a Kafka solo due studi, “Quattro glosse a Kafka” (1986) e “K.” (2009, incluso in Nudità), ma lo scrittore di Praga marca in modo decisivo i suoi scritti fin da L’uomo senza contenuto, tanto che possiamo definirlo come la figura dominante del suo canone letterario personale. Come è stato notato (cfr. ad esempio Liska 2008: 47-67, e Salzani 2013), fortemente influenzato dalla lettura benjaminiana, Agamben individua nell’opera di Kafka sia una diagnosi critica dello stato del mondo sia – ed è per questo che è tanto importante – le tracce di una redenzione messianica, che egli lega principalmente all’idea di “disattivazione” o del “rendere inoperoso”. Un esempio che ricorre spesso è quello che abbiamo più sopra citato di Bucefalo in “Il nuovo avvocato”, che studia la legge senza praticarla; altri due esempi, che vengono elaborati in dettaglio in “K.”, sono lo Josef K. del Processo e l’agrimensore K. del Castello, che, rispettivamente, sono impegnati a disattivare i meccanismi del pro-

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cesso e i confini che separano il villaggio dal castello (e cioè, di nuovo, la Legge); l’analisi forse più importante – e di certo la più citata – è però quella della parabola “Davanti alla legge”, che costituisce in certo senso il cuore di Homo sacer: se, come abbiamo visto nella sezione 5.3, la legge tiene il contadino nel suo bando proprio attraverso la sua apertura, la sua “vigenza senza significato”, Agamben fa notare, contro la maggior parte degli interpreti, che la parabola non si conclude con l’irrimediabile fallimento del contadino di accedere alla legge; anzi, le ultime righe riportano la risposta del guardiano alla domanda del contadino sul perché nessun’altro avesse tentato di accedere alla legge: “Qui nessun altro poteva entrare, perché quest’ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado e lo chiudo”. Agamben legge quindi il comportamento del contadino come una strategia per ottenere la chiusura della porta, e cioè della “forza” della legge, e lo interpreta quindi come una figura messianica (cfr. HS 64-65).

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Estetica e politica. Per Galindo (2005: 73 e passim), il pensiero “impolitico” di Agamben, scivolando nell’estetica (oltre che nell’ontologia), si fa simile alla letteratura, come indicherebbe anche il frequente uso di metafore e figure letterarie al posto di elaborazioni e svolgimenti teorici (56). Lo stesso sostiene Ernesto Miranda, per il quale il ricorso della soteriologia di Agamben a figure come il gioco, la festa o la poesia denotano una ricaduta dalla politica all’estetica (Miranda 2012: 72-73). Anche dalla prospettiva opposta, e cioè di un apprezzamento positivo di questo gesto, Benjamin Morgan sostiene la derivazione di concetti come “mezzo puro” dall’estetica kantiana (Morgan 2007). Alison Ross contesta quindi l’uso di figure letterarie (come i racconti e romanzi di Kafka) come fonti di autorità sociologica o come analisi di codici giuridici: per Ross, il concetto di “arte” di Agamben sarebbe addirittura sociologicamente riduttivo, in quanto l’arte sarebbe “usata” per fornire un’“autentica” comprensione delle condizioni sociali e gli strumenti per il loro superamento (Ross 2008: 11). È chiaro che queste critiche si basano su un’idea normativa e ben delimitata dell’ambito, degli scopi e del linguaggio che dovrebbero caratterizzare la filosofia o teoria politica e, soprattutto, distinguerla dal discorso estetico o dall’analisi letteraria; ed è chiaro che la filosofia di Agamben è eterogenea a queste delimitazioni e compartimentalizzazioni.

7.1.10. Tempo messianico Il cardine attorno a cui ruota tutto il progetto soteriologico di Agamben e che alimenta il vocabolario che abbiamo fin qui brevemente illustrato è una concezione del tempo e della storia altra e alternativa rispetto a quella che ha sostenuto e sostiene la 164

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civiltà occidentale. Ed è una concezione che informa fin dall’inizio la sua filosofia, come già abbiamo visto, per esempio, in Infanzia e storia o Idea della prosa. Il testo che espone e illustra al meglio quest’idea è, di nuovo, Il tempo che resta, il che lo rende, tra le altre cose, uno strumento essenziale per comprendere tutto il progetto di Homo sacer. Questa nuova concezione del tempo si articola sull’idea di “resto”, e la troviamo quindi già brevemente compendiata in Quel che resta di Auschwitz: “Veramente storico è ciò che adempie il tempo non in direzione del futuro né semplicemente verso il passato, ma nell’eccedenza di un medio. Il Regno messianico non è né futuro (il millennio) né passato (l’età dell’oro): è un tempo restante” (QRA 148). In Il tempo che resta, quest’idea è esplorata principalmente nella “Quarta giornata”, che si propone di commentare il termine apostolos, e Agamben comincia col distinguerlo dal profeta: se il profeta è definito essenzialmente dalla sua relazione al futuro, l’apostolo (l’“inviato” del messia) non trova il suo tempo nel futuro, bensì nel presente. L’espressione “tecnica” che Paolo usa per definire l’evento messianico è ho nyn kairos, “il tempo di ora”, un tempo che si contrae nell’istante e comincia a finire; non, quindi, la fine del tempo, l’“ultimo giorno” dell’escatologia e dell’apocalissi, ma “il tempo della fine”, “il tempo che resta tra il tempo e la sua fine” (TR 62-63). Il tempo messianico non coincide né con la fine del tempo e con l’eone futuro, né col tempo cronologico profano, senza però essere esterno rispetto a quest’ultimo. Esso è una porzione del tempo profano, che subisce una contrazione che lo trasforma integralmente […]. [Esso è] una cesura che, dividendo la stessa divisione fra i due tempi, introduce in essa un resto, che eccede la divisione. (TR 64)

Per illustrare questo tempo-cesura, Agamben ricorre a un’espressione del linguista Gustave Guillaume (1883-1960): “tempo operativo”. In ogni rappresentazione che ci facciamo del tempo, è implicato un tempo ulteriore, che non può essere esaurito in essi; questo non è però un altro tempo, un tempo esterno o supplementare, ma è piuttosto “un tempo dentro il tempo – non ulteriore, ma interiore – che misura soltanto la mia sfasatu165

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ra rispetto a esso” (TR 67). Il tempo operativo “urge nel tempo cronologico e lo lavora e trasforma dall’interno”, e in quanto in esso “afferriamo e compiamo la nostra rappresentazione del tempo, è il tempo che noi stessi siamo – e, per questo, il solo tempo reale, il solo tempo che abbiamo” (TR 68). La portata politica di questa concezione del tempo è chiara: ogni istante, come scriveva Benjamin concludendo le tesi Sul concetto di storia, può essere “la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia” (OC 7: 493; citato in TR 71), e cioè, ogni istante è il momento dell’azione e del compimento del tempo. La rappresentazione comune che vede il tempo messianico come orientato unicamente verso il futuro è, per Agamben, falsa: “ogni tempo è l’ora messianico […] e il messianico non è la fine cronologica del tempo, ma il presente come esigenza di compimento, come ciò che si pone ‘a titolo di fine’” (TR 76). Il momento della salvezza (e cioè dell’azione politica) non è il futuro né tanto meno l’eterno, ma il presente “operativo” come contrazione di passato e presente, e solo in esso qualcosa (l’azione, la politica) può compiersi, giudicarsi e accadere.

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Utopia, escatologia, apocalissi, catastrofe. Il pensiero di Agamben è stato spesso accusato di essere utopico (per esempio Negri 2001: 10; Negri 2003: 21; Kalyvas 2005: 116; LaCapra 2007: 155; Ross 2008: 3; Miranda 2012: 72), escatologico (Kalyvas 2005: 116) o addirittura apocalittico (LaCapra 2007: 161). In queste accuse, “utopia” indica uno schema di riforma politica e sociale fondamentalmente idealistico e irrealizzabile; l’utopia si colloca però in una ben determinata concezione del tempo e della storia e, se Agamben distingue la sua concezione del tempo messianico solo dalla profezia (cfr. TR 61-62), dall’escatologia (cfr. TR 63) e dall’apocalissi (cfr. TR 62), è chiaro che anche l’utopia condivide con queste una proiezione nel futuro a scapito del presente (nonostante il conio di Tommaso Moro si riferisca a un “non-luogo”, la storia filosofica dall’Illuminismo in poi ha trasposto questo luogo in una concezione del tempo) e quindi il pensiero di Agamben si profila chiaramente come anti-utopico (cfr. Prozorov 2010: 1057-58; Salzani 2012b; c’è comunque chi difende un utopismo “debole” nel pensiero di Agamben; cfr. Lewis 2012). Per quel che riguarda le accuse di apocalittismo, esse si riferiscono al tono “cupo” e quasi “morboso” di affermazioni come quelle che concludono Homo sacer (che minaccia il “rischio di una catastrofe biopolitica senza precedenti”, HS 211) o Stato di eccezione (che, nella penultima sezione, nomina la “macchina che sta con-

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ducendo l’Occidente verso la guerra civile mondiale”, SE 111), che prospettano oscuri e catastrofisti scenari da “fine del mondo”. Alla domanda diretta “È Lei un apocalittico?” Agamben risponde ovviamente di no: quando parla della biopolitica come catastrofe del presente utilizza piuttosto il concetto benjaminiano del “presente come catastrofe”, per cui la sola possibilità di comprenderlo è di vederlo come “fine del tempo”, di situarlo nella prospettiva benjaminiana del tempo messianico; e sulla questione del suo pessimismo dice: “non sono affatto pessimista. Tuttavia, diffido un po’ dei sentimenti troppo buoni” (Leitgeb e Vissmann 2001: 19). In un’altra intervista ricorda una frase di Marx citata anche da Debord: “La situazione disperata della società in cui vivo mi riempie di speranza” e, concludendo, rovescia l’accusa: “sono sicuro che voi siete più pessimisti di me” (Stany Potte-Bonneville 1999: 10; la traduzione inglese di quest’intervista prende quest’ultima frase come titolo, anche se la questione del pessimismo non è affatto quella centrale). Proprio perché, basandosi sull’idea del presente come catastrofe, egli individua però la concreta, presente e pienamente attingibile possibilità di un cambiamento radicale, per Sergei Prozorov Agamben sarebbe addirittura un “ottimista” (cfr. Prozorov 2010).

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Religione e politica. Se Galindo (2005: 140-41) riconduce il pensiero “impolitico” di Agamben in definitiva a una riflessione “religiosa” sulla politica, in tanti si sono interrogati sull’importanza e rilevanza delle figure e dei concetti religiosi per la concezione della politica di Agamben, ora identificando nel suo pensiero un “cristianesimo latente” (Badiou 2006: 583) o suggerendo la possibilità di vederlo come un “pensatore cattolico” (Geulen 2009: 166), ora inserendolo nella tradizione dei pensatori politicoteologici del ventesimo secolo (Negri 2007a: 18; Liska 2012: 46), ora cercando, suo malgrado, di ricondurlo a una dimensione “autenticamente” teologico-religiosa (Dickinson 2011a). La risposta di Agamben è che ciò che gli interessa, ciò che trova rilevante per la politica nel pensiero messianico, non è tanto la questione religiosa, ma piuttosto il paradigma di tempo storico e azione politica che esso rappresenta, tra gli altri, per un pensatore come Benjamin, e aggiunge: “credo che il messianico sia sempre profano, mai religioso” (Stany e Potte-Bonneville 1999: 7). E in Il mistero del male (2013) ripeterà che ciò che gli interessa è il “significato politico del tema messianico della fine dei tempi” (MM iv). Il paradigma assolutamente “profano” del messianismo di Agamben si identifica allora con quello di Benjamin, e questa identificazione risalta nella “Soglia” che chiude Il tempo che resta, che sostiene che il “nano gobbo” della teologia che si nasconde dietro il fantoccio del materialismo storico dalla prima tesi Sul concetto di storia di Benjamin non sarebbe altri che San Paolo, che Benjamin citerebbe “senza virgolette” e che invece Agamben non nasconde (TR 128-35).

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7.2. Rinunciare al diritto Su queste basi, Agamben aprirà il volume IV del progetto Homo sacer con l’analisi di un caso paradigmatico, di un tentativo storico positivo di costruire una forma-di-vita e di articolarla su una teoria dell’uso: l’atteso volume IV/1, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (2011), analizza filosoficamente la dialettica tra regola (cioè legge) e vita che si instaura nel fenomeno storico del monachesimo, e si centra in modo particolare sul francescanesimo come tentativo di fondare questo rapporto sul polo della vita e dell’uso. Alcuni accenni importanti in opere precedenti anticipano la strada che il volume IV/1 prenderà: una nota in Il tempo che resta (e un’intervista di poco precedente; cfr. Stany e Potte-Bonneville 1999: 6) già propone brevemente la tesi dell’altissima paupertas francescana come rivendicazione dell’uso contro la proprietà (TR 32), che sarà ripresa più tardi in “Elogio della profanazione” (PR 2324), mentre “Che cos’è un paradigma?” accenna alla regola monastica come istanza paradigmatica, come “esempio” che tende a costituirsi in forma vitae (SR 23-24). Queste brevi pagine avevano già portato Eva Geulen a ipotizzare che l’usus pauper francescano avrebbe potuto costituire una plausibile via per comprendere il concetto di forma-di-vita (Geulen 2009: 12223), e avevano indotto Lorenzo Chiesa a definire quella di Agamben un’“ontologia francescana” (Chiesa 2009) e Alain Badiou a chiamare Agamben un “francescano dell’ontologia” (Badiou 2006: 584). Ciò che queste “previsioni” avevano già colto è il fatto che, per Agamben, nella tensione reciproca che nel monachesimo si instaura tra regola e vita, qualcosa di nuovo sembra emergere, un “terzo” in cui i due termini perdono il loro significato e si avvicinano (per poi ostinatamente mancarla) alla realizzazione di una vita inseparabile dalla propria forma. Il punto di partenza dello studio sono i testi delle regole monastiche, che Agamben stesso definisce “insieme disparati e monotoni, la cui lettura risulta così disagevole al lettore moderno” (AP 14). Ciò che gli interessa, però, è il tentativo che in essi si compie di governare la vita e i costumi dei monaci in modo 168

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tale che regola e vita diventino inseparabili; in questi testi Agamben individua “una trasformazione che investe tanto il diritto che l’etica e la politica e implica una riformulazione radicale della stessa concettualità che articola fino a quel momento la relazione fra l’azione umana e la norma, la ‘vita’ e la ‘regola’” (AP 14-15). Questa trasformazione investe quattro aspetti principali della relazione: in primo luogo, la forma di vita che è in questione nelle regole si centra nel cenobio, che letteralmente significa “vita comune” (koinos bios). Non solo la regola in quanto tale (qui Agamben cita il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche) non può mai essere individuale – riferirsi a una regola implica necessariamente una comunità e un’abitudine – ma, precisa Agamben, nel cenobio la vita comune non è l’oggetto che la regola deve costituire e governare; al contrario, è la regola che sembra nascere dalla forma di vita comune, cosicché questa si pone quasi come “potere costituente” rispetto ad essa: “Se l’ideale di una ‘vita comune’ ha ovviamente un carattere politico, il cenobio è forse il luogo in cui la comunità di vita come tale è rivendicata senza riserve come l’elemento in ogni senso costitutivo” (AP 78). Questa comunità di vita è quindi incentrata su un “abitare” comune, che non indica solo un luogo o una situazione fattizia, ma carica l’habitus (in origine “modo di essere e di agire”) di una connotazione morale che coinvolge l’intera esistenza, comprese le vesti: vivere sul modo dell’“abitare” significa, qui, seguire una regola e una forma di vita, per cui “il cenobio rappresenta il tentativo di far coincidere abito e forma di vita in un habitus assoluto e integrale, in cui non fosse possibile distinguere fra veste e modo di vita” (AP 27). L’“abitare” cenobitico informa perciò non solo l’aspetto esteriore del monaco, ma in primo luogo la scansione temporale delle sue attività: a ogni momento dell’esistenza corrisponde un officium (preghiera, lettura, lavoro manuale), in modo tale che l’intera vita viene trasformata in ufficio: “l’ideale monacale è quello di una mobilitazione integrale dell’esistenza attraverso il tempo” (AP 35). Attraverso questi aspetti (comunità, habitus, articolazione temporale e ufficio) la regola può coincidere con l’intera vita del 169

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monaco ed entra quindi in una zona di “indecidibilità” rispetto alla vita: “una norma che non si riferisce a singoli atti ed eventi, ma all’intera esistenza di un individuo, alla sua forma vivendi, non è più facilmente riconoscibile come diritto, così come una vita che si istituisce nella sua integralità nella forma di una regola non è più veramente vita” (AP 39). In questa prospettiva, diventa fondamentale, per Agamben, distinguere la regola monastica dal precetto giuridico. I dibattiti sulla natura giuridica o meno delle regole, che egli analizza in dettaglio, risultano in ultima istanza anacronistici, in quanto situano il problema in un contesto – quello del diritto romano o del diritto moderno – che non gli è proprio e ne impediscono quindi l’intellegibilità: le regole monastiche devono essere piuttosto restituite al contesto teologico del rapporto tra Vangelo (il messaggio di Cristo) e legge. Secondo la tesi che guida da sempre la sua interpretazione del messianesimo e che si fonda principalmente nelle lettere paoline, Cristo, il messia, rappresenta la fine e il compimento della legge, per cui “la vita del cristiano non è più ‘sotto la legge’ e non può essere in nessun caso concepita in termini giuridici” (AP 62). La “nuova legge” che il messia instaura non può avere la forma della legge, la “legge della fede” è, sia nella forma che nel contenuto, disomogenea rispetto al nomos, e la forma di vita cristiana è quindi irriducibile ad esso. Le regole, che si modellano sul Vangelo, non possono perciò avere forma giuridica, e probabilmente lo stesso termine “regola” veniva usato in contrapposizione alla sfera legale: “la stessa forma vivendi cristiana – che è quanto la regola ha in vista – non può esaurirsi nell’osservanza di un precetto, non può avere natura legale” (AP 63). Contrariamente alla legge, che obbliga al compimento di singoli atti, la regola mette in questione l’intero modo di vivere del monaco, che non si identifica con, né si esaurisce in, una serie di azioni: il voto che il monaco professa non si riferisce agli atti singoli, ma al vincolo che esso produce nella volontà e che mira, al di là di ogni contenuto, a produrre in essa un habitus e una forma. Qui è la vita ad applicarsi alla norma e non la norma alla vita. O, meglio, la regola non si applica semplice170

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mente alla vita, ma la produce e allo stesso tempo si produce in essa, e cioè, “le regole realizzano performativamente la vita che dovrebbero regolare” (AP 90). Il punto fondamentale è che la “zona di indifferenza” che in questo modo si crea tra regola e vita “disattiva” la dicotomia stessa di regola e vita, e quindi anche quelle di universale-particolare e necessità-libertà che determinano l’etica e la politica occidentali. La tentazione e il pericolo di questa indiscernibilità è quello di una liturgizzazione integrale della vita, in cui la vita si risolve in liturgia (cioè, di nuovo, in una norma). Questa liturgizzazione è l’ostacolo che ha impedito al monachesimo, alla fine imbrigliato e ri-normalizzato dalla Chiesa ufficiale, di realizzare pienamente e veramente una forma-di-vita: quando tutto si fa regola e ufficio e la legge si indetermina nella vita, la vita sembra scomparire, e il movimento dalla sfera dell’azione a quella della forma di vita, a cui il monachesimo mirava, si capovolge nell’indeterminarsi dell’essere nell’agire, e cioè nell’ontologia dell’operatività che Agamben analizzerà in Opus Dei (pubblicato qualche mese dopo Altissima povertà e a esso complementare). Il caso interessante è quindi quello del francescanesimo, che a questa deriva oppone la speculare trasformazione della liturgia in vita, l’integrale vivificazione della liturgia, o, meglio, in cui in questione non è la regola ma la vita. Con i francescani, il sintagma forma vitae assume il carattere di un vero e proprio termine tecnico, in cui la “forma” in questione è la stessa vita di Cristo (paradigma ed esempio), che non si tratta di applicare alla vita (del monaco), ma secondo la quale bisogna vivere. Qui la forma non è una norma imposta alla vita, ma un vivere che si fa forma: “dove a fornire il paradigma della regola è una vita (la vita di Cristo), allora la regola si trasforma in vita, diventa forma vivendi e regula vivifica” (AP 133). I due termini accostati non sono identificati, ma piuttosto messi in una tensione reciproca per nominare qualcosa che non si lascia nominare altrimenti, e non sono nemmeno confusi, ma “neutralizzati” e “trasformati” in un “terzo”, una forma-di-vita. Il corollario assolutamente fondamentale di questa trasformazione è l’abdicatio omnis iuris, la rinuncia integrale al dirit171

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to su cui sia Francesco che i suoi seguaci insistevano, e che implicava l’altissima povertà del titolo, e cioè la liceità per i frati di servirsi dei beni (di “usarli”) senza avere su di essi alcun diritto. Quello che Agamben trova straordinario nel francescanesimo è “il tentativo di realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto” (AP 137), di pensare e praticare, cioè, una forma-di-vita. La rivendicazione dell’abdicatio iuris li mise in conflitto con la curia romana, e da qui ebbe origine un lungo e articolato dibattito in cui la Chiesa sempre di nuovo tentava di riassorbire la novità francescana all’interno di determinazioni giuridiche. Un argomento per Agamben essenziale in questo dibattito è quello, proposto in particolar modo dal francescano Ockham, di “una geniale generalizzazione e, insieme, inversione del paradigma dello stato di necessità” (AP 140): in caso di estrema necessità, sosteneva Ockham, ciascuno ha per diritto naturale la facoltà di usare delle cose altrui; i frati minori, quindi, hanno rinunciato a ogni proprietà e a ogni facoltà di appropriarsi (a ogni diritto positivo sulle cose che usano), ma non al diritto naturale di uso. In questo modo, secondo Agamben, i francescani invertono e assolutizzano lo stato di eccezione: essi recuperano un rapporto con il diritto (ancorché naturale) solo nello stato di estrema necessità e quindi, paradossalmente, usano un dispositivo giuridico (lo stato di eccezione) come operatore “di una sottrazione radicale della vita alla sfera del diritto” (AP 142). Non si propongono di annientarlo, ma di disattivarlo con l’uso, e di instaurare così, potremmo glossare, uno stato di eccezione effettivo. Nella loro contrapposizione alla curia romana, tuttavia, i francescani adottarono una strategia puramente difensiva e si ostinarono a formulare le loro argomentazioni con un vocabolario e in una logica giuridici. Questo impedì loro, sostiene Agamben, di articolare pienamente e in tutti i loro aspetti il concetto di uso con quello di forma-di-vita. In particolare, quello che manca ai francescani è una definizione dell’uso in sé e non soltanto in contrapposizione al diritto. Ciò che, a partire da queste basi, resta ancora da indagare nel progetto agambeniano è la questione di come possa l’uso “tradursi in un ethos e in una 172

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forma di vita” e “quale ontologia e quale etica corrisponderanno a una vita che, nell’uso, si costituisce come inseparabile dalla sua forma” (AP 178). Un breve accenno a conclusione della prefazione preannuncia il soggetto del volume IV/2, che dovrebbe concludere l’intero progetto: “l’elaborazione di una teoria dell’uso, di cui mancano nella filosofia occidentale anche i principi più elementari, e, a partire da essa, una critica di quell’ontologia operativa e governamentale, che, sotto i travestimenti più svariati, continua a determinare i destini della specie umana” (AP 10).

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8. AGAMBEN CONTEMPORANEO

Non rientra negli scopi di una breve introduzione quello di fornire un giudizio critico, e se abbiamo brevemente elencato, nei vari capitoli di questo libro, alcune delle critiche maggiori che sono state mosse ad Agamben, è stato per fornire, a grandi linee, un quadro contestuale della sua opera e degli effetti che ha prodotto. Alcune delle critiche più dure sollevano però una questione a cui anche una breve introduzione deve in qualche modo tentare di rispondere: quella dell’“attualità” o meno del suo pensiero. Giacché queste accuse, per quanto varie e diverse – di astrattezza e assolutismo concettuale, di snobismo e oscurità, di utopismo e irrealizzabilità, di misticismo e passività, di nichilismo e quietismo – si riducono a un’unica accusa essenziale: il pensiero di Agamben sarebbe impolitico e sterile, e quindi “inattuale”. La questione dell’attualità è però posta in modo improprio, se per “attualità” si intende in questo modo una mera “utilizzabilità”, quasi che la filosofia fosse uno “strumento” tra gli altri per il consumo utilitaristico (non per l’“uso”) del mondo; ma soprattutto, in termini generali, la questione non ha molto senso per un pensatore che ha costruito l’intera sua proposta filosofica sull’idea di “potenzialità”. E tuttavia è una questione non indifferente per lo stesso Agamben, perché ci confronta con il problema del tempo, della storia e della prassi umana, che sono in definitiva i fuochi del suo pensiero. Già nella sua opera, e fin dai primi scritti, possiamo quindi trovare delle risposte, via via riprese e riarticolate fino ai saggi più recenti; perciò ci proveremo qui, a mo’ di conclusione, ad analizzare brevemente alcuni passi esemplari. 174

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Se dall’analisi espungiamo i molti passi in cui “attualità” è usato come termine tecnico per rendere l’enérgeia aristotelica, ci restano comunque poche ma significative istanze in cui Agamben usa il termine nel senso corrente di “ciò che è conforme ai tempi”, per rovesciarne, però, il senso e il significato. Già alla fine degli anni Settanta, il paragrafo che apre “Programma per una rivista” in Infanzia e storia si centrava proprio sull’attualità a cui la rivista mai nata aspirava, e che, “in un tempo che ha smarrito ogni altro criterio di attualità che non sia ‘ciò di cui parlano i giornali’ e questo proprio quando ‘ciò di cui parlano i giornali’ non ha più nulla a che fare con la realtà”, Agamben individuava non in una continuità o in un nuovo inizio (e cioè in una prospettiva cronologica), ma in “un’interruzione e uno scarto”. La prospettiva “radicalmente e originariamente” storica che qui Agamben rivendica è quella benjaminiano-messianica del kairos, del “tempo di ora”, che in realtà svuota e rovescia il senso di “attualità” come “ciò che è conforme ai tempi”: “è l’esperienza di questo scarto come evento storico originario che costituisce precisamente [per la rivista] il fondamento della sua attualità” (IS 143). La “vera” attualità non è “ciò di cui parlano i giornali”, l’informazione spettacolare (anche se Agamben non inizierà a usare questo termine che una decina di anni dopo), che con la “realtà” non ha più nulla a che fare. Situandosi nello scarto, l’autentico pensiero storico non aderisce ma invece si contrappone a “ciò che è conforme ai tempi”. In quanto tale, l’attualità che è qui in questione è “inattuale”, ed è in questo senso che Agamben la rovescia in “inattualità” in La comunità che viene. Nella postilla aggiunta al libro nel 2001 Agamben si definisce un “sopravvissuto”, cioè qualcuno che scrive “senza destinatario”, ma, aggiunge, proprio perché era diretto “a un pubblico che per definizione non poteva riceverlo […] si può dire che il libro non ha mancato il suo scopo e non ha perso, pertanto, nulla della sua inattualità” (CV 91-92). Che cosa significa, qui, essere un sopravvissuto, scrivere senza destinatario? In che senso un libro centra il suo scopo proprio in quanto è e rimane inattuale? Se pensiamo all’elaborazione di Quel che resta di Auschwitz, sopravvivere al proprio 175

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tempo significa poter testimoniare, e poterlo fare proprio in quanto non si aderisce al tempo ma si guadagna una distanza rispetto a esso, ai suoi modi e alle sue forme; e proprio questa distanza costituisce l’inattualità di uno scritto che si situa esplicitamente in una posizione di “resto”, nella temporalità del “che viene”. Questo scritto non manca il suo scopo se in questa distanza continua a mantenersi, se continua a “testimoniare”. In questa prospettiva, la questione dell’attualità del pensiero di Agamben è quindi terminologicamente impropria; più consono al suo progetto filosofico è il termine “contemporaneità”, che definisce, come abbiamo visto nella sezione 6.3, il progetto di “Archeologia filosofica” in Signatura rerum: qui, la contemporaneità come “con-presenza al proprio presente” è (brevemente) definita dall’“esperienza di un non-vissuto” e dal “ricordo di un oblio”, cioè, di nuovo, da una sconnessione rispetto al tempo cronologico e alla storia come accumulazione quantitativa, da una distanza dai “tempi” che la rende perciò una condizione “rara e difficile” (SR 103). Leggiamo, allora, più in dettaglio un saggio pubblicato solo un anno dopo, “Che cos’è il contemporaneo?” (2009), dedicato proprio alla definizione di questa condizione “rara e difficile” e che possiamo perciò considerare, nella prospettiva di questa breve conclusione, come una sorta di Manifesto per la filosofia (agambeniana). Il saggio si articola su una serie di esempi e definizioni, la prima delle quali proviene, significativamente, dalle Considerazioni inattuali di Nietzsche: Nietzsche situa […] la sua pretesa di “attualità”, la sua “contemporaneità” rispetto al presente, in una sconnessione e in una sfasatura. Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo. (NU 20)

Questa sfasatura e sconnessione significa appartenere al proprio tempo prendendo però una distanza da esso, senza la quale non è possibile vederlo veramente, fissare lo sguardo su di esso. La contemporaneità è perciò “quella relazione col 176

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tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo” (NU 21). La distanza e la sconnessione permettono di non farsi accecare dalle luci del tempo e di riuscire così a percepirne la parte d’ombra, l’oscurità, il buio: “Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente” (NU 23). Il buio, però, non è la semplice assenza di luce; la neurofisiologia spiega la visione del buio come la disinibizione di una serie di cellule periferiche della retina, le off-cells, che, in assenza di luce, entrano in attività e producono la visione del buio; la metafora del buio non implica quindi una forma di inerzia o passività, ma, anzi, “un’attività e un’abilità particolari, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale” (NU 24). Quest’immagine potrebbe servire da conferma a chi accusa Agamben di eccessivo pessimismo o ancor peggio di nichilismo, se non fosse che essa è controbilanciata da un’altra immagine, questa volta proveniente dall’astrofisica (e già utilizzata in Quel che resta di Auschwitz a proposito della testimonianza; cfr. QRA 151): la fitta tenebra che circonda le stelle del firmamento non è in realtà che la luce delle galassie più remote che, viaggiando a una velocità inferiore a quella delle galassie stesse, non riesce a raggiungerci. Essere contemporanei significa percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo. Più di vent’anni prima, in “La potenza del pensiero” (che già usava la spiegazione neurofisiologica delle off-cells), Agamben aveva chiamato il buio “il colore della potenza” (PP 278), e la breve “Idea della luce” di Idea della prosa così si concludeva: “la luce non è che l’avvenire del buio a se stesso” (IP 109). La sconnessione e l’inattualità conferiscono alla contemporaneità la struttura dell’“urgenza”: la contemporaneità “è, nel tempo cronologico, qualcosa che urge dentro di esso e lo trasforma” (NU 26), e lo fa mettendo in relazione i tempi, l’arcaico con il moderno, l’origine con il presente. La “contemporaneità 177

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per eccellenza” è quindi il tempo messianico, il “tempo di ora” che trasforma e mobilita il tempo come esigenza di compimento. Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grando di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora. (NU 31)

Agamben, nella sua opera, ha diretto uno sguardo impietoso sulle tenebre del nostro presente e ha cercato di “illuminarle” e di rispondere alla loro sfida mettendole in relazione con gli altri tempi. E, se proprio di “attualità” si deve parlare, allora l’attualità del pensiero di Agamben sta proprio in questo: nell’aver fatto del presente il “tempo” della propria opera. È legittimo sostenere che, fissando lo sguardo sulle tenebre, non è riuscito a percepire la luce che comunque sempre le accompagna; o che la luce delle galassie remote che si cela nel buio del firmamento comunque non ci raggiungerà mai, e che quindi non ha molto senso (non è “attuale”) occuparsene; o che è riduttivo totalizzare e dividere il campo solo in luce e tenebra, quando la realtà è assai più complessa e presenta un’intera gamma di grigi e anche di colori; o, ancora, che la pura contemplazione di queste tenebre e di questa luce non basta, che bisogna allo stesso tempo “agire”, contrastare il buio, “fare luce”; oppure, infine, che questa metafora è assurda e sbagliata. Insomma, è legittimo discutere e criticare le proposte e le sfide che, nel corso di ormai più di quarant’anni, Agamben ha offerto al pensiero e alla filosofia; è indubbio, però, che le sue proposte e sfide hanno in certo modo modificato e plasmato gran parte del dibattito contemporaneo, e sono così diventate inaggirabili. Una filosofia che si voglia “contemporanea” dovrà, in un modo o nell’altro, fare i conti con quella di Agamben.

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INDICE ANALITICO

abitare 8, 13, 14-15, 169 abito, 110-11, 169 abitudine 56, 111, 169 Abu Ghraib, prigione di 7 accidia 21, 23 Adorno, Theodor Wiesengrund 35 Agamben, Giorgio opere: “Aby Warburg e la scienza senza nome” (La potenza del pensiero) 28-29 Altissima povertà 76, 137, 139, 168-73 L’amico 26 L’aperto 120-25 “Archeologia filosofica” (Signatura rerum) 127, 130-31, 176 “L’autore come gesto” (Profanazioni) 143-44 Bartleby 64, 94, 150 “Bataille e il paradosso della sovranità” 57-58 Categorie Italiane 25, 26-27, 29, 40, 149-50, 160 “Che cos’è il contemporaneo?”

(Nudità) 176-78 Che cosè un dispositivo? 156 “Che cos’è un paradigma?” (Signatura rerum) 127-29, 139, 168 “Che cos’é un popolo?” (Mezzi senza fine) 147 “Il cinema di Guy Debord” 144, 145 La comunità che viene 8, 50, 51, 54, 56, 58-72, 73, 74, 75, 79, 94, 128, 136, 138, 145, 150, 154, 158, 159, 163, 175 “Il corpo glorioso” (Nudità) 160 “La cosa stessa” (La potenza del pensiero) 26, 49, 70 “Elogio della profanazione” (Profanazioni) 141-42, 145, 155-57, 159-60, 161, 168 “Experimentum linguae” (Infanzia e storia) 49-51, 60, 100-1, 131 “Una fame da bue” (Nudità) 163 “Fiaba e storia” (Infanzia e storia) 35 185

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“Lingua e storia” (La potenza del pensiero) 46-48 Il linguaggio e la morte 37-44, 45, 47, 48, 49, 50, 51, 55, 56, 58, 60, 68, 101, 117, 121, 149, 160 “Il ‘logos erchomenos’ di Andrea Zanzotto” (Categorie italiane) 149-50 “Il Messia e il Sovrano” (La potenza del pensiero) 138 Mezzi senza fine 73, 84, 133, 134-36, 141, 142-43, 144, 145, 147, 151-52, 158 “Note sul gesto” (Mezzi senza fine) 141, 142-43, 144, 145 “Note sulla politica” (Mezzi senza fine) 141, 158 Nudità 94, 133, 145, 160, 163-64, 176-78 “Nudità” (Nudità) 145 “L’opera dell’uomo” (La potenza del pensiero) 135, 152 Opus Dei 76, 93, 107-12, 171 “Il paese dei balocchi” (Infanzia e storia) 31, 34, 35, 42, 161, 162 “Pardes. La scrittura della potenza” (La potenza del pensiero) 73-74 “Pascoli e il pensiero della voce” (Categorie italiane) 149 “La passione della fatticità” (La potenza del pensiero) 61-62, 63, 65, 70 La potenza del pensiero 18, 26, 28, 46-48, 49, 56, 57, 61-62, 63, 64, 65, 70, 73-74, 121, 133, 135, 138, 143, 152, 177

“Filosofia e linguistica” (La potenza del pensiero) 49, 70 “La fine del pensiero” (Il linguaggio e la morte) 41-42, 45 “Forma-di-vita” (Mezzi senza fine) 135-36 “Glosse in margine ai Commentari sulla società dello spettacolo” (Mezzi senza fine) 73 “Heidegger e il nazismo” (La potenza del pensiero) 136-37, 152 Homo sacer 7, 8, 18, 29, 44, 54, 58, 63, 69, 75, 76, 77-84, 85, 86-90, 91, 94-95, 96, 97, 100, 101-2, 103, 105, 106, 113, 127, 133, 134-35, 136-37, 138, 147, 148, 150-51, 158, 161, 164, 166 “L’idea del linguaggio” (La potenza del pensiero) 49, 57 Idea della prosa 18, 45-49, 50, 51, 52, 56, 57, 59, 63-64, 68, 75, 95, 100, 145, 150, 160, 162, 165, 177 “Identità senza Persona” (Nudità) 94 “L’immanenza assoluta” (La potenza del pensiero) 135 “In questo esilio” (Mezzi senza fine) 134-35, 151-52 Infanzia e storia 26-28, 27-29, 30-35, 37, 42, 47, 48, 49-51, 55, 60, 64, 70, 100-1, 131, 161, 162, 165, 175 ”Infanzia e storia” (Infanzia e storia) 30-33, 35, 42, 70 “K.” (Nudità) 163-64 “Kommerell, o del gesto” (La potenza del pensiero) 143 186

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“Tempo e storia” (Infanzia e storia) 34, 35 “Teoria delle segnature” (Signatura rerum) 127, 129-30, 157 “Tradizione dell’immemorabile” (La potenza del pensiero) 18, 57 L’uomo senza contenuto 12-17, 18, 19, 25, 27, 37, 67, 73, 112, 163 “Violenza e speranza nell’ultimo spettacolo” 73 “Vocazione e voce” (La potenza del pensiero) 121 “Il volto” (Mezzi senza fine) 145 “Walter Benjamin e il demonico” (La potenza del pensiero) 56 aletheia 15, 62 alienazione 12, 71, 73, 74 Alighieri, Dante 23, 26, 135 Améry, Jean 117 amicizia 26, 37, 51, 92 amore 23, 40, 61-62 Animal Studies 125 animale 8, 9, 33, 37, 63, 67, 71, 77, 81, 83, 101, 103, 120-25, 155, 156 anomia 91, 99, 153, 162 antropocentrismo 123, 125 antropogenesi 120, 121, 122, 156 antropologia 34, 96, 161 apocalissi: vedi apocalittismo apocalittismo 36, 114, 165, 16667 appartenenza 58, 59, 60, 66, 72, 139

“La potenza del pensiero” (La potenza del pensiero) 63, 64, 65, 177 “Il principe e il ranocchio” (Infanzia e storia) 31, 35 Profanazioni 133, 141-42, 14344, 145, 155-57, 159-60, 161, 168 “Programma per una rivista” (Infanzia e storia) 26, 27-29, 55, 175 “Quattro glosse a Kafka” 163 Quel che resta di Auschwitz 18, 76, 99, 113-20, 121, 122, 12527, 146-47, 149, 165, 175, 177 Il Regno e la Gloria 10, 76, 92, 95-99, 103, 107, 111, 129, 130, 152, 153-54, 157, 160, 163 Il sacramento del linguaggio 76, 102-6, 111 “*Se. L’Assoluto e l’‘Ereignis’” (La potenza del pensiero) 56 “Se lo Stato sequestra il tuo corpo” 93-94 “I sei minuti più belli della storia del cinema” (Profanazioni) 145 Signatura rerum 19, 127-31, 139, 157, 168, 176 Stanze 19-26, 27, 28, 32, 37, 40, 73, 158, 160 Stato di eccezione 76, 87, 88, 9092, 95, 98, 99, 102, 105, 106, 113, 120, 127, 141, 153, 159, 161, 162, 166-67 “Sui limiti della violenza” 18, 44 Il tempo che resta 19, 51, 106, 133, 146, 147-49, 152-53, 157, 158-59, 160, 165-66, 167, 168 187

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129, 138, 139, 140-41, 142, 144, 148, 153, 155, 162, 163, 166, 167, 175, Benveniste, Émile 32, 33, 34, 38, 47, 161 Bergman, Ingmar 145 Bergson, Henri 32, Bichat, Marie François Xavier 122, Binswanger, Ludwig 117 biologia 71, 77, 134 biopolitica 7, 8, 44, 77, 78, 82, 84, 87, 89, 93, 94, 96, 117, 118, 119, 121, 123, 132, 134, 137, 138, 147, 166, 167 biopotere 92, 117, 119 bios 77, 78, 80, 81, 84, 110, 119, 134, 136, 138, 154, 169 Blanchot, Maurice 57, 58, 59, 151 Bloch, Ernst 69 Blumenberg, Hans 157 borghesia 71, 72 Brecht, Bertolt 142, 144 Buber, Martin 48, 50 buio 177-78 Butler, Judith 92, 132

appropriazione 21, 22, 23, 66, 158 arché 15, 97, 98, 129, 130, 131 archeologia 25, 91, 98, 100, 103, 107, 108, 112, 126, 127, 13031, 132 Arendt, Hannah 15, 18, 77, 84, 89, 134, 146 Aristotele 9, 12, 26, 49, 50, 62, 63, 65, 77, 83, 84, 94, 96, 98, 100, 101, 109, 110, 111, 121, 128, 140, 151, 175 arte 9, 12-17, 22, 25, 28, 37, 73, 137, 164 artista 13, 16, 20, 25, 137 atto (e potenza) 50, 62, 63, 94, 95, 97, 106, 109, 110, 111, 150, 151, 152 attualità 27, 66, 92, 174-78 auctoritas 90, 95, 98 Aufhebung 20, 28, 29, 152 Auschwitz 94, 113-20, 147 Averroè 135 Badiou, Alain 148, 167, 168 bando 80, 81, 87, 88, 95, 102, 119, 134, 138, 164 Bataille, Georges 40, 53, 57-58, 151 Baudelaire, Charles 22, 32, 52, 53 Beckett, Samuel 143 Benjamin, Walter 12, 16, 17, 19, 20, 22, 24, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35-36, 43, 44, 47, 48, 49, 50, 51, 52-53, 56, 57, 64, 67, 68, 69, 70, 80, 81, 84, 87, 88, 89, 94, 100, 106, 125,

Cacciari, Massimo 57 Calvino, Italo 24, 26, 53 campo 7, 75, 83, 89, 90, 91, 94, 113, 116, 119, 127, 128 capitalismo 22, 70, 141, 142, 144, 146, 155-56, 157, 160 Caproni, Giorgio 27, 55 cavia umana 82 cenobio 169 Char, René 17 188

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che viene 11, 51, 61, 66-72, 112, 136, 142, 150, 156, 158, 163, 176 Chomsky, Noam 32 Cicerone, Marco Tullio 109 cinema 143, 144-45 citare: vedi citazione citazione 19, 51 Collodi, Carlo 162 colpa 44, 69, 115 comune, il 57, 60, 65, 135, 158 comunismo 45, 72, 145 comunità 42, 43, 51, 57, 58, 59, 60, 65, 69, 71, 72, 81, 82, 93, 101, 112, 135, 152, 169 conoscenza 19-24, 28, 31, 32, 33, 37, 73 consumo 156, 160, 161, 174 contemporaneità 131, 174-78 contingenza 67, 118, 119, 145 continuum 15, 34, 35, 67, 69, 142 corpo 71, 77, 78, 85, 86, 93, 119, 122, 123, 134, 145, 160; - glorioso 160 crisi 8, 9, 12, 16, 20, 57, 58, 72, 75, 93, 112, 124, 132 Cristianesimo 36, 86, 167 Cristo 97, 108, 111, 144, 170, 171 critica 12, 19-21, 27, 28, 29, 37, 51, 55

decisione 34, 36, 137; - sovrana 86, 89, 92, 102, 123, 137 decostruzione 24, 26, 61, 74, 106 decreazione 150 deissi 38 Delfini, Antonio 27 democrazia 72, 79, 80, 89, 91, 98, 99 Derrida, Jacques 14, 24, 26, 40, 58, 61, 74, 84, 92, 106, 139 désoeuvrement 150-54, 158, 160 desoggettivazione 117-18, 126, 146 destino 14, 16, 17, 37, 42, 56, 65, 69, 83, 124, 145, 160 diacronia 33, 34, 129 dialettica 20, 27, 29, 35, 40, 52, 91, 93, 94, 95, 97, 118, 135, 168; immagine - 29, 45, 52; immobile 29, 35, 52 differenza 24, 33, 61, 84, 148 dignità 115 Dilthey, Wilhelm 32 Dio 36, 68, 71, 73, 96, 97, 99, 103, 104, 106, 108, 111, 150, 153, 162 diritto 26, 29, 78, 80, 81, 82, 86, 87, 90, 91, 93, 94, 95, 100, 101, 102, 103, 105, 106, 111, 115, 134, 139, 140, 153, 159, 161, 162, 168, 169, 170, 172 disattivazione 10, 85, 89, 124, 125, 128, 142, 152, 153, 154, 156, 159, 160, 161, 162, 163, 171, 172 dispositivo 78, 96, 98, 105, 111, 122, 141, 142, 153, 154, 155, 156, 157, 159, 172

dandy 22, Daniel, Arnaut 27 Dasein 38, 62, 65, 68, 124, 125, 136-37 Debord, Guy 70-71, 73, 99, 142, 144, 156, 167 189

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distruzione 13, 17, 27-28, 31, 69, 71, 115, 152 disvelamento 15; vedi anche aletheia

fantasmagoria 22, 23, 70 fascismo 72, 92 fatticità 61-62, 137 felicità 13, 22, 34, 35, 56, 65, 79, 135, 145, 161 femminsimo 85 festa 161, 162-63, 164 Festo, Sesto Pompeo 43, 72, 80, 81 feticismo 22, 32, 158; - della merce 22, 73 fiaba 35 filologia 10, 20, 25, 28, 29, 33, 47, 84, 90 filosofia 9, 10, 17, 20, 25, 27, 29, 33, 39, 41, 42, 45, 46, 47, 49, 61, 70, 112, 143, 174, 178 filosofia prima: vedi ontologia fine (e mezzo) 140, 141, 160 fondamento 13, 14, 16, 24, 26, 37, 38, 39, 40, 42, 43, 44, 48, 49, 51, 55, 57, 68, 83, 97, 101, 102, 117 forma-di-vita 134-37, 138, 139, 168, 171, 172 Foucault, Michel 8, 44, 77, 78, 89, 92, 95, 96, 98, 117, 121, 122, 126, 127, 128, 129, 130, 131-32, 137, 143 Fourcade, Dominique 17, 18 francescanesimo 168, 171-73 Francesco d’Assisi 172 Freud, Sigmund 21, 22 futuro 15, 36, 67, 69, 131, 165, 166

Ebraismo 10, 36, 93 eccezione 42, 44, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 86-92, 95, 101, 102, 112, 123, 124, 139, 149; stato di - : vedi stato di eccezione economia 96, 97, 98, 99, 107, 153, 161, 163 Einaudi, Giulio 53 Englaro, Eluana 82 Eraclito 17, 24 escatologia 36, 106, 148, 157, 165, 166 esclusione 24, 42, 59, 78, 81, 86, 87, 122, 137; - inclusiva 78, 79, 87, 101, 102, 122, 139 esempio 60, 92, 128, 139, 168, 171 esperienza 29, 30-35, 50 esposizione 62, 65, 68, 69, 124, 143, 145 estetica 8, 9, 10, 12-17, 20, 73, 137, 144, 155, 164 estetizzazione 120, 137 ethos 55, 56, 65, 66, 136, 158, 172 etica 9, 10, 39, 49, 50, 51, 55, 56, 57, 65, 66, 93, 107, 110, 111, 112, 114, 115, 116, 120, 125, 127, 142, 144, 157, 169, 171, 173 experimentum linguae 50, 71, 74, 141, 160

gender-blindness 85, 145 Gender Studies 85

fantasma 22-23 190

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genealogia 12, 15, 80, 81, 87, 90, 95, 96, 109, 121, 129, 132, 137 genio 13 genocidio 115 gesto 142-44, 145, 146 Ginzburg, Carlo 129 giocattolo 22, 35, 36 gioco 34, 35, 36, 161-63, 164 giudizio 100, 115; - estetico 13, 14, 37; - universale 36, 67, 69, 153, 160 giuramento 103-6, 112, 128 giustizia 69, 100, 162 gloria 98-99, 153 gnosticismo 34 Godard, Jean-Luc 144 governamentalità 91, 92, 95, 96, 98, 107, 153, 173 Guantánamo, campo di prigionia di 7, 90, 127 Guillaume, Gustave 165 gusto 13

Hölderlin, Friedrich 18, 65, 70, 112, 134, 146-47, 158 homo sacer (concetto) 7, 43, 44, 80, 81, 82, 85, 87, 103, 128, 134, 137, 154, 155 Homo sacer (progetto) 8, 34, 36, 40, 42, 44, 47, 54, 65, 72, 7577, 120, 127, 162, 165, 168 Husserl, Edmund 32 iconologia 28 identità 13, 59, 60, 61, 65, 66, 71, 72, 94, 148, 152, 159 ideologia 52, 71, 72, 78, 85 immagine 23, 25, 70, 71, 129, 144-45; - dialettica 29, 45, 52 immanenza 66, 67, 68, 69, 96, 98, 132, 136, 145 impolitico 7, 8, 96, 154-55, 164, 167, 174 impossibilità 17, 20, 24, 62, 115, 116, 118, 119, 127, 129, 143, 147, 148, 149, 160 inappropriabilità 21, 62, 66 inautenticità 62, 71 inclusione 58, 59, 61, 66, 72, 78, 86, 122, 137; - esclusiva 122, 139 indecidibilità 86, 106, 131, 134, 149, 170 indicibilità 37, 40, 41, 42, 43, 44, 48, 50, 51, 60, 102, 115 indifferenza 61, 81, 86, 87, 123, 131, 134, 137, 150, 158, 162, 171 individualità 60 ineffabilità: vedi indicibilità inesperibilità 32, 37

Hamann, Johann Georg 31, 32 Hardt, Michael 154 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 14, 17, 19, 20, 32, 35, 37, 38, 39, 42, 56, 60, 152, 153 Heidegger, Martin 12, 14, 15, 16, 17-18, 20, 24, 25, 30, 33, 34, 37, 38, 39, 42, 49, 51, 55, 56, 57, 59, 61, 62, 65-66, 68, 70, 73, 92, 93, 112, 117, 121, 123, 124, 125, 134, 135, 136, 137, 142, 147, 154, 158 Heinle, Christoph Friedrich 53 Hobbes, Thomas 81 191

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Lévinas, Emmanuel 117, 136, 137 libertà 13, 21, 34, 162, 171 lingua 25, 26, 33, 47, 49, 50, 57, 71, 117, 118, 126, 127, 147, 160; - morta 27, 149-50; pura - 47, 48, 49, 140 linguaggio 8, 9. 25, 30-34, 3744, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 54, 55, 57, 58, 71, 73, 74, 79, 97, 100-6, 107, 112, 117, 118, 119, 126, 127, 140, 141, 142, 143, 149, 150, 156, 160 linguistica 8, 9, 10, 32, 38, 45, 49, 117 Linneo (Carl Nilsson Linnaeus) 121 liturgia 98, 99, 107, 108, 109, 171 logos 50, 79, 97, 101, 104, 118, 122, 149, 150, 151 Löwith, Karl 157 lupo mannaro 81, 82 Lutero, Martin 152

infanzia 32-33, 34, 35-36, 42, 50, 63, 64, 118, 127 inoperosità 75, 99, 149, 15054, 155, 159, 160, 162, 163 insalvabile 56, 64, 66, 68, 148 interruzione 27, 29, 34, 35, 144, 175 inumanità: vedi inumano inumano 113, 116, 117, 118, 120 irreparabile 59, 66-67, 68, 69 Jakobson, Roman 32, 38 Jesi, Furio 122 Kafka, Franz 12, 17, 36, 64, 67, 68, 80, 88, 100, 106, 117, 142, 148, 162, 163-64 kairos 34, 145, 165, 175 Kant, Immanuel 13, 14, 31, 32, 37, 60, 65, 88, 111, 140, 164 katargésis 152, 153, 154, 155, 156, 158, 159 Keats, John 117 Kimura, Bin 117 Kojève, Alexandre 40, 151, 153 Kommerell, Max 143

macchina: - mitologica 122; antropologica 120-25 maledizione 103, 104, 105 malinconia 21, 22, 23 Manganelli, Giorgio 27 Marcuse, Herbert 18 Marquard, Odo 157 Marx, Karl 15, 22, 34, 35, 159, 167 marxismo 10, 22 Melandri, Enzo 130 Melville, Herman 64, 150 mercificazione 22, 71, 145, 160

Lager: vedi campo lavoro 15, 16, 160, 169 legge 43, 64, 80, 86, 87, 88, 91, 93, 101, 102, 105, 106, 111, 138, 140, 148, 149, 150, 152, 153, 159, 163, 164, 168, 170, 171; forza di - 88, 164, 168 Leopardi, Giacomo 40, 41 letteratura 8, 9, 164 Levi, Primo 114, 115, 116, 120 Lévi-Strauss, Claude 32, 34, 102, 129-30 192

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Messia: vedi messianismo messianismo 35, 36, 41, 43, 47, 48, 51, 59, 64, 68, 69, 70, 106, 125, 132, 133, 138, 144, 146, 147, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 155, 157, 158, 159, 160, 162, 163, 164-66, 167, 170, 175, 178 metafisica 8, 9, 12, 15, 20, 23, 24, 26, 33, 37, 38, 39, 40, 48, 49, 55, 57, 58, 60, 65, 67, 68, 70, 73, 79, 80, 83, 93, 97, 100, 105, 106, 112, 120, 123, 124, 125, 136; - della volontà 15, 73 metodo 12, 18, 20, 23, 24-25, 28, 100, 112, 114, 119, 120, 12531, 132 mezzo: - puro 140-42, 144, 146, 158, 160, 164; - senza fine: vedi mezzo puro Milner, Jean-Claude, 49 mistica 10, 14, 26, 37, 39, 40, 42, 48, 50, 51, 68, 115, 155, 174 mito 35 mitologia 28, 116 modernità 13, 14, 15, 16, 20, 75, 77, 78, 79, 84, 89, 110, 111, 129, 157 moltitudine 136 monachesimo 168-73 Morante, Elsa 27, 144 morte 37, 38, 42, 58, 66, 81, 82, 83, 85, 92, 116, 118, 149 Muselmann: vedi musulmano Musil, Robert 13 musulmano 116, 118, 119, 120, 128, 134

Nappo, Francesco 27 nazismo 82, 83, 90, 92, 106, 113, 127, 136, 137, 139 necessità 67, 119, 135, 145, 171, 178 Negri, Antonio 24, 85-86, 92-93, 94, 98-99, 154, 159, 166, 167 negatività 19, 20, 24, 26, 37-44, 48, 49, 51, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 65, 68, 85, 92, 93, 101, 117, 151, 159 negazione 14, 19, 21, 37, 148, 152 nichilismo 7, 14, 37, 38, 39, 40, 174, 177 Nietzsche, Friedrich 13, 15, 25, 117, 176 Nižinskij, Vaclav Fomi 52 noia 124 nomos 81, 86, 87, 90, 91, 93, 113, 162, 170 non-uomo: vedi inumano norma 14, 86, 88, 90, 93, 101, 102, 134, 149, 153, 169, 170, 171 nuda vita: vedi vita nulla 13, 14, 19, 21, 37, 106 Ockham, Guglielmo di 172 officium: vedi ufficio oikonomia 68, 96-99, 112, 128, 153 olocausto 85, 115, 119 oltrecoma 82, 113, 123 ontologia 8, 9, 15, 24, 34, 36, 54, 55, 58, 61, 62, 65, 66, 67, 68, 70, 76, 79, 83, 92, 93, 94, 97, 98, 99, 106-12, 117, 118, 120,

Nancy, Jean-Luc 57, 58, 59, 87, 151 193

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123, 124, 132, 151, 154, 155, 164, 168, 171, 173; - della potenza: vedi potenza opera d’arte 13-17, 19, 22, 25, 137 operatività 106-12, 171, 173 originale/originalità: vedi origine origine 13, 14-15, 16, 20, 32, 33, 37, 42, 48, 56, 129, 130, 131, 177 oscurità: vedi buio Overbeck, Franz 130

Pindaro 87, 93 Platone 13, 48, 49 poesia 10, 16, 20, 21, 22, 23, 27, 28, 29, 32, 40, 41, 45, 46, 55, 147, 160, 164 poiesis 15, 16, 20 polis 51, 77, 78, 90, 96, 101 politica 8, 9, 10, 15, 35, 39, 40, 49, 50, 51, 54, 55, 57, 61, 63, 64, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 89, 91, 92, 93, 94, 96, 97, 99, 101, 103, 106, 107, 110, 112, 116, 120, 127, 132, 134, 135, 136, 137, 138, 141, 142, 143, 144, 147, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 158, 163, 164, 166, 167, 169, 171 pop-art 16 pornografia 45, 71, 120, 145-46, 160 possibilità 38, 62, 63, 64, 65, 69, 119, 124, 127, 135, 144 post-marxismo: vedi marxismo potenza 14, 16, 36, 37, 49, 50-51, 62-66, 67, 68, 69, 74, 85, 86, 94-95, 97, 99, 100, 102, 103, 106, 109, 110-11, 116, 118, 124, 126, 127, 135, 136, 137, 144, 150, 151, 152, 154, 159, 160, 177; ontologia della - 68, 94, 99 potere 45, 73, 76, 77, 78, 79, 83, 85, 91, 92, 93, 95, 96, 98, 99, 100, 113, 117, 120, 132, 136, 137, 153, 157, 162; - costituente 63, 94, 169; - costituito 63, 94 potestas 91, 95, 98

Panofsky, Erwin 28 Paolo di Tarso (San Paolo) 133, 146, 147, 148, 149, 152, 153, 158, 159, 165, 167, 170 Paracelso 129 paradigma 36, 42, 75, 82, 89, 91, 92, 93, 94, 96, 97, 98, 101, 104, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 116, 119, 120, 125, 127-131, 132, 139, 145, 146, 150, 155, 160, 163, 167, 168, 171, 172 Pascoli, Giovanni 27, 149 Pasolini, Pier Paolo 144 passato 15, 34, 42, 52, 56, 64, 129, 130, 131, 144, 165, 166, 178 Pathosformel 25, 129 Peguilhan, Aimeric de 40 performativo 104-5, 108, 111, 171 Pessoa, Fernando 117 Peterson, Erik 157 Pico della Mirandola, Giovanni 121 194

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povertà 31, 123, 168, 172 prassi 42, 44, 55, 56, 97, 99, 102, 106, 107, 109-10, 141, 163, 172, 174; - pura 153 praxis 15 presente 12, 15, 34, 36, 42, 52, 69, 70, 129, 130, 131, 165, 166, 167, 176, 177, 178 presepe 35 presupposto 9, 10, 49, 51, 54-59, 60, 61, 65, 66, 67, 68, 71, 72, 80, 82, 136 profanazione 68, 155-57, 159, 161 profano 35, 56, 67, 68, 93, 99, 155, 156, 165, 167 pronome 38 prosa 41, 45, 46, 47, 57 psicanalisi 21 psicologia 23, 31, 36, 143, 144 pubblicità 71, 145, 160

rito 34, 35, 42, 162 rivelazione 36, 49 sabato 162-63 sacertà 7, 44, 72, 80, 81 sacramento 108, 129 sacrificio 42, 43, 44, 87, 115, 155 sacro 34, 35, 42, 44, 81, 103, 115, 156, 161, 162 Saussure, Ferdinand de 25, 33 Schiavo, Terri 82 Schmitt, Carl 57, 58, 78, 86, 87, 89, 91, 92, 96, 99, 106, 153, 157 Schoen, Ernst 141 secolarizzazione 34, 96, 99, 152, 153, 156-57 segnatura 116, 129-30, 145, 157, 160 semiologia 23, 24, 25 senza virgolette 19, 22, 29, 44, 55, 167 separazione 83, 88, 119, 122, 136, 142, 155-56, 160 shifter 38, 39, 41 shoah 115 sigetica 55, 65 significante 23, 24, 34; - fluttuante 102, 129 sincronia 33, 34, 42, 129 singolarità 60, 61, 71, 86, 128, 129 singolarità qualunque: vedi qualunque situazionismo 73 Sloterdijk, Peter 125 soggettivazione 117, 118, 126, 146

qualunque 59-65, 66, 70, 71, 72, 128, 138, 139, 158 Queneau, Raymond 151 Quinlan, Karen 82, 134 quodlibet: vedi qualunque ready-made 16 redenzione 17, 18, 56, 57, 64, 66, 68, 69, 134, 163 religione 8, 10, 36, 71, 100, 103, 105, 111, 155, 156, 160, 161, 167 responsabilità 115 resto 146-49, 165, 176 rifugiato 82, 90, 113 Rilke, Rainer Maria 121, 124 195

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129, 157, 161, 162, 167, 169, 174-78; - di ora 146, 164, 175; - messianico 153, 157, 160, 164-66, 167, 178; - operativo 165-66 tenebra: vedi buio teologia 96, 99, 106, 110, 145, 146, 147, 152, 153, 157, 160, 167, 170; - economica 96; negativa 14, 37; - politica 92, 96, 155, 167 testimonianza 114-20, 126, 127, 146, 147, 149, 176, 177 totalitarismo 79, 89 trascendentale 31, 32, 33, 37, 42, 50, 60, 65, 102, 126, 144 trascendenza 66, 67, 96, 98

soggettività: vedi soggetto soggetto 21, 31, 32, 33, 46, 58, 79, 85, 105, 117-19, 126, 127, 130, 131, 137, 140, 143, 146, 148, 149, 160; - trascendentale 32, 37 sopravvissuto 115, 117, 119, 147, 175 sopravvivenza: vedi sopravvissuto soteriologia 21, 23, 34, 36, 65, 66, 99, 100, 108, 140, 148, 150, 155, 158, 164 sous rature 14, 88 sovranità 7, 58, 76, 78, 80, 81, 82, 86, 87, 88, 89, 92, 94, 96, 100, 101, 113, 120, 132, 136 spettacolo 70-71, 73, 80, 99, 141, 142, 144, 145, 146, 156, 160, 175; società dello - 70, 73 stanza 21, 22, 23, 25, 32, 37, 40 Stato 57, 72, 89, 93, 94, 96, 136, 157 stato di eccezione 80, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 97, 101, 102, 105, 106, 116, 122, 123, 128, 137, 149, 153, 172; - effettivo 13840, 149, 162, 172 stilnovismo 22, 23 stoicismo 34, 109 storia 8, 9, 14, 17, 25, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 47, 56, 67, 124, 131, 145, 151, 153, 157, 164, 166, 174, 176, 178 Strauss, Leo 134 studio 161-63

Uexküll, Jakob von 123 ufficio 107-12, 169, 171 umanesimo 93, 121, 122, 125 umanità: vedi umano umano 9, 28, 33, 38, 42, 44, 56, 71, 79, 81, 113-19, 120-25, 146, 148, 155 universale 14, 38, 60, 61, 128, 148, 171 universalità: vedi universale uomo: vedi umano Usener, Hermann 104 uso, 22, 65, 66, 105, 156, 157, 158-60, 161, 162, 163, 168, 172, 173, 174 utilitarismo 159, 161 utopia 7, 92, 166-67, 174

tanatopolitica 117, 132 tempo 9, 15, 17, 29, 30, 33, 34, 35, 36, 49, 54, 55, 58, 69, 106,

valore 79, 88, 159; - d’uso 22, 158, 159; - di scambio 22, 158 vergogna 117, 146 196

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voce 39, 41, 42, 50, 51, 55, 101, 117, 121, 149 volontà 15-16, 42, 73, 112, 116, 140, 170; metafisica della -: vedi metafisica

verità 15, 17, 19, 25, 27, 62, 106, 145; vedi anche aletheia violenza 43, 44, 59, 72, 80, 85, 87, 93, 94, 100, 101, 140, 162; - che conserva il diritto 94, 139; - che pone il diritto 94, 139; - divina 44, 139; - mitica 44, 139; - pura 44, 106, 139, 140, 141, 153; - sacra 43, 44; sovrana 139 virgolette: vedi senza virgolette vita 7, 8, 9, 15, 43, 69, 73, 76, 86, 87, 88, 89, 92, 94, 95, 105, 106, 113, 116, 118, 119, 121, 122, 123, 124, 125, 132, 134, 135, 136, 137, 138, 140, 154, 155, 159, 162, 168, 169, 170, 171, 172, 173; nuda - 7, 43, 44, 72, 75, 76, 77-86, 88, 89, 90, 92, 101, 113, 114, 123, 125, 134, 135, 136, 137, 138, 154

Walser, Robert 64, 67, 68 Warburg, Aby 20, 23, 24-25, 28, 29, 104, 129, 144 Weil, Simone 17 Welles, Orson 145 Wittgenstein, Ludwig 68, 169 Yates, Frances 24 Zanzotto, Andrea 27, 150 Žižek, Slavoj 154 zoé 77, 78, 79, 80, 81, 84, 110, 119, 134, 136, 138, 154

197

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INDICE

Abbreviazioni

5

1. IDEA DELLA FILOSOFIA

7

2. UNA SCIENZA GENERALE DELL’UMANO (L’uomo senza contenuto, Stanze, Categorie italiane) 2.1. Oltre l’estetica 2.2. L’oggetto della conoscenza 2.3. La scienza senza nome

12 19 26

3. STORIA E LINGUAGGIO (Infanzia e storia, Il linguaggio e la morte, Idea della prosa) 3.1. Esperienza e linguaggio 3.2. Metafisica e linguaggio 3.3. Experimentum linguae

30 37 45

4. LA POLITICA CHE VIENE (La comunità che viene, Bartleby) 4.1. Senza presupposti 4.2. Qualunque, o della potenza 4.3. Che viene

54 59 66

5. ARCHEOLOGIA DEL POTERE (Homo sacer I e II: Stato di eccezione, Il Regno e la Gloria, Il sacramento del linguaggio, Opus dei) 5.1. Il progetto 5.2. Il protagonista: la nuda vita 5.3. La struttura dell’eccezione 5.4. Il paradigma gestionale 5.5. Diritto e linguaggio 5.6. L’ontologia dell’operatività

75 77 86 94 100 106

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6. LA VITA E IL PARADIGMA (Homo sacer III: Quel che resta di Auschwitz; L’aperto, Signatura rerum) 6.1. L’inumanità dell’umano 6.2. La macchina antropologica 6.3. Paradigma e archeologia 7. VERSO UNA NUOVA EPOCA STORICA (Homo sacer IV: Altissima povertà; Mezzi senza fine, Il tempo che resta, Profanazioni, Nudità) 7.1. Un vocabolario messianico 7.1.1. Forma-di-vita 7.1.2. Stato di eccezione effettivo 7.1.3. Mezzi puri 7.1.4. Gesto 7.1.5. Resto 7.1.6. Désoeuvrement/inoperosità 7.1.7. Profanazione 7.1.8. Uso 7.1.9. Gioco, studio, festa 7.1.10.Tempo messianico

7.2. Rinunciare al diritto

113 120 125

133 134 138 140 142 146 150 155 158 161 164 168

8. AGAMBEN CONTEMPORANEO

174

Bibliografia

179

Indice analitico

185

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 per i tipi de “il nuovo melangolo” dalla Microart - Recco (Ge) Fotocomposizione e impaginazione: Type&Editing - Genova www.typegenova.it

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