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Italian Pages 246 [261] Year 2017
Storia e Società
Emanuele Ertola
In terra d’Africa Gli italiani che colonizzarono l’impero
Editori Laterza
© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione giugno 2017
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Edizione 5 6
Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022 La cartina è stata realizzata da Alessia Pitzalis
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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2767-4
a Cristina, che avrebbe voluto leggerlo, e ad Eva, che forse un giorno lo leggerà
INTRODUZIONE L’aviatore francese René Lefèvre nel febbraio 1940, di ritorno da un viaggio in Africa Orientale, riferì ai diplomatici del suo paese le impressioni riportate, e questi a loro volta le trasmisero a Parigi: «L’Italia si è regalata un impero in Etiopia», sosteneva la relazione, «ma che prezzo paga per soddisfare la sua vanità?»1. In effetti, il 9 maggio 1936 Mussolini non annunciò agli italiani la conquista di una nuova colonia, bensì la nascita di un impero. Questa parola racchiudeva densi significati simbolici. Il duce, che assunse il titolo di «fondatore dell’Impero», suddivise l’Etiopia in quattro governatorati – Addis Abeba (in seguito, ampliato, prese il nome di Scioa), Harar, Amara, Galla e Sidama – che assieme ad Eritrea e Somalia formarono una nuova entità amministrativa denominata Africa Orientale Italiana (AOI), alla cui testa c’era un governatore generale. Ma questi aveva anche il titolo di viceré d’Etiopia, poiché la nuova conquista, benché amministrativamente smembrata e confluita all’interno di un’entità più grande, manteneva rispetto alle altre colonie uno status particolare: quello di Impero, con la «i» rigorosamente maiuscola. Come nell’India britannica, il viceré faceva le veci del re d’Italia, che assunse il titolo ereditario di imperatore d’Etiopia. La decisione di Mussolini di «regalarsi un impero» non fu motivata solamente dalla vanagloria. L’utilizzo del termine “impero” aveva scopi squisitamente politici: avrebbe dovuto
1 CADN, Rome-Quirinal, 579PO/1/501, Abyssinie-Ethiopie, Voyage en Ethiopie de l’aviateur René Lefèvre, Ambassade de France en Italie à Président du Conseil Edouard Daladier, 23 février 1940 (trad. mia).
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distinguere la conquista fascista dalle acquisizioni coloniali precedenti, conferendole un prestigio ed una solennità che la ponevano in ideale continuità con il passato romano; avrebbe dovuto porre l’Italia fascista, di fronte al mondo, come una grande potenza, con tutto ciò che ne derivava in termini di peso politico negli equilibri internazionali; avrebbe rafforzato il consenso interno, evocando idee di potenza e grandezza amplificate da una campagna di propaganda senza precedenti; avrebbe, nel lungo termine, dovuto segnare una tappa fondamentale nella rigenerazione del popolo italiano che il fascismo si poneva come obiettivo ultimo. Ma a quale prezzo? Il dubbio degli osservatori stranieri era legittimo, e a distanza di molti decenni ancora non comprendiamo appieno tutte le conseguenze di quella vicenda. Si è scritto molto sugli aspetti militari della conquista dell’Etiopia, sulle sue ricadute politiche e diplomatiche, sulle brutalità commesse nella repressione della resistenza; da pochi anni, ma con crescente intensità, sono state studiate le influenze sulla cultura, l’immaginario, e la costruzione di modelli di razza e di genere. Ma ben poco si sa, ad esempio, delle conseguenze economiche di una simile impresa, e quasi nulla si conosce da un punto di vista di storia sociale. La migrazione degli italiani in Africa, la società che andarono a costituire, i mestieri che svolsero, gli spazi in cui vissero, le relazioni intessute con gli etiopici, il rapporto con le autorità fasciste: tutti questi temi sono stati finora pressoché ignorati dagli storici. Le conseguenze di questo vuoto si riscontrano nella persistenza di immagini stereotipate e miti, generalmente nati con il fascismo ma con una lunga fortuna nel dopoguerra, ed ancora più o meno radicati nell’immaginario collettivo. Mi riferisco ad esempio alla retorica del «posto al sole», secondo cui le migliaia di disoccupati italiani avevano necessità di uno spazio coloniale in cui trovare fortuna, occupazione e benessere; l’immagine di un «impero del lavoro», popolato da umili ma infaticabili colonizzatori che con il sudore ed il sangue fecondarono i «vergini» terreni africani; il mito intramontabile degli «italiani brava gente», fondamentalmente buoni, non razzisti, amati e rispettati
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dai colonizzati; ma anche l’immagine, speculare alla precedente, dei «coloni di Mussolini» tutti fascistissimi, entusiasti sostenitori del regime e brutali complici delle sue politiche; infine l’idea, tra le più fortunate, del «mal d’Africa» come legame profondo ed inscindibile tra gli italiani e questa terra enorme e lontana che colonizzarono. Lo scopo del volume è smontare questi miti, così radicati nell’immaginario italiano, ed aggiungere un tassello importante alla comprensione di cosa fu l’espansione coloniale italiana, e quali furono le sue conseguenze. Lasciando sullo sfondo aspetti pur importanti come le istituzioni civili e militari, o l’impatto della colonizzazione sulla società etiopica, ho scelto di soffermare l’attenzione sulle vicende dei cosiddetti petits blancs: le donne e gli uomini comuni che decisero di trasferirsi in Etiopia per iniziare lì una nuova vita. La loro esperienza, a lungo ignorata, suscitava molti interrogativi: cosa spinse questi uomini e queste donne ad una simile scelta? Come fu concretamente, nel quotidiano, la loro vita africana? Fecero fortuna? In che modo si adattarono all’ambiente, plasmandolo e venendo a loro volta da questo plasmati? Come pensavano se stessi e gli altri? Quale fu il loro atteggiamento nei confronti degli etiopici? Aderirono entusiasticamente alle politiche fasciste? Nel libro per la prima volta questi temi vengono trattati insieme, quali elementi di un quadro complessivo che è stata l’esperienza di vita degli italiani che colonizzarono l’Etiopia. Questo approccio ha comportato alcune difficoltà. In primo luogo, dal momento che la storiografia italiana sul colonialismo si è concentrata per lo più su altri aspetti, non era facile trovare quadri teorici di riferimento. Mi sono giunti in soccorso i Settler Colonial Studies, un filone interdisciplinare di ricerca sviluppatosi recentemente prima in Australia e Nuova Zelanda, e poi nel resto del mondo anglosassone. Gli studiosi di quest’area hanno individuato nelle colonie di insediamento – o «di popolamento», come si usava dire in Italia – un oggetto di studio distinto e specifico, dotato di caratteristiche proprie e riconoscibili, dovute alla presenza di coloni trasferitisi dalla madrepatria con un progetto a lungo termine, cioè per restare e
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fondare una nuova società bianca oltremare. Restava da capire come l’insediamento italiano in Etiopia si potesse adattare a questo modello. Inoltre, il confronto serrato e continuo con la letteratura internazionale mi avrebbe consentito di comparare l’Etiopia con le altre colonie coeve, per individuare le peculiarità del caso italiano e capire, viceversa, sotto quali aspetti seguisse tendenze comuni. Una ulteriore difficoltà era insita nelle fonti da utilizzare. Il mestiere di storico è fatto di lunghe ricerche negli archivi, e quelli delle istituzioni coloniali italiane hanno costituito la principale risorsa per questa indagine. Allo stesso modo, i giornali stampati nell’impero, offrendo un indispensabile spaccato della quotidianità coloniale, sono stati una fonte preziosa. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di documenti prodotti direttamente o indirettamente dal regime, e forniscono pertanto un’immagine eccessivamente schiacciata sulla prospettiva di chi la colonizzazione l’ha pianificata, più che su quella di chi ne fu protagonista. Ricostruire il punto di vista «dal basso» è stato possibile grazie a fonti di straordinario interesse come le memorie e i diari, in gran parte inediti, scritti dai coloni all’epoca degli eventi o a distanza di anni, e le lettere che questi inviarono a casa e che furono intercettate dalla censura. La prospettiva delle autorità e quella dei coloni sono state a loro volta incrociate con un ventaglio di ulteriori fonti: memorie di vescovi missionari, relazioni di ispettori della Banca d’Italia inviati sul posto, rapporti di diplomatici inglesi e francesi che dai loro consolati in Etiopia inviavano costantemente informazioni a Londra e Parigi. Osservatori esterni, anche se in vario modo coinvolti, i cui punti di vista hanno notevolmente arricchito il quadro complessivo. La fotografia dell’impero così ottenuta ha consentito di rispondere agli interrogativi posti in partenza, scardinando l’idea dei coloni come categoria monolitica, e mettendo al contrario in evidenza la complessità, i conflitti, le contraddizioni tra i diversi progetti. Ricostruire l’esperienza degli italiani che colonizzarono, anche se solo per pochi anni, l’Etiopia ha anche permesso di capire quanto il colonialismo italiano sia stato real mente diverso e peculiare, sotto quali aspetti invece sia stato
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accomunabile alle altre colonie di insediamento, e quale peso il fascismo abbia avuto nel caratterizzarlo. Soprattutto, questo percorso ha reso possibile esaminare l’espansione coloniale italiana non solo come intreccio di diplomazie o aggressione militare, ma come vicenda umana, storia di donne e di uomini; esperienza certo ambigua e problematica, caratterizzata da dominio e prevaricazione, ma proprio per questa sua complessità ancora più interessante.
Ringraziamenti Negli anni che sono stati necessari per portare a termine questo lavoro, ho contratto molti debiti di gratitudine. Un buon maestro è una delle tante fortune che ho avuto: il primo ringraziamento va quindi a Nicola Labanca, la cui guida è stata (ed è ancora) indispensabile. Lorenzo Veracini, che ha dedicato tanta parte del suo tempo a discutere insieme a me i risultati delle ricerche, è stato un costante riferimento ed un amico. Simonetta Soldani e Francesca Tacchi, che hanno avuto la pazienza di leggere la mia tesi di dottorato, hanno contribuito con i loro preziosi consigli. Raffaele Romanelli, che per primo ha creduto nei miei progetti, mi ha reso possibile realizzarli. Giovanni Contini Bonacossi che mi ha insegnato a cercare le persone e le loro storie, dentro la Storia. I colleghi conosciuti in questi anni, per il sempre stimolante scambio di idee, ma soprattutto per l’amicizia: Tommaso Dell’Era, Valeria Deplano, Antonio Morone, Alessandro Pes. Senza la cortesia e la professionalità del personale che lavora negli archivi e nelle biblioteche questo lavoro sarebbe stato molto più lungo e difficile. Un sentito ringraziamento a tutti loro, ed in particolare a Stefania Ruggeri dell’Archivio Storico-Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, Anna Rita Rigano dell’Archivio Storico della Banca d’Italia, Cristina e Natalia Cangi dell’Archivio Diaristico Nazionale. Oltre al lavoro, in questi anni la vita ha portato momenti dolorosi e felici: essere circondato da una famiglia splendida e amici meravigliosi
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ha reso sopportabili i primi e memorabili i secondi. Un particolare ringraziamento a mio padre, e al nonno che non ho mai conosciuto, per i racconti di vita africana con cui sono cresciuto: se ho scritto questo libro è in gran parte “colpa” loro. Arianna, che ha letto e riletto, che mi ha sostenuto e dato fiducia, non ci sono altre parole se non: grazie amore mio.
SIGLE E ABBREVIAZIONI ACR: Archivio dei Comboniani, Roma ACS: Archivio Centrale dello Stato DGAP: Direzione Generale Affari Politici DGPS: Direzione Generale di Pubblica Sicurezza MAI: Ministero dell’Africa Italiana ONC: Opera Nazionale Combattenti PNF: Partito Nazionale Fascista SPD: Segreteria Particolare del Duce SPEP: Situazione Politica ed Economica delle Provincie ADN: Archivio Diaristico Nazionale ANOM: Archives Nationales d’Outre-Mer APCT: Archivio Provinciale dei Cappuccini, Torino ASBI: Archivio Storico della Banca d’Italia ASDMAE: Archivio Storico-Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri ASMAI: Archivio Storico del Ministero dell’Africa Italiana CADN: Centre des Archives Diplomatiques de Nantes TNA: The National Archives AIR: Air Force CO: Colonial Office FO: Foreign Office WO: War Office Per quanto riguarda i nomi di persona ed i toponimi africani, si è scelto di seguire la traslitterazione adottata nei documenti italiani coevi. In caso di varianti dello stesso nome (ad es. Harar-Harrar) si è optato per quella più comune, mantenendola in tutto il testo per uniformità.
IN TERRA D’AFRICA GLI ITALIANI CHE COLONIZZARONO L’IMPERO
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